HUNGER GAMES

di BeforeTheDayYouLeft
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** La Mietitura ***
Capitolo 2: *** I Tributi ***
Capitolo 3: *** La Prova ***



Capitolo 1
*** La Mietitura ***


CAPITOLO 1
La Mietitura 

 
 
Non so cosa è stato a destarmi dal mio sonno stentato: se un debole raggio di luce, il canto di un’allodola, o il lieve fruscio del vento sulle fronde degli alberi. Mi alzo con un mugugno, massaggiandomi il collo intorpidito e gettando uno sguardo al letto accanto al mio. Vuoto, fatto, lindo. Sospiro mentre mi dirigo verso la finestra per chiuderla e sbarrare fuori il vento, assieme alle preoccupazioni, ma nel farlo, mi blocco e guardo incantato il gioco di luci che i raggi del sole creano trapassando benignamente le foglie lussureggianti. Quanta bellezza e quanta pace… Sarebbe davvero difficile lasciare tutto questo. Sarebbe davvero difficile per il mio distretto lasciar andare me.
E’ l’ultimo anno, John. L’ultimo fottuto anno. Se il tuo nome non esce oggi, non uscirà mai più.
“John?”
La voce di mia madre mi fa sobbalzare, riscuotendomi all’istante dai miei pensieri. “’Giorno.” L’amarezza impressa a fuoco nei suoi occhi mi fa male, mi colpisce come fece una volta Larry Austen, quando scoprì che la sua ragazza era venuta a letto con me. Mi dirigo verso di lei sospirando e scuotendo la testa, in un gesto di finto rimprovero. “Dai, ma’, va tutto bene.” le dico prendendola per le spalle con tutto l’amore di cui sono capace. “Non farti prendere dal panico ora, altrimenti alla Mietitura avrai un attacco isterico.”
Lei non risponde e allaccia le sue mani alla base del mio collo, spingendomi verso di lei e premendo il mio corpo di giovane uomo contro il suo di anziana donna. Tra quelle braccia mi sciolgo. Avverto tutta la tensione provata in questi giorni ricadermi addosso con l’impeto e la pesantezza di un tronco, schiacciandomi così fortemente da spezzarmi il fiato. Respiro piano, trattenendo quella paura che ora si sta affacciando sempre più pericolosamente alla finestra della mia mente, del mio buon senso. Sento che mia madre tira su col naso, probabilmente quando ci staccheremo mi renderò conto che la mia maglia sarà bagnata dalle sue lacrime silenziose. Lacrime di donna forte. Lacrime di una donna che ha perso prima il marito, poi una figlia e tra poco, chissà, magari anche un figlio.
E’ per questo che non la sgrido come ho fatto tutti gli anni passati. E’ per quel letto vuoto accanto al mio che taccio. E’ per questo corpo fragile che stringo a me che non parlo e mi crogiolo nel mio silenzio e nei miei timori.
 
***
 
Di solito la foresta rimbomba di fruscii, canti, gemiti, versi, sibili. Oggi, invece, anche lei è inquietamente muta. Anche i suoi occhi sono concentrati su questa radura gremita di giovani e vecchi, di uomini e donne, di disperati e di speranzosi. Mi muovo in questa ressa compatta, scansando il più gentilmente possibile i corpi che mi compaiono davanti, che mi ostruiscono il passaggio. La zazzera riccia mi attira subito nella direzione giusta, guidandomi con sicurezza attraverso quell’intrico di volti solcati da lacrime e di mani tremanti.
“Ehi!” esclamò poggiando la mano sulla spalla del ragazzo davanti a me, il quale si gira e si illumina nel vedermi.
“John!”
“Mike.”
Io e Mike siamo amici, credo. Non sono mai stato bravo con le amicizie, ho sempre preferito divertirmi con le ragazze del mio distretto più che interessarmi a stringere un rapporto stabile come quello che condivido con Mike. Siamo cresciuti insieme, io e lui. Quindi, sì, direi che conoscerci da poco meno di diciotto anni sia un buon punto di partenza per l’istaurazione di un’amicizia.
“E così è arrivato il gran giorno…” osserva Mike, abbassando improvvisamente la voce.
“Così parrebbe. Magari è solo un brutto sogno e fra due secondi ci risveglieremo nei nostri letti, niente Mietitura o Giochi. Sarebbe fantastico, no?”
Il mio amico sorride appena. “Quindi staremmo facendo lo stesso incubo? Contemporaneamente?”
Scrollo le spalle e distolgo lo sguardo dal suo viso paffuto per farlo scorrere tra la folla, alla ricerca di chissà chi, di chissà cosa. Guardo tutti questi ragazzi che mi circondano e mi chiedo se i miei occhi hanno appena incrociato quelli di un futuro martire o se sono quelli degli altri ad aver trovato lo sguardo di un martire. Deglutisco forzatamente quando scorgo la figura di mia madre, in piedi a fianco alla madre di Mike, l’unghia del pollice tra i denti e le spalle incurvate in avanti. Non è rigato dal pianto, il suo viso stanco ed emaciato. Ma dentro… dentro so che è interamente scossa da profondi ed ineluttabili singhiozzi. Quando si accorge che la sto guardando, abbassa lentamente il pollice e con l’altra mano mi lancia un bacio così vero che quasi riesco a sentirlo sulla fronte. Rispondo con il sorriso più sereno che riesco ad imprimermi in faccia e annuisco debolmente.
Mi dispiace, mamma. Sii forte, mamma. Ti voglio bene, mamma.
Il sottile vociare che fino a poco fa animava la radura, si placa improvvisamente, acquietandosi come un cucciolo sgridato. Mi volto di scatto e mi accorgo che sul palco sta salendo una donna tutta impettita e fremente nel suo vestito schifosamente sfarzoso e col suo viso ricoperto da una maschera di trucco ridicolo.
“Benvenuti a tutti e a tutte alla ventunesima edizioni degli Hunger Games!” grida emozionata con un sorriso ipocrita e insulso, aspettandosi quasi che la folla prorompa in gridi di giubilo e in acclamazioni. “Non perdiamoci in inutili chiacchiere e proiettiamo immediatamente il video che racconta la storia della nostra amatissima Panem!”
Alle sue spalle, il classico montaggio delle scene più salienti della Ribellione dei Distretti e, parallelamente, i momenti più toccanti o truci – difficile ormai distinguerli – delle venti edizioni passate degli Hunger Games. Dio, è stomachevole. Sullo schermo sono proiettati miseria, ammazzamenti, fame, sangue, agonie: immagini che ballano e si esibiscono in evoluzioni mortali, circondati da un’aura di decadimento e sofferenza. Quando viene esibita la maledettamente fantastica uccisione di uno dei tributi della scorsa edizione ad opera di un ragazzino di appena tredici anni, serro gli occhi. La nostra società strappa i figli alle nostre case, l’infanzia ai nostri bambini e la vita alla nostra Nazione. E tutto questo è ripugnante.
“Bene!” esclama la donna sul palco una volta che il filmato si conclude con la più melliflua delle immagini: una rappresentazione delle effigi di tutti e dodici i distretti, assieme. “E ora, passiamo senza più indugi al momento tanto atteso!” Quasi a voler incalzare il tocco di surreale teatralità che avvolge la radura, un paio di raggi di sole si riflettono sulle anfore di vetro in cui sono stipati come bestie da macello i nomi dei candidati al martirio. Nomi tra i quali c’è anche il mio, ripetuto sette volte, per l’esattezza. Mia madre non ha mai richiesto alcun aiuto alimentare o economico a Capital City, nonostante viviamo nella miseria, con la faccia schiacciata nelle schifezze della povertà e nelle umiliazioni dei fenomeni da baraccone che arbitrano la nostra vita come fanno con gli Hunger Games. “Come al solito, prima le signore.”
Di nuovo, ho l’impulso di girarmi, di scrutare quei volti confusi e atterriti, di riservare a chiunque occorresse parte di quella insolita sicurezza che mi gorgoglia all’altezza del petto. Davvero strana la compostezza ferrea che sto provando. E’ come se, dopo quell’abbraccio con mia madre, non abbia più ripensamenti, più conti in sospeso. Penso a Mike e alla fidanzata che sarebbe costretta a dirgli addio se il suo nome dovesse uscire; penso a Jenny, una bambina di dodici anni che proprio ieri ho trovato in lacrime nel bagno della scuola, accoccolata sulla tazza del gabinetto chiusa; penso a Lizzie, la ragazza dietro a cui ho sempre sbavato, che però non mi ha mai degnato di uno sguardo; penso a tante, tante cose mentre la mano della donna di Capital City si insinua nell’oceano dei foglietti della giara come un pitone in un cespuglio per scovare la vittima, e scava e scava, mescola, attimi eterni, fiati sospesi, cuori a mille, quando le dita riemergono con la prescelta.
“Molly Hooper!”
Sgrano gli occhi, di colpo. Molly. Molly Hooper. No, a Molly non ho pensato. Come è possibile che sia uscita proprio lei? Eravamo amici di infanzia. Da bambini giocavamo sempre insieme, quando non ero da qualche parte a scorrazzare con Mike o quando non aiutavo mia madre in fabbrica. Lei è stato il mio primo bacio – un lieve sfregamento di labbra giusto per provare prima di lanciarmi in qualche avventura amorosa –. Lei è stata la bambina che mi ha preso per mano, dopo che mio padre è morto, ed è rimasta per ore inginocchiata accanto a me, in silenzio, sbucciandosi tutte le ginocchia con i rametti della foresta. Lei è così… gentile e intelligente e altruista e… inadatta per gli Hunger Games. Guardo la folla scindersi, creare un passaggio, lasciar passare colei che è al novantanove per cento delle probabilità è destinata a morire. Inizialmente non si muove. Resta lì, ferma, atrocemente impaurita e sola in mezzo a tutta questa calca. Un Pacificatore si fa avanti e le punta il fucile alla schiena, sbraitandole di muoversi, di camminare verso il palco, verso il suo irreparabile destino. E lei, allora, si muove. Un passo dopo l’altro. Piano. Solenne. Disperata. La donna di Capital City la accoglie con un sorriso smagliante, come se la ragazza che ha di fronte non sia destinata a ritrovarsi in un sacco nero, sul tavolo metallico di un obitorio. “E ora, i gentiluomini!”
Il mio intero corpo si irrigidisce come la corda di un violino. Incredibile come la tensione possa acuire i sensi: posso percepire il leggero frinio delle cicale, il pigolio debole di qualche uccello, il mio cuore rimbombare greve in me. Attendo. E l’attesa è sfibrante. Trattengo il fiato. E il fiato è ormai al limite.
Di nuovo, la donna sul palco immerge la mano tra la carta su cui i nomi sono scritti col sangue e non con l’inchiostro. Pensieri futili mi attraversano la mente con il loro sapore aspro e nostalgico. Richiamo alla memoria il mio sogno: quello di diventare medico. Richiamo alla memoria il sorriso di mio padre, quando ancora era un padre. Richiamo alla memoria le lotte di cuscini con mia sorella, quando ancora era una sorella. E richiamo alla memoria le carezze, gli abbracci, i baci di mia madre, lei che è stata sempre l’unico punto fermo, il riferimento, il mio nord.
Ed è proprio nel momento in cui mi volto per incontrare il suo viso terreo che accade. “John Hamish Watson!”
Mike trattiene rumorosamente il respiro e mi fissa sconvolto. Lo sento pronunciare il mio nome, ma non ha importanza. Gli unici suoni che hanno un senso, per me, sono la voce della donna mentre articola maleficamente le lettere che compongono tutto ciò che sono, e l’urlo di mia madre. L’urlo muto di mia madre. Sempre silenziosa, lei. Sempre stoica nel suo orgoglio. Non mi volto quando capisco quello che sta accadendo: rimango a guardarla e cerco di trasmetterle quanto a parole non posso più esprimere.
Poi avanzo. Non lascerò certo che un fottuto Pacificatore mi pizzichi il culo con quel suo giocattolo. Stringo la mano all’annunciatrice, una maschera in volto. Poi guardo Molly con le gote pallide e ferite da due lacrime. Lei anche mi guarda e io le sorrido. Anzi, le prendo la mano e rivolgo alla mia casa, alla mia famiglia, il sorriso più incoraggiante e vero di cui sono capace. Infine, con la mano libera, mi bacio la punta delle tre dita centrale e le elevo al cielo. Addio a tutti. Ci vediamo al mio funerale.
 
***
 
Il treno marcia svelto verso la capitale, sferragliando impazientemente sui binari. Lascio vagare lo sguardo fuori dal finestrino, do il mio ultimo addio alla mia casa, alla mia infanzia, alla mia vita. La mano sinistra trema leggermente, in tasca, mentre accarezzo la penna. Cinque minuti per poter salutare mia madre. Cinque minuti in cui non ha fatto altro che abbracciarmi e consegnarmi la penna d’argento, quella con l’immagine di una ghiandaia imitatrice sul collo. Questa penna è il mio tesoro, il forziere che racchiude ogni mia ricchezza. Ogni granello della mia esistenza si riflette nell’argento lucido di questo oggetto. Mia madre non ha parlato, non ha pianto, non ha pregato. E’ stata statuaria nella sua dignità e nel suo silenzio. E io le sono grato: non avrei sopportato il suo dolore, le sue lacrime.
Molly si è chiusa nel suo silenzio sin da quando siamo partiti, rannicchiata sul divanetto più estremo del posto. Vorrei alzarmi e andare a consolarla, ma credo di aver esaurito la forza mostrata stamane.
La porta che conduce al secondo vagone del treno si spalanca di colpo e nella nostra carrozza compare la figura di un ragazzo non molto più grande di me, avvolto completamente in una giacca ampia e grigia.
“Ciao a tutti!” esclama con entusiasmo forzato, solcando l’ingresso. Io mi alzo in piedi e gli porgo una mano abbozzando un sorriso a cui lui risponde con un’espressione mesta. “Il piccolo, grande John. E’ davvero, davvero un piacere conoscerti. Quello che hai fatto… mi si è accapponata la pelle, davvero.”
“Era giusto.”
“No, non lo era.” ribatté lui lasciando andare la mia mano. “Eppure lo hai fatto e Dio solo sa quanta ammirazione tu abbia suscitato non solo nel Distretto ma nell’intera Panem.”
Le sue parole mi lusingano e mi rigenerano. Per un attimo, non mi sembra di star viaggiando in un treno diretto alla mia molto probabile morte. Per un attimo, non penso agli Hunger Games, al Presidente Magnussen, ma solo a godermi una sana chiacchierata con questo ragazzo così solare e gentile. “Per esperienza personale so che… è meglio dire addio a una persona sapendo che sei tu quella a morire piuttosto che il contrario. Continuare a vivere con il peso di una perdita è insostenibile.”
Mi poggia una mano sulla spalla e me la stringe con fare rassicurante. “Oh, che sciocco! Non mi sono presentato. Io sono…”
“Gregory Lestrade, vincitore della sedicesima edizione degli Hunger Games, mentore da quattro anni dei tributi del distretto sette.” lo interrompo io, mentre i miei occhi si fanno grandi di ammirazione. Dopo la sua vittoria, Gregory è passato alla storia come unico vincitore del distretto sette ed ha rappresentato per tutti noi, possibili tributi, un modello da seguire, da imitare.
“La mia fama malmeritata mi precede, a quanto vedo. Ma ti prego, chiamami Greg, odio il mio nome completo. Pomposo, non trovi?” Ridacchio sommessamente mentre lui si volta in direzione di Molly, ancora immobile nel suo riparo. “E lei deve essere Molly…” mormora in un sospiro affranto.
“E’ da quando siamo partiti che è così.”
“Già, beh… non dev’essere facile. Prima sua sorella, poi lei… la sua famiglia deve essersi trovata davvero in una brutta situazione finanziaria per chiedere aiuti al Governo a tal punto da rendere i nomi dei figli così facilmente pescabili.”
Ricordo ancora quando, due anni fa, la sorella minore di Molly, Jane, è stata chiamata come tributo. La loro famiglia è molto numerosa e in un distretto povero come il nostro è difficile tirare avanti senza richiedere il sostentamento di Capital City almeno una volta, così i nomi dei figli sono aumentati di numero, rendendo la sorte solo un granello di polvere insignificante in confronto con le conseguenze delle azioni dettate dalla disperazione.
Osservo Greg chinarsi su di lei, sussurrarle qualcosa per poi venire allontanato da un suo no perentorio con la testa. Lui si volta verso di me e scrolla le spalle con rassegnazione, tornando sui suoi passi e sprofondando nel divanetto su cui ero seduto fino a poco fa. “Ad ogni modo,” comincia a dire afferrando il telecomando rotondo e dotato di un consistente numero di tasti colorati e confusionari per uno che la televisione può permettersi di vederla solo in un luogo pubblico come un bar o la piazza cittadina. “sono qui anche perché a minuti andrà in onda il notiziario di Capital City durante il quale verranno presentati tutti i tributi. Non sono mai stato molto bravo con l’arte della strategia, ma credo che conosci il tuo nemico sia un detto appropriato.”
Io annuisco debolmente, gli occhi puntanti sullo schermo della TV che improvvisamente si anima senza alcun ronzio, come se fosse la cosa più naturale del mondo, non come i nostri televisori vecchi e malfunzionanti.
Il monitor viene completamente inondato dalla faccia di un ometto tutto sorrisi e risate, con i capelli blu tirati indietro, intento a masticare qualche aneddoto sulle precedenti edizioni dei Giochi, cicalando con un secondo individuo ancora più esuberante di lui, come ragazzine. Caesar Flickerman e Claudius Templesmith. Alle loro spalle, un grande schermo, su cui un ineluttabile conto alla rovescia deposita come granelli di una clessidra i secondi che mancano prima che tutti i tributi vengano presentati.
50 secondi…
49…
48…
Dentro di me conto, sincronizzo il mio respiro con quei secondi che scemano via, attendo, odo i passi strascinati di Molly alle mie spalle, un suo debole singhiozzo, la sua mano che si poggia sulla mia spalla. Intreccio le mie dita con le sue e continuo a contare e a contare, fino a quando la mia mente sembra completamente sommersa da quei numeri che decrescono sempre più, con efferatezza e malizia.
“Ci stiamo per avvicinare, amici, al grande momento!” urla Caesar voltandosi per assistere agli ultimi secondi che decadono e sprofondano in un mare di sabbia numerale.
3…
2…
1…
“E… SIAMO GIUNTI AL GRANDE INIZIO!” strepita senza più ritegno Flickerman mentre prega la direzione di proiettare alle sue spalle le immagini dei tributi di quest’anno. Deglutisco a vuoto, la mano sinistra che trema, accarezzando febbrilmente la penna.
“Eh già, Caesar! Non ci è stata data alcuna anticipazione riguardo al corso della Mietitura. Io sono euforico, tu no?”
“Assolutamente sì, Claudius. In studio girano voci succulente. Si dice che quest’anno se ne vedranno delle belle! Non so davvero cosa aspettarmi.”
“Oh, per piacere, è penoso!” sputo acidamente di fronte a tutto quel giubilo così nauseabondo. “Ventitré ragazzi moriranno e loro non fanno che gongolare con quei loro orrendi capelli e vestiti! Ma come si fa?”
Con la coda dell’occhio noto un angolo della bocca di Greg guizzare verso l’alto. “E’ la prassi, John. Una volta che appari di fronte alle telecamere sei costretto ad eclissarti completamente, a rinnegare tutto ciò che sei perché ormai rappresenti anche tu un tassello di tutto questo schifo. E se non ti sottometti a tali regole, beh…” Lascia cadere la frase e incrocia le braccia, senza distogliere gli occhi dal televisore.
Faccio per parlare, ma una seconda esclamazione esaltata da parte dei due conduttori mi precede, catturando la mia attenzione. “ECCOLI! PER L’AMOR DI DIO, CLAUDIUS, ECCOLI QUI!”
“Li vedo, amico mio. Li vedo!”
Sullo schermo dietro di loro compaiono rimpiccioliti le facce di tutti e ventiquattro i tributi. Trattengo il fiato nel notare anche la mia, di foto. Mi chiedo come riescano a procurarsele, ma non mi stupisce affatto che siano in grado di recuperare un paio di fotografie quando riescono a mandare a morire un’intera generazione a cuor leggero.
“Sono così emozionato, oddio… Ma ora basta sprecare fiato, è ora di cominciare a presentare i nostri tributi!” sentenzia Caesar mentre le foto scompaiono per lasciar posto all’immagine di una ragazza di circa la mia età, con occhi gelidi e sguardo scaltro. Bella, molto bella. Forse la donna più bella che io abbia mai visto. “Eccola qui, la prima! Dal distretto uno, Irene Adler in tutta la sua disarmante bellezza. Ha uno sguardo acuto, estremamente intelligente, non trovi?”
“Sono d’accordo con te, come sempre. Secondo il fascicolo che ci è stato gentilmente procurato dai piani alti, Irene Adler ha sedici anni, fin da quando aveva tre anni si è allenata in una delle migliori palestre del distretto dove per le sue abilità e il suo temperamento focoso è stata soprannominata Dominatrice. Pare che persino un fermaglio per capelli, in mano sua, si dimostri un’arma letale.”
“Rassicurante…” sussurra Molly staccandosi da me e dirigendosi nuovamente verso il fondo del vagone mentre i due presentatori continuano a blaterare insensataggini. Io mi alzo e la seguo, prendendola per un braccio e costringendola a voltarsi.
“Molly, che c’è?”
Lei si scioglie in una risatina isterica. “Che c’è? Non so, forse che fra poche settimane giacerò morta lontana da casa e dai miei cari? Non ho speranze! Se ci sono tipi come quella lì, cosa può fare una come me?”
Gli occhi le si riempiono di lacrime e io mi trovo completamente spiazzato, indeciso su cosa fare. Cazzo, non sono mai stato bravo a rapportarmi con i pianti. Io non… io mi blocco di fronte alle lacrime, alla manifestazione tangibili del dolore. Le prendo il viso e la attiro a me con fare rassicurante. “Ascoltami…” sussurro mentre cerco di contrastare i suoi deboli tentativi di ribellione. “Ascoltami! Non devi pensare che tu non valga niente. Mai. E’ vero, quelli dei distretti alti sono avvantaggiati, non posso negarlo, ma in quell’arena può succedere di tutto. Si può vincere usando la forza, l’ingegno, i nascondigli… Puoi farcela, possiamo farcela. Non dobbiamo farci influenzare dai risultati delle scorse edizioni o da quello che pensa la gente. Dobbiamo lottare e aggrapparci alla nostra vita con le unghie e con i denti. Per noi e per il nostro distretto. Okay?”
Molly si immobilizza e mi fissa come se fossi Dio. Ingoia un paio di lacrime bollenti e annuisce un paio di volte, stravolta.
“Okay?” ripeto ammorbidendo ulteriormente la voce.
“Okay.”
La prendo per mano e la guido verso il divanetto su cui Greg è ancora seduto, assorbito completamente nel prendere appunti su un taccuino scuro, verde come il colore del nostro distretto.
“… E così questa era il nostro terzo tributo, Sally Donovan, dal distretto due. Un soggetto interessante anche lei, ma ora passiamo al giovanotto che la accompagna in questa sfida.”
Sotto gli occhi di tutta Panem svetta un volto niveo, spigoloso, coronato da una cascata di riccioli corvini e sormontato da un paio di occhi di un colore indefinibile. Resto per qualche istante sbigottito dall’aura di mistero che attornia quel viso così tenebroso e distaccato. Non vi è neanche l’ombra di un sorriso. Il tributo maschio del distretto due fissa la fotocamera indifferente, lontano. Provo a pelle un fastidio istintivo alla vista di quella spocchia, di quell’altezzosità.
“Sherlock Holmes!” annuncia Caesar illuminandosi. “Ah, che soggetto interessante. L’unico volontario di quest’anno. Non se ne vedevano dalla... – qual era? – decima edizione?”
“Confermo, ma devo dire che mi sembra avere le carte in regola per affrontare gli Hunger Games e uscirne dignitosamente. Questo sguardo così torbido, questi occhi così freddi... Secondo il suo fascicolo è dotato di un IQ superiore alla norma ed è proprio nel suo ingegno sconfinato che risiede la sua forza. Mi piace questo tributo. Mi piace davvero… Oh! Caesar! Pensa che a quanto sta scritto qui, è persino affetto da una sorta di sindrome di Asperger… Un sociopatico iperattivo, dice. Però! Se ne vedranno delle belle!”
“Cristo…” borbotta Greg al mio fianco.
“Cosa?”
“No, niente, è che… Sherlock Holmes è il fratello di Mycroft Holmes, il più giovane capo stratega della storia degli Hunger Games. Capo stratega che – tra l’altro – ha presieduto ai Giochi che ho vinto.”
Sposto nuovamente lo sguardo verso lo schermo del televisore, per contemplare nuovamente quel ragazzo così particolare, ma la sua immagine è stata già sostituita da quella di una giovane del distretto tre di nome Dyachenko Ludmila, assassina provetta secondo le righe del fascicolo che i due presentatori stanno consultando.
Le facce e i nomi si susseguono gli uni dietro agli altri, informazioni stipate nei cassetti della mia testa, date di nascita, abilità, soprannomi… Ci manca solo che dicano quante volte noi tributi siamo andati in bagno dalla Mietitura e credo che toccheremmo davvero il fondo.
“… Ma eccoci arrivati al distretto sette, dedicato alla flora e al legname! Incantevole, davvero. Un locus amoenus, come si suol dire. Come al solito sto divagando, chiedo venia. Vediamo i nostri due tributi appartenenti a questo distretto, a partire dal gentil sesso.”
Molly trattiene il fiato e mi stritola la mano così forte che i polpastrelli sbiancano improvvisamente, ma non mi sottraggo a quel contatto. Come per gli altri tributi, sul maxischermo sfila il video della Mietitura del nostro distretto.
“Ah… una donzella in difficoltà!” prorompe Caesar con un sorriso smagliante. “Guarda, Claudius, guarda! Quanto amore in questa stretta di mano di lui, quanta forza che traspare dagli occhi di lei… Potrei sciogliermi all’istante! Sono un tipo romantico, io.”
Molly mi lascia improvvisamente la mano con un’imprecazione masticata. “E’ così che apparirò agli occhi di Panem, d’ora in poi? La donzella in difficoltà? Praticamente sarò l’ultima della catena alimentare di questi Giochi!”
“Molly…” sospiro, ma la mano di Greg si stringe attorno al mio polso, costringendomi seduto.
“Non ora, John. Dobbiamo capire quale impressione hai fatto nel pubblico.” sibila senza staccare gli occhi dal televisore.
“… Salutiamo la foto della nostra graziosissima Molly per dare spazio al principe azzurro della situazione, John Watson!” Contro ogni aspettativa, lo studio di registrazione viene scosso da un boato mastodontico e contemporaneamente l’immagine della mia chiamata svetta sullo schermo alle spalle dei due. “Grandioso… Grandioso!! Semplicemente spettacolare! Guardate con quanta sicurezza questo ragazzo procede verso il palco, guardate la dolcezza del suo sguardo, il calore del suo sorriso… e la forza che traspare da questo saluto… Dio mio, che edizione, signori miei, che edizione! Non sto già più nella pelle di intervistare ognuno di loro.”
Greg scatta in piedi ed esulta per poi afferrarmi la testa e sfregare le nocche sul mio capo, provocando – da parte mia – minacce e imprecazioni. Quando finalmente si stacca, si china di fronte a me, mentre cerco di sistemarmi dignitosamente i capelli spettinati, e mi stringe fermamente le ginocchia. “Bravo, John, bravo. Li hai stesi tutti. Sei a tanto così dal guadagnarti una caterva di sponsor pronti ad aiutarti. Non devi fare altro che giocare bene le tue carte durante l’intervista e la vittoria sarà tua.”
Non voglio. Mi fa schifo questa trasmissione. Mi fa schifo l’esaltazione della gente per me. Non volevo apparire come un proselito del Governo, come un eroe. Non volevo inneggiare agli Hunger Games, alla morte. Volevo solo infondere forza al mio distretto, a mia madre. Non voglio essere un’altra persona. Non voglio che mi cambino.
“… E dulcis in fundo, l’ultimo tributo. Dal distretto dodici, James Moriarty!”
Di nuovo, nella sala prorompe un tumulto generale, stavolta ancora più forte di quello che ha caratterizzato la mia menzione. Il viso di un ragazzo dall’età indefinibile riempie completamente lo schermo e le urla di sostegno continuano, imperterrite. Poi, il filmato della Mietitura al dodici: la portavoce di Capital City, il nome di James Moriarty, il novello tributo che incede stringendo le mani di tutti coloro che incontra sulla sua strada, che sale sul palco sventolando una mano in aria. Resto sbigottito di fronte a questa rappresentazione del martire che sa che non tornerà a casa ma che è comunque costretto a promettere che quello non è un addio. Un moto di ammirazione mi sale all’altezza del petto, misto a… a qualcosa di strano, qualcosa che ignoro. Una sensazione che non riesco a definire a parole. Caesar e Claudius sono sempre più euforici e ora sembrano quasi saltare su quelle sedie spropositatamente comode e sfarzose, impazienti come bambini a Natale.
Una volta che le solite parole infarcite di dati ed elogi smettono di fluire dalle labbra dei due presentatori, Greg spegne il televisore e ritorna il silenzio. E’ successo tutto così in fretta. E’ appena cominciata. La caduta. Non so se mia, ma di certo è cominciata. E lo sguardo del mio mentore ne è la prova tangibile, rafforzata dalle sue indicazioni, dai suoi consigli, dalle sue preghiere, forse. Non ho idea di che cosa succederà in quel posto. Ma una cosa è certa: non voglio che tutto questo mi plasmi, azzerando completamente chi sono davvero. Eppure, non m’importa di morire. Non mi importa di morire. 

SPAZIO AUTRICE
Ehilà! Benvenuti a questa ventunesima edizione degli Hunger Games! Okay, sono impazzita. Volevo dire, benvenuti in questa disagiata fanfiction che spero possa non farvi schifo (non oso dire che possa piacervi) e... niente. Vi invito a recensire (critiche costruttive sono comunque ben accette, però sappiate che farò di tutto per rintracciarvi e farvi rimangiare la recensione a forza) e... niente. Non so che altro dire, quindi vi lascio e ci vediamo al prossimo capitolo che spero qualcuno possa attendere con gioia. 

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Capitolo 2
*** I Tributi ***


CAPITOLO 2
I Tributi
 
 
L’arrivo a Capital City e i successivi avvenimenti sono avvenuti con una repentinità tale da essere indescrivibili. Nel giro di un’ora sono stato trascinato per tutta la città, sbranato dai flash delle fotocamere dei giornalisti, aggredito da un paio di abitanti che si affermavano miei fans, portato in un centro estetico di bellezza e messo completamente a lucido. Voltato e rivoltato come un fottuto calzino.
E ora me ne sto qui come un idiota, in una stanza dalle dimensioni infime, solo, con i capelli tirati all’insù in un’odiosa cresta che sento non far parte di me e con indosso solo un accappatoio. Dopo una decina di minuti trascorsi nella più totale ignoranza di ciò che accadrà, le porte si spalancano e nel rettangolo lasciato da esse svetta la figura di una bella donna dalla pelle scura e i capelli cortissimi.
“Ciao, John.” mi saluta amichevolmente, come se mi conoscesse da sempre e mi stampa due baci sulle guance. “Io sono Ella e il mio compito è quello di…”
“Rendermi un figo allucinante in modo che tutta Panem mi adori per qualcosa che non sono?”
Lei, a dispetto delle mie aspettative, si scioglie in un sorriso divertito. “Dovrebbe essere quello il mio compito, ma credo che siamo entrambi stanchi di tutta questa ipocrisia, non trovi?”
Le sue parole mi lasciano ammutolito e io mi trovo imbalsamato come un ebete mentre lei mi gira attorno, studiandomi con interesse. “Bene, so cosa fare.”
 
***
 
Mi sento ridicolo. Cioè, sono come qualunque abitante di Capital City solo un po’ più vistoso – se possibile –. Tutta la sala dei tributi è in fermento, colma di mormorii e, soprattutto, di tensione e sospetto. Volano alcune occhiate che sono diffidenti, altre predatorie, altre di curiosità. Da parte mia, resto accanto al mio carro, respirando profondamente per contenere questo batticuore impazzito. La parata dei tributi comincerà a breve: verremo presentati all’intera Panem, agli sponsor, alle nostre famiglie, ma, soprattutto, alla mente putrida e nefanda che ha creato tutto questo: Charles August Magnussen. Il mio sguardo s’imbatte in un poster raffigurante lui. E’ un essere spregevole, così dannatamente vuoto con quei suoi occhi… così… così… Non so neanche come definirlo. E’ come uno… uno…
“E’ uno squalo.”
Mi volto di scatto, sussultando. Alle mie spalle, le mani ficcate nelle tasche di un cappotto nero, un ragazzo dagli spumosi riccioli scuri fissa il manifesto con indifferenza, quasi noia.
“Come scusa?”
Lui non si scompone e si limita ad indicarmi l’immagine del presidente con il mento. “Magnussen. Stavi cercando di riportare una sua definizione esaustiva.”
Io seguo i suoi occhi glaciali, ripuntando lo sguardo sulla fonte delle sofferenze di Panem. Lo fisso, scavo in quegli occhi vacui… come quelli di un pesce. Ma la sua famelicità è tale da renderlo un predatore di prim’ordine, un essere agli apici della catena alimentare, uno squalo. Effettivamente, quel tipo ha proprio ragione.
“Scusa, ma come hai fatto a…”
Lui è sparito. Mi guardo attorno, esterrefatto, lo cerco e lo trovo accanto ad un carro ricoperto nero e lucido, intento ad accarezzare un meraviglioso stallone dal pelo corvino. Che tipo strano, quello…
Molly mi si avvicina timidamente, tirando debolmente la manica del mio vestito, come una bambina smarrita, e rivolge uno sguardo interessato al ragazzo dai riccioli neri. “Se non sbaglio quello dovrebbe essere Sherlock Holmes, del distretto due.”
“Ah…” mormoro solo. Che idiota che sono. Adesso che ci penso, sì, è proprio lui, il ragazzo che si è offerto volontario, il fratello del Capo Stratega in carica all’edizione a cui ha partecipato Greg.
“Certo che è davvero…” comincia Molly, ma poi si zittisce e rimane muta a contemplare Sherlock Holmes mentre monta agilmente sul carro, seguito da una ragazza dal viso torvo e antipatico, Sally Donovan, se non erro.
“Cosa?” domando a Molly prima di salire a mia volta sul calesse, porgendole una mano per aiutarla.
Lei accetta il mio aiuto, senza però badare troppo a me, ancora rapita dai movimenti eleganti e suggestivi di Holmes. “Davvero affascinante.” Quando si rende conto delle sue parole, arrossisce di colpo e si morde immediatamente un labbro, imbarazzata. Io sospiro e scuoto appena la testa.
“Molly…”
“Lo so! Okay? Non ho detto che mi sono perdutamente innamorata! L’ho visto solo una volta, non ci ho parlato e quindi sarebbe improbabile come cosa. Sta’ tranquillo, non mi farò condizionare…” Ma quelle ultime parole sfumano d’intensità, arrivando ad essere un pigolio appena accennato. Sospiro piano, con rassegnazione. D’accordo, forse è meschino, ma Molly è già abbastanza debole di suo, se poi questo viene incrementato da una sciocca sbandata potrebbe davvero essere la fine per lei.
Un addetto di Capital City entra nell’ambiente di corsa, con il fiatone e un auricolare gracchiante nell’orecchio.
“Ci siamo. Il primo carro partirà tra… tre, due, uno…”
Non faccio neanche in tempo a rendermi conto di che cosa sta succedendo che ogni cosa viene riempita dalla luce del sole. Davanti a noi, si estende un lungo viale costeggiato da spalti gremiti di spettatori urlanti, esaltati. Il carro del distretto uno parte, seguito da quello del distretto due, poi da quello del tre e così via, fino a che anche i nostri cavalli non partono al trotto, conducendoci sotto gli occhi famelici di Panem. I raggi di sole mi abbagliano, costringendomi a socchiudere appena gli occhi. Cerco di abituarmi a questa luce improvvisa dopo ore trascorse al chiuso, in stanze semibuie, quando la voce stupita di Molly mi desta dal mio fastidio.
“John… guarda.”
Apro gli occhi e il mio cuore perde un colpo. Il nostri vestiti, sotto l’illuminazione del sole, risplendono di luce propria e mi accorgo di essere circondato da un’aura dorata e benefica. Mi trovo a sorridere, incredulo. Le pietruzze verdi che costellano i nostri abiti emanano riflessi verdi, proiettando nell’aria interstizi di luci mozzafiato, riflettendo repentine visioni di alberi e di fiori. Gli sguardi ammirati di tutti mi pungono la pelle, provocandomi una sensazione emozionata e infastidita al tempo stesso.
“Oh signore.” esclama Molly all’improvviso, gli occhi puntati sul carro nero. Accade tutto velocemente: noto in ritardo il movimento elegante di Sherlock Holmes mentre si sfila il cappotto e lo lascia alle braccia del vento. Liberato dal soprabito, sfoggia un completo elegante, anch’esso nero, mentre sulla sua spalla destra compare uno spallaccio d’argento reggente un mantello scuro, ricoperto da fregi articolati somiglianti a stelle del cielo.
A quel gesto teatrale, la folla prorompe in grida di acclamazione e ogni singolo spettatore si alza in piedi, fischiando con ammirazione e battendo freneticamente le mani. Io stesso vengo rapito da questa visione, ma soprattutto, dal suo cappotto che, contro ogni dannatissima legge di gravità, invece che ricadere a terra vola all’indietro, verso i carri retrostanti. Inaspettatamente, supera il carro del distretto tre, poi quello del quattro, del cinque e del sei, e fa per passare oltre anche il nostro, ma devia brutalmente la sua direzione. La luce si oscura completamente, le grida della gente vengono smorzate e il fiato mi manca. Afferro la stoffa del soprabito e la tiro via dalla faccia, a metà fra il furioso e il meravigliato. Faccio saettare i miei occhi verso quell’Holmes e lo trovo leggermente voltato, un sorrisetto divertito e di sfida sulle labbra, poi, semplicemente, torna con lo sguardo puntato verso il palco rialzato su cui si erge altera la figura del presidente Magnussen. Che cosa diavolo è appena successo?
I carri si dispongono ordinatamente sullo spiazzo di fronte al palco, riempiendo ogni spazio, gli uni distanziati dagli altri, segno di un muto timore o di un conseguente ribrezzo reciproco. Magnussen avanza di fronte a noi con eleganza e maestosità, catturando l’attenzione di tutti. Gli basta alzare una mano perché ogni applauso, ogni esaltazione, ogni strillo si plachi. Un silenzio soffocante invade lo spiazzo e gli spalti, silenzio di cui il presidente si nutre silenziosamente, respirando l’effetto del suo immenso potere.
“Benvenuti, tributi.” esordisce con la sua voce schifosamente calma e rilassata. “Sono un uomo di poche parole e di fronte a giovani forti e coraggiosi come voi non posso che trattenervi il meno possibile e non annoiarvi con insulsi sermoni. Perciò, auguro a tutti voi di dimostrare il vostro valore nell’Arena e di non tirarvi mai indietro di fronte a qualunque sfida, anche se in quel momento vi sembrerà impossibile. Il nostro Paese, in cenere, come una fenice è risorto e voi siete la testimonianza di questa resurrezione. Felici Hunger Games a tutti e possa la fortuna essere sempre dalla vostra parte!”
 
***
 
Per la seconda volta nella giornata mi ritrovo conciato come un pagliaccio e in attesa del mio turno per esporre a tutto il Paese il mio stato di tributo, di martire. Per la seconda volta nella giornata avverto come una sensazione claustrofobica che mi prende alla gola e pare voglia soffocarmi. E sì, mio malgrado, per la seconda volta nella giornata sono inconfutabilmente, irreparabilmente attratto dalla figura di Sherlock Holmes. Non in quel senso, ovviamente, ciononostante è frustrante provare un mix di emozioni del genere, così contrastanti gli uni dagli altri, per una persona.
Da dietro le quinte, sporto appena verso il palco, sto assistendo all’intervista di Sherlock Holmes. E’ incredibile come un ragazzo di appena un anno meno di me possa risultare così intelligente e profondo.
“Allora, Sherlock.” continua Caesar dopo avergli fatto sporadiche domande su cosa significhi per lui essere un tributo. “C’è un quesito che ancora non ti ho posto ma di certo è quello che mi preme di più… Come mai hai deciso di offrirti come tributo volontario?”
Trattengo il fiato e come Flickerman e tutti gli spettatori attendo la risposta, desideroso di sapere. Da quando ho scoperto che fra i giocatori c’è un pazzo che si è immolato di sua scelta, non ho fatto altro che chiedermi perché.
“Non c’è una vera e propria ragione.” confessa infine Sherlock incrociando raffinatamente le gambe. “Semplicemente in quel momento mi sono detto: perché no? E quindi eccomi qui.”
“Caspita! Sei un tipo impulsivo. Ma non temi la morte?”
Lui scrolla le spalle con un sorrisetto di circostanza. “Perché dovrei? Vivere può risultare noioso senza alcun tipo di stimolo. La morte è solo un evento a cui semplicemente non si può sfuggire. E’ la linea del traguardo di tutti. Se è prima o dopo è solo un dettaglio minimo.”
Caesar aggrotta le sopracciglia, visibilmente colpito dalla saggezza impressa in quelle parole. “E’ proprio vero che il tuo quoziente intellettivo è superiore alla norma.”
Sherlock scrocia le gambe, un’espressione scocciata in volto. “Avevi dei dubbi forse? E va bene, se è una dimostrazione quella che volete, che dimostrazione sia.”
Batte le mani tutto gongolante come un bambino a Natale e, facendo perno sui palmi delle mani, porta i piedi sulla sedia, accucciandosi su di essa sotto gli sguardi allibiti di tutti.
“Vediamo…” mormora prima di congiungere i polpastrelli tra loro. “Vedete la prima fila di spettatori? Perfetto. Un bibliotecario, due insegnanti, due con un lavoro stressante, nelle residenze dei tributi, la segretaria di un medico che lavora all’estero, sette sposati, due hanno una relazione segreta tra loro, hanno mangiato the con i biscotti. Vuoi sapere chi ha mangiato una cialda, Caesar?”
Quello resta allibito per alcuni secondi, infine si rivolge alla prima fila di spettatori. “E’ come dice, amici?”
Un boato di approvazione è la conferma alla sua domanda. Guardo Sherlock, il suo sorriso vittorioso sulle labbra mentre si alza e stringe la mano del conduttore. Eclissandosi dal palco, si infila nel corridoio che conduce in questa stanza e, di fronte a me, si blocca, fissandomi con aria di sfida, come stamattina.
“Colpito, Watson?” mi chiede con voce beffarda mentre Dyachenko Ludmila, distretto tre, ci supera per salire sul palcoscenico.
“Come facevi a saperlo?”
“Non lo sapevo, l’ho dedotto.”
Io incrocio le braccia: se questo tipo è una sfida che vuole da me, beh, non mi tirerò indietro. “Dedotto da cosa?”
Lui rotea gli occhi con fare annoiato. “Andiamo, Watson. E’ facile, pensa.”
“I-io ho provato a guardarli ma non mi sembravano…”
“Appunto, perché tu guardi ma non osservi. Sei un idiota.”
Inarco entrambe le sopracciglia e gli rivolgo uno sguardo carico di astio e di ira repressa.
“No, no, no, non guardarmi così: lo sono tutti. A parte me e poche altre eccezioni.”
Detto questo, mi supera, alzando il bavero del suo cappotto nero che sembra essere diventato un suo segno distintivo da stamane, o forse lo è sempre stato. Avrei voglia di… sbatterlo nel muro e picchiarlo, eppure, allo stesso tempo, vorrei chiedergli chiarimenti, vorrei capire anche io. Mentre Caesar parla, porge domande, intervista i vari tributi, io non faccio altro che osservare con la coda dell’occhio la figura altera di Sherlock Holmes e chiedermi come è possibile che abbia capito tutto solamente con uno sguardo. No, mi spiace. Deve per forza essere un trucco, solo un magico trucco, come quello di un chiromante.
“John.”
Sussulto. Molly è di fronte a me, bellissima nonostante quel trucco pesante che ho imparato ad odiare su chiunque. “Sì?”
“S-sarebbe il mio turno. Mi fai un in bocca al lupo?”
“Oh, sì! Ma certo! In bocca al lupo, Molly.”
Lei mi sorride nervosamente prima di imboccare il corridoio come hanno fatto i sei tributi prima di lei. La osservo sbucare sul palcoscenico tentennante e lasciarsi baciare il dorso della mano da Caesar con aria smarrita.
“Allora, Molly.” esordisce Flickerman sporgendosi in avanti, una volta seduto. “Sei bellissima stasera, complimenti. Come ti senti?”
Lei non risponde, neanche lo guarda, e un senso d’allarme mi pervade.
“Molly?” la chiama infatti Caesar dopo alcuni secondi di silenzio durante i quali lei scruta con occhi confusi la folla.
“Come scusa?” domanda di rimando Molly scuotendo appena la testa, quasi a volersi riprendere. Merda, Molly… Eppure, il pubblico scoppia a ridere, imitato dal presentatore.
“Qualcuno è nervoso, stasera. Ad ogni modo, volevo farti una domanda riguardo la Parata: come ti sei sentita? Eri davvero incantevole, te ne sarai resa conto anche tu.”
Molly arrossisce violentemente e, di riflesso, ridacchia istericamente. “Veramente tutto quello a cui riuscivo a pensare era pregare di non cadere.”
Altra risata degli spettatori e stavolta anche io sorrido. Lei, ovviamente, nemmeno si rende conto del successo che sta pian piano accumulando.
“Ah, Molly.” sospira tra una risata e l’altra Caesar. “Non ti facevo una persona così divertente. Se posso permettermi, alla Mietitura mi sembravi alquanto smarrita e disperata.”
Stringo i pugni con rabbia: smarrita e disperata? Vorrei vedere lui al posto nostro. Molly, da parte sue, si stringe nelle spalle. “Lo ero, ma fortunatamente con me c’era John.”
“Ah già!” esclama Flickerman come se non aspettasse altro. “Tu devi perdonarmi, Molly, ma devi capire che io sono un romantico. Dimmi, c’è qualcosa tra te e il tuo compagno di avventure?”
Lei scuote violentemente la testa. “Assolutamente no. Da bambini eravamo molto amici, poi ci siamo persi di visti. Tra l’altro credo che mi rispetti visto che sono una delle poche ragazze che non sono cadute ai suoi piedi…” Come si rende conto di quello che ha appena detto si preme una mano sulla bocca, con sguardo colpevole. “Cavolo, non avrei dovuto…”
Ma il pubblico esulta, urla che vuole sapere di più. Lei protende entrambe le mani, scuotendole scoordinatamente. “No, non posso parlarvi della vita privata di John. Mi ammazzerebbe. Le ragazze con cui va a letto sono affari suoi.” Di nuovo serra la mascella sulla lingua, le orecchie rosse. Io mi porto una mano alla fronte e scuoto esasperato la testa. Comunque, al pubblico sembra piacere questo lato leggermente impacciato e al contempo pettegolo di Molly e potrebbe tornare utile.
Avverto una risata alle mie spalle e mi accorgo che Philip Anderson, distretto uno, si è appena appoggiato al muro, le lacrime agli occhi. “Certo, Watson, che se questi sono tuoi amici non so come possano essere i tuoi nemici.”
Io lo fulmino con lo sguardo, ma decido di ignorarlo e di restare concentrato sull’intervista di Molly. “Non è colpa di John… E’ che è la sua natura. E’ affascinante, simpatico, intelligente – a modo suo… cioè, no è intelligente…”
“Però, bella amica che ti ritrovi.” sputa Sally Donovan, distretto due. “Ti ha appena dato dello stupido di fronte a tutti.”
Stavolta faccio per rispondere a tono, ma una voce mi precede. “Lascialo stare, Sally.” I miei occhi saettano verso la fonte di quell’ordine e trovo, poco distante dai due, James Moriarty con un elegante Westwood blu scuro. Subito, sia Sally che Philip abbandonano la loro posa da bulletti e sgattaiolano via con facce contrariate ma comunque non sufficientemente adirate perché rispondano.
“Non avevo bisogno del tuo aiuto, per la cronaca.” gli faccio notare più acidamente di quanto vorrei.
La sua espressione, prima gentile e rilassante, si contrae in una smorfia ferita. “Scusa, io… credevo di farti un favore… Scusa ancora.” Non mi dà tempo di rispondere che si è già allontanato con le spalle leggermente curvate, quasi a sottolineare il peso di tutto questo che ci sta accadendo. Perché mi sono comportato in questo modo meschino? In fondo, siamo tutti sulla stessa fottutissima barca. Non sono loro i miei nemici. Loro sono solo… altre vittime. Merda, John, devi sempre tenere a mente chi è il tuo nemico.
“John!” urla Molly correndo verso di me e gettandomi le braccia al collo. “Ce l’ho fatta, John! Ce l’ho fatta!”
“Sì, grazie ai tuoi splendidi aneddoti sul mio conto.” borbotto di rimando io fintamente offeso, ma lei come al solito non coglie l’ironia e si affretta a staccarsi e a stordirmi con una raffica di scusa che si vanno stuzzicando l’un l’altro.
“Sì, sì, Molly, scuse accettate. Ma ora lasciami, che è il mio turno.”
“Ah, già. Scusa ancora, John. E in bocca al lupo!”
Mentre procedo nel corridoio che mi separa dal palco, respiro profondamente ma mi accorgo che, in realtà non sono agitato o emozionato. Sono… completamente insofferente. Come metto un piede sull’ampia piattaforme costellata di luci verdi e oro, la platea scoppia in un esagerato applauso. Vengo accolto dalle urla, da un’illuminazione abbagliante, da Caesar che mi stringe calorosamente una mano, e da un senso di repulsione per tutto quello.
“Ricorda chi sei e chi è il tuo nemico.”
“Benvenuto, John, benvenuto!”
“Buonasera, Caesar. Buonasera a tutti.” rispondo col sorriso migliore che riesco a tirar fuori in una situazione del genere.
“Dunque, come ho fatto con tutti ti chiedo: come stai, che cosa provi?”
“Dipende dai punti di vista, Caesar. Essere qui ha anche tanti vantaggi e molte cose interessanti.”
Lui si fa attento. “Ah sì? Ad esempio?”
“Il trattamento igienico. Da quando sono qui mi hanno obbligato a farmi quattro docce, a lavarmi i denti per ben sei volte e a profumarmi con due diverse fragranze che sposate insieme – come dice Ella, la mia stilista – formano un unicum mozzafiato.” Alle mie parole segue una risata generale che mi fa sorridere compiaciuto mentre mi accomodo meglio sulla poltroncina.
“Il trattamento igienico?” mi fa eco Flickerman cercando di contenere le risa.
“Oh, non temere, anche tu non sei male, dopotutto.”
Un applauso riempie lo studio e Caesar mi sferra uno schiaffetto divertito alla spalla, scuotendo la testa fintamente rassegnato. “Dimmi, John, è questo tuo modo di fare che colpisce le ragazze del tuo distretto?”
Io alzo gli occhi al cielo. Avrei dovuto aspettarmi questa domanda dopo la splendida presentazione fatta dalla cara Molly. “Che posso dirti, Caesar: ho un fascino naturale.”
“Ah, il classico talento da rubacuori. Credi che questo ti basti per vincere i Giochi?”
Io scrollo le spalle. “Non saprei, con le femmine potrei anche fare un tentativo ma con il campo maschile non ho esperienze a carico. Sapevo che avrei dovuto esercitare il mio potere anche sui ragazzi del mio distretto.” Intorno a me regna un clima viscidamente allegro e ovattato che mi si appiccica alla pelle e me la insozza. Ma devo stare calmo, non devo lasciarmi andare a questa sensazione di repulsione che provo in questo momento. “Scherzi a parte, spero che entrare nell’Arena non mi cambierà. Spero di rimanere sempre me stesso.”
“E il vero te sarebbe il ragazzo che ha salutato la sua casa con un sorriso luminoso e quello che sta scherzando animatamente di fronte a chi ti ha obbligato a stare qui? Sai come ti chiamano?” Continua prima che io possa rispondere. “Il conduttore di luce.”
I miei occhi si fanno grandi di meraviglia: d’accordo, sono consapevole che tutti, prima o poi, non possono durare nel mondo delle star senza avere affibbiato un soprannome. Poteva anche darmi peggio. “Wow, è un titolo importante.”
“Sono d’accordo, ma non ho dubbi che tu sia in grado di mantenerlo con onore e con il tuo solito sorriso, qualunque cosa accada.” Un battito esaltato di mani assente le sue ultime parole. Se non altro mi sono fatto notare in positivo. “E la tua famiglia, John? Come ha reagito alla tua nomina?”
La mano mi scivola istintivamente nella tasca della giacca indaco, sfiorando la penna. “Mia madre è stata la mia roccia. Lei sarebbe stata l’unica a potermi far crollare e non l’ha fatto. Lei ha scelto di non farlo. E…” Mi mordo amaramente un labbro, colpevole. “… Vorrei che sapesse che le voglio bene e che non dimenticherò mai tutto quello che ha fatto per me, per noi.”
Quelle ultime due parole mi sfuggono, incontrollabili, impossibili da riacciuffare. Ma nessuno sembra farci troppo caso, esageratamente preso dal contenere qualche sospiro commosso e qualche lacrima falsa.
“E noi tutti speriamo che tu possa tornare a casa per poterglielo dire di persona.” commenta Caesar prima di alzarsi in piedi, imitato da me, e stringermi affettuosamente la mano.
Quando esco fuori dalla portata di luci e telecamere, tiro un sospiro di sollievo. E pensare che è solo il primo, fottuto giorno. Fra due settimane sarò nell’Arena e verrò affettato davanti agli occhi di mia madre. Posso immaginarmela aggirarsi per la casa come un fantasma, la schiena incurvata dalle tante perdite, avvicinarsi alla mia camera, respirare il mio odore sulle mie magliette, stendersi sul mio letto e piangere le poche lacrime che le sono rimaste.
Con un gesto mesto tiro fuori la penna e la osservo, accarezzandola con nostalgia. Come sarebbe bello poter tornare indietro, cancellare ogni cosa, riavvolgere semplicemente il nastro della vita e rivivere all’infinito quei momenti felici che caratterizzano la nostra vita e non arrivare mai a quelli brutti, quelli spiacevoli. Con la coda dell’occhio vedo qualcosa muoversi in disparte, ma è troppo veloce perché possa capire di che si tratta. Mi sembra di scorgere del nero nel nero, ma potrebbe essere qualunque cosa. Ricaccio dentro la tasca la penna, sotterrando nella stoffa il passato, i sentimenti e il cuore. Tutte cose che non servono più, oramai.
 
***
 
“Mi raccomando, sapete quello che dovete fare.” ci ricorda per l’ennesima volta Greg, provocandomi inevitabilmente un’alzata d’occhi al cielo. Da quando, questa mattina, io e Molly ci siamo alzati – per niente riposati, ovviamente – non ha fatto altro che raccomandarsi su cosa fare durante questa prima giornata di allenamenti.
“Due settimane passano in fretta.” ha detto durante la mia assonnata opera di spargimento di burro e marmellata su un toast. “Perciò dovete approfittare di ogni minuto di ogni ora di ogni dannato giorno. Nell’Arena non avrete un attimo di respiro, i nemici saranno tanti e voi dovrete guardarvi le spalle reciprocamente. Tuttavia, farsi degli alleati potrebbe essere costruttivo, anzi, sicuramente sarà costruttivo, perciò vi prego di sfruttare questi giorni al meglio sia per addestrarvi che per stringere delle alleanze.” Eccetera, eccetera, eccetera… Un accumulo di ripetitività mista ad ansia. La verità è che, da un lato, lo capisco, Greg: sa per certo che uno di noi due morirà, se va bene, e questo deve turbarlo non poco. Mi immagino nei suoi panni: essere un mentore, affezionarmi a ragazzi spauriti che si trovano nelle stesse condizioni in cui sono mi sono trovato io in passato, vederli soffrire, attraversare pericoli, morire… e credere che sia tutta colpa tua.
“… E ricordate che la difesa…”
“E’ il migliore attacco, sì, Greg, abbiamo capito.” lo interrompo prima che ricominci il discorso da capo. Lui arrossisce violentemente, rendendosi conto della situazione, e si gratta nervosamente la testa.
“Sì, infatti, scusate è che…”
Molly gli poggia dolcemente una mano sulla spalla e gli sorride. “Andrà tutto bene, Greg. Almeno per oggi. Sei il miglior mentore che avremmo mai potuto avere e ti siamo entrambi grati per tutto il lavoro che fai e che hai fatto in questi pochi giorni.”
Lui si rilassa appena sotto quel tocco e al suono di quelle parole. Anche io gli do un’amichevole pacca alla spalla, pentendomi della mia antipatia di poco fa. “Scusa, Greg. Sei un grande anche se a volte puoi risultare un tantino ripetitivo.”
“Divertente.” mi risponde lui mimando una boccaccia a cui sia io che Molly scoppiamo a ridere. I Pacificatori che ci stanno conducendo alla sala degli allenamenti si fermano di fronte a una porta d’acciaio. “Siamo arrivati.” sentenzia uno facendo scorrere la tessera identificativa lungo la serratura elettromagnetica. La porta si apre scorrendo e i due soldati si fanno da parte per lasciarci libero il passaggio.
“In bocca al lupo, ragazzi.” mormora Greg alle nostre spalle, prima che le ante si richiudano su se stesse, inghiottendo il suo volto apprensivo.
Nella stanza riecheggiano gemiti di fatica e grida combattive. Osservo in una sorta di stato catatonico i vari tributi allenarsi strenuamente, portare il loro corpo all’apice delle energie, ricercare in se stessi quelle abilità fondamentali per sopravvivere. E per la prima volta ho paura. Paura vera. Consistente. Non sembrano esseri umani, ma vere e proprie macchine da guerra.
Philip Anderson, distretto quattro, sta colpendo con un arpione ologrammi in corsa, uno dopo l’altro, frantumandoli in frammenti che si dissolvono toccando terra; Sally Donovan, distretto due, al suo fianco, gli batte amichevolmente le mani, sottraendogli di mano l’arma e cominciando a sua volta l’allenamento; su un ring, Harry Knight, distretto tre, lotta come una belva contro Sebastian Moran, distretto cinque, ed entrambi si sferrano a vicenda colpi terribilmente violenti, che mi sembrano avere come obbiettivo quello di ferire, quello di far male sul serio; Ludmila Dyachenko, distretto tre, è intenta a scagliare coltelli da lancio contro bersagli, cercando di spezzare a metà le frecce scoccate magistralmente da Irene Adler, distretto uno. Tutto è un fermento instancabile, un moto continuo e incessante.
All’improvviso, come richiamati da un fattore comune, ogni singolo tributo si ferma e si volta in direzione nostra, scrutandoci con occhi ferini. Ignorando il senso di essere completamente fuori posto, indurisco lo sguardo e ricambio ogni occhiata. L’ultima cosa di cui abbiamo bisogno è essere visti come prede succulente su cui avventarsi alla prima occasione. Dopo alcuni, sfinenti secondi, ognuno riprende l’allenamento, tornando ad ignorarci come se non fossimo mai esistiti.
“J-John?” mi chiama flebilmente Molly, appena nascosta dietro di me. “C-che facciamo?”
Mi guardo intorno, studio la situazione e penso. Penso a cosa sia giusto fare in questo momento. Penso a cosa potrebbe fornirci il risultato più fruttuoso. Non mi è piaciuta l’occhiata che ci hanno appena rifilato. Siamo soli e a quanto pare stanno già cominciando a formarsi gruppetti coalizzati.
“Ci facciamo qualche bell’amico.” dichiaro imprimendo un tono ironico nella voce e facendo un passo avanti. “Dobbiamo capire quelli di cui non ci fidiamo e, una volta scartati quelli, vediamo chi ci resta. Okay?” Non aspetto risposta e avanzo alla mia sinistra mentre le indico col mento la destra.
Comincio a studiare i vari tributi di cui non ricordo neanche con precisione i nomi. Chi? Chi potrebbe rivelarsi un buon alleato? Mi passano davanti ragazzi dallo sguardo iniettato di sangue, altri spauriti, che se ne stanno in un angolo, altri ancora che maneggiano goffamente un qualunque attrezzo.
“No… no… no… no…” scarto mentalmente passando ognuno in rassegna. E continuo fino a quando i miei occhi non incontrano una figura inginocchiata di fronte a… qualcosa. Inforcati sul naso, un paio di occhiali neri con lenti rotonde, rosse e blu, estremamente singolari. Sherlock Holmes. o no?
Sherlock Holmes = stronzo.
Sherlock Holmes = intelligente.
Sherlock Holmes = affidabile?
Ritengo che un tentativo sia… d’obbligo… Faccio per avvicinarmi, quando fra me e lui si frappone la figura slanciata di Irene Adler.
“Ciao.” lo saluta con voce improvvisamente civettuola. Lui non si smuove e continua imperterrito il suo lavoro. “Attenendoci ai soliti stupidi modi di fare conversazione che hanno come base quella di sottolineare l’ovvio, io sono Irene Adler, distretto uno, e interessata a te.”
Inarco un sopracciglio evidenziando la mia perplessità di fronte a quella scena. Sherlock Holmes, di nuovo, non dà segni di averla sentita.
“Oh!” esclama la Adler incrociando le braccia al petto. “Ora mi è tutto più chiaro: sei il classico uomo che fa il difficile… Va bene, lo rispetto e ti ammiro. Ho una proposta per te: perché non…” si china su di lui, sfiorandogli un orecchio con le labbra e mormorandogli qualcosa che non riesco ad udire da qui.
Finalmente, Sherlock Holmes si raddrizza appena, la schiena magra irrigidita completamente. Si alza in piedi e punta su Irene Adler uno sguardo torvo e di sufficienza. “Oh, andiamo. Se io sono il classico uomo che fa il difficile tu sei la classica donna che non si fa problemi ad andare a letto con chiunque per arrivare ai suoi scopi. Compiaci la gente per avere ciò che vuoi, ti impiastri la faccia di trucco per sottolineare i tuoi punti di bellezza, ti cospargi di profumo per risultare più seducente, e hai questo atteggiamento provocatorio per apparire desiderabile. Smettila di annoiarmi e vattene, ho qualcosa di decisamente più sexy di te a cui pensare.”
Spalanco gli occhi e rimango pietrificato. Irene Adler è completamente cinerea, gli occhi infiammati di rabbia, le mani chiuse a pugno. Rimane qualche istante a fissarlo con uno sguardo carico di odio puro prima di retrocedere ed eclissarsi in direzione di qualche poveretto da accalappiare. Sherlock Holmes fa per tornare a lavoro, ma lo vedo immobilizzarsi improvvisamente, il corpo intero in tensione. Infine, si rilassa e riprende il suo operato. “Watson, mi stavi cercando?”
La sua voce mi raggiunge come uno schiaffo e mi gela il sangue nelle vene. Merda… Mi ha beccato. “I-io non…”
“Puoi prestarmi la tua penna? Ho bisogno di scrivere la reazione di questa pianta velenosa sull’epidermide umana.”
“L-la mia…”
“Coraggio, Watson. Sono un tributo dotato di un’intelligenza suprema, un sociopatico incline all’iperattività, non fare quella faccia stupita.”
“Sì, però…”
“E tu sembri non essere in grado di completare una frase per intero, andrai perfettamente.”
“Andrò perfettamente per cosa?”
“Come alleato. E sì, questo è il mio modo per dirti che accetto la tua offerta.”
Me ne sto fermo come un idiota, a contemplare la sua schiena. Ha parlato senza prendere fiato, senza degnarmi di uno sguardo e senza neanche constatare che fossi davvero io.
 
  1. Come diavolo mi ha notato?
  2. Come faceva a sapere della penna?
  3. Come ha fatto a capire che avevo intenzione di chiedergli di formare un’alleanza?
 
“Watson? Oltre ad essere muto sei anche sordo? La penna, per favore.” mi ripete, stavolta voltandosi e guardandomi.
“S-sì…” balbetto stupidamente mentre immergo la mano nella tasca dei pantaloni e ne estraggo la penna. Mi avvicino con passo titubante e gliela porgo tenendomi a una certa distanza. Mentre lui me la prende dalle mani, le sue dita sfiorano le mie e mi rendo conto che sono incredibilmente fredde.
“Grazie.” borbotta prima di appuntarsi freneticamente qualcosa di incomprensibile, fatto di formule e simboli che non capisco. Sherlock Holmes… si è offerto volontario, sta mettendo la sua vita a rischio spontaneamente, ha accettato di abbandonare la sua casa e la sua famiglia di sua intenzione. Perché? E’ davvero così affamato di gloria? Di denaro? O è solo disperato? “Quanti anni fa se n’è andato?”
Quella domanda mi riscuote dai miei pensieri. “Scusa?”
“Tuo fratello. Da quant’è che non lo vedi?”
Fratello? Sta… sta parlando di Harry? Come fa a sapere… Chi diavolo è questo ragazzo?
Mi mordo febbrilmente il labbro inferiore e mi attardo a rispondere. “Sei mesi, ma come facevi a saperlo?”
Lui mi restituisce la penna, evitando di voltarsi e scatta in piedi in modo pimpante, col suo foglio completamente imbrattato d’inchiostro in mano. “Sto lavorando a un piano che possa permetterci di non essere la fonte di due dei primi dodici colpi di cannone, ma per farlo ho bisogno della tranquillità adatta, cosa che non posso sicuramente trovare qui dentro. Sono tutti così agitati…”
Con una mezza piroetta lascia correre lo sguardo intorno, e si blocca soltanto quando i suoi occhi s’imbattono in un gruppetto esiguo radunato in un angolino. Con un balzo all’indietro si porta alla mia altezza e si china appena su di me, il mento che guizza verso quella direzione. “Non fidarti di loro, di nessuno di loro. In particolare, non fidarti di quel James Moriarty.” mi sussurra all’orecchio con voce bassa, profonda. Deglutisco istintivamente nell’udire quel suono così cupo e tenebroso e mi limito ad annuire.
Quando però lo vedo proseguire elegantemente verso l’uscita quel briciolo di lucidità che avevo perso durante tutta la conversazione con lui mi ripiomba addosso con tutta la sua chiarezza.
“Tutto qui?”
“Tutto qui cosa?” mi fa eco lui degnandomi appena di uno sguardo.
“Ci siamo appena incontrati e ora siamo alleati in un gioco in cui potremmo perdere la vita.” osservo ironicamente assottigliando gli occhi.
“Problemi?”
Un sorrisetto istintivo mi sfocia sulle labbra. “Non sappiamo nulla l’uno dell’altro, non so a che progetto stai lavorando per salvarci le penne e so a malapena il tuo nome.”
Sherlock torna sui suoi passi, avvicinandosi a me come farebbe un entomologo con un insetto. “Io so che tu sei un ragazzo che crede di avere molte ragioni per tornare a casa, ma la verità è che della tua vita non ti importa veramente così tanto, non se questo può comportare di cambiare radicalmente il tuo modo di essere. So che hai un fratello con cui non hai più rapporti da tempo, dato che se n’è andato di casa, probabilmente perché avete avuto una discussione riguardo il suo alcolismo o più semplicemente perché di recente ha lasciato sua moglie. E so anche che quando sei solo e pensi che nessuno possa vederti, tiri fuori quella penna e ti aggrappi a lei come se fosse animata… E’ sufficiente per essere alleati.”
Il mio volto si maschera di sbigottimento. Vorrei ribattere, vorrei anche solo spicciare parola. Maledizione, è davvero… davvero un tipo fuori dal comune. Deve aver fatto delle ricerche su di me, deve per forza averle fatte! Eppure, mentre si allontana leggiadramente, mi rendo conto che sono diabolicamente attratto dalla sua capacità… divinatoria? Intellettiva? Non ho nemmeno idea di che cosa sia, ma ho idea che presto lo scoprirò…
 
***
 
La sera è ormai scesa su Capital City. Il cielo di pece è spennellato di puntini pulsanti e scie di astri che dall’alto ricambiano la mia occhiata dal basso. Persino le stelle assistono freddamente a questa strage che si sta compiendo silenziosamente e sotto gli occhi inconsapevoli di tutti. Un tempo, quando mia nonna era ancora in vita, la sera mi capitava di pregare chissà quale Dio affinché io e Harry ricevessimo la grazia del cielo. Ora, in questo sinistro spettacolo di indifferenza da parte degli astri stessi, non provo altro che rassegnazione. Rassegnazione per un destino che non posso scansare. Ripenso alle parole di quello Sherlock Holmes: sei un ragazzo che crede di avere dei molte ragioni per tornare a casa, ma la verità è che della tua vita non ti importa veramente così tanto.
Non lo so nemmeno io quello che sento, come può saperlo quello stronzetto saccente? Ho parlato con Greg a proposito dell’incontro, a cena: ho raccontato, restando sul vago, dell’esuberanza di Sherlock, di come sapesse del mio desiderio di formare un’alleanza – non necessariamente con lui – ancora prima che avessi aperto bocca… Molly si è semplicemente lasciata andare ad un sospiro pateticamente invaghito, mentre Greg ha cominciato a tamburellare con le dita sul vistoso tavolo, pensoso.
“E’ un ottimo punto di partenza. Lui è di certo uno dei Favoriti, dovete cogliere questa opportunità al volo, ragazzi.” ha esclamato infine vuotando il bicchiere con la birra.
“Sono d’accordo.” ha cinguettato in risposta Molly cominciando a tormentarsi i capelli con le dita su cui è magicamente apparso dello smalto – opera di Ella, suppongo.
Io, invece, mi sono alzato silenziosamente e diretto verso l’enorme vetrata da cui si riesce ad abbracciare gran parte della capitale con un solo sguardo. “Non mi fido di lui.” ho sentenziato dopo poco. La verità è che non mi fido di nessuno. Sono tutti così diversi da me… A loro non interessa trasformarsi in animali, in carnefici, in mostri. Loro farebbero qualunque cosa pur di salvarsi, mentre io…
Greg ha cercato, come al solito, di spiegarmi che era per il nostro bene e che questa scelta ci avrebbe fruttato molto, bla, bla, bla…Dopo circa un minuto, avevo già distolto l’attenzione dalle sue parole agli Hunger Games che si stanno avvicinando. Il fatto che Sherlock Holmes sia geniale e, presumo, uno dei pochi che mi pare non essere un completo squartatore patentato, non riesce a placare il dubbio. E contemporaneamente, il fatto che io dica di non fidarmi… non so, è come se non potessi non fidarmi di lui. Come se stamattina mi avesse gettato un amo a cui io ho abboccato immediatamente, senza neanche rendermene conto. Merda.
Le uniche luci accese della nostra suite sono ormai soltanto le mie. Greg e Molly sono andati a riposare un’ora fa. Lei era sfinita per il duro allenamento a cui ci siamo sottoposti e anche io avverto un tedioso intorpidimento alle membra, ma non ho alcuna voglia di dormire. Se dormo ho paura che possano venirmi incontro visioni del mio distretto, di mia madre, della mia vecchia famiglia… Percepisco una strana sensazione di soffocamento, come se non riuscissi a respirare bene, come se l’aria che mi entra nei polmoni non fosse abbastanza. Mi porto immediatamente una mano alla gola, gli occhi sbarrati, e cerco di contenere il battito impazzito del mio cuore che sta marciando così forte e impetuoso da farmi male. Mi chino a terra e cerco di respirare. Capisco praticamente subito che cos’ho. Tutti i manuali di medicina di mio padre mi tornano alla mente con uno sfogliare frenetico di pagine e di argomenti a partire dalle più banali influenze alle malattia più seriose. Comincio a contare lentamente da cento in giù, cercando di sincronizzare ad esso il mio respiro, mentre le mie dita si serrano attorno alla penna. Dopo qualche minuto, le palpitazioni cessano, così come la sensazione di soffocamento. Attacco di panico. Mio padre ne soffriva… ma a me non era mai successo prima d’ora.
Mi rialzo con cautela, aiutandomi con l’appoggio della parete. Forse è meglio che ora vada a letto e mi riposi… Non faccio in tempo a pensarlo che una domestica in camicia da notte mi si avvicina, porgendomi un telegramma. “Per lei, signorino Watson.”
Io la ringrazio distrattamente, completamente assorto da questa sorpresa inaspettata. Prendo il foglietto su cui sono appuntate poche, semplici parole: Alloggi Distretto Due, vieni se possibile. Se non puoi, vieni lo stesso. SH
Aggrotto la fronte e rileggo il messaggio, completamente allibito. Sherlock Holmes mi vuole vedere adesso? Alle due e mezzo di notte?
“E’ sicura che sia per me? Magari si è sbagliata e…”
“Nessun errore, signorino. Ora, se non le dispiace, ritorno alle mie stanze.” mi interrompe, assonnata e trattenendo visibilmente uno sbadiglio, per poi voltarsi e schizzare via per tornare a letto. Poveretta.
Sospiro rassegnato e, ficcandomi il biglietto in tasca, mi dirigo verso gli alloggi del distretto due.
 
***
 
“Era ora.”
Mi fermo, una falcata ancora a metà. Eh no. Non ce la posso fare. Sento che potrei strozzarlo. “Sai com’è… La gente alle due e mezzo di notte è solita dormire. Sono stupide consuetudini, nulla da tenere in considerazione. Ho solo vagato per tutto questo fottuto palazzo cercando il distretto giusto visto che pare che anche il resto della gente a quest’ora dorma.”
“Non mi dire…” risponde distrattamente, non percependo o ignorando spontaneamente l’acida vena ironica impressa nelle mie parole. E’ seduto su una poltrona di pelle, intento a leggere un qualche pesante tomo. “Siediti, se trovi qualche spazio libero.”
Alzo gli occhi al cielo mentre mi guardo intorno: il caos qui dentro regna dittatorialmente, ricoprendo ogni singolo angolo dell’ampio salone. “Che disastro…” mormoro sedendomi su una poltrona rossa, accanto a una pila di volumi sulla cui sommità e poggiato un teschio estremamente inquietante. “Le domestiche puliscono mai?”
“La signora Hudson non fa che ripetere che dovrebbe dare una sistemata, ma io odio che gli altri tocchino le mie cose.”
I miei occhi vengono attratti da una pantofola singolare, azzurra, con fregi dorati e articolati. Ciò che non mi sarei mai aspettato di trovarci dentro è un pacchetto di sigarette. Gli lancio un’occhiata incredula. “Tu fumi?”
“No, o almeno, non sempre. Soltanto quando mi annoio. Ho praticamente smesso.”
“Mhm... Un toccasana per i polmoni.” noto poggiando la ciabatta a terra e facendo correre lo sguardo per l’intonaco bianco e nero a un certo punto sormontato da un enorme smile giallo.
“Ah, respirare… Respirare è noioso.” replica con tono traboccante di boria su cui però decido deliberatamente di sorvolare altrimenti alla fine di questo incontro lo avrò ucciso per la sua saccenteria.
“E quello?” domando indicandogli lo schizzo sulla parete. Lui segue il mio dito puntato e sorride arrogantemente.
“L’ho disegnato io.”
“Sono fori di proiettile quelli?”
“Mi annoiavo.”
“E hai deciso di prendertela col muro?”
“Il muro se l’è meritato.” ribatte spocchiosamente prima di richiudere platealmente il libro sui stava facendo scorrere rapidamente gli occhi. “Ad ogni modo, ti ho fatto chiamare qui perché credo che dovremmo conoscerci meglio.”
Spalanco gli occhi e lo fisso come si fisserebbe un pazzo. “Sei serio? Cioè, fammi capire: tu mi hai buttato giù dal letto nel cuore della notte solo per… fare conoscenza?”
Lui scrolla le spalle con non curanza. “Esatto, non sono gentile?”
Gentile… No, no, Holmes, svegliare la gente alle due di notte non è gentile.”
Sherlock Holmes rotea gli occhi con fare tediato. “Quanto la fai lunga, Watson, tanto lo so che non dormivi.”
“Ma davvero?” gli faccio con un sorrisetto di sfida.
“Sì, davvero.”
Cala qualche istante di silenzio durante cui ci scrutiamo in cagnesco, gli occhi ridotti a due fessure inespugnabili. Non so che cosa mi tradisce. Forse la tensione, forse lo sguardo improponibile di Sherlock, forse tutta la situazione in generale. Cerco di trattenermi, ma una risata sincera abbatte le mura elevate dai miei denti stretti e fuoriesce fragorosa, scomposta. Una risata che non credevo sarebbe più potuta uscire dalle mie labbra.
“Cosa?” mi chiede Sherlock inarcando un sopracciglio.
“Niente, solo… Ti sei accorto che continuiamo a chiamarci per cognome e che non facciamo altro che inveire l’uno contro l’altro?” La sua espressione, prima sconcertata, si rilassa appena e si scioglie in un sorriso. Mi alzo dalla poltrona con un sospiro e gli tendo una mano, arricciando le labbra divertito da tutto questo. “Ricominciamo da zero: John Watson, piacere di conoscerti.”
“Che stai facendo?” mi chiede di rimando lui sbattendo ripetutamente le palpebre.
“Non mi hai chiamato qui per… conoscerci meglio? Dato che Capital City ha bruciato per noi le tappe iniziali sarebbe bene recuperare, quindi mi pare d’obbligo cominciare con le presentazioni.”
“Noioso.”
“Cosa?”
“Tu. Sei noioso.”
“Sto cercando di fare conversazione!”
“No, stai cercando di annoiarmi, è diverso.”
“Sembri proprio un bambino, sai?”
“Non sono io il bambino, sei tu che sembri morire dalla voglia di sottolineare l’ovvio.”
Faccio per ritrarre la mano, imbufalito da questo atteggiamento così maledettamente irritante, ma subito lui me l’afferra, con un gesto fulmineo, e la stringe lentamente, addolcendo appena lo sguardo. “Comunque, già che ci siamo… Io sono Sherlock Holmes e, sebbene non sia realmente convinto di quello che sto per dire, anche per me è un piacere.”
Mi ritrovo inspiegabilmente a sorridere, come un idiota, e a ricambiare quella stretta così terribilmente confortante. Per un lasso di tempo esageratamente dilatato. “John?” mormora Sherlock chiamandomi per la prima volta col mio nome. Fa uno strano effetto sentirlo pronunciato da lui. Sembra quasi racchiudere un senso smisurato di tenebrosità, come gli abissi di un oceano.
“Mhm?” mugugno solo.
“La mano.”
“Come?”
“La mano. Credi potrei riaverla entro domattina?”
Abbasso gli occhi e mi rendo conto solo in questo istante che le mie dita stanno ancora arpionando la sua mano candida e nodosa. Ritraggo subito il braccio, imitando una finta tosse per dissimulare l’imbarazzo che sono certo abbia cominciato ad imporporarmi le gote.
“Mi…” biascico rocamente, cercando di incatenare questo disagio che è improvvisamente scoppiato in me. “… mi spieghi che ci fai con tutta questa roba? E’ tua?”
“Yep.”
“Ma non è illegale portarsi cose da casa?”
Lui mima un gesto d’insofferenza con la mano, storcendo appena le labbra in un’espressione di completa noncuranza. “Essere il fratello di un’ex Capo Stratega avrà pure un suo valore, no?”
“E la Donovan?”
“Secondo alloggio del secondo distretto. Non ero di certo desideroso di avere la sua lingua di vipera – e in particolar modo il suo pugnale – a poca distanza dalla mia faccia. E lei mi è sembrata raggiante all’idea di avermi fuori dai piedi.”
“Vi odiate proprio tanto, eh?” osservo amaramente riaccomodandomi sulla poltrona e lanciando uno sguardo di compassione al povero teschio che ha dovuto affrontare tutto questo trambusto.
“Io non la odio, ritengo semplicemente che sia la classica idiota che si ostina ad essere stupida invece che aprire la sua mente. Lo dico per lei.”
“Commovente, davvero.” constato con un mezzo sorriso. “Ti fa onore.”
Lui sospira sonoramente e stringe le dita sui braccioli della poltrona di pelle. “Ad ogni modo, sei qui per una ragione ben precisa.”
“Credevo volessi conoscermi meglio.”
“Ovviamente non è la verità. Ti ho fatto chiamare perché ho bisogno di elaborare un piano lungimirante a proposito dei Giochi. Il tuo punto di forza?”
Io prendo a tamburellare con le dita sul mio ginocchio, un’espressione divertita in volto. “Stai scherzando?” Lui mi fa segno di non aver capito. “Davvero credi che io venga a dire a te i miei punti di forza?”
Punti di forza, quindi, eccellente.” osserva Sherlock annotandosi qualcosa su un block-notes che tiene in equilibrio sulle gambe. “Problemi di fiducia…” mormora poi congiungendo le dita in un gesto simile a quello di preghiera. “Non ho bisogno che tu mi dia delucidazioni: potrei benissimo scoprire ogni cosa limitandomi a guardarti.”
“Come?”
I suoi occhi di ghiaccio si accendono, come se non avesse aspettato nient’altro fino ad adesso.
“Quando ti ho chiesto da quanto tuo fratello se ne fosse andato, mi sei sembrato stupito.”
“Come facevi a saperlo?”
“Non lo sapevo, l’ho dedotto. Dopo la tua intervista, ti ho visto tirar fuori la penna e così stamattina ho dedotto che l’avessi ancora con te e che la portassi ovunque tu vada. Parliamo della penna, dunque: è elegante, molto elegante, troppo elegante per un distretto come il sette. E’ il classico regalo di matrimonio per cui non si bada a spese. Potrebbe appartenere a tuo padre, ma lo ritengo alquanto improbabile dato che questo è un modello recente, uscito otto mesi fa direttamente dalle fabbriche del distretto uno, perciò no, non può appartenere a tuo padre. Ora, l’incisione: Clara… chi è Clara? Tre baci indicano un coinvolgimento amoroso, il costo della penna un rapporto coniugale. Tuo fratello se n’è andato sei mesi fa, lasciandoti il regalo di nozze di sua moglie, indicando dunque che la loro storia è finita. Se fosse morta o se fosse stata lei a lasciare lui l’avrebbe tenuta, invece lui la ricicla, regalandola a te. No, dev’essere stato lui a lasciarla. Tu e tuo frtello non vi sentite più dato che nella tua intervista, quando Caesar ha accennato alla famiglia, tu hai fatto riferimento soltanto a tua madre e non a tuo fratello, perciò ne deduco che corrano cattivi tempi fra di voi.”
“…Come diavolo sai che Harry beve?” lo interrompo di getto.
“La punta della penna è leggermente danneggiata ai lati, sintomo che la sua mano tremava. Un alcolismo compulsivo porta un frequente tremore alla mano, soprattutto la mattina dopo l’ubriacatura, momento più probabile nella giornata in cui scrivere – magari una lista, magari un appunto sul calendario –. Come faccio a sapere che è un alcolista e non soffre di una qualche patologia? Se avesse avuto problemi di salute molto probabilmente una madre forte come tu descrivi la tua l’avrebbe sicuramente tenuto accanto a sé e tu stesso ti sentiresti un miserabile nel provare una forma attenuata di odio nei confronti di tuo fratello. Invece no, tua madre l’ha lasciato andare e tu lo ripudi. Quindi sì, confermo la mia teoria sull’alcolismo di tuo fratello.”
Tace. Le parole sfumano. Il silenzio regna. Lo fisso con occhi sgranati, completamente rapito dalla valanga di spiegazioni che mi ha appena fornito. Cerco di deglutire ma sembra che abbia dimenticato come si faccia. Lui, invece che rivolgermi uno dei suoi sguardi saccenti che ho ormai imparato a conoscere, evita il mio sguardo, come se fosse in qualche modo pentito… anzi no, come se attendesse l’arrivo di una qualche tempesta.
“E’ stato…” mormoro riprendendomi a poco a poco. “… incredibile.”
Sherlock alza di scatto la testa, stavolta la confusione regna sul suo di viso. “Davvero?”
“Ma certo, semplicemente… sensazionale.”
Il suo stupore si liquefa come un cubetto di ghiaccio al cielo e un sorriso sollevato fa guizzare gli angoli delle sue labbra verso l’alto. “N-non è…” balbetta suscitando in me una strana tenerezza. “… Non è ciò che la gente dice di solito.”
“E cosa dice la gente?”
“Fuori dai piedi.” Porta una mano al suo zigomo e se lo massaggia piano, dolcemente, uno sguardo triste in volto. Lo guardo e sento qualcosa. Qualcosa che non so spiegare. Non è… pena, è qualcosa di diverso, di più forte, di nuovo è… fiducia. Non posso non fidarmi di questo ragazzo. E’ la mia unica possibilità di sopravvivere e… e non ho scelta.
“So sparare.” confesso. “Mio padre aveva una pistola e mi ha insegnato ad usarla da piccolo. Ma ovviamente fra le armi dell’Arena non è presente una pistola, quindi…”
“Una balestra.” controbatte sveltamente lui. “Una balestra è quello che ci serve. Il meccanismo è pressoché identico, non avrai problemi con quella.”
Mi trovo a concordare con lui annuendo col capo. “Conosco un sacco di piante e i loro effetti.”
“Sempre ammesso che la locazione preveda una foresta, altrimenti non ci sarà di nessun aiuto.”
Incrocio le braccia, corrucciato per essere stato appena sminuito in questo modo. “So curare le ferite. E’ da quando ho tredici anni che studio sui tomi di medicina di mio nonno.”
“Questo è meglio. Nient’altro?”
“Sai, non sono una fabbrica di punti di forza, sono solo io. Tu invece?”
Mi sorride con fare enigmatico e si sporge in avanti, intrecciando le lunghe dita candide. “Ogni cosa a suo tempo, John.”
Io mi sporgo in avanti a mia volta, le nostre ginocchia che si sfiorano impercettibilmente. “Io ti ho detto i miei punti di forza, non è giusto che tu…”
Lui balza sulla poltrona come un felino e si allunga indietro, rischiando quasi di cadere. Quando ritorna seduto, in braccio stringe con fare paterno un oggetto dotato di un corpo di legno lucido, da cui si estende un lungo collo sormontato da diverse corde. Mi incanto nel contemplare tale bellezza. Sherlock lo accarezza con delicatezza e mi lancia sguardi divertiti. “E’ un violino.”
“Un cosa?”
“Un violino.” ripete, ma diversamente di come mi sarei potuto aspettare se fossi stato nel pieno delle mie facoltà e non imbambolato ad ammirare quell’aggeggio così bello, la sua voce non contiene tracce di saccenteria. E’ nostalgica, toccata da una punta di tristezza. “Ormai è da molto tempo che qui su Panem non se ne vedono in giro, specialmente nei distretti inferiori.”
Mentre ancora sta parlando, assume una posizione elegante, il mento poggiato sulla pancia di questo violino, la mano sinistra stretta attorno al collo e la destra intenta a sollevare un… non saprei come definirlo, alla cui presenza non avevo neanche fatto caso.
“Questo, invece, è un arco. E’ dotato di una corda fabbricata con crini di cavallo. A contatto con le corde del violino riesce a sprigionare dei suoni indescrivibili.”
Trattengo il fiato, torcendomi interiormente in questa sfibrante attesa che ha il sapore acre della sete. Sete di conoscenza. Voglio sentire quei suoni indescrivibili e per un attimo Sherlock sembra sul punto di cominciare a… tirar fuori quei suoni, ma dopo un po’ abbassa il violino e fa per lasciarlo nuovamente ricadere sulle gambe.
“Perché non…”
Mi mordo la lingua, trattenendo le parole a stento. Lui ha assunto un’espressione fragile e incommensurabilmente lontana. Sembra distante miglia e miglia, imprigionato in un universo sconosciuto.
“Ho smesso. Il violino… appartiene a un’altra vita, a un altro me. Non lo suonerò mai più… Mai.”
Vorrei chiedergli perché. Perché non suona più, perché tutto quello appartiene ad un’altra vita, ad un altro lui. Ma il suo volto è sprangato come un’inferriata. E non siamo arrivati ad un livello di conoscenza tale che mi autorizzi ad intromettermi nelle sue questioni private. E tra l’altro non m’interessa neanche instaurare chissà quale rapporto con lui. Alleati. Solo alleati.
“Comunque, su una cosa hai sbagliato.” confesso ridacchiando interiormente per la batosta che gli sto per dare. “Harry è il diminutivo di Harriet.”
“Tua… tua sorella?”
Lo vedo rabbuiarsi come un bambino capriccioso. Sorrido di fronte a quella visione così singolare: a quanto pare sono uno dei pochi ad essere riuscito a zittire Sherlock Holmes
“Perché non te ne torni a dormire? Domani sarà una lunga giornata.”
La sua voce interrompe il filo dei miei pensieri. Mi limito ad annuire e ad alzarmi. Domani sarà una lunga giornata… come dargli torto. Lo sarebbe stata anche quella dopo. E quella dopo ancora. Ma io sono John Watson. E la morte… la morte non mi fa paura.

SPAZIO AUTRICI
Hola Chicos! Tutto bene? La settimana, fortunatamente, è giunta al termine. Non ne potevo più!!! La scuola è snervante e stancante. Fortuna che un piccolo ritaglio di tempo riesco a trovarlo per scrivere. Non c'è molto da dire: spero vivamente che la lettura fin'ora vi sia piaciuta e che troviate interessante questa fusione tra i mondi di Sherlock e di Hunger Games. Idea malsana di una persona altrettanto malsana. Scusatemi, ma dovete prendermi così come sono. Ad ogni modo, mi auguro che possiate continuare a leggere questa fanfiction e che non mi tiriate troppi pomodori. Buon fine settimana e possa la fortuna essere sempre con voi!

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Capitolo 3
*** La Prova ***


CAPITOLO 3
La Prova
 
La sala è piena anche stamattina. A quanto pare ogni tributo non aspetta altro che pavoneggiarsi per le proprie abilità o strafare nella speranza di conseguire un qualche miglioramento in breve tempo. Lascio correre lo sguardo per la stanza, cercando la familiare figura di Sherlock. Molly è attaccata alla mia schiena e mi segue, persa come sempre, mentre passo in ricognizione ogni angolino in cui quel tipo potrebbe essersi rintanato a fare qualche stramberia.
Dopo una decina di minuti trascorsi a girare intorno come un idiota, esorto Molly a cominciare l’allenamento senza di me. Sebbene inizialmente si mostri un po’ riluttante, alla fine cede e si trascina mestamente verso un’area di sessione d’allenamento principianti. Mi guardo ancora un po’ intorno e incontro la figura altera di Sally Donovan, appoggiata a una parete, intenta ad osservare beffardamente una ragazzina del distretto sei. Mi avvicino a lei, seguendo una traiettoria indefinita, avanzando con circospezione.
“Dov’è Sherlock?”
Lei sposta i suoi occhi dal tributo sei a me e il suo sorriso ferino si accentua ancora di più. “Ma guardi chi si vede! Johnny Watson! No, non lo so dov’è lo strambo, né mi interessa.” Annuisco laconicamente, cercando di ignorare il modo in cui ha appena chiamato Sherlock, e faccio per andarmene, ma lei mi ferma. “Devi essere proprio disperato per allearti con lui.”
“Scusa?”
“Perché hai deciso di allearti con lui?”
“Trovo che sia una persona degna della mia stima e della mia fiducia.” rispondo di getto, senza neanche pensare.
Sally ridacchia appena, a labbra strette, infine si stacca dal muro e si avvicina a me con aria predatoria. “Che carino… Non è che per caso ti stai illudendo che lui ti consideri tuo amico?”
Stringo i pugni con rabbia, le unghie che affondano nella carne. Per un solo istante mi immagino queste stesse unghie bucare la carne di un qualche tributo, nell’arena. Magari proprio quella della Donovan, chissà… Ma scaccio quel pensiero con un breve sbuffo. “Non sono affari tuoi.”
“Potrebbero.”
“Non credo proprio.”
Lei incrocia le braccia al petto, divertita dal trasporto che sto utilizzando nel ribattere. Trasporto che, per inciso, non so da dove venga. Solo che… non la sopporto proprio. E’ una stronza. Un stronza che ce l’ha con Sherlock non so perché e non voglio neanche saperlo, ma che lo tratta come se fosse la feccia dell’umanità.
“Mettitelo bene in testa, Watson: non puoi essere suo amico. Lui non ha amici.”
Sto per replicare nuovamente, ma qualcosa mi blocca. So di non poter fare affidamento su di lui in eterno. So che questa… cosa che c’è fra noi, questa alleanza, non durerà per sempre. Anche se fossimo davvero, ma davvero bravi e riuscissimo a sopravvivere fino alla fine, uno di noi due sarebbe dunque costretto ad ammazzare l’altro. E so che lui non esiterebbe un istante a farlo. Lo percepisco dal ghiaccio racchiuso nelle sue iridi, dal veleno che trasuda dalle sue parole. Prima o poi accadrà: mi lascerà indietro all’occorrenza, mi volterà le spalle quando non gli servirò più, mi ucciderà nel momento in cui saremo rimasti solo io e lui. “Non voglio essere suo amico, voglio cercare di restare vivo.”
“Se è vero quello che dici, allora ti do un consiglio: stai alla larga da lui.”
“Perché?”
Lei abbandona le mani lungo i fianchi, il sorriso bianco che non accenna a svanire dalle sue labbra appena screpolate. “Sai perché è qui? Perché si è fatto volontario?” Apro la bocca, ma lei continua imperterrita, ignorandomi. “Perché gli piace. Ne va matto. Per lui tutto questo è eccitante. Rischia la vita per provare la sua intelligenza.”
“Perché dovrebbe farlo?”
“Perché è uno psicopatico.” risponde lei sbattendo le ciglia in una muta manifestazione del suo stupore di fronte ad una domanda apparentemente così stupida. “E… gli psicopatici si annoiano.”
“Sally!”
La voce di Philip Anderson ci interrompe e ci voltiamo all’unisono in direzione dei bersagli dove lo scorgiamo sbracciarsi agitatamente per attirare l’attenzione di lei. “Arrivo!” gli urla di rimando la Donovan dirigendosi spedita verso di lui. Si volta un’ultima volta verso di me e percorre gli ultimi metri camminando a gambero. “Scegli da che parte stare, Watson! Sei ancora in tempo per schierarti con le persone giuste!”
Resto immobile a riflettere sulle sue parole. Sherlock è uno psicopatico. Gli psicopatici si annoiano. Si è offerto volontario per provare la sua intelligenza. Però… io non ci riesco. Non riesco a credere che sia davvero un pazzo. Una persona dalla sua mente acuta non potrebbe mai essere un folle… Okay, esistono sicuramente individui del genere, ma non lui. D’accordo, ha ammesso molte volte di essere annoiato, e d’accordo, si è offerto volontario probabilmente perché vuole vincere con il suo ingegno, ma… l’unica cosa che mi viene pensando a lui è che… è un idiota. Un semplice idiota. Tanto brillante nelle sue deduzioni eppure tanto ignorante nel relazionarsi con le persone.
Una mano sulla spalla mi fa sussultare e mi volto di scatto, temendo quasi che chiunque vi sia dietro di me possa saltarmi alla gola. Ma di fronte a me trovo solo la figura di un ragazzo dall’aria buffa per i suoi grandi occhi a palla e il suo viso smunto e allungato. Se non erro… dovrebbe trattarsi di Bill Wiggins, distretto nove. “Prima regola.” mi sibila prendendomi improvvisamente la mano e aprendola nella sua prima di depositarci qualcosa e chiudere le mie dita in un pugno. “Mai cercare Sherlock Holmes, è lui che trova te.”
Detto questo, sgattaiola via, silenzioso come è arrivato. Mi tiro in disparte e, assicuratomi che non vi siano occhi indiscreti ad osservare, apro il pugno, scoprendo un bigliettino.
 
Miei alloggi, ora. Potrebbe essere pericoloso. SH
 
Sono completamente spiazzato. C’era davvero bisogno di essere così teatrali? Il postino, il messaggio, la firma! Okay, non posso negare che sia un tipo singolare. Molto singolare. Corro verso Molly e la avviso della mia momentanea assenza. Notizia a cui lei risponde con un sospiro rassegnato. Mi sento in colpa a lasciarla sola, ma… Non ho alternative. E’ anche per lei che devo cercare di non strangolare questo Sherlock Holmes prima che comincino i Giochi. Se mai ci fosse la possibilità di poter salvare Molly, allora non esiterei a fare di tutto perché torni a casa. Le deposito un fugace bacio sulla fronte e infine corro fuori dalla sala.
 
***
 
 
“Si può sapere perché diavolo non sei agli allenamenti?” sbotto entrando brutalmente nella suite, scansando Sherlock con una spallata.
“Ho di meglio da…”
“Cristo, Sherlock! Se non ti alleni mi spieghi come diavolo pensi di restare vivo?”
Lui fa roteare gli occhi, ma non mi pare annoiato. Sembra quasi divertito. “Ascolta, John, mi sono allenato sin da piccolo. So come spremere la vita via da una persona in quarantotto modi diversi. Adesso c’è un problema che mi sta più a cuore del semplice fare un po’ di attività fisica per smaltire tutto quello con cui ci imbottiscono la pancia.”
Mi passo una mano sul volto, cercando di ghermire il mio nervosismo e allontanarlo. “Sarebbe?”
“C’è un’alleanza contro di me – quindi contro di noi –.” mi spiega afferrando una soffice sciarpa blu e avvolgendosela attorno al collo candido.
“Chi?”
“Donovan, Anderson, Adler e Moriarty.”
Al suono di quell’ultimo nome, spalanco gli occhi. “Moriarty?” domando. “I Favoriti con uno del Dodici?”
Lo sguardo di Sherlock si adombra, una ruga d’espressione che gli solca la fronte. “Te l’ho detto di non fidarti di lui. C’è qualcosa che… che mi lascia inquieto. E adesso abbiamo appena avuto la nostra prova.” Cala un greve silenzio, durante il quale cerco di carpire un suo possibile pensiero, senza successo. Dovrebbero inventare un qualche aggeggio per la telepatia. “Ad ogni modo, dobbiamo sbrigarci. Abbiamo un’infrazione da compiere e abbiamo un’ora a disposizione.”
“Una che?”
“Un’infrazione.” ribadisce lui prendendomi per le spalle da dietro e trascinandomi fino alla porta. “Gli alloggi di James Moriarty ci aspettano. Stando a quanto dice Billy Wiggins – ah, a proposito, lui è dei nostri – il caro Jim dovrebbe tenere il prospetto della loro tattica nella sua suite.”
“Aspetta, aspetta, aspetta… Cosa?? Vuoi davvero intrufolarti nelle stanze di un altro tributo?! Se ci beccassero finiremmo in guai seri!”
“Appunto, se ci beccano, cosa che non accadrà. Ho calcolato tutto, John: a quest’ora la servitù si sta prendendo una piccola pausa. La signora Hudson, l’unica domestica che qui dentro non è una completa idiota, ha organizzato un piccolo party in modo da tenere tutti occupati per un po’. I tributi sono ad allenarsi... Abbiamo campo libero, John!”
Io sbuffo sonoramente mentre pianto i piedi a terra e incrocio le braccia, mostrando tutta la mia disapprovazione. Scruto la sua espressione palesemente rilassata.
Perché gli piace. Ne va matto. Per lui tutto questo è eccitante. Rischia la vita per provare la sua intelligenza.
“A che pensi?” mi chiede improvvisamente Sherlock piegando la testa di lato per osservarmi meglio.
“Alla Donovan.”
“Cosa ti preoccupa?”
Lancio un’occhiata in giro accertandomi che non ci sia nessun occhio iniettato di sangue acquattato nell’ombra, pronto ad incenerirci con un solo sguardo. “Ha detto… ha detto che ti piace, che ne vai matto. Che rischi la tua vita per mostrare a tutti che sei intelligente.”
Lui accenna un sorriso. “E io ho detto pericoloso… ed eccoti qua.”
E per Sherlock Holmes la conversazione è conclusa. Si volta con una mezza piroetta, facendo librare i lembi della sua elegante camicia nera. Guardo la sua figura allampanata allontanarsi con un’andatura maestosamente solenne. Fa uno strano effetto avere intorno un tipo così particolare. Davvero… davvero strano.
“Dannazione.”
 
***
 
Come previsto, non incontriamo nessuno né per i corridoi né di fronte le stanze dei tributi. Dopo una manciata di minuti trascorsa a perlustrare l’imponente palazzo di Capital City, troviamo la nostra meta. Sulla porta che conduce agli alloggi del distretto dodici è rappresentato lo stemma con i picconi e le rotaie. Restiamo immobili alcuni istanti, io indeciso sul da fare, Sherlock con uno sguardo enigmatico sul viso. Infine, dalla tasca dei pantaloni, estrae un piccolo marchingegno dall’aspetto indescrivibile. Prende a tastare la parete come farebbe un uccello con il suolo, in cerca di un punto favorevole per immergere il becco. Dopo alcuni secondi, sembra aver trovato la posizione favorevole e preme l’aggeggio contro il muro. L’apparecchio si anima improvvisamente: dal suo corpicino metallico dalla forma sferica, fuoriescono alcune zampe avvolte da fili gialli e verdi, rendendo il tutto somigliante ad un ragno. La spia al centro del corpo da rossa che era, diventa di un blu profondo e rassicurante, un colore che suscita in Sherlock un sorriso compiaciuto.
“Via libera.” esclama infatti. Preme una tessera sulla serratura elettronica che si apre con uno scatto.
“Come hai… Lascia stare.” Non appena le porte si spalancano, Sherlock fa per fiondarsi dentro la suite, ma io gli afferro un braccio e lo attraggo vicino a me, in modo che i nostri visi siano vicini. Assumo l’aria più decisa che riesco a tirar fuori. “Sei sicuro?”
“Sì.”
“Al cento per cento?”
“Non sei costretto a venire se non vuoi. Puoi anche restare a fare il…”
Non gli lascio il tempo di finire che sono già dentro. Veloce. Non vedo l’ora di uscire da qui… Anche se questa sensazione… Cos’è questa sensazione? Questo eccitamento che provo, questo battito forsennato del cuore? Andare contro le regole, commettere un’infrazione… mi fa sentire sovraeccitato. Vivo. Con la coda dell’occhio scorgo Sherlock frugare con quanta più cura possibile in una pila di fogli e fogliacci sparsi di fronte ad un divano.
“Cosa stiamo cercando esattamente?”
“Non lo so con esattezza. Billy ha detto di aver sentito Irene Adler parlare con Sally riguardo un qualche piano che Moriarty terrebbe segreto qui.”
“Perfetto. Sarà una vera passeggiata.” osservo con un sospiro prima di mettermi a mia volta a cercare.
Non so quanto tempo sia passato da quando siamo entrati prima di udire Sherlock urlare di gioia. Accorro nella stanza da cui proveniva la sua voce e lo trovo accovacciato ai piedi dell’imponente letto che occupa circa metà stanza, lasciando uno spazio esiguo per un armadio e un paio di poltrone. Mi sporgo quel tanto che basta per osservare meglio quello che ha trovato: in mano, sta stringendo un taccuino su cui sono appuntati frettolosamente vari scarabocchi a malapena leggibili.
“Che cos’è?”
“Sul serio, John, sei così ottuso?”
Arrossisco violentemente e mi trovo a balbettare. “Lo so che cos’è, ovviamente! Nel senso, che cosa c’è scritto?”
“Anche quest’ultima domanda è la prova del fatto che la tua mente abbia le dimensioni di un corpuscolo di polvere. Secondo te? Mi sembra ovvio che ci sia scritto quello che stiamo cercando!”
“Un’altra parola, Sherlock, e non avrai bisogno di scendere nell’Arena per morire.” sibilo chiudendo i pugni e girandogli intorno per portarmi di fronte a lui. “Allora, illustrami questi progetti.”
Lui apre le labbra, sul punto di spiegarsi, ma un rumore nell’altra stanza fa sobbalzare entrambi.
“… ci scusi per il disordine, signorino, ma credevamo rincasasse più tardi…” pigola la voce di un uomo, seguita da passi affrettati.
Io rimango completamente paralizzato sul posto. Merda. Ci hanno scoperti… Cioè, non ancora, ma presto ci scopriranno… Merda. Sherlock, di fronte a me, scatta verso la sua sinistra imbucandosi rapido nell’armadio.
“Muoviti!” sputa in un sussurro, mentre la sua mano mi esorta di seguirlo. Io sbatto confusamente le palpebre e infine riesco ad imporre al mio corpo di entrare nel guardaroba. Scivolo con meno eleganza di Sherlock all’interno dell’angusto spazio, crollando sgraziatamente contro di lui. “Dobbiamo lavorare sull’agilità.” osserva lui scivolando indietro per lasciarmi un minimo di spazio in più, ma questo armadio è così dannatamente piccolo! Cerco di assumere una posizione dignitosa, che non prevede l’essere schiacciato contro le gambe di Sherlock, ma la mano scivola a contatto con la superficie legnosa levigate e stavolta è il mio intero corpo a precipitare contro il suo. “Dobbiamo decisamente lavorare sull’agilità.”
“N-non è colpa mia. E’ questo cazzo di armadio che è…”
“Vuoi chiudere quella bocca o devo pensarci io?”
Taccio immediatamente e abbasso lo sguardo, cercando di sfuggire al suo per paura che riesca a notare il rossore che mi infiamma le gote. Non credo intendesse… insomma, non poteva intendere di chiudermi la bocca con… Scuoto appena la testa, per cancellare quel possibile scenario da davanti agli occhi. Dei passi nella stanza mi aiutano a ritornare lucido. Trattengo il respiro e mi volto appena, rendendomi conto della presenza di uno spiraglio appena sufficiente per vedere quello che sta accadendo nella camera da letto. Mi sporgo lentamente per poter lasciare al mio occhio la possibilità di osservare la scena, ma Sherlock mi trattiene per un braccio. Il contatto così brusco con lui mi sconvolge, non ho idea del perché, però mi affretto a sfilare via il braccio e torno a concentrarmi sulla figura di James Moriarty intento a chinarsi per recuperare il suo taccuino. Vedo il suo volto contrarsi appena nello sforzo di concentrarsi, poi i suoi occhi si levano improvvisamente verso di noi. Il mio cuore quasi esplode nel mio petto. Mi tiro indietro rapidamente, accoccolandomi il più possibile contro Sherlock, cercando di nascondermi e di nasconderlo al tempo stesso. Odo i passi di Jim avvicinarsi pericolosamente, rintoccare come gli scocchi di un orologio che scandiscono gli ultimi istanti di vita di un povero cristiano. Serro una mano contro la camicia scura di Sherlock. Sotto le mie dita non avverto il battito cardiaco accelerato come sarebbe normale in una circostanza del genere. Il suo cuore è vibrante ma al tempo stesso saldo nel suo incedere regolare. Mi chiedo come faccia ad essere così calmo, quando siamo ad un passo dall’essere scoperti e in questa situazione imbarazzante, con me schiacciato contro di lui. Il mio respiro si fa più leggermente più pesante, l’aria più rarefatta. No… non adesso… Una stretta alle spalle mi fa sobbalzare: le dita di Sherlock hanno cominciato a muoversi delicatamente lungo la mia schiena, affondando nella mia pelle con movimenti concentrici e regolari.
“Ssssh… Calmati. Va tutto bene.”
 Chiudo gli occhi, cercando di contenere il senso di nausea e il respiro troppo forte che mi stanno attanagliando, e abbandono la testa all’indietro, incontrando il suo petto magro.
“Pensa al tuo distretto, John.” mi sussurra ancora nell’orecchio, poggiando il mento sulla mia spalla, senza smettere di massaggiarmi la schiena. “Pensa agli alberi, alla libertà… Lasciati tutto questo alle spalle.”
Annuisco un paio di volte, deglutendo forzatamente. Non so che cosa stia aspettando James Moriarty per aprire le ante dell’armadio, non so neanche perché obbedisco alle parole di Sherlock Holmes. Mi lascio trasportare dal suo sussurro appena percettibile, così dolce e struggente, dal suo fiato caldo, così rassicurante e sicuro. Mi lascio trasportare nel mio distretto. Sopra di me, ragnatele di fronde e spicchi di cielo limpido, attorno a me falegnamerie, fabbriche, volti amici. Scorgo Mike Stamford con la sua fidanzata, vedo Jenny riconcorrere un vecchio pallone assieme a Tom e Jeremy, vedo Lizzie scoppiare a ridere alla battuta di un tizio sconosciuto, e vedo mia madre. L’ombra di mia madre. Nella mia mente non è cambiata, ma… so che non è lei, so che non è più così, so che avere un figlio negli Hunger Games non ti lascia indenne. Ma io la vedo ugualmente. Lei mi sorride. Poi qualcosa mi prende la mano e me la stringe forte, improvvisamente. Mi volto velocemente, ma non sono atterrito, solo sorpreso. Faccio in tempo a scorgere un breve sorriso, un paio di iridi dal colore indefinito, prima che la voce di Sherlock mi riporti alla realtà. Riapro gli occhi di scatto e lo sento scivolare via da sotto il mio corpo. Lo intravedo sgattaiolare fuori dall’armadio e guardarsi intorno per poi calciare il pavimento con un ringhio di stizza.
“Cosa… D-dov’è Moriarty?”
“Se n’è andato.” risponde Sherlock ficcandosi le mani nei jeans e dirigendosi velocemente verso la zona giorno degli alloggi del distretto dodici.
“Credevo che ci avrebbe trovati.” mormoro uscendo a mia volta, lentamente, dall’armadio.
“Ci ha trovati, infatti, ma ha scelto di non trovarci.”
Mi appoggio alla parete e lo seguo nella stanza attigua, ora vuota e silenziosa. “Che cosa è successo? I-io… non…”
“Ricordi?” mi anticipa lui. “Il mio tentativo di calmare l’attacco di panico si è rivelato micidialmente soporifero.”
Avverto le mie gote colorarsi di un tremendo rosso porpora. “Non posso essermi addormentato! Non è semplicemente possibile!”
“E’ normale: stanotte avrai dormito circa due ore a giudicare dal pallore e dalle occhiaie di stamattina, e l’attacco di panico, misto all’adrenalina e al mio metodo di rilassamento, deve essere stato il colpo di grazia.” osserva semplicemente lui con un scrollata mentre il suo dispositivo controlla se la via è libera. “Avrai sonnecchiato al massimo cinque minuti, non preoccuparti.”
Il suo aggeggio si illumina di blu e Sherlock se lo rinfila in tasca con uno sbuffo. “Il taccuino?” domando mentre lo seguo ancora intontito attraverso il dedalo di corridoi.
“Il taccuino se l’è ripreso Moriarty.”
 
***
 
Molly mi stringe la mano, intreccia le sue dita sudate con le mie gelide. Oggi è il giorno in cui dovremo esibire i nostri talenti di fronte agli Strateghi e non ho nulla in mente. Niente di niente. Nelle ultime settimane mi sono esercitato con tutto me stesso, pretendendo dal mio corpo il massimo, impugnando qualunque tipo di arma e cercando di prendere confidenza con essa. Ho affrontato qualunque sessione di addestramento, mi sono coricato con i muscoli doloranti, ho studiato le migliori tecniche di sopravvivenza adottate finora dai tributi, ma… non sono pronto. Non lo sarò mai. Domani saremo nell’Arena, domani potremmo morire, ma… ha davvero importanza?
I Pacificatori aprono le ultime porte con le loro tessere identificative e ci lasciano, abbandonando la stanza con la stessa imperturbabilità con cui sono arrivati. Le varie sedie sono occupate dai vari tributi, la maggior parte dei quali è in silenzio, con gli occhi chiusi, le mani giunte, la fronte corrugata nello sforzo di ricercare una qualche concentrazione.
“Ciao.” mormora Bill Wiggins avvicinandosi timidamente a Molly. In questi ultimi giorni ho notato che si è instaurato un rapporto speciale fra di loro, così speciale da renderli quasi inseparabili.
“Ciao, Billy.” ricambia Molly accendendosi in un sorriso. Le mie dita lasciano andare la sua mano nel momento in cui entrambi si avviano in direzione di un paio di sedie libere, intenti a parlottare con due stupidi sorrisi in volto.
So che non dovrei, ma… non riesco a fare a meno di provare un moto di tenerezza nei loro confronti. Gli sguardi languidi che lui le scocca di tanto in tanto, i dolci sospiri che ogni tanto animano lei, il loro lento sfiorarsi giustificato come un tocco casuale… No. Non possono lasciarsi andare. Non ora, merda. Non ora che mancano appena venti ore all’inizio dei Giochi. Farà male. Farà molto male. Si dovranno dire addio, prima o poi. Sherlock mi ha raccontato la storia di Bill: la sua famiglia è molto povera e vive in condizioni scabrose, così misere che la mancanza di igiene e di prevenzione ha causato una grave epidemia in tutto il suo distretto. E Bill… Bill non è stato risparmiato. Incurabile. Morire nell’Arena non sarà certo più doloroso che lasciarsi corrodere da un morbo implacabile. Giusto?
Sherlock! esclamo dentro di me. Mi volto, lo cerco, lo trovo. Se ne sta seduto in disparte, con la sua solita espressione insofferente dipinta in volto, le braccia incrociate e le gambe accavallate. Mi dirigo silenziosamente verso di lui, prendendo posto sulla sedia accanto alla sua. Lui non parla, né mostra di avermi sentito arrivare: se ne sta immobile, statuario, gli occhi volti all’infinito. Ho imparato a conoscere bene questa sua condizione. Dice di possedere un… Palazzo Mentale, una struttura che si è costruito in testa per catalogare ogni genere di informazioni affinché non perda alcun ricordo importante. E quando entra nel suo Palazzo Mentale, si può star certi che non ne uscirà per un bel po’, né che ti darà retta.
“Agitato?” chiedo scioccamente, già consapevole che non riceverò alcuna risposta.
“No.” mi risponde lui contro ogni aspettativa. “E tu?”
“No, no…”
Osservo da lontano Molly mentre poggia la testa contro la spalla di Bill, senza smettere di parlare di chissà cosa, di chissà chi. Assisto con un sorriso amaro sulle labbra. Sanno essere crudeli i sentimenti e l’amore più di tutti. Non è giusto che debbano tenersi separati. Non è giusto che debbano contenere i loro sentimenti. Tutto solo per uno stupido gioco. Divorato da tutte queste riflessioni prendo a far rimbalzare nervosamente la punta del piede a terra. Cerco di immaginarmi in una situazione simile alla loro: innamorato di qualcuno, qualcuno che potrei essere costretto a vedere morire, qualcuno che potrei dover lasciar indietro, qualcuno che si prenda strenuamente cura di me anche se non c’è speranza, qualcuno che scelga di salvarmi piuttosto che salvarsi. E di nuovo, penso che non è giusto.
Sussulto e mi volto di scatto. La mano di Sherlock è poggiata sulla mia coscia, le dita affusolate a pochi centimetri dal mio ginocchio. Una strana sensazione mi investe, di disagio, di stupore, di imbarazzo, ma non allontano quella mano. Non so perché non mi sposto, perché sto immobile. Sherlock mi fissa con sicurezza. “E’ inutile preoccuparsi tanto.”
“Lo so… So che i Giochi cominciano domani, ma oggi è comunque un…”
“Non mi riferivo agli Hunger Games, John.” mi ferma lui scuotendo la testa, fintamente esasperato. Seguo il suo sguardo che corre verso Bill e Molly, le loro mani ora unite. Sherlock allontana la sua dalla mia gamba e mi pare quasi che si venga a creare un vuoto, una mancanza, ma scaccio subito questa percezione. “Ecco perché ogni genere di emozioni mi disgusta. Sono come polvere in uno strumento delicato, l’incrinatura sulla lente…”
“Ma ti senti?” esclamo improvvisamente scoppiando a ridere. “Parli quasi come mio nonno.”
Lui sbatte ripetutamente le palpebre, infine volta il capo stizzito, accompagnando platealmente il gesto con uno sbuffo annoiato.
“Sherlock?” lo chiamo soffocando un’altra risata. “Sherlock, ci sei?”
Mi alzo dalla sedia sorridendo e mi chino di fronte a lui. “Dai, Sherlock, non scappare nel tuo Palazzo Mentale.” Come vedo che si ostina a mantenere lo sguardo il più lontano possibile da me, lascio che la mia mano si muova sulla sua gamba e sulla coscia gli lascio un pizzicotto che lo fa saltare sul posto.
“Cazzo, John!” sibila cercando di contenere il ruggito di un leone offeso. Ma io non riesco a trattenermi dal sogghignare.
“Soffri il solletico, sul serio? Questo è un punto a tuo svantaggio per l’Arena.”
“Ma vuoi stare…” Sobbalza di nuovo, stavolta scivolando sulla sedia accanto alla sua, dove prima c’ero io, colto da un nuovo pizzicotto. “Per l’amor di dio, la smetti?”
Mi prende entrambi i polsi, un sorrisetto sulle labbra mentre cerca di tenermi fermo. E’ incredibile come possiamo fare certe cose in un momento del genere, ma la verità è che con Sherlock è tutto un grandissimo paradosso e niente è ciò che sembra essere. Si ferma di colpo, il volto serio. Serissimo. Il suo naso che sfiora il mio. E’ vicino. Pericolosamente vicino. Deglutisco a forza e quando sento una voce metallica femminile gracchiare il nome di Anderson mi scosto un po’ indietro, senza riuscire ad interrompere il contatto visivo con Sherlock.
“E dopo la Billolly, il secondo posto nella categoria delle coppie più belle degli Hunger Games è occupato dalla… Johnlock.”
Mi riscuoto improvvisamente, le dita di Sherlock che assomigliano a tizzoni ardenti sulla mia pelle. Mi stacco precipitosamente, il cuore a mille, e mi volto in direzione di Anderson, fermo sulla porta con un sorriso beffardo. Non faccio in tempo a ribattere che lui è già sparito. Respiro profondamente, evitando accuratamente lo sguardo di Sherlock. Cos’è? Cos’è questa morsa allo stomaco?
Abbozzo un’occhiata verso Sherlock ma lui tiene lo sguardo fisso su Molly e Bill che ora si sono separati, rossi in viso e si danno reciprocamente le spalle. E’ incredibile quanto assomiglino a noi due, in questo momento. Insomma, è tutto completamente diverso perché quello di Anderson è stato un puro fraintendimento, certo, però non riesco a fare a meno di pensare che… che cosa? Non lo so neanche io. La voce metallica annuncia il nome di Irene Adler che si alza e avanza maestosa e bellissima come sempre verso la sala delle Prove. Dopo alcuni minuti, l’altoparlante gracchia Sherlock Holmes e lui si alza, scuro in volto, occhi fermi, occhi sicuri. Vorrei avercelo io un briciolo della sua convinzione. Sherlock avanza, oltrepassandomi senza degnarmi di alcuno sguardo, cosa che mi fa stringere i pugni e il cuore al tempo stesso. Faccio quasi per sbottargli qualcosa dietro, quando lui volta appena la testa, le iridi chiare nelle mie profonde. “Buona fortuna.” mormora e sparisce, non dandomi tempo per contraccambiare. Quel maledetto Sherlock Holmes… spero che imparerà a comunicare un pochino di più, se non altro con me, altrimenti, nell’Arena, saranno completamente inutili tutte le armi, le tattiche e le abilità del mondo.
Non so quanto sia passato, prima di sentire il mio nome rimbombare in una stanza ormai vuota di sei persone. Mi alzo come in trance, sorridendo debolmente a Molly in segno di incoraggiamento per il suo turno e sparisco come sono spariti tutti i tributi prima di me.
 
***
 
Gli Strateghi sono completamente impegnati a fare altro. Parlottano fra di loro, mangiano, bevono, ma non fanno caso a me, ritto come un idiota, con in mano una balestra e un paio di bersagli di fronte. Stringo più saldamente la presa sul manico dell’arma.
“John Hemish Watson, dal distretto sette!” esordisco con voce piatta ma dal tono abbastanza alto per farmi sentire. Gli Strateghi sobbalzano e si volgono all’unisono – oserei dire finalmente – verso di me. Dopo una rapida occhiata di sbieco, mi dirigo verso un punto abbastanza comodo per tirare, ma non esageratamente vicino per non impressionare. Incocco il dardo, freddissimo, scuro, misterioso. Lo accarezzo quasi e, per qualche strano gioco della mente, mi ritrovo a pensare a Sherlock, così simile a questa freccia nera. La mano mi trema visibilmente, tento di scacciare il pensiero e tornare a concentrarmi, ma quelle iridi mi tradiscono. Le dita allentano improvvisamente la presa, liberando il trepidante dardo che schizza verso i bersagli, mancando completamente il centro. Una risatina generale mi fischia nelle orecchie, umiliandomi, e di nuovo si diffonde un parlottio generale tra i miei esaminatori. Digrigno la mascella e recupero una seconda freccia, sbrigandomi ad incoccarla: se pensano che mi arrenda così, beh, si sbagliano di grosso.
Non sbagliare, John.
Stavolta, le dita lasciano il dardo nel momento giusto, verso la direzione giusta, con la traiettoria giusta. Questo vola, sferza l’aria piatta della stanza, e si conficca al centro del bersaglio più nascosto e infido. Mi ritrovo a sorridere e a voltarmi soddisfatto verso i giudici, ma quelli non prestano attenzione a me. Il Primo Stratega, Culverton Smith, è intento ad osservare un immenso piatto d’argento imbandito con un maialino arrosto con una gigantesca mela rosso sangue in bocca.
“Ehi!” chiamo indurendo lo sguardo, ma loro continuano ad ignorarmi – non so se deliberatamente o se inconsapevolmente –. “Ah, è così?” biascico con rabbia, incoccando per la terza volta una freccia, l’ultima. Non ci sto neanche troppo a pensare: lascio che l’istinto, la rabbia verso il Governo, la ripugnanza nei confronti di tutto questo fluiscano e guidino il mio dardo. Accade tutto velocemente: la punta si conficca perfettamente al centro della mela scarlatta e la potenza e la velocità accumulate sbalzano via il frutto che si infrange contro la parete alle spalle degli Strateghi, i quali si animano improvvisamente. Gli occhi sbigottiti di tutti si puntano di me e mi fissano alcuni con rispetto, altri con ammirazione, altri ancora con sdegno. Avrà delle conseguenze questa mia esibizione, ma non m’importa: domani potrei morire e loro devono sapere che non sarò mai, mai un loro burattino.
“Grazie per la vostra… considerazione.” sputo con un cenno del capo, prima di lanciare la balestra d’allentamento su un tavolino e defilarmi.
 
***
 
La notte è incredibilmente silenziosa. Così silenziosa che mi infonde una sinistra inquietudine al centro del petto. Mancano poche ore… poche ore… Arena, Hunger Games, scontro, morte… Ma la morte è solo una destinazione comune per tutti gli esseri umani, quindi perché temerla? Mi rigiro nel letto, la fronte imperlata dal sudore: dovrei dormire. L’ultimo vero sonno prima di quello eterno che mi attende. Ma la mia mente è imbastita di tattiche, preoccupazioni, ricordi, stupidi pensieri… Vorrei poter essere più leggero, vorrei che il mio petto non fosse così greve di oscure paure. Vorrei solo dormire per poche ore, prima dell’inizio della fine. Provo per l’ennesima volta a chiudere gli occhi, quando un battito alla porta mi fa sobbalzare. Mi alzo di scatto e cammino in punta di piedi verso l’ingresso alla mia camera. Apro la porta e, senza nemmeno fare in tempo ad accorgermi di quello che sta succedendo, mi ritrovo accanto Sherlock.
“Sherlock, ma che diavolo…”
“Sshh!” sibila lui portandomi il palmo della mano sulla bocca. Un calore avvampante mi avvolge e m’irrigidisco completamente, gli occhi sperduti, e ringrazio il cielo che l’oscurità regni attorno a noi.
Le mie dita si stringono attorno al suo polso e lo scanso con delicatezza. “Mi spieghi che ci fai qui?”
Sono sicuro che abbia appena scrollato le spalle. “Così… mi andava e poi ho pensato che non riuscissi a dormire.”
“No, infatti, ma ancora mi sfugge la ragione della tua presenza qui.” osservo, non riuscendo a contenere la mente che vola ad uno scenario completamente surreale e pietoso. Ma… da quando mi ritrovo a fare certi pensieri su dei ragazzi??? Lui appoggia qualcosa sul mio letto e alle mie orecchie giunge il suono di una cerniera. “S-Sherlock? Che stai facendo?”
Lui si volta verso di me e si avvicina, mandandomi in completa confusione. “Sdraiati.”
“M-ma che vuol dire, Sherlock?” replico balbettando e indietreggiando appena.
“Sdraiati. Mi sembra un concetto elementare persino per te.”
Quando vede che ancora non mi muovo, mi prende per le spalle e mi trascina in direzione del letto. Io mi dimeno debolmente, non completamente cosciente né di quello che sta succedendo né di quello che… voglio? Mi spinge sul materasso soffice, ma invece di fare qualsiasi cosa avevo pensato avrebbe potuto fare, si allontana e si dirige verso quel qualcosa con cui è entrato. Vedo la sua siluette muoversi per la stanza con regalità ed estrarre un oggetto che riconosco subito come il suo violino.
“Sherlock… perché hai portato il violino?”
“Ho pensato avrebbe potuto aiutarti a dormire.”
“Oh.” mormoro solo contemplandolo mentre si posiziona come una statua di fronte a me, il violino sotto il mento e l’arco appena poggiato sulle corde. “Non ti facevo così…”
“Così come?”
“Sentimentale.”
Lui sputa un verso stizzito e spocchioso. “Ho capito. Me ne vado.” conclude voltandosi e facendo per andarsene lasciando la custodia dello strumento qui.
“No!” rispondo con slancio rialzandomi a sedere di scatto e afferrando il tessuto della sua maglia. Cristo, John… in che razza di guaio ti sei cacciato? “Resta.” riesco solo a sussurrare, vinto dall’imbarazzo.
Sherlock non risponde. La sua mano prende la mia, con l’intenzione di scansarla, penso, invece il suo pollice compie un leggero movimento circolare sul dorso. Non diciamo nulla per non so quanto tempo, infine lui si stacca, il violino in braccio e… un dolce suono invade la stanza. Non ho mai sentito niente di più bello in tutta la mia vita. Chiudo gli occhi mentre alla musica si mescola un okay appena bisbigliato, ma sufficiente per far germogliare un sorriso beato sulle mie labbra. Non so che cosa mi stia succedendo… In queste settimane mi sono sempre sentito così strano in presenza di Sherlock: inizialmente tolleravo a malapena la sua presenza, poi ho imparato a vederlo come un potenziale buon alleato, in seguito ho capito di considerarlo come un amico, e ora… ora mi ritrovo a chiedermi che cosa sia questa paura che mi attanaglia le viscere. Non ho mai avuto paura di morire… invece ora non ho solo paura di morire, ma il pensiero che davvero mi spaventa è che…
La dolce melodia del violino mi culla, trascinandomi in un dolce e torbido oblio. Uno sbadiglio tradisce tutta la stanchezza e lo stress accumulati in questi quindici giorni. E’ bello lasciarsi andare, è bello poter chiudere gli occhi, è bello poter dormire, perché… perché so che quando mi sveglierò Sherlock sarà accanto a me. Ancora.

SPAZIO AUTRICE
Ciao a tutti! Scusate se non sono riuscita a pubblicare la settimana scorsa ma ho avuto parecchi contrattempi, perciò sono riuscita a mettere mano al computer solo questa settimana. Spero che possiate perdonarmi e che questo capitolo vi piaccia. Detto questo, ringrazio per le vostre belle recensioni e mi auguro che possiate continuare a farmi compagnia e a spronarmi per continuare. Grazie a tutti e buon fine settimana!

 

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