Veterani a raccolta

di Ellery
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** La scelta di Hanji ***
Capitolo 2: *** Il tramonto di Isabel ***
Capitolo 3: *** Il futuro di Levi ***
Capitolo 4: *** L'amico di Erwin ***
Capitolo 5: *** La casa di Mike e Nanaba ***
Capitolo 6: *** La morte e il bambino ***
Capitolo 7: *** Rientro a Trost ***
Capitolo 8: *** Una lettera ***
Capitolo 9: *** Un goccio di te ***
Capitolo 10: *** Letture leggere ***
Capitolo 11: *** Amici ormai lontani ***



Capitolo 1
*** La scelta di Hanji ***


1. La scelta di Hanji


* Cowt8, week 3
* Parole: 1733
* Personaggi coinvolti: Hanji, Moblit


Hanji versò il contenuto della provetta in  un matraccio, diluendolo poi con acqua fredda fino a portarlo a volume. Avrebbe usato quella miscela più avanti, come additivo per la conservazione della carne titana. Non era ancora riuscita a salvarne qualche pezzettino. Il problema dei giganti era il rapido evaporare, una volta tranciata la nuca. Non rimanevano mai molte parti da raccattare e da studiare, salvo forse alcune componenti dello scheletro. Le ossa, in effetti, ci mettevano di più a degradarsi.

Sbuffò piano, controllando l’orologio appeso al muro. Secondo il vecchio cucù, mancavano alcuni minuti allo scoccare della mezzanotte. Avrebbe dovuto chiudere il laboratorio ed andare a coricarsi, ma quella ricerca era così importante che l’idea di portarla a termine la stuzzicava troppo. Avrebbe ricevuto, senza dubbio, nuovi finanziamenti se fosse riuscita a trovare un metodo per preservare il corpo dei giganti uccisi. Sarebbe stato un enorme passo avanti per la scienza!

Accese nuovamente il distillatore, modulando la fiamma per far bollire un altro po’ di liquido. Forse poteva ricavare ancora un paio di fialette del concentrato e lasciarle a riposare qualche ora, prima di passare alle diluizioni successive. Avvicinò il viso alla fornelletto, osservando il bagliore azzurro intenso. Perfetto per l’esperimento che si apprestava a condurre.

Sedette sullo sgabello alle proprie spalle, recuperando una pergamena. Doveva assolutamente appuntare quegli ultimi dati, prima di dimenticarsene. Cercò lesta il calamaio e la penna d’oca, intingendone il beccuccio nell’inchiostro.

Non aveva vergato che un paio di parole, quando colse l’insistente bussare:
«Caposquadra. Siete ancora lì?»

La familiare voce di Moblit la raggiunse. Accantonò il foglio, volgendosi verso l’ingresso e snocciolando un:
«è aperto, vieni pure.» gli indicò una seggiola malmessa, le cui gambe erano rinforzate da bastoncini e corda ruvida «Accomodati.» disse, spiando poi il vassoio che il giovane portava con sé «Mh… mi hai portato la cena?»

«Sì. Non vi ho visto in mesa e così ho pensato che…»

Non lo lasciò terminare. Batté le mani, piegando le labbra in un sorriso soddisfatto:
«Moblit! È stato un pensiero gentile da parte tua. In effetti, è da sta mattina che non metto niente sotto ai denti. Sai com’è… mi ero persa a stilare i dati di quest’ ultima prova e…» agguantò un tozzo di pane, sbocconcellandolo tra i denti «Sono certa che i risultati saranno positivi, questa volta.» terminò, mentre Moblit prendeva posto accanto a lei.

«Posso chiedervi una cosa, caposquadra?»

«Tutto ciò che vuoi! Domandare non costa nulla.»

«Perché siete entrata nella Legione Esplorativa e… come siete diventata una scienziata?»

Non si aspettava, in effetti, quel quesito. Sperava fosse qualcosa inerente agli esperimenti e non riguardante la sua vita privata, ma… che male c’era a parlarne?

«Mh, è una storia lunga. Non troppo lunga, ma… un pochetto. Sicuro di volerla ascoltare?»

«Sicurissimo, caposquadra.»

«Bene.» Hanji accantonò la cena, concedendosi soltanto un piccolo sorso d’acqua, prima di iniziare il racconto.
 

***
 

La sua infanzia non era stata affatto semplice. A conti fatti, Hanji non sapeva neppure di chi fosse figlia. Era cresciuta in un orfanotrofio, alla periferia del distretto di Karanes. I suoi ricordi iniziavano lì, tra i banchi consumati delle aule, i tavolacci del refettorio e le grandi camerate dove i bambini venivano stipati ogni sera, dopo la preghiera comune al Dio delle Mura.

Non aveva mai realmente seguito le funzioni, in effetti: le educatrici si sforzavano di introdurla al catechismo, ma senza grande successo. A che pro ringraziare una divinità tanto egoista da aver progettato le Mura? Ed avervi, per di più, rinchiuso uomini e donne che diceva d’amare. Non aveva senso! Tanto valeva marinare le messe e sgusciare fuori dalle porte secondarie e correre in giardino a controllare l’evolversi della natura.

Aveva addirittura allestito un allevamento di lombrichi: li raccoglieva dalla terra smossa dell’orto e li inseriva in dei barattoli, sforzandosi di ricreare il loro ambiente con humus, rametti e foglie fresche. Si illudeva che bastassero solo quelle piccole cose per farli crescere.
Aveva tentato lo stesso esperimento con i bachi da seta, trafugati dalla soffitta delle vicine filande, e con le chiocciole.

Nessuno, naturalmente, era andato a buon fine: i vermi non si erano riprodotti, dai bozzoli non era emersa alcuna farfalla e le lumache erano accidentalmente arrostite un brutto giorno, quando aveva dimenticato la sua collezione sul davanzale assolato. Aveva chiesto silenziosamente scusa a quelle creature, seppellendole nuovamente nella terra del giardino, tra gli scherni e le risa degli altri bambini.

Hanji la Stramba, la chiamavano. Chi era per loro, se non una bambina taciturna e solitaria, troppo strana per poter essere una buona amica? Con quegli occhiali assurdi che la facevano assomigliare ad un moscone, con la passione per la lettura e per la scienza… a chi poteva interessare? Nessuno desiderava la compagnia di una che passava il tempo a costruire rifugi per le formiche ed a collezionare insetti. Come potevi fidarti? Preferiva nutrire le mantidi religiose che giocare a pallone. Era normale? Niente affatto! Era sicuramente pazza ed affetta da qualche strana malattia.

Era cresciuta così, evitata da tutti. Persino le istitutrici la sottovalutavano. In fondo, non aveva alcun talento: non era portata per la musica e men che meno per il cucito! Non sapeva dipingere e nemmeno cantare. Era impossibile costruirle una dote e sperare che qualcuno la prendesse in sposa. L’avevano lasciata sola, emarginandola a loro volta.

Avere un rapporto civile con i suoi coetanei era quasi impossibile: o la ignoravano o perdevano il loro tempo a canzonarla, a distruggere i suoi esperimenti e nasconderle i libri.

«Vorresti diventare una scienziata?» le dicevano, tra un ghigno e l’altro «Non si è mai vista una scienziata donna!»

«Scemenziata! Scemenziata!» cantilenavano di continuo, al suo passaggio.

Li aveva snobbati, proseguendo per la sua strada. Lo studio, gli esperimenti falliti e quelli riusciti, gli erbari, gli insettari e i volumi polverosi che la fissavano dall’alto degli scaffali della biblioteca: ecco le sue uniche compagnie.
La scienza era un’arte volubile, ma terribilmente affascinante. C’era così tanto da sapere! Come era composto il suolo? Perché gli uccelli volavano? Come nasceva il vino e perché il sale era un così buon conservante?

Come potevano, i suoi compagni, non rimanere affascinati da quegli interrogativi? Possibile che non aspirassero ad altro che a divenire braccianti, fabbri e artigiani? Perché non si sforzavano di guardare oltre la punta dei loro tozzi nasi? O, quanto meno, di provare a capire il suo impegno! Di interessarsi ai suoi progetti, alle sue scoperte! Sarebbe stato piacevole poter condividere una tale passione con qualcuno che non fosse un vecchio orsetto di stoffa verde.
 

Aveva compiuto quindici anni una uggiosa giornata di settembre. Le istitutrici l’avevano messa alla porta, stipando i suoi ultimi esperimenti in una cassetta malmessa. Le avevano consegnato l’indirizzo di una locanda, dove avrebbe potuto facilmente trovare lavoro come cameriera. Sapeva almeno reggere un vassoio e due bicchieri? Non era un compito complicato: doveva soltanto servire al tavolo e mostrarsi carina con i clienti. Credeva di potercela fare?

Era salita su una carovana di mercanti e si era fatta trasportare fino al villaggio di Funke, fermandosi davanti alla porta del “Galletto Ruspante”.
Non era mai entrata in quella osteria.

Aveva immediatamente voltato i tacchi e preso la direzione diametralmente opposta. Non sarebbe diventata una servetta alle dipendenze di qualche burbera padrona. Avrebbe girato il mondo, viaggiato da un capo all’altro delle mura! Conosciuto paesi nuovi, incontrato inventori, condotto esperimenti e… chissà, magari sarebbe riuscita a farsi ammettere in qualche prestigiosa facoltà della capitale. Aveva sentito parlare di una importante accademia, nel cuore di Mitras. Perché non tentare? Magari avrebbe trovato qualcuno disposto a finanziare i suoi esperimenti! Oppure un precettore, capace di insegnarle le mille meraviglie della scienza.

Naturalmente, non si era poi allontanata di molto. Da Funke era riuscita a strappare un passaggio per Trost, ma una volta lì, si era accorta che i suoi risparmi erano ormai agli sgoccioli. Avrebbe dovuto trovarsi un lavoro alla svelta, se non desiderava rimanere completamente al verde.
Aveva provato come bottegaia, come aiuto sarta, come bibliotecaria, ma nessuno aveva voluto accoglierla come apprendista. Si era, dunque, rifugiata nelle braccia dell’unica organizzazione che avrebbe saputo concederle gli spazi di cui aveva bisogno, oltre che una generosa ricompensa per il servizio prestato: l’esercito.

Non aveva mai pensato di poter diventare un soldato, in effetti. Eppure… più proseguiva con l’addestramento al campo cadetti e più in lei si radicava l’idea che quella scelta, per quanto rischiosa e complessa, era quella giusta. D’altronde, non aveva mai smesso di perseguire i propri obiettivi! Aveva soltanto cambiato target: dai lombrichi ai titani. Dopo tutto, entrambi erano mollicci, rosa e senza cervello. Si trattava soltanto di una questione di dimensioni: da dieci centimetri a dieci metri. Ma, insomma… cos’è una proporzione, se non un’accozzaglia di numeri?

La Legione Esplorativa, infine, l’aveva accolta come una figlia smarrita. Il comandante Shadis si era immediatamente dimostrato disponibile a finanziare le sue ricerche: qualcuno che lavorasse sul campo, che raccogliesse dati sui giganti e che li studiasse era – senza dubbio – una risorsa preziosa. Chissà, magari grazie alle sue indagini avrebbero scoperto cosa si celava dietro quegli orrendi mostri cannibali. Inoltre, beh… erano comunque un paio di braccia in più per la lotta, no? Contando il numero eclatante di perdite nel Corpo di Ricerca, un’aspirante suicida in più avrebbe fatto comodo.
 

***
 

«E questo è tutto!» chiocciò Hanji, tornando ad acciuffare il panino «Naturalmente, potrei raccontarti di come ho conosciuto Erwin e Mike, poi. In effetti, abbiamo ancora tutta la notte!» esclamò, gettando una occhiata alla finestra vicina.

Fuori albeggiava.

«Volevo dire… tutto il giorno!» si corresse, volgendosi infine verso il suo assistente «Moblit?... Moblit?» provò a pungolarlo con una pinzetta.
Moblit si era addormentato.

«Siamo alle solite» sussurrò; possibile che i suoi racconti fossero tanto soporiferi? Non era il primo che cadeva vittima delle sue infinite chiacchiere, crollando sempre sul più bello «Dovrò lavorare ancora sulla dialettica.» concluse, alzandosi e recuperando il proprio mantello. Lo drappeggiò sulle spalle del giovane, avendo cura di coprirlo per bene. La temperatura, in effetti, non era delle migliori in quello scantinato.

«Caposquadra…chiedo scusa.» Colse una voce impastata. Moblit la stava osservando da sotto il bordo verde del cappuccio. «Devo essermi addormentato e…»

«Dormi pure.» rispose, regalando all’assistente un sorriso indulgente «Non sono arrabbiata. Eri stanco e… credo d’essermi dilungata troppo, come al solito» concluse, mentre le labbra si piegavano in un ghigno secco «Ma… se proprio vuoi fare ammenda, ci sono le stalle da spazzare.»

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Capitolo 2
*** Il tramonto di Isabel ***


2. Il tramonto di Isabel

* Cowt 8, week 3
* Parole: 632
* Personaggi coinvolti: Isabel


Isabel sollevò lo sguardo al cielo, dove le nubi andavano ormai diradandosi.
Presto il sole sarebbe tornato a splendere. L’acquazzone che li aveva sorpresi non era altro che un lontano ricordo.

Si osservò le mani, stupita di non trovare tracce di fango e sangue tra le dita. Anche la sua divisa era pulita e così gli stivali, malgrado poggiassero sul terreno fangoso. Sentiva un formicolio al collo; era abbastanza fastidioso, ma per qualche ragione non riusciva a scacciarlo.

Aggrottò la fronte, spiando la pianura attorno a sé. Dello scontro recente non rimaneva nulla, se non i cadaveri fumanti dei titani. Si stavano decomponendo quei mostri, sciogliendosi in spire di vapore.

Mosse un passo, poi un altro. Le gambe, seppure malferme, la reggevano ancora. Scivolò cauta  attraverso la prateria, calpestando l’erba ancora bagnata: i fili non si piegarono sotto i suoi passi, limitandosi a solleticarle le caviglie.
C’erano alcuni corpi; quattro persone.

Riconobbe immediatamente quello del caposquadra, con il volto riverso in una pozza. Poco oltre, Sayram giaceva scompostamente a ridosso di un fosso. La sua manovra era distrutta: le spade si erano spezzate a metà della lama, mentre dei cassoni non rimanevano che lamiere lucide ed affilate. Non si chinò a controllare: era sicuramente morto. Nessuno poteva sopravvivere con gli intestini ammollo in una pozzanghera.

Accelerò l’andatura, quando le parve di riconoscere un ammasso di capelli rossi. Corse, superando rapidamente un basso pendio; si inginocchiò accanto alla testa mozzata, sforzandosi inutilmente di chiuderle gli occhi.


«Sono… io?» sussurrò, mentre le sue parole venivano raccolte dal vuoto.
Non vi erano dubbi: stava osservando il suo cadavere. Il corpo giaceva a qualche metro di distanza, mentre gli occhi verdi erano rivolti al cielo, bagnati dai raggi dorati. Seguì quello sguardo, salendo con le iridi fino al sole. Eccolo, infine! Si era degnato di farsi vedere, di spazzare quell’infida pioggia che li aveva sorpresi, sfiniti, uccisi.

«Vigliacco!» gridò «Non potevi venire prima? Sei in ritardo!» tentò di sollevare una pietra per scagliarla al cielo, ma senza successo «Non sento più nulla, sole. Non sento il tuo calore, né mi brucio gli occhi quando ti guardo. Che cosa sono diventata? Un fantasma? Un’anima costretta a vagare senza una meta? Quanto durerà tutto questo?» si coprì il viso, ma dalle palpebre abbassate non sgorgò neppure una lacrima «Non posso piangere, né respirare. Non colgo l’umidità dell’aria, né tocco degli steli che vado calpestando. Non sono che aria!
Perché ci hai abbandonato, quando più avevamo bisogno di te? Ci hai lasciato indietro, sole! Te ne sei andato, convito che saremmo stati al sicuro. Avevi altro da fare? Oh, sì.
Hai inseguito un miraggio, sicuro di potercela fare. Hai fallito e sei tornato sui tuoi passi… ma sei arrivato troppo tardi. È appagato il tuo orgoglio? Sei ancora sicuro che la tua scelta fosse giusta?»

Sollevò la mancina, stagliandola contro la luce del giorno. Vide i raggi filtrare attraverso la pelle e cadere al suolo, senza gettare alcuna ombra.

«Guarda! Ecco le mani di chi ha riposto in te la sua fiducia.» sussurrò, lasciando lo sguardo spaziare verso l’orizzonte. Tre figure a cavallo si stavano rapidamente allontanando, galoppando verso ovest «Riesci a vedermi? Scommetto di no. Ormai, mi hai voltato le spalle.» disse, riportando l’attenzione all’astro, ormai prossimo al tramonto «Addio, sole. Ti ho seguito a lungo e tu mi hai consegnato alla notte.» scosse piano il capo, la voce ormai ridotta ad un sussurro rassegnato. Era davvero necessaria tutta quella rabbia? «Ma… nonostante tutto, non posso fare altro che perdonarti.  Continua nel tuo cammino, come ogni giorno. Non sarai solo… io sarò con te.» colse una mano scivolare nella sua e stringerle piano le dita. Non distolse l’attenzione dall’orizzonte: non aveva bisogno di guardare, per sapere a chi appartenesse.

«Noi saremo con te…» si corresse, svanendo nel crepuscolo.

 

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Capitolo 3
*** Il futuro di Levi ***


3. Il futuro di Levi


* Cowt8 - Week 3
* Parole: 944
* Personaggi coinvolti: Levi


Levi osservò il proprio riflesso. Erano passati quarant'anni da quel giorno; dalla scelta che aveva cambiato la sua vita, e forse anche il destino dell'umanità. 

«Nessun rimpianto» sussurrò a denti stretti, mentre le labbra avvizzite si piegavano in una smorfia pensierosa. Squadrò la figura magra che, dallo specchio, gli stava restituendo uno sguardo vuoto, quasi malinconico. 

Il tempo aveva scavato il viso, rendendolo una ragnatela di rughe costellata di minuti nei brunastri. I capelli, ancora tagliati nell'undercut ordinato, avevano assunto una sfumatura argentata: fili neri si intervallavano alle ciocche bianche, resistendo stoicamente. 

Gli occhi grigi spiccavano tra le grinze della pelle, in contrasto con le occhiaie scure che non lo avevano mai abbandonato. Anche il fisico si era rattrappito, perdendo la tonicità e l'allenamento. I muscoli erano appena visibili sotto la cute pallida, troppo sfuggente per poter essere semplicemente definita "morbida".

La gioventù si era spenta del tutto e lo aveva abbandonato, consegnandolo al flaccido abbraccio della vecchiaia. Non era rimasto nulla dei tempi passati, se non il ricordo dei giorni in cui ancora il vigore scorreva tra le sue membra. 

Era l'ultimo della sua generazione; l'unico ad essere sopravvissuto abbastanza a lungo da vedere la soglia dei settanta. Hanji se n'era andata da parecchio, ormai. Lo aveva lasciato poco dopo la fine della guerra: un'epidemia aveva decimato la popolazione di Paradise, portandosi via anche lei. Strano a dirsi, la morte lo aveva rifiutato: aveva contratto la malattia in forma lieve ed era sopravvissuto. Ancora e da solo, ormai.

Della centoquattresima non aveva avuto più notizie: i ragazzi erano cresciuti ed avevano preso strade diverse; sapeva soltanto che Connie e Sasha si erano trasferiti a nord di Stohess e Jean li aveva seguiti. Historia aveva recentemente abdicato in favore della figlia. 
Non uno si era mai preoccupato di lui: dopo l'ultima battaglia, erano scomparsi tutti, assorbiti da compiti ben più pressanti. Nessuno era passato a trovarlo, a chiedere come stesse o se avesse bisogno di qualcosa.

A ben pensarci, la sola cosa che gli mancava era un po' di compagnia. Chi l'avrebbe mai detto? Al burbero e scontroso capitano Ackerman serviva un po' di calore umano.

«Me lo merito» sussurrò, recuperando la sciarpa ed avvolgendola attorno al collo. Indossò il cappotto, recuperando poi il bastone da passeggio dal vicino portaombrelli. Non aveva senso restare in casa a crogiolarsi nel rimpianto; non dava ti ad una giornata tanto splendida. L'inverno era alle porte, ormai: presto, al tepore degli ultimi raggi autunnali, si sarebbero sostituite le nevicate, la foschia ed il gelo. Era un peccato non approfittare di pomeriggi tanto promettenti, Sarebbe uscito a fare due passi, sì. Magari, sarebbe passato a trovare Erwin.

 
***


Raggiunse il parco soltanto un'ora più tardi. A metà strada si era fermato a riprendere fiato. La gamba destra aveva iniziato a protestare, lanciando lancinanti fitte lungo le ossa. Avrebbe dovuto decidersi a farla vedere da un medico.

Levi sedette sulla panchina ai margini dello spiazzo principale. Scrollò la polvere dalla punta delle scarpe, sfregando le suole sulla terra battuta, per eliminare gli ultimi residui del guano di piccione inavvertitamente pestato. Poggiò il bastone alla panca di legno, sollevando poi le iridi. Erwin non lo stava guardando: al solito, i suoi occhi - un tempo azzurri ed ora grigi come la pietra - fissavano instancabili l'orizzonte. 

«Sono qui» mormorò, consapevole che non avrebbe ottenuto risposta. 

Studiò il fisico del comandante,  che la vecchiaia non  aveva scalfito. Era ancora prestante, esattamente come lo ricordava; e sarebbe rimasto così per sempre. Il trascorre degli anni non poteva intaccarlo, ormai. 

I capelli erano composti nella solita piega, con soltanto qualche filo d'oro a tingerli. Le labbra di marmo erano dischiuse, quasi a formulare un'unica parola. 

Possedeva un cipiglio fiero: posato, orgoglioso e vittorioso. Il mantello, drappeggiato oltre le spalle, non si sollevava nemmeno nella brezza fresca del tardo pomeriggio. Il sole bagnava il simbolo delle Ali della Libertà, tingendolo di sfumature aranciate. I raggi scivolavano poi delicatamente lungo il profilo aquilino del naso, solcando le pieghe della camicia e correndo sul filo della Manovra Tridimensionale; illuminavano poi la targa dorata: "Erwin Smith, tredicesimo comandante della Legione Esplorativa" accanto a due date, che non avrebbe mai scordato.

Distolse l'attenzione al cogliere un vivace schiamazzare:  dei bambini si erano riversati nella piazza, brandendo delle spade giocattolo.

«Perché tocca sempre a me fare il titano?» Si lagnò un ragazzino dai corti capelli rossi.

«Perché sei quello più alto.» Fece eco un secondo.

«Voglio essere il comandante per una volta!»

«No! Il comandante sono io perché sono biondo. E poi ho un braccio solo, vedi?» Il bimbo si indicò la manica sinistra che pendeva inerte lungo il fianco; il braccio, opportunamente piegato dietro la schiena, formava una leggera gobba sotto lo stemma bianco e azzurro. 

«E questo cosa c'entra?»

«Come...cosa c'entra?! Guarda la statua.» indicò oltre le proprie spalle «Il comandante aveva un braccio solo, vedi?­»

«Sì, ma... non è giusto che debba sempre essere io il gigante...»

«Uffa!! Se vuoi puoi fare Moblit!»

«Non voglio fare Moblit! Voglio essere Erwin o Mike!
»

Al dibattito si aggiunse una terza voce:
«Eh, no! Mike lo faccio io!»

Levi sorrise al vederli. Erano giovani e spensierati; cresciuti lontano dalla guerra, ma comunque all'ombra delle sue leggende, a cui cercavano di rendere omaggio.

Si alzò, quando il piccolo comandante si portò il pugno chiuso al petto:
«Offrite i vostri cuori!» Lo udì esclamare.

Quante volte aveva sentito quella frase? Troppe per potersene dimenticare. 

Zoppicò cauto fino  gruppetto, passando poi il bastone nella mancina. Chiuse la mano destra, accostandola allo sterno. Chinò leggermente il capo, piegando le labbra in un cenno grato:

«Comandante» sussurrò, rivolto al ragazzino dai capelli dorati «L' altro braccio.»

 

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Capitolo 4
*** L'amico di Erwin ***


4. L'amico di Erwin


* Cowt8 - Week 3
* Parole: 1111
* Personaggi coinvolti: Erwin, Nile


Erwin sprofondò nel sedile della carrozza, adagiando la schiena ai morbidi cuscini di velluto rosso. Rilassò le membra stanche, socchiudendo lo sguardo. Finalmente un po’ di comodità! Effettivamente, tutto si poteva dire del suo soggiorno in cella, ma non che fosse stato confortevole.
Avrebbe potuto concedersi qualche ora di sonno. Il viaggio verso Trost non sarebbe stato affatto breve: sarebbero giunti soltanto a tarda sera, e considerato che il campanile aveva appena battuto mezzogiorno…

«Tu sei pazzo!»

Una voce familiare lo costrinse a riaprire gli occhi. Nile si era accomodato accanto a lui e stava richiudendo la portiera. No, accidenti! Non poteva prendere un altro calesse? O andare a cavallo? O a piedi, visto che abitava a meno di due isolati dal palazzo reale.

«Che ci fai qui?» domandò appena, mentre l’amico allungava le gambe, occupando tutto lo spazio concesso.

«Ti accompagno.»

«…fino a Trost?»

Maledizione! Non avrebbe chiuso occhio con Nile accanto: avrebbero chiacchierato per tutta la strada, probabilmente parlando di Marie, delle figlie e delle nuove strategia della Polizia Militare. Addio pisolino di metà giornata.

«Naturalmente!»

Ecco la risposta che più temeva. Stiracchiò le labbra in un sorriso accondiscendente:
«Bene! Sono lieto di averti come compagno di viaggio.» mentì, ma l’altro non parve credergli.

«Non è vero. Ti conosco fin troppo bene…» lo sentì sbuffare e chinare il capo «O, almeno, questo è ciò che credevo fino a qualche giorno fa. Ti sei bevuto il cervello? Che ti è saltato in mente? Farti arrestare e… hai quasi rischiato di finire sulla forca, lo sai?»

«Se la cosa ti può rassicurare, non l’ho fatto apposta. Cioè, diciamo che non era… tutto così ben pianificato come al solito, ma…»

«Mi prendi per il culo? Era un tuo piano sì o no?!»

«Sì, ma… ad un certo punto ha preso una piega un po’ strana. In ogni caso, direi che si è risolto tutto per il meglio, no?» commentò, sforzandosi di sembrare ottimista. Certo, a parte i lividi e le ferite ricevute in omaggio, il resto era andato alla grande. «Anche perché, se così non fosse, non saremmo qui a parlarne…»

«Non mi sembra ci sia da scherzare. C’è mancato poco ti condannassero a morte!»

«Già, ma non è successo; ed è stato merito tuo, soprattutto.»

«Mio, di Pixis, del comandante Zackley e dell’idiozia altrui. Se avessimo avuto un re più accorto ed aristocratici meno ottusi, a quest’ora saresti già sotto terra. Non ti è bastato perdere un braccio, vero? Perché diamine ti esponi così, Erwin? Che senso ha questa tua ricerca? Non fai altro che ficcarti nei guai, ma… cosa c’è di così importante da farti rischiare così tanto?»

«La verità.» sussurrò, portando lo sguardo oltre il finestrino, dove gli alti palazzi dei nobili si intervallavano a botteghe e rimesse «Credi valga il prezzo che stiamo pagando, Nile? Io… non lo so. Non ho ancora trovato una risposta.» sbuffò, scrollando le spalle «Ma se c’è una cosa che voglio davvero è arrivare in fondo a questa storia. Devo sapere, capisci? La verità sulle mura, su quello che c’è nel mondo esterno… giace sepolta in uno scantinato, che mai come ora è alla nostra portata. Ho sacrificato troppo, fino ad ora. Quanti soldati ho lasciato indietro? Quante famiglie distrutte, quante vedove e quanti orfani? Sì, eravamo tutti consapevoli dei pericoli che ci aspettavano, ma questo non giustifica il dispendio di vite che abbiamo affrontato.»

«Hai provato in tutti i modi a ridurre le perdite, però!»

«Lo so, ma temo non sia stato sufficiente. E mi chiedo davvero se ne sia valsa la pena» fece una pausa, tornando a scrutare il volto dell’amico «Mi chiedi perché rischio in prima persona? Beh, che razza di comandante sarei se non lo facessi? Se lasciassi i miei soldati a combattere, ritirandomi al caldo di un vecchio ufficio. No, Nile. Tutti stanno sacrificando qualcosa per la libertà; perché io dovrei essere da meno? Solo per il mio grado? A maggior ragione, non credi?» di nuovo, le iridi azzurre si posarono oltre il vetro della carrozza «Voglio solo arrivare alla verità» ripeté, testardo.

«Non hai mai pensato di fermarti? Di lasciare spazio a qualcun altro e mettere su famiglia?»

Quelle parole gli strapparono un distratto sorriso. Quante volte aveva sentito quel discorso? Troppe! Aveva perso il conto, ormai. Nile glielo ripeteva ogni volta che si vedevano. In fondo, il comandante della Gendarmeria era più che soddisfatto della sua vita: aveva una bella moglie, delle figlie stupende e un lavoro sicuro; ma quella… era la realtà di Nile. La sua era molto diversa: costruita su incertezze, fraintendimenti, su strategie e sull’ebbrezza del rischio. Era fatta di scommesse, di giochi quotidiani a cui ormai si era abituato.

«Non credo d’essere il tipo adatto per una famiglia; né posso permettermelo. Tu avresti sposato Marie, se avessi scelto il Corpo di Ricerca?»

«No. Non starai cercando di rinfacciarmi quella scelta, vero?»

Scosse il capo. Erano passati troppi anni per protestare: da cadetti, avevano promesso tutti e tre di entrare nella Legione Esplorativa, una volta terminato l’addestramento. Soltanto due giuramenti erano stati rispettati; Nile si era innamorato della bella figlia del locandiere e l’aveva chiesta in sposa. Né lui né Mike avevano insistito perché tenesse fede alla loro promessa. A che pro? Per essere costretti un giorno a tornare a capo chino, annunciando la scomparsa dell’amico? Al contrario, l’avevano spinto verso la Polizia Militare: era un posto sicuro, quello. Non si aveva a che fare con giganti, mura, cannoni, manovre tridimensionali; si dava soltanto la caccia a qualche malvivente e si risolvevano gli affari scomodi del re. Era il posto ideale per un giovane cadetto che presto sarebbe diventato papà.

«Al contrario. Sono contento che tu abbia intrapreso questa strada. In fondo, Marie meritava la certezza di una casa calda, di una famiglia solida e di un marito che la onorasse e proteggesse. Non avrei potuto darle niente di tutto ciò.»

«Anche tu la amavi, non è vero?» non vi era neppure una nota di gelosia, in quella semplice frase.

Erwin ne fu quasi stupito: era come se Nile lo avesse sempre saputo; come se gli avesse letto dentro, intuendo sin da subito i suoi sentimenti per la locandiera. Eppure non ne aveva mai fatto cenno: pazientemente, Nile aveva atteso e riformulato le proprie decisioni, adattandole a quelle della futura consorte. Dal canto proprio, Erwin non aveva mai pensato di gareggiare con lui per la mano di Marie: era disposto ad accantonare ancora una volta i propri sentimenti pur di inseguire la verità. Quanto ancora si sarebbe negato, pur di raggiungere la libertà?

«Già.» sussurrò laconico, increspando le labbra in un sorriso distante.

«La amavi.» ripeté Nile «Ma tu hai scelto i titani.»

 

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Capitolo 5
*** La casa di Mike e Nanaba ***


5. La casa di Mike e Nanaba


* Cowt8 - Week 3
* Parole: 1402
* Personaggi coinvolti: Mike, Nanaba



Nanaba appoggiò il pennello sul bordo del secchio, tergendosi il sudore dalla fronte ed osservando la parete appena terminata. Era la seconda mano che dava; non doveva far altro che lasciar asciugare la vernice.

La cameretta del bambino era quasi pronta. In effetti, non era sicura che sarebbe stato un maschietto, ma l’azzurro era un colore che si adattava bene: luminoso, allegro, perfetto per la famiglia che prima o poi sarebbe nata.

Scese dalla scala a ritroso, ben attenta a non scivolare. Gli zoccoli di legno non erano il massimo della comodità, ma erano perfetti per i lavori domestici. Sciolse il foulard dai capelli, gettandolo in un angolo, prima di scuotere il lungo vestito per eliminare la polvere. Erano tutti abiti vecchi, quelli che indossava: una veste rosa e una camicetta color menta; cose troppo femminili per i suoi gusti e troppo usurate per poter essere nuovamente indossate. Inoltre, ormai si era abituata alla divisa del Corpo di Ricerca: infinitamente più scomoda, ma almeno non la faceva sembrare un confetto.

«Ho finito!» disse, indietreggiando di un paio di passi.

La stanza era terminata. Le finestre, ancora coperte di vecchi giornali, erano spalancate verso l’esterno, per permettere un migliore ricircolo di aria, sì che la pittura si seccasse in fretta. Il pavimento in mattonelle chiare aveva invece bisogno di una bella ripulita: nonostante precauzioni ed accortezze, la vernice era schizzata qui e là, macchiando un po’ dappertutto.

Si mise le mani sui fianchi, orgogliosa e soddisfatta. Era perfetta, quella camera. Riusciva quasi ad immaginarla arredata: la culla del bambino nell’angolo a sinistra e poi mensole cariche di libri, uno scrittoio e bauli pieni di giocattoli. Sarebbe stato splendido, senza dubbio. Abbassò la mancina, sfiorandosi il ventre con le dita: ancora non si scorgeva nulla ed il suo era poco più che un blando sospetto. Il mestruo era in ritardo, ma non era la prima volta che le capitava. Tuttavia, non riusciva ad ignorare l’idea che qualcosa si stesse lentamente formando nella sua pancia. A supporto, le nausee mattutine e strane voglie durante le ore della notte.

«Ti senti bene?»

La voce familiare del compagno la indusse a girarsi. Mike si era affacciato sulla soglia; il volto appariva sporco di curiose strisce grigiastre, mentre degli schizzi gialli apparivano sul grembiule che indossava sopra a semplici e trasandati abiti.

«Hai dello sporco sul naso.» Nanaba si toccò una narice «Proprio qui.» disse, scuotendo poi il capo «Ancora.» proseguì, mentre l’altro si sfregava furiosamente il viso «Ecco, ora è andato via.» concluse, tornando alla stanza «Ti piace?»

Lo sentì avvicinarsi e poi passarle una mano attorno ai fianchi:
«Moltissimo. Pensi sarà un maschio?»

«è ancora troppo presto per dirlo» sussurrò, scuotendo il capo «Non so nemmeno se sono incinta. È già successo che mi arrivassero in ritardo, ma… questa volta è diverso. È come se lo sentissi crescere in me e…» assottigliò le labbra in una smorfia poco convinta «Non badarci. Forse mi sto solo illudendo…»

«In ogni caso, la camera è bellissima. Quando nascerà… questo o il prossimo… saremo pronti per accoglierlo nel migliore dei modi.» Mike le baciò cautamente le ciocche arruffate «Vorrei metterci un pianoforte, proprio lì. Così imparerà presto a suonarlo e… che ne dici di un cavalletto per disegnare?»

«Dico che è presto per qualunque cosa, ma… che sono delle idee davvero graziose. Le terrò in considerazione.» sussurrò, tornando a spiare l’uomo con la coda dell’occhio «Il resto dei lavori come procede?»

«Ho tinteggiato di giallo il soggiorno. È molto luminoso, credimi. La cucina è di un sobrio grigio, come sua maestà…» un leggero inchino in sua direzione «…ha ordinato.»

«Mi sarebbe piaciuta averla verde, ma temo che sia troppo… sporchevole come colore.»

«Manca soltanto la nostra camera. Potremmo fare quella verde, che dici?»

«Oppure arancione? Voglio sia briosa, accesa… non sopporto quelle abitazioni tutte bianche, asettiche, simili a degli ospedali. Quando sarà pronta, voglio che la nostra casa sia spensierata, colorata e viva.»

«Arancio? Non è troppo intenso? Che ne dici di un rosa pesca?»

«Nah… è un colore per damigelle in difficoltà e sposine ingenue. Ti sembro appartenere ad una di queste categorie?»

Mike scosse rapidamente il capo. Non si poteva certo dire che la compagna non sapesse il fatto suo. Aveva sempre avuto le idee chiare e fargliele cambiare era praticamente impossibile. In fondo, l’amava proprio per questo: era forte, risoluta e combattiva. Un po’ irriverente e ribelle, forse… ma, quanto meno, non era una schizzata psicopatica come Hanji; o una infermierina mancata come Petra. Nanaba era inoltre il tipo di donna che non si lascia spaventare dalle suocere troppo irruente. Un punto a suo favore! Anzi, due… considerato che piaceva perfino a sua madre.

«Abolito il rosa, allora.» ritentò, stringendola cautamente a sé «Un nocciola ti piacerebbe?»

«…Arancione o verde!»

«D’accordo.» si arrese in fretta. Era inutile discutere con lei; inoltre, c’era una faccenda ben più urgente di cui parlare «Lo hai detto a Erwin?»

Nanaba gli rivolse una occhiata sopresa:
«Perché avrei dovuto farlo?»

«Beh, per ritirarti dalle spedizioni. Non credo dovresti partecipare nelle tue condizioni e…»

«Quali condizioni? Non ne sono ancora sicura, Mike! Inoltre… non ci sono missioni in programma. Dobbiamo solo accompagnare dei cadetti in una scampagnata e tenerli alla larga dai guai per un po’. Non mi sembra un compito tanto gravoso, anzi… Anche se sono certa che una balia riuscirebbe nell’impresa meglio di noi.»

«Si tratta comunque di una faccenda scomoda. Insomma, dovremo cavalcare a lungo e pernottare in quei villaggi sperduti. Non dovresti venire e sono certo che Erwin sarebbe d’accordo con me, se lo sapesse.»

«Lo so benissimo!» sogghignò la donna «Ecco perché non gliel’ho detto. Ha già abbastanza grattacapi in questo periodo, senza che debba pensare anche al mio ciclo mensile.» Nanaba si concesse una pausa ed una rapida scrollata di spalle «Capisco la tua apprensione, ma… saremo al sicuro. Siamo nel cuore del Wall Rose! Che vuoi che ci succeda? Al massimo, dovremo sedare una lite tra cadetti per chi dorme vicino al caminetto… e poi, ci saranno anche Gelgar e gli altri con noi. Non c’è niente di cui preoccuparsi. Potremmo portare i ragazzi a vedere Castle Utgard! È soltanto un rudere, ma… forse apprezzeranno la gita fuori porta.»

Non si lasciò abbindolare da quel tentativo di cambiare discorso:
«Promettimi che quando torneremo ne parlerai con Erwin.»

«Se farai lo stesso anche tu, allora sì.»

Mike si grattò la nuca perplesso:
«Perché io?»

«Credo sia giusto che sappia che diventerà zio, no? Per allora, spero sapremo dargli una risposta certa su questo…» la vide tamburellare le dita sull’addome «Leggero gonfiore. Capiremo se è un bambino o se è solo la zuppa iper-nutriente di tua madre.»

«Preferirei evitarlo. Mi direbbe di rimanere a casa e restarti vicino e… Dio solo sa quanto abbia bisogno di sostegno, al momento. Non posso fargli mancare il mio.»

«Allora non chiedermi tanto. Non puoi pensare che me ne resterò con le mani in mano, mentre voi andate a sconfiggere i giganti! Non dico di seguirvi in missione, ma… ci sarà pure qualcosa che posso fare per rendermi utile! Stilare rapporti, riordinare le carte, addestrare cadetti… qualunque cosa, purché non mi senta un peso.»

Mike sbuffò piano. Era impossibile tenerla incollata al pavimento di casa? Evidentemente sì. Tuttavia, la capiva: avevano intrapreso quel percorso insieme, consapevoli delle difficoltà e dei pericoli a cui sarebbero andati incontro. In fondo, lui si sarebbe comportato nel medesimo modo: avrebbe pestato i piedi e protestato pur di servire comunque la Legione Esplorativa.
Sorrise piano, scrollando le spalle:
«Chiederemo ad Erwin se gli occorre una nuova domestica.» promise, mentre la ragazza gli rifilava una leggera risatina.

«Non ha già Levi?»

«Quello è meglio che la pianti di fare la fata del focolare e si dia una mossa.» borbottò, ciondolando il capo «Da quando si è slogato la caviglia, poi… è insopportabile. Non fa altro che zoppicare a destra e a manca con  la scopa e la spugna per lavare i vetri.»

«Poveretto! D’altronde, è una brava massaia…» Nanaba si interruppe; a ben pensarci, le doti del capitano erano davvero sprecate in caserma, dove ben pochi apprezzavano le tende lavate e le librerie spolverate. Un ghigno si allargò sulle labbra «Sai, credo proprio che questo pavimento abbia bisogno di una ripulita.» disse, picchiando la punta di uno zoccolo a terra «Potremmo chiedere a Levi, che dici?»

Mike assentì con un largo sorriso:
«Perfetto! Tanto è a costo zero…»

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Capitolo 6
*** La morte e il bambino ***


6. La morte e il bambino


* Cowt8 - Week 4
* Fazione: Langley - Prompt: morte

* Parole: 1028
* Personaggi coinvolti: Levi, Kenny



Levi sedette nuovamente ai piedi del letto, rannicchiando le gambe al petto. Si sforzò di non guardare oltre le proprie spalle, dove la figura giaceva ancora avvolta dal lenzuolo consumato.

Quanto era passato? Non avrebbe saputo dirlo. Aveva perso il conto delle ore, ormai; il dormiveglia costante non aveva aiutato, anzi… lo aveva spinto sempre di più ad ignorare il trascorrere del tempo. Sua madre se n’era andata da almeno un paio di giorni. L’aveva vista spegnersi lentamente, come una candela posta sotto ad un bicchiere. Kuchel aveva consumato tutto l’ossigeno, finché la morte non l’aveva portata via.

Era malata da parecchio, ma il suo corpo si era sempre rifiutato di cedere. Aveva stretto i denti, la donna… ignorato sofferenze ed ingoiato umiliazioni, pur di andare avanti; l’aveva fatto soltanto per lui. Meritava davvero un sacrificio simile? Non lo sapeva. Non si era mai posto quella domanda, non prima di toccare la mano che penzolava inerte dal bordo del letto.

Quando era rientrato in camera, una delle sere addietro, l’aveva trovata stesa sul letto, con gli occhi sbarrati e fissi sul soffitto. Un braccio era scivolato fuori dalle coperte. Le labbra, bagnate di sangue, erano dischiuse nell’ombra dell’ultimo respiro.

Era sceso in fretta Levi, senza nemmeno chiudere la porta. Aveva abbandonato la zona camere del bordello correndo rapidamente verso il piano sottostante. Era sbucato nella sala principale, dove alcune prostitute si stavano esibendo in una pittoresca danza senza veli. Aveva provato a chiamarle, a gridare aiuto, ma nessuno l’aveva ascoltato. Anzi, alcuni avventori l’avevano pure guardato storto: chi era quel mocciosetto e cosa ci faceva in un posto simile? Ah, beh… era il figlio di Olympia, una delle tante puttane. Perché era lì? La madre non aveva voluto abortire, malgrado i consigli di tutti. Era l’unico bambino della casa? Si, ovviamente. Le altre ragazze non erano così stupide da farsi ingravidare dal primo che passava.

Non aveva badato a quei discorsi, zizzagando tra i tavoli e continuando a chiedere aiuto. Ricordava soltanto una grossa mano che lo afferrava per una spalla e lo sbatteva fuori dalla porta. Si era ritrovato in strada, ma non si era perso d’animo. Aveva corso a perdifiato, cercando qualcuno disposto ad ascoltarlo. Gli abitanti dei bassifondi, però, lo avevano fissato come fosse uno scarafaggio impazzito. Nessuno gli aveva dato retta, men che meno conforto. Lo avevano guardato correre scalzo sui ciottoli affilati, senza curarsi dei taglietti che si aprivano sui piedi minuscoli. Non uno gli aveva offerto la giacca o un mantello con cui ripararsi: lo avevano lasciato congelare nel freddo dell’inverno, coperto solo di una lunga e logora camicia.

Quanto era durata quella ricerca disperata? Non ne aveva idea. Si era ritrovato, ad un tratto, tra le braccia di un anziano signore. Si era stretto alle sue spalle, affondando il viso tra la camicia e la morbida barba bianca. Aveva versato tutte le lacrime che possedeva, singhiozzando e tremando. Le parole, rotte dal pianto, erano infine sgorgate. L’uomo lo aveva preso per mano, conducendolo oltre una stretta curva a gomito. Avevano raggiunto insieme la casa di una guaritrice – una cialtrona, probabilmente, ma l’unica tanto sconsiderata da esercitare nei bassifondi. L’avevano convinta a visitare Olympia, dopo svariate insistenze ed una buona dose di scintillanti monete.
Erano ritornati al bordello. La speranza, tuttavia, si era immediatamente infranta quando la cerusica aveva emesso quell’orribile verdetto: sua madre era morta. Di che cosa? Non ne aveva idea. Forse una forma respiratoria molto grave, oppure qualcosa di venereo.
Impossibile a dirsi.

Si era accucciato ai piedi del materasso ed era rimasto lì. Non si era mosso, aspettando in silenzio. La morte sarebbe passata anche per lui, senza dubbio. Sarebbe bastato attendere: la fame, gli stenti, quella tosse catarrosa che gli graffiava il petto… lo avrebbero portato via, strappandolo al mondo e adagiandolo nuovamente tra le braccia di Kuchel.
 

***
 

La morte venne. Giunse in una forma inattesa.

Si aspettava di incrociare un viso ossuto, mani scheletriche ed un corpo asciutto avvolto da un nero mantello. Si ritrovò, invece, ad osservare un giovane uomo. Quanti anni poteva avere? Una trentina o poco più. Indossava un lungo soprabito color nocciola ed un completo piuttosto sobrio. Vi erano delle macchie scarlatte lungo l’orlo dei pantaloni e sulla punta degli scarponi consumati.

L’estraneo non lo aveva nemmeno guardato: si era fermato accanto al letto, osservando il volto di Kuchel. Non aveva più nulla di umano ormai, quel corpo: la pelle si era raggrinzita lungo gli zigomi, scavando le guance e ritraendo le labbra. I denti bianchi spuntavano dalla bocca ancora dischiusa, mentre i capelli radi incorniciavano il volto pallido. Da sotto il lenzuolo, si intravedevano le spalle ossute e il petto consumato dalla malattia, dove il seno flaccido si notava a malapena.

«Mi sembri abbastanza dimagrita, Kuchel…»

Possedeva una voce profonda, ma spregiudicata. Il tono sarcastico non si addiceva all’espressione severa del viso, dove a tratti passavano lampi di malcelata malinconia.

«è morta.» Levi sollevò il capo, fissando l’uomo. Aveva gli occhi grigi, proprio come quelli di sua madre ed i suoi.

«E tu? Devi essere quello vivo…»

Non rispose. Il suo silenzio parve indispettire l’estraneo:
«Dannazione! Datemi tregua.» lo sentì sbuffare. Uno sguardo seccato gli piovve addosso: «Come ti chiami?»

«Levi.»

«Levi e …?»

«Levi e basta.»

Scorse l’altro appoggiare le spalle al muro e chinare il capo. Gradualmente, il giovane si lasciò scivolare sino a terra, stendendo le lunghe gambe davanti a sé:
«è così, allora. In questo momento, i nomi non hanno poi molta importanza, vero?»

Il bambino scosse il capo, aggiungendo un:
«No, ma… vorrei comunque conoscere il tuo.»

«Sono Kenny. Kenny e basta.» una pausa, mentre la voce si riduceva ad un sussurro «Io e Kuchel eravamo conoscenti. Piacere di conoscerti.»

Levi si alzò, sgambettando piano verso l’uomo ancora seduto a terra. Tese la mano destra, che rimase sospesa nel vuoto:
«Piacere mio.» mormorò soltanto, mentre delle dita affusolate arrivavano a coprire le sue.

La mano di Kenny era magra e gelida; anche troppo, perché fosse di un semplice essere umano. Provò a divincolarsi, ma la presa si fece più solida e decisa. Levi chiuse gli occhi.
Chissà, forse la morte era davvero passata per conoscerlo.

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Capitolo 7
*** Rientro a Trost ***



7. Rientro a Trost



* Cowt8 - Week 4
* Fazione: Langley - Prompt: una vittoria nella sconfitta

* Parole: 782
* Personaggi coinvolti: Hanji, Moblit



Hanji chinò il capo, osservando la criniera del proprio cavallo. Non era altro che un ammasso di fili marroni, tutti ingarbugliati e coperti di fango e foglie. Avrebbe dovuto spazzolarlo, una volta rientrata in caserma. Non osò sollevare lo sguardo: sapeva che avrebbe incontrato soltanto delusione e disprezzo, da parte degli abitanti di Trost.
Era così ogni volta; faticava ad abituarsi. Quando partivano per le spedizioni, la gente accorreva per salutarli: uomini, donne, bambini… si accalcavano tutti ai margini delle vie, sventolando fazzoletti e lanciando grida di incoraggiamento.

“Questa volta ce la farete!” dicevano.

“Riuscirete a spazzare via i giganti.” esclamavano.

Attendevano con trepidazione il loro ritorno. Ogni volta che la porta del Wall Rose si apriva, quelle stesse persone scendevano nuovamente in strada. Sui loro volti, tuttavia, non vi era mai sollievo o sostegno; al contrario, le labbra erano sempre atteggiate in smorfie sdegnate, mentre le voci tradivano moti di ripicca e malafede.
Era stanca di ricevere soltanto quello: scherno, disgusto, cenni increduli e scontenti. Ce la mettevano tutta, loro! Non era facile sopravvivere nel mondo esterno, ma… qualcuno doveva pur provarci! Che senso aveva rimanere chiusi nel Wall Rose, aspettando inerti lo scorrere del tempo? Il Wall Maria non si sarebbe riconquistato da solo. Né i titani si sarebbero spontaneamente ritirati. Possibile che nessuno fosse disposto a capirlo? I sacrifici, le perdite… erano parte di un doloroso, ma inevitabile cammino! Abbandonare un compagno morente, vedere la propria squadra massacrata non era semplice da metabolizzare, né da accettare e ricordare. Quante amici aveva perso? Quanti camerati erano stati divorati da quei maledetti mostri? Eppure non si era arresa! Né si era limitata a sputare veleno sui sopravvissuti. Perché la gente delle mura non comprendeva? Non era facile per nessuno dire addio ai propri compagni! Non c’era alcun bisogno di vomitare odio  sulle loro spalle, ogni volta che rimettevano piede a Trost.

Quelle persone erano assurde! Pronte ad osannare la Legione Esplorativa al mattino ed a disprezzarla al tramonto. Erano troppo volubili, né possedevano alcun ideale: fingevano soltanto di bramare la libertà, ma… in realtà, a nessuno importava poi troppo. Perché rischiare, quando si poteva comodamente sopravvivere, continuare a respirare e credere in una salvezza che non era nient’altro che una mera illusione?

Gettò una occhiata attorno a sé. I compagni procedevano a capo chino, sforzandosi a loro volta di fissare soltanto i lunghi colli dei destrieri. Erano partiti in settanta ed erano tornati soltanto in ventidue, di cui la metà feriti o privi di sensi ed adagiati sui carri delle retrovie. 

«State bene, caposquadra?» una voce familiare la costrinse a voltarsi. Moblit l’aveva raggiunta, modulando l’andatura del proprio cavallo «Non siete soddisfatta?»

Aggrottò la fronte, impiegando qualche attimo per comprendere quelle parole. Soddisfatta? Avrebbe dovuto esserlo, sì. Avevano catturato due giganti, in fondo. Un esemplare di sette metri e uno di quattro. Li avrebbero trasportati al più presto in un campo separato, appositamente adibito allo studio ed alla ricerca.

«Lo sono.» sussurrò, il tono spento e distratto.

«Non mi sembra…»

«Mi sto soltanto chiedendo se ne sia valsa la pena.» sussurrò, infine «Abbiamo subito ingenti perdite e… mi domando se il prezzo pagato sia congruo a quanto potremo scoprire da loro. Se… i nostri compagni si siano davvero sacrificati per qualcosa di utile… o se per un mio capriccio. Forse non avrei dovuto insistere tanto…»

«Non credo sia stato un vostro… “capriccio”, caposquadra. Al contrario, penso sarebbe stato assurdo sprecare un’opportunità simili. Non siamo mai riusciti a catturare nemmeno un esemplare, fino ad ora. Sono certo che ricaveremo nozioni interessanti, da questi due giganti.»

«Levi non è del tuo stesso avviso. Secondo lui, è stata una enorme cazzata ed abbiamo decisamente rischiato troppo.» sbuffò piano «Probabilmente, ha ragione. Dovrei smetterla con le ricerche, gli esperimenti, le mie ossessioni… Non mi aspetto che altri capiscano, ma… trovo affascinanti i giganti! Vorrei soltanto poterli studiare, approfondire le conoscenze che abbiamo su di loro. Sono convinta che saperne di più ci aiuterebbe anche a trovare un modo per sconfiggerli, però…» fece una pausa, squadrando attentamente il bordo del vicino marciapiede. Una donna si teneva il capo, gridando il nome del figlio «… non sono sicura che sia la strada giusta. Le mie ricerche non restituiranno Claud a sua madre. O Jin a sua moglie.»

«è stato un passo avanti, Caposquadra.» Moblit non la stava più fissando. Al contrario, le sue iridi scrutavano il resto della Legione. I soldati erano stremati: stanchi di ricevere solo fischi e insulti; stufi di cavalcare e di non potersi concedere un po’ di riposo meritato. C’erano ancora feriti da soccorrere e cadaveri da seppellire «è stata una piccola vittoria.»

«Una piccola vittoria.» ripeté lei «Con l’amaro sapore dell’ennesima sconfitta.»

 

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Capitolo 8
*** Una lettera ***


8. Una lettera
 

* Cowt8, indetto da Lande di Fandom
* Week 5
* Prompt: “You have no control on who lives who dies who tells your story”
* Parole: 369


So che non invierò mai questa lettera, ma… forse scrivere su un foglio mi aiuterà. O forse no. Sarà solo l’ennesimo e patetico tentativo di scaricarmi la coscienza?
Non riesco a prendere sonno.
Sono ore che fisso il soffitto. Non so nemmeno quanto tempo sia trascorso, da quando mi sono adagiato sul letto. Tra poco sarà l’alba? Oppure la notte deve ancora arrivare? Non lo so.
Ho lasciato Erwin e sono sceso in mensa. Mi sono fatto servire un boccale di birra, che poi ho lasciato a terra, abbandonato. Qualcuno lo avrà bevuto, voglio sperare…
Mi sono sfogato su due reclute. Jaeger e quell’altro, quello con la faccia da cavallo ed il cognome impronunciabile. Odio quando fanno baccano, quando litigano senza motivo per delle stupidaggini. Non si accorgono neppure del tempo che stanno gettando via… dei momenti che trascorrono e che non potranno mai più recuperare. Inutile, comunque, parlarci: non capirebbero. Sono due zucche vuote della peggiore specie…
Mai quanto il comandante, comunque. Non sono riuscito a smuoverlo da quell’idea idiota. Vuole essere presente a tutti i costi. Non gli importa di morire e… questo mi spaventa. È come se si fosse già rassegnato: gli interessa soltanto mettere piede in quella sciocca cantina e smascherarne il segreto. È ossessionato dalla verità, al punto da non saper rinunciare ad un suicidio premeditato.
Perché non capisce? Non sarebbe d’aiuto, soltanto di peso. Non posso combattere liberamente, se devo badare a lui. Sa di essere un condannato, un’esca per giganti e… non gli interessa.
Stupido idiota! Non accetta di rimanere a casa, al sicuro. In caserma, a scervellarsi per produrre un nuovo piano o qualche strategia che ci consenta d’abbattere per sempre queste maledetta mura. No, lui desidera esserci.
Vuole assistere al trionfo o alla più grande disfatta. Che accadrà se non torneremo? Se non riusciremo a rientrare nel Wall Rose? Chi sopravvivrà e chi morirà? Non posso saperlo.
Chi racconterà la nostra storia? Nessuno.
In fondo, forse… è giusto così. Scompariremo come abbiamo vissuto: come animali pronti al macello, sacrificati per un ideale impossibile da raggiungere. Non verremo pianti, né ricordati. Saremo soltanto gli ennesimi sciocchi che hanno osato sfidare il mondo esterno.
Saremo fantasmi dispersi nel corso della storia.


L.A.

 

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Capitolo 9
*** Un goccio di te ***



9. Un goccio di te


Note: La fanfiction partecipa a:
* Cowt9, indetto da Lande di Fandom
* Week 4, Missione 2
* Prompt: Litigare e poi fare pace
* Parole: 1652



***


«Avrei potuto salvarli, se non fosse stato per il tuo stupido ordine!»

«Avevi quasi esaurito il gas, Levi. Non ce l’ avresti fatta a sconfiggere il Titano Femmina e saresti morto anche tu!»

«Niente affatto! So quello che faccio e conosco i miei limiti.»

«No, non li conosci! Pensi di essere invincibile, ma non lo sei.»

«Non credere di potermi dire cosa fare e cosa no, Erwin.»

Il biondo lo fissò scrigno:
«Farai quello che ti dico perché fino a prova contraria sono il tuo comandante.»

«Ruolo che non sai assolutamente ricoprire.»

«Non ti sta bene? Dimettiti, allora»

«D'accordo!»

Levi girò sui tacchi, zoppicando verso la porta dell’ufficio. La chiuse alle proprie spalle, sbattendola sonoramente. Inforcò le vicine scale, scendendo verso il piano inferiore, dove si trovavano gli alloggi degli ufficiali. Ignorò il tentativo di Hanji di bloccarlo per parlargli di chissà quale strano esperimento e così anche i saluti dei cadetti.

Tentennò davanti alla soglia della propria stanza, decidendo di proseguire senza fermarsi e senza concedere alla caviglia slogata neppure un attimo di tregua; la sentiva pulsare, stretta nello stivale di cuoio, ma non gli importava. Aveva un disperato bisogno di the e l’unico posto dove poteva trovarlo a quell’ora tarda era il refettorio. Vi giunse dopo una manciata di minuti e si accomodò a uno dei lunghi
tavolacci di legno consumato, su cui erano posate teiere bollenti e tazze di vari colori. Ne afferrò una verde dal bordo sbeccato, colmandola sino sull’orlo. Soffiò sul vapore, nella speranza di riuscire a raffreddarlo.

Lo sguardo affilato corse involontariamente ai primi quattro posti della tavolata, ormai desolatamente vuoti. Erd, Gunther, Petra e Auruo non sarebbero più tornati. Avrebbe potuto salvarli, se non fosse stato per Erwin e per i suoi stupidi ordini. Avrebbe dovuto ignorarli fare di testa propria. Si passò il dorso della mancina sugli occhi per cancellare una fastidiosa sensazione di bruciore. Pregò che nessuno lo avesse scorto: odiava farsi vedere così debole e ferito, tanto nel fisico quanto nell’animo. Era convinto che davanti al dolore e alla sofferenza, almeno qualcuno dovesse rimanere impassibile e non per insensibilità, ma per offrire agli altri sicurezza e conforto. Si era investito di quel ruolo, senza sapere se fosse davvero alla sua portata, perché quelle rare volte in cui i soldati si aprivano con lui, non riusciva che a dispensare qualche consiglio banale. Si chiudeva poi nei propri alloggi, rimuginando nel silenzio per ore e, quando stava per scoppiare, sgattaiolava da Erwin e si confidava con lui. Più di una volta, il comandante gli aveva suggerito di lasciar perdere: vi erano spalle più robuste delle sue per portare certi  pesi.

Ora, però, che la morte aveva colpito la sua squadra, non sapeva come comportarsi. Aveva provato a parlarne con Erwin, ma era riuscito soltanto a rinfacciargli i piani azzardati e le decisioni sbagliate.
 
Sollevò lo sguardo dalla tazza quando sentì la vicina panca cigolare. Si ritrovò a fissare la zazzera biondo scuro di Mike ed il suo prominente naso.

«Che vuoi?» Lo apostrofò, tornando ad abbassare gli occhi.

«Soltanto scambiare due parole con te»

«Se sei qui a gongolare per la mia disfatta, puoi anche levare le tende.» Si pentì immediatamente di quella affermazione. Mike poteva anche risultare invadente, spaccone e un po’ borioso alle volte, ma non era certamente una persona che gioisce delle tragedie altrui.
«Scusami.» Sussurrò poco dopo «Non intendevo essere scortese.»

«Nessun problema. So come ti senti»

«Non credo proprio. Hai mai perso una intera squadra, tu?»

«No, ma so che significa quando la fiducia in chi ti guida viene meno» frenò qualsiasi sua domanda con un cenno della mano «Vi ho sentito discutere. Erwin non se lo merita, sai?»

«è tutta colpa sua…» ripeté testardo, deciso ad affogare gli ultimi dispiaceri nel the bollente «Mi ha fatto perdere tempo e basta. Se non gli avessi dato retta, li avrei raggiunti in tempo.»

«E saresti morto anche tu.» lo scorse prendere un paio di biscotti da un vicino vassoio e spazzolarli con la rapidità di un lupo famelico «Il tuo livello di gas era addirittura sotto il mio. Come speravi di farcela?»

«Non lo so.» ammise piano, scrollando le spalle «Mi sarei fatto venire in mente qualcosa.»

«Saresti finito masticato dal Gigante Femmina, Levi.»

«Niente affatto.»

Mike sbuffò e si concesse un altro biscotto, prima di alzarsi e picchiargli una leggera pacca su una spalla:
«Continua a crederlo, se vuoi, ma… saresti crepato, se avessi fatto di testa tua. L’ordine di Erwin ti ha salvato il culo, ma sei restio ad ammetterlo per… una curiosa forma d’orgoglio che non ti porterà da nessuna parte. Sai cosa dovresti fare? Andare di sopra e scusarti.»

«Non ci penso nemmeno. Scusarmi… per cosa? Non ho proprio niente da rimproverarmi.» ripeté testardo, mentre il caposquadra Zacharias agitava pigramente una mano nell’aria e si allontanava:

«Se lo dici tu…Hai un modo curioso di mostrare gratitudine, Levi» sbuffò, lasciandolo poi solo a crucciarsi con i suoi pensieri.
 

***
 

Era stato uno sciocco e un ingrato. Come aveva potuto? Aveva scaricato tutta la colpa su Erwin, le cui spalle erano sin troppo cariche di sensi di colpa e del peso dei giudizi sbagliati ed affrettati. Si era comportato esattamente come quegli sciocchi cittadini dei distretti, che li salutavano commossi quando partivano e che li accoglievano, ad ogni ritorno, con insulti ed occhiate scettiche. Il suo livello non era poi così diverso da quei personaggi che tanto disprezzava. Si era limitato a rinfacciare una scelta che aveva condannato quattro vite invece che cinque. La quinta, ovviamente, era la sua. Poteva davvero biasimare il comandante con tanta facilità? No e lo sapeva: non era nemmeno lontanamente all’altezza di Erwin; non era in grado di portare il peso delle colpe, in nessun modo: non riusciva a scrivere lettere di commiato che non suonassero vuote o patetiche; non riusciva a confortare i soldati e l’unica fede che poteva infondere loro non era altro che una propaggine della propria forza sul campo. Da dove nascesse quell’abilità, ovviamente, non lo sapeva: semplicemente, era bravo in ciò che faceva. Non avrebbe saputo spiegarlo altrimenti, così come non avrebbe saputo spiegare il perché si sentisse tanto incline ad obbedire ad ogni ordine di Erwin, anche quando non li condivideva affatto. Non che avesse importanza: in ogni caso, non avrebbe potuto esimersi dal seguirli, a meno di ignorare la gerarchia militare.

Raggiunse l’ufficio del comandante, scivolando al suo interno senza neppure bussare. La porta era socchiusa, come al solito; la richiuse silenziosamente, prima di avvicinarsi alla scrivania; Erwin era concentrato su alcune mappe, dove stava scarabocchiando a matita alcuni appunti.

«Hey.» sussurrò solo, costringendo il biondo a regalargli un briciolo della sua attenzione «Posso parlarti?»

Lo vide muovere un rapido cenno del capo:
«Sei qui per le dimissioni, immagino…»

«Sì.» mormorò, scuotendo poi il capo «Volevo dire, no. Cioè… Non stavo pensando di licenziarmi.»

«In cosa posso esserti utile, allora?» le dita robuste appoggiarono la matita e si intrecciarono sui fogli, mentre lo sguardo azzurro calava su di lui.

Non riuscì a sostenere quella lunga occhiata e le proprie iridi grigie si fissarono al suolo. Scrollò piano le spalle, limitandosi a lasciar scivolare dalle labbra un semplice:
«Mi dispiace.»

«Come?» la voce dell’altro conteneva una sfumatura incredula.

«Hai sentito benissimo!» lo rimbeccò prontamente, con una nota acidula che si spense subito, cedendo il posto alla sincerità «Ho detto che mi dispiace.»

«È raro sentire delle scuse da te.»

«Sì e non avrai altro se non mi fai finire!» dondolò leggermente il viso, prima di tornare a cercare quello altrui. Incrociò nuovamente gli occhi chiari, ora tinti di curiosità e sollievo. «Mi dispiace per poco fa… per quello che ti ho detto. Non lo pensavo davvero. Non credo sia colpa tua, ecco… Forse non è colpa di nessuno.»

«Non lo so, Levi. Ho pensato a quello che mi hai detto e… probabilmente, hai ragione. Non sono tagliato per questo ruolo e se c’è qualcuno che ha colpe in tutto questo, quella persona sono io. In fondo, parte tutto da me: le raccolte fondi, i piani, le tattiche e le spedizioni oltre le mura. Sono tutta farina del mio sacco… mi assumo il rischio della sconfitta come l’illusione di una vittoria che forse non conquisterò mai. Ogni tanto mi chiedo perché lo faccio.» una pausa e una risatina nervosa «E mi rispondo: perché meritiamo qualcosa di più che una vita in una gabbia di menzogne. Perché questo mondo nasconde una profonda verità ed io non mi fermerò finché non l’avrò trovata. Perché dobbiamo sapere, Levi… e non importa quanto questo ci costerà; quanti sacrifici e rinunce dovremo affrontare. Prima o poi, arriveremo in fondo a questa storia. Arriveremo in fondo… tu ed io. Ecco perché non avrei comunque accettato le tue dimissioni.»

«E le mie scuse? Quelle pensi di poterle prendere?»

«Sì, perché sono una cosa insolita. E perché so che non vi erano cattive intenzioni nelle tue parole… solo troppo rimpianto e un peso che, te lo ripeto, non sono le tue spalle a dover portare.» ancora qualche attimo di silenzio. Erwin scrisse qualcosa frettolosamente sulla mappa dispiegata, per poi riprendere «Io mi fido di te. Vorrei che tu facessi lo stesso.»

Levi annuì piano, accostandosi alla scrivania per poter sedere sul pianale, con un piccolo balzello. Accavallò le gambe e poggiò un gomito al ginocchio destro, sfruttandolo per sostenere il viso:
«è stata una lunga e pessima giornata.» ammise infine, scrutando l’altro con la coda dell’occhio «Non volevo litigare con te.»

«Ti ho già perdonato. È stata una pessima giornata per tutti. Un goccio di the?»

«Lo so.» sussurrò, mimando un leggero sorriso. Annuì leggermente a quella proposta, sporgendosi poco dopo verso il compagno. Posò cautamente le labbra sottili sulle familiari ciocche bionde, respirandone il profumo di sapone.

«Un goccio di te…» mormorò piano, quasi temendo di spezzare quei momenti faticosamente ritagliati nell’arco di quella malinconica e frenetica serata «…è esattamente ciò a cui stavo pensando.»
 

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Capitolo 10
*** Letture leggere ***


Letture leggere
 
Note: La fanfiction partecipa a:
* Cowt9, indetto da Lande di Fandom
* Week 4, Missione 2
* Prompt: Partire per un lungo viaggio
* Parole: 578


Ogni viaggio poteva rivelarsi inaspettatamente lungo, quando si aveva a che fare con il caposquadra Zoe e lui, ovviamente, ormai lo sapeva e si era abituato. Moblit Berner era  davvero una persona paziente: mai e poi mai si sarebbe sognato di mettere fretta alla sua diretta superiore, anche se alcune volte avrebbe sperato in una accelerata nella preparazione dei consueti bagagli.

«Caposquadra…» disse, affacciandosi sull’uscio del laboratorio «Vi serve una mano per le valigie?»

La donna si voltò e gli sorrise, accennando col capo al resto della stanza, dove regnava il più completo disordine. Delle beute erano rovesciate alla rinfusa in una tinozza d’acqua, mentre alcuni matracci galleggiavano poco più in là, nel lavello stracolmo. Alcune lucertole, sfortunatamente catturate per studiare le capacità rigenerative delle loro code, si agitavano in alcuni terrari, tentando in ogni modo di riguadagnare la libertà perduta. Per finire, sul lungo tavolaccio da lavoro, giacevano alla rinfusa alcuni libri.

«Che state facendo, caposquadra?» domandò, mentre Hanji sollevava un paio di volumi e glieli mostrava.

«Sono assolutamente indecisa su quale portare. Mi serve una lettura leggera per la notte.»

«Mh… premesso che non definirei nessuno di quelli una “lettura leggera”. Sfioreranno le mille pagine ciascuno.»

«Che sciocchezze! Questo è di… ottocentoquarantasei e… questo» la scienziata li sfogliò entrambi per controllare i numeri stampati in fondo ai fogli «Novecentododici! Visto, esageri sempre?»

«Beh, comunque ci sono andato vicino.» puntualizzò l’assistente, riprendendo il discorso dopo un breve sospiro incerto «Tuttavia, non capisco… perché pensate di portarvi questi libri?»

«Per leggere la sera e durante il viaggio.»

«Stiamo andando in spedizione oltre le mura, caposquadra. Non credo vi sarà tempo per una lettura, seppur veloce.»

«Sciocchezze!» la vide ridacchiare e scuotere il capo, permettendo alla massa di capelli unti e disordinati di danzare piacevolmente «C’è sempre tempo. Tra un titano e l’altro, sono sicura che riuscirò a leggere qualcosina e poi… la sera non riesco ad addormentarmi se non sono in compagnia di un buon libro. Allora…» di nuovo le copertine gli vennero mostrate «Quale potrei portare?»

«Siete sicura che “Distinguere i rapaci dal loro canto” e “L’armonia degli stagni: flora e fauna d’acqua dolce” possano essere letture piacevoli?»

«Certamente!» di nuovo una disarmante sicurezza «Perché, Moblit, tu cosa suggeriresti?»

«Pensavo a qualcosa di più classico, tipo… “Sei giganti in cerca d’autore” oppure “La cripta degli assassini” o ancora “La fu Christa Lenz”.»

«Ah, che roba poco interessante. Solo tu puoi leggere robe così.» lo rimbeccò la donna che, frattanto, aveva cavato una vecchia borsa da sotto una scrivania «Ho deciso, li porterò entrambi!»

«Il comandante ha ricordato che dobbiamo viaggiare leggeri.»

«Appunto! Sono certa che non avrà da ridire… in fondo, mica mi porto appresso l’enciclopedia sui funghi mangerecci.»

«Che, perdonate mi permetto, sarebbe molto più utile.» sussurrò l’assistente, scuotendo piano il capo. Sapeva che non l’avrebbe spuntata. Quando la scienziata si metteva in mente una cosa, non vi era modo di farla desistere. Naturalmente, il peggio doveva ancora arrivare perché – ne era assolutamente certo – quel carico di libri sarebbe finito dritto sulle sue spalle.

Forse, suggerirle un’altra lettura non era poi una scelta così furba. Se ne accorse, però, troppo tardi. Hanji gli rivolse un sorriso smagliante, poco prima di indirizzarsi alla libreria e recuperare, oltre alla famigerata “Enciclopedia dei funghi mangerecci” anche quella dedicata alle piante medicamentose e alle radici commestibili.

«Ottima idea, Moblit!» la sentì esclamare e, poco dopo, allargare quel ghignetto furbo e orgoglioso «Dimmi, hai spazio nel tuo zaino, vero?»

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Capitolo 11
*** Amici ormai lontani ***


Amici ormai lontani


Note: La fanfiction partecipa a:
* Cowt9, indetto da Lande di Fandom
* Week 4, Missione 2
* Prompt: Arrivare troppo tardi
* Parole: 647



Era arrivato troppo tardi.

Levi balzò da cavallo, pregando che il tempo si dilatasse e gli concedesse qualche attimo in più per poter salvare almeno Farlan. Vedeva il corpo dell’amico stretto tra le tozze dita di un gigante, a una trentina di passi di distanza; le gambe erano piegate in un angolo innaturale, entrambe spezzate, mentre sul viso – circondato dai capelli biondi ormai fradici di pioggia – poteva intravedere l’ombra di un sorriso tra i rivoli di sangue. Gli occhi chiari erano rivolti a lui, colmi di rassegnazione e rimpianto.

«Aspetta!» ringhiò, quando scorse la destra altrui rivolgergli un rapido cenno d’addio. «Farlan, aspetta!»

A che servivano quelle suppliche? A nulla. Il tempo non si sarebbe fermato soltanto perché era lui a chiederlo.

Percepì gli stivali scivolare sul terreno fangoso e, poco dopo, l’equilibrio venire a mancare. Slittò nel pantano, sbattendo le ginocchia contro i ciottoli seminascosti dall’erba umida. Le dita si chiusero immediatamente sulle impugnature delle spade, pronte a premere sui grilletti. Odiava quei mostri! Quegli orribili giganti rosa che avevano appena distrutto la sua famiglia. Gli avevano portato via tutto, in una misera manciata di minuti. Li avrebbe uccisi uno dopo l’altro senza mai fermarsi e poi…
Scosse il capo, incerto. Poi cosa avrebbe fatto? Non lo sapeva, ma forse non aveva neppure importanza. Non doveva fare altro che cedere, abbandonandosi alla rabbia cieca; permettendole di guidare le proprie lame e di tranciare con sicurezza le collottole dei titani che ancora gli sogghignavano davanti. Quanti erano? Ne contò cinque.
Premette a fondo i grilletti, lasciando il gas libero di sgorgare dal meccanismo tridimensionale. Si sentì sollevare poco dopo, quando l’arpione di sinistra si conficcò nella carne del primo nemico. Si mosse rapido, senza nemmeno pensare a ciò che faceva. Lasciò che fosse l’istinto a guidarlo, a permettergli di abbattere quei corpi mollicci e deformi in sequenza. Le lame fendevano perfettamente il retro dei colli, spaccando i tessuti e danzando nel vapore che le ferite generavano. I ringhi, le urla, il tonfo degli enormi piedi non lo scalfivano affatto; al contrario, si mescolavano alla pioggia ed alle sue grida di dolore come in una sinfonia perfetta.

Poco dopo, scivolò nuovamente al suolo. Atterrò in una pozzanghera, incurante degli schizzi bruni che macchiavano gli stivali confondendosi a quelli del sangue di gigante, ormai prossimo ad evaporare. Rinfoderò le spade, guardandosi attorno. Fu come destarsi da un lungo incubo: percepì la stessa leggerezza del risveglio, il sollievo che si prova nello scoprire che, in fondo, quanto affrontato non è altro che il frutto dell’immaginazione. Il cuore rallentò gradualmente i battiti, mentre l’adrenalina calava e l’attenzione passava dai corpi fumanti al terreno vicino.

Trasalì quando i suoi occhi chiari incontrarono quelli verdi di Isabel. Di lei non rimaneva più nulla, se non il cranio tranciato appena sotto il mento. Levi deglutì a vuoto, inginocchiandosi accanto alla testa, staccata di netto forse da un morso; del corpo, invece, non vi era traccia. Cercò di staccare le iridi dal viso familiare, atteggiato in una smorfia di terrore e dolore. Le labbra erano dischiuse, quasi a supplicare un’ultima volta, mentre lo sguardo – ormai vitreo – era rivolto al suo. Vi lesse accusa e delusione. Isabel lo riteneva davvero responsabile? Oppure quella era soltanto una sensazione sgradevole, il peso di una colpa che finiva per gravargli sulle spalle? Scosse il capo, sforzandosi di ignorare le urla della propria coscienza: era davvero colpa sua? Sì. Se soltanto li avesse ascoltati! Lo avevano avvertito di non andare, gli avevano chiesto di non lasciarli indietro e di portarli con lui. Non li aveva ascoltati. Si era limitato a rassicurarli ed a pretendere una fiducia che, in fin dei conti, non meritava affatto.

Le dita affusolate della mancina scesero ad abbassare le palpebre; la destra si chiuse a pugno e venne portata al cuore, in un ultimo e silenzioso saluto ai due amici ormai lontani.

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