What's Grey in a Black & White World di _Pulse_ (/viewuser.php?uid=71330)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Bernard d'Andrésy ***
Capitolo 2: *** Faith ***
Capitolo 3: *** Gentleman Cambrioleur ***
Capitolo 4: *** Breakfast without murder ***
Capitolo 5: *** Violin ***
Capitolo 6: *** Secret sister ***
Capitolo 7: *** Women ***
Capitolo 8: *** The blue diamond ***
Capitolo 9: *** Texts ***
Capitolo 10: *** Blood bonds ***
Capitolo 11: *** Team Arsène VS Team Sherlock ***
Capitolo 12: *** Grief ***
Capitolo 13: *** The black pearl ***
Capitolo 14: *** Dear ones ***
Capitolo 15: *** Family business ***
Capitolo 16: *** Instinct ***
Capitolo 17: *** White flower ***
Capitolo 18: *** Undercover ***
Capitolo 19: *** Role-playing game ***
Capitolo 20: *** Broken vow ***
Capitolo 21: *** Truth shall make you free ***
Capitolo 22: *** Les jeux sont faits ***
Capitolo 23: *** Stay ***
Capitolo 24: *** Epilogue ***
Capitolo 1 *** Bernard d'Andrésy ***
Buonasera! :-)
Come annunciato sulla mia pagina
facebook, Sherlock is back and the game is on!
Quello che state per leggere - o almeno lo spero - è il
primo capitolo di un progetto ambizioso e al momento non ancora
concluso. Ultimamente l'ispirazione scarseggia, ma ho buone speranze!
Certo, sapere da voi che ne vale la pena sarebbe un ulteriore
incentivo... :-P
Anyway, la storia è ambientata dopo la quarta stagione e ci
sarà un nuovo antagonista, molto particolare, e che io amo
follemente!
Non vi dico altro per non spoilerare troppo!
Grazie e a presto!
P.S. I personaggi non
sono miei e questa storia non è scrtta a scopo di lucro.
Vostra,
_Pulse_
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WHAT'S GREY IN A BLACK &
WHITE WORLD
1.
Bernard d'Andrésy
Era raro,
rarissimo che Sherlock trovasse una lettura così
interessante da ignorarlo completamente. Nella quasi
totalità dei casi si stancava ed insultava l'incompetenza
dell'autore dopo poche pagine.
John
l’aveva trovato così quando finalmente era
riuscito a lasciare Rosie sul letto del detective ed era tornato in
salotto: infossato in quel divano che accoglieva così bene
le forme del suo corpo leggermente spigoloso, avvolto nella sua
vestaglia preferita e col naso nascosto tra le pagine di un grosso
volume scientifico.
Dopo aver
tentato ben due volte di avviare una conversazione si era arreso: se
voleva passare del tempo col suo migliore amico, la cosa migliore da
fare era sedersi sulla propria poltrona e concedersi qualche minuto di
relax, coi piedi vicino al fuoco scoppiettante nel camino.
Sentì
il campanello suonare al piano inferiore, ma non ci badò
troppo, certo che ci avrebbe pensato la signora Hudson.
L’idea che si trattasse di un cliente lo sfiorò
solo per un istante, il tempo necessario a dirsi che se anche fosse
stato ci sarebbe voluto un caso davvero straordinario per attirare
l’attenzione del consulente investigativo.
Non avrebbe
saputo dire con certezza quanto tempo fosse passato dal suono del
campanello, ma sobbalzò quando sentì la signora
Hudson scoppiare in quella sua risata che in un’occasione
molto speciale Sherlock aveva paragonato al verso di un gufo sotto
tortura.
Gettò
un’occhiata verso l’amico, ancora nella stessa
identica posizione, e aprì la bocca per chiedergli chi
potesse farle visita a quell’ora, ma la richiuse non appena
udì un verso simile ad un grugnito, uno di quei versi che si
fanno inconsciamente durante il…
Il dottor
Watson si alzò di scatto dalla poltrona e con cautela tolse
il libro dalle mani di Sherlock, scoprendo che in realtà il
grande detective non era tanto immerso nella lettura da non accorgersi
della sua presenza: si era semplicemente addormentato col libro sulla
faccia.
Trattenne a
stento una risata, mentre si aggirava per l’appartamento alla
ricerca di una coperta, pensando a quanto spesso si dimenticasse che
anche Sherlock era un essere umano e come tale aveva bisogno di
dormire, ogni tanto. Specialmente dopo un intero pomeriggio trascorso
dietro ad una Rosie novizia eppure già così
entusiasta del gattonamento.
La signora
Hudson aveva ricominciato a ridere come una matta e John non
riuscì più a trattenersi. Sulle scale
pensò a quale scusa poter usare per entrare in casa sua e
vedere coi propri occhi il suo misterioso ospite, ma non ebbe il tempo
materiale per scegliere quella adatta: un uomo elegantissimo, con una
folta chioma di capelli color biondo platino e due occhi verdi
particolari quanto il viso perlaceo in cui erano incastonati, aveva
appena afferrato il corrimano con la mano guantata di bianco,
intenzionato a raggiungere il 221B.
«Oh,
buonasera», esclamò e il suo volto si
illuminò grazie ad un sorriso perfetto ed affascinante come
tutta la sua persona. «Lei deve essere il dottor Watson.
È un vero piacere fare la sua conoscenza, sa? Seguo con
infinito piacere il suo blog e posso affermare con certezza di essere
il vostro più fedele ammiratore, suo e del monsieur
Holmes».
John fu
colpito da quel flusso di complimenti, dal suo accento francese, dai
suoi occhi brillanti come quelli di un bambino di fronte al suo eroe
preferito e dalla sua stretta di mano decisa ed energica, in contrasto
con la raffinatezza del suo aspetto.
«Ne
sono lusingato», riuscì a dire, prima che
l’uomo misterioso riprendesse a parlare.
«A
proposito del monsieur
Holmes. La vostra padrona di casa, madame
Hudson – che donna incantevole! – mi ha detto che
è in casa».
Stava per
superarlo, quando John stese un braccio e lo fermò sul suo
stesso scalino, trovandosi così a pochi centimetri dal suo
corpo. Solo in quel momento si rese conto della sua vera altezza
– doveva di fatto sollevare il viso per poterlo guardare
negli occhi – e di quanto in realtà fosse in forma
sotto quel completo impeccabile e con un prezzo che lui avrebbe potuto
pagare soltanto digiunando per diversi mesi.
«Veramente
il signor Holmes non si sentiva troppo bene ed è andato
letto presto».
L’uomo
misterioso lo fissò per un paio di secondi interminabili,
durante i quali John non si sentì solo in soggezione,
bensì anche un po’ spaventato. Sotto i suoi occhi
ora privi di ogni traccia di allegria e simpatia, colmi invece di
fastidio e scetticismo, si sentì indifeso, quasi nudo, e
alla sua mercé.
Sherlock
l'aveva scandagliato più volte, cercando in lui tutte le
risposte alle sue domande, ma mai si era sentito intimorito. Era come
se quell'uomo, al contrario del suo migliore amico, potesse leggere i
suoi pensieri peggiori.
Bastò
un battito di ciglia, però, perché tutto tornasse
alla normalità.
L’uomo
fece per posargli le mani curatissime sulle spalle ma all'ultimo
momento le ritrasse, stirando un sorriso reticente e scuotendo
lievemente il capo.
«Mon Dieu! Ho dovuto
fare i salti mortali per riuscire a ritagliarmi un’ora di
libertà – ho persino cancellato un appuntamento a
cui tenevo particolarmente – e il mio vecchio amico
è già tra le braccia di Morfeo!».
Sospirò e all’improvviso iniziò a
ridacchiare, scendendo le scale e dirigendosi verso la porta.
«Gli
dica che sono passato, caro dottor Watson, e di non preoccuparsi: anche
io sono ansioso di vederlo e sono sicuro che ci incontreremo
prestissimo».
«Non
so nemmeno il suo nome».
L’uomo
si voltò e socchiuse gli occhi, portandosi teatralmente una
mano alla fronte. «Mi perdoni, è la stanchezza.
È stato un lungo viaggio».
Si
aprì di nuovo il cappotto - molto simile a quello di
Sherlock, notò - e da una delle tasche interne
tirò fuori un bigliettino da visita, per poi controllarlo
alla luce dell'ingresso. John lo trovò strano, ma
trovò ancora più strano ciò che vide
guardando con più attenzione: non c'era scritto niente su
quel cartoncino, entrambi i lati erano immacolati. Quindi l'uomo
estrasse una stilografica, posò il piede sul primo scalino
ed usò il proprio ginocchio come appoggio per scrivere
qualcosa sul bigliettino. Infine, tenendolo tra l’indice e il
medio, glielo porse con un sorriso.
«Bernard
d'Andrésy», lesse il nome, scritto con una
calligrafia svolazzante ma chiara e precisa. «Tutto
qui?».
«È
tutto ciò che serve al monsieur
Holmes», rispose quasi con dolcezza.
John si
rigirò nervosamente il bigliettino tra le dita e in uno
slancio di coraggio scese le scale fino a trovarsi di nuovo al suo
cospetto.
«Non
capisco... Vi conoscete già?».
L’uomo
aprì la porta e si fermò sulla soglia, col vento
freddo che gli scompigliava i capelli. Non rispose alla sua domanda, ma
gli rivolse un sorrisetto malizioso ed esclamò: «Mon Dieu, sono
stato via per troppo tempo. Lo Sherlock che conosco non avrebbe mai
sopportato di stare nella stessa stanza con una bambina per
più di cinque minuti».
La
mandibola di John fu sul punto di crollare. «Come... come fa
a sapere di Rosie?».
«Non
può dire sul serio», esclamò con un
risolino. Leggendo l'incredulità sul volto di Watson,
però, si incupì. «Oh, dice sul serio.
Si guardi, dottore! Borse sotto gli occhi per mancanza di sonno, segno
che qualcosa o qualcuno la fa dormire poco o in maniera irregolare;
macchie di omogenizzato e pappa di mela con due diverse fasi di
seccatura sulla camicia, segno che sono stati somministrati a distanza
di qualche ora l'uno dall'altro; sempre sulla camicia, ci sono delle
pieghe poco sopra i fianchi che indicano chiaramente che ha tenuto un
cucciolo d'uomo in braccio per un lungo periodo di tempo, forse per
farlo addormentare».
«Lei
ha detto... ha specificato "bambina"».
L'uomo fece
una pernacchia. «Brillantini sulla sua spalla sinistra. Una
fascia, un qualche oggettino per capelli... Prettamente
femminili». Lo stesso sorriso reticente comparve sulle sue
labbra mentre sollevava una mano per agitare le dita.
«È per quelli che non l'ho toccata,
prima».
John rimase
scioccato dalle sue deduzioni, tanto da pensare: Oh no, un altro.
L'uomo
attese per qualche minuto, invano, che proferisse verbo; poi
scoppiò in una risata allegra che si concluse con un sospiro
soddisfatto.
«Sa,
dottor Watson... Mi sono giunte voci riguardo ai progressivi
cambiamenti di monsieur
Holmes e volevo verificare di persona. Il fatto che sua figlia al
momento sia sola con lui, nel suo appartamento, mi
meraviglia».
John
strinse i pugni lungo i fianchi, sentendo la rabbia iniziare a
scaldargli il sangue nelle vene. L'unico motivo per cui non disse nulla
fu il pensiero che mai, mai
avrebbe osato lasciare una creatura dell'età di Rosie sola
con lo Sherlock di qualche anno prima.
Il biondo
gli rivolse un cenno d'assenso, quasi come se avesse seguito per filo e
per segno il suo ragionamento, e finalmente uscì dalla
porta. John lo seguì e rimase sulla soglia, sferzato dal
vento, a guardarlo a bocca aperta mentre saliva su una Porsche
argentata e sfrecciava via facendo ruggire il potente motore.
Chi diavolo
era quell'uomo? E perché sembrava sapere così
tanto di Sherlock?
Il
desiderio di chiederlo immediatamente al diretto interessato lo
ammaliava, ma sapeva che se avesse svegliato Sherlock per qualcosa di
inutile questo gli avrebbe tenuto il broncio per giorni, e che se
invece si fosse trattato di un altro arcinemico sarebbe stato lui a non
poter più chiudere occhio fino alla fine del gioco.
Finalmente
si chiuse la porta alle spalle, cacciando fuori il freddo, e
dirigendosi verso l'appartamento della signora Hudson si
infilò il bigliettino nella tasca dei jeans.
Bussò
lievemente ed entrò, trovandola intenta a sciacquare un paio
di tazze da tè.
«Penso
di averle già detto come la penso a proposito di prendere il
tè con gli sconosciuti, signora Hudson».
La donna
spense l’acqua e si tolse i guanti di gomma viola, ridendo:
«Ma quel giovanotto non è affatto uno sconosciuto,
mio caro!».
John
corrugò la fronte, sentendo la confusione crescere come
un’erba rampicante nella sua mente. «Non lo
è?».
«Oh
no, lui e Sherlock sono amici di vecchia data!».
«Come
lo sa?».
«Me
l’ha detto lui!».
Di bene in meglio,
pensò gravemente il dottore, sedendosi al piccolo tavolo
della cucina.
«Non
lo trova tremendamente affascinante?», disse ancora la
signora Hudson. «Se solo avessi qualche anno di meno! Anche
se credo che le donne non siano proprio la sua… zona di
caccia, se capisce cosa intendo».
John si
massaggiò la mascella, meditabondo.
La donna, la finta
relazione con Janine e l'ultima, sconvolgente confessione che aveva
fatto a Molly - nonostante fosse stata una prova della sua pazza
sorella Eurus, - avevano reso la vita ancora più complicata
a tutti, ma specialmente a John, il quale non riusciva a non chiedersi
quale fosse la zona di caccia del detective, o se ne avesse una almeno.
Unì
le mani sul tavolo e con aria seria chiese: «Lei pensa che
tra lui e Sherlock…?».
«Non
saprei proprio, caro. Starebbero bene insieme però, non
trova?».
L’ex
medico militare pensò alla gioia nei suoi occhi e subito
dopo alla loro severa superiorità, capace di mettergli i
brividi.
Aveva
parlato con lui per… quanto? Dieci minuti? E al suo cospetto
aveva provato prima simpatia e un pizzico di ammirazione, subito dopo
timore e disagio.
Quell’uomo
aveva qualcosa che non gli piaceva e il solo pensiero che fosse un
amico di Sherlock, o addirittura qualcosa di più, lo rendeva
inquieto, anche se doveva ammettere che anche lui ce li vedeva bene
insieme. Di sicuro avevano molto in comune, a partire dalle
straordinarie capacità deduttive.
«È
di sopra, ora?», gli chiese la signora Hudson, interrompendo
i suoi ragionamenti.
«No,
Sherlock dormiva e ho preferito non svegliarlo. A questo punto mi
chiedo se ho fatto la cosa giusta».
***
John si
sentì un po' in colpa nei confronti di Sherlock quando
rientrando nell'appartamento andò a controllare Rosie.
Dormiva pacifica sopra il letto rifatto, un pugnetto vicino alla bocca
e il cerchietto coi brillantini rosa storto tra i boccoli biondi.
Quindi
tornò in salotto e una volta sprofondato nella propria
poltrona fissò Sherlock, rannicchiato sul fianco e con un
lembo della vestaglia che sfiorava il pavimento.
Tirò
fuori dalla tasca dei jeans il bigliettino da visita che gli aveva
lasciato Bernard d'Andrésy e lo girò e
rigirò, più volte. Completamente bianco, fatta
eccezione per il nome che aveva scritto a penna.
John chiuse
gli occhi, continunando a chiedersi: Chi mai se ne andrebbe in giro
con dei bigliettini da visita bianchi?
Qualcuno sempre pronto a
cambiare identità, rispose Mary dolcemente.
Spalancò
gli occhi e scandagliò l'appartamento, ma di lei nessuna
traccia.
Era da un
po' che non la vedeva né sentiva. Da quando si era
riavvicinato a Sherlock si era fatta da parte poco a poco,
gradualmente, fino a quando non era scomparsa del tutto. John si era
detto che era meglio così, che era giusto così,
ma una parte di lui ne aveva sofferto terribilmente.
Ed ora
eccola lì, di nuovo, pronta ad aiutarlo nel momento del
bisogno.
Abbozzò
un sorriso e tornò a chiudere gli occhi per ripetere
l'esperimento.
Non ha senso, si
disse. Nessuno
può cambiare identità in questo modo.
Mary non
rispose e John aspettò, fino a quando non cedette al
sonno.
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Capitolo 2 *** Faith ***
2.
Faith
John si svegliò a
causa del cellulare che stava vibrando sul comodino. Sollevò
la testa e guardò Rosie nel suo lettino, poi
sospirò e si puntellò su un gomito per prendere
in mano il telefono. Il display luminoso lo
accecò, ma riuscì comunque a leggere il nome di
Sherlock. L'amico lo chiamava raramente, amante com'era degli sms,
quindi non poté fare a meno di preoccuparsi. Rispose senza
ulteriori esitazioni.
«Sherlock,
stai bene?».
«Che
ore sono?», farfugliò il detective.
John
allungò una mano verso la sveglia e poi si portò
le dita sugli occhi. «Le quattro e un quarto, di notte. Dimmi
che non mi hai svegliato per chiedermi l'ora».
«Tu
non mi hai svegliato quando tu e Rosie siete andati via. Non hai
lasciato nemmeno un biglietto».
John si
sentì all'improvviso sveglissimo. «Tu... tu ti sei
preoccupato per noi?».
Il silenzio
dall'altra parte fu eloquente e il dottore sorrise, promettendo:
«Non lo farò più, okay? Stavi
dormendo...».
«Non
stavo dormendo»,
ribatté inacidito, come se lo avesse appena insultato. Si
era dimenticato che per Sherlock dormire era uno spreco di tempo
insopportabile.
«Va
bene, come vuoi».
«John?».
«Sì?».
«Mentre
io... er, riflettevo...
è passato qualcuno? Mi è sembrato di sentire una
voce».
John si
ricordò all'improvviso di Bernard d'Andrésy,
l'uomo biondo e raffinato che voleva vedere Sherlock. Il suo enigmatico
bigliettino da visita era ancora sul comodino, lì dove
l'aveva lasciato prima di imporsi di chiudere gli occhi.
«John?».
«Sherlock,
è tardi», mormorò, sentendo un groppo
in gola.
Perché
esitava a dirglielo? Prima o dopo, in fondo, non avrebbe fatto alcuna
differenza. O forse sì, dato che avrebbe preferito Moriarty,
Magnussen e persino Culverton in confronto all'uomo misterioso. Almeno
con loro sapeva con chi aveva a che fare.
«Domani
mattina, cioè... tra un paio d'ore vengo lì per
lasciare Rosie alla signora Hudson, facciamo colazione e
parliamo».
«Perché
aspettare? John?».
«Perché
ho sonno, dannazione!», gridò dimenticandosi di
Rosie, la quale si svegliò ed iniziò a piangere
per lo spavento.
«Oh,
no...», piagnucolò, passandosi una mano sul volto
stanco. «Devo andare, Sherlock. A domani».
Il
detective non rispose e John terminò la comunicazione.
Posò il cellulare sul comodino, sopra il biglietto da
visita, e si alzò rassicurando la figlia.
«Va
tutto bene, papà è uno stupido», le
disse e cercò di convincere anche se stesso.
***
Poco dopo
le otto, John entrava al 221B di Baker Street con una grande borsa
sulla spalla, il proprio zaino sulla schiena e Rosie stretta al collo,
ancora un po' insonnolita.
«Buongiorno
caro», lo salutò la signora Hudson con un sorriso,
andandogli incontro per prendere Rosie ed accarezzarle il naso col
proprio.
Il dottore
lasciò la borsa su una delle sedie intorno al tavolo della
cucina e chiese: «Sherlock?».
La padrona
di casa sollevò le sopracciglia. «Ah, lasciamo
perdere. Questa notte l'ho sentito andare avanti e indietro senza
sosta».
«Mi
dispiace, temo...».
«Ma
ora sembra essersi calmato. C'è un cliente».
«Un
cliente?», esclamò, guardando l'orologio.
«Così presto?». Poi un terribile
sospetto gli attraversò la mente. «Non
è l'uomo di ieri, vero?».
«Oh
no», rispose la signora Hudson, divertita.
«È un tipo strano e piuttosto burbero, sulla
cinquantina. Sherlock sembrava conoscerlo».
John lo
trovò molto insolito. In meno di ventiquattr'ore si erano
presentati alla porta di Sherlock due individui che lui conosceva e di
cui, però, non gli aveva mai detto nulla. Quanti altri
segreti possedeva, il suo migliore amico?
«Le
dispiace se vado di sopra?», le chiese e senza attendere una
risposta percorse gli scalini due a due.
Si
fermò sulla soglia del salotto e guardò Sherlock
seduto sulla sua poltrona di pelle nera, gli occhi chiusi e le punte
delle dita unite di fronte alle labbra. Il suo cliente, invece, era in
piedi davanti alla finestra socchiusa, una sigaretta accesa tra le
labbra.
Come aveva
detto la signora Hudson, quel tipo aveva un'aria davvero burbera: i
capelli brizzolati tenuti in disordine; il volto belloccio, solcato di
rughe d'espressione, sembrava accartocciato su se stesso; gli occhi
castani arrossati e stretti in due fessure; le labbra sottili contratte
in un ringhio muto. Per essere sulla cinquantina, li portava davvero
male.
John
aprì la bocca per introdursi, ma Sherlock lo
fermò con un solo gesto della mano. Quindi tornò
nella sua posa e con voce pacata lo presentò lui stesso:
«Ispettore Ganimard, le presento il mio amico e collega, il
dottor John Watson. Può fidarsi di lui, qualsiasi cosa
dirà rimarrà tra noi». E dal modo in
cui Sherlock lo fissò, capì che quella storia non
sarebbe mai finita sul suo blog.
«Confermo»,
rispose irrigidendo le spalle. «Piacere di conoscerla,
ispettore».
L'uomo gli
rivolse un'occhiata astiosa, prima di scrollare le spalle e voltarsi
per spegnere il mozzicone di sigaretta nel posacenere che Sherlock
doveva aver tirato fuori per lui. Da quando c'era Rosie aveva smesso di
lasciare in giro cose nocive per lei, e per quanto possibile cercava di
tenere in ordine.
«Non
mi ripeterò», esclamò con la voce
arrochita, da fumatore incallito. «È
già stato abbastanza umiliante».
«Lei
è francese», notò John dall'accento,
sbalordito. Come
Bernard d'Andrésy...
Ganimard
guardò Sherlock, le mani posate sullo schienale della sedia
dei clienti. «Non ci voleva molto per intuirlo».
«Gli
dia tempo, ispettore. Imparerà ad apprezzarlo».
John, punto
nel vivo, si tolse il giubbotto e si sedette sulla poltrona di fronte a
Sherlock, pronto a trattare quell'uomo come uno qualunque dei loro casi.
«Allora...
Arsène Lupin non è più in
prigione», ricapitolò Sherlock. «Lei era
riuscito a mettercelo e lei l'ha fatto uscire».
Ganimard
abbassò il capo, stringendo lo schienale tanto forte da
sbiancarsi le nocche. «Sono stato raggirato».
«E
nessuno lo sa perché Arsène la considera un
amico».
«È
quello che ha detto».
«E
lei non ha nessuna intenzione di dirlo ai suoi colleghi. Immagino che
diventerebbe lo zimbello di Francia, che la
ripudierebbero...».
L'ispettore
infilò una mano nella tasca del trench marrone ed estrasse
una nuova sigaretta dal pacchetto rovinato. Si avvicinò
nuovamente alla finestra e l'accese, aspirando avidamente.
«Perché
è venuto da me, ispettore?», domandò
ancora Sherlock, con una calma che preannunciava l'arrivo di una
tempesta di dimensioni epiche.
John poteva
dire addio alla tranquillità per un bel po'.
«Perché
Lupin mi ha detto che sarebbe venuto qui, a Londra».
John
strabuzzò gli occhi. «Mi faccia capire bene:
questo Arsène Lupin è riuscito a fuggire di
prigione...».
«È
stato lasciato andare»,
lo corresse Sherlock a denti stretti, perdendo un po' di quella sua
tempra granitica.
«...
E le ha detto dove sarebbe andato, di sua spontanea
volontà?».
«Tipico
di lui», borbottò ancora il detective, toccandosi
la tempia sinistra con la punta dell'indice e del medio.
«Sì,
è esatto», rispose invece Ganimard, sconsolato.
Sherlock
afferrò i braccioli della poltrona per darsi la spinta
necessaria ad alzarsi con l’agilità di un felino
ed allacciandosi i bottoni della giacca si avviò verso la
porta, accanto alla quale si fermò per fissare il francese
con aria gelida. Questo soffiò un'ultima boccata di fumo
fuori dalla finestra e spense il mozzicone nel posacere con stizza, poi
raggiunse il consulente investigativo e lo fronteggiò.
«Sono
molto deluso, Ganimard. Ma ti scriverò se avrò
sue notizie».
L'ispettore
annuì e senza nemmeno salutare uscì, scese le
scale a passi pesanti e si sbatté la porta alle spalle.
Sherlock fece lo stesso con quella dell'appartamento, borbottando tra
sé, mentre John correva alla finestra per guardare Ganimard
accendersi la terza sigaretta ed allontanarsi a piedi, con le spalle
curve sotto un peso insostenibile.
John doveva
andare al lavoro, era già in ritardo, ma non poté
non voltarsi verso Sherlock nella speranza di ricevere qualche
dettaglio in più sulla questione.
«Perché
dovresti avere sue notizie?», domandò, sentendo di
nuovo quel groppo in gola.
«Ah,
non farmi domande di cui sai già le risposte!», lo
rimproverò, gli occhi azzurri di ghiaccio. Senza aggiungere
altro, stese una mano verso di lui.
«Cosa?».
«Avanti,
lo sai cosa voglio!», ringhiò. «Ieri
sera, mentre dormivo, si è presentato qui uno sconosciuto,
anche lui dall'accento francese visto il modo in cui ti sei stupito
quando hai sentito parlare Ganimard. Tu non l'hai fatto salire e gli
hai chiesto chi fosse. Lui deve averti dato un bigliettino da visita e
da come il tuo pollice si è mosso all'interno della tasca
direi che si trova lì. Dammelo, John».
«Quindi
ammetti che stavi dormendo».
Sherlock,
spazientito, voltò il capo verso lo specchio come alla
ricerca di sostegno da se stesso. «Sì, stavo
dormendo. E, come ho sempre sostenuto, è stato uno spreco di
tempo incredibile».
«Quindi
lo sconosciuto sarebbe Arsène Lupin?».
«Il
fatto che sul bigliettino abbia scritto un altro nome non vuol dire che
sia il suo».
«Come
fai a conoscerlo?», insistette il dottore, sempre meno
contento dell'arrivo di quello sconosciuto nelle loro vite.
«È
una storia troppo lunga».
«Allora
dimmi che cosa vuole da te».
«Questo
dovresti dirmelo tu! Sei tu
che l'hai incontrato! Tu
mi hai tenuto all'oscuro del suo arrivo!».
John non
abbassò lo sguardo di fronte a quello colmo d'ira di
Sherlock, uno Sherlock che non vedeva in quello stato da tanto,
tantissimo tempo.
Fu la
signora Hudson ad interrompere il loro muto duello, preoccupata per le
grida. Rosie era ancora tra le sue braccia, con un sonaglino di gomma
in bocca.
«Va
tutto bene, cari?».
«Se
ne vada, signora Hudson», ordinò il detective,
imperativo.
La sua mano
era ancora tesa a mezz'aria e John, nonostante fosse furente di rabbia
per come li stava trattando per via di quel dannato Arsène,
infilò finalmente la mano in tasca e tirò fuori
il bigliettino da visita tanto agognato. Gli occhi di Sherlock si
illuminarono di una luce perversa e il dottore, vagamente disgustato,
lanciò il cartoncino sulla poltrona del detective.
«Divertiti»,
mugugnò prima di raggiungere la signora Hudson e
rassicurarla con un braccio intorno alle sue spalle.
***
Bernard
d'Andrésy, un nome scelto appositamente per fargli capire
che si trattava proprio di lui, del solo ed unico Arsène
Lupin.
Arsène
Lupin, l'inafferrabile ladro le cui prodezze venivano ampliamente
raccontate sui giornali francesi, così ricche di dettagli da
supporre che fosse lui stesso a spiegare i fatti.
Arsène
Lupin, il gentiluomo che operava soltanto nelle ville e nelle gallerie
più famose, e che, una notte in cui era entrato dal signor
Schormann, ne era uscito a mani vuote lasciando il suo biglietto da
visita bianco, su cui aveva scritto la frase: "Arsène Lupin,
ladro gentiluomo, tornerà quando i mobili saranno autentici".
Arsène
Lupin, l'uomo dai mille travestimenti: di volta in volta autista,
giardiniere, ragazzo di buona famiglia, broker, vecchio, medico russo,
torero spagnolo!
Arsène
Lupin, ladro oltre che per professione per diletto. Lavorava per gusto
e per vocazione, certo, ma anche per divertimento. Proprio come lui.
Bernard
d'Andrésy, era quella l'identità con cui era
finito in manette una volta sceso dalla nave da crociera che dalla
Francia l'aveva portato sulle coste americane. E ora era libero di
tornare ai propri giochi, ai tesori che collezionava come le figurine
di un album, pubblicizzandosi sui giornali eppure rimanendo un totale
mistero.
Sherlock,
immerso nel buio del laboratorio, fissò ancora una volta la
parola che brillava di luce azzurrina sul retro del biglietto da
visita: "Fede".
Sherlock socchiuse gli occhi e
fece segno alla guardia pesantemente armata di aprirgli la porta della
cella. Era l'unica del blocco, immersa nel cemento delle fondamenta e
la porta di solidissimo ferro era blindata.
«Mon
Dieu!».
Arsène Lupin lo
guardava affascinato, entusiasta come un bambino, seduto a gambe
incrociate sul letto a due piazze e dalle lenzuola di seta.
Indossava la stessa divisa
degli altri carcerati della Santé, ma sopra portava una
vestaglia di velluto rosso. I capelli biondi erano puliti e tirati
indietro, come se avesse appena fatto lo shampoo, e il suo viso
perfettamente sbarbato.
«Ti trattano bene,
vedo», esordì Sherlock, ammirando l'arredamento
sfarzoso di quella cella ampia ed illuminata da un lampadario di
cristallo. Ai quattro angoli del soffitto, le telecamere li stavano
osservando attentamente.
Arsène si
alzò e si avvicinò con cautela, esaminandolo.
Sherlock rimase fermo mentre il ladro gli volteggiava intorno in punta
di piedi, trattenendo a stento un risolino.
«Pensano che in
questo modo non mi venga in mente di evadere»,
sussurrò con una mano vicino alla bocca. «Non
hanno ancora capito che sono di passaggio».
Sherlock non riuscì
a trattenere una risata e Arsène si fermò di
fronte a lui, guardandolo con quei suoi occhi brillanti ed ammaliati.
«Mi hai fatto
proprio una bella sorpresa. Il caro Sherlock, qui!».
«In
persona».
«Non è
che sei venuto per rimproverarmi, vero?».
Il detective
corrugò la fronte. «Rimproverarti?».
«Sì,
l'altro giorno ho detto al caro Ganimard che è il nostro
miglior detective. Che vale quasi come Sherlock Holmes. Ed eccoti qui!
Te la sei presa?».
Il detective strinse le labbra
e alla fine rispose: «Non sono qui per questo».
«Lo sapevo, non
dovevo dire quelle cose». Mortificato, Arsène si
guardò intorno per cercare qualcosa con cui farsi perdonare.
«Sono desolato, posso offrirti solo questo
sgabello». Guardando verso la porta, gridò
indignato: «Neanche una bibita fresca! Un bicchiere di
birra!».
Sherlock osservò
Arsène sistemare lo sgabello dietro di lui e spolverarlo con
cura, poi al cenno del ladro si sedette, posando un piede sull'appoggio
in modo da avere un ginocchio sollevato.
«Mon Dieu, come sono
felice di posare i miei occhi sul viso di un uomo onesto!»,
esclamò Arsène, sedendosi sul bordo del letto.
«Ne ho abbastanza di tutte queste facce di spie e di aguzzini
che passano dieci volte al giorno a controllare le mie tasche e la mia
modesta cella per assicurarsi che non stia preparando un'evasione.
Caspita, questo governo ci tiene proprio a me!».
«E ha ragione. Tu
sei unico nel tuo genere, Arsène».
Il ladro parve arrossire e
chinò il capo, stringendosi nelle spalle. «Non
dire così. Sarei tanto felice se mi lasciassero vivere nel
mio angolino!».
«Con i gioielli, i
quadri e gli artefatti degli altri».
«Almeno non
sperpererei le tasse dei miei concittadini», rispose
indicando tutto ciò che c'era intorno a sé.
«Ma veniamo a noi, caro Sherlock. A cosa devo l'onore di una
tua visita?».
«Il caso
Cahorn», dichiarò Sherlock senza giri di parole.
Arsène
alzò una mano e chiuse gli occhi, portandosi le dita
dell'altra sulla tempia. «Aspetta, fammi entrare nel mio
Palazzo Mentale e tirare fuori il dossier di questo Cahorn».
Sherlock digrignò i
denti, infastito dall'imitazione. Gli occhi luminosi di
Arsène lo costrinsero a tornare impassibile.
«Ah, ci sono!
Scusami, è che ho così tanti affari in ballo...
Allora, residenza Malaquis. Due Rubens, un Watteau e alcuni piccoli
oggetti».
«Piccoli?».
«Nulla di
così importante, ho visto di meglio. Dimmi,
perché ti interessa tanto? Ganimard non riesce a
raccapezzarsene?».
Il suo ghigno divertito
tornò a stuzzicare i suoi nervi. Quando voleva,
Arsène era un vero sbruffone.
Il ladro scosse il capo,
amareggiato. «Lo sapevo che paragonarlo a te gli avrebbe dato
alla testa».
«Ganimard ha chiesto
il mio aiuto e sono venuto».
«Ma questo caso non
è nemmeno un cinque!».
Sherlock deviò il
suo sguardo, domandandosi come diavolo facesse a sapere del metodo che
usava per classificare i casi e decidere così se valesse la
pena di uscire di casa.
«So che l'hai
già risolto. Non ne dubito. Quindi... Perché sei
qui?», chiese a bassa voce, prendendosi il mento tra le dita.
Il sorriso che gli incurvò le labbra all'improvviso lo fece
agitare sullo sgabello.
«Volevi
vedermi», dedusse. «Volevi vedere coi tuoi occhi il
grande Arsène Lupin in una cella d'isolamento».
«Hai
ragione», ammise Sherlock. «Non riuscivo a credere
che ti fossi lasciato arrestare. In modo così docile, poi!
Perché, Arsène? Non capisco».
Il ladro si alzò e
si avvicinò di nuovo, si fermò davanti al celebre
detective e poi, per qualche assurdo motivo, si inginocchiò
ed infilò le mani nelle sue. Sherlock ebbe un fremito,
scorgendo il proprio riflesso negli occhi verdi dell'avversario e
sentendo la delicatezza di quelle mani, così diverse dalle
sue, piene di cicatrici da elementi chimici. Ci volevano mani curate
per trattare gli oggetti preziosi che adorava rubare.
«Una donna mi
guardava, Sherlock, e l'amavo», sussurrò con
dolcezza. «Lei mi guardava, il suo amore per me si sgretolava
di fronte alla verità e tutto il resto non aveva
più importanza, ti giuro. È per questo che sono
qui».
«Continuo a non
capire».
«No, certo che no.
L'amore... L'amore è e sarà sempre ciò
che ci renderà diversi, mon ami».
Sherlock ritrasse finalmente
le mani e si alzò per dargli le spalle, un'espressione di
scherno sul volto. «Guarda dove ti ha portato,
l'amore».
«Non è
l'amore che mi ha portato qui. Sono stato io».
Sherlock girò
impercettibilmente la testa, porgendogli l'orecchio.
«L'ho persa per
sempre e volevo dimenticarla. Tu hai il tuo lavoro per distrarti, lo
so, ma con me non avrebbe funzionato. Ogni gemma, ogni dipinto, ogni
cosa bella mi avrebbe ricordato lei. Così mi sono lasciato
ammanettare, felice che Ganimard raccogliesse un po' della gloria che
merita».
«Mi stai prendendo
in giro», ringhiò Sherlock, mantenendo a stento la
calma.
«Sherlock».
Il suo tono di voce fiero e
determinato lo fece voltare.
«Fede».
«Non è il
mio campo».
Arsène sorrise, di
nuovo con quella sfumatura dolce. Si appoggiò allo sgabello
per alzarsi e si avvicinò per porgergli la mano. Sherlock
ebbe qualche remora, ma alla fine la strinse.
«Abbi fede in
me».
«Non sei un dio,
Arsène».
«No, ma
uscirò da questa cella, presto o tardi. Non appena il mio
cuore sarà guarito».
«Uscirai solo quando
sarai scortato in tribunale, dopodiché non vedrai
più la luce del sole».
Il sorriso di
Arsène si ampliò, mostrando un qualcosa di
maligno. «Non assisterò al mio processo, mon
ami».
«Staremo a
vedere», concluse ferale, lasciandogli la mano per picchiare
il pugno contro la porta di ferro.
Lo spioncino scorrevole si aprì e la guardia
annuì prima di iniziare ad aprire le varie serrature.
«Ah,
Sherlock!», gridò Arsène, quando la
porta era ormai aperta.
Il suo scatto improvviso aveva
fatto sollevare i fucili automatici delle guardie, le quali iniziarono
ad urlare ammonimenti in francese.
Il ladro alzò
rapidamente le mani, fingendosi spaventato. «Scusate, io...
volevo solo restituire al monsieur Holmes il suo cellulare».
Sherlock si tastò
le tasche del cappotto, senza trovarlo. Maledetto Lupin.
Quando i loro sguardi si
incrociarono, il volto di Arsène brillò di gioia.
Il consulente investigativo tornò indietro e stese una mano
verso di lui. Con movimenti calcolati, il ladro infilò una
mano nella tasca della vestaglia e gli porse il cellulare. Le loro dita
si sfiorarono e Arsène, chinandosi in avanti,
sussurrò: «Fede».
Sherlock strinse i denti e una
volta preso il cellulare gli diede le spalle per non voltarsi
più indietro, nemmeno quando la porta blindata si chiuse con
un tonfo che echeggiò per tutto il sotterraneo.
Le luci al
neon del laboratorio si accesero di colpo e Sherlock strizzò
gli occhi, incrociando lo sguardo sorpreso di Molly, sulla porta.
«Non
sapevo fossi qui».
Si
alzò in fretta togliendosi gli occhiali di plastica
arancioni e senza dire una parola si infilò il cappotto, il
biglietto ancora stretto in mano.
«Sherlock,
stai...?».
«Scusami,
devo andare», la interruppe e la superò,
avvertendo uno strano peso sul cuore mentre le parole del ladro
gentiluomo gli rimbombavano nel cranio: «L'amore... L'amore è
e sarà sempre ciò che ci renderà
diversi, mon ami».
_______________________________________________________________________
Eccoci qui al capitolo due! :D
Sono molto emozionata per questa storia e per il meraviglioso
personaggio di Arsène Lupin, da me rivisitato
perché potesse confrontarsi con lo Sherlock del ventunesimo
secolo. Spero solo di averne mantenuto l'anima originale,
perché è strepitoso. (Per chi non avesse mai
letto le sue avventure, scritte da Maurice Leblanc, avete aspettato fin
troppo!). A
questo proposito ci tengo a precisare che ho preso molta ispirazione
dai casi descritti da Leblanc, perciò, anche se io
li ho riadattati in chiave moderna, tutti i crediti vanno a lui!
Detto ciò, adesso iniziamo ad entrare nel vivo della
storia... Quale sarà il motivo per cui Arsène
Lupin è a Londra? E quale rapporto lo lega a Sherlock
Holmes? Spero di avervi incuriosito abbastanza. Fatemi sapere le vostre
idee e se vi è piaciuto, ovviamente ;)
Grazie a chi ha messo questa storia tra le preferite, seguite e
ricordate e a tutte le persone che hanno letto!
A presto!
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Capitolo 3 *** Gentleman Cambrioleur ***
3. Gentleman Cambrioleur
Finalmente
quella giornata di lavoro era terminata.
Il tempo sembrava
scorrere all'indietro e John non aveva fatto altro che scervellarsi,
tra un paziente e l'altro, sullo strano comportamento di Sherlock. Cosa
lo legava ad Arsène Lupin e perché non ne aveva
mai sentito parlare?
Alla fine aveva preso
una decisione, nonostante il suo rapporto con Mycroft fosse diventato
ancora più imbarazzante da quando aveva cercato di salvarlo
in una delle prove di Eurus. Dall'Holmes più freddo e
meschino non se lo sarebbe mai aspettato e sapeva che avrebbe dovuto
ringraziarlo, un giorno o l'altro.
Fu scortato nella sua
saletta privata in quell'assurdo posto che era il Diogenes Club e una
volta chiusa la porta alle sue spalle sospirò, cercando di
raccimolare il coraggio.
«Buonasera,
John», lo salutò Mycroft, senza distogliere lo
sguardo dal giornale che stava leggendo. «Si
accomodi».
Il dottore si sedette
sulla poltrona che dava le spalle alla porta e si portò le
mani sulle ginocchia, a disagio.
«Qual
è il problema?».
«Non lo
sa?».
Mycroft
abbassò rapidamente il giornale e lo piegò con
cura per metterlo sul vassoio accanto ad una bottiglia di whisky
pregiato.
«Arsène
Lupin è a Londra».
Il maggiore degli
Holmes chiuse gli occhi e si versò un goccio, si
portò il bicchiere di cristallo alle labbra e
buttò giù il liquido ambrato tutto in una volta.
«Come lo
sa?», gli chiese poi, schiarendosi la gola.
«L'ispettore
Ganimard è passato questa mattina, chiedendo l'aiuto di
Sherlock. Lei sapeva che era riuscito ad uscire di prigione?».
«Sì,
lo sapevo. E sapevo anche che questo giorno sarebbe arrivato, speravo
solo... non così presto», sospirò,
versandosi un altro bicchiere.
«Non
capisco. Chi è questo Lupin? È davvero una
minaccia così grande?».
Mycroft
inchiodò gli occhi nei suoi. «Lei l'ha incontrato,
non è così?».
John non
poté far altro che annuire.
«Cosa ne
pensa?».
«Ho avuto...
sensazioni discordanti».
«Esatto.
Arsène Lupin è così. Lo odi e lo ami,
non puoi decidere. Lui è il grigio in un mondo in bianco e
nero».
«Ha le
stesse abilità di Sherlock...».
«E ha i
sentimenti», aggiunse Mycroft, schioccando la lingua al
palato. «Oh, una valanga! Per questo è
così irresistibile».
John si
accigliò, cercando di carpire ogni possibile sottinteso.
«Sta dicendo che Sherlock...?».
«Oh,
no», scosse il capo con decisione.
«Arsène, forse. Ma Sherlock no, lo conosce! Per
lui, Arsène è solo un mistero che non
è mai riuscito a risolvere. Non riesce proprio a capire come
faccia a conciliare cervello e cuore, dato che secondo lui l'uno
ostruisce l'altro».
John, affascinato da
quell'analisi, pendeva dalle sue labbra.
«Mi chiedo
proprio che cosa succederà», mormorò
Mycroft, lo sguardo perso. Parve addirittura sforzarsi ad un certo
punto, ma alla fine si arrese al terzo bicchiere di whisky.
«È una battaglia persa, contro Arsène.
Almeno, per quanto mi riguarda». Si indicò il
petto, a sottolineare ancora una volta la mancanza del cuore.
John sapeva che non
era così, ma rimase in silenzio. Piuttosto, disse:
«Mi ha detto che gli sono giunte voci riguardo ai cambiamenti
di Sherlock e che voleva verificare di persona».
Lo sguardo di Mycroft
tornò a farsi attento.
«Secondo lei
intendeva i suoi miglioramenti riguardo alle emozioni?».
«Ora che mi
ci fa pensare, c'è stato un periodo, prima del suo arresto,
in cui Arsène ha provato in ogni modo a dimostrargli che le
emozioni avrebbero favorito le sue capacità. Gli diceva
anche che quando l'avrebbe compreso, solo allora, sarebbero stati
avversari alla pari».
«E lei pensa
che sia vero?».
Mycroft lo
guardò, per la prima volta senza la conoscenza dalla sua
parte.
Riprese il giornale e
si nascose dietro le pagine, congedandolo: «Buona serata,
dottore».
***
Al 221B si
scusò con la signora Hudson per il ritardo, ma
trovò Rosie addormentata e lo reputò un momento
perfetto per salire da Sherlock a riprendere il discorso abbandonato
così in malomodo quella mattina.
Trovò la
porta socchiusa, così bussò e poi fece capolino
all'interno, trovando il detective seduto per terra, tra diversi
computer portatili e pile e pile di carte.
«Che cosa
stai facendo?», gli chiese facendo attenzione a dove metteva
i piedi.
Sul muro sopra il
divano, una grande mappa d'Europa era costellata da puntine colorate,
specialmente in Francia, della quale non si vedevano quasi
più i confini.
Sherlock lo
guardò con la coda dell'occhio, poi respirò a
pieni polmoni e disse: «Sei stato al Diogenes».
«Sì»,
affermò, senza chiedergli come facesse a saperlo - Sherlock
non aveva più bisogno di certi stimoli.
«Hai portato
l'odore di vecchiume fino a qui».
John
abbozzò un sorriso e tolse una pila di libri dalla propria
poltrona per sprofondarci dentro.
«Hai
intenzione di chiedermi scusa per questa mattina?», gli
domandò ad un tratto.
«Scusa?
Scusa per cosa?».
«Non pensi
di aver esagerato un po'?».
Sherlock si
girò verso di lui, il volto serio e gli occhi ardenti di
determinazione. «Tu non sai con chi abbiamo a che fare,
John».
«Allora
spiegamelo», rispose tranquillo, sollevando le spalle.
«Non ho
tempo adesso».
Il dottore
sospirò, tornando a fissare la sua schiena sottile e su cui,
curva sui pc, si intravedevano le puntute vertebre dorsali.
«Mycroft mi
ha raccontato della sua... "missione"».
«Mycroft
è bravissimo a spiattellare informazioni. Mi chiedo per
quale motivo l'abbiano messo a capo della sicurezza della
nazione».
«Sherlock...
Credo che Arsène sia qui per te. Mi ha detto che ha sentito
delle voci sui tuoi cambiamenti e che voleva verificare di
persona».
Il detective
rizzò la schiena e in un attimo John se lo
ritrovò appollaiato davanti, le braccia incrociate sulle
ginocchia e gli occhi fissi su di lui.
«Finalmente
dici qualcosa di interessante. Ricordi quando ti dissi che nel tuo blog
mettevi troppe opinioni personali, troppe descrizioni piene di dettagli
inutili?».
«Sì,
certo», bofonchiò, provando ancora una fitta
all'altezza dello stomaco.
«Bene, ora
mi torneranno utili, perciò non omettere nulla. Voglio
sapere anche del suo aspetto fisico».
John
strabuzzò gli occhi. «Il suo... cosa?».
«Hai capito
benissimo».
«Perchè?
Pensavo lo conoscessi bene, questo Lupin».
«Oh
sì, ci siamo incontrati molte volte, ma Arsène
Lupin, tra le altre cose, è un abile trasformista».
«Nel senso
che…?».
«Gli piace
cambiare», tagliò corto. «Ora
procedi».
John lo
accontentò, descrivendogli per filo e per segno il loro
strano incontro.
Il detective
ascoltò il racconto dell'amico senza mai interromperlo,
persino quando i dettagli inutili diventavano addirittura dolorosi per
le sue orecchie.
Riuscì a
capire che nel presentarsi a John non si era travestito come al solito,
e che era stato ben attento a non farsi scappare indizi su quali
fossero i motivi per cui si trovava a Londra. Si rifiutava di pensare
che fosse lì per lui, per gongolarsi dei suoi
"miglioramenti" e dirgli: «Te l'avevo detto!».
Quando
finì, Sherlock si alzò e prese il violino per
iniziare a suonare una canzone dal ritmo allegro e poi improvvisamente
malinconico.
«Ci
incontreremo presto, eh?», domandò al proprio
riflesso nella finestra. «E va bene, Arsène. Il
gioco è cominciato».
Lasciò il
violino e tornò per terra, tra i pc e le carte.
«Sherlock,
ora tocca a te parlare».
Annoiato, il
consulente investigativo chiese: «Che cosa vuoi
sapere?».
«Chi
è, per cominciare».
«Nessuno lo
sa. Arsène Lupin è un uomo di cui nessuno conosce
la vera identità, la vera storia. Ne ha diverse, tutte
fittizie».
«Una di
queste è Bernard d'Andrésy?».
«Sì,
bruciata quando è stato arrestato».
«E allora
perché tu e Ganimard lo chiamate Arsène
Lupin?».
«Se
l'è scelto lui, è il suo nome d'arte. Ogni volta
che fa un colpo lascia un biglietto come questo», rispose
sollevando il bigliettino da visita ormai consunto.
«È la sua firma. Il giorno dopo, su
L'Ècho de France, compare in prima pagina il resoconto della
sua ultima prodezza».
John annuì,
per nulla colpito. «Se ne vanta».
«Gli piace
avere un pubblico. Comunque sia, l'unico modo per fermarlo è
coglierlo con le mani nel sacco. Nemmeno io, sulle sue scene del
crimine, sono mai riuscito a trovare un indizio».
«Non ci
credo!».
Sherlock lo
fulminò con gli occhi, tornando a digitare sulla tastiera
che aveva di fronte. «Lui non pensa solo al furto che
commette, ma a tutte le circostanze che potrebbero denunciarlo. Farebbe
tutto ciò che farei io e per questo i suoi piani sono
perfetti. Inoltre, riesce anche a manipolare le persone...».
«Ti
riferisci a Ganimard?».
«Non solo
lui!», sbottò in preda alla frustrazione. Si
alzò e lo guardò dritto negli occhi, con una luce
folle nei propri. «Miss Nelly Underdown».
«Mai
sentita».
«Era ferito
ad un braccio e a corto di risorse dopo un colpo andato incredibilmente
storto per via una serie di fatti che non poteva prevedere,
così è salito sulla Providence, la nave da
crociera da cui è sceso in manette. È
lì che l'ha conosciuta e se n'è
innamorato». Il suo naso arricciato, come se avesse appena
sentito l'odore di uno dei pannolini sporchi di Rosie, fece sorridere
John. «Anche lei ricambiava i suoi sentimenti e
cercò in lui protezione».
«Protezione?».
«La nave era
già a cinquecento miglia dalle coste francesi quando
Ganimard capì che Arsène doveva essere salito a
bordo, camuffandosi come uno dei facoltosi passeggeri. Inviò
un messaggio al capitano, intimandogli di mantenere il più
stretto riserbo, ma la notizia trapelò: Arsène
Lupin era su quella nave da crociera e, come puoi immaginare, ci fu il
panico. Tutti sospettavano di tutti e a piccoli gruppi si
iniziò persino a investigare».
John pendeva
letteralmente dalle sue labbra. Con gli Holmes gli capitava spesso,
più di quanto avrebbe voluto.
«E poi? Che cos'è successo?».
«Arsène
rubò i gioielli di lady Jerland, più per vedere
le reazioni dei compagni di viaggio che per altro. Ovviamente fu un
disastro. Gli improvvisati investigatori si convinsero della
colpevolezza di un certo Rozaine e se ne tennero lontani come se avesse
la peste. Questi, proclamando la sua innocenza, mise in palio una
discreta somma di denaro per la cattura del vero Lupin. La stessa notte
venne ritrovato sul ponte, legato ed imbavagliato e con un bigliettino
da visita di Arsène addosso, che diceva: "Arsène
Lupin accetta con riconoscenza la ricompensa per la cattura di
Arsène Lupin"».
«Incredibile»,
sussurrò John.
Sherlock gli rivolse
un'occhiata profondamente offesa e... ingelosita?
«Stai
sorridendo, lo sai?».
John se ne rese conto
e si portò le mani sulle labbra, capendo finalmente
ciò che aveva voluto intendere Mycroft: «Arsène
Lupin è così. Lo odi e lo ami, non puoi
decidere».
La sua ironia, il suo
genio inventivo, il divertimento con cui compiva i suoi misfatti e il
mistero della sua vita... era questo che piaceva tanto ai francesi e
che stava lentamente conquistando anche John Watson.
Ecco cosa avrebbe
potuto fare Sherlock se non avesse deciso di stare dall'altra parte,
quella dei buoni. Questa definizione però avrebbe definito
Arsène "cattivo" e al dottore, nonostante tutto, non
sembrava giusto.
«Lui
è il grigio in un mondo in bianco e nero».
«Ad ogni
modo, Rozaine venne tolto dalla lista dei sospettati e il capitano
della Providence aumentò i controlli sulla nave.
Arsène, per fargli capire quanto fosse inutile tutto
ciò, gli rubò l'orologio. A quel punto vennero
ispezionate tutte le cabine, mentre d'Andresy, professione fotografo,
ritraeva la sua amata in ogni posa. Non trovarono nulla e il mistero
sull'identità di Arsène rimase tale fino a quando
non raggiunsero le coste americane. Ganimard era là, ad
aspettarlo. Il resto è fastidiosamente chiaro»,
concluse Sherlock, gettandosi sul divano a peso morto.
«No che non
lo è!», obiettò John, ansioso di
conoscere la fine di quella storia appassionante. «Dov'erano
i gioielli, i soldi e l'orologio? E che n'è stato di miss
Underdown?».
Sherlock gemette con
le mani tra i capelli, come in preda ai più atroci dolori.
«Pensa John, pensa. Ti ho già detto tutto
ciò che ti serve per risolverlo».
Il dottore si
imbronciò e si concentrò al massimo per unire i
puntini. All'improvviso, un'idea pizzicò i suoi neuroni.
«Hai detto che non trovarono nulla nelle cabine,
perciò Arsène doveva avere un altro
nascondiglio».
«Oppure?».
«Oppure...
si portava dietro il bottino. Ma è impossibile, qualcuno se
ne sarebbe accorto!».
Sherlock
sospirò. «Ci siamo già passati, John.
Al tuo matrimonio, ricordi?».
«Il
mio...?». John si incupì, colpito dal ricordo
bruciante di quella giornata indimenticabile. Poi capì
ciò che voleva dire Sherlock e riuscì ad uscire
dalla voragine che aveva rischiato di inghiottirlo nuovamente.
«Il fotografo».
L'amico
sollevò un angolo della bocca. «Bernard non si
sarebbe mai perdonato se avesse perso l'opportunità di
scattare la foto perfetta alla sua adorata Nelly. Era questo che le
diceva, quando lei domandava perché si portasse sempre
dietro tutta la sua attrezzatura. E al momento fatidico, mentre
Ganimard passava in rassegna ogni passeggero, lei risolse il mistero.
L'uomo che amava, l'uomo tra le cui braccia si era rifugiata per paura
di Arsène, era Arsène stesso».
John immaginava come
si fosse sentita miss Underdown; anzi, lo sapeva perfettamente, dato
che lui aveva provato lo stesso dolore, la stessa delusione, quando
aveva scoperto il passato di Mary.
«A quel
punto Arsène aveva almeno dieci modi per scendere da quella
nave e scomparire, ma invece fece qualcosa di incomprensibile:
consegnò alla Underdown la borsa con la fotocamera ed
affrontò Ganimard, al quale bastò scoprirgli il
braccio ferito per accertare la sua identità ed
arrestarlo».
Sherlock si
sollevò di scatto, i piedi sul bordo del tavolino, e
guardò John negli occhi. «E ora ciò che
capisco ancora meno: Nelly Underdown. Aveva la prova della sua
colpevolezza tra le mani - i gioielli di lady Jerland, il denaro del
signor Rozaine, l'orologio del capitano - e invece di consegnarla a
Ganimard sfruttò il baccano intorno all'arresto di
Arsène Lupin per gettarla in mare. (La storia mi
è stata raccontata, ma ne sono certo). Con quella prova, il
processo di Arsène sarebbe stato chiuso in men che non si
dica e forse, a quest'ora, sarebbe ancora alla Santé.
Perché l'ha fatto, John? Perché difendere un
criminale?».
John sorrise
teneramente e si alzò, sistemandosi il maglione sui fianchi.
«Perché lo amava».
«Come si
può amare un ladro col delirio di onnipotenza?».
«Come si
può amare un sociopatico iperattivo che si è
finto morto per due anni e ha sparato in testa ad un uomo senza alcun
rimorso? Come si può amare una donna che è stata
una mercenaria per soldi?».
Sherlock rimase in
silenzio, scrutandolo con quel suo sguardo inquisitorio e allo stesso
tempo confuso.
«Dimmi una
cosa», ruppe il silenzio John. «Sii sincero, se
puoi. Ti sei arrabbiato quando si è fatto arrestare,
vero?».
Il volto di Sherlock
si indurì mentre si alzava in piedi a sua volta e superava
il tavolo salendoci sopra. Davanti a lui, assottigliò ancora
un po' gli occhi di ghiaccio.
«Non girarci
intorno, John. So che cos'è che mi vuoi chiedere
veramente».
«E va
bene», sorrise alzando le mani. Si schiarì la gola
e allungando un poco il collo verso di lui sussurrò:
«Sei contento che sia uscito di prigione?».
Il sorriso che
mostrò fu quello eccitato e un po' perverso, quello della
caccia. «Certo, abbiamo un conto in sospeso!».
Poi con una giravolta
tornò a fissare i computer. «Avrò
bisogno del tuo aiuto, John».
«Che cosa
devo fare?».
«Giornali,
internet... Devi controllare se recentemente a Londra sono arrivate
persone o cose che potrebbero interessare ad
Arsène».
«Credi che
sia qui per rubare, quindi?».
«Certo che
è qui per rubare! È il suo lavoro!».
«Okay,
ehm... qualche elemento per restringere il campo?».
Sherlock si
acquattò sul pavimento e uno dopo l'altro chiuse i pc. Con
l'ultimo esitò, sfiorando lo schermo in corrispondenza del
titolo di un articolo scritto in francese: "Arsène Lupin,
Gentleman Cambrioleur".
«Ha una
specie di morale, nel suo campo», si riscosse il detective,
dando le spalle all'articolo. «Colpisce esclusivamente le
persone che secondo lui possiedono troppo, specie se ciò che
hanno è stato ottenuto ingiustamente. Concentrati su questo
e sugli eventi mondani, gli piacciono un sacco».
«Va bene. Tu
che cosa farai?».
«Io?
Controllerò tutti i suoi alias conosciuti per scoprire dove
alloggia».
John non disse
ciò che pensava, ovvero che ci avrebbe impiegato dei secoli:
sapeva che con Sherlock nulla era impossibile.
«Buona
fortuna», gli augurò avviandosi verso la porta.
«John?».
Quel tono di voce,
quell'incertezza che gli faceva tremare il cuore... Il dottore si
voltò lentamente, trovando Sherlock con lo sguardo fisso su
una pila di vecchi giornali francesi. Dove li aveva recuperati?
«Ti andrebbe
di... di rimanere qui a cena?», gli chiese.
John si
accigliò. «Tu non mangi mai quando
lavori».
«Già...
il mio dottore mi rimprovera spesso per questo. Forse dovrei ascoltarlo
di più», rispose piano, con un vago sorriso sulle
labbra.
Ovviamente quelle
parole lo convinsero a restare.
Ordinarono del cibo
cinese d'asporto e Sherlock piluccò persino qualcosa mentre
i suoi occhi scandagliavano a tratti lo schermo del computer sulla
scrivania e a tratti Rosie, seduta sul seggiolone che John e la signora
Hudson avevano trovato un pomeriggio nella cucina di quest'ultima,
già montato e pronto all'uso.
Sherlock insisteva
nell'affermare che Arsène fosse a Londra perché
aveva in mente un colpo dei suoi, ma John intuì che sotto
sotto stava iniziando a prendere in considerazione che forse non c'era
niente che lo interessava di più della trasformazione del
detective: una mente fredda e calcolatrice che col tempo si era
lasciata smussare e riscaldare dall'affetto e dalle cure delle persone
che gli stavano accanto.
Il dottore sapeva che
non ne avrebbe mai parlato con lui, o almeno non così
presto, perciò tornò a concentrarsi sul proprio
compito. Le parole che però Sherlock aveva sfiorato poco
prima, il titolo dell'articolo in francese, diventarono una distrazione
troppo grande da ignorare.
Aprì una
nuova scheda e una volta sul motore di ricerca le scrisse per trovarne
la traduzione: "Ladro Gentiluomo".
Alzò gli
occhi verso Sherlock per chiedergli spiegazioni, ma i modi di fare e la
figura di Bernard d'Andrésy, alias Arsène Lupin,
gli diedero tutte le risposte. E, riflettendoci, non c'erano parole
migliori per descrivere quell'uomo misterioso che sembrava un
personaggio uscito direttamente da qualche romanzo dei primi anni del
Novecento.
«Stai
sorridendo di nuovo», borbottò Sherlock.
John
abbassò il capo, colto sul fatto.
«Scusa».
______________________________________________________________
Buonasera! :) Spero di farvi cosa gradita con questo aggiornamento
anticipato, anche se il vero motivo è che avrei rischiato di
saltare per impegni lavorativi.
Finalmente Sherlock ha rivelato qualcosa al curiosissimo John, il quale
è persino andato da Mycroft per ottenere delle informazioni!
Se non è un migliore amico premuroso lui... ;)
E che ve ne pare di Arsène? Per chi ne sentisse la mancanza,
nel prossimo capitolo tornerà in carne ed ossa e figaggine!
Aspetto i vostri commenti e ringrazio in anticipo chiunque abbia letto
fino a qui! :D
A presto!
_Pulse_
|
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Capitolo 4 *** Breakfast without murder ***
4.
Breakfast without murder
«Buongiorno
John», lo salutò Sherlock, rivolgendogli persino
un sorriso.
Una persona normale
non lo avrebbe preoccupato, ma se il consulente investigativo sorrideva
di prima mattina voleva dire solo una cosa: aveva finalmente trovato
una pista.
In quei due giorni
avevano parlato raramente, concentrati com'erano nell'intento di
anticipare le mosse di Arsène.
Lui aveva esaminato
minuziosamente tutti i giornali e le loro edizioni online dell'ultima
settimana alla ricerca di gioielli, quadri e artefatti recentemente
spostati a Londra, ma non aveva avuto fortuna. A non tutti piaceva
spiattellare informazioni del genere, soprattutto se si temeva di
essere derubati.
Sherlock, invece,
aveva controllato tutti gli alias conosciuti del Ladro Gentiluomo per
giungere alla sola conclusione che per il suo soggiorno londinese
doveva averne creato uno nuovo di zecca. Molto premuroso da parte sua
evitare di annoiarlo.
«Novità?»,
domandò il dottore.
Il pensiero di rivedere Arsène lo rendeva inquieto ed
emozionato allo stesso tempo.
«Spero tu
non abbia fatto colazione, perché quello sfacciato ci ha
invitato da lui». Sherlock indicò la scrivania e
John vi si precipitò per leggere il bigliettino su cui, con
la stessa calligrafia svolazzante di Bernard d'Andrésy,
c'era scritto: «Savoy Hotel, ore 8.30, ti aspetto. Tuo
sempre».
John
deglutì, chiedendosi se non avesse voluto invitare solo Sherlock: in
fondo aveva parlato al singolare e quel saluto... Mycroft stesso aveva
lasciato intendere che forse Arsène provava qualcosa per il
detective, perciò...
«Sei sicuro
di volermi portare con te?», gli chiese, passandosi una mano
sul collo.
«Certo,
perché non dovrei?».
La risposta di
Sherlock arrivò da lontano, precisamente dall'ingresso della
palazzina. Il dottore sospirò e lo raggiunse scendendo in
fretta la scale.
«Forse...
forse Arsène vuole vederti da solo», aggiunse.
Sherlock
finì di sistemarsi la sciarpa blu al collo e nel silenzio,
John sentì quasi le rotelle del suo cervello girare con
precisione ed efficienza, fino a che non ebbero a che fare con un
granello di sabbia che se impossibile da eliminare andava ignorato.
«La signora
Hudson non c'è», affermò il consulente,
corrugando la fronte subito dopo. «Dov'è
Rosie?».
«A casa mia,
con Molly. A proposito di lei...».
«Dobbiamo
andare. Arsène odia i ritardatari», lo interruppe
aprendo la porta col cappello di Sherlock Holmes stretto
nella mano sinistra.
***
Il viaggio in taxi,
tutto sommato, era stato meno complicato del previsto.
Per evitare che John
riprendesse il discorso "Molly" era bastato tirare su il colletto del
cappotto e guardare costantemente fuori dal finestrino.
Per evitare a se
stesso di pensare al discorso "Molly"... beh, pensare all'invito di
Arsène era stata una distrazione solo parziale. Ma non era
quello il momento, non poteva ancora occuparsene e l'anatomopatologa
l'avrebbe capito, prima o poi.
Entrarono
nell’elegantissima struttura cinque stelle lusso attraverso
la porta girevole e una volta nella hall, dai pavimenti a scacchiera di
lucido marmo bianco e nero, Sherlock si diresse a spasso spedito verso
la reception, mentre John faticava a tenere la bocca non spalancata e
il naso non rivolto verso gli alti soffitti, le colonne imponenti e i
lampadari di cristallo.
L’uomo
dietro il bancone, certamente il capo ricevimento, sorrise cortese e
parlò ancor prima che Sherlock potesse annunciarsi o
spiegare il motivo della sua visita.
«Lei
dev’essere il signor Holmes, accompagnato dal dottor Watson.
Il nostro ospite ci ha avvisati che sarebbe passato. Lasciate che
Mathias vi mostri la strada».
Il receptionist
più giovane fece rapidamente il giro del bancone e li
guidò fino al Thames Foyer, una raffinata sala da
tè illuminata naturalmente da una cupola di vetro sotto la
quale si stagliava un gazebo in ferro battuto con un pianoforte a coda
nero al suo interno e fiori, fiori freschi ovunque.
Sherlock
provò a fargli sputare il nome del loro "ospite",
tentò anche di corromperlo quando constatò che i
suoi commenti sull'infelice destino che lo attendeva - il
licenziamento, la fidanzata che lo lasciava e il ritorno nella
stanzetta accanto a quella dei suoi genitori - non facevano presa, ma
fu tutto inutile.
Il ragazzo si
fermò accanto alla porta, indicando loro di entrare con un
gesto del braccio. Quando Sherlock gli passò accanto
però, gli afferrò il polso e gli
sussurrò con rabbia: «Il nostro ospite mi ha
pagato il triplo, signor Holmes».
Il detective gli
rivolse un ringhio muto e Mathias lo lasciò, sobbalzando
leggermente. Quindi entrarono nella sala e videro immediatamente
Arsène Lupin - chiunque egli si spacciasse di essere in quel
momento - seduto al pianoforte, intento a deliziare i pochi mattinieri
con il suo tocco leggero e allo stesso tempo penetrante.
Poco importava che
indossasse una vestaglia di velluto color porpora, il pigiama e le
pantofole, e che non avesse i capelli biondi perfettamente pettinati
all’indietro come quando l'aveva visto l'ultima volta, in
prigione: la sua eleganza non aveva eguali. Un angelo sceso
direttamente dal cielo, nella sua più naturale perfezione.
Se solo gli angeli
fossero esistiti.
«Chopin, il
mio preferito», esclamò senza aprire gli occhi, ma
indubbiamente rivolto a loro. «Oh, Sherlock, quanto vorrei
che avessi qui il tuo violino! Il nostro sarebbe stato un duetto
straordinario, come sempre».
Il detective,
imperturbabile, si sedette sul divano che dava le spalle al gazebo ed
attese in silenzio che Arsène terminasse l'esibizione.
Era un vero piacere
ascoltarlo suonare, ma nel frattempo analizzò anche ogni
individuo presente in quella stanza, riuscendo fin troppo facilmente ad
individuare i suoi due uomini migliori (la maggior parte del tempo
guardie del corpo, durante i suoi colpi complici fidati): erano seduti
ad un tavolo poco lontano e non si perdevano un attimo di
ciò che succedeva intorno al loro capo.
Le ultime note
sfumarono nell’aria e una coppia di anziani signori
applaudì, facendo sorridere d’orgoglio
Arsène, il quale salì in piedi sullo sgabello e
si inchinò con grazia. Poi scavalcò agilmente la
ringhiera e si lasciò cadere accanto a Sherlock, sdraiandosi
addirittura col capo sulle sue ginocchia.
«Ne sono
cambiate di cose dall’ultima volta in cui ci siamo visti,
mmh?», mormorò quasi dolcemente, accarezzando il
volto del detective con un dito, dallo zigomo al mento.
«Non
molte», rispose senza incrociare il suo sguardo languido.
«Bugiardo.
Te lo leggo negli occhi, Sherlock», sospirò e
passò ad accarezzargli un ricciolo nero, arrotolandoselo tra
le dita lunghe ed affusolate. All’improvviso sul suo volto
comparve un sorriso malizioso e gli chiese a bruciapelo: «Sei
ancora single?».
Sherlock strinse le
labbra per non dargli la soddisfazione di vederlo sorridere e
posò gli occhi su John, seduto sulla poltrona alla sua
sinistra, paralizzato dallo shock.
«Penso possa
bastare, Arsène».
L’uomo
biondo si sollevò agilmente e fissò John con
quegli occhi luminosi pieni di acume, vivacità e
spensieratezza. Scoppiò in una risata melodiosa e contagiosa
e si batté una mano sul ginocchio, esclamando a fatica:
«Ci è cascato in pieno, dottore! Mon Dieu, avrei
dovuto fare l’attore!».
Quando si riprese, si
alzò e gli porse la mano, scusandosi: «Aveva
scommesso con i miei amici, laggiù, che questa mattina
sarebbe venuto anche lei, caro dottor Watson, per scoprire se ero stato
effettivamente una vecchia fiamma di Sherlock. Ammetto di essermi
lasciato un po’ trascinare - d'altronde non ho mai nascosto a
Sherlock il mio affetto per lui - perciò le chiedo
perdono».
John, realizzando
finalmente di essere stato sin dall’inizio l’ignaro
spettatore di una commedia, non poté impedire al suo volto
accartocciato in una smorfia di disappunto di parlare per sé
mentre stringeva la mano a quell’uomo enigmatico e con un
senso dell’umorismo davvero tutto suo.
«Mi
perdonerebbe più in fretta, se dividessi con lei la mia
vincita?», continuò imperterrito
Arsène, sedendosi di nuovo accanto a Sherlock per versarsi
una tazza di cioccolata. Quindi sollevò di scatto il viso,
esclamando con aria infinitamente seria: «Spero che non
abbiate fatto colazione. Sul biglietto non c'era spazio».
«L'abbiamo
capito», rispose l’ex medico militare, rispondendo
all’occhiataccia del consulente investigativo. A meno che non
fosse Sherlock stesso a non riconoscersi i giusti crediti delle proprie
deduzioni, dividere non era il suo forte. Ma glielo doveva, dopo quel
teatrino.
«Allora
permettetemi di offrirvela».
Arsène
attirò educatamente l’attenzione di un cameriere
ed espresse le proprie richieste, dimostrando di conoscere fin troppo
bene le abitudini di Sherlock; poi sorrise gentilmente e i suoi occhi
tornarono a posarsi sul detective, in attesa. Stava aspettando la sua
mossa, la prima delle molte domande che era certo volesse porgergli.
«Hai ancora
paura delle altezze?», gli chiese alla fine e la delusione
sul volto di Arsène fu così profonda che a John
venne quasi voglia di rimproverare l’amico.
Il Ladro Gentiluomo si
alzò in piedi sul divanetto e rivolgendosi alle poche
persone presenti in sala gridò: «Vogliate
scusarci? Avremmo bisogno di un po' di privacy».
Le due guardie del
corpo di Lupin si alzarono e raggiunsero i due confusi signori anziani
per invitarli ad alzarsi ed accompagnarli fuori dalla sala.
«Grazie,
grazie infinite», esclamò e si profuse addirittura
in un inchino.
Quindi anche una
ragazzina dai capelli biondi e dallo sguardo circospetto e un uomo
sulla quarantina, dai capelli sale e pepe, coi baffi e il portamento
distinto, si alzarono e raggiunsero la porta.
Il Thames Foyer era
completamente a loro disposizione, ora.
Il biondo
ritornò seduto sul divanetto, o meglio vi si
lasciò cadere quasi a peso morto.
«Mi fa
piacere sapere che non sei cambiato di una virgola: sai ferire le
persone in modo esemplare», rispose a Sherlock in tono
offeso, cosa che rese il suo accento francese molto più
marcato.
Il cameriere
portò al loro tavolino le due colazioni che
Arsène aveva ordinato per i suoi ospiti e John non se lo
fece ripetere due volte prima di servirsi.
Si era appena portato
la tazza di tè alle labbra, quando Arsène
aggiunse adirato: «Dovevi proprio saltare da quel tetto, mon ami? Mi hai
rubato due anni di vita!».
John sentì
il liquido caldo andargli di traverso e tossì rumorosamente,
il volto paonazzo, mentre Sherlock, in tutta tranquillità,
sollevava un sopracciglio e rispondeva: «Io che rubo qualcosa
a te? C'è una prima volta per tutto, allora».
Arsène
sospirò arrendevole e mescolò svogliatamente la
propria cioccolata, appoggiando la testa contro la spalla di Sherlock.
Il detective strinse leggermente le dita sul ginocchio accavallato e
cercò lo sguardo di John, sempre più confuso
dalle mosse di quell'uomo.
«Non hai
toccato ancora nulla...», sussurrò dispiaciuto,
indicando il vassoio portato per Sherlock. «È per
via dei due ravioli al vapore che hai mangiato ieri sera?».
«Come
diavolo...?», iniziò a chiedere il dottor Watson,
scioccato. «Lei ci ha spiati!».
«Oh
sì, certo», rispose con calma Arsène.
«Ma ha iniziato Sherlock, mobilitando la sua rete di
senzatetto. Mi sono sentito molto onorato, voglio che tu lo
sappia», aggiunse con una mano sul cuore.
Sherlock strinse i
denti, irritato, e guardò con la coda dell'occhio
Arsène sporgersi verso John con una mano stesa a sfiorare il
suo ginocchio.
«Non
vantarti, non farlo», lo minacciò, fissando
stregato le dita curate di Arsène sui pantaloni del suo
migliore amico. Non voleva che gli parlasse, figurarsi toccarlo!
«Sarebbe come ammettere che sei davvero Arsène
Lupin e dovrei farti arrestare».
«Vantarsi di
cosa?», chiese John, il quale non sembrava per nulla
infastidito dal tocco del Ladro Gentiluomo.
«Della rete
dei senzatetto. È abitudine di Arsène assoldare i
vagabondi per pedinare qualcuno, fornirgli alibi, addirittura
costituirsi al posto suo. Io ho perfezionato il metodo, cerco di
aiutarli e di certo non faccio fare loro nulla di illegale».
Arsène
sventolò vuluttuosamente una mano e tornò a
voltarsi verso John per fargli il verso. Riuscendo a strappargli un
sorriso, si ritenne soddisfatto e allontanò la mano dal suo
ginocchio.
Tornò a
sdraiarsi sul divanetto, quella volta con i polpacci sulle gambe di
Sherlock, e riprese: «Ad ogni modo nessuno ha scoperto
qualcosa di nuovo e io mi stavo annoiando».
«Non ti
è mai piaciuto aspettare».
«Sono in
grado di farlo, ma che mi piaccia... no, questo no».
«Perciò
ci hai invitati».
«Precisamente».
Si portò la tazza alle labbra e guardandolo con espressione
ridente sussurrò: «Spero di non essere stato
troppo sfacciato».
Fu Sherlock quella
volta a cercare il contatto fisico: posò una mano sulla sua
tibia e risalì piano lungo la gamba, fino al ginocchio.
Allora gli rivolse un lieve sorriso, senza parlare. Le pupille di
Arsène si dilatarono e la tazza nella sua mano
tremò leggermente, mentre il suo volto arrossiva.
Arsène
passava dall'essere il più cinico ed egoista al
più sentimentale ed indifeso degli uomini, senza
però mai sentirsi in difetto. Era in pace con se stesso, con
tutte le sfumature di sé, e Sherlock, per quanto volesse in
segreto imitarlo, non sarebbe mai arrivato a capire come ci riuscisse.
«Chi
è lo sfacciato ora, chérie?»,
gli chiese in un sussurro.
«Io lo sono
sempre. Potrei esserlo ancora di più, se ti
ammanettassi».
«Potrebbe
piacermi».
John lasciò
la propria tazza, all'improvviso con lo stomaco chiuso. Non riusciva
più a capire cosa fosse vero e cosa no, con
Arsène. Provava davvero dei sentimenti per Sherlock? Il
rossore che si era impadronito delle sue guance e l'emozione nella sua
voce gli dicevano di sì, ma i suoi occhi, vigili e attenti,
in cerca del pericolo, gli facevano pensare che forse avrebbe davvero
dovuto fare l'attore.
La tensione tra quei
due, però, era reale. Si attiravano e respingevano come
calamite e John non osava nemmeno respirare, per paura di ritrovarcisi
in
mezzo.
«Che cosa ti
porta a Londra?», ruppe il silenzio Sherlock, spezzando
l'incantesimo.
Arsène si
allontanò bruscamente, cupo in viso. Afferrò un
croissant e scrollò le spalle, spezzettandolo per immergerlo
nella sua cioccolata calda.
«Sei sempre
venuto tu a farmi visita, a Parigi, quindi ho pensato che fosse giunto
il momento di ricambiare la cortesia».
«Peccato tu
non sia stato invitato».
«Rovini
sempre tutto», bofonchiò annegando l'intera
brioche nella tazza di porcellana finemente decorata, disgustato.
I suoi occhi color
verde smeraldo si posarono su John, sconsolati, e il dottore si
trovò ancora una volta nell’imbarazzante posizione
di voler stare dalla parte di Lupin. Per fortuna riuscì a
rendersi conto dell'assurdità della cosa prima di aprire
bocca e si convinse che doveva prestare un livello di attenzione ancora
più alto, se non voleva rimanere fregato anche lui come la
metà della popolazione francese, fiera sostenitrice degli
interventi di Arsène Lupin a danno dei più
ricchi.
«Che cosa ti
porta a Londra?», ripeté la domanda Sherlock,
dimostrandosi sempre più infastidito.
«Hai detto
che non sono stato invitato, poco fa. Beh, ti sbagli. Qualcuno l'ha
fatto», confessò senza piacere.
Sherlock si
voltò verso l'avversario, scutandolo intensamente.
«Chi?».
Arsène
scosse il capo. «Je
ne peux pas».
A quel punto il
detective perse definitivamente la calma e si alzò, premendo
forte le dita sulle tempie.
«Chi mai potrebbe invitarti qui? Per quale scopo?».
«Oh, questo
posso dirtelo», rispose tutto contento Arsène,
sollevando una mano. «Per aprirti gli occhi».
John serrò
le labbra mentre Sherlock si voltava di scatto, il cappotto che gli
turbinava intorno. Anche Arsène parve notare quel
particolare, perché sorrise dolcemente, come se gli fosse
appena tornato alla mente un tenero ricordo.
«Come ho
detto al dottor Watson... qualcuno ha notato i tuoi recenti
cambiamenti, Sherlock. Lo scopo della mia presenza è
appurare la veridicità di queste voci e sì,
perché no, provare a convincerti ancora una volta che i tuoi
doni si sono duplicati da quando ti sei circondato di persone che ti
amano».
«Non
è vero», sentenziò. «I
miei... doni,
come li chiami tu, non sono minimamente influenzati dalle
emozioni».
«Potrei
farti un elenco e mostrartelo, mon
ami, e ancora non ci crederesti».
Il detective
rilassò improvvisamente le spalle, abbassò le
mani e John afferrò i braccioli della poltrona, sapendo
ormai riconoscere la gestualità del corpo dell'amico in
certe circostanze. Quell'improvvisa calma preannunciava l'arrivo di uno
tsunami.
«Perché
non elenchiamo le volte in cui tu
ti sei trovato nei guai per via delle emozioni?», gli chiese,
rivolgendogli un ampio sorriso.
Arsène si rigirò un lembo della vestaglia tra le
dita, gli occhi bassi. Sherlock doveva aver toccato un tasto dolente,
per azzittire un uomo come Arsène Lupin.
«Montigny,
Gruchet, Crasville... Potrei continuare per giorni!», riprese
Sherlock, sempre più esaltato. «Ma il caso della
Providence, con quello hai davvero toccato il fondo, amico mio».
«Non
osare», lo minacciò Arsène, mostrando
finalmente una reazione. «Non osare riportare a galla quella
storia, Sherlock».
«Miss.
Nelly. Underdown», scandì ogni parola con
precisione e tono di sfida, sporgendosi verso di lui per fissarlo
intensamente negli occhi. «A causa sua sei finito in
prigione, sei rimasto in quella cella per sei mesi e se Ganimard non
fosse stato tanto stupido da lasciarti andare ci saresti rimasto per
tutta la vita! È questo che fanno l'emozioni, questo che fa
l'amore?! Perché dovrei...?!».
«Due anni,
Sherlock!», lo interruppe Arsène, gettando a terra
i vassoi delle colazioni per salire sul tavolino. Quel meraviglioso set
di porcellane, distrutto.
John
trasalì a quelle parole, colto di sorpresa da un potente
dejà-vù, e fissò il Ladro Gentiluomo,
ora tremante di collera e con una vena pulsante sul collo.
«Hai
trascorso due anni in solitudine, fingendoti morto, per proteggere
John, madame Hudson e l'ispettore Lestrade! Come puoi dire di non aver
agito per amore?!».
«Stavo
smantellando l'organizzazione di Moriarty!»,
replicò il detective, salendo a sua volta sul tavolo.
John, seduto sulla
poltrona, si sentiva una formica al cospetto di quei due uomini
così carismatici e geniali, due antagonisti perfetti.
«E Mary
Morstan? Uhm? Lei ti ha sparato,
Sherlock. Ma l'amore per lei, o meglio l'amore per John, ti ha convinto
ad aiutarla, a fare tutto ciò che potevi perché
la coppia dell'anno non scoppiasse. Hai sparato in testa ad un uomo e
questo ti avrebbe portato ad un altro esilio. Ma non ti importava di
sacrificare te stesso, ti bastava che John e Mary e la piccola Rosie
fossero al sicuro nel loro nido, felici. Non è amore,
questo?».
Sherlock
aprì bocca per rispondere anche a quell'accusa - non troppo
lontana dalla verità - ma Arsène lo
attirò improvvisamente a sé, stringendolo in un
abbraccio.
«I
sentimenti non penalizzano quelli come noi, Sherlock. Sono i nostri
trampolini di lancio, sono droghe naturali che rendono tutto ancora
più forte, più vivido e chiaro. Ci permettono di
fare cose straordinarie, cose impossibili. Lo sai che è
così...».
Sherlock si
staccò bruscamente da lui e scese dal tavolo, gli occhi
spauriti.
Che cosa stava
dicendo? Assurdità, nient'altro. Ma forse... E se avesse
avuto ragione?
I pensieri si
accavallarono l'uno sull'altro, dolorosamente.
Ripensò al
momento in cui Mary aveva premuto il grilletto, al proprio Palazzo
Mentale e alle persone a cui si era aggrappato per rimanere in vita:
Molly, Anderson, Mycroft, persino Moriarty. La donna di scienza che
soffriva costantemente per amore, l'uomo consapevole dei propri limiti
e tuttavia speranzoso, la conoscenza e la tristezza fatte a persona, la
parte di sé contro cui avrebbe lottato fino alla fine dei
suoi giorni.
Senza di loro come
avrebbe fatto a sopravvivere in quell'occasione? Senza di loro
perché avrebbe dovuto vivere? Non aveva niente prima e non
avrebbe mai avuto nulla, senza di loro.
John, la signora
Hudson, Lestrade, Molly e tutte le altre persone che tenevano a lui e
si erano accaparrate, con le unghie e con i denti, un angolo del suo
cuore, erano le uniche in grado di custodirlo e di proteggerlo, dato
che lui non ne era e forse non ne sarebbe mai stato in grado.
«Sherlock,
stai bene?».
Il detective
guardò John e poi alzò gli occhi su
Arsène: non sorrideva, nonostante l'evidente vittoria, e si
guardava le dita della mano destra, su cui erano comparse delle
minuscole gocce di sangue.
Non avrebbe dovuto, ma
si sentì terribilmente in colpa.
«Che
cos'è successo?», domandò un John
inebetito, sicuro di essersi perso qualcosa.
«Sherlock ha
voluto pareggiare un piccolo conto in sospeso»,
mormorò Arsène, tirando fuori dalla tasca della
vestaglia un fazzoletto di seta per pulirsi.
Nel silenzio, una
risata echeggiò all'improvviso. Una risata gioiosa, felice,
la risata di un bambino preso dalla ridarella e che non riesce a
smettere.
«Oh, ma petite chérie»,
sospirò quando riuscì a calmarsi. «A
volte è necessario sanguinare, per le cose
importanti».
Il detective si
portò la mano nella tasca interna del cappotto e con occhi
sbarrati fissò il Ladro Gentiluomo, il quale stava
esaminando accuratamente il cellulare di Sherlock, succhiandosi i
polpastrelli feriti.
Ad un tratto qualcosa
lo infastidì tanto, e tanto all'improvviso, che si
disfò del cellulare lanciandolo. Al consulente investigativo
bastò sollevare una mano per afferrarlo al volo, mentre
Arsène sputava con eleganza all'interno del fazzoletto di
seta per poi lasciarlo cadere a terra.
«Volevi
drogarmi, mon ami.
Non è carino».
Le porte della sala si
spalancarono e i due uomini di Arsène si avvicinarono a
Sherlock, il quale provò a difendersi con delle mosse di
arti marziali, inutilmente. John si era alzato a sua volta per
difendere l'amico, ma il Ladro Gentiluomo gli aveva posato una mano sul
petto e quel tocco era bastato a farlo desistere.
«Non voglio
fargli alcun male, dottore. Prendo solo ciò che è
mio».
Il detective si
dimenò tra gli energumeni che lo tenevano per le braccia e
coi piedi leggermente sollevati da terra, ma questi non fecero una
piega e Arséne, in tutta calma, raccolse una forchetta da
dolce e lo raggiunse. Quindi, tenendo aperta la tasca destra del suo
cappotto, vi infilò la forchetta come un chirurgo avrebbe
infilato una pinza in una ferita aperta. Con un gesto più
brusco infilzò qualcosa, per poi ritrarre la forchetta.
«Molto
ingegnoso, Sherlock», esclamò il ladro gentiluomo,
esaminando la piccola pianta grassa che aveva così
brutalmente inforchettato. «Contavi sul fatto che io avrei
ceduto ad una delle mie brutte abitudini e hai pensato bene di drogarmi
e prendere un campione del mio sangue».
Tornò a
guardarlo in volto, con quel suo sorriso affascinante. «La
prossima volta gradirei delle rose. Senza spine, chiaramente».
Quindi fece un cenno
con la mano e i due uomini lasciarono Sherlock, il quale si
spolverò le maniche del cappotto con l'espressione
più irritata e frustrata di cui era capace.
Il silenzio
regnò sovrano per quelle che sembrarono ore. Nè
Sherlock nè Arsène sembravano intenzionati a
parlarsi o a guardarsi negli occhi, come due bambini tremendamente
offesi dai dispetti reciproci.
«Forse
faremmo meglio ad andare», disse ad un tratto John, non
riuscendo più a resistere a quella tensione.
Il consulente
investigativo sollevò una mano e guardò il ladro
quasi con rammarico. «Un'ultima cosa».
Quella particolare
sfumatura nel suo tono di voce attirò l'attenzione di
Arsène, il quale voltò il capo di tre quarti.
«Parla».
«La mia
proposta è ancora valida».
Arsène
fremette e tornò a dargli le spalle, le braccia incrociate
al petto.
«So di cosa
sei capace, Arsène. Se solo utilizzassi le tue
capacità per il bene...».
«Per quanto
mi piacerebbe fare coppia con te, non funzionerebbe», rispose
piano, risultando persino triste. «Amo sfuggire alla legge
tanto quanto a te piace sentirti sopra di essa. Siamo due
incorreggibili, tu ed io».
Sherlock lo
osservò a lungo, poi annuì con un cenno del capo
e si diresse a passo deciso verso l'uscita. John lo seguì
mesto, non prima di aver gettato un'ultima occhiata al Ladro
Gentiluomo, le cui spalle ora tremavano come se stesse piangendo.
Impossibile, si
disse, ma rimase oppresso da quella vista per tutto il giorno; da
quella, dalla proposta di Sherlock e dai soldi che aveva trovato nella
tasca della sua giacca: la vincita della scommessa di
Arsène.
__________________________________________________________
Ciao a tutti! :)
Eccoci finalmente al capitolo in cui Sherlock e Arsène si
incontrano faccia a faccia dopo l'evasione di quest'ultimo! Sono
troppo curiosa di sapere che cosa ne pensate! :D
Chi sarà la persona che ha "ingaggiato" il Ladro Gentiluomo
per scoprire la veridicità dei rumors su Sherlock? E come
reagirà il detective alle parole del rivale?
La scena si svolge al Savoy Hotel, un hotel esistente scelto da
Arsène per il suo soggiorno londinese, perciò se
volete farvi un'idea della location a cui mi sono ispirata vi lascio qui il link.
Ringrazio chi ha commentato lo scorso capitolo, chi ha letto soltanto e
un grazie immenso a chi ha messo questa storia tra le
preferite/seguite/ricordate!
A presto, un abbraccio (senza piante grasse xD)!!
|
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Capitolo 5 *** Violin ***
Ciao a tutti! :)
Annuncio importante: con questo capitolo ricco di nuove scoperte e
feelings vi auguro buone vacanze, dato che al mare non avrò
internet e non potrò aggiornare. Perciò ci
rivedremo a fine agosto!
Spero di trovarvi ancora qui e chissà, di imbattermi in
qualcuno di nuovo :)
Ringrazio moltissimo chi fin'ora ha seguito e commentato la storia e
chi ha letto soltanto! A prestissimo!
Vostra,
_Pulse_
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5. Violin
Sherlock sbatté le palpebre e si ritrovò in
salotto, seduto sulla poltrona di pelle nera e con le braci del camino
quasi spente.
Un suono l'aveva riportato alla realtà: la suoneria di
notifica degli sms.
Lo ignorò, come doveva aver fatto con John e tutto il resto
del mondo da quando aveva lasciato Arsène Lupin al Savoy.
Il suo cellulare... Il ladro non aveva potuto resistere al loro piccolo
rituale - il trucco che li aveva presentati, quello da cui lui stesso
aveva preso spunto in più di un'occasione (recentemente con
Culverton) e con cui puntualmente riusciva a fregarlo ogni volta.
Quella mattina l'aveva fatto con un intento preciso però,
ovvero quello di trovarci dentro qualcosa. Dalla sua reazione aveva
capito che Arsène avrebbe voluto non farlo, sbagliarsi
addirittura.
Cosa poteva esserci di tanto irritante per lui? Che non chiamasse
regolarmente i suoi genitori? Oppure che non avesse scaricato l'ultima
versione di Candy Crash? Con Arsène tutto era possibile.
Aveva anche detto che era stato invitato a Londra, da qualcuno che
aveva notato i suoi cambiamenti e voleva avere conferma delle proprie
teorie.
Chi poteva essere così interessato a quella sua vita
più che privata, quasi celata ed incatenata nelle
profondità della sua anima, visibile solo ai più
vicini, ai più esperti dei suoi amici?
Sherlock aveva il terribile sospetto che i due elementi fossero
collegati, che la risposta si trovasse nel suo cellulare. Doveva essere
così, altrimenti non avrebbe avuto senso la sua repulsione.
Arrivò un altro messaggio e a quel punto Sherlock non
poté fare a meno di raggiungere il cellulare, in bilico sul
bracciolo della poltrona, e di portarselo davanti agli occhi.
Il primo sms era di Molly, la stessa Molly a cui non riusciva a
smettere di pensare a meno di trovarsi con altri rompicapi tra le mani.
Era arrivato al punto di modificare il contatto nella sua rubrica, pur
di non leggere il suo nome. Prima era stata MH - durato poco per via
degli assurdi pensieri causati da quelle iniziali - e ora era diventata
Hooper. Informale e distaccato.
Rimandare non
faciliterà le cose.
Non era il primo messaggio del genere che riceveva da parte sua.
Aveva provato molte e molte volte a convincerlo a parlare con lei, a
spiegarle che cos'era successo quel giorno, quel maledetto giorno in
cui anche l'ultima barriera, quella che si era ripromesso
inconsciamente di non buttare mai più giù, si era
incrinata irreparabilmente, mostrando ciò che c'era
dall'altra parte.
Anche per lei doveva essere stato così, anche lei aveva
pronunciato quelle parole che, nonostante fossero vere, con forza e
dignità si era giurata di non dirgli mai ad alta voce.
Eppure lei voleva parlarne, ancora una volta voleva rialzarsi e
ricominciare, rassicurarlo, perdonarlo e dimenticare. Era sempre
così, con Molly Hooper.
C'era una testardaggine e una stupidità che non comprendeva,
dei livelli di autolesionismo in cui nemmeno la sua parte drogata
poteva immedesimarsi.
Sherlock aveva sempre ignorato l'argomento e quando si ritrovava
costretto a starle vicino o a parlarle, si rivolgeva a lei con
professionalità, senza mostrare la benché minima
traccia di emozione. Stava cercando di renderle le cose più
facili, di renderle più facili ad entrambi, ma stava
miseramente fallendo.
Sapeva che fingere che non fosse accaduto nulla avrebbe portato a
conseguenze disastrose - la sua mente l'aveva già fatto,
dopotutto - ma non aveva calcolato che nel mentre avrebbe fatto
così male. Ogni giorno trascorso lontano da lei, ora che
aveva pronunciato quelle tre parole, era un rigagnolo di sangue che
filtrava da quella crepa. Presto sarebbe annegato in se stesso,
soffocato da un'emorragia interna incurabile dagli uomini di scienza.
Il secondo sms, per fortuna, era di Ganimard.
Sto per ordinare da
bere. Vieni a fermarmi.
Sherlock non se lo fece ripetere due volte. Si alzò e prese
il cappotto appeso dietro la porta, se lo infilò e solo
allora, sollevandosi il colletto, ricordò il momento preciso
in cui aveva deciso che non ne avrebbe mai più fatto a meno.
Abbozzò un sorriso e lasciandosi la propria
oscurità alle spalle si gettò in quella del
mondo.
***
«Non ha fame, signore?».
Arsène abbandonò la forchetta nel piatto,
nonostante quei ravioli ai funghi avessero un profumo ed un aspetto
più che invitante, e sospirò posando il mento su
una mano.
«Sai che non devi chiamarmi "signore", o darmi del
lei», esordì, consapevole che non l'avrebbe
ascoltato. Poi confessò: «Stavo pensando a
Sherlock. Siamo così simili... e così diversi.
Ogni volta che mi trovo al suo cospetto mi sento felice ed oppresso
allo stesso tempo».
«Se la fa stare male, non dovrebbe tenersene
lontano?».
Il Ladro Gentiluomo osservò la ragazzina seduta davanti a
lui, gli occhi di un verde chiaro e i capelli d'oro, il volto di
porcellana e le labbra strette in una pallida cicatrice,
rappresentativa di quella che aveva sul cuore.
Allungò il braccio sul tavolo e le accarezzò la
mano, poi se la portò alle labbra per sfiorarne le nocche.
«I sentimenti, tesoro, non possono essere fermati. Non vi si
può sfuggire in alcun modo. Non importa quanto lontano
correrai, loro ti seguiranno e tu ti ritroverai con le spalle al muro.
L'unico modo per sopravvivervi è accettarli ed affrontarne
le conseguenze».
Arsène le diede un buffetto sulla mano, si
appoggiò allo schienale della sedia e guardò il
soffitto decorato da affreschi. Quindi ridacchiò e
guardò la propria ospite, esclamando: «Sarebbe
disdicevole passare subito al dolce?».
Si guardò intorno, temendo il giudizio degli altri
commensali. Solo in quel momento si ricordò
dell’ora tarda e del fatto che il direttore
dell’hotel avesse fatto riaprire il ristorante solo per lui,
buttando giù dal letto un cameriere e il loro miglior chef.
«Nessuno? Bene, perché ho una voglia tremenda di
profiterole».
A quelle parole il cameriere, in continua lotta contro gli sbadigli,
raddrizzò la schiena e passò per
formalità a ritirare l’ordinazione, quindi
sparì dietro le porte della cucina.
Nell'attesa, Arsène osservò più
attentamente la ragazzina e si accorse che si era stretta nelle spalle,
tremanti in modo quasi impercettibile, e aveva chinato il capo, in modo
che gli occhi venissero nascosti dalla frangetta.
Stava per chiederle se stesse bene, ma lei lo anticipò.
«È questo che sono per lei, signore?»,
gli chiese con la voce spezzata. «Una conseguenza
indesiderata che si è ritrovato tra i piedi? Un
impiccio?».
Arsène trasalì, realizzando di non essere stato
molto specifico nella propria spiegazione. «No. No, tesoro,
hai frainteso».
Si sporse nel tentativo di cercare un contatto più
ravvicinato, ma la ragazzina si alzò di scatto dal tavolo ed
evitandolo corse fuori dalla sala da pranzo deserta.
In realtà non era completamente deserta: seduto al tavolo
vicino alla porta, la presenza mai inopportuna del suo uomo
più fidato, l'amico e compagno di tante avventure, uno dei
pochi privilegiati che Arsène considerava la propria
famiglia, lo tranquillizzò.
Era a lui che aveva affidato la cura del suo tesoro più
stupefacente, un tesoro che aveva solo recentemente scoperto di avere e
con cui non aveva ancora ben imparato a relazionarsi.
Le teenager... una categoria del genere femminile assai complicata per
Arsène Lupin, abituato a ben altre donne.
«Seguila, tienila d'occhio», lo implorò,
portandosi poi le mani sul volto.
«Lei sta bene, padrone?».
Arsène annuì brevemente e gli rivolse un piccolo
sorriso. «Me la caverò, grazie».
L'uomo dai capelli brizzolati, dal completo elegante e il portamento da
maggiordomo - come l'avevano definito più volte su
L'Ècho de France - lo salutò con un piccolo
inchino della testa e lo lasciò solo nella grande sala.
Arsène si portò le dita sotto il mento e
fissò la sedia vuota davanti a sé, chiedendosi
perché finisse sempre in quel modo: lui a cena da solo.
Perché lui, disperatamente bisognoso di compagnia, non
riusciva ad averne? Perché Sherlock, il cui desiderio un
tempo era quello di stare solo coi propri pensieri, si era ritrovato
circondato dall'amore di innumerevoli amici?
Sei un criminale, che
cosa ti aspettavi?
La voce della propria coscienza somigliava terribilmente a quella del
detective, così tornò a pensare a lui e a
ciò che, purtroppo, aveva trovato nel suo cellulare.
La donna non gli aveva mentito.
***
Il bar dell'albergo in cui Justin Ganimard aveva affittato una camera
era scarsamente illuminato - una scelta di stile per permettere ai
clienti di sentirsi più a loro agio coi loro bicchieri
oppure una trascuratezza a cui quegli stessi clienti non facevano caso.
Sherlock lo raggiunse al tavolino in fondo alla piccola sala e senza
togliersi il cappotto si sedette. Guardò il bicchiere di gin
tonic che Ganimard teneva nella mano destra e capì di essere
arrivato in tempo. Glielo sfilò dalla mano e lo
posò sul tavolino accanto, attirando così
l'attenzione dell'ispettore francese.
«Sarebbe un peccato se tornaste ad avvelenarvi»,
mormorò.
«Avvelenarmi», ripeté Ganimard, con un
sorriso beffardo. «Puoi fare di meglio, ragazzo».
Sherlock ricambiò il sorriso e guardò quell'uomo
stanco e depresso, la cui malsana ossessione per Arsène
Lupin gli aveva rovinato la vita. Capiva perché si fosse
dato all'alcool e ammirava il fatto che fosse riuscito a smettere.
Non avrebbe però mai rinunciato alle sue sigarette. Ne aveva
già fumate quattro, a contare i mozziconi nel posacenere, e
con la quinta tra le labbra disse: «Hai scoperto
qualcosa?».
Sherlock fu costretto a deviare i suoi occhi verdi ed arrossati,
ammettendo la sconfitta. «No, siamo in stallo».
«Forse sbagliamo a preoccuparci tanto. Forse... forse
è qui per fare una vacanza, lontano dalla stampa
francese».
«Non dica sciocchezze», replicò
annoiato. «Lo sa benissimo che adora stare sotto i
riflettori. L'Ècho de France è praticamente di
sua proprietà».
«Già...».
«Probabilmente uno di questi giorni avviserà lui
stesso qualche giornalista perché segua e riporti in patria
le sue imprese londinesi».
«Allora terrò sott'occhio Maurice Leblanc. Di
solito è lui che scrive gli articoli che lo riguardano. Si
dice siano diventati addirittura amici, che sia il suo confidente. Un
po' come il dottor Watson per te».
Sherlock si portò le dita davanti alla bocca, in
riflessione.
In mancanza d'altro, doveva sul serio iniziare a considerare l'ipotesi
che Arsène fosse stato incaricato di sorvegliarlo, di
accertarsi dei suoi cambiamenti in fatto di relazioni e di riportare le
informazioni raccolte al proprio misterioso cliente.
Aveva anche detto che gli avrebbe fatto aprire gli occhi, ma in che
modo?
«Magari c'entra una donna», ipotizzò
ancora Ganimard, soffiando il fumo oltre la sua spalla sinistra. Un
accorgimento gentile per non fargli venir voglia di fumare. E Dio se ne
aveva voglia.
«Non mi ricordo un caso dove non c'entrasse una donna, dico
uno», aggiunse con un risolino. «Magari sentiremo
di nuovo parlare della Donna Bionda. Nessuno sa che fine abbia fatto,
in fondo».
L'interesse del detective si riaccese di colpo, al ricordo della
ragazzina che aveva visto nella sala da té del Savoy Hotel.
In quel momento non ci aveva fatto molto caso, interamente concentrato
su Arsène, ma il suo cervello aveva notato e messo da parte
il cenno d'intesa che si erano rivolti prima che questa uscisse,
accompagnata da un'uomo che a quel punto doveva essere per forza un
altro membro della banda di Arsène.
«C'era una ragazzina con lui», disse ad alta voce,
posando i palmi sul tavolino e sporgendosi verso Ganimard.
«Anche lei era bionda».
«Una ragazzina?», ripeté confuso
l'ispettore. «Questo è strano. Non è da
Lupin...».
Sherlock socchiuse gli occhi, cercando di riordinare le idee.
«No. No, infatti. Sto adattando supposizioni ai pochi
elementi che ho, ignorando il resto come un principiante».
Justin spense la sigaretta nel posacenere e gli diede una pacca sul
braccio. «Non te la prendere, ragazzo. Con Arsène
Lupin è normale non avere elementi su cui lavorare. Ti ci
abituerai, un giorno».
L'idea lo infastidì tanto che rispose in malomodo:
«Vedo che il suo pessimismo non è cambiato. Cosa
ne pensa la sua terapista?».
Il francese strinse i pugni, la mascella contratta in un grido muto. Si
alzò e fece per andarsene, ma ci ripensò: pagava
fior di quattrini quella terapista, perché non sfruttare i
suoi consigli? Gli aveva detto di non tenersi tutto dentro, di sfogare
la rabbia che provava. E chi meglio di Sherlock Holmes poteva incassare
senza battere ciglio?
«Ho speso vent'anni della mia vita, venti fottuti anni,
dietro Arsène Lupin. Vent'anni in cui la mia vita
è andata a rotoli: sono diventato lo zimbello della polizia,
mia moglie mi ha lasciato e mi ha portato via le bambine, sono entrato
in crisi depressiva e ho iniziato a bere. Sono pessimista,
sì, ma posso concedermelo. La mia carriera ormai
è finita: quando si scoprirà che
Arsène è libero per causa mia, mi licenzieranno.
Allora non avrò più modo di fare l'unica cosa che
mi tiene ancora in vita - trovare le prove per metterlo dentro - e pur
di portare a termine questa storia gli sparerò, proprio
qui», si indicò il petto, all'altezza del cuore.
«Diventerò un assassino e non potrò
sopportarlo, perciò mi sparerò qui», e
si portò due dita alla tempia, mimando un colpo di pistola.
Sherlock lo fissò in silenzio per quelle che sembrarono ore.
Poi, con voce pacata e sicura, affermò: «Lei non
gli sparerà».
A Ganimard venne quasi da ridere. «E come lo sai?».
«Perché io glielo impedirò».
Il detective si alzò per guardarlo dritto negli occhi.
«Arsène non merita di morire».
«Alla fine ci sei cascato pure tu, ragazzo»,
commentò l'ispettore, a capo chino e con una risata sulle
labbra. «Ti sei affezionato».
«No», lo contraddisse a denti stretti.
«Ciò che voglio dire è che il suo posto
è la prigione. La morte lo renderebbe immortale».
La risata di Moriarty gli risuonò nelle orecchie, facendogli
socchiudere gli occhi. Una risata cattiva, piena di derisione.
Se Arsène fosse morto avrebbero diviso quella cella del suo
Palazzo Mentale, quel pozzo di pochi metri e dalle mura imbottite?
Anche Arsène avrebbe indossato una camicia di forza logora,
anche i suoi movimenti sarebbero stati impediti dalle catene?
No, lo sapeva. Di Arsène avrebbe ricordato la risata gioiosa
e piena di vita, gli occhi dietro cui si vedeva la sua anima, gli abiti
eleganti e lo sfarzo di cui si circondava. L'avrebbe ricordato come un
avversario che avrebbe potuto essere un amico.
L'ispettore Ganimard aveva ragione, ma non poteva dirglielo. Sapere che
anche Sherlock Holmes fosse al fianco di Arsène sarebbe
stato ciò che lo avrebbe ucciso. Il consulente investigativo
provava un'irrazionale simpatia per quell'uomo così simile a
lui e al contempo così diverso, e anche lui, proprio come
Arsène, aveva sempre avuto una missione: convincerlo a
passare alle forze del bene. Lo disturbava - tormentava, a dire il vero
- quell'uso improprio dei doni che entrambi avevano ricevuto.
«Inoltre», aggiunse ad un tratto, «odio i
funerali».
Ganimard lo fissò fino a quando un sorriso non gli
increspò le labbra. «L’ho sentito
dire».
Il detective lo guardò andare via senza mai voltarsi
indietro, le spalle sempre curve sotto il peso insostenibile che
l'universo gli aveva accollato.
***
Arsène raggiunse l'amico davanti alla porta della stanza
dietro cui si sentivano le chitarre di una canzone rock sparata a tutto
volume.
«I suoi gusti musicali sono molto diversi dai
miei», disse con una nota sorpresa nella voce, le
sopracciglia inarcate.
L'uomo scrollò le spalle. «Credo sia nel periodo
della ribellione, padrone».
«Dici che dovrei provare a parlarle?».
«Temo che non ne abbia voglia, al momento».
«Se non lo farò, io non riuscirò a
chiudere occhio e sai che la mancanza di sonno è terribile
per l'aspetto», rispose accarezzandosi il volto, per poi
respirare profondamente e bussare alla porta con decisione.
Nessuna risposta.
«Geneviève, sono io. Potresti farmi
entrare?».
Ancora silenzio.
I due uomini si scambiarono un'occhiata e ancor prima che l'amico
potesse tentare di farlo desistere, Arsène aveva
già infilato una mano nella tasca interna della giacca per
tirare fuori il proprio passepartout - col quale poteva aprire tutte le
camere dei suoi affiliati a loro insaputa - per posarlo sul lettore
fuori dalla porta.
La serratura scattò con un rumore quasi impercettibile e
Arsène entrò nella stanza col suo passo
più felpato. Tornò pochi secondi dopo, il volto
cinereo.
«Non è qui».
L'uomo si passò una mano sui baffi, mortificato.
«Sono desolato padrone, io...».
Ma Arsène, incredibilmente, sorrise mesto. «Non
potevi fare nulla per impedire che accadesse». Quindi, con
una punta di orgoglio negli occhi, aggiunse: «Tale padre,
tale figlia».
***
Sherlock era tornato a casa a piedi, passando anche dal chiosco dove
aveva preso le patatine fritte con quella che pensava fosse una cliente
e che invece era sempre stata sua sorella Eurus. La stessa Eurus che
gli aveva detto che era più gentile di quello che si diceva,
che l'aveva costretto a far dire a Molly Hooper quelle tre parole.
Aveva distrutto il precario equilibrio che c'era tra loro, il vetro
sottile che ancora li proteggeva da quel sentimento troppo ingombrante.
L'aveva perdonata quasi per tutto, ma per quello... per quello ci
sarebbero voluti molti altri duetti di violino.
Forse, se avesse preso il taxi e non avesse deciso di comprarsi un
cartoccio di patatine, non avrebbe mai sorpreso quella ragazzina nel
proprio appartamento.
Aveva subito notato qualcosa di strano entrando nell'androne: un
profumo dolce e fruttato, che non conosceva. Poi, salendo le scale,
aveva sentito dei passi leggerissimi sulla moquette, di qualcuno che
stava camminando sulle punte, e un fruscìo di fogli e
spartiti musicali.
Una strana euforia lo aveva fatto entrare con baldanza nel proprio
appartamento, certo che si trattasse di Lupin, e questo era stato il
suo primo errore.
Rimase di sasso infatti, realizzando che non era Lupin che lo stava
derubando, bensì la ragazzina bionda che aveva visto quella
mattina al Savoy. Indossava un cappellino di lana nero, ua felpa dello
stesso colore, dei jeans e delle scarpe da ginnastica, e aveva appena
riposto il suo violino nella custodia foderata.
Incrociò il suo sguardo per un solo attimo, per poi
concentrarsi sul piano di fuga.
Saltò sulla poltrona di pelle nera, anziché
aggirarla, e fece anche di più: sfruttò la forza
di gravità perché poi cadesse verso Sherlock,
intralciandogli la strada e facendogli perdere altri secondi preziosi.
Quindi corse in direzione della stanza del detective, da dove era
entrata e dove aveva lasciato la finestra aperta.
Il suo secondo errore fu quello di sottovalutarla.
«Fermati!», le gridò quando ormai era a
cavalcioni sul davanzale.
Sherlock vide il pugnale che gli lanciò contro solo
all'ultimo momento, ma riuscì a fermarsi in tempo. La lama
si conficcò nel corridoio, tra i suoi piedi, e la ragazzina
saltò dalla finestra, tirandosi dietro un invisibile filo di
nylon che chiuse la finestra, impedendo così al detective di
lanciarsi immediatamente dietro di lei. Non l'avrebbe fatto comunque
una volta vista la moto - sicuramente rubata - su cui saltò
e sfrecciò via, ma era stata molto astuta, doveva
riconoscerlo. Non aveva soltanto pensato al furto che doveva
commettere, ma anche alla possibilità che venisse colta sul
fatto e che dunque avrebbe avuto bisogno di scappare.
Per quanto fosse stupido non farlo, non tutti i ladri ci pensavano. E
tra quei pochi professionisti, uno più di tutti era il
maestro della fuga, tanto da preparare più di un piano per
colpo.
Sherlock raccolse il pugnale e tornò in salotto, il volto
arcigno per via dello smacco subìto.
Ebbe la prova delle sue teorie quando trovò un altro filo di
nylon teso sull'ingresso della cucina, piazzato casomai lei si fosse
trovata costretta a dover scappare da quella parte.
Lo tirò via subito, prima che se ne dimenticasse e
rischiasse di inciamparci in seguito o, ancora peggio, che lo facesse
la signora Hudson.
Chino per terra, maledì Arsène Lupin. Ma poi,
osservando meglio il pugnale che aveva in mano, abbozzò un
sorriso.
Se non poteva prendere il capo, avrebbe iniziato con uno dei suoi
sottoposti.
***
La ragazzina, dopo aver lasciato la moto in un vicolo non lontano da
dove l'aveva presa in prestito, entrò in hotel come ci era
uscita: passando per il garage sotterraneo. Chiamò
l'ascensore e salì fino al quattordicesimo piano,
quindi percorse il corridoio fino a raggiungere la camera che faceva al
caso suo. Sfortunatamente, era occupata.
«Dannazione», biascicò e posò
l'orecchio sulla porta.
Non sentì rumori particolari, perciò decise di
rischiare: usò il passepartout che aveva rubato ad una delle
cameriere ed aprì la porta. Capitolò all'interno
col capo e sentire il getto della doccia le fece tirare un sospiro di
sollievo. Si chiuse la porta alle spalle con estrema attenzione e poi
superò quella socchiusa del bagno, dalla quale uscivano
volute di vapore e profumo di bagnoschiuma al pino silvestre.
Raggiunse il balcone e si chiuse la portafinestra alle spalle proprio
quando l'uomo, sulla trentina e dal fisico scolpito, si
spostò nella camera da letto per frizionarsi i capelli
castani e vestirsi.
La ragazzina, col viso accaldato dall'adrenalina, scavalcò
il parapetto e una volta aggrappata alla ringhiera, con molta
attenzione fece penzolare le gambe nel vuoto. Respirò
profondamente per farsi coraggio e poi mollò la presa. Cadde
in piedi sul parapetto del balcone sottostante e subito, prima di
perdere l'equilibrio e volare di sotto, si spinse in avanti per cadere
sulla distesa di cuscini che aveva preparato, giusto per sicurezza,
prima di uscire. A carponi sul pavimento freddo sorrise, sentendosi
estremamente realizzata.
Aveva rubato il violino di Sherlock Holmes. Sherlock Holmes!
Si avvicinò alla portafinestra e in pochi secondi
riuscì a forzare la serratura ed entrare. Tutto era rimasto
esattamente come l'aveva lasciato, perciò nè la
sua babysitter nè suo padre si erano accorti della sua
assenza. Le moderne casse per l'iPod – dotazione dell'albergo
– erano ancora accese e fu accolta da "Rockstar", dei
Nickelback. Non poteva esserci canzone più azzeccata per
descrivere come si sentiva. Finalmente capiva cosa volesse dire essere
una Lupin e non avrebbe mai smesso.
Si tolse il cappellino e si fece scivolare la custodia del violino
dalle spalle per posarla sul letto ed inginocchiarvisi davanti.
L'aprì come se contenesse il più prezioso dei
tesori e per lei era così: suo padre sarebbe stato fiero di
lei, ne era sicura.
La musica si interruppe all'improvviso e alzando gli occhi fu proprio
lui che vide accanto agli altoparlanti, il piccolo telecomando in mano
e le braccia incrociate al petto. I suoi occhi... I suoi occhi di
solito così gentili e dolci, ora la fissivano con rabbia e
delusione, tanto che si sentì rimpicciolire.
«Dove sei stata?», le chiese.
«Io... Io ho preso questo per lei», rispose,
sforzandosi di non balbettare. Girò quindi la custodia verso
di lui, mostrandogli il violino al suo interno.
Lo degnò a malapena di un'occhiata, con aria di sufficienza.
Tutto il suo lavoro, la sua fatica! Non riuscì
più a controllare la rabbia e si alzò per
fronteggiarlo, il volto una maschera di pietra su cui iniziavano a
rotolare lacrime ardenti.
«Prima ho avuto l'impressione che mi ritenesse un impiccio,
perciò ho pensato di doverle provare il
contrario», spiegò. «Questo è
il violino di Sherlock Holmes, signore. Sono andata al suo appartamento
e l'ho preso, ricordando che questa mattina voleva duettare con lui. Il
signor Holmes è tornato prima del previsto e mi ha sorpresa,
ma sono riuscita a sfuggirgli. Avevo organizzato due piani di fuga
diversi, come fa lei di solito. Pensavo... pensavo che le avrebbe fatto
piacere, che avrebbe finalmente capito che posso portare alto il suo
nome e che... che sarebbe stato fiero di me, signore».
Ora non osava più guardarlo e teneva il capo abbassato,
imbarazzata dalle sue stesse lacrime. Si stava dimostrando la ragazzina
che era, non la figlia del celebre Ladro Gentiluomo.
Non sentì nemmeno i suoi passi, talmente forti erano i
propri singhiozzi e il cuore che le pulsava nelle orecchie. Si
ritrovò semplicemente stretta contro il suo petto, un suo
braccio intorno alla schiena tremante e una sua mano sulla nuca, ad
accarezzarle teneramente i capelli.
«Shhh, va tutto bene», le sussurrò, le
labbra ad un soffio dalla sua tempia. «Mi dispiace, non
volevo farti piangere. La verità è che mi sono
così spaventato... Tu non sei un impiccio, non lo sarai mai.
E so che ci conosciamo da poco, ma solo il pensiero di perderti mi
terrorizza, Geneviève».
La ragazzina sobbalzò, sentendo il proprio nome pronunciato
dalle sue labbra. Davvero teneva così tanto a lei?
Si allontanò dalla sua spalla e si asciugò le
lacrime alla bell'e meglio, incrociando il suo sguardo ora di nuovo
amorevole.
«Sono stata brava, allora? È fiero di
me?», gli chiese con un piccolo sorriso.
«Certo che sono fiero di te, tesoro! Ma...».
Geneviève si incupì nuovamente. «Ma
cosa?».
«Ho promesso a tua madre di prendermi cura di te e,
soprattutto, di tenerti lontana dai miei affari».
Fu come se il mondo intero le cadesse sulle spalle. «Che
cosa?».
«Mi dispiace, tesoro. È evidente che hai un
dono...», indicò il violino, ancora un po'
incredulo che una ragazzina di quindici anni avesse potuto fregare il
detective di fama internazionale. «Ma una promessa
è una promessa».
«Non ha alcun senso!», gridò,
spingendolo via. Si dimenticò persino di dargli del lei - un
modo come un altro per non affezionarsi troppo in fretta - talmente era
arrabbiata con lui. «Lei lavorava con te, avete fatto decine
di colpi insieme! Quando ero piccola, prima di andare a letto mi
raccontava delle vostre avventure! E ora che ti ho finalmente trovato,
che ho finalmente la possibilità di seguire la mia
vocazione, tu me la vieti?!».
Arsène deglutì rumorosamente, osservando un punto
oltre le sue spalle. «Come ti ho detto, il pensiero di
perderti mi terrorizza. E la vita che conduco è piena di
rischi, come puoi immaginare».
«Ma io voglio stare con te! Voglio vivere le stesse avventure
che ha vissuto mia madre, e cento di più!»,
insistette. Con un enorme sforzo e gli occhi di nuovo lucidi,
tornò da lui e lo strinse in un abbraccio, sussurrando:
«Ti prego, papà».
A quelle parole sentì Arsène trasalire e
pensò di esserci riuscita, pensò che avrebbe
ceduto, ma si sbagliava.
Le prese i gomiti e l'allontanò da sè, evitando i
suoi occhi verdi.
«Lui ti ha vista in faccia?», le chiese con tono
secco, autoritario. «Sherlock Holmes ti ha vista?».
«Sì, per un secondo o due. Non penso che
potrebbe...».
«Oh, lui può eccome».
Arsène sospirò e fece un ulteriore passo
indietro, posandosi due dita sugli occhi. Ad un tratto le sue spalle
iniziarono a tremare e dalla sua gola uscì una risata
sommessa, fino a quando non si trasformò in una in piena
regola, tanto forte da doversi piegare in due.
«Che cosa...?».
«Ma è perfetto! Geneviève, sei un
genio!».
«Davvero?», mormorò, sentendosi
arrossire.
Le prese il volto tra le mani e le posò il primo bacio sulla
fronte, gli occhi brillanti d'eccitazione.
«Cercavo disperatamente un modo per avvicinarmi a lui e la
risposta ce l'ho sempre avuta davanti: tu, tesoro!».
La ragazzina lo fissò confusa. «Ma... ma la
promessa...».
«Non ti accadrà nulla di male, vedrai. Domani
andrò da lui a restituirgli il violino e tutto
verrà da sè, ne sono certo».
Geneviève lo guardò, ammirata. Riusciva sempre a
vedere il lato positivo di ogni cosa, senza mai lasciarsi scoraggiare.
Coglieva le occasioni, ne approfittava fino a sfruttarne ogni
più piccolo vantaggio. E in parte era anche merito suo.
L'adrenalina tornò in circolo all'idea che avrebbe fatto
parte di un piano di suo padre, che ne sarebbe stata addirittura una
protagonista.
Il Ladro Gentiluomo l'abbracciò forte, felice come un
bambino, e lei strinse le mani sulle sue spalle, pregando
perché non la lasciasse mai.
Tuttavia lo fece, dicendole: «Ora dormi, hai bisogno di
riposare».
Geneviève annuì, ma dubitava fortemente che
avrebbe chiuso occhio quella notte.
Guardò Arsène chiudere la custodia del violino e
con essa dirigersi verso la porta, per poi fermarsi con la mano sulla
maniglia. Il cuore le balzò nel petto quando si
voltò nuovamente verso di lei, un sorriso divertito sulle
labbra.
«Diavolo, avrei tanto voluto vedere la sua faccia!».
La ragazzina si lasciò scappare una risatina, avvertendo una
nuova complicità nascere tra di loro. E fu grazie a questo
che riuscì a dire: «Buonanotte,
papà».
Arsène parve arrossire, o forse era solo frutto della sua
immaginazione.
«Buonanotte, piccola», sussurrò dandole
la schiena.
Geneviève sentì un piacevole calore riscaldarle
le membra e si lasciò cadere a peso morto sul letto, gli
occhi rivolti verso il soffitto e un sorriso sereno sul volto.
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Capitolo 6 *** Secret sister ***
Aloha! Ben ritrovati a tutti! :)
Nonostante il saluto, no, non sono stata alle Hawaii. Magari!
Però mi sono rilassata al mare, leggendo tanti manga e
soprattutto scrivendo! Sono proprio contenta di come sta venendo fuori
questa storia e spero vivamente che sarete del mio stesso parere in
futuro :D
Per il momento ringrazio chi ha aspettato pazientemente questo
capitolo, chi ha commentato il precedente (vi risponderò,
abbiate fede) e chi ha aggiunto la fic tra preferite/seguite/ricordate.
Tanto ammmore per tutti ♥
Adesso vi lascio alla lettura, che è cosa buona e giusta.
A presto!
Vostra,
_Pulse_
________________________________________________________________
6. Secret sister
Non era mai domenica mattina per John. Non c'era un giorno della
settimana in cui potesse starsene tranquillo a letto, se Sherlock lo
chiamava.
Profondamente deluso da come cedesse ogni volta, entrò
sospirando nel 221B e trovò Sherlock pressoché
nella stessa posizione del giorno prima, quando, dopo la disastrosa
colazione con Arsène Lupin, l'aveva lasciato a sbollirsi.
Non si era nemmeno cambiato, da quello che vedeva.
«Sei arrivato, bene», esclamò prima che
potesse anche solo salutarlo, compiaciuto. «E hai portato
anche Rosie, come ti avevo chiesto».
«Mi vuoi spiegare che cosa sta succedendo?».
Il consulente investigativo si alzò con un saltello e fece
una mezza giravolta su se stesso, dirigendosi verso il bagno.
«Ho un buon presentimento, John!».
«Su cosa?».
Da dietro la porta chiusa, Sherlock gridò: «Stai
alla finestra e chiamami quando vedi arrivare Lupin!».
John socchiuse gli occhi e con fare arrendevole fece ciò che
l'amico gli aveva chiesto, certo che presto avrebbe ricevuto tutte le
risposte.
Lasciò Rosie sul pavimento, tra i giochi che le aveva
portato e quelli che Sherlock aveva comprato per lei - puzzle e
rompicapi per stimolare il suo sviluppo cognitivo - e rimase alla
finestra, a braccia incrociate, fino a quando non scorse la Porsche 918
Spyder argentata di Arsène Lupin.
Prima ancora che potesse chiamarlo, Sherlock uscì dal bagno
con i capelli ancora un po' umidi, il volto perfettamente rasato, una
camicia viola e dei pantaloni neri. Afferrò la vestaglia e
se la infilò, dopodichè prese Rosie tra le
braccia e si mise alla finestra dove di solito si metteva a suonare il
violino. A proposito, che fine aveva fatto?
John aprì di nuovo la bocca per chiedere quali fossero le
sue intenzioni e che cosa c'entrasse sua figlia, ma ancora una volta
venne interrotto. La signora Hudson bussò contro la porta
aperta, con un sorriso felice sul volto.
«Cucù! Ci sono visite, Sherlock».
«Grazie, madame
Hudson», disse piano Arsène, chinando un poco il
capo.
«Si figuri, caro. Preparo un po' di tè,
uhm?».
«Non si disturbi, sono solo di passaggio».
Quando la padrona di casa se ne andò, Arsène
entrò nell'appartamento con passi calcolati, guardandosi
intorno con gli occhi spalancati perché non si perdessero
nemmeno un dettaglio.
E così quello era l'appartamento di Sherlock, il covo del
grande detective inglese, il luogo sicuro in cui si rifugiava dopo aver
affrontato mille e più pericoli.
C'era ancora odore di cenere e di nuovo, com'era ovvio che fosse. Era
stato rimesso a nuovo dopo l'esplosione che l'aveva quasi interamente
distrutto, anche se nulla alla fine era stato modificato; anzi, con
impegno e dedizione gli inquilini avevano fatto sì che
ritornasse ad essere quel luogo vissuto, consumato dagli stati d'animo
di Sherlock, dalle risate e dai pianti, dalle confidenze, dalle
riappacificazioni e dai litigi, dai casi più strani e da
quelli più comuni. Ricordi indelebili dei quali non potevano
fare a meno, senza i quali il 221B di Baker Street non esisteva.
Arsène provò una stretta al cuore, sintomo di
rimpianto e gelosia: lui non aveva un luogo del genere. Aveva un posto
in cui viveva la maggior parte del tempo, quando non era in giro per il
mondo; aveva il suo nascondiglio preferito, ma non un luogo che poteva
chiamare casa.
«Buongiorno, Arsène», lo
salutò Sherlock con l'abbozzo di un sorriso, voltandosi
verso di lui.
Solo allora il Ladro Gentiluomo notò la bambina che teneva
tra le braccia, la figlia del dottor Watson. Era davvero bella, per
avere solo sei mesi. C'era molto di sua madre in quei boccoli biondi,
in quegli occhioni pieni di vita...
Arsène abbassò lo sguardo e si
avvicinò al tavolo per posarci sopra la custodia di un
violino, farne scattare i due ganci metallici e mostrarne loro il
contenuto. John strabuzzò gli occhi, rendendosi conto che
quello non era un violino qualunque, ma il violino di Sherlock.
«Come...? Perché ce l'ha lei?», chiese,
confuso.
Sherlock abbozzò un sorriso. «Perché
ieri sera mi è stato rubato».
«Sono desolato», replicò subito
Arsène, dallo sguardo davvero mortificato. «Non ne
sapevo nulla e ti prego di perdonarla».
«Perdonarla?», ripeté John, sempre
più scioccato.
«Ti ricordi la ragazzina che c'era alla sala da tè
del Savoy?», si rivolse a lui Sherlock, senza però
distogliere lo sguardo dal Ladro Gentiluomo. «È
stata lei ad introdursi qui e a rubare il mio violino. Quanti anni ha,
Arsène?».
«Quindici, compiuti da poco».
Sherlock parve sorpreso da quella risposta, lui che raramente si
sorprendeva. «Se è già così
abile a quest'età, credo che presto l'allieva
supererà il maestro. Lo sai che è scappata via in
moto?».
Arsène non fece una piega, come se sapesse perfettamente con
chi aveva a che fare. Però strinse i pugni lungo i fianchi,
esclamando: «Non succederà mai».
«Paura di venire spodestato?», ridacchiò
il detective.
«Niente affatto».
John si ritrovò a trattenere il respiro, fissando i due
uomini che si scrutavano in silenzio. La tensione si
stemperò quando Rosie afferrò una ciocca di
capelli di Sherlock e tirò, con un versetto divertito.
Il detective chiuse a malapena gli occhi, abituato a ben altro tipo di
dolore, e a passi decisi si avvicinò ad Arsène,
il quale indietreggiò di un passo. John ne fu molto colpito,
soprattutto perché non riusciva a capire che cosa lo
spaventasse tanto.
«Chi è quella ragazzina,
Arsène?», gli chiese in un sussurro Sherlock,
riservandogli la sua occhiata più penetrante.
Il ladro guardò la bambina davanti a lui, così
vicina da poterne sentire il profumo di talco, e deglutì. A
Sherlock quel dettaglio non sfuggì e sorrise, come se avesse
appena avuto la prova che cercava. John, come al solito, non capiva
ancora un accidenti.
«Puoi tenerla in braccio, se vuoi», gli propose con
tono suadente. «Può, John?».
«Credo... credo di sì», rispose, come
ipnotizzato.
Sherlock si avvicinò ancora un po' e si chinò
perché Arsène potesse prendere Rosie. Il biondo
esitò, poi sfiorò il corpicino della bambina e
tenendola da sotto le ascelle la sfilò dalle braccia del
detective. Quindi se la posò contro il petto, con un braccio
sotto il pannolino e una mano sulla sua schiena.
Arsène parve rilassarsi e respirò profondamente,
con un lieve sorriso sulle labbra. Poi però una lacrima
solitaria gli sfuggì dall'occhio destro ed accorgendosene si
cancellò quel sorriso dal volto, esclamando:
«Riprendila, Sherlock».
«Che cosa c'è che non va?», gli
domandò questo, con una punta di ironia nella voce.
«Ti fa male pensare che tu non c'eri quando quella ragazzina,
tua figlia, era piccola così?».
Arsène scoprì i denti in un ringhio pieno di
dolore e si avvicinò al dottor Watson per lasciargli la
bambina. Quindi tirò su col naso e ritornò agli
affari, indicando il violino nella custodia.
«Te lo rendo, Sherlock, in quanto non ha alcun valore per me
e ne ha moltissimo, a livello affettivo, per te. In cambio, ti chiedo
di dimenticarti di lei».
«Non posso crederci, è davvero sua
figlia?», chiese John, a scoppio ritardato.
«Oh sì, eccome se lo è»,
rispose Sherlock, mostrando tutta la propria gaiezza per aver risolto
il caso della settimana. «Il mio violino scompare e lui si
precipita qui a restituirmelo, dicendo che non è opera sua.
Da quando è arrivato il suo sguardo non ha fatto altro che
indugiare su Rosie: voleva e al contempo non voleva prenderla in
braccio, per via dei rimpianti. Inoltre, poco fa, quando ho detto che
presto l'allieva avrebbe superato il maestro, ha risposto che non
sarebbe mai accaduto, non tanto perché temeva di essere
spodestato ma perché non vuole che lei faccia il suo stesso
mestiere. Questa ragazzina non può essere un semplice membro
della sua banda, visto il modo in cui sta cercando di proteggerla. Sa
perfettamente che non lascerò perdere la questione ed
è persino disposto a contrattare, a darmi qualcosa in
cambio, per la sua sicurezza. Non è così,
Arsène?».
Il ladro chinò il capo, poi rilassò i pugni e si
lasciò andare ad una breve risata. Quando tornò a
guardarli, il suo sguardo era tornato quello ridente che conoscevano.
Applaudì anche, superando Sherlock per andare a sedersi
sulla poltrona di John.
«Magnifique,
mon ami». Accavallò le gambe con
eleganza e fece per tirare fuori dalla tasca interna del cappotto una
sigaretta elettronica, ma ci ripensò non appena
riposò lo sguardo sulla piccola Rosie.
«Come al solito, è impossibile tenere dei segreti
con te. Ebbene, oggi sono qui in qualità di padre, che
chiede perdono per la marachella della sua bambina. Il violino
è in ottimo stato, puoi controllare tu stesso».
Sherlock afferrò il delicato strumento e suonò
qualche nota con l'archetto, poi lo riposò nella custodia,
soddisfatto.
«John, siediti e datti un contegno, per favore».
Il dottore si riscosse e finalmente chiuse la bocca, spalancata per le
ultime rivelazioni. Si sedette sul divano, con Rosie tra le braccia, e
guardò Sherlock sedersi sulla poltrona di fronte ad
Arsène, il quale aveva ripreso a guardarsi intorno con aria
curiosa.
«La carta da parati rende l'ambiente più piccolo
di quello che è», commentò.
«Perché non l'avete cambiata?».
«A me piace».
Arsène fece spallucce e si passò una mano tra i
capelli biondi, poi tornò a guardare Sherlock, serio.
«Allora, che cosa vuoi?».
«Quanto vale per te tua figlia?».
«Ti concedo tre desideri», sorrise enigmatico.
«Chiedi e ti sarà dato. Solo... presta molta
attenzione a ciò che vuoi, Sherlock».
Il detective si portò le mani unite davanti alla bocca e
guardò l'avversario seduto davanti a lui: la calma
e la sicurezza che dimostrava, nonostante stesse barattando la
sicurezza di sua figlia, erano ammirevoli.
«Va bene, sono pronto», annunciò ad un
tratto il consulente investigativo. «Il primo desiderio ti
sembrerà un po' scontato, ma tant'è... Voglio
sapere il o i motivi per cui ti trovi a Londra».
Arsène sospirò deluso, ma mantenne fede alla sua
promessa e contò sulle dita: «Famiglia, cliente e
curiosità».
Sherlock strinse i denti. Aveva sbagliato - ancora - e ora doveva
buttare via un desiderio.
«Voglio i dettagli, Arsène».
«Oh... Peccato, avresti dovuto essere più preciso
prima».
Sherlock si sforzò per non saltargli addosso ed attese, in
silenzio.
«La madre di Geneviève, mia figlia, ha il cancro.
Si è trasferita qui a Londra circa quattro anni fa, per
curarsi, ma i trattamenti non hanno dato gli esiti sperati. Sta morendo
e ha deciso di farci incontrare».
«Bene», rispose Sherlock, soddisfatto della
risposta, ma venne subito rimproverato da John, il quale gli
ordinò di scusarsi.
«La ringrazio, dottor Watson, ma tra me e Sherlock non
c'è bisogno di tutto questo. Ci conosciamo,
ormai», spiegò Arsène, sorridendo.
«Il cliente», lo incalzò il detective,
smanioso di sapere.
Arsène si strinse nelle spalle, più restio quella
volta. «Non è mia abitudine rivelare
l'identità di coloro che mi chiedono favori...».
«Tua figlia, Arsène».
«... ma per questa volta farò un'eccezione, dato
che quella donna non mi è mai stata simpatica».
John rizzò le orecchie. «Donna?».
Sherlock, invece, si coprì gli occhi con i palmi delle mani.
Aveva avuto modo di riflettere quella notte, a lungo, ed era giunto ad
un'unica soluzione.
«Irene Adler, ovviamente», esclamò
Arsène, con espressione stizzita. «Ci conosciamo
da tempo, ma ho sempre cercato di tenermene alla larga. Non mi
piacciono i suoi metodi, nè lei in particolare. Il solo
fatto che abbia lavorato con Moriarty avrebbe dovuto farti capire che
non avresti dovuto...».
«Che cosa vuole?», lo interruppe bruscamente
Sherlock, fissandolo con astio.
«Devo contarlo come terzo desiderio?».
«No, è ancora il secondo!».
«Va bene, va bene», sospirò alzando le
mani. «Te l'ho già detto, comunque. Le nostre
strade si sono incrociate per caso e ha approfittato dell'occasione per
dirmi che aveva notato qualcosa di diverso in te. Non ho potuto
resistere e ho voluto sapere di più, ma nemmeno lei riusciva
a spiegarsi cosa fosse successo, così mi ha chiesto di
investigare, dato che tu sei stato molto chiaro con lei, dopo il vostro
ultimo incontro».
Sherlock gemette e Arsène, con la fronte corrugata, se ne
chiese il motivo. Non fu difficile trovarlo: bastò girarsi
verso il dottor Watson, nuovamente a bocca aperta.
«Perdonami, John non era al corrente delle vostre
scappatelle?».
Lo sguardo truce di Sherlock fu abbastanza eloquente, ma
Arsène scrollò le spalle.
«Ad ogni modo, eccomi qua. Ora che sai questo, il terzo
motivo è piuttosto semplice da dedurre».
«Eri curioso di sapere se Irene ti avesse detto la
verità».
«Bravo!».
Sherlock si alzò ed evitò accuratamente di posare
lo sguardo sul suo migliore amico, il quale però
attaccò: «Tu hai visto Irene Adler? Quando? E con
il termine scappatelle...?».
«Non è rilevante», rispose a bassa voce
Sherlock, guardando Baker Street fuori dalla finestra.
«È finita, ormai».
«Finita?
L'ultima volta che ne abbiamo parlato hai detto che non rispondevi
nemmeno ai suoi messaggi!».
«Mi dispiace dovervi interrompere, signori, ma il tempo
è prezioso», si intromise Arsène
alzandosi e guardando il proprio Rolex. «Sherlock, qual
è il terzo desiderio?».
Il detective rimase in silenzio, immobile.
«Sherlock... devo andare», ripeté
Arsène, davvero dispiaciuto di dovergli mettere fretta.
«Non mi capiterà mai più un'occasione
del genere», mormorò, più a se stesso
che a qualcuno in particolare.
«Non si può avere tutto dalla vita».
«E va bene». Sherlock si voltò e
guardò l'avversario con decisione. «Ad Irene ci
penserò io. Non ti chiederò nemmeno di
consegnarti di tua spontanea volontà a Ganimard
perché gli toglierei la soddisfazione di una vita».
Arsène sorrise. «Allora che cosa vuoi?».
«Voglio che tu consegni tua figlia a Mycroft».
Arsène impallidì e vacillò, tanto che
dovette appoggiarsi al bracciolo della poltrona con una mano. John
stesso ci rimase male: togliergli la figlia che aveva appena trovato
era di una crudeltà inaudita.
«Hai detto "Chiedi e ti sarà dato"», gli
ricordò il consulente, sfruttando il suo stesso trucco.
«Dovevi porre dei limiti, Arsène. Stiamo
contrattando per la sua sicurezza e, purtroppo per lei, Mycroft
è la persona che può occuparsene nel migliore dei
modi».
Il Ladro Gentiluomo si riprese e lo guardò con tutta la
collera di cui era capace, tremando. «È solo una
ragazzina, Sherlock».
«Proprio per questo. Le sue doti non sono ancora pienamente
sviluppate e credo abbia un notevole margine di miglioramento. Non vuoi
che faccia la tua stessa vita? Questa è la miglior offerta
che potrebbe mai ricevere».
«Ma diventerebbe...».
«Meglio di
me. Con le tue capacità e quelle della famiglia Holmes...
diventerebbe il miglior agente segreto di questo mondo».
Per qualche motivo a lui sconosciuto, Arsène
fissò John e la piccola Rosie. A lungo, con tristezza.
Sherlock fece un passo avanti, non riuscendo a spiegarselo.
«Voglio che sia lei a scegliere», rispose alla fine
Arsène.
«Glielo proporrai?».
Arsène si chiuse il cappotto e dirigendosi verso la porta
rispose: «No, lo farai tu. Vieni con me».
Sherlock non ci pensò su due volte e togliendosi la
vestaglia lo seguì. Anche John si alzò dal
divano, troppo coinvolto per non assistere alla fine di quel duello
senz'armi.
«Sono desolato, dottor Watson, ma lei non può
venire», affermò Arsène mentre
scendevano le scale.
«Che cosa? Perché no?».
Una volta nell'androne, Arsène si girò verso i
ragazzi di Baker Street, inseparabili, e prima che Sherlock potesse
prendere le difese dell'amico incatenò i loro sguardi e gli
posò una mano guantata sul braccio.
«Fidati di me, Sherlock».
Quelle parole lo attraversarono da capo a piedi come una scossa
elettrica e il detective, suo malgrado, dovette dire a John di rimanere
lì.
«Sherlock...», provò a convincerlo,
ferito e con poca voce.
«Inoltre, l'auto ha solo due posti!», aggiunse
Arsène, facendo il giro della decappottabile e saltando sul
sedile del guidatore senza aprire la portiera. Lo stesso fece Sherlock
e prima che Arsène mettesse in moto rivolse al dottore
un'ultima occhiata di scuse.
John li guardò sfrecciare via e poi con rabbia si chiuse la
porta alle spalle, facendo spaventare Rosie, alla quale vennero i
lucciconi agli occhi.
«Scusami tesoro, è che devi capire che zio
Sherlock è un idiota».
Questo parve tranquillizzare la bambina e John ne fu in parte contento.
Era meglio che fosse preparata, perché con il consulente
investigativo le delusioni erano sempre dietro l'angolo.
***
Il motore della Porsche ruggiva come una leonessa e Arsène
teneva strette le mani sul volante di pelle, ma i suoi movimenti
rimanevano aggraziati e la sua guida sicura, sciolta come se non
facesse altro dalla mattina alla sera.
Sherlock guardò l'avversario: la linea spigolosa della
mascella contratta, il profilo delicato del naso, le ciglia lunghe, gli
occhi verdi e i capelli biondi ora un po' scompigliati dall'alta
velocità.
Era un bell'uomo, Arsène Lupin, e non si stupiva che avesse
così successo con le donne. Ciò nonostante, le
sue storie d'amore erano sempre finite nel peggiore dei modi.
Arsène dava il cento percento di sé, non si
teneva dentro niente, e questo, insieme alla sua professione insolita,
dopo un po' stancava le donne che frequentava.
Per questo motivo la possibilità che avesse una figlia aveva
impiegato così tanto ad attecchire nella sua mente. Ma
d'altronde, una volta eliminato l'impossibile, ciò che
rimaneva, per quanto strano, non poteva che essere la
verità.
Doveva essere stato sicuramente un incidente di percorso, qualcosa di
non programmato. Altrimenti, la donna non gli avrebbe tenuto nascosto
di essere incinta. E se l'avesse saputo, Arsène avrebbe
fatto di tutto per starle accanto, per impedire alla madre di sua
figlia di lasciarlo. Perciò, come d'abitudine, era stata lei
a farlo, magari subito dopo aver ricevuto la conferma della gravidanza.
Arsène non l'aveva nemmeno sospettato.
Sherlock si chiese come doveva essersi sentito quando quella donna
l'aveva ricontattato, dopo tutti quegli anni, per dirgli che stava
morendo e che d'ora in avanti avrebbe dovuto prendersi cura della loro
bambina. Si chiese dov'era, che cosa stava facendo, e la sua mente
viaggiò.
«Lupin!».
Dei colpi sordi alla
porta blindata.
«Stai lontano,
Lupin! È arrivata la posta!».
Il Ladro Gentiluomo
abbozzò un sorriso ed aprì un solo occhio, senza
muoversi dalla propria posizione zen: gambe incrociate, schiena dritta,
polsi sulle ginocchia e indici e pollici uniti a formare due cerchi.
Le numerose serrature
scattarono e una guardia entrò nella sua modesta cella
trascinandosi dietro un pesante sacco di juta. Quindi si diresse verso
la scrivania e prese in consegna quello della scorsa settimana. Non gli
era permesso di conservare nessuna delle lettere che riceveva -
avrebbero finito lo spazio in tempi molto brevi - ma d'altronde
Arsène Lupin non ne aveva bisogno: ricordava tutte le parole
gentili e anche le critiche a lui rivolte.
«Incredibile»,
borbottò la guardia. «Non riesco proprio a capire
come tu possa avere così tanti ammiratori».
«Antoine,
questa sera, a cena, provi a chiederlo a sua moglie. La cara
Maryse mi scrive ogni settimana».
La guardia lo
fissò inebetito per qualche istante, poi il suo volto sotto
il caschetto divenne purpureo e una mano sfiorò il calcio
della mitraglietta.
«La prego, se
ha concluso, di lasciarmi solo. Ero nel bel mezzo di una
meditazione».
Antoine
grugnì ed uscì a passi pesanti col sacco di juta,
quindi la porta si chiuse con un tonfo e Arsène
sospirò. Allungò le gambe di fronte a
sè per stiracchiarsi e saltò giù dal
letto a baldacchino per andare a recuperare la posta.
Aprì il sacco
e ne svuotò il contenuto sul pavimento, dove si sedette per
iniziare a leggere le lettere dei suoi fan.
Passarono due ore -
anche se era difficile a dirsi, non avendo né orologi
né finestre - ed afferrò l'ennesima busta bianca,
decidendo che sarebbe stata l'ultima della giornata.
L'indirizzo del mittente
era stato cancellato da qualche bravo impiegato assunto proprio per
controllare la posta di Arsène Lupin, ma il profumo... ah,
il profumo era impossibile da nascondere. E quel profumo in particolare
gli fece schizzare il cuore in gola.
Estrasse la lettera con
mani tremanti ed incredibilmente non trovò nemmeno una
parola censurata. La sua amica era stata molto furba, come sempre:
aveva scritto usando un codice che solo loro due e pochi altri, membri
fidati della cerchia del Ladro Gentiluomo, conoscevano. L'impiegato
statale, insonnolito e stufo marcio di sentir dare dell'eroe ad un uomo
che non lo era affatto, l'aveva approvata senza nemmeno intuire che ci
fosse un messaggio nascosto in quelle frasi lette e rilette.
Anche il fatto che si
fosse firmata "La Donna Bionda" non era una novità, per
l'impiegato. I colpi di Arsène Lupin erano stati
così ampliamente raccontati sui giornali che i suoi
ammiratori usavano spesso i nominativi dei suoi complici, nella futile
speranza che Arsène rispondesse loro.
Quello che l'impiegato
non sapeva era che quella era la Donna Bionda originale, la sola ed
unica. E aveva bisogno di lui.
Arsène si
portò la lettera al viso e con il profumo dell'amata nelle
narici scoppiò a piangere, disperato.
Le guardie sentirono i
suoi singhiozzi e i suoi lamenti per ore e quella sera, quando
finalmente Antoine ritornò a casa da sua moglie, non ebbe la
forza di arrabbiarsi con lei per le lettere che a sua insaputa aveva
inviato al Ladro Gentiluomo.
Non successe
più nulla per le due settimane successive. La solita,
rassicurante routine. Poi, una mattina, Antoine scoprì che
da quel giorno in avanti le sue mansioni sarebbero cambiate.
Chiedendone il motivo, gli venne detto che Arsène Lupin
aveva lasciato la sua cella, forse per sempre.
«Siamo arrivati», esclamò
Arsène, risvegliandolo dal sogno ad occhi aperti.
Sherlock lo guardò scendere dall'auto, gli occhi tristi e i
gesti nervosi. Poi alzò lo sguardo verso l'edificio dalla
facciata regolare che avevano di fronte: il London Bridge Hospital, una
delle migliori strutture private per la cura e l'assistenza dei
pazienti malati di cancro.
Lo seguì all'interno e la ragazza dietro la reception
salutò Arsène con un sorriso gentile e un cenno
del capo, segno che l'aveva visto lì altre volte.
Presero l'ascensore e salirono al terzo piano, dove Sherlock
notò subito un paio - o meglio, quattro - degli uomini del
ladro seguirlo attentamente con gli occhi, pronti ad intervenire al
segnale del loro capo.
Seduto davanti ad una delle stanze private, c'era lo stesso uomo
elegante e coi baffi che aveva visto al Saovy accanto alla ragazzina.
L'uomo più fidato e vicino a Lupin, a quel punto.
Si scambiarono un breve cenno d'intesa, poi Arsène si
avvicinò al vetro tramite cui si poteva vedere l'interno
della stanza. Sherlock lo affiancò.
La ragazzina dava loro le spalle, seduta su una sedia accanto al letto
dove riposava una donna dal volto pallido e stanco, ma pur sempre
bello, e con un turbante di seta intorno alla testa calva.
Sherlock sentì l'aria mancargli dai polmoni e il cuore
stringersi come se una mano invisibile, ghiacciata, gli avesse appena
trapassato il petto per usarlo come pallina antistress.
Quella donna... somigliava terribilmente a Mary, alla sua Mary, alla
Mary di John.
Si scostò dal vetro e si sedette sulla sedia lasciatagli
dall'uomo coi baffi.
«Ora capisci perché non volevo che John
venisse?».
Sherlock alzò gli occhi di ghiaccio su Arsène.
«Com'è possibile?».
Il ladro si girò verso di lui e lo fissò con un
sorriso quasi divertito sul volto. «Cosa? Pensavi davvero che
Mary Watson non avesse nessuno al mondo? Suvvia... Col lavoro che
faceva, era necessario che lei risultasse orfana e senza alcun legame
affettivo. Avrebbe messo a rischio la vita di chi le stava accanto,
altrimenti».
«Ma quando ci ha rivelato la verità
perché non ci ha detto...?».
«Perché sua sorella aveva intrapreso la stessa
carriera, più o meno. La donna che vedi là dentro
non esiste, non ufficialmente».
Il cervello di Sherlock lavorava ad una velocità disumana,
ad una velocità a cui persino un computer di ultima
generazione si sarebbe fuso.
Ora tutto aveva un senso. L'intelligenza di Geneviève, il
modo in cui Arsène aveva guardato John e Rosie
all'appartamento...
«Geneviève è la cugina di Rosie. Tu e
John... tu e John siete parenti, in pratica».
Arsène abbozzò una risata. «Oh,
com'è piccolo il mondo!».
Sherlock si alzò dalla poltrona e si ricompose.
Guardò ancora la donna oltre il vetro, fino a quando questa
non aprì gli occhi, rivelando gli stessi occhi di Mary.
Un'altra stretta al cuore, a cui però resistette per dire:
«Voglio parlarle».
«E che cosa vorresti dirle?».
«Qualcosa che non ho potuto dire a Mary».
Arsène parve capire e strinse le labbra, quindi
bussò piano alla porta ed entrò.
Salutò la donna con un lieve bacio sulla fronte e poi le
sussurrò qualcosa all'orecchio. Lei annuì e
Arsène accarezzò la spalla della figlia,
invitandola ad alzarsi. La donna le sorrise per tranquillizzarla e
Arsène e Geneviève uscirono dalla stanza.
Non appena la ragazzina lo vide, la sua stretta intorno alla mano del
padre si fece più decisa, ma non arretrò
né deviò il suo sguardo. Anche nei suoi occhi,
ora che li fissava da vicino, c'era qualcosa di Mary.
Sherlock si infilò una mano nella tasca interna del cappotto
e le porse il pugnale che gli aveva lanciato contro la sera prima.
«Credo che questo sia tuo», le disse, sorridendole
persino.
Geneviève guardò il padre in cerca di
rassicurazioni e quando le ottenne afferrò il pugnale dal
manico di ferro intarsiato e ringraziò Sherlock con un
inglese perfetto, segno che era stata cresciuta come una bilingue.
«C'è altro che vorresti dirgli,
Geneviève?», la incalzò
Arsène.
La ragazzina sorrise furbescamente e invece di scusarsi disse:
«Mi piace lo smile nel suo appartamento, signor
Holmes».
Il ladro si portò una mano sulla fronte, ma Sherlock invece
ampliò il proprio sorriso e le rivolse un piccolo inchino.
La ragazzina andò a sedersi sulla poltrona del corridoio,
felice di riaver ottenuto il proprio pugnale preferito, e
Arsène lo ringraziò con gli occhi, quasi commosso.
«No, non osare...!».
Ma Arsène non gli fece nemmeno finire la frase e lo strinse
in un abbraccio soffocante.
Sherlock aspettò pazientemente che lo lasciasse andare,
quindi si spolverò le maniche del cappotto,
controllò che avesse ancora tutto nelle tasche e lo
superò per entrare nella stanza d'ospedale della sorella di
Mary.
«Non pensavo che avrei mai avuto l'onore di conoscerla di
persona», esordì la donna quando si chiuse la
porta alle spalle.
«L'onore è mio», rispose Sherlock.
Si avvicinò al letto e la guardò intensamente,
cercando di cogliere tutte le deduzioni che gli comparvero davanti agli
occhi. Era una caratterista di famiglia, mostrare tutto e tuttavia
rimanere illegibili.
Alla fine qualcosa spiccò sul resto, un piccolo anello che
portava alla mano sinistra, con la pietra rivolta verso l'interno. Il
diamante azzurro, rubato ad un certo Hautrec da Lupin e dalla sua
misteriosa complice e sparito dalla circolazione da molto, moltissimo
tempo.
«Avevo ragione: lei è la Donna Bionda»,
affermò.
La madre di Geneviève non lo smentì e si
portò una mano sul turbante di seta viola: «Un
tempo, forse. Ora non più».
Il silenzio si fece opprimente, eppure Sherlock non riusciva a
romperlo.
«Signor Holmes...».
«Uhm?».
«Voleva dirmi qualcosa?».
Il consulente investigativo incrociò quegli occhi verdi e
trovò il coraggio che cercava, anche se non abbastanza da
impedire a delle lacrime di bagnargli gli occhi.
«Grazie per aver dato un valore alla mia vita, lo
userò per renderti orgogliosa».
La donna non capì, ma a lui non importava. L'aveva detto,
fingendo che si trattasse di Mary, e ora stava meglio. Uscì
dalla stanza senza più guardarsi indietro e con passo deciso
si diresse verso la ragazzina, la prese per un braccio e se la
trascinò dietro.
Gli uomini di Lupin si mossero tutti contemporaneamente, puntando
contro Sherlock le loro pistole.
«Arsène!», gridò il
detective, senza nemmeno voltarsi.
«Oh, sì», esclamò il ladro,
sorpreso lui stesso dalla rapidità dei suoi uomini.
«Lasciateli andare».
La ragazzina si girò, oltraggiata. «Che
cosa?».
«Stai tranquilla tesoro, non ti farà nulla! E se
lo farà, io farò lo stesso a lui, ma col doppio
della violenza! Hai capito, Sherlock?!».
Il detective entrò nell'ascensore e lo salutò con
un cenno di mano, giusto un momento prima che le porte si chiudessero.
***
Arsène, dopo la propria fuga, aveva impiegato poco meno di
una settimana per prepararsi al viaggio. Ci avrebbe messo ancora meno,
se non fosse stato così spaventato dall'idea di incontrare
sua figlia.
Sua figlia... Una creatura tutta nuova, nata dal suo amore per la Donna
Bionda. Una creatura che, nelle giuste mani e coi giusti insegnamenti,
poteva diventare la sua erede. Ma sarebbe stato un buon padre, se le
avesse insegnato il mestiere che da anni praticava? I genitori non
avrebbero dovuto proteggere i figli, insegnare loro cosa fosse giusto e
cosa sbagliato?
Con quei pensieri, si era finalmente recato in Inghilterra. Aveva
rintracciato la Donna Bionda e aveva parlato con lei, raccontandole
tutto ciò che era successo da quando le loro strade si erano
separate. Poi lo stesso aveva fatto lei, spiegandogli perché
lo avesse lasciato e non gli avesse mai confessato di aver dato alla
luce la loro bambina.
«Io ti amavo, Arsène. Ti amo tutt'ora. Ma non
potevo più stare con te: sarei stata un peso e, soprattutto,
non volevo che Geneviève corresse dei pericoli. Ho cambiato
identità e con il ricavato dei nostri colpi mi sono comprata
una casetta. Abbiamo vissuto come due persone normali e siamo state
felici, anche se sapevo che prima o poi avrei dovuto fare i conti col
passato. Geneviève... ti assomiglia così tanto,
mio caro. E quando ho capito che si stava avvicinando la mia ora ho
deciso che era arrivato il momento di farvi conoscere. Non ha nessun
altro... devi prenderti cura di lei. E devi promettermi che non
farà mai la tua vita, mai».
E Arsène aveva promesso. Sapeva che era la cosa giusta per
sua figlia.
Lui era diventato ladro per necessità, una
necessità che poi aveva trasformato in arte. Lei meritava di
più, molto di più. Poteva diventare una brillante
dottoressa, un'avvocatessa di successo, il prossimo Presidente di
Francia.
La figlia di Arsène Lupin, Presidente francese. I mass media
ne sarebbero andati matti.
Prese finalmente una decisione: si sarebbero occupati di Sherlock, poi
l'avrebbe lasciata libera di scegliere la propria strada. Non c'era
dono più prezioso della libertà, in fondo, e sua
madre avrebbe capito.
«Padrone?».
Arsène scostò la fronte dal vetro della finestra
da cui poteva vedere il Tamigi, la famosa ruota panoramica e, in
lontananza, persino il Big Ben.
«Che cosa c'è?».
«Geneviève non è ancora
rientrata».
«Lo so perfettamente».
«Non è preoccupato?».
«Perché dovrei? Con Sherlock Holmes è
completamente al sicuro».
***
«Moriremo, non è vero?», gli
domandò Geneviève, con una spessa corda avvolta
intorno al busto che la legava, schiena contro schiena, a Sherlock
Holmes.
Il sole era già tramontato da un pezzo e le acque del Tamigi
si dividevano schiumando al passaggio del piccolo battello, del quale
loro erano gli unici passeggeri.
«Al momento, le nostre probabilità di farcela sono
del cinquanta percento. Hai ancora il tuo pugnale?».
«No, me l'hanno preso quando ci hanno perquisiti».
«Giusto. Quarantatre percento, allora».
Geneviève abbandonò il capo contro la spalla
sinistra del detective, sospirando.
«So che cosa stai pensando», disse ancora Sherlock,
con tono dispiaciuto. «Stai iniziando a pensare che la
carriera di ladro sia meno pericolosa rispetto a quella del detective,
ma ti assicuro che...».
«In realtà stavo pensando ad altro», lo
interruppe la ragazzina.
«Hai intenzione di dirmelo?».
«Mi chiedevo in che modo mio padre la ucciderà, se
mai riusciremo a sopravvivere».
Geneviève iniziò a ridere e lo stesso fece
Sherlock. Da quanto tempo era che non rideva in quel modo? La risposta
era fin troppo semplice: da quando Mary si era sacrificata per lui.
Non poteva permettere che a quella ragazzina, la nipote che lei non
sapeva di avere e che le somigliava così tanto, venisse
torto un solo capello, quindi iniziò a pensare ad un piano
per tirarli fuori da quella tediosa situazione.
«Signor Holmes?».
«Non ora, sto pensando».
«Gli uomini: non riescono proprio ad usare la testa e le mani
contemporaneamente».
Sherlock ringhiò: «Le battute di spirito non ci
aiuteranno a liberarci, perciò...».
«Signor Holmes!», gridò a mezza voce,
con lo stesso tono imperioso che usava Mary quando voleva riportarlo
coi piedi per terra.
«Cosa?».
«Riesce a prendere il mio fermacapelli?».
Sherlock girò il volto verso la propria spalla sinistra,
dove Geneviève aveva posato la nuca. Tra i suoi capelli
raccolti, in bella vista, brillava un rubino della grandezza di
un'unghia.
«Sì, posso farlo», rispose il detective.
«Ma a cosa mai potrebbe servirci un fermacapelli?».
«Non è un fermacapelli comune. Me l'ha regalato
mio padre al nostro secondo incontro, dicendomi di portarlo sempre con
me per sicurezza».
Sherlock iniziava a capire. Senza ulteriori indugi, afferrò
la pietra con i denti e tirò, delicatamente, fino a che i
capelli di Geneviève non gli ricaddero lungo la spalla.
«Prema il rubino, come se si trattasse di una penna, e
vedrà che il legno dello spillone si sgancerà
fino a rivelare...».
Il detective, che aveva già capito il meccanismo, concluse
per lei: «Uno stiletto. Molto astuto».
«Già. Mio padre è un figo».
Sherlock non l'avrebbe definito proprio così, ma dato che
era merito suo se potevano liberarsi, decise di soprassedere.
***
Arsène entrò nel salotto come una furia ed
incrociò subito lo sguardo di Sherlock, seduto davanti al
camino acceso, con una tazza di té tra le mani e un
asciugamano intorno al collo.
Aprì la bocca per chiedergli che fine avesse fatto sua
figlia, ma il detective si portò un dito alle labbra,
intimandogli di fare silenzio, ed indicò il divano con un
cenno del capo. Lì, rannicchiato sotto una coperta, c'era il
suo prezioso tesoro.
Il Ladro Gentiluomo sospirò di sollievo e si
avvicinò per accarezzarle i capelli, trovandoli umidi. Si
guardò la mano, confuso, e si voltò nuovamente
verso Sherlock, adirato.
«Non ho sentito la porta», lo anticipò
il moro.
«Le porte devono funzionare senza che mai si
sentano», rispose sbrigativo. «Ora dimmi che cosa
diavolo è successo».
Il consulente investigativo sorrise divertito. «Ah,
è una lunga storia».
«Ho tutta la notte», rispose Arsène,
sedendosi davanti a lui e versandosi una tazza di
té.
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Capitolo 7 *** Women ***
Buonasera belle persone! :)
Un aggiornamento veloce veloce, dato che questo fine settimana ho un
battesimo e sarò piuttosto impegnata!
Spero che questo capitolo incentrato sulle donne - di Sherlock, ma non
solo - sia di vostro gradimento. Sinceramente a me piace molto, anche
se l'ho trovato difficile da scrivere, specie i pensieri e i sentimenti
del nostro amato detective. Quindi mi farebbe molto piacere sapere che
cosa ne pensate voi! ;) Ci conto!
Ringrazio chi ha letto e commentato lo scorso capitolo e tutte le belle
persone che hanno messo la storia tra le seguite/preferite/ricordate.
Buona serata e buona lettura!
Vostra,
_Pulse_
________________________________________________________________
7.
Women
Quando quella mattina,
prima di andare all'ambulatorio, John portò Rosie dalla
signora Hudson, sentì un insolito vociare provenire dal
piano di sopra. Delle risate, addirittura!
«Signora
Hudson, che cosa sta succedendo?», domandò John,
lievemente preoccupato. «Sherlock ha invitato di nuovo i suoi
amici drogati?».
«Ma no,
John!», lo rassicurò, ridacchiando.
Sistemò Rosie nel seggiolone e poi lo accompagnò
fino ai piedi delle scale. «Ci sono solo il signor
d'Andrésy e sua figlia, Geneviève. È
proprio una cara ragazza, lo sai? Mi ricorda Mary».
Gli
accarezzò il braccio per confortarlo, le labbra stese in un
sorriso docile. Quindi tornò dalla piccola Rosamund, mentre
il dottore si faceva coraggio e saliva fino al suo ex appartamento.
«E allora
lui ha detto: "Le battute di spirito non ci aiuteranno a
liberarci"», esclamò la ragazzina, imitando quasi
alla perfezione la voce e il tono irritato di Sherlock.
Arsène,
seduto davanti a lei, si tenne la pancia mentre scoppiava in una nuova
contagiosa risata. «Tesoro, sei tale e quale a
lui!».
Anche Sherlock
sorrideva, mentre sgranocchiava un biscotto. Quando alzò gli
occhi e lo vide sulla porta, però, il suo volto divenne di
pietra.
Non era la prima volta che lo guardava in quel modo, con quel misto di
senso di colpa e vergogna negli occhi. Ma perché? Pensava
che fosse geloso del suo rapporto con Arsène? Forse un poco,
ma non giustificava quell'espressione.
Finalmente anche i due
ospiti si accorsero della sua presenza e si ammutolirono
all'improvviso, come se li avesse appena sorpresi a rubare.
Arsène
Lupin fu il primo a riscuotersi, riservandogli un sorriso contento.
«Caro dottor Watson! Non stia sulla porta, venga qui con noi!
Stavamo giusto facendo colazione. Non è quella del Savoy, ma
va bene ugualmente».
John cercò
lo sguardo di Sherlock, ma l'amico si alzò dal tavolo e si
diresse verso la finestra, davanti alla quale rimase per tutto il
tempo, in contemplazione e con le mani unite dietro la schiena.
«Scusi
l'intrusione, ma la scorsa notte è stata piuttosto
movimentata», disse ancora Arsène, mentre lui si
sedeva sulla sedia lasciata libera da Sherlock.
«Tè?».
«Sì,
grazie».
Il dottor Watson
incrociò gli occhi di Geneviève quasi per caso e
si ritrovò a sobbalzare sulla sedia, notandovi qualcosa che
al Savoy gli era sfuggito. O forse erano solo le parole della signora
Hudson ad influenzarlo. D'altronde non era possibile che lei e Mary
avessero qualche grado di parentela. Sarebbe stato troppo assurdo.
«Oh, ma dove
sono finite le mie buone maniere!», si lamentò
Arsène, schiaffeggiandosi una mano. «Dottor
Watson, le presento mia figlia, Geneviève. Tesoro, lui
è il dottor John Watson, il blogger e compagno di mille
avventure di Sherlock Holmes. "Partners against crime"...
è l'espressione azzeccata per descriverli».
La ragazzina sorrise e
John sentì un'altra fitta al cuore.
«Ho
trascorso con lui un pomeriggio soltanto e ho provato la forte
tentazione di prenderlo a pugni almeno in un paio di occasioni.
È normale?», gli chiese poi, portandosi la tazza
alle labbra.
«Oh
sì, più che normale», rispose John,
sforzandosi di sorridere. La curiosità però prese
il sopravvento e con la fronte corrugata chiese: «Hai
trascorso con lui il pomeriggio?».
«Sì»,
rispose per lei il padre. «Dopo la nostra chiacchierata di
ieri, ho concesso a Sherlock e a Geneviève un po' di tempo
da soli. Avrebbero dovuto solo parlare, in modo del tutto teorico,
delle carriere alternative che poteva considerare, ma
Sherlock», e gli rivolse un'occhiata di rimprovero,
«si è lasciato prendere la mano e ha deciso di
portarla con sé ad indagare».
«In
realtà, dopo aver visitato l'altro Holmes, sono stata io ad
insistere che mi mostrasse in che cosa consistesse il suo
lavoro», lo difese la ragazzina. «Certo, non potevo
immaginare che saremmo finiti in quel pasticcio...».
«Quale
pasticcio?».
«Ci stavo
giusto arrivando, dottor Watson».
E Arsène
iniziò a raccontare il caso, in modo così
coinvolgente e dettagliato da catturare tutta la sua attenzione e
fargli perdere la cognizione del tempo.
All'apparenza sembrava
un semplice caso di overdose, ma la sostanza trovata nell'organismo di
quel povero malcapitato era quella che veniva chiamata "piede del
diavolo", una droga nuova di zecca ricavata da una radice di origini
africane a forma di piede per metà umano e per
metà caprino. Come tutte le nuove droghe, era ancora
imprevedibile e in fase di test, perciò non era il primo
caso di overdose in cui Scotland Yard si imbatteva. Quella volta
però c'era qualcosa di diverso, a detta di Sherlock. Secondo
lui, infatti, la droga gli era stata iniettata, simulando l'overdose
per sviare le indagini.
«Diceva di
saper riconoscere quando una persona si fa da sola»,
esclamò Geneviève, guardando il detective ancora
con lo sguardo fisso fuori dalla finestra.
John
biascicò: «Lo sa eccome, infatti», per
poi invitare Arsène a proseguire.
Perquisendo
l'appartamento della vittima, Geneviève aveva trovato strana
la presenza di un quadro, così fuori luogo che doveva avere
per forza uno scopo: quello di nascondere una cassaforte. Mentre
Sherlock si scervellava con i suoi ragionamenti, a lei era bastato
guardarsi intorno per trovare la combinazione, appesa all'anta del
frigorifero con un magnete a forma di lucchetto. Più facile
di così.
Dentro vi avevano
trovato una quantità insolita di soldi, quasi certamente il
ricavato della vendita della droga. Forse la vittima era diventata
avida e aveva iniziato a crearsi un giro proprio, così da
non dover condividere i guadagni con i compagni. Con quell'idea,
avevano chiesto a Lestrade di fornire loro tutto ciò che
avevano trovato sulle precedenti vittime di overdose, quelle vere, e
cercando qualcosa che li accomunasse avevano notato che erano state
tutte su un battello per turisti. E sempre Geneviève aveva
ricordato di aver visto, sempre sul frigorifero, il volantino dello
stesso battello.
Così
avevano acquistato due biglietti e, camuffati, si erano fatti una
crociera sul Tamigi. Geneviève aveva sfruttato il suo
impeccabile francese per non creare sospetti tra gli inservienti e in
fretta aveva scoperto chi facesse lo spacciatore come secondo lavoro.
Quando il giro fu
concluso, gli investigatori si erano nascosti e avevano atteso di
rimanere soli con i due malviventi, i due che guarda caso avevano il
compito di portare il battello al deposito. Ottimo per spostare da una
parte all'altra di Londra la droga.
Le cose erano
precipitate quando erano stati scoperti e si erano ritrovati con due
pistole puntate alla testa. Legati come due salami, erano riusciti a
liberarsi grazie allo speciale fermacapelli-barra-pugnale che
Arsène aveva regalato alla figlia per eventualità
del genere. Avevano colto di sorpresa i due spacciatori e c'era stata
una zuffa che si era conclusa con Sherlock e Geneviève che
si gettavano nel Tamigi. Per fortuna la ragazzina aveva fatto in tempo
a recuperare il cellulare che le avevano sequestrato e a chiamare la
polizia, la quale per una volta era arrivata in tempo per arrestare i
due farabutti e ripescare dal fiume il grande detective e la sua
giovane aiutante.
«A
proposito, sei sicuro che questo Lestrade non si chiederà
chi sia?», chiese Arsène a Sherlock, riferendosi
alla figlia.
«Non ti
preoccupare, gli ho detto che era con me».
«Bene. E
nessuno vi ha fotografati insieme, ne sei certo?».
Sherlock si strinse
nelle spalle. «Anche se fosse? Dopo quest'avventura sono
certo che Geneviève non seguirà le tue
orme».
Tutti gli sguardi,
compreso quello di John, si posarono sulla ragazzina, la quale finse di
non averli sentiti e si interessò alla tazza che teneva tra
le mani.
«Sei fatta
per questo, Geneviève!», insistette Sherlock, con
una passione a cui non seppe dare una motivazione. «Hai
l'intuizione e l'intelligenza di tuo padre e se solo le sfruttassi per
il bene...!».
«Certo
però che il tuo non è un lavoro
remunerativo...», si intromise Arsène, guardando
l'appartamento in cui si trovavano. «Insomma, la maggior
parte dei tuoi clienti sono dei disperati! Come dovrebbe vivere, la mia
bambina?».
«I soldi non
fanno la felicità, Arsène».
«Ah, odio
questa frase! È così ipocrita!».
«Soprattutto
se li ottieni rubando!».
«Equa ridistribuzione,
preferisco. E comunque che cosa ne sai tu?! Sei sempre stato un
ragazzino viziato! Lo sei tutt'ora!».
John aprì
la bocca per azzittirli entrambi, scioccato da come si contendessero il
diritto di decidere della vita di Geneviève. Quello che
più lo stupiva non era tanto Arsène - era suo
padre, in fondo - ma Sherlock: perché si intrometteva in
quel modo? Che cosa rappresentava quella ragazzina per lui?
Non fece in tempo a
dire una parola, interrotto dal pugno che Geneviève
sbatté sul tavolo. Il silenzio piombò su di loro
e la ragazzina si portò la mano al petto, mostrando loro gli
occhi verdi colmi di lacrime. Si era fatta male, forse? O era per il
litigio dei due uomini?
«Adesso
basta», mormorò. «Ho quindici anni, non
posso decidere adesso della mia vita. Voglio finire il liceo, voglio
andare all'università. Per quanto mi piacciano entrambe le
vostre carriere, voglio vivere come una ragazza della mia
età finché posso. Poi
deciderò».
Sherlock e
Arsène, ammutoliti da quella risposta, non osarono dire
nulla nemmeno quando si alzò da tavola per correre
giù dalle scale.
«Spero tu
sia soddisfatto», borbottò Arsène,
incrociando le braccia sopra al gilet.
Il detective gli
rivolse un'occhiata truce. «Io? Che cos'avrei...?».
«Piantatela!»,
fu il turno di John, alzandosi a sua volta. Rendendosi conto del
disastroso ritardo, puntò il dito prima verso l'uno, poi
verso l'altro.
«Devo andare
al lavoro. Lasciate stare quella povera ragazza, okay? È
molto più saggia di voi, da quanto ho visto. Deve averlo
preso da sua madre».
I due si scambiarono
un altro sguardo, quella volta addolorato, e John si sentì
all'oscuro di un segreto che lo riguardava. Decise di ignorare il
presentimento, perché non aveva tempo.
«E noi
due», aggiunse guardando Sherlock, «più
tardi faremo una lunga chiacchierata».
Il consulente
investigativo fece una smorfia e tornò a voltarsi verso la
finestra.
«È
stato un piacere», John salutò l'uomo biondo, il
quale però si alzò dicendo: «Me ne vado anche
io. Sono stato qui dentro fin troppo, ho bisogno d'aria».
Recuperò il
cappotto che aveva lasciato sulla poltrona e insieme scesero le scale.
Dall'androne, scorsero Geneviève seduta al tavolo della
cucina della signora Hudson, accanto ad una Rosie divertita dalla
filastrocca in francese che le stava canticchiando muovendo due
pupazzetti.
Gli uomini sorrisero e
si ritrovarono a guardarsi con imbarazzo, sorprendendosi a vicenda.
Quindi si avvicinarono
e John salutò la figlioletta e la signora Hudson, mentre
Arsène invitava Geneviève a raggiungerlo per
tornare in albergo.
«Posso
rimanere qui per un po'?», chiese la ragazzina, mostrando
un'espressione da cucciolo.
Il padre non
poté far altro che cedere, avvicinandosi per posarle un
bacio sulla guancia.
Risollevandosi, le
posò una mano sulla testa e le disse: «Ti
farò portare dei vestiti puliti da qualcuno».
Il sorriso che
ricevette in risposta fu il migliore dei ringraziamenti e col cuore
leggero, Arsène e John si diressero alla porta.
«Ah, i
figli», sospirò il ladro, stringendosi nel lungo
cappotto.
A quel punto, lontano
dalle orecchie di Sherlock, il dottore non riuscì
più a trattenersi: «Avete lo stesso sarto, per
caso?».
«Che
cosa?».
«Il
cappotto. È praticamente identito a quello di
Sherlock».
Arsène si
guardò e poi scoppiò in una di quelle sue risate
da bambino.
«Che... che
cosa c'è di divertente?», chiese il dottore, non
riuscendo a nascondere il sorriso che gli aveva increspato le labbra.
«Tu, John!
Scusami, posso darti del tu? Sarebbe ora, dopotutto... Tu credi davvero
che io abbia copiato Sherlock?». Fece schioccare la lingua
contro il palato, dirigendosi verso la propria Porsche.
«Stai per
caso dicendo che è lui che ha copiato te?».
«Beh, non
proprio. Però sono stato io a regalargli il suo primo
cappotto, quando ci siamo conosciuti. Allora non avrei mai immaginato
che avrei contribuito all'iconica figura del grande detective, pensavo
solo gli stesse bene. Non trovi?».
«Ecco...
Sì, molto bene. Gli dà quell'aria da drama queen...».
Arsène
aprì la portiera della Posche, quel giorno coperta per via
del cielo nuvoloso, e oltre il tettuccio gli rivolse una strizzata
d'occhio.
«Proprio
quello che intendevo. Ora, mi perdonerai se non ti offro un passaggio,
ma sono di fretta».
John avrebbe tanto
desiderato che lo facesse, così da non dover prendere
l'autobus, ma finse di non esserci rimasto male e sollevò
una mano in segno di saluto. Aspettò che la Porsche sparisse
dietro l'angolo, poi si incamminò verso la fermata.
***
Perché
Eurus aveva scelto Molly? Perché Molly lo amava davvero, al
contrario di Irene Adler.
La Donna era stata una
sfida, un'avversaria che lo aveva affascinato e verso cui aveva
provato, sin dal primo istante, una forte attrazione fisica. Tra loro
c'era tanta chimica, poco cuore. Molly, invece... Molly era tutto
cuore. E quel cuore apparteneva a Sherlock, che lui lo volesse o no.
Persino Eurus l'aveva capito e gliel'aveva schiaffeggiato davanti,
costringendolo ad aprire gli occhi.
Aprire gli occhi.
Anche Arsène voleva che facesse lo stesso, senza sapere che
l'aveva già fatto, che stava solo fingendo di non aver visto
la verità.
La stessa Irene ne era
all'oscuro, tanto che aveva chiesto al Ladro Gentiluomo di investigare
sul perché l'avesse lasciata. O meglio, per chi.
Erano
ancora nel bel mezzo della ristrutturazione del 221B, quando aveva
ricevuto il suo sms.
Mi manchi.
Senza
rimuginarci troppo, le aveva risposto di getto.
Forse
non avrebbe dovuto, forse sarebbe stato meglio ignorarla e cancellare
il suo numero, una volta per tutte, ma la ferita aperta da Eurus era
ancora fresca e dolorosa e cercava il modo di chiuderla, in fretta.
Sai dove trovarmi.
SH
Quella
sera stessa, un'auto elegante si era fermata davanti alla palazzina e
Sherlock vi era salito. L'autista lo portò al solito albergo
e Sherlock chiese la solita stanza, poi aspettò.
Irene
Adler arrivò con mezz'ora di ritardo - le piaceva farsi
desiderare - ma per farsi perdonare si era messa il suo abito da
battaglia.
Lasciò
cadere l'impermeabile e fu nuda davanti a lui, seduto sul letto.
Si
avvicinò e gli sfiorò il viso, lo zigomo che gli
aveva tagliato la prima volta che si erano visti. Sherlock chiuse gli
occhi, beandosi della sua carezza.
«Pensavo
non ci saremmo più rivisti», sussurrò,
sedendosi a cavalcioni su di lui, le mani che ora affondavano nei suoi
capelli e lo invitavano a posare le labbra sul suo collo candido.
«Non
succederà più, infatti. Questo è un
addio definitivo».
Irene
gli tirò i capelli di scatto, così che potesse
guardarlo negli occhi. Non stava mentendo.
«Perché?».
«Perché
tu non mi ami».
«Nemmeno
tu», rispose con un sorriso. «Ma stiamo bene
insieme. Siamo fatti della stessa pasta, Sherlock».
«No,
ti sbagli. Tu sei senza scrupoli, Irene; manipolatrice, bugiarda,
lussuriosa. Io non ho bisogno di una donna come te».
«Non
dirmi che anche tu soffri, come la maggior parte degli uomini, del
complesso di Edipo».
«Forse»,
rispose, prendendole i polsi quasi con dolcezza. «So solo che
tra noi finisce qui, stasera».
Sherlock
fece per alzarsi, ma la donna lo schiaffeggiò e
finì steso sul letto. Nei suoi occhi c'era una freddezza
insolita, che il detective poteva spiegarsi solo se fosse stata davvero
addolorata. Che, alla fine, si fosse affezionata a quel punto?
«Sei
sicuro, Sherlock? Sei davvero sicuro di quello che stai
dicendo?», gli domandò, le mani dalle unghie
laccate di rosso strette intorno al suo collo. «Ti
annoieresti, accanto ad una donna ordinaria».
Sherlock
abbozzò un sorriso, nonostante l'aria faticasse a
raggiungergli i polmoni. Fu forse per la mancanza di ossigeno che
rispose: «Lei è tutt'altro che
ordinaria».
Irene
allentò la presa, scossa. «Quindi c'è
già un'altra donna. Chi è?».
Non
poteva dirglielo, non poteva rischiare di metterla in pericolo per
l'ennesima volta.
«Non
è per parlarti di lei che sono qui»,
esclamò, percorrendo le sue braccia con le dita.
«So che cosa ti piace e questo è il mio
addio».
Le
prese il volto e la baciò, stringendola poi a sè
su quel letto a cui non disfarono nemmeno le coperte.
Era stato piacevole
possedere il suo corpo un'ultima volta.
Più che
l'atto in sé, da bravo scienzato, lo affascinava la chimica:
ad ogni azione una reazione. E Irene Adler, la dominatrice, diventava
malleabile come chiunque altro quand'era Sherlock Holmes a toccarla,
baciarla, penetrarla.
Anche lui aveva
provato lo stesso senso di appagamento alla fine, ma dopo si era
sentito sporco come tutte le altre volte, imbarazzato e in collera con
se stesso.
Lui, l'uomo che aveva
sempre proclamato di sdegnare i sentimenti in quanto distrazioni, non
era altro che un romanticone che soffriva se faceva l'amore con una
donna che non amava.
«Compone?».
Sherlock chiuse gli
occhi e sollevò l'archetto dalle corde del violino. Quella
ragazzina aveva lo stesso passo impercettibile del padre.
«Mi aiuta a
pensare. Perché sei ancora qui?».
Geneviève
scrollò le spalle e si avvicinò alla mensola del
camino. Sherlock osservò i suoi movimenti.
«Perché
ha messo un tavogliolo su questo teschio?», gli
domandò, sollevandone solo un angolo con la punta delle dita.
Non gli aveva chiesto
perché possedesse un teschio, come faceva la maggior parte
delle persone. Lei era diversa, era speciale.
Invece di rispondere -
non era pronto a condividere quella storia con lei - le chiese:
«Non lo trovi inquietante?».
«Perché
dovrei? È ciò che diventeremo tutti, prima o poi.
Un mucchietto di ossa».
«Sei strana,
Geneviève Lupin».
A quell'appellativo,
la ragazzina lasciò il tovagliolo e lo fissò con
le guance color porpora.
«Io
volevo... volevo scusarmi per essermi introdotta qui e aver rubato il
suo violino».
«Non ce
n'è bisogno». Posò lo strumento sulla
poltrona, il manico adagiato sul bracciolo, accanto al suo cellulare, e
aggiunse: «Non lo dire a tuo padre, ma sappi che sei stata
brava. Dove hai imparato a guidare la moto?».
«Mi ha
insegnato mia madre, quando ancora ne aveva le forze».
«Giusto».
«Le piaceva
la velocità, il vento sul viso...».
Entrambi a corto di
parole, si guardarono intorno. Il detective avrebbe voluto in
realtà dirle dell'altro, ma esitava. Ma da quando si faceva
tutti quei problemi?
Si schiarì
la gola e anche a costo di farla piangere decise di essere schietto con
lei: «Lo sai che prima o poi metterò tuo padre
dietro le sbarre, vero?».
«Che
cosa?».
«Tuo padre
è un ladro. Quello che fa è sbagliato,
è contro la legge. Non puoi giustificarlo».
«No, questo
lo so. Non capisco perché me lo sta dicendo».
Sherlock la
guardò stranito. La sua reazione era del tutto anormale.
Perché non stava nemmeno provando a difenderlo?
«Non voglio
dover arrestare anche te, un giorno».
Geneviève
gli sorrise ed annuì, guardandosi le scarpe da tennis.
«Grazie, signor Holmes. Anche lei mi piace».
«Io non
ho...».
«Allora, che
cosa stava componendo? Sembrava un pezzo romantico»,
cambiò in fretta argomento la ragazzina, superandolo per
leggere le note musicali sullo spartito. «Lo sa,
avrò ereditato molti doni dai miei genitori, ma la musica...
Questo è arabo, per me. Preferisco di gran lunga ascoltarla.
È questo che fa quando non lavora ad un caso? Scrive
canzoni?».
Quel flusso
inarrestabile di parole lo confuse tanto che Sherlock dovette poggiarle
l'archetto sulle labbra per azzittirla.
«Vorrei
restare solo, per favore».
«Perché?».
«Devo
pensare».
«Io voglio
uscire. Londra è bellissima con le decorazioni
natalizie!».
«La porta
è da quella parte».
«Avanti,
signor Holmes!», lo pregò, prendendolo per mano.
A quel contatto
Sherlock si irrigidì e la stessa Geneviève si
ritrasse, colpita da qualcosa nel suo sguardo. Che cosa ci avesse
visto, non l'avrebbe mai scoperto.
«Mi
piacerebbe... mi piacerebbe tornare al Bart's. Molly, ieri, ha detto
che potevo tornare a trovarla quando volevo».
Sherlock
sentì il sangue ghiacciarsi nelle vene e le diede le spalle.
«Mi rincresce deluderti, ma credo che abbia pronunciato
quella frase per me».
«Non
capisco».
«Succede
anche alle menti più brillanti, a volte», rispose
secco.
«Perché
non è stata chiara?».
Il detective
inspirò ed espirò profondamente. «I
dubbi sono preferibili, in alcune circostanze. Permettono di
fantasticare».
«I dubbi
portano ai fraintendimenti. Allora, andiamo?».
«No».
«Perché
no?».
«Smettila!
Smettila di ficcare il naso in questioni che non ti riguardano! Hai la
stessa sfacciataggine di tuo padre!», gridò, non
riuscendo più a contenersi.
Geneviève
sostenne il suo sguardo gelido per un po', più di quanto
avrebbero resistito le persone comuni, poi abbassò il capo e
scese le scale a passo spedito. Sentì il tonfo della porta
al piano inferiore e sospirò di sollievo. Finalmente se
l'era tolta dai piedi.
Tornò alla
finestra per finire la composizione, ma l'immagine della ragazzina che
vagava da sola per le strade di Londra, nel suo cappottino blu
elettrico, gli strinse lo stomaco. Cos'era? Preoccupazione?
Perché avrebbe dovuto preoccuparsi? L'aveva vista gestire
uno spacciatore, se la sarebbe cavata.
Si passò le
mani sul volto ed ottenne tutte le risposte dalla voce ammonitrice di
Mary nella sua testa: È
solo una ragazzina, Sherlock! Seguila e chiedile scusa!
La voce della ragione.
Sherlock
sbuffò, lasciò il violino sul tavolo ed
infilandosi il cappotto prese le scale.
Era già a
metà, quando si rese conto di aver dimenticato il cellulare.
Lo cercò prima con lo sguardo, poi si avvicinò
alla poltrona, dov'era sicuro di averlo lasciato, ed infilò
una mano tra il cuscino e il bracciolo. Lo trovò e senza
ulteriori indugi uscì.
***
Molly
alzò gli occhi dal microscopio sentendo la porta aprirsi e
la bocca le si seccò all'improvviso, incrociando gli occhi
dell'uomo che da settimane ormai la stava evitando con lodevole
impegno. E ora si presentava lì, al suo laboratorio, e con
appresso una ragazzina di quindici anni, i capelli biondi e ondulati
raccolti sulla nuca da un fermaglio e due occhi verdi vispi e allegri.
«Wow!
E così questo è un vero laboratorio della
scientifica?».
«No,
è il laboratorio dell'obitorio», la corresse
pazientemente Sherlock.
Finalmente
la ragazzina si accorse di lei e guardò il detective, in
attesa di essere introdotta.
«Giusto,
le formalità. Geneviève, questa è
Molly Hooper, la responsabile».
La
stessa che due settimane prima aveva chiamato "amica", a cui aveva
chiesto di dirgli "Ti amo" senza fare domande e a cui lui stesso aveva
detto quelle parole, due volte.
«Molly»,
riprese dopo una pausa, guardandola brevemente negli occhi.
«Questa è Geneviève, aspirante
detective. Mi sta aiutando a risolvere un caso».
«Molto
piacere», rispose con un sorriso, dicendosi che non poteva
essere scortese con lei per via di Sherlock. «Il tuo nome
è davvero bello, è francese?».
La
ragazzina annuì e si avvicinò per curiosare.
«Che stai facendo?».
«Sto
controllando dei campioni. Un lavoro noioso».
Geneviève
la fissò severamente, con un'espressione molto simile a
quella che un tempo le rivolgeva Sherlock, quando parlava troppo o
cercava di essere spiritosa - Dio, avrebbe perferito persino quella
all'indifferenza che da quel giorno le riservava. Poi posò
una mano sulla sua e con voce morbida affermò: «Il
tuo lavoro non è affatto noioso. Anzi, è di
massimale importanza. Senza di te la polizia e persino il grande
Sherlock Holmes sarebbero perduti».
Molly
guardò il consulente investigativo, col cuore che le batteva
forte nelle orecchie.
Lui deviò ancora una volta il suo sguardo e schiarendosi la
gola disse: «Geneviève ha ragione».
L'anatomopatologa
lo fissò a lungo, senza capire quale fosse il suo gioco.
Perché le stava facendo tutto questo? Perché lei
continuava ad amarlo nonostante tutto?
Si
fece forza e ritraendosi dal tocco della ragazzina chiese:
«Cosa vi porta qui?».
«Un
cadavere», rispose entusiasta Geneviève.
Non
la sorprese che Sherlock avesse preso sotto la sua ala una ragazzina
sociopatica. Quindi li condusse all'obitorio ed aprì loro la
porta. Sapeva che non l'avrebbero ascoltata, ma fece un tentativo.
«Non
è un po' troppo giovane per un cadavere?», chiese
al detective, il quale soppesò in silenzio
Geneviève.
Alla
fine fu proprio la ragazzina a mostrare un po' di buonsenso,
esclamando: «Sì, è meglio che io
rimanga qui. Non impazzisco per i cadaveri, dopotutto».
Strano,
dall'eccitazione che aveva letto nei suoi occhi cinque minuti prima
avrebbe detto il contrario. Comunque rimase fuori dall'obitorio con
lei, davanti alla finestra attraverso la quale potevano vedere Sherlock
muoversi a suo agio come se fosse casa sua.
La
ragazzina tirò fuori una gomma da masticare dal cappotto blu
elettrico e dopo essersela messa in bocca iniziò a
dondolarsi sui talloni.
«Quindi...»,
esordì, indicando con un cenno del mento il detective,
intento ad esaminare il corpo dell'ultima vittima di overdose di quella
nuova droga, il piede del diavolo.
«Che
cosa?», domandò Molly, stanca.
«Precisamente
da quanto tempo ti piace Sherlock?».
La
scienziata non fece una piega. Si strinse le braccia al petto,
continuando a guardare oltre il vetro mentre il ricordo di quella
conversazione telefonica si ripeteva nella sua mente ancora e ancora,
come un nastro rotto.
«Lui
non mi piace», confessò pacatamente. «Io
lo amo».
Geneviève
soffiò una bolla e quando scoppiò disse:
«Bel casino».
«A
chi lo dici», replicò Molly, non riuscendo a
trattenere un sorriso malinconico.
«Il
vero problema», aggiunse, trovando estremamente facile
parlare e confidarsi con quella ragazzina sconosciuta,
«è che lui ne è pienamente a
conoscenza».
«L'ho
notato. Sprizza disagio da tutti i pori, quando siete nella stessa
stanza. È stranissimo». Un'altra bolla, un altro
scoppio. «Pensavo non fosse il tipo».
«È
solo una facciata, una corazza che si è costruito intorno.
Mi sono sempre chiesta che cosa l'avesse costretto a tanto».
«E
ora sta crollando, pezzo dopo pezzo».
Molly
si voltò verso quella ragazzina, stupefatta da quanto fosse
riuscita a capire di Sherlock in così poco tempo. Chi era,
in realtà?
«Infatti»,
mormorò, a bassa voce. «Non ha mai avuto problemi
a tenermi a distanza pur standomi accanto. Da un paio di settimane,
invece...».
«È
necessaria quella fisica».
«Se
solo mi parlasse, mi raccontasse che cos'è
successo...».
Sherlock
si sollevò dal cadavere e lo richiuse nella sua cella
frigorifera. Aveva finito la propria ispezione.
Molly
sorrise a Geneviève e andò alla porta per
accoglierlo. Sherlock si sistemò la sciarpa ed
esordì: «Non si tratta di un'overdose».
«No?».
«No.
Andiamo, abbiamo un appartamento da perquisire».
Sherlock
non la salutò. Geneviève, prima di seguirlo, le
prese la mano e la guardò riconoscente.
«Grazie
per tutto, è stato bello conoscerti e parlare con
te».
Sherlock
si voltò per esortare la ragazzina a muoversi e solo allora,
incrociando il suo sguardo, Molly trovò la forza per dire:
«Torna a trovarmi quando vuoi!».
La
ragazzina le sollevò il pollice, senza capire che si stava
rivolgendo prima di tutto al detective. Lui capì, lui capiva
sempre tutto, ma la tristezza nei suoi occhi non fece altro che
aumentare.
Molly, seduta ad uno
dei tavoli della mensa, non riusciva a fare a meno di pensare al loro
ultimo incontro e allo strano sms che aveva ricevuto un quarto d'ora
prima, quando ormai si stava preparando per tornare a casa.
Un semplice
"Aspettami", mandato da Sherlock.
C'era qualcosa di
strano in quel messaggio, non solo perché finalmente
sembrava intenzionato a parlarle dopo settimane di silenzio, ma
soprattutto perché non si era firmato. Aveva quella strana
ossessione di mettere le sue iniziali - SH - alla fine di ogni
messaggio, come se non sapesse che i destinatari avevano il suo numero
salvato in rubrica.
Per questo, non
vedendole, Molly si era preoccupata. Ma aveva deciso di fermarsi
comunque ad aspettarlo: non poteva perdere quell'occasione, non dopo
tutti i tentativi che aveva fatto per convincerlo a darle qualche
spiegazione.
Finalmente
l'anatomopatologa poté mettere da parte tutte le domande e
concentrarsi sui fatti: Sherlock era appena passato davanti alle porte
della mensa, ma aveva tirato dritto, senza vederla. Afferrò
la borsa in stile patchwork e lo rincorse, chiamando il suo nome.
Il detective si
fermò di colpo e si irrigidì visibilmente, mentre
voltava con cautela il capo verso di lei. La tristezza nei suoi occhi
sbriciolò un altro pezzetto del suo cuore.
«Sherlock,
stai bene?», gli chiese, stringendo il cellulare tra le mani
nervose.
«Sì»,
rispose di getto, per poi corrugare la fronte.
«Perché sei ancora qui?».
Molly si chiese se non
fosse sotto effetto di qualche droga, magari lo stesso piede del
diavolo su cui aveva indagato. Respirò profondamente,
sollevando il cellulare.
«Mi hai scritto di aspettarti».
Il consulente
investigativo indossò una maschera di
impassibilità e la raggiunse a passo deciso. Molly ebbe
l'istinto di arretrare, ma lo ignorò e lasciò che
Sherlock si facesse tanto vicino da poter sentire il suo profumo.
Quindi lo guardò mentre le prendeva il cellulare e leggeva
il messaggio che lui stesso le aveva inviato. O forse... forse non era
stato lui. Ma certo, era l'unica spiegazione.
«Scusami,
avrei dovuto capirlo prima», mormorò, portandosi
una mano sul viso stanco. «Non ti sei firmato, quindi non
l'hai scritto tu».
Sherlock la
guardò negli occhi con una punta di ammirazione. Era raro
che la guardasse in quel modo e Molly ne approfittò per
raccogliere il coraggio e dire: «Già che sei qui,
potremmo parlare di...».
«Ma
certo», sussurrò, con lo sguardo di nuovo lontano,
perso nei propri ragionamenti. «È stata lei.
È sempre stato questo il suo intento».
«Di che cosa
stai parlando?».
«Geneviève»,
la rese partecipe. «Geneviève ha preso il mio
cellulare - è un vizio di famiglia - e ti ha inviato questo
messaggio perché voleva che ci incontrassimo».
Venne scosso come da
un fremito, all'improvviso. Aveva appena unito un altro puntino della
rete stesa per lui. «Ieri ha detto di non voler esaminare il
cadavere, ma era tutta una scusa per rimanere da sola con te. Di che
cosa avete parlato?».
Le aveva posato le
mani sulle braccia e, chino sulle ginocchia, la stava guardando dritta
negli occhi, seriamente, come se si trattasse di una questione di vita
o di morte.
Molly iniziava a
capire le macchinazioni di quella ragazzina e, dallo sguardo del
detective, capì che entrambi l'avevano sottovalutata.
«Lei... lei
ha capito, Sherlock, e io non ho negato. Non ha più senso
farlo, ormai», rispose, abbassando il capo. «Ha
notato come tu fossi a disagio nella stessa stanza con me, della
distanza che tenevi, e ha dedotto che fosse successo qualcosa a causa
della quale la tua corazza ha iniziato a cadere».
Sherlock
respirò profondamente e si allontanò, i pugni
stretti lungo i fianchi.
«Che
cos'è successo, Sherlock?», gli chiese,
sforzandosi per mantenere una voce ferma. «Devi dirmelo,
io... Voglio che le cose tornino come prima. Per favore».
Il consulente
investigativo continuò a darle le spalle, chiuso nel proprio
silenzio.
Molly sapeva di essere
al limite - grazie a lui, aveva imparato a prevedere esattamente il
momento in cui avrebbe iniziato a piangere - perciò si
girò a sua volta ed iniziò ad allontanarsi.
«Le cose non
torneranno mai come prima», disse ad un tratto il detective,
malinconico.
L'anatomopatologa
accusò l'ennesimo colpo e attese, invano, un "ma". Sempre
così speranzosa...
Inspirò,
raddrizzando le spalle, e senza salutarlo si diresse verso l'uscita.
***
Sherlock aveva voglia
di gridare, di spaccare tutto ciò che lo circondava come
aveva spaccato la bara destinata a Molly nelle fantasie di Eurus.
Era proprio come aveva
detto sua sorella: lui non aveva salvato Molly Hooper, non l'aveva mai
fatto. L'aveva sempre e solo condannata al dolore, a quel dolore che
lui si trascinava dietro da quando era un bambino e che, solo ora se ne
rendeva conto, aveva attaccato a tutte le persone che per qualche
motivo si ritrovavano a volergli bene.
Tutti i suoi sforzi di
tenere le distanze, di risultare presuntuoso e cattivo, non erano
serviti a nulla con le persone speciali che aveva incontrato sul suo
cammino. Molly Hooper, in particolare, aveva sempre visto sotto quella
corazza, come l'aveva chiamata lei, e ora lei più di tutti
ne stava patendo le conseguenze.
Non poteva nemmeno
dare la colpa a Geneviève, l'autrice di quel piano
elementare che come scopo aveva quello di farli riappacificare. Era
solo una ragazzina, ancora non aveva pienamente realizzato che il mondo
non era un libro di favole, dove ogni storia finiva sempre col principe
che salva la principessa e la sposa.
Entrò
nell'obitorio e lì, nel silenzio dei morti,
riuscì ad acquietare i propri pensieri. Almeno fino a quando
non notò una busta bianca posata su uno dei freddi tavoli
per le autopsie. Era indirizzata a lui, ovviamente.
All'interno vi
trovò due biglietti per lo spettacolo del Don Giovanni alla
Royal Opera House e un cartoncino bianco, firma di Arsène
Lupin, con su scritto: "Mio padre voleva che ci andassi con lui, ma io
preferisco il concerto degli Artic Monkeys. Divertitevi!
Geneviève".
Quella maledetta
ragazzina.
Sherlock
uscì dall'obitorio e si diresse verso gli spogliatoi del
personale. Non trovò nessuno, cosa che gli
facilitò notevolmente il lavoro.
Aprì
l'armadietto di Molly - la combinazione non era un problema - ed
esitò prima di lasciare i biglietti sopra il suo camice, in
modo che fosse impossibile non notarli. Sospirò,
strappò un angolo del calendario appeso accanto alla porta e
sulla parte bianca scrisse frettolosamente: "Un regalo da parte di
Geneviève. Vacci con qualcuno che ti meriti e che non ti
faccia soffrire. SH".
Chiuse l'anta e vi
diede le spalle. Ora non poteva più tornare indietro.
|
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Capitolo 8 *** The blue diamond ***
Ciao a tutti! :)
Allora, first things first: sono così contenta che la storia
vi piaccia! Arsène ha rubato il mio cuore ed ero certa che
avrebbe fatto lo stesso col vostro - in fondo è la sua
specialità - ma non pensavo a questi livelli ♥
Perciò vi ringrazio tutti, uno per uno, e spero
di farvi divertire fino alla fine!
In questo capitolo parleremo, tra le altre cose, di un vecchio caso
irrisolto che coinvolto il Ladro Gentiluomo e la Donna Bionda, ovvero
la madre di Geneviève. E chi si interesserà a
riprenderlo in mano dopo tutti questi anni? Ma certo, il nostro amato
consulente investigativo. Perché? Questo non ve lo anticipo
;)
Vi auguro buona lettura e se avrete voglia e cinque minuti mi farebbe
piacere un vostro parere!
Alla prossima!
_Pulse_
_______________________________________________________
8. The blue diamond
Arsène toccò il bordo della piscina con una mano
e poi vi si appoggiò con entrambi i gomiti, fissando il suo
fidato collaboratore in piedi davanti a lui, con un asciugamano in una
mano e il suo cellulare squillante nell'altra.
«Chi è?», chiese, infastidito
dall'interruzione.
«Irene Adler, padrone».
Il ladro alzò gli occhi verso la cupola che illuminava di
luce naturale la piscina del Savoy, sgombrata appositamente per lui.
Quindi prese l'asciugamano e dopo esserselo passato contro l'orecchio
destro si fece dare il cellulare per rispondere.
«La pazienza non è il tuo forte, vero?»,
esordì stizzito.
«Quanto ti ci vuole, Arsène?».
«Signor Lupin,
prego», la corresse. «Solo gli amici mi chiamano
Arsène».
«Bene, signor Lupin. Non pensavo che scoprire
l'identità della donna di cui Sherlock è
innamorato si sarebbe rivelato un problema per te».
«Conosci i miei metodi e conosci Sherlock. Non è
facile entrare nel suo cuore, ma ci sto lavorando».
«Dimmi che cosa vuoi per accelerare i tempi».
Arsène fissò allibito il cellulare, poi si
portò il microfono alla bocca e gridò come un
ragazzino: «Che tu la smetta di chiamarmi!».
«E va bene», rispose mestamente la Adler.
«Ma sappi che ti pagherò il doppio, se riuscirai a
far sì che Sherlock torni da me strisciando».
Il rumore secco di un frustino pose fine alla comunicazione e
Arsène lanciò il cellulare verso il proprio
servitore, con una smorfia sul volto.
«L'ho già detto che non riesco a tollerare quella
donna?».
«Ripetutamente».
«E pensare che nel mio cuore c'è spazio per
tutti!».
Arsène stava per riprendere il proprio allenamento, quando
Geneviève venne scortata a bordo piscina da un altro dei
suoi uomini.
«Tesoro!», esclamò il Ladro Gentiluomo,
con un sorriso allegro. «Iniziavo a sentire terribilmente la
tua mancanza».
La ragazzina abbozzò un sorriso imbarazzato e si sedette su
una delle eleganti sedie sdraio a bordo piscina.
«Avevi ragione tu», gli disse.
«A proposito di cosa?».
«Molly Hooper. Sherlock è innamorato di
lei».
«Beh, i fatti erano chiarissimi: a parte sua madre, la
signora Hudson, Irene Adler e una sua amica defunta non ha altri
contatti femminili nella sua rubrica. Tuttavia, avevo ancora qualche
dubbio. Insomma... ho visto la signorina Hooper e non mi è
sembrata nulla di speciale. Ne sei proprio certa, tesoro?».
Geneviève annuì con convinzione. «Ho
fatto come mi hai chiesto: ho lasciato delle piccole briciole di pane e
Sherlock le ha seguite, finendo proprio al Bart's. Domani
saprò se ha invitato Molly allo spettacolo».
«Ottimo».
Arsène rimase appoggiato a bordo piscina, le gambe stese in
avanti. Il suo sguardo si era fatto assente e Geneviève
guardò l'uomo che solitamente le faceva da baby-sitter, il
cui nome le era ancora sconosciuto e pertanto per lei era semplicemente
"Baffoni", il quale osò dire: «Non dovrebbe
avvisare la Adler, padrone?».
Il Ladro Gentiluomo arricciò il naso. «Nah.
Lasciamola ancora un po' nel suo brodo, se lo merita per avermi chiuso
il telefono in faccia. E poi...».
«Che cosa?», chiese la figlia, incuriosita.
«Voglio scoprire che cosa c'è sotto.
Perché Sherlock ha messo fine a quella loro malsana
relazione così, di punto in bianco?».
«Molly sostiene che è successo qualcosa, quasi un
mese fa. Da allora Sherlock riesce a malapena a stare nella stessa
stanza con lei», disse ancora Geneviève.
«Quasi un mese fa, uhm?». Arsène si
passò una mano tra i capelli biondi, tirandoli indietro.
«Sì, è un bel rompicapo. Vale la pena
di investigare ancora un po'. Chissà, potrebbe anche
fruttarci qualcosa».
Quindi si voltò verso la figlia e con entrambe le mani sul
bordo vasca si sollevò verso di lei senza alcuna fatica.
Rimase in equilibrio su un solo braccio, mostrando le stesse
capacità di un acrobata, e le toccò la punta del
naso con un dito, un sorriso gioioso sulle labbra.
«Lavoro esemplare, tesoro mio».
Mentre Geneviève cercava di reprimere il rossore,
Arsène uscì dalla piscina e si infilò
l'accappatoio bianco che l'amico gli aveva porto.
Dirigendosi verso le docce con le infradito ai piedi,
esclamò: «Vai a cambiarti, Geneviève.
È orario di visita».
***
«Com'è andata al lavoro?», lo accolse
Sherlock quando entrò in salotto, sorridendogli persino, con
un vassoio di té appena fatto tra le mani.
John si portò le mani sui fianchi, sospettoso.
«Non mi chiedi mai com'è andata al lavoro. Stai
cercando di essere gentile per evitare di parlare?».
Sherlock, colpito e affondato, lasciò cadere in malomodo il
vassoio sul tavolino accanto alla poltrona e poi si avvicinò
alla mensola del caminetto, guardando il dottore attraverso lo specchio.
«Sì, tra me e Irene Adler c'era
qualcosa», disse senza che gli ponesse alcuna domanda.
«Non la chiamerei una relazione, dato che io ho quasi sempre
ignorato i suoi messaggi, anche dopo i tuoi rimproveri. Ci incontravamo
però, occasionalmente, quando entrambi eravamo liberi ed
annoiati».
John si tolse la giacca e si accomodò nella propria
poltrona. Gettò un'occhiata al detective, intimandogli di
continuare mentre si versava una tazza di té.
Sherlock piegò la bocca in una smorfia e riprese:
«Non lo nego, l'attrazione fisica tra noi c'è
sempre stata. Il sesso è stato... appagante, molto. C'era
una cosa che faceva, in particolare...».
«Okay, meno dettagli», lo interruppe il dottore,
imbarazzato.
Il consulente investigativo a quel punto abbozzò un sorriso,
come se avesse voluto vedere fino a dove si sarebbe spinta la sua
curiosità. Quindi si appollaiò sulla poltrona di
pelle nera.
«A parte questo e le nostre intelligenze affini, non avevamo
nient'altro in comune. Non poteva funzionare, ne ero consapevole fin
dall'inizio».
«Forse lei non la pensava allo stesso modo, visto che ha
assunto Arsène Lupin».
«No, ha ammesso tranquillamente di non amarmi quando tre
settimane fa le ho detto che non ci saremmo più rivisti.
Sono più propenso a credere che l'abbia assunto per quello
che mi sono lasciato sfuggire».
«Cioè?».
Sherlock lo guardò severamente, come se trovasse
incredibilmente stupido il suo chiedere spiegazioni. O forse aveva
già appurato che John sapesse perfettamente ciò
che gli passava per la testa ed era infastidito dal fatto che volesse
farglielo dire ad alta voce a tutti i costi, ancora una volta.
Alla fine Sherlock sospirò, abbandonandosi contro lo
schienale della poltrona, e guardò le braci nel camino
spento biascicando: «Una serie di indizi mi hanno fatto
dedurre che amo un'altra donna».
«Molly», disse John, annuendo. «Ce ne hai
messo di tempo».
Sherlock corrugò la fronte, sinceramente confuso.
«Uhm?».
John iniziò a contare sulle dita: «Ti sei rivolto
a lei prima di affrontare Moriarty, hai chiesto a lei di farti da
assistente quando io non ero disponibile, uno dei tuoi nascondigli
è a casa sua... E ti ricordi quanto odiavi vederla al fianco
di Tom, la tua brutta copia? Beh, queste sono tutte prove del tuo amore
per lei. E il tuo continuo criticarla e sminuirla, come a volerla
smantellare pezzo dopo pezzo, era solo il tuo modo contorto per tenerla
lontana, per non affezionarti. Eurus, la sua bara e la minaccia della
bomba nel suo appartamento, quella dichiarazione... sono state le gocce
che hanno fatto traboccare il vaso, non è
così?».
«Perché non hai le stesse capacità
deduttive durante i casi?». Infastidito, Sherlock
deviò il suo sguardo.
Possibile che tutti lo sapessero, tranne lui? Solo pronunciando quelle
tre parole ne era venuto a conoscenza, e lo shock era stato tanto che
la seconda volta le aveva ripetute più per se stesso che per
Molly. E il terrore che aveva provato quando lei non aveva subito
ricambiato... Un dolore del genere non avrebbe mai più
voluto sperimentarlo, ma lei ci era riuscita.
«Non c'è bisogno di alcuna capacità
deduttiva, Sherlock. A te però farebbe bene un corso sulla
comprensione delle emozioni umane».
«L'ho detto, John», sussurrò, coprendosi
gli occhi con i palmi delle mani, proprio come aveva fatto di fronte al
timer che si era fermato due secondi prima della finta detonazione.
«Non si può tornare indietro».
«No, puoi solo andare avanti. Ma hai deciso cosa fare, no?
Hai lasciato Irene, ora puoi...».
«No!», gridò, alzandosi. «Non
capisci, John?! Io la amo!».
«Oh sì, l'ho capito benissimo», lo
rassicurò.
«E allora perché sorridi? Non c'è
niente da sorridere!».
«Okay... forse ora
non sto capendo».
Sherlock si portò le mani tra i capelli, il desiderio di
strapparseli uno a uno dalla testa.
«Quante volte ti sei ritrovato nei guai per colpa
mia?», gli chiese, sforzandosi per risultare calmo.
«Almeno una volta al giorno, quando vivevamo
insieme», rispose il dottore e ascoltandosi riuscì
a intravedere una luce in fondo al tunnel. «Oh... Non vuoi
che diventi un bersaglio».
«Perdonami, John. Non ho mai voluto che tu lo diventassi, che
Mary...». Si portò un pugno alla bocca e
deglutì, come a ricacciare giù, nelle viscere
della sua anima, l'emozione. «Ma devo proteggere chi ancora
posso. Se Molly mi odierà... non correrà alcun
pericolo. Specialmente ora, con Arsène e Irene...».
«Dannato idiota».
Sherlock si voltò verso di lui, colpito dal suo tono duro,
arrabbiato. E lo trovò così, infatti: coi pugni
stretti lungo i fianchi, il volto proteso leggermente in avanti e i
muscoli del collo tesi.
«Tu insulti la tua intelligenza ogni volta che pensi che la
nostra felicità sia meno importante della nostra sicurezza.
Sai perché sono ancora qui, in piedi? Perché un
giorno di felicità, un giorno al fianco delle persone a cui
si tiene, vale più di mille anni di miseria e solitudine,
Sherlock. Chi ama non è la parte perdente, come sosteneva
tua sorella. Chi ama è destinato a vincere e così
è stato: hai salvato me e hai salvato la bambina sull'aereo,
tua sorella. Ora devi salvare te stesso e aprire gli occhi, come ha
detto Arsène».
Sherlock, scioccato, non aprì bocca. Il dottore,
soddisfatto, si congratulò con se stesso per il discorso e
lo lasciò a riflettere.
Si trovava ancora dalla signora Hudson, una ventina di minuti dopo,
quando lo sentì scedere dalle scale e poi sbattersi la porta
d'ingresso alle spalle.
***
«Gen?».
La ragazzina sbatté le palpebre e tornò a
guardare sua madre con un lieve sorriso sulle labbra, cercando di
ignorare suo padre al di là del vetro: stava parlando con
Baffoni e rideva, come se non si trovasse davanti alla stanza
d'ospedale della donna che un tempo aveva amato, con cui aveva
concepito una figlia e che ora si stava spegnendo.
«C'è qualcosa che ti preoccupa, non è
vero?». Sollevò una mano e le accarezzò
il volto. «Puoi parlarmene, sai».
«Mi dispiace», sussurrò, chinando il
capo così che i capelli le coprissero gli occhi.
«Per che cosa, amore?».
«Tu hai... hai fatto davvero promettere a papà di
non coinvolgermi nei suoi affari?».
La Donna Bionda sospirò, capendo al volo. «Oh,
tesoro mio. Vieni qui».
Geneviève posò la testa contro il suo ventre e
non riuscì ad arrestare le lacrime che le irritarono le
guance.
«È vero, gli ho detto che doveva tenerti al
sicuro, che non volevo che facessi la sua stessa vita. Però,
se è questo che ti senti di fare, non voglio che tu pensi di
avermi delusa. Io per prima sono stata una complice di tuo
padre».
«Mi dispiace solo avertene tenuta all'oscuro. Non voglio ci
siano segreti tra noi».
«Mai, amore mio», la rassicurò,
accarezzandole i capelli.
Il suo sorriso però a poco a poco si spense. Si fece forza
per sollevarsi e Geneviève si alzò per sistemarle
i cuscini dietro la schiena; la madre ne approfittò per
prenderle il volto tra le mani ed incatenare gli occhi nei suoi.
«Ma non aspettarti lo stesso da Arsène
Lupin», affermò con veemenza. «Con lui
ci saranno sempre dei segreti, che ti piaccia o no. È fatto
così, prendere o lasciare». «Ma lui...
lui è mio padre», balbettò.
«Perché dovrebbe tenere dei segreti con
me?».
Sua madre sorrise mestamente. «Tuo padre è un uomo
buono ed ha una mente brillante. È bravissimo a tenere in
piedi tutte le sue false identità e ad elaborare piani
intricatissimi, ma a volte smette di vedere ciò che ha sotto
il naso. Quando si fissa su un obiettivo utilizzerà ogni
mezzo a sua disposizione per raggiungerlo».
Geneviève sentiva il cuore pulsarle nelle orecchie, mentre
una pesante coperta gelata si posava sulle sue spalle. Il sospetto. La
paura di non potersi fidare dell'unica persona al mondo che presto o
tardi avrebbe avuto come famiglia.
«Lui ti ha mai... ti ha mai usata per uno dei suoi
obiettivi?».
La Donna Bionda strinse il pugno, nascondendo il diamante azzurro che
lei e suo padre avevano rubato ad un vecchio per rivenderlo ad un
collezionista e che poi, quando Arsène era ricomparso nelle
loro vite, era tornato al suo dito in memoria del tempo trascorso
insieme.
«Sono stanca, amore mio. Ci vediamo domani alla stessa
ora?».
Geneviève si alzò, cercando di reprimere il
tremore. Non le aveva appena detto che non ci sarebbero mai stati
segreti tra loro?
Si fece forza e la baciò sulla guancia, poi si diresse verso
la porta. Aveva già la mano sulla maniglia, quando la madre
le disse: «Pensa sempre con la tua testa, Gen. E non fare mai
nulla di cui potresti pentirti».
La ragazzina annuì ed abbozzò un sorriso, poi si
decise ad uscire e si ritrovò al cospetto di suo padre, i
cui occhi verdi brillavano di gioia e acume.
«Sei pronta, tesoro? Pensavo che potremmo andare a cena
fuori, questa sera».
Geneviève si strinse le braccia al petto e deviò
il suo sguardo, a disagio. «Preferisco... preferisco tornare
in hotel e andare subito a dormire, se non ti dispiace».
Arsène sembrò davvero deluso dalla sua risposta,
ma solo per i primi tre secondi, trascorsi i quali, infatti,
scrollò le spalle e picchiò una mano sulla
schiena di Baffoni, esclamando: «Oh beh, andremo noi due
allora!».
«Come vuole, padrone».
Geneviève, suo padre e Baffoni salirono sull'auto che li
riportò al Savoy, scortati come al solito da quattro uomini
della sicurezza. Lei mantenne la parola e si rifugiò subito
in camera, dove accese l'iPod e si tartassò di musica heavy
metal. Qualsiasi cosa, pur di riempire il vuoto lasciato dal silenzio
di sua madre.
Ad un tratto non riuscì più a starsene con le
mani in mano: doveva andare a fondo di quella faccenda.
Sua madre non gliene avrebbe parlato, quindi doveva trovare un modo per
scoprire che cosa fosse successo tra lei e suo padre di tanto grave da
giustificare il suo ultimo monito. Pensò di andare a casa, a
Brixton, a cercare tra i diari di sua madre, ma dubitava avesse tenuto
a portata di mano (e di poliziotto) dettagli così sensibili
riguardo alla sua complicità con Arsène Lupin.
Di chiedere a suo padre non ne aveva la minima intenzione: non voleva
che se la prendesse con sua madre e poi temeva che dimostrando dei
sospetti sulla sua moralità lo avrebbe allontanato. Quella
era proprio l'ultima cosa che voleva e sperava proprio di trovare il
modo di dimostrare che aveva interpretato male le parole di sua madre e
che Arsène Lupin non fosse altro che il Ladro Gentiluomo di
cui si era innamorata da bambina sentendone le storie.
C'era un'unica persona che poteva aiutarla a riabilitare il suo nome e
quella persona era il suo più grande rivale di
nazionalità inglese: Sherlock Holmes.
Scelse un outfit total black e preparò uno zainetto con
tutto ciò che avrebbe potuto servirle, compreso un cambio di
vestiti e il proprio pugnale; poi si infilò il cappellino
nero e si preparò a saltare sul balcone sottostante come
aveva fatto la prima volta che era sfuggita alla sicurezza, ma un
trambusto improvviso al piano di sopra, dove si trovava la Royal Suite
di suo padre, la fece scendere dal cornicione.
Si spogliò velocemente, si infilò l'accappatoio
in dotazione e si raccolse i capelli col fermaglio-pugnale, poi corse
fuori dalla stanza. La guardia davanti alla sua porta provò
a fermarla, ma lei gridò di toglierle le mani di dosso e
questa obbedì. In fondo era pur sempre una Lupin.
La seguì fino alla Royal Suite, dove la sicurezza aveva
sorpreso proprio Sherlock Holmes mentre tentava di intrufolarsi nel
covo extra lusso del loro capo fingendosi uno dei maggiordomi privati i
quali, inclusi nel servizio, si davano il cambio per essere sempre a
disposizione, ventiquattr'ore su ventiquattro, dell'illustre ospite.
Di sicuro ci aveva messo dell'impegno - si era truccato con parrucca e
baffi fulvi, aveva rubato una divisa, un carrello e dello spumante
pregiato - ma non era stato abbastanza. D'altronde non aveva idea che
tra i compiti della sicurezza ci fosse quello di fare sempre un esame
approfondito del volto dei pochi privilegiati che avevano il permesso
di entrare nelle stanze di Arsène Lupin.
Una volta smascherato, il detective aveva provato ad entrare comunque,
usando la forza quella volta, ma era caduto in trappola, cinque contro
uno, e ora si trovava con un occhio pesto e del sangue che gli colava
dal naso, legato ed imbavagliato ad una delle dodici sedie del tavolo
da pranzo.
Vedendolo in quelle condizioni, Geneviève sentì
il cuore salirle in gola.
«Non osare!», gridò, trucidando con gli
occhi il gorilla che le si era piazzato davanti per impedirle di
avvicinarsi ulteriormente al detective.
Era così arrabbiata per quello che gli avevano fatto! Lo era
in un modo che non riteneva possibile. Perché avrebbe dovuto
importarle? Eppure eccola lì, a sfruttare tutta l'influenza
che il legame di sangue con Arsène Lupin le trasmetteva.
«Stavamo per chiamare il capo, signorina»,
spiegò la guardia, in francese e con una voce da topino.
«No, non disturbatelo. Ci penso io a lui».
«Ne è sicura, sign-?».
Geneviève non lo lasciò nemmeno finire e
spingendolo da parte entrò nella sala da pranzo.
Scrutò l'ambiente e realizzò amaramente che a
parte la porta non avevano altre vie di fuga. Gli uomini di suo padre,
nonostante i muscoli e l'aspetto rozzo, non erano affatto stupidi:
avevano scelto di mettere Sherlock nell'unica stanza senza finestre.
«Lasciateci», esclamò ad un tratto,
ferale.
«Signorina, non credo che sia...».
Geneviève si voltò di scatto verso l'uomo, lo
stesso che le aveva ostruito l'ingresso, e lo fissò in
cagnesco. «Come ti chiami?».
«Ernest».
Un ghigno le arricciò gli angoli della bocca, mentre con la
voce a singhiozzo recitò: «Papino, Ernest ha
cercato di farmi del male mentre tu non c'eri! Ho avuto tanta
paura!».
Il bestione arretrò, il volto pallido come un lenzuolo, e
fece segno ai suoi compari di uscire. Una volta chiusa la porta, la
ragazzina sospirò e raggiunse finalmente il detective.
Si chinò su di lui sentendo il cuore batterle forte nel
petto a causa dei suoi occhi di ghiaccio che la stavano studiando con
attenzione, circospetti e al contempo impressionati. Ignorandoli, gli
tolse il bavaglio perché potesse parlare.
«Avevo tutto sotto controllo», esordì
con tono indispettito.
Geneviève avrebbe voluto portarsi una mano sul viso, ma si
limitò a sussurrare: «Senti, ho bisogno del tuo
aiuto. Che ne dici se facciamo uno scambio? Io ti faccio uscire di qui
prima che torni mio padre e tu...».
«No».
La ragazzina, che si era già portata la mano tra i capelli
per prendere il fermaglio, divenne una statua di sale. «Come
hai detto, scusa?».
«Ho detto no», ripeté Sherlock,
irremovibile. «Non mi estorcerai alcun favore».
Geneviève rimase a lungo in silenzio, a riflettere sulla
prossima mossa. Se stava imparando a conoscere Sherlock Holmes, quello
che aveva voluto sottintendere con quella frase era che l'avrebbe
aiutata comunque, se l'avesse trovata la cosa giusta da fare. E questo,
incredibilmente, glielo fece piacere ancora di più.
Si morse un sorriso e premette il rubino del fermaglio, rivelando la
lama luccicante del pugnale nascosto.
«Vuoi che ti spieghi il piano?», gli
domandò, mentre tagliava lo scotch con cui l'avevano legato
alla sedia.
«Non serve. Tu hai una scusa abbastanza convincente da usare
quando Arsène ti chiederà il motivo per cui mi
hai liberato?».
Geneviève, accucciata accanto alla sedia, dovette ammettere
che non ci aveva pensato. Immaginava che si sarebbe giustificata
dicendo che l'aveva colpita e le aveva rubato il fermaglio, ma il modo
in cui lo avevano legato - il busto contro lo schienale e i polsi e le
caviglie alle gambe della sedia - rendeva impossibile la sua bugia.
Arsène l'avrebbe scoperta in un attimo.
«Mi verrà in mente qualcosa»,
biascicò pur di non dover ammettere la propria mancanza.
Quando Sherlock fu libero, le domandò con gli occhi se fosse
pronta. Geneviève annuì con un cenno del capo e
gli consegnò il fermaglio, poi si voltò.
«Tra mezz'ora al Waterloo Bridge?», gli chiese,
sentendo il calore del suo corpo alle spalle. Il suo profumo era molto
diverso da quello di suo padre, tanto inebriante da lasciarla stordita;
Sherlock Holmes sapeva di elettricità.
«Va bene».
Il detective l'avvicinò di più a sé e
senza alcun preavviso le strinse un braccio intorno al collo. Il fiato
le venne a mancare e il panico le fece portare le mani sul suo gomito,
ma Sherlock si chinò sul suo orecchio e sussurrò:
«Perdonami, ma dovrà sembrare realistico. Ora
urla».
Geneviève obbedì ed immediatamente
tutte le guardie fecero irruzione nella sala, scoprendo che Sherlock
Holmes aveva preso in ostaggio Geneviève Lupin.
«Oh, salve!», salutò il detective, con
un'espressione folle sul viso. «Scusatemi, ma la sedia
iniziava a risultare scomoda».
«La lasci andare», lo minacciò uno degli
uomini, con un forte accento francese, puntandogli contro la pistola.
«Oppure che cosa? Mi sparerà, rischiando di
colpire la sola e unica figlia del vostro capo? Non ne sarebbe
contento».
«Ti prego, non farmi del male», soffiò
Genevieve, guardando la punta del sottile pugnale con la coda
dell'occhio.
«Non ti preoccupare, non ho alcuna intenzione di sfregiare il
tuo bel visino. Però, se la tua scorta non mi lascia
andare...».
La ragazzina chiuse gli occhi, riuscendo persino a farsi scivolare una
lacrima sul volto. «Fate come vuole»,
mormorò tremando. «È uno
psicopatico».
«Sociopatico iperattivo», la corresse e
Geneviève dovette serrare i denti per non scoppiare a ridere.
Gli uomini della sicurezza, non vedendo altre alternative, abbassarono
le pistole ed arretrarono fino a ritrovarsi nel corridoio che
attraversava tutta la Royal Suite, collegando ogni stanza all'altra.
Sherlock procedette con calma, tenendo Geneviève sempre
davanti a sè. Camminando all'indietro, raggiunse la porta e
l'aprì per controllare che non ci fossero altri uomini. Una
volta al sicuro lasciò il fermaglio e spinse in avanti la
ragazzina, facendola cadere sul pavimento, per poi correre via.
Quattro uomini si gettarono all'inseguimento, mentre gli altri due si
sarebbero presi cura di Geneviève, la quale era rimasta a
terra, una mano sul collo dolorante e una sulla bocca per reprimere le
risate. In quel modo, il tremore delle sue spalle sembrava dovuto al
pianto.
***
Geneviève era una continua sorpresa per Sherlock e forse era
per questo che l'apprezzava tanto: con lei non rischiava di annoiarsi.
Dall'unione dei geni di Arsène Lupin e della sorella di Mary
era uscito solo il meglio, rendendo quella ragazzina non solo
intelligente e senza paura, ma anche sensibile e divertente.
Guardandola, Sherlock non poteva fare a meno di provare una specie di
gelosia al pensiero che statisticamente lui non avrebbe mai provato
l'orgoglio che doveva provare Arsène nell'avere una tale
progenie.
Quasi sicuramente, lui non avrebbe avuto alcuna progenie. Non sarebbe
mai stato in grado di prendersi cura e di crescere un altro essere
umano, lui che a stento si ricordava di dover mangiare quando era
assorbito da un caso. Che razza di modello sarebbe stato?
«A che cosa stai pensando?».
Sherlock smise di seguire il filo dei propri pensieri e si
voltò verso una Geneviève vestita interamente di
nero: cappellino, giacca di pelle, felpa, jeans e anfibi. In tutta
quell'oscurità, spiccavano le sue guance rosse per il freddo
pungente e i suoi capelli biondi, ondulati sulle spalle.
«Al mio lascito», rispose, senza sapere bene
perché.
Era vero che si trattava della nipote di Mary e che iniziava a
piacergli, ma non era ancora riuscito a stabilire con precisione quanto
fosse dedita al padre e se poteva fidarsi di lei, specie dopo il suo
ultimo tiro da Cupido.
Geneviève si appoggiò alle transenne del ponte e
guardò lo skyline notturno di Londra: dalla loro posizione
spiccavano la St. Paul's Cathedral, la Tower 42 e il Gherkin.
«Che si fottano», mormorò con un
profondo dolore negli occhi. «I lasciti sono come incudini.
Perché una persona dovrebbe lasciare ciò che
è stata ad un'altra? Perché costringerla a
seguire le sue orme, invece di lasciarla diventare ciò che
vuole essere?».
«E tu che cosa vuoi essere?».
La ragazzina si sollevò e strinse le mani intorno alla
ringhiera, guardando l'acqua scura che turbinava sotto il Waterloo
Bridge. Indossava un paio di guanti senza dita e Sherlock ne fu
distratto: qual era la loro utilità? Tenere al caldo parte
della mano, rendere insensibili le dita? Non li aveva mai sopportati.
«Non lo so più», rispose alla fine,
rivolgendogli un sorriso umido di lacrime. «Hai presente
quello che si dice sull'incontrare i propri idoli? Si
rimarrà inevitabilmente delusi, perché le
aspettative che ci siamo fatti su di loro sono troppo alte».
Il detective la fissò intensamente, colpito dal suo
ragionamento e dai suoi occhi, tanto forti e tanto fragili allo stesso
tempo. Anche quelli di Molly erano così.
«Mia madre non mi ha mai nascosto chi fosse mio padre e io
sono cresciuta con le sue storie. Tutti i giorni correvo all'edicola in
paese, nella speranza di leggere l'ultimo strabiliante furto del Ladro
Gentiluomo. Ero così orgogliosa di lui... eppure non potevo
parlarne mai con nessuno, perché mia madre mi aveva fatto
promettere di mantenere il segreto. Diceva che non ne sarebbe venuto
nulla di buono. Una sola volta disubbidii: alcuni miei compagni di
classe si stavano vantando dei loro papà, ricchi e di
successo, e prendevano in giro quelli degli altri. Io non ero stata
presa di mira, ma decisi comunque di intervenire. Mi dissero che non
avevo voce in capitolo, dato che non avevo un padre, ed io esplosi...
Gridai che mio padre era Arsène Lupin e che se solo avesse
voluto avrebbe potuto dare a tutti i loro papà una bella
lezione. Ovviamente nessuno mi credette, anzi... divenni lo zimbello
della classe, la vittima preferita dei bulletti. Persino i compagni che
avevo cercato di difendere ridevano di me, affermando che mia madre si
era inventata tutto solo per evitare di dirmi la verità,
ovvero che a mio padre non era mai importato nulla di noi. Il
pettegolezzo raggiunse persino le orecchie degli insegnanti, ma non
dissero nulla in merito: pensavano fosse tutto frutto della fantasia di
una ragazzina orfana di padre. Furono costretti ad intervenire quando
un giorno, stanca di subire, decisi di sgattaiolare via dalla lezione
di educazione fisica per introdurmi negli spogliatoi e prendere gli
zaini di tutti quelli che mi avevano dato fastidio. Il mio unico
sbaglio fu quello di firmare il colpo, lasciando un bigliettino con le
iniziali G.L.».
«Geneviève Lupin», disse Sherlock,
sfruttando la pausa che si era presa dopo quel flusso inarrestabile di
parole, un fiume in piena.
Riusciva ad immaginarsela perfettamente mentre cercava di imitare suo
padre.
La ragazzina abbassò di nuovo lo sguardo verso le torbide
acque del fiume e diede un calcetto alla ringhiera.
«I professori convocarono mia madre per discutere della mia
punizione e le dissero che era colpa sua se si era arrivati a tanto.
L'accusarono di avermi raccontato un sacco di fandonie e io stessa
iniziai a dubitare delle sue parole. In fondo non mi aveva mai fornito
alcuna prova che mio padre fosse realmente Arsène Lupin.
Quando glielo confessai, mia madre non ne fu sorpresa, ma mi disse
anche che non aveva prove. Dovevo decidere se crederle o meno e io...
io decisi di crederle. Io volevo essere la figlia di Arsène
Lupin, più di ogni altra cosa».
Sherlock si alzò dalla panchina su cui era rimasto ad
osservarla durante tutto il suo racconto e l'affiancò,
infilandosi le mani nelle tasche del cappotto.
«E adesso?», le chiese con gentilezza, gli occhi
puntati verso lo skyline. «Adesso che l'hai conosciuto
cos'è cambiato?».
«Non ne sono sicura ancora. È per via di una cosa
che mi ha detto mia madre, oggi pomeriggio».
Lo sguardo di Sherlock si fece ancora più attento. Eccola,
l'occasione che aspettava. Il filo che l'avrebbe portato alla cattura
di Arsène Lupin.
«Di che si tratta?».
Geneviève però si nascose dietro una corazza fin
troppo familiare: raddrizzò le spalle e sbatté le
ciglia perché le lacrime sparissero, la sua espressione
tornò fiera e decisa, facendola sembrare molto
più grande di ciò che era.
«Il diamante azzurro», esclamò.
«Mia madre non mi ha mai raccontato nei dettagli quel caso e
i giornali, in particolare L'Ècho de France, gli dedicarono
appena un paragrafo. Quasi come se...».
«Come se fosse stato comprato il loro silenzio»,
concluse per lei Sherlock. Sì, era proprio il modo di fare
di Arsène Lupin. Ma che cosa valeva tanto disturbo?
«Ho bisogno di sapere come sono andate veramente le
cose», decretò Geneviève. «Mi
aiuterai?».
Il detective ricambiò il suo sguardo fino a quando non fu
certo che con o senza il suo aiuto avrebbe indagato per scoprire la
verità.
Le avvolse improvvisamente un braccio intorno alle spalle e tornando
verso il Victoria Embankment affermò con un sorrisino sulle
labbra: «Risolvere i misteri è il mio
lavoro».
***
«Padrone, abbiamo un problema».
Arsène mosse una mano nella sua direzione, profondamente
concentrato sulla donna seduta dall'altra parte del bancone del pub,
sola e con gli occhi tristi fissi sulla pinta di birra che aveva quasi
finito.
«Si tratta di Geneviève».
A quelle parole il Ladro Gentiluomo chiuse gli occhi e
sospirò pazientemente, girandosi verso l'amico per prendere
il cellulare che gli stava porgendo. Se lo portò
all'orecchio e diede le spalle al bancone, il volto contratto in
un'espressione stizzita.
«Che cosa c'è?», ringhiò.
«Sapete che non voglio distrazioni mentre lavoro».
«Signore, Sherlock Holmes ha provato ad introdursi nelle sue
stanze. L'abbiamo catturato, ma poi...».
«Poi cosa?».
«Sua figlia ha insistito per rimanere da sola con lui,
signore, e l'inglese ne ha approfittato per liberarsi, prenderla in
ostaggio e scappare».
«Geneviève sta bene?».
«Nemmeno un graffio, signore. Ora si trova nella sua
stanza».
«Aspetta in linea».
Fece segno all'amico di tirare fuori il suo tablet dalla borsa e col
cellulare incastrato tra la spalla e l'orecchio lo accese per
collegarsi alle telecamere che aveva installato nella sua suite dopo la
sua prima fuga. Si era sentito molto a disagio al pensiero di dover
spiare la sua stessa figlia, ma iniziava a credere che avesse avuto
l'idea giusta.
La camera era buia, il letto intoccato, e in nessuna delle quattro
angolazioni si vedeva Geneviève.
Con enorme disappunto, disse al capo della sua scorta: «No,
idiota, non c'è».
«Che cosa? Ma...».
«Mi state solo facendo perdere tempo», lo
interruppe, per poi terminare bruscamente la comunicazione e lanciare
il cellulare verso il partner.
Quindi prese un sorso del Martini che si era fatto servire e passandosi
la lingua tra le labbra si rimirò grazie alla fotocamera
interna del tablet: i capelli biondo platino non erano tirati
all'indietro, bensì con la riga centrale ed ondulati sopra
le orecchie; gli occhi smeraldo erano schermati da un paio di finti
occhiali da vista dalla montatura spessa ma elegante, firmati Ray-Ban.
Come stile, invece, aveva scelto il casual chic: pantaloni cachi,
maglietta bianca e giacca di velluto blu con delle toppe marroni sui
gomiti.
«Bene, sono pronto», esclamò porgendo il
tablet all'amico. Quindi prese di nuovo il bicchiere di Martini e lo
finì tutto d'un fiato.
«È giunto il momento di conoscere la famosa Molly
Hooper».
***
«Non è un po' tardi per cenare,
ragazzo?».
«Cenare? Chi ha detto che voglio cenare?».
Ganimard si guardò intorno. «Per quale motivo mi
avresti chiesto di incontrarti in un ristorante, altrimenti?».
«Angelo, il proprietario, è un mio
amico», spiegò Sherlock, portandosi le mani sotto
il mento. «Posso stare qui e non mangiare nulla. Ma se lei
vuole ordinare qualcosa, faccia pure».
L'ispettore francese ordinò un piatto di spaghetti con le
polpette e il detective alternò lo sguardo su di lui e sulle
spalle sottili della ragazza che gli dava la schiena, seduta al tavolo
davanti al loro.
Aveva raccolto i capelli biondi sotto il cappellino nero e aveva
ordinato del pesce fritto, che stava spiluccanto con il cellulare
davanti al naso come tutte le normali teenager, tuttavia saperla
così vicina all'uomo che avrebbe dato di tutto per
catturarne il padre lo rendeva inquieto, preoccupato che Justin potesse
fiutare l'odore di Lupin e la trascinasse via con sè.
Ancora una volta, l'apprensione che provava per quella ragazzina
scatenò in lui sensazioni contrastanti.
«Allora, perché volevi vedermi?»,
domandò ad un tratto Ganimard, stufo del suo silenzio.
Geneviève voltò un poco il capo verso la spalla,
in ascolto.
«L'altro giorno ha accennato alla Donna Bionda e nel
documentarmi ho notato che il caso del diamante azzurro non
è stato considerato molto dalla stampa. Come mai? Lupin
adora vantarsi delle proprie imprese!».
Ganimard si pulì la bocca, all'improvviso senza
più appetito. «Non quando ci scappa il morto, a
quanto pare».
Sia Sherlock che Geneviève si irrigidirono, per nulla
preparati ad una risposta del genere.
«Sta dicendo che Lupin si è macchiato di omicidio,
Ganimard?».
«Ma no, no. La sua morale glielo impedirebbe, lo sai
perfettamente. Ha sempre ripudiato la violenza e i casi in cui l'ha
usata - sempre a difesa dei suoi princìpi - si contano su
una mano. I membri della sua banda, però...».
Sherlock si portò distrattamente una mano sul naso, ancora
pulsante e su cui sarebbe comparso un bel livido per via del pugno
ricevuto.
«Mi racconti tutto dall'inizio».
L'ispettore sospirò e si addossò contro lo
schienale della sedia, la mano destra sul pacchetto di sigarette che
aveva posato sul tavolo.
«Possiamo uscire?», gli chiese mentre Sherlock,
già un passo avanti, rispondeva con un secco
«No».
«L'ex ambasciatore Hautrec si era trasferito a casa di suo
fratello Charles da sei mesi, a causa delle sue precarie condizioni di
salute, quando venne trovato morto nella sua stanza. Il giorno era
trascorso nella solita routine. Non c'era nulla che facesse presagire
la tragedia. Ad ogni modo, devi sapere che per quanto gli volesse bene,
Charles non gradiva occuparsi di persona di tutte le
necessità del fratello - non ne avrebbe nemmeno avuto il
tempo, essendo ancora attivo in politica - perciò aveva
assunto un'infermiera privata dal curriculum esemplare, di nome
Antoniette Bréhat. Si fermava a dormire nella stanza accanto
a quella del vecchio Hautrec cinque sere a settimana, perciò
era diventata una di famiglia. Nessuno sospettava di lei».
«Nessuno tranne lei, Ganimard», intervenne Sherlock.
«Ho semplicemente prestato attenzione alle prove,
ragazzo».
Il detective gli fece segno di continuare col racconto e l'ispettore
obbedì.
«Quella notte, intorno alle tre, Charles venne svegliato da
un lungo trillo: il campanello delle emergenze che aveva fatto
installare nella sua camera, identico a quello che c'era nella stanza
della signorina Antoniette. Era raro che suo fratello lo chiamasse,
specialmente se era di turno l'infermiera. Si disse che forse si era
semplicemente confuso, al buio, e fece per tornare a dormire, ma il
dubbio lo assalì e andò a controllare comunque.
Passò davanti alla camera dell'infermiera e la
trovò vuota, il letto intonso. Allora corse dal fratello e
come ho anticipato prima lo trovò morto, steso ai piedi del
letto e con una ferita al collo, l'arma del delitto - un tagliacarte
ricevuto come regalo di pensionamento - accanto a lui. Secondo il
racconto di Charles, c'era anche un fazzoletto macchiato di sangue sul
comodino, vicino ai pulsanti di emergenza».
Sherlock assottigliò gli occhi. «Intende forse
dire che non venne ritrovato dalla scientifica?».
Ganimard sogghignò ed annuì con un cenno del
capo. «E non solo quello».
«Non capisco».
Quelle due parole aumentarono la sua ilarità, tanto che
scoppiò in una risata rauca che ben presto, a causa del
vizio del fumo, si trasformò in un attacco di tosse. I suoi
occhi arrossati erano lucidi di lacrime.
«Charles si precipitò al telefono fisso per
chiamare un'ambulanza e la polizia, ma la linea era stata tranciata.
Allora andò a recuperare il cellulare in camera sua, ma
anche quello era stato disabilitato. La scientifica, successivamente,
avrebbe trovato diversi disturbatori di segnale disposti in vari punti
della villa, piazzati in via preventiva. Ora, cos'ha fatto il nostro
povero Charles?».
Sherlock guardò la porta del ristorante, ma ciò
che vide fu il fratello dell'ex ambasciatore, pallido e scioccato per
la terribile scoperta, avanzare verso l'ingresso col cellulare
sollevato. Una volta in giardino, il segnale tornò e con
estremo sollievo poté chiamare aiuto.
Più quella visione proseguiva, più le parole e il
divertimento di Ganimard trovavano finalmente un senso.
«È stato mandato fuori»,
mormorò, posando di nuovo gli occhi in quelli del francese.
«Perché era lì che lo volevano mentre
la scena del crimine veniva ripulita da ogni prova, ogni indizio
conducibile all'assassino».
Ganimard incrociò le braccia al petto, soddisfatto.
«Proprio così. La porta si chiuse alle spalle di
Charles e lui, sprovvisto di chiavi, non riuscì a rientrare
fino a quando non arrivò la polizia. A quel punto l'unica
prova dell'omicidio era il morto, sistemato sotto le coperte, con le
mani incrociate sul petto. Tutto il resto - l'arma, il fazzoletto, i
segni di colluttazione - era sparito. Capisci perché
sospettai immediatamente di Lupin e della Donna Bionda?».
Sherlock si portò le dita alla bocca e con gli occhi fissi
oltre le spalle di Ganimard mormorò: «Antoniette
Bréhat. Caso vuole che fosse bionda, suppongo».
Era una tortura per lui non poter vedere il volto di
Geneviève, ma dal modo in cui aveva contratto i muscoli del
collo e delle spalle capì che il racconto di Ganimard stava
purtroppo dando prove a sostegno dei suoi sospetti.
«Ne ero sicuro allora e ne sono sicuro adesso: quella donna
era una complice di Lupin, la quale, spacciandosi per infermiera, aveva
il compito di rubare al vecchio Hautrec l'anello con il diamante
azzurro», affermò Ganimard, burbero. «Il
diamante però era ancora lì, alla mano della
vittima, e per questo nessuno mi credette. La mia reputazione si stava
già sfasciando: ero l'ispettore che vedeva Lupin ovunque.
Nemmeno le prove che misi loro sotto il naso riuscirono a
convincerli».
«Sentiamo», lo invitò Sherlock,
chiudendo gli occhi per proiettarsi in Francia, in quella villa di
campagna, in quella stanza da letto.
«Primo: Charles affermò che ogni oggetto era
esattamente dove doveva essere, perciò è chiaro
che solo una persona che conosceva a menadito quella stanza poteva
risistemare tutto in modo così preciso».
«Chiaro».
«Secondo: il pulsante di emergenza. Charles era convinto che
fosse stato il fratello a chiamarlo, ma quando avrebbe suonato? Dopo la
lotta, prima di morire? No, perché Charles l'aveva trovato
ai piedi del letto, ben lontano dal comodino. Durante la lotta? Anche
questo impossibile, perché il trillo era stato lungo,
continuo, e il suo aggressore non gli avrebbe mai permesso di chiamare
aiuto in quel modo. Allora prima, quando aveva capito che sarebbe stato
aggredito? Nemmeno, perché dalle ricostruzioni si
appurò che erano trascorsi tre minuti, non di
più, dalla chiamata al ritrovamento del corpo. Un tempo
troppo limitato per la lotta, l'assassinio e la fuga del colpevole,
concordi con me?».
«Io avrei potuto farlo», rispose tranquillo il
consulente investigativo, senza aprire gli occhi.
Si perse così l'espressione di rimprovero di Ganimard, il
quale concluse: «Il pulsante di emergenza è stato
premuto dall'assassina: la Donna Bionda, la complice di
Arsène Lupin. Non so per quale motivo, ma non può
essere che così».
Sherlock era d'accordo con lui, ma il tremore delle spalle di
Geneviève gli fece fare qualcosa di più unico che
raro: dubitare davanti ad un buon ragionamento.
«Senza prove fisiche schiaccianti...», disse
incerto, sentendosi sull'orlo di un precipizio. Un altro passo e il
grande detective sarebbe diventato un uomo comune, un uomo che davanti
ai fatti preferiva una bugia, una speranza.
«Ce l'avevo. Sparì misteriosamente dal laboratorio
- senza alcuna sorpresa da parte mia - ma ce l'avevo: dei sottili
capelli biondi, nella mano di Hautrec. Deve averglieli strappati
durante la colluttazione».
Sherlock sospirò, salvo e con entrambi i piedi sul terreno.
Geneviève però, dall'altra parte del burrone,
cadde. Il detective avrebbe voluto stendere la mano, afferrarla per il
polso e stringerla a sé, ma con Ganimard che lo guardava...
La ragazzina si alzò di scatto dal tavolo, urtando persino
la sedia dell'ispettore francese, e col capo rivolto verso il basso
corse verso i bagni, dall'altra parte del locale. Justin aveva avuto
l'istinto di girarsi per dirle di stare attenta, ma Sherlock non poteva
permettere che la vedesse, perciò si era sollevato a sua
volta per guardarlo negli occhi ad una distanza quasi nulla, tanto che
i loro nasi si sfiorarono.
«Andiamo a fumare».
L'ispettore non se lo fece ripetere due volte e si portò una
sigaretta alla bocca ancor prima di uscire dal ristorante. Appena
fuori, l'accese ed aspirò avidamente, chiudendo gli occhi al
piacere delle nicotina che gli entrava in circolo.
Sherlock rifiutò quella che gli venne offerta, impegnato
com'era a risolvere l'enigma della Donna Bionda. Era a buon punto,
anche se alcuni dettagli erano ancora oscuri.
«L'anello. Che ne è stato dell'anello?»,
chiese ad un tratto, con le mani infossate nelle tasche del cappotto.
«Léonce Hautrec, il nipote, l'ha messo
all'asta», rispose Ganimard, soffiando il fumo verso il cielo
scuro. «Ed è stato allora che la Donna Bionda
è ricomparsa. Io ero lì, casomai Lupin decidesse
di colpire in quel momento, e ho assistito in prima persona alla
battaglia tra la signora Crozon, collezionista, e il signor Herschmann,
milionario. Si sono raggiunte cifre astronomiche, ma diciamocela
tutta... era già scritto che il diamante sarebbe finito
nelle mani di quest'ultimo. Ma con Lupin il mondo va al contrario, non
è vero?».
«La Crozon si aggiudicò il diamante?
Come?».
«Un sms. Herschmann ricevette un sms che lo distrasse, o
meglio, lo spaventò».
«Cosa c'era scritto?».
«"Il diamante azzurro porta disgrazia. Si ricordi del vecchio
Hautrec". Per nulla velata, come minaccia. Comunque sia, quando il
martello cadde e il diamante fu della signora Crozon, una donna si
è alzata all'improvviso e se n'è andata,
nonostante l'asta non fosse conclusa. L'ho vista solo di sfuggita, ma
ancora una volta ero sicuro che si trattasse della Donna
Bionda».
«È più che probabile. Ma
perché spaventare Herschmann?».
«Perché una volta nel suo caveau sarebbe stato
difficile rubare il diamante. Molto più semplice introdursi
nella villa della Crozon, specialmente se invitati. Accadde l'estate
stessa, ancora la Donna Bionda. Si faceva chiamare signora
Réal e divenne amica della Crozon, un'amica così
fidata che poté ammirare da vicino la sua collezione di
diamanti e gemme preziose. Ovviamente alla prima occasione il diamante
azzurro scomparve insieme alla signora Réal. Durante le
perquisizioni venne ritrovato nel beauty case di un altro ospite della
signora Crozon, un certo Bleichen. Un trucco per sviare le indagini,
dato che si trattava di un falso».
Sherlock era a tanto così dalla soluzione, ma perse il filo
quando scorse Geneviève sbucare dal vicolo ad una ventina di
metri dall'ingresso del ristorante. Doveva essere uscita dalla stretta
finestra del bagno. Una continua sorpresa.
Lei si infilò le cuffiette nelle orecchie, poi strinse le
mani intorno alle fibbie del suo zainetto e si incamminò
nella direzione opposta.
«Pensavo di averla in pugno quando scoprimmo un traffico
clandestino di diamanti, ma Lupin ebbe la cortesia di mandarmi un'email
dicendomi di non perdere più tempo con la signora
Rèal che interrogavo senza successo da due giorni: non era
la sua complice, ma la persona a cui si erano ispirati quando avevano
dovuto scegliere l'ultima identità della Donna Bionda.
Niente di più semplice per cogliermi in fallo e farsi una
risata alle mie spalle».
Sherlock abbozzò un sorriso e Ganimard si offese,
giustamente. Gettò il mozzicone a terra - non era rimasto
altro che il filtro - e per abitudine lo schiacciò col piede.
«Allora, sei soddisfatto?», gli domandò,
burbero come suo solito.
«Quasi», rispose il detective, e facendo un passo
avanti verso la strada alzò la mano per chiamare un taxi.
«Ti manderò un messaggio quando avrò
capito come la Donna Bionda riusciva a scomparire».
«Non ci riuscirai!», gridò Ganimard,
rosso di rabbia. «Io ho cercarto di capirci qualcosa per
anni!».
«Tu sei bravo, Ganimard. Il poliziotto migliore che conosco.
Ma io sono Sherlock Holmes!».
Gli fece l'occhiolino e chiuse finalmente la portiera, sporgendosi
verso l'autista per dare l'indirizzo: 221B Baker Street.
Certo, gli indizi che aveva non erano di prima mano, ma Ganimard non
avrebbe potuto fare di meglio nemmeno volendo.
Ed era anche consapevole che con Lupin doveva lavorare al contrario,
doveva ovvero tirare fuori un'idea e poi, solo poi, verificare che si
adattasse ai fatti.
Ecco cos'aveva fatto durante la breve corsa in taxi, con le strade
della sua Londra che scorrevano fuori dal finestrino, e alla fine era
riuscito a raggiungere il bandolo della matassa, il punto da cui
partire. Ora si trattava solo di districarla.
Pensava che Geneviève fosse tornata al Savoy per prepararsi
ad affrontare suo padre, ma la trovò nel suo salotto,
sprofondata nella poltrona di John, con i capelli sciolti e la musica
così alta nelle orecchie che Sherlock si domandò
come potesse non essere già diventata sorda.
Il detective si tolse il cappotto e si diresse verso la scrivania, la
stessa scrivania dove solamente quella mattina aveva fatto colazione
con lei e Arsène. Recuperò il pc portatile,
impilato sopra una serie di libri posati per terra, e lo accese di
fronte a sé per fare delle ricerche.
Erano fondamentali per verificare la sua teoria, eppure non riusciva a
concentrarsi: gli occhi spiritati di Geneviève lo fissavano,
ma non lo vedevano veramente. Anche lui assumeva quell'espressione
quando era concentrato? Ora capiva come dovevano sentirsi John, la
signora Hudson o Molly: invisibili, non importanti.
Rimasero in silenzio per un'ora, ognuno immerso nel caso da due punti
di vista differenti: quello della figlia che cercava di scagionare la
propria madre e quello del detective che, appurata la sua colpevolezza,
era già passato oltre.
Avrebbe voluto che John fosse lì, per mostrargli che cosa
stavano facendo i sentimenti alla mente brillante di quella ragazzina:
distorcevano la realtà, le impedivano di accettare che sua
madre aveva ucciso un uomo e, ultimo ma non meno importante, la stavano
distruggendo dall'interno. Geneviève non sembrava affatto la
parte vincente.
Ad un tratto le chiatarre, la batteria e tutta quella cacofonia di
strumenti con cui si stava stordendo si interruppe all'improvviso. La
ragazzina tirò fuori il cellulare dalla tasca della felpa e
leggendo il nome sul display ritornò nel mondo reale.
Incrociò il suo sguardo con intenzione e si alzò
per dirigersi in cucina. Solo allora rispose alla chiamata, esclamando:
«Ciao papà».
Sherlock era troppo lontano per sentire le risposte di
Arsène, perciò si concentrò sulla
gestualità di Geneviève: il piccolo sorriso che
si sforzava di mostrare, come se suo padre la stesse guardando; il dito
che sfiorava con delicatezza gli strumenti da chimico del consulente
investigativo; il suo leggero ondeggiare sui talloni.
«Sono contenta che tu ti sia divertito. La prossima volta non
mancherò, promesso. Va bene, allora buonanotte».
A quel punto i suoi occhi si sgranarono leggermente, colta di sorpresa.
Ma si sforzò per risultare tranquilla ed abbozzò
persino una risata: «Ma che dici? Perché dovrei
salutarti Sherlock?».
Il detective si girò completamente verso il pc, le dita che
picchiettavano velocemente sulla tastiera, mentre
Geneviève lo guardava imbarazzata.
«S-Sì», balbettò.
«Okay. Buonanotte anche a te».
La comunicazione si interruppe e Geneviève guardò
lo schermo del cellulare per qualche secondo, profondamente turbata.
Quell'espressione e la luce azzurrognola sul suo volto la facevano
somigliare ad uno spettro.
«Che cosa ti ha detto?», le domandò
Sherlock, quando non riuscì più a trattenere la
curiosità.
La ragazzina deviò il suo sguardo, fissandosi le scarpe da
ginnastica. «Ha detto che sono in un mare di guai per essere
scappata ancora dalla scorta. E ha aggiunto che se mi piace tanto la
tua compagnia, allora dovrei...».
Sherlock si voltò di scatto, i nervi tesi.
Geneviève si ritrasse ancora di più, nascondendo
il collo tra le spalle.
«Sono d'accordo», affermò con decisione,
ancor prima che la bionda trovasse il coraggio per ripetere le parole
di suo padre.
Geneviève sollevò gli occhi grandi e lucidi.
«Non stai dicendo sul serio».
Sherlock si alzò, serissimo, e con le mani unite dietro la
schiena la scrutò a fondo. Era un rischio enorme, ma com'era
quel detto? Tieni gli amici vicini e i nemici ancora più
vicini. Arsène aveva dimostrato più volte di
essere inafferrabile e altrettante volte aveva commesso errori
grossolani per le persone che amava. Doveva solo giocare bene le sue
carte, sfruttare l'opportunità che gli aveva dato, e cercare
di ribaltare la situazione.
«La stanza di John, di sopra, è libera»,
spiegò. «Puoi restare per questa notte, e per
tutto il tempo che vorrai».
La ragazzina si morse le labbra e si passò un braccio sugli
occhi per cancellare le lacrime. Non ne aveva l'assoluta certezza -
l'aveva vista piangere a comando un paio d'ore prima - ma dalla stretta
allo stomaco che provò, Sherlock volle credere che fossero
vere.
«Grazie», mormorò avvicinandosi
cautamente, forse per un abbraccio.
Il detective fece finta di non aver compreso e tornò davanti
al pc. La stessa Geneviève ne sembrò sollevata,
quando la guardò per dirle: «Domani mattina tutti
i dubbi riguardanti il caso della Donna Bionda saranno risolti, hai la
mia parola».
E con quell'augurio di buonanotte, la ragazza bionda gli rivolse un
lieve sorriso, carico di gratitudine, e lo lasciò solo.
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Capitolo 9 *** Texts ***
Buonasera a tutti :)
Con questo capitolo si chiude il caso del "diamante azzurro" e si
verrà a scoprire anche qualcosina di più sui
piani di Lupin, il quale fa una visita a... a chi? Vi lascio la
sorpresa!
Grazie a chi sta leggendo questa storia, commentando e apprezzando
tanto da metterla tra le preferite e le seguite. Siete la mia
gioiaaaaa!
Vi auguro una buona lettura! :)
Alla prossima.
Vostra,
_Pulse_
____________________________________________________________________
9.
Texts
Geneviève
scese le scale in punta di piedi e trovò la porta del
salotto chiusa, così entrò da quella accostata
che dava sulla cucina e sbirciò all'interno, non trovando
nessuno. Il detective doveva essere andato a dormire, finalmente.
Col cuore
che le galoppava nel petto si guardò intorno e decise di
iniziare a curiosare, partendo dal pc portatile sulla scrivania, su cui
Sherlock aveva lavorato per quasi tutta la notte. Non era protetto da
password e questo la stupì, ma non tanto quanto la cartella
che vide al centro del desktop, intitolata "Donna Bionda". Vi
portò sopra il cursore, ma quando fu sul punto di aprirla ci
ripensò.
Le aveva dato la sua parola, le aveva permesso di dormire nella stanza
del suo migliore amico...
Geneviève
abbassò lo schermo del laptop ed uscì in fretta
dall'appartamento. Il senso di colpa era talmente grande,
così pesante sulle sue spalle, che dovette respirare a pieni
polmoni quando fu sul marciapiede, sotto il cielo violaceo. Mancava
ancora un'ora all'alba e Geneviève decise di camminare verso
il Savoy, così che l'aria fredda le schiarisse le idee.
«Ciao
papà», lo salutò, facendo del suo
meglio per non risultare triste.
La voce di suo padre invece le
giunse chiara e squillante, felice. «Ciao tesoro! Volevo solo
dirti che sono rientrato adesso. È un vero peccato che tu
non ci fossi, è stata una serata memorabile!».
Geneviève mantenne
il piccolo sorriso che aveva sulle labbra ed accarezzò con
un dito uno dei tanti becher che ingombravano il tavolo della cucina di
Sherlock. Più che una cucina, sembrava un laboratorio di
metanfetamina.
«Sono contenta che
tu ti sia divertito. La prossima volta non mancherò,
promesso».
«Ci conto, tesoro!
Ora ti lascio, sono molto stanco».
«Va bene, allora
buonanotte».
Era già pronta a
chiudere, ma la sua risposta tardava ad arrivare. I suoi silenzi non
promettevano mai nulla di buono e quando finalmente parlò,
Geneviève si ritrovò ad occhi sgranati, scioccata.
«Salutami Sherlock,
mi raccomando».
«Ma che
dici?», ridacchiò, nervosa.
«Perché dovrei salutarti Sherlock?».
Arsène l'avrebbe
perforata con uno dei suoi sguardi intimidatori, uno di quelli che le
facevano accapponare la pelle solo all'idea. Invece, trattandosi solo
della sua voce al telefono, sibilò adirato: «Non
ti azzardare a fare la finta tonta con me. Ci siamo capiti?».
«S-Sì».
«Domani mattina mi
aspetto delle spiegazioni», aggiunse. «Ora rimani
pure lì, vedi di sfruttare l'occasione per scoprire qualcosa
di utile».
«Okay. Buonanotte
anche a te», lo salutò, senza venir ricambiata.
Geneviève
non si sarebbe mai pentita di quello che aveva fatto per sua madre, ma
era davvero dispiaciuta di aver deluso suo padre. Incredibilmente
però, lo era ancora di più per aver mentito a
Sherlock, fingendo che Arsène l'avesse allontanata solo per
l'arrabbiatura e non perché potesse sfruttare il buon cuore
del detective per frugare in casa sua.
Era quello
che intendeva sua madre, quando le aveva detto di fare solo
ciò che riteneva giusto e di non fare cose di cui si sarebbe
pentita?
Tutti quei
sentimenti che si facevano lotta tra di loro - l'amore per sua madre,
l'orgoglio che voleva suo padre provasse nei suoi confronti, la
simpatia che stava iniziando a provare per Sherlock Holmes - la stavano
portando ad un'esaurimento nervoso.
Passò
di fronte alla stazione di Regent's Park e decise di salire sulla metro
per arrivare prima al Savoy, dove avrebbe affrontato suo padre. Non
poteva più aspettare.
***
Molly si
svegliò e nel buio della sua stanza pensò che
fosse stato tutto un sogno.
Era
già pronta a sprofondare con la faccia nel cuscino per
godere di altri cinque minuti di sonno prima che suonasse la seconda
sveglia, quando sul comodino vide un bigliettino con un numero di
telefono e un nome: Jean.
Lo prese
tra le dita, quasi col timore che si sbriciolasse, e portandoselo tra
gli occhi chiusi ripensò alla serata trascorsa al pub.
Quando,
dopo cena, era uscita per bere qualche bicchiere tra la gente - un
metodo come un altro per sentirsi meno sola, - non aveva la minima idea
che avrebbe fatto colpo su un ragazzo affascinante e carismatico come
Jean. E a dire il vero aveva pensato che la stesse prendendo in giro
per almeno un quarto d'ora, sospettosa e ormai fin troppo abituata al
modo in cui finiva sempre per attirare i sociopatici. Tanto valeva
evitare di rischiare, no?
Come se
tutto quello non fosse bastato a metterle il morale sotto le suole
delle scarpe, il suo ultimo incontro con Sherlock le aveva dato il
colpo di grazia definitivo. Non aveva la minima intenzione di
socializzare, ma Jean... I suoi occhi color smeraldo e pieni di vita,
il suo sorriso gioioso in grado di farla rilassare, la sua voce calda e
i suoi modi da vero gentiluomo l'avevano fatta cedere.
Davanti a
due pinte di birra, il biondo si era scusato per l'accento e le aveva
confessato di essere francese, cosa che Molly aveva già
notato e trovato alquanto strana, considerando che anche la ragazzina
che aveva visto con Sherlock aveva origini d'oltremanica. Si era detta
che era solo una coincidenza, doveva
esserlo.
Jean si
trovava a Londra per motivi di famiglia, ma ne stava anche
approfittando per fare un po' il turista. Molly aveva risposto che lei
non era mai stata in Francia e che avrebbe adorato visitare Parigi,
così lui l'aveva buttata lì: «Se mi
farai da guida, prometto che ricambierò il favore se mai
verrai a Parigi».
L'aveva
proposto con così tanta tranquillità, nemmeno un
cenno di malizia, che l'anatomopatologa era stata sul punto di
considerare l'offerta. Avrebbe di certo accettato se l'espressione
triste di Sherlock non le fosse balenata davanti agli occhi come un
rimprovero.
«Mi
dispiace, non credo di essere la persona adatta», aveva
risposto, e il ragazzo non aveva insistito. Si era semplicemente
stretto nelle spalle, con un sorriso rammaricato. Questo a
dimostrazione di quanto fosse stata priva di secondi fini la sua
proposta.
Molly si
era guardata - il maglione a righe, i pantaloni color cachi, le scarpe
economiche - e si era chiesta cosa mai potesse aver spinto quel ragazzo
tanto bello a sedersi al suo fianco, ad offrirle una pinta di birra e
ad intavolare una conversazione. Alla fine non era più
riuscita a trattenersi e grazie all'audacia che si ha solo con gli
estrani gliel'aveva chiesto chiaramente.
Lui l'aveva
fissata negli occhi, tanto stupito da rimanere persino con le labbra
socchiuse. «Nessuna ragazza dovrebbe bere da sola,
specialmente una come te».
«Una
come me? Che significa?».
Jean aveva
scrollato ancora le spalle, sorridendo. «Non posso dirlo, se
non mi dai l'opportunità di conoscerti. Il fatto che tu me
l'abbia chiesto, però, denota una scarsa autostima. Me ne
domando il motivo...».
Anche Molly
se l'era chiesto, molte e molte volte.
Tutte le
persone che incontrava la sottovalutavano o non la reputavano
importante, una donna da nì, e l'avevano sempre trattata
tale, tanto che alla fine aveva finito per crederci. L'unico che
l'aveva vista davvero, nella solutidine del laboratorio o
dell'obitorio, era stato Sherlock. Come poteva non innamorarsene,
dunque? Peccato che lui non fosse capace di amare, o meglio non volesse
farlo.
Jean aveva
capito più di lei in cinque minuti che molti suoi conoscenti
in anni, per questo aveva alzato le barriere ed era scesa dallo
sgabello, lasciando sul bancone una banconota di taglio sufficiente a
coprire le loro ordinazioni. Lui aveva protestato, ma Molly era stata
irremovibile e qualcosa nei suoi occhi doveva averlo convinto a lasciar
perdere. Allora aveva infilato una mano nella tasca interna della
giacca, aveva tirato fuori un cartoncino bianco e vi aveva scritto
sopra il proprio numero di cellulare.
«Chiamami,
se cambi idea sulla visita guidata».
Molly aveva
preso il bigliettino, incredula. Di solito era lei a dare il suo
numero, nella speranza che la richiamassero. Ore ed ore spese accanto
al cellulare, in attesa di una telefonata. (E poi ne era bastata una,
una di pochi minuti, per sbriciolare anche l'ultimo pezzo del suo
cuore).
Jean aveva
dato a lei la scelta: le aveva consegnato le proprie speranze e le
aveva dato il potere di deciderne il destino. Avrebbe dovuto esserne
felice, lusingata, eppure quel bigliettino le era pesato una tonnellata
nella tasca del cappotto.
La seconda
sveglia suonò e Molly riaprì gli occhi, si tolse
il bigliettino dalla fronte e lo portò con sé in
cucina. Col cestino aperto davanti a sè, la mano stesa verso
l'oblio del sacco, si chiese quante volte fosse successo al suo numero.
Tuttavia non poteva chiamarlo, non poteva fingere un'altra volta,
illudersi di poter dimenticare l'unico amore della sua vita.
Gettò
il bigliettino nella spazzatura e mise su l'acqua per il té.
***
Sherlock
sbadigliò infilandosi nella vestaglia e scuotendo il capo
maledisse quella stupida necessità fisiologica. Ogni traccia
di sonno svanì quando le scoperte della notte appena
trascorsa si ripresentarono, talmente chiare e semplici che
Geneviève si sarebbe messa a ridere quando gliele avrebbe
raccontate.
Forse
ridere no, considerato che sua madre aveva pur sempre ucciso un uomo,
ma sperava di poter alleviare almeno un po' il dolore che doveva patire
nel chiedersi se fosse la figlia di un'assassina.
«Signora
Hudson!», gridò, cadendo nella propria poltrona.
La padrona
di casa si presentò poco dopo, dandogli il buongiorno con il
solito di tè e dei biscotti allo zenzero.
«Sembri
di buon umore questa mattina».
Il
detective sorrise, mordendone uno. «Ho risolto un
caso».
«Oh,
mi fa piacere caro».
Gli
versò una tazza di té e dopo averci soffiato
sopra, Sherlock le chiese: «Potrebbe andare nella stanza di
John a svegliare la nostra ospite?».
«Quale
ospite?».
«Geneviève».
La donna
aprì la bocca, poi la richiuse, guardandolo apprensiva. Era
dura per il detective capire il motivo di certe espressioni, specie di
prima mattina.
«Che
c'è?», borbottò.
«Sherlock...
Geneviève è una cara ragazza e so che non
c'è alcuna malizia nel vostro rapporto, ma devo ricordarti
che ha solo quindici anni? Che dorma qui, da sola, è
sconveniente. Per non pensare a quello che scriverebbero i giornali, se
si venisse a sapere!».
Il grande
detective non ci aveva pensato, ovviamente. Aveva visto una ragazza
triste e abbandonata dal padre, aveva visto l'opportunità di
rendersela amica e conquistarsi la sua fiducia per impedirle di
seguirne le orme, e le aveva offerto ospitalità. I giornali,
il decoro... noiosi.
«Non
lo farò più», mentì.
La signora
Hudson annuì e salì al piano di sopra, nonostante
l'anca dolorante. Sherlock sentì i suoi passi, come se
girasse in tondo, e poi la sua voce confusa: «Ma qui non
c'è nessuno!».
Il
detective si precipitò su per le scale e trovò il
vecchio letto di John sfatto, ma di Geneviève nessuna
traccia.
«Devo
smettere di dormire, devo smettere!», gridò con un
diavolo per capello, tornando rumorosamente in salotto.
***
Geneviève
raggiunse la propria suite per darsi una rinfrescata prima
dell'incontro con suo padre, ma la tessera elettronica non
funzionò. Scassinare quella porta era impossibile, a meno di
manomettere i circuiti elettrici, perciò fece ciò
che avrebbero fatto tutti in una situazione del genere: andò
alla reception.
«Buongiorno»,
mormorò allungando sul bancone di mogano la key-card col
logo del Savoy. «Non riesco ad entrare nella mia stanza. Deve
essersi smagnetizzata».
Il
receptionist le sorrise cordialmente, rispondendo: «No,
signorina. Suo padre, ieri sera, ha dato istruzioni perché
la disattivassimo».
Geneviève
sentì il cuore sprofondarle nel petto. Suo padre era davvero
arrabbiato, se aveva preso una decisione così estrema. Se
quella notte non fosse rimasta da Sherlock, come le aveva ordinato,
sarebbe tornata in hotel e avrebbe scoperto di non avere più
un posto dove dormire. Cosa avrebbe fatto, allora?
«Si
sente bene, signorina?».
«Sì»,
rispose, allontanando la mano dalla tessera elettronica. «Sa
per caso dove posso trovarlo?».
Il
receptionist controllò qualcosa sugli schermi che aveva di
fronte, poi sorrise nuovamente. «Ha ordinato due colazioni in
camera giusto qualche minuto fa».
La
ragazzina lo ringraziò con un cenno del capo e si diresse
verso l'ascensore dalle pareti dorate. Il viaggio sembrò
durare ore, tant'era l'ansia che le stava mordendo lo stomaco
brontolante. La sera prima non aveva mangiato granché, al
ristorante di Angelo, e dubitava che avrebbe avuto la forza di fare
colazione sotto gli occhi inquisitori di Arsène Lupin.
Finalmente
le porte si aprirono davanti al corridoio dell'ultimo piano e
Geneviève fu subito accolta da due guardie, le quali la
scortarono davanti alla porta della Royal Suite. Uno dei due
bussò e la passò in cosegna - proprio come un
pacco - all'uomo di guardia all'ingresso, e via così, fino a
quando non si trovò nella camera padronale. Baffoni la
lasciò entrare e rivolgendo un piccolo inchino verso il suo
capo si ritirò, lasciandoli soli.
Suo padre
era ancora sdraiato a letto, con indosso una vestaglia di velluto verde
chiaro e i capelli un po' spettinati che gli ricadevano sul volto. Il
suo sguardo era fisso sul tablet che aveva tra le mani e
Geneviève rimase ferma davanti alla porta fino a quando non
si decise a guardarla, con un misto di indifferenza e delusione sul
viso.
«Dormito
bene?», le domandò atono.
Geneviève
si tolse lo zainetto dalle spalle e lo lasciò cadere a
terra. Provava l'irrefrenabile impulso di scoppiare a piangere, di
lanciarsi su quel letto a baldacchino per stringerlo forte ed
implorarlo di perdonarla, ma il suo atteggiamento freddo, quasi
disprezzante, la costringeva a reprimere tutto quanto. Non poteva
mostrarsi debole di fronte a lui, non dopo ciò che aveva
fatto. Quale padre avrebbe negato un letto alla propria figlia?
«Abbastanza»,
rispose con voce ferma, i pungi stretti dietro la schiena.
«Io
per niente». Arsène sollevò di nuovo
gli occhi dal tablet. «Non ho chiuso occhio, ad essere
onesti».
Geneviève
voltò il capo, pronta ad incassare la ramanzina, ma la voce
di suo padre si sciolse, trasformandosi in una carezza colma di
dispiacere.
«Ieri
ho esagerato. Mi sono lasciato travolgere dalle emozioni, devi
perdonarmi».
Rilassò
i pugni e guardò il Ladro Gentiluomo, il quale aveva le
labbra strette in una smorfia e gli occhi velati di lacrime.
«Non
ho idea di cosa dovrebbe fare un buon padre, Geneviève. Ma
sto iniziando a capire ciò che si prova quando la propria
figlia si allontana di nascosto, o fa qualcosa di incomprensibile.
L'ansia, il timore... Non ho mai provato nulla di così forte
in vita mia. E io sono sempre circondato da pericoli, lo sai».
A quel
punto le era davvero difficile trattenersi: quel discorso a cuore
aperto la stava facendo cedere. Ciò nonostante fece un
ultimo sforzo mentre suo padre concludeva: «Adesso, a mente
fredda, sono sicuro che tu abbia avuto le tue ragioni per liberare
Sherlock Holmes e aiutarlo a fuggire. Ma ieri non ho potuto evitare di
pensare che preferissi la sua compagnia alla mia, o che...».
«Tu
sei mio padre», lo interruppe con ardore. «Ammetto
che Sherlock Holmes ha una certa influenza su di me, ma tu... tu sei
l'uomo che ho sempre voluto conoscere, l'uomo a cui voglio
assomigliare».
Geneviève
avvertì una nota stonata in quella frase, ma la
ignorò e così dovette fare Arsène,
commosso. Infatti si alzò dal letto e la raggiunse con poche
falcate per stringerla in un abbraccio, sollevandola anche un poco da
terra in una giravolta.
La
ragazzina respirò profondamente, con le braccia avvolte
intorno al suo collo. Avrebbe voluto che quel momento non finisse mai,
tanto si sentiva protetta e amata, ma venne infranto da dei colpi alla
porta.
Arsène
la rimise coi piedi per terra e guardandola con tenerezza
esclamò: «Avanti!».
Baffoni
entrò con un carrello imbandito di prelibatezze: le due
colazioni che aveva ordinato.
Geneviève,
ora che tutto sembrava risolto, avvertì i morsi della fame.
Qualcosa però gliela tolse di nuovo: il tablet che suo padre
aveva lasciato sulla panca ai piedi del letto, su cui c'erano quattro
diverse inquadrature della sua stanza. Si rifiutò di
crederci, dicendosi che c'erano altre suite uguali alla sua. Ma
perché Arsène avrebbe dovuto sorvegliarle? Ogni
dubbio venne spazzato via quando vide se stessa mentre si toglieva
l'accappatoio, indossava i vestiti per la fuga e poi, zainetto in
spalla, usciva sul balcone per non rientrare più.
Ecco come
aveva fatto suo padre a scoprirla così in fretta.
Si
voltò verso di lui, sentendosi confusa e tradita, e quando
anche lui si girò dopo aver richiuso la porta, ogni traccia
del buon umore ritrovato sparì dal suo viso. Il suo sguardo
seguì il dito che Geneviève puntava verso il
tablet, poi si concentrò sulle lacrime che le avevano
riempito gli occhi.
«Che
cosa significa?», gli chiese, la voce tremante.
Arsène
aprì la bocca, colto in fallo, ma impiegò solo un
paio di secondi per sorridere con dolcezza. «Significa che
hai un padre iperprotettivo, tesoro. Le ho fatte installare per la tua
sicurezza personale».
La
ragazzina deglutì e lo guardò a lungo, cercando
di capire se stesse mentendo o meno. Ma come poteva farlo? Per quanto
lei fosse brava a propinare bugie, era da lui che aveva ereditato quel
gene; lui sarebbe sempre stato il maestro delle truffe e degli inganni,
il più fedele seguace di Loki.
«Mi
dispiace tesoro, ma era necessario», aggiunse, passandole
accanto col carrello.
Forse era
vero. D'altronde Sherlock stesso le aveva rivelato che Ganimard,
l'ispettore che da anni cercava di arrestare suo padre - lo stesso a
cui si erano rivolti per sapere di più in merito al caso del
diamante azzurro - avrebbe fatto qualsiasi cosa, persino usare lei come
esca, per mettere nella rete il pesce più grosso della sua
vita.
O forse no.
Forse suo padre, nonostante affermasse il contrario, non si fidava
ancora completamente di lei e il suo intento era quello di sorvegliarla
per evitare che potesse tradirlo.
Non c'era
modo di scoprirlo e Geneviève, d'ora in avanti, avrebbe
dovuto combattere su due fronti: aiutare suo padre a portare a termine
il compito assegnatogli da Irene Adler, conquistandosi la fiducia di
Sherlock Holmes, e poi agire contro di lui, alleandosi col detective,
per scoprire chi fosse veramente e se, a quel punto, poteva fidarsi di
lui.
Non sarebbe
stata un'impresa facile, passare tra quei due fuochi senza mai
scottarsi, ed era probabile che alla fine avrebbe dovuto prendere una
posizione, tradendo inevitabilmente uno dei due, ma non poteva fare
altrimenti.
«Allora»,
esclamò Arsène, svaccato di nuovo sul letto con
una tazza di cioccolata calda in una mano e un muffin nell'altra.
«Raccontami tutto, dall'inizio».
Geneviève
sbatté gli occhi per spazzare via le lacrime e
respirò profondamente, sedendosi ai piedi del letto. Era
giunto il momento a cui si era preparata tanto, insonne nella vecchia
camera del dottor Watson.
«Ieri,
all'ospedale, mamma mi ha fatto venire una terribile nostalgia di
casa», esordì, guardandosi le unghie mangiucchiate
delle mani. «Era lì che volevo andare e non volevo
che la scorta si facesse gli affari miei, perciò ho scelto
di uscire ancora dalla finestra. Sono stata interrotta però,
dai rumori provenienti dalla tua suite».
Arsène
sorrise, muovendo una mano e riassumendo: «Sei venuta qui,
hai trovato Sherlock Holmes legato e imbavagliato e hai chiesto di
rimanere sola con lui. Qui non ho installato alcuna telecamera di
sicurezza, non lo ritenevo necessario, perciò voglio sapere
di cosa avete parlato».
«Di
niente. Gli ho solo offerto il mio aiuto».
«Pro
bono?».
«Beh,
non proprio. Quello che volevo in cambio era la sua fiducia, ma non
potevo chiedergliela direttamente. Così l'ho liberato,
fingendo di essere dalla sua parte, e abbiamo inscenato quel sequestro
perché potesse fuggire».
Arsène
la fissò, soppesando le sue parole, e la ragazzina dovette
concentrarsi al massimo per non far trasparire la verità,
ovvero che in cambio aveva voluto il suo aiuto per scoprire la vera
storia del diamante azzurro.
Alla fine
suo padre sorrise entusiasta, gli occhi brillanti di eccitazione.
«Sono
impressionato, tesoro. Hai fatto credere a Sherlock di non fidarti di
me per avvicinarti a lui? Magnifica pensata! Ora lui pensa di averti
dalla sua parte e si lascerà scappare qualcosa di
più, si confiderà addirittura, non vedendo in te
alcuna minaccia, quando invece... Oh, che spettacolo!»,
gridò, sfregandosi le mani.
Geneviève
si sforzò di sorridere, spaventata dalla rete che stava
tentendo.
«È
bravissimo a tenere in piedi tutte le sue false identità e
ad elaborare piani intricatissimi, ma a volte smette di vedere
ciò che ha sotto il naso», aveva
detto sua madre. Lei avrebbe fatto la stessa fine? Sarebbe finita nella
sua stessa rete, troppo complessa ed intricata per una ragazzina di
soli quindici anni?
«Vai
avanti», la invitò, prendendo degli acini d'uva
per lanciarseli in bocca.
«Ci
siamo dati appuntamento al Waterloo Bridge e dopo le dovute
spiegazioni, con le quali sono riuscita a convincerlo della mia
sincerità, mi ha portata al ristorante di un suo amico.
Lì ha incontrato Justin Ganimard».
Arsène
rischiò di strozzarsi con un chicco d'uva.
Geneviève fece per avvicinarsi, ma il padre tossì
con violenza e tornò a respirare regolarmente. Quindi, con
gli occhi fuori dalle orbite, strepitò:
«È pazzo?! Se l'ispettore avesse un solo sospetto,
uno solo, saresti nei guai fino al collo!».
«Me
l'ha detto, ma ho insistito per rimanere ad ascoltare. Hanno parlato di
te, ovviamente. Di vecchi casi mai risolti, in particolare di quello
del diamante azzurro...».
Lupin si
irrigidì e Geneviève si chiese se non avesse
osato troppo. Tuttavia il suo interesse era troppo forte e doveva
rischiare, se voleva ottenere qualcosa da lui.
«Si
tratta dell'anello che hai dato alla mamma, non è
così?».
Lui
annuì con un impercettibile cenno del capo e
lasciò la tazza sul carrello, per poi alzarsi e dirigersi
verso la finestra, lo sguardo cupo rivolto verso il London Eye.
«Hanno
detto che quel caso è stato diverso, che c'è
stato un... un omicidio».
«Fandonie!»,
gridò, pestando un piede a terra.
«Ma
loro hanno detto...».
Arsène
si girò di scatto e la guardò in cagnesco, il
labbro superiore arricciato sui denti in un ringhio. «Fai
silenzio! Non voglio più sentirne parlare, ci siamo
capiti?».
Quei
repentini cambiamenti d'umore la turbavano sempre, tanto che si
alzò e prendendo una mela dal carrello si diresse verso la
porta, decisa a lasciarlo sbollire.
«Scusami»,
le disse piano, quando fu sulla soglia.
Geneviève
lo guardò con la coda dell'occhio, trovandolo stanco e
depresso come non l'aveva mai visto. Lo seguì mentre si
lasciava cadere seduto sul bordo del letto, le mani a coprirsi il volto
e poi a tirarsi indietro i capelli.
«Quel
caso fa parte del passato. Il passato è morto per sempre; il
passato non esiste», aggiunse, pronunciando quelle parole
come una specie di filastrocca con lo scopo di tranquillizzare lui,
piuttosto che la figlia. Le ripeté per un po', sempre
più piano, fino a quando le sue spalle non si rilassarono
nuovamente e sul suo volto tornò a splendere il sorriso.
Quella volta palesemente finto.
«Vai
pure, tesoro. Darò disposizioni perché la tua
tessera venga riattivata», la congedò e la
ragazzina non se lo fece ripetere due volte.
Chiuse
piano la porta e si ritrovò davanti Baffoni, il quale le
rivolse un'occhiata guardinga dicendo: «La tengo d'occhio,
signorina».
Geneviève
gli mostrò la lingua e poi lo superò, dando un
morso alla sua mela.
***
Molly
aprì il proprio armadietto per indossare il camice da
laboratorio e nel tirarlo fuori una busta bianca cadde a terra. Se la
rigirò tra le dita e il cuore le finì in gola
leggendo il nome di Sherlock sul retro, scritto da una calligrafia
femminile. Incuriosita, aprì la busta e al suo interno
trovò due biglietti per lo spettacolo del Don Giovanni alla
Royal Opera House e quello che sembrava proprio il pezzo di calendario
mancante. Sherlock l'aveva strappato per scriverci sopra poche parole:
"Un regalo da parte di Geneviève. Vacci con qualcuno che ti
meriti e che non ti faccia soffrire. SH".
Molly si
sedette sulla panchina alle sue spalle e si coprì il volto
con le mani, sentendo le lacrime affluire agli occhi.
Allora lo
sapeva, lo sapeva che la stava facendo soffrire. Quel bastardo.
Diceva
anche di non meritarla, e forse era vero visto il modo in cui la
trattava, ma Molly non poteva lasciarlo andare, non poteva nemmeno
volendo.
Avrebbe
voluto stracciare quei biglietti - di vedere un uomo che se ne andava
in giro a conquistare donne non ne aveva granché voglia - ma
invece si ripromise di restituirli alla stessa Geneviève, la
quale aveva voluto fare da Cupido e aveva fallito miseramente.
Si
alzò, si infilò il camice e fingendo che andasse
tutto bene chiuse l'armadietto per iniziare a lavorare.
***
John
salutò la figlia e poi la babysitter, quindi uscì
di casa e saliti i gradini che lo portarono sul marciapiede rimase di
stucco: la Porsche argentata di Arsène Lupin era
parcheggiata lì davanti, scintillante come uno specchio e
bellissima, e il suo proprietario era seduto sul cofano, che leggeva il
Sun con aria assorta.
Quando si
accorse della sua presenza gli rivolse un ampio sorriso e
gettò il giornale in un cestino vicino, non prima
però di averne strappato un articolo particolarmente
interessante, che finì nella tasca interna del suo cappotto
grigio.
«Buongiorno
dottore», lo salutò avvicinandosi.
John si
guardò intorno, circospetto, aspettandosi di notare gli
uomini della sua scorta.
Lupin si
mise a ridere, esclamando: «Sono solo io, dottore. Hai la mia
parola».
«Come
fai a sapere dove abito?».
«Questo
non è rilevante», rispose con lo stesso tono
annoiato di Sherlock, ma senza perdere il sorriso. «Chiedimi
perché sono venuto».
John,
abituato, non la fece troppo lunga e chiese:
«Perché sei venuto?».
«Perché
volevo farmi perdonare!». Lo affiancò e gli mise
una mano sulla schiena, invitandolo ad avanzare senza paura verso
l'auto sportiva. «Ultimamente ti sto rubando Sherlock
e...».
«Non
sono affatto geloso».
Arsène
gli rivolse un'occhiata impietosita, come se la sua bugia fosse
talmente ovvia da risultare imbarazzante.
«Quello
che voglio dire è che volevo farmi perdonare, offrendoti
quel passaggio che ti ho rifiutato l'altra mattina. Anzi,
farò di più!». Tirò fuori
dalla tasca del cappotto le chiavi e le fece dondolare davanti ai suoi
occhi, con un sorriso eccitato sulle labbra. «Vuoi guidare
tu?».
John ne fu
tentato, molto tentato, ma all'ultimo momento rifiutò,
scuotendo il capo. «No, grazie. Non devi farti perdonare,
quello che fa Sherlock è affar suo, non mio.
Prenderò l'autobus».
«Rifiuti
il mio passaggio?», ripeté Arsène,
sbalordito da come si stavano svolgendo gli eventi. Doveva essersi
fatto un'idea diversa di lui.
John
sorrise compiaciuto. «Esatto. Ma ti ringrazio per essere
passato, mi hai evitato un viaggio fino al Savoy». Dalla
tasca posteriore dei jeans tirò fuori il portafoglio, dove
aveva conservato le banconote che Arsène gli aveva infilato
nella giacca, come un prestigiatore, quando li aveva invitati a
colazione.
«Questi
sono tuoi», disse, porgendogli i soldi.
«La
vincita della mia scommessa?», chiese il Ladro Gentiluomo.
«Puoi - devi
tenerli. Sono un regalo».
«Non
li voglio».
L'uomo
biondo lo fissò a lungo, facendolo sentire ancora una volta
piccolo e insignificante. Poi la sua espressione cambiò,
rivelando un profondo rammarico.
«Capisco»,
mormorò. «Dato che sospetti che io sia chi io sia
- Arsène Lupin, il famoso ladro francese - non vuoi
accettare nulla da me. Ecco che vuol dire avere una cattiva
reputazione».
Arsène
si infilò le banconote in tasca e poi saltò
dentro l'abitacolo, girò le chiavi nel quadro d'accensione e
il motore ruggì. Lo salutò portandosi due dita
sopra il sopracciglio destro e con un piccolo sorriso, poi diede gas e
partì con una sgommata.
John
guardò le linee scure lasciate dalle gomme sull'asfalto e
sospirò, ma non si pentì della sua decisione. Se
Sherlock era convinto che quell'uomo fosse Arsène Lupin
doveva fidarsi di lui. Che razza di migliore amico sarebbe stato,
altrimenti?
Tirò
fuori il cellulare ed iniziò a scrivergli un sms:
Ciao, volevo solo avv|
Cancellò
tutto, consapevole che così scritto sarebbe finito
direttamente nel cestino. (O almeno così diceva Sherlock. In
realtà, era impossibile saperlo).
Arsène mi ha
appena offerto un passaggio al lavoro.
Ho rifiutato.
Inviò
e dopo un respiro profondo si avviò verso la fermata
dell'autobus.
***
Arsène
strinse forte il volante della Porsche, il viso contratto in
un'espressione corrucciata.
Molly
Hooper non l'aveva ancora richiamato.
John Watson
non voleva avere nulla a che fare con lui.
Avrebbe
potuto andare dalla signora Hudson, ma aveva come il presentimento che
sotto le vesti dell'anziana padrona di casa ci fosse molto di
più: se avesse provato a farle qualche domanda su Sherlock o
su ciò che era successo al 221B un mese prima, probabilmente
avrebbe fiutato puzza di guai e anche lei si sarebbe allontanata.
Tra gli
amici più intimi del detective c'era l'ispettore Greg
Lestrade e l'idea di entrare a Scotland Yard, nel cuore della polizia
britannica, stuzzicava il suo lato più irriverente. I rischi
però erano troppi e le percentuali di riuscita troppo basse.
Avrebbe continuato a tenerlo d'occhio mantenendo le dovute distanze.
Tutti
così leali... Sherlock se li era scelti bene. E lui che
pensava che la solitudine fosse la miglior difesa!
«Dannazione!»,
berciò, picchiando una mano guantata di bianco sul volante.
La fortuna
non era decisamente dalla sua parte e se non avesse avuto
Geneviève, la quale stava facendo un ottimo lavoro nel
diventare amica del consulente investigativo, non avrebbe avuto nulla
in mano. Sperava solo che, al contrario di lui e nonostante la giovane
età, riuscisse a tenere separati lavoro e sentimenti.
Sarebbe stato un duro colpo se alla fine avesse davvero preferito
Sherlock a lui, tanto duro che probabilmente non avrebbe più
risposto delle proprie azioni.
Guardò
l'ora sul proprio Rolex e, dato che era ancora presto per andare in
ospedale, decise di fare visita al maggiore degli Holmes. Sarebbe stato
scortese non salutarlo, dopotutto.
«Mon Dieu, Myc! Sei
davvero in forma smagliante!».
Mycroft lo
guardò con la coda dell'occhio, senza scomporsi, e
pigiò qualche tasto sul tapis roulant, poi vi
saltò giù e raggiunse il tavolino dove aveva
lasciato un asciugamano e un integratore.
«Non
ti chiedo nemmeno come tu sia riuscito ad entrare,
Arsène».
Il biondo
sorrise furbescamente, portandosi alle labbra il bicchiere di aranciata
che si era versato da solo in cucina.
«Comunque
grazie», aggiunse il maggiore degli Holmes.
«Ma
figurati. Se vuoi, uno di questi giorni, possiamo fare qualche
esercizio insieme. Al Savoy hanno una palestra davvero
attrezzata».
«Sai
perfettamente che preferisco la solitudine».
«Già...
Ma ultimamente stai frequentando una donna, mi sbaglio?».
Mycroft lo
fissò, cercando inutilmente di celare la sorpresa. Come
poteva saperlo? Era stato attentissimo, tanto che nemmeno Sherlock era
riuscito a dedurlo.
Arsène
si fece più vicino, guardandolo maliziosamente.
Sollevò una mano e fece correre due dita dalla spalla destra
a quella sinistra, sussurrando: «Certe cose non ho bisogno di
vederle... le percepisco».
«Questo
è impossibile».
Il Ladro
Gentiluomo incrociò i loro sguardi e si mostrò
terribilmente offeso, fino a quando non riuscì
più a reprimere una risata.
«E
va bene, hai ragione. Ho solo visto che il tuo frigo era pieno e ho
tirato ad indovinare. La tua espressione mi ha dato la conferma
definitiva».
«Come
puoi...?».
«Sull'anta
ci sono appesi diversi volantini di ristoranti, segno che fino a
qualche tempo fa rientravi a casa a tarda notte, da solo, e ordinavi
cibo d'asporto. Ora però c'è una donna,
perciò ti preoccupi che ci sia da mangiare nel caso in cui
rimanga qui la notte e voglia fare colazione prima di andare al lavoro.
Le uova, il bacon e i formaggi sono in scadenza, perciò
presuppongo che non sia accora accaduto, ma è molto tenero
da parte tua, Myc...».
Il fratello
di Sherlock si ostinò a mantenere un atteggiamento
superiore, per non dargli la soddisfazione di averci preso in pieno, e
disse: «A che cosa devo l'onore della tua visita,
Arsène? Tua figlia? Mi stupisce che tu ti sia fatto
incastrare in questo modo...».
«Nessuno
mi ha incastrato», rispose a denti stretti.
«Sicuro?
Lo sai come sono i figli... Possono essere una rovina».
«Parli
a nome dei tuoi poveri genitori?», ribatté, con un
sorriso beffardo sul volto. «Lei è diversa,
l'avrai notato anche tu. È il mio tesoro più
prezioso».
Quindi si
sedette con grazia sulla poltrona, le gambe accavallate, e si
portò una mano sul mento perfettamente rasato, meditabondo.
«Comunque
la mia è una semplice visita di cortesia, devi credermi.
Dopotutto era da quando mi hai chiesto aiuto per prendere per la prima
volta Moriarty che non facevamo due chiacchiere, vero?».
Mycroft
socchiuse gli occhi al ricordo dello sforzo compiuto per abbassarsi a
chiedere aiuto ad un ladro. E se pensava che a quel primo arresto erano
succeduti i colloqui, le rivelazioni su Sherlock, il regalo di Natale a
sua sorella Eurus...
Represse un
brivido, ammettendo: «Ultimamente rimpiango spesso quella
decisione».
«Anche
io, in parte. Quell'uomo era ripugnante, Myc. Tutti i suoi giochi
contorti, le morti e il piacere che ne traeva... Ah, l'ho
odiato dal primo momento! Ma c'è da dire che aveva un certo
gusto nel vestire».
«Perché
l'hai fatto, allora?».
Arsène
corrugò la fronte. «Che domanda è? Noi
siamo amici, Myc».
«Il
mio nome è Mycroft», lo corresse, esasperato.
«E no, non siamo nulla del genere: a te interessa solo
Sherlock».
«Sei
geloso, per caso? Devo ricordarti che sei stato tu a metterlo sulla mia
strada? E non dirmi che è un altro dei tuoi
rimpianti».
«Questo
non posso farlo», ammise Mycroft, tamponandosi nuovamente il
viso sudato con l'asciugamano che aveva intorno al collo.
«Per quanto mi costi ammetterlo, è anche merito
tuo se Sherlock è diventato ciò che è
oggi».
Arsène
sorrise, gongolante, e guardò il soffitto. «Ah,
eravamo così giovani...».
Mycroft,
spinto dalla curiosità, tornò sull'argomento
Moriarty: «Sul serio, perché accettasti di
aiutarmi ad arrestarlo? Dimmi la verità, prometto che
rimarrà tra di noi».
Il ladro
perse ogni traccia di sorriso, si alzò dalla poltrona e
sistemandosi il nodo della cravatta si schiarì la gola.
«E va bene», esclamò con tono pacato.
«Posso dire che ho sfruttato alcuni dei suoi affari per
mettere le mani su certe cosucce».
«I
suoi facevano il lavoro sporco e tu derubavi le vittime senza lasciare
il tuo bigliettino da visita».
«Non
potevo di certo farmi una simile pubblicità! Ho una
reputazione da difendere!».
Mycroft
scosse il capo, quasi con delusione, e gli diede le spalle per guardare
fuori dalle ampie vetrate. «Dici a te stesso di essere
diverso, ma in realtà sei come tutti gli altri: un
criminale».
Arsène
strinse forte i pugni lungo i fianchi, rosso di rabbia.
«Non
capisco che cosa abbia visto in te il mio fratellino, o per quale
motivo si sia così interstardito sul volerti redimere. Tutto
tempo sprecato».
Al silenzio
del ladro, l'Holmes più grande si voltò a
guardarlo e lo trovò a capo chino, come un bambino che
è appena stato scoperto a rubare caramelle e ne è
profondamente dispiaciuto.
«Sai,
Mycroft», sussurrò dolcemente. «Avevi
ragione, prima, quando hai detto che noi due non siamo amici. Non mi
sei mai piaciuto, ma anche io, proprio come Sherlock, ho la testa dura.
Ogni volta penso di poter scorgere qualcosa di buono in te, ma
fallisco. È frustrante, lo sai?». Alzò
finalmente gli occhi, dispiaciuti e ridenti allo stesso tempo.
«Non sono abituato a perdere. Tuttavia, non mi dispiace.
Vincere sempre e in ogni caso finisce col diventare
fastidioso».
Si
avvicinò nuovamente e lo fronteggiò, i loro volti
tanto vicini da scorgere ognuno le particolarità delle iridi
dell'altro.
«Ma
ci riuscirò, prima o poi. Riuscirò a scalfire la
tua corazza, Mycroft Holmes».
«A
quale scopo?».
«Per
dimostrarti che Sherlock vale tanto quanto te, se non di
più. Per farti ammettere che lui non ha sbagliato sul mio
conto, che il suo volermi redimere non è tempo
sprecato».
«Se
quel giorno arriverà, sarò felice di ammettere di
essermi sbagliato», rispose Mycroft, sorridendo.
Arsène
ricambiò e si voltò per uscire da dov'era
entrato. Sulla soglia però si fermò e con
l'atteggiamento incurante di chi era abituato a fare domande a cui non
servivano risposte disse: «Chi ha fatto esplodere
l'appartamento di Sherlock?».
Il maggiore
dei fratelli Holmes dissimulò la sorpresa che gli aveva
ghiacciato il sangue nelle vene e rispose con tranquillità:
«Nessuno. È scoppiata una bombola del
gas».
Il ladro
gli rivolse un sorriso sornione, facendo schioccare la lingua contro il
palato. «Questa è la versione data alla stampa,
Myc. Sei sempre stato bravo ad insabbiare la verità, mi
domando perché questa volta tu abbia fatto un lavoro
così approssimativo».
Mycroft non
rispose e Arsène, con gli occhi fulgidi per l'eccitazione,
aggiunse: «Non c'era tempo a sufficienza per inventare una
storia migliore?».
«Ti
sbagli».
«Forse.
D'altronde la mia è stata una perizia fatta su due piedi.
Non ho avuto modo di cercare prove, ho colto solo quello che ho potuto,
e sono giunto alla conclusione che la storia della bombola del gas
difettosa non sta in piedi».
Il ladro si
appoggiò allo stipite della porta con la schiena ed
incrociò le braccia al petto. Riprese a parlare tenendo gli
occhi chiusi, con un sorrisino soddisfatto sulle labbra.
«Vuoi
un esempio? Se l'esplosione fosse davvero stata causata da una bombola
del gas la cucina sarebbe stata distrutta, invece qualcosa si
è salvato. Inoltre, quando sono stato invitato dalla signora
Hudson per un tè, ho notato delle crepe sul soffitto della
sua cucina, la quale si trova proprio sotto il salotto di Sherlock.
Capisci dove voglio arrivare?».
«Le
crepe potevano esserci già».
Arsène
fece spallucce. «Forse. Ti farò un altro esempio
allora: se fosse stata una bombola del gas difettosa come avrebbe fatto
Sherlock a sapere esattamente il momento in cui sarebbe esplosa? Alcuni
testimoni oculari sono convinti che il caro dottor Watson e il nostro
amato Sherlock hanno sfondato le finestre appena prima dell'esplosione,
non a causa della stessa. Trovi tutto su Twitter».
Mycroft
sospirò, consapevole di non poter in alcun modo
controbattere alla logica schiacciante dei suoi ragionamenti.
«Perché
vuoi saperlo?», gli chiese.
Il ladro
gli rivolse un sorriso divertito. «Mi piace giocare al
detective nel tempo libero».
«Lascia
perdere, Arsène».
«Sai
che non succederà», rispose scrollando un poco le
spalle.
«È
una perdita di tempo».
«Anche
cercare la perla dei Borgia, eppure l'Interpol non si è
ancora arresa».
Mycroft
alzò gli occhi al cielo. «Ce l'hai tu».
Il Ladro
Gentiluomo alzò le mani, ma non si voltò per
mostrargli il ghigno che gli incurvava le labbra. «Io so solo
che Moriarty l'ha venduta a qualcuno che non se ne separerà
facilmente».
«Capisco»,
sospirò Mycroft. «Arrivederci, Lupin».
Arsène
si sollevò un cappello invisibile e se ne andò,
silenzioso com'era arrivato.
Il maggiore
degli Holmes si tolse l'asciugamano dalle spalle per gettarlo sulla
poltrona, poi recuperò il cellulare e una volta di fronte
alle finestre che davano sul bellissimo e curato giardino scrisse un
breve sms.
Arsène
è venuto a porgere i suoi omaggi.
Fa' attenzione,
fratello mio.
MH
***
Sherlock
rilesse i messaggi ricevuti da John e da Mycroft ed abbozzò
un sorriso vittorioso. Arsène non aveva più molti
assi nella manica se si stava già muovendo tra i suoi
conoscenti nel tentativo di spillare loro qualche informazione utile.
Immaginava
la sua frustrazione nell'incontrare muro dopo muro e se ne
beò.
John,
Lestrade, la signora Hudson... non lo avrebbero mai tradito ed era
grato di avere degli amici del genere.
L'aveva
evitato di proposito, ma il nome di Molly era impossibile da ignorare,
tant'era doloroso. Era possibile, se non praticamente certo, che
Arsène avrebbe cercato di entrare in contatto anche con
l'anatomopatologa - specie se Geneviève lo aveva tenuto
informato come sospettava, - ma non poteva scriverle solo per chiederle
se avesse conosciuto persone nuove. L'avrebbe mandato al diavolo, poco
ma sicuro. Doveva semplicemente fidarsi di lei e del suo istinto, come
sempre.
Quindi
entrò nella rilassante hall del London Bridge Hospital ed
incrociò subito lo sguardo attento di una delle guardie di
Lupin, la quale lo avvicinò chiedendogli il motivo della sua
visita.
«Devo
vedere Geneviève».
«Temo
non sia possibile, monsieur».
«Avvisatela
che sono qui, sono certo che mi riceverà».
L'uomo
della scorta arretrò di qualche passo ed attese per qualche
minuto accanto all'ascensore. Quando le porte si aprirono rivelarono il
secondo in comando della banda di Lupin, il maggiordomo che aveva tra i
suoi compiti principali quelli di badare alla ragazzina bionda.
«Venga
pure, signor Holmes», gli disse, stendendo un braccio verso
di lui.
Sherlock lo
raggiunse nell'ascensore e una volta soli lo fissò con
attenzione, notando che portava l'orologio al polso destro
perché sul sinistro erano visibili delle cicatrici da
ustioni. Si domandò come se le fosse procurate e se
Arsène c'entrasse in qualche modo, ma continuando con la
propria analisi si infastidì non trovando nulla che potesse
fargli dedurre il motivo per cui il Ladro Gentiluomo si trovava a
Londra.
Le sue scarpe erano pulite, perciò era rimasto al chiuso per
tutta la mattina. O Lupin aveva messo in
punizione sua figlia, permettendole di uscire solo per andare a trovare
sua madre, oppure era proprio vero che il suo unico compito era quello
affidatogli da Irene Adler.
Quella donna... Maledetto lui
e il giorno in cui l'aveva incontrata. Però forse avrebbe
dovuto ringraziarla: era merito suo se Arsène era tornato
sulla scena, portandosi dietro la sorella e la nipote segreta di Mary.
Le porte
dell'ascensore si aprirono sul corridoio e il suo sguardo si
posò immediatamente sulla ragazzina, in piedi davanti alla
porta della stanza di sua madre. Si dondolava sui talloni e si
stringeva le mani, sopraffatta dal nervosismo. Da quanto tempo era
lì, incapace di prendere la maniglia ed affrontare quella
pagina censurata del passato di sua madre?
Sherlock
avanzò fino a trovarsi al suo fianco e le posò
una mano sulla spalla. Geneviève trasalì ed
alzò gli occhi grandi e lucidi nei suoi. Dalle occhiaie, il
detective capì subito che non aveva dormito quella notte. Si
era girata e rigirata nel vecchio letto di John, afflitta da mille e
più pensieri.
La fitta
che provò all'altezza del cuore, vedendola ridotta a quel
fascio di nervi, lo colse ancora una volta di sorpresa.
«Avanti»,
sussurrò. «Risolviamo questa faccenda».
La
ragazzina si fece forza ed annuì. Quindi, prima di
ripensarci, afferrò con decisione la maniglia e
spalancò la porta. Si bloccò di nuovo
però, quando sua madre le rivolse un pallido sorriso
dicendo: «Finalmente sei arrivata, tesoro».
Geneviève
la guardò con gli occhi colmi di lacrime ed
arretrò di un passo, finendo a sbattere contro il detective.
«Gen,
che cosa c'è? Stai male?», le domandò
ancora, con apprensione, puntellandosi sui gomiti per tirarsi su.
La
ragazzina si girò verso Sherlock e mormorò:
«No... No, non posso farcela».
Lui
l'afferrò per le braccia e si chinò un poco
perché i loro occhi fossero allo stesso livello.
«Devi. Non si può preferire una bugia alla
verità, anche se fa male».
«Non
ci riesco...».
«Ci
sono qui io».
Gli era
uscito così, automaticamente. E Sherlock non se ne
pentì, nemmeno un po'. Figlia di Lupin o meno, con lui o
contro di lui... quella che aveva davanti era una ragazzina di quindici
anni, troppo piccola per affrontare da sola una verità
simile. Lui, grande abbastanza per processare il dolore, ne era stato
quasi dilaniato alla scoperta che sua sorella aveva ucciso il suo
migliore amico d'infanzia. Il fatto che lei fosse lì, senza
aver versato ancora una lacrima, era già molto
più di quello che avrebbe fatto lui alla sua età.
Geneviève
rilassò le spalle ed inspirò, riprendendo il
controllo di sé. Poi tornò a voltarsi verso la
madre e con coraggio la raggiunse, sedendosi sulla sedia accanto al
letto. Era davvero straordinaria.
Sherlock
chiuse la porta alle sue spalle e chiese scusa agli uomini, compreso
Baffoni, quando tirò giù la veneziana in modo che
non potessero leggere nemmeno il loro labiale attraverso il vetro.
«Mi
volete spiegare che cosa sta succedendo?», chiese la donna,
sempre più agitata.
Il dective
si girò ed unì le mani dietro la schiena,
esordendo: «Clotilde Destange».
Geneviève
lo guardò confusa, ma le bastò notare il pallore
sul volto della madre per capire che era quello il suo vero nome.
«Una
ragazza intelligente, il più giovane architetto dello studio
"Lucien Architecture". Aveva una carriera brillante davanti a
sé, eppure dopo la faccenda del diamante azzurro si
è licenziata ed è partita, senza dare troppe
spiegazioni. La stessa settimana, un altro giovane architetto, di nome
Maxime Bermond, ha smesso di presentarsi al lavoro. Era talmente ovvio
che non capisco come la polizia francese non ci sia arrivata».
«Maman»,
sussurrò Geneviève, prendendole le mani tra le
sue. «S'il te
plaît».
«Non
ha senso negare ancora», aggiunse Sherlock, afferrando la
sponda ai piedi del letto. «Dica a sua figlia la
verità, o lo farò io».
La Donna
Bionda guardò la ragazzina, lasciando che le lacrime le
rigassero il volto sciupato. «Perché? Il passato
è morto per sempre; il passato non esiste».
Geneviève
fu scossa da un brivido a quelle parole e Sherlock, deciso ad andare
fino in fondo, prese ancora una volta le redini della conversazione.
«E
va bene. Riprendendo in mano i casi in cui è comparsa la
Donna Bionda - l'affare Gerbois, la morte di Hautrec e il furto a villa
Crozon - mi sono reso conto che tutti e tre avevano qualcosa in comune:
le case».
«In
che senso le case?», domandò Geneviève.
«Gli
autori dei colpi, ovvero Arsène Lupin e la misteriosa Donna
Bionda, riuscivano sempre a scappare senza lasciare alcuna traccia.
Addirittura, nel caso dell'ambasciatore, sono riusciti ad uscire e
rientrare per cancellare le prove lasciate dall'assassina».
«La
prego», singhiozzò la donna. «Si
fermi».
«E
non dimentichiamoci che, come ha detto il buon Ganimard,
Arsène voleva che il diamante messo all'asta finisse alla
signora Crozon, tanto da mandare la Donna Bionda a minacciare l'altro
acquirente, il miliardario Herschmann. Partendo da questo presupposto,
ho fatto una piccola ricerca e ho scoperto che tutte e tre le case
avevano subìto dei lavori di ristrutturazione».
«Tutti
progettati dallo studio "Lucien Architecture"», trasse le
fila Geneviève, sconcertata dalla semplicità
della soluzione.
Gli occhi
di Sherlock brillarono d'orgoglio, mentre aggiungeva: «E
progettati da Clotilde Destange e Maxime Bermond, meglio conosciuti
come la Donna Bionda e Arsène Lupin».
La
ragazzina cercò nella madre una qualsiasi traccia di
innocenza, ma la donna non provò nemmeno a negare: chiuse
semplicemente gli occhi, ormai consapevole di non poter più
sfuggire al passato che credeva morto.
Allora si
alzò dalla sedia e barcollò, sentendo il mondo
crollarle sotto i piedi. «No, tu... tu non puoi... Non... non
sei un'assassina, mamma. Dimmi che non lo sei».
Sherlock la
raggiunse e le tappò la bocca prima che potesse gridare,
dando un pretesto alla scorta di Lupin di entrare.
«Non
lo è», le sussurrò, ripetendolo
più volte perché se ne convincesse e smettesse di
dimenarsi tra le sue braccia. Il suo corpo era caldo, come se stesse
bruciando dall'interno.
«Glielo
dica», ordinò alla donna, guardandola con rabbia.
«Ha bisogno di sentirlo dire da lei».
«Perché?»,
ripeté Clotilde, per poi sollevare i palmi verso l'alto.
«Queste mani hanno ucciso, non importa come o
perché».
«Lo
so. Mi creda, lo so bene», ammise pacato Sherlock, pensando a
Magnussen. «Per lei è e sarà sempre
così, non potrà mai dimenticare. Ma
Geneviève... può consolarsi, sapendo come sono
andate veramente le cose».
Madre e
figlia si scambiarono un lungo sguardo, al termine del quale la
complice di Lupin scosse il capo. Geneviève si
portò le mani tra i capelli, disperata.
«Va
bene, dirò io anche questo», si assunse
quell'ennesima responsabilità Sherlock. «Mi
correggerà, se l'idea che mi sono fatto è
imprecisa».
Quindi
voltò la ragazzina verso di sé e la
guardò dritta negli occhi, scandendo bene le parole:
«È stata legittima difesa».
«Come
puoi dirlo?», replicò, tremando e tirando su col
naso. «Se nemmeno lei lo ammette...».
«Vive
con questo tormento da tutta la vita. Il suo silenzio è la
punizione che si sta infliggendo, pur sapendo che non sarà
sufficiente. Nulla sarà mai sufficiente...».
«Il
vecchio Hautrec soffriva di alzheimer», disse finalmente la
Donna Bionda, deglutendo. «Era sempre stato un uomo d'animo
violento, ma con l'avanzare della malattia questa sua natura smise di
essere un segreto. Arsène... Arsène voleva a
tutti i costi il diamante azzurro, così mi creò
la falsa identità di Antoinette Bréhat e mi fece
assumere come infermiera privata da Charles Hautrec. Io non volevo,
avevo paura che quel vecchio potesse aggredirmi, ma amavo tuo padre a
tal punto che per renderlo felice accettai. Studiammo le abitudini dei
due fratelli e quando fummo pronti ad ogni eventualità,
decidemmo di intervenire».
«E
qualcosa andò storto», intervenne Sherlock, il
quale fino a quel momento aveva avuto ragione su tutti i fronti.
La Donna
Bionda si sporse verso il comodino e Geneviève
l'anticipò, versandole un bicchiere d'acqua. Le sue mani
tremavano, perciò l'aiutò a bere un sorso, per
poi rimanere seduta al suo fianco mentre continuava il suo racconto.
«Quella
notte aspettai che il vecchio Hautrec fosse profondamente addormentato
e tornai nella sua stanza. Gli stavo sfilando con cautela l'anello,
quando iniziò a tossire convulsamente. Si svegliò
e io cercai di rassicurarlo, ma lui non mi riconobbe. Come avevo temuto
tante e tante volte, perse il controllo e mi aggredì. Ci fu
una colluttazione e caddi contro il bordo della scrivania, ferendomi
alla fronte. Non svenni però, ero troppo determinata a
salvarmi. Sulla stessa scrivania trovai il tagliacarte e ancor prima
che potessi rendermene conto il vecchio Hautrec era a terra, in una
pozza di sangue. A quella vista fui io a perdere il controllo e senza
pensare alle conseguenze premetti il pulsante d'emergenza collegato
alla camera di Charles Hautrec».
«Subito
dopo è arrivato Arsène»,
continuò per lei Sherlock. «L'ha nascosta e poi ha
fatto in modo che Charles rimanesse chiuso fuori, tagliando le
comuncazioni. In quel breve lasso di tempo, lui e alcuni membri della
sua banda sono entrati e hanno pulito e risistemato tutto secondo le
sue direttive. L'anello è finito in secondo piano».
«Esatto»,
mormorò, togliendoselo dal dito per osservarne la
brillantezza alla luce delle lampade al neon. «Sai per quanto
tempo l'ha tenuto?».
Geneviève
guardò Sherlock, scoprendo che stava parlando con lei.
«Chi,
papà?».
Clotilde
annuì. «Quando siamo riusciti a rubarlo alla
signora Crozon l'ha tenuto per due giorni, rimirandolo e vantandosene
con tutti. Poi ha trovato un buon acquirente e l'ha venduto. Io avevo
ucciso per quest'anello. In esso c'era un pezzo della mia anima e lui
l'ha venduto senza pensarci su due volte. Quando gli confessai il mio
tormento, mi disse che il passato era morto, il passato non
esisteva».
«Ha
detto la stessa cosa questa mattina, quando ho provato a
parlargliene», disse Geneviève, ricevendo
un'occhiata ammonitrice da parte del detective.
Perché
aveva corso quel rischio inutile? Forse voleva la sua versione dei
fatti, oppure sapere se avrebbe difeso sua madre dall'accusa di
omicidio.
«Lo
ripeteva sempre, ma si sbagliava», sussurrò la
madre, con altre lacrime a rigarle le guance. «Rimasi con lui
ancora per un po', fino a quando non scoprii di aspettare te. Lui non
lo sa, ma è anche per questa storia che lo lasciai. Quando
lo conobbi come Maxime fu un colpo di fulmine, ma quando mi
rivelò la sua vera identità... diavolo, non
riuscivo a pensare ad altro. Ero entusiasta all'idea di vivere sempre
al limite, in incognito... come mia sorella».
Sherlock si
pietrificò. Era certo che Clotilde non avesse idea del
lavoro di Mary. Arsène gli aveva detto... Ma
perché avrebbe dovuto fidarsi delle sue parole, dopotutto?
Era possibile anche che nemmeno lui lo sapesse, che Clotilde avesse
mantenuto il segreto per tutti quegli anni.
«Non
sapevo avessi una sorella», esclamò
Geneviève e per fortuna non si girò, o avrebbe
scoperto che Sherlock glielo aveva nascosto.
«I
nostri genitori morirono quando eravamo piccole e dopo essere state in
orfanatrofio venimmo adottate da due famiglie diverse. Io divenni
Clotilde Destange, mentre lei... beh, non ha importanza. Lei era la
maggiore, perciò periodicamente mi mandava dei messaggi in
codice per controllare se stessi bene. Mi rivelò che era
diventata una spia internazionale, che non poteva dirmi di
più per ragioni di sicurezza. E io ero così
orgogliosa di lei...».
Geneviève
sorrideva, finalmente, e quel sorriso fece sanguinare Sherlock peggio
di una pugnalata. Girò il coltello nella piaga, quando
disse: «Sembra forte».
Clotilde le
sorrise e le accarezzò il volto. «Le assomigli
molto, tesoro».
«E
lei sapeva di te e papà?».
«No,
non gliel'ho mai detto: l'informazione era troppo scottante. Ma era
intelligente. Hai visto quanto ci ha messo Sherlock Holmes, pur non
sapendo quale fosse il mio nome? Lei lo sapeva, perciò non
dubito che ad un certo punto abbia fatto due più due. Non
abbiamo mai messo di scriverci, nonostante Arsène me
l'avesse proibito, e non mi ha mai chiesto nulla in
proposito».
«Quand'è
stata l'ultima volta che l'hai sentita?».
«Mi
scrisse un anno e mezzo fa. Voleva farmi sapere che aveva una vita
normale, che aveva trovato l'amore e che si sarebbe sposata».
«Se
entrambe non correvate più pericoli, allora
perché non vi siete incontrate?».
«La
malattia, tesoro. Non volevo mi vedesse in questo stato, per questo non
le ho mai risposto».
«Ma
lei merita di sapere! Di salutarti almeno un'ultima volta! Non ho
ragione, Sherlock?».
Geneviève
si era voltata verso di lui, ma il dective non poteva vederla. Pensava
a Mary, alla stessa Mary che si era sacrificata per salvargli la vita e
che aveva celato l'esistenza di sua sorella - una delle complici di
Lupin! - persino a John.
«Sherlock?»,
lo richiamò la ragazzina. «Ti senti
bene?».
Il
detective si ricompose e replicò secco: «Penso che
spetti a tua madre decidere».
La
ragazzina non ne fu contenta ed iniziò ad elencare le
proprie ragioni, mentre Clotilde Destange lo fissava intensamente. Ad
un tratto abbozzò un sorriso malinconico e prese una mano
alla figlia per baciarne il dorso.
«Tesoro»,
la interruppe dolcemente. «Ripensare a quella vecchia storia
mi ha stancata molto. Vorrei riposare un po', prima che arrivi tua
padre».
Geneviève
parve notare solo in quel momento la sua assenza, ma non ne fece un
dramma ed obbedì alla madre, scendendo dal letto per
stringerla in un delicato abbraccio.
«Je t'aime, maman»,
le disse, posandole anche un bacio sulla fronte.
Clotilde fu
sul punto di scoppiare di nuovo a piangere, tuttavia riuscì
a trattenersi e a ricambiare l'affetto della figlia scompigliandole i
capelli e baciandole le guance.
Geneviève
e Sherlock fecero per uscire dalla stanza, ma la Donna Bionda
chiamò il detective. Vedendo la figlia esitare sulla soglia,
le chiese di lasciare loro due minuti di privacy.
Il
consulente investigativo chiuse di nuovo la porta, ma non
lasciò mai la maniglia, come se volesse avere la certezza di
poter andarsene in qualsiasi momento.
Clotilde
gli fece un'unica domanda: «È morta, non
è vero?».
La sua
reazione di poco prima, assieme alle parole che le aveva rivolto quando
si erano conosciuti, l'avevano tradito.
Sherlock
abbassò il capo e fu eloquente come una risposta.
«Mi
prometta solo una cosa».
«Non
sono bravo con le promesse».
Clotilde
gli lanciò con una smorfia il diamante azzurro e Sherlock lo
afferrò al volo, stupito. L'aveva definito un pezzo della
sua anima... perché gliel'aveva affidato?
«La
tenga al sicuro, signor Holmes. Se non vuole farlo per me, lo faccia
per Mary».
Il
detective strinse le dita intorno al diamante azzurro e si
portò il pugno al petto, annuendo con solennità.
Quindi lo ripose nella tasca del cappotto ed uscì dalla
stanza senza più voltarsi.
Geneviève
non si era nemmeno seduta e non appena lo vide gli si piazzò
davanti, tartassandolo di domande su quanto si erano detti in privato.
«Mi
ha solo chiesto se avevo intenzione di denunciarla», le
mentì.
Gli
occhioni della ragazzina si ingrandirono ancora un po'. «E tu
cosa le hai detto?».
«Che
non lo farò. Non merita di finire in prigione per legittima
difesa, specialmente ora che sta...».
Sherlock si
ammutolì, improvvisamente stretto dalle braccia di
Geneviève. La sua fronte, posata contro la sua spalla, fu
come un balsamo che lenì la ferita ancora aperta sul suo
cuore. Ciò nonostante non ricambiò l'abbraccio ed
aspettò semplicemente che lo lasciasse.
Quando lo
fece, la ragazzina bionda gli rivolse un sorriso a trentadue denti e
disse: «Grazie per aver mantenuto la parola».
Sherlock
sorrise, quello sì, felice di esserci riuscito per una
volta.
«Andiamo
a mangiare qualcosa? Questa mattina ho preso solo una mela».
Geneviève
non attese una risposta e lo trascinò verso l'ascensore,
mentre Sherlock pensava a quello stupido detto sulle mele e i dottori.
Questo lo portò inevitabilmente a pensare a John, con il
quale avrebbe dovuto fare una bella chiacchierata il prima possibile.
Si era detto che forse avrebbe potuto evitargli un altro dolore,
tenendo per sé la scoperta della sorella di Mary, ma la
verità era che non spettava a lui decidere. E prima che
fosse troppo tardi, avrebbe dovuto dirglielo.
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Capitolo 10 *** Blood bonds ***
Buongiorno a tutti e buona domenica :)
Eccoci qua. Risolto il caso della perla nera e del diamante azzurro mi
sembrava giusto aprirne un altro, magari uno in cui Sherlock e
Arsène si affronteranno un po' più direttamente.
Spero vi piaccia!
Questo capitolo è importante anche per i legami familiari
(da qui il titolo)... Sì, è giunto il momento che
tutti aspettavate: come reagirà John alla scoperta?
Grazie a chi ha letto e commentato lo scorso capitolo e chi ha messo la
storia tra le preferite/seguite/ricordate. Vi voglio bene :D
Alla prossima!
Vostra,
_Pulse_
_______________________________________________________________
10. Blood bonds
«Come facevi a
sapere che era stata legittima difesa?».
Sherlock la guardò
prendere una forchettata di uova strapazzate che dall'aspetto
sembravano di gomma e portarsela alla bocca. Masticò senza
fare una piega e Sherlock ebbe la forte tentazione di assaggiarle per
sapere se almeno il gusto fosse buono, ma si trattenne.
Geneviève
arricciò gli angoli della bocca in un sorriso beffardo,
pressoché identico a quello di suo padre. «Hai
intenzione di dirmelo o hai paura che capisca il tuo
segreto?».
«Non c'è
alcun segreto», rispose. «Ho semplicemente prestato
attenzione ai dettagli. Probabilmente tu eri troppo sconvolta, per
questo non l'hai capito subito».
«Beh, grazie per la
fiducia».
Sherlock non riuscì
più a resistere e le rubò la forchetta dalle dita
per portarsi alla bocca un po' di uova.
«Ehi!», si
lamentò la ragazzina. «E poi chi sarebbe il
ladro?!».
Il detective avrebbe riso se
non fosse stato impegnato ad arraffare il piatto per sputarci dentro
quello si era appena messo in bocca.
«Ma come fai a
mangiare questa roba?!», esclamò, il volto
accartocciato in una smorfia di disgusto.
Geneviève si
addossò contro lo schienale della sedia ed
incrociò le braccia al petto, un sopracciglio inarcato.
«Sarà perché è da quattro
anni che vivo negli ospedali e non posso permettermi altro».
Sherlock si
irrigidì un poco, scioccato dalla sua stessa
stupidità. Quindi si alzò e chiudendosi il
cappotto le offrì la mano, senza guardarla negli occhi.
«Che cos'hai in
mente?».
«Non sei
più costretta ad accontentarti».
Non era la risposta che si
aspettava, ma Geneviève decise di fidarsi un'altra volta,
specialmente ora che suo padre era ancora disperso.
Pensava che Sherlock l'avrebbe
portata in una caffetteria degna del nome, invece una volta scesi dal
taxi si ritrovarono di fronte alla porta nera e lucida del 221B.
Geneviève
restò sul marciapiede, a fissare il batacchio storto, mentre
il detective apriva ed entrava.
«Avanti, dobbiamo
sbrigarci prima che la signora Hudson torni dalla sua lezione di
pilates».
Sopraffatta dalla
curiosità, la ragazzina entrò e si tolse il
cappottino per appenderlo accanto a quello di Sherlock, nell'ingresso.
Quindi lo seguì fino all'appartamento della signora Hudson,
in cui era riuscito ad entrare fin troppo facilmente, e ad un suo cenno
si sedette al piccolo tavolo della cucina.
«Che cos'hai in
mente?», ripeté la domanda, mentre il consulente
investigativo apriva il frigorifero e le ante dei mobili sopra i
fornelli per tirare fuori vari ingredienti e diverse pentole.
Geneviève sentì il cuore iniziare a battere
più forte, realizzando che Sherlock le stava preparando una
tipica colazione all'inglese.
Era così
imbarazzata - almeno quanto il detective - che si alzò dalla
sedia per affiancarlo. La guardò solo una volta, con la coda
dell'occhio, poi si misero al lavoro.
Sherlock maneggiò
con maestria il coltello, tagliando i funghi e i pomodori, mentre lei
faceva rosolare il bacon fino a farlo diventare croccante. Nella stessa
padella, poi, il detective buttò le verdure e le fece
saltare come un vero chef, sotto gli occhi sgranati di
Geneviève, la quale avrebbe dovuto prestare attenzione al
tostapane.
In un altro pentolino Sherlock
cucinò le uova strapazzate e Geneviève fu mandata
davanti al forno a microonde, dove aveva messo a riscaldare dei fagioli
in salsa già pronti. Al din di fine cottura, Sherlock le
lanciò due presine senza nemmeno sollevare gli occhi dalle
uova.
In meno di dieci minuti il
detective impiattò, spolverando tutto con un po' di
sale, pepe e del prezzemolo, quindi portò i due
piatti in tavola e si accomodò, deviando con insistenza il
suo sguardo.
Lo stomaco di
Geneviève brontolava rumorosamente per via del profumino che
le stuzzicava le narici, ma non poté trattenersi dal dire:
«Tu sai cucinare».
«Cucinare
è chimica. I giusti elementi, le giuste porzioni, i giusti
tempi», rispose in modo meccanico e finalmente
alzò gli occhi nei suoi per rivolgerle un'occhiata
serissima. «Ma non lo sa nessuno, e vorrei che le cose
rimanessero così».
«Perché?
Insomma...».
«Oggi è
stata un'eccezione», sottolineò, stringendo forte
nei pugni forchetta e coltello. «Se si scoprisse, ogni giorno
dovrei perdere una quantità esorbitante di tempo ed
è inaccettabile».
«Quindi preferisci
che qualcun altro cucini per te, mentre tu ti fai gli affari
tuoi».
Sherlock sorrise.
«Vedo che hai capito. Ora zitta e mangia, prima che si
freddi».
Geneviève non
approvava la sua condotta, ma non se lo fece ripetere due volte e si
avventò sul piatto. Spolverò tutto, persino le
fette di pane che era riuscita a far bruciacchiare, e una volta a
pancia piena, soddisfatta, tornò all'attacco.
«Non mi hai ancora
detto come facevi a sapere che era stata legittima difesa».
Sherlock bevve un sorso di
caffè e poi prese il tovagliolo accanto al piatto,
sventolandolo di fronte al viso della ragazzina prima di usarlo per
pulirsi la bocca.
«Ma
certo!», esclamò lei, colpendosi la fronte.
«Il fazzoletto sul comodino!».
Il detective sorrise,
dimostrandosi quasi orgoglioso, e la lasciò continuare.
«Non poteva di certo
appartenere al vecchio Hautrec, visto che una ferita al collo inferta
da un tagliacarte avrebbe procurato un'emorragia che avrebbe inzuppato
il fazzoletto. Inoltre, sarebbe stato trovato vicino al corpo della
vittima. Secondo il testimone, invece, era solo parzialmente sporco di
sangue. Mia madre deve averlo usato dopo essersi ferita alla fronte ed
averlo dimenticato sul comodino dopo aver suonato il pulsante
d'emergenza».
«Ecco la tua
risposta», disse Sherlock.
Geneviève
ridacchiò divertita. «Avevi ragione, non
c'è alcun segreto».
Il detective fece per unirsi a
lei, ma la porta alle loro spalle si aprì all'improvviso,
mostrando una signora Hudson provata per la lezione di pilates.
Lasciò cadere la borsa da ginnastica a terra e
guardò i due, sconcertata.
«Che diavolo ci fate
qui? E cos'è successo alla mia cucina?!».
Sherlock aprì la
bocca, pallido, ma Geneviève si alzò e fu
più veloce di lui nel dire: «Mi dispiace signora
Hudson, è colpa mia. Volevo ringraziare il signor Holmes per
l'ospitalità, così sono tornata per prepargli la
colazione, ma lui non aveva niente in frigo. Pensavo... pensavo sarebbe
tornata più tardi».
La padrona di casa la
osservò a lungo, indecisa se crederle o meno. Alla fine
dovette bersela, perché le rivolse un sorriso carico di
dolcezza e le disse: «Sei davvero una cara ragazza,
Geneviève».
«Quindi non sono nei
guai?», le chiese speranzosa.
Il volto della signora Hudson
perse ogni traccia di tenerezza. «Non ho detto
questo».
Geneviève si
ritrovò ad insaponare, grattare e risciacquare le stoviglie,
per poi passarle a Sherlock, il quale le asciugava con un panno e poi
le sistemava nella credenza. Aveva già fatto gioco di
squadra con il detective, ma quello... quello era esilarante, tanto che
ad un tratto non riuscì più a frenare le risate,
e Sherlock neppure.
Quando si calmarono, il
consulente investigativo sussurrò: «Grazie per
aver mantenuto il segreto».
«Grazie a te per
avermi aiutata a risolvere il caso del diamante azzurro».
«È stato
un piacere».
«Sai... Dovremmo
rifarlo, qualche volta».
«Ti ho detto che
questa è stata un'eccezione».
«Non intendevo la
colazione», sbuffò, dandogli un colpetto d'anca.
«Investigare insieme».
Sherlock la guardò,
vagamente sorpreso. «Vorresti davvero risolvere altri casi al
mio fianco?».
Geneviève
grattò con più energia il fondo della padella che
avevano usato per il bacon - una scusa per non ricambiare il suo
sguardo.
«Se pensi che io sia
troppo piccola...».
«No», la
interruppe. «No, penso sia un'ottima idea. John non si
offenderà, se per qualche caso farò a meno di
lui».
La ragazzina si
illuminò, il cuore che le batteva forte nel petto. Raramente
era stata così felice. Al contempo però, non
poté fare a meno di pensare a suo padre e al suo piano per
raccogliere informazioni sul detective. Poteva davvero reggere la
pressione, essere sia amica di Sherlock Holmes che figlia di suo padre?
«Ho detto qualcosa
di sbagliato?».
Geneviève
rialzò gli occhi in quelli azzurri di Sherlock ed
abbozzò un sorriso. «No, stavo solo pensando che
avrei già un caso da proporti».
«Di che stai
parlando?», le domandò con la fronte corrugata.
«La sorella di mia
madre! Voglio trovarla, voglio che si incontrino!».
Il detective prese la padella
che aveva appena finito di sciacquare e l'asciugò, fingendo
di non aver sentito quell'ultima frase. Però l'aveva
sentita, l'aveva sentita eccome: lo si capiva dal modo in cui il suo
volto si era trasformato in una maschera di pietra.
«Che cosa
c'è?», chiese Geneviève, innervosita
dal suo silenzio.
Le diede le spalle per
sistemare la pentola e disse piano: «Non posso
aiutarti».
«Mia zia merita di
sapere che sua sorella sta morendo! E poi...».
Sherlock si girò di
scatto, gli occhi assottigliati in due fessure. Geneviève
ebbe la tentazione di arretrare, o perlomeno deviare il suo sguardo, ma
non ci sarebbe riuscita nemmeno volendo.
«Continua»,
la esortò il detective.
«Mia zia... mia zia
sarebbe un'alternativa, se le cose con mio padre... beh, hai
capito».
Non ci aveva pensato. I tratti
del viso del consulente investigativo si ammorbidirono, mostrando
persino del rammarico. Non aveva pensato che non voleva farlo solo per
sua madre, ma anche per se stessa, per allargare la famiglia e sentirsi
un po' meno sola.
Ora che l'aveva capito,
Geneviève era sicura che non le avrebbe negato il suo aiuto.
Ancora una volta si sbagliò.
«Non posso
aiutarti», ripeté, quella volta con un tono che
non ammetteva repliche.
Avrebbe dovuto chiedere il
perché, pretendere almeno un valido motivo, ma la rabbia
prese il sopravvento. Anche lei, come suo padre, si lasciava travolgere
dalle emozioni, tanto da dimenticare tutto ciò che Sherlock
aveva fatto di buono per lei.
Lo schizzò con il
getto dell'acqua e poi, furibonda, corse alla porta, da dove
gridò: «Vorrà dire che la
troverò da sola!».
Sherlock non la
seguì e Geneviève si ritrovò sul
marciapiede, con le lacrime agli occhi. Tirò fuori il
cellulare e vi collegò le cuffiette. Con la musica sparata a
tutto volume nelle orecchie, iniziò a correre.
Erano
trascorsi due giorni da quella mattina e Geneviève non
l'aveva più visto né sentito. E così
avrebbe voluto continuare: non voleva ripresentarsi alla sua porta solo
per ammettere che senza il suo aiuto non aveva fatto alcun passo
avanti.
Tutto
ciò che sapeva di sua zia era che si chiamava Mary e che da
piccola era identica a sua madre, come aveva potuto constatare di
persona dopo aver trovato una fotografia nascosta tra i suoi vestiti,
nella loro casa a Brixton.
Clotilde
non aveva conservato nient'altro, forse proprio per mantenere il
segreto, e Geneviève si era ritrovata con in mano un pugno
di mosche.
Ma non
sarebbe tornata da Sherlock ad implorarlo, ne andava del suo orgoglio.
Per questo teneva il broncio a suo padre, il quale stava per affidarla
niente meno che al detective.
«È
proprio necessario?», domandò per l'ennesima
volta. «Non sono una bambina, non ho bisogno della
babysitter. E poi perché proprio Sherlock? Non posso stare
con uno dei tuoi uomini? Andrebbe bene anche Ernest».
«Ernest
è terrorizzato da te», rispose Arsène,
senza distogliere lo sguardo dal finestrino.
Erano
giorni che la sua mente sembrava da un'altra parte, come se stesse
pensando a come risolvere un problema irrisolvibile.
Geneviève aveva provato a chiedergli che cosa lo
preoccupasse tanto, ma lui aveva sempre negato, o cambiato argomento.
«Che
cosa gli hai fatto?».
«Non
so di cosa tu stia parlando», mentì.
«Ad
ogni modo, nel posto dove sto andando, avrò bisogno della
scorta al completo», le confessò,
dandole finalmente un indizio.
L'unico
motivo per cui avrebbe potuto aver bisogno di tutti i suoi uomini era
un colpo. E uno grosso, per giunta. Ora il poco tempo passato in
ospedale, le parole sussurrate a Baffoni e le lunghe riunioni con i
suoi sottoposti avevano finalmente un senso. Geneviève
avrebbe dovuto capirlo prima, ma era stata così assorbita
dalla proprie inconcludenti indagini da non aver visto quello che stava
accadendo sotto il proprio naso.
Capiva che
non l'avesse inclusa nel suo piano per via della promessa fatta a sua
madre, ma almeno avrebbe potuto informarla... La delusione e il timore
che non si fidasse ancora di lei la fecero scivolare ancora un po' di
più nel sedile, col desiderio che la pelle nera la
inglobasse. Meglio una vita vissuta all'interno di una limousine che
tra un padre che la teneva a distanza e un detective che si rifiutava
di aiutarla a rintracciare un membro della famiglia.
***
«Ehi,
volevi vedermi?».
Sherlock
diede le spalle alla finestra e respirò profondamente. John
ebbe un brutto presentimento, il quale si intensificò quando
l'amico gli disse che forse avrebbe fatto meglio a sedersi.
Il dottore
si avvicinò alla poltrona, ma non si sedette. «Di
che si tratta, Sherlock? Se è per chiedermi di
Molly...».
L'investigatore
corrugò la fronte. «Cosa? Perché dovrei
chiederti di Molly?».
«Beh,
quando Arsène ha raccontato del caso che tu e
Geneviève avete risolto insieme, quello del piede del
diavolo, avevo intuito che tu e lei vi eravate visti. Volevo
parlartene, ma è uscita fuori la questione Irene Adler e non
ne ho più avuto l'occasione. Poi l'altro giorno, quando sono
andato a prendere Rosie, è stata lei a raccontarmi
tutto».
«Lei...?
Perché avrebbe dovuto fare una cosa del genere?»,
borbottò, finendo lui stesso per sedersi, nervoso.
«Che
razza di domanda è? Lo sai perché. È
la madrina di mia figlia, noi due siamo amici».
«Quando
ti fa comodo», sussurrò Sherlock, ma non
abbastanza a bassa voce da non farsi sentire.
«Che
cos'hai detto? Che intendi dire?».
Il
detective gli rivolse un'occhiata tagliente. «Sei stato a dir
poco spregevole, quando l'hai costretta a dirmi che avresti preferito
l'aiuto di chiunque altro piuttosto che il mio. Non sono ferrato in
questo campo, ma non penso si sia trovata a suo agio nel
farlo».
«Oh.
Oh, questa è bella!», gridò John, con
un sorriso ironico sul volto. «Tu, proprio tu, vieni a farmi
la ramanzia per averla fatta soffrire?! C'è una bella
differenza tra me e te, amico: io le ho già chiesto scusa
per quello, più volte. Tu, invece, continui a comportarti da
idiota!».
Sherlock
deviò il suo sguardo, mentre il dottor Watson continuava:
«Mi ha raccontato dei biglietti, lo sai? Di quello che le hai
scritto. Come puoi pretendere che passi oltre, dopo quello che le hai
detto senza ricevere nemmeno una spiegazione?! Se proprio vuoi farti
del male non dicendole che era vero, almeno abbi il coraggio di dirle
che l'hai fatto perché dovevi salvarle la vita!
Così se ne farà una ragione, o ci
proverà! Ma il tuo silenzio... La stai torturando,
Sherlock».
Il suo tono
di voce si era ammorbidito alla fine, tuttavia il detective avrebbe
preferito che continuasse a gridare. Se lo meritava.
«Mi
dispiace molto», rispose mestamente. «Ma lo
sappiamo entrambi che è meglio così».
John non
sembrava d'accordo, affatto. Ciò nonostante si
lasciò cadere sulla propria poltrona, sospirando.
«Di
che cosa devi parlarmi, allora?».
Sherlock
tornò a mostrare quei segni di incertezza che tanto lo
intimorivano, quella volta però fece del suo meglio per
controllarli e guardandolo profondamente negli occhi rispose:
«Di una cosa che ho scoperto recentemente e che temo
riaprirà una ferita. Per questo ho aspettato di esserne
assolutamente certo, prima di parlartene. Ho condotto alcuni test del
DNA e quelli... quelli non mentono».
John si
portò le mani sugli occhi, avvertendo il proprio cuore
appesantirsi di diverse tonnellate. «C'entra Mary, non
è vero?».
«Sì,
John».
Il dottore
prese un profondo respiro e guardò l'amico sinceramente
addolorato di fronte a lui. «Avanti, sono pronto».
E
così Sherlock gli raccontò tutto: dell'incontro
con Geneviève e sua madre, malata di cancro e terribilmente
somigliante a Mary; della conferma ricevuta da Arsène e
successivamente dalla stessa donna, dopo che aveva scoperto della sua
complicità con il Ladro Gentiluomo in diversi casi, in
particolare quello del diamante azzurro. Clotilde Destange, il suo nome
vero e il cognome della sua famiglia affidataria - diversa da quella di
Mary, - gli aveva anche rivelato che l'ultimo contatto con la sorella
era stato prima del suo matrimonio.
Sherlock
aveva avuto due giorni per verificare che la storia reggesse, ma non
aveva trovato prove fisiche. L'incidente in cui erano morti i loro
genitori doveva essere stato banale, poco eclatante e comunque troppo
generico per individuarlo tra i miliardi di casi identici.
Però le tempistiche combaciavano perfettamente.
Quello che
voleva erano prove solide - non poteva rischiare di farlo soffrire
nuovamente per nulla - perciò era ricorso al test del DNA.
Grazie
all'anello che Clotilde gli aveva dato era riuscito a prelevare delle
tracce epiteliali a malapena sufficienti per un solo tentativo. Aveva
fatto bene a rischiare però, perché aveva
ottenuto la risposta che cercava: Mary e Clotilde erano veramente
sorelle.
John si
alzò e camminò per un po' per il salotto, dalla
porta della cucina a quella che dava sulle scale. Sherlock gli diede
tutto il tempo necessario a metabolizzare quel flusso di informazioni,
con le gambe accavallate e le mani posate sui braccioli della poltrona.
Ad un
tratto il dottore si girò verso di lui e con un enorme punto
interrogativo sul volto chiese: «Come hai ottenuto un
campione del DNA di Mary?».
Sherlock
deviò il suo sguardo, ma non gli negò la
risposta: «Non hai ancora avuto la forza di liberarti delle
sue cose. Le hai inscatolate, ma...».
«Sei
entrato in casa mia quando non c'ero. È questo che stai
dicendo».
«Sì,
in sostanza».
John
annuì e riprese a camminare. Altri due minuti di passi
meditabondi e si fermò di nuovo per dire: «Quindi
mi stai dicendo che Geneviève e Rosie sono cugine? E che...
che sono imparentato con Arsène Lupin?!».
«Poteva
andarti peggio».
«E
lui l'ha sempre saputo? Voleva anche che accettassi dei soldi da lui!
Che faccia tosta!».
«Lui
lo sa», confermò Sherlock, il quale si
alzò dalla poltrona per tornare alla finestra. Con le dita
sfiorò le corde del violino, senza raccoglierlo dalla
scrivania, e aggiunse: «Ma Geneviève no. Solo due
giorni fa ha scoperto che sua madre aveva una sorella e ora si
è messa in testa che deve trovarla, prima che sia troppo
tardi. Ha chiesto il mio aiuto, John».
Il dottore
si portò le mani sul viso, iniziando a capire
perché non l'avesse più vista da quelle parti.
«Tu gliel'hai negato, non è vero?».
«Che
altro potevo fare? Dirle che conoscevo sua zia? Che ha sposato il mio
migliore amico e che ha avuto una bambina, sua cugina? Avrei potuto
farlo, ma tu saresti stato inevitabilmente compromesso».
Sherlock si
girò per tornare a guardarlo negli occhi. Dal canto suo John
non sapeva che dire, così lasciò che fosse il
detective a riempire il silenzio.
«Lei
stessa ha detto di voler trovare sua zia in modo tale che se le cose
con suo padre non fossero andate bene avrebbe avuto qualcun altro su
cui contare. Sei sicuro di volere questa ragazzina nella tua vita,
John? È pur sempre una Lupin».
«È
pur sempre mia nipote», replicò a tono, ancor
prima di poter decidere se fosse saggio o meno. Era vero che si
trattava della figlia di quello che si sospettava essere il ladro
più astuto del mondo, ma se c'era anche una sola
possibilità, una sola, che non prendesse la sua stessa
strada, allora dovevano tentare.
Sherlock
parve capirlo e gli sorrise dolcemente, sollevato che fosse giunto alla
stessa conclusione.
«Bene»,
disse. «Avevo già promesso a Clotilde che l'avrei
tenuta al sicuro per Mary».
John
avrebbe voluto prenderlo a pugni per aver fatto l'ennesima promessa
senza avere la completa certezza di poterla mantenere, ma poi scorse
Mary seduta sul divano, con le ginocchia strette al petto, un sorriso
felice e gli occhi colmi d'orgoglio. Gli indicò Sherlock con
un cenno del capo e John capì immediatamente quello che
doveva fare.
Appoggiandosi
allo schienale della poltrona con entrambe le mani, disse:
«Perciò, anche se io ti avessi detto che non ne
volevo sapere, tu avresti comunque cercato di portarla sulla buona
strada?».
«Non
ci sono riuscito con suo padre, magari lei...».
«No,
c'è di più», lo interruppe, ottenendo
l'approvazione di Mary. «Tu ti sei affezionato».
Sherlock
quella volta non fuggì, quella volta no. Anzi
ricambiò il sorriso ed unendo le mani dietro la schiena
disse: «Pensavo di averti già fatto capire che
grazie a te ho realizzato che la famiglia può andare ben
oltre i legami di sangue».
Ecco,
questo era quello che voleva sentirsi dire.
John si
lasciò cadere sulla poltrona e nonostante tutte quelle
rivelazioni gli fossero cadute tra capo e collo all'improvviso, non se
ne sentì appesantito. Non se al suo fianco aveva Sherlock,
pronto ad aiutarlo a sostenerle.
***
Arsène
scese dalla limousine ed aiutò la figlia, porgendole la
mano. Lei la evitò e lui sospirò, dirigendosi
verso la porta. Bussò un paio di volte col batacchio che
aveva raddrizzato e quando la signora Hudson aprì la porta
la salutò con meno brio del solito, chiedendo di Sherlock.
«È
di sopra, entrate pure».
«Non
posso, sono in partenza», si scusò
Arsène. «Vogliate solo dirgli che gli sono davvero
grato per l'ospitalità che darà a mia
figlia».
Quindi
prese il volto di Geneviève per darle un bacio sulla fronte,
al quale lei reagì con una smorfia.
«Sarò
di ritorno domani mattina. Farai la brava, oui?».
La
ragazzina annuì di malavoglia, così che la
lasciasse andare, poi guardò il padre risalire sulla
limousine. Una volta lontano, lasciò cadere la borsa
nell'androne e le tirò un calcio, gridando improperi in
francese.
La signora
Hudson si portò le mani alla bocca, scossa, fino a quando
non vide Sherlock e John precipitarsi giù dalle scale.
«Che
cos'è successo?», chiese il dottore, fissando
prima la padrona di casa e poi la ragazzina e viceversa.
«Un
pacco! Crede che io sia un maledetto pacco!»,
gridò Geneviève, accanendosi ancora contro la
borsa.
«Su,
adesso calmati», fece un tentativo John. «Vieni a
bere una tazza di té, così puoi raccontarci cosa
sta succedendo».
Fallendo
con le buone maniere, Sherlock decise di intervenire a modo suo, ma non
appena le sfiorò la spalla la ragazzina lo
trucidò con lo sguardo, spingendolo lontano da
sé.
«Non
mi toccare», sibilò, prima di correre su per le
scale e chiudersi a chiave nella vecchia stanza di John.
I due
uomini si fissarono, chiedendosi se fosse troppo tardi per tirarsi
indietro.
***
«Forse
dovrei prendermi una giornata di ferie», esclamò
John, gli occhi rivolti verso il soffitto, oltre il quale sapeva ci
fosse la nipote di cui aveva appena scoperto l'esistenza.
«Forse
dovresti», rispose Sherlock con quel suo tono assente, segno
che stava pensando ad altro e non aveva nemmeno sentito le sue parole.
Anche la sua posizione lo confermava: appollaiato sulla poltrona, con
le dita unite appena sotto le labbra.
«Perché
Arsène avrebbe dovuto affidarla a me?», si chiese,
rispondendo a tutte le domande di John. «Si è
portato dietro almeno dieci uomini...».
«La
signora Hudson ha detto che Arsène era in partenza,
forse...».
Sherlock
sgranò gli occhi e guardò l'amico.
«Quanto sono stupido?!».
«Da
uno a dieci?».
«John,
Arsène ha in mente un colpo! Per questo non si è
portato dietro Geneviève, per questo lei è
così arrabbiata e per questo l'ha portata qui,
così da costringerci a farle da babysitter! Ma si sbaglia di
grosso se pensa di potermela fare sotto il naso!».
Il
detective si alzò e prese un plico di giornali, li
lasciò cadere sul grembo di John e poi si
riaccomodò col pc sulle gambe e il proprio cellulare in una
mano.
Il dottore
non dovette nemmeno chiedere, sapeva fin troppo bene quale fosse il suo
compito: sfogliare ognuno di quei giornali per cercare ciò
che Arsène aveva intenzione di rubare.
***
Geneviève
si era calmata, finalmente, e il silenzio che proveniva dal salotto la
rendeva soltanto più curiosa. Così, dimentica
dell'arrabbiatura con Sherlock Holmes, uscì dalla stanza e
scese le scale in punta di piedi. Evitò persino il gradino
scricchiolante che aveva notato la prima ed unica volta che aveva
dormito lì, quindi nessuno si accorse di lei, nascosta
dietro lo stipite della porta.
«Perché
non chiediamo a Geneviève se sa qualcosa?»,
domandò il dottor Watson.
«Perché
suo padre non le ha detto nulla. Se aveva già in mente di
portarla qui, non avrebbe rischiato tanto mettendola a conoscenza del
suo piano».
«Va
bene, ma tentar non nuoce».
«John,
non è il momento».
«Lo
so, lo so». Scoperto, il dottore sospirò e
tornò a sfogliare giornali.
Geneviève
si arrischiò a guardare all'interno del salotto, incuriosita
da quell'ultimo scambio di battute. Strinse i pugni lungo i fianchi,
stufa marcia che le persone che le stavano intorno la tenessero
all'oscuro di informazioni importanti.
Per questo
entrò nel salotto domandando: «Non è il
momento per cosa?».
John
sobbalzò dallo spavento, mentre Sherlock esclamò
con tono piatto: «Finalmente ti sei degnata di
raggiungerci».
«Con
me non attacca, signor Holmes», replicò piccata,
incrociando le braccia al petto. «Non è il momento
per cosa?».
«Per
occuparci delle tue crisi da teenager!», sbottò
allora. «Siamo nel bel mezzo di un caso, non vedi? Tuo padre
ha in mente un colpo dei suoi e dobbiamo scoprire di che si
tratta».
A quel
punto Sherlock si alzò, mettendole tra le mani un po' dei
giornali di John.
«Se
vuoi aiutarci bene, altrimenti sei pregata di fare silenzio».
Geneviève
si imbronciò, ma si sdraiò a pancia in
giù sul sul divano ed iniziò a sfogliare i
giornali. Il dottor Watson seguì ogni suo movimento e la
ragazzina non si sentì completamente a suo agio, ma rimase
in silenzio. Non capiva perché di colpo fosse
così interessato a lei, né a cosa fosse dovuta la
sua espressione: un misto di rimpianto e tenerezza.
Nel
frattempo Sherlock si era portato il cellulare all'orecchio e attendeva
che dall'altra parte rispondessero. Quando accadde, attaccò
subito a parlare senza nemmeno salutare.
«Ispettore
Ganimard, sono Sherlock Holmes. Ho ragione di credere che
Arsène abbia organizzato uno dei suoi colpi e che si stia
muovendo mentre parliamo. Lei ha qualche idea?».
La risposta
non dovette piacergli particolarmente, perché gli chiuse il
telefono in faccia, ancora senza salutare.
«Perché
mi guardate in quel modo?», sbottò, trovandoli
entrambi con gli occhi puntati su di lui. «Al
lavoro!».
Geneviève
sbuffò e chiuse il terzo quotidiano, poi lo
lanciò sul tavolino insieme agli altri ed iniziò
a cercarne uno in particolare.
«Dottor
Watson?», lo chiamò, per quanto non fosse
entusiasta di attirare la sua attenzione ora che finalmente le aveva
staccato gli occhi di dosso.
«Sì?».
«Ha
lei il Sun?».
«Uhm...
non mi pare».
Sherlock
alzò lo sguardo dal pc. «Il Sun? Perché
proprio il Sun? È spazzatura!».
«Neanche
a me piace il gossip, ma mio padre lo legge tutte le
mattine», rispose la ragazzina, scrollando le spalle.
John rimase
in silenzio per qualche istante, fino a quando non comparve chiaramente
una lampadina accesa sopra la sua testa. Sherlock e
Geneviève lo fissarono, trovando estremamente buffa la sua
faccia.
«Credo
che lei abbia ragione, Sherlock».
«Di
che cosa stai parlando?».
«Il
Sun! Quando si è presentato davanti a casa mia per offrirmi
quel passaggio stava leggendo il Sun! L'ho visto strappare un articolo
ed infilarselo in tasca, prima di buttare il resto».
Il
consulente investigativo lo guardò a bocca aperta.
«E
me lo dici solo ora?!», gridò poi, alzandosi dalla
poltrona e correndo giù per le scale come un tornado.
«Signora Hudson!».
Tutti e tre
fecero irruzione nel suo appartamento, alla ricerca del numero di due
giorni prima. Lo trovarono e lo sfogliarono con cura, in piedi intorno
al tavolo della cucina.
Ad un
tratto gli occhi di Sherlock notarono un trafiletto non troppo
appariscente, quasi alla fine del quotidiano. Vi puntò sopra
l'indice, sollevandosi per scambiare un'occhiata con John.
Geneviève
lesse ad alta voce: «"L'erede del patrimonio Thibermesnil si
sposa!" Non capisco, che interesse dovrebbe avere mio padre in un
matrimonio?».
«Perché
la sposa è stata l'ultimo amore di tuo padre: miss Nelly
Underdown», rispose gravemente Sherlock.
***
Il
tintinnio di una forchetta contro il bicchiere di cristallo
attirò l'attenzione della ristretta cerchia di invitati di
Georges Devanne, il solo ed unico erede di tutte le ricchezze della
famiglia di Thibermesnil.
Era questo
il nome con cui erano conosciuti, per via dell'imponente castello che
si erano tramandati di generazione in generazione e in cui vi erano
raccolti tesori dal valore inestimabile: pezzi d'arredamento, diademi e
gioielli con gemme di ogni sorta, quadri, arazzi, statue.
Un posto
solitamente inespugnabile, dove però si era deciso di
celebrare il matrimonio dell'anno. Certo, prevedendo un tale afflusso
di gente - gli invitati alle nozze vere e proprie sarebbero state
più di duecento - le misure di sicurezza erano state
triplicate, ma con uno come Arsène sarebbero state inutili.
Specialmente se aveva avuto il piacere di conoscere lo stesso Georges
Devanne durante la sua permanenza nel Principato di Monaco, qualche
anno addietro. Aggiungersi alla lista degli invitati a quel punto era
stato un gioco da ragazzi e dubitava fortemente che il caro Georges
avrebbe avuto il coraggio di dire pubblicamente che non ricordava di
averlo invitato. Prima di tutto le apparenze.
Anche se
non l'avesse conosciuto – e l'avrebbe preferito –
avrebbe trovato il modo per entrare e rovinare il matrimonio. Ma come
aveva potuto la sua cara, dolce ed intelligente Nelly innamorarsi di un
tipo del genere? E dopo così poco tempo dalla loro
separazione, poi!
«Buona
sera a tutti», salutò Georges, nel suo orribile
completo tre pezzi. «E grazie per essere venuti da
così lontano per quest'occasione così speciale.
Per voi sono state arredate le stanze degli ospiti, le stesse stanze
dove hanno soggiornato nobili e re. Spero vi sentirete a
casa».
Arsène
sorrise, arricciandosi i finti baffi fulvi. Oh, sicuramente.
Dopo la
cena si spostarono nell'antica sala delle guardie per conversare
ancora, bere whisky e fumare sigari pregiati.
Si trattava
di una vasta e alta stanza che occupava tutta la parte inferiore della
torre Guillaume, dov'erano conservati i pezzi migliori della collezione
dei signori di Thibermesnil. C'erano cassapanche e credenze e arazzi
appesi ai muri di pietra; le quattro finestre ogivali, tutte su un lato
della torre, avevano profondi vani, muniti di panchine in cui erano
conservati gioielli, tabacchiere, antichi orologi da taschino.
Tutt'intorno,
fatta eccezione per la parete in cui si ergeva l'imponente camino di
marmo, si ergeva una biblioteca in stile Rinascimento e su uno dei
frontoni si leggeva, a grandi lettere d'oro, il nome "Thibermesnil".
«E
tu, Velmont? Che cosa mi racconti? Saranno anni che non ci
vediamo!», esclamò ad un tratto Georges,
sorridendogli con una punta di nervosismo negli occhi.
«Già.
Non sai che sorpresa, ricevere il tuo invito!».
«Ah,
ma figurati... Non avrei mai potuto dimenticarti! Tu eri...
sì, insomma...».
«Un
fantastico pittore?».
«Giusto!».
Ridacchiò, massaggiandosi il collo. «I tuoi
ritratti...».
«Paesaggi,
in realtà».
Gli amici
di Devanne si scambiarono occhiate imbarazzate, chiedendosi che razza
di padrone di casa fosse il giovane rampollo: come poteva non
ricordarsi di quel suo caro amico?
C'era anche
da dire, però, che Horace Velmont – niente meno
che Arsène Lupin – si stava divertendo un mondo a
metterlo in difficoltà. Anche un po' troppo, a dire il vero.
Decise di darsi un contegno, per non insospettire troppo Georges. Non
voleva che corresse ai ripari, anzi... voleva che si fidasse di lui e
gli rivelasse tutte le meraviglie del castello.
Arsène,
seduto proprio accanto a Georges, continuava a versargli da bere -
whisky corretto Pentothal, per la precisione - e a farlo parlare.
Scoprì che Nelly non c'era, che sarebbe arrivata quella
notte da Chicago, dov'era andata a prendere i suoi genitori, e che gli
uomini della sicurezza sarebbero stati ovunque, il giorno successivo.
Come aveva previsto, il colpo andava fatto quella notte stessa.
Quando fu
sicuro che il siero della verità sortisse gli effetti
sperati, Arsène poté spingersi un po' di
più con le domande.
«Ma
dimmi, sono vere le leggende su questo castello?».
«Quali
leggende?».
«I
fantasmi, i passaggi segreti...».
Devanne
scoppiò a ridere, tirandosi le ginocchia fino al petto.
«I fantasmi! Non c'è nessun fantasma,
Horace!».
«E
i passaggi segreti?», insistette.
«Quelli
sì, è possibile».
Velmont
trattenne il respiro, guardando gli altri amici con espressione
sconvolta. Un paio di loro risero e si ritirarono per riprendersi dal
jet-lag, altri rimasero giusto per il gusto di sentire le cose assurde
che Georges avrebbe detto da ubriaco e rinfacciargliele per il resto
della vita.
«C'è
un libro, là...», farfugliò, indicando
un punto dell'immensa libreria.
Arsène
si alzò, sentendo le dita prudere per l'eccitazione. Quel
libro, o meglio una sua pagina, era tutto ciò che gli
serviva per completare e rendere perfetto il proprio piano.
«Quale
libro?», domandò, nonostante lo avesse
già individuato e ne stesse accarezzando il dorso.
«Si
chiama... Thibermesnil Chronicles. La nostra famiglia ne ha una copia,
mentre l'altra si trovava nella biblioteca di un monastero, affidata a
un certo abate Gélis. Ma è andata persa quasi un
secolo fa».
Arsène
si voltò e guardò Georges ad occhi chiusi, con la
testa appoggiata alla spalla e la bocca semiaperta. Lo raggiunse ad
ampie falcate e gli diede uno schiaffetto sul volto per impedirgli di
addormentarsi.
«Ehi,
non vorrai mica lasciarci a metà della storia!»,
lo rimproverò ridendo. «Va' avanti».
Devanne
ricambiò il sorriso e la sua vera natura da sbruffone si
fece avanti: si alzò persino, riuscendo a malapena a non
barcollare.
«Beh...
in entrambi i libri sono conservate le planimetrie originali del
castello e si dice che solo confrontandole si può scoprire
il passaggio segreto che permetteva ai miei avi di avere... come
dire... relazioni clandestine».
Arsène
sapeva già tutto questo, come sapeva che non era vero che
bastavano i due libri - presto entrambi in suo possesso - per risolvere
il mistero di Thibermesnil. Oltre agli ingressi, infatti, bisognava
conoscere il meccanismo con cui aprirli e questo era un segreto che si
tramandavano i Devanne di generazione in generazione.
«E
dimmi, tu hai mai usato questo passaggio? Mi ricordo che a Monte Carlo
andavi matto per le feste e le ragazze, ovviamente!».
Georges gli
rivolse un sorriso stupido e riprese a ridere, tanto che un paio di
amici dovettero prenderlo al volo prima che cadesse faccia a terra. Lo
gettarono sulla poltrona e poi anche loro si ritirarono per evitare che
il giorno seguente, quando Devanne si sarebbe presentato sbronzo al
proprio matrimonio, venissero incolpati di qualcosa.
«Non
vi preoccupate, ci penso io a lui!», li rassicurò
Velmont, il quale aspettò che la porta del salotto si
richiudesse prima di perdere ogni traccia di sorriso.
Si
avvicinò con la stessa espressione di un predatore e una
volta chino su di lui, con le mani posate sui braccioli,
mormorò: «E così siamo rimasti noi due,
mon ami».
Il rampollo
ridacchiò, senza cogliere il pericolo che stava correndo.
Era da
tempo che Arsène non avvertiva un tale desiderio di fare del
male a qualcuno, ma Georges Devanne stava facendo uscire il peggio di
lui: non solo era l'erede immeritevole di una fortuna milionaria, ma in
qualche modo aveva anche ottenuto l'amore della sua Nelly. Come diavolo
era possibile?!
«Cosa
stavamo dicendo? Ah, il passaggio segreto. L'hai mai usato?».
Georges
scosse il capo. «Il segreto è perduto... perduto
per sempre».
«Che
cosa?», mormorò Arsène. «No,
non è possibile».
«E
invece sì!», ridacchiò ancora, per poi
iniziare a singhiozzare. «Il mio bisnonno morì
prima di poter rivelarlo al suo unico figlio. Si cercò e
cercò tra i suoi averi, ma a parte qualche strana
citazione...».
«Strane
citazioni? Di che stai parlando?».
Georges
indicò la mensola sopra il camino. «Quella
foto».
Arsène
vi si precipitò ed afferrò la cornice d'oro in
cui era conservata una fotografia in bianco e nero che ritraeva il
bisnonno di Georges con sua moglie e il suo unico figlio, di sei o
sette anni. Era stata scattata in quella stessa stanza, col
capofamiglia seduto sulla poltrona che dava le spalle alla libreria col
nome del castello sul frontone.
Senza
troppe cerimonie aprì la cornice ed estrasse la fotografia
per leggere gli appunti che erano stati scritti a penna: "T.G. L'ascia
volteggia nell'aria che freme, ma l'ala si apre, e si va verso Dio.
2-6-12".
Sul volto
di Arsène si aprì un sorriso che ben presto si
trasformò in una risata entusiasta. Eccola, finalmente! Ecco
la soluzione dell'enigma!
Georges si
unì a lui in quella risata, ma si interruppe non appena gli
occhi gelidi di Lupin si posarono su di lui.
«Grazie
mille, Georges. Sei stato incredibilmente d'aiuto. Ti auguro tante
belle cose». E con la fotografia e il libro tra le mani
uscì dalla torre.
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Capitolo 11 *** Team Arsène VS Team Sherlock ***
Buongiorno e ben
ritrovati! Siete arrivati giusto in tempo per il matrimonio del secolo!
O forse qualcosa o qualcuno
riuscirà a rovinarlo?
La battaglia tra Sherlock e Arsène sta per iniziare... Chi
avrà la meglio?
E Geneviève e John faranno da spettatori o avranno altro a
cui pensare?
Scoprirete tutto quanto leggendo questo capitolo ;-)
Ringrazio infinitamente le meravigliose anime che commentano sempre e
anche i lettori silenziosi.
Buona lettura e mi raccomando: scegliete il team vincente! :D
Vostra,
_Pulse_
__________________________________________________________________
11.
Team Arsène VS Team Sherlock
«Non venite
a supplicarmi, quando Arsène Lupin vi ruberà
tutto!», gridò ancora Sherlock mentre veniva
scortato fuori dalla proprietà da un paio di guardie.
John li
seguì mesto, col collo stretto tra le spalle, e alcuni
paparazzi appostati fuori dal castello li fotografarono. Il dottore
sospirò: non ci voleva proprio una pubblicità del
genere.
Il cancello in ferro
battuto venne chiuso e il detective afferrò le sbarre,
infilandoci in mezzo il viso per rivolgersi ancora al padre dello
sposo: «State facendo un grosso sbaglio!».
John gli
posò una mano sulla spalla. «Sherlock... Andiamo
via».
«Ecco cosa
succede a chi prova ad essere gentile! Perché dici sempre
che dovrei esserlo più spesso?».
«Perché
è giusto così. Dai, almeno ci abbiamo
provato».
Il consulente
investigativo lasciò andare il cancello e diede le spalle al
castello, dirigendosi verso il taxi a cui aveva chiesto di aspettarli.
In fondo aveva previsto una situazione del genere, ma avrebbe tanto
voluto sbagliarsi. Una volta che riuscivano ad arrivare in anticipo!
Sherlock si sporse
verso l'autista per dare la loro destinazione: «Alla
stazione».
«Torniamo a
casa?», domandò allora il dottor Watson.
«Tu
vai», lo corresse il detective, con un pugno davanti alla
bocca e gli occhi persi fuori dal finestrino, dove non c'era altro che
campagna. «Io rimango qui fino a domani. Il signor Devanne mi
chiamerà, eccome se lo farà, e io voglio
guardarlo in faccia quando ammetterà che avevo
ragione».
John scosse il capo,
consapevole che non sarebbe riuscito a fargli cambiare idea. Quindi
cambiò argomento: «E Geneviève? Cosa
devo fare con lei?».
«Se puoi,
rimani con lei al 221B. Altrimenti portala a casa tua».
«Non era
questo che intendevo. Pensi... pensi dovrei dirglielo?».
Sherlock ci
rifletté per qualche minuto, poi si arrese: «Non
lo so, John».
Il dottore
tamburellò le dita sulle ginocchia, guardando a sua volta
fuori dal finestrino.
Ripensò al
modo in cui si era rifiutata di seguirli fino al castello di
Thibermesnil: aveva detto che se suo padre l'avesse vista arrivare con
loro avrebbe potuto fraintendere e che non voleva che pensasse che
avesse gà deciso di unirsi al Team Sherlock. John pensava
che forse, quando le avrebbero rivelato che lui e Rosie facevano parte
della famiglia, allora non avrebbe più avuto dubbi. O almeno
lo sperava. Ma quando dirglielo? E soprattutto, come? John non ne aveva
la più pallida idea.
Quando l'aveva vista
dopo la confessione di Sherlock aveva fatto la figura dell'ebete, per
non dire del pervertito, continuando a fissarla. Non era sua
intenzione, ma ora che sapeva che era la nipote di Mary non aveva
potuto fare a meno di cercare in lei somiglianze con la moglie.
Per fortuna non era il
momento per rivelarglielo, ma temeva che se anche si fosse presentata
l'occasione perfetta avrebbe faticato a trovare il coraggio necessario.
Il taxi si
fermò alla stazione dei treni da cui li aveva prelevati, ma
solo John scese dal mezzo.
Cercò lo
sguardo di Sherlock e gli chiese: «Sei proprio sicuro di
voler rimanere?».
Il detective
annuì con un breve cenno del capo, allora il dottore chiuse
la portiera e guardò il taxi prendere la strada verso il
paese.
John non era tornato
subito al 221B.
Dopo un respiro
profondo varcò le porte scorrevoli del London Bridge
Hospital e si diresse verso la reception. Sapeva che l'orario di visita
era terminato, eppure aveva deciso di fare comunque un tentativo: non
poteva ancora rivelare la verità a Geneviève, ma
poteva e doveva incontrare la sorella di Mary, prima che fosse troppo
tardi.
Fece appena in tempo a
ricambiare il sorriso cortese dell'infermiera dietro il bancone quando
l'uomo che aveva visto accompagnare la ragazzina fuori dalla sala da
té del Savoy gli posò una mano sulla spalla,
invitandolo a seguirlo con voce gentile.
Senza dire una parola
entrarono nell'ascensore e John unì le mani dietro la
schiena, a disagio.
«Pensavo
dovesse stare sempre al fianco di Lupin», ruppe il silenzio
ad un tratto.
L'uomo non si
scompose. In effetti, se non avesse risposto avrebbe dato l'impressione
di non aver sentito una parola, come se il dottore non esistesse.
Probabilmente per lui non c'erano altri che il suo padrone.
«Io eseguo
gli ordini, nient'altro. Mi è stato detto che c'era la
possibilità che lei passasse e di rimanere nei
paraggi».
Arsène
aveva previsto che Sherlock gli avrebbe confessato del loro "legame di
parentela" e che lui avrebbe sfruttato la prima occasione disponibile
per incontrare tutto ciò che rimaneva della famiglia di sua
moglie. Nulla di cui stupirsi.
Finalmente le porte
dell'ascensore si aprirono, rivelando loro un lungo corridoio
illuminato dalle luci al neon ed immerso nel silenzio. Se non fosse
stato per l'inserviente che, poco più avanti, stava lavando
il pavimento già immacolato, John e il segretario di
Arsène Lupin sarebbero stati completamente soli.
Seguì
l'uomo coi baffi davanti ad una delle tante stanze private e il cuore
gli si fermò nel petto nello scorgere la donna all'interno:
la malattia aveva reso smunta la sua carnagione ed impigrito i suoi
occhi verdi, ma la somiglianza con Mary era impressionante.
John
deglutì e dopo un cenno dell'uomo al suo fianco
bussò piano alla porta, quindi l'aprì ed
entrò.
La donna si
soffermò a guardarlo con espressione stupita, fino a quando
non fece tutti i collegamenti del caso e spense il piccolo televisore
appeso nell'angolo della stanza.
«Non pensavo
sarebbe venuto», esordì, abbozzando un sorriso
triste.
«Se vuole
che me ne vada...».
«No.
Rimanga, la prego».
John annuì
col capo e si sedette sulla sedia accanto al letto. La sorella di Mary
gli porse la mano e il dottore, dopo un attimo di esitazione, la
strinse.
«È
un vero piacere conoscerla, dottor Watson».
«Chiamami
John».
Clotilde sorrise
nuovamente, portando sul materasso le loro mani intrecciate.
«Allora,
John, raccontami di Mary. Voglio sapere tutto».
Una volta sul bordo
del marciapiede, John alzò la testa verso le finestre del
primo piano e vide le luci accese, perciò
ipotizzò che Geneviève fosse ancora sveglia.
Entrò e andò subito dalla signora Hudson, a cui
aveva affidato le cure di Rosie. La donna però le disse che
dopo cena l'aveva presa Geneviève, così che lei
potesse farsi una maschera di bellezza.
Il dottore
provò una certa ansia mentre saliva le scale e il suo cuore
perse un battito quando non vide nessuno né nel salotto
né nella cucina. Che fosse come aveva detto Sherlock? Non
c'era da fidarsi di una Lupin?
Esaminò il
resto dell'appartamento e alla fine, una volta nella stanza di
Sherlock, sospirò vedendo Geneviève sdraiata sul
letto accanto a Rosie, a cui teneva un braccio intorno alla vita per
far sì che non rotolasse giù muovendosi. Entrambe
dormivano pacificamente.
John sorrise, quasi
commosso da quella visione, e fu più forte di lui: estrasse
il cellulare dalla tasca dei pantaloni e scattò una foto.
L'avrebbe fatta vedere a Clotilde la prossima volta che si sarebbero
visti.
Parlare con lei di
Mary era stato facile, quasi terapeutico, e prima di lasciarla riposare
le aveva promesso che sarebbe tornato presto, anche con Rosie.
La bambina era troppo
piccola perché potesse in futuro ricordarsi della zia, ma
era giusto che si conoscessero.
Tornato in salotto
raccolse dal pavimento qualche gioco, poi si sedette sul divano e
chiuse anche lui gli occhi, addormentandosi all'istante.
***
Se per John i
paparazzi fuori dal castello erano stati una seccatura, per Sherlock
erano stati una manna dal cielo. Mentre li inondavano con i loro flash,
infatti, aveva sentito un paio di loro esclamare: «Beh, se
questa notte non dovessimo riuscire a fotografare la sposa almeno
avremo le foto di Sherlock Holmes da vendere!».
Era stato facile, a
quel punto, dedurre che la sposa sarebbe arrivata al castello quella
notte. Miss Nelly Underdown era di Chicago, perciò era stato
ancora più facile dedurre che fosse tornata a casa qualche
settimana prima delle nozze per stare con la sua famiglia e
allontanarsi dalla stampa inglese. Poi era bastata una breve ricerca su
Internet per scoprire l'orario in cui sarebbe atterrata, anche
perché c'era un solo volo proveniente da Chicago.
Sherlock, dopo aver
lasciato John alla stazione, aveva fatto solo finta di andare in paese.
Una volta girato l'angolo, infatti, aveva detto all'autista di portarlo
subito in aeroporto, dove avrebbe atteso la signorina Underdown.
L'aereo
atterrò con qualche minuto di ritardo, ma Sherlock aveva
già preso il suo posto da un pezzo.
Individuò
immediatamente la vecchia fiamma di Lupin: con la sua figura ben
proporzionata e il suo bel volto, circondato da una cascata di lucidi
capelli neri, spiccava tra tutti gli altri passeggeri.
La guardò
avvicinarsi insieme ai genitori al nastro trasportatore per recuperare
i bagagli e sorrise quando lei iniziò a rendersi conto che,
giro dopo giro, della sua valigia non c'era traccia. Si stava giusto
lamentando con la madre quando Sherlock, nella sua uniforme da addetto
della sicurezza, si avvicinò.
«La
signorina Underdown?», le domandò.
La ragazza lo
fissò confusa coi suoi grandi occhi neri. Ora che la
guardava da così vicino, Sherlock non poteva negare la sua
bellezza.
«Sì,
sono io. C'è qualche problema?».
«Mi pare di
capire che non sia riuscita a trovare il suo bagaglio».
«Infatti non
c'è».
«Questo
perché il nostro personale, quando l'ha recuperato dalla
stiva dell'aereo, l'ha trovato con il lucchetto scassinato. Non
sappiamo quando o come sia successo, ma per prassi dobbiamo assicurarci
che non le manchi nulla. In caso contrario, potrà sporgere
denuncia. Se mi vuole seguire...».
La ragazza
tranquillizzò i genitori, dicendo che non ci avrebbe messo
molto. Quindi seguì Sherlock in uno degli uffici della
sicurezza e vide immediatamente la sua valigia sul tavolo al centro
della stanza.
«Ma... Non
capisco, il lucchetto non è stato scassinato»,
esclamò, per poi irrigidirsi e voltarsi lentamente verso
l'uomo che, una volta tolti cappello e occhiali, riconobbe come
Sherlock Holmes, il famoso detective.
«Mi scusi se
mi sono permesso di portarla qui con l'inganno, ma non c'era altro
modo», le disse.
«Che cosa
vuole?».
«Che mi
ascolti».
Si avvicinò
di un passo e la donna continuò a fissarlo, immobile. A
parte lo shock iniziale, mostrava un coraggio e una forza non comuni.
Iniziava a capire perché Arsène si fosse
innamorato di lei a tal punto da farsi arrestare. E per questo stesso
motivo sperava che, grazie al suo aiuto, lasciasse perdere il colpo che
aveva in mente.
«Ho ragione
di credere che Arsène Lupin si sia aggiunto alla lista degli
invitati del suo matrimonio. Penso si trovi già a
Thibermesnil, in questo momento. Ha intenzione di derubare Georges
Devanne, forse perché è l'occasione perfetta o
forse perché nel profondo non sopporta che lei si sia
innamorata di un altro uomo dopo di lui».
Nelly strinse i pugni
lungo i fianchi, esclamando: «Non conosco alcun
Arsène Lupin».
«Non
c'è bisogno di fingere con me, non sono un
poliziotto», disse Sherlock, con un vago sorriso sulle
labbra. «Tutto ciò che voglio è
impedire ad Arsène di portare a termine uno dei suoi colpi.
E dato che il padre del suo futuro marito mi ha cacciato, mi rivolgo a
lei. O forse preferirebbe che il matrimonio andasse a monte?».
«Certo che
no», ringhiò, avanzando di un passo.
«Che cosa vuole che faccia?».
Sherlock sorrise
eccitato. «Coglierlo sul fatto».
***
Alle tre, col castello
immerso nelle tenebre e nel silenzio, Arsène
entrò nella cappella dove si sarebbero celebrate le nozze.
Un po' piccola per i
duecenti invitati, tanto che solo i parenti e gli amici più
intimi degli sposi avrebbero avuto l'onore di assistere coi propri
occhi all'unione delle famiglie Devanne e Underdown.
Il ladro avrebbe
voluto dissacrare quel luogo, scaravoltare le panche e prendere a
picconate l'altare, ma si trattenne.
Seguito dai suoi
uomini, raggiunse la pietra tombale di uno dei fondatori di
Thibermesnil e si mise all'opera.
Seguendo le
indicazioni lasciate dal bisnonno di Georges fu facilissimo entrare nel
salotto della torre Guillaume. Così facile che quasi non ci
provò alcun gusto. Ma se ne dimenticò non appena
iniziò ad indicare cosa andava preso e che cosa no. C'erano
oggetti troppo grandi o troppo pesanti per essere trasportati lungo il
passaggio sotterraneo e con rammarico Arsène ci rinunciava.
I lavori di sgombero
non durarono molto, una quarantina di minuti appena. Arsène
però si attardò ad osservare le teche nei vani
delle finestre, ammaliato da quegli oggetti preziosi, piccoli
capolavori di un'arte così delicata. Decise che se ne
sarebbe occupato di persona - voleva avere lui l'onore - e dopo essersi
infilato i guanti bianchi, con estrema cura raccolse e
sistemò nelle valigette gli orologi e i gioielli.
«Capo, noi
abbiamo finito», sussurrò uno dei suoi uomini.
«Bene»,
mormorò Arsène, senza perdere la concentrazione.
«Andate. Fate il percorso che abbiamo concordato, ma per
precauzione tenete accesa la radio sulla frequenza della polizia, come
al solito. Io vi raggiungerò con la moto».
I suoi uomini
sparirono dietro l'entrata del passaggio segreto, lasciandola socchiusa
perché un filo di luce illuminasse il pavimento di legno, e
Lupin rimase solo col suo lavoro di minuzia e pazienza, ma che svolgeva
con la passione del migliore degli amanti.
Si fermò di
colpo quando sentì il pomello della porta del salotto
ruotare lentamente. Chi diavolo poteva essere a quell'ora di notte?
Con passo felpato
andò a nascondersi dietro la porta ed attese. Questa si
aprì e una figura snella, di donna, entrò
cautamente nel salotto. Arsène riconobbe immediatamente il
profumo, i suoi lucidi capelli neri, il modo in cui si portò
le mani alla bocca quando si accorse degli oggetti mancanti.
«Nelly»,
sussurrò, non riuscendo a trattenersi.
La ragazza si
girò di scatto e lo guardò, al buio. I suoi occhi
erano lucidi, velati di lacrime, e il lieve tremore delle sue mani
venne nascosto alla bell'e meglio quando strinse i pugni. Anche la sua
espressione si fece dura, severa, e Arsène ebbe coscienza di
come doveva apparire ai suoi occhi in quel momento, colto sul fatto.
Mai nella sua vita si
era sentito così in colpa. Sentì le gambe
cedergli, mentre tutta la sua sicurezza evaporava: per la prima volta
in vita sua, quell’appellativo che tanto adorava,
“Ladro Gentiluomo”, lo disgustò. Come
poteva definirsi in quel modo e non provare rimorso di fronte alla
donna che aveva amato sulla Providence, a cui aveva pensato nelle
lunghe ore trascorse nella sua cella?
Forse Mycroft Holmes
aveva ragione: era un criminale come tutti gli altri.
«Nelly, mi
dispiace tanto», sussurrò ancora, con il cuore
pesante nel petto. «Domani, prima del matrimonio, tutto
sarà rimesso al suo posto. I mobili saranno
riportati...».
Lei non rispose,
continuò semplicemente a guardarlo.
«Domani, ti
prometto, tutto sarà rimesso al suo posto»,
ripeté.
Il suo sguardo lo
stava uccidendo, piano ed inesorabilmente. Si allontanò
dalla parete, le passò accanto senza avere più la
forza di guardarla in viso e se ne andò com'era entrato,
dimenticando persino la valigetta di preziosi lì dove
l'aveva lasciata.
***
«Dottor
Watson? Dottor Watson, si svegli».
John aprì
gli occhi e quasi sobbalzò sul divano, trovandosi davanti il
volto rigato di lacrime di Geneviève.
«Che... Che
cosa c'è? Perché piangi?».
La ragazzina non
doveva essersene resa conto, perché si passò le
mani sulle guance e si guardò le dita umide, sorpresa. Non
le importò però e tornò a guardarlo in
viso, sollevando il cellulare che aveva in mano.
«Mia
madre...».
«Non dire
altro».
John si
alzò di scatto, all'improvviso lucidissimo, e mentre
infilava a Rosie il giubbottino, svegliandola inevitabilmente,
chiamò un taxi. Quindi scesero cercando di non svegliare la
signora Hudson ed invitarono il tassista ad andare il più
veloce possibile.
Una volta al London
Bridge Hospital fu ancora il segretario di Arsène Lupin ad
accoglierli e a ragguagliarli sulle condizioni di Clotilde, la quale
era stata portata d'urgenza in sala operatoria per un'insufficienza
respiratoria. Quindi un'infermiera li aveva fatti accomodare in sala
d'aspetto, dicendo loro che li avrebbe tenuti informati, ma
Geneviève non ne voleva sapere di sedersi. Passeggiava
nervosamente davanti a lui e Rosie, passandosi a tratti le mani nei
capelli e a tratti sul volto. Non l'aveva mai vista perdere il
controllo in quel modo, ma era anche vero che non dimostrava spesso i
suoi quindici anni.
John si
alzò a sua volta e con Rosie appesa al collo andò
al distributore di bevande, prese un té che dall'aspetto
sembrava acqua sporca e glielo portò. La ragazzina prese il
bicchiere caldo e lo fissò, inebetita, prima di riprendere a
piangere.
Il dottore la fece
sedere e con un braccio intorno alla schiena di Rosie e l'altro intorno
alle sue spalle la lasciò sfogare ed accolse tutte le sue
lacrime in silenzio.
Quando parve calmarsi
– o più semplicemente si ritrovò senza
forze – Geneviève gettò un'occhiata
all'uomo coi baffi, seduto davanti a loro ed intento a sfogliare una
rivista come se stesse aspettando il suo turno dal dentista, e
sussurrò: «Nessuno la obbliga a stare
qui».
«No,
infatti. Ma nessuno dovrebbe stare da solo in situazioni come queste,
lo so per esperienza».
A quelle parole l'uomo
sollevò appena gli occhi dalle pagine patinate, per poi
riabbassarli con indifferenza.
Geneviève
invece guardò John con quei suoi occhi verdi, specchio di
quelli di Mary, ora arrossati per il pianto ma ugualmente bellissimi, e
riuscì persino a rivolgergli un piccolo sorriso.
«Grazie,
dottor Watson», mormorò, tornando a posare la
testa contro la sua spalla.
«Chiamami
John», rispose accarezzandole i capelli. Si fermò
quasi subito però, timoroso di star oltrepassando un confine
per cui non era ancora pronto. Non voleva affezionarsi, non prima di
vedere come avrebbe reagito alla verità.
Rosie gli diede la
scusa perfetta, iniziando a lamentarsi per il sonno. Si alzò
ed iniziò a cullarla, con la sua testa sulla spalla, e
guardò la ragazzina dall'alto dicendo: «Vuoi che
chiami tuo padre?».
Prima ancora che la
ragazzina potesse aprire bocca, il segretario di Arsène
Lupin rispose: «Il padrone mi ha ordinato di chiamarlo solo
in casi di emergenza e le informazioni che possediamo al momento non
valgono una chiamata».
John strinse i denti,
indignato davanti a tanta freddezza. Dov'era finita la sua
umanità?
«Mi ascolti
bene, lei...».
«Inoltre»,
lo interruppe l'uomo, alzando il capo dalla rivista per incrociare il
suo sguardo e rivolgergli un sorriso derisorio, «il suo
interesse è del tutto ingiustificato. Quale legame la unisce
a madmoiselle
Geneviève o a sua madre, dottore?».
La rabbia gli
contrasse ancora di più i lineamenti del viso e John
sentì i denti dolere, tant'era la forza con cui li aveva
serrati. Quell'uomo sapeva tutto e si stava divertendo a sue spese,
magari solo per ingannare il tempo.
«Adesso
basta», intervenne Geneviève, tirando su col naso.
«Nemmeno tu fai parte della famiglia e voglio che te ne
vada».
«Sa che non
posso farlo», rispose l'uomo coi baffi. «Lei e sua
madre siete sotto la mia protezione».
La ragazzina si
alzò dalla poltroncina e col volto arrossato
gridò: «Non mi interessa! Vattene da qualche altra
parte, non ti voglio qui».
I loro sguardi si
diedero battaglia per qualche altro secondo, poi il lacché
di Arsène Lupin sospirò e lasciò
cadere sul tavolino la rivista che aveva sfogliato solo per
metà. Si portò una mano poco sopra il ventre e
piegò il capo in un inchino frettoloso prima di dirigersi
verso la reception.
Geneviève
rilassò le spalle e si lasciò cadere di nuovo
sulla poltroncina alle sue spalle, una mano a coprirle metà
del viso.
«Davanti a
lui non l'avrei mai ammesso, ma... ha ragione»,
confessò, lasciando John di stucco. «Preferisco
avere delle risposte prima di contattare mio padre. E poi... non credo
che apprezzerebbe, se dessi il suo numero privato al migliore amico di
Sherlock».
Il dottore
rifletté qualche secondo, ma non trovò niente con
cui controbattere. Se magari Geneviève avesse saputo la
verità sul suo conto, allora forse avrebbe potuto avere voce
in capitolo. Al momento, invece, non gli restava che pregare
perché Clotilde superasse la crisi.
«E va
bene», disse alla fine. «Puoi tenere un attimo
Rosie? Vado a prendermi un caffè, sperando che non sia come
il té».
Riuscì a
farla sorridere di nuovo e John si allontanò, impensierito.
Approfittò
di quel viaggio al distributore per mandare un messaggio a Sherlock.
Erano le cinque e mezzo del mattino, ma sapeva che l'avrebbe letto:
dormiva poco e male quand'era sul campo. Sperava soltanto che riuscisse
a fermare Lupin e a portarlo lì, dove sua figlia aveva
bisogno che fosse.
***
Sherlock, seduto nella
piccola camera d'albergo che aveva affittato per la notte, aveva atteso
il sorgere del sole senza chiudere occhio.
I pensieri che avevano
affollato la sua mente erano stati tanti, ma due in particolare avevano
continuato a ripresentarsi, assillandolo: Molly Hooper e Irene Adler.
Due donne, l'una
l'opposto dell'altra, entrambe finite nel suo cuore. Com'era potuto
succedere?
Aveva detto ad
Arsène che si sarebbe occupato personalmente di Irene, ma
non aveva la più pallida idea di cosa fare. Doveva
chiamarla, chiederle perché avesse assoldato
Arsène invece di parlarne con lui? Oppure fare finta di
niente, evitando così che agisse ancora più di
impulso? Perché era questo che lo preoccupava... Se Irene
avesse deciso di intervenire in qualche modo, guidata dalle emozioni,
avrebbe potuto ferirlo – ma ci era abituato – e
soprattutto ferire Molly, la donna per cui l'aveva lasciata.
Più i
minuti passavano, più l'idea di affrontarla attecchiva nella
sua mente. Ad un certo punto aveva persino preso il cellulare tra le
mani, ma la chiamata che aveva ricevuto gli aveva dato altro a cui
pensare.
«Aveva
ragione, l'ho colto in flagrante. Mi ha promesso che domani, prima del
matrimonio, tutto sarà rimesso al suo posto», gli
aveva detto miss Underdown, controllando la voce perché non
risultasse rotta dal pianto.
Se conosceva bene
Arsène – e pensava di conoscero piuttosto bene
– c'era il novantanove percento di possibilità che
sarebbe rimasto fino a quel momento, mantenendo la sua copertura come
invitato. Non poteva andarsene prima di aver dimostrato al suo vecchio
amore di saper ancora mantenere una promessa.
Le cose sarebbero
potute andare molto diversamente se avesse ricevuto lo stesso messaggio
che aveva ricevuto lui da John intorno alle cinque e trenta. La madre
di Geneviève era finita in sala operatoria e si
trovavano in ospedale, ad attendere notizie. Arsène avrebbe
potuto fare ritorno a Londra in quel caso, ma John aveva aggiunto un
post scriptum: “Lui non lo sa”.
Certo,
Geneviève non aveva voluto disturbarlo prima di sapere in
che condizioni riversava la madre. Quella ragazzina... Una continua
sorpresa.
Perciò,
finché Arsène sarebbe stato a Thibermesnil,
nemmeno lui poteva tornare a Londra. Se anche l'avesse fatto sarebbe
stato inutile, perché non poteva fare nulla di concreto per
Geneviève. Se John gliel'avesse sentito dire probabilmente
l'avrebbe rimproverato, dicendogli che poteva starle vicino, ma
Sherlock non era il tipo.
Ultimo motivo, ma non
meno importante: voleva far patire le pene dell'inferno all'uomo che
non aveva voluto ascoltarlo e gli aveva sbattuto la porta in faccia.
Sorrise, sentendo il
cellulare vibrare una, due, tre volte. Sette del mattino, numero
sconosciuto. Poteva essere solo una persona.
Al quarto squillo
silenzioso, rispose con estrema calma: «Il signor Devanne,
immagino».
L'uomo dall'altra
parte rantolò, dovendo dire ad alta voce: «Avrei
dovuto darle ascolto».
«Lo
so».
«Ci
aiuterà, signor Holmes?».
«Aiutarvi?
Per quale motivo? Ormai il furto è avvenuto, non posso
più sventarlo».
«Potrebbe...
Ecco, trovare degli indizi...».
«Arsène
Lupin non lascia mai inidizi».
«Il
passaggio segreto, allora! La prego, signor Holmes... faccia almeno
luce su come è riuscito a portare via tutta quella
roba!».
Sherlock
sospirò internamente, socchiudendo gli occhi.
«E va
bene», rispose alla fine, lasciandosi conquistare dalla
curiosità.
Il furto avrebbe
dovuto restare un segreto, ma la voce si era già sparsa tra
i paparazzi, forse avvertiti da una guardia che voleva un po' di soldi
facili, da una cameriera che odiava pulire i panni sporchi dei Devanne
o forse da un amico di Georges, geloso della sua eredità o
della sua futura moglie. Non si sarebbe stupito, se fosse partito tutto
dallo stesso Arsène Lupin!
L'arrivo della polizia
e successivamente di Sherlock Holmes, quella volta accolto col tappeto
rosso, dissiparono ogni dubbio.
Il detective venne
subito portato nella torre Guillaume, spoglia ormai dei pezzi di
maggior valore. Lì trovò l'ispettore a cui era
toccato il caso e la famiglia al completo, tutti in vestaglia, compresa
la bella Nelly Underdown. I loro sguardi si incrociarono un istante, ma
finsero di non conoscersi quando vennero presentati. Prima di arrivare,
infatti, le aveva mandato un messaggio perché non parlasse
con nessuno né di lui né del suo incontro con
Lupin, onde evitare ulteriori scandali. Lei aveva risposto che non
l'avrebbe fatto comunque: non voleva rovinare del tutto il matrimonio.
«Signor
Holmes!», piagnucolò, disperato, il giovane
Devanne. «È tutta colpa mia!».
Guardò la
sua futura sposa e imbarazzato aggiunse: «Ieri sera, dopo
cena, ho bevuto un po' troppo e ho iniziato a parlare a sproposito.
Horace Velmont mi ha fatto domande veramente specifiche sul passaggio
segreto. Dev'essere lui! Lo sapevo di non averlo invitato!».
Sherlock non
poté trattenere un sorriso divertito. Arsène
doveva conoscere bene il suo pollo, se era certo che non avrebbe
suscitato sospetti fino a fatto compiuto.
Quindi
iniziò ad esaminare la grande sala della torre, ormai quasi
completamente spoglia. Notò subito la valigetta lasciata su
una delle teche, mezza piena. Arsène doveva averla lasciata
lì dopo essere stato interrotto da Nelly.
Davanti alla
monumentale libreria gli saltò all'occhio la mancanza di un
libro, ma poteva essere stato preso da un ospite che amava
addormentarsi leggendo.
«Lì
c'era il Thibermesnil Chronicles», lo contraddisse il padre
di Georges. «Un libro che racconta come è stato
costruito il castello, i suoi ospiti...».
«All'interno
c'era anche una planimetria molto dettagliata dei
sotterranei», aggiunse miss Underdown. «Ma
incompleta. I volumi in origine erano due e si diceva che solo
possedendo entrambe le planimetrie era possibile individuare il
passaggio segreto».
Finalmente qualcuno
che diceva le cose importanti!
«Okay,
quindi Lupin aveva in mente di fare un colpo da diverso tempo. Come
sospettavo. Ha visto l'occasione del matrimonio e l'ha colta».
«Signor
Holmes, quello che ha detto Nelly è vero, ma solo i membri
della famiglia Devanne sapevano come accedere al passaggio».
«Ah! Allora
mostratemelo!».
Georges si
passò una mano sul collo, imbarazzato. «In
realtà... il mio bisnonno non fu in grado di tramandare il
segreto, morendo all'improvviso. Ha lasciato solo degli indizi, segnati
sul retro di quella... La foto!».
Tutta la famiglia si
spostò davanti alla mensola dell'imponente camino e si
guardarono scioccati. Sherlock e Nelly si scambiarono un'occhiata e il
detective avrebbe voluto chiederle che ci trovava in degli stupidi del
genere - forse Arsène aveva ragione ad essere tanto offeso -
ma decise di non mettere naso in questioni di cuore.
«Ieri sera,
sotto l'influenza dell'alcool o più probabilmente di qualche
droga, Georges deve aver indicato quella stessa foto a Lupin, il quale
ha potuto risolvere l'enigma. Qualcuno sa dirmi esattamente che cosa
c'era scritto?».
«Certo»,
esclamò il signor Devanne. Si schiarì la gola e
con tono quasi solenne disse: «"T.G. L'ascia volteggia
nell'aria che freme, ma l'ala si apre, e si va verso Dio.
2-6-12"».
Sherlock si
voltò verso le finestre e visualizzò gli indizi
di fronte a sé, come appesi al soffitto da fili invisibili.
Lui non aveva i libri
con le planimetrie, ma quella sigla, T.G. non poteva che indicare la
torre in cui si trovavano: Torre Guillaume. Quindi, com'era ovvio, uno
degli ingressi del passaggio si trovava in quella stanza.
La citazione doveva
riferirsi ad una specie di meccanismo, ne era sicuro, ma furono i tre
numeri a fornirgli finalmente la soluzione.
Sherlock fece una
mezza giravolta e sorridendo puntò l'indice verso la
libreria.
«Di che cosa
vanno fieri i signori Devanne, più di ogni cosa? Del loro
buon nome. E come sono conosciuti nei circoli?».
«I signori
di Thibermesnil», rispose Nelly, abbozzando un sorriso.
«Ho bisogno
di una scala!».
E la scala fu portata
in men che non si dica. Sherlock salì i primi gradini, ma
poi ci ripensò e finse di cedere l'onore al giovane
rampollo, il quale, desideroso di riscattarsi, accettò il
compito con entusiasmo.
Una volta di fronte
alle grosse lettere in rilievo che componevano il nome Thibermesnil, il
detective gli disse: «Afferri la lettera H e provi a vedere
se si gira, in un verso o nell'altro».
Georges
eseguì e la lettera si girò di centottanta gradi.
La sorpresa colse tutti i presenti, eccetto Nelly e Sherlock. Certo, il
detective aveva piena fiducia nella sua intuizione, ma Nelly? Che
quando aveva sorpreso Lupin avesse visto l'ingresso del passaggio e non
gli avesse detto nulla per constatare di persona quanto tempo ci
avrebbe messo a risolvere il mistero? Oppure, inconsciamente, voleva
proteggere il Ladro Gentiluomo?
«E poi,
signor Holmes?», chiese un trepidante Georges.
Miss Underdown
incrociò il suo sguardo ed arrossì, deviandolo, e
Sherlock riprese a guidare l'ereditiero: «Ora la R. Non
girerà come la H, dovrà tirarla verso di
sé e poi spingerla in avanti».
Dopo diversi
tentativi, la lettera si ritirò nel frontone con uno scatto
interno.
«Perfetto,
ora deve spostarsi per raggiungere l'ultima lettera, la L. Fin'ora non
ho sbagliato, perciò credo proprio che questa si
aprirà come uno sportello».
Tutti trattennero il
respiro, ispettore compreso, e Georges tirò fino a quando la
L non rimase attaccata al frontone solo per la linea inferiore. Nello
stesso momento, tutta la parte della biblioteca situata tra la prima e
l'ultima lettera della parola Thibermesnil ruotò su se
stessa, rivelando l'oscuro sotterraneo.
Georges, troppo
sbigottito per capire cosa sarebbe successo, venne travolto dalla porta
segreta e cadde giù dalla scala. Nessuno però se
ne curò, impegnati a fissare il buio tunnel di pietra.
«Settant'anni»,
mormorò il signor Devanne, tamponandosi la fronte sudata con
un fazzoletto. «Settant'anni che cerchiamo e lei e Lupin in
dieci minuti...».
«Signor
Devanne, non tutti sono idonei a decifrare enigmi», gli disse
Sherlock, anche se avrebbe voluto essere più scortese.
«La seconda, la sesta e la dodicesima lettera. L'H gira, l'R
freme e la L si apre».
«Ma
Arsène Lupin arrivava da fuori, giusto? Come lo spiega
questo?», gli chiese l'ispettore. Allora parlava!
Il consulente
investigativo scese un paio di scalini ed estrasse una torcia elettrica
da una delle tasche interne del cappotto. La puntò in alto e
sorrise, trovando le lettere all'inverso e il nudo meccanismo di
apertura.
«Ha fatto
proprio come noi, ma all'incontrario», rispose, per poi
accucciarsi ad esaminare delle macchie scure sul pavimento. Ne
toccò una e dato che non era passato molto tempo
dall'effrazione la trovò ancora fresca.
Si portò le
dita sotto il naso e sorrise, ammirato: «Ah,
Arsène, non mi deludi mai! Sapeva che il passaggio non
veniva aperto da almeno settant'anni, così si è
portato dietro dell'olio per lubrificare gli
ingranaggi».
Nelly si sporse
all'interno del tunnel, ignorando i rimproveri della suocera, ed
incrociando nuovamente lo sguardo del detective esclamò
beffarda: «Ci si poteva arrivare».
Sherlock
ricambiò e le porse la mano. «Andiamo?».
La ragazza lo
affiancò ed iniziò a scendere le ripide scale di
pietra senza timore, curiosa di sapere dove sarebbero sbucati. Georges
allora, appena ripresosi dalla rovinosa caduta, volle conservare il
poco onore che gli era rimasto e li seguì.
Scesero per diversi
metri - e quarantotto scalini esatti - fino a ritrovarsi in un
corridoio polveroso, scavato nella roccia.
Qualcuno aveva il
respiro tremante e non era Nelly, perciò Sherlock si
voltò verso Georges e lo trovò pallido, con le
braccia stese verso le pareti.
«È
claustrofobico?», gli domandò.
«Non lo
so... Forse».
Nelly allora
affiancò il fidanzato, facendogli mettere un braccio intorno
alle sue spalle. Sorridendo amorevole gli accarezzò il
volto, e Sherlock fu costretto a distogliere lo sguardo. Forse lo amava
davvero, pregi e difetti. Era un uomo fortunato, quel Devanne.
Alla fine del
corridoio si ritrovarono davanti ad un'altra ripida scalinata, che
quella volta dovettero salire in fila indiana. Ora capiva
perché Arsène non avesse portato via tutto:
questioni di spazio.
Sherlock si
immobilizzò, ritrovandosi davanti ad una parete di nuda
roccia.
«Non
è possibile. Deve essere qui».
«Signor
Holmes, è stato strabiliante, ma se tornassimo
indietro...».
Nelly
azzittì il futuro sposo, guardando il detective tastare la
pietra in lungo e in largo. Poi vi posò contro l'orecchio e
solo allora, alzando lo sguardo, scorse una fessura tra la parete e il
soffitto. Lì nascosto c'era lo stesso meccanismo rovesciato
della biblioteca.
Quella volta fu
Sherlock ad eseguire i passaggi e fece un passo indietro quanto la
pietra davanti a loro oscillò. A quel punto, con l'aiuto di
Georges, la spinse di lato e si ritrovarono nella cappella, dove il
parroco e i chirichetti, riuniti davanti all'altare, li fissarono ad
occhi sgranati.
Tutto era
già stato addobbato per il matrimonio e un intenso profumo
di fiori li stordì, specie dopo aver respirato l'aria
ammuffita del passaggio segreto.
«Scusate,
è in corso un'indagine», disse Sherlock, con un
sorriso a trentadue denti sul viso.
Aspettò che
Georges e Nelly uscissero dal sotterraneo, poi insieme richiusero la
porta di pietra. Quella da cui li avevano visti uscire gli uomini di
fede altro non era che la pietra tombale di uno degli antenati dei
Devanne, forse colui che aveva fatto costruire il tunnel.
«Bene, il
mistero è risolto», esclamò soddisfatto
Sherlock, sfregandosi le mani.
«Ma gli
oggetti rubati...», piagnucolò ancora Georges.
Il detective gli
rivolse un'occhiata tagliente. «A che cosa le servono? Ha
già tutto ciò di cui ha bisogno».
Georges
guardò la donna che aveva al fianco e il suo sguardo si
sciolse, ammettendo a se stesso che era proprio così.
«Vuoi
comunque sposarmi, Nelly?».
Miss Underdown
sorrise, sporgendosi per posargli un bacio sulle labbra. «Ma
certo, zucca vuota. Ti amo per quello che sei, non per la tua
ricchezza. Arsène Lupin non rovinerà il nostro
matrimonio».
Sherlock
abbozzò un sorriso e senza dire una parola si
allontanò lungo la navata.
«Signor
Holmes!», lo chiamò ancora Nelly.
Si fermò
davanti alle porte aperte, col sole che allungava la sua ombra sul
pavimento di marmo.
«Ci farebbe
piacere se rimanesse. Per ringraziarla».
Sherlock
annuì con un breve cenno del capo e se ne andò
senza più guardarsi indietro.
***
Il padre della sposa
aprì nuovamente la portiera dell'auto dai vetri oscurati e
si sporse all'interno. Gli invitati rimasti fuori dalla cappella
allungarono invano i colli per vedere in anteprima il vestito bianco.
«Tesoro,
sono le undici», le disse, guardando l'orologio che portava
al polso.
Nelly
sospirò, delusa, e fece per allungare una mano
perché l'aiutasse a scendere, ma il nugolo di paparazzi
fuori dal castello si agitò quando il grande cancello si
aprì per lasciar entrare tre camion della FedEx.
«Che cosa
diavolo...?».
Il signor Underdown
chiuse la portiera e raggiunse i signori Devanne, i quali rimasero
senza parole quando i fattorini aprirono il retro dei loro mezzi per
mostrare credenze, arazzi, quadri... insomma, tutto ciò che
era stato rubato quella notte.
«Ho
mantenuto la mia promessa».
Nelly
trasalì voltandosi verso l'autista della limousine.
Attraverso lo specchietto retrovisore incrociò gli occhi
verdi di Arsène Lupin.
Il Ladro Gentiluomo
aprì la bocca, forse per discolparsi, per cercare delle
scuse, per mostrare la sua vita in ciò che aveva di audace e
di grande. Ma la richiuse, consapevole che avrebbe soltanto peggiorato
le cose. Un sorriso venato di tristezza piegò le sue labbra
sottili.
«Ah, sembra
ieri che viaggiavamo sulla Providence. Ti ricordi le ore trascorse
sdraiati al sole, a bordo piscina? E quella sera al ristorante, quando
per te rubai una rosa dal mazzo del nostro vicino di
tavolo?».
«Avrei
dovuto capirlo già allora, che razza di uomo eri».
«E invece mi
sorridesti, arrossendo. Voglio che tu sappia che quello che c'era tra
noi era vero, Nelly. Io ti amavo; ti amo ancora. Vorrei non essere
ciò che sono, ma...».
Nelly deviò
il suo sguardo, con gli occhi lucidi di lacrime. Arsène
sospirò e rimase in silenzio, deciso a non farsi ulteriore
male: non l'avrebbe mai accettato, ora che sapeva la verità.
La portiera si
aprì ancora e il padre di Nelly la guardò
entusiasta, dicendo: «Tutto! È stato riportato
tutto!».
«Bene, mi fa
molto piacere», rispose lei, sorridendo.
«Tesoro, ti
senti bene? Stai piangendo».
Nelly scosse il capo,
asciugandosi la lacrima che le era scivolata sulla guancia, fuori dal
suo controllo. «Sì, sto bene. Sono solo felice,
papà».
L'uomo parve
rincuorato e finalmente prese la mano della figlia per aiutarla a
scendere dall'auto. A braccetto, iniziarono a percorrere la lunga
passerella che li avrebbe portati fino all'altare.
Arsène si
addossò contro lo schienale del sedile, guardando la sua
Nelly convolare a nozze con un uomo che non l'avrebbe mai amata in
tutta la sua vita come l'aveva amata lui in quelle poche settimane.
Stava per scendere
dall'auto e filarsela quando con la coda dell'occhio vide una rosa
lì dove era seduta Nelly. Una rosa bianca, sfilata dal suo
bouquet e lasciata sul sedile per lui, come regalo d'addio.
La prese tra le dita e
scese dalla limousine, si appoggiò al tettuccio con i gomiti
e chiudendo gli occhi se la portò al naso per respirarne il
dolce profumo.
Perse la cognizione
del tempo e furono le campane a riscuoterlo, facendogli riaprire gli
occhi. E ciò che vide lo fece correre lungo i confini del
giardino: Sherlock Holmes, probabilmente avvisato da Nelly. Ah, avrebbe
dovuto prevederlo! Non era stato un caso che lo avesse colto sul
fatto... Si erano messi d'accordo sin dal principio!
La rabbia lo fece
correre ancora più veloce, tanto che lo staccò di
diversi metri.
Il cancello di
servizio che lui e i suoi uomini avevano scassinato per avere una
seconda via di fuga era proprio davanti a lui, mimetizzato dalle siepi,
perciò ci corse contro senza alcun timore. Quello che non
aveva previsto era che Sherlock Holmes l'avesse preceduto, chiudendolo
con un grosso lucchetto.
Ci sbatté
contro come un allocco e si ritrovò steso sull'erba, col
fiato corto e un atroce dolore al braccio destro. Fratturato, come
minimo.
«Sei mio,
Arsène!».
Il Ladro Gentiluomo
scoppiò a ridere. «Vuoi approfittare di un uomo
col cuore infranto, Sherlock? Non hai proprio alcuna
decenza!».
Il detective gli
saltò addosso e Arsène si difese come meglio
poté. Rotolarono per un po' sull'erba, tirandosi pugni e
ginocchiate, ma nessuno sembrava avere mai la meglio. Quando Sherlock
estrasse un paio di manette, Arsène lo colpì con
una testata sul naso e riuscì ad alzarsi.
«Quei
bracciali non mi piacciono», esclamò, tirandogli
un calcio nello stomaco che gli tolse il respiro. Poi si
accovacciò su di lui, con un ginocchio puntato sulla sua
gola.
«Inizio a
capire perché ti porti dietro John», disse
Arsène, mentre Sherlock si dimeneva nel tentativo di
liberarsi. «Ti copre le spalle se le cose si mettono male,
come in questo caso».
E fu proprio John a
salvarlo anche quella volta, facendo squillare il suo cellulare.
Arsène, senza fare complimenti, infilò una mano
nella tasca destra del suo cappotto e fece per rispondere, ma un'altra
chiamata, quella volta per lui, lo distrasse.
Il volto di Sherlock
era ormai paonazzo per la mancanza di ossigeno, perciò
Arsène allentò un po' il peso sulla sua gola
mentre si portava entrambi i telefoni alle orecchie.
«Sono
desolato, ma non è un buon momento».
Arsène
ascoltò in silenzio, sentendo la terra inghiottirlo a poco a
poco. Lasciò andare Sherlock e si sedette sull'erba, con gli
occhi lucidi di lacrime. I cellulari gli caddero dalle mani e il
detective prese il proprio per parlare con John.
«Arriviamo
il prima possibile», rispose alla fine, con voce rauca.
Pose fine alla
telefonata e guardò il Ladro Gentiluomo, col volto nascosto
tra le ginocchia e la schiena squassata dai singhiozzi. Lo
ferì profondamente vederlo in quelle condizioni, nonostante
fino a pochi minuti prima l'unico suo desiderio era quello di mettergli
le manette ai polsi.
Stipulando una tregua,
si alzò e gli prese entrambe le mani per tirarlo su,
scoprendolo ferito al braccio destro. Arsène tuttavia non
fece una piega e si lasciò muovere come una bambola di
pezza, e Sherlock lo condusse fino all'uscita principale, con le
campane della cappella che suonavano a festa alle loro spalle.
Dopo un'ora e molte
regole del codice della strada ignorate, entrarono insieme al London
Bridge Hospital e chiesero indicazioni. In realtà fu
Sherlock a chiederle, dato che Arsène si trovava ancora in
stato di shock.
Corsero fino all'ala
est, dove si trovava la sala operatoria in cui era stata portata
Clotilde, e lì davanti trovarono il secondo in comando della
banda di Lupin, John, Rosie e una Geneviève che aveva
esaurito le lacrime, seduta sul pavimento con le gambe strette al
petto. Non
appena li vide in fondo al corridoio però si alzò
e corse loro incontro, gettandosi ai loro colli contemporaneamente.
Arsène ricambiò subito la stretta, affondando il
viso tra i capelli biondi della figlia, mentre Sherlock
esitò, imbarazzato e a disagio. Cercò lo sguardo
di John, il quale gli sorrise mesto, annuendo. Allora il detective le
avvolse la schiena con un braccio, finendo con la mano su quella di
Lupin, il quale la strinse forte.
Sherlock, senza
nemmeno rendersene conto, ricambiò la stretta e
posò il capo contro quello di Arsène, respirando
il profumo dei suoi capelli e sentendo una spiacevole fitta allo
stomaco. Tuttavia non si allontanò: quel dolore, dopotutto,
l'aveva salvato.
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Capitolo 12 *** Grief ***
Ciao a tutti :)
Allora, nell'ultimo capitolo la madre di Geneviève
è passata a miglior vita - o così si spera - e in
questo vedremo un po' le reazioni di chi è rimasto, in
particolare della figlia e di Arsène, ovviamente.
Maurice Leblanc ha scritto così tante belle storie che
vorrei "riscriverle" tutte, ma non mi ritengo così brava (e
così pazza), per questo ho fatto una selezione. Avete capito
bene, con questo capitolo si apre un nuovo caso per il Ladro
Gentiluomo! Spero davvero vi piaccia, perché secondo me
è uno dei migliori ;-)
E a proposito di monsieur
Leblanc... no, niente spoiler.
Grazie a tutti - ma proprio a tutti! - e vi auguro una buona lettura!
♥
Vostra,
_Pulse_
_________________________________________________________________________
12.
Grief
«Grazie per
essere venuto. E per... beh, tutto quello che hai fatto
prima».
Sherlock gli rivolse
un piccolo sorriso, nascosto in parte dal bavero del cappotto
sollevato.
«L'ho fatto
per lei», disse una mezza verità, tornando a
guardare la figura esile e ora più che mai fragile di
Geneviève, ferma davanti alla tomba della madre.
In verità,
il fatto che avesse lasciato perdere il furto al castello Thibermesnil
era dovuto puramente alla mancanza di prove e soprattutto di una
denuncia, dato che era stata ritirata non appena i facchini della FedEx
avevano finito di scaricare i camion. Di sicuro c'era lo zampino della
neo signora Devanne.
«Grazie lo
stesso», ripeté Arsène, sistemandosi
con una smorfia il braccio fratturato nel tutore.
Il funerale era finito
da un pezzo e i pochi invitati - loro tre e alcuni membri della banda
di Lupin - si erano già tutti allontanati. Solo
Geneviève si era attardata, forse per salutare la madre
un'ultima volta.
«Perché
l'avete seppellita qui e non in Francia?», gli chiese ad un
tratto, incuriosito.
Arsène
tirò fuori dalla tasca del cappotto la sigaretta elettronica
e scrollò le spalle. «Ho pensato che le avrebbe
fatto piacere riposare vicino a sua sorella. Sono state lontane
così tanto tempo...».
Lo sguardo di Sherlock
si spostò verso l'altro lato del cimitero, dove sapeva
esserci la tomba di Mary. Era da tempo che non andava a trovarla.
Pur di non pensarci,
il detective aprì un argomento su cui si arrovellava da un
po': «Ora che sua madre è morta immagino che
dovrai occuparti della montagna di scartoffie per l'affido».
«Oh
sì. Dal momento in cui mi esponessi, dichiarando la patria
podestà, partirebbe un iter burocratico davvero rognoso, ma
ho già qualcuno che sta vagliando ogni passaggio per trovare
una scappatoia», rispose tranquillo il ladro, per poi
aspirare una lunga boccata di fumo aromatizzato alla vaniglia.
«Nel frattempo ho fatto in modo che Geneviève
risultasse ospite di una struttura di accoglienza in
Francia».
All'improvviso si
voltò verso Sherlock, le labbra socchiuse in un'espressione
di stupore. Il consulente investigativo lo guardò con la
coda dell'occhio e dopo un breve sospiro disse: «Non
farò la spia. Per questa volta».
«Posso
baciarti?», domandò candidamente il Ladro
Gentiluomo, sporgendosi verso di lui.
«Assolutamente
no», rispose Sherlock, con tono di voce ancora più
glaciale del solito. Dopodiché gli fece un cenno col capo e
Arsène si voltò a guardare la figlia che li stava
raggiungendo sotto un ombrello nero identico al loro.
«Tutto bene,
tesoro?».
La ragazzina non
rispose, alzò semplicemente lo sguardo per incrociare quello
del detective e dire: «Posso venire a casa tua? Mi piace di
più, rispetto alla mia camera d'albergo».
Sherlock
guardò Arsène, il quale nascose con un sorriso il
dolore che gli aveva attraversato il volto.
«Va bene,
andiamo».
Le aprì la
portiera della limousine e la fece entrare, poi guardò di
nuovo Arsène. «A te sta bene?», chiese,
cercando un'ulteriore conferma.
Il ladro
ampliò il sorriso e con voce perfettamente controllata
disse: «Ma certo, perché non dovrebbe? In effetti,
te l'avrei chiesto io stesso. Ho bisogno di stare un po' per i fatti
miei. Sono stati giorni difficili».
Sherlock
sospirò e seguì Geneviève nell'auto,
lasciando che fosse Arsène a chiudere la portiera.
Quest'ultimo si sedette davanti a loro e diede all'autista l'indirizzo:
«221B, Baker Street».
Sherlock si tolse il
cappotto ed aiutò Geneviève a fare lo stesso, poi
li appese entrambi all'appendiabiti dell'ingresso.
Avvolta in
quell'abitino nero, con dei ricami in pizzo sulle braccia, la sua pelle
diafana e i capelli biondissimi spiccavano ancora di più.
La osservò togliersi le scarpe col tacco, lanciarle
disordinatamente nel salotto e rimanere in collant prima di sedersi sul
divano, dove abbandonò la piccola pochette nera e si avvolse
nella coperta che era rimasta lì
dall'ultima volta che qualcuno - forse John - l'aveva usata.
Nei suoi occhi c'era
tanto dolore, tanto smarrimento... Aveva appena perso sua madre, la
donna che l'aveva cresciuta da sola, e con lei aveva perso una colonna
portante, senza la quale la struttura rischiava di crollare in mille
pezzi.
Senza dire una parola,
Sherlock andò in cucina e mise su l'acqua per il
té.
Mentre attendeva che
raggiungesse la giusta temperatura, ricevette una chiamata da suo
fratello Mycroft.
«Oggi alla
stessa ora?», gli chiese senza salutare.
«Non
posso», sussurrò in risposta, guardando in
direzione del salotto con la coda dell'occhio. Geneviève ora
si era sdraiata, in posizione fetale, e fissava con sguardo vacuo un
punto sul tappeto.
«Che cosa
stai dicendo? Lei si aspetta di vederti».
«Lo so e mi
dispiace, ma dobbiamo rimandare».
«Ci
rimarrà molto male».
Sherlock chiuse gli
occhi e strinse i pugni sul bancone della cucina. «Ho detto
che mi dispiace, Mycroft».
Il maggiore degli
Holmes terminò la comunicazione senza aggiungere altro.
Quando l'acqua fu
pronta ne versò un po' in una tazza e vi aggiunse del latte
e del miele, nelle stesse dosi che utilizzava sua madre quando
lui era malato. Geneviève era malata nello spirito, ma
sperava potesse essere ugualmente di conforto.
Gliela
portò e la ragazzina si sollevò un poco per
poterla prendere tra le mani e portarsela sotto il naso. Quindi lo
guardò negli occhi e disse: «Se hai un impegno non
dovresti annullarlo per me».
Sherlock
stirò un pallido sorriso. «È solo
rimandato».
«Grazie».
Fece per andare a
sedersi sulla sua poltrona, ma ci ripensò e si
accomodò sul divano, con le mani unite dietro la testa.
Allungò le gambe e posò i piedi sul tavolino,
socchiudendo gli occhi.
Fu colto di sorpresa
quando la ragazzina si avvicinò a lui e posò
l'orecchio contro il suo petto, una mano sul suo stomaco. Sembrava gli
stesse auscultando il cuore, ma non era chiaramente quello il suo
intento.
Prima che potesse
chiederglielo, Geneviève sussurrò con voce
incrinata: «Sapevo che sarebbe successo, mi sono preparata
per quattro anni... affrontarlo però non è la
stessa cosa. Mi sento come se... come se ci fosse una voragine dentro
di me. Passerà mai?».
Il consulente
investigativo le avvolse con cautela un braccio intorno alla schiena e
ammise: «Non lo so».
«I tuoi
genitori sono ancora vivi?».
«Sì,
fortunatamente. Ma da bambino ho perso il mio migliore amico».
«Il teschio
coperto sulla mensola?».
Sherlock la
fissò, incredulo che fosse giunta a quella conclusione tanto
facilmente.
Quello non era il vero
teschio di Victor, ma lo aveva sempre rappresentato. A tutti quelli che
gli domandavano chi fosse, lui aveva sempre risposto: "Un amico", pur
non sapendo a quale amico si riferisse. Forse la sua mente aveva
cercato di mandargli un messaggio, per tutti quegli anni. E ora che
sapeva la verità aveva sentito la necessità di
coprirlo. Non di disfarsene, quello mai... Il ricordo doveva rimanere.
Aveva solo bisogno di un po' di tempo per guarire da quella ferita,
quella voragine, come aveva detto Geneviève.
«Sì,
proprio lui», rispose alla fine.
«Perdere un
amico non è come perdere una mamma».
«Penso di
no. Ma lo supererai, ne sono certo. Se hai ereditato anche solo la
metà della forza di tuo padre...».
Sherlock si
alzò, sottraendosi all'abbraccio. Non voleva più
parlare di morte e di sofferenza: il suo umore ne stava già
risentendo. Perciò si avvicinò alla finestra e
prese tra le mani il violino, iniziando a suonare la melodia che aveva
finito di comporre giusto quella mattina. Una canzone triste,
malinconica, ma dolce: un'ode alla gentilezza che lui non meritava.
Geneviève
si fece più attenta e dopo aver bevuto un sorso di
té incrociò le gambe e chiese:
«È per Molly?».
Da sua madre aveva
certamente ereditato l'acume in fatto di comprensione della natura
umana, specie di cui anche lui, suo malgrado, faceva parte.
«Chi tace
acconsente», esclamò in risposta al suo silenzio.
«L'hai invitata a vedere il Don Giovanni?».
«No.
Qualsiasi cosa tu credi ci sia tra me e lei, ti sbagli».
«Io non
credo proprio».
Una nota stonata e
Sherlock abbassò il violino, borbottando: «Quasi
quasi ti preferivo in lutto».
Geneviève
assottigliò gli occhi e lo guardò con cattiveria.
«Bastava dire che non ne vuoi parlare».
«Non ne
voglio parlare».
«Okay,
continua pure a sprecare il tuo tempo suonando le tue canzoni
depressive anziché provare un po' di felicità al
fianco di una persona che ti ama. La vita è la tua. Ma te ne
pentirai un giorno».
Sherlock si
voltò, raggelato dal velo di minaccia che aveva avvertito
posarsi su quell'ultima frase. Geneviève
aveva lasciato la tazza di té sul tavolino e dalla pochette
aveva estratto cellulare e cuffiette con l'intenzione di isolarsi nella
sua musica - in quello erano abbastanza simili - ma non ci
riuscì subito. La ragazzina gli rivolse un'occhiata
imbarazzata ed imprecò sottovoce, cercando di sbrogliare gli
auricolari annodati; compiuta la delicata e snervante operazione
tornò a
sdraiarsi sul divano, raggomitolata sotto la coperta e con i capelli
che le ricadevano sul viso, le chitarre elettriche che le graffiavano i
timpani.
Il detective la guardò ancora per qualche istante, poi
tornò ad affacciarsi alla finestra e a
suonare.
***
Arsène
entrò come una furia nella sua suite e gridando
iniziò a rovesciare divani, poltrone, tavolini, e a
strappare giornali. Aveva così tanta rabbia in corpo che
neppure il suo migliore amico riuscì a calmarlo.
Perché sua
figlia aveva scelto di stare con Sherlock? Perché non era
rimasta con lui, cosicché potessero lenire il dolore l'uno
dell'altra? Non riusciva a capirlo. Si rifiutava di credere che si
fosse affezionata tanto al detective da preferirlo. Doveva esserci una
spiegazione logica per il suo comportamento, solo che la sua mente,
sopraffatta dal dolore della perdita, non riusciva a vederla.
Strinse i pugni lungo
i fianchi e respirò profondamente una, due, tre volte.
Quindi riaprì gli occhi e guardò la devastazione
che aveva causato: sembrava che fosse appena passato un tornado.
«Sono
mortificato», disse guardando gli uomini della sua scorta.
«Non
c'è problema capo, sistemiamo noi», rispose
Ernest, servizievole come sempre.
Gli rivolse un sorriso
affettuoso e finalmente si tolse il cappotto, porgendolo al suo secondo
in comando. Poi si diresse verso la camera da letto, dove si sciolse
anche la cravatta e si sedette sulla panca ai piedi del letto.
«Padrone,
volevo avvertirla che l'aereo è appena atterrato».
«L'auto
è stata mandata?».
«È
già lì che lo attende. Sarà qui entro
mezz'ora».
Arsène
sorrise, sollevato che quella giornata non fosse completamente da
dimenticare.
«Bene,
avvisa la reception di far preparare una camera. Che sia interamente a
mio carico, mi raccomando. E prenota per le tredici un tavolo per due
al ristorante».
«Ai suoi
ordini».
Rimasto solo,
Arsène si tolse anche le scarpe e a piedi nudi raggiunse la
finestra che dava sul Tamigi. Il cielo era ancora nuvoloso, ma aveva
smesso di piovere. Avrebbe preferito che il suo amico venisse accolto
da un tempo più mite, ma il meteo era una delle poche cose
al mondo su cui non aveva il controllo. Anche se, ultimamente, erano
parecchie le cose che gli sfuggivano di mano: il dottor Watson, Molly
Hooper e per ultima sua figlia Geneviève.
Che Sherlock avesse
una tale influenza sulle persone che gli stavano accanto, tanto da
renderle abbastanza intelligenti e furbe da tenersi lontane da lui? Era
possibile. Dopotutto lui stesso, in più di un'occasione, al
fianco del detective aveva desiderato essere qualcosa di
più. Ma non era mai abbastanza, perché lui era un
ladro e finché fosse rimasto tale il divario tra loro
sarebbe stato insormontabile. Lui era il male, mentre Sherlock era il
bene. Chiunque sano di mente avrebbe scelto quest'ultimo, la luce
anziché le tenebre.
Arsène si
scrollò di dosso tutti quei pensieri e aprì le
ante del grande armadio per scegliere l'outfit adatto all'incontro che
lo aspettava.
***
Justin Ganimard stava
aspirando avidamente gli ultimi tiri della sigaretta, con il giornale
di qualche giorno prima arrotolato sotto l'ascella sinistra, quando
scorse un'auto dalla targa governativa fermarsi a ridosso del
marciapiede.
Ne scese niente meno che Mycroft Holmes, il quale si
avvicinò usando il proprio ombrello chiuso come un bastone
da passeggio.
«Ispettore»,
lo salutò con cortesia. «Non si arrende proprio
mai? Ammirevole».
«O
incredibilmente stupido», rispose con un ghigno, gettando il
filtro a terra.
Bussarono al 221B e fu
la signora Hudson ad aprire e a scortarli entrambi al piano superiore,
dove trovarono Sherlock seduto sulla sua poltrona, intento a giocare a
scacchi contro un avversario invisibile.
Ganimard non ci
trovò nulla di particolarmente strano e si
complimentò per il bel livido sul suo naso, ma Mycroft...
Mycroft lo trapassò con lo sguardo e disse: «Hai
compagnia, fratellino?».
Il detective rispose
atono, concentrato sulla partita: «Voi due, anche se non
siete della più gradita. Mi riferisco specialmente a mio
fratello, non si offenda ispettore».
«Assolutamente»,
lo rassicurò Justin, srotolando il giornale per mostrargli
la prima pagina. «Hai letto? Ora Arsène Lupin
è ufficialmente sbarcato in Inghilterra con il colpo a
Thibermesnil. Mi spieghi come hai fatto a convincerlo a restituire
tutto?».
«Non sono
stato io», rispose con calma. «Ma miss Nelly
Underdown».
«Che
cosa...?».
«Sul serio,
Sherlock, qui c'era qualcuno prima che arrivassimo»,
insistette Mycroft, picchiando la punta dell'ombrello sul pavimento.
Sherlock
alzò gli occhi dalla scacchiera e lo sguardo che gli rivolse
fece correre un brivido sulla schiena dell'ispettore.
«Ti dico che
ti sbagli», ringhiò, mostrando i denti.
Mycroft non fece una
piega, ma non lo contraddisse nemmeno. Probabilmente non voleva che
l'ispettore si spaventasse ulteriormente davanti ad un litigio tra
Holmes.
«Ad ogni
modo...», osò mettersi in mezzo Ganimard.
«Sono qui perché questa mattina ho ricevuto una
telefonata da Folenfant. Uno dei pochi, se non l'unico, che ancora non
mi considera un pazzo».
«E?».
«Maurice
Leblanc questa mattina ha preso un aereo per Londra».
Guardò l'orologio che portava al polso e aggiunse:
«Dovrebbe essere atterrato da poco».
Sherlock si
addossò contro lo schienale della poltrona, le dita delle
mani unite davanti alla bocca. «È probabile che
sia voluto venire di sua spontanea volontà, dopo aver saputo
del furto ai Devanne».
«O forse
perché Lupin ne ha in mente un'altra delle sue e vuole il
suo reporter!», strepitò l'ispettore,
infervorandosi. «Dobbiamo metterlo sotto sorveglianza!
Dobbiamo mettere entrambi
sotto sorveglianza!».
Sherlock scosse il
capo. «Come crede di convincere Scotland Yard a spendere
energie e risorse per pedinare due cittadini francesi che fino a prova
contraria non hanno fatto nulla di male?».
«Inoltre se
la notizia trapelasse - cosa certa visto che uno dei due è
un membro della stampa - sarebbe uno scandalo non indifferente.
Verremmo accusati di violazione della privacy, abuso di potere e
un'altra mezza dozzina di reati; il governo francese ci salterebbe alla
gola e di conseguenza Downing Street ci taglierebbe la testa, me per
primo», intervenne Mycroft, suscitando l'attenzione di
Sherlock, il quale rivolse a Ganimard un sorriso a trentadue denti
dicendo:
«Sa, forse
ripensandoci...».
«Non sei
divertente, Sherlock».
«Quindi
dovremmo starcene con le mani in mano, come sempre, ad aspettare che
Lupin colpisca?», sbottò il francese, guardando
prima l'uno e poi l'altro.
Non ricevendo risposta
lanciò il giornale sulla poltrona vuota e se ne
andò a passi pesanti, sbattendosi poi la porta d'ingresso
alle spalle.
Il silenzio
tornò grave e pesante sui due fratelli, almeno fino a quando
Mycroft non si schiarì la gola e domandò:
«Lei dov'è?».
«Non so di
chi tu stia parlando».
«La
ragazzina, la figlia di Lupin».
«Cosa ti fa
credere che...?».
«Il
profumo», rispose annoiato. «Note fruttate:
bergamotto, mandarino, pesca; e un fondo di vaniglia e caramello. Lo
stesso profumo che aveva Geneviève quando l'hai portata da
me la prima volta. E poi la scacchiera», la
indicò, annoiato. «Tu non avresti mai mosso i
pezzi in quella maniera. C'era un principiante davanti a te».
Sherlock era pronto a
ribattere quando Geneviève in persona si palesò
in salotto, con la coperta che non le cingeva le spalle appallottolata
tra le braccia e le scarpe in una mano.
A Mycroft
bastò uno sguardo per unire i puntini e mettersi sul volto
la maschera della persona addolorata. «Le mie
condoglianze».
«Grazie»,
rispose freddamente la ragazzina.
Sherlock si
alzò e si avvicinò al fratello, interrompendo la
battaglia di sguardi tra i due.
«Allora,
perché sei venuto?».
«Volevo solo
sapere il motivo dell'improvviso cambio di programma. Ora è
tutto chiaro».
«Bene,
conosci la strada».
«Preferisco
che mi accompagni».
Sherlock
roteò gli occhi al cielo e scortò Mycroft fino al
pianerottolo.
«Ne sei
proprio sicuro? Non sappiamo che conseguenze avrà la tua
decisione».
«Sono certo
che sarai all'altezza della situazione».
Stava per rientrare,
ma il fratello lo afferrò per il polso e si
avvicinò al suo orecchio per sussurrare: «Sappiamo
invece come può diventare Arsène se si
ingelosisce, vero? Io non starei troppo vicino alle sue
proprietà».
«Geneviève
non è una sua proprietà»,
ribatté piccato.
«La chiama
il suo "tesoro più prezioso"».
Mycroft
sollevò le sopracciglia, consapevole di aver segnato un
punto a suo favore. Scendendo le scale, lo salutò con
un'alzata d'ombrello.
Sherlock
rientrò in salotto e si sbatté la porta alle
spalle, facendo sobbalzare Geneviève, la quale era tornata a
sedersi sulla poltrona di John e stava leggendo il giornale lasciato da
Ganimard.
Si
appollaiò sulla sua poltrona di pelle, meditabondo, e fu
proprio lei a riportarlo alla realtà, affermando con voce
triste: «È come quand'ero piccola: non
potrò mai rivelare a nessuno l'identità di mio
padre. Dovrò negare, nascondermi... Non saprò mai
che cosa vuol dire avere un padre normale».
«E lo
preferiresti davvero?».
Geneviève
si strinse nelle spalle, sollevando il re nero dalla scacchiera per
osservarlo più da vicino.
Sherlock
sospirò, ripensando alla missione che lui non era mai
riuscito a portare a termine. «Potresti sempre provare a
fargli abbandonare la carriera di ladro».
«Non posso
farlo. Non posso chiedergli di cambiare per me. E poi forse hai
ragione... non credo che mi piacerebbe. Arsène Lupin
è ciò che è, è mio padre e
gli voglio bene nonostante tutto».
Il detective le prese
il re dalle mani e lo riposizionò sulla scacchiera.
«Dov'eravamo
rimasti?», cambiò discorso quasi bruscamente.
«Uhm... Ah!
Ti stavo per mangiare il cavallo!», gridò
Geneviève, già pronta a portare a termine la sua
mossa.
Sherlock
però la fermò, afferrandole il polso e
guardandola dritta negli occhi.
«Sei sicura
di volerlo fare? Potrebbe essere una trappola».
La ragazzina
corrugò la fronte ed osservando con più
attenzione la disposizione dei pezzi capì che se avesse
mangiato il suo cavallo, messo proprio sulla linea della propria
regina, quest'ultima sarebbe stata presa dall'alfiere.
«Volevi
mangiare la mia regina!».
Sherlock sorrise,
quasi dolcemente, e la lasciò andare. «Lo scopo
del gioco è proteggere il re, ma qual è il pezzo
con più libertà di movimento, quello
più forte se vogliamo?».
«La
regina».
«Il re
sarebbe perduto, senza di lei... E va protetta tanto quanto
lui».
C'era qualcosa nel suo
discorso, una specie di sottotesto, che Geneviève colse e
per questo arrossì, con il labbro inferiore tra i denti.
Sherlock non l'avrebbe
mai detto ad alta voce, ma sperava che Arsène non la
chiamasse il suo "tesoro più prezioso" per semplice vanto,
ma perché fosse pienamente consapevole che se
anche gli avessero tolto tutte le ricchezze di cui si era appropriato
negli anni sarebbe comunque rimasto l'uomo più ricco del
pianeta, avendo l'amore incondizionato di sua figlia.
«A volte non
ti capisco proprio, Sherlock Holmes».
«Non sei
l'unica».
«Perché
fai a meno della tua regina?».
Il detective
guardò la scacchiera e la sua regina era lì,
insieme agli altri pezzi, al sicuro da ogni possibile attacco.
«Che cosa stai dicendo?».
«Non quella
regina», ridacchiò. «Quella
là fuori».
Oh, chiaro.
Quand'è che si sarebbe arresa e avrebbe lasciato perdere?
Forse, se le dava ciò che voleva...
«Te l'ho
detto: va protetta ad ogni costo».
«Anche a
costo di sacrificare il re?».
«Certo».
«Così
facendo però perderesti».
Sherlock la
fissò, scioccato. Stava ancora parlando di Molly o degli
scacchi? Stava perdendo il senso della realtà.
Geneviève
sorrideva tranquilla però, come se avesse pienamente
raggiunto il suo scopo. E l'aveva fatto, eccome: aveva instillato il
dubbio nella sua mente, ritorcendo le sue stesse parole contro di lui.
Quella ragazzina...
Con la lingua si
toccò l'angolo sinistro delle labbra e spostò in
avanti un pedone, mettendolo a difesa di uno dei suoi pezzi.
Estremamente soddisfatta, alzò gli occhi sul consulente
investigativo, il quale ricambiò con serietà.
«Che
c'è? Ho sbagliato?».
«No, la
mossa andava bene. È tutto il resto... Anche io a volte non
ti capisco, Geneviève».
Dalla sua espressione
improvvisamente preoccupata intuì che forse avrebbe
preferito non sentire quelle parole, che avrebbe preferito pensare di
essere un libro aperto per lui. Che avesse davvero qualcosa da
nascondere, come aveva sempre pensato? Che lui non fosse l'unico a
sfruttare quella loro amicizia, di cui stavano entrambi perdendo un po'
il controllo, per altri scopi?
Solo il tempo avrebbe
potuto dirglielo. Una mossa per volta.
***
«Amico
mio», sussurrò Arsène attirandolo tra
le sue braccia - uno, in realtà - per stringerlo forte.
Maurice
ricambiò con attenzione, domandando: «Che cos'hai
fatto al braccio?».
«Ah, una
sciocchezza. Sono così felice di vederti... Iniziavo a
sentirmi nostalgico, in questa terra straniera».
Maurice sorrise mesto
e gli diede delle lievi pacche sulla schiena, più simili a
carezze. «Mi dispiace molto».
«Per che
cosa?».
Si scostarono l'uno
dall'altro per guardarsi negli occhi e il reporter si
sistemò gli occhiali sul setto nasale prima di rispondere
piano: «Per la tua perdita. Avrei voluto saperlo prima,
starti vicino...».
Il Ladro Gentiluomo
gli rivolse un sorriso commosso. «Lo apprezzo molto, Maurice.
Sarebbe stato molto sconveniente, però. Vedi, anche ora
stiamo correndo un rischio».
Si sedettero al tavolo
uno di fronte all'altro e subito un cameriere portò loro i
menù.
«Non pensi
di esagerare un po' troppo?», gli chiese Maurice.
«Anche se ci vedessero insieme, non è una prova
sufficiente per accusarti di essere tu-sai-chi».
Arsène rise
di cuore. «Avresti ragione, se non fossimo nel terriotorio di
Sherlock Holmes. L'ho fatta franca a Thibermesnil, ma per un pelo. La
prossima volta non esiterà ad ammanettarmi».
«Ma i tuoi
alias... Insomma, noi due ci conosciamo da tempo ormai,
vero?».
«Vero»,
rispose il ladro, sorridendo mentre sollevava una mano per richiamare
l'attenzione del cameriere.
«Sei sempre
apparso a me come una persona diversa o, piuttosto, la stessa persona
circondata di specchi, ognuno riflettente un'immagine deformata. Se
fossi entrato da solo in questo ristorante non avrei mai saputo
riconoscerti!».
Il cameriere
portò loro dell'acqua e del pane e ritirò i loro
ordini. Arsène gli aveva parlato sorridendo, ma non appena
si fu allontanato la sua espressione cambiò radicalmente:
sembrava stanco, addirittura triste... Maurice non l'aveva visto spesso
in quello stato.
Lo guardò
mentre prendeva il calice del vino e se lo portava davanti al volto per
rispecchiarcisi.
«Io stesso
non so più bene chi io sia. Tutti i miei alias, le mie
molteplici vite, i miei travestimenti... Il fatto stesso di avere un
nome d'arte, di essere diventato un personaggio... Guardandomi allo
specchio non mi riconosco più. Dov'è il
bambino...?».
Si interruppe
bruscamente e il suo umore cambiò di nuovo, mutevole come il
tempo.
«Ma
d'altronde perché avere un aspetto definito?»,
esclamò, gli occhi brillanti. «Perché
costringersi a vivere solo una vita? Sono le mie azioni a rendermi
ciò che sono». Si chinò sul tavolo e lo
fissò dritto negli occhi, precisando con orgoglio:
«Mi fa comodo che non si possa mai dire in tutta certezza:
"Ecco Arsène Lupin". L'essenziale è che si dica
senza timore di sbagliare: "Arsène Lupin ha fatto
questo"».
Insieme ai loro
piatti, il cameriere portò un vino bianco in abbinamento. Ne
versò un po' nei loro bicchieri e rimasti soli sollevarono i
calici in un brindisi.
«Al Ladro
Gentiluomo, allora».
Arsène si
incupì nuovamente, ma provò a nasconderlo con uno
dei suoi sorrisi abbaglianti. I suoi occhi però non
mentivano, non in quell'occasione.
«C'è
qualcosa che ti preoccupa?», gli domandò Maurice
cautamente, per paura che si richiudesse ancora di più in se
stesso. «Puoi parlarmene, se vuoi».
«Si tratta
di Sherlock Holmes. I miei travestimenti e le mie doti recitative sono
inutili, con lui. Ho capito che sarebbe stato così dalla
prima volta che ci incontrammo, molti anni fa. Mi ha afferrato con quei
suoi meravigliosi occhi azzurri, imprigionato, registrato. Ha scattato
il negativo della mia persona ancor prima di cogliere il mio vero
aspetto alla Santé, perciò non perdo nemmeno
più tempo a travestirmi».
«Non
capisco, se è così pericoloso perché
non torni in Francia?».
«Non posso,
non prima di aver conquistato il mio tesoro più
grande».
Maurice smise di
arrotolare intorno alla forchetta le sue linguine e lo
fissò, gli occhi sgranati colmi di curiosità.
«E puoi dirmi di che cosa si tratta?».
Arsène
assottigliò le labbra ridenti. «No, mi dispiace.
Come ti dissi quando mi chiedesti di scriverti l'ultimo elegio alla
Donna Bionda da pubblicare, certe cose devono rimanere
segrete».
Il motivo per cui il
Ladro Gentiluomo aveva scelto come proprio portavoce quel ragazzo tra
tutti gli stimati giornalisti de L'Ècho de France era molto
semplice: era gentile, umile e con dei solidi principi morali. Non
andava a caccia di scoop, non pubblicava notizie con lo scopo di far
andare a ruba le copie; al contrario dei suoi colleghi, credeva ancora
che il mondo, ora più che mai, avesse bisogno di speranza,
di eroi. E aveva scelto lui, Arsène Lupin, perché
cercava di riequilibrare le differenze sociali. Certo, non aveva scelto
la strada della legalità, ma almeno era qualcosa.
«E va
bene», rispose Maurice sorridendo. «Rispetto la tua
decisione, nonostante sia sempre più convinto che il tuo
pubblico avrebbe apprezzato sapere che sei umano, che anche tu e i tuoi
complici soffrite e che...».
«E che
possiamo morire». Arsène sospirò e si
passò le mani sul volto. «No, la gente sa
benissimo che sono umano. Sono finito in prigione per una donna! Una
donna che tre giorni fa è convolata a nozze».
Il reporter si
pulì gli angoli della bocca con il tovagliolo e dispiaciuto
fece per allungare una mano verso la sua, ma Arsène la
ritrasse e ancora una volta finse di stare bene.
«Come sono
le tue linguine?».
«Ahm...».
Maurice abbassò gli occhi sul piatto, confuso.
«Ottime, sì. Tu però non hai mangiato
nemmeno un boccone».
In compenso
però aveva bevuto già tre bicchieri di vino. Che
Arsène stesse soffrendo, per una o più ragioni,
ormai gli era chiarissimo.
«Non ti
preoccupare per me. Piuttosto, c'è qualcosa che vorresti
fare durante il tuo soggiorno londinese?».
«Mi affido a
te», rispose Maurice, per poi ripensarci e aprire nuovamente
la bocca. Non pronunciò una parola però, timoroso
di offendere il prestigioso amico.
«Che cosa
c'è? Parla liberamente!», lo incalzò
quest'ultimo, sorridendo.
«Beh, mi
chiedevo... Sarebbe un'onore per me scambiare due parole con Sherlock
Holmes e il dottor Watson. Voi due siete stati rivali in molte
occasioni e mi piacerebbe avere il suo punto di vista...».
Arsène si
addossò contro lo schienale della sedia e fissò
il contenuto del proprio bicchiere, ruotandolo con degli aggraziati
movimenti di polso.
Rifletté a
lungo, tanto a lungo che Maurice fu sul punto di rinunciare
spontaneamente al proprio desiderio. Prima che potesse farlo
però, il Ladro Gentiluomo disse: «Ma
sì, credo sia fattibile. Io non potrò
accompagnarti per ovvie ragioni e se deciderai di scrivere un articolo
dovrò approvarlo prima della pubblicazione, ma per il resto
sei libero di fare ciò che vuoi, Maurice. Ho piena fiducia
in te».
Il ragazzo gli rivolse
un sorriso grato, il cuore gonfio d'orgoglio per ciò che
aveva appena detto. Si fidava di lui!
«Grazie.
Grazie, non ti deluderò».
***
John entrò
nell'appartamento di Sherlock e trovò il salotto vuoto,
così si sporse verso la cucina e trovò il
detective e Geneviève in piedi dietro il tavolo, alle prese
con
qualche folle esperimente. Almeno indossavano gli occhiali protettivi.
«Mi sto
annoiando», sbuffò la ragazzina.
«Continuare
a ripeterlo non serve», rispose monocorde Sherlock.
Fu allora che lei si
accorse del loro arrivo: il sorriso che si aprì sul suo viso
fu come il primo raggio di sole dopo una furiosa tempesta e John ne fu
contagiato.
Geneviève
abbandonò il fianco dello scienziato per correre da Rosie,
ma nel farlo lo urtò, rischiando di fargli cadere il
composto su cui stava lavorando. Sherlock lo salvò
all'ultimo momento e dall'espressione furiosa che le rivolse, John
capì che non era l'unica cosa che rischiava di esplodere.
Lasciò la
figlia alla ragazzina, la quale improvvisò un balletto nel
salotto, e si avvicinò all'amico per calmarlo e chiedergli:
«Da quanto tempo è qui?».
«Da questa
mattina. Dopo il funerale ha insistito per venire qui e all'inizio
pensavo che non sarebbe stato un problema, ma... guardala!»,
la indicò, disperato, mentre faceva giravolte con una Rosie
divertita. «È iperattiva! Vuole fare mille cose e
non ne finisce una perché si annoia! Non ce la faccio
più, John!».
«Ora sai
finalmente come mi sentivo quando abitavo con te»,
esclamò il dottore, dandogli una pacca sulla spalla.
«Io non ero
affatto così!».
«Hai
ragione, a volte eri peggio. Ti ricordi quando rientrasti coperto di
sangue, con un arpione in mano?».
John
sollevò le sopracciglia, compiaciuto dal silenzio di
Sherlock, e fece per tornare in salotto. Non ne ebbe il tempo
materiale, richiamato dall'amico.
«Quando hai
intenzione di dirglielo?», gli chiese a bassa voce, cauto
ché non li sentisse.
Il dottor Watson si
gettò un'occhiata alle spalle. «Non ne ho idea. E
tu quando hai intenzione di affrontare Molly? O Irene Adler?».
«Touché»,
mormorò il detective, prendendo il composto e versandolo nel
lavandino, dove sfrigolò come olio bollente. Quindi si tolse
gli occhialini trasparenti e raggiunse John in salotto, sedendosi sulla
propria poltrona.
«Mi dispiace
di non essere riuscito a venire al funerale», disse il
dottore a Geneviève, la quale si era seduta sul divano, con
Rosie sulle ginocchia.
La ragazzina si
strinse nelle spalle, rispondendo: «Non è stato
nulla di che. Mia madre non aveva nessuno, a parte mio padre. In
realtà ha una sorella, ma qualcuno non vuole
aiutarmi a
trovarla...».
John si
voltò verso Sherlock, a cui era stata rivolta la
frecciatina. Avrebbe voluto aiutarlo, farla finita proprio in quel
momento, ma venne interrotto dal cellulare del detective.
«Una
chiamata da Scotland Yard», annunciò prima di
rispondere. «Pronto? Sapevo che l'avrei risentita, Ganimard,
ma non pensavo in queste circostanze. Ha cercato di cogliere Lupin e
Leblanc insieme ma non ci è riuscito, ho ragione?».
Il sorriso vittorioso
che si impossessò delle labbra di Sherlock mentre ascoltava
la risposta del francese fece capire loro che non si era sbagliato,
come sempre.
«Non la
capisco, ma rispetto la sua tenacia. Arrivo il prima
possibile».
Terminò la
conversazione e ridacchiò, portandosi una mano sulla fronte.
«Vuoi
spiegare anche a noi?», chiese Geneviève,
anticipandolo.
«Tuo padre.
Aveva previsto che Ganimard avrebbe tenuto d'occhio Maurice Leblanc -
il suo portavoce ufficiale su L'Ècho de France -
così ha sfruttato l'occasione per crearsi un vantaggio.
Ganimard l'ha visto entrare al ristorante del Savoy e ha provato a fare
lo stesso per coglierli in flagrante, ma tutto il personale doveva
essere stato avvisato da Lupin, forse addirittura comprato,
perché lo tenessero a debita distanza. Ganimard ha perso le
staffe e ha colpito un cameriere».
«Caspita...
È nei guai?».
Sherlock
sospirò e si alzò. «Non solo
è stato bandito a vita dal Savoy, ma si trova a Scotland
Yard al momento. Mi ha chiesto se posso fare qualcosa per
aiutarlo».
«E
perché dovresti?», domandò
Geneviève, attirando l'attenzione di entrambi.
John
corrugò la fronte, confuso. Che razza di domanda era?
«Quel
Ganimard è stato stupido e ha sbagliato a colpire quel
cameriere, dovrebbe affrontarne le conseguenze», aggiunse
aspramente. «Inoltre la sua ossessione per mio padre mi
disturba. Che cosa gli ha mai fatto di male, per volerlo
così ardentemente dietro le sbarre?».
Il dottor Watson,
sconvolto dalle sue parole, non avrebbe saputo cosa rispondere nemmeno
volendo. Si limitò a guardare Sherlock abbottonarsi la
giacca e perforarla con quel suo sguardo di ghiaccio e al contempo
incendiato di fiera determinazione.
«Sarà
per la morte di tua madre, ma credo che tu sia un po'
confusa», esordì. «Pensavo di essere
stato chiaro con te, o te lo sei dimenticata? Lo so che io e tuo padre
ci comportiamo spesso come due vecchi amici e che entrambi a volte ci
crogioliamo in questo pensiero perché è
ciò che vorremmo, ma la verità è che
siamo e saremo sempre rivali. Anche a me non ha mai fatto nulla di
male, anzi... ma i criminali non si catturano per interessi personali.
E non devi avere dubbi su questo: presto o tardi lo
catturerò e dovrà, come hai detto tu, affrontare
le conseguenze dei suoi sbagli».
Geneviève
deviò il suo sguardo, stringendo a sé il
corpicino di Rosie.
«Per quanto
riguarda l'ispettore Ganimard, lui ha perso quasi tutto a causa di tuo
padre. L'ha presa fin troppo sul personale, questo te lo concedo, ma
è un uomo di giustizia e per questo andrò ad
aiutarlo. Scusami John, ci vediamo».
John non ebbe nemmeno
la forza di rispondere: si limitò a sollevare una mano in
segno di saluto, quando ormai Sherlock aveva lasciato il salotto per
scendere le scale, afferrare il cappotto e uscire in strada. Poi
guardò Geneviève, ancora con Rosie stretta al
petto come se si trattasse di una bambola in grado di confortarla.
«Ehi»,
provò ad attirare la sua attenzione e magari dirle che non
era così grave come sembrava, ma avrebbe mentito: le parole
di Sherlock non lasciavano altra interpretazione.
La ragazzina
sollevò di scatto il capo, con una nuova durezza nello
sguardo, e si alzò per consegnargli la figlia.
«Dove
vai?», le chiese, seguendola mentre anche lei prendeva la via
delle scale. La domanda si rivelò inutile quando
anziché scendere salì.
La porta venne
sbattuta con forza e dopo qualche secondo la sentì gridare a
squarciagola. Con quelle urla uscirono tutta la frustrazione, il dolore
e la rabbia che aveva contenuto fino a quel momento.
John
l'ascoltò ripetere l'operazione più volte, ad
occhi chiusi, fino a quando anche la signora Hudson non lo raggiunse,
preoccupata. Lui indicò il piano di sopra e lei si
portò una mano sul cuore.
«Oh,
cielo».
Come se ciò
non fosse abbastanza straziante, la piccola Rosie iniziò a
piangere e finché Geneviève non si
calmò non lo fece nemmeno lei, non importava quanto la
cullasse.
Dopo un quarto d'ora
di silenzio, John si insospettì e salì le scale.
Bussò alla porta della sua vecchia stanza e la
chiamò, più volte, senza mai ottenere risposta.
Alla fine provò a girare il pomello e non la
trovò chiusa a chiave, così entrò
annunciandosi a gran voce. Non servì a nulla:
Geneviève se n'era andata, lasciandosi alle spalle solo la
finestra aperta.
***
Sherlock
entrò a Scotland Yard seguito dagli sguardi di tutti i
poliziotti di turno. Strano come avessero cambiato il loro
atteggiamento nei suoi riguardi, passando dall'irritazione
all'ammirazione, da quando erano stati portati a credere di aver spinto
un uomo al suicidio. Solo quando incrociò gli occhi di
Lestrade, l'unico che era sempre stato dalla sua parte,
riuscì a liberarsi da tutta quella pressione. Era seduto
dietro la propria scrivania, in compagnia dell'ispettore Ganimard, e lo
stava aspettando.
«Ciao
ragazzo, grazie per essere venuto», lo salutò il
francese.
«Da quello
che mi ha detto al telefono, la credevo in manette».
Lestrade
unì le mani sullo stomaco, ma davanti ad un collega
straniero non osò posare i piedi sull'angolo della
scrivania.
«Non siamo
mai arrivati a tanto, ma ha rischiato molto. Se la denuncia non fosse
stata ritirata...».
Sherlock si
avvicinò, la fronte aggrottata.
«Ripeti?».
«La denuncia
è stata ritirata», sospirò Justin,
stringendo forte i pugni sulle ginocchia. Era furente di rabbia, tanto
che rischiava di accendere tutte le sigarette che aveva nella tasca del
trench.
«E subito
dopo la nostra telefonata, guarda caso. Arsène voleva solo
umiliarmi, spingendomi a chiedere il tuo aiuto».
«Non
c'è niente di male nel chiedere aiuto», disse
Lestrade, attirando su di sé gli sguardi orgogliosi di
entrambi.
Ganimard si
alzò e sospirò stancamente. Prima di uscire
dall'ufficio, ripeté: «Grazie ad
entrambi».
Rimasti soli, Greg si
alzò dalla poltrona e ruppe il silenzio schiarendosi la gola.
«Non
posso», disse Sherlock.
L'ispettore si
portò le mani sui fianchi, gli occhi alzati al cielo.
«Non ho nemmeno aperto bocca!».
«Dovresti
saperlo che a volte non ce n'è bisogno». Il
detective indicò le fotografie di una scena del crimine
impilate sulla scrivania e spiegò: «Volevi
chiedermi aiuto per quel caso, non è vero? È per
quello che hai risposto in quel modo, poco fa: non era gentilezza, ti
sei sentito in difetto».
«E se fosse
stata gentilezza?».
Sherlock
sbuffò, allungandosi sulla scrivania per afferrare il
post-it incollato accanto al telefono, dove, oltre ad essere state
scritte varie parole sottolineate ed incorniciate da punti di domanda,
c'era un nome: il suo.
«Okay, va
bene», ammise l'ispettore con l'accenno di un sorriso.
«Allora, vuoi sapere di che si tratta? Avevamo dato per
scontato fosse un suicidio, ma qualcosa non torna. Poco fa Molly ha
terminato l'autopsia e mi ha chiamato dicendomi che ha qualcosa da
mostrarmi».
«Per questo
ho detto che non posso».
Lestrade
impiegò qualche secondo per capire di cosa si trattasse
davvero.
«Ah,
andiamo!», esclamò. «Non la starai
davvero evitando!».
Il silenzio e lo
sguardo triste di Sherlock furono meglio di mille parole.
«E io che
pensavo che Molly stesse scherzando», mormorò
l'ispettore, stupito. «Dev'essere successo qualcosa di grosso
per trasformare il grande detective in un grande codardo».
«Non sono un
codardo, ho le mie ragioni», lo contraddisse con una smorfia.
Si diresse verso la
porta e con un piede ormai fuori dall'ufficio urlò:
«Comunque Lupin ha una talpa all'interno di Scotland
Yard!».
«Una
talpa?», ripeté Lestrade, incredulo.
Si
precipitò alla porta, ma Sherlock era già
lontano. Allora appoggiò entrambe le mani agli stipiti e
guardò tutti gli agenti presenti nella sala, chi alla
propria scrivania, chi al distributore di caffé e chi
intento a fare fotocopie. Decine di occhi ricambiarono il suo sguardo e
l'ispettore finalmente capì: se la denuncia era stata
ritirata proprio dopo la telefonata che aveva concesso a Ganimard,
allora...
Lestrade
imprecò e lasciò anche lui la sede della polizia
inglese, diretto verso il St. Bart's.
A quell'ora della sera
era tutto così tranquillo, tanto da fargli venire i brividi
quando si trovava nei pressi dell'obitorio. I film horror iniziavano
sempre così: con la quiete. Ogni volta che ci pensava si
chiedeva come diavolo facesse Molly a fare i turni di notte.
Arrivò fino
alle vetrate e vi bussò contro per attirare l'attenzione
dell'anatomopatologa. Lei sollevò il capo dall'ultimo ospite
morto che le era stato portato e gli fece segno di entrare. Nel
frattempo si tolse la mascherina e i guanti in lattice sporchi per
infilarsene un paio pulito, poi senza troppi convenevoli
andò ad aprire la cella frigorifera in cui era conservata la
sua vittima: una ragazza ancora senza nome, dato che non avevano
trovato documenti sulla scena del crimine né le sue impronte
avevano dato risultati. Sapevano solo che aveva un'età
approssimativa tra i venti e i trentacinque anni, che era di razza
caucasica e che, prima di morire con un buco che andava da tempia a
tempia, aveva in circolo della morfina, quasi come se l'assassino -
sì, la pistola non era stata trovata accanto al cadavere -
non avesse voluto che provasse dolore.
Mentre Molly parlava,
Greg non riusciva a pensare ad altro che alle parole di Sherlock.
«Ha detto di
avere una ragione», esclamò ad alta voce,
rendendosene conto troppo tardi per rimangiarselo.
Molly lo
fissò confusa. «Che cosa?».
«Sherlock...
l'ho incontrato, poco fa», confessò, passandosi
una mano sul collo. «Volevo che mi aiutasse con questo caso,
ma ha rifiutato perché non voleva incontrarti. Ti sta
evitando, ma ha detto di avere una ragione».
Rimasero in silenzio a
lungo, senza guardarsi negli occhi e con una morta tra loro. Greg si
sentì così male, così in colpa per
aver tirato fuori l'argomento che si scusò, scrollando il
capo.
«No, non ce
n'è bisogno», rispose Molly con un piccolo
sorriso. «Non è colpa tua, ma di Sherlock.
È sempre colpa sua».
«Sì,
però...».
«Sono stufa,
Greg. Il mio è un amore malato, che mi sta avvelenando la
vita. E a questo proposito volevo... volevo chiederti una
cosa».
Stupito da quel
repentino cambiamento di tono, da uno affranto e deluso ad uno timoroso
e imbarazzato, Lestrade la lasciò finire senza interromperla.
«Saresti
libero questo sabato? Mi hanno dato due biglietti per la Royal Opera
House e pensavo... potremmo andarci insieme, se vuoi».
Si trattava di un
appuntamento? Sì, probabilmente.
C'era stato un periodo
in cui avrebbe tanto voluto che Molly gli lanciasse qualche segnale di
interesse, ma col tempo quel desiderio si era affievolito. Il fatto che
ora, proprio dopo quello sfogo, gli proponesse di uscire insieme, lo
faceva sentire come la ruota di scorta, il ripiego.
Inoltre, come poteva
reggere il confronto con Sherlock Holmes?
Non era giusto verso
Molly, la quale voleva semplicemente voltare pagina, ma Lestrade non
riuscì a dirle di sì.
«Mi
dispiace, Molly, ma...».
Anticipando le sue
parole, l'anatomopatologa ridacchiò e portò le
mani avanti, dicendo: «No, perdonami, sono stata una stupida.
Ti stavi frequentando con Danielle, vero? Me l'ero completamente
scordata».
Sapeva perfettamente
che la storia con Danielle era naufragata ancor prima di iniziare, ma
Greg decise di stare al gioco e le rivolse un sorriso carico d'affetto.
Avrebbero entrambi
trovato la persona giusta, presto o tardi. O almeno era questo che si
diceva ogni notte, prima di addormentarsi da solo.
«Allora,
cosa stavi dicendo?», tornò a concentrarsi sulla
vittima.
E Molly, di nuovo
nella sua comfort zone,
rispose: «Mentre esaminavo il corpo ho notato dei punti di
sutura poco sopra l'ombelico, eseguiti post-mortem. Li ho rimossi e
all'interno ho trovato... quella».
La seguì
fino ad un tavolino e dentro ad un contenitore di plastica circolare e
perfettamente sigillato vide una fish rossa da casinò.
«Mi stai
prendendo in giro?», domandò retoricamente.
Di certo quella
stranezza sarebbe piaciuta un sacco a Sherlock. Peccato se la stesse
perdendo, e non solo quella.
***
A che cosa stava
pensando? Sapeva perfettamente chi fosse Arsène Lupin e chi
fosse Sherlock Holmes. Sapeva che presto o tardi avrebbe dovuto
scegliere, ma aveva davvero bisogno di pensarci? Arsène era
suo padre, la sua famiglia; sarebbe comunque stata legata a lui per
sempre. Allora perché si era permessa di affezionarsi al
detective? Pensava davvero di poter ottenere l'amore di entrambi, che
per lei avrebbero deposto l'ascia di guerra? No, non sarebbe mai
accaduto ed era stata una stupida solo a pensarlo.
D'ora in avanti niente
più errori, si disse. Devi pensare solo a te stessa, a
stare
bene.
Non sarebbe stato
facile, ma ci sarebbe riuscita. Lei era forte... Era stato Sherlock a
dirlo e di lui si fidava, perciò non metteva in dubbio che
avrebbe fatto esattamente ciò che le aveva detto: alla prima
occasione avrebbe ammanettato suo padre, anche se ciò
avrebbe voluto dire toglierle tutta la propria famiglia.
Non poteva vivere in
quel modo, con la costante paura di rimanere sola al mondo, tradita
dall'unica persona che sembrava capirla veramente. Un amico, nonostante
la differenza d'età. Il fratello maggiore che non aveva mai
avuto.
E la piccola Rosie...
Adorava quella bambina, era la sorellina che le sarebbe piaciuto avere.
Ma niente le assicurava che avrebbe potuto vederla ancora, nel caso in
cui Sherlock avesse portato a termine la sua missione. Magari lo stesso
detective gliel'avrebbe impedito: era pur sempre una Lupin, nei suoi
geni c'era l'influenza criminale di suo padre e doveva stare lontana
dalle persone a lui care.
L'idea che l'avesse
accolta nel suo appartamento e si fosse avvicinato a lei solo per
giungere a suo padre - usandola proprio come lei aveva usato lui - si
rinforzava ad ogni passo.
Una volta sul Waterloo
Bridge però, appoggiata al parapetto e con lo sguardo
rivolto verso l'acqua scura sotto di sé, tutti i sospetti su
Sherlock crollarono.
L'aveva portata da suo
fratello Mycroft per convincerla ad usare le sue doti per il bene,
l'aveva resa la sua sidekick
per un giorno, l'aveva aiutata a scoprire la verità sul caso
del diamante azzurro, aveva partecipato al funerale di sua madre e quel
giorno l'aveva accontentata in tutto senza fiatare, nonostante glielo
avesse letto in faccia che non gli piaceva passare da
un'attività all'altra ogni dieci minuti.
Non era possibile che
avesse fatto tutto questo solo per ottenere la sua fiducia e
convincerla a consegnargli suo padre. Ma allora per quale altro motivo
l'aveva fatto? Ci doveva essere un motivo, ci doveva essere...
Con tutte quelle
domande per la testa attraversò di nuovo il ponte ed
entrò nella sfarzosa hall del Savoy. Raggiunse il piano dove
si trovava la Royal Suite di suo padre e trovò il solito
uomo davanti alla porta. Come d'abitudine, venne scortata di stanza in
stanza da diversi membri della sicurezza, fino a trovarsi al cospetto
del padre, immerso nella grande vasca da bagno scavata in un blocco di
marmo nero.
«Ciao
tesoro, sei tornata», la salutò senza particolare
entusiasmo. «Ti senti meglio?».
Geneviève
deglutì. Se si sentiva meglio? Davvero pensava che una
giornata con Sherlock Holmes le avrebbe fatto provare meno dolore?
«Sì,
un po'», mormorò in risposta. «Non
volevo disturbarti, scusami se...».
«No, nessun
disturbo. Anzi, hai fatto bene a passare adesso, dato che dopo
sarò impegnato. Io e Maurice abbiamo appuntamento al bar per
l'esibizione di Leona Zalti. Sai chi è?».
«No,
io...».
«Una
cantante di origini italiane. Ha avuto un breve successo vent'anni fa,
poi si è ritirata dalle scene. Ora che si trova in una
brutta situazione economica per via della morte del marito, il quale
non le ha lasciato nulla della sua fortuna, fa piccoli spettacoli in
giro per l'Inghilterra. Li spaccia come eventi esclusivi, ma in
realtà non c'è questa grande
richiesta». Arsène prese un po' di schiuma nella
mano e la soffiò verso i suoi piedi. «Ad ogni modo
si esibirà al Savoy e voglio andarci».
«Posso
venire anche io?», domandò timidamente la
ragazzina.
«Non credo
che sia il tuo genere, tesoro. E poi se Maurice dovesse vederti farebbe
immediatamente due più due».
«Ma...».
«Qualsiasi
cosa sia, tesoro, ne parliamo domani, va bene?». Le rivolse
un'occhiata apprensiva, col labbro inferiore sporgente, e aggiunse:
«Vai a riposare, hai un aspetto orribile».
Geneviève
strinse i pugni lungo i fianchi e si trattenne dall'urlargli contro. Se
anche ci avesse provato non era sicura che avrebbe sortito gli effetti
sperati: le sue corde vocali gridavano pietà, dopo le urla
liberatorie di poco prima.
Lo salutò
con un piccolo inchino della testa e poi, scansando gli uomini come una
furia, lasciò la suite del padre per correre nella propria,
dove si spogliò del vestito del funerale di sua madre, prese
il proprio mp3 e con le cuffie nelle orecchie si raggomitolò
sotto le coperte.
Sua madre era appena
morta, quella mattina l'avevano seppellita e alla sera suo padre,
anziché stare con sua figlia, preferiva andare a vedere una
cantante italiana da quattro soldi con Maurice? Ma che razza di
genitore era?
Forse si era offeso
perché era rimasta tutto il giorno con Sherlock Holmes, ma a
lei non importava. Era lei quella che stava soffrendo di più
dei due, lei era l'unica che poteva permettersi di comportarsi come una
bambina capricciosa. E invece Geneviève si era dimostrata
quella matura: aveva voluto scacciare la tristezza col lavoro,
decidendo di stare al 221B per sfruttare la pena che il suo lutto
avrebbe suscitato in Sherlock e far cadere un altro strato delle sue
difese (senza però riuscirci). Possibile che suo padre non
l'avesse capito?
Con le lacrime che le
scorrevano sul volto e la voragine che si allargava e si allargava nel
suo petto, si chiese se sua madre si trovasse in un posto migliore. Di
certo stava meglio di lei in quel momento, dilaniata dalla tristezza,
dalla solitudine e dalla terribile scelta che presto sarebbe stata
chiamata a compiere: Arsène Lupin, il padre che si
comportava come un bambino, o Sherlock Holmes, l'estraneo che si
comportava come un fratello?
***
Dopo la patetica e
carissima interruzione causata da Ganimard - il cameriere che era stato
colpito aveva voluto il doppio di quello che avevano pattuito per
ritirare la denuncia - Arsène e Maurice si erano spostati al
bar dell'hotel, dove avevano visto per la prima volta il manifesto che
pubblicizzava lo spettacolo della Zalti.
Il Ladro Gentiluomo
non aveva idea di chi fosse, ma gli era bastato guardare la locandina
per capire il valore di ciò che portava al collo: una
semplice catenina d'argento da cui però pendeva una
magnifica perla nera.
Scusandosi con l'amico
reporter, aveva fatto qualche ricerca sul proprio cellulare e aveva
scoperto tutto quello che più tardi avrebbe detto a
Geneviève, eccetto il suo intento: rubare quell'inestimabile
gioiello per regalarlo a lei. Le sarebbe stato così bene...
e forse sarebbe riuscito a riconquistare il suo affetto.
Poco prima delle
ventuno, Arsène scese al bar del Savoy: un ambiente
raffinato, dai toni scuri che contrastavano con le nicchie e le
rifiniture dei soffitti d'oro. Il piccolo palco - giusto un rialzo di
forma circolare per un pianoforte a coda, uno sgabello e un microfono -
era stato allestito al centro del locale, sotto il lampadario
provenzale dalla luce calda e morbida e davanti alla zona bar che
risultava essere la più luminosa, grazie al neon del bancone
e agli specchi e ai cristalli dell'espositore di alcolici.
Maurice si era
già accomodato e aveva ordinato da bere per entrambi,
conoscendo ormai i gusti di Arsène. Lo accolse accanto a
sé sul divanetto di velluto grigio scuro situato in una
delle nicchie dorate alla destra del palco e il suo sorriso
svanì per fare spazio all'apprensione.
«Va tutto
bene?», gli chiese. «Hai gli occhi così
arrossati...».
Il Ladro Gentiluomo si
passò una mano sul collo, imbarazzato. «Non
è niente, solo un po' di shampoo»,
mentì, tenendo per sé il ricordo delle lacrime
che aveva versato in quella vasca da bagno dopo il suo ultimo incontro
con Geneviève.
La stava perdendo, gli
stava scivolando via come sabbia tra le dita, e il solo pensiero gli
apriva il cuore in due. Ma avrebbe rubato per lei la perla nera e tutto
si sarebbe sistemato, ne era sicuro.
Nel bar
calò il silenzio e dei drappeggi neri calarono davanti al
bancone, rendendo l'atmosfera ancora più soffusa. Leona
Zalti, avvolta in un lungo vestito nero, salì sul palco
accompagnata dal suo pianista e sorrise agli spettatori mentre prendeva
posto sullo sgabello e sistemava l'asta del microfono all'altezza del
suo viso.
Arsène si
portò il bicchiere alla bocca e bevve un sorso, giusto per
umettarsi le labbra. I suoi occhi non si scostarono nemmeno per un
secondo dalla perla nera, così perfetta contro la pelle
diafana della cantante.
Si trattava di un
gioiello davvero unico, come la sua bambina.
Alla fine dello
spettacolo Arsène augurò la buonanotte a Maurice,
con la promessa di rivedersi la mattina successiva a colazione, e venne
raggiunto subito dal suo fedele collaboratore.
«È
tutto qui dentro, padrone», esordì, consegnandogli
il tablet.
«Bene,
grazie».
Prima di tornare nella
propria suite per studiare il piano d'azione però, si
alzò dal divanetto ed allacciandosi la giacca bianca si
diresse verso il retro del locale, raggiungibile tramite una porta
accanto al bancone del bar.
Mostrando la giusta
dose di tranquillità e sicurezza nessuno lo fermò
per chiedergli dove stesse andando. Raggiunse così la stanza
che era stata adibita a camerino per la signora Zalti, ma giusto prima
di bussare venne sorpreso da delle grida.
«Sei solo
una puttana!», gridò un uomo, per poi aprire la
porta e trovarsi davanti ad un allibito Arsène Lupin.
«E lei chi
diavolo è?».
Arsène
riuscì a sbirciare all'interno del camerino e vide la Zalti
col viso rivolto verso la parete, le spalle leggermente scosse
circondate dal braccio di quella che doveva essere la sua
parrucchiera-truccatrice, visti gli strumenti del mestiere che aveva
nello speciale marsupio legato in vita.
«Ah, non
importa!», urlò l'uomo ancor prima che potesse
rispondere, furibondo.
Aveva più o
meno quarant'anni, era alto e forte e dall'alito capì che
aveva bevuto molto, mentre dal viso che era un'abitudine. Era un
alcolista e probabilmente uno che, come effetto collaterale, diventava
violento.
«Se ne vada,
Leona non ha tempo per firmare autografi ora!».
Lo spinse e senza
controllare che se andasse davvero si allontanò a passo
pesante, stringendo i pugni lungo i fianchi e borbottando tra
sé. Arsène, sempre più sconvolto ed
adirato che al mondo esistessero tipi del genere, si
spolverò la giacca dove l'uomo aveva osato toccarlo e poi
scorse l'assistente della cantante avvicinarsi.
«Mi scusi,
ma non è proprio un buon momento», gli disse con
un sorriso dispiaciuto sul viso, prima di chiudergli la porta in faccia.
Il Ladro Gentiluomo
rinunciò all'idea di scambiare qualche parola con Leona
Zalti ed ammirare da più vicino la perla nera.
Uscì dal retro del bar così com'era entrato e
mentre si dirigeva verso la propria suite iniziò a leggere
le informazioni contenute nel tablet: la posizione e la planimetria
dell'appartamento della cantante, i nomi e le abitudini degli altri
inquilini del palazzo, le persone che potevano far visita alla stessa
Zalti. Queste ultime non era molte: una cugina, la sua assistente, il
suo pianista e l'uomo con cui aveva avuto l'onore di interagire, niente
meno che il suo manager.
In ascensore,
Arsène si prese il setto nasale tra le dita e non riuscendo
a resistere selezionò l'icona che gli permise di collegarsi
con le telecamere che aveva fatto installare nella suite di
Geneviève e che non aveva ancora tolto: la sua bambina era
rannicchiata sotto le coperte e respirava lentamente, addormentata. Era
così innocente, così bella... Tale e quale a sua
madre.
Le porte
dell'ascensore si aprirono e Arsène vi uscì,
entrò nella Royal Suite e vi rimase a studiare il proprio
piano fino a quando non arrivò il momento di agire.
«Chi diavolo
è a quest'ora?», sbottò la voce
gracchiante di una donna.
«Sono io,
ma'», biascicò il ragazzo, per poi scoppiare in
una risatina, con la guancia posata contro la telecamera del citofono.
«Sei il
figlio della signora Harel? Michael? Santo cielo, ti sei ubriacato
un'altra volta?».
«Fa freddo!
E devo pisciare», piagnucolò.
La donna
sospirò pesantemente e il portone del condominio si
aprì con uno scatto.
«Va bene, ti
apro. Ma domani mattina farò un bel discorso a tua madre!
Sai che ore sono?!».
Ma il ragazzo si era
già allontanato barcollando, facendo molta attenzione a non
farsi inquadrare in viso dalla telecamera. Una volta al sicuro
all'interno dell'androne, il ragazzo raddrizzò le spalle e
si tolse il cappellino da baseball blu per sistemarsi i capelli biondo
platino di Arsène Lupin.
E il primo ostacolo
era stato superato fin troppo facilmente.
I suoi ragazzi avevano
fatto un ottimo lavoro col background di ogni inquilino, fornendogli
così la copertura perfetta da utilizzare: Michael Harel,
ragazzo di vent'anni che spesso e volentieri tornava a casa ubriaco e
svegliava per errore gli altri inquilini chiamandoli al citofono. Come
avevano fatto a scoprirlo? Lo stupido aveva raccontato le sue
disavventure più di una volta sui suoi profili social.
Grazie a Facebook,
Twitter e Instagram ormai era un gioco da ragazzi per Arsène
rubare l'aspetto e la voce di chiunque.
A volte pensava che il
mestiere del ladro fosse il più semplice del mondo:
bastavano un po' di riflessione e un po' di destrezza. Tutti avrebbero
potuto farlo, tant'era facile. Un lavoro di tutto riposo, da padre di
famiglia. A volte così comodo da risultare persino
fastidioso.
Salì le
scale senza fare il minimo rumore e raggiunse il quinto piano, dove si
trovava l'appartamento di Leona Zalti.
Si era trasferita
lì dopo la morte del marito, rinunciando al suo sfarzoso
stile di vita pur di tenere con sé la perla nera. I tabloid
avevano speculato molto su quel gioiello, sul perché non
l'avesse venduto per tenersi la casa e vivere agiatamente per il resto
della sua vita, e i pettegolezzi si erano spinti fino a supporre che vi
fosse così legata perché era stata il regalo di
un altro uomo, un amante che aveva amato più del marito
defunto.
La verità
non era mai venuta a galla e ad Arsène non importava: tutto
ciò che voleva era mettere le mani sulla perla nera.
Il Ladro Gentiluomo
osservò la porta che aveva di fronte: nulla di
particolarmente complicato, ma che fare nel caso in cui il chiavistello
fosse stato chiuso?
Un problema per volta,
si disse ed iniziò ad armeggiare con la serratura esterna.
Quando sentì lo scatto che tanto adorava piegò la
maniglia e con sua enorme sorpresa la porta si aprì. La
fortuna lo assisteva.
Si infilò
dei copriscarpe monouso, dello stesso tipo in dotazione alla
scientifica, e silenzioso come la notte percorse l'appartamento senza
nemmeno dover accendere una luce. La piantina che gli avevano fornito i
suoi ragazzi era molto dettagliata, perciò sapeva
esattamente come fossero sistemati i mobili.
Ben presto fu davanti
alla camera da letto e una volta spinta in avanti la porta si
ritrovò immerso nel buio più totale. Le pesanti
tende erano tirate sulle finestre, lasciando fuori anche i deboli raggi
della luna, e Arsène decise di chiudere gli occhi per
concentrarsi ed estendere gli altri quattro sensi.
Immediatamente
percepì qualcosa di strano e il suo cuore iniziò
a battere più forte, ma decise di ignorare quella sgradevole
sensazione ed avanzò.
Aveva affrontato
situazioni ben più pericolose e non era mai stato
così agitato. Nessun pericolo lo minacciava, per questo non
riusciva a capire. Che fosse il buio? O la donna addormentata a pochi
metri da lui, ignara di tutto?
All'improvviso il suo
piede destro si posò su qualcosa che non doveva trovarsi
rovesciato sul pavimento: lo schienale di una sedia. Arsène
si chinò, ancora col cuore che pulsava nelle orecchie, ed
aggirò l'ostacolo, per poi trovarsi davanti ad una lampada
rovesciata.
Qua si mette male,
pensò, proprio mentre la sua mano tastava qualcosa che lo
fece ritrarre con un grido incastrato in gola. Rimase fermo immobile
per venti, trenta secondi, spaventato e col sudore che gli imperlava la
fronte, sulle dita ancora la sensazione di quel contatto.
Respirò
profondamente più volte per farsi coraggio e calmare i
nervi, quindi stese di nuovo la mano ed accarezzò dei
capelli, una fronte, il profilo di un naso, delle labbra socchiuse. Il
viso di una donna, senza dubbio, e freddo come neve.
Ecco che cosa l'aveva
stranito tanto appena entrato: non aveva sentito il respiro della
cantante.
Ormai non c'era
più nulla di ignoto e la paura scivolò via, tanto
che il cuore tornò a battere regolare nel petto e
Arsène si alzò per tirare fuori una piccola
torcia elettrica ed esaminare il cadavere.
«Leona
Zalti, morta», sussurrò, osservando il suo pallido
volto sfigurato dal dolore, gli occhi vitrei spalancati.
Il suo collo e le sue
spalle erano devastate da profonde ferite, da cui il sangue scuro,
ormai coagulato, era sceso copioso, formando una pozza intorno al
corpo. Poco lontano, l'arma del delitto: un coltello da cucina.
Appurato che non
corresse alcun pericolo, accese la luce e come aveva ipotizzato
trovò i segni della colluttazione avvenuta prima della
morte. Non poteva fare più niente per la cantante,
così si preoccupò per ciò per cui era
lì: la perla nera.
La Zalti se la
toglieva solo prima di andare a dormire e dato che si trovava in
vestaglia e sul collo non aveva segni lasciati da una catenina
strappata capì che il suo assassino doveva averla sorpresa
mentre la toglieva o subito dopo, considerando che il letto non era
stato disfatto. Inoltre, il fatto che non ci fossero segni d'effrazione
lo portava a pensare che la donna conosceva il suo aggressore e che lo
aveva lasciato entrare.
Andò al
mobile da toeletta e cercò la perla tra gli altri gioielli,
ma sembrava che qualcuno ci avesse già frugato. Allora si
voltò verso il tavolo vicino a cui aveva rinvenuto il corpo
della cantante e su di esso notò una scatola di legno
intagliato, simile ad un carillon. L'aprì e all'interno
trovò un semplice cuscinetto di velluto rosso su cui, col
tempo, si era formata una cunetta della stessa misura della perla.
L'assassino l'aveva
presa, non c'erano dubbi. Ma Arsène Lupin l'avrebbe trovata,
anche a costo di trasformarsi in detective per una notte.
Si sedette sul letto e
con le mani a sostenere il viso chiuse gli occhi, pensando a cosa
avrebbe fatto Sherlock Holmes.
|
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Capitolo 13 *** The black pearl ***
Buona domenica!
Sì, non vi state sbagliando: è passata solo una
settimana dall'ultimo aggiornamento! Voglio fare questo esperimento e
vedere se un capitolo a settimana può andare. Fatemi sapere
:)
E dite la verità, non vedevate l'ora di vedere
Arsène
rivestire i panni del detective per appropriarsi della perla nera.
Già, vi capisco ;-)
Ma l'attesa è finalmente terminata! Come reagirà
Sherlock? Riuscirà ad impedirgli di ottenere ciò
che vuole? E Geneviève da che parte starà?
Spero di aver fatto un buon lavoro (se non è così
siete liberissimi di insultarmi nei commenti) e vi
ringrazio per il vostro supporto continuo!
Alla prossima!
Vostra,
_Pulse_
____________________________________________________________________
13. The black pearl
John, aspettando la babysitter, aveva acceso la televisione per
guardare se ultimamente fosse successo qualcosa di interessante nel
mondo.
Il telegiornale era già iniziato da un po',
perciò le notizie più importanti se le era
già perse, ma leggendo i titoli che scorrevano in
sovraimpressione scoprì che quella notte era stato commesso
l'ennesimo omicidio. Nulla di particolare, se non si fosse trattato di
una cantante: una certa Leona Zalti - a lui sconosciuta - era stata
trovata morta nel suo piccolo appartamento, colpita da ben tredici
pugnalate, e la polizia pensava che fosse stato un furto finito nel
peggiore dei modi per via della scomparsa della perla nera, un gioiello
unico al mondo da cui lei non si separava mai.
Il dottore non ebbe il tempo di informarsi a sufficienza, distratto dal
trillo del campanello: la babysitter era arrivata. Salutò la
piccola Rosie ed uscì dall'appartamento per dirigersi alla
fermata dell'autobus.
Una volta sul mezzo notò l'uomo seduto di fronte a lui
leggere un giornale sulla cui prima pagina si parlava proprio del caso
della perla nera. John assottigliò gli occhi per leggere nel
dettaglio, ma l'uomo chiuse il quotidiano e se lo mise sotto il braccio
per scendere dall'autobus.
All'ambulatorio si sedette dietro la propria scrivania e prima di
iniziare a ricevere, dato che per una volta era arrivato in anticipo,
decise di accendere il computer e andare finalmente a soddisfare la
propria curiosità.
Fu allora che scoprì che giusto la sera precedente la Zalti
aveva tenuto un piccolo spettacolo al Savoy Hotel, lo stesso albergo in
cui alloggiava il più famoso e ricercato ladro di Francia.
Coincidenza? Forse.
Da quello che Sherlock gli aveva detto, Arsène Lupin non
usava mai la violenza e in tutta onestà non ce lo vedeva
proprio a pugnalare una donna innocente per tredici volte. Chiunque
fosse stato aveva usato una forza e una violenza che stavano ad
indicare quanto fosse arrabbiato e ferito. Persino lui, che era un
dottore, poteva dire che al novantanove percento si trattava di un
delitto passionale.
La polizia non era stata da meno, per fortuna, e il principale
indiziato era il manager della cantante, Victor Danegre, un uomo
alcolizzato e violento che non aveva mai superato la fine della
relazione con la Zalti.
Lo squillo del telefono lo fece sobbalzare sulla sedia e John dovette
occuparsi dei pazienti in coda, chiedendosi se anche Sherlock si stesse
interessando al caso.
***
«Buongiorno, il mio nome è Sherlock Holmes.
Potrebbe passarmi la signorina Geneviève, stanza
312?».
«Solo un momento», rispose l'addetto al
ricevimento, mettendolo in attesa.
Un lento ritornello jazz lo accompagnò per quegli
interminabili due minuti e quando finalmente la musica cessò
sentì nuovamente la voce del receptionist: «Non
risponde al telefono, mi dispiace».
«Può riprovare tra un po' e dirle di chiamarmi? Si
tratta di una questione urgente».
«Certamente, vuole lasciarmi il suo numero?».
«No, lei ce l'ha già», rispose brusco,
terminando la comunicazione senza salutare.
Stava riflettendo su quale fosse la mossa migliore da fare –
se attendere che lo richiamasse, perdendo tempo prezioso, oppure andare
direttamente al Savoy – quando sentì qualcuno
bussare alla porta del 221B. La signora Hudson andò ad
aprire e la udì salutare l'ispettore Ganimard, il quale
senza troppe cerimonie la lasciò per salire le scale due a
due.
Arrivò col fiatone e l'odore dell'ultima sigaretta fumata
ancora addosso e Sherlock non aspettò che si riprendesse
prima di esordire: «Se è venuto qui per l'omicidio
di Leona Zalti, non è opera di Arsène».
«No, quello no, ma il furto della perla nera sì!
Non può essere una semplice coincidenza, è di
Lupin che stiamo parlando!».
Sherlock scosse piano il capo, accarezzandosi così le labbra
con la punta degli indici.
«C'è qualcosa di sbagliato in questo caso. Il
colpevole è chiaramente il manager - geloso della relazione
tra la Zalti e il pianista - ma l'assenza di prove fisiche
costringerà la polizia a lasciarlo andare. È come
se...».
«Che cosa?», domandò Ganimard, a fiato
corto non solo per le scale ma anche per la suspance.
Sherlock si alzò dalla poltrona, dicendo: «Ho una
teoria, ma ho bisogno di verificarla».
Quindi andò in camera, si cambiò e
tornò da Ganimard per invitarlo a scendere le scale prima di
lui. Nell'androne si infilò il cappotto ed uscì
sotto una pioggerellina leggera, chiamando per sé e per
l'ispettore un taxi.
«Dove andiamo?», chiese quest'ultimo.
Sherlock, rivolgendosi al tassista, rispose: «Scotland
Yard».
«Chi è a capo dell'indagine Zalti?»,
chiese Sherlock all'agente di turno al ricevimento.
«L'ispettore Dimmock».
«Dove lo trovo?».
«Sala riunioni cinque».
«Grazie».
Ganimard aveva seguito quel botta e risposta sconcertato da quanto
Sherlock Holmes contasse per le autorità: lo consideravano
quasi uno di loro, tanto da rispondere a tutte le sue domande senza
riserve e permettergli di andare ovunque volesse. Una cosa del genere
in Francia non sarebbe mai accaduta, ma l'avrebbe preferita ad un ladro
con gli stessi poteri: come un Napoleone moderno si era autoproclamato
al di sopra della legge, diventando spesso e volentieri lui stesso
giudice, giuria e boia.
Salirono al secondo piano e Sherlock non si fece problemi ad entrare
nella sala riunioni cinque senza annunciarsi: tutti gli agenti fino ad
allora rivolti verso la lavagna trasparente su cui erano raccolti i
dettagli del caso si girarono e lo mangiarono con gli occhi, come se
potessero fare proprie le sue straordinarie abilità
deduttive solo guardandolo.
«Sherlock, che piacere vederti», esclamò
quello che doveva essere l'ispettore Dimmock, un ragazzo sui
tentacinque anni e di bell'aspetto, restio ad accettare l'aiuto del
detective ma comunque sollevato di poter contare su di lui in casi
particolarmente difficili.
«Danegre è già qui?».
Dimmock annuì con un cenno del capo. «In una delle
stanze per gli interrogatori, che discute con il suo
avvocato».
Sherlock si avvicinò alla lavagna, sempre seguito dalla
mezza dozzina di agenti, ed esaminando attentamente le foto e gli
appunti chiese: «C'è qualcosa che non avete
rivelato alla stampa e che dovrei sapere?».
«Solo un fatto che nessuno riesce a spiegarsi: la notte
dell'omicidio, intorno alle tre, la signora Palmer è stata
svegliata dal citofono; pensava si trattasse di Michael Harel, il
figlio della vicina, ancora una volta ubriaco, e gli ha aperto il
portone. Questa mattina però, quando ha incrociato la
signora Harel sulle scale e gliene ha parlato, ha scoperto che il
ragazzo si trova a Bristol e non tornerà prima della
settimana prossima. Secondo l'autopsia la Zalti è morta tra
mezzanotte e mezza e l'una, perciò pensiamo che la persona
che si è introdotta nel condominio non abbia niente a che
fare con l'omicidio, ma è strano».
Il consulente investigativo sorrise e si voltò verso
Ganimard, accorgendosi solo allora di non averlo affatto introdotto.
Concluse le formalità, tornò a mostrare
quell'espressione euforica di chi ha appena capito tutto.
«Non ho più niente da fare qui»,
esclamò senza spiegare nulla a nessuno.
Era già alla porta quando Dimmock gridò:
«E Victor Danegre? Non possiamo lasciarlo andare:
è stato lui! Stava per confessare, quando quel maledetto
avvocato è arrivato e gli ha rivelato che in
realtà non avevamo nulla in mano! Ancora un minuto e...
Ah!». Si portò un pugno davanti alla bocca,
adirato. «Non l'aveva nemmeno voluto, l'avvocato!».
Sherlock si irrigidì e si voltò di colpo, gli
occhi di ghiaccio stretti in due fessure. «Che cos'hai
detto?».
«Sì, è così! Pensa che
quando si è annunciato come il suo avvocato sembrava non
l'avesse mai visto in vita sua!».
«Portami da lui, subito».
Senza obiettare, Dimmock si infilò la giacca e corsero tutti
e tre fino alla stanza degli interrogatori in cui era tenuto il loro
sospettato. Sherlock aprì la porta e gli bastò
guardarlo in faccia per capire che Danegre era senza alcun dubbio
l'assassino di Leona Zalti, mentre l'avvocato... l'avvocato non era
Arsène Lupin, ma d'altronde perché avrebbe dovuto
occuparsi di quella faccenda in prima persona? Probabilmente tra le sue
finte lauree non c'era ancora quella in giurisprudenza, o forse persino
per il Ladro Gentiluomo era troppo rischioso introdursi a Scotland
Yard. Non era nemmeno un uomo della sua scorta, perciò aveva
ragione di credere che quello fosse un vero avvocato, assoldato da
Arsène Lupin per fare in modo che Danegre non finisse in
prigione.
Sherlock picchiò le mani sul tavolo e fissò i due
uomini con aria minacciosa.
Si concentrò dunque sul sospettato e disse: «Lei
ha ucciso Leona Zalti e ne pagherà le conseguenze,
può starne certo». E poi sull'avvocato:
«E lei... Se dovessi trovare delle prove che la collegano ad
Arsène Lupin la farò radiare dall'albo, mi ha
capito bene?».
Sortito l'effetto desiderato, il consulente investigativo
uscì dalla stanza degli interrogatori e raggiunse Dimmock e
Ganimard.
«Allora, ci vuoi spiegare?», sbottò il
primo, con le mani sui fianchi.
Sherlock sorrise e guardò Justin, dandogli persino una pacca
sulla spalla: «Avevi ragione, qui c'entra Arsène
Lupin».
«Lo sapevo, lo sapevo!», esclamò
l'ispettore francese, picchiandosi il pugno destro sul palmo della mano
sinistra.
«Arsène deve aver visto la perla nera al concerto
della Zalti al Savoy, trovandola abbastanza interessante da volerla
rubare. Nel cuore della notte si è introdotto nel condominio
fingendosi Michael Harel, è salito al quinto piano e si
è introdotto nell'appartamento della cantante, trovandone il
cadavere per primo. Devi sapere, Dimmock, che Arsène Lupin
è un ladro dalle straordinarie abilità, tanto che
la polizia francese, nonostante tutti i suoi sforzi, non è
mai riuscita a tenerlo a lungo dietro le sbarre».
Dimmock guardò Ganimard, circospetto.
«Addirittura?».
«Pensa se Sherlock Holmes iniziasse a rubare»,
rispose lo stesso Ganimard, col volto accartocciato in una smorfia di
frustrazione. «Credi che riuscireste a catturarlo?».
Il giovane ispettore di Scotland Yard guardò Sherlock, il
quale stava esibendo un inquietante sorriso a trentadue
denti. Non ci fu bisogno di risposta.
«Ad ogni modo», riprese il detective, «in
quell'appartamento Arsène ha avuto tutto il tempo per
investigare, scoprire il nome dell'assassino ed architettare un piano
per impossessarsi della perla nera».
«Aspetta, stai dicendo che...». Ganimard si
interruppe, scioccato. Ci era arrivato anche lui, alla fine. Il povero
Dimmock no, purtroppo, ed incrociò le braccia al petto.
Provando tenerezza per il collega inglese, fu Justin a spiegare:
«Arsène Lupin sapeva che Victor Danegre sarebbe
stato l'unico sospettato della polizia - visto il tipo, Sherlock crede
che avesse lasciato delle tracce nell'appartamento della Zalti, -
perciò per impedire che venisse subito condannato ha
ripulito la scena. Poi, temendo che potesse confessare, ha assunto un
avvocato. Vuole che Danegre venga rilasciato, così da poter
mettere le mani sulla perla nera».
«Non ce l'ha lui. Abbiamo già perquisito il suo
appartamento, la sua auto...».
«L'ha fatto anche Arsène Lupin, senza successo.
È per questo che si sta dando così da fare per
tenerlo fuori di prigione: vuole la sua riconoscenza, vuole che gli
dica dove l'ha nascosta». Ganimard si voltò verso
Sherlock, chiedendo conferma della propria teoria. Dal sorriso che il
detective gli rivolse, capì di aver fatto centro.
«Okay, allora... allora quando Danegre verrà
rilasciato lo metteremo sotto sorveglianza e prenderemo due piccioni
con una fava», disse Dimmock, sbrigativo.
Ganimard lo guardò con compassione, ricordando i bei tempi
in cui pensava che le normali tecniche della polizia sarebbero bastate,
quando ancora non sapeva di cosa fosse capace Arsène Lupin.
«Tentar non nuoce», esclamò alla fine,
per poi allontanarsi al fianco di Sherlock Holmes.
***
Bussarono alla porta e Geneviève si chiuse meglio
l'accappatoio prima di andare ad aprire. Si trattava dell'addetto del
servizio in camera con la sua colazione e lo lasciò entrare,
dicendogli di lasciare pure il carrello accanto al letto.
Rimasta sola, la ragazzina si preparò un vassoio e
tornò a sedersi tra le lenzuola, davanti alla TV accesa sul
telegiornale. Non si parlava d'altro che dell'omicidio di Leona Zalti e
del furto della sua perla nera. Era quasi certa che fosse quello il
motivo per cui Sherlock Holmes l'aveva cercata.
Quando l'addetto della reception le aveva comunicato che aveva in linea
il detective che chiedeva di lei gli aveva ordinato di dirgli che non
aveva risposto al telefono. A quel punto Sherlock aveva chiesto di
farlo richiamare al più presto, ma Geneviève non
ne aveva ancora trovato la forza.
Guardando la colazione preparata dalla squadra dello chef del Savoy
ebbe una tremenda nostalgia di quella che lui le aveva cucinato qualche
giorno prima, nella cucina della signora Hudson. Non era sicuramente
all'altezza di quella che aveva davanti in quel momento, ma aveva messo
tutt'altro sentimento nel prepararla ed era questo che le mancava.
Sherlock Holmes le mancava e odiava che fosse così.
Si appoggiò alla testiera del letto con le spalle e
sospirando allungò il braccio verso il comodino, raggiunse
il cellulare ed inoltrò la chiamata, quindi se lo
portò all'orecchio e chiuse gli occhi.
Sherlock rispose al secondo squillo e Geneviève si
sentì subito meno sola al mondo, e un piccolo sorriso le
increspò le labbra.
«Come facevi a sapere che avevo il tuo numero?»,
gli chiese, curiosa.
«Beh, è scritto sul mio blog, ma penso sia
più probabile che tu l'abbia preso quando hai inviato
quell'sms a Molly».
«Molto bravo. Allora, che cosa c'è?».
«Hai saputo del furto della perla nera?».
«E io che pensavo che mi avessi chiamata per chiedermi
scusa...».
«Se vuoi delle scuse per quello che ti ho detto ieri, mi
dispiace deluderti ma non le avrai».
Geneviève richiuse gli occhi, celando le lacrime. Era stato
un ultimo, disperato tentativo.
«Allora, la perla nera?».
«Sì, ho sentito. Ne parlano su tutti i canali in
TV. È stato il manager, vero?».
«Sì, ma non ci sono abbastanza prove per
incriminarlo. Tuo padre voleva rubare la perla nera, ma è
stato preceduto. Adesso sta impedendo alla giustizia di fare il suo
corso e ho bisogno che tu gli parli».
«Che stai dicendo? Quale interesse avrebbe mio padre nel
proteggere un assassino?».
«Vuole la perla nera e l'unico modo per sapere dove si trova
è far uscire Danegre da Scotland Yard».
La ragazzina pensò che aveva un senso, ma se avesse aiutato
Sherlock Holmes sarebbe andata ancora una volta contro suo padre e non
voleva peggiorare ulteriormente il loro rapporto, ultimamente
così precario. Doveva prendere tempo e pensare ad un modo
per non deludere entrambi.
«Non so dove sia, al momento. È da ieri sera che
non esco dalla mia camera».
«Sei per caso in punizione?».
«Isolamento volontario».
«A volte sei tale e quale a
lui».
«Ascolta...
proverò a
parlare con mio padre, ma non ti assicuro nulla».
«Va bene, grazie».
«Ti scrivo più tardi. Ciao».
Geneviève terminò la comunicazione e
lanciò il cellulare sul letto, poi bevve un po' di
cioccolata calda e dopo aver digitato il numero della Royal Suite di
suo padre si portò la cornetta del telefono fisso
all'orecchio.
Davvero a volte era tale e quale a suo padre? Non sapeva se prenderlo
come un'offesa o un complimento, non ancora.
Rispose un uomo della sua scorta, il quale le
spiegò che il signor Lupin era a fare colazione al Thames
Foyer.
A quel punto le toccò scendere dal letto e vestirsi. La sera
precedente non aveva cenato, perciò mangiò
frettolosamente una forchettata di tutto e si infilò nello
zainetto una mela e un mandarino, poi uscì dalla stanza. La
sua guardia del corpo la seguì nell'ascensore e poi fino
alla sala da té, ma si fermò con lei sulla soglia
quando si accorse che seduto allo stesso tavolo di suo padre c'era un
ragazzo di nemmeno trent'anni, coi capelli castani sollevati sulla
fronte, gli occhi scuri nascosti dietro un paio di occhiali dalla
montatura squadrata e il volto perfettamente rasato. Doveva trattarsi
di Maurice Leblanc, il giornalista de L'Ècho de France, e
Geneviève non se l'era affatto immaginato così
carino.
Arrossì al solo pensiero e si girò verso l'uomo
della sicurezza per dirgli di andare a chiamare suo padre. Il giorno
prima le aveva detto che non sarebbe stato prudente farsi vedere
insieme davanti a Maurice, per questo non poteva raggiungerlo di
persona.
Appoggiata dietro una colonna, aspettò pazientemente.
Arsène non disse nulla quando le posò una mano
sulla nuca per avvicinarle il viso e posarle le labbra sulla fronte, in
un bacio delicato.
Geneviève chiuse gli occhi a quel contatto e
respirò profondamente con le mani sul suo petto. Non poteva
fornire a Sherlock prove della sua colpevolezza, non poteva.
«Come stai, tesoro?», le domandò,
scostandosi per guardarla e sistemarle una ciocca di capelli dietro
l'orecchio.
«Adesso molto meglio, grazie».
Suo padre sorrise dolcemente. «Mi fa piacere. Perdonami se
ieri sono risultato scostante, non ero in me».
«Tranquillo, capisco. Io...». Non poteva nemmeno
ignorare la situazione però. Voleva sapere se era davvero
come pensava, voleva soddisfare la propria curiosità.
«Sì?».
«Ecco, mi chiedevo se c'entri qualcosa col furto della perla
nera».
Arsène corrugò la fronte e si portò un
dito sulle labbra. «Il furto della perla nera, dici? Uhm, no,
purtroppo non è opera mia». Quindi
tornò a sorridere e le chiese: «C'è
altro? Dovrei tornare da Maurice».
La ragazzina scosse il capo, sforzandosi di ricambiare il sorriso.
«Sembra un tipo simpatico».
«Lo è. Ed è un vero peccato che non
possa presentarvi, sono certo che sareste andati d'accordo».
Un silenzio imbarazzato calò tra di loro e
Geneviève ebbe un'ulteriore conferma che le stesse
nascondendo qualcosa. Delusa dal suo comportamento, chinò il
capo e strinse le mani intorno alle fibbie dello zainetto che portava
sulle spalle.
«Stai uscendo, tesoro?», le domandò il
padre ad un tratto. «Posso sapere dove vai?».
«Ahm... pensavo di andare a casa a prendere alcune cose.
Vestiti, libri... cose così».
Il volto di Arsène si distese. Aveva bevuto la sua bugia.
«Ma certo. Vuoi che uno dei miei ragazzi ti accompagni con
l'auto?».
«No, preferisco prendere i mezzi. Grazie comunque».
Il Ladro Gentiluomo le passò di nuovo la mano tra i capelli
e la salutò, poi tornò nella sala da
té e si risedette di fronte a Maurice, scusandosi. Il
ragazzo sorrise e Geneviève arrossì di nuovo,
così distolse lo sguardo e senza più guardarsi
indietro uscì dall'hotel. Si infilò il cappellino
di lana e camminò per una decina di metri sotto quella fine
e fastidiosa pioggerellina, poi girò l'angolo e
tirò fuori il cellulare dalla tasca del cappottino azzurro.
«Ha detto che il furto della perla nera non è
opera sua», affermò non appena Sherlock rispose,
senza nemmeno dargli il tempo di salutare.
«In un certo senso è vero. Ganimard ed io abbiamo
intenzione di pedinare lui e i suoi uomini: è possibile che
non appena Danegre sarà fuori lo avvicinino per
interrogarlo».
«Siete solo in due, come pensate di riuscirci?».
«Ci stai per caso offrendo il tuo aiuto?».
Geneviève si portò le dita alla bocca e
mangiucchiandosi l'unghia del pollice pensò,
pensò in fretta. Alla fine rispose: «Ad una
condizione: lasciate a me mio padre».
Sherlock rimase in silenzio, tanto a lungo che la ragazzina
capì che se non avesse aggiunto qualcosa non gliel'avrebbe
mai permesso.
«Per favore, Sherlock. Devi fidarti di me».
A quelle parole il detective sospirò e Geneviève
sorrise: ce l'aveva fatta.
«Grazie», squittì prima di chiudere,
stringendo il cellulare al petto ed alzando gli occhi verso il Savoy
giusto in tempo per vedere suo padre e Baffoni uscire dalle porte
girevoli. Stavano aspettando l'auto.
Geneviève non poteva permettere che se andassero, non senza
un mezzo con cui seguirli. Si guardò intorno e legata ad un
palo dall'altra parte della strada vide una bicicletta. L'idea di
pedalare non la entusiasmava, ma al momento era l'unica opzione.
***
Era da poco passata l'ora di pranzo quando Victor Danegre venne
rilasciato per mancanza di prove. Sarebbe dovuto essere impossibile,
eppure era libero. Niente sbarre, niente manette ai polsi. Solo
l'insostenibile peso della sua coscienza sporca di sangue.
Fuori dalla sede principale di Scotland Yard si guardò
intorno, chiedendosi che cosa avrebbe dovuto fare ora della sua
patetica vita: aveva ucciso la donna che amava, la cantante per cui
lavorava... Qual sarebbe stato il suo scopo, ora?
Disorientato, decise di fare quello che gli aveva detto l'avvocato che
l'aveva fermato ad un passo dalla confessione.
«Posso
rimanere da solo con il mio cliente?».
L'ispettore Dimmock lo
fissò in cagnesco, poi si alzò ed uscì
dalla stanza degli interrogatori sbattendosi la porta alle spalle.
Victor guardò
l'uomo in piedi accanto a sé, dal vestito firmato e la
schiena dritta, tirare fuori dal taschino un fazzoletto e tamponarsi la
fronte sudata. Ora che l'ispettore non poteva vederlo, tutta la sua
agitazione si palesò e Victor ne fu impressionato: non era
lui quello che rischiava l'ergastolo?
«Lei chi
è?».
«Il suo
avvocato».
«Ma io non ho
chiesto nessun avvocato! Non posso permettermelo!».
L'uomo si
sbottonò la giacca e si sedette al suo fianco, sospirando.
«Sono stato assunto da una persona che non vuole che lei
finisca in prigione».
«Chi
è questa persona? Che cosa vuole da me?».
«Sono due
domande di cui io non ho le risposte». L'uomo, con la pelle
color dell'ebano e profondi occhi scuri, gli posò una mano
sulla spalla e aggiunse in tono perentorio: «Tutto quello che
deve fare è rimanere in silenzio e lasciar parlare me.
Quando sarà fuori di qui – e succederà
presto, mi creda – andrà a casa e non si
muoverà da lì fino a quando non
riceverà delle visite. Ci siamo capiti?».
Victor non
poté far altro che annuire, sentendosi peggio che dietro le
sbarre.
Lentamente si diresse verso casa, col cuore pesante come piombo che gli
rimbombava nelle orecchie e la sensazione di essere osservato non solo
dalla volante della polizia che procedeva a passo d'uomo dietro di lui,
ma da chiunque incontrasse sul suo cammino. Continuava a guardarsi alle
spalle, ma nessuno lo stava seguendo.
Alla fine quella sensazione si fece così opprimente che
corse per gli ultimi due isolati, aprì il cancello con mano
tremante e poi la porta di casa, trovandola messa a soqquadro dalla
polizia. L'ordine era l'ultimo dei suoi pensieri, al momento.
Si chiuse dentro a chiave e dalla cucina prese un coltello simile a
quello con cui aveva massacrato la povera, dolce Leona. Era colpa sua,
tutta colpa sua! Se non l'avesse mai lasciato, se non fosse andata a
letto con David!
Si sedette sul divano, rivolto verso la porta, e col coltello stretto
in mano attese come gli era stato detto di fare.
Passò mezz'ora, un'ora e poi un'ora e mezza. Due ore dopo,
finalmente, una voce lo sorprese alle spalle, facendolo trasalire.
Victor si alzò dal divano e puntò il coltello
verso il corridoio, da dove un uomo avvolto in un lungo cappotto grigio
si stava osservando le unghie della mano destra, la spalla addossata
contro la parete. Quando sollevò lo sguardo, solo allora lo
riconobbe: era lo stesso uomo in cui si era imbattuto la sera prima,
fuori dal camerino di Leona.
«Lei... Lei!».
«Io», ripeté l'uomo biondo, portandosi
una mano sul petto con un sorriso divertito sul volto, uno di quei
sorrisi che contagiavano anche gli occhi.
«È lei che ha ingaggiato quell'avvocato?
Perché? Che cosa vuole da me?».
«Mi sembrava abbastanza ovvio... la perla nera».
Victor forzò una risata, abbassando il coltello.
«Può cercare ovunque, non la
troverà!».
«L'ho già fatto, questa notte», ammise
tranquillo, staccandosi dal muro per avvicinarsi.
Danegre risollevò il coltello, ricevendo un'occhiata di
disprezzo dal biondo.
«Non è in questa casa, ma sono certo che l'ha
presa lei. Non so se per sviare le indagini o per togliere anche quella
alla donna che un tempo amava, ma non è importante... Voglio
la perla nera, Danegre, e l'avrò».
La sua aura autoritaria e la determinazione nei suoi occhi ora non
più ridenti lo fecero tremare come una foglia. Tuttavia
l'ex-manager si impose un certo contegno e rinsaldò la presa
sul coltello.
«Anche se sapessi dov'è, come pensa di convincermi
a rivelarglielo?».
L'uomo abbassò il capo e col naso stretto tra le dita lo
esaminò da capo a piedi, girandogli intorno. «Per
esempio, potrei riportarla a Scotland Yard e fare in modo che non ne
esca più».
«Non può farlo. Non possono arrestarmi,
senza...».
«Senza prove?», lo interruppe, fermandosi di nuovo
di fronte a lui. Quindi infilò una mano nella tasca interna
del cappotto e tirò fuori un coltello da cucina, chiuso in
un'ermetica busta trasparente.
«Lo riconosce? E vede il sangue che c'è sopra?
È una prova piuttosto incriminante...».
Danegre, ad occhi sgranati, balbettò: «Ma non
può... Come...?».
«Non basta?», esclamò con voce soave
l'uomo biondo. Dalla stessa tasca interna tirò fuori
un'altra busta di plastica, quella volta più piccola,
contenente un bottone. «Era nella mano della vittima... deve
averglielo strappato dal gilet durante la lotta, quello che ha messo
nel cesto della biancheria sporca in bagno». Il suo sorriso
si allargò, soddisfatto. «Ho
controllato».
«Questo... questo non prova niente. Eravamo amanti, potrebbe
avermelo strappato nella foga della passione...».
Il volto dell'uomo si accartocciò in un'espressione di puro
disgusto. «Per favore, lo sanno tutti che tra voi non c'era
più quel tipo di passione da molto, molto tempo. Leona aveva
voltato pagina, mentre lei... lei non sopportava che stesse con un
altro, dico bene? Stava frequentando David, il pianista. Ha iniziato a
molestarla da quando l'ha scoperto, ma non c'era molto che potesse
fare, dato che era lei che le dava da mangiare... Ogni giorno era
sempre più frustrato ed addolorato, così cercava
sollievo nell'alcool, senza rendersi conto che peggiorava solo le cose.
Ieri deve essere arrivato al limite: è andato da lei con
l'intento di convincerla a tornare insieme e il suo ennesimo rifiuto
è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Ha preso
un coltello dall'espositore in cucina, l'ha rincorsa fino alla camera
da letto e l'ha colpita... tredici volte. Tredici...».
L'uomo biondo rabbrividì, coi pugni stretti lungo i fianchi,
e quando tornò a guardarlo negli occhi c'era odio puro nei
suoi. «Poi, quando finalmente la furia omicida è
cessata e si è reso conto del terribile atto commesso, ha
lasciato cadere il coltello, si è appoggiato alla parete
alle sue spalle e ha iniziato a pensare a come tirarsi fuori da quella
situazione. Non poteva però, nella sua piccola e perversa
mente c'era il vuoto più totale».
Chi era quell'uomo? Come poteva sapere tutte quelle cose, come se fosse
stato lì presente? Solo il diavolo avrebbe potuto sapere
certi dettagli. Sì, quell'uomo era il demonio ed era venuto
per trascinarlo con sé all'Inferno.
Il biondo tirò fuori il cellulare dalla tasca del cappotto,
dimostrando così di essere perlomeno in parte umano, e gli
mostrò una fotografia: uno sfondo bianco, su cui spiccavano
delle impronte digitali color cremisi. Le sue.
«Ho avuto la gentilezza di rimuovere anche queste dal muro,
ma non mi ringrazi», esclamò, mettendo via il
cellulare. «Allora, ha capito la situazione? Lei
finirà in prigione, se non mi dirà
dov'è la perla nera».
Victor sentì la stretta di catene invisibili intorno al
busto e capì che non aveva via di scampo: non voleva finire
in prigione, non più ora che aveva riacquistato la
libertà. Bastava davvero consegnare a quell'uomo la perla
nera per dimenticarsi di quella faccenda?
«Ho la sua parola?», mormorò, trovando
il coraggio di guardarlo negli occhi.
L'uomo biondo non si mosse: non era lui quello che doveva accettare
compromessi.
L'ex-manager sospirò e confessò:
«C'è una tabaccheria, non lontano
dall'appartamento di Leona. Avevo finito le sigarette,
perciò...».
«La perla nera, Danegre», lo riportò in
carreggiata a denti stretti.
«Sì, ehm... Accanto al distributore c'è
una grondaia a forma di drago. Ho avvolto la catenina intorno alla
cresta ed infilato la perla nella bocca, in modo che non si
vedesse».
L'uomo lo fissò, forse per assicurarsi che gli avesse detto
la verità, ed estrasse di nuovo il cellulare per inviare un
sms.
«E ora... ora che si fa?», osò domandare
Victor, tremante.
L'uomo biondo gli sorrise e si accomodò sul divano,
accavallando le gambe. «Ora aspettiamo».
***
Il cellulare le vibrò nella tasca del cappottino e
Geneviève si abbassò sotto la finestra,
imprecando a mezza voce. Sapeva che avrebbe corso un rischio del genere
quando gli aveva mandato quel messaggio, un paio d'ore prima, ma non
pensava che sarebbe stata nei guai fino a quel punto.
Aveva seguito suo padre, mantenendo la parola data a Sherlock: la
maggior parte della mattinata l'aveva trascorsa in un centro
commerciale, facendo acquisti nei negozi più disparati, poi
aveva preso un milkshake ed era risalito in auto.
Un'altra pedalata e si era ritrovata nascosta dietro uno degli alberi
del cimitero in cui era seppellita sua madre. Arséne aveva
comprato dei fiori e si era inginocchiato davanti alla lapide,
trasferendo un bacio dalle sue dita al nome inciso sul marmo bianco.
Geneviève era troppo lontana per sentire cosa le stesse
dicendo, ma dal modo in cui i suoi occhi ridenti si erano velati di
lacrime aveva avvertito una stretta al cuore. E ancora una volta si era
sentita tremendamente in colpa per il pedinamento.
Era stato allora che si era detta che doveva sì scoprire la
verità sulla perla nera, ma doveva anche proteggere suo
padre dalle manette. Gli aveva mandato così un sms,
dicendogli che Sherlock Holmes l'aveva contattata per chiederle aiuto e
che le aveva anche rivelato che lui e Ganimard avrebbero tenuto
d'occhio i suoi uomini.
La sua reazione non era stata né sorpresa né
infastidita, solamente rassegnata. L'aveva già messo in
conto, probabilmente.
Le aveva risposto subito dopo, scrivendole: "Grazie per
l'avviso, tesoro. Potrei aver bisogno di te più tardi, mi
farò sentire."
La ragazzina si era immediatamente pentita della sua mossa, ma non
poteva più tornare indietro. Aveva continuato a seguirlo,
pregando perché non la contattasse, ma ormai avrebbe dovuto
saperlo che non c'era nessuno dall'altra parte ad ascoltare.
Geneviève rilesse il messaggio appena ricevuto, col quale
suo padre le chiedeva di recarsi alla tabaccheria vicino
all'appartamento di Leona Zalti. Non le andava di lasciare il suo posto
sotto la finestra del salotto, da cui era stata in grado di assistere a
tutta la conversazione tra Arsène e quell'assassino, ma a
causa del messaggio che lei stessa gli aveva inviato quella mattina
sapeva di essere l'unica in grado di aiutarlo. Non poteva deluderlo.
Sto tornando adesso da
Brixton, dammi venti minuti.
Respirando profondamente inviò il messaggio e
tornò alla bici che aveva lasciato sul retro della casa,
sotto il piccolo balcone da cui suo padre era riuscito a penetrare
nelle casa. Era sempre stato in quella camera da letto, in attesa che
Victor Danegre venisse rilasciato da Scotland Yard, e nella sua
posizione zen aveva fatto trascorrere altre due ore prima di
annunciarsi all'uomo.
Il perché di tutta quell'attesa lo capì in parte
solo quando scorse l'auto della polizia appostata davanti alla casa:
probabilmente, essendo ancora l'unico indagato, dopo il rilascio
Scotland Yard aveva deciso di far pedinare Denagre. Ma
perché attendere altre due ore? Che fosse una tecnica di
logoramento psicologico?
Inforcò la bicicletta e pedalò a più
non posso, sudando tutte e sette le proverbiali camicie.
Arrivò davanti alla tabaccheria con ben cinque minuti
d'anticipo e scrisse un nuovo sms a suo padre:
Ci sono. Adesso?
La risposta non tardò ad arrivare, ma Geneviève
dovette rileggerla un paio di volte, confusa. Aveva scritto un'unica
parola - "Grondaia" - e solo alzando gli occhi riuscì a
capire: voleva che ci guardasse dentro. Se davvero Danegre aveva
nascosto lì dentro la perla nera...
Entrò nella tabaccheria, trovando dietro lo striminzito
bancone un uomo che pareva avere cent'anni, tant'era rugosa la sua
pelle. Stava appendendo ad un filo di nylon steso sopra la sua testa
una serie di fisarmoniche di gratta e vinci, ma sembrava in
difficoltà.
«Posso aiutarla?», domandò
Geneviève candidamente, attirando su di sé i suoi
occhi scuri, enormi dietro i fondi di bottiglia che aveva come occhiali.
«Cosa vuoi in cambio?», berciò il
vecchio.
«Solo che mi presti una scala. Va bene anche una sedia, se
non ce l'ha».
Il proprietario della tabaccheria la fissò a lungo, poi
scrollò le spalle e le fece segno di passare
aldilà del bancone, dove Geneviève si
arrampicò per appendere l'esposizione di gratta e vinci. Una
volta terminato - le ci vollero cinque minuti - il vecchio mantenne la
parola data e le prestò una scaletta. La ragazzina la
portò fuori, in corrispondenza della grondaia a forma di
drago, e sotto lo sguardo sempre più confuso dell'anziano vi
salì. All'interno Geneviève vide subito la perla
nera, penzolante come se si trattasse dell'ugola del drago, ma non
poteva estrarla davanti a lui: se l'avesse vista, il proprietario della
tabaccheria avrebbe subito avvisato le autorità. Doveva fare
in modo che si allontanasse.
«Ehi ragazzina, allora? Che stai facendo?».
Geneviève non aveva più tempo per pensare ad
altro, perciò finse di scivolare e di cadere a terra.
Urlò, portandosi il ginocchio al petto, e il vecchio,
pallido come un lenzuolo, le si chinò subito accanto.
«Mio Dio, ti sei fatta male?».
«Non lo so...».
«Aspetta qui, dovrei avere del ghiaccio istantaneo nella
cassetta del pronto soccorso».
La bionda annuì ed aspettò che l'anziano
rientrasse, quindi saltò di nuovo sulla scaletta,
slacciò la catenina, la districò dalla cresta di
metallo ed estrasse il gioiello. Se lo infilò subito nella
tasca del cappottino, ma non fece in tempo a tornare seduta a terra.
L'uomo la sorprese in piedi e Geneviève gli sorrise, con una
mano sulla gamba.
«Credo che non sia nulla di grave»,
esclamò, poggiando il piede a terra ed alternando il peso da
una gamba all'altra. «Sì, è solo una
botta».
«Sei sicura? Non vorrei che... insomma...».
La ragazzina capì qual era la sua più grande
preoccupazione e lo rassicurò: «Ma no, non la
denuncerò! Sono stata io a chiederle la scala! Mi era
sembrato di vedere un nido nella grondaia...».
Il vecchio le sorrise, molto più rilassato, e con la busta
del ghiaccio in mano fece per riprendere la scaletta.
Geneviève si scusò per il disturbo, ma prima di
tornare alla bici decise di sfruttare la situazione per una piccola
voglia improvvisa. Il proprietario della tabaccheria non osò
negargliela.
«Arrivederci e mi scusi ancora!», lo
salutò con la mano mentre scartava il lecca-lecca sferico e
se lo portava alla bocca.
L'anziano ricambiò e la guardò pedalare via,
ignaro che nella sua grondaia fosse stata nascosta la perla nera.
Geneviève aveva pedalato ancora più forte, ma
dopo aver inviato a suo padre il messaggio con cui l'aveva avvisato di
avere la perla nera avrebbe dovuto immaginare che non avrebbe fatto in
tempo a vederlo congedarsi da Victor Danegre.
Col fiato grosso aveva mollato la bici dietro l'angolo e aveva
attraversato un paio di giardini di corsa, aggirando aiuole e saltando
cespugli. Tutta quella fatica per nulla: suo padre se n'era
già andato, ma l'assassino era ancora lì nel suo
salotto, impunito.
Perché aveva pensato diversamente? Sperare che suo padre lo
avrebbe portato comunque davanti alla giustizia aveva soltanto reso la
sua delusione più cocente.
Quindi era questo che intendeva dire sua madre? Quando
Arsène Lupin voleva qualcosa se la prendeva, giusto o
sbagliato che fosse, abbassandosi persino a contrattare con un
assassino.
Geneviève infilò una mano nella tasca del
cappottino e le sue dita sfiorarono la superficie liscia e fredda della
perla nera, un gioiello che per anni era stato al collo di una donna
che ora era morta.
Rabbrividì e ritrasse la mano, non volendo più
toccare quell'oggetto per lei privo di valore eppure così
pesante nella sua tasca. Non voleva che diventasse il suo diamante
azzurro, perciò recuperò il cellulare con
l'intenzione di chiamare Sherlock Holmes.
Solo quando le rispose la ragazzina realizzò che non poteva
chiedere il suo aiuto: sarebbe stato come consegnargli suo padre su un
piatto d'argento.
«Geneviève? Mi senti? Rispondimi».
«Sì, scusami... Ho sbagliato numero»,
disse frettolosamente e riagganciò.
Respirando profondamente per calmare l'agitazione si infilò
le cuffiette nelle orecchie e con la musica ad assordare ogni suo
pensiero tornò finalmente al Savoy, dove suo padre la stava
sicuramente aspettando per accertarsi di persona
dell'autenticità della perla nera.
***
Ganimard aveva già fumato diverse sigarette quando Sherlock
scese dal taxi.
«Allora?», esclamò subito il francese,
ansioso.
Il detective non pronunciò una sola parola, non ce n'era
bisogno: era stato un disastro su tutti i fronti.
Forse, se avesse seguito il semplice piano di Ganimard
anziché complicarsi la vita coinvolgendo
Geneviève, le cose sarebbero andate diversamente. Ma non
poteva confessarlo all'ispettore francese, a cui aveva solo detto che
avrebbero lasciato il pedinamento di Arsène Lupin ad un suo
uomo di fiducia. Ora doveva subirsi la ramanzina in silenzio,
consapevole di essere stato lui la sola ed unica causa del fallimento.
Ancora una volta i sentimenti gli avevano impedito di essere obiettivo.
Ganimard però lo sorprese e rimase in silenzio, seduto sul
divano con le mani sul viso e i gomiti puntati sulle ginocchia. Dava
ancora l'impressione di avere tutto il peso del mondo sulle spalle.
«Non posso più rimanere qui»,
affermò ad un tratto, guardando il pavimento.
Sherlock, seduto sulla propria poltrona, lo fissò senza
capire. «Di che cosa sta parlando?».
«Devo tornare a Parigi. Le mie figlie...».
«Quanti anni hanno?».
«Undici e sette. Perché vuoi saperlo?».
Il detective scrollò le spalle e rispose: «Sono
abbastanza grandi per capire qual è il suo lavoro. Spieghi
loro la situazione e rimanga, ho bisogno di lei».
«Non posso farlo», ruggì, alzandosi.
«Le mie bambine sono intelligenti e capiscono
perché io voglia catturare Lupin, ma vogliono anche che il
loro papà ci sia, nel week-end in cui posso vederle. Tu
forse non riesci a capire perché non hai figli, ma essere
genitori vuol dire fare sacrifici, mettere da parte ciò che
riteniamo importante per ciò che invece è
fondamentale: il loro amore».
Il suo sguardo era fiero e determinato, come l'aveva visto in
pochissime occasioni, e Sherlock abbozzò un sorriso.
«Che cosa c'è?».
«Allora c'è qualcosa, oltre alla cattura di Lupin,
per cui desidera ancora vivere».
Ganimard, ricordando la conversazione che avevano avuto al bar del suo
hotel, in cui era persino arrivato a dire che avrebbe ucciso il ladro
prima di spararsi, ricambiò il sorriso.
«Già, penso di sì».
Sherlock Holmes si alzò e gli andò incontro con
la mano tesa. Justin Ganimard l'afferrò e la scosse con
decisione.
«Farò tutto il possibile», promise il
consulente investigativo.
L'ispettore francese annuì. «Ne sono certo. Au revoir,
ragazzo».
***
Geneviève trovò suo padre al bar dell'albergo,
solo.
Seduto su un divanetto di velluto grigio in una nicchia dorata, con le
gambe accavallate, un bicchiere di cristallo nella mano destra e lo
sguardo assorto rivolto verso il soffitto, sembrava la raffigurazione
di un angelo - Lucifero forse: il prediletto, il caduto.
Si avvicinò con cautela e non appena la vide
Arsène si alzò e con movimenti febbrili la fece
sedere al suo fianco.
«Tesoro, mi dispiace averti coinvolta ma il ficcanasare di
Sherlock e Ganimard mi ha costretto», esordì,
sembrando davvero mortificato.
Geneviève abbassò il capo, le mani strette tra le
gambe. «Non c'è problema, sono contenta di esserti
stata d'aiuto».
Suo padre non aggiunse altro e lei neppure. L'imbarazzo crebbe fino a
quando il Ladro Gentiluomo non si schiarì la gola, stendendo
una mano verso di lei.
«Oh, già», mormorò la
ragazzina, infilando la mano in tasca per estrarre la perla nera.
Arsène la prese con entrambe le mani, accarezzando il dorso
della sua, e poi osservò il gioiello con occhi brillanti.
«È bellissima», sussurrò ad
un tratto, sollevando di nuovo lo sguardo su di lei per aggiungere:
«Come te, piccola mia».
Geneviève arrossì violentemente e
rischiò di strozzarsi con l'aria che respirava.
«Volevo che fosse una sorpresa, ma...».
Con fare quasi impacciato, ben lontano dalla sicurezza che dimostrava
in qualsiasi altra situazione, suo padre tirò fuori da sotto
il cappotto, piegato accuratamente sul bracciolo del divanetto, una
custodia di velluto rosso. L'aprì e vi posò con
cura la collana con la perla, per poi girarla verso di lei e
porgergliela.
Solo allora Geneviève capì: si era dato tutto
quel disturbo - risolvendo un omicidio, facendo uscire il colpevole da
Scotland Yard e contrattando con lui - solo per impossessarsi della
perla e regalargliela.
«Perché?», balbettò con gli
occhi lucidi di lacrime. «Mi hai già dato il tuo
regalo di compleanno».
«Lo so, tesoro. Ma questi ultimi giorni... sono stati
difficili per te, quindi pensavo che un regalo ti avrebbe risollevato
il morale».
La sua espressione scioccata doveva essere stata eloquente,
perché Arsène scosse il capo e si
avvicinò un po' di più per avvolgerle un braccio
tra le spalle e stringerla a sé, con le labbra contro la sua
tempia.
«Perdonami, non è la verità»,
confessò. «Vedendoti trascorrere tutto quel tempo
con Sherlock temevo che ti fossi stancata di me, così ho
deciso di dimostrarti di cosa sono capace».
Geneviève era impressionata, davvero. I suoi sospetti alla
fine si erano rivelati corretti: si era davvero ingelosito, senza
capire le sue reali motivazioni.
Si scostò quel tanto che le bastava per guardarlo negli
occhi e con un sorriso umido disse: «Come hai potuto pensare
una cosa del genere? Io non potrò mai stancarmi di te, te
l'ho già detto. E l'unico motivo per cui ho chiesto di poter
stare con Sherlock, dopo il funerale, era per distrarmi: non volevo
piangere o stare a deprimermi e ho pensato di poter sfruttare il
momento per scoprire qualcos'altro su di lui».
«Ti sei gettata sul lavoro, come si suol dire»,
esclamò Arsène, colpito.
La ragazzina chiuse il cofanetto e lo spinse di nuovo verso suo padre,
dicendo: «Non ho mai avuto niente di valore e non mi importa.
Tutto ciò che desidero è il tuo affetto e la tua
fiducia». Quindi, spinta da un irrefrenabile desiderio di
sdolcinatezze, affondò il viso nel suo petto e lo strinse
forte.
Arsène impiegò qualche secondo per ricambiare
l'abbraccio, preso in contropiede. Quando lo fece però si
sentì sia al settimo cielo che nelle profondità
del Tartaro. Era questo, essere genitori? Pensare di fare la cosa
migliore e sbagliare, sbagliare ripetutamente? Come padre non era
decisamente all'altezza, soprattutto per via della scarsa fiducia che
le concedeva.
Aveva trascorso tutta la vita da solo, a difendersi da tutto e da tutti
per mantenere la propria libertà, e comportarsi
alla stessa maniera con sua figlia non gli sembrava giusto, ma allo
stesso tempo non riusciva a fare diversamente.
Il brontolio dello stomaco della ragazzina fece incrociare di nuovo i
loro sguardi e risero insieme prima di scostarsi l'uno dall'altra.
«Sarà meglio che vada a mangiare qualcosa. Non ho
proprio avuto tempo, oggi», spiegò
Geneviève.
«Ma certo tesoro, vai pure. Ma niente schifezze,
okay?».
Lei fece una pernacchia - desiderava moltissimo hamburger e patatine -
ma per lui ne avrebbe fatto a meno. Si alzò dal divanetto e
dopo un paio di passi soltanto si girò di nuovo, fissando il
padre con incertezza.
«Che cosa c'è?», le chiese
Arsène, vedendola esitare.
Geneviève abbassò il capo, dondolandosi sui
talloni. «C'è una cosa che mi tirerebbe su di
morale».
«Ah sì? Di che si tratta?»,
domandò incuriosito, lasciando il bicchiere ormai vuoto sul
tavolino di vetro nero.
Guardò la figlia avvicinarsi e le porse l'orecchio
perché vi sussurrasse la sua risposta. Quando si
scostò, assunse l'espressione imbronciata di un bambino.
«Pensavi davvero che gliel'avrei fatta passare
liscia?».
Al che gli occhi di Geneviève brillarono. «Lo
farai davvero?».
Arsène si portò una mano sul cuore e le fece
l'occhiolino. «Assolutamente».
«E la perla nera?».
«Beh...». Il Ladro Gentiluomo tentennò,
diviso tra il desiderio di aggiungerla alla propria collezione oppure
usarla per incastrare Victor Danegre, ma gli occhi pieni di speranza
della sua bambina lo convinsero a dire: «L'ho presa per te,
perciò se non la vuoi farò in modo che finisca al
parente più prossimo di Leona Zalti: sua cugina».
Geneviève si chinò per baciarlo sulla guancia,
sussurrando un semplice quanto significativo:
«Grazie». Davvero bastava così poco per
renderlo così felice?
Arsène la guardò andare via, quella volta per
davvero, ed attirò l'attenzione del cameriere
perché gli portasse un altro drink. Qualche minuto dopo
venne raggiunto dal suo fidato amico.
«Domani Victor Danegre verrà accusato di omicidio
e furto», esclamò serio. «Sai cosa devi
fare».
«Non gliel'avete detto, vero?».
Il ladro alzò lo sguardo, indispettito dal tono accusatorio
della sua voce. I suoi occhi gentili però gli impedirono di
rispondere sgarbatamente: si limitò a sospirare, arrendevole.
«Non ci sono riuscito. Forse sono troppo ansioso... Ha
quindici anni ed è una ragazza curiosa, magari...».
«Le ha mentito, padrone. Le ha detto che sarebbe andata
all'appartamento di Brixton e invece l'ha pedinata per tutto il giorno:
il GPS sul suo cellulare non mente».
Arsène si portò una mano sugli occhi, combattuto
come lo era stato poche volte in vita sua.
«Però mi ha aiutato a recuperare la perla, quando
gliel'ho chiesto. Questo dovrà pur contare
qualcosa!», sbottò, mentre i dubbi tornavano a
bussargli contro le pareti del cranio. Per fortuna poté
azzittirli con l'alcool.
Quando il cameriere si fu allontanato, l'amico aggiunse:
«È un gioco pericoloso, padrone: farla avvicinare
in questo modo a Sherlock Holmes, lasciarle la libertà di
scegliere... Sta rischiando molto».
«Credi che non lo sappia?», domandò,
pacato ma inflessibile. «Forse ti stai dimenticando che
è mia figlia, non la prima ragazzina incontrata per caso.
Per quanto io ci provi ad essere prudente, a prendere tutte le
precauzioni possibili... sarò sempre esposto di fronte a
lei. Non può essere diversamente, dopotutto».
«Essere esposti è un conto», insistette
l'uomo. «Lasciarsi abbindolare è un
altro».
Arsène alzò di nuovo lo sguardo, oltraggiato.
«Abbindolare?», ripeté. «Abbindolare, hai
detto? Come osi...?».
«Sherlock Holmes voleva l'aiuto di Geneviève per
convincerla a consegnare Danegre alla giustizia, dico bene? Non le
sembra sospetto che ora...».
«Quell'uomo ha ucciso una donna innocente! L'ha accoltellata
tredici volte, santo cielo!», gridò a bassa voce
interrompendolo, rosso come un peperone. «Merita di essere
messo in una cella e che la chiave venga buttata nel Tamigi, come
minimo! È in momenti come questi che rimpiango la cara,
vecchia ghigliottina».
«E la perla nera? Che bisogno c'è di
rinunciarvi?».
Arsène abbassò il capo, colpito. A questo non
sapeva darsi una risposta nemmeno lui. Che fosse anche questo, essere
genitori? Fare dei sacrifici per amore dei propri figli? Dei sacrifici
molto preziosi e rari.
Con espressione delusa, l'amico concluse:
«L'Arsène Lupin che conosco non avrebbe mai
rinunciato ad un tesoro simile, per niente e nessuno al
mondo».
Nessuno dei due aprì bocca per minuti interminabili. La
tensione era tanto densa da poterla affettare con un coltello. Alla
fine il Ladro Gentiluomo si alzò e con lentezza si
lasciò scivolare il bicchiere ancora pieno dalle dita.
Whisky, cubetti di ghiaccio e pezzi di vetro si sparsero sul pavimento
lucido, insozzandogli le scarpe su misura, e il cameriere accorse per
pulire, ma l'occhiata furente che ricevette da parte di
Arsène gli fece cambiare idea.
«Adesso mi hai stufato, Grégorie»,
sibilò infine, coi pugni stretti lungo i fianchi e lo
sguardo più intimidatorio del suo repertorio.
«Arsène Lupin non esiste e nessuno conosce la
persona che vi si cela dietro, nemmeno tu. Perciò non ti
permettere mai più di dire che cosa farei o non farei, ci
siamo capiti?».
L'uomo, di solito così imperturbabile, mostrò dei
segni di cedimento e con le labbra tremanti si piegò in un
profondo inchino, poi si allontanò col collo stretto tra le
spalle.
Arsène si lasciò ricadere sul divanetto,
svuotato, e ripensò a ciò che aveva detto a
Maurice il giorno prima, a pranzo. Si guardò le mani, poi se
le portò su quel volto che non riconosceva più
allo specchio. Chi era diventato? Cosa sarebbe potuto essere? Poteva
ancora cambiare? Voleva
cambiare?
Sherlock non ci era riuscito, ma forse per Geneviève...
Chissà.
***
John andò ad aprire la porta e si ritrovò davanti
uno Sherlock dall'espressione spiritata, completamente estraniato dalla
realtà. Conosceva quello sguardo e sapeva cosa aspettarsi,
tuttavia riuscì a prenderlo alla sprovvista per l'ennesima
volta.
«Allora, di che si tratta? Dev'essere qualcosa di importante,
se sei persino uscito di casa...».
Il detective lo seguì in cucina, dove Rosie stava finendo di
mangiare sul seggiolone, e senza togliersi il cappotto disse:
«Ho sempre tenuto conto delle tue osservazioni e vorrei che
ne facessi qualcuna in merito a ciò che sto per
raccontarti».
John si sedette ed annuì, incuriosito. Ascoltò il
racconto di Sherlock dall'inizio alla fine senza mai fiatare, rapito
dalla giornata che aveva vissuto e dai retroscena del caso della perla
nera che lui si era perso.
Scoprì così che il consulente si era subito
interessato alla vicenda, ancor prima che Ganimard andasse da lui per
affermare il coinvolgimento di Arsène, e che insieme
all'ispettore francese era stato a Scotland Yard per avere ulteriori
dettagli da Dimmock.
Grazie ad un fatto che non sembrava collegato all'omicidio Sherlock
aveva avuto conferma del coinvolgimento di Lupin, il quale si era
introdotto nell'appartamento della Zalti traendo in inganno una delle
condomine. Peccato che al posto della perla nera aveva trovato il
cadavere della cantante.
Deciso ad impossessarsi del gioiello, il ladro aveva giocato a fare il
detective e aveva scoperto il nome dell'assassino, il quale
però oltre a non aver tenuto con sé la perla era
subito stato portato a Scotland Yard come maggiore indiziato. Una bella
seccatura.
Per impedirgli di confessare e finire in prigione per il resto della
sua vita aveva dovuto assumere un avvocato, ma i suoi sforzi erano
stati ripagati: una volta libero infatti, Victor Danegre aveva seguito
le istruzioni ricevute ed era tornato a casa, dove aveva trovato
Arsène ad attenderlo, insieme a tutte le prove che aveva
raccolto sulla scena del crimine e che lo avrebbero condannato. Secondo
le deduzioni del detective il piano di Lupin prevedeva il ricatto:
promettendogli in cambio di sbarazzarsi di tutto e di dimenticarsi di
lui, Arsène aveva costretto Danegre a rivelargli dove aveva
nascosto la perla nera.
Sherlock gli aveva raccontato com'erano andati i fatti
perché riuscisse ad avere un contesto, ma non era
lì né per Arsène né per
Danegre. Quello che gli importava davvero era comprendere le decisioni
prese da Geneviève.
«Che cosa c'entra lei in questa storia?».
Sherlock non lo guardò mai negli occhi mentre gli narrava
una storia parallela a quella appena raccontata, la cui protagonista
altri non era che la ragazzina bionda.
Era stato lui a coinvolgerla però, quando l'aveva chiamata
in albergo perché convincesse Arsène a permettere
che la giustizia facesse il suo corso con Victor Danegre.
Geneviève gli aveva detto che suo padre non aveva nulla a
che fare con il furto della perla nera, ma aveva deciso di aiutarlo ad
una sola condizione: che fosse lei a pedinare Lupin.
«E tu gliel'hai lasciato fare?», gli chiese John,
mentre infilava a Rosie il pigiamino per metterla a letto.
«Mi ha chiesto di fidarmi di lei».
John scosse il capo mestamente. «E adesso chi è
l'incoerente? Tu stesso mi hai detto che non ci si può
fidare di una Lupin!».
«Me lo ricordo», replicò, ottenendo
tutta l'attenzione dell'amico. Alla sua espressione confusa, aggiunse:
«Geneviève mi ha chiesto di poter pedinare suo
padre e gliel'ho lasciato fare, ma nulla mi impediva di pedinare
lei».
Il dottore impiegò qualche secondo per capire la
sottigliezza del piano, poi scosse di nuovo il capo ed
esclamò esasperato: «Continua. Ma, per la cronaca,
quello che hai fatto non vuol dire fidarsi».
Durante quel doppio pedinamento Sherlock aveva visto
Geneviève mandare un sms a suo padre, ma era riuscito a
scoprirne il contenuto solo quando lui aveva chiesto il suo aiuto per
recuperare la perla nera: l'aveva avvisato delle loro intenzioni,
proprie e di Ganimard. E lei, guidata forse dallo stesso desiderio di
renderlo orgoglioso che l'aveva spinta a rubargli il violino, aveva
eseguito gli ordini.
Sherlock sarebbe dovuto rimanere in appostamento fino al suo ritorno,
ma era stato tanto stupido da seguire Geneviève fino alla
tabaccheria dove Danegre aveva nascosto la collana. Una volta di
ritorno entrambi si erano resi conto della loro leggerezza:
Arsène non c'era più e Danegre era libero.
Sherlock non aveva perso solo l'occasione di poter arrestare
Arsène con l'accusa di intralcio alla giustizia, sequestro
di persona e ricatto, ma aveva avuto anche conferma che
Geneviève non era ancora degna della sua fiducia. Ed era
questo a fargli più male, in fondo.
Arrabbiato e deluso, aveva appena deciso di affrontare la ragazzina
quando aveva ricevuto una chiamata proprio da parte sua. Le era
così vicino che se solo non avesse avuto il cellulare in
modalità vibrazione l'avrebbe scoperto.
John lasciò la bambina nel suo lettino e socchiuse la porta
della cameretta, poi tornò in salotto da Sherlock, seduto
sul bordo del divano, con un gomito puntato sul bracciolo e la mano
sulla fronte.
«E che cosa ti ha detto?», gli chiese, divorato
dalla curiosità.
«Niente. Non ha detto niente, John. È per questo
che sono qui».
Il dottore si addossò contro lo schienale del divano, il
collo piegato sulla sua morbida curva e gli occhi rivolti verso il
soffitto.
«Mi stai chiedendo di dirti che cos'è passato
nella mente di una ragazzina di quindici anni?».
«Sei sempre stato più bravo di me in queste
cose», ammise sventolando una mano.
«Se è un complimento, ti ringrazio».
«Prendilo come vuoi. Allora, che ne pensi?».
«Io credo... credo che sia combattuta. Tutti gli adolescenti
lo sono, ma se penso che ha appena perso sua madre, che suo padre
è un ladro famoso per la sua infallibilità e che
tu ti sei scontrato platealmente con lui per il suo futuro... Io, al
suo posto, sarei già impazzito».
«Perché?».
La tranquillità con cui pose quella domanda fece voltare
John, il quale comprese che il consulente non aveva sinceramente idea
di cosa stesse perlando.
«È una ragazza intelligente e sa distinguere tra
bene e male: sa che ciò che fa suo padre è
sbagliato, ma è suo padre... Forse è per questo
che ti ha chiamato, oggi. Quando si è resa conto che
è venuto a patti con un assassino per una pietra, il suo
primo istinto è stato quello di chiamarti per dirtelo. Poi
però se n'è pentita perché
Arsène è l'unica famiglia che ha e non
può fare a meno di volergli bene, di renderlo fiero di lei.
Ha paura di rimanere sola, Sherlock...».
Il detective rimase in silenzio a lungo, con gli occhi fissi davanti a
sé. John non osò interrompere le sue riflessioni,
nonostante avrebbe tanto voluto approfittare della
tranquillità di Rosie per dormire a sua volta.
Il sonno dovette prendere il sopravvento, perché gli
sembrò di sentire Sherlock dire qualcosa riguardo al fatto
di rivelarle della promessa e del diamante azzurro, ma quando
riaprì gli occhi del detective non c'era più
traccia.
***
Con lo stomaco finalmente pieno, Geneviève spinse via il
carrello portavivande con un piede e cadde supina sul letto, gli occhi
chiusi.
Alla TV stavano mandando la replica di un episodio natalizio di Doctor
Who, una serie a cui lei e sua madre si erano appassionate durante la
sua lunga degenza in ospedale. Pensare alla sua mamma, al fatto che non
ci fosse più, le faceva ancora mancare il fiato; era come se
un masso enorme le comprimesse la gabbia toracica e le schiacciasse i
polmoni.
Per questo rotolò sulla pancia per raggiungere il
telecomando e spense il televisore al plasma, per poi rimanere con la
guancia posata contro il copriletto. Il silenzio l'avvolse, un silenzio
così pesante che riuscì a sentire i dolorosi
battiti del suo cuore.
Chiuse gli occhi umidi di lacrime e si sforzò di ricordare
come fosse stare tra le braccia di sua madre, le sue carezze e il suo
dolce profumo, ma ogni giorno le sembrava di perdere un pezzetto di
lei. E se ad un tratto si fosse resa conto di averla dimenticata del
tutto? Non avrebbe potuto sopportarlo.
Si alzò e facendosi forza si trascinò in bagno,
dove si infilò il pigiama e si lavò i denti. Si
sciolse i capelli ancora un po' umidi per la doccia, spense le luci e
si accucciò sotto le coperte. Provò a dormire,
provò persino a cantarsi la filastrocca in francese che sua
madre usava come ninna nanna, ma non riusciva a togliersi di dosso
quella tristezza che le era piombiata addosso all'improvviso. Le
mancava così tanto...
Tornò seduta, con le spalle strette e i piedi nudi
appoggiati al pavimento in linoleum. Fu allora che le tornò
alla mente il modo in cui suo padre aveva sorriso parlando da solo di
fronte alla tomba di sua madre. Davvero era d'aiuto? Anche solo
alleviare il peso di quel macigno le sarebbe bastato. Doveva provarci.
Geneviève non sapeva se suo padre avesse fatto disintallare
le telecamere nella sua suite, ma comunque non aveva intenzione di
tenergli nascosto quel suo dilemma. Lui capì al volo e senza
fare domande si infilò il cappotto e mandò Ernest
a prendere la limousine nel garage.
Non parlarono nemmeno durante il tragitto e per la ragazzina fu meglio
così: non aveva nulla da dirgli, in quel momento. Inoltre,
temeva che se anche avessero parlato del meteo la sua voce sarebbe
risultata tremula. Stava lottando ferocemente contro le lacrime e ogni
distrazione sarebbe potuta essere quella fatale.
Giunti al cimitero, Geneviève chiese di poter essere
lasciata sola e suo padre acconsentì: lui ed Ernest
sarebbero rimasti in auto ad aspettarla per tutto il tempo necessario.
Lo ringraziò con un debole sorriso e coprendosi il capo col
cappuccio scese dall'auto.
A quell'ora il cimitero era chiuso, ma suo padre le aveva indicato una
via alternativa per entrare: un piccolo cancello, più
semplice da scavalcare, usato dai custodi e dai giardinieri.
Camminò tra le tombe e giunse di fronte a quella di sua
madre: Clotilde Destange, una donna che aveva rinunciato a tutto,
persino al suo vero nome, per l'uomo di cui si era innamorata; una
donna che era riuscita a riappropiarsi della sua vera
identità solo con la morte.
Si domandò se fosse stata felice, se avesse vissuto la vita
che desiderava.
Lei non gliel'aveva mai detto chiaro e tondo, ma ora che
Geneviève conosceva la storia del diamante azzurro sapeva
che almeno in un'occasione si era pentita del suo amore per il Ladro
Gentiluomo. L'aveva fatta soffrire, l'aveva portata a fare cose che
l'avevano perseguitata per molti anni, e al contempo era stata la
storia più importante della sua vita, da cui era nata
persino la sua unica figlia.
Di una sola cosa Geneviève era certa: sua madre l'aveva
amata più della sua stessa vita. Anche nei periodi
più bui non aveva mai smesso di dirle che lei era tutto
ciò che contava, che per lei avrebbe spostato le montagne e
affrontato qualsiasi tempesta. Aveva lottato contro il cancro per lei...
La ragazzina non aveva ancora aperto bocca, in compenso però
le lacrime scorrevano già da un po' sul suo viso e grazie ad
esse parte del peso che sentiva sul petto si era trasformato in piume,
rendendole più facile respirare.
Inginocchiata sull'erba bagnata di pioggia, per calmarsi
canticchiò la filastrocca a mezza voce e si chiese per quale
motivo sua madre l'avesse sempre cullata con delle parole
così tristi e lugubri. Chi gliel'aveva insegnata?
Respirò profondamente, svuotata, e si passò le
mani sul volto irritato per asciugarselo. Quindi si rialzò e
fece per tornare indietro, quando all'improvviso ricordò
ciò che aveva fatto suo padre quella mattina: aveva fatto
visita ad una seconda tomba prima di andarsene, dall'altra parte del
cimitero. Lei non aveva potuto avvicinarsi molto per la mancanza di
nascondigli, ma ora che aveva l'occasione per soddisfare la sua
curiosità doveva sfruttarla.
Ricordava perfettamente dove si fosse fermato, ma una volta giunta al
cospetto della lapide a cui aveva porto i suoi omaggi non
riuscì a capire.
«Mary Watson», sussurrò, sentendo una
fitta al cuore.
Nonostante la pioggia si stesse facendo più intensa,
tirò fuori il cellulare e china sullo schermo
riportò il nome sul motore di ricerca.
Il suo cattivo presentimento aveva ragione di essere, purtroppo.
La verità fu tanto chiara e tanto scioccante che si
voltò e corse a perdifiato verso l'uscita del cimitero, il
cuore che le pulsava nelle orecchie.
Aprì la portiera della limousine col fiatone e si
gettò all'interno, finendo col volto sulle gambe di suo
padre, il quale l'avvolse subito con un braccio e si chinò
per baciarle la testa, sussurrando parole di conforto.
Geneviève, ad occhi sbarrati, non gli diede spiegazioni e si
lasciò accarezzare i capelli mentre Ernest li riportava in
albergo. E come se tutto ciò non bastasse le
arrivò un sms da Sherlock, il cui tempismo e la cui ironia
avevano qualcosa di paranormale.
Non sei sola.
SH
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Capitolo 14 *** Dear ones ***
Buongiorno!
Allora, nello scorso capitolo si è scoperto il nome
dell'assistente/maggiordomo/secondo in comando/miglior amico/chi
più ne ha più ne metta di Arsène
Lupin: Grégorie. (Che poi se ci penso è la
versione francese di Greg, ma giuro che è una mera
coincidenza e i due personaggi non c'azzeccano nulla tra di loro).
So che molti non lo trovano simpatico, ma da adesso in poi il suo
personaggio avrà un ruolo abbastanza importante, si
scopriranno più cose sul suo conto e sul suo rapporto col
Ladro Gentiluomo e spero, alla fine, di farvelo apprezzare come merita.
Si parlerà anche di Ganimard, come avevo detto a qualcuno di
voi, e vedremo un po' le dinamiche tra l'ispettore francese e il suo
acerrimo nemico grazie ad un lungo flashback in cui verrà
raccontato un vecchio colpo del ladro. Spero solo di non annoiarvi e di
non farvi sentire la mancanza di Sherlock, Geneviève e tutti
gli altri! ;)
Aspetto come sempre di ricevere i vostri pareri - mi fa sempre
super-piacere rispondervi - e vi ringrazio tutti, anche chi legge
soltanto, chi ha messo questa storia tra le preferite/seguite/ricordate
(siete tantissimi!). ♡
Buona lettura e alla prossima settimana!
Vostra,
_Pulse_
__________________________________________________________________________
14. Dear
ones
Quella notte non era
riuscito a dormire molto, a causa del comportamento di
Geneviève e soprattutto del suo scontro con
Grégorie.
Mai, in dieci anni di
collaborazione, si erano trovati ad avere pareri così
contrastanti, e il fatto che fosse sua figlia la causa di tutto
quintuplicava il dolore che sentiva nel petto.
Aveva cercato di
distrarsi e di pensare a come sfruttare a suo vantaggio la consegna di
Victor Danegre, ma nonostante il buon piano che aveva articolato, senza
Grégorie ad approvarlo e a congratularsi con lui non
riusciva a reputarlo un successo.
Nel suo piccolo mondo
c'erano poche, pochissime persone per cui provava un tale affetto e una
tale stima da non poterne fare a meno, e una di queste era proprio
Grégorie. Per questo si era ripromesso, come prima cosa da
fare al risveglio, di appianare le loro divergenze e, se necessario,
trovare un compromesso. Non sarebbe riuscito ad andare avanti
altrimenti, con quel peso sul cuore.
Quando bussarono alla
sua porta per svegliarlo, Arsène era in realtà
già pronto a ricevere l'amico e compagno di mille avventure.
«Avanti»,
esclamò languido.
L'irritazione che
provò quando invece di Grégorie fu Ernest ad
aprire la porta e a trovarlo steso di traverso sul letto, competamente
nudo, con un velo di brillantini azzurri sulle palpebre e le labbra
tinte di rosso, fu inenarrabile.
«Mi scusi
signore, sono mortificato...», balbettò l'uomo
della scorta, abbassando gli occhi.
Lupin invece, per
nulla a disagio nel mostrare il proprio corpo, digrignò
semplicemente i denti e disse: «Che diavolo ci fai tu qui?
Non è compito tuo svegliarmi».
«Lo so,
signore, ma è stato Grégorie a chiedermelo. Ha
detto che doveva occuparsi di alcuni arrangiamenti per la giornata
e...».
«Smettila di
blaterare e portami qui Grégorie!».
«Sì,
signore. Certamente, signore».
Un imbarazzatissimo
Ernest uscì dalla stanza chiudendosi piano la porta alle
spalle ed Arsène sbuffò, lasciandosi cadere
supino sul letto. Il suo desiderio di farsi perdonare stava scemando, a
causa dello scherzetto che l'amico aveva voluto tirargli.
E così
voleva tenere le distanze? Braccio fratturato o meno, non gli avrebbe
concesso nemmeno lo spazio per respirare.
Si alzò
rapidamente dal letto, si infilò una vestaglia di seta blu
(in tinta con l'ombretto) e si nascose dietro la porta.
Quando finalmente
Grégorie si degnò di raggiungerlo lo
lasciò bussare un paio di volte senza rispondere. Alla fine
l'amico aprì la porta e non vedendo nessuno nella stanza si
preoccupò. Non appena si diresse verso il bagno
padronale però, Lupin spinse la porta, facendola sbattere, e
vi si
appoggiò per poterla chiudere con una mandata di chiave.
Grégorie
non si girò, le spalle contratte e i pugni stretti lungo i
fianchi. Arsène lo raggiunse e lo abbracciò,
posando una guancia contro la sua spalla destra.
«Non fare
così», gli sussurrò, con le labbra a
pochi millimetri dalla pelle sensibile del suo collo.
«Non sto
facendo nulla, padrone».
Arsène
abbozzò un sorriso a quell'appellativo: non importava quante
volte gli ripetesse di non chiamarlo in quel modo, non l'avrebbe mai
ascoltato. Nonostante fosse più grande di lui, quando gli
aveva salvato la vita in quel tragico incidente ed aveva riaperto gli
occhi in ospedale, trovandolo seduto al suo fianco, aveva giurato
solennemente che da quel giorno in avanti avrebbe fatto qualsiasi cosa
gli avesse ordinato. La sua vita gli apparteneva e poteva farne
ciò che voleva.
«Perché
hai mandato Ernest a svegliarmi? Non mi starai evitando,
spero...».
Grégorie
aprì la bocca per rispondere, ma il morso che ricevette tra
spalla e collo lo fece desistere.
«Non
mentirmi», sussurrò ancora Arsène,
baciandolo sullo stesso punto.
«E va
bene», ammise mestamente. Posò le mani sul braccio
col quale gli stringeva il petto con la stessa forza di una tenaglia.
«Mi vergognavo per ciò che le ho detto ieri sera e
pensavo che, fino a quando non avessi fatto ammenda, non sarei stato
degno di servirla».
Arsène si
sollevò, profondamente toccato dalle sue parole, e
gentilmente lo voltò verso di sé per guardarlo
negli occhi.
Caro, dolce Grégorie... Che aveva fatto di
tanto buono per meritarsi un amico come lui?
Incrociò i
suoi occhi scuri, velati di lacrime, e con uno slancio fece scontrare
le loro bocche.
La rigida compostezza
di Grégorie venne meno e gli portò una mano tra i
capelli biondi, scompigliandoli mentre ricambiava il bacio con
passione.
Anche l'uomo si poneva
le stesse domande di Arsène, lasciandosi trascinare verso il
letto sfatto: che cos'aveva fatto per meritarsi l'affetto del giovane
ed allora sconosciuto Ladro Gentiluomo? Non solo gli aveva salvato la
vita, ma gliel'aveva cambiata radicalmente, permettendogli di far parte
di un qualcosa che avrebbe vissuto in eterno: una leggenda.
Accarezzando e
baciando quella pelle candida come la neve e solcata di vecchie
cicatrici ripensò ancora alle parole che gli aveva rivolto
la sera prima: «Arsène
Lupin non esiste e nessuno conosce la persona che vi si cela dietro,
nemmeno tu». Forse era davvero così,
ma lui amava l'Arsène Lupin che conosceva, l'amava in ogni
sua sfaccettatura, incondizionatamente.
Nelle saltuarie
occasioni in cui lo sceglieva come compagno di letto, nonostante
sapesse ciò che avrebbe provato successivamente - tristezza,
rimpianto, delusione - non riusciva mai a dirgli di no, era
più forte di lui. D'altronde sapeva anche che non sarebbe
mai stato solo suo, perciò si limitava a godere ogni istante
della sua compagnia, ignorando gli aspri commenti degli altri membri
della banda che ogni tanto arrivavano a loro insaputa anche alle sue
orecchie.
Raggiunto l'orgasmo,
Arsène gli chiese di rimanere ancora un po' dentro di lui,
addossato col petto contro la sua schiena. Grégorie
annuì e si portò una sua mano alla bocca per
baciarne il dorso con le labbra.
«Siamo a
posto?», gli chiese ad un tratto il ladro, come se il sesso
fosse l'unico modo che conosceva per appianare i contrasti. Fu come
ricevere una pugnalata al cuore, ma l'uomo fece finta di nulla.
«Certo»,
rispose, portandogli i capelli biondi dietro l'orecchio.
«Anche per
quanto riguarda mia figlia? Cercherai di essere meno duro nei suoi
confronti?».
«Ci
proverò, padrone».
Arsène
sorrise e con una torsione del collo gli posò un fugace
bacio sulle labbra, poi scivolò via, provocandogli un mezzo
gemito che soffocò mordendosi il labbro.
Grégorie lo
guardò alzarsi, infilarsi la vestaglia e dirigersi verso il
bagno, dove aprì il rubinetto per prepararsi un bagno caldo.
«Vorrei
esporti il piano che ho elaborato questa notte»,
gridò, mentre Grégorie si puliva e recuperava i
propri vestiti, sparsi per tutta la zona notte.
«Penso di
aver trovato il modo perfetto per attirare l'attenzione di Molly
Hooper!».
L'uomo si
irrigidì e strinse forte le mani intorno alla cintura,
quindi si avvicinò alla porta del bagno ed affacciandosi
vide Arsène già nella vasca, che si versava sul
viso del sapone per lavarsi via il trucco.
I travestimenti erano
sempre stati il suo forte e il suo aspetto androgino lo aiutava molto
quando decideva di impersonare una donna. Il perché ogni
tanto lo facesse era sempre stato un mistero: Grégorie non
aveva alcun tipo di problema ad ammettere di essere gay, non aveva
bisogno di scorciatoie del genere. Aveva provato a chiederglielo una
volta, ma non aveva ottenuto risposta.
«Molly
Hooper?», ripeté. «La donna di cui
è innamorato Sherlock Holmes?».
«Esatto!»,
non lo contraddisse purtroppo, sorridendo come un bambino.
«Abbiamo un sacco di preparativi da fare, perciò
vieni qui e aiutami, vuoi?».
Grégorie
non si tirò indietro. Non si era ancora infilato la camicia,
perciò si sedette sul bordo della vasca e gli
insaponò i capelli mentre Arsène gli spiegava nei
dettagli il suo piano. Era semplice ed ingegnoso, come sempre, ma anche
doloroso per l'uomo, il quale avrebbe dovuto assistere in silenzio
all'ennesima possibile conquista del suo padrone.
«Allora, che
te ne pare?», gli domandò alla fine il ladro,
alzandosi per infilarsi nell'accappatoio che Grégorie gli
stava tenendo aperto.
I suoi occhi luminosi
e pieni di aspettative lo costrinsero a rispondere nell'unico modo
possibile, anche se i propri, di occhi, rimasero fissi sulla catenina
con il piccolo e semplice crocifisso d'oro che gli adornava lo sterno e
da cui non si separava mai.
«Sarà
un successo, non ci sono dubbi».
«Lo sapevo.
Grazie, Grégorie. Sono contento che tutto sia tornato alla
normalità».
L'amico si
sforzò di sorridere. «Anche io, padrone».
Arsène
abbassò gli occhi sul suo petto nudo e con la punta delle
dita accarezzò le cicatrici da ustione che gli ricoprivano
tutto il lato sinistro del torso, braccio compreso. Grégorie
si ritrasse un poco, a disagio.
C'era voluto molto
tempo per abituarsi alle ferite e soprattutto a convivere coi ricordi
ad esse legati, e Lupin l'aveva aiutato moltissimo ad accettarsi per
quello che era e a convincerlo che aveva fatto tutto il possibile,
rischiando persino la vita. Quelle cicatrici non erano la prova del
fallimento, gli aveva detto più e più volte, ma
qualcosa di cui andare fiero. Chissà se la pensava
così anche a proposito delle sue, di cicatrici.
Grégorie lo
lasciò perché si preparasse e dopo essersi
rivestito uscì dalla camera da letto, venendo subito
giudicato dagli sguardi degli altri membri della scorta del Ladro
Gentiluomo. Lui non fece una piega e tornò ai propri affari,
sentendo però le vecchie ferite riaprirsi e sanguinare sul
suo cuore.
***
Molly
guardò i due biglietti per il Don Giovanni alla Royal Opera
House e sbuffò posando la fronte sulle mani, i gomiti
puntati sul piano da lavoro della cucina.
Aveva provato in ogni
modo a disfarsene, ma nonostante costassero una fortuna e lo spettacolo
avesse fatto il tutto esaurito da mesi, per qualche strano motivo - una
specie di sortilegio forse - se li ritrovava sempre tra le mani. Che
fosse un segno del destino? D'altronde non era mai stata nel famoso
teatro e sprecare un'occasione del genere le sembrava un vero peccato.
Ci sarebbe andata da sola, se proprio nessuno voleva farle compagnia.
Presa finalmente
quella decisione, si risollevò ed accese la televisione in
salotto per passare un po' il tempo. Quel giorno era di riposo, ma non
era riuscita a dormire fino a mezzogiorno come avrebbe voluto.
Più tardi sarebbe andata a fare delle commissioni e magari,
perché no, a comprarsi un bel vestito per l'opera.
Si imbatté
nel telegiornale e Molly avrebbe senz'altro cambiato canale, stufa
delle solite terribili notizie, se non avesse riconosciuto Jean al
fianco dell'ispettore Dimmock, mentre gli stringeva la mano e veniva
inondato dai flash dei fotografi.
«Ma che
cosa...?», iniziò a domandarsi, incredula, senza
mai staccare gli occhi dallo schermo mentre faceva il giro del divano
per sedersi.
Alzò il
volume ed ascoltò le parole della giornalista, scoprendo che
era stato grazie a lui che Victor Danegre, il manager della deceduta
Leona Zalti, era stato arrestato per la seconda volta, quella
definitiva.
Il turista francese
stava passeggiando lungo il Waterloo Bridge, scattando foto del
panorama, quando si era accorto per primo dell'uomo che aveva
scavalcato la ringhiera con l'intenzione di gettarsi nel Tamigi con una
borsa contenente tutte le prove dell'omicidio e la stessa perla nera.
Jean era accorso e,
come mostravano le foto e i video girati da altri passanti, era
riuscito ad impedire all'assassino di togliersi la vita. Poi, sotto lo
sguardo incredulo dei poliziotti, l'aveva abbracciato e consolato,
sussurrandogli qualcosa all'orecchio, prima di consegnarlo alle
autorità.
Molly
aspettò il termine del servizio, che si chiuse con la
replica del momento in cui Jean sorrideva alla telecamera, come se
sapesse che c'era lei dall'altra parte, e stringeva la mano
dell'ispettore Dimmock, poi spense la TV.
Si portò le
mani sul petto per verificare se fosse davvero il suo cuore a battere
così forte ed abbassando il capo si morse il sorriso che le
era comparso sulle labbra.
Un eroe. Aveva
attirato l'attenzione di un eroe e lei aveva quasi buttato via il suo
numero di cellulare.
Sapeva che c'era
qualcosa di diverso in lui: l'aveva capito dal primo momento in cui
l'aveva visto, dato che la sensazione che aveva avvertito era stata
molto simile a quella che aveva provato quando aveva conosciuto
Sherlock. Non ci aveva dato peso però, dicendosi che non
c'era nessuno come il detective, ma quel pensiero era stato sempre
lì, in un angolo della sua mente, ed era stato quello a
costringerla a recuperare dalla pattumiera il bigliettino col suo
numero, una volta tornata a casa dal turno in obitorio. Si era data
della stupida, ma alla fine si era rivelata la mossa giusta.
Si alzò dal
divano e tornò in cucina, dove aprì un cassetto e
vi estrasse il bigliettino. Prese il cellulare ed iniziò a
scriverlo sulla tastiera, ma si fermò dopo appena tre
numeri, pensando a quanto sarebbe sembrato ipocrita chiamarlo ora, dopo
averlo visto in TV.
Al
diavolo! Che cos'ho da perdere?
Terminò il
numero, poi premette il tasto di chiamata e si portò il
cellulare all'orecchio.
Ebbe qualche altro
ripensamento ascoltando gli squilli, ma si impose di darsi una chance,
un'ultima chance per dimenticare Sherlock, e alla fine la voce calda e
piena d'allegria di Jean la fece sorridere.
«Ciao Jean,
sono Molly. Molly Hooper, la...».
«So
perfettamente chi sei», esclamò interrompendola.
«Ti ho pensata molto, in questi giorni».
L'anatomopatologa
arrossì violentemente. «Ti ringrazio,
io...».
«Caspita,
stavo quasi perdendo le speranze!», aggiunse, scoppiando in
una risata.
A quel punto i sensi
di colpa iniziarono a mangiarle lo stomaco e Molly non se la
sentì di mentire.
«Ascolta,
Jean... È brutto da dire, ma non ti avrei mai richiamato se
non ti avessi visto alla TV qualche minuto fa. Quello che hai fatto
è stato...».
«Fermati,
fermati. Sarò anch'io onesto, va bene? L'unico motivo per
cui ho impedito a quell'assassino di buttarsi è stato per
attirare la tua attenzione».
Molly
sgranò gli occhi. «Che cosa?».
«Sì,
certo, volevo anche che finisse in prigione per quello che ha fatto, ma
tu non mi hai più richiamato e speravo... sì, la
verità è che speravo proprio di finire in TV
perché tu ti ricordassi di me».
Stava dicendo la
verità. Era strana e un po' estrema come tecnica
d'abbordaggio, ma Molly non poté fare a meno di trovarlo
dolce.
«Ehi, sei
ancora lì?», la chiamò, interrompendo
il flusso dei suoi pensieri.
Molly
sbatté le palpebre e facendosi coraggio disse: «Ti
va di vederci? Penso di doverti almeno un caffé per
l'impegno».
«Con molto
piacere, Molly».
***
Sherlock era stato
informato del secondo arresto di Victor Danegre dalla signora Hudson,
la quale era salita per portargli il té mattutino e come
d'abitudine l'aveva intrattenuto - che lo gradisse o meno - con le sue
chiacchiere.
Quel giorno era andata
bene, considerato che grazie a lei aveva visto concludersi il caso
della perla nera. Certo, non era successo come sperava, ma come aveva
detto a Ganimard quando l'aveva chiamato poteva considerarla una mezza
vittoria.
«Lupin
è sempre stato un giustiziere, non mi stupisce che abbia
incastrato Danegre», aveva risposto l'ispettore.
«Non capisco però perché si sia esposto
in quella maniera... E poi perché rinunciare alla perla
nera? Bastavano le altre prove ad incriminarlo! Non potrebbe trattarsi
di un falso?».
Avevano entrambi
concordato che ad Arsène era sempre piaciuto mettersi in
mostra, in una forma o in un'altra. Per quanto riguardava la perla
nera, invece, Sherlock non aveva bisogno di accertarsene: sapeva che
non si trattava di un falso: Geneviève, alla fine, era
riuscita ad aiutarlo. Non sapeva come, ma ce l'aveva fatta: non aveva
deluso suo padre aiutandolo a recuperare il gioiello e dopo l'aveva
convinto a disfarsene.
Tutta la rabbia e la
delusione che aveva provato il giorno prima - già
notevolmente acquietate dopo la chiacchierata con John - erano
scomparse nel constatare i frutti del suo operato. Quello che lo
preoccupava, ora, era il silenzio della ragazzina. Conoscendola si
sarebbe aspettato una chiamata o almeno un messaggio di
autocelebrazione con una quantità sproporzionata di emoji.
Inoltre non aveva risposto nemmeno all'sms che le aveva inviato la
notte prima, una volta tornato a Baker Street.
Scervellandosi sui
possibili motivi per cui non avesse ricevuto sue notizie gli ingranaggi
del suo cervello si sarebbero fusi, se non dalla vastità
delle opzioni dai livelli d'ansia che le accompagnavano,
perciò si alzò e decise di comporre una nuova
canzone.
Descrivere
Geneviève con delle note di violino, scindere la sua mente
dal suo cuore, non sarebbe stata impresa facile, ma valeva un
tentativo.
***
«Hai
intenzione di fare una vacanza, Danegre?».
L'uomo
sobbalzò nell'udire quella voce, ma credette fosse solo
frutto della sua fervida immaginazione e tornò a riempire la
valigia che aveva di fronte.
Non
aveva mai smesso di sentirla nei propri incubi, in cui il suo
proprietario veniva rappresentato come un uomo biondo con grandi corna,
delle ali appuntite e una coda in grado di stritolarlo. Ne era
così ossessionato che aveva deciso di sparire, in modo che
non potesse mettere le mani su di lui nel caso in cui avesse cambiato
idea ed avesse usato contro di lui le prove che si era rifiutato di
consegnargli nonostante avesse mantenuto la parola rivelandogli il
nascondiglio della perla nera.
«Ehi,
sto parlando con te!», gridò di nuovo l'uomo e il
colpo che Danegre ricevette nell'incavo del ginocchio fu reale, tanto
che si ritrovò carponi.
«Tu...
tu...», balbettò, ritrovandosi davanti il suo
diavolo personale. «Avevi promesso che mi avresti lasciato in
pace».
L'uomo
biondo gli rivolse un sorriso impietosito. «Non ricordo di
averti mai fatto una promessa del genere».
Era
vero, non gliel'aveva mai fatta. Victor iniziò a piangere,
sentendo l'ombra della morte allungarsi verso di lui.
«Ti
prego... Ti prego, non voglio morire», singhiozzò.
L'uomo
corrugò la fronte e si chinò davanti a lui. Con
voce carezzevole, disse: «Non morirai, Danegre. Su questo ti
do' la mia parola».
L'assassino
di Leona Zalti lo guardò negli occhi, quegli occhi verdi ed
innocenti, e gli credette. Almeno fino a quando il suo sorriso non si
trasformò in un ghigno sadico.
«Farai solo
finta», concluse, infilzandogli un sottile ago nel collo e
mettendogli la testa in un sacco nero.
Strano come gli esseri
umani cambiassero le loro priorità di fronte alla minaccia
della morte. Così volubili, così privi di
coraggio... Victor Danegre, poi, era della peggior specie: un'ameba,
per così dire.
Per la
libertà aveva deciso di rinunciare alla perla nera e ora,
per la vita, tornava a preferire la prigionia. Se solo fosse stato un
po' meno credulone - come aveva insegnato al vecchio Ganimard in
più di un'occasione - avrebbe potuto evitare di diventare
una marionetta nelle sue mani.
Invece, troppo
spaventato per ragionare, Danegre aveva acconsentito a seguire per filo
e per segno le sue istruzioni.
All'ora pattuita si
era incamminato lungo il Waterloo Bridge, portando con sé
una borsa contenente tutte le prove dell'omicidio da lui commesso e la
stessa perla nera; poi aveva scavalcato il parapetto con l'intenzione
di uccidersi e si era fatto salvare da un turista francese che passava
di lì per caso - il proprio ricattatore, Arsène
Lupin in persona - il quale era stato celebrato dai media e dalla
stessa polizia per il servizio reso alla giustizia.
Prima di lasciarlo
andare Arsène aveva finto di abbracciarlo e di consolarlo,
ma ciò che in realtà gli aveva detto all'orecchio
era stato: «Non ti avrei mai ucciso, Danegre. Sadie avrebbe
voluto che lo facessi, ma come diceva Gandhi: "Occhio per occhio e il
mondo diventa cieco"».
Sadie, la truccatrice
e parrucchiera personale di Leona Zalti, gli aveva confessato tutto
quando quella mattina era passato a trovarla: della fine della
relazione con Danegre, del suo alcolismo, delle innumerevoli volte in
cui si era trovata a dover ricoprire con fondotinta e cipria i lividi
di quell'amore malato. La cantante non aveva mai voluto denunciarlo,
per paura di un altro scandalo e forse per l'affetto che ancora nutriva
per lui, ma era stata stupida. E Sadie con lei, dato che non aveva mai
avuto la forza di scavalcarla. Se l'avesse fatto Leona non sarebbe
morta.
Anche dopo lo
spettacolo al Savoy Danegre l'aveva colpita e per questo la truccatrice
l'aveva lasciato fuori dal camerino. Arsène l'aveva saputo
dal primo istante in cui si era ritrovato da solo col suo cadavere,
notando il segno di quell'ultimo schiaffo sul suo volto privo di
trucco. Voleva averne però conferma e far sì che
Danegre pagasse non solo per l'omicidio ma per tutto il dolore che le
aveva causato prima della morte.
«Che le
dicevo? Un successo», si era complimentato
Grégorie quando era tornato in albergo, dopo essere stato
premiato dall'ispettore Dimmock di Scotland Yard.
Ma Arsène
poté chiamarlo tale solo quando ricevette la chiamata di
Molly Hooper, la quale l'aveva visto in TV - come sperava - e aveva
deciso di dargli una chance.
Tutto era andato
secondo i suoi piani e il Ladro Gentiluomo non vedeva l'ora di
raccontare tutto a Genévive prima del suo appuntamento con
l'anatomopatologa. Quella mattina non aveva proprio avuto tempo di
passare a salutarla ed ebbe un'amara sorpresa quando appeso alla
maniglia della sua porta scorse il cartellino "Do not disturb". Che
cosa significava?
«Tesoro?»,
la chiamò, bussando. «Sei lì dentro?
Stai bene?».
Non ottenendo alcuna
risposta ed iniziando a preoccuparsi, chiamò
Grégorie e si fece portare il suo tablet. Si
collegò alle telecamere installate nella sua stanza e
scoprì che mentre non guardavano, probabilmente quella
notte, sua figlia si era costruita il proprio baldacchino personale
appendendo al lampadario sopra il letto tende e lenzuola. C'era anche
un cartello appeso sul lato che fronteggiava il mobile in cui era
installata la TV - il luogo più comodo per piazzarci una
telecamera - che diceva: "Voglio stare da sola, per favore".
«Vuole che
vada a prenderle il passepartout?», domandò
Grégorie, ma Arsène gli sorrise e scosse il capo.
Gli
riconsegnò il tablet e si accostò di nuovo alla
porta per dire: «Capisco, tesoro. Puoi solo confermarmi che
sei lì dentro?».
Grégorie
abbassò gli occhi sul tablet e notò un improvviso
spostamento di una delle tende, come se la ragazzina l'avesse appena
colpita con un pugno.
«È
lì sotto», confermò.
«Molte
grazie, tesoro. Ripasserò più tardi».
Arsène non
ricevette nessuna risposta, ma non ne fece un dramma e si
allontanò, seguito da un basito Grégorie.
«Lo so che
cosa vuoi dire», lo anticipò, senza guardarlo.
«Ma diamole un po' di spazio, va bene? Credo che abbia
scoperto la verità su sua zia, finalmente».
Il compagno
entrò nell'ascensore e rifletté, fino a quando si
chiese se il giorno prima, al cimitero, sapendo di essere seguito da
Geneviève, avesse visitato di proposito la tomba di Mary
Watson.
«Sherlock e
John ci stavano mettendo troppo, così ho deciso di darle un
indizio», confessò, per poi sospirare amareggiato.
«Spero solo di non aver affrettato le cose».
Grégorie
non sapeva cosa dirgli, considerando che non riusciva proprio a
togliersi di dosso la sensazione che quella ragazzina avrebbe portato
solo guai, perciò gli posò semplicemente una mano
sulla spalla.
Arsène
parve apprezzare e gli rivolse un piccolo sorriso, mormorando:
«Come farei senza di te?».
E per quanto lo
riguardava, l'uomo avrebbe voluto che quella giornata finisse
lì.
***
Ganimard chiuse gli
occhi e provò a riposare una mezz'oretta prima che l'aereo
atterrasse su suolo francese, ma le immagini che aveva visto al
telegiornale continuavano a passargli davanti agli occhi, facendogli
ribollire il sangue nelle vene: Arsène Lupin premiato dalla
polizia inglese per aver impedito a Victor Danegre di buttarsi nel
Tamigi.
Il ladro si era spesso
trasformato in giustiziere per riparare i torti subiti, ma non era
ancora capitato che combattesse le battaglie degli altri senza un
motivo, un tornaconto personale. Sherlock affermava che quello fosse
uno di quei rari casi, ma Justin non ci credeva. Ricordava fin troppo
bene i numerosi casi in cui Arsène si era spacciato come il
più generoso dei benefattori per poi rivelarsi come il ladro
che era. In particolare, non avrebbe mai dimenticato il caso della
sciarpa di seta rossa, dopo il quale aveva giurato sul proprio nome,
distintivo e tutto ciò che aveva di più caro al
mondo che non si sarebbe fermato fino a quando non l'avesse visto
dietro le sbarre.
Stava
andando al lavoro a piedi, come faceva da qualche settimana a quella
parte per fare un po' di attività fisica, e mentre si fumava
la seconda sigaretta della giornata notò il personaggio
strano che gli stava camminando davanti.
Si
trattava di un uomo sulla quarantina, vestito poveramente, forse un
clochard, il quale ogni cinquanta o sessanta passi si abbassava, o per
riallacciarsi le stringhe delle scarpe o per sistemarsi l'orlo dei
pantaloni o per qualche altro motivo. Ogni volta, inoltre, si toglieva
dalla tasca un pezzettino di buccia d'arancia e lo deponeva
furtivamente sul bordo del marciapiede.
Insospettito
da quello strano comportamento, che la gente comune avrebbe definito
come insensato o da maniaco, decise di seguire l'uomo
anziché entrare nella sede parigina della polizia. Avrebbe
ricevuto l'ennesimo richiamo da parte del suo superiore, ma
finché non fosse venuto a capo di quel mistero non sarebbe
stato contento.
Ad
un tratto Ganimard scorse il suo uomo scambiare dei segni con un
ragazzino di dodici anni, non di più, dall'altra parte della
strada. Insieme iniziarono a percorrere la via: dove il primo lasciava
la buccia d'arancia, il secondo tirava fuori un gessetto bianco e
segnava sul muro della casa che costeggiava una X all'interno di un
cerchio.
Continuarono
così per mezz'ora almeno, spargendo bucce e segnando case
mentre passeggiavano. Ganimard era sempre più incuriosito e
preoccupato: gli era ormai chiaro che quei due stessero complottando
qualcosa e la sua ossessione per Lupin gli fece temere la sua comparsa.
Dal
loro aspetto era più che probabile che fossero due
senzatetto pagati da lui per qualche lavoro sporco. Le X sulle case
dovevano significare qualcosa, come un codice, e Ganimard
giurò che avrebbe scoperto di che cosa si trattava.
In
place Beauvau l'uomo parve esitare, indeciso. Alla fine si
piegò e alzò e riabbassò due volte
l'orlo dei pantaloni. Il ragazzino, ricevuto il messaggio segreto,
segnò due X cerchiate sul marciapiede davanti al soldato che
montava di guardia davanti al Ministero degli Interni.
«Che
diavolo significa?», si domandò burbero Ganimard,
il quale ebbe la forte tentazione di acciuffare almeno il ragazzino per
fargli confessare tutto. Non lo fece però, sperando che quei
due pesci piccoli potessero portarlo da quello grosso.
Altre
due X vennero segnate nei pressi dell'Eliseo, poi i complici si
ricongiunsero per smezzarsi una sigaretta. Anche Ganimard
fumò, osservandoli con trepidazione mentre, di spalle,
sembravano trafficare con qualcosa. L'uomo si infilò la mano
in tasca per sei volte, estraendo ogni volta un qualcosa di piccolo, e
l'ispettore non poté non pensare ai proiettili di una
pistola.
A
quel punto ripresero il cammino e Ganimard, senza più paura
di essere scoperto a pedinarli, li seguì da vicino pur di
non perderli di vista. Lo condussero fino ad un vecchio palazzo, dalle
persiane chiuse eccetto quelle del terzo ed ultimo piano.
Li
seguì sotto il porticato e oltre il cortile interno scorse
l'altra facciata della proprietà, la quale stava subendo dei
lavori di ristrutturazione. Dei forti colpi richiamarono la sua
attenzione e Ganimard, pensando alla pistola che li aveva visti
caricare, si precipitò su per le scale.
Quando
raggiunse l'appartamento dell'ultimo piano trovò la porta
aperta e con la pistola tra le mani sudate si annunciò. Il
rumore si fece più forte e l'ispettore attraversò
l'appartamento sgombro fino a trovarsi in quella che doveva essere
stata la camera da letto padronale, dove sorprese l'uomo delle bucce
d'arancia e il ragazzino delle croci mentre sbattevano due sedie contro
il pavimento.
Rosso
di rabbia e sudato per la corsa sulle scale, Ganimard ebbe il forte
desiderio di sparare loro alle gambe. Ad impedirglielo fu l'arrivo di
una giovane donna dai lunghi capelli biondi, acconciati in morbidi
boccoli, con indosso una voluminosa pelliccia nera. Sembrava russa.
«Buongiorno
Ganimard», lo salutò con tranquillità,
rivolgendogli persino un sorriso. Quindi si voltò verso i
due personaggi e disse: «Grazie, amici miei, e ottimo lavoro!
Ecco qui la vostra ricompensa».
Li
pagò con un paio di biglietti da cento euro e li spinse
fuori. Poi chiuse anche la porta da cui era comparsa lei, forse un
bagno, e tornò a concentrarsi su di lui.
«Ti
chiedo scusa, vecchio mio. Ma avevo bisogno di parlarti... un bisogno
urgente».
Ganimard
osservò la mano dalle lunghe unghie laccate di rosso che gli
aveva steso, la faccia accartocciata in una smorfia di confusione e
collera, e la giovane donna rise coprendosi la bocca.
«Davvero,
non mi hai riconosciuto? Aspetta».
La
donna si tolse gli occhiali da sole e quella che si rivelò
essere una parrucca. Ora, nonostante il trucco, il volto che aveva di
fronte era senza alcun dubbio quello di Arsène Lupin. Si
schiarì la gola, portandosi teatralmente un pungo sul petto,
e parlò con la sua voce calda e piena di vita: «Va
meglio, ora?».
«Animale!»,
gridò Ganimard, avanzando di un passo e non di
più verso di lui, frenato da quel senso di timore
riverenziale che provava quando doveva ammettere la sconfitta di fronte
alle sue strabilianti capacità.
Il
suo aspetto, la sua voce, persino i movimenti gli erano sembrati quelli
di una donna. Nessuno si sarebbe accorto dell'inganno, forse nemmeno
Sherlock Holmes.
«Da
palcoscenico, intendi? Già, avrei avuto una brillante
carriera d'attore... Magari quando andrò in pensione, che ne
dici?», esclamò, facendogli l'occhiolino. Quindi
sistemò meglio le sedie usate dai suoi lacché per
attirarlo fino a lì e si sedette, accavallando le gambe e
mostrando delle scarpe con un tacco non indifferente. Come riusciva a
camminare su quei trampoli?
«Avanti,
accomodati! Ho bisogno di parlarti».
«E
c'era bisogno di portarmi fin qui?», domandò
Ganimard, lasciando che la rabbia venisse spodestata dalla
curiosità.
«Beh,
se ti avessi scritto o telefonato non saresti venuto... o l'avresti
fatto con l'intero corpo di polizia al seguito. Io volevo vederti da
solo e ho pensato di mandarti incontro quei due bravi ragazzi. L'idea
delle bucce d'arancia e delle croci è stata loro, sai? Hanno
fatto davvero un buon lavoro».
Ganimard
tornò a sentire il sangue ribollire e dallo sguardo desolato
del ladro capì che doveva essergli spuntata la vena gonfia
sulla fronte.
«Sei
arrabbiato? Sì, hai la vena che pulsa... E io che pensavo
che ti avrebbe fatto piacere vedermi! Sono passati mesi dal nostro
ultimo tête-à-tête! Pensavo mi avresti
gettato le braccia al collo!».
Ganimard
si guardò intorno, chiedendosi se non fosse davvero il caso
di mettergli le mani al collo,
ma il ricordo di tutte le battaglie perse lo scoraggiò tanto
da costringerlo ad abbandonarsi, come sfinito, sulla sedia offertagli
dal ladro.
«Parla»,
esclamò lugubre. «E senza fronzoli. Ho fretta,
io».
«Sì,
va bene». Si stiracchiò, stendendo le lunghe gambe
e sistemandosi subito dopo la corta gonna del talleur rosso sulle
cosce. Quindi tirò fuori dalla tasca della pelliccia una
sigaretta.
«Mi
dispiace non averlo visto arredato», commentò
l'appartamento, guardandosi intorno mentre aspirava la prima boccata di
fumo. «Apparteneva ad un certo Rochelaure, insieme a tutto
l'altro lato della proprietà, e dato che nessuno voleva
più abitarci per i protratti lavori di
ristrutturazione...».
«Cosa
vuoi che me ne importi!», lo interruppe Ganimard.
«Infatti,
io chiacchiero, e tu hai fretta. Scusami, sarò
più conciso. Cinque minuti, non di più. Ho un
appuntamento, dopo».
L'ispettore
sospirò, chiedendosi se il suo appuntamento fosse un uomo o
una donna e con quale aspetto l'avrebbe incontrato; poi tirò
fuori il proprio pacchetto di sigarette e lasciò che Lupin
gliene accendesse una con il suo accendino d'oro zecchino.
«Allora,
il 17 ottobre 1599, in una bella giornata calda e gioiosa... No,
aspetta, forse non è il caso di raccontarti tutta la storia
del Pont-Neuf. Ti basti sapere che stanotte, verso le quattro, un
battelliere che transitava sotto il suddetto Pont-Neuf, dalla parte
della rive gauche, sentì cadere, sul davanti della sua
chiatta, una cosa che era stata lanciata dall'alto del ponte e che era
destinata alle profondità della Senna. Il suo cane si
precipitò abbaiando e quando il battelliere raggiunse
l'estremità della chiatta vide che la bestia scuoteva con le
fauci un sacchetto di plastica che era servito ad avvolgere parecchi
oggetti. Raccolse ciò che non era finito in acqua e, tornato
nella sua cabina, li esaminò. Ora entro in scena io, dato
che quell'uomo si tratta in realtà di un mio
amico».
Arsène
si alzò e tenendo la sigaretta fumata a metà tra
le labbra recuperò una borsa firmata Louis Vuitton,
l'aprì e tirò fuori gli oggetti che gli erano
stati consegnati, allineandoli con cura sul pavimento, tra le loro
sedie.
C'era
ovviamente il sacchetto di plastica a brandelli in cui erano stati
raccolti gli oggetti. C'erano dei frammenti di vetro scuri e poi una
specie di cartone ripiegato, ridotto a cencio. E c'era infine un pezzo
di seta rossa scarlatta, che finiva con una nappa della stessa stoffa e
dello stesso colore.
«Ecco
qui i nostri reperti, amico mio», riprese Lupin.
«Certo, sarebbe stato più semplice se avessimo
avuto anche gli oggetti che la stupidità del cane ha
disperso, ma con un po' di riflessione e d'intelligenza ce la possiamo
cavare. Sono le tue qualità principali, dopotutto. Che ne
dici?».
Ganimard
lanciò il mozzicone della sigaretta ed incrociò
le braccia al petto, fissando quelle prove con la sua solita aria
imbronciata. Aveva acconsentito ad ascoltare le chiacchiere di Lupin,
ma non avrebbe giocato a fare il detective con lui, ne andava del suo
orgoglio.
«Non
ho dubbi che tu ci sia arrivato», esclamò il
ladro, senza perdere quel suo sorriso gioviale. «Ma lascia
comunque che riassuma i fatti, va bene? Mi piace fare deduzioni, mi fa
sentire più vicino al carissimo Sherlock. Chissà
come se la passa...».
I
suoi occhi si rabbuiarono per un momento, uno soltanto, prima che
iniziasse a raccontare la sua versione dei fatti, quella che in base
agli oggetti in suo possesso credeva fosse la sola ed unica
verità.
«Ieri
notte, fra la mezzanotte e le due, una signorina dalle apparenze
eccentriche è stata ferita a coltellate, poi stretta alla
gola fino a che è sopraggiunta le morte, da un signore che
portava gli occhiali da sole, appartenente al mondo del dj set e con il
quale la suddetta signorina aveva appena mangiato delle tartine ai
frutti di mare».
Si
riportò con eleganza la sigaretta alle labbra color cremisi,
stese in un sorriso colmo di soddisfazione, e aggiunse:
«Elementare, non trovi?».
Ganimard
non abbandonò il proprio mutismo, ma strinse i pugni sulle
gambe, furioso. Sapeva che non lo stava prendendo in giro - nonostante
non avesse la più pallida idea di come avesse fatto a
dedurre simili particolari da quei pochi oggetti - ed era proprio
questo a farlo arrabbiare tanto: perché, con doni come
quelli, aveva scelto la carriera del ladro? Ora, finalmente, capiva
come doveva sentirsi Sherlock ogni volta che si trovava al suo cospetto.
«Potrei
spiegarti tutto, ma hai detto di avere fretta, giusto? Ti passo il
caso, Ganimard: sono sicuro che lo risolverai in quattro e quattr'otto
e che farai un figurone col tuo capo!».
L'ispettore
alzò di scatto gli occhi, allibito: c'era da fidarsi?
Perché gli stava facendo un favore del genere,
anziché occuparsi personalmente della vicenda e sfruttare
l'occasione per farsi amare ancora un po' dal pubblico e, magari,
rubare anche qualcosa?
Come
se Arsène avesse seguito per filo e per segno ogni passaggio
del suo ragionamento, sbuffò dicendo: «Non ho
tempo, Ganimard! Sono oberato di lavoro, al momento. Un furto con
scasso a Londra, un altro a Losanna, una sostituzione di bambino a
Marsiglia, il salvataggio di una ragazza intorno cui la morte
è in agguato... Ho molta carne al fuoco».
Si
risedette sulla sedia e si sporse per guardarlo fisso negli occhi e
sussurrare: «Fra poco, probabilmente, conoscerai la
vittima... una ballerina, o una cameriera. Propendo per la prima.
È molto probabile anche che il colpevole abiti nelle
vicinanze del Pont-Neuf, magari proprio sulla rive gauche».
Si
risollevò ed indicò i reperti ai loro piedi,
aggiungendo: «È tutto qui, non sto scherzando.
Indaga e arresta il colpevole, è il tuo mestiere. Prendi
tutto tranne questo pezzo di sciarpa». Lo raccolse da terra
prima che Ganimard potesse impedirglielo e si allontanò,
rimirando la seta macchiata di sangue coagulato.
«Questo
lo tengo io», riprese. «Se per le indagini avrai
bisogno di ricostruire l'intera sciarpa portami l'altro pezzo, quello
che troverai al collo della vittima. Portamelo fra una settimana
esatta, qui, alle dieci. Ci sarò, te lo prometto».
L'ispettore
non provò nemmeno a fermarlo: lo guardò dirigersi
verso la porta, schiacciato da quel senso di impotenza. Malgrado tutti
i suoi sforzi, malgrado la persistenza delle sue ricerche, non avrebbe
mai avuto ragione di un avversario simile. Tutto ciò che
otteneva, correndogli dietro come un cagnolino, erano i soprannomi, le
vignette e gli articoli derisori che la stampa gli dedicava.
«Ah,
a proposito!», gridò Lupin, facendolo quasi
sobbalzare sulla sedia. Il suo sorriso da bambino stonò
terribilmente con ciò che gli disse: «Quando
arresterai il colpevole fa' attenzione: è mancino. Addio,
vecchio mio, e buona fortuna!».
Con
un risolino e una piroetta si chiuse la porta alle spalle e Ganimard,
trovandosi all'improvviso con la bava alla bocca, corse
all'inseguimento. La porta però non si aprì e la
frustrazione tornò a farlo sentire quel patetico cagnolino
che non riusciva mai ad arrendersi, anche dopo decine, centinaia di
bastoni invisibili lanciati verso di lui.
Per
quanto provasse a girare la maniglia, la serratura doveva essere stata
manomessa per garantire a Lupin una ritirata sicura. Ma Ganimard non
era più disposto a stare ai suoi giochetti: tirò
fuori la pistola e sparò, facendo saltare il meccanismo. A
quel punto bastò un calcio per sfondare la porta e
ritrovarsi in un bagno con balcone, da cui Lupin si era lanciato sulla
scala antincendio per saltare in auto e sfrecciare via con alcuni dei
suoi uomini.
Era
troppo tardi, ancora e sempre.
Rientrò
nell'appartamento e raccolse le prove di quell'omicidio. Una volta in
strada si accese un'altra sigaretta e ricevette una chiamata.
«Ganimard»,
rispose col filtro tra le labbra.
«Dove
diavolo sei finito?», sbraitò il suo capo.
«Muoviti ad arrivare, c'è un omicidio che ti
aspetta!».
«Chi
è morto?».
«Una
ragazza. Una cubista, se non ho capito male. E adesso
sbrigati!».
L'ispettore
chiuse gli occhi e respirò profondamente, ammettendo che la
prima deduzione di Arsène Lupin si era rivelata esatta.
«Sto
arrivando», rispose alla fine, terminando la chiamata.
***
«Sai,
ripensandoci forse avrei dovuto lasciarlo cadere», le
confessò a bassa voce Jean quando poté tornare a
sedersi davanti a lei e alla sua vellutata di zucca con crostini.
«Il risultato sarebbe stato lo stesso,
probabilmente».
Molly
guardò le due ragazze che avevano chiesto un selfie con
"l'eroe di Waterloo Bridge" mentre uscivano dal ristorante,
scambiandosi commenti eccitati e risatine.
Non erano le prime ad
aver fatto una richiesta simile, dato che da quando si erano incontrati
per quel caffé, tramutatosi in un invito a pranzo, almeno un
altro paio di persone l'avevano fermato per fargli i complimenti e
stringergli la mano.
Jean sembrava gradire
tutte quelle attenzioni, a dispetto di ciò che aveva appena
detto.
«Che cosa
intendi?».
Gli occhi verdi del
ragazzo vennero attraversati da un luccichio di furbizia che, unito al
suo sorriso brillante, le azzerarono la salivazione.
«Lavori in
un obitorio, giusto? È probabile che, se fosse riuscito nel
suo intento, Danegre sarebbe stato portato da te».
«Okay, ma
non vedo come tu...».
«A quel
punto la polizia mi avrebbe convocato come testimone oculare e io avrei
fatto il possibile per incrociarti».
Molly lo
fissò per una dozzina di secondi, sconcertata, fino a quando
Jean non scoppiò a ridere e versò ad entrambi un
bicchiere di vino.
«Stavo
scherzando», le disse con un sorriso ora più
gentile. «Ho sperato tanto che mi richiamassi, ma non sarei
arrivato a tanto per rivederti. Non sono un sociopatico!».
Il vino che aveva
iniziato a bere le finì quasi di traverso a quelle parole.
Jean le scivolò accanto sulla panca ad angolo e le
batté una mano sulla schiena, per poi lasciarla
lì mentre Molly alzava gli occhi lucidi e lo guardava con un
misto di shock e timore.
«Ne sei
sicuro?», gli domandò quando raccimolò
tutto il suo coraggio.
Jean socchiuse le
labbra, vagamente ferito da quella domanda. «Ora sono io a
non capire», ammise. «Perché me lo
chiedi?».
No, non può essere,
si convinse l'anatomopatologa, ancora incatenata a quello sguardo bello
ed innocente. Anche se qualcosa, il pensiero che ci fosse di
più dietro quella facciata, le punzecchiava la nuca. Come
l'Uomo Ragno, anche lei aveva il suo senso speciale: quello
individua-sociopatico.
«Scusami, ho
avuto un paio di brutte esperienze», rispose alla fine,
riuscendo ad abbassare gli occhi sulla sua insalata di pollo.
Jean rimase in
silenzio, forse non convinto, e Molly, pur di stemperare la tensione,
stirò un sorriso e aggiunse: «Inoltre mi sembra
tutto troppo bello per essere vero».
Ormai le era chiaro
che i complimenti fossero il suo punto debole - ma dopotutto un pizzico
di vanità gliela si poteva concedere - e infatti Jean
tornò ad essere il ragazzo solare e divertente che l'aveva
avvicinata al pub.
«Ma, a parte
gli scherzi, mi addolora molto questo tuo sottovalutarti»,
disse ad un tratto. Puntandole contro il cucchiaio, aggiunse:
«Devi imparare ad amarti un po' di più, Molly
Hooper».
«Ne ho tutte
le intenzioni», affermò, guardando verso le
finestre dall'altro lato del ristorante. «Ho aspettato fin
troppo tempo, cercando la felicità in una fantasia. Ma
voglio che le cose cambino, d'ora in avanti».
Si voltò
verso di lui, sopresa lei stessa dalle sue parole, e trovò
Jean con gli occhi fissi su di lei, profondamente concentrato. Quello
sguardo le ricordò terribilmente Sherlock, ma
cancellò la sua immagine non appena si presentò e
facendo di nuovo appello al proprio coraggio tirò fuori
dalla borsa i due biglietti per il Don Giovanni.
«Non voglio
più precludermi alcuna possibilità,
perciò... se ti fa piacere, vorrei che mi accompagnassi a
questo spettacolo».
Jean
afferrò la busta, la girò e Molly si
sentì morire quando vide riflesso nelle sue iridi il nome di
Sherlock. Incredibilmente però non disse nulla e si
concentrò sui biglietti all'interno, assumendo
un'espressione di pura incredulità.
«Non posso
crederci», mormorò. «La Royal Opera
House! Ho sempre sognato di andarci! Ma gli spettacoli vanno sempre a
ruba e costano un occhio della testa, non vorrei approfittare... Sei
sicura che vuoi che ti accompagni?».
Fu Molly a ridere
quella volta, imitandolo nel puntargli la forchetta contro e
dicendogli: «Non ti senti per caso all'altezza,
Jean?».
Il ragazzo si
tirò indietro i capelli biondi, arrossendo persino, e
ripeté: «Davvero, sei sicura?».
«Al cento
percento. E poi, se vuoi la verità, me li hanno
regalati».
«Beh, hai
proprio una bella fortuna», commentò,
restituendole la busta. Prima di lasciare la presa fece in modo che lo
guardasse negli occhi e sorridendo concluse: «E io con te.
Non vedo l'ora di sabato».
«Anche
io», ricambiò.
E, dopo molto tempo,
era davvero così: l'idea di trascorrere una serata diversa,
con una persona che l'apprezzava, le faceva battere forte il cuore. E
in un certo senso era anche merito di Sherlock.
***
«Eccoti,
finalmente», esclamò l'Ispettore Capo Dudouis non
appena Ganimard varcò la soglia del suo ufficio.
Bevve
un sorso di caffé e la sua faccia si accartocciò
come se avesse appena morso un limone, poi disse: «Sei uno
dei miei uomini migliori Justin, lo sai, ma non posso più
tollerare la tua insubordinazione. Davanti ai tuoi colleghi e alla
stampa non ci faccio una bella figura. Mi capisci? La tua ossessione
con Lupin, le tue assenze, il brutto periodo che stai
passando...».
«È
tutto sotto controllo», ringhiò stringendo i pugni
lungo i fianchi.
«Hai
chiamato quella terapista che ti ho consigliato?».
«Mi
sembrava di averti già detto che non ne ho
bisogno».
Dudouis
sospirò e sventolando una mano tagliò corto:
«Come vuoi. Sappi solo che l'ora e mezza di ritardo ti
verrà decurtata dallo stipendio. E ora passiamo al
caso».
Prese
la sola ed unica cartelletta rimasta sulla scrivania e gliela porse,
iniziando ad enunciare come d'abitudine: «Omicidio. Jenny
Lefevre, ventotto anni, nubile, faceva la ballerina al Lazare, nome
d'arte: "Saphir". È stata ritrovata questa mattina dalla sua
coinquilina».
«Causa
della morte?», domandò Ganimard, il quale non
aveva ancora avuto la forza per aprire il fascicolo e leggere da
sé tutto quanto.
«Prima
è stata pugnalata, poi strangolata».
«Dannazione»,
sputò tra i denti, pensando a quel maledetto di Lupin.
Aveva
visto tutto senza essere presente! Ma potevano essere solo coincidenze.
Sapeva che c'era un solo modo per verificarlo, perciò
respirò profondamente ed aprì la cartelletta,
trovandosi subito davanti le foto della scena del crimine. In una di
queste, in cui il soggetto era la vittima, notò
immediatamente il brandello di sciarpa di seta rossa a cui si era
aggrappata con tutte le sue forze prima di morire. Ecco la conferma che
sperava di non trovare.
«È
tutto?», domandò Ganimard, desideroso di mettersi
al lavoro.
L'Ispettore
Capo sospirò, lasciandosi cadere nella propria poltrona.
«Vorrei fosse così, per il tuo bene. Ma dato che
lo scoprirai comunque, è inutile tenertelo nascosto: il
movente del delitto sembra essere il furto di uno zaffiro - da qui il
soprannome. Lo ricevette in regalo qualche anno fa da un miliardario
russo che frequentava il club. Tutti quelli vicini alla ragazza
conoscevano la storia, ma Jenny era stata ben attenta a non mostrarlo
mai a nessuno, perciò molti dubitavano della sua
esistenza».
«A
quanto pare qualcuno era convinto del contrario», disse
Ganimard, lugubre.
«So
esattamente cosa stai pensando e la mia risposta è no. Ti
prego, Justin, non farti questo. Lupin non c'entra, non questa
volta».
Sapeva
che non era così, che il solo ed unico motivo per cui quella
mattina Arsène lo aveva attirato in quel palazzo era per
allungare le mani sullo zaffiro, ma c'era una ragazza assassinata che
meritava giustizia. Lei aveva la priorità, poi avrebbe
pensato al ladro.
Rivolse
un lieve sorriso all'Ispettore Capo e prima di uscire dall'ufficio lo
salutò avvicinandosi la cartelletta alla fronte, senza
promettergli nulla.
Tre
giorni dopo Ganimard si trovava nel proprio ufficio, l'unico di tutto
il palazzo in cui gli era ancora possibile fumare senza dover per forza
uscire.
Era
tardi, ma all'ispettore non importava: che restasse lì
oppure andasse a casa non faceva alcuna differenza. Nessuno lo
aspettava.
Seduto
dietro la propria scrivania, coi piedi sollevati e una fetta di pizza
alle acciughe in una mano, l'ultima sigaretta fumata a metà
nel posacenere, osservava la lavagna sulla quale aveva appeso tutto
ciò che aveva scoperto sull'omicidio di Jenny Saphir.
Più
ci si arrovellava, più malediceva Lupin per averlo coinvolto
in quella storia. Al contempo doveva ringraziarlo per avergli fornito
le prove senza le quali non sarebbe mai riuscito ad arrivare fino a
quel punto.
Dei
colpi alla porta attirarono la sua attenzione.
«Avanti».
Folefant,
uno degli agenti che ancora non lo reputavano matto da legare,
entrò nell'ufficio quasi completamente immerso
nell'oscurità - l'unica fonte di luce era infatti la lampada
della scrivania - e lo guardò con un misto di apprensione e
curiosità.
«Va
tutto bene, ispettore?».
«Assolutamente»,
rispose, dando un morso alla pizza ormai fredda. «Tu che cosa
ci fai ancora qui?».
Il
ragazzo abbassò il capo e ammise: «So che ha detto
di voler seguire da solo questo caso, ma mi chiedevo, ecco, se potessi
in qualche modo rendermi utile».
Folefant
gli ricordava terribilmente il Ganimard di vent'anni prima: giovane,
pieno di iniziativa e fedelissimo nei confronti del sistema
giudiziario. L'arrivo di Lupin aveva avvelenato tutto, rivelandogli la
vera, cinica asprezza del mondo.
Per
questo l'ispettore lanciò il pezzo di pizza nella scatola,
la chiuse e la gettò a terra, nei pressi del cestino. Bevve
un sorso di birra ed indicò lo spazio libero sulla
scrivania; Folefant, sorridendo felice, si accomodò mentre
il più anziano si alzava per avvicinarsi alla lavagna.
Quell'agente
meritava di credere nella giustizia ancora per un po', o almeno di
vedere che qualcuno continuava a lottare per essa.
«Jenny
Lefevre è stata strangolata la notte tra il 23 e il 24,
secondo l'autopsia intorno all'una, dopo essere stata ferita con due
coltellate alla spalla sinistra», esordì,
indicando le prime foto della vittima. «La morte per asfissia
è dovuta alla sciarpa di seta rossa che la ragazza portava
al collo e che sappiamo, grazie alla coinquilina, essere la sua
preferita, tanto che la portava con sé ovunque
andasse».
«Ma
lì ce n'è solo un pezzo»,
notò Folefant, indicando la foto che la scientifica aveva
scattato durante l'esame. Era chiaro come il sole che quella fosse solo
metà della sciarpa. L'altra metà, lui lo sapeva
bene, era tra le mani di Lupin.
«Corretto.
La vittima vi si è aggrappata con tutte le sue forze, forse
per allentare la stretta, e l'assassino non è riuscito a
recuperarla. Così ha deciso di tagliarla - si vedono
chiaramente i segni irregolari lasciati da una forbice - per
sbarazzarsi delle prove. È quasi certo che su di essa
avremmo trovato del DNA o delle impronte digitali».
«E
il movente quale sarebbe?», chiese Folefant.
Ganimard
sospirò. «Ho interrogato tutti quelli che
conoscevano Jenny e pare non avesse nemici, né al lavoro
né altrove. A questo punto non rimane che la pista dello
zaffiro».
«Mi
pareva di aver capito che nessuno fosse sicuro della sua
esistenza».
«Alla
fine deve averlo mostrato a qualcuno, il quale ha cercato di
impossessarsene e ha finito per ucciderla».
«Chi
sarebbe arrivato a tanto per una pietra?», si
domandò Folefant, pentendosene subito dopo per via del nome
che era spuntato, ingombrante, tra loro. «Mi scusi ispettore,
non volevo...».
«Non
ti preoccupare. Arsène Lupin non si è mai fatto
accusare di omicidio, fino ad ora almeno. I miei sospetti sono rivolti
altrove».
«La
coinquilina?».
«No,
ma è stata lei ad indirizzarmi. Durante l'interrogatorio ha
rivelato che Jenny stava frequentando un uomo da qualche mese a questa
parte. Ne era entusiasta e diceva persino che presto le avrebbe chiesto
di sposarla, ma nessuno l'aveva mai visto. Pensa che nemmeno lei ci
è mai riuscita: le sembra di averlo incrociato una volta,
quando rientrando si attardò sulle scale, ma indossava un
cappello e degli occhiali da sole. Jenny affermava che fosse un
personaggio famoso e che per questo voleva che mantenesse il segreto
sulla sua identità».
«Lo
zaffiro, la celebrità... Mi sembra che questa ragazza
raccontasse un sacco di fandonie per attirare l'attenzione»,
disse Folefant, ridacchiando.
«All'inizio
l'ho pensato anch'io. Poi però...».
Poi
però aveva recuperato la borsa con le prove che Lupin gli
aveva così spassionatamente regalato.
Durante
il loro incontro gli aveva svelato com'era avvenuto il delitto, che
l'assassino portava gli occhiali da sole e che lavorava nell'ambiente
del dj set, dandosi tante arie per le proprie brillanti deduzioni.
Arsène Lupin però non era un mago, nessuno lo
era, e Ganimard conosceva almeno un'altra persona in grado di stupire
in quel modo: Sherlock Holmes. Ed era stato proprio il detective
inglese a rivelargli, in un giorno in cui era particolarmente di buon
umore, che il trucco era proprio quello: dare all'interlocutore solo la
soluzione, senza spiegare nel dettaglio i propri ragionamenti, spesso e
volentieri banalissimi.
Ganimard
allora aveva sfruttato le informazioni di Lupin e, andando a ritroso,
era risalito ai punti da cui era partito per poi esibirsi in quel suo
giochetto di prestigio.
«Poi
cosa?», lo incalzò Folefant, pendendo dalle sue
labbra.
L'ispettore
sospirò arrendevole e si spostò vicino al mobile
su cui aveva posato le prove di Lupin.
«Guarda
qui», gli disse, invitandolo ad avvicinarsi.
«L'assassino, dopo l'omicidio, ha raccolto delle prove in
questo sacchetto, ma nel tentativo di sbarazzarsene buttandole nella
Senna sono finite invece su una chiatta. Il battelliere è
riuscito a recuperare solo questo perché il suo cane
è arrivato prima».
«Come
fa a sapere che sono prove del caso Saphir?»,
domandò Folefant, sinceramente confuso. D'altronde
ciò che aveva davanti non era nulla di compromettente: un
sacchetto di plastica a brandelli, dei frammenti di vetro scuro (forse
pezzi di una lente?) e una scatoletta di cartone ripiegata e anch'essa
mangiucchiata dal cane.
Ganimard prese ciò che rimaneva del sacchetto e del cartone,
cercò un punto ben preciso e poi li avvicinò: un
logo si palesò davanti ai loro occhi, il logo quasi
illeggibile del Lazare, il club dove lavorava la vittima.
«C'è
di più», aggiunse. Aprì la scatola di
cartone e al suo interno indicò delle macchie: «Le
ho fatte esaminare dalla scientifica e come risultato hanno ottenuto
colla di pesce e salsa rosa. Pare che questa scatola contenesse delle
tartine ai frutti di mare».
«Sì,
il Lazare è un club per ricchi, quindi hanno anche queste
cose», confermò Folefant, per poi aggiungere
imbarazzato: «Non che io ci sia mai stato... L'ho sentito
dire».
Ganimard
lo ignorò. «Ad ogni modo, facendo un test sul
contenuto dello stomaco della vittima ho scoperto che prima di morire
ne aveva mangiata qualcuna anche lei». Proprio come ha detto
Lupin. «Allora sono andato al Lazare e ho chiesto al
proprietario, ai baristi e alle altre ballerine, ma nessuno di loro mi
ha saputo aiutare. Partendo dal presupposto che fosse un personaggio
piuttosto famoso, ho fatto delle ricerche e ho notato che da qualche
mese il club ha iniziato a collaborare con un certo Dj
Prévail. Non è proprio una star da quanto ho
capito, ma nel suo ambiente è conosciuto. Guarda caso la
notte dell'omicidio Dj Prévail si è esibito al
club e, dalle testimonianze raccolte, prima di andarsene ha chiesto
delle tartine da portare via. Ed indossava degli occhiali da sole anche
in quell'occasione. Una moda assurda, lo so».
Ganimard
incrociò le braccia al petto e tornò alla
lavagna, davanti alla foto del suo maggiore indiziato, per concludere:
«Il suo vero nome è Thomas Derocq e abita sul quai
des Augustins, proprio nei pressi del Pont-Neuf».
Folefant
rimase in silenzio a lungo, concentrato nel mettere insieme tutti i
pezzi del puzzle. Alla fine si portò le mani sui fianchi e
scosse il capo, sospirando. «Non lo so, ispettore. Il
ragionamento è plausibile, ma...».
«Ma
non è abbastanza», concluse per lui, tornando alla
scrivania per recuperare la sigaretta ancora accesa. Aspirò
avidamente, ad occhi chiusi.
«Sa
che cosa farebbe veramente comodo?», esclamò il
ragazzo, sorridente come se avesse appena risolto il mistero del
secolo. «La seconda parte della sciarpa! Con quella prova, il
colpevole non avrebbe via di scampo!».
Ganimard
lo sapeva, lo sapeva fin troppo bene. E doveva saperlo anche Lupin,
quella canaglia: ecco perché aveva dato così per
scontato che avrebbe avuto bisogno di incontrarlo nuovamente. Ma
l'ispettore non gli avrebbe dato quella soddisfazione senza averle
provate tutte. Aveva ancora quattro giorni a disposizione.
Ganimard
uscì dall'aeroporto con il proprio trolley nero in una mano
e si accese immediatamente una sigaretta, sotto un sole accecante di
cui non aveva per nulla sentito la mancanza in Inghilterra.
Dopo un paio di
boccate di fumo fece per dirigersi verso la fermata degli autobus, ma
un fischio lo fece voltare. Appoggiato contro il cofano di
un'utilitaria vide il volto giovane e sorridente di Folefant, i ricci
biondi che gli accarezzavano la fronte.
L'agente
sollevò una mano in segno di saluto e Ganimard lo raggiunse,
confuso.
«E tu come
facevi a sapere che sarei tornato oggi?», gli chiese.
«Me l'ha
detto Dudouis», rispose candidamente il giovane, scrollando
le spalle. «E ho pensato di offrirle un passaggio».
Ganimard non sapeva
come comportarsi di fronte ad una tale gentilezza, perciò
abbassò lo sguardo e rimase in silenzio mentre Folefant gli
apriva il bagagliaio.
Una volta seduto al
suo fianco, sul sedile del passeggero, guardò il suo volto e
qualcosa dentro di lui si sciolse: quel grumo di rabbia ed indifferenza
a causa del quale impediva agli altri di avvicinarsi troppo. Con
Folefant però non era mai servito: quel ragazzo - il figlio
maschio che non aveva mai avuto - l'aveva preso come modello, per
chissà quale motivo, e Ganimard si sentiva in terribile
difetto ogni volta che quel pensiero lo sfiorava. Che aveva fatto per
meritarsi una tale ammirazione?
«Perché
fai tutto questo?», chiese ad alta voce, senza rendersene
conto. Ormai però era troppo tardi per rimangiarselo.
Folefant
ridacchiò, immettendosi nel traffico cittadino.
«Che domanda è? Lei è il mio
capo».
«Ho
capito», sospirò rassegnato. «Devo
avvisarti che se sei in cerca di una promozione, sappi che io non ho
più alcuna autorità e...».
«Ma quale
promozione? Non ho alcun secondo fine, ispettore. Deve
credermi».
«Allora per
quale motivo ti comporti in questo modo? Non mi devi niente!».
Il ragazzo parve
veramente turbato da quelle parole ed impiegò qualche
secondo per rispondere, con due rughe d'espressione tra le sopracciglia.
«Non le devo
niente?», ripeté, stringendo forte le mani intorno
al volante. «Ispettore, lei è la ragione per cui
io mi sono iscritto all'accademia. Lei per me è la giustizia
fatta a persona, l'unica persona che non si è mai arresa di
fronte ad Arsène Lupin».
«E guarda
dove mi ha portato», mormorò Ganimard, voltandosi
verso il finestrino.
«Appunto! Al
posto suo, chiunque avrebbe gettato la spugna. Lei, invece, nonostante
i fallimenti, le critiche, le malelingue... lei persiste,
perché crede nella giustizia. E io sarò sempre
dalla sua parte».
La determinazione nei
suoi occhi di solito docili lo colpì a tal punto che
rischiò di commuoversi.
L'ispettore si fece
forza e tentò il tutto per tutto: «Spero tu non
vada a dirlo in giro: la tua reputazione e la tua carriera potrebbero
risentirne».
«Non mi
interessa», affermò il ragazzo.
«Chiunque la giudica negativamente si sbaglia e non
smetterò mai di dirlo».
Ganimard
abbozzò un sorriso, arrendendosi, e all'improvviso si
sentì a casa.
Mancava
solo un giorno ormai all'incontro fissato da Lupin e Ganimard,
sentendosi alle strette, aveva deciso di affrontare direttamente Dj
Prévail. In termini legali non era la mossa giusta da fare,
ma l'ostruzionismo del suo avvocato e le pressioni di Dudouis, il quale
voleva il caso risolto ad ogni costo, non gli avevano lasciato molte
alternative.
Guardò
Folefant, seduto in auto al suo fianco, e sospirò: poteva
finire in guai seri per averlo voluto aiutare, ma tutti i suoi
tentativi di dissuaderlo erano stati inutili.
«Sei
ancora in tempo per andartene», gli disse, conoscendo
già la sua risposta.
L'agente
gli rivolse un sorriso a trentadue denti: «Se lo
può scordare».
Erano
appostati davanti alla casa di Thomas Derocq da ormai due ore quando
finalmente il loro sospettato scese da un SUV nero, indossando come
d'abitudine occhiali da sole scuri e cappellino da baseball.
«È
lui?», domandò Folefant, non stando più
nella pelle.
Ganimard
annuì con un cenno del capo e scese dall'auto per
attraversare la strada e raggiungere il dj. Non era ancora giunto al
portone del suo palazzo quando l'ispettore lo chiamò per
nome.
L'uomo
si girò e si mise subito sulla difensiva, chiedendo:
«E voi chi diavolo siete?».
«Ispettore
Ganimard e agente Folefant, Polizia Nazionale. Abbiamo cercato di
contattarla, ma il suo avvocato ci ha informato che era molto
occupato... Così siamo venuti noi da lei».
Derocq
indietreggiò verso il portone e Ganimard lo trovò
sospetto, così si affrettò a dire:
«Vogliamo solo farle qualche domanda, non siamo qui per
arrestarla».
«Potete
rivolgerle al mio avvocato», parlò alla fine,
mostrando i denti come un cane rabbioso.
«Lei
conosceva Jenny Lefevre?», gli domandò Folefant,
avanzando di un passo. «È stata trovata morta nel
suo appartamento sei giorni fa e abbiamo ragione di credere che lei sia
stata l'ultima persona ad averla vista viva».
Ganimard
avrebbe voluto fermarlo, fargli capire che in quel modo non avrebbe
cavato un ragno dal buco, ma non ne ebbe il tempo materiale. Con la
coda dell'occhio notò che Derocq si era infilato la mano
sinista nella tasca della giacca. Ricordando l'avvertimento di Lupin -
l'assassino era mancino - Ganimard spinse di lato Folefant e si
gettò sul dj. Partì un colpo di pistola, ma
l'ispettore aveva fatto in tempo ad afferrargli il braccio e a deviarne
la traiettoria. Quindi gli diede una gomitata sul mento e lo
immobilizzò contro il portone per togliergli la pistola di
mano ed ammanettarlo.
Folefant,
rimaso fino ad allora fermo immobile e muto come un pesce per lo
stupore e la velocità con cui si era svolto il tutto,
seguì l'ispettore mentre portava il loro sospettato all'auto
e lo faceva accomodare nei sedili posteriori.
Quando
Ganimard si voltò verso di lui, Folefant riuscì
solo a chiedere: «Come faceva a sapere che aveva una
pistola?».
Il
più anziano, sentendosi in colpa per aver utilizzato il
suggerimento di Lupin, disse semplicemente: «Istinto.
Andiamo, sarà una lunga nottata».
***
«Bentornato,
padrone».
Arsène
sorrise e diede le spalle a Grégorie perché lo
aiutasse a togliersi la giacca di pelle color senape che aveva
indossato per l'appuntamento con Molly Hooper. Fece una smorfia quando
fu il turno del braccio fratturato, ma una volta di nuovo nel tutore si
sentì subito meglio. D'altronde se Jean e Arsène
si fossero fatti vedere entrambi con il tutore sarebbe stato fin troppo
facile capire che in realtà erano la stessa persona.
«Ho una
buona notizia», esclamò Grégorie.
«L'ispettore Ganimard ha preso un volo per Parigi questa
mattina».
«Dici sul
serio?». Stupito, Arsène si voltò per
guardarlo negli occhi. Al cenno affermativo dell'amico, il ladro
sospirò. «Quel maleducato... Non mi ha nemmeno
salutato!».
Quelle parole furono
in grado di far sorridere il servitore, il quale però
cambiò subito argomento.
«Com'è
andata con Molly Hooper?», gli chiese infatti, rimanendo in
piedi accanto al divano a due posti sul quale Lupin si era lasciato
cadere - un divano troppo piccolo per il suo metro e ottanta.
Arsène si
portò una mano tra i capelli e guardò il
soffitto, meditabondo. Alla fine rispose: «Bene, benissimo.
Però...».
«Qualcosa di
imprevisto?».
«Non lo
difinirei così. Molly Hooper... c'è qualcosa di
diverso, in questa donna. All'apparenza sembra insignificante, ma
dentro di sé nasconde una gentilezza e una forza non comuni.
Mi sono sentito esposto, di fronte a lei. Hai capito bene... Ho avuto
la sensazione che mi vedesse veramente!».
«Ma questo
è impossibile», affermò
Grégorie, con un sorriso nervoso sulle labbra.
Sparì subito quando gli occhi verdi del Ladro Gentiluomo si
posarono su di lui.
Si tirò su
seduto di scatto e, serissimo, esclamò: «Lo so
bene. Però è così. Questo che cosa
comporta?».
«Non
saprei».
«Che Irene
Adler si sbagliava!», gridò, alzandosi in piedi
con una mano sollevata. «Che io mi sbagliavo! Molly Hooper
non è affatto una donna ordinaria. E la sua
abilità è quella di andare oltre le maschere, di
vedere il vero animo delle persone, con tutti i loro pregi e i loro
difetti. È per questo che Sherlock ha una considerazione
così alta di lei: perché lei riesce a capirlo in
ogni circostanza...».
La sua eccitazione era
tale che aveva già fatto quattro volte il giro del divano,
saltellando come un bambino. Ad un tratto si fermò,
portò una mano sulla spalla dell'amico e guardandolo dritto
negli occhi esclamò: «Ah, quanto vorrei possedere
un dono simile! E probabilmente lei non sa nemmeno di averlo! O come
servirsene!».
Sorrise dolcemente,
guardando oltre la sua spalla, e come se qualcuno gli avesse appena
fatto un appunto rispose: «Già, la sua innocenza
le impedirebbe di sfruttarlo per i motivi sbagliati».
Tornò a
guardare Grégorie e gli diede uno schiaffetto sul viso, poi
si diresse verso il corridoio. Il fedele compagno lo seguì,
pieno di interrogativi.
«Adesso cosa
farà?».
«Un
bagno», rispose candidamente Lupin, iniziando a sbottonarsi
il gilet. Poi si rese conto del possibile fraintendimento e chiese:
«Ti riferivi ancora a Molly Hooper?».
«Sì».
«Giusto.
Beh, ricordi i biglietti del Don Giovanni che tramite
Geneviève avevo così gentilmente regalato a
Sherlock? Si dà il caso che siano tornati a me...».
«Nel senso
che Molly Hooper le ha chiesto di essere il suo cavaliere?».
Lupin rise di cuore,
togliendosi anche la camicia. A petto nudo e con i capelli scompigliati
lo guardò divertito, senza accorgersi della sua improvvisa
rigidezza.
«Cavaliere?
Ma da che secolo provieni, amico mio? Ad ogni modo, ci hai
preso».
Grégorie
abbassò gli occhi e concluse: «Quindi suppongo che
aspetterà ancora prima di informare la signorina
Adler».
«Precisamente».
Come temeva. Non gli
piaceva il modo in cui Arsène stesse giocando con la
pazienza di Irene Adler, prendendo alla leggera una donna a suo parere
molto pericolosa. Grégorie avrebbe tanto voluto chiudere in
fretta la questione e tornare a casa, ma i suoi desideri non contavano.
Lupin si tolse
pantaloni e boxer in un colpo solo e ormai completamente nudo
guardò Grégorie con espressione eloquente: se non
c'era altro, poteva andare.
L'uomo gli rivolse un
inchino e fece per chiudere le porte scorrevoli del bagno, ma il ladro
richiamò la sua attenzione.
«Geneviève
non è ancora uscita dalla sua stanza?», gli
domandò.
«No,
padrone».
Il biondo
sbuffò e sventolò una mano, congedandolo.
***
«Grazie
ancora, Folefant».
Il ragazzo lo
salutò con un sorriso e un cenno del capo, poi mise la
freccia e si allontanò dal marciapiede dove l'aveva lasciato.
Ganimard rimase a
guardare l'auto dell'agente fino a quando poté, poi si
voltò verso la facciata del vecchio palazzo ed
entrò nell'androne buio.
Salì le
scale ed aprì la porta del piccolo appartamento che aveva
preso in affitto quando Célestine aveva voluto la
separazione. All'interno trovò il disordine e la
trascuratezza che aveva lasciato alla partenza, ma non ne fu
rincuorato. Anzi, gli ricordò dolorosamente in che
condizioni pietose l'aveva ridotto Lupin.
Si tolse il trench e
lo appese nel minuscolo ingresso, poi portò il trolley in
camera e lo adagiò sul letto cigolante, su cui si sedette
anche lui, con le mani a nascondere il viso stanco.
Non
solo arrestare Thomas Derocq fu una perdita di tempo, ma la sua
reputazione già a pezzi ne soffrì ancora di
più.
I
media non facevano altro che parlare dell'ultima figuraccia
dell'ispettore Ganimard, si chiedevano se fosse giusto che un uomo come
lui continuasse a lavorare nel corpo della polizia ed erano pronti a
prendere di mira chiunque si mettesse dalla sua parte. L'Ispettore Capo
Dudouis non l'avrebbe mai ammesso ad alta voce, ma anche lui stava
iniziando a considerare l'ipotesi di una pensione anticipata.
«Derocq
aveva avuto dei problemi con la polizia, qualche anno fa, per un'accusa
di possesso e spaccio di droga», esclamò Dudouis,
chiudendo il giornale su cui la polizia era finita ancora una volta in
prima pagina - e non in modo positivo - per guardare gli occhi
arrossati di Ganimard.
«Secondo
il suo avvocato è per questo che ha reagito in quel modo,
ieri sera. Ne risponderà, su questo non ci piove, ma non
possiamo trattenerlo con accusa di omicidio. Non senza prove
solide».
«Tu
che cosa ne pensi? Credi sia colpevole? Sii sincero».
Dudouis
si ritrovò costretto ad annuire, le mani unite sullo
stomaco. «Come ti ho detto però...».
«Ho
capito, ho capito». Ganimard sospirò, alzandosi
dalla sedia con le mani sulle ginocchia. Gettò un'occhiata
all'orologio appeso alla parete e con lo stesso tono di un condannato a
morte affermò: «Dopo pranzo avrai la prova
definitiva della sua colpevolezza».
L'Ispettore
Capo rischiò di strozzarsi col caffé che stava
bevendo, e questa volta non per il suo saporaccio. «Di che
cosa stai parlando?».
Ganimard
però non rispose ed uscì dall'ufficio, ignorando
le urla di Dudouis.
Sulla
strada del deposito prove incrociò Folefant, il quale
iniziò ad insultare l'intera categoria dei giornalisti.
Questi, notando il totale disinteresse dell'ispettore, si
ammutolì fino a quando la curiosità non lo
portò a chiedergli: «E adesso cos'ha intenzione di
fare?».
«Qualcosa
di cui mi pentirò presto», mormorò
Ganimard, lugubre.
«E
sarebbe?».
«Stanne
fuori, Folefant».
«Ma...».
L'ispettore
lo fissò intensamente, tanto da interrompere sul nascere
ogni suo tentativo di farsi valere. Posandogli una mano sulla spalla,
fece del suo meglio per fargli capire che non era un gioco.
«Lo
dico per il tuo bene», aggiunse.
Miracolosamente,
Folefant decise di dargli retta e smise di seguirlo. Dandogli le spalle
Ganimard si sentì malissimo, ma si fece forza: non c'era
bisogno che sapesse, che portasse sulle sue giovani spalle il peso
della vergogna e dei sensi di colpa per ciò che aveva
intenzione di fare: chiedere l'aiuto di Arsène Lupin.
Alle
dieci meno un quarto, dopo aver ispezionato ogni lato dell'edificio ed
essersi assicurato che non fossero stati installati nuovi trucchi,
Ganimard salì al terzo piano ed aspettò
pazientemente che Lupin si facesse vivo. Non aveva dubbi che sarebbe
arrivato: la sua strafottenza era la caratteristica che più
lo faceva imbestialire.
Ciò
nonostante iniziò a nutrire qualche dubbio quando scoccarono
le dieci e un quarto e di lui non vi era ancora traccia.
«Cos'è,
hai avuto paura?», gli chiese a mezza voce, con una punta di
soddisfazione.
«Non
fare lo scemo!».
Ganimard
si voltò di scatto e sulla soglia vide un vecchio
imbianchino con indosso una salopette sporca di vernice. L'uomo gli
sorrise furbescamente e togliendosi il cappello si esibì in
un inchino teatrale, poi esclamò: «Eccomi qui,
come promesso. Scusa il ritardo, stavo lavorando».
«Ah,
questa è bella», bofonchiò l'ispettore.
Lupin
non andò a prendere le sedie quella volta e Ganimard ne fu
felice: voleva portare a termine quella faccenda il prima possibile e
andare al pub a fare i conti con le sue terribili scelte.
«Non
sai come sono contento che tu sia venuto!», disse ancora
Lupin, felice come un bambino. «Volevo proprio dirti di
persona quanto mi sono divertito a seguire la vicenda sui giornali e in
televisione. Alla fine ho avuto ragione su tutto, dico bene? Le
pugnalate, l'asfissia, gli occhiali da sole, il mondo del dj set!
Dimmi, forse anche le tartine? Sì, dalla tua faccia direi
proprio di sì. Mi faccio i complimenti da solo! Mi sono
proprio superato questa volta! Ho persino previsto che saresti tornato
qui, in cerca della prova definitiva!».
Ganimard,
il quale non era in vena di ascoltare un secondo di più quel
pallone gonfiato, infilò una mano nella tasca interna del
trench e tirò fuori il pezzo di sciarpa che aveva recuperato
dal deposito prove. Non era stato difficile ottenerlo, ma se qualcuno
avesse scoperto che l'aveva portato ad Arsène Lupin...
«Oh,
fai sul serio!», squittì, gli occhi brillanti di
eccitazione. Dalla tasca frontale della salopette il Ladro Gentiluomo
estrasse un sacchetto di plastica trasparente simile al suo.
«Ecco l'altra metà. Le confrontiamo?».
Con
gesti lenti e calcolati estrassero i due frammenti di sciarpa e li
posarono sul pavimento, uno accanto all'altro: le
irregolarità provocate dalle frettolose sforbiciate
combaciavano alla perfezione e il colore del tessuto era lo stesso.
«Quello
che ti interessa veramente però sono le tracce di sangue,
non è così?», domandò
Arsène, guardandolo negli occhi. Afferrò un pezzo
di sciarpa e prima che Ganimard potesse dire o fare
alcunché, si alzò e si diresse verso la porta del
bagno dicendo: «Seguimi, qui c'è più
luce!».
Non
gli piaceva, non gli piaceva per niente che Lupin lo stesse conducendo
nella stessa stanza da cui era scappato l'ultima volta. Ma non poteva
nemmeno rimanere lì, perciò lo raggiunse.
Il
ladro lo stava attendendo davanti alla porta finestra, con la sciarpa
di seta posata sul vetro. In controluce le macchie di sangue erano
nettissime: c'erano quelle lasciate dalla pulizia del pugnale e quelle
di un palmo e cinque dita, inconfutabili. A quella vista Ganimard
pensò davvero che tutto potesse risolversi senza ulteriori
complicazioni. Poi però Lupin gli ricordò della
sua esistenza, facendogli notare: «Guarda un po',
è la mano sinistra! Te l'avevo detto, ricordi?».
L'ispettore
cercò di ignorare il suo compiacimento ed afferrò
il pezzo di sciarpa, la prova definitiva della colpevolezza di Derocq,
prima che Lupin la facesse sparire.
Il
ladro ridacchiò. «Ma sì, prendilo pure.
Io volevo esaminare l'altro pezzo, quello che era al collo della
vittima. Era l'unica condizione che avevo posto per questo secondo
incontro. Non ti preoccupare, te lo restituisco».
Inarcando
le sopracciglia Lupin stese una mano verso di lui e Ganimard, da uomo
di parola, dovette cedergli malvolentieri l'altra metà.
Gli
occhi del biondo si illuminarono, due smeraldi verdi tra i
più finemente tagliati, quando finalmente mise le mani su
ciò che aveva desiderato sin dal primo giorno. E la prima
cosa che fece fu esaminare la nappa, sotto lo sguardo perplesso e
preoccupato dell'ispettore.
«Ti
ricordi con che termini ti descrissi la nostra vittima?», gli
domandò ad un tratto il ladro, alzando gli occhi per
sorridergli.
«Dicesti
che era dalle apparenze eccentriche».
«Ottima
memoria, Ganimard! E sai perché? Perché le
piaceva personalizzare i suoi vestiti. Insomma... questa sciarpa di
seta le sarà costata un'occhio della testa, eppure l'ha
rovinata con queste terribili nappe fatte a mano. Ora arriva la parte
divertente però... Quando mi è stato portato il
pezzo di sciarpa insanguinato, quello che ti sei intascato, mi sono
accorto che la nappa non era solo un così detto
abbellimento, ma aveva una funzione ben precisa: contenere una piccola
medaglietta benedetta della Vergine Maria. Non te lo saresti mai
aspettato da una cubista, vero?».
Ganimard
sentì la salivazione azzerarsi e il cuore pompare
più velocemente il sangue nelle vene ghiacciate, mentre
Lupin continuava nel suo racconto.
«Ad
ogni modo ero curioso di esaminare anche l'altra estremità.
Non sono mai stato un patito di questi lavoretti femminili, ma apprezzo
la loro ingegnosità... Guarda com'è fatto bene!
Basta prendere una matassa di cordoncino rosso e intrecciarlo intorno
ad un'oliva di legno, lasciando nel mezzo un piccolo spazio vuoto,
stretto ma sufficiente a nascondere una medaglia benedetta... o
qualsiasi altra cosa. Un gioiello, per esempio... uno
zaffiro...».
In
quel preciso istante tra le sue dita comparve una pietra azzurra dai
mille bagliori.
«Che
ti dicevo?», esclamò Lupin, sorridendo entusiasta.
L'espressione di Ganimard però lo fece mettere in guardia:
era livido, con gli occhi sgranati per la rabbia e i pugni tanto
stretti da rendere bianche le nocche.
«Animale!»,
gridò, capendo finalmente il perché di tutto il
suo interesse.
Ecco
che cosa voleva veramente e Ganimard, come uno stupido, si era lasciato
usare. Anzi, aveva fatto di più! Gli aveva portato lui
stesso lo zaffiro, come un bravo cagnolino!
«Avanti,
non ne vale la pena arrabbiarsi tanto! Ti fa male al
fegato!», gli disse il ladro, vagamente annoiato.
L'ispettore
avanzò d'un passo, gridando ancora:
«Restituiscimela!».
Lupin,
senza fare una piega, gli lanciò la sciarpa.
«Anche
lo zaffiro!».
«Ah,
questa è la seconda fesseria che ti sento dire
oggi!», sbottò Lupin, con un sorriso cattivo sul
volto. «Dico, sei diventato pazzo? O forse è
l'alcool a parlare? Hai bevuto, prima di venire qui?».
Ganimard
gli si gettò contro con le mani stese, con l'intenzione di
stringergliele intorno al collo, ma Arsène si
spostò di lato e con un semplice sgambetto lo fece cadere a
terra.
«Certo
che siete proprio una delusione...», mormorò il
ladro, scavalcando l'ispettore per dirigersi verso la porta.
«Quante persone hanno avuto tra le mani questa sciarpa?
Almeno una decina, compreso te... E nessuno si è mai chiesto
perché la ragazza non avesse ferite da difesa sulle mani! Ha
preferito lasciarsi accoltellare, piuttosto che lasciare la presa dalla
sciarpa. Questo non vi ha detto nulla? Stupidi, stupidi!».
Ganimard
ringhiò come un cane rabbioso e con un colpo di reni di cui
si sarebbe pentito per la settimana successiva si girò e gli
puntò contro la pistola.
«Non
ti muovere, o giuro...!».
«Non
sparerai», lo interruppe Lupin, con un sorriso serafico.
Nemmeno
la minaccia di una pallottola lo intimoriva... Quell'uomo era
incredibile. O forse... forse c'era un motivo, se era così
sicuro.
«Che
cos'hai fatto?», domandò l'ispettore, deglutendo.
«Io
nulla. Folefant, tuttavia...». Lupin si piegò
sulle ginocchia e lo guardò impietosito. «Da quel
che mi risulta, sei particolarmente affezionato a questo ragazzo. Ma ti
puoi davvero fidare di lui?».
Ganimard
non rispose, atterrito, e al ladro fu sufficiente per sospirare e
scuotere il capo.
«Mi
dispiace dovertelo dire, ma tutti hanno un prezzo».
Il
mondo gli crollò addosso, ma l'ispettore riuscì
comunque a sferrare un calcio con l'intenzione di farlo cadere a sua
volta. Arséne però lo deviò con un
semplice saltello e ricadde sopra la sua caviglia sinistra, facendolo
gridare di dolore.
«Non
costringermi a farti più male del necessario, vecchio
mio», lo supplicò Lupin, con tono davvero
addolorato. «Tanto lo sai come andrà a finire.
Accontentati di sbattere Derocq in prigione e di riscattarti di fronte
al tuo capo e ai media».
Lentamente
Lupin spostò il piede dalla sua caviglia e Ganimard
abbassò la pistola, chiuse gli occhi umidi di lacrime ed
abbandonò il capo contro il pavimento piastrellato.
Aveva
ragione. Aveva ragione su ogni fronte. Lupin disponeva di forze contro
le quali qualunque iniziativa individuale s'infrangeva. Che scopo aveva
continuare a lottare, ostinarsi fino a quel punto? Avrebbe dovuto
fermarsi molto tempo prima, quando ancora aveva qualcosa da salvare.
«Se
ti può consolare, vedila così: lo zaffiro
è il tuo ringraziamento per averti salvato la
vita», esclamò Arsène. «Se io
non ti avessi avvisato che Derocq era mancino, a quest'ora
Emélie e Théa non avrebbero più un
padre. Dico bene?».
Quelle
parole furono in grado di rianimarlo. Quella canaglia aveva osato
troppo, pronunciando i nomi delle sue bambine.
Con
un gesto fulmineo recuperò la pistola e gliela
lanciò dietro, ma Lupin era scoppiato a ridere e aveva usato
la porta del bagno come scudo. L'ispettore si precipitò
allora all'inseguimento, ma il ladro fu più veloce e lo
salutò con le quattro dita della mano prima di chiuderlo a
chiave all'interno dell'appartamento.
Provò
a buttarla giù a spallate e a far saltare la maniglia a
calci, ma il clacson di un'auto attirò la sua attenzione.
Tornò nel bagno e dal piccolo balconcino vide Lupin, ora
senza i capelli e i baffi grigi dell'imbianchino, che lo salutava da
dietro lo stesso SUV nero dai vetri oscurati della settimana precedente.
«Un
consiglio, Ganimard: smettila di essere così credulone! Se
qualcuno ti dice che la pistola non sparerà, anche se si
chiama Arsène Lupin, ti conviene sempre provare prima! Per
fortuna non c'era qui Folefant, altrimenti sai come si sarebbe
offeso!».
Con
gli occhi iniettati di sangue, l'ispettore prese la mira e
sparò uno, due, tre colpi. Lupin si nascose dietro la
fiancata del SUV - ovviamente antiproiettile - e riprese a ridere come
un matto. Questo portò Ganimard a svuotare tutto il
caricatore, tant'era l'odio che provava nei suoi confronti in quel
momento.
Quando
abbassò l'arma e riprese fiato, Arsène
sollevò il capo e sorridendo concluse:
«È stato un piacere, vecchio mio! A
presto!».
Ganimard
guardò il SUV allontanarsi, lasciandosi dietro una nuvola di
polvere, e poi strinse le mani intorno all'inferriata, il collo stretto
tra le spalle.
Aveva
perso e non sarebbe stata l'ultima volta, ma forse un motivo per
lottare ancora ce l'aveva.
Si sistemò
ancora una volta il nodo alla cravatta e controllò che i
capelli non fossero troppo scompigliati, quindi chiuse gli occhi,
respirò profondamente e premette il pulsante del campanello.
Fu
Célestine ad aprire la porta e il suo volto ricoperto di
efelidi, incorniciato da una cascata di capelli rossi, era
così bello che Ganimard sentì il cuore in gola.
«Justin»,
esclamò sorpresa. Non arrabbiata, nè infastidita:
solo sorpresa. «Che cosa ci fai qui?».
«Io, ecco...
Lo so che non sarei dovuto venire prima di domani, ma sono appena
tornato da Londra e volevo...».
«Papà!
Papà, sei qui!», gridò Théa,
la più piccola, superando la madre per aggrapparsi alla sua
gamba sinistra. Presto, richiamata dalle urla della sorella, anche
Emélie si aggiunse all'abbraccio, circondandogli la vita ed
affondando il viso nel suo cappotto.
Ganimard
accarezzò i capelli delle sue figlie, le uniche che
riuscivano a sciogliere tutta la rabbia che come catrame gli anneriva
la vita, e guardò Célestine con sguardo
implorante.
L'ex-moglie
sospirò, ma alla fine abbozzò un piccolo sorriso
ed acconsentì a quella visita fuori programma.
Mentre
Emélie e Théa esaminavano i loro souvenirs - un
orsetto di peluche vestito da guardia reale e un libro in inglese da
colorare - i genitori si sedettero all'isola della cucina per un
caffè.
«Come mai
sei già tornato?», spezzò il silenzio
la donna, senza guardarlo in viso.
«Non volevo
perdermi il week-end con le bambine».
Célestine
lo guardò da dietro la tazza di caffé e i suoi
penetranti occhi azzurri fecero fare un'altra capriola al suo cuore.
«Quindi
avresti abbandonato una pista su Arsène Lupin
per...».
Fu un azzardo, ma
Ganimard non se ne pentì: allungò una mano e
raggiunse l'incavo del gomito dell'ex-moglie, cercando un contatto.
Non avevano mai avuto un momento simile da quando si erano separati:
per la prima volta stavano discorrendo come due persone civili, davanti
ad una tazza di caffé, e doveva approfittarne per dirle
ciò che doveva.
«Ho commesso
degli errori. Molti errori. Ho dato te e le bambine per scontate e ho
iniziato a bere per la frustrazione, ma ora sto meglio. Mi sto
impegnando al massimo per rimettermi in carreggiata e, anche se ho
promesso a me stesso che avrei arrestato Arsène Lupin, ho
capito che non è tutto. Fintanto che si trova in Inghilterra
se ne occuperà Sherlock Holmes. Al momento,
Emélie e Théa sono la mia
priorità».
Célestine
abbozzò un sorriso e tenne la tazza con una sola mano per
posare l'altra sul suo braccio, in una carezza.
Dentro di
sé Ganimard sentì la scintilla della speranza
riaccendersi e decise che avrebbe lottato fino alla fine dei suoi
giorni per ricostruire la sua famiglia e allo stesso tempo arrestare
Arsène Lupin. Poteva farcela, doveva
farcela.
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Capitolo 15 *** Family business ***
Buongiorno e buona
domenica a tutti!
Allora, spero di non avervi sconvolto troppo con lo scorso capitolo!
(Ma so che è così xD). Con questo torniamo nel
bel mezzo della storia, con Geneviève che ha scoperto la
verità sulla sorella di sua madre e ora vuole delle
spiegazioni da Sherlock, il quale sapeva tutto sin dall'inizio e l'ha
tenuta all'oscuro, e da John, suo zio.
Parleremo anche di Molly, la cara dolce Molly che ha deciso di invitare
Jean allo spettacolo alla Royal Opera House senza sapere che in
realtà ha invitato Arsène Lupin! La saga del
#maiunagioia continua... Ma chissà, magari ne
verrà fuori anche qualcosa di buono! O forse un disastro
cosmico.
E niente, ormai siamo arrivati circa a metà della storia e
dal prossimo capitolo si aprirà una specie di Parte 2,
perciò spero davvero che vi piaccia tanto quanto piace a me.
Sulla mia pagina facebook trovate un album
in cui ho iniziato a raccogliere tutto ciò a cui mi sono
ispirata durante la stesura della fic e poi vabbè,
aggiornamenti e altre cose che mi piacciono. Fateci un salto se vi va!
^///^
Grazie a tutti per il supporto e buona lettura! Ci vediamo la prossima
settimana! ❤
Vostra,
_Pulse_
P.S. Il titolo del capitolo è chiaramente ispirato al motto
dei fratelli Winchester di Supernatural
;)
__________________________________________________________________
15.
Family business
Sherlock aveva
più volte denigrato l'uso delle parole, considerandole
spesso e volentieri inutili e ridondanti, ma con sua sorella Eurus gli
avrebbero fatto comodo. Spiegarle l'arrivo di Arsène Lupin e
di sua figlia Geneviéve con delle note di violino non era
stato difficile, di più. Tuttavia lei era riuscita a capire
e di conseguenza a perdonarlo per aver saltato il loro ultimo incontro.
Ciò che non era riuscita a fare, secondo il parere di
Sherlock, era stato dargli un consiglio su come gestire quella
situazione complicata.
La ragazzina non aveva
risposto a nessuno dei suoi messaggi ed era sempre risultata
irrintracciabile al Savoy. Aveva chiesto aiuto a John, alla signora
Hudson e persino a Mycroft, ma nessuno aveva saputo contribuire alla
soluzione dell'enigma. Come ultima risorsa si era rivolto persino ad
Arsène, confessandogli la propria preoccupazione, ma il
ladro gli aveva riso in faccia, chiedendogli se l'avesse offesa in
qualche modo.
«Le
adolescenti tendono ad essere molto suscettibili, sai. E poi lei
è del segno dello scorpione, quindi...», gli aveva
detto.
Il detective aveva
ripercorso gli ultimi giorni e non aveva trovato nulla di insolito: era
stato il solito Sherlock di sempre, se non addirittura più
affettuoso del normale. Che fosse stato quello a farla allontanare in
quel modo? O che avesse finalmente deciso da che parte stare, quella di
suo padre?
Sherlock
sentì delle voci nell'androne e si
intascò il diamante azzurro, con cui non aveva fatto altro
che giocare mentre rifletteva davanti alla tazza di té che
la signora Hudson gli aveva portato. Fu proprio la padrona di casa a
raggiungerlo per prima, seguita da un ragazzo sui trent'anni, dai
capelli castani e gli occhi scuri, tutto sommato di bell'aspetto.
«Grazie,
signora Hudson», la congedò, poi si
concentrò sul suo ospite: «Maurice Leblanc,
suppongo».
Il giornalista
rizzò di scatto le spalle, riservandogli uno sguardo di
profonda stima e timore riverenziale. Si avvicinò con la
mano tesa ed aprì la bocca, ma non un suono vi
uscì.
Sherlock
inarcò un sopracciglio, alzandosi per stringergli la mano.
«È muto per caso? Arsène non mi aveva
informato...».
«N-No»,
lo interruppe balbettando. «Mi scusi, signor Holmes.
È solo che ho pensato così tanto a quest'incontro
che ho avuto un attimo di... incredulità».
Il detective gli
rivolse un sorriso di circostanza e tornò a sedersi sulla
propria poltrona, senza offrirgli né un té
né qualcos'altro. Non voleva protrarre ulteriomente la
durata di quell'intervista.
Maurice
però lo stava ancora fissando, a bocca socchiusa, come se si
trattasse di un apparizione divina. Seccato, Sherlock si
portò due dita sulla tempia e disse: «Vogliamo
sbrigarci? Ho altri impegni».
Gli indicò
il divano e il reporter si sedette, tirò fuori un bloc-notes
e una penna ed iniziò a scarabocchiare qualcosa, peggiorando
ulteriormente il cattivo umore del detective.
«Che cosa
sta scrivendo adesso?».
«Ero stato
avvisato che sarebbe stato piuttosto irritabile, perciò
scrivo che il signor Lupin aveva ragione. Voi due vi conoscete molto
bene... Ciò nonostante, non è ancora riuscito ad
arrestarlo. Come lo spiega, signor Holmes?».
All'improvviso tutta
l'impacciata timidezza e il disagio di quel ragazzo erano svaniti,
lasciando posto alla professionalità. Forse l'aveva
sottovalutato.
Sherlock
guardò la poltrona vuota davanti a sé e rispose:
«Arsène Lupin è un avversario
formidabile, non ho problemi ad ammetterlo. La sua intelligenza
è comparabile alla mia, per questo riusciamo a prevedere
ognuno le mosse dell'altro con così tanta
facilità. Il motivo per cui non sono ancora riuscito ad
arrestarlo è semplice: Arsène ha mezzi di cui io
non dispongo».
«Cioè?».
«Uomini,
tecnologie, capitali... Togliendogli tutto, scommetto che in uno
scontro uno contro uno non avrebbe scampo».
Maurice
alzò lo sguardo dal proprio bloc-notes, con un sorriso che
aleggiava sul suo volto. «Dice sul serio? Secondo le mie
fonti vi siete battuti uno contro uno a Thibermesnil e a prevalere
è stato Arsène Lupin».
Sherlock strinse i
pugni sui braccioli della poltrona e respirò profondamente
per controllare la rabbia. Quel maledetto...
Una leggera vibrazione
attirò la sua attenzione. Con la coda dell'occhio il
consulente investigativo guardò Maurice Leblanc tirare fuori
dalla tasca della giacca il proprio cellulare ed abbozzare un sorriso
leggendo il messaggio che gli era appena arrivato.
«Mi scusi un
momento», mormorò, rispondendo velocemente. Poi
tornò a guardarlo e disse: «Dov'eravamo rimasti?
Oh, sì. È davvero sicuro che uno contro uno
riuscirebbe a prevalere?».
«Beh, di
certo avrei...».
Il cellulare del
reporter vibrò nuovamente e questi esibì lo
stesso sorriso, ignorandolo per rispondere.
«Oh,
insomma!», sbottò Sherlock.
«Mi... Mi
perdoni, non accadrà più», promise
Maurice, deglutendo. «Cambiando argomento, mi piacerebbe
conoscere il suo punto di vista sul vostro primo incontro. Ci sono
ancora molti punti oscuri e...».
«No».
«No? Che
cosa significa?».
Sherlock
sospirò, esasperato. «Significa che non le
racconterò del nostro primo incontro. È una
storia troppo lunga e complessa».
Arrivò un
nuovo sms che Maurice ignorò, come aveva promesso.
«Capisco.
Può almeno rivelare perché, in
quell'occasione...». Maurice si interruppe bruscamente,
osservando Sherlock alzarsi e dirigersi a passo deciso verso di lui.
Istintivamente si portò le mani davanti al viso per
proteggersi, ma al detective interessava il suo cellulare, il quale non
aveva smesso di vibrare da quando aveva ignorato l'ultimo messaggio.
Maurice Leblanc era un
tipo professionale, che amava il suo lavoro, perciò non
avrebbe mai distolto l'attenzione dal tanto atteso incontro con
Sherlock Holmes se non fosse stato per un'ottima ragione. Forse il suo
amico di chat era lo stesso per cui era diventato conosciuto nel mondo
dei quotidiani: Arsène Lupin.
«Ehi, ma che
cosa fa?», protestò Maurice quando si accorse che
l'interesse del detective era rivolto verso il suo cellulare.
Il sorriso vittorioso
di Sherlock però si spense non appena lesse il nome della
persona che lo stava chiamando: Gen.
Geneviéve?
si chiese, mentre il suo cuore si comportava in modo strano. Si
tirò un pugno sul petto e ricomponendosi porse l'apparecchio
al suo proprietario, dicendo: «Risponda pure, sembra
importante».
Il ragazzo non se lo
fece ripetere due volte ed accettò la chiamata. Senza
distogliere gli occhi da quelli del detective, in piedi di fronte a
lui, esordì: «Sono impegnato».
Sherlock avrebbe dato
di tutto per sentire la risposta di "Gen": avrebbe avuto
così la conferma che la ragazzina stava bene. Al contempo,
però, si sarebbe ritrovato con altri interrogativi tra le
mani: come faceva a conoscere Maurice Leblanc? Che suo padre avesse
confessato anche questo al giovane reporter? E, soprattutto, che
rapporto c'era tra quei due? Non era uno che si scandalizzava
facilmente, ma il pensiero che Geneviève e Maurice
potessero... No, impossibile! Arsène per primo non l'avrebbe
mai permesso. Aveva solo quindici anni, per l'amor del cielo!
«Che
cosa?», domandò stupito il ragazzo.
«Perché dovrei farlo?».
La comunicazione si
interruppe all'improvviso e Maurice guardò sbigottito il
cellulare, poi rialzò lo sguardo per incrociare quello di
Sherlock e, ignorando l'imbarazzo, esclamò: «Mi
è stato raccomandato di non fidarmi di lei, signor Holmes, e
di dirle che la verità, che le piaccia o no, viene sempre a
galla».
Il consulente
investigativo indietreggiò di un passo, poi disse che
l'intervista era finita e tornò alla propria poltrona, dove
si sedette con le dita davanti alla bocca, meditabondo.
Maurice Leblanc
sospirò, mostrando dell'insoddisfazione, e dopo averlo
salutato e ringraziato per il tempo concesso se ne andò.
Rimasto solo, Sherlock
rifletté a lungo. Poi, giungendo alla conclusione che non
aveva alcun senso rimandare, scrisse un breve sms a
Geneviève, con la speranza che non venisse ignorato come gli
altri.
Waterloo Bridge, 9 p.m.
SH
***
Tutto aveva un senso,
ora.
L'interessamento di
Sherlock nei suoi confronti, lo strano comportamento del dottor Watson
e il modo in cui le era rimasto accanto quando sua madre era tra la
vita e la morte. Ancora, il rifiuto categorico del detective quando gli
aveva chiesto di cercare insieme sua zia e il messaggio che le aveva
inviato due giorni prima, dicendole che non era sola.
Sherlock aveva sempre
saputo, sin dal suo primo incontro con sua madre, e non le aveva mai
detto nulla. Certo, in teoria non era compito suo - avrebbe dovuto
pensarci suo padre, o al massimo John Watson, suo zio - ma
Geneviève si era sentita così tradita e presa in
giro da volersi isolare dal resto nel mondo, costruendosi un fortino
all'interno della propria stanza ed impedendo a tutti di entrare.
Era stata chiusa
lì dentro per un giorno intero, ventiquattro ore di
solitudine in cui non aveva fatto altro che ascoltare musica e scrivere
su un quaderno tutto ciò che era successo da quando aveva
finalmente conosciuto suo padre. Mettere i propri pensieri nero su
bianco le era servito per alleggerirsi il cuore e riordinare le idee,
tanto che una volta finito si era alzata, aveva aperto le porte
finestre per far cambiare l'aria - nonostante fosse passata l'ora di
cena da un pezzo - ed aveva abbozzato persino un sorriso. Era ancora
arrabbiata con Sherlock, ma almeno era pronta ad affrontare
ciò che l'attendeva.
Così era
uscita dalla sua stanza e si era diretta verso quella del padre. Ancora
non lo sapeva, ma aveva molto da recuperare.
Un uomo della sua
scorta l'aveva informata che Arsène non era ancora rientrato
dalle sue commissioni e Geneviève, per perdere un po' di
tempo, aveva deciso di fare una passeggiata. Era stato un caso, dunque,
se la sua strada e quella di Maurice Leblanc si erano incrociate.
Quella volta però la ragazzina aveva ignorato i timori del
padre e non si era nascosta, incuriosita ed attratta da quel giovane
reporter che in qualche modo era riuscito a conquistare le simpatie del
Ladro Gentiluomo.
Si era seduta sulla
sua stessa panchina affacciata sulle rive del Tamigi, non molto
distante dal London Eye illuminato, ed aveva lasciato che fosse lui a
fare il primo passo.
Le aveva chiesto se
per caso alloggiasse al Savoy, dato che gli sembrava di averla
già vista da qualche parte. Geneviève aveva
sorriso e in breve tempo - scoprendo che erano entrambi francesi ed
avevano molte passioni in comune, a partire dal rock - si erano alzati
per andare a prendere un caffè. Un caffè e una
cioccolata calda, per la precisione, dato che alla ragazzina non
piaceva.
Solo a fine serata,
dopo aver fatto un giro sulla ruota panoramica, Maurice aveva osato
chiederle la sua età. Geneviève si era calata il
cappellino nero sulla fronte e aveva finto di offendersi, dandogli le
spalle, e questo le aveva permesso di ottenere la verità:
gli piaceva e voleva il suo numero.
A quel punto sapeva
che se avesse rivelato la sua vera età avrebbe perso
l'opportunità di conoscere ancora meglio quel ragazzo -
piaceva anche a lei, ad essere onesti - perciò aveva fatto
l'unica cosa possibile: aveva mentito. D'altronde glielo dicevano tutti
che sembrava più grande...
«Ho
diciott'anni», aveva risposto. La differenza d'età
era ancora molta, dato che Maurice ne aveva ventinove, ma ad ogni modo
non voleva mentirgli per sempre.
A quel punto si erano
scambiati i numeri di cellulare ed erano tornati in hotel, dove le loro
strade si erano separate. Tuttavia quella notte erano stati svegli fino
alle tre a messaggiare. E quella mattina, appena svegli, avevano fatto
lo stesso, almeno fino a quando Maurice non le aveva rivelato che aveva
intenzione di andare da Sherlock Holmes per un'intervista.
Sulla ruota panoramica
avevano parlato del suo lavoro di reporter per L'Ècho de
France e dei pettegolezzi che giravano sul suo conto, ovvero che era
stato scelto come portavoce di Arsène Lupin. Persino lei lo
sapeva, nonostante non leggesse i quotidiani. Maurice aveva glissato,
senza rivelarle se fosse vero o meno, e Geneviève non aveva
insistito troppo: sarebbe sembrato sospetto.
La ragazzina, una
volta sicura che fosse davanti al grande detective inglese, aveva
deciso di fare la propria mossa per costringerlo ad uscire allo
scoperto. Fino ad allora si era limitato a mandarle sms, chiedendole se
stesse bene ma mantenendo le distanze: Geneviève voleva che
si esponesse, che la guardasse negli occhi e le dicesse
perché le aveva tenuta nascosta una verità
così importante.
Le dispiaceva aver
usato Maurice in quel modo, ma non le sembrava un tipo che ne avrebbe
fatto un dramma. O almeno così credeva.
Si trovava al Thames
Foyer per la colazione, col cellulare tra le mani per via del messaggio
che aveva appena ricevuto da parte di Sherlock, quando il reporter la
raggiunse a passo deciso e le rivolse la sua espressione più
furiosa: gli occhi stretti a due fessure, le narici dilatate e i denti
stretti.
«Sarai
contenta, spero. La mia intervista è andata a farsi
benedire, per colpa tua», urlò a mezza voce, per
non attirare troppo l'attenzione.
Geneviève
si portò alla bocca un cupcake ai mirtilli e dopo avervi
dato un piccolo morso lo guardò negli occhi, la fronte
aggrottata.
«Colpa
mia?», ripeté candidamente. «Se temevi
un finale del genere avresti dovuto ignorare ciò che ti
avevo detto».
Maurice, preso in
contropiede, non seppe come ribattere. Si lasciò cadere
sulla poltrona alle sue spalle, accanto al divanetto su cui era seduta
Geneviève, e si portò una mano tra i capelli
castani.
«Scusami,
hai ragione. Non mi hai mica costretto a dire quelle cose.
Però... non capisco. Tu conosci Sherlock Holmes?».
«Diciamo che
mi ero rivolta a lui per un caso», disse, rimanendo sul vago.
«E non l'ha gestito nel migliore dei modi».
La
curiosità di Maurice e il suo fiuto da reporter gli fecero
rizzare le orecchie. «Posso sapere di che cosa si
trattava?».
Geneviève
sorrise e si alzò, col cupcake mangiato a metà in
mano. «Forse, un giorno. Ci sentiamo».
La ragazzina
sentì lo sguardo di Maurice perforarle le scapole mentre
lasciava la sala da té e sorrise, soddisfatta del proprio
operato. Peccato che Baffoni la stava aspettando all'uscita, addossato
ad una delle colonne e con le braccia conserte.
Quell'uomo continuava
a non piacerle, ogni giorno di più.
«Padron
Lupin le aveva proibito di entrare in contatto con il signor
Leblanc», le disse, granitico.
«Lui non
è il mio padrone»,
rispose a tono Geneviève.
«Il minimo
che dovrebbe fare è ascoltarlo, come segno di riconoscenza
per averla presa con sé».
La bionda strinse
così forte i denti da sentirli stridere tra loro. Quindi gli
tirò in faccia il mezzo cupcake, macchiandogli i baffi di
frosting azzurro, e sibilò: «Nessuno gliel'ha
chiesto. E se ha un secondo fine, se crede di poter usare la carta
della "riconoscenza" per sfruttarmi come fa con te o uno qualsiasi dei
suoi minions
si sbaglia. Riferisciglielo pure, se lo ritieni opportuno».
Detto questo
Geneviève raggiunse l'ascensore e lo fissò,
truce, fino a quando le porte non si chiusero. Allora tutto il peso
delle parole che Baffoni le aveva rivolto, in particolare il loro
significato sottinteso, le crollò addosso facendole salire
le lacrime gli occhi. Si rifugiò di nuovo nella sua stanza,
rassettata dopo giorni, e cadde a peso morto sul letto.
***
John aprì
la porta e sorrise vedendo Molly dall'altra parte, dall'espressione
distesa e sorridente, come non la vedeva da settimane.
«Grazie per
essere venuta con così poco preavviso. La baby-sitter mi ha
dato buca un'ora fa», si scusò il dottore,
facendola entrare.
«Non ti
preoccupare, mi fa piacere prendermi cura di Rosie. A te sta bene se la
porto a fare un giro, più tardi? Dovrei andare dal
parrucchiere...».
«Ahm, no,
nessun problema», la rassicurò John e prese la
palla al balzo per domandare: «Taglio di routine o occasione
speciale?».
L'anatomopatologa
finì di togliersi il cappotto e gli sorrise, rispondendo:
«Si nota così tanto?».
«Diciamo di
sì. Allora, chi è il fortunato?».
«Non ci
crederesti».
John aprì
le braccia. «Mettimi alla prova».
«La storia
ha dell'inverosimile, ma ti giuro che è la
verità».
E così gli
raccontò di Jean, il francese che l'aveva abbordata al Fox.
Lo stesso Jean che qualche tempo dopo era diventato famoso per aver
impedito a Victor Danegre, l'assassino di Leona Zalti, di buttarsi
giù dal Waterloo Bridge.
«Lo so che
lo conosco da poco e che dovrei andarci piano, ma mi piace molto.
Così gli ho chiesto se voleva accompagnarmi alla Royal Opera
House e lui ha accettato», concluse con un sorriso
imbarazzato.
John, incredulo, non
riuscì a dimostrarsi contento per lei come avrebbe dovuto.
Molly lo notò, ma non fece in tempo a chiedergliene il
motivo. Il dottore infatti prese la giacca e fingendo di essere in
ritardo la salutò, ringraziandola ancora per la sua
disponibilità.
Correndo John
raggiunse la strada pricipale e chiamò un taxi: non aveva
tempo per aspettare l'autobus, doveva immediatamente avvisare Sherlock.
Alla fine le sue paure si stavano realizzando, dato che l'affascinante
Jean altri non era che Arsène Lupin.
Una volta al 221B,
John trovò l'amico sulla sua poltrona di pelle, nella
posizione di meditazione che assumeva quando un problema assorbiva
tutta la sua concentrazione.
«Sherlock,
devi sapere una cosa», esclamò, agitato.
«Anche
tu», rispose il detective, alzando gli occhi su di lui.
«Geneviève ha scoperto tutto».
Il dottore rimase a
bocca aperta, letteralmente. «Intendi...».
«Sì.
Non so come abbia fatto, se sia stato Arsène
oppure...».
«A proposito
di lui», lo interruppe John, il quale realizzò di
non potersi tenere dentro quella notizia un secondo di più.
«Lui e Molly andranno all'opera domani sera».
Sherlock lo
guardò confuso, poi un piccolo sorriso gli alzò
un angolo della bocca. «No che non lo faranno».
«Non sto
scherzando, Sherlock. Si è avvicinato a lei come Jean, il
turista che ha salvato la vita a Danegre. E Molly gli ha chiesto di
accompagnarla allo spettacolo».
Il consulente
investigativo rimase in silenzio a lungo e quando finalmente
capì che non lo stava prendendo in giro si alzò,
lo superò e scese le scale a capofitto. John
faticò a stargli dietro e una volta sul marciapiede,
guardandolo alzare un braccio per fermare un taxi, gli
gridò: «Che hai intenzione di fare?».
Sherlock non rispose,
ma il suo sguardo glaciale fu piuttosto eloquente.
John fissò
il taxi allontanarsi lungo Baker Street e si chiese se non avesse fatto
un errore, poi pensò a ciò che avrebbe dovuto
preoccupare lui - Geneviève sapeva la verità! - e
mestamente si diresse verso la fermata degli autobus per andare al
lavoro.
***
Arsène si
sfregò le mani, sorridente, e bussò alla porta
della figlia. A causa del suo periodo di isolamento e delle commissioni
sbrigate in mattinata non aveva avuto ancora modo di raccontarle tutto
ciò che si era persa.
Quando gli
aprì, Geneviève lo guardò con un misto
di timore e rancore negli occhi.
«Che
cos'è successo, tesoro?», gli chiese, preoccupato
di aver fatto qualcosa di male.
«Baffoni non
ti ha detto nulla?», gli domandò a sua volta,
sospettosa.
«Baffoni?».
La ragazzina
sventolò una mano. «Il tuo... Non so nemmeno come
definirlo».
«Ti
riferisci forse alla persona a cui ti ho affidata in più di
un'occasione?». Arsène rise divertito al suo cenno
affermativo, trovando davvero simpatico il soprannome. Forse avrebbe
potuto usarlo anche lui.
«Il suo nome
è Grégorie», le confidò, con
una mano al lato della bocca. «Ma non gli piace,
perciò evita di chiamarlo così».
Geneviève
sogghignò. «Contaci...».
«E comunque
no, non mi ha detto nulla. C'è qualcosa che dovrei
sapere?».
La bionda
negò col capo e si spostò di lato per lasciarlo
entrare.
Arsène si
sedette sul letto ed invitò la figlia a fare altrettanto
perché potesse raccontarle gli ultimi sviluppi e spiegarle
ciò che aveva bisogno che facesse quel giorno.
Lei si trovava a casa
di Sherlock quando lui si era avvicinato a Molly Hooper per la prima
volta, perciò dovette raccontarle anche quell'episodio prima
di dirle di essere diventato "l'eroe di Waterloo Bridge", del loro
pranzo insieme e dell'invito alla Royal Opera House.
Geneviève
non reagì come si aspettava, ovvero con contentezza ed
ammirazione; piuttosto si dimostrò agitata, preoccupata che
si fosse spinto un po' troppo oltre.
«Lei non ti
ha fatto niente», cercò di dissuaderlo,
stringendosi le mani sulle gambe. «Non dovresti
coinvolgerla».
Arsène le
accarezzò una guancia, per poi prenderle il mento tra le
dita e guardarla negli occhi. «Tranquilla, non ho intenzione
di farle del male».
«Forse no,
ma... ma che succederebbe se si affezionasse a Jean e poi scoprisse che
non esiste?».
Il Ladro Gentiluomo
esitò, poi si alzò e si sistemò meglio
il tutore che aveva al braccio. Con voce ferma, rispose:
«È un rischio che devo correre, temo. Molly
Hooper... ho bisogno di studiarla».
«Che
cosa?».
«A quanto
pare non è ordinaria come credevamo. Ha un dono speciale e
voglio verificarne l'estensione, prima di decidere».
«Decidere?»,
ripeté la figlia, sempre più confusa dalle sue
parole.
Arsène si
voltò e la guardò con un tenero sorriso,
così in disaccordo con le parole che gli uscirono di bocca:
«Prima di decidere se consegnarla o meno a Irene
Adler».
Senza darle il tempo
di ribattere tornò a sedersi di fianco a lei e le prese una
mano per portarsela alla bocca.
«E qui entri
in gioco tu, tesoro. Avrei bisogno che tu faccia una cosa per
me».
«Allora, lo
farai?».
Geneviève
alzò gli occhi in quelli del padre, ma dei decisi colpi alla
porta le impedirono di rispondere. Fu un sollievo, anche se sapeva fin
troppo bene che quel momento era solo rimandato.
Era proprio come aveva
detto a Grégorie... Suo padre continuava a chiederle di
aiutarlo, spacciandoli come favori, quando in realtà la
sfruttava come uno qualunque dei suoi uomini. E se si fosse rifiutata
che cosa sarebbe successo? L'avrebbe rispedita da dov'era venuta,
decidendo di non volersi più di occupare di lei per la
scarsa riconoscenza che dimostrava? D'altronde perché
avrebbe dovuto sfamare una bocca senza ricevere nulla in cambio?
Arsène
aprì la porta e trovò Ernest dall'altra parte, il
quale gli sussurrò qualche parola prima di ritirarsi. A quel
punto suo padre si girò verso di lei e con un sorrisino
divertito sul volto esclamò: «Il caro Sherlock
vuole vedermi. Ti dispiacerebbe rimanere qui? Ci vorranno dieci minuti
al massimo».
Geneviève
annuì e guardò il padre uscire. Quando si fu
chiuso la porta alle spalle, la ragazzina aspettò due minuti
e lo seguì. Raggiunse la reception, dove si erano radunati
la maggior parte degli uomini del suo entourage, perfettamente
camuffati e mimetizzati nell'ambiente, e per non farsi vedere
sfruttò il carrello stracolmo di bagagli che un facchino
stava portando verso l'uscita. Al momento giusto saltò
dietro una delle tante poltrone sparse per l'enorme hall e
guardò la scena che aveva di fronte: due membri della
sicurezza del Savoy avevano fermato Sherlock tra le due porte girevoli
e Arsène lo fissava divertito, scuotendo il capo.
«A quanto
pare non sei ben voluto nemmeno tu qui, dopo lo scherzetto dell'ultima
volta», gli disse. «Avresti potuto chiamarmi, ci
saremmo incontrati altrove. Invece hai agito impulsivamente, senza
pensare...». Si avvicinò, sinuoso, e si
chinò all'altezza del suo petto, dove posò anche
un dito per tracciarvi un cuore stilizzato. «Devo presupporre
che si tratti di questo?».
Sherlock si
liberò delle guardie con una facilità disarmante,
facendo capire a tutti che erano riuscite a fermarlo solo
perché gliel'aveva permesso, e si avventò contro
Lupin. Il pugno andò a segno, stupendo tutti i presenti e il
ladro stesso, il quale rise e gli rivolse uno sguardo folle, mentre un
rivolo di sangue gli scorreva lungo il mento. Doveva essersi tagliato
il labbro.
«Te l'avevo
detto che l'amore ci permette di fare cose impossibili!»,
esclamò prima di sollevare una mano, un segnale al quale i
suoi uomini accerchiarono Sherlock, mentre un impassibile
Grégorie tirava fuori dal taschino un fazzoletto di seta e
lo porgeva al suo padrone perché si tamponasse la ferita.
Geneviève
sentì il cuore schizzarle il gola, ma non riuscì
a muoversi dal suo nascondiglio: era come paralizzata dietro quella
poltrona.
Ancora una volta il
detective non oppose resistenza e si lasciò scortare in uno
dei salotti privati dell'immensa hall, lontano dagli occhi e dalle
orecchie indiscrete dei facoltosi e rispettabili ospiti del Savoy.
L'impiegato seduto
dietro un'antica scrivania in mogano venne fatto sloggiare e
Geneviève lo guardò chiudersi la porta alle
spalle. In quel momento le sue possibilità di origliare
furono ridotte a zero e l'unica cosa che poté fare fu
tornare nella sua camera per prepararsi alla giornata che l'attendeva.
Sherlock si era
presentato lì, nella tana del nemico, perché
doveva aver scoperto che suo padre si era avvicinato a Molly Hooper.
Per lei avrebbe affrontato Lupin e tutta la sua scorta a mani nude, se
necessario, e Geneviève non poteva ignorarlo.
Inoltre le era bastato
un solo incontro per capire che Molly aveva sofferto già
troppo. Per questo avrebbe all'apparenza aiutato suo padre, mentre in
realtà avrebbe cercato di avvertirla del possibile pericolo
a cui andava incontro.
Era una decisione
rischiosa, la più rischiosa, ma era quella giusta da
prendere.
***
«Lasciala in
pace».
Arsène si
voltò verso di lui, fissandolo con gli occhi stretti in due
fessure. Ad un tratto il sorriso che tanto incuteva terrore negli
uomini e le donne che si ritrovavano con un conto in sospeso col ladro
si ripresentò, ma Sherlock non ne era più
impressionato ormai.
«E
così... tutto questo teatrino, per Molly Hooper?».
Il detective si
dimenò sulla sedia dove era stato fatto accomodare, stretto
tra la pesante scrivania e tre uomini che gli tenevano ferme spalle e
braccia.
«Ganimard
aveva ragione», disse tra i denti. «E io non l'ho
ascoltato, come uno stupido».
«Ah, il
povero Ganimard... Viene così spesso sottovalutato! E invece
è l'unico che sia mai riuscito a mettermi i bastoni tra le
ruote». Arsène sospirò, forse
ricordando alcune delle loro avventure, e si sedette sul bordo della
scrivania. «E dimmi, su cosa aveva ragione?».
«Aveva detto
che la restituzione della perla nera non era un atto di
bontà, ma un mezzo per arrivare a qualcos'altro. La parte
dell'eroe... è stata tutta una recita per attirare
l'attenzione di Molly, un incentivo a fidarsi di te».
«Magnifique!»,
esclamò, battendo persino le mani. Subito dopo
però si rabbuiò e si chinò sulla
scrivania per avvicinarsi al suo viso e tornare a guardarlo negli
occhi. I loro nasi quasi si sfiorarono.
«C'è
qualcosa che non quadra, però... Perché sei
venuto fin qui a minacciarmi, a dirmi di stare lontano da una donna
adulta e vaccinata, che è liberissima di fare le sue scelte,
e che tu eviti come la peste?».
Sherlock
ricambiò il sorriso, mettendoci la stessa punta di follia.
«Quindi avevo ragione: stai usando Geneviève per
trarre informazioni sulle persone a cui tengo. Personalmente non credo
che i segni zodiacali influenzino il carattere di una persona.
Scorpione o meno, sono certo che non sarà felice di
scoprirlo».
Arsène
saltò giù dalla scrivania e finse una risata, ma
il detective notò il nervosismo che gli tendeva i muscoli.
«E tu pensi
davvero di poter mettere mia figlia contro di me? Sì, forse
è vero che in un'occasione o due le ho chiesto dei favori,
ma aveva sempre una scelta. Non l'ho mai obbligata a fare nulla.
Però il fatto che ti abbia ignorato negli ultimi due giorni
è indicativo, non credi? Di chi si fida di più?
Di suo padre o dell'uomo che non ha avuto il coraggio di dirle la
verità sul conto di sua zia?».
«Lo sapevo
che eri stato tu», sibilò con astio.
«Ha fatto
tutto da sola. Io le ho solo dato un piccolo indizio»,
rispose il ladro, sventolando una mano. Poi tornò verso la
scrivania e vi si appoggiò con l'anca.
«Ad ogni
modo... se non vuoi che Molly Hooper mi frequenti basterebbe che tu
andassi da lei e l'avvisassi sul mio conto, come hai fatto con John. La
cosa più semplice del mondo, no?».
Sherlock strinse i
pugni, fremendo di collera sotto la stretta degli uomini di Lupin.
Aveva ragione, aveva
dannatamente ragione. Ma con che coraggio poteva affrontarla, dirle di
non usare i biglietti che lui stesso le aveva dato, o almeno di non
offrirne uno a quel finto-eroe? Un unico scenario gli si presentava
davanti agli occhi: Molly non gli avrebbe creduto, forse per la prima
volta, e a meno che non le avesse rivelato la verità su
ciò che era successo a Sherrinford, avrebbe pensato che
fosse l'ennesimo tentativo di rendere la sua vita un inferno in terra.
Per qualsiasi sua mossa Arsène aveva già la
risposta; il re bianco era condannato.
«A quanto
pare non la pensiamo allo stesso modo, mon ami»,
interruppe il silenzio il Ladro Gentiluomo.
Iniziò a
sbottonarsi il gilet grigio e, temerario come sempre, non gli nascose
la parte interna del lato sinistro, dov'erano state cucite una tasca
interna e una fila di portapenne in cui però c'era il kit
base dello scassinatore. Dalla tasca tirò fuori una busta
bianca, poi fece il giro della scrivania e con un semplice cenno del
capo disse ad uno degli uomini di farsi da parte: Arsène
stesso lo sostituì, ma solo per infilargli la busta nella
tasca interna del cappotto e col naso tra i suoi capelli sussurargli
all'orecchio: «Lo sai, ho un animo romantico,
perciò ti concederò un'ultima
possibilità. Hai fino a domani sera per decidere e se ti
presenterai, allora io mi farò da parte. Se non lo farai...
beh, lascerò che le cose vadano come vadano».
Prima di allontanarsi
gli diede un morsetto sul lobo, a cui Sherlock reagì con una
repulsione tale da liberare un braccio e puntare alla sua chioma bionda
per sbattergli la fronte contro il bordo della scrivania, nella
speranza che magari rinsavisse. Non riuscì a portare a
termine il proprio piano però, perché
Arsène sfruttò i suoi sensi da felino per balzare
via giusto in tempo.
Con una risatina si
avviò verso la porta e non si voltò mai indietro,
nemmeno quando disse: «E per la cronaca... Avrei
più motivi io per essere geloso, lo sai? L'affetto che
Geneviève inizia a provare per te mi preoccupa».
Sherlock si
irrigidì, ricordando le parole di Mycroft a proposito di
come poteva diventare Arsène se sentiva i propri tesori
minacciati, e allo stesso tempo provò una sorta di calore in
mezzo al petto, simile a quello che poche ore prima aveva provato
leggendo il diminutivo di Geneviève sul cellulare di Maurice
Leblanc. Aveva un'opportunità per fare breccia nel cuore del
ladro, lui che nonostante tutte le ferite lo metteva sempre in bella
mostra, e non voleva sprecarla.
«Forse
dovresti pensare prima alla fiducia», disse prima che potesse
uscire dal salottino.
Arsène si
fermò sulla soglia e si voltò di tre quarti per
guardarlo con la sola coda dell'occhio. «Che hai
detto?».
«Il fatto
che tu sia suo padre non vuol dire che tu non debba guadagnarti la sua
fiducia. Io ho commesso un errore, non dicendole subito la
verità su Mary, ma avevo le mie ragioni e mi farò
perdonare. Tu, invece... Che cos'hai fatto fin'ora per dimostrarle che
ci tieni davvero?».
Il ladro rimase in
silenzio a lungo, mordendosi con così tanta forza il labbro
che il taglio riprese a sanguinare. Quando alla fine ruppe la bolla di
cristallo in cui sembrava che pure il tempo si fosse fermato, lo fece
uscendo semplicemente dal salottino, senza rispondere.
Sherlock si
rilassò sulla sedia finemente intagliata e gli uomini della
scorta lo lasciarono per seguire il loro capo. Le due guardie del Savoy
diedero loro il cambio per scortarlo fuori, ma il detective fu felice
di assecondarle.
Quell'incontro non era
andato come aveva immaginato, ma aveva ottenuto più
informazioni di quanto avrebbe mai potuto sperare. Inoltre...
Recuperò la
busta regalatagli da Lupin e all'interno trovò un terzo
biglietto per il Don Giovanni.
In un modo o
nell'altro avrebbe incontrato Molly Hooper. Su questo non c'erano
dubbi, dato che Lupin aveva deciso così. Ma cos'era, in
realtà, che voleva Arsène?
***
Molly aveva proprio
bisogno di un pomeriggio da dedicare a se stessa.
L'aspettavano il
parrucchiere e l'estetista, ma all'appuntamento con il primo ebbe una
sorpresa: Geneviève, la ragazzina che Sherlock aveva preso
sotto la sua ala per il caso del piede di diavolo, era pronta per farsi
fare lo shampoo nella postazione accanto alla sua.
«Questa
sì che è una strana coincidenza»,
esclamò la bionda, mentre il parrucchiere le tirava indietro
la fronte.
Molly dubitava
fortemente che fosse una coincidenza e non aveva intenzione di
sottostare ai giochetti del detective, perciò
andò dritta al punto mentre sistemava il passeggino di Rosie
di fianco a sé e si sedeva sulla poltrona.
«Adesso
Sherlock ha deciso di spiarmi?», le chiese.
La ragazzina
scoppiò in una risata allegra, così simile a
quella di Jean da farle correre un brivido lungo la pelle. La
guardò attentamente ed in effetti delle somiglianze c'erano;
in più, erano entrambi francesi. Jean le aveva detto di
trovarsi a Londra per questioni familiari, ma poteva davvero averle
nascosto di avere una figlia? E se così fosse stato, qual
era il vero collegamento tra lui e Sherlock?
«Pensi che
mi abbia mandato qui lui? Nah, avevo semplicemente bisogno di una
spuntatina», rispose alla fine, sistemandosi meglio e
chiudendo gli occhi sotto il massaggio del parrucchiere. «Hai
capito Max? Solo un paio di centimetri, non di
più».
«Sei
sicura?», provò ad insistere l'artista delle
forbici. «Il tuo viso sarebbe più valorizzato da
un taglio corto...».
E così
dicendo le tirò indietro i capelli, lasciando solo qualche
ciocca mossa ai lati del suo volto. Molly si ritrovò a
trattenere il fiato vedendo quello di Mary sovrapposto a quello della
ragazzina, la quale scacciò stizzita la mano destra del
parrucchiere e berciò a denti stretti:
«Sicurissima».
Geneviève
le lanciò un'occhiata di sbieco, imbronciata, e
l'anatomopatologa distolse immediatamente lo sguardo. La sua mente le
aveva fatto proprio un brutto scherzo: prima Jean, ora Mary... Non
c'era alcuna possibilità, nessuna, che quella
ragazzina fosse imparentata con la moglie di John.
A quel punto la
ragazza che si sarebbe occupata di Molly le sorrise attraverso lo
specchio e le chiese: «E tu che mi dici? Preferisci rimanere
sul classico o vuoi qualcosa di particolare?».
«Come
lei», rispose l'anatomopatologa, sospirando.
Mentre ad entrambe
veniva fatto lo shampoo, Geneviève decise di rompere il
silenzio tornando a parlare di Sherlock, l'argomento che Molly avrebbe
voluto a tutti i costi evitare. Però la ragazzina aveva
ragione: era stata lei a nominarlo per prima.
«Perché
pensavi che mi avesse mandato qui a spiarti? Non mi sembra il
tipo».
«Non lo so,
ultimamente fa molte cose strane. Come girare insieme ad una
ragazzina», la buttò lì, senza aprire
gli occhi. Tuttavia sentì i suoi occhi verdi scrutarla,
tanto che Max dovette dirle di stare ferma sopra il lavandino.
«Quindi non
è successo nient'altro tra voi, dall'ultima
volta?».
Molly continuava a non
fidarsi, ad avere uno strano presentimento su di lei, ma sapeva anche
che accontentarla era l'unico modo per poi provare a farle a sua volta
qualche domanda.
«In
realtà ci siamo visti ancora, qualche giorno dopo. Dovresti
saperlo, dato che sei stata tu ad attirarlo al Bart's e ad inviarmi un
sms col suo cellulare perché ci incontrassimo. Qual era il
tuo scopo, posso saperlo?».
«Volevo
aiutarvi. È chiaro che siete fatti l'uno per
l'altra...».
A quel punto Molly
aprì gli occhi e piegò il capo verso di lei,
trovando la ragazzina intenta ad osservare la sua reazione con la coda
dell'occhio sinistro.
Questa le sorrise
sbarazzina, aggiungendo: «Avanti, lo capirebbe pure un cieco
che anche Sherlock è innamorato di te. Per qualche ragione
però si ostina a...».
«Smettila»,
la interruppe bruscamente. «Non sai cosa stai
dicendo».
Tremando, Molly
tornò a fissare il soffitto e a lasciarsi lavare i capelli
dalla parrucchiera.
Quello che
Geneviève aveva detto non aveva il minimo senso. Sherlock...
Sherlock non poteva essere innamorato di lei, non veramente. Anche se
quella sarebbe stata la risposta a molti dei quesiti con cui si era
interrogata nelle ultime settimane, perdendo ore di sonno e tantissimi
sali minerali sotto forma di lacrime.
Ad ogni modo, se
Sherlock aveva deciso di evitarla allora c'era un'unica spiegazione:
non voleva che quei sentimenti - veri o finti che fossero - prendessero
il sopravvento. Come le aveva scritto nella nota allegata ai biglietti
per l'opera, voleva che trovasse qualcuno in grado di non farla
soffrire e che la meritasse veramente.
Finito lo shampoo,
entrambe le loro poltrone vennero rialzate e si ritrovarono davanti ai
loro riflessi. Si guardarono finché non fu
Geneviève a parlare per prima, sospirando affranta.
«Mi
dispiace, non dovevo intromettermi. Però...».
«Che
cosa?», la incalzò l'anatomopatologa, sentendo il
cuore batterle forte nel petto.
«Niente,
è una sciocchezza», glissò la bionda,
con un lieve sorriso sulle labbra.
«Voglio
saperlo comunque».
«Ecco, io...
mi sono affezionata a lui e volevo aiutarlo. Promettimi che non glielo
dirai mai».
Molly
ricambiò il sorriso, intenerita, ed annuì. Poi
però la curiosità ebbe la meglio e le
domandò: «Come vi siete conosciuti?».
«Mio
padre», rispose sospirando nuovamente. «A quanto
pare lui e Sherlock sono amici di vecchia data».
«Ah
sì? E come sei finita ad investigare con lui?».
Geneviève
la guardò attraverso gli specchi che avevano di fronte,
mostrando quel sorriso malizioso che, di nuovo, le ricordò
Jean.
«Non ti
facevo così curiosa, Molly Hooper».
«Perdonami,
ma tuo padre non deve essere un tipo troppo normale... Permetterti di
investigare con Sherlock Holmes è a dir poco da
irresponsabili, visti i pericoli che affronta di solito».
«Strano, mio
padre ha detto che il posto più sicuro in cui potesse
lasciarmi era proprio al fianco di Sherlock»,
ribatté le ragazzina. «Non è mai morto
nessuno per colpa sua, no?».
Quella domanda, posta
con così tanta leggerezza, col presupposto che non
necessitasse di una risposta, la colpì in pieno viso come
uno schiaffo. Lei e Mary non erano mai state intime come avrebbe
voluto, ma era comunque la madrina di sua figlia e la sua perdita era
stata devastante. Pensare al dolore che avrebbe patito quella bambina,
crescendo senza la sua mamma, era devastante.
Guardò
proprio Rosie, la quale stava masticando con gusto un sonaglino di
gomma. Poi si ricompose, decisa a non rivelare quell'informazione
così sensibile ad una ragazzina che nemmeno conosceva, ma
quando si voltò verso di lei la trovò con gli
occhi sgranati e velati di lacrime, i pugni stretti sui braccioli della
poltrona.
«Ehi, che
cosa ti prende?», le chiese, improvvisamente preoccupata.
«Questa
bambina... questa bambina ha perso qualcuno per colpa di Sherlock
Holmes?».
Il suo intuito
spaventò Molly: erano intelligenze del genere che l'avevano
sempre attratta e allo stesso tempo impaurita, perché
potevano essere utilizzate per il bene e per il male allo stesso tempo.
Una scelta sbagliata, un dolore troppo grande, e molte più
persone di quanto si potrebbe immaginare ne avrebbero subìto
le conseguenze.
«No. No,
certo che no. Non è stata in alcun modo colpa di
Sherlock», la rassicurò Molly, o almeno ci
provò.
I due parrucchieri,
per quanto interessati alla questione, dovettero interromperle per
procedere ai tagli.
Il discorso non venne
più riaperto e, per quanto Molly ne fosse sollevata, le
aveva lasciato anche un sapore amaro in bocca: vedere quell'espressione
sul volto della ragazzina l'aveva convinta che sapesse più
di quanto volesse dimostrare e che, qualunque fosse il collegamento tra
lei, suo padre, Sherlock e, a quel punto, Rosie, il suo dolore era
reale. E Molly non era mai stata in grado di starsene in disparte a non
fare niente davanti alla sofferenza. (Della propria era okay che
nessuno si interessasse, ormai ci aveva fatto il callo).
Per questo
esclamò: «Quindi devo ringraziare te se domani
sera andrò all'opera. Certo, non ci andrò con
Sherlock come avevi sperato, ma...».
«Con chi ci
andrai, allora?», le chiese, tornando la solita
Geneviève: sorridente e curiosa.
«Si chiama
Jean, l'ho conosciuto circa una settimana fa. Tu gli somigli, non
è che...?».
«Mai sentito
nominare», rispose in fretta. Fin troppo, per i suoi gusti.
«Strano, ne
hanno parlato in tutti i telegiornali».
«Aspetta,
non sarà mica il turista che ha impedito a quell'uomo di
buttarsi giù dal ponte!».
«Proprio
lui».
«Caspita!
Allora sono gli eroi il tuo tipo!», le disse ridacchiando e
facendole l'occhiolino.
Molly
ricambiò, dicendosi che forse era così: era vero
che in Sherlock c'era una parte sociopatica, ma era quella dell'eroe
che amava. Giusto?
«Ma non ti
sembra un po' avventato? Insomma... che cosa sai veramente di
lui?», le domandò ancora la ragazzina.
«Se non ci
uscirò non potrò mai conoscerlo meglio».
«E poi
è francese! Sei sicura di volere una relazione a
distanza?».
«Chi ha
parlato di relazione?».
«Okay,
ma...».
Molly
aggrottò la fronte, cercando di guardarla il più
possibile senza girare il capo: non voleva che la parrucchiera le
tagliasse male i capelli.
«Stai
cercando di convincermi a non uscire con lui?».
«Dico solo
che potrebbe non essere chi credi che sia».
Le sue parole le
lasciarono un marchio sul cervello.
Quante volte aveva
pensato di conoscere la persona che aveva al suo fianco, per poi venire
pugnalata alle spalle? Era successo decine di volte, prima ancora
dell'arrivo di Jim Moriarty, il culmine della sua cecità.
Aveva pensato che con
Jean fosse diverso, ma forse doveva ascoltare Geneviève ed
evitarsi altro dolore. I suoi occhi verdi, però... No, lui
era diverso. E poi, seguendo quel ragionamento, perché
avrebbe dovuto ascoltare lei in primo luogo?
Glielo disse senza
troppi giri di parole, lasciandola a dir poco a bocca aperta.
Quando
ritrovò la propria voce, la biondina disse: «Hai
tutte le ragioni per non fidarti di me, ma ti prego di pensarci
su».
All'improvviso
dimostrava ben più della sua verà età:
i suoi occhi tristi sembravano aver visto la vera natura del mondo, il
suo volto contratto in un'espressione di fiera determinazione rivelava
la forza di mille battaglie.
Nonostante tutti i
tentativi di Molly per convincerla a spiegarle perché
avrebbe dovuto ascoltarla, e soprattutto perché fosse
così interessata alla sua vita sentimentale,
Geneviève non disse più nulla.
Aspettò che
il parrucchiere finisse di spuntarle i capelli e che si allontanasse
per andare a prendere il phon, quindi si strappò dal collo
il telo che le aveva fatto indossare per far sì che non si
bagnasse o sporcasse i vestiti, posò accanto alla cassa una
banconota di valore molto superiore al servizio reso e se
andò infilandosi i capelli umidi dentro un cappellino di
lana nero.
Molly la
guardò attraversare la strada e poi girare l'angolo,
rimanendo con diverse domande e il sospetto sempre più forte
che lei e Jean si conoscessero, se non addirittura...
I balbettii di Rosie
la distrassero e voltandosi la vide sorridere in direzione delle
vetrate del negozio, una manina sollevata con cui sembrava proprio
salutare la ragazzina.
***
«Che
cos'hai fatto fin'ora per dimostrarle che ci tieni davvero?».
Quelle parole
continuavano a ripetersi nella sua mente, come un disco rotto, e
Arsène non riusciva a trovare una risposta che soddisfacesse
lui e la voce di Sherlock.
Era proprio
ciò che temeva... I suoi problemi di fiducia l'avrebbero
reso un terribile padre, alla fine.
Geneviève
aveva fatto tutto il possibile, tutto ciò che lui le aveva
chiesto, per farlo felice e renderlo fiero di lei. Tuttavia non era mai
riuscito a lasciarla andare in solitaria. Telecamere, GPS e membri
della sua scorta l'avevano sempre seguita ovunque andasse. Non poteva
più permetterlo, doveva fare qualcosa.
Così aveva
deciso di iniziare con le telecamere. Si era recato nella stanza della
figlia e aveva tolto tutte le microspie, gettandole nel cestino.
Una volta finito si
era seduto sulla poltrona accanto al balcone, senza sentirsi ancora
soddisfatto. I sensi di colpa, o almeno una parte, non si sarebbero
acquietati finché non avesse visto la reazione di
Geneviève davanti a quell'enorme passo avanti.
Perciò
attese il suo ritorno con ansia e quando credette che ci fosse lei
dietro la porta provò una grande delusione nel veder entrare
Grégorie.
«Che cosa
c'è?», gli chiese, tornando a sedersi.
«Il
parrucchiere ci ha appena informato che Geneviève
è uscita dal negozio».
Arsène
provò a non porre ulteriori domande, si disse che sua figlia
gli avrebbe raccontato tutto quando si sarebbero visti,
lottò con tutte le sue forze per darle la fiducia che si
meritava, ma perse. Col pugno stretto davanti alla bocca,
mugugnò: «Di che cosa hanno parlato lei e Molly
Hooper?».
Grégorie
abbozzò uno dei suoi rari sorrisi mentre rispondeva:
«Non le piacerà, padrone».
«Mia figlia
dalla parte di Sherlock? No, è impossibile».
«Eppure pare
proprio...».
«Quel
parrucchiere deve aver capito male», insistette il ladro,
passeggiando nervosamente di fronte all'amico. «Per quale
motivo avrebbe provato ad avvertire Molly?».
«Perché
Sherlock Holmes ama quella donna».
«E tu dici
che Geneviève preferirebbe aiutare lui, anche a costo di
intralciarmi?».
Arsène si
voltò a guardarlo e lo trovò con lo stesso
sorriso sotto i baffi - letteralmente - e la rabbia che
sentì incendiargli gli organi interni lo portò a
gridare con tutto il fiato che aveva nei polmoni: «Smettila
di sorridere! Sei disgustoso!».
L'uomo
abbassò il capo, mormorando: «Mi perdoni, padrone.
Ma l'avevo avvertita che...».
«Vattene.
Lasciami solo».
Senza aggiungere
altro, Grégorie obbedì agli ordini e se
andò. Rimasto solo, Lupin si lasciò cadere sul
letto della figlia e si coprì il volto con una mano,
sentendo le lacrime bagnargli gli angoli degli occhi.
Il dolore provocato
dal dubbio, dalla paura di non poter contare su sua figlia, sangue del
suo sangue, era più lacerante di quello che avrebbe mai
potuto immaginare. Ma d'altronde non l'avrebbe biasimata, se avesse
deciso di stare davvero dalla parte del detective. In fondo... che
cos'aveva fatto per dimostrarle che ci teneva davvero?
Le aveva precurato un
luogo dove poter mangiare e dormire, ma non una casa in cui sentirsi
amata.
L'aveva messa sotto sorveglianza, anziché parlare con lei e
starle accanto.
Aveva rubato per lei un gioiello, senza realizzare che non era il
genere di persona che si lasciava comprare in quel modo.
Le aveva chiesto di aiutarlo, senza mai chiederle se potesse fare lui
qualcosa per lei.
Tutto questo doveva
cambiare. Lui
doveva cambiare. Era Arsène Lupin, poteva farlo.
Dopo l'uscita con
Molly Hooper avrebbe deciso come chiudere la questione con Irene Adler
e poi...
Mezz'ora dopo, quando
Geneviève rientrò nella sua stanza e
trovò il cestino ai piedi del letto con all'interno le
telecamere di sorveglianza, Arsène non era lì per
guardare la sua espressione piena di sollievo e gioia.
***
John sentì
il cellulare vibrargli nella tasca dei jeans e guardando Molly, in
piedi davanti a lui, si scusò prima di portarselo
all'orecchio.
«Sei
già a casa?», gli domandò Sherlock,
diretto come suo solito.
«Sì,
sono arrivato da cinque minuti».
«Bene, ti
raggiungo tra poco».
Terminata la
comunicazione, John si passò una mano sulla nuca e
sospirò.
«Perdonami,
Molly. Sherlock sta venendo qui e sono tentato di chiederti di restare,
ma...».
«Non
c'è problema», lo interruppe lei quella volta,
abbozzando un sorriso. «Mi ha fatto capire chiaramente che
non mi darà alcuna spiegazione, tanto vale evitarci
situazioni imbarazzanti».
Afferrò il
cappotto e dopo esserselo infilato salutò la piccola Rosie,
seduta sul tappeto con i suoi giochi. Era ancora accucciata, che le
accarezzava le guance piene, quando John si strinse le braccia al petto
e con la fronte corrugata riprese il discorso che avevano lasciato a
metà: «Quindi pensi che Geneviève
volesse metterti in guardia su Jean?».
«Non so
davvero che cosa pensare. Perché avrebbe dovuto?».
Il dottore si
passò di nuovo la mano sulla nuca e dopo qualche secondo di
riflessione sospirò. «Ecco, in
verità...».
Il campanello lo
interruppe e i due si scambiarono un'occhiata, pensando alla stessa
cosa.
«Non
può essere...», mormorò John, andando
ad aprire.
Ma si trattava proprio
di Sherlock, il quale doveva averlo chiamato da dietro l'angolo.
Entrò senza salutare né dargli il tempo per
avvisarlo, iniziando a raccontargli subito del suo ultimo incontro con
Arsène. Troppo tardi si accorse della presenza di Molly. I
loro sguardi si incrociarono e Sherlock si irrigidì, tanto
che non ebbe la forza per interrompere il contatto visivo nemmeno
quando si rivolse a John, biascicando: «Perché non
mi hai avvisato?».
«Ci ho
provato!», sussurrò il dottore, alzando gli occhi
al soffitto.
«Stavo
giusto andando via», esclamò Molly, mostrando un
sorriso fin troppo audace, nel tentativo di nascondere il dolore.
Finì di allacciarsi il cappotto e salutò i due a
testa bassa, ma prima che potesse passare tra loro per raggiungere la
porta John l'afferrò per un braccio e sotto gli occhi
sgranati del detective le disse: «No, resta. C'è
una cosa che devi sapere».
«Che... Che
cosa?», balbettò l'anatomopatologa, guardando
preoccupata in direzione di Sherlock.
John avrebbe tanto
voluto dirle la verità su quello che spaventava tanto il
consulente investigativo, darle tutte le risposte che cercava da
settimane ormai, ma doveva accontarsi di quella sola confessione che,
però, era ciò che avrebbe potuto risparmiarle
ulteriori drammi.
«Geneviève
aveva ragione: Jean non è chi dice di essere. Il suo vero
nome è Arsène Lupin ed è un ladro di
fama internazionale».
Un silenzio tombale
calò tra di loro, tanto profondo che se solo si fossero
concentrati sarebbero riusciti a sentire i battiti dei loro cuori. Alla
fine fu Molly a romperlo, lasciandosi scappare una risatina nervosa.
«Mi stai
prendendo in giro», gli disse, dandogli una debole spinta sul
petto.
John le
afferrò la mano e con sguardo colmo di dispiacere
replicò: «Vorrei fosse così, ma
è la verità. Sherlock può
confermarlo».
Imitando il dottore,
Molly si voltò verso il detective e lo fissò con
gli occhi lucidi e le labbra che le tremavano. La sua voce
però risultò ferma e decisa, fiera come quella di
una leonessa che nononostante tutte le ferite non aveva ancora smesso
di lottare.
«È
così? Ne sei certo al cento percento?».
Sherlock rivolse tutta
la propria frustrazione verso John, poi socchiuse gli occhi ed
inspirando annuì col capo. Molly rilassò le
spalle, come se si fosse appena tolta un peso anziché averlo
ricevuto, e si sfilò il cappotto mentre si dirigeva di nuovo
verso il salotto.
«Beh,
perché state lì impalati?»,
domandò ad un tratto. «Avete molto da
spiegarmi».
E così si
ritrovarono nella piccola cucina di John, seduti al tavolo –
Rosie compresa, nel suo seggiolone – con una tazza di
té tra le mani.
Sherlock le riassunse
la storia come l'aveva riassunta al dottor Watson una decina di giorni
prima, raccontandole delle abilità di ladro e di
trasformista di Arsène Lupin, dello strano rapporto di amore
e odio che avevano sempre avuto e delle avventure che lo avevano visto
protagonista in Inghilterra, in particolare quella della perla nera,
dove si era esposto in prima persona sotto la falsa identità
di Jean Daspry con l'unico scopo di attirare la sua attenzione.
«E
Geneviève che ruolo ha in tutto questo?», gli
chiese quando fece una pausa.
«Geneviève
è sua figlia», rispose John. Abbassando gli occhi
sulle braccia incrociate, aggiunse: «E mia nipote».
Molly
rischiò di strozzarsi col té. «Che
cosa?!».
«A quanto
pare Mary aveva una sorella, Clotilde, la quale... la quale era una
complice di Arsène, prima di rimanere incinta. Gli ha
nascosto di portare in grembo sua figlia e l'ha lasciato per crescerla
da sola, lontana dalla sua vita di ladro. Solo recentemente si sono
ricongiunti, quando Clotilde ha capito che non le rimaneva molto
tempo».
«Cancro»,
specificò Sherlock.
«Oddio,
è terribile», mormorò Molly, portandosi
una mano alla bocca e una sulla mano di John. «E tu stai
bene?».
«Sì,
io... sopravviverò. È Geneviève che mi
preoccupa».
«Aspetta,
stai dicendo che lei non lo sa?».
«Ora
sì», si intromise di nuovo il detective.
«L'ha scoperto un paio di giorni fa e questa sera alle nove
ci incontreremo sul Waterloo Bridge per parlarne. Sei invitato,
John».
«Invitato?»,
ripeté Molly, scioccata. «Cosa vuol dire invitato?
È sua nipote! È lui che dovrebbe parlarle, non
tu!».
Sherlock si
addossò contro lo schienale della sedia, mostrandosi offeso
dal tono della donna.
«Hai
ragione, ma lei merita delle risposte e io non sono sicuro di
potergliele dare. Non ora, almeno», mitigò gli
animi John, sospirando. Quindi si rivolse direttamente al consulente,
abbozzando persino un sorriso: «Grazie, ci
penserò».
L'anatomopatologa si
alzò per mettere la propria tazza nel lavello e si
appoggiò ad esso con la base della schiena, portandosi una
mano sulla fronte.
«C'è
ancora una cosa che non capisco. Che cosa vuole Arsène da
me?».
John si
girò per guardarla in viso, ma Sherlock lo
anticipò attirando su di sé gli occhi traboccanti
di rimproveri dell'amico.
«Non lo
sappiamo ancora».
«Forse lo sa
Geneviève. È lei che mi ha avvertito sul suo
conto, no? O sei stato tu a chiederle di farlo, perché
sapevi che anche lui è un sociopatico?».
«No, fino a
stamattina non sapevo nemmeno che Arsène ti aveva
avvicinata», ribattè Sherlock, riservandole
un'occhiata più tagliente del dovuto.
«Geneviève ha agito di testa propria, come sempre,
e non ho idea del perché in quest'occasione si sia messa
contro il padre».
«Io ne avrei
una o due», mormorò John, canzonatorio nei
confronti di Sherlock.
Molly però
non lo sentì e tornò al tavolo, vi
posò sopra entrambe le mani e guardando prima l'uno e poi
l'altro chiese: «Che cosa dovrei fare adesso?».
«L'ideale
sarebbe fare finta di nulla e andare a quell'appuntamento»,
rispose il detective.
«E lasciare
che mi usi perché tu possa capire che cos'ha in mente? Non
se ne parla».
«Ma...».
«Molly ha
ragione», le diede man forte John, riservandogli un'occhiata
eloquente.
«Tu non
capisci», gli sussurrò, ma venne interrotto dalla
donna.
«Gli
chiederò di vederci questa sera e lo costringerò
a darmi spiegazioni», affermò, con un tono da non
ammettere repliche. «In base alla sua risposta,
deciderò che cosa fare».
«Questa
sì che è un'idea assurda!»,
sbottò Sherlock, alzandosi in piedi a sua volta.
Entrambi con le mani
sul tavolo, nessuno dei due sembrava intenzionato a cedere. John li
guardò esasperato: se solo Sherlock avesse ammesso i suoi
sentimenti...
«L'uomo che
ho conosciuto si chiama Jean Daspry», disse Molly ad un
tratto. «Sei tu il detective, perciò dammi delle
prove: dimostrami che lui è chi tu dici che sia e
farò come vuoi tu».
Sherlock
digrignò i denti e cercò il sostegno del dottore,
il quale abbozzò un sorriso sardonico: Molly l'aveva fregato
quella volta. Non c'erano prove per affermare che Jean Daspry fosse
Arsène Lupin, dato che Arsène Lupin in primis non
esisteva.
«Allora
è deciso», pose fine alla discussione
l'anatomopatologa, sorridendo.
Si
allontanò per andare a recuperare il cappotto, ma Sherlock
la chiamò prima che potesse uscire dalla cucina. Lei si
girò e lo guardò, stanca come se avesse corso per
ore.
«A parte i
miei occhi non ho prove da darti. E se non ti fidi più di
me... è solo colpa mia».
Aveva parlato con voce
soffice, quasi amorevole, eppure ciò che brillò
negli occhi di Molly fu pura irritazione. Aveva smesso davvero di
pendere dalle sue labbra.
«Non farmi
sentire in colpa, Sherlock. Le tue sono solo parole prive di
significato».
La frecciatina
colpì il cuore del detective, facendolo sanguinare
più di quanto avrebbe voluto, ma non lo diede a vedere. Si
avvicinò di un passo alla donna e dopo essersi umettato le
labbra riprese: «Posso dirti solo questo: al castello di
Thibermesnil Arsène si è fratturato il braccio
destro. Come Jean Daspry non porta il tutore, ma se vuoi la prova che
siano la stessa persona...».
«Devo
esaminargli il braccio», concluse lei. «E come
dovrei fare?».
Sherlock sorrise
teneramente. «Sei intelligente, troverai un modo».
Come se l'avesse
offesa con le parole più volgari del vocabolario, Molly
raccattò le sue cose e se ne andò sbattendosi la
porta alle spalle.
John
aspettò che il consulente si girasse, poi
esclamò: «Davvero? I tuoi sentimenti per lei e il coinvolgimento
di Irene Adler? Se continui così, saranno i segreti a fare i
danni peggiori».
«Ti
sbagli», gli disse, ma senza troppa convinzione.
Accorgendosene, riacquistò un po' del proprio autocontrollo.
«Se le dicessi la verità correrebbe ancora
più rischi. Hai sentito cos'ha detto! Chiederà ad
Arsène di incontrarla questa sera! E chissà come
potrebbe reagire, trovandosi senza più una
copertura!».
Si avvicinò
di scatto al tavolo e con voce morbida aggiunse: «Devo
chiederti un favore, John».
Il dottore si prese il
setto nasale tra le dita, socchiudendo gli occhi. «Non me lo
dire: vuoi che vada all'incontro con Geneviève mentre tu
pedini Molly».
«Mi
sorprendi ogni giorno di più», esclamò
il detective, quasi orgoglioso.
Si sistemò
la sciarpa intorno al collo e fece per andarsene, ma John lo
fermò per chiedergli: «Per quale motivo sei venuto
qui? È successo qualcosa al Savoy?».
Sherlock si
portò una mano sopra al petto, in corrispondenza della tasca
interna del cappotto, però non disse nulla in merito al
terzo biglietto per il Don Giovanni.
Gli posò
una mano sulla spalla e disse: «Non fare tardi questa
sera».
E se ne
andò prima che potesse interrogarlo ancora.
***
Non esagerava nel dire
che le sudavano le mani. Raramente era stata così agitata e
le sembrava impossibile che la causa di tutto fosse l'appuntamento con
Sherlock. L'aveva odiato quando si era rifiutato di dirle la
verità e ora che finalmente era pronto a rivelargliela,
Geneviève non era più sicura di volerla sentire.
Come avrebbe fatto a
guardarlo negli occhi se davvero fosse stato lui a provocare la morte
di sua zia? Il solo pensiero la terrorizzava.
Il cellulare
iniziò a vibrarle nella tasca dei jeans e sospirando lo
ignorò. Sapeva già chi la stesse cercando e non
era proprio dell'umore per spiegargli perché lo avesse
ignorato fino ad allora.
«Pensavo
fossi diversa, sai?».
Geneviève
si voltò di scatto, dando le spalle allo skyline notturno di
Londra, per osservare incredula Maurice mentre si chiudeva alle spalle
la porta scorrevole della terrazza del bar.
«E invece
sei proprio sfuggente come tuo padre, Geneviève
Lupin», concluse con un sorriso sbarazzino.
La ragazzina
celò lo shock e sorrise a sua volta. «Io sarei la
figlia di Lupin? Non scherzare».
Maurice si
avvicinò al parapetto e tirò fuori dalla tasca
dei pantaloni un pacchetto di sigarette. Ne estrasse una e se la
portò alle labbra per accenderla, con una mano a riparare
dal vento la fiamma dello zippo. Quindi le rivolse un altro sorriso e
sbuffando del fumo con le parole disse: «Non te ne offro una
perché a quindici anni non si dovrebbe fumare».
Geneviève
si strinse le braccia al petto e rinunciò a portare avanti
la commedia: era tutto tempo sprecato.
«Come hai
fatto?», gli chiese semplicemente, tirando a sé
una sedia di ferro per sedersi.
Maurice la raggiunse
poco dopo, sistemando le lunghe gambe sotto il tavolino. Le rispose con
lo sguardo rivolto verso il cielo privo di stelle: «Sono il
reporter ufficiale del Ladro Gentiluomo da sei anni ormai e posso dire
di conoscerlo, almeno un po'. Quando mi ha scritto per mettermi al
corrente della scomparsa della Donna Bionda sono rimasto stupito:
quella donna non faceva più parte della sua banda da ormai
quindici anni, perciò doveva esserci un motivo se in punto
di morte aveva sentito il bisogno di contattarlo. Lupin è
sempre stato un tipo romantico - potrei raccontarti decine di avventure
in cui è corso in soccorso di una donna - ma vedi, quando
venne a sapere delle condizioni della Donna Bionda era incarcerato nei
sotterranei della Santé. Nel giro di due settimane ha
organizzato la fuga e l'ha messa in atto, muovendo forze incalcolabili.
Come ci sia riuscito è ancora un mistero e tutti ne parlano,
in Francia. Ma non è questo il punto. Il punto è:
quale motivo l'ha spinto a fare l'impossibile?».
I suoi occhi scuri,
nonostante fossero schermati dalle lenti degli occhiali, la
inquadrarono nel loro mirino e Geneviève si sentì
così esposta che si concentrò sul fumo che saliva
dalla sua sigaretta: quella notte non c'era nemmeno un filo di vento,
perciò era una linea sottile, simile alla cordicella di un
palloncino.
«Forse la
Donna Bionda aveva richiesto di trascorrere gli ultimi suoi momenti con
l'uomo che aveva tanto amato. Possibile, ma una volta spirata Lupin non
avrebbe avuto alcun motivo per rimanere in Inghilterra, giusto?
Più mi scervellavo, più mi sembrava di
allontanarmi dalla verità. Alla fine però
è stata lei a venire da me».
Esibì un
nuovo, splendido sorriso e si sporse verso di lei, o almeno
così credette Geneviève. In realtà
Maurice si era solo allungato per prendere il posacene dal tavolo
vicino e senza farlo apposta - o forse sì - aveva fatto
scontrare le loro ginocchia.
«Arséne
mi aveva detto che non avrebbe lasciato l'Inghilterra senza prima aver
conquistato il suo tesoro più grande», riprese,
con tono carezzevole. «In quell'occasione non avevo capito
proprio nulla, uh?».
Maurice
tornò ad appoggiarsi allo schienale della sedia e si
portò una mano dietro la testa, sbuffando.
«È un vero peccato. Avrei preferito...».
«Che
cosa?», domandò Geneviève.
«Avrei
preferito continuare a non capire nulla», concluse,
guardandola con amarezza. «Mi piacevi davvero, Gen. Ma non
credo che tuo padre ne sarebbe felice se lo venisse a sapere».
La ragazzina si
alzò dalla sedia, lasciando che i capelli le coprissero il
volto rosso d'imbarazzo. «Quindi non gli dirai
nulla?».
«No.
Aspetterò che sia lui a parlarmene, se e quando ne
avrà voglia».
Geneviève
tirò fuori il cellulare e si accorse che era già
in ritardo per l'incontro con Sherlock. Rivolse una breve occhiata a
Maurice, il quale la salutò con un cenno del mento e
tirò una lunga boccata alla propria sigaretta; quindi si
allontanò senza aggiungere altro.
Uscì
dall'Hotel Savoy e dal piazzale in cui si fermavano le limousine e i
taxi alzò gli occhi verso la terrazza del bar. Scrisse un
breve sms e senza pensarci su due volte lo inviò. Avrebbe
voluto vedere la sua espressione, ma si sarebbe fatta bastare quella
che aveva immaginato.
Riparliamone tra
qualche anno.
***
Molly si fece coraggio
con un respiro profondo e poi diede una spinta decisa alla porta del
Fox, dove aveva dato appuntamento a Jean o, come sosteneva Sherlock, ad
Arsène; lo stesso pub dove l'aveva conosciuto.
Lo
individuò subito, seduto all'angolo del bancone: da
lì poteva osservare l'ingresso e allo stesso tempo
rifugiarsi nel bagno in tempo record nel caso in cui l'appuntamento
fosse andato male. Era il posto che di solito cercava di accaparrarsi
lei, per le stesse ragioni.
L'idea che quell'uomo
l'avesse scelto per fuggire dalle sue accuse però la fece
sentire terribilmente in colpa, nonostante ancora non ne avesse mossa
alcuna. A dire la verità non aveva ancora deciso se fidarsi
o meno delle parole di Sherlock. Era difficile che si sbagliasse nel
giudicare le persone, ma Molly sperava davvero che anche per il
detective di fama internazionale ci fossero le prime volte.
«Ehi»,
la salutò Jean non appena lo raggiunse. Scese persino dallo
sgabello per aiutarla a togliersi il cappotto, ma l'anatomopatologa si
ritrasse lanciandogli un'occhiata diffidente e con tono pacato
spiegò: «Sarà una cosa
veloce».
Gli occhi del biondo
si rabbuiarono in modo repentino, come se davvero la sua freddezza
l'avesse rattristato. O era un attore tremendamente bravo, oppure...
«Va
bene», rispose cercando di mascherare la delusione con un
sorriso. «Hai almeno il tempo per un drink?».
Forse irrigidirsi in
quel modo, trattandolo come se la sua colpevolezza fosse un dato di
fatto, non era stato il miglior approccio. Prima avrebbe dovuto provare
con le buone.
Sorrise, concedendosi
persino di sciogliere il nodo della sciarpa. «Sì,
certo. Scusami per prima, non volevo risultare scontrosa. È
stata una giornata piena».
«Non
c'è problema», rispose Jean, attirando
l'attenzione del barista con un cenno della mano. «Sapevo che
questo momento sarebbe arrivato. Solo... speravo di avere un po'
più di tempo».
Molly
sgranò gli occhi, incredula. Che avesse già
capito il motivo per cui l'aveva chiamato? Che fosse tutto vero, ogni
singola parola?
Il barista si sporse
verso di loro per prendere l'ordinazione e Jean, sorridendo affabile,
chiese un boccale di birra per lei e un altro Martini per lui.
«Oh su, non
fare quella faccia», aggiunse ridacchiando Arséne.
Sì,
Arsène: l'uomo che stava guardando, infatti, non era
più Jean il bel ragazzo francese, Jean il fotografo, Jean
l'eroe di Waterloo Bridge; quell'uomo non era mai esistito, era nato
solo per avvicinarla, proprio come aveva detto Sherlock.
Il ladro
allungò un braccio sullo schienale del suo sgabello e Molly
non riuscì a sottrarsi: per quanto avesse voluto farlo, lo
shock e la rabbia – verso di lui e verso se stessa per essere
stata così cieca un'altra volta, per non parlare della poca
fiducia che aveva riposto nel detective – le impedirono di
muoversi.
Chino sul suo
orecchio, le spiegò: «Sapevo che Sherlock avrebbe
scoperto di noi due e che sarebbe subito corso a salvare la damigella
in pericolo. È nel suo DNA tanto quanto lo è nel
mio, anche se lui non lo ammetterà mai».
Il barista li
servì e Arsène si allontanò. Molly lo
fissò con la coda dell'occhio e ciò che vide la
lasciò ancora più confusa: il suo volto aveva
perso ogni traccia di gioia e anche i suoi occhi si erano spenti, come
se le iridi verdi di solito lucenti fossero state avvolte da una fitta
nebbia di malinconia, rendendole opache.
Arsène
appoggiò il braccio destro sul bancone e con la mano
sinistra afferrò il sottile stelo del bicchiere per
portarselo alla bocca in un movimento fluido e aggrazziato. Tutto in
lui era elegante: i suoi gesti, il suo volto, i suoi abiti.
Fino ad allora l'aveva
sempre visto indossare capi firmati, ma quella sera aveva abbandonato
il suo stile casual-chic per apparire come un gentiluomo dell'epoca
Vittoriana. Inoltre, i capelli che di solito portava con la riga
centrale, adesso erano laccati e tirati all'indietro. Anche gli
occhiali da vista erano spariti. Era praticamente un'altra persona e
sarebbe stato perfetto in un circolo privato, mentre stonava
terribilmente in quel pub.
«Te ne sei
accorta?», le chiese l'uomo, con un angolo delle labbra
sollevato in un ghigno divertito. «Pensavo avresti impiegato
qualche secondo in più a riconoscermi, invece non appena sei
entrata... incroyable».
«Perché?»,
domandò, lottando per evitare che le tremasse la voce.
«Perché io? Che cos'ho fatto per meritarmi...? Lo
sapevo che era troppo bello per essere vero».
Arsène si
voltò e sembrò davvero dispiaciuto, guardando la
prima lacrima scivolarle sulla guancia. Lasciò il bicchiere
di Martini per avvicinarle la mano al viso, ma l'anatomopatologa gliela
schiaffeggiò e ritrovò la forza necessaria per
guardarlo di nuovo negli occhi.
«Rispondimi.
Che cosa vuoi da me?».
«Non voglio
niente, Molly», rispose con un sorriso quasi esasperato.
«Solo conoscerti, se me lo permetterai. Voglio capire
perché Sherlock...».
Molly lo
afferrò per il braccio destro e lo strinse forte, tanto da
sentire la fasciatura sotto la giacca e la camicia che indossava.
Arsène assottigliò le labbra in una pallida
cicatrice e chiuse gli occhi per il dolore e l'anatomopatologa,
accorgendosene, lasciò subito la presa.
Non pensava che si
sarebbe spinta a tanto - solo Sherlock riusciva a trasformarla in una
persona violenta - e per il rimorso dovette uscire di corsa, ignorando
gli sguardi dei frequentatori del pub e la voce di Arsène.
Ne aveva abbastanza.
Sherlock, Sherlock e ancora Sherlock! Era sempre e solo colpa sua se i
matti l'avvicinavano. E lei, come un'imbecille, riusciva sempre a farsi
abbindolare.
Sollevò la
mano per chiamare un taxi, ma delle dita dalla presa salda e al
contempo gentile (una presa che le ricordava fin troppo quella di una
certa persona) si strinsero attorno al suo polso, tirandole
giù il braccio e facendo in modo che il taxi non si fermasse
sul ciglio della strada per farla salire a bordo. Dannazione, una volta
che ne trovava uno senza dover aspettare al freddo!
Molly provò
a divincolarsi, ma Arsène l'attirò a
sé tanto all'improvviso da farla aderire contro il suo
corpo, avvolto da un lungo cappotto grigio. L'anatomopatologa
aprì la bocca, ma non un suono uscì dalla sua
gola: gli occhi verdi di Arsène erano tornati a risplendere
e le sue labbra erano così vicine alle sue che poteva
sentirne il calore.
«Perché
mi hai chiesto di incontrarci qui?», le domandò
gentilmente, senza allentare la presa sul suo polso o la pressione
dell'altra mano sulla sua schiena.
«Volevo...
volevo delle spiegazioni da te».
«Ed ero
pronto a dartele. Lo stavo facendo, ma quando ho nominato Sherlock sei
scappata. Non ti piaceva come risposta? Avresti preferito una
bugia?».
Al silenzio
dell'anatomopatologa il Ladro Gentiluomo abbozzò un sorriso
e si piegò verso il suo orecchio per sussurrare:
«Io sono chi sono, ma non fuggo quando la situazione si fa
difficile. E tu? Pensavo che tu sapessi come ci si sente quando non si
viene affrontati».
Molly chiuse gli occhi
e si aggrappò istintivamente alla sua spalla, facendo
scivolare l'altra mano in quella che fino a poco prima le teneva
saldamente il polso. Arséne la guidò in una
specie di giravolta, così che lei si ritrovasse nel punto in
cui era stato lui.
«Non le
sopporto proprio le persone che restano a guardare»,
sussurrò ancora Arsène.
Molly lo scorse solo
di sfuggita, ma non ebbe alcun dubbio: un lembo del cappotto di
Sherlock, inghiottito dal buio del vicolo accanto al pub.
Si scostò
in fretta da Arsène e corse verso l'angolo dell'edificio in
mattoni, riuscendo a vedere il detective mentre saltava su un
cassonetto e scavalcava la recinzione. I loro sguardi si incrociarono
per un attimo, uno solo, abbastanza per aprire l'ennesima ferita sul
cuore di Molly.
«Idiota»,
mormorò guardandolo correre via.
Arsène la
raggiunse e le posò una mano sulla spalla per stringerla
piano.
«Non so che
cosa ti abbia detto sul mio conto, ma ti assicuro che non sei in
pericolo con me».
«Presumo che
tutti i malintenzionati lo direbbero», replicò
Molly e quando alzò il viso per incrociare il suo sguardo
trovò un sorriso ad attenderla, riconoscendovi lo stesso
Jean Daspry che l'aveva avvicinata.
«Sì,
hai ragione. Dovrai seguire l'istinto, allora».
L'anatomopatologa
sospirò pesantemente. «Il mio istinto è
terribile».
Arsène
scoppiò a ridere e si allontanò lungo il
marciapiede. Molly ripensò a tutto ciò che le era
stato detto su di lui e a quello che lei aveva visto, comparando le
informazioni. Geneviève le aveva solo detto che poteva
rivelarsi una persona diversa da quella che credeva, non che fosse un
pazzo omicida, perciò...
«Geneviève»,
esclamò all'improvviso, ricordandosi dell'incontro fissato
con Sherlock. Se lui non era all'appuntamento di certo doveva aver
mandato John, ma quella ragazzina necessitava del sostegno e
dell'affetto di tutte le persone possibili, prima fra tutte di suo
padre.
Arsène si
voltò e la fissò sorpreso, per poi sorridere
dolcemente. «Già, ho saputo che l'hai conosciuta.
Mi dispiace, avrei dovuto dirtelo che ho una figlia».
«No, non
è questo. Alle nove aveva appuntamento con Sherlock sul
Waterloo Bridge per parlare di Mary. Penso che dovresti raggiungerla.
Ha bisogno di sapere che può contare su di te».
Il volto del Ladro
Gentiluomo cambiò più volte espressione, per poi
soffermarsi su una apprensiva. La raggiunse con due rapide falcate e
prendendole la mano destra tra le sue guantate di bianco vi
posò sopra un bacio; quindi corse via senza più
voltarsi.
Molly, imbarazzata, si
portò la stessa mano al petto e sollevando il volto verso il
cielo sorprese i primi fiocchi di quella che sarebbe stata una lunga
nevicata.
***
La neve scendeva piano
ma con costanza, e sembrava proprio che quella notte avrebbe
attecchito.
John si
fermò e strinse i pugni lungo i fianchi, irrigidito non solo
dal freddo ma anche dal nervosismo. Respirò profondamente
per farsi coraggio e una nuvoletta di vapore gli uscì dalle
labbra. Fu allora che Geneviève voltò il capo
nella sua direzione e i loro sguardi si incrociarono. Si fissarono in
silenzio, due marionette senza burattinaio a guidarne i movimenti, e
John non fu sorpreso quando fu la ragazzina a reagire per prima,
staccando le mani dalla ringhiera per strapparsi le cuffiette dalle
orecchie con espressione furente.
«E
così non ha nemmeno il coraggio per affrontarmi,
eh?», gridò, riferendosi a Sherlock.
John scosse il capo.
«Non è come pensi. Lui...».
«È
vero che è stata colpa sua se zia Mary è
morta?».
Quella domanda
riaprì la ferita pulsante sul cuore di John, tanto dolorosa
che dovette distogliere lo sguardo. Lo rivolse verso le acque del
Tamigi, davanti alle quali aveva più volte pensato di
togliersi la vita in quelle settimane terribili in cui aveva davvero
pensato che, se Sherlock non fosse mai resuscitato, allora Mary sarebbe
stata ancora viva.
Alla fine ne era
uscito ed era stato sostanzialmente merito di Eurus, la quale, con le
sue macchinazioni, l'aveva costretto a riavvicinarsi a lui e a
comprendere che lo stesso dolore, anche se in modo diverso, aveva
dilaniato il cuore del consulente investigativo.
Tornò a
guardare la ragazzina che aveva di fronte, ora col volto pallido e le
labbra tremanti, gli occhi verdi sgranati per la paura.
«Non
è stata colpa di Sherlock», affermò con
decisione, avvicinandosi.
Geneviève
fece istintivamente un passo indietro, aggrappandosi con una mano alla
ringhiera del ponte.
«Mary...
Mary è morta proteggendolo. Si è messa tra lui e
un proiettile. È stata una stupida, lo penso anche io, ma ha
fatto ciò che riteneva giusto. Forse... forse ha voluto
anche pareggiare i conti per quando gli ha sparato, o fare ammenda per
il suo passato, non lo so. Sta di fatto che tua zia non se
n'è pentita, anzi... conoscendola, se potesse tornare
indietro e fosse messa davanti alla stessa scelta lo
rifarebbe».
Geneviève
abbassò il volto e lo coprì con le mani per
nascondere le lacrime. Le sue spalle tremavano come foglie mosse dal
vento e John annullò la distanza tra loro per posarvi sopra
le mani ed accostare la guancia alla sua. In una situazione diversa lo
avrebbe imbarazzato essere qualche centimetro più basso di
lei, ma in quel momento non ci fece nemmeno caso.
«Mi dispiace
non essermi fatto avanti prima. Ero... spaventato»,
confessò John, deglutendo il grumo di incertezze che gli si
era formato in gola.
«Di che
cosa?», farfugliò la ragazzina.
«Delle
conseguenze, presumo».
John
sospirò e sollevò le mani, permettendo a
Geneviève di allontanarsi quel tanto che bastava per poterlo
guardare in volto. Aveva le guance irritate dal freddo e dalle lacrime,
il naso che le colava e gli occhi gonfi, eppure era ancora carinissima.
Chissà
se anche Mary era così, alla sua età.
«Hai
confessato a Sherlock che volevi incontrare tua zia per... per avere un
piano di riserva se le cose con tuo padre non fossero andate nel
migliore dei modi, giusto?». Le sistemò il
cappellino sulla testa, la lana resa umida dai fiocchi di neve sciolti.
«Mi sto ancora abituando a dovermi occupare di Rosie senza
Mary, perciò avevo paura di non farcela, nel caso in
cui...».
«Nel caso in
cui mi fossi presentata davanti alla tua porta», concluse per
lui Geneviève, abbozzando un sorriso.
«Non mi
fraintendere, io...».
La ragazzina fece un
ulteriore passo indietro, ad occhi bassi. «Ho capito, dottor Watson. E ti
ringrazio per la tua franchezza».
«Aspetta,
Geneviève».
«Mi chiedo
soltanto se questo sia l'unico motivo», esclamò
con rinnovato ardore. «Forse hai esitato a dirmi la
verità sul nostro legame di parentela anche per via di mio
padre. Voglio la verità».
John aprì
la bocca, ancora insicuro su ciò che ne sarebbe uscito, ma
una voce alle sue spalle lo anticipò: «Ti sbagli,
tesoro».
Geneviève
strinse gli occhi guardando l'uomo chino sulle ginocchia alle spalle
del dottore. Questi alzò il viso e mostrò un
sorriso brillante, nonostante il fiato corto e i ciuffi di capelli che
gli ricadevano sulla fronte.
«Papà...».
«In carne ed
ossa», rispose, sollevandosi per avvicinarsi alla figlia e
posarle una mano sulla guancia. «Ascoltami,
Geneviève... È vero che io sono tuo padre e che i
miei geni sono nel tuo DNA, ma questo non vuol dire che diventerai come
me. Tu sei, prima di tutto, una Destange. Tua madre ti ha cresciuto e
mi dispiace di non esserci stato per te, ma ti prometto che ci
sarò per i prossimi quindici, trenta o sessant'anni. Ci
sarò quando avrai bisogno di me, non importa quale strada
prenderai. Hai capito?».
Geneviève
sorrise, quella volta con lacrime di gioia ad inumidirle gli occhi, ma
prima che potesse gettare le braccia al collo del padre una seconda
mano si posò sulla sua spalla, trattenendola.
«Sherlock?»,
esclamò John, stupito nel vederlo su quel ponte.
Lupin sorrise
beffardo, ricambiando lo sguardo affilato dell'inglese. «Che
c'è? Ti brucia che, nonostante io sia partito dopo, sia
arrivato comunque per primo? Avanti, dovresti saperlo che nella corsa
sono imbattibile».
«Anni di
pratica a scappare dalla polizia, immagino».
«Non
confermo nè smentisco», rispose il ladro,
ridacchiando.
Geneviève,
in mezzo ai due rivali per cui, nonostante le loro differenze, provava
lo stesso affetto, si sfregò gli occhi arrossati e
guardò prima l'uno e poi l'altro alla ricerca di risposte.
Sherlock le sorrise
teneramente ed infilò la mano libera nella tasca del
cappotto per estrarvi un anello con incastonato un diamante azzurro.
Vedendolo
Arsène cambiò espressione: le sue labbra si
arricciarono sui denti in un ringhio muto e i suoi occhi si
assottigliarono, astiosi.
Sherlock ne
sembrò soddisfatto, ma non si lasciò distrarre
troppo. Era lì per Geneviève, dopotutto.
«Quando tua
madre ha voluto rimanere da sola con me, quella volta, l'ha fatto per
darmi questo e avere la mia parola che ti avrei protetta. Avevo
già fatto una promessa del genere a John e Mary e non sono
riuscito a mantenerla».
John si
ritrovò a deglutire quando Sherlock spostò gli
occhi nei suoi e vi lesse lo stesso dolore, lo stesso rammarico di quei
giorni.
«Tuttavia»,
riprese il detective, posandole l'anello sul palmo della mano destra e
richiudendovi intorno le dita, «ho tutte le intenzioni di
provarci. Ormai sei parte della famiglia,
Geneviève».
Arsène
voltò il capo, come se si fosse offeso, e fece schioccare la
lingua contro il palato.
Nello stesso momento,
Sherlock aggiungeva risoluto: «E così anche tuo
padre, se lo vorrà».
John rimase a bocca
aperta a quell'affermazione, ma non tanto quanto il Ladro Gentiluomo,
il quale fissò Sherlock con gli occhi verdi sgranati e resi
lucidi dall'emozione. Socchiuse le labbra, ma ci ripensò e
le strinse in una linea sottile.
Geneviève
gli circondò la vita con un braccio, sorridendogli con
dolcezza. «Non ascoltarlo, papà. Non importa quale
strada prenderai, io ti vorrò sempre bene».
«Oh, cherì»,
mormorò Arsène, attirando a sé la
figlia per stringerla in un abbraccio ed accarezzandole la nuca con una
mano. «Sei tale e quale a tua madre».
John e Sherlock,
spettatori silenziosi di quella scena d'amore, si scambiarono
un'occhiata imbarazzata, tanto che entrambi poi rivolsero la loro
attenzione verso il cielo da cui continuavano a scendere, implacabili,
i fiocchi di neve.
Non era da lui fare il
guastafeste, ma come deformazione professionale non poteva fare a meno
di pensare alla salute delle persone a lui care.
«Rischiamo
di prenderci un malanno se restiamo ancora qui»,
esclamò.
Arsène si
scostò per accarezzare le guance fredde ed arrossate della
figlia e sorrise, annuendo con un cenno del capo. «Credo che
il dottore abbia ragione, tesoro. Andiamo a casa. Non me lo perdonerei
mai se ti venisse il raffreddore».
«Ah, non
fare il melodrammatico!», sbottò Sherlock,
infastidito da tutta quella sdolcinatezza. «È solo
un po' di neve!».
«Parli
così perché tu non hai una figlia! Non sai
nemmeno che cosa sia, l'istinto paterno!».
«No, e se
significa comportarsi in questo modo ne sono felice!».
John scosse il capo:
quando bisticciavano in quel modo sembravano proprio due bambini. Per
caso i suoi occhi si posarono su Geneviève, rimasta tra
Sherlock e Arsène con le braccia strette intorno alla vita e
gli occhi smarriti. Lei non si accorse di essere osservata e
continuò a dividersi tra ciò che le diceva il
cuore e ciò che le suggeriva la mente: seguire
Arsène Lupin, il ladro che si era ritrovata come padre, o
Sherlock Holmes, il detective che si era autoproclamato suo tutore.
Nonostante le belle parole doveva compiere una scelta e sapeva che, in
un modo o nell'altro, avrebbe ferito uno dei due.
Però era
troppo presto perché potesse prendere quella decisione, John
glielo leggeva negli occhi. Quello di cui aveva bisogno, adesso, era un
posto tranquillo, neutrale, in cui poter riflettere sul proprio futuro.
Il
problema vero era trovarlo, un posto del genere.
Geneviève
non aveva altri parenti o conoscenti a Londra, nessuno che si potesse
occupare di lei e starle vicino con gentilezza, nessuno in grado di
gestire e fare da mediatore tra quei due uomini dalle straordinarie
capacità. O forse... forse qualcuno c'era.
«Ehi,
Geneviève».
La ragazzina si
voltò verso di lui e sbatté rapidamente le
palpebre, mettendolo a fuoco.
«Che ne
diresti di stare qualche giorno da Molly Hooper?».
Sherlock e
Arsène lo fissarono a loro volta, scioccati, per poi
esclamare all'unisono: «Che cosa?».
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Capitolo 16 *** Instinct ***
Ciao a tutti! :D
Ebbene sì, John ha dato il via a qualcosa di più
grande di lui mettendo Geneviève sotto la custodia di Molly.
Sherlock e Arsène come la prenderanno? E l'appuntamento alla
Royal Opera House s'ha da fare? Tutto questo si scoprirà nel
capitolo che state per leggere. Quindi, bando alla ciance, vi auguro
una buona lettura ;)
Grazie a tutte le belle anime che hanno recensito la scorsa settimana,
chi ha letto soltanto e chi ha messo la storia tra le
preferite/seguite/ricordate. Vi adoro tutti!
Vostra,
_Pulse_
_______________________________________________________________
16.
Instinct
«Una cosa del genere me la sarei aspettata da
Sherlock», sibilò Molly, il volto arrossato per la
rabbia. «Perché mi hai coinvolto in questa storia
senza nemmeno avvisarmi?».
«Stai dicendo che se te l'avessi chiesto avresti
accettato?», domandò John, seduto sullo sgabello
da bar dall'altra parte dell'isola della cucina, dove l'amica stava
preparando il té.
Molly gli rivolse un'occhiata esasperata e il dottore annuì.
«Come immaginavo. Ascolta, Molly: non è colpa di
quella ragazzina se suo padre è un ladro di fama
internazionale e Sherlock ha deciso di prenderla sotto la sua ala. Ha
appena perso sua madre e ha bisogno di stare tranquilla per capire che
cosa fare».
«E perché non te ne occupi tu? Sei suo zio,
dopotutto».
John sospirò. «Sono troppo vicino a Sherlock e
onestamente...», si sporse sul bancone di marmo scuro e Molly
fece lo stesso per porgergli l'orecchio. «Più
lontano mi tengo da Arsène Lupin, meglio
è».
«Oh, quindi se io
devo averci a che fare va bene!»,
replicò a bassa voce, irritata.
«Avanti, Molly! Tu sei la persona perfetta! E anche l'unica,
in realtà. Per Geneviève sei come la
Svizzera».
Molly lo fissò a lungo, soppesando le sue parole, ma non
c'era molto che potesse fare ormai: Geneviève era
già nel suo salotto e nonostante sembrasse felice mentre
coccolava Toby, il quale sembrava già averla presa in
simpatia e le faceva le fusa, il dolore per della perdita di sua madre
era palese. E né Arsène né Sherlock -
soprattutto quest'ultimo - sapevano come approcciarsi a quel dolore.
Quell'ingrato compito toccava a lei.
Molly sospirò, consolandosi col pensiero che in quel modo
avrebbe ricambiato la gentilezza della ragazzina, senza la quale
sarebbe rimasta all'oscuro della verità su Jean Daspry per
chissà quanto tempo.
«E va bene, lo farò»,
sussurrò alla fine, prendendo tra le mani il vassoio su cui
aveva posato il necessario per servire il té.
John aprì la bocca per ringraziarla, ma l'anatomopatologa lo
fulminò con lo sguardo aggiungendo: «Mi devi un
favore enorme, sappilo».
«Certamente. Qualsiasi cosa».
Molly annuì, appuntandosi mentalmente quelle parole, e
lasciò la cucina a vista per precederlo nella zona giorno,
dove aleggiava un'atmosfera carica di tensione. Sherlock e
Arsène erano seduti ai lati opposti del piccolo divano,
entrambi ancora avvolti nei loro lunghi cappotti e con le gambe
accavallate nella stessa posizione, che si lanciavano scintille con gli
occhi. Il bianco e il nero, il giorno e la notte, opposti ma
complementari.
Vedendola arrivare, Geneviève si alzò in fretta
dal pavimento con il suo micio tra le braccia ed incrociò il
suo sguardo con un misto di timore e vergogna.
Per rompere il silenzio Molly le sorrise ed esclamò:
«Vedo che avete già fatto amicizia».
Geneviève abbassò gli occhi su Toby, il quale
allungò il collo per strofinare la testa sotto il suo mento.
Lei non poté evitare di sorridere, solleticata dal suo pelo.
Molly versò il té nelle tazze, poi
alzò lo sguardo in quello di Arsène.
«Zucchero? Latte?».
«Come lo prende Sherlock», rispose il ladro,
rivolgendole un sorriso sfrontato per cui Molly avrebbe voluto
prenderlo a schiaffi. Si contenne però e lo
servì, dimostrando così di sapere perfettamente
come piaceva al detective.
«Papà», lo rimproverò la
ragazzina, riuscendo persino a fargli porgere delle scuse.
«Non importa», rispose Molly, versandosi un po' di
té ed appoggiandosi al bracciolo della poltrona su cui si
era accomodato John. A pensarci bene non fu una buona idea, dato che
era a portata di mano di Arsène, letteralmente: gli
bastò allungare il braccio destro, quello fratturato, per
prenderle il gomito ed attirare la sua attenzione.
«Sì che importa», la contraddisse.
«Sono stato insensibile, perdonami».
Molly bevve un sorso di té per inumidirsi le labbra
improvvisamente secche. I suoi occhi, il suo tocco... le avevano
provocato una fitta allo stomaco che poche persone nella sua vita erano
riuscite ad infliggere.
«Adesso che non devi più fingere di essere qualcun
altro dovresti rimetterti il tutore», cambiò
argomento, ruotando il braccio per liberarsi della sua stretta e posare
con delicatezza una mano nel punto in cui, solo un'ora e mezza prima,
l'aveva stretto per fargli del male. «Non guarirà
mai, altrimenti».
Arsène abbozzò un sorriso. «Hai
ragione».
«Dovrei averne uno nell'altra stanza, se vuoi...».
«Ti ringrazio, ma non è necessario».
Lasciò la tazza sul tavolino e si alzò,
torreggiando su di lei. Avvicinò le dita al suo mento e lo
sfiorò, incatenando lo sguardo al suo.
Molly arrossì violentemente, mentre il suo cuore iniziava a
scalpitare nella cassa toracica. C'erano altre persone nel salotto:
c'era John, c'era Geneviève... c'era Sherlock. Avrebbe
dovuto scostarsi, dire ad Arsène di tenere le mani a posto,
eppure non aveva il controllo di un muscolo che fosse uno.
«Grazie anche per la tua disponibilità, non lo
dimenticherò», aggiunse con voce vellutata prima
di prenderle la mano e sfiorarne le nocche nel secondo baciamano della
serata. Quindi la liberò dall'incantesimo voltandosi con una
piroetta e si diresse verso la figlia, la quale lasciò
andare Toby ed allacciò le braccia al suo collo.
«Ehi, tesoro, non ci stiamo dicendo addio»,
scherzò, nonostante anche lui avesse ricambiato l'abbraccio
con forza. «Sono certo che Molly Hooper sarà una
perfetta padrona di casa, ma se per qualsiasi ragione volessi tornare
al Savoy, troverai la tua camera come l'hai lasciata».
Geneviève annuì con un semplice cenno del capo ed
allentò la presa.
«Anche il 221B è a tua disposizione»,
intervenne Sherlock, lugubre e senza nemmeno guardarla in volto.
«Grazie», rispose allora, avendo raccimolato il
coraggio. «Grazie a tutti e due».
«Baffoni è già per strada, dovrebbe
arrivare tra poco con i tuoi effetti personali».
Geneviève ridacchiò, forse per il soprannome
usato dal ladro, il quale le diede un buffetto sulla guancia come
congedo definitivo. Fece per avviarsi verso la porta e Molly si
alzò per accompagnarlo, ma Arsène la
fermò con un candido sorriso.
«Posso trovare la strada da solo, grazie». Si
portò una mano sul petto e si prodigò in un mezzo
inchino, togliendosi dalla testa un cilindro invisibile.
«Vi auguro un buon proseguimento di serata e noi due ci
vediamo domani sera, Molly Hooper. Ti andrebbe di mangiare insieme un
boccone, prima dello spettacolo?».
La donna impiegò qualche secondo per capire a che cosa si
riferisse: il Don Giovanni alla Royal Opera House. Lei aveva invitato
Jean Daspry, non pensava che Arsène Lupin avrebbe preso il
suo posto. Come rispondere? Non poté fare a meno di guardare
in direzione del detective, il quale si ostinava a rivolgere tutta la
propria attenzione verso la libreria alla sua sinsitra.
Sospirando, Molly esibì un piccolo sorriso.
«Certo, perché no? Va bene per le sei e
mezza?».
«Magnifique»,
rispose in francese. Si
risollevò e strizzò l'occhio a
Geneviève, poi sparì nel piccolo ingresso e si
chiuse la porta alle spalle.
«Beh, sarà il caso che vada anche io»,
esclamò John dopo qualche attimo di silenzio. «Ho
lasciato Rosie dalla signora Hudson e sto abusando della sua
gentilezza».
Il dottore recuperò il giaccone e se lo infilò,
fissando interrogativo Sherlock, ancora seduto sul divano con quel suo
sguardo assorto.
In imbarazzo, John si schiarì la gola.
«Andiamo?».
Solo allora Sherlock si voltò, ma lo fece per inchiodare gli
occhi in quelli di Molly, alla quale si rivolse dicendo:
«Quindi hai deciso di uscire con lui».
C'era qualcosa nella sua espressione, qualcosa che non
riuscì ad afferrare e che comunque le urtò i
nervi.
«Ahm, ho bisogno del bagno», esclamò
Geneviève ad un tratto, permettendo all'antomopatologa di
distogliere lo sguardo dal detective.
«Prego, si trova in fondo a questo corridoio. Poi ti mostro
la tua camera, okay?».
La ragazzina annuì con un piccolo sorriso sulle labbra e
sparì nel corridoio. A seguito della serratura che scattava,
Molly tornò a fissare Sherlock con le mani sui fianchi.
«Sbaglio o sei stato tu a suggerire che sarei dovuta andare
all'appuntamento per scoprire che cosa avesse in mente?».
«Questo prima che lo smascherassi»,
replicò, alzandosi in piedi per avvicinarsi e guardarla
negli occhi con fare quasi minaccioso, aiutato dai centimetri in
più. «Inoltre, quando l'ho suggerito, non avevo
idea che fossi attratta da quella specie di... brutta copia di
Legolas».
«Legolas… de Il Signore degli Anelli?»,
intervenne John, scioccato dalla piega che quella conversazione stava
prendendo.
«Lo Hobbit», lo corresse Sherlock, ignaro che fosse
un personaggio di entrambe le saghe. Quindi roteò gli occhi
e si giustificò: «Mi annoiavo e lo davano in TV.
Ho apprezzato solo Smaug*».
«In effetti è un gran bel drago»,
concordò John.
«Ehi, possiamo tornare alla questione?».
Entrambi si voltarono verso Molly, stupiti dalla sua risolutezza.
«Che cosa ti importa se lo trovo attraente? Posso comunque
darti una mano a trovare le informazioni che cerchi, se è
questo ciò che ti preoccupa».
Sherlock strinse i denti e si limitò a sollevare le mani ai
lati della testa, borbottando parole a mezza voce mentre la superava
per raggiungere l'ingresso.
«Sherlock», lo richiamò la donna,
intrecciando nervosamente le dita davanti al ventre.
Il consulente investigativo si voltò, lanciandole
un'occhiata infastidita.
«Che cos'è che non mi stai dicendo?».
«As 33», rispose semplicemente Sherlock, lasciando
i due amici stupiti e confusi.
«Che cosa significa?», domandò John ad
un tratto, rompendo quel silenzio carico di tensione.
Il detective gli rivolse un sorriso compassionevole, per poi incrociare
gli occhi affilati di Molly, la quale aveva persino stretto i pugni
lungo i fianchi. Lei aveva capito.
«Simbolo e numero atomico dell'arsenico, un elemento chimico
tossico per l'essere umano».
«Questo lo so, ma non vedo come...».
«Lo sai che in Età Vittoriana veniva usato come
cosmetico, per rendere più pallida la carnagione del volto?
Alcuni uomini sono morti per aver baciato donne con arsenico sulle
labbra. Questo insegna che la bellezza inganna ed uccide, se non si
presta la giusta dose di attenzione».
Senza aggiungere altro il detective si diresse verso la porta e dopo
essere uscito se la chiuse alle spalle.
John sospirò, massaggiandosi la fronte, e quando
risollevò gli occhi in quelli di Molly cercò le
parole adatte per scusarsi, ma non ce ne fu bisogno.
«Non ti preoccupare, John», lo rassicurò
la donna, rivolgendogli persino un sorriso. «Sherlock cerca
solo di proteggerci, a modo suo».
«Già. Promettimi che starai attenta».
L'anatomopatologa annuì e lo condusse fino alla porta, alla
quale si appoggiò fino a quando i due non sparirono dietro
l'angolo delle scale. Il suo sguardo e quello di Sherlock si
incrociarono per un'ultima volta e Molly sospirò rientrando
in casa, chiedendosi cosa lo spaventasse tanto. L'aveva detto lui che
Arsène non era pericoloso, in fondo. Perché
quell'improvvisa smentita, giocando col suo nome per paragonarlo ad un
veleno?
Decise di non pensarci più, sicura che non sarebbe mai
arrivata a baciare Arsène Lupin, anche se la sola idea le
faceva rizzare i peli sulle braccia.
Raccolse sul vassoio le tazze da té, trovando quella di
Sherlock piena come gliel'aveva offerta, e dopo averle riposte nel
lavello in cucina si ricordò della sua ospite, la quale non
era ancora tornata dal bagno.
Titubante, Molly si fermò dietro la porta chiusa e
bussò.
«Geneviève, va tutto bene?».
«Sì, ahm... arrivo tra un attimo».
Come promesso, dopo una manciata di secondi la ragazzina
aprì la porta e le rivolse un debole sorriso, per poi
deviare il suo sguardo con fare imbarazzato. L'anatomopatologa
sospirò e le portò una mano sulla guancia per
sollevarle il viso ed accarezzarle l'angolo dell'occhio sinistro,
trovandolo arrossato e ancora accaldato nonostante avesse usato l'acqua
fredda nel tentativo di cancellare i segni delle lacrime.
Geneviève si ritrasse e aprì la bocca per
giustificarsi, ma Molly non gliene diede il tempo.
«Andiamo, ti mostro la tua camera»,
esclamò sorridendo, senza chiederle perché stesse
piangendo o consolarla. La ragazzina ne fu così sorpresa che
la seguì a bocca aperta.
La stanza degli ospiti era piccola ma confortevole, con un letto da una
piazza e mezza, un armadio, un cassettone e una piccola panca imbottita
sotto la finestra che dava sulla strada.
«Spero che possa andare bene», disse Molly,
fissandola con attenzione per captare i suoi pensieri.
La ragazzina girò in tondo un paio di volte e quando si
fermò di fronte a lei le regalò un sorriso con
una sfumatura che fino ad allora non aveva mai visto: vera gratitudine.
«Va benissimo», le disse poi, sedendosi sul bordo
del letto e lasciandosi cadere sulla schiena, a braccia aperte e coi
capelli biondi sparsi intorno alla testa come un'aureola. Sembrava un
vero angelo.
«Mi fa piacere. Allora mentre aspettiamo che ti portino le
tue cose vado di là. Se hai bisogno di
qualcosa...».
Geneviève si sollevò sui gomiti e la
inchiodò sulla soglia con i suoi occhi verdi,
così simili a quelli di sua madre e di conseguenza di Mary.
«Perché mi stai ospitando? Insomma... ora che sai
chi è in realtà mio padre, avresti potuto
rifiutare».
Molly sospirò arricciandosi le punte dei capelli, raccolti
in una coda. «Se io avessi rifiutato dove saresti in questo
momento?».
La ragazzina si alzò a sedere e aprì e chiuse la
bocca un paio di volte, alla ricerca della risposta migliore da dare,
mentre i suoi occhi tornavano a riempirsi di lacrime. La donna la
raggiunse sul letto e le posò una mano sulla schiena,
guardandola con espressione amorevole.
«Ascolta, Geneviève. Non riesco nemmeno ad
immaginare quello che stai provando in questo momento: la tua
situazione familiare è alquanto... inusuale. Se
c'è una cosa di cui sono sicura, però,
è che sei più forte di quello che credi. Il solo
fatto che tu abbia cercato di mettermi in guardia dal tuo stesso padre
me lo conferma e per questo ti ringrazio: senza di te probabilmente non
avrei mai scoperto la verità, o l'avrei fatto quando ormai
era troppo tardi. Se non vuoi credere che io ti sia ospitando
perchè era la cosa giusta da fare, allora vedilo come il mio
modo per sdebitarmi».
La figlia del ladro francese sorrise e prima che potesse dire qualcosa
per ringraziarla qualcuno suonò al citofono. Ne fu in parte
contenta, dato che quella situazione continuava a metterla in
imbarazzo: nessuno, a parte sua madre, era mai stato tanto gentile con
lei; quindi perché Molly Hooper, una donna che nemmeno la
conosceva, le stava permettendo di stare a casa sua? Aveva detto che
era la cosa giusta da fare... Ma giusta per chi?
«Sarà di sicuro il lacchè di mio
padre», spiegò Geneviève, alzandosi in
piedi.
Insieme raggiunsero l'ingresso e Molly aprì il portone del
condominio, poi attesero davanti alla porta aperta che dall'ascensore
uscisse proprio Grégorie, il complice più fidato
di Arsène Lupin. L'uomo squadrò Molly da capo a
piedi, poi senza dire una parola alzò le mani per mostrare
lo zainetto e il trolley che aveva portato con sé dall'hotel.
Geneviève superò l'anatomopatologa e glieli
strappò dalle mani, lanciandogli un'occhiata assassina.
«Spero che tu non abbia maneggiato la mia
biancheria».
Un ghigno si impossessò delle labbra dell'uomo, il quale si
profuse persino in un inchino dicendo: «Sono desolato,
madmoiselle,
ma è stato inevitabile. Ad ogni modo le
assicuro che il gentilsesso non mi interessa».
Quell'affermazione creò un certo imbarazzo, tanto che Molly
si congedò dicendo che sarebbe andata in cucina. Rimasta
sola Geneviève incrociò le braccia al petto e
corrugò la fronte, iniziando ad unire finalmente i puntini.
«Tu non sei solo il secondo in comando della banda di mio
padre, vero Grégorie?».
Nel sentire il proprio
nome di battesimo, l'uomo serrò la mascella perdendo anche
quella debole traccia di sorriso.
«Io sono tutto ciò che il padrone vuole che io
sia».
«Stai cercando di farmi credere che non hai una tua
volontà, dei desideri di cui nemmeno mio padre è
a conoscenza?».
«Potrà sembrarvi strano, ma è
così: devo a suo padre la mia vita e può farne
ciò che desidera».
Geneviève si avvicinò e, nonostante fosse una
spanna più bassa di lui, fu in grado di incatenare i loro
sguardi. La distanza tra i loro volti era eccessivamente poca, ma
Grégorie non si mosse né cambiò
espressione.
«Allora rispondi a questa domanda: perché non gli
hai detto che ho avuto dei contatti con Maurice Leblanc? Sarebbe stata
la tua occasione per dimostrargli che sono una figlia disubbidiente.
Forse saresti persino riuscito a convincerlo a lasciarmi in mezzo ad
una strada».
Le mani di Grégorie si posarono sulle sue spalle, facendola
sussultare per lo spavento. Il suo tocco però fu leggero e
delicato, ben diverso da quello che si aspettava.
L'uomo l'allontanò da sé giusto di qualche
centimetro e poi si chinò perché i loro sguardi
fossero quasi alla stessa altezza.
«Mi dispiace averle dato l'impressione sbagliata, signorina.
Tutto ciò che desidero è che il mio padrone sia
felice e non posso negare l'evidenza: lei gli sta molto a cuore e se
dovesse perderla ne soffrirebbe terribilmente. Per questo ho evitato di
riferirgli dei suoi incontri col signor Leblanc. La devo avvisare
però che, se non smetterà subito di
frequentarlo...».
«Tranquillo, non succederà
più», lo interruppe la ragazzina, sorridendo
mestamente.
Grégorie le rivolse un'occhiata penetrante, quindi si
sollevò e guardandosi intorno nel pianerottolo si
accarezzò i baffi con la punta delle dita.
«Abbiamo già controllato in modo approfondito le
vite dei vicini e sembra essere tutta gente perbene. Anche la zona
sembra tranquilla, tuttavia sotto indicazioni di padron Lupin, Ernest
ed io faremo dei turni di guardia finché sarà
ospite della signorina Hooper. Le ho lasciato il mio recapito nel
cellulare usa e getta che troverà nello zaino. Me lo faccia
sapere, se dovesse aver bisogno di qualcosa, ma tenga presente che non
obbedirò ciecamente ai suoi ordini: essere la figlia di
Arsène Lupin non la rende automaticamente mia padrona, ci
siamo intesi?».
Geneviève annuì e sospirò con
espressione affranta, tanto da incuriosire l'uomo.
«Che cosa c'è?».
«Eri a tanto così dal piacermi, ma all'ultimo hai
rovinato tutto», confessò.
Gli diede le spalle per rientrare nell'appartamento
dell'anatomopatologa e prima di chiudere la porta gli fece
l'occhiolino, augurandogli la buonanotte e chiamandolo col suo nome di
battesimo.
Grégorie sospirò a sua volta e premette il tasto
di chiamata dell'ascensore. Una volta entrato selezionò il
piano terra. Quando le porte di metallo si chiusero gli mostrarono il
riflesso sfocato del suo viso, dove aleggiava chiaramente un sorriso.
Quella ragazzina... per certi aspetti era tale e quale a suo padre.
Che, come lui, avesse il potere di attirare la simpatia e l'affetto
delle persone con cui aveva a che fare, anche delle più
impensabili? Probabilmente.
***
Sherlock si tolse bruscamente il cappotto e lo lanciò sulla
poltrona, quindi si passò una mano sulla bocca e
camminò nervosamente avanti e indietro, da un capo all'altro
del divano. John lo guardò in silenzio, aspettando
pazientemente che si calmasse e gli confidasse i suoi turbamenti.
O almeno di solito era così. Dopo cinque minuti il dottore
guardò l'orologio da polso e sospirò stancamente,
rassegnandosi al fatto che quella sera Sherlock non avrebbe parlato.
«Io vado a casa con Rosie», esclamò.
«Se puoi, non chiamarmi nel cuore della notte».
Era già nell'anticamera quando il detective ammise:
«Arsène mi ha dato un biglietto per il Don
Giovanni».
John tornò sui suoi passi e guardò l'amico,
incredulo, mentre questi aggiungeva: «E ha detto che se mi
presenterò si farà da parte».
«"Si farà da parte" in che senso?».
Sherlock gli gettò un'occhiata scocciata. «Tu cosa
credi? Arsène sta cercando di sedurre Molly per farmi uscire
allo scoperto e avere la prova definitiva che sono innamorato di
lei».
John corrugò la fronte, trovando la soluzione fin troppo
semplice. «Che succederebbe se non ti presentassi?».
«Temo che continuerebbe questa farsa per farmi un dispetto.
Lupin è un gentiluomo, non sopporta gli uomini che fanno
soffrire le donne e vuole farmela pagare».
«Se è davvero questo il suo intento, allora sono
tentato a schierarmi dalla sua parte», esclamò
John, tirandosi addosso l'ennesimo sguardo glaciale. Anche per questo
si sentì costretto a doverlo rincuorare: «Sono
certo che Molly non ci cascherà, specialmente ora che sa chi
è».
Le spalle di Sherlock, ora rivolto verso la finestra di destra,
iniziarono a tremare; solo successivamente si udì la sua
risata, roca e gutturale.
«Ti sei già dimenticato quello che ti ho
raccontato, John? Non importa se Arsène Lupin è
un ladro: con la sua intelligenza, la sua spensieratezza, la sua
empatia... e tutto ciò che lo rende Arsène Lupin,
lui è in grado di conquistare chiunque. I suoi crimini
passano in secondo piano, una volta che lo si è preso in
simpatia». Il consulente investigativo si voltò e
l'ampio sorriso che gli conferiva quell'espressione folle fece
rabbrividire il dottor Watson. «Hai persino avuto modo di
vederlo coi tuoi stessi occhi! Miss Nelly Underdown e la madre di
Geneviève ne sono la prova! Si sono innamorate di quell'uomo
ed è vero che sono riuscite ad allontanarsene, ma come ha
fatto ben intendere Clotilde... dopo di lui non c'è stato
più nessuno all'altezza».
Il silenzio successivo gravò su di loro con la pesantezza di
una coperta bagnata e John, nonostante fosse stanco e bisognoso di
tornare a casa, trovò la forza per stringere i pugni lungo i
fianchi e replicare con tono fermo: «E tu non hai ancora
capito di che pasta è fatta Molly Hooper. Puoi provare a
spezzarla, ma lei tornerà sempre in piedi e non ti
manderà nemmeno al diavolo, perché la sua
gentilezza soffoca l'odio sul nascere. Gestire Arsène Lupin
le sembrerà una passeggiata, dopo aver speso tutti questi
anni appresso a te».
Sherlock abbassò il capo e non replicò, facendo
credere a John di aver avuto l'ultima parola - un'occasione
più unica che rara. Il dottore, gongolante, gli
augurò la buonanotte e si avviò verso il piano
inferiore per prendere la piccola Rosie e tornare a casa, ignaro invece
di aver alimentato le paure del detective.
Arsène Lupin, come gli aveva fatto notare suo fratello
Mycroft al termine del loro primo scontro, era tutto ciò che
era lui e anche di più, grazie alla sua grande empatia.
Quindi perché Molly non avrebbe dovuto preferirlo?
Sherlock si avvicinò alla scrivania ed estrasse il suo
violino dalla custodia per suonare qualche nota, ma gli spartiti che si
trovò davanti agli occhi, quelli della canzone scritta per
l'anatomopatologa, aumentarono il senso di impotenza e di rabbia che
gli stavano stritolando il cuore.
Istintivamente appallottolò gli spartiti galeotti e li
gettò nel camino per guardarli bruciare tra le fiamme,
metafora di ciò che sarebbe presto successo ai sentimenti
che Molly aveva provato per lui prima di incontrare Arsène
Lupin.
***
«Il vostro liquore più costoso»,
ordinò Arsène con aria stizzita, sventolando una
mano in direzione dell'espositore oltre il bancone.
Il barista annuì e sparì nel retro per tornare,
un paio di minuti dopo, con una grossa ampolla di cristallo finemente
lavorata ed impreziosita da pennellate d'oro.
Aveva appena preso un bicchiere all'altezza del liquido ambrato quando
il ladro fece schioccare la lingua contro il palato ed
esclamò: «La bottiglia».
Il ragazzo sgranò un poco gli occhi, ma non osò
fiatare e prese la carta di credito che Arsène aveva tirato
fuori da un piccolo portatessere d'argento. La strisciò e
sbrigò con efficienza le pratiche, quindi
ringraziò e si offrì di portare il tutto ad un
tavolo, ma il biondo rifiutò con un semplice gesto del capo
ed afferrata la pregiatissima bottiglia e il bicchiere si diresse verso
la terrazza.
Aveva sperato di trovarla deserta, complice anche la neve che non aveva
ancora smesso di cadere, e invece c'era un ragazzo svaccato su una
sedia e con le lunghe gambe stese su un'altra, il capo coperto dal
cappuccio della felpa, il volto alzato al cielo e una sigaretta accesa
tra le labbra.
Arsène non lo riconobbe fino a quando questi non si accorse
della sua presenza e girò un poco la testa per dare
un'occhiata al pazzo che, come lui, preferiva stare al freddo piuttosto
che all'interno. I loro sguardi si incrociarono e rimasero per qualche
secondo in silenzio, mentre un sorriso si impadroniva delle loro labbra
inconsapevoli.
«Rischi di prenderti un malanno», esordì
Maurice dopo essersi tolto le cuffiette dalle orecchie e la sigaretta
dalle labbra.
Arsène afferrò una sedia dal tavolo vicino e si
sedette accanto a lui. «Potrei dirti la stessa cosa, amico
mio».
Quindi anche lui allungò le gambe verso la sedia usata dal
reporter come pouff per i piedi e rimasero così, a guardare
quel cielo scuro da cui continuava a scendere la neve, smezzandosi una
sigaretta.
«Ha l'aria di essere un whisky molto costoso,
quello», ruppe il silenzio il ragazzo, indicando l'ampolla
che il biondo aveva lasciato sul tavolino. «A cosa
brindi?».
Arsène finse di non aver udito la domanda: tenendo il filtro
tra le dita si riempì il bicchiere, se lo portò
alle labbra e lo bevve tutto d'un fiato. Quindi ululò alla
luna nascosta dal manto di nubi ed arricciò le labbra in una
smorfia.
«Devo proprio togliermi questo brutto vizio»,
esclamò, scuotendo il capo con vigore.
Maurice si sollevò un poco sulla sedia, intrigato.
«Quale?».
«Quando sono triste tendo a circondarmi delle cose
più costose, come questo whisky. Il vuoto che a volte sento
dentro non si può riempire con cose così frivole,
ormai dovrei saperlo...».
«È successo qualcosa? Posso aiutarti?».
Arsène sorrise dolcemente e aprì la bocca per
rispondere, ma ci ripensò. Posò il bicchiere sul
tavolino e la sigaretta nel posacenere, poi avvicinò
entrambe le mani al suo volto; Maurice lo lasciò fare, senza
distogliere lo sguardo dal suo: si fidava ciecamente di lui, si era
fidato sin dal primo momento in cui l'aveva incontrato alla
presentazione di una raccolta di poesie e si era presentato come Jean
Daspry.
Lavorava per L'Ècho de France da un paio di mesi ormai e
finalmente aveva trovato un appartamento che soddisfacesse le sue
esigenze: un loft nel pieno centro di Parigi, con una vista fantastica,
abbordabile e senza fregature; almeno così pensava. Allora
era così fiducioso e pieno di speranze che non avrebbe mai
immaginato che quell'incontro avrebbe reso la sua vita ancora migliore.
Il Ladro Gentiluomo gli sfilò delicatamente gli occhiali
prendendoli per le astine e li asciugò dai residui di neve
sciolta con il fazzoletto bianco che portava nel taschino della giacca.
«Quando sei arrivato a Londra ti ho confessato di non poter
tornare a casa senza aver prima conquistato il mio tesoro
più grande. Beh, credo che questa sarà l'impresa
più difficile in cui mi sia mai cimentato».
Arsène non sapeva nulla del suo incontro con
Geneviève, non poteva immaginare che avesse capito
esattamente di cosa stesse parlando, perciò Maurice si
limitò a rispondere: «Sono certo che ci riuscirai
invece».
«Io no», ammise il ladro, senza però
perdere il sorriso. «Credo di aver sbagliato, amico mio.
Questo tesoro non può e non
deve essere conquistato. Ha
bisogno di protezione e cure, ma non apparterrà mai a
nessuno».
«Ho capito».
Lupin gli infilò di nuovo gli occhiali, ma
anziché allontanare le mani, le posò sulle sue
guance e lo guardò intensamente negli occhi.
«Davvero?», gli chiese in un sussurro, il capo
leggermente piegato verso destra.
Il reporter si sentì con le spalle al muro, certo che
quell'uomo incredibile avesse in qualche modo letto la
verità che gli stava celando. Non riuscì a
rispondere e non ce ne fu bisogno, perché Arsène
lo lasciò libero alzandosi e dandogli le spalle per versarsi
un altro bicchiere di quel whisky pregiato.
«Mi dispiace averti annoiato con questi discorsi, non era mia
intenzione».
Maurice si alzò a sua volta e il cappuccio gli
scivolò dalla testa.
«Tu non mi annoieresti mai. E puoi raccontarmi qualsiasi
cosa, lo sai che non pubblicherei mai nulla senza prima avere la tua
approvazione».
«Grazie», disse il Ladro Gentiluomo, rivolgendogli
un sorriso mesto. Quindi, con ancora il bicchiere pieno in mano,
camminò verso il parapetto ornato da piante incredibilmente
belle e profumate, nonostante l'inverno fosse alle porte.
«A proposito di pubblicazioni, non ho più avuto
modo di chiederti com'è andata la tua intervista a
Sherlock».
«Ahm... non troppo bene, in realtà»,
confessò, grattandosi la nuca. «Ho buttato via
un'occasione d'oro».
«È per questo che eri qui da solo al
freddo?».
«No. Cioè, sì... anche».
Arsène ridacchiò e versò il contenuto
del bicchiere sopra le piante, con tanta naturalezza e
fluidità da sembrare quasi un'azione benevola, piuttosto che
punibile.
«Sai, Maurice, sarei onorato se anche tu ti sentissi libero
di dirmi tutto quello che ti passa per la testa»,
esclamò, tornando sui suoi passi per afferrare il collo
della bottiglia.
Si diresse verso le porte scorrevoli per lasciare la terrazza e senza
guardarlo concluse: «Immagino però che non solo
Arsène Lupin abbia dei segreti da custodire».
***
Geneviève si strofinò gli occhi ancora gonfi di
sonno e non riconoscendo la stanza in cui si trovava si tirò
su seduta col cuore che le batteva forte nel petto. Le bastarono pochi
secondi però per ricordare gli eventi della sera precedente
e non solo ebbe piena consapevolezza di dove fosse, ma il macigno che
le era pesato sulle spalle tornò a farsi sentire.
La gentilezza di Molly Hooper la metteva ancora a disagio,
così come la propria incapacità di prendere una
decisione. Perché lo trovava tanto difficile? Eppure la
risposta sarebbe dovuta essere una soltanto: suo padre.
Sua madre aveva chiamato lui quando aveva capito di aver quasi esaurito
il tempo concessole in questo mondo; a lui aveva chiesto di prendersi
cura della sua bambina, eppure...
Si voltò verso il comodino ed allungando un braccio prese
tra le dita la collana che proprio sua madre le aveva regalato per il
suo ultimo compleanno: una semplice catenina d'oro con un cuore grande
quanto un'unghia come ciondolo.
La sera precedente, quando se l'era tolta per andare a dormire, vi
aveva infilato anche il diamante azzurro datole da Sherlock quando le
aveva confessato che Clotilde gli aveva fatto promettere di
proteggerla.
Proteggerla da chi? Da Arsène Lupin, suo padre?
«Ah, non ci sto capendo più niente»,
sospirò prendendosi la testa tra le mani, i gomiti puntati
sulle ginocchia.
Avrebbe voluto essere una di quelle persone capaci di vedere solo
bianco o nero, ma forse nemmeno in quel caso avrebbe saputo verso chi
voltarsi: né Arsène né Sherlock erano
solo bianco o solo nero, in loro c'era tanta luce quanta
oscurità e la verità era che entrambi, a modo
loro, si erano presi cura di lei quando ne aveva più
bisogno.
Avrebbe voluto avere un'amica del cuore a cui poter confidare i propri
tormenti e a cui chiedere consiglio, ma non era mai stata brava con i
ragazzi della sua età. Sua madre le aveva sempre detto che
era per via della sua straordinaria intelligenza e Geneviève
aveva iniziato a reputarla come una specie di condanna,
anziché un dono.
Avrebbe voluto mandare un messaggio a Maurice, ma se Baffoni l'avesse
scoperto non ne sarebbe stato contento.
Se solo sua madre non si fosse mai ammalata... tutto questo non sarebbe
mai accaduto e la sua vita sarebbe stata tanto più semplice,
anche se incompleta.
Le lacrime tornarono a bagnarle gli occhi, ma Geneviève si
rifiutò di versarle e con un gesto deciso scostò
le coperte per alzarsi dal letto.
Si legò i capelli con l'elastico che portava al polso e si
allacciò la catenina al collo, nascondendo i ciondoli sotto
la maglia del pigiama, poi uscì dalla stanza degli ospiti e
si diresse verso la parte principale dell'appartamento: una grande
stanza che comprendeva il salotto con un piccolo tavolo da pranzo e la
cucina a vista, divisi solo da un'isola dal bancone di marmo scuro.
Pensava di trovare un bigliettino appeso al frigorifero con cui Molly
le spiegava che era andata al lavoro e che poteva fare come se fosse a
casa sua, invece trovò proprio l'anatomopatologa dietro
l'anta aperta.
Quando ebbe preso ciò che le serviva - un cartone di succo
d'arancia - si sollevò e solo allora si rese conto della sua
presenza.
Sobbalzò un poco per la sorpresa e portandosi la mano libera
sul pettò esclamò ridendo: «Non ti ho
sentita arrivare, scusami! Hai dormito bene? Ieri non mi è
venuto in mente che quella stanza è la più
fredda, perciò se hai bisogno ho anche una
stufetta...».
Geneviève sollevò le mani, come a volersi
proteggere da quella valanga di parole, e scosse il capo con un sorriso
imbarazzato sul volto.
«La stanza è okay», rispose poi.
Molly annuì e le indicò uno degli sgabelli da bar
davanti all'isola. La ragazzina si sedette e si lasciò
servire una tazza di tè, poi guardò la donna che
la stava ospitando senza chiedere nulla in cambio, solo
perché era "la cosa giusta da fare", e realizzò
che si sarebbe sempre sentita in debito nei suoi confronti.
«Ahm... Come mai non sei al lavoro?», decise di
spezzare il silenzio per concentrarsi su altro e togliersi quei
pensieri dalla testa.
«Mi sono data malata».
Geneviève smise di mescolare lo zucchero che aveva appena
versato nel caldo liquido ambrato e sollevò il capo per
incrociare i suoi occhi. Molly non sembrava affatto malata, anzi
sorrideva e il suo viso sembrava più rilassato rispetto alla
sera prima, quando si era ritrovata in casa non solo Arsène
Lupin e sua figlia ma anche Sherlock Holmes.
«Non mi sembrava giusto lasciarti qui da sola e poi, devo
essere sincera, non mi dispiace passare del tempo con delle persone
vive, ogni tanto», aggiunse l'anatomopatologa, facendole
l'occhiolino.
Geneviève sentì il peso sulle sue spalle
aumentare e strinse i pugni sul marmo fresco, trattenendo a stento la
rabbia. Avrebbe potuto chiederglielo mille volte ancora -
«Perché fai tutto questo?» - ma la
risposta che avrebbe ottenuto sarebbe stata sempre la stessa e non
l'avrebbe capita. Tanto valeva che l'accettasse per quel che era,
impegnandosi a fare tutto ciò che poteva per ripagarla
almeno in parte.
Iniziò subito, rivelandole: «Non so che cosa passi
esattamente nella mente di mio padre, né cosa abbia
pianificato per la vostra uscita, ma ho provato a dissuaderlo
dall'usarti. Lui... e anche io... noi crediamo davvero che Sherlock sia
innamorato di te e temo che il motivo per cui vuole avvicinarsi a te
sia per verificarlo di persona».
Molly la fissò per una manciata di secondi, poi si
portò alla bocca il bicchiere di succo e dopo aver preso un
sorso le rivolse un sorriso rammaricato.
«Se Sherlock è davvero innamorato di me ha uno
strano modo di dimostrarlo».
«Ti sembrerà assurdo, ma credo di aver ottenuto
una mezza confessione durante una partita a scacchi».
«Una partita a scacchi? Pff...».
Geneviève infilò la mano dentro il barattolo dei
biscotti e ne tirò fuori uno per inzupparlo nel
tè.
«Non sto scherzando... Stavamo parlando del ruolo del re e
della regina e una frase che ha detto mi ha colpita molto. Ha detto che
nonostante lo scopo del gioco fosse far cadere il re, lui non
è nulla senza gli altri pezzi, in particolare senza la
regina. La regina è la più importante,
è quella che può muoversi sulla scacchiera con
più libertà, e proteggerla è
fondamentale. Io l'ho un po' provocato, chiedendogli per vie traverse
se nella vita reale avesse una regina per cui avrebbe persino
sacrificato il re, se stesso...».
«E la sua risposta?».
La sua domanda le sembrò più di cortesia che di
reale interesse, visto il tono distaccato e i suoi occhi abbassati, ma
la ragazzina si domandò se in realtà non avesse
alzato la sua di corazza, quella dietro la quale lo stesso Sherlock
l'aveva costretta a barricarsi più e più volte.
«Il suo silenzio è stato eloquente».
Allungò una mano verso di lei per toccarle il braccio, ma
Molly si ritrasse con nonchalance e le diede le spalle per rimettere in
frigorifero il cartone di succo.
«Sherlock ha avuto molte occasioni per ricambiare il mio
amore», disse piano, con una mano posata contro l'anta del
frigorifero come a volersi sostenere. «Ha sempre scelto di
non farlo e io l'ho sempre accettato. Per quanto i nostri sentimenti
fossero palesi, non ne abbiamo mai parlato: sapevamo che non avrebbe
portato a nulla. Poi, all'incirca un mese fa...».
Geneviève, ad occhi sgranati e la tazza sospesa a mezz'aria,
pendeva letteralmente dalle sue labbra. Ecco, era il momento:
finalmente avrebbe scoperto l'evento che aveva scosso così
tanto Sherlock e per cui suo padre era stato assunto da quella donna
sgradevole che, chissà perché, era stata l'amante
del detective.
Molly però si era interrotta sul più bello e non
sembrava intenzionata a continuare. Il suono del citofono fu solo un
ulteriore incentivo ad allontanarsi, lasciando la ragazzina con l'amaro
in bocca e la certezza che se le avesse chiesto di finire non avrebbe
fatto altro che convincerla a non dire più una parola.
La guardò ciabattare fino all'ingresso e chiedere chi fosse,
poi aprire il portone e attendere dietro la porta chiusa, sbirciando
dallo spioncino. Quando suonarono al campanello la donna
tirò via il chiavistello ed aprì la porta,
rivelando un innocuo fattorino con un pacco per lei. Apposta la firma
per il ritiro, Molly chiuse nuovamente la porta col chiavistello e col
pacco tra le mani si fermò nel bel mezzo del salotto.
«Chi lo manda?», si azzardò a domandare
Geneviève, seduta di sbieco sullo sgabello.
Molly alzò il capo verso di lei come se si fosse ricordata
solo in quel momento della sua presenza e con espressione confusa
rispose: «Jean Daspry».
Geneviève posò la tazza di té e senza
perdere altro tempo raggiunse l'anatomopatologa per toglierle il pacco
dalle mani ed analizzarne ogni lato.
Quella sua espressione concentrata le ricordò terribilmente
quella di Sherlock, ma Molly dovette rimangiarselo non appena la
ragazzina rivelò la sua vera età, urlando con
tono eccitato e gli occhi brillanti di curiosità:
«Che stai aspettando, aprilo!». Poi
iniziò a sbatacchiare il pacco di qua e di là per
cercare di capire che cosa ci fosse all'interno.
La donna glielo levò dalle mani esclamando divertita:
«Se dentro ci fosse stata una bomba a quest'ora saremmo
già saltate in aria».
Geneviève incrociò le braccia al petto,
imbronciandosi. «E perché mio padre avrebbe dovuto
spedirti una bomba? Prima avrebbe dovuto almeno trovare una scusa per
farmi allontanare!».
Si guardarono negli occhi e risero insieme, quindi posarono il pacco
sul tavolino basso davanti al divano e si inginocchiarono sul tappeto
per aprirlo. Vennero raggiunte anche da Toby, il quale si
strusciò su di loro con la stessa curiosità.
«Quindi non ne sai davvero niente?»,
domandò all'ultimo momento Molly, dopo aver sollevato solo
di qualche centrimetro il coperchio bianco del pacco.
Geneviève scosse il capo ed allungò il collo,
impaziente di scoprire l'ultima idea di suo padre. Molly
respirò profondamente e tolse del tutto il coperchio, lo
lasciò sul tappeto e prese il bigliettino che
trovò sopra diversi strati di carta velina nera.
Un
piccolo ringraziamento per aver seguito il tuo istinto.
A.L.
Molly, con le labbra stese in un piccolo sorriso, lasciò
cadere il biglietto all'interno del coperchio rovesciato e si
affrettò a togliere i vari strati di carta velina per
prendere tra le mani un bellissimo vestito blu notte, perfetto per una
serata di gala.
Incantate, le due non riuscirono a spiccicare parola per un po'. Fu
Geneviève a riprendersi per prima, notando sul fondo della
scatola un secondo bigliettino.
«Ehi, ce n'è un altro»,
esclamò, sventolandolo di fronte al viso.
Molly, la quale si stava sommariamente provando addosso l'abito, le
chiese di leggerlo ad alta voce.
«Spero che tu non ti sia offesa: il fatto che io abbia
azzeccato la tua taglia non significa che ti abbia guardata con
malizia. A stasera, A.L.».
Geneviève ridacchiò e il rossore sul volto di
Molly la intenerì, perciò si alzò e
prendendola per un braccio la costrinse a seguirla nel corridoio, poi
la spinse nel bagno gridando che doveva assolutamente provarlo.
Molly avrebbe preferito rifiutare la gentilezza di Lupin, ma quel
vestito era talmente bello che le sembrava un vero peccato non
approfittare di quell'occasione più unica che rara.
Si spogliò e si infilò l'abito, sentendolo
aderire al corpo come una seconda pelle di seta. Lupin ci sapeva
davvero fare con le taglie e la qualità della stoffa era
tale da farle domandare quanto gli fosse costato.
«Ecco fatto», esclamò quando
aprì la porta perché Geneviève potesse
guardarla.
La ragazzina la rimirò da capo a piedi con la bocca
spalancata e poi sorrise, ma non disse nulla. A disagio, Molly
sbottò: «Allora?».
«Allora sei bellissima».
L'anatomopatologa abbassò gli occhi, sfiorando la seta blu
che le fasciava le gambe, e quando rialzò il capo
annunciò con determinazione: «Non ho intenzione di
accettare un regalo del genere, glielo restituirò
domani».
Geneviève aprì la bocca per ribattere che suo
padre non avrebbe mai ripreso un regalo, ma Molly chiuse di nuovo la
porta del bagno, facendole capire chiaramente che in quanto a
testardaggine sarebbe stato un duello alla pari.
***
Sherlock non aveva chiuso occhio, ciò nonostante non aveva
ancora deciso la linea d'azione da adottare quella sera: utilizzare il
biglietto datogli da Lupin e presentarsi alla Royal Opera House,
fornendo al ladro la prova definitiva riguardo al suo interessamento
per Molly Hooper, oppure gettarlo nel camino ed aspettare di vedere la
sua prossima mossa? Entrambe erano rischiose e con
un'infinità di variabili, tanto che Sherlock era arrivato a
pensare ad una terza opzione: affrontare direttamente la donna che
aveva assunto Arsène Lupin, Irene Adler. Tuttavia parlarle,
dirle la verità riguardo ai suoi sentimenti e il motivo per
cui non poteva più continuare quella loro relazione, non gli
garantiva in alcun modo che Molly sarebbe stata al sicuro, anzi: non
solo rischiava di essere presa di mira direttamente dalla donna, ma
Arsène avrebbe potuto vendicarsi nel caso in cui non avesse
ricevuto qualsiasi ricompensa la Adler gli avesse promesso per il
lavoro.
Più pensava ad una via d'uscita, più si sentiva
prigioniero di un labirinto dalle pareti mobili.
Esasperato, Sherlock si alzò dalla poltrona per recuperare
il violino e scaricare un po' di tensione sulle corde. Non appena prese
lo strumento tra le mani però, una quarta opzione si
mostrò ai suoi occhi stanchi.
Abbassarsi a tanto l'avrebbe perseguitato per il resto della sua vita,
ma doveva tentare.
***
«Padrone... Padrone, si svegli».
Arsène aprì pigramente un occhio e scorse la
figura in controluce di Grégorie in piedi di fianco a lui,
con un vassoio tra le mani e l'espressione apprensiva di una madre.
«È ora di alzarsi», aggiunse dolcemente
e si spostò per posare il vassoio ai piedi del letto,
esponendolo così alla luce del sole che entrava dalle grandi
finestre da cui aveva scostato le tende.
Il ladro si coprì gli occhi con un braccio e
rotolò sulla schiena, mugugnando.
«Come ha detto?», domandò
Grégorie, quasi con tono divertito.
«La pagherai», bofonchiò con maggior
sforzo Arsène. Quindi si puntellò sui gomiti e
cercò di tirarsi su a sedere, ma ricadde tra i cuscini di
piuma d'oca al primo tentativo.
«Se ieri sera non avesse bevuto quella bottiglia tutto da
solo, forse ora non sarebbe in questo stato».
Il Ladro Gentiluomo gettò la testa all'indietro per scorgere
sul comodino la pregiata ampolla di cristallo ormai vuota e
sbuffò, iniziando a ricordare alcuni frammenti della sera
precedente, tra cui la chiacchierata con Maurice.
Sollevò il capo con immensa fatica e scrutò
quello che poteva definire tranquillamente il suo migliore amico mentre
apriva l'armadio e sceglieva per lui gli abiti da indossare.
«Tu sapevi che Maurice era a conoscenza del motivo principale
per cui sono a Londra?», gli chiese ad un tratto,
improvvisamente lucido, tanto che fu in grado di cogliere il modo in
cui le spalle dell'uomo si irrigidirono.
Lupin attese con pazienza la sua risposta e fu sorpreso quando
ricevette un sincero: «No, padrone, non lo sapevo».
«Allora che cosa sai?».
Grégorie sospirò e si voltò per
guardarlo negli occhi, il completo che aveva scelto per lui piegato con
cura sul braccio sinistro.
«Sapevo che sua figlia aveva avuto dei contatti con il signor
Leblanc, disubbidendo ai suoi ordini, forse per curiosità,
ma non immaginavo che fosse stata tanto irresponsabile da rivelargli di
essere...».
«Non lo è stata», lo interruppe con
fermezza, calciando via le coperte per alzarsi e, perfettamente a suo
agio nel mostrarsi con indosso solo dei boxer neri, stirarsi i muscoli
delle braccia. Quello fratturato gli faceva ancora male e lo mosse con
cautela, poi lo infilò nel tutore abbandonato sul pavimento.
«Credo che tu stia sottovalutando Maurice, amico
mio», riprese, rivolgendo un sorriso al servitore.
«Deve aver solamente unito i puntini, non era difficile.
Quello che non mi spiego è perché tu non mi abbia
detto di Geneviève».
«Le dirò quello che ho detto alla signorina: le
avevo promesso che sarei stato più indulgente nei suoi
confronti, se questo l'avesse resa felice, e ho preferito darle un
avvertimento prima di riferirlo a lei, padrone. Ieri sera mi
è stato detto che la signorina e Maurice Leblanc non avranno
più contatti d'ora in avanti».
Arsène si avvicinò a Grégorie senza
mai distogliere gli occhi dai suoi, quasi con aria minacciosa. Il
servitore non osò interrompere il contatto visivo e a testa
alta avrebbe affrontato qualsiasi punizione; quello che ottenne invece
fu un bacio a stampo sulle labbra e una carezza sulla guancia.
«Ti ringrazio, Grégorie», gli
sussurrò con dolcezza prima di tornare a sedersi sul letto,
accanto al vassoio con la colazione da cui si servì una
tazza di cioccolata calda. Arsène Lupin odiava il
caffè.
L'uomo non rispose, si limitò a chinare un poco il capo.
Mentre si impegnava a togliere il pirottino di carta dal muffin che
aveva scelto tra i vari a disposizione, Arsène chiese:
«Il pacco che ho fatto preparare ieri sera per miss Hooper
è stato già recapitato?».
«Sì, Ernest mi ha confermato che è
giunto a destinazione».
«Bene».
«Mi ha anche riferito che Sherlock Holmes ha avuto la sua
stessa idea e ha ingaggiato un senzatetto per sorvegliare
l'appartamento di miss Hooper. Dovremmo sbarazzarcene?».
«No. Dopotutto quattro occhi sono meglio di due».
«E a proposito di Sherlock Holmes...».
Arsène alzò gli occhi, incuriosito dalla pausa ad
effetto di Grégorie. «Sì?».
«La sta aspettando al Thames Foyer».
«Che cosa?!», strepitò, con una voce
così stridula da autoprocurarsi una fitta di dolore alla
testa. Lasciò la tazza sul vassoio e si alzò di
scatto, gli occhi sgranati e le mani nei capelli terribilmente in
disordine. «Da quant'è che aspetta?».
«All'incirca due ore».
«Che cosa?! Perché non mi hai svegliato
immediatamente?».
«Aveva bisogno di riposo e non volevo...».
Arsène marciò furioso verso di lui e gli
strappò di mano gli indumenti che aveva preso dall'armadio,
urlando: «Smettila di giustificarti e aiutami a rendermi
presentabile!».
Grégorie non aprì più bocca e dopo un
profondo inchino di scuse si mise al lavoro.
Aiutò Arsène a vestirsi, abbottonandogli da
dietro la camicia azzurra mentre il ladro si infilava i pantaloni del
completo blu scuro e litigava con la cintura che, per la fretta, non ne
voleva sapere di infilarsi nei passanti. Il servitore lo
sostituì in quel compito, lasciandogli le mani libere di
occuparsi dei capelli, che pettinò all'indietro e su cui
spruzzò con una generosa quantità di lacca.
Grégorie poi si allontanò per recuperare la
cravatta di un bel giallo brillante e un paio di Clarks a collo basso,
di morbido cuoio blu e con dettagli color senape. Prima gli
annodò la cravatta al collo, incrociando ogni tanto i suoi
occhi arrossati per il post-sbronza che lo scrutavano, poi gli chiese
di sedersi perché potesse aiutarlo con le scarpe.
Il servitore si inginocchiò davanti a lui e portò
a termine quell'ultimo compito con rapidità, ma quando fece
per alzarsi la mano sinistra di Arsène si posò
con forza sulla sua spalla, trattenendolo. I loro sguardi si
incatenarono nuovamente e il Ladro Gentiluomo si chinò verso
il suo viso, aprendo il più possibile le gambe e leccandosi
le labbra in modo alquanto eloquente.
«Adesso non ho tempo, ma più tardi sai
già cosa dovrai fare per farti perdonare», gli
disse a pochi centimetri dalla sua bocca, lussurioso.
«Sarà un piacere, padrone».
Il ladro sorrise divertito e si alzò in piedi per stuzzicare
ancora un po' il controllo del compagno, dato che col cavallo dei
pantaloni gli sfiorò il naso.
«Allora a dopo, Baffoni», lo salutò
malizioso, sfiorandogli la mandibola con la punta delle dita.
***
«Perdona l'attesa, mon
ami», esordì
Arsène facendo il suo trionfale ingresso nella sala da
té sgomberata dai suoi uomini per il loro incontro.
Sherlock, seduto sul divanetto che dava le spalle al gazebo in ferro,
non dovette nemmeno guardarlo con attenzione per capire come avesse
trascorso la nottata.
«Non hai mai retto l'alcool».
«Nemmeno tu, se non ricordo male. Allora, hai pensato alla
mia proposta a quanto vedo. Hai deciso che cosa -?». Il Ladro
Gentiluomo si interruppe bruscamente quando vide la custodia del
violino posata contro il cuscino alla sinistra del detective. Fece un
passo indietro e gli angoli delle sue labbra si arricciarono in un
sorriso eccitato e anche un po' incredulo.
«Je ne crois
pas», esclamò, scuotendo un
poco il capo. «Sto sognando per caso?».
Sherlock serrò i denti, fissando dritto davanti a
sè. Davvero non c'erano altre alternative?
«Sherlock Holmes, il consulente investigativo di fama
internazionale, è venuto a patteggiare**?!»,
gridò il ladro, tanto estasiato che se non avesse avuto
ancora i postumi della sbornia avrebbe iniziato a saltellare sul posto.
Si diede invece un contegno ed allentandosi un poco il nodo alla
cravatta si schiarì la gola. «Perdonami, ma questo
non me lo sarei mai aspettato da te».
«Allora, lo facciamo oppure no?», sbottò
il detective a denti stretti e coi pugni serrati sulle ginocchia.
«Certo, assolutamente!».
Il biondo si precipitò al pianoforte e Sherlock lo
seguì col proprio violino. Seduto sullo sgabello,
Arsène intrecciò le dita e respirò
profondamente, guardandolo con imbarazzo.
«Perdonami se non sarò all'altezza. Se solo
l'avessi saputo...!».
«Zitto e suona».
«Certo».
Troppo tardi Arsène si ricordò di non avergli
detto quale brano volesse suonare, ma non ce ne fu bisogno: non appena
le sue dita si posarono sui tasti e le prime note vibrarono nell'aria,
Sherlock fece scivolare l'archetto sulle corde e lo seguì.
Il ladro sapeva bene quanto fosse bravo il detective come musicista,
solo non credeva fino a quel punto. O forse la verità era
che lo conosceva talmente a fondo da sapere già quale brano
avrebbe scelto per il loro duetto: l'opera 9 numero 2 di Chopin, un
notturno in mi bemolle maggiore dalla melodia sognante, struggente e
ricca di passione.
«Ah, non lo trovi meraviglioso?»,
domandò Arsène, con gli occhi lucidi di emozione.
«Sto per commuovermi».
Sherlock non rispose e continuò a suonare ad occhi chiusi.
«Lo sai che questo notturno, insieme ad altri, è
stato dedicato da Chopin a Marie Pleyel? Una pianista di successo,
famosa in tutta l'Europa della prima metà dell'Ottocento;
l'unica donna che abbia ricevuto una tale notorietà come
musicista. Tra lei e Chopin non sembra esserci mai stata alcuna
relazione amorosa, però, per dedicarle simili opere, doveva
essere davvero straordinaria. Non lo credi anche tu,
Sherlock?».
Le note del violino presero il sopravvento su quelle del pianoforte,
fino a diventare per un attimo le uniche udibili, e il detective ne
approfittò per rispondere: «Mi sembra di aver
letto da qualche parte che fosse una donna che passava da un uomo
all'altro e che, quando si fidanzò, finì per
cambiare idea, portando il poveretto a pensare di ucciderla per poi
suicidarsi. Donne del genere sono pericolose».
E come a voler rimarcare la potenza di quelle parole, la melodia crebbe
di ritmo ed intensità, azzittendo del tutto il pianoforte di
Arsène, il quale si portò le mani dietro la nuca
e fissò Sherlock esibirsi in quell'assolo con occhi
ammaliati.
Era così assorto che quasi si dimenticò di dover
riprendere a suonare per la chiusura del brano. Fece appena in tempo e
conclusero insieme, dolcemente e in perfetta armonia. Se solo avessero
avuto un pubblico! Ah, Arsène poteva sentire nelle orecchie
lo scrosciare degli applausi che avrebbero ottenuto.
Si prodigò lui stesso nel battere vigorosamente le mani e si
alzò dallo sgabello per travolgere Sherlock in un abbraccio.
«Levati di dosso!», urlò il detective,
cercando di liberarsi, ma la presa ferrea di Arsène non gli
dava scampo.
All'improvviso sentì il suo fiato caldo sul lobo destro e si
irrigidì ascoltando le parole che gli sussurrò,
serissimo: «Eppure, pur conoscendo i rischi, hai scelto
comunque di frequentare Irene Adler. Sei un po' contraddittorio,
Sherlock».
Il consulente investigativo si arrese al suo abbraccio e rispose:
«È proprio per questo che sono qui,
Arsène. Ho commesso un errore e ho bisogno del tuo aiuto per
risolverlo. Qualsiasi cosa ti abbia promesso Irene...».
«Posso fare a meno di quello che mi ha promesso»,
affermò il ladro, scostandosi per poterlo guardare negli
occhi. Posò le mani sulle sue guance, i pollici ad
accarezzargli gli zigomi affilati, e scorgendo della confusione nei
suoi occhi azzurri sorrise dolcemente, spiegando: «Te l'ho
detto, quella donna non mi piace, non mi è mai piaciuta e
mai mi piacerà. Non ho accettato per la ricompensa, ma per
curiosità. Tuttavia le devo una risposta e quale
sarà dipende solo da te».
«Dettami le tue condizioni, farò tutto
ciò che posso per tenere Molly al sicuro».
Sherlock deglutì guardando il sorriso di Arsène
ampliarsi sempre più, fino a diventare un ghigno quasi
perverso.
Non avrebbe dovuto dire quelle parole così alla leggera, ma
ormai non poteva più rimangiarsele e la sicurezza di Molly
era davvero la sua priorità al momento. L'avrebbe fatto
anche per John, Rosie, la signora Hudson e Lestrade, certo, ma ora
aveva un motivo in più per proteggere l'anatomopatologa che
era sempre stata al suo fianco come un'ombra silenziosa, aiutandolo
senza mai chiedere nulla in cambio e amandolo persino nei suoi giorni
peggiori.
Ad un tratto però il Ladro Gentiluomo si incupì e
gli diede le spalle, interessandosi ai vasi di fiori che ornavano il
gazebo. Sfilò una rosa bianca dalla composizione e se la
portò al naso, sussurrando con tono nostalgico:
«Quello che vorrei...».
La rosa gli scivolò dalle dita e Sherlock corrugò
la fronte, incapace di comprendere ciò stava passando per la
mente del rivale. Di solito era così facile... Ogni sua
mossa era prevedibile perché conosceva Arsène
Lupin come le sue tasche. Che quello che avesse di fronte non fosse
più il personaggio che si era cucito addosso?
«Quello che vorrei tu non puoi darmelo», concluse
la frase con rabbia, pestando il fiore con una suola e rivolgendogli
uno sguardo ardente, nonostante una lacrima gli avesse scavato un solco
sulla guancia.
«Vorrei una bella reputazione, vorrei degli amici come i
tuoi, vorrei una famiglia, vorrei una donna che mi ami nonostante tutti
i miei difetti. Vorrei tutto ciò che tu hai e che troppo
spesso dai per scontato!».
Lo raggiunse nuovamente e lo afferrò per i baveri della
giacca, strattonandolo senza mai distogliere gli occhi colmi di lacrime
dai suoi.
«Vorrei tutto ciò che hai tu, vorrei le
uniche cose che non potrò mai rubare!».
I singhiozzi ormai si erano fatti incontrollabili e Sherlock,
profondamente scosso da quell'irriconoscibile Lupin, gli
portò le mani sulla schiena tremante. Il ladro fece per
ritrarsi, come se fosse stato appena sfiorato da delle lingue di fuoco,
ma quella volta fu Sherlock a tenerlo in una stretta di ferro a cui
poco dopo cedette, abbandonando la fronte contro la sua spalla
sinistra.
«Vorrei una figlia che possa vantarsi di suo padre e non
finire nel mirino della polizia per questo», aggiunse in un
sussurro quando il pianto cessò.
Sherlock non avrebbe mai immaginato che quell'incontro potesse prendere
una piega del genere e soprattutto non avrebbe mai creduto di vedere
per la seconda volta il cuore di Lupin messo a nudo, quello che
segretamente gli aveva sempre invidiato e che lui aveva nascosto
chissà dove per paura di nuove cicatrici.
Arsène aveva sofferto molto nella sua vita, o almeno
così credeva, eppure non aveva mai smesso di mettersi in
gioco. Era come se le cicatrici lo rendessero più forte,
anzichè indebolirlo. Come diceva quel proverbio?
"Ciò che non uccide, fortifica". Forse era davvero
così, forse no. Non poteva saperlo senza prima provarci.
«È vero, io non posso darti tutto questo. Non so
nemmeno come abbia fatto ad ottenere tutto quello che ho»,
ammise Sherlock quando decise di rompere il silenzio.
«Però posso aiutarti a cambiare, se lo vuoi
davvero. Abbandona la maschera di Arsène Lupin e sii chi
vuoi essere. Il resto verrà da sè,
suppongo».
Arsène sollevò il capo e lo guardò
negli occhi. «Tu... Tu lo faresti davvero?».
Il detective annuì. «Aiutami a fermare Irene prima
che faccia qualcosa di avventato e io ti aiuterò ad avere
degli amici, una famiglia e tutto il resto».
«E per quanto riguarda Molly?».
Sherlock sospirò e solo in quel momento si accorse di avere
Arsène ancora tra le braccia. Si scostò in modo
impacciato e si passò una mano sulla nuca.
«Stare dalla parte del bene significa farsi dei nemici e io
non voglio che Molly venga presa di mira per colpa mia. So che per te
è difficile capirlo, ma per la sua sicurezza non posso
starle accanto. Tutto quello che mi interessa è tenerla al
sicuro, non importa come. Puoi farlo, Arsène?».
Il Ladro Gentiluomo ci pensò su mentre estraeva un
fazzoletto da taschino giallo - in tinta con la cravatta, - si
asciugava il volto e si soffiava rumorosamente il naso.
«Perdona il mio stato, non pensavo di...».
«Non importa. Allora, abbiamo un patto?».
«Sì. Prometto che farò tutto
ciò che è in mio potere per gestire Irene Adler e
proteggere Molly Hooper».
Entrambi fecero un passo verso l'altro, ma mentre Sherlock stese la
mano per sigillare l'accordo, Arsène si sporse verso il suo
viso con gli occhi socchiusi.
«Che diavolo -?!», urlò il detective,
coprendogli la bocca con la mano. «Che diavolo pensi di
fare?!».
Arsène bofonchiò qualcosa di incomprensibile e
Sherlock fu costretto a liberarlo perché potesse ripetere
con innocenza: «In Francia i patti si sigillano con un bacio!
Il famoso bacio alla francese! Non lo sapevi? Le lingue si intrecciano
e si...».
«Piantala», lo interruppe il detective, nauseato.
Il ladro finse delusione, ma sorrise quando afferrò la sua
mano e la agitò con vigore.
***
«Ma non finiresti nei guai se qualcuno del lavoro ti vedesse
qui?».
Molly prese un paio di bottiglie di salsa di pomodoro e le
posò nel carrello che Geneviève stava conducendo
tra le corsie alimentari, rispondendole con un sorriso: «Non
ho mai saltato un giorno di lavoro, nemmeno con la febbre o il
raffreddore, perciò probabilmente il mio superiore sa che ho
detto una bugia. Ma è okay prendersi un giorno di vacanza
ogni tanto».
La ragazzina annuì con un cenno del capo, a disagio. Non
ricordava quando fosse stata l'ultima volta che era andata a fare la
spesa con sua mamma e trovarsi lì con Molly le sembrava
surreale, specie sapendo di essere osservata da Ernest, parcheggiato
fuori dal supermercato.
«Perché mi hai portata con te?», le
chiese alla fine, non potendo più resistere alla
curiosità. «Posso cavarmela da sola,
sai».
«Ne sono sicura, ma perché non approfittare della
tua presenza per farmi aiutare? Non avere l'auto è davvero
un problema, oggigiorno».
La ragazzina non si fece abbindolare dal suo occhiolino ed
abbandonò il carrello per incrociare le braccia al petto e
fissarla con un sopracciglio inarcato.
«Davvero, dimmi la verità. Ho la sensazione che tu
abbia qualcosa in mente».
Molly sospirò e trascinò verso di sè
il carrello per prenderne il controllo. «Non ti si
può nascondere niente, vero? Tanto vale che te lo dica
subito, allora».
Geneviève l'affiancò, trepidante.
«Tuo padre ieri mi ha proposto di mangiare un boccone prima
dello spettacolo, ti ricordi? Sicuramente le sue intenzioni sono quelle
di andare in un ristorante, ma io ho un'idea migliore:
perché non gli facciamo una sorpresa e gli cuciniamo noi la
cena? Penso che ne rimarrà piacevolmente stupito».
Molly si alzò sulle punte per prendere una confezione di
pasta e non avendo ancora ricevuto risposta da Geneviève si
voltò per chiederle che cosa ne pensasse. La sua espressione
confusa però la fece desistere e fu la stessa ragazzina a
rompere il silenzio, domandandole: «Perché
dovremmo fare una cosa del genere?».
«Perché è tuo padre e credo che gli
farebbe piacere cenare con sua figlia, mangiare qualcosa di preparato
con le sue mani, avere la possibilità di conoscerla un po'
meglio...».
Molly buttò nel carrello il pacco di pasta e raggiunse la
bionda per accarezzarle le guance e sorriderle con tenerezza.
«Ascolta... so che cosa stai passando. Anche mio
papà non c'è più ed è un
dolore che non si può cancellare, però si
può alleviare stando col resto della propria famiglia.
Purtroppo non posso darti consigli specifici, posso solo immaginare
quanto tu sia confusa in questo momento, ma lo scopo di questa cena
è proprio quello di aiutarti a capire davvero chi
è tuo padre. Almeno lo spero».
Con le mani esitò sui suoi capelli dorati e glieli
spostò con cura oltre le spalle, aggiungendo piano:
«Gli darai una possibilità?».
Geneviève sbatté rapidamente le palpebre per
spazzare via le lacrime ed annuì col capo, evitando il suo
sguardo per non arrossire.
«Perfetto. Allora, io pensavo di preparare una teglia di
lasagne - la ricetta di mia madre è fantastica - e poi un
dolce. Tu che ne pensi?».
«Posso farlo io il dolce?».
Molly fu colpita dall'improvvisa presa di iniziativa e
rispose con entusiasmo: «Ma certo!».
«Okay, allora vado a prendere gli
ingredienti».
«Va bene, ci vediamo tra dieci minuti alle casse».
Geneviève annuì e si voltò, ma dopo
appena due passi si fermò ed incrociò di nuovo il
suo sguardo per dirle un semplice «Grazie», un po'
rigido ed imbarazzato, ma sincero. Quindi le diede definitivamente le
spalle e correndo sparì dietro l'angolo della corsia, senza
accorgersi del sorriso soddisfatto dell'anatomopatologa.
***
Grégorie guardò il proprio padrone rientrare
nella suite e rimase inerte, incapace di pronunciare parola, quando si
accorse della sua espressione tormentata e dei suoi occhi ancora
più rossi rispetto a quando era uscito per incontrare
Sherlock Holmes.
Quel maledetto detective... Era sempre stato fonte di guai, ma non
importava quante volte provasse ad avvertirlo: Arsène
l'avrebbe sempre cercato, come un drogato la sua dose.
Il Ladro Gentiluomo si tolse la giacca e gliela fece cadere tra le
braccia, in silenzio e senza incrociare il suo sguardo. Solo allora
Grégorie trovò la forza per allungare una mano ed
afferrare la sua prima che lo superasse del tutto.
Lupin però lo anticipò, dicendo a bassa voce:
«Non adesso. Voglio rimanere solo, per favore».
Con la morte nel cuore, il servitore non poté far altro che
lasciargli la mano, ottenendo in cambio un lieve sorriso di
ringraziamento.
Arsène raggiunse la camera padronale, in fondo al corridoio,
e si chiuse all'interno, lasciando Grégorie ad aggirarsi
inquieto per il salotto, con la giacca blu ancora stretta al petto e
domandandosi cosa potesse fare per migliorargli l'umore. La risposta
venne dal proprio cellulare.
«Signorina Geneviève»,
esclamò sorpreso.
Sperava vivamente di non ricevere una sua chiamata dal cellulare
prepagato che le aveva fornito, specialmente durante il turno di
guardia di Ernest.
«Non ti avrei chiamato se non si trattasse di
un'emergenza».
«Mi dica allora».
«Se, per
ipotesi, volessi preparare la cena a mio padre... Tu
lo conosci molto bene, perciò, ecco... Che piatti mi
consiglieresti?».
Grégorie chiuse gli occhi e trattenne un profondo sospiro.
«Sarebbe questa l'emergenza?».
«Sì, al momento è una questione di vita
o di morte!».
L'uomo si passò pollice ed indice sui baffi e guardando in
direzione della porta chiusa abbozzò un sorriso:
sì, lo conosceva molto bene; forse, tra tutti i membri del
suo entourage, era la persona che lo conosceva meglio. Sapeva che
Geneviève gli era entrata nel cuore dal primo momento, se
non addirittura da quando era venuto a conoscenza della sua esistenza,
e che desiderava essere un buon padre per lei. Per questo, per
dimostrarle la propria fiducia, aveva disinstallato le telecamere nella
sua camera e aveva allentato la sorveglianza, evitando persino di
rimproverarla per l'avvertimento che aveva dato a Molly Hooper.
Grégorie non sapeva se quella donna c'entrasse o meno con
quell'improvvisa richiesta, ma era certo che Arsène sarebbe
stato più che felice se sua figlia gli avesse dimostrato di
tenere a lui preparandogli la cena.
Per quanto gli costasse ammettere di non poterlo aiutare in prima
persona, se Geneviève si fosse dimostrata all'altezza della
situazione allora avrebbe potuto considerare l'idea di mettersi anche
al suo servizio, senza riserva alcuna.
«Grégorie, hai intenzione di aiutarmi oppure
no?!», berciò la ragazzina, riportandolo coi piedi
per terra.
«Sì, lo farò», rispose con
determinazione, uscendo dalla royal suite per parlarle in tutta
privacy. «Ha da scrivere?».
***
«Non è di nostra competenza».
Sherlock trattenne un grido frustrato, arruffandosi rabbiosamente i
capelli. Quindi sbatté i palmi delle mani sulla scrivania e
fissò gli occhi azzurro ghiaccio in quelli
dell’Ispettore di Scotland Yard.
«Lo so benissimo! Vuoi proprio farmelo dire, eh?».
Lestrade gli rivolse un sorriso smagliante mentre continuava a giocare
con la penna che teneva tra le dita, schiacciando ripetutamente il
pulsante di apertura e chiusura sulla sua estremità.
Il detective strinse i pugni, deviando il suo sguardo, e
parlò a denti stretti: «Non ho bisogno
dell'Ispettore Lestrade, ma di Greg. Ti sto chiedendo un favore da
amico».
«Ci voleva tanto?», gli domandò l'uomo,
alzandosi dalla sua poltrona per raggiungere un mobile portadocumenti.
Aprì uno dei cassetti con la chiave che aveva estratto dalla
tasca dei pantaloni e prese una serie di cartellette legate insieme con
uno spago. Quindi le gettò sulla scrivania e Sherlock
corrugò un poco la fronte scorgendovi sopra il timbro rosso
la cui dicitura "Top Secret" era tutta un programma.
«Li fanno ancora? È così
vintage...».
«Me le ha date tuo fratello, ancor prima che Ganimard venisse
portato qui per quella denuncia di aggressione».
«Tu e Mycroft? Non sapevo foste in contatto. Vi vedete
spesso?».
«Ma di che diavolo stai parlando?»,
sbottò l'Ispettore, infastidito. Picchiò l'indice
sulla pila di cartellette e spiegò: «Mi ha chiesto
di informarmi su questo Arsène Lupin e di tenere gli occhi
ben aperti».
«Quindi se sono io a dire che Arsène Lupin
è pericoloso vengo ignorato, mentre se l'informazione arriva
da Mycroft... Dio, devo davvero falsificare un paio di
lauree».
Ancora una volta Lestrade ignorò il suo farneticare e
concluse: «Ti aiuterò, ma non credere che lo
faccia solo per te. Molly mi aveva chiesto di accompagnarla alla Royal
Opera House, non mi perdonerei mai se le succedesse qualcosa per colpa
del mio stupido orgoglio».
Il consulente investigativo corrugò ancora una volta la
fronte, confuso da quelle parole, ma non chiese ulteriori spiegazioni.
Abbassò gli occhi sul terzo biglietto, quello che gli aveva
fornito Arsène in persona e che aveva posato sulla scrivania
quando aveva iniziato a spiegare le sue intenzioni a Greg.
«In questo caso è meglio se troviamo qualcun altro
da infiltrare», esclamò.
Lestrade lo guardò negli occhi. «E chi?».
Un solo nome capitolò sulla lingua di Sherlock, ma non ebbe
il coraggio di pronunciarlo. Si limitò a sospirare, sperando
che tutto andasse per il meglio.
***
Geneviève si portò l'esterno del polso sulla
fronte per scostare il ciuffo che proprio non ne voleva sapere di
rimanere dietro l'orecchio sinistro e sorrise soddisfatta davanti alle
teglie e alle pentole con le pietanze che avevano preparato e da cui si
levavano profumi più che invanti.
«Abbiamo fatto proprio un bel lavoro, non pensi?»,
l'anticipò Molly.
«Spero gli piaccia...», rispose
Geneviève, rabbuiandosi all'improvviso.
«Ehi!». L'anatomopatologa le tirò un
colpetto col gomito, costringendola a rivolgerle lo sguardo.
«Certo che gli piacerà! Ed è tutto
merito tuo: se non avessi saputo che è
vegetariano...».
La ragazzina le rivolse un sorriso teso, senza rivelarle che senza
Grégorie avrebbero fatto una pessima figura. Questo a
conferma di quanto poco conoscesse suo padre.
«Oddio, ma guarda che ore sono!», gridò
Geneviève, il cui sguardo era caduto per caso sull'orologio
appeso al muro. «Papà sarà qui tra
mezz'ora e siamo un disastro!».
Molly fece per ribattere, ma le bastò darsi un'occhiata per
darle ragione: entrambe avevano bisogno di una doccia e lei avrebbe
dovuto anche prepararsi per il dopo-cena.
Geneviève si tolse il grembiule sporco e come quella mattina
afferrò Molly per il braccio per trascinarla nel bagno, dove
ci mancò poco che la spogliasse con le sue mani tant'era la
fretta.
Se la donna le avesse chiesto perché volesse così
disperatamente che suo padre la trovasse bella e che insieme
trascorressero una serata piacevole non avrebbe saputo rispondere,
perciò fu grata del modo in cui venne cacciata fuori dal
bagno.
Un'idea però le attraversò la mente e
Geneviève, di nuovo in piedi davanti alla tavola
apparecchiata con cura per tre persone, si portò una mano
sullo sterno: da sopra la maglietta tastò i ciondoli che le
ricordavano sua madre e scosse il capo, realizzando che niente e
nessuno sarebbe stato in grado di riempire il vuoto che sentiva in
mezzo al petto. Illudersi in quel modo l'avrebbe solo fatta soffrire.
Con quella convinzione ciabattò fino alla camera degli
ospiti e si cambiò la maglia sudata. Chi l'avrebbe mai detto
che cucinare quei piatti della tradizione francese avrebbe richiesto un
tale impiego di energie? Eppure sua madre cucinava per lei tutti i
giorni, due volte al giorno... Non sempre erano piatti che richiedevano
tempi così lunghi, ma prima di allora non si era mai resa
conto di quanto anche le piccole cose avessero un peso così
grande, sintomo di un amore incalcolabile.
Si lasciò cadere con la schiena sul letto e chiuse gli
occhi, dicendosi che avrebbe riposato solo per dieci minuti, dieci
minuti soltanto...
***
Arsène sospirò profondamente e scese dalla
Porsche parcheggiata proprio davanti al portone del condominio in cui
si trovava l'appartamento di Molly Hooper.
Alzò il colletto del cappotto e si guardò
intorno, scorgendo immediatamente lo sguardo rassicurante di
Grégorie, appostato dall'altra parte della strada. Quindi
raggiunse il citofono e premette il pulsante di chiamata.
L'anatomopatologa rispose immediatamente, sorprendendolo, e
Arsène entrò nell'androne senza curarsi di
chiudere il portone.
Salì in ascensore col cuore che gli batteva regolare nel
petto, nonostante quel pomeriggio avesse attraversato una crisi umorale
piuttosto grave. In qualche modo ne era uscito - aveva dovuto farlo,
per mantenere la promessa fatta a Sherlock - ma non poteva dire di
stare bene.
Il detective gli aveva offerto in cambio il suo aiuto, ma dubitava che
avrebbe avuto successo. La verità era che forse non sarebbe
mai stato bene. La sua vita era sempre stata segnata, fin dalla
più tenera età, dal dolore e dalla solitudine.
Probabilmente era il suo destino, un crudele e spietato destino al
quale nemmeno l'incredibile Arsène Lupin poteva sfuggire.
Quando le porte dell'ascensore si aprirono il Ladro Gentiluomo
inspirò nuovamente e fu in quel momento che si
raggelò, sentendo nell'aria un profumo che gli
ricordò casa. Poi incrociò gli occhi sorridenti
di Molly Hooper, appoggiata allo stipite della porta aperta, coi
capelli ancora un po' umidi raccolti in uno chignon e con indosso dei
semplici jeans e una felpa di una taglia più grande.
Lupin non si vergognò della propria confusione,
né tentò di nasconderla.
«Che cosa sta succedendo?».
Molly allora rise anche con la bocca e spalancò la porta,
facendogli segno di entrare. Il ladro non le tolse mai gli occhi di
dosso mentre percorreva i pochi passi che dal pianerottolo lo
condussero all'interno dell'appartamento, ma fu costretto dal profumo
di cibo ancora più intenso. I ricordi della sua infanzia lo
colpirono come uno schiaffo in pieno volto, mai nitidi come in quel
momento.
Sgomento guardò l'anatomopatologa per ricevere una
spiegazione, ma lei si limitò ad affiancarlo e ad indicare
la tavola apparecchiata, sussurrando: «Sorpresa».
Il cervello di Lupin non aveva mai lavorato tanto velocemente in vita
sua, eppure, sopraffatto dall'emozione, non riuscì a
cogliere il punto di partenza di quella catena di eventi che l'avevano
condotto fin lì. Pensava che sarebbe entrato solo per
prendere Molly sottobraccio ed accompagnarla a cena, invece qualcuno
aveva scombinato tutti i suoi piani.
«Non capisco», ammise.
Molly sorrise, quella volta dolcemente, e gli passò accanto
per prendere la bottiglia di vino che aveva già stappato e
versargli un bicchiere di rosso. Arsène lo
accettò e lo bevve tutto d'un fiato, senza mai toglierle gli
occhi di dosso.
«Geneviève ha appena perso sua mamma, una delle
persone che amava di più al mondo, se non
l'unica», esordì finalmente l'anatomopatologa.
«Io so cosa significa perdere un membro della propria
famiglia e so che per superarlo c'è bisogno di
stabilità. Niente e nessuno potrà mai riempire il
vuoto provocato dalla mancanza di quella persona, ma poter contare su
qualcun altro è un grande aiuto».
Arsène aprì la bocca per parlare, ma Molly
sollevò una mano e lo azzittì.
«Aspetta, fammi finire. Io non ti conosco, non so se sei
davvero il ladro che Sherlock afferma tu sia, ma prima di questo sei
suo padre. Sono sicura che tieni moltissimo a Geneviève e
che faresti qualsiasi cosa per lei, te lo leggo negli occhi. Lei ha
bisogno di te, ora più che mai. E non sarà
facile, dato che vi siete appena conosciuti, ma entrambi dovete
ritagliarvi degli spazi per conoscervi e legare».
Si voltò per indicare di nuovo la tavola e con un angolo
della bocca sollevato in un sorriso concluse: «Per questo ho
mandato a monte i tuoi piani e ho deciso che la cena si sarebbe svolta
qui, anziché in un ristorante di lusso. Anche
perché, non prendiamoci in giro, io non sono il tuo
tipo».
Lupin abbozzò un sorriso, mentre il proprio cuore si
ricopriva di ghiaccio. Molly gli ricordava moltissimo Clotilde, con la
sua gentilezza e determinazione, un'anima sensibile e al contempo forte
come poche altre. Lui non si meritava donne del genere e forse non le
avrebbe mai meritate, ma non poteva fare a meno di innamorarsene.
«Geneviève ed io abbiamo cucinato per tutto il
pomeriggio e non abbiamo parlato molto, ma posso assicurarti che vuole
fare una buona impressione, perché tiene a te. Si
è impegnata moltissimo, perciò ti invito a fare
lo stesso».
Arsène, ormai con un iceberg in mezzo al petto, si
voltò verso di lei e dopo aver posato il calice vuoto sul
bordo del tavolo le prese le mani tra le sue per guardarla intensamente
negli occhi.
«Non avrei mai immaginato che sarei diventato padre e
scoprire di avere una figlia e di essermi perso i suoi primi quindici
anni di vita mi ha fatto soffrire moltissimo. Ma voglio recuperare, lo
voglio davvero. Non so se ci riuscirò, ma di certo mi
impegnerò. Ti prometto che mi impegnerò al
massimo per non deluderla, Molly Hooper».
La donna sorrise ed annuì, quindi sciolse l'intreccio delle
loro dita e con un cenno del capo la invitò a seguirla lungo
il corridoio che portava alle camere da letto. Il ladro
corrugò la fronte, mal interpretando le sue intenzioni, ma
non aprì bocca. Fece bene, perché la stanza
davanti a cui lo portò fu quella degli ospiti, dove vide una
Geneviève addormentata, sfinita ma soddisfatta - o almeno
così gli piacque pensare notando il piccolo sorriso che gli
arricciava gli angoli della bocca.
«Che dici, papà,
la svegliamo?», gli
chiese Molly.
Arsène ricambiò il suo sguardo con un sorriso
intenerito. «Non sarebbe giusto iniziare senza di
lei».
La donna gli diede una leggera pacca sulla spalla. «Va bene,
pensaci tu».
«Cosa? No, aspetta...».
Ma Molly era già andata. Per qualche motivo incrociare gli
occhi di sua figlia e ringraziarla per quello che aveva fatto per lui
lo metteva in agitazione.
Lupin però aveva affrontato ben altro nella sua carriera,
quindi si fece coraggio con un respiro profondo e si
avvicinò al letto, dove si sedette per rimirare l'innocente
bellezza di quella ragazzina nata dall'unione tra lui e Clotilde.
Se ci pensava troppo finiva sempre per non credere di aver contribuito
alla creazione di qualcosa di così stupefacente. E il dolore
tornava a schiacciargli il petto, rendendogli difficile la
respirazione, realizzando che per quanto avesse amato Clotilde lei non
l'aveva comunque ritenuto sufficiente per permettergli di starle
accanto durante la gravidanza e poi quando la loro bambina era venuta
al mondo.
Non l'aveva ritenuto abbastanza allora, come poteva sapere che sarebbe
stato un buon padre ora? A quella domanda Clotilde aveva semplicemente
risposto che lo sperava, per il bene di Geneviève, la quale
presto si sarebbe trovata sola.
Senza che se ne rendesse conto una lacrima gli era rotolata sulla
guancia nello stesso momento in cui allungava una mano per sfiorarle i
capelli biondi.
A quella carezza la ragazzina aprì gli occhi di scatto e si
tirò su seduta, guardandosi intorno spaesata. Quando
incrociò i suoi occhi lucidi, Geneviève
trasalì.
«Papà, cosa...?».
Arsène però le portò una mano sulla
nuca e con l'altro braccio le avvolse la vita, ignorando il dolore
della frattura, per stringerla forte a sé.
«Devi perdonarmi, Geneviève», le
sussurrò tra i capelli.
«Per che cosa? Papà, mi stai
spaventando».
Il Ladro Gentiluomo si scostò e un sorriso gli
sbocciò sulle labbra. «Non era mia intenzione,
tesoro. Quello che voglio dire è che mio padre mi
abbandonò quand'ero piccolo, perciò non so se
sarò mai all'altezza di questo compito. Quindi mi
perdonerai, se sbaglierò. Dovrai correggermi, insegnarmi...
perché non ho alcuna intenzione di rinunciare a te, ora che
so della tua esistenza».
Adesso anche Geneviève aveva gli occhi gonfi di pianto e gli
gettò di nuovo le braccia al collo. Arsène la
strinse e sorrise dolcemente, sentendo quell'enorme blocco di ghiaccio
che gli aveva intrappolato il cuore sciogliersi.
«È pronto in tavola!»,
esclamò ad un tratto Molly dalla cucina, costringendoli a
separarsi per guardarsi negli occhi.
Imbarazzata, Geneviève fu la prima a distogliere lo sguardo
per giocare con il diamante azzurro che aveva appeso al collo.
«Non avevo idea di quali fossero i tuoi piatti preferiti,
perciò... ho chiesto aiuto a Grégorie. Non sapevo
nemmeno fossi vegetariano...», confessò.
All'inizio Arsène inarcò le sopracciglia per la
sorpresa, poi il suo viso si rasserenò. «Te
l'avrei detto sicuramente, prima o poi. Solo le persone importanti lo
sanno».
«Maurice Leblanc lo sa?».
«No, non lo sa. E a proposito di lui...».
Geneviève sobbalzò e lo guardò con gli
occhi spalancati. «Mi dispiace, avrei dovuto ascoltarti.
È colpa mia se ora sa chi sono, l'ho
sottovalutato».
Arsène le passò una mano tra i capelli fino a
posarla di nuovo sulla sua nuca ed avvicinare il viso al suo, tanto da
far toccare le loro fronti.
«Avrei dovuto capire subito che impedirti qualcosa ti avrebbe
solamente fatto venire ancora più voglia di farla. Sei come
me in questo».
«Quindi... non sei arrabbiato?».
Arsène fece finta di pensarci, arricciando il naso, poi
scosse il capo con una risata sulle labbra. «Ci si
può fidare di Maurice».
Geneviève ricambiò e sospirò di
sollievo. Fece anche per aggiungere qualcosa, ma Molly
comparì nel rettangolo della porta aperta ed
esclamò: «Avanti, si sta raffreddando
tutto!».
Entrambi rizzarono la schiena e risposero:
«Arriviamo!». Poi si guardarono negli occhi e senza
nemmeno parlare decisero di fare una gara a chi arrivava per primo.
Molly li osservò dal corridoio, con le mani posate sui
fianchi e un sorrisino soddisfatto sul volto, e poi scuotendo il capo
li seguì.
***
«Non capisco perchè siamo qui. Mi avevate detto
che dovevo andare a vedere un qualche spettacolo!».
«È inutile, Philip. Da qualsiasi prospettiva tu lo
guardi, rimarrà sempre un pedinamento: stiamo spiando
Molly».
Sherlock, seduto sui sedili posteriori, incrociò le braccia
al petto e guardò severamente prima Lestrade e poi Anderson,
ma non aprì bocca. Tamburellò nervosamente le
dita sulla gamba e guardò di nuovo l'ora. Arsène
era salito ormai da un quarto d'ora, per quale motivo si stava
attardando tanto? C'era anche lui quando aveva detto a Molly che
sarebbe passato a prenderla prima per poter andare a cena. Che nel
frattempo i loro programmi fossero cambiati?
Selezionò il numero di John e si portò il
cellulare all'orecchio, trepidante.
«Sherlock, stavo giusto per chiamarti»,
esclamò il dottore.
«Che cos'è successo?».
«Mi è appena arrivato un sms da parte di Molly: a
quanto pare ceneranno a casa e poi, prima di andare all'opera,
accompagneranno qui Geneviève».
«Capito, grazie». E senza aggiungere altro
terminò la comunicazione.
Trovò gli sguardi di Lestrade e Anderson puntati addosso, in
attesa di spiegazioni, ma Sherlock li ignorò, tornando a
fissare le finestre dell'appartamento di Molly.
Perché stava ignorando in modo così plateale le
sue raccomandazioni? Sembrava quasi lo stesse sfidando a prendere
provvedimenti, a mettere una volta per tutte le carte in tavola, ma
Sherlock non si sarebbe fatto abbindolare. Se l'anatomopatologa voleva
giocare col fuoco, nonostante gli avvertimenti e la
possibilità di scottarsi, lui non gliel'avrebbe impedito.
***
«Mon Dieu,
erano anni che non mi concedevo una cena simile.
Credo che potrei scoppiare», esclamò
Arsène, abbandonandosi contro lo schienale della sedia e
portandosi entrambe le mani sulla pancia piena.
Molly sorrise mentre avvicinava alla bocca il proprio bicchiere di
vino. «Avresti potuto evitare di fare il bis di
tutto».
«Ma era tutto così buono!», si difese.
«La zuppa di cipolle, la ratatouille, il gratin dauphinois...
erano tutti squisiti e molto simili a come li preparava mia
madre».
Geneviève abbassò gli occhi, imbarazzata, quando
il padre si sporse dal suo posto di capotavola per posarle un bacio
sulla fronte.
«Merci
beaucoup, ma chérie».
«Io aspetterei a ringraziarla, se fossi in te», si
intromise Molly, facendole l'occhiolino.
La ragazzina si alzò e sotto lo sguardo scioccato del padre
andò a tirare fuori dal forno spento il dessert che aveva
voluto a tutti i costi preparare da sola e di cui andava estremamente
fiera. Il solo profumo era qualcosa di paradisiaco.
Geneviève sistemò in mezzo al tavolo il piatto su
cui aveva sistemato la torta e poi tornò in cucina per
prendere tre piattini puliti, un coltello e una spatola.
Passò gli ultimi a suo padre e con un lieve sorriso disse:
«A te l'onore».
Arsène guardò ripetutamente la torta e poi la
figlia, incredulo. «Ma questa è...».
Geneviève annuì col capo. «La Tarte
Tatin che ti faceva la mia, di mamma. Quand'ero più piccola
la faceva spesso anche a me, essendo il mio dolce preferito, e ogni
volta mi raccontava quanto ti piacesse».
«Oh, tesoro...». Con gli occhi lucidi,
Arsène si alzò ed abbracciò la figlia,
la quale ricambiò affondando il volto nell'incavo tra collo
e spalla.
Gli sguardi del Ladro Gentiluomo e di Molly si incrociarono per un
attimo e fu lei a distoglierlo per prima, afferrando la bottiglia di
vino e versando ciò che ne rimaneva nel bicchiere di
Arsène e nel proprio. Poi versò della Coca-Cola
in quello di Geneviève e disse: «Mi sembra
l'occasione giusta per fare un brindisi».
Arsène lasciò che la figlia si scostasse, ma le
tenne un braccio avvolto intorno alle spalle mentre annuiva e sollevava
il proprio bicchiere.
«A Clotilde», esclamò il ladro.
«E alla famiglia».
Tutti e tre fecero scontrare delicatamente i loro calici e bevvero.
Quindi Lupin, armato di coltello e spatola, affettò la torta
di mele rovesciata ancora tiepida e la versò nei piatti.
Alla prima forchettata Arsène ricordò quando,
quindici anni prima, si era svegliato da solo nel letto che lui e
Clotilde condividevano e sul tavolo della cucina aveva trovato il suo
biglietto di addio, posato accanto ai resti della sera prima della sua
torta preferita. Quella era stata l'ultima volta che l'aveva mangiata,
tuttavia ne ricordava perfettamente il sapore e non mentì
quando disse a Geneviève che la sua era buona tanto quanto
quella di Clotilde, se non di più.
***
Quando finalmente il portone del palazzo si aprì, lasciando
uscire Geneviève, Arsène e un'elegantissima
Molly, Sherlock stava per fare qualcosa di veramente folle:
piombare in quello stesso appartamento e... Il seguito non lo sapeva,
dato che non aveva la minima idea di quale scena avrebbe potuto
trovarsi davanti, e di conseguenza nemmeno immaginarsi la sua reazione.
Per fortuna non era dovuto arrivare a tanto, anche se iniziò
a pentirsene quando vide il sorriso felice sul volto della ragazzina e
gli sguardi complici di Arsène e Molly. Guardandoli aveva
l'impressione che si fosse creato una sorta di legame tra loro,
avvicinandoli in una maniera che Sherlock aveva già visto in
passato e di cui aveva paura.
«Non sembra davvero il criminale che mi ha descritto
Mycroft», esclamò Lestrade, guardando
Arsène attraversare la strada, diretto verso un SUV nero.
«Che sta facendo?», domandò invece
Anderson.
Sherlock si sporse tra i due sedili anteriori. «Sta prendendo
accordi col suo uomo. Si spaccia per il suo maggiordomo, ma in
realtà, se dovesse succedergli qualcosa, sarebbe lui a
prendere il comando dell'intera organizzazione».
Geneviève salutò il padre e Molly e poi
salì nel SUV, le cui luci si accesero poco prima del motore,
per poi lasciare il parcheggio e dirigersi verso l'incrocio.
«Dobbiamo seguirlo?», chiese Greg.
«No, a noi interessa Lupin».
Sherlock scrisse rapidamente un sms a John per avvisarlo che
Geneviève sarebbe stata lì in meno di quindici
minuti, poi tornò a fissare le mosse di Arsène e
Molly, i quali si erano già avvicinati alla Porsche.
Lui le aprì la portiera e le porse la mano guantata come un
vero gentiluomo e lei lo ringraziò sorridendo. Quindi il
ladro fece il giro dell'auto e si mise al volante.
Sherlock disse a Greg di tenere una cinquantina di metri di distanza -
come se l'ispettore di Scotland Yard avesse bisogno di sapere come ci
si comportava durante un pedinamento - e finalmente si diressero verso
la Royal Opera House.
«Mi sentite?
Uno, due, tre, prova».
«Sì, ti sentiamo», confermò
Sherlock, spostatosi sul sedile del passeggero per poter mostrare anche
a Lestrade quello che riprendeva la telecamerina appuntata al fiore
all'occhiello dello smoking di Anderson.
L'ex-agente della scientifica era appena entrato nel teatro con il
biglietto del detective e si stava dirigendo verso il suo posto.
Nonostante fossero arrivati insieme, Arsène aveva sfruttato
i suoi agganci non solo per lasciare l'auto ad uno chaffeur, ma anche
per saltare la fila chilometrica.
Quando Anderson raggiunse la balconata da cui avrebbe assistito allo
spettacolo, Sherlock notò la perversione di Lupin e fu solo
grazie alla prontezza di riflessi di Greg se non ruppe a
metà il laptop che aveva sulle gambe.
«Quello sfacciato!», ringhiò irritato.
L'ispettore di Scotland Yard prestò più
attenzione alle immagini ed anticipò persino Anderson
riconoscendo Arsène Lupin e Molly Hooper seduti nella
galleria opposta, perfettamente inquadrati dalla telecamera. Ne
derivava che se Sherlock si fosse presentato non solo avrebbe
assistito a ben altro spettacolo, ma sarebbe stato inevitabilmente
visto dall'anatomopatologa, con chissà quali conseguenze.
Le luci si abbassarono e il silenzio calò sugli spettatori,
dopodiché i fari illuminarono il palco e i primi personaggi
fecero la loro comparsa.
Lestrade tolse l'audio - non era un fan dell'opera e tecnicamente, non
essendo quella un'operazione autorizzata dalla polizia, stava
commettendo un crimine - e si voltò verso il detective.
Preferì non commentare la scelta dei posti di Lupin, ma
decise di sfruttare l'occasione per cercare di capire che cosa fosse
successo davvero tra lui e Molly. Qualche giorno prima infatti,
riflettendo ed incastrando tutti i pezzi di informazioni che possedeva,
gli era sembrato di vedere della luce in tutta quella
oscurità, ma doveva esserne sicuro.
«Posso farti una domanda?».
Il consulente investigativo incrociò le braccia al petto,
sulla difensiva, perciò prima che potesse dirgli che non era
il momento, Greg lo anticipò: «Mi chiedevo se
esiste un collegamento tra quello che è successo a
Sherrinford e il tuo evitare Molly».
Sherlock non rispose, ma il modo in cui strinse gli occhi, chiari come
il ghiaccio, fu di per sé una risposta.
«Che cosa te lo fa pensare?».
«La cronologia dei fatti, solo questo. Un po' poco, lo so,
però... Anche il fatto che Mycroft, quando è
passato a consegnarmi quei fascicoli su Lupin, mi abbia raccomandato di
non parlare della faccenda ad anima viva...».
«Lui che cosa?»,
domandò Sherlock,
irrigidendosi improvvisamente.
Lestrade lo fissò stupito. «Sì, mi ha
fatto capire che non dovevo lasciarmi scappare nemmeno una parola su
tua sorella, dimenticarmene addirittura».
Il consulente investigativo si accigliò ulteriormente e un
ricordo gli balenò davanti agli occhi, lasciandolo come
stordito: Arsène Lupin nel suo salotto, che parlava di carta
da parati. Che cosa gli aveva chiesto?
«Perché
non l'avete cambiata?».
Sherlock si portò le mani sulla testa, gli occhi sbarrati
per via della propria cecità.
In quel momento, eccitato com'era dalla scoperta della figlia segreta
del ladro, non aveva prestato attenzione all'uso delle sue parole e del
loro possibile significato. E se le avesse mal interpretate? E se
Arsène avesse voluto dire, in realtà:
«Perché, già
che c'eravate, non l'avete
cambiata?».
Conosceva le sue capacità deduttive - era bravo tanto quanto
lui - eppure non ci aveva neppure pensato. Invitandolo al 221B gli
aveva permesso di guardarsi intorno e di raccogliere indizi preziosi.
Forse allora sapeva già del finto incidente che aveva
distrutto il suo appartamento e aveva fatto lo stesso semplicissimo
ragionamento di Lestrade, immaginando che quell'esplosione e il suo
allontanamento da Molly fossero collegati. A quel punto aveva sfruttato
la mossa di Geneviève e aveva lasciato che fosse lui stesso
ad aprirgli la porta, dandogli così modo di confermare le
sue teorie e cercare il pezzo mancante: ciò che collegava i
due eventi.
«Sherlock, che cosa c'è?».
Il detective rialzò gli occhi in quelli dell'ispettore e si
rese conto dell'altro errore grossolano che aveva commesso.
«La chiamata di Ganimard. Da quale telefono gli hai permesso
di chiamarmi?».
Lestrade lo guardò come se fosse pazzo e in effetti la sua
espressione poteva essere definita tale, tant'erano lo sgomento e la
frustrazione che provava.
«Rispondimi, Greg!».
«Gli ho fatto usare il telefono del mio ufficio!»,
gridò in risposta l'uomo, senza saperne il motivo.
«Dannazione!».
Sherlock uscì dall'auto e si sbatté la portiera
alle spalle, passandosi poi la mano sulla bocca. Lestrade lo
imitò poco dopo e fece il giro del veicolo per poterlo
guardare in volto.
«Mi vuoi spiegare che cosa ti è preso
all'improvviso?».
Il consulente investigativo lo osservò a lungo, poi
esclamò: «Togliti la giacca».
«Che cosa?».
«Fidati di me».
Greg si arrese e fece come gli era stato chiesto. Seguendo le
istruzioni del detective la lanciò sui sedili posteriori,
poi riaccese l'audio del laptop e lo impostò al massimo. Il
Don Giovanni era ancora al primo atto, mentre Sherlock non si era
accorto di essere stato lui stesso protagonista di una trama
architettata nei minimi dettagli dal Ladro Gentiluomo, il cui scopo -
scoprire il o i motivi del suo cambiamento in fatto di relazioni - non
era mai cambiato.
«Io mi sono fidato, ma se mi prendo il raffreddore giuro
che...».
Sherlock lo interruppe con un'occhiata tagliente e le seguenti parole:
«È probabile che Arsène ti stia facendo
sorvegliare».
La bocca dell'ispettore si aprì in una O di shock.
«Ricordi quando ti dissi che c'era una sua talpa a Scotland
Yard?», riprese Sherlock. «Ho appena realizzato che
per lui sarebbe stato molto più comodo e soprattutto
più redditizio installare delle cimici. Nel tuo ufficio,
sulla tua auto, forse persino nella tua giacca... Ricordi di aver mai
lasciato il cellulare incustodito nelle ultime settimane?».
«No, non credo, ma...».
«Comunque sia, d'ora in avanti sarà meglio evitare
di scambiarci informazioni sensibili tramite telefono o nei luoghi che
frequentiamo di solito».
«Informazioni...? Ma di che stai parlando,
Sherlock?!».
Lestrade era allibito e anche un po' spaventato. L'aveva visto furioso,
sballato, eccitato, preoccupato, ma mai così paranoico. Non
lo reputava nemmeno possibile, dato che lui riusciva a prevedere le
mosse di chiunque. Che Arsène Lupin fosse un rivale
formidabile ormai era assodato.
Sherlock lo guardò e lentamente i suoi occhi spiritati lo
misero a fuoco. Quindi si portò di nuovo le mani tra i
capelli, ma quella volta lo fece respirando profondamente per
riacquistare il proprio autocontrollo. Quando tornò a
guardarlo, Greg realizzò con sollievo che finalmente era
tornato in sè.
«Tu sei uno dei pochi che sa la verità su
Sherrinford, o almeno una parte», iniziò a
spiegare. «Mycroft ha capito prima di me che
Arsène avrebbe indagato e ha cercato di metterci in guardia,
ma io come uno stupido mi sono fatto distrarre da...». Irene.
Molly. Geneviève. «Da
altro».
Dopo un momento di silenzio, Lestrade giunse finalmente alle
conclusioni: «Quindi con le cimici avrebbe capito quando far
ritirare la denuncia contro Ganimard e ora...».
Sherlock annuì, scuro in volto. «Ora potrebbe aver
scoperto che ho una sorella».
***
In una stanza del Savoy Hotel in cui il letto non era mai stato usato,
uno degli uomini della banda di Lupin si tolse le cuffie ed
imprecò in francese per via di un improvviso acuto della
cantante d'opera. Quindi si alzò dalla propria postazione e
guardò il collega mentre questi ricontrollava la
trascrizione dell'ultima conversazione tra Sherlock Holmes e
l'ispettore Lestrade di Scotland Yard, la convertiva in un file
criptato e la inoltrava per email al loro superiore.
Grégorie, seduto nello stesso SUV nero con cui aveva
accompagnato Geneviève a casa del dottor Watson, davanti
alla quale era ancora parcheggiato, in attesa, ricevette un'email sul
cellulare del lavoro.
Aprì il file criptato e lesse gli ultimi risultati di quella
lungimirante operazione di sorveglianza. Finalmente avevano ottenuto
delle informazioni di valore, ma al tempo stesso erano stati scoperti.
Rispose all'email dando istruzioni perché interrompessero
l'operazione e distruggessero a distanza le cimici, in modo da
complicare ulteriormente il lavoro della scientifica, poi scrisse un
sms.
Cattiva notizia:
cimici bruciate.
Buona notizia: SH ha
una sorella.
Arsène sentì il cellulare vibrare nella tasca dei
pantaloni e fu tentato di ignorarlo - sarebbe stato da maleducati nei
confronti degli attori e della sua accompagnatrice - ma il pensiero che
potesse trattarsi di Geneviève lo spinse a sbloccarne il
display e controllare.
Un sms da parte di Grégorie.
Lo aprì e lo lesse diverse volte, sentendo un sorriso
allargarsi sempre di più sulle sue labbra. Alla fine fu
costretto a portarsi una mano sulla bocca per non scoppiare a ridere,
ma il modo in cui gettò indietro il capo attirò
l'attenzione di Molly Hooper, la quale lo fissò prima con
cipiglio perplesso e poi con preoccupazione.
Anderson intuì subito che qualcosa stava per succedere
quando vide Arsène Lupin distogliere lo sguardo dallo
spettacolo.
Una debole luce, ma perfettamente visibile anche da quella distanza,
gli illuminò il viso e l'ex-agente della scientifica
rabbrividì nello scorgere il suo sorriso. Fu ancora peggio
quando lo sorprese in un attacco di riso, perciò decise di
contattare Sherlock e Lestrade. Non ricevette alcuna risposta.
Scusate, ma non ho potuto trattenermi dal citare Smaug* e Doctor
Strange** (entrambi ruoli del nostro Benedict). Che burlona! xD
E ho anche fatto unpo' di fanservice con quella battutina di Sherlock
su Lestrade e Mycroft. #sorrynotsorry
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Capitolo 17 *** White flower ***
Buonasera a tutti! :)
Allora, nello scorso capitolo vi ho lasciati ancora un po' in sospeso
con la questione dell'appuntamento alla Royal Opera House ma direi che
ciò che importava era il pre-show, no? Nel capitolo che
leggerete tra poco vedrete il post e spero che vi piaccia, anche se
sento di dovervi avvisare: preparate i fazzolettini.
A proposito di avvisi, avevo già anticipato qualche capitolo
fa che, essendo ormai a metà storia, gli equilibri
cambieranno. E' giusto che i protagonisti rimangano Sherlock &
Co., però non sono riuscita a tenere a freno
quell'esuberante di Lupin, il quale da questo capitolo in particolare
si prenderà ancora più spazio. Spero solo non sia
troppo,
ecco.
Ultimo ma non meno importante: fino ad adesso la storia era di rating
arancione, ma è possibile che d'ora in avanti in certi
capitoli ci siano delle scene da rosso. Come alla fine di questo, ad
esempio. Vi avviserò di volta in volta, comunque.
Detto tutto ciò, vi lascio alla lettura!
Grazie a tutti, un bacio enorme e alla prossima!
Vostra,
_Pulse_
_____________________________________________________________________
17. White flower
La facciata della Royal Opera House, simile ad un tempio greco
classico, era illuminata da luci dorate che oscuravano ancora di
più il cielo, ricoperto da banchi di nuvole tanto fitti che
nascondevano persino la luna. Forse avrebbe nevicato di nuovo.
Molly osservò l'uomo al suo fianco: stava prendendo una
lunga boccata dalla sua sigaretta elettronica e nonostante le guance
incavate aveva ancora quel sorriso divertito sul volto, come se gli
avessero appena raccontato la barzelletta più divertente che
avesse mai sentito; in tutta onestà le faceva un po' paura.
Non ne sapeva esattamente il motivo, ma prevedeva guai.
Eppure a casa, durante la cena, non aveva provato le stesse sensazioni.
Era come se, ad un certo punto, l'uomo gentile e premuroso che aveva
visto con Geneviève fosse sparito per lasciare spazio ad
un'altra versione di sè, imprevedibile e pericolosa. Una
specie di dottor Jekyll e mister Hyde. Che il messaggio che aveva
ricevuto appena un quarto d'ora dopo l'inizio dello spettacolo fosse
stato la causa di quella trasformazione?
Molly non riuscì a trattenere la curiosità e per
azzittire la vocina che le diceva di farsi gli affari suoi si disse che
dopotutto era compito suo strappare da Arsène informazioni
utili a Sherlock.
«Ricevuto buone notizie?», gli chiese quindi a
bruciapelo.
Gli occhi verdi del ladro francese si posarono su di lei e la fissarono
con un misto di sorpresa e curiosità.
«Ho notato che hai ricevuto un messaggio, durante lo
spettacolo», aggiunse.
«Sì, è così»,
rispose Arsène. «Un'ottima notizia, piuttosto
inaspettata».
«Posso sapere...?».
Il biondo non le fece nemmeno terminare la domanda.
«Lavoro».
«Capisco».
Molly accolse il silenzio come un amico fidato, demoralizzata da
com'era andato a finire il suo tentativo, ma quella volta fu Lupin a
fare la prima mossa, esclamando: «Mi dispiace se ti ho dato
l'impressione sbagliata. Ho adorato lo spettacolo, e tu?».
«Sì, anche io», rispose lei, abbozzando
un sorriso.
«Ti ringrazio».
Qualcosa nel suo tono di voce, diventata improvvisamente più
profonda, le fece aggrottare la fronte. «Per che
cosa?».
I loro sguardi si incrociarono nuovamente e Molly sentì le
ginocchia tremare.
Eccolo. L'uomo con cui aveva cenato e chiacchierato circa tre ore prima
era tornato.
«Per tutto quello che hai fatto per Geneviève.
Io... riuscirò a ripagarti, un giorno».
«Non ce n'è davvero bisogno. Io sono la madrina di
Rosie, e dato che lei e Geneviève sono cugine mi sento in
dovere di prendermi cura anche di lei».
«Molly Hooper», esclamò il Ladro
Gentiluomo, prendendole le mani tra le sue ed incatenando i loro
sguardi.
La donna rabbrividì nuovamente: l'ardore nei suoi occhi, il
suo tocco delicato, il modo in cui aveva pronunciato il suo nome...
Nome e cognome,
proprio come faceva Sherlock. Tutto glielo ricordava dolorosamente,
anche se i due non potevano essere più diversi.
«La gentilezza e la bontà sono doni preziosi,
dovresti pretendere che vengano riconosciuti e ripagati».
«Se lo facessi... non sarebbero più doni, giusto?
Chi fa del bene non lo fa per un tornaconto personale. Vedere che le
proprie azioni hanno reso migliore la vita di qualcun altro... questa
è la ricompensa».
Aveva cercato di non balbettare, ma non ci era riuscita. Inoltre, era
arrossita davanti all'espressione ammirata di Arsène.
«Sherlock è davvero uno stupido», disse
ad un tratto, rompendo il contatto visivo e tornando alla propria
sigaretta elettronica con un sorriso rammaricato sulle labbra. Quindi
si accigliò e voltando il capo verso la fine della strada
borbottò: «Ma quanto ci mettono a portarmi
l'auto?».
«Che cosa significa?», gli domandò
Molly, col cuore in gola. «Che vuol dire che Sherlock
è...?».
Venne interrotta da un uomo in smoking che, scendendo frettolosamente
la scalinata, aveva urtato Arsène con tanta forza da
spingerlo contro di lei.
Pensando che il colpo potesse farle perdere l'equilibrio il ladro le
avvolse il braccio sinistro intorno alla vita e la strinse a
sè. Il suo gesto era stato istintivo e per nulla malizioso,
tuttavia Molly si sentì andare a fuoco nei punti in cui i
loro corpi erano entrati in contatto.
«Ehi, stia un po' attento!», gridò
Lupin, rivolgendo all'uomo un'occhiata tagliente.
«Mi scusi, non l'ho fatto apposta».
Solo quando l'uomo rialzò la testa, china in segno di
prostrazione, e si portò i lunghi capelli neri dietro le
orecchie Molly riuscì a riconoscerlo.
«Philip?».
«Molly! Che incredibile coincidenza!».
L'anatomopatologa non credeva affatto fosse una coincidenza e si
accigliò, un pugno stretto nella tasca del cappotto.
«Che cosa ci fai tu qui?», gli domandò,
fingendosi altrettanto sorpresa. «Non sapevo ti piacesse
l'opera».
«Non particolarmente, in effetti. Solo che un mio amico non
poteva venire ed era un peccato sprecare il biglietto,
perciò... Ma chi è il tuo accompagnatore? Ha una
faccia nota...».
Arsène si allontanò di un passo da Molly e lei
tornò ad avvertire il freddo della notte penetrarle le ossa.
«Il mio nome è Jean Daspry», si
presentò Arsène, porgendogli una mano.
«Jean Daspry... Ah, ecco! L'eroe del Waterloo
Bridge!».
Il ladro gli rivolse un sorriso imbarazzato. «Così
mi hanno definito, anche se non ho fatto nulla di speciale».
In quel momento la Porsche argentata con cui erano arrivati fu
parcheggiata a ridosso del marciapiede dallo chaffeur che con
rapidità scese dal mezzo e si scusò per l'attesa.
«Beh, è stato un piacere conoscerti,
Philip», esclamò Arsène, chinandosi un
poco verso di lui per sfilargli il fiore che aveva appuntato alla
giacca. «Scusa, posso?».
Anderson lo fissò ad occhi sgranati, senza riuscire a
spiccicare parola, mentre il biondo lo sistemava con delicatezza sopra
l'orecchio sinistro di Molly.
«Credo che a lei stia molto meglio, non trovi?»,
aggiunse il Ladro Gentiluomo, rivolgendogli un candido sorriso prima di
porgere il braccio all'anatomopatologa. «Andiamo?».
Molly non poté far altro che annuire e salutare uno
scioccato Philip con un semplice cenno della mano. Salì in
auto e, sempre in silenzio, guardò Arsène avviare
il motore ed immettersi nelle strade sempre trafficate di Londra.
***
Rosie si era addormentata già da un pezzo quando
Geneviève, fino ad allora di ottimo umore, aveva smesso di
interessarsi al film che davano in televisione per rabbuiarsi e
stringersi al petto un cuscino del divano.
John non aveva avuto il coraggio di chiederle che cosa le fosse preso,
ma non aveva dovuto attendere molto prima di scoprirlo; era stata la
stessa Geneviève a renderlo partecipe.
«Lei com'era? Mia zia, intendo».
Il dottor Watson aveva sospirato: aveva sperato di rimandare quel
momento al più tardi possibile. La sua solita sfortuna.
Ricacciando in fondo alla gola il dolore aveva iniziato a raccontarle
della donna che aveva rapito il suo cuore dal primo momento in cui
aveva posato gli occhi su di lei; una donna che credeva di conoscere e
che invece gli aveva nascosto molti segreti.
Le aveva raccontato del loro primo appuntamento, di quando aveva capito
di essersi innamorato di lei e della proposta di matrimonio rovinata da
Sherlock.
Le aveva raccontato del matrimonio, del modo in cui avevano scoperto
che presto sarebbero stati genitori e della crisi che avevano vissuto e
superato per via del suo passato.
A quel punto aveva persino tirato fuori le foto delle nozze, sfogliando
quell'album per la prima volta da quando era morta, ma aveva osato
troppo: si era ritrovato in lacrime e Geneviève gli era
stata accanto in silenzio, posandogli semplicemente una mano sulla
schiena in segno di conforto.
A seguito dell'episodio l'aveva a malapena guardata in faccia e, seduto
al tavolo della cucina con una tazza di tè tra le mani, era
rimasto a guardare le lancette dell'orologio appeso al muro, in attesa
del ritorno di Molly e Arsène.
***
Arsène guardò Molly con la coda dell'occhio e,
turbato dal suo silenzio, le chiese: «C'è qualcosa
che non va?».
La donna, fino ad allora con lo sguardo fisso fuori dal finestrino, si
voltò per rivolgergli un piccolo sorriso. «No,
è tutto okay».
«Gradirei che non mi mentissi».
La osservò aprire la bocca per replicare e poi richiuderla,
abbassare gli occhi sul fiore finto che si era tolta dai capelli e
rigiraselo tra le dita mentre scuoteva mestamente il capo, con aria
afflitta.
«È solo... Tu, Geneviève, John, lo
stesso Sherlock... Credete che io sia una stupida? Do' l'impressione di
esserlo, forse, ma non lo sono. Credete di potermi manipolare a vostro
piacimento, senza accorgervi che sono io a lasciarvi fare»,
disse alla fine.
Arsène non distolse gli occhi dalla strada, con un
improvviso peso a schiacciargli il petto. «Désolé,
non credo di seguirti».
Lo sguardo colmo d'ira e frustrazione che lei gli rivolse lo
colpì con la stessa forza di uno schiaffo, tanto che lo
sentì bruciare sul volto. Molly strappò via la
microcamera nascosta tra i grandi petali bianchi del fiore finto,
dimostrando di aver sempre saputo delle macchinazioni di Sherlock, e
dopo aver abbassato il finestrino la gettò fuori
dall'abitacolo.
Quindi tornò a prestare attenzione alle luci dei ristoranti
e dei negozi dalle vetrine addobbate in tema natalizio e il Ladro
Gentiluomo non osò più dire una parola, nemmeno
quando raggiunsero il quartiere residenziale in cui abitava il dottor
Watson.
Al loro arrivo Grégorie scese dal SUV e andò a
bussare alla porta. Pochi minuti dopo tornò sui suoi passi
insieme a Geneviève, la quale salutò il padre e
Molly con un cenno della mano prima di salire sull'auto di grossa
cilindrata. Quindi si diressero tutti verso l'appartamento della
scienziata.
Davanti al portone del condominio Lupin salutò la figlia e
le augurò la buonanotte.
Anche Molly fece per congedarsi, ringraziandolo per la serata, ma il
ladro l'afferrò per il polso.
«Non posso lasciarti andare in questo modo», le
disse con gli occhi venati di tristezza. «Ti prego solo di
ascoltarmi».
Molly non riuscì a dirgli di no. Consegnò le
chiavi di casa a Geneviève e quando scomparve in ascensore
si concentrò sull'uomo che aveva di fronte, chiedendosi che
cos'avesse da dirle.
Decifrare le sue espressioni era semplice, molto più
semplice rispetto a ciò che era abituata di solito con
Sherlock, ma proprio per questo rischiava di essere tratta in inganno:
non sempre, infatti, erano autentiche. Sherlock non era in grado di
fingere emozioni, mentre Arsène, da quel che le era stato
raccontato, era un maestro in quel campo.
«Vedilo come un piccolo anticipo della tua ricompensa, oui? È
vero che ti ho sottovalutata e che pensavo di usarti per ottenere
qualcosa da Sherlock, ma ora non ne ho più alcuna
intenzione. Anzi, gli ho promesso che ti avrei tenuta al
sicuro».
Molly strabuzzò gli occhi, incredula alle proprie orecchie.
«Che cosa vuol dire?».
«Vuol dire proprio ciò che ho detto»,
rispose, avvicinandosi per posarle le mani sulle braccia e sorriderle
dolcemente. «Tu sei speciale, Molly Hooper, e conti molto per
Sherlock. So bene che i suoi modi di dimostrarlo lasciano a desiderare
e so quanto possa essere frustrante il suo negare l'evidenza, ma...
è per la tua sicurezza che ha mantenuto le distanze fino ad
adesso. Non vuole che tu diventi un bersaglio, capisci?».
L'anatomopatologa abbassò il capo ed arretrò di
un passo, sottraendosi alla delicata stretta di Lupin così
che non potesse notare il tremore delle sue spalle.
«Grazie», ebbe a malapena la forza di sussurrare
prima di voltarsi verso il portone e sparire all'interno del palazzo.
***
«Molly era davvero uno schianto questa sera», fu il
commento con cui Anderson ruppe la bolla di silenzio, carica di
tensione, in cui si trovavano. Un commento che attirò su di
sé lo sguardo di rimprovero di Lestrade e quello furioso di
Sherlock.
L'ispettore accostò l'auto davanti al 221B di Baker Street e
si voltò verso il detective.
«Stai bene?», gli chiese con tono apprensivo.
«Sì, certo», rispose freddamente
Sherlock, fingendo che le parole di Molly, le ultime catturate dalla
microcamera, non avesse aperto l'ennesima ferita.
Aprì la portiera e una volta sul marciapiede la richiuse con
un tonfo, per poi chinarsi sul finestrino chiuso. Greg lo
abbassò.
«Di sicuro a quest'ora gli uomini di Lupin avranno
disattivato le cimici, ma...».
«Farò controllare tutto, non
preoccuparti».
Il consulente investigativo annuì con un cenno del capo e
deviò il suo sguardo, esitante. Lestrade abbozzò
un sorriso e lo tolse dall'impaccio, esclamando:
«È a questo che servono gli amici.
Buonanotte».
Sherlock alzò un angolo della bocca.
«Sì, buonanotte».
Salì le scale in punta di piedi, per evitare di svegliare la
signora Hudson, e una volta in salotto lasciò il laptop sul
tavolino davanti al divano; dopodiché si tolse il cappotto e
lo appese dietro la porta.
Si portò le mani al volto e pensò alla prossima
mossa da fare, ma il suo cervello si rifiutò di collaborare.
Era come se i pensieri si fossero aggrovigliati, formando un unico,
grande nodo impossibile da sbrogliare.
Alla fine decise di fare le due cose che odiava di più: la
prima, chiedere consiglio a suo fratello Mycroft; la seconda, mettersi
a dormire con la speranza che quella stupida diceria che la notte fosse
in grado di portare consiglio si rivelasse vera.
La risposta all'sms che gli aveva inviato arrivò dopo pochi
minuti:
Ti avevo detto di fare
attenzione.
Ora aspettiamo.
Sherlock imprecò, scagliando il cellulare contro il divano.
Si spogliò e si lavò i denti, poi si chiuse nella
sua stanza e si infilò sotto le coperte, coprendosi fin
sopra la testa.
Rannicchiato sul fianco destro, abbassò le palpebre ed
aspettò il giungere del sonno. Arrivò solo quando
la sua mente si lasciò alle spalle gli eventi della giornata
e si soffermò invece sull'immagine di Molly.
I capelli che per l'occasione non aveva raccolto sulla nuca le
ricadevano in lisce ciocche sulle spalle nude, coperte soltanto dal
cappotto; il rossetto lucido brillava su quelle labbra che per lui non
andavano mai bene, e il vestito che indossava, blu notte e lungo fino
alle caviglie, la faceva sembrare leggera ed aggraziata. Era come se
fosse stata avvolta da un pezzo di cielo, dalla via lattea e una
miriade di stelle cadenti.
Sì, Anderson aveva ragione. Era bellissima.
Soltanto nel buio e nella solitudine della sua camera, in stato di
dormiveglia, poteva concedersi pensieri tanto frivoli, e da qualche
parte dentro di sé ne fu molto triste.
***
Addossata alla porta d'ingresso, Molly si tolse i tacchi e rimase
nell'ingresso, a piedi nudi e con le lacrime che non facevano altro che
caderle copiose sul viso.
Sherlock l'aveva davvero evitata per tutto quel tempo per tenerla al
sicuro? Ma al sicuro da cosa, o da chi? E, soprattutto, poteva fidarsi
delle parole di Arsène Lupin?
La tristezza nei suoi occhi però, quella che le aveva sempre
fatto sanguinare il cuore... Se quella era la verità,
finalmente aveva un senso.
Era stata così dura con lui, c'erano stati giorni in cui
l'aveva odiato con tutte le sue forze a causa del dolore che le stava
infliggendo, e ora scopriva che l'aveva fatto solo per proteggerla?
«Sono una persona orribile», sussurrò,
trattenendo a malapena i singhiozzi.
«Molly, sei tu?».
Sentendo i passi di Geneviève avvicinarsi, l'anatomopatologa
si sciolse frettolosamente lo chignon e lasciò che i capelli
le coprissero come una tenda il viso deturpato dal pianto.
«Che cosa stai facendo?», le domandò
ancora la ragazzina, confusa.
«Credo mi sia uscita una vescica», rispose, facendo
del proprio meglio per nascondere la voce rotta. «Non sono
abituata a portare scarpe così femminili».
Geneviève rimase in silenzio tanto a lungo che Molly
pensò di essere stata scoperta. In un certo senso ne sarebbe
stata sollevata: era stanca di nascondere il proprio dolore, stanca di
fingere che tutto andasse bene. Ma così non fu.
«Okay, allora io vado a letto. Buonanotte!».
Molly finse ancora di controllarsi la pianta del piede sinistro.
«Fai bei sogni».
«Anche tu, qualsiasi cosa ti abbia detto mio padre».
L'anatomopatologa alzò di scatto la testa a causa di quelle
parole che lasciavano intendere che lei sapesse più di
quanto desse a vedere, ma Geneviève era già
andata via.
***
Grégorie tornò finalmente al Savoy Hotel dopo
aver dato il cambio ad Ernest, ma prima di dirigersi verso la royal
suite si fermò al tredicesimo piano.
«Allora,
com'è andata la cena?».
Geneviève lo
guardò di sottecchi e col viso rosso per l'imbarazzo
rispose: «Ti interessa davvero o vuoi solo che ti ringrazi
nuovamente per l'aiuto?».
«Se ci sono i
presupposti per un ringraziamento, vuol dire che è andata
bene».
Quel suo commento la
fece imbronciare, tanto che si strinse le braccia al petto, e
Grégorie decise di essere sincero.
«Mi interessa
veramente. Vede, padron Lupin era un po' giù di morale
questa mattina e, come le ho già detto, io non desidero
altro che la sua felicità».
La ragazzina rimase in
silenzio per una dozzina di secondi, poi posò le mani sulle
ginocchia ed abbozzò persino un sorriso dicendo:
«È andata molto bene. Grazie,
Grégorie».
Nonostante lo stupore,
l'uomo si sforzò per mantenere la propria compostezza.
«Bene, mi fa piacere sentirlo».
I minuti trascorsi in
silenzio, mentre l'accompagnava a casa del dottor Watson, furono
pacifici.
Erano passate solo due
settimane da quando l'aveva conosciuta e mai si sarebbe immaginato che
avrebbe impiegato così poco a tollerare il suo lavoro da
babysitter, a non trovare più la sua sola vista
insopportabile... in poche parole, che avrebbe smesso di esserne
geloso.
Le gettò
un'occhiata con la coda dell'occhio e la scoprì intenta ad
osservarlo. Immediatamente Geneviève abbassò il
capo ed iniziò a torturarsi le mani, intrecciando le dita.
«Senti,
Grégorie...».
«Preferirei
che non mi chiamasse in quel modo, signorina».
«E come dovrei
chiamarti? "Baffoni" ti andrebbe bene?».
Grégorie
finalmente capì perché quella mattina
Arsène si fosse riferito a lui in quel modo e dovette
sforzarsi parecchio per non sorridere divertito.
«Perché
detesti tanto il tuo nome?».
«Perché
mi ricorda il passato. Il passato è morto per sempre; il
passato non esiste. E così anche Grégorie ha
smesso di esistere nel momento in cui ho conosciuto padron
Lupin».
«Aspetta un
momento», esclamò la ragazzina, gli occhi verdi
spalancati. «Ho già sentito quelle parole. Te le
ha dette mio padre, per caso? Che cosa significano?».
L'uomo serrò
le labbra, incupendosi al ricordo di quella vita che ora sembrava di
qualcun altro.
«Sì,
è stato padron Lupin a pronunciarle»,
confessò. «Dice quella frase a chiunque entri a
far parte della sua organizzazione. Lui offre un futuro a chi non ce
l'ha, permettendoci di lasciarci tutto alle spalle, ma mi sono
domandato spesso anch'io quale sia il passato da cui lui per primo
è fuggito».
Geneviève si
chiuse di nuovo nel silenzio e fu il servitore a romperlo.
«C'era
qualcosa che voleva chiedermi, signorina?».
La domanda parve
scacciare via dal suo volto ogni preoccupazione, ma non dai suoi occhi,
specchi dell'anima.
«Nulla di
importante», rispose con le labbra arricciate in un sorriso.
«Mi chiedevo solo se, quando mi hai preparato il bagaglio,
avessi per caso visto un quaderno».
«Un
quaderno?».
«Sì,
uno di quelli scolastici, a quadretti, con la copertina blu. Lo uso
come una sorta di diario».
Grégorie
aggrottò le sopracciglia e la guardò severamente,
tanto che il sorriso le sparì dal volto. «Non
avrà scritto anche di padron Lupin, spero».
La ragazzina
boccheggiò e il servitore strinse più forte il
volante tra le mani, trattenendosi dall'imprecare.
«Capisce che
se dovesse finire nelle mani sbagliate...?». Non
continuò, riflettendo sulle varie possibilità.
«Io... Mi
dispiace», sussurrò ad un tratto la ragazzina,
mortificata.
Grégorie la
guardò e si sentì così in colpa che la
rassicurò e le diede persino un buffetto sulla testa, senza
immaginare che avrebbe finito per aumentare i livelli di imbarazzo di
entrambi.
Forse sbagliava ad
essere così fatalista.
Sì, in fondo
pochissime persone sapevano che Arsène Lupin alloggiava
sotto falso nome al Savoy Hotel e ancora meno erano a conoscenza del
legame di parentela tra lui e Geneviève. Una volta tornato
in albergo sarebbe andato subito a controllare e trovato il quaderno
l'avrebbe distrutto personalmente.
Sì, sarebbe
andato tutto per il meglio.
Col passepartout che custodiva per il ladro entrò nella
stanza di Geneviève e respirò profondamente per
tranquillizzarsi, poi controllò nei cassetti di entrambi i
comodini, sotto il letto, nell'armadio, nella cassettiera, persino nei
mobiletti del bagno, ma del quaderno nessuna traccia.
Calma, si
disse. Niente panico.
Forse Geneviève si era sbagliata e l'aveva già con
sè.
Gli sembrava improbabile, dato che era stata lei a sollevare la
questione, ma non voleva scartare nessuna possibilità.
Decise che avrebbe indagato successivamente. Adesso voleva solo vedere
il suo padrone e conoscere quali sarebbero state le sue mosse future.
Trovò Arsène ancora sveglio, nel salotto della
propria suite, con un fiore finto tra le labbra rosee e gli occhi che
scorrevano con attenzione la trascrizione che lui aveva ricevuto per
primo.
«Ah, eccoti qua! Che fine avevi fatto?»,
esclamò il Ladro Gentiluomo non appena lo sentì
arrivare, ma assunse tutt'altra espressione quando gli
dedicò la propria attenzione.
«Che ti è successo? Hai una faccia così
scura! Non mi dire che hai bisticciato ancora con
Geneviève!».
Il servitore sorrise e con una mano sul ventre si chinò un
poco, salutandolo.
«No, inaspettatamente il nostro rapporto migliora di giorno
in giorno», rispose.
La notizia lo fece tanto felice che si dimenticò persino
della sua "faccia scura" e Grégorie non riaprì
l'argomento. Non voleva allarmarlo per nulla, specialmente ora che
aveva ottenuto informazioni di rilievo.
«Sherrinford, eh? Secondo te di che si tratta?»,
gli domandò, facendo scorrere il dito sullo schermo del
tablet.
«In base alle parole usate dall'ispettore Lestrade, sembra
essere un luogo».
«Lo pensavo anch'io, ma non risulta in nessuna
cartina».
Anziché dimostrarsi infastidito dal risultato infruttuoso
delle sue ricerche, Arsène si sfregò le mani e si
lasciò andare ad una risata entusiasta.
«Che bello, il gioco continua! Sherrinford... L'Atlantide di
Mycroft e Sherlock Holmes!».
Si voltò di nuovo verso l'amico e i suoi occhi attenti, in
grado di leggerlo come un libro aperto, lo scandagliarono. Quando
parlò, lo fece con voce serissima.
«Puoi parlarmi di qualsiasi cosa, lo sai vero?».
Grégorie gli sorrise grato. «Sì, lo
so».
«Bene. Puoi andare a riposarti».
«Non sono stanco, vorrei...».
Lo sguardo perentorio del Ladro Gentiluomo lo interruppe a
metà frase e lo costrinse a chinare il capo.
«Come desidera. Buonanotte».
Si era già voltato, diretto verso la porta, quando
Arsène lo richiamò. Grégorie si
girò e vide che il biondo gli stava indicando col dito di
avvicinarsi. Negli occhi aveva quel luccichio che stava a significare
solo una cosa, per questo l'uomo si guardò intorno, a
disagio di fronte ad altri membri della banda.
«Avanti, avvicinati!», lo incalzò Lupin,
con le sopracciglia corrugate. Il servitore non poté
ignorare il comando e si chinò oltre lo schienale del
divano.
Arsène lo afferrò repentinamente per la cravatta
ed avvicinò la bocca al suo orecchio, tanto da poter sentire
le sue labbra sfiorargli il lobo.
«Preparami la pistola».
Grégorie sgranò gli occhi, scioccato.
«La pistola, padrone?».
Il ladro diede un altro strattone alla cravatta, stringendogliela
ancora di più intorno al collo e rendendogli difficoltosa la
respirazione.
«Sì», sussurrò semplicemente,
per poi lasciarlo andare e sdraiarsi sul divano, il braccio sano dietro
la nuca e gli occhi chiusi, sul volto un'espressione serena e quel
fiore dai grandi petali bianchi di nuovo sulle labbra.
Grégorie si massaggiò il collo, sapendo che
presto sarebbe comunque uscito il livido, e rifiutandosi di dubitare
del proprio padrone si allontanò per eseguire gli ordini.
***
Grégorie aveva proprio una brutta cera quand'era rientrato,
ma nemmeno col sesso Arsène era riuscito a fargli sputare il
rospo. D'altronde nemmeno lui aveva risposto alle sue domande in merito
alla pistola, perciò non poteva lamentarsi troppo.
Con la mente affollata di pensieri aspettò pazientemente
l'ora prefissata e poi scivolò via dall'abbraccio di
Grégorie per andare in bagno.
Si guardò allo specchio e dopo aver inumidito un asciugamano
si accarezzò il collo, poi scese sul petto e
strofinò con forza tutte le cicatrici visibili, consapevole
che quelle erano solo il dieci percento del totale. Il resto delle sue
ferite era all'interno, infette e maleodoranti, il cui pus scuro
somigliava a melma viscida che non sarebbe mai riuscito a lavare via.
Come accadeva ogni volta che si soffermava su pensieri del genere,
oltre alle proprie mani iniziò a sentire su di sé
quelle dei mostri, capaci di graffiare, tirare, stringere e strappare
per il proprio piacere.
«Basta», sussurrò, aggrappandosi al
bordo del lavandino con entrambe le mani. «Basta, vi
prego».
Con uno sforzo immane sollevò un braccio e con forza si
colpì la schiena con l'asciugamano bagnato e pesante come
una frusta.
Si piegò sul lavandino per il dolore, ma grazie ad esso
riuscì anche a riprendere il controllo di sé. Si
sollevò e ansimando tornò a guardarsi allo
specchio: si tirò indietro i capelli e sorrise persino,
dicendosi che non aveva nulla da temere, non più. Strinse
nella mano destra il crocifisso appeso al collo e se lo
portò alle labbra per baciarlo ad occhi chiusi, poi
finì di pulirsi e tornò in camera da letto per
vestirsi nel più totale dei silenzi. Svolse ogni azione
meccanicamente, come un automa: calze, pantaloni, camicia, cravatta.
Si sedette sul bordo del materasso per infilarsi le scarpe e solo una
volta allacciate si girò verso il compagno. Il suo respiro
addormentato lo tranquillizzava sempre, perciò prima di
rialzarsi chiuse gli occhi e si concentrò perché
il proprio vi si adattasse. Quindi, con le mani guantate,
afferrò la pistola che lo stesso Grégorie aveva
preparato per lui e se la infilò nella speciale fibbia
cucita all'interno di ogni sua giacca. Non si poteva mai sapere quando
un gentiluomo avrebbe avuto bisogno di difendersi.
Era stata una giornata piena di emozioni e voleva concluderla nel
migliore dei modi, mettendo al sicuro Molly Hooper. Non lo faceva solo
perché l'aveva promesso a Sherlock, ma anche
perché aveva scoperto che persona perbene fosse. Ce n'erano
poche al mondo ed era nel suo interesse salvaguardarle. Inoltre, non
gli era sfuggito lo sguardo pieno di stima che sua figlia le aveva
rivolto in più di un'occasione.
Prima di allora Geneviève gli aveva già chiesto
di non giocare con i sentimenti della donna, ma non pensava che
l'avesse presa tanto a cuore. Che, in un certo senso, le ricordasse
Clotilde? In effetti entrambe avevano un aspetto gentile e docile,
quasi sprovveduto, dietro il quale si celavano intelligenza, forza e
fierezza. Entrambe sapevano quand'era il momento delle carezze e
quando, invece, quello degli schiaffi. Erano donne a cui la solitudine
non spaventava, anzi, sapevano sfruttarla meglio di chiunque altro.
Finalmente l'auto che era venuta a prenderlo, mandata dalla Adler,
imboccò la rotatoria posta davanti all'ingresso dell'hotel e
si fermò al suo fianco. Arsène prese l'ultima
boccata dalla propria sigaretta elettronica prima di metterla via,
mentre l'autista scendeva e gli apriva la portiera.
Il Ladro Gentiluomo salì sull'elegante veicolo ed ebbe una
brutta sorpresa: i finestrini erano oscurati anche all'interno, in modo
da rendergli impossibile capire dove lo avrebbero condotto.
Abbozzò un sorriso, mettendosi più comodo sul
sedile di pelle, ed ironizzò: «Beh, sempre meglio
di un cappuccio sulla testa. Quello sì che sarebbe stato
disdicevole».
L'autista rispose dicendogli che se voleva poteva versarsi un drink -
c'erano diverse bottiglie sul tavolino posto tra i sedili davanti a lui
- poi alzò il vetro che separava passeggero e conducente.
Arsène non dovette più mostrare
ilarità e ne fu sollevato: non ne era in vena. I suoi sensi
erano in allerta, lo erano sin da quando aveva messaggiato con Irene
Adler, subito dopo aver riportato a casa Molly Hooper.
Aveva trovato strani sia i termini usati per fissare l'incontro sia il
fatto che non gli avesse chiesto dove alloggiava. Come aveva fatto a
scoprirlo? Che l'avesse fatto pedinare? O che qualcuno della sua scorta
si fosse fatto comprare? Dopotutto era difficile rimanere indifferenti
di fronte alla sua bellezza o al fascino della sua aura di potere e
crudeltà. Persino Sherlock si era lasciato abbindolare. (Lo
stesso Sherlock che, stranamente, non aveva risposto all'sms con cui
l'aveva avvisato del suo incontro con la Dominatrice).
Solo Grégorie era, sotto quel punto di vista,
incorruttibile, però un pensiero terribile gli aveva
sfiorato la mente quando l'aveva visto rientrare quella sera, in
ritardo e col volto deformato dalla preoccupazione. Lui che di solito
non si scomponeva mai! Che cosa poteva essergli successo? E poi,
perché all'improvviso aveva dei segreti? In dieci anni non
gli aveva mai nascosto nulla...
Che fosse a causa di Geneviève? Era sempre stato un po'
geloso di lei, ne era consapevole, ma sarebbe stato un motivo
sufficiente per scegliere le parti di Irene Adler? O forse era per via
del suo rapporto complicato con Sherlock? Temeva che, più si
fosse trattenuto a Londra, più ne sarebbe rimasto
influenzato?
Ad un certo punto si era costretto ad allontanare da lui ogni sospetto
- un suo tradimento sarebbe stato insopportabile - ma nonostante tutti
gli sforzi quel pensiero rimaneva lì, a mordicchiargli la
nuca.
Arsène chiuse gli occhi ed acuì i sensi per
cercare di captare i suoni della città, ma l'auto era ben
insonorizzata. Dubitava comunque che avrebbe potuto indovinare in quel
modo la loro destinazione. Se fosse stata Parigi nessun problema, ma
Londra! No, quella era la città di Sherlock.
Ciò nonostante non fu tempo sprecato; anzi, fu grazie a quel
tentativo che scoprì quello che stava succedendo.
Un leggerissimo ronzio, simile a quello dell'aria che esce dal
forellino di un gommone bucato, impercepibile ad orecchie meno
raffinate, gli fece trattenere il respiro appena in tempo. Quindi
estrasse la pistola e sparò contro il separé, il
quale si infranse facendo spaventare l'autista.
L'auto sbandò, ma solo per un attimo. Fu il terrore negli
occhi dell'uomo, i quali incrociarono per la prima volta quelli di
Lupin attraverso lo specchietto retrovisore, a durare di
più. Ora che il vetro era andato in frantumi avrebbe
respirato anche lui qualsiasi gas avesse azionato per stordirlo.
L'autista continuò a guidare e trattenne a sua volta il
respiro, tanto a lungo che il suo volto divenne paonazzo. Forse sperava
di poter durare più del ladro per poi, una volta fuorigioco,
aprire il finestrino e prendere una boccata di ossigeno. Povero stolto.
Arsène gli rivolse un sorriso tranquillo e in tutta calma
tirò fuori dal cappotto l'astuccio in cui conservava la
propria sigaretta elettronica e dei filtri di ricambio. Tra questi ce
n'era uno particolare, su cui anziché specificato il tipo di
aroma - vaniglia, cioccolato, menta - c'era scritta una formula
chimica: O2.
Avvitò il filtro speciale e tappandosi il naso
tirò una lunga boccata, per poi rivolgere all'uomo un altro
pacifico sorriso ed addossarsi allo schienale del sedile, con le gambe
accavallate e le sopracciglia inarcate.
A quel punto, capendo di non aver alcuna possibilità, il
conducente fece qualcosa che Arsène non aveva previsto:
chiuse gli occhi ed accelerò.
***
Grégorie si svegliò di soprassalto, sudato e col
cuore che gli batteva furiosamente nel petto.
Un incubo. Era solo un
incubo, si disse nel tentativo di calmarsi.
Si voltò verso la parte di letto vuota alla sua destra e
tornando a sdraiarsi vi passò sopra la mano, sentendo le
lenzuola ancora calde e che sapevano degli umori del sesso.
Notò inoltre che la pistola, prima che si addormentasse
posata sul comodino, era stata sostituita dal finto fiore bianco con
cui Arsène aveva giocato per tutta la sera e che alla fine
aveva infestato persino i suoi sogni. Nel suo incubo, infatti, il Ladro
Gentiluomo si trovava in una bara stracolma degli stessi fiori bianchi,
i quali però, nonostante la quantità e il loro
intenso profumo, non riuscivano a coprire l'odore della morte.
Grégorie allungò una mano verso il comodino e lo
afferrò, domandandosi come l'avesse ottenuto. Fu una
curiosità di un attimo, spazzata via da altre e
più pressanti preoccupazioni: chi era la persona che doveva
incontrare e perché non si era confidato con lui come per
ogni sua altra operazione?
E poi, perché quella missione in solitaria? Non si fidava di
lui? O forse aveva capito che lo stava tenendo all'oscuro di qualcosa e
quello era il suo modo per fargliela pagare? Se era davvero quello il
suo intento ci stava riuscendo perfettamente, visto che era tanto
preoccupato da avere gli incubi.
Chiuse gli occhi nel tentativo di dormire per qualche altra ora, ma non
riuscì ad abbandonarsi alle braccia di Morfeo. Voleva solo
le sue, di braccia... Voleva che lo stringessero forte, ma con
dolcezza, e che allontanassero il mostro della paura che stava
allungando le sue mani dalle lunghe dita sul suo cuore, intrappolandolo
in una morsa gelata.
***
«Non risponde».
«Questo lo so anch'io. Riprova».
Venne inoltrata una nuova chiamata e i beep, un po'
distorti a causa del vivavoce, riempirono il grande ufficio dalla
moquette verde.
Dei mugolii ruppero il religioso silenzio tra un beep e l'altro e la
donna seduta dietro la scrivania tirò un calcio alla causa
di quei versi.
«Zitta, cagna».
Al settimo beep
la chiamata venne accettata e si udirono un respiro rauco e dei passi
strascicati su dei pezzi di vetro.
«Chiunque tu sia... ti troverò... e te la
farò pagare... cara», esordì con voce
affaticata, ma ugualmente minacciosa, l'uomo che aveva risposto alla
chiamata. «Parola di Arsène Lupin».
Si udì il boato di un'esplosione e la donna sorrise,
togliendosi le mani grassocce da sotto il mento per premere il tasto
"Chiudi".
«Vieni, Arsène Lupin. Ti aspetto»,
rispose in tono di sfida.
Prese il cellulare prepagato e lo porse al ragazzo in piedi alla sua
destra. «Disfatene», ordinò e questi,
dopo averlo afferrato con entrambe le mani, annuì con un
cenno del capo e si voltò per uscire dall'ufficio.
«Gabriel, aspetta».
Il ragazzo, con quei lunghi capelli biondi un po' ricciuti, legati in
una coda, i lineamenti del viso delicati, quasi effemminati, e quei
profondi occhi neri, ricordava davvero l'arcangelo Gabriele.
Si fermò davanti alla porta ed osservò il suo
capo girare la poltrona verso la donna accucciata ai suoi piedi:
indossava solo gli indumenti intimi e il pizzo nero metteva in risalto
il chiarore della sua pelle e i lividi di varie tonalità che
le ricoprivano le gambe, la schiena, le braccia. I suoi esili polsi e
il collo, in particolare, erano martoriati dai segni delle catene che
la tenevano legata all'imponente scrivania di mogano. E, come ogni cane
rabbioso che si rispetti, una museruola in lattice nero le teneva
chiusa la bocca.
Delle lacrime le scivolarono sulle tempie quando venne strattonata per
le catene perché si mettesse in ginocchio ed alzasse il capo
per ricambiare lo sguardo pieno di rabbia e follia del proprio
carceriere.
«Che cosa c'è, Dominatrice? Non è
più bello quando il gioco lo conduce qualcun altro,
eh?».
La donna scoppiò a ridere e poi, bruscamente,
mollò la presa sulle catene. Irene Adler, stremata, cadde
con un tonfo sulla moquette verde e lì rimase, senza
produrre il benché minimo suono, anche quando
sentì un piede posarsi alla base della sua schiena.
«E così il signor Lupin non è venuto a
sostituirti», disse ancora la donna, schioccando la lingua al
palato. «Peccato, un vero peccato, perché inizio a
stancarmi di te».
A quel punto le tirò un calcio nell'addome e poi la
scavalcò per raggiungere Gabriel ed impartirgli gli ultimi
ordini: «Dalle una ripulita e portala nella sua gabbia, non
vorrei che mi sporcasse la moquette».
«Sì, zia».
Gabriel aspettò che la donna sparisse dietro l'angolo prima
di tornare verso la Adler, la quale non oppose alcuna resistenza quando
fu voltata e una mano gentile le scostò i capelli dalla
fronte. Si limitò a piangere, guardando quel volto tanto
angelico e chiedendo con gli occhi un po' di pietà.
«Resisti, presto finirà tutto», le
sussurrò Gabriel, iniettandole nell'incavo del braccio una
dose di morfina per alleviarle un po' il dolore.
Irene, nonostante fosse consapevole che lui non potesse vedere oltre il
latex che le nascondeva la bocca, gli sorrise con gratitudine prima di
chiudere gli occhi e perdere i sensi.
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Capitolo 18 *** Undercover ***
Okay, se dopo la fine del capitolo 17 mi avete immaginata a ridere con
tono malefico... beh, non ci siete andati troppo lontani xD
A parte gli scherzi, la settimana scorsa ci siamo lasciati con un colpo
di scena e ora è giunto il momento delle spiegazioni e delle
reazioni. Inoltre, alcuni pezzi andranno al loro posto e avvenimenti
che sembravano solo un modo per riempire i vuoti si riveleranno invece
collegati a ciò che sta accadendo ai nostri protagonisti.
Sono stra-curiosa di avere il vostro parere, perciò non vi
annoierò oltre!
Vi auguro una buona lettura e ringrazio tutti per essere arrivati fino
a qui, chi commentando e chi leggendo solamente. ♥
Buona Vigilia e auguri di Buon Natale!
Vostra,
_Pulse_
________________________________________________________________________
18. Undercover
John, grazie al suo sonno leggero da soldato, fu in grado di sentire i
rumori provenienti dal salotto. Era entrato qualcuno.
Si alzò in fretta, già completamente sveglio e
lucido, e tirò fuori dal primo cassetto del comodino la
propria pistola. Controllò che fosse carica e poi si
alzò per dirigersi verso la camera della figlia, posta
proprio davanti alla sua. Vedendola addormentata chiuse la porta il
più piano possibile e col cuore che gli batteva forte nelle
orecchie percorse il corridoio rasentando il muro, il braccio destro
teso davanti a sé.
Giunto in salotto puntò la pistola, ma non c'era nessuno.
Fece per abbassarla, ma dei nuovi rumori, quella volta provenienti
dalla cucina, gli fecero stringere il calcio con più forza.
Si avvicinò con cautela, prestando attenzione ad ogni passo,
e solo quando abbassò gli occhi per non inciampare in un
pupazzetto di Rosie notò la scia di gocce di sangue che
dall'ingresso conducevano proprio alla cucina.
Il suo primo pensiero fu rivolto a Sherlock e, divorato dalla
preoccupazione, abbassò l'arma per fare il proprio ingresso
in cucina, sul cui pavimento era stato abbandonato un cappotto molto
simile a quello del detective, ma differente.
John accese la luce e percorse la figura dell'uomo che si era
appoggiato al bordo del tavolo, intento ad estrarsi dal fianco sinistro
dei frammenti di vetro con una pinza da cucina in acciaio. Il sangue,
che gli aveva già inzuppato la camicia, stava gocciolando ai
suoi piedi.
«Mi dispiace averti svegliato», esordì
Arsène Lupin, rivolgendogli un sorriso nonostante il dolore
e le abrasioni sul suo volto. «Il fatto è che
credo di aver bisogno di un dottore».
Iniziò a ridere debolmente e le sue palpebre si abbassarono.
John lo raggiunse con poche falcate prima che gli cedessero le
ginocchia e si portò un suo braccio intorno al collo, poi
fece uno sforzo per stenderlo sul tavolo. Fece saltare i bottoni della
camicia aprendogliela sul petto ed esaminò la ferita: il
taglio era irregolare e profondo, come se fosse stato trafitto da una
bottiglia, e diversi pezzi di vetro erano ancora all'interno. Aveva
perso moltissimo sangue e il suo pallore mortale ne era la prova.
«Hai bisogno di andare in ospedale»,
esclamò con decisione.
Arsène però gli afferrò il polso prima
che potesse allontanarsi per chiamare un'ambulanza e sia la forza della
sua stretta, sia il fuoco nei suoi occhi verdi gli fecero capire fino a
che punto fosse straordinario quell'uomo.
«Niente ospedali. Questo deve rimanere tra noi,
dottore».
«Che cosa? Rischi di morire!».
«Credo nelle tue capacità», rispose il
ladro, sorridendo. «Allora, ho la tua parola? Nessuno deve
venirlo a sapere. Nemmeno Sherlock».
John non aveva tempo per porre ulteriori domande: se non faceva subito
qualcosa per fermare l'emorragia, Arsène sarebbe davvero
morto dissanguato.
«E va bene. Ma ti avviso che senza gli strumenti
giusti...».
Arsène chiuse gli occhi, forse vinti per la stanchezza, ed
abbozzò un sorriso. «Siamo in una cucina... Non
c'è sala operatoria migliore».
Sembrava così tranquillo, anche ad un passo dalla morte...
John non se ne capacitava.
Senza esitare ulteriormente il dottore gli prese la pinza dalle mani,
recuperò la cassetta del pronto soccorso e degli stracci
puliti, mise a sterilizzare sui fuochi alcuni attrezzi da cucina e
prese tutto ciò che aveva in freezer.
Posò i sacchetti di piselli e delle bistecche congelate
intorno alla ferita, per anestetizzare l'area, e nel
frattempò andò a recuperare la bottiglia di
whisky che teneva sempre di scorta per i momenti difficili.
L'aprì e la posò in mano ad Arsène,
ordinando: «Bevi. Farà parecchio male».
Il ladro si attaccò al collo della bottiglia e
trangugiò un lungo sorso, tanto da farsi lacrimare gli
occhi. Quindi alzò il capo per vedere la pinza bollente che
John stava per infilargli nella carne viva per divaricare la ferita e
chiudere col calore i vasi sanguigni.
«So quello che faccio. O ti vuoi già rimangiare
ciò che hai detto prima?», gli domandò
il dottor Watson, notando il suo sguardo preoccupato.
Il ladro deglutì e tornando a posare il capo sul tavolo
negò muovendolo a destra e a sinistra. Bevve un altro po' di
whisky e poi strinse tra i denti un mestolo di legno.
«Allora io vado. Uno, due...».
Arsène sgranò gli occhi, straziato dal dolore.
Aveva saltato il tre.
Quando Arsène riaprì gli occhi i primi raggi del
sole illuminavano il soffitto della cucina. Era ancora sdraiato sul
tavolo, ma John gli aveva messo un cuscino sotto la testa e gli aveva
steso addosso una coperta in pile.
Nell'aria aleggiava ancora odore di carne bruciata, sangue e
disinfettante; era chiaro però che mentre era privo di
conoscenza era stato preparato del caffè: l'aroma era
inconfondibile. Anche lui avrebbe gradito bere qualcosa, visto che
sentiva la gola arida e la lingua come carta vetrata contro il palato.
Voltò il capo verso sinistra, in direzione del salotto da
cui proveniva la voce dell'annunciatrice del telegiornale del mattino,
e con un sforzo cercò di alzarsi. Il dolore al fianco fu
talmente intenso che rischiò di vomitare. In qualche modo
però riuscì a trattenersi e a mettersi seduto,
poi scese dal tavolo. A passi brevi e sostenendosi al muro con una
mano, mentre con l'altra si teneva la ferita ricoperta da vari giri di
garza, raggiunse la porta.
John Watson era seduto sul divano, con la faccia sbattuta di uno che
non aveva chiuso occhio, e quando i loro sguardi si incrociarono il
ladro sorrise, esclamando: «Hai un aspetto terribile,
dottore».
Il blogger di Sherlock Holmes ricambiò. «Ti sei
visto allo specchio?».
Arsène non riuscì a trattenere le risa, le quali
gli provocarono una scarica di dolore che lo costrinse ad appoggiarsi
allo stipite con la schiena.
John gli fu subito accanto e come poche ore prima si avvolse un suo
braccio intorno al collo per sostenerlo ed accompagnarlo al divano,
dove lo fece sedere con delicatezza.
«Non devi fare il minimo sforzo, ci siamo capiti? Hai
rischiato di morire».
Il Ladro Gentiluomo sollevò un angolo della bocca,
sbarazzino. «Non è il mio primo rodeo».
John si diresse verso la cucina e tornò pochi secondi dopo
con un bicchiere d'acqua. «Bevi, cowboy. Devi
reintregare i liquidi perduti».
Arsène annuì e bevve, sperando che il saporaccio
che aveva in bocca sparisse. Quindi riconsegnò il bicchiere
al dottore e lo guardò sedersi al suo fianco sul divano, i
gomiti posati sulle ginocchia e gli occhi rivolti verso il televisore.
«Che avrei fatto se fossi morto sul tavolo della mia
cucina?», gli domandò piano. «Come
l'avrei detto a Geneviève?».
«E io che pensavo che temessi davvero per la mia
vita», ridacchiò il ladro, col capo abbandonato
contro lo schienale.
«Sono un dottore, temo per le vite di tutti i miei
pazienti».
Arsène rimase in silenzio, profondamente colpito da quelle
parole. Quando trovò finalmente la forza per ringraziarlo,
John indicò le immagini sul televisore con un cenno del capo.
«Ne sai qualcosa?», gli domandò.
Il servizio riguardava una notizia dell'ultima ora: intorno alle tre di
quella notte un'auto si era schiantata a folle velocità
contro la facciata di un palazzo e aveva preso fuoco. Il conducente era
morto sul colpo e al momento la polizia, arrivata dopo l'intervento dei
vigili del fuoco, era ancora sul posto per ricostruire l'accaduto,
recuperare i filmati delle telecamere stradali e quelle a circuito
chiuso dei negozi vicini e raccogliere le dichiarazioni di eventuali
testimoni oculari. Era ancora da verificare se al momento
dell'incidente sul veicolo ci fossero dei passeggeri, ma secondo le
prime indiscrezioni sembrava proprio di sì.
«Mi vuoi raccontare che cos'è successo?».
«Meglio di no: ti ho già procurato abbastanza
disagi. Tolgo il disturbo».
Nonostante vedesse doppio e si sentisse tanto accaldato da avere il
volto bagnato di sudore, Arsène provò ad alzarsi;
John ovviamente non glielo permise.
«Non hai ascoltato una parola di quello che ti ho detto,
vero? Tu non puoi andare da nessuna parte in queste condizioni! Hai
perso moltissimo sangue e hai bisogno di assoluto riposo».
«E dovrei rimanere qui?», chiese, esterrefatto.
Il dottore si alzò e si portò le mani sui
fianchi, le sopracciglia inarcate. «Sono desolato che la
soluzione non l'aggradi, Vostra Signoria!».
«No, non è quello», sussurrò
il ladro, a capo chino. «Davvero tu... mi ospiteresti? Se
Sherlock dovesse venirlo a sapere...».
«Di nuovo: non hai ascoltato una parola di quello che ti ho
detto».
Arsène sollevò il capo e ad attenderlo
trovò un inaspettato sorriso.
«Che tu sia un ladro, il papa o la regina d'Inghilterra non
mi importa. Sei un mio paziente e non ti lascerò andare fino
a quando non sarò sicuro dei tuoi miglioramenti».
«Potrei denunciarti per rapimento».
«E io per violazione di domicilio».
Arsène scrollò le spalle con un sorriso divertito
sul volto, affermando: «Dovevo scegliere meglio il mio
dottore».
***
Grégorie controllò l'orologio da polso e
bussò alla porta dell'hacker che si era unito alla banda di
Arsène Lupin circa tre anni prima: un ragazzino di nome
François, dai folti capelli ricci, alto e secco come un
giunco.
Dopo la tragica scomparsa dei genitori per mano di un assassino che il
Ladro Gentiluomo aveva aiutato a consegnare alla polizia francese,
aveva deciso di mettere le sue straordinarie abilità a
servizio dell'uomo che gli aveva offerto una nuova vita. Si diceva che
non ci fosse sito, programma o sistema di sicurezza che lui non potesse
craccare ed era proprio delle sue abilità che aveva bisogno
in quel momento.
L'hacker aprì la porta stropicciandosi gli occhi, piccoli
dietro le grandi lenti degli occhiali, e Grégorie si
introdusse nella stanza senza nemmeno ricevere prima il permesso.
«Che ore sono?», domandò il ragazzo con
voce rauca, così profonda che pareva impossibile che
appartenesse ad uno che, stanto alle apparenze, sarebbe potuto volare
via al più debole soffio di vento.
«Le sette e trenta», rispose monocorde l'uomo coi
baffi.
«Del mattino?! Ma sei pazzo? Sono andato a dormire tre ore fa
per colpa di Sherrinford! Ne è valsa la pena
però, sai? Ce l'ho fatta, ho finalmente...».
«Adesso non mi interessa», lo interruppe
sbrigativo. «Sono venuto per una questione
personale».
«Personale? Tu? Pensavo fossi un tutt'uno col big boss».
Lo sguardo severo che gli rivolse gli fece rizzare la schiena e
recuperare il portatile abbandonato ai piedi del letto sfatto, sul
quale si sedette a gambe incrociate. Lo accese e dopo essersi sistemato
gli occhiali sul setto nasale gli chiese: «Che cosa posso
fare per te?».
Grégorie si avvicinò e porgendogli una chiavetta
USB spiegò: «Devi entrare nel programma dell'hotel
che monitora i passepartout del personale e copiare la lista di tutti
quelli che hanno aperto la camera di Geneviève».
«Easy.
Altro?».
«Sì. Fammi una copia di tutte le riprese delle
telecamere di sorveglianza che c'erano nella sua stanza».
A quel punto il ragazzo fermò il frenetico digitare sulla
tastiera ed alzò il capo per incrociare lo sguardo del
più anziano.
«Mi pare di capire che stai cercando qualcuno. Vuoi una mano?
Le ore di filmato sono parecchie...».
Grégorie gli tirò uno schiaffetto sulla nuca.
«Tu che ti offri di fare qualcosa? Di' la verità:
vuoi vedere la figlia di padron Lupin mentre dorme».
Il ragazzo diventò rosso come un peperone, confermando i
sospetti dell'uomo, e tornò a fissare lo schermo, muovendo
le dita sui tasti.
Una volta fatto consegnò la chiavetta al superiore e prima
che uscisse dalla porta sussurrò: «Non lo dirai al
big boss,
vero?».
Grégorie sospirò ed uscì senza
rispondergli. Controllò di nuovo l'orologio e si diresse
verso la royal suite del suo padrone.
Entrò e salutò con un cenno del capo gli addetti
alla sicurezza che stavano per andare a riposarsi e quelli che
avrebbero iniziato il turno, poi bussò alla porta della
camera matrimoniale. Non ricevette risposta, ma questo non gli
impedì di entrare: dopotutto era suo compito svegliarlo.
Peccato che il letto fosse intonso e che di Arsène non vi
fosse traccia. Che non fosse ancora rientrato?
Col cuore che gli batteva forte nel petto tornò indietro e
sulla porta fermò gli uomini che erano rimasti lì
tutta la notte per chiedere loro se l'avessero visto.
«No, pensavamo fosse con te».
Grégorie si portò un pugno alla bocca, cercando
di mantenere la calma. Diede loro le spalle, dicendo che potevano
andare, ed estrasse il cellulare dalla tasca dei pantaloni. Lo
chiamò, ma una voce femminile gli comunicò che
l'utente non era raggiungibile.
Gli sembrava di essere rientrato nell'incubo che l'aveva svegliato
quella notte, con l'unica differenza che quella volta era tutto vero.
Aveva un brutto, bruttissimo presentimento, però doveva
avere fede nel proprio padrone e continuare il lavoro assegnatogli.
Un'altra occhiata all'orologio e fu costretto a prendere il cappotto:
anche lui doveva dare il cambio ad Ernest nella sorveglianza della
signorina Geneviève.
***
«Mi raccomando: nessuno sforzo. E non... non toccare niente,
per favore».
Arsène gli fece l'occhiolino e sollevò una mano.
John, già con un piede oltre la porta di casa,
guardò la figlioletta rispondere al saluto stringendo e
aprendo il pugno, e riuscì a stento a trattenere una risata
guardando l'espressione incredula del Ladro Gentiluomo. Quindi chiuse
la porta di casa e Arsène rimase solo.
Si sdraiò sul divano e riuscì a stare fermo per
cinque minuti. Ciò che era successo poche ore prima, i vari
sospetti che avevano iniziato a bussargli alle pareti del cranio e la
consapevolezza di non poter fare davvero nulla in quelle condizioni
avrebbero aggravato ulteriormente il suo mal di testa se non si fosse
distratto con altro.
Quell'imboscata era stata opera di Irene Adler, stufa di attendere?
Oppure qualcuno l'aveva sfruttata per arrivare fino a lui? In quel caso
chi erano, come avevano fatto a sapere che alloggiava al Savoy Hotel e
cosa volevano da lui?
Si alzò faticosamente e tornò in cucina per
recuperare il proprio cappotto, appoggiato su una sedia.
Sbuffò irritato, notando il sangue e le scuciture provocate
dai frammenti di vetro delle bottiglie contro cui era finito nel
momento dello schianto. Era irrimediabilmente rovinato e
giurò a se stesso che avrebbe messo in conto anche quello
alle persone che avevano ordito l'agguato.
Quindi prese ciò che cercava: il cellulare dell'autista e il
proprio. Lo schermo di quest'ultimo aveva una ragnatela di crepe sullo
schermo e non dava segni di vita (il conto continuava a salire), mentre
quello che aveva preso al conducente kamikaze, un prepagato con la
chiusura a conchiglia, era ancora in buone condizioni. Ne
scandagliò il contenuto: rubrica, messaggi inviati e
ricevuti, ma a parte la chiamata ricevuta subito dopo l'incidente e a
cui aveva risposto lui non c'era niente. Forse con l'aiuto dei propri
compagni avrebbe potuto ricavare qualcosa di più - delle
impronte, o con un po' di fortuna la triangolazione dell'area da cui
era stata fatta la chiamata - ma purtroppo era solo. Al momento non
poteva fidarsi di nessuno, nemmeno di Grégorie, e il solo
pensiero gli faceva sanguinare il cuore.
Si diresse verso il bagno e si guardò allo specchio,
spaventandosi di fronte al proprio riflesso: il volto, in particolare
la parte sinistra, era sfregiato dalle abrasioni - che il dottor Watson
doveva aver medicato dopo l'operazione - e tanto pallido da riuscire a
scorgere le vene bluastre sottopelle; gli occhi stanchi, cerchiati da
ombre scure; i capelli in disordine. Automaticamente se li
tirò indietro con una mano, accorgendosi della sporcizia e
del sangue incrostato sotto le unghie.
Schifato si spogliò ed entrò nella vasca da bagno
vuota, aprì il getto d'acqua e si lavò alla
bell'e meglio, facendo attenzione a non bagnare la garza che gli
fasciava il ventre. Quando si sentì sufficientemente pulito
uscì e con un asciugamano intorno alla vita cercò
la camera da letto di John. Si imbatté prima in quella di
Rosie e un sorriso venato d'amarezza gli piegò le labbra
comparando quella stanza dalle pareti colorate, col fasciatoio da una
parte e la culla dall'altra, colma di giochi e vestitini, con quella in
cui era cresciuto lui.
Scosso dai brividi di freddo allontanò quei pensieri ed
entrò nella camera di fronte, dirigendosi immediatamente
verso l'armadio.
«Mon Dieu»,
esclamò Arsène, atterrito di fronte alla scelta
che sarebbe stato costretto a fare: maglioni dalle orribili fantasie o
camicie di flanella?
Trovò una maglietta intima di cotone e se la
infilò, poi prese uno dei pochi maglioni in tinta unita, di
un grigio-beige e con spessi intrecci verticali, e dei jeans che,
avendo il dottore le gambe più corte delle sue, gli
arrivavano ad almeno tre dita sopra la caviglia scoperta. In quel
momento si sentiva ridicolo, non poteva nemmeno immaginare che quel
pomeriggio, girando per le strade di Londra, avrebbe dato il via ad una
nuova moda.
Una volta vestito tornò in salotto, dove si mise a curiosare
tra i libri posseduti da John.
Non doveva essere un gran lettore, o forse ultimamente non aveva
abbastanza tempo per sé: così gli suggeriva la
polvere sulle mensole. Solo un punto ne era privo, in corrispondenza di
un volume dalla spessa copertina di pelle. Lo estrasse, venendo meno
alla promessa fatta al dottore, e scoprì che non si trattava
di un libro, bensì di un album fotografico.
Lo portò con sè sul divano e lo
sfogliò con calma, ammirando i volti felici di John e Mary,
novelli sposi, e di tutti gli invitati. C'erano la signora Hudson,
l'ispettore Lestrade, Sherlock e Molly. Arsène sorrise
notando che non c'erano foto di loro due insieme. O almeno, non in cui
ne fossero consapevoli.
All'epoca l'anatomopatologa era fidanzata con un ragazzo che nelle
fattezze ricordava vagamente il detective e davanti all'obiettivo aveva
cercato in ogni modo di dimostrarsi felice ed appagata da quella
relazione, ma le prove che la sua fosse una semplice recita ce le aveva
davanti: in più di un'occasione era stata immortalata mentre
guardava in direzione di Sherlock, con sguardo triste e malinconico, e
lo stesso aveva fatto il detective quando lei non poteva accorgersi
delle sue occhiate.
Il Ladro Gentiluomo si chiese come avesse dormito la donna quella
notte, dopo aver saputo le motivazioni dietro il comportamento
scostante di Sherlock. E come invece l'avesse trascorsa il detective,
ora che finalmente aveva scoperto che il suo amico Lestrade era stato
tenuto sotto sorveglianza.
Chiuse l'album e lo riaprì dall'inizio per incrociare ancora
una volta lo sguardo di Mary Morstan, la sorella della sua amata
Clotilde e zia di Geneviève; la stessa donna che aveva
sacrificato la sua vita per salvare quella di Sherlock.
Estrasse la fotografia e se l'avvicinò al volto per
sussurrare: «Non potrò mai ringraziarti
abbastanza. Se Sherlock fosse morto, io... beh, non importa. Grazie,
Mary. Grazie di cuore».
Posò un lieve bacio sulla fotografia, in corrispondenza
della fronte della donna, poi la sistemò nell'album e si
sdraiò supino sul divano. Le palpebre si abbassarono senza
che nemmeno se ne accorgesse e piombò in un sogno in cui
tornò ventenne.
***
«Perché sei voluta venire al lavoro con me? Di
domenica, oltretutto».
Geneviève alzò gli occhi dal microscopio col
quale si era messa ad esaminare un suo stesso capello e sorrise in
direzione di Molly, seduta poco distante. Stava compilando il rapporto
inerente all'ultima autopsia effettuata, alla quale purtroppo non
l'aveva fatta assistere. «Non è roba adatta ad una
ragazzina», le aveva detto.
«Ieri, al supermercato, non hai forse detto che potevi
cavartela da sola?», aggiunse Molly.
«Mi piace questo laboratorio», rispose la
ragazzina, stringendosi nelle spalle. Poi, mordendosi il labbro
inferiore, confessò: «E non mi andava di lasciarti
sola».
La scienziata sforzò una risata, così come si era
sforzata quella mattina davanti allo specchio per coprire col trucco i
segni di una notte praticamente insonne.
«Ti ringrazio, ma sto bene».
«Uhm, meglio così».
Entrambe tornarono alle loro faccende e calò il silenzio.
Non era un silenzio spiacevole, ma Geneviève fu comunque
grata all'ispettore Lestrade, il quale bussò alla porta ed
entrò con espressione stanca.
«Ciao Greg», lo salutò Molly con tono di
voce sorpreso. «Anche tu di turno, eh?».
«I criminali, proprio come i morti, non rispettano i festivi
purtroppo».
«Se sei venuto qui per il cadavere carbonizzato, dovresti
sapere che non ho effettuatio io l'autopsia».
L'uomo sorrise imbarazzato e le porse un bicchierone di
caffè, per poi lasciare sul tavolo la cartelletta che
portava sotto braccio.
«Non sono qui per quello, infatti. Che caso strano, comunque.
Dai primi rilevamenti sembra che l'autista non abbia cercato di
frenare».
«Credi si tratti di un suicidio?».
Lestrade scosse il capo. «Non saprei. La scientifica sta
ancora controllando ciò che è rimasto dell'auto e
dato che avevo del tempo libero ho deciso di fare un salto qui. Come
stai?».
«Bene».
Si guardarono e Geneviève poté percepire la
tensione tra loro. L'ispettore di Scotland Yard fu il primo ad
abbassare gli occhi e a grattarsi la nuca.
«Ah, era ieri sera lo spettacolo alla Royal Opera House? Ci
sei andata, poi?».
Molly sospirò profondamente e si addossò allo
schienale dello sgabello per incrociare le braccia al petto e guardarlo
severamente.
«Ascolta Greg, so benissimo che l'incontro con Anderson non
è stata una coincidenza. So che è stato mandato
lì da Sherlock per controllare Jean Daspry,
Arsène Lupin o come volete chiamarlo... E so che tu l'hai
aiutato, fornendogli la strumentazione necessaria a registrare tutto.
Avete ricavato qualcosa di utile, almeno?».
Lestrade negò col capo, gli occhi fissi sul pavimento.
Passarono diversi secondi prima che riprendesse a parlare.
«Non è una giustificazione, ma Sherlock ha
scoperto che anche lui ci spiava. O meglio, spiava me. Ho fatto
controllare la mia auto e il mio ufficio e sono state trovate delle
cimici».
A quelle parole Molly rimase a bocca aperta, scioccata, ed
istintivamente si voltò verso Geneviève,
rendendosi conto troppo tardi dell'errore. Greg, il quale fino ad
allora non l'aveva notata seduta dietro il microscopio,
corrugò la fronte.
«Ehi, ma tu... tu sei quella ragazzina che abbiamo ripescato
dal Tamigi insieme a Sherlock quando indagava sul caso del piede di
diavolo!».
La biondina sorrise e sollevò una mano.
«Ehilà».
Prima che potesse fare altre domande, Molly cercò di
cambiare argomento: «Ci sono novità sulla
sconosciuta della fish?».
Greg finse di dimenticarsi di Geneviève e rispose con aria
afflitta: «Purtroppo no. Nessuno per ora ne ha denunciato la
scomparsa, perciò non sappiamo ancora chi sia. La
scientifica ha esaminato il proiettile per verificare se la pistola
fosse stata usata in altri crimini, senza risultati. E per quanto
riguarda la fish... è un pezzo standard, usato in decine di
casinò. Ho mandato degli agenti a fare domande in giro, ma
per ora siamo ad un punto morto».
Alzò la cartelletta che aveva lasciato sul tavolo e
aggiunse: «Quindi pensavo proprio di passare da Sherlock per
chiedergli un'altra volta il suo aiuto, anche se dubito...».
«Posso vedere?», lo interruppe
Geneviève, saltando giù dallo sgabello.
«Assolutamente no!», gridarono contemporaneamente i
due adulti.
La ragazzina incrociò le braccia al petto e con aria
saccente esclamò: «Come volete. Però
sappiate che, come nuova assistente di Sherlock Holmes, potrebbe darmi
retta se fossi io a proporgli il caso».
Molly guardò Greg assottigliando gli occhi, sibilando:
«Non ci pensare nemmeno».
«E se fosse un serial killer fissato col gioco
d'azzardo?», replicò Lestrade, nonostante fosse
lui stesso poco incline a condividere con una ragazzina informazioni su
delle indagini in corso. «Se dovessero esserci altre vittime
riusciresti a dormire tranquilla? Io no». Sospirò
ed incrociò gli occhi della ragazzina, la quale stese le
mani con un sorriso euforico sul volto.
«Ci serve l'aiuto di Sherlock», esclamò
quindi l'ispettore, come a voler convincere se stesso, e stringendo i
denti le consegnò la cartelletta.
Geneviève si appoggiò al tavolo, accanto ad una
Molly contrariata, ed iniziò a sfogliare il fascicolo.
Guardò le foto della scena del crimine senza rimanerne
minimamente impressionata, per questo trovarono tanto strano il suo
improvviso pallore quando si imbatté in quella che era stata
scattata al viso della ragazza una volta terminata l'autopsia.
I lunghi capelli neri, il volto pallido e le labbra a cuore. Non aveva
segni distintivi, nessun neo o voglia caratteristici, eppure ne era
assolutamente certa: lei aveva già visto quella ragazza.
«Che cosa c'è?», le chiese Molly, quasi
con cautela.
«Io... Io so chi è questa ragazza. O meglio, so
dove lavorava».
Greg la fissò scioccato per qualche istante, prima di
trovare la forza per chiederle dove.
«Al Savoy Hotel. Faceva la cameriera, l'ho incrociata spesso
nei corridoi e ha anche rassettato la mia stanza un paio di
volte», rispose Geneviève, senza pensare che
quelle informazioni, agli occhi dell'ispettore, avrebbero potuto
legarla ulteriormente ad Arsène Lupin. Non poteva
però rimanere in silenzio, c'era di mezzo una ragazza morta!
«Vado subito sul posto», esclamò
Lestrade, togliendole il fascicolo dalle mani. Geneviève
però lo pregò di aspettare.
«Aspettare cosa? Non c'è un minuto da
perdere!».
«Non può essere», mormorò la
ragazzina, con un lieve tremore a scuoterle le spalle.
«Lì c'è scritto che è morta
domenica scorsa».
«Sì, è esatto»,
confermò Molly. «Ho eseguito io
l'autopsia».
Geneviève si aggrappò al braccio
dell'anatomopatologa con entrambe le mani e la guardò con
gli occhi colmi di lacrime. «E allora mi dici
com'è possibile che io l'abbia vista uscire dalla mia camera
l'altro ieri?».
***
Grégorie, appostato fuori dal St. Bart's, bevve un sorso di
caffé e poi tornò a concentrarsi sullo schermo
del piccolo notebook che aveva davanti al volante.
Le telecamere installate nella camera di Geneviève avevano
dei sensori di movimento, perciò si azionavano soltanto
quando c'era effettivamente qualcuno; ciò nonostante se
avesse dovuto controllare tutte le ore di registrazione ci avrebbe
impiegato il doppio del tempo. Anche per questo aveva chiesto la lista
degli accessi dei passepartout, in modo da diminuire la mole di lavoro.
Era sempre possibile che il ladro del quaderno si fosse introdotto dal
balcone, o che avesse colpito quando ormai Arsène, spinto
dal desiderio di essere un padre migliore, aveva smesso di sorvegliare
la propria figlia.
L'uomo sospirò e strizzò gli occhi, mandando
avanti velocemente il filmato. Quindi premette il tasto play e
guardò Geneviève uscire dal proprio fortino col
quaderno tra le mani ed infilarlo nel primo cassetto del comodino alla
destra del letto. Proprio dove gli aveva detto di averlo visto l'ultima
volta.
Mandò ancora avanti, arrivando alla mattina di
venerdì, e guardò con particolare attenzione la
cameriera dai capelli neri entrare nella stanza e rimanere con le mani
sui fianchi a fissare le lenzuola fissate al lampadario. Quindi si
arrampicò sul letto e le sciolse, le appallottolò
e le buttò sul pavimento. Solo allora si mise a curiosare in
giro, fino a quando non aprì i cassetti dei comodini e
trovò il quaderno. Lo sfogliò velocemente e,
capendo quante informazioni contenesse, lo infilò tra le
lenzuola sporche ed uscì dalla stanza. Vi rientrò
solo per terminare il lavoro da cameriera, che svolse con
velocità e precisione. Fin troppa.
Grégorie stoppò il filmato e recuperò
quello di una settimana prima, dove era comparsa la stessa cameriera.
Mise i due modi di lavorare a confronto e a quel punto c'erano due
possibilità: o quella cameriera aveva frequentato un corso
lampo che l'aveva resa perfetta, oppure erano due persone diverse.
Gli bastò poco per verificare quale delle due teorie fosse
quella esatta: chiamò il Savoy Hotel e dando al receptionist
la parola d'ordine la sua chiamata venne trasferita al direttore, uno
dei pochi a conoscere la vera identità del loro ospite. Gli
venne assicurato che l'avrebbe richiamato con tutti i dettagli
riguardanti la cameriera e così fu: cinque minuti dopo
sapeva esattamente chi era, dove abitava e anche che, dopo quasi una
settimana di malattia, venerdì mattina era tornata al
lavoro, per poi sparire nuovamente senza più farsi viva.
«La ringrazio», disse e terminò la
comunicazione.
Si massaggiò gli occhi con due dita e non ebbe nemmeno il
tempo per mettere in ordine le idee che ricevette un'altra chiamata,
quella volta dal cellulare prepagato dato a Geneviève per le
emergenze.
«Altri dubbi culinari?», esordì
divertito, ma cambiò repentinamente registro quando si rese
conto che la ragazzina era in lacrime. «Signorina, che
cos'è successo?».
«Una cameriera del Savoy è stata
uccisa», singhiozzò. «Qualcuno...
qualcuno si è sostituito a lei e ha rubato il mio quaderno,
ne sono sicura. Grégorie, io... Mi dispiace
tanto».
L'uomo, col cuore in gola, unì finalmente i pezzi. Che
Arsène fosse giunto per primo a quella conclusione e fosse
andato a fronteggiare da solo l'avversario? E che fine aveva fatto? Che
fosse stato sconfitto?
All'improvviso ricordò la notizia che aveva sentito quella
mattina alla radio: intorno alle tre di notte un'auto si era schiantata
contro un palazzo e il conducente era morto per via dell'impatto oppure
nel successivo rogo, era ancora da stabilire. Quello che
però lasciava perplessi gli investigatori, avevano rivelato
alla stampa, era la scia di sangue che era stata trovata nei pressi
dell'auto, come se ci fosse stato qualcun altro all'interno del veicolo
al momento dell'incidente, qualcuno che era sopravvissuto e che si era
allontanato a piedi.
Grégorie non poté fare a meno di pensare che
fosse Arsène il sopravvissuto. I pezzi combaciavano tutti:
la richiesta della pistola, le lenzuola ancora calde quando si era
svegliato nel cuore della notte, la sua scomparsa.
E se la ferita fosse
stata troppo grave e non fosse riuscito a chiedere aiuto?,
continuava a domandarsi Grégorie, pur consapevole che
lasciarsi prendere dal panico non avrebbe giovato a nessuno.
Respirò profondamente e si rivolse a Geneviève,
ancora scossa dai singhiozzi: «Stia tranquilla, signorina.
Non poteva sapere che c'era qualcuno che controllava le nostre mosse.
La colpa è solo nostra se si è verificata una
falla nella sicurezza. Ora dove si trova?».
«Sono nel... nel bagno del laboratorio. Ascolta,
Grégorie...».
«Sì?».
«Voglio vedere mio padre. Ho provato a chiamarlo,
ma...».
«Padron Lupin si sta già occupando della
faccenda», mentì, certo che se le avesse rivelato
della sua scomparsa sarebbe stata ancora peggio. «E io devo
raggiungerlo. Prenda i mezzi pubblici, faccia in modo di prendere
strade trafficate e vada da Sherlock Holmes. Stia con lui, è
la cosa migliore da fare al momento».
«Va bene, lo farò».
«Stia attenta».
«Anche tu».
Grégorie arrossì e fu lieto che non potesse
vederlo tramite il cellulare.
«Mi prometti che mi farai chiamare da mio padre non appena
avrà un momento libero?», gli domandò
giusto prima che chiudesse la chiamata.
«Lo prometto».
L'uomo infilò il cellulare nella tasca interna della giacca,
girò la chiave nel quadro d'accensione e diede gas per
immettersi nel traffico cittadino.
Non erano molti, a Londra, i posti in cui un Arsène Lupin
ferito e desideroso di non dare nell'occhio poteva rifugiarsi. Anzi,
uno solo lo convinceva davvero e Grégorie sperava con tutto
il cuore di non sbagliarsi.
***
Geneviève bussò freneticamente alla porta del
221B di Baker Street, ma nessuno andò ad aprirle.
«Dannazione», imprecò, tremando. Non
sapeva se fosse dovuto al freddo pungente oppure per via di quella
ragazza.
Aveva già visto la morte da vicino, ma un assassinio era
tutt'altro paio di maniche e per quanto le costasse ammetterlo, l'aveva
scossa nel profondo. Specie se pensava che quella morte era servita
solo ed unicamente a raccogliere informazioni su suo padre.
La persona che aveva spento quella vita era entrata nella sua camera,
le aveva rifatto il letto e toccato le sue cose... Sentì la
colazione salirle su per l'esofago e, appoggiata alla porta di lucido
legno nero, dovette inspirare ed espirare diverse volte, profondamente,
per cacciare via la nausea. Quindi entrò nella tavola calda
lì accanto e chiese del bagno, per poi sgattaiolare fuori
dalla porta sul retro.
Nel piccolo spiazzo dietro il locale erano ammassati i bidoni della
spazzatura e l'odore non fece altro che peggiorare il suo mal di
stomaco, ma strinse i denti e li usò come scala per passare
dall'altro lato della recinzione, ovvero nel giardinetto sul retro
della signora Hudson.
La porta che dava direttamente sulla cucina era più facile
da scassinare ed impiegò meno di cinque minuti ad entrare.
Poi corse su per le scale, dove sperava di trovare il detective. Si
ritrovò però in un salotto vuoto e silenzioso.
Il pensiero di ritrovarsi sola, senza suo padre e senza Sherlock, le
fece quasi perdere la ragione. Quasi, perché a salvarla fu
una tazza da tè.
La signora Hudson, come ogni mattina, doveva aver portato al detective
la colazione, che consisteva in tè e biscotti, ma la tazza
era ancora capovolta sul piattino, inutilizzata. Geneviève
allora, speranzosa, corse verso la camera da letto e fu proprio
là che trovò Sherlock, interamente nascosto sotto
il piumone. Il sollievo fu tanto che senza pensarci si gettò
sul letto e si aggrappò a quel corpo spigoloso che subito
iniziò a divincolarsi, emettendo versi davvero buffi.
Quando riuscì a liberarsi dalle coperte, Sherlock
incrociò gli occhi della ragazzina e ancora prima di
riuscire a chiederle perché fosse lì e non con
Molly, lei gli gettò le braccia al collo e riprese a
piangere, in modo quasi incontrollabile.
«Geneviève», esclamò il
consulente investigativo, confuso, ma ricambiò l'abbraccio
accarezzandole i capelli con una mano. «Calmati».
«Non ce la faccio, io... Ho paura. Ho tanta paura»,
singhiozzò.
«Piangere non ti aiuterà. Avanti,
alzati».
La ragazzina obbedì e mano per mano col detective, ancora
avvolto nel piumone, tornò in salotto. Lui la fece sedere
sulla poltrona di John e le versò una tazza di té
tiepido, poi si sedette di fronte a lei e portandosi le dita unite
davanti alle labbra esclamò: «Raccontami tutto
dall'inizio».
***
Grégorie scese dal SUV e si guardò intorno,
circospetto, prima di avvicinarsi alla casa del dottor Watson.
L'ingresso era qualche gradino sotto il livello della strada e l'uomo
fece per afferrare il corrimano, ma si fermò quando vi
notò l'impronta insanguinata di una mano. Col cuore di nuovo
vivo nel petto corse alla porta e suonò il campanello. Lo
fece una, due, tre volte, senza ricevere mai risposta.
Forse Arsène si era fatto curare dal dottor Watson e poi era
andato per la sua strada, evitando così di creare ulteriori
disturbi all'amico di Sherlock Holmes. Tipico del suo padrone.
Si voltò, afflitto ma non ancora disposto a darsi per vinto.
Era quasi giunto alla scalinata quando sentì la porta alle
sue spalle aprirsi.
«Grégorie...».
Sentì il proprio cuore mancare un battito prima di iniziare
a pulsare a velocità folle, incrociando gli occhi verdi di
Arsène Lupin. Il suo volto era segnato da tagli e lividi che
spiccavano sulla pelle pallida, quasi trasparente, ma era vivo.
Lo raggiunse con due sole falcate e lo travolse con un abbraccio.
«Piano, piano», disse il ladro, accennando una
risata mentre gli posava delicatamente le mani sulle spalle e lo
allontanava da sé per guardarlo negli occhi, quegli stessi
occhi che Grégorie aveva vergognosamente nascosto
nell'incavo tra il collo e la spalla sinistra perché lucidi
di lacrime.
«Per un attimo ho temuto...», iniziò a
dire, ma venne interrotto.
«Non dire scemenze, amico mio. Deciderò io quando
morire, io soltanto».
I loro sguardi si incrociarono e quello sorridente di Arsène
fu in grado di calmarlo, come sempre.
«Che cos'è successo?», gli
domandò quindi.
«Sono stato attirato in una trappola»,
confessò il ladro, facendosi una bella risata. Ad un tratto
si bloccò e cambiò espressione, chiedendo:
«Se tu sei qui, chi sta sorvegliando
Geneviève?».
«L'ho mandata da Sherlock Holmes».
Arsène lo afferrò per i baveri della giacca e lo
inchiodò al muro, gli occhi a pochi centimetri dai suoi. Era
furioso come poche volte l'aveva visto.
«E con quale autorità hai deciso di ignorare gli
ordini?».
«Mi... Mi dispiace».
Il Ladro Gentiluomo lo lasciò bruscamente e gli diede le
spalle per rientrare in casa.
«Aspetti un attimo. Ha intenzione di rimanere
qui?», domandò Grégorie, confuso.
«Non avrei dovuto nemmeno aprire la porta», ammise
Arsène, a bassa voce. «L'unico motivo per cui l'ho
fatto è perché ti voglio bene,
Grégorie. Ma i fatti non mi permettono di escluderti dalla
lista dei sospettati, ecco».
«Sospettati?
Crede... crede che io potrei tradirla, padrone?».
Il ladro si voltò di tre quarti, mostrando la lacrima che
gli aveva rigato la guancia. «Spero proprio di no. Il mondo,
però, è un posto spietato. Finché non
avrò chiaro il quadro della situazione, dovrò
lavorare da solo».
Grégorie abbassò il capo e dopo diversi secondi
di silenzio mormorò: «Capisco. In questo caso ho
da dirle qualcosa che credo possa esserle utile nelle sue
indagini».
Arsène soppesò le sue parole e ancora una volta
cedette alla speranza, facendogli segno di entrare. Seduti nel piccolo
salotto del dottor Watson, padrone e servitore parlarono a lungo della
cameriera uccisa e della persona che aveva preso il suo posto e che era
venuta in possesso di informazioni di rilievo a causa
dell'ingenuità di Geneviève. Era chiaro ad
entrambi che quegli eventi e l'agguato di quella notte fossero
collegati, ma era ancora un mistero chi stesse tirando i fili e quale
fosse il suo scopo finale.
«È probabile che la signorina si
confiderà con Sherlock Holmes e che questi si
metterà ad indagare», esclamò
Grégorie quando fu il momento dei saluti.
«Vedremo chi giungerà prima alla soluzione,
allora», rispose Arsène, solare come suo solito.
«Se si tratta di un nemico del passato in cerca di vendetta,
come temo che sia, allora potrei avere qualche vantaggio».
Il servitore abbozzò un sorriso e di nuovo sulla porta si
profuse in un profondo inchino. «Allora... a presto,
padrone».
«A presto, amico mio».
Grégorie si sollevò e senza più
guardarlo - temeva di dimostrarsi di nuovo commosso - si diresse verso
la breve scalinata. Ricordandosi improvvisamente della promessa fatta a
Geneviève si voltò e sorprese Lupin con
un'espressione di pura tristezza.
«La signorina...», iniziò, deglutendo un
improvviso nodo alla gola. «Vorrebbe tanto ricevere una sua
telefonata, padrone. Può farlo?».
«Il mio cellulare si è rotto nell'incidente, ma in
qualche modo riuscirò a contattarla», rispose con
un sorriso.
Grégorie ricambiò, fingendo di non aver visto
ciò che si celava sotto la maschera.
***
Molly pagò e scese dal taxi per bussare al 221B di Baker
Street. Fu la signora Hudson, come la maggior parte delle volte, ad
aprirle e a farla entrare.
Non si fermò a chiacchierare, preferì
precipitarsi al primo piano, dove trovò Sherlock seduto
sulla sua poltrona, con le lingue di fuoco del camino che si
riflettevano nei suoi occhi di ghiaccio.
«Molly! E tu che ci fai qui?».
L'anatomopatologa si voltò verso la cucina e rivolse
un'occhiata fulminante a Geneviève, scalza e con una
porzione di spaghetti di soia in una mano e delle bacchette usa e getta
nell'altra.
«Che cosa ci faccio qui?!», ripeté,
furibonda. «Hai idea dello spavento che mi sono presa?! Sei
sparita dal laboratorio senza dire una parola, a casa non c'eri e al
cellulare non rispondevi!».
La ragazzina lasciò le bacchette nel cartone per potersi
infilare una mano nella tasca posteriore dei jeans, da dove estrasse il
cellulare e spiegò: «La batteria è
morta».
Molly sospirò, cercando di calmare la rabbia, e la raggiunse
a passi così pesanti che Geneviève ebbe paura che
potesse picchiarla. Si ritrovò infatti a chiudere gli occhi,
un braccio a proteggerle il viso, ma nessuno schiaffo la
colpì: si ritrovò invece stretta in un abbraccio,
immersa nella grande sciarpa di lana che copriva il collo della donna.
Il suo profumo dolce e il suo calore la fecero rilassare a tal punto
che posò il capo contro quello dell'anatomopatologa.
«Ero molto preoccupata. Dopo quella scoperta,
temevo...».
«Ora sto bene», sussurrò la ragazzina.
Le due si scostarono per scambiarsi un sorriso e poi Molly si
girò verso il detective, portandosi le mani sui fianchi.
«E ora è il tuo turno! Ho provato a chiamare anche
te, decine di volte! Qual è la tua scusa?».
Sherlock non si degnò nemmeno di guardarla. «Non
trovo più il cellulare».
Geneviève, che nel frattempo si era avvicinata al divano per
finire i propri spaghetti, non fece in tempo a sedersi che estrasse
qualcosa dalla piega tra lo schienale e i cuscini: il cellulare del
detective.
Molly sospirò, lasciando penzolare le braccia lungo i
fianchi. Poi si sistemò la borsa sulla spalla ed
esclamò: «La mia pausa pranzo sta per finire, devo
tornare al laboratorio».
«Hai già mangiato?», le chiese
Geneviève, a bocca piena. Una volta deglutito, aggiunse:
«Ho ordinato anche per Sherlock, ma ha detto che non vuole
niente».
Lo stomaco dell'anatomopatologa borbottò per la fame, ma era
già tanto se aveva resistito nella stessa stanza con lui
fino ad allora. Il desiderio di prenderlo a schiaffi o di abbracciarlo,
oppure di fare entrambe le cose e non necessariamente in quell'ordine,
si stava facendo sempre più impellente. Doveva andarsene.
«Comprerò delle patatine dal distributore, ti
ringrazio», rispose alla fine. «Vengo a prenderti
più tardi, okay?».
«In realtà...».
«La mia non era una domanda. Non puoi dormire qui, punto e
basta».
Geneviève aggrottò le sopracciglia.
«Perché no? L'ho già fatto, in fondo.
Diglielo, Sherlock».
«Molly ha ragione: non puoi dormire qui».
«Ma...».
«Tuo padre ed io abbiamo fatto un patto, ricordi? Zona
neutrale».
A quelle parole la biondina abbassò gli occhi e smise di
controbattere. Molly si avvicinò per darle una carezza sulla
testa e poi, senza più guardarsi indietro o chiedersi
perché lui avesse preso le sue parti, scese giù
per le scale.
Stava già per tirare un sospiro di sollievo, con una mano
sulla maniglia della porta, quando sentì la voce di Sherlock
chiamare il suo nome. Con le gambe rigide come pezzi di legno si
girò e vide la sua figura sulla sommità delle
scale: con indosso la vestaglia, i capelli in disordine e quello
sguardo indurito dai troppi pensieri sembrava un supereroe tormentato.
Lo guardò mentre la raggiungeva, uno scalino per volta, e
deglutì ritrovandosi col mento leggermente sollevato per
poter incrociare i suoi occhi freddi.
«Ti sei già affezionata a
Geneviève», affermò. Raramente poneva
domande, dopotutto.
«Già. Lo trovo strano anche io».
«Non deve accadere lo stesso con Arsène
Lupin».
Molly corrugò la fronte. «Pensi che sia
possibile?».
Sherlock aprì la bocca per rispondere, ma la donna riprese:
«Capisco i tuoi timori, sai? Dopotutto è un uomo
galante, socievole, divertente ed è in grado di dire le cose
come stanno, anche se fanno male».
Il detective affilò lo sguardo e ancora una volta Molly lo
precedette prima che potesse parlare.
«Sì, Arsène mi ha detto che mi stai
evitando per tenermi al sicuro. Non so in che guaio tu ti sia andato a
ficcare questa volta, ma preferisco avere un bersaglio sulla schiena
piuttosto che... che perdere un amico».
Nel pronunciare quelle ultime parole la voce le si era incrinata e gli
occhi velati di lacrime, ma aveva mantenuto il contatto visivo.
Sherlock non disse niente e Molly, annuendo come se non si aspettasse
altro, deglutì il nodo alla gola ed aprì la
porta, lasciando che il freddo entrasse nell'androne e gli facesse
svolazzare i lembi della vestaglia blu intorno alle gambe.
***
Arsène, di nuovo seduto sul divano del dottor Watson,
fissava lo schermo nero della televisione, profondamente concentrato.
Come aveva detto a Grégorie, per un po' sarebbe dovuto
sparire. Non poteva fare diversamente, se voleva scoprire
l'identità delle persone che volevano colpirlo. C'era solo
un piccolo dettaglio che lo preoccupava: lui non era più
solo, non lo sarebbe mai più stato, e quelle persone lo
sapevano.
Dato che il piano di cattura era andato in fumo, era più che
probabile che il piano B prevedesse l'utilizzo di Geneviève,
sua figlia, come oggetto di scambio. Lei era il formaggio e lui il
topo: per quanto scaltro, sarebbe stato impossibile tenersene lontano.
Quindi doveva fingersi disperso e al contempo starle sempre vicino per
evitare che la usassero come esca.
Si portò le dita sulle tempie e le massaggiò,
meditabondo. All'improvviso, l'illuminazione.
«Ma certo!», esclamò, con un sorriso a
trentadue denti.
Si precipitò subito in cucina e dai propri indumenti ormai
inutilizzabili estrasse tutto ciò che gli era rimasto e con
cui per il momento avrebbe dovuto arrangiarsi: il passaporto falso con
cui si spacciava per Jean Daspry; il portafoglio in cui, tra le altre
cose, c'erano diverse banconote da cinquanta sterline; l'astuccio con
la sigaretta elettronica e i filtri; il revolver dal manico di
madreperla con ancora cinque proiettili; i suoi attrezzi da
scassinatore e la piccola chiave di una cassetta postale. Poteva
decisamente andargli peggio.
Mise tutto in uno zainetto di John, gli scrisse un bigliettino,
buttò nella spazzatura i suoi vestiti strappati e
controllò che in giro non ci fosse nulla da cui si potesse
estrarre il suo DNA (stracci sporchi di sangue, ad esempio) e dopo aver
preso in prestito anche un Parka che su di lui sembrava una
normalissima giacca si guardò allo specchio ed
esclamò: «Sarà una lunga
giornata!».
Gettò il sacco pieno in un bidone dell'indifferenziata e
come un comune londinese prese l'autobus, da cui scese a poche vie di
distanza da un piccolo hotel da poche pretese, la sua prima tappa.
La ragazza dietro il bancone della reception, troppo bella per un posto
del genere, gli rivolse un sorriso cortese salutandolo.
Arsène ricambiò chinando un poco il capo e prese
l'ascensore che lo portò al secondo ed ultimo piano. Quindi
camminò fino alla fine del corridoio, vicino alle scale
antincendio, e dal portafoglio estrasse una tessera magnetica con cui
aprì la porta della stanza 219.
Aveva affittato e prepagato quella camera contemporaneamente a quella
del Savoy, all'insaputa di tutti come faceva ogni volta che usciva dai
confini francesi, nel caso avesse avuto bisogno di un rifugio
alternativo. All'interno aveva tutto il necessario per nascondersi o
cambiare identità, insomma per agire in totale autonomia per
diverso tempo: scorte di cibo e acqua, parrucche, vestiti, cellulari
usa e getta, un tablet e un computer di riserva, alcuni attrezzi del
mestiere - sia standard che fatti su misura - e soprattutto, al sicuro
nella piccola cassaforte in dotazione, contanti ed altri passaporti
falsi. Peccato che, per ciò che aveva in mente, avrebbe
dovuto crearsi una nuova identità. Nulla di impossibile, per
carità, ma avrebbe richiesto tempo e ad Arsène
non piaceva aspettare.
Si truccò e si cambiò, e una volta soddisfatto
riempì un piccolo trolley con tutto ciò che
pensava potesse tornargli utile. Quindi uscì dalla stanza e
non tornò all'ascensore, bensì aprì la
porta tagliafuoco che dava sulle scale antincendio e le scese in tutta
calma. Sapeva che alla reception sarebbe scattato l'allarme, ma sapeva
anche che di giorno nessuno si degnava di controllarne il motivo, dato
che era abitudine di molti clienti utilizzarle come area fumatori per
comodità.
Con quello stratagemma poté raggiungere il parcheggio sul
retro dell'hotel senza passare dalla reception, dove un uomo diverso da
quello che era appena passato avrebbe destato qualche sospetto.
Estrasse dalla tasca della giacca di pelle nera le chiavi della piccola
utilitaria presa a noleggio e una volta aperta gettò il
trolley nel bagagliaio, per poi mettersi al volante e guidare verso la
sua seconda tappa: una lavanderia a cui consegnò i vestiti
di John. Pagò in anticipo e diede l'indirizzo del dottore
perché glieli recapitassero direttamente a casa, poi
uscì e si rimise al volante, diretto verso un internet
café dall'altra parte della città.
Alla barista chiese una tazza di latte caldo per riempirsi lo stomaco e
riscaldarsi, poi scelse il computer più vicino ai bagni e si
scrocchiò le dita delle mani: era da tanto che non curava
più di persona dettagli del genere - di solito se ne
occupava Grégorie o uno dei suoi hacker di fiducia - e lo
colse un po' di nostalgia.
Nonostante la ruggine riuscì ad entrare facilmente nel Deep
Web e a trovare il forum a numero chiuso in cui aspiranti
Arsène Lupin raccontavano le loro piccole grandi avventure.
Ricordava i bei tempi in cui passava le ore a leggere le discussioni, a
rispondere ai commenti e a dispensare consigli. In particolare
ripensò con gioia al giorno in cui, dopo un colpo piuttosto
complicato, aveva osato troppo e aveva smentito tutte le supposizioni
degli utenti per dare una semplice quanto perfetta spiegazione,
scatenando un putiferio. Aveva provato in ogni modo a negare,
inutilmente. Molti di loro, infatti, si erano convinti di aver scoperto
l'identità di MonsieurL e Arsène, divertito, non
aveva potuto far altro che ammetterlo e sfruttare la cosa a suo
vantaggio.
In quel modo, quasi per gioco, era nata la sua organizzazione; grazie
all'aiuto di tanti individui, provenienti da tutto il mondo ma con un
solo desiderio: avere più giustizia grazie ai suoi colpi.
Spesso Arsène non si era sentito all'altezza di quel compito
ed era lieto che Maurice Leblanc, sei anni prima, avesse iniziato a
chiamarlo come tutti lo conoscevano: il Ladro Gentiluomo. Era
decisamente più appropriato, vista la sua indole volubile e
il suo personalissimo metodo di giudizio.
Alla fine, per questioni di sicurezza, avevano rintracciato
l'amministratore del forum e l'avevano comprato con la promessa che per
gli utenti nulla sarebbe cambiato. E così era stato, dato
che non avevano idea che alcuni dei membri entrati successivamente
fossero uomini effettivi della banda, i quali utilizzavano la chat
privata del forum per comunicare tra loro.
Non poté trattenersi dal salutare i propri ammiratori nella
chat aperta, i quali risposero a centinaia, come se fossero stati tutti
dietro le loro tastiere in attesa di una sua apparizione.
Arsène ne fu onorato, ma anche un po' spaventato.
E se le persone che avevano architettato quell'agguato fossero riuscite
ad introdursi pure lì, superando il test attitudinale e
psicologico che in seguito alla sua rivelazione era stato istituito per
limitare l'accesso alle sole persone veramente al fianco di Lupin?
Mordendosi le labbra, il ladro decise di fare la prima mossa ed
aprì una nuova discussione con priorità massima:
Carissimi amici miei,
per chi ancora di voi
non lo sapesse al momento mi trovo a Londra.
Vi scrivo per
informarvi che la semplice vacanza che mi ero concesso e che mi stava
arricchendo spiritualmente, purtroppo si è trasformata in un
duello mortale contro una forza misteriosa. Ma voi mi conoscete e
sapete che non ho paura!
Vi chiedo di assistermi
nei giorni a venire e di prestare attenzione a qualsiasi stranezza,
scrivendomi privatamente se necessario.
Sempre vostro,
A.L.
I commenti di indignazione e sostegno non esitarono ad arrivare, ma
Arsène li ignorò per entrare nella sezione dei
messaggi privati. Scrisse un breve messaggio all'utente Vict8ire,
chiedendole di attendere la seconda parte, poi pagò il conto
ed uscì per dirigersi verso la quarta destinazione: il
centro commerciale.
Non si fermò molto, solo il tempo per farsi delle foto
istantanee ed entrare in un'agenzia di viaggio. Quindi, con un
biglietto di sola andata per la Costa Azzurra, Arsène decise
di lasciare l'auto nel garage sotterraneo del centro commerciale e
prese un taxi per raggiungere un altro internet cafè,
più grande ed attrezzato e soprattutto più vicino
alla sua prossima ed ultima tappa.
Scannerizzò le fotografie e le inoltrò in
allegato alla seconda parte del messaggio per Vict8ire, il cui testo
consisteva nell'indirizzo dell'ufficio postale londinese in cui aveva
affittato una cassetta.
La donna rispose pochi secondi dopo la ricezione, rimproverandolo per
la sua scarsità di buone maniere - non le aveva scritto
né "Per favore" né "Grazie" - e chiedendogli
aggiornamenti su Geneviève. Borbottando, Arsène
scrisse un terzo messaggio e già che c'era le
domandò se ci fossero novità in merito alla
questione affidamento. Vict8ire rispose indicandogli un numero di
cellulare prepagato: un chiaro invito a chiamarla. Arsène
però non aveva tempo, perciò scrisse il numero su
un bigliettino ed uscì dal forum.
Quindi lasciò il locale e, zainetto sulle spalle e trolley
al seguito, si mischiò ai turisti che avevano deciso di
visitare la capitale inglese in uno dei periodi forse più
magici, quello natalizio.
Erano ormai le quattro di pomeriggio quando bussò alla porta
della signora Lee.
Le sue doti di gentiluomo, rimaste invariate nonostante il
travestimento, e una storia di legami familiari inventata su due piedi
in base ai ricordi che aveva sui profili degli abitanti del condominio
gli permisero di conquistarsi la sua fiducia, tanto che l'anziana lo
lasciò entrare e gli offrì un tè e dei
piccoli sandwich.
«Allora giovanotto, per quanto tempo hai intenzione di
rimanere a Londra?».
«Un paio di settimane, pensavo».
«Viaggi leggero! E dimmi, dove starai?».
Arsène posò la tazza sul piattino e sorrise
felice. «Speravo proprio mi ponesse questa domanda».
***
Sherlock fece finta di nulla, ma non gli sfuggì il modo
furtivo in cui Geneviève spostò gli occhi dal
libro che stava leggendo per spiarlo.
Dopo lo scambio di battute con Molly era tornato in salotto e aveva
recuperato il cellulare per verificare se qualcun altro a parte lei lo
avesse cercato. A quanto pareva sì.
Alle due e quarantotto di quella notte aveva ricevuto un sms da parte
di un numero sconosciuto, ma leggendone il contenuto non ebbe dubbi sul
mittente: Arsène. Aveva voluto avvisarlo che quella notte
aveva fissato un incontro con Irene Adler, alla quale voleva proporre
un patto per garantire la sicurezza di Molly. Ovviamente quell'incontro
non era mai avvenuto.
Di nuovo sulla propria poltrona, accanto al camino acceso, cercava di
recuperare il bandolo della matassa e forse era stato il suo mutismo
meditativo ad incuriosire tanto la ragazzina.
«La trama non è di tuo gradimento?», le
domandò all'improvviso, girandosi di scatto per coglierla
sul fatto.
Geneviève reagì come un gatto, sobbalzando sul
divano e stringendo gli occhi a due fessure. Mancava solo che gli
soffiasse contro.
«E tu ti sei reso conto che ci sono anche io qui?».
Sherlock corrugò la fronte e si alzò per
raggiungere la finestra. «Ne ero perfettamente consapevole.
Qual è il punto?».
«Il punto è che forse, se mi parlassi, potrei
aiutarti».
«Dubito che tu conosca l'identità della persona
che ha ucciso quella cameriera. Deve trattarsi per forza di qualche
vecchio nemico di tuo padre, qualcuno che ha deciso di pareggiare i
conti...».
«Pareggiare i conti? Di che stai parlando?».
Il detective le rivolse un sorriso quasi derisorio. «Cara
Geneviève, lo shock deve aver compromesso le tue
capacità deduttive se non hai ancora capito che tuo padre
è il passeggero scampato all'incidente d'auto di cui si
è parlato in tutti i telegiornali».
«Che cosa?».
Quella volta Sherlock si concesse una risata, sinceramente divertito.
Si tirò dietro la vestaglia mentre si sedeva al suo fianco
sul divano.
«In questo momento sarà rifugiato da qualche
parte, a leccarsi le ferite e a pensare ad un piano», disse.
Quindi si portò le mani sugli occhi e mormorò:
«Devo sbrigarmi, lui è già in
vantaggio».
Geneviève lo fissò, scioccata ed inorridita allo
stesso tempo.
«Credi che sia un gioco? Mio padre potrebbe essere ferito e
tu...!».
Non continuò la frase, tremante di rabbia e di nuovo con le
lacrime agli occhi. Si alzò in piedi e corse su per le
scale. Sherlock non provò a fermarla, né
reagì quando sentì il tonfo della porta della
vecchia camera di John che si era sbattuta alle spalle.
Il consulente investigativo si alzò e tornò alla
finestra, dove si infilò una mano nella tasca della
vestaglia. Esitò. Non aveva mai creduto al sesto senso -
preferiva affidarsi alla logica - ma gli era impossibile ignorare il
brutto presentimento che gli stringeva lo stomaco. Quindi
digitò a memoria il suo numero e rimase in attesa fino a
quando non scattò la segreteria telefonica.
Serrò i denti e stringendo forte il cellulare nella mano
destra tornò a contemplare Baker Street dalla finestra.
***
Gabriel alzò gli occhi dai libri contabili che stava
controllando quando scorse il cellulare di Irene Adler vibrare
insistentemente sulla scrivania. Sul display lampeggiavano solo le
iniziali di chi la stava chiamando, ma non fu difficile capire a chi
appartenessero.
Quando il tentativo di chiamata terminò, prese il cellulare
per spegnerlo e toglierne la batteria. Poi si alzò dalla
scrivania ed uscì dal suo piccolo ufficio barra camera da
letto. Attraversò un corridoio con decine di porte tutte
uguali e raggiunse l'ascensore, dove dovette inserire un passepartout e
un codice di sei cifre per avere l'autorizzazione a salire all'ultimo
piano.
Le porte si aprirono con un din
delicato e Gabriel, ancora con indosso la sua divisa da croupier e i
lunghi capelli biondi sciolti sulla schiena, salutò con un
gesto del capo l'uomo della sicurezza posto davanti all'ufficio di sua
zia. Bussò alla porta e ottenuto il permesso di entrare
avanzò fino a raggiungere il bordo della grande scrivania in
mogano.
La donna, dalla corportatura massiccia che veniva ancora più
evidenziata dallo stretto vestito viola che portava, era in piedi
davanti alla parete vetrata che dava sull'enorme piscina e da cui si
vedeva lo skyline londinese in lontananza. Tra le mani teneva il
quaderno rubato dalla stanza di Geneviève, la figlia del
Ladro Gentiluomo.
Senza voltarsi, domandò: «Che cosa c'è,
Gabriel?».
«Irene Adler ha appena ricevuto una chiamata».
«Da chi?».
«Sherlock Holmes».
Quel nome attirò l'attenzione della zia, la quale diede le
spalle al panorama per guardare il nipote coi suoi occhi porcini.
«Questo potrebbe essere un problema. Pensi che
proverà a rintracciarla?».
«Posso chiederlo a lei».
La donna strinse le labbra e rifletté a lungo. Ad un tratto
si gettò i gonfi ricci neri dietro le spalle e gli rivolse
un ampio sorriso.
«Ma sì, fate una chiacchierata. Dille che nemmeno
il grande detective riuscirà mai a trovarla. E se anche lo
facesse, a noi lui non interessa: se metterà a rischio il
nostro piano lo uccideremo senza esitare».
«Capisco».
«È tutto?», chiese la zia al nipote,
tornando a dargli le spalle.
«Sì, è tutto».
«Bene, allora vai».
Gabriel chinò il capo ed uscì dall'ufficio.
Percorse il corridoio fino a raggiungere un'altra porta sorvegliata,
con l'unica differenza che poche persone possedevano la chiave per
accedervi. Lui era una di quelle. Entrò e se la chiuse alle
spalle delicatamente, ma questo non impedì ad Irene Adler di
svegliarsi di scatto.
Il ragazzo accese le luci al neon e la donna, abituata
all'oscurità più totale, strinse gli occhi
arrossati. Quindi si rannicchiò in un angolo della gabbia in
cui era stata chiusa a chiave, stringendosi le ginocchia al petto.
«Tranquilla, non sono qui per portarti dalla zia»,
cercò di rassicurarla, chinandosi per guardarla in volto
attraverso le sbarre.
Le mostrò il suo cellulare e spiegò:
«Per quale motivo Sherlock Holmes ti ha cercata? Siete amici?
Amanti?».
La donna scelse il silenzio, chiudendo gli occhi e voltando il capo, e
Gabriel sospirò alzandosi. Andò al bancone posto
dall'altra parte della grande stanza, il cui unico arredamento
consisteva in un tavolo operatorio e in un mobile pieno di flaconi che
sembravano provenire proprio da un ospedale, ed Irene tremò
vedendolo accarezzare i vari strumenti medici allineati sulla
superficie metallica.
«Eravamo amanti», confessò con poca
voce.
Gabriel alzò il capo e le sorrise.
«Continua».
«Non c'è nient'altro da dire. Ci siamo detti addio
alcune settimane fa».
Il ragazzo prese un bisturi e ne controllò l'affilatura
esponendolo alla luce della lampada operatoria, poi lo ripose al suo
posto. Alla fine scelse un piccolo cilindro nero e con un rapido gesto
della mano, come se tenesse il manico di una frusta, ne fece uscire il
contenuto: sembrava l'antenna retraibile di una radio, ma in
realtà era un teaser di cui Irene portava addosso diversi
segni.
«Aspetta. Aspetta, ti prego», cercò di
prendere tempo la donna, consapevole che per quanto si addossasse alle
sbarre della gabbia lui l'avrebbe raggiunta comunque.
«Lo sai che non mi piace farlo», esclamò
Gabriel, con voce triste. «Quindi perché non
collabori?».
«Io non... non so perché mi abbia
cercata».
La punta del teaser sfrigolò di elettricità
quando il ragazzo premette il pulsante sul manico.
«Lo giuro», singhiozzò Irene.
Gabriel si inginocchiò di fronte alla gabbia e
sospirò, scuotendo mestamente il capo.
«Non ci hai mai rivelato quale fosse l'accordo che avevi con
Arsène Lupin. Sai, ho visto lui e Sherlock Holmes
trascorrere parecchio tempo insieme, quasi come due amici, ed inizio a
chiedermi se Lupin non abbia preferito il detective a te».
«È probabile. Non gli sono mai andata a genio,
dopotutto. Per questo ho chiesto il vostro aiuto. Sapevo che avevate
delle questioni in sospeso con Arsène e pensavo che,
lavorando insieme, avremmo potuto...».
Gabriel sorrise con una punta di malinconia e fece schioccare la lingua
contro il palato. «Non avresti mai dovuto contattare mia zia.
Lei... è spietata, penso te ne sia accorta».
«Ma tu non lo sei, tu...!». Irene, che con uno
slancio si era aggrappata alle sbarre davanti al viso tranquillo di
Gabriel e aveva cercato di disarmarlo del teaser, ricevette una potente
scarica sul fianco che la lasciò agonizzante sul pavimento
della gabbia. Tuttavia era ancora abbastanza lucida per guardare
Gabriel negli occhi ed ascoltare le sue parole.
«Spero solo che Sherlock Holmes non si metta in mezzo: non
voglio più uccidere persone innocenti».
Sospirando si alzò e andò a riporre il teaser sul
bancone. Sulla porta si voltò a guardare Irene Adler
un'ultima volta, poi spense la luce ed uscì.
***
Quando John quella sera rientrò a casa, dopo essere passato
a prendere Rosie dalla babysitter, la trovò buia e
silenziosa.
Era certo che il suo istinto non l'avrebbe deluso, ma si costrinse a
fare comunque un tentativo. Sospirando, esclamò:
«Arsène, sono tornato!».
Accese la luce in salotto, trovandolo deserto, e lasciò la
figlia nel suo box per spogliarsi del giaccone e andare in cucina. Fu
lì, sullo stesso tavolo dove l'aveva ricucito, che
trovò il biglietto del Ladro Gentiluomo.
Caro John,
ti ringrazio
per esserti preso cura di me. Sei un dottore veramente valido.
Se mai
volessi cambiare fazione, sappi che hai un posto sicuro nella mia
organizzazione. Ci facciamo male più spesso di quello che
vorrei, purtroppo.
Ho preso in
prestito alcuni dei tuoi abiti, ma non temere: ti verranno recapitati
nei prossimi giorni dalla lavanderia.
Davvero, ti
sono debitore.
A.L.
P.S. Qui
sotto ti lascio i nomi di alcune boutique londinesi: ti
basterà fare il nome di Paul Daubreuil per avere uno sconto
del 50% su ogni capo.
John scosse la testa con un sorriso tra l'irritato e il divertito sul
volto.
Non solo aveva disubbidito agli ordini del dottore, ma aveva avuto la
faccia tosta di consigliargli di cambiare guardaroba! E lui che si era
perfino abbassato a rubare dall'armadietto dei medicinali delle
soluzioni saline e degli antidolorifici!
Dannazione, era diventato un ladro per conto del Ladro Gentiluomo. Ora
aveva un motivo in più per non parlarne con Sherlock, anche
se...
Andò nella cameretta di Rosie ed aprì il primo
cassetto della cassapanca accanto al suo lettino: sotto i vestiti della
figlia trovò il sacchetto di plastica in cui aveva
conservato un pezzo di garza sporco di sangue, il sangue di
Arsène Lupin.
Era certo che avrebbe cercato di eliminare ogni traccia della sua
presenza prima di togliere il disturbo, per questo l'aveva nascosto
lì.
Si colpì il palmo della mano col sacchettino e decise che
non l'avrebbe consegnato subito al detective, ma che l'avrebbe tenuto
come assicurazione, nella speranza di non doverlo mai usare.
***
Il campanello al piano di sotto suonò e, ancor prima che la
signora Hudson potesse fare le scale per chiamare Geneviève,
questa si precipitò giù dalle scale.
Esitò di fronte alla porta del salotto, ma vedendo che
Sherlock non aveva alcuna intenzione di voltarsi e salutarla
evitò di sprecare fiato e scese anche l'ultima rampa di
scale per raggiungere Molly, in piedi sul marciapiede. Si era rifiutata
di entrare.
Sherlock le osservò salire sul taxi che era rimasto ad
aspettarle e non mostrò alcuna emozione nemmeno quando il
suo sguardo e quello dell'anatomopatologa si incrociarono per un breve
istante, prima che lei rientrasse nella vettura.
Le parole che gli aveva rivolto qualche ora prima gli bruciavano
ancora: non tanto perché Molly avesse saputo il motivo per
cui la teneva a distanza, ma perché era stato
Arsène a dirglielo e a trarne beneficio, diventando quello
onesto.
Ma non poteva arrabbiarsi con lui, non ne aveva alcun diritto:
Arsène gli aveva promesso che l'avrebbe tenuta al sicuro, ed
evidentemente metterla a conoscenza dei fatti secondo lui era la cosa
migliore. Forse aveva ragione.
«Sherlock, caro, che sta succedendo?».
O forse no.
Arrabbiato com'era con Arsène, se stesso e il mondo in
generale, si voltò e se la prese con la signora Hudson:
«Sempre a ficcare il naso in questioni che non la riguardano,
vero? Mi lasci solo!».
La donna, anziché abbaiargli contro o andarsene
tremendamente offesa, si avvicinò a lui e lo strinse tra le
braccia, lasciandolo confuso e sbalordito.
«La vita è una sola, Sherlock. Vivila in modo da
non avere rimpianti». Gli diede dei colpetti sulla schiena e
lo lasciò andare per guardarlo negli occhi ed accarezzargli
una guancia, sorridendo. «Ascolta chi ha più anni
di te, per una volta».
«L'età non è sintomo di saggezza.
Perché tutti pensano che...?».
La signora Hudson gli diede le spalle e se ne andò
ridacchiando.
Sherlock sbuffò e al contempo, senza rendersene conto,
sorrise. Scrisse un messaggio a Mycroft, chiedendogli di trovare Irene
Adler ad ogni costo, e poi chiamò Lestrade per un
aggiornamento.
«Cos'hai scoperto sulla cameriera?».
«È come ha detto quella ragazzina. Georgiana
Horia, rumena, si è trasferita a Londra cinque anni fa e ha
sempre lavorato come cameriera d'albergo. Ha iniziato a lavorare al
Savoy sei mesi fa».
«Vai alla parte interessante, per favore».
«Beh, secondo la governante sabato scorso ha chiamato per
avvisare che non stava troppo bene e che non sarebbe venuta al lavoro.
È tornata questo venerdì - cinque giorni dopo la
sua presunta morte - e alcune delle sue colleghe hanno detto di averla
trovata strana, diversa. Più introversa, scostante...
Pensavano fosse quel periodo del mese».
«Quando le donne non sanno che altro pensare danno sempre la
colpa alle mestruazioni», commentò Sherlock,
atono. «Ha mandato un certificato di malattia, per
caso?».
«Sì, ma è stato falsificato da cima a
fondo».
«Ovviamente».
«Come lo sapevi?».
«È una professionista che non lascia nulla al
caso».
«Chi?».
«La donna che l'ha rapita, uccisa e preso il suo
posto».
«Come fai a sapere che ad ucciderla è stata la
stessa donna che ha preso il suo posto? Magari sono più
persone».
«Uhm, se lo dici tu».
«Sai, mi piaceva di più lo Sherlock che adorava
intrattenerci con i suoi ragionamenti prolissi».
«Non c'è tempo. Geneviève ha accennato
ad una fish».
«Oh, sì. L'ha trovata Molly durante l'autopsia. A
proposito, sa che ti ho aiutato con la microcamera piazzata su Anderson
e...».
«Non è il momento, Greg».
Lestrade sospirò, abbattuto. «Non abbiamo molto...
Ascolta, devo andare. Ti mando tutto per e-mail, okay?».
«Preferirei di persona».
«Giusto. Va bene, a più tardi».
«Ah, Greg! Chi si sta occupando del caso dell'incidente
d'auto?».
«Dimmock. Come mai ti interessa quel caso?».
«Te lo farò sapere».
***
«Sai, per caso ho sentito che cosa vi siete detti tu e
Sherlock».
Molly sollevò le sopracciglia. «Per caso,
eh?».
«Non l'ho mica fatto apposta!».
Geneviève si fermò al fianco dell'anatomopatologa
mentre questa cercava nella borsa le chiavi per aprire la porta di casa.
«Penso che tu abbia fatto bene a dirgli quelle
cose».
«Lo spero davvero», sospirò Molly.
«Che cosa vorresti per cena?».
La ragazzina si strinse nelle spalle, un dito sulle labbra, ma alla
fine rispose con un semplice: «Non saprei».
Finalmente Molly trovò le chiavi e le infilò
nella toppa, ma venne distratta dal giovane uomo che uscì
dall'appartamento accanto: indossava dei jeans neri e tagliuzzati sulle
ginocchia e una maglietta dello stesso colore con un grande scorpione
bianco stampato sul fianco; i capelli erano neri, legati in un codino
alto, e aveva dei sorridenti occhi color cioccolato; portava un
cerchietto al naso e sul lato sinistro del viso aveva diverse
escoriazioni, alcune coperte dai cerotti.
«Oh, buonasera», le salutò per primo.
«Sono Thomas, il nipote della signora Lee, piacere di
conoscervi. Mia nonna è partita per una vacanza e io
starò qui per un po'».
Geneviève guardò Molly, la quale distolse lo
sguardo ed esclamò: «Non sapevo che la signora Lee
avesse un nipote. Eppure la conosco da dieci anni».
«Beh, io ho vissuto all'estero per parecchio tempo e non ci
sentivamo spesso, perciò...».
Molly scoppiò a ridere, sotto lo sguardo sbigottito della
ragazzina, ed incrociando di nuovo gli occhi del ragazzo disse:
«Falla finita, Arsène».
Geneviève, a bocca aperta, avanzò di un passo
verso di lui. «Papà?».
L'uomo cercò di trattenersi, ma alla fine si
liberò con una risata genuina. «Mon Dieu! Hai
davvero un occhio incredibile, Molly!».
«Che cosa ci fai qui? E che ne è stato veramente
della signora Lee? Giuro che se le hai fatto del male...».
«Ma no, ma no! Non mentivo quando ho detto che è
partita per una vacanza. Le ho mostrato la mia villa in Costa Azzurra e
le ho chiesto se voleva fare a cambio per qualche settimana. Non
è il periodo migliore, ma tant'è... Non mi credi?
Giuro sulla mia collezione di Picasso».
Molly scosse il capo e guardò Geneviève saltare
al collo del padre, il quale esibì una smorfia di dolore.
Nemmeno quella sfuggì alla donna.
«Papà, ho avuto tanta paura! Quella cameriera... E
poi Sherlock ha detto che ti stavi leccando le ferite!».
Arsène sorrise e prese la testa della figlia tra le mani per
accostare la fronte alla sua.
«Guardami negli occhi», le disse, nonostante le
fosse impossibile guardare altrove. «Ci vuole ben altro per
fermarmi».
Geneviève ricambiò il sorriso, anche se
debolmente. «Però...».
«Scusate, mi sono persa qualcosa?»,
domandò Molly, ancora ferma davanti alla porta del proprio
appartamento.
Il Ladro Gentiluomo sospirò e circondando le spalle della
figlia con un braccio la guardò negli occhi, più
serio che mai. «Non è una questione di cui si
può parlare sul pianerottolo».
Vedendola indecisa, Geneviève si avvicinò di un
passo a Molly per pregarla: «Può
entrare?».
L'anatomopatologa si portò le mani sui fianchi e
sussurrò a sua volta: «Ti ricordi cos'ha detto
Sherlock? Lui e tuo padre hanno fatto un patto e se lo facessi
entrare...».
«Solo cinque minuti!», la interruppe, intrecciando
le dita davanti al volto e sfarfallando le ciglia. «Per
favore».
Molly alzò gli occhi su quelli di Arsène e
trovando la stessa espressione supplichevole sbuffò,
sbattendosi le mani sulle cosce.
«Va bene! Non farò la spia, ma se Sherlock dovesse
scoprirlo non mentirò».
Mentre Geneviève saltellava, euforica, il Ladro Gentiluomo
le rivolse un sorriso carico di gratitudine e quando fu trascinato
all'interno dell'appartamento si piegò al suo orecchio per
sussurrarle un «Merci
beaucoup».
Ovviamente i "cinque minuti" si trasformarono in una pizza e poi in un
film alla TV, di cui Geneviève guardò solo i
primi venti minuti.
«Doveva essere proprio stremata per addormentarsi in questo
modo», sussurrò Arsène, guardando Molly
da sopra la testa della figlia, abbadonata sulla sua spalla.
«È stata una giornata piuttosto
intensa», commentò l'anatomopatologa, alzandosi
per recuperare una coperta ed aiutare il ladro a spostarsi senza
svegliarla. Insieme la stesero sul divano e quasi immediatamente Toby
si acciambellò al suo fianco, appisolandosi.
L'uno accanto all'altra guardarono la scena inteneriti fino a quando
non si resero conto che sembravano una coppia di genitori. Allora,
imbarazzati, si allontanarono e fu Arsène il primo a
parlare.
«Credo che per me sia giunto il momento di togliere il
disturbo. Ho approfittato fin troppo della tua
ospitalità».
Molly, con le braccia strette al petto, lo guardò dirigersi
verso la porta. La cosa migliore era tenere le distanze,
però...
«Arsène, aspetta».
Il ladro si voltò, sorpreso, e attese in silenzio.
Molly non sapeva davvero da dove cominciare: aveva così
tante cose da chiedergli! Si disse che magari sarebbe stato meglio
iniziare con qualcosa di semplice, qualcosa con cui poteva
avvantaggiarsi.
Raccogliendo il coraggio, la scienziata lo raggiunse a passi decisi e
senza dargli il tempo di capire le sue intenzioni gli tirò
su la maglietta, scoprendo così i giri di garza sporchi di
sangue all'altezza del fianco sinistro.
«Sei davvero perspicace, Molly Hooper»,
esclamò il ladro, ammirato.
«Nessuno poteva uscire illeso da un incidente come quello,
dico bene? Inoltre, quando Geneviève ti ha abbracciato, ho
notato che ti sei irrigidito. Ho semplicemente unito i
puntini».
«È comunque notevole».
Molly ignorò l'ennesimo complimento, abbassando il capo
perché non si accorgesse del suo rossore.
«Avanti, quelle garze devono essere cambiate», lo
esortò a seguirla in bagno.
Arsène si sedette sulla tavoletta del water e Molly gli
srotolò la benda per osservare i punti che gli erano stati
applicati sulla ferita irregolare. Intorno ad essa ce n'erano altre,
più piccole, ed era evidente che fossero state causate da
pezzi di vetro.
«Devi aver sofferto molto», esclamò per
rompere il ghiaccio.
«Sono stato peggio, credimi».
«Chi ti ha ricucito?».
Arsène si limitò a sorridere, con un'espressione
che diceva chiaramente: «Secondo te?». Molly gli
diede le spalle per recuperare dalla cassetta del pronto soccorso del
disinfettante e delle garze pulite.
«John», dedusse. «Ha fatto un bel lavoro.
La cicatrice si vedrà appena».
Il ladro annuì, rimirando per la prima volta l'operato del
dottor Watson. «Lo penso anche io. Sai, avevo intenzione di
venire da te, però temevo che Geneviève si
sarebbe spaventata. E poi eri troppo lontana, non ero sicuro di
farcela».
Molly tornò a guardarlo in faccia e con espressione
divertita chiese: «Quindi il fatto che di solito io abbia a
che fare con i cadaveri non c'entra».
«Certo che no».
Risero insieme e la donna ne approfittò per passargli del
cotone imbevuto di disinfettante sulla ferita. Arsène
gemette ed irrigidì i muscoli, rendendo ancora
più evidenti i suoi addominali scolpiti, e Molly dovette
usare tutto il proprio autocontrollo per tenere gli occhi fissi sui
punti.
«Ascolta, Molly», esordì ad un tratto il
Ladro Gentiluomo.
«Uhm?».
«Non credevo mi avresti riconosciuto così in
fretta».
L'anatomopatologa alzò gli occhi nei suoi e si chiese dove
volesse andare a parare. Non fu così difficile indovinarlo.
«Non vuoi che Sherlock sappia che sarai il mio vicino per le
prossime due settimane».
«Non lo sa nessuno e se mantenessi il segreto te ne sarei
grato».
«Non si tratta del vostro patto, vero? C'è
qualcosa di più».
Arsène aprì la bocca, ma il disinfettante gli
provocò un'altra scarica di dolore che gli fece stringere i
denti. Quando il bruciore passò, rispose:
«C'è la possibilità che le persone che
mi hanno attaccato la scorsa notte provino ad avvicinarsi a
Geneviève e non voglio perderla di vista».
«Capisco».
«Mi dispiace averti trascinata in tutto questo...».
«Posso farti una domanda?».
Il Ladro Gentiluomo corrugò la fronte e la seguì
con lo sguardo mentre si alzava e si passava il rotolo di garza da una
mano all'altra. «Certo».
«Tu sai chi sono le persone da cui Sherlock mi sta
proteggendo?».
Arsène iniziò a scuotere il capo, con un sorriso
dispiaciuto ad increspargli le labbra, ma ancor prima che rispondesse
Molly ripeté le parole che lui stesso le aveva rivolto la
sera prima: «Gradirei che non mi mentissi».
«Anche se te lo dicessi... cosa cambierebbe?», le
domandò il ladro.
«Lo voglio sapere».
«Perché?», insistette lui.
«Tu non vuoi sapere l'identità di chi ti vuole
fare del male?».
Arsène si alzò in piedi con un'agilità
che Molly non si aspettava e per questo si ritrovò con la
schiena premuta contro il bordo del lavandino, il suo corpo a pochi
centimetri dal proprio.
«Certo, ma io sono un ladro! So che se qualcuno vuole
rintracciarmi è perché ho fatto qualcosa che non
dovevo. E, cosa più importante, io ho le capacità
e le risorse per contrattaccare. Tu, invece... sei solo una pedina che
i cattivi usano per arrivare ai buoni». Le posò le
mani sulle spalle e concluse, con voce soffice: «Ce ne
occuperemo io e Sherlock, è meglio
così».
Molly chinò il capo e Arsène la costrinse a
guardarlo negli occhi posando due dita sotto il suo mento. Solo allora
si rese conto di quanto fossero vicini: i loro respiri si mescolavano e
lei poteva vedere chiaramente i contorni delle lenti a contatto
colorate.
«Mi prometti che starai buona?».
Non poté far altro che annuire. Arsène,
soddisfatto, si allontanò e si mise in posizione:
alzò le braccia e le mostrò il fianco
perché potesse fasciarlo meglio.
Molly riprese il proprio lavoro senza più aprire bocca e una
volta finito si lavò le mani e sistemò la
cassetta del pronto soccorso mentre Arsène si infilava la
maglietta. Quindi lo accompagnò alla porta, non prima di
averlo guardato chinarsi su Geneviève per lasciarle un
delicato bacio tra i capelli.
Sul pianerottolo, Arsène sussurrò: «Mi
dispiace se sono sembrato duro, ma...».
«No, hai fatto bene», lo interruppe Molly,
stringendosi nelle spalle. Sorridendo amaramente, aggiunse:
«Cosa potrebbe mai fare una come me?».
«Non è quello che volevo...».
«Ma è quello che è. Va bene
così, Arsène».
L'uomo si guardò intorno, circospetto. «Io sono
Thomas, ricordati».
Molly ridacchiò. «Certo, Thomas.
È stato un piacere conoscerti».
«Anche per me», rispose facendo il proprio gesto
caratteristico: togliersi un cilindro invisibile dalla testa.
«Buonanotte, allora».
«Buonanotte», ricambiò la scienziata.
«Ehi, niente rif di chitarra dopo le dieci!», lo
minacciò poi, puntandogli il dito contro quando entrambi
avevano ormai un piede oltre la porta.
«Ah, l'idea di impersonare un rockettaro mi si sta ritorcendo
contro: questo finto piercing al naso è
insopportabile!», sussurrò, poi le fece
l'occhiolino e si chiuse la porta alle spalle.
Molly fece lo stesso e sospirò, chiedendosi come diavolo
fosse finita in quella situazione. Il sorriso però le
svanì presto ripensando alle parole di Arsène.
Stare buona? Era tutta la vita che stava buona e non ne poteva
più.
Recuperò il pc portatile, lasciato sul tavolino accanto al
divano, e seduta su uno sgabello dell'isola della cucina
aprì il portale di ricerca.
Non voleva più essere una pedina. Anche lei voleva le
capacità per contrattaccare e le avrebbe ottenute, ad ogni
costo.
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Capitolo 19 *** Role-playing game ***
Sorpresa! :)
Ho anticipato l'aggiornamento perché domani è
l'ultimo giorno dell'anno e lo trascorrerrò a cucinare come
Molly e Gen, pur sapendo che non avrò ospiti come
Arsène (purtroppo >////<).
Anyway, scommetto che siete curiosi di scoprire come se la passa
Arsène nel
vestire i panni di Thomas. E, parliamone, Molly nell'averlo come vicino
di casa? E
Sherlock, il quale non sa più che pesci pigliare per via del
silenzio del ladro e di Irene Adler, tanto da chiedere aiuto a suo
fratello Mycroft? Beh, non dico altro.
Questo capitolo è uno
dei miei preferiti, perciò spero piaccia anche a voi.
Fatemelo sapere eventualmente, io ne sarei stra-felice *^*
Grazie a tutti e ci vediamo il prossimo anno! Tanti auguri e buona
lettura :)
Vostra,
_Pulse_
N.B. Allarme rosso! ROSSO! In questo
capitolo ci sono scene esplicite di sesso. Io vi ho avvisati u_u
___________________________________________________________________________
19.
Role-playing game
«Mi stai davvero
chiedendo di spulciare tra tutti i casi in cui è spuntato il
nome di Lupin per darti una lista di sospettati?».
«So che si tratta di
un lavoro gravoso, ma lei ne sa più di tutti».
«Vorrai dire che io
sono l'unico pazzo che potrebbe fare gratuitamente un lavoro del
genere».
Sherlock, dall'altra parte
dello schermo, sorrise a trentadue denti. «Sapevo di poter
contare su di lei, Ganimard».
L'ispettore
intrecciò le braccia al petto e il suo volto burbero per
natura si irrigidì ulteriormente.
«Ripetimi per quale
motivo dovrei farlo. Qualcuno ha provato a rapirlo e poi ad ucciderlo,
e allora? Sono ancora del parere che senza di lui si starebbe
meglio».
«Non lo pensa sul
serio», replicò, gli occhi stretti a due fessure.
«Arsène non è malvagio, lui... Deve
prendere ciò che fa come una malattia. Una forma di
cleptomania, se vogliamo; unita alla sindrome del cavaliere bianco. Ma
può ancora essere curato».
«Se ne sei convinto
tu...».
«Ne sono
convinto».
Ganimard colse la
determinazione nello sguardo del detective e sospirò,
prendendo tra le mani il block-notes su cui aveva preso appunti la
prima volta che Sherlock gli aveva spiegato la situazione. D'altronde
aveva sempre saputo che avrebbe ceduto e l'avrebbe aiutato; non solo
perché glielo doveva, ma perché si sarebbe
incavolato parecchio se qualcuno l'avesse preceduto nel togliere
Arsène dalla piazza - in un modo o nell'altro.
Da quella
chiamata su Skype era trascorsa una settimana e Ganimard non aveva
ancora trovato nessun sospettato che lo convincesse sul serio.
Arsène
aveva organizzato così tanti colpi e messo il naso nelle
faccende di così tante persone che trovare i mandanti
dell'agguato era come trovare un ago in un pagliaio, se non addirittura
più difficile, dato che le informazioni che possedevano
erano alquanto incomplete.
Sapevano
solo che erano persone disposte a tutto per raggiungere il loro scopo,
anche ad uccidere, e che avevano fondi consistenti: secondo le analisi
della polizia scientifica infatti, l'auto su cui era stato fatto salire
Arsène possedeva un impianto di aerazione modificato
perché vi uscisse gas stordente. E quando il tentativo di
renderlo inerme era andato a monte l'uomo alla guida non ci aveva
pensato su due volte prima di correre incontro alla propria morte. Il
che forniva un terzo indizio: erano persone che incutevano un certo
timore, tanto da far preferire la morte piuttosto che il fallimento.
Uno dei
dogmi di Arsène era quello di derubare solo i più
ricchi, specialmente se erano coinvolti in attività
illegali, perciò era ovvio che la lista fosse chilometrica.
Quando, per
restringere il campo, Ganimard aveva chiesto a Sherlock se avesse idea
del motivo per cui i persecutori del ladro avessero deciso di
vendicarsi proprio durante la sua permanenza a Londra, il detective
aveva lasciato intendere che temeva una soffiata. Era stato allora che
si era reso conto che non gli era stato raccontato ancora tutto.
Sherlock
aveva esitato parecchio, ma alla fine, minacciandolo che solo
conoscendo tutta la verità l'avrebbe aiutato, era riuscito a
fargli sputare il rospo persino su Irene Adler, la donna con cui aveva
avuto una relazione e che per gelosia - o così ipotizzavano
- aveva contattato Arsène perché scoprisse chi
fosse il nuovo amore del consulente investigativo.
«Hai
un nuovo amore?», gli aveva domandato l'ispettore, scioccato.
Sherlock
aveva scelto di rimanere in silenzio, fornendogli comunque la risposta
che cercava.
Secondo il
detective il sentimento di vendetta era stato aizzato proprio da Irene,
la quale doveva essersi rivolta a quelle persone conoscendo il loro
odio per Arsène. Forse pensava che insieme a loro sarebbe
riuscita a portare a termine il compito che aveva affidato al ladro -
ed evitare persino di pagarlo - ma qualcosa doveva essere andato
storto: Irene Adler era sparita all'improvviso ed era tutt'ora
introvabile, persino per i Servizi Segreti guidati da Mycroft Holmes.
Impossibile
sapere in che condizioni riversasse, ma di una cosa Sherlock era certo:
le avevano sottratto tutte le informazioni possibili e poi si erano
messi alla ricerca di Arsène.
Poi c'era
il caso della cameriera assassinata. Lo stesso caso che aveva fornito
loro degli indizi molto importanti per accorciare la famosa lista dei
sospettati e al contempo aveva lasciato più
perplessità.
Potevano
aver scoperto in quale albergo alloggiasse il Ladro Gentiluomo tenendo
sotto stretta sorveglianza il 221B, dove si era presentato in
più di un'occasione, ma perché elaborare un piano
per infiltrarsi? Forse volevano accertarsi al cento percento che
avessero preso di mira l'uomo giusto. Sinceramente Ganimard non vedeva
altre ragioni per cui avrebbero dovuto rischiare tanto uccidendo una
ragazza. E Sherlock non l'aveva aiutato in quel senso; anzi, ancora una
volta gli era sembrato restio nel divulgare informazioni. Gli aveva
giurato però di avergli detto tutto ciò che era
inerente al caso, nulla di più e nulla di meno.
Dopodiché,
pur di cambiare argomento, gli aveva mostrato la fish da
casinò che era stata trovata all'interno del corpo della
vittima. L'assassino le aveva dato una forte dose di morfina e aveva
simulato un suicidio, facendo in modo che la ragazza si portasse lei
stessa l'arma alla tempia, poi aveva praticato un'incisione sul suo
ventre e vi aveva infilato la fish, richiudendo la ferita con ago e
filo.
Secondo
l'analisi di Sherlock questo modus
operandi delineava il profilo di una killer donna per
almeno due ragioni: il fatto che avesse somministrato della morfina,
come se avesse mostrato compassione e avesse voluto far soffrire il
meno possibile la cameriera di cui poi aveva preso il posto; e la
particolarità della sutura.
«Che
intendi con particolarità?», gli aveva chiesto
Justin, confuso.
Sherlock
aveva preso una foto dal fascicolo del caso e l'aveva piazzata davanti
alla videocamera del pc, mostrandogli com'era la ferita prima che Molly
facesse saltare i punti.
«Che
c'è di strano?».
«È
evidente che la nostra assassina non ha una preparazione medica, ma la
cucitura è fatta con cura. Quanti uomini conosce che sanno
cucire?».
E
così, per una questione di probabilità, avevano
deciso che l'assassino era una donna. Sempre per ipotesi avevano anche
stabilito che si trattava della stessa ragazza che aveva preso il posto
della vittima al Savoy Hotel e che, per non destare troppi sospetti,
doveva somigliarle almeno un po'.
«Aspetta,
la vittima ha venticinque anni, giusto? Questo vuol dire che dovrei
cercare dei casi in cui sono coinvolte ragazze giovani...».
«Delle
bambine», lo aveva corretto il detective.
«Bambine?».
«Lei
non è la mente dell'operazione. Sono sicuro che
c'è qualcun'altro che tira i fili, qualcuno di
più anziano. Forse un parente».
Ganimard si
era passato una mano sulla fronte dolente. «Dovrei chiederti
cosa te lo fa pensare?».
«La
fish. È chiaramente un messaggio, non trova?».
La sua
espressione indifferente, come se avesse appena sentito l'ultima
strampalata teoria sulla fine del mondo, gli aveva fatto accartocciare
il viso in un'espressione risentita.
«A
volte mi stupisce, ispettore Ganimard. Perché l'assassino
avrebbe dovuto perdere tempo a nascondere una comune fish nel corpo
della vittima?».
«Alcuni
serial killer lasciano la loro firma».
«Ma
questo qui non è un serial killer! C'è stato un
solo corpo, l'unico necessario prima della trappola tesa a Lupin. No,
la fish è stata messa lì perché ha un
significato».
«Quindi,
dimmi se ho capito bene», aveva esclamato Ganimard,
grattandosi dietro l'orecchio con la matita. «Stai per caso
suggerendo che questa ragazza non voleva veramente uccidere, che
è stata costretta, e che ha deciso di lasciarci un
indizio?».
«È
quello che credo».
Una bambina il cui cammino ha
incrociato quello di Lupin e una fish da casinò,
pensò Ganimard, togliendosi dalla bocca la sigaretta ormai
consumata fino al filtro, gli occhi fissi sulla lavagna su cui aveva
scarabocchiato tutti i fatti, le prove e le ipotesi, collegati da
frecce di diversi colori, punti esclamativi e di domanda.
Cercò
di spegnere il mozzicone nel posacenere, ma era così pieno
che le sue dita affondarono tra la cenere e altri filtri accartocciati.
Solo allora distolse lo sguardo e si alzò per andare ad
aprire la finestra e far cambiare aria all'ufficio.
Guardò
giù in strada, col freddo che gli pungeva gli occhi
arrossati e la pelle del viso su cui si era lasciato crescere un velo
di barba, e l'atmosfera natalizia lo colpì come una
pallottola nel petto: le luminarie abbellivano le strade, il profumo
caldo dei dolci delle pasticcerie aleggiava nell'aria e la gente
camminava lungo i marciapiedi con quella frenesia tipica di chi deve
trovare il regalo perfetto. Anche lui avrebbe dovuto essere
là fuori, a cercare dei giochi per Emélie e
Théa e un gioiello per Celestine, ma la realtà
era che quello sarebbe stato il primo Natale che avrebbe trascorso
lontano dalle sue donne e il solo pensiero lo stava uccidendo. Tanto
valeva concentrarsi sul lavoro.
Qualcuno
bussò freneticamente alla porta e Justin si voltò
appena in tempo per vedere Folefant entrare trafelato nell'ufficio,
chiudendosi l'uscio alle spalle ed appoggiandocisi col petto che si
alzava ed abbassava irregolarmente.
«Ti
stai allenando per la maratona di New York?», gli
domandò Ganimard, allontanandosi dalla finestra per tornare
dietro la scrivania. «Nel 2010 Lupin ha partecipato, lo
sapevi? Prima ha rubato lo zaffiro a sei stelle più grosso
al mondo - il Black Star of Queensland - alla sua proprietaria, giunta
a New York dalla Svizzera per affari, poi per sfuggire alla polizia si
è spogliato e si è mischiato tra i corridori.
Credo sia arrivato anche tra i primi cinquanta atleti».
Svuotò
il posacene nel cestino, anch'esso sull'orlo di straripare a causa
delle scatole di pizza e di vario cibo d'asporto, poi estrasse una
nuova sigaretta dal pacchetto per accendersela.
«L'Ispettore
Capo Dudouis sta venendo qui», esalò Folefant a
causa del fiato corto.
Justin
posò l'accendino sul tavolo e si tolse la sigaretta spenta
dalle labbra per dire: «E tu sei corso fino a qui per
avvisarmi del suo arrivo?».
«Beh...
sì. L'indagine che sta conducendo, dopotutto, non
è stata autorizzata. Qualcuno dell'ufficio prove deve aver
fatto la spia, altrimenti non mi spiego...».
Ganimard,
che nel frattempo lo aveva raggiunto, gli posò una mano
sulla spalla per scuoterlo e sorridergli teneramente.
«Ti
ringrazio», lo interruppe. «Ma non è mai
stata mia intenzione tenere nascosta quest'indagine a Dudouis. L'unico
motivo per cui non l'ho informato è perché non
volevo rovinargli le vacanze».
Tornò
dietro la scrivania e si accomodò sulla propria poltrona,
riafferrò l'accendino e fece un lungo tiro alla sigaretta
prima di soffiare il fumo verso il soffitto ed esclamare
tranquillamente: «Lascia pure che venga».
Quindi
guardò negli occhi il ragazzo e rivolgendogli un altro
sorriso aggiunse: «Non importa ciò che potrebbe
accadere a me, ma sarebbe meglio che tu non ti faccia trovare
qui».
«Sta
scherzando, vero?». Folefant lo guardò ad occhi
sgranati. «Nell'ultima settimana l'ho aiutata a controllare
centinaia di vecchi casi su Lupin, se Dudouis intende presentarle un
richiamo ufficiale allora lo merito anche io!».
«Non
essere sciocco, Folefant».
«Dico
sul serio!».
«Anche
io!», gridò di rimando l'ispettore, alzandosi per
sbattere una mano sulla scrivania sommersa di carte, alcune delle quali
caddero sul pavimento. «Non permetterò che la tua
carriera prenda la stessa piega della mia a causa di Lupin. Te l'ho
già detto non so quante volte, ma per qualche ragione non mi
stai a sentire!».
Il giovane
poliziotto dai capelli biondi strinse i pugni lungo i fianchi e
nonostante fremesse di rabbia non aprì bocca.
Ganimard
sospirò e si lasciò ricadere sulla poltrona. Gli
fece segno di uscire e con voce decisamente più pacata e
stanca disse: «Te lo chiedo per favore, Marcel».
Folefant,
essendo quella la prima volta in assoluto che si sentiva chiamare per
nome, lo fissò scioccato per qualche secondo. Poi cedette
alla richiesta dell'uomo che stimava profondamente, lo stesso uomo per
cui aveva deciso di entrare nelle forze di polizia, ed aprì
la porta per lasciare l'ufficio. Peccato che si ritrovò di
fronte a Dudouis in persona, con indosso ancora cappotto e cappello.
«I-Ispettore
Capo... buon pomeriggio», lo salutò irrigidendo la
schiena.
«Folefant»,
ricambiò lugubre, riservandogli un'occhiata tagliente.
«Che cosa ci fai tu qui? Non hai del lavoro da
sbrigare?».
«Se
ne stava giusto andando», intervenne Ganimard, comparendo al
suo fianco e dandogli una pacca sulla schiena.
L'agente
annuì e salutò entrambi chinando il capo in segno
di rispetto, poi si avviò lungo il corridoio. Justin allora
concentrò tutta la propria attenzione sul proprio capo ed
abbozzò persino un sorriso, appoggiandosi allo stipite della
porta con una spalla, le braccia incrociate al petto.
«Dev'essere
successo qualcosa di davvero grave se hai preferito venire qui
piuttosto che rimanere a casa con la famiglia. Come stanno i
ragazzi?».
«Non
tirare troppo la corda, Justin. Anzi, mi stupisco che non si sia
già spezzata».
Dudouis
entrò nell'ufficio e rimase paralizzato davanti alla
quantità di scatoloni e fascicoli che l'avevano trasformato
in un deposito interamente dedicato all'intensa attività del
Ladro Gentiluomo.
Ganimard
chiuse la porta e con la sigaretta appesa alle labbra si
infilò le mani nelle tasche dei pantaloni, osservando
tranquillo l'Ispettore Capo mentre si portava il cappello al petto,
mostrando la vistosa piazza tra i corti capelli bianchi, e faceva un
giro su se stesso. Quindi incrociò di nuovo il suo sguardo
con l'espressione più adirata che gli avesse mai visto in
faccia.
«Sei
proprio un testardo figlio di puttana, Ganimard».
Il sorriso
di Justin si ampliò e le sue sopracciglia di inarcarono. Si
tolse la sigaretta dalla bocca ed esclamò: «Wow.
Come mai oggi sei di così pessimo umore?».
«Smettila,
va bene? E dammi un buon motivo per non sospenderti
immediatamente».
«Sospendermi?»,
ripeté, divertendosi come non faceva da tempo. «E
per quale motivo dovresti farlo? Perché faccio il mio lavoro
cercando di arrestare Lupin?».
Dudouis
strinse i pugni lungo i fianchi e il suo collo si imporporò,
rendendo ancora più evidenti le vene gonfie. Prima di
rispondere si passò nervosamente pollice e indice sui baffi
bianchi e si diede un'altra occhiata intorno, concentrandosi in
particolare sulla lavagna e sulla scrivania, su cui alla fine
lasciò cadere il cappello a tesa stretta.
«Quante
volte ti ho detto che sei uno tra i migliori ispettori francesi, se non
il migliore in assoluto?», gli domandò,
mostrandosi fin troppo docile.
«Non
tengo il conto», replicò Ganimard.
«Perché
tu non credi sia la verità». Si
avvicinò di un passo e gli puntò un dito sul
petto. «E il modo in cui tu sprechi il tuo tempo, per non
parlare delle risorse della polizia, dietro alla tua ossessione per
Lupin... mi fa imbestialire! Lo sai che, se avessi lasciato perdere la
prima volta che te lo dissi, ormai quindici anni fa, adesso ci saresti
tu al mio posto, come Ispettore Capo? Per non parlare di come sarebbe
oggi il rapporto con tua moglie e le tue figlie...».
Ganimard
perse le staffe e dopo aver gettato la sigaretta sul pavimento
afferrò Dudouis per i baveri del cappotto, avvicinandogli il
viso al proprio in modo che i colori delle loro iridi si fondessero.
«Credi
che non lo sappia?», sibilò a denti stretti, il
respiro del naso affannoso. «Tu non hai idea di quanto Lupin
mi abbia rovinato la vita. Puoi immaginarlo, ma non non lo saprai mai.
Ed è proprio per questo che non posso fermarmi. Capisci? Se
lo facessi... tutti i miei sacrifici - una carriera brillante, l'amore
di mia moglie, le feste e i pomeriggi al parco con le mie bambine -
sarebbero stati vani».
L'Ispettore
Capo rimase in silenzio, a guardarlo negli occhi, fino a quando
Ganimard non decise di lasciarlo e di dargli le spalle.
«Mi
dispiace, non avrei dovuto metterti le mani addosso»,
mormorò ad un tratto, gli occhi fissi sui propri scarabocchi
sulla lavagna.
Dudouis si
schiarì la gola e lisciandosi il cappotto sul petto
esclamò: «Anche io sono andato troppo oltre.
Ascolta, Justin...».
«Non
so chi ti abbia avvisato delle mie indagini - non voglio nemmeno
saperlo, visto che tutti qui dentro hanno almeno un motivo per odiarmi,
- ma voglio assicurarti che ho risolto tutti i casi che sono passati
sulla mia scrivania questa settimana. Due rapine, un omicidio e un
furto d'identità. Casi semplici, se vuoi il mio
parere».
Ganimard
non poté vederlo, ma intuì che il suo capo stava
sorridendo quando gli rispose: «Sei abituato a batterti
contro il migliore, dopotutto. Hai trovato ciò che
cerchi?».
«Non
ancora. Ci riuscirò, prima o poi».
«Buona
fortuna, allora».
L'ispettore
guardò con la coda dell'occhio Dudouis che si voltava verso
la scrivania per recuperare il cappello e portarselo di nuovo al petto.
Quindi si scambiarono un lieve sorriso, carico di imbarazzo, e una
volta sulla porta il più anziano aggiunse: «Buon
Natale, Justin».
«Anche
a te», ricambiò Ganimard, salutandolo con un cenno
del capo.
Rimasto
solo nel proprio ufficio, l'ispettore si passò una mano
dietro il collo e sospirò pesantemente. Poi si
chinò a prendere la sigaretta fumata a metà che
aveva gettato a terra e la soppesò per qualche istante prima
di scrollare le spalle e riportarsi il filtro tra le labbra.
Tornò
alla scrivania per recuperare l'accendino e fu allora che
notò qualcosa di diverso nella disposizione dei fascicoli e
degli appunti, ma decise di non darci troppo peso: la sua fiducia nel
corpo di polizia era già ridotta al minimo, se avesse
iniziato a sospettare anche di Dudouis...
Qualcuno
bussò alla porta, interrompendo il flusso di quegli
inquietanti pensieri, e diede il permesso di entrare. Ovviamente si
trattava di Folefant.
«È
andata tanto male?», gli domandò con aria da cane
bastonato, come se fosse stato lui a fronteggiare Dudouis.
Ganimard si
strinse nelle spalle. «Come al solito»,
esalò insieme al fumo della sigaretta.
Folefant
sembrò rincuorato e con un sorriso fanciullesco
tornò a sedersi su una pila di scatole nei pressi del
davanzale della finestra per riprendere da dove si era interrotto,
prima della pausa pranzo. A dire il vero era stato Ganimard a buttarlo
fuori dall'ufficio, dicendogli di andare in caffetteria; se fosse stato
per Folefant avrebbe preso un panino e avrebbe continuato a lavorare
mangiando. Stava prendendo le sue stesse brutte abitudini e l'uomo ne
era sempre più preoccupato, proprio come lo sarebbe stato un
padre per il proprio figlio.
«C'è
qualcosa che non va?», gli domandò il ragazzo,
notando il modo in cui lo stava fissando.
L'ispettore
abbozzò un sorriso e scosse il capo, chinandosi a
raccogliere i fogli caduti dalla scrivania. Dopodiché
posò i piedi sull'angolo del tavolo ed usò le sue
stesse gambe per appoggiarvi l'ennesimo fascicolo. Non
riuscì però a scrollarsi di dosso la strana
sensazione che aveva provato quando Dudouis aveva lasciato l'ufficio,
un tarlo che gli impediva di concentrarsi appieno. La sua stessa visita
era stata insolita, ora che ci pensava.
Lui e
l'Ispettore Capo si conoscevano da vent'anni, precisamente da quando un
appena trentenne e promettente Ganimard era stato promosso ispettore e
trasferito nella sede parigina della Polizia Nazionale.
Avevano
bevuto insieme, cenato insieme e con le rispettive mogli; Dudouis aveva
persino partecipato ad entrambi i battesimi delle sue bambine. Insieme
avevano iniziato a dare la caccia a Lupin e poi, dopo numerosi
fallimenti e una pressione mediatica sempre maggiore, l'Ispettore Capo
aveva riconosciuto la potenza e l'inafferabilità del Ladro
Gentiluomo. Per Ganimard era stato un tradimento enorme, anche se col
tempo aveva capito le sue ragioni. Ciò nonostante non aveva
mai smesso di stimarlo, sia sul lavoro che nella vita privata, e lo
stesso valeva per Dudouis, o almeno così credeva.
Decine di
volte l'aveva difeso davanti alle telecamere e ai colleghi, l'aveva
sempre lasciato lavorare come meglio credeva e quando il suo matrimonio
si era sfasciato ed aveva iniziato a bere l'aveva aiutato in ogni modo
possibile. Era uno dei pochi amici che aveva, se non l'unico, e la
figura paterna che gli era venuta a mancare troppo presto. Per questo
gli sembrava impossibile che Dudouis fosse in combutta con Lupin. Ma
allora perché quella visita? Perché, durante il
suo periodo di ferie, si era scomodato per ripetergli ciò
che gli diceva tutte le volte che poteva e che sapeva non gli avrebbe
comunque fatto cambiare idea? Qualcosa non tornava, glielo diceva
l'istinto, e di solito il suo istinto non sbagliava.
«Lo
sa, ispettore Ganimard... Ieri sera non riuscivo a prendere
sonno», esordì Folefant, alzando gli occhi dal
fascicolo.
Ganimard fu
grato di quell'intervento e ricambiò il suo sguardo.
«Benvenuto nel club».
Il ragazzo
sorrise. «Ho ripensato agli elementi che le ha dato Sherlock
Holmes, in particolare al fatto che l'assassina doveva essere una
bambina all'epoca».
«Lui
ne è convinto».
«Beh,
se è così dubito che troveremo qualcosa in questi
fascicoli».
L'ispettore,
improvvisamente attento, si sedette composto e chiese:
«Perché dici così?».
«So
che è un'ipotesi azzardata, ma ascolti».
Folefant si
alzò e mentre spiegava il proprio ragionamento
iniziò a camminare avanti e indietro nel poco spazio che
aveva a disposizione, gesticolando come se in quel modo potesse sfogare
tutta la propria adrenalina.
«In
queste scatole ci sono tutti i fascicoli dei casi che sono collegati
certamente al Ladro Gentiluomo. Ora, Arsène Lupin, secondo
le ultime stime, dovrebbe andare per la quarantina, giusto?».
«Sì,
dovrebbe avere giusto qualche anno in più di
Sherlock».
«Perfetto.
Vuol dire che, all'epoca del colpo che ha coinvolto questa "bambina",
doveva averne circa venti. È stato allora che ha iniziato a
lasciare i suoi bigliettini, a fare carriera insomma...».
«Corretto.
Vent'anni fa mi è stato affidato il primo caso in cui
comparve il suo nome».
Folefant
annuì e si avvicinò alla scrivania dell'ispettore
per posarvi sopra entrambe le mani. Guardandolo negli occhi, coi propri
brillanti di eccitazione, sussurrò: «Io avevo
appena smesso di portare i pannolini allora, ma...».
«Questo
mi fa sentire vecchio».
«...
mi sono documentato parecchio e i colpi di allora erano audaci, dai
piani elaborati, ricchi di azione e sentimento... Per il suo esordio
sulla scena ha scelto gli obiettivi migliori. Voleva che la gente lo
notasse, voleva la fama ancor prima della ricchezza e alla fine le ha
ottenute entrambe».
Ganimard si
alzò a sua volta, capendo dove volesse andare a parare il
giovane.
«È
possibile che non si sia parlato affatto di questo caso, o che comunque
Lupin abbia agito in modo da non risultare coinvolto, per non farsi
cattiva pubblicità. E questo potrebbe essere il movente
delle persone che l'hanno preso di mira, anche a distanza di
vent'anni».
«Sa
come si dice... La vendetta è un piatto che va servito
freddo».
Ganimard
sorrise e spense la sigaretta nel posacene, poi diede un lieve
schiaffetto sulla guancia di Folefant e guardandolo negli occhi
esclamò: «Ottimo lavoro, figliolo».
Marcel
rimase a bocca aperta per qualche istante, ma poi sorrise felice ed
abbassò gli occhi lucidi di emozione. Ganimard stesso,
rendendosi conto delle parole così paterne che gli erano
uscite di bocca, chinò il capo e si allontanò,
pensando alla prossima mossa da fare.
Grazie a
quella nuova pista da seguire i sospetti su Dudouis passarono in
secondo piano.
L'ispettore
chiese all'agente di mettere da parte tutte le scatole che non
riguardavano i primi anni di attività del ladro - ovvero la
maggior parte - mentre lui telefonava a Sherlock per informarlo delle
possibili novità.
Ganimard
uscì in corridoio col cellulare all'orecchio, ricordandosi
troppo tardi del costo esorbitante della chiamata, e quando il
detective rispose non si perse in inutili convenevoli.
«Cercavamo
nella direzione sbagliata, ragazzo. È come per il caso del
diamante azzurro: se qualcosa è andato storto, tanto che
quella bambina e chi con lei hanno covato rancore per vent'anni, allora
Lupin avrà cercato di seppellire tutto».
Il silenzio
di Sherlock era un segno inequivocabile: l'aveva stupito.
«Adesso
vado, ti richiamo se trovo qualcosa».
Terminò
la chiamata e rientrò in ufficio, scorgendo solo le gambe e
le mani di Folefant - il resto del corpo era nascosto dalla pila di
scatoloni che stava spostando. Lo raggiunse con poche rapide falcate e
ne tolse due dalla torre pericolante, trovandosi di fronte ai suoi
occhi cristallini.
«Che
le ha detto Holmes?», gli domandò con un leggero
fiatone.
Ganimard
sorrise. «Si congratula con te. Dice che hai ottime
capacità deduttive».
«Dice
sul serio?».
L'ispettore
annuì e fu un piacere per gli occhi guardare l'espressione
felice e fiera di Folefant. Quel ragazzo aveva decisamente un futuro,
ma era giusto permettergli di godersi il presente ogni tanto.
***
«Grazie
e passi di nuovo a trovarci!», disse Arsène - o
meglio, Thomas Lee - all'uomo che aveva appena comprato un volume
proveniente dalla sezione dei libri rari.
Una donna
sulla sessantina, con lunghissimi capelli bianchi raccolti in una
treccia e occhiali da vista che prendevano il sopravvento su tutto il
suo viso tempestato di efelidi, uscì dall'ufficio e
sbalordita gli chiese: «Ne hai venduto un altro?».
Thomas
annuì, sorridendo umilmente.
«Oh
gioia, non so davvero che cosa abbia fatto per meritarmi un ragazzo
come te!», esclamò la signora O'reilly col suo
marcato accento irlandese, stringendolo in un abbraccio che per una
persona anziana e minuta come lei era davvero di una forza inaspettata.
Tu non hai fatto proprio niente,
pensò Arsène. Il motivo per cui si trovava a
lavorare in quel negozio di libri antichi e rari, piccolo ma con dei
pezzi davvero niente male, era uno e uno soltanto: era stato lui a
volerlo. E, come sempre, era successo.
Certo,
prima aveva dovuto aspettare l'arrivo del passaporto che autenticasse
la sua nuova identità - speditogli alla sua casella postale
londinese - e poi aveva dovuto dimostrarsi degno del lavoro.
L'idea di
dover lavorare sul serio non lo faceva impazzire, però era
una copertura perfetta: non solo avrebbe reso credibile la sua storia,
ma dalla libreria, situata proprio davanti al condominio di Molly
Hooper, poteva controllare chiunque transitasse nella zona senza
destare sospetti, accertandosi così che sua figlia fosse al
sicuro.
Aveva
notato il cartello "Cercasi personale" già quando aveva
fatto il suo primo sopralluogo (anche se all'epoca non aveva idea che
Geneviève si sarebbe ritrovata a vivere sotto lo stesso
tetto dell'anatomopatologa) e per fortuna non era ancora stato tolto
quando aveva pensato di diventare Thomas Lee.
Dopo
essersi specchiato davanti alla vetrina per controllare che i capelli
neri e il farfallino rosso fossero in ordine era entrato nel negozio e
al contrario di ciò che si aspettava aveva trovato un
ambiente caldo ed accogliente e che gli aveva fatto tornare alla mente
ricordi della sua adolescenza.
La libreria
era composta da due locali delle stesse dimensioni - quattro contando i
due soppalchi che erano stati costruiti apposta per sfruttare ogni
spazio disponibile: l'ingresso, col bancone da una parte e un tavolo da
consultazione dall'altro, e un salottino in cui era possibile
sprofondare in una delle tre poltrone Chesterfield in pelle e leggere
nel silenzio, avvolti dal profumo dei libri antichi e riscaldati dal
tepore di una stufa in ghisa dell'Ottocento.
Ovunque il
colore del legno era predominante e le luci delle lampade e del grande
lampadario in ottone conferivano un'atmosfera d'altri tempi. I
pavimenti erano ricoperti da vari tappeti persiani, dalle
tonalità cangianti, e tutte le pareti erano nascoste da
librerie stracolme che raggiungevano gli alti soffitti.
Entrando
per candidarsi Arsène aveva involontariamente interrotto un
affare che sembrava ben lontano dalla conclusione. Un uomo e una donna
erano sul soppalco che dava sull'ingresso ed era stata la donna a
sporgersi oltre la ringhiera e a sorridergli dicendo che l'avrebbe
raggiunto subito.
Avendo
ormai capito che era lei la proprietaria del negozio, la persona che
doveva impressionare perché lo assumesse, si era messo a
curiosare in giro mentre prestava orecchio alla conversazione sopra di
lui.
L'uomo
chiedeva insistentemente un ulteriore sconto, nonostante sembrasse che
la venditrice gliene avesse concessi parecchi nel corso dei mesi e lui
non si fosse mai deciso a comprare, tenendola in attesa. Ad
Arsène era bastata un'occhiata per capire che quell'uomo era
più che benestante e che l'unico motivo per cui voleva una
diminuzione del prezzo era perché sapeva che prima o poi
quella donna buona e amante dei libri avrebbe ceduto. Il Ladro
Gentiluomo non poteva permettere che si approfittasse in quel modo di
lei, perciò aveva deciso di intervenire. Inoltre, se la
tecnica del concorrente avesse funzionato come aveva già
appurato in più di un'occasione, sarebbe anche riuscito a
tirare acqua al proprio mulino.
Così
aveva attirato l'attenzione dei due e li aveva raggiunti salendo la
stretta scala a chiocciola che portava al soppalco. Si era presentato e
scusandosi per l'intromissione aveva chiesto di esaminare il volume,
dimostrandosi meravigliato di fronte al perfetto stato di conservazione
nonostante fosse la prima edizione ed avesse più di trecento
anni.
Di fronte
all'espressione innervosita dell'uomo si era tolto gli occhiali da
lettura e aveva chiesto alla proprietaria a quanto lo vendesse. Sentito
il prezzo, ribassato di almeno duecento sterline, Thomas Lee si era
fatto una bella risata e ne aveva offerte mille.
«Mi
scusi, ma questo è inaccettabile!», aveva
esclamato l'uomo, il viso paonazzo. «Qui non stiamo facendo
un'asta!».
«E
che cosa ce lo impedisce?», aveva ribattuto Thomas,
sorridendo pacato. «Io sono interessato a questo libro e se
lei lo è altrettanto sono sicuro che lo otterrà
chi lo desidera di più. D'altronde nessun prezzo
è troppo alto per l'arte. Dico bene, signora?».
Alla
strizzata d'occhio che aveva rivolto alla signora O'reilly l'uomo si
era gonfiato ancor di più per la rabbia, ricordando un pesce
palla, e ne era seguito uno scambio di offerte e controfferte che si
era concluso quando Arsène aveva ritenuto che l'ultimo
prezzo proposto dall'uomo fosse pari al valore attuale del libro,
più un extra per il disturbo causato alla proprietaria del
negozio.
Quando
l'uomo se n'era andato col volume incartato e gelosamente stretto al
petto, ignaro di essere stato raggirato dal solo ed unico
Arsène Lupin, la signora O'reilly l'aveva guardato come
un'apparizione divina. Immensamente grata gli aveva chiesto che cosa
poteva fare per sdebitarsi e Thomas, senza peli sulla lingua, aveva
risposto: «Mi assuma».
Solo allora
la donna aveva realizzato che lui non era mai stato veramente
interessato all'acquisto del libro e, ancora più conquistata
dal suo talento, era andata a togliere il cartello dalla vetrina.
«Lo
sai, sei qui da una settimana e sei già riuscito a vendere
più di quanto io abbia venduto il mese scorso!»,
esclamò la signora O'reilly, entusiasta. «Per non
parlare del tuo occhio negli acquisti!».
«Ah,
a proposito».
Thomas si
chinò sotto il bancone ed afferrò un voluminoso
tomo dalla copertina in pelle, decorata con filamenti d'oro.
Già da chiuso dava l'impressione di essere antichissimo e di
inestimabile valore, ma quando lo aprì per mostrare alla
donna le pagine ingiallite ma intatte, l'inchiostro delle lettere
gotiche appena scolorito e le miniature dai colori ancora sgargianti fu
quasi sul punto di farle venire un attacco di cuore.
«Christ on a bike!»,
esclamò col suo accento irlandese, facendo sorridere Thomas.
Il
cellulare iniziò a vibrargli nella tasca posteriore dei
jeans e le chiese se potesse fidarsi nel lasciarla sola col prezioso
manoscritto e il suo shock. Tutto ciò che ottenne in
risposta fu un mugugno e Arsène se lo fece bastare.
Attraversò
il piccolo ufficio a cui si accedeva dal retro del bancone ed
uscì, ritrovandosi in uno stretto vicolo.
«Pronto?»,
rispose con cautela, non riconoscendo il numero sul display.
«Sono
io».
Arsène
riconobbe la voce e sorrise, decidendo di divertirsi un po'.
«Io chi?».
«Non
mi prendere per il culo, Lupin!».
«Che
volgare! È di cattivo umore per caso?».
«Non
sei il primo che me lo chiede».
«Beh,
spero per il mio che abbia le informazioni che le ho chiesto».
«Sì,
ce le ho. Ma con questo abbiamo chiuso, va bene? Justin è un
amico, non voglio più...».
«Bla,
bla, bla», lo interruppe Arsène, schifato.
«Sono anni che ripete la stessa solfa. E sono anni che, ogni
volta che chiamo, lei risponde. Perché non si decide una
buona volta? Eppure le ho detto esattamente che cosa fare per liberarsi
di me!».
«Sai
che non posso farlo».
«Oh,
no. Lei può, ma non vuole. Sia sincero, Ispettore Capo
Dudouis».
Arsène
sorrise e tirò fuori la sigaretta elettronica dalla tasca
del grembiule bordeaux che indossava per proteggere i vestiti dalla
polvere dei libri. Fece un tiro ed aspettò la risposta
dell'uomo, che non arrivò.
Spazientito,
fu lui a riprendere la parola: «Ecco perché non mi
è mai piaciuto, Dudouis. Al contrario di Ganimard lei
è un codardo, lo è sempre stato. Ha chiesto il
mio aiuto quando ne aveva bisogno e in cambio ha accettato di essere i
miei occhi e le mie orecchie nella polizia. Ovviamente si è
accorto presto del suo errore e mi ha chiesto di porre fine alla nostra
collaborazione. Ricorda cosa le risposi? Le dissi che avrei rinunciato
ai suoi servigi se avesse annunciato alla stampa di aver fatto un patto
con me. Allora ha fatto i suoi bei conticini e si è detto:
"Ne vale davvero la pena? Rinunciare al posto di Ispettore Capo, alla
stima dei miei amici e familiari... Cadere in disgrazia solo per andare
a letto sereno?". Se siamo qui a parlarne dopo quindici anni, la
risposta è chiarissima».
Il respiro
affannoso di Dudouis infastidì Arsène ancora di
più e con tono stizzito gli ordinò di aggiornarlo
sulle indagini che Ganimard, corso in aiuto di Sherlock, stava
conducendo sui suoi vecchi casi.
«Da
quello che ho potuto vedere non ha le idee molto chiare.
Però si stanno concentrando sui casi che hanno coinvolto
bambine e casinò».
Arsène
aveva voglia di prendere a calci qualcosa, ma si trattenne.
Niente, non
gli veniva in mente niente! Per anni aveva ripetuto il mantra: "Il
passato è morto per sempre; il passato non esiste", ma in
quel momento, con la propria vita e quella di sua figlia in pericolo,
avrebbe tanto desiderato ricordare e capire chi fosse il nemico da
affrontare.
«Allora,
ti serve altro?», domandò l'Ispettore Capo,
innervosito dal suo silenzio.
«No.
Le auguro un buon Natale, Dudouis».
Terminò
la comunicazione senza aspettare di sentire la risposta dell'uomo e
fece l'ultimo tiro alla sigaretta elettronica, giungendo alla triste
conclusione che da solo non avrebbe fatto alcun progresso. Il suo primo
pensiero fu per Grégorie, ma dovette scartarlo quasi subito:
anche lui, proprio come Sherlock, aveva dedotto che l'assassina doveva
essere appena una bambina quando le loro strade si erano incrociate per
la prima volta, perciò l'amico, che conosceva da dieci anni
e a cui non aveva mai parlato delle proprie avventure passate, non
poteva essergli d'aiuto.
Aveva
bisogno di qualcuno che aveva indagato nella sua vita a lungo, come
Ganimard, e di cui poteva fidarsi ciecamente. Arsène
aprì gli occhi e si colpì in fronte con una mano,
dandosi dello stupido. Quindi si portò di nuovo il cellulare
all'orecchio, picchiando a terra un piede nell'attesa.
«Avanti,
rispondi», lo pregò a bassa voce e il ragazzo,
come se avesse udito la sua richiesta, rispose.
«Pronto?».
«Maurice,
sono io».
Il
giornalista de L'Ècho de France sospirò di
sollievo. «Allora stai bene! Grégorie mi ha
confermato che non eri morto nell'incidente, ma non ha voluto dirmi
nulla di più, quindi temevo...».
«Perdonami
se non mi sono fatto sentire, sono stato molto impegnato».
«Ma
certo, capisco».
«Hai
da fare adesso?».
«Dimmi
dove».
Arsène
sorrise, dicendosi che aveva fatto davvero un colpaccio quando aveva
scelto quel ragazzo come reporter ufficiale.
«Libreria
O'reilly. Assicurati di non essere seguito».
«Va
bene».
Arsène
rientrò nel negozio e vide la proprietaria intenta ad
infilarsi cappotto, sciarpa e cappello di lana.
«Sta
uscendo?», le domandò, pensando che capitava
proprio a fagiolo. Rimasto solo avrebbe potuto parlare con Maurice in
tutta tranquillità.
La signora
O'reilly incartò il tomo ed una volta infilato in una
valigetta di cuoio annuì. «Ho bisogno di un
secondo parere per la valutazione Ti affido la libreria. A dopo
caro!».
Thomas la
seguì fin sopra il marciapiede e la salutò quando
salì sul taxi, poi tornò nel negozio e
lasciò che la porta si chiudesse alle sue spalle
scampanellando. Allora guardò il piccolo albero di Natale
con cui avevano addobbato la vetrina e sorrise, ricordando la promessa
che aveva fatto a sua figlia: quel week-end avrebbero portato la magia
di quella festa anche nell'appartamento di Molly Hooper, la quale aveva
tirato fuori gli scatoloni ma non aveva avuto ancora il tempo materiale
per guardarci dentro.
Erano anni
che non si preoccupava più del Natale: per lui era un giorno
qualunque, come tutte le altre festività segnate sul
calendario. Aveva sempre lavorato, nonostante i rimproveri di Victoire,
e forse iniziava ad intravederne il motivo: il Natale era una festa in
cui la famiglia si riuniva ed Arsène, essendone sprovvisto,
aveva deciso di ignorarla per non soffrire troppo la solitudine.
Quell'anno però era diverso; quell'anno aveva scoperto di
avere Geneviève.
Il sorriso
gli svanì dal volto ripensando all'ultima conversazione che
aveva avuto con Victoire e di cui non aveva ancora avuto il coraggio di
parlare con nessuno, men che meno con la diretta interessata, sua
figlia.
Secondo le
ricerche della donna l'unico modo per poter stare legalmente con lei
era dimostrare ancora una volta di essere suo padre - aveva infatti
già fatto il test di paternità dopo il loro primo
incontro, all'insaputa di Clotilde - e portare i risultati davanti ad
un giudice del tribunale dei minori, il quale avrebbe dovuto spulciare
nella sua vita prima di decidere. Erano tutti ostacoli che
Arsène pensava di superare, ma alla lunga sarebbe stato
molto rischioso, soprattutto per Geneviève. Aveva promesso a
Clotilde che l'avrebbe tenuta lontana dal suo lavoro, che l'avrebbe
fatta vivere come una ragazzina normale e, soprattutto, che non
l'avrebbe mai costretta a nascondersi. Farla diventare la figlia di
un'identità fittizia, per quanto magistralmente creata,
avrebbe voluto dire contannarla ad una vita di menzogne. Lei meritava
di meglio, meritava di vivere nella luce.
Scrollando
il capo nella speranza che quei pensieri lo abbandonassero si diresse
verso il salottino, dove controllò la stufa e poi si mise a
sistemare sugli scaffali i libri che erano stati consultati da alcuni
dei clienti abituali della signora O'reilly.
Stava
riesaminando mentalmente tutti gli indizi che possedeva quando
sentì il tintinnio del campanello alla porta. Certo che si
trattasse di Maurice corse all'ingresso, ma si ritrovò
davanti proprio Geneviève.
«Buongiorno
signorina», la salutò, fingendo che si trattasse
di una cliente qualunque. «Posso esserle d'aiuto?».
La
ragazzina si guardò intorno meravigliata e poi
abbassò gli occhi su di lui, squadrandolo da capo a piedi.
Thomas aveva mantenuto il suo stile punk, ma quando era di turno in
negozio indossava sempre camicia e farfallino, i capelli neri erano
ordinatamente legati in un codino e appesi al grembiule portava un paio
di piccoli occhiali da lettura dalle lenti tonde. Più che un
libraio sembrava un enologo, ma poco importava: era bello da togliere
il fiato.
«Sai,
potrei abituarmi a questo tuo look», esordì
Geneviève sorridendo. «Sono venuta
perché Molly è al lavoro e a casa mi stavo
annoiando».
«Ti
ho già detto che non è il caso che tu ti faccia
vedere qui», sussurrò Arsène,
avvicinandosi ad uno scaffale ed indicando una serie di libri per
mantenere le apparenze. «Grégorie potrebbe
insospettirsi e...».
«Tranquillo,
il tuo fidanzato non è di turno questa mattina».
Il ladro
sgranò gli occhi, scioccato.
«Fi-Fidanzato?».
«Sì,
lo so che probabilmente la vostra non è una relazione seria,
ma lasciamelo chiamare così, okay? È
già abbastanza strano».
Arsène
le indicò il piccolo corridoio con un semplice cenno del
capo e la precedette. Geneviève lo seguì e
commentò il salottino con un semplice
«Wow», scegliendo poi una poltrona tra i cui
braccioli abbandonarsi.
Lontano
dalle vetrine che davano sulla strada il Ladro Gentiluomo
poté smettere di trattenersi e si portò le mani
sui fianchi.
«Che
cosa significa? Da quanto tempo sai che io e
Grégorie...».
Geneviève
si portò le mani sulle orecchie ed intonò un «La-La-La»
per non sentire il continuo di quella frase.
Quando fu sicura che suo padre non avrebbe aggiunto altro,
spiegò: «Ho sempre notato che lui ti guardava in
modo diverso rispetto agli altri membri della banda. Pensavo
però che fosse una cosa a senso unico, insomma... che tu non
ricambiassi visto che la tua reputazione da sciupafemmine ti precede. E
poi sono nata io, quindi...».
«Sì,
ho capito: non pensavi potessi andare a letto anche con gli
uomini».
«Santo
cielo, l'hai detto», mormorò Geneviève,
coprendosi il volto rosso d'imbarazzo e lasciandosi scivolare un po' di
più sulla poltrona.
«Non
c'è nulla di cui vergognarsi. Il sesso
è sesso... Se c'è
attrazione, come nel caso di Grégorie o
Sherlock, i generi non contano».
«Mi
stai dicendo che tu e Sherlock avete...?». La ragazzina
scosse violentemente il capo, correggendosi: «Lascia perdere,
non voglio saperlo».
Arsène
sospirò e si lasciò cadere sulla poltrona accanto
a quella della figlia, le mani unite dietro la testa.
«E
cosa ti ha convinta alla fine?», le domandò ad un
tratto, non riuscendo a tenere a freno la curiosità.
La biondina
si strinse nelle spalle. «Tu, poco fa».
«Mi
hai raggirato col trucco più vecchio del mondo».
«Direi
di sì».
Si
guardarono negli occhi e sorrisero, sentendo la tensione stemperarsi.
Geneviève
si portò un ginocchio al petto ed arricciandosi una ciocca
di capelli tra le dita gli chiese: «Come vi siete
conosciuti?».
Arsène
distolse lo sguardo, improvvisamente malinconico. «Sai che
non mi piace parlare del passato».
«Lo
so, ma tende a vendicarsi se ignorato».
Lupin
dovette darle ragione e cedette.
«È
stato il 4 Maggio di dieci anni fa», iniziò a
raccontare. «Era l'anniversario della morte di un filantropo
francese e le sue figlie avevano deciso di organizzare una serata di
beneficenza i cui fondi sarebbero andati alle varie associazioni no
profit di cui il padre era un sostenitore. L'evento venne chiamato
"Bazar de la Charité" e furono invitate le più
ricche famiglie di Parigi».
«E
tu trovarsti il modo per partecipare anche senza invito,
giusto?».
Arsène
sorrise, annuendo con un cenno del capo. «So che sembra
banale, ma riuscii a farmi assumere come cameriere. Era la copertura
perfetta: potevo girare tra gli invitati senza destare sospetti, rubare
portafogli e sentirli vantarsi delle loro collezioni di opere d'arte e
mobili antichi, acquisendo informazioni preziose».
«E
Grégorie? Era anche lui un cameriere?».
Il padre
sorrise furbescamente, scuotendo il capo.
«Non
dirmi che lui era uno degli aristocratici!»,
gridò allora Geneviève, incredula.
«Perché
ti stupisci tanto?».
«Perché...
perché lui sembra un maggiordomo, non uno che era abituato
ad essere servito!».
«Beh,
allora dev'essere vero il detto "Guardando si impara"».
«Non
posso crederci», mormorò Geneviève. La
storia era appena cominciata ed era già esterrefatta.
«E che cos'è successo? Avanti,
racconta!».
«Va
bene, va bene». La sua impazienza lo divertiva.
«Grégorie era in un angolo della sala, col volto
serio ed imperturbabile, e guardava le figlie del filantropo fare le
civette con degli importanti industriali. Fui immediatamente attratto
dal suo comportamento anticonformista, così lo raggiunsi con
la scusa di volergli porgere da bere. Grégorie mi
squadrò e rifiutò, però prima che me
ne andassi mi afferrò per il polso e mi chiese: "Non hai
intenzione di prendere anche il mio di portafoglio?". Non provai
nemmeno a negare: avrei insultato il suo occhio attento. Gli lasciai il
mio bigliettino da visita e decisi che per la serata avevo raccimolato
abbastanza. Stavo giusto servendo gli ultimi drink quando
Grégorie mi passò accanto e mi infilò
nel taschino del gilet il mio stesso bigliettino, su cui aveva scritto
che mi aspettava al piano di sopra in dieci minuti».
«Caspita,
non lo facevo così audace», commentò
Geneviève.
«Oh,
lo era eccome».
Arsène represse un
gemito di dolore misto a piacere quando fu spinto contro il muro alle
sue spalle. Stretto tra la parete e il corpo dell'uomo
ricambiò con foga il bacio fino a quando quest'ultimo non
lasciò le sue labbra per scendere sul collo e sul petto da
cui aveva già scostato i lembi della camicia bianca.
Rise, divertito dalla piega
che aveva preso la serata, ed esclamò con voce affannata:
«Non so nemmeno come ti chiami».
«Grégorie
Carrière», rispose l'uomo, tracciando con la
lingua i contorni dei suoi capezzoli.
«Carrière...
Come Cécile e Pauline Carrière? Monsieur
Carrière era tuo padre e questa è casa
tua?». Sconvolto, Arsène gli portò le
mani sulle spalle e lo allontanò per poterlo guardare negli
occhi. Grégorie sorrise, annuendo.
«Non sapevo che il
vecchio avesse un figlio».
«Diciamo pure che
sono la pecora nera della famiglia. Non mi è mai andato a
genio il modo in cui gestiva i suoi affari, trovando sempre scorciatoie
per aggirare la legge e sfruttare i propri lavoratori... Cercava di
pareggiare i conti con le sue generose donazioni per lo sviluppo dei
paesi del Terzo Mondo, ma la verità è che era un
ipocrita. Questa sera sono venuto solo perché sono state le
mie sorelle a chiedermelo. Direi che ho fatto bene ad accettare, non
trovi?».
Detto questo gli
sbottonò i pantaloni ed iniziò ad occuparsi della
sua mezza erezione. Arsène chiuse gli occhi, abbandonando il
capo contro la parete, e mormorò: «Oh
sì, decisamente».
Non erano nemmeno lontanamente
arrivati alla parte divertente quando furono interrotti dall'allarme
antincendio. Grégorie gli disse di non farci caso, che
probabilmente era partito a causa delle vecchie cappe della cucina, ma
Arsène, il cui sesto senso aveva iniziato a pizzicargli la
nuca, si alzò dal grande letto a baldacchino e si
rivestì, consigliandogli di fare lo stesso. Insieme erano
tornati al piano di sotto e una volta di fronte alle porte spalancate
della sala da ballo erano rimasti ad occhi e bocca spalancati: il palco
in fondo alla sala, sul quale si stava svolgendo l'asta di
beneficienza, era avvolto dalle fiamme.
Il panico aveva portato le
persone a calpestarsi a vicenda pur di scappare dalla sala e per via
del fumo che rendeva l'aria irrespirabile i corpi stesi a terra erano
già decine.
Arsène
guardò il grande ritratto di Monsieur Carrière
bruciare e poi seguì il percorso delle fiamme fino al
soffitto dalle travi a vista. Afferrò il polso di
Grégorie ed esclamò: «Presto, dobbiamo
andarcene da qui».
«Le mie
sorelle», balbettò l'uomo, sotto shock.
«Devo trovare le mie sorelle».
«Non puoi, qui sta
per crollare tutto!», insistette il ladro, ma
Grégorie si liberò della sua stretta e corse
nella sala da ballo coprendosi la bocca con la giacca.
Arsène
sospirò frustrato e gridò alle persone che si
stavano accalcando all'uscita di fare con calma. Come un perfetto
vigile amministrò il traffico e grazie a lui ci furono due
dozzine di vittime in meno.
Una volta riuniti gli invitati
nel giardino, Arsène prestò primo soccorso ai
feriti in attesa dell'arrivo delle ambulanze e dei vigili del fuoco.
Perché ci stavano mettendo tanto?!
Stava raccomandando ad una
signora di tenere sveglio il marito con un profondo taglio sulla testa,
anche schiaffeggiandolo se necessario, quando un boato gli fece
accapponare la pelle. Arsène si voltò verso la
villa dei Carriére ed attraverso le alte finestre dai vetri
in frantumi vide le lingue di fuoco tingere di rosso il cielo scuro.
Quella scena l'aveva già vista.
«Grégorie»,
sussurrò col cuore in gola.
Si alzò e fece un
passo verso la villa, poi si fermò coi pugni stretti lungo i
fianchi.
Quello stupido non aveva
voluto ascoltarlo e non c'era alcun motivo per cui doveva rischiare la
propria vita nel tentativo di salvarlo. Non lo conosceva neppure!
Il Ladro Gentiluomo
chinò il capo e sfruttando la rabbia che gli montava dentro
corse verso l'ingresso, ignorando le urla e le mani delle persone che
tentavano di fermarlo.
Geneviève
guardò suo padre con espressione incredula e lui
abbozzò un sorriso, alzandosi dalla poltrona.
«Ecco
com'è andata», disse, sistemandosi i lacci del
grembiule dietro la schiena.
«Che
ne è stato delle sue sorelle?», domandò
la ragazzina una volta ripresasi.
«Cécile
e Pauline sono state le prime vittime: erano sul palco quando
un'americana ha ceduto, facendo cadere i fari da cui poi è
partito l'incendio».
«Quindi,
rimasto solo al mondo, ha deciso di dedicare la sua vita a colui che
gliel'ha salvata. Ora capisco».
«Già».
«Papà...».
«Uhm?».
Il suo
sguardo serio lo lasciò interdetto, ma Geneviève
non ebbe il tempo materiale per dire ciò che aveva in mente,
anticipata dallo scampanellio della porta. Arsène si
scusò e andò a vedere chi fosse.
Ritornò poco dopo, accompagnato da Maurice Leblanc, e i due
si scambiarono un'occhiata imbarazzata prima che quest'ultimo fingesse
di non conoscerla.
Il Ladro
Gentiluomo sorrise e diede una pacca sulla schiena del giornalista,
esclamando: «Tranquillo, so che avete già avuto
modo di presentarvi».
«Come?»,
esclamò Maurice, guardando prima il padre e poi la figlia.
«Non
ha importanza. Avanti, accomodati», gli disse indicando la
poltrona accanto a quella su cui era seduta Geneviève. Prima
di lasciarlo andare però si sporse sul suo orecchio e
sussurrò: «Guardala con occhi maliziosi e te li
farò cavare».
Il ragazzo
deglutì ed annuì, stringendosi al petto la borsa
a tracolla in cui portava sempre il laptop.
«Bene,
arrivo subito!», esclamò euforico
Arsène, lasciandoli soli nel salottino.
***
Sherlock
entrò nella stanza d'albergo in cui lui e Irene erano soliti
incontrarsi e si guardò intorno, sentendo una sgradevole
sensazione allargarsi nel suo petto.
Dubitava
fortemente che la donna avesse lasciato qualche indizio per lui -
pensava infatti che non avesse nutrito alcun sospetto sui suoi rapitori
- ma ormai non aveva più carte in mano.
Cercò
ovunque, persino dietro il quadro astratto che spesso e volentieri,
dopo il sesso, erano rimasti ad osservare domandandosi che cosa diavolo
rappresentasse.
Non
trovò nulla.
Si sedette
sul letto, davanti al maledetto dipinto, e finalmente riuscì
a dargli un senso: caos. In quegli ultimi dieci giorni aveva avuto modo
di viverci, perciò ora gli sembrava tanto elementare.
Ogni pista
che aveva seguito lo aveva portato al nulla e la frustrazione l'aveva
ridotto ad un fascio di nervi, insopportabile per tutti quelli che
provavano ad avvicinarlo. John, in particolare, era quello che ci aveva
rimesso più di tutti, incassando senza mai rispondere fino a
quando, il giorno prima, non ce l'aveva più fatta.
«Devo trovare Lupin.
Non è un buon segno che sia sparito nel nulla».
Il dottor Watson, chino su
Rosie per aiutarla a muovere i primi passi, alzò gli occhi
per affermare per la decima volta: «Sono certo che sta
bene».
«E come fai a
saperlo? Sei andato da un'indovina?», sbottò,
riprendendo a camminare avanti e indietro di fronte al camino acceso.
«No»,
rispose sospirando. «Però,
conoscendolo...».
«Conoscendolo? Tu
non lo conosci! Ci avrai parlato quanto,
venti minuti al massimo? Non hai la minima idea di cosa passi per la
sua mente!».
«E tu
sì?», ribatté il dottore, mostrandosi
molto più arrabbiato di quello che avrebbe dovuto. Aveva
raggiunto il punto di rottura, evidentemente, e Sherlock, nonostante se
ne fosse accorto, ne approfittò per sfogare il proprio
nervosismo.
«Certo! Lui mi
considera un amico, perciò so che se le sue ferite fossero
state gravi me lo sarei ritrovato qui, dato che non poteva andare in
ospedale per evitare che gli aguzzini lo attaccassero mentre era
incosciente. Non si sarebbe fidato di nessun altro!».
John lasciò Rosie
seduta sul tappeto e si portò le mani sui fianchi, annuendo
con un lieve sorriso sulle labbra.
«Mi dispiace
dovertelo dire, ma non lo conosci bene come credi».
«Prego?».
«Arsène
è venuto da me, dopo l'incidente. Da me! Io l'ho ricucito e sempre io
ho vegliato su di lui! E tu eri così convinto di essere il
solo ed unico che non ti è nemmeno passato per la testa che
avesse preferito andare da un dottore vero!».
Sherlock, sotto shock,
aprì la bocca ma nessun suono vi uscì. L'amico
scosse il capo, prese la figlioletta tra le braccia e
raccattò le sue cose.
«Sai, inizio a
pensare che Arsène abbia ragione»,
esclamò sulla soglia del salotto. «Devi aprire gli
occhi e reputare il tuo cuore un alleato, piuttosto che un
nemico».
«Tu non capisci,
John», mormorò, dandogli le spalle per osservare
Baker Street dalla finestra.
«Che cosa non
capisco?».
«Ho già
fatto affidamento sul mio cuore, tanto tempo fa, e non è
andata a finire bene».
«Forse dovresti
riprovarci».
Quando Sherlock si era voltato
per guardarlo in volto, John non c'era già più.
Un lieve
bussare lo riportò alla realtà e Sherlock si
alzò dal letto per addossarsi al muro e, pistola in pugno,
aprire la porta.
«Mycroft?»,
domandò confuso il detective, fissando il fratello che, con
le mani sollevate, gli sorrideva pacato. «Che diavolo ci fai
qui? E come facevi a sapere...?».
«Non
ha importanza. Come stai?».
«Come
sto?», ripeté Sherlock. Poi comprese e ripose la
pistola nella tasca del cappotto, lasciandosi andare ad una risata
gutturale. «Ma certo. Perquisiscimi pure, ma non ho droga con
me».
«Mi
fido della tua parola».
Fece un
giro su se stesso per verificare in quali condizioni igienico-sanitarie
suo fratello minore avesse avuto dei rapporti sessuali e una volta
completato l'esame disse: «Sei più preoccupato per
lei o per Arsène?».
Sherlock
sbuffò e si lasciò cadere di nuovo sul materasso,
le dita sulle tempie. «Tu lo sapevi che dopo l'incidente
Arsène è andato da John?».
Mycroft si
rifiutava di posare le mani su una qualsiasi superficie di quella
stanza, perciò usò l'ombrello come appoggio.
«No,
non lo sapevo, ma nella sua situazione l'avrei fatto anche io.
È la mossa più logica, dopotutto».
Il silenzio
di Sherlock gli fece capire che lui non ci era arrivato, ma non
infierì oltre.
«Fratellino,
hai confessato al dottor Watson quello che ti preoccupa
davvero?».
«No.
E non ne ho alcuna intenzione, non cercare di convincermi».
Mycroft
sospirò. «Bene, come vuoi. Devo continuare a
cercare Irene Adler?».
Sherlock
levò di scatto il capo, mostrando inconsapevolmente tutta la
propria preoccupazione. «Credi che sia...?».
«Credo
che dovresti prepararti all'eventualità».
Il
detective si alzò e raggiunse le tende che oscuravano le
finestre. Con un gesto deciso le scostò, facendo entrare la
luce del primo pomeriggio nella stanza, ed esclamò:
«No». Prima che il fratello potesse chiedergli a
cosa stesse rispondendo, aggiunse: «Irene non è
morta. Se lo fosse avremmo già trovato il suo
cadavere».
«Magari
non se ne sono ancora sbarazzati perché sapevano che
avrebbero attirato la tua attenzione. Gestire Arsène
è già abbastanza difficile, dopotutto».
Sherlock si
portò di nuovo le dita sulle tempie, nel tentativo di capire
a chi toccasse muovere.
«Secondo
te Arsène che cosa sta facendo?», chiese a Mycroft.
«Probabilmente
si prepara al contrattacco. E sarà qualcosa di
grosso».
Il
consulente investigativo lo fissò, colpito dalle sue parole.
«Perché dici questo?».
Mycroft
sorrise in quel suo modo mellifluo. «Il silenzio».
Non
l'avrebbe mai ammesso ad alta voce, ma aveva ragione da vendere.
Arsène era solito provocare i propri avversari, avvertirli
del suo arrivo (l'aveva fatto anche con lui), ma quella volta era
semplicemente sparito, facendo temere il peggio persino a Mycroft.
«Dobbiamo
trovarlo, prima che faccia qualcosa di stupido»,
esclamò il detective, con sguardo febbrile. «Le
nostre risorse non bastano a stanarlo, perciò dovremo fare
in modo che sia lui ad uscire allo scoperto. Idee?».
«Solo
una», rispose il maggiore degli Holmes.
«Me
la dici o vuoi una richiesta scritta?».
Arricciando
gli angoli della bocca in un sorriso quasi perverso, Mycroft gli
puntò contro l'ombrello ed affermò:
«Diventerai Arsène Lupin».
***
«Sei
arrabbiato?».
Arsène
portò dietro il bancone le tazze di té che aveva
offerto a Geneviève e Maurice e guardò
quest'ultimo con le sopracciglia inarcate.
«E
perchè dovrei? Io per primo non ho idea di chi siano i
mandanti di quell'agguato».
«Non
intendevo per le ricerche andate a vuoto». Il ragazzo
chinò il capo e si grattò la nuca, imbarazzato.
«Conoscevo Geneviève e te l'ho tenuto
nascosto».
Il Ladro
Gentiluomo sorrise di cuore e si appoggiò al bancone con gli
avambracci, facendogli segno di avvicinarsi con un dito. Maurice
deglutì e si chinò verso di lui, porgendogli
l'orecchio.
«Sciocco!»,
gli gridò nel timpano, facendolo sobbalzare. Poi
scoppiò a ridere, aggiungendo: «Non sono affatto
arrabbiato, piuttosto... impressionato, ecco. Hai impiegato davvero
poco a capire chi fosse in realtà. Ti devo fare i miei
complimenti, Maurice».
Il
giornalista, con la mano ancora sull'orecchio offeso,
abbozzò un sorriso.
«Adesso
vai», gli disse Arsène, dando un'occhiata
all'antico orologio a pendolo posto alle sue spalle. «La
signora O'reilly potrebbe tornare da un momento all'altro e dovrei
costringerti a comprare un libro che non puoi permetterti».
«Continuerò
a cercare», lo rassicurò Maurice, battendo il
palmo sulla propria borsa a tracolla.
«E
io ti ringrazio. Buona serata, amico mio».
Arsène
guardò il ragazzo uscire dal negozio ed incamminarsi a
piedi, le mani nelle tasche e il colletto della giacca sollevato per
ripararsi dal vento freddo. Quindi sospirò e per evitare di
abbattersi ulteriormente tornò a vestire i panni di Thomas
il commesso e a sistemare il negozio.
Quando la
signora O'reilly rientrò, una mezz'ora più tardi,
lo trovò in cima ad una scala, intento a togliere le
ragnatele dagli angoli del soffitto e dal lampadario.
«Com'è
andata la valutazione?», le domandò subito.
Il suo
sorriso a trentadue denti fu abbastanza eloquente. Era così
euforica che per ringraziarlo gli diede il resto del pomeriggio libero.
Thomas insistette per rimanere - dopotutto aveva iniziato a piacergli
la tranquillità di quel posto e il lavoro non era troppo
faticoso, anzi, era proprio quello di cui aveva bisogno: una
distrazione - ma la donna non volle sentire ragioni e quasi lo spinse
fuori dalla porta.
Rimasto sul
marciapiede, Arsène sospirò e non poté
far altro che tornare a casa.
Pensò
che magari lui e Geneviève avrebbero potuto anticipare
l'appuntamento con le decorazioni, oppure preparare la cena per fare
una sorpresa a Molly, ma i suoi programmi vennero ancora una volta
sconvolti quando vide la figlia seduta sulle scale che portavano al
pianerottolo dell'anatomopatologa, il cellulare tra le mani e
un'espressione pensierosa.
«Ehi,
che succede?», le domandò, fermandosi al suo
cospetto.
La
ragazzina sollevò gli occhi e smise di torturarsi il labbro
per forzare un sorriso e scuotere il capo. «Probabilmente non
è niente».
«Mai
sottovalutare il proprio istinto», le disse il padre,
portandole una mano sulla testa. «Regola numero due del Ladro
Gentiluomo».
«Qual
è la numero uno?».
«Te
la rivelerò se mi dici che cosa ti preoccupa».
Geneviève
si fece un poco più in là, permettendo ad
Arsène di sedersi al suo fianco sul gradino, e con le
ginocchia strette al petto confessò: «Mi ha appena
chiamato Molly e mi ha detto che farà tardi per cena
perché deve fare degli straordinari».
«E...?».
«Ed
è strano, perché è già la
seconda volta questa settimana».
«Capisco»,
mormorò il ladro, guardando di fronte a sé.
Senza farlo
apposta imitò la posizione di Geneviève,
incrociando le braccia sulle ginocchia e posandovi sopra il mento. Ad
un tratto si voltò a guardarla e le chiese: «Che
cosa vuoi fare?».
«Non
lo so. Che cosa dovrei
fare?». La ragazzina sospirò.
«Regola
numero uno del Ladro Gentiluomo», declamò
Arsène, sollevando l'indice della mano destra.
«Soddisfare sempre la propria curiosità».
«Non
voglio passare per quella che non sa farsi gli affari suoi».
«Essere
curiosi non significa per forza essere dei ficcanaso», le
spiegò con tono dolce. «Il termine
curiosità deriva dal latino e ai tempi significava essere
attenti e diligenti, ma anche interessarsi e avere a cuore le
conoscenze tramandate di generazione in generazione. Reprimerla
è inutile, in quanto è insita nell'animo umano.
Pensa dove saremmo, a quest'ora, se gli uomini primitivi non si fossero
incuriositi alla vista del fuoco e non avessero imparato a dominarlo,
rischiando anche di bruciarsi».
Geneviève
riprese a tormentarsi il labbro inferiore con i denti, fino a quando
non disse: «Non c'era un proverbio che diceva che la
curiosità uccise il gatto?».
Arsène
si strinse nelle spalle. «E allora? Noi non siamo mica
gatti».
Si
scambiarono uno sguardo e scoppiarono a ridere, appoggiandosi ognuno
alla spalla dell'altro.
«Allora
lo facciamo? Andiamo a pedinare Molly?», sussurrò
Geneviève quando si calmò, con ancora
dell'incertezza nella voce.
«Andiamo
ad assicurarci che stia bene», la corresse, facendole
sbocciare un sorriso sul volto.
E per quel
sorriso Arsène avrebbe fatto qualsiasi cosa al mondo, ne era
certo.
***
«Se
tutto andrà come deve andare, non solo Arsène si
farà vivo per capire chi abbia sfruttato il suo nome, ma
potresti anche attirare l'attenzione dei suoi aguzzini».
Sherlock
ascoltò distrattamente le parole del fratello, profondamente
a disagio di fronte a quella porta immacolata e ciò
nonostante tinta dei peggiori ricordi.
L'uomo che
si presentò dietro di essa era lo stesso padrone di casa: un
individuo massiccio, basso di statura, coi capelli neri e il volto
olivastro tipici delle etnie mediterranee.
«Melas»,
lo salutò un sintentico Mycroft, rivolgendogli un sorriso
forzato.
«Buongiorno
professor Melas», disse invece Sherlock, chinando persino il
capo. «La trovo in forma».
L'interprete
greco alzò gli occhi al cielo vedendoli, ma non li
cacciò via: con un silenzioso cenno della mano li
invitò ad entrare e li fece accomodare in un piccolo salotto
con vista sulla veranda che dava su un giardino chiuso - una specie di
serra gigante - ed illuminato naturalmente grazie alle pareti e al
soffitto di vetro.
«I
fratelli Holmes», furono le sue prime parole, mentre si
accomodava su una poltrona simile a quelle del Diogenes Club, il luogo
dove lui e Mycroft si erano conosciuti. «A cosa devo il
piacere?».
Non aveva
nascosto il sarcasmo, né nel tono di voce né nel
modo in cui il suo volto si era accartocciato, tuttavia Mycroft non
perse il sorriso e rispose con calma: «Avremmo bisogno della
tua collaborazione».
«Ah
sì? E per quale motivo dovrei aiutarvi?».
Sherlock,
il quale fino ad allora era rimasto in silenzio ad osservare le varie
specie di uccelli che volavano da albero in albero in quel biotopo
artificiale, fu costretto a prendere la parola quando il fratello gli
colpì la tibia con l'ombrello.
Gli
lanciò un'occhiataccia, poi si schiarì la gola e
si rivolse all'uomo: «Professor Melas, speravamo che, visti i
nostri trascorsi, sarebbe stato lieto di aiutarci».
«Avete
proprio una bella faccia tosta voi due», esclamò
in risposta il professore, con gli occhi neri luccicanti di rabbia.
«Davvero pensate che io mi ritenga in debito, dopo
ciò che è successo?».
«Se
non ricordo male senza di noi saresti morto, Melas»,
ribatté Mycroft, abbandonando il sorriso per mostrare
un'espressione autoritaria e in grado di incutere anche un certo
timore. «Sherlock ha fatto tutto quello che ha potuto per
salvare Katrides, ma la sua sorte era segnata fin
dall'inizio».
Il
consulente investigativo fissò il fratello, sorpreso di
fronte al modo in cui lo aveva difeso. Quindi fece un passo avanti ed
incrociando lo sguardo del linguista cercò di mitigare gli
animi, per quanto non fosse una sua specialità:
«Capisco ciò che prova, professore, e non passa
giorno in cui io non mi penta degli errori commessi durante
quell'indagine. So che questo non cambierà le cose, ma in
mia difesa posso dire che ero giovane ed inesperto. Sono passati tanti
anni da allora e adesso sono disposto a fare qualsiasi cosa per
impedire ad altre persone di morire inutilmente. Lei è
l'unico che può darmi una mano, perciò glielo
chiedo per favore: mi aiuti».
Il greco
soppesò a lungo le sue parole, tamburellando le dita sul
bracciolo della poltrona. Ad un tratto grugnì qualcosa di
incomprensibile, si alzò e fronteggiando i fratelli Holmes
disse più chiaramente: «Di che cosa avete
bisogno?».
«Del
suo "Leda col cigno"», rispose prontamente Mycroft.
Il
linguista divenne paonazzo ed alzò le mani a voler prendere
il più grande per i baveri della giacca. Poi, scosso da
tremiti d'ira, le abbassò e gridò: «Voi
siete pazzi! Fuori da casa mia!».
«Aspetti!»,
lo fermò Sherlock, piantandosi davanti alla porta, a braccia
aperte, per impedirgli di lasciare il salotto.
«Levati
di mezzo!».
«Mio
fratello si è spiegato male», riprese il
detective, ammonendolo con gli occhi. «Non accadrà
nulla di male al suo dipinto, glielo assicuro. Deve solo fingere che
sia stato rubato».
«Oh!
E questo come migliorerebbe la situazione?!»,
strepitò ancora, con un diavolo per capello.
Sherlock, a
quel punto, realizzò di non avere la minima idea di tutte le
complicazioni del piano. Guardò Mycroft e lo
trovò assai divertito, tanto da reprimere a stento una
risata.
«Tu
non ne hai idea, vero?», gli domandò Melas,
intuendo la buona fede di Sherlock e il subdolo gioco di Mycroft.
«"Leda col cigno" non è un dipinto qualsiasi. Si
tratta di un dipinto perduto, la cui ubicazione è nota solo
a pochissimi. Se ne denunciassi il furto - cosa di per sé
impossibile, in quanto non ho alcun documento che attesti che sia mai
stato in mio possesso - sarei rovinato! Rischierei addirittura di
finire in galera!». Si voltò nuovamente verso il
maggiore degli Holmes e lo trucidò con lo sguardo:
«Maledetto il giorno in cui te lo mostrai!».
Il
consulente investigativo cercò conferme e il fratello si
strinse nelle spalle: «Per questo è perfetto: la
notizia del furto farà così tanto scalpore che
Arsène sarà costretto a venire allo
scoperto».
«E
credi che ci cascherebbe così facilmente? Insomma, se non ci
sono prove della sua autenticità...».
«Non
ti preoccupare di questo. Spargerò io le voci
giuste».
Sherlock
avrebbe voluto domandargli se avesse fatto lo stesso per avvicinare
Moriarty e dare così ad Eurus il suo regalo di Natale, ma
decise di tacere. Ad ogni modo il professore non l'avrebbe lasciato
parlare.
«E
se non acconsentissi?», esclamò infatti,
improvvisamente pallido in viso. «La polizia
inizierà ad indagare, ci saranno dei processi,
dovrò assumere un avvocato... Lo spreco di tempo e di denaro
sarà enorme!».
«Vedilo
come il prezzo da pagare per il modo in cui l'hai ottenuto»,
disse Mycroft, sollevando l'ombrello per avvicinarsi a Melas e
rivolgergli un altro sorriso mellifluo. «Se farai quello che
ti diremo farò in modo che la polizia non venga mai a sapere
di ciò che hai fatto per avere il tuo prezioso
dipinto», gli sussurrò.
«Questo
è un ricatto», sibilò il professore, i
pugni stretti lungo i fianchi.
«No,
è una mia gentilezza. Ti prometto anche che quando tutto
sarà finito riavrai il tuo dipinto e non sentirai
più parlare di noi due».
A quelle
parole il linguista sgranò gli occhi ed ogni traccia di
rabbia svanì dal suo volto. Si prese il naso aquilino tra le
dita, cercando la possibile fregatura, ma alla fine cedette: un'offerta
del genere era da prendere al volo, prima che Mycroft ci ripensasse.
Ora che
avevano trovato un accordo proficuo per entrambi, Sherlock fu
impressionato dal modo in cui, seduti sulle poltrone e fumando sigari
cubani, iniziarono a chiacchierare dei bei tempi al Diogenes Club.
Forse il
fratello non aveva scelto Melas solo perché sapeva
possedesse un dipinto di inestimabile valore, ma anche
perché ne conosceva la storia e sapeva che un personaggio
come quello - ipocrita ed egoista sotto la facciata del rigoroso e
stimato professore universitario - sarebbe di certo entrato nel radar
del Ladro Gentiluomo. Nel profondo del proprio animo, quella volta
Sherlock fu costretto ad ammettere che lui stesso l'avrebbe derubato
con enorme piacere.
***
Molly
aprì l'armadietto e si guardò al piccolo
specchio, trovandosi col volto accaldato e i capelli in disordine.
Non se li
era lavati - una volta a casa l'occhio attento di Geneviève
li avrebbe notati umidi e si sarebbe insospettita - perciò
si sciolse semplicemente la coda di cavallo e se li pettinò,
imitando l'acconciatura con cui era uscita quella mattina.
Le facevano
male i muscoli delle gambe e delle braccia, ma accettava volentieri
quel dolore: significava che aveva lavorato bene e che presto sarebbe
stata in grado di possedere al meglio le tecniche che l'istruttore
aveva mostrato loro.
Due giorni
prima era andata ad assistere ad una lezione e ne era stata
così colpita che aveva deciso di iscriversi, in modo da non
avere il tempo materiale per ripensarci.
Lo stesso
istruttore, vedendola arrivare in abiti da allenamento, era rimasto
stupito dalla sua decisione: di solito, le aveva detto avvicinandosi
per darle il benvenuto, le ragazze impiegavano qualche settimana per
convincersi che un corso di autodifesa le avrebbe aiutate, non solo in
caso di reale pericolo ma semplicemente per sentirsi più
sicure.
«Io
non ho qualche settimana, perciò non si trattenga con
me», aveva risposto candidamente l'anatomopatologa,
lasciandolo ancora una volta di sasso.
Si sedette
sulla panca alle sue spalle e posò la testa contro il muro,
gli occhi chiusi, mentre si portava la bottiglietta d'acqua alla bocca
e beveva avidamente.
Un'ombra le
si parò all'improvviso davanti, così Molly
aprì gli occhi ed incrociò quelli sorridenti di
Denise, anche lei appena uscita dalla doccia: un morbido asciugamano
bianco le avvolgeva il corpo, mettendo in risalto la sua pelle color
cioccolato, e i capelli riccissimi le gocciolavano sulle spalle nude.
Erano state
compagne di allenamento quella sera e nonostante lei frequentasse la
palestra da ormai un paio di mesi, in qualche modo era riuscita a stare
al suo passo.
«Ehi,
sei stata brava oggi», le disse con un ampio sorriso sul
volto.
Molly
ricambiò. «Grazie».
Denise si
sedette al suo fianco e recuperò dal proprio zainetto un
integratore dal colore giallo fluo. Bevve e poi espirò
soddisfatta.
«Per
quale motivo ti sei iscritta al corso?», le
domandò ad un tratto.
«È
una storia lunga».
«Già,
lo sono tutte», mormorò, guardando le altre
ragazze presenti nello spogliatoio. Quindi tornò a sorridere
e come se nulla fosse esclamò: «Io sono stata
quasi violentata, tre mesi fa».
Molly
sgranò gli occhi, scostandosi dal muro. «Mio Dio,
è terribile».
«Ho
detto quasi!», ripeté, ridendo. «Sono
stata incredibilmente fortunata. Se non fosse passata quella ragazza...
dubito che a quest'ora sarei qui».
«Ragazza?».
Denise
annuì. «Successivamente scoprii che era una
poliziotta, ma poco importa. Quella sera mi salvò e poi mi
consigliò questo corso, dicendomi che l'istruttore era un
suo amico. C'è voluto un po', ma alla fine ho deciso di fare
un tentativo ed eccomi qua».
Molly
sorrise, ammirando la forza di quella ragazza che era riuscita a
sfruttare la paura per diventare più forte.
«Denise,
datti una mossa!», la chiamò una biondina
già vestita.
La riccia
rispose con uno sbrigativo: «Sì, ho
capito!», per poi tornare a concentrarsi su Molly.
«Dopo le lezioni è nostra abitudine andare a
mangiare un boccone in una tavola calda non lontana da qui. Vuoi unirti
a noi?».
In altre
circostanze avrebbe accettato senza esitazioni - le piaceva conoscere
gente nuova, anche se preferiva fare da spettatrice silenziosa - ma il
pensiero di Geneviève, la quale la stava sicuramente
aspettando per la cena, la costrinse a declinare l'invito.
«Hai
famiglia?», le domandò Denise, mostrando un'altra
caratterista della sua personalità estroversa: la
curiosità.
No, è questo il bello!,
avrebbe voluto rispondere Molly, ma si limitò ad annuire con
un cenno del capo e a dire: «Sarà per la prossima
volta».
«Guarda
che ci conto, eh!».
«Denise,
giuro che ti lasciamo qui!», gridò la stessa
biondina di prima, minacciandola.
La ragazza
si alzò, sbuffando divertita, e senza togliersi
l'asciugamano iniziò a vestirsi. Molly la imitò e
alla fine uscirono insieme dallo spogliatoio.
All'aria
gelida della sera l'anatomopatologa rabbrividì e si strinse
tra le braccia, rimanendo ai piedi della breve scalinata mentre il
gruppetto a cui era stata invitata ad unirsi si allontanava lungo il
marciapiede. Ad un tratto si sentì il suono di un fischietto
e Denise, in mezzo alle amiche, voltò il capo verso l'altro
lato della strada, dov'era parcheggiata una volante della polizia.
L'agente donna che era appoggiata al cofano, il fischetto ancora tra le
labbra sorridenti, sollevò una mano in direzione
della ragazza, la quale le corse incontro e la travolse in un abbraccio
dopo averla baciata a stampo sulle labbra.
Molly
sorrise alla scena, pensando che Denise era stata davvero fortunata
quella sfortunata sera, poi abbassò il capo e si
incamminò nella direzione apposta per tornare a casa.
Era circa a
metà strada quando iniziò a nevicare e si
costrinse ad accelerare il passo nonostante i muscoli che le
bruciavano. Non riuscì comunque a non tornare a casa coi
vestiti appesantiti e i denti che le battevano per il freddo.
Il suo
sogno era quello di spogliarsi ed infilarsi nella vasca piena di acqua
calda, ma sapeva che probabilmente avrebbe dovuto mettersi ai fornelli
per sfamare Geneviève, di certo troppo impegnata a ronzare
intorno a suo padre piuttosto che aiutarla con le faccende domestiche
che a causa sua si erano duplicate. Non poteva rimproverarla
però: lei e Arsène avevano molto da recuperare e
se solo suo padre fosse stato ancora vivo avrebbe trascorso tutto il
tempo possibile con lui.
Sospirando
aprì la porta dell'appartamento e non fece nemmeno in tempo
ad annunciarsi o a togliersi il cappotto bagnato che
Geneviève le corse incontro per stringerle le braccia
intorno alla vita, cercando di tenere goffamente la testa sotto il suo
mento ma che, per questioni di altezza, dovette portare sulla sua
spalla.
«Gen,
che cosa...? Che è successo?», le chiese e
posandole le mani sulle braccia la allontanò da
sé.
«Niente»,
rispose la ragazzina, scuotendo il capo e cercando di celare gli occhi
lucidi. «Ho visto che ha iniziato a nevicare. Vieni, ti ho
preparato il bagno. Intanto metterò su qualcosa da mangiare,
va bene?».
L'anatomopatologa
sbarrò gli occhi, ma la bionda la prese per mano e la
portò in bagno, dove effettivamente c'era la vasca piena di
acqua calda e schiuma profumata ad attenerla. Decise di rimandare le
spiegazioni a più tardi.
***
John, una
volta passato a prendere Rosie a casa della babysitter, prese una
deviazione per fare un salto al 221B.
Aveva
pensato molto a ciò che aveva detto a Sherlock il giorno
prima, e a come l'aveva fatto, ed era giunto alla conclusione che forse
aveva superato il limite.
Una frase
in particolare l'aveva tormentato per tutto il giorno: «Ho già
fatto affidamento sul mio cuore, tanto tempo fa, e non è
andata a finire bene» e voleva che il detective
si confidasse con lui, com'era abitudine fare tra migliori amici;
voleva che gli spiegasse nei dettagli cos'era successo e se c'entrasse
Arsène, soprattutto.
Sherlock
non era uno a cui piaceva raccontare del proprio passato, specie se si
trattava di parentesi dolorose, ma John era convinto che tutti
dovessero imparare ad accettare i loro scheletri nell'armadio e a
spolverarli ogni tanto, giusto per ricordare e non fare gli stessi
errori.
Evitò
di suonare al campanello per non aspettare la signora Hudson sotto la
neve, col rischio che Rosie prendesse freddo, ed usò le
proprie chiavi per entrare nell'androne.
«Signora
Hudson, è in casa?», esclamò e poco
dopo sentì la voce della padrona di casa invitarlo al piano
superiore.
La
trovò in salotto, intenta ad appendere le solite luminarie
che nella loro semplicità riuscivano a portare la magia del
Natale persino nella vita asettica del consulente investigativo.
«Se
sei venuto a cercare Sherlock, temo che non rientrerà tanto
presto», gli disse mestamente.
«Sa
dov'è andato?».
«Non
ne ho idea, caro».
La
aiutò a scendere dalla scaletta porgendole una mano e poi si
guardò intorno, cercando di trovare qualche indizio su quali
fossero le sue intenzioni.
Un pensiero
terribile gli attraversò la mente ed andò alla
scrivania, trovando il primo cassetto chiuso a chiave come al solito.
Andò a recuperare la chiave, grato che il detective non
avesse cambiato nascondiglio, e lo aprì. All'interno
trovò alcune carte, piccoli souvenirs dei casi
più strani e fortunatamente anche ciò che
cercava: la dose di emergenza di Sherlock. Sospirò di
sollievo, ma durò poco. Un'altra cosa mancava all'appello:
la sua pistola.
«In
che guaio ti stai cacciando, Sherlock?», si chiese
preoccupato, con una mano sul fianco e l'altra alla bocca.
***
Arsène,
intento a suonare una malinconica melodia al piccolo pianoforte a
parete della signora Lee, si interruppe bruscamente ed aprì
gli occhi al suono del campanello. Guardò l'orologio appeso
alla parete e pensò che solo una persona avrebbe potuto
cercarlo alle dieci e mezza di sera: sua figlia.
Il
campanello suonò di nuovo, con impazienza, e il Ladro
Gentiluomo si alzò dalla panca imbottita esclamando in
francese: «Arrivo, arrivo!».
Guardò
attraverso lo spioncino e con sua enorme sorpresa si ritrovò
davanti Molly Hooper, la quale non gli diede nemmeno il tempo di aprire
bocca e lo schiaffeggiò. Lupin, il viso rivolto verso
lo specchio alla sua destra, impiegò qualche secondo per
incrociare nuovamente i suoi occhi furiosi.
«Buonasera
anche a te», mormorò mentre si tirava indietro i
capelli biondi, privi della parrucca, e si faceva da parte per
invitarla ad entrare nell'appartamento della sua vicina.
Una volta
chiusa la porta l'anatomopatologa fece del suo meglio per tenere un
tono di voce normale esclamando: «Mi avete
seguita!».
Finalmente
Arsène capì il motivo della sua rabbia e con le
mani posate sui fianchi scosse il capo. «Caspita,
Geneviève ha già confessato».
«E
ha fatto la cosa giusta!».
«La
mia guancia si permette di dissentire», replicò
Arsène, massaggiandosi la mandibola.
Le
passò accanto per raggiungere il frigorifero dall'anta
laccata di rosso, dietro la piccola isola della cucina, e
tirò fuori dal ripiano superiore, quello riservato al
congelatore, una busta di piselli surgelati. Se la posò sul
volto, sospirando di sollievo in modo teatrale, e poi tornò
a guardare Molly, ricordandosi delle buone maniere.
«Perdonami,
posso offrirti qualcosa? Ho trovato una bottiglia di vino che
sembra...».
«Non
voglio niente, grazie», lo interruppe la donna.
Il Ladro
Gentiluomo scrollò le spalle e sistemò nel
freezer la busta di piselli, poi tornò verso il pianoforte e
le indicò di accomodarsi sul divano, notando solo in quel
momento che il suo viso si era colorato d'imbarazzo e che i suoi occhi
castani lo stavano evitando, preferendo il pavimento o i quadri di
dubbio gusto appesi alle pareti.
Stranito,
le chiese: «C'è qualcosa che non va?».
Schiarendosi
la gola, Molly alzò una mano ad indicargli il petto e
rispose: «Potresti... ehm... indossare qualcosa?».
Arsène
abbassò gli occhi e si ricordò che dopo la
doccia, dato che non aveva altri programmi per la serata, si era
infilato un paio di larghi pantaloni bianchi di cotone, di quelli con
le fasce strette alle caviglie, ed era rimasto a petto nudo nonostante
l'inverno fosse ormai alle porte. Recuperò dallo schienale
del divano uno spesso maglione blu e lo indossò senza
però preoccuparsi di allacciarsi gli alamari di legno,
restando così comunque a petto scoperto, poi si
sedette sulla panca imbottita e fece segno alla donna di accomodarsi
dove preferiva.
Capendo che
Molly, a braccia conserte e l'espressione di nuovo contrita, non aveva
alcuna intenzione di avvicinarsi, sospirò e pur di rompere
il silenzio riprese lui stesso l'argomento: «Spero tu non sia
stata troppo dura con lei. Era molto dubbiosa sul da farsi».
«Lo
immaginavo ed infatti non mi sono arrabbiata con Geneviève.
In compenso lo sono con te! Tu non avresti mai dovuto permetterle di
fare una cosa del genere!».
«Era
in pensiero per te. Che cos'avrei dovuto fare?».
«Avresti
dovuto dirle di aspettare e di parlarne direttamente con me!».
«Ho
ipotizzato che, non avendole detto subito come stavano le cose, avresti
continuato a mentirle anche in un probabile faccia a faccia».
Molly
strinse i pugni lungo i fianchi e si avvicinò di un passo,
forse nel tentativo di intimidirlo torreggiando su di lui.
«Hai
detto bene, era una tua ipotesi! Non sai che cos'avrei fatto
davvero!».
«Quindi
le avresti detto la verità, se lei ti avesse chiesto il
perché di tutti questi "straordinari"?», le chiese
Arsène tranquillissimo, tanto da schiacciare qualche tasto
del pianoforte con una mano.
«Non
lo so e non è questo il punto!».
Le dita di
Arsène si strinsero in un pugno e con esso diede un colpo ai
tasti, suonando un accordo stonato che la fece sobbalzare.
«Allora
qual è, il punto?».
Il ladro,
non avendo ottenuto risposta, si alzò e dal suo abbondante
metro e ottanta la guardò coi suoi occhi verdi,
così magnetici da costringerla a tenere il capo sollevato.
«Mia
figlia sapeva che avrebbe rischiato di fare la figura della ficcanaso,
ma era così preoccupata per te che ha deciso di agire
comunque. Io l'ho semplicemente sostenuta. È quello che
dovrebbe fare un buon padre, giusto?».
Molly
sentiva le gambe molli come gelatina, il cuore che le batteva forte nel
petto. Non sapeva perché la vicinanza di Arsène
le facesse quell'effetto, ma era ben decisa a non lasciarsi sopraffare.
«Ad
ogni modo ti chiedo scusa, se ritieni che avrei dovuto comportarmi
diversamente», disse ancora Arsène, impedendole
così di replicare. «E voglio approfittare
dell'occasione per dirti anche che quando ti rivelai il motivo della
distanza di Sherlock non pensavo che tu ti saresti iscritta ad un corso
di autodifesa».
«Questo
non ha niente a che vedere con Sherlock», mentì di
getto Molly, trovandolo estremamente più facile.
Arsène
le rivolse un sorriso dolce, uno di quelli che gli contagiavano anche
gli occhi, e sollevò una mano per sistemarle una ciocca di
capelli umidi, sfuggita alla presa del mollettone, dietro l'orecchio.
«Io
penso proprio di sì», sussurrò.
«E non voglio che tu ti senta costretta a frequentarlo. Fin
quando ci sarò io, sarai perfettamente al sicuro».
«Io
non... non voglio essere un peso per nessuno»,
riuscì a balbettare Molly, nonostante la bocca le si fosse
seccata all'improvviso.
Per qualche
ragione Arsène non allontanò la mano dalla sua
guancia, anzi la accarezzò fino a prenderle il mento tra due
dita.
Il suo
tocco era così leggero e delicato, come se stesse sfiorando
i tasti del pianoforte per suonare la malinconica melodia che era
rimasta ad ascoltare fuori dalla porta prima di trovare il coraggio
necessario a premere il campanello; allo stesso tempo le lasciava sulla
pelle una scia di fuoco.
Si
chinò ancora un po' sul suo viso, tanto che Molly
riuscì a scorgere il sottile cerchio dorato intorno alle sue
pupille dilatate, e con tono suadente disse: «Sei proprio un
esemplare raro, Molly Hooper. Mi piacerebbe molto aggiungerti alla mia
collezione, ma temo che se ti portassi via con me Sherlock non mi
rivolgerebbe più la parola».
«Io
non sono un pezzo da collezione».
Fu tutto
ciò che disse, il massimo che riuscì a
pronunciare. Tuttavia Arsène ne parve soddisfatto, come se
l'avesse messa alla prova. Quindi si risollevò, fece un
passo indietro e si lasciò cadere di nuovo sulla panca.
«Però...»,
riprese Molly, prendendo coraggio. «Però mi
sembrava di averti già detto che non voglio più
precludermi nulla per via di Sherlock».
Il Ladro
Gentiluomo la fissò intensamente, corrugando persino la
fronte nel tentativo di stabilire se per caso non avesse mal
interpretato le sue parole.
Stava
ancora riflettendo quando Molly annullò la distanza tra
loro: si chinò, gli prese il viso tra le mani e
posò le labbra sulle sue in un bacio casto.
Aveva le
guance in fiamme e si sentiva tremare da capo a piedi, ma
bastò che Arsène le cingesse la vita con un
braccio, attirandola a sé, perché si
tranquillizzasse. E quando rispose al bacio si sciolse, sedendosi sulle
sue ginocchia per paura di cadere a terra.
L'incertezza
e la goffaggine vennero presto spazzate via da una passione inaspettata
e travolgente, tanto che ad un certo punto si ritrovarono avvianghiati
l'uno all'altra e coi polmoni che bruciavano.
Con sguardo
liquido Arsène posò la fronte contro la sua e le
accarezzò i lati del viso, per poi allungarsi a baciarle la
pelle dietro l'orecchio e a scendere sul collo. Molly ne
approfittò per riprendere fiato, immergendo le dita tra i
suoi capelli biondo platino ed inebriandosi del suo profumo. Si
lasciò scappare un verso di sorpresa quando il ladro si
alzò, la tirò su di peso e, dopo aver calciato di
lato la panca imbottita, la fece sedere sui tasti del pianoforte, i
quali si esibirono in una cacofonia di suoni di protesta.
Entrambi
risero sulla bocca dell'altro e ripresero la danza di lingue.
Il
mollettone di Molly volò alle spalle di Arsène,
il quale le strinse i capelli tra le dita mentre lasciava le sue labbra
bollenti per scendere nuovamente sul suo collo, lascivo.
L'anatomopatologa
gettò indietro la testa e si beò dei tocchi della
sua lingua esperta, dei suoi baci e dei piccoli morsi con cui ogni
tanto le arrossava la pelle.
Si chiese
se quello che stavano facendo fosse giusto, non solo nei confronti di
Geneviève, ma anche e soprattutto di Sherlock, il quale
aveva tentato più e più volte di metterla in
guardia sulle sue doti di seduttore.
Quando
Arsène le aveva detto che gli sarebbe piaciuto aggiungerla
alla sua collezione avrebbe dovuto esserne inorridita,
però... però si era sentita solamente lusingata.
Che lui, così simile al detective in intelligenza e
così bello da far girare la testa a tutte e tutti, fosse
interessato a lei in quel modo... era da non credere. Aveva
provato ad opporsi, ci aveva provato davvero, ma era stato inutile.
Le mani di
Arsène scivolarono sotto la larga felpa grigia che
indossava, accarezzandole i fianchi, e Molly sollevò
automaticamente le braccia perché lui potesse sfilargliela.
Poi l'imbarazzo ebbe la meglio e con un braccio andò a
coprirsi il seno, arrossendo, e il ladro accostò di nuovo la
fronte alla sua, respirando forte sulle sue labbra.
«Sei
bellissima», le sussurrò, portandole una mano
sulla guancia destra. Con il pollice le accarezzò lo zigomo
ed abbozzò un sorriso, per poi cercare di nuovo le sue
labbra.
Molly
però voltò il capo di scatto, evitando il suo
bacio, e rispose: «L'avrai detto a così tante
donne che ormai avrà perso di significato per te».
Arsène
si sistemò meglio tra le sue gambe e le avvolse la schiena
con le braccia, accostò la fronte alla sua e la costrinse a
guardarlo negli occhi.
«Ti
sbagli», mormorò. «La bellezza
è in ogni cosa, basta solo essere capaci di vederla. Provo
pena per chi non ci riesce. E ancora di più per chi non ha
il coraggio di allungare la mano ed afferrarla, nonostante sia tanto
vicina».
Era ovvio
che si stesse riferendo a Sherlock e Molly sentì le lacrime
bruciarle gli occhi. Tuttavia non voleva rimangiarsi ciò che
aveva detto: non poteva smettere di vivere la propria vita, di
divertirsi ed essere felice - anche solo per un'ora, - nella speranza
che Sherlock trovasse il coraggio per farsi avanti.
Per questo
posò le mani sulla sua nuca, le dita strette tra i suoi
capelli di seta, e bruscamente lo attirò a sé per
far scontrare le loro bocche.
Arsène
la invitò a cingergli il bacino con le gambe e poi,
prendendola per le cosce, la sollevò.
Si
ritrovarono così sul letto della signora Lee e se fosse
stata pienamente in sé Molly si sarebbe sentita
tremendamente a disagio, ma Arsène era tutto ciò
che vedeva, sentiva e desiderava in quel momento.
Lo
aiutò a sfilarsi il maglione e mentre lui tornava a
baciarla, accarezzandole i fianchi e le cosce, lei percorse con le dita
ogni centimetro di pelle: partì dal collo, dal quale
penzolava una catenina d'oro con un piccolo crocifisso, e scese sulle
spalle, fece avanti e indietro sui suoi bicipiti e tornò sul
petto, dove tracciò le linee delle clavicole e poi
trovò i suoi pettorali pronunciati, fino ad arrivare agli
addominali scolpiti e alle ossa a V del bacino.
Non era mai
stata con un uomo con un fisico così perfetto, anche se di
imperfezioni ne aveva tante, forse troppe: le cicatrici, di ogni forma
e dimensione; ricordi di chiassà quale passato.
Arsène
le lasciò un morso un po' più forte degli altri
sul seno e Molly inarcò la schiena, gemendo, ed
involontariamente strinse le dita sui suoi fianchi. Il Ladro Gentiluomo
trasalì, dato che aveva toccato la ferita non ancora del
tutto rimarginata.
«Oddio!
Scusami, scusami», esclamò la castana, col fiato
corto e gli occhi lucidi. Piegò la testa di lato per
controllare se la fasciatura si fosse sporcata di sangue, ma
Arsène le sfiorò il collo col naso, ridacchiando.
«Non
è niente», sussurrò, provocandole la
pelle d'oca dove il suo fiato l'aveva sfiorata.
«Sei
sicuro? Forse non dovremmo...».
«Ehi».
Le prese delicatamente il volto tra le dita perché i loro
sguardi si incatenassero e sorrise dolcemente. «Se hai
cambiato idea non devi fare altro che dirmelo, siamo ancora in
tempo».
Molly
scosse con fermezza il capo e gli allacciò le braccia dietro
al collo. «Non ho cambiato idea».
«Sei
sicura?».
L'anatomopatologa
annuì e chiudendo gli occhi sollevò il capo per
posargli un casto bacio sulle labbra. «Sicura»,
affermò senza riaprirli.
Arsène
la baciò di nuovo, e ancora e ancora, e nel frattempo le
sfilò i leggings e, con lentezza esasperante, le mutandine
di cotone bianco, semplici come lei.
Molly
Hooper aveva un bel fisico, ben proporzionato, ed era un peccato che si
trascurasse tanto nel vestire.
Le sue mani
gli accarezzavano i capelli, a tratti con tenerezza e a tratti con
forza, facendogli capire quali punti, se stuzzicati, le provocavano le
sensazioni più forti.
Al ladro
piaceva dedicarsi ai corpi dei suoi amanti, specie quando li possedeva
per la prima volta: esplorarli in lungo e in largo, scoprirli e
stupirsi delle loro reazioni; la consapevolezza di averli alla sua
mercé... era ciò che gli piaceva di
più, anche più dell'atto sessuale in
sè.
Spesso quel
suo dilungarsi tanto nei preliminari aveva riscontrato del malcontento,
ma Molly lo lasciava fare e rispondeva ai suoi stimoli in maniera
così docile e timida che troppo presto si ritrovò
più eccitato del dovuto.
Provò
a resistere ancora un po', ma fu costretto a cedere quando il piede
dell'anatomopatologa gli accarezzò l'erezione stretta nei
boxer. Allontanò le dita dalla sua apertura già
umida e velocemente si sbarazzò di pantaloni ed intimo, poi
recuperò un preservativo e se lo infilò.
Tornò a sdraiarsi sopra di lei, baciandole il petto, il
collo e poi le labbra, e lo sguardo offuscato dal piacere che gli
rivolse fu ciò che cacciò via ogni ripensamento.
No, non
avrebbe mai immaginato di finire a fare l'amore con Molly Hooper, la
donna in grado di far ingelosire la Dominatrice, Irene Adler; la stessa
donna il cui animo gentile e generoso aveva dato a Geneviève
un tetto sopra la testa, regalandole giorni di normalità nel
caos che era diventata la sua vita; la stessa donna che riusciva a
vedere oltre le maschere, anche quelle meglio riuscite; la stessa donna
che aveva rubato il cuore di Sherlock e che ora, per tutti questi
motivi, rischiava di rubare anche il suo.
È giusto
così?, si domandò mentre i loro
gemiti riempivano la stanza.
Quale senso
poteva avere innamorarsi di Molly Hooper, sapendo perfettamente che
l'amore che lei nutriva per Sherlock non sarebbe mai svanito? Avrebbe
finito per rimanerne scottato, come sempre, però...
«Arsène»,
ansimò Molly ad una spinta più forte e profonda
delle altre, infilzandogli le unghie nella schiena.
Il ladro
sorrise e con una mano le scostò i capelli dal viso, poi la
baciò sulle labbra, sul mento e sul collo. «Sono
qui», rispose ansimando sulla sua pelle.
Era lui che stava
chiamando in quel momento, e niente al mondo gli avrebbe regalato
un'emozione altrettanto forte. Sarebbe passato tra le fiamme
dell'inferno pur di sentirsi in quel modo: compreso, desiderato, amato.
Perciò al diavolo il dolore! La felicità di
quegli attimi era insostituibile, irrinunciabile. E come aveva detto a
Geneviève appena qualche ora prima, non se ne sarebbe mai
pentito.
«C'era qualcosa che
volevi chiedermi prima, in libreria».
Geneviève
sollevò il capo dal marciapiede e lo guardò
confusa.
Era così immersa
nei suoi pensieri - scoprire che Molly si era iscritta ad un corso di
autodifesa l'aveva davvero scioccata - che non aveva capito cosa le
avesse chiesto. Dopo che il padre ebbe ripetuto, la ragazzina si
strinse il collo tra le spalle ed abbozzò un sorriso
palesemente finto.
«Non era niente di
importante».
«Vorrei saperlo
comunque».
La figlia sospirò e
calciò una lattina vuota, i capelli biondi che le
nascondevano il viso di nuovo rivolto verso il cemento.
«Volevo chiederti se
avessi mai amato la mamma».
Arsène fu
così colpito da quelle parole che si bloccò, come
se qualcuno avesse appena messo il freno a mano alle sue gambe.
«Che domanda
è?», le chiese quando riuscì a
riprendersi. «Ho amato profondamente tua madre».
Geneviève scosse il
capo, amareggiata. «Vedi? Lo sapevo che ti saresti
arrabbiato».
«Non sono
arrabbiato, sono solo... stupito. Perché dubiti del mio
amore per lei?».
«Sono certa che le
volessi molto bene, ma non credo che tu fossi innamorato. Insomma,
l'amore... per come la vedo io si trova una sola volta nella
vita».
«E che cosa te lo fa
pensare?», le domandò.
«Ecco, io... non lo
so».
Arsène sorrise e la
raggiunse per posarle una mano sul capo. «Per come la vedo
io, invece, Cupido ha decine di frecce nel suo arco e sta a lui
decidere con quante colpirti. Lo so che può sembrare
anticonvenzionale o addirittura doloroso per te pensare che tua madre
non sia stata l'unica ad avermi rapito il cuore, ma è
così: io sono uno che si innamora facilmente, e so che
è amore perché non dimentico e soffro, soffro
molto, quando una storia finisce. Dopo Clotilde ho amato altre persone
e nel futuro ne amerò altre ancora, ma non
dimenticherò mai quello che abbiamo avuto io e
lei».
«E non ti sei mai
pentito di aver amato e sofferto? Nemmeno una volta?».
Arsène rispose
subito, certo della propria risposta: «Nemmeno una. E vuoi
sapere il perché?».
Geneviève
annuì con un debole cenno del capo.
«Perché
è stata una mia scelta. Quand'ero un ragazzino... No, non
è necessario che tu lo sappia».
L'avvicinò a sé con un braccio avvolto intorno
alle sue spalle e le baciò la tempia. «Quello che
conta è essere liberi di fare le proprie scelte. Che siano
giuste o sbagliate... poco importa alla fine».
Arsène
era quasi giunto al limite, ma si trattenne ed infilò le
braccia sotto la schiena di Molly per sollevarla e portarsela sulle
gambe. Da quella posizione riuscì a toccare quel punto
dentro di lei che le fece sbarrare gli occhi e raggiungere l'orgasmo.
Il ladro, sentendosi stringere dal suo sesso, venne a sua volta, col
volto premuto contro la gola dell'anatomopatologa.
Non si
allontanarono subito: rimasero abbracciati per diversi minuti, a
riprendere fiato e a permettere ai loro cuori di rallentare il ritmo
dei battiti.
Lupin, con
l'orecchio posato contro il suo petto, si lasciò cullare da
quelle pulsazioni e rilassò ogni muscolo. Rischiò
addirittura di addormentarsi quando Molly iniziò ad
accarezzargli i capelli, passandoseli tra le dita ed immergendovi di
tanto in tanto il viso per baciarli teneramente.
«Farei
meglio ad andare», sussurrò ad un tratto,
scostandosi per cercare di guardare Arsène negli occhi.
Lui li
riaprì di scatto e sollevò il viso verso il suo,
fissandola con l'espressione spaurita di un bambino. «No, non
mi lasciare. Dormi con me».
Molly
provò a dirgli che se Geneviève si fosse alzata
nel cuore della notte - e capitava più spesso del dovuto - e
non l'avesse trovata si sarebbe insospettita, ma la morsa che
sentì stringerle il cuore impedì alle parole di
uscire.
«E
va bene», acconsentì piano, anche se con una
sgradevole sensazione alla bocca dello stomaco.
Arsène
le rivolse un ampio sorriso - e l'unico aggettivo che le venne in mente
per descriverlo fu ancora una volta "bambinesco" - e gentilmente
uscì dal suo caldo anfratto, non senza provocarle un brivido
lungo la spina dorsale. Si alzò per
sbarazzarsi del preservativo e darsi una ripulita e poi la raggiunse
sotto il piumone che Molly si era tirata fin sotto il mento. Le
sollevò un braccio e tornò a posare l'orecchio
contro il suo petto, con espressione pacifica.
La donna
corrugò la fronte, ma non disse nulla. Dopotutto ognuno
aveva le proprie piccole manie da dopo-sesso. Anche se forse, dal suo
punto di vista, avrebbe dovuto essere lei a sentire il bisogno di
accoccolarsi contro di lui.
Intuì
che forse c'era un motivo per cui si sentiva tanto a disagio quando
Arsène le chiese: «Mi accarezzeresti i capelli
come hai fatto prima? Solo finché non mi
addormento».
Molly
ridacchiò nel tentativo di buttarla lì come uno
scherzo: «Come mai tutto d'un tratto sei così
mammone?».
Arsène
però si irrigidì bruscamente e rotolò
di lato, prendendo il cuscino e modellandolo con delle manate.
«Hai
ragione, scusami», disse quando vi tuffò la
faccia, e fu un miracolo se la castana riuscì a capirlo.
L'imbarazzo
a quel punto, invece che diminuire, era aumentato.
Molly si
girò sul fianco e gli posò una mano sulla spalla.
«Ehi, non volevo offenderti o...».
«Non
hai fatto nulla di sbagliato», la interruppe, alzando il
volto di scatto per rivolgerle un largo sorriso, ma privo di
sincerità.
L'anatomopatologa
sospirò e spostò la mano sulla sua guancia,
accarezzandola dolcemente. Quindi si sporse a baciargliela e
sussurrò: «Di qualunque cosa si tratti, mi
dispiace. Meglio che vada».
Si
alzò, recuperò le mutandine e i leggings e se li
infilò. Con un braccio a coprirsi il seno, sulla porta della
camera da letto si fermò a guardare Arsène,
trovandolo nella stessa posizione in cui l'aveva lasciato ma con una
sostanziale differenza: la lacrima che gli brillava sulla guancia.
Molly non
se la sentiva di addossarsi altri tormenti, non quella sera; non dopo
che aveva fatto l'amore col ladro nel tentativo di riappropriarsi della
propria vita in seguito alle tre parole pronunciate nei confronti e dal
detective. E forse anche un po' per ripicca, chi lo sa.
Perciò
gli diede le spalle, anche se non fu affatto facile, e una volta in
salotto si chinò a raccogliere tutte le tracce del proprio
passaggio. Rivestita, lasciò l'appartamento della signora
Lee e nonostante fossero solo pochi passi respirò
profondamente per affrontare quella specie di "camminata della
vergogna".
***
«Allora,
sei pronto?».
Sherlock si
voltò verso il fratello, divertito come lo vedeva raramente,
e sospirò. «C'è qualcosa che non mi hai
detto, ma adesso è già tardi».
Mycroft
annuì con un breve cenno del capo, facendogli segno di
scendere dal furgone nero preparato per l'occasione, e Sherlock,
infilandosi il passamontagna, si disse che la sua carriera e la sua
reputazione di detective, soprattutto, ne avrebbero risentito parecchio
se si fosse venuto a sapere che era finito ad interpretare il ruolo di
Arsène Lupin. Non poteva più tornare indietro
però. Sospirò nuovamente e zaino in spalla scese
dal furgone.
Scavalcò
la recinzione del giardinetto sul retro e raggiunse la grande serra di
vetro. L'interno era buio e silenzioso, ma il detective sapeva che le
telecamere con rilevatore di calore erano pronte a far scattare
l'allarme se avessero registrato l'ingresso di una massa corporea di
temperatura inferiore ai quaranta gradi centigradi (la temperatura
media degli uccelli, appunto). Dato che Sherlock non aveva la febbre,
doveva per forza disabilitarle. E qui entrava in gioco suo fratello.
«Ci
sono», sussurrò dentro il piccolo microfono
appuntato alla giacca.
«Diamo
il via all'Operazione Role-Play, allora», rispose Mycroft.
«Dobbiamo
per forza dare un nome a questa... cosa?».
Sherlock
non fece in tempo a concludere la domanda che tutto il vicinato
finì al buio a causa di un black-out.
«Fase
uno completata», gli disse il fratello maggiore.
Il
detective si limitò a tirare fuori dallo zaino un cutter per
vetro, dell'olio e una ventosa. Con calma e precisione fece un cerchio
accanto alla serratura ed estrasse il pezzo di vetro, poi
infilò la mano nel buco ed aprì la porta.
E anche la
fase due era completata, come avrebbe detto Mycroft.
Entrò
con passo felpato per non svegliare gli uccelli; non tanto
perché avrebbero potuto dare l'allarme - Melas era fuori a
teatro - ma perché sin da bambino li aveva sempre trovati
fastidiosi ed inquietanti, coi loro piccoli occhi, i becchi appuntiti e
il loro volare in gruppo. Quindi percorse il vialetto che attraversava
tutto il biotopo fino ad arrivare al centro esatto, dove il dolce
gorgogliare di una fontana spezzava il silenzio. Si acquattò
a terra e coi soli raggi di luna a fargli luce cercò la
finta grata di scarico, di forma rotonda e grande all'incirca una
spanna, che gli aveva mostrato quel pomeriggio il professor Melas.
Quando la trovò infilò le dita della mano destra
nei cinque buchi posti alle estremità e la ruotò
di trecentosessanta grandi. Contemporaneamente qualche metro
più avanti due mattonelle del vialetto scattarono verso
l'esterno, rivelando una botola.
Sherlock
scese la stretta scalinata di pietra e sbucò in una specie
di cantina, dal soffitto a volta e con le pareti di mattoni. Sapeva di
avere i minuti contati, perciò non si soffermò a
guardare gli altri oggetti da collezione del professor Melas, tra cui
vasi ed anfore dell'antica Grecia, e a passo spedito raggiunse il
caveau. La porta elettronica aveva un'alimentazione di riserva, ma era
nel loro interesse tenerla accesa. Sherlock tirò fuori dallo
zaino la strumentazione che Mycroft gli aveva fornito e
lasciò che fosse il piccolo computer a trovare la
combinazione numerica, anche se era certo che con un po' di tempo in
più, esaminando le impronte lasciate sul display touch
screen, sarebbe riuscito a trovarla lui stesso.
L'attesa fu
a dir poco snervante e a suo parere non ne valse comunque la pena. Una
volta entrato nel caveau, infatti, si ritrovò davanti
all'oggetto per cui stava facendo tutta quella fatica: il dipinto
perduto di Leonardo da Vinci intitolato "Leda col cigno".
Che si
trattasse di un quadro astratto, come quello nella camera d'albergo, o
di una tavola raffigurante un mito greco, per Sherlock non faceva
alcuna differenza. Riconosceva l'impegno e il talento dell'artista -
lui non ne sarebbe mai stato in grado - ma non riusciva proprio a
comprendere il motivo per cui certe persone fossero disposte a pagare
cifre assurde o a compiere azioni illegali pur di impossessarsene.
Forse quando Rosie sarebbe cresciuta abbastanza da regalargli un
disegno anche lui l'avrebbe conservato, magari appendendolo sul
frigorifero per guardarlo e riguardarlo, ma era una questione
completamente diversa a causa del legame affettivo tra "artista" e
possessore. Qual era il motivo che spingeva Arsène Lupin a
rubare i dipinti, invece?
Avrebbe
potuto continuare quel ragionamento per giorni, accumulando ipotesi e
teorie, ma non aveva tutto quel tempo a disposizione.
Lasciò
la porta del caveau aperta alle sue spalle per non rimanere stordito
dai bassi livelli di ossigeno - necessari per la perfetta conservazione
di opere come quelle - e con due sole falcate raggiunse il cavalletto
su cui era posata la tavola perduta di Leonardo da Vinci.
Si
inginocchiò e dallo zaino tirò fuori diversi
fogli di plastica a bolle. Li posizionò sul pavimento e
tirò giù il dipinto dal cavalletto per
imballarlo, poi lo infilò all'interno di una grossa sacca di
tela.
Prima di
lasciare il caveau tirò fuori dalla tasca dei pantaloni il
bigliettino che aveva preparato in anticipo, imitando perfettamente la
calligrafia del Ladro Gentiluomo, e lo lasciò sul
cavalletto. Quindi sospirò e se ne andò,
cancellando ogni traccia del suo passaggio ad eccezione del pezzo di
vetro che aveva tagliato per aprire la porta della serra. Per coprire
il buco ed evitare di far patire il freddo agli uccelli dovette farsi
bastare del nastro adesivo in PVC. Un comportamento da vero gentiluomo,
in stile Arsène Lupin.
Con la
tavola appesa sulla spalla destra ritornò al minivan nero in
cui Mycroft lo stava aspettando, insieme ai due uomini fidati che il
fratello aveva coinvolto per fare loro rispettivamente da autista e da
hacker.
Una volta
entrato e chiusa la portiera, Mycroft gli chiese con gli occhi se fosse
tutto a posto. Al cenno affermativo di Sherlock fece segno all'uomo
seduto al suo fianco, con un PC sulle gambe e un paio di cuffie alle
orecchie, di procedere: in meno di tre secondi la corrente
tornò nelle case in cui era venuta a mancare.
«Signori»,
esclamò poi, con un mezzo sorriso sul volto.
«Operazione Role-Play completata. Ottimo lavoro».
L'uomo che
era al volante mise in moto e Mycroft non perse tempo: stese le mani
verso il fratello minore e questo gli consegnò la tela,
studiando con occhi attenti ogni suo più piccolo movimento.
Contò persino quante rughe a zampe di gallina gli si
formarono agli angoli degli occhi quando la afferrò e la
tirò fuori dal proprio imballaggio per accertarsi che fosse
proprio l'opera che ricordava e poi la trasferiva in una grande
valigetta costruita su misura.
«Che
cosa vuoi farci?», gli domandò Sherlock, con gli
occhi affilati.
«Pensi
che ti abbia nascosto qualcosa?».
«Sì,
lo penso».
«Fai
bene».
Quella sua
onestà non lo stupì affatto. D'altronde
perché mentire? Probabilmente Mycroft aveva scommesso con se
stesso quanto tempo ci avrebbe messo a giungere alla conclusione che
lui non si offriva mai di aiutare qualcuno, perdendo del tempo
prezioso, a meno che non avesse un interesse personale.
«Purtroppo
però non posso parlartene», aggiunse, chiudendo di
scatto la valigetta e rivolgendogli un sorriso. «Spero tu
possa capire».
«Certo»,
rispose Sherlock, incrociando le braccia al petto.
Quella
volta fu Mycroft a scrutarlo, alla ricerca del motivo per cui
gliel'aveva data vinta così facilmente. Alla fine decise di
chiederglielo direttamente.
Sherlock
scrollò le spalle. «Tutto ciò che mi
interessa è che il piano funzioni. Quello che farai poi col
dipinto non mi riguarda».
Mycroft non
era ancora convinto, ma era difficile capire quello che passava per la
testa del suo fratellino quando c'era di mezzo Arsène.
Quell'uomo
era sempre riuscito, fin dal loro primo incontro, a turbarlo
profondamente - spesso nel bene, ma non sempre. Si domandò
quale fosse delle due, nonostante fosse consapevole che le risposte ad
ogni sua curiosità le avrebbe ottenute solo alla fine della
storia. Avrebbe aspettato.
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Capitolo 20 *** Broken vow ***
Buongiorno! :)
Pronti ad iniziare l'anno alla grandissima? Questo capitolo
è quello che molti attendevano e non vedo
l'ora di leggere le vostre reazioni, veramente. Avete capito di cosa si
parlerà? Del passato. Del passato di Sherlock e soprattutto
di quello di Arsène.
Non solo, si prepareranno anche le basi per ciò che
avverrà nei prossimi capitoli: lo scontro del secolo tra il
detective e il ladro.
Vi lascio direttamente alla lettura, è meglio :D
Ah, solo una cosa. Durante la rifinitura di questo capitolo ho
ascoltato a ripetizione "Silence" di Marshmello e Khalid
perché credo che sia stata scritta per il nostro Ladro
Gentiluomo. E ve ne accorgerete.
Adesso vado sul serio. Grazie di cuore a tutte le buone anime che hanno
letto fino a questo punto - spero che continuerete fino alla fine - e a
chi spende sempre cinque minuti del suo tempo per recensire. Siete la
mia gioia! *^* Se avete bisogno di chiaramenti o fare semplicemente
quattro chiacchiere ricordo che c'è sempre la mia pagina
facebook qui.
Alla prossima settimana, ciao!
Vostra,
_Pulse_
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20. Broken vow
Grégorie non aveva più alcun motivo per cui
fermarsi alla Royal Suite prima di dedicarsi all'unico compito
lasciatogli dal suo padrone. Per questo era già in auto,
diretto verso l'appartamento di Molly Hooper, quando sentì
per la prima volta la notizia dell'ultimo strabiliante colpo del Ladro
Gentiluomo.
"Questa notte, poco dopo le ventitrè, c'è stato
un black-out che ha coinvolto diversi quartieri di Londra, tra cui
quello in cui abita il professor Melas, un rinomato linguista di
origine greca", stava raccontando il giornalista radiofonico quando
Grégorie si sintonizzò.
"Il professor Melas ieri sera era a teatro e solo al suo ritorno,
intorno alla mezzanotte, ha scoperto l'effrazione. Non sappiamo molto a
riguardo - il professore e il suo avvocato non hanno voluto commentare
l'accaduto quando li abbiamo intercettati questa mattina fuori dalla
sede di Scotland Yard - ma fonti interne alla polizia confermano che lo
scopo dell'effrazione era quello di rubare un dipinto perduto di
Leonardo da Vinci, intitolato "Leda col cigno", e che ad organizzare il
colpo sia stato Arsène Lupin, in Francia conosciuto come il
Ladro Gentiluomo. Lupin infatti, come da sua abitudine, avrebbe
lasciato nel caveau del professor Melas un bigliettino con le sue
iniziali e con cui lo ringraziava di aver conservato la preziosa tela
con così tanta cura. Ovviamente è stata sporta
denuncia, ma da quello che sappiamo sarà difficile per il
professor Melas rivendicare la proprietà del dipinto nel
caso in cui venga ritrovato".
Grégorie, terminato il resoconto del furto,
chiamò Ernest per avvisarlo che avrebbe tardato a dargli il
cambio nella sorveglianza di Geneviève e fece inversione ad
U.
Tornato al Savoy andò alla reception e chiese di Maurice
Leblanc. Gli dissero che l'avrebbe trovato al Thames Foyer e
così fu. Stava facendo colazione, col suo computer portatile
davanti agli occhi.
«Hai saputo?», gli domandò senza badare
ai convenevoli, sedendosi davanti a lui.
Il reporter del Ladro Gentiluomo posò la tazza di
caffè sul piattino e sospirò, battendo un dito
sul touch-pad per interrompere il video delle news in streaming che
stava guardando.
«Sì, ma dubito che sia stato lui».
«Lo penso anche io. Ha deciso di mantenere un basso profilo
per potersi concentrare sulle persone che hanno provato ad ucciderlo,
non ha senso che abbia organizzato un colpo del genere, sapendo che
avrebbe attirato l'attenzione dei media».
«A meno che non l'abbia fatto apposta per
sfidarli», ipotizzò Maurice, massaggiandosi la
fronte. «Però è strano...».
Grégorie lo fissò intrecciando le braccia al
petto ed addossando la schiena alla sedia. «Sei in contatto
con lui?», gli domandò poi a bruciapelo.
Il ragazzo ricambiò il suo sguardo, il volto impassibile per
non lasciar trapelare nulla. Tuttavia il suo silenzio fu eloquente e
Grégorie si sporse sul tavolo per sussurrare: «Non
voglio sapere dove si trova, ma dimmi almeno come sta».
«È determinato a risolvere la faccenda nel minor
tempo possibile per tornare alle solite attività»,
gli rispose con un sorriso.
L'uomo coi baffi ricambiò, sollevato. Avrebbe tanto voluto
sapere anche dove fosse, magari solo per guardarlo da lontano, ma
sapere che il suo padrone non aveva perso la fiamma che gli ardeva nel
petto era sufficiente per il momento.
Si alzò dal tavolo con l'intenzione di tornare ai propri
doveri, ma Maurice lo trattenne dicendo: «Arsène
mi ha dato delle ricerche da svolgere e te ne sarei infinitamente grato
se potessi aiutarmi».
Colpito dalla richiesta del giornalista, Grégorie
impiegò qualche secondo per chiedere: «Che genere
di ricerche?».
«Per scoprire chi sono i mandanti dell'agguato dobbiamo
investigare sul suo passato».
«Mi dispiace, ma temo di non poterti essere
d'aiuto», dovette rispondere, nonostante lo addolorasse
molto. «Padron Lupin e io ci conosciamo da dieci anni - di
fatto io sono al suo fianco da più tempo di tutti - eppure
non mi ha mai raccontato nulla di ciò che è
avvenuto prima di quel giorno».
«E non c'è nessuno che potrebbe saperlo? Nessuno
che faceva parte dell'organizzazione prima del tuo arrivo e che
può essere contattato?».
«Una persona ci sarebbe».
Maurice, gli occhi castani brillanti di emozione dietro le lenti degli
occhiali, si alzò in piedi. «Chi?».
«Si tratta di una donna, una certa Victoire».
«Mai sentita nominare».
Grégorie annuì. «Non mi stupisce. Si
tratta di una specie di leggenda, tra i membri dell'organizzazione.
Nessuno l'ha mai vista, fatta eccezione per padron Lupin, ovviamente.
Si dice che si rivolga a lei solo in casi di estrema
necessità».
«E io come potrei mettermi in contatto con lei?».
«Tramite il forum».
Prima che Maurice potesse chiedergli di cosa stesse parlando,
Grégorie tirò fuori una penna dal taschino e
scrisse su un tovagliolo di carta un'indirizzo della darknet.
«Per accedervi verrai sottoposto ad un test e se lo supererai
diventerai un membro effettivo. Secondo molti è la stessa
Victoire a decidere chi può partecipare alle discussioni e
chi no. Ad ogni modo, anche se supererai il test e le scrivessi un
messaggio privato non è detto che ti risponda».
Il reporter afferrò il tovagliolo con l'adrenalina a mille -
non aveva mai navigato nel Deep Web in vita sua - e lo piegò
in quattro con cura prima di infilarselo nella tasca interna della
giacca di pelle marrone.
«Ci proverò comunque», disse poi
all'uomo. «Grazie per l'aiuto».
Grégorie rispose con un semplice cenno del capo e se ne
andò senza più guardarsi indietro.
***
Geneviève uscì dalla propria camera
stropicciandosi gli occhi e passando davanti a quella di Molly la
trovò vuota ed in ordine, come sempre quando faceva il primo
turno al Bart's.
Proseguì fino al salotto, dove si imbatté in
Toby. Col micio stretto tra le braccia raggiunse il frigorifero dietro
l'isola della cucina. Sull'anta trovò un bigliettino
indirizzato a lei: Molly era già uscita per andare al lavoro
e sarebbe tornata quel pomeriggio. "Niente straordinari oggi", aveva
aggiunto con una faccina sorridente.
Si scaldò una tazza di latte e con una brioche
preconfezionata si piazzò sul divano, tra le cui pieghe
recuperò il telecomando per accendere la TV.
Era diventata parte della sua routine mattutina ormai guardare
un'oretta di cartoni animati prima di sistemare la sua camera, leggere,
giocare o navigare su internet col pc dell'anatomopatologa e poi
preparasi un pranzo veloce, ma quella volta fu costretta a rinunciarvi
a causa del telegiornale. Era stato il grande titolo in
sovraimpressione, in particolare, a lasciarla a bocca aperta:
"Arsène Lupin ruba dipinto perduto di Leonardo da Vinci".
«Non ci credo», mormorò e Toby
miagolò a sua volta, cercando le sue carezze infilandosi
sotto il suo braccio.
Si alzò dal divano, gettando all'aria la coperta in cui si
era avvolta, e recuperò il cellulare per comporre il numero
della libreria della signora O'reilly. Fu proprio lei a rispondere,
dopo appena due squilli, e Geneviève chiuse gli occhi,
maledicendo la propria impulsività.
«Ahm, mi scusi, c'è per caso Thomas?»,
le domandò, improvvisando.
«Questa mattina purtroppo non c'è. Posso aiutarla
in qualche modo?».
«Vede, ero passata l'altro giorno e mi aveva consigliato un
libro. Volevo solo dirgli che l'ho apprezzato molto e ringraziarlo,
ecco tutto».
«Capisco. Sono felice che abbia saputo azzeccare i suoi
gusti. È davvero bravo in questo!».
«Già. Beh, buona giornata!».
Geneviève terminò la comunicazione mentre la
proprietaria della libreria le chiedeva se voleva lasciarle un nome,
così da poter avvisare Thomas della sua chiamata. Quindi si
sedette su uno degli sgabelli alti dell'isola e si coprì il
volto con le mani.
Se suo padre non era alla libreria, allora dov'era? Che fosse davvero
come avevano detto al telegiornale?
Il solo pensiero che suo padre non avesse resistito alla tentazione di
impossessarsi di quel dipinto, esponendosi e rischiando la propria
vita, la faceva andare su tutte le furie, ma era anche preoccupata per
lui.
Si portò i palmi sulle tempie, sforzandosi di immaginare il
corso degli eventi dopo la rapina.
«Pensa, pensa Geneviève».
Per quanto si impegnasse però - dicendosi che magari gli era
venuto il raffreddore o non gli fosse suonata la sveglia - riusciva
soltanto a dipingere scene in cui Arsène veniva catturato,
torturato e nel peggiore dei casi ucciso.
Fu il rumore di un vetro infranto a farle tornare la speranza.
Proveniva dall'appartamento accanto, ne era sicura.
Uscì di casa in pigiama e fece per gettarsi contro la porta
e tempestarla di pugni, ma all'ultimo ci ripensò.
E se quel vetro infranto fosse stato il rumore di una finestra
sfondata? Forse qualcuno aveva sentito la notizia del dipinto rubato e
voleva rubarlo a colui che per primo l'aveva sottratto al suo
proprietario. Ma come avrebbe potuto quel qualcuno scoprire che
Arsène Lupin si era trasferito nell'appartamento della
signora Lee?
Geneviève arretrò lentamente e rientrò
nell'appartamento di Molly per riordinare le idee. Quando si decise ad
agire si era cambiata e aveva preso con sé la chiave di
scorta che Molly le aveva confessato di avere per le occasioni in cui
la signora Lee andava a visitare i parenti e le chiedeva di bagnarle i
fiori.
Il più silenziosamente possibile infilò la chiave
nella toppa e la girò, facendo scattare la serratura. Allora
ruotò il pomello e spinse in avanti la porta, lo stretto
necessario per sbirciare all'interno. Il salotto era silenzioso e
sembrava tutto in ordine, comprese le finestre. Rassicurata fece
capitolare all'interno la testa e fu allora che vide suo padre seduto
al tavolo della cucina, con la testa nascosta tra le braccia.
«Papà», mormorò preoccupata e
nella fretta di raggiungerlo si chiuse la porta alle spalle con un
tonfo. Quel rumore improvviso fece alzare di scatto il Ladro
Gentiluomo, il quale gridò: «Basta, lasciatemi
stare!» ed agì d'istinto: prese il cavatappi
abbandonato sul tavolo e glielo lanciò contro con
così tanta forza e precisione che se Geneviève
non avesse avuto i riflessi pronti e non si fosse abbassata sarebbe
stata colpita in piena fronte.
«Papà, sono io!», gridò
rimanendo accucciata a terra, con le mani a coprirle la testa.
A quel punto Arsène sbarrò gli occhi, inorridito,
ed arretrò, facendo cadere la sedia alle sue spalle.
«Tesoro», sussurrò. «Tesoro,
mi dispiace».
La ragazzina levò lo sguardo e quasi non lo riconobbe: nudo
dalla vita in su, il volto stanco, gli occhi lucidi ed iniettati di
sangue, i capelli in disordine. Capì il motivo del suo
aspetto terribile quando notò la bottiglia di vino in
frantumi alla sinistra del tavolo. Il pavimento non era bagnato, tranne
qualche goccia rossa, perciò era già vuota quando
era caduta.
«Papà, che cos'hai fatto?», gli
domandò allora, alzandosi.
Arsène si guardò intorno, come se non ne avesse
la più pallida idea, e qualche secondo dopo il suo volto
assunse una strana sfumatura verdastra. Quando Geneviève
capì cosa stava per succedere gli corse accanto, ma lui si
era già aggrappato ai bordi del lavandino per rimettere. Si
limitò dunque a tenergli la fronte e a massaggiargli la
schiena, guardando dall'altra parte e tentando di respirare solo con la
bocca per non vomitare a sua volta.
Quando finì, il biondo era senza fiato e con le lacrime agli
occhi. Aprì il rubinetto e portò il viso sotto il
getto freddo dell'acqua, poi si asciugò con lo straccio che
la figlia gli porse e si lasciò accompagnare fino al divano,
dove cadde a peso morto, stravolto.
Geneviève trovò una coperta e gliela stese
addosso, quindi si sedette sul tappeto, all'altezza del suo volto, e
gli tirò indietro i capelli che gli erano rimasti
appiccicati alla fronte.
«Mi vergogno di me», sussurrò il Ladro
Gentiluomo in francese, l'unica lingua che fosse in grado di parlare
durante il post-sbronza.
«Di sicuro non è un bell'esempio»,
rincarò la dose Geneviève, anche se sorridendo.
«Mi spieghi che cos'è successo?».
Arsène chiuse gli occhi, portandovi persino sopra il
braccio, e finse di non averla sentita.
«Perché sei qui, Geneviève?».
La ragazzina sospirò e per rispondergli andò a
prendere il telecomando. Accese la TV e tutti i più
importanti canali di notizie si stavano ancora occupando di
Arsène Lupin e del dipinto perduto di Leonardo da Vinci.
Ormai il Ladro Gentiluomo era destinato a diventare una stella del
crimine anche nel Regno Unito.
Dal modo in cui Arsène fissava lo schermo, con un misto di
confusione e rabbia, Geneviève ebbe la certezza che lui non
c'entrava nulla col furto e che qualcuno doveva aver usato il suo nome.
«Spero davvero di non essere stato io mentre ero
ubriaco», esclamò ad un tratto. «Mi
seccherebbe molto non ricordare dove ho messo un tesoro del
genere».
Riuscì persino a strapparle un sorriso con quelle parole.
«Perché ti hanno dato il merito di un colpo
così ben riuscito?», gli domandò la
figlia, sinceramente curiosa ora che la preoccupazione era scemata.
«Non lo so, ma lo scoprirò». Si
portò le mani sugli occhi, le dita serrate tra i capelli
arruffati. Aveva in testa un nido di vespe.
«Anche se la mia reputazione ne beneficia»,
aggiunse a fatica, «non mi è mai piaciuto
prendermi i meriti degli altri. Ma chi è l'imitatore? Chi
sarebbe in grado di fare un colpo simile? Devo scoprirlo ad ogni
costo».
Arsène si tirò su seduto, ma Geneviève
lo prese per le spalle e lo costrinse a stendersi nuovamente.
«Tu non andrai da nessuna parte in queste
condizioni», lo ammonì, portandogli la mano sulla
fronte. «Pensa a riprenderti, okay?».
Il Ladro Gentiluomo sospirò e chiuse gli occhi al bacio
delicato della figlia. Prima che si allontanasse troppo le
posò una mano sulla nuca e la costrinse a guardarlo negli
occhi.
Tremendamente serio, sussurrò: «Non mi sono
dimenticato del nostro appuntamento. Un paio d'ore e sarò
come nuovo, vedrai».
Geneviève sorrise ed annuì. Il padre le
accarezzò i capelli, poi abbandonò la mano sul
petto e il tempo di abbassare le palpebre ed era già tra le
braccia di Morfeo.
Lei rimase per una dozzina di secondi ad osservarlo, chiedendosi cosa
potesse mai essergli successo da spingerlo ad ubriacarsi. Che sentisse
la nostalgia di casa? O forse era semplicemente stanco di vivere la
vita tranquilla e monotona di Thomas il commesso? O, ancora, c'entrava
qualcosa il discorso sull'amore che avevano fatto la sera precedente?
Non trovando una risposta, Geneviève decise di passare
oltre: non le interessava cosa lo avesse fatto stare male, solo che
d'ora in avanti stesse bene.
Cercò una scopa e una paletta e raccolse da terra i pezzi
della bottiglia in frantumi, poi pulì le macchie di vino sul
tavolo. Una volta finito tornò nell'appartamento di Molly
solo per prendere il pc e con esso si sedette a gambe incrociate sul
tappeto, la schiena posata contro il divano e il volto rilassato di suo
padre a pochi centimetri dal proprio.
Voleva raccogliere il maggior numero di informazioni sul furto del
"Leda col cigno" di da Vinci e provare a cercare il colpevole, in modo
da poter aiutare suo padre quando si sarebbe ripreso e fargli capire
che su di lei poteva sempre contare. Sì, insieme avrebbero
potuto fare tutto.
***
Molly firmò le carte e poi seguì gli addetti
delle pompe funebri mentre trasportavano all'esterno la semplice bara
contente la salma della cameriera del Savoy.
Aveva ripreso a nevicare e nel parcheggio delle ambulanze c'era
già l'auto scura con la quale l'avrebbero portata
all'aeroporto per caricarla su un volo diretto in Romania, precisamente
a Iași, città natale della ragazza.
Era stato straziante - come sempre - quando una settimana prima i
genitori erano atterrati a Londra ed erano stati portati all'obitorio
per il riconoscimento ufficiale. Molly, avendo fatto l'autopsia, aveva
dovuto espletare tutte le pratiche insieme ad un interprete, dato che i
due non parlavano altro che rumeno, e anche fare del proprio meglio per
consolarli. Per fortuna gli abbracci e le strette di mano erano
universali.
Si fermò accanto alle porte scorrevoli, rimpiangendo di non
aver preso con sé la giacca, e rimase lì fino a
quando il carro funebre non fu messo in moto.
«Assurda la quantità di scartoffie necessarie per
spostare un cadavere».
Molly voltò il capo verso la sua sinistra, trovando Sherlock
con le mani infossate nelle tasche del cappotto nero e la sciarpa blu
avvolta intorno al collo. Quel colore gli aveva sempre fatto risaltare
gli occhi, azzurri come il ghiaccio.
Mascherò la sorpresa dietro un pallido sorriso e
stringendosi le braccia al petto rispose: «Non dirlo a
me».
Il detective capì che si stava riferendo a quando era stata
costretta a dichiararlo morto, ma preferì il silenzio.
L'auto uscì dal parcheggio e l'anatomopatologa
sospirò, poi rientrò nell'ospedale e si diresse
verso la caffetteria. Sherlock la seguì e quel suo
comportamento la infastidì tanto - e per una serie infinita
di motivi - che ad un tratto si girò di scatto e guardandolo
negli occhi berciò: «Che cosa vuoi?».
Lui rimase vagamente stupito dalla sua aggressività, ma si
ricompose in un batter d'occhio. «Hai visto il telegiornale
questa mattina?».
«Sì, l'ho visto», rispose secca,
nonostante avesse già capito dove volesse andare a parare.
«Volevo solo dirti che se per caso Arsène dovesse
mettersi in contatto con Geneviève, per qualsiasi
motivo...».
«Non è stato lui a rubare quel dipinto».
Sherlock corrugò la fronte ed assottigliò gli
occhi. «Come, scusa?».
«Ho detto che non è stato lui a rubare quel
dipinto», ripeté Molly, stringendo i pugni lungo i
fianchi.
Era così arrabbiata - con Sherlock, con Arsène e
con se stessa - che voleva prendere a pugni qualcosa; non potendolo
fare, si sarebbe accontentata di sfogarsi col consulente investigativo,
la persona che più di tutte aveva alimentato il dolore che
le aveva scavato una voragine nel petto.
Non era mai stata una persona vendicativa e di certo se ne sarebbe
pentita nel giro di un paio d'ore, ma in quel momento voleva solo
fargliela pagare per quel suo atteggiamento da supereroe maledetto, in
grado di sopportare tutto per la felicità degli altri.
Peccato che non avesse capito che quel suo tenersi a distanza, anche se
lo faceva per proteggerla, era la cosa che le stava facendo
più male, tanto da spingerla tra le braccia di un uomo con
cui non avrebbe mai avuto alcun futuro.
«Quando c'è stato quel black-out io e
Arsène eravamo insieme», confessò,
sentendo le lacrime pizzicarle gli occhi. «Stavamo facendo
sesso, perciò è impossibile che fosse in quella
casa».
L'espressione scioccata ed orripilata sul volto di Sherlock le fece
arricciare gli angoli della bocca in un sorrisino.
«Cos'è, non l'avevi capito solo
guardandomi?», lo prese in giro, strappandosi dal collo il
foulard con cui aveva coperto il segno di un succhiotto poco sotto
l'orecchio sinistro e poi abbassandosi il colletto del maglione per
mostrargli altri segni rossi sulle clavicole, provocati da morsi.
Sherlock rimase in silenzio, incapace di formulare una qualsiasi frase
di senso compiuto, e dopo attimi che parvero eterni decise di
andarsene. Le diede le spalle e tirandosi su il bavero del cappotto
percorse il corridoio, diretto verso l'uscita.
«Ecco, bravo, vattene!», gli gridò
dietro Molly, anche se con voce rotta. «Evita le questioni
scomode, scappa! È quello che ti riesce meglio
dopotutto!».
Le porte scorrevoli si aprirono al suo passaggio e quando si richiusero
l'anatomopatologa si voltò, accorgendosi degli sguardi
curiosi che la sua scenata avevano attirato.
Abbassò il viso, rosso di rabbia ed imbarazzo, e dimentica
del caffé che voleva comprarsi raggiunse il laboratorio
d'analisi. Si appoggiò alla porta con la schiena e
portandosi le mani tra i capelli raccolti scivolò a terra, i
singhiozzi a squassarle la schiena.
«Cos'ho fatto? Cos'ho fatto?».
***
Sherlock sentì il proprio cellulare vibrare nella tasca del
cappotto, ma dopo aver letto il nome di John sul display lo
ignorò.
Continuò a camminare sotto la neve, ignaro di ciò
che lo circondava o di dove fosse diretto. Lo comprese solo una volta
arrivato.
Si sedette sulla stessa panchina su cui si trovava Vivian Norbury
quando lui e Mary l'avevano raggiunta.
Stava guardando i pesci, come d'abitudine, ma quella volta era
preparata ad ogni evenienza: nella borsetta aveva la pistola con cui
avrebbe sparato un colpo diretto al detective che l'aveva incastrata,
ma anziché ferire lui avrebbe trafitto Mary, togliendole la
vita; quella vita tranquilla che aveva desiderato per così
tanto tempo.
Nel silenzio e nella semi-oscurità dell'acquario Sherlock
sentiva rimbombare nella testa le parole di Molly, e facevano male
tanto quanto avrebbe fatto un martello pneumatico che batteva contro le
pareti del suo cranio.
Era sicuro che prima o poi sarebbe successo. Era sicuro che
Arsène sarebbe riuscito a derubarlo e ad ottenere
così ciò che più voleva. Non c'era
davvero nulla che potesse fare contro di lui. Doveva ammettere la
sconfitta.
«Ti arrendi così presto?».
Sherlock, con la schiena addossata contro il basso schienale della
panca, si voltò verso quella alle sue spalle, soffermandosi
sul profilo bluastro di Mary, sorridente e con gli occhi fissi sulla
vasca di pesci davanti a sé.
«Ho alternative?», le domandò.
La donna scrollò le spalle. «C'è sempre
un'alternativa. Il fatto che tu non la veda adesso non vuol dire che
non ci sia».
Sherlock sospirò e scosse il capo. «Anche se le
dicessi la verità, ormai è troppo
tardi».
«Per l'amore non è mai troppo tardi».
Si lasciò scappare una risata amara e si alzò
dalla panchina, avvicinandosi al grande muro di vetro dietro il quale
nuotavano i pesci.
«Qualcosa di divertente?», gli chiese
all'improvviso suo fratello Mycroft, arrivato in quel momento.
Sherlock si voltò per incrociare lo sguardo di Mary - o
almeno la proiezione creata dalla sua mente come ultima spiaggia - ma
era già scomparsa. Non potendo rispondere con
onestà a Mycroft, dicendogli che a farlo ridere era il modo
con cui tentava di consolarsi, disse: «Invidiavo la tua
triste e solitaria vita privata».
Il fratello maggiore fece schioccare la lingua contro il palato,
evitando il suo sguardo.
«Allora, per quale motivo mi hai fatto venire qui? Tu potrai
trascorrere le tue giornate dietro ai tuoi amichetti, io invece ho
delle responsabilità nei confronti della nazione
intera».
«Certo», fu il commento sarcastico di Sherlock. Si
portò le mani dietro la schiena e fissando i pesci disse:
«Considera annullata l'Operazione Role-Play. Non voglio
più avere nulla a che fare con Arsène».
«Ne sei sicuro?».
«Sì. È tempo che ognuno vada per la sua
strada, d'ora in poi».
«Pensavo non ti avrei mai sentito pronunciare queste parole.
Che cos'ha fatto di così grave?».
Sherlock strinse così forte i denti da sentirli pulsare
nelle gengive. «Non ha importanza».
«Va bene», sospirò il fratello.
«Hai intenzione di tagliare i ponti anche con la
ragazzina?».
Sherlock non ci aveva ancora pensato. Aveva voluto rimandare quel
momento al più tardi possibile, ma sapeva esattamente cosa
doveva fare.
«In un certo senso».
Mycroft rimase in silenzio e il detective, stringendo i pugni nelle
tasche del cappotto, aggiunse: «Ho promesso a sua madre che
l'avrei protetta, che l'avrei fatto per Mary, e non ho intenzione di
fallire ancora».
«Quindi che hai intenzione di fare? Sai che Arsène
non rinuncerà mai a lei».
«Dopo la morte della Donna Bionda mi ha confessato che stava
valutando il da farsi e che Geneviève risultava ospite di
una struttura d'accoglienza in Francia. Da allora non ci sono stati
progressi, perciò deve aver capito che è troppo
rischioso esporsi. Che razza di padre mette al secondo posto la figlia
per la propria incolumità?».
Il fratello, inquadrata la situazione, lo affiancò e dopo
qualche istante di silenzio affermò: «A me questa
sembra solo una ripicca. Qualsiasi cosa sia successa tra voi due, forse
dovresti evitare di coinvolgere la ragazzina. Ti ho già
avvertito di non toccare le sue proprietà per evitare di
scatenare le sue ire. E poi non sei stato tu a dirmi che non aveva
scelto lei di avere Arsène Lupin come padre e che pertanto
non aveva alcuna colpa?».
«Proprio perché non ha nessuna colpa devo
allontanarla dalla sua influenza ora che ne ho ancora la
possibilità», affermò il detective,
irremovibile, mentre prendeva il cellulare e digitava rapidamente sulla
tastiera touch-screen. «Se alla fine Arsène
decidesse di procedere se la porterebbe via e senza nemmeno
accorgersene Geneviève diventerebbe sua complice».
«Se sei sicuro che sia la cosa giusta da fare...».
«Sono sicuro».
A quelle due parole seguì il bip di una notifica.
Mycroft tirò fuori il proprio cellulare e con le
sopracciglia inarcate lesse le informazioni che Sherlock gli aveva
appena inviato.
«Puoi fare tu la soffiata ai servizi sociali
francesi?».
«Certo», rispose con un sospiro l'Holmes
più grande, il quale poi si allontanò.
I suoi passi echeggiarono lungo il corridoio, lenti e regolari, con un
ritmo ben diverso da quello delle pulsazioni del cuore del detective.
Sherlock ebbe la tentazione di voltarsi per gridare al fratello di
cancellare quel messaggio e di dimenticarsi tutto, dalla prima
all'ultima parola, ma quando lo fece era già troppo tardi.
Allora abbandonò il capo contro il vetro dell'enorme vasca,
gli occhi chiusi a celare le lacrime, e poi con rabbia vi
picchiò contro i pugni, facendo sobbalzare i pesci
dall'altra parte.
***
Arsène aprì gli occhi di scatto e si
ritrovò seduto col fiato mozzato, gridando in francese:
«Non toccatemi!».
Quando riconobbe l'appartamento della signora Lee però
sospirò di sollievo e si portò una mano sul
petto, cercando di tranquillizzare i battiti del proprio cuore in
tumulto. Era stato un incubo, solo l'ennesimo incubo.
Cercò di ricordare come mai si fosse addormentato sul divano
e i ricordi riaffiorarono lentamente, anche se a ritroso:
Geneviève che con espressione dolce lo costringeva a
riposare, lui che vomitava e le lanciava contro il cavatappi non
riconoscendola, la bottiglia di vino che aveva stappato e bevuto da
solo nel cuore della notte, Molly Hooper che lasciava il letto su cui
avevano fatto l'amore e lui che si comportava come un bambino.
«Dannazione», mormorò, portandosi le
mani sul volto.
Non sarebbe dovuto accadere - non così presto almeno - ma
quella notte aveva preso il sopravvento quella sua parte fragile che
era emersa solo con Clotilde e che lei, anziché respingere,
aveva compreso ed accettato. Molly avrebbe fatto lo stesso? O forse,
essendo stato un solo momento di debolezza, non ne avrebbero mai
più parlato? Ad ogni modo sapeva che le cose tra loro non
sarebbero più state le stesse e ne era spaventato. Come
l'avrebbe giudicato sua figlia, se fosse venuta a saperlo? E Sherlock?
Continuare a pensarci non gli avrebbe fornito le risposte,
perciò si tolse la coperta e solo quando gli cadde lo
sguardo sull'orologio si rese conto dell'ennesimo errore. Si
alzò in fretta, mantenendo a stento l'equilibrio, e fece una
capatina in bagno per fare una lunga pisciata, così lunga
che si spazientì un po'; poi si lavò le mani e si
diede una rinfrescata a viso e capelli. Quindi si infilò la
prima felpa che trovò nell'armadio e con le scarpe in mano
si precipitò alla porta accanto.
Fu proprio Geneviève ad aprirgli e ad accoglierlo con un
sorriso mentre lui esclamava: «Perché non mi hai
svegliato?! Ti avevo promesso che avremmo...!».
Si interruppe, costretto dal dito che la figlia gli posò
sulle labbra. La guardò mentre si alzava sulle punte dei
piedi e gli lasciava un leggero bacio sulla guancia.
«Avevi bisogno di riposare», gli disse quando fu di
nuovo coi talloni per terra, il viso rosso di imbarazzo rivolto verso
il pavimento. «Vieni dentro, ti ho preparato un passato di
verdure».
Detto ciò lo prese per mano e lo condusse in cucina,
intimandogli di fare attenzione alle decorazioni, sparse per tutto il
salotto, con cui aveva già iniziato ad addobbare un albero
alto circa un metro e mezzo.
Arsène, inebetito, si lasciò cadere sulla sedia
che Geneviève aveva scostato dal tavolo per lui e si fece
servire. Il profumo del piatto caldo fu l'unica cosa in grado di
scuoterlo e che gli permise di afferrare la ragazzina per il polso.
«Che cosa c'è?», gli domandò
questa, dato che non si decideva a parlare.
«Non riuscirò mai a capire che cos'ho fatto per
meritarmi una figlia come te», ammise alla fine, per poi
spostare con un piede la sedia dall'altra parte del tavolo ed invitarla
a sedersi con lui.
Geneviève lo accontentò ed Arsène
pensò ancora una volta che per lei avrebbe fatto di tutto,
anche rinunciare a tutti i tesori del mondo. L'avrebbe fatto davvero.
Abbandonare l'attività di ladro, comprare un appartamento a
Parigi, trovarsi un lavoro onesto e tornare a casa la sera per stare
con la sua bambina, parlare di come fosse andata la giornata a scuola e
con gli amici, chiederle quando gli avrebbe fatto conoscere il
fidanzato e minacciare quest'ultimo con le peggiori torture se avesse
osato farle del male.
E allora che cosa lo frenava? Perché non prendeva con
sè lo stretto necessario e partiva, sparendo senza lasciare
traccia per iniziare la loro nuova vita?
Arsène abbassò il cucchiaio nel piatto ormai
vuoto ed aprì la bocca per chiederle un parere, ma
Geneviève fu un secondo più svelta di lui
nell'esclamare: «Sai, mentre dormivi ho fatto alcune ricerche
sul furto che avresti commesso questa notte».
Il Ladro Gentiluomo abbozzò un sorriso e si portò
le mani sotto al mento, decidendo di rimandare l'argomento. Avevano
tutto il tempo del mondo per discutere della loro vita insieme,
dopotutto.
«Trovato qualcosa di interessante?», le
domandò.
«In effetti sì». Gli fece segno di
aspettare un attimo col dito indice e andò a recuperare il
pc. Una volta tornata al tavolo, spiegò: «In un
articolo on-line c'era un po' della biografia del professor Melas, ma
non era molto approfondita. In particolare mi ha incuriosito il fatto
che per diversi anni, a causa di un incidente, ha smesso di insegnare
all'università di lingue. Allora sono andata a cercare tra
gli archivi di diversi giornali e ho trovato un articolo risalente ad
una decina di anni fa. Eccolo». Posizionò il
computer tra loro, in modo che entrambi potessero guardare lo schermo.
«"Cittadino greco in visita a Londra rapito e lasciato a
digiuno per l'eredità"», lesse il titolo
Arsène, incuriosendosi a sua volta.
«In breve, Paul Kratides era arrivato a Londra con
l'intenzione di riportare in Grecia la sorella, la quale si era
innamorata di un ragazzo di nome Harold Latimer, un poco di buono. Il
fratello era stato mandato dai genitori per cercare di farla ragionare,
ma dopo appena tre giorni se ne persero le tracce».
«Kratides era per caso un amico del nostro caro professor
Melas?», le domandò Arsène, versandosi
un bicchiere d'acqua.
Ora, a stomaco pieno, gli erano tornate le energie e anche il buon
umore.
«Esatto. I suoi genitori e Melas si conoscevano molto bene e
Kratides ha alloggiato da lui, almeno fino a quando non è
stato rapito dallo stesso Latimer e da un suo complice, ovviamente
all'insaputa della ragazza.
«Fu aperta un'indagine e ci furono ricerche, ma Paul non
venne mai trovato. Fino al giorno in cui lo stesso Melas venne rapito
da casa sua. Il professore fu portato nello stesso luogo in cui
tenevano Kratides e i due si incontrarono, anche se per poco. Melas era
sollevato che il ragazzo fosse vivo, ma era così deperito
che se non fosse stato portato subito in ospedale sarebbe morto di
fame».
«Perché Melas è stato portato da
Kratides?».
«Perché Paul si rifiutava di parlare inglese.
Preferiva morire, piuttosto che acconsentire alle richieste dei
rapitori, così fingeva di conoscere solo il greco. Melas
doveva fungere da interprete. Mentre traduceva per i rapitori, il
professore ne approfittava per porgergli qualche domanda su dove si
trovassero, ma nemmeno il ragazzo ne aveva idea. Alla fine
dell'incontro i rapitori gli dissero che se avesse raccontato qualcosa
alla polizia avrebbero ucciso immediatamente Kratides. Poi lo
stordirono di nuovo e lo riportarono a casa».
«Inizio ad intuire il finale e non mi piace, non mi piace per
niente», esclamò Arsène, corrucciato.
«Quindi non l'ho pensato solo io»,
rifletté ad alta voce la ragazzina, portandosi un dito alla
bocca.
«C'è un ultimo rifugio per i disperati, gli
indesiderati, i perseguitati», sussurrò
Arsène, come una filastrocca.
«Però è strano, non trovi?»,
gli domandò la figlia, sospirando. «Nell'articolo
si parla di un detective privato, ma Sherlock allora non era nemmeno
lontanamente famoso come lo è oggi. Perché il
professor Melas sarebbe andato a chiedere aiuto a lui?».
«Probabilmente gliel'ha consigliato Mycroft»,
ipotizzò il ladro, e un sorrisino gli curvò le
labbra. «L'ho visto farlo altre volte».
«Peccato che la vicenda non andò a finire molto
bene».
Arsène prese il pc per avvicinarselo al viso e leggerne il
triste epilogo. Non solo Kratides era morto, ma senza l'intervento
dell'anonimo detective anche Melas, rapito per la seconda volta,
avrebbe fatto la stessa fine. Qualche mese dopo, inoltre, sia Harold
Latimer che il suo complice erano stati trovati morti pugnalati a
Bucarest, in una stanza d'albergo affittata da una ragazza la cui
descrizione corrispondeva perfettamente a quella di Sophy Kratides.
«Se la sono cercata», avrebbe voluto commentare
Arsène, ma non ne ebbe il tempo.
«Quindi... pensi che sia stato Sherlock a mettere in scena il
colpo?», gli domandò Geneviève,
mordicchiandosi ancora le unghie. «Perché
l'avrebbe fatto?».
«Per stanarmi. Eppure avrebbe soltanto dovuto ragionare col
cuore per capire dove mi trovavo...». Si sporse verso la
figlia e le accarezzò la guancia, sorridendo.
«Accanto a te».
Geneviève si alzò in piedi sorridendo e gli tolse
da sotto il naso il piatto vuoto e il cucchiaio. Mise tutto nel
lavandino e poi tornò da lui, cingendogli il collo con le
braccia e nascondendo il viso tra i suoi capelli biondi.
«E adesso cosa farai?», gli domandò.
Arsène le accarezzò le braccia e rispose:
«Adesso aiuterò mia figlia ad addobbare
quell'albero. Poi si vedrà».
***
Molly mantenne fede a ciò che aveva scritto a
Geneviève quella mattina: niente straordinari di alcun tipo.
Terminato l'orario di lavoro lasciò l'ospedale e
tornò direttamente a casa, desiderosa di gettarsi sul divano
e spegnere il cervello.
Quando entrò nel proprio appartamento però
trovò una sorpresa ad attenderla: Arsène e sua
figlia avevano appeso le decorazioni natalizie ed addobbato l'albero e
la stavano aspettando ai piedi di quest'ultimo, manco fosse la Vigilia
e lei fosse entrata vestita di rosso.
«Sorpresa!», gridarono in coro, allargando le
braccia tanto quanto i loro sorrisi.
Molly si costrinse a ricambiare, nonostante non ne fosse in vena.
«Allora, ti piace?», le domandò
Geneviève, alzandosi in piedi per prenderle le mani.
«Sì, molto». Le accarezzò i
capelli, poi si spogliò della giacca e lanciò la
borsa sul divano, facendo sobbalzare il povero Toby, acciambellato su
uno dei cuscini.
«Scusatemi, vado a farmi un bagno», disse poi,
dirigendosi immediatamente verso il corridoio così che non
potessero farle ulteriori domande.
Purtroppo però Arsène la seguì e non
si fece scrupoli nemmeno davanti alla porta chiusa a chiave. Con uno
dei suoi trucchi riuscì ad aprirla dall'esterno e
trovò l'anatomopatologa seduta sul bordo della vasca, in
attesa che si riempisse d'acqua calda e schiuma profumata.
«Con te la privacy è un'utopia. Lasciami sola, per
favore», provò a mandarlo via, con poca voce e gli
occhi spenti.
In risposta Arsène si sfilò la felpa, rimanendo a
petto nudo, ed iniziò a togliersi il bendaggio che gli
copriva la ferita.
«Avrei bisogno della tua competenza medica».
A quella richiesta Molly non poté dire di no e lo fece
appoggiare al lavadino, con lei seduta in modo che fosse più
comoda a lavorare. Gli disinfettò il taglio frastagliato e
controllò i punti, poi si alzò per prendere delle
garze pulite e senza farlo apposta si ritrovò col viso a
pochi centimetri da quello di Arsène, il quale
alzò una mano e gliela posò delicatamente sulla
guancia.
«Perdonami, Molly Hooper», le disse con cautela,
gli occhi verdi addolorati.
«Non sei il centro del mondo. Sicuramente non del
mio».
Il ladro sorrise. «No, non lo sono. Ma sei finita fuori
orbita per colpa mia, non è così?».
Si guardarono negli occhi per una dozzina di secondi, in religioso
silenzio.
«Ho incontrato Sherlock questa mattina», gli
confessò Molly alla fine, abbassando gli occhi.
«Ed è stato... è stato
orribile».
Sentendo la sua voce incrinarsi, Arsène le portò
una mano sulla nuca e con l'altro braccio le avvolse la schiena,
stringendola a sé.
«Gli ho detto tutto», riprese lei, riuscendo a
trattenere le lacrime. «Sa che siamo andati a letto insieme.
L'ho praticamente accusato di essere un codardo e lui non ha detto
niente. Non una parola».
Il Ladro Gentiluomo sospirò, quindi le prese il volto tra le
mani e le posò un delicato bacio sulla fronte.
«Proverò a parlargli, oui?».
Molly gli afferrò i polsi e scosse il capo con vigore.
«No. Non dobbiamo dargli alcuna spiegazione».
«Come vuoi, ma...».
«Dicevi sul serio, ieri?», lo interruppe, fissando
gli occhi nei suoi.
«A che proposito?».
«Hai detto che vorresti portarmi via con te. Eri
serio?».
«E tu lasceresti tutto così
all'improvviso?».
«Forse allontanarmi è l'unico modo che ho per
disintossicarmi».
Il silenzio tornò a regnare sovrano nel piccolo bagno e
senza che se ne rendessero conto si strinsero di più l'uno
all'altra, avvicinando le labbra fino a sentire il calore dei loro
respiri fondersi. Molly aveva appena chiuso gli occhi quando
sentì l'acqua bagnarle i calzini.
«Porca...!», soffocò un'imprecazione e
si precipitò a chiudere il rubinetto e a togliere il tappo
alla vasca.
Mentre il livello dell'acqua scendeva Molly si portò una
mano sul fianco e guardò sconsolata il pavimento bagnato.
«Che disastro», borbottò.
«Sarà meglio che vada a...».
Ma Arsène non la fece continuare: afferrandola per il
braccio le fece fare una mezza giravolta e una volta di nuovo stretta
al suo petto posò le labbra sulle sue. La donna, troppo
stupita per scostarsi o ricambiare, lo lasciò fare fino a
quando non fu lui stesso ad allontanarsi.
Le portò entrambe le mani intorno al viso e guardandola
negli occhi sorrise, sussurrando: «Te ne
pentiresti».
«Che cosa?».
«Lasciare tutto per via di Sherlock. Oltre che stupido,
sarebbe inutile. Il proverbio "Occhio non vede, cuore non duole"
è una falsità. Credimi, io lo so».
Molly abbassò le mani sul suo petto, gli occhi tristi e
stanchi. «Io non ce la faccio più,
Arsène. Io non... non voglio più vederlo, mi fa
troppo male. Forse è vero che non lo dimenticherò
mai, ma non posso continuare in questo modo».
Il ladro sospirò piano col naso e portandole le mani ai lati
della testa si appoggiò con le labbra alla sua fronte, gli
occhi chiusi.
Gli tornò alla mente l'immagine di quell'appartamento nel
centro di Parigi, ma quella volta oltre a lui e Geneviève
c'era anche Molly. Le avrebbe trovato un lavoro in ospedale, o dovunque
avesse voluto, e nel tempo libero sarebbe stata con sua figlia, dandole
quel senso di pace e normalità che tutte le ragazzine
meritavano di provare alla loro età. Lui non avrebbe dovuto
rinunciare alla sua carriera di ladro e Geneviève sarebbe
stata felice. Era perfetto.
Si scostò e le sollevò il viso per guardarla
negli occhi. «Se è quello che desideri»,
esclamò, «allora non appena avrò
sistemato chi mi dà la caccia verrai via insieme a me e
Geneviève. Non sarà facile ricominciare da zero,
per giunta in una nuova città, ma...».
L'anatomopatologa non lo fece finire: gli strinse le braccia intorno al
collo e lo ringraziò sottovoce. Arsène
ricambiò, ma qualcosa gli fece corrugare la fronte.
Perché aveva la sensazione che non fosse a suo agio?
Alla fine fu Molly a sciogliere l'abbraccio, deviando il suo sguardo e
usando come scusa Geneviève: l'avevano lasciata sola per
troppo tempo e, intelligente com'era, probabilmente aveva
già fatto due più due.
«Sarà meglio che torni da lei allora»,
sussurrò Arsène, sistemandole i capelli dietro le
orecchie.
Molly annuì, arrossendo sulle guance, e dopo aver completato
la fasciatura gli restituì la felpa che aveva abbandonato
sul mobiletto accanto al lavandino.
Lo guardò mentre usciva dal bagno, poi abbassò
gli occhi sul pavimento bagnato e si coprì il volto con le
mani.
Non sapeva se scappare fosse la soluzione migliore, proprio lei che
aveva accusato Sherlock di non saper fare altro, ma come aveva detto ad
Arsène non poteva più andare avanti in quel modo.
Concedendosi un respiro profondo per ricomporsi, uscì dal
bagno e preso straccio e spazzolone si mise ad asciugare il pavimento.
***
John si fermò sulla soglia del salotto, in attesa che
Sherlock terminasse di suonare. Era uno dei pezzi più tristi
che gli avesse mai sentito suonare, se non il più triste in
assoluto, e questo non lo tranquillizzò affatto.
Il detective fece tremare nell'aria l'ultima nota, poi
scostò l'archetto dalle corde e si voltò per
salutarlo con un brevissimo cenno del capo.
«È da ieri sera che ti cerco»,
esordì il dottore, con un tono di voce che oscillava dal
preoccupato all'arrabbiato. «Ce l'hai con me per qualche
motivo?».
«No, John. Tu non c'entri niente».
«E allora spiegami perché ho la sensazione che tu
stia mentendo».
Sherlock lo scrutò per secondi che parvero ore, fino a
quando non decise di essere completamente onesto con lui.
«Vuoi la verità? E va bene. Tutti voi pensate di
essere al sicuro da Arsène Lupin perché pensate
di non avere nulla che valga la pena di rubare, ma vi sbagliate. In
effetti, è l'errore più grave che possiate fare.
Ancor prima dei quadri, dei gioielli, del denaro... quello che
Arsène brama e cerca disperatamente di conquistare
è l'affetto e la simpatia di chi gli sta accanto. Non so se
sia a causa della sua infanzia o chissà quale esperienza
traumatica, non sono uno psicologo, ma so che Arsène
è un drogato d'amore, proprio come lo sono io dei miei casi.
E tu e Molly lo state arricchendo senza che nemmeno ve ne rendiate
conto. Un giorno lo preferirete a me e io non potrò farvene
una colpa. Perché dovrei? Se si ignorasse la sua carriera di
ladro, lui sarebbe un amico e un fidanzato migliore di me sotto ogni
punto di vista».
«Che cosa stai dicendo?», sbottò John,
incredulo. «A volte mi chiedo sul serio se la tua
straordinaria intelligenza ti costringa ad avere momenti di
stupidità estrema, in modo da riportare in equilibrio
l’universo». Respirò profondamente e
scandendo ogni parola come se stesse parlando con un bambino,
accompagnandola persino con l'indice della mano destra, aggiunse:
«I veri amici, Sherlock, non si comportano in questo modo. Io
e Molly non lo preferiremmo mai a te». Si infilò
la mano nella tasca interna della giacca, aggiungendo: «E la
prova ce l'ho proprio...».
«Eppure tu l'hai ricucito e me l'hai tenuto nascosto per
giorni, solo perché lui ti aveva chiesto di mantenere il
segreto!», lo interruppe Sherlock. «E Molly ci
è andata a letto, ieri sera! Potrebbe già
essersene innamorata, per quello che ne so. Come biasimarla?».
«Molly ci è...?», John si
schiarì la gola, corrucciato. Questo cambiava le cose, ma
doveva esserci per forza una spiegazione. Non era possibile che lei,
proprio lei...
«Ammettilo, John! Siete caduti nella sua rete, nonostante io
vi abbia avvisato più e più volte!».
John rimase in silenzio per un paio di minuti, meditabondo. Le lingue
di fuoco del camino illuminavano il profilo destro del detective,
permettendogli di vedere il dolore e la sofferenza sul suo volto. E fu
allora che capì.
«Tu... tu per primo sei caduto nella sua rete»,
dedusse, stringendo gli occhi. Si era ormai dimenticato di
ciò che conservava nella tasca interna della giacca.
Sherlock abbassò il capo e si avvicinò alla
mensola sopra il camino.
«Era questo che intendevi, quando hai detto che avevi
già fatto affidamento sul tuo cuore e non era andata a
finire bene?».
Il consulente investigativo sollevò gli occhi sulle
luminarie appese intorno allo specchio e i suoi occhi lucidi brillarono
ancora di più. Alzò una mano come a voler toccare
quei puntini luminosi, ma poi la ritrasse di scatto e sbatté
il pugno contro la mensola.
«Quando ci siamo conosciuti, Arsène... lui si
travestì per tenermi d'occhio più da vicino, ma
la cosa ci è sfuggita di mano. Senza volerlo, noi... siamo
diventati amici. Credo sia stato il mio primo, vero amico dopo
Victor».
Il suo sguardo si abbassò in direzione del teschio, ancora
coperto dal tovagliolo, e John strinse le labbra. Avrebbe voluto dire
qualcosa, qualsiasi cosa, ma non ne trovò la forza.
«E quando ho scoperto che era tutta una farsa, che lui non
era chi diceva di essere, io ho pensato sul serio di farla finita. Ero
giovane e stupido...». Si interruppe ed abbozzò un
sorriso, facendo scivolare il tovagliolo per prendere il teschio tra le
mani ed accarezzarlo, dall'osso frontale a quello occipitale. Poi
incrociò lo sguardo di John, il quale si era ritrovato a
trattenere il respiro.
«Mycroft non sa nulla di tutto questo. Non sa che fu lui a
salvarmi. E fu sempre lui a spiegarmi l'assurdità
dell'espressione "togliersi la vita": mi disse che la mia vita non era mia, che
uccidendomi non mi sarei sentito meglio ma che, piuttosto, avrei fatto
del male alle persone al mio fianco, compreso lui. Mi disse... mi disse
che poteva aver mentito sulla sua identità, sul motivo per
cui si era avvicinato a me, ma che quello che era nato tra noi,
qualsiasi cosa fosse, era reale».
«E tu gli credetti», concluse John, avvicinandosi
di un passo.
«Oh sì. Gli credo tutt'ora. Pensi che sarebbe
ancora a piede libero, se non fossi convinto del legame che ci unisce?
Che sarei così in conflitto con me stesso se non mi
importasse di lui?».
«In conflitto?», ripeté il dottore,
confuso. «Sherlock... Che cos'hai intenzione di
fare?».
«Mi dispiace, John. Per tutto quello che
succederà, perdonami».
«Sherlock, io...».
Il detective si abbandonò alla propria poltrona di pelle
nera e col teschio ancora tra le mani si chiuse nel proprio silenzio.
Il dottor Watson, nonostante fosse profondamente turbato,
capì che non sarebbe riuscito a fargli cambiare idea in
alcun modo.
Sulla soglia del salotto sospirò dicendo: «Potrai
aver anche deluso Mary, ma hai fatto un voto che include anche me e
Rosie. Noi ci siamo ancora, Sherlock. Ricordatelo».
Il detective gli rivolse una rapida occhiata e sorrise, annuendo.
Allora John lasciò il 221B di Baker Street con il timore che
forse quella sarebbe stata l'ultima volta e la speranza che invece non
lo fosse.
***
Nel silenzio della casa, rotto soltanto da dei tuoni in lontananza, il
fuoco crepitava nel camino e la sedia dondolava ritmicamente davanti ad
esso.
Lo sferruzzare dei ferri si interruppe al din del forno.
La donna si alzò e andò in cucina per tirare
fuori una teglia di biscotti appena fatti, seguita da un bellissimo
esemplare di gatto Birmano, dal pelo lungo chiaro, il muso scuro e gli
occhi azzurri.
Il profumo del burro e del cioccolato sciolto si profuse per tutte le
stanze, vuote da fin troppo tempo.
Lasciò i dolci a raffreddare e tornò in salotto,
ma prima di riprendere il proprio lavoro a maglia recuperò
il pc e controllò se le fossero arrivati dei nuovi messaggi.
Trovò una nuova richiesta di iscrizione al forum, in attesa
di approvazione. Era da qualche mese ormai che nessuno si dimostrava
all'altezza di diventare un membro del sito dedicato al Ladro
Gentiluomo e temeva che anche quella volta sarebbe stato uno spreco di
tempo, ma dovette ricredersi non appena lesse il nome della persona che
aveva spedito la richiesta: Maurice Leblanc.
Un sorriso le incurvò le labbra e tornò ad
accomodarsi sulla propria sedia a dondolo per leggere con attenzione le
risposte del test. Era scontato che gli avrebbe concesso il
lasciapassare, visti i servizi resi ad Arsène Lupin; la sua
era semplice curiosità.
Venne interrotta a metà da una chiamata al cellulare e ne fu
così scocciata che rispose con tono di voce irritato:
«Che c'è?».
«Signora, abbiamo un problema. Qualcuno ha appena avvisato
gli assistenti sociali che la vera signorina Geneviève si
trova a Londra. Attendiamo istruzioni».
La donna si alzò e in silenzio raggiunse le grandi vetrate
che davano sul mare scuro ed agitato per via di una tempesta di cui si
sentivano i rombi di tuono.
Il faro situato sullo stesso promontorio in cui era stata costruita
quella casa sicura illuminava a tratti il Canale della Manica, oltre il
quale si trovava la Gran Bretagna.
«Abbiamo atteso troppo, sapevamo che sarebbe potuto
accadere», rispose alla fine, senza scomporsi.
«Mandate qui un'auto e fate in modo che al mio arrivo il jet
abbia già i motori accesi. Dobbiamo raggiungere
Geneviève prima dei veri assistenti sociali».
«Sissignora».
La donna terminò la chiamata e strinse forte il cellulare al
petto, immaginando le difficili ore a venire. Quindi si
scostò dalle finestre, lasciandosi i fulmini e i tuoni alle
spalle, e raggiunse la camera da letto per preparare il proprio trolley
nero.
Avrebbe portato con sé l'essenziale, dato che non aveva
intenzione di fermarsi su suolo inglese un minuto più del
necessario.
Si cambiò e tornò in salotto per accarezzare il
gatto e prendere con sé il computer portatile e il sacchetto
coi biscotti ancora caldi.
Era da tanto che non andava in prima linea, ma non era preoccupata. In
verità, anche se non l'avrebbe mai detto ad alta voce, era
elettrizzata.
Quando l'auto arrivò un uomo andò a prenderla
alla porta mentre l'autista si occupava del bagaglio. In meno di
mezz'ora furono al più vicino hangar privato di
Arsène Lupin e come ordinato il jet aveva già i
motori accesi, pronto per il decollo nonostante le cattive condizioni
atmosferiche.
«Si prepari, signora», esclamò Alain, lo
stesso uomo con cui aveva parlato al telefono e che l'avrebbe
accompagnata a Londra. «Si ballerà un
po'».
La donna abbozzò un sorriso. «Bene, iniziavo
giusto ad annoiarmi».
***
Geneviève guardò Molly e suo padre dall'altro
lato dell'isola della cucina, in atteggiamenti più che
amichevoli: lei era appena uscita dal bagno, con ancora i capelli
bagnati avvolti in un turbante, e lui aveva appena tirato fuori dalla
pentola uno spaghetto; chiedendole se era cotto glielo fece penzolare
sopra la bocca e lei rise prendendolo dalle sue dita, per poi dargli la
propria approvazione.
La ragazzina abbassò gli occhi su Toby, il quale osservava i
due col suo stesso scetticismo, seduto come un cane tra le sue gambe
incrociate.
Gli accarezzò il pelo con entrambe le mani e
sussurrò: «Non lo so... Sento puzza di guai, tu
no? Cioè... Molly mi è simpatica e tutto, ma non
ce la vedo con mio padre. E Sherlock? Se dovesse scoprire che tra loro
c'è del tenero andrebbe su tutte le furie, non
pensi?».
Geneviève sospirò, davvero combattuta, tanto da
parlarne con un gatto. Forse la verità era che non era
ancora pronta a vedere suo padre con un'altra donna dopo la morte di
sua madre, anche se si trattava della gentile Molly Hooper.
Si alzò dal tappeto, facendo miagolare Toby, e a testa bassa
si diresse verso il corridoio.
«Tesoro, dove stai andando? La cena è
pronta», esclamò suo padre, posando gli occhi su
di lei.
«Scusatemi, ma non ho fame», mormorò e
si dileguò.
Molly si allontanò da Arsène e seguì
la ragazzina fino a quando non la vide chiudersi nella stanza degli
ospiti, dando addirittura una mandata di chiave. L'anatomopatologa fece
per raggiungere la porta, ma il ladro le posò una mano sulla
spalla e la fermò.
«Lasciala un po' da sola», le disse dolcemente.
«No, devo spiegarle che ha frainteso».
Lupin la fissò con cipiglio perplesso e Molly
arrossì, realizzando che forse anche lui aveva frainteso
quello che c'era stato tra loro e le parole che gli aveva detto poco
prima in bagno.
«Noi due non stiamo insieme», esclamò ad
un tratto, raccogliendo tutto il coraggio e la fermezza di cui
disponeva. «Non deve pensare che sostituirò sua
madre o cose del genere».
Arsène allontanò la mano dalla sua spalla,
abbassando gli occhi con un sorriso mesto sul viso. «Scusami,
quando mi hai chiesto di portarti via pensavo...».
«È successo tutto così
all'improvviso», lo interruppe Molly, agitata.
«Io...».
«Ho capito».
«Davvero?».
Arsène sorrise, ma stava fingendo. Le diede le spalle per
lasciare l'appartamento, ma lei si aggrappò al suo braccio.
«Ti prego, rimani».
«Perché dovrei? Ieri notte è stato solo
sesso, l'ho capito. Non prendiamoci in giro». Il suo tono era
freddo, distaccato; mantenere le distanze era l'unico modo che
conosceva per non scottarsi.
«Devi darmi l'opportunità di conoscerti. Voglio
conoscere la persona che si cela dietro la figura di Arsène
Lupin, il Ladro Gentiluomo».
Il biondo si voltò a fissarla, incredulo, e Molly gli
rivolse un piccolo sorriso aggiungendo: «E poi hai cucinato
mezzo chilo di spaghetti, qualcuno dovrà pur
mangiarli».
A quelle parole Arsène cedette, ma la tensione non ne volle
sapere di allentarsi.
Ancora una volta era stato precipitoso nell'offrire il proprio cuore e
non riusciva a capire perché commettesse sempre gli stessi
errori.
Perché era un romantico, ecco perché. Era bastato
che Molly si avvicinasse a lui per alimentare le sue fantasie ed
immaginarsi un futuro in cui lui, lei e Geneviève vivevano
felici e contenti, come la più normale delle famiglie, ma
era solo un'illusione. Lui era e sarebbe sempre stato Arsène
Lupin; mai, nemmeno volendo, se ne sarebbe liberato. E se anche ci
fosse riuscito quant'era rimasto di vero, sotto quello strato di
menzogne? Forse niente. Forse era diventato un tutt'uno col proprio
personaggio, imprigionandosi per sempre in abiti che spesso e
volentieri gli sembravano camicie di forza.
«A che cosa stai pensando?», gli domandò
ad un tratto Molly, portandosi alla bocca il proprio bicchiere di vino.
Osservando come ipnotizzato il liquido rosso scuro nel calice, il ladro
rispose piano: «"È una bella prigione, il
mondo"».
La donna ridacchiò. «È il vino che ti
fa citare Shakespeare? Forse è meglio metterlo
via».
Entrambi posarono la mano sul collo della bottiglia e quella di
Arsène finì inevitabilmente su quella di Molly,
la quale sobbalzò e ricambiò il suo sguardo con
gli occhi lucidi. Anche lei, durante quella strana cena, aveva
preferito bere piuttosto che parlare.
«Chi altro dovrei citare? Voi inglesi avete avuto forse i
migliori poeti del mondo, insieme agli italiani. Non prenderti gioco di
un povero cittadino francese».
«Non volevo prendere in giro te, né i
francesi».
Arsène sorrise soddisfatto e la liberò dalla sua
presa.
Quella volta fu Molly ad adombrarsi, dicendo: «Pensi davvero
che il mondo sia una prigione?».
«Sì», rispose con una scrollata di
spalle. «Pensaci bene: nessuno è veramente libero.
Dal momento in cui nasciamo siamo spinti su una strada e tutto quello
che possiamo fare è continuare ad andare avanti, lasciandoci
influenzare dalla famiglia, dalla società, dagli eventi.
Pochi riescono a fare la vita che desiderano davvero».
«E tu sei tra questi?», gli domandò
Molly, versando nei loro bicchieri ciò che rimaneva della
bottiglia. A quel punto non era necessario trattenersi. «Hai
deciso di intraprendere la carriera di ladro per portare giustizia,
rubando ai ricchi per dare ai poveri come Robin Hood?».
Arsène sorrise nuovamente, ma quella volta sulla sua bocca
c'era tanta amarezza. «Mi dispiace deluderti, ma all'epoca
non ero guidato da nobili ideali».
Non avrebbe dovuto farlo, non avrebbe dovuto raccontare una parte
così fondamentale di lui ad una persona così
vicina a Sherlock – e da lui potenzialmente influenzabile
– e forse il mattino dopo se ne sarebbe pentito, ma aveva
davvero bisogno di parlarne con qualcuno, di confidarsi e di sentirsi
parte del mondo reale.
Il vino e la tristezza buttarono giù la diga attraverso la
quale le parole sgorgarono come un fiume in piena e Molly rimase in
silenzio ad ascoltarlo.
«C’era una volta una piccola zona residenziale non
lontana dal centro di Parigi, di proprietà, come diverse
altre, dei signori Dreux-Seubise. Loro stessi abitavano in uno degli
edifici, nell’appartamento più grande e
più bello, ed erano ricchi, ma non così tanto
come tutti credevano. La loro unica ricchezza, infatti, ciò
che rendeva importante il loro cognome, era un cimelio di famiglia
molto antico: una collana di diamanti che secondo le leggende era stata
persino al collo della regina Marie-Antoinette. Oh, ce
n’erano molte di leggende ricamate sopra quella collana:
tanti storici erano convinti che l’unico pezzo originale
fosse la montatura, che i diamanti fossero stati tolti, venduti per
affrontare le varie vicissitudini della vita e poi pian piano
sostituiti con altri di minor valore nel corso degli anni. Ma questo
non è poi così importante per il proseguimento
della storia.
«Una sera, dopo un evento mondano, la signora Dreux ripose la
collana nel suo astuccio e la mise, assieme al marito, nel loro solito
nascondiglio: una specie di sgabuzzino, pieno di scatole di scarpe,
pellicce e abiti fuori stagione. La mattina dopo il signor Seubise
entrò nella stanza con l’intento di riportare il
gioiello in banca, dove sarebbe stato al sicuro nella loro cassetta di
sicurezza, e scoprì con orrore che l’astuccio era
sparito.
«Fu una vera tragedia e i due coniugi chiamarono
immediatamente la polizia, ma nemmeno loro riuscirono a risolvere il
mistero. Il furto – perché di furto si trattava
– aveva dell’impossibile. Vedi, lo sgabuzzino si
trovava nella camera da letto dei signori Dreux-Seubise ed entrambi,
avendo il sonno leggero, si sarebbero sicuramente accorti se qualcuno
avesse aggirato il loro letto per andare ad aprire quella porta. Cosa
comunque impossibile, dato che la porta della camera da letto era
chiusa a chiave dall’interno, come le finestre. Il ladro,
dunque, doveva essere entrato per forza dalla piccola finestra dello
sgabuzzino. Ma che dico piccola, piccolissima! Nessun uomo sarebbe
riuscito ad entrare, nemmeno se fosse stata aperta».
«Era chiusa anche quella?», chiese Molly,
totalmente assorbita dal racconto.
«Proprio così. Si trattava di una piccola
finestra, una di quelle adatte giusto a far cambiare aria, apribile
solo dall’interno. Puoi immaginare come ci sia rimasta male
la polizia, non trovando né indizi né
supposizioni valide su come il furto fosse stato commesso. Di
sospettati però ne ebbero subito uno: Henriette, la donna
incaricata delle pulizie e che faceva anche dei lavori di sartoria per
la signora Dreux.
«La padrona della zona residenziale l’aveva
conosciuta dalla madre, per la quale si occupava praticamente delle
stesse faccende ma ottenendo infinito più rispetto e
gratitudine. L’aveva presa con sé quando il marito
di Henriette se n'era andato, lasciandola con un figlio di sei anni, di
nome Raoul, e una casa il cui affitto non poteva più pagare
da sola.
«La signora Dreux le diede un appartamento nel condominio di
fronte al suo, il più piccolo, vecchio ed umido che ci
fosse, con giusto i mobili essenziali e un cucinotto, e Henriette,
infinitamente grata perché avesse tolto lei e suo figlio
dalla strada, accettava le umiliazioni quotidiane e nonostante fosse
tristissima continuava a sorridere.
«Come ti dicevo, la polizia non riuscì a trovare
nessuna prova, perciò non poterono in alcun modo incriminare
Henriette. Il caso venne archiviato, ma non per la signora Dreux, la
quale iniziò ad odiare ancora di più Henriette e
le rese la vita un inferno, fino al giorno in cui la sfrattò
da quel tugurio in cui l’aveva messa».
«Come ha potuto farlo? Che cuore di pietra!»,
sbottò Molly, bevendo tutto d’un fiato il vino che
aveva nel bicchiere. Dopodiché si alzò ed
iniziò a rassettare, mettendo i piatti sporchi nel lavello.
Arsène svuotò a sua volta il bicchiere e la
aiutò.
Quando finirono di sistemare la cucina si spostarono in salotto: Molly
si sedette sul divano ed Arsène si sdraiò con la
testa sulle sue gambe. Mentre riprendeva il racconto, l'anatomopatologa
iniziò ad accarezzargli i capelli.
«Da un lato fu meglio così. Henriette
riuscì a trovarsi diversi altri piccoli lavori –
come sarta, donna delle pulizie, badante – e lei e suo figlio
Raoul riuscirono a trovarsi un altro posto in cui vivere, nonostante
gli stenti. Ma avvenne una cosa curiosa, un paio di mesi dopo la loro
partenza: Henriette ricevette una busta con dentro circa mille euro.
Puoi immaginare la sua sorpresa e soprattutto quella della signora
Dreux quando Henriette le scrisse una lettera di ringraziamento. Non
era stata lei ad inviarle quei soldi: era a conoscenza delle loro
precarie condizioni di vita, ma era ancora convinta che fosse stata lei
a rubarle la preziosa collana, perciò non li avrebbe mai
aiutati. Anzi, avvisò la polizia, intenzionata a fare un
po’ di luce su quella faccenda».
«E si scoprì qualcosa?».
«Solo che la busta era stata spedita da Parigi, da un uomo
che aveva dato false credenziali. L’ennesimo vicolo cieco,
insomma.
«Qualche mese dopo la storia si ripeté: busta
anonima, spedita da Parigi, con dentro altri mille euro. E fu
così per circa tre anni, a cadenza piuttosto regolare. Poi
Henriette si ammalò di un male incurabile e le somme nelle
buste si duplicarono, permettendole di addolcire un po’ le
sofferenze. Henriette morì alla fine del quarto anno e
quelle strane missive rimasero un enigma irrisolto».
Arsène rimase per qualche istante in silenzio, cullato dalle
carezze di Molly.
«Quindi il tuo vero nome è Raoul?».
Il Ladro Gentiluomo aprì gli occhi per incrociare quelli
della donna e scoppiò a ridere. Poteva chiedergli mille
altre cose, ma aveva scelto il nome.
Coprendosi gli occhi lucidi di lacrime con un braccio - inconsapevole
se quelle lacrime fossero dovute al vino, al racconto, alle risa o un
po' a tutto - rispose: «Sì, è il nome
che mi hanno dato i miei genitori quando sono nato».
«E quand'è che hai deciso di diventare
Arsène?».
«Più avanti, molto più avanti. Adesso
concentrati: ti ho esposto i fatti, vediamo se sei più
competente della polizia francese di allora».
Molly rise a sua volta, abbandonando la testa contro lo schienale del
divano. «Dovrei dirti come hai fatto - tu, un bambino di soli
sei anni - a rubare quella collana?».
«Già».
«E come dovrei fare? Io non sono Sherlock Holmes».
Arsène si tolse il braccio dal volto e con le dita le
afferrò il mento perché tornasse a guardarlo
negli occhi. Molly sentì la pelle andarle a fuoco sotto il
suo tocco.
«La risposta è sempre stata di fronte agli occhi
di tutti, perciò è anche di fronte ai tuoi,
Molly».
La donna sospirò e riprese a giocare con le ciocche bionde
dei suoi capelli.
«Hai detto che la porta della camera da letto era chiusa
dall’interno e che c’era una piccola finestra nello
sgabuzzino, una finestra così piccola che nessun uomo
avrebbe potuto attraversarla. Un bambino ci sarebbe
passato?».
Arsène, di nuovo ad occhi chiusi, accennò un
sorriso. Molly però non era convinta della propria
spiegazione: era davvero troppo facile.
«Aspetta un attimo», ricordò.
«Hai detto che anche quella finestra era chiusa
dall’interno, perciò come avresti
potuto?».
«Con un pizzico di inventiva. Ti ho detto che Henriette e suo
figlio abitavano nel condominio di fronte a quello dei signori
Dreux-Seubise. Beh, la finestra nella cameretta di Raoul era a pochi
metri di distanza da quella dello sgabuzzino. Sarebbe bastata anche una
semplice scala, posizionata tra le due finestre, ed ecco creato un
ponte».
«Sì, ma la finestra…!».
«A Raoul piaceva stare con sua madre, a volte
l’aiutava anche. Se era venuto a conoscenza del nascondiglio,
magari ha fatto in modo di trovarsi in quello sgabuzzino per
manomettere la finestra, così che fosse facile aprirla anche
dall’esterno».
«Tutto questo ha dell’incredibile»,
esclamò Molly, tenendosi la testa con una mano.
«Eppure è così semplice! Possibile che
nessuno ci abbia mai pensato?».
Arsène ridacchiò con gli occhi intrisi di
malinconia. «Erano tutti troppo concentrati a puntare il dito
contro l’innocente Henriette. Se anche uno solo, se uno solo
degli agenti si fosse preso la briga di guardare nello zainetto di
scuola di Raoul, avrebbe certamente trovato la famosa collana.
Avrebbero trovato i diamanti che il bambino avrebbe venduto due alla
volta, alla sola condizione che il denaro venisse spedito direttamente
al loro indirizzo da Parigi.
«Prova a metterti nei panni di quel bambino: aveva solo sua
madre, una donna di una gentilezza e di una bellezza uniche al mondo,
messe così a dura prova dalla cattiveria che la circondava.
Pensa alla sua sofferenza di fronte agli occhi umidi di sua madre, al
suo sorriso sempre più debole e alla sua voglia di vivere
che veniva meno ogni giorno di più. Voleva darle una vita
migliore e farla pagare alle persone che pretendevano di averla salvata
e che invece la stavano facendo lentamente morire. Così
pensa, pensa, e realizza che è davvero facile porre fine a
tutti i loro problemi. Non c’era che volere e tendere la
mano. E lui lo voleva, eccome se lo voleva…».
«E tese la mano», concluse Molly per lui, la fronte
aggrottata.
Arsène le scoccò un sorriso, correggendola:
«Le due mani».
Il silenzio li avvolse e nessuno dei due osò infrangerlo per
minuti che sembrarono ore.
La confessione del ladro pesava sulle spalle dell'anatomopatologa, la
quale però riuscì a porre una sola domanda:
«Perché parli di te in terza persona? Tu e Raoul
siete una cosa sola».
Il ladro si tirò su a sedere, mostrandole le spalle
incurvate in avanti, e scosse lentamente il capo. «Ti sbagli.
Raoul non c'è più da moltissimo tempo,
ormai».
«Che stai dicendo?».
«Raoul fa parte del passato e il passato è morto
per sempre; il passato non esiste».
Molly si inginocchiò dietro di lui e gli avvolse il collo
con le braccia, la guancia posata contro la sua tempia.
«Non si può vivere senza passato», gli
sussurrò. «Il passato è alle basi del
nostro futuro e non lo si può cancellare. Raoul è
ancora dentro di te, ne sono certa. Se solo ti fermassi un
momento...».
«Tu non capisci», la interruppe bruscamente,
allontanandole le braccia per potersi voltare e guardarla negli occhi,
coi propri di nuovo lucidi di lacrime e traboccanti del dolore
più cocente. «Raoul sapeva che quello che aveva
fatto era sbagliato e ha provato a fermarsi, ma quando è
cresciuto ed è tornato dalla gente che aveva derubato per
dire loro la verità e restituire la montatura della collana
non ha ricevuto nessuna pietà. In quel momento ha capito che
su questa Terra tutti siamo soli e tutti abbiamo uno scopo, giusto o
sbagliato che sia. E l'unica cosa che lui sapeva fare era rubare agli
altri. Gli pareva un segno del destino, dato che anche lui era stato
derubato, più volte, e decise che si sarebbe impegnato per
impedire che la stessa cosa succedesse ad altri».
Molly sentiva le lacrime pizzicare anche i suoi occhi, ma un'altra
sofferenza le impedì di versarle: mentre si sfogava,
Arsène le aveva stretto le mani intorno ai polsi e le stava
facendo male. Il ladro se ne accorse ed allentò subito la
presa, coprendosi poi il volto.
«Mi dispiace. Mi dispiace, Molly»,
singhiozzò, con le spalle tremanti.
«Non è niente», rispose
l'anatomopatologa, avvicinandosi un po' di più a lui. Gli
tolse le mani dal viso e lo trovò in lacrime, proprio come
un bambino.
«Ehi... Ehi, è tutto okay»,
mormorò ancora, abbracciandolo con delicatezza ed
accarezzandogli i capelli nel tentativo di tranquillizzarlo.
«Abbiamo solo bevuto un po' troppo. Andiamo, su».
Lo aiutò ad alzarsi dal divano e insieme si diressero verso
la camera da letto della donna. Lo fece sdraiare e per qualche minuto
rimase seduta al suo fianco, ad accarezzargli il petto fino a quando
non sentì il suo respiro tornare regolare.
Quell'uomo aveva davvero mille sfaccettature, come un diamante la cui
superficie però non era affatto indistruttibile. A causa dei
dolori della vita si era ritrovato scheggiato, crepato tanto in
profondità da perdere se stesso, e rimasto solo si era
trovato costretto a diventare lo stesso personaggio che probabilmente a
sei anni aveva sperato che lo andasse a salvare.
«Molly?».
Nel silenzio della stanza la voce di Arsène la fece
rabbrividire, insieme alla mano morbida e curata che si posò
sulla sua guancia.
«Sì?».
«Tu mi ricordi moltissimo mia madre».
Molly riuscì a stendere le labbra in un piccolo sorriso e si
sdraiò al suo fianco, il capo appoggiato sulla sua spalla.
Arsène le avvolse la schiena col braccio, stringendola a
sé.
«Era la donna più buona di questo mondo: aiutava
sempre il prossimo, pregava ed era gentile con tutti, anche con chi la
trattava in modo meschino. Lei... lei rinunciò a tutto per
l'uomo che amava, anche alla propria famiglia. I suoi genitori le
chiesero di scegliere tra loro e mio padre e lei seguì il
cuore. Credi che abbia fatto la scelta giusta?».
«Sì, ne sono certa. Sei nato tu, no?».
Arsène si girò sul fianco destro per guardarla in
viso e i suoi occhi verdi brillarono sotto i deboli raggi lunari.
«Sai... ho trascorso l'adolescenza arrabbiato con me stesso e
con mia madre. Ritenevo la mia stessa vita un peso, ma poi ho iniziato
a domandarmi se non fosse mia madre la stupida: aveva rinunciato ad una
vita agiata per un uomo che alla fine l'aveva abbandonata. Dopo qualche
tempo però incontrai il mio primo amore e capii... capii che
io ero esattamente come lei: la ragione scompariva, sopraffatta dal
cuore. Fui instancabile ed irremovibile. Tutte le sere bussavo alla
porta e chiedevo di poter vedere Clarisse, ma suo padre me la sbatteva
in faccia. Allora mi arrampicavo fino alla finestra della sua camera ed
entravo da lì pur di stare con lei. Ero disposto a fare
qualsiasi cosa per la sua felicità e una notte fuggimmo,
decisi a trascorrere il resto della nostra vita insieme, ma
durò poco: lei mi lasciò».
«Per quale motivo?».
«Perché per darle la stessa vita sfarzosa che
aveva con i suoi genitori iniziai a farmi un nome come ladro. Fu in
quel momento che Raoul morì definitivamente e diventai
Arsène». Il biondo sorrise amaramente e le
sistemò i capelli oltre la spalla. «La cosa
più divertente è che cercando di renderla felice
ho commesso gli stessi errori di mio padre».
Molly si accigliò. «Prima hai detto che tuo padre
abbandonò tua madre. In che modo gli
assomiglieresti?».
«I miei occhi da bambino la vedevano così, ma la
realtà era ben diversa ed Henriette non ebbe mai il coraggio
di dirmi la verità. La scoprii dopo la rottura con Clarisse,
durante il mio periodo di "studio matto e disperatissimo"».
«Ti sei iscritto all'università?», gli
domandò l'anatomopatologa, ridendo.
Arsène ricambiò. «No, ma mi sarebbe
piaciuto. Per soffocare il dolore mi rifugiai nei libri e la
Bibliothèque Nationale de France diventò la mia
seconda casa, letteralmente. Diventai amico di uno dei custodi, il
quale mi permise di trasferirmi in un vecchio sgabuzzino per le scope.
Una brandina, pochi vestiti e una delle più grandi
collezioni d'Europa. Solo trascorrere del tempo circondato da tutta
quella conoscenza mi faceva sentire la persona più ricca del
mondo. Ma stavamo parlando di mio padre, giusto?».
«Non sei costretto a farlo, se non vuoi»,
esclamò Molly, posandogli una mano sul bicipite.
«Sinceramente non capisco nemmeno perché tu mi
abbia raccontato della tua infanzia. Non hai paura che vada a
raccontare tutto a Sherlock?».
Il ladro le rivolse un sorriso dolcissimo. «Non ci si
può rifiutare di mangiare solo perché
c'è il rischio di restare soffocati».
«Ti piacciono proprio le citazioni, eh?».
«Questo è un proverbio cinese». Le
posò la mano sulla guancia e con il pollice le
accarezzò lo zigomo. Il suo sguardo si fece liquido quando
si posò sulle sue labbra. «Pensi che abbia
rischiato troppo?».
«Mi stai chiedendo se ti tradirei?».
Arsène annuì piano col capo. «Lo
capirei, se lo facessi».
Molly si avvinò tanto da sfiorargli il naso col proprio
quando negò. «Non lo farei mai».
«E perché?». Ormai la sua voce era
ancora meno di un sussurro.
«Non lo so», ammise lei, accarezzandogli il braccio
fino a raggiungere la sua guancia. «Dovrei farlo, ma non lo
farò».
Il Ladro Gentiluomo annullò del tutto la distanza tra le
loro labbra e la baciò. Entrambi tenevano il volto
dell'altro, come se fossero bombole d'ossigeno da cui dipendevano le
loro vite, e i loro respiri concitati si fusero insieme. Anche i loro
corpi erano così vicini ed intrecciati da non sapere
più quale fosse il confine dell'uno e quale dell'altro.
Molly si sentiva andare a fuoco e voleva che Arsène la
prendesse come la sera precedente, lo voleva davvero, ma uno spiraglio
di lucidità la costrinse a scostarsi. Le era tornato alla
mente l'ultimo incontro con Sherlock e il suo lo sguardo gelido era
stato in grado di spegnere l'eccitazione.
«No», esclamò a mezza voce, tirandosi su
di scatto e portandosi le mani tra i capelli ancora un po' umidi.
«C'è qualcosa che non va?», le
domandò Arsène con tono cauto, seguendola seduto
sul letto e posandole una mano alla base della schiena.
«Scusa, è che... non possiamo. Io non
posso». Sospirò frustrata, ammettendo:
«Ieri è stato bellissimo, sul serio, ma
è stato uno sbaglio. Ero stanca e triste e, per una sera,
non volevo pensare a Sherlock. Ti ho usato e mi dispiace,
Arsène».
Il ladro rimase in silenzio per diverso tempo, tanto che ad un tratto
Molly trovò il coraggio di girarsi per affrontare
ciò che la attendeva. Al contrario di ciò che
temeva però, Arsène stava sorridendo in quel modo
mesto, come se fosse abituato a tutto ciò.
«Non c'è bisogno che ti scusi», le
disse, percorrendo la sua schiena con la mano per arrivare a prenderle
la base del collo. L'anatomopatologa si morse le labbra per non
maledirsi: solo quel semplice tocco l'aveva eccitata di nuovo.
«Spero solo che le cose non diventino imbarazzanti tra noi.
Tengo alla tua amicizia tanto quanto Geneviève».
«Ma certo», lo rassicurò afferrandogli
la mano posata sul ginocchio.
Arsène annuì e si sporse con le gambe fuori dal
letto con l'intenzione di alzarsi, ma non appena si tirò su
fu colto dalle vertigini e ricadde seduto con una mezza risata.
«Mi piace bere, ma la verità è che non
lo reggo proprio l'alcool», confessò imbarazzato.
Molly invece si sentiva solo un po' brilla, perciò lo
aiutò a stendersi nuovamente e rimboccandogli le coperte gli
disse che poteva anche dormire lì per quella notte.
«E dovrei permettere ad una fanciulla di dormire sul
divano?», domandò con uno strano miscuglio di
inglese e francese. «Jamais!».
Arsène provò davvero a farsi valere, ma
finì soltanto per ingarbugliarsi tra le coperte e cadere
giù dal letto come un sacco di patate, scatenando le risate
di Molly, la quale dovette coprirsi la bocca con entrambe le mani per
non svegliare Geneviève, nella stanza accanto.
Una volta rimesso a letto però chiuse gli occhi e
farfugliò qualche altra parola nella sua lingua madre,
cedendo al vino e al sonno.
La donna non resistette a quella visione e maledicendosi ancora si
chinò per posargli un ultimo bacio a stampo sulle labbra, il
bacio d'addio. E pensare che avrebbe potuto avere tutto quel bendidio
per due notti di fila... Se solo il suo cuore non fosse stato rubato,
ormai ben cinque anni prima, da Sherlock Holmes, le cose sarebbero
andate molto diversamente con Arsène Lupin.
Quando fece per risollevarsi però il ladro le
afferrò la nuca e la costrinse a rimanere piegata su di lui,
la fronte contro la sua.
«Mio padre», sussurrò ad occhi chiusi,
lucidissimo. «Mio padre aveva una palestra, dove insegnava
boxe e arti marziali. Gli allievi però erano pochi e le
spese tante, così finì per indebitarsi. Pur di
non dare un dispiacere a mia madre iniziò a
rubare». Arsène abbozzò un sorriso.
«Come vedi, la mela non cade mai troppo lontana
dall'albero».
Molly chiuse a sua volta gli occhi, nella speranza che anche le sue
orecchie potessero otturarsi, impedendole di sentire il resto della origin story di
Arsène Lupin.
A lei non piacevano i segreti, non le piacevano per niente e dopo la
faccenda della finta morte di Sherlock, che l'aveva costretta a mentire
per due anni, si era ripromessa che non avrebbe mai più
custodito segreti per gli altri. Però la
curiosità era tanta e Arsène sembrava
così bisognoso di parlare, di sfogarsi... di ricordare e
fare pace con quel passato che aveva rinnegato e cercato di cancellare
per tutta la vita.
«Fu lui a rintracciarmi. Non mi volle rivelare come fece, ma
alla fine non mi importava. A dire il vero non volevo avere niente a
che fare con lui, però riuscì a convincermi a
seguirlo in un café e parlammo per ore. Mi
raccontò tutto e scoprii che era stata mia madre ad
allontanarlo quando aveva capito da dove provenivano i soldi che usava
per ripagare gli strozzini. Mia madre aveva rinunciato all'amore per
cui aveva lottato così duramente perché io non
crescessi con un esempio simile. Lo fece perché non voleva
che seguissi le sue orme, ma alla fine lo feci lo stesso. Realizzai che
lei aveva sempre saputo chi fosse il ladro della collana di
Marie-Antoinette e che probabilmente ero stato io, nella mia
ingenuità, a farla ammalare».
«Non lo pensare nemmeno», intervenne Molly,
sedendosi al suo fianco. «Non puoi colpevolezzarti in questo
modo, non è giusto».
Arsène le sorrise. «Ti ringrazio per il tentativo,
ma non devi consolarmi».
«Ma tu...».
«Ad ogni modo io e mio padre iniziammo a frequentarci e fu
lui ad insegnarmi tutto quello che so sul combattimento corpo a corpo,
anche se a dire il vero sono rare le occasioni in cui ho dovuto lottare
con qualcuno. Ho sempre preferito l'amore alla violenza. "Anche quando
fa giustizia, la violenza è ingiusta", Thomas
Carlyle».
Molly gli strinse le mani tra le sue e se le portò alle
labbra per baciarne le nocche. Quel gesto lasciò il ladro a
bocca aperta per lo stupore e poi, orripilato, le ritrasse per
stringerle in pugni e portarseli sulla fronte.
«Ciò nonostante ci sono altri modi per fare del
male alle persone - io ne so qualcosa - e tuttavia non sono da meno.
È per questo che non mi piace rivangare nel passato,
perché so che se mi addentrassi troppo finirei risucchiato
dalle mie colpe e non riuscirei a riemergervi, come nelle sabbie
mobili».
«E poi come andò a finire con tuo
padre?», gli domandò l'anatomopatologa, capendo
che in realtà continuare a farlo parlare era l'unico modo
per tendergli una mano ed aiutarlo a non affondare.
«Lui... mi chiese di partecipare ad un furto in banca,
dicendo che insieme avremmo potuto fare il colpo della vita, quello che
ci avrebbe permesso di sistemarci per sempre. Io, che già
avevo un concetto diverso di rapina, rifiutai. Cercai anche di fargli
cambiare idea, spiegandogli che gente con le nostre stesse
difficoltà, lavorando duramente aveva messo in banca i
risparmi di una vita; rubandoli avrebbe vissuto a spese di moltissimi
altri e non era accettabile. Lui non volle ascoltarmi e fece il colpo
da solo. Fu un disastro, un vero disastro, e la polizia emise un
mandato di cattura che lo costrinse a scappare negli Stati Uniti.
Anche in quell'occasione mi chiese di seguirlo, ma non lo feci. Fu
l'ultima volta che vidi mio padre in libertà. Lo incontrai
nuovamente sette anni dopo, in una prigione americana, poco prima che
morisse. Mi chiese di perdonarlo per i suoi sbagli - per aver lasciato
me e mia madre, per essere stato un terribile padre e per essere
diventato un criminale - e io lo feci, promettendogli che non sarei mai
diventato come lui».
Arsène si allontanò le mani dal viso e
riaprì gli occhi per incontrare quelli di Molly, ancora
seduta al suo fianco. Con uno sforzo si tirò su e si
avvicinò al suo viso col proprio, una mano a portarle i
capelli dietro l'orecchio destro.
«Per questo ho sempre cercato di rubare ai ricchi, specie a
quelli che avevano speculato sulle vite degli altri per raggiungere il
loro status, ma sono consapevole che il mio operato ha fatto soffrire
molte persone: l'ispettore Ganimard, per esempio; o la stessa Clotilde,
l'unica donna che è riuscita a rendermi felice dopo il
periodo forse più nero della mia vita. Senza di lei... Forse
sarei diventato un altro se non fosse stato per lei. Avevo un debito
enorme nei suoi confronti ancora prima di scoprire che aveva dato alla
luce Geneviève, adesso... adesso voglio mantenere la
promessa fatta ed essere ciò che Theophraste non
è stato per me: un buon padre».
Molly tirò su col naso, sopraffatta da tutto il groviglio di
emozioni che aveva iniziato ad attorcigliarsi intorno al suo cuore. Il
Ladro Gentiluomo sorrise nuovamente e prendendole la testa con entrambe
le mani le posò un bacio sulla fronte, poi la strinse a
sé avvolgendole le braccia intorno alla schiena.
«Ci riuscirai», mormorò ad un tratto la
donna, stringendo i pugni sul suo petto. «Raoul è
ancora dentro di te, nascosto da qualche parte, e sono certa che
potrebbe tornare se solo lo volessi».
«Grazie, Molly Hooper».
La castana si scostò e lo guardò negli occhi,
trovandoli lucidi. «E per che cosa?».
«Per la tua speranza. Ora mi è chiaro
perché Sherlock ti ama tanto».
«Ti prego, non...». La sua voce si
spezzò, così come la fragile barriera che aveva
eretto intorno al cuore per tenere a freno quel dolore immenso.
«Perdonami, non volevo».
Molly si sforzò per sorridere tra le lacrime e si
alzò, asciugandosi il volto con le mani. «No,
è tutto okay», mentì.
«Sarà meglio dormire qualche ora,
adesso».
«Va bene. Sei sicura di non voler rimanere qui? Giuro che non
ti toccherò».
L'anatomopatologa non poté trattenere una risatina.
«Purtroppo non posso prometterti lo stesso,
perciò...».
Anche Arsène sorrise a quelle parole. «Allora
buonanotte, Molly. E di nuovo grazie».
Lei annuì con un cenno del capo e si lasciò la
propria camera da letto alle spalle. Fece per avviarsi verso il
salotto, dove l'aspettava il divano su cui non avrebbe comunque chiuso
occhio, ma qualcosa la spinse invece verso la camera degli ospiti.
Aprì piano la porta e grazie alla luce del corridoio fu in
grado di vedere Geneviève addormentata. Si
avvicinò con passo felpato per sistemarle meglio le coperte
e solo allora si rese conto che aveva alle orecchie le cuffiette
dell'mp3. Gliele tolse con delicatezza e spense il piccolo apparecchio,
poi lo posò sul comodino e si fermò per qualche
attimo a guardare la ragazzina. Durante il sonno, abbandonata la
maschera con cui cercava di dimostrarsi felice e piena di energie, il
suo volto era attraversato da un profondo dolore, un sentimento che
Molly conosceva bene e con cui poteva relazionarsi.
Si sdraiò delicatamente al suo fianco e con una mano le
accarezzò i capelli mentre le sussurrava: «So che
ti manca la tua mamma, ma non sei sola, Geneviève. Il tuo
papà si sta impegnando molto per te e anche io... anche io
voglio che tu sia felice».
A quelle parole la biondina parve rasserenarsi, i tratti del suo viso
si distesero e Molly sorrise, rincuorata. Quindi fece per alzarsi, ma
una piccola mano si strinse intorno al suo polso e quella presa, forte
ma delicata, le ricordò tantissimo quella di
Arsène. Si girò ed incrociò gli occhi
verdi di Geneviève ad attenderla, grandi e spauriti. Era
sempre stata sveglia.
«Rimani qui», le sussurrò.
«Solo finché non mi addormento, per
favore».
L'anatomopatologa non poté non notare quanto padre e figlia
fossero simili - entrambi con una profonda cicatrice sul cuore - e per
questo si riaccomodò al suo fianco, quella volta infilandosi
sotto il piumone e lasciandosi persino abbracciare.
Si domandò se il calore che sentiva nel petto fosse
ciò che tutti i genitori provavano se stretti dai loro figli
e un'altra fitta al cuore le inumidì gli occhi: alla sua
età sua madre aveva già partorito sua sorella
maggiore ed era incinta di lei.
Fino a quel momento non aveva mai pensato seriamente a diventare mamma,
nemmeno dopo tutto il tempo trascorso con la piccola Rosie.
L'attaccamento che iniziava a provare per quella ragazzina invece la
stava facendo fantasticare e al contempo disperare, dato che non
avrebbe mai trovato un uomo in grado di spodestare Sherlock Holmes dal
suo cuore. Avrebbe potuto affezionarsi, ma mai innamorarsi, e la sua
vita sarebbe sempre stata a metà.
Dannato, dannato Sherlock,
pensò e senza volerlo si aggrappò con
più forza ad una Geneviève ormai addormentata,
quella volta per davvero.
Si era addormentata da appena un paio d'ore quando, alle sette di quel
venerdì mattina, Molly fu svegliata bruscamente dal
campanello. All'inizio pensò di esserselo sognato, poi
però il trillo si ripeté e fu costretta ad
alzarsi dal letto, sottraendosi dall'abbraccio di una
Geneviève mugugnante.
Passò accanto alla propria stanza e vide solo la schiena
Arsène, addormentato sul fianco; quindi senza ulteriori
esitazioni andò alla porta. Si ritrovò davanti
due agenti di polizia in borghese, i quali si scusarono per l'orario e
dopo aver mostrato i distintivi e un mandato di perquisizione entrarono
nel suo appartamento senza troppe cerimonie.
Molly, stordita dal sonno e dall'incredulità, lesse che
stavano cercando Geneviève e provò a fermarli,
invano. Aprirono ogni porta e il cuore dell'anatomopatologa smise di
battere quando accesero la luce nella sua camera da letto e la
trovarono vuota: Arsène, fino a pochi minuti prima sotto le
coperte, non c'era più. In quel momento non seppe se
sentirsi sollevata oppure infuriata, ma fu decisamente la seconda
quando si rese conto che la sua era stata una fuga solitaria:
Geneviève, infatti, ancora mezza addormentata, era seduta
sul letto che si stropicciava gli occhi e chiedeva cosa stesse
succedendo.
Uno degli agenti andò da lei e la fece alzare sotto gli
occhi increduli di Molly, mentre l'altro recuperava una radio e
comunicava alla Centrale di aver trovato la ragazzina e di averla presa
sotto custodia.
«Lasciami!», provò a protestare
Geneviève, sollevando i gomiti e scalciando.
«Lasciami andare, bastardo!».
«Geneviève, calmati, sono certa che è
solo un malinteso», esclamò Molly, ma dovette
ricredersi quando l'agente con la radio si portò alle sue
spalle per ammanettarla.
A quel punto le due si guardarono, terrorizzate, e Geneviève
aprì la bocca per gridare aiuto, ma l'anatomopatologa scosse
mestamente il capo nella sua direzione, facendole capire che suo padre
non era più nei paraggi. A quel punto la ragazzina si
ammutolì e a testa bassa, per non far vedere le lacrime, si
lasciò portare via.
Molly testò la stretta delle manette e il freddo del metallo
le segò i polsi, ma fu un dolore decisamente più
accettabile rispetto a quello che provava in mezzo al petto.
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Capitolo 21 *** Truth shall make you free ***
Ciao a tutti! :D
Eh eh, la scorsa settimana vi ho lasciati con un altro colpo di scena!
Che ci posso fare, Moffat mi ha contagiata xD
Ma, worry not, nel capitolo che state per leggere ci sarà
finalmente la resa dei conti tra Sherlock e Arsène. Chi la
scamperà e quali saranno i danni collaterali causati dallo
scontro tra questi due titani?
Anche la misteriosa Victoire farà il suo ingresso in pompa
magna e diciamo che porterà con sé un altro pezzo
del passato di Arsène, quello più doloroso e che,
ci tengo nel dirlo, mi sono inventata di sana pianta perché
fin'ora, durante le mie ricerche, non ho trovato nulla in merito. Sorry
se risulterò troppo banale o se vi farò piangere.
Comunque, come si evince dal titolo del capitolo (citazione del Vangelo
di Giovanni), la vera protagonista sarà la verità
e anche Sherlock dovrà farci i conti. Io non gli ho mai
perdonato una certa cosa (non ve la dico per non spoilerare) e il modo
in cui ho manovrato il detective è come vorrei che si
sentisse a riguardo. Perdonatemi se magari sono andata OOC.
Okay, basta chiacchiere ora! Vi auguro buona lettura e spero di
ricevere dei vostri pareri, perché sapete quanto ci tengo :)
Grazie a chi ha seguito fino a qui ♥
Vostra,
_Pulse_
____________________________________________________________________
21. Truth
shall make you free
Arsène
correva, correva per le strade di Londra ancora illuminate dai
lampioni, con indosso i vestiti con cui si era addormentato, infradito
ai piedi e il cappuccio della felpa tirato sulla testa.
Il respiro,
affannoso per la corsa e i singhiozzi, gli bruciava la gola e il vento
freddo gli irritava il volto e gli occhi bagnati di lacrime.
Com'era
potuto accadere? Come avevano fatto a trovarla? Nessuno sapeva dove
fosse Geneviève. Nessuno tranne Grégorie, Ernest,
la stessa Molly e...
Le sue
gambe si irrigidirono e Arsène si ritrovò fermo
in mezzo alla strada, abbagliato dai fanali dei taxi e dei primi
mattinieri, gli occhi sbarrati per lo shock. Non si accorse del
semaforono che diventava verde, né dei clacson o delle
persone che sporgevano la testa fuori dai finestrini per gridargli di
levarsi di mezzo.
Era stato
Sherlock, non c'erano altre spiegazioni. Sherlock sapeva della
struttura di accoglienza in Francia in cui aveva finto vi fosse
Geneviève - era stato lui stesso a rivelarglielo - e sapeva
che in realtà si trovava a casa di Molly Hooper. Nessun
altro aveva la possibilità e il movente, soprattutto, per
avvertire la polizia.
«Allora
ti vuoi levare, coglione?!», gridò l'uomo che era
appena sceso dal suo camion di surgelati. «Qui c'è
gente che deve lavorare, al contrario dei drogati come te!».
Arsène
si voltò di scatto, guardandolo con espressione
così folle che l'uomo, nonostante fosse grande e grosso,
fece un passo indietro, intimorito.
«Sono
contrario alle droghe», gli disse, e poi: «Mi
offrirebbe un passaggio?».
«Stai
scherzando, vero?».
«Affatto.
Purtroppo non conosco questa zona e dato che ho dimenticato il
portafoglio non posso pagare un taxi. Sarebbe così gentile
da portarmi al Savoy Hotel?».
Il
camionista, sempre più confuso dalla situazione, lo
guardò fino a quando Arsène non
scoppiò a ridere, aprendo le braccia ed urlando:
«Oppure potrei starmene qui per tutta la mattina! Tanto non
ho niente da fare!».
Il rumore
dei clacson si fece così insistente che alla fine l'uomo fu
costretto a cedere, invitandolo a salire sul suo mezzo.
«La
ringrazio molto, signore. Verrà ripagato per la sua
gentilezza», esclamò Arsène una volta
seduto al suo fianco.
«Tanto
dovevo passare di là comunque»,
borbottò il camionista. «Spero solo tu non sia uno
psicopatico».
«Oh
no, nulla del genere. Sono solo francese».
L'uomo
inarcò le sopracciglia e scuotendo il capo mise finalmente
in moto, facendo scorrere il traffico e ricevendo gli applausi degli
altri automobilisti.
Mai avrebbe
immaginato che quella stessa sera avrebbe ricevuto un sms coi
ringraziamenti di Arsène Lupin e un deposito di mille euro
sul proprio conto in banca.
***
Victoire
scese dalla berlina nera e guardò l'edificio davanti ai suoi
occhi, schermati da un paio di occhiali da sole firmati. Un piccolo
sorriso le increspò le labbra mentre si tirava su il
colletto del corto cappotto rosso ed attendeva che Alain, alla guida
del mezzo, la raggiungesse con una ventiquattrore contenente tutti i
documenti - squisitamente contraffatti - per il prelievo di
Geneviève. Quindi entrarono nella sede londinese di Scotland
Yard.
Si
avvicinarono all'agente alla reception e con un inglese perfetto, ma
ben marcato dall'accento francese, diedero le credenziali degli
assistenti sociali che stavano aspettando e che in realtà
sarebbero arrivati solo in tarda mattinata. Il poliziotto
però, stanco per il turno di notte e desideroso di dare il
cambio al collega, non si pose troppe domande e li lasciò
passare.
Victoire e
Alain raggiunsero la sala interrogatori che era stata loro indicata e
dopo aver bussato delicatamente alla porta fu un agente in borghese ad
accoglierli e a dare loro il benvenuto a Londra.
«Avete
fatto presto», commentò alla fine delle
presentazioni e Victoire, togliendosi gli occhiali da sole per fissarlo
coi propri magnetici occhi grigi, mostrò un sorriso modesto
rispondendo: «In casi come questi non c'è un
minuto da perdere. Lei come sta?».
«Come
da protocollo l'abbiamo affidata ad una delle nostre psicologhe, ma
fino ad adesso si è rifiutata di parlare. Magari voi avrete
più fortuna».
L'agente si
spostò dalla porta e li lasciò entrare. La
psicologa si girò a guardarli, mentre Geneviève,
seduta dall'altra parte del tavolo, fissava con occhi vacui la tazza di
té e le ciambelle glassate che le erano state portate e che
non aveva osato toccare. Per Victoire, la quale l'aveva vista solo in
alcune fotografie non troppo recenti, fu quasi commovente posare gli
occhi su di lei e notare tutto ciò che aveva preso dal suo
Arsène.
«Bonjour, bonbon»,
la salutò Victoire con voce affettuosa.
La
ragazzina alzò gli occhi su di lei, occhi fieri ed
orgogliosi quanto quelli del Ladro Gentiluomo, e la squadrò
a lungo, con diffidenza. Victoire si innamorò di lei ancora
di più.
«Ci
dispiace molto per ciò che è successo, ma non
temere: risolveremo tutto, te lo prometto», aggiunse in
inglese, facendo il giro del tavolo. Dalla grande borsa appesa al
gomito estrasse un bigliettino da visita e glielo porse, sorridendo.
Geneviève
impiegò qualche secondo per allungare la mano ed afferrarlo,
ma dovette dissimulare la sorpresa quando si accorse che quello altri
non era che uno dei cartoncini bianchi che Arsène Lupin si
portava sempre appresso e che usava per i suoi colpi.
Incrociò nuovamente gli occhi della donna, in piedi al suo
fianco, e realizzò che suo padre doveva aver mandato la
cavalleria.
«Posso
sedermi al tuo fianco?», le domandò con
gentilezza, indicando la sedia vuota.
Geneviève
si limitò ad annuire con un cenno del capo, accartocciando
nel pugno il bigliettino bianco.
***
Arsène
entrò nella lussuosa hall del Savoy con passo sicuro e
nonostante il suo povero abbigliamento non ricevette alcun ammonimento,
anzi in qualche modo furono tutti gli altri - dai receptionist e i
facchini di turno ai primi clienti - a sentirsi in difetto al suo
passaggio. La sua aura di forza e potere doveva essersi quintuplicata
per via del tradimento e nessuno, nessuno
avrebbe osato contraddirlo in un momento del genere.
Raggiunse
la Royal Suite e i membri della scorta furono sorpresi di vederlo, ma
lo accolsero con gioia. Fu indetta immediatamente una riunione
d'emergenza e alla notizia del ritorno di Arsène,
Grégorie si precipitò nella suite e fu solo
grazie al suo stoico autocontrollo che non gli gettò le
braccia al collo quando incrociò il suo sguardo. Si
limitarono a scambiarsi un sorriso e poi il ladro, in piedi davanti al
tavolo da pranzo, spiegò il motivo della sua sparizione e
cos'era successo fino a quel momento.
«Ernest
è già davanti alla sede di Scotland
Yard», rispose Grégorie alla richiesta di
aggiornamenti.
Arsène
annuì soddisfatto. «Bene, voglio che monitori la
situazione fino a quando non formuleremo un piano
d'estrazione».
In
quell'istante il cellulare di Grégorie iniziò a
vibrare nella sua tasca e l'uomo corrugò la fronte nel
leggere il numero sconosciuto sul display. Guardò il suo
padrone con fare circospetto e se lo portò all'orecchio. Non
riuscì nemmeno a dire una parola, ricevendo semplicemente
l'ordine di passare il cellulare ad Arsène Lupin.
Con cautela
Arsène prese l'apparecchio dalla mano dell'amico, trovandola
caldissima in confronto alle proprie, gelide per l'ansia e la paura.
«Chi
parla?».
Il suo
volto si distese sentendo la voce dall'altro capo del telefono e alla
fine della conversazione, nella quale nemmeno lui aveva pronunciato
verbo, sospirò di sollievo.
«Geneviève
è salva», spiegò ai suoi uomini.
«Adesso vogliate scusarmi, ma devo prepararmi
per...».
«Aspetti
un momento, che significa? Chi era la donna al telefono?», lo
interruppe Grégorie, agitato.
Tutti gli
occhi si posarono su di lui, ma per l'uomo c'era solo
Arsène, il quale sorrise e confessò:
«La voce che hai sentito appartiene alla donna che mi ha
cresciuto e amato come una madre, che mi ha salvato e che continua a
salvarmi quando sento il terreno sgretolarsi sotto i miei
piedi».
L'uomo coi
baffi rimase a bocca aperta, realizzando che il Ladro Gentiluomo si
stava riferendo alla donna che appena la mattina precedente, con
Maurice Leblanc, lui aveva definito una leggenda: Victoire.
«Ora,
come dicevo, devo andare a prepararmi», riprese
Arsène con un sorriso gentile e gli occhi di nuovo limpidi.
Grégorie però sapeva che si trattava solo
dell'ennesima maschera, l'aveva riconosciuta.
Quando la
riunione fu sciolta e gli uomini congedati, lui fu il solo a rimanere
nella sala da pranzo, a bloccargli l'uscita col proprio corpo.
«Che
cos'ha intenzione di fare?», gli domandò piano,
cercando i suoi occhi ora attraversati di dolore.
«E
me lo chiedi? È stato Sherlock a tradire
Geneviève. Ho intenzione di affrontarlo faccia a
faccia».
«Lo
ha capito vero che è solo un modo per attirarla allo
scoperto? Proprio come la storia del dipinto rubato».
«L'ho
capito benissimo, ma non posso lasciar correre, non questa
volta!», gridò a mezza voce, furioso. «E
adesso spostati».
Grégorie
ripensò alla domanda che Geneviève gli aveva
posto non molto tempo prima: gli aveva chiesto se non avesse una
volontà propria e allora l'uomo aveva risposto che il debito
che aveva con Arsène l'aveva portato a dedicarsi interamente
a lui. Era vero, assolutamente, ma solo in quel momento capì
che non l'aveva fatto solo per ripagarlo, ma anche perché
l'aveva scelto.
Aveva scelto di rimanergli accanto nel bene e nel male, aveva scelto di
vegliare su di lui e di proteggerlo e ora lo stava facendo: lo stava
proteggendo da se stesso, anche a costo di disubbidire agli ordini.
«Non
posso farlo, padrone», rispose con serenità,
sicuro della propria decisione.
Arsène
lo guardò stralunato. «Sei forse
impazzito?».
«Sto
solo cercando di salvarla».
Il Ladro
Gentiluomo odiava la violenza, ma anche lui ogni tanto non aveva altre
alternative a disposizione. E lo addolorò profondamente che
quella fosse una di quelle volte, specie perché era di
Grégorie che si trattava.
Lo
afferrò per la nuca come se avesse voluto baciarlo, mentre
con l'altra mano gli assestava un pugno nello stomaco così
forte da fargli perdere la presa sugli stipiti della porta. Poi lo
spinse a terra e si chinò su di lui per prenderlo per la
camicia e sussurrargli ad un centimetro dalla sua bocca: «Ti
ringrazio, amico mio, ma a volte l'unico modo per raggiungere la
salvezza è attraversare l'Inferno».
Gli
accarezzò il volto, chiudendogli gli occhi, ma
Grégorie non si arrese. Gli strinse i polsi tra le dita e lo
pregò: «Non lo faccia».
Arsène
si appoggiò al pavimento con un ginocchio e con un sorriso
mesto sul volto rispose: «Ci rivedremo ancora, te lo
prometto. Sono mai venuto meno ad una promessa,
Grégorie?».
L'uomo
negò col capo, mentre una solitaria lacrima gli scivolava
sulla tempia.
«Vedi?
Non hai di che temere. Fino ad allora, ho bisogno che anche tu mi
faccia una promessa».
«Qualsiasi
cosa».
«Proteggi
Molly Hooper e porgile le mie scuse».
A quelle
richieste Grégorie riaprì gli occhi e
guardò quelli del proprio padrone, ammirando la sua forza di
spirito ed integrità morale. Davvero il suo cuore era il
più grande che avesse mai visto. Nonostante l'anatomopatologa
fosse la donna amata da Sherlock Holmes, lo stesso su cui voleva
vendicarsi, non sarebbe venuto meno alla promessa fatta. Spesso e
volentieri era proprio questo suo onore a procurargli i peggiori guai,
tuttavia non vi avrebbe mai rinunciato.
«Allora,
pensi di poter fare una promessa simile?», gli
domandò ancora.
Grégorie
annuì con un cenno del capo. «Sì,
glielo prometto».
«Grazie,
amico mio».
Il Ladro
Gentiluomo si alzò e non si voltò più
indietro. Ordinò a François, il giovane hacker,
di seguirlo nella sua stanza e mentre sceglieva ed indossava il proprio
completo più costoso si preparò per il duello,
forse quello finale.
***
A Sherlock
bruciavano gli occhi, ma non avrebbe pianto. Non avrebbe versato
nemmeno una lacrima per l'uomo che sarebbe potuto diventare il suo
migliore amico e forse qualcosa di più, che aveva cercato di
redimere così tante volte e con cui avrebbe sempre avuto un
debito enorme, a quel punto impossibile da ripagare.
Seduto
sulla propria poltrona, col fuoco acceso nel camino come unica fonte di
luce ed immerso nel più totale dei silenzi,
ascoltò l'impercettibile scatto della serratura e i suoi
passi felpati che salivano le scale. Quindi alzò lo sguardo
verso la porta che dava sul salotto ed incrociò quello di
Arsène Lupin, vestito elegantemente sotto il lungo cappotto
grigio. In testa aveva un cappello a cilindro e un monocolo all'occhio
destro, due tocchi di classe che lo facevano sembrare un gentiluomo
d'epoca Vittoriana.
Sherlock
sapeva il motivo per cui si era agghindato in quel modo, ma per
crederci dovette avere la sua conferma. Per questo gli chiese:
«Hai invitato la stampa?».
Il Ladro
Gentiluomo sorrise e si levò il cappello per togliervi dei
fiocchi di neve. «Già. L'ultima volta non ero
preparato, ma non farò lo stesso errore».
Fece un
passo all'interno della stanza e il click di diverse
armi automatiche gli fece chiudere gli occhi. Sospirando pesantemente,
come se ne fosse terribilmente annoiato, disse: «Quindi non
avremo un po' di privacy nemmeno durante la nostra ultima
conversazione? Beh, se a te sta bene così...
Posso?».
Indicò
la poltrona di fronte a quella del detective e Sherlock
annuì, permettendogli di accomodarsi. La squadra
d'élite di Mycroft Holmes, un grappolo di uomini e donne
decorati e con anni di esperienza sul campo, seguirono ogni suo
movimento con i fucili alzati.
«Allora,
abbiamo all'incirca quindici minuti prima che arrivino i giornalisti,
perciò di cosa vuoi parlare nell'attesa?», gli
domandò Arsène, guardando il Rolex d'oro che
portava al polso. «Se posso proporre un argomento, vorrei che
mi spiegassi nel dettaglio il motivo per cui hai tradito la mia fiducia
e quella di mia figlia avvisando i servizi sociali francesi».
Sherlock
arricciò le labbra, infastidito. «Vuoi davvero che
te lo spieghi?».
«Oh
sì, ti prego. Umiliati qui, davanti a tutti questi bravi
ragazzi».
«Tu
sei un ladro ricercato in tutto il mondo, nessuna ragazzina dovrebbe
finire sotto la tua custodia», rispose Sherlock, monocorde.
«Sua madre mi ha chiesto di proteggerla e sono giunto alla
conclusione che tu non saresti stato un buon padre per lei, per questo
ho deciso di allontanarla da te prima che fosse troppo tardi. Magari
ora mi odierà, ma quando sarà più
grande capirà e mi darà ragione. Forse mi
ringrazierà pure».
«Forse»,
fu la risposta pacata di Arsène.
La sua
tranquillità fece agitare il consulente investigativo, il
quale si alzò e si portò davanti alla finestra.
Sotto l'appartamento si stavano radunando diverse volanti della polizia
con i lampeggianti spenti, in attesa del segnale di Sherlock.
«Che
cosa c'è, il gatto ti ha mangiato la lingua? Vai avanti,
su», lo invitò il ladro, sorridendo furbescamente.
«Sappiamo tutti che questo non è l'unico
motivo».
Sherlock
strinse i pugni lungo i fianchi e rimase in silenzio.
«Vuoi
che lo dica io?», gli domandò Arsène,
ridacchiando. «E va bene».
Si
voltò sulla poltrona ed incrociò gli occhi di uno
degli uomini di Mycroft, vestito interamente di nero e con un caschetto
dello stesso colore sul capo.
«Volete
sapere perché il qui presente Sherlock Holmes ha deciso di
fare la sua subdola mossa, usando mia figlia... Lei ha figli, buon
uomo? Sì, immagino di sì. Allora
capirà il motivo per cui mi sono presentato qui di mia
spontanea volontà, pur sapendo che sarei finito in manette
per un furto che, tra l'altro, non ho commesso. Ebbene sì,
il furto del "Leda col cigno" non è opera mia. Mi hanno
incastrato, come si suol dire. Ad ogni modo, Sherlock Holmes,
l'infallibile detective, ha usato mia
figlia, una ragazzina che ha appena perso sua madre e ha
scoperto di avere me come padre, per attirarmi nella sua rete. Non lo
trovate anche voi un insulto alle sue capacità? E tutto
questo per mera vendetta. Non l'ha fatto perché sono un
ladro ricercato in tutto il mondo. No, l'ha fatto per una questione
personale. Io sono qui perché ho fatto l'amore con la donna
che ama e a cui lui non ha mai avuto il coraggio di dichiararsi. Per
carità, io ne ero a conoscenza e ammetto di essere stato un
terribile amico, ma che posso farci se le donne impazziscono per
me?».
Sherlock,
il quale aveva ascoltato tutto il suo monologo tremando di rabbia, a
quelle ultime parole non riuscì più a trattenersi
e si avventò su di lui afferrando un attizzatoio.
Arsène era stato tanto rapido di riflessi da spostarsi dalla
poltrona ed impugnarne uno a sua volta, parando così il
secondo colpo con un clangore metallico.
Gli uomini
in divisa lasciarono le loro postazioni per accerchiarli, gridando di
allontanarsi l'uno dall'altro e mirando sia ad Arsène che a
Sherlock.
Il Ladro
Gentiluomo sorrise di fronte all'espressione stravolta dall'ira del
detective.
«Dicevi
di volerla proteggere ad ogni costo, ma hai fallito su ogni fronte,
Sherlock», gli disse. «Il tuo atteggiamento l'ha
spinta tra le mie braccia e io ho dovuto consolarla, capisci? Sei stato
tu a chiedermi di proteggerla, ricordi? "Non importa come", hai detto.
E io l'ho fatto! È inutile che ora tu te la prendi con me,
perché quello che è accaduto è tutta
colpa tua. Se fossi stato sincero con lei sin
dall'inizio...».
«Stai
zitto, maledetto!».
Sherlock
allontanò l'attizzatoio da quello tra le mani di
Arsène e provò ad infilzargli la gamba, ma il
ladrò parò ancora il colpo e subito dopo
contrattaccò, costringendo il detective a difendersi.
Adesso
aveva smesso di sorridere e lo fissava con gli occhi verdi incendiati
dalle fiamme del camino e dall'odio.
«Tu
sei solo un egoista, incapace di apprezzare le persone che hai al tuo
fianco fino a quando non ti voltano le spalle o muoiono. Volevi farla
pagare anche a Molly per essere venuta a letto con me e ci sei
riuscito, dato che ora si trova a Scotland Yard con l'accusa di
rapimento di minore. Ma tu sei Sherlock Holmes, avrai pensato che tanto
tuo fratello avrebbe reso di nuovo limpida la sua fedina penale con uno
schiocco delle dita, proprio come ha fatto con te quando hai sparato un
colpo in testa a Magnussen».
Lo shock
che attraversò il volto di Sherlock lo fece ridere di cuore,
ma Arsène non perse l'occasione e gli rivolse una stoccata
con cui lo ferì al fianco sinistro, squarciandogli giacca e
camicia. Il detective però, nonostante avesse previsto la
mossa, anziché difendersi aveva deciso di mettere in pratica
ciò che lo stesso Arsène aveva detto qualche
settimana prima: «A volte è necessario sanguinare
per le cose importanti». Stringendo i denti per il dolore,
Sherlock allungò l'attizzatoio e glielo puntò
alla gola, mettendolo con le spalle al muro.
Gli uomini
di Mycroft, per quanto fedeli, avevano smesso di gridare e avevano
iniziato ad abbassare i fucili, increduli davanti ai due duellanti e a
tutte le verità che stavano venendo a galla.
«Che
cosa c'è? Ti aspettavi forse che continuassi a starmene
zitto in nome della nostra amicizia?»,
gli domandò Arsène, quasi dolcemente.
«Mi chiedo chi dei due qui sia il vero bugiardo. Io sono un
ladro e non l'ho mai nascosto, mentre tu... Che cosa penserebbero le
persone che credono in te, che pensano che tu sia un eroe, se
scoprissero la verità? La nazione intera ha iniziato ad
idolatrarti, a credere che senza di te il crimine dilagherebbe nelle
strade, e questo è il risultato: tu sei libero di uccidere
pur di togliere dai guai i tuoi amici. Alla Regina Elisabetta sta bene,
è una tua fan, mentre io, semplice ladro d'arte, merito il
carcere a vita? Se questo è il mondo in cui viviamo, io non
voglio più farne parte».
Detto
questo lasciò cadere l'attizzatoio a terra ed
allungò i polsi verso il detective, guardandolo negli occhi
con orgoglio e fierezza. Sherlock abbassò a sua volta l'arma
di fortuna e anche gli occhi, pieni di vergogna.
«Io
pensavo... pensavo di non avere altra scelta».
«Lo
so. Credimi, lo so. Anche io mi sono trovato ad un bivio simile, tanto
tempo fa. Avevo la possibilità di vendicarmi di chi mi aveva
fatto del male, sarebbe bastato così poco... Ma realizzai
che se mi fossi lasciato sopraffare dall'odio sarei diventato proprio
come quelle persone».
La mano di
Arsène gli sfiorò delicatamente la guancia e
Sherlock, ad occhi chiusi, vi si abbandonò per qualche
istante.
Gli stava
dicendo la verità, quello era un raro frammento del passato
del Ladro Gentiluomo, e per questo il detective si sentì
ancora peggio quando lasciò cadere l'attizzatoio e stese una
mano verso un agente perché gli consegnasse un paio di
manette. Questi esitò, influenzato dalle parole di
Arsène Lupin e per cui riluttante ad eseguire gli ordini di
un assassino, ma fu costretto ad obbedire quando lo stesso ordine venne
da Mycroft, comparso davanti alla porta della cucina col suo
inseparabile ombrello come bastone da passeggio.
«Ah,
eccoti qua», lo salutò il ladro con un ampio
sorriso sul volto, allontanando velocemente la mano dal volto di
Sherlock. Per il detective fu peggio che ricevere uno schiaffo.
«Stavo
giusto per dire a Sherlock che voglio una cella accanto a quella della
vostra sorellina, ma è una richiesta che devo inoltrare a
te, non è vero Myc?».
Il maggiore
degli Holmes lo ignorò e con tono autoritario
ordinò: «Portatelo via».
«Sei
in arresto per il furto del "Leda col cigno" e un'altra dozzina di
reati».
Sherlock
gli assicurò le manette ai polsi, stringendole il
più possibile, poi lo consegnò ai due uomini
armati più vicini.
Lo avevano
scortato solo fino alla porta che dava sulle scale quando
Arsène riuscì a divincolarsi con una piroetta ed
esclamò a gran voce: «Ah, mi stavo quasi
dimenticando!».
Gli agenti
alzarono di scatto i fucili verso di lui quando infilò la
mano destra nella tasca interna del cappotto. Le manette ciondolavano
al suo polso sinistro e nessuno, nemmeno Sherlock, aveva la
più pallida idea di come fosse riuscito a liberarsi in
così poco tempo.
«Fermo,
non ti muovere!», gridò l'unica agente donna,
temendo che ciò che volesse estrarre dal cappotto fosse
un'arma da fuoco.
Arsène
sollevò la mano sinistra e con molta cautela anche la
destra, mostrando lo schermo di uno smartphone acceso.
«Permettete?»,
domandò retoricamente, dato che inoltrò una
chiamata senza attendere il via libera. Alla persona che rispose
dall'altro capo
della linea chiese: «Hai registrato tutto, mon ami?».
«Certo
boss. I
nostri amici
giornalisti faranno a gara per averla».
«Ti
ringrazio per la tua collaborazione. A presto».
Il Ladro
Gentiluomo terminò la chiamata e poi lanciò il
cellulare in direzione di Sherlock, il quale lo afferrò al
volo senza distogliere gli occhi, di nuovo traboccanti d'odio, dalla
sua figura. Arséne sorrise smagliante, indicandogli il
cappello che aveva lasciato sul tavolino tra le due poltrone.
Il detective lo afferrò e notò subito qualcosa di
strano nel suo peso. Lo capovolse digrignando i denti e all'interno
della fodera vide i fili un microfono.
A quel punto fu Mycroft
a rompere quel silenzio carico di tensione, esclamando: «Non
hai prove a sostegno di ciò che è stato
detto».
«Uhm,
forse», rispose Arsène, scrollando le spalle e
porgendo di nuovo i polsi verso l'agente al suo fianco
perché gli rimettesse le manette. «Ma a volte un
rumor è sufficiente per distruggere la reputazione di una
persona, non è vero Sherlock?».
«Ti
stai per caso riferendo al trucco usato da Moriarty? Sappiamo tutti
com'è andata a finire».
«Già.
Io
però, al contrario di lui, non ho alcun desiderio di morire
e non puoi azzittirmi. Potrai gettarmi in una prigione di massima
sicurezza o in una bara, ma sappi che ti perseguiterò fino
alla fine dei tuoi giorni». Arsène si
sistemò il monocolo all'occhio destro e sorridendo malizioso
concluse:
«Ora hai due opzioni di fronte a te: o vieni in prigione con
me di tua spontanea volontà, oppure venderò la
registrazione ai giornalisti e ci finirai comunque. Pensa che spasso
sarebbe se fosse lo stesso ispettore Lestrade ad arrestarti!».
I due
fratelli si scambiarono un'occhiata con cui valutarono le diverse
opzioni e alla fine, come spesso accadeva, si trovarono in disaccordo.
Sherlock raggiunse Arsène con passo deciso e lo
afferrò per un gomito per spingerlo lui stesso
giù per le scale, mentre Mycroft domandava senza ritegno:
«Che cosa vuoi per quella registrazione?».
«Non
puoi dire sul serio», sbottò Sherlock, furioso.
Mycroft lo
ammonì con gli occhi e si rivolse di nuovo ad
Arsène: «Dammi il tuo prezzo. So che ne hai
uno».
«Questa
volta no, Mycroft», rispose il Ladro Gentiluomo, sorridendo.
«È una questione tra me e Sherlock ed è
con lui e lui soltanto che sono disposto a contrattare, quando e se
vorrà farlo».
«Non
voglio», rispose subito il detective e fece per proseguire,
ma il fratello tagliò per la cucina e bloccò loro
la strada.
«Levati
di mezzo», lo minacciò Sherlock.
«Non
posso lasciartelo fare, fratello. Se ammetterai di aver sparato a
Magnussen davanti alle telecamere finiresti sul serio in prigione e
nemmeno io potrei tirartene fuori questa volta».
«Non
dubito che tu voglia proteggermi, ma te lo leggo in faccia che
ciò che temi veramente è che il Governo tagli la
testa a te».
Mycroft
assottigliò gli occhi. «E se così
fosse? Saresti disposto a sacrificare tutto? Abbiamo ancora degli assi
nella manica».
Arsène,
in mezzo ai due Holmes, sorrideva divertito.
«Sì»,
rispose alla fine Sherlock, irremovibile. «È come
ha detto lui: non possiamo continuare a difendere la legge agendo sopra
di essa. Arsène pagherà per i suoi crimini e
anche io farò lo stesso».
Al termine
di quella dichiarazione Arsène sollevò le mani in
un applauso e il braccio sinistro di Sherlock fu costretto ad alzarsi a
sua volta: il farabutto non aveva atteso un secondo di più
prima di liberarsi un polso per cedere un cerchio delle manette al
detective, legandoli insieme.
«Ecco
il nostro eroe, Sherlock Holmes! Vedrai, le tue action figures
andranno a ruba da oggi in poi», esclamò
entusiasta, gli occhi brillanti.
«Stai
commettendo un grosso errore», provò ancora a
dissuaderlo Mycroft, posandogli una mano sulla spalla.
Sherlock
però fece qualcosa che fu in grado di sorprendere tutti,
compreso il Ladro Gentiluomo: sorrise.
«No
invece», replicò, sereno. Per la prima volta da
mesi, precisamente da quando aveva sparato a Magnussen uccidendolo, si
sentiva in pace. «Sto cercando di rimediare».
Mycroft
parve finalmente comprendere i suoi sentimenti, mai come allora
così chiari dietro i suoi occhi azzurri, e coprendosi la
fronte con una mano si fece da parte per lasciarli passare.
Sherlock e
Arsène, seguiti dagli uomini della task-force, scesero le
scale e una volta davanti alla porta chiusa del 221B, dietro la quale
si sentivano le voci concitate dei giornalisti e dei fotografi chiamati
dal ladro e di quelle degli agenti di polizia chiamati dal detective, i
due rivali si guardarono negli occhi.
«Noi
due, insieme... Sono contento che finisca così»,
esclamò Arsène, sorridendo teneramente.
Il
detective prese il cappotto e Arsène si offrì di
aiutarlo con le manette, togliendogli il cerchio che gli avrebbe
impedito di indossarlo. Una volta infilata la manica Sherlock gli
chiese di rimetterglielo al polso e Arsène lo
accontentò, per poi guardarlo mentre si legava al collo la
sciarpa blu, in grado di far risaltare i suoi occhi, e si calcava sulla
fronte l'iconico cappello da cacciatore a doppia visiera.
«Come
sto?», gli domandò il consulente investigativo
quando fu pronto.
«Divinamente.
Ma ricordati di sorridere davanti ai flash: questo momento
passerà alla storia».
I due
rimasero ancora qualche secondo a fissare la porta, ripassando
mentalmente le variabili che li avevano condotti lì e
domandandosi se quella fosse veramente la fine.
Un agente
aprì per loro la porta e mentre i flash delle fotocamere li
accecavano entrambi giunsero alla stessa conclusione: quello era solo
l'inizio.
***
Greg si era
svegliato da appena qualche minuto quando dal bagno sentì il
suo cellulare iniziare a suonare sul comodino.
«Non
potete aspettare ancora un'ora?», domandò
infastidito, riconoscendo il numero della Centrale.
«Ispettore
Lestrade, mi dispiace disturbarla ma penso che farebbe meglio a venire
qui il prima possibile».
«Che
cos'è successo?».
«Ecco...
facciamo prima se accende la TV, ispettore».
Greg, con
un brivido a percorrergli la spina dorsale, si precipitò in
salotto. Su ogni canale di informazione scorrevano le stesse immagini e
i titoli in sovraimpressione annunciavano la notizia shock:
Arsène Lupin, il Ladro Gentiluomo famosissimo in Francia e
ricercato in tutta l'Europa e negli Stati Uniti, era stato da poco
arrestato al 221B di Baker Street da Sherlock Holmes, il quale si era a
sua volta consegnato alle autorità confessando in diretta
l'omicidio di Charles Augustus Magnussen, magnate dell'industria del
giornalismo.
«Dio,
Sherlock... Che cos'hai fatto?», mormorò con una
mano alla bocca.
«Ispettore?
Ispettore Lestrade, è ancora lì?».
Greg si
riportò il cellulare all'orecchio, sospirando.
«Sì, sono qui».
«Ci
sarebbe un'altra cosa».
«Stai
scherzando, vero? Questo non è abbastanza?».
«Mi
dispiace, ispettore».
«Avanti,
sputa il rospo».
«Abbiamo
in custodia Molly Hooper e si rifiuta di parlare. Pensavamo che magari
lei, dato che la conosce, potrebbe riuscire a convincerla a
collaborare».
Greg
impiegò diversi secondi per elaborare le informazioni, ma
non ci credette. «Molly Hooper in custodia? Non è
possibile».
«È
accusata di sequestro di minore, signore».
«Cosa...?
No, c'è sicuramente un errore», ripeté,
incredulo.
L'agente
provò a spiegargli la situazione nel dettaglio, ma Greg non
volle sentire altro e lo interruppe dicendogli che sarebbe arrivato il
prima possibile.
Uscendo di
casa, Lestrade ebbe la netta sensazione che quella giornata non avrebbe
fatto altro che peggiorare.
***
L'ultima
volta che John aveva percorso quei corridoi piastrellati l'aveva fatto
con un mal di testa lancinante e la promessa che mai più si
sarebbe ubriacato in quel modo. Quella volta invece correva verso la
cella in cui avevano rinchiuso Sherlock Holmes in attesa del suo
trasferimento in un carcere vero e proprio.
Fu certo di
averla trovata quando vide Mycroft Holmes in piedi davanti ad una
porta, l'ombrello chiuso tra le mani e l'espressione assorta.
Era stato
lui a chiamarlo, svegliandolo e dandogli la notizia prima che la
apprendesse dai telegiornali, e a pregarlo di raggiungerlo per cercare
di inculcare un po' di senso nella testa del fratello minore.
«Grazie
per essere venuto, dottor Watson», esclamò
Mycroft, rivolgendogli a malapena un'occhiata.
«Ciao
John!».
Una mano
uscì dalle sbarre della cella che precedeva quella di
Sherlock e il maggiore degli Holmes fu rapido a colpirla con
l'ombrello, facendola ritrarre insieme a gemiti di dolore.
Il dottore
passò di fianco alla porta in questione ed alzandosi in
punta di piedi vide Arsène Lupin che si stringeva al petto
la mano colpita, i capelli biondi un poco scompigliati sulla testa e
l'abbigliamento ridotto a camicia e pantaloni con bretelle.
«Dimmi
che hai un piano per tirarlo fuori da qui», furono le prime
parole di John, in ansia.
Mycroft
sospirò, afflitto ed arrabbiato contemporaneamente.
«Finché continua a sostenere di aver premeditato
l'uccisione di Magnussen non c'è nulla che io possa fare.
Per questo l'ho chiamata: deve riuscire a convincerlo a cambiare
versione».
«E
perché dovrebbe ascoltarmi?».
«Di
solito lo fa, no? E adesso mi scusi, ma devo lasciarla».
Mycroft gli
passò accanto e Arsène allungò ancora
la mano, come se volesse afferrarlo, ma oltre a stringere l'aria
ricevette l'ennesimo colpo d'ombrello sulle nocche.
«Aïe!».
«Aspetta
un momento, dove stai andando?», gli chiese invece John. Come
poteva lasciare il fratello in prigione con tanta leggerezza?
Il
più grande degli Holmes si portò due dita sugli
occhi e rispose: «Sono stato convocato a Downing Street per
dare spiegazioni. Farò il possibile perché
Sherlock e Arsène finiscano a Sherrinford».
«Che
cosa? Non puoi fare una cosa del genere!».
«E
invece è l'unica cosa da fare», intervenne
Sherlock, con voce lugubre.
John si
avvicinò alla porta della sua cella e si aggrappò
alle sbarre della piccola finestrella per guardare all'interno: il
detective era seduto sulla lastra di pietra coperta dal sottile
materasso che l'ultima volta, di ritorno dal suo addio al celibato, gli
aveva ceduto; aveva le mani a coprirgli il volto, i gomiti puntati
sulle ginocchia, e sembrava che il peso del mondo gravasse sulle sue
spalle.
«Non
ci sono altre prigioni in grado di contenere due menti come le
nostre».
«Lo
prendo come un complimento!», gridò
Arsène dalla cella accanto.
«E
che ne sarà del voto che hai fatto? Noi abbiamo bisogno di
te! Io ho
bisogno di te, Sherlock!».
A quelle
parole il consulente investigativo allontanò le mani dal
viso per alzarlo ed incrociare il suo sguardo, con un piccolo sorriso
ad arricciargli gli angoli della bocca e a fargli comparire delle
rughette agli angoli degli occhi.
«Mi
dispiace John, ma è giunto il momento di pagare il
conto».
«No.
Siamo soldati, ricordi? In quell'occasione non avevi altra
scelta!».
«Sì
che ce l'avevo. C'è sempre un'alternativa».
La sua
espressione si indurì e il dottore iniziò a
scuotere il capo, respirando rumorosamente col naso. «Ti ho
perso una volta, non posso perderti una seconda».
«Potrai
venirmi a trovare quando vuoi».
«No,
no! Non voglio vederti dietro un vetro antiproiettile, con una casacca
bianca e lo sguardo spiritato! Per quanto tu possa sentirti in colpa
per aver sparato a Magnussen non ti permetterò di farti
questo, Sherlock!».
Il
detective si alzò e lentamente raggiunse la porta per
guardare l'amico da più vicino, con la commozione negli
occhi.
«Ormai
ho preso la mia decisione. Non c'è nulla che tu possa dire o
fare per farmi cambiare idea. Mi dispiace».
«Quando Arsène è venuto da me
perché lo curassi ho preso un campione del suo
sangue», confessò John a bassa voce, sperando che
almeno quell'asso nella manica potesse essergli d'aiuto.
Le pupille di Sherlock si dilatarono un poco per la sorpresa, ma fu
solo un attimo.
«In questo momento il suo sangue non mi serve. Ma... sei
stato bravo, John».
A quel punto il dottore non vide altra soluzione: allungò una mano tra le
sbarre per prendere la testa di Sherlock e sbattergliela contro i pezzi
di ferro - un ultimo, disperato tentativo di farlo tornare in
sé - ma l'amico fu più veloce di lui e si
tirò indietro, poi gli diede le spalle ed osservò
i raggi del sole che illuminavano l'angusta cella entrando dalla
finestrella vicina al soffitto.
John,
arrabbiato come lo era stato poche volte in vita sua, si
girò per cercare supporto in Mycroft, ma scoprì
che se n'era già andato. Allora si diresse verso la cella di
Arsène Lupin e tirò un calcio alla porta per
attirare la sua attenzione. Il volto sorridente del Ladro Gentiluomo
comparve poco dopo davanti alle sbarre.
«Come
posso aiutarti, John?».
«La
pagherai per questo».
«Sei
arrabbiato con me? Oh, questo mi addolora profondamente. E io che
pensavo che, essendo praticamente familiari, avresti rivolto anche a me
qualche parola d'affetto!».
«Non
ti reputerò mai un mio familiare. Mai»,
ringhiò, furibondo.
«E
che mi dici di Geneviève, allora?».
«Che
cosa c'entra Geneviève in questa storia?».
«Ma
come, non lo sai? Credi che mi sia fatto arrestare per un motivo
qualsiasi, dottore?». Arsène
assottigliò gli occhi e premette il viso contro le sbarre,
facendo arretrare John d'un passo. «Se Sherlock non avesse
tradito Geneviève, avvertendo gli assistenti sociali
francesi, adesso nessuno di noi sarebbe qui».
Il dottor
Watson, il quale non aveva idea del coinvolgimento della nipote, si
ritrovò a fare un ulteriore passo indietro e si
ritrovò esattamente tra le due celle, senza sapere che cosa
pensare.
«Lascia
che ti riassuma la situazione, John», disse ancora
Arsène, le dita strette intorno alle sbarre. «Se
Sherlock dovesse ritrattare la sua versione e venisse rilasciato, i
miei uomini consegneranno alla stampa tutta la verità su
Magnussen, su Sherrinford e sulla sorellina. A saltare allora non
sarà solo la testa di Sherlock, ma anche quella di
moltissime altre persone, compresa la tua: tu eri presente, quando
Sherlock sparò a Magnussen a sangue freddo. (Ho visto i
filmati, quelli veri). Questo fa di te un complice, lo capisci? Ti
toglierebbero Rosie e finirebbe a vivere con degli sconosciuti, nel
migliore dei casi. È questo che vuoi per tua figlia? Io
credo di no».
«Bastardo»,
sibilò il dottore, coi pugni tanto stretti da sentire le
unghie corte graffiargli i palmi. «Tu sapevi fin dall'inizio
che Sherlock si sarebbe sacrificato per noi e hai pianificato
tutto».
«Esatto.
Questa faccenda riguarda solo me e Sherlock, perciò fatti da
parte. È meglio così, credimi».
«Fai
come dice, John», gli diede man forte il detective, anche se
con voce grave.
Non
trovando altre vie d'uscita, John decise di fare la propria proposta al
Ladro Gentiluomo: «Se hai paura che Geneviève
possa finire con una famiglia affidataria che non la ama la
adotterò io».
Arsène
lo guardò con espressione colpita, per poi chinarsi e
scoppiare a ridere tanto forte che le sue risa rimbombarono per tutto
il corridoio.
«Sei
veramente uno spasso, John!».
All'improvviso
calò il silenzio e l'atmosfera si fece talmente pesante e
tetra che un brivido gli percorse la schiena. Trasalì
addirittura quando Arsène tornò a fissarlo
attraverso le sbarre, gli occhi colmi di una furia mai vista prima.
«Anzi
no, sei proprio come Sherlock: un egoista. Anche tu useresti mia
figlia, una ragazzina innocente, per ottenere ciò che vuoi -
la liberazione del tuo amico del cuore. Se Mary fosse
qui...».
«Non
osare. Non osare pronunciare il suo nome».
«Giusto,
perdonami». Tirò fuori il piccolo crocifisso d'oro
che aveva legato al collo e baciandolo ad occhi chiusi
pronunciò in latino: «Requiescat in pace».
Poi tornò a fronteggiarlo, concludendo: «Ad ogni
modo non sono interessato alla tua patetica offerta: in questo momento
la mia bambina sarà già in un luogo
sicuro».
Quelle
parole parvero scuotere il detective dall'apatia in cui era piombato.
Si fiondò contro le sbarre e guardò l'amico con
gli occhi sgranati.
«Che
cos'ha detto?».
«Ha
detto che...».
«Ho
sentito che cos'ha detto! John, devi chiamare subito Lestrade e dirgli
di non lasciare che Geneviève se ne vada con gli assistenti
sociali! Sono sicuramente due impostori mandati da Lupin!».
Il dottor
Watson annuì e senza dire una parola si avviò
verso l'uscita, dato che lì sotto i cellulari non
prendevano.
«Corri,
corri toutou!»,
gli gridò dietro Arsène, dandogli degli
cagnolino.
Rimasti
soli, i due vicini di cella rimasero in silenzio per qualche minuto. Il
primo a parlare fu Sherlock, sussurrando: «Sai, me ne sono
pentito subito».
Arsène
impiegò qualche secondo a capire che si stava riferendo a
Geneviève.
«Non
te lo sto dicendo perché voglio il tuo perdono, ma... voglio
che tu sappia che in quel momento pensavo fosse l'unico modo per farti
uscire allo scoperto, dato che il trucco del furto del dipinto non
è servito. Volevo impedirti di fare qualche sciocchezza e ho
pensato che tenendoti in prigione, magari, avrei guadagnato tempo per
Ganimard».
Il Ladro
Gentiluomo si appoggiò alla porta con le spalle, gli occhi
sbarrati per lo shock. Cercando di contenere il tremore della propria
voce, disse: «Tu eri... eri preoccupato per me,
Sherlock?».
Il
detective non lo affermò, ma nemmeno negò.
«Non avrei dovuto mettere in mezzo Geneviève, o
Molly. Mi dispiace».
«Le
tue scuse non hanno alcun valore per me», mentì
Arsène, stringendo i pugni lungo i fianchi mentre lacrime
silenziose avevano iniziato a rigargli il volto.
«Lo
immaginavo».
Il ladro si
morse le labbra per frenare i singhiozzi e si allontanò
dalla porta. Sherlock si era spinto troppo oltre quella volta, non
poteva perdonarlo così in fretta.
Si
sdraiò sulla dura panca in fondo alla piccola cella e
rannicchiandosi sul fianco destro pensò a sua madre e a suo
padre, a Clarisse, a Clotilde e a Nelly, a tutte le persone che per un
po' avevano ricambiato il suo amore e che non c'erano più, e
si chiese come l'avrebbero giudicato in quel momento: innocente o
colpevole?
Tuttavia
non era certo di voler conoscere la risposta, soprattutto
perché era convinto che nessuno, nessuno al mondo fosse solo
bianco o solo nero. Ogni essere umano era attratto da entrambe le
fazioni ed almeno una volta nella vita si era macchiato di
immoralità, rinunciando alla propria immacolata innocenza.
Tutti gli
esseri umani, fatta forse eccezione per rarissimi casi, erano grigi;
ecco quello che credeva.
Per
Sherlock, nato e vissuto nella luce, sporcarsi le mani con la morte di
Magnussen era stato tanto doloroso da desiderare una punizione e
pensava che il carcere servisse a purificarlo. Non era così
per Arsène invece, il quale era nato
nell'oscurità e, da quando l'aveva scoperto, aveva cercato
in ogni modo di uscirne.
Per lui
l'isolamento non era più sufficiente; al contrario,
l'avrebbe ucciso. Se fosse finito tra le mura di un carcere infatti non
avrebbe più potuto fare del bene e combattere le
ingiustizie, l'unico antidoto che conosceva per debellare o almeno
rallentare gli effetti di quel virus che gli era entrato in circolo da
bambino e aveva condizionato tutta la sua vita.
La sua
più grande paura era di non poter più redimersi
per gli errori commessi, di venir inglobato dal male e morire solo e
pieno di rimpianti, proprio come suo padre.
Fu in quel
momento che ripensò alla preghiera di Grégorie e
si pentì della propria impulsività. Se l'avesse
ascoltato, invece di fare di testa propria...
Cosa sto dicendo?
si rimproverò, asciugandosi le lacrime con una mano e
tirandosi su seduto. Gli
ho promesso che ci saremmo rivisti ed io mantengo sempre le promesse.
Doveva solo
osservare il corso degli eventi e sfruttare la prima occasione
disponibile. Sì, ce l'avrebbe fatta.
Si strinse
le gambe al petto e nascose il volto tra le braccia incrociate, ignaro
che Sherlock, dall'altra parte della parete di cemento, stava in
realtà vivendo i suoi stessi conflitti interiori, o quasi.
***
L'agente di
guardia davanti alla porta della stanza interrogatori non
poté fare nulla davanti all'impetuosità
dell'ispettore Lestrade, il quale lo spinse bruscamente da parte ed
entrò come una furia nella stanzetta illuminata da una
semplice lampada da scrivania.
Molly, con
un polso ammanettato al tavolo, alzò la testa dall'incavo
del braccio e lo guardò con gli occhi arrossati e delle
terribili ombre scure sotto di essi.
«Ti
prego, dimmi che non è come penso che sia. Dimmi che
è tutto un enorme malinteso», esordì
Greg, furioso.
L'anatomopatologa
deviò il suo sguardo e si torturò le labbra.
«Dannazione,
Molly!», gridò ancora l'ispettore, sbattendo le
mani sul tavolo. «Me lo sentivo che quella ragazzina avrebbe
portato solo guai, me lo sentivo!».
«Lei
non c'entra niente», mormorò Molly. «A
proposito, dov'è? Come sta?».
Lestrade la
fissò con sguardo stralunato. «Ti rendi conto,
vero, che rischi di andare in prigione?».
La
scienziata abbassò di nuovo gli occhi, mortificata, e Greg
si sollevò per camminare avanti e indietro davanti al
tavolo.
«Posso
almeno sapere chi è questa ragazzina e perché
tutti si ostinano a proteggerla in questo modo?».
«È
una lunga storia», rispose Molly stancamente.
«Non
andrai da nessuna parte se non inizi a parlare, credimi».
L'ispettore
Lestrade si sedette davanti a lei e cercò i suoi occhi, le
sopracciglia inarcate per invogliarla a confessare tutto.
L'anatomopatologa
si stropicciò il volto con la mano libera e cedette: gli
raccontò di come aveva conosciuto Geneviève, di
come era stata avvicinata da Jean Daspry - una falsa
identità del Ladro Gentiluomo - e di come alla fine, dopo
aver scoperto i suoi legami di parentela con Mary Watson, aveva
accettato di ospitarla a casa sua.
«Mi
stai dicendo che quella ragazzina è la figlia di
Arsène Lupin e contemporaneamente nipote di
John?», ricapitolò Greg, allibito.
Molly si
limitò ad annuire con un cenno del capo.
L'ispettore
si alzò dalla sedia, facendone stridere i piedini sul
pavimento, e tornò a passeggiare davanti al tavolo,
meditabondo. Alla fine prese la sua decisione ed aprì la
porta per chiamare l'agente ed ordinargli di toglierle le manette.
Nello stesso momento, dal fondo del corridoio, l'ispettore che si stava
occupando del caso, avvisato del suo arrivo, gli gridò di
non intromettersi.
«Molly
Hooper non c'entra nulla», esclamò Greg,
strappando di mano all'agente le chiavi e andando lui stesso a togliere
le manette dal polso dell'anatomopatologa.
«Ti
farò passare un mucchio di guai con l'Ispettore Capo, puoi
contarci», lo minacciò il collega.
«E
per quale motivo dovrei finire nei guai? Per aver rilasciato una
persona innocente?».
«Greg,
ti prego», lo supplicò Molly a bassa voce.
Lui la
guardò con sguardo rassicurante, poi tornò a
fronteggiare l'ispettore suo collega.
«Molly
Hooper stava ospitando quella ragazzina perché è
stato Sherlock Holmes a chiederglielo. Probabilmente le ha detto che
era una testimone per qualche caso, o chissà cos'altro, ma
di una cosa sono certo: se Molly Hooper avesse saputo di star
infrangendo la legge avrebbe subito avvisato le
autorità».
I due si
scambiarono un lungo sguardo, al termine del quale il più
giovane sbuffò e se andò a passi pesanti,
borbottando che sarebbe andato comunque dall'Ispettore Capo per
sporgere reclamo contro di lui.
Rimasti di
nuovo soli, Greg aiutò Molly ad alzarsi e la
accompagnò fuori dalla sede di Scotland Yard.
Lei si
massaggiò il polso arrossato e guardandolo negli occhi
aprì la bocca per ringraziarlo, ma le parole che invece le
uscirono furono di tutt'altra natura: «Perché
l'hai fatto? In questo modo sarà Sherlock a finire nei
guai».
Greg
tirò fuori dal cappotto il pacchetto di sigarette e ne
estrasse una. Da quando aveva visto le notizie in TV non aveva avuto
nemmeno il tempo di fumare.
«Non
importa. Accusa più, accusa meno...».
Molly
corrugò la fronte, sinceramente confusa. Lestrade
soffiò una boccata di fumo verso il cielo, realizzando che
lei non era ancora stata informata.
«Sherlock
è stato arrestato questa mattina», le disse.
«Ha confessato di aver ucciso Magnussen, il magnate dei
giornali».
«Che
cosa?». Molly sentì la temperatura abbassarsi di
ulteriori dieci gradi all'improvviso. «Non è
possibile. Lui non farebbe mai...».
«No?
Ne sei proprio sicura?». Lestrade scrollò le
spalle, facendo un altro tiro alla propria sigaretta. «Vai a
casa, Molly. E dimenticati di lui una volta per tutte, è la
cosa migliore da fare».
L'anatomopatologa
avrebbe ribattuto, dicendogli che si sbagliava, che Sherlock non poteva
in alcun modo aver tolto la vita ad un uomo, ma il cellulare di Greg
iniziò a suonare e lui si congedò dandole una
carezza sul braccio. Lanciò a terra la sigaretta e
rientrò, lasciandola sola su quel marciapiede. Molly non si
era mai sentita così abbandonata in vita sua.
«Miss
Hooper?».
Molly si
girò udendo quella voce gentile chiamarla e si
trovò di fronte al lacché di Arsène
Lupin, come l'aveva chiamato una volta Geneviève.
«Il
mio padrone le manda le sue più sentite scuse per non averla
potuta assistere. Posso offrirle un passaggio a casa?».
Scioccata
com'era, Molly accosentì con noncuranza e l'uomo
l'accompagnò verso il SUV nero che più e
più volte aveva visto parcheggiato davanti al suo palazzo.
Seduta sul
sedile del passeggero, Molly non riuscì più a
resistere e coprendosi il volto con entrambe le mani iniziò
a piangere, disperata.
***
Lestrade
rispose alla chiamata di John dopo aver respirato profondamente.
«Se
vuoi che trovi il modo di scarcerare Sherlock sprechi il tuo
tempo», esordì.
«No
Greg, non si tratta di questo».
«Allora
di che si tratta?».
«Geneviève
è stata portata a Scotland Yard insieme a Molly questa
mattina, giusto? C'è la possibilità che due
uomini di Lupin si siano finti assistenti sociali francesi per portarla
via. Non deve succedere».
A quelle
parole l'ispettore si precipitò alla reception e
domandò se Geneviève fosse ancora lì.
«Mi
dispiace, ma è già stata prelevata dagli
assistenti sociali mentre lei era con Molly Hooper, signore».
Stringendo
i denti, Lestrade tornò a rivolgersi a John, ancora
all'altro capo della linea: «Hai sentito?».
«Sì.
Arsène aveva detto che saremmo arrivati troppo tardi e aveva
ragione».
Piombò
il silenzio tra loro e Greg ne approfittò per chiedersi
quanta forza d'animo avesse avuto fino a quel momento l'ispettore
Ganimard con un avversario come quel Lupin.
«Per
quanto riguarda Molly, invece?», gli domandò ad un
tratto il dottor Watson.
«L'ho
mandata a casa dando la colpa a Sherlock», rispose senza un
briciolo di vergogna.
Era
così arrabbiato con lui, per aver tradito la fiducia di
tutti diventando ciò che Donovan aveva sempre profetizzato,
che avrebbe tanto voluto dimenticarsi della sua esistenza.
«Lui
avrebbe fatto lo stesso», ammise John prima di terminare la
conversazione.
***
«Vuoi
un biscotto, bonbon?».
Geneviève
si voltò verso la donna seduta al suo fianco nella berlina e
la guardò con attenzione, cercando di leggerla come
avrebbero fatto suo padre, o Sherlock.
Era
sicuramente anziana, ma gli anni non sembravano aver scalfito la sua
bellezza: la pelle del suo viso era candida e le rughe si vedevano
appena, intorno agli occhi e agli angoli della bocca dipinta di rosso.
I capelli a caschetto erano di un grigio uniforme, quasi argenteo, e
donavano un aspetto ancora più regale al suo volto.
«Li
ho sfornati giusto ieri sera», aggiunse porgendole il
sacchettino con i dolci.
La
ragazzina lo afferrò con cautela, ma alla fine, spinta dai
morsi della fame, se ne portò uno alla bocca e lo
finì in due bocconi.
La donna
sorrise, rendendosi conto di non aver ancora perso il tocco, e
tornò a guardare fuori dal finestrino.
Fu
Geneviève a rompere il silenzio, quando ormai il sacchetto
fu vuoto ed appallottolato tra le sue mani nervose.
«Ho
capito che sei stata mandata da mio padre, ma chi sei?».
La donna la
guardò coi suoi occhi metallici e le rivolse un dolce
sorriso, allungando una mano curata per toglierle delle briciole dalle
guance.
«Il
mio nome è Victoire ed è un vero piacere
conoscerti,
anche se avrei preferito farlo in diverse circostanze».
Geneviève
si scostò, assottigliando gli occhi. «Mio padre
non mi ha mai parlato di te».
«Sì,
lo immaginavo. Io invece so tutto di te, bonbon».
«Puoi
evitare di chiamarmi bonbon,
Victoire?».
Il volto
della donna venne attraversato da un'espressione d'orrore.
«Non devi chiamarmi col mio nome, tesoro».
Geneviève
alzò gli occhi al cielo. Capiva perché gli
affiliati di suo padre fossero così reticenti ad usare i
loro nomi, ma la cosa iniziava a stufarla.
«E
come dovrei chiamarti?», borbottò, appoggiando un
gomito contro il finestrino per tenersi il volto.
«"Nonna"
andrà benissimo».
Geneviève
si voltò a guardarla, incredula alle proprie orecchie, e la
donna si limitò a ridere, tirando fuori dalla grande borsa
il lavoro a maglia che si era portata dietro per passare il tempo.
«Abbiamo
ancora un po' di strada davanti a noi, perciò se hai delle
domande farò del mio meglio per risponderti».
***
«Un
commento, ispettore Ganimard!».
«Ci
racconti che cosa ne pensa dell'arresto di Arsène
Lupin!».
«Come
si sente all'idea che sia stato qualcun altro ad arrestare l'uomo che
le è sfuggito per vent'anni?».
«Crede
che questa sia l'ennesima dimostrazione che la polizia francese ha
bisogno di rinnovarsi?».
«Ispettore
Ganimard, lei ha lavorato con Sherlock Holmes in diverse occasioni.
Sapeva che aveva ucciso un uomo?».
Justin si
fermò bruscamente sul marciapiede e venne immediatamente
circondato da quegli avvoltoi di giornalisti che, non appena giunta la
notizia da oltremanica, si erano appostati sotto il suo appartamento e
l'avevano seguito per tutto il tragitto casa-ufficio.
Quando si
tolse il mozzicone di sigaretta dalle labbra per parlare, gli obiettivi
delle telecamere strinsero sul suo viso e i flash delle macchine
fotografiche gli fecero sbattere ripetutamente le palpebre.
«Se
sapevo che Sherlock Holmes aveva ucciso un uomo, mi chiedete?
Ovviamente non lo sapevo e non lo ritengo nemmeno verosimile».
«Ma
ha confessato!».
Ganimard
abbozzò un sorriso. «Confesserebbe anche lei un
crimine che non ha commesso se le puntassero una pistola alla tempia,
giusto? Si chiama coercizione. Ecco, ora che ha imparato un nuovo
vocabolo possiamo chiuderla qui?».
L'ispettore
allontanò una manciata di microfoni e registratori portatili
e si mosse, ma l'orda di giornalisti lo seguì, ponendo
un'altra dozzina di domande contemporaneamente e creando una grande
confusione.
«Crede
che Sherlock Holmes sia stato obbligato da Arsène
Lupin?».
«Ne
sono convinto. Lupin non usa armi e sapete perchè?
Perché non ne ha bisogno. Quella confessione dev'essere
stato il prezzo per la sua cattura».
«E
Holmes ha accettato, rinunciando alla sua reputazione e alla sua
libertà, solo per portare Lupin davanti alla giustizia? Che
senso può avere?».
Justin si
fermò di nuovo in mezzo al marciapiede e fissò
intensamente il giornalista che gli aveva posto quella domanda.
All'improvviso lo afferrò per i baveri della giacca ed
avvicinò il viso al suo, scatenando ancora di più
i flash delle fotocamere.
«Sono
vent'anni, vent'anni che Arsène Lupin sfugge alla legge! La
maggior parte dei poliziotti di questo paese si è arresa
alla sua forza, ma non io, no! Mi avete dato dello stupido,
dell'incapace, dell'ubriacone, ma io sono uno dei pochi che non si
è piegato davanti a lui! E lo stesso vale per Sherlock
Holmes! Non sono contento che si sia dovuto sacrificare, ma lo ammiro
per ciò che ha fatto. Se fosse possibile prenderei il suo
posto in questo istante e volete sapere perché?».
Puntò l'indice contro l'obiettivo della telecamera
più vicina e gridò: «Perché
tanto la mia vita è stata già rovinata da quel
Ladro Gentiluomo che voi, tutti voi dietro gli schermi, tanto
amate!».
Lasciò
andare il giornalista e gli sistemò la giacca, poi con tono
lugubre esclamò: «Ed ora devo andare al lavoro.
Con permesso».
Si
creò un varco tra i cameramen e i fotografi e quella volta
nessuno osò seguirlo.
Giunto in
Centrale uno strano silenzio cadde tra gli agenti quando
varcò la soglia. La televisione appesa in un angolo della
stanza era accesa sul telegiornale e c'era la sua faccia in primo
piano, i suoi occhi furenti e le velenose parole che aveva gettato
praticamente sull'intero corpo di polizia francese. Abbassò
il capo, pensando che adesso i colleghi l'avrebbero odiato ancora di
più, ma in realtà non fu accolto dai fischi,
bensì da degli applausi.
Esterrefatto,
Justin alzò gli occhi ed incrociò subito quelli
sorridenti di Folefant, in piedi vicino ad una scrivania e con una
penna tra le labbra per avere entrambe le mani libere. Era stato lui ad
applaudire per primo ed aveva coinvolto tutte le persone presenti nella
stanza, dagli inservienti alle segretarie e agli stessi agenti di
polizia che tanto disprezzava.
Rosso
d'imbarazzo, Ganimard raggiunse le scale senza guardare in faccia
nessuno e una volta nella quiete del suo ufficio pensò solo
a concentrarsi sulle indagini che doveva assolutamente portare a
termine. Dubitava infatti che gli aguzzini di Lupin avrebbero fatto i
salti di gioia per il suo arresto. L'ultima volta avevano cercato di
rapirlo ed ucciderlo, perciò era improbabile che i metodi di
giustizia tradizionali andassero loro a genio. Chissà che
cosa potevano inventarsi per colpirlo quella volta.
Si era
appena seduto dietro la scrivania, a sfogliare la pila di vecchi
fascicoli rimasta in sospeso, quando il telefono iniziò a
squillare al suo fianco. Ganimard sospirò e tirò
su la cornetta, rispondendo stancamente: «Gradirei non essere
disturbato, non è giornata».
«E
quando mai lo è?», rispose divertita Yvonne, una
delle segretarie. «Ho in linea Dudouis per
lei».
Confuso,
Ganimard si limitò a dire: «Passamelo».
Aspettò due secondi e poi esordì con un
banalissimo: «Pronto?».
«Justin,
sono io».
Era
effettivamente l'Ispettore Capo, non era uno scherzo. Il brutto
presentimento che l'aveva accompagnato per i due giorni precedenti
tornò a farsi sentire.
«Dudouis,
non riesci proprio a non pensare al lavoro, vero?», fece una
battuta per stemperare la tensione, ma il capo continuò a
parlare con tono estremamente serio.
«Ti
ho visto alla TV, Justin, e...».
«Ti
prego, dimmi che vuoi rimproverarmi. Quando sono entrato in Centrale
sai che cos'è successo? Mi hanno applaudito. Ti rendi conto?
È qualcosa di...».
«Hanno
fatto bene», lo interruppe.
Ganimard
cambiò posizione sulla poltrona, a disagio, e
provò l'irrefrenabile desiderio di accendersi una sigaretta.
Lo fece.
«Ah
sì?», domandò dopo il primo tiro.
«Dalla tua voce non si direbbe. È successo
qualcosa?».
«Sì.
Vedendoti alla TV, ascoltando ciò che hai detto... ho capito
che non posso più andare avanti. Al rientro dalle vacanze di
Natale darò le mie dimissioni e ho intenzione di nominare te
come mio successore».
A Ganimard
sfuggì la sigaretta dalle labbra e rischiò di
dare fuoco al fascicolo aperto sulla scrivania. Sistemato il principio
di incendio, tornò a concentrarsi sulle parole pronunciate
da Dudouis.
«Devo
aver sentito male, perché mi è sembrato di capire
che...».
«Hai
sentito benissimo, Justin. Sei seduto? Devo confessarti una
cosa».
Ganimard
ascoltò in silenzio ciò che l'amico di una vita
gli aveva tenuto nascosto e quando terminò non lo
salutò nemmeno. Posò distrattamente la cornetta e
si coprì il volto con entrambe le mani, a pezzi.
Folefant
bussò alla porta ed entrò senza attendere il
permesso, e trovandolo in quello stato si preoccupò. Justin,
con gli occhi arrossati per via delle lacrime, gli urlò di
andarsene e il ragazzo obbedì senza porre domande, ma rimase
appoggiato accanto alla porta per tutto il tempo, nel caso in cui
l'ispettore avesse avuto bisogno di lui.
***
Geneviève
scese dalla berlina nera con lo stomaco in subbuglio, forse
perché non era abituata a viaggi così lunghi o
forse perché aveva esagerato mangiando tutti quei biscotti.
O ancora - ed era l'ipotesi più probabile - le informazioni
ricevute da Victoire erano state troppe e troppo forti da assimilare in
una volta sola.
La donna le
aveva promesso che avrebbe fatto del suo meglio per rispondere a tutte
le sue domande e la ragazzina aveva chiesto, chiesto e chiesto senza
darsi un freno, spinta dalla curiosità. Voleva sapere tutto
sul passato di suo padre, ma se solo fosse stata avvisata allora
avrebbe cercato di trattenersi un poco.
Durante il
viaggio che le aveva portate davanti ad una villa in mezzo alla
compagna inglese, ad un'ora e mezza da Londra, Victoire le aveva
raccontato della triste infanzia di Raoul - il vero nome di
Arsène Lupin - rimasto senza padre all'età di sei
anni e costretto a vivere con sua madre Henriette della
pietà di altre persone; del suo primo furto ai danni dei
signori Dreux-Soubise, della morte di Henriette e, ovviamente, di come
la stessa Victoire fosse diventata la sua tutrice.
«Io
lavoravo per i signori d'Andresy, ero la cameriera privata delle figlie
nonostante non fossi molto più grande della maggiore,
Henriette. Quando si innamorò di Theophraste, figlio di
operai, io fui l'unica a sostenerla e a convincerla a seguire il
proprio cuore, ma tutto ciò che ottenne fu di essere
cacciata via di casa, disconosciuta dai genitori e senza un soldo. Mi
sentii così in colpa che io stessa poco dopo mi licenziai.
Decisi di cambiare lavoro e mi ritrovai a fare l'inserviente in un
ospedale. Io ed Henriette continuammo a frequentarci e quando Raoul
nacque diventò un vero e proprio nipote per me.
«Vedi,
sia Theophraste che Henriette lavoravano per tirare avanti ed io,
lavorando spesso di notte, mi occupavo di lui durante il giorno. Il
nostro rapporto si consolidò ancora di più quando
il marito di Henriette andò via: ero io ad accompagnarlo a
scuola, ad andarlo a prendere al pomeriggio, ad aiutarlo a fare i
compiti, a portarlo al parco... Io non ho avuto la fortuna di
innamorarmi, perciò non ho mai avuto figli e lui riempiva il
vuoto che sentivo dentro. Quando mi confidò di aver rubato
la collana di Marie-Antoinette ai loro padroni di casa ne fui
scioccata, certo, ma ero anche contenta che l'avesse fatto: quei due
erano spregevoli con la mia amica e se lo meritavano. E neanche a
volerlo fu proprio lei che accusarono e la sua vita si
trasformò ancora di più un inferno, tanto che si
ammalò. Ovviamente Henriette aveva capito subito che era
stato suo figlio a rubare la collana, ma fu con me che se la prese: mi
disse che dovevo sgridarlo e spiegargli che non era giusto, e io non
fui affatto gentile con lei quella sera. Risposi alle sue parole con
rabbia, dicendole che se non era in grado di parlare chiaramente
nemmeno con Raoul, allora lui non aveva bisogno di lei. Le dissi... le
dissi che lui sarebbe stato molto meglio con me e questo mise la parola
fine alla nostra amicizia.
«Non
pensavo che l'avrei più rivisto e vissi per quattro anni col
cuore spezzato, poi venni a sapere della morte di Henriette e lo cercai
disperatamente per tutta Parigi. Visitai ogni orfanatrofio, ogni mensa
per poveri, ogni sotto-ponte. Lo cercai davvero dovunque e quando ormai
avevo perso le speranze accadde l'incredibile: un bambino, nel cuore
della notte, si presentò all'ospedale con i vestiti
strappati ed ematomi su tutto il corpo. Dopo aver ricevuto le cure
necessarie, la polizia lo interrogò ed io, fingendo di
passare davanti alla sua stanza per caso, ascoltai tutto ciò
che raccontò.
«Diversi
mesi prima era stato rapito da un manipolo di uomini e costretto a
prostituirsi, subendo le peggiori torture quando si ribellava o non
soddisfaceva i clienti. Quando gli chiesero come avesse fatto a
liberarsi e a scappare disse che era stato un altro bambino
più grande, di nome Raoul, ad orchestrare la fuga sua e di
altri cinque bambini. Purtroppo però erano stati sorpresi
dagli aguzzini e Raoul aveva preso tempo per permettere ai compagni di
scappare, ma lui era l'unico che alla fine era riuscito a fuggire.
«Io
capii subito che quel Raoul era il mio
Raoul e mi misi subito sulle sue tracce. Dovevo salvarlo ad ogni costo,
capisci? Perciò mi presi un periodo di ferie, mi procurai
una pistola e trascorsi ogni notte nei quartieri più
malfamati a fare domande, spacciandomi per una pedofila, fino a quando
non ottenni le informazioni giuste. Mi presentai all'hotel degli
incontri clandestini, pagai e quando mi chiesero se avessi qualche
preferenza - mon Dieu,
mi sento male solo al ricordo - diedi la descrizione fisica di Raoul
con la speranza che lo mandassero da me. Mi accompagnarono in una
stanza sudicia, con un semplice letto matrimoniale, un lavandino e un
gabinetto, ed aspettai per un'ora intera. Alla fine però ne
valse la pena, perché fu proprio lui a comparire davanti ai
miei occhi».
A quel
punto Victoire aveva abbassato le palpebre ed aperto un po' il
finestrino, lasciando che l'aria fredda e priva dell'inquinamento della
metropoli le accarezzasse il viso e le permettesse di proseguire.
«Era
pelle ed ossa, i suoi capelli biondi erano così lunghi da
farlo sembrare una ragazza e i suoi occhi verdi, un tempo ridenti e
spensierati, erano vacui e pieni di rabbia. Feci fatica a
riconoscerlo... era cresciuto così tanto! Ma quando vidi che
al collo portava il crocifisso di Henriette ne fui certa: era davvero
lui. Quando anche Raoul mi riconobbe mi saltò in braccio ed
io piansi, piansi tutte le lacrime che avevo. Poi mi feci raccontare
tutto ciò che era successo dalla morte di sua madre.
«In
tre anni i servizi sociali lo avevano affidato a diverse famiglie
affidatarie, eppure nessuna l'aveva voluto tenere perché
secondo loro era un bambino troppo problematico. Ad un certo punto
decise di scappare dall'orfanatrofio e visse in strada per un po',
facendo lavoretti di vario genere. Una sera stava andando a lavorare
alla panetteria di cui era riuscito a farsi amico il fornaio, il quale
lo pagava con qualche spiccio e un sacchetto di pane che divideva con
altri bambini vagabondi, quando venne rapito dagli sfruttatori. Era
stato uno dei senzatetto del quartiere ad avvisarli del nuovo arrivato
e loro l'avevano ritenuto una gallina dalle uova d'oro per via del suo
aspetto androgino.
«Non
ti racconterò cosa lo costrinsero a fare, ma sei sveglia, lo
puoi immaginare. Ad ogni modo quella notte ero pronta a portarlo via
con me, uccidendo chiunque si parasse sulla mia strada, ma Raoul mi
convinse ad aspettare. Non poteva abbandonare gli altri bambini al loro
destino e mi chiese di tornare la settimana successiva e quella dopo
ancora, in modo da diventare una cliente abituale e far abbassare la
guardia ai malviventi.
«Ogni
volta per me era uno strazio aspettare un'intera settimana per
rivederlo, pensare a ciò che gli stavano facendo e trovare
nuovi lividi sul suo corpicino. Alla sesta visita era già
trascorso più di un mese e lui mi chiese di aspettare
ancora. Io non ci riuscii e una volta in strada feci una soffiata
anonima alla polizia. Quello che successe fu... fu terribile e me lo
sogno ancora ogni notte.
«Raoul
aveva scoperto che gli aguzzini avevano sul loro libro paga un
poliziotto corrotto e quello che stava cercando di ottenere era il nome
di questo poliziotto, in modo da tenerlo fuori dall'equazione e salvare
tutti, ma io, col mio egoismo, fui la causa della morte di sette
bambini. I malviventi, venuti a sapere della retata, presero con
sé i bambini più richiesti, compreso Raoul,
uccisero gli altri a sangue freddo e diedero fuoco all'hotel per
eliminare le prove. Alla fine furono arrestati dalla polizia, ma solo
perché Raoul riuscì a far uscire di strada il
furgone durante l'inseguimento. Gli agenti li trovarono in lacrime,
legati mani e piedi a qualche metro di distanza dal loro furgone in
fiamme. Vicino a loro c'erano anche una pistola e diversi bossoli.
«Quando
i bambini salvati vennero portati all'ospedale in cui lavoravo e non
vidi Raoul mi si spezzò di nuovo il cuore, pensai di averlo
ucciso e andai nel parco in cui lo portavo sempre a giocare con
l'intenzione di togliermi la vita con la pistola che avevo comprato per
difenderlo. E lui arrivò. Raoul me la tolse di mano e si
inginocchiò nel recinto di sabbia con me. Pensavo che mi
odiasse tanto quanto mi odiavo io, invece mi consolò e mi
disse che l'avevo salvato. Mi spiegò che vedermi in quel
posto squallido dopo tre anni di solitudine, sapere che c'era almeno
una persona al mondo che gli voleva bene e teneva a lui, gli aveva dato
la forza per lottare e pensare ad un nuovo piano, nonostante il primo
avesse causato la sofferenza di molti di loro. E allora io gli dissi
che invece quel suo piano, che lui riteneva fallito, era stato
ciò che aveva salvato e ridato la speranza a me».
Con le
lacrime agli occhi Victoire le aveva accarezzato i capelli biondi e
aveva concluso: «Ci siamo salvati a vicenda, bonbon, e da allora
siamo stati l'uno l'ancora dell'altro. Non lo vedo spesso come vorrei
per via del suo mestiere particolare, ma sono orgogliosa di lui, lo
sarò sempre, e spero che anche tu, un giorno, possa amarlo
come lo amo io».
Geneviève entrò nella villa e si
guardò intorno spaesata, stentando a credere che quella
fosse una delle case sicure di suo padre: l'arredamento era semplice,
quasi spartano, e dopo aver trascorso settimane immersa nel lusso del
Savoy le sembrava strano che Arsène Lupin potesse vivere in
un contesto tanto umile. Poi però pensò che tutto
doveva sembrargli meglio delle condizioni di prigionia in cui aveva
vissuto da ragazzino e il mal di stomaco aumentò.
«Va
tutto bene, tesoro? Sei un po' pallida».
Geneviève
sforzò un sorriso e mentì: «Ho solo un
po' di mal d'auto».
«Oh
cara, mi dispiace. Vatti a stendere un attimo, vuoi?».
«Sì,
va bene».
Victoire la
accompagnò in una delle tante stanze vuote e le
scostò un angolo delle coperte dal letto mentre lei si
toglieva le scarpe ed affondava i piedi nel morbito tappeto di pelo
bianco. Quando si rannicchiò sotto il caldo piumone, la
donna dai capelli d'argento si sedette al suo fianco e le
accarezzò una gamba.
«Mi
dispiace averti raccontato così tanto del passato di tuo
padre, forse non eri ancora pronta», le disse.
«No,
io... te ne sono grata. Lui ha quel modo di dire che ripete sempre,
perciò non me l'avrebbe mai raccontato».
«Il
passato è morto per sempre; il passato non esiste. Questo
modo di dire?».
Geneviève
annuì con un cenno del capo e Victoire sorrise.
«Già.
Sa benissimo che continuare a ripeterlo non cambierà le
cose, ma è il suo modo di proteggersi dal dolore di quei
giorni. E di proteggere quelli intorno a sè,
ovviamente».
«Quando
potrò vederlo?».
Victoire le
rivolse un altro sorriso e si alzò per rimboccarle meglio le
coperte e posarle un bacio sulla fronte. Quindi gliela
strofinò con le dita per levarle il segno del rossetto.
«Presto,
ne sono sicura», le sussurrò. «Ora
riposati, va bene?».
La
ragazzina guardò la donna uscire dalla stanza chiudendosi
piano la porta alle spalle e sospirò fissando il soffitto
dalle travi a vista. Non pensava che sarebbe riuscita davvero a
dormire, ma le bastò chiudere gli occhi per essere
inghiottita dal mondo dei sogni. Fu solo fortuna se non fece incubi.
***
Sherlock
spalancò gli occhi quando sentì dei passi
avvicinarsi alla sua cella e poi lo scatto della serratura. La pesante
porta di ferro si aprì cigolando.
«Sveglia,
principessa! È arrivata la vostra carrozza»,
esclamò il secondino che lo afferrò per il
braccio e lo portò fuori dalla cella.
Arsène
era già nel corridoio, che sbadigliava assonnato.
«Dove andiamo?», domandò.
«Belmarsh»,
rispose Mycroft, sintetico e scuro in volto.
Sherlock ci
avrebbe scommesso. Belmarsh non solo era il più vicino
carcere di massima sicurezza, ma era anche il più attrezzato
per contenere i peggiori criminali: tra le sue mura erano rinchiusi
terroristi affiliati ad Al Qaeda e Isis, serial killer, pedofili e
psicopatici. Insomma, la crème de la crème. Non a
caso era soprannominata la Guantanamo Bay inglese.
Il
consulente investigativo venne affiancato dal fratello maggiore, il
quale gli posò una mano sulla spalla e gli disse:
«La mia testa è appesa ad un filo, ma mi hanno
concesso di portarvi a Sherrinford».
«Quanto
tempo ti serve per pianificare la nostra morte?».
Mycroft
sospirò. «Un paio di settimane. Sherlock, sei
sicuro di quello che stai facendo? Una volta là dentro non
potrai più tornare indietro».
«Sono
sicuro», affermò, gli occhi fissi sul profilo
sorridente di Arsène mentre chiedeva di poter condividere la
cella con Sherlock.
Ad un
tratto il ladro lo guardò con la coda dell'occhio ed
esclamò: «Io prendo il letto di sopra, sia
chiaro!».
Sherlock
abbozzò un sorriso e si lasciò mettere ai polsi
le speciali manette portate da Mycroft: modelli ultra-tecnologici e non
proprio legali.
«Uh,
li ho già visti questi giocattolini!», disse
Arsène, eccitato. Guardò Mycroft e
sussurrò: «CIA, giusto?».
L'Holmes
più grande sospirò con espressione stanca e
parlò con l'adulto della situazione, ovvero Sherlock:
«Sono strette e rigide, tanto che nemmeno i più
abili contorsionisti possono sottrarvisi, e sono elettroniche,
perciò non si possono scassinare con forcine o
altro».
Arsène
fischiò, ammirato, poi provò a spezzarle forzando
i muscoli delle braccia ed arrossandosi in volto per lo sforzo. Smise
non appena una scarica elettrica gli attraversò il corpo,
facendogli perdere il sostegno delle gambe.
Sherlock,
incredulo, fece un passo nella sua direzione, ma Mycroft gli
posò una mano sul petto e guardandolo severamente in volto
disse: «Fai attenzione, sono estremamente sensibili e in
grado di misurare la frequenza cardiaca. Non importa il
perché: che tu sia spaventato, eccitato o stia provando a
correre via, se i battiti del tuo cuore aumentano verrai attraversato
da una scarica elettrica più o meno potente. La stessa cosa
se qualcuno dovesse aiutarti a scappare: al loro interno è
installato un GPS e nel caso in cui ti trovassi a più di
cinque metri di distanza dal controller il teaser ti farebbe
svenire».
Un uomo
completamente calvo alzò quello che ricordava un vecchio
telefono cellulare: ingombrante, con un'antenna lunga diversi
centimetri e dei grossi bottoni colorati.
«Lui
è il sergente Lind. Si assicurerà che arriviate a
Belmarsh tutti interi», spiegò Mycroft.
«Interi
ci arriveremo di sicuro, ma temo puzzeremo di bruciato»,
disse debolmente Arsène, di nuovo in piedi grazie a due
poliziotti armati di fucili MP5.
Mycroft lo
ignorò per guardare negli occhi il fratello minore e
sussurrare: «Tieni duro».
Sherlock
annuì e percorse il corridoio fissando le scapole di
Arsène. Gli tornò alla mente quando aveva
guardato quelle stesse scapole allontanarsi dopo il loro primo scontro.
Allora si era chiesto se avesse fatto bene a lasciarlo andare e
ritornato a casa aveva promesso a se stesso che la prossima volta
l'avrebbe portato dalla parte del bene oppure catturato. Erano passati
diciassette anni e avrebbe dovuto essere felice di essere finalmente
riuscito a fare una delle due cose, ma non lo era. Non
perché avrebbe rinunciato anche alla sua, di
libertà; no, era semplicemente triste che fosse andata a
finire in quel modo piuttosto che nell'altro. Quella vittoria sapeva di
sconfitta, ecco.
Il furgone
blindato che li avrebbe portati alla prigione di Belmarsh li stava
aspettando sul retro dell'edificio, lontano dai giornalisti, e prima di
salire Arsène alzò il volto verso il cielo
già scuro da cui stavano scendendo copiosi fiocchi di neve.
Alcuni di essi si depositarono sulla sua fronte liscia, sui suoi
zigomi, sulle sue palpebre abbassate e sulle sue labbra dischiuse e
Sherlock, guardando quel volto tanto bello ed innocente,
provò un'infinita gamma di sentimenti che non seppe definire
né controllare, ma solo... subire. Quel
difetto chimico a cui nemmeno lui era immune e che più e
più volte l'aveva portato a perdere fu rilevato dalle
manette, le quali gli somministrarono una scossa che gli fece serrare i
denti e cedere le ginocchia.
«Ehi,
che ti è successo?», gli domandò uno
dei poliziotti, afferrandolo per un braccio per tirarlo su e spingerlo
dentro il furgone.
Arsène
fu fatto entrare subito dopo e quando si sedette di fronte a lui
cercò il suo sguardo, con un sorriso malizioso sul volto, ma
Sherlock lo evitò.
Quelle
manette erano il male: tutti i suoi sforzi per nascondere i propri
sentimenti erano inutili, dato che non poteva in alcun modo controllare
l'unico muscolo legato ad essi, e il ladro si sarebbe divertito un
mondo a provocarlo. Ne avrebbe approfittato fino alla fine, poco ma
sicuro.
I due
agenti armati e il sergente Lind, a capo della squadra di trasferimento
e in possesso del controller, li raggiunsero all'interno e quando le
porte del furgone si chiusero con un tonfo iniziarono a muoversi.
***
Geneviève
si era alzata da una mezz'ora, riposata come non si sentiva da giorni,
e stava aiutando Victoire a preparare la cena quando qualcuno
suonò al campanello. La donna rispose al suo sguardo
inquieto con un sorriso e le disse di non preoccuparsi e che aspettava
un ospite.
Alain, il
quale intanto era andato ad aprire, comparve sulla soglia della cucina
ed introdusse il ragazzo che aveva raggiunto la casa di campagna.
«Maurice!»,
gridò la ragazzina, tanto felice di vedere una faccia
conosciuta che gli corse incontro per gettargli le braccia al collo.
Il reporter
impiegò qualche secondo per ricambiare l'abbraccio, ma lo
fece durare poco per via dello sguardo ammonitore di Victoire. Col
volto paonazzo per l'imbarazzo si schiarì la gola e si
scostò, per poi rivolgere un sorriso a Geneviève.
«Sono
contento che tu stia bene. So che dev'essere dura per te, ma sappi
che...».
«Signor
Leblanc!».
Sia Maurice
che Geneviève si voltarono e trovarono la donna dal
caschetto d'argento con le mani sui fianchi e gli occhi metallici in
fiamme.
«Che
cosa c'è?», domandò la ragazzina. Non
ottenendo risposta, perspicace come suo solito, aggiunse:
«Che cosa mi hai tenuto nascosto?».
Victoire
sospirò e si tolse il grembiule per avvicinarsi alla
ragazzina, avvolgerle le spalle con un braccio e portarla con
sé in salotto. Maurice le seguì ad occhi bassi,
colpevole.
La tutrice
di Arsène Lupin le spiegò che suo padre era stato
arrestato quella mattina, insieme a Sherlock Holmes, e la reazione di
Geneviève - c'era da aspettarselo - non fu delle migliori.
Pur di non mostrarsi in lacrime si alzò e si
rifugiò di nuovo nella camera dove aveva dormito,
sbattendosi la porta alle spalle con violenza.
«Mi
dispiace», mormorò Maurice dopo qualche istante di
silenzio, mortificato.
Victoire
sospirò e si addossò contro lo schienale del
divano, le gambe coperte dai collant neri accavallate in modo elegante.
«Presto
o tardi l'avrebbe scoperto comunque», ammise. «Ma
ora veniamo alla ragione per cui sei qui. Quale motivo ti ha spinto a
contattarmi?».
«Arsène
mi ha dato delle ricerche da svolgere, ma purtroppo non ho cavato un
ragno dal buco. Sono venuto a sapere che lei è al suo fianco
da molto tempo, perciò pensavo che avrebbe potuto
aiutarmi».
La donna
sorrise amabilmente, unendo le mani sulle gambe. «Ma
certo».
Maurice,
entusiasta, tirò fuori il pc portatile dalla borsa a
tracolla che aveva lasciato ai suoi piedi e una volta acceso
tornò a guardarla in volto, trepidante.
Victoire
corrugò la fronte, allungando il collo verso di lui.
«Allora? Di che cosa si tratta?», gli
domandò.
Il
giornalista rimase letteralmente a bocca aperta. «Ahm... Non
lo sa?».
«Cosa
dovrei sapere?».
Quella
volta fu Maurice il portatore di brutte notizie e mentre le raccontava
dell'agguato organizzato ai danni del Ladro Gentiluomo e della
cameriera del Savoy assassinata, il volto di Victoire, fino ad allora
giovanile e regale, si trasformò in una maschera di dolore e
tristezza.
«Quello
sciocco, perché non me ne ha tenuta all'oscuro?»,
esclamò alla fine, portandosi una mano a coprirsi una parte
del viso.
Maurice si
alzò dalla poltrona e si spostò con cautela al
suo fianco, sussurrando nel tentativo di confortarla: «Forse
pensava di poter risolvere da solo la situazione e non ha voluto farla
preoccupare».
«Beh,
ha commesso un errore, non pensi? Se avesse chiesto il mio aiuto sin
dall'inizio ci saremmo evitati un sacco di problemi. Al contrario di
lui, io non dimentico».
Il
giornalista sgranò gli occhi dietro le lenti degli occhiali.
«Intende forse dire che...?».
Victoire allontanò
la mano dal volto e lo fissò con quel suo sguardo metallico,
affermando: «So chi sono le persone che vogliono vendicarsi
di mio figlio».
***
Arsène
era rimasto in silenzio per minuti che Sherlock non aveva sperato di
avere e quando parlò lo fece per ammettere:
«Potrei averti detto una piccola bugia questa
mattina».
«A
che proposito?», gli domandò il detective,
accigliandosi.
Il Ladro
Gentiluomo allungò le gambe e sospirò, portandosi
per forza di cose entrambe le mani ai lati della testa per grattarsi un
punto poco sopra l'orecchio, quasi come se fosse imbarazzato.
«Ho
detto che le donne impazziscono per me, facendoti capire che anche
Molly rientrava nel gruppo, ma in realtà lei ha tracciato
dei confini molto netti tra noi. Siamo andati a letto insieme,
sì, ma ha affermato che non si sarebbe più
ripetuto».
Sherlock
cercò di respirare il più tranquillamente
possibile, nel vano tentativo di rallentare i battiti in aumento del
suo cuore.
«Perché
mi stai dicendo tutto questo?».
«Per
farti capire che non ha mai smesso di amarti. Ti ama nonostante tutto e
ti amerà sempre».
Il sergente
Lind abbassò gli occhi sul controller, il quale aveva
iniziato a vibrargli tra le mani per avvisarlo dell'aumento delle
pulsazioni del detective, ma non fece in tempo ad avvisarlo: la scossa
attraversò Sherlock con così tanta forza che si
ritrovò a sbattere la nuca contro la parete del blindato e
Arsène ridacchiò.
«Ops,
colpa mia».
L'uomo lo
trucidò con lo sguardo. «Credi che sia un gioco,
biondino? Prego, divertiti pure quanto vuoi! A me non interessa se
finirete col cervello talmente fritto da non riuscire nemmeno a pulirvi
il culo da soli, ci siamo intesi?».
Il Ladro
Gentiluomo annuì con un solenne inchino della testa, poi si
chiuse le labbra con una zip invisibile ed assunse una posa zen.
Sherlock,
sconvolto e stordito, si passò una mano sulla bocca e lo
fissò ad occhi socchiusi, addossato mollemente contro il
sedile. Percorse tutta la sua figura fino a quando non notò
che con la punta dell'indice e del pollice destro gli stava comunicando
qualcosa in codice morse.
"...sei
qui, magari il tuo uomo smetterà di sorvegliarla, ma io
mantengo le promesse. Molly sarà al sicuro con
Grégorie fino a quando non..."
«Che
cos'hai detto?», lo interruppe Sherlock, con la fronte
solcata di rughe.
I tre
poliziotti lo fissarono, stralunati, e lo stesso Arsène
riaprì gli occhi per guardarlo in faccia, sinceramente
confuso.
«Quale
mio uomo?», specificò il detective.
«Holmes,
ti senti bene?», gli domandò il capo
dell'operazione. «Lupin non ha detto una parola».
Arsène
gli fece segno di fare silenzio portandogli le mani davanti al volto,
poi si addossò di nuovo contro lo schienale e
tamburellò nervosamente le dita sul ginocchio, riprendendo a
mandargli messaggi in codice morse in modo che gli agenti ne
rimanessero fuori.
"Il
senzatetto che ha sorvegliato l'appartamento di Molly da quando
Geneviève vi si è trasferita".
"Io non ne
so niente", ripeté Sherlock usando lo stesso metodo.
"Se non era
uno dei tuoi, allora...".
Non ci fu
bisogno di proseguire. Finalmente entrambi avevano capito che la
risposta alle loro domande era sempre stata sotto ai loro occhi e che
solo loro due, accecati dalla sfida, potevano essere stati tanto
stupidi da non vederla.
Dobbiamo uscire di qui,
si dissero con gli occhi, senza nemmeno aver bisogno del codice morse.
Sherlock si
sforzò di pensare, ma quelle manette erano un problema
intricato da risolvere. Dovevano toglierle, questo era certo, ma dalle
spiegazioni di Mycroft era chiaro che nemmeno due menti come le loro
avrebbero avuto successo. L'unica maniera era convincere gli uomini
della scorta a liberarli o almeno a disabilitare la funzione del
teaser...
Sherlock
alzò lentamente gli occhi su Arsène e lo sorprese
a ridacchiare: gli era venuta la stessa malsana idea. Il detective
respirò profondamente, serrando gli occhi nel disperato
tentativo di trovare una soluzione alternativa. Avrebbe potuto cercare
per tutta la notte, ma avrebbe sprecato tempo prezioso, tempo che Molly
non aveva.
I nemici di
Arsène potevano avere uomini e capitali, ma a quanto a
mentalità erano piuttosto banali: l'avrebbe dedotto pure un
bambino che per incentivarlo ad organizzare una seconda rocambolesca
fuga di prigione avrebbero colpito i suoi punti deboli. E se
Geneviève era davvero al sicuro, allora il bersaglio sarebbe
stato puntato automaticamente sulla schiena di Molly, con cui l'avevano
visto spendere del tempo. Ed era vero che il ladro gli aveva promesso
che l'avrebbe tenuta al sicuro, ma secondo lui era tutta colpa del
detective se in primo luogo si trovavano in quella situazione e non
l'avrebbe aiutato, non quella volta. Doveva farlo Sherlock - doveva
usare il proprio cuore e perdere
per avere una speranza di vittoria.
Arsène
glielo lesse negli occhi che aveva finalmente preso la sua decisione e
sorrise quasi con orgoglio, sistemandosi meglio sul sedile per godersi
lo spettacolo.
«È
stato per colpa, o per merito, di Eurus se ho capito di essere
innamorato di Molly», esordì Sherlock, attirando
su di sé gli sguardi degli agenti di polizia.
«Fai
silenzio», lo ammonì il sergente Lind e
Arsène lo guardò indignato.
«Scherza
vero? È più di un mese che aspetto di sentire
questa storia!».
Quindi
tornò a fissare il rivale, le mani unite sotto il mento, e
gli fece segno di proseguire.
Sherlock
gli raccontò allora del modo in cui sua sorella si era
introdotta nella sua vita e in quella di John, orchestrando un piano
così ben elaborato che alla fine avevano fatto il suo gioco
presentandosi a Sherrinford, dov'erano stati costretti a superare delle
prove che alla fine altro non erano che passi necessari alla sua stessa
salvezza.
«E
in uno di quei test presumo sia stata coinvolta anche Molly»,
esclamò Arsène sfruttando una pausa del
detective, il quale si era fermato perché resosi conto che i
battiti del suo cuore stavano aumentando di intensità.
«Sì»,
rispose, deglutendo.
La scossa
sarebbe arrivata da un momento all'altro, era inevitabile.
«Fummo
mandati in una stanza e al suo interno c'era una bara...».
Nonostante
si fosse preparato, l'elettricità lo fece tremare da capo a
piedi e quando smise rimase per una dozzina di secondi con la testa
ciondolante, il mento contro lo sterno.
«Lei
disse... disse che qualcuno stava per morire», riprese quando
ne trovò la forza. «Mi chiese di scoprire di chi
fosse quella bara, di fare le mie deduzioni, ma fu Mycroft ha trovare
l'indizio chiave: sul coperchio della bara c'era una targa con scritto
"Ti amo"».
Arsène
sospirò ed allungò le braccia per prendergli le
mani tra le sue, ma una scossa lo immobilizzò sul suo
sedile.
«Niente
contatto fisico», esclamò il sergente Lind.
Il Ladro
Gentiluomo abbozzò un sorriso. «Poteva
semplicemente dirlo».
Sherlock
alzò la testa e lo guardò con occhi annebbiati:
raccontare quell'episodio si stava facendo molto più
doloroso del previsto, sia fisicamente che moralmente.
«Eurus
ci mostrò l'appartamento di Molly attraverso delle
telecamere nascoste e ci disse che sarebbe esploso in tre minuti se non
fossi riuscito a farle dire il codice di disinnesco».
«Dovevi
farle dire "Ti amo"», dedusse Arsène.
«Senza spiegarle perché o cosa ci fosse in gioco,
immagino».
Sherlock si
limitò ad annuire e con la lingua ruvida come carta vetrata
continuò: «Molly non rispose subito, lei...
provò ad ignorarmi. Quando accettò la chiamata
però, al secondo tentativo, capii immediatamente che le
avrei causato un dolore immenso facendoglielo fare».
Ormai il
suo cuore era continuamente sulle montagne russe: ogni volta che
riprendeva il discorso il ritmo delle pulsazioni cresceva, la
folgorazione le faceva calare quasi fino a fermarlo e così
via, ancora e ancora.
«Ma
non avevo scelta! Non avevo scelta, capisci?! O quello, oppure sarebbe
morta!».
Un rivolo
di sangue scivolò sul mento di Sherlock: si era morso la
lingua per via delle continue scosse.
«Ehi,
ehi!», gridò il sergente Lind, facendo segno ai
suoi ragazzi di assicurare meglio Sherlock al sedile. «Basta
parlare! Ti stai agitando troppo e il rilevatore ti classifica come una
minaccia».
«Un
uomo innamorato è
una minaccia», esclamò Arsène,
nonostante nei suoi occhi verdi ci fosse della vera preoccupazione per
il rivale. «Non c'è niente che non farebbe per la
donna che ama, assolutamente niente».
«Non
ti ci mettere pure tu ora!».
Arsène
sospirò e chiuse gli occhi. «Très bien.
Ma non volete conoscere la fine della storia?».
«Dimenticati
quello che ho detto prima, okay?», sbottò l'uomo,
agitandosi. «Voi due siete sotto la mia custodia e Dio solo
sa cosa mi succederebbe se vi ridurreste a vegetali!».
«Ma
un modo ci sarebbe, sergente», intervenne uno degli agenti
armati.
«Che
cosa?!», gridò ancora il pelato, rosso di rabbia
ed indignazione. «Non se ne parla nemmeno!».
«Anche
io vorrei conoscere la fine della storia», ammise il collega.
«Insomma... lo vede anche lei che con le scosse che ha
ricevuto fin'ora ogni suo muscolo è praticamente
intorpidito. Che male può fare?».
«Per
come la vedo io potrebbe anche farvi guadagnare qualcosa»,
esclamò Arsène, con un sorriso malizioso.
«Le testate giornalistiche pagherebbero fior di quattrini per
intervistare gli agenti che hanno scortato Sherlock Holmes e
Arsène Lupin in prigione, e ancora di più se
avessero una dichiarazione d'amore come questa...».
I tre si
guardarono, ingolositi dall'idea, e il più difficile da
convincere fu Lind, il quale cedette solo dopo che Arsène
fece danzare le sopracciglia, da bravo diavolo tentatore, ed
esclamò mostrando i polsi ammanettati: «L'ha
sentito anche lei Mycroft: come potremmo liberarci da
queste?».
Il capo
della scorta abbassò gli occhi sul controller e dopo aver
sospirato pesantemente disabilitò la funzione stordente per
le manette di Sherlock.
«Se
fate una sola mossa ambigua, una sola...».
«Oh,
non posso farle una promessa del genere. Sherlock Holmes non ha ancora
ben definito il proprio orientamento sessuale, anche se...».
«Chiudi
quella bocca!».
Il Ladro
Gentiluomo, offeso, si ammutolì e guardò il
detective reprimendo un sorrisino vittorioso: Sherlock ce l'aveva
fatta, anche se la parte difficile doveva ancora arrivare.
Aspettò
un paio di minuti, giusto il tempo sufficiente perché il
consulente investigativo riprendesse fiato, poi finse di guardarsi
l'orologio da polso - gliel'avevano portato via insieme a gran parte di
ciò che aveva addosso - ed esclamò:
«Secondo i miei calcoli adesso dovremmo essere in una zona
abbastanza isolata, perciò se vuoi procedere, Sherlock
caro...».
I tre
poliziotti si voltarono a guardarlo, proprio come aveva previsto, e
Sherlock ne approfittò per tirarsi le ginocchia al petto e
spingere quelli armati verso Arsène. Il ladro si
sganciò rapidamente la cintura e la utilizzò per
soffocare il primo dei due, a cui nel mentre tolse anche il fucile
automatico per usarlo come una mazza contro l'altro. Bastò
un colpo in pieno viso col calcio dell'arma infatti per metterlo k.o. e
farlo cadere accanto al suo collega ormai svenuto, e a quel punto
Arsène puntò velocemente l'MP5 verso l'unico uomo
ancora in piedi: il sergente Lind, armato di controller.
«Ah-ah!»,
lo ammonì con un sorriso minaccioso, posando l'indice sul
grilletto. «Allontani quel dito, monsieur. O
potrebbe scivolare il mio, di dito, e vorrei tanto evitare di
spararle».
«Ho
letto il tuo profilo: non lo faresti mai», provò a
dimostrarsi sicuro il capo della scorta messa fuori gioco, in appena
una manciata di secondi, da quei due uomini eccezionali.
«C'è
una prima volta per tutto», disse Arsène,
scrollando un poco le spalle. «Vuole tentare la sorte,
sergente Lind?».
L'uomo
soppesò le sue parole a lungo, ostentando coraggio ma
sudando copiosamente sul cranio calvo. Alla fine non riuscì
più a sostenere il suo sguardo e gli porse il controller,
arrendendosi.
«Sei
un demonio», mormorò quando Arsène lo
afferrò e lo studiò con occhi brillanti: era
molto semplice, fin troppo, e premendo un solo pulsante le manette si
sganciarono dai suoi polsi con uno scatto.
Massaggiandosi
i segni rossi, il Ladro Gentiluomo gli rivolse un sorriso gentile ed
esclamò: «Demonio, addirittura? No, io sono solo
un uomo. Io cerco semplicemente di combattere come fanno tutti gli
altri e di rimanere vivo in un mondo che ti vuole morto».
Sherlock
gli lanciò un'occhiata perplessa. «È
una citazione?».
«Sì.
Marilyn Manson».
«E
chi sarebbe?».
«Un
cantante metal che ascolta Geneviève».
«E
da quando ti piace la musica metal?».
«Piace
a mia figlia, perciò... Posso sapere perché ne
stiamo discutendo adesso? Abbiamo altro da fare».
Detto
questo Arsène si scusò col sergente Lind e
colpì anche lui alla fronte col calcio dell'arma automatica.
Prima che potesse cadere con un tonfo sul pavimento del furgone ancora
in movimento il ladro lo sostenne e lo fece sedere sul sedile alle sue
spalle, assicurandolo con la cintura. Poi gli prese la radio attaccata
al braccio sinistro ed imitando alla perfezione la sua voce roca disse
ai due uomini alla guida di accostare immediatamente e di aprire le
porte.
«Cos'è,
una specie di test? Ci ha fatto giurare che non avremmo acconsentito a
richieste del genere, nemmeno se provenivano da lei».
Arsène
strinse i denti e con tono infastidito - e non dovette fingere poi
molto - abbaiò: «Dimenticate il giuramento e fate
come vi ho detto! È un ordine!».
L'uomo alla
radio esitò, poi gracchiò:
«Sissignore».
Il furgone
blindato rallentò e il Ladro Gentiluomo si diede da fare per
sollevare uno dei due poliziotti e farlo sedere composto accanto al
sergente Lind, il tutto sotto lo sguardo stanco di Sherlock.
«Hai
fatto un buon lavoro», ruppe il silenzio Lupin, rivolgendogli
un breve sorriso.
«Umpf. Adesso
toglimi le manette, per favore».
«Dopo
che avrò sistemato gli ultimi due. Posso cavarmela da solo,
tu riposati».
Il
detective abbandonò il capo contro la parete, fingendo di
credere alle parole di Arsène.
Il mezzo
finalmente si fermò e il Ladro Gentiluomo tirò su
anche il secondo poliziotto, tenendolo in piedi davanti a sé
come scudo. Il cuore gli correva impazzito nel petto e se solo avesse
avuto ancora addosso le manette tecnologiche avrebbe ricevuto una bella
scossa.
«Stiamo
aprendo!», gridò lo stesso uomo che gli aveva
risposto alla radio.
Arsène
imbracciò meglio il fucile e portò il dito sul
grilletto, respirando profondamente per farsi coraggio.
Le
espressioni sconvolte dei due agenti di polizia erano così
buffe e i loro tentativi di estrarre le pistole per puntargliele contro
così goffi che per poco Arsène non
scoppiò a ridere.
«Non
muovetevi», ordinò, mentre l'aria fredda lo
investiva e gli ridava le energie. Era proprio bello essere liberi.
I due
uomini obbedirono, poi seguendo le istruzioni di Arsène
estrassero lentamente le pistole dalle fondine e le lanciarono oltre il
guardrail.
Si erano
fermati in una piazzola di sosta di quella che sembrava un'autostrada a
più corsie, ma il traffico a quell'ora non era
molto e le auto passavano velocemente accanto a loro, tanto che i
conducenti non avevano il tempo per capire ciò che stava
accadendo.
«Perfetto,
adesso che avete le mani libere prendereste il vostro amico? Dovrebbe
mettersi a dieta secondo me!», esclamò il ladro,
spingendo verso i poliziotti il collega svenuto.
I due lo
presero al volo prima che cadesse di faccia sull'asfalto e
Arsène saltò giù dal mezzo, il fucile
ancora tra le braccia. Ordinò quindi di mettersi seduti
vicino al guardrail e li ammanettò ad esso con le normali
manette in dotazione della polizia metropolitana.
Completata
anche quell'operazione il Ladro Gentiluomo si disfò del
fucile, ma se ne pentì quando si voltò di nuovo
verso il furgone e trovò Sherlock davanti alle porte aperte,
gli occhi di ghiaccio colmi di determinazione e la pistola che doveva
aver preso al sergente Lind puntata verso di lui.
«Holà,
Sherlock, che stai facendo?», disse ridacchiando, cercando di
dimostrarsi tranquillo.
«Non
hai intenzione di togliermi le manette, vero? Il tuo piano non
è cambiato: vuoi affrontarli da solo. Ma non devi».
Arsène
sorrise dolcemente ed abbassò le mani che aveva alzato
istintivamente, portandosele sui fianchi.
«Se
era un'offerta d'aiuto ti ringrazio, ma è il mio passato ed
è compito mio occuparmene».
«Sei
sempre stato testardo», esclamò Sherlock,
stringendo i denti mentre toglieva la sicura. «In questo caso
non mi lasci altra scelta».
Nello
stesso istante Arsène tirò fuori dalla tasca
posteriore il controller delle manette e la sua espressione si fece
altrettanto seria.
«Tu
non mi sparerai, Sherlock. Non feriresti mai intenzionalmente una
persona a cui vuoi bene».
«Io
non ti...».
«Non
mentire, non con me».
Il
detective sospirò e strinse più forte la pistola
nella mano, il dito che tremava sul grilletto. La neve non aveva ancora
smesso di cadere e turbinava intorno alla figura di Lupin come quella
notte di diciassette anni prima, quando incurante del freddo e del
vento si era tolto il lungo cappotto per posarglielo sulle spalle e
stringerlo in un abbraccio.
Le lacrime
gli bagnarono gli occhi e Sherlock li abbassò per un attimo,
ma per il ladro fu più che sufficiente per premere il
pulsante per la riattivazione del teaser. Il detective venne
immediatamente attraversato da una quantità tale di
elettricità che la pistola gli cadde di mano. Solo
l'intervento di Arsène gli impedì di cadere sul
duro manto stradale.
Tenendolo
come se si trattasse di un bambino, con un braccio intorno alla sua
schiena e uno sotto le sue ginocchia, il ladro lo portò
vicino al guardrail, gli tolse le manette high-tech e lo
ammanettò ad esso con un modello standard, poi si
inginocchiò al suo cospetto e gli prese il mento tra le dita
perché lo guardasse negli occhi.
«Mi
dispiace», gli sussurrò, sincero. «Ma
questa storia ha già ferito troppe persone, non posso
permettere che accada qualcosa anche a te».
Sherlock,
nonostante fosse sul punto di svenire e quindi incapace di porsi dei
freni, riuscì ad afferrargli un polso e a biascicare:
«Ti prego, non... non morire».
Arsène
sorrise con tenerezza, gli prese il volto con entrambe le mani e
avvicinando le labbra al suo orecchio citò nuovamente
Shakespeare: «Più
dolce sarebbe la morte se il mio sguardo avesse come ultimo orizzonte
il tuo volto, e se così fosse... mille volte vorrei nascere
per mille volte ancor morire».
Quindi si
scostò ed incrociò ancora il suo sguardo. Si
commosse, leggendovi dentro tutto ciò che il detective
avrebbe voluto dirgli e che non gli avrebbe mai detto - per orgoglio,
ostinazione o chissà cos'altro - e decise che se davvero
stava per andare incontro alla propria morte allora c'era una cosa che
doveva assolutamente fare un'ultima volta. Annullò la
distanza tra i loro volti e lo baciò sulle labbra.
Sherlock si
irrigidì, sorpreso, ma non lo spinse via né si
ritrasse. La sensazione delle sue labbra calde sulle proprie, mentre la
neve continuava a scendere imperterrita facendoli tremare come foglie,
era piacevole come se la ricordava. Ed era arrabbiato per questo - non
avrebbe dovuto piacergli
- specialmente perché l'unico motivo per cui
Arsène si era spinto a tanto era perché riteneva
potesse essere la sua ultima occasione per farlo. Tuttavia Sherlock non
se la sentiva di respingerlo, probabilmente per le stesse motivazioni.
Quando
finalmente Arsène si scostò aveva gli occhi
lucidi di lacrime e sorrideva come uno stupido.
«Vedrò
di non morire», gli disse alzandosi. «Ma se dovessi
davvero lasciare questo mondo puoi farmi una promessa? Promettimi che
dirai a Molly tutta la verità».
Sherlock si
limitò ad annuire con un cenno del capo.
Arsène
sorrise felice e, senza dargli (e darsi) il tempo materiale per
aggiungere altro corse al furgone blindato, scaricò il
sergente Lind e l'altro poliziotto e poi si mise al volante per partire
con una sgommata.
Dopodiché
Sherlock chiuse gli occhi e si abbandonò alla
stanchezza.
|
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Capitolo 22 *** Les jeux sont faits ***
Buona domenica! :)
Allora, temo sia arrivato il momento di avvisarvi: questa storia sta
giungendo al termine. In totale i capitoli sono infatti 24, incluso
l'epilogo, e in questo leggerete finalmente il faccia a faccia di
Arsène e i suoi aguzzini. La storia originale di Maurice
Leblanc, per chi volesse leggerla, si intitola "La trappola infernale".
Anche in questo capitolo
vengono descritte scene di
violenza,
perciò attenzione. Preparate anche i
fazzolettini, perché leggerlo non sarà affatto
facile. E' stato difficile per me scriverlo,
perciò... fidatevi.
Voglio citare due canzoni in particolare che mi hanno aiutata molto
durante la stesura: "Long defeat" dei Thrice e "Go to War" dei Nothing
More. Vi consiglio di ascoltarle, perché meritano. Fanno
parte della playlist spotify che ho creato apposta, se volete darci
un'occhiata potete trovarla a questo link.
AH! Mi è stato fatto notare che nel capitolo scorso mi sono
dimenticata di citare il racconto di Doyle "L'Interprete greco" in cui
si parla del professor Melas.
Detto questo mi eclisso per lasciarvi alla lettura. Ringrazio di cuore
tutti quelli che sono arrivati fino a qui: siete dei compagni di
viaggio meravigliosi. ♥
Alla prossima settimana!
Vostra,
_Pulse_
_______________________________________________________________
22. Les jeux sont faits
Grégorie aveva portato una Molly Hooper in lacrime a casa,
accompagnandola addirittura fino all'interno del suo appartamento, e
poi ci era rimasto, invitato dalla stessa donna. Lui aveva accettato,
stanco di trascorrere ore ed ore in auto.
Molly si era chiusa a chiave nella sua camera da letto e da quella
mattina vi era uscita solo una volta, precisamente quando il dottor
Watson era andato a farle visita per sapere come stava e scusarsi per
tutti i problemi che lui e Sherlock le avevano causato.
A proposito del detective, l'anatomopatologa gli aveva rivolto una sola
domanda: «È vero che l'ha ucciso?». John
aveva esitato, ma alla fine aveva annuito con espressione rammaricata.
Quando se n'era andato Grégorie aveva sentito Molly
piangere, gridare, rovesciare mobili e ancora piangere, per ore, fino a
quando la stanchezza non aveva preso il sopravvento.
Lui invece si era accomodato in salotto, davanti alla TV, e aveva
seguito tutte le edizioni speciali e gli approfondimenti che i canali
di informazione avevano trasmesso a seguito dell'arresto di
Arsène Lupin e Sherlock Holmes, due personalità
magnetiche e controverse che nel tentativo di prevalere l'una
sull'altra erano arrivate a sconfiggersi a vicenda.
Grégorie tuttavia non era d'accordo con i mass-media:
Arsène gli aveva promesso che si sarebbero rivisti,
perciò era sicuro che avrebbe trovato il modo per uscire di
prigione e tornare da lui. L'ultima volta ci erano voluti sei mesi, ma
non gli importava quanto tempo ci avrebbe messo: l'avrebbe aspettato
fino alla fine dei suoi giorni.
Si stava quasi appisolando sul divano quando gli arrivò la
notifica di un'e-mail. La aprì e lesse sconvolto
ciò che gli era stato comunicato: l'identità
delle persone che volevano vendicarsi di Arsène Lupin. In
allegato trovò anche le scansioni di vecchi articoli di
giornale che avevano commentato la vicenda e le foto dei protagonisti
modificate da François con un programma di invecchiamento.
In particolare lo colpì la trasformazione di un ragazzino,
il nipote della vittima, il cui identikit non solo combaciava
perfettamente con l'aspetto della finta cameriera del Savoy ma anche
con quello che avevano sempre creduto fosse un senzatetto assoldato da
Sherlock Holmes per tenere d'occhio l'appartamento di Molly Hooper.
Grégorie si alzò di scatto dal divano e corse
alla finestra che dava sulla strada, trovando il ragazzo seduto sulla
solita panchina. Quella volta però alzò lo
sguardo ed incrociò il suo con intenzione, confermando ogni
suo sospetto: erano stati fregati.
«Miss Hooper!», gridò, dirigendosi a
passo spedito verso il corridoio.
Picchiò alla porta della sua camera da letto con il pugno e
la chiamò nuovamente. La donna gli aprì dopo
qualche secondo, il volto stravolto.
«Che cosa c'è?», mormorò con
poca voce.
«La sua vita è in pericolo. Deve andarsene subito
da qui», esclamò afferrandola per un braccio,
senza darle nemmeno il tempo per pronunciarsi.
«Deve salire sul tetto e saltare su quello dell'edificio
accanto, ha capito? Da lì potrà scappare senza
problemi. Raggiunga il Savoy Hotel, là sarà al
sicuro».
Le infilò il cappotto e la spinse fuori dalla porta, per poi
concentrarsi sulla pistola che aveva estratto dalla fondina che teneva
nascosta all'interno della giacca.
Molly però gli afferrò le mani e guardandolo
dritto negli occhi gli disse: «Vieni con me».
Grégorie abbozzò un sorriso. «Non
posso, madmoiselle.
Le devo dare il tempo per fuggire e questo è l'unico modo.
Adesso vada, su».
Molly abbassò gli occhi e si avviò verso le scale
che portavano al tetto, senza più voltarsi indietro per
paura di cambiare idea.
L'uomo coi baffi si fece coraggio con un respiro profondo e con la
pistola stretta tra le mani scese lentamente le scale, rasentando il
muro.
Giunto nell'androne chiuse gli occhi ed aprì il portone, ma
non vide più nessuno sulla panchina dall'altro lato della
strada. Fece un passo verso l'esterno e un colpo improvviso al braccio
gli fece perdere la presa sulla pistola. Il ragazzo, coi lunghi capelli
biondi nascosti sotto il cappuccio della felpa, sfruttò la
sorpresa di Grégorie per sferrargli un calcio sul ginocchio
destro, facendoglielo piegare verso il pavimento, ma l'uomo coi baffi
reagì lanciandosi contro di lui come un rugbista.
Ci fu una violenta colluttazione, in cui entrambi cercavano di
prevalere sull'altro e intanto provavano ad avvicinarsi alla pistola,
caduta sulla scalinata d'ingresso.
Gabriel - così si chiamava il ragazzo - era all'apparenza
magro ed esile, ma aveva una forza notevole, tanto che
Grégorie ad un tratto ne fu sopraffatto. Si
ritrovò infatti steso sul pavimento, con la testa che
sporgeva oltre il primo scalino bagnato di neve, e il biondo, a
cavalcioni su di lui, gli serrò entrambe le mani intorno
alla gola per strangolarlo. L'uomo coi baffi ne approfittò
per allungare un braccio alla ricerca della pistola, ma la mossa non
sfuggì a Gabriel, il quale cercando di impedirglielo
finì per perdere il vantaggio ottenuto. Grégorie,
con un colpo di reni, riuscì a
capovolgere la situazione. Entrambi toccarono il calcio della pistola,
tuttavia il ragazzo, col volto paonazzo per la mancanza d'aria, non si
arrese e riuscì a tirargli una ginocchiata all'inguine che
gli permise di avere la meglio.
Partì un colpo che echeggiò per tutta la via e
Grégorie alzò il capo per guardare Gabriel negli
occhi, incredulo tanto quanto lui; poi li abbassò verso il
proprio addome, dove si stava allargando rapidamente una macchia di
sangue rosso scarlatto.
«Non è possibile», mormorò,
iniziando a sentire il dolore paralizzante della ferita d'arma da
fuoco. «No, non posso... non posso morire
adesso...».
Il ragazzo lo spinse via da sè e si alzò in piedi
per fissarlo con i grandi occhi neri spalancati, il fiato corto e il
sangue che colando dal naso tumefatto gli stava macchiando le labbra e
i denti bianchi. Quindi lo afferrò per le spalle e lo
trascinò all'interno del palazzo, addossandolo contro la
parete su cui erano fissate le buche per le lettere dei condomini.
Grégorie si portò una mano sulla ferita nel vano
tentativo di bloccare l'emorragia, poi sollevò lo sguardo
verso Gabriel, il quale lo evitò per correre su per le
scale. Aveva sprecato fin troppo tempo.
Aprì la porta dell'appartamento di Molly Hooper, il suo
bersaglio, e lo trovò vuoto. Era riuscita a fuggire e sua
zia non ne sarebbe stata felice, per niente.
Quando aveva appreso dell'arresto di Lupin era andata su tutte le furie
e gli aveva ordinato di tenere d'occhio la figlia e l'anatomopatologa,
in modo da poter rapire una delle due e costringerlo ad evadere.
Geneviève era stata prelevata da Scotland Yard dagli
assistenti sociali, mentre Molly era stata semplicemente mandata a casa
con un solo uomo di Lupin a proteggerla, rendendola l'obiettivo
perfetto.
Gabriel si portò le mani tra i capelli, pensando alla
prossima mossa da fare. Non poteva tornare da sua zia a mani vuote,
l'avrebbe di certo punito.
Il televisore ancora acceso in salotto, sintonizzato su un canale di
informazione, gli fornì l'aiuto di cui aveva bisogno: la
polizia era stata appena informata che il furgone blindato su cui
viaggiavano Arsène Lupin e Sherlock Holmes, diretti verso il
carcere di massima sicurezza di Belmarsh, era stato dirottato dallo
stesso Ladro Gentiluomo, il quale ora era in fuga.
Forse era stato proprio lui ad avvisare il proprio uomo. Che finalmente
avesse trovato il bandolo della matassa?
In quel caso Gabriel non aveva più tempo da perdere. In
cucina svuotò i cassetti fino a trovare un pezzo di carta e
una penna e con scrittura frettolosa lasciò un messaggio al
ladro, nella speranza che si precipitasse lì. Quindi
tornò dall'uomo a cui aveva dovuto sparare e lo
trovò semi-svenuto, col cellulare stretto nella mano destra,
macchiata di sangue.
Per quanto gli dispiacesse doverlo lasciare lì
così, in bilico tra la vita e la morte, doveva scappare
prima dell'arrivo dei rinforzi, limitandosi a pregare perché
non morisse.
***
Arsène sapeva che il furgone blindato era dotato di GPS e
che avrebbe attirato l'attenzione, perciò una volta
rientrato in città era riuscito a cambiare mezzo tagliando
la strada ad un motociclista il quale, riconoscendolo, gli aveva
gentilmente prestato il veicolo a due ruote.
Con la moto si era diretto verso l'appartamento di Molly Hooper,
sfrecciando in mezzo al traffico dei nottambuli, ma capì di
essere arrivato tardi quando togliendosi il casco notò delle
macchie di sangue fresco sugli scalini che portavano all'androne del
palazzo.
Imprecò in francese ed entrò, trovandosi di
fronte ad una scena che si sarebbe presto aggiunta a quelle che
già infestavano le sue notti, costantemente agitate
nonostante i sonniferi.
«Grégorie», mormorò,
crollando in ginocchio al suo fianco. «Grégorie,
mi senti? Grégorie, rispondimi!».
Guardò il sangue che gli impregnava la camicia e la
spaventosa pozza al suo fianco, sentendo il cuore battergli
furiosamente in gola mentre le lacrime iniziavano a bagnargli le guance.
«Grégorie!», singhiozzò
cingendogli la testa con le braccia.
«Padrone...».
Il Ladro Gentiluomo sbarrò gli occhi e trattenne il respiro,
prendendogli il volto per trovarlo ad occhi socchiusi e con un debole
sorriso sulle labbra.
«Grégorie, grazie al cielo!».
«Avete... mantenuto la promessa», aggiunse,
tossendo e macchiandogli la camicia di sangue.
«Ma certo, certo che l'ho mantenuta. Una promessa
è una promessa».
L'uomo si aggrappò alle sue braccia con le ultime forze
rimastegli e col capo sulla sua spalla sussurrò il suo nome:
«Arsène».
Il ladro sentì il proprio cuore frantumarsi in mille pezzi.
Grégorie non l'aveva mai chiamato per nome, mai, e
Arsène ne era stato in parte contento, dato che quello non
era il suo vero nome. L'uomo aveva trascorso dieci anni al suo fianco,
eppure non gli aveva mai rivelato nulla di sé, nemmeno un
dettaglio insignificante come quello, a cui però il compagno
teneva particolarmente. Per assurdo l'aveva fatto con Molly Hooper, la
donna amata dal suo più grande rivale. Era pazzo? Forse.
«Raoul», singhiozzò, posando la fronte
contro la sua. «Il mio vero nome è
Raoul».
Grégorie parve rianimarsi: i suoi occhi si fecero
più grandi e luminosi, il suo sorriso più bello.
«Raoul», ripeté.
Pronunciò il suo nome di battesimo fino a quando ne ebbe le
forze. Poi, quando la morte lo prese con sé, si
abbandonò contro il suo petto e Arsène lo strinse
più forte, piangendo e fremendo di rabbia allo stesso tempo.
Fu quella rabbia cocente a dargli la forza per lasciare il fianco del
compagno e correre nell'appartamento vuoto dell'anatomopatologa.
Sul ripiano in marmo dell'isola della cucina trovò un
biglietto indirizzato a lui che diceva: "Se vuoi rivederla viva vieni a
questo indirizzo. Da solo". Lo memorizzò, poi si
lavò le mani del sangue dell'amico e col telefono fisso
chiamò il Savoy Hotel per impedire ai suoi uomini di
mettersi in mezzo.
Quindi scese le scale a precipizio, salutò
Grégorie con un delicato bacio sulla fronte, raccolse la
moto che aveva lasciato sul bordo del marciapiede e, deciso ad
affrontare il proprio passato una volta per tutte, sfrecciò
di nuovo nella notte resa più silenziosa grazie alla neve.
***
Molly era appena riuscita a saltare sul tetto dell'edificio che
ospitava un altro condominio quando sentì l'eco dello sparo.
Il cuore le salì ancora più su nella gola e si
sforzò di pensare che fosse stato l'uomo coi baffi a
sparare, ma qualcosa le diceva che non era così. Tuttavia
non si fermò e corse e corse, senza nemmeno sapere quale
direzione avesse preso. Alla fine non andò al Savoy Hotel,
bensì in un luogo in cui per forza di cose sarebbe stata al
sicuro: Scotland Yard.
Un paio di agenti la riconobbero e vedendola così turbata le
chiesero cosa fosse successo, ma lei disse che avrebbe parlato solo con
l'ispettore Lestrade. L'uomo, nonostante fosse ormai notte fonda, era
rimasto nel suo ufficio a pensare e una volta avvisato si
presentò alla reception, dove Molly si rifugiò
tra le sua braccia e cedette ad un pianto liberatorio.
Greg la portò subito nel suo ufficio ed aspettò
che si calmasse, poi si fece raccontare nei minimi dettagli tutto
quello che era successo.
Molly aveva giusto terminato il proprio racconto quando un agente
bussò alla porta per avvertire l'ispettore che, primo, un
uomo era stato trovato morto nel palazzo della donna, ucciso da un
colpo d'arma da fuoco all'addome (rendendo purtroppo veritiera la sua
deposizione), e che, secondo, la persona che stavano cercando di
passargli al telefono fisso - che aveva lasciato squillare a vuoto per
parecchi minuti - era Mycroft Holmes.
«Sembra piuttosto urgente, ispettore».
Greg sospirò pesantemente, pensando che quella giornata non
sarebbe mai finita, e dopo averle chiesto scusa per l'interruzione
andò a tirare su la cornetta.
«Che cosa c'è?», sbottò, ma
lentamente la sua espressione scocciata venne sostituita dalla
preoccupazione.
Dopo due minuti di conversazione in cui lui non aprì
più bocca, Lestrade tornò a fissare Molly, la
quale tirò su col naso e chiese: «Che
cos'è successo?».
«Sherlock. A quanto pare Lupin ha dirottato il furgone
blindato su cui viaggiavano e ha lasciato lui e i poliziotti della
scorta sul ciglio della strada. Adesso sono tutti all'ospedale e
Sherlock... Sherlock sembra grave».
L'anatomopatologa abbassò gli occhi sulle mani unite sulle
gambe, strette intorno ad un fazzoletto appallottolato, poi si
alzò e mostrò una nuova forza nello sguardo.
«Che cosa stiamo aspettando?», gli
domandò, serissima. «Andiamo da lui».
«Sei sicura? Forse sarebbe meglio se tu...».
«Sto bene. Andiamo».
Lestrade sospirò ed annuì, seguendola fuori
dall'ufficio col cappotto appeso al braccio.
***
«Signora, è arrivato».
Dietro il pc portatile posato su un angolo della scrivania, la zia di
Gabriel sorrise maligna e guardò Arsène Lupin
mentre veniva seguito dalle varie telecamere di sorveglianza installate
in ogni angolo dell'hotel-casinò.
Pigiò il tasto dell'interfono con le sue dita tozze e con
tono quasi divertito disse: «Molto bene. Dite agli addetti
del ricevimento di consegnargli il buono per il casinò.
Là ci sarà Gabriel ad attenderlo».
Il nipote, sentendosi nominare, irrigidì la schiena e con
mani ancora tremanti si sistemò la coda di cavallo, pronto
ad andare al suo posto.
«Te la senti?», gli chiese la donna all'improvviso,
gli occhi fissi sulle inquadrature delle telecamere: Lupin si era
appena accostato al bancone della reception e l'uomo dall'altro lato
gli stava porgendo una carta dorata.
«Sì, certo», rispose Gabriel, stupito
dalla sua domanda. Sua zia non chiedeva mai, ordinava e basta.
«Aspetto questo momento da vent'anni»,
spiegò, rispondendo alle sue inespresse
perplessità. «Se qualcosa dovesse andare storto
non te lo perdonerò».
Il ragazzo deglutì, ma fece del suo meglio per non mostrare
il nervosismo. Chinò un poco la testa ed affermò:
«Non ti deluderò, zia».
Dopo un grugnito, la donna gli fece segno di andare e Gabriel non perse
tempo: lasciò l'ufficio, chiudendosi delicatamente la porta
alle spalle, e prese l'ascensore dipendenti per raggiungere il quinto
piano, dov'era situato il casinò.
Entrò nella grande sala, piena di gente seduta intorno ai
tavoli da gioco, ai banconi dei tre bar e alle slot-machines. Decine di
cameriere in succinti vestitini rossi e verdi e papillon al collo
giravano con vassoi di flûte e stuzzichini, offrendoli agli
ospiti. Gabriel impiegò poco per individuare
Arsène e ad un certo punto, come se avesse avvertito il suo
sguardo su di sé, il Ladro Gentiluomo si voltò
con precisione verso di lui, inquadrandolo coi suoi occhi verdi.
Nonostante la folla non si persero mai di vista e insieme giunsero
davanti al tavolo della roulette, dove si fronteggiarono divisi dal
lungo tavolo dal tappeto verde.
Gabriel fermò bruscamente il giro della roulette e prendendo
di mano il rastrello dal collega fece piazza pulita di tutte le fiches
posizionate sui vari numeri, scatenando il malcontento dei giocatori. A
Gabriel però bastò uno sguardo, nero come la
pece, per farli tacere intimoriti e costringerli a cambiare tavolo.
Arsène guardò i precedenti giocatori
allontanarsi, poi tornò a posare gli occhi in quelli del
ragazzo e con cautela si sedette sullo sgabello che gli era stato
indicato.
«Non sono in vena di giocare», disse, tenendo a
freno la rabbia.
Gabriel non rispose e gli consegnò una pila di fiches,
squisitamente rosse. Arsène ne prese una e se la
rigirò tra le dita, poi chiuse un occhio per prendere la
mira e gliela lanciò addosso con precisione, colpendolo in
fronte.
Il croupier, a parte alzare lo sguardo su di lui con fare annoiato, non
reagì.
«Sei stato tu ad uccidere quella cameriera e a rubare il
quaderno di mia figlia, dico bene? Perché? Chi
sei?».
Gabriel gli rivolse un candido sorriso ed indicando il tavolo verde
esclamò in un francese perfetto: «Faites vos jeux».
Arsène strinse i pugni e respirò profondamente
col naso per calmarsi. «Se giocherò... poi mi
porterai da Molly Hooper?».
Il ragazzo gli ripeté di puntare sui numeri e il Ladro
Gentiluomo non poté fare altrimenti. Avrebbe giocato e
avrebbe vinto, ad ogni costo.
***
Mycroft odiava vedere Sherlock in un letto d'ospedale e gli ospedali in
generale: gli ricordavano i tempi in cui avevano provato a far
internare sua sorella e quelli in cui suo fratello veniva ricoverato
d'urgenza almeno una volta a settimana per overdose.
In quell'occasione gli tornò alla mente il giorno in cui era
giunto alla conclusione che solo una distrazione, un nuovo stimolo,
potesse tenerlo lontano dalla droga e aveva deciso di organizzargli un
viaggio in Francia, dove il nome di Arsène Lupin stava
iniziando ad essere sulla bocca di tutti. Di certo aveva ottenuto il
suo scopo - il Ladro Gentiluomo l'aveva tenuto sufficientemente
occupato - ma allora non avrebbe mai immaginato che metterlo sulla sua
strada li avrebbe portati a quel punto.
«Mycroft!».
L'uomo si voltò e sforzò un sorriso.
«Ispettore Lestrade, dottoressa Hooper», li
salutò. «Non era necessaria la vostra
presenza».
«Scherza, vero?», esclamò Greg,
imbronciato.
«Come sta?», chiese invece Molly, sporgendosi verso
la finestrella da cui si poteva intravedere l'interno della
stanza: una lampada da comodino dalla luce calda, quasi rosata,
illuminava il volto inespressivo di Sherlock, addormentato.
«I dottori dicono che è in una specie di
coma».
Lestrade rimase letteralmente a bocca aperta. «Che
cosa?».
«Il neurologo ha intenzione di effettuare ulteriori esami, ma
l'ipotesi più valida al momento è che si sia
ridotto in questo stato per via di una dose eccessiva di scosse
elettriche».
«Non capisco. Com'è potuto succedere?».
Mycroft scosse il capo, afflitto. «Temo sia di nuovo colpa
mia. Avrei dovuto immaginare che Arsène ne avrebbe
approfittato...».
Il maggiore degli Holmes raccontò loro delle manette
high-tech ricevute in prestito dalla CIA, del loro funzionamento e di
ciò che avevano raccontato i membri della squadra di
trasferimento che, poco ma sicuro, sarebbero stati degradati a lavori
d'ufficio per il loro comportamento sconsiderato.
«A quanto pare Lupin e Sherlock si sono messi d'accordo per
evadere e mio fratello si è fatto folgorare appositamente
parlando dei suoi sentimenti per lei, dottoressa Hooper».
Molly, con una mano posata sul vetro freddo, si voltò verso
Mycroft con gli occhi grandi e pieni di lacrime.
«Quindi sarebbe colpa mia se Sherlock subisse dei danni
permanenti o, peggio, non si dovesse più
risvegliare?», domandò con voce tremante, ad un
passo dallo scoppiare in singhiozzi.
«Non lo pensare nemmeno», provò a
rassicurarla Greg, ma lei cacciò via la sua mano e guardando
negli occhi il maggiore dei fratelli Holmes chiese di poter andare da
lui.
Mycroft acconsentì con un breve cenno del capo e Molly non
se lo fece ripetere due volte: superò i due agenti armati di
guardia alla porta, l'aprì e delicatamente se la chiuse alle
spalle. Respirò profondamente per farsi coraggio e
posò gli occhi sul suo corpo immobile, sentendo una fitta
all'altezza del cuore quando si rese conto che aveva entrambi i polsi
ammanettati alle sbarre del letto. Era in coma, per l'amor di
Dio!
Portò una sedia al lato sinistro del letto, in modo da dare
le spalle alla finestra che dava sul corridoio, e con le lacrime che
ormai le rigavano il volto gli prese una mano tra le sue.
«Sherlock», sussurrò. «Ti
prego, apri gli occhi. Ti scongiuro».
Il detective non ebbe alcuna reazione e lei nascose il viso nell'angolo
del braccio posato contro la sbarra, col cuore a pezzi e la gola in
fiamme.
«Mi dispiace. Mi dispiace per non averti ascoltato, per
averti dato del codardo, per non averti capito... Io volevo solo...
volevo che le cose tornassero come prima».
Rimase in quella posizione per tanto, troppo tempo; esaurì
le lacrime ed era quasi sul punto di addormentarsi, provata da quella
giornata infinita, quando le dita di Sherlock si mossero, facendola
sobbalzare. Le sue ciglia fremettero e Molly le guardò
trattenendo il respiro, fino a scorgere le sue iridi azzurre.
«Sherlock. Oh, grazie a Dio!». Le scappò
persino una risata mentre si chinava sulla sua mano per baciarne il
dorso.
Il consulente investigativo ricambiò il suo sguardo e la sua
fronte si increspò.
«Ci conosciamo?», le chiese poi, con la voce
arrochita.
Il sorriso le abbandonò la bocca e lo shock le fece mollare
la presa sulla sua mano, la quale cadde inerte sul materasso. Molly si
alzò dalla sedia ed inciampandoci si diresse verso la porta,
sotto lo sguardo più che confuso di Sherlock.
Di nuovo in corridoio, lo percorse fino ad imbattersi in Mycroft e
Lestrade, vicini al distributore automatico di bevande. Al maggiore
bastò leggere la sua espressione per capire che il fratello
si era svegliato, mentre Greg la prese per le spalle e le chiese
perché fosse tanto turbata. Molly scosse il capo, incapace
anche solo di dirlo ad alta voce, e si lasciò stringere in
un abbraccio.
***
«Va bene, grazie».
Victoire terminò la chiamata con espressione stizzita e si
voltò verso Maurice Leblanc, addossato allo schienale del
divano con le braccia conserte e gli occhi che l'avevano seguita
passeggiare su e giù per tutta la durata della conversazione
telefonica.
«Hanno detto che Arsène li ha contattati
dicendogli di starne fuori», gli riassunse, tornando a
sedersi al suo fianco con un diavolo per capello.
«Che cos'ha intenzione di fare?», le chiese il
reporter.
La donna sospirò. «Mi fiderò di mio
figlio anche questa volta, non posso fare altrimenti».
Geneviève si ritrasse e tornò nella camera da
letto a passo felpato. Ne era uscita circa venti minuti prima e aveva
origliato gran parte della storia raccontata da Victoire, scoprendo
così l'identità delle persone che volevano
vendicarsi di suo padre. Il loro era un rancore che si era alimentato
con gli anni e per raggiungere il loro scopo si erano spinti ad
uccidere, perciò dubitava che lui da solo potesse
sconfiggerli. Gli uomini dell'organizzazione e la stessa Victoire come
facevano a non rendersene conto? Ma lei non se ne sarebbe stata con le
mani in mano, non avrebbe potuto.
Recuperò lo zainetto con i pochi effetti personali che la
polizia le aveva permesso di prendere con sé prima di
portarla a Scotland Yard e che Alain le aveva lasciato in stanza mentre
dormiva e tirò un grande sospiro di sollievo quando
all'interno di una tasca nascosta trovò il cellulare usa e
getta che le aveva dato Grégorie. Il suo numero era il primo
della rubrica, sotto il nome di "Baffoni", e fu lui che
chiamò.
Il telefono squillò e squillò, tanto da farle
temere che non le avrebbe risposto, ma alla fine una voce familiare
esclamò un timoroso: «Hello?».
Geneviève si avvicinò alle ampie finestre che
davano su un prato che si estendeva a perdita d'occhio e
cercò di fare mente locale. Alla fine ricordò a
chi appartenesse, nonostante l'avesse visto una volta sola.
«François?», chiese stupita. Uno degli
hacker di suo padre, un ragazzo di pochi anni più di lei e
di fatto il più giovane membro di tutta l'organizzazione.
«Miss Geneviève! Mi ha riconosciuto!».
Aveva intuito subito che si era preso una cotta per lei e il suo tono
di voce leggermente stridulo ne fu la conferma definitiva. La ragazzina
abbozzò un sorriso, lusingata, ma al momento non aveva tempo
per flirtare.
«Come mai hai risposto tu? Dov'è
Grégorie?».
«Lui... ehm... ecco, lui è...».
«François, ti prego, ho bisogno di parlargli. Mio
padre è in pericolo e...».
«Grégorie è morto, miss».
Geneviève sentì il cuore batterle a rallentatore
nel petto, pesante come un macigno, e fu costretta a sedersi sul bordo
del letto per paura di non riuscire a reggersi in piedi.
«Ha permesso a miss Hooper di scappare, ma è stato
ferito. Quando l'abbiamo raggiunto, poco prima della polizia, non c'era
più niente che potessimo fare. Mi dispiace molto»,
aggiunse François, il cui ultimo desiderio era quello di
rendere infelice la ragazza che gli piaceva. «Posso... posso
aiutarla in qualche modo?».
Geneviève lottò ferocemente contro le lacrime, ma
un paio le scivolarono inarrestabili lungo le guance. Non avrebbe mai
immaginato che un giorno avrebbe pianto per lui, ma la notizia della
sua scomparsa le provocò un dolore che le fece capire fino
in fondo quanto, senza nemmeno volerlo, si fosse affezionata a lui.
Grégorie le era stato accanto ogni giorno, quasi
più di suo padre, ed era buffo come il loro rapporto fosse
cambiato, trasformandosi come un bruco in una farfalla, passando
dall'insofferenza di due rivali all'attaccamento quasi familiare.
Sì, Grégorie era stato quasi uno zio per lei e le
sarebbe mancato, ma se l'avesse vista in quelle condizioni l'avrebbe di
certo rimproverata.
«Piangere non serve a niente», le avrebbe detto,
imperturbabile come suo solito.
Grégorie aveva passato dieci anni della sua vita accanto a
suo padre, servendolo e facendo del suo meglio per proteggerlo, e
Geneviève era certa che non l'avesse fatto solo per ripagare
il debito, ma anche e soprattutto perché lo amava
profondamente.
Questa volta ci
penserò io, Baffoni, promise ad occhi chiusi.
Si asciugò il volto e tirò su col naso,
ricomponendosi. «Ci sei ancora,
François?».
«Yes».
«Bene. So che mio padre vi ha ordinato di non immischiarvi,
perciò capisco se non vuoi disubbidirgli...».
«Mi dica cosa vuole che faccia e io lo farò,
miss».
«Ne sei sicuro?».
«Al cento percento. Il big
boss si è preso cura di me quando nessun altro
voleva farlo, incluso il qui presente, ed è tempo che io
ricambi il favore».
Geneviève sorrise, commossa, ma decise di metterla sul
ridere: «Quindi non lo fai perché speri che io mi
senta in debito con te».
«C-Cosa? No, miss, non mi permett-».
«Stavo scherzando, François», interruppe
il suo balbettare, divertita. «Are you ready?».
«I was born
ready, babe», rispose in automatico,
accorgendosi troppo tardi della propria audacia. Cercò di
rimediare balbettando delle scuse, ma Geneviève lo
azzittì e, confrontate le informazioni in loro possesso, gli
spiegò cosa voleva che facesse.
Sarebbe stata una lunga, lunghissima notte.
***
Arsène perse anche l'ultima delle sue fiches e aprendo le
braccia in segno di resa sorrise rivolto al pubblico che si era col
tempo radunato ad entrambi i lati del tavolo da gioco per assistere a
quella partita one-on-one.
«Come si dice? Sfortunato nel gioco, fortunato in
amore!», gridò, sentendosi estremamente rilassato.
Nel corso di quell'estenuante partita di roulette aveva bevuto un solo
bicchiere di champagne, consapevole di non potersi ubriacare nel covo
del nemico, ma si sentiva lo stesso leggero ed insonnolito.
Prese tra le dita lo stelo del flûte vuoto ancora al suo
fianco e lo esaminò alla luce per vedere se ci fossero
residui di sostanze stupefacenti. Poi si ricordò del modo in
cui era stata uccisa la cameriera del Savoy: prima le era stata
inettata della morfina e poi avevano inscenato un suicidio.
Scoppiò a ridere, realizzando che anche a lui sarebbe
toccato lo stesso destino.
«Adesso ho capito», esclamò, alzandosi
ed avvicinandosi al croupier facendo roteare il bicchiere tra indice e
medio. «L'ultima volta che ti ho visto eri solo un bambino,
Gabriel. O dovrei chiamarti Gabrielle?
Sono confuso».
A quelle parole il giovane dai capelli biondi sorrise cortese.
«Credo che abbia bevuto un po' troppo, signore».
«Dici? Sì, forse è così...
D'altronde per quale ragione dovresti fingerti maschio?».
Gabriel serrò i pugni e chiamò la sicurezza. Due
omoni in smoking afferrarono Lupin per le braccia e tentarono di
sollevarlo per trascinarlo verso uno degli ascensori. Arsène
si dimenò, gridando che poteva camminare benissimo sulle sue
gambe, e il bicchiere che aveva in mano si infranse contro il bordo del
tavolo.
La scena creò un po' di panico tra gli altri avventori del
casinò, ma Gabriel calmò subito le acque
scusandosi per l'inconveniente ed offrendo a tutti una consumazione
gratuita. Mentre la gente si accalcava verso i banconi dei bar, ad
Arsène venne tappata la bocca e fu trascinato fino
all'ascensore dei dipendenti. Una volta all'interno Gabriel
selezionò l'ultimo piano, strisciando la propria tessera
magnetica ed inserendo il codice a sei cifre che Arsène ebbe
modo di vedere con la coda dell'occhio, fornendogli l'ultima e
definitiva prova utile a confermare l'identità dei suoi
nemici.
La password era una data: un giorno, un mese e un anno che
Arsène non avrebbe mai dimenticato, nonostante avrebbe dato
di tutto per riuscirci.
Per raccimolare qualcosa
in quel periodo di magra, Lupin si era recato personalmente al
casinò per vincere qualche mano di black jack e magari
tentare la
fortuna alla roulette.
Quella sera era pieno di
gente, tanto che si faceva addirittura fatica a spostarsi da un tavolo
di gioco all'altro, e Arsène decise di sfruttare l'occasione
per spennare qualcuno. Non impiegò molto ad individuare
l'obiettivo: un omone rosso di pelle, dall'aria gioviale ma preoccupata
per via del gruzzolo che doveva avere nella tasca interna della giacca,
che controllava ogni dieci secondi.
Arsène stava per affiancarlo al
bancone del bar quando l'uomo fu raggiunto da una donna grassa tanto
quanto lui, dalla fisionomia volgare e con indosso un discutibile
vestito color prugna, e da un ragazzino sette-otto anni, sottile e
pallido, con gli occhi neri e dei corti capelli biondi che si
arricciavano dietro le orecchie e sulla fronte.
Il Ladro Gentiluomo si
avvicinò comunque al bancone del bar ed ordinò un
Martini, allungando l'orecchio per sentire cosa si stavano dicendo.
«Forse
è meglio se li tengo io», esclamò
arcigna la donna, indicando la borsetta che teneva tra le mani.
«No,
è più facile infilare la mano in una borsa. Dico
bene, Gabriel?».
Il ragazzino
abbassò il volto, stringendo gli occhi come se ne fosse
intimorito, quando la grande mano dell'uomo gli arruffò i
capelli.
«Sarà,
ma non mi fido. Questa sera è davvero affollato».
«Non ti
preoccupare, cara».
Dalla tasca destra della
giacca tirò fuori un orologio a cipolla che
catturò l'attenzione del ladro: ormai non se ne vedevano
quasi più in giro, perciò doveva essere per forza
un cimelio di famiglia.
Controllò
l'ora e aggiunse: «Mezz'ora ancora e ce ne
andiamo».
La moglie
grugnì e si allontanò col ragazzino, diretta
verso le slot-machines. L'uomo tornò a sorseggiare il
proprio whisky con ghiaccio, mentre Arsène aspettava il
momento giusto per agire.
Furono suoi complici un
gruppo di ragazzi americani, forse in vacanza a Parigi, che dopo una
vincita alla roulette si ammassarono davanti al bancone per ordinare da
bere e peggiorare la loro sbronza. Circondarono il suo obiettivo da
entrambi i lati, mettendolo ancora più in agitazione, e
Lupin fu rapido e preciso nell'infilargli la mano sinistra nella tasca
della giacca.
Quando i ragazzi si
dispersero e tornò a regnare la quiete, Arsène
non c'era già più.
Deluso dalla patacca che
aveva sgraffignato, giocò una mano di baccarat senza perdere
mai di vista il suo uomo e i ragazzi americani. Quindi lo raggiunse
nuovamente al bancone qualche minuto prima dell'orario a cui si era
dato appuntamento con la moglie.
«Mi
perdoni», attirò la sua attenzione dandogli una
gentile pacca sulla spalla. «È suo questo
orologio?».
L'uomo
sussultò e si portò istintivamente una mano sulla
tasca interna della giacca, dove conservava il vero tesoro. Trovandolo
ancora lì, si rilassò e riuscì persino
a sorridergli: «Sì, è mio! Vede, ci
sono le mie iniziali sul retro: N.D. Nicolas Dugrival. Ma lei dove l'ha
trovato? Ce l'avevo nella tasca!».
Lupin si fece
più vicino e con discrezione tirò fuori dalla
tasca posteriore dei jeans il tesserino della Polizia Nazionale che si
portava sempre dietro, giusto per trovarsi sempre preparato. Non gli
diede il tempo di guardare bene la foto - l'avrebbe trovata diversa da
come si era truccato quella sera - e si presentò:
«Agente Delangle, molto lieto. Io e l'ispettore Marquenne
siamo stati mandati sotto copertura a seguito dei vari furti che si
sono registrati in questo casinò».
Dugrival
stirò un altro sorriso, nonostante stesse sudando
copiosamente. «Dice davvero?».
«Sì,
abbiamo anche dei sospettati».
«Ah. E chi
sarebbero?».
Lupin indicò
con un cenno del capo il gruppetto di ragazzi americani, seduti in un
salottino poco distante a fare baldoria.
«Crediamo che
sia un'intera banda», spiegò. «Al
momento sono solo cinque perché uno è andato al
bagno, ma lì c'era il mio collega ad attenderlo e ora stiamo
cercando di farlo parlare».
«Sì,
sono di certo loro!», confermò l'uomo, annuendo
con vigore. «Prima sono venuti qui e hanno fatto un gran
casino, mi hanno persino urtato! Dev'essere stato allora che mi hanno
rubato l'orologio! Non vale molto, ma me l'ha regalato mia moglie e ci
sono affezionato».
Lupin non
poté impedirsi di rivolgergli uno sguardo impietosito, per
poi esclamare: «Ad ogni modo, sa come sono queste
questioni... prima di restituirglielo dovrebbe venire con me dal mio
capo ed aiutarci ad incastrare questi ladruncoli».
«A-Adesso? Noi
stavamo per andare via...».
«Su, avanti,
ci vorranno solo pochi minuti! Non vuole evitare che quella gente
derubi qualcun altro?».
«Certo,
però...».
Arsène non
ascoltò altro ed afferrandolo per un braccio lo fece
scendere dallo sgabello, per poi trascinarlo con sé verso i
bagni.
A causa del fiume di
alcool che ogni sera veniva servito ai clienti, la zona antistante ai
servizi, quella degli uomini tanto quella delle donne, era ancora
più affollata. Un aspetto che il ladro aveva calcolato e che
lo facilitò enormemente. Messe le mani sul portafoglio
gonfio dell'uomo, finse di ricevere una chiamata dall'ispettore
Marquenne.
«Che cosa? Vi
siete spostati? Ma come, io sono qui fuori dai bagni e non vi ho visti
passare! Ah. E va bene, arriviamo subito».
Con espressione
dispiaciuta lo fece voltare verso l'uscita, esclamando: «Sono
desolato signor Dugrival, ma l'ispettore e il sospettato sono fuori che
ci attendono. Mi segua da vicino, mi raccomando!».
Nicolas fece del suo
meglio per stare al passo dell'agente Delangle, ma la sua stazza e la
calca non lo agevolarono. Alla fine lo perse di vista tra la folla, ma
in compenso venne raggiunto dalla moglie e da Gabriel, i quali gli
domandarono dove fosse stato. L'uomo raccontò loro della
vicenda dell'orologio e dei ragazzi americani, ma la donna, sentendo
puzza di bruciato, gli chiese: «I soldi ce li hai
ancora?».
«Certo, certo,
sono stato attent-». Dugrival, con una mano sulla tasca
interna della giacca, divenne pallido come un lenzuolo: il portafoglio
con tutti i guadagni della serata era sparito. Come in trance
alzò gli occhi verso il salottino privato e vide il sesto
ragazzo americano avvicinarsi agli amici, battendo i cinque mentre si
vantava di essere riuscito a farla tutta nel vaso. Era stato fregato:
il vero ladro era il finto agente di polizia e lui ci era cascato in
pieno.
La moglie, capendo la
situazione, iniziò a gridare al ladro, attirando
l'attenzione degli avventori del casinò e delle guardie.
Sbraitò e prese a spintoni chi cercava di calmarla, senza
accorgersi che Nicolas, con sguardo spento e fisso davanti a
sé, aveva tirato fuori dall'altra tasca della giacca una
pistola.
«Zio,
no!», urlò un Gabriel terrorizzato, cercando di
aggrapparsi al braccio dell'uomo, ma non riuscì a fermarlo.
Il colpo
partì e il silenzio piombò nella sala da gioco,
tanto profondo che Arsène, il quale non aveva ancora
raggiunto l'uscita, si sentì raggelare sul posto. Lentamente
si voltò, orripilato, e vide Nicolas Dugrival steso ai piedi
della moglie, con un buco sulla tempia e una pozza di sangue che si
allargava sotto di lui ed impregnava la moquette. Gabriel, l'unico che
si era reso conto delle intenzioni dello zio, era in ginocchio al suo
fianco, col volto pallido sfregiato da schizzi di sangue, gli occhi
neri spalancati e i palmi delle mani rivolti verso il cielo, come se
stesse recitando il Padre Nostro.
Quel surreale silenzio
venne ben presto sostituito dalle grida disperate della signora
Dugrival, da quelle dei bodyguard che chiedevano l'intervento di
un'ambulanza e della polizia e dalle esclamazioni dei clienti, i quali
abbandonarono i tavoli da gioco e si accalcarono verso l'uscita spinti
dalla paura della morte, quasi fosse un virus in grado di infettarli.
Arsène si
lasciò trasportare dalla fiumana di gente e solo quando fu
fuori dal casinò, all'aria fredda della sera,
riuscì a riprendere possesso del proprio corpo.
Corse,
corse più veloce che poté, e quando
raggiunse uno dei ponti che attraversavano la Senna gettò
nel fiume il portafoglio rubato. Si chinò a guardarlo mentre
veniva trascinato via dalla corrente e con una mano a stringere il
crocifisso che portava al collo cercò di regolarizzare il
respiro, affannato per la corsa e l'agitazione. Si disse che non era
stata colpa sua, che lui non era responsabile della morte di
quell'uomo, ma il suo stomaco evidentemente non era dello stesso parere
e lo costrinse a rimettere, piegato oltre la balaustra e con le lacrime
che gli rigavano il viso.
Le porte dell'ascensore si aprirono con un ding che fece
alzare la testa di Arsène, permettendogli di vedere il lungo
corridoio che terminava con una porta chiusa.
Non era ansioso di scoprire cosa ci fosse dietro di essa, ma
ribellandosi avrebbe messo in pericolo la vita di Molly,
perciò si lasciò trascinare fino all'interno di
quello che si rivelò essere un ufficio dalla moquette verde,
proprio come i tavoli da gioco, e con delle enormi vetrate da cui si
poteva godere della vista, anche se in lontananza, del luminoso skyline
di Londra.
All'interno, seduta dietro una massiccia scrivania di mogano, c'era
solo una persona: la vedova Dugrival.
Nonostante fosse visibilmente invecchiata, Arsène non
avrebbe mai scordato quel brutto muso che per una settimana almeno era
stato mostrato da tutti i canali di informazione per via delle sue
accuse contro il sistema giudiziario e del voto di vendetta che aveva
pronunciato subito dopo aver sepolto il marito.
Adesso che aveva tutti i pezzi del puzzle si sentiva così
stupido per non esserci arrivato prima!
«Il tempo non è stato clemente con lei, cara la
mia signora», esordì il ladro quando fu al suo
cospetto.
La donna si alzò dalla poltrona e fece il giro della
scrivania per scrutarlo da vicino, le mani sui larghi fianchi e un
sorriso sadico sul volto.
«Farei poco lo spiritoso se fossi in te, Ladro
Gentiluomo».
«La mia non era una battuta».
Lo schiaffo con cui lo colpì in pieno volto gli fece perdere
del tutto il sostegno sulle gambe, già molli per via
dell'anestetico. La vedova Dugrival scoppiò a ridere e lo
afferrò per i capelli, tenendogli alzato il volto
perché potesse guardarla negli occhi.
«Ah, che bella visione! Arsène Lupin in ginocchio
davanti a me, come un bravo cagnolino ammaestrato! Nemmeno nei miei
sogni immaginavo che sarebbe potuto accadere! Dimmi, mi leccheresti le
scarpe se te lo chiedessi per favore?».
Arsène strinse gli occhi e chiese:
«Dov'è Molly Hooper?».
«Molly Hooper? Non ne ho idea». La donna
alzò gli occhi sul nipote. «Gabriel, tu sai
dov'è Molly Hooper?».
«No, zia».
«Mi dispiace, ma Molly Hooper non è
qui», sogghignò la vedova. «Sei caduto
nella trappola, topolino».
Arsène la guardò a lungo, fino a quando non
riuscì più a trattenere le risa. Scosso dai
singulti, esclamò: «Tutto questo è
davvero comico!».
«Lo pensi sul serio, Lupin?», gli
domandò la Dugrival, rabbiosamente. «Ci saremmo
evitati un sacco di problemi se non avessi rifiutato il nostro
passaggio, non trovi? Per esempio, Gabriel non avrebbe ucciso il tuo
amico».
A quelle parole Arsène smise di colpo di ridere.
«È stato lui ad uccidere
Grégorie?», sibilò, dando un nuovo
senso al suo naso tumefatto, ai lividi e alle escoriazioni sulle sue
nocche.
La donna annuì, divertita dalla sua espressione
così addolorata. Era convinta che a quel punto il ladro si
sarebbe arreso, spezzato nel corpo e nello spirito, ma si sbagliava.
Arsène, rinvigorito dalla rabbia, si liberò dalla
presa delle guardie e si avventò su Gabriel puntandogli alla
gola un pezzo dello stelo del flûte che aveva infranto al
casinò e che aveva infilato nella manica.
Una goccia di sangue macchiò la pelle candida della ragazza
- perché sotto gli abiti maschili c'era il corpo di una
femmina - e Arsène, a cavalcioni su di lei,
incrociò i suoi occhi neri, lucidi come ossidiana ma del
tutto privi di emozioni.
Gabriel non aveva paura della morte e gliene diede prova quando gli
sussurrò: «Avanti, fallo. Uccidimi, cosa
aspetti?».
Il Ladro Gentiluomo avrebbe voluto vendicarsi, toglierle la vita come
lei l'aveva tolta a Grégorie, ma aveva fatto un giuramento
che non poteva infrangere in alcun modo, un giuramento grazie al quale
era riuscito a non cedere all'oscurità che più e
più volte l'aveva chiamato a sé.
«No», disse, allontanando il pezzo di vetro dalla
sua gola. «Solo a Dio spetta decidere chi deve vivere e chi
morire».
«Non esiste alcun Dio!», gridò la vedova
Dugrival, ma nessuno la sentì a causa di un forte boato.
Il volto pallido di Gabriel, proprio come vent'anni prima, fu sporcato
da alcuni schizzi di sangue e Arsène, confuso, fece per
alzare una mano per pulirlo, senza riuscirci. Fu allora che
capì che quel boato era stato un colpo di pistola, che il
proiettile gli aveva attraversato la spalla, impossibilitandogli i
movimenti, e che quel sangue era suo.
Gabriel fremette sotto il suo corpo e Arsène distolse lo
sguardo per osservare il proiettile che si era conficcato sul
pavimento, a pochi centimetri dalla testa della ragazza.
«Vedi?», esclamò sorridendo.
«Non è ancora giunta la tua ora».
Poi il buio calò su di lui come un angelo dalle ali nere.
***
John, chiamato da Mycroft per avvisarlo degli ultimi sviluppi, si
presentò con tanto di passeggino davanti alla stanza di
Sherlock.
«Ehi, è vero che ha perso la memoria?»,
fu la sua prima domanda.
Lestrade incrociò le braccia al petto e gettando un'occhiata
a Molly, seduta su una delle poltroncine appese alla parete del
corridoio, rispose piano: «Di noi tre ha riconosciuto solo
Mycroft».
«E le sue capacità deduttive?
Insomma...».
«Non abbiamo avuto modo di investigare», intervenne
Mycroft, il volto provato. «Le infermiere ci hanno costretti
ad aspettare fuori per non affaticarlo».
«Capisco. Notizie di Lupin?».
«Sappiamo che si è disfatto del furgone blindato e
che ha rubato una moto. Dopodiché abbiamo perso le sue
tracce».
«E i suoi uomini? Avete provato a...?».
Mycroft sospirò, afflitto. «Non possiamo
costringerli a parlare, dottore».
«Che mi dici di Geneviève allora? Non dirmi che
anche lei è svanita nel nulla!».
«Purtroppo sì», rispose quella volta
Lestrade. «Per quanto ne sappiamo potrebbe essere dall'altra
parte del mondo in questo momento».
John, frustrato dalla scarsità di risposte ottenute, strinse
i manici del passeggino in cui riposava la figlia e andò a
sedersi accanto a Molly per attendere l'arrivo del neurologo, il quale
si presentò mezz'ora dopo, scusandosi per averli fatti
aspettare.
Il medico consentì a due persone di entrare con lui e Greg
decise di rimanere accanto all'anatomopatologa, la quale non se la
sentiva di incrociare di nuovo i suoi occhi incapaci di riconoscerla.
«Ciao Sherlock», lo salutò John quando
fu alla sua sinistra, le mani strette intorno alla sbarra del letto.
«Ti ricordi di me?», aggiunse con un sorriso
speranzoso.
Il detective sembrò sforzarsi, con la fronte aggrottata, ma
alla fine scosse il capo, dispiaciuto.
«Signor Holmes, saprebbe dirmi dove si trova e che giorno
crede che sia?», gli domandò il neurologo,
esaminandogli gli occhi con una torcetta.
«In base a ciò che ho visto fuori dalla finestra
direi che questo è il Royal London Hospital, anche se non ho
idea di come ci sono finito. Per quanto riguarda la data...».
Sherlock indicò l'orologio da polso di John e disse:
«Qui c'è scritto che è il diciassette
dicembre del 2017, perciò le possibilità sono
tre: uno, mio fratello vuole farmela pagare per qualche motivo e ha
organizzato tutto questo; due, ho dormito per diciassette anni; tre,
recentemente ho subìto un trauma che mi impedisce di
ricordare gli ultimi diciassette anni della mia vita. Qual è
quella corretta?».
Mycroft si portò davanti alla finestra, una mano sul collo.
«La terza», rispose.
«Capisco. Quindi queste persone sono...?». Sherlock
incrociò gli occhi di John, poi quelli di Lestrade e Molly
fuori dalla finestrella che dava sul corridoio.
«Amici», concluse il dottor Watson.
«Amici?»,
ripeté il detective, con espressione scettica. «Ne
siete sicuri?».
John abbassò il capo, cercando di trattenere le risate, e
quando tornò a guardarlo in volto aveva gli occhi lucidi.
«Sì, purtroppo è
così».
Il medico controllò la sua cartelletta clinica per diversi
minuti e ad un tratto Mycroft, spazientito, sbottò:
«Allora, che cosa ne pensa? Si tratta di una cosa momentanea
oppure...?».
«Ci sono buone probabilità che col tempo riesca a
ricordare ogni cosa. Domani, a seguito di esami più
approfonditi, saprò dirvi di più. E adesso vi
chiederei di lasciarlo riposare».
«Sì. Grazie, dottore», rispose Mycroft.
John salutò Sherlock con un sorriso e una pacca sul
ginocchio, poi seguì il neurologo fuori dalla stanza. Prima
che anche Mycroft se ne andasse chiudendosi la porta alle spalle il
fratello minore lo chiamò, chiedendogli di rimanere al suo
fianco.
Tutti furono sorpresi da quella richiesta così poco da
Sherlock, ma nessuno di loro a parte Mycroft sapeva come fosse
diciassette anni prima o come si sentisse in quel momento,
perciò non si fecero troppe domande.
«Andate pure a casa», disse l'Holmes più
grande. «Vi scriverò se dovesse iniziare a
ricordare».
Lestrade annuì e con un braccio ancora avvolto intorno alle
spalle di Molly la invitò a scostarsi dalla finestra, ma lei
esitò quando il suo sguardo e quello del detective si
incrociarono. Fu solo un istante, ma abbastanza per permetterle di
dubitare. Non disse nulla però, come spesso faceva, e
seguì gli amici fuori dall'ospedale.
Mycroft tornò nella stanza e si lasciò cadere
sulla sedia accanto al letto, sospirando stancamente e massaggiandosi
gli occhi con la punta delle dita.
«Ottima interpretazione, davvero. Hai quasi fregato pure
me».
Sherlock si puntellò sui gomiti e si tolse le canule dalle
narici. «Era l'unico modo per poter ritrattare la mia
versione ed essere creduto dai media».
«Ganimard, senza saperlo, ha spezzato una lancia in tuo
favore dicendo ai giornalisti che è stato Lupin a
costringerti a confessare l'omicidio di Magnussen».
«Sì, immaginavo l'avrebbe fatto».
«Quindi la prossima volta che verrai interrogato e ti
chiederanno se hai ucciso Magnussen ti fingerai davvero sorpreso e
Scotland Yard, senza prove e coi risultati degli esami da me
contraffatti, non sapranno che pesci pigliare. Il tuo piano sarebbe
perfetto se non ti fossi dimenticato di...».
«Di Arsène? No, non me ne sono dimenticato.
Diciamo pure che abbiamo fatto pace».
Mycroft scosse il capo, scuro in volto. Sherlock, riconoscendo la
faccia delle cattive notizie, capì che mentre loro due erano
impegnati nella fuga doveva essere successo qualcosa in grado di
sbilanciare nuovamente gli equilibri.
«Uno dei suoi è morto per proteggere Molly
Hooper», gli rivelò.
Il consulente investigativo chiuse gli occhi, i pugni serrati sulle
gambe. Per quante volte provasse a liberarsi di lui, finiva sempre con
l'essere in debito con Arsène.
«Adesso lui dov'è?», chiese al fratello
maggiore.
«Non ne abbiamo idea. Ma di una cosa sono certo, fratello
mio: quando tornerà - perché tornerà
- dovrete fare pace di nuovo».
Sherlock sospirò ed abbandonò il capo sui
cuscini, stanco come non si era mai sentito prima.
***
Ganimard si massaggiò il volto con entrambe le mani e poi,
frustrato, con un solo movimento del braccio trasformò la
disordinata scrivania in un ripiano su cui avrebbe potuto mangiare.
Pensando al cibo il suo stomaco brontolò.
Quel giorno non aveva messo nulla sotto i denti per via dell'arresto e
dell'evasione di Arsène e Sherlock e soprattutto per la
scioccante confessione del suo amico e superiore, l'Ispettore Capo
Dudouis, il quale per quindici anni era stato la talpa del Ladro
Gentiluomo all'interno del comando. Per quindici anni e sotto il suo
naso!
Si alzò ed afferrò il trench con l'intenzione di
andare a casa per colpevolizzarsi in un posto diverso, ma un leggero
bussare alla porta lo fece sbuffare. A passo pesante raggiunse la
maniglia, dicendosi che quella volta avrebbe alzato le mani su Folefant
per la sua insistenza. Rimase a bocca aperta però, tanto
incredulo che dovette sbattere le palpebre più volte per
essere sicuro che non fosse una visione.
«Célestine?».
«Ciao, Justin», lo salutò l'ex-moglie,
sorridendo. «Sono passata al tuo appartamento e non ti ho
trovato, così ho pensato che fossi qui, solo ed
affamato».
Alzò il sacchetto che teneva tra le mani, da cui proveniva
l'inconfondibile profumo del fast-food, ed inclinando semplicemente la
testa gli chiese il permesso di entrare. Ganimard si fece da parte in
automatico, ancora convinto che si trattasse di un'allucinazione. Forse
aveva ceduto alla tentazione e si era ubriacato.
Guardò la donna posare il sacchetto sulla scrivania sgombra
ed apparecchiare in modo molto spartano, stendendo tovaglioli di carta,
infilando le cannucce nei bicchieroni di carta ed aprendo le confezioni
dei panini.
«Hai intenzione di rimanere lì a fissarmi ancora
per molto?», gli chiese ad un tratto, senza nemmeno voltarsi
a guardarlo.
Ganimard chiuse la porta, lasciando dietro di essa la
razionalità, e finalmente raggiunse la donna per posarle una
mano tra le scapole, immergendola in quella cascata rossa e setosa che
erano i suoi capelli. Célestine trasalì a quel
tocco e si voltò, addossandosi al bordo della scrivania e
guardando quegli occhi scuri ed intelligenti, in grado di capirla come
nessuno mai.
Che fosse un sogno, un'allucinazione causata dall'alcool o la
verità, Justin avrebbe fatto e rifatto la stessa cosa senza
mai pentirsene: prese il volto tempestato d'efelidi dell'ex-moglie tra
le mani, delicatamente, e la baciò sulle labbra.
Era pronto a ricevere schiaffi, spintoni e grida, ma sapeva che non
sarebbe successo. Célestine era lì per un motivo,
lo stesso motivo per cui un'altra dozzina di persone di cui aveva
dimenticato l'esistenza l'avevano contattato quel giorno: l'avevano
visto in TV e volevano sapere come se la passasse, se gli andava di
vedersi per una pizza o, più semplicemente, se potevano fare
qualcosa per lui. Spinte dalla pietà o dalla
notorietà dell'anti-eroico ispettore.
Quale fosse il sentimento che aveva spronato Célestine a
cercarlo e a rispondere al bacio con foga non ne aveva idea e nemmeno
gli importava: lui l'amava, non aveva mai smesso di amarla, e avrebbe
dato qualsiasi cosa per trascorrere la notte con lei.
Come se gli avesse letto nel pensiero, la donna si scostò
quel tanto che bastava per sussurrare: «Andiamo da
te».
«Théa ed Emélie?», chiese
Justin, baciandole il lungo collo candido.
«Dormono da mia madre».
Aveva pensato proprio a tutto.
L'ispettore non si pose ulteriori domande e prendendola per mano la
trascinò fuori dalla sede parigina della Polizia Nazionale,
salirono sull'auto di Célestine e ripresero a baciarsi sulle
scale buie del condominio. Quando arrivarono alla porta erano
già accaldati e senza fiato.
Si spogliarono in fretta, sentendosi impazienti come due adolescenti, e
una volta sdraiati sul letto cigolante di Ganimard fecero l'amore a
lungo, affamati ed insaziabili l'uno dell'altra.
Raggiunto l'apice del piacere Célestine si
appoggiò alla sua spalla sinistra e rimase in silenzio,
accarezzandogli il petto con un dito. Justin avrebbe voluto chiederle a
cosa stesse pensando, ma allo stesso tempo era spaventato dalla
risposta. Alla fine non dovette nemmeno aprire bocca.
«Non è stata solo colpa di Lupin se ci siamo
separati», esordì lei, a bassa voce.
L'ispettore chiuse gli occhi, portandosi un braccio dietro la testa.
«Lo so bene».
Célestine si sollevò su un gomito per poterlo
guardare meglio in volto. «Mi vuoi far credere che tu sapevi
che l'ho usato come capro espiatorio per lasciarti e non hai mai detto
nulla?».
«Che cosa potevo dirti? Te ne saresti andata in ogni
caso».
«Ma...».
Justin aprì gli occhi e si sdraiò sul fianco,
rivolgendole uno dei suoi rarissimi sorrisi. «Sai, forse
è stato meglio così. La tua scelta mi ha fatto
tornare in carreggiata: ho capito dove stavo sbagliando e ho cercato di
rimediare».
Quelle parole la stupirono e non poco, anche se la sorpresa
lasciò ben presto posto alla tristezza. Célestine
pianse senza emettere un suono, lasciando che le lacrime bagnassero il
cuscino sotto la sua testa mentre l'ex-marito le accarezzava i capelli.
Quando si calmò e il suo respiro tornò regolare,
Ganimard smise per paura di svegliarla, ma lei gli afferrò
la mano e la riportò sulla sua testa. Quindi gli chiese:
«Tutti quei fascicoli nel tuo ufficio... sono vecchi casi di
Lupin?».
«Sì».
«Posso aiutarti in qualche modo? Di solito mi raccontavi
tutto prima di addormentarti, te lo ricordi?».
Justin sorrise di nuovo e si avvicinò per posarle un bacio
sulla fronte. «Mi ricordo tutto, amore mio. Ma se
c'è una cosa che ho imparato è che è
bene tenere separati lavoro e vita privata».
«Avanti, solo questa volta».
La sua insistenza gli fece fare brutti pensieri, del tipo che anche
Célestine fosse dalla parte di Arsène Lupin
proprio come Dudouis, ma si costrinse a cacciarli via. Su di lei non
aveva alcun dubbio: avevano avuto i loro problemi e si erano separati,
ma non l'aveva mai tradito. Forse lo amava ancora, visto e considerato
che da quando si erano lasciati non aveva ancora avuto altri uomini,
nonostante fosse sicuro ci fosse la fila.
Cedette e le raccontò quello che avevano scoperto fino ad
allora, sulla pista trovata da Folefant e che per ora non aveva ancora
portato a risultati concreti.
«Lupin deve aver fatto davvero qualcosa di terribile a queste
persone se non sono riusciti a perdonarlo in vent'anni»,
commentò Célestine, guardando il soffitto ed
arrotolandosi una ciocca di capelli intorno al dito.
«È proprio questo che non mi spiego. Un caso del
genere avrebbe dovuto fare scalpore e non restare
nell'anonimato».
«Hai detto che c'era anche una bambina?».
«Sherlock ne è convinto». Ganimard
osservò il profilo pensieroso dell'ex-moglie e si
sollevò sui gomiti, attraversato da un brivido.
«Ti è venuto in mente qualcosa?».
«Forse. Ti ricordi di quella signora che si
presentò alla nostra porta affermando che Lupin aveva spinto
al suicidio il marito e che poi, a causa dei sensi di colpa, le aveva
inviato dei soldi come indennizzo?».
L'ispettore ci pensò su e qualche ricordò
riaffiorò. «Vagamente».
«Lupin non era ancora la tua ossessione allora. Io
però quella donna la ricordo bene: parlava con un tale odio,
una tale rabbia... E al suo fianco c'era un ragazzino dai capelli
biondi che mi fece un'infinita tenerezza».
«Ti ricordi per caso un nome?».
Célestine arricciò il naso, in un modo
così adorabile che Justin fu sul punto di chiederle di
sposarlo di nuovo, ma alla fine sospirò scuotendo il capo.
«Mi ricordo che il marito si è ucciso al
Clichy».
«Domani mattina farò una ricerca».
La donna lo guardò mordendosi un sorriso, le sopracciglia
inarcate. «Domani mattina?».
«Sì... Che c'è?».
«Ti conosco, Justin, e so che stai fremendo».
Ganimard ricambiò il sorriso. «Hai
ragione», ammise e si sedette per infilarsi i boxer.
Célestine lo sorprese nuovamente imitandolo.
«Beh? Se è come dico io voglio avere una
ricompensa dall'ispettore in persona», esclamò con
un sorriso sibillino.
Prese dall'appendiabiti una delle sue magliette e si vestì,
poi lo seguì nel piccolo salotto e si sedette al suo fianco
sul divano a due posti per guardare lo schermo del PC.
L'ispettore fece qualche ricerca e finalmente trovò un
vecchio articolo in cui si parlava del suicidio al casinò
Clichy: Nicolas Dugrival si era sparato un colpo di pistola alla tempia
a seguito del furto del portafoglio. L'aveva fatto di fronte alla
moglie e al nipote Gabriel e un fotografo amatoriale aveva immortalato
il momento in cui la signora Dugrival si era piegata sul cadavere del
marito e aveva giurato vendetta, il volto deformato dal dolore.
«Sono loro», mormorò Ganimard, con lo
stomaco stretto in una morsa.
«Come fai ad esserne sicuro?», gli
domandò Célestine.
In risposta le lasciò tra le braccia il PC sul cui schermo
era ancora aperta la scheda di ricerca in cui aveva digitato il cognome
"Dugrival", scoprendo che la vedova si era trasferita in Inghilterra e
aveva aperto il suo hotel-casinò.
L'ispettore recuperò il cellulare e chiamò subito
Mycroft Holmes, il quale rispose dopo tre interminabili squilli.
«So dov'è andato Lupin»,
affermò.
***
Arsène riaprì piano gli occhi, con fatica per via
della pesantezza che sentiva in tutto il corpo, come se il sangue si
fosse trasformato in piombo nelle vene, e dell'intensa luce che gli
stava bruciando le retine.
«Alla fine, il Paradiso?».
«No. Benvenuto all'Inferno».
Ricobbe quella voce, ma impiegò un po' a capire da dove
provenisse. Facendo del suo meglio per alzare il capo scorse una gabbia
dall'altra parte della stanza e al suo interno un'irriconoscibile Irene
Adler: struccata, coi capelli arruffati, semi-nuda, col corpo pelle e
ossa ricoperto di ferite ed ematomi di ogni genere ed incatenata come
un cane.
«Allora sei viva», esclamò, nonostante
quella visione gli portasse alla mente altri dolorosi ricordi che aveva
cercato in ogni modo di seppellire.
«Purtroppo sì».
«È da molto che sei qui?».
«Ventitré giorni».
Arsène chiuse gli occhi, facendo un rapido calcolo mentale e
capendo finalmente che cos'era successo.
«Sei stata tu.
È colpa tua e della tua impazienza se io mi trovo qui, se
Grégorie è...», deglutì, non
riuscendo ancora a dire la parola con la M riferendosi al compagno.
«Guarda dove ci ha portati la tua gelosia!».
«Credi che non lo sappia?!», gridò
istericamente. «Non mi sono mai sentita così...
così impotente!».
Irene scoppiò a piangere e Arsène si
abbandonò contro il poggiatesta del lettino operatorio su
cui era stato legato, chiuse di nuovo gli occhi e
sospirò.
«Mi dispiace, ho esagerato», mormorò ad
un tratto. «L'amore fa fare cose assurde, io dovrei saperlo
meglio di chiunque. Ad ogni modo non è detta l'ultima
parola: finché siamo vivi c'è speranza».
«Io non voglio più vivere»,
sussurrò la Adler, tirando rumorosamente su col naso.
«Che cosa stai dicendo?».
«Sto dicendo che nella mia vita ho causato solo morte e
sofferenza, perciò non merito di essere salvata. E se anche
dovessi riuscire ad andarmene da qui... mi ucciderei».
Arsène sbuffò, facendo persino una pernacchia.
«Sono stanco, davvero stanco di sentire questi discorsi. Sono
poche le cose che posso dire di odiare, ma una di queste sono i
suicidi. Mi fanno una tale rabbia! La vita è un dono di Dio
e voi, solo perché qualcuno non è stato gentile,
siete disposti a buttarla, mentre altri darebbero qualsiasi cosa - qualsiasi - per un
solo giorno in più».
«Tu parli così perché non sai come mi
sento. Non hai idea delle cose che ho visto, delle cose che ho
fatto...».
«Come dici?». Il Ladro Gentiluomo rialzò
il capo e rise di gusto. «Io non saprei come ti senti? Ah,
questa è bella! Se tu avessi vissuto quello che ho vissuto
io probabilmente ti saresti ammazzata già quattro
volte!».
Irene, scioccata da quelle parole, si asciugò il volto e si
avvicinò alle sbarre, aggrappandosi ad esse con le mani.
«E con quale forza vai avanti? Dimmelo,
Arsène».
Il ladro non rispose subito. Quando lo fece parlò a bassa
voce, tanto che la Dominatrice dovette sforzarsi per sentirlo.
«Ho fatto una promessa a mia madre prima che morisse. Lei mi
ripeteva sempre che la cattiveria, la vendetta e l'odio erano veleni
capaci di rovinarci la vita, di distruggercela anche. Sul letto di
morte mi ha chiesto di vivere la mia vita al massimo, di sfruttare ogni
giorno come se fosse l'ultimo, di lottare sempre per le cose in cui
credevo e soprattutto di non fare mai del male a nessuno, nemmeno alle
persone che avevano o avrebbero fatto del male a me. Io le promisi
tutto questo. So di non essere perfetto, che senza volerlo ho ferito
molte persone, ma non per questo mi arrenderò: no,
finché vivrò cercherò di fare ammenda
per i miei errori».
Il rumore di una complicata serratura ruppe il silenzio sceso dopo la
fine del discorso di Arsène e Irene trasalì,
spingendosi verso il fondo della propria gabbia. Il Ladro, scorgendo la
paura nei suoi occhi, strinse i denti e provò a liberarsi,
ma le cinghie che lo tenevano legato al lettino erano
strette.
«Ma che belle parole!», gridò la vedova
Dugrival, facendo la sua entrata. Indicò la telecamera
appesa in un angolo della stanza ed applaudendo aggiunse:
«Abbiamo sentito tutto e, complimenti, mi sono quasi
commossa!».
Alle sue spalle c'era Gabriel, il volto abbassato a voler nascondere
l'occhio pesto che però non sfuggì al Ladro
Gentiluomo.
«Ah, les jeux
sont faits!», esclamò
Arsène con un sorriso. «È venuta a
terminare il lavoro, signora?».
La donna si avvicinò al lettino ed osservò il suo
petto nudo, per poi stringere i denti alla vista del crocifisso d'oro
che gli adornava lo sterno. Con un gesto brusco gli strappò
la catenina dal collo e Arsène la fissò adirato,
non tanto per il dolore ma perché quel crocifisso era tutto
ciò che gli era rimasto di sua madre.
«Me lo restituisca», ringhiò.
La vedova sorrise e glielo fece dondolare davanti al volto, poi se lo
gettò alle spalle e sorridendo gli strinse le dita simili a
salsicce sulla spalla fasciata, provocandogli una fitta di dolore
tremendo nonostante l'anestesia.
«Sei pronto a rispondere alle mie domande?».
Arsène sospirò. «Ho scelta?».
«Allora ascoltami attentamente».
«Sono tutto orecchi».
«Perché hai derubato mio marito quel giorno?
Perché lui e non qualcun altro?».
«Derubato? Mi dispiace, ma il termine non è
esatto».
La vedova lo fissò coi suoi occhi porcini. «Come,
prego?».
«Sì, beh, l'ultima volta che ho controllato sul
dizionario, "derubare" significava privare qualcuno di ciò
che è suo e gli spetta. Quello che lei mi accusa di aver
preso a suo marito non era né suo né l'aveva
guadagnato onestamente. Dico bene, Gabriel? Tra colleghi bisogna dirsi
la verità. Dimmi, è tua zia che ti ha fatto
quell'occhio nero? Mi è venuto il sospetto prima, quando ti
ho tirato quella fiche e non hai avuto alcuna reazione. Per te quello
era niente... Sei abituato a ben altro».
«Non dire una parola, Gabriel», gli
ringhiò contro la Dugrival, per poi tornare a concentrarsi
sul ladro: «Ebbene sì, mio marito lavorava nel tuo
stesso ramo, ma i nostri colpi non erano nulla di spettacolare. Niente
a che vedere con quelli del grande Arsène Lupin!».
«Grazie, troppo buona».
«Sta di fatto che sei stato tu, per me
è come se l'avessi ucciso tu con le tue mani! E la tua
reputazione non ne ha risentito perché nessuno mi ha
creduta! Nemmeno quando ho mostrato alla polizia i soldi che mi avevi
inviato...».
«Quali soldi? Oh, aspetti!». Arsène
chiuse gli occhi, fingendo di sforzarsi per ricordare. «Ne
avevano parlato alla TV, vero? La donazione anonima... Non l'ha trovato
un nobile gesto?».
La vedova rise nervosamente. «Tu, maledetto... Ti sentivi in
colpa per la morte di mio marito e hai cercato di lavartene le
mani!».
«Se pensava che quei soldi fossero miei poteva sempre
rifiutarli, sa? O darli in beneficienza, magari».
«Invece no. Ho seguito il consiglio di Gabriel e abbiamo
saldato i nostri debiti, poi ci siamo
trasferiti qui, dove abbiamo aperto questo hotel con casinò.
Era il sogno di mio marito».
«E vissero tutti felici e contenti. Posso andare
adesso?».
Arsène cercò nuovamente di allentare le cinghie,
ma era così debole - sia per il sangue perso che per la
morfina somministratagli - che dovette desistere per non svenire dallo
sforzo.
La Dugrival lo spinse di nuovo giù sul lettino prendendolo
per la spalla ferita, facendo trasalire non solo Arsène ma
anche lo stesso Gabriel, rigido come un pezzo di legno alla sua
sinistra.
«Eh no. È adesso che inizia la parte
interessante», esclamò, maligna. «Per
tutti questi anni non ho mai dimenticato la promessa che feci quella
notte, china sul corpo di mio marito... Giurai di trovare l'assassino e
di fargliela pagare e finalmente adesso sei qui, legato come un salame.
Ti farò provare lo stesso dolore che ho provato io quando
hai spinto mio marito al suicidio».
«Ci provi pure», rispose Arsène,
abbandonando i sorrisi e le battute per un tono sfrontato e rabbioso.
«Ma la avverto: c'è poco che non sia
già stato fatto a questo corpo».
A quelle parole Gabriel tremò da capo a piedi e i suoi occhi
divennero ancora più neri, ma la zia non se ne accorse:
fremeva di gioia e mentre si allontanava dal lettino non lo perse mai
di vista, come una bestia feroce con la sua preda. Arsène
non aveva mai sentito in un essere umano così tanto odio ed
efferatezza.
«Non ti toccherò con un dito, Arsène
Lupin. Ti lascerò a guardare, impotente come lo fummo io e
mio nipote».
Il Ladro Gentiluomo sgranò gli occhi quando capì
le sue intenzioni, ma non c'era davvero modo di liberarsi da quelle
cinghie, non da solo.
Mentre la vedova Dugrival apriva il lucchetto della gabbia e ne tirava
fuori una Irene Adler incatenata e in lacrime, Lupin cercò
lo sguardo di Gabriel col proprio implorante. La ragazza tuttavia si
voltò, mordendosi a sangue le labbra sottili.
Troppe volte aveva visto casi di vittime di abusi che non trovavano la
forza di ribellarsi e Gabriel ne era il tipico esempio: come una
marionetta eseguiva ogni ordine del proprio aguzzino e si lasciava
molestare senza protestare, nonostante sapesse benissimo che fosse
sbagliato ed ingiusto.
Arsène ripensò a quel breve momento in cui aveva
visto Nicolas Dugrival posare la mano grande sulla testa del nipote,
vent'anni prima, e capì che le violenze, per quella povera
ragazza col nome da ragazzo, erano iniziate molto presto e non erano
mai finite. Per questo gli aveva chiesto di ucciderla,
perché voleva che la salvasse dal suo inferno personale.
«Non sei sola, okay?», le sussurrò, nel
disperato tentativo di farle fare la cosa giusta. «Se mi
liberi giuro che ti salverò da tua zia. Non dovrai
più fare nulla che non vuoi, nessuno alzerà
più un dito su di te».
Le spalle di Gabriel tremarono impercettibilmente e Arsène
vide un barlume di speranza quando iniziò a girare il capo
verso di lui, mostrandogli la singola lacrima che le aveva tracciato un
solco sulla guancia, ma tutto si infranse quando la zia urlò
il suo nome.
«Dammi la pistola», gli ordinò poi e il
nipote obbedì, porgendole una calibro nove.
«La prego, non lo faccia», esclamò
Arsène, guardandosi intorno alla ricerca di ispirazione.
Solo allora notò il tavolino con sopra gli attrezzi
operatori - alcuni ancora sporchi del suo sangue. Se fosse riuscito ad
arrivare al bisturi...
«Di' a Sherlock che mi dispiace»,
singhiozzò Irene, mentre la vedova Dugrival le portava la
pistola alla tempia. «Digli...».
Le luci all'improvviso si spensero, lasciandoli nel buio più
totale dato che non c'era nemmeno una finestra.
«Gabriel, accendi la luce!», gridò la
zia con fare concitato e il nipote si mosse verso la porta, ma nel
farlo andò a sbattere contro il tavolino a cui
Arsène stava cercando di arrivare, avvicinandoglielo.
Il ladro capì subito che non era stato un colpo di fortuna -
Gabriel conosceva ogni centimetro di quella stanza, era impossibile che
fosse inciampato - ma lasciò da parte la gratitudine per
prendere il bisturi ed iniziare a tagliare la cinghia che gli legava il
polso sinistro. Una volta sfilacciata gli risultò molto
più facile liberarsi anche il destro, ma a quel punto la
vedova Dugrival aveva aperto la porta della stanza trascinando per le
catene Irene Adler e chiamando a gran voce due uomini della sicurezza
perché prendessero Arsène Lupin e lo portassero
nel suo ufficio.
Il Ladro Gentiluomo provò a difendersi usando il bisturi, ma
venne ben presto disarmato e ridotto all'impotenza. Di nuovo.
Gabriel lo incatenò con le manette dei carcerati, quelle che
legavano insieme mani e caviglie, e così impossibilitato
Arsène fu trascinato fino all'ufficio della Dugrival, dove
fu messo in ginocchio sulla moquette verde, accanto ad una Irene Adler
priva di sensi, probabilmente per via della catena che le aveva
lasciato nuovi, orribili segni intorno alla gola.
Il ladro si chinò subito sulle sue labbra con l'orecchio e
tirò un sospiro di sollievo quando sentì che
respirava ancora, anche se debolmente.
«Non so cosa sia successo, ma qui non verremo più
interrotti», esclamò la donna e in risposta le
luci si accesero e si spensero tre volte, lasciando lei e il nipote
senza parole.
«Sono i tuoi uomini?», gli chiese la Dugrival,
afferrandolo per i capelli e guardandolo da così vicino che
Arsène avrebbe potuto contare i pori della sua pelle
butterata.
Arsène non sapeva davvero che cosa pensare.
Aveva detto ai suoi di starne fuori ed era piuttosto sicuro che non gli
avrebbero disubbidito.
Che fosse opera di Sherlock? No... Anche ricevendo tutto l'aiuto
possibile da Mycroft non era possibile che avesse scoperto
l'identità dei suoi aguzzini ed organizzato un piano di
estrazione in così poco tempo. Inoltre non era da lui
limitarsi a certi trucchetti.
Non aveva mai creduto ai fantasmi, quindi era da scartare anche
l'intervento di Grégorie.
Sherlock diceva sempre che una volta eliminato l'impossibile quello che
rimaneva non poteva che essere la verità, ma
Arsène trovava la sua ultima ipotesi così assurda
che stentava a crederci. Per questo cavalcò l'onda della
paura per mettere con le spalle al muro la sua nemica.
«Mi avevate detto di venire da solo se volevo rivedere viva
Molly Hooper. Voi mi avete ingannato, perciò mi pare giusto
che io...».
La donna gli impedì di terminare la frase, colpendolo col
calcio della pistola sullo zigomo. Poi, voltandosi col fiato corto ed
espressione folle verso il nipote, gli disse: «Prendi le tue
cose e vai a preparare l'auto».
«Cosa?».
«Non ho bisogno di te per finire Arsène Lupin.
Avanti, vai! E non lasciare nulla di compromettente».
Gabriel cercò lo sguardo di Arsène, il quale le
sorrise con gli occhi, ringraziandola per tutto l'aiuto che gli aveva
dato.
Stava per lasciare l'ufficio quando le luci si spensero
definitivamente. Tutti si fermarono, col fiato sospeso, ma nulla
successe.
Arsène sospirò, afflitto, ed alzando gli occhi
verso la vedova, oltre la canna della pistola che teneva con entrambe
le mani, esclamò: «Se dovessi incontrare Nicolas
all'altro mondo vuole che gli dica qualcosa?».
La donna ringhiò con la bava alla bocca e premette il dito
sul grilletto. Click.
«È così la morte?»,
domandò Lupin. «A me pare proprio di essere vivo,
signora».
Lei ci riprovò, sbalordita. Sparò una, due, tre
volte, fino a quando Gabriel non le tolse l'arma dalle mani per
esaminarla.
«Sono stati tolti i proiettili», le disse,
fingendosi strabiliata.
«Com'è possibile?», balbettò
la vedova. Lo shock l'aveva resa ancora più stupida,
così stupida da non capire che l'unica persona che poteva
aver fatto una cosa simile le stava proprio accanto.
Gabriel guardò Arsène, abbozzando un sorriso
della durata di un secondo. La donna infatti si avventò sul
ladro, gridando che in quel caso l'avrebbe ucciso a mani nude.
«L'ho giurato! Non la scampi, Lupin!»,
urlò come impazzita, stringendogli la gola. «L'ho
giurato a mio marito e ogni mattina e ogni sera rifaccio il giuramento!
Vendicare il morto è un mio diritto! Ah, adesso non ridi
più, Lupin!».
In quel momento un rumore di pale fece alzare gli occhi di tutti -
Arsène compreso, anche se all'incontrario - verso la parete
di vetro. Un drone si palesò davanti a loro, portando con
sé un fazzoletto da taschino su cui qualcuno aveva scritto
con un pennarello nero: "Al riparo!", e il Ladro Gentiluomo fu il primo
a notare la piccola bomba sistemata sotto la pancia del velivolo.
Con un calcio allontanò la donna che lo voleva strangolare,
poi si tuffò su Gabriel, in piedi alle spalle della zia, e
per la seconda volta la protesse col proprio corpo mentre l'esplosione
mandava in frantumi le vetrate.
Con le orecchie che gli fischiavano dolorosamente alzò il
capo ed accarezzò il volto della ragazza, urlando:
«Tutto bene?!».
Lei annuì, tirandosi su dopo di lui, e fu lei ad accorgersi
di sua zia che, sanguinante in volto, si avviava verso la cassaforte.
«Che cosa sta facendo?», le gridò
Arsène, tossendo a causa della moquette che stava andando a
fuoco vicino alle finestre.
«Non ne ho idea! Non mi ha mai fatto guardare là
dentro!».
Ebbero presto la risposta alle loro domande: anche la vedova aveva una
bomba come piano di riserva. Li guardò con espressione folle
e fece partire il timer: avevano tre minuti prima che l'ufficio, o
forse l'intero piano, saltasse in aria.
Arsène si alzò per raggiungere la porta prima
della vedova Dugrival, ma cadde al primo passo: si era dimenticato
delle manette che gli tenevano legati insieme mani e piedi. Fu quindi
la donna a raggiungere la porta e a piazzarvisi davanti, impedendo loro
la fuga.
«Sarò lieta di morire se trascinerò
all'inferno anche Arsène Lupin!»,
gridò, per poi scoppiare a ridere con frenesia sadica.
Due minuti.
Gabriel lo aiutò ad alzarsi porgendogli entrambe le mani e
prima di lasciargliele gli consegnò le chiavi delle manette
che lo tenevano imprigionato. Quindi, prima che il ladro potesse
fermarla, corse incontro a sua zia.
Le due si azzuffarono, tirandosi i capelli e graffiandosi, ma in
qualche modo, forse sfruttando la rabbia e il rancore accumulati in
tutti gli anni di abusi, Gabriel riuscì a prevalere grazie
ad un colpo alla testa infertole con un soprammobile.
Un minuto.
Arsène, ormai libero, prese Irene tra le braccia, trovandola
spaventosamente leggera, e gridò a Gabriel di correre.
«Per andare dove?
Non sappiamo se l'elettricità sia andata via solo qui o in
tutta la struttura. E anche se ci fosse non riusciremmo mai a
raggiungere in tempo l'ascensore!», gli disse. Poi
guardò alle sue spalle ed indicò le finestre
ormai in frantumi: «Dobbiamo saltare!».
Arsène si avvicinò al bordo e guardò
la piscina sotto di lui, venendo subito colto dalle vertigini. Da
quando aveva fatto quel colpo che l'aveva costretto a fuggire in
mongolfiera odiava l'altezza, ma se voleva salvarsi doveva superare la
propria paura.
«E va bene, facciamolo!», si decise quando ormai
mancavano trenta secondi alla detonazione. Le porse la mano e Gabriel
sorrise afferrandola.
Arretrarono di qualche passo per prendere la rincorsa e contarono
insieme fino a tre, poi si lanciarono verso lo skyline londinese.
Ormai mancava solo un passo prima del tuffo nel vuoto quando qualcosa
andò storto. La mano di Gabriel scivolò via dalla
sua presa e Arsène, incapace di arrestare la propria corsa,
temette che la ragazza avesse fatto solo finta di cambiare idea sul
suicidio. Forse sarebbe stato meglio quel pensiero della
verità che scoprì voltandosi: la vedova Dugrival,
rinvenuta, con uno slancio aveva afferrato il nipote per la caviglia
sinistra e l'aveva fatto cadere a terra, sui vetri infranti che avevano
sfregiato il suo volto pallido e triste, su cui però
sbocciò un sorriso quando il suo sguardo e quello del Ladro
Gentiluomo si incatenarono per l'ultima volta.
«Grazie», gli mimò con le labbra un
momento prima che la bomba esplodesse, avvolgendo zia e nipote nel
fuoco e sbalzando via Arsène e Irene, i quali precipitarono
a velocità spaventosa verso la piscina e si schiantarono
sulla superficie azzurra.
Arsène galleggiò a lungo nell'acqua che sapeva di
cloro, tra i detriti delle due esplosioni, col corpo tanto intorpidito
e dolorante da non riuscire a risalire in superficie, le orecchie
ovattate e le palpebre che gli si chiudevano sugli occhi. Sapeva che
sopra
di sé c'erano le fiamme e il fumo e di essere scampato ad un
vero e proprio Infero, ma a quale scopo? Se non nel fuoco,
sarebbe morto nell'acqua.
Pensava davvero che quella fosse la volta buona, il triste epilogo di
Arsène Lupin, e da un lato ne fu rincuorato: davanti alle
porte dell'aldilà sarebbe potuto tornare a vestire i panni
di Raoul e magari rivedere tutte le persone che aveva perso o non era
riuscito a salvare, tra cui anche Gabriel, l'angelo le cui ali si erano
tinte di nero a furia di vivere a contatto con la cattiveria e l'odio e
che, ciononostante, aveva scelto la luce.
Era già in pace, in attesa della fine, quando
sentì due braccia afferrarlo da sotto le ascelle e
trascinarlo fuori, sull'erba bagnata di neve. Provò ad
aprire gli occhi per scoprire chi fosse il proprio salvatore, ma perse
coscienza di sé.
***
Il sole aveva appena fatto la sua comparsa, tingendo di rosa il cielo
notturno, quando finalmente Mycroft tornò ad aggiornarlo.
Sherlock prese al volo ciò che gli lanciò: il
crocifisso d'oro che in più occasioni aveva visto al collo
di Arsène e dal quale non si sarebbe mai separato di sua
spontanea volontà. Quindi seguì con gli occhi il
fratello mentre si sedeva sulla sedia al capezzale del suo letto e
chiudeva gli occhi. Non l'aveva mai visto così stanco in
vita sua.
«Siamo arrivati tardi», esordì, rendendo
realtà ciò che il detective aveva già
dedotto sperando di sbagliarsi. «Ho aspettato che i vigili
del fuoco terminassero di spegnere l'incendio e mi sono fatto dare le
prime stime. Sono stati trovati i resti di due corpi
carbonizzati».
Sherlock strinse forte il crocifisso nella mano destra ed
abbassò le palpebre, ma non trovò il modo per
chiudere le orecchie. Per fortuna non sentì ciò
che temeva.
«Entrambi femminili».
Il sospiro che gli sfuggì dalle labbra socchiuse lo fece
arrossire di imbarazzo, ma non se ne vergognò più
di tanto: l'aveva sempre detto che Arsène non meritava di
morire.
«C'è un'altra cosa che devo dirti».
«Che cosa?».
Al silenzio del più grande, Sherlock lo fissò con
un velo di preoccupazione e il cuore iniziò a scalpitargli
nel petto. Mycroft abbassò gli occhi verso il manico
dell'ombrello.
«Parla, Mycroft!».
«Riesci a camminare?».
Sherlock annuì con determinazione. Il fratello maggiore fece
entrare una delle guardie armate ed ordinò che gli venissero
tolte la manette.
Una volta libero il detective si tolse le coperte di dosso e si
staccò i cerotti collegati ai vari macchinari, ma quando
mise i piedi per terra le gambe gli cedettero. Per fortuna Mycroft fu
abbastanza svelto di riflessi e lo sostenne.
«Ce la faccio», ringhiò il detective,
allontanando il suo braccio, ma alla fine dovette arrendersi
all'evidenza: era troppo debole per camminare.
Fu portata una carrozzina e Mycroft, seguito dai due
poliziotti, scortò Sherlock fino al reparto di terapia
intensiva. Si fermarono accanto ad una stanza singola, identica
nell'aspetto e nelle dimensioni a quella del consulente investigativo,
e l'Holmes più grande gli aprì la porta.
Sherlock impiegò qualche secondo a decidersi ad entrare e
quando lo fece si disse che non avrebbe dovuto, tant'era straziante
l'immagine che registrarono i suoi occhi: lo spettro di Irene Adler -
deperita, ferita, umiliata - giaceva sotto le coperte cadide ed era
tenuto in vita da un respiratore e altri macchinari.
Sherlock resistette poco in quella stanza e di nuovo in corridoio si
coprì la testa con i pugni chiusi, un grido muto a mandargli
in fiamme la gola.
***
In quella casa in mezzo al nulla il silenzio era così
profondo che Geneviève credette di impazzire.
François non le aveva ancora fatto sapere nulla e temeva il
peggio.
Se anche suo padre fosse morto, lasciandola orfana di entrambi i
genitori, non sapeva proprio come avrebbe reagito.
Si alzò dal letto e col pc portatile sotto braccio
uscì dalla stanza per dirigersi in salotto, dove le braci
del camino producevano ancora un piacevole tepore e Maurice dormiva
pacificamente sul divano.
La ragazzina sorrise notando i riflessi dorati tra i suoi capelli
castani, colpiti dai primissimi raggi di sole, e dopo aver posato il
computer sul tavolino lo ringraziò del prestito con una
lieve carezza sul volto. Sentire la sua pelle calda sotto le dita le
fece desiderare di più ed ignorando il cuore in gola si
avvicinò per osservarlo più da vicino: le ciglia
lunghissime contro gli zigomi, il naso fine e le labbra sottili e dagli
angoli perennemente arricciati. Geneviève, arrossendo, si
domandò cos'avrebbe provato posandovi sopra le proprie. Non
aveva mai baciato nessuno e sapeva che fantasticare su Maurice non
l'avrebbe portata da nessuna parte. Baciarlo a tradimento non le
sembrava tanto meglio, tuttavia...
Come se il ragazzo avesse avvertito la sua presenza si stese supino, un
braccio piegato sopra il petto e l'altro che penzolava oltre il bordo
del divano. Le sue labbra si erano dischiuse e la bionda lo prese come
un vero e proprio invito.
Con una mano gli sfiorò delicatamente i capelli mentre si
chinava sul suo volto ad occhi spalancati, troppo agitata per
chiuderli. Erano ormai a pochissimi centimetri di distanza quando il
rumore di un'auto che percorreva la strada sterrata davanti alla villa
la fece trasalire.
Si alzò in piedi e si fiondò fuori, ignorando il
freddo pungente che la faceva tremare. Quindi corse incontro al SUV
nero e il suo sguardo incrociò immediatamente quello di
Fraçois, seduto sul lato del passeggero. Cercò di
capire qualcosa dalla sua espressione, con scarsi risultati.
Finalmente il mezzo si fermò e Geneviève
poté spalancare la portiera che dava sui sedili posteriori,
dove rimase senza fiato davanti alle condizioni di suo padre: era
bagnato fradicio, il suo volto portava i segni di diversi colpi
ricevuti e le fasciature ormai allentate sulla spalla destra erano
intrise di sangue. Soprattutto, era pallido come un morto.
«Geneviève!».
La ragazzina, frastornata, si voltò verso la direzione da
cui l'avevano chiamata, senza però riuscire a vedere
veramente chi avesse gridato il suo nome. Lo shock l'aveva come
imprigionata dentro il suo stesso corpo e per questo non
reagì quando Maurice la strinse a sé, coprendola
con la sua giacca di pelle e premendole il volto contro il suo petto.
Anche Victoire e Alain, svegliati da quell'improvviso trambusto, si
precipitarono fuori dalla villa per dare una mano e ci pensarono i due
uomini più forzuti - Alain, appunto, ed Ernest - a portare
all'interno un Arsène Lupin privo di sensi, in bilico tra la
vita e la morte.
L'anziana donna, la quale grazie al suo lavoro in ospedale aveva avuto
modo di imparare sul campo, fece del proprio meglio per fermare
l'emorragia alla spalla e poi lo avvolse in diversi strati di piumoni e
coperte, riaccendendo persino il fuoco nel camino pur di tenerlo al
caldo.
Una volta sistemato si girò verso i ragazzi più
giovani con sguardo adirato, ma fu con François che se la
prese, tirandogli un orecchio fino a farlo sedere al tavolo della
cucina, dove lo costrinse a confessare tutto quanto: dalla chiamata di
Geneviève al modo in cui si era introdotto nei sistemi
dell'hotel-casinò per collegarsi alle videocamere interne e
poter controllare qualsiasi cosa - dalle luci alle porte automatiche -
e infine anche del drone kamikaze, la sua ultima spiaggia.
Alla fine del racconto Victoire si alzò e camminò
avanti e indietro per diversi minuti, cercando di sbollire la rabbia.
Non riuscendoci, gridò: «Vi rendete conto di
quello che poteva accadere? Poteva rimanere ucciso!».
La ragazzina, seduta al fianco dell'hacker tremante - anche i suoi
vestiti erano inzuppati - e con ancora la giacca di
Maurice sulle spalle, abbassò gli occhi, mortificata.
«Ma non è successo».
Udendo quella voce, roca ed indebolita ma inconfondibile, tutti si
voltarono di scatto. Geneviève però fu la prima a
raggiungere il suo capezzale e a piangergli sul viso, le mani sulle sue
orecchie e la fronte contro la sua.
«Papà! Papà, sei vivo!».
Arsène sorrise, scostando i capelli della figlia
perché non gli facessero il solletico.
«Così pare, tesoro. Senza il vostro provvidenziale
intervento sarei sicuramente morto, perciò vi devo dei
ringraziamenti».
Geneviève si inginocchiò al suo fianco per
liberargli la visuale e il Ladro Gentiluomo cercò lo sguardo
di Fraçois, il quale unì le mani dietro la
schiena e gonfiò il petto come davanti ad un generale
dell'esercito.
«Sei stato tu a portarmi fuori dalla piscina,
vero?», gli chiese, accigliandosi. «Avrei dovuto
riconoscere subito le tue braccia rachitiche».
L'hacker vacillò, ma mantenne l'espressione stoica per
esclamare: «Yes,
Sir!».
«Perché l'hai fatto? Tu odi l'acqua. Fosse per te
non ti faresti nemmeno il bagno».
«Io... Lei aveva bisogno del mio aiuto, boss, e la mia
fobia è passata in secondo piano».
Il sorriso dolce che Arsène gli rivolse lo fece arrossire,
ma non tanto quanto il bacio che Geneviève, in punta di
piedi, andò a posargli sulla guancia.
«C'è altro che vorresti in segno di
gratitudine?», gli chiese il ladro, sogghignando.
«N-No», balbettò François,
stordito come se gli avessero dato una botta in testa.
«Come immaginavo».
La ragazzina si morse un sorriso e tornò dal padre, il quale
le strinse forte la mano sul proprio petto. Quel cuore vivo e pulsante
la rese la persona più felice del mondo, anche se non aveva
dimenticato quello che lui e Sherlock avevano fatto, abbandonando lei e
Molly nel momento del bisogno.
Anche a questo aveva pensato nelle lunghe ore trascorse in attesa:
aveva pensato alla scelta che doveva compiere e alla fine aveva preso
una decisione. Non era quello il momento per parlarne a suo padre, ma
presto o tardi l'avrebbe fatto e l'unico suo desiderio era che lui
capisse che aveva bisogno del suo spazio; che avrebbe trovato la sua
strada con le sue sole forze; che durante il cammino sarebbe caduta ma
avrebbe trovato la forza per rialzarsi; che in fondo era una Lupin e lo
sarebbe stata per sempre.
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Capitolo 23 *** Stay ***
Et voilà!
Siamo arrivati praticamente alla fine, anche se manca ancora l'epilogo
all'appello. Questo sarà il capitolo degli addii, anche se
chissà, magari si tratterà di un semplice
arrivederci :')
La storia è nata come una Sherlock X Molly
perciò, com'era prevedibile, questi due finalmente si
affronteranno. Dico finalmente
perché ne sono successe di cose nel frattempo e forse
nessuno dei due è la persona che era prima
dell'arrivo/ritorno di Lupin nelle loro vite. E bravo il nostro Ladro
Gentiluomo!
Non mi dilungo troppo nel ringraziare tutti quelli che sono arrivati
fin qui perché lo farò la prossima settimana, ma
sappiate che vi adoro tutti, dal primo all'ultimo. E' stato un viaggio
pazzesco e so che mi mancherà da morire questa storia, per
questo, come ho già anticipato a qualcuno, ho intenzione di
scrivere il famoso primo incontro tra Sherlock e Arsène -
ispirazione e impegni vari permettendo! Quindi spero che ci rivedremo
presto ;)
Un bacione a tutti e vi auguro una buona lettura!
Vostra,
_Pulse_
_____________________________________________________________________________
23. Stay
Molly aveva
deciso di prendersi qualche giorno di ferie per riprendersi da tutto
ciò che era accaduto e pensare.
Raramente
era uscita di casa, ma aveva avuto modo di tenersi aggiornata sugli
sviluppi del caso più sensazionale dell'anno grazie ai
notiziari e a Lestrade, il quale l'aveva chiamata spesso per sapere
come stesse.
A seguito
della spettacolare fuga di Arsène Lupin, uno Sherlock senza
memoria aveva negato categoricamente di aver ucciso Charles Augustus
Magnussen e la polizia aveva dovuto scagionarlo da ogni accusa in
quanto non c'erano prove a sostegno del contrario.
Alla fine
aveva vinto l'immagine eroica di Sherlock, anche se Molly sapeva che
lui aveva sparato davvero a quell'uomo; non solo perché era
stato John a dirglielo, ma perché gli aveva letto negli
occhi che anche la storia della perdita della memoria era una bugia
architettata con l'unico scopo di scagionarsi.
Per quanto
riguardava Arsène invece tutto taceva e le indiscrezioni
erano innumerevoli. C'era chi diceva che fosse morto nell'incendio
dell'hotel-casinò della signora Dugrival e chi, davanti alla
mancanza di un cadavere, sosteneva che fosse riuscito a salvarsi e a
fuggire; ancora, c'era chi diceva che quello arrestato dalla polizia
non fosse il vero Ladro Gentiluomo, ma una semplice controfigura, e
altri che pensavano che non esistesse nessuno di così
scaltro e simpatico allo stesso tempo, tanto da gridare ad una trovata
pubblicitaria francese per attirare turisti.
Anche in
quel caso Molly sapeva la verità e se la sarebbe portata
nella tomba.
Erano
già trascorsi tre giorni di solitudine ed autocommiserazione
quando l'anatomopatologa ricevette una chiamata da un numero
sconosciuto. Con cautela si portò il cellulare all'orecchio
e rimase in silenzio, in attesa di capire chi fosse il suo
interlocutore.
«Ciao
Molly».
Lei chiuse
gli occhi, sollevata e al contempo addolorata di sentire la sua voce:
era stato tutto vero e non un sogno.
«Arsène,
sei vivo».
«Ovviamente.
Tu come stai? Ho saputo che non sei andata al lavoro... Avrei voluto
che ti occupassi tu di Grégorie».
Grégorie.
Così si chiamava l'uomo che aveva dato la vita per
permetterle di fuggire. Tutti i suoi discorsi sul non voler essere
più una pedina, il corso di autodifesa... Ma chi voleva
prendere in giro? Lei era scappata e per questo quell'uomo era morto.
«Non
ho mai fatto un'autopsia ad una persona che conosco. Non credo ci
riuscirei, onestamente», rispose alla fine, a bassa voce.
«E
perché no? Guardi dentro l'animo delle persone tutti i
giorni, aprire il loro corpo non dovrebbe turbarti».
Quella
considerazione la lasciò un attimo stupita, ma com'era
abituata a fare ignorò il complimento per scuotere il capo e
sospirare: «C'è qualcosa che posso fare per te,
Arsène?».
«In
realtà ti ho chiamata per dirti che, se vuoi, sono pronto a
mantenere la mia promessa».
«Intendi...».
Molly si morse le labbra, indecisa.
Quando
aveva chiesto ad Arsène di portarla via da Londra le era
sembrato così facile, mentre ora che doveva dargli una
risposta definitiva era così confusa che si sentiva
scoppiare la testa. Inoltre, dopo quello che era successo,
perché voleva ancora aiutarla?
«Ascolta...
Se pensi che quello che è successo a Grégorie sia
colpa tua ti sbagli. La responsabilità è mia e
mia soltanto», le disse ad un tratto, rompendo il silenzio.
«Detto questo... So che è una decisione difficile
e non voglio metterti alcuna pressione, ma io non posso più
stare in Inghilterra».
«Sì,
certo». Molly tirò su col naso, accorgendosi solo
in quel momento di star versando lacrime di cui non ne capiva la
ragione. Quella principale, almeno. Si passò velocemente una
mano sulle guance per spazzarle via ed abbozzando un sorriso aggiunse:
«Non sarò di certo io a trattenerti».
«È
un peccato».
«E
perché?».
Arsène
esitò, per poi ammettere con una breve risata: «Ho
sperato fino all'ultimo che mi dicessi di restare».
L'anatomopatologa
chiuse gli occhi, realizzando ciò che il ladro aveva voluto
dire, ciò che lui aveva capito ancor prima di lei: non
sarebbe mai partita e il motivo era uno soltanto, di nome Sherlock. Ed
era un vero peccato perché Arsène, ignorando la
sua lunga lista di crimini e la sua fama di conquistatore, era un uomo
di cui avrebbe tanto voluto innamorarsi.
Contro ogni
pronostico lui era stato in grado di darle stabilità in un
momento in cui aveva sentito la Terra girare troppo velocemente sotto i
suoi piedi. L'aveva stretta quando ne aveva più bisogno e
l'aveva amata per davvero, anche se solo per una notte.
I loro due
mondi, due universi paralleli all'apparenza incapaci di interagire tra
loro, si erano incontrati a metà strada ed era stata
un'anomalia, un evento raro ed irripetibile dal quale ne erano usciti
entrambi arricchiti.
«Alle
dieci di questa sera un'auto si fermerà sotto casa tua e ti
aspetterà. Potrai scegliere di salire e raggiungermi, oppure
di non farlo. Qualsiasi scelta farai voglio che tu sappia che
io...».
«No»,
lo interruppe Molly, coprendosi gli occhi con un braccio nel tentativo
di arrestare le lacrime. «Non lo dire, per favore».
Era certa
che in quel momento, se solo fossero stati faccia a faccia, avrebbe
visto un sorriso tenero sbocciare sulle sue labbra rosee.
«Allora
addio, Molly Hooper. Se mai dovessi cambiare idea...».
La
comunicazione si interruppe prima che lei potesse rispondere e questo
fu l'ennesimo colpo al cuore. Lanciò il cellulare da parte e
si strinse le ginocchia al petto, il volto nascosto tra le braccia e i
singhiozzi ora incontrollabili che le squassavano la schiena.
Rimase in
quella posizione per diversi minuti, precisamente fino a quando il
campanello non la fece trasalire. Il suo primo pensiero fu che
Arsène avesse cambiato idea, perciò si
precipitò alla porta asciugandosi il volto con le maniche
della felpa. Rimase delusa però, dato che sul pianerottolo
c'era la signora Lee, appena tornata dalla sua vacanza all-inclusive in
Costa Azzurra.
«Tesoro,
ti senti bene?», le chiese saltando i saluti, preoccupata.
Molly fece
del suo meglio per sorridere. «Sì, io... mi sono
commossa davanti ad un film. Lo sa che sono una frignona».
L'anziana
vicina sorrise a sua volta e cambiò argomento: «Mi
dispiace di essere andata via senza avvisarti. Spero che non sia
successo nulla durante la mia assenza e soprattutto che mio nipote non
abbia dato problemi».
«Thomas?»,
chiese Molly, sorpresa dalla tranquillità con cui la donna
aveva retto il gioco di Lupin. Ma soprattutto fu spiazzata dalla
domanda, alla quale era difficile dare una risposta onesta. Avere il
Ladro Gentiluomo come vicino le aveva dato problemi? Molti, ma avrebbe
rifatto tutto quanto.
«No,
nessun problema», rispose alla fine.
Le due si
scambiarono uno sguardo imbarazzato, poi la signora Lee
abbassò gli occhi sulla singola rosa rossa che teneva tra le
dita e come se si fosse dimenticata di averla esclamò in
fretta: «Questa era sul tuo zerbino, tesoro. L'ha lasciata un
giovanotto biondo. Gli ho chiesto perché non avesse suonato
e mi ha risposto che era meglio così».
«Lui...
lui era qui?», balbettò Molly, ma non
aspettò di sentire la risposta.
Strappandole
la rosa dalle dita corse giù dalle scale in ciabatte e una
volta sul marciapiede guardò sia a destra che a sinistra, ma
di Arsène non c'era più traccia e il vuoto che
sentì all'altezza del petto le diede molto da pensare.
***
Sherlock
aveva firmato i moduli per la dimissione il giorno prima, tuttavia si
trovava ancora all'ospedale, davanti alla porta chiusa della stanza di
Irene Adler.
Ormai
andarla a trovare era diventata un'abitudine, specie quando si era
accorto che nessun altro l'aveva fatto.
La
Dominatrice era sola al mondo, proprio come lo sarebbe stato lui se non
avesse avuto dei genitori amorevoli, un fratello maggiore che
nonostante il carattere freddo e presuntuoso non poteva fare a meno di
preoccuparsi per lui e degli amici che per qualche motivo a lui ancora
sconosciuto avevano deciso di rimanergli accanto nel bene e nel male.
Per questo
capì subito che c'era sotto qualcosa quando una delle
infermiere si presentò con un mazzo di gerbere colorate.
La
fermò sulla porta chiedendole chi gliele avesse mandate e
lei gli indicò il bigliettino attaccato al bouquet, poi
portò il vaso all'interno e lo sistemò sul
comodino.
Quando
tornò in corridoio Sherlock era già andato via.
Dopo il suo
ritorno nel mondo dei vivi la sua tomba avrebbe dovuto essere abbattuta
in modo da poter usare quel fazzoletto di terra per il riposo eterno di
qualcuno di veramente morto, ma Sherlock si era opposto e aveva
concordato di pagare uno sproposito - sottoforma di affitto mensile -
per tenerlo.
Tutti, chi
prima e chi dopo, gliene avevano chiesto il motivo e la sua risposta
era sempre stata la stessa: «Mi piace il posto». In
realtà però la vera motivazione era un'altra:
ogni tanto gli piaceva andare lì, sedersi contro la fredda
lapide di marmo nero e pensare alla propria vita. Era uno dei pochi
posti in cui riusciva ad apprezzare davvero ciò che aveva,
in cui capiva quanto fosse stato fortunato, e in qualche modo
Arsène doveva averlo scoperto. O forse, più
semplicemente, aveva deciso di dargli appuntamento lì solo
perché gli sembrava poetico.
Il
detective, giunto davanti alla propria lapide, si guardò
intorno confuso. Estrasse il bigliettino allegato al mazzo di fiori per
Irene e lo rilesse per sicurezza. Non l'aveva mal interpretato, eppure
di Arsène non c'era traccia.
All'improvviso
lo squillo di un cellulare gli fece rizzare le orecchie e con cautela
aggirare la lapide, dietro la quale trovò un prepagato e una
rosa rossa. Infastidito si chinò a raccogliere entrambi e
posandosi il telefono contro l'orecchio esordì:
«Teatrale come al solito, vedo».
«Lo
sai che è la mia specialità, ma questa volta ha
anche un fine pratico. Gli addii non sono mai stati il mio forte,
dopotutto».
Sherlock si
sedette sulla sommità della lapide e si rigirò la
rosa tra le dita, poi se la portò al naso per aspirarne il
profumo.
«Sembri
triste, mon ami.
Volevi sincerarti delle mie condizioni di salute, per caso?».
Sherlock
abbassò subito la rosa e tornò a guardarsi
intorno, le labbra arricciate sui denti come un cane rabbioso.
«Mi stai guardando?».
«Forse»,
replicò Arsène, divertito.
«È davvero così importante per te?
Rischio di illudermi, Sherlock caro...».
«'Sta
zitto».
«Ecco,
ora ti riconosco».
Nessuno
parlò più e Sherlock provò a
concentrarsi sui rumori provenienti dall'altro lato del telefono, in
modo da poter cogliere degli indizi sull'ubicazione di
Arsène, ma a parte qualche interferenza ogni tanto e il
rumore del traffico non aveva elementi che potessero aiutarlo.
«Voleva
che ti dicessi che le dispiace», disse ad un tratto il ladro,
triste come se gliene fosse davvero importato qualcosa di Irene.
Sherlock
strinse forte il gambo della rosa, pungendosi con una spina e
preferendo quel dolore a quello che sentiva in mezzo al petto.
«Me
lo dirà di persona quando si
sveglierà», affermò.
«Lo
spero tanto», sussurrò, ma per il detective fu fin
troppo facile capire che non ci credeva veramente.
Non era da
Arsène augurare a qualcuno la morte, ma non lo biasimava
nemmeno: era colpa di Irene, d'altronde, se lui, Geneviève e
Molly avevano rischiato la vita; era colpa sua se Grégorie
la vita l'aveva persa.
«Perché
hai provato a salvarla?», gli chiese quindi.
«Avresti potuto lasciarla tra le fiamme, invece...».
«Lei
l'avrebbe preferito senz'altro», lo interruppe, lasciandolo
senza parole.
Irene
Adler... la stessa Irene che lottava fino allo stremo delle forze e
calpestava chiunque pur di ottenere ciò che desiderava,
davvero lei...?
«E
io non potevo permetterlo», aggiunse Arsène.
«Lo sai come la penso sul suicidio. E poi se fosse morta tu
ne avresti sofferto, quindi...».
«Presumo
che il mio debito con te non si sia ancora estinto, anzi...».
«Debito?
Quale debito?».
«Non
scherzare».
«Mai
stato più serio in vita mia. Tu, piuttosto, hai avuto
proprio una bella idea a far finta di aver perso la memoria: ti ha
tolto un bel po' di gatte da pelare».
«Credi
che abbia fatto finta?».
«Oh,
avanti!».
Sherlock
rimase in silenzio e sollevò le sopracciglia, certo che
Arsène lo stesse ancora guardando. Ma da dove? Se solo
avesse avuto un indizio, uno solo...
«Mi
stai dicendo che davvero...?». Il ladro ora sembrava davvero
agitato. «E il nostro bacio, te lo ricordi?».
«Ho
perso i ricordi degli ultimi diciassette anni, quindi purtroppo quello
me lo ricordo ancora».
«No,
no, no! Noi ci siamo baciati un'altra
volta, dopo la nostra evasione!».
«Non
prendermi in giro. Ho giurato a me stesso che non sarebbe
più accaduto e se è successo davvero, allora tu
devi esserti approfittato di me».
«Cosa?
No, assolutamente! Tu avevi preso un po' di scosse elettriche, questo
è vero, ma eri perfettamente cosciente e consapevole delle
mie intenzioni! E non ti sei allontanato, tu...!».
Alla fine
non ce l'aveva fatta: non era bravo come Arsène a mentire e
un ghigno gli aveva sollevato impercettibilmente l'angolo sinistro
della bocca, tradendolo.
«I
miei complimenti!», gridò Arsène,
ridendo. «Hai buone possibilità di prendere per il
naso Scotland Yard, la regina e la nazione intera, ma dovrai fare di
meglio con Molly Hooper».
Sapeva che
prima o poi avrebbe aperto l'argomento, tuttavia Sherlock si
ritrovò a stringere i pugni lungo i fianchi e a cercarlo con
ancora più foga: dietro gli alberi e le statue tombali, nel
campanile della cappella, negli edifici che si innalzavano oltre
entrambi i lati del parco.
«Dovevi
continuare a fingerti morto per far sì che mantenessi la
promessa. Un errore grossolano da parte tua», gli disse il
detective.
«No,
sappiamo entrambi che non l'avresti mai fatto comunque. È
per questo che hai usato il trucco dell'amnesia: pensavi che, nella
peggiore delle ipotesi, avresti finto di non ricordare di averle detto
"Ti amo" pur di non darle spiegazioni».
Sherlock
girò in tondo come una trottola, tanto da farsi venire il
mal di testa. «Come...? Chi ti ha raccontato la fine della
storia? È stata lei?».
«No,
l'ho semplicemente dedotta. Allora, com'è successo?
Scommetto che tu hai chiesto a Molly di dirti quelle tre parole e lei
ti ha costretto a dirle per primo. Dimmi, ci ho preso?».
«L'ho
fatto solo perché pensavo ci fosse una bomba nel suo
appartamento!».
«Non
ho alcun dubbio che tu l'abbia fatto per salvarla. Avresti detto
qualsiasi cosa anche per salvare John, la signora Hudson o Lestrade.
Quelle parole però... una volta pronunciate non si desidera
altro che ripeterle se la persona davanti a noi è quella
giusta, vero? Rimangono lì, sulla punta della
lingua...».
Sherlock se
la morse, perché era vero. Erano innumerevoli le volte in
cui, incrociando Molly e leggendo la tristezza nei suoi occhi, aveva
voluto gridarglielo in faccia fino a farle capire che era vero anche
per lui, che quelle parole non erano affatto prive di significato come
pensava.
«Beh,
è stato bello chiacchierare con te»,
esclamò Arsène, con quel suo tono allegro tanto
caratteristico. «Adesso però devo andare: la pausa
pranzo è quasi finita e sarebbe un bel guaio se il signor
avvocato mi trovasse ancora qui».
Avvocato?
Sherlock si
voltò di scatto verso il grattacielo alla sua destra, il
quale, si ricordò, ospitava lo studio di un importante
divorzista, uno dei migliori e più pagati di Londra. Da
qualche tempo girava anche voce che nella sua cassaforte conservasse
per una delle sue clienti fedifraghe una collana di perle dei Mari del
Sud.
Lassù,
appeso ad una semplice imbragatura, c'era un lavavetri che lo stava
osservando con un potente binocolo.
«Ops,
penso di essermi fatto scoprire», esclamò
Arsène, per poi salutarlo con la mano con cui teneva la
spatola.
Sherlock
corse via dal cimitero, attraversò la strada facendosi quasi
investire e poi entrò nell'elegante hall dell'edificio. Il
portinaio fece per fermarlo, ma non appena lo riconobbe lo
lasciò passare e il detective, dopo avergli chiesto a che
piano si trovasse l'ufficio dell'avvocato, prese l'ascensore.
Il
tragitto, per quanto breve, lo innervosì tanto da picchiare
un pugno contro la parete ed imprecare. Non l'avrebbe sopportato se
fosse arrivato tardi.
Alla fine
le porte si aprirono, silenziose, e come aveva detto Arsène
tutti quanti erano in pausa pranzo, rendendo il piano deserto.
Passò
la reception e si lanciò contro la porta dell'ufficio,
trovandola aperta. A sorprenderlo quindi non fu la cassaforte svuotata,
bensì vedere il Ladro Gentiluomo ancora dall'altra parte
della facciata di vetro, che fischiettava mentre lavorava col braccio
sinistro. Perché non era scappato?
Sherlock si
avvicinò alla vetrata e lo chiamò col cellulare
prepagato che stringeva ancora in mano.
Arsène
premette un tastino sul dispositivo bluetooth che aveva all'orecchio e
rispose col sorriso: «Sherlock, sei qui di fronte a me
vero?».
«Sì».
«Vetro
riflettente, mi dispiace. Ma tu mi vedi, perciò... sei
contento?».
Sherlock lo
esaminò e posò una mano sul vetro all'altezza del
suo viso, appurando che stava dicendo la verità: tutto
ciò che Arsène vedeva, da fuori, era la propria
immagine riflessa.
Sul volto
del ladro poté contare lividi nuovi su quelli vecchi,
diverse abrasioni e un taglio sul labbro che doveva fargli parecchio
male ogni volta che sorrideva.
«Ti
hanno sparato alla spalla destra, ma per il resto sembri stare
bene», gli disse, ignorando l'incomprensibile desiderio di
toccarlo per convincersene al cento percento.
«Perché hai aspettato tre giorni prima di farmi
sapere che eri vivo?».
«Gesù
è risorto il terzo giorno».
«Ti
stai paragonando a Gesù?».
«No,
la mia era solo una battuta. Però si trattava di certo di un
uomo straordinario».
Sherlock
strinse gli occhi. «Mi rifiuto di credere che sia esistita
una persona in grado di fare miracoli, o che sosteneva che gli ultimi
sarebbero stati i primi».
«Io
sono cresciuto come un bravo cattolico, quindi credo in Dio e nelle
seconde occasioni», rispose tranquillamente il ladro.
«Tutti meritano di poter rimediare ai propri
errori».
«Certi
peccati non dovrebbero essere perdonati, invece. Certe
persone...».
«Sei
troppo duro con te stesso», lo interruppe Arsène,
abbassando la spatola per rivolgere lo sguardo verso dove credeva che
fosse. Sbagliò di pochi centimetri.
«Riconosco
che tu abbia commesso un errore, ma anche che le tue intenzioni erano
buone: hai agito per salvare la famiglia del tuo migliore amico e per
quanto mi riguarda sei
perdonato».
Sherlock
avrebbe tanto voluto che il suo perdono potesse alleviare il senso di
colpa che si sarebbe portato dietro per tutta la vita.
Sarebbero
potuti stare lì a parlarne per ore, senza convincere l'altro
a cambiare opinione, per questo decise di affrontare un altro argomento.
«Perché
tutto questo disturbo per una collana di perle? Tu soffri di
vertigini!».
Arsène
ridacchiò e ammise: «Sto cercando di vincere le
mie paure. Magari tu dovresti fare altrettanto, prima che sia troppo
tardi».
«A
cosa ti riferisci?», gli chiese il detective, di nuovo sulle
spine e con un brutto presentimento. «Parla chiaro per una
volta!».
Arsène
sospirò e con una smorfia di dolore si sporse per
raggiungere un angolo alla sua sinistra. «Devo proprio
imboccarti! Sto parlando di Molly, stupide.
Era solo una questione di tempo prima che raggiungesse il limite e
quando noi due... sì, insomma, quando ci siamo avvicinati mi
ha confessato di volersene andare».
Sherlock
sentì il mondo crollargli sotto i piedi.
«Andare?», ripeté, come inebetito.
«Non capisco. Dove dovrebbe...?».
«Lontana
da te, Sherlock. Col tuo atteggiamento scostante l'hai portata
all'esasperazione, tanto da convincerla che trascorrere del tempo
all'estero l'avrebbe aiutata a dimenticarti. Ho provato a dirle
che...».
«Se
se ne andasse sarebbe la cosa migliore».
A quelle
parole, pronunciate con tono di voce fermo e privo di qualsiasi
emozione, Arsène si infuriò e lo
guardò - più o meno - con tutta la cattiveria di
cui era capace.
«Per
chi? Dannazione Sherlock, proprio non lo vuoi capire che il cuore non
si può controllare! Se le permetti di andarsene vivrete
entrambi nella sofferenza!».
«Se
si trattasse di Geneviève non faresti tutto quanto
è in tuo potere per tenerla al sicuro? O se avessi potuto
evitare che Grégorie morisse...».
«Smettila!»,
gridò ancora il Ladro Gentiluomo, picchiando un pugno sul
vetro. «È ovvio che voglio che
Geneviève non corra alcun tipo di pericolo! E so che
è colpa mia se Grégorie non c'è
più! Tu non sai quante volte... quante volte l'ho pregato di
stare nelle retrovie e di non rischiare la sua vita! Lui conosceva i
rischi, eppure ha deciso di stare al mio fianco ed è questo! -
è questo che non puoi impedire! Non puoi costringere
qualcuno a fare ciò che vuoi tu, perché non
è giusto! E nel caso di Molly, costringendola a partire la
condanneresti ad una vita ancora più miserabile.
È questo che vuoi, Sherlock?».
Il
consulente investigativo abbassò gli occhi e non rispose,
profondamente turbato. Anche John, non molto tempo prima, gli aveva
fatto un discorso simile.
Arsène
sospirò e scosse mestamente il capo, poi guardò
l'orologio che portava al polso e si infilò la spatola in
uno dei passanti del marsupio.
«Sarà
meglio filarcela ora», esclamò, per poi appoggiare
la mano sinistra e guantata sul vetro appena pulito. «Molly
ha tempo fino a questa sera alle dieci per decidere. Spero che tu
faccia la cosa giusta, Sherlock».
Abbozzò
un sorriso venato di malinconia e posò anche le labbra sul
vetro, in un bacio casto. «Au revoir, mon ami».
Il
detective si lanciò contro il vetro, come a volerlo
afferrare, ma Arsène tirò la leva dell'argano a
cui era imbragato e il cavo d'acciaio si srotolò dal
verricello che si trovava sul tetto del grattacielo, permettendogli di
scendere rapidamente.
«Arsène,
aspetta!», gridò il detective e si
precipitò fuori dall'ufficio, imbattendosi nell'avvocato di
ritorno dalla pausa pranzo. Questi, infuriato, gli chiese che cosa ci
facesse lì e chi l'avesse lasciato passare, ma Sherlock lo
ignorò per correre giù dalle scale.
«È
inutile affannarsi in quel modo», gli disse il ladro, ancora
all'altro capo del telefono. «Non riuscirai a
raggiungermi».
«Allora
dimmi almeno che ne sarà di Geneviève! Ha deciso
di seguirti?».
«Giusto,
me ne stavo quasi dimenticando! Ha scelto di accettare la proposta di
Mycroft e mi ha raccomandato di salutarti e di dirti che
tornerà a Londra per le vacanze pasquali».
Sherlock
sorrise, felice di sentire finalmente una buona notizia.
«Farò in modo di organizzarle una caccia alle
uova».
«Credo
che le farebbe più piacere fare una caccia al criminale, se
capisci cosa intendo».
Delle urla
di sorpresa costrinsero Sherlock ad arrestare la sua corsa per entrare
negli uffici di un call-center.
«Mi
scusi madam,
non volevo spaventarla», esclamò Arsène
davanti alla finestra che doveva aver in precedenza manomesso
perché sembrasse chiusa all'apparenza ed apribile con un
semplice calcio. Quindi si sganciò il cavo dall'imbragatura
e fece lo slalom tra le varie postazioni per raggiungere l'ascensore.
Sherlock si
precipitò all'inseguimento, ma non fu abbastanza veloce: il
ladro ebbe il tempo per premere il pulsante del pian terreno e
salutarlo con un'occhiolino prima che le porte si chiudessero,
lasciandolo fuori.
«Maledizione!»,
gridò il detective, battendovi i pugni con rabbia.
Ritornò
alle scale, rifiutandosi di gettare la spugna, e Arsène rise
sentendo il suo respiro affannoso.
Una volta
giunto alla reception la gola gli bruciava, ma era riuscito a fare
prima dell'ascensore, le cui porte si aprirono davanti a lui per
riservargli l'ennesima cocente delusione: Arsène si era
tolto imbragatura e vestiti da lavavetri e aveva smontato uno dei
pannelli del soffitto per poter scendere ad un altro piano senza che
lui se ne accorgesse.
Furente,
Sherlock si riportò il cellulare all'orecchio ed
esclamò: «Non ti sembra un trucco visto e
rivisto?».
«Banale,
vero? Beh, sai quello che si dice: a volte bisogna sapersi
accontentare. Alla prossima!».
Arsène
terminò la comunicazione e Sherlock gettò il
prepagato a terra, rompendolo in mille pezzi. Uscì
dall'edificio e guardò a destra e sinistra alla ricerca del
ladro o almeno del suo mezzo per la fuga. Stava per arrendersi quando
notò un grosso SUV nero, con tanto di finestrini oscurati,
uscire da un vicolo laterale per immettersi nella strada principale. A
confermare i suoi sospetti fu lo stesso Arsène, il quale
uscì dal tettuccio e lo guardò sorridendo,
tirandosi indietro i capelli scompigliati dal vento con una mano e
salutandolo con l'altra.
«Mi
mancherai!», gli gridò prima che il SUV svoltasse,
scomparendo alla sua vista e diventando impossibile da raggiungere.
Sherlock si
piegò sulle ginocchia, senza fiato, e ad un tratto
scoppiò a ridere, ricevendo le occhiate stupite e confuse
dei passanti. Quando si sollevò, con una mano sullo stomaco,
aveva le lacrime agli occhi.
«Anche
tu mi mancherai», mormorò. «Anche
tu».
***
«Ehi,
va tutto bene?».
Geneviève
si voltò verso Maurice, il quale l'aveva raggiunta nella
veranda sul retro dove in quei giorni si era rifugiata spesso a pensare
a come sarebbe stata la sua vita d'ora in avanti.
Alla fine,
dato che in quella villa c'erano diverse camere per gli ospiti, il
reporter era stato invitato a restare e lui aveva accettato per
rimanere al fianco del Ladro Gentiluomo.
La
ragazzina gli rivolse un piccolo sorriso ed annuì, poi
tornò a fissare le colline, avvolta in una coperta di pile.
«Con
me puoi parlare, lo sai», le disse ancora, sedendosi a
cavalcioni della spessa ringhiera di legno, al suo fianco.
Incrociando
i suoi sinceri occhi castani, Geneviève cedette con un
sospiro.
«Avrei
voluto salutare di persona Sherlock, John e Molly,
soprattutto».
«Forse
tuo padre voleva risparmiarti il dolore degli addii».
Si strinse
nelle spalle, imbronciata. «Non lo trovo giusto
comunque».
«Prendere
decisioni ingiuste per i figli è il lavoro principale di un
genitore», esclamò Maurice, ridacchiando.
«Ne
parli come se...».
«Come
se ci fossi passato. Già...».
Guardandolo
a capo chino, Geneviève non potè resistere e
posò una mano sulle sue, strette sulla trave di legno su cui
erano seduti. A quel tocco Maurice alzò di scatto il volto e
le sorrise, ma era fin troppo evidente che si stava sforzando.
«I
miei genitori non volevano che facessi il reporter. Avevano deciso per
me una vita del tutto diversa, senza chiedermi cosa volessi io, e
tutt'oggi non ci parliamo per questo. Ma tuo padre è
diverso: ha scelto di stare dalla tua parte qualsiasi strada avessi
intrapreso. A proposito, sei proprio sicura di voler frequentare quella
scuola?».
Geneviève
annuì con un cenno del capo, tornando a guardare le colline.
«Come
l'hai chiamata? Scuola per giovani dotati? Tipo quella degli
X-Men?».
La
ragazzina rise e si guardò le Vans rosse. «Da come
l'ha descritta Mycroft Holmes sembra più una Wammy's House:
un istituto per ragazzini con un QI superiore al normale oppure con
familiari eccezionali che vengono istruiti per diventare risorse utili
al Governo».
«Quindi...
niente matematica?».
Geneviève,
sempre senza guardarlo, gli tirò un pugnetto sul petto.
«Durante
la mattinata frequenterò le lezioni di un normale
liceo», gli spiegò. «Mentre nel
pomeriggio corsi extra in base alle mie... capacità, ecco.
Combattimento corpo a corpo, lancio di coltelli,
escapologia...».
«Potrò
venire a trovarti?».
La
ragazzina perse il sorriso per lo shock e lo guardò, confusa
e col cuore che le batteva impazzito nel petto.
Maurice
parve arrossire e si passò una mano sulla nuca, imbarazzato.
«Sarebbe bello scrivere un articolo su una scuola del
genere».
«Credo
che sia un programma top secret. Io stessa ho dovuto firmare un accordo
di segretezza».
«Capisco».
«Però...».
Geneviève abbassò gli occhi, tanto nervosa da
allontanare la mano da quelle di Maurice per torturarsele in grembo.
«Avrò anch'io delle vacanze, quindi potremmo
vederci e potrei raccontarti qualcosa... off the record,
naturalmente».
Maurice le
prese delicatamente il mento tra le dita e la costrinse ad incrociare
il suo sguardo. Sorridendo, rispose carezzevole: «Mi
piacerebbe molto».
La
ragazzina deglutì e fissò quelle labbra che da
tre giorni a quella parte erano la sua ossessione. Socchiuse gli occhi
e si avvicinò al suo volto, decisa ad andare fino in fondo
quella volta, ma la porta alle loro spalle si aprì
all'improvviso, facendola allontanare di scatto e con le guance in
fiamme.
François
si rese conto di aver interrotto qualcosa, ma ne sembrò
quasi lieto.
«È
pronto in tavola!», annunciò, per poi rivolgere
un'occhiata velenosa a Maurice.
Una volta
rientrato, il reporter tirò fuori dalla giacca il pacchetto
di sigarette e se ne accese una ridacchiando.
«Non
gli piaccio proprio, eh?».
Geneviève,
imbarazzata, provò a spiegare: «Non sei tu,
è che...».
«Lo
capisco. Se avessi la sua età mi comporterei anche io
così», disse, strizzandole l'occhio. Poi
indicò la porta con un cenno del capo, aspirando la prima
boccata di fumo: «Vai avanti, io finisco di fumare e ti
raggiungo».
La
ragazzina deglutì nuovamente, nonostante la gola secca, e
non se lo fece ripetere due volte. Sulla porta si fermò ad
osservarlo: appoggiato alla colonna, con un ginocchio sollevato e il
gomito su di esso, gli occhi rivolti all'orizzonte. Guardando il suo
profilo sereno pensò che prima o poi sarebbe riuscita a
baciarlo; ormai era una sfida col destino e lei l'avrebbe vinta.
***
Arsène
si sistemò la cravatta e poi scivolò all'interno
del cinema privato di Mycroft Holmes, seduto in prima fila e con un
bicchiere di whisky nella mano destra.
Sul grande
schermo venivano proiettate vecchie fotografie in cui non c'erano solo
i due Holmes a lui conosciuti, bensì anche una bambina coi
codini e un bambino pel di carota della stessa età di
Sherlock e con una grossa benda da pirata sull'occhio sinistro.
«Quindi
sei venuto davvero», esclamò Mycroft, prendendolo
alla sprovvista. Era talmente concentrato su quelle diapositive che per
un attimo aveva perso il contatto con la realtà.
«Sarebbe
stato scortese rifiutare il tuo invito, Myc».
Il Ladro
Gentiluomo sorrise e facendo roteare il bastone da passeggio scese i
gradini ricoperti di moquette per raggiungere il maggiore dei fratelli
Holmes. Quindi si sedette al suo fianco e si portò una mano
a sostegno del volto, un dito sulla tempia e gli occhi concentrati.
«Quella
bambina... è chi penso che sia?».
«Eurus
Holmes», rispose Mycroft, sospirando.
«E
il bambino?».
«Victor
Trevor. Il migliore amico di Sherlock».
«Ouch.
Pensavo di essere io il suo migliore amico».
«Non
ti preoccupare, è morto».
Arsène
si voltò, scioccato, e poi si alzò per poter
guardare meglio le fotografie. La sua ombra copriva una parte dello
schermo, ma a lui non importava.
Ad un
tratto, con le fronte solcata da profonde ed inestetiche rughe di
apprensione, indicò la sorella minore di Sherlock e chiese:
«È stata lei ad ucciderlo?».
Mycroft si
limitò ad annuire, bevendo ciò che rimaneva del
suo drink.
«Perché?».
«Voleva
che Sherlock giocasse con lei».
Arsène
lo fissò a bocca aperta. «Mi stai prendendo in
giro?».
«Temo
di no».
«Très bien».
Il Ladro Gentiluomo si avvicinò al maggiore dei fratelli
Holmes a passo pesante e lo sollevò dalla poltroncina rossa
prendendolo per il gilet con entrambe le mani. Avvicinando il volto al
suo sibilò: «Parliamo di affari?».
«Ti
ho chiamato qui apposta», rispose con calma Mycroft,
sorridendo con quel suo fare serpentesco.
Si
spostarono nella luminosa sala da pranzo, il cui lungo tavolo in mogano
la faceva da padrone, e Mycroft lo pregò di sedersi a
capotavola mentre lui frugava in un cassetto per tirarvi fuori una
cartelletta e una penna stilografica. Posò il tutto davanti
a lui e Arsène sfogliò distrattamente i documenti.
«Lo
sai Arsène, mi sbagliavo su di te», ruppe il
silenzio Holmes. «Non sei affatto un criminale come tutti gli
altri».
Il Ladro
Gentiluomo abbozzò un sorriso e si sedette in maniera
più composta. «Che cosa ti ha fatto cambiare
idea?».
«Diverse
cose, in realtà».
Mycroft
passeggiò intorno al tavolo, sfiorando con la mano sinistra
i pomoli appuntini delle sedie, e alla fine si sedette davanti a lui.
«Il
fatto che tu stia affidando a me l'istruzione di tua
figlia...».
«Ricordi
quando mi dicesti che i figli possono essere una rovina? In questo caso
ho capito di essere io la rovina per mia figlia. Voglio solo il meglio
per lei e se poi deciderà comunque di seguirmi, tanto di
guadagnato».
«Che
tu abbia salvato Irene Adler nonostante il tuo disprezzo per
lei», continuò il maggiore dei fratelli Holmes.
«E che tu abbia impedito a Sherlock di seguirti dopo
l'evasione. L'hai fatto per proteggerlo, non è
vero?».
«Quello
che non hai mai capito, Myc, è che io tengo davvero a
Sherlock. Gli voglio bene, gliene ho voluto sin dal primo giorno, e
credo che se le cose fossero diverse... se io non fossi ciò
che sono... credo che saremmo stati felici insieme».
Mycroft si
accigliò e posò con cautela le mani sul tavolo.
«E anche Sherlock la pensa così? È per
questo che voleva redimerti? Perché... Perché ti
ama?».
«Amore...
Oh, magari!», esclamò ridendo, per poi
abbandonarsi allo schienale della sedia e guardare il soffitto.
«Diciassette anni fa, forse, prima che gli spezzassi il
cuore...». Tornò a guardarlo negli occhi e sorrise
furbescamente, le mani intrecciate sotto il mento. «Ma non
sono venuto qui per parlare del passato».
«Giusto,
tu sei uno che guarda sempre al futuro». Mycroft
indicò i documenti e gli spiegò:
«Apponendo una firma lì sotto accetti che tua
figlia frequenterà l'istituto per giovani dotati in cambio
del tuo silenzio e della distruzione di ogni prova fisica in tuo
possesso che attesti l'esistenza di Sherrinford».
«Isola
segreta per isola segreta, mi pare giusto»,
esclamò Lupin con una scrollata di spalle. Prese in mano la
penna, ma prima di apporre la propria firma alla fine della pagina
scritta fitta fitta disse: «E per quanto riguarda l'omicidio
di Magnussen? Ti ricordo che possiedo i filmati non truccati dai tuoi
uomini. Vuoi lasciarmi un'arma di ricatto del genere?».
Mycroft si
passò una mano sul volto. «Che cosa
vuoi?».
Arsène
gli rivolse un largo sorriso. Chiuse la cartelletta fermandovi i fogli
con la penna e gliela passò facendola scivolare sulla lucida
superficie del lungo tavolo.
«Avanti,
non fingere di non avere pronto un asso nella manica», gli
disse con tono divertito. «Credi mi sia dimenticato del furto
di cui mi avete accusato tu e Sherlock?».
Mycroft
deviò il suo sguardo, forse per non fargli vedere il
sorrisino che gli aveva incurvato gli angoli della bocca. Il ladro
allora si alzò e andò a sedersi sul bordo del
tavolo, a gambe accavallate e coi palmi delle mani posati sulla
superficie in mogano.
«Forse
a Sherlock hai detto che si trattava solo di un modo per attirarmi allo
scoperto, ma io so che Mycroft Holmes non fa mai nulla per
bontà. Ho fatto qualche domanda in giro e sai, un uccellino
mi ha detto che l'ambasciata italiana...».
«Hai
ragione», lo interruppe l'uomo, incrociando i suoi occhi
verdi. «Quando ho organizzato il furto del "Leda col cigno"
avevo un doppio fine».
«Triplo
fine», lo corresse. Con un sorriso smagliante, aggiunse:
«Sii sincero, per favore».
Il maggiore
dei fratelli Holmes roteò gli occhi. «E va
bene».
«Quindi,
se ho fatto bene i conti...». Arsène
saltò giù dal tavolo con agilità,
nonostante le ferite riportate appena tre giorni prima, e contando
sulle dita riepilogò: «Hai rubato la tela al buon
professor Melas promettendogli che gliel'avresti restituita e gli hai
rifilato una copia, anche se ben fatta. Hai preso accordi con
l'ambasciata italiana per uno scambio e anche a loro hai dato
un'imitazione. Ora mi chiedo... Dov'è finito
l'originale?».
Mycroft si
alzò, raggiunse una piccola ma profonda cassaforte nascosta
dietro delle mensole della libreria e tirò fuori un cilindro
di plastica che fece arricciare il naso del Ladro Gentiluomo quando se
lo vide arrivare tra le braccia.
«È
così che tratti le opere d'arte?», gli
domandò, irritato, mentre con estrema cautela
estraeva il dipinto perduto di Leonardo da Vinci e lo srotolava sul
tavolo. «Ora capisco perché le donne ti stanno
alla larga. Tieniti stretta quella che hai, mi raccomando».
Mycroft
rimase in silenzio a guardare Arsène mentre tirava fuori una
lente d'ingrandimento oculare e si chinava sulla tela come un perito
per verificarne l'autenticità. L'esame durò
parecchi minuti, in cui il maggiore degli Holmes ebbe più
volte la tenzione di dirgli di darsi una mossa, spazientito. Alla fine
però il ladro si sollevò e sorrise, quasi
commosso.
«Meraviglioso»,
esalò estasiato.
«Per
l'amor di Dio, è solo un disegno!».
Arsène
lo guardò come se avesse appena insultato sua madre, ma
decise di soprassedere scuotendo il capo e riarrotolò
l'inestimabile dipinto. Poi prese la penna e tolse il cappuccio con i
denti, posò la punta sul foglio ma ci ripensò
ancora una volta.
«Che
altro vuoi, Arsène?!», sbottò
esasperato Mycroft, le mani posate sulla nuca.
Il ladro si
tolse il tappo della stilografica dalla bocca e, serissimo, rispose:
«Voglio incontrare il Vento dell'Est».
Mycroft si
esibì in una rarissima espressione di sorpresa ed
impiegò diversi secondi per riprendersi e guardarlo con
rabbia.
«No.
Assolutamente no. Le sono bastati cinque minuti con Moriarty per
stravolgere la vita di Sherlock, non oso nemmeno pensare che
cosa...».
«Poco
fa non hai detto che non sono un criminale?», lo interruppe.
«No,
ho detto che non sei un criminale come
gli altri!».
Arsène
alzò le mani in segno di resa e a passi lenti, senza mai
interrompere il contatto visivo, lo raggiunse dall'altro lato del
tavolo per poter parlare a bassa voce e con tono quasi rassicurante.
«Anche
se firmassi quei fogli niente mi cancellerà dalla mente
ciò che so. Potrei andare a farle visita da solo e nemmeno
te ne accorgeresti, o lo faresti quando sarebbe ormai troppo tardi.
Questo lo sai. Perciò non credi che sia meglio con te come
supervisore?».
Mycroft
chiuse gli occhi e pensò alle terribili scelte che aveva
commesso, ben deciso a non volerne fare altre. Riaprì gli
occhi e sospirando col naso annuì con un cenno del capo a
cui Arsène rispose con un veloce abbraccio. Il ladro poi si
voltò, si allungò sul tavolo per recuperare penna
e documenti e firmò con la sua calligrafia elegante e
svolazzante.
Con lo
stesso sorriso eufurico di un bambino ad un parco divertimenti
esclamò: «Allora, quando partiamo?».
«Subito»,
rispose mogio Mycroft. «Prima è, meglio
è. Devo solo chiamare il pilota».
Arsène
sussultò a quelle parole. «Pilota?».
Mycroft si
voltò, confuso, ma quando lesse sul suo volto la paura si
ritrovò a sogghignare. «Sherrinford si trova su
un'isola, pensavo lo sapessi».
«Certo,
ma è proprio necessario volare? Non potremmo... che so,
andare in nave?».
«Ci
metteremmo troppo. Ma non ti preoccupare, ti terrò la mano
per tutto il tempo».
Arsène
strinse i denti e si infilò il cappotto per seguirlo fuori
dalla casa.
«Molto
divertente», borbottò e guardò il cielo
sperando in una bufera di neve, ma il sole del pomeriggio splendeva in
un cielo incredibilmente sgombro per il periodo.
Arsène
scese dall'elicottero e rimase per qualche secondo accucciato a terra,
con le mani strette a pugno nella sabbia e gli occhi chiusi, il respiro
che andava a ritmo delle onde che si infrangevano sulla riva.
«Non
vomiterai, spero», esclamò Mycroft.
Il ladro lo
azzittì in francese e poco dopo si sollevò, si
sfregò le mani per levare i granelli di sabbia dai
guanti candidi e poi lo raggiunse alzando il bavero del cappotto
grigio.
Mycroft non
commentò il suo comportamento orgoglioso - d'altronde c'era
abituato con suo fratello - e dalla spiaggia, dove li attendevano
diversi uomini armati e il nuovo direttore, furono scortati all'interno
della struttura di contenimento top secret nella quale erano rinchiusi
i peggiori criminali mai visti, la feccia della feccia, gli
irrecuperabili il cui unico scopo era quello di servire - in svariati
modi - il governo britannico.
Una volta
superati diversi livelli di sicurezza raggiunsero il cuore della
prigione e infine la cella di vetro di Eurus Holmes, la quale, con
indosso la solita divisa bianca e i lunghi capelli sciolti, dava loro
le spalle.
Arsène
si avvicinò piano, scrutandola con le stesse movenze di un
felino, e si fermò quando raggiunse la linea tratteggiata
sul pavimento. Nonostante ci fosse un vetro antiproiettile a dividerli
era comunque richiesta una distanza di sicurezza: questo a
dimostrazione di quanto quella donna fosse pericolosa.
Le luci si
accesero sopra la sua testa, rendendo l'ambiente ancora più
claustrofobico, ed Eurus si alzò dalla panca di pietra per
osservare il nuovo visitatore.
«Sorella,
ti presento Arsène Lupin», ruppe il silenzio
Mycroft, schiarendosi la gola. «Arsène, questa
è mia sorella minore, Eurus».
Arsène
sollevò una mano in segno di saluto, le labbra tirate.
«Non posso dire che è un piacere, lo
ammetto».
La donna
non sbatté nemmeno le palpebre e il ladro guardò
il maggiore degli Holmes in cerca di spiegazioni.
«Si
rifiuta di parlare con chiunque. L'unico che riesce a comunicare con
lei, tramite il violino, è Sherlock».
Arsène
accettò quella risposta e tornò ad osservarla. I
due rimasero in silenzio a guardarsi per più di trenta
secondi, fino a quando il Ladro Gentiluomo non sospirò
esclamando: «No, non ci riesco. Mi dispiace».
«Di
che cosa stai parlando?», gli domandò Mycroft,
aprendo e stringendo i pugni dietro la schiena, in ansia.
Ma
Arsène non lo degnò nemmeno di uno sguardo ed
abbozzando un sorriso riprese: «Ed è buffo, lo
sai? Perché proprio questa mattina ho detto a Sherlock di
credere nelle seconde occasioni, mentre lui sostiene che certi errori
non possono essere perdonati. Guardandoti, cercando di immaginare i
motivi per cui hai fatto soffrire così tanto Sherlock... non
riesco proprio a perdonarti. I ruoli si sono invertiti, a quanto pare.
Spero almeno tu ti renda conto di che fortuna sfacciata hai avuto
nell'avere due fratelli del genere». Le rivolse un'occhiata
severa e le puntò il dito contro: «Comunica questo
a Sherlock la prossima volta che viene a trovarti».
Arsène
abbassò lo sguardo, scuro in volto, e fece per tornare da
Mycroft, bisognoso d'aria, ma successe qualcosa di incredibile: Eurus
parlò.
«All’ombra
de’ cipressi e dentro l’urne / Confortate di pianto
è forse il sonno / Della morte men duro?»,
recitò con voce monocorde, arrochita dal lungo silenzio ma
decisa, con l'unico intento di attirare la sua attenzione. La ottenne.
Arsène
si paralizzò sul posto, gli occhi sbarrati e un brivido ad
attraversargli la spina dorsale. Si girò piano ed
incrociando il suo sguardo, ancora fisso su di lui, riprese da dove lei
si era interrotta: «Ove
più il Sole / Per me alla terra non fecondi questa / Bella
d’erbe famiglia e d’animali».
E insieme
conclusero quei primi, famosi versi dell'opera "Dei Sepolcri" di Ugo
Foscolo: «E
quando vaghe di lusinghe innanzi / A me non danzeran l’ore
future, / Nè da te, dolce amico, udrò
più il verso / E la mesta armonia che lo governa».
Arsène
si ritrovò col volto rigato di lacrime e se lo
asciugò distrattamente col fazzoletto da taschino, tanto
sconvolto ed investito dai ricordi da tremare.
Durante le
settimane trascorse come prigioniero di quei trafficanti di bambini, i
quali venivano venduti oppure sfruttati in un giro di prostituzione
minorile, Raoul aveva avuto tra i suoi numerosi clienti fissi un
professore di letteratura il quale aveva preso l'abitudine di portargli
in regalo delle raccolte di poesie.
La prima
volta che si era imbattuto in quel componimento poetico non ci aveva
capito molto - aveva solo tredici anni allora - ma era rimasto
affascinato dai significati che era riuscito a cogliere. L'aveva letto
e riletto, tanto da impararlo a memoria in francese quanto in italiano,
e quando, dopo il primo tentativo fallito di fuga, uno dei bambini
più piccoli gli aveva chiesto di cantargli una ninna nanna,
le parole di quella poesia erano state le prime gli erano venute in
mente. Così era nata la canzone che canticchiava sottovoce
quando era nervoso o preoccupato: lo calmava all'istante.
Poche
persone conoscevano quella storia - tra cui Victoire e Clotilde - e non
si spiegava come Eurus Holmes avesse scoperto quel dettaglio
così intimo della sua vita passata. Che fosse davvero
così intelligente come gli aveva detto Mycroft durante il
breve viaggio in elicottero? Tanto da sembrare all'apparenza divina?
Arsène,
sotto lo sguardo confuso e sempre più agitato del maggiore
dei fratelli Holmes, si riavvicinò al vetro e quella volta
oltrepassò la linea per posare una mano sulla superficie
trasparente.
«E
così mi conosci», le sussurrò, tirando
su col naso con un lieve sorriso. «Questo non cambia le cose
però. Devi dire a Sherlock che ti dispiace per aver ucciso
il suo migliore amico, per averlo ingannato e per averlo costretto a
strapparsi il cuore dal petto. Va bene anche una bugia per quanto mi
riguarda. Fallo come regalo di Natale».
Il Vento
dell'Est annuì con un brevissimo cenno del capo e Lupin,
ritenendosi soddisfatto, si allontanò dal vetro. La sua voce
lo raggiunse di nuovo quando aveva ormai affiancato Mycroft.
«Grazie
per averlo salvato, diciassette anni fa».
Arsène
abbassò il capo, scosso da una lieve risata. «Come
diavolo fai?».
«Salvato?
Di che sta parlando?», gli chiese Mycroft, pallido.
«Il
passato è passato», replicò, posandogli
una mano sulla spalla. Poi, rivolgendo lo sguardo verso Eurus,
aggiunse: «Non c'è bisogno che mi ringrazi.
È stato un piacere».
«Esigo
delle spiegazioni», disse ancora Mycroft, contenendo a stento
la rabbia.
Arsène
sbuffò e lo prese a braccetto per avviarsi verso
l'ascensore.
«Sherlock
mi ha chiesto di mantenere il segreto, non parlerò di certo
dopo diciassette anni».
Salirono e
prima che le porte si chiudessero il Ladro Gentiluomo salutò
Eurus con un cenno della mano, senza però riuscire a
liberarsi dell'idea che lui fosse proprio come lei: imprigionato sotto
una campana di vetro, inavvicinabile per chiunque tranne poche, rare
eccezioni. Entrambi erano rimasti due bambini, feriti nel corpo e
nell'anima da quel mondo che non li comprendeva, e in qualche modo
Sherlock era riuscito ad avvicinarsi ad entrambi, facendo da tramite ed
aiutandoli a sentirsi meno soli.
«Arsène...».
Il ladro
sbatté le palpebre, tornando alla realtà, e si
rese conto di aver ripreso a piangere. Guardò Mycroft con la
coda dell'occhio e si asciugò le lacrime col fazzoletto.
«Sto
bene», mentì abbozzando persino un sorriso.
«Grazie per avermi portato qui, è stato molto...
istruttivo».
Holmes
sospirò. «Mi prometti che manterrai il
segreto?».
«Non
ti preoccupare, sono bravo a mantenere i segreti».
Gli diede
un'altra pacca sulla spalla e gli strizzò l'occhio, poi
uscì dalla porta blindata ringraziando gli uomini di guardia
sollevandosi un cilindro invisibile.
Arsène
venne inglobato dalla luce del sole e Mycroft lo guardò
aprire le braccia, il volto alzato al cielo, e respirare avidamente.
Era inutile però: menti come le loro, e lui lo sapeva bene,
avrebbero sempre avvertito il mondo circostante come una prigione.
***
Ganimard
salì all'ultimo piano del comando ed entrò
nell'ufficio di Dudouis. Si avvicinò alla scrivania e prese
il segnaposto placcato d'oro con scritto il nome dell'Ispettore Capo,
lo strinse tanto forte tra le mani da sbiancarsi le nocche e poi si
diresse verso la finestra da cui poteva vedere in lontanza la Torre
Eiffel illuminata a festa, ancora più bella nel cielo venato
dei colori del tramonto: rosa, viola e blu.
Era
contento che Sherlock fosse stato scagionato da ogni accusa, ma non
aveva osato chiedere a lui o peggio ancora a Mycroft come fosse morto
Magnussen: non l'avrebbe sopportato se avesse scoperto di essere stato
ingannato da qualcun altro che aveva preferito agire al di sopra della
legge perché era più facile, o più
proficuo. Anche lui si sarebbe risparmiato un sacco di drammi se avesse
lasciato perdere la battaglia intrapresa contro Arsène
Lupin, ma ne andava della sua integrità di poliziotto. Gli
avevano insegnato che la legge era uguale per tutti e ci credeva
fermamente, per questo sarebbe stato un dolore troppo grande se
Sherlock si fosse rivelato un assassino.
Un leggero
bussare contro lo stipite lo fece voltare verso la porta aperta, dove
incrociò lo sguardo di Folefant.
«Che
cosa ci fai tu qui?», gli domandò Ganimard.
«Non ce l'hai la ragazza?».
Il giovane
scosse il capo, senza perdere il sorriso.
«Nossignore».
«Meglio
così», sussurrò, così piano
da non essere sentito.
«Sono
venuto a cercarla perché ho appena ricevuto una chiamata da
Sherlock Holmes. Ha detto che ha provato a chiamarla, ma...».
«Ho
dimenticato il cellulare a casa», mentì.
«Che cosa voleva?».
«Avvisare
che Arsène Lupin rienterà a Parigi nella notte.
Non sa ancora con quale mezzo, ce lo farà sapere».
Ganimard
grugnì in segno di assenso e tornò a guardare la
sua città, quella città bella e maledetta che col
suo fascino avrebbe attirato a sé chiunque vi fosse nato e
cresciuto, senza distinzione di razza, ceto sociale o fedina penale.
«Va
tutto bene, ispettore?», gli chiese ad un tratto Folefant,
cauto.
«No,
non va tutto bene», ammise.
«C'è...
C'è qualcosa che posso fare per lei?».
Ne dubitava. Dopo le vacanze Dudouis avrebbe rivelato alla stampa di
essere stato nel libro paga di Arsène Lupin, si sarebbe
addirittura addossato la colpa della sua evasione salvandolo
così da un ulteriore scandalo, e poi, non contento,
l'avrebbe proposto come suo successore al posto di Ispettore Capo.
Justin si
voltò e gli rivolse uno dei suoi rari sorrisi.
«Potresti rispondere ad una domanda con
sincerità?».
«Sempre,
ispettore».
A quella
risposta Ganimard si avvicinò alla poltrona di Dudouis, la
girò verso di sé e vi si lasciò cadere
con tutto il proprio peso, poi la ruotò verso la scrivania e
con le mani intrecciate sullo stomaco gli chiese: «Mi ci vedi
come Ispettore Capo, Marcel?».
La domanda
lo stupì tanto che non riuscì a dare una risposta
immediata. Inoltre, il cellulare dell'ispettore iniziò a
squillare nella tasca interna della giacca - smascherando la sua bugia
sul perché non avesse risposto alla chiamata di Sherlock
Holmes - e gli impedì di parlare.
«Cèlestine»,
esclamò l'uomo, raddrizzandosi sulla poltrona.
«Ciao, va tutto bene? Stasera? Ma sì, certo, va
benissimo. Sarei pazzo a rifiutare. Allora a dopo».
Con gli
occhi più sereni, Ganimard si alzò e fece il giro
della scrivania per andare a posare la mano sulla spalla destra del
poliziotto.
«Pensaci,
per favore», gli disse. «Hai tempo fino alla fine
delle vacanze di Natale per darmi una risposta».
Dopodiché
uscì dall'ufficio e con una sigaretta tra le labbra
andò alla ricerca di un fioraio ancora aperto.
***
Molly,
ferma davanti alla finestra che dava sulla strada, fu scossa da un
brivido quando alle dieci in punto un SUV nero si fermò
davanti al suo palazzo. Ne scese un uomo vestito in giacca e cravatta,
dalle spalle larghe e la testa rasata, il quale senza esitazioni
alzò gli occhi verso la sua finestra per rivolgerle un
timido sorriso nonostante la stazza. Non c'erano dubbi: era uno degli
uomini di Arsène.
Lasciò
andare la tenda e si appoggiò allo schienale del divano con
le mani, gli occhi stretti a frenare le lacrime. Quando si
tirò su andò a passo sicuro verso la propria
camera da letto, dove aveva già preparato un trolley con
dentro l'indispensabile.
Senza
soffermarsi a guardare all'interno della camera degli ospiti in cui,
più di una volta, aveva trovato Sherlock rannicchiato sul
letto, tornò in salotto trascinandosi dietro quella valigia
che sembrava contenere il peso del mondo.
Anche il
salotto e la cucina erano pieni di ricordi che lo riguardavano,
perciò cercò di concentrarsi su quelli in cui lui
non c'era: quando aveva fatto entrare Arsène per la prima
volta, quando avevano cenato insieme a Geneviève, quando
aveva trovato padre e figlia seduti sotto l'albero di Natale che
avevano addobbato per farle una sorpresa e quando lei e il ladro si
erano ritrovati insieme su quel divano a parlare fino a notte fonda.
Un sorriso
le increspò le labbra salate per via delle lacrime che alla
fine non era riuscita a trattenere, ma quando spense le luci del finto
abete i ricordi in cui Sherlock era il protagonista tornarono a
prevalere, prepotenti e dolorosi.
Spostò
gli occhi verso il bancone in marmo dell'isola della cucina, lo stesso
bancone dietro il quale quel giorno si stava preparando il
té e il detective più famoso d'Inghilterra le
aveva chiesto di dirgli "Ti amo".
Si
portò le mani sulla bocca per soffocare i singhiozzi e
rimase così, ferma immobile, per diversi secondi.
Raccimolando il coraggio aprì la porta e senza
più guardarsi indietro portò fuori il trolley.
Chiuse a chiave e poi andò dalla sua vicina, la quale si
presentò in vestaglia.
«Tesoro,
che cosa ti è successo?», le chiese la signora Lee
non appena si accorse delle sue condizioni, preoccupata.
«Non
è nulla», cercò di rassicurarla
stirando un sorriso. Quindi le porse le chiavi del suo appartamento e
una busta chiusa: «Devo andare via per un po'. Se qualcuno
dovesse cercarmi può dargli questa da parte mia?».
«Qualcuno?
Qualcuno chi, cara?».
Molly
sorrise amaramente. «Non so nemmeno se passerà.
Adesso vado, grazie di tutto e scusi se l'ho disturbata a
quest'ora».
«Ma
no, figurati...».
L'anziana
rimase sulla porta fino a quando le porte dell'ascensore non si
chiusero e Molly, guardandosi allo specchio, si asciugò il
volto ed assunse un'espressione decisa.
Non c'era
tempo per i ripensamenti. Doveva pensare a se stessa, pensare a stare
bene, e aveva preso la decisione giusta.
Aperta la
porta dell'androne, l'uomo di Arsène le andò
incontro per aiutarla col trolley e mentre lo seguiva le
suonò il cellulare nella tasca del cappotto.
Rimani.
SH
E
così Arsène l'aveva avvisato.
Molly
strinse forte il cellulare e guardò il cielo scuro in cui
non brillava nemmeno una stella. Il suo sospiro si condensò
in una nuvoletta di vapore.
«Andiamo,
miss Hooper?», le chiese l'autista, aprendole la portiera del
SUV.
Questa
volta un SMS non era sufficiente.
Molly
annuì con un cenno del capo e salì sul mezzo.
L'uomo si sedette dietro il volante e mise in moto, ma dopo appena un
paio di metri fu costretto a frenare a causa di un'auto sportiva color
rosso scuro che sopraggiunse a folle velocità e con una
sgommata si fermò di traverso in mezzo alla strada,
impedendo loro di passare.
Molly si
sporse tra i sedili anteriori per vedere chi ci fosse alla guida e
riconobbe immediatamente Sherlock, per questo fermò l'uomo
di Lupin quando questi si infilò la mano destra all'interno
della giacca, molto probabilmente per estrarre una pistola.
«Ci
penso io», lo rassicurò e scese dal SUV per andare
incontro al detective, il quale era sceso dall'Aston Martin della
signora Hudson e si stava arruffando i capelli con una mano.
«Che
cosa pensi di fare?», lo fronteggiò, stupendo
persino se stessa per l'aggressività della sua voce.
«Ti
impedisco di commettere l'errore più grande della tua
vita».
«Oh,
grazie ma no, grazie. Levati di mezzo, per favore».
Gli aveva
già dato le spalle, intenzionata a risalire sul SUV che
l'avrebbe portata lontana da lui una volta per tutte, quando il
detective l'afferrò per il polso e l'attirò a
sé fino a trovarsi petto contro petto e i volti a pochissimi
centimetri di distanza l'uno dall'altro.
«Sherlock,
ti prego...».
Ma lui non
la lasciò continuare: le portò una mano sulla
nuca e la baciò sulle labbra, quasi con irruenza. Molly fu
altrettanto rigida all'inizio, ma lentamente si sciolse e senza osare
approfondire quel contatto gli portò semplicemente le mani
fredde ai lati del viso.
L'aveva
sognato centinaia, migliaia di volte ed era proprio come nei film
strappalacrime che le piacevano tanto, se non addirittura meglio.
Quando
Sherlock si scostò aprì gli occhi azzurri per
incrociare i suoi e le ripeté a parole:
«Rimani».
Dopo quel
bacio era chiaro che sarebbe rimasta, ma quella era forse l'unica
occasione che aveva per farsi dire la verità.
«Perché
dovrei?», gli domandò.
«Perché
ho bisogno di te nella mia vita, Molly Hooper. Adesso non
c'è tempo, ma ti prometto che ti spiegherò tutto
quanto».
Molly
inarcò le sopracciglia, circospetta.
«Tutto?».
«Tutto,
te lo prometto».
«Va
bene allora. Rimango».
Sherlock
sorrise e quel sorriso le fece mancare un battito: non tanto
perché era ancora più bello quando era felice, ma
perché ne era lei la causa.
Si
allontanò dal suo corpo caldo, nonostante fosse l'ultima
cosa al mondo che volesse fare, e andò dall'uomo di Lupin
per rifiutare i suoi servigi. Mentre lui le recuperava il trolley dal
bagagliaio, Sherlock prese qualcosa dal sedile del passeggero e lo
consegnò all'autista: un regalo di Natale, con tanto di
fiocco rosso.
«Potresti
consegnarlo a Geneviève da parte mia?», gli chiese
Sherlock.
Il membro
della banda del Ladro Gentiluomo afferrò con cautela il
pacco e dal bagagliaio ancora aperto estrasse un affare simile ad un
metal detector portatile.
«Non
si tratta di una bomba», gli disse il consulente
investigativo, un po' annoiato.
L'uomo
però non si fidò e lo esaminò
comunque. Quando fu sicuro che non si trattasse di una minaccia per la
sicurezza della figlia del suo capo o del suo staff, promise che
gliel'avrebbe portato.
«Grazie
tante. Arrivederci!».
Sherlock
afferrò Molly per mano e la trascinò all'auto
sportiva. Incastrò il suo trolley nel bagagliaio, poi si
mise al volante e fece ruggire il motore.
«Dove
andiamo?», gli domandò l'anatomopatologa, confusa
e al contempo eccitata.
«A
prendere John».
«E
poi?».
Il
detective sogghignò e tirò fuori dalla tasca del
cappotto il cellulare, sul cui schermo si vedeva una mappa con un
puntino che stava iniziando a muoversi. Molly corrugò la
fronte e solo quando il SUV svoltò nella traversa alle loro
spalle capì che Sherlock doveva aver messo un localizzatore
GPS in quel pacco regalo.
«Andiamo
a salutare Geneviève», le disse, confermando la
sua ipotesi.
L'anatomopatologa
sorrise a sua volta e si abbandonò contro il sedile, felice
come non si sentiva da tanto, troppo tempo.
Aveva
iniziato a perdere le speranze, ma adesso non aveva più
dubbi: i lieto fine esistevano davvero.
***
«Mangia
i tuoi broccoli, Théa».
La
più piccola mise su il broncio e scosse il capo. I suoi
riccioli scuri seguirono ogni suo movimento in modo così
adorabile che Ganimard le portò una mano sulla testa per
accarezzarli e poi si chinò verso di lei facendo
l'occhiolino ad Emélie, la maggiore.
«Mamma,
allora pensi che quest'anno Babbo Natale ci porterà tutti i
regali che abbiamo chiesto?», le domandò e
Cèlestine la guardò sorridendo.
«Siete
state delle brave bambine?».
Sfruttando
la sua distrazione, Justin aprì la bocca e fece segno a
Théa di imboccarlo. La bambina si coprì la bocca
con una mano per non ridere e riempì la bocca del padre con
i broccoli, ma la madre si voltò prima del previsto e li
sorprese.
«Che
furfanti!», esclamò fingendosi arrabbiata, con le
mani sui fianchi, e reprimendo faticosamente un sorriso.
Ganimard
masticò rischiando di soffocarsi per la risata contagiosa
delle figlie ed incrociando gli occhi dell'ex-moglie le
lanciò uno sguardo carico d'amore a cui lei rispose
arrossendo e sistemandosi dietro l'orecchio una ciocca di capelli
rossi.
In
quell'istante il suo cellulare iniziò a suonare sul bancone
da bar che divideva salotto e cucina e le risate di Théa e
Emélie si spensero. Justin si alzò e lo prese per
controllare chi lo stesse cercando: Folefant. Probabilmente Sherlock
gli aveva fatto sapere con quale mezzo Arsène Lupin sarebbe
tornato in patria.
«Papà,
devi andare al lavoro?», domandò la più
piccola, con gli occhi tristi.
Ganimard
rifiutò la chiamata e non contento spense il cellulare;
quindi sorrise alla figlia ed accarezzando anche i capelli di
Emélie tornò a sedersi.
«Possono
cavarsela anche senza di me», rispose e lo sguardo che
Célestine gli rivolse fu lo stesso di quando aveva detto
«Sì» alla domanda: «Mi vuoi
sposare?». Al contempo però era anche triste,
perché se solo l'avesse capito prima che bastava quello per
farla felice - non sempre, giusto ogni tanto - allora si sarebbero
risparmiati un sacco di dolore.
«Allora,
dov'eravamo rimasti?», esclamò risedendosi.
«Li finiamo quei broccoli?».
Théa
guardò i piccoli alberelli nel suo piatto, ne prese uno tra
le dita e se lo portò alle labbra per sbocconcellarlo.
«Brava
la mia bambina», le disse Justin, baciandola sul capo.
***
La banchina
del binario da cui sarebbe partito l'Eurostar diretto a Parigi non era
affollatissima visto l'orario, ma diversi passeggeri erano stati
accompagnati da familiari o amici che ora stavano attendendo la
partenza comunicando a gesti attraverso i finestrini. Anche
Geneviève avrebbe voluto qualcuno da salutare, ma sapeva che
non sarebbe mai successo.
«Va
tutto bene, bonbon?».
La
ragazzina si voltò verso Victoire, seduta di fronte a lei ed
intenta a sferruzzare una lunga sciarpa che, le aveva già
anticipato, sarebbe stata il suo regalo di Natale per lei.
«Sì,
è solo questa parrucca... Mi dà fastidio! Era
proprio necessaria?».
La donna le
allontanò delicatamente la mano con cui si stava grattando
la testa. «La polizia ti sta cercando, perciò
sì, è necessaria».
Geneviève
sbuffò e sfruttò il riflesso del finestrino per
osservare quell'irriconoscibile se stessa: oltre al finto caschetto
nero portava un paio di occhiali squadrati che François
aveva molto apprezzato e Victoire le aveva disegnato delle lentiggini
sul naso e sugli zigomi. Chiunque avrebbe avuto difficoltà a
riconoscerla, chiunque tranne forse...
«Sherlock
Holmes mi ha chiesto di consegnarle questo, signorina».
La
ragazzina trasalì e fissò il pacco regalo che
Ernest le stava porgendo. Stese le mani per afferrarlo, ma Victoire la
batté sul tempo e prima ancora che potesse aprire bocca
aveva già strappato via la carta a tema natalizio con cui
erano state impacchettate un paio di grosse cuffie bluetooth di un
bellissimo rosso lucido.
«Ehi,
dammelo subito!», riuscì ad urlare alla fine,
senza preoccuparsi di attirare l'attenzione degli altri passeggeri: non
sapeva come, ma suo padre aveva prenotato un'intera carrozza per la sua
banda.
«Da
quanto tempo lavori per mio figlio, Ernest?»,
domandò con fare autoritario Victoire.
«Un
anno, signora».
«Ora
capisco perché ti sei fatto fregare».
«Che
cosa...?», iniziò a chiedere Geneviève,
ma si bloccò quando la donna tirò fuori quella
che sembrava in tutto e per tutto una pedina da dama, solo elettronica
e con una lucetta rossa che si accendeva e spegneva ad intermittenza.
«Asino!»,
lo rimproverò ed alzandosi pestò il piccolo
segnalatore GPS, rompendolo in mille pezzi. Poi si toccò
dietro l'orecchio con naturalezza e con voce di nuovo composta
esclamò: «Caro, siamo in pericolo».
Arsène
dovette chiederle quale fosse il problema, al che Victoire rispose:
«Sherlock Holmes potrebbe essere già
qui».
Ed era
proprio così. Geneviève vide il detective correre
verso il loro binario e non era solo: con lui c'erano John Watson,
Rosie e Molly Hooper. Senza pensare alle conseguenze, la ragazzina si
alzò e sgusciò tra gli uomini di suo padre prima
che Victoire potesse gridare loro di fermarla. Raggiunse la porta del
treno, ma fu lì, ad un passo dall'uscita, che si
imbatté in un ostacolo che non poteva in alcun modo
superare: suo padre.
«Il
treno sta per partire, signorina», le disse pacato, ma con
espressione intransigente.
«Ti
prego, io... devo salutarli», sussurrò, sull'orlo
delle lacrime. «Ci metterò due minuti. Solo due
minuti, te lo prometto».
«Geneviève!»,
gridò Sherlock e lei, sentendosi chiamare, passò
sotto il braccio di suo padre per saltare sulla banchina e gettarsi al
collo del detective, il quale la afferrò e le fece fare
addirittura una mezza giravolta.
«Abbiamo
fatto in tempo, menomale», esclamò John, sollevato.
Sherlock la
riportò coi piedi per terra e la guardò in volto,
asciugandole la lacrima che le era scivolata sulla guancia.
«Così
ti si rovina il trucco», le disse con un lieve sorriso sulle
labbra.
Lei
ridacchiò e si scostò a sua volta per lasciarsi
stringere da Molly, la quale le baciò la fronte e poi,
massaggiandole le braccia, mormorò: «Quello che in
realtà voleva dire Sherlock è che sei
più bella quando sorridi».
«Sì,
l'avevo immaginato».
Giunta
davanti al dottor Watson, suo zio, osservò la sua mano stesa
e la strinse impacciata.
«So
che non abbiamo legato molto in queste settimane, però
voglio che tu sappia che fai parte della famiglia ora e che ci
sarà sempre posto per te a casa mia. Intesi?».
Geneviève
annuì e non riuscì a tenere a freno le lacrime,
per questo gettò le braccia intorno al suo collo e nascose
il volto contro la sua spalla. John, preso alla sprovvista,
impiegò un paio di secondi per ricambiare la stretta ed
accarezzarle la schiena.
«E
tu, Arsène? Hai davvero intenzione di andartene senza
salutare?».
Il
controllore che fino ad allora era rimasto in attesa sulla porta della
carrozza alzò lentamente il capo ed arricciò il
naso sopra i finti baffi biondi.
«Sei
davvero fenomenale, Molly Hooper», esclamò e
scendendo le scalette si tolse il cappello della compagnia ferroviaria,
rivelando i suoi capelli biondo platino e quegli occhi verdi
così vivaci e resi lucidi dalle lacrime.
L'anatomopatologa
lo strinse forte tra le braccia ed alzandosi in punta di piedi gli
sussurrò all'orecchio: «Mi ha baciata».
«Se
stai cercando di farmi ingelosire complimenti, ci stai
riuscendo».
Ovviamente Molly non poteva sapere che quella frase valeva tanto per
lei quanto per Sherlock, avendo entrambi rubato un pezzo del suo cuore.
Arsène
cercò lo sguardo del detective, il quale corrugò
la fronte domandandosi di che cosa stessero parlando, e sorridendo
aggiunse: «Sono felice per te, Molly. Lo terrai d'occhio, oui?».
«Certo.
Grazie di tutto». Gli lasciò un bacio sulla
guancia e sciolse l'abbraccio, ma prima di allontanarsi del tutto
esclamò: «Salutami Raoul, va bene?».
Il Ladro
Gentiluomo sorrise e le strizzò l'occhio.
«Sarà fatto».
Mentre lei
raggiungeva Geneviève e Rosie, John si avvicinò
per stringergli la mano.
«È
stato un piacere conoscerti, dottore», esordì
Arsène.
«Anche
per me».
«Dici
sul serio?».
L'ex-soldato
si strinse nelle spalle, incerto. «L'ho detto una volta,
fattela bastare».
«Capisco.
Grazie per avermi salvato».
John
scrollò il capo e lasciò il posto a Sherlock. Si
scrutarono per qualche secondo, poi incredibilmente fu il detective a
fare il primo passo aprendo le braccia. Arsène non se lo
fece ripetere due volte e strinse i pugni sulla sua schiena, il mento
posato contro la sua spalla sinistra.
«Chi
è Raoul?», gli domandò Sherlock.
«Stai
rovinando il momento».
«È
la mia specialità. Allora, chi è?».
«Un
amico».
«Pensi
che un giorno potrò conoscerlo?».
Arsène
si allontanò quel tanto che bastava per poterlo guardare
negli occhi.
«Un
giorno, forse».
Sherlock
abbassò lo sguardo, come se si vergognasse, e disse a bassa
voce: «Tu hai mantenuto la tua promessa, mentre io non sono
riuscito a fare la mia parte. Mi dispiace».
«Ne
sei proprio sicuro?».
Il
detective alzò il capo, le labbra dischiuse, ma una voce
femminile annunciò che il treno stava per partire,
interrompendolo sul nascere.
Arsène
si costrinse a sciogliere definitivamente l'abbraccio e porse la mano
alla figlia, la quale la afferrò e sorrise guardando i volti
delle tre persone che in poche settimane erano diventate tra le
più importanti e care per lei.
«Grazie
di tutto», disse inchinandosi come una vera lady.
Il Ladro
Gentiluomo, nascondendo l'orgoglio, la accompagnò fino alla
carrozza e le tenne la mano fino a quando non furono entrambi a bordo.
Arsène
si voltò un'ultima volta e guardando Sherlock
esclamò: «Sai, oggi pomeriggio ho conosciuto tua
sorella. Per essere uno che non crede nelle seconde
occasioni, devi volerle davvero molto bene».
«Sherlock
ha una sorella?», fu il commento di Molly, rivolta a John.
La porta
della carrozza si chiuse, impedendo loro di sentire la sua risata
cristallina.
Sherlock e
Arsène si scambiarono un ultimo sguardo e il detective gli
fece segno di controllarsi la tasca della giacca. Il ladro lo fece e i
suoi occhi si riempirono di lacrime nel ritrovarsi tra le dita il
crocifisso della madre. Se lo portò alle labbra in un bacio
e poi aprì la bocca per ringraziare il detective, ma il
treno aveva già iniziato a muoversi.
John e
Molly salutarono con la mano Geneviève, la quale si stava
sbracciando da dietro il finestrino, poi rimasero per qualche secondo
in silenzio a fissare la coda del treno che veniva inghiottita dal buio.
«Da
quando hai una sorella?», ripeté la domanda Molly,
quella volta ponendola direttamente al consulente investigativo, il
quale alzò gli occhi verso la volta di vetro sopra le loro
teste.
«Sarà
una lunga notte», dedusse.
Quindi cinse le spalle della scienziata con un braccio e insieme a John
e Rosie uscirono dalla stazione di St. Pancras.
Note:
Scuola per giovani dotati = Istituto per giovani mutanti di Chales
Xavier, X-Men
Wammy's House = Istituto/orfanatrofio frequentato da L, detective di
Death Note
|
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Capitolo 24 *** Epilogue ***
24. Epilogue
Molly bussò contro lo stipite della porta che dava sul
soggiorno ed entrò.
Sherlock era in piedi davanti alla mensola del camino e fissava con
sguardo assente il teschio di nuovo scoperto e la fotografia, presa da
un quotidiano ed incorniciata, che ritraeva lui e Arsène
ammanettati sulla soglia del 221B, mentre si rigirava tra le dita un
sacchettino di plastica trasparente in cui era conservato un pezzo di
stoffa intriso di sangue. Il sangue del Ladro Gentiluomo.
John gliel'aveva dato a Natale, come se si trattasse di un regalo, e
ancora non aveva deciso che cosa farne. Se l'avesse ricevuto un mese
prima non avrebbe esitato un attimo, ma dopo tutto quello che era
successo... era seriamente tentato di gettarlo nel fuoco del camino e
fingere di non averlo mai posseduto.
Il detective trattenne un sospiro e alzò il capo verso
l'anatomopatologa per dedicarle tutta la propria attenzione.
Non l'aveva mai vista così felice come negli ultimi dieci
giorni e tutto quello che aveva dovuto fare era stato essere sincero.
Le aveva raccontato di quello che era successo con Magnussen, di sua
sorella e dell'infanzia che aveva riscritto per proteggersi dalla
sofferenza, delle prove a cui l'aveva sottoposto Eurus (e per le quali
si era inaspettatamente scusata - con poche parole, ma pur sempre parole - quando
era andato a trovarla con Mycroft e i suoi genitori la mattina di
Natale) e persino dei
sentimenti che aveva scoperto di provare per lei, ma il loro rapporto
non era cambiato come temeva.
Molly aveva ascoltato tutto senza mai interromperlo, seduta sulla
poltrona di John, e quando alla fine si era alzata e si era avvicinata,
Sherlock aveva chiuso gli occhi, temendo uno o più schiaffi.
Invece si era ritrovato col volto premuto contro il suo ventre, le sue
braccia a circondargli il capo e la sua mano destra ad accarezzargli i
capelli.
«Mi dispiace tanto», aveva sussurrato e Sherlock
non aveva capito, non all'inizio.
«Mi dispiace che tu abbia sofferto in questo modo. Ora
capisco perché per così tanto tempo hai preferito
la solitudine... Non volevi che accadesse qualcosa di brutto alle
persone al tuo fianco, com'è successo al tuo amico
d'infanzia. Tuttavia sono convinta che vivere in questo modo non sia
giusto, né per noi né, soprattutto, per te.
Quello che è fatto è fatto, Sherlock, e mi
dispiace. Mi dispiace così tanto...».
Alla fine, il super-detective, nella sua totale ignoranza, era riuscito
a comprendere quello che in realtà Molly non riusciva a
dire, nascondendosi dietro tutti quei "Mi dispiace": il suo amore non
sarebbe bastato per entrambi, non più. Da sola, lei non era
in grado di lavare via il sangue con cui si era macchiato le mani e ci
sarebbe voluto del tempo per capire come adattarsi l'uno all'altra ora
che il muro che li separava era stato definitivamente abbattuto.
Bisognava liberarsi delle macerie e avrebbe richiesto dell'impegno. Ad
ogni modo, chissà perché, Sherlock era speranzoso.
Aveva sempre immaginato che sarebbe rimasto solo perché
"sposato" col proprio lavoro e in qualche modo questo non sarebbe mai
cambiato: non sarebbe mai stato un fidanzato convenzionale
né avrebbe cambiato stile di vita per qualcuno. Ironia della
sorte, ora che aveva compreso che non aveva bisogno di cambiare per
stare con Molly Hooper, era lei a fare un passo indietro.
«Cosa posso fare per rimediare?», le aveva chiesto
allora, ricambiando la stretta cingendole la vita con le braccia.
«Una colpa così grande...».
«Dovrai sopportarne il peso per tutta la vita, è
così. Tutto quello che puoi fare, che devi fare,
è impedirle di schiacciarti. Fai quello che hai sempre
fatto, Sherlock; fai quello che ti viene meglio: aiuta gli
altri».
Il consulente investigativo era rimasto in silenzio a lungo, con le
lacrime agli occhi e i polmoni pieni del profumo e del calore di Molly.
Avrebbe voluto dirle che l'amava come mai aveva fatto prima,
ringraziarla per essere sempre stata al suo fianco, ma non una parola
gli era uscita di bocca. Sperava che lei, grazie al suo inimitabile
talento, l'avesse capito comunque.
«Hai bisogno di me per un caso?», gli chiese mentre
aggirava un cavalluccio a dondolo di splendida manifattura: il regalo
di Natale di Arsène Lupin per Rosie.
Sherlock, ritornato alla realtà, continuò
l'ispezione e la trovò particolarmente bella quella mattina:
indossava dei pantaloni beige, una camicetta e un maglioncino bianco e
portava i capelli raccolti, con un ciuffo laterale a coprirle parte
della fronte. O forse a renderla più bella era semplicemente
il sorriso che le illuminava il volto.
Si sentì quasi inadeguato in vestaglia, ma ignorò
quel pensiero e prendendola per le spalle la condusse davanti alla
scrivania, dove la fece sedere davanti al pc aperto su un'email.
«È arrivata questa mattina. Pensavo che ti avrebbe
fatto piacere leggerla».
Gli occhi di Molly si ingrandirono quando capì che la
mittente altri non era che Geneviève, la quale raccontava
loro del Natale trascorso con suo padre e Victoire a Parigi e delle
paure e delle speranze legate alla scuola che avrebbe iniziato a
frequentare a partire dal 2 Gennaio.
«Darei qualsiasi cosa per poterle parlare, dirle che il primo
giorno è difficile per tutti».
«Per me non lo è stato»,
mentì Sherlock, beccandosi una gomitata nello stomaco.
Il detective sorrise e si chinò al suo fianco, accostando il
volto al suo, per aprire l'allegato: un selfie che ritraeva lei e
Arsène avvolti in un'unica sciarpa fatta a mano, in cima
alla Torre Eiffel e con due sorrisi ancora più luminosi di
tutte le luci di una Parigi addobbata a festa per il Capodanno.
«Sono tanto contenta per loro», disse Molly, quasi
commossa. «Si meritano un po' di
felicità».
Sherlock non replicò, bensì le mostrò
la bozza di risposta che aveva iniziato a scrivere. Molly corresse
alcuni punti, mettendoci un po' di umanità, e poi gli chiese
se volesse allegare anche lui delle foto.
«Sì, pensavo queste due».
Aprì le fotografie che aveva scelto tra il mucchio di quelle
scattate durante la festa di Natale al 221B e Molly arrossì
quando si ritrovò davanti agli occhi l'immagine del bacio
che erano stati costretti a darsi per colpa di John e la signora
Hudson, i quali si erano messi d'accordo per farli passare sotto il
vischio. Lei aveva provato a rifiutarsi in realtà, invece
Sherlock non aveva fatto una piega e prendendole il volto tra le mani
aveva posato le labbra sulle sue, per poi sussurrarle:
«Facciamoli contenti, si sono impegnati tanto».
Molly l'aveva fissato e la luce che gli aveva visto negli occhi,
così diversa dalla tristezza a cui si era quasi abituata, le
aveva fatto sorgere il sospetto che il detective avesse aspettato un
assist del genere per tutta la sera. Aveva allontanato subito il
pensiero ovviamente, ma il sorriso che lui e John si erano scambiati
poco dopo, vicino al pudding...
«Oh mio Dio, non sapevo che qualcuno avesse scattato una
foto!», esclamò lei, coprendosi il volto.
«Chi è stato?».
«Lestrade».
«La prossima volta che passa in laboratorio gliene dico
quattro, eccome!».
«Non capisco, sei arrabbiata per la foto o per il bacio in
sè?».
Molly si girò verso di lui e i loro nasi si sfiorarono,
tanto erano vicini i loro volti.
«Io... È vero che ti ho chiesto del tempo, ma...
Come puoi pensare che sia arrabbiata per il bacio? La verità
è che quello che provo per te mi spaventa, perché
nonostante tutto non smetterò mai di...».
Sherlock però non le lasciò finire la frase. La
baciò, quella volta senza scuse da poter sfruttare, e quando
si allontanò le tenne comunque il volto perché
non distogliesse lo sguardo mentre le diceva con tono serissimo:
«Anche io sono spaventato dai tuoi sentimenti.
Terrorizzato».
Molly deglutì a vuoto, le sopracciglia aggrottate.
«Uhm... grazie?».
Il detective si tirò su, imbarazzato, e senza più
dire una parola andò in camera da letto per disfarsi della
vestaglia e recuperare una giacca.
«Vieni con me», le disse sbrigativo, porgendole la
mano.
«Dove andiamo?».
«È tempo che tu conosca una persona».
Molly deglutì di nuovo, nervosa, ma si fidava di lui e per
questo afferrò la sua mano.
Presero un taxi e Molly capì tutto quando sentì
Sherlock dare l'indirizzo all'autista. Sorrise dolcemente e strinse un
po' più forte la mano del detective, ma rispettò
il suo silenzio.
Quando raggiunsero l'ospedale Sherlock esitò davanti alle
porte scorrevoli e Molly si chiese se avesse fatto così
anche tutte le altre volte che era andato a trovarla o se si trattasse
della sua presenza. Alla fine però entrarono e lui
camminò a passo sicuro tra i corridoi, conoscendo a memoria
la strada.
Raggiunsero una stanza privata, del tutto spoglia se non fosse stato
per un vaso di fiori che dovevano essere del giorno prima, e Molly
sentì un peso enorme schiacciarle il petto al pensiero che
quella donna aveva posseduto il corpo di Sherlock e forse anche un
pezzo del suo cuore, visto e considerato che andava a trovarla ogni
giorno.
Una sera in cui si era sentito particolarmente in vena di confidenze le
aveva detto che si riteneva responsabile per ciò che le era
accaduto, che se le avesse detto la verità lei non si
sarebbe mai rivolta ad Arsène e poi alle persone che
l'avevano ridotta in quello stato, ma Molly la pensava diversamente.
Imitando Arsène, avrebbe voluto dirgli di quel proverbio che
faceva: "Chi semina vento raccoglie tempesta", ma alla fine era rimasta
in silenzio.
Uno dei dottori che l'aveva in cura, avvisato del suo arrivo, si
avvicinò e gli disse che purtroppo non c'erano
novità. Sherlock annuì mestamente e Molly,
guardandolo, capì che c'era un'altra ragione per cui l'aveva
portata con sé: stava perdendo le speranze.
La scienziata tirò fuori le proprie conoscenze mediche e gli
parlò da dottore a dottore, facendogli notare che per il
momento non c'era motivo di demoralizzarsi in quel modo:
finché c'era attività celebrale c'era la
possibilità che si svegliasse da un momento all'altro.
Sherlock la guardò ammirato mentre congedava il dottore e
poi entrarono nella stanza di Irene Adler. Il suo petto si alzava ed
abbassava grazie al respiratore, una serie di tubi le sparivano sotto
le maniche della camicia e la pelle delle sue mani e del suo volto era
così pallida da confondersi con il bianco delle lenzuola.
Molly avvicinò una mano ai suoi capelli scuri e li
accarezzò col dorso delle dita, sentendo la gola bruciare.
Lei non la conosceva, ma conosceva il dolore che si provava quando una
persona cara stava per andarsene e alzò gli occhi su
Sherlock, trovandolo appoggiato alla sponda ai piedi del letto con
entrambe le mani.
«Pensi davvero che si sveglierà o lo dicevi per
compassione?», le domandò lui ad un tratto.
«Hai detto che voleva disperatamente incontrarmi, no? E da
come me ne hai parlato ho capito che è una combattente, una
che lotta con le unghie e con i denti, perciò non ho dubbi:
si sveglierà».
«E la cosa non ti preoccupa?».
Molly frenò una risata. «Sei ancora innamorato di
lei?».
«Non credo che quello che c'era tra noi potesse definirsi
amore, almeno per quanto mi riguarda».
«Ecco la tua risposta».
Sherlock la raggiunse e le cinse la vita con un braccio, una mano a
stringere quella di Irene.
Sì, ne era sicuro: prima o poi si sarebbe svegliata e
avrebbe avuto la sua seconda occasione. Doveva avere fede, come gli
aveva insegnato Arsène.
***
Nemmeno la spettacolare vista della Grande Barriera Corallina fu in
grado di tirarle su il morale.
Pensava che suo padre l'avrebbe accompagnata fino al cancello della
scuola, purtroppo però le coordinate dell'isola in cui si
trovava l'istituto - da qualche parte nel Mar dei Caraibi - dovevano
rimanere top secret persino a lui.
A quel punto le erano sorti mille dubbi, ma in realtà era
semplicemente spaventata di iniziare da zero un'altra volta. Ormai
avrebbe dovuto esserci abituata, ma quella volta sarebbe stata sola, su
un'isola piena di ragazzini super-intellingenti, e aveva paura di non
essere all'altezza.
«Io invece sono convinto che te la caverai alla
grande», le aveva detto suo padre salutandola con un
abbraccio e un bacio sulla fronte.
Poi era stato il turno di Victoire, la quale le aveva lasciato tra le
mani un sacchetto simile a quello che le aveva dato quando si erano
conosciute.
«E se i tuoi compagni non si dimostrassero amichevoli offri
loro un biscotto, va bene bonbon?».
La donna portava gli occhiali da sole, come il novanta percento del
tempo, ma Geneviève l'aveva capito dalla voce che si stava
trattenendo dal piangere.
Quindi era salita su quell'elicottero militare scortata da un uomo
armato, vestito completamente di nero e con degli occhiali a mascherina
che gli nascondevano gran parte del viso, ed era partita.
Tra le mani stringeva ancora il sacchetto con i biscotti e il
cellulare, giusto per dirsi che poteva chiamare suo padre in qualsiasi
momento, ma anche quella specie di auto-consolazione venne spazzata via
quando il militare seduto al suo fianco le disse:
«Probabilmente non ti hanno avvisata, ma non c'è
campo sull'isola dei piccoli geni. Per una questione di sicurezza siete
completamente isolati dal mondo. Perciò scordati anche
Netflix».
Per fortuna Sherlock aveva risposto alla sua e-mail il giorno
precedente!
«E non si può in alcun modo comunicare con la
terra ferma?», domandò quindi, in ansia.
«Questo elicottero e la nave che porta i rifornimenti
speciali sono l'unico contatto con la terra ferma. Per il resto l'isola
è stata resa quasi completamente autosufficiente: ci sono
pozzi e cascate per l'acqua, campi coltivati, allevamenti di bestiame,
navi da pesca... Tutto quello che vi arriva in tavola è
kilometro zero. Solo il meglio per i nostri piccoli geni».
«La smetta di chiamarci così».
Il militare sogghignò. «Piccoli geni? Vedrai, ti
abituerai. Cos'hai in quel sacchetto?».
«Non lo sa? Mi ha perquisita da capo a piedi prima di farmi
salire».
«Ehi, facevo solo il mio lavoro».
Geneviève sospirò ed aprì il
sacchetto. «Biscotti».
«Posso averne uno?».
«Prego».
«Io sono Kinnon, comunque. Tu ti chiami?».
«Geneviève».
L'uomo infilò una mano nel sacchetto e si portò
un dischetto con le gocce di cioccolato alla bocca, sbriciolandosi
sulla divisa. Mentre faceva commenti d'apprezzamento le parve molto
più umano e la ragazzina si rilassò, riuscendo
persino a stendere un sorriso.
«Prima ha detto che c'è una nave che porta dei
rifornimenti speciali. In che cosa consistono?».
«Oh beh, quelle cose che sull'isola non si possono produrre:
medicinali, vestiti, armi...».
«Cioè mi sta dicendo che se tra i "piccoli geni"
uno svalvola e diventa un pazzo omicida avrebbe delle armi per farci
fuori tutti?!».
Il militare si tolse gli occhiali, rivelando un paio di glaciali occhi
azzurri, e la fissò sbalordito. «Qual è
il tuo problema, ragazzina? Sono cinquant'anni che esiste questo
programma e non è mai successo nulla del genere».
«Potrebbe accadere proprio mentre ci sono io»,
mormorò.
«Okay, senti: su quell'isola gli studenti vengono sorvegliati
praticamente ventiquattr'ore su ventiquattro da noi delle forze
speciali e all'istituto lavorano alcuni dei migliori psicologi del
mondo, perciò se anche qualcuno dovesse mostrare segni di
squilibrio - e ti ripeto che non è mai successo, dato che i
prescelti hanno tutti un pedigree impeccabile - verrebbe subito messo
in isolamento e poi rispedito sulla terra ferma».
«Pedigree?
Adesso ci paragona a dei cani?».
Kinnon si infilò nuovamente gli occhiali, sbuffando.
«Era una metafora per dire che solo gli studenti con un
albero genialogico impeccabile vengono ammessi. Per capirci: nessun
figlio di criminali ha mai messo piede sull'isola. Fin'ora
almeno». Fece per grattarsi la testa, ma ricordandosi di
indossare il caschetto ci rinunciò. «Non saprei
dirti se è una regola, ma sta di fatto che...».
«Grazie per la spiegazione, tutto molto
interessante», lo interruppe bruscamente la ragazzina,
tirando fuori dallo zainetto le cuffie ricevute come regalo di Natale
da Sherlock ed isolandosi nella propria musica.
Paradossalmente, anziché tranquillizzarla Kinnon aveva
aggravato le sue fobie al limite della paranoia.
Nè Mycroft Holmes nè suo padre l'avevano
informata di quel piccolo, insignificante dettaglio: anche in quella
scuola per ragazzi speciali, dove sperava finalmente di essere
apprezzata per tutto ciò che era, avrebbe dovuto tenere
nascosto che era la figlia del ladro più famoso di Francia,
pena l'espulsione, la reclusione in un qualche sotterraneo o magari la
correzione del gene criminale che aveva nel DNA tramite
chissà quale avanzato trattamento.
Il viaggio non fu troppo lungo, per fortuna, e l'elicottero
atterrò su una piattaforma a qualche chilometro dall'isola,
rendendola ancora più inacessibile agli occhi di
Geneviève. Fu fatta salire su un humvee - manco dovessero
attraversare una zona di guerra - il quale poi fu caricato su un
traghetto che li portò finalmente a riva. Lì
percorsero un paio di chilometri di spiaggia bianca, costeggiando a
sinistra l'oceano cristallino e a destra delle pareti rocciose su cui
la vegetazione cresceva rigogliosa.
La geografia le era sempre piaciuta e quell'isola aveva tutte le
caratteristiche per essere di origine vulcanica.
Ci manca solo un vulcano,
pensò affranta, mentre nelle orecchie i Fall Out Boy le
dicevano che i ragazzi non stavano bene.
Ad un tratto la spiaggia terminò a causa di una parete
rocciosa che continuava per diversi metri nell'oceano, tuttavia il
mezzo militare non rallentò né l'uomo alla guida
si preparò a cambiare direzione. Kinnon invece se la rideva
sotto i baffi, in attesa che iniziasse a gridare per la paura forse, e
Geneviève decise che non gliel'avrebbe data vinta:
tirò fuori il coraggio e la sfrontatezza dei Lupin ed
accavallò le gambe, sorridendo tranquilla in direzione della
parete di pietra.
Come aveva immaginato una lastra di forma rettangolare
scivolò di lato, mostrando una galleria segreta che portava
verso la superficie, rivestita in metallo ed illuminata da moderne luci
a led.
«Hai fegato, ragazzina», le disse Kinnon.
«Non sai quanti prima di te se la sono fatta sotto».
Geneviève sorrise orgogliosa e fu quasi accecata dalla luce
del sole quando uscirono dalla galleria e si ritrovarono in un viale
cementato nel bel mezzo di una foresta tropicale. C'erano pappagalli e
lemuri che passavano di albero in albero sopra le loro teste e la
biondina si portò le cuffie intorno al collo per ascoltare i
suoni della natura.
«Siamo arrivati», esclamò ad un tratto
Kinnon, puntando il dito verso la facciata di un edificio dai mattoni
scuri che le ricordò il duomo di Notre Dame con i suoi
rosoni, le nicchie ogivali e le guglie appuntite.
Davanti al portone principale c'erano altri due uomini delle forze
speciali, i quali diedero loro il lasciapassare per accedere al grande
quadrilatero interno, circondato su tre lati da un porticato, da cui si
entrava ufficialmente nell'istituto.
Geneviève scese dall'humvee e si guardò intorno
con la netta sensazione di essere finita in una scuola cattolica del
tardo Medioevo: mancavano solo le suore e i frati incappucciati.
«Bene, ti auguro una buona permanenza».
La ragazzina si voltò verso il militare, il quale nel
frattempo aveva scaricato i suoi bagagli ed era già risalito
sulla vettura.
«Aspetti un momento! Dove dovrei andare?».
Kinnon le scompigliò i capelli sulla testa e le
indicò la scalinata centrale, sormontata da due leoni simili
a quelli di Trafalgar Square.
«Non ti preoccupare, prima o poi qualcuno lo
troverai».
«Cosa? Ma...».
L'uomo le fece il saluto militare, dopodiché il collega fece
inversione ad U e la lasciarono sola nel quadrilatero deserto.
Geneviève raccimolò il coraggio e, zaino in
spalla, trascinò il pesante trolley su per la scalinata fino
al portone che trovò socchiuso. Allora entrò e
rimase stupefatta nel notare che se l'esterno somigliava in tutto e per
tutto ad una chiesa gotica, l'interno era ultra-moderno: i pavimenti
erano di lucido marmo bianco, le porte a scorrimento elettronico e in
mezzo alle grandi scale a chiocciola che si trovavano ai lati della
sala c'erano persino due ascensori in vetro.
«C'è nessuno?», esordì nel
modo più banale possibile, ma ottenne l'effetto desiderato.
«Signorina Geneviève?».
La ragazzina sobbalzò e si guardò intorno,
realizzando che dovevano averle parlato attraverso gli altoparlanti che
si trovavano ai lati del grande salone, sotto le telecamere.
«Sì, sono io», rispose con voce incerta.
«Io mi chiamo Natalie e dirigo questo istituto. Mi dispiace
per la scarsa accoglienza, ma il personale, così come la
maggior parte degli studenti, è ancora in congedo per le
feste. Ti dispiacerebbe raggiungermi nel mio ufficio? Lascia pure
lì i tuoi bagagli, li prenderai dopo».
«Okay».
«Perfetto! Adesso ti indicherò la strada. A tra
poco!».
Una luce blu illuminò il pavimento davanti a lei e
Geneviève realizzò che quello che aveva scambiato
per marmo era in realtà un pavimento formato da mattonelle
di led impostate per sembrare semplice marmo.
«Su su, avanti, non avere paura».
Geneviève seguì le mattonelle luminose fino a
giungere in un'altra sala che sembrava proprio un salotto comune
sviluppato su più piani, con tanto di divani, TV al plasma e
giochi di ogni tipo, tra cui anche un tavolo da biliardo.
Proseguì ancora e si ritrovò in un altro giardino
circondato da porticati in pietra.
«E adesso?», si domandò e si
guardò intorno per cercare la luce blu che doveva farle da
guida. Alla fine notò una lampada illuminarsi ritmicamente
dall'altra parte del giardino e si affrettò a raggiungerla,
ma a metà percorso finì per sbattere contro
qualcuno che era uscito da una porta scorrevole senza guardare davanti
a sé, probabilmente perché non poteva: diversi
scatoloni una volta pieni di libri, appunti, vestiti ed effetti
personali gli erano caduti nello scontro ed ora tutto era sparpagliato
per terra.
«Ohi-ohi, pensavo che queste cose accadessero solo nei
film», esordì il ragazzo e
Geneviève si ritrovò ad arrossire
incrociando i suoi occhi blu, vivaci e sorridenti.
Lui fu il primo ad alzarsi e le porse le mani per aiutarla. Lei le
accettò e pur di levarsi dall'imbarazzo si
concentrò sul disastro ai loro piedi: «Ti do' una
mano a mettere a posto, va bene? In fondo è anche colpa
mia».
«Ti ringrazio. Sei nuova? Ma certo che sì, che
domanda idiota. Io mi chiamo Isidore Beautrelet».
Geneviève gli strinse la mano dopo aver infilato in una
scatola una pila di libri, un po' sorpresa. «Sei francese
pure tu?».
«Nato e cresciuto a Castagniers, vicino a Nizza».
«Lo conosco! Io abitavo ad Aspremont, è
praticamete lì accanto!».
«Ma non mi dire! Che coincidenza incredibile trovarci qui,
non trovi?».
«Io sono Geneviève. Geneviève
Destange».
«È un vero piacere. Posso chiamarti
Gen?».
La bionda sorrise ed annuì, felice di aver trovato qualcuno
con cui poter condividere qualcosa. Il fatto che fosse così
carino era tanto di guadagnato.
Mancava ormai poca roba da raccogliere e Geneviève non
riuscì a trattenere la curiosità: «Come
mai gli scatoloni?».
«Perché me ne sto andando».
E addio ai suoi sogni di aver già trovato un amico.
Notando la sua espressione triste Isidore strinse gli occhi e scosse
freneticamente le mani davanti al volto.
«No, mi sono spiegato male! Sto andando via da quell'ala del
dormitorio perché quest'anno hanno deciso di tenere maschi e
femmine in un unico edificio! Non sto andando via dall'isola. Magari.
Sono due anni che non vedo la terra ferma».
Forse parlava un po' troppo per i suoi gusti, ma era un difetto a cui
poteva facilmente porre rimedio una volta ottenuta maggiore confidenza.
«Quindi hai trascorso qui le vacanze di Natale e il
Capodanno?», gli domandò ad occhi bassi,
sentendosi all'improvviso estremamente fortunata.
«Già. Quest'anno è stato ancora
più triste dell'anno scorso, dato che non è
rimasto nessuno a parte me».
«Nessuno? Vuoi dire davvero che tu hai trascorso il Natale su
un'isola deserta?».
«No, deserta no... C'erano Natalie, lo chef Kazuo e gli
agenti speciali Bust e Tonnerhop. Mi riferivo agli studenti».
«Ho capito».
Geneviève raccolse una serie di appunti e poi dei fogli
pinzati insieme il cui titolo attirò la sua attenzione:
"Arsène Lupin e il Faraglione Cavo - Il mistero risolto da
Isidore Beautrelet".
«E questo che cos'è?», gli
domandò la ragazzina.
Isidore alzò di scatto il capo e il suo viso si
imporporò. Le strappò il plico dalle mani e se lo
portò al petto con una mano, mentre con l'altra si tirava
indietro i capelli biondi che per via del caldo e
dell'umidità si erano arricciati sulla fronte e sul collo.
«È un progetto a cui sto lavorando da qualche mese
a questa parte, ma è difficile lavorare a un vecchio caso in
condizioni normali, figuriamoci confinati qui».
«Tu... Tu sei un fan di Arsène Lupin?»,
la buttò lì, fingendosi non troppo interessata,
ma lo era eccome.
«Sono un fan della sua mente», rispose Isidore, di
nuovo sorridente. «Il mio sogno è affrontarlo e
riuscire ad arrestarlo. Sherlock Holmes ci è andato
così vicino, prima di Natale! In quell'occasione ammetto di
aver tifato per il Ladro Gentiluomo perché voglio essere io
a batterlo».
«Cavolo, sei un tipo ambizioso».
Geneviève si alzò e sorridendo nervosamente
indicò la luce blu che stava ancora lampeggiando.
«Scusami, ma Natalie mi sta aspettando e non vorrei farla
arrabbiare il primo giorno».
«Oh, se vuoi ti posso accompagnare nel suo
ufficio!».
La ragazzina si guardò intorno alla ricerca di un modo
gentile per scaricarlo. «Davvero, non è
necessario. Ti ho fatto sprecare già troppo tempo».
«Figurati, il tempo è l'unica cosa che non mi
manca».
Sorridendo le afferrò la mano e Geneviève non
poté far altro che seguirlo lungo i corridoi, tra le varie
stanze e sulle scalinate. Tutto era avvolto nel silenzio.
Provò a rimanere concentrata sul percorso, in modo da
poterlo fare da sola al ritorno, ma il calore della sua mano, il suo
sorriso e i suoi occhi brillanti la stavano mandando in tilt. Ed era la
cosa peggiore che potesse capitarle, dato che Isidore era un aspirante
detective il cui sogno era quello di catturare suo padre.
«E, dimmi una cosa», lo interruppe durante la
spiegazione sulle attività serali.
«Sì, chiedimi pure quello che vuoi».
«Quand'è che ritorneranno gli altri
studenti?».
Isidore, candido ed ingenuo, non capì il sottotesto di
quella domanda e rispose: «L'8 Gennaio».
«Ah. Quindi per sei giorni saremo qui da soli, dico
bene?».
Il ragazzo sorrise. «Corretto».
«Fantastico», mormorò
Geneviève senza farsi sentire e finalmente raggiungerso la
porta dell'ufficio della preside.
«Vai, io ti aspetto qui», le disse dopo aver
bussato.
La voce femminile che Geneviève aveva sentito attraverso gli
altoparlanti le diede il permesso di entrare e lei rivolse uno sguardo
scioccato ad Isidore.
«Non so quanto mi tratterrà lì
dentro!».
«Non ti preoccupare». Il ragazzo si
addossò contro la parete e si lasciò scivolare
sul pavimento con le mani intrecciate dietro la testa e le gambe stese.
«Come ti ho già detto, ho fin troppo tempo
libero».
Geneviève sospirò affranta. Si sarebbe innamorata
di quel ragazzo e del suo stupido sorriso, ne era certa.
Senza dire una parola si tolse lo zainetto dalle spalle e
tirò fuori il sacchetto di biscotti di Victoire per
lanciarglielo. Isidore lo afferrò al volo, un po' confuso,
ma Geneviève non gli diede il tempo di porre domande,
aprendo la porta e sparendo all'interno dell'ufficio della preside, nel
quale venne colta di sorpresa dalla vista mozzafiato di cui si godeva
dalle ampie finestre accanto alla scrivania: si vedevano la foresta, la
spiaggia che avevano attraversato con l'humvee e in lontananza il
traghetto che portava alla piattaforma d'atterraggio in mezzo
all'oceano, ma anche tutto ciò che Kinnon le aveva descritto
e anche di più: serre e campi coltivati con ortaggi, alberi
da frutto e vitigni; fattorie con recinti pieni di mucche, pecore e
cavalli; campi da tennis, da basket, da calcio e da baseball; un'arena
per il tiro con l'arco e quella che sembrava proprio una piscina
olimpionica coperta da una cupola di vetro.
«So cosa stai pensando, bambina mia».
Geneviève posò gli occhi sulla donna seduta
dietro la scrivania e la trovò infinitamente più
giovane di quanto si era immaginata: avrà avuto trent'anni
al massimo ed era una bomba sexy con le sue gambe lunghe, il
decolté prorompente e un viso bellissimo contornato da
morbidi boccoli neri.
«Ah sì?», le domandò
arrossendo.
«Pensi che, più che una scuola, questo sembra un
resort. Non hai tutti i torti».
La donna si alzò dalla poltrona e la raggiunse al centro
dell'ufficio muovendo sinuosamente i fianchi, dopodiché le
alzò il volto e sorridendo ammaliante aggiunse:
«Grandi menti hanno bisogno di corpi sani e in forma, per
questo prendiamo molto sul serio lo sport e l'alimentazione. Ma per
ottenere risultati questo non basta: serve impegno e sacrificio. Sei
pronta, Geneviève Lupin?».
La ragazzina rimase a bocca aperta. «Allora... Allora lei lo
sa chi sono».
«Certo che lo so».
«E mi ha... mi ha ammessa comunque in questa
scuola?».
«Diciamo che tu sei il mio piccolo esperimento»,
ammise, pizzicandole il naso prima di dirigersi verso le finestre con
le mani intrecciate dietro la schiena. «Sei la prima figlia
di un criminale che mette piede su quest'isola e voglio vedere che
effetto farà sui nostri studenti».
Geneviève strinse i pugni lungo i fianchi, adirata. Prima
che potesse dimostrare a parole il proprio malcontento però
Natalie si voltò e le rivolse un sorriso quasi materno.
«Io non mi preoccuperei troppo se fossi in te. Dubito che tra
i nostri piccoli geni ci sia qualcuno di così stupido da
credere che esista il "gene del criminale". Qui i pregiudizi non
esistono: conta solo cosa puoi fare per rendere il mondo un posto
migliore. Ricordatelo».
La ragazzina annuì, ammettendo che il mondo sarebbe potuto
essere un posto migliore se solo tutti avessero ragionato in quel modo
sin dall'inizio.
«Bene, bambina mia». Natalie diede le spalle alla
finestra e aprì le braccia. «Sei pronta ad uscire
dall'ombra di tuo padre e a scoprire cosa rende speciale te?».
La figlia di Arsène Lupin chiuse gli occhi e quando li
riaprì erano quelli pieni di determinazione di
Geneviève. Sì, era pronta.
FIN
_________________________________________________________________________
Non mentirò,
non è mia abitudine. È stata dura, a volte
è stata durissima. Ci sono stati momenti in cui credevo di
non farcela, di essermi imbarcata in qualcosa di più grande
di me. Eppure, grazie all'affetto e al sostegno di tutti voi, che avete
letto questa mia creatura, e all'amore incondizionato che nutro per
questi personaggi - dal primo all'ultimo - sono riuscita a rimboccarmi
le maniche e a giungere alla fine di questa avventura. Ho provato un
misto di soddisfazione e tristezza quando ho spuntato quel
"sì" a completamento della storia, perché mi
mancherà da morire il nostro appuntamento domenicale.
Quello che spero è che non sia una fine definitiva: da
qualche parte Sherlock continuerà a risolvere casi con
l'aiuto di John, Molly, Lestrade e gli altri; Arsène
continuerà la sua personale lotta contro il male nell'unico
modo che conosce e sa fare, seguito da Victoire, François,
il resto della sua banda e sorvegliato dall'alto da
Grégorie; Geneviève crescerà e
diventerà una splendida donna capace di fare le sue scelte;
Maurice scriverà le avventure del ladro e farà
carriera; Ganimard ritroverà l'equilibrio tra le famiglia e
il lavoro, senza sacrificare niente, e sarà felice; e, un
giorno, tutti quanti calcheranno di nuovo lo stesso palcoscenico per
regalarci nuove emozioni.
Questo è quello che spero, ma per ora mi godo ciò
che sono riuscita a fare fino a questo momento e tutte le parole e i
complimenti inaspettati che mi sono arrivati.
Vorrei ringraziarvi tutti, uno per uno, ma è impossibile.
Perciò grazie a chi ha messo questa storia tra le
seguite/preferite/ricordate. Grazie a chi ha letto semplicemente.
Grazie a chi ha commentato, una sola volta oppure quasi tutti i
capitoli (tra cui non posso fare a meno di citare: LadyStark, BorderCollie, Shimba97, CreepyDoll e Intergirl84. Leggere
le vostre recensioni, settimana dopo settimana, mi ha resa felice e in
alcuni momenti mi ha dato la forza per andare avanti!). Un grazie
speciale alla già citata Shimba97
, la quale ha ritenuto questa storia degna di una segnalazione per le
storie scelte della categoria.
Grazie a Sir Arthur Conan Doyle e all'Onorevole Maurice Leblanc per
aver creato due dei personaggi più iconici della
letteratura, che io amo alla follia.
Grazie di cuore a tutti ♥
Ci vediamo presto, qui e in qualche altro fandom! ;)
Sempre vostra,
_Pulse_
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