Inbetweeners

di misstaken
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Risveglio ***
Capitolo 2: *** Il mio nome è Max Caulfield ***
Capitolo 3: *** Superpoteri ***
Capitolo 4: *** Segreti e sangue ***
Capitolo 5: *** Il ballo ***



Capitolo 1
*** Risveglio ***


Prologo

Camminava sul freddo pavimento di pietra, scavalcando i cadaveri e facendo attenzione a non calpestare le pozze di sangue. Raggiunse il fondo della stanza, dove una grossa finestra proiettava uno spettrale raggio di luce all’interno. Lasciò che la luna accarezzasse il suo volto, i boccoli ramati, il graffio insanguinato che le scalfiva la guancia. Trasse un profondo respiro, cercando di fermare il tremito alle mani.
“Sarà meglio muoversi, prima che arrivino le Sentinelle”. La voce di Byron risuonò alle sue spalle, producendo un leggero eco nella stanza vuota. Lei la ignorò, restando rivolta verso la finestra, gli occhi serrati.
“Non farne un affare di stato, come al solito: erano Ribelli, era necessario che morissero”.
A quel punto, spalancò i freddi occhi verdi, fissando Byron dritto in volto. “Allora, forse, faremo meglio ad andare”, disse semplicemente, calma, mascherando le emozioni che le si ribellavano nel petto.
Attraversarono una porta, sul lato della sala, entrando in un lungo corridoio. Camminarono in silenzio, finché Byron non parlò di nuovo. “Dai troppa importanza a questo genere di cose”, brontolò.
“Alla vita? Vuoi dire che do troppa importanza alla vita?”, rispose lei, a denti stretti, le mani che iniziarono nuovamente a tremare, mentre si apprestavano ad attraversare il passaggio. Byron non lo notò, nel buio. “Alla loro vita, sì”, rispose, indifferente. “Alcuni esseri nascono per essere sacrificati, altri sono semplicemente inutili, altri ancora meritano la morte…”. “Era mio amico”. Si voltò, premendo il pulsante che chiudeva il muro di sicurezza, che scese velocemente dall’alto, schiantandosi su Byron ed immobilizzandolo a terra. “ERA MIO AMICO!”.
Byron emise un gemito strozzato, senza fiato, metà del corpo incastrato oltre al muro di contenimento. “CHE DIAMINE FAI?” ansimò, dolorante. Lei trasse un respiro profondo, chiudendo gli occhi, e, finalmente, riuscì a calmarsi. Quando riaprì le palpebre, la sua espressione era pacata, calma, ma un fuoco sembrava animare le sue pupille. “Che diavolo stai facendo?”, Byron tossì. “Apri questa roba, prima che arrivino…”. 
“Perché dovrei aprire?”, chiese lei, candidamente. “Tu sei pazza”, ansimò lui. “Non dovrebbe esserti concesso di prendere parte a questo genere di missioni. Sei completamente pazza. Apri questa porta! Mi uccideranno, per Dio!”. “Ti uccideranno?” il volto della ragazza si illuminò di un sorriso, un sorriso freddo, che non raggiunse gli occhi. “E dov’è il problema? Non stai dando troppa importanza alla tua vita, Byron?”. “Non è la stessa cosa…!” disse lui. “Non lo è? Perché la tua vita è degna di essere salvata, e quella altrui no? Chi lo decide, Byron, il criterio? Tu?”. Si accovacciò di fianco all'uomo, che si contorceva come un verme, tentando inutilmente di liberarsi.
“Senti, mi spiace, okay? Mi spiace. Ma è così che funziona. Noi li uccidiamo perché siamo dalla parte del giusto, e loro tentano di contrastarci. Ora, per favore, tirami fuori, prima che arrivino quei mostri”. La voce di Byron si spezzò sull’’ultima frase, tradendo la paura. “Chi uccide non è mai dalla parte del giusto, Byron”. Fece per voltarsi ed andarsene, quando lui la trattenne, afferrandola per una caviglia. “ASPETTA! DOVE STAI ANDANDO? NON PUOI LASCIARMI QUA!”. “Posso, a dire il vero. Lo sto facendo”. “E CHE COSA DIRAI AL QUARTIER GENERALE? COME GIUSTIFICHERAI IL FATTO CHE SONO... CHE SONO MORTO?!?”. Ora la voce di Byron tremava incontrollabilmente. “Dirò loro che le Sentinelle ci hanno sorpreso durante l’attacco. Stavano per sfondare il muro, e tu sei rimasto indietro per combatterle. Ti farò sembrare molto più eroico di quanto tu non sia: dovresti ringraziarmi, ti ricorderanno tutti con orgoglio”. Lo guardò dall’alto al basso, con disprezzo. Poi calciò via la sua mano, e si allontanò. “ASPETTA! TI PREGO! TI PREGO, NON LASCIARMI QUI!”. In lontananza, si udirono ruggiti e versi bestiali. “STANNO ARRIVANDO! TI PREGO, MAX, MI UCCIDERANNO! NON VOGLIO MORIRE! TIRAMI FUORI DI QUI!”.
Max lo guardò ancora una volta, compassionevole. “Ma guarda: il prode Byron che implora per aver salva la sua stessa vita. Che spettacolo imbarazzante”. “MAX, MAX TI PREGO…”. “Hai ragione: alcuni esseri sono nati per essere sacrificati, altri sono inutili, altri ancora meritano la morte…”. Si udirono centinaia di zampe battere sul pavimento di pietra del corridoio. Un attimo dopo, Byron iniziò ad urlare, mentre veniva strattonato all’indietro. Iniziò a vomitare sangue, emettendo gorgoglii soffocati. “Addio, James”. Max si voltò, mentre, con un ultimo strattone, Byron veniva trascinato oltre il muro, che si richiuse alle sue spalle.

CAPITOLO I

Risveglio

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Diciannove. All’appello mancava una bambina, una dei piccoli. I tre capi scout si scambiarono occhiate preoccupate: non potevano certo lasciare il resto del gruppo per andare a cercarla, e dividersi sembrava un’idea altrettanto poco praticabile. Alla fine, si accordarono: due di loro sarebbero rimasti al fiume con gli altri ragazzi, e uno sarebbe andato a recuperare la bambina. Si offrì volontaria la ragazza più giovane.
La bambina scomparsa si chiamava Britney. La ragazza iniziò ad urlare il suo nome, addentrandosi nel bosco. Era impossibile che si fosse allontanata troppo, quindi decise di fare un giro in rotondo attorno al luogo dove si erano accampati.
Dannati bambini: quante volte avevano ripetuto loro di non allontanarsi senza la supervisione di un adulto? Non osava neanche immaginare a che cosa potesse succedere se non l’avessero ritrovata subito. Come diavolo ci si può presentare davanti ad un genitore e dirgli qualcosa del tipo, “Hey, sai, mentre eravamo nel bosco tuo figlio è scomparso, e non siamo più riusciti a ritrovarlo”.
“BRITNEY! BRIT!”. La ragazza urlava a pieni polmoni, ma invano: dalla foresta non giungeva alcuna risposta, se non qualche fruscio, o il rumore di un animale che calpestava le foglie secche. A un certo punto, inciampò su qualcosa; cadde a terra con un tonfo. Si tirò su, ed esaminò l’oggetto che l’aveva intralciata: era lo zaino della bambina, ed era macchiato di rosso. Pregò ogni dio esistente che non si trattasse di sangue, ma notò che le macchie erano presenti anche sul terreno: le seguì, e la quantità di liquido divenne via via più copiosa. All’improvviso, scese la nebbia, la luce parve affievolirsi, come se nuvole nere avessero oscurato il sole, e l’aria divenne gelida. Tremando e strofinandosi le braccia, la ragazza fece ancora qualche passo, prima di vederlo: ai piedi di un grosso pino, qualcosa di scuro si muoveva, emettendo suoni umidicci e schiocchi. “Britney?” la ragazza esitò. Poi, l’essere si mosse, e lei si rese conto che stava divorando qualcosa, o meglio, qualcuno: qualcuno che indossava una divisa da scout. Arretrò frettolosamente, incespicando e cadendo, e l’essere si voltò, ruggendo: non aveva né occhi né naso, solo un’enorme bocca, che si apriva come uno squarcio lungo tutta la parte inferiore della testa. La ragazza urlò, terrorizzata, iniziando a correre, con l’essere alle calcagna: riuscì a raggiungere il resto del gruppo, prima che l’atterrasse. Da ogni dove, sbucarono altre creature, aggredendo i superstiti. Il bosco riecheggiò per poco delle loro grida, prima che anche l’ultimo essere umano rimasto in vita fosse ridotto al silenzio.

 

Max

 

Max spinse la porta del bagno con una spallata, reggendosi la mano sinistra, avvolta in un asciugamano. Aprì il rubinetto dell’acqua, e la infilò sotto al getto. Il lavandino si tinse di rosso. Con una smorfia di dolore, chiuse l’acqua ed esaminò il taglio più da vicino. Il dorso della mano era lacerato in obliquo, in modo irregolare, ma la ferita, pur continuando a sanguinare, non sembrava profonda. Max si raddrizzò, aprì l’anta del mobiletto appeso sopra al lavabo e recuperò del cotone, del disinfettante e delle bende elastiche. Si avvolse con cura la mano, assicurando poi la garza con una graffetta. Uscita dal bagno, raggiunse la scatola ai piedi del letto, e, con molta attenzione, spostò gli ultimi oggetti rimasti sul fondo, rinvenendo finalmente quello incriminato: una vecchia cornice, il cui vetro si era frantumato. Uno dei pezzi era macchiato di sangue, il suo. Max rimosse i vetri dalla foto, cercando di non graffiarla: un’operazione particolarmente difficile, perché il vetro pareva essersi appiccicato. Con molta delicatezza, ci riuscì. Dopodiché, prese scopa e paletta, raccolse i vetri sparsi sul pavimento, e si gettò sul letto, fissando la fotografia.
Era una vecchia foto di lei e sua madre. Si stavano abbracciando, un’altalena e un grosso albero sullo sfondo. La cornice doveva essersi rotta quando Max l’aveva scaraventata, insieme agli altri ricordi di sua madre, in una scatola che aveva rinchiuso in un angolo buio dell’armadio, dopo la sua morte.
Max fissò la foto finché gli occhi non le si riempirono di lacrime: a quel punto, si alzò, e la mise con cura in mezzo ad una copia del Giovane Holden; doveva ricordarsi di comprare un’altra cornice.
In realtà, era piuttosto orgogliosa di essere riuscita a rimettere in vista gli oggetti appartenenti a sua madre. Un vecchio orologio da muro, qualche libro, album fotografici, vestiti. Guardando la stanza, ora, vedeva in ogni angolo pezzetti di lei. Un tempo, il dolore e la rabbia le rendevano impossibile anche solo pensare a quelle cose. Se il tempo non guarisce, per lo meno rende più forti, pensò.
Aveva compiuto diciotto anni lo scorso agosto. Ne erano passati nove dalla morte di sua madre, e, crescendo, Max era diventata la sua fotocopia. Era piuttosto alta, con un fisico asciutto ma robusto, e lunghi capelli castano-ramati che si ribellavano in larghi boccoli, ricadendole sulla schiena. I suoi occhi erano di un verde scuro con pagliuzze nocciola e dorate, quasi grigi nei giorni di pioggia. Si divertiva a pensare che fossero del colore del bosco. Sul naso dritto portava, di tanto in tanto, occhiali larghi quadrati, quando non indossava le lenti a contatto. Le sue labbra erano morbide e rosse, il viso ovale, l’espressione perennemente seria.
Tendeva a non indossare vestiti particolarmente femminili, preferendo felpe e camicie larghe, magliette e jeans, per cui spesso, quando indossava il cappuccio, riusciva a passare per un ragazzo. Era un lupo solitario, Max, ma questo non le dispiaceva, anzi: tendeva ad essere indifferente alle persone, una tendenza che non era cambiata con l’inizio del college.
Raccolse da terra la borsa ricolma di libri, per avviarsi a lezione. Uscendo, chiuse a chiave la porta, scendendo poi al piano di sotto per controllare che la zia stesse bene. Sullo zerbino, quasi non inciampò su un contenitore di plastica posto sul pavimento. Incespicando per non pestarlo, imprecò sottovoce, e lo raccolse. Sul coperchio era appiccicato un post-it: “Maxime, sono andata a ritirare la giacca in lavanderia. Ti ho lasciato il pranzo, ti voglio bene. Zia Chelsea”. Scuotendo la testa, Max infilò il contenitore nella borsa. Suo malgrado, un angolo della bocca le si curvò in un sorriso: non sapeva resistere ai gesti carini, per quanto volesse.
Insomma, Max Caulfield era un’adolescente normale, che conduceva una vita abbastanza normale, frequentava una scuola normale piena di gente normale, aveva interessi normali e hobby normali. E da brava adolescente normale, aveva dimenticato le chiavi della macchina. Sbuffando, corse indietro, salì in due balzi le quattro rampe di scale, aprì la porta, e le chiavi volarono dal comodino, a fianco al letto, fino al palmo teso della sua mano sana. Un’adolescente normale, Max, che, come tutti gli adolescenti normali, forse tanto normale non era.


 

Alice

 

Uno, due, tre, quattro. Al centro della stanza, Alice effettuava una piroetta dopo l’altra. Trentasei, era quello il suo record. Era quello il limite da battere. Venti, ventuno. I muscoli delle gambe iniziavano a bruciare. Trentadue, trentatré, trentaquattro. Cadde, sbattendo violentemente contro il pavimento. Frustrata, slacciò gli scarpini, scaraventandoli lontano. Sbuffò, e si abbracciò le ginocchia, appoggiando il viso sulle gambe. L’indomani, i lividi avrebbero fatto male. Ma per ora, tutto ciò che le faceva male era il fallimento. Desolata, si alzò, uscì dalla palestra, salì le scale e raggiunse la sua stanza, dirigendosi verso il bagno. Si sfilò la maglietta, i leggings, la biancheria, e si lasciò sciogliere sotto il getto caldo della doccia.
Uscendo, si avvolse i capelli corvini che le ricadevano sulle spalle in un asciugamano, e si rivestì. Indossò una camicetta azzurra e un paio di pantaloni bianchi. Ebbe cura di darsi giusto un filo di trucco, prima di asciugarsi i capelli e piastrarseli. Raccolse lo zaino e il borsone con la divisa da cheerleader prima di uscire, scendendo le scale a saltelli. In fondo alla rampa, suo fratello Ben tese una manona per darle uno schiaffo sulla nuca, che lei prontamente evitò, chinandosi in uno scatto felino. Lui la afferrò per un braccio, costringendola a fermarsi e a voltarsi. “Hey, nana. Dov’è che corri?” la apostrofò con un ghigno. “A scuola. Lasciami andare.” Alice evitò il suo sguardo per tutto il tempo, cercando di divincolarsi dalla sua presa. Odiava essere chiamata nana, seppure sapesse di essere bassina. “Tutta questa fatica per inculcarti dei buoni principi, e tu dov’è che corri? A scuola” Ben sottolineò l’ultima parola, con tono di scherno. “E dire che pensavamo ce l’avessi fatta, a diventare una fallita, quando sei diventata capitano della squadra delle cheerleader!”. Il braccio libero di Alice si mosse prima che lei stessa potesse pensare a quello che stava facendo. Ma suo fratello le bloccò la mano a pochi centimetri dalla sua faccia. Ridendo sguaiatamente, Ben la bloccò contro il muro. “Ma che fai nana? Vuoi fare a botte con il fratellone?”. “Lasciami” sibilò nuovamente Alice, questa volta fissandolo dritto negli occhi. Il ghigno scomparve dalla faccia di Ben, che schiuse le labbra per minacciare qualcosa. Ma fu interrotto. “Lasciala andare. Dobbiamo andare a scuola.” Alex si avvicinò. Era più basso di Ben di almeno tutta la testa, ma sembrava fermo e risoluto. “Ah! Due nani contro di me!” rise. Alex sollevò il cellulare. “Non credo che a mamma andrebbe di vedere quello che stai facendo”, disse. A quel punto, Ben mollò la presa su Alice, avvicinandosi ad Alex, un passo alla volta. “Che cosa c’è, frocetto” sibilò “vuoi metterti contro di me?”. Calmissimo, Alex sostenne il suo sguardo, mentre Ben avvicinava la faccia alla sua, fino a lasciare solo pochi millimetri tra le punte dei loro nasi. “Vuoi forse farmi paura?”. “Alice è la mia gemella”, spiegò, semplicemente. “Tutto quello che fai a lei, lo subisco anche io. E oggi non ho proprio voglia di sentire male”.  Ben rise sguaiatamente. “Che stronzata”. “Non dovresti essere a scuola anche tu, comunque?” Alice fece un passo in avanti, corrucciata, i penetranti occhi blu scuro fissi sul fratello. “O vuoi vivere a casa per sempre, per rompere le palle a me?”. Ben stava per ribattere, quando lei lo interruppe. “Oh sì, facciamo a botte. Due contro uno, Ben, ti va? E quando ci porteranno tutti e tre all’ospedale, potrai spiegare a nostra madre che cosa è successo. E come mai non eri a scuola, cosa fai quando sei fuori, e tutto il resto”. Ben perse a questo punto ogni voglia di ridere. “Ascoltatemi bene, voi due” ringhiò “sarà meglio che iniziate a portare rispetto per i più grandi, perché se pensate che io possa aver paura di voi…  di un vostro ricatto, vi sbagliate. Siete fortunati che oggi non ho voglia di litigare con femminucce e frocetti, se no a quest-“. “Andiamo, Alex”. Tirando il fratello per un braccio, Alice uscì in fretta e furia dalla porta, inseguita dagli urli di Ben. “ALICE JEN DAWSON, STO FOTTUTAMENTE-“. Le grida si attutirono quando Alice sbatté la porta della Mercedes. Alex si allacciò la cintura, sul sedile del passeggero, guardandola. “Stai bene?” domandò, incerto. “Non so perché Ben sia così. Insomma, è quasi come se fosse colpa tua che-“. “Sto benissimo” Tagliò corto lei. “Allora, la metti la musica o no? Ma niente roba da froci, per favore” Aggiunse, lanciandogli uno sguardo divertito. “Roba da froci? Agli ordini!” Esclamò Alex. I due risero, mentre Alice metteva in moto, e ingranava la retromarcia, facendo scricchiolare il cemento del vialetto.

 

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Dentro al guscio, fremeva, si agitava, ribolliva. L’inquietudine lo divorava dall’interno. L’impossibilità di muoversi lo distruggeva. “Ancora qualche ssssecondo, padrrrrrone”. Miagolò qualcuno. “Ne uscirà rigenerato, è una garanzia!”. Sbuffò. “Ormai sono diversi minuti che manca solo qualche secondo”, sibilò. “Gli altri sono tornati?”. “SSSì, ssssignorrre…”. “Le hanno trovate?”. “…No, sssignorrre…”. “Mandria di incompetenti” sbottò. “Devono trovarle. Dobbiamo trovarle. Prima del risveglio”. Sbatté un pugno contro il guscio, frantumandolo. Si alzò; una figura imponente, magra, dinoccolata, lievemente deforme. “Aprite il portale” ordinò.

Intanto, migliaia di chilometri sotto la crosta terrestre, qualcosa ribolliva, si agitava, fremeva. Milioni di uova si agitavano nella lava rovente, nutrendosi del calore del magma, assorbendo la linfa vitale della Terra. Erano stati deposti lì quasi due decenni prima, e ora il tempo della schiusa era finalmente vicino. Larve, esseri immondi, informi, destinati a succhiare la vita dei pianeti su cui nascevano, lasciando dentro di sé solo una massa di sterili rocce. Mostri, ecco cosa sarebbero diventati: di fattezze e forme differenti, ma dotati di una forza inaudita, e di uno spiccato gusto per la violenza. Erano macchine da guerra che sarebbero nate e cresciute per distruggere. Era da quando avevano scoperto l’altra dimensione che aspettavano questo momento. Il loro popolo sarebbe finalmente risorto, conquistando nuove terre, e diventando il primo conquistatore dell’altro mondo. Così, con la schiusa, iniziava la guerra delle dimensioni.
Nel cuore della Terra, a migliaia di chilometri da Max, Alice, Zia Chelsea, Alex, e qualunque altro terrestre, il guscio del primo uovo si incrinò.

 

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Capitolo 2
*** Il mio nome è Max Caulfield ***


 

CAPITOLO II

Il mio nome è Max Caulfield

Max


Il campus universitario di Heathfeld si trovava nell’entroterra di una delle due penisole del Michigan, e distava circa mezz’ora, in macchina, da Newberry. Per questo, Max aveva deciso di non usufruire dell’alloggio che la borsa di studio le offriva: sarebbe semplicemente stato più comodo tornare a casa, nella sua stanza, che non condivideva con nessuno, e dove teneva tutte le sue cose. Molti ragazzi erano entusiasti, invece, alla prospettiva di cambiare casa, e di vivere per tutto il semestre con i propri compagni di scuola: vagheggiavano di organizzare festini, e passare le serate libere a bere e socializzare. Una prospettiva che non sollecitava minimamente l’interesse di Max. Non era mai stata brava a socializzare, e, a un certo punto, si era arresa del tutto. Si sentiva terribilmente a disagio quando un estraneo le rivolgeva la parola, e rimediava, in genere, solo figuracce. Per questo, era diventata una persona solitaria, che i suoi coetanei non cercavano mai.
Si ricordava il boom di attenzioni ricevute quando sua madre era morta: le mamme costringevano i ragazzini di tutte le età ad invitarla a feste di compleanno, uscite, giochi. La forzatura era evidente persino agli occhi di una bambina, anche perché già a quell’età Max era abituata ad evitare ed essere conseguentemente evitata. Preferiva stare sola, piuttosto che sforzarsi di piacere a gente che si sforzava di stare con lei: non c’era guadagno per nessuna delle due parti. Qualche bullo aveva tentato, per questo suo atteggiamento, di attaccarla, ma lei non era una ragazzina debole, e aveva sempre reagito. Finché, in qualche modo, alle superiori non iniziarono a guardarla tutti con rispetto, senza avvicinarla, come se avesse dieci anni in più di loro. E, in un certo senso, si poteva dire che Max fosse cresciuta più in fretta di loro, vuoi per le sue esperienze, vuoi per il suo modo d’essere. Anche gli adulti faticavano a capirla, a volte. A dire la verità, le uniche persone che, finora, riuscivano ad entrare nel guscio di Max erano Zia Chels e Richie, il suo vicino di casa. Tutti gli altri non la capivano, e lei non dava loro elementi per essere capita: per cui la lasciavano stare, ammirandola, ma provando anche antipatia nei suoi confronti. Chissà chi si credeva di essere, quella Caulfield, pensavano. 
In realtà, Max non si credeva d’essere proprio un bel niente, se non una ragazza timida, chiusa, ma soprattutto sincera: se non trovava elementi degni di interesse, non vedeva il perché fingere e mescolarsi tra la folla. Ingranò la marcia con un gesto brusco. Lei era una brava persona, ma non poteva lasciare avvicinare proprio chiunque: si proteggeva, per istinto di sopravvivenza, e in questo modo si evitava delle delusioni. Esattamente quello che non aveva saputo fare sua madre. Frenò all’ultimo momento, quando si accorse che stava per oltrepassare lo svincolo giusto, e imboccò una strada in salita. A maggior ragione, dunque, Max si era convinta a star lontana da chi non le trasmettesse le vibrazioni giuste, anche al college: aveva tutti gli elementi per farcela da sola, senza bisogno di amici. Certo, se, per caso, ne avesse incontrati un paio lungo la strada, ne sarebbe stata felice, ma non c’era bisogno di sforzarsi e di conoscere gente su gente. Max sapeva di essere diversa, di non essere normale. Al momento giusto, la persona giusta, animata dal giusto desiderio di entrare in sintonia con lei, sarebbe arrivata. E se così non fosse stato, sarebbe sopravvissuta, come sempre.
Sul filo di questi pensieri, Max entrò nel parcheggio del campus. Era già quasi tutto occupato. Imprecando ripetutamente tra sé e sé, Max iniziò a girare a cerchi come un falco, finché non individuò un bel posto comodo, sotto alla tettoia, tra un fuoristrada di lusso e una Mercedes nera. Si infilò nello spazio alla perfezione, e in quel momento realizzò che forse la sua vecchia Golf sfigurava, tra quel colosso e l’altra berlina. Probabilmente, lei stessa si sarebbe sentita così tutto l’anno in mezzo alle altre persone, pensò, ridacchiando tra sé. Beh, per lo meno vi ho fottuto il posto figo, ricconi, ghignò, e uscì dalla macchina, avendo cura di chiuderla prima di allontanarsi.
Sfilò il programma dalla borsa e lesse. Dalle ore otto alle ore dieci, gli studenti sarebbero stati fatti accomodare nei loro alloggi. Alle ore dieci e trenta, era obbligatorio ritrovarsi in aula magna per il discorso di benvenuto. Max controllò l’ora dallo schermo bloccato del suo cellulare. Erano le 9:47. Avrebbe avuto tempo per un caffè, ma andare nella caffetteria, in un buco vuoto dell’orario delle attività del primo giorno di scuola di un college, significava trovare orde di matricole a caccia di relazioni sociali, e a Max non andava di essere una preda a cui sottoporre un sacco di noiose ice-breaking questions, tipo come ti chiami, come mai sei qui, cosa vorresti studiare di più, che lezioni segui, siamo insieme in questa qui, facciamo un gruppo studio!
Decisamente no. Max si voltò e si diresse verso l’aula magna, una stanza da conferenze piuttosto grande, che si trovava al centro del piano terra dell’edificio principale. Entrando, scelse un posto vicino all’estremo centrale di una delle file più in alto: era la prima arrivata, e i sedili erano tutti vuoti. Lasciò solo un posto tra sé e il corridoio. In quel modo, non le sarebbe stato comodo alzarsi, di conseguenza difficilmente sarebbe stata scelta per fare qualche attività, ma allo stesso tempo era difficile che qualcuno si sedesse, perché erano tutti fuori a conoscersi e sicuramente avrebbero voluto un posto vicino ai nuovi amici, lasciando quel sedile per un altro emarginato poco fastidioso. Con la faccia perennemente seria che si ritrovava Max, era difficile che un gruppetto di studenti decidesse di mettersi intorno a lei, includendola a forza nel gruppo. Così, trovato il posto perfetto, aspettò. Verso le dieci, e più consistentemente verso le dieci e un quarto, la sala cominciò a riempirsi, e l’aria vibrava del chiacchiericcio di matricole eccitate. Come previsto, nessuno faceva l’atto di raggiungerla: la sua bolla funzionava anche al college, e di ciò era grata. Continuò ad esaminare il flusso delle persone. Nella sua fila, gli unici posti rimasti liberi erano i due a fianco a lei, sicuramente nessuno li avrebbe pretesi entrambi. Qualche ritardatario, magari, avrebbe voluto il posto esterno, ma…
"Scusami...". Incredula, Max si voltò lentamente verso la fonte di quella voce esitante. Proveniva da una ragazza con i capelli neri, leggermente protesa verso di lei. Max alzò un sopracciglio, in attesa, e forse l’espressione sul suo viso colse di sorpresa l’avventrice, che si ritrasse impercettibilmente, ricomponendosi poi subito. "Scusami, ci stavamo chiedendo se questi due posti fossero occupati". Non era sola: a pochi passi di distanza c’era un ragazzo identico a lei, non fosse per la lunghezza dei capelli. Max gettò un’occhiata sconsolata intorno all’aula, notando infinite file mezze vuote, poi si voltò a guardare il gruppo che aveva occupato la sua: l’ultimo ragazzo le dava le spalle, parlando animatamente con gli altri. Indicando la sua schiena con un cenno, disse: "Sono vostri amici?" "Ehm, no", rispose la ragazza. Max sospirò. Perchévolevano sedersi proprio lì? "Senti, i posti sono liberi, ma se volete stare seduti vicini vi conviene andare più su, perché io non voglio spostarmi dal mio posto…" Max cominciava a essere inquieta, il suo piano rischiava di non funzionare. La ragazza sorrise. "Non c’è bisogno. Alex può sedersi alla tua sinistra, e io alla tua destra, così non perdi il posto tattico". Questo era il worst case scenario, l’apocalisse: un gruppo che si posizionava per includerla. Per quanto si sentisse a disagio, però, Max non se la sentì di dire o fare qualunque cosa che potesse ferire quella ragazza dal viso gentile, e così si limitò a bofonchiare: "Beh, immagino che vada bene, se a voi non dà fastidio…". "Assolutamente no!" trillò il ragazzo che doveva chiamarsi Alex, scavalcando le gambe di Max e sprofondando nella sedia alla sua destra. "Molte grazie!" aggiunse la ragazza, prendendo posto alla sua sinistra. Ora si presenta, pensò Max. Dio per favore, se esisti… "Hey". La ragazza la stava guardando, un sorriso sulle labbra. "Comunque, piacere di conoscerti, quello è mio fratello Alexander", Alexander fece un cenno e un sorriso "e io, invece, sono Alice". Sorrise, tendendo la mano. Per la prima volta, Max l’aveva guardata negli occhi, ed erano di un blu scuro, a tratti quasi violaceo, un colore peculiare, che assomigliava al mare in tempesta. Occhi che potevano appartenere solo ad una persona, dal suo punto di vista. 
Lei non era brava in questo genere di cose. Sapeva che avrebbe dovuto stringerle la mano, e dire qualcosa come “Il mio nome è Max Caulfield”, ma perché, in quel momento, quella frase sembrava così difficile da pronunciare? Coraggio, Max, si disse, mentre il sorriso sul volto di Alice cominciava a trasparire la preoccupazione,prendile la mano e dì qualcosa. Ma non riuscì a stringerla. Era come se una forza la trattenesse, obbligandola a non avvicinarsi a quella ragazza. "Tu sei Alice" disse infine Max, come in una trance. "Noi andavamo alle elementari insieme", aggiunse, voltandosi, in modo da guardare di fronte a sé. "Davvero?" Alice era palesemente sorpresa. Vedendo la reazione di Max, abbassò la mano, imbarazzata. "Mi spiace, faccio un po’ di fatica a ricordare, com’è che hai detto che ti chiam-".
"Silenzio" tuonò la voce profonda del Preside. Max sospirò: salvata in extremis.
"Grazie" continuò Mr. Chamberman. "Come sapete, siete tutti qui per celebrare l’inizio del vostro percorso universitario. Siamo orgogliosi di dire che Heathfeld sforna ogni anno giovani professionisti, eccellenze divenute tali dopo aver ricevuto una formazione di prim’ordine proprio qui, in una delle migliori Università degli Stati Uniti. Da matricole, siete chiamati a scegliere il vostro futuro: a decidere in quale ambito concentrare il grande talento che vi ha concesso di essere ammessi in questa scuola…". Era il classico discorso pomposo che le grandi Università private statunitensi propinavano ai loro alunni. “Noi siamo i migliori, dovete diventare come noi, dovete eccellere, dovete essere il nostro futuro”, dovete, dovete, dovete. Mai una volta che si parlasse di passione, pensò Max. Erano discorsi tipici, già scritti ogni anno, non dedicati a loro, e quindi perché prestare attenzione? Bastava restare in silenzio, così che il preside potesse sfogarsi, e poi accarezzare il suo ego, nonché quello di chi credeva nelle sue parole, con uno scroscio di applausi. A Max interessava solo che in quel posto le insegnassero qualcosa di buono, e poi, come usarlo, l’avrebbe deciso lei, senza bisogno di discorsoni. 
Il suo sguardo vagò, e si ritrovò a indugiare sul viso di Alice, che invece ascoltava corrucciata. Max si chiese a cosa stesse pensando. Non era cambiata di molto da come se la ricordava: ora portava i capelli lunghi fin sotto le spalle, con un ciuffo che le ricadeva sulla fronte. Aveva il naso piccolo e fine, leggermente all’insù, e la bocca morbida e molto rossa, che contrastava con la sua carnagione chiara. Sembrava Biancaneve, pensò Max, divertita. In fondo, viveva in una villa in periferia, che, agli occhi di Max, assomigliava ad un castello, quindi il paragone con una principessa era d’obbligo. Ma qualche trasformazione, nel suo corpo, c’era stata: il viso si era leggermente affilato, e soprattutto i fianchi si erano allargati un pochetto, e indubbiamente le erano cresciuti i seni. Max arrossì: era una donna, ora, Alice, diversa dalla bambina che le aveva portato i biscotti cotti nel dolce forno, la sera in ospedale, mentre sua madre era attaccata a degli apparecchi che monitoravano il suo stato vitale.  
Era stata la mamma di Alice a dare le ultime cure a sua madre morente. Max, nell’ospedale, era terrorizzata, non riusciva nemmeno a piangere. Siccome la madre dei gemelli Dawson era un chirurgo di grande fama, era stata chiamata nel cuore della notte, nonostante non fosse di turno, e aveva dovuto portare i figli con sé all’ospedale, come capitava ogni tanto, non sapendo a chi lasciarli. Loro avevano la loro stanza e alcuni giochi nell’ufficio della madre, e così Alice, vedendola nella sala d’attesa, doveva aver pensato che il Dolceforno potesse tirare un po’ su Max. Così le offrì un biscotto, e poi le mostrò come farne altri, e giocarono tutta la sera, fino ad addormentarsi, Max abbracciata a lei. Le aveva svegliate proprio la madre di Alice, che poi aveva portato Max in un posto appartato, per comunicarle della morte di sua madre. 
Quel gesto, a Max, aveva fatto effetto. Era così diverso da tutti i regalini che aveva ricevuto dai bambini, che si avvicinavano a mani tese, bofonchiavano qualcosa e poi tornavano dalla mamma che li teneva sott’occhio. La mamma di Alice era in sala operatoria. Quella era una cosa che aveva voluto fare lei, da sola, per aiutarla.
Che strana persona, pensò. All’improvviso, la stanza si riempì di applausi e ovazioni, e Max vi si unì in ritardo, stordita. Alice si voltò sorridendo. "Che mucchio di cazzate, eh?" disse, sorridendole. "Eri fortissima prima. Ogni tanto ti guardavo. Ti eri incantata su qualcosa, forse ho qualcosa tra i capelli, e stavi palesemente pensando a tutto meno che all’onore, all’orgoglio…" enfatizzò le ultime parole con fare parodico, mentre Max sentiva un profondo bollore risalire lungo il collo. L’aveva guardata. E si era accorta che la stava fissando. "Va tutto bene?" Alice la guardò incerta, il viso leggermente inclinato. "Ma sì, sì" disse Max, sbrigativa. "I tuoi capelli sono a posto, comunque, a volte mi capita di fissare lo sguardo in punti a caso, quando penso a qualcosa…". E prima che lei avesse il tempo di chiederle a cosa stesse pensando, Max sgusciò fuori dal sedile, oltrepassandola. "Beh, ci vediamo in giro, Alice, Alex" e repentinamente si voltò, dirigendosi verso l’aula di inglese.

 

Alice


Interdetta, Alice seguì con lo sguardo la ragazza dai lunghi capelli ramati, che in pochi secondi scomparve, attraversando la porta doppia dell’ingresso dell’aula magna. Corrucciata, tornò a sprofondare nella sedia, pensando a cosa mai potesse aver detto di male per far correre via una persona. Si era comportata in modo bizzarro, però. Forse era una questione di timidezza. I gemelli lasciarono che l’aula si svuotasse un pochino, prima di apprestarsi all’uscita. "Beh, dovremmo muoverci" esordì Alex, ad un certo punto. "La prima lezione è inglese, e a quanto pare l’aula si trova dall’altra parte del campus. Alice, mi stai ascoltando?". La ragazza fissava intensamente un punto di fronte a sé, mordendosi il labbro inferiore. Il fratello le diede un colpo sulla nuca, scuotendola dal torpore, e lei rispose con un pugno sulla spalla. "Ouch! Dai, Al, dobbiamo muoverci!". "Lo so". Afferrando la borsa, Alice si alzò con un movimento fluido, e si diresse a grandi passi verso l’uscita. Alex le trotterellò a fianco. "Hey, ma che ti prende!" sbottò, all’improvviso. "Non è colpa mia se quella ragazza è corsa via, sai? Non sono così brutto! E, se anche fosse, hai la mia stessa faccia, quindi direi che la responsabilità ce la dividiamo equamente". Alice alzò gli occhi al cielo. "Sarebbe scappata più in fretta, se ti avesse sentito parlare" ribatté. Sospirando, aggiunse: "Non è quello… si è comportata in modo strano. Mi ricorda qualcuno, ma non riesco a collegare il suo viso a nulla…". Alzando un sopracciglio, Alice guardò il fratello. "Non si sarà offesa perché non mi ricordavo di lei, vero? Non mi ha nemmeno detto come si chiamasse". "Nah". Alex calciò una pigna. "Le persone a volte sono strane. Neanche io mi ricordo di lei. Chiunque sia, deve essere cambiata troppo dai tempi delle elementari". "Mmmh…". Alice continuava a tenere la fronte corrugata, concentrandosi.
"Cerca di non surriscaldarti i neuroni. Ti verrà in mente, alla fine. Oppure, potrai chiederglielo. Sono sicuro che la rivedrai, prima o poi, in giro per il campus. Anche se, a giudicare da come è scappata, forse non vuole essere tua amica. Non la biasimo: hai scritto rich, basic white girl su tutta la faccia" Alex rise. "O forse oggi puzzavi particolarmente, e non riusciva a starti vicino", lo rimbeccò Alice. Continuando a battibeccare, i gemelli oltrepassarono la soglia dell’aula di inglese. E indubbiamente, in primo banco, sedeva la ragazza senza nome. Alice si bloccò a metà frase, a bocca aperta, mentre lei la scrutava, gli occhi di un verde intenso di una serietà e freddezza incredibili mentre scivolavano su di lei, dandole la sensazione di venire trapassata da lame gelate. Senza-nome alzò le sopracciglia, inclinò le labbra in un mezzo sorriso dall’aria beffarda, e si voltò, scrutando fuori dalla finestra. Sentendosi irrimediabilmente giudicata, Alice sentì la sua faccia iniziare a scaldarsi, e si affrettò a prendere posto nella fila centrale, dove quella ragazza non poteva vederla. "Stai bene, sis?". Alex scivolò nel posto accanto a lei. Invece di rispondere, Alice iniziò a scrivere data e intestazione sulla prima pagina del suo quaderno, furiosa. Erano entrati in classe litigando come due bambini. Però, a pensarci bene, che diritto aveva quella ragazza di prendersi gioco di loro? Non ne aveva nessuno. Chissà chi si credeva di essere.
Il professore di inglese varcò la soglia, e un improvviso silenzio calò sulle file di studenti, la cui attenzione si rivolse alla figura appena entrata. "Buongiorno". L’uomo aveva folti capelli neri, occhi penetranti e un’espressione severa. Indossava una giacca marrone sopra ad una camicia azzurra, e pantaloni a coste beige. "Il mio nome è Ferdinand Van Basten, e sarò il vostro insegnante nel corso di letteratura inglese e scrittura creativa". L’uomo si voltò, scrivendo a gesti bruschi il suo nome, la sua email e il nome del corso alla lavagna. "Per qualunque domanda, potete contattarmi, fermarmi a fine lezione, o venirmi a trovare nel mio ufficio, all’ultimo piano dell’edificio C1. Ovviamente, anche gli interventi a lezione sono ben accetti, purché siano costruttivi". Van Basten fece una pausa, scrutando ad uno ad uno le facce degli studenti, alcuni dei quali si scambiarono occhiate sarcastiche. "Molto bene". Van Basten ordinò una pila di fogli, sbattendoli con due sonori tac sul bordo della cattedra, e li consegnò alla ragazza senza nome. "Prendete un foglio e passate il resto ai compagni. Oggi faremo un esercizio per conoscerci meglio. Vi chiedo di comporre un sonetto in stile shakesperiano, sulla base delle vostre conoscenze. Il tema è libero. Avete due ore di tempo, dopodiché consegnerete i fogli, e io leggerò alcune delle vostre produzioni. Non preoccupatevi: non dovrete dichiararne la proprietà, se non è nelle vostre volontà. Cominciate".
Alex rivolse uno sguardo terrorizzato alla sorella. Alice sapeva che non era mai stato bravo in questo genere di cose, ma era veramente l’ultima persona che potesse aiutarlo. Prese la penna e fissò il foglio, alla disperata ricerca di un’ispirazione. Non poteva certo lasciare in bianco e millantare un’ispirazione all’ermetismo, che di shakesperiano non aveva proprio niente.
Due ore più tardi, Alice continuava a fissare il foglio, su cui ora erano scritti una quindicina di versi, tra cancellature e correzioni. Poco dopo, Van Basten ritirò i fogli, e lei iniziò a pregare che, tra tutti, non pescasse proprio il suo. 
Il professore iniziò a leggere i componimenti, correggendo passi di alcuni, e criticandone aspramente altri. Alla fine, lesse un sonetto sull’amore e la morte, che Alice trovò stupendo. Giunto alla fine, Van Basten fece una pausa. Dopodiché, lo rilesse. Sollevando il foglio, disse soltanto: "Di chi è questo?". Dalla prima fila, con grande sorpresa di Alice, Senza-nome alzò la mano. "Nome", disse poi il professore, seccamente. Alice si protese in avanti, ma non riuscì a captare la risposta della ragazza, pentendosi in quel momento di essersi messa così lontana dai primi banchi. "Molto bene, Maxime" disse con calma Van Basten. "Questo è il livello che mi aspetto i miei studenti raggiungano alla fine del corso. Chiunque non sia riuscito a produrre qualcosa di almeno passabile, cominci a lavorare sulla propria creatività… e a ripassare la struttura di un sonetto shakesperiano, perché non mi sembra nota ai più". Cadde il silenzio, e Van Basten iniziò a scartabellare alla scrivania, mentre gli studenti si guardavano intorno con aria incerta, finché la ragazza di nome Maxime non si mosse, apprestandosi ad uscire, e dando il via libera agli altri. Alice si alzò in fretta, risoluta, e, ignorando il fratello che le chiedeva dove stesse andando, scavalcò gli studenti che si attardavano a chiacchierare, e uscì, percorrendo ad ampie falcate il corridoio, finché non individuò la chioma di Maxime che fluttuava, mentre lei svoltava l’angolo a grandi passi. Accelerando, Alice la raggiunse. "Hey" riuscì a dire, senza fiato, ma cercando di non ansimare. La ragazza si voltò, osservandola ad occhi sgranati: in quel momento, assomigliava solo ad un cerbiatto spaventato. Ad Alice sembrava quasi impossibile che da una persona così rigida fosse uscito un componimento così pregno di emozioni, per cui, aveva deciso di darle un’altra chance; o almeno, era questo che si raccontava. In realtà c’era qualcosa, in lei, che nel profondo la attirava, catalizzando la sua attenzione. Il desiderio di conoscerla era molto più grande di qualunque altra cosa, anche se non avrebbe saputo spiegare il perché. Non era mai stata così sconcertata in vita sua, e non capiva perché il fatto che, in aula magna, Maxime non avesse voluto parlarle l’avesse colpita così. Sapeva solo che, in quel momento, era come se non esistesse nessun’altra persona oltre a lei. Maxime rimase in attesa, senza accennare a muoversi o a parlare. "Volevo solo dirti, mi è piaciuto molto quello che hai scritto". Alice riprese fiato, e quando vide che l’altra non faceva l’atto di rispondere, continuò. "Sembrava… sembrava scritto da un poeta professionista". Alice la guardò, cominciando a sentire freddo alle mani. Metterla a disagio sembrava essere il superpotere di quella ragazza. "Mi spiace se prima ti abbiamo infastidita. E’ solo che, mi sembra di averti già vista, e in ogni caso, mi piacerebbe conoscerti, fare amicizia… sai, è tutto nuovo, non conosciamo nessuno…". Alice prese fiato di nuovo, mentre Maxime continuava a fissarla ad occhi sgranati.  Tese la mano. "Maxime, giusto?". "E’ Max". Max parve finalmente riscuotersi dal torpore, suonando lievemente infastidita. "Il mio nome è Max Caulfield". Dopodiché, con movimenti lenti e circospetti, le prese la mano e la strinse. 
Successe tutto in pochi istanti: il corridoio alle spalle di Max sfumò oscillando, e al suo posto comparve una radura. Dalla fronte di Max scendeva un rivolo di sangue, mentre urlava qualcosa di incomprensibile. Con un fragore, la porta di uno sgabuzzino si spalancò da sola, mentre il corridoio si materializzava nuovamente intorno a loro. Le loro mani schizzarono all’indietro, attraversate da una scossa intensa. Alice si guardò intorno, spaesata e spaventata. Cos’era successo? E soprattutto, era successo davvero?
Osservò Max massaggiarsi il palmo della mano, sul viso la sua stessa espressione sconcertata. Qualunque cosa fosse, era successa davvero, e doveva averla sentita anche lei. Guardandosi meglio intorno, si rese conto che il corridoio era deserto. Max la guardò, e si ricompose immediatamente, afferrando e chiudendo la porta dello sgabuzzino. "Heh, dovrebbero controllare queste serrature, eh?". Rise, visibilmente a disagio. "Beh, piacere di averti conosciuta… a domani, Alice!". E prima che Alice potesse urlarle di aspettare, era già scomparsa. Scosse la testa, e in quel momento si rese conto di avere un’emicrania terribile. Reggendosi la fronte, fece dei respiri profondi per calmarsi. Non aveva idea di quello che fosse successo. L’immagine degli alberi, e soprattutto del volto di Max continuavano a galleggiarle di fronte agli occhi. Eppure, nella realtà, Max non sembrava ferita, solo molto sorpresa. Stava diventando pazza? Forse era lo stress. O forse era un tumore. Forse doveva correre a casa, dirlo a sua madre, e fare qualche test: avere le visioni non poteva essere un buon segno… 
Saltò a mezzo metro da terra, sentendosi afferrare per un braccio. "Hey-HEY, calmati, per Dio, sono io". Alex fermò il braccio della sorella, scattato involontariamente per reagire all’aggressione, a pochi centimetri dal suo viso. "Si può sapere che hai, oggi? Stai bene? Dov’eri finita?" chiese, lasciandola andare. Quando si agitava, Alex tendeva a parlare troppo. "Mal di testa" bofonchiò Alice. "Ho solo mal di testa". Alex la scrutò, preoccupato. "Me lo diresti se qualcosa non andasse, vero?". "Ho detto che ho solo mal di testa. Non peggiorare la situazione", ringhiò lei in risposta. Alex alzò le mani. "Okay, okay. Per andare a casa guido io". "Non posso venire a casa" ribatté Alice. "Ho il primo allenamento, oggi". "Pensi che sia una buona idea andarci, in queste condizioni". Alice si raddrizzò. "Non so di che cosa parli. Prendo l’autobus, per tornare, ma domani veniamo con macchine diverse, altrimenti ti tocca aspettarmi per tornare insieme". E lasciò il fratello solo nel corridoio, a domandarsi che cosa diamine frullasse nella testa delle donne di tutto il mondo.

 

Max


Max sbatté la porta e si accasciò contro la sua cornice, respirando affannosamente. Era tornata a casa alla velocità della luce, e tremava come una foglia. Si guardò le mani, cercando di controllarne il tremito. C’era stato un malfunzionamento, un’interferenza, qualcosa. Ma, se i suoi poteri avevano iniziato a sfuggire dal suo controllo, era un bel problema. Raccogliendo tutto il coraggio di cui era capace, Max decise di testarli. Si concentrò sulla zuccheriera, che si sollevò dalla mensola. Si sforzò al massimo per farla fluttuare, tutti i sensi all’erta per controllare che nient’altro accadesse intorno a lei, dopodiché la riappoggiò al suo posto. Fece la stessa cosa con un libro, un cuscino, poi aprì e richiuse la finestra dal letto, accese e spense la luce del bagno, e infine decise di provare qualcosa di più impegnativo, e sollevò il tavolo. Queste operazioni la stancarono, ma ebbero anche l’effetto di calmarla abbastanza da consentirle di raddrizzarsi e staccarsi dalla cornice della porta. I poteri sembravano rispondere perfettamente alla sua volontà, almeno per ora. Chi poteva dire, però, che cosa diamine poteva succedere in seguito? 
Era grave, perché, se i suoi poteri non erano difettosi, voleva dire che era stata lei a scatenarli incontrollabilmente, in risposta allo sconvolgimento emotivo che l’incontro con Alice le aveva provocato. E questo non andava bene: se, grazie ad un po’ di turbamento, iniziava ad aprire con la mente porte di sgabuzzini chiusi a chiave, chissà che altro poteva succederle in condizioni di forte stress emotivo. Poteva anche fare del male a qualcuno.
Di sicuro, Alice si era accorta che era successo qualcosa. Grazie a quel suo bel teatrino, Max aveva rischiato di farsi scoprire. Poteva solo ringraziare che il corridoio fosse deserto, e sperare che Alice non si facesse troppe domande sull’accaduto.
Però, al di là delle emozioni, sapeva che era successo qualcosa di più. Quando si erano toccate, una scossa fortissima le aveva attraversato il palmo della mano, e, per un attimo aveva perso la cognizione di dove stava, mentre strane immagini le attraversavano la testa: uno scorcio di un bosco, forse? Era durato troppo poco perché potesse distinguerlo con chiarezza. Fatto sta che, a giudicare dall’espressione terrorizzata di Alice, e dal modo in cui le loro mani erano volate all’indietro, aveva dovuto sentire qualcosa anche lei. Forse era quello il motivo per cui si sentiva così strana, così agitata vicino a lei. Forse, il suo inconscio stava cercando di avvertirla: in qualche modo, Alice doveva avere una cattiva influenza su di lei, e su quello che sapeva fare. Forse avrebbe dovuto provare a leggerle la mente, per capire se anche lei avesse qualche strano potere. Però, la telepatia consumava molta energia, lasciando Max quasi incapace di muoversi dopo aver penetrato la mente di un essere umano normale, figuriamoci quella di qualcuno che possedeva poteri psichici. Era troppo rischioso, e l’avrebbe lasciata vulnerabile.
Qualunque cosa fosse successa, Max aveva chiaro in mente che, finché non ne avesse scoperto la causa, avrebbe dovuto fare di tutto affinché non si ripetesse. Non poteva rischiare che qualcuno si accorgesse di lei, o che, ancora peggio, qualcuno rimanesse coinvolto in un incidente che lei stessa aveva provocato. Quindi, in quel momento, Max Caulfield prese la risoluzione di stare lontana da Alice Dawson, a qualunque costo.


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Capitolo 3
*** Superpoteri ***


 

CAPITOLO III

Superpoteri

Alice


Alice stava cercando di non pensare a nulla. Con gli auricolari nelle orecchie, tentava di seguire i testi delle canzoni; per fortuna, il mal di testa era leggermente diminuito. Era l’unica passeggera sull’autobus: intanto, fuori aveva iniziato a piovere. Inevitabilmente, tuttavia, il suo pensiero corse a Max. Max Caulfield, Caulfield. Quel cognome le ricordava sicuramente qualcosa. Decise di provare a sforzarsi e ricordare. C’era una Caulfield, nella sua classe. All’improvviso, un ricordo le affiorò alla mente: sua madre camminava velocemente, diretta agli spogliatoi, lei, Ben e Alex al seguito, nel corridoio dell’ospedale, mentre un infermiere la aggiornava velocemente sui fatti. “… Heather Caulfield, 33 anni, ferita da un’arma da fuoco alla testa…”. 
Ma certo! Max Caulfield. Sua madre si era suicidata quando aveva solo nove anni. Avevano chiamato fuori orario la madre di Alice, Jane, neurochirurgo di fama internazionale, perché il proiettile aveva attraversato la tempia, ma Heather era ancora viva, e stavano tentando disperatamente di salvarla. Lei, Alex e Ben erano troppo piccoli per restare a casa da soli, per cui capitava che la loro madre li trascinasse fuori dal letto quando veniva chiamata per un’emergenza, non sapendo a chi altro lasciarli. Così, quella notte l’avevano seguita in ospedale, e, quando lei era svanita in tutta fretta in sala operatoria, loro si erano diretti, come da prassi, nel suo ufficio. Alice aveva visto Max in sala d’attesa, sconvolta e sporca di sangue, mentre degli infermieri si occupavano di lei, e le cercavano dei vestiti puliti. Così, aveva pensato di andare a consolarla, e le aveva preparato dei biscotti con il Dolceforno che tenevano in ospedale, insieme ad altri giochi, per intrattenere i bambini quando era necessario. Dopo, l’aveva invitata a giocare, e, come se per un momento a Max fosse concesso di allontanarsi dalla realtà, risero e si divertirono fino a crollare addormentate sul tappeto dell’ufficio. Finché, verso l’alba, dopo quasi quattro ore, il cuore di Heather Caulfield si era fermato, e la madre di Alice era venuta a svegliare Max per comunicarglielo. 
Era stata la bambina a chiamare i soccorsi: svegliata nella notte da un colpo di pistola, aveva trovato la madre in un lago di sangue, e aveva anche tentato di fermare l’emorragia. Da che si ricordasse Alice, Max era sempre stata una persona introversa, tant’è che non ricordava di aver mai avuto contatti con lei prima di quella sera. Ma, dopo quell’episodio, si distaccò ancora di più dalla realtà, chiudendosi in se stessa. 
Il padre di Alice era stato processato giusto poche settimane prima. Fu a causa di quella tragedia che nessuno spettegolò mai granché sulla vicenda. Erano tutti troppo occupati a riempire la piccola Max di ipocrite attenzioni, e di questo, Alice in un certo senso era grata. Non avrebbe mai voluto essere al suo posto, compatita da tutti, ma mai realmente aiutata.
Per qualche mese, Max era finita in un collegio, finché non fu deciso che ad occuparsi di lei dovesse essere sua zia, Chelsea Caulfield. Ma, quando tornò a scuola, fu inserita in una classe diversa, e inevitabilmente si persero di vista.
Aveva ragione Alex: Max era cambiata un sacco dalle elementari, ed ora era la fotocopia vivente di sua madre. Heather era bellissima, molto più della sorella, ma non aveva per niente la sua affabilità. Chelsea gestiva una piccola caffetteria, ed era molto benvoluta da chiunque la conoscesse: gentile, sorridente e a modo. Heather era schiva, altera, e dall’aria perennemente malinconica; tratti che, probabilmente, aveva trasmesso alla figlia. L’unica fonte di felicità, nella sua vita, sembrava essere proprio Max, ma evidentemente non era bastata. Alice pensò a quanto male dovesse sentirsi Max per questo, e si sentì in colpa per non essersi ricordata subito di lei. Decise che, appena l’avesse rivista, le avrebbe detto che si era ricordata di lei, e si sarebbe scusata molto per non averlo fatto prima. Alice sapeva cosa volessero dire la sofferenza, la solitudine e la sensazione di impotenza che si provavano di fronte a mali che non potevano essere contrastati: sapeva che le persone come Max avevano bisogno di un amico più di quanto desiderassero ammettere, e più di quanto lasciassero trasparire.
Scese al capolinea, percorse di corsa il viale, e finalmente entrò in casa. Liberandosi della giacca, delle scarpe e dei pantaloni fradici, si cambiò, e scese per la cena, trovando la madre e i suoi fratelli già seduti al tavolo. 
Durante il pasto, mentre tagliava la bistecca, si rivolse a sua madre, dicendo semplicemente: “Ho rivisto Max Caulfield”. Lo sguardo di sua madre, a differenza sua, si illuminò subito, in segno di comprensione. “Max? E come sta?”. Alice la aggiornò su quel poco che era successo tra lei e Max, sorvolando sulla parte della visione. “Quindi quella era Max Caulfield” disse Alex. “Aspetta, quindi era per parlare con lei che sei uscita così di corsa?”. “Non lo definirei parlare”, precisò Alice. Sua madre soppesò un pezzo di pane, pensierosa. “Maxime è sempre stata una persona schiva- esattamente come sua madre. Mi ricordo di loro, Heather lavorava nella caffetteria di sua sorella. Non credo di averla mai vista sorridere. Se Max era già chiusa di carattere, è normale che lo sia ancora di più dopo quello che le è successo. Magari potresti invitarla qui”. Prima che Alice potesse rispondere, Ben sbuffò. “A quanto pare non tutti diventano capitano delle cheerleader, al liceo, quando capita loro una disgrazia”. Guardò la sorella con disprezzo. “Lascia perdere Caulfield, nana. È visibilmente troppo intelligente per voler passare del tempo con una come te”. Sulla tavola scese il gelo. Alice continuava a fissare Ben, impassibile, mentre lo sguardo di Alex oscillava a turno tra i fratelli e la madre. Con calma, Jane posò coltello e forchetta, lo sguardo immobile sul figlio primogenito. “E questo che cosa vorrebbe dire, Ben?” chiese con pacatezza. “Dico solo che se uno subisce uno shock, è normale che non se ne riprenda. Questo, ovviamente, se lo shock è reale”.  Ben continuava a fissare il piatto, ma le mani gli tremavano. “Conosci qualcuno che mente su qualcosa che gli è capitato?”. Jane non distolse lo sguardo del figlio. “Sai, io mi ricordo quando la madre di Max ci ha lasciato le cuoia. Me lo ricordo perché ci hai trascinati giù dal letto, per seguirti, come sempre. Perché abbiamo attraversato la sala d’emergenza con te, dove spesso c’era gente maciullata, e tutto il resto”. “Non sei mai stato messo di fronte a spettacoli del genere, Ben. E poi, non potevate restare a casa da soli”. “Già, e sappiamo tutti di chi è la colpa, se in casa non c’era nessuno che potesse stare con noi”. Ben sbatté coltello e forchetta sul tavolo. “Lo sappiamo tutti di chi è la colpa, se da un certo momento, papà non era più con noi per portarci a fare le gite. Se la gente mi guarda strano, come se potessi impazzire da un momento all’altro”. “La colpa, Benjamin, è di tuo padre”. Jane gli rivolse uno sguardo triste, e sconsolato. Ben si alzò, attraversò la stanza e portò il viso a pochi centimetri da quello della madre. “Papà non ha mai fatto niente. Se questa non fosse nata” e gesticolò verso Alice “papà sarebbe ancora qui con noi, e lo sai benissimo”. Senza una parola di più, uscì dalla sala da pranzo, e poco dopo si sentì sbattere la porta di ingresso, seguita dal rumore delle ruote che scricchiolavano sul terreno.
Prima che qualcuno potesse dirle qualcosa, Alice spinse in là il piatto, ancora mezzo pieno, e salì in camera sua. Chiuse a chiave la porta, si spogliò, e si mise nel letto. Strinse forte gli occhi, cercando di non piangere. Non ne valeva la pena.
Cercò di pensare alla giornata trascorsa, ripassando mentalmente le sequenze che avevano provato con le altre cheerleader. Infine, il suo pensiero tornò inevitabilmente a Max. Ripercorse più volte tutto ciò che si erano dette, analizzando le sue espressioni, cercando di carpire qualcosa che le potesse essere sfuggito. Si chiese se anche Max, la sera, non riuscisse a dormire per i sensi di colpa. Se pensasse che sua madre era morta a causa sua. Si addormentò, scivolando in un sogno inquieto e popolato da incubi.

 

Max


Max aveva un amico. Era il suo vicino di casa, si chiamava Richie, e aveva tredici anni. L’aveva conosciuto perché Zia Chelsea a volte gli faceva da babysitter, e, una volta cresciuta, Max aveva iniziato ad aiutarlo con i compiti. In caffetteria c’erano delle console per i videogiochi, per intrattenere gli ospiti, e spesso i due si mettevano a giocare per ore. Da lì, Richie aveva iniziato a confidarsi con lei, parlandole dei bulli a scuola e dei suoi problemi, e lei cercava di aiutarlo. 
Max riteneva Richie un ragazzino intelligente, e si tenevano compagnia a vicenda. Ovviamente, il fatto che lei fosse più grande destava un po’ di stupore negli estranei, ma lei non se ne preoccupava. Richie, però, non sapeva quasi nulla di lei, e, come tutti gli altri, ignorava i poteri di Max.
Quel pomeriggio, Max era a casa di Richie a giocare a Mortal Kombat. Ormai doveva impegnarsi per non farsi battere. Nel bel mezzo di una fatality, rientrò la sorellastra di Richie, Jocelyn, che, agli occhi di Max, era l’antipatia fatta a persona. 
“Hey, sfigato. Hey, pedofila” li salutò entrando. Entrambi la ignorarono. Joss era alta, bella, tatuata e piena di piercing. A scuola, si era resa colpevole di diversi atti di bullismo, piuttosto gravi, e, in genere, si divertiva a trattare male chiunque avesse la sfortuna di entrare nel suo campo visivo, oltre che a fare impazzire la madre. Una volta, Max aveva dovuto frapporsi tra lei e il fratello, evitando che lo picchiasse selvaggiamente, per averle involontariamente macchiato la maglietta con la cioccolata.
“Hey Rich. Perché non le scatti una bella foto, così avrai qualcosa da guardare la sera al posto dei cartoni?”. Max vide con la coda dell’occhio Richie diventare color ciclamino. “Hey, Joss”, disse, senza staccare gli occhi dallo schermo. “Non hai delle cose da fare?”. “Ora che me lo ricordi, Maxime, devo vedere il mio ragazzo. Sai, è alto, bello, senza brufoli- ohh, l’ho detto che è maggiorenne?”. Max posò il joystick e si voltò verso di lei, scoccandole uno sguardo di fuoco. “Oh, sei molto divertente”, disse pacatamente. “Non voglio mica farti ridere. Rischi l’arresto, Maxxie!”. E, simulando il gesto di venire ammanettata, scomparve in camera sua. “Mi spiace per quello che ha detto, non so perché…” farfugliò Richie. “Non preoccuparti”. Senza una parola di più, Max si diresse alla porta, e aprendola si ritrovò davanti un ragazzo alto, muscoloso, con i capelli neri e gli occhi di un azzurro penetrante. Le rivolse un sorriso beffardo, squadrandola dalla testa ai piedi. “Hey, non credo di conoscerti…” disse, strizzandole l’occhio. “Hai ragione”, disse Max, “Infatti non mi conosci”. Fece per oltrepassarlo, ma lui la trattenne per la vita. “Magari, però, mi piacerebbe farlo…” disse, con un tono basso e profondo. “BEN!” squittì Jocelyn, e il ragazzo lasciò immediatamente andare Max, mentre lei gli saltava al collo. “Oh, non considerarla, è solo la fidanzatina inquietante di mio fratello” aggiunse, lanciando a Max uno sguardo sprezzante. Lo prese per la mano, trascinandolo verso la camera, e ciarlando di abiti da indossare. Seguendola, Ben scoccò un’ultima, lunga occhiata ammiccante a Max, prima di scomparire oltre la soglia. “Max, davvero, m-mi…”. “Richie” Max interruppe il ragazzino. “E’ solo Joss, okay? So com’è. Non hai bisogno di giustificarla”. Richie annuì, paonazzo. “Ci vediamo, eh?” disse Max, prima di voltarsi e scomparire ad ampie falcate. Uscendo, prese nota di tirare un calcio a quel ragazzo che si era permesso di afferrarla.
Il sole era già tramontato. Decise di fare una sorpresa alla zia, facendole trovare cena pronta. Avrebbe dovuto prendere solamente della carne al minimarket lì vicino. Camminando a rapidi passi, Max imboccò un vicolo stretto e buio, per fare più in fretta. All’improvviso, le luci della strada parvero farsi più distanti, come se il vicolo si fosse allungato, e Max avvertì la spiacevole sensazione di essere osservata. Si voltò, ma non vide nessuno. Cercando di calmarsi, prese un bel respiro e proseguì, poi, senza poter resistere, si voltò di nuovo. Ancora nessuno. Ma, quando fece per riprendere a camminare, all’imboccatura del vicolo, qualcuno –o qualcosa- stava in piedi, in una posizione leggermente incurvata, e con le braccia e le gambe divaricate. Il respiro di Max accelerò, mentre, immobile, fissava la figura. All’improvviso, quella cominciò a correre, in un modo bizzarro e barcollante, verso di lei. I piedi di Max si mossero prima che potesse pensare. Iniziò a correre anche lei verso l’ingresso del vicolo, che, però, pareva allontanarsi sempre di più. I passi della creatura sembravano farsi più vicini, e Max avrebbe voluto gridare, ma sentiva la gola secca, le corde vocali paralizzate. Qualcosa di viscido le toccò una mano, e lei la ritrasse repentinamente, senza fermarsi. Le gambe non la reggevano più, e i polmoni sembravano sul punto di esploderle, quando finalmente raggiunse la strada principale. Fece una giravolta su se stessa, tendendo la mano destra, pronta a respingere l’aggressore. Ma dietro di lei non c’era nessuno. Ansimando, Max scrutò il vicolo, cercando di percepire il più minimo movimento. Niente.
Massaggiandosi il petto, si piegò su se stessa. Le gambe le stavano andando a fuoco. Se l’era solo immaginato? Si guardò il dorso della mano sinistra, leggermente sporco di una sostanza grigia e melmosa. Voltò le spalle al vicolo e corse in casa, senza guardarsi indietro.



 

Alice


Alice non incontrò Max fino al mercoledì pomeriggio, quando la rivide seduta allo stesso posto, nell’aula di inglese. Lasciò che Alex si sistemasse più indietro, e scivolò nel poso accanto al suo. “Hey”. Max, che stava guardando fuori dalla finestra, si voltò sorpresa, con i suoi soliti occhi sgranati, come se il solo fatto che qualcuno le si rivolgesse la lasciasse stupefatta. Non parve felice di vederla, però. Alice le sorrise comunque. “Mi sono ricordata. Tu sei Max Caulfield, la nipote di Chelsea. Mi spiace non essermene resa conto prima, ma sei davvero cambiata un sacco…” Alice si incupì appena. “Mi ricordo anche di quella notte in ospedale”. Max le rivolse uno sguardo inespressivo. “Bene”, disse soltanto. “Immagino che non sia un bel ricordo per te, ma è stata l’unica volta che ci siamo parlate…”. “Sì, lo so. Non c’è bisogno di essere troppo sensibili a riguardo. E comunque, al di là di quello che è successo quella notte, quello è un bel ricordo, per me”. Max parlò guardandola dritto negli occhi, senza esitazione. “Beh, sono contenta che la pensi così”, disse Alice, sorridendole ancora. All’improvviso, notò che Max sedeva inclinata dalla parte opposta alla sua, come se cercasse di starle il più lontana possibile. Prima che potesse chiederle qualunque cosa, il professor Van Basten entrò, ed iniziò la lezione.
Al suono della campana, Max si alzò, e scavalcò il banco per uscire, senza dire una parola. Ancora una volta, Alice la inseguì fuori dall’aula. “Max-MAX!”. Max si fermò, sospirando profondamente, e si voltò con aria scocciata. “Che cosa c’è, adesso?”. “Mi chiedevo soltanto se ti andasse di uscire. Io e mio fratello andiamo al cinema, stasera, e…”. “No”, tagliò corto Max. Alice la guardò, interdetta. “Senti, Max, lo so che ci siamo perse di vista, e sicuramente non ti sembra la cosa più naturale del mondo, ma io vorrei che potessimo…”. “Beh, io no”. Max la interruppe di nuovo. “Cosa?” farfugliò Alice. “Qualunque cosa tu voglia da me, Dawson” disse Max, scandendo bene le parole “io non ricambio”. “Ma” Alice era sbalordita. “Max, io voglio solo essere tua amica!”. “E io no. Io non voglio essere amica tua, Alice, né di tuo fratello, se è per questo”. A questo punto, Alice si sentì veramente offesa. “Oh, andiamo” sbottò. “Non c’è bisogno di fare la difficile. Lo so che sei sola, e immagino che tu sia introversa e che non sia facile per te fidarti di qualcuno. Però, io non voglio farti alcun male, Max. Tutti abbiamo bisogno di un amico”. Max inarcò le sopracciglia. “Guarda che hai frainteso. Tu non mi fai paura. Semplicemente, non mi interessi”. “Lo dici senza nemmeno aver provato a passare del tempo con me. Se nemmeno mi conosci!”. “Già” rispose Max, pacata. “E non voglio conoscerti. Ti sarei grata se mi lasciassi in pace”. 
A quel punto, Alice esitò. “Perché fai così? Respingi tutti, anche quando si sforzano di avvicinarti”. “Perché non voglio che nessuno mi si avvicini. Senti, Biancaneve, non so se vuoi fare l’eroina, o la principessa dal cuore buono che mi salva dalla miseria più nera, ma sul serio, non mi interessa. Se vuoi qualcuno con cui passare il tempo, puoi chiedere alle tue compagne di squadra, così potrete andare in giro a sputare odio su chiunque passi”.
Quelle parole colpirono Alice come uno schiaffo. “Puoi ripetere, scusa? Perché non mi sembra di essere stata nient’altro che gentile, nei tuoi confronti, finora”. Max sbuffò. “Senti, ti ho detto che non mi interessa. Perché continui a perdere tempo con me?”. “Sai cosa? Non lo so”. Alice si voltò e si allontanò a grandi passi, furiosa. Che diavolo le era preso? Un conto era essere strani, un altro era essere maleducati. Forse Maxime Caulfield non era introversa, né complessata: forse, nonostante la disgrazia che le era capitata, era solo una stronza. A metà strada, Alice si rese conto che stava andando dalla parte sbagliata: doveva raggiungere il teatro, si era iscritta alle attività del gruppo.
Non fu neanche sorpresa, una volta varcata la soglia, di trovarsi davanti Max in persona. Incrociò il suo sguardo, poi le passò davanti, e si sedette. Non ascoltò una parola di quello che disse l’insegnante. Pensava solo a Max e a come apostrofarla per le rime. Finito il discorso, la signora Baxter divise il gruppo in coppie. Immancabilmente, decise per l’accoppiata Caulfield-Dawson. Alice e Max si diressero sul palco insieme alle altre coppie, posizionandosi più indietro, e furono raggiunte immediatamente dalla Baxter, che diede loro un copione e delle direttive per esercitarsi. “Maxime, tu sarai Elizabeth, una giovane nobile costretta in un matrimonio combinato. Tu, Alice, farai la parte di William, il giovane soldato che è il vero e unico amore di Elizabeth stessa. Questa” e indicò una parte del copione “è la scena che vorrei che preparaste per la volta prossima. Buon lavoro!”. Appena si fu allontanata, Max incrociò le braccia, fissandola. “Senti, mi stai seguendo?” disse, secca. Alice incrociò le braccia a sua volta. “Fidati, in questo momento preferirei essere il Will di qualunque altra Elizabeth”. Max non riuscì a trattenere un sorriso. “Vorrei farla io, la parte del soldato figo”. “Che peccato”, disse Alice, sarcastica. Max parlò ancora, ma la sua voce si dissolse in lontananza, come se qualcuno avesse abbassato il volume. La sentì vagamente chiamare il suo nome. All’improvviso, un riflettore si staccò dal soffitto, colpendo Max in pieno. Schizzò sangue ovunque. D’istinto, Alice balzò in avanti, spingendola, pur sapendo che era troppo tardi. 
Cadde sul pavimento, sopra Max. “SI PUO’ SAPERE CHE DIAMINE TI PRENDE?”, sbottò Max, senza fiato. Alice batté le palpebre e si guardò intorno. Giacevano entrambe a terra, e Max, ancora una volta, era tutto meno che sanguinante. Sembrava arrabbiata, però. Le guardarono tutti, ma distolsero lo sguardo in fretta, pensando probabilmente che quel gesto facesse parte della scena. “Ma… il riflettore… ti aveva colpita…” farfugliò Alice, confusa. “Forse dovresti lasciare perdere il cheerleading e unirti direttamente alla squadra di football”, disse Max. “Con questi placcaggi, saresti un ottimo difensore. Ora, però, se mi lasci alzare…”. Alice rotolò di fianco, si rimise in piedi, e tese una mano per aiutare Max. In quel momento, qualcosa scricchiolò: un attimo dopo, un riflettore si schiantò a terra, nell’esatto punto in cui si trovava Max, prima che Alice la spingesse. Qualcuno urlò, e Alice si voltò verso Maxime, che fissava il riflettore con tanto d’occhi. Poi, spostò lo sguardo su di lei, incredula, e Alice seppe che stavano pensando la stessa cosa.
Dopo che ebbero sistemato tutto, Max trasse Alice da parte. “Ti era mai capitato, prima d’ora?”. “Che cosa mi sarebbe dovuto capitare?”. “Beh, di vedere il futuro, naturalmente”. Ad Alice cascò la mascella. Rise, a disagio, ma Max sembrava terribilmente seria. “Fai sul serio?” le chiese, incerta. Max inarcò le sopracciglia. “Lascia stare”. Fece per voltarsi, ma Alice la trattenne. “Aspetta”. Lei si voltò, lentamente, squadrandola. “Stanno succedendo cose strane. E credo che tu ne sappia qualcosa”. Max la guardò, inespressiva. “E che ne dovrei sapere, io, di cose strane?”. “L’hai sentito anche tu, quello che è successo quando ci siamo strette la mano, il primo giorno. Lo so”. “Non so di cosa tu stia parlando” Max si liberò con calma dalla presa di Alice. “Cerca di non cadere dalla piramide umana agli allenamenti, Biancaneve”. E con questo, Max se ne andò.
A quanto pareva, Max aveva più di un superpotere: sapeva metterla a disagio, confonderla, e farla arrabbiare come nessuno. Scuotendo la testa, Alice se ne andò.
Giunta nel parcheggio, si mise a correre. Raggiunse il fratello appena prima che entrasse in macchina. “Alex, è successa una cosa”. Lo mise al corrente dell’accaduto. “Quindi hai capito?”, disse, con fare concitato. “Ho visto che cosa sarebbe successo prima che succedesse”. Si rese conto che Alex la guardava con occhi quasi compassionevoli. “Che cosa c’è?”, chiese, scocciata. “Oh, sorellina”, le disse, “mi piacerebbe pensare che tu sia un supereroe, ma temo che sia accaduto tutto nella tua testa”. “Non è accaduto tutto- Come avrei fatto a spingere via Max, allora?” sbottò Alice. “In situazioni di forte stress, il nostro corpo agisce prima del pensiero. Hai dei buoni riflessi, tutto qui”. “Non sai di cosa stai parlando. Sono passati secondi interi da quando l’ho spinta a quando il riflettore è caduto”. Alex la guardò, preoccupato. “Hey sis, sei sicura che il riflettore non abbia colpito te? Neanche di striscio?”. Alice gli pestò un piede. “Vai a farti fottere”. Si allontanò ad ampie falcate. In quel momento, l’unica con cui avrebbe voluto parlare era Max, ma Max sembrava essersi smaterializzata. Si promise che l’avrebbe trovata, e si sarebbe fatta spiegare tutto, prima o poi.


 

Max


A casa, Max si fece una lunga doccia. Si sentiva in colpa per aver trattato male Alice, doveva averla davvero ferita. Eppure, sembrava così gentile. Talmente gentile, che le faceva montare una rabbia indescrivibile. Comunque, maltrattarla era necessario, per far sì che si allontanasse. Erano già costrette a incrociarsi fin troppo, tra le lezioni e il teatro e chissà che altro. Però, quel giorno Alice l’aveva toccata di nuovo, eppure i suoi poteri non avevano reagito. D’altro canto, Alice stessa aveva dimostrato di possedere un dono. Aveva sicuramente previsto la caduta del riflettore. Ma allora, perché fingere di non saperne nulla? 
Forse, rifletté Max, anche lei voleva restare in incognito. Oppure, forse, davvero non ne sapeva niente, e quella era stata la prima volta che le capitava una cosa del genere. Era molto improbabile: da che aveva coscienza, Max aveva sempre saputo ciò che era in grado di fare. Oppure, magari era stata solo una coincidenza, e Alice non aveva nessun potere. 
Max era confusa, e il suo desiderio di saperne di più contrastava con la risoluzione di starle lontana. Rischiava di esporsi troppo, e di mettersi in pericolo.
L’unica cosa che sapeva era che Alice aveva ragione: stavano succedendo un sacco di cose strane, da quando si erano incontrate. Chissà che anche quell’incontro nel vicolo non fosse collegato a tutto ciò.
L’immagine di quella figura deforme le si era impressa nella retina, e la perseguitava: Max aveva costantemente paura di trovarsela di fronte, non appena svoltato l’angolo.
La inquietava il pensiero di non sapere che fine avesse fatto. Eventi paranormali, mostri, che altro ancora doveva capitarle in questa vita? In quel momento, Max non poteva sapere che quelle non erano altro che briciole di quello che avrebbe dovuto affrontare in seguito.
Si sedette sul letto, in pigiama, osservando dalla finestra la strada illuminata dai lampioni. Max Caulfield non aveva mai desiderato più intensamente di essere normale.

 

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Capitolo 4
*** Segreti e sangue ***


CAPITOLO IV

Segreti e sangue

 

Alice

 

 
Alice parcheggiò al solito posto, recuperò la borsa dal sedile posteriore, fece un respiro profondo e scese. Non importava dove, non importava quando: quel giorno, avrebbe parlato con Max Caulfield.
Stava facendo delle prove mentali di un’ipotetica conversazione, quando un fischio la costrinse a voltarsi: vicino all’ingresso, Ben, Jocelyn e un gruppetto di altri ragazzi, tra cui alcune sue compagne di squadra, stavano chiacchierando, appoggiati al muro. Ben si voltò minaccioso verso il ragazzo che aveva fischiato, un tipo alto, con biondi capelli quasi rasati a zero. “Lascia in pace mia sorella, Brett”.
“Questa è tua sorella?”. Brett squadrò Alice dalla testa ai piedi. “Complimenti a tua madre, Dawson”. Julie, la ragazza bionda vicino alla porta, le posò una mano sulla spalla, e disse: “Questa è la compagnia di squadra di cui ti avevo parlato, Brett”. Gli scoccò un’occhiata densa di significato, e Brett si staccò dal muro, sistemandosi il colletto dalla giacca. “Okay, okay. Beh, splendore, io sono Brett. Non so se già lo sai, ma sabato si terrà il ballo di inizio semestre: è tradizione che gli anziani accompagnino una matricola. Quindi, direi che possiamo andare insieme”. Brett le rivolse uno sguardo che, forse, riteneva seducente. Alice si guardò intorno, a disagio: all’improvviso, scorse Max, appoggiata ad un palo della tettoia, che la fissava in modo torvo. Alice guardò Brett, e realizzò che, per una serie di motivi, sarebbe stato sconsigliabile rifiutare: per cui gli disse che sì, ovviamente sarebbe stata onorata di andare alla festa con lui. “Ottimo. Ti passo a prendere alle otto”. Con un ghigno, Brett tornò ad appoggiarsi al muro.
Alice fece per voltarsi, quando Ben la afferrò per un braccio, traendola in disparte. “Che cosa pensi di fare, eh?” sibilò. “Dimmelo tu”, ribatté lei. “Ascolta: non puoi uscire con Brett. Se ti becco a fare la troietta, io giuro che…”. Qualcuno si schiarì la voce.
Alice e Ben si voltarono, trovandosi davanti Max, che li guardava a braccia conserte. “Spero di non interrompere nulla, ma devo parlare con Alice”.
Ben si raddrizzò. “Ah sì? Beh, fallo in un altro momento. Siamo un po’ occupati.”. “E’ urgente” tagliò corto lei. Con un sorriso sornione, Ben le si avvicinò. “Te lo dico io, che cosa è urgente…”. Max posò le mani sul suo petto e gli diede una spinta, talmente forte da farlo cadere. Alice la guardò, sconvolta. “Non ti avvicinare” ringhiò Max, lo sguardo fisso sul metro e novanta di ragazzo che aveva appena scaraventato a terra. L’espressione sorpresa di Ben si distorse in una smorfia furiosa, mentre si rialzava. Ma, prima che potesse fare qualunque cosa, Jocelyn si mise in mezzo. “Che cosa pensi di fare, idiota? Mettere le mani addosso al mio ragazzo?”. “Non se lui non lo fa per primo” rispose Max. Jocelyn la spinse, e Max barcollò all’indietro. “Tu hai sempre voluto farti del male, Maxxie” sibilò, e la spinse di nuovo. Ma, questa volta, Max non si mosse di un millimetro. Sorpresa, Joss la fissò per un secondo, poi fece per sferrarle un pugno: la mancò, incespicando e finendo a terra, come se qualcuno l’avesse tirata per un braccio. “Se avete tutti finito di rendervi ridicoli, dovrei parlare con Alice”. Max guardò Joss rialzarsi, con disprezzo. “Che cosa mi hai fatto, strega?” urlò lei. “Non è colpa mia se hai qualche problema, Joss”, sorrise Max. “Cazzate. Qualunque cosa sia, Caulfield, sei morta. Ti conviene non lasciare il perimetro di questa scuola”. “Uh-uh”. Max prese Alice per un gomito, e attraversò la porta di ingresso. In lontananza, Alice sentì Brett gridare: “Non andare con quella sfigata, Dawson! Resta qui con noi!”.
Max si fermò davanti all’aula di informatica, voltandosi a guardarla a braccia conserte. Alice si schiarì la voce, a disagio. “Quindi… di cosa volevi parlarmi?”, disse, esitante, con un nodo alla gola per l’emozione. Max scrollò le spalle. “Di nulla. Mi sembrava che avessi bisogno di una mano. E, visto che mi hai evitato di diventare una frittella, direi che te lo dovevo”. Alice sentì l’agitazione diminuire. “Oh”, disse. “Grazie, ma me la sarei cavata…”.
“Non credo proprio” disse Max, secca. “Hai davvero intenzione di andare al ballo con Brett Jhonson?”. Alice la guardò, sorpresa. Sulla sua faccia lesse un misto di rabbia, e qualcos’altro… poteva forse essere gelosia? “Beh…” esordì, ponderando le parole “credo che sia stata una cosa organizzata dalle mie compagne. Non è che potessi dire di no… E poi, al ballo si deve andare in coppia”. “Stai scherzando, vero?” Max sembrava furiosa. “Ci sono centinaia di persone in questa scuola che ti avrebbero invitata volentieri”. “Beh, ma… che c’è di male, se ci vado con Brett?” chiese Alice. “E’ una cattiva idea” disse semplicemente Max. “Ricordatelo, Biancaneve”. Fece per voltarsi e andarsene, quando Alice la bloccò. “Aspetta”, disse. “Devo dirti una cosa…”. Max si liberò. “Io non ci vengo al ballo con te, Dawson”, la schernì, e si voltò. “Beh, allora perché non vai a farti fottere, Caulfield?” le urlò dietro Alice, rossa in viso. Max non si voltò, ma le mostrò il medio, allontanandosi. Era impossibile tentare di avere una conversazione normale con lei, pensò Alice, furiosa.

Più tardi, nella pausa pranzo, Alice sedeva con le altre cheerleader a un tavolo nel parco della scuola, quando vide Alex arrivare di corsa, paonazzo in volto, e crollare nel posto accanto al suo, nascondendosi il viso tra le mani. “Hey!” disse lei, presa alla sprovvista. “Che ti succede?”. Alex abbassò le mani, e la guardò: sembrava sull’orlo delle lacrime. “Ho invitato al ballo Sophie Goldberg” disse, in un filo di voce. Alice lo guardò a bocca spalancata. “Oddio! E ti ha detto di no?” esclamò. Alex scosse debolmente la testa, e Alice si portò una mano alla bocca. “Non ci credo… ti ha detto di sì?”. Lui scosse di nuovo la testa, sconsolato.
“Lei era lì… bellissima… con le sue amiche… e io… io le ho urlato. Le ho urlato se volesse venire al ballo con me. Non so cosa mi sia preso, volevo solo chiederle di parlarle, prenderla in disparte… Lei mi ha guardato, mi ha riso in faccia e si è voltata di nuovo”. Alex crollò, sbattendo la fronte sul tavolo. Le cheerleader ridacchiarono, e Alice stessa non riuscì a trattenere una risata. “Che cazzo ridi?” scattò Alex, furioso. “Cos’è, pensi che nessuno vorrebbe venire al ballo con me?”. “No, Alex, calmati…”. Alex balzò in piedi “Beh, sai che ti dico? Inviterò la prima ragazza che passerà di fianco al tavolo”. Le cheerleader sgomitarono, indicando qualcosa alle spalle di Alex. Alice seguì il loro sguardo: indubbiamente, sul viale si stava avvicinando Max Caulfield, assorta nella lettura di un tascabile. Vide il fratello sbiancare. “Oh, sarà uno spettacolo senza prezzo…” gongolò Julie.
Alice cercò di afferrare il gemello per il braccio. “Alex… Alex, non devi farlo per forza…”. Ma Alex assunse uno sguardo risoluto, e in due passi si mise di fronte a Max, mentre passava di fianco al tavolo. Lei alzò gli occhi dal libro, fissandolo con le sopracciglia inarcate, senza emettere suono, come suo solito. Alice poteva quasi percepire la sudorazione di Alex aumentare. “Max…” esordì, con voce incerta. Max rimase in attesa, immobile. Alex prese fiato più volte, ma nessun suono uscì dalle sue labbra. Era una spanna più basso di Max: Alice si sentiva in imbarazzo per lui. Alla fine, aprì la bocca e… “Vu vnire abball cmmé?” sbottò tutto d’un fiato. Max sgranò gli occhi, sconvolta. Si raddrizzò, guardando Alice e le cheerleader, come se pensasse che fosse tutto uno scherzo. “Ehm… cosa?” chiese, circospetta. Alex parve rimpicciolire ancora, arrossendo. “Io… m-mi chiedevo s-se… anche se è tradizione che le matricole vadano con un anziano… insomma… s-se ti andasse, beh, di venire al ballo di inizio semestre con me”. Alex parlò fissando l’erba, certo del rifiuto, le spalle ricurve. Alice si preparò al peggio, mentre le altre ridevano. Max le guardò, poi guardò lei, e, alzando un sopracciglio, senza distogliere gli occhi dai suoi, scandì, con calma: “Ne sarei onorata”.
Ad Alice cascò la mascella, e, finalmente, i risolini alle sue spalle cessarono. Alex alzò lo sguardo, incredulo. Max gli passò il cellulare. “Scrivimi il tuo numero, così poi ci mettiamo d’accordo per l’ora e tutto il resto.” E gli rivolse un sorriso angelico, mozzafiato. Alice non credeva di averla mai vista sorridere. Guardando il fratello inserire le cifre con dita tremanti, sentì montarsi dentro una rabbia ingiustificabile. “Grazie”. Max si riprese il telefono, si chinò appena, e gli diede un leggero bacio sulla guancia, prima di allontanarsi. Alex si voltò verso la sorella, ad occhi sgranati, sfiorandosi sognante dove lei l’aveva baciato. Sentendo, per qualche motivo, di non poter sopportare la vista del fratello un secondo di più, Alice si allontanò stizzita, nella direzione opposta rispetto a Max.

Guidando verso casa, Alice pestava su acceleratore e freno come se le avessero fatto un torto personale. Alex guardava fuori, assorto. “Non ci credo- non ho mai nemmeno avuto una ragazza, e ora andrò al ballo con Max Caulfield…”. Cambiò marcia come se la sua vita ne dipendesse. “Alice… Al? Al!”. Alice scoccò un’occhiata torva al fratello. “Che c’è?”, disse, astiosa. “Hai… hai mancato lo svincolo”. “Lo so”.
Alex la guardò, intimorito. “C’è qualcosa che non va?”. “No. Va tutto alla grande. Congratulazioni, hai ottenuto un appuntamento con una delle ragazze più belle della scuola”, rispose lei, amareggiata. “Non… mi sembri molto felice a riguardo”. “Perché non dovrei essere felice? E’ un gran traguardo! Sei riuscito a convincere ad uscire con te una persona che, in genere, si ritiene troppo preziosa per parlare con noi comuni mortali”. “Alice… io non credo che Max sia così…”. Alice rise, sarcastica. “Ma guardati: basta un bacio sulla guancia per ridurti ad uno zerbino”. Frenò bruscamente ad un semaforo, scrutandolo torva. “Per tua informazione, è da giorni che provo a parlare a Caulfield, di una cosa importante, anche, e lei non fa altro che comportarsi da stronza con me, per quanto bene io la tratti”. “Di cosa le devi parlare?”, chiese Alex.
“Non capiresti”, tagliò corto lei.
“Beh… magari… se è una cosa delicata, è possibile che, per qualche ragione, Max voglia evitare di parlarne…”. Alice non gli rispose. Lui deglutì, poi riprese: “Si può sapere dove stiamo andando?”. “Stiamo andando alla caffetteria della zia di Max. Andiamo a prendere il mostro nella tana”.

Alice parcheggiò di fronte al locale, ordinando al fratello di aspettarla in macchina. “Ne ho avuto abbastanza di voi due, per oggi”, spiegò. Poi entrò, facendo tintinnare il campanello alla porta. Ad un tavolo, un ragazzino sedeva con un libro aperto. Alice attese, tamburellando le dita sul bancone, ma non comparve nessuno. Quindi, si rivolse al ragazzino. “Sto cercando Max Caulfield. L’hai vista, per caso?”. Lui alzò gli occhi e, vedendola, sembrò andare nel panico.
“Perché… perché dovrei sapere dove è Max? Voglio dire, lavora qui, nei pomeriggi, ma non è che io debba sapere tutto quello che fa. Perché la cerchi? Sei un’amica di Jocelyn? Non che mi interessi. Come ti dico, non so dove sia. Non… non è che io abbia una cotta per lei, o che!”. Alice lo guardò con tanto d’occhi. “Sì, va… va bene. Senti ragazzino, sono una sua compagna di scuola. Ho solo bisogno di parlarle di un progetto. Quindi: è qui o no?”. “È qui”. La voce di Max risuonò da dietro il bancone.
“Hey, stalker. Non preoccuparti di Richie, si innervosisce di fronte alle ragazze più grandi di lui”. “Max…!”. Richie scattò in piedi, rosso in volto. “Cosa? È vero. Senti, Rich, di’ a mia zia che torno subito, okay?”. Max fece cenno ad Alice di seguirla. Salirono due rampe di scale, in silenzio. Poi, Max aprì una porta: si ritrovarono in una specie di monolocale, con una piccola cucina, un tavolo da pranzo, e, in fondo, sotto ad una finestra, un grosso letto singolo. C’erano scaffali ricolmi di libri ovunque, una chitarra, una tv con una console, e una porta scorrevole, che probabilmente celava il bagno. Alle pareti erano appesi poster, disegni e fotografie. “Tu vivi qui?”, disse Alice, affascinata suo malgrado.
“Sì. Mia zia sta al piano di sotto, ma non c’era una camera per me, quindi sto qui da sola”. Max si mise a trafficare con un bollitore. “Forza, siediti”, le disse, guardandola da sopra la spalla. Alice obbedì, appoggiando i gomiti sul tavolo. Pochi secondi dopo, Max le mise davanti una tazza di tè fumante. “Quindi, cosa hai di tanto urgente da dirmi, da rincorrermi fino a casa?”, chiese, ironica.
“Lo sai benissimo di cosa voglio parlare”, disse Alice, torva. “E, se non continuassi a scappare da me e a fare l’idiota, forse non avrei bisogno di darti la caccia”. “Mi sembra giusto”. Max si sedette, accavallando le gambe. “Se devo tirare a indovinare, direi che vuoi parlare della tua visione”, continuò. Alice annuì. “Ma, se posso chiedertelo, cosa pensi che possa spiegarti, io? Neanche ti conosco…”.
“Lo so”, disse Alice, soppesando le parole. “Ma, quando mi hai presa da parte, sembrava che sapessi esattamente di cosa stessi parlando. Hai dato per scontato che io avessi visto nel futuro”. “Beh, mi avevi appena salvata da un riflettore che è caduto almeno un minuto dopo che mi spingessi via. Che altro avrei dovuto pensare, scusa?”, ribatté Max.
 “D’accordo, ma non tutti sarebbero così tranquilli, nel parlare di poteri sovrannaturali, come se fossero una cosa da tutti i giorni. A meno che, per te, non siano una cosa da tutti i giorni”, rispose Alice, calma. Max alzò un sopracciglio. “Forse credo semplicemente nei veggenti. Per quanto ne sai, mi faccio leggere le carte una volta al mese”.
“Quello che so, è che è iniziato tutto quando ti ho stretto la mano”. Alice seguì con il dito il bordo della tazza, pensierosa. “E ancora non capisco cosa sia successo”. Max si accarezzò un lato del collo, assorta. Infine sospirò, e le disse: “Senti, lo so che sono stata una stronza. Lo so che ti ho trattata male, e non ti ho voluto parlare, e tutto il resto. Ma volevo evitare proprio questo genere di domande. E, oltretutto, neanche io so cosa sia successo, il primo giorno: avevo paura che la cosa si ripetesse. Siccome potrebbe essere pericoloso, l’unica opzione era starti lontana. Però, sembra che la cosa non ti vada a genio, e fai di tutto per rendermi la vita difficile, Biancaneve”.
Alice rimase senza parole. Non si aspettava una dichiarazione del genere. “Pericoloso…?” chiese infine. “Perché?”.
“E’ difficile da spiegare”.
 “Provaci”.
“Non posso”.
 “Oh, andiamo, Caulfield!” sbottò Alice. “Siamo qui a discutere del fatto che ho visto il futuro. Qualunque cosa sia, me la puoi dire, non credi?”. Max la guardò, ponderandola. “In realtà, no. Non so se posso fidarmi di te”.
A questo, Alice non seppe cosa rispondere. Poi, con calma, le chiese: “Di cosa hai paura? Che io non ti creda, o di qualcos’altro?”.
Max rise. “Oh, fidati, non potresti non credermi”. Bevve un lungo sorso dalla sua tazza. “Il fatto, Alice, è che è un argomento delicato, e privato. E’ una cosa che non sa nessuno, nemmeno mia zia”.
“Posso capirlo, Max. Ma, qualunque cosa sia, coinvolge tutte e due, e, forse, insieme possiamo capirci qualcosa di più. Non dirmi tutto subito, se non vuoi. Ma, per favore, prova a darmi fiducia. Te l’ho detto il primo giorno, voglio essere tua amica. E forse siamo più simili di quanto tu creda”. Alice concluse guardandola intensamente negli occhi.
Per qualche minuto, Max tacque. ”Il motivo per cui ho dato per scontato che avessi dei poteri, senza ritenerla una cosa assurda”, esordì infine, “E’ che ho dei poteri anche io”. Fece una pausa, lasciandole il tempo di elaborare le sue parole. Lo sapevo, pensò Alice, emozionata. “Solo che”, continuò Max, “Sembravi non avere idea di quello che ti stava succedendo. Forse, ho pensato, avevi iniziato a comprenderlo solo da poco. Ma non era così: tu non sapevi proprio di avere dei poteri. Il che mi ha fatto pensare che, forse, qualcosa non andava. Io ho sempre saputo di avere i miei”.
“Sempre?” chiese Alice. “Anche quando eri molto piccola? Voglio dire, ci sarà stato un momento in cui ti sei resa conto di poter vedere nel futuro, no?”.
“Prima di tutto, io non sono una veggente”, rispose Max. “In secondo luogo, no. E’ una cosa che ho sempre saputo di poter fare, e basta”.
“Se non sei una veggente” disse Alice, confusa, “allora, quali sono i tuoi poteri?”. Max tacque a lungo, fissandola. “Scusami, Alice… Oggi non ti sei domandata come sapessi di Brett?”.
Alice ricambiò lo sguardo, incredula. “Pensavo avessi semplicemente origliato!”. Max sbuffò. “Ero troppo lontana per sentirvi”, ribatté. Lei la guardò a bocca aperta. “Mi hai letto nel pensiero? Stavi leggendo nel pensiero di tutti noi? Lo stai facendo anche adesso?”. Max alzò le mani. “Con calma. No, stavo leggendo la mente di Brett, che era molto più semplice da penetrare. E no, non ti sto leggendo nel pensiero, ora. È un’operazione troppo faticosa, e, a volte, mi fa venire il mal di testa. Si tratta di oltrepassare le barriere mentali di un’altra persona e decifrarne i pensieri, e non è il massimo. Ad ogni modo, se avessi potuto sentire quello che pensava Brett, non avresti mai accettato il suo invito”. Max scolò l’ultima parte del suo tè.
“Quindi… sei telepatica” rispose Alice, guardandola fisso.
“Non proprio: penetrare la mente di una persona è una cosa che si impara a fare. Forse, potresti farlo anche tu. È solo una conseguenza dell’essere dotati di un… dono. Si acquisisce una sensibilità particolare, ecco, che consente di individuare i limiti della propria mente, oltrepassarli, e entrare in quelli altrui. Probabilmente, chiunque abbia poteri mentali sviluppati potrebbe farlo, o almeno credo: non ne ho mai incontrato nessuno, prima”. Alice si prese qualche secondo per metabolizzare le sue parole. Le sarebbe davvero piaciuto imparare a leggere nel pensiero. Aveva un milione di domande, ma decise di procedere con ordine.
“Se non sei telepatica, o almeno, non solo… allora cosa sai fare?”.
“Tante cose” Max sorrise, una luce maliziosa negli occhi. “Fammi vedere”, tentò Alice. “Non oggi”. Si alzò, posando la tazza nel lavandino.
Alice sospirò, delusa. “Se non vuoi parlare di te, parliamo di me, allora. Che cosa sai sui miei poteri?”.
“Nulla, ovviamente”, rispose Max. “Te l’ho detto, so solo quello che so fare io”.
“Ma come hai imparato a padroneggiare i tuoi, allora?” chiese Alice, impaziente.
“Non so. Tu come hai imparato a camminare, o a correre?”.
“Non è la stessa cosa… Non vorrai mica dire che tua madre ti inseguiva, urlandoti di non far levitare le sedie, o non so che altro?”. “Beh… più o meno” Max sorrise dolcemente. “Tutto ciò che so, è che questi poteri sono come un sesto senso. Te l’ho detto, se ti chiedessi come hai imparato a camminare, non me lo sapresti dire. È una cosa che sapevi di poter fare, e l’hai fatta. Qui funziona allo stesso modo. Ci sono delle cose più faticose da imparare, più impegnative, esattamente come correre o fare le capriole. Ma sai comunque che puoi farlo, e lo fai”. Max tacque, e per un po’ restarono entrambe in silenzio. Poi, aggiunse: “Probabilmente, quando siamo vicine i nostri poteri si amplificano. Forse sono stata io a sbloccare i tuoi, o qualcosa di simile. Mi spiace di non poterti dire di più”.
Alice si alzò, la testa che le faceva male a furia di rimuginare su tutti quei pensieri. “Non devi scusarti”, rispose. “Immagino che lo scopriremo andando avanti”. Poi, la guardò negli occhi. “Pensi davvero che Brett sia pericoloso?” le chiese, esitante.
“Penso che non dovresti uscire con lui”, rispose Max, semplicemente.
“Farò attenzione”, disse Alice, pensierosa. “Hai fatto tutta quella scena, oggi, per far arrabbiare me?” sbottò poi, all’improvviso. Max la scrutò, confusa. “Intendi accettare l’invito di tuo fratello? No. È stato molto carino, e sarebbe stato brutto rifiutarlo. Inoltre, bisognava far smettere di ridere quelle oche. Penso che mi divertirò alla festa, con lui”, rispose, calma.
“Quando si tratta di me, non ti preoccupi di cosa possa ferirmi, però, eh?”, ribatté Alice, astiosa. Max rise. “Mi spiace, Biancaneve. Spero che quello che è successo oggi serva a redimermi”.
Alice fece l’atto di voltarsi, poi ci ripensò. “Sai, Max… è bello parlare con te. Quando non ti comporti come una stronza, ecco”, le disse, accennando un sorriso. Lei rise di nuovo, accompagnandola all’uscita.
 

 

Max

 


Guardò Alice partire, dalla porta della caffetteria. Sperava di aver fatto la scelta giusta, parlandole: da un lato, comunque, quella ragazza la incuriosiva. Se voleva capire qualcosa di più sui suoi poteri, doveva lasciarla avvicinare: era un rischio che era necessario correre. Si mise a riordinare i dolci in esposizione, sovrappensiero, mentre Richie continuava a leggere nel suo angolino.
Qualche minuto dopo, il campanello tintinnò, e, prima ancora che Max avesse il tempo di raddrizzarsi del tutto, qualcuno sbatté con forza i pugni sul bancone.
“Hey, sfigati!”.
 “Cazzo, Joss, il saluto è passato di moda?”. Max la scrutò, torva. Jocelyn sembrava stranamente emozionata. “Sì, sì. Senti, strega, mi serve il tuo aiuto”.
“Immagino”, disse Max, sarcastica. “Perché dovrei aiutarti?”, aggiunse poi. Joss le rivolse un ampio sorriso. “Perché ho trovato qualcosa che farà impazzire voi secchioni”.
Qualche minuto dopo, Jocelyn stava aprendo il bagagliaio della sua macchina, mostrandone fieramente il contenuto. C’era una cassa, contenente due oggetti simili a palle da basket, scure e bitorzolute. “Ta-Da! Uova aliene!”. Joss sembrava estremamente soddisfatta. Max la guardò, sconcertata. “Dove hai trovato questa roba?”, chiese.
“Io e Ben le abbiamo trovate nel bosco, qui vicino. C’era anche questo”. Jocelyn sbatté sul petto di Max un pezzo di quella che sembrava pergamena, con su scritto un testo in grafia sottile. “È un procedimento per farle schiudere”, disse Joss, sbrigativa.
Max e Richie si scambiarono uno sguardo vacuo. “Quindi… che cosa vorresti da noi?”. “Una mano per farle schiudere, ovviamente, cretini!” Jocelyn agitò le braccia, sconfortata. “Non capite proprio niente!”.
“Ho delle obiezioni”, disse Max. “Prima di tutto, chi ti dà la garanzia di che cosa siano effettivamente queste cose? Secondo, potrebbe essere pericoloso toccarle, non credi? E terzo, se davvero hai così tanta voglia di aprirle, perché non farti aiutare da Ben?”.
Jocelyn sbuffò. “Tu parli troppo, Caulfield. Ben questa sera è occupato. E io voglio aprirle subito, perché, qualunque cosa siano, potrebbero farmi guadagnare un sacco di soldi. Pensateci: Joss, la prima persona ad aver riportato in vita un alieno!”. Max e Richie si scambiarono un altro sguardo. “E comunque, non avete scelta”, continuò Jocelyn. “Dovete venire con me, o rischiate di lasciarmi nelle mani un mostro letale con il quale darvi la caccia”. Joss rise, gettando la testa all’indietro.
“Va bene”. Max stava leggendo la pergamena. “Qui dice che questa roba contiene degli eroi che, se risvegliati con il giusto rituale, saranno l’unica speranza di addestrare l’umanità e vincere la guerra imminente. Ma dice anche che, se non si segue il procedimento passo passo, l’essere potrebbe ribellarsi”. Max alzò lo sguardo, le sopracciglia aggrottate. “Non credo ad una parola di quello che c’è scritto, ma se serve a dimostrarti quanto sei stupida, Joss, ti farò vedere che da queste ‘uova’ non nascerà un bel nulla”.
Jocelyn saltellò sul posto, emozionata. “Grande! Forse ti ho sottovalutata, Maxxie”, disse. “Ora, il foglio dice che ci serve un posto buio, e io conosco quello perfetto: il vecchio centro commerciale abbandonato! Salite in macchina, e ci andiamo immediatamente”.
Mentre Joss metteva in moto, Richie guardò Max, impaurito. “Lo sai che questo potrebbe essere l’inizio di un film horror?”. Max stava per ribattere che le cose che si vedono nei film non sono certo reali, ma poi si ricordò di saper far levitare i tavoli, e tacque. Ad ogni modo, qualunque cosa fossero quelle sfere, se Joss aveva comunque intenzione di farle schiudere, era meglio tenerla d’occhio, per evitare che creasse qualche grosso casino: solo per questo, Max si era costretta a seguirla.
Giunti presso il vecchio edificio diroccato, i tre oltrepassarono un foro nella recinzione, e Joss forzò una delle porte ormai pericolanti. Facendosi luce con delle torce, scesero fino nel piano interrato. Si trovarono una specie di locale caldaia, una grossa stanza buia e polverosa, dal soffitto alto. Accanto alla porta di ingresso, una scala di ferro permetteva di scendere fino a raggiungere il pavimento. Faceva davvero molto freddo: i loro respiri si condensavano in nuvolette di vapore, mentre si dirigevano giù dalla scala, stringendosi nelle giacche. Joss sistemò a terra una delle sfere: l’altra l’avevano lasciata nel bagagliaio, erano straordinariamente pesanti da portare.
“Okay”, Max si guardò intorno, le mani sui fianchi. “Ora dobbiamo predisporre il posto. Qui dice che bisogna lasciare un bello spazio intorno alla sfera, in modo che…”. “Sì, sì”. Joss le strappò il foglio dalle mani. “Bisogna inumidire la sfera. Dov’è l’acqua?”.
“Jocelyn, sul foglio c’è scritto che è pericoloso non seguire tutto il procedimento…” Richie si guardò intorno, spaventato.
“Sfigato, stai tranquillo. Non succederà proprio niente”. Rovistando nello zaino, Joss estrasse una bottiglia d’acqua. “Ecco fatto”, disse, svuotandola sulla palla.
Sobbalzarono tutti: la sfera aveva iniziato a muoversi, pulsando.
“NON CI CREDO, FUNZIONA!” urlò Joss, battendo le mani. Max sbiancò.
“Non va bene”, disse. “Se per caso tutta questa storia è roba seria, abbiamo mandato a puttane tutto il rituale…”.
“Max, taci, tanto quando usciamo di qui ti uccido io!”.
“Dobbiamo allontanarci”, disse Richie. “Secondo le istruzioni, non deve esserci nessuno nella stanza, quando l’essere si sveglia!”.
“Oddio, volete stare calmi? Ecco, se serve a farvi tacere, saliamo in cima alle scale”.
I tre salirono in cima alla rampa di scale di ferro, fermandosi sul pianerottolo, e sbirciando giù. Max iniziava a sentire lo stomaco contorcersi dalla paura, mentre guardava la sfera muoversi e pulsare. Che cosa diamine avevano fatto? Chi era lei, per non prendere sul serio cose del genere? Proprio lei, che giusto quel pomeriggio aveva parlato di poteri paranormali con una sua compagna di scuola…
“Ragazzi. Penso che sia il caso di scappare…” disse, lentamente. All’improvviso, il suo pensiero corse all’essere che l’aveva inseguita nel vicolo, e la pervase un senso di terrore tale che per poco non vomitò, quando capì che cosa avevano fatto.
“Oddio, quanto ci mette? Ora vado ad aprirlo io”. Joss iniziò a scendere le scale. “Joss, NO!” Max tentò di trattenerla per la giacca, ma era troppo tardi. La seguì, di corsa.
Joss si avvicinò all’uovo, e sferrò un calcio fortissimo, frantumandone la superficie. Una sostanza molle e grigiastra iniziò a colare fuori dalla sfera. All’improvviso, dal suo interno qualcosa si gonfiò come un palloncino, raggiungendo le dimensioni di un essere umano, e superandole. L’essere sibilò, mentre quella sorta di placenta si lacerava, cadendogli ai piedi, e rivelando una figura deforme, grigiastra, con la testa simile a quella di un insetto, e numerose zampe e tentacoli che spuntavano da tutto il suo corpo.  Max afferrò la giacca di Joss e tentò di strattonarla indietro, ma lei sembrava paralizzata dalla paura. Spalancò la bocca ed emise un urlo acuto, terrorizzata. Max urlò a sua volta, “JOSS, MUOVITI!”, ma era troppo tardi.
L’essere sibilò, infuriato, e uno dei suoi tentacoli scattò, attaccandosi alla faccia di Jocelyn, e iniziando a risucchiarla. Inorridita, Max tentò di tirarla e di liberarla, ma invano. Gli urli soffocati di Jocelyn riempirono l’aria, finché, con uno schiocco e un risucchio, il tentacolo non si staccò. Joss cadde a terra, supina, e Max vide che non aveva più un volto: al suo posto, c’era solo una maschera di sangue. Scattò all’indietro, mentre l’essere si avventava sul corpo di Jocelyn, e iniziava a divorarlo.
“RICHIE, CORRI!” strillò Max, precipitandosi su dalle scale.
I due si fiondarono fuori dall’edificio e oltre la recinzione. Mentre si avvicinavano alla macchina, le portiere del passeggero e del guidatore si spalancarono da sole. Senza fare domande, Richie salì, sbattendosi la portiera alle spalle, e non si preoccupò nemmeno quando la macchina si accese da sola, nonostante Max non avesse alcuna chiave. Sgommando, Max fece partire il mezzo, allontanandosi a tutta velocità da quel luogo.
I due rimasero in silenzio per un po’, sconvolti e tremanti, mentre Max guidava ad occhi sbarrati.
“Sei… sei coperta di sangue”, disse infine Richie, con un filo di voce.
“Non è mio”. Max non riusciva a pensare ad altro che alle immagini del corpo martoriato di Jocelyn. Che cosa avevano fatto, che cosa diavolo avevano fatto?
“Jocelyn… Joss è morta?”. Richie sembrava sotto shock, incapace di smettere di tremare. “Io… sì”. Max non riusciva ancora a capacitarsi di quello che era successo. La telecinesi era un conto, ma gli alieni? Doveva essere un sogno. Un sogno di quelli terribilmente realistici, che la lasciavano senza fiato al risveglio, perché Jocelyn non poteva essere morta, così, davanti ai suoi occhi.
“Max… Max, se ti vedono così, penseranno che l’hai uccisa”. “L’ho fatto. È stata colpa mia. È stata tutta colpa mia…”. Max tremava incontrollabilmente, Richie piangeva.
“Se quel mostro ha ucciso Joss, dove pensi che andrà adesso? Max! Come facciamo a fermarlo?”. Per una volta, Max non sapeva cosa rispondere. Gli occhi fissi sulla strada, si limitò a cercare di mettere più distanza possibile tra loro e il centro commerciale in disuso.

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Capitolo 5
*** Il ballo ***


CAPITOLO V

Il Ballo

Max

 

 

Max parcheggiò la macchina a qualche isolato di distanza. Il motore si spense con un singhiozzo, ma lei non lasciò andare il volante: la schiena ritta contro il sedile, le braccia tese, riusciva soltanto a guardare di fronte a sé, gli occhi sbarrati. Tentò di regolarizzare il respiro, e di calmare il turbinio di pensieri che le frullavano in testa. Avrebbero dovuto andare alla polizia? No, come potevano spiegare loro che la loro amica era stata divorata da un mostro che avevano evocato per sbaglio? Nessuno avrebbe creduto ad una storia del genere. Piuttosto, vedendola coperta di sangue e in stato confusionale, avrebbero pensato che lei avesse qualcosa a che fare con la sua morte. Potevano raccontare la cosa come se si fosse trattato di un incidente, ma sarebbero comunque finiti nei guai per essere entrati in una zona recintata senza permesso, senza contare che una semplice caduta dalle scale non avrebbe giustificato la quantità di sangue che le era schizzata addosso, né le condizioni del corpo di Jocelyn. Sempre che ci fosse ancora, il suo corpo. No, risolse infine Max, riacquistando lucidità. Dovevano comportarsi come se nulla fosse successo, come se quel giorno non avessero visto Joss. Se avessero ritrovato i resti della ragazza nel centro commerciale, vedendone le condizioni avrebbero sicuramente pensato a un’aggressione da parte di qualche animale selvatico, e, in quel modo, lei non ci sarebbe finita di mezzo.

Rilassando le braccia, prese finalmente un ultimo respiro.
“Richie, ascoltami bene, adesso”, disse Max, rivolgendosi al ragazzino. “Non possiamo andare dalla polizia. Non possiamo dire di sapere niente di quello che è successo a Joss, o penserebbero ad un nostro coinvolgimento. Non penso crederebbero alla storia del mostro”. Richie annuì, in silenzio. “Non possiamo fare nulla, per Joss, ora. E se vogliamo occuparci di quel mostro, è meglio che io non venga arrestata”. Lui annuì ancora, sempre sull’orlo delle lacrime. “Quindi, ora andiamo a casa, dirai a tua madre che abbiamo preso in prestito la sua macchina per andare a riportare un libro in biblioteca, o qualcosa del genere”, proseguì Max. All’improvviso, le venne in mente di non avere le chiavi del veicolo: dovevano essere rimaste in tasca a Joss. Si chiese se Richie si fosse domandato come avesse potuto far partire la macchina senza chiavi. Decise di non chiedere nulla. “Tua… Tua madre ha delle chiavi di riserva, no?”. “Sì. Ne abbiamo tre: una la tiene mamma, una è appesa all’ingresso, e una… una…” Richie deglutì. “Una la teneva Joss”, concluse.
“Ottimo”, disse Max. “Dille che abbiamo usato quella di riserva”. Max si sporse verso di lui, staccando le mani dal volante per prendergli il viso tra le mani. Richie alzò lo sguardo, sorpreso, mentre lei lo guardava fisso negli occhi, con gravità. “Ce la farai, Richie? Hai capito quello che ti ho detto di fare, e perché lo devi fare?”.
Richie arrossì, fissando dentro agli occhi di Max, quasi come se ne fosse ipnotizzato. Si riprese, scuotendo appena la testa. “S-sì. Sì, capisco. È tutto ciò che possiamo fare. Ce la farò, Max, non preoccuparti. Ci penso io”.
Max sospirò. Avrebbe voluto abbracciarlo, ma si rese conto che lo avrebbe imbrattato di sangue. Così, gli disse solo: “Mi dispiace, Rich. Mi dispiace tanto. È colpa mia”.
“Non è colpa tua” ribatté lui, serio. “Joss ha fatto qualcosa di molto stupido, e per caso tu eri lì, e non sei riuscita a fermarla. Se non ci fossi stata, l’avrebbe fatto comunque. E comunque, non potevamo sapere che quella storia fosse vera…”. Max sospirò, cacciando indietro le lacrime che le pungevano gli occhi. “Lo so”, disse solamente, corrucciata. Poi si alzò, aprì la portiera della macchina e scese, esaminandola, alla ricerca di tracce di sangue. Non sembrava che ce ne fossero: c’era solo qualche impronta insanguinata sul volante. Guardandosi, si assicurò di essere sporca solo sul viso e sul petto. Poi, si pulì con una salvietta le mani ed il volante, e infine risalì, mise in moto, e si diresse verso casa.

La strada di fronte alla caffetteria era deserta. Scendendo, controllò ancora una volta di non aver lasciato tracce. Controllò anche che Richie fosse pulito e insospettabile, e lavò via le tracce del pianto dal suo volto. Poi, lo guardò correre in casa, e dopo aprì il bagagliaio, si caricò la cassa con la sfera rimanente sulle spalle e infine, approfittando dell’oscurità, scivolò come un fantasma dalla porta di ingresso, salì le scale di corsa e si infilò nell’appartamento. Sbatté la porta, lasciò cadere la cassa e si accasciò sul pavimento, il volto nascosto tra le mani. Tremava e singhiozzava incontrollabilmente, ora che non doveva più trattenersi. Aveva visto una persona morire di una morte terribile davanti ai suoi occhi, ed era tutta colpa della loro stupidità. Si sarebbe picchiata, in quel momento: si rese conto di essere solo una ragazzina idiota.
Quando riuscì a ricomporsi, esaminò il contenuto della cassa, tremante, assicurandosi che la sfera fosse intatta, e ferma. Vista così, sembrava solo un ammasso di fango secco. Max sentì una morsa gelata attraversarle lo stomaco, ma sapeva di non avere scelta: doveva custodirla. Liberarsene poteva significare che finisse nelle mani sbagliate, facendo fare a qualcun altro la fine di Joss. Non era certo entusiasta di dormire nella stessa stanza di un uovo contenente un potenziale mostro assassino, ma non poteva fare molto altro: Joss era morta, e non poteva permettere che qualcun altro perdesse la vita a causa sua. Così, spinse la cassa sotto al letto, pregando qualunque divinità che la sfera non si risvegliasse, e finalmente si diresse in bagno.
Si osservò allo specchio, e vide che era conciata parecchio male: il sangue le aveva schizzato il volto, i capelli e il petto, dove si era allargato in grosse chiazze scure, penetrando nei vestiti. Max si spogliò, mettendo giacca, maglietta, pantaloni, scarpe, e biancheria a mollo in una tinozza di acqua bollente, dopo aver spruzzato dello smacchiatore sulle tracce di sangue. Si infilò poi in doccia, lavandosi con attenzione, mentre ai suoi piedi l’acqua e il sapone si tingevano di rosso. Una volta uscita, svuotò la tinozza, la lavò, mise i vestiti in lavatrice, e pulì il piatto e le pareti della doccia. Fece lo stesso con il pavimento, seppure non avesse gocciolato sangue entrando, ripassando mentalmente tutto ciò che aveva fatto da quando era salita in macchina a quando ne era scesa, pensando se avesse dimenticato qualcosa.
Quando, finalmente, ritirò i vestiti dalla lavatrice, notando che ogni traccia di sangue era scomparsa, si tranquillizzò giusto un poco.
Si buttò sul letto, gli occhi sbarrati. Ovviamente, non ci sarebbe stato verso di dormire, questo Max lo sapeva. Passò una notte insonne ed inquieta, fissando l’orizzonte in attesa di vedere le prime tracce dell’alba. I suoi pensieri vagavano da Jocelyn, al mostro, alla sfera sotto il suo letto. Non aveva idea di cosa fare.

Quando il cielo si ingrigì appena, si alzò, fece colazione, e si preparò lentamente per andare a lezione. Aveva ragionato sul fatto che sarebbe potuto sembrare sospetto non presentarsi, e, inoltre, l’idea di restare nella stessa stanza con quella sfera la faceva impazzire. Aveva deciso di lasciarla a casa, per quanto la inquietasse il pensiero di sua zia che, solo due piani più sotto, si aggirava ignara. Tuttavia, lasciarla in macchina in un parcheggio brulicante di studenti le parve un’idea ancora peggiore. Così, distrutta, ma incapace di sentire la stanchezza, salì in macchina, mise in moto e partì alla volta di Heathfeld, come ogni mattina.


Alice

 

 

Alice scivolò nel posto accanto a Max a informatica, Alex al seguito. La ragazza fissava nel vuoto, il viso appoggiato sul palmo della mano, gli occhi sbarrati, e sembrava non avere un bell’aspetto. “Max?” Alice la chiamò, incerta, ma lei non ebbe reazioni. “Max. Max!” Alice la scosse dolcemente per un braccio, e Max sobbalzò sulla sedia, guardandosi intorno stranita. “Ciao. Scusami, non volevo disturbarti. È solo che… ehm… sembravi… Stai bene?”, disse, guardandola con aria interrogativa. Max strizzò gli occhi e si stropicciò la fronte, riprendendosi. Era pallida come un cencio. “Sì, sì, io… non ho dormito molto, stanotte. Ma sto bene”.
“Beh, ti conviene andare a casa a riposarti, allora” Alex sorrise, stiracchiandosi, “Perché stanotte ci sarà da uscire di testa!”. Max lo guardò, confusa. “S… Stanotte?”, disse, incerta. “Ma sì, il ballo! È stasera, non ricordi?”. Alex la guardò, improvvisamente preoccupato. “Non lasciarmi da solo, eh!”.

Alice guardò Max stringersi le braccia intorno alla vita, in un involontario gesto difensivo che le fece tenerezza. “Certo che no. Non ti darò buca. Dormirò qualche ora oggi pomeriggio, ecco”. Max fece un sorriso dall’aria forzata, ma lei continuò a osservarla di sbieco per tutta la durata della lezione. Al suono della campana, Max si affrettò ad uscire dall’aula, come suo solito, e, come ormai era tradizione, Alice la seguì, scorgendola in fondo al corridoio mentre si infilava in bagno. Aprì leggermente la porta, facendo attenzione a non farsi notare: Max stava in piedi, reggendo il suo peso sulle braccia, i palmi delle mani appoggiati al lavandino, la testa china. Tremava incontrollabilmente.
Alice si infilò all’interno del bagno, mentre Max, alzando il viso, la scorse nel riflesso dello specchio. Le sue guance erano rigate di lacrime: Max le asciugò frettolosamente con le maniche, nascondendosi il volto. Alice si avvicinò con calma, posando una mano sul suo avambraccio, e attese, finché Max non sollevò lo sguardo, guardandola finalmente negli occhi. Schiuse le labbra per dire qualcosa, ma sembrò non riuscirci: così, si morse il labbro inferiore, tremante, abbassando nuovamente gli occhi.
“Cosa c’è che non va?”. Alice la tirò leggermente per un braccio, facendola voltare, e poi spingendola indietro, in modo che appoggiasse la schiena al lavandino. Max scosse la testa, le mani sul volto. “Max, parlami. Ne hai palesemente bisogno”. Max la guardò, finché, con un filo di voce, le disse: “Non posso. Non posso, Alice. È pericoloso”. “Se è pericoloso, significa che tu sei in pericolo, e se è così, io voglio aiutarti”. Si fissarono negli occhi per qualche secondo, e Alice sostenne il suo sguardo, decisa. Infine, Max si raddrizzò di scatto, trascinandola in un angolo, e abbassandosi, in modo che i loro volti distassero solo pochi centimetri. “Cosa mi diresti se ti dicessi che ho visto qualcuno morire?”, bisbigliò, a denti stretti. Alice la guardò, scioccata. “Cosa mi diresti se ti dicessi che ieri, nel centro commerciale abbandonato, un mostro ha risucchiato la faccia di Jocelyn Bennet?”. Aveva una strana luce negli occhi, sembrava quasi pazza.
“Penso… penso che tu abbia bisogno di riposarti. Ti riporto a casa, e lì possiamo parlarne, che ne dici?”. Max scosse violentemente la testa, e assunse un’aria terrorizzata. “No. Non a casa. Non è sicuro”. “Allora andiamo a casa mia”, ribatté Alice. “Va meglio, così? Ti faccio un tè o qualcosa, e potrai riposarti. Poi, una volta che ti sarai calmata, parleremo di questa cosa”. Max si appoggiò al muro, stropicciandosi gli occhi. “Va bene”, disse soltanto.
Circa venti minuti più tardi, si stavano dirigendo alla macchina di Max. Alice aveva lasciato le chiavi della sua ad Alex, ma insistette per guidare. “Non sei nelle condizioni”, disse seccamente a Max. Lei la guardò, belligerante, ma Alice troncò il litigio sul nascere. “Vuoi restare qui a discutere, o ci diamo una mossa? Ti giuro che guido alla perfezione”. Senza dire una parola, Max la fissò. Poi, lentamente, estrasse le chiavi della macchina da una tasca del giubbotto, e, tenendole tra il pollice e l’indice, le lasciò oscillare un po’ sopra al palmo teso di Alice, per poi lasciarle cadere all’improvviso. Lei le afferrò con uno scatto. “Ottimo”, le sorrise soddisfatta.
 

Più tardi, Alice la fece accomodare sul divano: non ci volle molto perché Max crollasse addormentata, evidentemente esausta. Alice la guardò: anche nel sonno, non riusciva ad apparire rilassata. Si chiese che cosa diamine le fosse successo, e cosa significasse quello che le aveva detto nei bagni. Passò qualche ora così, finché non si svegliò di colpo, guardandosi intorno. Alice le posò una mano sulla spalla, risospingendola a posto, e spiegandole dove si trovasse.

“Oh”. Max si portò una mano alla fronte, e le scoccò uno sguardo apologetico. “Devo essere crollata. Mi spiace, davvero”. “Non preoccuparti”. Alice si morse un labbro, guardandola. “Ad ogni modo, grazie. Non… non potevo dormire a casa, e direi che è merito tuo se stasera non mi addormenterò sulla spalla di tuo fratello”. Alice sentì un peso scivolarle sullo stomaco, a quelle parole: il ballo. Le era passato di mente.
Max si alzò. “A proposito”, proseguì “credo che farei meglio ad andare a prepararmi”. “E la cosa di cui dovevamo parlare?”. Alice si alzò a sua volta, immusonita. “Ne… ne possiamo parlare, non so… in un altro momento?” Max la guardò, seria. Alice sentì di odiarla: voleva davvero rimandare una cosa così? “Sul serio, Al. Non me la sento, adesso”. Il fatto che l’avesse chiamata con un nomignolo le fece un effetto strano. La guardò, e si sentì intenerire alla vista del suo viso provato. “Non c’è problema”, disse, tentando di sorriderle. “Ci vediamo stasera, allora”. Quando ballerai con mio fratello, aggiunse mentalmente.

Un’ora più tardi, in casa Dawson, erano tutti presi dai preparativi. Alice se ne sarebbe stata volentieri a casa: non le andava di guardare suo fratello avere Max tutta per sé per una sera, ma, allo stesso modo, non si spiegava il perché di questi suoi pensieri.
Sentì Ben imprecare, al piano di sotto. Allacciò la zip del suo vestito blu, indossò i tacchi alti e si guardò allo specchio: era bella, Alice, quella sera. I capelli lisci e neri le scendevano dolcemente sulle spalle, e il colore del vestito si intonava ai suoi occhi.

Scese le scale, trovando Alex in agitazione nel suo smoking nero, e Ben che, sorprendentemente, sembrava nelle sue stesse identiche condizioni.
“Cosa succede?” chiese lei, circospetta.
“Jocelyn non si fa sentire da ieri”. Ben camminava avanti e indietro, passandosi una mano tra i capelli di tanto in tanto. “Non posso credere che mi dia buca per il ballo, quella stronza!”. Sferrò un calcio al muro. Poi, assunse un’aria preoccupata. “Non le sarà successo niente, vero?”, chiese, torcendosi le mani. “Cosa mi diresti se ti dicessi che ieri, nel centro commerciale abbandonato, un mostro ha risucchiato la faccia di Jocelyn Bennet?”. Le parole di Max le risuonarono nelle orecchie, e lei sentì un peso sul cuore, sebbene le trovasse incredibili. “Va’ a prenderla a casa, Ben. Qualunque cosa sia successo, te lo spiegherà”, rispose quindi Alice, semplicemente. “Giusto” borbottò lui, dirigendosi alla porta, e spalancandola solo per trovarsi davanti Brett, che sfoggiava un sorrisone nel suo completo grigio. “Comportati bene”, gli ringhiò Ben, uscendo.
“Non c’è bisogno di raccomandazioni. Io sono un gentiluomo, non è vero, piccola?”. Brett ammiccò ad Alice, che sentì lo stomaco rivoltarsi. “Sei più figa del solito, stasera”, aggiunse. “Sì, grazie” disse lei, senza guardarlo, e facendo per uscire.
“Al?”. Alice si voltò, al suono della voce di suo fratello, il cui sguardo oscillava tra Brett e lei, a disagio. “Non… non è che potreste accompagnarmi?”.
Alice lo fissò, sorpresa. “Non devi passare a prendere Max?”, chiese.

“Viene da sola…”. Alex si guardò i piedi, arrossendo. Brett rise sguaiatamente, ed Alice sentì la bile risalirle lungo lo stomaco: aveva voglia di prenderlo a pugni, e la serata non era ancora iniziata. “Allora vieni con noi”, disse, secca.
Poco più tardi, davanti all’ingresso della sala da ballo della scuola, dove si teneva la festa, Alice si chiese mentalmente, per l’ennesima volta, chi diavolo gliel’avesse fatto fare di obbedire alle convenzioni sociali ed andare al ballo con Brett, che aveva sparato una battutaccia dietro l’altra, mentre guidava.
Alex si tormentava le mani, guardandosi intorno. “Ehi, nanetto”. Brett gli circondò le spalle con un braccio. “Sei sicuro che non ti abbia dato buca? Guarda che se così fosse te ne troviamo un’altra che sia… alla tua altezza” Brett ridacchiò da solo, ma Alex, guardando alle spalle di Alice, parve illuminarsi.
“E’ arrivata”, disse. Alice si voltò. Max si fermò a pochi passi da loro, di una bellezza mozzafiato in un vestito rosso scuro. Un’elegante treccia raccoglieva parte dei suoi capelli, lasciando alcuni dei suoi boccoli ricadere in una cascata di lato. Alex le si avvicinò, e lei gli sorrise, esitante. Arrossendo, ma sorridendo a sua volta, lui le prese il braccio. “Sei davvero bellissima”, disse, raggiante. Max rise. “Anche tu non sei niente male, piccoletto”. Non indossava i tacchi, ma era comunque più alta di Alex. “Che ne direste di entrare, madame?”. “Ne sarei deliziata, monsieur”. I due risero ancora, e, oltrepassandoli, Max lanciò uno sguardo di fuoco a Brett, sorridendo invece frettolosamente ad Alice. Lei sentì le guance andarle a fuoco.

“Beh, ci diamo una mossa?” disse Brett, afferrandola per un braccio e quasi trascinandola dentro, mentre lei, trasognata, seguiva Max con lo sguardo.
La sala da ballo era arredata elegantemente, e una massa di studenti avvolti in vestiti colorati occupava già la pista da ballo. Brett la condusse al banco dei drink, che era già gremito, dove iniziò a sbraitare e ridere con i suoi amici, dandole di tanto in tanto qualche pacca sulla spalla. Le ragazze che li accompagnavano socializzavano tra loro, ma Alice, a braccia conserte, scrutava la sala alla ricerca di Max e di suo fratello. Li vide in un angolo, vicino ad un paio di altri studenti, mentre chiacchieravano. Max sorrideva e rideva come Alice non l’aveva mai vista fare: sembravano divertirsi. Incurante di quello che accadeva intorno a lei, mosse qualche passo nella loro direzione. Brett la afferrò per un gomito, trattenendola. “Hey, dove vai, bellezza?”, disse, traendola a sé. Infastidita, Alice pose un minimo di distanza tra se stessa e il petto di lui. “Vado da mio fratello”, rispose a denti stretti.
“Oh, assolutamente no! Ora andiamo a ballare!”, rispose lui. La trascinò in pista, dove le si allacciò stretto, muovendosi sconclusionatamente a tempo di musica. Alice adorava ballare, e non solo in modo professionistico, ma sentì l’impulso di vomitargli sulle scarpe.
Dopo quelli che sembrarono alcuni giorni di quella tortura, intravide nuovamente Max ed Alex sulla pista da ballo. Lei sembrava leggermente preoccupata, mentre lui le mostrava, probabilmente, come ballare. Alla fine, parve prenderci la mano, e la canzone cambiò in un lento. I due rimasero a distanza, ma parlavano fitto, lui che la guidava con le mani sulla sua vita, e lei che lo seguiva, le braccia intorno al suo collo.
Alice si sentì bruciare dentro. All’improvviso, Brett ficcò la faccia nell’incavo tra il suo collo e la sua spalla, premendole le labbra sulla pelle, e lei fece un balzo all’indietro, orripilata.
Combattuta tra il desiderio di picchiarlo, di picchiare Alex, di picchiare Max, o semplicemente di chiederle di ballare, riuscì solo a ringhiare “Ho bisogno di un po’ d’aria”.

Brett fece un sorriso sornione, che lei ignorò. “Molto bene, allora. Facciamo una passeggiata. Una signorina come te non può uscire da sola”.

I due si diressero all’uscita, mentre lui le avvolgeva un braccio intorno alla vita.
Una volta fuori, lei inspirò profondamente, ad occhi chiusi, per calmarsi. Non aveva senso che si sentisse così. Certo, il suo partner faceva schifo. Per lo meno, ora Brett teneva la bocca chiusa. Era piacevole camminare in silenzio, pensò. Almeno, lo pensò finché non sentì il suono della macchina di Brett che si apriva.
All’improvviso, Alice realizzò che si trovavano nel bel mezzo del parcheggio. La musica della festa si sentiva solo in lontananza, e Brett spalancò la portiera della macchina, in attesa.
“Che stai facendo?”. Alice indietreggiò istintivamente. Brett rise. “Va bene essere avventurosi, ma non vorrai mica farlo qui fuori, no?”.
“Fare cosa?”. Il sorriso di Brett si irrigidì un poco. “Coraggio, Alice. Non fare storie, ora. Non è divertente”.
“Credo che tu abbia capito male. Io volevo solamente fare una passeggiata, Brett”, rispose lei, fredda.
“Certo, e sappiamo tutti come finiscono le passeggiate, no? Entra in macchina”, rispose Brett, spazientito.
“No. Io torno dentro”.

“Certo, come no!”. Brett la afferrò per un braccio, tirandola a sé. “Lasciami!” strillò lei, la voce rotta dal panico. “Entra nella cazzo di macchina!”.

I due lottarono brevemente, ma lui era troppo grosso, troppo forte. Prendendola per i polsi, la bloccò, spingendola contro la fiancata della vettura. Lei sbatté contro la portiera, cercando inutilmente di liberarsi. Le premeva addosso con tutto il corpo. “Smettila-smettila, che ti piace!”. Soffocò le sue grida forzandola in un bacio. Alice tentò di morderlo, di calciarlo, ma lui rise, facendo per sollevarle la gonna.
Un pugno sbucò dal nulla, colpendo Brett sulla tempia, e facendolo cadere. Alice si piegò in avanti, le lacrime che le rigavano il volto. Scivolò lentamente lungo la fiancata della macchina. Lui gemette, sfiorandosi la testa. Max torreggiava sopra di lui, lo sguardo in fiamme. “Vattene”, scandì. La sua voce era una lama di ghiaccio, letale. Sembrava pronta ad ucciderlo.
“Fatti i cazzi tuoi, Caulfield, dannazione!”. Brett fece per scattare in piedi, caricando Max, ma, prima che potesse fare qualunque cosa, lei allungò la mano, le dita contorte come se stesse stringendo qualcosa. Brett si portò le mani alla gola, tossendo, scivolando a terra, e venendo poi rialzato su, come se la mano invisibile di un gigante lo stesse trascinando. Sbatté contro un palo, cercando di togliersi la morsa invisibile che lo stingeva al collo. Max fece qualche passo in avanti, gli occhi fissi su di lui, la mano tesa e un’espressione di puro odio sul volto. Brett iniziò a diventare viola, gli occhi strabuzzati. Alla fine, respirando affannosamente, Max abbassò la mano, riluttante, e lui cadde a terra, tossendo, senza fiato. Poi, si voltò verso Alice, aiutandola a rialzarsi, e fece qualcosa che lei non si sarebbe mai aspettata: la abbracciò, stringendola forte a sé. Colta di sorpresa, Alice si ritrovò a ricambiare l’abbraccio, aggrappandosi a Max come un naufrago ad un salvagente. Nascose il viso nella sua spalla, singhiozzando e tremando.
“Stai bene?”, mormorò Max, dolcemente. Alice annuì con forza. “Ora sì”, rispose. “Allora, per favore, puoi portarmi via, prima che io lo ammazzi?”. La voce di Max tremò pericolosamente. Alice la prese per mano, e si allontanarono, fino a raggiungere la vecchia Golf di Max. Salì, e Alice la imitò. Max mise in moto, guardando fisso di fronte a sé, e iniziò a guidare, restando in silenzio. Alice guardò Heathfeld allontanarsi dal finestrino, ancora scossa.
“Non ti sto rapendo”, disse infine Max. “Ti porto a bere qualcosa di caldo. E ho bisogno di mettere qualche chilometro tra me e Brett, altrimenti stasera mi arrestano”. Per qualche motivo, Alice non pensò che fosse un’esagerazione.

“Grazie”, disse solo. “Se non ci fossi stata tu, io… non so come sarebbe finita. Anzi, lo so. È tutta colpa mia”, aggiunse. “Me l’avevi detto di Brett, mi avevi avvertita, e io invece sono andata lo stesso con lui, per dare retta a…”. “Zitta”, la interruppe seccamente Max. “Ascoltami bene. Niente di quello che è successo stasera è colpa tua. L’unico che ha colpe, qui, è quell’idiota di Brett”. Pronunciando il suo nome, Max strinse le mani sul volante, al punto che le sue nocche sbiancarono. Alice non sarebbe riuscita a esprimere a parole la gratitudine che provava, così restò zitta, guardando la città addormentata scorrere di fianco a loro.
Poco più tardi, stavano entrando nella caffetteria della zia di Max. Il locale era vuoto, e Chelsea Caulfield, dietro al bancone, stava asciugando dei bicchieri.

“Max!”, esclamò, vedendola entrare. Sembrava sorpresa di vederla. Max fece cenno ad Alice di sedersi a un tavolo appartato, in un angolo, e scambiò qualche parola con la zia. Tornò pochi minuti dopo, tra le mani un vassoio con due fette di torta, due tazze di tè fumante e un bicchiere d’acqua.

Scivolò sul divanetto accanto ad Alice, disponendo le vivande di fronte a loro. “Bevi”, ordinò poi, porgendole l’acqua. Lei obbedì, non rendendosi conto di quanta sete avesse finché non ebbe vuotato il bicchiere.
“La torta è al triplo cioccolato-una delle mie preferite. Spero non ti dispiaccia che mi sia presa la libertà di scegliere anche per te”.
Alice rise debolmente. “Non credo potrei mai lamentarmi di ricevere una torta al triplo cioccolato”, rispose. Ne assaggiò una forchettata: era deliziosa.
“Non saresti dovuta uscire da sola con Brett, comunque”, osservò Max, addentando la sua.
“Lo so. Brett è orribile. Non volevo andare con lui, stavo uscendo per i fatti miei. Ero arrabbiata… e mi ha seguita”. Alice si sentì riprendere calore piano piano, la paura che scivolava via, mentre si lasciava cullare dalla voce morbida di Max.

“Arrabbiata?”, disse Max, interrogativa. “Sì. Tu e Alex vi stavate divertendo, e io ero bloccata con quello”, disse, infilzando i resti della torta con veemenza.
“Ah. Eri gelosa, quindi”, disse Max, l’ombra di un ghigno che le aleggiava sulle labbra. “Non ero- sta’ zitta!”, ribatté Alice, arrossendo suo malgrado. “Come hai fatto a trovarmi, comunque?”.

“Ti ho vista uscire con Brett, e ti ho seguita. Gli stavo leggendo la mente da tutta la sera, non mi piaceva affatto”. “Quindi, mi stavi spiando?”, la stuzzicò Alice, dandole un colpetto col gomito. “Stavo tenendo d’occhio Brett. E ho fatto bene, direi”. Alice rabbrividì, senza rispondere: ripensare a quello che era appena successo le faceva venire una morsa gelata allo stomaco.

“Sei tranquilla, ora?”, chiese Max. Alice ci pensò su. Le rivenne in mente la sensazione di nausea che aveva provato nell’avere Brett addosso. In quel momento, le era quasi sembrato suo padre. “Sì, lo sono. Mi sa… è che queste cose hanno particolare effetto su di me… da quando mio padre…”. Alice si interruppe bruscamente.
“Da quando tuo padre…?” la incalzò Max. Alice le sorrise. “Mi spiace, Misteriosa Max, ma anche io ho i miei segreti. Forse, quando ti aprirai anche tu, te ne potrò parlare”, tagliò corto lei. Max non insistette. “Ad ogni modo, grazie per avermi salvata. Sei il mio angelo custode”, le disse, con un sorriso leggermente malizioso. Max fece una smorfia. “Taci, Dawson. Lo sai che avrei salvato qualunque altra ragazza, al tuo posto”, ribatté. Lei rise. “Però, non stavi controllando gli accompagnatori di ogni altra ragazza questa sera. Stavi controllando il mio. Chissà quante ragazze non stai salvando, in questo momento, solo per stare qui con me”.
“Beh, immagino che nessuna di quelle ragazze stesse morendo di gelosia al pensiero di non poter ballare con me, al posto del proprio fratello gemello”, rispose Max, sorridendole. Alice non rispose: invece, prese un po’ della glassa rimasta nel piatto e gliela spalmò in faccia. “Hey! Ma quanti anni hai, Biancaneve? Cinque?”. Lottarono un po’, e nel processo altra glassa finì sulle loro facce. Infine, si ripulirono, e Alice appoggiò la testa sulla spalla di Max, sospirando. La sentì irrigidirsi, e poi rilassarsi: infine, Max allungò una mano, coprendo la sua, sul tavolo, e stringendola, forse per confortarla. Rimasero un po’ così, prima che Alice si voltasse a guardarla. Il suo viso era un po’ troppo vicino: si ritrovò a fissare i suoi occhi verdi, persa, avvicinandosi ancora, involontariamente.
La borsa di Alice squillò e vibrò, facendole sobbalzare entrambe. Si allontanarono, arrossendo, mentre lei frugava nella borsa, estraendo finalmente il cellulare, e rischiando di scaraventarlo a terra grazie al tremito delle mani. Riuscì a rispondere. “Che c’è?”, disse, portandolo all’orecchio. Era Alex.
“Stai bene? Dove sei? Sei con Brett? Max è con voi?”, esclamò, preoccupato. “Sto bene, sto bene, Alex”, rispose Alice. “Sono con Max. Ora arriviamo, e ti spiego, okay? Tranquillo”. Scambiò ancora qualche battuta con il fratello, prima di riattaccare. Si rivolse quindi a Max. “Penso che sia meglio tornare, prima che chiamino la polizia”, disse. Max si alzò. “Scommetto che ora tuo fratello è felice che l’abbia fatto venire in macchina con te, per non lasciarti sola col gorilla”, fece, calma. “Cosa? L’hai fatto apposta?”, chiese Alice. Max si limitò a farle l’occhiolino.
Una mezz’oretta più tardi, stavano parcheggiando vicino alla scuola. Scesero, e Max le mise un braccio intorno alle spalle, scortandola nell’oscurità. Alice si rese conto che stavano per passare di nuovo vicino alla macchina di Brett, e si sentì mancare. Cercò di trattenersi, quando si rese conto che Max si era bloccata. La guardò, interrogativa. Fissava qualcosa di fronte a loro, ed era sbiancata. Alice seguì il suo sguardo, e urlò. Sotto al lampione, qualcosa di grosso e scuro stava divorando quello che restava di Brett. Al suo grido, la creatura si voltò, emettendo un suono a metà tra un sibilo e un ruggito. Non aveva né naso né occhi, solo una lunga fenditura piena di denti aguzzi alla base della testa. La creatura scattò verso di lei, ma Max si frappose tra di loro, salvandola per la seconda volta. Sollevò la mano destra, e la creatura volò all’indietro, uggiolando. Max si preparò al combattimento, ma, con un ultimo ululato di dolore, il mostro fuggì, perdendosi nell’oscurità.
Max cadde in ginocchio, reggendosi il petto, ansimante. Alice si accovacciò al suo fianco. “Max! Max! Stai bene?”. Lei annuì, risollevandosi con calma, gli occhi fissi sul cadavere di Brett. Un’espressione di orrore le deformò il viso. “L’abbiamo lasciato qui, da solo…”. “Max, non è stata colpa tua! Max, ascoltami! Non potevi saperlo…”. “Sì, che potevo. Lo sapevo. Ho già visto quelle cose”, rispose lei. “Cosa… cosa era?”. Cose? Significava che ce n’era più di una in giro? Alice la prese per le spalle, scuotendola. “Max, parlami, dannazione!”.
“Lo farò. Ti parlerò. Ma dobbiamo andarcene da qui, e in fretta. Potrebbe tornare. Corri a prendere tuo fratello, io vi aspetto in macchina davanti all’ingresso”, disse Max, agitata. Alice la guardò, nel panico. “Non ti lascio sola…” cominciò. “Vai!”, disse semplicemente Max, correndo verso la macchina. Alice si voltò, e corse a perdifiato verso la sala da ballo, cercando di individuare Alex tra la massa di studenti. Il fratello era in attesa vicino alla porta. Lei lo prese per un braccio, tirandolo. “Cosa stai facendo? Al, fermati!”. “Vieni! Vieni e basta!”. La macchina di Max spuntò sgommando, e i due si fiondarono dentro. “Che sta succedendo?”, chiese Alex, dal sedile posteriore.
“Non lo so nemmeno io”. Max ingranò la marcia e partì a tutta birra. “Ma mi sa che ci tocca scoprirlo”.

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