Inbetweeners di misstaken (/viewuser.php?uid=1058636)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Risveglio ***
Capitolo 2: *** Il mio nome è Max Caulfield ***
Capitolo 3: *** Superpoteri ***
Capitolo 4: *** Segreti e sangue ***
Capitolo 5: *** Il ballo ***
Capitolo 1 *** Risveglio ***
Prologo
Camminava sul freddo
pavimento di pietra, scavalcando i cadaveri e facendo attenzione a non
calpestare le pozze di sangue. Raggiunse il fondo della stanza, dove
una grossa
finestra proiettava uno spettrale raggio di luce all’interno. Lasciò
che la
luna accarezzasse il suo volto, i boccoli ramati, il graffio
insanguinato che
le scalfiva la guancia. Trasse un profondo respiro, cercando di fermare
il
tremito alle mani.
“Sarà meglio muoversi, prima che arrivino le Sentinelle”. La voce di
Byron
risuonò alle sue spalle, producendo un leggero eco nella stanza vuota.
Lei la
ignorò, restando rivolta verso la finestra, gli occhi serrati.
“Non farne un affare di stato, come al solito: erano Ribelli, era
necessario
che morissero”.
A quel punto, spalancò i freddi occhi verdi, fissando Byron dritto in
volto.
“Allora, forse, faremo meglio ad andare”, disse semplicemente, calma,
mascherando le emozioni che le si ribellavano nel petto.
Attraversarono una porta, sul lato della sala, entrando in un lungo
corridoio.
Camminarono in silenzio, finché Byron non parlò di nuovo. “Dai troppa
importanza a questo genere di cose”, brontolò.
“Alla vita? Vuoi dire che do troppa
importanza alla vita?”,
rispose lei, a denti stretti, le mani che iniziarono nuovamente a
tremare,
mentre si apprestavano ad attraversare il passaggio. Byron non lo notò,
nel
buio. “Alla loro vita, sì”,
rispose, indifferente. “Alcuni
esseri nascono per essere sacrificati, altri sono semplicemente
inutili, altri
ancora meritano la morte…”. “Era mio amico”.
Si voltò, premendo il
pulsante che chiudeva il muro di sicurezza, che scese velocemente
dall’alto,
schiantandosi su Byron ed immobilizzandolo a terra. “ERA MIO AMICO!”.
Byron emise un gemito strozzato, senza fiato, metà del corpo incastrato
oltre
al muro di contenimento. “CHE DIAMINE FAI?” ansimò, dolorante. Lei
trasse un
respiro profondo, chiudendo gli occhi, e, finalmente, riuscì a
calmarsi. Quando
riaprì le palpebre, la sua espressione era pacata, calma, ma un fuoco
sembrava
animare le sue pupille. “Che diavolo stai facendo?”, Byron tossì. “Apri
questa
roba, prima che arrivino…”.
“Perché dovrei aprire?”, chiese lei, candidamente. “Tu sei pazza”,
ansimò lui.
“Non dovrebbe esserti concesso di prendere parte a questo genere di
missioni.
Sei completamente pazza. Apri questa porta! Mi uccideranno, per Dio!”.
“Ti
uccideranno?” il volto della ragazza si illuminò di un sorriso, un
sorriso
freddo, che non raggiunse gli occhi. “E dov’è il problema? Non stai
dando
troppa importanza alla tua vita, Byron?”.
“Non è la stessa cosa…!”
disse lui. “Non lo è? Perché la tua vita è degna di essere salvata, e
quella
altrui no? Chi lo decide, Byron, il criterio? Tu?”. Si accovacciò di
fianco
all'uomo, che si contorceva come un verme, tentando inutilmente di
liberarsi.
“Senti, mi spiace, okay? Mi spiace. Ma è così che funziona. Noi li
uccidiamo
perché siamo dalla parte del giusto, e loro tentano di contrastarci.
Ora, per
favore, tirami fuori, prima che arrivino quei mostri”. La voce di Byron
si
spezzò sull’’ultima frase, tradendo la paura. “Chi uccide non è mai
dalla parte
del giusto, Byron”. Fece per voltarsi ed andarsene, quando lui la
trattenne,
afferrandola per una caviglia. “ASPETTA! DOVE STAI ANDANDO? NON PUOI
LASCIARMI
QUA!”. “Posso, a dire il vero. Lo sto facendo”. “E CHE COSA DIRAI AL
QUARTIER
GENERALE? COME GIUSTIFICHERAI IL FATTO CHE SONO... CHE SONO MORTO?!?”.
Ora la
voce di Byron tremava incontrollabilmente. “Dirò loro che le Sentinelle
ci
hanno sorpreso durante l’attacco. Stavano per sfondare il muro, e tu
sei
rimasto indietro per combatterle. Ti farò sembrare molto più eroico di
quanto
tu non sia: dovresti ringraziarmi, ti ricorderanno tutti con orgoglio”.
Lo
guardò dall’alto al basso, con disprezzo. Poi calciò via la sua mano, e
si
allontanò. “ASPETTA! TI PREGO! TI PREGO, NON LASCIARMI QUI!”. In
lontananza, si
udirono ruggiti e versi bestiali. “STANNO ARRIVANDO! TI PREGO, MAX, MI
UCCIDERANNO! NON VOGLIO MORIRE! TIRAMI FUORI DI QUI!”.
Max lo guardò ancora una volta, compassionevole. “Ma guarda: il prode
Byron che
implora per aver salva la sua stessa vita. Che spettacolo
imbarazzante”. “MAX,
MAX TI PREGO…”. “Hai ragione: alcuni esseri sono nati per essere
sacrificati,
altri sono inutili, altri ancora meritano la morte…”. Si udirono
centinaia di
zampe battere sul pavimento di pietra del corridoio. Un attimo dopo,
Byron
iniziò ad urlare, mentre veniva strattonato all’indietro. Iniziò a
vomitare
sangue, emettendo gorgoglii soffocati. “Addio, James”. Max si voltò,
mentre,
con un ultimo strattone, Byron veniva trascinato oltre il muro, che si
richiuse
alle sue spalle.
CAPITOLO
I
Risveglio
---
Diciannove. All’appello mancava una bambina, una
dei
piccoli. I tre capi scout si scambiarono occhiate preoccupate: non
potevano
certo lasciare il resto del gruppo per andare a cercarla, e dividersi
sembrava
un’idea altrettanto poco praticabile. Alla fine, si accordarono: due di
loro
sarebbero rimasti al fiume con gli altri ragazzi, e uno sarebbe andato
a
recuperare la bambina. Si offrì volontaria la ragazza più giovane.
La bambina scomparsa si chiamava Britney. La ragazza iniziò ad urlare
il suo
nome, addentrandosi nel bosco. Era impossibile che si fosse allontanata
troppo,
quindi decise di fare un giro in rotondo attorno al luogo dove si erano
accampati.
Dannati bambini: quante volte avevano ripetuto loro di non allontanarsi
senza
la supervisione di un adulto? Non osava neanche immaginare a che cosa
potesse
succedere se non l’avessero ritrovata subito. Come diavolo ci si può
presentare
davanti ad un genitore e dirgli qualcosa del tipo, “Hey, sai,
mentre eravamo
nel bosco tuo figlio è scomparso, e non siamo più riusciti a ritrovarlo”.
“BRITNEY! BRIT!”. La ragazza urlava a pieni polmoni, ma invano: dalla
foresta
non giungeva alcuna risposta, se non qualche fruscio, o il rumore di un
animale
che calpestava le foglie secche. A un certo punto, inciampò su
qualcosa; cadde
a terra con un tonfo. Si tirò su, ed esaminò l’oggetto che l’aveva
intralciata:
era lo zaino della bambina, ed era macchiato di rosso. Pregò ogni dio
esistente
che non si trattasse di sangue, ma notò che le macchie erano presenti
anche sul
terreno: le seguì, e la quantità di liquido divenne via via più
copiosa.
All’improvviso, scese la nebbia, la luce parve affievolirsi, come se
nuvole
nere avessero oscurato il sole, e l’aria divenne gelida. Tremando e
strofinandosi le braccia, la ragazza fece ancora qualche passo, prima
di
vederlo: ai piedi di un grosso pino, qualcosa di scuro si muoveva,
emettendo
suoni umidicci e schiocchi. “Britney?” la ragazza esitò. Poi, l’essere
si
mosse, e lei si rese conto che stava divorando qualcosa, o meglio,
qualcuno:
qualcuno che indossava una divisa da scout. Arretrò frettolosamente,
incespicando e cadendo, e l’essere si voltò, ruggendo: non aveva né
occhi né
naso, solo un’enorme bocca, che si apriva come uno squarcio lungo tutta
la
parte inferiore della testa. La ragazza urlò, terrorizzata, iniziando a
correre, con l’essere alle calcagna: riuscì a raggiungere il resto del
gruppo,
prima che l’atterrasse. Da ogni dove, sbucarono altre creature,
aggredendo i
superstiti. Il bosco riecheggiò per poco delle loro grida, prima che
anche
l’ultimo essere umano rimasto in vita fosse ridotto al silenzio.
Max
Max spinse la porta del bagno con una spallata,
reggendosi la mano sinistra, avvolta in un asciugamano. Aprì il
rubinetto
dell’acqua, e la infilò sotto al getto. Il lavandino si tinse di rosso.
Con una
smorfia di dolore, chiuse l’acqua ed esaminò il taglio più da vicino.
Il dorso
della mano era lacerato in obliquo, in modo irregolare, ma la ferita,
pur
continuando a sanguinare, non sembrava profonda. Max si raddrizzò, aprì
l’anta
del mobiletto appeso sopra al lavabo e recuperò del cotone, del
disinfettante e
delle bende elastiche. Si avvolse con cura la mano, assicurando poi la
garza
con una graffetta. Uscita dal bagno, raggiunse la scatola ai piedi del
letto,
e, con molta attenzione, spostò gli ultimi oggetti rimasti sul fondo,
rinvenendo finalmente quello incriminato: una vecchia cornice, il cui
vetro si
era frantumato. Uno dei pezzi era macchiato di sangue, il suo. Max
rimosse i
vetri dalla foto, cercando di non graffiarla: un’operazione
particolarmente
difficile, perché il vetro pareva essersi appiccicato. Con molta
delicatezza,
ci riuscì. Dopodiché, prese scopa e paletta, raccolse i vetri sparsi
sul
pavimento, e si gettò sul letto, fissando la fotografia.
Era una vecchia foto di lei e sua madre. Si stavano abbracciando,
un’altalena e
un grosso albero sullo sfondo. La cornice doveva essersi rotta quando
Max
l’aveva scaraventata, insieme agli altri ricordi di sua madre, in una
scatola
che aveva rinchiuso in un angolo buio dell’armadio, dopo la sua morte.
Max fissò la foto finché gli occhi non le si riempirono di lacrime: a
quel
punto, si alzò, e la mise con cura in mezzo ad una copia del Giovane
Holden;
doveva ricordarsi di comprare un’altra cornice.
In realtà, era piuttosto orgogliosa di essere riuscita a rimettere in
vista gli
oggetti appartenenti a sua madre. Un vecchio orologio da muro, qualche
libro,
album fotografici, vestiti. Guardando la stanza, ora, vedeva in ogni
angolo
pezzetti di lei. Un tempo, il dolore e la rabbia le rendevano
impossibile anche
solo pensare a quelle cose. Se il tempo non guarisce, per lo
meno rende più
forti, pensò.
Aveva compiuto diciotto anni lo scorso agosto. Ne erano passati nove
dalla
morte di sua madre, e, crescendo, Max era diventata la sua fotocopia.
Era
piuttosto alta, con un fisico asciutto ma robusto, e lunghi capelli
castano-ramati che si ribellavano in larghi boccoli, ricadendole sulla
schiena.
I suoi occhi erano di un verde scuro con pagliuzze nocciola e dorate,
quasi
grigi nei giorni di pioggia. Si divertiva a pensare che fossero del
colore del
bosco. Sul naso dritto portava, di tanto in tanto, occhiali larghi
quadrati,
quando non indossava le lenti a contatto. Le sue labbra erano morbide e
rosse,
il viso ovale, l’espressione perennemente seria.
Tendeva a non indossare vestiti particolarmente femminili, preferendo
felpe e
camicie larghe, magliette e jeans, per cui spesso, quando indossava il
cappuccio, riusciva a passare per un ragazzo. Era un lupo solitario,
Max, ma
questo non le dispiaceva, anzi: tendeva ad essere indifferente alle
persone,
una tendenza che non era cambiata con l’inizio del college.
Raccolse da terra la borsa ricolma di libri, per avviarsi a lezione.
Uscendo,
chiuse a chiave la porta, scendendo poi al piano di sotto per
controllare che
la zia stesse bene. Sullo zerbino, quasi non inciampò su un contenitore
di
plastica posto sul pavimento. Incespicando per non pestarlo, imprecò
sottovoce,
e lo raccolse. Sul coperchio era appiccicato un post-it: “Maxime, sono
andata a
ritirare la giacca in lavanderia. Ti ho lasciato il pranzo, ti voglio
bene. Zia
Chelsea”. Scuotendo la testa, Max infilò il contenitore nella borsa.
Suo
malgrado, un angolo della bocca le si curvò in un sorriso: non sapeva
resistere
ai gesti carini, per quanto volesse.
Insomma, Max Caulfield era un’adolescente normale, che conduceva una
vita
abbastanza normale, frequentava una scuola normale piena di gente
normale,
aveva interessi normali e hobby normali. E da brava adolescente
normale, aveva
dimenticato le chiavi della macchina. Sbuffando, corse indietro, salì
in due
balzi le quattro rampe di scale, aprì la porta, e le chiavi volarono
dal
comodino, a fianco al letto, fino al palmo teso della sua mano sana.
Un’adolescente normale, Max, che, come tutti gli adolescenti normali,
forse
tanto normale non era.
Alice
Uno, due, tre, quattro. Al centro della stanza,
Alice
effettuava una piroetta dopo l’altra. Trentasei, era quello il suo
record. Era
quello il limite da battere. Venti, ventuno. I muscoli delle gambe
iniziavano a
bruciare. Trentadue, trentatré, trentaquattro. Cadde, sbattendo
violentemente
contro il pavimento. Frustrata, slacciò gli scarpini, scaraventandoli
lontano.
Sbuffò, e si abbracciò le ginocchia, appoggiando il viso sulle gambe.
L’indomani, i lividi avrebbero fatto male. Ma per ora, tutto ciò che le
faceva
male era il fallimento. Desolata, si alzò, uscì dalla palestra, salì le
scale e
raggiunse la sua stanza, dirigendosi verso il bagno. Si sfilò la
maglietta, i
leggings, la biancheria, e si lasciò sciogliere sotto il getto caldo
della
doccia.
Uscendo, si avvolse i capelli corvini che le ricadevano sulle spalle in
un
asciugamano, e si rivestì. Indossò una camicetta azzurra e un paio di
pantaloni
bianchi. Ebbe cura di darsi giusto un filo di trucco, prima di
asciugarsi i
capelli e piastrarseli. Raccolse lo zaino e il borsone con la divisa da
cheerleader prima di uscire, scendendo le scale a saltelli. In fondo
alla
rampa, suo fratello Ben tese una manona per darle uno schiaffo sulla
nuca, che
lei prontamente evitò, chinandosi in uno scatto felino. Lui la afferrò
per un
braccio, costringendola a fermarsi e a voltarsi. “Hey, nana. Dov’è che
corri?”
la apostrofò con un ghigno. “A scuola. Lasciami andare.” Alice evitò il
suo
sguardo per tutto il tempo, cercando di divincolarsi dalla sua presa.
Odiava
essere chiamata nana, seppure sapesse di essere bassina. “Tutta questa
fatica
per inculcarti dei buoni principi, e tu dov’è che corri? A scuola”
Ben
sottolineò l’ultima parola, con tono di scherno. “E dire che pensavamo
ce
l’avessi fatta, a diventare una fallita, quando sei diventata capitano
della
squadra delle cheerleader!”. Il braccio libero di Alice si mosse prima
che lei
stessa potesse pensare a quello che stava facendo. Ma suo fratello le
bloccò la
mano a pochi centimetri dalla sua faccia. Ridendo sguaiatamente, Ben la
bloccò
contro il muro. “Ma che fai nana? Vuoi fare a botte con il
fratellone?”.
“Lasciami” sibilò nuovamente Alice, questa volta fissandolo dritto
negli occhi.
Il ghigno scomparve dalla faccia di Ben, che schiuse le labbra per
minacciare
qualcosa. Ma fu interrotto. “Lasciala andare. Dobbiamo andare a
scuola.” Alex
si avvicinò. Era più basso di Ben di almeno tutta la testa, ma sembrava
fermo e
risoluto. “Ah! Due nani contro di me!” rise. Alex sollevò il cellulare.
“Non
credo che a mamma andrebbe di vedere quello che stai facendo”, disse. A
quel
punto, Ben mollò la presa su Alice, avvicinandosi ad Alex, un passo
alla volta.
“Che cosa c’è, frocetto” sibilò “vuoi metterti contro di me?”.
Calmissimo, Alex
sostenne il suo sguardo, mentre Ben avvicinava la faccia alla sua, fino
a
lasciare solo pochi millimetri tra le punte dei loro nasi. “Vuoi forse
farmi
paura?”. “Alice è la mia gemella”, spiegò, semplicemente. “Tutto quello
che fai
a lei, lo subisco anche io. E oggi non ho proprio voglia di sentire
male”. Ben rise sguaiatamente. “Che stronzata”. “Non dovresti
essere a
scuola anche tu, comunque?” Alice fece un passo in avanti, corrucciata,
i
penetranti occhi blu scuro fissi sul fratello. “O vuoi vivere a casa
per
sempre, per rompere le palle a me?”. Ben stava per ribattere, quando
lei lo
interruppe. “Oh sì, facciamo a botte. Due contro uno, Ben, ti va? E
quando ci
porteranno tutti e tre all’ospedale, potrai spiegare a nostra madre che
cosa è
successo. E come mai non eri a scuola, cosa fai quando sei fuori, e
tutto il
resto”. Ben perse a questo punto ogni voglia di ridere. “Ascoltatemi
bene, voi
due” ringhiò “sarà meglio che iniziate a portare rispetto per i più
grandi,
perché se pensate che io possa aver paura di voi… di un
vostro ricatto,
vi sbagliate. Siete fortunati che oggi non ho voglia di litigare con
femminucce
e frocetti, se no a quest-“. “Andiamo, Alex”. Tirando il fratello per
un
braccio, Alice uscì in fretta e furia dalla porta, inseguita dagli urli
di Ben.
“ALICE JEN DAWSON, STO FOTTUTAMENTE-“. Le grida si attutirono quando
Alice
sbatté la porta della Mercedes. Alex si allacciò la cintura, sul sedile
del
passeggero, guardandola. “Stai bene?” domandò, incerto. “Non so perché
Ben sia
così. Insomma, è quasi come se fosse colpa tua che-“. “Sto benissimo”
Tagliò
corto lei. “Allora, la metti la musica o no? Ma niente roba da froci,
per favore” Aggiunse, lanciandogli uno sguardo divertito. “Roba da
froci? Agli
ordini!” Esclamò Alex. I due risero, mentre Alice metteva in moto, e
ingranava
la retromarcia, facendo scricchiolare il cemento del vialetto.
---
Dentro al guscio, fremeva, si agitava, ribolliva.
L’inquietudine lo divorava dall’interno. L’impossibilità di muoversi lo
distruggeva. “Ancora qualche ssssecondo, padrrrrrone”. Miagolò
qualcuno. “Ne
uscirà rigenerato, è una garanzia!”. Sbuffò. “Ormai sono diversi minuti
che
manca solo qualche secondo”, sibilò. “Gli altri sono tornati?”. “SSSì,
ssssignorrre…”. “Le hanno trovate?”. “…No, sssignorrre…”. “Mandria di
incompetenti” sbottò. “Devono trovarle. Dobbiamo trovarle. Prima del
risveglio”. Sbatté un pugno contro il guscio, frantumandolo. Si alzò;
una
figura imponente, magra, dinoccolata, lievemente deforme. “Aprite il
portale”
ordinò.
Intanto, migliaia di chilometri sotto la crosta
terrestre, qualcosa ribolliva, si agitava, fremeva. Milioni di uova si
agitavano nella lava rovente, nutrendosi del calore del magma,
assorbendo la
linfa vitale della Terra. Erano stati deposti lì quasi due decenni
prima, e ora
il tempo della schiusa era finalmente vicino. Larve, esseri immondi,
informi,
destinati a succhiare la vita dei pianeti su cui nascevano, lasciando
dentro di
sé solo una massa di sterili rocce. Mostri, ecco cosa sarebbero
diventati: di
fattezze e forme differenti, ma dotati di una forza inaudita, e di uno
spiccato
gusto per la violenza. Erano macchine da guerra che sarebbero nate e
cresciute
per distruggere. Era da quando avevano scoperto l’altra dimensione che
aspettavano questo momento. Il loro popolo sarebbe finalmente risorto,
conquistando nuove terre, e diventando il primo conquistatore
dell’altro mondo.
Così, con la schiusa, iniziava la guerra delle dimensioni.
Nel cuore della Terra, a migliaia di chilometri da Max, Alice, Zia
Chelsea,
Alex, e qualunque altro terrestre, il guscio del primo uovo si incrinò.
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Capitolo 2 *** Il mio nome è Max Caulfield ***
CAPITOLO
II
Il mio nome è Max
Caulfield
Max
Il campus universitario di Heathfeld si
trovava nell’entroterra di una delle due penisole del Michigan, e
distava circa
mezz’ora, in macchina, da Newberry. Per questo, Max aveva deciso di non
usufruire dell’alloggio che la borsa di studio le offriva: sarebbe
semplicemente stato più comodo tornare a casa, nella sua stanza, che
non
condivideva con nessuno, e dove teneva tutte le sue cose. Molti ragazzi
erano
entusiasti, invece, alla prospettiva di cambiare casa, e di vivere per
tutto il
semestre con i propri compagni di scuola: vagheggiavano di organizzare
festini,
e passare le serate libere a bere e socializzare. Una prospettiva che
non
sollecitava minimamente l’interesse di Max. Non era mai stata brava a
socializzare, e, a un certo punto, si era arresa del tutto. Si sentiva
terribilmente a disagio quando un estraneo le rivolgeva la parola, e
rimediava,
in genere, solo figuracce. Per questo, era diventata una persona
solitaria, che
i suoi coetanei non cercavano mai.
Si ricordava il boom di attenzioni ricevute quando sua madre era morta:
le
mamme costringevano i ragazzini di tutte le età ad invitarla a feste di
compleanno, uscite, giochi. La forzatura era evidente
persino agli occhi
di una bambina, anche perché già a quell’età Max era abituata ad
evitare ed
essere conseguentemente evitata. Preferiva stare sola, piuttosto che
sforzarsi
di piacere a gente che si sforzava di stare con lei: non c’era guadagno
per
nessuna delle due parti. Qualche bullo aveva tentato, per questo suo
atteggiamento, di attaccarla, ma lei non era una ragazzina debole, e
aveva
sempre reagito. Finché, in qualche modo, alle superiori non iniziarono
a
guardarla tutti con rispetto, senza avvicinarla, come se avesse dieci
anni in
più di loro. E, in un certo senso, si poteva dire che Max fosse
cresciuta più
in fretta di loro, vuoi per le sue esperienze, vuoi per il suo modo
d’essere.
Anche gli adulti faticavano a capirla, a volte. A dire la verità, le
uniche
persone che, finora, riuscivano ad entrare nel guscio di Max erano Zia
Chels e
Richie, il suo vicino di casa. Tutti gli altri non la capivano, e lei
non dava
loro elementi per essere capita: per cui la lasciavano stare,
ammirandola, ma
provando anche antipatia nei suoi confronti. Chissà
chi si credeva di
essere, quella Caulfield, pensavano.
In realtà, Max non si credeva d’essere proprio un bel niente, se non
una
ragazza timida, chiusa, ma soprattutto sincera: se non trovava elementi
degni
di interesse, non vedeva il perché fingere e mescolarsi tra la folla.
Ingranò
la marcia con un gesto brusco. Lei era una brava persona, ma non poteva
lasciare
avvicinare proprio chiunque: si proteggeva,
per istinto di
sopravvivenza, e in questo modo si evitava delle delusioni. Esattamente
quello
che non aveva saputo fare sua madre. Frenò all’ultimo momento, quando
si
accorse che stava per oltrepassare lo svincolo giusto, e imboccò una
strada in
salita. A maggior ragione, dunque, Max si era convinta a star lontana
da chi
non le trasmettesse le vibrazioni giuste, anche al college: aveva tutti
gli
elementi per farcela da sola, senza bisogno di amici. Certo, se, per
caso, ne
avesse incontrati un paio lungo la strada, ne sarebbe stata felice, ma
non
c’era bisogno di sforzarsi e di conoscere gente su gente. Max sapeva di
essere
diversa, di non essere normale. Al momento giusto, la persona giusta,
animata
dal giusto desiderio di entrare in sintonia con lei, sarebbe arrivata.
E se
così non fosse stato, sarebbe sopravvissuta, come sempre.
Sul filo di questi pensieri, Max entrò nel parcheggio del campus. Era
già quasi
tutto occupato. Imprecando ripetutamente tra sé e sé, Max iniziò a
girare a
cerchi come un falco, finché non individuò un bel posto comodo, sotto
alla
tettoia, tra un fuoristrada di lusso e una Mercedes nera. Si infilò
nello
spazio alla perfezione, e in quel momento realizzò che forse la sua
vecchia
Golf sfigurava, tra quel colosso e l’altra berlina. Probabilmente, lei
stessa
si sarebbe sentita così tutto l’anno in mezzo alle altre persone,
pensò,
ridacchiando tra sé. Beh, per lo meno vi ho fottuto
il posto figo,
ricconi, ghignò, e uscì dalla macchina, avendo cura di
chiuderla prima di
allontanarsi.
Sfilò il programma dalla borsa e lesse. Dalle ore otto alle ore dieci,
gli
studenti sarebbero stati fatti accomodare nei loro alloggi. Alle ore
dieci e
trenta, era obbligatorio ritrovarsi in aula magna per il discorso di
benvenuto.
Max controllò l’ora dallo schermo bloccato del suo cellulare. Erano le
9:47.
Avrebbe avuto tempo per un caffè, ma andare nella caffetteria, in un
buco vuoto
dell’orario delle attività del primo giorno di scuola di un college,
significava
trovare orde di matricole a caccia di relazioni sociali, e a Max non
andava di
essere una preda a cui sottoporre un sacco di noiose ice-breaking
questions,
tipo come ti chiami, come mai sei qui, cosa vorresti
studiare di più,
che lezioni segui, siamo insieme in questa qui, facciamo un gruppo
studio!
Decisamente no. Max si voltò e si diresse verso l’aula magna, una
stanza da
conferenze piuttosto grande, che si trovava al centro del piano terra
dell’edificio principale. Entrando, scelse un posto vicino all’estremo
centrale
di una delle file più in alto: era la prima arrivata, e i sedili erano
tutti
vuoti. Lasciò solo un posto tra sé e il corridoio. In quel modo, non le
sarebbe
stato comodo alzarsi, di conseguenza difficilmente sarebbe stata scelta
per
fare qualche attività, ma allo stesso tempo era difficile che qualcuno
si
sedesse, perché erano tutti fuori a conoscersi e sicuramente avrebbero
voluto
un posto vicino ai nuovi amici, lasciando quel sedile per un altro
emarginato
poco fastidioso. Con la faccia perennemente seria che si ritrovava Max,
era
difficile che un gruppetto di studenti decidesse di mettersi intorno a
lei,
includendola a forza nel gruppo. Così, trovato il posto perfetto,
aspettò.
Verso le dieci, e più consistentemente verso le dieci e un quarto, la
sala
cominciò a riempirsi, e l’aria vibrava del chiacchiericcio di matricole
eccitate. Come previsto, nessuno faceva l’atto di raggiungerla: la sua
bolla
funzionava anche al college, e di ciò era grata. Continuò ad esaminare
il
flusso delle persone. Nella sua fila, gli unici posti rimasti liberi
erano i
due a fianco a lei, sicuramente nessuno li avrebbe pretesi entrambi.
Qualche
ritardatario, magari, avrebbe voluto il posto esterno, ma…
"Scusami...". Incredula, Max si voltò lentamente verso la fonte di
quella voce esitante. Proveniva da una ragazza con i capelli neri,
leggermente
protesa verso di lei. Max alzò un sopracciglio, in attesa, e forse
l’espressione sul suo viso colse di sorpresa l’avventrice, che si
ritrasse
impercettibilmente, ricomponendosi poi subito. "Scusami, ci stavamo
chiedendo se questi due posti fossero occupati". Non era sola: a pochi
passi di distanza c’era un ragazzo identico a lei, non fosse per la
lunghezza
dei capelli. Max gettò un’occhiata sconsolata intorno all’aula, notando
infinite file mezze vuote, poi si voltò a guardare il gruppo che aveva
occupato
la sua: l’ultimo ragazzo le dava le spalle, parlando animatamente con
gli
altri. Indicando la sua schiena con un cenno, disse: "Sono vostri
amici?" "Ehm, no", rispose la ragazza. Max sospirò. Perchévolevano
sedersi proprio lì? "Senti, i posti sono liberi, ma se volete stare
seduti
vicini vi conviene andare più su, perché io non voglio spostarmi dal
mio
posto…" Max cominciava a essere inquieta, il suo piano rischiava di non
funzionare. La ragazza sorrise. "Non c’è bisogno. Alex può sedersi alla
tua sinistra, e io alla tua destra, così non perdi il posto tattico".
Questo era il worst case scenario, l’apocalisse: un gruppo che si
posizionava
per includerla. Per quanto si sentisse a disagio, però, Max non se la
sentì di
dire o fare qualunque cosa che potesse ferire quella ragazza dal viso
gentile,
e così si limitò a bofonchiare: "Beh, immagino che vada bene, se a voi
non
dà fastidio…". "Assolutamente no!" trillò il ragazzo che doveva
chiamarsi
Alex, scavalcando le gambe di Max e sprofondando nella sedia alla sua
destra.
"Molte grazie!" aggiunse la ragazza, prendendo posto alla sua
sinistra. Ora si presenta, pensò
Max. Dio per favore, se
esisti… "Hey". La ragazza la stava guardando, un sorriso
sulle
labbra. "Comunque, piacere di conoscerti, quello è mio fratello
Alexander", Alexander fece un cenno e un sorriso "e io, invece, sono
Alice". Sorrise, tendendo la mano. Per la prima volta, Max l’aveva
guardata negli occhi, ed erano di un blu scuro, a tratti quasi
violaceo, un
colore peculiare, che assomigliava al mare in tempesta. Occhi che
potevano
appartenere solo ad una persona, dal suo punto di vista.
Lei non era brava in questo genere di cose. Sapeva che avrebbe dovuto
stringerle la mano, e dire qualcosa come “Il mio nome è Max
Caulfield”,
ma perché, in quel momento, quella frase sembrava così difficile da
pronunciare? Coraggio, Max, si
disse, mentre il sorriso sul
volto di Alice cominciava a trasparire la preoccupazione,prendile
la mano e
dì qualcosa. Ma non riuscì a stringerla. Era come se una
forza la
trattenesse, obbligandola a non avvicinarsi a quella ragazza. "Tu sei
Alice" disse infine Max, come in una trance. "Noi andavamo alle
elementari insieme", aggiunse, voltandosi, in modo da guardare di
fronte a
sé. "Davvero?" Alice era palesemente sorpresa. Vedendo la reazione di
Max, abbassò la mano, imbarazzata. "Mi spiace, faccio un po’ di fatica
a
ricordare, com’è che hai detto che ti chiam-".
"Silenzio" tuonò la voce profonda del Preside. Max sospirò: salvata in
extremis.
"Grazie" continuò Mr. Chamberman. "Come sapete, siete tutti qui
per celebrare l’inizio del vostro percorso universitario. Siamo
orgogliosi di
dire che Heathfeld sforna ogni anno giovani professionisti, eccellenze
divenute
tali dopo aver ricevuto una formazione di prim’ordine proprio qui, in
una delle
migliori Università degli Stati Uniti. Da matricole, siete chiamati a
scegliere
il vostro futuro: a decidere in quale ambito concentrare il grande
talento che
vi ha concesso di essere ammessi in questa scuola…". Era il classico
discorso pomposo che le grandi Università private statunitensi
propinavano ai
loro alunni. “Noi siamo i migliori, dovete diventare come noi, dovete
eccellere, dovete essere il nostro futuro”, dovete, dovete,
dovete. Mai
una volta che si parlasse di passione, pensò Max. Erano
discorsi tipici,
già scritti ogni anno, non dedicati a loro, e quindi perché prestare
attenzione? Bastava restare in silenzio, così che il preside potesse
sfogarsi,
e poi accarezzare il suo ego, nonché quello di chi credeva nelle sue
parole,
con uno scroscio di applausi. A Max interessava solo che in quel posto
le
insegnassero qualcosa di buono, e poi, come usarlo, l’avrebbe deciso
lei, senza
bisogno di discorsoni.
Il suo sguardo vagò, e si ritrovò a indugiare sul viso di Alice, che
invece
ascoltava corrucciata. Max si chiese a cosa stesse pensando. Non era
cambiata
di molto da come se la ricordava: ora portava i capelli lunghi fin
sotto le
spalle, con un ciuffo che le ricadeva sulla fronte. Aveva il naso
piccolo e
fine, leggermente all’insù, e la bocca morbida e molto rossa, che
contrastava
con la sua carnagione chiara. Sembrava Biancaneve, pensò Max,
divertita. In
fondo, viveva in una villa in periferia, che, agli occhi di Max,
assomigliava
ad un castello, quindi il paragone con una principessa era d’obbligo.
Ma
qualche trasformazione, nel suo corpo, c’era stata: il viso si era
leggermente
affilato, e soprattutto i fianchi si erano allargati un pochetto, e
indubbiamente le erano cresciuti i seni. Max arrossì: era una donna,
ora,
Alice, diversa dalla bambina che le aveva portato i biscotti cotti nel
dolce
forno, la sera in ospedale, mentre sua madre era attaccata a degli
apparecchi
che monitoravano il suo stato vitale.
Era stata la mamma di Alice a dare le ultime cure a sua madre morente.
Max,
nell’ospedale, era terrorizzata, non riusciva nemmeno a piangere.
Siccome la
madre dei gemelli Dawson era un chirurgo di grande fama, era stata
chiamata nel
cuore della notte, nonostante non fosse di turno, e aveva dovuto
portare i
figli con sé all’ospedale, come capitava ogni tanto, non sapendo a chi
lasciarli. Loro avevano la loro stanza e alcuni giochi nell’ufficio
della
madre, e così Alice, vedendola nella sala d’attesa, doveva aver pensato
che il
Dolceforno potesse tirare un po’ su Max. Così le offrì un biscotto, e
poi le
mostrò come farne altri, e giocarono tutta la sera, fino ad
addormentarsi, Max
abbracciata a lei. Le aveva svegliate proprio la madre di Alice, che
poi aveva
portato Max in un posto appartato, per comunicarle della morte di sua
madre.
Quel gesto, a Max, aveva fatto effetto. Era così diverso da tutti i
regalini
che aveva ricevuto dai bambini, che si avvicinavano a mani tese,
bofonchiavano
qualcosa e poi tornavano dalla mamma che li teneva sott’occhio. La
mamma di
Alice era in sala operatoria. Quella era una cosa che aveva voluto fare
lei, da
sola, per aiutarla.
Che strana persona, pensò. All’improvviso, la stanza si riempì di
applausi e
ovazioni, e Max vi si unì in ritardo, stordita. Alice si voltò
sorridendo.
"Che mucchio di cazzate, eh?" disse, sorridendole. "Eri
fortissima prima. Ogni tanto ti guardavo. Ti eri incantata su qualcosa,
forse
ho qualcosa tra i capelli, e stavi palesemente pensando a tutto meno
che all’onore,
all’orgoglio…" enfatizzò le ultime parole con fare
parodico,
mentre Max sentiva un profondo bollore risalire lungo il collo. L’aveva
guardata. E si era accorta che la stava fissando. "Va tutto
bene?" Alice la guardò incerta, il viso leggermente inclinato.
"Ma sì, sì" disse Max, sbrigativa. "I tuoi capelli sono a
posto, comunque, a volte mi capita di fissare lo sguardo in punti a
caso,
quando penso a qualcosa…". E prima che lei avesse il tempo di chiederle
a
cosa stesse pensando, Max sgusciò fuori dal sedile, oltrepassandola.
"Beh,
ci vediamo in giro, Alice, Alex" e repentinamente si voltò,
dirigendosi verso l’aula di inglese.
Alice
Interdetta, Alice seguì con lo sguardo la
ragazza dai lunghi capelli ramati, che in pochi secondi scomparve,
attraversando la porta doppia dell’ingresso dell’aula magna. Corrucciata,
tornò a sprofondare nella sedia, pensando a cosa mai potesse aver detto
di male
per far correre via una persona. Si era comportata in modo bizzarro,
però.
Forse era una questione di timidezza. I gemelli lasciarono che l’aula
si
svuotasse un pochino, prima di apprestarsi all’uscita. "Beh, dovremmo
muoverci" esordì Alex, ad un certo punto. "La prima lezione è
inglese, e a quanto pare l’aula si trova dall’altra parte del campus.
Alice, mi
stai ascoltando?". La ragazza fissava intensamente un punto di fronte a
sé, mordendosi il labbro inferiore. Il fratello le diede un colpo sulla
nuca,
scuotendola dal torpore, e lei rispose con un pugno sulla spalla.
"Ouch!
Dai, Al, dobbiamo muoverci!". "Lo so". Afferrando la borsa,
Alice si alzò con un movimento fluido, e si diresse a grandi passi
verso
l’uscita. Alex le trotterellò a fianco. "Hey, ma che ti
prende!" sbottò, all’improvviso. "Non è colpa mia se quella
ragazza è corsa via, sai? Non sono così brutto! E, se anche fosse, hai
la mia
stessa faccia, quindi direi che la responsabilità ce la dividiamo
equamente". Alice alzò gli occhi al cielo. "Sarebbe scappata più in
fretta, se ti avesse sentito parlare" ribatté. Sospirando,
aggiunse:
"Non è quello… si è comportata in modo strano. Mi ricorda qualcuno, ma
non
riesco a collegare il suo viso a nulla…". Alzando un sopracciglio,
Alice
guardò il fratello. "Non si sarà offesa perché non mi ricordavo di lei,
vero? Non mi ha nemmeno detto come si chiamasse". "Nah". Alex
calciò una pigna. "Le persone a volte sono strane. Neanche io mi
ricordo
di lei. Chiunque sia, deve essere cambiata troppo dai tempi delle
elementari". "Mmmh…". Alice continuava a tenere la fronte
corrugata, concentrandosi.
"Cerca di non surriscaldarti i neuroni. Ti verrà in mente, alla fine.
Oppure, potrai chiederglielo. Sono sicuro che la rivedrai, prima o poi,
in giro
per il campus. Anche se, a giudicare da come è scappata, forse non
vuole essere
tua amica. Non la biasimo: hai scritto rich, basic
white girl su
tutta la faccia" Alex rise. "O forse oggi puzzavi
particolarmente, e non riusciva a starti vicino", lo rimbeccò Alice.
Continuando a battibeccare, i gemelli oltrepassarono la soglia
dell’aula di
inglese. E indubbiamente, in primo banco, sedeva la ragazza senza nome.
Alice
si bloccò a metà frase, a bocca aperta, mentre lei la scrutava, gli
occhi di un
verde intenso di una serietà e freddezza incredibili mentre scivolavano
su di
lei, dandole la sensazione di venire trapassata da lame gelate.
Senza-nome alzò
le sopracciglia, inclinò le labbra in un mezzo sorriso dall’aria
beffarda, e si
voltò, scrutando fuori dalla finestra. Sentendosi irrimediabilmente
giudicata,
Alice sentì la sua faccia iniziare a scaldarsi, e si affrettò a
prendere posto
nella fila centrale, dove quella ragazza non poteva vederla. "Stai
bene,
sis?". Alex scivolò nel posto accanto a lei. Invece di rispondere,
Alice
iniziò a scrivere data e intestazione sulla prima pagina del suo
quaderno,
furiosa. Erano entrati in classe litigando come due bambini. Però, a
pensarci
bene, che diritto aveva quella ragazza di prendersi gioco di loro? Non
ne aveva
nessuno. Chissà chi si credeva di essere.
Il professore di inglese varcò la soglia, e un improvviso silenzio calò
sulle
file di studenti, la cui attenzione si rivolse alla figura appena
entrata.
"Buongiorno". L’uomo aveva folti capelli neri, occhi penetranti e
un’espressione severa. Indossava una giacca marrone sopra ad una
camicia
azzurra, e pantaloni a coste beige. "Il mio nome è Ferdinand Van
Basten, e
sarò il vostro insegnante nel corso di letteratura inglese e scrittura
creativa". L’uomo si voltò, scrivendo a gesti bruschi il suo nome, la
sua
email e il nome del corso alla lavagna. "Per qualunque domanda, potete
contattarmi, fermarmi a fine lezione, o venirmi a trovare nel mio
ufficio,
all’ultimo piano dell’edificio C1. Ovviamente, anche gli interventi a
lezione
sono ben accetti, purché siano costruttivi". Van Basten fece una pausa,
scrutando ad uno ad uno le facce degli studenti, alcuni dei quali si
scambiarono occhiate sarcastiche. "Molto bene". Van Basten ordinò una
pila di fogli, sbattendoli con due sonori tac sul bordo della cattedra,
e li
consegnò alla ragazza senza nome. "Prendete un foglio e passate il
resto
ai compagni. Oggi faremo un esercizio per conoscerci meglio. Vi chiedo
di
comporre un sonetto in stile shakesperiano, sulla base delle vostre
conoscenze.
Il tema è libero. Avete due ore di tempo, dopodiché consegnerete i
fogli, e io
leggerò alcune delle vostre produzioni. Non preoccupatevi: non dovrete
dichiararne la proprietà, se non è nelle vostre volontà. Cominciate".
Alex rivolse uno sguardo terrorizzato alla sorella. Alice sapeva che
non era
mai stato bravo in questo genere di cose, ma era veramente l’ultima
persona che
potesse aiutarlo. Prese la penna e fissò il foglio, alla disperata
ricerca di
un’ispirazione. Non poteva certo lasciare in bianco e millantare
un’ispirazione
all’ermetismo, che di shakesperiano non aveva proprio niente.
Due ore più tardi, Alice continuava a fissare il foglio, su cui ora
erano scritti
una quindicina di versi, tra cancellature e correzioni. Poco dopo, Van
Basten
ritirò i fogli, e lei iniziò a pregare che, tra tutti, non pescasse
proprio il
suo.
Il professore iniziò a leggere i componimenti, correggendo passi di
alcuni, e
criticandone aspramente altri. Alla fine, lesse un sonetto sull’amore e
la
morte, che Alice trovò stupendo. Giunto alla fine, Van Basten fece una
pausa.
Dopodiché, lo rilesse. Sollevando il foglio, disse soltanto: "Di chi è
questo?". Dalla prima fila, con grande sorpresa di Alice, Senza-nome
alzò
la mano. "Nome", disse poi il professore, seccamente. Alice si
protese in avanti, ma non riuscì a captare la risposta della ragazza,
pentendosi in quel momento di essersi messa così lontana dai primi
banchi. "Molto
bene, Maxime" disse con calma Van Basten. "Questo è il livello
che mi aspetto i miei studenti raggiungano alla fine del corso.
Chiunque non
sia riuscito a produrre qualcosa di almeno passabile, cominci a
lavorare sulla
propria creatività… e a ripassare la struttura di un sonetto
shakesperiano,
perché non mi sembra nota ai più". Cadde il silenzio, e Van Basten
iniziò
a scartabellare alla scrivania, mentre gli studenti si guardavano
intorno con
aria incerta, finché la ragazza di nome Maxime non si mosse,
apprestandosi ad
uscire, e dando il via libera agli altri. Alice si alzò in fretta,
risoluta, e,
ignorando il fratello che le chiedeva dove stesse andando, scavalcò gli
studenti che si attardavano a chiacchierare, e uscì, percorrendo ad
ampie
falcate il corridoio, finché non individuò la chioma di Maxime che
fluttuava,
mentre lei svoltava l’angolo a grandi passi. Accelerando, Alice la
raggiunse.
"Hey" riuscì a dire, senza fiato, ma cercando di non ansimare.
La ragazza si voltò, osservandola ad occhi sgranati: in quel momento,
assomigliava solo ad un cerbiatto spaventato. Ad Alice sembrava quasi
impossibile che da una persona così rigida fosse uscito un componimento
così
pregno di emozioni, per cui, aveva deciso di darle un’altra chance; o
almeno,
era questo che si raccontava. In realtà c’era qualcosa, in lei, che nel
profondo la attirava, catalizzando la sua attenzione. Il desiderio di
conoscerla era molto più grande di qualunque altra cosa, anche se non
avrebbe
saputo spiegare il perché. Non era mai stata così sconcertata in vita
sua, e
non capiva perché il fatto che, in aula magna, Maxime non avesse voluto
parlarle l’avesse colpita così. Sapeva solo che, in quel momento, era
come se
non esistesse nessun’altra persona oltre a lei. Maxime rimase in
attesa, senza
accennare a muoversi o a parlare. "Volevo solo dirti, mi è piaciuto
molto
quello che hai scritto". Alice riprese fiato, e quando vide che l’altra
non faceva l’atto di rispondere, continuò. "Sembrava… sembrava scritto
da
un poeta professionista". Alice la guardò, cominciando a sentire freddo
alle mani. Metterla a disagio sembrava essere il superpotere di quella
ragazza.
"Mi spiace se prima ti abbiamo infastidita. E’ solo che, mi sembra di
averti già vista, e in ogni caso, mi piacerebbe conoscerti, fare
amicizia… sai,
è tutto nuovo, non conosciamo nessuno…". Alice prese fiato di nuovo,
mentre Maxime continuava a fissarla ad occhi sgranati. Tese
la mano.
"Maxime, giusto?". "E’ Max". Max parve
finalmente riscuotersi dal torpore, suonando lievemente infastidita.
"Il
mio nome è Max Caulfield". Dopodiché, con movimenti lenti e
circospetti,
le prese la mano e la strinse.
Successe tutto in pochi istanti: il corridoio alle spalle di Max sfumò
oscillando, e al suo posto comparve una radura. Dalla fronte di Max
scendeva un
rivolo di sangue, mentre urlava qualcosa di incomprensibile. Con un
fragore, la
porta di uno sgabuzzino si spalancò da sola, mentre il corridoio si
materializzava nuovamente intorno a loro. Le loro mani schizzarono
all’indietro, attraversate da una scossa intensa. Alice si guardò
intorno,
spaesata e spaventata. Cos’era successo? E soprattutto, era successo
davvero?
Osservò Max massaggiarsi il palmo della mano, sul viso la sua stessa
espressione sconcertata. Qualunque cosa fosse, era successa davvero, e
doveva
averla sentita anche lei. Guardandosi meglio intorno, si rese conto che
il
corridoio era deserto. Max la guardò, e si ricompose immediatamente,
afferrando
e chiudendo la porta dello sgabuzzino. "Heh, dovrebbero controllare
queste
serrature, eh?". Rise, visibilmente a disagio. "Beh, piacere di
averti conosciuta… a domani, Alice!". E prima che Alice potesse urlarle
di
aspettare, era già scomparsa. Scosse la testa, e in quel momento si
rese conto
di avere un’emicrania terribile. Reggendosi la fronte, fece dei respiri
profondi per calmarsi. Non aveva idea di quello che fosse successo.
L’immagine
degli alberi, e soprattutto del volto di Max continuavano a
galleggiarle di
fronte agli occhi. Eppure, nella realtà, Max non sembrava ferita, solo
molto
sorpresa. Stava diventando pazza? Forse era lo stress. O forse era un
tumore.
Forse doveva correre a casa, dirlo a sua madre, e fare qualche test:
avere le
visioni non poteva essere un buon segno…
Saltò a mezzo metro da terra, sentendosi afferrare per un braccio.
"Hey-HEY, calmati, per Dio, sono io". Alex fermò il braccio della
sorella, scattato involontariamente per reagire all’aggressione, a
pochi
centimetri dal suo viso. "Si può sapere che hai, oggi? Stai bene?
Dov’eri
finita?" chiese, lasciandola andare. Quando si agitava, Alex
tendeva
a parlare troppo. "Mal di testa" bofonchiò Alice. "Ho solo
mal di testa". Alex la scrutò, preoccupato. "Me lo diresti se
qualcosa non andasse, vero?". "Ho detto che ho solo mal di testa. Non
peggiorare la situazione", ringhiò lei in risposta. Alex alzò le mani.
"Okay, okay. Per andare a casa guido io". "Non posso venire a
casa" ribatté Alice. "Ho il primo allenamento, oggi".
"Pensi che sia una buona idea andarci, in queste condizioni". Alice
si raddrizzò. "Non so di che cosa parli. Prendo l’autobus, per tornare,
ma
domani veniamo con macchine diverse, altrimenti ti tocca aspettarmi per
tornare
insieme". E lasciò il fratello solo nel corridoio, a domandarsi che
cosa
diamine frullasse nella testa delle donne di tutto il mondo.
Max
Max sbatté la porta e si accasciò contro la
sua cornice, respirando affannosamente. Era tornata a casa alla
velocità della
luce, e tremava come una foglia. Si guardò le mani, cercando di
controllarne il
tremito. C’era stato un malfunzionamento, un’interferenza, qualcosa.
Ma, se i suoi poteri avevano iniziato a sfuggire dal suo controllo, era
un bel
problema. Raccogliendo tutto il coraggio di cui era capace, Max decise
di
testarli. Si concentrò sulla zuccheriera, che si sollevò dalla mensola.
Si
sforzò al massimo per farla fluttuare, tutti i sensi all’erta per
controllare
che nient’altro accadesse intorno a lei, dopodiché la riappoggiò al suo
posto.
Fece la stessa cosa con un libro, un cuscino, poi aprì e richiuse la
finestra
dal letto, accese e spense la luce del bagno, e infine decise di
provare
qualcosa di più impegnativo, e sollevò il tavolo. Queste operazioni la
stancarono, ma ebbero anche l’effetto di calmarla abbastanza da
consentirle di
raddrizzarsi e staccarsi dalla cornice della porta. I poteri sembravano
rispondere perfettamente alla sua volontà, almeno per ora. Chi poteva
dire,
però, che cosa diamine poteva succedere in seguito?
Era grave, perché, se i suoi poteri non erano difettosi, voleva dire
che era
stata lei a scatenarli incontrollabilmente, in risposta allo
sconvolgimento
emotivo che l’incontro con Alice le aveva provocato. E questo non
andava bene:
se, grazie ad un po’ di turbamento, iniziava ad aprire con la mente
porte di
sgabuzzini chiusi a chiave, chissà che altro poteva succederle in
condizioni di
forte stress emotivo. Poteva anche fare del male a qualcuno.
Di sicuro, Alice si era accorta che era successo qualcosa. Grazie a
quel suo
bel teatrino, Max aveva rischiato di farsi scoprire. Poteva solo
ringraziare
che il corridoio fosse deserto, e sperare che Alice non si facesse
troppe
domande sull’accaduto.
Però, al di là delle emozioni, sapeva che era successo qualcosa di più.
Quando
si erano toccate, una scossa fortissima le aveva attraversato il palmo
della
mano, e, per un attimo aveva perso la cognizione di dove stava, mentre
strane
immagini le attraversavano la testa: uno scorcio di un bosco, forse?
Era durato
troppo poco perché potesse distinguerlo con chiarezza. Fatto sta che, a
giudicare dall’espressione terrorizzata di Alice, e dal modo in cui le
loro
mani erano volate all’indietro, aveva dovuto sentire qualcosa anche
lei. Forse
era quello il motivo per cui si sentiva così strana, così agitata
vicino a lei.
Forse, il suo inconscio stava cercando di avvertirla: in qualche modo,
Alice doveva
avere una cattiva influenza su di lei, e su quello che sapeva fare.
Forse
avrebbe dovuto provare a leggerle la mente, per capire se anche lei
avesse
qualche strano potere. Però, la telepatia consumava molta energia,
lasciando
Max quasi incapace di muoversi dopo aver penetrato la mente di un
essere umano
normale, figuriamoci quella di qualcuno che possedeva poteri psichici.
Era
troppo rischioso, e l’avrebbe lasciata vulnerabile.
Qualunque cosa fosse successa, Max aveva chiaro in mente che, finché
non ne
avesse scoperto la causa, avrebbe dovuto fare di tutto affinché non si
ripetesse. Non poteva rischiare che qualcuno si accorgesse di lei, o
che,
ancora peggio, qualcuno rimanesse coinvolto in un incidente che lei
stessa
aveva provocato. Quindi, in quel momento, Max Caulfield prese la
risoluzione di
stare lontana da Alice Dawson, a qualunque costo.
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Capitolo 3 *** Superpoteri ***
CAPITOLO
III
Superpoteri
Alice
Alice stava cercando di non pensare a nulla.
Con gli auricolari nelle orecchie, tentava di seguire i testi delle
canzoni;
per fortuna, il mal di testa era leggermente diminuito. Era l’unica
passeggera
sull’autobus: intanto, fuori aveva iniziato a piovere. Inevitabilmente,
tuttavia,
il suo pensiero corse a Max. Max Caulfield, Caulfield.
Quel cognome
le ricordava sicuramente qualcosa. Decise di provare a sforzarsi e
ricordare.
C’era una Caulfield, nella sua classe. All’improvviso, un ricordo le
affiorò
alla mente: sua madre camminava velocemente, diretta agli spogliatoi,
lei, Ben
e Alex al seguito, nel corridoio dell’ospedale, mentre un infermiere la
aggiornava velocemente sui fatti. “… Heather Caulfield, 33 anni, ferita
da
un’arma da fuoco alla testa…”.
Ma certo! Max Caulfield. Sua madre si era suicidata quando aveva solo
nove
anni. Avevano chiamato fuori orario la madre di Alice, Jane,
neurochirurgo di
fama internazionale, perché il proiettile aveva attraversato la tempia,
ma
Heather era ancora viva, e stavano tentando disperatamente di salvarla.
Lei,
Alex e Ben erano troppo piccoli per restare a casa da soli, per cui
capitava
che la loro madre li trascinasse fuori dal letto quando veniva chiamata
per
un’emergenza, non sapendo a chi altro lasciarli. Così, quella notte
l’avevano
seguita in ospedale, e, quando lei era svanita in tutta fretta in sala
operatoria, loro si erano diretti, come da prassi, nel suo ufficio.
Alice aveva
visto Max in sala d’attesa, sconvolta e sporca di sangue, mentre degli
infermieri si occupavano di lei, e le cercavano dei vestiti puliti.
Così, aveva
pensato di andare a consolarla, e le aveva preparato dei biscotti con
il
Dolceforno che tenevano in ospedale, insieme ad altri giochi, per
intrattenere
i bambini quando era necessario. Dopo, l’aveva invitata a giocare, e,
come se
per un momento a Max fosse concesso di allontanarsi dalla realtà,
risero e si
divertirono fino a crollare addormentate sul tappeto dell’ufficio.
Finché,
verso l’alba, dopo quasi quattro ore, il cuore di Heather Caulfield si
era
fermato, e la madre di Alice era venuta a svegliare Max per
comunicarglielo.
Era stata la bambina a chiamare i soccorsi: svegliata nella notte da un
colpo
di pistola, aveva trovato la madre in un lago di sangue, e aveva anche
tentato
di fermare l’emorragia. Da che si ricordasse Alice, Max era sempre
stata una
persona introversa, tant’è che non ricordava di aver mai avuto contatti
con lei
prima di quella sera. Ma, dopo quell’episodio, si distaccò ancora di
più dalla
realtà, chiudendosi in se stessa.
Il padre di Alice era stato processato giusto poche settimane prima. Fu
a causa
di quella tragedia che nessuno spettegolò mai granché sulla vicenda.
Erano
tutti troppo occupati a riempire la piccola Max di ipocrite attenzioni,
e di
questo, Alice in un certo senso era grata. Non avrebbe mai voluto
essere al suo
posto, compatita da tutti, ma mai realmente aiutata.
Per qualche mese, Max era finita in un collegio, finché non fu deciso
che ad
occuparsi di lei dovesse essere sua zia, Chelsea Caulfield. Ma, quando
tornò a
scuola, fu inserita in una classe diversa, e inevitabilmente si persero
di
vista.
Aveva ragione Alex: Max era cambiata un sacco dalle elementari, ed ora
era la
fotocopia vivente di sua madre. Heather era bellissima, molto più della
sorella, ma non aveva per niente la sua affabilità. Chelsea gestiva una
piccola
caffetteria, ed era molto benvoluta da chiunque la conoscesse: gentile,
sorridente e a modo. Heather era schiva, altera, e dall’aria
perennemente
malinconica; tratti che, probabilmente, aveva trasmesso alla figlia.
L’unica
fonte di felicità, nella sua vita, sembrava essere proprio Max, ma
evidentemente non era bastata. Alice pensò a quanto male dovesse
sentirsi Max
per questo, e si sentì in colpa per non essersi ricordata subito di
lei. Decise
che, appena l’avesse rivista, le avrebbe detto che si era ricordata di
lei, e
si sarebbe scusata molto per non averlo fatto prima. Alice sapeva cosa
volessero dire la sofferenza, la solitudine e la sensazione di
impotenza che si
provavano di fronte a mali che non potevano essere contrastati: sapeva
che le
persone come Max avevano bisogno di un amico più di quanto
desiderassero
ammettere, e più di quanto lasciassero trasparire.
Scese al capolinea, percorse di corsa il viale, e finalmente entrò in
casa.
Liberandosi della giacca, delle scarpe e dei pantaloni fradici, si
cambiò, e
scese per la cena, trovando la madre e i suoi fratelli già seduti al
tavolo.
Durante il pasto, mentre tagliava la bistecca, si rivolse a sua madre,
dicendo
semplicemente: “Ho rivisto Max Caulfield”. Lo sguardo di sua madre, a
differenza sua, si illuminò subito, in segno di comprensione. “Max? E
come
sta?”. Alice la aggiornò su quel poco che era successo tra lei e Max,
sorvolando sulla parte della visione. “Quindi quella era Max Caulfield”
disse Alex.
“Aspetta, quindi era per parlare con lei che sei uscita così di
corsa?”. “Non
lo definirei parlare”, precisò Alice. Sua madre soppesò un pezzo di
pane,
pensierosa. “Maxime è sempre stata una persona schiva- esattamente come
sua
madre. Mi ricordo di loro, Heather lavorava nella caffetteria di sua
sorella.
Non credo di averla mai vista sorridere. Se Max era già chiusa di
carattere, è
normale che lo sia ancora di più dopo quello che le è successo. Magari
potresti
invitarla qui”. Prima che Alice potesse rispondere, Ben sbuffò. “A
quanto pare
non tutti diventano capitano delle cheerleader, al liceo, quando capita
loro
una disgrazia”. Guardò la sorella con disprezzo. “Lascia perdere
Caulfield,
nana. È visibilmente troppo intelligente per voler passare del tempo
con una
come te”. Sulla tavola scese il gelo. Alice continuava a fissare Ben,
impassibile, mentre lo sguardo di Alex oscillava a turno tra i fratelli
e la
madre. Con calma, Jane posò coltello e forchetta, lo sguardo immobile
sul
figlio primogenito. “E questo che cosa vorrebbe dire, Ben?” chiese con
pacatezza. “Dico solo che se uno subisce uno shock, è normale che non
se ne
riprenda. Questo, ovviamente, se lo shock è reale”.
Ben
continuava a fissare il piatto, ma le mani gli tremavano. “Conosci
qualcuno che
mente su qualcosa che gli è capitato?”. Jane non distolse lo sguardo
del
figlio. “Sai, io mi ricordo quando la madre di Max ci ha lasciato le
cuoia. Me
lo ricordo perché ci hai trascinati giù dal letto, per seguirti, come
sempre.
Perché abbiamo attraversato la sala d’emergenza con te, dove spesso
c’era gente
maciullata, e tutto il resto”. “Non sei mai stato messo di fronte a
spettacoli
del genere, Ben. E poi, non potevate restare a casa da soli”. “Già, e
sappiamo
tutti di chi è la colpa, se in casa non c’era nessuno che potesse stare
con
noi”. Ben sbatté coltello e forchetta sul tavolo. “Lo sappiamo tutti di
chi è
la colpa, se da un certo momento, papà non era più con noi per portarci
a fare
le gite. Se la gente mi guarda strano, come se potessi impazzire da un
momento
all’altro”. “La colpa, Benjamin, è di tuo padre”. Jane gli rivolse uno
sguardo
triste, e sconsolato. Ben si alzò, attraversò la stanza e portò il viso
a pochi
centimetri da quello della madre. “Papà non ha mai fatto niente. Se
questa non
fosse nata” e gesticolò verso Alice “papà sarebbe ancora qui con noi, e
lo sai
benissimo”. Senza una parola di più, uscì dalla sala da pranzo, e poco
dopo si
sentì sbattere la porta di ingresso, seguita dal rumore delle ruote che
scricchiolavano sul terreno.
Prima che qualcuno potesse dirle qualcosa, Alice spinse in là il
piatto, ancora
mezzo pieno, e salì in camera sua. Chiuse a chiave la porta, si
spogliò, e si
mise nel letto. Strinse forte gli occhi, cercando di non piangere. Non
ne
valeva la pena.
Cercò di pensare alla giornata trascorsa, ripassando mentalmente le
sequenze
che avevano provato con le altre cheerleader. Infine, il suo pensiero
tornò
inevitabilmente a Max. Ripercorse più volte tutto ciò che si erano
dette,
analizzando le sue espressioni, cercando di carpire qualcosa che le
potesse
essere sfuggito. Si chiese se anche Max, la sera, non riuscisse a
dormire per i
sensi di colpa. Se pensasse che sua madre era morta a causa sua. Si
addormentò,
scivolando in un sogno inquieto e popolato da incubi.
Max
Max aveva un amico. Era il suo vicino di
casa, si chiamava Richie, e aveva tredici anni. L’aveva conosciuto
perché Zia
Chelsea a volte gli faceva da babysitter, e, una volta cresciuta, Max
aveva
iniziato ad aiutarlo con i compiti. In caffetteria c’erano delle
console per i
videogiochi, per intrattenere gli ospiti, e spesso i due si mettevano a
giocare
per ore. Da lì, Richie aveva iniziato a confidarsi con lei, parlandole
dei
bulli a scuola e dei suoi problemi, e lei cercava di aiutarlo.
Max riteneva Richie un ragazzino intelligente, e si tenevano compagnia
a
vicenda. Ovviamente, il fatto che lei fosse più grande destava un po’
di
stupore negli estranei, ma lei non se ne preoccupava. Richie, però, non
sapeva
quasi nulla di lei, e, come tutti gli altri, ignorava i poteri di Max.
Quel pomeriggio, Max era a casa di Richie a giocare a Mortal Kombat.
Ormai
doveva impegnarsi per non farsi battere. Nel bel mezzo di una fatality,
rientrò
la sorellastra di Richie, Jocelyn, che, agli occhi di Max, era
l’antipatia fatta
a persona.
“Hey, sfigato. Hey, pedofila” li salutò entrando. Entrambi la
ignorarono. Joss
era alta, bella, tatuata e piena di piercing. A scuola, si era resa
colpevole
di diversi atti di bullismo, piuttosto gravi, e, in genere, si
divertiva a
trattare male chiunque avesse la sfortuna di entrare nel suo campo
visivo,
oltre che a fare impazzire la madre. Una volta, Max aveva dovuto
frapporsi tra
lei e il fratello, evitando che lo picchiasse selvaggiamente,
per averle
involontariamente macchiato la maglietta con la cioccolata.
“Hey Rich. Perché non le scatti una bella foto, così avrai qualcosa da
guardare
la sera al posto dei cartoni?”. Max vide con la coda dell’occhio Richie
diventare color ciclamino. “Hey, Joss”, disse, senza staccare gli occhi
dallo
schermo. “Non hai delle cose da fare?”. “Ora che me lo ricordi, Maxime,
devo
vedere il mio ragazzo. Sai, è alto, bello, senza brufoli- ohh, l’ho
detto che
è maggiorenne?”. Max posò il joystick e si
voltò verso di lei,
scoccandole uno sguardo di fuoco. “Oh, sei molto divertente”, disse
pacatamente. “Non voglio mica farti ridere. Rischi l’arresto, Maxxie!”.
E,
simulando il gesto di venire ammanettata, scomparve in camera sua. “Mi
spiace
per quello che ha detto, non so perché…” farfugliò Richie. “Non
preoccuparti”.
Senza una parola di più, Max si diresse alla porta, e aprendola si
ritrovò
davanti un ragazzo alto, muscoloso, con i capelli neri e gli occhi di
un
azzurro penetrante. Le rivolse un sorriso beffardo, squadrandola dalla
testa ai
piedi. “Hey, non credo di conoscerti…” disse, strizzandole l’occhio.
“Hai
ragione”, disse Max, “Infatti non mi conosci”. Fece per oltrepassarlo,
ma lui
la trattenne per la vita. “Magari, però, mi piacerebbe farlo…” disse,
con un
tono basso e profondo. “BEN!” squittì Jocelyn, e il ragazzo lasciò
immediatamente andare Max, mentre lei gli saltava al collo. “Oh, non
considerarla, è solo la fidanzatina inquietante di mio fratello”
aggiunse,
lanciando a Max uno sguardo sprezzante. Lo prese per la mano,
trascinandolo
verso la camera, e ciarlando di abiti da indossare. Seguendola, Ben
scoccò
un’ultima, lunga occhiata ammiccante a Max, prima di scomparire oltre
la
soglia. “Max, davvero, m-mi…”. “Richie” Max interruppe il ragazzino.
“E’ solo
Joss, okay? So com’è. Non hai bisogno di giustificarla”. Richie annuì,
paonazzo. “Ci vediamo, eh?” disse Max, prima di voltarsi e scomparire
ad ampie
falcate. Uscendo, prese nota di tirare un calcio a quel ragazzo che si
era
permesso di afferrarla.
Il sole era già tramontato. Decise di fare una sorpresa alla zia,
facendole
trovare cena pronta. Avrebbe dovuto prendere solamente della carne al
minimarket lì vicino. Camminando a rapidi passi, Max imboccò un vicolo
stretto
e buio, per fare più in fretta. All’improvviso, le luci della strada
parvero
farsi più distanti, come se il vicolo si fosse allungato, e Max avvertì
la
spiacevole sensazione di essere osservata. Si voltò, ma non vide
nessuno.
Cercando di calmarsi, prese un bel respiro e proseguì, poi, senza poter
resistere, si voltò di nuovo. Ancora nessuno. Ma, quando fece per
riprendere a
camminare, all’imboccatura del vicolo, qualcuno –o qualcosa- stava in
piedi, in
una posizione leggermente incurvata, e con le braccia e le gambe
divaricate. Il
respiro di Max accelerò, mentre, immobile, fissava la figura.
All’improvviso,
quella cominciò a correre, in un modo bizzarro e barcollante, verso di
lei. I
piedi di Max si mossero prima che potesse pensare. Iniziò a correre
anche lei
verso l’ingresso del vicolo, che, però, pareva allontanarsi sempre di
più. I
passi della creatura sembravano farsi più vicini, e Max avrebbe voluto
gridare,
ma sentiva la gola secca, le corde vocali paralizzate. Qualcosa di
viscido le
toccò una mano, e lei la ritrasse repentinamente, senza fermarsi. Le
gambe non
la reggevano più, e i polmoni sembravano sul punto di esploderle,
quando
finalmente raggiunse la strada principale. Fece una giravolta su se
stessa,
tendendo la mano destra, pronta a respingere l’aggressore. Ma dietro di
lei non
c’era nessuno. Ansimando, Max scrutò il vicolo, cercando di percepire
il più
minimo movimento. Niente.
Massaggiandosi il petto, si piegò su se stessa. Le gambe le stavano
andando a
fuoco. Se l’era solo immaginato? Si guardò il dorso della mano
sinistra,
leggermente sporco di una sostanza grigia e melmosa. Voltò le spalle al
vicolo
e corse in casa, senza guardarsi indietro.
Alice
Alice non incontrò Max fino al mercoledì
pomeriggio, quando la rivide seduta allo stesso posto, nell’aula di
inglese.
Lasciò che Alex si sistemasse più indietro, e scivolò nel poso accanto
al suo.
“Hey”. Max, che stava guardando fuori dalla finestra, si voltò
sorpresa, con i
suoi soliti occhi sgranati, come se il solo fatto che qualcuno le si
rivolgesse
la lasciasse stupefatta. Non parve felice di vederla, però. Alice le
sorrise comunque.
“Mi sono ricordata. Tu sei Max Caulfield, la nipote di Chelsea. Mi
spiace non
essermene resa conto prima, ma sei davvero cambiata un sacco…” Alice si
incupì
appena. “Mi ricordo anche di quella notte in ospedale”. Max le rivolse
uno
sguardo inespressivo. “Bene”, disse soltanto. “Immagino che non sia un
bel
ricordo per te, ma è stata l’unica volta che ci siamo parlate…”. “Sì,
lo so.
Non c’è bisogno di essere troppo sensibili a riguardo. E comunque, al
di là di
quello che è successo quella notte, quello è un bel ricordo, per me”.
Max parlò
guardandola dritto negli occhi, senza esitazione. “Beh, sono contenta
che la
pensi così”, disse Alice, sorridendole ancora. All’improvviso, notò che
Max
sedeva inclinata dalla parte opposta alla sua, come se cercasse di
starle il
più lontana possibile. Prima che potesse chiederle qualunque cosa, il
professor
Van Basten entrò, ed iniziò la lezione.
Al suono della campana, Max si alzò, e scavalcò il banco per uscire,
senza dire
una parola. Ancora una volta, Alice la inseguì fuori dall’aula.
“Max-MAX!”. Max
si fermò, sospirando profondamente, e si voltò con aria scocciata. “Che
cosa c’è, adesso?”. “Mi chiedevo soltanto
se ti andasse di uscire.
Io e mio fratello andiamo al cinema, stasera, e…”. “No”, tagliò corto
Max.
Alice la guardò, interdetta. “Senti, Max, lo so che ci siamo perse di
vista, e
sicuramente non ti sembra la cosa più naturale del mondo, ma io vorrei
che
potessimo…”. “Beh, io no”. Max la interruppe di nuovo. “Cosa?”
farfugliò Alice.
“Qualunque cosa tu voglia da me, Dawson” disse Max, scandendo bene le
parole
“io non ricambio”. “Ma” Alice era sbalordita. “Max, io voglio solo
essere tua
amica!”. “E io no. Io non voglio essere amica tua, Alice, né di tuo
fratello,
se è per questo”. A questo punto, Alice si sentì veramente offesa. “Oh,
andiamo” sbottò. “Non c’è bisogno di fare la difficile. Lo so che sei
sola, e
immagino che tu sia introversa e che non sia facile per te fidarti di
qualcuno.
Però, io non voglio farti alcun male, Max. Tutti abbiamo bisogno di un
amico”.
Max inarcò le sopracciglia. “Guarda che hai frainteso. Tu non mi fai
paura.
Semplicemente, non mi interessi”. “Lo dici senza nemmeno aver provato a
passare
del tempo con me. Se nemmeno mi conosci!”. “Già” rispose Max, pacata.
“E non
voglio conoscerti. Ti sarei grata se mi lasciassi in pace”.
A quel punto, Alice esitò. “Perché fai così? Respingi tutti, anche
quando si
sforzano di avvicinarti”. “Perché non voglio che nessuno mi si
avvicini. Senti,
Biancaneve, non so se vuoi fare l’eroina, o la principessa dal cuore
buono che
mi salva dalla miseria più nera, ma sul serio, non mi interessa. Se
vuoi
qualcuno con cui passare il tempo, puoi chiedere alle tue compagne di
squadra,
così potrete andare in giro a sputare odio su chiunque passi”.
Quelle parole colpirono Alice come uno schiaffo. “Puoi ripetere, scusa?
Perché
non mi sembra di essere stata nient’altro che gentile, nei tuoi
confronti,
finora”. Max sbuffò. “Senti, ti ho detto che non mi interessa. Perché
continui
a perdere tempo con me?”. “Sai cosa? Non lo so”. Alice si voltò e si
allontanò
a grandi passi, furiosa. Che diavolo le era preso? Un conto era essere
strani,
un altro era essere maleducati. Forse Maxime Caulfield non era
introversa, né
complessata: forse, nonostante la disgrazia che le era capitata, era
solo una
stronza. A metà strada, Alice si rese conto che stava andando dalla
parte
sbagliata: doveva raggiungere il teatro, si era iscritta alle attività
del
gruppo.
Non fu neanche sorpresa, una volta varcata la soglia, di trovarsi
davanti Max
in persona. Incrociò il suo sguardo, poi le passò davanti, e si
sedette. Non
ascoltò una parola di quello che disse l’insegnante. Pensava solo a Max
e a
come apostrofarla per le rime. Finito il discorso, la signora Baxter
divise il
gruppo in coppie. Immancabilmente, decise per l’accoppiata
Caulfield-Dawson.
Alice e Max si diressero sul palco insieme alle altre coppie,
posizionandosi
più indietro, e furono raggiunte immediatamente dalla Baxter, che diede
loro un
copione e delle direttive per esercitarsi. “Maxime, tu sarai Elizabeth,
una
giovane nobile costretta in un matrimonio combinato. Tu, Alice, farai
la parte
di William, il giovane soldato che è il vero e unico amore di Elizabeth
stessa.
Questa” e indicò una parte del copione “è la scena che vorrei che
preparaste
per la volta prossima. Buon lavoro!”. Appena si fu allontanata, Max
incrociò le
braccia, fissandola. “Senti, mi stai seguendo?” disse, secca. Alice
incrociò le
braccia a sua volta. “Fidati, in questo momento preferirei essere il
Will di
qualunque altra Elizabeth”. Max non riuscì a trattenere un sorriso.
“Vorrei
farla io, la parte del soldato figo”. “Che peccato”, disse
Alice, sarcastica. Max parlò ancora, ma la sua voce si
dissolse in
lontananza, come se qualcuno avesse abbassato il volume. La sentì
vagamente
chiamare il suo nome. All’improvviso, un riflettore si staccò dal
soffitto,
colpendo Max in pieno. Schizzò sangue ovunque. D’istinto, Alice balzò
in
avanti, spingendola, pur sapendo che era troppo tardi.
Cadde sul pavimento, sopra Max. “SI PUO’ SAPERE CHE DIAMINE TI
PRENDE?”, sbottò
Max, senza fiato. Alice batté le palpebre e si guardò intorno.
Giacevano
entrambe a terra, e Max, ancora una volta, era tutto meno che
sanguinante.
Sembrava arrabbiata, però. Le guardarono tutti, ma distolsero lo
sguardo in
fretta, pensando probabilmente che quel gesto facesse parte della
scena. “Ma…
il riflettore… ti aveva colpita…” farfugliò Alice, confusa. “Forse
dovresti
lasciare perdere il cheerleading e unirti direttamente alla squadra di
football”, disse Max. “Con questi placcaggi, saresti un ottimo
difensore. Ora,
però, se mi lasci alzare…”. Alice rotolò di fianco, si rimise in piedi,
e tese
una mano per aiutare Max. In quel momento, qualcosa scricchiolò: un
attimo
dopo, un riflettore si schiantò a terra, nell’esatto punto in cui si
trovava
Max, prima che Alice la spingesse. Qualcuno urlò, e Alice si voltò
verso
Maxime, che fissava il riflettore con tanto d’occhi. Poi, spostò lo
sguardo su
di lei, incredula, e Alice seppe che stavano pensando la stessa cosa.
Dopo che ebbero sistemato tutto, Max trasse Alice da parte. “Ti era mai
capitato, prima d’ora?”. “Che cosa mi sarebbe dovuto capitare?”. “Beh,
di
vedere il futuro, naturalmente”. Ad Alice cascò la mascella. Rise, a
disagio,
ma Max sembrava terribilmente seria. “Fai sul serio?” le chiese,
incerta. Max
inarcò le sopracciglia. “Lascia stare”. Fece per voltarsi, ma Alice la
trattenne. “Aspetta”. Lei si voltò, lentamente, squadrandola. “Stanno
succedendo cose strane. E credo che tu ne sappia qualcosa”. Max la
guardò, inespressiva.
“E che ne dovrei sapere, io, di cose strane?”. “L’hai sentito anche tu,
quello
che è successo quando ci siamo strette la mano, il primo giorno. Lo
so”. “Non
so di cosa tu stia parlando” Max si liberò con calma dalla presa di
Alice.
“Cerca di non cadere dalla piramide umana agli allenamenti,
Biancaneve”. E con
questo, Max se ne andò.
A quanto pareva, Max aveva più di un superpotere: sapeva metterla a
disagio,
confonderla, e farla arrabbiare come nessuno. Scuotendo la testa, Alice
se ne
andò.
Giunta nel parcheggio, si mise a correre. Raggiunse il fratello appena
prima
che entrasse in macchina. “Alex, è successa una cosa”. Lo mise al
corrente
dell’accaduto. “Quindi hai capito?”, disse, con fare concitato. “Ho
visto che
cosa sarebbe successo prima che succedesse”. Si rese conto che Alex la
guardava
con occhi quasi compassionevoli. “Che cosa c’è?”,
chiese,
scocciata. “Oh, sorellina”, le disse, “mi piacerebbe pensare che tu sia
un
supereroe, ma temo che sia accaduto tutto nella tua testa”. “Non è
accaduto
tutto- Come avrei fatto a spingere via Max, allora?” sbottò Alice. “In
situazioni di forte stress, il nostro corpo agisce prima del pensiero.
Hai dei
buoni riflessi, tutto qui”. “Non sai di cosa stai parlando. Sono
passati
secondi interi da quando l’ho spinta a quando il riflettore è caduto”.
Alex la
guardò, preoccupato. “Hey sis, sei sicura che il riflettore non abbia
colpito
te? Neanche di striscio?”. Alice gli pestò un piede. “Vai a farti
fottere”. Si
allontanò ad ampie falcate. In quel momento, l’unica con cui avrebbe
voluto
parlare era Max, ma Max sembrava essersi smaterializzata. Si promise
che
l’avrebbe trovata, e si sarebbe fatta spiegare tutto, prima o poi.
Max
A casa, Max si fece una lunga doccia. Si
sentiva in colpa per aver trattato male Alice, doveva averla davvero
ferita.
Eppure, sembrava così gentile. Talmente gentile, che le faceva montare
una
rabbia indescrivibile. Comunque, maltrattarla era necessario, per far
sì che si
allontanasse. Erano già costrette a incrociarsi fin troppo, tra le
lezioni e il
teatro e chissà che altro. Però, quel giorno Alice l’aveva toccata di
nuovo,
eppure i suoi poteri non avevano reagito. D’altro canto, Alice stessa
aveva
dimostrato di possedere un dono. Aveva sicuramente previsto la caduta
del
riflettore. Ma allora, perché fingere di non saperne nulla?
Forse, rifletté Max, anche lei voleva restare in incognito. Oppure,
forse,
davvero non ne sapeva niente, e quella era stata la prima volta che le
capitava
una cosa del genere. Era molto improbabile: da che aveva coscienza, Max
aveva
sempre saputo ciò che era in grado di fare. Oppure, magari era stata
solo una
coincidenza, e Alice non aveva nessun potere.
Max era confusa, e il suo desiderio di saperne di più contrastava con
la
risoluzione di starle lontana. Rischiava di esporsi troppo, e di
mettersi in
pericolo.
L’unica cosa che sapeva era che Alice aveva ragione: stavano succedendo
un
sacco di cose strane, da quando si erano incontrate. Chissà che anche
quell’incontro nel vicolo non fosse collegato a tutto ciò.
L’immagine di quella figura deforme le si era impressa nella retina, e
la
perseguitava: Max aveva costantemente paura di trovarsela di fronte,
non appena
svoltato l’angolo.
La inquietava il pensiero di non sapere che fine avesse fatto. Eventi
paranormali, mostri, che altro ancora doveva capitarle in questa vita?
In quel
momento, Max non poteva sapere che quelle non erano altro che briciole
di
quello che avrebbe dovuto affrontare in seguito.
Si sedette sul letto, in pigiama, osservando dalla finestra la strada
illuminata dai lampioni. Max Caulfield non aveva mai desiderato più
intensamente di essere normale.
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Capitolo 4 *** Segreti e sangue ***
CAPITOLO
IV
Segreti e sangue
Alice
Alice parcheggiò al solito posto, recuperò la borsa dal sedile
posteriore, fece
un respiro profondo e scese. Non importava dove, non importava quando:
quel
giorno, avrebbe parlato con Max Caulfield.
Stava facendo delle prove mentali di un’ipotetica conversazione, quando
un
fischio la costrinse a voltarsi: vicino all’ingresso, Ben, Jocelyn e un
gruppetto di altri ragazzi, tra cui alcune sue compagne di squadra,
stavano
chiacchierando, appoggiati al muro. Ben si voltò minaccioso verso il
ragazzo
che aveva fischiato, un tipo alto, con biondi capelli quasi rasati a
zero.
“Lascia in pace mia sorella, Brett”.
“Questa è tua sorella?”. Brett squadrò Alice dalla testa ai piedi.
“Complimenti
a tua madre, Dawson”. Julie, la ragazza bionda vicino alla porta, le
posò una
mano sulla spalla, e disse: “Questa è la compagnia di squadra di cui ti
avevo
parlato, Brett”. Gli scoccò un’occhiata densa di significato, e Brett
si staccò
dal muro, sistemandosi il colletto dalla giacca. “Okay, okay. Beh,
splendore,
io sono Brett. Non so se già lo sai, ma sabato si terrà il ballo di
inizio
semestre: è tradizione che gli anziani accompagnino una matricola.
Quindi,
direi che possiamo andare insieme”. Brett le rivolse uno sguardo che,
forse,
riteneva seducente. Alice si guardò intorno, a disagio: all’improvviso,
scorse
Max, appoggiata ad un palo della tettoia, che la fissava in modo torvo.
Alice
guardò Brett, e realizzò che, per una serie di motivi, sarebbe stato
sconsigliabile rifiutare: per cui gli disse che sì, ovviamente sarebbe
stata
onorata di andare alla festa con lui. “Ottimo. Ti passo a prendere alle
otto”.
Con un ghigno, Brett tornò ad appoggiarsi al muro.
Alice fece per voltarsi, quando Ben la afferrò per un braccio,
traendola in
disparte. “Che cosa pensi di fare, eh?” sibilò. “Dimmelo tu”, ribatté
lei.
“Ascolta: non puoi uscire con Brett. Se ti becco a fare la troietta, io
giuro
che…”. Qualcuno si schiarì la voce.
Alice e Ben si voltarono, trovandosi davanti Max, che li guardava a
braccia
conserte. “Spero di non interrompere nulla, ma devo parlare con Alice”.
Ben si raddrizzò. “Ah sì? Beh, fallo in un altro momento. Siamo un po’
occupati.”.
“E’ urgente” tagliò corto lei. Con un sorriso sornione, Ben le si
avvicinò. “Te
lo dico io, che cosa è urgente…”. Max posò le mani sul suo petto e gli
diede
una spinta, talmente forte da farlo cadere. Alice la guardò, sconvolta.
“Non ti
avvicinare” ringhiò Max, lo sguardo fisso sul metro e novanta di
ragazzo che
aveva appena scaraventato a terra. L’espressione sorpresa di Ben si
distorse in
una smorfia furiosa, mentre si rialzava. Ma, prima che potesse fare
qualunque
cosa, Jocelyn si mise in mezzo. “Che cosa pensi di fare, idiota?
Mettere le
mani addosso al mio ragazzo?”. “Non se lui non lo fa per primo” rispose
Max.
Jocelyn la spinse, e Max barcollò all’indietro. “Tu hai sempre voluto
farti del
male, Maxxie” sibilò, e la spinse di nuovo. Ma, questa volta, Max non
si mosse
di un millimetro. Sorpresa, Joss la fissò per un secondo, poi
fece per
sferrarle un pugno: la mancò, incespicando e finendo a terra, come se
qualcuno
l’avesse tirata per un braccio. “Se avete tutti finito di rendervi
ridicoli, dovrei
parlare con Alice”. Max guardò Joss rialzarsi, con disprezzo. “Che cosa
mi hai
fatto, strega?” urlò lei. “Non è colpa mia se hai qualche problema,
Joss”,
sorrise Max. “Cazzate. Qualunque cosa sia, Caulfield, sei morta. Ti
conviene
non lasciare il perimetro di questa scuola”. “Uh-uh”. Max prese Alice
per un
gomito, e attraversò la porta di ingresso. In lontananza, Alice sentì
Brett
gridare: “Non andare con quella sfigata, Dawson! Resta qui con noi!”.
Max si fermò davanti all’aula di informatica, voltandosi a guardarla a
braccia
conserte. Alice si schiarì la voce, a disagio. “Quindi… di cosa volevi
parlarmi?”, disse, esitante, con un nodo alla gola per l’emozione. Max
scrollò
le spalle. “Di nulla. Mi sembrava che avessi bisogno di una mano. E,
visto che mi
hai evitato di diventare una frittella, direi che te lo dovevo”. Alice
sentì
l’agitazione diminuire. “Oh”, disse. “Grazie, ma me la sarei cavata…”.
“Non credo proprio” disse Max, secca. “Hai davvero intenzione di andare
al
ballo con Brett Jhonson?”. Alice la guardò, sorpresa. Sulla sua faccia
lesse un
misto di rabbia, e qualcos’altro… poteva forse essere gelosia? “Beh…”
esordì,
ponderando le parole “credo che sia stata una cosa organizzata dalle
mie
compagne. Non è che potessi dire di no… E poi, al ballo si deve andare
in
coppia”. “Stai scherzando, vero?” Max sembrava furiosa. “Ci sono
centinaia di
persone in questa scuola che ti avrebbero invitata volentieri”. “Beh,
ma… che
c’è di male, se ci vado con Brett?” chiese Alice. “E’ una cattiva idea”
disse semplicemente
Max. “Ricordatelo, Biancaneve”. Fece per voltarsi e andarsene, quando
Alice la
bloccò. “Aspetta”, disse. “Devo dirti una cosa…”. Max si liberò. “Io
non ci
vengo al ballo con te, Dawson”, la schernì, e si voltò. “Beh, allora
perché non
vai a farti fottere, Caulfield?” le urlò dietro Alice, rossa in viso.
Max non
si voltò, ma le mostrò il medio, allontanandosi. Era
impossibile tentare
di avere una conversazione normale con lei, pensò Alice, furiosa.
Più tardi, nella pausa pranzo, Alice sedeva con le altre cheerleader a
un
tavolo nel parco della scuola, quando vide Alex arrivare di corsa,
paonazzo in
volto, e crollare nel posto accanto al suo, nascondendosi il viso tra
le mani.
“Hey!” disse lei, presa alla sprovvista. “Che ti succede?”. Alex
abbassò le
mani, e la guardò: sembrava sull’orlo delle lacrime. “Ho invitato al
ballo Sophie Goldberg” disse, in un filo di
voce. Alice lo guardò a
bocca spalancata. “Oddio! E ti ha detto di no?” esclamò. Alex scosse
debolmente
la testa, e Alice si portò una mano alla bocca. “Non ci credo… ti ha
detto di
sì?”. Lui scosse di nuovo la testa, sconsolato.
“Lei era lì… bellissima… con le sue amiche… e io… io le ho urlato. Le
ho urlato
se volesse venire al ballo con me. Non so cosa mi sia preso, volevo
solo
chiederle di parlarle, prenderla in disparte… Lei mi ha guardato, mi ha
riso in
faccia e si è voltata di nuovo”. Alex crollò, sbattendo la fronte sul
tavolo.
Le cheerleader ridacchiarono, e Alice stessa non riuscì a trattenere
una
risata. “Che cazzo ridi?” scattò Alex, furioso. “Cos’è, pensi che
nessuno
vorrebbe venire al ballo con me?”. “No, Alex, calmati…”. Alex balzò in
piedi
“Beh, sai che ti dico? Inviterò la prima ragazza che passerà di fianco
al
tavolo”. Le cheerleader sgomitarono, indicando qualcosa alle spalle di
Alex.
Alice seguì il loro sguardo: indubbiamente, sul viale si stava
avvicinando Max
Caulfield, assorta nella lettura di un tascabile. Vide il fratello
sbiancare.
“Oh, sarà uno spettacolo senza prezzo…” gongolò Julie.
Alice cercò di afferrare il gemello per il braccio. “Alex… Alex, non
devi farlo
per forza…”. Ma Alex assunse uno sguardo risoluto, e in due passi si
mise di
fronte a Max, mentre passava di fianco al tavolo. Lei alzò gli occhi
dal libro,
fissandolo con le sopracciglia inarcate, senza emettere suono, come suo
solito.
Alice poteva quasi percepire la sudorazione di Alex aumentare. “Max…”
esordì,
con voce incerta. Max rimase in attesa, immobile. Alex prese fiato più
volte,
ma nessun suono uscì dalle sue labbra. Era una spanna più basso di Max:
Alice
si sentiva in imbarazzo per lui. Alla fine, aprì la bocca e… “Vu
vnire
abball cmmé?” sbottò tutto d’un fiato. Max sgranò gli occhi,
sconvolta. Si
raddrizzò, guardando Alice e le cheerleader, come se pensasse che fosse
tutto
uno scherzo. “Ehm… cosa?” chiese, circospetta. Alex parve rimpicciolire
ancora,
arrossendo. “Io… m-mi chiedevo s-se… anche se è tradizione che le
matricole
vadano con un anziano… insomma… s-se ti andasse, beh, di venire al
ballo di
inizio semestre con me”. Alex parlò fissando l’erba, certo del rifiuto,
le
spalle ricurve. Alice si preparò al peggio, mentre le altre ridevano.
Max le
guardò, poi guardò lei, e, alzando un sopracciglio, senza distogliere
gli occhi
dai suoi, scandì, con calma: “Ne sarei onorata”.
Ad Alice cascò la mascella, e, finalmente, i risolini alle sue spalle
cessarono. Alex alzò lo sguardo, incredulo. Max gli passò il cellulare.
“Scrivimi il tuo numero, così poi ci mettiamo d’accordo per l’ora e
tutto il
resto.” E gli rivolse un sorriso angelico, mozzafiato. Alice non
credeva di
averla mai vista sorridere. Guardando il fratello inserire le cifre con
dita
tremanti, sentì montarsi dentro una rabbia ingiustificabile. “Grazie”.
Max si
riprese il telefono, si chinò appena, e gli diede un leggero bacio
sulla
guancia, prima di allontanarsi. Alex si voltò verso la sorella, ad
occhi
sgranati, sfiorandosi sognante dove lei l’aveva baciato. Sentendo, per
qualche
motivo, di non poter sopportare la vista del fratello un secondo di
più, Alice
si allontanò stizzita, nella direzione opposta rispetto a Max.
Guidando verso casa, Alice pestava su acceleratore e freno come se le
avessero
fatto un torto personale. Alex guardava fuori, assorto. “Non ci credo-
non ho
mai nemmeno avuto una ragazza, e
ora andrò al ballo con Max
Caulfield…”. Cambiò marcia come se la sua vita ne dipendesse. “Alice…
Al? Al!”.
Alice scoccò un’occhiata torva al fratello. “Che c’è?”,
disse,
astiosa. “Hai… hai mancato lo svincolo”. “Lo so”.
Alex la guardò, intimorito. “C’è qualcosa che non va?”. “No. Va tutto
alla grande.
Congratulazioni, hai ottenuto un appuntamento con una delle ragazze più
belle
della scuola”, rispose lei, amareggiata. “Non… mi sembri molto felice a
riguardo”. “Perché non dovrei essere felice? E’ un gran traguardo! Sei
riuscito
a convincere ad uscire con te una persona che, in genere, si ritiene
troppo
preziosa per parlare con noi comuni mortali”.
“Alice… io non credo
che Max sia così…”. Alice rise, sarcastica. “Ma guardati: basta un
bacio sulla
guancia per ridurti ad uno zerbino”. Frenò bruscamente ad un semaforo,
scrutandolo torva. “Per tua informazione, è da giorni che provo a
parlare a
Caulfield, di una cosa importante, anche, e lei non fa altro che
comportarsi da
stronza con me, per quanto bene io la tratti”. “Di cosa le devi
parlare?”,
chiese Alex.
“Non capiresti”, tagliò corto lei.
“Beh… magari… se è una cosa delicata, è possibile che, per qualche
ragione, Max
voglia evitare di parlarne…”. Alice non gli rispose. Lui deglutì, poi
riprese:
“Si può sapere dove stiamo andando?”. “Stiamo andando alla caffetteria
della
zia di Max. Andiamo a prendere il mostro nella tana”.
Alice parcheggiò di fronte al locale, ordinando al fratello di
aspettarla in
macchina. “Ne ho avuto abbastanza di voi due, per oggi”, spiegò. Poi
entrò,
facendo tintinnare il campanello alla porta. Ad un tavolo, un ragazzino
sedeva
con un libro aperto. Alice attese, tamburellando le dita sul bancone,
ma non
comparve nessuno. Quindi, si rivolse al ragazzino. “Sto cercando Max
Caulfield.
L’hai vista, per caso?”. Lui alzò gli occhi e, vedendola, sembrò andare
nel
panico.
“Perché… perché dovrei sapere dove è Max? Voglio dire, lavora qui, nei
pomeriggi, ma non è che io debba sapere tutto quello che fa. Perché la
cerchi?
Sei un’amica di Jocelyn? Non che mi interessi. Come ti dico, non so
dove sia.
Non… non è che io abbia una cotta per lei, o che!”. Alice lo guardò con
tanto
d’occhi. “Sì, va… va bene. Senti ragazzino, sono una sua compagna di
scuola. Ho
solo bisogno di parlarle di un progetto. Quindi: è qui o no?”. “È qui”.
La voce
di Max risuonò da dietro il bancone.
“Hey, stalker. Non preoccuparti di Richie, si innervosisce di fronte
alle
ragazze più grandi di lui”. “Max…!”. Richie scattò in piedi, rosso in
volto.
“Cosa? È vero. Senti, Rich, di’ a mia zia che torno subito, okay?”. Max
fece
cenno ad Alice di seguirla. Salirono due rampe di scale, in silenzio.
Poi, Max
aprì una porta: si ritrovarono in una specie di monolocale, con una
piccola
cucina, un tavolo da pranzo, e, in fondo, sotto ad una finestra, un
grosso
letto singolo. C’erano scaffali ricolmi di libri ovunque, una chitarra,
una tv
con una console, e una porta scorrevole, che probabilmente celava il
bagno.
Alle pareti erano appesi poster, disegni e fotografie. “Tu vivi qui?”,
disse
Alice, affascinata suo malgrado.
“Sì. Mia zia sta al piano di sotto, ma non c’era una camera per me,
quindi sto
qui da sola”. Max si mise a trafficare con un bollitore. “Forza,
siediti”, le
disse, guardandola da sopra la spalla. Alice obbedì, appoggiando i
gomiti sul
tavolo. Pochi secondi dopo, Max le mise davanti una tazza di tè
fumante.
“Quindi, cosa hai di tanto urgente da dirmi, da rincorrermi fino a
casa?”,
chiese, ironica.
“Lo sai benissimo di cosa voglio parlare”, disse Alice, torva. “E, se
non
continuassi a scappare da me e a fare l’idiota, forse non avrei bisogno
di
darti la caccia”. “Mi sembra giusto”. Max si sedette, accavallando le
gambe.
“Se devo tirare a indovinare, direi che vuoi parlare della tua
visione”,
continuò. Alice annuì. “Ma, se posso chiedertelo, cosa pensi che possa
spiegarti, io? Neanche ti conosco…”.
“Lo so”, disse Alice, soppesando le parole. “Ma, quando mi hai presa da
parte,
sembrava che sapessi esattamente di cosa stessi parlando. Hai dato per
scontato
che io avessi visto nel futuro”. “Beh, mi avevi appena salvata da un
riflettore
che è caduto almeno un minuto dopo che mi spingessi via. Che altro
avrei dovuto
pensare, scusa?”, ribatté Max.
“D’accordo, ma non tutti sarebbero così tranquilli, nel
parlare di poteri
sovrannaturali, come se fossero una cosa da tutti i giorni. A meno che,
per te,
non siano una cosa da tutti i giorni”, rispose Alice, calma. Max alzò
un
sopracciglio. “Forse credo semplicemente nei veggenti. Per quanto ne
sai, mi
faccio leggere le carte una volta al mese”.
“Quello che so, è che è iniziato tutto quando ti ho stretto la mano”.
Alice
seguì con il dito il bordo della tazza, pensierosa. “E ancora non
capisco cosa
sia successo”. Max si accarezzò un lato del collo, assorta. Infine
sospirò, e
le disse: “Senti, lo so che sono stata una stronza. Lo so che ti ho
trattata
male, e non ti ho voluto parlare, e tutto il resto. Ma volevo evitare
proprio
questo genere di domande. E, oltretutto, neanche io so cosa sia
successo, il
primo giorno: avevo paura che la cosa si ripetesse. Siccome potrebbe
essere
pericoloso, l’unica opzione era starti lontana. Però, sembra che la
cosa non ti
vada a genio, e fai di tutto per rendermi la vita difficile,
Biancaneve”.
Alice rimase senza parole. Non si aspettava una dichiarazione del
genere.
“Pericoloso…?” chiese infine. “Perché?”.
“E’ difficile da spiegare”.
“Provaci”.
“Non posso”.
“Oh, andiamo, Caulfield!” sbottò Alice. “Siamo qui a
discutere del fatto
che ho visto il futuro. Qualunque cosa sia, me la puoi dire, non
credi?”. Max
la guardò, ponderandola. “In realtà, no. Non so se posso fidarmi di te”.
A questo, Alice non seppe cosa rispondere. Poi, con calma, le chiese:
“Di cosa
hai paura? Che io non ti creda, o di qualcos’altro?”.
Max rise. “Oh, fidati, non potresti non credermi”. Bevve un lungo sorso
dalla
sua tazza. “Il fatto, Alice, è che è un argomento delicato, e privato.
E’ una
cosa che non sa nessuno, nemmeno mia zia”.
“Posso capirlo, Max. Ma, qualunque cosa sia, coinvolge tutte e due, e,
forse,
insieme possiamo capirci qualcosa di più. Non dirmi tutto subito, se
non vuoi.
Ma, per favore, prova a darmi fiducia. Te l’ho detto il primo giorno,
voglio
essere tua amica. E forse siamo più simili di quanto tu creda”. Alice
concluse
guardandola intensamente negli occhi.
Per qualche minuto, Max tacque. ”Il motivo per cui ho dato per scontato
che
avessi dei poteri, senza ritenerla una cosa assurda”, esordì infine,
“E’ che ho
dei poteri anche io”. Fece una pausa, lasciandole il tempo di elaborare
le sue
parole. Lo sapevo, pensò Alice, emozionata.
“Solo che”, continuò
Max, “Sembravi non avere idea di quello che ti stava succedendo. Forse,
ho
pensato, avevi iniziato a comprenderlo solo da poco. Ma non era così:
tu non
sapevi proprio di avere dei poteri. Il che mi ha fatto pensare che,
forse,
qualcosa non andava. Io ho sempre saputo di avere i miei”.
“Sempre?” chiese Alice. “Anche quando eri molto piccola? Voglio dire,
ci sarà
stato un momento in cui ti sei resa conto di poter vedere nel futuro,
no?”.
“Prima di tutto, io non sono una veggente”, rispose Max. “In secondo
luogo, no.
E’ una cosa che ho sempre saputo di poter fare, e basta”.
“Se non sei una veggente” disse Alice, confusa, “allora, quali sono i
tuoi
poteri?”. Max tacque a lungo, fissandola. “Scusami, Alice… Oggi non ti
sei
domandata come sapessi di Brett?”.
Alice ricambiò lo sguardo, incredula. “Pensavo avessi semplicemente
origliato!”. Max sbuffò. “Ero troppo lontana per sentirvi”, ribatté.
Lei la
guardò a bocca aperta. “Mi hai letto nel pensiero? Stavi leggendo nel
pensiero
di tutti noi? Lo stai facendo anche adesso?”. Max alzò le mani. “Con
calma. No,
stavo leggendo la mente di Brett, che era molto più semplice da
penetrare. E
no, non ti sto leggendo nel pensiero, ora. È un’operazione troppo
faticosa, e,
a volte, mi fa venire il mal di testa. Si tratta di oltrepassare le
barriere
mentali di un’altra persona e decifrarne i pensieri, e non è il
massimo. Ad
ogni modo, se avessi potuto sentire quello che pensava Brett, non
avresti mai
accettato il suo invito”. Max scolò l’ultima parte del suo tè.
“Quindi… sei telepatica” rispose Alice, guardandola fisso.
“Non proprio: penetrare la mente di una persona è una cosa che si
impara a
fare. Forse, potresti farlo anche tu. È solo una conseguenza
dell’essere dotati
di un… dono. Si acquisisce una sensibilità particolare, ecco, che
consente di
individuare i limiti della propria mente, oltrepassarli, e entrare in
quelli
altrui. Probabilmente, chiunque abbia poteri mentali sviluppati
potrebbe farlo,
o almeno credo: non ne ho mai incontrato nessuno, prima”. Alice si
prese
qualche secondo per metabolizzare le sue parole. Le sarebbe davvero
piaciuto
imparare a leggere nel pensiero. Aveva un milione di domande, ma decise
di
procedere con ordine.
“Se non sei telepatica, o almeno, non solo… allora cosa sai fare?”.
“Tante cose” Max sorrise, una luce maliziosa negli occhi. “Fammi
vedere”, tentò
Alice. “Non oggi”. Si alzò, posando la tazza nel lavandino.
Alice sospirò, delusa. “Se non vuoi parlare di te, parliamo di me,
allora. Che
cosa sai sui miei poteri?”.
“Nulla, ovviamente”, rispose Max. “Te l’ho detto, so solo quello che so
fare
io”.
“Ma come hai imparato a padroneggiare i tuoi, allora?” chiese Alice,
impaziente.
“Non so. Tu come hai imparato a camminare, o a correre?”.
“Non è la stessa cosa… Non vorrai mica dire che tua madre ti inseguiva,
urlandoti di non far levitare le sedie, o non so che altro?”. “Beh… più
o meno”
Max sorrise dolcemente. “Tutto ciò che so, è che questi poteri sono
come un
sesto senso. Te l’ho detto, se ti chiedessi come hai imparato a
camminare, non
me lo sapresti dire. È una cosa che sapevi di poter fare, e l’hai
fatta. Qui
funziona allo stesso modo. Ci sono delle cose più faticose da imparare,
più
impegnative, esattamente come correre o fare le capriole. Ma sai
comunque che
puoi farlo, e lo fai”. Max tacque, e per un po’ restarono entrambe in
silenzio.
Poi, aggiunse: “Probabilmente, quando siamo vicine i nostri poteri si
amplificano. Forse sono stata io a sbloccare i tuoi, o qualcosa di
simile. Mi
spiace di non poterti dire di più”.
Alice si alzò, la testa che le faceva male a furia di rimuginare su
tutti quei
pensieri. “Non devi scusarti”, rispose. “Immagino che lo scopriremo
andando
avanti”. Poi, la guardò negli occhi. “Pensi davvero che Brett sia
pericoloso?”
le chiese, esitante.
“Penso che non dovresti uscire con lui”, rispose Max, semplicemente.
“Farò attenzione”, disse Alice, pensierosa. “Hai fatto tutta quella
scena,
oggi, per far arrabbiare me?” sbottò poi, all’improvviso. Max la
scrutò,
confusa. “Intendi accettare l’invito di tuo fratello? No. È stato molto
carino,
e sarebbe stato brutto rifiutarlo. Inoltre, bisognava far smettere di
ridere
quelle oche. Penso che mi divertirò alla festa, con lui”, rispose,
calma.
“Quando si tratta di me, non ti preoccupi di cosa possa ferirmi, però,
eh?”,
ribatté Alice, astiosa. Max rise. “Mi spiace, Biancaneve. Spero che
quello che
è successo oggi serva a redimermi”.
Alice fece l’atto di voltarsi, poi ci ripensò. “Sai, Max… è bello
parlare con
te. Quando non ti comporti come una stronza, ecco”, le disse,
accennando un
sorriso. Lei rise di nuovo, accompagnandola all’uscita.
Max
Guardò Alice partire, dalla porta della caffetteria. Sperava di aver
fatto la
scelta giusta, parlandole: da un lato, comunque, quella ragazza la
incuriosiva.
Se voleva capire qualcosa di più sui suoi poteri, doveva lasciarla
avvicinare:
era un rischio che era necessario correre. Si mise a riordinare i dolci
in
esposizione, sovrappensiero, mentre Richie continuava a leggere nel suo
angolino.
Qualche minuto dopo, il campanello tintinnò, e, prima ancora che Max
avesse il
tempo di raddrizzarsi del tutto, qualcuno sbatté con forza i pugni sul
bancone.
“Hey, sfigati!”.
“Cazzo, Joss, il saluto è passato di moda?”. Max la scrutò,
torva.
Jocelyn sembrava stranamente emozionata. “Sì, sì. Senti, strega, mi
serve il
tuo aiuto”.
“Immagino”, disse Max, sarcastica. “Perché dovrei aiutarti?”, aggiunse
poi.
Joss le rivolse un ampio sorriso. “Perché ho trovato qualcosa che farà
impazzire voi secchioni”.
Qualche minuto dopo, Jocelyn stava aprendo il bagagliaio della sua
macchina,
mostrandone fieramente il contenuto. C’era una cassa, contenente due
oggetti
simili a palle da basket, scure e bitorzolute. “Ta-Da!
Uova aliene!”.
Joss sembrava estremamente soddisfatta. Max la guardò, sconcertata.
“Dove hai
trovato questa roba?”, chiese.
“Io e Ben le abbiamo trovate nel bosco, qui vicino. C’era anche
questo”.
Jocelyn sbatté sul petto di Max un pezzo di quella che sembrava
pergamena, con
su scritto un testo in grafia sottile. “È un procedimento per farle
schiudere”,
disse Joss, sbrigativa.
Max e Richie si scambiarono uno sguardo vacuo. “Quindi… che cosa
vorresti da
noi?”. “Una mano per farle schiudere, ovviamente, cretini!” Jocelyn
agitò le
braccia, sconfortata. “Non capite proprio niente!”.
“Ho delle obiezioni”, disse Max. “Prima di tutto, chi ti dà la garanzia
di che
cosa siano effettivamente queste cose? Secondo, potrebbe essere
pericoloso
toccarle, non credi? E terzo, se davvero hai così tanta voglia di
aprirle,
perché non farti aiutare da Ben?”.
Jocelyn sbuffò. “Tu parli troppo, Caulfield. Ben questa sera è
occupato. E io
voglio aprirle subito, perché, qualunque cosa siano, potrebbero farmi
guadagnare un sacco di soldi. Pensateci: Joss, la prima persona ad aver
riportato in vita un alieno!”. Max e Richie si scambiarono un altro
sguardo. “E
comunque, non avete scelta”, continuò Jocelyn. “Dovete venire con me, o
rischiate di lasciarmi nelle mani un mostro letale con il quale darvi
la
caccia”. Joss rise, gettando la testa all’indietro.
“Va bene”. Max stava leggendo la pergamena. “Qui dice che questa roba
contiene
degli eroi che, se risvegliati con
il giusto rituale,
saranno l’unica speranza di addestrare l’umanità e
vincere la guerra
imminente. Ma dice anche che, se non si segue il procedimento
passo passo,
l’essere potrebbe ribellarsi”. Max alzò lo sguardo, le sopracciglia
aggrottate.
“Non credo ad una parola di quello che c’è scritto, ma se serve a
dimostrarti
quanto sei stupida, Joss, ti farò vedere che da queste ‘uova’ non
nascerà un
bel nulla”.
Jocelyn saltellò sul posto, emozionata. “Grande! Forse ti ho
sottovalutata,
Maxxie”, disse. “Ora, il foglio dice che ci serve un posto buio, e io
conosco
quello perfetto: il vecchio centro commerciale abbandonato! Salite in
macchina,
e ci andiamo immediatamente”.
Mentre Joss metteva in moto, Richie guardò Max, impaurito. “Lo sai che
questo
potrebbe essere l’inizio di un film horror?”. Max stava per ribattere
che le
cose che si vedono nei film non sono certo reali, ma poi si ricordò di
saper
far levitare i tavoli, e tacque. Ad ogni modo, qualunque cosa fossero
quelle sfere,
se Joss aveva comunque intenzione di farle schiudere, era meglio
tenerla
d’occhio, per evitare che creasse qualche grosso casino: solo per
questo, Max
si era costretta a seguirla.
Giunti presso il vecchio edificio diroccato, i tre
oltrepassarono un foro
nella recinzione, e Joss forzò una delle porte ormai pericolanti.
Facendosi
luce con delle torce, scesero fino nel piano interrato. Si trovarono
una specie
di locale caldaia, una grossa stanza buia e polverosa, dal soffitto
alto.
Accanto alla porta di ingresso, una scala di ferro permetteva di
scendere fino
a raggiungere il pavimento. Faceva davvero molto freddo: i loro respiri
si
condensavano in nuvolette di vapore, mentre si dirigevano giù dalla
scala,
stringendosi nelle giacche. Joss sistemò a terra una delle sfere:
l’altra
l’avevano lasciata nel bagagliaio, erano straordinariamente pesanti da
portare.
“Okay”, Max si guardò intorno, le mani sui fianchi. “Ora dobbiamo
predisporre
il posto. Qui dice che bisogna lasciare un bello spazio intorno alla
sfera, in
modo che…”. “Sì, sì”. Joss le strappò il foglio dalle mani. “Bisogna
inumidire
la sfera. Dov’è l’acqua?”.
“Jocelyn, sul foglio c’è scritto che è pericoloso non seguire tutto il
procedimento…” Richie si guardò intorno, spaventato.
“Sfigato, stai tranquillo. Non succederà proprio niente”. Rovistando
nello
zaino, Joss estrasse una bottiglia d’acqua. “Ecco fatto”, disse,
svuotandola
sulla palla.
Sobbalzarono tutti: la sfera aveva iniziato a muoversi, pulsando.
“NON CI CREDO, FUNZIONA!” urlò Joss, battendo le mani. Max sbiancò.
“Non va bene”, disse. “Se per caso tutta questa storia è roba seria,
abbiamo
mandato a puttane tutto il rituale…”.
“Max, taci, tanto quando usciamo di qui ti uccido io!”.
“Dobbiamo allontanarci”, disse Richie. “Secondo le istruzioni, non deve
esserci
nessuno nella stanza, quando l’essere si sveglia!”.
“Oddio, volete stare calmi? Ecco, se serve a farvi tacere, saliamo in
cima alle
scale”.
I tre salirono in cima alla rampa di scale di ferro, fermandosi sul
pianerottolo, e sbirciando giù. Max iniziava a sentire lo stomaco
contorcersi
dalla paura, mentre guardava la sfera muoversi e pulsare. Che cosa
diamine
avevano fatto? Chi era lei, per non prendere sul serio cose del genere?
Proprio
lei, che giusto quel pomeriggio aveva parlato di poteri paranormali con
una sua
compagna di scuola…
“Ragazzi. Penso che sia il caso di scappare…” disse, lentamente.
All’improvviso, il suo pensiero corse all’essere che l’aveva inseguita
nel
vicolo, e la pervase un senso di terrore tale che per poco non
vomitò,
quando capì che cosa avevano fatto.
“Oddio, quanto ci mette? Ora vado ad aprirlo io”. Joss iniziò a
scendere le
scale. “Joss, NO!” Max tentò di trattenerla per la giacca, ma era
troppo tardi.
La seguì, di corsa.
Joss si avvicinò all’uovo, e sferrò un calcio fortissimo, frantumandone
la
superficie. Una sostanza molle e grigiastra iniziò a colare fuori dalla
sfera.
All’improvviso, dal suo interno qualcosa si gonfiò come un palloncino,
raggiungendo le dimensioni di un essere umano, e superandole. L’essere
sibilò,
mentre quella sorta di placenta si lacerava, cadendogli ai piedi, e
rivelando
una figura deforme, grigiastra, con la testa simile a quella di un
insetto, e
numerose zampe e tentacoli che spuntavano da tutto il suo
corpo. Max
afferrò la giacca di Joss e tentò di strattonarla indietro, ma lei
sembrava
paralizzata dalla paura. Spalancò la bocca ed emise un urlo acuto,
terrorizzata. Max urlò a sua volta, “JOSS, MUOVITI!”, ma era troppo
tardi.
L’essere sibilò, infuriato, e uno dei suoi tentacoli scattò,
attaccandosi alla
faccia di Jocelyn, e iniziando a risucchiarla. Inorridita, Max
tentò di
tirarla e di liberarla, ma invano. Gli urli soffocati di Jocelyn
riempirono
l’aria, finché, con uno schiocco e un risucchio, il tentacolo non si
staccò.
Joss cadde a terra, supina, e Max vide che non aveva più un volto: al
suo
posto, c’era solo una maschera di sangue. Scattò all’indietro, mentre
l’essere
si avventava sul corpo di Jocelyn, e iniziava a divorarlo.
“RICHIE, CORRI!” strillò Max, precipitandosi su dalle scale.
I due si fiondarono fuori dall’edificio e oltre la recinzione. Mentre
si
avvicinavano alla macchina, le portiere del passeggero e del guidatore
si
spalancarono da sole. Senza fare domande, Richie salì, sbattendosi la
portiera
alle spalle, e non si preoccupò nemmeno quando la macchina si accese da
sola,
nonostante Max non avesse alcuna chiave. Sgommando, Max fece partire il
mezzo,
allontanandosi a tutta velocità da quel luogo.
I due rimasero in silenzio per un po’, sconvolti e tremanti, mentre Max
guidava
ad occhi sbarrati.
“Sei… sei coperta di sangue”, disse infine Richie, con un filo di voce.
“Non è mio”. Max non riusciva a pensare ad altro che alle immagini del
corpo
martoriato di Jocelyn. Che cosa avevano fatto, che cosa diavolo avevano
fatto?
“Jocelyn… Joss è morta?”. Richie sembrava sotto shock, incapace di
smettere di
tremare. “Io… sì”. Max non riusciva ancora a capacitarsi di quello che
era
successo. La telecinesi era un conto, ma gli alieni? Doveva essere un
sogno. Un
sogno di quelli terribilmente realistici, che la lasciavano senza fiato
al
risveglio, perché Jocelyn non poteva essere morta, così, davanti ai
suoi occhi.
“Max… Max, se ti vedono così, penseranno che l’hai uccisa”. “L’ho
fatto. È
stata colpa mia. È stata tutta colpa mia…”. Max tremava
incontrollabilmente,
Richie piangeva.
“Se quel mostro ha ucciso Joss, dove pensi che andrà adesso? Max! Come
facciamo
a fermarlo?”. Per una volta, Max non sapeva cosa rispondere. Gli occhi
fissi
sulla strada, si limitò a cercare di mettere più distanza possibile tra
loro e
il centro commerciale in disuso.
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Capitolo 5 *** Il ballo ***
CAPITOLO
V
Il Ballo
Max
Max
parcheggiò la macchina a qualche isolato di distanza. Il motore si
spense con
un singhiozzo, ma lei non lasciò andare il volante: la schiena ritta
contro il
sedile, le braccia tese, riusciva soltanto a guardare di fronte a sé,
gli occhi
sbarrati. Tentò di regolarizzare il respiro, e di calmare il turbinio
di
pensieri che le frullavano in testa. Avrebbero dovuto andare alla
polizia? No,
come potevano spiegare loro che la loro amica era stata divorata da un
mostro
che avevano evocato per sbaglio? Nessuno avrebbe creduto ad una storia
del
genere. Piuttosto, vedendola coperta di sangue e in stato confusionale,
avrebbero pensato che lei avesse qualcosa a che fare con la sua morte.
Potevano
raccontare la cosa come se si fosse trattato di un incidente, ma
sarebbero
comunque finiti nei guai per essere entrati in una zona recintata senza
permesso, senza contare che una semplice caduta dalle scale non avrebbe
giustificato la quantità di sangue che le era schizzata addosso, né le
condizioni
del corpo di Jocelyn. Sempre che ci fosse ancora, il suo corpo. No,
risolse infine Max, riacquistando lucidità. Dovevano comportarsi come
se nulla
fosse successo, come se quel giorno non avessero visto Joss. Se
avessero
ritrovato i resti della ragazza nel centro commerciale, vedendone le
condizioni
avrebbero sicuramente pensato a un’aggressione da parte di qualche
animale
selvatico, e, in quel modo, lei non ci sarebbe finita di mezzo.
Rilassando
le braccia, prese finalmente un ultimo respiro.
“Richie, ascoltami bene, adesso”, disse Max, rivolgendosi al ragazzino.
“Non
possiamo andare dalla polizia. Non possiamo dire di sapere niente di
quello che
è successo a Joss, o penserebbero ad un nostro coinvolgimento. Non
penso
crederebbero alla storia del mostro”. Richie annuì, in silenzio. “Non
possiamo
fare nulla, per Joss, ora. E se vogliamo occuparci di quel mostro, è
meglio che
io non venga arrestata”. Lui annuì ancora, sempre sull’orlo delle
lacrime.
“Quindi, ora andiamo a casa, dirai a tua madre che abbiamo preso in
prestito la
sua macchina per andare a riportare un libro in biblioteca, o qualcosa
del
genere”, proseguì Max. All’improvviso, le venne in mente di non avere
le chiavi
del veicolo: dovevano essere rimaste in tasca a Joss. Si chiese se
Richie si
fosse domandato come avesse potuto far partire la macchina senza
chiavi. Decise
di non chiedere nulla. “Tua… Tua madre ha delle chiavi di riserva,
no?”. “Sì.
Ne abbiamo tre: una la tiene mamma, una è appesa all’ingresso, e una…
una…”
Richie deglutì. “Una la teneva Joss”, concluse.
“Ottimo”, disse Max. “Dille che abbiamo usato quella di riserva”. Max
si sporse
verso di lui, staccando le mani dal volante per prendergli il viso tra
le mani.
Richie alzò lo sguardo, sorpreso, mentre lei lo guardava fisso negli
occhi, con
gravità. “Ce la farai, Richie? Hai capito quello che ti ho detto di
fare, e
perché lo devi fare?”.
Richie arrossì, fissando dentro agli occhi di Max, quasi come se ne
fosse
ipnotizzato. Si riprese, scuotendo appena la testa. “S-sì. Sì, capisco.
È tutto
ciò che possiamo fare. Ce la farò, Max, non preoccuparti. Ci penso io”.
Max sospirò. Avrebbe voluto abbracciarlo, ma si rese conto che lo
avrebbe
imbrattato di sangue. Così, gli disse solo: “Mi dispiace, Rich. Mi
dispiace
tanto. È colpa mia”.
“Non è colpa tua” ribatté lui, serio. “Joss ha fatto qualcosa di molto
stupido,
e per caso tu eri lì, e non sei riuscita a fermarla. Se non ci fossi
stata,
l’avrebbe fatto comunque. E comunque, non potevamo sapere che quella
storia
fosse vera…”. Max sospirò, cacciando indietro le lacrime che le
pungevano gli
occhi. “Lo so”, disse solamente, corrucciata. Poi si alzò, aprì la
portiera
della macchina e scese, esaminandola, alla ricerca di tracce di sangue.
Non
sembrava che ce ne fossero: c’era solo qualche impronta insanguinata
sul
volante. Guardandosi, si assicurò di essere sporca solo sul viso e sul
petto.
Poi, si pulì con una salvietta le mani ed il volante, e infine risalì,
mise in
moto, e si diresse verso casa.
La
strada di fronte alla caffetteria era deserta. Scendendo, controllò
ancora una
volta di non aver lasciato tracce. Controllò anche che Richie fosse
pulito e
insospettabile, e lavò via le tracce del pianto dal suo volto. Poi, lo
guardò
correre in casa, e dopo aprì il bagagliaio, si caricò la cassa con la
sfera
rimanente sulle spalle e infine, approfittando dell’oscurità, scivolò
come un
fantasma dalla porta di ingresso, salì le scale di corsa e si infilò
nell’appartamento. Sbatté la porta, lasciò cadere la cassa e si
accasciò sul
pavimento, il volto nascosto tra le mani. Tremava e singhiozzava
incontrollabilmente, ora che non doveva più trattenersi. Aveva visto
una
persona morire di una morte terribile davanti ai suoi occhi, ed era
tutta colpa
della loro stupidità. Si sarebbe picchiata, in quel momento: si rese
conto di
essere solo una ragazzina idiota.
Quando riuscì a ricomporsi, esaminò il contenuto della cassa, tremante,
assicurandosi che la sfera fosse intatta, e ferma. Vista così, sembrava
solo un
ammasso di fango secco. Max sentì una morsa gelata attraversarle lo
stomaco, ma
sapeva di non avere scelta: doveva custodirla. Liberarsene poteva
significare
che finisse nelle mani sbagliate, facendo fare a qualcun altro la fine
di Joss.
Non era certo entusiasta di dormire nella stessa stanza di un uovo
contenente
un potenziale mostro assassino, ma non poteva fare molto altro: Joss
era morta,
e non poteva permettere che qualcun altro perdesse la vita a causa sua.
Così,
spinse la cassa sotto al letto, pregando qualunque divinità che la
sfera non si
risvegliasse, e finalmente si diresse in bagno.
Si osservò allo specchio, e vide che era conciata parecchio male: il
sangue le
aveva schizzato il volto, i capelli e il petto, dove si era allargato
in grosse
chiazze scure, penetrando nei vestiti. Max si spogliò, mettendo giacca,
maglietta, pantaloni, scarpe, e biancheria a mollo in una tinozza di
acqua
bollente, dopo aver spruzzato dello smacchiatore sulle tracce di
sangue. Si
infilò poi in doccia, lavandosi con attenzione, mentre ai suoi piedi
l’acqua e
il sapone si tingevano di rosso. Una volta uscita, svuotò la tinozza,
la lavò,
mise i vestiti in lavatrice, e pulì il piatto e le pareti della doccia.
Fece lo
stesso con il pavimento, seppure non avesse gocciolato sangue entrando,
ripassando mentalmente tutto ciò che aveva fatto da quando era salita
in macchina
a quando ne era scesa, pensando se avesse dimenticato qualcosa.
Quando, finalmente, ritirò i vestiti dalla lavatrice, notando che ogni
traccia
di sangue era scomparsa, si tranquillizzò giusto un poco.
Si buttò sul letto, gli occhi sbarrati. Ovviamente, non ci sarebbe
stato verso
di dormire, questo Max lo sapeva. Passò una notte insonne ed inquieta,
fissando
l’orizzonte in attesa di vedere le prime tracce dell’alba. I suoi
pensieri
vagavano da Jocelyn, al mostro, alla sfera sotto il suo letto. Non
aveva idea
di cosa fare.
Quando
il cielo si ingrigì appena, si alzò, fece colazione, e si preparò
lentamente
per andare a lezione. Aveva ragionato sul fatto che sarebbe potuto
sembrare
sospetto non presentarsi, e, inoltre, l’idea di restare nella stessa
stanza con
quella sfera la faceva impazzire. Aveva deciso di lasciarla a casa, per
quanto
la inquietasse il pensiero di sua zia che, solo due piani più sotto, si
aggirava ignara. Tuttavia, lasciarla in macchina in un parcheggio
brulicante di
studenti le parve un’idea ancora peggiore. Così, distrutta, ma incapace
di
sentire la stanchezza, salì in macchina, mise in moto e partì alla
volta di
Heathfeld, come ogni mattina.
Alice
Alice
scivolò nel posto accanto a Max a informatica, Alex al seguito. La
ragazza
fissava nel vuoto, il viso appoggiato sul palmo della mano, gli occhi
sbarrati,
e sembrava non avere un bell’aspetto. “Max?” Alice la chiamò, incerta,
ma lei
non ebbe reazioni. “Max. Max!” Alice la scosse dolcemente per un
braccio, e Max
sobbalzò sulla sedia, guardandosi intorno stranita. “Ciao. Scusami, non
volevo
disturbarti. È solo che… ehm… sembravi… Stai bene?”, disse, guardandola
con
aria interrogativa. Max strizzò gli occhi e si stropicciò la fronte,
riprendendosi. Era pallida come un cencio. “Sì, sì, io… non ho dormito
molto,
stanotte. Ma sto bene”.
“Beh, ti conviene andare a casa a riposarti, allora” Alex sorrise,
stiracchiandosi, “Perché stanotte ci sarà da uscire di testa!”. Max lo
guardò,
confusa. “S… Stanotte?”, disse, incerta. “Ma sì, il ballo! È stasera,
non
ricordi?”. Alex la guardò, improvvisamente preoccupato. “Non lasciarmi
da solo,
eh!”.
Alice guardò Max stringersi
le braccia intorno alla vita, in un involontario gesto difensivo che le
fece
tenerezza. “Certo che no. Non ti darò buca. Dormirò qualche ora oggi
pomeriggio, ecco”. Max fece un sorriso dall’aria forzata, ma lei
continuò a
osservarla di sbieco per tutta la durata della lezione. Al suono della
campana,
Max si affrettò ad uscire dall’aula, come suo solito, e, come ormai era
tradizione, Alice la seguì, scorgendola in fondo al corridoio mentre si
infilava
in bagno. Aprì leggermente la porta, facendo attenzione a non farsi
notare: Max
stava in piedi, reggendo il suo peso sulle braccia, i palmi delle mani
appoggiati al lavandino, la testa china. Tremava incontrollabilmente.
Alice si infilò all’interno del bagno, mentre Max, alzando il viso, la
scorse
nel riflesso dello specchio. Le sue guance erano rigate di lacrime: Max
le
asciugò frettolosamente con le maniche, nascondendosi il volto. Alice
si
avvicinò con calma, posando una mano sul suo avambraccio, e attese,
finché Max
non sollevò lo sguardo, guardandola finalmente negli occhi. Schiuse le
labbra
per dire qualcosa, ma sembrò non riuscirci: così, si morse il labbro
inferiore,
tremante, abbassando nuovamente gli occhi.
“Cosa c’è che non va?”. Alice la tirò leggermente per un braccio,
facendola
voltare, e poi spingendola indietro, in modo che appoggiasse la schiena
al
lavandino. Max scosse la testa, le mani sul volto. “Max, parlami. Ne
hai palesemente
bisogno”. Max la guardò, finché, con un filo di voce, le disse: “Non
posso. Non
posso, Alice. È pericoloso”. “Se è pericoloso, significa che tu sei in
pericolo, e se è così, io voglio
aiutarti”. Si fissarono negli occhi per qualche secondo, e Alice
sostenne il
suo sguardo, decisa. Infine, Max si raddrizzò di scatto, trascinandola
in un
angolo, e abbassandosi, in modo che i loro volti distassero solo pochi
centimetri. “Cosa mi diresti se ti dicessi che ho visto qualcuno
morire?”,
bisbigliò, a denti stretti. Alice la guardò, scioccata. “Cosa mi
diresti se ti
dicessi che ieri, nel centro commerciale abbandonato, un mostro ha
risucchiato
la faccia di Jocelyn Bennet?”. Aveva una strana luce negli occhi,
sembrava
quasi pazza.
“Penso… penso che tu abbia bisogno di riposarti. Ti riporto a casa, e
lì
possiamo parlarne, che ne dici?”. Max scosse violentemente la testa, e
assunse
un’aria terrorizzata. “No. Non a casa. Non è sicuro”. “Allora andiamo a
casa
mia”, ribatté Alice. “Va meglio, così? Ti faccio un tè o qualcosa, e
potrai
riposarti. Poi, una volta che ti sarai calmata, parleremo di questa
cosa”. Max
si appoggiò al muro, stropicciandosi gli occhi. “Va bene”, disse
soltanto.
Circa venti minuti più tardi, si stavano dirigendo alla macchina di
Max. Alice
aveva lasciato le chiavi della sua ad Alex, ma insistette per guidare.
“Non sei
nelle condizioni”, disse seccamente a Max. Lei la guardò, belligerante,
ma
Alice troncò il litigio sul nascere. “Vuoi restare qui a discutere, o
ci diamo
una mossa? Ti giuro che guido alla perfezione”. Senza dire una parola,
Max la
fissò. Poi, lentamente, estrasse le chiavi della macchina da una tasca
del
giubbotto, e, tenendole tra il pollice e l’indice, le lasciò oscillare
un po’
sopra al palmo teso di Alice, per poi lasciarle cadere all’improvviso.
Lei le
afferrò con uno scatto. “Ottimo”, le sorrise soddisfatta.
Più tardi, Alice la fece
accomodare sul divano: non ci volle molto perché Max crollasse
addormentata,
evidentemente esausta. Alice la guardò: anche nel sonno, non riusciva
ad apparire
rilassata. Si chiese che cosa diamine le fosse successo, e cosa
significasse
quello che le aveva detto nei bagni. Passò qualche ora così, finché non
si
svegliò di colpo, guardandosi intorno. Alice le posò una mano sulla
spalla,
risospingendola a posto, e spiegandole dove si trovasse.
“Oh”. Max si portò una mano
alla fronte, e le scoccò uno sguardo apologetico. “Devo essere
crollata. Mi
spiace, davvero”. “Non preoccuparti”. Alice si morse un labbro,
guardandola. “Ad
ogni modo, grazie. Non… non potevo dormire a casa, e direi che è merito
tuo se
stasera non mi addormenterò sulla spalla di tuo fratello”. Alice sentì
un peso
scivolarle sullo stomaco, a quelle parole: il ballo. Le era passato di
mente.
Max si alzò. “A proposito”, proseguì “credo che farei meglio ad andare
a
prepararmi”. “E la cosa di cui dovevamo parlare?”. Alice si alzò a sua
volta,
immusonita. “Ne… ne possiamo parlare, non so… in un altro momento?” Max
la guardò,
seria. Alice sentì di odiarla: voleva davvero rimandare una cosa così?
“Sul
serio, Al. Non me la sento, adesso”. Il fatto che l’avesse chiamata con
un
nomignolo le fece un effetto strano. La guardò, e si sentì intenerire
alla
vista del suo viso provato. “Non c’è problema”, disse, tentando di
sorriderle. “Ci
vediamo stasera, allora”. Quando ballerai
con mio fratello, aggiunse mentalmente.
Un’ora più tardi, in casa Dawson, erano tutti presi dai preparativi.
Alice se
ne sarebbe stata volentieri a casa: non le andava di guardare suo
fratello
avere Max tutta per sé per una sera, ma, allo stesso modo, non si
spiegava il perché
di questi suoi pensieri.
Sentì Ben imprecare, al piano di sotto. Allacciò la zip del suo vestito
blu,
indossò i tacchi alti e si guardò allo specchio: era bella, Alice,
quella sera.
I capelli lisci e neri le scendevano dolcemente sulle spalle, e il
colore del
vestito si intonava ai suoi occhi.
Scese le scale, trovando
Alex in agitazione nel suo smoking nero, e Ben che, sorprendentemente,
sembrava
nelle sue stesse identiche condizioni.
“Cosa succede?” chiese lei, circospetta.
“Jocelyn non si fa sentire da ieri”. Ben camminava avanti e indietro,
passandosi una mano tra i capelli di tanto in tanto. “Non posso credere
che mi
dia buca per il ballo, quella stronza!”. Sferrò un calcio al muro. Poi,
assunse
un’aria preoccupata. “Non le sarà successo niente, vero?”, chiese,
torcendosi
le mani. “Cosa mi diresti se ti dicessi
che ieri, nel centro commerciale abbandonato, un mostro ha risucchiato
la
faccia di Jocelyn Bennet?”. Le parole di Max le risuonarono
nelle orecchie,
e lei sentì un peso sul cuore, sebbene le trovasse incredibili. “Va’ a
prenderla a casa, Ben. Qualunque cosa sia successo, te lo spiegherà”,
rispose
quindi Alice, semplicemente. “Giusto” borbottò lui, dirigendosi alla
porta, e
spalancandola solo per trovarsi davanti Brett, che sfoggiava un
sorrisone nel
suo completo grigio. “Comportati bene”, gli ringhiò Ben, uscendo.
“Non c’è bisogno di raccomandazioni. Io sono un gentiluomo, non è vero,
piccola?”. Brett ammiccò ad Alice, che sentì lo stomaco rivoltarsi.
“Sei più
figa del solito, stasera”, aggiunse. “Sì, grazie” disse lei, senza
guardarlo, e
facendo per uscire.
“Al?”. Alice si voltò, al suono della voce di suo fratello, il cui
sguardo
oscillava tra Brett e lei, a disagio. “Non… non è che potreste
accompagnarmi?”.
Alice lo fissò, sorpresa. “Non devi passare a prendere Max?”, chiese.
“Viene da sola…”. Alex si
guardò i piedi, arrossendo. Brett rise sguaiatamente, ed Alice sentì la
bile
risalirle lungo lo stomaco: aveva voglia di prenderlo a pugni, e la
serata non
era ancora iniziata. “Allora vieni con noi”, disse, secca.
Poco più tardi, davanti all’ingresso della sala da ballo della scuola,
dove si
teneva la festa, Alice si chiese mentalmente, per l’ennesima volta, chi
diavolo
gliel’avesse fatto fare di obbedire alle convenzioni sociali ed andare
al ballo
con Brett, che aveva sparato una battutaccia dietro l’altra, mentre
guidava.
Alex si tormentava le mani, guardandosi intorno. “Ehi, nanetto”. Brett
gli
circondò le spalle con un braccio. “Sei sicuro che non ti abbia dato
buca?
Guarda che se così fosse te ne troviamo un’altra che sia… alla tua altezza” Brett ridacchiò da
solo, ma Alex, guardando alle
spalle di Alice, parve illuminarsi.
“E’ arrivata”, disse. Alice si voltò. Max si fermò a pochi passi da
loro, di
una bellezza mozzafiato in un vestito rosso scuro. Un’elegante treccia
raccoglieva
parte dei suoi capelli, lasciando alcuni dei suoi boccoli ricadere in
una
cascata di lato. Alex le si avvicinò, e lei gli sorrise, esitante.
Arrossendo,
ma sorridendo a sua volta, lui le prese il braccio. “Sei davvero
bellissima”,
disse, raggiante. Max rise. “Anche tu non sei niente male, piccoletto”.
Non
indossava i tacchi, ma era comunque più alta di Alex. “Che ne direste
di
entrare, madame?”. “Ne sarei deliziata, monsieur”. I due risero
ancora, e, oltrepassandoli, Max lanciò uno sguardo di fuoco a Brett,
sorridendo
invece frettolosamente ad Alice. Lei sentì le guance andarle a fuoco.
“Beh, ci diamo una mossa?”
disse Brett, afferrandola per un braccio e quasi trascinandola dentro,
mentre
lei, trasognata, seguiva Max con lo sguardo.
La sala da ballo era arredata elegantemente, e una massa di studenti
avvolti in
vestiti colorati occupava già la pista da ballo. Brett la condusse al
banco dei
drink, che era già gremito, dove iniziò a sbraitare e ridere con i suoi
amici,
dandole di tanto in tanto qualche pacca sulla spalla. Le ragazze che li
accompagnavano socializzavano tra loro, ma Alice, a braccia conserte,
scrutava
la sala alla ricerca di Max e di suo fratello. Li vide in un angolo,
vicino ad
un paio di altri studenti, mentre chiacchieravano. Max sorrideva e
rideva come
Alice non l’aveva mai vista fare: sembravano divertirsi. Incurante di
quello
che accadeva intorno a lei, mosse qualche passo nella loro direzione.
Brett la
afferrò per un gomito, trattenendola. “Hey, dove vai, bellezza?”,
disse,
traendola a sé. Infastidita, Alice pose un minimo di distanza tra se
stessa e
il petto di lui. “Vado da mio fratello”, rispose a denti stretti.
“Oh, assolutamente no! Ora andiamo a ballare!”, rispose lui. La
trascinò in
pista, dove le si allacciò stretto, muovendosi sconclusionatamente a
tempo di
musica. Alice adorava ballare, e non solo in modo professionistico, ma
sentì l’impulso
di vomitargli sulle scarpe.
Dopo quelli che sembrarono alcuni giorni di quella tortura, intravide
nuovamente Max ed Alex sulla pista da ballo. Lei sembrava leggermente
preoccupata, mentre lui le mostrava, probabilmente, come ballare. Alla
fine,
parve prenderci la mano, e la canzone cambiò in un lento. I due
rimasero a
distanza, ma parlavano fitto, lui che la guidava con le mani sulla sua
vita, e
lei che lo seguiva, le braccia intorno al suo collo.
Alice si sentì bruciare dentro. All’improvviso, Brett ficcò la faccia
nell’incavo
tra il suo collo e la sua spalla, premendole le labbra sulla pelle, e
lei fece
un balzo all’indietro, orripilata.
Combattuta tra il desiderio di picchiarlo, di picchiare Alex, di
picchiare Max,
o semplicemente di chiederle di ballare, riuscì solo a ringhiare “Ho
bisogno di
un po’ d’aria”.
Brett fece un sorriso
sornione, che lei ignorò. “Molto bene, allora. Facciamo una
passeggiata. Una
signorina come te non può uscire da sola”.
I due si diressero all’uscita,
mentre lui le avvolgeva un braccio intorno alla vita.
Una volta fuori, lei inspirò profondamente, ad occhi chiusi, per
calmarsi. Non
aveva senso che si sentisse così. Certo, il suo partner faceva schifo.
Per lo
meno, ora Brett teneva la bocca chiusa. Era piacevole camminare in
silenzio,
pensò. Almeno, lo pensò finché non sentì il suono della macchina di
Brett che
si apriva.
All’improvviso, Alice realizzò che si trovavano nel bel mezzo del
parcheggio.
La musica della festa si sentiva solo in lontananza, e Brett spalancò
la
portiera della macchina, in attesa.
“Che stai facendo?”. Alice indietreggiò istintivamente. Brett rise. “Va
bene
essere avventurosi, ma non vorrai mica farlo qui fuori, no?”.
“Fare cosa?”. Il sorriso di Brett
si
irrigidì un poco. “Coraggio, Alice. Non fare storie, ora. Non è
divertente”.
“Credo che tu abbia capito male. Io volevo solamente fare una
passeggiata,
Brett”, rispose lei, fredda.
“Certo, e sappiamo tutti come finiscono le passeggiate,
no? Entra in macchina”, rispose Brett, spazientito.
“No. Io torno dentro”.
“Certo, come no!”. Brett la
afferrò per un braccio, tirandola a sé. “Lasciami!” strillò lei, la
voce rotta
dal panico. “Entra nella cazzo di macchina!”.
I due lottarono brevemente,
ma lui era troppo grosso, troppo forte. Prendendola per i polsi, la
bloccò,
spingendola contro la fiancata della vettura. Lei sbatté contro la
portiera, cercando
inutilmente di liberarsi. Le premeva addosso con tutto il corpo.
“Smettila-smettila, che ti piace!”.
Soffocò le sue
grida forzandola in un bacio. Alice tentò di morderlo, di calciarlo, ma
lui
rise, facendo per sollevarle la gonna.
Un pugno sbucò dal nulla, colpendo Brett sulla tempia, e facendolo
cadere. Alice
si piegò in avanti, le lacrime che le rigavano il volto. Scivolò
lentamente
lungo la fiancata della macchina. Lui gemette, sfiorandosi la testa.
Max
torreggiava sopra di lui, lo sguardo in fiamme. “Vattene”, scandì. La
sua voce
era una lama di ghiaccio, letale. Sembrava pronta ad ucciderlo.
“Fatti i cazzi tuoi, Caulfield, dannazione!”. Brett fece per scattare
in piedi,
caricando Max, ma, prima che potesse fare qualunque cosa, lei allungò
la mano,
le dita contorte come se stesse stringendo qualcosa. Brett si portò le
mani
alla gola, tossendo, scivolando a terra, e venendo poi rialzato su,
come se la
mano invisibile di un gigante lo stesse trascinando. Sbatté contro un
palo,
cercando di togliersi la morsa invisibile che lo stingeva al collo. Max
fece
qualche passo in avanti, gli occhi fissi su di lui, la mano tesa e
un’espressione
di puro odio sul volto. Brett iniziò a diventare viola, gli occhi
strabuzzati.
Alla fine, respirando affannosamente, Max abbassò la mano, riluttante,
e lui
cadde a terra, tossendo, senza fiato. Poi, si voltò verso Alice,
aiutandola a
rialzarsi, e fece qualcosa che lei non si sarebbe mai aspettata: la
abbracciò,
stringendola forte a sé. Colta di sorpresa, Alice si ritrovò a
ricambiare l’abbraccio,
aggrappandosi a Max come un naufrago ad un salvagente. Nascose il viso
nella
sua spalla, singhiozzando e tremando.
“Stai bene?”, mormorò Max, dolcemente. Alice annuì con forza. “Ora sì”,
rispose. “Allora, per favore, puoi portarmi via, prima che io lo
ammazzi?”. La
voce di Max tremò pericolosamente. Alice la prese per mano, e si
allontanarono,
fino a raggiungere la vecchia Golf di Max. Salì, e Alice la imitò. Max
mise in
moto, guardando fisso di fronte a sé, e iniziò a guidare, restando in
silenzio.
Alice guardò Heathfeld allontanarsi dal finestrino, ancora scossa.
“Non ti sto rapendo”, disse infine Max. “Ti porto a bere qualcosa di
caldo. E
ho bisogno di mettere qualche chilometro tra me e Brett, altrimenti
stasera mi
arrestano”. Per qualche motivo, Alice non pensò che fosse
un’esagerazione.
“Grazie”, disse solo. “Se
non ci fossi stata tu, io… non so come sarebbe finita. Anzi, lo so. È
tutta
colpa mia”, aggiunse. “Me l’avevi detto di Brett, mi avevi avvertita, e
io
invece sono andata lo stesso con lui, per dare retta a…”. “Zitta”, la
interruppe seccamente Max. “Ascoltami bene. Niente di quello che è
successo
stasera è colpa tua. L’unico che ha colpe, qui, è quell’idiota di
Brett”.
Pronunciando il suo nome, Max strinse le mani sul volante, al punto che
le sue
nocche sbiancarono. Alice non sarebbe riuscita a esprimere a parole la
gratitudine che provava, così restò zitta, guardando la città
addormentata
scorrere di fianco a loro.
Poco più tardi, stavano entrando nella caffetteria della zia di Max. Il
locale
era vuoto, e Chelsea Caulfield, dietro al bancone, stava asciugando dei
bicchieri.
“Max!”, esclamò, vedendola
entrare. Sembrava sorpresa di vederla. Max fece cenno ad Alice di
sedersi a un
tavolo appartato, in un angolo, e scambiò qualche parola con la zia.
Tornò
pochi minuti dopo, tra le mani un vassoio con due fette di torta, due
tazze di tè
fumante e un bicchiere d’acqua.
Scivolò sul divanetto
accanto ad Alice, disponendo le vivande di fronte a loro. “Bevi”,
ordinò poi,
porgendole l’acqua. Lei obbedì, non rendendosi conto di quanta sete
avesse
finché non ebbe vuotato il bicchiere.
“La torta è al triplo cioccolato-una delle mie preferite. Spero non ti
dispiaccia che mi sia presa la libertà di scegliere anche per te”.
Alice rise debolmente. “Non credo potrei mai lamentarmi di ricevere una
torta
al triplo cioccolato”, rispose. Ne assaggiò una forchettata: era
deliziosa.
“Non saresti dovuta uscire da sola con Brett, comunque”, osservò Max,
addentando la sua.
“Lo so. Brett è orribile. Non volevo andare con lui, stavo uscendo per
i fatti
miei. Ero arrabbiata… e mi ha seguita”. Alice si sentì riprendere
calore piano
piano, la paura che scivolava via, mentre si lasciava cullare dalla
voce
morbida di Max.
“Arrabbiata?”, disse Max,
interrogativa. “Sì. Tu e Alex vi stavate divertendo, e io ero bloccata
con quello”, disse, infilzando i
resti della
torta con veemenza.
“Ah. Eri gelosa, quindi”, disse
Max,
l’ombra di un ghigno che le aleggiava sulle labbra. “Non ero- sta’
zitta!”,
ribatté Alice, arrossendo suo malgrado. “Come hai fatto a trovarmi,
comunque?”.
“Ti ho vista uscire con
Brett, e ti ho seguita. Gli stavo leggendo la mente da tutta la sera,
non mi
piaceva affatto”. “Quindi, mi stavi spiando?”,
la stuzzicò Alice, dandole un colpetto col gomito. “Stavo tenendo d’occhio Brett. E ho fatto bene,
direi”. Alice rabbrividì,
senza rispondere: ripensare a quello che era appena successo le faceva
venire
una morsa gelata allo stomaco.
“Sei tranquilla, ora?”,
chiese Max. Alice ci pensò su. Le rivenne in mente la sensazione di
nausea che
aveva provato nell’avere Brett addosso. In quel momento, le era quasi
sembrato
suo padre. “Sì, lo sono. Mi sa… è che queste cose hanno particolare
effetto su
di me… da quando mio padre…”. Alice si interruppe bruscamente.
“Da quando tuo padre…?” la incalzò Max. Alice le sorrise. “Mi spiace,
Misteriosa Max, ma anche io ho i miei segreti. Forse, quando ti aprirai
anche
tu, te ne potrò parlare”, tagliò corto lei. Max non insistette. “Ad
ogni modo,
grazie per avermi salvata. Sei il mio angelo
custode”, le disse, con un sorriso leggermente malizioso. Max
fece una
smorfia. “Taci, Dawson. Lo sai che avrei salvato qualunque altra
ragazza, al
tuo posto”, ribatté. Lei rise. “Però, non stavi controllando gli
accompagnatori
di ogni altra ragazza questa sera. Stavi controllando il mio.
Chissà quante ragazze non
stai salvando, in questo momento, solo per stare qui con me”.
“Beh, immagino che nessuna di quelle ragazze stesse morendo di gelosia al pensiero di non poter ballare
con me, al posto del proprio
fratello
gemello”, rispose Max, sorridendole. Alice non rispose: invece, prese
un po’
della glassa rimasta nel piatto e gliela spalmò in faccia. “Hey! Ma
quanti anni
hai, Biancaneve? Cinque?”. Lottarono un po’, e nel processo altra
glassa finì
sulle loro facce. Infine, si ripulirono, e Alice appoggiò la testa
sulla spalla
di Max, sospirando. La sentì irrigidirsi, e poi rilassarsi: infine, Max
allungò
una mano, coprendo la sua, sul tavolo, e stringendola, forse per
confortarla.
Rimasero un po’ così, prima che Alice si voltasse a guardarla. Il suo
viso era
un po’ troppo vicino: si ritrovò a fissare i suoi occhi verdi, persa,
avvicinandosi ancora, involontariamente.
La borsa di Alice squillò e vibrò, facendole sobbalzare entrambe. Si
allontanarono, arrossendo, mentre lei frugava nella borsa, estraendo
finalmente
il cellulare, e rischiando di scaraventarlo a terra grazie al tremito
delle
mani. Riuscì a rispondere. “Che c’è?”, disse, portandolo all’orecchio.
Era
Alex.
“Stai bene? Dove sei? Sei con Brett? Max è con voi?”, esclamò,
preoccupato. “Sto
bene, sto bene, Alex”, rispose Alice. “Sono con Max. Ora arriviamo, e
ti
spiego, okay? Tranquillo”. Scambiò ancora qualche battuta con il
fratello,
prima di riattaccare. Si rivolse quindi a Max. “Penso che sia meglio
tornare,
prima che chiamino la polizia”, disse. Max si alzò. “Scommetto che ora
tuo
fratello è felice che l’abbia fatto venire in macchina con te, per non
lasciarti sola col gorilla”, fece, calma. “Cosa? L’hai fatto apposta?”,
chiese
Alice. Max si limitò a farle l’occhiolino.
Una mezz’oretta più tardi, stavano parcheggiando vicino alla scuola.
Scesero, e
Max le mise un braccio intorno alle spalle, scortandola nell’oscurità.
Alice si
rese conto che stavano per passare di nuovo vicino alla macchina di
Brett, e si
sentì mancare. Cercò di trattenersi, quando si rese conto che Max si
era
bloccata. La guardò, interrogativa. Fissava qualcosa di fronte a loro,
ed era
sbiancata. Alice seguì il suo sguardo, e urlò. Sotto al lampione,
qualcosa di
grosso e scuro stava divorando quello che restava di Brett. Al suo
grido, la
creatura si voltò, emettendo un suono a metà tra un sibilo e un
ruggito. Non
aveva né naso né occhi, solo una lunga fenditura piena di denti aguzzi
alla
base della testa. La creatura scattò verso di lei, ma Max si frappose
tra di
loro, salvandola per la seconda volta. Sollevò la mano destra, e la
creatura
volò all’indietro, uggiolando. Max si preparò al combattimento, ma, con
un ultimo
ululato di dolore, il mostro fuggì, perdendosi nell’oscurità.
Max cadde in ginocchio, reggendosi il petto, ansimante. Alice si
accovacciò al
suo fianco. “Max! Max! Stai bene?”. Lei annuì, risollevandosi con
calma, gli
occhi fissi sul cadavere di Brett. Un’espressione di orrore le deformò
il viso.
“L’abbiamo lasciato qui, da solo…”. “Max, non è stata colpa tua! Max,
ascoltami! Non potevi saperlo…”. “Sì, che potevo. Lo sapevo. Ho già
visto
quelle cose”, rispose lei. “Cosa… cosa era?”. Cose?
Significava che ce n’era più di una in giro? Alice la prese
per le spalle, scuotendola. “Max, parlami,
dannazione!”.
“Lo farò. Ti parlerò. Ma dobbiamo andarcene da qui, e in fretta.
Potrebbe
tornare. Corri a prendere tuo fratello, io vi aspetto in macchina
davanti all’ingresso”,
disse Max, agitata. Alice la guardò, nel panico. “Non ti lascio sola…”
cominciò. “Vai!”, disse
semplicemente
Max, correndo verso la macchina. Alice si voltò, e corse a perdifiato
verso la
sala da ballo, cercando di individuare Alex tra la massa di studenti.
Il
fratello era in attesa vicino alla porta. Lei lo prese per un braccio,
tirandolo. “Cosa stai facendo? Al, fermati!”. “Vieni!
Vieni e basta!”. La macchina di Max spuntò sgommando, e i
due si fiondarono dentro. “Che sta succedendo?”, chiese Alex, dal
sedile
posteriore.
“Non lo so nemmeno io”. Max ingranò la marcia e partì a tutta birra.
“Ma mi sa
che ci tocca scoprirlo”.
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