Doctor Who: The Italian Adventures - No. 1: Per seguir virtute e canoscenza

di Il Professor What
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Parte 1 ***
Capitolo 3: *** Parte 2 ***
Capitolo 4: *** Parte 3 ***
Capitolo 5: *** Parte 4 ***
Capitolo 6: *** Parte 5 ***
Capitolo 7: *** Parte 6 ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Prologo
E rieccomi qui, a dare il via a un altro matto esperimento, sperando che vada meglio dell'ultimo.
L'introduzione ha già detto quasi tutto: questa è la prima di una serie di tredici storie, una per ogni Dottore (Jodie Whittaker è già contata, John Hurt no), ambientate nella nostra Penisola. Non seguiranno un filo cronologico (è il Dottore, perché dovrebbe?), al di là dell'alternarsi delle incarnazioni del Dottore, e ognuna di esse avrà al centro un personaggio o un avvenimento della storia d'Italia, con un limite fissato agli anni '70 per ovvi motivi (oltre si sconfina nella cronaca, e diventa tutto troppo contemporaneo). Ogni storia sarà divisa in 4 o 6 parti, come un serial della serie classica.
Spero vivamente che l'idea vi interessi; se siete ancora dubbiosi, comunque, ecco l'introduzione alla prima delle storie. Buona lettura.

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“Steven? Va tutto bene?”

Nessuna risposta. Il Dottore provò allora a spingere la porta, che cedette sotto la pressione delle sue dita. Non era stata chiusa. Cautamente, l’anziano Signore del Tempo sporse di poco la testa per guardare all’interno. Steven si era addormentato, il corpo rigirato su un fianco, la faccia volta contro la parete. Il dolore e la stanchezza dovevano averlo domato.

Meglio così, disse fra sé il Dottore, richiudendo la porta. Un po’ di riposo avrebbe fatto bene anche a lui. Quantomeno, sarebbe riuscito a calmare temporaneamente il dolore per tutto quello che era successo dopo la partenza di Vicki. Avrebbe voluto che ci fosse ancora: di sicuro avrebbe saputo trovare le parole giuste per rincuorarlo. Come in risposta, il TARDIS gli sussurrò mentalmente parole di conforto, nel tentativo di restituirgli un po’ di buonumore. “Grazie” disse piano il Dottore, “ma ho paura ci vorrà ben altro” continuò con aria triste, mentre riprendeva a premere i tasti della console. Sarebbe andato a letto fra poco, dopo aver sistemato la nave in modo che non atterrasse prima che lui o Steven si fossero ridestati.

Quando era partito da Gallifrey, sapeva di andare incontro a un viaggio lungo e pericoloso. Sapeva anche che c’erano ottime probabilità che non sarebbe più tornato, che il suo corpo cadesse in qualche pianeta deserto e restasse lì a marcire per l’eternità. La cosa non l’aveva spaventato molto. Era anziano, aveva vissuto una lunga e fruttuosa vita su Gallifrey, e l’unica cosa che aveva sempre sognato di fare davvero la stava facendo adesso: in un certo senso, morire facendola sarebbe stato il compimento perfetto di tutta la sua esistenza. L’eventualità che qualcun altro morisse al posto suo non l’aveva minimamente sfiorato. In qualche angolo della sua mente, aveva semplicemente deciso che era del tutto impossibile, quasi come se nessun altro esistesse, come se non fosse di alcuna importanza che ci fosse qualcun altro, Susan o chi per lei, all’interno del TARDIS. Bene, gli eventi degli ultimi giorni l’avevano portato a realizzare improvvisamente che, purtroppo, la cosa era molto concreta, e questo l’aveva sconvolto parecchio.

Come evocati da questo pensiero, volti sorsero dai meandri della sua memoria. Gli occhi spaventati di Katarina mentre veniva risucchiata nello spazio, che ancora brillavano di un ultimo barlume di fede. Gli ultimi sforzi di Sara contro l’invecchiamento causato dall’infernale macchina dei Dalek, mentre le gambe cedevano sotto il suo peso, riducendola a strisciare sulla sabbia di Kembel. Il dolore sul viso di Oliver, mentre i Vardans prendevano possesso della sua mente, che lui stava coraggiosamente offrendo per salvare i suoi compagni. Tutti morti, tutti e tre, per uno stupido Signore del Tempo troppo anziano che aveva deciso di andarsene in giro per l’universo a fare il turista. E questi erano solo gli ultimi, quelli che conosceva da poco: quante volte Vicki aveva corso il rischio di…? E Steven, che era ancora con lui nonostante tutto? E Ian, Barbara, Sus…

“No!” urlò il Dottore, drizzandosi all’improvviso, di fronte all’orrore di quell’ultima immagine. Grazie agli Eterni lei era salva, con l’uomo che amava, nella Terra di un lontano futuro. L’aveva lasciata andare, prima che fosse tardi. Non avrebbe voluto vederlo così, un vecchio piegato dalla paura e dal rimorso, impaurito ed esitante di fronte alla prossima meta. Una meta che, ora il Dottore lo sapeva, avrebbe anche potuto essere l’ultima, se non per lui, per Steven.

Solo nella sala di controllo, per la prima volta il Dottore mise seriamente in dubbio la bontà della sua scelta di lasciare Gallifrey. Per che cosa l’aveva fatto? Certo, aveva sempre voluto viaggiare, avere un’esperienza più grande di quella dei suoi simili, ma era una motivazione giusta per mettere in pericolo le vite degli altri? Avrebbe dovuto viaggiare da solo, ma chi avrebbe raccontato cosa aveva visto? A chi avrebbe comunicato la bellezza di quello che stava passando? Ma allora era un egoista! Uno sporco egoista intento a soddisfare un suo infantile desiderio di…

La carezza del TARDIS di nuovo giunse a interrompere i suoi pensieri, invitandolo ad andare a letto. Non avrebbe fatto bene a nessuno, men che meno a lui, continuare a rimuginare. La notte porta consiglio, così diceva un vecchio proverbio terrestre; essendo uno scienziato, forse gli poteva interessare verificarne la validità. Sorrise, il Dottore, alla battuta, mentre cedeva all’insistenza della sua macchina e si allontanava dalla console, dirigendosi verso la sua stanza.

***

Gli sembrò di aver dormito solo cinque minuti quando sentì suonare l’allarme. In poco tempo, fu in piedi, con la mente che lavorava veloce per cercare di capire cosa stesse succedendo. Escluse subito che il problema fosse un guasto tecnico: in un caso simile, il TARDIS si sarebbe illuminato di una luce rossa e avrebbe probabilmente iniziato a tremare. Grazie agli Eterni, non sembrava nemmeno un problema con le zone abitative, come la sua stanza e quella di Steven. E ora che lo notava, più che un allarme sembrava essere una sorta di radar, una segnalazione esterna al TARDIS. Era ormai arrivato nella sala della console mentre raggiungeva questa conclusione, e non gli ci volle molto per vedere la lucetta verde lampeggiare, poco sotto il motore principale.

“Dottore?” chiese Steven entrando di corsa nella sala. “Dottore, che succede?”

“Nulla di grave, ragazzo mio. Almeno, non per il momento.”

“E allora quella spia?”

“Solo una segnalazione” rispose il Dottore, mentre si affannava con i calcoli sullo scanner. “Ti ricordi il nostro ultimo incontro con il Monaco, vero?”

“Non l’aveva lasciato disperso su un qualche pianeta di ghiaccio?”

“Avevo messo un segnalatore che mi avvertisse se mai fosse riuscito a liberarci, e a giudicare dalla luce verde ci è riuscito.”

“Crede che verrà a cercarci?” domandò Steven.

“È probabile” ammise il Dottore. “Ma potrebbe anche darsi che decida di sistemare una trappola in qualche punto dello spazio-tempo e poi attirarci lì. In ogni caso, è nostro dov… credo che sarebbe meglio rintracciarlo e impedirgli di fare danni.”

“Tutto bene, Doc?” chiese Steven, improvvisamente preoccupato dalla crepa che aveva avvertito nella voce del compagno.

“S-sì” disse il Dottore, riprendendosi in fretta. Nel momento in cui aveva iniziato a tracciare il percorso del TARDIS del Monaco, tutti i pensieri dell’altra sera erano tornati a farsi vivi, e aveva dovuto sforzarsi per ricacciarli indietro. Qualsiasi cosa decidesse di fare relativamente al viaggio, il Monaco era comunque là fuori, era un pericolo, e non poteva certo lasciare che trafficasse indisturbato per la Storia. “E non mi chiamare Doc!” aggiunse subito, recuperando il proprio atteggiamento burbero.

“Be’, allora lei si vada a mettere qualcos’altro addosso” rispose a sua volta Steven, “perché con quell’obbrobrio è abbastanza difficile prenderla sul serio.”

Perplesso, il Dottore guardò quello che aveva indosso, rendendosi conto solo in quel momento che stava vestendo una specie di accappatoio multicolore sgargiante, che effettivamente non lo faceva sembrare una persona seria. Nella fretta di andare a controllare, doveva avere afferrato la prima cosa a disposizione nel suo armadio. Maledicendosi per quando si era fatto sbolognare quell’orrendo affare in un mercatino cosmico solo perché a Susan piaceva, andò a cambiarsi in uno stile più dignitoso, dicendo a Steven di aggiornarlo non appena i calcoli dello scanner fossero completati. Fortuna volle che il Dottore tornasse nella sala di controllo, con indosso la sua usuale giacca nera, giusto quando i calcoli erano completati. Vedendolo, Steven gli indicò semplicemente lo schermo, lasciando che il Dottore leggesse da solo i risultati.

“Italia… XIV secolo… 1304 per la precisione… no, 1302… d’estate… abbazia di San Gaudenzio, in Toscana, vicino Firenze.”

“Indicazioni insolitamente precise” rimarcò Steven, curioso.

“Stai facendo dell’ironia, giovanotto?” rispose il Dottore, mentre iniziava a fissare le coordinate di viaggio per il TARDIS. “Chissà che ci fa lì…” aggiunse poi, pensieroso. “Quel luogo non è particolarmente importante dal punto di vista storico, che io ricordi.”

“Forse può avere qualcosa a che fare con il periodo?” suggerì Steven.

“Sì, può darsi. Immagino che lo scopriremo all’arrivo. A proposito, ragazzo mio, direi che è meglio che iniziamo a prepararci. Non puoi certo andare in giro per il Medioevo italiano con quel maglione, anche perché, se solo conosco un po’ quelle zone, farà parecchio caldo.”

“D’accordo” annuì Steven. “Cosa faremo una volta arrivati?”

“Cercheremo il Monaco, ovviamente” rispose il Dottore “e vedremo di capire cosa ha intenzione di fare. Poi, interverremo per fermarlo, cercando per quanto possibile di non interferire con la storia.”

“Quel che facciamo di solito, insomma” sorrise Steven.

“Se vuoi ritirarti…”

“Ma nemmeno per idea! Quel pazzo è una mina vagante, non possiamo certo lasciarlo andare in giro! Mi dia dieci minuti per vestirmi e torno da lei.”

Detto, Steven uscì dalla sala di corsa, dritto verso il magazzino dove il TARDIS teneva i costumi adatti a varie epoche della storia umana, e il Dottore non riuscì a trattenere un sorriso. Amava l’energia di Steven, il suo instancabile spirito combattivo, il senso di responsabilità che sentiva per il loro ruolo. Se mai si fosse rigenerato, gli sarebbe piaciuto trasformarsi in una persona simile. Spero solo di non perdere anche lui, pensò, con il sorriso che gli vacillava sulle labbra, mentre il TARDIS iniziava la sequenza di atterraggio.

NOTE DELL'AUTORE

- Nella cronologia della serie, questa prima storia avviene durante la terza stagione classica, in mezzo fra il quarto e il quinto serial, quando, per la prima e unica volta nella serie, il Dottore è rimasto solo con un compagno di sesso maschile, Steven Taylor, pilota e soldato del 24° secolo.
- Il Monaco, che servirà da villain, è apparso in due serial della serie classica (nel secondo dei quali viene abbandonato dal Dottore su un innominato pianeta di ghiaccio), e nel primo caso cercava di modificare, per puro divertimento, la storia umana: è anche lui un Signore del Tempo rinnegato, ma a differenza del Maestro, che ambisce al potere, e del Dottore, che ricerca la conoscenza, il Monaco vuole solo divertirsi.
- I tre compagni morti cui fa riferimento il Dottore sono Katarina, Sara Kingdom e Oliver Harper. Le prime due sono morte nel serial "The Daleks' Master Plan", nella lotta contro i terribili alieni, mentre il terzo è stato un temporaneo compagno del Dottore e Steven in alcuni audiodrammi, al termine di uno dei quali ha trovato la morte. Citati sono anche gli altri compagni televisivi del Dottore: oltre a Susan, sua nipote, gli insegnanti Ian Chesterton e Barbara Wright, e la giovane Vicki Pallister.
- Direi che non c'è bisogno di chiarire ulteriormente chi sia il personaggio al centro di questa prima "avventura italiana"; il titolo che ho dato alla storia è abbastanza indicativo (e chi meglio di lui?). Aspettatevi quindi l'arrivo di messer Durante di Alighiero degli Alighieri già nel prossimo capitolo... ovviamente, se avrete la bontà di leggere e recensire.

A presto quindi!

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Capitolo 2
*** Parte 1 ***


Ben ritrovati, miei pochi ma fedeli lettori. Ecco il primo capitolo della prima avventura italiana del Dottore. Da oggi in poi, i capitoli verranno pubblicati a due settimane di distanza su base regolare (ma se ci riesco, non escludo di farlo anche prima), senza giorno fisso. Buona lettura!

""PER SEGUIR VIRTUTE E CONOSCENZA" 
Parte 1

“Messer Dante, sono pronti.”
“Arrivo subito, Lapo” rispose il poeta, sospirando di frustrazione. Era stato su quei versi tutta la mattina, e lo venivano a chiamare proprio quando aveva trovato le parole giuste: in un’altra occasione, li avrebbe volentieri mandati al diavolo. Buttò quindi giù in fretta gli ultimi due versi, ripromettendosi di rivederli finita la riunione, prima di dirigersi celermente verso il refettorio dell’abbazia.
“Ben arrivato” lo salutò Scarpetta Ordelaffi, quando lo vide entrare. Il signore di Forlì, nonché capo dei Guelfi Bianchi, sedeva al tavolo di sinistra del refettorio, in mezzo agli altri capi del suo schieramento, esiliati da Firenze un anno prima. Al tavolo opposto, sedevano i rappresentanti degli Ubaldini, signori del Mugello, guidati dal loro capo Manfredi.
“Bastiera?” chiese sottovoce Dante, notando la mancanza di uno dei più noti membri del loro partito.
“Ha mandato a dire che iniziassimo senza di lui” gli rispose Ordelaffi. “Pare che dovesse parlare urgentemente con uno dei monaci.”
“Spero che Nostro Signore gli faccia scoprire un’improvvisa vocazione religiosa” sbuffò il poeta, facendo sorridere il suo interlocutore. Bastiera dei Tosinghi, che di professione faceva il capitano di ventura, era un attaccabrighe e un rissoso, e fin dal primo giorno dell’esilio aveva sostenuto la necessità di rientrare a Firenze con la forza – posizione che a Dante non piaceva per nulla, ma che aveva i suoi seguaci nel loro schieramento.
“Messer Alighieri” disse Manfredi degli Ubaldini. “È un onore avere qui fra noi uno dei più grandi poeti e letterati d’Italia.”
“La ringrazio, messere, per questo elogio fin troppo generoso” rispose il poeta. “Spero allora che darà ascolto a me e ai miei compatrioti, in questo nostro momento di difficoltà.”
“Farò il possibile, anche se ammetto di avere dei dubbi su come potrei esservi d’aiuto.”
“Qui si sbaglia” intervenne Scarpetta. “La vostra famiglia ha ottimi rapporti con alcune delle casate di spicco fra i Neri. Lei ha la possibilità di parlare con loro e intercedere per il nostro ritorno.”
“Oh, voi presupponete troppo. È vero, ho dei contatti, ma non credo che…”
“Ovviamente” aggiunse subito Scarpetta “noi vi saremmo molto grati, e al nostro rientro saremo ben lieti di fare in modo che la signoria della vostra famiglia sul Mugello non venga minacciata dalle intemperanze della nostra repubblica.”
Colto di sorpresa dalla schiettezza di Ordelaffi, Manfredi cercò di nascondere l’imbarazzo dietro un sorriso di cortesia. “Non sono a conoscenza di particolari progetti della repubblica per…”
“Non ce ne sono” continuò Dante. “Tuttavia, lei sa quanto noi che la politica di Firenze è molto volubile, specie adesso che i Neri possono contare sull’aiuto del Papa. Tutto dipende da quanto si ritiene sicuro dei suoi confini.”
Manfredi non rispose subito a questa nuova insinuazione. Dante, Scarpetta e gli altri lo videro annuire lentamente, e poi, con un sorriso che non prometteva niente di buono, chinarsi indietro per appoggiarsi allo schienale della sua sedia.
“E perché” chiese alla fine, pesando ogni parola “dovrei fare un accordo con voi? Come messer Ordelaffi ha sottolineato, i nostri rapporti con alcune delle casate più in vista fra i Neri sono ottime. Se intercedessi per voi, le metterei a rischio.”
Dante e Scarpetta si scambiarono uno sguardo. La discussione ora era iniziata davvero.
 
***

Il sole del tramonto illuminava di un colore rossastro le colline, quando Dante uscì dalla sala per prendere una fin troppo necessaria boccata d’aria. Due ore di discussione, ed erano ancora al punto di partenza. Era in momenti come questi che rimpiangeva di essersi dato alla politica: avrebbe dovuto fare come Guido, e occuparsi soltanto di poesia e filosofia. Il pensiero lo rese malinconico, cosa che, purtroppo, di frequente gli avveniva spesso.
Estraniandosi da tutto, lasciò vagare lo sguardo sul dolce paesaggio della campagna toscana, dove già iniziavano a spuntare le lucciole. Un giorno di cavallo, soltanto uno, lo separava da tutto ciò che aveva di più caro al mondo. Se si concentrava, poteva persino scorgere, giù all’orizzonte, quantomeno una minuscola parte delle mura che aveva attraversato tante volte e che ora gli erano chiuse, forse per sempre. Il pensiero gli era intollerabile, e al dolore si unì la rabbia. Non avevano il diritto di farlo. Aveva dato tutta la sua vita per Firenze, per renderla libera, grande, forte, per mantenerle gli antichi costumi di onestà e onore che ne avevano fatto la grandezza, non potevano…
No, si disse, un attimo prima che l’ira traboccasse. Non si sarebbe lasciato trascinare dal fumo della rabbia a pensieri disonesti. Era capitato a tanti altri uomini onesti prima di lui, di sperimentare l’ingratitudine da chi avrebbe dovuto esser loro riconoscente. Pier delle Vigne e Romeo di Villanova erano stati trattati anche peggio dai signori che avevano servito con fin troppa fedeltà. Lui stesso aveva esiliato Guido senza che l’amico avesse commesso alcuna colpa, solo per assicurare la pace dopo gli ultimi scontri fra le due fazioni. Ricordava ancora con quanta dignità egli avesse accettato il suo destino, dicendogli che non lo riteneva personalmente responsabile. Bene, lui non sarebbe stato da meno: come sempre, Guido Cavalcanti gli avrebbe mostrato la via della vera nobiltà.
Il suono di un corno lo risvegliò dalle sue meditazioni. Qualcuno stava arrivando, e ci teneva a farlo sapere. Sperò solo si trattasse di buone notizie, avevano già troppo da fare per…
“Ovviamente no” commentò con amara ironia, quando riconobbe le insegne di Bastiera dei Tosinghi. “Sarà meglio che rientri” disse fra sé, preparandosi a quello che prevedeva sarebbe stata una svolta ben poco felice del loro dialogo.
 
***

“Alla buon’ora, Bastiera” commentò Scarpetta quando il condottiero fu entrato nella stanza. “Spero almeno ti sia guadagnato un posto in Paradiso, visto quanto hai tenuto in lungo questa tua confessione.”
“Ho fatto molto di più” sogghignò Bastiera. Nella tenue luce della stanza al tramonto, il gioco delle ombre sul suo viso lo faceva sembrare un teschio. “Ho assicurato a tutti noi un ritorno a Firenze, e a messer Ubaldini il possesso perpetuo del Mugello, se vorrà aiutarci.”
“Ma davvero?” chiese Dante, senza nascondere il sarcasmo. “E come avverrebbe questo miracolo?”
“Grazie a questo buon padre che vedete” disse subito Bastiera, indicando una figura più piccola e tozza dietro di lui. “Lui è la persona che dovete ringraziare.”
“Siete troppo buono, messer Bastiera” disse il Monaco, facendosi avanti. “Ho solo modestamente proposto che voi e i vostri amici facciate uso di ciò che la mia conoscenza può offrirvi.”
“Conoscenza?” continuò Dante, reso ancora più sospettoso. “Di cosa parlate, padre?”
“Messer Bastiera mi ha riferito tutto dei vostri guai, e di come i vostri tentativi per rientrare in patria siano stati vani fino a questo momento. Non avete forze sufficienti per tentare un assalto militare, e gli sforzi diplomatici vanno per le lunghe, perché il Papa non è intenzionato a permettere il ritorno a Firenze dei suoi più fieri oppositori, come lei, messer Dante. Tra l’altro, mi lasci dire che per me è un onore conoscerla: le poesie della Vita nova sono senza dubbio le migliori della vostra scuola.”
“Non tergiversi, padre” rispose Dante, in tono ancora più duro. Non gli piaceva il tono con cui il Monaco gli aveva fatto quel complimento, suonava più come un’adulazione ben calcolata che come vera ammirazione. “Ha detto che può rimediare ai nostri problemi. Come?”
“Con queste” disse Bastiera, interrompendo il Monaco prima che potesse parlare, e scaraventando sul tavolo davanti ai Guelfi Bianchi quello che sembrava un lungo tubo di metallo, sorretto a un’estremità da una specie di cavalletto scuro. “Sono armi micidiali, amici miei, che possono colpire un nemico a distanza, molto più facili da maneggiare di un arco o una balestra. Ne ho fatto la prova tutto il giorno andando a caccia, e il padre me ne ha illustrato il funzionamento.”
“Qualcosa di molto semplice, in verità” spiegò il Monaco, prendendo in mano l’arma. “Basta puntarlo davanti a voi” e lo fece, “e premere questa piccola leva qui” continuò, indicandola col dito. “E una piccola punta di metallo” aggiunse infine, mostrandone una che teneva nella mano “viene lanciata nell’aria dritta contro il vostro avversario: piccola, ma sufficiente a stenderlo.”
Alla destra di Dante, Scarpetta scoppiò in una fragorosa risata, presto imitato da tutti gli altri Guelfi Bianchi a quel tavolo. Il poeta fu l’unico che rimase in silenzio, non perché non capisse la risata degli altri (anche lui, in altre circostanze, avrebbe riso di una storia così assurda), ma perché, per tutto la durata del discorso del Monaco, non aveva mai tolto gli occhi di dosso a quest’enigmatico religioso. La voce non gli era mai tremata, gli occhi erano rimasti fissi, e ogni parola aveva risuonato con tale confidenza che adesso Dante non aveva più dubbi. Quell’uomo era o un truffatore molto abile, oppure diceva la verità. Non era neanche da chiedere quale opzione personalmente il poeta avrebbe preferito credere.
“Davvero molto divertente, Bastiera” commentò Scarpetta, alla fine. “Non credevo avessi questo senso dell’umorismo.”
“Visto? Gliel’avevo detto” disse quest’ultimo al monaco, che in tutto questo era rimasto calmo.
“Non si preoccupi, amico mio” fu la risposta del religioso. “Non è in previsione di questo che abbiamo deciso di fornirgliene una prova domattina? Così potranno essere testimoni di persona dell’efficacia di quanto dico.”
“Ah, sì?” rise Scarpetta. “E perché non stanotte?”
“Perché per usare queste mie armi c’è bisogno della luce del giorno. Non chiedereste a un arciere di lanciare una freccia nel buio per dimostrare la sua abilità, vero? Ecco, con queste funziona un po’ alla stessa maniera, come vi ho detto.”
“Io credo che faremmo bene a rimandare questo monaco da dove è venuto” intervenne Dante. “Non abbiamo bisogno del suo aiuto.”
“Oh, andiamo, messer Dante!” esclamò Scarpetta, mollandogli giovialmente una mano sulla spalla. “Che fine ha fatto la vostra curiosità? Lasciate che il monaco provi a deliziarci con i suoi trucchetti!”
***

Quando il Monaco colpì il terzo fantoccio, che i Bianchi avevano sistemato nel cortile dell’abbazia, ormai non c’era più nessuno che ridesse fra il pubblico. Soltanto Bastiera continuava a sorridere, mentre il religioso procedeva nella dimostrazione, a ogni nuovo colpo sentendo crescere l’ammirazione e la curiosità degli astanti. Le armi funzionavano. Potevano usarle per rientrare a Firenze.
“Allora, messer Scarpetta,” disse Bastiera quando il Monaco ebbe centrato anche l’ultimo bersaglio, “ha ancora dei dubbi sulla bontà del mio acquisto? E questo è solo l’inizio. Il padre mi ha promesso di rifornire un intero squadrone con armi del genere. Nel giro di un anno…”
“I servigi del padre non saranno necessari” disse Dante, facendosi avanti, scuro in volto. “Se ne può tornare dovunque abbia imparato a usare questa diavoleria.”
“Oh, non è diavoleria, messer Dante” iniziò a spiegare il monaco. “Soltanto…”
“Non mi interessa saperlo” tagliò corto il poeta. “Noi non torneremo a Firenze con questi mezzi.”
“E allora come proponi di farlo, poeta?” si inserì Bastiera, in tono altrettanto duro. “Intenerirai i Neri con una delle tue canzonette sentimentali?”
“Io non tornerò a Firenze immerso nel sangue dei miei concittadini!” disse Dante a voce tanto alta da rasentare l’urlo. “Non ho alcuna intenzione di passare alla storia come l’uomo che ha distrutto la propria città, condannato all’ignominia nel ricordo dei posteri! Avete dimenticato cos’è successo a Farinata degli Uberti?”
“Certo, è rientrato e ha governato da signore con i suoi!”
“Solo perché i suoi discendenti venissero scacciati da Firenze, e per sempre, poco dopo la sua morte, e perché la sua memoria venisse infangata per sempre! E adesso tu, Bastiera, con queste armi vorresti scatenare un massacro peggiore di Montaperti! Be’, io non ti seguirò in questa follia, e nessun uomo d’onore lo farà, se si ritiene davvero tale!”
Irato, Bastiera fece un passo avanti con la mano alzata, e solo un gesto del Monaco lo trattenne dal colpire il poeta. Attorno a loro, intanto, i Bianchi rumoreggiavano, discutendo fra loro sottovoce su quale posizione fosse la migliore, forse già dividendosi in una fazione interna. Non Scarpetta Ordelaffi, però, che si fece avanti e si mise accanto a Dante, seguito dalle sue guardie più fedeli: la sua posizione era chiara. Quanto a Manfredi degli Ubaldini, se ne stava in disparte, osservando con interesse la situazione, e non perdendo mai di vista quelle armi miracolose.
“Messeri” disse Scarpetta, richiamando l’attenzione su di sé. “Direi che non abbiamo bisogno di ulteriori dimostrazioni. Ritengo che, alla luce di quanto abbiamo visto, la nostra politica per rientrare a Firenze debba essere ridiscussa” (numerose voci di assenso si alzarono a questa notizia). “Pertanto, vado a chiedere ai frati il permesso di restare più a lungo qui nell’abbazia, così che ci sia possibile discuterne. Vi do appuntamento a oggi pomeriggio dopo la campana di sesta. Riflettete bene.”
Annuendo, i capi dei Bianchi si dispersero, diretti ognuno ai propri alloggi, lasciando al centro del cortile il Monaco e Bastiera. Dante fu tra i primi ad andarsene, seguito dal suo servitore Lapo, non prima di aver scambiato con Scarpetta uno sguardo d’intesa, che lo assicurò che i due si trovassero sulla stessa linea. Nella dispersione, nessuno notò l’uomo solitario che, da solo, uscì dal cortile del convento diretto verso la boscaglia. Di certo non lo notò il Monaco, il cui sguardo, per tutto il tempo, rimase fisso nella direzione del poeta, l’uomo che stava intralciando i suoi piani, e che in qualche modo doveva essere tolto di mezzo.

NOTE STORICHE

- Come si intuisce, la storia è ambientata dopo la condanna di Dante all'esilio, avvenuta nel 1300. Mentre il poeta era a Roma, ambasciatore presso Papa Bonifacio VIII, quest'ultimo mandò un suo legato, Carlo di Valois, ufficialmente a riportare la pace a Firenze; in realtà, quest'ultimo favorì l'ascesa al potere dei Neri, che esiliarono i loro avversari politici, fra cui lo stesso Dante. Ecco perché nel capitolo è suggerito che i Neri abbiano l'appoggio del Papa.
- L'incontro all'abbazia di San Gaudenzio, avvenuto l'8 giugno 1302, è veramente accaduto: in quell'occasione, i Guelfi Bianchi (all'epoca guidati da Scarpetta, signore di Forlì e primo a ospitare Dante dopo l'esilio), incontrarono i rappresentanti degli Ubaldini. Ho inventato il personaggio di Manfredi perché non sono riuscito a sapere chi c'era per davvero all'abbazia.
- Bastiera dei Tosinghi avrebbe poi guidato parte delle truppe dei Bianchi nella battaglia della Lastra, due anni dopo, ultimo tentativo (fallito) dei Bianchi di rientrare a Firenze con le armi. Dante si era già staccato dallo schieramento in questa data, e condannerà duramente l'impresa nella Commedia.
- Guido Cavalcanti (1258 ca - 1300) è stato amico e maestro di Dante, assieme a lui iniziatore della scuola stilnovista. Fu esiliato da Dante stesso nel 1300 a seguito degli scontri fra Bianchi e Neri, e morì nello stesso anno, dopo aver ricevuto il permesso di tornare nella sua città in extremis.
- Pier delle Vigne e Farinata degli Uberti sono noti personaggi del poema, protagonisti dei canti XIII e X dell'Inferno: il primo, ex consigliere di Federico II di Svevia e leader della scuola poetica siciliana, fu da questi imprigionato per tradimento, e si dice sia morto suicida (Dante lo trova fra i suicidi); il secondo, leader ghibellino di Firenze, esiliato, tornò in città vincendo i suoi avversari alla battaglia di Montaperti. Per questo, quando dopo la sua morte i guelfi ricacciarono i ghibellini, la sua memoria fu esecrata, e i suoi discendenti condannati all'esilio perpetuo.
- Romeo di Villanova è citato nel canto VI del Paradiso: segretario del conte di Provenza, per l'invidia dei nobili fu rimosso dal suo incarico e morì in povertà, nonostante i grandi benefici che aveva fatto per il suo signore. Dante lo cita fra i beati come, in un certo senso, 'risposta' a Pier delle Vigne e al suo gesto suicida.

Spero vi sia piaciuto, e alla prossima!

 

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Capitolo 3
*** Parte 2 ***


Ben ritrovati, miei cari lettori! Scusatemi tantissimo per il ritardo nell'aggiornamento, ma la mia attenzione è stata tutta presa dal mio viaggio a New York. Ebbene sì, in questo momento sto scrivendo dagli States, dove risiedo da una settimana, e dove resterò fino a maggio. Ho dovuto ambientarmi un attimo e finire un lavoro iniziato in Italia, ma adesso sono qui, pronto a ricominciare con il capitolo dove il Sommo incontra il Dottore. Non perdiamo tempo e via!
 
"PER SEGUIR VIRTUTE E CONOSCENZA"
Parte 2

La campana della sesta ora stava suonando, quando mise finalmente giù la penna. Dopo la deprecabile esperienza di quella mattina, Dante aveva di nuovo messo mano alla sua opera interrotta, soffocando nella bellezza dei versi le sue preoccupazioni. Era solo un abbozzo, ovviamente, ma gli anni gli avevano insegnato che, quando l’ispirazione arrivava, era meglio seguirla. E in quel caso i risultati erano stati così sorprendenti che, non per la prima volta, Dante si domandò se non avrebbe fatto meglio ad abbandonare i trattati e mettersi a lavorare completamente al suo vecchio progetto. Di sicuro sarebbe stato più divertente che continuare con i trattati.

“Messer Dante?” chiese Lapo, bussando delicatamente. Aveva imparato a sue spese che disturbare il padrone mentre componeva poteva essere molto pericoloso: gli stivali che gli erano stati lanciati contro accompagnati da insulti a tutto il suo parentado non li contava neanche più.
“Vieni pure, Lapo” rispose però stavolta Dante, con un sorriso rassicurante. “Ho appena finito.”
“Ho il vostro pranzo” disse il servitore, facendosi strada rassicurato, e appoggiando il piatto sulla tavola. “Qui fuori c’è qualcuno che vuole parlarvi. Dice che è molto urgente” aggiunse, sbuffando, in un modo che incuriosì Dante.
“Ha insistito parecchio?” domandò.
“Parecchio? A momenti buttava giù la porta! Ho cercato di fermarlo, dicendogli che stavate componendo, ma non ha voluto sentire ragioni! Ho temuto che fosse necessario legarlo” esclamò Lapo, lasciando andare tutta la sua frustrazione. Il pover’uomo era così agitato che Dante dovette mordersi la lingua per non scoppiare a ridere, facendo torto a quel servitore fedele.
“Se insiste così tanto, allora gli parlerò. Ha per caso detto il suo nome, oltre a farti impazzire?”
“Non mi pare, messere, ora che ci penso” disse Lapo. “Continuava solo a ripetere di essere un dottore.”
“Davvero? Spero allora che non abbia cattive notizie sulla mia salute. Metti pure il pranzo in tavola e fallo entrare.”

Lapo obbedì, e dopo pochi secondi fece entrare il misterioso visitatore: un uomo anziano con indosso un paio di vivaci pantaloni azzurri, una casacca bianca e un mantello ocra, i cui occhi neri saettavano curiosi da un lato all’altro della stanza. “Messere, la ringrazio di avermi ricevuto” disse, chinando la testa. Teneva le mani all’altezza delle spalle, notò il poeta, come se stesse cercando di tenersi in piedi, e il suo atteggiamento era uno strano misto di serio e comico, cose nello stesso corpo fossero stati rinchiusi un buffone e un uomo molto saggio. Decisamente costui dev’essere un uomo interessante, pensò il poeta.
“Si accomodi, dottore” gli disse, indicandogli una sedia. “Il mio servitore mi ha detto che voleva vedermi urgentemente. Mi perdoni se non l’ho ricevuta prima.”
“Si figuri, giovanotto, si figuri” fu la risposta, che prese Dante alla sprovvista, lusingandolo. Di sicuro il suo interlocutore era più anziano, ma definirlo giovanotto… Insomma, aveva ormai quasi quarant’anni! “Ah, e comunque” continuò l’interlocutore “il suo servitore ha capito male la mia presentazione. Io non sono un dottore, sono il Dottore, l’unico e inimitabile, si potrebbe dire.”
“È una presunzione notevole. Fossi in lei, uscito da qui andrei a confessare il peccato di superbia a uno di questi padri” scherzò Dante. “Ma comunque, in cosa posso esserle utile? Spero non si tratti di una cosa di medicina perché, se devo essere sincero…”
“No, messer Alighieri” disse il Dottore, diventando serio. “La cosa è molto più importante. Si tratta del monaco che stamattina è venuto a offrirvi il suo aiuto.”

“Lei lo conosce?” chiese Dante, facendosi subito serio anche lui.
“Purtroppo, sì, e bene, anche. Lui ed io un tempo eravamo… compagni di studio, su… argomenti che sarebbe stato meglio non toccare.”
“Stregoneria, lo sospettavo” mormorò Dante.
“Scienza” lo corresse il Dottore. “Ma non ha importanza, al momento: ora mi ascolti.”
“Perché dovrei?” domandò il poeta. “Ha appena detto di essere stato un amico di quell’impostore.”
“La sua diffidenza è giustificata, ma la rassicuro subito. Non intendo convincerla ad aiutarlo, al contrario, intendo aiutarla a impedire ai suoi compagni di fidarsi di quell’impostore.”
“Posso chiederle come ha fatto a sapere che era qui? Anzi, ora che ci penso, come sa che mi sono opposto a lui, e cosa è successo oggi?”
“Questi sono affari miei” replicò il Dottore, bruscamente. “A lei basti sapere che sono sulle tracce del Monaco da molto tempo, e con lo specifico intento di fermarlo dal causare morte e distruzione. Se voi accettaste il suo aiuto, le conseguenze sarebbero molto più gravi di quanto immagina.”
“Addirittura?” domandò il poeta. “E cosa dovrebbe succedere, di preciso?”
“L’intera struttura della Storia umana ne sarebbe sconvolta, ecco cosa!” esclamò il Dottore, perdendo la pazienza di fronte all’ostinazione dell’altro (perché gli esseri umani dovevano essere così testardi, si domandò non per la prima volta). “Ci sono misteri che è meglio non indagare, cose con cui non bisogna scherzare, e questo è esattamente ciò che fa il Monaco. Non gli deve essere permesso ciò!”

L’improvviso scoppio di rabbia fu così forte da colpire Dante di sorpresa, inducendolo a guardare di nuovo, con più attenzione, il suo interlocutore. Ogni traccia di buffoneria ora era scomparsa, e tutti i lineamenti del suo volto erano ora così tesi che subito il poeta capì che non c’era alcun inganno nelle sue parole. E per qualche strano motivo, ne fu sollevato, come se una parte di lui, per tutto quel tempo, avesse per davvero desiderato che quello strano uomo fosse suo amico.

“Non pretendo di aver capito” disse allora, “ma per il momento diciamo che le credo. Cosa vorrebbe che facessi? La posso far parlare con Scarpetta e gli altri, se…”
“No, messere, non è quello che chiedo. In realtà, credo sarebbe meglio che il Monaco non sapesse affatto che io sono qui. Potrei esservi più utile in questo modo.”
“E allora, cosa vuole?”
“Ho un compagno, un giovane devoto e leale, che ho già mandato qui nel vostro campo per spiare le mosse del nostro nemico. Tutto ciò che le chiedo è di stare in contatto con lui e di riferirgli tutto ciò che viene a sapere sulle mosse del Monaco. L’ideale, se possibile, sarebbe se gli riferisse dov’è che alloggia, e dove tiene le armi che passa a chi le ascolta. Al resto penserò io.”
“Molto bene… Dottore” annuì Dante. “Mi mandi questo suo compagno, e io vedrò come posso esservi utile. Come lo riconoscerò?”
“Oh, non preoccupatevi, vi contatterà lui” disse il Dottore, alzandosi dalla sedia. “Adesso, mi scusi, ma è meglio che vada. Ho già corso un grosso rischio a venire qui, se mi attardo oltre il Monaco potrebbe vedermi. A presto, dunque, messere.”
Dante accompagnò il Dottore alla porta e lo vide andare via, scomparendo nelle ombre che si allungavano nel chiostro dell’abbazia. Lapo, preoccupato dall’espressione del suo viso, gli chiese come stava. “Sto bene, sto bene” rispose il poeta, con un cenno della mano, nel tentativo di sviarne le preoccupazioni: ne aveva già abbastanza il suo padrone. Gli disse solo che, se qualcuno l’avesse cercato, poteva trovarlo nella cappella dell’abbazia: aveva bisogno di riflettere.
***

“La disturbo?” chiese il Monaco, sedendosi sulla panchina accanto a lui. “Posso aspettare che abbia finito le sue preghiere, se desidera.”
“No, meglio che parli adesso” rispose il poeta, sopprimendo uno scatto di irritazione. Se davvero aveva intenzione di fidarsi di quello strambo Dottore, pur essendo consapevole che c’era qualcosa che gli aveva nascosto, tanto valeva cominciare subito. “Così, quando avrà finito, potrò meditare sulle sue parole nel miglior posto possibile.”
“Un’eccellente idea, e degna di un uomo devoto. Lei è pari alla sua fama, messere.”
“L’ultima volta che sono passato a Firenze la mia fama era di essere un barattiere e un traditore” ribatté Dante sarcastico.
“E non lo trova vergognoso? Un uomo della sua levatura morale, e artistica, se posso aggiungere, non merita di essere trattato in questo modo.”
“Se ha intenzione di far leva su un mio presunto desiderio di vendetta per le mie ingiustizie, perde il suo tempo” lo interruppe il poeta. “Sono arrabbiato, certo, ma non al punto da desiderare un massacro. Se lo facessi, non sarei diverso da chi mi ha esiliato.”
“Ma sarebbe uguale ad altri grandi uomini che ammira” continuò il Monaco. “Lei ha citato oggi Farinata degli Uberti, o sbaglio?”
“Che è stato processato dopo la morte per eresia, e i cui figli hanno visto l’esilio. Non ho intenzione di far vivere ai miei la stessa esperienza.”
“Ma chi dice che la dovranno vivere? Io le posso garantire che, con il mio aiuto, ciò non accadrà mai. Non solo riconquisterete Firenze, ma la terrete e la governerete a vostro piacimento.”
“Io non voglio governare Firenze a mio piacimento” insistette Dante. “Io voglio tornare in patria come un cittadino rispettato e tornare a lavorare per il suo benessere. Le sue armi non rientrano nel modo in cui intendo farlo.”

“E allora come?” chiese il Monaco, e Dante fu contento di sentire che il tono mellifluo della voce si era incrinato. Il serpente mostrava le zanne, ora che la lingua aveva fallito. “Lei e i suoi compagni avete contro il Papa e il re di Francia, e nessun imperatore non si occupa dell’Italia da tanto, troppo tempo. Chi vi aiuterà a…?”
“Io ho fiducia nella bontà di Dio, e nello sforzo degli uomini di buona volontà da entrambe le parti. Finché ci sarà speranza, io mi fiderò di questo” rispose il poeta, alzandosi dalla panchina per andarsene. La conversazione era finita, per lui. Non, a quanto pare, per il Monaco, che si alzò dietro di lui e, a voce più alta, disse: “E se questo non dovesse succedere? Se lei non tornasse mai a Firenze?”
Fermo sulla soglia della cappella, Dante si voltò verso il religioso, calmo all’esterno, ma con la rabbia che gli schiumava dentro. “È una minaccia?”
“No, è una possibilità, e sono sicuro che lei l’ha considerata. Se lei a Firenze non tornasse mai più? Se questo esilio, che lei dice non la turba, diventasse la sua condizione di vita? Si ritiene capace di sopportarlo?”

“Lo sa” rispose Dante, un sorriso di scherno sul suo volto, “per gli abiti che indossa, questo è davvero un discorso inadatto. Un monaco dovrebbe essere un uomo di pace, un uomo di Dio. Tutto quello che ho sentito uscire dalla sua bocca sono state parole di odio e di morte, e sa che le dico? Capiti quello che deve capitare, io lo accetterò, come un figlio che accetta dal Padre quello che egli gli dà.”
“Anche se il padre è ingiusto?”
“Quello che ho in mente io non lo è. Quindi non sprechi con me le sue parole di miele, la sua lingua velenosa. Meglio un esilio dignitoso che un ritorno in patria marchiato dall’infamia.”
“Molto bene” annuì allora il Monaco, dopo un istante di silenzio. “Allora credo che non abbiamo altro da dirci, messere. Spero vivamente che non abbia a pentirsi, un giorno, di aver rifiutato il mio aiuto.”
“Stia tranquillo, non succederà” disse il poeta, prima di uscire dalla cappella, non prima di aver chinato il capo in un reverente segno della croce.

Rimasto solo nella chiesa vuota, il Monaco tirò fuori dal saio le due boccette che aveva appena recuperato dal proprio TARDIS. Aveva davvero sperato di non doverle usare. Ammirava il genio dell’uomo, la bellezza che sapeva creare con le sue parole, l’alta fantasia e la profonda morale che lo rendevano davvero un grande fra i suoi simili. Ma purtroppo, adesso era diventato un problema, e uno di quelli che andavano risolti in maniera drastica. Meglio sbrigarsi allora, non avrebbe avuto molto tempo per drogare il vino del servitore.

NOTE

- I trattati cui Dante fa riferimento sono il Convivio e il De vulgari eloquentia ("l'eloquenza del volgare"), due trattati, uno in volgare e l'altro in latino, che il poeta stava scrivendo in quel periodo. Il primo intendeva servire come opera di sapienza, teologica e politica, a partire dalla spiegazione di alcune poesie da lui scritte; il secondo era una difesa dell'uso del volgare come lingua letteraria contro chi ancora utilizzava il latino. Entrambi i trattati saranno lasciati incompiuti per dare spazio alla stesura della Commedia, che secondo gli studiosi iniziò fra il 1304 e il 1306, due/quattro anni dopo la nostra storia.
- Ufficialmente, Dante era iscritto all'Arte (corporazione) dei Medici e degli Speziali, da qui la battuta sul nome di "dottore".
- L'ora sesta equivale al nostro mezzogiorno.
- L'accusa ufficiale con cui Dante è stato bandito da Firenze è quella di baratteria, ovvero di vendita di cariche pubbliche.
- Il Monaco fa riferimento all'ostilità verso i Bianchi sia del Papa, Bonifacio VIII, che del re di Francia, Filippo IV il Bello. Il primo ebbe parte attiva nell'esilio di Dante, il secondo fu aspramente criticato dal poeta per la sua politica anti-papale e anti-imperiale. L'imperatore è ovviamente quello del Sacro Romano Impero, la cui autorità Dante avrebbe invocato più di una volta come soluzione al caos della politica italiana.

E con questo è tutto, gente. A partire da oggi, gli aggiornamenti avverranno nei multipli di 10 di ogni mese, quindi (incrociando le dita) ci vediamo dopodomani per la parte 3 (su 6 complessive) di questa prima avventura; altrimenti, ci rivediamo il 20. Ringrazio ancora Alessia e Cara93 per le recensioni, e alla prossima!

 

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Capitolo 4
*** Parte 3 ***


E incredibile ma vero, signore e signori, ecco un nuovo capitolo! Sì, l'ho detto che avrei aggiornato o il 10 o il 20, ma poi mi sono ritrovato con un po' di tempo libero e un'occasione da festeggiare, ed eccomi qua! E con questo, il ritardo di fine febbraio è recuperato, dal 20 riprende la pubblicazione usuale. Come sempre, buona lettura!
 
"PER SEGUIR VIRTUTE E CONOSCENZA"
Parte 3

 
Dante Alighieri cominciò a sentirsi male già la mattina dopo: un forte mal di testa, accompagnato da una tremenda nausea, gli impedì di alzarsi dal letto. Ben presto, cominciò a scottare per la febbre, e solo con molta fatica Lapo riuscì a fargli ingurgitare qualcosa. Provò a dormire, ma senza successo: continuava a rigirarsi nel letto, come se soffrisse di un gran caldo, e sudava copiosamente. Alla sera, le sue condizioni erano così peggiorate che Scarpetta Ordelaffi, preoccupato, suggerì di chiamare un dottore.

“Posso occuparmene io” disse il Monaco. “Le mie conoscenze in fatto di cura dei corpi sono equivalenti a quelle delle armi. E purtroppo, temo che il vostro amico sia preda di un terribile maleficio.”
“Davvero?” domandò Scarpetta. “Adesso tirate in ballo la magia, padre?”
“Se volete, potete sempre chiamare dei dottori, ma non vi diranno più di quanto vi ho già detto. Il morbo che affligge messer Dante è qualcosa che sorpassa, e di molto, le loro conoscenze.”

I fatti diedero ragione al Monaco. Nei due giorni successivi, vari medici si alternarono al capezzale del poeta, e nessuno di loro riuscì a identificare il suo malessere, o suggerire una cura. Dante era sempre più debole, e sul suo corpo avevano iniziato a spuntare strane bolle nere, che il Monaco definì “bubboni”, dicendo che segnalavano la fine imminente.

“Se volete salvare il vostro amico” insisteva “dovete affidarlo a me. Se non riuscirò a guarirlo, almeno potrò scoprire cosa ha causato il suo male.”

Le insistenze del Monaco erano vivamente appoggiate da Bastiera dei Tosinghi, il quale si diceva convinto che Dante fosse stato vittima di una qualche stregoneria operata dai Neri, che volevano impedire loro di usare le armi del Monaco per rientrare a Firenze. Scarpetta, ovviamente, si opponeva con tutte le proprie forze, ma più la salute del poeta peggiorava, più la convinzione di Bastiera faceva presa sugli altri membri del loro schieramento. Il Monaco non interveniva sulla questione, ma il suo silenzio poteva essere interpretato in tanti modi. All’alba del terzo giorno, Dante era così debole che persino Scarpetta fu costretto a credere alle parole del Monaco: se non si faceva qualcosa, e presto, non avrebbe superato la notte. Bastiera allora cominciò a insistere che si affidasse il poeta al Monaco, come si sarebbe dovuto fare fin dall’inizio, e questa volta molti dei Bianchi si schierarono con lui. Scarpetta sapeva che ormai non poteva attendere molto, e tuttavia, restava convinto che non fosse la mossa giusta da compiere: due giorni prima, lui e Dante avevano condiviso la stessa sfiducia nei confronti di quell’individuo. Ma allora, cosa fare, si domandò infuriato, mentre percorreva avanti e indietro il chiostro dell’abbazia, cercando di riflettere.

“Messer Ordelaffi?” disse Lapo, avvicinandosi cautamente. “Posso parlarvi un attimo?”
“Certo, Lapo, dimmi” sospirò quest’ultimo.
“C’è qualcosa che vi devo dire. Ho esitato finora perché non ne ero sicuro, ma adesso credo sia opportuno sappiate. Tre giorni fa, prima di ammalarsi, il mio padrone ha ricevuto una visita.”
“Da chi?”
“Un certo Dottore, non ha voluto dire il suo nome. È arrivato qui mentre stava componendo, e insisteva tantissimo per parlare con lui. Alla fine, l’ho fatto entrare, e poi… be’…” esitò Lapo, arrossendo, “confesso di avere origliato. Ero curioso, e…”
“Va bene, va bene, taglia le scuse e va’ avanti!”
“Parlavano del Monaco, messere. Il Dottore ha detto di conoscerlo da molto tempo, e ha incoraggiato il mio padrone a non fidarsi di lui, e opporsi all’utilizzo delle sue armi. Ha detto di essere giunto qui per fermarlo, e ha chiesto che, non appena possibile, il mio padrone gli passasse delle informazioni… voleva sapere in particolare dove alloggiava. Il padrone ha accettato, e lui se ne è andato dicendo che un suo compagno lo avrebbe contattato presto.”
“E tu perché lo dici solo ora?” chiese Scarpetta, iniziando ad alterarsi.
“E come potevo dirlo prima, messere? Quel Dottore ha insistito sulla massima segretezza riguardo la sua presenza qui, e con messer Bastiera che dice che il mio padrone è stato oggetto di stregoneria… Insomma…”
“D’accordo, penso di aver capito” rispose Scarpetta, recuperando la calma. Non aveva senso prendersela con il povero Lapo, che aveva solo eseguito quelli che, se Dante avesse potuto darli, sarebbero stati i suoi ordini. “E questo compagno si è fatto vivo?”
“Proprio oggi, messere. È venuto da me un’ora fa, dicendomi che veniva da parte del Dottore. Io gli ho detto tutto, e lui ha insistito per parlare con voi. Dice che il Dottore potrebbe curarlo.”
“Allora che aspetti? Portami da lui!”
***

Assolutamente fuori discussione!”
“Dottore, da quanto ho capito quell’uomo è in fin di vita! Il Monaco gli deve aver fatto qualc…”
La vita di Dante, e la stesura della Commedia, sono un punto fisso nel tempo. Ho controllato prima di venire qui. Non gli può capitare nulla di serio.”

Dalla sua posizione, nella stanza dell’abbazia riservata a Ordelaffi, Steven Taylor grugnì di frustrazione attraverso la radio con cui lui e il Dottore parlavano. Il vecchio era in uno dei suoi momenti di ostinazione, a quanto pare, quelli in cui Steven faceva parecchia fatica a non prendere qualcosa e lanciarglielo addosso, o se non altro urlargli contro fino a perdere la voce. Il Dottore sembrava un adolescente, in quei momenti: umorale e testardo, anche di fronte alle cose più ovvie e banali. E ovviamente toccava a lui, Steven, che già di pazienza non è che ne avesse poi molta, darsi da fare per farlo ragionare.

“Ok, Dottore, sarà come dice lei, ma rifletta un attimo. Stiamo parlando del Monaco, che ha già cercato di cambiare quei… punti fissi di cui parla. Anzi, se non sbaglio, è quello che sta facendo ora, no?”
Sì, così sembrerebbe.”
“Bene, e Dante Alighieri l’ha ostacolato. Mi dica, Dottore, in tutta franchezza, davvero lei ritiene…”

La porta dello studio cominciò ad aprirsi proprio in quel momento, costringendo Steven a chiudere la comunicazione in fretta. Scarpetta Ordelaffi entrò nella stanza, gli occhi fissi sul giovane, cui ordinò perentoriamente di sedersi. Steven obbedì, mentre si preparava mentalmente a rispondere alle domande che sarebbero arrivate.

“Avete un nome, messere?”
“Stefano” disse Steven. “Stefano Sarti” aggiunse poi, italianizzando il proprio nome, come gli aveva suggerito il Dottore.
“Bene, messer Sarti. Lapo mi ha detto quanto è accaduto fra voi e il vostro padrone. Potreste, di grazia, rispiegarmi il tutto?”
“Certamente” disse Steven, prima di ripetere, in breve, quanto il Dottore gli aveva detto di riferire. Disse che il Dottore e il Monaco si conoscevano da tempo, che avevano studiato insieme, ma che poi della loro scienza avevano fatto un uso diverso. Il Dottore aveva le stesse conoscenze del Monaco, e poteva intervenire e rimediare; inoltre, egli era assolutamente contrario a qualsiasi sua azione. Aveva contattato messer Dante, due giorni fa, perché aveva bisogno di informazioni, e Dante era sembrato il più fiero oppositore del Monaco, perciò…
“E per quale motivo il Dottore vorrebbe sapere dove alloggia il Monaco?” domandò Scarpetta.
“Noi riteniamo” spiegò Steven, paziente “che il Monaco tenga tutti gli strumenti con cui opera in un certo posto. Il piano era che messer Alighieri ce ne avrebbe fornito l’ubicazione, e noi poi saremmo intervenuti per distruggerli, o quanto meno renderli inefficaci. Abbiamo atteso qualche giorno perché il Monaco non sospettasse la nostra presenza.”
“Avete detto che il Dottore ha le stesse conoscenze del Monaco. Questo include la medicina?”
“M-ma certo!” si affrettò ad aggiungere Steven, soffocando il ricordo delle numerose volte in cui il Dottore aveva detto di non essere quel tipo di dottore. “Anzi, è nostra convinzione che dietro la malattia del poeta vi sia proprio il Monaco. Se mi lasciate andare, porterò qui il Dottore, e lui potrà dargli un’occhiata.”

“Io ho un’idea migliore” disse Scarpetta, alzandosi. “Perché non mi accompagnate da questo vostro Dottore? Così potrò parlargli di persona.”
“D-da lui?” domandò Steven, sorpreso. Questa domanda era del tutto inaspettata. “Be’…” disse, prendendo tempo per pensare. Il Dottore era stato tassativo: nessuno doveva avvicinarsi al TARDIS, nessuno doveva scoprirli. D’altra parte, però, che altre vie d’uscita aveva? Dargli l’ubicazione perché andassero da soli sarebbe stato ancora peggio, e almeno in tal modo, pensò alla fine Steven, il Dottore non si sarebbe potuto esimere dall’intervenire.
“D’accordo” sospirò alla fine. “Prepari alcuni uomini, vi porto da lui.”
***
 
Li sta portando qui, gli sussurrò il TARDIS, mentre il Dottore cercava ancora di riattivare la comunicazione.
“Cosa?” esclamò il Dottore, preoccupato e arrabbiato. “Che vuol dire, li sta portando qui?”
Quel che ho detto, rispose la macchina.
“Oh per la…” ansimò il Dottore. Lo sapeva che sarebbe dovuto andare di persona, invece di mandare Steven! “Tra tutte le cose che non doveva fare…”
Devi aiutarli.
“Devo? Devo?” domandò il Dottore, in tono di sfida. “E perché dovrei? Cosa sono diventato, la bambinaia degli esseri umani? E poi, non si può riscrivere la storia, l’ho già detto a Barbara una volta!”
E quindi, lascerai che lo faccia il Monaco?
“No, ovviamente no, lo fermerò se posso, ma non ho alcuna intenzione di farmi coinvolgere nelle beghe degli abitanti di questo pianeta! L’ultima volta che l’ho fatto, Nerone ha incendiato Roma!”
E la volta prima, la Terra è stata liberata dai Dalek. Direi che le due cose si equilibrano.
“Non è questo il punto! Per la miseria, ho rubato un TARDIS e sono ricercato, non posso andare in giro per l’universo a lasciar tracce della mia presenza…”
Nemmeno se questo comporta salvare una vita?
“E con quale diritto dovrei salvare la sua vita?” esclamò all’improvviso il Dottore, in un così totale e improvviso slancio di onestà che lasciò perplesso lui per primo, e che non riuscì a fermare in tempo. “Perché? Tutti vivono, tutti muoiono, le stelle scompaiono, perfino i Signori del Tempo alla fine cessano di rigenerarsi! Chi mi ha dato il diritto di decidere chi vive e chi muore? Non è per questo che me ne sono andato da Gallifrey, per diventare una sorta di… di… guardiano dell’universo!”
E allora perché?
“Perché…” iniziò il Dottore, solo per venire interrotto dal suono di qualcuno che bussava alla porta del TARDIS. Senza che lui si muovesse, lo scanner da solo si accese, mostrandogli Steven accompagnato dagli uomini di Scarpetta, in piedi di fronte alla porta d’entrata dell’astronave. “Mi hai distratto” mormorò allora, rivolto alla macchina, in un misto di rabbia e di sorpresa.
Naturalmente, fu l’ironica risposta.
***
 
“Che razza di abitazione è questa?” stava chiedendo intanto Scarpetta a Steven, osservando meravigliato le pareti blu della cabina telefonica. “Ho visto alcune cose curiose anch’io, ma questa le batte tutte.”
“È qualcosa di speciale” ribatté Steven, cercando di stare sulla difensiva. Non intendeva certo dare informazioni sul TARDIS a un signore feudale del XIV secolo – anche se probabilmente non le avrebbe nemmeno capite.
“E come è possibile che una persona ci viva?”
“È più grande all’interno” replicò Steven con un’alzata di spalle, cercando di farla sembrare una battuta. Scarpetta fece per rispondere, forse per ridere, ma in quel momento la porta si aprì e il Dottore ne venne fuori, con indosso il suo panciotto e la giacca nera, e in mano il bastone da passeggio.
“Buon pomeriggio, messer Ordelaffi” disse, rivolgendosi subito al capo della comitiva. “Stefano” aggiunse poi con un cenno del capo, rivolto al suo compagno, in tono freddo.
“Dottore” rispose Steven, senza staccare gli occhi da Scarpetta, che osservava il Dottore con diffidenza e sospetto.
“So cosa volete chiedermi” aggiunse subito quest’ultimo, rivolto al signore di Forlì. “Il mio compagno mi ha informato della malattia di messer Alighieri.”
“Ha anche detto che voi potete curarla” disse Scarpetta. “La vostra sapienza deve essere grande, nessuno dei medici che ho fatto consultare si è nemmeno avvicinato a riconoscerla.”
“Davvero?” domandò il Dottore, tamburellando con le dita sul pomo del bastone. “Potrebbe darsi, messere, potrebbe darsi. Posso chiedere quali sintomi presenta il poeta?”
“Febbre alta, brividi, nausea… fatica a mangiare… e ha una sorta di… di tumore sotto l’ascella, e sullo stomaco. Bubbone, lo chiama il Monaco.” Quest’ultimo dettaglio, Steven se ne accorse, sembrò catturare l’attenzione del Dottore, i cui lineamenti si tesero.
“Ha detto così? Bubbone?” chiese il Signore del Tempo, e quando Scarpetta glielo ebbe confermato, aggiunse: “Bene, allora non mi meraviglia che i vostri medici non l’abbiano riconosciuta. Siamo cinquant’anni prima che…”
“Poche storie, Dottore!” tagliò corto Scarpetta, minaccioso. “Voi la sapete curare, questa malattia, o…”
“Certo che lo posso fare!” replicò il Dottore, alterato. “E sarà meglio per tutti che mi portiate da messer Alighieri al più presto, invece di litigare! E tu” disse il Dottore, sbuffando d’impazienza “potevi dirmelo che si trattava di peste bubbonica!”
“E come facevo a saperlo?” provò a difendersi Steven, ma il Dottore già non lo ascoltava più: afferrato Scarpetta per un braccio, lo stava trascinando verso l’abbazia a passo sostenuto. Steven, scuotendo la testa, si affrettò a seguirli – non prima di ringraziare mentalmente il TARDIS che, ne era sicuro, doveva essere intervenuto in qualche modo. Non fu nemmeno poi così tanto sorpreso quando gli sembrò di sentire la macchina articolare un Prego nella sua testa.

NOTE DI FINE CAPITOLO

- La prima epidemia di peste bubbonica documentata risale al 1347-50, quindi circa cinquant'anni dopo la nostra storia. E' quindi altamente improbabile che un medico l'avrebbe riconosciuta prima di allora. Il Monaco l'ha iniettata a Dante, per motivi che potete immaginare; nel prossimo capitolo verrà detto come mai la malattia non si riveli contagiosa.
- Alla fine di "The Romans", quarto serial della seconda stagione classica, il Primo Dottore effettivamente dà a Nerone l'idea di incendiare la città. L'incidente viene accennato anche nella seconda puntata della quarta stagione della serie nuova, quando Dieci dice a Donna: "Prima che tu me lo chieda, non c'entro niente con quell'incendio" (regola numero 1 di River Song?). La Terra liberata dai Dalek, invece, è la conseguenza del secondo serial della stessa stagione, "The Daleks Invasion of Earth".

Bene, direi che per il momento è tutto. Non mi resta che darvi appuntamento fra cinque giorni, al 20, per il prossimo capitolo. Alla prossima!

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Capitolo 5
*** Parte 4 ***


Sono vivo, signori e signore, e come al solito in tremendo ritardo. Ma no, non ho alcuna intenzione di mollare questa storia, e ci tenevo a scrivere questo capitolo, che ne costituisce il cuore. Quindi, non perdiamo tempo e tuffiamoci a pesce nella quarta, e penultima, parte della nostra prima storia!
 

"PER SEGUIR VIRTUTE E CONOSCENZA"
Parte 4

 
Non ci volle molto prima che la notizia fosse nota in tutta l’abbazia: Scarpetta Ordelaffi aveva trovato, un altro dottore, e l’aveva portato a vedere il malato. I più lo bollarono come l’ultimo tentativo disperato del signore di Forlì per salvare l’amico, in non pochi aggiunsero che, tentare per tentare, tanto valeva affidarlo direttamente al Monaco, seppellendo la diffidenza. Bastiera dei Tosinghi, di fronte a questa notizia, ebbe un approccio meno filosofico.
“Ordelaffi!” esclamò avvicinandosi al signore, che assieme al proprio seguito stava in piedi al di fuori della stanza del poeta, aspettando notizie.
“Ha qualcosa da dirmi, messer dei Tosinghi?” domandò cortesemente l’interpellato.
“Cos’è questa storia che hai portato un altro dottore a vedere Alighieri?”
“La pura verità. Ho trovato un altro guaritore, che mi ha detto di poterlo guarire. Visto che l’alternativa era lasciarlo morire, ho pensato…”
“L’alternativa? Hai forse dimenticato chi è con me?” chiese Scarpetta indicando il Monaco. “Perché non lasciare che…”
“Perché, come ho ripetuto più volte evidentemente senza essere ascoltato, io non mi fido di questo tuo Monaco – un uomo di cui non sappiamo niente e che si è presentato da noi proponendoci strane armi che sono in grado di fare un massacro senza precedenti. Nessuno che si presenta in questo modo è degno di fiducia.”
“Tu come il poeta… intellettuali, bravi solo a parlare! Cercate le nostre armi quando ne avete bisogno, ma poi non avete il fegato per fare quanto necessario!”
“E quanto dovrà essere grande il bagno di sangue che tu ritieni necessario, Bastiera? Non…”
Il diverbio fu interrotto, proprio in quel momento, da tre colpi dati all’interno della porta. Era il segnale convenuto: gli uomini di Scarpetta, e Lapo, si affettarono ad aprire la porta. Il Dottore ne uscì sistemandosi le maniche della giacca, seguito da Steven.
“Ebbene?” chiese Scarpetta, ansioso.
“Messer Alighieri è fuori pericolo” dichiarò il Dottore. “Suggerisco di mandare qualcuno nelle cucine per fargli preparare un pasto sostanzioso, è molto debole.”
“Vado io” si offrì subito Lapo, solo per essere fermato subito da Steven.
“Mi dispiace, Lapo, ma il Dottore vuole visitarti, tu e tutti quelli che sono stati a più stretto contatto con messer Alighieri. Il male che ha colpito il poeta è contagioso, e vorremmo cercare di contenerlo.”
“Vai pure, Lapo, manderò uno del mio seguito” disse Scarpetta. “E poi radunerò tutti quelli che sono stati vicino ad Alighieri, quanti potrò trovare.”
“Il più in fretta possibile, messere” disse il Dottore. “Ah, e per favore, fate preparare per me e per il mio compagno un qualche posto dove coricarci. Resteremo qui, stanotte, a prenderci cura del malato, per assicurarci che la guarigione…”
“Guarigione?” domandò Bastiera, facendosi avanti minaccioso. “Chi ci assicura che sia guarito?”
“Messere, non stavo parlando con lei” fu la risposta del Dottore, che agitò la mano come se stesse scacciando un insetto fastidioso. “Dicevo…”
“Ma io parlo con lei” insistette Bastiera, “e glielo domando di nuovo: chi ci assicura che è guarito?”
“Non è mia abitudine mentire su simili questioni” rispose duro il Dottore.
“Bastiera, ora basta!” esclamò Scarpetta, adottando subito un tono imperioso, da superiore. “Lo vedremo subito se Alighieri è guarito per davvero. Entrerò nella stanza con lei, Dottore, e non abbandonerò il fianco del poeta per…”
“Si accomodi pure, messere” disse il Dottore. “Non ho niente in contrario a un po’ di compagnia, se è quella giusta” aggiunse, prima di rientrare nella stanza. Scarpetta si fermò fuori ancora un attimo per dare un paio di ordini ai propri servi, poi lo seguì. Vedendosi ormai ignorato, Bastiera dei Tosinghi si allontanò, ancora su tutte le furie. Probabilmente per questo non notò Steven che, dopo avere atteso un istante, prese a seguire i suoi passi a distanza di sicurezza.
 
*

Le ore passarono, e il pomeriggio scivolò tranquillamente nella sera. Dante aveva ormai ripreso conoscenza e, grazie anche al lauto pasto che aveva consumato, stava recuperando rapidamente le forze. Scarpetta, ormai del tutto convinto, aveva ringraziato calorosamente il Dottore, offrendogli ogni sorta di compenso, solo perché tutti venissero rifiutati dal Signore del Tempo. Quando le ombre si allungarono troppo, il signore di Forlì diede a tutti loro auguri di buon riposo e andò a letto; il fedele Lapo, conclusi i suoi doveri presso il padrone, lo imitò. Per quell’ora, il Dottore aveva esaminato quanti soggetti era stato possibile rintracciare nell’abbazia che erano stati a contatto con Dante, e dopo averli esaminati con attenzione aveva concluso che nessuno di loro era stato infettato. Evidentemente, il Monaco aveva preso precauzioni perché non si scatenasse un’epidemia, cosa di cui il Dottore gli fu mentalmente grato. Curare Dante dalla peste era stato già abbastanza difficile, persino per uno come lui, se avesse dovuto farlo più di una volta…
“Perché non riposa?” domandò il Dottore al suo paziente. Era ormai da ore che Dante scriveva furiosamente sulla pergamena che aveva richiesto, quando si era sentito forte abbastanza. Diceva che gli serviva per distendersi, ma il Signore del Tempo nutriva il legittimo sospetto che in realtà fosse il suo modo per recuperare un contatto con il mondo reale dopo aver quasi sfiorato la morte.
“Ho quasi finito” rispose Dante, “e comunque non sono stanco. Sono rimasto fin troppo a letto, questi giorni.”
“Appunto per questo dovrebbe riposare un po’. La malattia l’ha debilitata, deve riprendere le…
“Lo farò più in fretta se ho qualcosa su cui concentrarmi. E poi, avevo già cominciato questi versi prima di essere colpito dalla malattia, tanto vale finirli.”
“Molto bene, faccia come vuole” disse il Dottore, arrendendosi. La testardaggine di quell’uomo era qualcosa di impossibile, persino per uno come lui. Si sedette sul letto di fortuna che Scarpetta aveva fatto preparare per lui in un angolo della stanza, e guardò l’orologio che portava al polso. Steven non era ancora tornato, e la cosa cominciava a inquietarlo. Come mai non aveva ancora trovato l’alloggio del Monaco? Quanto poteva essere grande quell’abbazia? E soprattutto, quanto ancora avrebbe dovuto aspettare? Doveva davvero restare tutta la notte a guardare un uomo malato? Oh Rassilon, se non trovava qualcosa da fare al momento sarebbe morto di noia. “Di cosa parla la poesia?” chiese alla fine, non trovando altra soluzione.
“Non è una poesia… cioè, lo è, ma non un sonetto o una canzone. È… è qualcosa di più grande.”
“Di cosa si tratta?” A questa domanda, Dante alzò lo sguardo, fissando i suoi penetranti occhi scuri in quelli del Dottore. L’espressione delle pupille del poeta era attenta, scrutatrice, e diffidente. “Oh, me lo può dire” disse il Dottore, sorridendo. “Anzi, facciamo una cosa: le sue confidenze sono il prezzo per averle salvato la vita. Che ne dice?”
Dante lo fissò ancora per un istante, prima di sorridere leggermente, e iniziare a parlare. “È un poema che tratta di un viaggio. Mi è venuta l’idea leggendo il Tesoro… sa, l’opera di Brunetto Latini.”
“Temo di non conoscerlo.”
“Messer Brunetto aveva scritto questo poema, che ha lasciato incompiuto, dove si perdeva in una cupa selva dopo la battaglia di Montaperti e incontrava varie allegorie della Natura e delle Virtù. Io… ecco… pensavo di fare qualcosa del genere, ma in un modo diverso. Io viaggerei attraverso il regno dei morti, come Enea: Inferno, Purgatorio e Paradiso. Ci penso fin da prima di lasciare Firenze, ormai sono due anni. Ho steso qualche bozza, preso appunti, e… e di tanto in tanto scrivo già dei versi.”
“Oh” commentò il Dottore, che per tutta la spiegazione non era riuscito a trattenere un enorme sorriso. “È un progetto ambizioso.”
“Lo so” sospirò Dante. “È il motivo per cui non mi decido mai ad affrontarlo. C’è qualcosa che mi blocca, come se… come se sentissi che, nel momento in cui vi metterò mano sul serio, non potrò più tornare indietro. Ha mai avuto la sensazione, Dottore… di sapere esattamente cosa voler fare, ma avere paura di darsi tutto all’impegno per farlo?”
“Mi creda, la conosco bene” sospirò il Dottore: era esattamente come si era sentito lui tutte le tante, troppe volte che aveva provato a lasciare Gallifrey. “Ha paura di quello che significherebbe per la sua vita, le conseguenze che questo implicherebbe. Ciò che perderebbe, e ciò che non avrà mai più.” La voce del Dottore si abbassò, mentre i ricordi che l’avevano tormentato di recente si rifacevano vivi. Il suo viso era ora tinto di una tristezza talmente acuta che Dante ebbe pietà di lui, anche se non sapeva perché.
“Si direbbe che lei abbia fatto una scelta del genere” commentò gentilmente il poeta. Il Dottore annuì, senza dire nulla, e Dante provò a insistere. “È stato doloroso?”
“No, al contrario: è stato molto facile, e divertente. Avevo aspettato tutta la vita, sa, e quando finalmente l’ho fatto ho pensato, all’inizio, che ne valesse la pena. Eravamo io e mia nipote, da soli, partiti per vedere l’universo, come avevo sempre desiderato fare.”
“Allora lei è un viaggiatore.”
“Cosa?” chiese il Dottore, rendendosi conto solo in quel momento di aver parlato sovrappensiero. “Oh… sì, immagino mi si possa definire così” disse, chiudendo la questione. Non aveva voglia di parlarne, per di più a uno straniero.
“Curioso, perché i versi che sto scrivendo parlano proprio di un viaggiatore, il più grande dell’antichità. Ha sentito parlare di Ulisse, vero?”
“Ovviamente” sbuffò il Dottore, e trattenendosi con difficoltà dall’aggiungere che l’aveva conosciuto, e non molto tempo prima. Se lo ricordava bene, quel volto dagli occhi piccoli e indagatori, quell’intelligenza viva e operante, che l’aveva indotto a progettare il cavallo di Troia.
“Nel mio poema, è condannato all’Inferno, nella zona dei cattivi consiglieri, assieme al suo amico, Diomede. Passando di lì, intendo chiedergli come è morto, così che egli racconti la sua fine. I versi che sto scrivendo sono appunto gli ultimi del suo racconto.”
“Davvero?” chiese il Dottore, rinvigorendosi all’improvviso.
“Certo. Vede, forse lo avrà notato, ma in questo periodo sto riflettendo molto attentamente sul mio dovere di intellettuale. Ulisse, da quello che si racconta, era un consigliere molto abile, un grande pensatore e uomo di stato, ma ha votato la propria intelligenza al male, e ha dato cattivi consigli. Troia è stata presa con l’inganno, Achille indotto a partecipare alla spedizione dove è morto, il Palladio rubato… e tutto per la sua intelligenza, la sua sete di conoscenza, in nome della quale ha portato sofferenza e morte.”
“Sì, capisco” annuì il Dottore, cercando di restare calmo, di non dare a vedere che quelle parole gli entravano nel petto come pugnali.
“E tuttavia, lui è grande, non mi fraintenda. Pur votata al male, l’intelligenza è sempre intelligenza. È per questo che ho pensato di farlo morire in viaggio, diretto dove nessun uomo è mai stato, con tutta la grandezza che merita il più grande viaggiatore della storia, ma anche la tragedia di un uomo che, nella sua superbia, non ha riconosciuto di essere solo un uomo, e ha perso la vita eterna per questo.”
“Avrebbe fatto meglio a restare a Itaca e non partire, vero?” commentò il Dottore, con voce tremante. Non era sicuro di voler sapere la risposta.
“No” disse Dante, sorprendendolo. “È questo il punto, Dottore. Lo sbaglio di Ulisse non è stato partire, viaggiare, voler conoscere. Il suo sbaglio è stato pensare che, con le sole sue forze, potesse guadagnare la salvezza, che da sola la conoscenza e l’intelligenza umane siano sufficienti. Pensi a quello che è capitato qui con il Monaco, Dottore, e quello che lei ha fermato. Certo, potrei accettare l’aiuto del Monaco, andare tutti a casa, ma a quale prezzo? Nessun sapere di per sé è sufficiente, nessuna intelligenza umana, per quanto grande, può garantire la felicità. A cosa serve guadagnare il mondo, se si perde la propria anima?”
“Quindi l’errore di Ulisse è stato quello di non… non dare uno scopo al suo viaggio che fosse altro dalla sua grandezza personale? È questo il peccato per cui lei lo punisce?”
“Esatto, Dottore. Ogni conoscenza deve essere indirizzata a migliorare la vita dell’uomo, a obbedire il piano che Dio ha per noi. Ulisse voleva elevare sé stesso, così come il nostro amico Monaco, sospetto. Io non voglio la mia gloria, io voglio il bene di Firenze, e di sicuro esso non risiede nelle armi del Monaco.”
“No, immagino di no” disse il Dottore, profondamente scosso, gli occhi lucidi. Quell’uomo non avrebbe mai saputo quanto quelle parole l’avevano toccato, quanto ogni intima fibra del suo essere aveva vibrato nel sentirlo. Altre immagini, ora, gli erano tornate alla mente, altri ricordi, diversi da quelli che avevano riempito le sue ultime notti. Rivide i Thal festeggiare la sconfitta dei Dalek, e gli uomini avvolti nella danza per celebrare la liberazione dalla Terra. Risentì le urla di gioia dei Menoptera e degli Zarbi, che festeggiavano la morte dell’Animus, e quelle degli Xerons mentre il museo dei Morok andava a fuoco. E il sorriso di Vicki tolta alla solitudine di Dido, la felicità di Ian e Barbara che lo ringraziavano per il viaggio in cui si erano innamorati, Susan che, tra le lacrime, era però felice con David… Aveva fatto del bene, si rese conto il Dottore, e per tutto l’universo la sua memoria, e quella del TARDIS, erano ora un simbolo di speranza. Forse, alla fine, si trattava soltanto di farlo volontariamente, non come un effetto collaterale del suo viaggio, ma come uno scopo, una meta.
Mai essere crudele, mai essere codardo. L’odio è sempre sciocco, l’amore è sempre saggio. Le parole dell’Eremita arrivarono a lui da un posto lontano nella sua memoria, il posto dei ricordi d’infanzia, di quella gioventù lontana dove cercava di essere il miglior Signore del Tempo che Gallifrey avesse mai visto. Con un fremito, il Dottore comprese che, forse, ora poteva essere qualcosa di più.
“Potrebbe… potrebbe leggermi quei versi?”
Dante non aveva mai perso di vista il viso del vecchio per tutta la durata del loro dialogo. L’aveva visto diventare triste fino alla morte, e poi rinvigorirsi e prendere colore a quelle ultime parole. Aveva visto i suoi occhi brillare di nuovo, il viso rianimarsi, mentre un’energia giovanile gli tendeva la pelle togliendogli anni di dosso. Colpito, il poeta prese la pergamena e iniziò a recitare.
 
Né dolcezza di figlio, né la pieta
del vecchio padre, né ‘l debito amore
lo qual dovea Penelope far lieta,
 
vincer poteron dentro me l’ardore
ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto,
e delli vizi umani e del valore.
 
Ma misi me per l’altro mare aperto,
sol con un legno e con quella compagna
picciola dalla qual mai non fui diserto.
 
L’un lito e l’altro vidi, e infin la Spagna,
fin nel Morrocco, e l’isola de’ Sardi,
e l’altre che quel mare intorno bagna.
 
Io e i compagni eravam vecchi e tardi,
quando giugnemmo a quella foce stretta
dov’Ercule segnò li suoi riguardi,
 
acciò che l’uom più oltre non si metta:
a la man destra mi lasciai Sibilia,
dall’altra già m’avea lasciata Setta.
 
“O frati”, dissi, “che per cento milia
perigli siete giunti all’occidente,
a questa tanto picciola vigilia
 
de’ nostri sensi ch’è del rimanente,
non vogliate negar l’esperienza,
di retro al sol, del mondo sanza gente.
 
Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza.”
 
Li miei compagni fec’io sì aguti,
con questa orazion picciola, al cammino,
che a pena poscia li avrei ritenuti,
 
e volta la nostra poppa nel mattino,
de’ remi facemmo ali al folle volo,
sempre acquistando dal lato mancino.
 
Tutte le stelle già dell’altro polo
vedea la notte, e ‘l nostro tanto basso
che non surgea di fuor del marin suolo.
 
Cinque volte racceso, e tante casso
lo lume era al di sotto della luna,
da che entrati eravam nell’alto passo,
 
quando ne apparve una montagna bruna
per la distanza, e parvemi alta tanto
quanto veduta non ne avea veruna.
 
Noi ci allegrammo, ma tosto tornò in pianto,
che de la nova terra un turbo nacque,
che percosse del legno il primo canto.
 
Tre volte il fe’ girar con tutte l’acque,
alla quarta girar la poppa in suso
e la prora ire in su, come altrui piacque,
infin che ‘l mar fu sovra noi richiuso.
 
“Grazie” disse il Dottore alla fine, asciugandosi gli occhi lucidi per la commozione.
“Di nulla” rispose il poeta, mentre dento di sé decideva che, non appena possibile, avrebbe subito ricominciato a lavorare al poema. I trattati erano una buona cosa, ma non avrebbero mai causato così tanta gioia come quella che aveva visto, adesso, negli occhi del Dottore. Quella era una magia che soltanto la poesia poteva effettuare.
Un precipitoso bussare alla porta ruppe la magia del momento. Seccato, il Dottore si alzò, e disse che nessuno doveva disturbare il riposo del malato.
“Messer Dottore, sono Lapo!” esclamò la voce dall’altra parte. “Il vostro amico… è stato appena arrestato! Bastiera dice che è una spia!”

NOTE DELL'AUTORE

- Sì, lo so, è un capitolo un po' lungo, ma non ce l'ho fatta a non citare per intero il racconto di Ulisse dal canto XXVI dell'Inferno. La spiegazione che dà Dante della vicenda di Ulisse è effettivamente quella che gli studiosi della Commedia hanno stabilito.
- Brunetto Latini (1220 .ca - 1294/95) è stato un intellettuale e politico fiorentino, di parte guelfa, considerato da Dante come il suo maestro. In quanto tale, compare come protagonista del canto XV dell'Inferno, fra i sodomiti, a discutere con il discepolo di politica e morale. Il suo Tesoretto (titolo originale Tesoro) è effettivamente rienuto uno dei modelli della Commedia.
- Nel terzo serial della terza serie classica, "The Myth Makers", il Dottore ha effettivamente incontrato Ulisse, assieme agli altri eroi della guerra di Troia. In particolare, Ulisse l'ha costretto a trovare un modo per conquistare la città; il Dottore ha accettato perché era l'unico modo per recuperare il TARDIS (che i Troiani avevano portato dentro la città) e salvare i suoi compagni, Vicki e Steven, e ha suggerito la soluzione del cavallo di Troia.
- I ricordi del Dottore sono vari accenni alle prime due stagioni della serie classica: nell'ordine, "The Daleks" (i Thal sono l'altro popolo originario di Skaro), "The Dalek Invasion of Earth", "The Web Planet", "The Space Museum", "The Rescue" (prima avventura di Vicki Pallister, rimasta orfana e naufraga sul pianeta Dido), "The Chase" (ultima avventura di Ian e Barbara, che poi tornano sulla Terra; sappiamo poi che si sposeranno e avranno un figlio), e di nuovo "The Dalek Invasion of Earth" (dove Susan lascia il TARDIS per sposare l'umano David Campbell).
- L'Eremita è invece una figura citata dal Terzo Dottore, come maestro e guida spirituale del giovane Signore del Tempo. Mi è sembrato giusto attribuire a lui l'origine delle parole dette da Dodici al momento della sua rigenerazione in Tredici.

Bene, direi che è tutto. Ci vediamo molto presto per quella che sarà la penultima parte di questa prima avventura. A presto!

 

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Capitolo 6
*** Parte 5 ***


Parte 5

Benritrovati a tutti, miei pochi e fidati lettori! Scusate il lieve ritardo nell'aggiornamento, ma qui a New York il fuso orario sballato confonde, e ho avuto un po' di cose da fare. Per fortuna, però, ora sono qui, pronto con il penultimo capitolo di questa prima "Italian Adventure". Scusate per il cambio di formato del testo, ma dopo anni ho deciso di scaricare il programma NvU, pur continuando a scrivere con Word (devo dire che preferisco il risultato, è più elegante - provvederò a cambiare il formato degli altri capitoli con calma). 

Non perdiamo altro tempo e buttiamoci nella mischia!

Steven Taylor aveva seguito Bastiera dei Tosinghi dopo che quest’ultimo aveva abbandonato furibondo la porta della camera di Dante. Gli era sembrata l’occasione giusta: l’arrivo del Dottore aveva rovinato i piani del Monaco, e quest’ultimo non ci avrebbe messo molto a capire chi era arrivato. Perciò bisognava fare in fretta: Steven doveva trovare il TARDIS del Monaco, poi sarebbe stato compito del Dottore, come avevano concordato, cercare di mettere una fine definitiva alle sue interferenze. Obbedendo agli ordini come il buon soldato che era (o che sarebbe stato, fra circa dieci secoli – normalmente cercava di non pensare a questi paradossi), Steven aveva quindi pedinato Bastiera fuori dall’abbazia, dove l’aveva visto dirigersi verso l’accampamento che teneva con i suoi uomini poco distante.

Poco fiducioso nelle sue possibilità di entrarvi, Steven aveva allora deciso di giocare d’astuzia. La collina su cui sorgeva l’abbazia era coperta da una macchia di foresta, i cui alberi avevano una chioma abbastanza folta per nascondere un uomo. Steven si era quindi arrampicato su uno di essi, facendo attenzione a sceglierne uno vicino ma non troppo al campo, sufficientemente alto perché potesse godere di una buona visuale (date le circostanze, si intende). Da quella postazione, era riuscito a riconoscere la larga tonaca e il faccione rotondo del Monaco, in piedi di fronte a una tenda posta vicino a una via delle vie principali dell’accampamento, mentre Bastiera iniziava a parlargli velocemente. Steven era troppo lontano per sentire le parole, ma poteva facilmente immaginare di cosa stessero parlando. Vide il Monaco agitarsi e interrogare Bastiera con attenzione, per poi rientrare nella sua tenda, mentre il condottiero andava via.

Steven, a questo punto, avrebbe anche potuto scendere e tornare all’abbazia, ma qualcosa lo trattenne su quell’albero. Il suo sesto senso gli diceva che c’era ancora qualcosa da vedere. Dopo quelli che sembrarono anni di attesa, mentre le ombre della sera si facevano sempre più tenebrose, e Dante componeva accudito dal Dottore, la sua pazienza venne premiata: dalla sua postazione, Steven osservò il Monaco uscire dalla tenda, trascinando una rastrelliera piena di fucili verso la tenda di Bastiera. Solo allora, Steven aveva deciso di tornare verso l’abbazia per informare il Dottore. Fatti pochi passi, però, un’altra idea gli aveva attraversato il cervello, pericolosa ma potenzialmente molto utile, se fosse riuscita.

“Mi stai dicendo che ti sei fatto catturare apposta?” chiese il Dottore, incredulo. Non appena aveva saputo da Lapo cos’era successo, si era precipitato nella stanza del convento dove Ordelaffi aveva ordinato di portare il prigioniero consegnatogli da Bastiera. Dante aveva insistito per venire con lui, e soltanto la preoccupazione per Steven era riuscita a indurre il Dottore a non insistere perché rimanesse a letto; così che adesso si trovavano tutti e due lì, assieme a Scarpetta, ad ascoltare il racconto del pilota.

“Ho pensato che, se Bastiera mi avesse preso come spia, voi avreste avuto modo di parlargli e capire cosa ha in mente. Del resto, io sono venuto qui con lei, Dottore, e l’ho assistita nel curare messer Alighieri, immagino che questa sarà prova sufficiente della mia innocenza.”

“È comunque una mossa rischiosa” osservò Ordelaffi.

“Di più, è stupida!” esclamò il Dottore, arrabbiato. “Adesso il Monaco sarà ancora più cauto di prima, e avvicinarsi al suo TARDIS sarà impossibile! Senza parlare del fatto che non è detto abbiamo rovinato il suo piano!”

“Oh, prego, Dottore, non c’è di che” borbottò Steven, notevolmente deluso dall’accoglienza che stavano ricevendo le sue azioni.

“Che ne dite di calmarci tutti e provare a ragionare?” chiese Dante, l’unico ad avere conservato un briciolo di pazienza nella stanza. “La mossa di messer Sarti è stata senza dubbio poco prudente, ma ha ragione quando dice che ci offre l’opportunità per capire che cosa ha in mente il Monaco. Non vi è dubbio che lui e Bastiera hanno un piano, e ora che una presunta spia è stata scoperta, possiamo approfittare dell’interrogatorio per farli cadere in una trappola.”

“Ammesso che non cambino i piani nel frattempo” borbottò il Dottore.

“Non penso abbiamo altra scelta, Dottore” spiegò Dante, adesso un po’ alterato. Un atteggiamento più positivo, da parte del vecchio, sarebbe stato utile. “Non possiamo lasciare andare lei e messer Sarti, ora che c’è un’accusa di spionaggio nei suoi confronti.”

“Potreste farmi entrare nel campo di Bastiera da un’altra parte, e…”

“E lei pensa di arrivare alla tenda del Monaco stanotte?” obiettò ancora Dante. “E come farebbe a tornare indietro, poi, qualsiasi cosa intende fare? Scommetto tutte le poche sostanze che mi sono rimaste che sarà difesa attentamente, magari da soldati armati con le sue diavolerie. No, Dottore, la cosa migliore da fare è capire cos’hanno in mente, nel frattempo liberando messer Sarti dall’accusa, e poi stabilire la mossa successiva sulle base delle nuove conoscenze.”

Contrariato, ma consapevole del buon senso insito nel ragionamento del poeta, il Dottore sbuffò, osservando Steven, mentre tamburellava con le dita sul pomello del suo bastone. Alla fine, allargò le braccia, sconfitto. Il piano non gli piaceva, ma effettivamente era la scelta migliore da fare.

“Lasci fare a me” lo rassicurò allora Dante, capendo come si sentiva. “Sono stato priore, a Firenze, e so come parlare a un’assemblea. Entro domani, lei e messer Sarti non avrete più nulla di cui preoccuparvi.”

***

L’interrogatorio a Steven si tenne nella stanza di Scarpetta, dopo la preghiera di terza. Bastiera era arrivato almeno un paio d’ore prima, con una pesante scorta armata, che aveva presentato come necessaria, visto che andava in giro sbraitando su un possibile agguato dei Neri. Scarpetta non gli aveva dato ascolto, ma aveva visto chiaramente, nello sguardo degli altri capi dei Bianchi, la paura suscitata dalle sue parole. Anche per questo, aveva fatto in modo che nella stanza fossero presenti in pochi: lui, Dante, Bastiera e gli altri tre capi più eminenti, disposti a dare loro ascolto. Il Dottore non c’era. La sua presenza era stata ritenuta non necessaria, e anzi, potenzialmente pericolosa, visto che Scarpetta continuava a urlare ai quattro venti che era uno stregone pagato dai Neri per far ammalare Dante.

“E poi sarebbe venuto a curarmi?” chiese il poeta, accennando un sorriso. “Non mi sembra abbia molto senso.”

“Certo che ce l’ha!” esclamò Bastiera. “Quale maniera migliore avrebbero avuto lui e il suo compagno per infiltrarsi fra di noi e raccogliere informazioni? Curando messer Alighieri, il vecchio avrebbe conquistato la nostra fiducia!”

“Dev’essere un attore veramente abile, allora” continuò il poeta. “A quanto mi ha raccontato messer Ordelaffi, hanno dovuto insistere perché venisse qui a salvarmi la vita. Non esattamente il comportamento di una spia, no?”

“Un’altra impostura!” urlò Bastiera. “Vi ha fatto pensare che non gli interessasse, così lo avreste ritenuto onesto e…”

“Incredibile, l’ha pensato da solo?” commentò Steven, interrompendo la sfuriata del suo avversario con aria sarcastica. “Messeri, dovreste dargli più credito a quest’uomo, a quanto pare il cervello non gli serve solo come tappo per il collo.”

Soltanto la vicinanza delle guardie impedì a Bastiera di buttarsi su Steven a questa uscita, mentre Scarpetta alzava la voce per ammonire l’imputato a comportarsi in modo meno insolente – anche se, alla sua sinistra, Dante stava cercando invano di reprimere un ghigno soddisfatto per l’uscita di Steven.

“Quindi, riassumendo” disse il poeta quando la calma fu ristabilita. “Quel che abbiamo qui è un uomo, sorpreso, lo ammetto, in una posizione che parrebbe difficile. E tuttavia, egli non nega che stava spiando qualcuno; solo, dice di non essere una spia dei Neri, ma solo un avversario del Monaco, così come il Dottore che mi ha curato.”

“E non è un’ammissione di colpevolezza? Il Monaco è nostro alleato!”

“Davvero? Non mi risulta che abbiamo ancora accettato il suo aiuto, e l’uso delle sue armi – a parte per messer Bastiera, si intende. Finché l’offerta non è accettata, egli non è nostro alleato, ma solo nostro ospite. E comunque, tutto ciò che ci ha offerto sono armi di distruzione e morte, al cui uso mi sono già opposto più e più volte, e la cui origine è ignota.”

“Anche la cura con cui lei, messer Alighieri, è guarito, è ignota” fece notare un altro capo dei Bianchi. “E non sappiamo più di questo Dottore di quanto sappiamo del Monaco di Bastiera.”

“Questo è vero, ma vorrei farvi notare la differenza. Uno di loro è venuto da noi con un’offerta di armi e di guerra, l’altro con la cura da una misteriosa malattia. Il primo ha cercato di adularmi, il secondo non sarebbe venuto affatto se non fosse stato convinto, e non ha chiesto alcuna ricompensa per avermi salvato la vita. Ora, può darsi che tutto questo sia solo una recita, ma io vi chiedo: se doveste giudicare dai fatti, e solo dai fatti, accaduti finora, quale dei due uomini vi pare si sia comportato in modo più onorevole?”

“Bastiera, è tutta la mattina che affermate che i Neri stiano progettando un attacco. Oltre alla presenza di messer Sarti, che può essere spiegata in altri termini come ha detto messer Dante, avete altre prove?” chiese allora Scarpetta, riportando l’attenzione di tutti sul condottiero. Quest’ultimo, che si era calmato, sogghignò, preparandosi a riferire ciò che lui e il Monaco avevano concordato la sera prima.

“Ho mandato i miei uomini, all’alba, a setacciare i dintorni. Entro mezzogiorno, dovrebbero tornare. Per allora, mi diranno che cosa hanno trovato, e sapremo.”

“Quindi la risposta è no” disse Dante. “Non vi sono altre prove di un attacco dei Neri, e…”

In quel momento, la porta della stanza si spalancò, e alcuni uomini armati, recanti le insegne della compagnia di Bastiera, entrarono velocemente riferendo di aver trovato, fra le colline, tracce di un accampamento di uomini, abbandonati da poco. Uno di loro portava con sé una borsa, rinvenuta sul posto, su cui era impresso il sigillo della famiglia Donati.

“Ecco le vostre prove!” esclamò Bastiera. “Neri, come ho sostenuto!”

“Tutto qui?” domandò Dante. “Una borsa e la parola dei vostri uomini? Signori, andiamo, non crederete davvero che…”

“Quanto siete disposti a rischiare?” chiese allora Bastiera agli altri. “Mi sono mai dimostrato infedele alla causa? Vi ho mai traditi, o ho dato segno di non essere degno di fiducia? Oppure credete forse che i Neri siano troppo leali per non venire qui ad assalirci, o quantomeno a sorvegliarci?”

“E che motivo avrebbero di preoccuparsi? Non siamo in forze abbastanza per un attacco a Firenze.”

“Forse sì, invece. Se accettiamo l’aiuto del Monaco, gli Ubaldini si sono dichiarati interessati a sostenerci.”

“E i Neri come saprebbero del Monaco? O forse quest’ultimo, prima di venire a noi, è andato a proporre le sue armi a loro? Perché se fosse così, io non mi andrei a fidare di un mercenario!”

“Basta così” disse Bastiera, alzandosi, e fermando, con un gesto della mano, la replica di Bastiera. “Non ricaveremo nulla litigando fra noi in questo modo. Vediamo intanto di finire la questione di messer Sarti: c’è qualcuno fra noi che lo ritiene colpevole di spionaggio, senza un minimo dubbio?”

Nessuno parlò. Bastiera fissò uno dopo l’altro in volto i capi dei Bianchi, ma ottenne solo sguardi di diffidenza e paura, non di appoggio. Dante, al contrario, rizzò la testa, inorgoglito nel vedere che la malattia non aveva diminuito le sue capacità, e che la sua parola ancora contava in mezzo al suo partito.

“Molto bene,” disse allora Scarpetta, “ciò significa che messer Sarti è prosciolto da ogni accusa, ed è da ritenersi un uomo libero. Adesso, se messer Bastiera permette, vorrei andare a vedere i resti di questo famoso campo dei Neri.”

***

“Bastiera progetta un attacco sull’abbazia” mormorò Dante, più tardi quel pomeriggio. Scarpetta era tornato da circa due ore: effettivamente, sulle colline ben tre accampamenti abbandonati erano stati scoperti, tutti recanti qualche segno che li indicava come abbandonati in fretta da soldati appartenenti al partito dei Neri. La suggestione di Bastiera, che si stesse preparando un attacco, aveva preso forza in mezzo ai Bianchi, e Scarpetta aveva acconsentito che si preparassero delle difese provvisorie, nel caso si fossero fatti vivi. Aveva solo proibito l’uso delle armi del Monaco, ricordando a tutti che il partito non aveva ancora deciso di accettarne l’aiuto.

“E con i fucili” aggiunse Steven. “In tal modo, i Bianchi poi approveranno l’utilizzo di quelli del Monaco, se non altro per essere in pari.”

“E non mi meraviglierà se poi il Monaco dicesse che sono stati rubati dalla sua tenda, pochi istanti prima dell’assalto; magari si farà pure trovare legato o ferito per dare credito alla sua storia” concluse il Dottore. “Dobbiamo agire in fretta. Devo entrare nel suo TARDIS, oggi stesso.”

“E come?” chiese Dante. “Bastiera tiene il suo accampamento sorvegliato, e il Monaco non si vede da nessuna parte. Può darsi che la stia aspettando.”

“Sì, certo, è probabile” disse il Dottore, “ma noi saremo più furbi e veloci di lui. Steven, ragazzo mio, torna al TARDIS e prendi la roba che adesso ti scriverò… posso usare quella pergamena, vero?” chiese il Dottore a Dante, che annuì. “Messer Dante, dica a Ordelaffi che ho bisogno di una piccola guarnigione, quattro o cinque uomini, per quando Steven tornerà. Dovranno aiutarlo a sistemare quello che porterà indietro.”

“D’accordo” annuì Dante. “Se vuole, lo accompagno io.”

“Assolutamente no!” esclamò il Dottore. “Innanzitutto, come suo medico, insisto sul riposo, e poi, messere, ho bisogno che lei rimanga qui. Ho un compito per lei.”

***

Quando scoccò la campana dei vespri, cinque monaci dell’abbazia uscirono dal castello per portare il cibo ai soldati di Bastiera. I soldati li lasciarono passare, come da istruzioni ricevute, non senza controllare che le loro tonache non contenessero armi. Una volta dentro, quattro di loro si posizionarono al centro dell’accampamento per distribuire il cibo; uno, invece, si allontanò, diretto verso una tenda in particolare, con la scusa di chiamare i soldati a raccolta. Quando fu sicuro di non essere visto, ci entrò dentro, togliendosi il cappuccio.

Il Dottore sospirò alla vista del bellissimo Mark IV che gli si parò davanti. Nonostante l’affetto che provava per il suo modello, gli era difficile non invidiare al Monaco quell’apparecchiatura più moderna, quelle luci più scintillanti, quella grafica più elegante. Scuotendosi (anche perché il TARDIS gli provocò una scossa elettrica di gelosia) e ricordandosi cos’era venuto a fare, il Dottore fece un passo verso la console, attivando così la trappola. Raggi laser emersero dal pavimento, circondandolo a pochi passi da essa, e unendosi sul soffitto a formare una solida gabbia.

“Bene, bene, bene” sogghignò il Monaco, alle sue spalle. “Chi non muore, si rivede, eh, Theta?”

NOTE DELL'AUTORE

- Nell'anno 1300, solo due anni prima dell'esilio, Dante Alighieri ha effettivamente ricoperto la carica di priore, una delle massime magistrature della repubblica di Firenze. E' stato il culmine della sua carriera politica, anche se è stato relativamente poco fortunato, visto che le sue azioni in quella carica l'hanno poi condotto all'esilio.
- Theta è, ovviamente, il soprannome del Dottore già ai tempi di Gallifrey, così come ci è stato riferito in tempi recenti dall'Undicesimo Dottore. Visto che nel prossimo capitolo avremo un confronto fra il Monaco e il Dottore, vecchie conoscenze dai tempi dell'Accademia, mi sembrava giusto che si rivolgessero chiamandosi per nome (quello del Monaco è Mortimus) - anche se nella serie questo non avviene mai.

Bene, direi che è tutto. Ci vediamo il 20 per il gran finale, e stavolta cercherò di essere puntuale. A presto!

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Capitolo 7
*** Parte 6 ***


7. Part 6

Ma buongiorno a tutti e ben ritrovati, e complimenti a me per essere per la prima volta puntuale negli aggiornamenti! (coro da stadio) Sì, sì, lo so, è stato difficile, ma prometto di fare meglio in futuro. 
Bene, signori, come preannunciato, questo è l'ultimo capitolo della prima avventura italiana del nostro Dottore. Ringrazio già in anticipo chi ha messo la storia fra le preferite, chi ha recensito (soprattutto Alessia, sei la migliore!), e chi l'ha inserita fra le seguite. Mi auguro accoglierete anche le prossime dodici con un simile entusiasmo. 
Non perdiamo quindi altro tempo e andiamo al gran finale! 

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“Ah, amico mio” disse il Monaco, girando intorno alla gabbia del Dottore. “Ma sul serio dobbiamo incontrarci ogni volta in questo modo? Dì la verità, ti stai vendicando per qualche scherzo all’Accademia, vero?”

“Vedo che la tua limitata capacità di intendere non è migliorata con gli anni, Mortimus” replicò freddamente il Dottore. “Davvero ti ostini a non capire la pericolosità delle tue azioni?”

“Io sto solo aiutando l’umanità ad evolversi nella direzione di un fulgido destino!”

“Tentando di assassinare uno dei più grandi poeti del mondo?”

“Naah, quello era un bluff” sbuffò il Monaco, agitando impaziente una mano. “Contavo sul fatto che Scarpetta sarebbe stato così disperato da accettare perfino il mio aiuto. Non avrei mai permesso che Dante morisse: uno dei più grandi poeti dell’umanità!”

“Parole di grande elogio, gliele riferirò quando esco da qui.”

“Ah, sempre il tipo pieno di speranza, eh, Theta? O dovrei dire ostinazione? Davvero, amico mio, ti ammiro molto per questo.”

“La pianti di chiamarmi amico, ti spiace?” urlò il Dottore. “Io e te non siamo più amici da molto tempo, e anche prima non mi pare avessimo questo grande rapporto.”

“Theta, così mi ferisci” si lamentò il Monaco, portandosi una mano al cuore. “E dire che ero pronto a perdonarti il fatto che mi hai abbandonato su quel maledetto pianeta di ghiaccio.”

“Molto generoso da parte tua.”

“Sì, alla fine ho concluso che non avrei mai dovuto cercare vendetta per quell’affare dei Vichinghi, dopotutto non è stato niente di grave. Dì quello che vuoi, Theta, ma ancora non sono divenuto ubriaco di potere, o di guerra, o di morte, come Koschei o Magnus. A proposito, sai che sono scappati entrambi anche loro, vero? Pare che alla fine, in un modo o in un altro, noi dieci stiamo tutti mettendo in pratica il nostro sogno.”

“E forse non dovremmo” commentò il Dottore, in tono serio. “Che diritto abbiamo di intervenire nella storia di altre razze, o pianeti?”

“Diritto?” esclamò Mortimus, alzandosi in piedi come una molla. “E proprio tu lo dici, Theta? Tu, che sei stato il primo a scappare? Tu, che eri il nostro capo? Noi abbiamo una responsabilità! Per quale motivo non dovremmo mettere a disposizione le nostre conoscenze?”

“E traumatizzare il corso della storia, causando paradossi che non saranno sanati mai! Ogni specie ha il diritto di vivere la propria evoluzione nella sua maniera! È lo stesso motivo per cui mi sono sempre opposto che noi fossimo portati da bambini di fronte allo Scisma: come puoi sottoporre chi non è pronto a una cosa del genere? Finirebbe per impazzire!”

“Stai forse alludendo a me, Theta?” sogghignò il Monaco. “Hai sempre pensato che io fossi pazzo. Ma un pazzo può forse pensare bene a quello che fa, come io ho fatto? Pensaci, Theta: noi potremmo lavorare assieme, guidare l’umanità verso un destino più grande. Con il nostro aiuto, Colombo potrà viaggiare nello spazio, altro che sull’oceano, e Fermi non scoprirà semplicemente la radio, inventerà il teletrasporto!”

“E tu ci pensi a tutto a cosa significa mettere in mano a degli ingenui una conoscenza che non possono capire? Chi ti dice che questo davvero migliorerà le cose? Ho viaggiato nella storia umana, ho visto di cosa sono capaci gli uomini, e sì, anch’io ne ho ammirato la grandezza, ma ne ho visto anche la capacità distruttiva!”

“Ma noi li guideremmo!”

“E toglieremmo loro la libertà di sbagliare, e una specie che non commette errori non si evolverà mai!”

Il suono della campana del convento rimbombò nella sala di controllo del TARDIS, interrompendo la discussione: otto rintocchi, lenti e regolari, riempirono le pareti della stanza.

“Mi spiace davvero interrompere, Theta” disse allora il Monaco, “ma il dovere mi chiama. Fra un’ora gli uomini di Bastiera inizieranno ad assalire l’abbazia con le armi che ho loro dato, e prima che lo facciano, io mi devo presentare là dicendo di essere stato aggredito, e che mi hanno rubato alcuni dei miei fucili. Mi darò un colpo in testa prima, così da essere credibile – un po’ di sangue fa sempre effetto sulle menti umane” continuò a spiegare, mentre si avvicinava alla console e pigiava un paio di tasti per avviare lo scanner. “Giusto il tempo di controllare se là fuori è tutto in ordine, e…”

Il sorriso si congelò sul volto del Monaco quando nessuna immagine riempì lo schermo. Incredulo, tornò a premere tasti, pensando si trattasse di un problema tecnico, ma niente: lo schermo continuò a essere grigio, come il ferro, e altrettanto impenetrabile.

***

Un’ora prima

“È quasi l’ora” mormorò Steven, dando una fuggevole occhiata all’orologio da polso nascosto sotto il mantello. “Io inizio a scendere” annunciò a Dante. Il poeta, seduto al suo tavolo, annuì, e ordinò a Lapo di stare presso la porta, e dirgli quando Steven sarebbe uscito dall’abbazia. “Buona fortuna, messer Sarti” aggiunse poi, mentre Steven usciva. Il pilota si voltò indietro e annuì brevemente nella sua direzione, prima di scendere nel cortile dove Scarpetta e Bastiera avevano radunato i loro uomini, e li stavano schierando come linea di difesa attorno al cortile. Cautamente, Steven si infilò in mezzo agli uomini di Scarpetta, gli stessi che quel pomeriggio l’avevano aiutato a seppellire i fumogeni tutt’intorno all’abbazia, e si fece strada, nascosto tra loro, fino al portone ancora aperto per accogliere i monaci di ritorno dall’accampamento di Bastiera.

“È arrivato, messere” disse Lapo a Dante, rientrando brevemente nella stanza. Annuendo, il poeta afferrò la misteriosa bacchetta metallica affidatagli dal Dottore – un “cacciavite sonico”, l’aveva chiamato. Rapidamente, il poeta ricordò le istruzioni dategli: premere il pulsante rosso, quello poco sotto la cima, non appena i monaci fossero rientrati. Se tutto fosse andato come previsto, nello stesso istante Steven sarebbe uscito dal cancello, iniziando a farsi strada fino al campo di Bastiera.

I monaci arrivarono, e le guardie, uomini fidati di Scarpetta Ordelaffi, li lasciarono passare. Quando anche l’ultimo fu entrato, Steven velocemente attraversò il portone, lanciandosi verso la foresta. Il sole ormai calava in fretta, e il pilota sapeva che aveva relativamente poco tempo per raggiungere l’accampamento prima che i fumogeni iniziassero a fare il proprio lavoro. Li aveva installati lui personalmente quel pomeriggio, con l’aiuto degli uomini di Scarpetta, ufficialmente inviati per un’altra ricognizione nei dintorni. Sotto la sua guida, Steven li aveva piazzati su tre file di quattro ordigni ciascuno, così che il loro effetto coprisse tutta la parte di bosco fra l’abbazia e il campo di Bastiera.

Un sibilo alla sua destra gli annunciò che Dante aveva rispettato il programma: i fumogeni erano stati messi in funzione. Ben presto, nella foresta sarebbe stato impossibile vedere qualsiasi cosa: quelli erano fumogeni pensati apposta per la Terza Guerra dei Dalek, il loro fumo era stato geneticamente programmato per danneggiare i sensori ottici di quei robot. Trattenendo il fiato, Steven prese a correre, tirando fuori la pistola che il Dottore gli aveva fatto recapitare dal TARDIS: non c’era tempo da perdere.

***

“Ho l’impressione che l’attacco dovrà essere rinviato” commentò il Dottore sorridendo sarcastico. “Messer Bastiera non può mandare i suoi uomini a combattere alla cieca, vero?”

“Oh, andiamo,” domandò il Monaco. “Credi davvero che basti questo a fermarci? Mi basta fare una breve analisi” disse premendo un altro pulsante “e presto saprò di cosa si tratta. Poi, prenderò provvedimenti.”

Tre colpi alla porta del TARDIS interruppero il Monaco, mentre la voce di un uomo, al di fuori, urlava che Bastiera dei Tosinghi gli domandava spiegazioni su quello che stava succedendo. Sbuffando, il Monaco si diresse alla porta, che aprì leggermente per rispondere: aveva appena messo fuori la testa, però, che si ritrovò spinto di nuovo dentro con la forza.

“Buonasera” sogghignò Steven, entrando. “Mi scusi questa entrata brusca, padre, ma le notti sono abbastanza rigide, in questo periodo.”

“Ottimo lavoro, ragazzo mio, ottimo lavoro” applaudì il Dottore, all’interno della gabbia. “Monaco, ti spiace disattivare le sbarre? Steven è infreddolito, e temo che la sua presa sul grilletto potrebbe non essere salda come al solito.”

“Ma per favore!” esclamò il Monaco. “Come se davvero tu, o uno dei tuoi compagni, foste capaci di commettere un omicidio! Andiamo, Theta, non ti aspett… No, no, fermo!” urlò quando vide Steven alzare la pistola verso i comandi.

“Hai ragione, non commetteremmo mai un omicidio a sangue freddo” continuò il Dottore, in tono calmo. “Ma danneggiare il tuo TARDIS? Oh, di quello ne siamo capaci.”

“Siete pazzi?” esclamò il Monaco, impaurito. “Se… se lui spara lì, il TARDIS potrebbe partire senza alcun controllo! Saremmo tutti persi nello spazio e nel tempo!”

“Allora ti consiglio di impedirgli di farlo e farmi uscire, così stiamo tutti più tranquilli” affermò il Dottore mentre Steven aggiustava la mira. Al che, il Monaco, ormai del tutto terrorizzato, si alzò in piedi e, in fretta, corse verso la console. Premette due tasti, e le sbarre laser della gabbia sparirono, rilasciando il Dottore.

“Mille grazie. Ora, Steven, ti spiace fare accomodare il nostro amico da qualche parte mentre io vedo di sistemare un po’ di cose?”

Annuendo, Steven afferrò il Monaco per la tonaca e lo costrinse a sedersi, mentre il Dottore, toltasi la tonaca, iniziava ad armeggiare sul quadro dei comandi. In silenzio, il Monaco osservò impotente il collega, e un tempo amico, che premeva pulsanti e tirava leve, pericolosamente vicino alla zona delle coordinate. Lo stava per mandare da qualche altra parte, lo sapeva, in qualche angolo sperduto dell’universo, dove avrebbe dovuto ricominciare di nuovo tutto da capo. Che fosse maledetto!

“Ecco qui” disse il Dottore. “Coordinate impostate, e partenza impostata. Mortimus, ti consiglio di prepararti, dovrai essere nella tua forma migliore per il Consiglio.”

“Il cosa?” esclamò il Monaco, capendo. “Mi stai rimandando su Gallifrey?”

“Esattamente. Visto che imprigionarti su mondi sconosciuti a quanto pare non serve, tanto vale che ti affidi direttamente alle mani del nostro popolo. Il vecchio Borusa saprà cosa fare con te.”

“N-non puoi farlo” balbettò il Monaco. “Sarò considerato un traditore… Mi imprigioneranno!”

“Questo non è affare mio. Andiamo, Steven, qui abbiamo finito” disse il Dottore, facendo cenno al suo compagno di precederlo fuori. Avevano fatto solo pochi passi, però, quando un soldato di Bastiera, con un fucile in mano, entrò nel TARDIS, le cui porte il Dottore aveva lasciato aperte. Tutto accadde in un attimo: il soldato, vedendoli, prese la mira, Steven velocemente abbassò la pistola e gli si buttò addosso, il soldato inciampò e il colpo di fucile partì, andando a colpire proprio la colonna di vetro al centro della console.

“Oh, per la miseria!” urlò il Dottore, spaventato, mentre sul tubo di vetro iniziavano a comparire delle crepe. Il colpo aveva danneggiato l’unità di contenimento delle onde Huon, compromettendo le norme di sicurezza che permettevano all’energia di fluire tranquillamente nel motore. Con il vetro danneggiato, il tubo adesso non era forse più in grado di contenere l’energia. “Presto, Steven! Fuori di qui!” urlò il Dottore, spingendo il compagno verso l’uscita. Il Monaco, però, si alzò in piedi e corse alla console, premendo il pulsante per chiudere le porte in faccia al Dottore e a Steven.

“Voi venite a Gallifrey con me!” esclamò il Monaco.

“Lo vedremo!” rispose Steven, buttandosi sul Monaco e allontanandolo dai comandi. Veloce, il Dottore tornò alla console e premette di nuovo il pulsante di apertura delle porte, precipitandosi poi di corsa verso l’uscita. Sul punto di uscire, però, si ricordò del soldato di Bastiera lì disteso, e tornò indietro, cercando di sollevarlo.

“Steven! Una mano!” urlò il Dottore al compagno, che stava ancora tenendo il Monaco impegnato. Steven, richiamato, lanciò il Monaco contro la parete, con abbastanza forza da tramortirlo (sperava), e si affrettò a raggiungerlo per sollevare l’uomo. Proprio in quel momento, però, il TARDIS iniziò a boccheggiare, sotto l’effetto combinato del passaggio dell’energia Huon nel tubo di contenimento e delle porte aperte. Il Dottore barcollò e cadde, così come Steven, che però riuscì quantomeno a cadere contro le porte del TARDIS, aggrappandosi ad esse. Tenendosi stretto con un braccio, Steven fece forza e rotolò sull’altro fianco, quello esterno, e usando tutte le proprie energie, spinse fuori la guardia. Liberi dal peso, Steven e il Dottore furono capaci di prodursi in un ultimo sforzo e infine saltare fuori, un attimo prima che il TARDIS del Monaco iniziasse, gemendo e boccheggiando, il processo di dematerializzazione. Senza aspettare di vedere cosa sarebbe successo al Monaco, il Dottore e Steven corsero via, sorreggendo la guardia, dall’innaturale luce dorata che si allargava alle loro spalle.

I difensori dell’abbazia, da lontano, videro una colonna di luce alzarsi verso il cielo. Dalla sua stanza, Dante si fece il segno della croce. Bastiera e Scarpetta si guardarono negli occhi, indecisi e impauriti, e riconobbero velocemente che nessuno dei due si aspettava questo sviluppo. Pertanto, entrambi trattennero i propri uomini dall’uscire, o dall’agire in qualsiasi modo.

Dentro il TARDIS, l’energia sibilava e sfrigolava, danneggiando le pareti e i comandi, mentre viaggiava nel flusso spaziotemporale. Pezzi sempre più grossi di apparecchiatura si staccavano, cadendo a terra, e si spezzavano sul pavimento del TARDIS. Ancora incosciente, il Monaco venne colpito da alcuni di questi pezzi, oltre a essere sballottato di qua e di là dai movimenti bruschi della macchina. Dopo un colpo particolarmente forte, la sua mano prese a brillare, ma prima che la rigenerazione potesse cominciare, la macchina improvvisamente si fermò. Le porte si aprirono, lasciando entrare un’alta figura femminile, che prese ad avvicinarsi al Signore del Tempo svenuto.

***

“No, non credo sia morto” disse il Dottore, qualche ora più tardi, seduto di fronte a una coppa di vino nella stanza di Dante, assieme al poeta, Steven, Scarpetta e Lapo. “Il TARDIS è comunque riuscito a partire, quindi qualsiasi danno ha sostenuto è avvenuto al di fuori del flusso temporale. Credo che, alla fine, si ritroverà di nuovo scaraventato in qualche punto nello spazio e nel tempo.”

“Quindi dobbiamo aspettarci di rivederlo ancora?” sbuffò Steven, seduto a gambe incrociate vicino alla porta.

“Sì, ragazzo mio, è una possibilità” ammise il Dottore. “Speravo di rimandarlo sul nostro pianeta a essere processato, ma purtroppo temo che, con un TARDIS in quello stato, difficilmente ci arriverà.”

“Comunque sia, la dobbiamo ringraziare, Dottore” disse Dante, entrando nella conversazione. “Io personalmente per avermi salvato la vita, e tutti noi per averci impedito di fare un errore colossale.”

“Non molti saranno d’accordo con l’ultima frase” aggiunse Scarpetta. “Specialmente non Bastiera. Quando ha saputo che il Monaco era scomparso, ha subito iniziato a dire che la responsabilità era vostra, che eravate mandati dai Neri o roba del genere per sabotarci. Ovviamente io gli ho imposto di calmarsi, ma non è scontato che, ancora una volta, la sua posizione trovi sostenitori. Dopotutto, ora che il Monaco se ne è andato, gli Ubaldini hanno ritirato la loro offerta di alleanza una volta per tutte.”

“E con ciò?” rispose Dante. “L’ho detto più di una volta: piuttosto che tornare a Firenze in modo indegno o disonorevole, preferisco non tornare affatto. Troveremo un’altra via, Ordelaffi, non si preoccupi.”

“Avete tutti i miei auguri” disse il Dottore. “E ora”, aggiunse alzandosi dalla sedia, “penso sia il caso che anche io e Steven riprendiamo la nostra strada.”

“Siete sicuri?” domandò Dante. “A me e a messer Ordelaffi farebbe molto piacere se veniste con noi a Forlì per un po’ di tempo. Mi piacerebbe leggerle altre parti del mio poema, mi è sembrato che le apprezzasse.”

“E così è, messere, ma mi permetto di insistere: temo sia proprio il caso che andiamo.”

“Almeno accettate un segno della nostra gratitudine e riconoscenza, un nostro ricordo…” intervenne Scarpetta.

“Quello sì, volentieri” disse il Dottore, giulivo. “Messer Alighieri, non avrebbe per caso un biglietto da visita, o qualcosa con il suo nome sopra? Perdoni le eccentricità di un vecchio, ma tendo a fare la collezione di autografi delle personalità che incontro.”

“Non si preoccupi, glielo stendo subito” sorrise Dante, prendendo la penna e un pezzo di pergamena. “Ecco qua” disse, dopo cinque minuti. “E grazie ancora di tutto, Dottore.”

“Grazie a lei, messer Alighieri” rispose il Dottore, stringendogli la mano. “I versi che mi ha recitato l’altra sera hanno significato per me. Lei è davvero un grande poeta. Accetti un consiglio e inizi a lavorare a quel poema, il più presto possibile, prima che l’ispirazione svanisca.”

“Lo farò” fu la risposta di Dante. “E lei, Dottore, si ricordi quello che le ho detto a proposito di Ulisse: cercare la conoscenza è giusto, ma solo se essa serve per un progresso effettivo.”

“Può stare certo che ne farò tesoro” sorrise il Dottore.

***

“Torneranno mai a Firenze?” domandò Steven, quando furono ormai in vista del TARDIS, e la scorta armata loro assegnata da Scarpetta Ordelaffi si fu allontanata.

“No, purtroppo” sospirò il Dottore, aprendo la porta ed entrando nella console. “Messer Alighieri morirà a circa vent’anni dopo questa data, a Ravenna, senza essere mai rientrato in città.”

“Mi dispiace per lui.”

“Già, è triste, ma d’altra parte, ragazzo mio, è proprio da quest’esperienza dell’esilio che troverà la forza per scrivere il suo poema. Chissà, magari se non fosse stato esiliato non l’avrebbe mai fatto. Avrebbe vissuto giorno per giorno, con il sogno del poema, senza mai scrivere una riga, e alla fine si sarebbe portato nella tomba il rimpianto per la grande opera che non ha mai compiuto.”

Mi ricorda qualcuno, sorrise il TARDIS tramite il legame telepatico, strappando un sorriso al vecchio Signore del Tempo.

“Certo, non è facile. Significa abbandonare tutto, persino gli affetti più cari a volte, e prepararsi a settimane, mesi, anni di fatica e dolore. Ma in fondo, così nasce ogni grande opera ed esperienza: è nel dolore che nasce la bellezza.”

“Le va di fare il filosofo oggi?” commentò Steven ridendo.

“Be’, cosa vuoi, ragazzo mio… Ho seguito una lezione di Platone all’Accademia una volta, e proprio sulla dialettica. Ne ho discusso a lungo con lui dopo, è stato un confronto interessante. Mi ha lasciato una certa… propensione al monologo. Ma hai ragione, basta parlare: vediamo di ripartire, eh, che ne dici?”

Steven annuì, e le mani del Signore del Tempo iniziarono di nuovo a scorrere sulla console del TARDIS, di nuovo animate dalla forza e dall’energia di quando erano partiti. La macchina del tempo rispose vibrando di contentezza, pronta a un nuovo viaggio, a una nuova avventura. Alzando lo sguardo, il Dottore si vide riflesso nel tubo di contenimento della console, i suoi occhi nuovamente brillanti per l’entusiasmo, le rughe meno evidenti, e un’aria più giovane del solito che lo faceva scintillare come se si stesse rigenerando per la prima volta. “Fatti non foste per viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza” mormorò fra sé, preparandosi a ricominciare il viaggio, eccitato al pensiero delle meraviglie che avrebbe incontrato.

NOTE DELL'AUTORE

- Mortimus è, stando ad alcuni romanzi, il vero nome del Monaco, così come Koschei e Magnus sarebbero rispettivamente i veri nomi del Maestro e del Comandante (War Chief), un altro Signore del Tempo rinnegato che appare nell'ultimo serial del Secondo Dottore, "The War Games". Sempre nei romanzi, viene detto che, nell'Accademia dei Signori del Tempo, il Dottore e questi bei soggetti facevano parte della Decina (Deca), un gruppo di dieci giovani Signori del Tempo che criticavano la politica di non interferenza di Gallifrey.
- La Terza Guerra dei Dalek è un terzo conflitto fra l'umanità e le citate creature, ed è un evento storico menzionato nella novelisation del primo serial contenente il personaggio di Steven. Durante questo conflitto, Steven viene dirottato su Mechanus, il pianeta su cui resta prigioniero fino all'incontro con il Dottore, Ian, Barbara e Vicki nella serie tv.
- Borusa è uno dei Signori del Tempo più importanti nella storia della serie, e in quella personale del Dottore, di cui è stato insegnante all'Accademia. Sarà anche Cancelliere, Lord Presidente e Cardinale a Gallifrey, prima di diventare villain nella storia The Five Doctors, dove ben quattro incarnazioni del Dottore (Uno, Due, Tre e Cinque - Quattro si vede in immagini di repertorio ma non compare, da qui il titolo) si riuniranno per sconfiggerlo.
- In un altro serial più tardi, The Two Doctors, il Sesto Dottore tirerà fuori dalla sua famigerata giacca multicolore una specie di quaderno, dove il Dottore ha collezionato i biglietti da visita di numerosi uomini celebri, fra cui - appunto - Dante Alighieri. Ho pensato sarebbe stato divertente spiegarne l'origine.
-  Anche se effettivamente sia Quattro sia Undici avranno occasione di incontrare il filosofo in audiodrammi e fumetti, che Uno abbia incontrato Platone discutendo con lui di dialettica è invenzione mia.

Bene, e direi che con questo ho detto tutto. E' stata una gran bella prima tappa di questo viaggio nel TARDIS attraverso la storia d'Italia. Ringrazio ancora tutti quelli che ci hanno accompagnato, e vi dò appuntamento fra dieci giorni con la prossima avventura, con protagonisti il Secondo Dottore, Jamie McCrimmon e Zoe Heriot, dal titolo: "C'era una volta un pezzo di legno".

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