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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** 1. Casa dolce casa, famiglia dolce famiglia ***
Capitolo 3: *** 2. La guerra ***
Capitolo 4: *** 3. In cerca della verità ***
Capitolo 5: *** 4. L'esperimento ***
Capitolo 6: *** 5. Supergirl ***
Capitolo 7: *** 6. Il party ***
Capitolo 8: *** 7. La reporter ***
Capitolo 9: *** 8. Problemi di affezione ***
Capitolo 10: *** 9. Il giorno in cui il mondo smise di essere il mondo ***
Capitolo 11: *** 10. Mia sorella. O forse no ***
Capitolo 12: *** 11. Nel sangue ***
Capitolo 13: *** 12. La linea sottile ***
Capitolo 14: *** 13. Periodo fortunato ***
Capitolo 15: *** 14. Il destino che ci ha fatte incontrare ***
Capitolo 16: *** 15. Fretta di vincere ***
Capitolo 17: *** 16. Il rapporto tra sorelle è complicato ***
Capitolo 18: *** 17. Il mantello invisibile ***
Capitolo 19: *** 18. Casa ***
Capitolo 20: *** 19. Qualcosa da nascondere ***
Capitolo 21: *** 20. Felice ***
Capitolo 22: *** 21. Ribellione ***
Capitolo 23: *** 22. Le stelle ***
Capitolo 24: *** 23. Noi e loro ***
Capitolo 25: *** 24. Pre-Natale ***
Capitolo 26: *** 25. Messa di Mezzanotte ***
Capitolo 27: *** 26. L'amore non basta ***
Capitolo 28: *** 27. Inadeguato ***
Capitolo 29: *** 28. Il piano ***
Capitolo 30: *** 29. Come Orihime sull'altra sponda del fiume ***
Capitolo 31: *** 30. Dipendenza da lei ***
Capitolo 32: *** 31. Sorelle ***
Capitolo 33: *** 32. Colpo e contraccolpo ***
Capitolo 34: *** 33. Addio al secondo nubilato ***
Capitolo 35: *** 34. Paranoia ***
Capitolo 36: *** 35. La sposa - Prima parte ***
Capitolo 37: *** 36. La sposa - Seconda parte ***
Capitolo 38: *** 37. Il gioco cattivo ***
Capitolo 39: *** 38. Prendere le distanze ***
Capitolo 40: *** 39. Smettere di scappare ***
Capitolo 41: *** 40. Caro Diario ***
Capitolo 42: *** 41. Noi contro loro ***
Capitolo 43: *** 42. Un passo avanti ***
Capitolo 44: *** 43. Anime rotte ***
Capitolo 45: *** 44. L'Operazione ***
Capitolo 46: *** 45. Futuro ***
Capitolo 47: *** 46. Il violino ***
Capitolo 48: *** 47. Ricomincio da qui ***
Capitolo 49: *** 48. Lo strano caso del rapimento alla stazione ***
Capitolo 50: *** 49. Come una candela ***
Capitolo 51: *** 50. Peso, significato e potere ***
Capitolo 52: *** 50+. L'anima gemella ***
Capitolo 53: *** 51. L'erede ***
Capitolo 54: *** 52. Chi sono io? ***
Capitolo 55: *** 53. Di piani segreti e traumi di cristallo ***
Capitolo 56: *** 54. Cicatrici ***
Capitolo 57: *** 55. Amore e altri drammi ***
Capitolo 58: *** 56. L'anniversario - Prima parte ***
Capitolo 59: *** 57. L'anniversario - Seconda parte ***
Capitolo 60: *** 58. Dei miei sbagli ***
Capitolo 61: *** 59. Il prezzo da pagare ***
Capitolo 62: *** 60. Fuga dalla Casa degli Specchi ***
Capitolo 63: *** 61. Marsington ***
Capitolo 64: *** 62. Colpa ***
Capitolo 65: *** 63. Lemuri al buio ***
Capitolo 66: *** 64. Angel Children's Memorial ***
Capitolo 67: *** 65.1 Riscatto: Perdita ***
Capitolo 68: *** 65.2 Riscatto: La nuova società ***
Capitolo 69: *** 65.3 Riscatto: Un'azione orribile ***
Capitolo 70: *** 65.4 Riscatto: La famiglia è la cosa più importante di tutte ***
Capitolo 71: *** 65.5 Riscatto: Un modello da seguire ***
Capitolo 72: *** 65.6 Riscatto: Repressione ***
Capitolo 73: *** 66. L'ombra ***
Capitolo 74: *** 67. La verità ***
Capitolo 75: *** 67. Extra - Continua...? ***
Capitolo 76: *** 68. Phillings ***
Capitolo 1 *** Prologo ***
E così era successo.
Era arrivato
il momento che, assolutamente, sperava non sarebbe arrivato. E non
che non desiderasse che Eliza fosse felice, al contrario, ma quella
situazione si era svolta in così poco tempo da aver lasciato
lei e
sua sorella Alex in completo disorientamento. Di punto in bianco,
senza che avesse mai accennato loro qualcosa, aveva detto alle sue
due figlie per telefono che era una donna fortunata poiché
finalmente aveva trovato l'amore della sua vita. E sì che
dopo anni
si meritava qualcuno che la rendesse felice davvero, ma entro due
mesi da quella telefonata si era ufficialmente fidanzata e aveva
deciso di andare a vivere con questa persona, nella loro casa, senza
neppure chiedere cosa ne pensassero. E in quel caso, comunque, non
avrebbero saputo cosa rispondere: dopotutto non avevano ancora avuto
nemmeno modo di conoscere la sua persona
speciale, come la
definiva agli inizi. Erano stati fissati degli appuntamenti per
conoscersi ma a causa di loro impegni universitari o del lavoro, in
un modo o nell'altro, erano saltati tutti. Solamente Alex era
riuscita nell'intento, una sera, ma solo perché aveva
incrociato la
coppia in macchina nel traffico, e non per un incontro voluto. Sua
sorella le aveva riferito che Eliza era un po' su di giri e che
probabilmente temeva la loro reazione. Oh beh, pensava, di certo ne
avrebbe dovuto avere un po' se credeva davvero di portare nella loro
casa una persona sconosciuta con il dovere di apprezzarla.
Alla fine, avevano deciso di
comune accordo di riporre le armi per amore della loro madre e
conoscere la situazione, e le persone coinvolte, prima di farne un
caso. Glielo dovevano. E allora, approfittando della sospensione
delle lezioni di giugno, Kara Danvers decise di lasciare il campus
universitario per qualche giorno, prendere il treno e tornare a casa
per conoscere la sua nuova famiglia allargata. Sarebbe stata una
piccola e nuova avventura, sperando che tutto si sarebbe sistemato
per il meglio.
«Non sono
nervosa…»,
sbeffeggiò al telefono, «Okay, forse un
po'… Un pochino,
insomma». Il treno, fermatosi dopo qualche assestamento,
aprì le
porte: Kara aspettò che alcune persone scendessero per
mettersi in
coda, afferrando il suo trolley. «Sì»,
sbuffò infine, mantenendo
salda la presa al suo cellulare, «Sono decisamente
nervosa». Salì,
chiedendo scusa a una donna a cui aveva accidentalmente schiacciato i
piedi con le ruote del suo trolley, guardandosi poi intorno in cerca
di posti liberi e ascoltando la domanda di sua sorella Alex per
telefono. «Oh, sì», rise spalancando la
bocca, riprendendo a
camminare. «È stato bellissimo! E Supergirl ha
vinto ancora»,
emise con soddisfazione, distratta, e il suo trolley sbandò,
colpendo un piede che colpì a sua volta una valigetta,
caduta
davanti a lei. S'inchinò per raccoglierla subito con fare
impacciato, ma una mano la afferrò prima di lei e la
tirò su. «Mi
scusi». Appena Kara alzò lo sguardo sopra le lenti
dei suoi
occhiali, quella giovane donna dal volto pallido incurvò le
sopracciglia in modo severo e i suoi occhi di ghiaccio la
fulminarono.
«Guarda dove
cammini», brontolò
in modo acido, intanto che Kara la sorpassava per andare a sedersi a
qualche posto più avanti.
«Ho chiesto anche
scusa…»,
rimarcò per sé a bassa voce, sedendo al suo
posto.
«Kara? Che
ti è successo?»,
domandò la voce al cellulare.
«Non lo
so… Qualcuno sta
passando una brutta giornata», rispose fissando quella
ragazza.
Sembrava completamente a disagio seduta su quel sedile: i suoi occhi
vitrei si fissavano su un punto e restavano immobili, il labbro
inferiore della bocca coperta da un rosso acceso tremava, la mano
sinistra, l'unica che Kara vedeva da dove si trovava, era in continuo
movimento, sbattendo le dita sul bracciolo, così come il
piede
sinistro sopra le gambe accavallate. Dopotutto, lei stessa sembrava
veramente fuori luogo: indossava una giacca nera sopra una camicetta
bianca e dei pantaloni eleganti, non certo il tipico abbigliamento
degli universitari a giugno inoltrato. I lunghi e lisci capelli
corvini le ricadevano sulle spalle in modo elegante e raffinato. Kara
non poté fare a meno di dare una veloce occhiata alla gonna
corta e
alla t-shirt a righe che indossava, senza dimenticare le due trecce
che le tenevano raccolti i capelli biondi, notando quanto i due stili
fossero decisamente differenti.
«Intendi
noi?»,
rise Alex, mentre il treno ripartiva, «Io
sono quasi arrivata a casa e lo ammetto, sono nervosa anch'io. Ma chi
non lo sarebbe al posto nostro?».
«Puoi dirlo
forte», ribatté,
«Stiamo per conoscere la nuova fiamma di nostra
madre…».
«Ormai il
fidanzamento è
ufficiale, Kara».
«Sì,
quindi… fa parte della
famiglia a tutti gli effetti».
«E i suoi
figli».
«Anche i suoi figli,
già».
Anche se parlava al telefono con sua sorella, non si era resa conto
di avere ancora lo sguardo puntato nella direzione di quella ragazza
che, al contrario, si era accigliata di nuovo, fissandola con
rimprovero. Kara si sentì avvampare, distogliendo
immediatamente lo
sguardo, cercando di guardare fuori dal finestrino.
«Chissà poi
come saranno… i suoi figli, intendo. Il più
grande non è neanche
più all'università, vero?».
«No, lavora
per l'azienda di
famiglia… A conti fatti, è anche lui un vero e
proprio capo di
nostra madre, anche se non c'è mai. È sempre
nell'altra sede a
Metropolis… Non credo sarà con noi questi giorni
a casa. Non so
neppure se nostra madre lo ha conosciuto».
«Quindi avremo solo
la figlia?»,
domandò, sentendosi osservata. Con la coda dell'occhio
cercò di
individuarla e, appena la vide guardarla ancora con quello stesso
sguardo accigliato, sussultò, fissando con più
attenzione fuori dal
finestrino. Stava diventando fastidiosa: le aveva chiesto scusa, cosa
voleva ancora, che le firmasse delle scuse ufficiali da portare nella
sua lussuosa valigetta?
«Sì.
Lei sta ancora
studiando, anche se saltuariamente partecipa alle attività
dell'azienda. Eliza mi ha raccontato che è talmente
intelligente che
è riuscita a dare gli esami di due anni in uno e che
frequenta le
lezioni solo per approfondimento e presenza».
«Lo ha raccontato
anche a me»,
sbuffò, «Mi è parso di vederla
estremamente orgogliosa».
«Ha dato
anche a te
quest'impressione?».
«Assolutamente
sì. Come se noi
non fossimo alla sua altezza».
«Verissimo!
Dai, io mi faccio
in quattro per studiare e al contempo lavorare e-e sto anche cercando
di avere una vita sociale, sai, la mia ragazza… E pago le
bollette,
Kara! E poi arriva questa-».
Sua sorella le parlò
sopra:
«Questa che praticamente è ricca sfondata e pensa
di essere
migliore di noi perché riesce a dare gli esami di due anni
in uno!
Lo capisco! Io mi impegno negli studi e lo sport e do il massimo in
tutto, ed Eliza non ha mai parlato di me come invece mi ha parlato di
questa Lena», sbuffò. Diede un veloce sguardo alla
ragazza a
qualche sedile da lei ma aveva smesso di fissarla, era intenta a
controllare il suo cellulare. Tirò un sospiro di sollievo.
«Sono
arrivata: fammi gli
auguri, sorellina».
«Auguri,
sorellona». Chiuse la
chiamata e guardò fuori dal finestrino, dove i palazzi del
centro di
National City avevano già da un po' lasciato il posto agli
alberi
delle campagne e alle case di periferia: ancora poca strada e sarebbe
arrivata anche lei. Deglutì. Eliza le aveva detto che
avevano deciso
di vivere insieme nella loro casa per un po' e che poi si sarebbe
trasferita invece in casa sua nella parte buona e ricca di National
City. La prima sarebbe stata l'ideale per le vacanze, la seconda per
il periodo di lavoro più stretto. Oh, le veniva il mal di
testa nel
pensare a quanto le cose si erano affrettate. Nel sentire lei
sembrava che si conoscessero e frequentassero da una vita, ma per
loro… Chissà cosa ne pensavano i figli della
controparte, Lex e
Lena. Chissà se mai sarebbero andati d'accordo nel
ritrovarsi
praticamente fratelli all'improvviso. Tutto stava per cambiare per
sempre.
Il viaggio durò
ancora tre quarti
d'ora a causa di alcuni rallentamenti alle stazioni. Kara si
sistemò
le trecce e gli occhiali sul naso e sospirò più
volte, tesa come
una corda di violino, guardando di tanto in tanto cosa faceva la
ragazza scontrosa che si dava delle arie. Non l'aveva più
guardata,
notò. Meglio, pensò subito, capendo che
probabilmente non era
successa una tragedia nel far cadere la sua stupida valigetta. E che
non lo aveva fatto di proposito, poi. Quando il treno
annunciò
l'ultima fermata erano ormai in pochi a dover scendere. Quella
ragazza si alzò dal sedile e prese la valigetta. Kara, che
era stata
più veloce, stava per passarle davanti con il suo trolley
quando lei
la tamponò camminandole quasi sui piedi, spostandola. Per
poco non
la faceva cadere su un sedile.
«Scusa», le
tuonò, passandole
avanti.
Kara restò di sasso,
a bocca
aperta, capendo che lo aveva fatto di proposito. Forse si era
addirittura studiata quella piccola vendetta per l'intero viaggio.
Quando scese dal treno quella ragazza era già sparita. Non
poteva
credere fosse tanto veloce sui quei tacchi. E dove si era mai vista
una ragazza prendere il treno con i tacchi ai piedi? Quella aveva
qualcosa che non andava, pensò. Fuori luogo e fuori dal
mondo,
continuò, felice che se ne fosse andata. D'altronde non
l'aveva mai
vista e probabilmente non l'avrebbe rivista mai più.
Maleducata e
sfacciata.
Si spostò a piedi
facilmente,
inoltrandosi nelle stradine in mezzo alle case che conosceva a
memoria, trascinando il suo trolley. Non aveva fretta, temeva di
arrivare troppo presto, e camminò con
tranquillità in una sorta di
passeggiata, godendosi appieno l'aria estiva. Nonostante fosse
pomeriggio non soffriva il caldo. Non c'era nessuno in giro e il sole
bollente sulla pelle la faceva sentire bene. Era il momento della
giornata che preferiva. La sua passeggiata le diede ancora modo di
pensare e schiarirsi le idee, ma non sarebbe durata per sempre e
prima o poi sarebbe arrivata. Quando si ritrovò davanti a
casa sua
deglutì. Il vialetto era in ordine, l'erba dei cespugli
rigogliosa
come sempre, la facciata come la ricordava, su un giallino pallido.
Non un solo punto fuori posto. Se non che, avvicinandosi alla
cassetta delle lettere, il nome era cambiato. Non più Danvers,
ma Danvers-Luthor.
Rabbrividì. Probabilmente aveva fatto rabbrividire anche
Alex un'ora
prima di lei. Prese il cellulare dalla tasca e digitò un
messaggio
per sua sorella: sperava che uscisse per andarla a prendere; sentiva
di aver bisogno di aiuto psicologico. La porta di casa si
aprì ma,
all'improvviso, il suo sospiro si bloccò quando la persona
ad uscire
fu Eliza per correre da lei a braccia aperte. Alex era a poco da lei
e tirò la bocca per una smorfia di scuse.
«Oh, Kara!
Finalmente». La donna
l'abbracciò con una potente stretta e Kara
ricambiò cercando di
sfoggiare uno dei suoi sorrisi migliori. «Eravamo
preoccupate,
questo treno non arrivava mai». La lasciò e si
guardò intorno. «Ma
dov'è Lena?».
«L-Lena?»,
scrollò di spalle,
guardando sua sorella che faceva altrettanto.
«Dicono che ha preso
lo stesso
tuo treno».
«Ah, allora non lo
so… Non ho
visto nessun-», si bloccò, quando vide Eliza
adocchiare qualcosa e
indicarlo. Era un taxi. La vettura gialla si fermò a poco
dal
vialetto e, dalla portiera aperta, scese un tacco dopo l'altro. La
ragazza spostò i lunghi e lisci capelli corvini da una parte
per
richiudere lo sportello; la mano sinistra reggeva fedelmente la sua
valigetta. Kara spalancò gli occhi e la bocca, incredula.
No, no,
non poteva essere lei. Non proprio lei tra tutte le persone su quel
treno, accidenti. La bocca di Lena era ferma in una smorfia di
disapprovazione e, quando il suo sguardo incrociò quello di
Kara, al
contrario per nulla sorpreso, s'irrigidì ancora di
più.
Eliza corse da lei in un
abbraccio
ancora più caloroso che Lena ricambiò con
affetto, mentre il taxi
ripartiva. Loro si conoscevano. Avevano avuto modo di conoscersi, non
poteva crederci. Vide quella ragazza sorridere e Kara non pensava
neppure che ne fosse capace.
«Oh, allora ci siamo
tutte!»,
gridò estasiata una quinta voce. Lo sguardo di Kara
planò subito
alla porta di casa.
«Non trovavo la via e
mi sono
fatta aiutare dall'autista del taxi», tuonò Lena,
camminando verso
la porta, ignorando Alex a metà strada. «Se mi
avessi mandato la
macchina come avevo richiesto, questo non sarebbe successo».
«Oddio, Lena, come
sei
melodrammatica: scommetto che prendere il treno come tutti i comuni
mortali non ti ha compromesso. E poi hai potuto conoscere
Kara», la
indicò con un cenno della mano.
«Sì»,
sibilò a fior di labbra,
«Ho avuto il piacere, mamma».
Lillian
Luthor
sorrise. «Da oggi
siamo ufficialmente una famiglia».
Le
sembrava di essere di nuovo
su
quel treno.
Se non fosse per la mancanza di
puzza di sudore del ragazzo a fianco a lei sul sedile, le sarebbe
sembrato veramente di essere ancora su quel treno, poiché la
ragazza
con la valigetta non le aveva tolto occhio di dosso. E non che si
vergognasse quando la sorprendeva a guardarla, al contrario girava la
faccia dopo qualche istante con fare seccato come se fosse lei, Kara
Danvers, quella irritante. Doveva averla sentita parlare al telefono
di lei, lo sapeva. Aveva la voce troppo alta, Alex glielo aveva
rimproverato spesso, accidenti a lei. Lena Luthor doveva odiarla.
Dopo millemila
anni…. I'm back!
Non lanciatemi pomodori, please, mi faccio perdonare perché
quella
che vi state apprestando a leggere sarà una long,
loooong fan fiction slowburn supercorp! Con millemila (devo
smetterla di usare questa parola) personaggi di contorno che vanno e
vengono! No, aspettate! Forse non dovevo dirlo che è una
roba long,
così ve ne andate D:
L'idea di base non è
mia ma di
Annamaria, che ha lasciato scritta sul documento Give
me more, o meglio, chi mi scrive una FF?
del gruppo Facebook In
femslash, we trust. (Official Group).
Ecco la traccia: Fanfiction
AU Supercorp. Dove Lilian Luthor ed Eliza Danvers si innamorano e
vanno a vivere insieme. Kara Lena ed Alex di conseguenza sono
costrette a convivere, il problema è che Lena e Kara non
vanno molto
d’accordo. Il resto lo lascio alla vostra immaginazione.
Il problema è che io
di
immaginazione ce ne ho messa troppa, anche se non parlo del tutto di
ciò che intendeva lei, ne sono sicura XD Quindi
sta uscendo una roba un po' lunga, ci sto creando quasi un mondo, e
spero di non annoiare :/
Specifico subito che nella
storia
compariranno solo personaggi presenti nella prima e seconda stagione
della serie e che, sì, alcuni di loro saranno per forza di
cose
almeno un po' OOC. È una fan fiction AU e a volte
alcune cose sono e saranno modificate per rendermi più
facile la vita.
Yey!
Lettori avvisati…
Beh, se ci siete ancora, spero
vi
piaccia (anche un pochino, pochino) come sta divertendo me scriverla!
Ci leggiamo al prossimo,
nonché
primo capitolo, che si intitola: Casa
dolce casa, famiglia dolce famiglia
Pubblicherò
probabilmente di domenica!
|
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Capitolo 2 *** 1. Casa dolce casa, famiglia dolce famiglia ***
Lillian
Luthor l'aveva bloccata davanti alla porta di casa come avesse paura
potesse sfuggirle e l'aveva stretta in un abbraccio strano, pensava
Kara, poiché sembrava massiccio, ma al contempo era
decisamente
freddo. D'altronde, di lei sapeva che era il capo della Luthor Corp
dove lavorava sua madre come scienziata, che lei stessa operava al
suo fianco, ma che era una donna ricca abituata allo sfarzo e forse
non proprio avvezza ad abbracciare la gente. Non per niente, sua
figlia Lena sembrava essere cresciuta in modo totalmente diverso da
lei e sua sorella.
«Sono
felice di conoscerti, finalmente», si allontanò da
lei solo il
tanto di giusto di guardarla bene in viso che, nel frattempo, doveva
essere diventato paonazzo. «Mi chiamo Lillian, ma puoi
chiamarmi
mamma,
se lo preferisci, Kara», disse con voce ferma e
intimidatoria. Kara
non rispose e si allontanò, mentre Alex dietro di loro
tratteneva
una risata. «Beh, immagino sia ancora presto»,
sorrise la donna.
Lena Luthor, non molto distante, ancora valigetta alla mano, aveva
debolmente scosso la testa.
«Sono
anch'io felice di conoscerla», rispose Kara d'un fiato.
Alex
la guardò, Lena rise con garbo ed Eliza scoppiò
in una fragorosa
risata, intanto che Lillian spalancava gli occhi come colta di
sorpresa.
«Kara,
non c'è bisogno di darle del lei», le disse sua
madre, per poi
sorriderle dolcemente, carezzandole un braccio.
Capì
di aver appena fatto una pessima figura. Lena Luthor stava ridendo di
lei e Lillian Luthor doveva averla presa per un'imbecille. Non poteva
esserci inizio migliore.
Quella
donna. Quella donna dall'aspetto sospetto che voleva essere sua madre
ora si burlava di lei. In un certo senso, somigliava a sua figlia:
entrambe avevano un aspetto freddo e distante ma, al contrario di
Lena, lei sorrideva in un modo quasi forzato, come se non fosse
sincera. Doveva essere la sua impressione.
Sua
madre le disse che avrebbe dovuto dividere la sua stanza con Lena
perché l'unica abbastanza grande. C'erano due letti singoli,
quando
erano piccole lei e Alex quella era la stanza di entrambe e solo
successivamente, una volta diventata più grande, Alex volle
trasferirsi nella camera piccola che sua madre prima usava come
studio. Kara salì le scale di casa in fretta, a memoria.
Subito a
sinistra c'era la stanza di Alex e poi la sua. L'aprì e Lena
Luthor
la seguì a ruota, con la valigetta ancora in mano.
L'idea
di dividere la stanza con lei le faceva venire il mal di pancia: non
sapeva nemmeno di che parlare con quella ragazza. Erano due complete
estranee che neppure si piacevano.
«Okay,
quello è il mio letto. Questo era di Alex, lo userai
tu», disse
poggiando una mano sul materasso del primo lettino, senza guardarla,
camminando subito verso la finestra, dove c'era il suo. Lena Luthor
si guardò attorno; la bocca chiusa. Da come ne aveva parlato
Eliza
Danvers, aveva immaginato quella stanza più grande di come
era in
realtà. Le pareti erano di un rosa pastello, c'erano piccoli
quadretti con fiori e alberi, in altri il cielo; la scrivania color
panna era vicina alla finestra, dal lato opposto c'era il suo letto.
Era tutto così ordinato. Oh, entrambi i letti avevano delle
trapunte
con un buffo coniglio bianco disegnato sopra. Lena ci passò
una
mano, sembrava morbido, così ci appoggiò la
valigetta. Poi c'era un
cestino vuoto accanto alla porta, vicino al letto in cui avrebbe
dormito lei, e all'altra parte del muro l'armadio a muro a tre ante,
anche quello color panna. Guardandolo meglio, scorgeva alcuni aloni
lasciati probabilmente da colla, da chissà quale adesivo.
L'aria era
profumata, non c'era polvere, era tutto perfetto. Considerando che le
due figlie di Eliza Danvers non venivano a casa da mesi, Lena
immaginò che fosse la donna a tenerla in perfetto stato.
Forse in
attesa che loro andassero a trovarla, pensò. O magari
l'aveva
sistemata il giorno prima proprio in vista del loro arrivo. Guardando
Kara Danvers, notò che sembrava perfettamente a suo agio,
dunque la
camera non doveva essere cambiata dall'ultima volta in cui si era
ritrovata al suo interno: aveva anche lei appoggiato il suo trolley
sul letto e aveva iniziato a togliere dei vestiti, piegandoli. Lei
sembrava parte dell'arredamento: in ordine e color pastello; forse
perfino profumata.
Aprì
la sua valigetta con un tic. L'altra ragazza si girò a
osservarla,
distratta dal rumore. Lena la vide con la coda dell'occhio farle una
buffa smorfia con la bocca. Sorrise, scuotendo la testa.
«Sai,
potevi farmi male», le disse a un certo punto, interrompendo
quel
pesante silenzio.
«Cosa?».
«Sul
treno, prima di scendere», specificò, corrugando
la fronte, «Stavo
per cadere».
«Ah»,
Lena abbozzò una risata, girandosi verso di lei, con una
mano su un
fianco. «Credimi, se avessi voluto farti male, te ne saresti
accorta». Kara restò a bocca aperta e, intanto che
pensava a cosa
dire, lei si era già rivoltata verso di lei, indicando degli
indumenti piegati all'interno della valigetta. «Ti dispiace?
Dovrei
cambiarmi».
Kara
lasciò le sue cose sul letto e uscì in fretta,
chiudendo la porta.
Era stata costretta a lasciare la sua stessa stanza. Non succedeva da
quando Alex quindicenne aveva in mente di provare ad appartarsi con
dei ragazzi. Per fortuna in quel caso non durava a lungo; Lena Luthor
invece… la sentiva fischiettare? Stava davvero fischiettando
mentre
lei aspettava fuori dalla porta che si cambiasse? Aveva come la
sensazione che non sarebbe uscita presto. Kara sbuffò,
allontanandosi e scendendo le scale.
Lena
si sedette sul letto, tastando con le dita quanto il copriletto fosse
soffice. Ne era quasi stupita. Continuando a fischiettare, si
guardò
di nuovo attorno immaginando Kara e Alex Danvers in quella stanza, a
come doveva essere il loro rapporto tra sorelle e come avevano
vissuto in quella camera, studiando in quella scrivania davvero
piccola in confronto a quella che aveva lei, gettando i rifiuti in
quel cestino per la carta, aprendo l'armadio per scegliere cosa
indossare per andare a scuola. Si alzò e aprì
l'armadio,
studiandolo attentamente.
«Dalle
una possibilità», le disse Alex, appoggiandosi al
bancone della
cucina. «Dobbiamo darla a lei e a sua madre. Magari non la
chiameremo mai mamma»,
rise, «ma potrebbe non essere tanto male. Guardala: ne sembra
davvero innamorata». Con lo sguardo, indicò Eliza
nel salone
accanto, dove lei e Lillian Luthor, vicine, controllavano i vasi dei
fiori e parlavano. Ridevano e sembravano entrambe a loro agio,
pensò
Kara. Forse dopotutto la cosa avrebbe potuto funzionare.
Sbuffò
ancora, mandando giù un boccone della sua minestra,
guardando Lena
Luthor in cagnesco, davanti a lei.
La
prima cena in famiglia che Eliza e Lillian speravano aprisse a tutte
un dialogo per conoscersi si stava dimostrando fin da subito un vero
fallimento. Le due donne provavano a sorridere a se stesse e alle
figlie, Alex ricambiava, Lena mangiava senza guardare nessuno con
aria di superiorità e Kara grugniva. La si sentiva
brontolare fin
dalla parte opposta del tavolo.
«Kara,
tesoro… non è successo niente»,
tentò di dirle di nuovo Eliza,
sorridendo a lei e poi a Lillian, che aveva allungato una mano solo
per raggiungere la sua e così darle conforto.
«Niente?
Mi ha buttato giù mezzo armadio per farci stare i suoi
vestiti»,
gracidò, guardando subito Lena: lei continuava a mangiare la
sua
minestra con calma e educazione, senza scomporsi.
«Ti
ha sistemato tutto sul letto, no?», rispose sua madre.
«Mezzo
armadio!», ribadì, spalancando gli occhi e
indicando la ragazza,
incredula dal fatto che nessuno a parte lei capisse la
gravità della
cosa. «Quanta roba vuoi che ci sia stata in quella valigetta?
Le
serviva davvero mezzo armadio?».
«Kara,
Lena non è abituata…».
«È
così», confermò Lillian Luthor,
prendendo parola per la prima
volta, «Lena non è abituata a questi
spazi…»,
guardò la
figlia con la coda dell'occhio, «Hai comunque mezzo armadio,
no?
Sono certa che riuscirete a trovare una soluzione, mia cara»,
sorrise a entrambe e poi a Eliza, che ricambiò.
Kara
fulminò Lena con lo sguardo e l'altra finalmente la
degnò di
un'occhiata, accennando un sorriso prima di avvicinarsi il cucchiaio
alle labbra.
Abituata
o no, quella ragazza lo faceva apposta. Lo faceva apposta solo per
darle fastidio, lo sapeva. Lo sapeva.
«Su,
non siate timide», riprese parola Lillian. «Ci
sarà pur qualcosa
che vogliamo dirci in questa prima cena come una famiglia, vero?
Alex?», la guardò e l'altra deglutì,
cercando aiuto con lo sguardo
a sua sorella e poi a sua madre.
«Ah…
una cosa…», sorrise con nervosismo.
«Sì?
Puoi dire qualsiasi cosa ti passi per la testa».
«Questa
è… è una… insomma, questa
situazione mi mette a disagio».
«Alex!»,
la richiamò immediatamente sua madre, ma Lillian scosse la
testa,
mantenendo un sorriso.
«Ha
fatto bene. Alex ci ha detto cosa ne pensa, va bene. Proviamo a
cambiare», guardò Lena, come illuminata.
«Ah, Lena, sai che tu e
Kara avete una cosa in comune?». Sua figlia si
accigliò. «Siete
state entrambe adottate».
Lena
abbassò il suo cucchiaio, guardando Kara sorpresa e poi
Eliza,
accennando un sorriso. «Ah, quindi è Alex la tua
figlia preferita,
Eliza?».
La
donna restò a bocca aperta mentre Lillian
s'imbrunì di colpo. «Sai
benissimo che non è vero! Io amo te e Lex allo stesso modo,
Lena».
«Sai
benissimo di mentire», ribatté, bevendo un sorso
d'acqua. «Non
dovremmo essere sincere durante la nostra prima cena come una
famiglia?».
Lillian
Luthor si zittì, irrigidendo le labbra, mentre Eliza le
stringeva la
mano più forte di prima. Alex e Kara si scambiarono uno
sguardo,
nascondendosi dietro al cibo più che potevano.
«Avevi
ragione, Alex: è davvero una situazione che crea
disagio», disse
Lillian, dopodiché le invitò a lasciare la tavola,
se desideravano
farlo. Si alzarono tutte e tre, abbandonando i piatti in tavola.
Normalmente Kara e Alex erano abituate ad aiutare la loro madre con
le faccende, ma quella notte nonostante il pensiero di andare da lei
sfiorò entrambe non osarono avvicinarsi, notando come Lillian
Luthor
le girasse sempre intorno. Videro le due aiutarono a vicenda,
sparecchiando e dopo lavando i piatti. Non credevano che la seconda
ne fosse capace, immaginando che avesse del personale a fare le cose
per lei.
Lena
si era sistemata in sala, seduta sul divano per guardare un film
davanti alla televisione, da sola. Non aveva rivolto più la
parola a
nessuno.
Kara
e Alex si chiesero se fosse vero ciò che aveva detto a cena.
Ne
parlarono un po' in camera di Kara, da sole. Alex l'aveva aiutata a
sistemare il suo mezzo armadio sulla scrivania, in attesa l'indomani
di sapere dove metterlo. Alex le offrì del posto nel suo
armadio in
camera sua; anche se era più piccolo, se stringevano ci
poteva stare
tutto quanto. Kara accettò solo in ricordo di ciò
che aveva detto
Lena a cena. Era decisa a fargliela pagare con la stessa moneta
buttandole giù la sua metà dell'armadio, ma aveva
avuto pena per
lei.
«In
fondo quella donna potrebbe benissimo essere malvagia, Alex»,
sussurrò alla sorella, ripiegando un pantalone e
disponendolo su una
pila. «Hai visto come ci guarda… e come guarda
Eliza? Non mi
stupirei se davvero volesse più bene a Lex, il figlio
biologico. Non
so in che modo ti ha abbracciato quando ti ha conosciuto, ma io ho
avuto la sensazione di abbracciare un albero secco: quella donna non
è abituata agli abbracci. Decisamente».
«Non
mi fido di lei», rispose invece Alex, appoggiandosi alla
scrivania e
mettendo braccia a conserte. «Sai cosa ti dico?
Chiederò a Maggie
di fare ricerche sul suo conto. Se quella donna ha qualche scheletro
nell'armadio, salterà fuori. E staremo tutte più
tranquille».
Kara
annuì con decisione.
Maggie
Sawyer, la ragazza di Alex, era entrata a far parte del corpo di
polizia da qualche mese; era ancora maldestra e il suo supervisore la
trattava da ragazzina, ma aveva accesso agli archivi del distretto di
National City e la posizione tornava assai utile.
Quando
Kara cominciò a prendere sonno, quella notte, era
già mezzanotte
passata. Al campus era abituata ad andare a letto presto per via
degli orari di allenamento con la squadra che la obbligavano ad
alzarsi molto presto, così i suoi occhi si stavano chiudendo
automaticamente appena udì la porta di camera sua aprirsi,
nel buio,
e restò ferma, fingendo già di dormire. Lena
Luthor fece più piano
possibile, i suoi passi si sentivano appena scricchiolare sul
pavimento di legno; andava da una parte all'altra della stanza, si
preparava per entrare sotto le coperte, e quando Kara non
udì più
alcun suono capì di aver fatto. Era sollevata che in fondo,
dopo un
inizio burrascoso, le cose stessero andando bene tra loro. Nessun
dispetto con l'intento di svegliarla, nessun rumore molesto. Si stava
lasciando abbandonare al sonno, rilassandosi, stiracchiando le dita
dei piedi e sorridendo, fino a quando il rumore di una sigla e una
voce chiara e alta in sottofondo non le fecero prendere un colpo,
svegliandosi di soprassalto. Aprì gli occhi e fu investita
dalla
luce del telefono di Lena, acceso e chiassoso. Lei era sdraiata con
il cellulare acceso tenuto tra le mani.
«Un
documentario, Alex, quella guardava un documentario che si è
protratto per ben due ore e ventisette minuti, e lo so bene, questo,
Alex, perché non ho chiuso occhio», le raccontava
la mattina dopo,
in bagno. Appena aveva visto la sorella passare per il corridoio
l'aveva presa e trascinata dentro contro la sua volontà
mentre
andava a fare colazione.
Alex
la guardava trattenendo una smorfia dal sonno. «Hai un
aspetto
orribile…».
Kara
vedeva le sue occhiaie a un metro e mezzo dallo specchio del bagno.
«Appena cercavo di dormire, e credimi se ti dico che ci
provavo, una
musica altissima me lo impediva. Lo faceva apposta! Appena chiudevo
gli occhi ripartiva la musica, lo faceva apposta, Alex, apposta. E
sai cos'altro ha fatto?», parlava senza prendere fiato,
agitando le
mani, «Ha mangiato il mio yogurt».
«Il
tuo yogurt?».
«Il
mio yogurt, Alex, quello all'albicocca; Eliza lo sa che
è il
mio preferito eppure lo ha fatto mangiare a lei»,
piagnucolò.
Alex
si prese un momento di pausa e la guardò con attenzione,
dalla testa
spettinata ai piedi scalzi, per ritornare di nuovo sulle sue
occhiaie. «Vedrai, troveremo una soluzione», le
poggiò le mani
sulle spalle e poi uscì dal bagno, trascinandosi stancamente
con le
ciabatte. «Prima lavati la faccia, o il nemico
capirà di star
vincendo facile».
Nemico.
Kara si affacciò allo specchio del bagno e si
guardò con
attenzione, rimuginando su quella parola. Ci rimuginò a
lungo anche
nei due giorni successivi, in particolar modo quando Lena si chiudeva
nell'unico bagno di casa, escludendo quello della camera padronale,
per più di mezzora, quando sempre lei vedeva il suo
documentario al
cellulare prima di dormire, quando faceva fuori tutti i suoi yogurt
all'albicocca e, non contenta, apriva le confezioni del gelato a due
gusti e ne mangiava uno solo, obbligando loro a mangiarsi l'unico
rimasto. A volte si chiudeva nella loro camera in comune e, per
quanto Kara bussasse per entrare, lei non rispondeva perché
lavorava
con il suo laptop. Quando finalmente usciva neppure la guardava e
camminava a naso in su con fare superiore.
E
se Lena Luthor non faceva che complicare le cose, Lillian Luthor
cominciava seriamente a innervosire lei e Alex. Sì, vedere
la loro
madre così solare mentre lei e Lillian si abbracciavano sul
divano
per guardare la televisione era una scena che riusciva sempre a far
sciogliere il cuore di entrambe, ma il viso di quella donna, sempre
così tirato e innaturale, rovinava il bel momento. Intanto,
ogni
occasione era buona per coglierle con inviti a fare qualcosa con lei
oppure in famiglia.
«Alex».
Una mattina spalancò la porta del bagno che lei aveva
lasciato
socchiusa mentre si lavava i denti, sorridendole. «Che ne
diresti se
ci facessimo una bella chiacchierata madre-figlia questo pomeriggio,
ti va bene?».
Non
le rispose, con la bocca che colava dentifricio.
Oppure
sorprendendo Kara in momenti casuali della giornata.
Guardava
il frigorifero svogliata scoprendo che Lena aveva fatto scomparire
anche l'ultimo yogurt. Chiuse lo sportello e si ritrovò
Lillian
Luthor davanti a lei, facendola sobbalzare dallo spavento.
«Kara.
Che ne pensi se, questa sera, ci guardassimo un film tutte insieme in
salone? Potresti sceglierlo tu, va bene?».
Alex
parlava al cellulare e Lillian Luthor si era palesata davanti a lei,
in cortile, con le mani l'una sull'altra e non mancò di
guardarla
finché non terminò la sua chiamata con Maggie.
«Lillian…?».
«Alex,
cara, mi chiedevo se ci fosse qualcosa che potessimo fare per
avvicinare la famiglia. Sai, ho come la sensazione che le cose tra
Kara e Lena non stiano andando troppo bene e vorrei unirle, ma non
so… Tu hai qualche idea? Cosa piacerebbe fare a Kara? La
serata
film non è andata molto bene…».
Kara
aveva scelto un film d'amore e Lena non aveva fatto altro che
sbadigliare rumorosamente dai primi dieci minuti. Per dispetto, Kara
che era al suo fianco, le aveva sfilato dalla schiena uno dei suoi
cuscini preferiti, così Lena aveva cercato di riprenderselo,
e a
metà film la situazione era degenerata tanto che Eliza aveva
confiscato tutti i cuscini quando avevano iniziato a darseli addosso,
ma piano, fingendo di non farlo.
«Ti
è caduto il cuscino».
«Sicura?
Mi era parso fosse caduto a te, non vorrei restassi senza».
Alex
trattenne una risata al ricordo, guardando il viso di Lillian
seriamente colpito dalla situazione. «Emh… non lo
so… Kara in
realtà è una persona molto semplice, potrebbe
prendere più in
simpatia Lena se, ad esempio, le lasciasse anche solo il suo
yog-».
«Cosa
ne pensi di un gioco tutte insieme?», la interruppe e Alex si
zittì.
«Sì, un gioco da tavola potrebbe spingere tutte a
conoscerci
meglio». Se ne andò, lasciandola perplessa.
E
così quella sarebbe presto entrata nei ricordi della
famiglia
Danvers, o
Danvers-Luthor,
come la
peggior giocata a Monopoly da quando la scatola del gioco
entrò in
quella casa. Kara non era mai stata una cima nei giochi di
società,
specie in quello specifico gioco, ma soprattutto in quella specifica
sera, scoprì: Lena Luthor riuscì ad acquistare il
75% delle
proprietà sul tabellone in meno di quindici minuti di gioco,
spillandole fino all'ultimo centesimo, notando con quanta goduria
amava dirle di doverle dei soldi.
«Presto
finirai per dormire sotto ai ponti, Kara», rise Lillian
Luthor,
contagiando anche Eliza. Facile per lei parlare, essendo seconda.
Alex non ci provò, fulminata da una sola occhiataccia.
«Se
non finirò per comprare anche quelli»,
sottolineò Lena a bassa
voce.
Eliza
e Lillian erano troppo prese tra loro per sentirla, ma Kara non si
lasciò sfuggire quel sussurro e lo stesso Alex, che
tentò di
fermare la sorella con uno sguardo, inutilmente. «Beh, forse
non
riuscirai a farlo: dicono che faccia malissimo al cervello guardare
il cellulare prima di dormire».
Lena
la degnò appena di mezza occhiata prima di riprendere con
accuratezza a sistemare le file delle sue banconote sul tavolo.
«Guardare le ultime scoperte nel campo della biotecnologia mi
aiuta
a conciliare il sonno. Durante la notte, mentre dormiamo, la mente
umana continua a lavorare su quanto abbiamo appreso quando eravamo
coscienti. Non mi sorprende che tu non lo capisca, dopotutto io
sono solo una ricca sfondata che pensa di essere migliore di voi
perché ho dato gli esami di due anni in uno».
«Scusa?».
Kara impallidì, deglutendo: le stava davvero rivoltando
contro la
sua discussione al telefono con Alex quando erano sul treno? La
ricordava fin troppo bene, pensò.
«Kara,
Lena scherzava, non prenderla così sul personale»,
la implorò
Eliza. La sua voce era paziente, ma il suo sguardo raccontava una
storia diversa.
Alex
pensò di intervenire prima che la cosa degenerasse come con
la
serata film, con le pedine e le casette al posto dei cuscini.
«Lena,
Kara intendeva dire che i raggi dei telefoni- È solo che non
riesce
più a dormire e la cosa la rende nervosa».
«Lo
avevo notato», battibeccò. «Immagino
dovrà pazientare finché non
diventerà un'abitudine e il suo corpo si adeguerà
di conseguenza».
«Lena,
potresti essere più gentile», rimarcò
Lillian.
Lei
sospirò, prendendo i dadi dal tabellone. «Potrei.
Ma così è più
divertente», si lasciò andare a un forzato
sorriso. Lanciò i dadi.
Stava per muovere la pedina quando Kara si alzò facendo
cadere la
sedia e infine gettando il tabellone e tutto il gioco a terra,
raggiungendo a passo svelto camera sua.
Eliza
non riusciva, per la prima volta da quando l'aveva adottata, a capire
appieno il comportamento di sua figlia. Era sempre stata una bambina
un po' aliena in tutto; con lei aveva dovuto ricominciare daccapo su
parecchie cose ed era scesa a patti con altri per farla stare
tranquilla e per renderla una Danvers a tutti gli effetti, adesso le
sembrava quasi di dover fare il giro e di dover ricominciare daccapo
un'altra volta, di dover tentare un approccio diverso. Di tutto si
sarebbe aspettata meno che le due loro figlie, quelle che avevano
più
cose in comune, si sarebbero fatte i dispetti come due adolescenti.
«Forse
dovrei chiedere ad Alex», si massaggiò la tempia
nel dirlo, provata
da quella situazione che andava a peggiorare, «di scambiarsi
camera
con Kara. Alex è più matura e… la cosa
non le piacerà, lo so, ma
non vedo alternative».
Dietro
di lei, seduta sul materasso, Lillian Luthor cominciò a
massaggiarle
la schiena, ed Eliza si lasciò sfuggire un sorriso
rilassato. «Sei
certa che separarle possa essere la soluzione?», intervenne.
«Sono
convinta che tutto sia dovuto a questa novità. Kara
sarà esplosa
questa sera, ma Lena riuscirebbe a far arrabbiare anche i santi;
è
lei che ha esagerato. Secondo me dovremo dare loro del tempo, non si
conoscono e non fanno che stuzzicarsi a vicenda; quando scioglieranno
i muri che si sono imposte, si guarderanno per la prima volta e
impareranno a volersi bene». Sentì Eliza
sospirare.
«Lena
avrà anche esagerato, ma non ho mai visto Kara comportarsi
così…
Certo, quando aveva quattordici anni era una vera gatta da
pelare, troppo suscettibile e con voglia di disobbedire, un po' come
tutti gli adolescenti, anche se naturalmente non come Alex,
no»,
scosse la testa, «perché era quasi sempre lei la
mente di tutto e a
creare problemi… Ma Kara è gentile, e dolce, non
fa queste cose.
Lei riesce sempre ad andare d'accordo con tutti e non capisco proprio
perché si lasci provocare da Lena in questo modo».
«Potremmo
organizzare delle belle uscite tutte insieme, funzionò con
Lena
quando era bambina», mormorò l'altra con un
sorriso.
«Potremmo,
sì…», parve pensarci, «Forse
hai ragione». Si girò il tanto
per trovare il suo viso e scambiarsi un bacio.
Lena
era già in camera, probabilmente a guardare uno dei suoi
preziosi
documentari, pensava Kara, ma lei non aveva avuto voglia di
raggiungerla in stanza e si era seduta in cucina, guardando il vuoto.
Tanto non sarebbe riuscita a dormire comunque. Alex era seduta nella
sedia accanto.
«Cosa
ti ha fatto sapere Maggie? Su Lillian?», le chiese la prima,
senza
guardarla.
«Non
ha potuto approfondire. Ha dato una veloce occhiata ed è
uscito
fuori che è una donna potente, d'affari, intelligente,
ricca, tutte
cose che già sapevamo. Appena potrà riprovarci,
mi darà
aggiornamenti». Alex guardò la sorella con
attenzione, sapeva a
cosa stava pensando. «Non ti piace Lena, ma ancora meno
Lillian».
Kara si girò a guardarla, senza dire una parola.
«E comunque,
quella ragazza sta cercando di far uscire il peggio di te, Kara.
Glielo stai lasciando fare… Tu non sei
così».
«Ma-»,
s'interruppe, imbronciandosi.
«E
non dirmi che è stata lei a iniziare».
«È
stata lei a iniziare, Alex!», brontolò.
«Lo so che lo fa apposta,
ma non riesco a farne a meno, mi fa saltare i nervi. Mi guarda in un
modo, e come si atteggia, e hai visto come mi ha risposto durante il
Monopoly?», gonfiò le guance, «Si crede
tanto furba, ma lei non sa
che non può vincere in questa casa».
«Stai
citando Home Alone?».
«Gliela
farò pagare, Alex. Te lo posso assicurare»,
annuì con decisione,
«Eliza è troppo cieca per vedere chi si
è portata in casa, ma ci
siamo noi».
Alex
la guardò per un attimo, poi di colpo scese il piede destro
che
aveva appoggiato comodamente sulla sedia, rimettendosi composta e
annuendo. «Mentre aspettiamo aggiornamenti da Maggie,
indagheremo su
Lillian per conto nostro. Quelle due sono troppo diverse…
deve per
forza esserci qualcosa sotto, non mi convincono».
«E
intanto faremo guerra a Lena».
«No,
non mettermi in mezzo in questa cosa».
«Faremo
guerra a Lena», ribadì Kara, con una nuova luce
negli occhi.
«Guerra vuole, e guerra avrà».
Otto
recensioni al prologo? Wah, non me lo aspettavo proprio, spero di non
deludervi :)
Cosa
ne pensate del primo capitolo? Di Lena che fa arrabbiare Kara? Di
Kara che vuole farle guerra? Di Lillian che si apposta e fa domande a
cui poi risponde da sola?
Io
amo la Lillian Luthor della mia fan fiction. È volutamente
diversa
dal personaggio che abbiamo visto nella serie, ma ho cercato di
“prenderla un po' in giro” pur restando fedele ad
alcuni
atteggiamenti che mi era parso di notare della sua
personalità; è
una Lillian Luthor what if (se non fosse la perfida
criminale
che conosciamo) secondo la mia visione delle cose.
Quanti
di voi guardano qualcosa dal cellulare prima di dormire? Smettete, fa
malissimo!
Il
prossimo capitolo arriverà domenica prossima e si intitola: La
guerra
Piuttosto
esplicativo, uh? :D
|
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Capitolo 3 *** 2. La guerra ***
Lena
si alzò alle sette e un quarto puntuale come al suo solito.
Guardò
con appena dell'interesse il rigonfiamento sotto le coperte nel letto
vicino e, con tutta calma, si sistemò il suo e si
portò da
cambiarsi in bagno, dove uscì mezzora dopo perfetta come
sempre, con
una gonna a tubo, scura, una maglietta chiara e leggera e i lisci
capelli corvini ancora bagnati, da un lato. Anche se non doveva
uscire, poiché in quel posto di periferia non avrebbe saputo
proprio
dove andare, non era solita girare per casa Danvers, che non
considerava di certo anche Luthor, in modo informale. Per lei, era
tanto se indossava dei sandali da casa invece di quelli per uscire.
Lillian Luthor aveva provato a convincerla a smettere, nessuna di
loro indossava indumenti come se stessero per correre in ufficio, ma
erano state parole a vuoto. Lena Luthor non poteva fare come a casa,
perché non si sentiva a casa.
Andò
spedita al piano di sotto; sapeva di dover fare presto prima che la
minore delle Danvers si svegliasse o non sarebbe riuscita a farla
piagnucolare sullo yogurt. Era un bene che quella ragazzina non
riuscisse a dormire quando lei guardava i video dal cellulare,
così
al mattino era talmente stanca da dormire più del solit- si
bloccò
appena sceso l'ultimo scalino, guardando davanti a lei, seduta a
tavola, Kara Danvers in t-shirt e pantaloncini che leccava un
cucchiaino. Appena si accorse di lei, quella sorrise con estrema
soddisfazione.
«Ops,
erano solo quattro…»,
bofonchiò, indicando i quattro barattolini di yogurt vuoti
sul
tavolo. «Spero non ne volessi anche tu».
Era
stata una settimana estenuante quella appena trascorsa, ma Kara era
certa che il bello doveva ancora venire.
«Ti
sei mangiata quattro barattoli di yogurt? Tutti insieme?».
Alex
tentò con ogni mezzo di non urlare, stringendo i denti e
picchiando
la sorella contro una spalla.
Kara
aveva un aspetto tutt'altro che sereno: si reggeva la pancia
dolorante e gonfiava le guance dalla nausea.
«Non
stai facendo sport in questi giorni, non riuscirai a digerire come al
solito. E quattro barattoli sono troppi anche per te, Kara».
«Ho
aperto il frigo e ho visto che erano quattro, Eliza doveva averne
comprato due in più del solito perché li mangia
anche lei, non
potevo mica lasciarglieli, scusa», strinse le labbra,
gonfiando gli
occhi, «Mi sono sacrificata per vincere la guerra».
Erano
nella camera padronale, in maestoso silenzio poiché nessuno
doveva
sorprenderle là dentro. Eliza e Lillian erano in giardino a
sistemare le piante nella piccola serra, come ogni mattina, e non
avevano visto Lena da quando la sorprese a finire il quarto yogurt.
Kara si accasciò sul letto, mentre Alex apriva i cassetti
che
avrebbero contenuto i segreti di Lillian Luthor.
Tailleur,
abiti ricamati, costosissimi pezzi che Alex temeva anche solo di
toccare per non sgualcirli. Aprì un altro cassetto e altri
abiti. Il
terzo cassetto conteneva solo intimo e non indugiò a lungo.
Nel
quarto cassetto trovò orologi, pochette e, in fondo, dei
documenti.
Allungò la mano per prenderli e riuscì a sfilare
una foto in bianco
e nero che catturò subito la sua attenzione.
«Ehi,
Kara, guarda».
«Cosa?»,
brontolò, cercando di mettersi seduta mantenendosi la pancia
con
sofferenza.
«Questo
deve essere il suo vecchio marito, Lionel Luthor», le
mostrò il
ritratto nella foto. Un uomo dallo sguardo fermo come da famiglia,
severo, freddo. Aveva i baffi e la barbetta perfettamente curata, i
capelli lisci tenuti da un lato con una riga. «Non sembra una
vecchia foto, forse è stata scattata non troppo distante
dalla sua
morte».
«Per
cosa è morto?».
«Malattia,
infarto, incidente alla Luthor Corp, ci sono molte supposizioni e non
è mai stato diffuso nulla di ufficiale», rispose
con serietà,
guardando di nuovo la foto con attenzione. «Qui non sembra
malato».
«Magari
è stato davvero solo un'incidente», rispose,
trattenendo un gemito
di dolore alla sua pancia che brontolava.
«O
magari la famiglia Luthor nasconde qualcosa»,
sussurrò la sorella.
«Lillian Luthor è una donna abituata a una vita
molto diversa dalla
nostra, suo marito era molto più simile a lei. Cosa ci fa
adesso con
nostra madre?», chiese più a se stessa che a Kara.
Il brontolio
della pancia risuonò nella stanza e Alex rimise a posto la
foto,
scuotendo la testa. Dalla finestra aperta udì Eliza e
Lillian
rientrare. «È meglio tornare domani».
«Adesso
hai bisogno di me?».
«No»,
scosse la testa, «Hai in mente dell'altro?».
«No,
devo solo correre in bagno».
Non
sembrava facile reperire materiale bollente su Lillian Luthor.
Sebbene fosse vero che aveva preso la loro casa come sua, non poteva
davvero aver portato ogni genere di cosa interessante con lei nella
casa che pensava avrebbero usato solo per le vacanze. Se voleva
davvero trovare qualcosa di compromettente, Alex sapeva che l'ideale
sarebbe stato mettere mano nella sua casa a National City. Ma per
quello avrebbe dovuto aspettare decisamente troppo.
«Dobbiamo
prenderle il telefono», suggerì Alex in un
bisbiglio.
«Non
si accorgerà nemmeno che glielo abbia fatto sparire per
qualche
minuto».
«No,
Kara. So che sei veloce, ma ho come la sensazione che lei sappia che
abbiamo in mente qualcosa: lasceremo che sia lei a lasciarlo
incustodito, provare a portarglielo via è troppo
rischioso».
Tuttavia
aspettare che fosse lei a dimenticarlo da qualche parte sembrava un
piano destinato a diventare molto lungo e molto noioso. Loro non le
toglievano occhio di dosso mai, ma forse aveva ragione Alex e la
donna sapeva che stavano tramando qualcosa, poiché se lo
portava
sempre dietro. Nonostante le avesse detto di non farlo, Kara
tentò
di avvicinarsi a lei mentre teneva il cellulare poggiato su un mobile
ma, com'era riuscita a prenderlo in mano, Lena la guardò e
così lo
rimise giù di scatto, cercando di far finta di niente,
prendendo un
biscotto dalla biscottiera. Kara era veloce, ma di certo la
discrezione non era il suo forte e Lillian si voltò per
sorriderle e
per incastrarla in un colloquio madre-figlia. Amava fare loro domande
sconvenienti e inopportune per poi non ascoltarne le risposte,
continuando a intavolare una discussione a senso unico.
«Allora,
Kara, come vai con lo studio?».
«Emh…
non male, sto-».
«Anche
il tuo ragazzo va all'università?».
Kara
arrossì, sorridendo debolmente. «Io non ho
ness-».
«Scommetto
che vi vedete sempre lì al campus, eh? Non ti
manca?».
Se
avesse potuto, Kara sarebbe diventata ancor più imbarazzata,
continuando a torcersi le mani con nervosismo. Stavolta
riuscì ad
aprire la bocca appena prima che la interrompesse:
«Ah,
i giovani… Tutto amore e passione», sorrise e si
allontanò,
portando con sé il cellulare.
Kara
restò impalata per qualche attimo, cercando di capire cosa
fosse
appena successo, per poi rendersi conto di essere ancora sotto
stretto sguardo di Lena Luthor e arrossì violentemente,
andandosene
senza dire una parola.
Odiava
quando la guardava, ancor più di quando cercava di farla
arrabbiare.
Sapeva che si stava organizzando la watchlist dei documentari per le
notti a seguire, ma non sapeva che Kara Danvers aveva un piano. Se
era difficile impossessarsi del telefono di sua madre, per quello di
Lena era un gioco da ragazzi. Si nascose dietro la porta della camera
di sua sorella e attese che Lena uscisse dalla loro camera in comune
per scendere in cucina per sgattaiolare veloce, entrare in camera e
prenderle il cellulare lasciato sul letto, e così cambiare
la
batteria con una delle sue vecchie che teneva in un cassetto. Era
esauritissima e le avrebbe offerto un buon vantaggio. Una volta
tornata, Lena non si sarebbe neppure resa conto dello scambio.
Kara
si mise a letto serena e quando il documentario partì come
sempre e
la batteria si esaurì tanto in fretta che non trascorsero
neppure
venti minuti di video, le lamentele di Lena erano state la sua
buonanotte.
Il
giorno successivo Kara era pronta. Sapeva che Eliza aveva ricomprato
gli yogurt quando lei e Lillian erano uscite a prendere il
giornaliero, dunque si alzò alle sette, la sua coinquilina
ancora
dormiva, si cambiò in fretta con un pantalone corto e una
canottiera
e sistemò il pigiama sotto le coperte per far pensare di
essere
ancora là sotto, così uscì dalla
stanza con passo felpato. Erano
ancora tutti a dormire e camminò sicura per il corridoio,
tanto
sicura che sbatté il naso contro la porta del bagno che si
aprì di
colpo. Lena Luthor la guardò sorpresa, ma Kara era troppo
preoccupata a massaggiarsi il naso e a lamentarsi per accorgersi di
lei che fece di tutto per trattenere una sincera risata.
«In
piedi così presto? Beh, è perfetto, potrai farmi
compagnia durante
la colazione».
L'aveva
ingannata, accidenti, chissà cos'aveva in mente di fare ai
suoi
yogurt. Mentre quella sparì in cucina lei si
rintanò in bagno,
rimuginando sul da farsi: non poteva davvero pensare di averle fatto
credere di essere ancora a letto, usando il suo stesso trucco. Il
nemico imparava in fretta le regole del gioco, pensò.
Scendendo
le scale vide con sconcerto che i suoi quattro yogurt erano sul
tavolo accanto a un cucchiaino, sopra la sua tovaglietta blu e rossa
da colazione. I suoi sensi di ragno le dicevano che era una trappola.
Si accostò con cautela, guardandosi attorno con disagio,
finché non
vide arrivare Lena con una piccola tazza di caffè tra le
mani. Le
sorrise mentre si sedeva nel posto davanti a quello con la sua
tovaglietta, facendole cenno di accomodarsi proprio lì. Ora
era
certa che fosse una trappola.
Kara
la fissò mantenendo uno sguardo duro, sedendo a rallentatore
davanti
ai suoi yogurt.
«Sai,
non ho potuto fare a meno di notare, ieri, quanto ti piacessero gli
yogurt. Così quando li ho visti in frigo, poco fa, ho
pensato di
lasciarteli. Buon appetito». Soffiò contro la
tazzina di caffè,
fissandola a sua volta.
Kara
deglutì, prendendo uno dei barattoli e aprendolo. Accidenti.
Accidenti.
Accidenti.
Il suo piano era di mangiarne uno solo e nascondere gli altri in modo
che Lena non li trovasse, non era proprio pronta all'idea di passare
un'altra giornata col mal di pancia. Quella però era una
sfida che
Supergirl non
poteva rifiutare. Ci immerse il cucchiaino e cominciò a
mangiare con
ingordigia, non trattenendo mugolii di apprezzamento.
«Grazie, è
così buono…», bofonchiò a
bocca piena.
Lena
sorseggiava il suo caffè, non mancando di guardarla un solo
attimo.
«Sì, ne mangiavo uno un'oretta dal
caffè, me lo portavo via, sai,
per non avere fame più tardi, ma considerato quanto ti
piacciono,
penso di poter mangiare dell'altro».
Kara
si costrinse un sorriso, per poi ingoiare un grosso boccone. Prese
uno dei barattoli e lo lasciò accanto a lei.
«Prendilo pure, ma
figurati».
«Oh,
no, davvero», lei lo riportò indietro,
«Dopotutto questa è casa
tua, non mi permetterei mai».
«Insisto».
Kara riprese lo yogurt ma Lena la bloccò con la mano sulla
sua.
«Non
ci pensare».
Kara
deglutì e lasciò stare, continuando a mangiare
intanto che lei
beveva il caffè.
«Non
ci credo che ti sei mangiata di nuovo tutti e quattro gli
yogurt».
«Dovevo
farlo, Alex, lei mi
stava guardando. Pensava che le chiedessi pietà e invece si
sbagliava, gliel'ho fatta vedere io! Ho uno stomaco
d'acciaio», si
batté contro una mano e subito dopo si lasciò
andare un lamento di
dolore, accasciandosi sul letto padronale.
Alex
riaprì il cassetto scoperto il giorno prima e
cominciò a sfogliare
i documenti per vedere di cosa si trattava. «Se continui con
questa
faida, passerai il resto della tua vita in bagno».
La
maggiore scoprì presto che i documenti non erano altro che
bozze e
articoli scientifici sugli esperimenti che conducevano alla Luthor
Corp, e a meno che quegli esperimenti non fossero eseguiti sugli
alieni o non ci fosse spiegato qualcosa di illegale non le erano di
alcuna utilità.
La
loro unica chance era avere quel telefono, ma ogni volta che si
avvicinavano all'obiettivo, mancava poco che Lena Luthor le
scoprisse. Intanto, Kara non sembrava voler affatto abbandonare
l'idea di farle guerra, al contrario ogni volta che sentiva la nausea
questa la spingeva a fargliela pagare.
Così
le fece mancare l'acqua calda durante una delle sue lunghe docce,
gettò un pizzico di sale quando nessuno guardava nel suo
piatto,
staccava il modem di casa quando accedeva al wi-fi con il suo laptop.
Lena sapeva bene che era lei a farle capitare di tutto, eppure non ne
faceva cenno con sua madre e si limitava a subire e a guardarla con
disprezzo. Kara sapeva che avrebbe dovuto fare un colpo grosso adesso
che ne aveva l'occasione, prima che lei contrattaccasse. Intanto,
aveva caldamente consigliato ad Eliza di non ricomprare più
yogurt
per un po' di tempo.
Il
giorno dopo era quello che Lillian aspettava più di tutti,
poiché
aveva prenotato per cinque in un parco acquatico. Pranzarono in
mattinata per partire per mezzogiorno. Ognuna di loro si
portò
dietro una borsa con le cose essenziali e sia Kara che Alex tennero
particolarmente d'occhio quella di Lillian da quando la videro far
scivolare il suo telefono in una delle tasche. In piscina. Ce la
dovevano fare.
Il
sole era uno spettacolo bollente, sapevano di aver azzeccato la
giornata ideale da passare in un posto simile. Si accorsero del gran
numero di visitatori da quando varcarono le porte ed Eliza e Lillian
si strinsero emozionate come due bambine. Avevano prenotato i loro
cinque sdrai davanti a una piscina per adulti e appena arrivate
poggiarono le loro borse. Lillian aprì subito l'ombrellone
accanto
al suo sdraio e lei ed Eliza avvicinarono i propri per stare l'una
con l'altra sotto l'ombra. Kara si spogliò subito, guardando
con
fermento da una parte all'altra com'erano circondate da acqua,
scivoli, piattaforme altissime, giochi di tutti i tipi. Alex dovette
ricordarle del loro piano per impossessarsi del cellulare
poiché
spesso e volentieri aveva anche lei la tendenza ad emozionarsi come
una bambina. Anche Lena si spogliò, senza fretta. Kara non
si lasciò
sfuggire come d'improvviso aveva attirato su di sé
più di uno
sguardo. Odiava ammetterlo, ma era davvero bellissima: indossava un
bikini completamente nero che le faceva risaltare la pelle diafana e
le forme. Non era affatto come lei, che aveva un fisico più
asciutto
per via dello sport, Lena sembrava straordinariamente morbida,
tonica, e cos'erano
quelle? Pensava,
fissandole, mentre lei si sdraiava al sole; doveva portare almeno una
terza abbondante.
Glielo avrebbe chiesto se fossero state più amiche che
nemiche.
«Kara!».
Alex
la fece trasalire e arrossì di colpo, immaginando che
l'avesse vista
fissarle il seno. «Non è come pensi».
«Come
pensi? Come penso
cosa?».
«Come
pensi che stessi facendo quel che non ho fatto», disse d'un
fiato,
«Perché non l'ho fatto! Stavo solo pensando e-e il
resto…»,
indicò vagamente verso i loro sdrai, «è
pura coincidenza».
Alex
guardò la sorella e dopo gli sdrai, cercando di capire
almeno una
parola del farfuglio di cose che aveva detto.
«Oookey… Ascoltami,
resta concentrata, sorellina. Oggi è la nostra serata:
appena Eliza
e Lillian si alzeranno per andarsi a bagnare, le prenderemo il
cellulare e ci allontaneremo piano. Prima che tornino sarà
già al
suo posto».
«Ottimo»,
annuì, sentendosi ancora agitata.
«Lena
potrebbe essere un problema».
«Lena?
Perch-».
«Perché
è sempre in mezzo», guardò la sorella,
«Svegliati, Kara, sei
sempre tu la prima a fare la guerra a Lena Luthor. Non lasciarti
deconcentrare dai giochi d'acqua, abbiamo una missione! Se dovesse
essere ancora lì quando Eliza e Lillian se ne vanno, allora
tu
dovrai distrarre Lena».
«Perfetto!
Perché io?».
«Perché
è te che odia di più», le
poggiò le mani sulle spalle, tentando
un incoraggiamento.
Come
sempre quando dovevano portare a termine un piano che confidava nei
movimenti degli altri, questo era destinato a non portare alcun
frutto. Senza perderle d'occhio un attimo, e quindi con dispiacere di
Kara senza andare in giro per il parco acquatico ma restando nella
piscina vicina, giocarono con una palla cercando di evitare i
materassini degli altri, nuotarono, si fermarono a bordo piscina per
chiacchierare, e poi giocarono ancora, non sapendo cosa fare. Eliza e
Lillian si erano mosse solo per mettere l'una sull'altra la crema
solare e per passarsi delle riviste. Lena Luthor, invece, si era
messa la crema ed era rimasta nel suo sdraio tutto il tempo, con la
testa coperta da un ombrellone.
«Sarà
passata più di un'ora…»,
borbottò Kara, abbracciata al pallone
che la teneva a galla in piscina. Guardava le due donne e poi Lena,
ancora immobile.
«Un'ora
e trentatré minuti», aggiunse Alex, dando
un'occhiata al suo
orologio digitale, nuotando accanto alla sorella. «Dobbiamo
smuoverle, non possiamo perdere anche questa sera. Una settimana e
torneremo a National City: dobbiamo sciogliere i nostri dubbi su
questa relazione prima che possiamo o poi sarà
tardi…».
Kara
le guardò ancora e poi di nuovo Lena, alzando il pallone e
sogghignando. «Bomba in arrivo!», tuonò,
lanciando la palla. Colpì
Lena in pieno, bagnando lei e lo sdraio, schizzando Lillian ed Eliza
poco distanti.
Lena
si alzò con uno scatto e guardò le due in
cagnesco, abbassando gli
occhiali da sole.
«Sei
migliorata sui lanci, vero? Bella mira», bisbigliò
Alex.
«Supergirl
non sbaglia mai un colpo».
«Congratulazioni,
sorellina! O finirà per amarti così come sei o ti
odierà per il
resto dei tuoi giorni», rise, raggiungendo la scaletta.
Lena
lanciò a Kara un'altra occhiataccia mentre si alzava dallo
sdraio e
recuperava un asciugamano. Kara la tenne d'occhio, sorridendo, prima
di decidere di uscire dall'acqua anche lei.
Alex
convinse Eliza e Lillian a fare un giro per il parco; ora che erano
entrambe bagnate, potevano essere schizzate senza problemi lungo le
varie piscine e giochi, e non potevano proprio permettersi di non
godersi appieno di ciò che offriva la giornata.
«Vi farete tanti
bei ricordi insieme per il futuro», rise, spingendo sua
madre,
accanto a Lillian.
«Oh,
Alex», Eliza rise, stringendo Lillian di schiena, che
camminava a un
passo da lei. «E va bene, avremo dei ricordi per quando
saremo
vecchie e avvizzite».
«Io
continuerò a portarti in piscina anche da vecchia e
avvizzita»,
rimbeccò Lillian.
«Sarai
vecchia e avvizzita con me?».
«No,
parlavo di te. Io continuerò a essere una signora di
classe».
Risero
ed Eliza le diede un colpetto a un braccio, per poi prendersi la
mano, continuando a camminare verso un'altra piscina.
Alex
restò indietro, guardando le loro mani unite con un misto di
intenerimento e orrore.
Kara
riprese il pallone, prima che Lena avesse una mezza idea di
bucarglielo, e lo trascinò con sé verso Alex.
«D'accordo,
Kara, ottima mossa e ora tocca di nuovo a te»,
sussurrò a un passo
da lei, «Scusati con Lena e offrile qualcosa nel bar
laggiù», si
voltò, indicando una casetta rotonda in mezzo a tanti
bagnanti. «Mi
serve solo-».
«Scusarmi?»,
sbottò. Si tappò la bocca quando pensò
di averlo detto a voce
troppo alta, guardando verso Lena, che passava l'asciugamano anche
sullo sdraio. C'era molta gente, si capivano appena parlando a bassa
voce tra loro, ma non voleva rischiare. «Non pensavo di
doverlo
fare! Perché non le offri qualcosa tu?».
«Perché
non sono stata io a lanciare il pallone. Che senso avrebbe?».
«Perché
sei una buona sorella maggiore e vuoi prenderti cura di me cercando
di riparare ai miei sbagli?», la guardò
speranzosa.
«Vai»,
rimarcò bene, aggrottando le sopracciglia.
«Portati dietro il
cellulare, ti manderò un messaggio quando avrò
quello di Lillian».
La spinse verso i loro sdrai e Kara gonfiò le guance,
raggiungendo
Lena.
Quel
piano cominciava a non piacerle più. Sbuffò,
appoggiando il pallone
sul suo sdraio, guardando Lena che si risedeva nel suo. Fece un colpo
di tosse e si avvicinò cautamente, passandosi le mani nel
pantaloncino da mare. Vide i suoi occhi verde chiaro, glaciali, che
la fissavano, sopra gli occhiali da sole.
«Avete
deliberato?».
«Cosa?».
«Tu
e tua sorella. Avete deciso la prossima mossa?». Si
sfilò gli
occhiali da sole, poggiandoli sul piccolo tavolino su cui era
incastrato l'ombrellone, guardando lei con attenzione.
Kara
arrossì, sforzandosi di non far cadere il suo sguardo sul
suo seno.
Normalmente non ci avrebbe fatto tanto caso, lo sapeva, ma lei era in
piedi e Lena stava seduta, bucavano il suo campo visivo, non era
certo per malizia. Temeva per lo sforzo di passare per una statua di
cera.
«Non
so cos'avete in mente, ma è chiaro che qualcosa
c'è».
«No»,
sbuffò, ridendo, «Alex mi stava sgridando
per… il pallone, sai,
pensa che sia stata una cosa poco carina». Si
dondolò, non sapendo
come continuare. «Forse mi dovrei… scusare
con te».
Lena
inarcò un sopracciglio, scrutandola con meraviglia.
«Quindi vuoi
chiedermi scusa perché tua sorella ti ha detto di
farlo?».
«Sì!
No, no, lo avrei fatto comunque».
Lena
Luthor non sembrava molto convinta, ma scrollò di spalle,
annuendo.
«Scuse accettate».
«Tutto
qui?».
«Pensavi
mi sarei vendicata buttandoti in piscina? O staccandoti il wi-fi
quando ti connetti da casa?», fece una smorfia con le labbra,
«Che
cosa infantile».
Kara
arrossì ancor di più, colpita nel segno. Si
girò verso Alex, che
la incitò con lo sguardo, e allora fece un altro colpo di
tosse,
decidendo di riprovarci. «Va bene, tu non mi piaci e io non
piaccio
a te, ma-».
«Tu
mi piaci».
«Cosa?»,
la fermò di colpo e Kara spalancò gli occhi.
«Mi
piaci. All'inizio no, lo ammetto, ma mi piace quando ti arrabbi;
prenderti in giro è una delle cose più divertenti
che io abbia mai
fatto», si sdraiò, riprendendo gli occhiali da
sole e
infilandoseli; probabilmente pensava che la discussione stesse
terminando.
Kara
deglutì, dondolandosi ancora e massaggiandosi un braccio per
il
nervosismo. «Farò finta di non aver
sentito».
«Come
preferisci».
«Dicevo
che, nonostante non ci
piacciamo»,
digrignò i denti, sottolineando un
per niente,
«siamo costrette a frequentarci per le nostre madri. Quindi
mi
vorrei scusare con te offrendoti qualcosa».
Lena si abbassò di
nuovo gli
occhiali, guardandola dritta negli occhi.
«Nel bar»,
sorrise Kara,
«Laggiù. Adesso».
«Oh, va
bene».
Si alzò e Kara
lanciò uno
sguardo ad Alex, che le fece cenno di andare via. Lei non pensava
avrebbe accettato, sembrava troppo facile. Lena si agganciò
un pareo
colorato in vita, seguendo Kara che aveva recuperato il suo cellulare
e il portafogli.
Solo adesso Kara
notò di essere
più alta di Lena, camminandole a fianco. Per un attimo si
chiese
com'era possibile, era certa di essere stata più volte a un
passo da
lei e di essere più bassa, ma al parco acquatico non
indossava
scarpe né stivali, solo infradito, niente tacchi. Sembrava
quasi una
persona normale non agghindata come una ricca donna d'affari.
Passeggiarono accanto fino a una delle pedane di legno che portavano
alla casetta, notando entrambe quanta gente ci fosse prendendo da
bere e quanta seduta negli sgabelli posti intorno al piccolo locale
interno del parco. Una bambina con un grosso coccodrillo gonfiabile
passò davanti a loro di corsa e per poco Kara non
sbandò addosso
all'altra. Lena era rimasta zitta e seria per tutto il breve
tragitto.
«Cosa vuoi
prendere?», le chiese
Kara, massaggiandosi le mani, guardando la casetta e la gente in
fila, invece di guardare lei.
«Tu cosa avevi in
mente?».
In quel momento Kara
sentì il
cellulare vibrare e ci diede una veloce occhiata, leggendo di Alex
che non era ancora riuscita a impossessarsi del telefono
perché
Eliza e Lillian erano tornate indietro, dicendo che ci avrebbe
pensato lei. Strinse le labbra in una smorfia di disapprovazione,
ricordandosi poi che Lena aspettava ancora una sua risposta.
«Una
cola?».
«Per me va
bene», la fissò e
poi il suo cellulare con aria di curiosità.
Una cola come tutte le persone
normali, pensò ancora Kara. Niente vestiti eleganti, una
cola. Era
strano pensare fosse la stessa Lena di sempre.
Kara si guardò
ancora intorno,
pensando al da farsi. Forse Alex avrebbe avuto bisogno del suo aiuto,
ciononostante riportare Lena indietro significava tornare al punto di
partenza. Mancavano ancora due persone e poi avrebbe ordinato da
bere. «Perché non vai a sederti là e mi
aspetti?», le indicò una
delle poche panchine rosse ancora vuote intorno alla piazzetta su cui
al centro c'era il piccolo bar, dove molte altre persone stavano
consumando. «Ancora due persone e sono da te», le
sorrise e Lena la
guardò attentamente, come se sospettasse qualche tiro
mancino, ma
non scorgendolo annuì.
«Ti aspetto,
allora».
Kara la guardò
andarsi a sedere,
poggiandosi contro la panchina e perdendosi con lo sguardo. C'era
gente che rideva, schiamazzi, un ragazzo brillo che gridava contro
gli amici, delle famiglie con bambini, coppiette felici, e poi c'era
lei, Lena Luthor, che sembrava non far parte di quel quadro, che era
fuori, distante da tutto, nella sua serietà e malinconia. Un
po'
troppo malinconica, pensò. Forse lei aveva davvero esagerato
nel
prenderla di mira, dopotutto.
«Oh,
scusami». Un ragazzo le
andò addosso e si fermò, scrutandola con
attenzione dalla testa ai
piedi. Kara gli scambiò un sorriso, guardando che mancava
ancora una
sola persona prima di lei, ma il ragazzo restò impalato,
continuando
ad ammirarla. «Wow… cioè, se sapevo che
sarei finito ad andare a
sbattere contro a te, mi sarei dato il tempo di farlo per
bene».
Lei rise, scuotendo la testa.
«Funziona mai?».
«Dovresti dirmelo
tu», rise
anche lui, grattandosi il capo.
Kara gli sorrise e
passò avanti,
vedendo che il suo turno era arrivato. Ordinò le due cola
con
ghiaccio, consigliato dalla barista, e guardò lui, che era
rimasto
al suo fianco. «Sei di queste parti?».
«Di National
City».
«Anch'io».
Era carino, pensò,
forse non sarebbe stata nemmeno una cattiva idea scambiarsi il
numero. Prese le due cola e pagò, allontanandosi con lui
dalla
casetta.
«Allora, come ti
chiami?».
Kara stava per aprire bocca
quando
un braccio le circondò la vita e in un attimo si
sentì avvampare,
sussultando.
«Ehi, tesoro, sono
arrivate le
nostre cola?», Lena le parlò con la voce calda
all'orecchio destro,
mettendosi in punta di piedi e circondandola in un abbraccio; il
ragazzo sbiancò.
«Non avevo capito
che- Scusa»,
barbugliò, alzando le mani. Infine sorrise e si
defilò il più in
fretta possibile, facendo slalom in mezzo alla folla.
Lena si separò da
lei con un
sorriso compiaciuto, prendendo una delle cola e bevendo un sorso
dalla cannuccia.
Kara era rimasta senza parole,
immobile. Solo dopo qualche secondo di smarrimento decise di parlare,
seguendola verso la panchina. «Questo era per la
pallonata?».
«Umh,
sì», sorrise ancora,
sedendo, «E per la batteria del mio cellulare. La rivoglio
indietro».
Bevvero
seguendo con lo sguardo gli altri clienti del parco, senza dire
più
una parola. Un bambino che piangeva attirò l'attenzione di
entrambe
e lo guardarono finché il padre non lo prese in braccio e se
lo
portò via, sparendo dal loro campo visivo. Una coppietta
stava
bevendo le cola con la cannuccia, come loro, seduti su di un'altra
panchina rossa come la loro, e Kara spostò lo sguardo,
improvvisamente a disagio. La scena di prima era stata un colpo
basso: quel ragazzo, che era da qualche parte in quel parco, pensava
che loro fossero una coppietta come quei due. Spostò gli
occhi verso
Lena, guardando i suoi lineamenti duri, le guance rossastre per il
sole, le spalle probabilmente scottate nonostante il bagno di crema
solare. Ci mise troppo tempo a notare che i suoi occhi, dall'altra
parte delle lenti nere, la stavano guardando. Si rivoltò di
scatto,
tuffando la bocca contro la cannuccia e bevendo rumorosamente. Che
figura,
pensò.
«Come fai senza
occhiali?», le
chiese Lena, interrompendo il silenzio che era diventato
imbarazzante.
Il cellulare di Kara
vibrò e
lesse rapidamente il messaggio di Alex che le comunicava che era
riuscita a liberarsi di nuovo di Eliza e Lillian, ma che stavano
venendo verso di loro per bersi qualcosa di fresco. Oh no, pensava,
di tutto avrebbe voluto meno che quelle due accanto che parlavano
della loro famiglia allargata: dovevano spostarsi. Si alzò,
cercando
di finire di bere in fretta. «Andiamo a farci un giro? Cosa
ne
pensi?».
Anche Lena si alzò.
Finirono la
cola in fretta e gettarono il vetro nel cestino apposito e la
cannuccia in quello a fianco, camminando verso un'altra pedana di
legno che le avrebbe portate lontano dalla casetta.
«Sono
ipermetrope», rispose alla
sua domanda. «Non ho sempre bisogno degli occhiali, la mia
vista si
corregge da sola. Li indosso perché gli occhi si affaticano,
tutto
qui».
«Anche mio padre a
volte
indossava gli occhiali per non affaticare gli occhi».
Arrivando ai pressi di un'altra
enorme piscina, restarono a bocca aperta vedendo i più
coraggiosi
che si lanciavano in acqua da pedane alte metri e metri.
«Dovremmo
provare».
«Sssì»,
sussurrò Lena con una vena di sarcasmo. «Che bella
idea! Ma vai tu,
io penso che resterò qui a controllare la
situazione».
Kara sorrise, voltandosi verso
di
lei. «Paura dell'acqua o dell'altezza, signorina
Luthor?», le
chiese con spiccato interesse. Lo sguardo di Lena non sembrava pronto
a cedere: non le avrebbe fornito un'informazione tanto importante
così facilmente. Il cellulare di Kara vibrò di
nuovo, doveva essere
Alex, ma stavolta lasciò perdere, qualsiasi cosa fosse
poteva
aspettare un attimo in più. Corse verso il bagnino e lo
lasciò a
lui in custodia insieme al suo portafogli, mentre Lena la guardava
con il panico nello sguardo.
«Cosa vuoi
fare?», le chiese
subito, appena la rivide dietro di lei. Sorrideva, ma allo stesso
tempo sembrava piuttosto spaventata.
«Andiamo a bagnarci!
Io sono
piuttosto accaldata, tu no?».
«Ti giuro, Kara
Danvers, una sola
mossa sbagliata e sarà il più grande errore della
tu-».
Kara non seppe mai di cosa
sarebbe
stato il suo più grande errore, poiché con una
piccola spinta Lena
Luthor cadde in acqua e lei si inginocchiò davanti al bordo
piscina,
ridendo nel vederla tornare verso di lei. Nuotava bene,
pensò:
adesso era certa che a farle paura, prima, era stata l'altezza. Lena
le prese una mano e poi l'altra, spingendola giù con lei.
Pensava che avrebbe scoperto un
suo punto debole e niente di più, eppure si sorprese nel
vederla
ridere tanto, e per di più con lei, non contro di lei.
Tentò di
metterle la testa sotto ma Kara sgusciò facilmente della sua
morsa e
uscì dall'acqua, guardandola destarsi tra alcuni bagnanti,
nuotando
come una sirena per tornarle vicino.
«Adesso è
ufficiale, Kara
Danvers, sei nei guai», le disse, riemergendo. «In
guai seri».
Lei le schizzò
l'acqua muovendo i
piedi. «Ah sì?».
«Non sai cosa
può fare una
Luthor».
«E se ti dicessi che
non hai
ancora visto niente?».
Forse
era stato il divertimento inaspettato a convincere Lena a seguire
Kara ancora una volta. Ripresero dal bagnino il portafogli e il
cellulare e la seconda la trascinò per il parco, sorpassando
le
piscinette e i giochi per i bambini più piccoli, i giochi
d'acqua
con i gonfiabili fino ad ammirare The
black hole,
una piscina enorme sormontata da un percorso di tubi d'acqua da
diversi colori da discendere con l'aiuto di un materassino. C'era una
lunga fila, ma non sarebbe stato questo a scoraggiare Kara.
«Oh, sì,
molto bello», la sentì
dire alle sue spalle, mentre incrociava le braccia al petto.
«Penso
che sarà divertente vederti scendere in picchiata verso la
morte. Ma
su un materassino, quindi è un gioco sicuro»,
annuì con sarcasmo.
Kara rise. «Tu
scenderai in
picchiata verso la morte, su un materassino, con me».
Kara lasciò il
telefono e il
portafogli al ragazzo sotto la struttura: avrebbe ripreso tutto una
volta scese. Così si misero subito in fila sulle scale verso
l'alto
da dove sarebbero partite e più Lena si accorgeva che la
fila si
accorciava in fretta, più diventava nervosa.
«Senti, è
meglio se torniamo ai
nostri sdrai», guardò giù,
«Si chiederanno che fine abbiamo
fatto».
«Te
lo giuro», la fermò afferrandole un polso, quando
di scatto pensò
di girare per scendere, «Sei con me, non ti
accadrà nulla.
Concedimi questo, questo e basta, poi torneremo ai nostri
sdrai».
Lena la fissò intensamente, non sapendo cosa fare. Kara si
sentì in
dovere di aggiungere un per
favore,
a labbra strette.
La fila continuava ad
accorciarsi
e loro a salire qualche altro gradino più vicino al
materassino che
avrebbero dovuto prendere. Lena le aveva allontanato la mano per
rimettere le braccia a conserte: Kara lo vedeva che era nervosa,
eppure non glielo diceva chiaramente. Si sentì un po' come
quando
lei la incastrò a colazione con i quattro yogurt, solo che a
parti
invertite: per Lena quella era una sfida che non poteva rifiutare?
Anche se le avrebbe fatto male? Lo sguardo di Kara si
addolcì e
sbuffò, per poi rivolgerle la parola.
«Dai,
andiamo», le fece cenno
con la testa, «Vedi se riesci a crearti una strada per
scendere».
Le sorrise e Lena la
guardò con
sorpresa. «Credevo volessi provarlo».
Kara stava per rispondere, ma
la
fila si era bloccata a causa loro e l'uomo che avrebbe dato loro il
materassino, a qualche scalino, le richiamò per salire.
«Decidi
tu», le disse all'ultimo e Lena guardò
giù, alla fila che
aspettava, e allo sguardo di Kara che la premeva a decidere in
fretta.
Strinse
i pugni e lo fece, decise, salendo gli ultimi scalini che restavano
per la cima della struttura, seguita da una Kara piuttosto
emozionata. Saltellava come una bambina e fu la prima a sedersi non
appena l'uomo consegnò il materassino. Disse loro di tenersi
saldamente, mentre Lena sedeva avanti, mantenendosi alle maniglie
poste sui lati. Lui le spinse all'interno del tubo che per cominciare
era giallo, sotto l'acqua che scorreva. Augurò loro buon
divertimento
e le lasciò andare. La forza di gravità le spinse
giù con una
forza impressionante, con
l'aiuto dell'acqua,
roteando intorno ai tubi gialli che presto divennero marroni e poi
ancora rossi. Kara gridava e, si sorprese Lena, anche lei,
perché
veniva naturale. Il tubo fece fare al materassino una capriola e Lena
perse la presa su una maniglia; nel tentativo di cercare di
riprenderla, che per via della velocità e sbandamenti con
cui si
spostavano non era un'impresa facile, in un gesto automatico Kara la
prese a sé, mantenendola in un abbraccio, così
Lena si mantenne
saldamente
alla
sua mano premuta sul suo stomaco. Il tubo diventò verde, poi
azzurro
e così blu scuro, fino a essere nero, che le
sputò fuori. Il
materassino giallo fece un balzo di qualche metro e sbalzò
entrambe, che chiusero gli occhi, cadendo in acqua.
Difficilmente
Kara ricordava di
essersi divertita tanto come quella sera. Quanto tornarono agli sdrai
entrambe ridevano, ancora completamente bagnate. Eliza e Lillian
sembrarono felicemente sorprese di vederle tornare insieme e
così
allegre, ma quando lo sguardo di Kara si posò su quello
della
sorella a uno sdraio di distanza dalle due, si ghiacciò.
Aveva
completamente dimenticato la loro missione. La maggiore non le
rivolse più la parola e Kara lesse i messaggi che le aveva
inviato
nel viaggio di ritorno, in macchina.
15:44
Kara, non vi hanno trovate e sono tornate subito! Ho fatto appena in
tempo a sbloccarlo che loro sono tornate, non so che fare! Aiuto.
16:11
Kara, molla Lena! Sono riuscita a farle allontanare dagli sdrai ma
sono con loro! Ci pensi tu?
16:15
Kara, dove sei? Fatti sentire, ti prego.
16:28
KARA!! Sbrigati, non staranno buone a lungo!
16:55
In questo momento ti sto odiando: siamo tornate agli sdrai e loro si
stanno rimettendo la crema a vicenda. Ora non si sposteranno
più!
17:34
Stai giocando in qualche piscina, non è vero? Non sei
riuscita a
trattenerti, non è così? Lena ti sta facendo da
babysitter?
Kara sorrise e rimise il
cellulare
in borsa, guardando prima la sorella, e poi Lena, dall'altra parte.
Aveva la testa appoggiata al finestrino, stanca. Era incredibile:
aveva conosciuto una Lena completamente diversa da quella che si era
immaginata.
La loro missione aveva fallito
di
nuovo e avevano perso un'altra giornata. Stanche, cenarono con
qualcosa di veloce e dopo pensarono tutte che sarebbero andate a
letto presto. Lena andò in bagno per prepararsi per dormire
ed Eliza
e Lillian si alzarono insieme per chiudersi in camera; avendo un
bagno privato collegato alla camera padronale non avevano problemi.
Alex e Kara ripresero a parlarsi, con la prima che raccontava la sua
problematica serata con le due donne, finché Kara non
spalancò gli
occhi, indicando il cellulare lasciato sul tavolo della cucina. Tutte
e due lo guardarono come se da un momento all'altro potesse svanire.
Lillian Luthor lo aveva lasciato. Dalla stanchezza, si era
dimenticata di portarsi dietro il telefono.
Alex lo prese e lei e Kara si
guardarono, pensando di inginocchiarsi a terra, dietro le sedie, nel
caso la donna fosse tornata indietro. Lo sbloccò, facendo
vedere a
Kara che, come immagine di sfondo, teneva una foto di lei ed Eliza
abbracciate, con indosso camici da lavoro. Trattennero una risata,
concentrandosi sul da farsi. Alex sbirciò immediatamente la
galleria, ma dopo due, tre, quattro foto consecutive delle due che si
baciavano, decisero di comune accordo di passare ad altro. Di sms ce
n'erano così tanti e Alex era così testarda da
volerli leggere
tutti che Kara perse l'interesse, reggendosi prima la testa con una
mano, per poi sprofondarla contro le ginocchia.
«Sono solo cose di
lavoro, per la
maggiore non ci capisco molto», ammise, continuando a
sfogliare.
Finì gli sms e aprì un social di messaggistica,
ricominciando
daccapo, contatto per contatto. «Kara… forse ho
trovato qualcosa»,
la sua voce si fece dura e Kara alzò la testa.
«Qui lei e un altro
parlano di un proiettile», si scambiò uno sguardo
con la sorella e
poi riprese a leggere. «Ah no, è un
cane», sorrise con forza,
«Proiettile è un cane».
Kara
guardò il pinscher
con la lingua di fuori. «Beh… è
carino», sorrise ed entrambe
sbuffarono.
Sentirono
dei passi calcolati verso la loro direzione e si allarmarono,
spaventandosi e gettando il cellulare sul tavolo, che
rimbalzò fino
al centrotavola. Guardarono oltre le sedie e videro Lena Luthor, in
piedi, che le guardava.
«Principianti»,
sussurrò, scuotendo la testa e girando i tacchi.
Le due si
guardarono, balzando in piedi. Stavano per chiedere spiegazioni,
quando Lena si fermò a un passo dalle scale, voltandosi.
«La tua
ragazza è una poliziotta, vero?», chiese, rivolta
ad Alex.
Per un
attimo pensarono che le avrebbe denunciate. «Sì.
Perché lo vuoi
sapere?».
«Perché ho
bisogno di un favore».
Secondo
capitolo! Vi è piaciuta “la guerra” tra
Kara e Lena? Kara si è
decisamente data da fare, ma ho come la sensazione che in fondo abbia
vinto Lena… Se non altro in piscina hanno avuto modo
conoscersi un
po' meglio!
Intanto Kara
e Alex sono riuscite nel loro lungo e faticoso piano di impossessarsi
del cellulare di Lillian Luthor per poi scoprire niente, se non che
qualcuno ha chiamato il proprio cane Proiettile. E ora Lena sembra
aver bisogno di un favore…
Spero
che la storia vi stia piacendo :) Ho un brutta notizia: domenica
prossima non sarò a casa quasi tutto il giorno, quindi il
capitolo
potrebbe arrivare domenica sul tardi, oppure lunedì
pomeriggio. Non
odiatemi :P
Il terzo
capitolo si intitola: In cerca della verità
Avrà
qualcosa a che fare col favore che chiede Lena?
|
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Capitolo 4 *** 3. In cerca della verità ***
Principianti:
così le aveva chiamate Lena Luthor quando le sorprese a
curiosare
nel cellulare di sua madre. Non avevano idea di cosa intendesse fino
alla mattina successiva, quando Eliza e Lillian erano ancora a letto
e Lena aprì il suo laptop sul tavolo della cucina e
mostrò alle due
le ricerche su di
loro.
C'erano intere pagine dedicate a ognuna di loro, date importanti,
persino fotografie. Il materiale più sostanzioso riguardava
ovviamente Eliza Danvers, dalla sua data di nascita ai suoi studi,
dalle scuole frequentate al suo matrimonio con Jeremiah Danvers, e
così al divorzio e le recenti occupazioni di entrambi. Alex
e Kara
restarono senza parole, ma giusto il tempo di assimilare la cosa.
«Dove
hai trovato tutta questa roba?», cominciò Alex.
«Da
quanto tempo l'avevi?», proseguì Kara.
«Ci
hai fatto spiare?», chiese ancora Alex.
«Quanto
sai di noi e della nostra famiglia?», incalzò
Kara.
«Era
nel tuo interesse prima o poi dirci di tutto questo?»,
sbottò Alex,
per poi tentare di mantenere la calma tornando indietro di un passo,
passandosi una mano sul viso.
Kara
stava per riprendere parola ma si fermò quando intravide, in
mezzo
ai tanti file, una copia del suo certificato di adozione.
Lena
parve terribilmente calma nonostante la reazione contrariata delle
altre due. Restò sulla sedia e si girò il tanto
giusto per poterle
guardare entrambe. «Sembra quasi che abbiate dato per
scontato che a
me questa idea di famiglia allargata sia piaciuta fin da subito. Non
eravate voi due che, ieri, avete fatto di tutto per leggere dal
telefono di mia madre?». Le due la fissavano aggrottando le
sopracciglia, cercando di capire il suo punto di vista. «Non
vi
fidate di lei? Appena ho saputo della relazione di mia madre con
questa donna ho fatto delle ricerche e uno dei miei assistenti mi ha
fatto avere il resto un po' alla volta, appena aveva in mano
qualcosa. Di Eliza Danvers sapevo solo che era una delle donne che
lavorava con mia madre in un laboratorio, come potevo accettare e
passare oltre? Prima di conoscerla di persona, avevo già
parecchio
materiale sul suo conto, per immaginare cosa aspettarmi», si
prese
una pausa, togliendosi un ciuffo nero dal viso, passandolo dietro
un'orecchia. «Non vi nascondo che il mio primo pensiero,
oltre a una
sorta di rifiuto generale, fu di questa Eliza Danvers che voleva
entrare in famiglia per una questione di soldi. Dovevo capire con chi
avessi a che fare».
«Quindi?
Cosa ti interessa, con esattezza?», domandò Alex,
parlandole con
freddezza. «Vuoi un favore di che tipo? Pensi ancora queste
cose di
Eliza? Vuoi il nostro aiuto per smascherarla o qualcosa del
genere?».
«Al
contrario», rispose lei, passando da uno sguardo all'altro.
«Non è
Eliza a interessarmi. È una verità da mia madre
che cerco».
Aveva
lasciato il suo laptop alle due ragazze, in modo che potessero
leggere una lunga documentazione su Lillian Luthor. Molto
più
pratico del rubare un telefono e c'era davvero di tutto: la
biografia, foto di quando era bambina e del suo matrimonio con Lionel
Luthor, di quando avevano avuto Lex, il primogenito, e perfino una
foto di lei con Lena ancora bambina. Doveva avere sui quattro o
cinque anni, aveva i capelli alle spalle e un nastrino sulla testa;
sorrideva ma al suo fianco Lillian Luthor sembrava indisposta e le
due non avevano alcun contatto fisico.
«Piuttosto
fredda come mammina, no?», borbottò Alex.
Lei
e Kara erano sole in casa quel pomeriggio: Lillian ed Eliza dovevano
passare al supermarket per il giornaliero e Lena aveva chiesto, per
la prima volta, di poter andare con loro e così uscire un
po' di
casa. Sapevano che in realtà voleva dare alle due il tempo
di vedere
ciò che volevano senza che le disturbasse.
In
realtà, a parte qualche succoso gossip sulla sua vita
privata e
incidenti alla Luthor Corp non c'era altro che valesse la pena quel
disturbo. A quel punto, le sorelle sapevano di essere arrivate a un
momento in cui farsi una domanda era d'obbligo: cosa speravano di
trovare?
Volevano
veramente così tanto trovare il marcio nella vita di Lillian
Luthor
per far allontanare la loro madre da lei?
«Dobbiamo
anche tenere bene a mente che è stata lei, la figlia di
questa
donna, a darci tutto questo. Potrebbe aver omesso dettagli
importanti», ricordò Alex a Kara,
«Qualcosa per cui valesse
mettere in guardia Eliza da lei».
Kara
restò per un attimo in silenzio, riflettendoci. In
verità, era da
quando Lena mostrò alle due tutte le cose che aveva raccolto
su di
loro che era più silenziosa del solito. «Avrebbe
potuto mentirci,
invece di scoprire le sue carte… Non lo so, Alex. Che senso
avrebbe?».
«Farci
fidare di entrambe».
«Ha
ragione però nel dire che sarebbe Eliza a guadagnarci
sposando sua
madre», le disse, anche se odiava ammetterlo, «Cosa
vorrebbe una
Luthor da noi? E poi, per quel favore, sul fatto che lei stessa non
sembri fidarsi appieno di sua madre…».
«Se
è riuscita ad avere tutto questo, perché chiedere
un favore a una
poliziotta? Lei dice di essere stata tagliata fuori, ma potrebbe
chiedere a qualcuno di cercare informazioni per lei, come quel suo
assistente».
Kara
scrollò le spalle, buttandosi di peso sul divano.
«Forse lei non è
riuscita nell'intento e le forze dell'ordine possono andare
più
avanti di quanto possa fare anche il suo
assistente…».
Alex
si voltò a guardarla, posando il laptop sul tavolino davanti
al
divano. «Non eri tu che pensavi fosse il male incarnato a
essere
umano fino a pochi giorni fa? Ora la difendi a spada
tratta…».
Kara
arrossì un poco, di colpo. «Io non la difendo,
ma-», entrambe si
fermarono appena la serratura sulla porta scattò ed Eliza
entrò in
casa seguita dalle due Luthor e la spesa, così chiusero il
portatile
e fecero finta di niente.
Il
fatto che Lena cercasse una verità, o una conferma a quanto
le aveva
detto sua madre poco meno di un anno prima, faceva pensare molto
Kara. Le ritornava in mente la foto di lei bambina con al fianco
quella donna che nemmeno la sfiorava, che se ne stava a qualche
centimetro di distanza, senza neppure un po' di conforto umano dopo
l'adozione, la faceva sentire triste. Sarà stato l'aver
intravisto
il suo certificato di adozione fra quei documenti averla resa
sensibile all'argomento, nel ricordo di com'erano felici Eliza e
Jeremiah quando lei, a dieci anni, andò a vivere con loro.
Ricordava
ancora bene quando, alla loro prima cena come una famiglia allargata,
Lena aveva rimarcato come Lex, il figlio biologico, fosse il
preferito di sua madre. C'era del risentimento, adesso le era palese.
«Cosa
vuoi, quindi?», le aveva chiesto Alex quella stessa mattina,
dopo
che Lena mostrò loro tutte le cose raccolte quando cercava
informazioni.
«Voglio
sapere com'è morto mio padre».
«C-Com'è
morto…?», aveva bofonchiato Kara, cercando di
capire.
«Mia
madre ha detto che è morto dopo un arresto cardiaco. Ma era
giovane
e godeva di ottima salute prima di un incidente cadendo da cavallo,
quindi voglio sapere se mi ha mentito. Lei
non ha voluto che si diffondesse la ragione della morte e mi ha
tagliato fuori da qualsiasi referto, cartella clinica, ogni cosa. Se
la tua ragazza, la poliziotta», aveva detto rivolta ad Alex,
«può
appropriarsi del rapporto rilasciato dal coroner, allora
potrò togliermi questo dubbio».
«Allora,
cos'è che farete voi ragazze tra una settimana? È
vero che ve ne
andate? Di già?». Lillian spezzò il
silenzio, già precario dalla
foga della minore delle Danvers di accaparrarsi sulla tavola
più
cose possibili. Lei né tantomeno Lena si erano ancora
abituate
all'insaziabile fame di Kara che spazzava via ogni ogni cosa lasciata
incustodita.
«Devo
assolutamente tornare a casa», disse subito Alex, annuendo e
guardando lei e poi sua madre. «Ho le bollette che mi
aspettano e
devo riprendere gli studi per non rischiare di saltare gli
esami».
Lillian
socchiuse gli occhi, interessandosi all'argomento. «E
cos'è che hai
detto che studi?».
Alex
glielo avrà ripetuto almeno una quindicina di volte in due
settimane, ma per Lillian quella era come se fosse la prima volta che
lo sentiva. «Adesso cerco di specializzarmi in scienze
politiche.
Vorrei-».
«E
dov'è che lavori, invece?».
Alex
buttò giù un bicchiere d'acqua, fingendo di non
essere appena stata
interrotta. Di nuovo. «Sono commessa in una boutique di
National
City. Non è il mio sogno e ci impazzisco dietro, ma mi aiuta
a
pagare gli studi», sorrise. Era felice di aver potuto finire
addirittura un'intera frase.
«Se
avessi dato retta tuo padre». Eliza si mise in mezzo e Alex
roteò
gli occhi prima ancora che potesse finire, guardando di sbieco Kara,
che guardò l'una e poi l'altra con espressione desolata:
entrambe
sapevano come si sarebbe messa la discussione. «Le aveva
trovato un
buon impiego, a Metropolis», si rivolse a Lillian, che
ascoltava con
curiosità.
«Non ricominciare».
«Ma
lei ha rifiutato», la guardò gonfiando gli occhi,
come se la cosa
la ferisse ancora profondamente. «Doveva fare da segretaria
per
alcuni uffici del D.A.O., il Department of Anti-Terrorism Operations,
dove lavora lui; una buona paga, un lavoro sicuro. Ma lei ha
preferito fare la commessa a National City pur di non staccarsi
troppo dalla sua ragazza che abita lì».
Kara
scivolò un poco sulla sedia e si nascose dietro un pezzo di
pane,
continuando a masticare, quando scorse sua sorella Alex diventare
rossa e trattenere la rabbia. Lena la guardò a sua volta e
poi
scontrò lo sguardo con quello smarrito di Kara.
«Sono
rimasta a National City per studiare, non per restare vicina a
Maggie! Ma a te questo non interessa, perché non ascolti, e
tra due
mesi tirerai fuori questa storia di nuovo».
«Dico
solo che non saresti impazzita a fare la commessa, Alex. Ti saresti
sistemata».
«Io
sono
sistemata».
Eliza
tacque e Lillian sorrise l'una e poi l'altra, facendo capire di aver
sentito e di essere vicina a entrambe pur senza intromettersi.
Poco
dopo Alex decise che per lei la cena era finita e si alzò da
tavola
con la scusa di dover andare a letto presto. Alex ed Eliza si
volevano molto bene, ma erano sempre state su due livelli di opinioni
differenti per tutto. Kara ricordava che appena arrivata in casa
Danvers le cose prendevano già quella piega e aveva imparato
molto
presto a non interferire nei loro battibecchi, se non voleva prendere
una posizione per l'una o per l'altra rischiando la dannazione eterna
da parte di chi non avesse difeso. Intanto, prima di andare a letto,
al telefono Alex chiese a Maggie se poteva fare quel favore a Lena
Luthor.
«Ho
studiato medicina, sono bioingegnere e ho preso lezioni di autodifesa
per anni, ora cerco di uscire viva nelle scienze politiche e lei
vorrebbe che mi fossi accontentata di fare da segretaria?»,
sbottò
Alex, mettendo le braccia a conserte. Kara le stava vicino, sul
letto, tentando di consolarla.
«Lo
sai che non intende questo: pensava solo che sarebbe stato
più
facile, per te, accettare quel lavoro e andare avanti. E adora
Maggie, non ce l'ha con lei».
«Lo
so, lo so», si mantenne la testa con una mano, con fare
stanco. «Ma
mi fa arrabbiare… Ogni cosa che faccio non è mai
abbastanza, per
lei. O mai abbastanza, oppure troppo. E io sono stufa di sentirle
raccontare quella storia…».
Kara
l'abbracciò e Alex si lasciò coccolare un po',
prima di decidere di
dormire, così la prima lasciò la sua stanza in
punta di piedi. La
luce del bagno era accesa, doveva esserci Lena, e lei partì
spedita
nella loro camera. Alex aveva ragione ad arrabbiarsi, lo sapeva, ma
era difficile mettere in testa a Eliza che ciò che sua
figlia voleva
fare nella vita andava ben oltre il lavoro da segretaria e che
avrebbe fatto la commessa in un negozio per anni se questo fosse
servito allo scopo. Si chiuse in camera e si sedette davanti alla
scrivania, accendendo una lampada e aprendo una rivista.
«Ho
chiesto a Eliza di comprare yogurt, questo pomeriggio. Te ne ha presi
quattro».
Kara
spalancò gli occhi, senza voltarsi. Lena era entrata nella
loro
camera in comune, pronta per andare a dormire.
«Emh…».
Lei
la guardò per un po' aspettando una risposta, o sperando di
ottenerla dalla sua faccia al buio ostacolato solo dalla lampada
sulla scrivania.
«Bene»,
disse, mantenendo lo sguardo saldo alla rivista che leggeva,
«Li
mangerò domattina. Grazie».
«Sto
scherzando, Kara Danvers», sogghignò e
sentì Kara fare un sospiro
di sollievo. Entrò sotto le coperte, tenendo d'occhio lei
che
leggeva. «Posso chiederti cosa fai?».
«Leggo».
«Sì,
signorina perspicacia, questo lo avevo notato da sola». Era
una
risata quella che Lena le sentì fare?
«CatCo
Magazine».
«Non
ti facevo tipa da gossip».
Kara
aggrottò le sopracciglia e chiuse la rivista, spegnendo la
luce. «Ah
sì? E mi facevi tipa da cosa?». Aveva
già indosso dei pantaloncini
e una t-shirt color pastello che usava come pigiama, quindi
entrò
sotto le coperte anche lei, girandosi di lato, ma aspettando comunque
una risposta.
«Non
lo so», biascicò, «Sto cercando di
capirti, Kara Danvers».
«Solo
Kara».
«Deponi
l'ascia da guerra, quindi?».
La
voce di Lena si fece più alta e Kara pensò che
dovesse essersi
girata verso di lei. «Al momento. Vediamo prima cosa
scopriamo da
Maggie».
«Ah,
capisco…», la sentì dire con una nota
di delusione, «Prima vuoi
sapere se sono una credulona presa in giro da mia madre,
così avrei
la tua compassione, oppure, al contrario, se sono meritevole di
odio».
«No»,
sbottò subito, «Non è così,
è solo che-che non voglio-non sono
sicura di sapere cosa voglio! È solo che ciò che
hai passato tu è
così diverso da ciò che ho passato io, e allo
stesso tempo penso di
capirti… Non lo so».
Sentì
Lena indugiare a lungo, tanto che Kara pensò di dover dire
qualcos'altro in fretta, prima che quel silenzio diventasse di
troppo, ma alla fine parlò:
«Sono
la vera figlia di mio padre».
«Come?».
«Sono-Ero…
la sua figlia biologica. Mio padre ha tradito mia madre anni fa e
nacqui io. Non lo sapevo, l'ho scoperto l'anno scorso, e allo stesso
tempo ho scoperto che mia madre aveva una relazione extraconiugale
con la tua, e dopo mio padre è morto».
Kara
deglutì. «Mi dispiace…». Non
sapeva che Eliza fosse insieme a
Lillian da così tanto tempo, quando ancora quest'ultima era
sposata
con suo marito. Perché a loro non aveva detto nulla?
«Per
questo voglio scoprire cos'è davvero successo a mio padre.
Stavo
appena iniziando a capire la mia vita che lui è
morto».
«Ne
verremmo a capo, te lo prometto». Non si dissero
più niente, ma
Kara sapeva che Lena aveva sentito. «Oggi non guardi i tuoi
documentari?».
«No.
Qualcuno mi ha detto che fa male guardare il cellulare prima di
dormire. Già, una vera seccatura».
Kara
sorrise, chiudendo gli occhi.
Ricordava
davvero poco, ormai, del giorno in cui arrivò a casa
Danvers. Aveva
quasi undici anni, l'assistente sociale con lei in macchina le disse
che erano arrivate e scesero. La casa era in tinta gialla come ora,
ma sembrava molto più grande per una personcina come era lei
e aveva
spalancato gli occhi dalla sorpresa. Era spaventata, e arrabbiata, e
triste. Aveva perso la sua famiglia e le sembrava di essere appena
atterrata in un mondo che non conosceva; per lei tutto era nuovo e
diverso. Era emozionata di conoscere qualcuno che si sarebbe preso
cura di lei da quel momento in avanti, ma allo stesso tempo sognava
ad occhi aperti che la sua famiglia era viva e che presto sarebbe
venuta a prenderla. L'assistente sociale spiegò a Eliza e
Jeremiah
Danvers che lei aveva subito uno shock quando aveva perso i suoi
genitori, come se non fosse lì con loro per sentire ogni
parola. I
due sembravano saperlo già, poiché le parlavano e
la toccavano,
agli inizi, come se avessero avuto paura di romperla. Solo la ribelle
Alex, già quattordicenne, riusciva a trattarla come un
essere umano
qualunque: rifiutandola, allontanandola, spingendola via, dicendole
chiaramente che non l'avrebbe voluta come sorella. Ci avevano messo
un po' a diventarlo.
Kara
si svegliò lentamente, con la mente ancora gonfia di
ricordi.
Guardando la sveglia vide che erano appena le tre del mattino e,
strofinandosi un occhio, decise di prendere sonno in un'altra
maniera. Si alzò e cercò il laptop di Lena
Luthor. La guardò per
un pochino, addormentata serenamente, adocchiando il portatile sul
comodino. Le aveva preso la mano e tenuta stretta contro di lei
quando scendevano dal The
Black Hole,
pensava Kara; era così terribilmente spaventata ma
soprattutto
genuina, spontanea, come ora che dormiva. Le smuoveva una strana
sensazione, odiava ammettere. Preferiva quando doveva semplicemente
odiarla perché era più semplice avere a che fare
con lei.
Si
avvicinò al comodino, tornando indietro di un passo. Lo
avrebbe
preso e aperto lì sul suo letto, per vedere qualche foto e
magari
leggere ancora sulla famiglia Luthor, ma un calzino rubò le
sue
speranze: ci scivolò con un piede e, nel tentativo di non
cadere a
terra o contro il comodino, sbatté la testa contro il
materasso e
cascò sonoramente col sedere per terra.
Lena
aprì gli occhi adagio, mettendo a fuoco, con un po' di
fatica, la
figura che si contorceva e mugugnava sotto il suo letto.
«Kara?».
Era
la prima volta che la sentiva chiamarla col suo nome e alzò
la testa
di scatto, colta di sorpresa. Il suo nome detto da lei, seppure con
un tono di voce debole, sembrava quasi un altro.
«Cosa
stai facendo?».
Si
alzò dal pavimento lentamente, stirandosi la schiena, sotto
lo
sguardo interrogativo dell'altra. «Niente! Torna a dormire,
Lena,
stai sognando».
«Non
sto sognando», sbadigliò, «Ti vedo.
… mi stavi spiando dormire,
per caso?».
«Pff»,
rise con fare agitato. «P-Perché dovrei fare una
cosa del genere?!
Ma no, torna a dormire».
«…
inquietante».
Si
allontanò e Lena la sentì inciampare di nuovo su
qualcosa, prima di
tornare a tentoni sul suo letto.
Maggie
inviò il buongiorno alla sua amata, la mattina successiva,
con una
buona nuova: entro l'indomani sarebbe riuscita ad avere una copia di
quel rapporto.
«Andremo
a National City a vederlo, non può inviarcene una foto
né può
spedircelo, è privato», spiegò Alex a
Kara, prima di pranzo. Erano
rintanate in cucina, accanto al frigo; scorgevano dietro un mobile
Eliza e Lillian che discutevano e ridevano tra loro come ragazzine,
nel soggiorno, pensando proprio che a volte il loro comportamento le
metteva a disagio. Avrebbero dovuto essere più felici per
lei e
invece non avevano fatto altro, da quando le due avevano deciso di
andare a vivere insieme, che cercare di trovare un pretesto per
separarle. Perfino Maggie aveva detto loro che di Lillian Luthor non
trovava niente che non andasse, che la facesse apparire come una
brutta persona, neppure una multa non pagata. Sapevano che presto
avrebbero dovuto arrendersi a quell'idea.
«Ci
vediamo tutte quando torniamo là tra una settimana o dovremo
andarci
prima?».
«Prima,
per forza. Maggie non può tenere il documento o passerebbe
guai; ha
fatto già abbastanza carte false per averlo! Quindi
dobbiamo…»,
Alex indicò Lena con lo sguardo, mentre lei entrava in
cucina per
bere un bicchiere d'acqua.
Invitare
Lena Luthor a passare una serata con loro a National City era
diventato motivo di commozione per Eliza e pure un po' per Lillian,
che non sembrava veder l'ora di vederle legare davvero. Avevano
ricominciato a parlare di famiglia unita, se
solo ci fosse stato Lex con loro,
di com'erano belle quando si comportavano tutte e tre come delle
sorelle, di come quella vicinanza stava facendo del bene a tutte
loro, di come avrebbero dovuto farlo tante altre volte anche in
futuro. Di certo nessuna delle due sospettava qualcosa del reale
motivo per cui facevano quella piccola gita.
A
ora di pranzo avevano preso il treno e avvertito Maggie che sarebbero
arrivate tra poco più di un'ora. Kara e Alex si erano sedute
in due
posti accanto, mentre Lena in uno di quelli davanti a loro. La prima
non poté fare a meno di notare come Lena Luthor cercasse di
camuffare quello sguardo smarrito e a disagio che si lesse sul suo
viso anche la prima volta in cui si erano conosciute. Guardava la
gente che saliva sul treno con morbosa parsimonia, come se non si
fidasse di nessuno.
«Tu
non sei granché abituata a viaggiare in treno, non
è vero?».
Kara
non si stupì di sentire Alex porgerle la domanda: anche lei
era
un'attenta osservatrice.
Camuffò
una risata. «Si nota tanto?». Si sistemò
bene sul viso gli
occhiali da sole. «Non negli scomparti pubblici,
no». Notò che
Kara la guardava, anche se tentava di far finta di nulla, e sorrise
ancora. «Oh, per poco non dimenticavo: come sta la
testa?».
«Eh?».
Le distolse di dosso l'attenzione: accidenti, da quando quel giorno
erano andate in piscina non faceva che notarle il seno quasi
qualsiasi cosa indossasse, e il fatto che in quel momento avesse una
camicetta smanicata particolarmente scollata non l'aiutava affatto.
«Era
la testa, no? Per come hai sbattuto contro il mio letto, la scorsa
notte».
Alex
guardò una e poi l'altra e Kara avvampò, a bocca
aperta. «Non
stavo-So-Sono inciampata, stavo andando in bagno! E mi sono fatta
anche male».
Alex
subito rise. «La solita imbranata! Mi domando ancora come
faccia
Supergirl a essere così in gamba, se tu sei un caso
così
disperato».
«È
la maledizione che affligge ogni persona con un alter ego»,
rispose
prontamente.
«Supergirl?
Non è la prima volta che la sento…».
«Oh,
emh… sono io quando gioco con la mia squadra! Un giorno
hanno
iniziato a chiamarmi Supergirl e
così…».
Lena
la guardava senza parole e Alex aggiunse: «È
davvero brava! Tanto è
vero che, fuori dal campo, nessuno direbbe che l'impacciata Kara
Danvers sia Supergirl».
Lei
arrossì un poco, ricambiando il sorriso della sorella.
«Squadra
di cosa?».
«Lacrosse».
Lena
Luthor restò di nuovo senza parole, guardandola con
sorpresa. Oh,
non lei, non quella ragazzina che sembrava così fragile e
perfino
delicata! Sapeva che faceva dello sport, non faceva che ripeterlo da
quando la conosceva, ma il lacrosse l'aveva totalmente presa
sottogamba. Aveva sempre pensato che ci volesse una certa forza
muscolare, nonché una figura imponente, per praticare uno
sport
simile, ma lei era piccola, il suo viso così delicato che
sembrava
quello di una bambina, di un cucciolo, che davvero faticava a
crederci.
Sia
Alex che Kara risero per l'evidente faccia meravigliata di Lena.
Quando
gli alberi e le case di periferia lasciarono spazio ai primi palazzi,
capirono di stare arrivando. Lena indossava un pantalone lungo e
leggero, scuro, a cui Kara ricordò il loro primo incontro in
quello
stesso tragitto ma contrario, mentre andavano verso casa. Sembrava
fuori luogo proprio come allora, ma adesso non le dava più
quella
sensazione spiacevole, invece pensava che fosse un suo segno
inconfondibile, come un marchio di fabbrica. Non sapeva spiegarsi il
perché, ma era contenta che fosse con loro.
Scesero
dal treno e per poco Kara non cascò in terra, aiutata da
Lena.
Quest'ultima non mancò di scherzare sul lacrosse e su come
fosse
poco stabile per giocare veramente, ma non le diede fastidio, anche
se provò comunque a lamentarsi tanto che Alex dovette
sgridarle,
intimandole di non punzecchiarsi per almeno un giorno solo.
Dovevano
vedersi con Maggie davanti alla fermata di un autobus ma quando
mancò
l'appuntamento cominciarono a spazientirsi. Mentre Alex parlava con
lei al telefono per sapere dove altro si sarebbero viste, presa dalla
curiosità Kara pensò di fare qualche domanda alla
loro compagna di
viaggio, ora che avevano un po' più di confidenza.
«No,
non sono mai stata da questa parte di National City», le
rispose,
«Forse in macchina, di passaggio».
«Tu?
Hai la patente?»
«Certo
che ho la patente. Cosa c'è di tanto strano?».
«Nulla,
è che… sai, pensavo che i Luthor si facessero
scorrazzare in
macchina dai loro autisti».
«Beh…
è
così.
Ma ho anche la patente».
«Ragazze,
Maggie ha avuto un imprevisto con il lavoro, avrà
disponibile il
documento fra due orette», le raggiunse Alex, «Ci
rivedremo tutte
qui sotto per allora, siete d'accordo?».
Kara
sbiancò, guardando la sorella con allarmismo.
«Perché, tu dove
vai?».
Alex
sapeva cosa Kara stava pensando, che l'idea di stare da sola con la
Luthor non le piaceva, ma sarebbe stato più sbrigativo, in
quel
modo. «Devo passare a casa, così raccolgo la
posta, controllo che
le piante non siano morte, do una sistemata
veloce…», la guardò
con supplica, «Se vi porto con me ci metterò molto
più tempo!
Scusa».
Odiava
quando Alex la mollava di punto in bianco senza che prima
l'avvertisse. Sapeva come si sentiva quando era lei a farlo, ma la
cosa non le tirò su il morale.
Alex
sparì dietro un incrocio e Kara e Lena cominciarono a
camminare a
rilento, guardando intorno a loro in cerca di un'idea veloce per
passare due ore senza sentirsi a disagio l'una con l'altra.
Kara
la guardò con la coda dell'occhio, constatando come fosse
appena più
alta di lei. Sotto i pantaloni, infatti, teneva i piedi legati con le
fibre di un paio di sandali con almeno cinque centimetri di tacco.
Sembrava camminarci piuttosto a suo agio nonostante le mattonelle a
volte smosse del marciapiede. Al suo opposto, proprio come al loro
primo incontro, Kara indossava una gonnellina bianca e delle scarpe
da ginnastica.
«Parlami
di Supergirl», le disse, facendola sobbalzare per aver
interrotto i
suoi pensieri. «Penso che mi piacerebbe
conoscerla».
Kara
rise, annuendo con la soddisfazione nello sguardo. «Da
quest'anno è
la capitano della squadra! Ne vado molto orgogliosa».
«Deve
piacerti molto».
«Sì.
Quando gioco è come… essere libera. Non so
spiegarlo», scosse la
testa, mentre l'altra la osservava rapita. «Da bambina,
quando ho
perso la mia famiglia, mi era sembrato di non riuscire mai a essere
più una persona completa… Lo so che sembra una
cosa sciocca, ma
quando gioco», s'interruppe per dare il giusto peso a
ciò che
tentava di esprimere, con un grande sorriso e gli occhi che le
brillavano, «quando gioco, è come se mi sentissi
di nuovo un po'
con loro perché là, sul campo, non c'è
nient'altro che mi
distragga. E-E devo solo vincere». Arrossì,
sistemandosi gli
occhiali sul naso, quando vide di essere il centro delle sue
attenzioni.
«Non
la trovo affatto una cosa sciocca».
«E
invece per te com'è stato… sai, l'adozione? Non
devi parlarne se
non vuoi, certo». Kara vide il viso di Lena indurirsi mentre
si
infilava di nuovo gli occhiali da sole, cogliendo il suo invito a non
parlarne se non se la sentiva.
«Allora,
dimmi… Cosa fanno di solito due ragazze annoiate che devono
trascorrere delle ore in questa parte di National City?».
«Non
so… Giro per negozi?».
Kara
Danvers riconosceva a se stessa di stare diventando troppo indulgente
con Lena Luthor. Sì, forse aveva esagerato a etichettarla
come sua
nemica, se non fosse stata lei la prima a cominciare, sul treno. Era
pur vero che aveva parlato male di lei, quella volta, senza sapere
che era a orecchie a poca distanza dalla sua bocca, e quindi doveva
essersi risentita. E come aveva detto la stessa Lena, nemmeno a lei
piaceva l'idea delle loro madri insieme, quindi sentir la seconda
figlia della donna con cui si era messa sua madre parlar male di lei
doveva aver fatto subito una brutta impressione. O meglio, lei al suo
posto ne sarebbe stata furiosa. Magari se non le avesse fatto
mangiare quei quattro yogurt… No, beh, in fondo era lei ad
averle
fatto il dispetto, la mattina prima, per non fargliene trovare
nemmeno uno. Ma le aveva buttato giù mezzo armadio e ora per
cercare
qualcosa da indossare doveva andare in camera di sua sorella: non lo
dimenticava di certo. Ma non dimenticava neppure di come si era
aggrappata a lei sullo scivolo nel parco acquatico e di come rideva
quando si divertiva, divertiva davvero, e sembrava la più
bella
persona del mondo. Eh sì, alla fine doveva ammettere anche
questo:
quando era se stessa e non un'arpia doppiogiochista, Lena Luthor era
davvero bella.
In
definitiva, stava diventando indulgente, sì. Lei le stava
facendo
abbassare ogni difesa. Lena Luthor la stava attaccando con l'arma che
non si sarebbe mai sognata potesse scalfirla: lei stessa.
Più le
mostrava una parte di lei e più Kara si rendeva conto che
l'aveva in
pugno.
«Va
bene, prova questo». Lena le aveva letteralmente spinto un
pesante
cappello sulla testa, coprendole gli occhi.
Dopo
aver fatto un veloce giro in qualche negozietto ed essersi rese conto
che Lena non passava inosservata, attirando occhiate e qualche
stalker, si erano rifugiate all'interno di un negozio di
abbigliamento con l'intento di camuffarsi.
Kara
se lo sollevò dagli occhi il tanto di guardarsi a uno degli
specchi
da terra posti nel reparto e Lena rise immediatamente. «Non
mi sta
male, giusto magari un'accortezza…»,
sibilò, mentre si sfilava le
orecchie fuori dal cappello, piegandole.
Lena
scosse la testa e si poggiò una mano contro la bocca,
continuando a
sorridere. «No, affatto. Dovresti pensare di adottare un
nuovo
look».
«Peccato
che non siamo qui per me». Kara sentiva la presenza di una
delle
commesse a poco da loro, che fingeva di sistemare le scarpe sugli
scaffali. Si sfilò il cappello e lo mise a lei, ma restava
alto per
via dei capelli legati in uno chignon. «Mh, magari dovresti
slegarli… o niente cappello».
«Sai,
non credo mi serva un cappello», disse, prima di chiederle di
aspettarla per un po'.
Sparì
tra le corsie e Kara si riprovò il cappello, guardando con
la coda
dell'occhio la commessa che spiava verso la sua direzione.
«Ehi! Se
n'è andata». L'altra si nascose.
Da
Me a BadSister
Non
hai ancora finito? Noi siamo entrate in un negozio per far cambiare
Lena. La gente non fa che guardarla… Una donna in macchina
si è
fermata per chiederle qualcosa sulla Luthor Corp e ha nominato anche
Lex. Lena non ne era molto contenta… Beh, muoviti.
Si
era seduta su un puff morbido vicino ai camerini, guardando con noia
il telefono. Aveva individuato subito il camerino dove era entrata
Lena: due commesse erano di pattuglia lì intorno, fingendo
di
spazzare per terra una e di controllare la merce l'altra, mentre
continuavano a lanciare occhiate furtive per sorprenderla uscire.
Ripensava
alla donna che le aveva fermate abbassando il finestrino della
macchina che poi aveva parcheggiato malamente contro il marciapiede,
solo per scendere e parlare con Lena Luthor. Le aveva chiesto
qualcosa su alcune persone, aveva detto i loro nomi che Kara non
conosceva, e poi aveva chiesto di Lex Luthor. Lena aveva risposto con
educazione e Kara cominciava a pensare che la cosa si sarebbe
protratta più a lungo del previsto, ponderando l'idea di
lasciarla
lì a chiacchierare, finché a una distrazione
della donna che si era
girata verso la strada al suono di un clacson, Lena non le aveva
stretto un braccio e trascinata via da lì velocemente,
svoltando un
vicolo. Era perfino riuscita a correre con i tacchi. La sua
espressione era cambiata di colpo, diventando dura e diffidente,
seccata, mentre la lasciava andare.
«Scusa»,
le aveva detto, «Non avrei voluto che la nostra uscita si
trasformasse in un dibattito per strada».
Le
colpì come si fosse scusata lei per la gente che non faceva
che
tormentarla. Avrebbe voluto chiederle se c'era qualcosa che non
andava, ma si trattenne.
Da
Me a BadSister
Forse
avrei dovuto chiedere a Lena di cosa stava parlando quella donna e
non capisco davvero perché non l'ho fatto! Fammi sapere se
sei viva.
Da
Me a BadSister
Mi
sto annoiando, Lena ci sta mettendo troppo. Una delle commesse che
stalkera Lena ha appena fatto scivolare la scopa dalle mani che usava
per spazzare per finta, si sono girati tutti.
Da
Me a BadSister
Ho
paura che Lena ci sia morta in quel camerino!
Da
Me a BadSister
Mi
sto annoiando. Quando arriva Maggie andiamo a prendere un gelato?
Da
Me a BadSister
No,
ho sentito dei rumori: Lena è ancora viva. E tu invece?
Da
Me a BadSister
Ma
vi siete sentite tu e Maggie? E se alla fine non viene?
Da
Me a BadSister
Alex,
mi sto annoiando, almeno tu rispondimi! Batti un colpo! Ti sono morte
le piante?
Da
BadSister a Me
Kara,
se non rispondo è perché sono impegnata.
Smettila. Ci sentiamo tra
poco.
Da
Me a BadSister
Va
bene, non c'è bisogno di essere tanto acide! È
che mi sto annoiando
e l'unica che mi dà soddisfazioni è la commessa
che è passata da
ammirare i pantaloni ad accarezzare i cappotti.
Kara
sbuffò, mettendo giù il cellulare.
Sentì un altro rumore
all'interno del camerino e un colpo di tosse da una delle commesse,
ripensando ad Alex. Poi sbarrò gli occhi, scrivendo subito
un altro
messaggio.
Da
Me a BadSister
Sei
con Maggie in questo momento, non negarlo! E all'improvviso il mio
'batti un colpo' sembra così fuori luogo… Non ti
cerco più, fammi
sapere quando avete finito.
Fece
una smorfia, rimettendo di nuovo giù il cellulare. Appena in
tempo,
finalmente la tenda del camerino si aprì e Lena Luth- Kara
spalancò
gli occhi, restando a bocca aperta.
«Ah,
eccoti qui», la raggiunse lei, «Cosa ne
pensi?».
Kara
doveva essere rimasta a fissarla senza dire una parola un po' troppo
a lungo poiché Lena dovette richiamarla per sentirle dire
qualcosa.
«Ah,
beh… strano».
Si pentì immediatamente di aver usato quella parola, ma Lena
non
sembrò prenderla male e si girò subito verso uno
degli specchi sul
muro. Indossava una gonna corta nera e rossa a quadri, sopra lunghe
calze nere. Ai piedi stivaletti bassi con borchie simili a quelle sul
cinto lasciato largo. Per la prima volta da quando la conosceva Kara,
Lena indossava una t-shirt: era nera come la pece, senza design, con
le maniche corte a rete. Questa non era la Lena Luthor che conosceva,
pensava Kara; se doveva essere un travestimento, di certo avrebbe
avuto successo.
«Ho
avuto un periodo dark quando ero adolescente», rispose
guardando la
sua espressione meravigliata attraverso lo specchio. «Per
uscire di
casa, mia madre mi forzava a vestirmi come lei, quindi non lo sanno
in molti. Il tuo sguardo mi dice che funzionerà».
Kara
annuì, deglutendo. Si alzò per andarle incontro e
portò le mani al
suo cignon. Lena si sorprese nel sentire che lei glielo stava
sciogliendo, così fece da sola, lasciando che si
allontanasse per
guardarla fare. I capelli liscissimi le scivolarono addosso e,
guardando quelli di Kara, le chiese se poteva sistemarglieli come i
suoi. Kara le prese dal viso una ciocca a sinistra e poi un'altra a
destra, arrotolandole mentre le portava indietro, legandole insieme
con un elastico.
Si
guardarono, capendo che mancava solo un tocco di trucco.
Da
BadSister a Me
Non
ero con Maggie, maliziosa! Però l'ho sentita e ha detto che
sta
arrivando, quindi sto arrivando anch'io. Sbrigatevi voi due.
Da
Me a BadSister
È
un caso che vi siate liberate insieme, vero? Anche noi stiamo
arrivando.
Da
BadSister a Me
È
un caso!
Come
volasi dimostrare, Kara e Lena furono le prime ad arrivare al punto
d'incontro dove si dovevano trovare quasi due ore prima. Lo stile
dark aveva funzionato e nessuno spiò Lena, né le
fermò per farle
qualche domanda o per parlare d'affari. Solo le commesse, a cui
mancò
il fiato quando la videro vestita in quel modo, continuarono a
tenerla d'occhio dalle vetrine finché non la persero di
vista. Kara
sapeva che i Luthor erano ricchi e ben visti dalla società,
ma non
si era mai fermata a pensare a quanto fossero famosi.
Il
rumoroso brontolio della pancia di Kara e il ritardo delle altre due
le convinse a spostarsi e lei lo voleva davvero quel gelato,
così
dopo aver adocchiato una gelateria convinse Lena a prendere qualcosa
con lei. Le sembrava quasi una persona normale quando la vide
scegliere il gelato.
«Vaniglia
e… stracciatella e… Va bene, faccia vaniglia
doppia,
stracciatella e un pochino di cioccolato».
«Medio?».
«Grande…
Ne metta un po' di più di cioccolato», sorrise
radiosa mentre il
gelataio la serviva e Lena sorrise a sua volta, andando a pagare il
conto prima che l'altra se ne accorgesse. Spostò la
camicetta che
aveva ripiegato in borsa per arrivare al portafogli.
«Non
dovevi pagare per tutte e due», la sgridò uscendo
dalla gelateria.
«Nella
tua borsa hai le mie scarpe: diciamo che siamo pari»,
sorrise,
andando a sedersi in uno dei tavolini fuori, non mancando di fissarla
mentre le si sedeva davanti. Kara non ne aveva ancora dato un
assaggio. «Mangia: non è avvelenato», la
squadrò ancora, mentre
gustava il suo. «Vaniglia», si lasciò
scappare mezza risata,
guardandola, «Ti sta bene».
«Ovvero?».
«Vesti
sempre di chiaro, sei bionda, sorridi con dolcezza… la
vaniglia
sembra proprio da te, Kara Danvers. Se dovessi assegnarti un gusto,
saresti la vaniglia», si morse un labbro, continuando a
mangiare.
Kara
sembrò pensarci brevemente ma si sbrigò
nell'affondare nel suo
gelato o rischiava che le si squagliasse in mano.
«Eccovi»,
urlò Alex Danvers, raggiungendo il loro tavolino.
«Meno male che mi
hai avvertito, non avrei mai immaginato di trovarti davanti a una
gelateria, sorellina». Si sedette tra le due prima che
potessero
salutarla, guardando in fretta il suo cellulare, e dicendo che Maggie
stava arrivando. La ragazza svoltò un angolo proprio qualche
secondo
dopo, facendo loro la mano.
«Non
siete arrivate insieme, vero?», bofonchiò Kara, il
suo gelato già
a metà.
«No»,
sbottò l'altra, arrossendo, rialzandosi per far accomodare
Maggie.
Anche Lena si alzò all'istante, con rispetto.
Maggie
si accostò piano, salutando in modo generale a tutte,
togliendosi il
cappello dalla testa e poggiandolo sul tavolino. Aveva i capelli
legati all'indietro e aveva indosso la divisa da poliziotta. Sotto un
braccio portava una cartellina che prese subito la curiosità
di Lena
Luthor.
«Maggie,
lei è Lena Luthor. Nostra quasi-sorella
e credo tu sappia già chi sia, non c'è bisogno di
ulteriori
presentazioni. Lena, lei è», si fermò,
guardandola con attenzione:
non si era resa conto prima di come Lena fosse vestita né
del
pesante trucco intorno agli occhi e il rossetto nero. «Lei
è Maggie
Sawyer, la mia… ragazza». Era incredibile come
Alex riuscisse
ancora ad emozionarsi quando diceva a qualcuno che lei e Maggie
stavano insieme.
«Molto
piacere, signorina Luthor». Si strinsero la mano e notarono
tutte
come anche Maggie la squadrava con sorpresa: la immaginava diversa.
«Prego,
puoi chiamarmi Lena», le rispose. Lei, al contrario, aveva
più
interesse verso la cartellina.
Si
sedettero tutte e tre e così Maggie salutò Kara.
«Vaniglia?», le
chiese, «Non mi stupisce».
Kara
guardò subito Lena, ricordando cosa le aveva detto poco
prima,
rispondendo poi a Maggie con un sorriso.
Alex
guardò distrattamente sua sorella e poi il gelato in mano a
Lena,
che era già arrivata a mordere il cono. «Anche tu
vaniglia?».
«Pistacchio
e caffè».
«Oh,
non sono l'unica a cui non piace».
«Mi
andavano questi, ma a dire il vero mi piace molto la vaniglia. Ne
mangerei di continuo». Fissò Kara e diede un nuovo
morso al suo
cono, mentre lei si paralizzava.
Perché
a un tratto quella frase sulla vaniglia sembrava…
così ambigua?
«Oh,
no, a me dà la nausea», rispose Alex, non badando
a sua sorella in
quel momento. «Peccato che qui non servano birre, ne avrei
proprio
bisogno».
«Kara,
ti sta scolando il gelato addosso».
Maggie
l'avvertì appena in tempo e Kara si destò,
pulendosi con un
fazzolettino.
Quando
la poliziotta posò la cartellina al centro del tavolo, tutte
le
attenzioni si posarono su di lei, con Lena che si risistemava meglio
e più vicino con la sedia, finendo di masticare il cono.
«Non so
cosa tu contassi di trovarci, ma spero abbia un qualche valore per
te». Maggie aprì la cartellina e Lena prese subito
il rapporto di
cui aveva bisogno, leggendo in fretta, solo per lei.
Si
portò una mano sul mento, non togliendo occhio di dosso dal
documento. Sfogliò la pagina successiva e lesse con
attenzione anche
lì, perdendosi. Le altre si guardavano tra loro, nel
silenzio
interrotto solo dal masticare di Kara. Poi la si sentì
ansimare e
capirono che doveva essere arrivata alla parte che più le
premeva
conoscere. «Bene», sussurrò piano,
posando il documento di nuovo
sulla cartellina con estrema cura. «Allora è
andata così… a
quanto pare, mia madre non mi ha mentito».
Ed
eccoci ritornati! Nuova settimana, nuovo capitolo :)
Cosa
ne pensate? A quanto pare, il rapporto del coroner su Lionel Luthor
conferma quanto detto da Lillian a sua figlia, vi aspettavate
diversamente? E del look dark di Lena? E dei messaggi tra Kara e Alex
(io adoro scrivere di Kara e Alex che parlano al telefono o si
lasciano messaggi)? E di Lillian ed Eliza che stavano insieme prima
ancora che Lionel morisse?
Concentriamoci
su questo, per ora- no, non pensate al gelato alla vaniglia
che
scola- perché il prossimo capitolo
prenderà una piccola svolta
rispetto alla trama principale per farci conoscere aspetti importanti
di altri personaggi che non sono Kara e Lena. Avete capito di chi sto
parlando!
Il
quarto capitolo arriverà lunedì prossimo e si
intitola:
L'esperimento
Spero
vi piacerà guardare le cose da un punto di vista diverso dal
solito!
|
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Capitolo 5 *** 4. L'esperimento ***
Si
era fermata a pochi passi dalla porta, origliando all'interno del
laboratorio senza dare nell'occhio. Sentiva il personale ridere e
parlare di quelli che sembravano aspetti privati della loro vita. Non
aveva mai dato disposizioni su cosa potessero o meno parlare i
dipendenti in orari di lavoro, ma era pur vero che aveva sempre amato
il silenzio e l'ordine, non certo il chiacchiericcio da scuole
pubbliche. Ascoltava con interesse, cercando di capire il fulcro del
discorso, fin quando aveva udito altre voci allegre accompagnate da
passi che si avvicinavano nella sua direzione, nel corridoio,
così
si era messa più composta con la schiena e aveva assunto una
faccia
impassibile, fingendo di controllare alcune cartelline che aveva tra
le mani. Appena quei due uomini in camice la videro, assunsero anche
loro improvviso decoroso silenzio e professionalità.
L'avevano
salutata con un cenno del capo quasi in sincronia e le erano passati
davanti senza fiatare, fino a quando non avevano svoltato l'angolo.
Sapeva di fare quell'effetto alle persone e ne era orgogliosa; si era
costruita negli anni una reputazione che le era costata fatica e
dedizione e, di certo, pensava, non avrebbe permesso che nessuno
gliela intaccasse. Nemmeno lei.
Si
era messa ad ascoltare di nuovo e così si era affacciata
alla
finestrella della porta, guardando all'interno del laboratorio.
Ridevano e scherzavano come ragazzini in assenza dell'insegnante. Lei
compresa. Oh, l'aveva vista di nuovo ridere con un collega.
Sembravano molto amici. Lillian Luthor aveva guardato la scena dei
due con attenzione e così aveva abbassato la testa e, dopo
aver
messo in ordine le cartelline che aveva con sé, era entrata
dalla
porta con uno slancio, battendo i tacchi sul pavimento. In tutto il
laboratorio non c'era che un colpo di tosse.
Aveva
dato una veloce occhiata ai microscopi, poi aveva girato intorno ai
tavoli come se i suoi dipendenti fossero i suoi allievi a un'esame
importante. Lillian aveva sorriso impercettibilmente, soddisfatta.
Lo
stesso scenario si era ripetuto il giorno successivo. E quello dopo.
E dopo ancora. Ascoltava ciò che poteva dai loro discorsi e
poi
entrava in laboratorio per un controllo che diveniva sempre meno
rapido. Prima si tratteneva cinque minuti al massimo, poi erano
diventati dieci, quindici, mezzora, tanto che poi un'ora non le
bastava più per chiedere a tutti in quell'aula cosa avevano
fatto in
mattinata, se intendevano finire per la serata, se avevano trovato
difficoltà, o per rimproverarli del disordine delle loro
postazioni
che era meno o più confuso secondo il suo umore.
Naturalmente,
tutti in quel laboratorio sapevano che se c'era una persona che
più
di tutti Lillian Luthor amava disturbare era Eliza Danvers.
All'inizio
la donna temeva del severo giudizio del suo capo, ma con l'andare dei
giorni aveva cominciato a tenerle testa e a ribattere con fermezza se
era certa delle cose, restando professionale ma conservando il suo
punto di vista. Qualcuno le aveva detto che era matta a provare a
replicare a una Luthor, ma non si sarebbe più lasciata
mettere i
piedi in testa, nemmeno da lei.
Così
ogni giorno Eliza Danvers la aspettava, mentre Lillian Luthor spiava
lei e i suoi colleghi dietro la porta.
«Non
sto dicendo che dobbiamo trattarla senza rispetto, quello ci vorrebbe
anche se non fosse il nostro capo. Dico solo che in fondo è
una
persona come tutte le altre, con pregi e difetti», aveva
riferito
Eliza ai suoi colleghi in una tarda mattinata di novembre.
«Più
difetti, credo», aveva suggerito il collega al suo fianco,
con cui
spesso si intratteneva a parlare.
Qualcuno
aveva riso, ma non a voce troppo alta, con la paura che quella donna
potesse spuntare da dietro alla porta da un momento all'altro.
«Sarebbe
il caso che la gente qui lo capisse», aveva proseguito,
facendosi
sfuggire solo mezzo sorriso dalla battuta. «Si chiama Lillian
Luthor, sì, ma non è un mostro».
Lillian
aveva sentito di quel discorso solo le ultime parole ed era rimasta
di sasso. Forse una volta sarebbe stata fiera del fatto che qualcuno
la temesse tanto, ma in quel momento le aveva dato fastidio. Severa
lo era di certo, pretendeva disciplina, pulizia, senso del dovere e
massimo impegno, ma un mostro… Sua figlia Lena una volta,
quando
era adolescente, l'aveva apostrofata in quel modo e non le aveva
rivolto la parola per giorni.
«Puoi
passarmi il sale… per favore?».
«Lex,
tesoro mio, potresti passare il sale a tua sorella?», le
aveva
lanciato solo una rapida e stizzita occhiata, «Temo che i
mostri non
abbiano una completa funzione del pollice opponibile».
Di
certo non era pronta a farsi dare del mostro di nuovo.
Era
entrata di corsa all'interno del laboratorio e tutti si erano
raddrizzati e sistemati, tranne Eliza Danvers. «Da oggi
seguirò
ancora più assiduamente i lavori portati avanti da questa
squadra.
Lavorate, su, non badate a me, sarò dei vostri».
Oh,
di certo la squadra in questione non era stata felice di averla fra i
piedi più a lungo ancora. Le chiacchierate erano scomparse,
le
battute, i balletti in mezzo ai banconi banditi, e il silenzio non
era mai stato così pesante. Solo che, col tempo, le
situazioni
trovano da sole il modo di tornare a una sorta di equilibrio e
Lillian Luthor aveva scoperto che, in fondo, i chiacchiericci da
liceo pubblico poteva sopportarli. Non che in laboratorio qualcuno si
fosse azzardato ad alzare la voce in sua presenza, ma i bisbigli
erano ormai un'abitudine; e pure qualche risata, quando lei non
guardava.
«Devi
assolutamente esserci».
Lillian
aveva captato quelle parole sussurrate dall'altra parte del
laboratorio e, fingendo di aver bisogno di stirarsi le gambe, si era
alzata dalla sua sedia e avvicinata alle voci.
«È
l'ultimo giorno prima delle vacanze natalizie, ci saranno tutti!
Paghiamo una piccola quota e testa, diamo tutti a quelli del secondo
piano, e loro comprano ciò che serve e sistemano: sono gli
organizzatori».
Eliza
Danvers si era presto messa all'interno della conversazione,
guardando il collega scettico: «Una festicciola prima di
tornare a
casa dalla famiglia! Senza impegno».
Lui
aveva annuito qualche attimo prima di trovarsi davanti Lillian Luthor
e la sua espressione curiosa.
«Una
festa? Ho sentito bene?».
«Sì,
per salutarci tutti prima delle ferie», aveva sorriso Eliza,
spostandosi. «E darci gli auguri».
«Dove
e quando si terrà?».
«Al
piano sotto, signora Luthor. L'ultimo giorno prima delle
vacanze»,
aveva risposto il primo collega, seppur un po' emozionato di parlare
con lei. «Siamo in regola anche quest'anno, signora Luthor:
sua
figlia Lena è stata ben felice di concederci il
permesso».
«Naturalmente»,
aveva rimbeccato lei con una nota di sarcasmo. Sembrava averci
riflettuto piuttosto poco, però, poiché aveva
ripreso parola in
fretta: «Beh, dopotutto… Crede che
potrò partecipare anch'io?».
Lui
era scoppiato a ridere e tutti al laboratorio lo avevano guardato
così male che, istanti dopo, aveva stretto i denti e, se
avesse
potuto, si sarebbe polverizzato. «Ma certo, signora Luthor.
È… la
benvenuta». Non sapeva con quali forze fosse riuscito a non
balbettare.
Lillian
Luthor non poteva crederci: da sei anni i suoi dipendenti
organizzavano una festa natalizia alla Luthor Corp e lei aveva dovuto
scoprirlo origliando; prima Lex e poi Lena avevano sempre dato loro i
permessi. Era certa che nemmeno Lionel sapesse qualcosa.
Effettivamente non era mai stata una persona da feste che non
includessero personaggi di spicco e reporter, ma quel momento era
quello che aspettava per mostrare finalmente a tutti che, se voleva,
poteva riuscire a essere socievole e non un mostro che pensava solo
al lavoro. E poi c'era lei ed era decisa a fare un passo avanti.
Peccato
che quella sera era arrivata in ritardo.
Aveva
passato delle ore a scegliersi un vestito e una volta indossato si
era sentita inadeguata, così aveva cominciato a bere. Sapeva
che era
importante che riuscisse nell'intento, ci sarebbero stati quasi tutti
i suoi dipendenti, e l'era salita l'ansia. E lei, chiaramente, Eliza
Danvers. L'ansia le aveva portato il mal di pancia. Il mal di pancia
e il bere l'avevano portata a vomitare. Sapeva che non era da lei:
tutto ciò era assurdo e inqualificabile. Si era seduta sul
puff al
centro della sua cabina armadio contemplando i suoi abiti uno a uno,
tutti firmati e pregiati, che aveva comprato ognuno per un'occasione
importante. Quella sarebbe stata un'occasione importante? Si era
ripulita in fretta e ed era uscita di casa in vestaglia per andare a
trovare Felipe, il suo stilista. Ma era tardi e una giornata
prefestiva, quindi aveva accelerato verso casa di Felipe.
Fortunatamente, come amava dire parlando di lui, Felipe era un uomo
solo che viveva per i suoi abiti: ne portava sempre qualcuno con
sé
a casa per rifinirli, e le andava bene, perché Lillian
Luthor non
avrebbe avuto il tempo materiale per farsene fare uno su misura in
serata.
Si
era diretta alla Luthor Corp con il cuore in gola. Si vergognava di
riconoscere sentimenti in lei che pensava fossero morti dopo la prima
visione di Marley
& Me.
Non
si sentiva altro che la flebile voce di Michael Bublè
attraverso i
muri da quando era entrata in azienda. Non c'era nessuno all'esterno,
nemmeno il portiere all'ingresso poiché era già
in vacanza; le luci
erano spente. Si era lasciata guidare dalla musica e aveva aperto il
portone del magazzino, spalancando gli occhi. Di solito, il magazzino
era talmente pieno da non far rendere conto a nessuno di quanto
quello spazio fosse in realtà davvero grande,
così era rimasta
spiazzata di trovarsi davanti a una sala gigantesca addobbata di
striscioni natalizi e stelle filanti, riempita di tavoloni con sopra
stuzzichini e bibite di ogni tipo, lasciata libera al centro dove
qualche coraggioso aveva stracciato la sua reputazione tentando un
ballo sfrenato. Si era incamminata guardandosi intorno, ritrovando
del vischio appeso al soffitto, di tanto in tanto, e delle carte di
caramella a terra, dove qualcuno doveva essersi divertito a lanciare
coriandoli fuori stagione.
Lei
aveva indossato un lungo vestito scuro, elegante, corredato di scarpe
a spillo e collier al collo, aveva pensato, solo poco prima, di
essere finalmente perfetta per la festa, ma quando si rese conto che
l'abito più gettonato in sala erano i maglioni natalizi con
renne
cominciò a sentirsi di nuovo a disagio.
Iniziava
seriamente a domandarsi cosa ci facesse davvero laggiù, a
una festa
che non era per lei né pensata per una persona come lei,
finché non
aveva inquadrato Eliza Danvers davanti a un tavolo assaggiando
bruschette. Anche lei indossava un pesante maglione rosso natalizio,
solo che, a dispetto di tutte le altre persone presenti, non le aveva
dato fastidio. Era un gran passo in avanti. Aveva cercato di
raggiungerla in fretta e si era bloccata solo un momento quando aveva
visto che, al suo fianco, c'era ancora lui. C'era sempre lui. Avrebbe
potuto licenziare quell'uomo quando voleva ma si sarebbe dimostrata
superiore.
Perché
lei era superiore, lo sapeva che lo era sempre stata e lo avrebbe
fatto vedere a tutti, non importava come fosse vestita o se il suo
corpo le lanciava seri segnali di dover andare di nuovo in bagno, si
sarebbe avvicinata a Eliza Danvers e le avrebbe chiaramente fatto
capire che era lei ciò che voleva e che avrebbe avu-
«Signora
Luthor!».
Chi
era quel bamboccione che puzzava di alcol che le aveva tappato la
visuale? Si era domandata, guardandolo da capo a piedi, che lo
reggevano appena.
«Sono
davvero, ma davvero felice che lei alla fine abbia deciso di
partecipare alla festa, sa? Tutti hanno paura di lei ma-»,
l'uomo le
si era appoggiato addosso e Lillian aveva assunto un'aria disgustata.
«Immagino si sbaglino tutti perché lei,
signora…», l'aveva
indicata con l'altra mano, che reggeva un bicchiere di vino,
«Perché
lei, signora, è un essere umano».
«Temo
abbia ragione».
«Un
essere umano! Sì! Certo che ho ragione! E lo dimostra il
fatto che
sia possibile toccarla, signora Luthor».
«Ha
ragione, signor…?».
«Lavoro
per lei da quindici anni», aveva sbottato.
La
donna se lo era scrollata di dosso palesemente nervosa. «E le
consiglio caldamente di tornare a casa a farsi una bella dormita e a
non rivolgermi più la parola se non interpellato se vuole
continuare
a lavorare per me per altri quindici anni».
Lui
si era allontanato il tanto giusto per guardarla bene e prendersi un
attimo, prima di esclamare: «Un brutto essere umano, signora
Luthor», e così andarsene.
Lei
aveva trattenuto il fiato e lo aveva guardato con disprezzo andare
via, ripetendo a se stessa come un mantra: «Sei superiore,
Lillian.
Sei superiore a questi pezzi di-».
«Signora
Luthor!».
«E-Ehi».
Eliza Danvers l'aveva vista e Lillian Luthor aveva immediatamente
ripreso possesso di sé, sorridendo radiosa e avvicinandosi
al tavolo
facendo gesto di saluto con una mano. «Non avevo notato che
era
qui».
«E
così è venuta, eh? Sa, non la facevo una persona
da feste di questo
genere».
«Ah,
no?», Lillian aveva riso appena, cogliendo l'occasione per
assaggiare anche lei una bruschetta, prendendone una. «Beh,
sì…
Non avevo idea che i dipendenti facessero una festa qui ogni anno o
naturalmente avrei partecipato molto prima! Mi piace l'idea di
cogliere l'occasione per conoscere più da vicino il
personale».
Aveva guardato di traverso il dipendente che parlava spesso con Eliza
Danvers quando lo aveva visto fare passo verso di loro, ma per
fortuna si era fermato a parlare con un gruppo di uomini sudaticci e
ubriachi che non aveva mai visto.
Eliza
Danvers si era gettata dello champagne in un bicchiere e ne
gettò
uno anche per lei, chiedendole se le andava, porgendoglielo. Lillian
aveva preso quel bicchiere con foga e ne aveva bevuto metà
subito
prima ancora di toccare con bocca la bruschetta.
«Per
quanto mi riguarda, sono contenta che lei sia qui».
Aveva
deglutito, sentendo improvvisamente molto caldo. Non sapendo cosa
dire, aveva morso la bruschetta e, mentre Eliza Danvers si era
girata, l'aveva ritirata dalla bocca ancora tutta intera e l'aveva
poggiata accanto al piatto, per poi pulirsi le mani e le labbra su un
fazzoletto dei tanti sul tavolo.
«Le
è piaciuta la bruschetta?», le aveva chiesto,
vedendo che non ne
aveva già più.
«Deliziosa».
«Ne
prenda un'altra», le aveva sorriso, per poi avvicinarsi e
parlarle
sottovoce, «Credo sia l'unica qui ad averle apprezzate; le ha
portate Amanda della sicurezza del quarto piano, non sappiamo che
olio abbia usato per condire ma, detto tra noi, sembra olio di
motore».
Lillian
era rimasta dapprima seria, per capire se stesse scherzando, e poi
aveva incurvato i lati della bocca per sorridere e infine ridere.
«…
Sì, sono davvero orrende».
Allora
anche Eliza aveva riso e, per un attimo, Lillian aveva pensato che
quello era il momento giusto, il momento giusto per chiederle di
uscire.
«Posso
chiederle come passerà queste vacanze di Natale, signora
Luthor?».
Misericordia,
l'aveva anticipata! «Ma certo. Vede, credo proprio che
passerò le
vacanze a Metropolis. Abbiamo una casa, ora ci abita da solo mio
figlio».
«Oh,
la famiglia riunita», le aveva sorriso, mentre entrambe si
allontanavano dalle buschette e si andavano a sedere vicino ad alcune
bibite, portando lo champagne sottobraccio. «Sono certa che
Lex non
vedrà l'ora di riabbracciare lei e Lionel. Io
starò a casa,
verranno a trovarmi le mie figlie. Faremo l'albero insieme,
è una
tradizione».
«Oh,
e il suo… ex marito, giusto?», l'aveva squadrata
con attenzione,
per captare il minimo cenno sospetto nei suoi occhi.
«No,
no, verrà anche lui, non si perderebbe un Natale con le
ragazze per
niente al mondo! Ma si tratterrà solo pochi giorni, non ha
molte
ferie, deve tornare al suo lavoro».
«Dove
lavora il suo ex marito?».
«Al
D.A.O., a
Metropolis».
«Capisco…
Molto bene, molto bene. Dunque non ha più molti… rapporti
con lui», l'aveva guardata con attenzione di nuovo,
sorridendo.
«Intendo che abita più lontano».
«Sì,
lui… Jeremiah ed io non eravamo più una coppia da
tempo, la
separazione ha fatto bene a entrambi, credo», le aveva
sorriso a sua
volta. «Lui è sereno, io sono serena, le ragazze
lo sono
altrettanto. Loro erano un po'… diciamo sorprese
quando abbiamo deciso di divorziare, ma alla fine hanno capito. Lo
saprà anche lei come sono i ragazzi, avendone
due», aveva riso,
continuando a versare champagne ai loro bicchieri, «Loro sono
più
emotivi di noi adulti, hanno bisogno di tempo per
metabolizzare».
«Sì,
Lex… lo è tanto e anche Lena,
sì… è una ragazza anche
lei»,
aveva tentato un altro sorriso.
Aveva
mandato giù un altro bicchiere di champagne e il suo stomaco
aveva
ricominciato a gorgogliare. Sebbene non sapesse palesemente fare
conversazione, sarebbe rimasta lì a provarci con Eliza
Danvers per
ore e ore se non avesse di nuovo sentito, e stavolta più
forte che
mai, l'allarme che le richiedeva più attenzione di tutti:
doveva
vomitare.
Quella
sera si era conclusa con un nulla di fatto: le aveva dato la
buonanotte, il buon natale, ed era scappata più veloce di un
fulmine
verso i bagni del piano terra della Luthor Corp, dove si era
rifugiata. Si era sentita persa, vulnerabile come mai prima,
sconfitta davanti a sentimenti a cui non sapeva dare un nome. Lei si
era sempre vantata di saper mettere i sentimenti e le emozioni in
secondo piano rispetto alle cose più importanti come
l'ambizione e
il successo, cresciuta da una donna che per lei voleva solo il
meglio, aveva sposato Lionel Luthor prendendo il suo cognome e la sua
azienda per arrivare in alto, credeva fosse ciò per cui era
destinata, e non poteva credere di sentirsi… sciogliere come
burro
al sole per una donna che non era nemmeno un po' simile a lei.
O
forse era proprio quello il punto, pensava Lillian seduta sul water
del bagno quella notte: era attratta da lei perché era
così
diversa, irraggiungibile per giunta; una donna che lei non era mai
stata vicina a diventare mai in un solo momento della sua vita. E
l'avrebbe avuta. Se il suo desiderio di lei si sarebbe estinto una
volta raggiunto l'obiettivo, allora poteva dire che era stato un
fugace sogno d'avventura; in caso contrario, avrebbe potuto darle il
suo cuore.
Cominciava
a sperare fosse la prima ipotesi.
Si
erano avvicinate tanto da dopo le feste natalizie. Eliza Danvers
aveva detto alla sua squadra in laboratorio quanto Lillian Luthor in
realtà fosse solo una donna in cerca di un po' di contatto
umano, di
amicizia, poiché le era sembrata molto sola. Lillian le
aveva
invitato il pranzo un giorno, ma avendolo fatto davanti a tutto il
laboratorio, pensarono fosse un invito rivolto a tutti, tutti che
accettarono con piacere. Successe un'altra volta. E una volta dopo
ancora. Seccata di avere tanta gente intorno e di dover pagare per
tutti, cambiò approccio, prendendole del cibo solo per lei e
portandoglielo direttamente sulla sua postazione, accompagnato da
un'incantevole sorriso.
«Lillian…
non doveva».
Finalmente
Lillian Luthor era riuscita a farsi chiamare per nome: era un passo
in più verso la meta del suo diabolico piano.
«L'ho fatto con
piacere, Eliza. Sono contenta che ti piaccia: trovo che gli ambulanti
siano migliorati, ultimamente».
«Sì,
è vero! Comincio a pensare facciano apposta solo cose che mi
piacciono».
Lillian
si era lasciata andare a una breve risata. «Pare quasi sia
così».
Era
ormai difficile che Lillian Luthor si spostasse dal laboratorio dove
lavorava Eliza se non per lo stretto necessario e i colloqui e le
assemblee. I suoi assistenti e perfino sua figlia Lena se dovevano
cercarla sapevano dove andare, anche se non capivano perché
si
ostinasse a lavorare tanto solo in quel preciso punto dell'azienda.
Un
pomeriggio erano andate insieme a bersi un caffè dalla
macchinetta
posta in un corridoio vicino al laboratorio e avevano ricominciato a
parlare di loro, della loro famiglia, o meglio Eliza Danvers parlava
e lei tentava di capire. Si era irrimediabilmente persa da qualche
parte sulle sue labbra e aveva capito di essere al capolinea. Dopo
aver provato a fare una foto a entrambe insieme con l'autoscatto e
avendo appurato di avere le braccia troppo corte per uno scatto
decente, Eliza aveva chiesto a un suo collega di passaggio di
scattare la foto con il suo cellulare e le due si erano messe vicine,
così vicine che Lillian aveva potuto sentire l'odore del suo
respiro. Sapeva che probabilmente doveva aver avuto una faccia fin
troppo anormale in quella foto, da imbambolata innamorata, e pensava
già che appena vista l'avrebbe voluta cancellare prima che
fosse di
dominio pubblico, ma quando si vide lì riflessa ne
restò talmente
sbalordita dal mancarle quasi il fiato: non sembrava certamente la
stessa Lillian Luthor che lei conosceva, perché quello
sguardo era
di una persona… felice.
Le aveva fatto paura da matti ma allo stesso tempo aveva trovato la
cosa estremamente affascinante. Eliza si era vantata che la foto
fosse riuscita bene, così presa che non si era accorta dei
sentimenti provati dall'altra.
«Eliza,
pensa che sarebbe una buona idea se uscissimo insieme?».
Ecco,
lo aveva detto finalmente. E non era stato nemmeno così
difficile.
Ma se non fosse stato per la forte sensazione di svenire, di certo le
sarebbe venuto su meglio.
Eliza
Danvers era diventata felice, felice, felice. Non lo avrebbe mai
immaginato, mai nella vita, che sarebbe riuscita a essere
così
vicina al suo capo più austero di tutti, Lillian Luthor. Era
cambiata tanto in quei mesi e si erano avvicinate altrettanto,
così
era davvero contenta che le avesse chiesto di uscire. Non voleva
farlo lei, era pur sempre il suo capo e non voleva approfittare, ma
in fondo avevano tanto in comune, tanto di cui parlare e da
confrontarsi, al di là del rapporto professionale che le
legava e
della vita diversa che avevano intrapreso. Era elettrizzata di poter
dire alle sue figlie quando si sarebbero sentite che lei, Eliza
Danvers, era diventata amica di Lillian Luthor.
«Una
cena?», le aveva risposto al telefono, organizzando
quell'uscita.
«No, no, certo che una cena andrebbe bene, ma
pensavo… Sì,
qualcosa di diverso», aveva annuito anche se lei non poteva
vederla,
«Per la prima uscita, esatto! Oh, un film… va
benissimo, allora!
Certo che va bene, ne sono felice. Ci vediamo questa sera».
Eliza
pensava che sarebbe stato un peccato non poter parlare tra loro se
fossero andate al cinema, ma una cena sarebbe stata un po' fuori
luogo. Così si era preparata in fretta, indossando un jeans
e una
felpa, per poi uscire e prendere il treno che l'avrebbe portata a
National City anche in quel giorno di vacanza da lavoro. Sul treno le
aveva inviato la foto che si erano scattate in settimana, ora che
aveva il suo numero di cellulare, e Lillian le aveva risposto
inviandole una faccina e un a
presto.
Una faccina in saluto e Eliza aveva sorriso, stupendosi ancora di
quanto la Lillian Luthor che stava imparando a conoscere fosse
diversa da quella che si era sempre immaginata.
In
stazione lei l'aspettava già. Era scesa dalla parte
posteriore della
sua automobile nera, mostrando i tacchi a spillo e il tailleur che
indossava, mentre i suoi capelli erano perfettamente acconciati in
uno cignon. Eliza era rimasta senza parole: Lillian non sapeva
davvero cosa significasse vestire casual.
«Eliza»,
le aveva sorriso, avvicinandosi a lei e prendendola in un abbraccio.
«Sarei venuta a prenderti».
«Non
ce n'era alcun bisogno. Prendo il treno tutti i giorni, non
è mai un
problema. Complimenti, stai benissimo».
«A-Anche
tu». Lillian Luthor l'aveva fissata per un po', contemplando
il suo
abbigliamento poco adatto a un primo appuntamento. Ma non sarebbe
stato quello a fermarla: in fondo, Eliza sembrava essere bella
qualunque cosa indossasse.
Erano
in tempo per lo spettacolo delle 21:00. Avevano preso i biglietti e
una ciotola di popcorn, raggiungendo presto la sala e i loro posti.
Eliza si stupì che Lillian volesse vedere un film d'amore,
credeva
non le piacessero neppure, ma almeno la sala era quasi deserta e non
sarebbero state disturbate durante la visione.
Era
un film davvero emozionante, dopotutto. Eliza non era riuscita a
finire i popcorn e si era asciugata gli occhi con la manica della
felpa in diverse occasioni, mentre Lillian aveva avuto più
occhi per
la donna al suo fianco che per il film. Quest'ultima non ricordava
bene neppure la trama, ma la fioca luce della pellicola era
sufficiente per vedere il viso di Eliza e perdersi in lei. Non
sapevano cosa avrebbero fatto dopo il film, lei aveva sempre in mente
quella cena, ma forse l'avrebbe solo accompagnata a casa e lasciata a
ripensare alla loro uscita in attesa della prossima, che sarebbe
stata certamente una cena. O forse sarebbe voluta stare da lei per
non farsi tutto quel tragitto verso casa, aveva pensato Lillian, se
lei glielo avesse chiesto. Di certo, poteva chiederglielo.
Si
era avvicinata al bordo del suo sedile, affacciandosi in quello
accanto, sorridendo con malizia. «Eliza».
«Sì?».
«Dopo
il film… invece di fare tutta quella strada verso
casa…». Oh, si
sentiva strana e non credeva fosse per i popcorn: sapeva non avrebbe
dovuto bere tanto prima di uscire di casa. «E se…
e se ti andasse
di venire a dormire da me? Ti ospiterei io, per questa
notte».
«Non
vorrei disturbare».
«Ma
no, quale disturbo…».
«Allora,
forse potre-», Eliza Danvers era sbiancata, spalancando gli
occhi,
quando finalmente aveva realizzato che quel qualcosa che si era
appoggiato sulla sua gamba destra e poi aveva iniziato a salire
lentamente in mezzo alle sue gambe era una mano di Lillian Luthor.
Eppure
i segnali c'erano stati tutti. I pranzi offerti, i suoi cibi
preferiti, il fatto che passasse così tanto tempo con lei e
con
nessun altro dei suoi colleghi, la sua eleganza e, di certo, la cena
che sperava di fare insieme a lei. Come aveva fatto a non capirlo?
Era stata così cieca di fronte all'evidenza… Non
a torto: Lillian
Luthor era una donna sposata e, come se non bastasse, non aveva mai
dato l'idea che le piacessero anche le donne.
Dopo
quella loro prima uscita, in cui alla fine Eliza aveva dovuto
insistere per tornare a casa sua e Lillian l'aveva fatta accompagnare
da Ferdinand, il suo autista, le cose tra loro si erano un po'
raffreddate. Eliza voleva prendersi del tempo per capire come
affrontare la cosa e Lillian passava invece il suo tempo a capire
cosa avesse fatto di sbagliato quella sera. Ma forse aveva bevuto
troppo per ricordare, misericordia; ma aveva dovuto bere per forza
per pensare di stare vicina a quella donna una serata intera da sole.
Per sua fortuna, o sfortuna, era troppo impegnata a pensare al resto
dell'azienda che aveva trascurato fuori da quel laboratorio per avere
il tempo di pensare a cosa e come farsi perdonare. Suo marito Lionel
Luthor era tornato da qualche giorno da Metropolis che aveva passato
nella filiale della Luthor Corp che gestiva il figlio Lex e si era
preso qualche giorno per stare a casa a riposare, così
Lillian aveva
dovuto prendere con più serietà il suo lavoro
che, fino a qualche
mese prima, era quasi letteralmente la sua vita.
Se
Eliza Danvers ci pensava attentamente, e in fondo non faceva altro
perfino accatastando calzini, non le erano mai dispiaciute le donne.
Ricordava solo in quell'attimo quando al liceo si era presa una
sbandata per una cheerleader che era tanto lontana da lei in
popolarità, essendo stata capitano del club delle scienze e
cocca
delle insegnanti, quanto in tutto il resto. Aveva smesso di pensare a
lei quando quest'ultima aveva firmato la raccolta firme per chiudere
il club delle scienze, capendo che non ci sarebbe mai stato futuro
tra loro. Si era addirittura dimenticata di lei col tempo, si era
sempre innamorata degli uomini e considerava Jeremiah, anche se erano
separati, ancora l'uomo della sua vita. E come si era sentita strana
quando Alex, la sua primogenita, le aveva detto di essere gay.
Sembrava una cosa così distante… Ma Lillian
Luthor era la sua
scoperta e non sapeva bene come interpretare ciò che provava
in quel
momento. Le stava scombussolando la vita.
E
sarebbe stata scombussolata ancor di più uno dei pomeriggi
successivi. La squadra doveva spostarsi per pranzo e uscirono tutti
insieme dal laboratorio quando Eliza si era accorta di aver
dimenticato il portafogli ed era tornata indietro. O meglio quella
era la scusa che disse ai suoi colleghi, ma si era portata del cibo
da casa ed era andata a prenderlo: non voleva incrociare Lillian
Luthor dagli ambulanti al piano di sotto e magari farsi invitare. Non
aveva ancora preso una decisione e l'altra donna non sembrava capire
cosa ci fosse che non andava tra loro. Aveva tirato fuori dalla borsa
delle posate avvolte in un fazzoletto seguite da un recipiente di
plastica con dentro carne e insalata, cercando di sbrigarsi per
uscire, fermandosi solo col sentire la porta aprirsi, sbuffando.
«Sto
arrivando, Pete. Mi dichiaro colpevole, mi hai scoperta». Ma
si era
sorpresa di vedere Lillian e non il suo collega. «Ops…»,
aveva bisbigliato, guardando il cibo, «Mi dica, signora
Luthor, è
troppo tardi per nascondere il mio pranzo a fare finta di
niente?».
«Immagino
di sì», aveva sorriso e si era avvicinata
contorcendosi le mani,
palesemente nervosa. «Ma chiuderò un occhio.
Lionel ed io stavamo
pensando di riaprire la mensa, così da non costringere gli
operai a
spendere ogni giorno dagli ambulanti. Loro resteranno, ma saranno un
opzione».
«Credo
sia un'ottima cosa».
Lillian
aveva annuito, guardandola con attenzione. Si era avvicinata, le
aveva preso il pranzo dalle mani e lo aveva poggiato all'angolo di un
tavolo per non urtare niente, mentre Eliza era rimasta ferma, in
attesa, poiché sapeva che non poteva più scappare
da lei, da quel
pensiero, e da ciò che provava, qualunque cosa fosse.
«Eliza, non
abbiamo parlato più da quella notte…».
«No».
«Posso
chiederti cosa-».
Eliza
Danvers non seppe cose volesse chiederle, anche se di certo ne aveva
avuto da allora qualche idea, ma si era accorta che più di
tutto non
sarebbe riuscita a fare conversazione, che non sapeva cosa dire,
né
che forse aveva davvero qualcosa da dire, così le aveva
preso il
viso tra le mani e l'aveva baciata, chiudendo quelle labbra e il loro
discorso. E quello sarebbe stato il primo di una lunga serie di baci.
Avevano
inizialmente deciso di mantenere clandestina la loro relazione, dopo
la loro cena alla seconda uscita, perché non solo erano
l'una il
capo dell'altra, ma perché avevano ogni interesse a tenere i
giornalisti lontano dalle loro vite. Lionel Luthor era stato il primo
a saperlo, per sua moglie non era stato un problema dirgli che
frequentava una donna e lui non le aveva neppure rivolto una domanda,
nemmeno chiesto se la conoscesse, ma aveva semplicemente appreso la
notizia. D'altronde non erano più una coppia da molto tempo,
se non
sotto i riflettori delle macchine fotografiche: non avevano mai
mostrato il desiderio di divorziare perché a tutti faceva
comodo
saperli sempre uniti, ma il fatto che dormissero in due letti e in
due camere separate da anni era esplicativo.
Si
erano trasformate in due ragazzine che fingevano una vita normale
fino a che nessuno le guardava, e allora diventavano amanti.
Ciononostante si sa, tutto è destinato a mutare e se la
voglia di
vivere una vita pacifica insieme era la loro priorità, la
clandestinità stava lentamente perdendo il suo fascino a
dispetto di
una relazione normale. Stavano per uscire allo scoperto, lo avevano
deciso insieme, quando l'improvvisa morte di Lionel Luthor le aveva
fermate. Era successo tutto così in fretta da lasciarle
impreparate.
Seppure tra loro non c'era amore e forse non c'era mai stato, Lillian
era rimasta molto provata dall'avvenimento e aveva chiesto a Eliza
del tempo per stare vicino ai suoi figli e alla Luthor Corp.
«Forse
non sono mai stata la madre che meritavano, ma devo provare a stare
loro vicino».
Eliza
aveva ormai imparato a conoscere quella donna: non riusciva
facilmente a trasmettere le sue emozioni, era come ghiaccio e pietra,
e il dolore non sarebbe riuscito a cambiarla, ma doveva provare a
farlo per i suoi due figli.
Era
stato un periodo complicato e quando riuscivano a vedersi, sembrava
che Lillian Luthor non volesse più lasciarla andare. La
morte del
marito di Lillian aveva cambiato le carte in tavola, ma alla fine era
riuscito a unirle più di prima. Infine, come colta da
un'idea folle
e spinta dalla voglia di andare avanti, Lillian Luthor aveva fatto
una valigia e si era trasferita momentaneamente a casa di Eliza
Danvers, e non potendo sparire senza dir nulla, spiegò a
Lena, la
sua seconda figlia, la semplice verità:
«So
che sarà strano per te sentirlo, Lena», le aveva
preso una mano tra
le sue, guardandola dritta negli occhi chiari, «Ma non voglio
mentirti: mi sto frequentando con qualcuno, una donna, lavora alla
Luthor Corp. Andrò a stare da lei per un po'».
Lei
l'aveva guardata come se non la riconoscesse. «Tuo marito
è appena
morto e stai già frequentando qualcuno?».
«Non
è come pensi, cara», aveva mantenuto il suo
sorriso e la stretta
calda delle loro mani. «La frequentavo da prima che tuo padre
morisse».
«Lo
stavi tradend-».
«Sono
sicura che capirai».
«Stavi
tradend-».
«Ci
vedremo comunque alla Luthor Corp».
«Lillian!».
«Se
hai bisogno sai che puoi farmi una telefonata».
Un
po' meglio l'aveva presa Lex, che in verità già
sapeva di loro
poiché ne avevano parlato lui e suo padre prima che
mancasse.
D'altra
parte, superato il duro periodo dovuto al lutto, le cose tra Lillian
ed Eliza non facevano che migliorare. Stare lontana da National City
se non per lavoro aveva migliorato il carattere di Lillian, e avere
qualcuno per casa aveva reso Eliza Danvers felice come non si sentiva
da tempo.
Passarono
mesi e Lillian convinse l'altra a parlare della loro relazione alle
sue figlie, che quando le sentiva per telefono faceva di tutto per
terminare la conversazione prima che potesse anche solo
accennarglielo. Temeva le loro reazioni ma, più di tutto,
temeva che
le cose cambiassero proprio in quel momento che stavano andando tanto
bene. E così, una sera, si armò di buona
volontà e chiamò prima
l'una e poi l'altra, con Lillian vicino.
«Sono
una donna fortunata…», aveva sussurrato e loro, in
due tempi
diversi, erano rimaste in ascolto, «Perché io,
Eliza Danvers, ho
finalmente trovato l'amore della mia vita».
Ed
entrambe, in tempi diversi, erano rimaste senza fiato. L'amore della
sua vita? Sì che lei e Jeremiah avevano divorziato da tempo,
ma
credevano sarebbero rimasti loro
due per sempre,
come anime gemelle che avevano scelto due vite diverse e distanti.
«È
papà?», era stata la prima reazione di Alex.
«È
uno scherzo?», quella di Kara, «Perché
se lo è, Eliza… non l'ho
capito».
Aveva
lasciato detto a entrambe che potevano venirle a trovare quando
volevano alla Luthor Corp, ma sapeva che sarebbero state impegnate
con l'università e il lavoro e contava su quello. Ogni volta
che
Lillian Luthor esprimeva il desiderio di conoscerle, Eliza le
chiamava e insieme fissavano un appuntamento, ma sceglieva apposta
date trabocchetto in modo che non si vedessero.
«Oh,
non puoi… Stai tranquilla, tesoro, si farà
un'altra volta»: era
la sua risposta standard alle chiamate di disdetta che aspettava,
fingendosi dispiaciuta.
Dopo
appena due mesi da quando aveva detto di loro alle figlie, Eliza e
Lillian erano state sorprese insieme alla Luthor Corp e la loro
storia era venuta a galla. Decisero di comune accordo di cogliere la
palla al balzo per fidanzarsi ufficialmente e nella stessa settimana
diedero un party alla Luthor Corp dove Eliza aveva potuto conoscere
di persona Lena e Lex Luthor, che aveva viaggiato da Metropolis per
l'occasione. Eliza Danvers aveva inviato l'invito anche alle sue due
figlie, ma sapeva che non si sarebbero presentate per via degli
impegni e no, non era ancora pronta a far congiungere quell'aspetto
della sua vita con l'altro, anche se era ormai conscia che le vacanze
estive si avvicinavano rapidamente e non ci sarebbe più
stato verso
di rimandare. Aveva detto loro al telefono che ora che si erano
fidanzate erano pronte per andare a vivere insieme, raccontando loro
la serata e quanto fosse speciale davvero la sua persona speciale,
spianando il terreno per quando si sarebbero incontrate.
Lillian
era elettrizzata per l'arrivo delle vacanze e quindi di Alex e Kara,
coinvolgendo Lena in quell'avventura. Anche Lex doveva partecipare
alla loro prima volta come una famiglia allargata, ma sebbene la
filiale della Luthor Corp di Metropolis sarebbe rimasta chiusa per il
mese di giugno, aveva
comunque del lavoro extra da sbrigare prima della riapertura che
richiedeva il suo massimo impegno, così aveva dovuto
declinare.
Anche Eliza sentiva il tempo che si stringeva diventando ogni giorno
più tesa.
Andando
a far la spesa nel solito market, una sera, per poco non le veniva un
infarto sentendo la risata di Kara. Non si era tranquillizzata del
tutto neppure quando aveva visto che a farla era una bambina che
poteva avere la metà dei suoi anni. E andando alla Luthor
Corp
insieme, sul treno, perché aveva convinto Lillian Luthor a
provare
l'esperienza invece di far andare Ferdinand a prenderle ogni giorno,
le era parso di intravedere Alex a pochi sedili da loro: per fortuna
quei capelli a caschetto rossi appartenevano a un ragazzo e non a
lei. Era agitata, nervosa, sempre sull'attenti. Così tanto
che
Lillian la convinse a passare una sera fuori, per provare a
rasserenarla. Presero una delle macchine della tenuta dei Luthor che
decise di guidare Eliza ed erano partite, ma il traffico le aveva
bloccate ancor prima di uscire dalla città. Si erano fermate
davanti
a un semaforo e, per un rapido attimo, le era parso ancora di vedere
sua figlia Alex di fianco a loro, in una macchina della corsia
vicino. E certo, pensava, perfino l'automobile che guidava somigliava
a quella condivisa da sua figlia e la sua ragazza. No, no, era
proprio identica. Si era presa il tempo per guardarla attentamente e
appena l'autista si era girata e si erano scambiate un fugace
sguardo, Eliza aveva provato a nascondersi in basso sul sedile e,
ricordando che era lei quella alla guida, aveva tentato di nascondere
Lillian.
Alex
aveva fatto loro un saluto con la mano ed era scesa dall'auto per
salutarle; in ogni caso erano imbottigliate nel traffico e non c'era
posto dove poter scappare. Anche Lillian aveva aperto la portiera dal
suo lato e aveva salutato Alex Danvers con un abbraccio, felice che
finalmente la potesse conoscere.
Lillian
chiuse la porta del bagno dietro di lei e camminò nella
camera buia
fino ad aprire le coperte e sistemarsi comodamente contro la schiena
nuda di Eliza, che al tocco su di lei sorrise.
«Non
credo di essere pronta a lasciarle andare»,
bisbigliò la prima.
«Devono
tornare alle loro vite… e noi alla nostra. Le rivedremo ad
agosto,
erano questi i patti», rispose Eliza, voltandosi per
guardarla negli
occhi, che anche se già abituata al buio li vide appena,
«O hai
paura a stare da sola con me, forse?».
«Un
po'», rise a fior di labbra.
«Non
devo chiederti come sta procedendo il tuo esperimento?!».
«No,
quello sta andando benissimo, lo sai», le baciò
una spalla.
Chiusero
gli occhi per cercare di dormire, quando un pensiero sconvolse la
testa di Eliza Danvers, che li spalancò come colta da un
fulmine a
ciel sereno: «Accidenti! Devo ancora dirlo a
Jeremiah».
Questo
credo sia il capitolo più scemo
che ho scritto per questa storia al momento XD Era un capitolo
“di
dovere”, perché dovevo approfondire il rapporto
tra Lillian ed
Eliza, e mi è piaciuto rendere Lillian così umana
(sapete
cosa intendo)! Anche se scritto in terza persona, il capitolo
è un
po' di parte, quindi le cose scritte sono sì successe, ma
potrebbero
essere state omesse volutamente delle parti per ragioni di trama ;)
Spero
vi sia piaciuto! Ci saranno altri capitoli “simili”
in futuro,
nel senso capitoli che si concentreranno su alcuni personaggi per
raccontare uno spaccato della loro vita. Li chiamo stand
alone
proprio perché sono capitoli a sé, danno una
piccola pausa agli
eventi per concentrarsi su altro, ma fanno parte integrante della
trama o comunque sono utili per capire meglio alcuni personaggi.
Spero siano graditi :)
Sondaggio!
Momento sondaggio!
I
miei capitoli standard variano dalle 10 alle 13 pagine (poi possono
capitare quelli un poco più corti, ma a trama avviata
è difficile,
a meno di stand alone; o poco più lunghi, ma in quel caso
cerco
sempre di chiudere in fretta). Quindi la mia domanda è
questa: i
capitoli vi vanno bene così lunghi, oppure li taglio e
pubblico
“numero e nome capitolo – prima parte” e,
la volta dopo,
“numero e nome capitolo – seconda parte”?
Insomma: divido i
capitoli lunghi oppure li lascio interi?
In
quel caso pubblicherei comunque una volta alla settimana circa. Penso
di sì.
Fatemi
sapere nei commenti cosa preferite ;)
E
ora ricordatevi dove eravamo rimasti con il capitolo 3
perché si
riparte. Il quinto capitolo si intitola Supergirl
ed è fissato a lunedì prossimo! Non mancate :3
|
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Capitolo 6 *** 5. Supergirl ***
La
pallina planò per aria; sembrava destinata a cadere
sull'erba in
balia delle giocatrici che, sudate e col fiatone, si stavano
addossando tutte là sotto in attesa di acchiapparla per
prime, con
le loro stecche da lacrosse pronte. Nessuno si aspettava di vedere
una delle giocatrici dalla maglia rossa e blu saltare così
in alto,
sembrare volando illuminata dall'impianto di luci del campo, e
prendere la palla per prima, custodendola nella rete della stecca.
«Lo
ha detto con una strana espressione, Alex… Non credo di
inventarmi
le cose».
«Che
cosa era?», barbugliò con la bocca piena di
schiuma di dentifricio,
«Cos'era che ha detto? Io neanche mi ricordo».
Tornata
sull'erba, la numero dieci iniziò a correre per mantenere il
possesso della palla. Una giocatrice della squadra avversaria le si
gettò contro ma, spalla contro spalla, ebbe la peggio,
finendo
sull'erba. Due giocatrici, in attesa del suo arrivo, piantarono i
piedi a terra; ma niente sembrò poterla fermare: le
andò incontro e
si aprì con forza un varco per correre indisturbata verso la
porta.
«La
cosa sulla vaniglia… Che ne mangerebbe sempre, o qualcosa
del
genere».
«E
allora? Non ho capito», si abbassò per sputare la
schiuma sul
lavandino.
La
numero dieci piantò il piede destro per frenarsi, ruotando
il corpo
alzò le braccia con la stecca in tensione e
lanciò la palla in
direzione della porta con tutta la forza che aveva. Il portiere
sembrò intercettarla ma era troppo tardi: la palla, veloce,
era già
dietro di lei, contro la rete della porta. La squadra rossa e blu
conquistò un altro punto e, nel festeggiare, si tolsero i
caschi,
prendendo aria. La numero dieci sganciò il casco e i suoi
capelli
biondi le scesero sulle spalle; lo mantenne sotto il braccio destro
intanto che, respirando con affanno, si portò le mani contro
i
fianchi.
«Questa
è… Supergirl!»,
gridò un ragazzo mentre la telecamera si spostava sul suo
faccione,
lasciando il campo. «Capite?
È pazzesca».
Lena
sospirò, mettendo in pausa il video. «È
proprio una
super ragazza»,
sussurrò. Chiuse la pagina e la sua espressione
cambiò,
focalizzando il suo sguardo su vecchi articoli di giornale.
«Quando
tu e Maggie ancora non eravate arrivat-».
«Non
siamo arrivate insieme, te l'ho detto».
«Non
intendevo-», sbuffò, «Quando voi ancora
non c'eravate lei aveva
detto qualcos'altro sulla vaniglia, del tipo che era il gusto per me,
che mi rappresentava». Guardò Alex che a sua volta
la guardava nel
tentativo di capire. «Prima dice una cosa come che io sono la
vaniglia, e poi che ne mangerebbe sempre con un tono di voce strano
e mordendo il cono in modo ancora più strano»,
aggrottò le sopracciglia, in special modo dopo che Alex si
lasciò
andare a una grande risata, «E mi
guardava…».
«Va
bene, datti una calmata, Kara», continuò a ridere,
cercando di non
gridare poiché era notte e dovevano già essere a
letto a quell'ora.
«Stai cercando di dirmi che Lena Luthor stava flirtando con
te?».
Lei
arrossì, facendosi indietro. «Beh, no…
ma-».
«No,
Kara. Lena Luthor ha solo trovato un altro modo per stuzzicarti! E tu
come al solito ci caschi con tutte le scarpe», diede una
pacca sulle
spalle della sorella, sorridendo ancora. «E adesso andiamo a
dormire, ti prego. Domani torniamo a casa, ricordi? Hai pensato a
questa cosa della vaniglia per giorni e non ti sei ancora sistemata
il trolley».
«L'ho
fatto. Quasi. Sistemo prima di andare, ho tempo».
Aprirono
la porta del bagno e Alex le diede la buonanotte, andando a chiudersi
in camera sua. Kara aprì la porta della sua stanza e,
notando che
Lena non c'era, tornò indietro verso il soggiorno. Vide la
luce del
suo laptop che illuminava la stanza nel buio, davanti al divano, e
decise di raggiungerla. Appena Lena si accorse di lei chiuse la
pagina delle email.
«Non
hai sonno, vaniglia?».
«Sai,
preferirei che tu non mi chiamassi in quel modo…»,
arrossì
involontariamente.
«Allora
so per certo che voglio chiamarti in quel modo», rise, ma non
sentendo risposta da parte sua alzò lo sguardo dallo
schermo, verso
di lei. «Va bene: Kara. Stavo scherzando».
Sullo
schermo comparivano scannerizzazioni di vecchi articoli giallognoli
di giornale, scorse Kara. In grosso lesse il nome di Lionel Luthor.
«Che tipo era tuo padre?».
«Molto
riservato, a volte distante. Ma era un brav'uomo e quando ero
bambina», Lena sorrise, adocchiando una vecchia foto del suo
viso
più giovane su quelle pagine di giornale, «mi
prendeva sempre in
braccio e giocava con me o mi raccontava delle storie». Poi
scosse
la testa, di colpo. «Forse lo faceva anche con Lex quando
aveva la
mia stessa età, non c'ero per saperlo».
Kara
la fissò con attenzione, illuminata dalla luce dello
schermo: era
seria, ma le guance arrossate e gli occhi lacrimosi la tradivano.
«Mi
dispiace davvero per tuo padre».
Lena
annuì. «Avrei voluto avere più tempo
con lui. Quando cercavo
informazioni sulla mia vera famiglia trovai solo mia madre»,
la
guardò, «Avevo quattro anni quando morì
e io fui adottata dai
Luthor. Non sapevo nulla sul mio vero padre, non potevo avere idea
che…», scosse la testa guardando di nuovo quei
vecchi articoli.
«Ero così arrabbiata con loro perché
non volevano che cercassi la
mia vera famiglia per poi sapere che ero frutto di un tradimento di
Lionel Luthor con una donna che poi morì di
cancro». Kara aspettò
a dire qualcosa. «Immagino che Lillian non volesse che
conoscessi la
verità perché lui l'aveva tradita».
«Forse…»,
si azzardò a prendere parola, piano, «Forse non
voleva che la
guardassi in modo diverso. Come se fosse meno genitore».
«Come
se fosse mai stata madre dell'anno, con me. Mi ha accettata solo
perché non voleva che saltassi fuori dopo anni come una
figlia
illegittima di suo marito», rise, ma senza ilarità
nello sguardo,
chiudendo la pagina che conteneva gli articoli, «Avrebbe
creato
qualche scandalo. Adottarmi e nascondermi la verità avrebbe
reso le
cose più semplici per tutti. Non sa che io lo so».
A
quel punto si zittirono entrambe, soprappensiero.
«Cosa
pensi di fare, adesso, con Lillian?», le chiese Kara,
«Non ti ha
mentito sulla sua morte…».
Lena
restò immobile, sembrò pensarci ancora a lungo e
sul suo viso
apparve una piccola smorfia, che tentò di arginare sul
nascere. «Non
farò niente. Sembra che stia con tua madre per vero
interesse e io
non posso che fare loro gli auguri», cercò di
sorriderle, ma non
sembrava sincera. «Non ho nulla contro Eliza; lei sembra
davvero,
davvero in gamba».
La
vide spegnere il laptop e Kara si alzò, stirandosi braccia e
schiena, lasciandosi andare a un grosso sbadiglio.
«Sembra
che qualcuno stia cascando dal sonno».
«Non
ne hai idea».
Si
ritirarono sotto le coperte e, nonostante il sonno, pareva che
nessuna delle due fosse pronta a dormire.
Kara
si girò dalla sua parte e tentò di inquadrarla
nel buio, dove le
sembrava di vedere i suoi capelli. Sbadigliò di nuovo,
cercando di
contenerlo contro il cuscino. «Lena…?»,
chiamò subito dopo a
bassa voce, nel caso stesse dormendo.
«Dimmi».
«Perché
sei venuta qui se non ti piaceva la situazione di Lillian? Alex ed io
saremmo tornate comunque, è casa nostra, ma tu potevi fare
come tuo
fratello, trovare la scusa di un impegno… una cosa del
genere».
«Sì,
beh… Come ho detto, Lillian non è mai stata madre
dell'anno, ma è
pur sempre mia madre. È la mia famiglia».
Kara
sorrise e poi le diede la buonanotte.
La
mattina successiva, casa Danvers-Luthor si trasformò in un
pandemonio.
Kara
Danvers correva da una parte all'altra della casa per recuperare
tutto ciò che le serviva da mettere nel trolley, in ritardo.
Eliza
era dietro ai fornelli da tre ore e la cucina era piena di teglie e
piatti e pentole con cibo che le sue figlie avrebbero portato con
loro a National City. Alex cercava di spiegare a quest'ultima che non
stavano partendo in missione per l'Africa ma che erano a un'ora da
lì, e che tutto quel cibo non ci sarebbe stato nei loro
bagagli.
Dopo aver finito di svuotare la metà dell'armadio che aveva
occupato
in camera di Kara, Lena Luthor si era seduta sul tavolo davanti alle
prelibatezze cucinate da Eliza assaggiando qualcosa mentre leggeva un
giornale. Lillian, invece, passeggiava per tutta casa fotografando la
famiglia nell'ultimo giorno di vacanza tutte insieme, prima del loro
ritorno ad agosto.
Si
era fermata in cucina, alzando il selfie stick davanti a lei e
fotografandosi dietro Eliza e Alex che discutevano.
«Quelle
non le metterai su Instagram, vero?», le domandò
Alex, mentre
Lillian si allontanava, dopo aver scattato un'altra foto di lei
accanto a sua figlia Lena che leggeva.
«Lo
scoprirai domani», rispose lei per sua madre, senza staccare
gli
occhi dal giornale, sfogliando una pagina.
«Elizaaa!»,
Kara si affacciò dalla porta dopo una corsa per casa,
decisamente
allarmata. «Hai visto il numero 432 del CatCo Magazine? Non
lo trovo
da nessuna parte».
«Sicura
di non averlo già messo nel trolley, tesoro?»,
rispose, per poi
soffiare sull'arrosto di patate e carne che stava tirando fuori dal
forno.
«L'ho
svuotato quattro volte, non c'è».
«Hai
provato nel tuo letto?». Tutte si voltarono verso Lena e lei
ricambiò gli sguardi, alzando le sopracciglia.
«Cosa…? Ci
ha dormito addosso, l'ho visto quando mi sono alzata questa mattina!
Magari è ancora lì», aggiunse,
guardandola.
Kara
corse subito, aveva già fatto il letto ed era certa che non
c'era,
ma guardare di nuovo non sarebbe stato un problema. «Trovato»,
gridò poco dopo e Lena riprese a leggere, fotografata da
Lillian.
Eliza
e Lillian accompagnarono le ragazze verso la stazione in macchina,
poiché non avevano più un solo bagaglio a testa
ma due, dovendo
portarsi dietro buste piene di recipienti con il cibo preparato dalla
prima. Era tutto con loro poiché non aveva permesso a
nessuno di
toccare qualcosa per pranzo, preferendo dei panini veloci con poco
entusiasmo da parte di Lillian, che Eliza convinse per provare
qualcosa di nuovo. Aveva preparato i recipienti anche per Lena, che
arrossì con non poco imbarazzo quando se li
ritrovò da portar via.
Tuttavia, era senza dubbi Kara quella più felice di avere
tutte
quelle bontà con sé.
Salirono
sul treno e salutarono le loro madri dal finestrino prima di andare a
cercare posti a sedere, mentre Lillian Luthor scattava loro l'ultima
foto.
Kara
sospirò, sedendosi dalla parte del finestrino.
«È andata bene».
Al
suo fianco, Alex svuotava la sua busta con i recipienti di cibo,
controllandoli uno a uno e, ogni tanto, passandone qualcuno a Kara,
che metteva nella sua.
Lena
guardava il lavoro che facevano con estremo interesse: sembravano
piuttosto abituate.
«Io
scendo prima, ragazze. Mi aspetta Maggie»,
sussurrò Alex. «Passerò
da lei prima di tornare a casa. Magari le lascio qualcosa»,
aggiunse, continuando a guardare i recipienti. Kara le sorrise
maliziosa e la sorella le picchiettò il recipiente che aveva
in mano
contro un ginocchio.
«Ahio»,
sbuffò, «Non sono indistruttibile,
sai?».
«Mh,
credevo di sì, Supergirl».
Alex
salutò affettuosamente Lena e poi Kara, dicendole che si
sarebbero
risentite presto, così scese, portando con sé la
sua borsa e una
busta con i recipienti decisamente più leggera. Le due si
affacciarono al finestrino e la videro ritrovarsi con Maggie con un
abbraccio e poi un bacio. Il treno ripartì.
«Non
vivono insieme?», domandò Lena con
curiosità.
«No.
Non volevano affrettare le cose…».
«Allora
non stanno insieme da tanto».
«Quasi
un anno».
Lena
annuì. Non si dissero più niente, ascoltando i
chiacchiericci delle
altre persone sul treno, da chi metteva musica e chi rideva in
compagnia, forse a voce un po' troppo alta. Lena la scrutò
quando
era impegnata a guardare fuori, ricordando il video in cui giocava a
lacrosse:
sembrava così veloce, così forte, così
capace. Capiva perché la
chiamassero in quel modo. Kara Danvers sembrava la perfetta copertura
per una super ragazza, con quei suoi modi goffi e il dolce sorriso.
Si domandò perché avesse aspettato tanto prima di
provare a cercare
su internet video su di lei; avrebbe voluto vederla prima, per
tentare di capirla di più.
«E
tu?», Kara richiamò la sua attenzione e
arrossì appena, «Stai con
qualcuno, Lena?».
«No.
Jack ed io ci siamo lasciati l'anno scorso, dopo cinque anni
insieme».
«Cinque
anni?», spalancò gli occhi. Tenne aperte le
orecchie nel sentire
che il treno si avvicinava a una stazione, ma la sua sarebbe stata la
successiva. «Wow, è… tanto
tempo».
Lei
guardò oltre il finestrino quando il treno si
fermò e alcuni
passeggeri cominciarono a scendere, ma il suo sguardo sembrò
distante. «Pensavamo che un giorno ci saremmo
sposati».
«E
cos'è successo?». Cominciava a credere che la
morte del padre di
Lena avesse influenzato la sua relazione con quel ragazzo, ma ma
preferì tenere quel pensiero per sé.
«Niente
di troppo scenico, semplicemente ci siamo accorti che eravamo due
persone completamente diverse che avrebbero dovuto prendere due
strade diverse. Eravamo due ragazzini quando ci mettemmo
insieme…
Avevamo in comune tante cose, e altre ne abbiamo ancora ora, ma siamo
cresciuti individualmente». Il treno ripartì e
Kara cominciò a
sistemare meglio i suoi bagagli per scendere alla prossima.
«Più
che altro, lui piaceva più ai miei genitori che a
me».
Kara
rise. «Anche a Lillian Luthor?».
«Soprattutto
a Lillian Luthor: ricco, di buona famiglia, un ragazzo di scienza. Ci
stava già preparando gli inviti per il
matrimonio». Risero di nuovo
e quando Kara udì il treno che annunciava la fermata
guardò Lena
con un misto di tristezza.
«Devo
scendere adesso».
L'altra
annuì, guardando di nuovo fuori dal finestrino. Poi, come
vide che
la stazione si avvicinava, aprì la sua valigetta e fece
qualcosa che
Kara non capì, finché non la vide tenderle un
biglietto. «Il mio
numero privato», esclamò, passandoglielo,
«Segnalo sul cellulare e
poi fammi uno squillo».
«Oh,
okay», sorrise e le sembrò di essere di nuovo
stranamente in
imbarazzo, infilandoselo nel taschino posteriore dei pantaloncini in
jeans che indossava. «Non hai trovato il mio numero nei file
che hai
su di me?».
«No,
è un peccato. Le informazioni più utili non sono
segnate,
accidenti».
Il
treno si fermò e Kara si alzò lentamente,
prendendo il trolley e la
sua busta strapiena di contenitori.
«Sei
sicura di farcela fino al campus?».
«Io?
Pff»,
rise, «Sono Supergirl, non dimenticarlo», prese la
busta contro il
petto, sorretta solo dal braccio destro. «Tu, piuttosto? Non
è che
vuoi che scenda con te, così ti aiuto?».
«No,
non preoccuparti. Non sarò Supergirl, ma ho i miei assi
nella
manica», sorrise a sua volta.
«Ti
viene a prendere la macchina, vero?».
«Sei
perspicace, Kara Danvers».
Kara
si mise in fila con altre persone per scendere e stava per girarsi a
salutarla, quando si sentì prendere per un braccio e tirare
appena.
«Ehi,
Supergirl: potrò venire a trovarti?».
Kara
sorrise, camminando avanti e scendendo dal treno, spintonata dalle
altre persone in fila. «Quando vuoi», le
gridò prima che le porte
si richiudessero.
Per
com'erano iniziate quelle vacanze in casa Danvers-Luthor, Kara non
poteva certo immaginare che alla fine non solo sarebbe riuscita ad
andare d'accordo con Lena Luthor, ma che con tutta
probabilità il
loro rapporto si sarebbe evoluto in amicizia. Si sopportavano,
riuscivano a discutere, tra loro c'era una certa sintonia, amava
pensare. Ogni tanto Lena si lasciava andare con qualche scherzo,
ricordando il gelato alla vaniglia, ma tutto sommato era
affrontabile. Sorrideva felice al pensiero del foglietto con il suo
numero di telefono, sapendo che l'avrebbe chiamata non appena sarebbe
tornata nella sua camera.
Dopo
l'identificazione oltrepassò il cancello del campus, insieme
a due
automobili. La
seconda le suonò il clacson e un ragazzo tirò
fuori la testa dal
lato del passeggero. «Supergirl!!»,
esultò e lei sorrise,
continuando a camminare.
Il
campus era enorme, composto da quattro edifici che si guardavano l'un
l'altro componendo un quadrato, distanti un grandissimo parco con
alberi, stagni e stradine sterrate ideale per fare passeggiate,
jogging o anche solo per respirare aria fresca o studiare in
tranquillità. Si accedeva all'università passando
per una strada
dietro il dormitorio C oppure dal cancello dall'altra parte.
Come
al solito, sotto i dormitori era pieno di studenti seduti sulle
panchine, sui marciapiedi o negli scalini degli ingressi; ragazze e
ragazzi che facevano gruppo, fumavano, altri cantavano, altri stavano
al cellulare, alcuni si salutavano, probabilmente anche loro appena
tornati da qualche giorno di vacanza. Avvicinandosi al dormitorio B,
il suo, cominciò a intravedere facce conosciute. Un gruppo
di
ragazze la salutò con gesti della mano, altri fecero lo
stesso, una
ragazza le diede il bentornato con un abbraccio e un altro gruppetto
la fischiò accompagnando ovazioni, chiamandola Supergirl.
Una
ragazza le fece la mano con un saluto e Kara poggiò la busta
piena
di cibo in terra, abbandonata con il suo trolley, per correre ad
abbracciarla.
«Finalmente
sei tornata, ragazza», disse l'altra,
«Com'è stato a casa con
mamma e aspirante mamma? Racconta».
«Mi
sei mancata, Megan», sorrise, tornando indietro per
recuperare la
sua roba. L'altra non si trattenne a un commento di approvazione,
scorgendo la mole di contenitori nella busta, e Kara rise: sapeva che
di tutto quel cibo ne avrebbe approfittato anche lei.
«All'inizio
era un disastro, ma alla fine non è stato male. Poi ti
racconto
meglio». Le diede il suo trolley, mentre lei reggeva la busta
con
entrambe le mani; tre ragazze, sedute sugli scalini dell'ingresso, si
alzarono subito per farla passare appena la videro venire verso di
loro.
«Bentornata,
Supergirl».
«Grazie»,
arrossì.
«Sì,
raccontami bene dopo, anche perché prima dovresti andare a
cercare
qualcuno», le rispose Megan, entrando nell'edificio. Anche
lei
giocava nella sua stessa squadra, ma sapeva che la star di tutti
lì
era Supergirl ed era abituata all'accoglienza che le riservavano,
senza darci troppo peso.
«È
già qui?».
«È
tornato ieri e pensava ci fossi: è venuto a cercarti cinque
volte
anche se gli avevo detto che non ti avrebbe trovata. Un tipo
insistente…», rimarcò. Salirono tre
scalini dopo l'ingresso,
attraversando una sala piena di studentesse e alcuni studenti che
passavano dai bagni al primo piano alle scale, dalle scale
all'uscita. Altri la salutarono con gesti e sorrisi.
«Sì,
è tipico da parte sua», rispose Kara,
avvicinandosi alle scale. La
guardò, parlando a bassa voce: «Secondo te
perché gli ho
espressamente chiesto di non cercarmi al cellulare questi giorni, se
voleva rivedermi?! Non è un cattivo ragazzo, ma come hai
detto tu è,
appunto, insistente», aggrottò le sopracciglia,
sbuffando.
«Kara!».
Le
due si scambiarono uno sguardo mentre il ragazzo si avvicinava
rapidamente. Le arrivò addosso e premette le labbra sulle
sue, colta
di sorpresa.
«Mike?!
Che stai facendo?».
«Oh,
troppo presto?», sorrise, guardando l'una e poi l'altra.
«Pensavo
che, visto che siamo stati lontani così tanto, volessi fare
la
pace». Non aspettò che lei rispondesse e le prese
subito la busta
dalle braccia, chiedendo poi a Megan se il trolley era di Kara,
prendendo anche quello. Lei glielo lasciò scrollando le
spalle e lui
cominciò a salire le scale. «Lascia che ti aiuti!
Accidenti, ma
quanta roba c'è qui dentro? Tutta da Eliza?». Le
due lo seguirono.
Megan
aprì la camera con la sua chiave e Mike entrò per
primo, lasciando
la busta sopra l'unico tavolo e vicino il trolley, a terra,
così si
portò le braccia contro i fianchi, prendendo un grosso
respiro, come
soddisfatto. «Com'è andata la vacanza?»,
le chiese, intanto che
Megan richiudeva e così si sdraiò su uno dei due
letti nella
piccola camera per poi mettersi nelle orecchie le cuffiette collegate
al cellulare, sentendosi di troppo con il ragazzo lì, come
al
solito.
«Bene»,
lo abbracciò e lui la chiuse tra le sue braccia.
«Sono
contento. E la dolce metà di Eliza? I tuoi nuovi fratello e
sorella?».
«Sì…
A proposito», si sedette sul letto dall'altra parte del muro,
tirando fuori il foglietto dalla tasca dei jeans. Prese il cellulare
e cominciò a digitare, intanto che Mike la guardava con
curiosità.
«Chi
chiami?».
«Lena»,
si portò il telefono all'orecchio, sentendolo squillare,
«Tra poco
ti spiego». Squillò per un po' fino a che la
telefonata non si
chiuse e Kara corrucciò lo sguardo. «Mi ha
chiuso…». Perché lo
aveva fatto? Pensava avrebbe risposto anche solo un attimo per dirle
che si sarebbe salvata il suo numero in rubrica.
«Meglio,
così possiamo cominciare a recuperare il tempo perso
insieme, che ne
pensi?», rise lui, dandole una mano per aiutarla ad alzarsi.
«Così
mi dici come hai passato questi giorni».
Salutarono
Megan e uscirono insieme dalla stanza e poi dal dormitorio, andando a
farsi un giro nel parco.
Parlare
con Mike dopo giorni che non lo rivedeva e sentiva era soddisfacente,
pensava Kara. Lui ascoltava e poi faceva qualche battuta delle sue
come al solito. Era bello passare del tempo spensierato insieme a
lui.
Mike
era il suo ragazzo. Prima, certo. Prima che diventasse un po' troppo
opprimente e che si sentisse di non respirare con lui al suo fianco.
Gli aveva chiesto una pausa qualche giorno prima che partisse per
tornare da Eliza e non che l'avesse presa bene, al contrario aveva
tentato in tutti i modi di farla sentire in colpa per quella
situazione, ma per fortuna la lontananza sembrava avergli fatto bene.
E probabilmente anche a lei che, lo sapeva perché era
successo altre
altre volte, lo avrebbe perdonato prima che lui potesse avere il
tempo di rifletterci.
Fecero
una corsa seguendo le stradine del parco circondate da alberi. Mike
tentò con tutti i modi di oltrepassare Kara e presto la
corsa si
trasformò in una vera e propria gara. Kara vinse, arrivando
per
prima al traguardo sul piccolo ponte che affacciava su uno stagno.
Esultò e diede un rapido sguardo al cellulare nei jeans,
scoprendo
che Lena non l'aveva ancora richiamata. Mike si fermò col
fiatone
pochi istanti dopo, piegandosi e prendendo respiro a pieni polmoni.
«Ti
prego, dimmi che hai… hai preso una scorciatoia quando ti ho
perso,
perché non ci credo che mi hai battuto di nuovo».
Quando alzò il
capo la vide con il cellulare contro un'orecchia, con sguardo
seccato. «Ehi… Kara!».
Lei
scese il telefono, rimettendoselo in tasca. «Eh, no! Sei tu
che non
sarai mai veloce quanto me», lo picchiettò contro
una spalla.
«Non
ci penso proprio ad arrendermi! Prima o poi sarò il
più forte».
«Contaci»,
rise, dando un'altra veloce occhiata verso lo schermo. Si
rattristì
vedendo che non solo non rispondeva alle sue chiamate né
chiamava a
sua volta, ma nemmeno le aveva scritto un messaggio. Possibile si
fosse dimenticata di averle dato il suo numero?
«Diventerò
Superman».
«Man?»,
si voltò verso di lui, che si sedeva sul muretto del ponte
per
riposare. «Se io sono Supergirl,
perché tu dovresti essere Superman?
Non ti sta bene. Potresti essere Superboy,
se ti comporti bene».
«Non
ci provare! Io sono un uomo, Kara».
Lei
si avvicinò, ridendo contro di lui. «Un
uomo?».
«Un
uomo di classe. Un grande uomo. Fossi in te, ci proverei subito con
me, prima che io diventi un uomo non più
disponibile». Si
sorrisero, guardandosi negli occhi a poco l'uno dall'altra.
«Potresti
non essere più disponibile?».
«Scherzi?
Ho la fila davanti alla mia camera ogni mattina, quando apro la
porta».
«Non
lo dubito».
«Fai
bene», lui si avvicinò un po' di più,
guardando con bramosia le
sue labbra, «Ma io sono qui per te». Le
sfiorò le labbra con le
sue e Kara improvvisamente si tirò via, guardando l'acqua
dello
stagno che si increspava al vento. «Cosa
c'è?», chiese
indispettito, alzando le braccia. «Cos'ho fatto
adesso?».
«Siamo
in pausa», disse, senza guardarlo.
«E
allora? Se abbiamo voglia di baciarci non possiamo?».
«Non
stiamo insieme, tecnicamente».
«Vale
la mia domanda di prima».
«No»,
alzò la voce di scatto, guardando il ragazzo in faccia.
«Non
possiamo. Sto ancora cercando di capire se tra noi può
funzionare,
Mike, e questo non mi aiuta».
«Ma-Ma
avevi voglia di baciarmi, no? E questo non ti aiuta?»,
tentò un
sorriso. Scese dal muretto e la fissò aggrottando le
sopracciglia,
cercando di capire. «Non basta? Perché io ho
già capito che voglio
stare con te».
Lei
scosse la testa, sospirando. «Io no. Non ho ancora capito se
voglio
stare o no con te».
Mike
deglutì, girando anche lui lo sguardo verso un punto
distante,
palesemente ferito da quella dichiarazione. «Quindi vuoi
davvero
lasciarmi? Vuoi buttare all'aria tutto ciò che
c'è stato tra noi
perché non sai se vuoi baciarmi o no?».
«Non
ho detto questo».
«Hai
detto proprio questo… E io che perdo pure tempo con
te».
Kara
sospirò, guardandosi intorno con nervosismo. «No,
non ho detto
questo, non stai ascoltando! Come sempre, sei il solito
testardo».
«Sei
tu la testarda», sbuffò,
«Cavolo…».
«E
non ho detto che non volevo baciarti! È solo che…
ho bisogno di
tempo perché non sono sicura-».
Lui
la interruppe: «Di noi. Intendi questo: di noi. Forse dovrei
proprio
dare una chance alle ragazze che fanno la fila per me».
«Oh,
davvero?».
«Sì»,
annuì lui, mettendo le braccia sui fianchi, dando sicurezza
alle sue
parole, «Sì, penso che dovrei».
«Allora
lo penso anch'io».
«Bene».
«Bene»,
chiosò lei, gonfiando le guance, prima di riprendere a
correre,
lasciandolo indietro.
A
quanto sembrava, il tempo trascorso lontano non aveva poi cambiato
così tanto la sua situazione con Mike. Era pronta a capire
cosa
realmente voleva ma lui non faceva che ostacolarla…
«Lo
so che lui vuole stare con me, non fa che farmelo capire in tutti i
modi, ma io-», si bloccò, guardando il cellulare
che aveva lasciato
su una mensola accanto al suo letto: ancora niente. «Ma io
devo
pensarci, pensarci bene».
«Secondo
me», le disse Megan, interrompendosi solo per ingoiare una
forchettata. «Dovresti pensare, sì, ma di
lasciarlo». Kara la
guardò contrariata e lei per tutta risposta
scrollò le spalle. «Non
ho capito: ne sei innamorata o no?».
Kara
sbuffò. «Non lo so… Forse».
Il cellulare squillò e Kara si
sbilanciò per prenderlo tanto in fretta che
sbatté uno stinco
contro la sedia su cui era seduta, facendola scivolare a terra. La
sua compagna di stanza la guardò appena, era abituata a
scene di
quel tipo, e continuò a mangiare la fettina cucinata da
Eliza quella
mattina. Prese il cellulare ma il sorriso nel suo volto
svanì. «Oh…
è solo Mike», si voltò verso di lei,
allontanandosi dal tavolo
verso la porta per uscire. «Devo rispondere»,
chiuse dietro di lei.
Megan
inspirò, annuendo e continuando a tagliare la sua fettina.
«Innamoratissima…»,
bisbigliò per sé.
Sapeva
che a volte era più difficile di quanto sembrasse stare con
Mike
Gand. Anche con lui, un po' come con Lena, le cose non erano andate
subito bene: si erano conosciuti al liceo, erano all'ultimo anno e
Mike era arrivato un lunedì, ad anno già in
corso. Sembrava appena
caduto dal cielo, spaurito, non si fidava di nessuno, era un
autentico pesce fuori d'acqua e a Kara ricordò subito lei
quando, da
bambina, era stata adottata dai Danvers. Se non l'avessero incaricata
gli insegnanti di aiutare Mike Gand ad ambientarsi, con molte
probabilità si sarebbe in ogni caso fatta avanti. E aiutare
il
prossimo, comunque, non le era mai pesato. Ma lui era scontroso, non
voleva il suo aiuto né stare in quella scuola,
così che il suo
primo giorno lo trascorse fuori, marinando le lezioni con Kara
Danvers alle calcagna, che si lamentava di perdersi le lezioni anche
lei per colpa sua. Con il tempo le cose cambiarono, lui
imparò a
fidarsi e lei a volergli bene per ciò che era: un donnaiolo
con il
senso dell'umorismo. Si misero insieme due mesi prima di diplomarsi,
pensando di scegliere la stessa università e un futuro
insieme ma,
la sera del diploma, Kara scoprì la verità che
lui le aveva tenuto
nascosta: aveva sempre detto di essere stato trasferito ad anno in
corso in quel liceo per problemi avuti con degli insegnanti della
vecchia scuola, ma quando conobbe i suoi genitori, il senatore Gand e
consorte dissero parlando con altri genitori che lo avevano spedito
in un liceo pubblico per punirlo, dopo che aveva combinato un
pasticcio con alcune ragazze nella scuola privata che frequentava.
Mike Gand era un disastro di ragazzo, pensava allora Kara. Eppure
riuscì a perdonarlo.
Come
esattamente fece anche quella notte, dopo aver parlato con lui al
telefono per almeno venti minuti.
«Sai
cosa facciamo? Dovremo uscire, questa notte. Solo io e te, fuori,
sotto il cielo stellato»,
propose Mike al telefono.
Kara
sorrise. «Lo faremo, ma non oggi. Sono stanca dal viaggio in
treno,
vorrei andare a letto presto». E il guardiano non avrebbe
pensato
come loro che fosse una buona idea, ma in fondo lui era l'ultimo dei
loro problemi e lo avevano già imbrogliato altre volte, in
passato.
«Sei
sicura? Potresti addormentarti a fianco a me, io non ho problemi,
anzi, sarebbe bello».
«No,
veramente. Facciamo domani». Kara sentì un bip
provenire dal suo cellulare, pensando subito a Lena.
«Va
bene… e domani sia. Non mancare, eh, me lo segno».
Le
diede la buonanotte e riattaccò la chiamata, così
Kara guardò
subito tra le notifiche, sbuffando di nuovo quando vide che si
trattava solo di sua sorella Alex. Rientrò in camera,
trattenendo a
stento delle risate: Lillian Luthor aveva pubblicato le foto fatte
quella mattina su Instagram e Alex le aveva inviato una faccina
disgustata. In una foto Kara Danvers correva per il corridoio e non
si vedeva altro che la sua scia, intuibile che era lei per il colore
dei capelli e per le sue ciabatte a unicorno: Si
va veloci perché siamo in ritardo,
recitava la didascalia, seguito da #bagagli,
#corsa,
#figlie,
#testafralenuvole.
Kara sorrise titubante, mentre dietro di lei Megan era scoppiata in
una fragorosa risata.
«Sei
tu! Chi l'ha messa? Devo seguirla assolutamente».
«La
mia… emh, non so, matrigna?
La fidanzata di Eliza. Ma non la puoi seguire, è un account
privato
alla famiglia». Per
fortuna,
pensava, ascoltando appena le lamentele di Megan intanto che ritirava
da tavola il suo piatto, portandolo nel lavandino davanti. La stessa
Lillian doveva sapere che certi scatti dovevano restare tra le mura
di casa.
In
un'altra foto Eliza e Alex discutevano davanti ai fornelli, con il
faccione pensieroso di Lillian in primo piano; #discussionialmattino,
#famiglia,
#chebontà,
#buonprofumino,
#cibononperme,
#madrevsfiglia.
In quella successiva, il faccione di Lillian copriva tre quarti di
Lena Luthor seduta composta a tavola che leggeva un giornale. Si
notava appena, di sfondo, una mano della ragazza che rubava un pezzo
di pane bagnato in chissà quale dei tanti piatti che c'erano
sulla
tavola quella mattina. Kara ripensò a com'era sorpresa
quando Eliza
preparò una busta di cibo nei contenitori anche per lei,
perché
sicuramente non se lo aspettava. Anche la foto successiva era Lena
che leggeva, e stavolta figurava solo lei. Era così presa
dalla
lettura, così seria. Uff, le mancava e non era arrivata una
sola
notifica da parte sua; non voleva scriverle lei un messaggio e
rischiare di sembrare maleducata. Decise che le avrebbe fatto uno
squillo anche l'indomani, riprendendo a mangiare una fettina ormai
fredda che non aveva voglia di scaldare di nuovo. Mise il like alla
foto, leggendo gli hashtag: #figliasoprappensiero,
#lettura,
#asociale.
Per non rischiare che sembrasse strano, mise il like anche alle altre
foto scattate quella mattina: ora non si odiavano, ma non erano
nemmeno amiche, pensò con sconforto, constatando che ancora
non
aveva ricevuto nulla da parte sua.
Sia
lei che Megan si coricarono presto quella notte. Kara ricevette due
buonanotte a orari diversi da Mike e lei ricambiò solo al
primo,
anche se non riusciva a dormire. Ogni tanto le sembrava di sentir
squillare il telefono e lo prendeva, ma era solo una sensazione.
Quando squillò davvero, tuttavia, stava per prendere
finalmente
sonno. Raccattò subito il cellulare che era appoggiato sulla
mensola
dietro di lei e per poco non le cadeva sulla testa, schivandolo, e,
quando vide il nome, si svegliò di colpo, col batticuore per
via del
sonno mancato, accettando la chiamata.
«Kara?
Accidenti, è già l'una… devo averti
svegliata, mi dispiace
davvero».
«No,
sono sveglia! Non riuscivo a dormire, mi sono coricata da
poco».
«Ho
visto le tue chiamate, ma sono stata impegnata tutto il giorno, ho
avuto da fare anche alla Luthor Corp e questa sera sono stata a
Metropolis da Lex, sono distrutta, non ho avuto un attimo. So che
dovevo chiamarti prima…», si rigirò nel
letto, mettendosi da un
lato, stirando i piedi e la schiena cercando di rilassarsi.
«Non ho
fatto che pensare a te tutto il tempo», aggiunse con un
sorriso.
Kara
ci mise un po' a rispondere. «A-Ah,
sì, certo, ne sono sicura, voglio dire, con tutto quello che
avrai
avuto da fare, di certo pensavi a me che stavo col cellulare in mano
ad aspettare una tua chiamata».
«Stavi
davvero aspettando una mia chiamata?», esclamò,
pensierosa.
«Io?
M-Macché»,
la sentì ridere, trattenendo una voce bassa: non doveva
essere sola,
pensò Lena.
«Credo
di aver passato gran parte del giorno a sistemare tutti i contenitori
di Eliza in frigo perché qui nei dormitori abbiamo dei frigo
piccolissimi,
ma non durerà a lungo così pieno; e poi sono
andata a correre! Qui
abbiamo un parco dove si possono fare delle lunghe
passeggiate»,
la sentì prendere fiato, «ed
era una bellissima giornata, ho fatto una gara e ho anche vinto, e ho
visto degli uccellini su un albero, ce ne sono a bizzeffe qui».
Lena
sorrise. «Hai avuto decisamente una giornata
piena».
«Sì,
era quello che cercavo di dirti», si fermò
sentendo la voce di
Megan, ma per fortuna lei dormiva e stava solo balbettando nel sonno:
probabilmente sognava dei bianchi
che un giorno verranno a prenderla, pensò Kara,
perché ne parlava
spesso durante le sue dormite e, dal momento che Megan era nera,
l'aveva sempre trovata una cosa piuttosto seria.
«Allora
ti lascio, sarai stanca anche tu»,
sentì Lena risponderle. «Domani
mi prendo qualche ora libera: cosa ne pensi se ti vengo a
trovare?».
«Mi
piacerebbe», sorrise, «Ti farò vedere il
campus, il campo dove mi
alleno e quello dove giochiamo… oh, e sì, ti
farò conoscere la
mia amica Megan, lei gioca in squadra con me! E
sì… insomma, va
bene, ti aspetto».
«Perfetto»,
fece lei, per poi aggiungere, con soddisfazione nello sguardo:
«Non
posso pensare di non poterti più vedere almeno una volta al
giorno,
vaniglia».
«Com-Ancora
quel nome… Uff, dormo. A domani».
Lena
riattaccò: oh sì, le piaceva proprio metterla in
imbarazzo. Spense
il cellulare, poggiandolo sul comodino, poi abbracciò il
cuscino con
un sorriso.
Ebbene,
questo momento doveva arrivare! Quello delle ragazze che tornavano a
casa, ovvio.
Ho
seguito Kara e abbiamo avuto modo di conoscere due nuovi personaggi:
Megan e Mike. Sapete già chi rappresentano nella loro
controparte
telefilmica, quindi sarò breve. Ho
preferito usare il cognome Gand per lui, di Lar Gand. All'inizio non
ne ero convinta, ma Mike
Gand
suona bene. Mentre
Megan… Volevo per lei come compagna di stanza un personaggio
della
serie e dato che per un'altra fan fiction (che ho iniziato ma che non
so se finirò mai) avevo usato Lucy Lane, avevo deciso, per
questa,
di optare per M'gann! È un personaggio che non sono sicura
di saper
usare, ma mi sta regalando degli spunti carini per la trama.
Ovviamente la cosa dei “bianchi che verranno a
prenderlaӏ un
riferimento ai Marziani Bianchi XD
Lo
so, poco Supercorp e mi spiace, ma la trama così ha
scelto… Magari
ci rifaremo col prossimo capitolo :P
Intanto
abbiamo avuto una Kara in ansia perché Lena non si faceva
sentire,
anche se non è certo disposta ad ammetterlo, e Lena che ha
scoperto
che le piace stuzzicarla… le piace eccome!
Cosa
ne pensate? E dei nuovi personaggi introdotti?
Sì,
di Megan abbiamo visto poco, ma di Mike abbiamo già pronto
un bel
quadretto, con tanto di litigata sul piccolo ponte all'interno del
campus.
Sì,
il campus. Ho voluto eliminare le solite confraternite e mi sono
immaginata un campus diviso in quattro blocchi, dormitori, molto
più
semplice. Non conoscendo molto sull'argomento confraternite, prima di
crearne qualcuna e rischiare di parlarne (male) nello specifico, mi
sono decisa a eliminarle.
Un'altra
nota che volevo fare riguarda il lacrosse. In verità, il
lacrosse
maschile e quello femminile sono diversi: in quello maschile
c'è
molto contatto fra i giocatori, è simile al rugby in questo
senso,
mentre in quello femminile il contatto, mi pare di aver letto, sia
vietato. Non mi andava giù XD All'inizio, infatti, la
squadra di
Kara non giocava a lacrosse, avevo idee per altri sport, ma il
lacrosse è poco sfruttato e mi piace molto, parlo di quello
maschile, il gioco originale, quindi ho eliminato le differenze, ho
lasciato che ci fosse un'unica versione del gioco e ho deciso che
avrebbe giocato a questo sport. Se conoscete quello femminile e vi
piace, non voletemene XD Per Kara volevo uno sport dove poteva
sfruttare le sue abilità in contrasto al suo essere
semplicemente
Kara Danvers, cioè mi serviva un buon sostituto alla sua
attività
di Supergirl nel telefilm, anche se qui non salva nessuno giocando a
recuperare la palla e tirarla in porta!
Riguardo
il sondaggio sullo scorso capitolo, sono lieta di annunciare che ha
stravinto il “lasciamo i capitoli lunghi così come
sono” :D
Ne
sono contenta perché a me viene senza dubbi meglio, ahah!
Provando a
leggere da cellulare, i miei capitoli mi sono sembrati La
Storia Infinita
rispetto ad altre fan fiction del sito, quindi dovevo chiederlo, ma
se vanno bene così, meglio per tutti :) Grazie per aver
risposto!
Allora.
Le ragazze torneranno a casa Danvers-Luthor ad agosto, intanto hanno
un mesetto di tempo per conoscersi meglio ~
Fatemi
sapere se questo capitoletto vi è piaciuto e ci rileggiamo
lunedì
prossimo con il sesto capitolo che si intitola: Il
party
|
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Capitolo 7 *** 6. Il party ***
Lena
Luthor si stirò dentro le coperte, muovendosi ancora con gli
occhi
chiusi e alzando una mano verso la sveglia sul comodino, che fece
appena in tempo ad emettere una sola nota prima di venir spenta. Poi
aprì gli occhi piano, cercando ancora un attimo per
rilassarsi prima
di scoprirsi, sedendo sul materasso, e abbracciarsi per via di alcuni
brividi. Anche se era estate e casa Luthor, che sarebbe diventata
presto Luthor-Danvers, aveva comunque l'impianto di riscaldamento in
ogni camera, era sempre fredda, specie la mattina. Entrò nel
bagno
collegato alla camera che già si sfilava da dosso la
camicetta da
notte verde acqua con cui aveva dormito, pronta per entrare in
doccia.
Le
erano mancati alcuni piccoli comfort di casa sua, le sue abitudini,
come avere un bagno privato, nessuno che aveva fretta o che le
bussava alla porta mentre era sotto l'acqua, e non c'era nemmeno
nessuno che apriva l'acqua da un'altra parte in modo che scendesse
fredda in doccia. Ma d'un tratto cominciò a sentirsi sola.
Alcune
piccole abitudini che stava scoprendo nell'altra casa, come avere
Kara Danvers che le dormiva vicino, le mancavano già.
All'inizio
avere a che fare con quella ragazzina era davvero seccante, ma era
contenta di averle dato un'occasione, di aver potuto vedere in lei
una persona molto diversa da quella che si aspettava da quando
l'aveva incontrata in treno la prima volta. Insomma, era felice di
aver allacciato con lei un rapporto più profondo dal
semplice
sopportarsi.
Uscì
dal bagno con indosso già una scollata camicetta e una gonna
a tubo,
con i capelli raccolti in una lunga e alta coda, mentre si infilava
degli orecchini dorati alle orecchie, camminando sul parquet con i
piedi avvolti in fini calze trasparenti. Prese il cellulare dal suo
comodino e lo accese, ma parve un po' delusa quando vide che aveva
ricevuto solo una chiamata ed era da parte di Lillian.
Sbuffò e
s'incamminò al piano di sotto, scendendo cautamente le
scale. Udì
una porta aprirsi e rizzò le orecchie, pur continuando a
dirigersi
tranquillamente verso la cucina, oltrepassando l'immenso soggiorno.
Stava già accendendo la macchinetta del caffè
quando una sorpresa
voce squillante per poco non la fece sobbalzare.
«Signorina
Luthor!».
Si
voltò, vedendo la donna toccarsi il petto e prendendo un
grosso
respiro.
«Credevo
fosse ancora alla casa fuori National City, non mi aspettavo di
trovarla».
«Ti
ho spaventata, Ingrid? Mi dispiace». Prese la tazzina di
caffè,
soffiandoci dentro. «Credevo che mia madre ti avesse
avvertito».
«Oh,
no, no, è da diverse settimane che non la sento».
«Sono
felice per te. Ogni tanto una buona notizia», le sorrise ma
la donna
non ricambiò, incerta sul comportamento da tenere.
«Co-Comunque
per oggi ho terminato, signorina Luthor. Ci rivediamo tra due
giorni?».
Lena
annuì e l'altra salutò in fretta, lasciando la
casa. Di bassa
statura e corpulenta, Ingrid lavorava con loro da almeno sei anni,
curava le piante all'esterno e all'interno della casa quando Lillian
Luthor non c'era, ma ancora non aveva imparato a interagire con la
famiglia come una persona qualunque, temeva sempre di sbagliare nel
parlare o nel ridere se qualcuno faceva una battuta. Lena capiva
perfettamente il perché non volesse farlo con sua madre,
perfino il
suo parrucchiere di fiducia da quindici anni decideva con cura i
pettegolezzi di cui parlare in sua presenza, ma con lei non aveva
nulla da temere. Da quando suo padre era venuto a mancare si era
sempre sentita un po' sola a National City; dopotutto ormai anche Lex
si era trasferito completamente a Metropolis e tornava di rado.
Si
sedette davanti alla penisola ancora soffiando sul caffè ed
enunciò
un comando vocale al grande televisore sul muro, che si accese.
Sorseggiò dando un'occhiata al telegiornale e il suo
telefonò
squillò, decidendo di accettare la chiamata.
«Lena!
Non pensavi di richiamarmi?»,
esclamò la voce dall'altro capo, in vivavoce.
Lena
bevve un sorso, prima di rispondere, con tutta calma. «So
già cosa
vuoi», chiosò, continuando a guardare il
telegiornale. «Ci sono
stata ieri. Non vuole il tuo aiuto».
«Ma
vuole il tuo»,
la sentì sospirare.
«Non
farò la spia per te».
«Non
ti chiedo di fare la spia per me, Lena, sono vostra madre! Vorrei
solo essere messa al corrente di ciò che succede e come sta
pensando
Lex di risolvere».
Lena
sorrise, finendo di bere il contenuto della tazzina. «In modo
da
metterti in mezzo se la situazione non ti piace?».
«Cosa
ci sarebbe di male se volessi aiutare i miei ragazzi?».
«Beh,
non è di tua competenza, quindi…»,
disse, «Il telegiornale non
ne fa cenno neanche oggi. Ma da Lex, ieri, ho letto un articolo del
CatCo Magazine: Leslie Willis ha messo la pulce nell'orecchio ai
lettori di un problema interno alla Luthor Corp di
Metropolis».
«Quella
Willis… non mi stupisce, a volte Cat Grant non riesce a
tenerla
adeguatamente al guinzaglio. Farò una telefonata».
Lena
scosse la testa per niente sorpresa dalla reazione di Lillian.
«Intendevo sottolineare come i legali si stiano
più dando da fare
per far tacere i giornalisti che per risolvere davvero la situazione.
Fossi in Lex cercherei di far luce sulle priorità ma, come
vedi,
anche se ha chiesto il mio aiuto, non è sempre dedito ad
ascoltare
consigli. Willis fa solo il suo lavoro».
Non
rispose subito, prendendosi il tempo: «Noi
due abbiamo modi differenti di vedere la cosa, Lena».
«Come
con tutto». Si alzò dalla sedia e diede un comando
vocale al
televisore, che si spense.
«Pensi
di andare da tuo fratello anche oggi?».
Lena
prese il cellulare, togliendo il vivavoce e avvicinandolo a
un'orecchia: «No. Questa sera sono impegnata»,
sorrise, chiudendo
la telefonata con Lillian.
E
non vedeva l'ora di andare al suo impegno. Kara le inviò una
faccina
sorridente per messaggio a cui Lena rispose con un cuore. Non si fece
più sentire. Le piaceva come reagiva, le piaceva come si
imbarazzava, come le era colato addosso il gelato alla vaniglia
quando aveva provato a flirtarci. Kara Danvers era adorabile e le
piaceva, piaceva davvero; senza contare che era una delle poche
persone che la trattava per chi era e non per chi rappresentava. Non
ci vedeva niente di male nello scherzare con lei, sperando che a Kara
non desse fastidio, in fondo.
Passò
per la sua università per parlare con un'insegnante del suo
piano di
studi, restò in biblioteca a leggere per quasi un'ora, su
uno dei
divanetti, e si vide con un altro insegnante, poi la macchina nera
guidata da Ferdinand la portò alla Luthor Corp. Restavano
aperti
pochi laboratori fino ai primi di luglio ed era strano passeggiare
là
dentro quando era così quasi vuoto: i tacchi delle sue
scarpe
risuonavano nell'aria dei corridoi deserti. Prese l'ascensore e
aperte le porte andò spedita verso il suo ufficio, senza
curarsi
della scrivania vuota a qualche metro dalla porta, che trovò
aperta.
Il rumore dei suoi tacchi fecero capire alla testa dietro lo schermo
del suo computer di non essere sola.
«S-Signorina
Luthor, è già qui?! Mi ha fatto prendere un
colpo». Il ragazzo si
alzò immediatamente dalla scrivania, rimettendo la sedia al
suo
posto.
Lena
appoggiò la borsa nel divanetto all'interno dell'ufficio,
per poi
raggiungerlo. «Sono arrivati i documenti di cui avevo
parlato,
quelli che doveva inviare mio fratello da Metropolis?».
«Sì,
io-», si grattò con imbarazzo, spostandosi per
farle spazio quando
si chinò per controllare sul laptop. «Stavo
già dando un'occhiata,
veramente, non sapevo se», sorrise, «Se aspettarla
o no, signorina
Luthor».
«Hai
fatto bene», sussurrò, dando un veloce sguardo,
«Darò una lettura
dopo pranzo e ce ne occuperemo da domani, se per te va bene».
Il
ragazzo annuì velocemente, composto, dritto con la schiena,
ma lei
lo guardò appena, spegnendo il portatile. «Hai da
fare, adesso,
Winslow? Vuoi venire a pranzo con me?».
Il
ragazzo la guardò per un po' senza dire nulla, immobile,
palesemente
impacciato, finché non si lasciò andare a una
breve risata,
grattandosi la nuca: Lena sapeva che stava per rifiutare.
«Veramente,
io ho-».
«Non
importa».
«La
ringrazio, signorina Luthor. Allora… a domani».
Lui
uscì dall'ufficio e lei trattenne uno sbuffo, chiudendo il
portatile. Winslow Schott Jr era il suo assistente e non credeva di
avergli mai dato motivo di aver paura di lei, eppure il suo
comportamento non era dissimile da quello di Ingrid, la giardiniera
di casa.
Uscì,
andando a pranzo in un locale a poco dell'edificio. Da sola come
sempre, decise di portarsi avanti con il lavoro e leggere lì
i
documenti inviati da Lex. Guardò il cellulare e lo rimise
giù poco
dopo, notando che non c'era nessuna notifica recente. Pensava che
forse Kara le avrebbe inviato qualcosa per dirle di stasera, ma dopo
quell'emoticon non si era fatta sentire, rimuginando di doverlo fare
lei. Continuò a leggere, mandando giù gli
spaghetti in brodo. Non
si erano date un orario, rifletté, guardando di nuovo lo
schermo del
cellulare. I tanti nomi degli investitori e delle cifre catalogate
per data cominciavano a darle alla testa. Controllò il
telefono.
Cambiò pagina, finendo il suo piatto. Riguardò il
telefono. Bevve
dell'acqua, ricontrollando le cifre. Di nuovo il telefono. Rimise
giù
il bicchiere vuoto e chiuse il laptop, ansimando, dandosi aria con
una mano. Capì che non riusciva a concentrarsi e riprese il
cellulare.
Ci
vediamo a che ora? Scrisse
lentamente, ancora indecisa se inviarlo. Restò con il
pollice per
aria a rileggere il messaggio, finché non lo
cancellò
all'improvviso e prese tutta la sua roba dal tavolo, andando a pagare
il conto.
Pensava
che, se non fosse riuscita a fare nulla, tanto valeva andare a
trovarla subito. Male che andava l'avrebbe trovata ancora a pranzo e
avrebbe aspettato a quando si fosse liberata.
Kara
Danvers studiava alla Sunrise National City University, sapeva: non
c'era mai stata e non conosceva la strada, ma era certa che Ferdinand
avrebbe risolto la questione per lei. Entrò nell'automobile
e questa
partì.
Per
essere estate, la Sunrise era piena di studenti che andavano a
venivano, si sorprese Lena, passeggiando per il cortile all'interno
dell'edificio; occhiali da sole e valigetta sottomano. Alla sua
università aveva ritrovato solo le solite facce di chi non
amava
trascorrere a casa le vacanze. In portineria le avevano detto che
avrebbe potuto trovare Kara Danvers allenarsi in pista a quell'ora,
dopo mangiato. Lena ci aveva riso su perché era ora di punta
e Kara
correva, pensando che quella ragazza non fosse affatto normale.
Trovò
la pista e la inquadrò subito correre; era sorprendentemente
veloce,
non sembrava scherzare affatto quando lo diceva. Fece il giro senza
vederla e Lena si guardò intorno, notando a metri da
lì che altre
due studentesse dovevano aver preso seriamente l'idea di allenarsi a
quell'ora, ma si erano fermate. Scosse la testa, temendo che una
delle due si sentisse poco bene. Si stava per avvicinare a chiedere
loro se avessero bisogno di aiuto quando vide Kara fermarsi per
prima. Indossava un leggins corto e attillato, una canottiera e
portava i capelli raccolti in una coda alta. Si riportò in
su gli
occhiali con una mano mentre si abbassava a controllare la gamba
sinistra di una delle due ragazze. Lena non si perse un secondo di
quella scena: Kara che controllava, le parlava, e poi alzandosi le
aveva toccato la fronte, continuando a parlarle. Vide l'altra ragazza
annuire a una sua domanda e poi portare via l'amica verso l'uscita
della pista. Kara le tenne sott'occhio mentre si allontanavano e
infine si girò, trovando Lena a metri di distanza. Vide con
attenzione il suo viso cambiare espressione: gli occhi che si
dilatavano e la bocca che si apriva in un sorriso. Le alzò
la mano
per un saluto e si protese in avanti per correre da lei quando, d'un
tratto, inciampò nel suo stesso piede e cadde sbattendo le
ginocchia
sulla pista. Lena fece una smorfia, trattenendo una risata, andandole
incontro.
«Se
sei fortunata, ti hanno vista solo due studenti di passaggio,
laggiù», indicò due ragazzi che
ridevano, in lontananza.
Kara
alzò la testa, rimettendosi apposto gli occhiali sul naso.
«Mi hai
vista tu».
«Io
sono abituata al peggio», le ricordò, aiutandola a
tirarsi su.
Kara
la guardò con un sorriso e poi la colse in un abbraccio, che
Lena
ricambiò dopo qualche istante di titubanza che, lo sapeva,
per lei
doveva essere sembrato più lungo. Si stupì a
esserne un po'
imbarazzata ma cercò di non darlo a vedere.
«Pensavo
mi chiamassi per farmi sapere a che ora saresti passata, ma va bene
così».
«Lo
avrei fatto, ma in ogni caso ero libera dagli impegni,
quindi…».
«Un
momento», la guardò a sottecchi, «Chi ti
ha fatto entrare? Credevo
di dover chiedere un favore al guardiano, corromperlo o, in casi
più
drastici, rapirti e portarti dentro senza che se ne
accorgesse».
Lena
rise, passeggiando al suo fianco intorno alla pista. «Mi ha
fatto
entrare il guardiano, e senza bisogno di corromperlo, anche se
ovviamente avevo già pronte un paio di mazzette».
Kara rise a sua
volta, finché Lena non aggiunse: «Ma adesso che lo
so, avrei tanto
voluto aspettare e vederti mettere in atto l'ultimo piano:
rapirmi».
«Sa-Sarebbe
stato diverte-volevo dire, divertente ma anche complicato, ma di
certo ci sarei riuscita».
Lena
adorava quando balbettava. «Oh, sono certa avresti fatto un
ottimo
lavoro. E così è qui che ti alleni, eh? Con
questo caldo…».
«Oh,
sì, il sole mi dà energia»,
annuì, sorridendo, «Ma non funziona
con tutti: prima una ragazza si è sentita male, è
nella mia
squadra, così le ho detto di tornare dentro e sdraiarsi un
po', le
faceva male anche una gamba…». Si fermò
di punto in bianco,
puntando i piedi, e portò una mano su di lei, sulla fronte,
con il
viso vicinissimo al suo, corrucciando lo sguardo. Lena
arrossì, non
capendo cosa stesse facendo. «Sei un po' sudata, non vorrei
ti
sentissi male anche tu: entriamo». Le sorrise, indicandole la
porta
dove erano entrate prima quelle due ragazze.
Aperta
la porta si ritrovarono davanti un salone con attrezzature di ogni
tipo, dalla panca per sollevare i pesi ai tapis roulant. Doveva
essere sempre per l'ora di punta che non c'era nessuno ad allenarsi.
«Qui
è dove faccio gli altri allenamenti».
Lena
si guardò intorno e, con la coda dell'occhio,
guardò anche Kara.
Non ci aveva mai fatto molto caso prima, ma in effetti le sue braccia
erano piuttosto muscolose, seppur non in modo esagerato: quando
indossava t-shirt che le arrivavano al gomito o le solite camicette
non si notava, ma con la canottiera risaltavano, e non solo,
girò lo
sguardo, adocchiando il seno stretto in quello che, sembrava, un
reggiseno sportivo nero. Era difficile, poi, non notarlo con sopra la
canottiera bianca. Invece, notò solo in quel momento che
Kara
Danvers stava ancora parlando ma lei non aveva sentito una parola di
quello che aveva detto, così semplicemente annuì,
continuando a
sorriderle.
«Kara!
Eccoti qui». Un ragazzo entrò a passo spedito
nella sala,
avvicinandosi. «Credevo fossi fuori in allenamento, mi sono
liberato
adesso dei ragazzi, volevano fare una gara di rutti, credevo di
potermi allenare con te». Si accorse che Kara non era sola
dopo
qualche secondo. «Ehi!
E tu chi sei?».
«Ah…
Mike, lei è Lena, te ne ho parlato! Lena, lui è
Mik-».
«Mike,
molto piacere», lui le prese la mano accompagnato da un
sorriso
prima ancora che lei potesse finire di parlare. «Sono il
ragazzo di
Kara. Ci siamo già visti…?».
Lena
spalancò gli occhi dalla sorpresa, stringendo la mano di lui
con
poca convinzione. «Ah… piacere. Non
saprei…».
«Non
stiamo insieme».
«È
come se lo fossimo», insisté lui, mentre l'altra
ancora scuoteva la
testa.
«Mike,
adesso non posso allenarmi, passerò la serata con Lena,
quindi…».
«Posso
farvi compagnia», guardò prima l'una e poi
l'altra, «Desideravo
tanto conoscere la nuova famosa sorella di Kara».
Le
due si scambiarono uno sguardo, arrendendosi all'idea di averlo
appresso, quando per fortuna un ragazzo entrò nella sala,
anche se
ruttando invece di salutare, e lo convinse a tornare con il suo
gruppo di amici.
«Gara
di rutti?», Lena guardò Kara perplessa e lei
scrollò le spalle.
«Scusalo.
A volte non riesco a dirgli di no ed è come un
bambino».
«Pensavo
non avessi un ragazzo».
«Non
lo è», disse, per poi guardarla con
curiosità. «Non ti ho mai
detto di non avere un ragazzo».
«Lo
hai detto a mia madre. Anche se sembra che lei non ascolti, e ti
assicuro che invece lo fa eccome, io ascolto tutto con
attenzione».
Le toccò la punta del naso con un dito e Kara
arrossì.
Kara
portò Lena a vedere gran parte dell'università,
salendo e scendendo
per le scale, mostrandole le aule e perfino i bagni, anche se di
fretta. Lena non poté fare a meno di accorgersi come Kara
Danvers
fosse piuttosto famosa
nell'istituto: dovunque passasse qualche studente la salutava,
chiamandola Supergirl. Lei si slacciò la coda e si
lasciò cadere i
capelli biondi sulle spalle, scuotendoli con le dita di una mano
infilate tra le ciocche. Era strano, rifletteva, ma la trovava
piuttosto affascinante,
il che non era per niente positivo. Era Kara Danvers, le piaceva, ma
non in quel modo e la sua testa doveva smettere di insinuarle dei
dubbi.
Una
volta visto il laboratorio di scienze, quello di fotografia e quello
di astronomia, Kara la trascinò fuori di nuovo, ma
dall'altra parte.
Presero una strada più stretta invece di dirigersi al
cancello da
dove era entrata, fatta per camminare appositamente solo a piedi,
arrivarono davanti a quattro grandi edifici disposti l'uno davanti
all'altro, divisi da un immenso parco.
«Qui
c'è il mio dormitorio, vieni». Le prese la mano e
Lena si lasciò
trasportare.
«Ehi,
Supergirl», la chiamò una ragazza seduta sullo
scalino
dell'ingresso, fermandole poco prima che entrassero dal portone.
«Quando riprendono le partite?».
«So
che quest'estate ci sarà un'amichevole, ma la giocheranno i
ragazzi.
Penso che noi riprenderemo verso settembre, o ottobre, in
concomitanza delle lezioni. Non ci sono ancora date precise».
«Avvertimi
quando si ricomincia», le disse a labbra strette, mantenendo
la
sigaretta.
Kara
sorrise, dicendo che certamente lo avrebbe fatto, e lei e Lena
entrarono.
«Anche
lei gioca nella tua squadra?».
«No.
Lei fa parte della tifoseria e dovessi sentire come grida»,
le fece
l'occhiolino, salendo le scale.
«Sei
davvero… una vip qui, eh, Supergirl?!»,
sussurrò, appoggiandosi
allo stipite della sua porta mentre lei apriva, proprio quando
passarono altre due ragazze che la salutarono con gioia.
«Pff,
è solo che- credo di giocare bene».
Aprì la porta e la invitò a
entrare per prima. «Bene», enunciò
sollevando le braccia dopo aver
richiuso la porta, «Benvenuta nel mio angolino privato
dell'università. O meglio, lo divido con Megan, adesso non
c'è, ma
è quasi tutto mio», rise. «Il letto a
sinistra è mio; da questa
parte c'è tutta la mia roba, la porta apre l'armadio.
Lì il frigo,
tavolo, piccolo cucinino e», indicò dietro di
loro, verso un'altra
porta oltre a quella da dove erano entrate, «lì il
bagno. Come vedi
non è granché, ma ci troviamo bene».
Vide che Lena stava
osservando meglio la zona cucina che le aveva indicato, composta dal
piccolo forno con grill e un lavandino, affrettandosi a parlare:
«Sì,
beh, non ci è permesso cucinare, per quello c'è
la mensa o mangiamo
fuori. Megan ha portato il fornetto a inizio anno, così
almeno ci
riscaldiamo qualcosa», sorrise, «Ed è
tutto».
Si
sedette sul letto, mentre lei guardava la camera a braccia conserte,
notando poi che, sopra al suo letto, vicino a una finestra, c'erano
delle foto attaccate sul muro. Si avvicinò, riconoscendo
subito
Eliza, Alex, Jeremiah che aveva visto in altre foto, e c'era anche
una foto di lei con quel ragazzo, Mike. Lui la baciava su una guancia
e lei stringeva le labbra e gli occhi, in una posa buffa.
«Ah,
sì, ci sono… queste», la
sentì prendere fiato, come
improvvisamente nervosa.
Lena
inquadrò una foto di Kara da bambina; la riconosceva
perché il suo
assistente aveva trovato una foto di lei appena adottata dai Danvers,
a dieci anni. Però ce n'era una dove…
«Sei tu?», le chiese,
indicando quella bambina con gli alti codini biondi, che
avrà avuto
forse sei o sette anni. La vide annuire con la coda dell'occhio.
Nella foto non era sola: era in braccio a un uomo e accanto a loro
c'era una donna. Sapeva chi erano. «La tua
famiglia… Non ti ho mai
chiesto che tipo di persone fossero».
Kara,
che si era fatta più seria nello sguardo in qualche secondo
appena,
stava pensando a cosa dire quando la porta si aprì con uno
scatto e
la sua compagna di stanza entrò canticchiando.
«Kara! Kara, questa
la devi sentir-», si bloccò, vedendo che non era
sola. «Oh…
scusate». Si avvicinò in fretta, lasciando
scivolare lo zainetto
dalle spalle al suo letto nel passaggio. «Sono Megan,
piacere».
Le
mostrò la mano e Lena strinse con piacere, anche se le aveva
interrotte. «Lena Luthor».
«Ah,
la sorella! Quella nuova, intendo», sorrise, guardando lei e
poi
Kara, ancora seduta. «Kara non ha fatto altro che parlarmi di
te;
ieri aspettava una tua chiamata come se le mancasse l'aria».
Dietro
Lena, Kara gonfiò gli occhi e le fece segno di tacere,
passandosi un
dito sotto il mento. Appena Lena si voltò con un sorriso che
avrebbe
definito malizioso, lei smise, sorridendole debolmente, scuotendo la
testa. «Megan ama esagerare», la fissò
con aria truce e l'altra
rise, sedendo anche lei sul suo letto, invitando Lena a sedersi a sua
volta, che si mise vicino a Kara.
Nel
farlo la sentì schiacciare qualcosa, portando alla luce una
rivista.
La riconosceva, era il numero 432 del CatCo Magazine, quello con cui
si era addormentata non una ma almeno quattro volte, da quando era
riuscita a notarlo.
«Ancora
quello? Lo conosci a memoria», disse Megan, rivolgendosi poi
a Lena:
«Lo conosce a memoria».
«Immagino
di sì, ci ha dormito sopra», rise, passandole la
rivista.
Kara
la prese come sdegnata, infilandola sotto al cuscino. Poi si
portò
le braccia a conserte, guardando prima una e poi l'altra.
«Beh,
forse non così tanto a memoria… se lo rileggo
ogni tanto».
«A
memoria», ribadì Megan a bassa voce, per poi
alzarsi, andando verso
il piccolo frigo, chiedendo a Lena se volesse una birra. Lei
rifiutò:
effettivamente Kara non l'aveva mai vista berne una.
«Allora,
cos'ha di tanto speciale?».
«Cosa?».
«Quel
numero del CatCo Magazine. Lo custodisci come un tesoro, deve essere
prezioso», la guardò attentamente.
«Ma
no, in realtà…», sorrise: mancando di
guardarla negli occhi, Lena
sapeva che stava cercando di minimizzare qualcosa a cui sembrava
tenere particolarmente. «C'è il primo articolo di
Siobhan Smythe…
Ha parlato della sua prima esperienza alla CatCo e come le hanno dato
la possibilità di scrivere, di provare».
«Ah,
mi pare di ricordare… Aveva iniziato come assistente di Cat
Grant».
Kara
annuì. «Sì, è partita dal
basso, portando caffè alla signora
Grant». Kara prese la bottiglietta di birra offerta da Megan,
bevendo subito un sorso. «Mi piace perché
è una fonte di
ispirazione. È così grata nelle parole che usa,
scelte con cura e
amore; fiera di ciò che ha fatto per arrivare a quel punto,
offrendo
consigli, cercando di dare una spinta a chi ha la passione nel fare
un tentativo…», non smise di sorridere con sguardo
sognante,
mentre le due la guardavano. «Penso sia una persona fortunata
che se
lo merita».
«Vuoi
fare giornalismo, dunque?».
Kara
spalancò gli occhi alla domanda di Lena, mentre Megan
annuiva, per
continuare a bere.
«No»,
scosse la testa, sorridendo, «Ho altri progetti per il
futuro».
«Mi
è parso proprio che tu volessi fare giornalismo».
«Sì,
è quello che le dico sempre: giornalismo»,
insisté Megan e Kara la
guardò corrugando lo sguardo.
«Tu
lo sai, te l'ho detto», riferì a quest'ultima,
girandosi poi verso
Lena. «Ammetto di averci pensato, all'inizio… Ma
Mike ed io
abbiamo deciso di puntare sul fare carriera insieme nelle forze
dell'ordine. Ancora non sappiamo bene in che ramo, è ancora
solo
un'idea, ma è perfetto per tutti e due».
«Mike?
Il tuo non-ragazzo?», domandò Lena, inarcando un
sopracciglio.
«Il
suo non-ragazzo», rispose Megan. «Ho come
l'impressione che abbia
scelto lui per entrambi».
«No»,
disse prontamente Kara, in difesa, «Lo sai che non
è così… Lo
abbiamo deciso prima del diploma, era già fatta. Non posso
abbandonarlo».
Lena
la guardò intensamente, trattenendo un sospiro, per poi
decidere
all'improvviso di strapparle dalla mano la bottiglietta di birra e
bere, bere tutto ciò che poteva senza prendere fiato, sotto
lo
sguardo meravigliato delle altre due, lasciandole il fondo e
restituirglielo. Megan rise e Kara la guardava ancora a occhi
spalancati. «Decisamente fresca»,
esclamò verso Kara, che intanto
era diventata rossa.
Dopo
poco, Kara sparì in bagno per farsi una doccia e Lena
restò a
parlare con Megan, che sembrava un'affabile ascoltatrice.
«Dai,
Alex… Alex, rispondi, rispondi». Sbuffando, Kara
riattaccò,
inviando un messaggio e chiamando di nuovo. Dopo qualche secondo di
attesa snervante, finalmente Alex accettò la videochiamata e
Kara
sospirò, portandosi una mano in fronte. «Era
ora», la sgridò,
«Sono cinque minuti che sto al telefono cercando di parlare
con te,
non ho molto tempo».
«Veramente
sono sette… oh, otto, Kara»,
la vide guardare l'orologio al polso, rispondendo in modo lapidale.
«Cominciavo
a pensare che se non avessi risposto, saresti piombata qui in volo.
Cosa c'è? Anch'io non ho tempo».
«Ha
bevuto dalla mia bottiglia».
«Chi?».
«Lena».
«Oh,
c'è Lena… salutamela».
Kara
grugnì, ma si bloccò, sentendo un'altra voce in
sottofondo. «Ma è
Maggie? Sei con Maggie? Cosa state- oh».
«Salutala
anche da parte mia»,
sorrise Maggie, comparendo al fianco di sua sorella.
«Non
stiamo facendo quello che pensi»,
intervenne subito Alex.
«Cosa
pensa che stiamo facendo?»,
chiese la prima alla seconda, per poi spalancare gli occhi,
voltandosi verso il telefono, scuotendo la testa con l'enorme
faccione, oscurando Alex. «No,
Kara, non stiamo facendo sesso-».
Kara
arrossì, sentendo Alex parlare con una nota di panico: «Non
usare quella parola con lei, che poi si emoziona».
«Sei
tu quella si emoziona, tesoro»,
si girò poi per guardare lo schermo, «Kara
è un'adulta. Ma Alex ancora non lo ha capito»,
le sorrise.
Kara
rispose con un sorriso di circostanza, guardando le due e poi
voltandosi verso la porta.
«Ma
dove sei? In bagno?»,
le chiese Alex, sentendo in sottofondo Maggie aggiungere che quello
dietro di lei sembrava proprio il bagno. «Ti
sei nascosta in bagno?».
«Dici
che si è nascosta in bagno? Da Lena?».
«Sembra
proprio che si sia nascost-».
«Finitela
voi due», per poco Kara non gridò, sperando da
fuori che Lena e
Megan non l'avessero sentita. «Non mi sono nascosta da
nessuno! Ti
ho chiamato per dirti che non mi invento affatto le cose,
Alex»,
scosse la testa, «Dicevo che Lena ha bevuto dalla mia
bottiglia di
birra».
«Birra?»,
esclamò una.
«Che
strano, non sembra tipa da birra»,
continuò l'altra.
«Vero,
è quello che stavo pensando anch'io».
«Ragazze,
non è la birra la cosa importante! Ma il fatto che l'abbia
bevuta
dalla mia bottiglia! Intendo con le labbra- Sì, lo so che si
usano
le labbra per bere, ma avete capito-». La guardarono.
«Dove ho
bevuto io! È-È un bacio indiretto»,
strinse i denti, sussurrando.
Alex rise e Maggie annuì, guardando Kara e poi la ragazza al
suo
fianco.
«Cosa
mi dicevi sul fatto che Kara sia un'adulta?»,
riprese Alex, guardando Maggie, «Bacio
indiretto
fa tanto liceo».
«Però
non ha torto, Alex. È classificabile come bacio indiretto,
in certi
casi».
«Ci
ho bevuto io, per quanto ne so potevo pure averci lasciato della
saliva lì dentro, e lei ci ha bevuto senza pensarci due
volte», si
strinse nelle spalle, mentre le altre due ancora discutevano sulla
legittimità del bacio indiretto.
Alex
riuscì a far zittire entrambe, riprendendo parola: «Quindi
Lena, Lena Luthor, che conosciamo, figlia della donna con cui sta
nostra madre, quella ricca e spocchiosa»,
si fermò, guardando attentamente Kara, «Parole
tue settimane fa, sorellina! Vuole
baciarti! E lo fa bevendo dalla tua bottiglia».
Maggie
socchiuse le labbra, rivolgendo lo schermo del cellulare di nuovo
verso di lei. «Però
in effetti qui non ha torto, Kara: probabilmente nemmeno ci pensava.
Adesso siete come sorelle, no?».
Sorelle.
Quella parola cominciava a darle fastidio. Richiuse la chiamata che
ancora parlavano tra loro, spogliandosi velocemente per entrare in
doccia. Certo che era assurdo, lei per prima sapeva che era scemo
anche solo pensare che Lena Luthor ci stesse seriamente provando con
lei, eppure non riusciva a togliersi quel pensiero dalla testa.
Probabilmente era vero che il suo unico scopo era divertirsi.
Lena
Luthor guardò ancora quella fotografia che, probabilmente,
per Kara
era quella più importante di tutte: quella con i suoi veri
genitori.
Lei ricordava appena com'era fatta sua madre prima che trovasse
qualche sua fotografia scavando nel suo passato, era molto piccola
quando l'aveva persa, ma Kara aveva già dieci anni e aveva
dovuto
ricominciare tutto daccapo con un'altra famiglia che non aveva nessun
legame con la sua naturale. Kara le era stata vicina e avevano
parlato di suo padre, eppure lei non le aveva mai chiesto nemmeno una
volta di loro. Si sentiva un po' in colpa.
«Allora,
Lena, dimmi», le disse Megan, «Da quando hai una
cotta per Kara?».
«Come?»,
si voltò di scatto, con la tachicardia.
«Chiedevo
da quando sapevi che tua madre stava con quella di Kara».
Le
sorrise e Lena riprese fiato, capendo di aver sentito male. Per un
attimo… «Da… Da un anno. È
stato un bel cambiamento».
«Lo
immagino. Dovevi vedere Kara appena lo ha saputo», rise,
sedendo
bene sul materasso, poggiando i piedi sul letto e la sua schiena
contro il muro, «Era zitta. Davvero zitta. Il che non era
proprio
normale, per lei, sai, a volte parla in continuazione. Così
le ho
chiesto cos'era successo e ha iniziato a raccontarmi… Due
giorni!
Ci ha messo due giorni per spiegarmi tutto! Beh, per fortuna
è
andata bene e tu sei simpatica. Lei non ne era molto
convinta».
«Non
avevo dubbi».
«Sai
che c'è? Domani i ragazzi del dormitorio D danno un party:
vieni
anche tu».
Kara
uscì dal bagno proprio in quel momento, indossando un
abbigliamento
che Lena era solita vederle addosso: una t-shirt e dei pantaloncini
corti, con le ciabatte a forma di unicorno ai piedi. Andava verso di
loro passandosi un asciugamano tra i capelli bagnati.
«Vero,
Kara?», Megan cercò la sua attenzione,
«Dicevo a Lena del party di
domani sera, da quelli del D: dovrebbe venirci».
Kara
si illuminò all'improvviso. «Oh, sì, me
n'ero quasi dimenticata!
Vieni anche tu?».
Lena
Luthor aveva tutta l'intenzione di rifiutare: voleva rimettersi a
studiare prima che riprendessero le lezioni, aveva accettato quando
alcune studentesse le chiesero se potesse fare loro da tutor su
alcuni argomenti, doveva assolutamente controllare con
serietà e
dedizione i documenti inviati da Lex, perché aveva chiesto
il suo
aiuto e non lo avrebbe lasciato in alto mare da solo e poi aveva
delle cose da sbrigare, private. Non poteva permetterselo.
«Sì. Va
bene». Oh,
accidenti.
La sua testa pensava una cosa ma il suo corpo aveva già
risposto
prima che potesse finire. Kara l'aveva guardata con un sorriso e Lena
come se fosse un bignè. Non aveva resistito: come avrebbe
potuto
dirle di no?
«Perfetto»,
le sorrise di nuovo, «Dirò a Mike che ci farai
compagnia».
L'entusiasmo
di Lena scemò.
Ma
non così tanto, pensò infine la stessa Lena. Non
avrebbe permesso a
quel pensiero piccolo piccolo da qualche parte nella sua testa che le
diceva insistentemente che aveva una cotta per Kara Danvers di
rovinare il suo rapporto con lei, né nient'altro. Kara aveva
un
quasi
ragazzo
e andava bene. Era perfetto, anzi. Non avrebbe permesso a se stessa
di fare la gelosa per qualcosa che poi non era nemmeno vero. Kara era
carinissima e risvegliava in lei sensazioni piacevoli, come quello di
restarle accanto, di vederla sorriderle, perfino di abbracciarla e
lei non era solita abbracciare spesso. E la trovava bella,
più bella
di chiunque conoscesse e non conoscesse. Ma che le piacesse in quel
senso era una bugia bella e buona che sarebbe stata smascherata con
il tempo.
Non
aveva fretta. Ecco perché una volta andata via dalla Sunrise
e
tornata a casa, l'aveva chiamata e poi aveva accettato la sua
proposta di fare una videochiamata in modo che potesse farle vedere
la sua casa a National City. Sia lei che Megan erano rimaste
affascinate da quanto grande fosse la casa dei Luthor. E poi avevano
continuato a parlare tra loro quando Megan era uscita. E poi era
rientrata. E poi si era addormentata. Kara e Lena erano coricate nei
rispettivi letti e parlavano ancora.
«Non
vestirti come se dovessi andare in ufficio, domani»,
l'avvertì
Kara. «Al party non ci sarà nessuno di elegante,
te lo assicuro…
Però portati una giacchetta, perché
farà freddino».
«Va
bene, pasticcino. Adesso ti lascio, sono davvero stanca, non capisco
più niente…».
Kara
arrossì, corrugando la fronte. «O-Okey. Allora ci
sentiamo domani,
Lena. Buonanotte».
Lena
sorrise. «Buonanotte»,
disse, chiudendo la chiamata.
Kara
guardò le notifiche sul cellulare con orrore, scoprendo che
doveva
trovare un modo per farsi perdonare da Mike: non erano andati a
vedere le stelle. Gli inviò le sue scuse e stirò
il braccio,
riponendo il cellulare sulla mensola dietro il suo letto. Pasticcino.
Riprese subito il cellulare.
Da
Me a BadSister
Mi
ha chiamata pasticcino…
Da
BadSister a Me
Buonanotte,
Kara.
Il
giorno successivo, Lena riuscì a fare molto poco con i
documenti di
Lex. Sua madre la chiamò spesso per avere notizie dal figlio
che non
accettava le sue chiamate e arrivò perfino a spegnere il
telefono
pur di ignorarla, mancandole la sensazione di poterlo guardare per
sapere se Kara le aveva scritto. Aveva passato gran parte del suo
tempo nella sua università, in biblioteca, a fare da tutor a
due
studentesse del primo anno che erano rimaste indietro, e poi aveva
studiato per conto suo, per non lasciar impigrire la mente e,
sì,
forse anche per distrarsi. In realtà, per quel party era
più
agitata di quanto volesse far credere a se stessa: sarebbe stato il
primo della sua vita con dei ragazzi della sua età, e
sarebbe dovuta
star vicino a Kara senza che la sua testa le giocasse brutti scherzi.
Come il pasticcino
della notte prima, ricordava, vergognandosi. Aveva sonno e non aveva
badato a come l'aveva chiamata, uscendole d'istinto. Per sua fortuna,
sembrava che Kara si stesse abituando ai suoi flirt, tanto da non
darci più peso. D'altro canto era una sfortuna,
perché significava
non riuscire più a metterla d'imbarazzo così
facilmente.
Tornata
a casa si cambiò, indossando un vestito non troppo stretto e
colorato e sandali bassi ai piedi, decidendo di non usare i tacchi a
un party di universitari. Usò un trucco leggero sugli occhi
e si
passò il rossetto rosso sulle labbra, legando i capelli in
una coda
alta, pensando che, probabilmente, era comunque la cosa migliore
smettere di flirtare in quel modo perché lo scherzo era
bello quando
durava poco. Il loro rapporto stava mutando, ora potevano essere
amiche, non aveva senso cercare di scocciarla in quel modo solo per
assaporare la sua reazione, risultando, infine, una persona noiosa.
Ferdinand
l'accompagnò alla Sunrise e la lasciò
all'ingresso. Erano le sei,
sapeva che il party sarebbe iniziato verso le sei e mezzo, aveva il
tempo di andare in camera da Kara e stare un po' con lei prima che
passasse il suo tempo con il suo quasi ragazzo.
Il
guardiano non era al cancello ma la fecero passare dei ragazzi che
stavano entrando con le loro automobili, chiedendole se fosse
lì per
il party. Solitamente i party organizzati all'interno erano per i
soli studenti e studentesse, ma qualcuno che invitava gli amici c'era
sempre, se il guardiano permetteva di farli entrare. Qualcuno le
chiese il suo nome, dicendo che aveva una faccia conosciuta, e lei
tirò dritto, dicendo di essere in ritardo. Non voleva
perdere tempo
e per fortuna riconobbe il dormitorio B dalle aiuole e la strada da
percorrere. Altre studentesse si fermarono a guardarla intanto che
saliva le scale; Lena Luthor le sentì borbottare e le vide
indicarla, ma non ci diede peso. Sperava di passare una serata
tranquilla.
«Ehi,
Lena». Megan le aprì, dicendole che Kara era in
bagno che si
preparava. Lei era già pronta: aveva indosso una maglia
fine, viola,
e dei jeans poco sotto il ginocchio, mentre ai piedi aveva degli
stivaletti estivi.
Kara
uscì di corsa, pensando di essere in ritardo.
«Accidenti, non
voglio arrivare a festa già cominciata o tutti avranno
già messo
mani al buffet». Si bloccò, vedendo Lena.
«Oh, meno male, sei già
arrivata», le sorrise e lei deglutì, annuendo e
sorridendo a sua
volta.
Kara
Danvers aveva scelto di lasciarsi i capelli sciolti, ondulati le
ricadevano sulle spalle, e non indossava gli occhiali. Si era messa
una maglia smanicata, nera e un po' attillata, jeans fini e stretti
fino alle caviglie e dei sandali. Aveva solo un filo di mascara sugli
occhi che, azzurri, glieli faceva risaltare.
«Oh,
sei bellissima». Si pentì immediatamente di averlo
detto poiché
poteva passare per uno dei suoi soliti flirt, o uno scherzo, e invece
lo pensava davvero. In compenso, non sapeva neppure come identificare
la sua reazione: il sorriso, il rossore sulle gote e l'aver abbassato
la testa, scuotendola brevemente.
«Anche
tu», le sussurrò dopo con un sospiro, andando a
recuperare una
giacca nera poggiata su una delle sedie intorno al tavolo.
Lena
non capì se glielo avesse detto perché lo
pensasse davvero o solo
per dovere dopo che le aveva fatto un complimento.
Uscirono
tutte e tre insieme, sapendo che si sarebbero incontrate con Mike
direttamente al party.
«Come
hai intenzione di farti perdonare?», le chiese Megan con tono
scherzoso, mentre uscivano dal dormitorio per raggiungere l'edificio
dell'università, dirigendosi verso una delle strade sterrate
esterne
al parco.
Kara
sbuffò. «Non lo so… Lui vorrebbe che
tornassimo insieme, ma non
posso fargli questo regalo prima che io capisca cosa voglio dalla
nostra relazione», scosse la testa, facendo una smorfia con
la
bocca. «Mi vorrebbe sempre con lui».
«Sono
d'accordo», rispose Megan, mentre Kara annuiva a testa bassa,
«Infatti è qui».
«Cosa?».
Lo videro venire verso di loro con una mano alzata, salutando,
portando un gran sorriso. Kara lo raggiunse e lui la colse in un
caloroso abbraccio.
«Da
quanto tempo non si vedevano?», domandò Lena
all'altra, che non
toglieva loro occhio di dosso, con una strana espressione in viso.
«Da
dopo pranzo».
Mike
stringeva Kara, parlandole a bassa voce in un orecchio e Lena
annuì.
«Oh,
si vede». Guardò Megan. «Come mai deve
farsi perdonare da lui?
Cos'ha fatto?».
«Ieri
avevano una specie di appuntamento fuori a vedere le stelle, ma Kara
si è dimenticata. Era al telefono con te».
Lena
sorrise con improvvisa ritrovata gioia, pensando a Kara che si era
dimenticata di lui perché parlava con lei. Era una
sensazione
piacevole. Non c'entrava col fatto che avesse una cotta per lei,
s'affrettò a pensare, perché non aveva, non aveva
assolutamente una
cotta per lei.
Entrarono
nella struttura tutti e quattro insieme, raggiungendo la sala della
piscina al pian terreno. La musica era già assordante, la
sala buia
a parte per le luci colorate che schizzavano dagli angoli in alto,
che davano un'aria da discoteca, ed era già pieno di
studentesse e
studenti, con sdegno di Kara, che inquadrò il buffet come
avesse un
radar, raggiungendolo velocemente. Un ragazzo si fermò a
parlare con
Mike e Megan era già sparita a ballare con alcuni ragazzi
vicino
all'acqua, dove altri si erano buttati con tanto d'abiti, anche se
l'acqua era fredda. Lena raggiunse Kara. Era abituata a un altro tipo
di party, con musica bassa per permettere ai commensali di discutere
tra loro, dove ci si vestiva eleganti e si facevano foto da prima
pagina, e credeva davvero che quella novità le sarebbe
potuta
piacere perché non avrebbe avuto altre occasioni simili in
tutta la
sua vita, ma al momento aveva solo addosso una strana sensazione di
disagio.
«Vuoi?»,
Kara le passò un pasticcino e, quando se ne rese conto,
arrossì,
spalancando gli occhi.
Lena
lo prese, dando un piccolo morso di assaggio. «Allora,
è rimasto
qualcosa al buffet anche se è già pieno di gente,
non trovi?»,
gridò, per farsi sentire.
«Sì.
Mi preoccupava il fatto che molte mani avessero toccato il cibo anche
senza mangiarlo». Ne infilò in bocca uno dopo
l'altro sotto lo
sguardo sbalordito di Lena che sì, sapeva che era veloce e
famelica,
ma non così tanto, rapidissima a masticare e ingoiare, come
se non
avesse potuto mangiarne mai più. Dopo si girò a
ricercare Megan,
che ballava a ritmo di musica in mezzo a un gruppo. Un ragazzo le
stava molto vicino. «Megan ci sa fare… Quello
è per caso il suo
ragazzo?».
«No»,
scosse la testa, «Non è il suo tipo».
Si
avvicinò di scatto alla sua orecchia destra e Lena
sobbalzò un
poco, sentendo il calore del suo respiro. «Il ragazzo di
Megan non
frequenta questi tipo di party. Non è proprio nemmeno un
ragazzo, in
realtà…».
Lena
rise. «Ed è cosa? Un alieno, forse?».
«Non
dirlo a nessuno, va bene? È un professore. Il ragazzo di
Megan è
uno dei nostri professori, veramente».
Si
guardarono. Kara sapeva di non doverne parlare con nessuno, si
pentì
quasi subito di averlo spifferato in quel modo alla prima occasione,
ma non sapeva cosa dire e non le andava proprio di mentirle. Sperava
che Megan non si sarebbe arrabbiata; per il resto, di certo sapeva
che Lena non lo avrebbe detto a nessuno.
Difatti
le sorrise, alzando la voce. «Beh, non è comunque
l'unico a non
frequentare questi tipo di party».
Kara
sorrise a sua volta, mangiando un altro dolcetto. «Se lo vuoi
non ci
tratteniamo troppo, ti posso portare fuori a fare un giro nel
parco».
«In
un parco di notte da sole? Che hai in mente, Kara Danvers?».
Oh no,
lo aveva fatto di nuovo. Kara increspò le labbra e prese un
altro
pasticcino. Forse non sapeva cosa dire, pensò Lena.
D'altronde la
sua era stata proprio una battuta scema che non era riuscita a
trattenere, ma Kara voleva solo essere gentile. Voleva smettere ma
perché non riusciva a farlo? Quei flirt scherzosi dovevano
finire.
Aprì la bocca per darle le sue scuse, quando Kara si
sfilò la
giacca dalle spalle e la infilò sulle sue. Non si era
accorta che
aveva la pelle d'oca alle braccia fino a quel momento.
«Ti
avevo detto di portarti la giacchetta che ci sarebbe stato un po' di
freddo, siamo davanti a una piscina di notte», le sorrise,
avvicinandosi, sistemandogliela addosso. Lena arrossì,
notando in
quel momento come Kara fosse poco più alta di lei e,
soprattutto,
come il suo viso si trovasse così a poco spazio dal suo.
«Ecco
fatto».
«Ma
tu così non ne hai».
«Io
non ho freddo».
Mike
sorprese le due con uno slancio e prese Kara di schiena, sollevandola
e allontanandola dal tavolo da buffet. Lena li vide abbracciarsi
ancora, guardarsi negli occhi. Mike provò a baciarla ma Kara
abbassò
la testa all'ultimo, innervosendolo visibilmente, continuando a
ballare vicino a lei con uno specie di broncio sul viso. In effetti,
a Lena pareva di averlo già visto da qualche parte ma non
sapeva
dove. Megan la raggiunse per chiederle se voleva ballare ma Lena
rifiutò, allontanandosi fino ad andarsi a sedere dietro il
tavolo.
Pensava di sapersela cavare in ogni occasione, eppure un po' si
pentiva di aver accettato di andare al party. Non che fossero i
ragazzi ubriachi a spaventarla, quelli che si buttavano in acqua o
tutti e due, nemmeno quelli che, come Megan ma con altri scopi, erano
venuti a chiederle di ballare con loro, ma era quella sensazione di
solitudine a mangiarla dentro. Sapeva in anticipo che Kara non
sarebbe rimasta con lei tutto il tempo, ma vederla stare con quel
ragazzo le creava un disagio ancora maggiore. Era come una morsa allo
stomaco che non riusciva a calmare. Era davvero gelosa? Non ci poteva
credere. Aveva preso quel gioco dei flirt fin troppo seriamente. Si
strinse nella giacca di Kara che la teneva al caldo, decidendo il da
farsi: si alzò, cercandola. Le avrebbe detto che se ne
sarebbe
andata perché aveva degli impegni e che si sarebbero
risentite per
telefono. Era la cosa migliore.
«Lena
Luthor!».
Qualcuno
urlò il suo nome e tutti si girarono, inquadrando un ragazzo
dall'aria pesantemente offesa.
«Sei
davvero tu?! Te la spassi a una festa, eh? Non provi nemmeno un po'
di vergogna?».
Lena
lo inquadrò cercando di capire chi fosse, ma non
riconoscendolo lo
invitò a calmarsi. La musica sembrò cantare a un
livello più
basso, in quel momento, mentre il suo cuore si agitava.
«Andiamo a
parlare fuori, che ne pensi? Così non roviniamo la festa a
tutti».
«Chi
se ne fotte», sbraitò lui e alcuni risero,
poiché doveva essere
ubriaco. «Non vuoi che si sappia, eh? No? Voi Luthor pensate
di
poter fare sempre tutto come vi pare, siete intoccabili, fate i
casini e non volete prendervi le vostre… le vostre dannate
responsabilità!».
Lena
provò ad avvicinarsi per parlargli, quando Kara
sbucò
all'improvviso e si piazzò davanti al ragazzo, bloccandolo
con una
mano. «Ehi, che cosa succede?».
«Chiedilo
alla tua amichetta laggiù, la Luthor», disse con
disprezzo, per poi
sputare a terra. «Sono tutti dei ladri»,
ringhiò, «Sono ricchi
perché si fanno soldi rubando alla brava gente».
«Di
cosa stai parlando?».
Lena
si avvicinò per provare a parlare con lui ma il ragazzo si
slanciò
verso di lei con fare aggressivo e Kara lo bloccò con forza,
spingendolo indietro.
«Non
ti intromettere, Supergirl», gridò ancora,
«Questo è un affare
tra me e lei».
«Ha
ragione, Kara», sentì la voce di Lena alle sue
spalle, tesa come
una corda di violino. «È tra me e lui, tu non
c'entri».
«Voglio
capire che succede», decise, non avendo alcuna intenzione di
farsi
da parte.
Mike
guardava la scena vicino a Megan, che insieme a tanti avevano smesso
di ballare per capire cosa stesse succedendo.
«Va
bene, allora lo dico io che succede», strillò quel
ragazzo,
chiudendo i pugni e indicando Lena Luthor con violenza, di tanto in
tanto. «Quella e suo fratello sono dei ladri, come tutta la
loro
famiglia! Mio padre ha investito alla Luthor Corp di Metropolis tutti
i suoi risparmi in un progetto di Lex Luthor, pensando ne avrebbe
ricavato il doppio, ma quei soldi sono spariti! Spariti, capito? Nel
nulla! E mica solo i suoi: sono tanti quelli che ci stanno rimettendo
le case in cui vivono, come mio padre… Se non
riavrà il suo denaro
finirà per passare la vecchiaia per strada e sarà
tutta colpa
vostra», strinse i denti dalla rabbia, andando avanti e
indietro sui
suoi passi, non riuscendo a stare fermo. «Cosa state facendo
per
sapere dove sono finiti quei soldi, uh? Cosa? Vi siete comprati una
nuova macchina? Una villetta a Central City?».
Lena
abbassò la testa ma, quando la rialzò, aveva
l'aria dura e quasi
impassibile, fredda come il ghiaccio. Si avvicinò ancora
verso il
ragazzo anche se Kara non era d'accordo, mettendosi comunque in
mezzo. «Sto lavorando con Lex affinché si trovi il
responsabile di
ciò che è accaduto. E ti assicuro che si
troverà e che tutti
riavranno indietro il loro denaro. Per ora posso solo dirti di
portare un po' di pazienza».
«Pazienza?»,
sbottò lui, che Kara allontanò di nuovo da Lena.
«E se è stato il
tuo caro fratellino a intascarsi tutto, uh? O forse sei stata tu? Sei
stata tu?».
«No»,
rispose, mantenendo la calma. «Come ho detto troveremo il
responsabile che sarà consegnato alla giustizia, e riavrete
il
vostro denaro, ma fino ad allora-».
«Cosa?
Come se vi importasse qualcosa, voi un tetto sicuro sulla testa ce lo
avete, Luthor». Kara tratteneva il ragazzo e sentiva
chiaramente il
suo cuore battere all'impazzata dalla frenesia; come una miccia
pronta a esplodere non sembrava pronto a calmarsi. «Qualcuno
stava
andando a denunciare e sapete che è successo, no? Hanno
bloccato
tutto! Gli avvocati di Lex Luthor in persona hanno minacciato i
poveracci di non denunciare o avrebbero passato dei guai. Vi sembra
giusto?», chiese a tutti, «Ti sembra
giusto?», riprese riferendosi
a Kara.
Lei
lo guardò con aria vacua, non sapeva cosa rispondere e si
voltò a
guardare Lena, che invece sembrava ferma nella sua posizione.
«No.
Non mi sembra giusto», rispose lei, facendo un altro passo.
Kara la
implorò di fermarsi perché era troppo vicina al
ragazzo. «Farò il
possibile per aiutarvi, te lo prometto».
«Tu
lo prometti?!». Infuriato, il ragazzo spinse Kara, pensando
di
correre verso Lena. Lei lo stava per riacciuffare quando Mike si
protese di scatto e lo spinse a sua volta, intimandogli di non
toccare la sua ragazza. A un conseguente gesto di sfida
dell'aggressore, Mike gli sferrò un destro in pieno volto e
lui finì
in piscina.
Il
party ricominciò poco dopo, una volta recuperato il ragazzo
dall'acqua da alcuni amici, che decisero di riportarlo al suo
dormitorio.
«Mi
dispiace per quello che è successo»,
biascicò Lena. Lei e Kara
erano fuori dal cancello, aspettando l'arrivo di Ferdinand con la
macchina per riportarla a casa. Si stringeva contro la giacca di Kara
che aveva addosso, tremando. E non credeva di farlo solo per il
freddo.
«Cosa
ne pensi se ti aiuto? Aiuto te e Lex».
Lena
la guardò con sorpresa, scuotendo la testa. «No.
Non vedo come tu
possa-».
«Ehi,
non sottovalutarmi! E voglio davvero aiutare».
«Non
ti intromettere, Kara. Davvero».
«Davvero
ho deciso di aiutarvi e lo farò, non puoi dir nulla per
farmi
cambiare idea», la fissò con sguardo deciso e Lena
non riuscì a
replicare.
L'auto
arrivò e Kara l'abbracciò di colpo, come se
avesse voluto
proteggerla, dandole poi una piccola spinta verso la portiera.
«La
giaccia-», Lena stava per sfilarla, ma Kara si
avvicinò e gliela
riportò bene sulle spalle, guardandola negli occhi.
«Tienila
tu. La riprendo domani».
Lena
annuì, aprendo la portiera. «Sei testarda, Kara
Danvers». La vide
ridere, intanto che chiudeva lo sportello una volta entrata.
L'automobile partì e Lena si sentì strana,
leggera, calda, bollente
per la verità, con la voglia di sospirare.
Adesso
sapeva per certo di essere nei guai: flirtava per scherzare e farla
imbarazzare e quella imbarazzata, infine, era lei. Quei flirt avevano
rivelato qualcosa di serio. La sua mente non le giocava brutti
scherzi perché era vero che le piaceva Kara Danvers, le
piaceva
davvero in
quel modo.
Nuova
settimana, nuovo capitolo!
Lena
è arrivata a una conclusione importante… Flirta
per scherzare,
così pensava, ma ha scoperto perché le viene
così naturale e non
riesce a farne a meno: è cotta di Kara. Non per niente
è gelosa del
suo non-ragazzo, o quasi ragazzo che sia; anche se finge
disperatamente che non sia così. Eppure ha ben altro a cui
pensare:
alla Luthor Corp di Metropolis corre un problema e lei sta cercando
di aiutare suo fratello a risolverlo prima che la cosa possa sfuggire
di mano. E prima che Lillian si metta in mezzo.
Il
capitolo ci ha anche nominato alcuni personaggi interessanti come Cat
Grant, Leslie Willis e Siobhan Smythe, che lavora come nuova
reporter alla CatCo. Kara è affascinata dal suo primo
articolo… E,
non di meno, abbiamo conosciuto l'assistente di Lena. Proprio lui:
Winn.
Spero
che il capitolo vi sia piaciuto :)
Nel
prossimo, Lena capirà che non si può combattere
contro una Kara
determinata!
Il
capitolo sette arriva il prossimo lunedì e si intitola: La
reporter
(Anticipo
fin da ora che avrò poco tempo per occuparmi della fan
fiction,
quindi lunedì 2, cioè Pasquetta, il capitolo otto
non ci sarà e
salterà al 9 aprile! Non voletemene ^_^')
A
presto ~
Avete
un pc/cellulare? Amate le supercorp? Votatele allo -> Zimbio!!
Le
nostre ragazze sono in finale, conto su di voi! (Non date retta al sito
che vi dice di poter votare una volta ogni mezzora: ricaricate la
pagina e potete votare quante volte volete)
|
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Capitolo 8 *** 7. La reporter ***
Kara
non si sarebbe certo fermata al primo no.
O al secondo. E
così via.
Se si metteva in testa qualcosa, allora doveva fare quella cosa e non
ci sarebbe stato verso di farle cambiare idea. Lo sapeva bene Alex
Danvers che, quando era adolescente, non riusciva ad andare da
nessuna parte senza la sua piccola nuova sorella che le facesse da
scorta, preoccupata che frequentasse persone poco raccomandabili.
«So
io con chi devo o non devo uscire, okay?».
«Fai
preoccupare Eliza e Jeremiah…».
«Non
ti impicciare».
«Ma-».
«Okay,
facciamo così: ti giuro che sarò assolutamente
attenta alle persone
che frequenterò da oggi in poi. Così da non far
preoccupare Eliza,
né Jeremiah, né te», l'aveva indicata,
spingendole l'indice contro
il petto.
Kara
l'aveva pedinata per sei mesi.
Non
era di certo una persona che si faceva tranquillamente i fatti suoi,
convinta di poter sempre essere d'aiuto per le persone che conosceva.
Questo lo aveva capito bene anche Eliza Danvers che non era
più
riuscita ad avere appuntamenti seri con qualcuno dopo Jeremiah
finché
Kara non aveva lasciato casa per andare all'università.
«Ma
che c-». Eliza era tornata a casa dopo il lavoro e aveva
trovato
alcuni mobili in diverse posizioni, tutto splendeva dal pulito, e il
che non era molto usuale con le sue figlie in casa, con fiori
disposti in piccoli e grandi vasi per tutto il soggiorno. Kara,
allora quindicenne, era in mezzo alla stanza, in piedi, con le mani
unite, con un indosso un vestito fiorito e i capelli raccolti in due
basse code. Sorrideva, aspettandosi qualcosa.
«Cos'è successo qui
dentro? Cosa stai facendo?».
«Oh,
pensavo venissi con Ryan e così…».
«Ryan?
Come fai a sapere di Ryan?».
«Alex
ti ha sentito fare il suo nome al telefono», aveva sorriso di
nuovo,
agitando le mani nel dare la sua spiegazione, «Ultimamente
torni
sempre tardi, hai comprato un nuovo profumo, sorridi più
spesso e
sei distratta… così… così
non era difficile intuire che ti
vedessi con qualcuno», si era grattata dietro nella nuca,
«Senza
contare che ti è arrivato un mazzo di fiori da National City
e nel
biglietto c'è scritto da
Ryan.
Ecco, sì, li ho messi lì», aveva
indicato un vaso su un mobile.
«Pensavo fosse la giornata giusta per portarlo a casa a
conoscere la
famiglia, volevo fare bella figura e… sì, ho
anche già
memorizzato dei discorsi che potrei fare con lui per non farti
apparire come disperata. Sì, lo so che non ti sono sembrata
molto
felice quando tu e Jeremiah avete deciso di divorziare, ma poi ho
pensato che anche tu in fondo sei un essere umano e hai bisogno di
stare con qualcuno che ti faccia, diciamo, le coccole, alla tua
età
chissà quante altre possibilità avrai,
quindi…», aveva stretto
le labbra e dondolato sui talloni delle scarpe da ginnastica,
pensando a cos'altro dirle, i suoi occhi azzurri andavano da una
parte all'altra della camera, finché non si era illuminata,
guardando di nuovo sua madre con decisione: «Quindi,
sì, insomma,
sono pronta se vuoi portarlo a casa».
Eliza
era incerta se ringraziarla o gridarle addosso. «Non
c'è bisogno di
tutto questo».
Il
suo sorriso si era spento di colpo. «Ho-Ho passato delle ore
a
sistemare tutto, cavolo, almeno un po' di riconoscenza».
«Kara…
non ho intenzione di farvelo conoscere».
«Ah».
Era
convinta di poter aiutare tutti, non solo le persone che conosceva. E
questo lo aveva scoperto presto la vecchia signora Terry che abitava
vicino al market in cui spesso la famiglia Danvers si recava a
comprare il giornaliero. Da quando la famiglia aveva adottato la
piccola Kara, lei si era messa in testa di aiutare la signora, minuta
e gracile, ad attraversare la strada. Il che andava bene, Eliza era
felice che Kara si stesse ambientando in quella zona e che si
comportasse tanto bene anche con le persone anziane.
Così
le correva incontro appena la vedeva, la prendeva a braccetto e
l'aiutava a camminare sulle strisce.
«L'aiuto
io, signora Terry».
«Che
gentile che sei; va bene». L'anziana le aveva sorriso e si
era
lasciata prendere il braccio sinistro, che Kara aveva afferrato con
foga.
«Oggi
non ho molto tempo, Jeremiah mi porta a National City al ristorante,
dove fanno la panna cotta più buona del mondo».
Aveva cominciato a
correre con la signora legata a lei che non riusciva a stare al suo
passo. Era appena uscita dal market e aveva ancora il portafogli poco
fuori dalla sua borsetta, così che le era scivolato sulla
strada.
«Non si preoccupi, signora Terry: ci penso io».
L'aveva
accompagnata davanti al marciapiede ed era corsa indietro, ma stava
per passare un'automobile e a nulla erano serviti gli strilli della
signora che le dicevano di tornare al sicuro. La macchina era passata
a poco dalla sua schiena e, quando la bambina si era girata, era
corsa subito a restituire il portafogli alla signora, noncurante del
pericolo scampato e dell'infarto scongiurato della vecchina.
Sapevano
che la signora Terry era andata a vivere con i figli a National City
la settimana successiva. Forse fu una coincidenza, ma non ebbero modo
di approfondire.
Aiutare
tutti, non solo le persone. Come quando tornò a casa da
scuola con
un cagnolino che si era smarrito e che non poteva lasciare per
strada.
«Non
potevo abbandonarlo anch'io, scusa».
Eliza
Danvers glielo aveva fatto tenere per due settimane, mentre
attaccavano volantini per strada con la foto del cane che
così aveva
potuto ritrovare i suoi padroni. Kara era triste di doverlo lasciare,
ma in fondo felice che avesse ritrovato la sua famiglia, almeno lui,
sapendo che era la cosa giusta da fare. Dopo il cane però
era
cominciata a sembrare un'abitudine, portando a casa ogni specie di
creatura vivente: rane, scoiattoli, uccellini, vermi, mantidi
religiose, perfino un serpentello che sì, era innocuo, ma
Alex se lo
era ritrovato sul letto una sera e non aveva più chiuso
occhio per
giorni, proibendo a Kara di portare animali nella loro camera in
comune. Divertente, poi, pensare che con la crescita la stessa Kara
aveva contratto la fobia per i rettili.
«Eliza,
si dev'essere perso… Posso tenerlo? Lo porto fuori io e
farò i
volantini».
Eliza
era rimasta pietrificata davanti alla porta, guardando l'animale che,
dietro la bambina, le masticava la gamba di un pantalone.
«Tesoro, è
un cavallo. Non lontano c'è una casa con del terreno,
dev'essere di
lì».
«Ah.
Allora lo riporto a casa sua. Grazie».
Kara
Danvers era caparbia, metteva cuore e passione in tutto ciò
che
faceva, e questo lo avrebbe presto scoperto anche Lena Luthor. Si
erano sentite per telefono e Lena l'aveva invitata alla Luthor Corp
se davvero ci teneva a lavorare con loro: lei e il suo assistente.
Aveva rifiutato quando le disse che le avrebbe inviato Ferdinand a
prenderla, così aveva preso un autobus e poi si era fatta
una bella
passeggiata, con il sole che splendeva, fino ai piedi della Luthor
Corp. Quel posto sembrava enorme. Era strano pensare che sua madre
lavorasse per così tanto tempo in quell'azienda, da prima
che
l'adottasse, ma non essere mai andata a trovarla. Aprì le
porte e la
guardia all'interno la adocchiò subito, seguendola con lo
sguardo
intanto che si avvicinava alle sbarre elettriche incastrandosi la
gonna, tornando indietro, incastrandosi di nuovo, spingere con forza
e così passarci. Lui trattenne un sorriso, mentre lei lo
raggiungeva
alla sua postazione.
«Salve,
sono Kara Danvers, ho un appuntamento con Lena Luthor».
«Sì,
signorina Danvers. La signorina Luthor la sta aspettando nel suo
ufficio». Le diede indicazioni e lasciò proseguire
verso
l'ascensore.
Si
controllò sullo specchio dell'ascensore, passandosi le mani
sulla
testa per appiattire i capelli raccolti in un alto chignon,
sistemandosi gli occhiali sul naso e lisciandosi verso il basso la
camicetta a maniche corte infilata nella gonna larga che le arrivava
alle ginocchia. Dopo tirò un po' più su sulla
spalla la borsa a
tracolla. Sperava di non avere un look troppo sbarazzino per la
Luthor Corp anche se, sapeva, non doveva avere timore di incontrare
chissà quali scienziati ora che era luglio, ma c'era sempre
l'assistente di Lena. E Lena. L'aveva vista in pigiama, non avrebbe
mosso ciglio, probabilmente, ma ora erano in un ambiente di lavoro e
non voleva fare brutta impressione su di lei.
Quando
l'ascensore si aprì si incamminò velocemente,
sorpassando la
scrivania vuota non distante dalla porta chiusa, e così
bussò. Non
aspettò molto prima che la voce di Lena le desse il permesso
di
entrare.
Un
profumo dolce la accolse appena aperta la porta, e così
diede un
veloce sguardo all'ufficio, dalla scrivania dove Lena e un ragazzo
erano chini a scandagliare dei fogli sparsi, alla portafinestra alle
loro spalle, con il sole che filtrava prepotente dalle tapparelle a
metà, al divano dall'altra parte della stanza, a un
armadietto, ai
fiori dentro un alto vaso da terra, in un angolo. Entrambi alzarono
lo sguardo e si bloccarono, mentre la ragazza chiudeva la porta
dietro di lei.
«Vi
siete già portati avanti con il lavoro?»,
scherzò, battendo le
mani e sorridendo, avvicinandosi.
Lena
si lasciò andare a un sospiro fugace, cercando di guardare
altrove,
e il ragazzo vicino a lei si irrigidì, cominciando a ridere,
in
ritardo, per la battuta di Kara. «Non abbiamo fatto
molto», rispose
freddamente Lena, senza guardarla, puntando di nuovo lo sguardo ai
fogli sparsi per la scrivania.
Kara
la squadrò, capendo che doveva essere davvero molto
concentrata per
quasi non guardarla.
«Lui
è Winslow Schott Jr, il mio assistente».
Lui
allungò il braccio per stringerle la mano, sorridendo con
emozione.
«Molto piacere; ho sentito molto parlare di te, Kara
Danvers». Lena
gli rivolse mezza occhiata e Kara rise, guardando entrambi.
«Possiamo
rimetterci al lavoro, per favore? Questi documenti non si leggeranno
da soli».
La
voce di Lena era fredda e distante, scontrosa. Adesso che Kara si era
abituata a tutt'altro comportamento verso di lei, faticava a
riconoscerla. Winslow si fece subito serio e riprese a leggere, ma
Kara fissava Lena, corrugando lo sguardo, cercando di capirla. Quel
caso alla Luthor Corp di Metropolis doveva preoccuparla davvero
tanto, pensò, così cominciò a mettersi
anche lei al lavoro: prese
alcuni fogli, una sedia, e iniziò a leggere.
Oh,
era davvero la cosa più faticosa e noiosa con cui avesse mai
avuto a
che fare. Se chiudeva gli occhi, Kara era capace di distinguere
perfettamente i numeri che le si piazzavano davanti e la salutavano,
abbracciandosi tra loro, formando lunghe file di abbracci numerici.
La voce dell'assistente di Lena troncò il silenzio, dicendo
di aver
trovato qualcosa di incongruente, ma era solo un falso allarme. Erano
tutti e tre sulla scrivania, poi sul divano, poi Kara e Winslow a
terra e Lena in piedi, poi loro due in piedi e Lena di nuovo sul
divano. Passarono alcune ore, distinguibili tanto dall'orologio
appeso alla parete quanto dai raggi del sole che passavano attraverso
la finestra, scendendo e cambiando zona illuminata. Kara si era messa
a leggere sul pavimento facendosi scaldare dai raggi. Lena le rivolse
un'occhiata e sorrise, vedendola concentrata grattarsi la fronte,
facendo una smorfia con gli occhi e la bocca. La pancia di Kara
brontolò così forte che sembrò un
tuono a ciel sereno, facendo
ridere Winslow.
«Va
bene». Lena si alzò dalla sedia accanto alla
scrivania con
decisione ed entrambi la fissarono. «È ora di
pranzo e credo che
tutti e tre ci meritiamo un po' di riposo».
Kara
si alzò dal pavimento così in fretta che parve di
essersi seduta
sui chiodi, ritrovando il sorriso. «Perfetto! Sto morendo di
fame,
ma non volevo dirlo… Dove andiamo a mangiare?».
Lena
distolse lo sguardo, rispondendole mentre sistemava la sua pila di
fogli, poggiandoli con cura. «Qui vicino fanno dei piatti
veloci e
ottimi».
«Aggiudicato»,
sorrise, guardando poi verso il ragazzo. «Vieni con
noi…», lo
guardò a sottecchi, cercando di ricordarsi il
suo nome,
«… Winslow?!».
Lena
stava per dirle che solitamente lui ama mangiare per conto proprio,
quando il ragazzo rispose affermativamente accompagnando una goffa
risata: «Sì, sì, certo! Puoi chiamarmi
Winn», si avvicinò, «Gli
amici mi chiamano così, è più
facile… Anche se ultimamente, emh,
non è che io sia proprio circondato da amici,
diciamo», rise
ancora, «Sono più un tipo solitario, un
po'… particolare».
Kara
rise a sua volta. Lena guardò il sorriso di lei e poi quello
di lui,
scuotendo la testa: il suo impacciato assistente stava cercando di
fare colpo su Kara, come non immaginarlo. A lui era bastato poco per
capire quanto fosse speciale. Oh, speciale.
Aveva pensato proprio quella parola. Sarebbe stato meglio lasciarli
fare; che lei avesse ridato un'occasione a quel Mike o al suo
assistente, che aveva scoperto oggi dopo mesi di conoscenza di
volersi far chiamare Winn, andava bene.
Da
quando aveva capito, ma soprattutto accettato, che Kara Danvers le
piacesse in aspetto romantico, non faceva che pensare a quanto fosse
sbagliato. Non solo lei era chiaramente eterosessuale, non aveva
accennato mai neppure una volta a una possibile ragazza, ma le loro
madri stavano insieme, il che era piuttosto strano. Non poteva
seriamente perdersi nell'immaginarsi di voler baciare qualcuna che
avrebbe dovuto considerare sua sorella. Però lo immaginava.
Oh, lo
immaginava eccome guardando le sue labbra che sorridevano, che
parlavano, che parlavano verso di lei.
«Mh,
scusami, cosa?».
«Dicevo
che possiamo andare: prima mangiamo, prima ritorniamo ad occuparci
del nostro caso», esclamò Kara. Lei e Winn
uscirono per primi
dall'ufficio, parlando tra loro.
Il
nostro caso,
pensò Lena. Lo aveva subito
adottato
come il suo caso.
Ordinarono
della pasta al formaggio e, mentre aspettavano, Kara e Winn si
lasciarono andare a una discussione che si allacciava con la
successiva senza tregua, scoprendo di avere un sacco di cose in
comune come la passione per alcuni fumetti, che Kara leggeva molto di
più quando era bambina, come l'aver frequentato la stessa
scuola
elementare, come aver avuto entrambi a che fare con il bullo Benny
Santos. E continuarono anche durante il pasto, riuscendo a masticare
e parlare insieme. Lena si stupiva riuscissero a trovare modo di
respirare.
«Ah,
sì, ma questo lo sapevo!», disse lui con un enorme
sorriso stampato
in faccia, «Ho fatto ricerche anche su te, per conto della
signorina
Luthor».
«Già»,
lei si voltò a guardarla, «La famosa
ricerca».
Lena
cominciava a pensare che non glielo avrebbe mai perdonato.
Di
tanto in tanto, Kara la guardava e le chiedeva qualcosa cercando di
farla entrare in argomento, ma lei non sapeva cosa dire e lasciava
che le cose riprendessero il loro corso, e così i due si
perdevano
di nuovo nei loro discorsi.
Winslow
sorrideva e si eccitava in continuazione, tanto che si chiedeva se
era sempre stato lui il suo assistente, stentava a riconoscerlo, e
Kara parlava con la bocca piena, ridendo tappandosi la bocca con un
fazzoletto. Lena sparì in bagno dopo aver finito il suo
piatto senza
che loro se ne accorgessero. Diede colpetti decisi contro la
macchinetta del sapone, con fare nervoso. Era stata lei la prima a
essere dura con Kara, a cercare di ignorarla, quindi non capiva
proprio perché se la prendesse tanto a cuore, continuando a
pestare.
«Cosa
ti ha fatto di male quel sapone?».
Si
voltò, vedendo Kara entrare e raggiungendola al lavandino,
prendendo
del sapone anche lei, mettendo le mani sotto il getto d'acqua. Lena
le guardò abbassando lo sguardo dal suo, vedendo che erano
diventate
gialle.
«Cosa
ti è successo? Hai fatto a pugni con i
maccheroni?».
«No»,
strinse le labbra, trattenendo il rossore sulle gote.
«Diciamo che
Winn ha riso un po' troppo e, sì… un piccolo
incidente», rise,
«Non finirà mai di scusarsi».
Lena
stava per ridere a sua volta ma si costrinse a restare seria e
distaccata, soprattutto al sentirla chiamare lui Winn.
«Va
bene. Datti una lavata, così torniamo al lavoro».
Kara
la tenne d'occhio intanto che usciva a passo spedito dal bagno, senza
guardarla.
Il
lavoro diventò più silenzioso che al mattino.
Tranne che Winn ogni
tanto le sorrideva e le diceva qualcosa a voce talmente bassa da
sembrare di fare solo boccacce, ma per fortuna il suo era un udito
molto sviluppato. Kara controllò di nuovo i nomi, e le
cifre, e i
nomi, e le altre cifre, e poi Lena Luthor, seduta davanti alla sua
scrivania, lontano da loro che stavano comodi sul divano. Era china
sui fogli, con la testa mantenuta da una mano poggiata con il gomito
sul tavolo. Era così tesa, nervosa, arrabbiata, sembrava. La
trattava con freddezza da quando era arrivata alla Luthor Corp e
cominciava a pensare che non fosse a causa di quei documenti e sul
caso di Lex, ma proprio per lei. Eppure non riusciva a capire cosa le
avesse fatto di male. Forse non voleva davvero che si mettesse in
mezzo con quell'affare, o forse che facesse amicizia con Winn,
pensò,
guardando con la coda dell'occhio il ragazzo concentrato sui suoi
fogli. Lo vide scorgere Lena e così, al suo minimo
movimento,
nascondendosi con la faccia contro i fogli. Dopo un poco, anche Lena
alzò lo sguardo e con serietà guardò
Winn, rimettendosi al lavoro.
Kara
corrugò le sopracciglia, messa a disagio da quella
situazione. Il
suo rapporto con Lena stava migliorando e, all'improvviso, la sentiva
di nuovo una perfetta estranea. Una perfetta estranea arrabbiata con
lei senza ragione. Quella situazione non le piaceva per niente.
«Kara,
non stai leggendo».
«Oh,
sì».
Le
mancava pure di essere sgridata da lei. Sbuffò, ma piano,
per non
essere sentita.
Fecero
un'altra breve pausa. Winn ne approfittò per sgranchirsi le
gambe e
andare in bagno, così Kara si accostò da Lena,
che al contrario non
sembrava ben disposta a riposare, continuando a leggere, poggiata di
peso contro la spalliera della sedia.
«Lena…?».
«Dimmi».
«Posso
chiederti se… per caso… ho fatto qualcosa di
male? Qualcosa che
può averti dato fastidio?».
Lena
abbassò lentamente i fogli, poggiandoli sulla scrivania,
fissando
lei. «No. Perché me lo chiedi?».
Arrossì e allora abbassò di
nuovo lo sguardo, ritornando a quei numeri. Non riusciva a guardarla
fare quel suo sguardo corrucciato senza trovarla incredibilmente
adorabile. Accidenti, sapeva di dover trovare una soluzione presto,
non che potesse ignorarla da quel momento in avanti, sapendo che
l'avrebbe ritrovata al suo fianco a tutte le attività
familiari. E
dopotutto, se così non fosse stato, probabilmente si sarebbe
fatta
avanti sul serio. Ci avrebbe provato di sicuro. Oh, rendersi conto di
questo non faceva che peggiorare la situazione.
«Perché-
Lo hai appena fatto!», brontolò. «Stai
cercando di punirmi per
qualcosa, per caso? P-Perché non credo di aver fatto
qualcosa di
sbagliato ma, se fosse, me lo dici in modo da da poter
risolvere».
Non
ci credeva che le mancassero i suoi tentativi di flirtare con lei. Le
alzò il viso, scrutandola con i suoi soliti occhi di
ghiaccio. «Non
c'è nulla che non vada, Kara. È solo
che… vorrei davvero aiutare
Lex ad uscire da questo pasticcio e sento che siamo in alto mare. Lui
dovrà rilasciare una dichiarazione a giorni e non abbiamo
niente in
mano… Non vogliamo che a mettersi in mezzo sia nostra madre,
dovremo farcela con le nostre forze», la fissò,
«E presto».
Kara
restò a bocca aperta, pensando di punto in bianco di essere
stata
egoista nel pensare che il comportamento diverso di Lena fosse per
qualcosa che aveva fatto lei. Che figuraccia. Arrossì,
chiudendo le
labbra con forza e annuendo. «Ha-Hai ragione! Dobbiamo
mettercela
tutta per-», si bloccò, guardando con
più attenzione il foglio
sotto una mano di Lena. Gliela tolse e indicò un punto su un
foglio,
su un nome. «Questo l'ho già letto»,
biascicò. Scattò per andare
sul divano, prendendo la sua pila di fogli iniziò a
sfogliare. Uno
dopo l'altro poggiò quelli dove compariva quello stesso nome
sulla
scrivania, mentre Winn rientrava in ufficio.
«La
pausa è finita?», chiese.
«Winn,
prendi il tuo fascio di fogli e portalo qui, presto».
Il
ragazzo fece come ordinato e ben presto si ritrovarono a una decina,
quindicina, ventina di fogli dove compariva lo stesso nome
più
volte. Il solo nome che compariva così tante volte in
diversi
versamenti.
«Hai
trovato una falla, Kara», sorrise Lena, «Questi
dati sono stati
contraffatti». Erano tutti così concentrati sui
numeri da non aver
dato abbastanza peso ai nomi al loro fianco.
«Sei
grande, Supergirl», esultò Winn, abbassando la
voce fino a tacere
quando si ricordò che, accanto a loro, c'era il suo capo.
«Un
nome falso?», domandò Kara.
«Molto
probabile», rispose lei, concentrata. «Qualcuno ha
usato questo
nome per appropriarsi del denaro degli investitori. Scopriremo chi
è», le sorrise, alzando lo sguardo.
Dopo
un po', Kara decise di tornare al campus, temendo che, facendo ancora
più tardi, il guardiano la chiudesse fuori. Lena la
ringraziò e
sembrò sorriderle ancora, pur mantenendo tra loro una certa
distanza
che Kara non capì. Riprese la sua giacca e uscì,
salutando Winn,
dopo essersi scambiati i numeri di cellulare.
«Quella
ragazza…», sorrise lui con fare sognante,
scuotendo la testa. «Mi
ha sconvolto! Non pensavo che dal vivo quella Kara Danvers fosse
così
carina. E poi è intelligente, ha talento… e come
sorride».
Lena
non disse una parola, separando in due pile diverse i fogli
contenenti i dati con il nome usato dal truffatore e gli altri.
Sentì
il suo assistente avvicinarsi.
«Lo
so che noi non abbiamo quel tipo di rapporto, signorina Luthor, ma se
potesse, che so, mettere una buona parola per me con sua
sorella…
le sarei riconoscente».
«Non
esserlo», disse glaciale, «Ha già un
quasi ragazzo. E non è mia
sorella».
Winn
strinse le labbra, pensandoci. «Quasi
ragazzo?», si lasciò poi scappare una piccola
risata, «Anch'io
avevo una quasi ragazza, una volta: si chiamava Margot Blanc, era di
origini francesi e frequentava con me le scuole medie. Pranzavamo
insieme ogni giorno, e poi studiavamo e ci tenevamo per mano, che
ricordi…», sospirò con un sorriso.
«M-Ma lei in realtà sapeva
appena della mia esistenza e tutto era accaduto solo nella mia
immaginazione. Ma che ricordi…».
«Il
suo si chiama Mike e sono già stati
insieme…», bisbigliò,
riflettendoci, «Mike Gand. Ecco chi è, mi sembrava
di riconoscerlo:
il figlio del senatore Gand».
«Il
figlio di un senatore? Ah! Bene…», il suo
entusiasmo scemò,
«Posso sempre puntare sulla simpatia».
«Fammi
capire, Kara: sei triste perché Lena Luthor non flirta
più con
te?»,
le domandò Alex al cellulare, mentre lei guardava fuori dal
finestrino con aria affranta, sul pullman pieno di persone.
Arrossì,
mordendosi un labbro. «No. È-È solo
che- Non lo so… ma
cominciavamo ad andare davvero d'accordo, ci stavamo avvicinando, e
ora sembra tornata…».
«La
nemica del primo capitolo?».
«Primo
capitolo?».
«Primo
capitolo, quando vi siete conosciute, Kara, è un modo di
dire».
Kara
sbuffò. «Sì. Quasi. Ha sorriso. Ma non
mi guardava. Forse peggio,
perché almeno al primo capitolo mi degnava di
attenzione», scrollò
le spalle, «Pensavo fosse turbata per questa storia della
Luthor
Corp a Metropolis, e così mi ha detto, ma non mi convince
adesso che
ci penso…».
«Magari
è solo un po' per le sue, vedrai che- Signora!
Signora!»,
gridò all'improvviso e Kara dovette allontanare il cellulare
dall'orecchia. «Lei
lì non può entrare, signora, è
riservato al personale! C'è un
cartello, signora! Scusa, Kara, devo andare a tirare via una donna
che sta litigando con la tenda che divide l'area pubblica da quella
privata…
Non
vedo l'ora di finire gli studi così potrò dire
addio questo
postaccio»,
bisbigliò, Kara la sentiva affannare, «Comunque
non preoccuparti per Lena, magari è davvero solo presa da
questa
storia di Lex, dalle del tempo. Lo so che vuoi andare d'accordo con
lei- Signora?
Cosa fa? Esca! Io
stacco, ci sentiamo più tardi».
Kara
riattaccò e nascose il cellulare nella borsa, guardando il
cielo che
si scuriva e poi la giacca nera che, la sera prima, aveva prestato a
Lena per ripararsi dal freddo. Beh, pensò, se per una
qualche
ragione a lei sconosciuta avessero fatto un passo indietro nel loro
rapporto, avrebbe fatto di tutto per riguadagnare terreno in fretta e
sentirla di nuovo vicino.
La
mattina dopo si svegliò presto ma, invece del solito, non
aveva in
mente di allenarsi. Megan la vide correre da una parte all'altra
della loro camera mentre si preparava per uscire e, infine, lasciarle
un biglietto sul cuscino del proprio letto.
Erano
da poco passate le otto e mezzo quando Kara Danvers spalancò
le
porte della Luthor Corp con un colpo di gomito, portando tra le mani
quattro tazze da viaggio fumanti. La guardia all'ingresso aveva
appena iniziato il suo turno e ancora sbadigliava, tuttavia, quando
la vide cercò di trattenersi. Si incastrò ancora
la gonna nelle
sbarre elettriche ma, muovendosi come un serpente, riuscì a
tirarsi
via con poche difficoltà. «Quei
cosi»,
la sentì bisbigliare, muovendosi verso di lui, per poi
guardarlo
facendo un largo sorriso. «Buongiorno… John».
J.
Barrows:
indicava il suo cartellino.
Lui
scosse la testa.
«Jacob?».
«No».
«James?».
«Neanche»,
si appassionò lui, mettendosi a braccia a conserte
appoggiato al
bancone.
Lei
sorrise, indicandolo. «Allora il suo nome
è… Joseph!».
«Oh,
non ci siamo».
«Jack,
Julian, Joey, Jonathan!», lo indicò ancora con
entusiasmo,
continuando, «Joshua, Jeff, Jesse-».
Lui
la fermò, indicandola a sua volta.
«Jesse?».
Lui scosse la testa e lei rise, «Va bene, va bene,
è Jeff», ma al
suo sguardo incerto lei aggrottò le sopracciglia,
ritentando,
«Jeffrey! È Jeffrey?».
Lui
rise con entusiasmiamo, battendo le mani in un applauso, e lei rise
con lui, passandogli una delle tazze sul bancone.
«Ecco,
questa è per lei, Jeffrey». Lui sgranò
gli occhi dalla sorpresa,
prendendo la tazza. «Spero le piaccia: caffè nero,
per affrontare
una lunga giornata».
«Dice
sul serio?».
«Sì,
l'ho presa per lei. Le auguro buona giornata». Se ne
andò e lui le
ricambiò la buona
giornata
gridando prima che potesse prendere l'ascensore.
Era
di buon umore e sorrise radiosa, affacciandosi allo specchio della
cabina. Indossava anche quell'oggi una camicetta infilata sotto la
gonna corta, stavolta scura, e i capelli tirati indietro con delle
forcelline. Si sistemò con cura l'abbigliamento e poi gli
occhiali,
facendo un rumore gutturale con la bocca. Quando la porta
dell'ascensore si aprì, si sentì pronta per
affrontare quella
giornata.
«Kara?»,
esclamò Winn seduto sulla sua scrivania fuori dell'ufficio
di Lena,
meravigliato di vederla a quell'ora del mattino. Si alzò per
accoglierla.
«Ehi!
Come va stamattina?», chiese, poggiandogli una delle tazze
sulla
scrivania, sorridendogli. «Ah, no, aspetta»,
cambiò tazza,
poggiandogliene un'altra. «Quella è di Lena, mi
stavo confondendo».
«Per
me?», la prese.
«Caffè
macchiato, spero sia di tuo gradimento», rise,
«Avevi detto che non
stravedevi per i gusti troppo amari».
Lui
rise, scrollando le spalle. «Te-Te lo sei
ricordata?».
«Memoria
d'acciaio», rise, spostandosi verso la porta dell'ufficio di
Lena.
Winn cambiò espressione e cercò di fermarla, ma
lei aveva già
aperto la porta, portando avanti le due tazze da viaggio rimaste. Si
bloccò quando vide che Lena non era sola e un ragazzo alto
ed
elegante era davanti alla sua scrivania, in piedi così come
lo era
lei, visibilmente interrotto dal suo ingresso. «Oh, scusate,
che
sbadata, si è aperta la porta? Pff»,
rise e tentò di infilare una tazza sotto il braccio destro
per
richiudere ma, presa dalla fretta, non riusciva ad incastrarlo e
quindi ad andarsene. Odiava la sua goffaggine quando si trovava in
una situazione imbarazzante.
Lena
abbassò la testa e quel ragazzo sorrise, pur mantenendo un
tono
distaccato, sistemandosi meglio la cravatta. «Lasci pure
aperto,
signorina…?».
«Danvers.
Kara Danvers».
«Oh,
signorina Danvers. Sono onorato», si avvicinò e le
strinse la mano
sinistra che era riuscita a liberare, che poi le baciò,
sotto il suo
sguardo confuso, arrossendo. «Maxwell Lord, molto piacere.
Stavo
appunto dicendo alla signorina Luthor che si era fatto
tardi».
Salutò Kara, poi Lena, ed uscì dall'ufficio,
chiudendo dopo di lui.
Kara
guardò Lena, che era tesa come una corda di violino,
trattenendo il
respiro. Si accertò che la porta fosse ben chiusa e la
raggiunse,
poggiando le tazze sulla scrivania. «Maxwell Lord delle Lord
Technologies?», domandò, voltandosi ancora verso
la porta, come se
da un attimo all'altro potesse vederlo rientrare. «Cosa
faceva lui
qui?».
Lena
sospirò e si sedette a peso sulla sedia davanti alla
scrivania,
portandosi una mano sulla fronte. «Non ha trovato mia madre e
così
è venuto qui».
«Non
avrà sentito il cellulare…».
«No,
conoscendola gli avrà chiuso la telefonata di
proposito».
«Che
cosa voleva?».
«Offrire
aiuto», sorrise, ma nel suo sguardo non c'era altro che
astio. «Ha
saputo della situazione a Metropolis e si è fatto avanti.
Domani
andrà laggiù a parlare con mio fratello e voleva
che lo
appoggiassi».
Kara
la guardò attentamente. «E tu… hai
detto che lo appoggerai?».
«Gli
ho risposto che ci avrei pensato, ma è ovvio che preferirei
risolvere la questione prima che lui si metta in mezzo. Da anni punta
gli occhi sulla Luthor Corp. Sono certa che non aspettasse altro che
un'occasione simile per mostrarsi tanto generoso»,
alzò le
sopracciglia e, distraendosi, mise a fuoco le due tazze sul tavolo.
«Quelle?».
«Oh,
sì», si ricordò improvvisamente,
destandosi. «Questa è tua», le
passò la tazza, per poi prendere l'unica non fumante,
sedendo
davanti a lei. «Questa è mia».
Lena
sorrise, aprendola e odorando il profumo del caffè ancora
caldo.
«Anche tu caffè?».
«Frullato»,
rise, alzando la tazza.
«Fammi
indovinare: vaniglia?», le sorrise e Kara arrossì,
annuendo, dando
un primo sorso.
Per
un attimo le era parso che Lena sembrasse tornare quella di prima: la
battuta, il sorriso malizioso, come l'aveva guardata. E tutto questo
nonostante la visita poco gradita di Maxwell Lord: era la prima volta
che lo vedeva e non le era piaciuto affatto.
Kara
era rimasta con Winn alla sua scrivania per un po', chiacchierando,
mentre Lena chiamava Lex per dirgli di Lord, chiusa nel suo ufficio.
La sentivano parlare a voce estremamente alta, a volte, capendo di
essere davanti a una questione piuttosto delicata.
«Se
Lord fa un favore ai Luthor, poi i Luthor dovranno fargli un favore,
non so se mi spiego», disse Winn, giocando a campo minato nel
suo
pc.
«Non
lì, non lì, prova quella a fianc- No!».
«Accidenti»,
sbuffò lui, perdendo la partita.
«Impari
a non darmi ascolto». Guardò verso la porta,
cercando di sentire
più che poteva di quella telefonata. Infine, la
sentì salutarlo.
Doveva aver richiuso.
La
porta del suo ufficio si aprì di lì a poco e Lena
si appoggiò allo
stipite della porta, con un'aria decisamente stanca. «Lex ha
detto
che mi invierà entro mattinata altri documenti. Sta stilando
una
lista dei possibili truffatori interni all'azienda, grazie al nome e
ai dati che gli abbiamo fornito. Fino ad allora…»,
alzò gli occhi
al soffitto, «aspettiamo».
A
malincuore, Winn si allontanò dalla Luthor Corp per urgenze
familiari, dopotutto quelle per lui erano ore extra e Lena gli
lasciò
il permesso di uscire, così per ingannare l'attesa uscirono
anche
loro, decidendo di passeggiare intorno al palazzo, rientrando appena
arrivava l'email con i nuovi file.
«Lex
è molto stressato, ultimamente»,
confidò Lena, al suo fianco.
«Nostra madre non fa che chiamarlo e insiste
perché lui venga qui
per conoscere voi, il resto della famiglia, ma lui non riesce
perché
non si può permettere di lasciare la Luthor Corp, in questo
momento.
Lei lascia il comando a noi ma, allo stesso tempo, vorrebbe avere
sempre l'ultima parola e lui non ne può più. Non
giudicarlo per
quello che sta succedendo, ti prego».
«Non
l'ho mai fatto», le sorrise, ma l'altra teneva lo sguardo
basso.
Il
centro di National City, solitamente molto affollato, era invece
più
tranquillo ora che era luglio inoltrato ed erano poche le
attività
ancora aperte. Con le scuole chiuse, erano molti i ragazzini in giro
in bici o in skateboard. Passavano i taxi, quelli non mancavano mai,
ma anche il traffico era più contenuto. Il sole picchiava
forte,
portando con sé anche una leggera brezza.
Kara
e Lena passarono davanti a un mendicante e la prima si
bloccò di
colpo, aprendo la borsa e recuperando qualche soldo, portandoglielo.
Lui la ringraziò e lei gli regalò un sorriso,
mentre Lena osservava
la scena, rapita.
«Dolce
come la vaniglia»,
sussurrò scuotendo la testa, arrossendo. Aprì il
portafogli e
quando Kara si riavvicinò a lei le passò una
banconota da dare al
mendicante al posto suo. Kara eseguì senza chiedere e si
prese di
nuovo i suoi ringraziamenti. Lo salutò e ripresero a
camminare,
mentre Lena teneva d'occhio il cellulare per verificare se fosse
arrivata quella email.
«Senti,
Kara», disse, senza guardarla negli occhi, «Non ti
ho mai chiesto
una cosa». Riabbassò il cellulare verso la borsa
in spalla,
rendendosi conto che aveva la sua attenzione.
«Quando…», sospirò,
mordendosi un labbro, «Quando eravamo al party, nella tua
università, e quel ragazzo mi ha accusato di essere una
ladra, di
esserlo la mia famiglia… tu non ci hai creduto, anche solo
per un
attimo?», si voltò a guardarla, incontrando gli
occhi azzurri di
Kara seri e attenti. «Insomma, questo aspetto di noi lo
conosci
appena e in passato hanno circolato molte brutte voci sulla nostra
famiglia».
«No»,
scosse la testa, «Non
sei così. Lo so che ci conosciamo da poco, ma non avrei mai
potuto
crederci. Sembri scontrosa, e
diciamo che a volte potresti mettercela tutta per confermarlo,
forse ci vuole un pochino per farti aprire e forse a qualcuno questo
può ingannare, ma sei una persona buonissima,
Lena», le sorrise,
«So
che non faresti mai nulla del genere».
Lena
si lasciò andare a una breve risata, portandole una mano sul
viso e
sistemandole dietro un orecchio un capello biondo rimasto
intrappolato nel suo sorriso, in quelle labbra rosa pesca che erano
lì solo per lei. Il pollice le accarezzò la
guancia e, non poté
farne a meno, si avvicinò e le portò via un
bacio.
«E
poi adesso la tua è anche la mia famiglia,
immagino».
Lena
si destò, aprendo bene gli occhi. Kara portava ancora quel
capello
incastrato nelle sue labbra, che si tolse da sola, riprendendo a
camminare. Oh, no. Lena la seguì subito, ricordando con
qualche
brivido le parole del suo assistente: Kara Danvers era appena
diventata la sua Margot Blanc.
Distratta
da ciò che era appena successo, un ragazzo passò
di corsa al suo
fianco e non si rese subito conto che lui le fece scivolare la
borsetta per stringerla contro sé e portarla via.
Gridò appena che
Kara era già corsa a inseguire il ladruncolo. Divise la
distanza che
li separava a breve e, in un attimo, gli era addosso, afferrandolo
per un braccio. Lui cercò di strattonarsi e lei,
velocemente, lo
capovolse a mezz'aria gettandolo contro il marciapiede.
«Fanculo!!»,
gridò il ladro ringhiando di dolore, contorcendosi a terra.
«Mi hai
rotto il braccio».
«Oh
beh, non mi lamenterei, sono certa che poteva andarti
peggio»,
esclamò, riprendendo la borsa.
Lena
li raggiunse. Eseguendo quella mossa, a Kara si erano staccate le
forcine dai capelli e le erano scivolati gli occhiali dalla faccia,
così se li rimise sul naso nel restituirle la refurtiva.
Lena era
senza parole, tanto che quando quel ragazzo scappò non ci
badò più
di tanto e alle lamentele di Kara rispose di lasciarlo andare.
«Magari
farò una segnalazione a Maggie», disse, non
contenta di come si
erano svolte le cose.
«Adesso
capisco perché pensavi di entrare nelle forze
dell'ordine».
«O
quello, o farò la giustiziera in
tutina», rise lei.
Ripresero
a camminare, intanto che Lena controllava che nella sua borsa non
mancasse nulla. «Dove hai imparato…? Dubito che
per giocare a
lacrosse uno dei requisiti sia essere un'esperta di arti
marziali».
«No,
infatti! E non sono un'esperta… È solo che lo
faccio da quando ero
molto piccola: credo di aver imparato a disarmare qualcuno prima
ancora di scrivere», le disse con una punta di arroganza
nella voce,
«È opera dei miei veri genitori. Poi mi sono
tenuta in allenamento
con Alex, quando ha imparato lei. Beh, sì, è lei
l'esperta».
Lena
deglutì. Stava per dirle qualcosa, ma cambiò idea
all'ultimo,
riprendendo il cellulare in mano. «Non finisci mai di
sorprendermi»,
si fermò, pensando bene a come chiamarla,
«Kara». Guardò il
telefono. «L'email è finalmente arrivata, Lex ce
l'ha fatta.
Andiamo?».
Lex
Luthor aveva stilato una lunga lista di nomi in base alle
informazioni che erano riusciti a fornirgli: comparivano solo persone
che potevano avere i mezzi per una truffa di tale portata,
contraffacendo dichiarazioni ufficiali che, a uno sguardo attento,
tra mille e più cose da seguire, sarebbero passate
inosservate. Lena
e Kara si misero subito al lavoro e quando Winn tornò in
ufficio,
con l'aria sconfitta di un cane bastonato, riprese a lavorare anche
lui. Questa volta era diverso, non si trattava di trovare qualcosa di
strano tra nomi e cifre, ma di leggere nomi di dipendenti, le loro
brevi biografie, curriculum, dati generali e rifletterci sopra.
Andarono per ordine alfabetico, leggendone a voce alta uno a testa ed
esaminandolo insieme.
Pranzarono
tutti e tre come il giorno prima, nello stesso locale sotto alla
Luthor Corp, ma si portarono con loro il lavoro, continuando a
leggerne uno a testa ed esaminandolo, accertandosi di tanto in tanto
che non li stesse ascoltando nessuno. Fortunatamente per loro c'erano
pochi clienti. Poi tornarono in ufficio, proseguendo senza sosta,
passandoci le ore.
Winn
ne lesse uno che scartarono subito, passando al successivo, letto da
Lena. Kara inviò un messaggio a Mike per dirgli che avrebbe
fatto
tardi e se le faceva il favore di avvertire il guardiano notturno per
lei, così si sarebbe potuta trattenere un po' di
più. Cenarono in
ufficio, insieme, facendosi portare dei piatti veloci, continuando a
lavorarci. Quella giornata sembrava non finire mai.
«Sapete
a cosa pensavo?». Winn attirò la loro attenzione.
«Che sembra un
lavoro fatto troppo bene per una persona qualunque di
queste»,
strinse uno dei fogli, sollevandolo, «Non ci arriveremo
mai». Si
grattò la nuca esausto e Lena lo congedò,
dicendogli che avevano
fatto tutto il possibile e che avrebbero ripreso l'indomani.
Accettò
di buon grado solo poiché era talmente stanco che gli occhi
gli si
chiudevano da soli, così le salutò con uno
sbadiglio, tornando a
casa.
Kara
guardò Lena, che ricontrollava un foglio dopo l'altro senza
tregua.
«Tu non hai intenzione di riprendere l'indomani,
vero?».
La
vide scuotere la testa, presa dai documenti. «Maxwell Lord
andrà da
Lex, domani. Se possibile, continuerò a leggere di queste
persone
fino a che non crollerò a terra. Tu torna pure al campus,
Kara».
«Non
lo farò. Ho deciso che ti aiuterò e vale ancora
adesso, possiamo
farlo insieme», riprese uno dei fogli, leggendo velocemente.
«Ecco,
senti questo-», si bloccò soprappensiero, facendo
scivolare di
nuovo quel foglio, «Ha ragione Winn»,
sussurrò poi, prendendo
l'attenzione di Lena.
«Cosa?».
«Ha
ragione Winn, Lena, è come dice lui: è un lavoro
fatto troppo bene
per essere stato ideato da uno qualunque di loro. Dev'essere stato
per forza qualcuno ai piani alti, vicino a Lex, o non si spiega!
Magari qualcuno che ha ben più da guadagnare che i soldi
degli
investitori».
Si
guardarono. «Qualcuno come Maxwell Lord»,
sussurrò Lena.
«Come
abbiamo fatto a non pensarci prima?!».
Lena
chiamò immediatamente suo fratello, con Kara che, sul
divano, si
rilassava, guardando il soffitto. La chiamata durò sui
quindici
minuti appena. Lena spiegava con calma la conclusione a cui erano
arrivate lei e Kara, e Lex la tratteneva giusto qualche momento,
senza pause troppo lunghe. Kara non sentiva la sua voce, doveva
parlare molto piano, pensando che non solo non lo aveva mai visto, ma
nemmeno sentito.
Quando
la ragazza augurò la buonanotte a Lex, Kara si rimise
composta,
guardandola. Lena sospirò, guardandola a sua volta.
«È fatta», le
disse, poggiando il cellulare sulla scrivania. Si avvicinò
ma non
troppo, restando ad almeno due metri da lei, appoggiandosi a un
mobile e mettendo le braccia a conserte. «Domani
svolgerà una
veloce indagine interna. Ora può procedere, sapendo dove
deve
cercare la spia di Lord». Il suo sguardo era rivolto alla
finestra,
non a Kara.
«E
Lord?».
«Se
riescono a trovare delle prove che lo colleghino al fatto o se il
complice confessa potremmo protrarlo in tribunale,
altrimenti…».
«Resterà
impunito».
Lena
annuì, finalmente girandosi a guardarla, mordendosi un
labbro.
«Grazie, Kara. Davvero. Sei letteralmente il mio eroe, e per
ben due
volte in una sola giornata».
Lei
sorrise, diventando rossa. «Ora devo andare». Si
mosse per
raccogliere la sua roba e Lena restò immobile, per poi
portarsi un
dito contro la bocca, pensando, trattenendosi, e infine lasciandosi
andare:
«Sai,
ho capito perché vuoi entrare in un corpo di
polizia», le disse di
colpo, fermandola, «Sembri nata per essere un eroe, ma ci
sono tanti
modi per esserlo. Uno di questi è il giornalismo».
Kara
si voltò, stringendo le labbra, ascoltando.
«Tu
sei tagliata per fare la reporter: hai intuito, passione, sai
cogliere le sfumature, sei una persona molto attenta. E si vede che
è
quello che vuoi davvero, Kara. Vuoi restare vicino a Mike, un futuro
con lui al tuo fianco, lo capisco, ma tu prova a scegliere per te,
non precluderti questa possibilità. Se volete restare uniti,
potete
comunque farlo anche lavorando in due ambienti diversi».
Lei
annuì, avvicinandosi. «Ci
penserò».
«Fallo,
veramente». L'abbracciò per prima e Kara
ricambiò, sorridendo con
gioia e forse un poco di imbarazzo.
Appena
si lasciarono andare, si guardarono a vicenda con intensità,
cogliendo le sfumature degli occhi l'una dell'altra, e poi le labbra,
senza poterne fare a meno. Lena l'avvicinò a sé e
la baciò senza
lasciarle respiro.
«Buonanotte,
Lena».
Si
allontanò da lei e quest'ultima sospirò,
risvegliandosi dal frutto
della sua mente. «Buonanotte, Kara».
Maledetta
Margot Blanc.
Ah,
rieccoci qui!
Povera
Lena, ha baciato Kara per ben due volte, ma solo nella sua
immaginazione! Temo sia proprio arrivata a un punto piuttosto
critico. Ha cercato di allontanare Kara da lei ma non ci è
riuscita
e Kara, da parte sua, aveva tutta l'intenzione di
“riconquistarla”.
Non si sfugge alla sua determinazione (lo ha imparato anche la
signora Terry).
E
poi c'è Winn, che si è preso una cotta per lei, e
Maxwell Lord ha
fatto il suo ingresso in scena. Come vi sembrano?
Una
nota importante: io non ho idea di come si possa risolvere una
questione come quella affrontata alla Luthor Corp. Ho cercato di
immaginarmi la situazione, ma è presa molto alla buona. Non
voletemene se non so essere più
“efficiente”. Se non altro,
riconosco che anche nella stessa serie a volte le cose sono trattate
molto alla buona XD
Spero
vi sia piaciuto lo stesso ^_^ Voi avete mai avuto una vostra (o
vostro) Margot Blanc?
Il
prossimo capitolo si intitola Problemi di affezione
e, come
anticipato la scorsa settimana, arriverà lunedì 9
aprile!
(Così
vi auguro anche se in anticipo, se festeggiate, buone uova di
cioccolato a tutti!)
|
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Capitolo 9 *** 8. Problemi di affezione ***
E
anche quella mattina, Kara Danvers si svegliò di buon'umore,
sapendo
che sarebbe stato un sabato fantastico. Era soddisfatta di aver
potuto aiutare Lena e Lex, anche se non lo conosceva ancora, a
risolvere il problema alla Luthor Corp di Metropolis, e continuava a
pensarci. Si alzò, si rivestì in fretta
indossando leggins e
canottiera, andando a correre. Megan la raggiunse dopo una mezzora,
quando lei era già in pista. Fecero una gara e ripresero
fiato l'una
vicino all'altra, passandosi asciugamani per il sudore e borracce
d'acqua. Altri e altre studentesse raggiunsero la pista quando loro
se ne andarono per fare due tiri in porta nel campo da lacrosse
accanto; a tarda mattina decisero di rientrare, discutendo di come
avevano trascorso le loro giornate, quando un uomo andò loro
incontro, salutandole.
«Ottimo
allenamento, ragazze. Vi voglio preparate perché
è molto probabile
che il nostro primo incontro, a inizio anno, sarà contro
Gotham
City».
Kara
e Megan si scambiarono un'occhiata seriosa. «Dunque andremo
dritte
al sodo», esclamò Megan, «Le abbiamo
battute sul filo del rasoio,
l'ultima volta».
«Gira
voce che stiano intensificando gli allenamenti. Puntano
alto»,
rispose lui, guardandola con occhi di riguardo e, dopo, adocchiando
Kara: «Ti voglio al cento per cento là fuori,
Supergirl. Ricorda
che ora sei tu il capitano».
Lei
annuì, con ferma decisione nello sguardo. «Ce la
metterò tutta».
Lui
le scambiò un'occhiata e dopo passò una mano su
una spalla di
Megan, dolce. «Ci vediamo questa sera».
Lei
ricambiò, allontanandosi con l'amica.
Nel
vedere il sorriso sulle labbra di Megan, Kara sorrise a sua volta,
con complicità. «Come stanno andando le cose tra
te e il signor
Jonzz?».
L'altra
arrossì e scosse la testa, come a voler dissimulare il suo
imbarazzo. «Bene, sembra… Abbiamo superato il
problema dell'età,
ora non ci resta che ignorare il fatto che lui sia un professore, il
mio coach, e io la sua studentessa. Abbiamo molte cose in comune: ci
dobbiamo solo sforzare di pensare a questo».
L'altra
annuì, distraendosi quando sentì il suo cellulare
vibrare
all'interno della sua borsetta. Pensò subito a un messaggio
da parte
di Lena, ma la vibrazione continuò e quando
guardò sullo schermo
vide che la stava chiamando un numero privato. Si scambiò
uno
sguardo con Megan. «Devo rispondere».
Camminò verso un corridoio
deserto, accettando la chiamata. «Kara Danvers».
«Kara.
Finalmente ho il piacere di parlare con te»,
disse la voce dall'altro apparecchio, «La
mia nuova, cara sorellina».
Kara
deglutì: la voce calma e distante che sentiva apparteneva a
Lex
Luthor? Il fratello di Lena, il figlio biologico di Lillian Luthor
che ancora non conosceva la cercava? Non avrebbe saputo definirne
bene il motivo, ma sentirlo le metteva addosso una strana sensazione
di disagio, la faceva sentire sulle spine, forse perché in
fondo non
lo aveva mai neppure visto. «Lex?».
«Naturalmente»,
lui sorrise, appoggiando la mano libera sulla scrivania su cui era
seduto davanti. «Mia madre mi ha dato il tuo numero, spero
non ti
dispiaccia, ma ci tenevo a ringraziarti personalmente per il tuo
aiuto. Se ne hai una a portata d'occhio, accendi la
televisione».
Kara
abbassò il cellulare dall'orecchia e fece cenno a Megan di
seguirla,
così corsero alla sala video, dove la televisione,
già accesa,
trasmetteva il telegiornale, seguita da qualche studente che
commentava a voce alta l'arresto alla Luthor Corp di Metropolis.
«Ti
direi su quale canale girare, ma la notizia è dell'ultimo
momento,
credo la stiano trasmettendo ovunque»,
spiegò lui.
Le
immagini mostravano la polizia di Metropolis che scortava fuori
dalla possente struttura della Luthor Corp un uomo e due donne,
l'assistente e una segretaria di Lex Luthor e l'addetta ai controlli
degli investimenti, citava la didascalia, rei di aver contraffatto
documenti e aver frodato l'azienda. Da nessuna parte si citava,
tuttavia, la complicità di Maxwell Lord. Dopotutto, nessuno
di loro
aveva prove concrete contro di lui.
Come
avesse potuto leggerle nel pensiero, Lex si affrettò ad
aggiungere:
«Lena
mi ha riferito dei vostri sospetti su Lord. Non posso essere
più
d'accordo ma, senza prove, non possiamo procedere e nessuno parla.
C'era da aspettarselo, chiaramente»,
prese una breve pausa, «Questa
mattina si è presentato nel mio ufficio tutto zelante,
sperava che
arrivassimo a un accordo, ma suo malgrado si è ritrovato ad
assistere all'arresto».
Kara
notò, infatti, che dietro alle immagini dell'arresto, in
mezzo a
tante altre persone, compariva anche Maxwell Lord, ma pareva aver
perso il suo sorriso: non poté che sentirsi un po'
soddisfatta.
Dopo, d'improvviso, il video cambiò mostrando in primo piano
Lillian
Luthor e il suo tirato sorriso. Dietro di lei, Kara intravide sua
madre Eliza. «Lillian? Lei ed Eliza sono a
Metropolis?».
«Oh,
sì, sono arrivate questa mattina presto. Ufficialmente
l'idea di mia
madre era quella di venirmi a trovare, ma ho come il sospetto che
volesse prendersi i meriti dell'arresto»,
lo sentì ridere appena, piano. «Hanno
preso un elicottero per arrivare qui in tempo».
#La
mia famiglia è piuttosto scossa riguardo l'accaduto. Mio
figlio è
stato accusato ingiustamente#,
disse la donna davanti ai microfoni e, a una seguente domanda di un
giornalista, rispondere. #Oh,
non rilascerà interviste, è già
abbastanza provato. Si sta
occupando di tutto la polizia; ci affidiamo completamente a loro. Non
ho altro da aggiungere#
Lillian chinò la testa e si allontanò,
così il servizio mostrò di
nuovo le facce dei colpevoli.
«Il
denaro degli investitori? Verrà recuperato?»,
chiese.
«Fino
all'ultimo quarto di dollaro»,
rispose prontamente Lex, «Grazie
a te, Kara. Ognuno ha fatto la sua parte, naturalmente, ma hai dato
una forte spinta al tutto. Non vedo l'ora di conoscerti dal vivo, ora
sono molto impegnato e, come ben avrai immaginato, devo condurre dei
controlli molto stretti su tutto il personale che lavora qui a
Metropolis, ma non vedo l'ora. Lena mi ha parlato così bene
di te».
Kara
arrossì, colta alla sprovvista non sapeva cosa dire.
«E
avrei giurato che fossi molto più loquace, da come ti ha
descritta».
Lo sentì ridere di nuovo, senza scomporsi.
Chiusero
la telefonata, salutandosi con l'augurio di vedersi presto dal vivo.
Megan
la guardò, incurvando un sopracciglio. «Fammi
indovinare: il tuo
nuovo fratello maggiore?».
Kara
annuì.
Per
tutto il servizio al tg, Lex Luthor non comparve nemmeno per un
fotogramma. Guardando di nuovo le immagini dell'arresto, Kara
ripensò
alle parole di Lex, su come avesse davvero aiutato a rendere
ciò
possibile, e a quelle di Lena il giorno prima. Sarebbe stata davvero
tagliata per essere una reporter? Quando al liceo dovette pensare
bene a cosa fare una volta diventata ufficialmente un'adulta, la
reporter era stata la sua prima scelta. Dare voce a chi non poteva,
mettere in luce gli abusi, fare qualcosa che sarebbe rimasto nel
tempo, scritto nero su bianco, credeva sarebbe stato appagante. Le
cose erano cambiate quando alcuni professori le avevano abbassato i
voti, e non era una persona che si sarebbe lasciata prendere in quel
modo dallo sconforto se non avesse notato che, in fondo, era sempre
stata più brava nello sport e nell'affrontare le persone a
mani
nude. E lei e Mike Gand insieme riuscivano a fermare chiunque, quando
lui non faceva troppo di testa sua. Così quando lei, un
pomeriggio
dopo un allenamento, gli disse in tono scherzoso che forse avrebbero
dovuto fare quello per tutta la vita, lui accettò di buon
grado,
felice che a lei sarebbe bastato avere lui al suo fianco per
realizzarsi. A quel punto le forze dell'ordine era l'unica scelta
possibile. Sarebbe diventata una poliziotta come Maggie e avrebbe
ripulito la città al fianco di Mike.
Però…
Disse
a Megan che sarebbe andata a cercare Mike e si divisero mentre
l'amica tornava in dormitorio. Lo invitò a pranzare con lei,
ignorando il cellulare dentro la borsa perché l'avrebbe
distratta:
voleva parlargli di una cosa importante. Saputo che avrebbero
pranzato insieme, il ragazzo prese quattro panini dalla mensa e
gliene passò due, quando si sedettero sull'erba del parco.
Di spalle
avevano gli alberi e davanti un prato in cui Kara aveva piacere ad
appisolarsi con i libri in mano quando era periodo di esami.
Lui
sospirava rumorosamente, la guardava e sorrideva estasiato,
addentando poi il suo primo panino.
Kara,
che solitamente dopo il primo morso era già a
metà panino,
indugiava più del normale.
«Allora,
di cosa volevi parlarmi?», chiese lui con la bocca piena,
tanto
all'improvviso che la fece sobbalzare dallo spavento.
Si
voltò a guardarlo e notò il suo sorriso. Era
incredibilmente felice
per uno che stava per ricevere una brutta notizia, pensò. Ma
lui non
ne aveva idea. Oh, no: forse pensava che stessero per tornare ins-
«Lo
so: vuoi che torniamo insieme», canticchiò, di
buon umore.
Kara
chiuse gli occhi e affondò un pesante morso al suo panino,
masticando così lentamente da avere il tempo di capire come
muoversi
e uscirne viva.
«Dai,
Kara. Non farla tanto lunga, siamo fatti per stare insieme, lo
abbiamo sempre saputo! Non mentire. Siamo forti in coppia,
no?».
«Già…»,
borbottò lei, in preda al panico, «Non volevo
parlare del nostro
stare insieme, cioè un po' sì, ma non in questo
senso, in un senso
più… futuro». Lui inarcò un
sopracciglio, scartando il secondo
panino. Così anche lei diede un ultimo morso al primo e
prese tempo
scartando il secondo. «Sai quanto siamo forti insieme, e
abbiamo
cercato di immaginarci un futuro insieme, ma quel futuro,
ora»,
deglutì, balbettando, «fo-forse potrebbe
cambiare».
Lui
sgranò gli occhi e la bocca, fissandola con
intensità, diventando
serio. «Kara…», deglutì,
avvicinandosi, «Stai dicendo che-».
«Mi
dispiace, Mike».
«Sei
incinta?».
«Cosa?».
«Ma
è fantastico!». Per poco non esultò.
«No,
Mike».
«Senti,
non pensare che io mi tiri indietro: forse diventare padre ora mi
cambierà la vita, dovrò fare pace con mia madre
per avere più
soldi ma tu non dovrai preoccuparti di nulla! Penserò a
tutto io,
ovvio, tu dovrai stare a casa a riposare… Non è
una cosa brutta»,
le sorrise, mentre lei riprendeva a masticare, lasciandolo parlare.
«Kara, diventeremo genitori». Le prese le mani
nelle sue, con il
panino in mezzo.
«Mike,
non sono incinta», esclamò, diventando rossa,
«E-E poi è da molto
che noi non- Sono passati mesi, se fossi incinta si
vedrebbe».
«Oh,
beh, peccato però», si costrinse a tornare
composto sull'erba,
quando scemò il suo entusiasmo.
«Affatto»,
bisbigliò lei.
«Magari
eri in ritardo».
«Non
è il diretto per Central City»,
brontolò.
«Sarebbe
stato bello! Tu potevi stare a casa a prenderti cura del nostro
bambino e dopo il lavoro sarei tornato a casa per giocare con
lui».
«O
lei», aggiunse Kara, capendo solo in quel momento cosa il
ragazzo
stesse dicendo: «No, aspetta! U-Un figlio o figlia adesso
cambierebbe tutto… Cosa stai-?».
«In
meglio».
«Non
proprio», lo corresse, «Ho gli studi, lo
sport… ogni cosa…».
Lui
grugnì, finendo il panino, accartocciando la stagnola.
«Lo so che
abbiamo detto che saremmo diventati entrambi agenti e che avremo
sgominato le forze del male di National City, ma si può fare
tutto
anche con un figlio, no? O quasi», sorrise, perso nei suoi
pensieri.
«Magari starei fuori un po' più io, tu saresti in
maternità, e va
bene così. È sempre così,
no?», rise appena, «La mamma sta a
casa e il padre lavora. Non che ci sia qualcosa di male, in
questo»,
scosse la testa, guardandola, «È una cosa normale!
Un piccolo me
che mi aspetta a casa appena apro la porta, con te che mi accogli.
Cosa c'è di male in questo?». Si accorse che lo
stava fissando
corrugando lo sguardo.
«Va
bene, basta: non avremo un bambino».
«Non
adesso…».
Sospirò,
accartocciando anche lei la sua stagnola. «A proposito del
nostro
diventare agenti… Volevo parlare di questo».
Lui
la fissò. «Hai pensato a qualche ramo di polizia
in particolare?».
Kara
strinse i denti, simulando un tirato sorriso. «No»,
abbassò lo
sguardo, scuotendo la testa. «Ultimamente sono successe delle
cose
che mi hanno fatto pensare…».
«Quella
cosa che hai fatto per Lena Luthor? Ho saputo che hanno arrestato
qualcuno».
«Sì,
quello…», deglutì, guardando verso il
prato. «Mi ha fatto
sentire bene», ritrovò il sorriso, entusiasta.
«E ho ripensato a
quando sarei voluta diventare reporter».
«Ah».
Guardò il prato anche lui, chiudendo con forza le labbra.
«Quindi
vorresti…», scrollò le spalle,
«lasciar perdere questa cosa
degli agenti?».
«Forse»,
lo guardò. «Era una bella idea, e lo volevo tanto,
ma diventare
reporter è una cosa che desidero da sempre e forse posso
cavarmela».
«Oh,
beh… se è questo che vuoi»,
enunciò a bassa voce, spento.
«Non
ti piace, eh?».
«Non
è che non mi piaccia, è che decidi tutto
tu», alzò di nuovo le
spalle, aggrottando le sopracciglia. «Prima dici che vuoi
diventare
un agente con me, poi che vuoi mollarmi, ora che vuoi mollarmi anche
dal diventare un agente con me. E io non ti capisco più,
Kara! O
forse non ti ho mai capito! Hai questa assurda mania di voler aiutare
tutti, e per questo vuoi essere agente, o reporter, o
entrambi»,
sbuffò, «E io non ho deciso nessuno dei due!
Volevo diventare
agente solo perché lo volevi tu; a me non importa niente di
andare a
fermare i criminali come un vigilante dei vecchi fumetti! Lo volevo
solo per stare con te». Si fermò, riprendendo
fiato, mentre Kara
restava senza parole, aggrottando lo sguardo anche lei. «E
sai che
ho litigato con mia madre che non voleva ti frequentassi! Dopotutto
questo tu mi stai abbandonando».
«Non
ti sto abbandonando».
«Sì
che lo stai facendo», l'accusò, puntandole contro
un dito, «E lo
sai. Vuoi aiutare tutti, vuoi esserci per tutti, ma alla fine molli
me che sono sempre stato al tuo fianco», si alzò e
Kara lo seguì,
prendendo la sua roba.
«Potremmo
stare vicini anche se divento reporter! Mike?», lo
chiamò,
correndogli dietro, mentre lui percorreva la strada per uscire dal
parco. «Non sarà lo stesso, ma-».
«Certo
che non sarà lo stesso», si fermò di
colpo, guardandola negli
occhi. «Prima ti bastavo io, Kara… pensavo mi
amassi. E io non sto
dicendo che è una brutta cosa se diventi reporter, se
è questo ciò
che vuoi fare fallo, ma non lasciarmi indietro perché io per
te ho
fatto di tutto… Avrei preferito fossi incinta».
Lui
se ne andò e Kara si portò le mani contro la
fronte, sospirando.
Litigare
con Mike a volte le sembrava come di essere sulle montagne russe. Era
vero che lui aveva avuto una pesante discussione con sua madre per
lei che, non sapeva bene perché, non aveva preso proprio in
simpatia
e non voleva che stessero insieme. Il giorno in cui l'aveva
presentata ai suoi si era trasformato in un incubo. Mike si era
battuto per quello e per poco non si ritrovava senza casa e senza
soldi, se non fosse stato per suo padre che si era messo in mezzo. E
sì, era probabilmente vero anche che era stata lei a
scegliere per
lui un futuro nelle forze dell'ordine; era così capace nel
battersi
che, probabilmente, aveva riflettuto un po' di se stessa in lui,
pensando che avrebbe potuto usare quella forza, quella
velocità e
quell'abilità per fare del bene. Forse aveva sbagliato a
trattarlo
in quel modo, pensava.
Rientrò
al dormitorio con sguardo basso e aprì la porta della sua
camera di
malavoglia, sapendo che si sarebbe subito infilata in doccia.
Sbuffò
e richiuse, bloccandosi quando vide fiori, fiori ovunque: la camera
che divideva con Megan era piena di fiori di ogni colore e grandezza.
C'erano dei girasoli in un vaso sul tavolo, accanto a delle rose
rosse e rosa in un mazzo, e dall'altro dei gigli. C'erano mazzi di
fiori bianchi, blu e viola in alcuni vasetti per terra vicino al
letto, un mazzo era sul suo letto, altri davanti alla porta del
bagno, e davanti al suo armadio e a quello di Megan. Seduta sul
letto, con le auricolari nelle orecchie, Megan aveva il naso dentro
un altro mazzo di fiori di tutti i colori. Poi la vide e spense la
musica.
«Sorpresa?»,
le domandò in un sorriso.
Kara
era a bocca aperta, continuando a guardarsi intorno con meraviglia
nello sguardo. «Te li ha portati il signor Jonzz?».
«Me
li ha portati?», rise, «Ehi, bella, questi sono per
te».
«P-Per
me?». Corse precipitosa verso il tavolo, incrociando un
biglietto
ripiegato. Appena lo aprì le sue guance si colorarono di
porpora,
senza trattenere un sorriso.
Ero
indecisa se ringraziarti invitandoti a cena oppure inviandoti dei
fiori. Tanti fiori. Ho deciso di fare entrambe le cose: domani alle
20:00 ti verrà a prendere Ferdinand e non voglio sentire
storie.
Lena
«Te
lo avevo scritto per messaggio: erano già qui quando sono
entrata in
camera, deve aver aperto il guardiano», le disse Megan,
«È
incredibile: lei è praticamente tua sorella, eppure
è più
romantica di come sia mai stato Mike da quando lo conosci».
«Non
parlare male di lui. Si impegna».
«No,
ma lo difendi sempre», sbuffò, alzandosi e
passandole il mazzo di
fiori che aveva con sé. «A proposito:
com'è andata con lui, poco
fa?».
«Abbiamo
litigato».
«Perfetto»,
sorrise per prenderla in giro, spostando alcuni vasi e aprendo la
porta del bagno. «Chissà perché
comincio a desiderare anch'io una
nuova sorella», disse ancora, prima di chiudere dietro di
lei.
Kara
avvicinò il naso contro i fiori nel mazzo, facendo suo quel
forte
odore dolce. Era così buono. Si riguardò intorno,
pensando che mai
si sarebbe aspettata qualcosa di simile. Da nessuno, mai. E l'aveva
perfino invitata a cena. Sua sorella, già… Sapeva
cosa fare.
«Alex!
Mi ha circondata di fiori! E mi ha invitato a cena», disse
con
decisione, guardando sua sorella che, dall'altro capo del cellulare,
era davanti a una finestra. «Guarda». Le
mostrò tutta la camera,
fermandosi a lungo su ogni mazzo di fiori che incontrava. Alex le
sembrò distratta, però. «Ci sei,
sorellona? Hai visto?».
«Ho
visto, Kara, sono bellissimi. È stata Lena?».
Kara
annuì. «E mi ha invitata a cena. Domani. Non so
nemmeno cosa
mettermi, non so in che tipo di locale andremo, cosa mangeremo, se
saremo sole».
«Calmati,
Kara»,
le sorrise Alex, «Come
se non fossi mai andata a cena fuori in vita tua. Probabilmente vi
vedrete in un buon locale, conoscendo i Luthor: mettiti qualcosa di
buono, non le solite gonnelline».
«Un
vestito da sera?», domandò, incerta.
«Sì,
se invece di Lena Luthor ti stesse portando a cena fuori Maxwell
Lord»,
finse una risata, portando gli occhi al cielo.
Kara
la scrutò: c'era qualcosa che non andava. E poi dove si
trovava? Non
riconosceva lo sfondo, e quei palazzi fuori dalla finestra non
sembravano di National City. «Perché proprio
Maxwell Lord? Dove ti
trovi?».
Alex
sbuffò, portandosi una mano contro il viso, abbassandosi e
facendo
intravedere a Kara di trovarsi seduta su una poltrona mai vista. «A
Metropolis. Sono arrivata un'oretta fa».
«Cosa
fai lì?».
Megan
le arrivò di spalle, guardando anche lei quanto visibilmente
Alex
sembrasse affranta, chiedendo cosa stesse succedendo.
«È
una lunga storia. Ora mi sto nascondendo, sono a casa dei Luthor qui,
ormai praticamente ci vive solo Lex».
«Gli
ho parlato stamattina, è… un tipo
strano?!», sorrise, «Mi ha
dato una strana sensazione a parlargli al telefono».
«Diciamo
che assomiglia molto a sua madre»,
commentò.
«E
da cosa ti nascondi?», le chiese Megan, guardando anche lei.
Alex
sospirò pesantemente, cercando di rimettersi composta sulla
poltrona
rossa. «In
un'ora che sono arrivata sono stata sbattuta da una parte all'altra
da Lillian Luthor che voleva farmi vedere ogni centimetro di casa e
farmi foto per Instagram, sono stata presa da Eliza che voleva farmi
conoscere Lex, e Lex, certo, per fortuna con me si è
trattenuto poco
perché è molto impegnato. Ma soprattutto, scappo
da Maxwell Lord»,
digrignò i denti.
Kara
sorrise, mentre Megan restava senza parole: «Hai conosciuto quel
Maxwell Lord?».
«È
ancora qui intorno»,
sussurrò, deglutendo. Non ne sembrava entusiasta. «Per
qualche strano motivo è ospite di Lex, credo voglia fare una
specie
di gioco di potere con lui; credo pensi sia stato il mandante del
colpo alla Luthor Corp».
Kara
non le disse niente, gliene avrebbe fatto cenno in un altro momento,
non era il caso di interromperla.
«Beh,
Lord non sembra pronto a confessare qualcosa. Al contrario è
da
appena mi ha vista che non mi toglie occhio di dosso. Se
avesse una vista a raggi x»,
disse di nuovo, sottovoce, «mi
avrebbe fatto una scansione completa già quattro volte.
Mi ha invitata a cena».
«Ohu»,
entrambe arretrarono, guardandosi.
«Esatto»,
sospirò lei. «Ho
cercato di dirgli che sono impegnata e che sono emh, dell'altra
sponda, ma ha continuato a fare battute e non credo abbia
capito».
«Cosa
pensi di fare?», domandò Kara, mentre Megan al suo
fianco annuiva.
«Non
lo so, lo affronterò e… Una cosa è
certa: non andrò a cena con
lui»,
disse scandendo bene le parole, seria, «E
Maggie mi ucciderebbe, se lo venisse a sapere»,
aggiunse, mentre Kara sorrideva. «Un
invito a cena…»,
guardò fuori dalla finestra, con aria distratta, «praticamente
un invito ad andare a letto con lui».
Kara
arrossì inevitabilmente e Megan, al suo fianco, si costrinse
a non
ridere, guardandola e lasciandola da sola con la sorella, mettendosi
a sistemare i fiori in un unico punto della stanza.
«… a-a letto.
Certo, sì», rise con nervosismo, «Ti ha
invitata a cena fuori, ti
squadrava, è o-ovvio».
Alex
la guardò con attenzione, non capendo cosa avesse detto di
sbagliato, pensandoci all'ultimo. «Oh,
Kara, mi ero dimenticata»,
sorrise scherzosa, annuendo, «Anche
Lena Luthor ha quello in mente: vuole portarti a letto. Capolinea,
sorellina. Allora sarà il caso di mettere quel vestito da
sera di
cui parlavi».
Rise e Megan, che la sentiva parlare, rise con lei. «Ora
devo andare»,
guardò l'orologio al polso. «Ho
un appuntamento e non con Maxwell Lord, lo giuro. Ti
racconterò
questa notte. Ti voglio bene».
«Ti
voglio bene anch'io, sorellona». Kara chiuse la telefonata e
diede
una veloce occhiata al biglietto ripiegato che le aveva lasciato
Lena, sul tavolo. Deglutì.
Megan
la guardò, scoprendo quello sguardo che era durato solo un
attimo
verso il biglietto, così sorrise, annuendo. «Ah,
ora capisco».
«Cosa?»,
sobbalzò, come colta a fare qualcosa di proibito.
«Tante
cose, Kara Danvers», le poggiò una mano su una
spalla, passando
dall'altro lato della stanza per recuperare gli altri fiori.
«Per
quella cena indossa il vestito».
Mike
le fece uno squillo, ma giusto qualche secondo appena, senza inviare
messaggi o che altro, solo probabilmente per farle sapere che stava
ancora pensando a lei e che aspettava, questo quasi di certo, le sue
scuse. Era Kara ad essersi dimenticata di lui. Non a lungo, certo, le
pesava averci litigato ancora e le sembrava di dover scegliere fra
lui e il giornalismo, ma quei fiori, che ogni tanto si ritrovava ad
odorare, l'avevano piacevolmente distratta. Con tutto che erano
bellissimi, Megan le aveva fatto sapere che non potevano tenerli
tutti là dentro e di pensare a qualcosa, ma prima di farlo
l'avrebbe
ringraziata, così videochiamò anche lei, sperando
di non
disturbarla. L'idea di presentarsi alla Luthor Corp c'era, ma temeva
di trovarla impegnata, mentre una telefonata poteva sempre
interromperla. Ma Lena accettò appena al secondo squillo.
Kara
sorrise radiosa, vedendo che era a casa e non alla Luthor Corp: aveva
lasciato il suo cellulare da qualche parte, immobile, e la vedeva
camminare per la cucina, salutandola. Quando si avvicinò
allo
schermo aveva con sé una tazzina di caffè. La
vide sedersi davanti
e, per una sola frazione di secondo, il suo seno aveva occupato la
quasi totalità dello schermo, facendo arrossire Kara, che
distolse
lo sguardo.
«Questa
è la terza, oggi»,
le fece notare, indicando la tazzina e poi bevendone un sorso.
«Tanto
lavoro?».
«Tanta
Lillian Luthor»,
rispose, ridacchiando. «È
a Metropolis, adesso, e mi ha chiamata cinque volte in due ore. Sono
stanca, solo il caffè riesce a rilassarmi. Mi ha ringraziato
e mi ha
detto di ringraziare anche te, a
proposito».
Kara sorrise. «Voleva
chiamarti ma sapeva che lo aveva fatto Lex, quindi magari aspettati
una sua chiamata, ma non contarci troppo. Si vanta di essere riuscita
ad avere molta confidenza con Alex e te, ma in realtà,
dubito sia
così tanta»,
le sorrise e Kara scosse la testa, sorridendo ancora.
«Ah…»,
Kara si fece seria, alzando il cellulare dal tavolo su cui lo aveva
poggiato, facendogli fare una breve panoramica dei fiori intorno.
«Tornando in dormitorio, oggi, mi sono ritrovata la camera
completamente piena di fiori».
«Davvero?»,
le diede un'occhiata, seria, per poi sorridere.
Kara
scosse la testa, sospirando. «Tu non ne sai nulla,
vero?».
«Assolutamente».
«Grazie»,
le sussurrò, poggiando la testa sulle sue mani distese sul
tavolo,
guardando dritta verso lo schermo, «È stata una
bella sorpresa».
«Sai,
credevo che non si usasse ringraziare a un ringraziamento, Kara
Danvers»,
finì il suo caffè. «Mi
raccomando di prepararti per domani: Ferdinand è sempre
puntuale».
Kara
annuì. «Lo immagino, con il lavoro che
fa».
«No.
È che ha paura della reazione di mia madre a un suo
possibile
ritardo».
Risero
e si salutarono, così Kara chiuse la videochiamata
sentendosi
stranamente leggera. Il perché si sentisse così
non lo sapeva, ma
era contenta di vedere che Lena finalmente non la ignorava
più;
forse, pensava, da quell'arresto alla Luthor Corp di Metropolis ci
aveva guadagnato un po' anche lei.
Più
tardi, quasi a ora di cena, si era sentita di nuovo anche con Alex.
«Sono
qui a Metropolis perché avevo un appuntamento con
Jeremiah»,
confessò, con un sorriso sulle labbra. «Ma
non dirlo a Eliza: lei pensa che sia qui per conoscere Lex, e diciamo
che gliel'ho fatto credere, invece mi sono vista con lui».
«Non
dirò una parola».
Alex
sorrise, ma nel suo sguardo si leggeva il peso della bugia. «È
stata una bella giornata».
«Sono
felice per te, sorellona. Spero tu lo abbia salutato da parte
mia».
«Salutare
chi?», gridò Megan in modo che la sentisse anche
Alex, fermandosi
con un piatto in mano, con il microonde aperto. «Lord? Alex
ha
scoperto di essere bisex e di essere attratta dai pettorali di
Lord?».
Kara
rise mentre Alex, dopo aver sentito, rimase senza parole, con aria
disgustata. Si salutarono scambiandosi la buonanotte, dopo essersi
entrambe augurate buona fortuna con i loro appuntamenti, se
così
potevano chiamarli.
Aveva
deciso di smettere di flirtare con lei, e così aveva provato
anche a
ignorarla e a essere dura, tutto pur di non permettere al suo cuore
di saltare qualche battito quando era in sua compagnia, ma aveva
fallito. Kara Danvers l'aveva riconquistata; e come pensare che non
ci sarebbe riuscita. Come poteva progettare di essere tanto fredda
con lei? Non se lo meritava. Non soprattutto dopo l'aiuto che le
aveva dato anche quando tentava di trattarla male. C'era qualcosa di
profondamente sbagliato in ciò che provava per quella
ragazza, lo
sapeva bene, ma non poteva farci nulla. Decise di essere tranquilla,
di andare avanti con la sua vita così come sarebbe andata,
senza
provarci né tentare di respingerla e di vedere cosa
succedeva.
Dopotutto Kara non era interessata a lei e forse un giorno la cotta
se ne sarebbe andata così com'era arrivata. Era la cosa
giusta da
fare. E intanto, magari, si sarebbe divertita.
Quella
mattina si alzò qualche minuto prima che suonasse la
sveglia;
sistemandosi il letto a due piazze, aveva sempre amato stare comoda,
prima ancora di farsi la doccia; spalancando le due finestre della
sua camera prima di stropicciarsi gli occhi dal sonno, affacciandosi
davanti ai palazzi di National City che le facevano da panorama,
lontani come le nuvole. Lena Luthor era felice.
L'altra
invece si svegliò più in ritardo del solito,
tanto che Megan aveva
già occupato il bagno e abituata ad averlo solo per lei la
fece
aspettare fuori almeno un quarto d'ora. Quest'ultima rise appena la
vide e aprì la bocca per dirle qualcosa, ma Kara la
sorpassò come
un fulmine e ci si chiuse dentro. Le disse attraverso la porta che
sarebbe andata a correre. Si preparò velocemente
perché non poteva
saltare gli allenamenti: ad agosto sarebbe tornata a casa e avrebbe
oziato di nuovo, con il rischio di non essere abbastanza tonica per
la partita contro Gotham City e si immaginava già il sorriso
strafottente della Kyle, la capitano, che si prendeva gioco di lei.
Avevano un conto aperto in sospeso.
Lasciò
il letto sfatto e ripose la copia 432 del CatCo Magazine sulla
mensola vicino, per non dimenticarsi e rischiare di sgualcirla
sedendoci sopra al suo ritorno. Accese il cellulare e sbuffò
un po',
vedendo che le sole chiamate perse, ben quattro, erano di Mike, poi
c'era un messaggio da parte di Alex e un altro da parte di Eliza, che
avrebbe letto dopo. Con leggins, tshirt e una borsa per l'essenziale,
spalancò la porta, ritrovando la testa di Mike Gand ai suoi
piedi.
Letteralmente.
«Cosa
ci fai qui?», domandò, spalancando gli occhi.
Lui
sorrise, rimettendosi in piedi. «Ho visto Megan, poco fa, mi
ha
detto di aspettarti fuori. Chi è morto?»,
indicò i fiori disposti
intorno alla porta, portati lì dalla sua coinquilina che non
riusciva a dormire per via del forte odore; lo sentiva anche lei, ma
avrebbe resistito.
«Lascia
stare», scosse la testa, uscendo e chiudendo la porta,
diretta al
campo da corsa, con lui al seguito.
«Posso
farti compagnia? Come ai vecchi tempi, magari dopo la corsa ci
facciamo qualche tiro in porta». Aspettò che lei
annuì,
concentrata nello scendere le scale, così
continuò. «Sai, ieri ho
pensato molto alla nostra discussione, a noi due, al nostro futuro,
al nostro bambino-».
«Non
avremo un bambino».
«Intendo
quello futuro… Non adesso», sorrise lui,
grattandosi la nuca.
Kara
lasciò la borsa in palestra, vicino alla porta, e la
spalancò per
il campo. Vide Megan ma, quando lei scorse che Kara non era sola,
continuò a correre per conto suo, facendole un segno
negativo con
una mano. I due iniziarono a correre.
«Aspettavo
una tua chiamata, un messaggio… delle scuse». Lei
lo guardò e lui
arretrò, cercando poi di starle dietro. «Ma alla
fine, continuando
a pensarci, Kara, non ne valeva la pena! Volevo così tanto
delle
scuse che non pensavo proprio che così avrei potuto rovinare
il
nostro rapporto. Perciò ti chiedo scusa io». Kara
lo guardò di
nuovo, stavolta sorpresa, e lui cercò di riprendere fiato
per starle
dietro: stava andando troppo veloce e consumava troppo ossigeno
continuando a parlare. «Non possiamo fermarci un attimo,
così
possiamo… possiamo parlarne… meglio?».
Solo
per un attimo lei pensò di accelerare, ma non era
decisamente giusto
e si fermò, mettendo le mani sui fianchi e prendendo pesanti
bocconi
d'aria. Mike fece lo stesso, reggendosi le ginocchia.
«Non
ci credo che… che corri così
tanto…», disse rimettendosi
dritto, «Ogni volta mi sorprendi, ragazza».
Kara
guardò Megan passarle vicino. Sorrideva? Sembrava che la
stesse
prendendo in giro. «Sbrigati, Mike; non te lo chiederei, ma
non
voglio restare indietro con gli allenamenti».
Portò
le mani sui fianchi anche lui, ma pareva seccato. «Dicevo che
ti
chiedo scusa».
«Va
bene».
«Va
bene? Tutto qui? Mi sono scusato al posto tuo e non mi dici
altro?».
«Quindi
ti sei scusato per…», trattenne il fiato,
arricciando le labbra,
«ricevere in cambio qualcosa?».
«Beh,
mentirei se dicessi di no, in un certo senso… Mi aspettavo
che le
cose tornassero come prima, prima che mi mollassi senza ragione! Puoi
fare la reporter, se vuoi».
«Me
lo stai concedendo?»,
domandò, incrociando le braccia al petto.
«Sì.
No»,
cambiò risposta dopo aver visto la sua espressione contrariata,
«Non intendevo in quel modo! Non fraintendermi, Kara:
è solo che
non riesco a esprimermi».
«Solitamente
lo fa così bene», esclamò Megan
correndo dietro di loro,
continuando il suo giro.
Lui
aggrottò le sopracciglia ma non rispose, guardando poi Kara
con
supplica.
«Senti,
Mike, sei un bravo ragazzo, ma comincio a pensare che tra noi
sarà
sempre così: un continuo litigio», disse, ferma
nella sua
decisione. Si portò una mano sulla fronte, decidendo di
guardarlo
negli occhi. «Credo che… sia finita».
Mike
accennò un sorriso colmo di delusione, sentendo la terra
mancare
sotto ai piedi. «No, ma… Cosa? Dici sul
serio?».
Annuì.
Temeva di cambiare idea da un momento all'altro, ma sapeva di dover
tenere duro. Con Mike era bello, ma stare insieme a lui diventava
spesso impossibile. «Ti prego, restiamo amici, non possiamo
perderci», gli strinse le mani con le sue e lui non
trovò il
coraggio di replicare. «Devo… Devo
andare». Corse via, cercando
di raggiungere Megan.
Mike
Gand si ritirò dalla pista dopo pochi minuti.
Tentò di parlarle di
nuovo e Megan glielo impedì, chiedendogli di lasciarla un
po' in
pace a riflettere. In realtà, c'era ben poco da riflettere.
Poiché
se lo faceva davvero, Kara era sicura di aver fatto la scelta giusta,
anche se temeva di perderlo. E quando chiese un parere a Megan, lei
le rispose che, secondo lei, lui aveva una visione della vita troppo
tradizionalista e che chiamarla così sarebbe stato un
complimento.
Sarebbe riuscita a fare la reporter anche al fianco di Mike, lo
sapeva, ma lui ogni volta che parlava rovinava tutto.
Dopo
si diressero al campo di lacrosse e si allenarono con qualche tiro in
porta, scambiandosi di tanto in tanto i ruoli. Kara sembrava fin
troppo energica e Megan ebbe timore per la sua vita quando la palla
le sfiorò il viso, soffiandole contro un'orecchia, finendo
in porta.
Successivamente si ricordò il casco e la sua importanza.
«Allora,
per stasera?», le domandò l'amica mentre
lasciavano il campo,
entrando in palestra.
«Indosserò
un vestito», le fece presente, arrossendo. «Ma non
capisco poi
perché… Cioè, sì,
sicuramente andremo in un locale elegante
quindi si adatterà all'occasione, ma siamo solo Lena ed io,
insomma», rise, palesemente agitata, «Non
è mica un appuntamento
vero o qualcosa del genere». Sorrise, sistemandosi gli
occhiali sul
naso.
Megan
le picchiettò una spalla, ma non aggiunse nulla.
L'auto
nera con Ferdinand alla guida alle 20:00 esatti era ferma davanti al
cancello della sua università. Il guardiano aprì
e Kara, per la
prima volta dopo tempo, con i tacchi ai piedi, s'incamminò
verso la
vettura. L'autista scese ad aprirle lo sportello e lei lo
ringraziò,
non aspettandosi il gesto. Durante il tragitto gli chiese dov'erano
diretti e poi, ricevendo un lo
vedrà
come risposta, gli chiese invece dove avrebbe passato il suo tempo
lui mentre loro mangiavano. E continuò a parlare, a parlare
senza
sosta fino a quando la macchina non si fermò e
così si fermò Kara,
deglutendo. Mai avrebbe ammesso di essere nervosa. Ma lo era,
accidenti. Lo era decisamente.
Lui
parcheggiò dando un fermo
con la mano al ragazzo dei posteggi e scese con lei dalla macchina.
Pensò che fosse per aprirle lo sportello ma era stata
più veloce,
solo che poi la accompagnò fino all'entrata e le
aprì la porta del
locale. Lillian Luthor doveva davvero amare le coccole di chi
lavorava per lei. Le augurò buona serata e buon appetito,
dopodiché
riprese l'automobile e se ne andò. Affacciandosi al locale,
Kara fu
avvolta da un'aria calda e confortevole. Si sentiva una musica
leggera e gentile e scoprì che era un uomo al pianoforte a
produrla,
disposto al centro della sala; intorno a lui i tavoli. Alzò
lo
sguardo per trovare Lena quando una donna la fermò, attirata
dalla
sua aria smarrita.
«Buonasera
e benvenuta. Ha prenotato, signorina?», le chiese a bassa
voce,
probabilmente per non disturbare gli altri clienti.
Kara
si guardò intorno un'altra volta appena, fugace, prima di
risponderle. «Sono qui con la signorina Lena Luthor, credo
abbia-».
«Oh,
sì». Il viso della donna, già gentile,
cambiò di colpo,
diventando addirittura servile. «Lei è l'ospite
della signorina
Luthor, ma certo. La stavamo aspettando, mi segua».
L'accompagnò
in mezzo ai tavoli e Kara arrossì di colpo quando intravide
Lena,
seduta davanti a un tavolino per due, che leggeva il menù.
Aveva i
capelli sciolti, da un lato tirati indietro con un fermaglio;
solitamente liscissimi, erano ondulati e le circondavano le spalle.
Indossava un lungo vestito nero, scollato, tremendamente scollato,
arricchito da una collana dorata e dei bracciali ai polsi. Da quando
era così bella? Da quando, si accorse, aveva le palpitazioni
nel
vederla? Da quando Lena la guardava in quel modo? In quel modo
così…
dolce?
«Siamo
arrivate»: la voce della maître la
riportò tra loro e, d'istinto,
sorrise all'altra. «Mi chiamo Sylvie e potrete chiamare me
per ogni
vostra necessità. A brevissimo il primo chef
verrà a prendere la
vostra ordinazione. Speriamo che tutto sia di vostro
gradimento».
Finì di parlare che Kara si era già seduta
davanti a Lena, che si
era alzata al suo arrivo, così sorrise a entrambe e poi
sparì.
«Cosa
ne pensi?», le domandò Lena, «Ti piace
qui? Non sapevo dove
portarti, mi hanno detto che qui si mangia molto bene e tu sei
un'ottima forchetta, quindi…».
Indugiò
a lungo su di lei, Kara se ne accorse per la prima volta: gli occhi
limpidi di Lena, che non erano mai stati così caldi, si
fermarono
sulle sue spalle nude, poi sul suo petto coperto, il collo, i capelli
lasciati sciolti, la sua bocca rosa, e infine gli occhiali,
ritornando a guardarla negli occhi. Sembrava tornare da un lungo
viaggio di pensieri e Kara si perse nuovamente nei suoi, temendo di
aver frainteso quell'uscita. Lena Luthor era davvero molto elegante,
lo richiedeva il tipo di locale, ma l'essersi vestita elegante anche
lei forse l'aveva colta di sorpresa, non era abituata a vederla
così,
e forse le sarebbe passato il messaggio che da quell'appuntamento,
Kara, sperasse qualcosa di più. Oh, era appena diventato
ufficialmente un appuntamento. E lei era quasi formalmente sua
sorella: perché doveva pensare a una cosa del genere? A meno
che- si
bloccò, vedendola muovere la bocca, ma non ascoltando una
parola. A
meno che non avesse completamente sbagliato soggetto e non era Lena a
sospettare che lei, vestita in quel modo, volesse qualcosa di
più,
ma che la stessa Lena provasse per lei qualcosa che andava al di
là
del rapporto tra sorelle. Spalancò gli occhi, colta di
sorpresa dal
suo stesso flusso di pensieri.
«Puoi
ordinare quello che vuoi, non ti preoccupare, so che ti piace
spaziare su più piatti».
«Sssì»,
ridacchiò, nascondendo il viso dietro il menù e
sistemandosi gli
occhiali. E se si stesse sbagliando? Passare dal nemiche ad amiche
era già stato abbastanza faticoso, da amiche a quel qualcosa
di più
saltando la tappa delle sorelle, che era ciò che tutti si
aspettavano, era troppo complicato. «E poi ho appena lasciato
Mike»,
disse a voce alta d'un tratto. Lena alzò un sopracciglio.
«Voglio
dire», finse una risata lunghissima, abbassando la testa e
facendole
cenno di aspettare con una mano, «Sai cosa ho fatto oggi?
Sono
andata a correre, ho corso tanto, con me c'era Megan, ho fatto
qualche tiro contro la rete, mi sono allenata e, ah, sì, ho
lasciato
Mike. Intendo davvero, per sempre. Ci ho pensato e credo sia stata la
scelta migliore… Non facevamo che, sì,
litigare».
«Se
lo pensi, allora lo sarà stata di certo». La vide
sorridere,
sorridere tanto, anche quando alzò la testa per ordinare.
Oh, era
già arrivato.
Ordinarono
un sacco di primi piatti che Kara già sapeva avrebbe
mangiato da
sola, poi del buon vino rosso, che scelse Lena. Fortunatamente, dopo
dei primi momenti di imbarazzo, quando arrivarono i piatti entrambe
si sciolsero, parlando delle loro giornate, della loro strana
famiglia, dello scontro di Alex e Maxwell Lord, ridendo sottovoce per
non disturbare la sala, ascoltando e applaudendo il pianista, che le
ringraziò. Kara smise di pensarci, a suo agio con lei. Non
ci aveva
mai fatto molto caso: ma in effetti era sempre a suo agio con lei.
Dopo
aver finito un enorme piatto a base di pesce, Kara Danvers decise di
riposarsi un po' per il dolce e Lena Luthor si nascose il viso tra le
mani, rossa sulle gote, ridendo.
«Ma
dov'eri nascosta per tutto questo tempo? Da dove sei sbucata
fuori?»,
le chiese tra le risa soffocate da una mano contro la bocca.
«Io
sono piovuta dal cielo».
«Si
spiegherebbero tante cose», ammise, «Invece di vaniglia,
avrei dovuto chiamarti ragazza
dallo spazio».
Kara
sentì il viso farsi inspiegabilmente caldo e sorrise,
girando il suo
sguardo.
«Kara»,
attirò la sua attenzione poco più tardi, dopo
aver ordinato il
dolce. «So che forse non è il caso, adesso, che io
ti parli di
questa cosa, ma non riesco più a tenerla per me».
Kara
deglutì. I suoi sospetti erano fondati? Stava per
dichiararsi? Non
sapeva se fosse pronta o meno a una cosa del genere; se accettare,
rifiutare, o correre con disperazione in direzione del pianista
fingendo che lui l'avesse chiamata per suonare insieme Ennio
Morricone.
«Ti
devo confessare una cosa: ho letto riguardo la tua vera
famiglia…
quando Winn, il mio assistente, ha fatto delle ricerche su di
te».
Il sorriso di Kara si spense e Lena sapeva quanto alla ragazza non
piacesse che avesse raccolto del materiale su di loro, ma allora non
aveva idea di ciò che avrebbe trovato. «Ti voglio
chiedere scusa
per aver letto delle cose tanto personali».
«Non…»,
biascicò, ancora colta alla sprovvista, non riuscendo a
guardarla
negli occhi. «Cos'hai letto? Cosa c'era scritto?».
Lena
esitò. «Non voglio farlo perché non
voglio ferirti. Perché non mi
parli un po' tu della tua famiglia? E allora saprò solo
ciò che tu
vuoi che io sappia».
Kara
sapeva che il tentativo di Lena era un po' maldestro: anche se le
avesse raccontato solo ciò che voleva, il resto lo aveva
comunque
saputo da altri fonti. Ma lo apprezzò lo stesso.
«Mia madre era un
giudice piuttosto famoso, in quel periodo. Ha spedito in carcere
molti criminali», le sue labbra si piegarono in un sorriso,
ma durò
poco, anche se non aggiunse nulla. Lena la guardava rapita.
«Mio
padre invece era uno scienziato e se ci penso mi vien da ridere
perché sono stata presa dai Danvers ed Eliza è
una scienziata anche
lei. Entrambi lavoravano molto duramente qui a National City;
credevano di poter rendere questa città un posto migliore.
Ma si
sono fatti… dei nemici, sai…»,
abbassò la voce e Lena si spinse
in avanti, raggiungendo una mano con la sua, stringendogliela.
«Erano
a casa quando successe», deglutì, non la guardava
negli occhi.
«C'erano i miei zii e mandarono me e Kal, mio cugino, fuori a
giocare…». La sua voce mancò e Lena
strinse più forte la sua
mano.
«Va
bene, basta. Mi rendo conto solo adesso che è stato davvero
ipocrita
da parte mia chiederti una cosa del genere».
«No,
va bene», si sforzò di sorridere e Lena
sospirò.
«Non
devi farlo, se non vuoi».
«Ma
voglio farlo», la guardò dritta negli occhi e Lena
si rese conto
che in quell'azzurro lucido c'era decisione, un misto di malinconia e
rabbia. «Non l'ho mai detto. Ho visto tutto, Lena. Io e Kal.
Abbiamo
sentito un rumore e stavamo tornando a casa quando ci fu
l'esplosione. Ci sbalzò indietro e… Kal
batté la testa contro una
pietra», corrugò lo sguardo, «Mi dissero
che ebbe problemi di
memoria e ci separarono. Non l'ho più rivisto».
Era
stata una serata decisamente lunga, in special modo per Kara. Lena
andò a pagare e fece una telefonata a Ferdinand di venirle a
prendere. Quando tornò in sala da Kara, la
ritrovò nel seggiolino
davanti al piano, accanto al pianista. Erano rimasti pochi clienti e
lui le stava insegnando a suonare qualche nota ma il pover'uomo
continuava a scuotere la testa e a dirle che sbagliava.
«Non
sei tagliata per il piano», le disse a un certo punto
l'anziano
signore, «Ma resti molto simpatica».
Lei
gli sorrise.
«Oh,
è già tagliata per un sacco di altre
cose», li interruppe Lena a
bassa voce, fermandosi davanti a loro, «Se sapesse anche
suonare il
piano, non sarebbe umana».
Si
avviarono all'uscita, salutando con educazione il personale, e Lena
sentì la sua mano sinistra sfiorare la destra di Kara. La
tentazione
di stringergliela, ora come ora, era davvero forte. Si pentì
di
averle fatto parlare della sua famiglia: Kara sorrideva ma la sentiva
distante, diversa da com'era prima di quella discussione. Non voleva
ferirla e lo aveva fatto. Che stupida.
Ferdinand
le aspettava fuori e quando le vide aprì la portiera
posteriore per
farle accomodare. Stava per passare dall'altro lato ad aprire, ma
Kara si era tuffata e si era spostata fino ad arrivare allo
sportello, così, arreso, si sedette sul posto di guida.
Per
un po', nell'automobile non si sentiva altro che il ticchettio della
macchina e il traffico fuori. Lena fissò Kara con la coda
dell'occhio e decise di dirle qualcosa.
«Vai
a letto presto, riposati…», tagliò. Si
pentì di averlo detto:
era perfetto solo se avesse voluto passare per la sua madre adottiva.
«Sei
preoccupata per me?».
Arrossì,
aprendo la bocca ancor prima di dire qualcosa.
«Può darsi»,
sussurrò.
Si
sorrisero, guardando entrambe fuori dai finestrini dalla loro parte.
Kara si distrasse solo quando sentì il suo cellulare,
all'interno
della borsetta, vibrare. Lesse il messaggio e rise di gusto,
invitando Lena a fare altrettanto.
Da
BadSister a Me
Kara,
è stata una tragedia! Ho cercato di parlargli e sembrava
andare
tutto bene, non insisteva e ascoltava, ma poi ha cercato di baciarmi.
Gli ho assestato una bella ginocchiata contro lo stomaco. Addio,
Maxwell Lord.
Rieccoci
dopo le vacanze! Come state? Avete mangiato molto? Io decisamente,
per quanto riguarda i dolci **
Ci
eravamo lasciati con Lena che immaginava di baciare Kara e ci siamo
ritrovati con lei che, per ringraziarla, le invia dei fiori e la
invita a cena fuori, dove Kara ha sospettato qualcosa, dopo un lungo
flusso di complicati pensieri. Però Lena l'ha sorpresa nel
parlare e
farle parlare della sua famiglia e qui le cose si fanno
interessanti…
E poi ha finalmente rotto con Mike che, sono certa, continua a
pensare che avrebbe preferito fosse incinta. Abbiamo conosciuto il
signor Jonzz e abbiamo scoperto che è lui il famoso
fidanzato e
professore di Megan. Non credo ci fossero dubbi, comunque XD
Qualche
nota d'obbligo:
-
J'onn J'onzz è diventato John Jonzz (che nome scioglilingua)
-
i fiori che Lena invia a Kara sono decisamente un rimando alla scena
della seconda stagione di Supergirl dove Lena
riempe
letteralmente l'ufficio di Kara di fiori (non ho resistito)
-
dalla piega che stanno prendendo alcuni avvenimenti negli ultimi
capitoli che ho scritto, ho deciso di aggiungere la voce crossover
alla fan fiction. Spero di non fare un torto a nessuno di voi lettori
se, come avrete già intuito, appariranno anche personaggi
che non
sono specificatamente della serie tv ma di altre serie o più
in
generale personaggi della DC (quando compariranno, spiegherò
a quale
personaggio da quale serie o altro mi sono ispirata per scriverlo; ma
in generale li tratterò come personaggi originali inventati
da me o
come io mi immagino sarebbero se fossero nella serie)
-
Gotham City, sì. In realtà, se fosse stato solo
per questo
l'avvertimento crossover non serviva, ma
considerando che la
Kyle, la capitano della squadra, è proprio quella che
immaginate…
beh, allora sì, lei è stato uno dei motivi che mi
ha spinto a farlo
-
Kal, il cugino di Kara, è proprio Clark Kent. Lui dovrebbe
essere
più piccolo di Kara ma non potevo poi renderlo
più grande quando
apparirà, non avrebbe avuto senso, quindi da cugino minore
è
ufficialmente il cugino maggiore nella mia fan fiction
Credo
di aver finito. Cosa ne pensate? Spero che l'ingresso di personaggi
non presenti nella serie originale non vi disturbi :) Se vi va,
fatemi sapere nei commenti il vostro punto di vista!
Il
capitolo 9 sarà pubblicato lunedì prossimo, si
intitola Il
giorno in cui il mondo smise di essere il mondo e, da come
si
intuirà, si tratta di un capitolo stand alone
:) È
necessario che sia in questo punto, da leggere dopo quest'altro
specifico capitolo ~
|
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Capitolo 10 *** 9. Il giorno in cui il mondo smise di essere il mondo ***
Un
boato e tutto si era fatto sordo. Non aveva visto nulla, era stato
troppo veloce; le faceva male qualcosa ma non sapeva cosa. Era
disorientata e quando aveva cercato di rialzarsi da terra era
scivolata. Almeno credeva che quella fosse la terra. A tentoni si era
messa in piedi e aveva tentato di aprire gli occhi, di capire, di
ascoltare. Era appena successo quello che nei fumetti chiamavano fine
del mondo.
Aveva
iniziato a finire dopo l'arresto di sua zia Astra.
Stava
colorando il suo disegno, seduta composta nel banco. In classe era
rimasta solo lei e un altro bambino, a qualche banco dietro il suo,
che la guardava di sbieco, visibilmente arrabbiato. Quando la maestra
aveva aperto la porta della classe, entrambi erano schizzati con la
testa in alto, in attesa.
«Kara!
Vieni, porta il tuo disegno, è venuta tua madre a
prenderti», aveva
esclamato la giovane maestra, costringendosi a fare il suo sorriso
migliore di fronte a quella incresciosa situazione. Aveva poi detto
all'altro bambino che doveva ancora aspettare.
«Il
disegno lo lascio qui, tanto lo dovevo regalare a lui e al suo amico
Benny», le aveva detto la bambina prima di uscire.
A
Kara era bastato guardare il volto di sua madre per impallidire e
perdere ogni sicurezza.
«Allora»,
le aveva detto, avvicinandosi, abbassandosi e guardandola negli
occhi. «Cos'è successo?».
Il
viso della bambina aveva presto assunto un'aria rammaricata.
«È
stato Benny Santos, mamma! Lui prendeva in giro la mia amica Nicole
perché è caduta e ho fatto come hai detto tu:
sono stata calma, gli
ho chiesto se poteva smetterla… e anche se mi arrabbiavo
perché
continuava a ridere, ho contato fino a dieci».
«E
allora cos'hai fatto dopo?».
Kara
si era distratta, guardando da un'altra parte e poi sbuffando.
«Gli
ho rotto il naso».
La
donna si era alzata e le aveva preso la mano per portarla via,
salutando l'insegnante e promettendole che sarebbe stata messa in
punizione.
«Non
sia troppo dura, sono solo bambini», le aveva risposto la
signorina,
«Arrivederci, giudice». Dopodiché era
rientrata in classe,
guardando l'altro bambino, colpevole di aver spinto Kara nel
tentativo di difendere il suo amico Benny, e spiegandogli che i suoi
genitori non erano ancora arrivati. Si era avvicinata per chiedergli
come stava e poi al banco di Kara, prendendo il disegno che aveva
lasciato: c'era un buco nel terreno e due personaggi stilizzati
stavano di sotto, mentre altri due di sopra, di cui uno, in posa
trionfante, aveva un mantello rosso che pendeva dal collo. Sotto
erano scritti i loro nomi. Aveva sospirato. «Bambini».
«Pensavo
mi ascoltassi, Kara», le aveva ricordato sua madre in auto,
alla
guida. La donna, capelli mori raccolti in una coda, labbra fini e
strette in una smorfia sul viso: non era arrabbiata, quanto
più
delusa. «Tuo padre ed io non abbiamo lasciato che imparassi a
difenderti per fare a botte con i bambini della scuola. Hai
già
dieci anni, sei grande per capire la differenza», l'aveva
guardata
con la coda dell'occhio, restando ferma sul volante. Kara era seduta
di peso contro il sedile, con sguardo abbattuto. «Non volevi
diventare un supereroe? Mi sbaglio, piccola?».
«Non
è lo stesso che hai fatto con zia Astra?», aveva
domandato dopo
qualche attimo, giocando con una pietra in mano, e sua madre si era
indurita di colpo, deglutendo.
«Quello
che è successo con zia Astra è molto
più complicato di così»,
aveva sospirato, svoltando un angolo. «Vorrei poterti dire
tutto,
Kara, ma sei ancora-».
«Una
bambina», l'aveva interrotta con la voce sulla sua.
«Dici sempre
che mi devo comportare da grande, ma quando poi lo faccio tu mi
ripeti che sono ancora troppo piccola».
La
donna aveva fermato l'automobile grigia nel vialetto e Kara era scesa
di corsa, spalancando la porta di casa, ignorando suo padre che
leggeva un giornale scientifico bevendo caffè, e salendo le
scale
fino su in camera sua, sbattendo la porta. Lei era entrata dopo
qualche minuto e suo marito l'aveva guardata con compassione.
«Come
sta l'altro bambino?», le aveva domandato, ma senza
distogliere lo
sguardo dal giornale.
«Era
in infermeria, ma ho parlato con sua madre prima di andarla a
prendere: era in lacrime. Dice che suo figlio è solo
molto…
spontaneo»,
aveva sottolineato, «Ma sono riuscita a calmarla e a
convincerla a
non denunciarci».
«Ecco
perché sei il miglior giudice di sempre». Si era
proteso verso di
lei e si erano scambiati un bacio. «E lui è
davvero… spontaneo?».
«Oh,
non sai quanto… maltratta più bambini e bambine
al giorno di
quanto faccia compiti in un mese».
«Allora
è stata autodifesa», aveva scrollato le spalle,
continuando a
seguire il giornale.
«Non
cominciare».
«Stavo
solo supponendo».
«Allora
non supporre: non voglio che Kara vada in giro a picchiare la gente,
anche se questa si comporta male». Si era seduta su una sedia
davanti al marito, dall'altra parte del tavolo, reggendosi la fronte.
Lui
finalmente aveva alzato lo sguardo, inarcando le sopracciglia.
«Per
cosa le abbiamo concesso tutte quelle ore di arti miste?».
«Per
difendersi dai veri pericoli, non deve cercarseli. Deve capire la
differenza; deve poter fare la differenza».
«Ha
solo dieci anni, però. E ha solo cercato di difendere
un'amichetta
da un bullo a scuola».
«Oggi
è un bullo a scuola… Voglio che cresca come una
persona
consapevole e responsabile», aveva risposto esausta. Si
scambiarono
un'occhiata. «Insomma, da che parte stai? Mi sembra di
sentire
parlare Astra. Lei l'ha nominata, in macchina».
Lui
si era incupito subito, chiudendo il giornale.
«Ah… E com'è
andata?».
«Come
vuoi che vada, Zor, lei non sa nulla. Sono la madre cattiva che ha
condannato la zia in prigione… Come posso spiegare a una
bambina di
dieci anni che stravede per sua zia che la stessa ha tentato di
rapirla? Senza contare tutto il resto…».
Si
erano zittiti e la piccola Kara, chiusa in camera sua, non aveva
sentito una parola. Seduta sul lettino, guardava fuori dalla finestra
con aria assente. Il cielo era pieno di nuvole bianche, ma nonostante
le piacesse il sole, era la notte che aspettava con trepidazione, il
suo momento della giornata che preferiva. Il perché si
nascondeva
nelle stelle. Si era alzata, dando un'occhiata al cielo attraverso il
suo telescopio. Era stato un regalo di suo padre al suo nono
compleanno, ma era con sua zia Astra che lo aveva sempre usato e che
aveva imparato tante cose. Si era allontanata subito poiché,
lo
sapeva, con il giorno non si vedeva nulla. E ora non avrebbe rivisto
nemmeno sua zia Astra. L'ultima cosa che aveva di lei era un
braccialetto con i pianeti per ciondoli, che amava tanto.
Kara
non sapeva perché sua zia era finita in prigione, ma era la
persona
più buona del mondo e davvero l'unica che riusciva a
capirla, mentre
sua madre, per quanto fossero identiche di aspetto le due, non si
sforzava neppure a farlo. Era arrabbiata e si era seduta di nuovo sul
lettino, stringendo i pugni.
«In
punizione. Sono in punizione. Va bene, tanto non ho fame»,
aveva
sbottato per sé, con aria dura, «Non
mangerò più nulla e non mi
reggerò più in piedi, così saranno
contenti. Più nulla, nemmeno
uno yogurt. O un pezzo di pane. Mi trattano da bambina e mi
comporterò da bambina; ho chiuso con queste persone e con il
cibo».
«Kara?».
Suo padre aveva bussato e poi aperto la porta con uno scatto.
«So
che sei in punizione, ma vai a fare merenda: abbiamo comprato gli
yogurt questa mattina».
Lei
lo aveva guardato con aria arrabbiata e lui le aveva sorriso.
«Okay»,
era scesa di corsa dal letto.
La
sua strategia riguardo il cibo aveva miseramente fallito ma, sapeva
bene, non era colpa sua: erano loro ad avere la pessima abitudine di
comprare cose che le piacevano e lei non aveva abbastanza forza per
non cedere alle tentazioni. Ma non sarebbero riusciti ad averla vinta
per tutto, ed ecco perché da quel giorno aveva cominciato a
mangiare
assumendo l'aria più truce che conosceva.
Erano
giorni strani quelli che avevano seguito l'arresto di sua zia
Astra…
Ancora più del solito, i suoi zii Jor e Lara andavano a casa
loro
per parlare di cose importanti che riguardavano il lavoro, le
dicevano. Zio Jor lavorava con suo padre, erano scienziati, e
speravano di cambiare il mondo. Kara sapeva bene che, quando loro
dovevano parlare di lavoro, lei doveva restare fuori o in camera sua
e non interferire.
«Chissà
di cosa stanno parlando», aveva detto Kara esasperata,
buttandosi a
peso morto sul suo lettino.
«Di
Astra», le aveva risposto suo cugino, certo della
verità. Aveva
subito preso il suo interesse.
«Ma
devono parlare di lavoro».
«Di
Astra è anche lavoro», rispose saccente, sedendo
sul pavimento, ai
piedi del letto. Lui aveva già quindici anni, sguardo fermo,
capelli
neri tirati indietro con il gel, vestito di jeans strappati e scarpe
larghe: Kara stava sempre a sentire ciò che diceva Kal
poiché lui
era il suo esempio. «C'è una cosa che non sai,
Kara: tua zia Astra
ha fatto danni al suo lavoro che ha messo a soqquadro il lavoro dei
nostri genitori».
Lei
era scesa dal letto in fretta solo per guardarlo negli occhi azzurri
e capire se stesse dicendo davvero la verità. «Ma
zia Astra non
farebbe mai del male a nessuno».
«Lo
ha fatto», aveva detto semplicemente, sollevando le spalle.
«Mio
padre mi ha raccontato qualcosa: siediti».
La
bambina si era seduta immediatamente sul tappeto conscia che se Kal
non le avesse raccontato cosa stesse succedendo, non lo avrebbe fatto
nessun altro.
«Sai
che Astra era un sergente, giusto? Prima dell'arresto». La
bambina
aveva annuito. «Mio padre ha detto che aveva una missione:
infiltrarsi in un gruppo di persone corrotte. Sai che vuol dire? Non
doveva fingersi un'altra, ma solo essere lei, sergente, sorella
gemella di un giudice, che aveva voglia di farsi qualche soldo in
più
in modo non proprio legale».
«E
ci era riuscita? Chi era questo gruppo?».
«Altri
membri della polizia, politici e tipetti del genere. Gente che
ricopre alte cariche, o ricca, sai», le aveva risposto,
«E sì,
c'era riuscita. È questo il punto, Kara: aveva fatto oltre
che
infiltrarsi in mezzo a loro, era diventata una di loro».
«Non
è vero, Kal! Smettila». Kara si era alzata di
colpo, corrugando lo
sguardo. «Non ci credo».
«È
la verità, Kara», aveva detto con un'alzata di
spalle, «E se
questa è la tua reazione, forse è per questo che
non ti dicono
nulla».
Pensò
che forse un po' avesse ragione, ma non allora. Allora era solo
terrorizzata dall'idea che la sua zia preferita stesse facendo
qualcosa di tanto sbagliato. Come futuro supereroe, lei sapeva quanto
era sbagliato essere delle persone corrotte e aveva il compito di
fermarle e consegnarle alla giustizia. Era quello che aveva fatto sua
madre, ma non si arrendeva all'idea che sua zia Astra non fosse
innocente. Ed era insistentemente innocente anche quando suo cugino
rincarò la dose rivelandole che, nella sua posizione, aveva
fatto
sparire delle prove favorendo un sospettato e, con l'aiuto di suo
marito, aveva tentato di corrompere la giuria allo stesso caso. Erano
entrambi stati arrestati per questo, aveva detto lui. Era tutto
troppo assurdo.
Ricordava
fin troppo bene com'era apparsa provata e triste sua zia quando, dopo
giorni che era scomparsa, era riapparsa nella sua scuola per
parlarle. Si era finta sua madre, le bastava poco per imbrogliare gli
insegnanti, ed era andata a prenderla. Era così spaventata
di non
poterla rivedere mai più e l'aveva abbracciata
così forte che per
poco non la faceva scoprire.
«Kara,
dobbiamo andare», le aveva detto e poi, più per
lei, sussurrato:
«Devi venire con me, ti prego».
La
maestra le aveva guardate con un sorriso radioso: «Il vostro
rapporto madre-figlia è così meraviglioso,
giudice».
Kara
aveva annuito e poi preso per mano Astra, salutando tutti e aprendo
la porta dell'aula per uscire. «Ero tanto
preoccupata», le aveva
detto una volta chiusa la porta, abbracciandola di nuovo.
«Sei
sparita e non sei più tornata». Allora non sapeva
che era ricercata
dalla polizia. Come poteva…
«Lo
so, lo so», l'aveva guardata attentamente negli occhi,
carezzandole
il viso, «È stata dura stare lontana
così tanto da te, non sai
quanto, ma sono tornata per questo, per te».
«Per
me?».
La
donna aveva alzato improvvisamente lo sguardo e poi si era guardata
meglio intorno, sentendo dei rumori venire verso di loro, e delle
voci, rendendo ancora più evidente alla piccola Kara la sua
agitazione. «Adesso devi venire con me, va bene? Non te lo
chiederei
se non fosse importante, Kara, ma lo è e non devi fare
domande».
«Dove
andiamo, zia Astra?», aveva domandato ignorando
ciò che le aveva
chiesto mentre lei si alzava e la trascinava con sé mano
nella mano.
«Mi stai spaventando».
«Al
sicuro», era stata la sua sola risposta.
Camminavano
veloci e, dopo aver incrociato lo sguardo di un maestro della scuola
che le aveva indicate, Astra aveva iniziato a correre, tirandola
dietro. Un gruppo di insegnanti e poliziotti le aveva inseguite e sua
madre si era fatta avanti, in mezzo a loro. Così le avevano
fermate
e, presto, divise. Astra era stata arrestata davanti agli occhi di
una Kara in lacrime, trattenuta da un forte abbraccio di sua madre
che aveva pensato di calmarla ma non ci era riuscita. A nulla era
valse le grida della bambina che dicevano di lasciarla andare.
«Portala
via», aveva poi gridato Astra con tutto il fiato che
possedeva
intanto che la polizia la scortava fuori dall'istituto.
«È come ti
ho detto, Alura, li hai sfidati e lo faranno! Porta via Kara! Portala
via!».
Aveva
chiesto spesso a cosa sua zia si riferisse ma nessuno le aveva mai
spiegato niente e, in quel momento, per il solo fatto che gliela
portarono via senza apparente motivo, non le interessava.
Dalla
prigione spedì spesso delle lettere e chiamò
altrettanto, ma i loro
genitori lasciavano squillare il telefono a vuoto, gettavano via
ciò
che arrivava da parte sua, e Kara non riusciva a risponderle. Voleva
che andassero a trovarla, lo sapeva, ma ogni volta che provava a
chiederlo sua madre si gelava e le rispondeva in modo automatico di
fare i compiti, anche quando non ne aveva.
Kara
sapeva che c'era qualcosa che non andava, nell'aria, che in fondo
sembrava spaventare entrambi e lo stesso i suoi zii, i genitori di
Kal, ma era troppo arrabbiata con loro per darci il giusto peso. La
vita aveva ripreso a girare anche dopo quell'evento, anche se loro
tentavano goffamente di andare avanti come se non fosse mai successo.
Kara andava a scuola, in palestra, poi a casa. E di nuovo. Era
tornata la vecchia routine ma le stava ormai stretta. Durante un
allenamento in palestra aveva buttato k.o. una bambina e aveva
continuato a colpirla anche se l'incontro era finito ed era stato il
maestro a dividerle. Non aveva mai visto Kara tanto aggressiva,
sapeva che non era da lei.
«Se
c'è una cosa che mi hanno insegnato i fumetti», le
disse suo padre
una sera, mentre lei era intenta a guardare le stelle attraverso il
suo telescopio, «è che i supereroi sono buoni.
Sono buoni anche
quando la vita si fa dura, anche quando si arrabbiano».
«Non
sono arrabbiata», aveva sbuffato, girando la lente. Non si
girava
come voleva e allora aveva riprovato con più forza, con
più forza,
e suo padre l'aveva fermata, sistemandogliela lui guidando la sua
mano, con gentilezza. La bambina così aveva sospirato,
guardandolo
appena.
«Non
c'è nulla di sbagliato nell'essere arrabbiati, Kara. Ma
voglio
confidarti una cosa: lasciare che la rabbia ti consumi non
farà
altro che rovinare la tua vita. La rabbia è un mostro, Kara,
ed è
dentro di te. Lasci che si alimenti delle cose cattive che provi e ne
crei altre… Ti impedisce di diventare l'adulta splendida che
sei
destinata a diventare». Le aveva sorriso, prendendole il viso
tra le
mani e guardandola negli occhi. «Perché tu sei una
bambina
splendida e non puoi che diventare un'adulta altrettanto
splendida».
«E
allora che cosa devo fare?», aveva chiesto con una smorfia.
«Cosa
ne pensi di sorridere più spesso e prenderti una bella
rivincita? Ti
sembrerà difficile, adesso, ma non c'è medicina
più efficace di un
sorriso. E tu sei la maestra dei sorrisi… Sì,
sì, eccolo lì»,
aveva aggiunto, vedendole spuntare un piccolo sorriso dalle labbra.
Kara lo aveva abbracciato e lui l'aveva stretta forte a sé,
quasi
sul punto di non lasciarla più andare. «Sei forte,
tesoro. Più di
quanto immagini».
Avrebbe
scoperto quanto presto, molto presto.
Quel
pomeriggio era tornata a casa felicissima come non lo era da tempo
poiché a scuola le avevano fatto i complimenti per un
compito
importante per l'anno scolastico, aveva vinto una gara di
velocità e
poi aveva trovato una pietra particolarmente strana, bitorzoluta che
sembrava venire dallo spazio e che avrebbe aggiunto alla sua
collezione. Inoltre, a scuola aveva aiutato un bambino a finire un
disegno e l'insegnante lo aveva detto a sua madre che era andata a
prenderla e che le aveva sorriso orgogliosa.
«Lo
hai aiutato».
Kara
aveva annuito, guardando con attenzione la sua nuova pietra, seduta
nel posto accanto a quello da guida.
«Ecco,
questa sei tu, Kara. Non dimenticare mai chi sei. Hai il proprio
cuore di un eroe, no?».
Era
la cosa più bella che sua madre le avesse mai detto e aveva
arrossito, stringendo la pietra.
Quella
non era una giornata come le altre perché era iniziata
meglio di
tante altre, poteva essere una delle migliori della sua vita, eppure
sembrava infine che la vita avesse solo voluto donarle qualcosa prima
di prenderle tutto.
A
casa c'erano i suoi zii, discutevano come al solito e sua madre le
aveva pregato di uscire a giocare fuori. Era tesa e sudata
all'improvviso, ma Kara era troppo presa dalla scoperta della sua
pietra per darle importanza. Prese Kal e lo portò fuori con
sé. Si
vergognava a fargli vedere di nuovo dopo tempo la sua collezione di
pietre venute dallo spazio perché era cresciuta di due soli
elementi
da mesi e si era messa a giocherellare con il suo bracciale dei
pianeti, con fare nervoso.
«Loro
sono strani», aveva detto Kal senza che lei lo ascoltasse,
mentre
contava i passi sul giardino per ricordare in quale punto aveva
sotterrato le sue pietre. «Sta succedendo qualcosa,
Kara… Mia
madre mi ha tenuto abbracciato per almeno un quarto d'ora,
stamattina. Ho paura che qualcuno li abbia minacciati. Mi stai
ascoltando?».
Lei
aveva tirato fuori la sua nuova pietra dallo zaino, dove l'aveva
nascosta, dissotterrando le altre. «Purtroppo ho solo
queste», lo
aveva guardato e Kal si era abbassato con lei, prendendone due in
mano.
«Sono
carine, ma dubito arrivino dallo spazio», aveva riso,
guardandone
poi un'altra di quelle che lei aveva tirato fuori dalla terra.
«E
questo è un pezzo di vetro levigato dall'acqua, Kara, te
l'ho già
detto», ne sollevò una piccola e lucente,
«L'hai trovato in
spiaggia».
Lei
aveva rumorosamente sbuffato. «Però è
carino…».
«Carino
può essere, ma non è una pietra piovuta dal
cielo».
«E
non fare tanto il saputello o racconterò a tutti i tuoi
amici di
come ti cambiavo il pannolino», aveva riso e lui era
arrossito.
«È
successo una volta sola», aveva battibeccato, «Era
Halloween e
dovevi solo aiutarmi, accidenti, mai te l'avessi chiesto».
Lei
aveva riso e così aveva riso anche lui quando un suono fine,
più un
rumore per la verità, come se avesse potuto spaccare l'aria
in due
aveva preso l'attenzione di entrambi, che si erano alzati.
«Cosa-»,
lei era subito andata verso la casa, quando lui l'aveva fermata di
colpo, afferrandole la manica di un braccio.
«Kara,
ferma, non-».
Erano
state le sue ultime parole. Quel rumore era esploso e un'onda d'urto
li aveva sbalzati per aria tutti e due, buttandoli all'indietro.
Violentemente sbattuta a terra, Kara aveva riaperto gli occhi azzurri
dopo poco. Sentiva un fischio e nient'altro. Non pensava, non capiva.
L'aria era pesante e aveva tossito mentre tentava di rimettersi in
piedi, dopo aver scorso suo cugino Kal a terra a poco da lei,
svenuto. Era scivolata e si era rialzata di nuovo, cercando di aprire
gli occhi più che poteva per via dell'aria tumefatta, non
vedendo
altro che pezzi, pezzi dappertutto, pezzi di tutto il suo mondo. La
casa era distrutta e non c'era altro. Aveva cercato di svegliare Kal
ma lui non rispondeva e, quando aveva sentito la mano dietro la nuca
di lui diventare calda, aveva scoperto il sangue che aveva perso,
lasciandone parecchio sulla pietra sotto, quella che lei aveva
portato a casa quel pomeriggio.
Aveva
aspettato davanti al suo letto che lui si svegliasse ogni giorno, per
settimane. Aveva smesso di chiedere di voler tornare a casa
già il
secondo giorno, poiché a quel punto era diventato inutile,
comprendendo cos'era successo. Le avevano medicato le ferite,
l'avevano fatta parlare con tanti e tante dalla polizia agli
psicologi di turno, l'avevano vista i vicini che erano andati a
trovarla e sua zia Astra le aveva telefonato, e scritto, ma Kara non
aveva risposto. Ora che poteva parlare con lei perché era
l'unica a
restarle oltre Kal, era lei a non voler più avere a che fare
con la
zia. Era colpa sua, lo sapeva. Quello che era successo era solo colpa
di Astra; anche se nessuno aveva risposto alle sue domande
perché
ritenevano fosse troppo piccola lei sapeva che ne era responsabile.
Per quella ragione era andata a prenderla a scuola quella mattina,
aveva pensato allora, perché sapeva che sarebbero morti. E
che
sarebbe morta anche lei.
Un
poliziotto le aveva riportato il braccialetto con i pianeti che le
era volato via dal polso quel giorno, una delle poche cose rimaste,
ma lei non lo aveva più indossato ed era finito in una
scatola di
cianfrusaglie che l'avrebbero seguita in una nuova casa. L'assistente
sociale che si occupava di lei e Kal le aveva detto che una famiglia
si era fatta avanti per adottarla ma lei era restia ad allontanarsi
da lui, aspettando il suo risveglio, leggendo a voce alta le
avventure dei supereroi a fumetti che fin da piccola aveva iniziato a
leggere su consiglio del cugino. Loro andavano avanti anche quando
succedevano brutte cose e trovavano il modo di rialzarsi, e
così
sperava che suo cugino trovasse il modo di tornare da lei.
E
così era successo.
I
suoi occhi azzurri si erano aperti piano, stanchi. L'avevano guardata
e Kara aveva riso di gioia, con le infermiere di turno intorno a
loro, ma quella gioia si era preso trasformata in un baratro quando
fu chiaro che quegli occhi non la riconoscessero. Non poteva parlare,
non ci riusciva, ma Kal non la guardava più come prima.
Quando più
avanti provarono a farlo parlare, lui aveva detto di non conoscere il
suo nome né quello della bimba bionda che non lo lasciava un
attimo.
Era stato un duro colpo per Kara perché aveva perso tutto di
nuovo.
Ed era stata la sua pietra a farlo.
Li
separarono e Kara andò a vivere dai Danvers. All'inizio
chiedeva
spesso di poter vedere Kal, ma l'assistente sociale che andava a
trovarla una volta la settimana, e continuò così
per molto tempo,
non faceva che ripeterle che era impossibile. Le aveva raccontato che
il suo Kal era andato a vivere a Smallville, con una famiglia
adottiva come la sua. Che la sua memoria non stava tornando e che
forse avrebbe impiegato anni a ricordarsi di lei e di ciò
che era
successo. Se mai ci fosse riuscito. Era triste, ma non vedeva
alternative se non lasciarlo andare per la sua strada, mentre lei
tentava di trovare la sua.
«Conoscevo
tuo padre, Kara», le aveva detto Jeremiah una delle prime
sere da
loro. «E anche tuo zio. Ho lavorato con loro, qualche volta.
So che
è dura, ma se mai volessi parlare di me con loro, puoi
farlo. Sono
sempre qui per te se vuoi parlare». Nella sua nuova camera
che aveva
iniziato a condividere con la sua nuova sorella, Jeremiah l'aveva
abbracciata e Kara aveva ricambiato. Ma quella discussione non venne
mai. Kara aveva tagliato con la sua vita passata e aveva imparato a
sorridere di più, aveva accettato ciò che le era
successo e
ignorato le lettere di Astra che trovavano sempre un modo per andare
da lei. Ricordava, ma non poteva lasciare che ciò era
successo la
consumasse.
«Kara!!».
Eliza si era affacciata alla finestra. Era sera e pioveva a dirotto
ma la bambina non sentiva: se ne stava seduta sul tetto e guardava
avanti, al cielo, bagnata fradicia. Aveva aperto la finestra e stava
per dirle di tornare dentro ma, ormai, sapeva che era inutile: era
una delle tante cose strane che faceva e non era la prima volta che
le diceva di tornare dentro, che puntualmente la ritrovava sotto
l'acqua il giorno dopo. Infine aveva deciso di provare a fare una
cosa diversa. Si era arrampicata sulla finestra ed era uscita fuori,
arrivandole accanto a tentoni, col terrore di scivolare di sotto.
L'aveva guardata, immobile e seria, e le aveva liberato il viso da
alcuni ciuffi pesanti di capelli, poi se li aveva tolti anche lei,
sedendosi e reggendosi le ginocchia. C'era freddo ma non era
importante; Kara lo era e aveva bisogno di lei. Era rimasta al suo
fianco fino a quando la bambina, senza dire nulla, si era lasciata
andare su di lei e così pian piano era riuscita a riportarla
dentro.
«Sei
come una bambina piovuta dal cielo», le aveva sussurrato in
un
orecchio, cullandola contro il suo petto.
Sempre
allegra e solare, a volte i momenti bui raggiungevano Kara senza
preavviso. Capitava, di tanto in tanto, ed era comprensibile. Una
mattina, poi, si definì Kara
Danvers
e capirono che il suo mondo, sì, aveva smesso di essere il
mondo un
giorno, ma che ne
aveva ritrovato uno nuovo un altro giorno, pronto a girare per lei.
Kara
aprì la porta della loro camera che Megan già
dormiva e, come
spesso succedeva, la sentiva bofonchiare nel sonno dei bianchi
cattivi che stavano arrivando per lei. Era molto creativa
poiché da
un po' di tempo a quella parte aveva aggiunto ai suoi sogni una guest
star d'eccezione: il signor John Jonzz, l'uomo con cui usciva. Anche
lui era nero e Kara decise che, di questi sogni tormentati, avrebbe
dovuto seriamente parlarle un giorno.
Ripose
sul tavolo la busta chiusa che aveva trovato quella mattina nella
cassetta delle lettere e si sedette davanti, fissandola per un po'.
Anche nel buio, dalla sola luce blu che filtrava dalla finestra
più
vicina, leggeva bene il nome di Astra e Fort Rozz, la prigione che
ancora, dopo tanti anni, la teneva in custodia. Non passava un giorno
senza ricevere una sua lettera. Sempre, non si era mai persa d'animo
anche se Kara non le aveva mai risposto, nemmeno una volta. Non
sapeva neppure cosa ci fosse di importante da scriverle ogni giorno,
ma in fondo le interessava poco: non ne aveva mai aperta una e
così
avrebbe continuato in futuro. Così si alzò e la
prese di scatto,
aprendo un cassetto del suo armadio e poi una scatola, cercando di
infilarla là dentro, in mezzo alle tante altre buste chiuse.
Alla
fine, quando aveva compiuto diciotto anni, l'assistente sociale era
tornata da lei come richiesto da Eliza Danvers e aveva spiegato a
Kara la verità, ogni cosa successa da quel giorno di quando
ne aveva
soli dieci. Prima dell'arresto di sua zia Astra, sua madre aveva
condannato un altro uomo appartenente al gruppo in cui sua sorella si
era infiltrata. La corruzione controllava la città in quel
periodo,
ma era sempre più difficile tirare fuori qualche nome e
prove di chi
ne faceva parte, quindi quell'arresto aveva suscitato molta
risonanza. Si trattava di un commercialista quarantenne: allora,
Astra e suo marito avevano provato a dissuadere Alura, la madre di
Kara, dal condannarlo perché troppo rischioso. Lui era certo
di
uscirne pulito e che non avrebbe fatto un giorno di prigione, ma
successe. Astra fu beccata nel tentativo di nascondere alcune prove
e, si era scoperto dopo, di corrompere una parte della giuria. Dal
momento della condanna erano cominciati guai che si intensificarono
con l'arresto di Astra e consorte, che erano scappati al loro
processo e avevano tentato di rapire la nipote. Qualcuno aveva
inviato lettere minacciose alla giudice che erano diventate via via
sempre più inquietanti. I genitori di Kara e quelli di Kal
avevano
cominciato a lavorare con la polizia per scavare a fondo della
questione; erano seguiti altri arresti e qualche nome era saltato
fuori, ma mentre quell'organizzazione veniva smantellata, una bomba
li aveva uccisi. Kara aveva ascoltato ogni parola cercando di restare
calma e distante per quanto poteva, anche quando le disse che c'erano
stati altri tentativi di ucciderli prima di allora, forse non andati
a segno di proposito, col solo tentativo di spaventarli.
Loro
non erano sicuri che sarebbero morti, ma temevano sarebbe successo.
Da
quel momento, per avere sconti di pena, qualche arrestato coraggioso
aveva fatto altri nomi e la polizia aveva trovato prove schiaccianti
per portare a termine altri arresti. Da allora tutto era sembrato
tranquillizzarsi: il gruppo di potenti era stato distrutto.
La
donna disse che sua zia Astra sapeva che si sarebbero vendicati e che
aveva tentato di avvertirli e probabilmente di salvarla, rapendola,
perché temeva l'avrebbero uccisa, ma a Kara quella parte non
interessava. Era colpa sua e niente che poteva dire o fare aveva
più
importanza. Le voleva bene e lei aveva tradito la sua fiducia e i
suoi genitori.
Chiuse
la scatola, che restò con il coperchio un po' bombato, e
così il
cassetto. Udì la vibrazione del suo cellulare sul tavolo e
lo
raggiunse, leggendo un messaggio.
Da
L! a Me
Volevo
dirti che ho finalmente capito che persona sei, Kara Danvers:
diversa, unica, speciale. Buonanotte.
Kara
arricciò le labbra, arrossendo. «Buonanotte,
Lena».
Capitolo
più corto che porta con sé un po' di
dramma… Immaginavate di
andare incontro a qualcosa del genere? Eheh,
dovevo. Intanto
che Kara e Lena si conoscono sempre meglio, di sfondo la trama della
storia prende forma.
Che
poi ehi, sapevo cosa volevo ottenere, ma in testa
avevo così
tante informazioni tutte insieme che non so davvero come sia riuscita
infine a metterle per iscritto. Ho fatto un minestrone? Probabile XD
Spero sia almeno un po' comprensibile.
Cosa
ne pensate del gruppo di corrotti in cui Astra si era infiltrata, per
poi diventarne davvero membro? Di un Kal quindicenne e saccente? Di
Kara che rompe il naso al bullo di turno? :D
Ora.
Eravamo rimasti con Lena che invita Kara a cena fuori e con
quest'ultima che con un turbinio complicato di pensieri passa dal
“oh, mi sono vestita troppo elegante e ora lei
penserà che io da
questa cena mi aspetti qualcosa di più” al
“oh, ma cosa dico,
non pensa che io aspetti qualcosa di più, ma è
forse proprio lei a
volere qualcosa di più”. Ecco, sì,
restate sintonizzati su questo
canale perché il prossimo capitolo, che sarà
pubblicato qui martedì 24, si intitola Mia
sorella. O forse no
e porterà con
sé una piccola svolta.
Ehi,
ho detto piccola, eh :P
|
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Capitolo 11 *** 10. Mia sorella. O forse no ***
Non
poteva crederci fosse diventato ancora più veloce. Era lui,
e lui
soltanto, il suo vero avversario quando si parlava di gare di corsa e
finalmente poteva mettercela tutta, sudare, stringere i denti,
divertirsi come non mai al suo fianco: Barry Allen. Al secondo giro
della pista, lui la superò e lo vide sorridere. Kara
continuò a
correre, a correre, e lo raggiunse dopo una piccola spinta. Erano di
nuovo pari, correndo vicino l'una all'altro.
Lena
li guardava a bocca aperta, sugli spalti davanti al campo. Se
chiudeva per un attimo gli occhi, i due erano quasi già
dall'altra
parte della pista. «Io… credo di non aver mai
visto nessuno
correre così veloce», disse, sbalordita.
«Barry
è un fulmine», replicò la ragazza al
suo fianco, «Kara è l'unica
che riesce a stargli dietro! E dire che da bambino era una tale
frana», scosse la testa, accennando una risata.
Lei
alzò un sopracciglio, sorpresa. «Bambino? Oh, vi
conoscete da tanto
tempo, allora».
«Andavamo
a scuola insieme, sì, poi è venuto ad abitare a
casa mia, è stato
affidato a mio padre quando eravamo alle medie…».
Lena
restò a bocca aperta. «Dunque sei sua sorella! Ero
convinta fossi
la sua ragazza».
«Ragazza?
No», scosse la testa, nascondendo il suo imbarazzo in una
risata. «E
neanche sorella… Siamo cresciuti insieme, ma siamo solo
buoni
amici».
Le
due guardarono di nuovo verso la pista, alla gara che stava per
finire con il raggiungimento del quinto giro. Molti altri erano
seduti sugli spalti per seguire la gara e altri si erano fermati
mentre camminavano solo per vederli correre. A un lato degli spalti,
appoggiato alla struttura, anche Mike guardava assorto quei due che
si affrontavano.
«Tu
e Kara vi conoscete da molto?».
«Quasi
due mesi», rispose, concentrata sulla gara, «Le
nostre madri si
frequentano».
«Oh»,
l'altra alzò lo sguardo, sorpresa, «Kara aveva
accennato a Barry
qualcosa! Quindi siete voi quasi sorelle! Per un attimo avevo
frainteso».
Lena
arrossì di colpo ma mantenne la sua imperscrutabile calma,
arricciando la bocca in un piccolo sorriso. «E cosa
pensav-», fu
interrotta dall'applauso della ragazza che si alzò in piedi
con il
finire della gara.
Kara
e Barry erano pari per un soffio, lei lo raggiunse all'ultimo, e
subito si abbracciarono, ridendo come due bambini. Mike scosse la
testa e se ne andò.
«Era
davvero da molto tempo che non mi divertivo così»,
rise lei con
eccitazione, avvolgendolo in un altro abbraccio.
Lena
e l'altra ragazza li raggiunsero, intanto che intorno a loro gli
studenti che si erano fermati stavano ritornando a ciò che
stavano
facendo prima di notarli, chiacchierando su quanto andassero veloci.
Qualcuno si azzardò a fischiare in loro direzione.
«Se
non sapessi che ti riprendi in fretta, sarei preoccupata per la
partita di questa sera», disse la ragazza a Barry,
tendendogli una
borraccia d'acqua. Anche Lena aveva tenuto quella di Kara e gliela
passò soprappensiero, senza guardarla in faccia, incapace di
non
pensare a ciò che quella ragazza le stava dicendo poco
prima.
Finito
di bere, lui sorrise e Kara, con la bocca ancora piena d'acqua,
ricambiò. «Credimi, Iris, sarei preoccupato per
questa sera se
dovessi vedermela contro di lei, in campo», la
indicò e lei lo
spinse appena, con complicità, continuando a sorridere.
Kara
era felicissima dell'arrivo del suo amico Barry a National City. Non
era una visita di cortesia: alla Sunrise, quella sera, si sarebbe
giocata un'amichevole maschile National City contro Central City, la
sua città. Non sarebbe stata Kara ad affrontare Barry in
campo, ma
il suo ormai ex ragazzo Mike Gand.
La
squadra avrebbe raggiunto l'università tra qualche ora, in
pullman,
ma Barry e la sua amica Iris avevano preso la metro per arrivare
prima e stare un po' con Kara Danvers, che da tanto non vedevano. Nel
frattempo, il campus si stava preparando ad accoglierli con festoni
disposti ovunque, all'interno e all'esterno. Alcuni giocatori stavano
approfittando di quei momenti di tranquillità per allenarsi:
anche
se si trattava di un'amichevole, non avevano intenzione di lasciarli
vincere.
Kara
invitò Lena a vedere la partita e nonostante gli impegni
accettò
immediatamente, spostando due appuntamenti con alcune studentesse a
cui doveva fare da tutor. Dopo ciò che era successo a cena
quella
sera, Kara era felice di passare ancora del tempo con lei, ma di non
dover stare troppo tempo da
sola con lei.
Era strano, ma sentiva che qualcosa era cambiato: per la prima volta
da quando era successo, aveva parlato della sua famiglia con qualcuno
che non fosse un assistente sociale o un poliziotto, e si era sentita
bene, forse troppo; era come se sentisse che con lei poteva essere se
stessa sempre, e fare o dire qualsiasi cosa, come se la conoscesse da
tutta una vita.
La
inquadrò con la coda dell'occhio e notò che
sembrava distratta.
Barry e Iris stavano discutendo della corsa e Lena aveva lo sguardo
basso, immobile e lontano. Era seria. Sperò che non le desse
fastidio stare in compagnia di suoi due amici.
«Muoio
di fame, andiamo a pranzo?», chiese il ragazzo ad Iris, per
dopo
rivolgersi a loro, «Che ne dite, voi due? Vi unite a
noi?».
Kara
sorrise e guardò Lena, che sorrise a sua volta, annuendo.
Megan era
fuori con il signor Jonzz, dunque non doveva nemmeno preoccuparsi di
lasciarla sola. «Va bene».
«Dai,
fateci compagnia, così ci conosciamo meglio»,
propose anche Iris.
Lena
credeva di non aver mai visto nessuno mangiare quanto mangiasse Kara,
ma conoscere Barry Allen le aveva aperto il mondo a nuove
prospettive: i due sembravano intenti a fare un'altra gara, quella
per cui vinceva chi mangiava di più. Fortunatamente Iris
sembrava
una persona normale quanto lei e riusciva anche a vedere cosa metteva
in bocca prima di ingoiare. Cominciava a pensare che fosse il
lacrosse a richiedere ai due tanta energia, ed era anche il loro
argomento da quando ordinarono da mangiare.
«Che
poi pensavo di mollare».
«Che
cosa?», fece Kara sbalordita; per poco non le cadeva un
bicchiere
d'acqua sul tavolo.
«Non
so, forse dovrei concentrarmi sulla corsa, è la cosa per cui
sono
più portato», aggiunse dopo aver finito di
masticare.
Kara
non se sembrava entusiasta, notò Lena.
«È indubbiamente vero, ma
mi dispiace comunque».
«Quest'anno
sarà l'ultimo, devo anche impegnarmi seriamente nello studio
o dovrò
dire addio alla mia carriera di CSI prima di cominciare».
«Come
vi siete conosciuti voi due?», chiese Lena di colpo facendosi
interessata, vedendo quanto animo ci fosse tra loro. Congiunse le
mani e vi ci appoggiò la testa, con i gomiti sul tavolo.
Aveva già
finito di mangiare.
Kara,
che era al suo fianco, rise con vago imbarazzo, nascondendo il viso
con una mano, tirandosi in su gli occhiali, senza guardarla negli
occhi.
Anche
Barry parve arrossire. «In realtà è un
po'… imbarazzante»,
rivelò, «Era la prima volta che la mia squadra si
scontrava con
quella della Sunrise, a Central City».
«L'anno
scorso», aggiunse Kara sorridendo.
«Mi
stavo allenando con la squadra, in campo, quando Mike Gand chiede se
può unirsi a noi. Lo conosci?». A una sua risposta
affermativa,
continuò: «E non è un tipo a cui piace
perdere, sai, quindi
continuava a voler giocare e a voler giocare ed entra in scena Kara,
che vuole giocare in coppia con Mike contro due di noi».
«Neanche
a me piace perdere», disse lei.
«No»,
scosse la testa lui, sorridendo, «Neanche a te piace perdere!
Lei
era venuta a vedere la partita e sapevo che non potevamo giocare sul
serio prima ancora di scendere in campo, ma credevo che lei- che lei
non sapesse giocare», la indicò, scrollando le
spalle, «E quindi
accetto, giochiamo… è-è stato
umiliante», si nascose il viso tra
le mani e Kara e Iris risero.
«Lo
hai battuto?», domandò Lena, incuriosita.
«Sì,
certo», rise ma la guardò appena, nascondendo
anche lei il viso tra
le mani.
«E
poi gli hai chiesto di uscire», aggiunse Iris e Lena
spalancò gli
occhi.
«Sì»,
risposero entrambi, guardandosi e mal nascondendo una risata
imbarazzata.
Era
chiaro che tra i due doveva esserci una grande sintonia,
pensò Lena.
«Oh, quindi… quindi voi due siete usciti
insieme?».
«Avevo
litigato con Mike, quella sera, non voleva che io mi mettessi in
mezzo», alzò gli occhi al soffitto,
«Così lui era lì, era carino
e...».
«Non
sono più carino?».
«Sei
carinissimo! E siamo usciti, sì, ma ho portato
Mike».
«E
io Iris».
«È
stato un disastro», intervenne Iris, guardando Lena,
«Non volevano
restare soli, così... Infine sono diventati
amici».
La
cameriera portò loro il dolce e sia Barry che Kara chiesero
il bis
prima ancora che le altre due potessero finire, parlando del lacrosse
e di come Mike si fosse ingelosito per via del loro rapporto.
«Lui
è sempre così geloso…»,
esclamò Kara, leccando il cucchiaino.
Lena
non poté fare a meno di notare come non la guardasse se non
perché
costretta, temendo fosse per via di come l'aveva invitata a parlare
della sua famiglia a cena, quella sera. Era da allora che si era
fatta strana e più che mai, ora, le sembrava tesa. O forse
doveva a
che vedere con Barry. Lo guardò. Lui e lei erano
incredibilmente
simili e sembravano capirsi alla perfezione, tuttavia gli sguardi di
quel ragazzo si imbarazzavano quando si scontravano con quelli di
Iris, la sua amica, o quasi sorella che fosse. Era chiaro che tra
Kara e Barry doveva esserci solo una forte amicizia e che Mike non
l'avesse notato. Parlando di una vecchia partita, i due si
schiacciarono il cinque, svuotando la loro coppa di gelato.
«E
comunque Mike è molto migliorato, ti converrà
stare attento alla
partita».
«Per
chi farai il tifo?», domandò Iris, mettendo Kara
in crisi.
La
ragazza si bloccò e la guardò con attenzione,
stringendo gli occhi.
«No, okay, questo è un colpo basso»,
rise, annuendo, «Entrambi.
Non m'importa se è poco corretto, non posso proprio
scegliere».
Lena
decise di cogliere quel momento prima che tornassero a
parlare e fosse difficile interromperli. Si appoggiò schiena
al muro
ed estrasse un grande sorriso, scrutando Kara e decidendo di aprire
bocca. «Ammetto che non sono mai stata a una partita di
lacrosse.
Spiegatemi il gioco. Si usano le racchette, vero?».
Parlò in
plurale ma l'affermazione era rivolta a Kara. Iris continuò
il suo
gelato e Barry la indicò con un sorriso, a cui l'altra
rispose con
gesti strani, sorrisi, il risistemarsi gli occhiali, poi togliendosi
un ciuffo biondo dal viso, e finalmente la guardò negli
occhi. A
Lena erano mancati quegli occhi su di lei.
«Sì,
è-è una specie di racchetta, viene chiamata
stecca. L'obiettivo del
gioco è recuperare la palla con la rete nella testa della
stecca e
segnare in porta. C-Ci sono tre difensori, il portiere, tre
attaccanti e tre mediani». Si fermò per raschiare
la coppa di
gelato e gustarne ancora, sentendo il sapore della vaniglia. Non
riusciva a capire perché fosse tanto agitata: Barry e Iris
erano in
silenzio e Lena la guardava con quel sorriso divertito stampato sul
volto, mentre si mordicchiava un labbro. Oh, probabilmente era un
altro dei suoi tentativi di scherzare con lei ed era l'unica a non
averlo capito. «Ma tu questo già lo sai,
vero?», domandò,
inarcando le sopracciglia.
Lena
sorrise ancora, con vigore ed evidente divertimento.
Barry
guardò l'una e poi l'altra, scambiandosi un'occhiata con
Iris al suo
fianco. «Kara, non mi hai detto alla fine cos'è
successo con Mike.
Come mai avete rotto? Eravate molto uniti…».
«Oh.
Lui… beh, Mike è un bravo ragazzo, ma non credo
fossimo adatti per
stare insieme», rispose con una nota malinconica nella voce.
Ancora,
pensò Lena: aveva di nuovo smesso di rivolgerle lo sguardo.
«Mi
è sempre sembrato piuttosto preso da te, ma tu di
lui?», incalzò
Barry. Guardò Lena per un momento e lei si sentì
avvampare,
cercando di rimettersi composta sulla sedia.
«Beh…
sì. Mi è sempre piaciuto Mike».
«Piacere
una persona e esserne innamorati sono due cose diverse,
Kara»,
rispose Lena e guardò di rimando Barry solo un momento e lui
tornò
indietro con la sedia, guardando a sua volta Iris, di sfuggita, non
potendo farne a meno.
«Credo
che Lena abbia ragione», disse quest'ultima, finendo il suo
gelato.
«Frequentavo un ragazzo al liceo che era la fine del mondo,
non so
se mi spiego». Kara scorse Barry alzare gli occhi al soffitto
e
sorrise. «Adoravo stare con lui, mi faceva sentire
così bene…
Però mancava qualcosa, e non sapevo cosa. Ho capito la
differenza
quando ho conosciuto Eddie, il mio fidanzato», sorrise
entusiasta e
Barry affondò lo sguardo sulla coppa vuota di gelato,
prendendola ed
esaminandola. Kara sorrise di nuovo e Lena lo fissò con
interesse,
pur mantenendo l'attenzione su Iris che parlava. «Con lui
è tutto
diverso».
Decisero
di tornare all'università e le ragazze si diressero in bagno
prima
di lasciare il locale. Quando Iris finì decise di tornare
fuori e
aspettare con Barry, così Kara cercò di sbrigarsi
a risciacquarsi
le mani, poiché sapere di essere sola con Lena
all'improvviso le
fece mancare l'aria.
«Barry
sembra piuttosto preso da Iris…», disse Lena a un
certo punto,
disturbata solo dall'acqua del lavandino che scorreva.
«Lo
hai notato anche tu, vero?», rise, rivolgendole lo sguardo un
attimo
appena. «Credo che l'unica a non essersene accorta sia
proprio lei!
Barry ha una cotta per Iris da sempre, dai tempi delle scuole medie
anche se, di fatto, sono cresciuti come fratello e sorella»,
disse
d'un fiato. Si guardarono e si sorrisero, chiudendo l'acqua. A Kara
mancò un battito, bloccandosi, capendo tutto solo in quel
momento,
come un fulmine in ciel sereno: si era sbagliata alla cena;
deglutì.
Fratello e sorella. Sua sorella. Lena era sua sorella, adesso,
ma…
Non era probabilmente Lena ad avere un interesse per lei, ma l'esatto
opposto. Oh no, non ci voleva. Non
ci voleva. Non ci voleva.
Quando, com'era successo? Perché?
Il
batticuore, il respiro affannato, il non riuscire a guardarla negli
occhi, non riuscire a guardarla affatto
se non per brevi ma intensi istanti come per paura di qualcosa
che…
Era proprio ciò che pensava. Come aveva fatto a non
accorgersi prima
di- Accidenti.
Attimo dopo attimo, si erano avvicinate… Tutto aveva un
senso.
Deglutì ancora, sgranando gli occhi.
«Praticamente
è sua sorella», ripeté Lena,
incredibilmente vicina a lei. «È
proprio vero che i sentimenti non si possono controllare».
Era
davvero troppo vicina, pensò. Era sempre stata
così vicina? Quando
aveva accorciato le distanze in quel modo?
Kara
rise con fare nervoso e si sistemò gli occhiali sul naso,
spostandosi e dirigendosi verso la porta. «Meglio-Meglio
tardi o si
farà andare», esclamò, bloccandosi di
colpo, «Vo-Volevo dire che
sarà meglio andare, o si farà tardi».
Lena
rise. «Lo avevo capito. Senti, posso proporti qualcosa di
tremendamente sconveniente?»
Kara
spalancò gli occhi e deglutì, sentendo le sue
orecchie diventare
calde.
«Vorrei
che mi facessi compagnia, domani sera. La Luthor Corp sponsorizza una
mostra di fotografie qui a National City, ci sarà un sacco
di brutta
gente con cui non mi va proprio di chiacchierare, così, se
avessi te
al mio fianco, potrei avere una via di fuga».
Kara
sorrise, sentendosi più leggera. «Certo. Va
bene». Non sapeva
ancora come avrebbe fatto a starle vicino ora che conosceva la
verità, perché al solo pensiero sentiva le
farfalle nello stomaco e
no, cattive
farfalle,
doveva assolutamente scacciarle, ma avrebbe trovato una soluzione.
Lei era Supergirl e non c'era niente che avrebbe potuto spaventarla.
«Non ci sarà anche tua madre?».
«Ovviamente»,
annuì, aprendo la porta, «Non ho accennato alla
brutta gente?».
Kara
rise, scuotendo la testa, ed entrambe uscirono dal bagno.
Il
sole era basso e tutti i giocatori erano nel rispettivo lato del
campo, davanti alle panchine, intanto che i coach facevano loro gli
ultimi appunti e davano qualche incoraggiamento. Rossi e blu la
squadra del Sunrise, rossi con scie gialle quelli di Central City. Il
numero dieci, Barry, fece loro la mano per un saluto prima di
infilarsi il casco.
Mike
parlò con Kara prima di scendere in campo e lei gli
augurò buona
fortuna con un abbraccio. Il ragazzo l'adocchiava ancora, seduta
sugli spalti in mezzo a Iris e Lena, Megan vicino a quest'ultima.
Kara non vedeva l'ora di parlarle, ma era arrivata tardi e avevano
fatto in tempo a sedersi che ora a dividerle c'era Lena…
Doveva
assolutamente parlare con Megan. E poi con Alex. No, non poteva
parlarne con Alex. Non poteva assolutamente parlarne con Alex,
pensò,
diventando pallida. Come poteva spiegarle di provare qualcosa che non
era amicizia per Lena, la figlia della donna fidanzata con la loro
madre? Loro stavano per sposarsi… Gli occhi di Kara si
spalancarono
e lei iniziò a respirare affannosamente. Barry aveva una
cotta per
Iris e non si faceva tutti questi problemi nonostante il padre della
ragazza fosse anche il suo padre affidatario, ma le cose erano
diverse. Le situazioni erano davvero differenti: il vero padre di
Barry in prigione non era fidanzato con il padre di Iris. Ma non
poteva comunque parlarne con Alex: non aveva fatto altro da giorni e
giorni che dirle di come Lena flirtasse con lei. Ma Lena scherzava,
naturalmente. E ora vedeva quegli scherzi da un'altra prospettiva.
Ma
cosa andava a pensare, non era che lei e Lena si stessero mettendo
davvero insieme, dopotutto. Va bene, doveva accettare il fatto che
lei avesse una cotta per la ragazza, ma in fondo non era un problema
vero, perché le sarebbe passata. E presto.
«Kara.
Ricordami che numero è Mike», le
bisbigliò all'orecchio la calda
voce di Lena, facendole salire la tachicardia. Le si poggiò
addosso,
tanto che poteva sentire uno dei suoi seni contro il suo braccio
sinistro.
«Dodi-
No, volevo dire tredici. Aspetta, no, no, è proprio il
dodici»,
annuì, cercando di restare il più calma
possibile, senza spostare
un muscolo, sentendo il seno che continuava a premerle contro il
braccio. Sentiva il suo viso avvampare ed era felice che stesse
scendendo il buio o temeva si sarebbe visto.
«Non
lo ricordavi?».
«No,
pff,
è solo che ho avuto, sì, emh, un
attimo», rise con forse troppa
forza perché sia Iris che Megan si girarono verso di loro.
Avrebbe
voluto il superpotere di scomparire. Era talmente presa dai suoi
pensieri, poi, che non si era nemmeno resa conto che la partita era
già iniziata e che erano pari di quattro punti.
No,
cinque punti per la squadra di Barry, lui aveva appena segnato e Iris
si era alzata per applaudire insieme a pochi altri, mentre in tanti
si lamentavano. Barry era davvero veloce e aveva schivato le cariche
dei ragazzi della Sunrise che tentavano di fermarlo, segnando ancora.
Kara scorse Mike scuotere la testa, sotto al casco. Lo conosceva
abbastanza per sapere che la cosa doveva particolarmente irritarlo e
sperava solo che non perdesse la calma.
«Barry
è davvero bravo», disse Lena rivolta ad Iris,
sempre troppo vicina
a Kara.
Si
era spostata, eppure aveva ricominciato a premerle contro un seno.
Che lo facesse apposta? Si domandò. Aveva ricominciato a
stuzzicarla? Passavano i baci indiretti, chiamarla vaniglia,
anche spedirle tanti fiori, ma mai si era spinta a tanto, a quel
contatto tremendamente
diretto. E poi perché stuzzicarla? La divertiva ancora?
Barry
segnò di nuovo, e di nuovo. Mike non sembrava giocare come
al
solito, come distratto: la squadra gli andava incontro e gli
sparlava, forse cercando di tirargli su il morale. L'arbitro
segnò
la fine del primo quarto di gioco con dieci a sei per la squadra
venuta da Central City. Il pubblico non ne era entusiasta e si
lamentava di quanto male stessero giocando i rossi e blu.
Barry
le inquadrò e le salutò subito, togliendosi il
casco per respirare
un po' d'aria durante la pausa, e così sia Iris che Kara
ricambiarono con gesti di incoraggiamento. Kara cercò Mike,
avrebbe
voluto sostenere anche lui come poteva, ma quando lo trovò,
notò
che era seduto in panchina attaccato alla borraccia e non la vedeva.
Non la cercò neppure e la cosa non era da lui.
«Mike
è arrabbiato», esclamò Megan.
Kara
non poté che essere d'accordo, scrollando le spalle.
Si
era fatto buio e i fari illuminavano il campo mentre le squadre
ritornavano in posizione. I capitani di ambe le squadre, Barry Allen
e Mike Gand, erano di fronte l'uno all'altro, chini con la stecca
sull'erba, davanti alla palla, pronti per sentire l'arbitro
fischiare.
«Ehi,
va tutto bene?», domandò Barry, scorgendo dalle
sbarre del casco il
viso di Mike che sembrava rigido.
«So
cosa sta succedendo», rispose lui, «Non fare il
carino con me».
«Di
cosa stai parlando?».
Il
fischio dell'arbitro non si fece attendere e i due si scontrarono per
la possessione della palla. Mike ebbe la meglio buttandolo a terra e
trascinò la palla nella rete della stecca per tutto il
campo,
schivando gli avversari, scaraventando giù la difesa, e
infine
lanciando la palla contro la porta, segnando. Nonostante non l'avesse
passata agli altri membri della squadra liberi, loro erano felici del
punto assegnato, andando a congratularsi. Mike lanciò
un'occhiataccia a Barry che intanto si era tolto di nuovo il casco,
fissandolo.
Non
comprendeva cosa gli fosse preso all'improvviso e guardò
verso gli
spalti per trovare gli sguardi perplessi delle ragazze. Perplessi
almeno quanto lui.
Il
gioco riprese in fretta. La palla passava da una stecca all'altra per
la squadra di Barry, mentre la Sunrise tentava di bloccarli. Veloce,
Barry superò ogni difesa e aspettò l'arrivo della
palla. Gliela
passarono, si stava girando per tirare in porta quando Mike gli si
buttò addosso con quanta più forza poteva e
sbalzò entrambi a
terra in modo violento. L'arbitro fischiò subito, correndo a
vedere
la situazione; non ci mise molto a dichiarare il fallo.
Sia
Kara che Iris si alzarono, cercando di capire cosa fosse successo.
«Barry si è fatto male», disse subito la
prima, preoccupata.
Entrambe decisero di correre da loro, seguite da Lena e Megan.
«Che
cosa ti è saltato in mente?». Kara gli si
fiondò addosso e Mike,
seduto in panchina, dovette ripararsi con un braccio per paura che lo
picchiasse.
«Smettila,
mi sono fatto male anch'io», dichiarò, facendole
notare che un
paramedico si stava chinando su di lui per controllargli la gamba
sinistra.
Megan
prese Lena per un braccio ed entrambe seguirono Iris dall'altra
parte, che era corsa per soccorrere Barry. Ben due paramedici
controllavano le condizioni del ragazzo, seduto in panchina. Uno gli
stava fasciando un braccio e l'altro gli controllava un ginocchio.
Barry sorrise quando le vide.
«Barry!
Oddio, come ti senti?». Iris si accostò,
chinandosi verso di lui,
lasciando lo spazio ai paramedici di intervenire.
«Sto
bene», annuì lui, sudato. «Giusto
qualche graffio. E una
contusione, probabilmente», abbozzò una risata.
Adocchiò Kara che
si stava avvicinando, facendole un gesto con la testa. Lei sembrava
piuttosto arrabbiata. «Lui? Come sta?».
«Bene.
Fin troppo», brontolò, avvicinandosi.
«Si
può sapere cosa gli è preso? Non era per
bloccarlo, gli è andato
addosso con l'intento di fargli male», disse Iris, guardando
Mike
con la coda dell'occhio, dall'altra parte, intanto che in campo il
gioco riprendeva senza di loro.
«Non
ha nulla di diverso da sempre», rispose Megan per prima,
scrollando
le spalle a uno sguardo di Kara, mentre Lena le accennava un sorriso.
«Mike
pensava che mi vedessi con Barry», chiuse gli occhi e prese
un
grosso respiro, pensando a quanto si sbagliasse.
«Io
e te?», rise lui, fermandosi perché gli facevano
male le costole.
«Che coppia, eh?».
Lei
sorrise, scuotendo la testa.
La
squadra di Barry vinse la partita anche senza Barry, ma la cosa non
diede fastidio a Mike quanto più sapere che Kara non si
vedeva con
lui, ma che ora era così arrabbiata che probabilmente non
gli
avrebbe ridato un'altra occasione mai più ed era
già tanto sperare
che gli rivolgesse di nuovo la parola, una volta che si fosse
calmata. Barry e Iris decisero di tornare a Central City con il
pullman della squadra. Il ragazzo si stava riprendendo in fretta come
sempre e sapeva che presto avrebbe potuto correre di nuovo.
Iris
abbracciò Kara e poi Lena, felice di averla conosciuta,
mentre Barry
strinse Kara un po' più a lungo. Si guardò un po'
intorno e,
scorgendo Iris e Lena impegnate a parlare, l'avvicinò ancora
per
dirle un'ultima cosa prima di salire sul bus.
«Credo
anch'io che tu e Mike non siate adatti per stare insieme», le
sorrise, «Ma forse hai una nuova opportunità,
più vicina di quanto
pensi».
«Oh,
tu non hai idea di cosa io pensi in questo momento»,
gonfiò gli
occhi.
Li
richiamarono dal bus e se ne andarono, mentre Kara ripensava alle sue
parole, non capendo proprio cosa volesse dirle. Li salutarono e
l'autobus diventò sempre più piccolo, svanendo
poco a poco. Lena la
scorse con la coda dell'occhio e sorrise, iniziando a camminare al
suo fianco per rientrare al cancello del campus.
«Iris
mi ha confidato una cosa», disse a un certo punto mentre Kara
guardava rigida davanti a lei, ricordandosi solo in quel momento che
erano sole e che avrebbe preferito la compagnia di Megan, che invece
se l'era svignata per andare di nuovo dal signor Jonzz. «Ha
detto
che pensava che tra noi ci fosse qualcosa».
Kara
avvampò, voltandosi di scatto. Il suo cuore si fece agitato.
«Cosa?
Qualcosa, tipo cosa? In effetti tra noi ci sono un sacco di cose,
tipo la distanza dal campus alla Luthor Corp, o-o tra casa di Eliza e
Lillian, dove abiti… o altre tipo di- sì,
distanze, insomma, tra
noi», rise cercando di non impappinarsi, intanto che i suoi
occhi
balzavano da un punto all'altro, in preda al panico. Senza guardare
dove andava, inciampò e Lena la prese per un braccio,
sorridendole.
Kara si staccò da lei come se le avesse dato la scossa.
Erano
davanti al cancello e Lena le si avvicinò, si
avvicinò decisamente
troppo e lei fu costretta a retrocedere.
«Intendeva
in modo romantico, Kara», strinse i denti, annuendo,
«È assurdo,
lo so. È ciò che le ho detto».
«I-Infatti»,
sbuffò, senza riuscire a guardarla negli occhi troppo a
lungo, «Tu
ci scherzi, ma-».
«Ci
scherzo?», inarcò un sopracciglio.
Kara
la scrutò prima di rispondere, incerta su cosa dire.
«T-Tu…
voglio dire, tu non hai una cotta per me o una cosa del
genere».
«Una
cosa del genere».
Kara
rise alzando la voce, guardando verso il cancello. «Quello!
Tu non- E io non- E poi le nostre madri…».
«Sì,
loro stanno insieme. Tu sei praticamente mia sorella»,
infine, Lena
ansimò, allontanandosi da lei di colpo, proseguendo verso il
cancello.
Il
cuore di Kara saltò un battito. «O
forse no»,
bisbigliò, seguendola.
«Megan!
Meno male che ci sei». Le corse incontro appena lei
aprì la porta
della loro camera.
«Va
bene», la guardò, «Cosa
succede?».
Avrebbe
voluto lasciarle il tempo di cambiarsi da sola e in pace, di andare
in bagno, di mangiare qualcosa indisturbata, se voleva, ma non
resisté alla tentazione di starle vicino come una zecca
qualunque
cosa facesse, portando con sé uno sguardo avvilito. E non
che Megan
non avesse insistito per farsi raccontare cosa avesse,
perché era
ovvio che morisse dalla voglia di farlo, ma ogni volta che tentava di
aprire bocca Kara annaspava, si sistemava gli occhiali, si grattava e
si guardava intorno, non necessariamente in quest'ordine. Infine,
Megan decise di passare alle maniere forti: le prese i polsi e
l'accompagnò sul letto a sedersi, mettendosi poi al suo
fianco,
senza lasciarla andare prima che gesticolasse ancora.
«Allora,
cosa turba Supergirl questa notte?».
Kara
deglutì, diventando rossa. «Beh, mi sono
accorta…».
«Che
hai una cotta per Lena Luthor».
«Cosa?».
«Cosa?»,
strinse i denti, «Tu non-? Oh, fai finta che non abbia detto
nulla,
era tipo uno spoiler».
Lei
tirò indietro la testa, simulando un lamento. «Ho
una cotta per
Lena Luthor! Tu lo sapevi! Per questo mi hai consigliato l'abito per
quella cena…».
«Kara».
La lasciò andare, sospirando. «Lo stavi
nascondendo bene, ma alcuni
comportamenti ti tradiscono. Lo
stavi,
perché oggi sembravi più tesa del normale e penso
che la cosa ti
sia sfuggendo di mano, ragazza».
«Ma-Ma
io me ne sono accorta oggi».
«Ah».
«È
una cosa… sbagliata», sussurrò con
paura nello sguardo, fissando
attentamente l'amica. «Non so cosa fare, come comportarmi.
Non
dovrebbe essere così».
«E
come dovrebbe essere?».
«Dovrebbe
essere mia sorella. O quasi. E giuro che sto davvero
odiando quella parola», digrignò i denti, nervosa,
ricordando il
viso di Lena che sottolineava il loro status. «Ma
è quello che
tutti si aspettano, di certo Eliza e Lillian».
«E
io non dovevo innamorarmi di un uomo più grande. Il mio
coach, poi»,
le disse e Kara aggrottò le sopracciglia, ascoltando.
«È sbagliato
sotto tutti i punti di vista, ma... è successo. Non puoi
fartene una
colpa, ci sono cose che non si scelgono e i sentimenti sono tra
quelle cose. Succede e basta. Puoi portare pazienza e sperare che la
cosa passi via da sola o…», la guardò
con un sorriso, «O
buttarti, bella. Per quanto mi riguarda, d'altronde, poi è
stato
bello, perché cercando un modo per farmi notare da lui, ho
scoperto
che anche lui provava le stesse cose».
Kara
arrossì. «Lena non- Lei ci scherza, lo so, e lo ha
praticamente
ammesso, ma non-», si fermò per sorridere,
guardando altrove. «Mi
fa strano anche solo pensarlo, Megan! Lei flirtava e sono sicura di
questo», la intimò con lo sguardo di non
contraddirla, «ma non
prova per me ciò che io provo per lei».
«E
tu cosa provi per lei?».
«…
tutto».
Lena
si sdraiò sul letto, coprendosi. Non aveva voglia di dormire
e si
mise a pancia in su, perdendosi nei suoi pensieri. Quella giornata
era stata così lunga e l'indomani c'era la mostra di
fotografia
sulle barriere architettoniche sponsorizzata dalla Luthor Corp, e
sapeva sarebbe stata lunga altrettanto. Ma fortunatamente Kara era
con lei e si sarebbe annoiata un po' meno. Ringraziava che avesse
accettato; non aveva mai avuto nessuno, se non Lex prima che si
trasferisse, che stesse al suo fianco in momenti come quelli. Non
qualcuno che lei voleva ardentemente al suo fianco, se non altro.
Si
stava arrendendo all'idea che la cotta di lei le stesse passando. Lo
pensava spesso, ma ogni volta che lei si fermava a guardarla allora
tutto tornava a galla come prima. E il fatto che stesse pensando a
una cosa del genere, era la prova stessa che non era vero. E
quell'oggi, la discussione con lei… Kara le era sembrata
strana,
più agitata, diversa. Come se, deglutì, ricambiasse.
Come se fosse agitata per lei. E il fatto che avesse scartato a
priori, parlandole di qualcosa tra loro, la cosa più
ovvia… Si
stava inventando delle cose per sviare l'argomento. Lena
arrossì
involontariamente, sorridendo.
Ammetteva
di essersi un po' strusciata contro di lei di proposito, per
esaminare la sua reazione, e credeva di poter affermare che avesse
superato l'esame. Ma quella possibilità cambiava qualcosa
nella loro
prospettiva? Kara poteva davvero innamorarsi di lei?
Sussultò e si
tirò in su la coperta fino al collo, iniziando ad avere i
brividi.
Se davvero Kara… pensò, poteva rischiare? Poteva
rischiare di
mettere in pericolo i rapporti familiari se significava baciarla
davvero?
«Oddio,
ma è meraviglioso», Eliza si lasciò
andare a tutto il suo stupore,
entrando nella prima sala dedicata alla mostra. Un salone ordinato,
diviso per corridoi da pareti di plastica bianca su cui sopra erano
affisse gigantografie in bianco e nero incorniciate, sotto moquette
colorata, un colore tenue diverso per ogni corridoio, installata per
l'occasione per sottolineare le diverse realtà trattate.
C'erano
archi che portavano ad altri saloni, scivoli invece di scale, due
ascensori per il piano superiore. Eliza si era lasciata incantare,
guardando intorno a lei com'era diventato quel posto: lo aveva visto
qualche mese prima quando la Luthor Corp lo aveva comprato; un rudere
che i vecchi proprietari, se nessuno lo avesse acquistato, volevano
abbattere. Lillian le aveva detto che lei e Lena avevano in mente dei
progetti, ma non si aspettava un uso così onorevole della
struttura,
oltre alla ristrutturazione che aveva risaltato la natura antica,
lasciando colonne e affreschi originali, invece di eliminarli per
passare a uno stile più moderno.
Per
ogni salone c'erano più artisti che parlavano delle loro
fotografie
al pubblico, cosa avevano voluto dimostrare; alcuni di loro in
carrozzella, in stampelle. Vicino a uno degli ascensori e un arco che
apriva a un altro salone, c'era un banco con bibite, stuzzichini e
dei dépliant. C'era già il pienone e avevano
aperto da pochi
minuti.
Lei
e Lillian salutarono dei conoscenti con la loro famiglia, un
giornalista che fece loro delle foto, e passarono oltre, la seconda
con un braccio intorno alla schiena della prima, entrambe con indosso
dei vestiti eleganti e scarpe alte. Un altro giornalista chiese loro
una foto e le due si fermarono, sorridendo, in posa.
«Cosa
ne pensi?», le domandò Lillian, per poi salutare
un'altra coppia di
amici e qualcun altro, da lontano.
«Loro
non sono venuti anche alla nostra festa di fidanzamento? È
da allora
che non li vedevo».
«Oh,
sì. Loro non si perderebbero mai un evento, anche se non si
interessano di fotografia né tantomeno dell'abbattimento
delle
barriere architettoniche». Sorrise raggiante quando la coppia
interessata le notò e le salutò con un gesto.
«Sono terribilmente
snob», biascicò a denti stretti,
«Seguimi. Allontaniamoci prima
che venga loro in mente di raggiungerci». Le
circondò la vita con
un braccio, scortandola presso uno dei corridoi.
Ferdinand
parcheggiò nella piazzetta davanti alla mostra e
uscì per aprire
loro gli sportelli posteriori. Kara era felice che fosse finalmente
arrivato il momento di scendere dalla macchina e per poco non
sbatté
la portiera in faccia all'autista, correndo di fuori. Le era mancata
l'aria, accidenti. Per tutto il tempo.
Lena
le sorrideva e lei si sentiva svenire. Lena le si avvicinava e si
sentiva implodere. Lena le parlava e lei faticava a capire cosa
dicesse perché glielo diceva con quelle labbra, quelle
labbra che
oh,
erano diventate così sensuali che si intratteneva a
guardarle, così
sentiva che diventava calda e doveva girarsi e farle ripetere tutto.
Era diventato tutto così imbarazzante, all'improvviso.
Riusciva
persino a sentire il suo odore prima che si avvicinasse troppo, e
quello del suo respiro che le faceva provare i brividi sulla pelle.
Sapeva di dover concentrarsi: il segreto stava tutto lì.
Tutto lì.
«Kara?
Ti senti bene?».
«Certo»,
le sorrise, cercando di riprendersi di colpo. La guardava con
quell'aria preoccupata che la rendeva così bella. No, era
bella
sempre. Ma in quel momento era bella per lei; quello sguardo era solo
suo. «Maledette farfalle», sospirò.
«Farfalle?».
«Sì.
Mh»,
agitò una mano per aria, ridendo convulsamente,
«So-Sono
dappertutto. Andiamo?». Entrò così di
fretta che Lena non riuscì
a starle dietro; un uomo la fermò all'ingresso e Kara
sparì dalla
sua vista.
Si
guardò attorno con incanto come sua madre prima di lei,
talmente
distratta nel vedere le magnifiche pareti di pietra e gli archi che
inciampò sul vestito di una donna, tirandoglielo. Lei la
guardò
male mentre si allontanava. Si scontrò con qualcun altro ma
non ci
diedero peso poiché c'era davvero troppa gente e Kara
passò il suo
tempo a scusarsi. Poi si fermò, accorgendosi di aver perso
Lena. Oh,
ora si sentiva in colpa: voleva la sua compagnia e lei, per lo
stupido imbarazzo, l'aveva lasciata sola. Cercò di
intravedere
qualcosa in mezzo alla calca dell'ingresso nel primo salone, quando
si sentì picchiettare su una spalla e si voltò,
estraendo un grosso
sorriso. «Winn».
Si
abbracciarono e il ragazzo sorrise a sua volta. «Ti stavo
chiamando,
ma siccome non rispondevi mi sono avvicinato. Sei qui da sola? Ho
visto tua madre con la signora Luthor, poco fa».
«Credo
di essermi persa Lena», brontolò, continuando a
cercarla alzando lo
sguardo oltre le teste delle persone, mettendosi in punta di piedi.
Lui,
vestito in modo impeccabilmente elegante con completo blu scuro e
cravatta, la scrutò con titubanza, arrossendo: indossava un
vestito
stretto in vita, celeste, che andava ad allargarsi con la gonnellina
che le arrivava poco sotto le ginocchia. Sbracciata, si notava che
faceva sport. I capelli erano legati in alto, ben stretti. Le
ammirò
il collo nudo e, come se fosse stato sorpreso a guardarla troppo a
lungo, si voltò di scatto, prendendo un grosso respiro.
Pensò che
quella sarebbe stata la sua occasione. «Oh, beh,
sarà
impegnatissima, se vuoi puoi stare con me», disse estraendo
il suo
sorriso migliore. «Sono un ottimo intrattenitore. In
realtà, sono
venuto qui solo per dare un'occhiata, ma la signora Luthor mi ha dato
questi», mostrò il mazzetto di dépliant
che aveva tra le mani,
anche se lei in realtà continuava a cercare Lena, voltandosi
appena
con aria distratta e prendendone uno, «vuole che li
distribuisca.
Non penso che sappia come mi chiamo, ma doveva ricordarsi che lavoro
per sua figlia e doveva aver notato in me una persona»,
sorrise,
guardando Kara, «molto fidata per-per chiedermi di aiutarla.
Che ne
dici-».
«Ah,
eccola», sorrise, voltandosi per abbracciarlo di nuovo,
«Grazie per
la compagnia, sei un vero amico».
«S-Se
andassimo insieme a distribur-
no, certo», si sforzò di sorridere anche lui,
vedendo che la
ragazza si immergeva di nuovo in mezzo alla folla, «Sono un
vero
amico. Già».
Lena,
avvolta nel suo attillato abito scuro, i capelli che le scendevano
lisci sulla schiena, retta su fini scarpe a spillo che le stringevano
le caviglie, era così bella. Di nuovo. Sorrideva e parlava
agitando
una mano, socchiudendo gli occhi chiari, annuendo con un gesto
elegante. Di lei tutto era elegante, pensò Kara, chiedendosi
come
non fosse mai riuscita ad accorgersene prima. Arrossì
incantata,
sorridendo debolmente, finché qualcuno non le
pestò un piede e si
costrinse a svegliarsi e ad andare da lei, dopo aver lanciato
un'occhiataccia contro ignoti.
«Sono
tutti giovanissimi e sono stati selezionati per partecipare. Le opere
dei partecipanti che non hanno passato la selezione per la
presentazione sono al piano di sopra insieme a degli schemi dei
prossimi progetti della Luthor Corp per combattere le barriere
architettoniche».
«Oh,
sono di sopra?», sorrise la signora e Lena a sua volta,
«Fate
sempre qualcosa, eh?».
«È
il nostro lavoro, oltre che nostro dovere verso voi».
La
donna rise ammiccante, sventolando una mano. «Tu e tuo
fratello
siete degli adulatori».
«Lui
lo è, io sono sincera».
«Lena!».
Kara alzò la voce e le si piazzò accanto,
indicando dietro di lei.
«Ti stanno cercando dappertutto, dov'eri finita?».
«Oh,
deve andare?», la signora si protese in avanti, dispiaciuta,
e Lena
guardò Kara e poi lei, corrucciando lo sguardo.
«Mi
dispiace, ma troverà ogni risposta a ogni sua domanda nel
dépliant».
Kara
le mostrò il suo e glielo lasciò con un sorriso,
poi entrambe
sorpassarono un gruppo di persone e corsero fino al salone a
sinistra, nascondendosi dietro uno dei corridoi dove, distante, un
ragazzo in carrozzella parlava a un altro gruppo con alle spalle una
foto. Lena si appoggiò al muro di pietra e tirò
un sospiro di
sollievo.
«Non
riuscivo a scappare», disse d'un fiato e dopo sorrise, gli
occhi
chiusi.
Kara
rise, vicino a lei. Attirarono l'attenzione del ragazzo sulla sedia e
gli ospiti che intratteneva, ma non più di un'occhiata.
«Partecipa
a ogni evento organizzato dalla Luthor Corp, una specie di cliente
fisso, se così vogliamo chiamarla, e ogni volta parla, parla
tantissimo, e non riusciamo ad allontanarci da lei. Grazie per avermi
salvato».
Si
voltò a lei arrossì, abbassando lo sguardo.
Com'erano
iniziate le cose tra loro? Kara ormai ci pensava come se fosse un
lontano ricordo. Ah, con un colpo a una valigetta e una spinta, con
una guerra di antipatie composta da dispetti infantili e colpi bassi,
eppure ora erano lì, vicine, complici come non lo erano
state mai.
Fecero il giro della sala, salutarono chi Lena conosceva e anche chi
non conosceva, scambiarono due parole con una delle artiste e Kara le
portò dell'acqua perché non poteva spostarsi
troppo dalla sua
postazione con la gente che andava e veniva, incrociarono Winn che
distribuiva i dépliant e Lena glieli confiscò
perché non era lì
per lavorare, riportandoli al tavolo, dove Kara si servì di
tre
stuzzichini al formaggio. Risero, Lena trascinò Kara a fare
una foto
con lei per un giornale e Kara la trascinò invece a fare un
giro dei
saloni con lei, seguendo le indicazioni su uno dei dépliant
che si
era tenuta da quelli requisiti a Winn.
«Non
ci credo: Proiettile»,
esclamò all'improvviso con un sorriso, scrutando all'interno
della
borsa impellicciata di una signora il piccolo pinscher color
caramello.
«E
tu come fai a- Oh, lascia perdere».
Il
cagnolino tirò fuori la testa che incurvò appena
udì il suo nome.
«Il
mio piccolino è un coccolone», rise la padrona,
lasciando che Kara
si piegasse per accarezzarlo.
«Ciao,
Proiettile». Allungò la mano ma il cucciolo la
morse e Kara tornò
indietro di scatto, massaggiandosi il dito ferito, guardando il
piccolo cane con affronto.
«Come
fa a saperlo? Tutti mi hanno fatto i complimenti: è un nome
così
inusuale».
«Oh,
gliene ho parlato io! Proiettile è adorabile»,
intervenne Lena.
La
donna le lasciò con una camminata soddisfatta e Kara
aggrottò le
sopracciglia. «Capisco perché lo ha chiamato
così». Si voltò
quando sentì Lena ridere.
«Fammi
vedere».
Le
prese la mano nelle sue e guardò il piccolo taglio con
attenzione,
mentre Kara avvampava. Non poteva strapparle la mano e tentò
con
ogni mezzo di restare immobile, tanto che sentì il sangue
ritirarsi
dalla mano al braccio in tensione. Lena tirò fuori dalla
borsa un
fazzolettino e le pulì un rivolo di sangue. Kara non
sentì più
nulla se non il suo cuore a ritmi pericolosamente alti e, se faceva
abbastanza attenzione, il pavimento sotto ai suoi piedi, il resto era
vuoto. Doveva, o si sarebbe ritirata come una tartaruga.
«Oh,
un piccolo taglietto, Proiettile cattivo», mugugnò
lei facendo una
smorfia con le labbra. «Eppur sei viva, Supergirl»,
la lasciò andare, prendendola in giro.
Kara
deglutì, tenendosi la mano con l'altra.
«… grazie». Era dubbiosa
sul dirglielo perché quella situazione si era fatta strana,
ma
fortunatamente il sentire la risata di sua madre Eliza fece distrarre
entrambe. Si voltarono e videro lei e Lillian parlare davanti a una
coppia, così si avvicinarono, riparandosi dietro il muro di
plastica
di uno dei corridoi. Li riconobbe subito, erano i genitori di Mike:
il senatore Gand e consorte. Lui non c'era. Spiarono le due coppie
per un po', cercando di udire i loro discorsi sulla mostra. Lillian
ne parlava con orgoglio ed Eliza la spalleggiava, ricordando ai Gand
quanto fosse decadente quel posto prima che la Luthor Corp lo
comprasse.
«In
effetti il restauro ha fatto un buon lavoro»,
concordò Kara, a
bassa voce.
«Grazie».
«Come…?».
«Ho
coordinato io i lavori in concomitanza con l'università,
mesi fa».
«Ah»,
si zittì, diventando rossa. Eliza rise di nuovo ma Kara non
poté
fare a meno di notare gli strani sguardi che si lanciavano Rhea Gand
e Lillian Luthor, come se avessero un loro linguaggio segreto oltre
alle parole e ai gesti che si facevano. «Finalmente tua madre
ed io
abbiamo una cosa in comune: l'odio di quella donna».
«Si
conoscono da sempre», rispose Lena, «Ma non ho mai
inquadrato che
tipo di rapporto abbiano».
Li
videro separarsi e Kara li tenne d'occhio, sperando di non
incontrarli. Stavano percorrendo il corridoio ma, dal verso opposto,
furono Lillian ed Eliza a sorprenderle.
«Te
l'avevo detto che le avremmo beccate», rise Eliza,
abbracciando una
e poi l'altra, lo stesso fece poi Lillian, con più il solito
distacco. «Sono davvero contenta che siate venute entrambe ed
è un
peccato che Alex non sia qui per via del lavoro. Almeno voi
divertitevi, va bene?». Sorrise a tutte e due, che
ricambiarono.
Un
fotografo chiese di poter fare una foto e Lillian cercò di
mettere
tutte più vicine, intanto che l'ansia di Kara cresceva.
«È sua
figlia, signora Danvers?», domandò e la donna
annuì, avvicinando
lei e Lena più di quanto già non fossero.
«Sì,
Kara. Sono le nostre figlie».
«Va
bene, ora una sola per le madri», le divise, «E poi
una con le
sorelle».
Kara
alzò gli occhi al cielo, ma tutte fecero come ordinato. Le
due si
staccarono appena ne ebbero l'occasione.
«Avevi
proprio ragione, Lillian», sussurrò Eliza,
vedendole allontanarsi
insieme, «Era solo questione di tempo prima che si
avvicinassero.
Sono proprio contenta di vederle andare d'accordo».
«È
vero», rispose lei, pur guardando sua figlia Lena con qualche
sospetto: non era da lei lasciarsi avvicinare tanto da qualcuno.
«Ricordi quando insistetti che Lena non stesse in una camera
da
sola? Dopo la morte di suo padre temevo si chiudesse ancora di
più
in se stessa, speravo quindi che una compagnia, anche se per poco
tempo… ma Kara l'ha proprio conquistata».
Così la circondò con
un braccio e si scambiarono un fugace bacio.
«Sorelle»,
brontolò Kara in un bisbiglio, passeggiando da sola, di
fianco a
enormi carte protette da vetri che illustravano alcuni progetti della
Luthor Corp per abbattere le barriere architettoniche a National
City. Una, enorme, era una piantina quasi completa della
città e
riempiva una parete. «Una
con le sorelle»,
ripeté, fermandosi a guardarla a metri di distanza, seppur
presa da
altri pensieri. Si guardò intorno, scoprendo che erano
ancora
davvero poche le persone che salivano al primo piano dell'edificio,
concentrandosi al pian terreno. Sbuffò, aspettando Lena che
le aveva
detto di stare tornando, ricominciando a camminare, girando verso le
foto appese, pestando un piede.
«Oh,
mi scusi». Erano pochi lassù ed era comunque
riuscita a scontrarsi
con qualcuno.
Lui
accennò una risata e le prese una mano, baciandola
all'istante.
«Errore mio, signorina Danvers. Così preso dalla
magnificenza di
questa mostra che non guardavo dove mettevo i piedi».
Kara
impallidì davanti allo strano sorriso di Maxwell Lord.
«Non sapevo
ci fosse anche lei, non l'avevo vista, prima».
«Sì,
non sono qui da molto», rispose disponendo le mani dietro la
schiena, alzando poi lo sguardo alla sala, adocchiando di sfuggita
tutto ciò che riusciva. «Ma non potevo
assolutamente perdermi tutto
questo». Doveva aver udito anche lui i tacchi di Lena
all'ingresso,
poiché sorrise e la guardò di nuovo.
«Sono felice di averla
incontrata, è stato un piacere. Mi saluti sua sorella. Oh»,
si fermò e Kara roteò gli occhi,
«Intendo l'altra: Alex». Le fece
l'occhiolino prima di uscire, scambiando un cenno di saluto con Lena
che entrava.
«Non
ci credo che sia qui», scosse la testa lei, avvicinandosi con
due
bicchieri di spumante.
«Starà
prendendo appunti per il prossimo colpo».
«Non
ci sarà un prossimo colpo, dammi retta»,
ansimò e dopo cambiò
completamente espressione, guardandola in viso. «Ecco a
te», le
mostrò uno dei bicchieri. «Tu non piaci a me e io
non piaccio a te,
ma siamo costrette a frequentarci per le nostre madri. Così
ti
vorrei offrire da bere».
«Oooh»,
scoppiò a ridere, prendendo il bicchiere. «Va
bene».
Avvicinarono
i bicchieri e li fecero tintinnare, bevendo un sorso.
Kara
era rossastra in viso e non certo per lo spumante. Era riuscita a
guardare in faccia Lena senza nascondersi, scappare, girare lo
sguardo, o muoversi imbarazzata come se avesse addosso le formiche, e
il che era un gran passo avanti, se non che sentisse il grande
bisogno di baciarla…
«Vorrei
baciarti».
«Eh?»,
Kara spalancò gli occhi e Lena si zittì in
fretta, mordendosi un
labbro, ascoltando i passi delle persone appena uscite
dall'ascensore.
Era
rossa, forse più rossa di lei per via della carnagione
più chiara,
ma Kara non era certa di aver sentito bene. Stava per chiederle di
ripetere quando una voce la interruppe:
«Signorina
Luthor?».
«Oh,
sì». Lena si destò quasi con un balzo,
felice che lui le avesse
interrotte. Mandò giù il resto del bicchiere e
guardò Kara. «È
da quando me ne hai parlato alla cena che ci penso: credo di sapere
chi è tuo cugino». Si avvicinò a lui e
Kara la seguì con lo
sguardo, tentando di riconcentrarsi. «Kara, ti voglio
presentare
Clark Kent, reporter del Daily Planet di Metropolis».
I
due si bloccarono, guardandosi come rapiti dagli sguardi reciproci,
consci di aver appena ritrovato un pezzo di loro perso da tempo.
“Vorrei
baciarti” Cosa? Come? Ho sentito bene?
Eh,
sì. Lena lo ha proprio detto: Kara non ha sentito male e voi
avete
letto benissimo.
Se
non altro anche Kara ha capito di provare qualcosa per Lena, ed era
anche ora ;)
Cosa
ne pensate di questo capitolo? Abbiamo un Barry vs Mike in campo,
Kara vs Mike, gara da corsa, gara di cibo, gara di sguardi a pranzo,
per non parlare della fenomenale arrampicata sugli specchi di Kara al
“pensava che tra noi ci fosse qualcosa”, o la
mostra, Winn,
oppure ciò che Lena aveva preparato, l'incontro tra Kara e
Clark
Kent.
Il
prossimo capitolo è uno dei più lunghi scritti
finora, spero non vi
faccia rimpiangere di aver votato per i capitoli interi, la scorsa
volta XD Si ritorna a casa Danvers-Luthor nel capitolo 11 che si
intitola Nel
sangue,
e sarà pubblicato mercoledì 2 maggio!
Il
primo è festa e così nulla, mi prendo un giorno
in più anche
questa settimana e provo la pubblicazione di mercoledì. A
presto :)
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Capitolo 12 *** 11. Nel sangue ***
«È
una S?»,
aveva domandato la piccola Kara, scorgendo il foglio su cui stava
disegnando suo cugino Kal, a fianco a lei sul tavolo.
«No»,
aveva riso lui come se la domanda posta fosse troppo sciocca.
«È un
simbolo, il nostro.
Me lo ha mostrato mio padre, lo hanno disegnato lui e tuo padre
quando erano ragazzi. Significa speranza
ed è l'emblema degli El».
Kara
aveva annuito. «Non lo sapevo…».
«Adesso
che lo sai non dimenticarlo, per favore. Forse loro lo hanno
fatto»,
aveva detto, adocchiando i loro genitori attraverso la porta della
stanza accanto che discutevano animatamente di lavoro.
Kara
corse ad abbracciarlo e lui la strinse a sua volta dopo un attimo di
sorpresa. Lena li guardava in disparte, con trattenuta emozione.
«Sai
chi sono?», domandò lei, ma in cuor suo conosceva
già la risposta
poiché non avrebbe potuto abbracciarla in quel modo se non
fosse
così.
«Kara
Zor El», lui sorrise e si guardarono, «La mia amata
cugina».
Si
strinsero ancora e Lena appoggiò i loro bicchieri su un
tavolino.
«La mia
amata piccola
e rompiscatole
cugina», specificò allora e la sentì
ridere, rialzando un poco lo
sguardo e strofinandosi un occhio.
«Sono
Danvers, adesso».
«Ma
certo». Lui alzò lo sguardo verso Lena e lei gli
annuì con un
sorriso. «Allontaniamoci, abbiamo un sacco di cui
parlare».
Kara
gli disse di sì ma cercò subito Lena, che
confermò con lo sguardo
che potevano lasciarla.
«Ci
sentiamo più tardi, se vuoi», le rispose e la vide
andare verso un
gruppo di curiosi che si facevano domande sui progetti della Luthor
Corp, così Kal la accompagnò verso l'ascensore.
Era
lui. Era proprio lui. Cresciuto, con i capelli ordinati da un lato,
altissimo, dalla postura possente, ma con il solito sorriso e gli
occhi azzurri che le ricordavano casa. Le ricordavano casa,
sì, ma
una casa diversa, lontana, quella che pensava non avrebbe
più
ritrovato e si sentiva un po' una bambina smarrita, quella Kara
bambina che, in una sera, aveva visto il suo mondo sparire in un
suono sordo.
«Quando
Lena Luthor mi ha cercato e mi ha invitato alla mostra qui a National
City per scrivere un articolo per il Daily Planet, beh, sono rimasto
un po' sorpreso… Sarebbe venuto qui qualcun altro e mi
chiedevo
perché dovessi essere proprio io».
«Tu
e lei vi conoscete?».
«Diciamo
di sì. È la sorella minore di un ragazzo che
conosco, o conoscevo».
«Lex».
«Sì».
La guardò con interesse, poi, illuminato dalla luce dei
lampioni e
della luna. Era notte, ormai, e camminavano sul marciapiede,
fermandosi ai pressi della stazione dei bus, sedendo su una delle
panchine vuote e fredde. «Quasi dimenticavo la
novità: la tua madre
adottiva è fidanzata con la madre di Lex, quindi vi siete
conosciuti
così… è proprio piccolo il mondo! Lei
mi ha poi spiegato perché
voleva che ci fossi io. Ma non ero sicuro di venire».
«Perché?».
«Perché
avevo paura».
Kara
abbassò lo sguardo, stringendo le labbra.
«Probabilmente ne avrei
avuta anch'io se me lo avesse detto, invece di farmi una
sorpresa»,
sorrise.
«E
poi non ero sicuro fossi davvero tu. Ma mi faceva più paura
sapere
che fossi davvero tu», confessò con sguardo teso,
«È passato così
tanto tempo».
«Già.
Da quanto tempo ricordi?».
«Da
qualche anno… Ma non tutto, ricordo a tratti. Ricordo
te», le
sorrise e Kara sentì una morsa allo stomaco.
Immaginò
che anche lui, come lei, avesse trovato un'altra casa in tutti quegli
anni trascorsi separati, eppure una parte di lei si era sentita
tradita nel sapere che Kal, il suo Kal, la ricordava e non l'aveva
cercata. Ma in fondo anche lei si era decisa a vivere la sua vita
lontana da lui, senza chiedersi dove fosse e cosa stesse facendo
né,
soprattutto, se la sua memoria fosse tornata. «Quindi adesso
sei un
reporter?», gli sorrise di colpo, lasciando stare i suoi
pensieri.
Lui
ricambiò il sorriso e una luce di soddisfazione apparve nei
suoi
occhi chiari. «E Lena Luthor mi ha raccontato che vorresti
diventarlo anche
tu».
«Vorrei,
sì, diciamo che ci sto pensando… Credo proprio di
sì».
«Sì»,
annuì, «Sei proprio mia cugina: certe cose le
abbiamo nel sangue».
Passarono
insieme un'ora, il tempo concesso a Clark, il suo nome per intero, di
prendere l'ultima corsa della metro per tornare a Metropolis, dove
conviveva con la sua fidanzata, disse. Si erano ritrovati, ma le loro
strade dovevano dividersi. Lei lo accompagnò e si
abbracciarono
ancora, a lungo, prima di promettersi di rivedersi presto.
«L'emblema
degli El», esclamò in un sorriso prima di
lasciarlo andare,
indicando un disegno scavato a penna blu sul marsupio del ragazzo.
Era piccolo e in un angolo, ma a lei non era sfuggito di certo.
Lui
ricambiò immediatamente il sorriso, entrando appena in tempo
prima
che le porte si chiudessero.
Kara
tornò alla mostra con il cuore che le rimbalzava in petto
come un
tamburo, ancora eccitata per ciò che era successo. La mostra
era
ancora piena di gente e si ritrovò a parlare con alcuni
artisti e
poi sua madre, che le spiegò, quando Lillian si era
distratta per
discutere con uno degli artisti, che Lena era tornata a casa ma che
aveva lasciato detto a Ferdinand di riaccompagnarla al campus prima
che prendesse loro, che si sarebbero trattenute fino a tardi. Si
sorprese di restare tanto dispiaciuta perché lei non c'era
più,
come se si fosse sentita improvvisamente senza un arto, sola. Il che
era un po' strano se pensava a Kal che se n'era andato e lui era
tutto ciò che le restava della sua vecchia vita.
«Ehi».
«Ehi»,
rispose la calda voce di Lena, bassa, al cellulare.
Era
tardi e Kara pensò che forse non avrebbe dovuto chiamarla,
ma doveva
assolutamente ringraziarla. Aprì la porta della sua camera
al
dormitorio e notò che Megan ancora non c'era: a quanto
pareva, la
serata tra lei e il signor Jonzz stava andando meglio di quanto
programmato. Sperava solo di aver avvertito il guardiano che avrebbe
fatto tardi se non voleva rischiare di stare fuori per la notte. Si
bloccò: a meno che non volesse stare fuori per la notte.
«Ohu»,
mugugnò, massaggiandosi la fronte: ora non riusciva a
staccarsi di
dosso il pensiero di Megan e il signor Jonzz insieme.
«Tutto
bene, Kara?».
«Sì,
sì, pensavo solo alla mia compagna di stanza che non
è ancora
tornata. Emh… volevo, sì, ecco, ti ho chiamato
per ringraziarti»,
si fermò per sorridere anche se non poteva vederla,
«Quello che hai
fatto per noi è davvero… davvero carino, non so
proprio come
sdebitarmi».
«Non
devi sdebitarti».
«Ma
devo fare qualcosa», si morse la lingua, ricordando
improvvisamente
le parole di Lena quella sera: vorrei
baciarti.
Il suo cuore saltò un battito. Doveva aver sentito male,
ma… Non
ebbe il coraggio di chiederglielo e lei, dall'altra parte, si era
fatta ancora più silenziosa. «Kal ed io abbiamo
anche parlato del
mio futuro e grazie a lui penso proprio che andrò dritta
verso il
mio sogno di fare la reporter! Beh… anche questo
è grazie a te,
credo», si sedette sul suo materasso e fissò un
punto distante,
arrossendo. Forse doveva chiederglielo. Doveva chiederglielo, magari
aveva capito male e doveva togliersi quel piccolo pensiero fastidioso
dalla mente, doveva far-
«Ne
sono contenta. Ti posso richiamare domani?»,
la sentì, la voce un po' fredda, tanto che Kara
s'imbrunì. «Sono
davvero stanca e penso di dover andare a letto presto. Non te lo
chiederei, ma-».
«No,
certo. Abbiamo trascorso una lunga serata e sono anch'io stanca,
quindi… A domani».
«A
domani, Kara. Buonanotte». Lena chiuse la chiamata e il suo
sguardo,
da dolce, cambiò di colpo, diventando duro e diffidente,
girandosi.
Dietro di lei, una donna minuta si reggeva le mani, illuminata dalla
flebile luce di un lampione sopra di loro, in quel vicolo. Era
vestita elegante, trascinata fuori dalla mostra organizzata dalla
Luthor Corp.
«Signorina
Luthor, io davvero devo andare… E-E le ho detto ogni cosa
che
potevo dirle, dunque…».
«Ricapitoliamo»,
disse lei, con voce fredda. «Mia madre ti ha licenziata quasi
un
anno fa, in concomitanza con la morte di Lionel, mio padre. Tu dici
che è una coincidenza, ma eri la sua segretaria da anni e
una
persona fidata, non avevi fatto nulla che valesse il licenziamento e
da allora non hai ancora trovato un buon impiego nonostante le sue
referenze».
«Come
le ho già spiegato, signorina Luthor, sono stata io a
chiedere a sua
madre di lasciare».
«Senza
un altro lavoro che le coprisse le spalle?». Le si
avvicinò e
l'altra si tirò indietro, respirando affannosamente.
«Quantomeno
avventato».
«Volevo
staccare un po', mi serviva una vacanza, non può
capire».
Lena
annuì leggermente. «Fare da segretaria a mia madre
deve essere
frustrante, non lo metto in dubbio. Mi permetta però di
dubitare
degli eventi così come vengono raccontati poiché,
sarà anche
questa una coincidenza», sorrise senza la minima
ilarità nello
sguardo e nella voce, «ma il coroner del caso di mio padre
è stato
trasferito proprio dopo essersi occupato di lui. Tutte le persone
coinvolte nella sua morte sono irreperibili. E ho cercato di
contattare anche lei, giorni fa… Ritengo sia logico pensare
che sia
stata una sua svista essersi presentata oggi alla mostra, magari
nemmeno pensava di trovarmi. Mi vengono sbattute porte in faccia di
continuo e ogni volta che pongo una domanda, ottengo solo delle
scuse. Ho solo delle scuse anche da parte sua, no?».
La
donna deglutì, assumendo un'espressione più
seria. «Le giuro che
sono stata io a chiedere alla signora Luthor di poter lasciare il mio
lavoro». Si guardarono con scrupoloso silenzio, cercando
qualcosa
nei loro sguardi per porre fine a quella discussione una e per
arrivare a qualcosa l'altra. «Lei non deve fare
domande».
«Questo
mi spinge a continuare».
«E
non deve», s'impuntò la donna, stringendo i denti.
«Se sua madre
lo sapesse… Se sapesse che sono qui, a parlare con lei di
questo…»,
sospirò, guardando intorno a sé vacua, prima di
fissarla di nuovo
negli occhi. «Lasci che la chiudiamo qui, siamo troppo
scoperte.
Lasci che vada in vacanza con la mia famiglia, adesso, faccia lei la
stessa cosa! Ci risentiremo a settembre. La aiuterò a
trovare il
coroner. Ma adesso lasci perdere, la prego… La
prego», strinse gli
occhi.
Lena
deglutì, guardandosi brevemente intorno: era chiaro che
quella donna
era terrorizzata da qualcosa, o meglio qualcuno, e il fatto che
fossero ancora tanto vicine alla mostra la faceva pensare a sua
madre. Era più chiaro che mai, ora, che la morte di suo
padre non
era stata solo un incidente. «Posso proteggerla
se-».
«No»,
chiosò senza lasciarle respiro, «Lei non capisce,
signorina Luthor:
se suo padre è morto, Lionel Luthor, cosa le fa pensare che
lei
possa proteggere me?».
Lena
si arrese, abbassando la testa. «Ci risentiremo a settembre.
Voglio
sapere tutto».
«Non
saprà tutto, non da me, le dirò solo dove
può trovare il
coroner…».
Quella
donna era irremovibile. «E sia».
«E
sua madre non dovrà mai sapere di questa discussione,
né che l'ho
aiutata». Lena annuì e lei si irrigidì
con la schiena, passandole
accanto per lasciare il vicolo. «Si sta infilando in una
questione
più grande di lei, signorina Luthor. E glielo assicuro: non
è sua
madre la cattiva di questa storia».
La
donna passò davanti all'auto scura ferma accanto a Ferdinand
che era
tornato dopo aver riaccompagnato Kara, che aspettava vigile. Lena lo
raggiunse e lui le aprì la portiera, così se ne
andarono.
Sospirò,
poggiando la testa contro lo schienale del sedile posteriore. Era
davvero stanca di quella situazione: voleva scoprire cosa era
successo a suo padre e tra le bugie, i rapporti contraffatti e le
mille email inviate a chi si era occupato di lui senza risposta o con
quelle piccole e indisposte, non sapeva come muoversi, nessuno era
disposto a parlare con lei e se non avesse intravisto la donna che
aveva fatto da segretaria a sua madre alla mostra…
Sospirò di
nuovo. Più scavava e più si rendeva conto che,
davvero, quella
sembrava una questione più grande di lei, una questione che
si era
mangiata suo padre. Ed era un uomo potente, naturalmente…
Questo le
faceva capire che non poteva permettersi di parlarne con chiunque e
si pentì di aver coinvolto Winn, il suo assistente.
Guardò
il cellulare, ripensando a Kara, e arrossì. Le disse di
volerla
baciare, accidenti, e per fortuna Clark Kent aveva interrotto presto
quel momento imbarazzante. Forse poteva ancora cavarsela e fingere di
non averlo detto. Lei era così bella, in quel momento: rosa
sulle
gote, con quel suo sorriso tenero che la faceva impazzire. Non sapeva
cosa fare, si era ripromessa di stare ferma per vedere cosa
succedeva, ma non ci riusciva e voleva baciarla veramente. Veramente.
Con quello che stava succedendo, in quello che si stava invischiando,
forse faceva bene ad accettare il consiglio di quella donna e passare
le vacanze con lei, con la sua famiglia, prima che a
settembre…
prima di qualsiasi cosa potesse succedere da settembre in avanti.
Perché era certo che non si sarebbe fermata, soprattutto dal
momento
che sua madre voleva fermarla. Avrebbe finto con lei e avrebbe
sorriso di più. E forse sarebbe anche riuscita a cavarsela
con Kara.
Ce la poteva fare.
Intanto,
sapeva chi forse avrebbe potuto aiutarla, sotto il giusto compenso.
Qualcuno che poteva coinvolgere senza pentirsi perché era
scaltra e
con un basso livello di moralità. E, per sua fortuna,
lavorava per
tutto luglio.
Entrò
alla CatCo sbattendo i tacchi; l'orologio al polso segnava le nove e
dieci del mattino. Prese l'ascensore e si diresse senza tregua fin
alla sua scrivania, in mezzo al suono dei pochi telefoni attivi e al
chiacchiericcio del personale. Si appoggiò e
picchiettò le dita sul
banco, così l'altra, chioma argentea e sguardo duro, fece
una
smorfia con la bocca appena la vide, terminando la sua telefonata e
riattaccando la cornetta.
«Cosa
fai tu qui? Se è per quell'articolo sulla Luthor Corp, sappi
che ha
già telefonato mammina e per questo sono stata richiamata
dal grande
capo, una gran rottura di palle…», la
fissò acida, mettendosi
comoda sulla sedia, «E per inciso me lo aveva approvato lei,
quell'articolo… quindi… Sarebbe stato meglio per
me continuare a
parlare del meteo».
«Sei
fuori strada, Willis, mi serve… diciamo il tuo
aiuto», si
avvicinò, sedendo nella sedia accanto, appoggiandosi alla
sua
scrivania. Si assicurò che nessuno stesse ascoltando la loro
conversazione.
«Una
Luthor che chiede aiuto a me? Ne sono quasi lusingata! Quasi».
La scrutò con attenzione prima di rispondere sonoramente:
«No».
Rise divertita, dando uno sguardo allo schermo del computer davanti a
lei e poi di nuovo a Lena. «Ti piace il mio nuovo
look?», si
sollevò i capelli dalla nuca, facendoseli scivolare addosso,
«Hanno
iniziato a chiamarmi Livewire
perché sembra che abbia preso la scossa ma chi se ne frega,
mi
piacciono, danno carattere». Sorrise soddisfatta, ma lo
sguardo teso
di Lena le rovinava il momento. «Va bene, quella faccia da
funerale
mi sta rendendo irritabile», si rimise composta,
«Che vuoi da me?».
«Prima
di morire per un attacco di cuore, o questo è ciò
che si dice
ufficialmente, mio padre è caduto da cavallo e per questo
è finito
all'ospedale».
«Interessante…
il papà ricco è caduto da cavallo»,
rispose lei con aria
distratta, giocherellando con una penna.
«Continua…».
«Sto
indagando sulla sua morte, Leslie, ascoltami. Mi serve che rintracci
tutte le persone che hanno avuto a che fare con mio padre da quella
caduta, all'ospedale e poi alla sua morte: poliziotti, dottori,
infermieri…».
«Ci
vorrà un po'».
«Tu
sei brava in questo».
«Questo
è vero».
«E
sei discreta».
«Anche
questo è vero», sorrise compiaciuta, «Ma
non avrai uno sconto con
le lusinghe, lo sai che non lavoro gratis».
«Verrai
pagata. Ti chiedo solo una cosa: non farne parola con nessuno. Mio
padre è stato assassinato e sembra che tutti stiano cercando
di
insabbiare il caso, le persone scompaiono… Ti lascio il mio
indirizzo email: potrai scrivermi solo lì».
«Uh,
mi piace: un lavoro sotto copertura», le sorrise,
«Fare l'agente
segreto era il mia seconda scelta. Avrei dovuto accontentarmi invece
di seguire Cat Grant e il suo giornalino», scosse la testa.
Lena le
scrisse il suo indirizzo email su un foglio adesivo che Leslie
ripiegò e si infilò in tasca, guardando intorno a
loro che non
stesse guardando nessuno. «Si autodistruggerà non
appena lo avrò
letto?», rise e Lena alzò gli occhi al soffitto.
«Va bene,
principessa, rilassati… Ti farò sapere appena
avrò in mano
qualcosa, tu intanto goditi il sole, vai a cavallo, fai qualsiasi
cosa rilassi quel tuo cervellino».
Lena
si alzò, rimettendo a posto la sedia. «Ti
ringrazio, sì, penso che
mi prenderò una vacanza. Ah, Leslie… un'ultima
cosa», attirò la
sua attenzione, «Mia madre non dovrà saperne
assolutamente niente.
Più di tutti, lei non dovrà neppure sapere che ci
siamo parlate.
Hai capito?».
«Oh»,
lei fece un grosso sorriso, «Ho capito che ti sei appena
guadagnata
quello sconto di cui parlavo».
Lena
stava per andarsene quando sentì dei rumori all'interno
dell'ufficio
di Cat Grant e, affacciandosi, vide qualcuno all'interno.
«È qui?»,
chiese. L'espressione seccata di Leslie Willis era una risposta
sufficiente. «Oh, allora penso che ne
approfitterò…».
«Mi
stai ascoltando? Lui era così… così
grande», Kara raccontava con
sguardo sognante e Alex la guardava non riuscendo a trattenere un
sorriso, felice per lei. «Lo so che era grande
perché cresciuto, ma
lui era grande in un altro senso, grande
perché era…».
«Grande»,
concluse Alex per lei. Si distrasse un attimo per adocchiare un
bambino che continuava a infilare la testa sotto dei vestiti per poi
annusarli. La madre era lì in compagnia di un'altra donna e
andava e
usciva dai camerini, senza degnarlo di attenzione. Aveva provato a
dire alla donna cosa faceva suo figlio, ma lei lo aveva sgridato
superficialmente ed era tornata in camerino sotto i plausi
dell'amica. Odiava quelle situazioni quando era lei la responsabile
della boutique.
«Sì,
era grande, esatto», sorrise Kara, appoggiando i gomiti sul
bancone.
«Non ci vedevamo da così tanto tempo… E
mi ha detto che vive a
Metropolis, sai, lavora e vive lì con una certa Lois Lane,
la sua
fidanzata. Ci credi che è fidanzato? Il mio cugino
fidanzato», si
perse con lo sguardo, «Mi ricordo ancora di quando gli
sistemavo il
pannolino…».
«Non
è più grande di te?».
«Sì,
è una lunga storia… Magari te la
racconterà lui, sperando la
ricordi, perché dobbiamo invitarlo a casa! Dobbiamo
invitarlo a
passare un po' di tempo con noi».
«A
casa?», Alex la guardò con tenerezza,
«Kara, ti sei dimenticata di
mamma
numero due
e figli a seguito?». Pensava avessero già
abbastanza confusione per
permettersi di ospitare pure suo cugino, ma non sapeva come diglielo
e sperava ci arrivasse da sola. Era così felice di averlo
ritrovato
che non voleva darle una delusione.
«Beh,
sarà il caso che anche loro conoscano tutta la famiglia e
lui è di
famiglia».
Alex
la fissò. No, non ci sarebbe arrivata.
Il
bambino fece cadere un vestito a terra, distraendo qualche cliente.
Alex non gli tolse occhio di dosso finché non lo vide
rimetterlo
apposto, ma sembrava che ci si stesse soffiando sopra il naso.
«Kara,
vai dal bambino da parte mia. Sgridalo, mostragli lo sguardo
più
truce che riesci a fare».
«No,
non sgriderò quel bambino per te».
«Ma
devi», fece una smorfia con le labbra, «Io sono la
responsabile,
oggi, non posso farmi sorprendere mentre caccio un ragazzino,
passerei per un mostro».
«Quindi
il mostro dovrei farlo io?», inarcò un
sopracciglio; lo sguardo
addolcito di Alex non raggiunse l'obiettivo e Kara scosse la testa.
Sbuffò,
continuando a fissarlo.
«Non
ti piacciono i bambini…?», cantilenò la
minore, «Cosa ne pensa
Jamie? A lei piacciono i bambini?».
Alex
la guardò distrattamente, per poi alzare gli occhi al
soffitto e
ritornare a puntare il bambino in mezzo ai vestiti.
«Sì, a lei
piacciono i bambini», rise sarcasticamente. Si fermarono
quando una
donna le diede una maglietta da battere in cassa. Alex la
salutò
mentre usciva e scorse Kara che le sorrideva. «Anzi, proprio
due
giorni fa mi ha detto di aver trovato l'uomo con cui un giorno
farà
tanti bambini».
«Uch»,
rispose la sorella, cercando di distrarla dal bambino che aveva fatto
cadere un altro vestito. «Pensavo fossi tu l'amore della sua
vita».
Alex
ansimò. «Lo sai com'è Jamie: un giorno
sono l'amore della sua vita
e quello dopo lo è il primo, o la prima, che
incontra».
«Ecco
perché stai con Maggie e non con lei», rise e Alex
le fece cenno
con un dito, sorridendo.
«Acuta,
sorellina. E adesso scusami, devo andare a strozzare un
bambino».
Lasciò il bancone della cassa e corse davanti ai vestiti,
rimettendone a posto uno che aveva in mano il bambino e fissandolo. A
lui era bastato quello per indietreggiare lentamente e poi cambiare
corsia, tornando dalla madre.
Quella
sera, Kara richiamò Lena ma la discussione non
andò come previsto
e, invece di cercare un modo per riprendere il discorso iniziato alla
mostra con un vorrei
baciarti,
erano finite a parlare di Kal, del diventare una reporter e di come
non fosse poi un caso che entrambi loro avevano deciso di percorrere
quella strada. Lena le era sembrata felice che tra poco meno di una
settimana sarebbero tornate a casa Danvers-Luthor per trascorrere
agosto in famiglia, e lei era eccitata dalla cosa, sebbene quello
significasse stare nella stessa camera con Lena per giorni e giorni e
giorni.
«E
giorni e giorni e giorni», continuò, con una mano
sulla fronte.
Megan le era vicina, sorseggiando una tazza di tè.
«Bevi
la tua, dai», le disse, cercando di incoraggiarla.
«Andrà bene.
Non pensare al vorrei
baciarti,
quanto al ehi,
hai mangiato tu il mio yogurt?».
Kara
sbatté la fronte contro il tavolo, lasciandosi andare con
pesantezza.
«Non
era così?».
«Basta
yogurt, ti prego», brontolò.
«Andrà male; andrà
malissimo»,
rialzò la testa di scatto e aprì le mani fingendo
una morsa. «Le
cose sono cambiate tanto da quando mi arrabbiavo per gli yogurt,
Megan! Prima mi irritava quando mi guardava, se adesso la sorprendo a
guardami invece sento le montagne russe…E dovrò
dormire accanto a
lei, nella stessa stanza?». A d'un tratto la
guardò con una nuova
luce negli occhi e prese la tazza di tè bollente, finendo di
berla
in un sorso. Così si alzò in piedi.
«Andiamo ad allenarci! Ho
deciso che non mi lascerò trasportare da questa cosa! Che
lei
volesse baciarmi o meno, non posso tirarmi indietro».
«E
hai deciso tutto in questo istante?».
«Sì.
Andiamo».
Correre
e poi lanciare la palla in porta, se non altro, le liberava la mente.
E i giorni trascorrevano veloci uno dopo l'altro. Kara iniziava a
sentire la tensione crescere, pensando a un regalo da farle per
averle fatto ritrovare Kal. Cosa poteva darle per ringraziarla di una
cosa tanto grande e preziosa? Qualsiasi regalo, un oggetto, non
sarebbe mai stato abbastanza. Ma andare da lei a mani vuote sembrava
una prospettiva peggiore.
La
notte prima della partenza, Kara non chiuse occhio e si alzò
all'alba. Megan la ritrovò che spolverava quando
aprì gli occhi;
talmente distratta dai suoi pensieri che inciampò varie
volte e, una
di quelle, le cadde addosso. Si sorprese di vederla sveglia, ma era
impossibile non farlo dopo che le schiacciò un seno contro
il
materasso con un gomito. Poi saltò gli allenamenti e
uscì di fretta
e furia. Megan provò a dirle che qualsiasi regalo sarebbe
andato
bene, ma Kara non si sarebbe accontentata.
Salì
sul treno che era vagamente agitata e lo notò anche Alex,
che tentò
di capire cosa avesse da stare tanto sulle spine. Quando Lena le
raggiunse le sembrò un po' più chiaro.
«Va
bene, ho capito: hai fatto passi da gigante con Lena in questo
periodo e non vuoi rovinare tutto tornando a casa, ricordandoti
com'erano strane le cose, soprattutto dal momento che ritroveremo lo
stesso ambiente con Eliza e Lillian insieme», le
bisbigliò appena
Lena si allontanò da loro per andare in bagno.
Kara
sorrise e abbassò lo sguardo come se non riuscisse a
guardarla negli
occhi: avrebbe detto a sua sorella se si fosse presa una cotta per
chiunque, ma per la ragazza con cui avrebbe dormito accanto dalle
notti a seguire non ci pensava nemmeno. E Alex, in quel caso, sarebbe
intervenuta cedendole il suo posto o dando il suo a Lena, e
lei… e
lei, scoprì, non voleva. Voleva dormire nella stessa camera
con Lena
perché le era mancato farlo, al di là di
qualsiasi cotta. Poteva
farcela, lo sapeva.
«Pensavo
di chiedere a Eliza se possiamo invitare mio cugino Kal a stare
qualche giorno con noi», disse d'improvviso mentre Lena
guardava
fuori dal finestrino e Alex il suo cellulare.
«Così potrete
conoscerlo anche voi. Conoscerlo meglio», aggiunse, rivolta a
Lena.
Arrossì incrociando il suo sguardo e ricercò
subito quello di Alex
che le sorrideva.
«Prova…
potrebbe acconsentire», le rispose solamente, guardando poi
Lena
come per cercare riflesso nel suo sguardo la sua stessa
contrarierà
alla cosa, ma non riuscì a leggerci ciò che
sperava, o qualsiasi
altro, era imperscrutabile.
«Ti-»,
Kara si bloccò, abbozzando una risata, «Ti volevo
ancora, sì,
ringraziare per ciò che hai fatto, Lena. Non penso ci
saremmo mai
ritrovati se non fosse stato per te».
«No,
sarebbe successo lo stesso! Saresti diventata una reporter coi
fiocchi e prima o poi i vostri cammini si sarebbero
incrociati».
Si
sorrisero.
«Quindi
ti sei decisa? Finalmente», sospirò Alex,
«E reporter sia»; così
la abbracciò.
In
realtà, il ritorno a casa non era per niente come aveva
predetto
Alex: loro erano cambiate e dunque era cambiato il loro modo di
vedere ciò che stava succedendo alla loro bizzarra famiglia.
Tornare
lì era familiare anche con Lillian ad aspettarle e i suoi
abbracci,
da sempre legnosi, erano quasi più naturali. Tutte loro
sorridevano,
parlavano del viaggio, erano di buon umore. Lena ogni tanto sembrava
perdersi da qualche parte nella sua testa, ma dopo un po' tornava e
sorrideva, sorrideva in un modo contagioso che sorrideva subito anche
Kara.
Trascorsero
la cena a parlare del più o del meno, con Eliza che tentava
di
distrarre Lillian dal pensiero che suo figlio, ancora una volta,
aveva deciso di restare a Metropolis invece di passare qualche giorno
con loro. Sapeva che aveva da fare ed era estremamente orgogliosa
della sua dedizione al lavoro, che naturalmente aveva ereditato da
lei, ci teneva espressamente a ricordare alle presenti, ma era
convinta che non sarebbe dovuto restare troppo tempo là da
solo.
«Una
volta avrei fatto anch'io come Lex», confessò con
sguardo duro, «Ho
imparato sulla mia pelle che la vita non è fatta solo da
lavoro e
doveri. E in questo modo, Lex rischia di perdersi tutto
questo».
Passò con gli occhi una per una le presenti, fino a fermarsi
da
Eliza.
Lei
le rispose: «Ti assomiglia molto. In questo caso, un giorno
potrebbe
capirlo da sé, come è successo a te».
Lillian
annuì. «È nel sangue dei Luthor.
Nient'altro che nel sangue dei
Luthor».
Lena
abbassò lo sguardo e Kara la osservò farsi seria
di colpo. Lena era
la vera figlia di suo padre, quindi una vera Luthor, e non capiva il
perché della sua espressione di colpo così a
terra. Ora che ci
pensava, Lillian non sapeva che Lena lo aveva scoperto, dunque, da
quel punto di vista, la frase della donna sembrava tagliarla fuori.
Ma dopotutto Lillian aveva sposato un Luthor e lo era diventata di
conseguenza, non avrebbe avuto senso anche se avesse voluto ferirla.
D'altro canto, e Alex sorrise, le due donne si appoggiavano a
vicenda. Non davano più fastidio nemmeno a lei.
«Che
faccia ha Lex?», domandò Kara in bagno
più tardi, mentre Alex
sputava dentifricio sul lavandino.
«Non
lo so… una faccia», sputò di nuovo, poi
si ripulì.
«Se
non lo avessi sentito per telefono, comincerei a dubitare della sua
esistenza». Le due si guardarono e scoppiarono a ridere.
«Anch'io
credevo fosse frutto dell'immaginazione collettiva», ammise,
«Poi
però l'ho conosciuto e pare proprio che esista».
Risero ancora e
Alex l'abbracciò di nuovo.
«Va
bene», sgusciò fuori dalla sua morsa,
«Me ne vado a dormire,
sorellona. Lena non guarda più i suoi documentari, quindi
dovrei
riuscire a prendere sonno tranquilla».
«D'accordo.
Chiamami se ti irrita ancora: ci penso io. Stavolta farò la
guerra
al tuo fianco, Kara».
«Oh,
non credo ce ne sia bisogno».
Lena
stava sistemando il suo letto per dormire quando Kara aprì
piano la
porta della loro camera in comune. Arrossì, capendo che
probabilmente quella era la prima volta che la guardava davvero prima
di entrare sotto le coperte: indossava una maglia fine, lunghissima,
che la copriva fino al fondo schiena. Sotto portava degli attillati
pantaloncini grigi, corti come slip. Non si stancava mai di pensare a
quanto fosse bella. Ma stava guardando anche il suo sedere un po'
troppo a lungo e doveva spostarsi prima che la cosa potesse diventare
ambigua.
«Ti
sei incantata a guardarmi mentre sistemo il letto?».
Kara
sobbalzò, entrando nella stanza con lo sguardo rivolto al
pavimento
e dirigendosi verso il suo letto. «No! Pff,
p-perché dovrei?».
«Non
posso saperlo», entrò sotto il lenzuolo, faceva
troppo caldo per
tenere la coperta, «Ma vorrei tanto».
Kara
sentì il suo sguardo su di sé. Finì di
sistemare il letto, tenendo
anche lei il solo lenzuolo, e così spense la luce,
sdraiandosi.
«Devo
confessarti una cosa, Kara». Attirò di nuovo la
sua attenzione e si
girò verso di lei: ma non credeva le avrebbe parlato del vorrei
baciarti.
«Sono andata alla CatCo per… questioni personali,
e ho parlato con
Cat Grant».
«Cat
Grant? La signora Grant in persona?».
«Sì,
mi doveva un favore, diciamo», prese una breve pausa,
ripensandoci,
«E l'ho convinta a darti un'occasione».
«Cosa?».
«Hai
un colloquio alla CatCo il 10 settembre, alle ore 10:00. Sii
puntuale, perché Cat Grant è una persona
fiscale».
«S-Stai
scherzando?». Kara non riusciva più a respirare.
«Lo
so, avrei dovuto prima chiederti cosa ne pensassi, ma dato che leggi
il loro magazine e la tua decisione di diventare reporter, ho
pensato…».
«Dici
davvero, davvero? Lena, stai parlando seriamente? Perché
io-».
«Parlo
seriamente».
Kara
si scoprì e scese da letto con il cuore che le scoppiava in
petto,
vedendola scoprirsi a sua volta, mettendosi seduta. «I-Io,
davvero…
Tu cosa…?».
Lena
arrossì. «Aspetta a ringraziarmi, magari non si
farà niente, o ti
prenderà per portarle il caffè. Ma è
una piccola opportunità
verso ciò che vuoi essere. E spero… spero ti
possa aiutare».
E
ora Kara aveva decisamente voglia di baciarla. Di andare da lei, di
stringerla forte e poi poggiare le labbra eccitate contro le sue. Non
sentiva e non capiva più niente, il suo cuore batteva
impazzito. Non
credeva stesse succedendo davvero. Perché faceva tutto
questo per
lei? Si chiese. Come poteva ringraziarla, adesso? Poi un piccolo ma
insistente pensiero le scombussolò la testa. «Emh,
io…», si
dondolò con i talloni dei piedi nudi, «T-Ti avevo
preso una cosa
per, sai, sì, ringraziarti per aver riavvicinato me e Kal,
ma
adesso… ma adesso sembra una cosa ancora più
stupida in confronto
a-a tutto quello che tu… emh, stai facendo per
me». Si strinse le
mani e la guardò.
«Tu
mi hai fatto un regalo?», cercò di fissarla nel
buio della stanza.
Il suo cuore batteva a ritmi così alti e frenetici che per
poco non
sentiva cosa Kara le diceva. «Non posso averlo?».
Kara
deglutì e cominciò a grattarsi dappertutto.
«N-Sì, ma… è-è
davvero una scemenza e soprattutto ora sto pensando di fingere di non
averlo detto e cercare di dormire, che dopo la notizia che mi hai
dato non so se riuscirò a fare, anzi sono sicurissima che
non
riuscirò a fare, ho la tachicardia e l'ansia così
forte che mi sta
salendo la cena e sicuramente questo non avrei dovuto dirlo, continuo
a fare figuracce una dietro l'altra e-e un'altra cosa di cui sono
certa è che non saprò mai come sdebitarmi per
ciò che hai fatto o
farti capire quanto io apprezzi tutto questo, oh
cielo,
sto scoppiando, penso che imploderò e credo avrei fatto bene
a
tenere anche questa assurda informazione per me invece di
condividerla con te e
perché non riesco a starmi zitta?»,
gracchiò, spalancando gli occhi. Vide Lena ridere e
sentì la cena
continuare a salire.
«Non
c'è nulla che tu possa fare o dire che mi farà
cambiare idea su di
te, Kara. Non importa se balbetti, se ammetti di essere nervosa:
diciamo che sono cose che fanno parte della sua esuberante
personalità e… lo trovo adorabile»,
arrossì. Si sforzò molto
per dirlo a voce alta. «Quindi…
tranquilla».
Kara
si zittì davvero, deglutendo ancora.
«Non
devi cercare di ripagarmi in qualche modo. Voglio dire, se faccio
qualcosa per te è perché lo voglio e non per
aspettarmi qualcosa
indietro», si alzò dal letto anche lei e Kara si
sentì avvampare,
non capendo cosa stesse succedendo, cosa stesse per succedere, se
stesse effettivamente per succedere qualcosa. «Ma, se mi hai
fatto
un regalo, ci tengo ad averlo».
Kara
si voltò, dirigendosi verso il suo bagaglio: era l'unica
cosa che
non aveva tolto dal trolley quella sera. Le andò vicino con
il cuore
che le pulsava in gola dall'agitazione, tentando con ogni mezzo di
non respirarle affannosamente addosso.
«È-È davvero una cosa da
niente».
Lena
aprì la mano destra, mostrandole il palmo. «Su,
forza».
Kara
glielo passò e si spostò dallo starle
così vicino, per paura
potesse succedere di tutto. E non avrebbe saputo definire quel tutto.
Lena
sorrise e arrossì, vedendo quella piccola e buffa palletta
di pelo
fuxia che le sorrideva, con il gancio portachiavi.
«N-Non
sapevo davvero cosa prenderti e-».
Lena
restò fiato per un attimo e poi la interruppe: «La
sera alla
mostra, prima che ci interrompesse tuo cugino… Ti
ricordi?». Oh,
no. Lo stava facendo davvero? Stava davvero per mandare tutto
all'aria? La strana armonia trovata al loro ritorno, il fatto che
finalmente potessero andare d'accordo senza farsi dispetti, i suoi
buoni motivi per tenerla lontana da lei, tutto… Cedere
segnava il
punto di non ritorno.
«Sì»,
rispose, smettendo di tornare indietro. «Mi hai
detto-».
«Che
avrei voluto baciarti».
«Lo
hai detto davvero…?», sul suo viso apparve un
sorriso, non
riuscendo a farne a meno.
Lena
le si avvicinò e vide chiaro il suo punto di non ritorno:
era una
bocca rosa che si piegava in un sorriso per lei. Si guardarono,
socchiusero gli occhi, avvicinandosi, ma un urlo stridulo e un tonfo
le destò da quell'incantevole momento che stavano vivendo,
non
riuscendo neppure a sfiorarsi. Entrambe si voltarono verso la porta e
aprirono di corsa, affacciandosi. Videro che anche Alex si era
affacciata dalla sua, strofinandosi un occhio.
«Cos'è
stato?», domandò Kara e Alex scrollò le
spalle.
«Sembrava
Eliza quando trova un ragno». Aveva tutti i capelli
schiacciati da
un lato.
Così
Kara corse per il corridoio e Lena e Alex la raggiunsero dopo, con
più calma; provata da ciò che stava per succedere
la prima e
assonnata la seconda. Era rimasta un po' indietro per chiudere la
porta della sua camera e poi le seguì, muovendosi come uno
zombie.
Kara
spalancò la porta di servizio già aperta, quella
dietro la cucina
che portava al cortile. Il bidone dell'immondizia era rovesciato e la
strada di Kara fu tagliata da Eliza che, correndo, brandiva il
bastone di una scopa come una spada.
«Ecco,
con questo dovremo stanarlo», la sentì dire.
Dietro il muro di
casa, scoprì Eliza e Lillian in vestaglia, vicine e
terrorizzate.
«Cosa
state facendo?».
«Kara,
tesoro, torna a dormire», disse Eliza.
«Non
volevamo svegliarti, cara. Abbiamo sentito dei rumori e- eccolo,
eccolo
lì»,
indicò un punto dietro Kara, che si voltò, non
vedendo alcunché.
«Fallo nero».
Eliza
corse con il bastone della scopa per aria e quasi colpì Lena
e Alex,
che fermò la madre appena prima di vedersi la scopa in
fronte.
Stavano per chiederle cosa stesse succedendo quando Lillian
gridò
ancora ed Eliza inquadrò l'ombra minacciosa muoversi tra i
cespugli.
«Deve
essere quel dannato procione», ruggì Eliza,
voltandosi indietro per
dire alle figlie di stare lontane. «Ma oggi lo becco, oggi lo
becco».
«No»,
gridò Kara, raggiungendola subito. «Non farai del
male a un
procione, sono esseri adorabili». Arrossì di
colpo, ricordandosi
Lena e ciò che stavano per fare prima di essere interrotte.
«Che-Che
cosa ti ha fatto?».
«Ogni
notte gratta dalla nostra finestra e fruga nella spazzatura,
Kara»,
rispose con aria esausta. «Non vorrei ci entrasse in casa,
una di
queste sere».
L'urlo
stridulo tuonò come un allarme e si voltarono, scoprendo che
a
emetterlo era Lillian. La donna indicava un punto erboso del giardino
e videro tutte muoversi qualche foglia, illuminate dalla lucetta
esterna accesa. Alex prese la scopa da sua madre e lei e Kara si
avvicinarono insieme, con cautela e senza far movimenti bruschi. Le
due si guardarono, scambiandosi occhiate complici. Le foglie si
mossero ancora e Kara si gettò, l'ombra saltò e
Alex lo schivò per
un soffio, ma appena udirono un miagolio si bloccarono.
«È
un gatto!», urlarono insieme. Alex gettò la scopa
e Kara riuscì ad
acchiapparlo, prendendolo con sé.
«Oh,
è un piccolo gattino spaventato», lo
accarezzò insieme ad Alex e
alzò lo sguardo, incrociando quello di Lena, che la fissava,
a
braccia a conserte. Increspò le labbra e
riabbassò lo sguardo di
nuovo sul micio: sapeva di essere diventata rossa.
Ferme,
con il loro cuore che tentava di tornare a ritmi normali, entrambe si
stavano rendendo conto di ciò che era successo, o meglio di
ciò che
stava per succedere, con un'unica illuminante scoperta impressa a
fuoco nella mente: lei
ricambia.
Kara
chiamò il gattino Biancopelo perché la maggior
parte del suo pelo
era, appunto, bianco; aveva qualche chiazza marrone solo sul viso e
sulle zampette. Nessun altro ebbe da ridire sul nome. Lei e Alex lo
pulirono dai rametti d'erba che gli erano rimasti impigliati addosso
e lo pettinarono, poi Alex decise di tornare a dormire come avevano
fatto prima di loro Eliza e Lillian, perché era stanca. In
ogni caso
era Kara ad essersi offerta di farlo dormire con lei. Era un gatto
ben curato e non aveva paura delle persone, magari di quelle senza il
bastone della scopa in mano, dunque doveva essersi perso e decisero
di cominciare a cercare i suoi padroni dall'indomani. Eliza e Lillian
erano ancora fermamente convinte che ci fosse un procione nascosto da
qualche parte, ma finché non si faceva sentire pensarono
bene di
tornarsene a letto.
«Vado
a dormire anch'io, è stata una lunga giornata».
Lena non la guardò
e, mentre Kara offriva qualcosa da mangiare a Biancopelo,
salì le
scalette per il corridoio dov'erano le camere.
Kara
si rabbuiò: Lena doveva avere i suoi stessi pensieri,
capì. Cosa
sarebbe successo dopo che si fossero baciate? Poteva non dir molto
sul loro futuro familiare, forse sarebbe rimasto un bacio isolato,
qualcosa che al momento sentivano e che poi sarebbe svanito, magari
ci avrebbe messo del tempo, ma sarebbe svanito. E se invece, dopo
quel bacio, avessero desiderato altro? Avessero desiderato di
più? A
che punto potevano spingersi…? Non erano due ragazze
qualunque che
si erano conosciute in una situazione bizzarra e che decidevano di
frequentarsi, le loro madri stavano per sposarsi. Kara si era
ritrovata a pensarci spesso e ora le occorreva ricordarlo
più di
prima.
Bussò
sulla porta di Alex, con Biancopelo in braccio. Bussò
ancora, non
sentendo alcun movimento. Sospirò, pensando che si fosse
già
addormentata. Stava per andarsene quando la porta si aprì e
sua
sorella sbadigliò.
«Il
micio sta bene?», le chiese subito e Kara la
guardò, per poi
scendere dalle nuvole:
«Aah,
no, cioè sì, sta bene! Io non… non ero
qui per lui». Si
avvicinò, coccolando il gattino. «È
così buono, i suoi padroni
saranno disperati».
«E
allora cosa c'è?», la guardò
attentamente, parlando con uno
sbadiglio: «Ti vedo strana, sorellina. È successo
qualcosa?».
Kara
deglutì. «No. Te ne parlerei se fosse successo
qualcosa, giusto?»,
ridacchiò, «È-È solo che,
emh, Megan mi ha detto che ho iniziato
a parlare un po' nel sonno… Non sono fantasiosa come lei,
sai che
Megan parla nel sonno, no? Te ne ho parlato. E…
sì, credo… credo
che potrei disturbare Lena e», la guardò e
indicò distrattamente
dietro di lei, «volevo chiederti se ti andasse di prendere il
mio
posto… Ecco, sì». Infine
annuì e Alex alzò un sopracciglio.
«Ma
tu odi la mia camera, dici che ti senti sempre soffocare
perché ha
solo un lucernario… Sei sicura?».
«No»,
cambiò idea di colpo. «Poi vediamo,
okay?».
Sorrise
e Alex le diede la buonanotte, così richiuse la porta.
Quando Kara
aprì la sua, vide Lena addormentata e corse con Biancopelo
verso il
suo letto.
«Oggi
dormirai con me», disse, sistemandolo sul letto mentre
rimetteva
apposto il lenzuolo che aveva buttato da un lato prima, quando si era
alzata di scatto alla notizia dell'appuntamento alla CatCo. Se ci
pensava non stava nella pelle, ma il pensiero di aver quasi baciato
Lena e la tachicardia per essere ancora così tanto vicina a
lei era
più forte.
Il
gattino miagolò e scese dal letto, così Kara
corse a recuperarlo.
«No,
devi dormire qui. Biancopelo, mi hai capito? Biancopelo?». Si
sdraiò
e lo prese con sé, ma il gatto fuggì di nuovo.
Lena
aprì gli occhi e, coperta dai brusii di Kara che parlava col
micio,
sospirò.
La
mattina successiva, quando Lena si svegliò, notò
che Kara stava
dormendo mezza scoperta e sul bordo del letto, mentre Biancopelo
stava raggomitolato sulla sua testa, anche lui addormentato. Sembrava
avessero trascorso una lunga notte. Prese il suo nuovo portachiavi,
dei vestiti puliti e uscì dalla stanza cercando di fare meno
rumore
possibile. Si cambiò in bagno come sempre, indossando un
pantaloncino e una maglietta così, quando uscì e
incrociò lo
sguardo di Alex, lei la guardò stranita da capo a piedi: lo
sapeva,
era la prima volta che la vedeva vestita in quel modo. Le sorrise,
intuendo che, finalmente, sembrava aver trovato nella loro una casa
anche la sua, tanto da sentirsi a suo agio. Ai piedi aveva
addirittura un paio di infradito.
«Oh,
è riuscita a dartelo?».
«Cosa?»,
arrossì di colpo.
«Il
portachiavi», indicò la palletta di pelo fuxia che
Lena aveva in
una mano. «Temevo non ne avrebbe trovato il coraggio! Voleva
farti
un regalo ma non sapeva quale e stava impazzendo».
Lena
sorrise, stringendo il portachiavi. Si spostò per lasciare
lo spazio
per entrare in bagno, ma la fermò di colpo:
«Ah!
Hai dormito bene?».
«Perché?».
«Kara
mi stava dicendo che forse vorrebbe che prendessi il suo letto
perché
dice di aver cominciato a parlare nel sonno e temeva di
disturbarti»,
le confidò e Lena restò immobile, fredda.
«Parla davvero nel
sonno? È una cosa piuttosto nuova…»,
ridacchiò.
«Un
pochino», rispose infine, dopo averci riflettuto.
«Se
vuoi possiamo fare a cambio».
«Se
sta bene a Kara», rispose di nuovo lapidale, poi le disse di
aver
fretta di bere un caffè e sparì.
Dopo
quello che era successo, non si stupì affatto di sentire che
Kara
voleva fare cambio camera per non dormire vicino a lei e rischiare di
ripetere ciò che stavano per fare. Eppure un po' le aveva
fatto
male. Sorseggiò piano il caffè bollente, al
tavolo della cucina,
giocando a rotolarsi tra le dita la palletta pelosa del suo
portachiavi. Sapeva che sarebbe stato meglio assecondarla.
Il
gattino entrò in cucina e udì i pesanti passi dei
piedi scalzi di
Kara avvicinarsi di corsa. La ragazza entrò con uno slancio,
inchinata, acciuffò Biancopelo e si alzò di
scatto, rischiando di
sbattere la testa contro un pensile. «Preso», rise
vittoriosa,
bloccandosi come una statua di ghiaccio quando vide che Lena era
seduta a poco da lei. «Emh… Buongiorno».
Notò subito che era
vestita da casa e non da ufficio com'era abitata a vederla e sorrise,
ma quando lesse che l'enorme scritta rossa sulla sua tshirt diceva
love
me,
però, cambiò espressione, girandoci
immediatamente lo sguardo,
fingendo di dover assolutamente coccolare Biancopelo. «Come
hai
dormito, stanotte?».
«Umh…»,
parve rifletterci, «Non molto bene, credo di averti sentito
parlare
nel sonno».
Kara
deglutì. «Alex…».
«Me
lo ha chiesto prima di te. Se vuoi cambiare, va bene».
«Va
bene?». La vide annuire e Kara sentì un tonfo allo
stomaco.
«Credo
sia la cosa migliore per entrambe», si alzò per
lavare la tazzina,
passandole vicino.
Kara
sentì subito il suo profumo e sospirò. Per
fortuna Biancopelo che
smaniava per scenderle di dosso la fece rinsavire. «Devo
fargli un
bagnetto per farlo bello per la foto da mettere sul volantino. Mi
aiuteresti?».
Alex
comparve all'improvviso. «Dai, Kara, andiamo a fare il bagno
a
Biancopelo, altrimenti passerà troppo tempo da qui ai
volantini».
Lena
si allontanò dal lavandino e Kara la sentì
muoversi dietro di lei
come un fantasma. Le sventolò il portachiavi in faccia e la
ringraziò ancora per averglielo regalato, attenta che con
una
zampata Biancopelo non glielo acciuffasse. «Hai
già aiuto. A più
tardi».
Kara
ansimò, vedendola andar via.
Alex
cambiò posto con Kara, portandosi dietro entrambe il proprio
cuscino. La prima chiese a Lena se avesse preferito stare lei da sola
nella sua stanza, ma se Kara non parlava nel sonno avrebbe scoperto
che non era vero e avrebbe fatto domande. Era meglio non lasciarle
motivo di fare domande. E, comunque, appena Lillian udì la
proposta
di farla stare da sola mise su una faccia strana e non volevano
approfondire la questione. Dopo il bagnetto a Biancopelo e qualche
scatto, Kara, Alex e Lena scelsero la foto che secondo loro era
perfetta per il volantino ed Eliza la promosse, così
allestirono un
volantino al computer e salvarono un file che Eliza e Lillian
portarono a stampare. Avevano cinquanta volantini da affiggere per le
strade. Lillian sembrava eccitata nel fare una cosa tanto banale ma
per lei curiosa e lei ed Eliza fecero coppia, anche perché
con molta
probabilità, da sola, la prima si sarebbe persa; non
conosceva molte
altre vie oltre a quella che portava alla stazione, al market e alla
loro casa.
«Sarai
la mia compagna in quest'avventura?». Lena si
avvicinò a Kara
cautamente. Anche lei avrebbe avuto bisogno di aiuto perché
non
conosceva il posto.
«Certo».
«Perfetto,
compagne! Cominciamo a partire, voglio coprire più zone
possibili:
riportiamo Biancopelo a casa», esclamò Alex di
colpo, mettendosi
tra loro. «Kara, lo porti tu? Non possiamo lasciarlo
solo».
Non
che non gradissero la sua compagnia, ma entrambe in cuor loro
speravano di stare da sole. Dovevano parlare e chiarirsi, per quel
cambio di camera che disturbava entrambe e di come non avrebbe
dovuto, oltre che del loro
momento.
Se non altro, Alex si allontanava spesso per appendere dei volantini
anche dall'altra parte della strada, lei a sinistra e loro a destra.
Kara chiese a un commerciante se potevano attaccare un volantino
nella sua vetrina e lui accettò. Speravano di ritrovare
presto la
sua famiglia.
Guardò
il volantino e baciò in testa il gattino, sotto lo sguardo
di Lena.
«Posso?».
Kara
si voltò e la vide con il cellulare pronto a scattarle una
foto.
Sorrise, abbracciando Biancopelo.
Mentre
scattava, ripensava che avrebbe dovuto parlare a Lena non solo del
loro bacio, ma anche del suo futuro. Le aveva preso un appuntamento
alla CatCo, e non stava nella pelle, ma non poteva accettare ora che
ci aveva riflettuto a mente lucida. Doveva dirglielo e non sapeva
come. «Avremo un ricordo», disse Kara e si
avvicinò. Guardò la
foto e Lena guardo lei. «È venuta bene».
Alzò gli occhi e si
ritrovò lo sguardo di lei sul suo viso. Erano
così vicine. Di nuovo
così vicine. A quel punto forse non importava cosa sarebbe
successo.
Si scambiarono uno sguardo e ognuna fissò le labbra
dell'altra, di
nuovo gli occhi e poi le labbra. Erano così vicine.
Con
una zampata, Biancopelo colpì il cellulare che cadde sul
marciapiede, distraendo entrambe.
«Cos'è
successo, ragazze?». Alex comparve dietro di loro. Per
fortuna, non
sembrava aver visto nulla. «Biancopelo fa danni? Lo prendo
io».
Prese loro il gatto e Kara guardò Lena una volta, una volta
sola,
arrossendo, e poi seguì sua sorella.
Riflettendo
sul cambio camera, forse stare distanti si sarebbe rivelato
ciò che
serviva.
Avevano
distribuito i volantini ed erano tornate a casa soddisfatte tutte a
parte Lillian, che aveva le caviglie gonfie per aver camminato tanto
e averlo fatto con i tacchi ai piedi. Ma cambiò espressione
di colpo
quando Eliza le disse che le avrebbe fatto i massaggi e le loro
figlie sparirono dal soggiorno.
Alex
era molto più ordinata rispetto a Kara: si
sistemò il letto, gonfiò
il cuscino e le augurò la buonanotte. Ma Lena non riusciva a
dormire. Giocherellava con il suo portachiavi e pensava che avrebbero
potuto farlo, che avrebbero potuto farlo davvero e che avrebbero
pensato poi alle conseguenze. Preferiva analizzare la situazione
sempre prima di agire, ma ora non riusciva a non pensare che
avrebbero potuto rischiare. Dopotutto volevano solo baciarsi, non
c'era davvero niente di male. Si alzò e si stirò
le braccia,
facendo attenzione a non far chiasso. Aprì la porta, voleva
fare due
passi, quando si ritrovò Biancopelo fra i piedi, facendo le
fusa.
Alzò gli occhi e lei era lì, appoggiata al muro.
«Cosa
fai?», sussurrò, prendendo Biancopelo in braccio.
«A-Avevo
bisogno di un po' d'aria…», sospirò con
imbarazzo, dondolando sui
talloni. «E Biancopelo non vuole dormire».
«Biancopelo
non vuole dormire? Senti, Kara, fai di nuovo cambio con Alex. Non
è
successo nulla, tra noi, no?». Lo avrebbe voluto. Ci stava
pensando
proprio in quell'istante. Ci pensava quasi di continuo, se non fosse
per la questione di suo padre.
Lei
sorrise, abbassando lo sguardo. «La camera di Alex sembra una
prigione russa». Lena cominciò a camminare verso
di lei con un
sorriso e sentì il sangue ritirarsi, mentre il suo cuore
accelerava
i battiti. Le lasciò Biancopelo tra le braccia e si
toccarono e non
importava se lui, stufo di fare il loro peluche, le avesse graffiate
per dispetto, perché loro erano di nuovo lì,
vicine. «Va bene.
Domani le chiedo di fare di nuovo cambio».
«Perfetto».
Si
avvicinarono ancora, il respiro di una batteva sul mento dell'altra,
ma si staccarono di colpo quando udirono delle voci e una corsa
sfrenata verso di loro.
«Il
procione è tornato!», gridò Eliza,
passando in mezzo a loro per il
corridoio.
Da
Me a Kal
Ehi,
Kal! Sono io, lo sai. Cosa ne pensi di venire a stare un po' da me in
questi giorni? Potrai conoscere la mia famiglia…
Da
Kal a Me
Non
no se sia una buona idea, Kara.
Da
Me a Kal
Perché?
Da
Kal a Me
Devo
andare, adesso. Ci sentiamo più tardi.
Kara
sbuffò con delusione, lasciando senza energie il cellulare
sul
tavolo e gettandosi di peso sulla sedia. Eliza la colse in abbraccio
sulle spalle, chiedendole come mai fosse tanto giù.
«Kal non viene.
Cioè, non lo ha detto proprio così, ma era quello
che intendeva».
«Mi
dispiace, tesoro. Troverete un altro modo per vedervi».
«Ma
non così, avrei voluto che conoscesse
voi…».
«Me
e Alex, o anche Lillian e Lena?», le chiese, lasciandola
andare e
sedendosi al suo fianco, guardandola.
«Beh…».
Non sapeva cosa rispondere. Di certo avrebbe voluto fargli conoscere
lei e Alex, ma conosceva già Lena e non sembravano avere un
buonissimo rapporto se lui non la chiamava per nome, e probabilmente
conosceva anche già Lillian, madre sua e di Lex. Doveva
essere
successo qualcosa tra lui e il ragazzo ma non sapeva cosa.
«Sono
stata troppo avventata, non è vero?».
«Forse
lui non se la sente… Dagli del tempo», le sorrise.
«Si potrebbe
iniziare pian piano, vederci fuori di casa, non tutte
insieme…
Adesso che ti ha ritrovata non vuole che tu vada via dalla sua vita,
non preoccuparti», le carezzò una guancia e lei le
regalò un
sorriso.
Lena
entrò in cucina con Biancopelo che, a pancia all'aria, si
faceva
fare le coccole. Eliza si alzò, carezzò il
gattino e uscì, così
la ragazza prese il suo posto sulla sedia lasciata vuota. Carezzava
Biancopelo ma guardava Kara. Quest'ultima invece fece finta di
niente, arrossendo e restando immobile.
«Stavo
pensando… Hai rimediato un colloquio per me
perché la signora
Grant ti doveva un favore. Che favore era? Se posso
chiederlo».
«Vuoi
parlare di questo?».
Kara
annuì lentamente e non si scollò dalla sua
posizione, senza
guardare l'altra negli occhi. Senza provare a fare il minimo
movimento. Sentì Lena sospirare, mentre Biancopelo miagolava
e
ricercava il contatto con le sue mani, dopo che si era distratta.
«Va
bene. Le ho fatto conoscere tuo cugino».
«Cosa?».
Gridò e si spostò tanto velocemente che il gatto
salto dalle
braccia di Lena e fuggì via dalla cucina. «In che
senso?».
Lena
rise. «Calmati! Cat Grant ha una specie
di…», strinse le labbra,
pensandoci, «passione
per tuo cugino. Fossi in te proverei a dirle che siete cugini e il
posto è tuo», sorrise ma Kara era ancora a bocca
aperta. «Dai,
stavo scherzando», le sorrise e Kara si ritrovò a
fissarle le
labbra, quella labbra che, se voleva, potevano davvero essere sue,
adesso.
«A
proposito di questo: i-io sono davvero felice che tu mi abbia fatto
avere quell'appuntamento, davvero, non so come… come
dirtelo», si
leccò le labbra, cercando di restare concentrata, e
finalmente la
guardò negli occhi.
«Ma?».
«Ma
non posso accettare». Kara deglutì e Lena mantenne
saldo il suo
sorriso, aspettando che chiarisca. «Lei ha accettato solo
perché,
non
so se questa cosa mi farà dormire,
le hai presentato Kal, ma i-io vorrei… vorrei essermelo
guadagnato
un appuntamento con Cat Grant». Lena sembrò
sorriderle ancor di
più, i suoi occhi brillavano, e Kara non riuscì a
capire se la
stesse effettivamente ascoltando o se volesse solo provare a baciarla
di nuovo. «Davvero. Mi dispiace e ti ringrazio»,
scosse la testa,
«Ma non posso farlo».
«Tu
te lo sei guadagnato», le rispose, «Davvero pensavi
che ti avrei
preso un appuntamento con lei solo perché la conosco? O
perché mi
dovesse un favore? Mi ha ascoltato senza appuntamento: con questo ha
ricambiato il favore. Ha accettato un appuntamento con te solo quando
le ho spiegato cosa hai fatto per me e Lex. Ha visto anche lei
cos'è
successo alla Luthor Corp e ha approvato degli articoli al riguardo,
ma non sapeva che tu avessi lavorato con noi al caso. Sei stata tu,
Kara Danvers, a farti avere quell'appuntamento. Non mi sarei mai
permessa, al contrario».
Restò
senza fiato e arrossì, tanto che Lena dovette ripetere che
era stato
merito suo e che Cat Grant non avrebbe mai accettato, diversamente.
«Oh, beh… in questo caso», rise a voce
un po' troppo alta,
cercando di concentrarsi. «Accetto. Allora. Se questo
è risolto…
I-Io volevo… Dovevamo…».
«Dovevamo»,
annuì Lena. Si avvicinò automaticamente prima che
se ne rendesse
conto e Kara si spostò di scatto, mordendosi la lingua e
strisciando
indietro con la sedia.
«Devo…
andare». Si alzò rapidamente e sbatté
le ginocchia contro il
tavolo, così torno a sedere e si rialzò con
più calma, attenta a
non sbattere di nuovo che incastrò un piede contro la sedia.
Rise
istericamente e riuscì a rimettersi bene in piedi, la
guardò, le
sorrise con forza e uscì dalla cucina.
Lena
scosse la testa e rise a bassa voce, reggendo la testa con una mano
dopo aver poggiato il gomito sul tavolo.
Kara
ricambiava, ma non poteva saltarle addosso. Forse anche lei, come
dopotutto Lena, si sentiva confusa. Sapeva solo che non l'avrebbe
forzata e qualsiasi cosa sarebbe successa, ne avrebbero discusso
dopo. Kara e Biancopelo erano riusciti a distrarla, ma il suo
pensiero, a volte, tornava ancora lì. A lui.
Si
svegliò sudata, quella notte, guardandosi intorno. C'era di
nuovo
Kara in camera con lei: lei e Biancopelo dormivano profondamente.
Sollevò il lenzuolo e prese il laptop dal suo comodino,
aprendo e
chiudendo la porta della camera dietro di lei. Accese il portatile,
sistemandosi sul divano in soggiorno. Era certa di aver sognato suo
padre, il suo sguardo duro, eppure ancora respirava con affanno, non
più certa che fosse un sogno, quanto piuttosto un incubo. Si
portò
due dita di una mano contro le labbra, socchiudendo gli occhi nel
rileggere per l'ennesima volta gli articoli di giornale che parlavano
della morte di suo padre.
«Come
mai in piedi a quest'ora?».
La
voce di Alex, alle sue spalle, la fece sobbalzare.
«Ehi,
ti senti bene?», si avvicinò, scoprendo, sotto la
luce del laptop,
la sua cera bianca. Le poggiò una mano su una spalla,
adocchiando
gli articoli sullo schermo del portatile.
«So
cosa stai pensando», disse lei lapidale, abbassando lo
schermo.
«No,
non lo so». Rispose Alex, sedendo vicino a lei.
«Vuoi provare a
parlarmene?».
A
quel punto, Lena aveva davanti a sé due scelte: raccontarle
la
verità o scappare. Ma stava ancora sudando, aveva impresso
nella
mente gli occhi di suo padre che aveva visto in sogno, ed era
spaventata. Sapeva di non dover mettere in mezzo nessun altro, ma in
quell'attimo, sola e fragile, pensò egoisticamente che dirlo
a lei
fosse un modo per aiutarsi. Così iniziò
lentamente e le disse tutto
ciò che le passava per la testa, della caduta da cavallo,
della
morte improvvisa, di come sospettasse del rapporto del coroner
perché
lo stesso coroner non era rintracciabile, delle sparizioni, delle
porte chiuse in faccia davanti alle sue domande, di come sua madre
sembrava aver insabbiato tutto. Omise di aver parlato con la ex
segretaria di Lillian solo perché non voleva metterla in
mezzo.
Alex
ascoltò ogni parola, appoggiandosi allo schienale con divano
con
shock. Poi sembrò essere arrivata a una conclusione.
«Se vuoi un
consiglio, Lena: per il momento, cerca di farti da parte». La
vide
aggrottare le sopracciglia, contrariata. «Ho capito cosa stai
passando, ma se tua madre stessa ti ha nascosto la verità,
come
pensi che sia, avrà le sue buone ragioni per farlo. Al di
là del
vostro rapporto», la fermò, prima che potesse
contraddirla, «non
metto in dubbio che abbiate dei cattivi trascorsi, lo farà
per il
tuo bene. Se davvero tuo padre è stato assassinato, come
tutto ciò
che mi hai raccontato fa pensare, allora salterà
fuori».
«Sta
passando un anno, Alex. Sembra che a tutti piaccia pensare che lui
sia stato semplicemente male e sia morto».
Lei
la guardò dritta negli occhi chiari, poggiandole una mano
sulle sue,
che ancora tremavano. «Hai ragione. Ma Lena, se qualcuno ha
ucciso
tuo padre e sta facendo sparire la gente che ha avuto a che fare con
lui, potrebbe uccidere anche te. Te lo chiedo per favore: lascia
perdere».
«Pensi
che dovrei… dovrei dire ciò che so alla polizia?
Può essere
corrotta…».
«No»,
scosse la testa, «Non farne parola con nessuno; e intendo
anche con
Kara. È troppo pericoloso. Ed è ancora presto,
facciamo passare un
po' di tempo e poi vedremo cosa succede».
Lena
la ringraziò, spegnendo il laptop. Si divisero: Alex
andò in bagno,
che doveva essere il motivo per cui si era alzata, e Lena
rientrò in
camera. Kara era ancora sul bordo del letto e Biancopelo stirava le
zampette marroni contro il suo collo. Si fermò a guardarla,
sedendo
sul letto davanti. Sapeva che non avrebbe potuto coinvolgere Kara,
pensò, e fu grata ad Alex, ma non avrebbe seguito il suo
consiglio.
Capitoooolo
lungo! 14 pagine e mezzo, spero non vi siate addormentati a
metà
>__<
Sono
successe un bel po' di cose oltre al toccante incontro dei due cugini
dopo tanto tempo, come Lena che ha ormai imboccato un
percorso che spera la porterà a capire cos'è
successo a suo padre,
e qui alla triste scena finale con Alex che cerca di persuaderla a non
continuare. Abbiamo conosciuto Leslie Willis, che spero di
caratterizzare bene. Siamo tornati a casa Danvers-Luthor con una
nuova luce nell'aria…e Kara ha perfino fatto un regalo a
Lena! È
proprio vero che a volte basta il pensiero, e Lena di certo ci sta
pensando! Senza contare che le ha rimediato un appuntamento
alla CatCo. E sì, anche Kara e Lena che si sono quasi
baciate qualche volta. Quasi. C'erano davvero quasi. Ma potrebbe essere
tutto
così semplice? Nah
:3 Se non altro hanno capito entrambe che ricambiano,
che ricambiano eccome. E non dimentichiamo il procione.
La
vera star del capitolo, in ogni caso, per me è Biancopelo!
:D
Sondaggio!!
Secondo momento sondaggio!
Come
saprete, sono ancora in fase di scrittura. Sono più avanti
di
capitoli e quindi, man mano che scrivo, mi vengono in mente certe
cose e come potrei svilupparle. Questo a volte implica per forza di
cose un cambiamento rispetto all'idea di base, quindi ecco
perché il
sondaggio! È giusto che siate voi, in questo caso, a dirmi
se posso
o no cambiare.
Il
sondaggio riguarda il rating. Avevo da subito
capito come
sarebbe andata avanti la storia, ma credevo di cavarmela col rating
giallo, invece ora sono al punto in cui mi chiedo se non sia il caso
di alzare ad arancione. No, non per quello che immaginate,
birbantelli, ma per le tematiche violente (non
aspettatevi comunque chissà che). In
verità dovrei
cavarmela sotto il segno del giallo, ma se sapessi di poter andare
tranquilla… insomma, non si sa mai. E lo stesso in quel caso
mi
tornerebbe utile anche per le tematiche sessuali :>
Solitamente
farei di testa mia e tanti saluti, ma essendo la storia in corso, voi
avendola iniziata a leggere con quello giallo ed essendo il rating
una cosa importante… Voglio rendervi partecipi. Se preferite
il
rating giallo non preoccupatevi che mi adeguerò di
conseguenza ;)
Il
prossimo capitolo si intitola La linea sottile e
sarà
pubblicato venerdì 11!
Ah…
e chi è Jamie? °°
|
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Capitolo 13 *** 12. La linea sottile ***
«Amiche?»,
propose Kara, mostrandole la mano destra.
«Amiche»,
annuì Lena che le strinse la mano.
Si
sorrisero, si guardarono. Lena si morse il labbro inferiore e Kara
deglutì. Le loro mani ancora unite. I loro nasi si
sfiorarono. Le
loro bocche…
«Ragazze?
Ci aiutate a scegliere un film da vedere tutte insieme?».
Eliza urlò
attraverso la casa e le due si separarono all'istante, come se
avessero preso la scossa.
Si
guardarono, guardarono altrove, e poi uscirono dalla camera una
dietro l'altra.
Durante
la settimana erano successe alcune cose. Prima di tutto, Biancopelo
aveva ritrovato la sua famiglia, lasciando un vuoto enorme nei loro
cuori e nel letto di Kara, che aveva deciso di riempire tenendo con
sé un vecchio peluche che aveva usato quando era bambina per
non
sentirsi sola i primi anni a casa Danvers. Era un orsacchiotto bianco
un po' spelacchiato, ritrovato in soffitta in mezzo ad altre
cianfrusaglie. La seconda cosa, infatti, era che si sarebbe presto
tenuto un mercatino nel quartiere ed Eliza si era decisa a buttare
giù la soffitta e tutto ciò che conteneva.
Lillian se ne era tenuta
ben lontana quando capì che i vecchi oggetti avevano con
loro anche
tanta polvere, ma di tanto in tanto la si poteva scorgere guardare
ciò che Eliza, Alex e Kara, aiutate da Lena, controllavano,
esaminando con occhio clinico se qualcosa poteva tornarle utile,
pronta a intervenire.
«Sembra
un condor», aveva sussurrato Alex e lei e Kara si erano messe
a
ridacchiare sottovoce, guardate male da Eliza, che le aveva
bacchettate con un vecchio battipanni.
La
terza cosa aveva visto la famiglia Danvers-Luthor di nuovo in
piscina. Le giornate si facevano calde e smaniavano dalla voglia di
rinfrescarsi. Come al solito, Eliza e Lillian avevano trascorso il
loro tempo a passarsi la crema a vicenda, a chiacchierare e a leggere
delle riviste, Alex era sparita da sola per delle ore e nessuno
l'aveva più vista; avevano tutti notato quanto stesse
appresso al
suo cellulare più del solito, da qualche giorno a quella
parte.
Mentre Kara e Lena erano finalmente riuscite a stare un po' da sole e
a parlare. La quarta cosa, infatti, era che erano riuscite a
discutere di ciò che era quasi successo e
continuava a quasi succedere;
avevano parlato del loro rapporto, avevano parlato di cosa
cambierebbe e si erano messe d'accordo: dovevano diventare amiche. Ma
come inizio non era stato dei migliori. Un bambino le aveva schizzate
e, per girarsi verso di lui, Kara era scivolata sulle mattonelle
bagnate e per poco non era
cascata
sul seno di Lena. Si erano guardate e desiderate, così
stavano per
sfiorarsi le labbra, quando il bambino le aveva
schizzate
di nuovo, si mossero e caddero in piscina. La quinta cosa, era che,
fortuna o sfortuna che fosse, non riuscivano mai a baciarsi e in un
modo o nell'altro i loro tentativi finivano per venire interrotti.
Forse era meglio così, d'altronde dopo potevano tornare alla
loro
fase sull'amicizia.
«Amiche?».
«Amiche».
Si
erano tenute per mano, uscendo dall'acqua.
La
sesta e ultima cosa, per lo sconforto di Lillian ed Eliza: il
procione non si era fatto trovare.
Eliza
le vide arrivare dal corridoio e applaudì. «Un
film divertente,
ragazze. Un film per famiglie. Qualcosa-», fu interrotta da
una
sghignazzante Alex:
«Sulla
famiglia».
«Per
famiglie», continuò Kara.
«Per
famiglie? Siete sicure?», aggiunse anche Lena, sorridendo.
Eliza
rise sarcasticamente, ordinando a tutte di mettersi a sedere sul
divano e di starsi zitte, che a quel punto il film lo avrebbe scelto
lei. Per quanto Eliza si sforzasse per trovare qualcosa di divertente
e per famiglie, finiva sempre per mettere play a film sì
divertenti
e per famiglie, ma pregni di drammi che a uno spettatore attento non
potevano passare inosservati e, dopo il film della sera precedente
con protagonista un anziano scorbutico che si metteva in viaggio
verso il Sud America con un bambino, nel ricordo della defunta
moglie, quello non fu da meno: un padre single doveva ritrovare il
figlio disabile che si era perduto e poi rapito e, in suo aiuto, solo
una donna con problemi mentali. Alex guardava il film a scatti
perché
presa dal suo cellulare, all'angolo destro del divano. Kara era al
lato opposto ed era attentissima, amava quel film. Lena al centro;
attenta al film e al contempo altrove con la testa. Eliza e Lillian
erano abbracciate su una delle comode poltrone; la prima rideva e la
seconda era immobile, con gli occhi sgranati per non perdersi neanche
una scena, colpita nel profondo.
Kara
rise e arrossì, rendendosi conto che, vicino alla sua mano
destra,
c'era quella di Lena. Nel sentirla muovere doveva essersene accorta
anche lei, perché le carezzò il dorso con il
pollice. Non si
guardarono, non fecero niente più di guardare il film, se
non
intrecciare le dita l'un l'altra. Nessuno le poteva vedere, era una
cosa innocente, se lo concessero. Se non che i loro cuori, veloci, le
tradivano: non era vero che era un gesto poi così innocente
e lo
sapevano entrambe.
Andarono
a letto senza guardarsi quella notte, poiché erano consce
che farlo
avrebbe messo a rischio le ore a seguire.
All'improvviso,
era come essersi accorte che erano i due pezzi opposti di una
calamita. Si cercavano a ogni sguardo, si mettevano sempre vicine, si
sorridevano e facevano squadra nelle discussioni, se le loro mani si
sfioravano per errore a tavola Kara scattava indietro e Lena
sospirava, ma solo se nessuno le guardava, naturalmente, la prima
stava ben attenta a come si comportava quando non erano sole.
«Anche
se c'è una certa… attrazione,
tra noi, puoi star tranquilla: loro non lo vedranno», le
disse Lena
un pomeriggio mentre stava seduta sul suo letto, davanti al portatile
poggiato sulle cosce.
Era
entrata nella loro camera in comune per cercare qualcosa, non sapeva
cosa, lo aveva dimenticato non appena si ritrovò a cercarlo,
guardando tra trolley, scrivania e letto. Forse, pensava Kara, era
lì
solo per vedere cosa faceva lei. «Ho paura che Alex sospetti
qualcosa», sussurrò, rimettendosi a posto gli
occhiali sul naso.
Sentì Lena ridacchiare piano, non staccando occhio dallo
schermo.
«Ammettiamolo:
non sei certo la regina della faccia da poker», si morse un
labbro.
Kara
sbuffò, sedendo sul suo letto. Manteneva lo sguardo basso.
«Non è
solo quello: Alex mi conosce troppo bene e poi sapeva c-che tu,
insomma, flirtavi con me e temo lo capisca».
Lena
sollevò lo sguardo, inarcando un sopracciglio. «E
Alex conosce così
bene anche me o come fa a sapere una cosa del genere?»,
sorrise,
«Non è qualcosa che viene in mente
subito».
Kara
avvampò, stringendo il copriletto sotto le dita delle mani
in
tensione. «Q-Qualcuno potrebbe averglielo detto, ma non
è questo il
punto». Si alzò di scatto e s'incamminò
verso la porta. La aprì e
poi la richiuse poco dopo, voltandosi verso di lei, sorridendo.
«Come… Come fai a dire che non lo
vedranno?», si sistemò gli
occhiali un'altra volta, cercando di non fissarla troppo.
«L'essere
umano a volte vede solo ciò che vuole vedere. Potresti
indossare una
calzamaglia, toglierti gli occhiali o, che so, tenere i capelli
sciolti e essere più sicura di te, andare là
fuori e sventare il
crimine che nessuno vedrebbe Kara Danvers, ma un'eroina ignota.
Perché nessuno si aspetterebbe di vedere te, che
sei…», la
guardò, «Mi hai capito», si
voltò di nuovo verso lo schermo. «Un
po' come quando giochi a lacrosse e diventi Supergirl. Siamo
solo…
sorelle.
Amiche. Potremmo», si morse un labbr0 di nuovo, rialzando lo
sguardo
verso di lei, che la guardava, «avere una relazione sotto i
loro
nasi che non sospetterebbero niente».
Kara
deglutì, arrossendo. «Cosa fai?».
«Cerco
un film da vedere. Non so cosa fare e ho voglia di non
pensare», si
spostò da un lato del letto, facendole il gesto di sedersi
accanto.
«Se vuoi, puoi guardarlo con me».
Kara
le arrivò vicino piano, ignorando il suo cuore che aveva
iniziato a
farsi sentire più forte. Le sorrise e cercò di
sistemarsi, mentre
Lena annunciava di aver trovato un film che le andava di vedere,
chiedendole se per lei andava bene. A Kara sarebbe andato bene
qualsiasi cosa, in quel momento. «… credi che non
sospetterebbero
niente?».
«La
stai considerando come possibile?». La guardò
negli occhi e poi le
labbra, di nuovo gli occhi.
«N-No»,
rise, abbassando la testa e risistemandosi gli occhiali che le erano
scivolati. «È-È che non so
cosa…», la guardò attentamente,
intanto che le sue guance si coloravano con imbarazzo, «cosa
ci
succede».
Lena
stava per aggiungere qualcosa ma si trattenne. Sapeva che doveva
tirarsi indietro in quel momento, in quel momento o sarebbe stato
tardi, ma le sue labbra…
La
porta si aprì all'improvviso e Kara si spinse indietro,
troppo
indietro: cadde dal letto, schivò il comodino, ma una scarpa
di Lena
le tatuò una natica e cominciò a lamentarsi dal
dolore.
Alex
rise e contagiò anche Lena, decisa a non farlo.
«Scusa, sorellina!
Ti sei fatta male?».
«Appena»,
si rialzò con dolore, fregandosi il punto dolorante,
guardando con
rancore la scarpa incriminata.
«Come
hai fatto a scivolare?», trattenne un'altra risata.
«Volevo sapere
se vi andava di uscire, più tardi. Cosa fate?».
«Volevamo
vederci un film. Ti unisci a noi?», propose Lena e Kara la
guardò
di straforo.
«Volentieri.
Porto la pizza».
Sparì
dietro la porta e Lena sorrise a Kara, ancora confusa. «Come
ti
avevo detto: non sospetterebbero niente».
Nonostante
la tensione tra loro, era la calma ciò che
contraddistingueva Lena,
a dispetto dell'agitazione perenne di Kara. Era davvero sicura che
nessuna delle altre tre avrebbe sospettato che qualcosa stesse
succedendo tra loro anche se qualcosa avesse iniziato a succedere
davvero, ma Kara non riusciva a convincersene. Se si toglieva gli
occhiali e scioglieva i capelli, era sempre lei ciò che
vedeva allo
specchio.
Da
Me a Megs
Megan!
In un'ipotetica situazione in cui tu e il signor Jonzz non state
insieme, lui ti guarda e vorrebbe baciarti, tu lo guardi e vorresti
baciarlo, cosa faresti?
La
risposta non si fece attendere: Baciato.
Non è così ipotetica: è ciò
che è successo. Baciala, ragazza.
Dacci dentro.
Da
Me a Megs
Ecco
perché solitamente chiedo consiglio ad Alex!
Da
Megs a Me
Allora
fallo: “Alex, sto desiderando di baciare la nostra
sorellastra, tu
cosa ne pensi?”. Se vuoi glielo chiedo io, ho il suo numero
ancora
in rubrica.
Da
Me a Megs
Grazie
per i tuoi consigli, ti voglio bene e buonanotte.
Kara
grugnì, poggiando il telefono sul mobiletto del bagno,
prendendo un
grosso respiro e guardandosi allo specchio. Si lisciò i
capelli un
po' di volte, si guardò meglio il viso, avvicinandosi; si
toccò il
naso, le labbra, gesto seguito da una smorfia. Non si era ancora
chiesta perché Lena volesse baciarla. La trovava
così bella? In
effetti, avevano parlato di ciò che era cambiato tra loro,
di come
entrambe sentissero il bisogno di toccare l'una le labbra dell'altra,
ma non avevano parlato del perché. Dei sentimenti. Forse era
meglio
così perché parlarne avrebbe rischiato di
aggiungere motivazioni a
ciò che stava succedendo e non doveva succedere. Erano
amiche. O
dovevano diventarlo.
Fece
un passo indietro, specchiandosi ancora, immobile, disegnando con gli
occhi la sua figura. I capelli sciolti che le coprivano le spalle, la
pelle un poco arrossata sulle guance e sul naso, che aveva la
gobbetta per gli occhiali, le labbra rosa, schiuse, le spalle sotto
la maglietta a quadri che scendeva larga sul seno e sulla pancia.
Lena la trovava bella?
Alex
bussò e aprì la porta senza aspettare risposta,
affrettandosi verso
il lavandino. Kara si spaventò come se l'avesse sorpresa a
baciare
Lena col pensiero. «Scusa, sorellina, ma ci stai mettendo una
vita e
devo andare a dormire anch'io», si piegò per
risciacquarsi la
faccia. «Quando io entro in bagno, comunque, tu ci sei
sempre,
quindi…». La guardò con la coda
dell'occhio, intanto che si
asciugava: era ancora imbambolata a guardarsi e sospirava.
«Stai
bene?».
«Sì».
«Non
ti rivedi con Mike, vero?».
«No,
perc-», si bloccò, immaginando la sua paura che si
concretizzava:
Alex sospettava ci fosse qualcuno ed era meglio giocare d'astuzia e
non darle domande a cui farsi delle risposte. «Non mi vedo
con
nessuno: ho chiuso con i ragazzi». Riprese il cellulare e le
annunciò la buonanotte, chiudendo la porta del bagno dietro
di lei.
«Chiuso
con i ragazzi»,
ripeté sottovoce roteando gli occhi, mordendosi la lingua.
«Alex
sa», fu la prima cosa che disse non appena aprì la
porta della
loro camera in comune,
prima ancora di vedere che la luce era spenta e che Lena, a letto,
era girata da un lato con gli occhi chiusi. Strinse i denti,
iniziando a camminare con la punta dei talloni verso il suo letto.
«Cosa
sa?».
Saltò
dallo spavento e incastrò un piede nel tappeto, sbattendo le
ginocchia sul pavimento.
Lena
accese la luce del suo comodino, alzandosi il tanto giusto per
vederla baciare una ciabatta. Trattenne una risata. «Stai
bene,
Kara?».
«C-Certo»,
si rialzò scuotendo la testa, davvero in imbarazzo.
«Pensavo
dormissi, mi hai fatto prendere un colpo». La
sentì ridere,
intanto che si copriva di nuovo. «Sa che sono presa da
qualcuno»,
confessò senza mezzi termini, sistemando il letto per
entrare sotto
le lenzuola color pesca. «Comincia a fare domande».
«Quindi
sei… presa da qualcuno?».
Kara
si girò, scorgendole il sorrisetto che tentava di nascondere
sotto
il lenzuolo. «Da un'amica», ribatté,
sistemandosi sul letto e
abbracciando il suo peluche, sotto lo sguardo concentrato dell'altra.
Entrambe
volevano dire qualcosa, ma infine Lena spense la luce e si diedero la
buonanotte.
No,
era meglio non parlarne, tacere, resistere quei giorni per poi
tornare a National City senza il bisogno di incontrarsi tanto spesso
e lasciare che la cosa passasse da sola. Anche se fino a quel momento
era il loro obiettivo e non era passata. Ci stavano lavorando. Erano
amiche, in fondo, lo sapevano; dovevano solo concentrarsi su quella
parte del loro rapporto e lasciar andare l'altra che le voleva vicine
in un senso più romantico ad ogni costo. Probabilmente era
solo la
magia del proibito ad attrarle, ma dopotutto non erano riuscite a
baciarsi mai e significava pur qualcosa: non era il destino,
semplicemente la linea che divideva l'amicizia dal quel qualcosa di
più.
Il
giorno dopo si tenne il mercatino e le ragazze aiutarono Eliza e
Lillian, che più che altro fotografava il lavoro, ad
allestire i
tavoli nel vialetto. Eliza guardava il lavoro davanti alle case degli
altri e le loro bancarelle, continuando a fare paragoni con quello
che stavano facendo loro. Salutò qualche vicina e loro
ricambiavano,
ma non osavano avvicinarsi da quando Lillian Luthor andò ad
abitare
con lei, immaginando la temessero come altri prima di loro,
giudicandola senza conoscerla.
«Speriamo
di attirare qualcuno», sospirò Eliza, mettendo le
mani contro i
fianchi a lavoro terminato, guardandosi intorno. Il sole spaccava le
pietre ma i cittadini lasciavano le loro abitazioni come lumache dopo
la pioggia, sperando di poter cogliere qualche opportunità
nelle
cianfrusaglie che vendevano i vicini.
«Dunque»,
Lillian apparve al suo fianco, «La gente del quartiere si
sveglia e
si aggira per le vie con portafogli in mano per arruffare dalle
bancarelle qualcosa che il proprietario considera uno
scarto», annuì
da sola, scorgendo la gente che cominciava ad avvicinarsi, parlava,
si salutava e controllava gli oggetti in vendita. «Ho capito
bene
come funziona?».
Eliza
le sorrise. «Ssì… diciamo che
più o meno è così. Se vuoi, e se
le ragazze acconsentono, più tardi lasciamo loro qui a
vendere e noi
andiamo a farci un giro per vedere cosa stanno vendendo gli altri,
che ne pensi?».
«Penso
che con te andrei ovunque», disse con decisione ed Eliza le
picchiettò un braccio con imbarazzo intanto che Lillian
scambiava
con le vicine dall'altra parte della strada occhiate d'odio e di
sfida.
Le
ragazze, invece, sistemavano l'ordine di alcuni soprammobili con le
ultime accortezze, lasciandosi andare, di tanto in tanto, a qualche
ricordo: Alex riprese una vecchia tazza che usava quando era bambina
per fare colazione, Kara un bambolotto che era stato uno dei suoi
primi giocattoli a casa Danvers, Alex ricordò del periodo in
cui la
loro madre si era messa in testa di scrivere un libro scientifico con
quella vecchia macchina da scrivere e Kara rise, mostrando a Lena una
vecchia lampada per bambini che proiettava le stelle sul soffitto.
Era rotta e di certo non l'avrebbero venduta.
«No,
che peccato. Me la ricordo», esclamò Alex appena
la vide, pulendola
da un ultimo sbuffetto di polvere rimasto incastrato nel pulsante di
accensione. «Kara ed io chiudevamo le tapparelle, accendevamo
la
lampada e ci sdraiavamo sul pavimento a osservare le stelle che
giravano intorno a noi».
Kara
le sorrise. «All'inizio, ti lamentavi di essere troppo grande
per
questa lampada».
«E
per vedere le stelle con te, sì»,
annuì, «Penso ancora che ero
troppo grande, e ora che ci penso lo eri anche tu, ma era
divertente».
Si
scambiarono un sorriso e Lena sorrise a sua volta.
«A
Kara piacevano un sacco le stelle».
«Mi
piacciono ancora adesso».
Lena
si allontanò, lasciando che ricordassero di quei momenti da
sole.
Era pur vero che desiderava allontanarsi prima che l'istinto di
comprare lei la lampada e aggiustargliela solo per vedere il suo
sorriso di fronte alle stelle sulle pareti si concretizzasse. Avrebbe
corso il rischio di sostituire il bel ricordo del loro legame, e non
era giusto, oltre a rendere Kara di nuovo in
debito
con lei. Non che pensasse davvero una cosa del genere, ma
già
immaginava la ragazza che le ricordava che per lei faceva troppo. Per
un'amica faceva troppo. Forse anche per una sorella. Mise la mano
destra nella tasca dei pantaloncini ed estrasse la palletta fuxia che
le sorrideva, con il portachiavi, ripensando che tutto quello era
decisamente troppo.
Da
Kal a Me
Kara.
Ti chiedo scusa per aver rifiutato di venire da te, non vorrei
pensassi che non ho voglia di vederti o che non ne abbia di conoscere
la tua famiglia…
Da
Me a Kal
No,
non preoccuparti! Ero così felice di invitarti che non ho
pensato di
stare affrettando le cose! Ci possiamo vedere quando vuoi!
Da
Kal a Me
A
proposito di questo, ti scrivo per invitarti. Ti andrebbe di venire
tu a casa mia, a Metropolis? Prima che finiscano le vacanze estive,
magari! Sarebbe bello averti con noi, puoi portare anche tua sorella.
Ci farebbe piacere!
Kara
sorrise, leggendo l'ultimo messaggio di suo cugino. Naturalmente con
il parlare al plurale intendeva che avrebbe fatto piacere anche alla
sua fidanzata e lei non vedeva l'ora di conoscerla.
Stava
impalata davanti all'auto di Eliza, con il cellulare in mano. Alex le
passò accanto per aprire lo sportello e la
richiamò, mettendosi a
ridere.
«Terra
chiama Kara! Che hai da sorridere tanto, sorellina? Ti ha scritto il
tuo nuovo ragazzo?».
«Non
ho un nuovo ragazzo, te l'ho detto». Ripose il cellulare
nella borsa
che aveva a tracolla, scuotendo la testa. «Era Kal: ci ha
invitato a
passare da lui prima che finiscano le vacanze».
Lei
immediatamente sospirò, stringendo le labbra. «Oh,
non so se potrò
esserci, devo tornare a casa prima del previsto: un professore vuole
vedermi prima dell'inizio delle lezioni».
«Dici
davvero?».
«Porta
Lena», entrò in macchina, «E non ci
credo che non hai un nuovo
ragazzo: ti conosco troppo bene per non sapere che stai pensando a
qualcuno».
Kara
arrossì di colpo e trasalì, scoprendo che dietro
di loro era
apparsa Lena. Le passò davanti e salì in macchina
prima di lei, con
uno strano sorrisetto sulla faccia.
Dopo
giorni di tentativi, finalmente Eliza convinse Lillian a provare la
spiaggia, invece della solita piscina. Lillian Luthor odiava la
sabbia e la sua incredibile dote di materializzarsi ovunque anche
solo camminandoci sopra e raccontava con disgusto di quando da
bambina la sua famiglia la portava là a giocare. Doveva
essere stata
l'unica bambina al mondo a non amare la sabbia. Eliza l'amava
però,
e quando disse alle loro figlie che sarebbero andate a trascorrere
laggiù il pomeriggio, Lena pensò al miracolo.
Addirittura scrisse a
Lex, perché l'evento richiedeva la giusta importanza.
Kara
chiuse lo sportello appena si fu seduta, scrutando, con la coda
dell'occhio, che Lena sorrideva ancora come se fosse soddisfatta. Il
loro essere amiche stava mettendo a dura prova entrambe, o almeno lo
credeva, poiché sorridendo in quel modo sembrava che non le
interessasse al suo stesso modo.
Lillian
stava scegliendo la compilation da mettere in play nello stereo ed
Eliza mise in moto, guardandosi indietro. «Avete preso tutto,
ragazze?». Guardò ognuna di loro e, a risposta
affermativa, partì
per uscire dal vialetto.
«Seriamente»,
disse Alex a un certo punto, con lo sguardo rivolto al suo cellulare,
«Perché non mi hai detto che frequenti un altro
ragazzo? Se non è
Mike…».
Lena
guardò Kara in attesa di una risposta e quest'ultima
avvampò,
cercando di non cadere nella sua trappola. «Non ho un altro
ragazzo».
«Frequenti
qualcuno, Kara?», domandò anche Eliza. Lillian
stava ancora
cercando il cd adatt0, quindi non c'era della musica a coprire il
loro discorso.
«Un
ragazzo fortunato», mormorò anche quest'ultima.
«Non
sto con nessuno», specificò, ricambiando lo
sguardo di Lena,
aggrottando le sopracciglia.
Alex
sospirò. «Prima ci dicevamo sempre tutto,
sorellina. Lo so che stai
pensando a qualcuno, non vuoi parlarne davanti a loro, va bene, ma
almeno tra noi…».
«Dice
la sorella che non mi ha detto che avrebbe interrotto prima le
vacanze».
«L'ho
scoperto oggi anch'io», scrollò le spalle.
«Chi?
Chi interrompe prima le vacanze?», sbottò Eliza.
Lillian si fermò
subito dallo sfogliare i cd.
«Io»,
sbuffò Alex, «Mi dispiace. Un professore mi ha
chiamata e non posso
dirgli di no. Anche Kara interrompe, no?», si
voltò a guardarla.
«Vado
a trovare Kal! Mi ha invitata a Metropolis e doveva venire anche
Alex, ma lei non può…».
Guardò di sbieco Lena, che aveva
poggiato la testa allo schienale con fare rilassato.
Eliza
e Lillian si scambiarono uno sguardo. Sorrisero comprensive, anche se
palesemente dispiaciute.
Da
Me a Kal
Non
vedo l'ora! Ma Alex non potrà venire, è
impegnata. Posso portare
con me Lena?
Inviò
e ripose il cellulare nella borsa, spingendosi un po' di più
verso
lo sportello. Non sapeva se fosse o meno la sua impressione, ma Lena
e il suo seno erano diventati incredibilmente vicini. Indossava una
canotta con spalline fini bianca, quasi trasparente poteva vedere il
reggiseno rosso che indossava. Deglutì. «In
effetti…», sussurrò,
attirando l'attenzione suo e di Alex. «C'è una
persona…». Ecco,
decise in un lampo: era inutile tentare di mentire anche su quello,
se era vero che comunque non riusciva a nasconderlo.
«Lo
sapevo», sorrise Alex, «Dai, racconta»;
indicò davanti a loro con
gli occhi, a Lillian che aveva finalmente scelto un cd da ascoltare e
a lei ed Eliza che discutevano, immaginando che non le avrebbero
interrotte, proprio ora. Lena aveva gli occhi chiusi e Kara era certa
che stesse fingendo di non ascoltare.
«Ma
non so come comportarmi con… questa persona»,
ammise. La vide
svegliarsi d'improvviso, come ricordata in quel momento di dover
cercare qualcosa in borsa.
«In
che senso? Stai parlando in codici? Vi frequentate oppure
no?».
«No.
È più complicato di così…
È che non so cosa vuole, non la
capisco. Stiamo provando a restare amiche con-con questa persona, ma
continua a mandarmi segnali contrari, diciamo»,
alzò gli occhi.
Lena
si mise gli occhiali da sole, richiudendo la borsetta. Per una curva
le finì ancora più addosso e le chiese scusa,
abbassandosi per
recuperare la borsa che era scivolata ai piedi di Kara. Il seno le si
spalmò contro le ginocchia e Kara prese un grosso respiro,
cercando
di focalizzarsi sullo sguardo smarrito di Alex.
«E
tu non sei una cima, quando si tratta di segnali», rise la
sorella,
«Ma se sei sicura ci stia provando, cosa ti trattiene? Mike
lo sa?».
«Mike
non c'entra nulla», scosse la testa. Lena si
rialzò, mantenendo la
borsa sulle ginocchia. La vide sorridere con la coda dell'occhio;
possibile che non prendesse la cosa seriamente? «Le sue
parole,
quando parla, dicono una cosa ma», si risistemò
gli occhiali sul
naso, «q-quello che fa è un'altra cosa. M-Mi mette
in difficoltà».
«Se
ti mette in difficoltà, forse dovresti dirglielo»,
rispose a un
certo punto Lena e Kara arrossì, bloccandosi.
«Concordo»,
aggiunse Alex, riguardando per un attimo il suo cellulare.
«Ma non
mi hai ancora detto cosa ti trattiene, se non Mike», le
rivolse di
nuovo lo sguardo.
Una
curva opposta sbandò Kara addosso a Lena e, cercando di
scansarsi il
più in fretta possibile, continuava a scivolarci sopra. Lena
la
aiutò e la mano destra di Kara era rimasta su quella
sinistra di
lei. Si guardarono. Poi Kara gliela lasciò, girandosi verso
il
finestrino. «N-Non posso stare con… questa
persona», rispose.
Alex
spalancò gli occhi, girando verso di lei e cercando di
mantenere
bassa la voce, guardando di sbieco Eliza e Lillian. «Ti
prego, dimmi
che non è un uomo sposato».
«No»,
gridò così forte che loro madri si bloccarono,
riprendendo a
parlare poco dopo. Lena sorrise divertita. «Non è
un uomo. Sposato,
intendo. Non è un uomo, né sposato. V-Voglio
dire: no, non è
sposato», si risistemò di nuovo gli occhiali,
riprendendo fiato.
Alex
rise, riservandole poi uno sguardo compassionevole. «Va bene,
ne
riparliamo dopo. A questo punto, di peggio può esserci solo
se è un
Luthor».
Kara
scoppiò in una risata isterica, mentre Lena deglutiva. Per
fortuna,
Alex era davvero presa dal suo cellulare per dare il giusto peso alle
loro reazioni. La sorella lo aveva detto per via della relazione
della loro madre con Lillian, per come si erano svolte le cose, in
fretta e in modo strano, non certo perché pensasse che
potesse stare
seriamente con un Luthor. O una Luthor. Nemmeno considerava l'ipotesi
che potesse trattarsi di una lei; d'altronde era pur vero che con
Alex aveva sempre e solo parlato di ragazzi. E le erano sempre
piaciuti i ragazzi, ma non solo. E di quel non
solo
non ne aveva mai parlato, perché in un modo o nell'altro non
era mai
stata con qualcuno che non fosse un ragazzo.
Parcheggiarono
nel parcheggio apposito e lasciarono la strada e poi l'area
ciclabile, per entrare in spiaggia. Era enorme, c'era già
tanta
gente e il mare era mosso. Lillian fece in tempo a toccare la sabbia
che cominciò a lamentarsi di sentirla fino agli occhi.
Sarebbe parsa
esagerata se non fosse per il vento che, effettivamente, lanciava
violentemente la sabbia contro di loro. Sistemarono un ombrellone e
lo agganciarono per non farlo volare via, così distesero gli
asciugamani e Alex si allontanò per rispondere al cellulare,
dicendo
che avrebbe fatto una passeggiata. Allora anche Kara e Lena si
distanziarono, lasciando le loro madri alla consueta crema sulla
schiena. Si avvicinarono alle rocce e Kara cominciò a
passarsi le
mani bagnate addosso per prendere confidenza con l'acqua fredda. Per
un attimo si voltò con l'intento di chiederle se voleva a
bagnarla,
ma la domanda morì sul nascere, diventando rossa.
«Allora»,
Lena attirò la sua attenzione, «Ti metto in
difficoltà?».
Kara
abbozzò una risata, scuotendo la testa. «Lascia
perdere, per
favore… Era solo un-un- non lo so, uno sfogo, forse! Te
l'avevo
detto che Alex sapeva», le riservò un'occhiata,
infine.
«Ma
non sa niente, Kara. Cosa sa? Che sei presa da qualcuno? Sono state
le tue parole. Non potrà mai sospettare di me, lo ha
dimostrato ciò
che ha detto in auto», sorrise, «Ma quello che hai
detto tu, è
vero? Ti metto in difficoltà?».
Kara
si sedette su di uno scoglio un po' levigato, lavorato dalla forza
del mare, scuotendo i piedi all'interno dell'acqua, soprappensiero.
«No. Forse. Un pochino… diciamo di
sì», strinse i denti. «Dici
che vuoi che restiamo amiche, ma poi ti metti a fare delle cose
che-», si fermò, aggrottando le sopracciglia.
«Di
che tipo?».
«In
auto, ad esempio», gonfiò le guance, «mi
sei gettata addosso».
«Erano
le curve».
«Ti
è caduta la borsa e ti sei abbassata per
prenderla».
«Non
volevo disturbarti e chiedere a te di prenderla, stavi
parlando».
Kara
si tappò, scambiandosi con lei uno sguardo.
«Hai-Hai… cioè, mi
metti sempre… Emh, voglio dire, il tuo
corpo…».
Lena
spalancò la bocca e le sue guance si arrossarono, intuendo
finalmente dove volesse andare a parare. «Adesso capisco. Ti
metto
in difficoltà con il mio corpo?! Emh, Kara…
è una cosa che tu fai
di continuo».
«Eh?».
Lena
le ricordò di quando le si sedeva vicino e, allungandosi
e sbilanciandosi per prendere qualcosa
dall'altra parte del tavolo, le si buttava addosso, di quando si
abbassava davanti a lei per
fare ginnastica e la maglietta si apriva sotto il suo collo,
mostrandole il seno, o di quando si appoggiava sui pensili della
cucina leccando il cucchiaino davanti a lei mentre mangiava qualcosa,
del giorno in cui era uscita dal bagno con indosso solo un piccolo
asciugamano, o meglio ancora di quando lei, già a letto, la
vedeva
passare davanti tutte le notti per agganciarsi le lenzuola,
inchinandosi e lasciando che il sedere fosse proprio in direzione
della sua faccia. Kara non disse più nulla poiché
non immaginava di
provocarla allo stesso modo di come Lena provocava lei e,
soprattutto, di essere guardata allo stesso modo.
«Ah…
T-Ti chiedo scusa».
«Credimi,
le tue scuse sono l'ultima cosa a cui pensavo», le si
avvicinò con
un strano sorriso stampato sulle labbra, abbassandosi verso di lei e
sedendo su una roccia vicina, parandosi il viso da qualche schizzo
d'acqua.
«Non-Non
ci pensavo», sorrise con un sospiro. Si portò una
mano sul naso per
sistemarsi gli occhiali, notando solo un istante dopo che gli
occhiali non erano sulla sua faccia e che li aveva lasciati in
spiaggia.
«Non
pensavi che fossi attratta, anche in questo senso, da te? Non pensavi
che… ti guardassi?», si voltò e
scrutò le sue labbra. Le passò
di tutto per la testa in quei pochi istanti in cui, con decisione, si
rialzò in piedi. «Stavamo per cascarci di nuovo,
va bene, dobbiamo
dire basta», abbozzò una risata, osservando una
Kara che stringeva
le labbra con imbarazzo, «Qualsiasi cosa ci spinga insieme,
per
quanto bello, deve finire. Lo so, è un discorso che abbiamo
già
fatto ma pare non abbia funzionato, quindi ho deciso che
tornerò a
casa a National City».
«Cosa?».
«Ti
prego, non cercare di farmi cambiare idea: non voglio andare, voglio
stare con te, ed è per questo che devo farlo. Le nostri
madri si
sposeranno, Kara, non possiamo permetterci di farlo,
accidenti»,
scosse la testa, «tra tutte le donne del mondo, proprio
te… e
continuo a chiedermi se ci fossimo incontrate in un altro
contesto…
o se forse così non ci saremmo incontrate mai. Ma non si
andrà da
nessuna parte pensando ai ma
e ai se,
quindi devo muovermi e fare qualcosa di concreto».
Kara
deglutì, guardandola negli occhi. Le stava dicendo che
doveva finire
e, proprio mentre lo faceva, sentiva il bisogno di baciarla. Doveva
sforzarsi per accettare le sue parole perché aveva ragione e
capì
che in fondo le importava davvero che restassero solo amiche. Erano
attratte l'una dall'altra, bene, lo avevano chiarito, stando
particolarmente attente a non parlare di ciò che sentivano
emotivamente, ed era arrivato il momento giusto per dividersi
seriamente.
«Dobbiamo
restare lontane per un po', magari ci rivedremo quando avremo degli
impegni familiari e per allora, forse…», non
concluse, ma Kara
sapeva cosa intendeva e annuì, abbassando un poco lo
sguardo.
«Va
bene. No»,
scosse la testa all'ultimo, increspando
il viso,
«No, no, non va bene, aspetta: volevo chiederti se ti andava
di
venire con me a Metropolis», la vide alzare un sopracciglio,
«Da
mio cugino Kal. Non so come sia il vostro rapporto, forse non vi
conoscete ancora bene e vorrei che tu lo conoscessi, sì,
come lo
conosco io. S-Se ti va, ovviamente… Volevo la tua
compagnia».
Lena
spostò il suo sguardo verso un punto distante della
spiaggia, sembrò
pensarci, per poi lasciarsi andare a una breve risata. «Lui
lo sa?».
«Gliel'ho
chiesto».
«E?».
«Non
mi ha ancora risposto ma sono certa che dirà di
sì».
Lei
scosse la testa, per poi annuire. «Al diavolo il mio
discorso: va
bene. Ma dobbiamo sforzarci per essere solo amiche», le
mostrò la
mano e Kara gliela strinse, approfittando per farsi tirare su.
«Noi
siamo amiche». La abbracciò e Lena
s'irrigidì, salendole i
brividi.
«Sei
ghiacciata».
Kara
si allontanò di scatto, quando si accorse di averla
abbracciata che
aveva indosso solo il costume.
Lontano
dalle due, Alex le vide ridere, ascoltando la voce dall'altra parte
del cellulare. Sospirò. «Come ho detto: sembra che
sia riuscita a
convincerla a non andare avanti, se non altro per il
momento», prese
una pausa, giocando a lasciare le sue orme sulla sabbia bagnata,
guardando che intorno a lei che nessuno stesse ascoltando la sua
conversazione. «Non credo abbia abbastanza paura,
è frustrata,
sembrava solo decisa ad arrivare alla verità. È
una cosa che ha in
comune con mia sorella, forse per questo vanno così
d'accordo. No,
non gliene ha parlato. Non ne sono certa, ma Kara non è
brava a
nascondere le cose e lo saprei… Non riparlerò con
lei di questo,
non voglio ricordarglielo adesso che è serena e ho
già detto tutto
riguardo a ciò che sa», deglutì,
girandosi e guardando che, più
avanti sulla riva, Eliza cercava di convincere Lillian a bagnarsi.
«Mi dispiace per il tono. Sono… sono solo stanca
di questa
situazione e di dover mentire alla mia famiglia. Sì, a
Metropolis mi
hanno detto di aspettare ancora, ma la
stanchezza…», si passò due
dita sulla fronte, «Va bene, signore. A presto».
Chiuse la chiamata
e sospirò di nuovo, decidendo di raggiungerle.
Alex
tornò a National City due giorni dopo. Eliza e Lillian erano
più
dispiaciute di quanto volessero ammettere, e lo erano anche per
l'imminente partenza di Kara e Lena a Metropolis, seppur
tremendamente commosse che la prima avesse invitato la seconda come
una sorella, al posto di Alex. Clark Kent accettò la sua
presenza a
patto che non si fosse parlato di Lex e Kara non avrebbe parlato di
Lex prima di sapere che non voleva si parlasse di lui, e curiosa
aveva subito chiesto spiegazioni a Lena, che aveva liquidato la
conversazione con un erano
amici ma hanno litigato.
Era più curiosa di prima ma decise di lasciar perdere per
non
rovinarsi la vacanza. Intanto aveva altro per la testa: scoprire dove
abitava suo cugino e se si trovava bene, conoscere la sua fidanzata e
fingere che non fosse dispiaciuta per l'insolita freddezza di Lena
nei suoi riguardi. Non capitava più che si sfiorassero per
errore,
che si sedessero tanto vicino e, quando lei andava a letto, Lena
stava sdraiata sull'altro lato e dormiva, o Kara supponeva che lo
facesse; non le parlava né guardava più. Non come
prima. Si sentiva
una stupida a volere sia che riuscissero a essere amiche e sia che
fossero intime, sapendo che rischiava di compromettere la prima cosa.
Prima
di andare a dormire, la sera prima della partenza, Lena
portò fuori
la spazzatura. Era il suo turno. Aprì il bidone ci
infilò il
sacchetto nero, così chiuse e sua madre le si
parò davanti come un
fantasma, ben stretta nella sua vestaglia scura.
«Domani
vai a Metropolis con Kara», disse con voce glaciale,
guardandola
negli occhi. Lena riusciva a notare in lei un flebile sorriso, eppure
il suo tono era tutt'altro che gioviale.
«Credevo
fossi felice che ci siamo avvicinate. Siamo diventate
amiche».
«Sì,
vorrei solo essere sicura che tu non ne stia combinando una delle
tue. Vi vedo molto
vicine».
«Una
delle mie?».
Lillian
le strinse un braccio e Lena si tirò indietro inutilmente,
mentre
lei la fissava. «Fingevo di non sapere cosa facevi con le tue
amichette, Lena, ma lei è diversa. Non ti azzardare. Neanche
una
cazzata, sono stata chiara?».
La
figlia riuscì a separarsi dalla morsa, non mancando di
staccare un
solo istante gli occhi freddi da lei. «Quello che sai
è solo ciò
che pensi di sapere! Hai tenuto sotto controllo tutta la mia vita,
non sono mai riuscita a tenermi un'amica. Lascia in pace me e il mio
rapporto con Kara, per favore».
Lillian
la guardò tornare dentro, chiudendo la porta piano, senza
dare
spettacolo. Guardò verso il cielo, intorno a lei come per
assicurarsi che nessuno le avesse sentite, e così
tornò dentro
prima che Eliza si accorgesse di essere sparita.
Kara
era rimasta da sola in soggiorno, sul divano, poiché tutte
erano già
andate a dormire, e posò qualche rivista che stava
sfogliando: si
parlava della mostra sulle barriere architettoniche finanziata dalla
Luthor Corp e in tre su quattro Eliza e Lillian erano in copertina;
negli articoli all'interno, loro venivano nominate, in una foto c'era
solo Lena e, in un altro giornale, comparivano insieme, in una foto
più piccola, vergognandosi un po'. «Sei
già a casa?», chiese a
sua sorella, per telefono. «Domani vado a Metropolis con
Lena. Sì,
sono un po' nervosa, è vero», sorrise.
«Lena? Sta bene, perché?
Aah,
ecco, sì, in realtà non credo ci siano problemi
tra Kal e Lena,
quanto tra Kal e Lex. Ma non conosco i dettagli, sembra che nessuno
ne voglia parlare».
«Va
bene, salutami tuo cugino, un giorno avrò modo di
conoscerlo».
«Sarà
fatto», rise entusiasta.
«Devo
andare, sorellina. Ho già detto ad Eliza che non
tornerò per la
fine di agosto, ma in caso si dimenticasse ricordarglielo.
C'è il
compleanno di Jamie e non posso perderlo».
«Oh,
sì», Kara si passò una mano sulla
fronte, «Mi dispiace non
esserci ma le ho fatto un regalo, te lo invio domattina… Mi
stavo
per dimenticare!».
«Un
regalo?».
«Dovevo».
Si scambiarono la buonanotte e Kara si sdraiò lì
sul divano, chiuse
gli occhi e pensò all'incredibile giornata e mezza che
l'avrebbe
aspettata a Metropolis.
Presero
la metro la mattina presto, Kara fece appena in tempo a inviare un
pacchetto a National City, e salutarono Eliza e Lillian che le
avevano accompagnate in auto. La metro le portò a Metropolis
e da lì
salirono sulla monorotaia, godendosi del panorama di altissimi e
ricchissimi palazzi incorniciati dal cielo limpido e toccati dai
raggi del sole. In verità, era Kara quella attaccata al
vetro che
non faceva che stupirsi e ripetere quando Metropolis fosse grande e
meravigliosa, Lena era fin troppo abituata alla metropoli e non si
stupiva più di niente, se non dell'entusiasmo dell'altra.
«Vedo
la Luthor Corp», emise, indicando uno dei palazzi
più grandi e più
in vista, possente e con riflessi neri alle finestre. Si
domandò se
Lex fosse là affacciato da qualche parte, rendendosi conto
di non
essere mai stata tanto vicina a lui fino ad ora. Ma non avrebbero
avuto il tempo di andare a trovarlo.
Scese
alla stazione si fermarono ai pressi di un enorme parco, sedute su
una panchina ad aspettare l'arrivo di Clark, intanto che facevano
fuori due ciambelle. Kara non aveva resistito ed erano state la prima
cosa su cui aveva posato gli occhi sopra appena scese. Lui
arrivò
con pronto un gran sorriso e Kara gli si gettò addosso per
abbracciarlo.
Era
tutto perfetto. Kal era di nuovo accanto a lei e non le sembrava
vero. A volte sentiva come se in stargli vicino ci fosse qualcosa di
sbagliato, di storto, perché erano cresciuti e si erano
dimenticati
per anni, e forse una parte di loro ammetteva che faticavano a
riconoscersi, ma era bello e metteva su di giri.
Entrarono
in un palazzo e l'ascensore li portò fin su al tredicesimo
piano,
dove Clark aprì la porta di casa. Sull'etichetta del
campanello si
leggeva Kent-Lane.
Kara prese un grosso respiro prima di attraversare la porta,
particolarmente in ansia. Al suo fianco, Lena le sorrise e
così
prese coraggio, annuendo.
«Casa
dolce casa», disse lui, appendendo le chiavi all'ingresso e
salutando con una carezza il grande cane che venne subito loro
incontro scodinzolando.
Kara
salutò il cucciolo e restò a bocca aperta,
girandosi da una parte
all'altra in quella sala grande e luminosa, sorretta da pilastri
bianchi. Davanti a loro c'erano delle enormi vetrate invece delle
pareti, che permetteva di vedere gli altri palazzi lontani; quel
soggiorno era spazioso, c'era un enorme tappeto steso sul pavimento
di legno e sopra due divani, poco lontano un mobile con tv al centro,
pieno di libri intorno. A sinistra c'era una scala di legno a
chiocciola che portava al soppalco e, più avanti, una porta
aperta,
dove sembrava esserci un breve corridoio che affacciava ad altre
porte. Alla loro destra, invece, c'era la cucina, che separava lo
spazio con un tavolo e dei mobili. Davanti alla zona cottura si
intravedeva un cucuzzolo di capelli castani; si sollevò e
una donna
sorrise verso la loro direzione.
«Tornato?».
«Ti
prego, dimmi che non hai bruciato niente»,
supplicò lui.
«Giuro.
E come vedi anche tu la casa non è a fuoco». Lo
baciò con un
abbraccio e sorrise alle due ragazze, sporgendosi da lui per tendere
loro la mano. «Piacere, sono Lois. E non so
cucinare», rise,
stringendosi l'elastico che teneva alti i suoi capelli disordinati. A
un certo punto si staccò dal suo fidanzato, optando per un
abbraccio
invece che della stretta di mano.
«Per
niente»,
sussurrò lui scuotendo la testa e guardando Kara,
indicandola mentre
abbracciava Lena.
«Noi
due già ci conosciamo», le lasciò mezzo
sorriso e Lena annuì.
«Sì,
ci siamo incrociate qualche volta».
«Per
via di Kal?», domandò Kara curiosa, accarezzando
di nuovo il bovaro
a pelo lungo.
«No,
per via del mio lavoro: sono anch'io reporter per il Daily
Planet».
Kara
restò a bocca aperta: erano ancora tante le cose che non
sapeva di
suo cugino e della sua nuova vita, come essere fidanzato con una
collega e avere un cane di nome Keplero, lesse dalla sua medaglietta
sul collare.
I
due fecero fare alle ragazze un breve tour della casa e le fecero
posare le loro cose nella camera degli ospiti, sul divano che per la
notte avrebbero aperto per loro. Avevano già parlato di
quello per
telefono, ma Lois continuò a dire che le dispiaceva di non
poter
avere dei letti, chiedendo alle due se erano sicure di voler dormire
insieme. Con Alex immaginarono non ci sarebbe stato problema, ma non
sapevano quanto era da sorelle il loro nuovo rapporto da sorelle.
Entrambe la tranquillizzarono e si scambiarono un'occhiata, spendo
che, per quella notte, avrebbero dovuto sforzarsi e stare lontane.
Era
già ora di pranzo e mentre Clark finiva di cucinare, Lois
apparecchiò nel tavolo in soggiorno aiutata da Kara e Lena,
che si
offrirono, e poi diede la pappa a Keplero, in una ciotola vicino alla
penisola in cucina. Kara s'imbambolò a fissarli. Ricordava
che
quando era ragazzino, Kal non amava la cucina ma di certo amava
mangiare, come lei. Ritrovò i suoi atteggiamenti e i suoi
sorrisi e
quando parlava con Lois emanava spensieratezza. Le era spuntato un
sorriso nel vederli battibeccarsi con complicità.
Appena
finito di leccare la sua ciotola, Keplero era ai loro piedi, seduti a
tavola. Si sedeva a fianco a uno di loro e lo fissava per un po',
così quando capiva che non gli avrebbe dato nulla, passava
al posto
successivo e faceva la stessa cosa, ritrovandosi a fare il giro varie
volte. Era ben educato, se non altro, e Clark si vantò di
aver
provato ad addestrarlo qualche volta, ottenendo discreti risultati.
Lui e Lois erano seduti davanti a loro e, di tanto in tanto, Kara li
scorgeva cercarsi con lo sguardo, sorridere, perdersi in un momento
solo loro. Ma notò anche con quanta scrupolosità
ogni tanto lui
fissasse Lena, che mangiava in silenzio a fianco a lei. Le sembrava
di vederlo un po' teso, quando posava i suoi occhi su di lei, in
verità. Parlarono del loro lavoro al Daily Planet e Kara di
come
anche lei avrebbe voluto essere reporter e del suo colloquio a
settembre con Cat Grant. Clark si freddò un po' al sentire
che Lena
le aveva rimediato un appuntamento, al contrario di Lois che ne era
sembrata entusiasta, rimarcando, tuttavia, quanto non le piacesse
quella donna.
«Ma
è brava nel suo lavoro, quindi è ottimo,
Kara», le disse alzando
la forchetta che aveva in mano, con mezzo boccone ancora in bocca.
«Come ho detto: sulla sua persona avrei da ridire, il suo
passatempo
preferito è criticarmi, ma sa il fatto suo in tutto il
resto. Vedi
di passarlo quel colloquio».
Lei
annuì con decisione. Scambiò uno sguardo con
Lena, ancora grata per
ciò che aveva fatto per lei, che le sorrise di rimando.
Clark
la guardò per un po' e aggrottò le sopracciglia,
finendo di
ingoiare un boccone. «Lena, che mi dici di Roulette? La stai
ancora
frequentando?».
Lei
deglutì e sforzò un sorriso. «No,
è da un sacco di tempo che non
la sento. Ha lasciato l'università».
Clark
scrollò le spalle come se se lo aspettasse e Kara si fece
curiosa.
«Chi è Roulette?».
«Veronica
Sinclair, una mia vecchia amica».
Kara
scorse con la coda dell'occhio suo cugino ridacchiare scuotendo la
testa e non capiva la sua reazione, quando sentì Lois
riprendere il
discorso:
«Non
stavate insieme?», domandò. Se non altro, al
contrario di Kal, lei
non sembrava nascondere qualcosa ma ne parlava con pacatezza.
«Così
mi aveva raccontato Clark».
Kara
aggrottò le sopracciglia, guardando Lena.
Quest'ultima
restò a bocca aperta, pensando bene a cosa rispondere.
«Una specie.
Eravamo per lo più amiche».
«Mh,
amiche come erano amici Clark e Lana Lang, suppongo»,
lanciò
un'occhiata al suo fidanzato che, a quel nome, aveva alzato le
sopracciglia.
«Per
quanto ancora tirerai fuori questa storia?», rise, passandosi
una
mano sul viso e scuotendo la testa. Dopo guardò subito Kara.
«Lana
Lang è la mia ex, per un po' siamo rimasti amici e Lois se
l'è
legata al dito».
«Oh,
andiamo, non fare l'innocentino solo perché c'è
tua cugina! Lo so
che facevi pensieri su di lei anche quando eravate solo
amici».
Lui
negò ed entrambi risero. Kara si sforzò di ridere
con loro, ancora
soprappensiero, e Lena sospirò. Decisa a chiudere quella
conversazione in fretta, quest'ultima fece loro i complimenti per la
casa e così parlarono di arredamento, poi di nuovo di
Keplero, e
infine della serata, che come erano rimasti d'accordo per cellulare
erano ancora dell'idea di fare una festicciola intima, dicendo che
sarebbe venuto anche un amico che lavorava con loro.
Nonostante
sorridesse ed entrasse ogni tanto in discussione, Kara era ancora
presa da quella Roulette, a come Lena si era irrigidita a parlare di
lei, alla domanda di Lois, a come Lena, quindi, quella volta sul
treno, le aveva mentito dicendole di essere stata con un ragazzo per
cinque anni e che da allora era single.
Lena
sapeva che Kara era ancora lì con la testa, glielo leggeva
in
faccia, ma fece finta di niente e, a pranzo finito, quando Kara disse
che andava in bagno a lavarsi, la seguì per sistemarsi il
trucco.
Kara non la degnò di sguardo quando passò dietro
di lei per
raggiungere lo specchio con la trousse che si era portata da casa.
Iniziò a ripulirsi gli occhi, decidendo di rifarsi un trucco
più
leggero, pensando a come Clark Kent, che non voleva si parlasse di
Lex, aveva tirato fuori Roulette. Era stato un colpo basso, ma non
era quello a interessarla quanto immaginare a quali conclusioni era
arrivata Kara.
«Roulette
ed io eravamo davvero amiche», le disse mentre gettava i
dischetti
struccanti in un cestino, mentre Kara si lavava la faccia.
«Va
bene», la sentì.
«Kara,
ti prego», le toccò un braccio e si
voltò verso di lei, «Non ti
ho mentito, sono stata davvero con Jack cinque anni, solo
che… che
non siamo stati sempre insieme in quei cinque anni. La nostra
relazione si basava su uno strano tira e molla. Lui si è
visto con
altre ragazze in quei periodi… e anche io. L'ho omesso
quella volta
perché non mi sembrava rilevante».
«Va
bene, non mi devi delle spiegazioni».
«Tornavamo
insieme, alla fine e… Sento di dovertelo dire
che», deglutì, «ho
sempre preferito le donne, ma Jack era come un punto fermo per me e
io lo ero per lui. Per questo ci ritrovavamo. Ma Roulette…
siamo
state insieme, è vero, ma non c'è stato
nient'altro, non eravamo
legate sentimentalmente, intendo».
«Va
bene», ripeté Kara. Continuava a dirlo ma era
visibilmente seccata
e sembrava che più Lena tentava di spiegarsi e peggio si
piegava il
suo viso. «Non c'è niente neanche tra noi, siamo
amiche, c-come tu
e questa Roulette», strinse le labbra, «A-A parte
la… hai capito.
Siamo attratte, sì», sospirò,
«ma è tutto, no? Non siamo legate
in qualcos'altro come sentimenti o cose simili»,
accennò un sorriso
e Lena si sentì contrarre dentro. «Guardavo mio
cugino e Lois prima
e ho capito che è quello che voglio! Una relazione come la
loro è
quello che voglio e-e questo che succede tra noi non la
porterà.
Quindi è tutto a posto».
Non
lasciò che le disse altro e uscì dal bagno e, a
giudicare dalla
vocina stridula dietro la porta, doveva aver incontrato il cane. Lena
sospirò rassegnata e continuò a struccarsi. Era
certa di aver
rovinato qualcosa con lei. Anche se non avevano mai parlato di
ciò
che sentivano emotivamente, non significava che ciò che
c'era
sarebbe scomparso. E quella stessa discussione ne era la prova. Ma a
quel punto, pensò, ricominciando a truccarsi, era forse
ciò che
serviva per freddare definitivamente le cose tra loro.
Erano
rimaste distanti per quasi l'intero pomeriggio. Lena si era
intrattenuta a parlare con Lois di politica, in soggiorno, mentre
Kara aveva seguito Kal verso le camere.
«Ti
sei sistemato davvero bene qui, Kal. Mi piace. E mi piace
Lois».
«Sì,
lei», arrossì, portandola nella stanza per gli
ospiti davanti a una
scrivania logora, aprendo uno dei cassetti, «è
eccezionale. Sono
fortunato». Le sorrise e dopo le mostrò una pila
di fogli che lei
prese, sfogliandoli. «Questi li ho fatti quando ho cominciato
a
ricordare».
«L'emblema
degli El», sussurrò con un sorriso commosso,
guardando con
attenzione quei disegni, dapprima con righe poco ispirate, solo bozze
di un ricordo che non voleva apparire chiaro, poi via via sempre
più
riconoscibile e deciso. In un altro foglio erano scritti il suo nome
e quelli della loro famiglia perduta. In altri fogli i disegni si
facevano più confusi, linee dure e perse, delle personcine
con
sorrisi appena abbozzati e pregni di malinconia.
«Non
ero bravo nel disegno prima e non lo sono neanche ora»,
scherzò, ma
lei era tesa, incantata nell'osservare quei segni neri e blu su
bianco che le ricordavano lo scoppio, il sangue sulla sua nuca quando
lo aveva soccorso, un nodo pesante dentro di lei che credeva di aver
sepolto con il tempo.
«Kal,
tu lo sai cosa… cosa è successo quel
giorno?».
Lui
tornò serio e si portò le mani sui fianchi,
prendendo un grosso
sospiro. «Sì. Sì, ammetto di aver
cercato di capirci quando ho
iniziato a ricordare, perché volevo dare un senso
ma», scosse la
testa, «un senso non c'era e non c'è ora. Non ci
sarà mai».
«L'assistente
sociale, quando avevo diciott'anni, è venuta a casa mia e mi
ha
parlato. Mi ha spiegato delle persone contro cui si erano messe i
nostri genitori e mi ha detto che sono state arrestate, che stanno
pagando in galera per ciò che hanno
fatto…».
«Sì.
Sì, è vero». Le poggiò una
mano su una spalla quando la vide fare
una certa espressione, poiché la conosceva bene: era la sua
in quel
periodo. «È finita, Kara. Te lo dico subito
perché voglio essere
chiaro su questa cosa: non c'è nient'altro che possiamo
fare. Che
puoi fare. Quel gruppo di persone non esiste più e chi ne
era
iscritto sta pagando con il carcere». Il campanello
suonò e lui
andò ad aprire, dicendole che doveva essere arrivato il loro
amico.
Kara
restò incantata, ancora fogli in mano. Raccontavano il
terrore che
Kal aveva passato, la vita a cui entrambi erano stati strappati.
Qualcosa di terribile che sarebbe rimasto dentro di loro per sempre,
come quella matassa che sentiva nello stomaco; potevano nasconderlo,
andare avanti, ma ci sarebbe sempre stato. E non sapeva se essere a
conoscenza dei responsabili in carcere l'avrebbe aiutata, adesso che
quei disegni le avevano aperto gli occhi. Li lasciò sulla
scrivania
e seguì i chiacchiericci, tornando indietro dal corridoio in
sala.
Con loro c'era un ragazzo alto, nero e di muscolatura decisamente
possente. Inchinato, stava salutando Keplero che gli scodinzolava
addosso felice. Lui alzò lo sguardo e la vide, sorridendo in
un
attimo.
«Jimmy,
vieni, ti voglio presentare Kara, mia cugina».
Si
strinsero la mano e lui intervenne subito: «James. James
Olsen. Ti
prego, solo lui e Lois mi chiamano in quel modo», le fece
l'occhiolino e lei sorrise, annuendo.
Accesero
le lampade da terra lasciando la sala in una luce soffusa, quando
chiusero le tende delle vetrate con il cielo farsi scuro. La tv
trasmetteva un film che doveva essere comico poiché si
sentivano le
finte risate in sottofondo, ma nessuno di loro la guardava, neppure
Keplero, che sonnecchiava appollaiato su un lato di uno dei divani.
Il tavolo era pieno intorno a loro di snack e bibite, mentre
giocavano a carte. Kara temeva che Lena non si sarebbe ambientata e
che l'avrebbe odiata per averla invitata, trascinata lì e
poi solo
per litigare, ma in realtà la vedeva riuscire a scambiare
parole sia
con Lois che con Kal, seppure lui riuscisse a stento a sostenere il
suo sguardo durante una conversazione. Odiava il fatto che avesse
litigato con lei, se poteva chiamarlo litigio. Ma non si pentiva di
ciò che aveva detto perché lo pensava davvero. E
se quella con
Roulette, per lei, era tranquillamente classificabile come amicizia,
non osava immaginare cosa ne pensava della loro. Apparentemente, per
Lena la linea che divideva l'amicizia da quel qualcosa di
più era
molto più sottile che per lei. Gettò una carta
sul tavolo e James,
al suo fianco, si lamentò. La guardò e sorrise,
prendendo un'altra
carta dal mazzo. Kara cominciava a pensare che ci stesse provando, ma
era troppo arrabbiata con Lena per darci peso, e troppo annebbiata
dai disegni di terrore di Kal. Era davanti a lei, sul tavolo, e ogni
volta che lo guardava, anche se le sorrideva, lei rivedeva il sangue
che lui aveva perso a causa dell'esplosione.
Lena
vinse un'altra mano e Lois stappò un'altra birra. Kal prese
un'altra
carta dal mazzo e James rise con lui a squarcia gola, Lois grugniva,
riprendendo James. Kara faticava a tenere alta la concentrazione e
non ricordava nemmeno più a cosa stavano giocando. Sapeva
solo che,
da un attimo all'altro, smisero di giocare a carte e Kal
portò a
tavola una birra diversa, proponendo anche un nuovo gioco.
«A
squadre sarebbe più divertente ma siamo dispari»,
disse, stappando
la nuova bottiglia. «Allora, a turno ognuno di noi
dovrà mimare
qualcosa, che sia il titolo di un film, di uno spettacolo, qualsiasi
cosa che sia popolare, e tutti cercheremo di indovinare. Chi non
indovina abbastanza avrà meno punti e avrà
perso».
«È
un gioco stupido, andiamo», rispose James, continuando a
bere.
«Tu
sei stupido».
«Tu
sei stupido».
«Siete
stupidi tutti e due», concluse Lois, adocchiando poi la
bottiglia di
birra portata da Clark. «E vacci piano con questa».
«Cos'è?»,
domandò prontamente Kara, che l'aveva tenuta sotto stretto
sguardo
da quando lui la portò sul tavolo.
«Una
cosa un po' più forte», scrollò le
spalle, «L'altra, Clark la
sente appena».
Se
era rimasto qualcosa in loro che li identificava come parenti di
sangue, quella poteva essere la lunga sopportazione all'alcol. Chiese
un sorso e da lì cominciò a gettarsi qualche
bicchiere quando capì
che faceva effetto, suo cugino stappava e lei beveva, prendendo
coraggio per riuscire a essere solare come lo era sempre, senza
pensare all'esplosione che aveva privato lei e Kal di una vita
normale o del fatto che non poteva stare con la persona di cui
probabilmente si era innamorata. Di cui si era sicuramente
innamorata. E riusciva ad ammetterlo solo ora che era quasi ubriaca.
Kal
le disse all'orecchio che di birra non ne avrebbe rivisto
più per il
resto della serata ma aveva ancora il fondo del bicchiere e stava per
metterselo in bocca quando Lena la fermò, dicendole che
aveva bevuto
abbastanza. Lei buttò giù lo stesso fino
all'ultima goccia e si
alzò, poiché toccava a lei mimare. Prese James
quando si accorse
che non riusciva da sola. Lois tentava di indovinare, Kal era
infastidito e Lena la guardava a braccia a conserte; aveva smesso di
giocare già qualche bicchiere di Kara prima.
«Suvvia,
questa è facile…», borbottò
con un sorriso, guardando dopo James
che, in imbarazzo, non sapeva cosa fare. Kara rise. «Dobbiamo
morire, Jimmy che non vuole essere chiamato Jimmy».
«Kara,
basta», sussurrò lui, «Credo che tu non
ti senta molto bene».
«Sto
benissimo, siete voi che non state bene: avete tutti una faccia
così
strana», abbozzò una risata.
Lena
si alzò, cercando di andarle incontro. «Kara, sono
molto stanca.
Posso chiederti se mi fai compagnia… a letto»,
aggiunse e Kara le
sorrise. Kal si alzò e la appoggiò, dicendo che
anche lui era
stanco e che la serata si era conclusa; così si
alzò anche Lois,
cominciando a sparecchiare la tavola.
«Non
verrò a letto con te, Lena», scosse la testa. La
ragazza si portò
una mano sulla fronte e dopo insisté, così Kara
si tirò indietro.
«Prima di dormire, devo finire la mia per- per- perfor- formaggio,
quella cosa lì, o perderò il gioco»,
rise, abbracciando James. Si
mise in punta di piedi e gli sfiorò le labbra con le
proprie. Lui si
tirò indietro quando il danno era già fatto. A
quel punto, Kara
portò
indietro
un piede e nel tentativo di fingere di cadere per poco non cadde
davvero e, al suo lamento, Keplero sollevò e
incurvò la testa.
«Muoio… Muoio…»,
gridò, «Siamo Giulietto e Romea, capite? O
era Giulietta e Romeo? Ehi»,
aggrottò le sopracciglia, guardando James, «Devi
morire anche tu».
Clark
la prese per le spalle e quando si avvicinò Lena gliela
consegnò
come un pacco. Forse non avevano in comune tante cose, e non cose
positive, ma entrambi volevano bene a Kara.
Del
resto, Kara non ricordò molto di come si era conclusa la
serata né
come era finita a letto, oppure di chi l'aveva cambiata, constatando
che era a pantaloncini e canotta. Sentiva un respiro e si
girò,
ricordando in quel momento che era a casa di Kal e Lena le dormiva
accanto. O non proprio: era sul bordo, girata dall'altro lato,
probabilmente arrabbiata con lei. E come darle torto, rifletteva ora,
provando a mettersi seduta sul materasso del divano-letto; lei
sarebbe arrabbiata con se stessa. Le girava la testa e, quando
provò
ad alzarsi, la gravità ebbe la meglio, si rimise a sedere
che per
poco non si coricava sull'altra. Mantenne l'equilibrio per miracolo e
riuscì perfino a non svegliarla. Sorpassò la
porta del bagno e
proseguì il corridoio fino alla sala. Accese solo una
lampada da
terra e lasciò che Keplero, scodinzolando, le andasse
incontro.
«Sei
sveglia. Come ti senti?».
Alzò
lo sguardo e lo vide, suo cugino con pantaloncini e una canotta come
lei. «Mi sono svegliata adesso… La testa mi sta
scoppiando».
«Avrei
dovuto farti smettere prima».
«Sono
un'adulta, Kal. Avrei dovuto smettere io».
Lui
sospirò. «Non sono più abituato a fare
il cugino maggiore… a
prendermi cura di te». Le diede un antidolorifico e poi le
chiese di
seguirlo, dopo aver fatto sdraiare il cane sul divano per non andare
loro incontro. Salirono le scale a chiocciola e l'aiutò
perché non
perdesse l'equilibrio, salendo sul soppalco.
«Lo
usiamo come studio», spiegò. Con gli occhi che si
stavano abituando
al buio, Kara vide una scrivania e una sedia, due poltrone ai lati,
tante pile di giornali e cuscini da terra. «E non ho acceso
la luce
perché volevo mostrarti questo».
Schiacciò un pulsante dietro una pila e, all'improvviso,
mille
stelle si accesero. Erano sul soffitto, sulle pareti, sulla ringhiera
del soppalco.
Kara
restò a bocca aperta e, con tanto che cercava di alzare il
collo,
per poco non cadeva, sorretta dal cugino. Si sdraiarono sui cuscini,
guardando le costellazioni.
«Una
notte ho alzato gli occhi al cielo e ho visto le stelle. Era stato
come vederle per la prima volta. Sapevo che erano importanti anche se
non sapevo perché. Ho iniziato a creare stelle, una dopo
l'altra,
ritagliandole dai giornali, dal cartone del latte», rise,
«Ero
pieno di stelle ovunque e mia madre pensò che fossi
impazzito. È
stato così che cominciai a ricordare… ricordavo
la tua passione
per le stelle».
Kara
strinse le labbra e strizzò gli occhi di colpo, cercando di
contenere le lacrime. Ma lui la sentiva singhiozzare e si
avvicinò.
«E
mi sono ritrovato a pensare a noi, soli al mondo come le tue pietre,
quelle che collezionavi convinta fossero cadute dallo spazio. Noi
come loro, estranei all'improvviso in questo mondo, senza genitori,
come scesi dallo spazio. Sei tu che mi hai fatto ricordare,
Kara».
Lei
si portò una mano contro il viso e cominciò a
piangere, senza
riuscire più a trattenersi. «Mi
dispiace… Mi dispiace tanto…».
Clark
non riuscì a contenersi e la prese tra le sue braccia,
cercando di
cullarla. «Va tutto bene. È passato. Vai avanti,
Kara. Andremo
avanti insieme», sussurrò, «Andremo
avanti insieme».
(Pubblicazione
in anticipo di ore ma ehi, non abituatevi :P)
Lo
so, lo so, la fine del capitolo è triste… Eeeh,
era un dovere,
prima o poi Kara e Kal dovevano affrontare questa cosa e dovevano
farlo adesso, in questo capitolo (lunghissimo, anche questo 14 pagine
e mezzo) che ritengo come il gemello dello scorso, o più
come una
seconda parte.
Ma
ricapitoliamo. Kara e Lena hanno deciso di restare amiche, o
diventarlo, vedete voi, anche se tra loro l'attrazione è
tanta e
forte. Ma Kara ha scoperto che Lena aveva una relazione con una donna
(anzi, se proprio vogliamo dirlo, Lillian ha parlato di
“amichette”
al plurale e lei stessa ha detto di essere stata con "altre ragazze",
ma non rigiriamo il coltello nella piaga) in passato di cui
non le aveva parlato, una donna con cui dichiara di essere stata
amica. Kara ammette di essere innamorata di lei e tra questo e il suo
passato che ritorna prepotente a galla con i disegni di Kal, decide,
per essere più solare, di ubriacarsi, baciare James, dire a
Lena che
non andrà a letto con lei dimostrando la tesi di
quest'ultima
secondo cui nessuno sospetterebbe qualcosa.
E
poi ci sono Kal e Lois. E Keplero, Lillian che odia la sabbia (e i
vicini di casa), Eliza che continua a interrompere le due ragazze
quando stanno per baciarsi, e Alex. Alex che è
“sospetta”, no?
Con chi parlava al telefono? E perché è tornata
prima a casa? E chi
è Jamie?
Piccole
curiosità:
-
Per immaginare e caratterizzare Lois mi sono basata sui ricordi che
ho di quella di Smallville ai primi tempi. E dico “primi
tempi”
perché non ho mai finito la serie (che sarebbe da
recuperare,
immagino) e non so quindi come si sia evoluto il suo personaggio,
senza pensare che ho visto la serie veramente tanti anni fa e quindi
non è che ricordo benissimo. Spero di averla resa bene, io
l'adoravo
e ora adoro il suo personaggio nella mia fan fiction
-
Keplero nella prima stesura si chiamava Roxy. Sì,
è una curiosità
inutile ma la condivido perché sì
-
La storia avrà da oggi rating arancio come avrete notato :)
Grazie
per aver votato nello scorso capitolo. Rosso no, ahah! Alcune di voi
me lo hanno “proposto”, ma le rosse mi piace
leggerle, scriverle
è tutto un altro paio di maniche XD
E
io lo so che mi odierete, lo so, ma ve lo aspettate, no? No? Beh, che
ve lo aspettiate o no, non voletemene, ahahah (rido ma ho paura che
mi mandiate in privato minacce serie D: ), il prossimo capitolo
è
uno stand alone! Focalizzato su chi lo immaginerete… Devo
dare
delle risposte, e devo darle ora! Quindi ci soffermiamo un po' per
scoprire cos'è successo a un personaggio mentre la trama
continua a
scorrere, non temete.
Il
prossimo capitolo si intitola Periodo fortunato e
sarà
pubblicato sabato 19 (poi se tutto va come previsto, la pubblicazione
torna regolare di lunedì) :)
Ah,
una cosa: purtroppo sto avendo problemi di connessione e Rao non
voglia se non riesco a pubblicare il capitolo sapete perché.
Spero
di risolvere prima la situazione, comunque. Giusto per avvisare, non
si sa mai!
|
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Capitolo 14 *** 13. Periodo fortunato ***
Cara
Jamie,
buon
compleanno!
Lo
so, ci siamo viste poco ultimamente, colpa mia, ma
vedrai che mi farò perdonare presto. Spero che il mio regalo
ti
piaccia; appena l'ho visto ho pensato a te. E sai quanto tengo a te.
Forse non sarò l'amore della tua vita, ma tu sei quello
della mia.
Ora e lo sarai sempre, te lo prometto, qualsiasi
cosa ci riservi il futuro.
Con
amore,
Alex.
Ps.
Sei l'amore della mia vita, ma quel posto lo condividerai sempre con
un'altra persona, meglio che lo metta in chiaro fin da subito.
Soprattutto dal momento che è lei a leggere queste righe e
non
voglio fare brutta figura, se ci siamo capite! Sì, amo la
tua mamma.
Dalle un bacio da parte mia.
Alex
sorrise con soddisfazione, rileggendo la lettera. Oh, era perfetta.
Non poteva che lasciare quel post scriptum. Richiuse bene la busta e
la allegò con del nastro adesivo sul pacchetto che aveva
lasciato
vicino, sul tavolo. Era già ben chiuso con la carta di un
noto
cartone animato sui supereroi che Jamie amava molto. Finito il lavoro
se lo guardò con soddisfazione, rigirando il pacchetto tra
le dita.
Alla sua destra, il cellulare vibrò e si fece seria, ma
quando si
accorse che era solo Maggie tirò un sospiro di sollievo.
Porto
Jamie al parco e quando torniamo a casa ti avverto. Vedi di non fare
tardi, perché la tua piccola ammiratrice non vede
già l'ora di
vederti, Danvers.
Lei
sorrise, rispondendo al messaggio.
Ancora
non poteva crederci. Faticava veramente a crederci. A volte le
sembrava di stare camminando su una fune posta a metri da terra e che
se sbagliava a mettere male un piede, e disgraziatamente cadeva
giù,
tutto quello che aveva andava perduto. E di cose da perdere ne aveva
parecchie. Stava correndo un periodo fortunato, lo sapeva. Un periodo
fortunato che era iniziato poco più di un anno prima, fresca
di
studi, dopo aver fatto domanda per il D.A.O., a Metropolis, dove
lavorava suo padre. Per scaramanzia, non aveva detto nulla a sua
madre e aveva tenuto allo scuro anche sua sorella Kara, a cui aveva
accennato di aver fatto domanda di lavoro e che le avrebbe spiegato
con più calma quando si sarebbero viste faccia a faccia.
Temeva che,
visto che era figlia di Jeremiah Danvers, l'avrebbero scartata a
priori per non creare nepotismo, ma sapeva di essere in gamba e di
meritare quel posto, quindi non aveva perso tempo. Non vedeva l'ora
di lasciare il suo impiego da commessa per iniziare il suo percorso
di agente. Stava ancora aspettando una risposta quando conobbe Maggie
Sawyer.
Erano
passati giorni dalla domanda ed era sempre più preda
dell'ansia,
così si era rifugiata in un poligono di tiro lì a
National City per
scaricare la tensione. Sentendo i discorsi del gruppo che lo
frequentava insieme a lei, anche altri di loro aspettavano di sapere
qualcosa dal D.A.O. e nessuno, sembrava, aveva ancora ricevuto una
risposta, positiva o negativa che fosse. Il dipartimento contro il
terrorismo aveva il suo fascino. Alex però non si
intrometteva nei
loro discorsi e preferiva restare da sola. Non perché alcuni
di loro
potevano passarle avanti, non era certo a quel punto, e nemmeno
perché preferiva non avere distrazioni, ma era il modo in
cui, tutti
uomini, la guardavano a spingerla a stare da sola. La squadravano da
capo a piedi ogni volta che passava loro vicino. Smettevano di
parlare, la guardavano, alcuni sogghignavano, e poi tornavano a
parlare tra loro quando si allontanava abbastanza. Mesi prima era
uscita da un'ennesima disastrosa relazione con l'ennesimo ragazzo e
non aveva proprio voglia di attirarne un altro. Senza contare che, a
questo proposito, cominciava a farsi molte domande. Aver rotto
un'altra volta una storia che era iniziata fin da subito come seria
l'aveva messa nelle condizioni di chiedersi cosa c'era in lei che non
andava. Sì, certo, gli uomini con cui era stata non erano
dei santi,
affatto, ma avevano tutti qualcosa in comune: a primo impatto le
piacevano, provava a starci, a immaginare un futuro con loro, ma non
la soddisfacevano dal punto di vista emotivo né da quello
sessuale,
così era costretta a spezzare i loro cuori e andare avanti.
Era suo
il problema. Non poteva immaginare di restare incastrata in una
relazione che non le dava sensazioni, se non quelle sgradevoli. Non
avrebbe fatto bene a lei, ma tantomeno a loro. Iniziava a pensare di
aver sempre sbagliato a interpretare i segnali del suo corpo, che
quando vedeva una bella ragazza non era per ammirazione, ma per
altro. Un altro che stava diventando il suo chiodo fisso. Ma non
sapeva da che parte cominciare, non aveva mai pensato a
un'eventualità del genere, così si era decisa a
tenersi lontana
dalle relazioni per un po', per darsi il tempo di capirsi.
Non
poteva certo immaginare, quel giorno, di trovarsi davanti lei. Lei
che era entrata al poligono con un altro gruppo di chiassosi giovani
vestiti in modo elegante, ragazzi e ragazze. Trovando i posti
occupati, si erano seccati e avevano cominciato a chiedere
spiegazioni. Alcuni del gruppo che frequentava il poligono con Alex
avevano deciso di andarsene per non creare problemi, problemi che
erano subentrati poco dopo, infatti: altri appartenenti ai due gruppi
avevano iniziato a parlare animatamente per il loro diritto a restare
e Alex si era tolta le cuffie, aveva appoggiato la pistola e si era
avvicinata per dividerli, prima che la cosa sfuggisse di mano. Doveva
aver pensato lo stesso lei, che aveva allontanato i suoi, cercando di
calmarli.
«Abbiamo
prenotato», le aveva detto subito, prendendola come loro
portavoce.
Dietro Alex, qualcuno aveva urlato che non gliene fregava niente, ma
quella ragazza continuava a guardare lei e ad aspettare una sua
risposta.
«Allora
andate a discuterne con il personale. Adesso ci siamo noi».
La sua
risposta non si era fatta attendere e le due ragazze si erano
guardate con sfida.
«Certo»,
aveva sorriso e, dietro di lei, due ragazzi erano tornati alla porta.
«Festeggiamo e per questo abbiamo prenotato, ci
sarà stato un
disguido, sicuramente».
I
due ragazzi erano tornati più arrabbiati di prima: si erano
dimenticati di segnare la prenotazione e qualcuno, nel loro gruppo,
aveva invitato gli altri ad andare a sparare in un altro poligono.
Lei aveva guardato Alex e così il suo cartellino sul petto.
«Ci
vediamo, Danvers».
«Ci
vediamo… Sawyer», aveva fatto lo stesso, alzando
il mento con fare
superiore, vedendola andar via con il suo gruppo. Non sapeva neppure
perché avesse replicato: sì, forse si sarebbero
riviste al
poligono, ma quante erano le possibilità che ciò
avvenisse?
Dopotutto
non l'aveva mai vista prima. Destino, la rivide lo stesso giorno:
erano le cinque e un quarto del pomeriggio, era in ritardo per lo
yoga, così la saletta era già piena quando era
entrata di corsa
chiedendo scusa per l'orario. Aveva appoggiato il tappetino sul
pavimento e quando aveva alzato gli occhi quella Sawyer era
là, a
pochi metri da lei, che la guardava con un sorrisetto divertito
stampato in faccia.
«E
così ci siamo ritrovate… Danvers», le
aveva sorriso, cercando i
suoi occhi mentre lei era impegnata a ritirare la sua roba, a lezione
conclusa.
«Sembra
quasi che tu abbia iniziato a stalkerarmi», aveva riso lei,
guardandola con la coda dell'occhio.
«In
realtà sono nuova a National City, non avevo idea che ti
avrei
rivista a yoga…».
«Nuova?».
Si era messa lo zaino in spalla ed erano uscite insieme dall'aula,
per ultime.
«Sì.
Mi sono appena trasferita da Gotham, mi hanno assegnato qui al
distretto».
«Oh,
sei una poliziotta, dunque».
Lei
l'aveva guardata con curiosità. «Devo iniziare,
questa mattina ho
festeggiato con gli altri ammessi. Pensavo lo fossi anche
tu…».
«No!
Ho fatto domanda per il D.A.O. e sono in attesa».
«Capisco…»,
aveva guardato l'orologio e le aveva regalato un sorriso raggiante,
«Devo andare, è tardi. Adesso sono certa che ci
rivedremo presto,
Danvers».
Nonostante
la conoscesse da pochissimo, si era stupita di quanto amasse stare in
sua compagnia come se, in fondo, l'avesse sempre conosciuta. Si
vedevano a yoga e si ritrovavano al poligono, così avevano
iniziato
a darsi appuntamento per sparare insieme e chiacchierare del
più e
del meno. Tra una discussione e l'altra, Alex aveva appreso dalla
ragazza che era gay e, dal momento che ormai pensava sempre
più
insistentemente di esserlo anche lei, aveva iniziato a sentirsi
strana e aveva cercato di non darlo a vedere con ogni mezzo quali
buffe espressioni, non guardarla negli occhi troppo a lungo, ridere
senza ragione, finendo per suscitare l'esatto opposto.
«Va
bene, dimmi: ti metto in soggezione, per caso?».
«N-No,
perché? In soggezione per cosa?», aveva riso,
abbassando lo
sguardo.
Si
frequentavano ormai da due settimane e, dopo lo yoga, avevano
iniziato a coltivare l'abitudine di sedersi a un bar vicino a
prendere qualcosa, prima che Maggie scappasse per impegni, come
diceva sempre.
«Dimmelo
tu», l'aveva indicata con il collo della bottiglia, prima di
buttare
giù un sorso. «Volevo pensare fosse una
coincidenza, ma è da
quando ti ho detto che sono gay che tu ti comporti in modo
strano»,
aveva abbozzato una risata, contagiando Alex.
«Non
è come pensi», aveva stretto i denti,
«Non è per te… è per
me», confidò. Era arrivato il momento di rivelarle
ciò che la
tormentava; da qualcuno doveva pur iniziare e, forse, Maggie poteva
capirla meglio di chiunque altro.
«Pensi
di essere gay?!», le aveva sorriso, bevendo un altro sorso.
«Ecco…
sì. Sono sempre stata con dei ragazzi, dunque non so nemmeno
come-»,
si era fermata e aveva sorriso imbarazzata quando si era accorta che
l'altra la fissava con attenzione, «Penserai che è
un'idea sciocca,
che avrei dovuto accorgermene prima o cose così».
«No,
per niente! Non è così sciocco come pensi: non
immaginerai mai
quante ragazze che si dicevano etero sono finite a stare con altre
ragazze. Con me, per esempio. La verità è che
molto più comune di
quanto si pensi crescere escludendo quest'eventualità
perché
abbiamo un mondo intorno che, fin dalla nascita, ci bombarda sul cosa
è normale e cosa no. E in questo caso, la
normalità è
eterosessuale».
«Magari
tu puoi aiutarmi: sei gay da più tempo di me».
«Bene,
questa rientra tra le cose da non dire», aveva sorriso,
incurvando
lo sguardo. «Ci penserò io a te».
E
Alex non poteva essere più felice. Al D.A.O. le avevano
risposto per
email che stavano considerando la sua domanda e, a parte i turni da
commessa in boutique, aveva molto tempo libero ed era pronta a tutto.
«Punto
primo: l'estetica. I gusti sono gusti e non si discutono, ma dobbiamo
trovarli. Mi hai detto di essere stata solo con ragazzi…
bene,
adesso è la tua chance per dirmi qual è il tuo
tipo di ragazza! Sii
sincera, Danvers, nessuno qui ti giudica».
Avevano
deciso di rivedersi la sera dopo e Maggie le aveva portato da
sfogliare una rivista. Alex l'aveva guardata titubante e l'aveva
aperta piano.
«Andiamo,
Danvers: non è pornografia».
Per
tutta risposta, Alex le aveva riservato un'occhiata sarcastica, ma in
realtà aveva pensato davvero che lo fosse. «Di
questa vorrei le
scarpe», aveva sospirato, «E di questa la sua
giacca… accidenti
quanto costa. No, non la voglio più».
«Che
stai facendo? Resta concentrata: stai guardando le modelle o
ciò che
pubblicizzano?».
«Mi
hai dato una rivista di moda», aveva alzato le spalle e
così Maggie
si era messa a ridere, girando lo sguardo.
Una
ragazza con un vassoio le interruppe e, mentre posava i loro drink
sul tavolino, espresse anche lei la sua opinione: «Bellissima
quella
giacca, ma costa troppo o l'avrei presa alla mia ragazza»,
aveva
sorriso di tutto punto, portando via il vassoio.
Maggie
aveva alzato le sopracciglia come a dargliela vinta.
«Passiamo al
secondo punto, allora: conoscere e parlare con una ragazza».
«Ne
conosco già una», le aveva sorriso e Maggie aveva
scosso brevemente
la testa.
«Una
con cui puoi flirtare. Capirai se la cosa fa al caso tuo oppure
no»,
le aveva indicato, con un movimento del capo, il locale intorno a
loro dove molte ragazze erano riversate al centro per ballare a ritmo
di musica. Alex si era sentita un po' in ansia a quel punto: era la
prima volta che metteva piede in un locale per donne gay e le era
sembrato come di bruciare le tappe. Maggie doveva averlo intuito dal
suo sguardo impaurito, perché si era affrettata ad
aggiungere: «Non
ci devi andare a letto, Danvers, rilassati. Solo scegline una e parla
un po' con lei, vedi dove ti portano le cose, se ti stimola, se
è
accattivante, oppure se hai voglia di tornare a casa». Le
aveva
stretto una mano e annuito. «E a quel punto ti riporto a
casa».
Avrebbe
voluto correre a casa anche in quel momento, ma aveva deciso di darsi
forza e coraggio perché parlare, e solo parlare, era
qualcosa che
poteva tranquillamente fare. La prima ragazza non aveva fatto altro
che lamentarsi della sua ex, la seconda ragazza aveva divagato
parlando del tempo e di come il mondo stesse cambiando, la terza
ragazza era convinta che ci fossero gli alieni a National City e che
il governo li stesse nascondendo, la quarta ragazza non faceva che
parlare di sé e specchiarsi al cellulare. Maggie le aveva
dato i
suoi incoraggiamenti con i pollici alzati e tanti sorrisi, ma Alex
aveva dubitato che la cosa stesse funzionando.
«Sono
tutte… matte!»,
aveva sbraitato poi, uscendo dal locale.
«Oh,
sì, mi sono dimenticata di avvertirti: anche le lesbiche
sono
persone. Pregi e difetti compresi», aveva riso, dando
un'occhiata al
suo telefono.
«Sì,
spiritosona… In compenso, però», si era
lasciata andare a un
sorrisetto compiaciuto, «credo di averne trovata attraente
qualcuna».
«Grande»,
l'aveva guardata con un sorriso, «Allora sta funzionando.
Devo
andare, ora, si è fatto davvero
tardi…», aveva iniziato a
camminare all'indietro, salutando con un gesto della mano libera,
«Ci
vediamo domani, Danvers».
Alex
l'aveva guardata andare via finché non era sparita dal suo
campo
visivo. Aveva trovato attraente qualche ragazza, era vero, ma chi
davvero l'attraeva era lei. Maggie Sawyer amava sparire, correre
perché era tardi, era distratta, non parlava della sua vita
personale a parte dei suoi studi per diventare poliziotta, a Gotham.
Era certa che avesse qualcuno ad aspettarla a casa ma non sapeva come
chiederglielo e così, come quasi ogni sera, si era sentita
al
telefono con sua sorella Kara, che parlava piano poiché la
sua
compagna di stanza era già addormentata.
«Non
so come comportarmi… Temo abbia una fidanzata».
«Mh…
Hai provato a chiederglielo?».
«Se
potessi chiederglielo lo avrei già fatto ma è
piuttosto riservata,
una
persona
riservata», si era morsa la lingua, passandosi una mano fra i
corti
capelli rossicci. «Non sono neanche certa di
piacerle… piacergli.
Di piacere a…».
«Lui,
ho capito. Ti sento un po' agitata: prendi un bel respiro profondo e
mettiti in testa una cosa, sorellona: qualsiasi uomo sarebbe uno
sciocco a non volerti».
Alex
aveva sorriso, camminando da una parte all'altra della sua camera da
letto prendendo grandi bocconi d'aria come suggerito. «A
questo
proposito, Kara… devo dirti una cosa, ma-».
«Cosa?».
«Te
la dirò quando ci vedremo di persona».
«Oh
cielo, non vorrai dirmi che…».
«Kara,
non sono incinta».
«Cosa?
Incinta? No, pensavo mi avresti detto che sei gay»,
aveva riso e Alex si era ghiacciata, fermando la sua camminata.
«Stavo
scherzando, Alex. Continui a parlare di lui al femminile! Mi dirai
quando ci vediamo, allora. Ci conto! Adesso vado che Mike mi aspetta:
usciamo
fuori se non ci sorprende il guardiano».
Quella
notte aveva richiuso la telefonata con un principio di nausea. Sapeva
che non era obbligata a dirlo a sua sorella né a nessun
altro, e
sapeva che in fondo, specialmente lei, l'avrebbe accettata, ma la
paura, quella immotivata e instabile, aveva cominciato a mangiarla
dentro da quando l'aveva sentita ridere a un suo possibile coming
out. Era così improbabile che fosse gay?
«È
un passo molto importante», le aveva detto Maggie la mattina
dopo,
al poligono. «Ricordati di essere veramente pronta, nessuno
ti corre
dietro. Ma se lo vuoi dire a tua sorella, io ti
appoggerò».
Alex
aveva annuito e poi preso la mira per sparare, mentre Maggie faceva
lo stesso nella cabina a lato. Se solo avesse saputo che aveva una
cotta per lei, forse non si sarebbe comportata in modo così
dolce e
comprensibile. Maggie continuava a stare appresso al cellulare, si
allontanava per rispondere, non parlava d'altro che non fosse
l'orientamento sessuale di Alex. Di pomeriggio era di turno alla
boutique, ma di sera si diedero appuntamento per il solito bar per
donne gay.
«Siamo
alla fase tre, Danvers», si era appoggiata al bancone,
sorseggiando
da una bottiglietta di birra. «Flirtare con una
lei».
«Ah…»,
al suo fianco, aveva sospirato e poi aveva iniziato a bere anche lei,
parecchio, particolarmente su di giri. «E cosa succede
dopo?»,
deglutì, «Mi sento come una bambina che sta
imparando ad andare in
bicicletta e tu volessi mollare il sellino».
Maggie
Sawyer si era fermata e l'aveva guardata inclinando lo sguardo, con
quell'aria sempre così disponibile e incredibilmente
adorabile. «Ma
tu sei
come una bambina che sta imparando ad andare in bicicletta. Pensaci:
normalmente le persone eterosessuali sviluppano tutto nei tempi
giusti, le prime cotte alle scuole elementari e medie, le prime
esperienze al liceo, ma tu, che lo stai capendo ora, sei una bambina
omosessuale di dodici anni alle prese con i primi passi nel mondo
della sessualità».
Alex
aveva preso respiro, palesemente agitata. «Va
bene», l'aveva
guardata, dopo un attimo di attesa, «Anche per te
è stato così,
Sawyer?». Moriva dalla voglia di sapere in più
qualcosa su di lei.
«Ognuno
ha le sue esperienze», le aveva risposto lapidaria. Sembrava
che
estorcerle informazioni fosse più difficile del previsto.
Ma
quella sera, le sue esperienze non andarono affatto male:
provò con
due ragazze prima di arrivare a lei, una mora con poca voglia di
parlare e tanta di ascoltare. Alex le aveva rivelato in breve la sua
vita e persino della cotta per una sua amica, perché ormai
erano
tali, che non sembrava affatto averla indisposta e, appena prima di
concludere una frase colma di disperazione per la sua situazione,
Alex si era ritrovata con metà della sua lingua in bocca. A
metri di
distanza, Maggie le aveva alzato un pollice e poi se n'era andata.
Rimase attaccata alla ragazza mora a lungo, tanto che, alla fine,
prese il cellulare mentre le era ancora attaccata per scoprire se lei
le aveva lasciato un messaggio. Le aveva augurato buona fortuna,
naturalmente. A quel punto, Alex aveva capito che, per Maggie, lei
era davvero solo un'amica e che il suo unico scopo era farle provare
qualcosa.
«Il
mio appartamento dista poco da qui… che ne pensi
se…?».
L'altra
l'aveva guardata e Alex era rimasta a fissarla senza fiato, pensando
che quella era l'occasione che, in fondo, aspettava.
«Sì… Va
bene».
«Dunque
ce l'hai fatta, Danvers», l'aveva raggiunta quando l'aveva
vista
camminare lentamente verso la palestra dove facevano yoga.
«Sono
orgogliosa di te. Com'è stato?».
«Beh…
non male», aveva arrossito, senza guardarla negli occhi.
«Molto
diverso dallo stare con un ragazzo».
«Accidenti,
molto diverso? Ammetto che è da un po' che non bacio un
ragazzo, ma
mi pare di ricordare che anche loro abbiano una lingua, i denti e il
resto», aveva riso e Alex aveva annuito, non perdendo il
particolare
su di lei, quello dove ammetteva di aver baciato dei ragazzi.
«Emh…
Veramente io intendevo… è imbarazzante: qualcosa
di più intimo».
«Ouh»,
il suo sguardo si era appiattito di colpo, restando senza fiato.
«Sì,
lei», aveva provato a gesticolare, «mi ha chiesto
se andavo a casa
sua e così…».
«No,
bene… Hai-Hai decisamente bruciato le tappe,
signorina».
Lo
sguardo all'improvviso tanto seccato di Maggie aveva preso Alex
sottogamba; se non avesse saputo che tentava di aiutarla a scoprire
la sua omosessualità, avrebbe pensato che ne fosse gelosa.
Certo,
forse era davvero una dodicenne gay che faceva i primi passi nel
mondo della sessualità, ma al contrario delle dodicenni
reali, aveva
anni di esperienza eterosessuale alle spalle, dove le reazioni da
gelosie erano uguali per tutti. Aveva sorriso. «Oh, dici che
sarò
una dodicenne incinta?», aveva provato a scherzare e l'altra
aveva
scosso la testa, fermandosi davanti alla porta della struttura.
Si
disposero da un lato quando videro di essere d'intralcio per
l'entrata e Alex l'aveva guardata a lungo, tanto da arrossire.
«Credevo
ci… Beh, che ci saremmo arrivate con il tempo, tutto qui:
invece
sei un'alunna prodigio, Danvers, i miei complimenti».
«Non
vuoi chiedermi com'è stato?».
«No.
Penso mi terrò la curiosità».
Entrarono,
ridendo.
In
realtà, Alex non era riuscita ad arrivare lontano con quella
ragazza. Era carina ma l'aveva appena conosciuta ed era la sua prima
volta con una lei, così si era bloccata e, dopo due bacetti
casti
come se fosse stata sua nonna, a cui non aveva saputo andare oltre,
se n'era andata. Lo avrebbe detto a Maggie se non le avesse visto
fare quelle facce da gelosia. Una parte di lei si era automaticamente
convinta che ci fosse una possibilità per loro.
Alex
guardò di nuovo il cellulare, sapendo che Maggie presto
avrebbe
riportato Jamie a casa, così sarebbe andata a trovarle.
Intanto tirò
fuori due paia di jeans dall'armadio, affacciandosi allo specchio
posto in una parete della sua camera da letto. Nero o blu scuro.
Sapeva che Jamie avrebbe festeggiato con gli amichetti al parco e non
c'erano parenti alla festicciola a casa, ma voleva essere perfetta.
Infine, optò per quello blu scuro quando il suo cellulare,
sul
comodino, vibrò. Tirò un altro sospiro di
sollievo scoprendo che
era solo una chiamata da parte di Kara. Mise il vivavoce mentre si
cambiava.
«Tutto
a posto? Sei tornata da Metropolis?».
«Sì»,
rispose con tono basso, deluso. «Sono
a casa, da Eliza. Torno a National City tra due giorni».
«Non
ti sento entusiasta… Cos'è successo? È
andata male, da tuo
cugino?». Si sfilò i pantaloni e, ancora in
mutande, si sporse per
aumentare il volume dell'audio. Se era successo qualcosa doveva
saperlo subito.
«Mi
sono ubriacata…».
«Cosa?»,
sbraitò, fermandosi, «Tu hai bevuto? Non hai retto
l'alcol? Ti sei
ubriacata davvero?».
Si infilò rapidamente i jeans, recuperando il cellulare e
avvicinandoselo al viso.
«Le
cose non sono andate proprio come immaginavo e penso che Lena sia
arrabbiata con me».
«Se
è incredula almeno la metà di come lo sono io,
immagino di sì».
«Non
è nemmeno tornata qui a casa ma da Metropolis ha preso la
metro per
National City e io… ho fatto un casino, Alex, non so cosa mi
sia
preso! Ma da Kal… Lui sta ancora cercando di rimettere
insieme i
pezzi e mi ha fatto vedere delle cose e io non lo so, mi sono
sentita… persa»,
Alex la sentì sospirare. «Ricordi
quando ti dissi che mi bastava sapere che chi è stato a
farci questo
la stesse pagando in carcere? Non sono più sicura di questo,
Alex,
non sono più sicura di niente».
Lei
si alzò dal letto, cominciando a camminare senza meta avanti
e
indietro, portando la mano libera al mento e poi alla fronte.
«E
cosa stai pensando di fare? Kara, pensaci bene-».
Lei
la interruppe: «Ci
sto pensando, ci sto pensando bene. Non so ancora cosa voglio,
m-ma…
appena lo avrò capito, lo sapranno anche loro».
Alex
deglutì. Sentiva la voce di Kara decisa e la conosceva fin
troppo
bene per non sapere che quando si metteva in testa una cosa era
difficile farle cambiare idea. «Lo sai che per qualsiasi cosa
tu
potrai sempre contare su di me, non è vero? Voglio sapere
tutto,
Kara. Sei sempre la mia sorellina».
«Lo
so. Ti voglio bene, sorellona».
«Anch'io
te ne voglio», sorrise.
«Devo
andare: sono l'unica figlia qui rimasta a casa e mi stanno
appiccicate tutto il giorno! Appena riesco ad andare in bagno».
Alex
rise, sentendo dall'altra parte la lontana voce di Eliza che
richiamava Kara e poi quest'ultima gridare di stare arrivando. Si
lasciarono così e si salutarono, con un sorriso malinconico
sulle
labbra della maggiore. Chiusa la chiamata, guardò il
telefono per un
po', col pollice alzato, decidendo il da farsi: temeva che aggiornare
lui
sulle questione di Kara potesse compromettere la sua serata con
Maggie e Jamie, eppure aveva giurato di proteggerla ed era
importante, così compose il numero e attese, portando il
cellulare
all'orecchio. «Signore. Ho ultime notizie da parte di Kara:
suo
cugino Clark deve averle messo in testa delle cose e temo voglia
rintracciare i membri incarcerati», attese, mordicchiandosi
un
labbro. «Sì, ho scritto tutto nel rapporto quando
sono tornata due
giorni fa, come mi aveva richiesto. Appena potrò, mi
vedrò con lui
anch'io, ma non posso piombare a casa sua di punto in bianco
e-», si
fermò, in ascolto, «ho paura di compromettere la
mia copertura,
signore. Starò vicino a Kara, certo, questo lo avrei fatto
anche
senza- sì, sì, lei non mi mentirebbe mai! Appena
saprò di più,
farò un altro aggiornamento, signore. Buona
serata». Riattaccò con
uno sbuffo, guardando fissa davanti a lei, con sguardo assente.
Lui
non doveva ordinarle
di dover restare vicino a sua sorella, lo avrebbe fatto comunque. Era
la persona più importante della sua vita insieme a Maggie e
Jamie e
di certo non l'avrebbe mai lasciata sola, così come Kara non
avrebbe
mai lasciato sola lei. In fondo, lo aveva già fatto.
Alex
aveva aspettato Kara da lei e, quando le aveva aperto, era entrata
quasi di corsa con un gelato già a metà in mano,
abbracciandola.
«Mi
hai messo ansia al telefono; ho dovuto dire a Mike che venivo a
soccorrerti», l'aveva guardata con un sorriso, prima di
gettare la
faccia nel cono. «Allora, cosa succede?», le aveva
chiesto con la
bocca piena.
Alex
l'aveva fatta accomodare nel salottino e, mentre lei finiva di
mangiare tranquillamente il suo gelato seduta nel piccolo divanetto a
due posti, si era messa a gironzolarle intorno con fare nervoso,
toccando le piante nei vasi, accarezzando le tende delle finestre,
giocherellando a sbattere le dita sul tavolino al centro della
stanzetta. Aveva la tachicardia così alta che quasi non
sentiva il
traffico fuori; la sua mente così piena da flussi di
pensieri che
quasi non sentiva sua sorella che le chiedeva di nuovo cos'avesse.
Kara la guardava preoccupata e Alex sapeva di dover fare presto prima
che fosse lei a riempirla di domande a cui non avrebbe saputo
rispondere. Sono
gay!
Ecco, era semplice. «Tu… tu lo sai, certo che lo
sai», aveva riso
per conto suo, «quanto io non abbia mai avuto grandi
soddisfazioni
con i ragazzi. Ho avuto tante storie brevi, tante avventure
romantiche con tipi che mi affascinavano e che ho dovuto lasciare
perché tutto si era spento e sai quanto ci ho dovuto
impazzire
dietro perché credevo di non essere capace di…
amare». Aveva
visto Kara annuire, finendo di masticare la punta del cono gelato.
«Quindi…
mi stai dicendo…?».
«Quindi
ti sto dicendo che-», si era fermata, riprendendo fiato.
«Ti sto
dicendo che- Quello che sto cercando di dirti, sorellina, è
che
forse c'è una ragione per cui ho sempre avuto problemi con i
ragazzi, e cioè che i ragazzi non sono fatti per
me».
Kara
aveva immediatamente sorriso. «Oh, Alex, adesso dici
così perché
per rompere con l'ultimo hai dovuto minacciarlo e perché
pensi che
quello che frequenti adesso abbia un'altra, ma a prescindere da come
andrà con lui, tu troverai il ragazzo della tua vita,
vedrai, e sarà
bellissimo».
«No,
non hai capito».
«Ho
capito benissimo, invece! Ma devi smetterla di
colpevolizzarti».
«No,
non è questo».
«Sì
che è questo», aveva puntualizzato Kara,
stringendo i pugni.
«Quando troverai anche tu il Mike della tua vita-».
«Oh,
no, questo no, ti prego».
«Ti
accorgerai che non c'è nulla di sbagliato in te!
Perché tu sei una
ragazz-».
«Gay»,
aveva allungato il collo, interrompendola con decisione, «Una
ragazza gay. È questo che cercavo di dirti».
«Ah».
«Eh».
«Beh,
questo cambia tutto. Quindi il ragazzo di cui mi
parlavi…».
«Si
chiama Maggie», l'aveva raggiunta veloce sul divano, con un
sorriso
raggiante disegnato sul viso. A quel punto, raccontarle di Maggie
Sawyer e della loro amicizia era diventato facile. Le era stata
vicina, l'aveva ascoltata e appoggiata anche quando aveva deciso di
fare coming out con sua madre. Se con Kara era entrata in tensione,
con Eliza aveva cominciato ad avere dei veri e propri attacchi
d'ansia, con conseguenti mal di stomaco, nausea, attacchi di panico e
mancanza d'aria. Kara le aveva tenuto la mano nel viaggio verso casa
e l'aveva incoraggiata tutto il tempo. Anche Maggie le aveva scritto
per messaggio che, se voleva parlare con qualcuno e aveva bisogno di
aiuto, era disponibile. In realtà, per quanta paura potesse
provare,
Alex non vedeva l'ora di farlo e togliersi quel pensiero dalla testa.
Seppure dopo il brutto colpo incassato con l'email del D.A.O. che
rifiutava la sua domanda l'aveva distratta e messo in testa che le
cose non potevano che peggiorare.
«Ricordi
cosa mi hai detto prima, sul treno? Che non vedevi l'ora-».
«Di
farlo», aveva parlato con la voce sulla sua, sussurrando
quando Kara
l'aveva presa in disparte in cucina, «Tolto il dente, via il
dolore».
«Ecco!
Non puoi mollare adesso per via di quell'occasione di lavoro sfumata,
non lasciarti condizionare. Andrà bene». Le aveva
preso le mani
nelle sue ancora una volta e l'aveva guardata con attenzione,
infondendole coraggio. Doveva farlo.
«Mi
stai dicendo che sei gay? Cosa…?», Eliza, che fino
a poco fa non
faceva che parlare di lavoro e di come il suo capo Lillian Luthor le
stesse sempre col fiato sul collo, aveva assunto un'espressione tra
il divertita e il basita, guardando la sua primogenita e poi Kara,
che era al fianco di Alex per farle sentire la sua vicinanza.
«Non
capisco, è uno scherzo o…? Dici sul
serio?».
Da
quel momento, il percorso era tutto in discesa. Eliza era sorpresa ma
alla fine aveva abbracciato sua figlia e le aveva fatto sapere che
per lei non cambiava nulla, che l'unica cosa che voleva era che fosse
felice. E una piccola parte di lei, da qualche parte, stava
cominciando davvero a esserlo, raccontando anche a lei di cosa
provasse per una ragazza in particolare. Sarebbe stata decisamente
più felice, tuttavia, se non fosse per il D.A.O. che aveva
deciso di
escluderla e si era sentita colpita nell'animo; era una cosa che
desiderava da tempo e sapeva di esserne portata. Quando suo padre
aveva chiesto un permesso ed era tornato alla sua vecchia casa per
vedere le figlie e assistere al nuovo coming out di Alex, le aveva
parlato a quattrocchi dispiaciuto che la sua domanda fosse stata
rifiutata, che lo aveva saputo, ma che, se voleva, c'era un posto
vacante e che poteva mettere una buona parola per lei con i piani
alti. Alex era dapprima eccitata perché le stavano offrendo
un'altra
occasione, ma quando seppe che si trattava solo di un posto come
segretaria, allora il suo entusiasmo scemò e si vide
costretta a
rifiutare. Eliza non sapeva che lei aveva già fatto domanda
prima e,
per la delusione, Alex aveva deciso di non dirglielo, così
quando
Jeremiah si confidò con lei sul posto da segretaria,
omettendo il
resto per volere della figlia, la donna l'accusò di voler
restare
accanto a quella ragazza e per questo di non volersi sistemare a
Metropolis. Sapeva che lo faceva per il suo bene e non le andava di
dirle la verità, così aveva lasciato correre,
immaginando che se lo
sarebbe dimenticato presto o tardi.
«Non
importa, sai? Vedi il lato positivo: ti hanno esclusa e ciò
significa che potrai aprire i tuoi orizzonti e cercare qualcosa di
meglio».
Kara
aveva provato a tirarle su il morale e, per un attimo, ci aveva
creduto davvero. Però…
Era
tarda sera ed era sola in boutique. Aveva ringraziato il cielo per
aver smesso di piovigginare, così aveva chiuso la serranda e
si era
diretta a casa, a piedi. Per messaggio, Maggie le aveva fatto sapere
che domani sera sarebbe stata libera se voleva andare dopo lo yoga al
bar per donne gay, così le avrebbe raccontato dei recenti
coming
out.
Ti
dirò tut
Si
era bloccata con il pollice in alto, ascoltando i passi dietro di
lei. Aveva continuato a camminare come se niente fosse e preso una
strada diversa dal solito per capire se era solo una sua sensazione.
Scese alla stazione per la metro e accelerò i passi. Chi la
stava
seguendo si era fermato, guardandosi intorno: la stazione era vuota e
una delle luci sul soffitto saltava in intermittenza; lei sembrava
sparita. Aveva fatto ancora dei passi incerti e infine era stato
colpito contro il petto. Alex era sbucata dietro un pilastro e lo
aveva guardato mentre si accasciava. Quell'uomo si era rialzato dal
pavimento freddo con uno slancio e aveva cercato di bloccarla,
così
lei si era liberata dopo un qualche movimento confuso e un po' di
fatica dalla sua morsa e aveva provato a colpirlo ancora. Dopo un
colpo al petto e uno alla gola ben assestato, lo sconosciuto si era
arreso mostrandole una mano e continuando a tossire.
«Chi
sei e perché mi segui?». Si era fermata e si era
girata, quando
aveva sentito altri passi accompagnati da applausi e un uomo alto e
nero si era palesato davanti a lei.
«Alexandra
Danvers», l'aveva chiamata per nome intero, guardandola con
attenzione, «Ti prego di scusarci ma era necessario per
capire se
saresti stata pronta».
«Era
una specie di esame? Chi siete voi due?», lo aveva guardato a
bocca
aperta.
«Ho
un lavoro per te che immagino sarai pronta ad accettare».
«Cosa
lo fa essere tanto sicuro?», lo aveva guardato con sdegno,
cercando
di mettere a fuoco la situazione.
«Perché
vorrai proteggere tua sorella. E con noi potrai farlo», le
aveva
detto con semplicità lui, mentre l'altro sconosciuto, ancora
massaggiandosi la gola, lo raggiungeva. Lui e Alex si erano scambiati
uno sguardo. «Allora benvenuta».
Alex
temeva che se Kara lo avrebbe saputo, si sarebbe arrabbiata con lei.
Il suo periodo fortunato stava in bilico sempre più precario
e
comunque sarebbe stato impossibile nasconderle la verità per
sempre.
Alex gettò il cellulare sul letto e si portò mani
su capelli,
sospirando. Mentiva da allora: sua sorella, sua madre, ora anche
Lillian e Lena Luthor, tutti quelli che la conoscevano, a partire
dalle sue colleghe alla boutique, alle amiche di yoga e a quelli del
poligono. Non esisteva nessuna università, aveva concluso
gli studi
da allora, ma era la sua copertura e doveva continuare a lavorare
alla boutique per mantenerla. Viveva due vite ma era tutto
ciò di
cui il suo periodo fortunato aveva bisogno per esistere.
Se
non altro, non aveva mai dovuto mentire a lei.
«Oh,
mi spiace davvero tantissimo, Danvers», Maggie l'aveva
abbracciata e
Alex ne aveva approfittato per riempirsi i polmoni dell'odore che
emanavano i suoi capelli, così leggeri e freschi.
«Sono certa che
non sappiano cosa si perdono ad averti rifiutato il posto».
Beh,
forse, ma in compenso mi hanno presa qui a National City:
avrebbe
voluto dirle, brutalmente inceppata dopo un suo sorriso accompagnato
da adorabili fossette ai lati.
Maggie
aveva dato l'ennesima occhiata al cellulare, riponendolo poi in una
tasca del borsone di yoga. «Potresti pensare di entrare in
polizia,
sai, mi farebbe piacere vederti gironzolare per il distretto. Cosa
c'è?».
Si
era finalmente resa conto di essere guardata con insistenza e Alex la
vide grattarsi sul mento e abbassare lo sguardo: chiaro segnale di
imbarazzo.
«Ehi»,
l'aveva richiamata alla realtà, «Comincerei a
pensare che ti sei
presa una cotta per me, Danvers».
E
così Alex l'aveva sentito, lo aveva sentito forte e chiaro e
si era
decisa ad assecondarlo: il suo desiderio di baciarla. Si era
abbassata, le aveva appoggiato una mano su una spalla e aveva premuto
le labbra contro le sue, dapprima chiuse e, dopo aver atteso qualche
istante il consenso da parte del corpo di lei, le aveva aperte e Alex
lo sapeva, lo sapeva che quello era un bacio ricambiato. Prima che
socchiuse gli occhi perché lei l'aveva spinta indietro,
naturalmente.
«No…
Noi non- Scusa, Alex, ma-». Non sapeva cosa dirle e lei
l'aveva
guardata senza parole. «Mi dispiace, non possiamo».
«Oh»,
si era tirata indietro di un passo e aveva deciso di guardare ovunque
tranne che gli occhi dell'altra. «No, certo. Ho…
capito male».
Era scappata in fretta, dicendole a voce talmente bassa da sembrare
un sussurro che avrebbe saltato lo yoga perché si sentiva
poco bene.
«No,
ti prego! Danvers! Non andartene… Dai,
Alex»,
l'aveva implorata, ma l'altra aveva fatto finta di non sentire.
«Allora
forse ha davvero un'altra», le aveva detto Kara quella sera,
precipitata a casa sua dopo che Alex le aveva inviato un audio con
fiato corto e voce strozzata. La sorella era tra le sue braccia e
ancora singhiozzava.
«Sono
stata una stupida a pensare che ricambiasse. Una stupida».
«Cosa
ti dicevo sul colpevolizzarti?», aveva biascicato, per poi
stamparle
un bacio sulla fronte. «Non sei stupida… solo
innamorata».
«In
questo momento non vedo differenza».
«D'accordo,
adesso finiamola. Rimettiti in sesto, sorellona, perché
è arrivato
il momento di far luce sulla questione». Kara l'aveva
lasciata, si
era alzata dal divano e l'aveva guardata mentre si metteva le mani
sui fianchi. «Mi è venuta un'idea».
«No,
Kara: non stalkerizzerò Maggie per sapere se ha
un'altra».
«Perfetto»,
aveva annuito, «… lo farò
io».
«No.
Kara. No».
Decisamente,
quando Kara Danvers si metteva in testa una cosa, non c'era verso di
fermarla. Chiederle di farle compagnia perché non sapeva
dove
andare, però, era toccare il fondo.
Si
erano appostate dietro un incrocio aspettando di vederla uscire da
yoga e, intercettata, Kara l'aveva seguita strada dopo strada, con
Alex che seguiva lei a metri di distanza, con una mano sulla fronte
per l'imbarazzo dell'operazione. Maggie si era fermata ai pressi di
una casa e aveva suonato il campanello, mettendosi in attesa. Ad
aprire la porta fu una giovane donna e Alex, seppure non volesse
pedinarla, aveva spalancato gli occhi quando l'aveva vista,
palesemente a disagio.
«Bene,
abbiamo le prove di cui avevano bisogno. Andiamo via, Kara, per
favore». Si era tirata indietro e stava per andarsene, quando
Kara
l'aveva richiamata verso di lei con un gesto della mano, dicendole di
guardare, che non era come sembrava. Difatti, Maggie era rimasta
fuori e aveva spalancato le braccia per accogliere a sé una
bambina.
Era molto piccola e l'altra ragazza l'aveva aiutata a scendere i due
scalini davanti alla porta per correre da Maggie.
«Ma
cosa…?», aveva sussurrato Alex.
«C'è
un'altra donna, sorellona, avevi proprio ragione. È solo
molto più
piccola di quanto avevi immaginato».
Si
erano scambiate uno sguardo e stavano per andarsene, se non fosse per
Maggie che, girata, in un attimo aveva intravisto il ciuffo rosso dei
capelli di Alex e l'aveva chiamata, anche se non era sicura fosse
lei.
«Vai».
«No»,
aveva mimato con le labbra nascosta dietro il muro di un'altra
abitazione, facendole cenno di andar via.
«Vai,
adesso! È la tua occasione per chiarirti».
«Sei
matta? Quella mi uccide».
A
un certo punto Kara aveva smesso di parlare e aveva estratto uno dei
suoi sorrisi migliori, così Alex si era girata con calma,
conscia
che avrebbe trovato Maggie alle sue spalle.
«Ma
ciao! Ma che bella sorpresa! Anche tu qui?», aveva riso,
«Stavo
facendo due passi con mia sorella Kara, te l'avevo presentata Kara?
Ecco, lei è- eccola qui», si era grattata e aveva
digrignato i
denti, mentre Maggie, sola, aveva guardato lei e dopo la sorella,
allungando una mano per stringergliela.
«Scusa,
Kara, piacere di conoscerti. Puoi lasciarci sole un
momento?».
Nonostante
l'occhiataccia di Alex che la invitava a non farlo, Kara si era
allontanata come richiesto, facendole gli auguri con il movimento
della labbra.
«E
così hai scoperto Jamie». Si erano affacciate
dietro il muro,
vedendo la piccola in braccio a quella che era solo la sua
babysitter. «Te ne avrei parlato, un giorno».
«Quando?»,
aveva chiesto a fior di labbra, riservandole più di uno
sguardo,
curiosa.
«Ha
due anni. Sono stata con un ragazzo una volta, una volta sola, ed
è
bastato. È una lunga storia, Danvers».
«Sarò
qui, quando vorrai raccontarla», le aveva sorriso.
«Solo che non ho
potuto fare a meno di pensare che tu mi abbia rifiutato per…
per
lei», si era azzardata a dire, scorgendo Kara con la coda
dell'occhio, che era andata a conoscere la bambina e aveva iniziato a
gridare con voci buffe. «Poi magari non è per lei
e mi sto facendo
solo tanti film mentali e potrei capirlo se non sei attratta da
me»,
aveva aggiunto d'un fiato, cercando di ignorare Kara e i suoi versi.
«Ti
ho rifiutata per lei. È complicato: tu sei alla prima
esperienza e
io ho una figlia e…», guardandola, alla fine aveva
sospirato,
scuotendo le braccia.
«Non
sono davvero una dodicenne, lo sai questo, vero?».
«Sì,
certo», aveva scosse la testa, sorridendole. «Mi
piaci, allora.
Come puoi pensare di non piacermi? Ti ho messo gli occhi sopra dalla
prima volta in cui ti ho vista».
«Questo…
Questo spiega tante cose», aveva sorriso e Maggie le aveva
accarezzato una guancia.
Stavano
per avvicinarsi e baciarsi, ma una voce aveva interrotto i loro
propositi: «Guarda, piccolina: adesso la tua mamma e quella
signora
si baciano». Avevano smesso subito.
Maggie
rise nel leggere il bigliettino allegato al regalo di Jamie e diede
subito un bacio ad Alex, aprendo poi con la piccola il suo regalo:
una bambola di peluche vestita da supereroe. La bambina
gridò di
gioia e Alex l'abbracciò e baciò.
«Queshta
shei tu?», le domandò e le due scoppiarono a
ridere.
«Ha
i capelli corti e rossi: è proprio Alex»,
ribatté Maggie,
alzandosi dal tappeto del soggiorno su cui si erano sedute per
scartare i regali.
La
bambina si avvicinò per un altro abbraccio e Alex la strinse
forte a
sé, per poi perdersi nel suo sguardo. Aveva il taglio degli
occhi di
Maggie e lo stesso colore, la pelle un po' più chiara, il
sorriso
con le fossette come lei, i capelli castani raccolti in due alte
code. Si assomigliavano molto e se ne stupiva ogni volta che si
perdeva nel suo sguardo.
«Guarda,
Jamie», Maggie riprese la sua attenzione, scuotendo un
pacchetto.
«Non dimenticare di aprire anche il regalo da parte di zia
Kara».
La
bambina saltò di gioia per correre a prenderlo e Alex si
rabbuiò,
correggendola: «Kara, non zia Kara. Non vogliamo affrettare
le cos-
oh, cosa ti ha regalato zia Kara?». Cambiò subito
espressione
quando vide la bimba stracciare la carta del pacchetto con forza.
«Sei proprio forte».
«Adesso
ha tre anni, certo che è forte». Le
ricordò Maggie. Le fece notare
il suo cellulare che vibrava su un mobile e Alex si alzò,
andando a
recuperarlo e poi accettando la chiamata. Maggie la rivide
avvicinarsi con sguardo serio.
«Mi
spiace, devo andare, mi hanno chiamata. Torno qui?».
«Ci
puoi scommettere», l'attirò a sé per
baciarla e presto udirono le
lamentele di Jamie che si era attaccata ai jeans di Alex.
«Io!
Io! Deve bashare me».
Continuarono
finché Maggie non le diede il permesso di accontentarla e
Alex la
prese in braccio, salutandola con affetto. Uscì
dall'appartamento
con la promessa che sarebbe tornata appena si fu liberata, prendendo
la macchina che gestivano in comune. Parcheggiò nel
parcheggio
apposito di un palazzo, entrando in banca. Salutò qualcuno
all'ingresso e prese l'ascensore in un corridoio riservato al
personale. Mentre saliva aprì la borsa e indossò
il cinturino nel
busto, cominciò ad assemblare la sua pistola e la
infilò
nell'apposito fodero. Quando le porte si aprirono era pronta.
Lasciò
l'ingresso e salutò qualche agente che l'aveva notata,
mentre erano
seduti nelle loro postazioni con auricolari e microfono indosso.
Entrò in una grande sala e si avvicinò a un uomo
che, in piedi,
dava direttive ad altri agenti seduti nelle postazioni.
«Eccoti,
agente Danvers», disse lui, facendole cenno di avvicinarsi.
Si
spostarono insieme. «Avevi detto di essere riuscita a
convincere
Lena Luthor a lasciar perdere». La guardò mettendo
le braccia a
conserte e Alex sospirò.
«L'ho
fatto, signore».
«A
quanto pare non è servito. Fonti ci hanno confermato che sta
provando a mettersi in contatto con la ex segretaria di Lillian
Luthor. Si era occupata delle scartoffie che riguardavano la morte di
Lionel. Non sembra intenzionata ad arrendersi».
Alex
sospirò, scuotendo la testa, ricordandosi di quando aveva
chiesto il
rapporto del coroner e pensava che sarebbe bastato quello ad
allontanarla dalle indagini. «È molto
testarda… Cosa sappiamo
della ex segretaria di Lillian?».
«Scomparsa»,
aveva gonfiato il petto e si era passato due dita sugli occhi con
fare stanco. «Sembra che lo abbia fatto lei di proposito, se
non
altro. È partita in vacanza con la famiglia e l'ultima volta
sono
stati intercettati alle isole Hawaii, poi si sono perse le loro
tracce. Ma non è per questo che ti ho fatta
venire». Si girarono
entrambi verso uno grande schermo su parete che mostrava alcuni dati,
una carta delle Hawaii e la foto di un ragazzo. «Quello che
vedi è
Sebastian Goff e dice di essere stato incaricato dalla donna di
spedire un pacco a National City. Alla villa dei Luthor», la
guardò
e Alex annuì.
«Ci
penso io».
«Deve
arrivare nelle mani del D.A.O. prima che Lena Luthor possa anche solo
sapere della sua esistenza. Se la morte di suo padre è
davvero
collegata agli omicidi dei genitori di tua sorella come crediamo,
è
bene che smetta subito di indagare e forse se non riceverà
aiuti
esterni…», la guardò, «Per il
suo bene, Alex», aggiunse con più
confidenza e si scambiarono uno sguardo.
«Sarà
fatto, signor Jonzz», annuì,
«John».
Aaah,
spero non siate impazziti nel leggere di questi salti temporali XD
Scoperto
chi è Jamie! Fra le altre cose…
Ve
l'aspettavate? E vi aspettavate del piccolo segreto
di Alex?
A
quanto sembra il D.A.O., per cui Alex sta lavorando, ha in mano il
caso dei genitori di Kara e, pare, anche quello del padre di Lena. E
così Alex nasconde la verità a tutti meno che a
Maggie… Lavora
ancora in boutique per tenere la sua copertura e, come lei, fa lo
stesso il signor Jonnz, che si occupa di allenare le ragazze della
Sunrise a lacrosse ma il suo primo lavoro è un altro.
La
ex segretaria di Lillian Luthor è scomparsa di sua
volontà, non
vuole essere messa in mezzo, ma ha spedito qualcosa a Lena. Le
arriverà? O Alex farà in tempo a farlo sparire?
Jamie
Sawyer è in realtà un personaggio realmente
esistente nei fumetti
DC Comics, ed è davvero la figlia di Maggie. Naturalmente
nella mia
fan fiction le cose non si sono sviluppate come nella storia
originale, ho preso solo il personaggio e qualche idea.
Quando
ho iniziato a scrivere, Jamie non era nei miei piani. È
stata
introdotta successivamente, l'idea mi aveva intrigato, soprattutto
dal momento che nella serie Alex e Maggie hanno rotto per la
questione figli: Alex ne voleva, Maggie no. È stata una mia
piccola
ripicca verso questa rottura. Oltre che… sì,
introdurre Jamie
m'ispirava un sacco XD Spero di renderla un buon personaggio, anche
se ha solo tre anni!
E
ora torniamo a Kara, che al momento è sola soletta con Eliza
e
Lillian perché Lena, lasciando Metropolis, è
tornata direttamente a
National City. La ragazza sarà davvero arrabbiata con lei
come
sostiene Kara? Sarà arrivato il momento di confrontarsi?
Il
capitolo 14 sarà pubblicato, salvo imprevisti, domenica 27 e
si
intitola Il
destino che ci ha fatte incontrare!
|
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Capitolo 15 *** 14. Il destino che ci ha fatte incontrare ***
Al
mondo esisteva qualcuno che aveva privato a lei e a suo cugino di una
vita normale. Stavano pagando in carcere, così le avevano
detto.
Fino a quel momento le era bastato. Aveva ricominciato a vivere, si
era ricostruita pezzo dopo pezzo e aveva fatto oro delle lezioni
impartite dai suoi genitori, ma vedere i disegni di Kal che tentava
di ricordarsi chi era e cos'era successo, l'aveva violentemente
riportata a quel giorno. Ora adulta non pensava che accontentarsi di
sapere che era tutto finito sarebbe bastato. Per Kal era diverso, lui
stava ricominciando solo adesso a vivere, ma lei aveva ottenuto una
nuova consapevolezza e sarebbe andata avanti. Voleva perché,
voleva
risposte e guardare in faccia chi aveva causato tanto dolore. Sapeva
dove cominciare: il posto alla CatCo. Doveva passare il colloquio a
ogni costo e con qualunque compito; non ne valeva solo del suo futuro
ma anche del suo passato.
Vedere
quei disegni le aveva ricordato il terrore vissuto, ma le aveva anche
insegnato qualcosa: la vita era una e, da un momento all'altro,
poteva perdere tutto. Non aveva senso fasciarsi la testa prima di
averla rotta e sapeva di essersi comportata male con Lena e di non
averla voluta ascoltare, ma aveva intenzione di farsi perdonare e,
ormai aveva deciso, dichiararsi. Era innamorata di lei e a quel che
sarebbe successo dopo averglielo detto non ci voleva pensare, non
ancora. Poteva farcela, doveva solo concentrarsi, raccogliere
coraggio, costruire un buon piano e armarsi di un ottimo discorso. Un
discorso che la convincesse a dare a loro due un'occasione.
«E
così… Insomma, non ti sto solo chiedendo di
perdonarmi, ti sto
chiedendo di… cioè, no, no, non te lo sto proprio
chiedendo, è
più che altro che-», si bloccò, alzando
il mento e tirando sul
naso gli occhiali, «che… i-io ti amo. È
solo questo, alla fine:
mi sono innamorata di te. Perdutamente. E lo so che le nostre madri
si sono fatte la promessa di matrimonio e tutto il resto, m-ma, Lena,
la vita è una e noi dobbiamo viverla o di questo, un giorno,
ce ne
pentiremo amaramente», prese una pausa, guardandola negli
occhi. «Lo
so quello che ti ho detto da Kal e mi dispiace, vorrei dire che non
lo pensavo davvero m-ma in quel momento lo pensavo però- no,
dimentica ciò che ho appena detto», rise,
allungando una mano per
fermare ogni tentativo da parte dell'altra di ribattere,
«sono stata
una completa idiota! Voglio quello che hanno Kal e Lois, sì,
m-ma…
posso averlo anche con te se, insomma, noi, noi come coppia ci
provassimo… No? Che ne pensi?».
Megan
annuì lentamente, facendo una smorfia con la bocca.
«Secondo me ti
sei impastata troppo».
«No»,
strinse gli occhi, scuotendo la testa.
«Sì,
ragazza, devi essere più decisa; tendi a divagare! E
anticiperei la
cosa dell'idiota,
per spostare alla fine il ti
amo.
Così non potrà controbattere», le
sorrise, prendendo le mani nelle
sue in un incoraggiamento. «Anzi, sai che fai? Chiedile
velocemente
scusa e butta il ti
amo
subito, arriva al dunque! Avrai tempo dopo di perderti in tutte
queste cose sconclusionate».
Kara
annuì con decisione e afferrò con grinta il
cellulare accanto a
lei, sul suo letto, mentre l'amica si mise in piedi a braccia a
conserte, in attesa. Compose il numero e deglutì,
poggiandolo
all'orecchio. Squillava. Squillava a lungo. «Forse non mi
vuole
parlare…», si passò una mano sui
capelli con fare nervoso,
«Oddio, cos'ho fatto…?». Temeva il
peggio: da quando avevano
lasciato Metropolis erano passati giorni e non si erano ancora
sentite. «Non risponde», guardò Megan
con gli occhi sgranati.
«Kara?».
«Oh,
cielo! Ci sei», si lasciò scappare un sospiro e
poi un sorriso.
«Stai
bene? Ti serve qualcosa?».
«Ah…
sì. Sì, sì, in verità mi
serve…», guardò l'altra, che cercava
di darle indicazioni gesticolando, «Vorrei parlarti. Devo
parlarti.
Ho bisogno di vederti».
«Ci
vediamo domani, Kara. Ricordi l'incontro alla Luthor Corp?».
«Oh,
sì… ma no. No che non mi ricordo, ma che non- io
vorrei vederti da
sola per parlarti, ecco». Sentì Lena sospirare e
deglutì ancora,
capendo quanto seria si stesse facendo la cosa.
«Non
possiamo vederci oggi, Kara, sono impegnata. Ci vediamo domani e ci
pensiamo, va bene?».
L'entusiasmo
di Kara scemò, corrucciando le labbra. «Va bene,
sì. A-A domani».
Chiuse la chiamata e guardò Megan, che aveva come lei
un'aria
delusa.
Lena
poggiò il cellulare davanti a lei, sulla scrivania in camera
sua.
Riprese una penna nera in mano e guardò ai fogli davanti,
pieni di
sottolineature e parole cerchiate, ricominciando a leggere a voce
alta, tirandosi dietro un orecchio una ciocca di lunghi capelli
lisci. Lesse con enfasi come se dovesse recitare delle battute, poi
udì un rumore e si alzò dalla sedia a ruote,
aprendo la porta.
Eliza era lì che usciva dalla porta davanti alla sua,
piantonata a
guardarsi spaesata. «Ti sei persa di nuovo?»,
sorrise con
compassione e la donna rise.
«Decisamente!
Tua madre mi ha mandato a prendere uno scatolone dal vecchio ufficio
di sopra ma non riesco a trovare l'ufficio o almeno uno che abbia
degli scatoloni», scrollò le spalle.
Lena
si affacciò, indicando una porta. «Intendeva
sicuramente il vecchio
ufficio che usava mio padre: eccolo. Torna indietro, seconda parta
alla tua destra».
«Grazie.
Ah!»,
bloccò un passo, avvicinandosi alla ragazza. «So
che tutto questo
deve spiazzarti molto, così se vuoi parlarne con
qualcuno… voglio
che tu sappia che puoi farlo con me», le sorrise, poggiandole
una
mano su una spalla, sulla fine vestaglia che indossava.
«Sappiamo
entrambe quanto tua madre non ci sappia fare con queste cose, ma per
fortuna io ho il brevetto», le fece l'occhiolino e Lena le
sorrise,
vedendola andar via.
«Seconda
porta a destra», le ricordò, vedendola guardarsi
intorno di nuovo.
La vide prendere lo scatolone e dirigersi alle scale, così
richiuse,
prendendo un grosso respiro. Aveva ragione Eliza: nonostante se lo
aspettasse e avesse ormai accettato il cambiamento, vedere le cose di
suo padre sgomberate e disposte in magazzino nella dependance le
faceva uno strano effetto. Eliza Danvers si stava trasferendo: aveva
iniziato portando con sé solo l'essenziale, ma Lena sapeva
che era
una cosa definitiva. Si sedette di nuovo sulla scrivania e,
controllando il cellulare, scoprì di aver ricevuto una nuova
email.
L'aprì subito, leggendo i primi aggiornamenti da parte di
Leslie
Willis sul caso di suo padre. Prese un post it da un blocco e si
segnò un nome, un indirizzo e un numero di telefono,
così corse
alla porta, la riaprì e, vedendo che non c'era nessuno,
richiuse e
prese il cellulare, componendo quel numero.
«Buon
pomeriggio. Cerco Ross Fawrett. Lena Luthor. Sono Lena
Luthor»,
annuì, ascoltando la voce dall'altra parte.
Eliza
poggiò lo scatolone sul pavimento del salone, avvicinandosi
a
Lillian che teneva in mano un block notes, intenta a tenere il conto
delle cose. La sentì arrivare e la anticipò:
«Verranno
domani pomeriggio. Li ho chiamati e renditi conto: oggi proprio non
possono muoversi».
Eliza
l'abbracciò, regalandole un dolce bacio sul collo.
«Li hai chiamati
oggi. Le persone comuni prenotano quando hanno bisogno di un
servizio. In questo caso di trasloco. Non importa: comincerò
io a
portare gli scatoloni nel magazzino; sono forte, sai, nel caso tu non
lo abbia notato».
«Oh,
no, l'ho notato eccome», incurvò la testa,
abbozzando un sorriso.
«Ma non vorrei che ti rovinassi la schiena, mia cara, e loro
vengono
pagati per questo. Piuttosto», si animò di colpo e
si avvicinò
alle scale, appoggiando una mano al legno della ringhiera,
«Di sopra
vorrei che esaminassi alcune stanze che potrebbero prendere Kara e
Alex».
«Delle
loro stanze? Mh, non saprei… Alex vive per conto suo, ha un
appartamento, e Kara ha il campus».
«Quando
verranno a stare qui vorranno trovare una camera adatta alle loro
esigenze», le spiegò, «Pensaci. Intanto
dovrai essere tu a
sistemarti per bene nella nostra camera personale».
Eliza
rise con imbarazzo e le portò via un bacio. «Sono
preoccupata per
Lena», sussurrò, tentando di tornare seria.
«Sta molto tempo
chiusa in camera sua e temo abbia problemi con questo
trasferimento».
«Finora
abbiamo trascurato questa parte del nostro rapporto, non stiamo
facendo di fretta, vedrai che Lena si abituerà. Lei resta
sempre
spesso chiusa in camera sua quando sono qui e sicuramente
starà
preparando il suo discorso di domani».
Eliza
guardò verso il piano superiore, sulle scale,
così le annuì.
«Anche questo sarà un gran cambiamento».
«È
una Luthor», ribatté, circondando la donna nei
fianchi, «Ed è
pronta. Lei lo sa: è la sua eredità. Lionel non
le ha lasciato
altro che il suo nome».
Era
la grande riapertura della Luthor Corp dopo le vacanze estive e tutti
i dipendenti si erano diretti al lavoro, quella mattina, sapendo di
dover partecipare a un discorso nell'auditorium dell'azienda. Si
stava riempiendo in fretta. Kara era arrivata presto perché
sperava
di cogliere Lena qualche minuto da sola, ma non aveva fatto i conti
con la calca già all'ingresso. Salutò da lontano
Jeffrey della
portineria ed Eliza la trovò per prima, chiedendole di
starle vicino
perché temeva di perderla. Entrarono nell'auditorium al
piano terra
insieme e trovarono i loro posti già assegnati alla prima
fila al
centro. Vide Lena con sua madre Lillian ma la salutarono con
un'occhiata e un cenno, occupate a correre da una parte dall'altra
del salone. Dopo poco arrivò anche Alex, lamentandosi di
aver perso
per un
attimo
l'orientamento per via delle tante persone presenti. Si sedette
accanto a Kara e le fece notare la sedia vicino alla sua dall'altro
lato, vuota, su cui c'era il cartellino col nome Lex
Luthor,
chiedendosi se finalmente si sarebbe unito a loro.
Ma
Kara aveva altro a cui pensare e continuava a ripetere le parole
scusa
e ti
amo
nella testa, cercando di stare attenta il più possibile agli
spostamenti di Lena: era salita sul palco, era andata dietro le
quinte, poi era tornata a uscire, scendendo dalle scalette e andando
a parlare con quelli che sembravano operatori. Appena la vide sola,
finalmente, si alzò di scatto come se avesse avuto le
puntine sulla
sedia e disse a madre e sorella che sarebbe tornata presto. Le due la
guardarono interrogative, ma immaginarono che dovesse correre in
bagno.
«Lena»,
la chiamò, trovandola sola dietro una parete, con dei fogli
in mano.
Si avvicinò. «So che probabilmente non
è il momento adatto, anzi
non lo è quasi sicuramente, m-ma speravo di parlarti di una
cosa
veloce, prima che tu salga sul palco».
Lei
alzò lo sguardo dai fogli e la guardò negli
occhi, deglutendo.
«Vai. Veloce».
Scusa
e ti
amo.
Scusa
e ti
amo.
Semplice, immediato, efficace. Scusa
e ti
amo.
«Emh…». Doveva essere passato qualcuno
dietro di lei poiché vide
Lena salutarlo e poi ridare a lei l'attenzione.
«Emh… i-io in
verità…», le scappò un
sorriso e Lena guardò di nuovo, fugace,
i fogli. «N-Non so come…». Forse Lena
era troppo buona per dirle
di non avere tempo adesso per lei che aveva perso la voce,
così si
arrese. «Niente di importante, può aspettare: vai,
vai e
stupiscici».
Lena
le sorrise, dandole una pacca su una spalla. «Me lo dirai
dopo».
Arrossì,
vedendola salire sul palco per raggiungere una delle sedie che erano
state poste a poco dal leggio al centro, su cui stava davanti Lillian
che parlava con un uomo. Kara ritrovò il suo posto a sedere
e così
molte altre persone ancora in piedi, a parte quello al fianco
sinistro di Alex, riservato a Lex, ancora vuoto.
«Benvenute
e benvenuti», quello stesso uomo, corpulento e coi baffi,
attirò
l'attenzione di tutti, che cominciarono a zittirsi. Accostandosi a
lei, sua madre fece sapere a entrambe le sue figlie che lui era il
dirigente coi gradi più alti. Il signore si
lasciò andare a una
breve annunciazione dei cambiamenti che investiranno l'azienda dai
prossimi mesi e poi passò il microfono a Lillian Luthor, che
si alzò
dalla sedia accanto a Lena sistemandosi la gonna e dando un colpo di
tosse. In sala non si muoveva più una sola mosca.
«Grazie.
Ho lavorato qui davvero tanti anni, così tanti che fatico
ormai a
ricordare come mi sentivo all'epoca, giovane e con tante aspettative
per l'avvenire. Volevo cambiare il mio futuro e quello di questa
azienda, allora ancora piccola e acerba. Perché non solo ero
preparata, ma conservavo grande determinazione. Ciò che non
mi
aspettavo, tuttavia, era di trovare marito e di avere successivamente
dei figli. Figli che-», si fermò e il suo sguardo
planò lontano,
verso le porte. Eliza, Alex e Kara si girarono curiose e videro solo
la figura di qualcuno, distante, che ascoltava il discorso. Lillian
fece un altro colpo di tosse. «Scusatemi. Dicevo…
figli. Figli che
si sono sempre dimostrati all'altezza del nome che portano. Il mio
primogenito Lex si occupa della succursale di Metropolis già
da
diverso tempo e sono molto orgogliosa dei suoi risultati. Lo
sarò
altrettanto della mia seconda figlia, Lena. Come anticipato, dai
prossimi mesi l'azienda vedrà dei grossi cambiamenti. Mia
figlia
terminerà gli studi quest'anno e sempre durante quest'anno
prenderà
le redini di questa azienda al posto mio», prese una breve
pausa,
quando le reazioni dei più si stavano trasformando in basse
chiacchiere. «Lascerò in mano a lei la Luthor Corp
qui a National
City entro quest'anno e dopodiché andrò in
pensione. Resterò a
vigilare l'operato di entrambi i miei figli, li guiderò e
assisterò,
ma mi farò da parte. Come sono entrata qui ragazza con tante
aspettative e determinazione di fare qualcosa di concreto per il
futuro, auspico che ora faranno lo stesso gli eredi dell'uomo che ha
costruito tutto questo: Lionel Luthor. Sono loro il futuro»,
si girò
per guardare Lena che, immobile, la guardava a sua volta. «Un
applauso a Lena Luthor».
Lei
si alzò dalla sedia ansimando, cercando di trattenere il
tremolio
delle mani sui fogli con il discorso che si era portata dietro,
mentre tutti all'auditorium applaudivano e si lasciavano andare a
qualche brusio. Lillian la ritrovò a metà strada
e l'abbracciò
all'improvviso, con un braccio, mentre con l'altro le fermava i fogli
che saltellavano dall'agitazione.
«Prendi
fiato, Lena; non vuoi dare l'impressione di essere nel panico, te lo
assicuro», le sussurrò, per poi lasciarla andare.
Lei
appoggiò i fogli sul leggio e guardò il pubblico,
ricercò facce
conosciute e quelle poco conosciute, guardando poi lontano, verso le
porte.
Alex
e Kara si girarono ma quella figura non c'era già
più. «Non l'ho
visto bene, ma doveva essere Lex», bisbigliò la
prima. Kara si
chiese perché non si fosse avvicinato, ma non osò
porre la domanda
a voce alta temendo di perdersi il discorso di Lena che stava
iniziando. Alzò lo sguardo e la ritrovò a
guardarla, così le
sorrise.
«Buongiorno
a tutte e tutti. Sono Lena Luthor», sorrise e la sala rise
con lei,
mentre Lillian alzava gli occhi al cielo. «Tornando seri,
grazie per
essere arrivati puntuali questa mattina per essere tutti qui, adesso,
in questo momento così importante per l'azienda e per me. Il
mio
passaggio a capo qui sarà molto più graduale di
come ve lo
aspettate, non ci saranno grandi cambiamenti nell'immediato ma,
considerato che siamo qui e nessuno di noi ha altro da fare, vi
parlerò di qualcosa più nello
specifico». Molti risero ancora e
Lena si lasciò andare a un sorriso compiaciuto mentre degli
operatori portavano sul palco un monitor e, con l'andare delle
immagini, lei iniziava a spiegare. «Questi saranno solo
alcuni dei
progetti che guiderò di persona con voi al mio fianco a
tempo
debito».
Kara
si perse. Di ciò che diceva Lena non capiva più
una parola, ma in
realtà la sua voce le arrivava appena, troppo presa a
guardare lei
come si muoveva, come sorrideva, come riusciva a prendere l'interesse
di tutti con il minimo sforzo. Aveva i capelli tirati indietro,
raccolti in alto, le lasciavano il collo scoperto. Era la prima volta
che le vedeva indosso quel vestito a fiori. Le sembrava così
irraggiungibile. Probabilmente non l'avrebbe mai conosciuta, o non
come la conosceva ora, se non fosse stato per le loro madri. Da quel
punto di vista, allora era stata una fortuna che il destino
gliel'avesse presentata pur anche come sorella. Voleva credere che
era possibile stare insieme anche in quella situazione
perché,
rifletteva scuotendo la testa, era già incredibile pensare
che una
come Lena si fosse innamorata di lei, specialmente per come le cose,
tra loro, erano iniziate. Certo non glielo aveva detto a parole, ma
era sicura che avrebbe ricambiato non appena si fosse fatta avanti.
Magari gliel'avrebbe detto lei se da Kal non si fosse chiusa a riccio
per la questione di Roulette. Aggrottò le sopracciglia,
ricordando
lei che cercava di spiegarsi e la propria
testa che continuava a respingerla, mannaggi- ahi,
cos'era stato? Si disincantò, scoprendo che Alex, sguardo
duro, le
aveva dato un pizzicotto sul braccio sinistro.
«La
vibrazione del tuo cellulare», sussurrò,
«Mi disturba e non riesco
a sentire».
Tirò
fuori il telefono dalla borsa e trovò un messaggio e una
chiamata
persa da parte di James Olsen. Oh, si era scusata con lui per come si
era comportata da suo cugino, eppure per un attimo si era scordata di
avergli dato il numero.
Da
JamesOlsen a Me
Ehi,
Kara! Spero di non disturbarti, ho provato a chiamarti ma non devi
aver sentito. Come stai? Ero molto impegnato in famiglia in
quest'ultimo periodo e mi dispiace di non averti cercato prima. E non
preoccuparti per quello che è successo da tuo cugino:
conosco un po'
la vostra storia e so cos'ha passato lui. Mi chiedevo se ti andasse
di uscire insieme qualche volta! Anche solo se avessi bisogno di
parlare con qualcuno: puoi contare su di me. Fammi sapere presto!
Era
davvero un bel tipo, riconosceva. Se solo lo avesse conosciuto
prima…
Da
Me a JamesOlsen
Ciao,
James! Grazie mille e sono contenta di sentirti. Però devo
rifiutare: ho gli allenamenti, gioco a lacrosse e ora riprendono le
partite, e poi devo studiare…
Alzò
lo sguardo, ritrovando Lena, che il cellulare vibrò di
nuovo.
Da
JamesOlsen a Me
Non
ti preoccupare, anch'io per lavoro sarò impegnato. Ma
sarò a
National City proprio per questo, non so ancora quando, ma ti
farò
sapere per tempo! Così non dovremo rimandare!
Rimandare?
Oh, non aveva proprio capito.
Da
Me a JamesOlsen
Sei
carino, James, ma non voglio farti perdere tempo, non so quando
sarò
libera!
Gonfiò
le guance, pensando bene a cosa scrivergli e dopo inviò. Le
seccava
dirgli che non era interessata a lui, in fondo non le aveva scritto
da nessuna parte che voleva vederla per un appuntamento, ma se lo
aspettava: ricordava certe occhiate che le aveva riservato a quella
cena da Kal. E lo aveva pure baciato, se per un soffio;
chissà lui
cosa si aspettava. Voleva davvero conoscerlo, e non solo
perché era
il migliore amico di suo cugino, ma non voleva neppure dargli false
speranze. Il cellulare vibrò di nuovo, facendola spaventare
e
indispettendo Alex, che la guardò torva.
Da
JamesOlsen a Me
Come
preferisci! Ma non ho problemi ad aspettarti!
Da
Me a JamesOlsen
Sei
carino, grazie. Sono certa che troverò lo spazio per uscire
con un
amico!
Così
doveva andare: era meglio specificarlo fin da subito.
Da
JamesOlsen a Me
Sì,
certo, come amico va bene. Iniziamo a conoscerci!
Kara
sorrise e Alex le diede un altro pizzicotto.
«La
vuoi finire con quel cellulare?».
«Ho
fatto, ma- ahi»,
si girò velocemente a destra, passandosi una mano sul
braccio dove
le aveva fatto un pizzicotto anche Eliza.
«Finitela
di parlare tutte e due: vi sentite solo voi».
Kara
chiuse il cellulare in borsa e bloccò la vibrazione in caso
di altri
messaggi o chiamate, cercando di riprendere ciò che aveva
lasciato.
Ah, già. Non il discorso, ma l'ammirare Lena.
Purtroppo
sapeva che sarebbe andata a finire così: concluso il
discorso,
l'auditorium si svuotò con una lentezza impressionante e
vide Lena
rapita da una parte all'altra della sala per parlare con le facce
più
disparate, tra quelle entusiaste, quelle entusiaste ma ancora
perplesse su alcuni punti del discorso, quelle entusiaste che
sorridevano e le stringevano la mano in continuazione, quelle
entusiaste che non finivano di parlare, quelle entusiaste che non
facevano che porre domande, e di sicuro altre facce entusiaste. Kara
le inviò un messaggio per farle sapere che l'aspettava
davanti
all'ascensore, ma appena la vide la salutò con una mano,
lontana,
circondata da altre facce entusiaste, e sparì con loro.
Sapeva che
non avrebbe fatto ritorno e tornò al campus con l'aria della
sconfitta disegnata in faccia. Lena la richiamò quella sera
sul
tardi, stava per andare a dormire, ma Kara non poteva dirle una cosa
così importante per telefono, così la
invitò a mangiare insieme
l'indomani, e l'indomani ancora, e quello dopo, lei continuava a
rifiutare.
Kara
si lasciò andare, spalmandosi sul letto con delusione.
«Sbrb
c e nn tr v a me».
«Se
vuoi che ti capisca dovrai sollevare quella faccia dal cuscino,
Danvers».
Lei
brontolò, riuscendo ad alzare il busto con parecchia fatica,
guardando Megan. «Sembra che non riesca più a
trovare del tempo per
me».
L'altra
annuì, pescando una carta e cercando il suo posto tra le
file di
quelle poggiate sul letto. «Lavoro, università,
tutor, chi lo sa
cos'altro: credo abbia degli ottimi motivi per non avere più
tempo
per te», sorrise, infilando la carta nel posto corretto e
prendendone un'altra.
«No!
Ha detto che il suo passaggio a capo sarebbe stato molto graduale.
Quindi ha solo
tutto il resto».
«Allora
non ti vuole parlare». Si girò per godersi il suo
sguardo d'odio e
scosse la testa, abbozzando una risata. «Non mi preoccuperei,
fossi
in te. Quella ragazza ti ama, Kara, e lo sai anche tu. Avete avuto un
battibecco ma non è mai stato un battibecco a fermare una
grande
storia d'amore. Pensa a Romeo e Giulietta, Lancillotto e Ginevra
o»,
ci pensò un attimo, «il Principe e la
Sirenetta».
Kara
si buttò di nuovo di peso. «Te ne sei accorta di
aver citato solo
coppie che sono finite in tragedia? E una di loro diventa schiuma di
mare quando lui decide di sposare un'altra ma si rifiuta di
ucciderlo», mormorò lei.
«Oh,
poverina… me la ricordavo più felice».
Sorrise soddisfatta quando
vide di aver finito il suo solitario. «Va bene, adesso
possiamo
andare ad allenarci».
Il
piano consisteva nello stare da sole, era il primo passo,
sorprenderla con le sue scuse e, veloce, prima che potesse dire
qualcosa, il ti
amo,
rapido, preciso come un proiettile, che doveva colpire il suo cuore.
Fortunatamente dopo giorni di tentativi a vuoto, Lena Luthor
accettò
di andare a pranzo con lei. Era il suo momento.
Solito
locale vicino alla Lutor Corp, Lena arrivò in ritardo di
quindici
minuti e la pancia di Kara brontolava da almeno trenta. Si
scusò per
il ritardo ed entrarono, intanto che il cuore di Kara batteva come la
musica di un film horror prima di una scena spaventosa, senza
riuscire a calmarlo, tentando di controllare il respiro. Ordinarono
velocemente e notò che Lena si fermava a guardarla, di tanto
in
tanto, facendo uno strano sorriso; come se sapesse in anticipo cosa
volesse dirle e la cosa non faceva che metterla ancora più
su di
giri. Scusa
e ti
amo.
Scusa
e ti
amo.
Erano sole e poteva farcela.
«Allora,
come stanno andando gli allenamenti?».
«Cosa?
Ah, sì, il lacrosse. Bene, bene»,
annuì. «A fine mese abbiamo la
prima partita, siamo contro Gotham City. Verrai a vedermi?».
«Certo»,
rispose come se fosse ovvio e il cuore di Kara saltò un
battito.
Iniziarono
a mangiare e non le tolse occhio di dosso, mentre Lena controllava
più spesso del dovuto il suo cellulare. Ora o mai
più. Scusa
e ti
amo.
Scusa
e ti
amo.
«Lena, senti… t-ti volevo chiedere scusa
per-».
«Non
importa», la interruppe, non sapendo che in quel modo
l'avrebbe
messa in difficoltà con il filo del discorso. Le sorrise,
mettendo
giù il cucchiaio e guardandola intensamente negli occhi.
«Kara,
quello che hai passato quando eri bambina ti ha segnato, anche se
porti la testa alta tutti i giorni. Non importa, credimi. Hai rivisto
tuo cugino, sei stata male, va tutto bene! Non sono
arrabbiata».
«Ah…»,
arrossì, abbassando lo sguardo. Dannazione.
Sì, era bello sapere che non era mai stata arrabbiata con
lei e che
l'aveva capita, ma tutto il piano si basava su quelle scuse e ora non
sapeva da che parte ricominciare. «V-Va bene».
«Da
un punto di vista penso di capirti, anche se la tua esperienza
è
decisamente più drammatica. Ma non parliamo adesso di
questo; siamo
qui perché mi devi dire qualcosa, giusto?».
Kara
deglutì. «G-Giusto. E-Ecco, il fatto è
che non so come dirtelo…
O meglio, avevo preparato un piano che tu mi hai distrutto poco fa,
quindi dovrò fare di nuovo di testa mia e sai quanto parlo
se mi
metto a fare di testa mia, all'improvviso, e-», si
fermò, prendendo
un grosso boccone d'aria mentre l'altra la guardava quasi senza
battere ciglio, poggiando la schiena sulla spalliera della sedia.
«La
verità è che- è che lo so che ora
sembra tutto difficile, e poi
Lois e Kal, quando li ho visti ho pensato che…
che… Accidenti,
quello che sto cercando di dirti-».
Lena
deglutì e la interruppe subito: «Che domani
mattina hai
l'appuntamento con Cat Grant e sei nervosa. Lo sapevo. Vorresti
già
essere come tuo cugino e Lois Lane». Kara la
guardò senza fiato
mentre lei continuava, giocherellando con un bicchiere. «Ti
farei da
spalla ma sarò in università. Non devi
preoccuparti di dirmi cose
come questa; ci sarò sempre per te quando hai bisogno. Anzi,
dato
che non ci sarò fisicamente, ti scriverò per
messaggio, così
potrai sentirmi con te. Non devi rispondermi, solo…
leggere».
Seria,
Kara annuì lentamente e poi abbozzò un sorriso.
«Sì, s-sì…
Temevo di passare per sciocca a dirti che ero nervosa… M-Ma
è
normale, no?». No. No. No. Non andava bene, non andava bene
per
niente; cos'era successo? Ci stava seriamente riuscendo, anche se non
di certo come le aveva suggerito Megan, ma ci stava riuscendo. E ora
si ritrovava costretta in un altro argomento che niente aveva che
vedere con quello che voleva. Ma non si sarebbe persa d'animo: erano
sole e non aveva neppure più bisogno di chiederle scusa,
restava
solo il ti
amo.
«Ma in realtà, quello che volevo dirti
è che-», si bloccò di
colpo, sentendo la suoneria del cellulare di Lena. Non doveva
rispondere. Non doveva rispondere. Non doveva risp-
«Scusami,
devo rispondere».
Accidenti.
Annuì un po' di volte e richiuse, ma il suo sguardo da
quella
telefonata era cambiato e Kara sapeva che era un cattivo presagio.
«Mi
dispiace», si alzò, riportando la borsa in spalla,
«ma devo
proprio andare. Ci rifaremo senz'altro, te lo prometto! In bocca al
lupo per domani, ti scriverò». Le
lasciò una pacca sulla spalla e,
proprio mentre Kara pensava si stesse allontanando da lei, un bacio
su una guancia.
Avvampò,
vedendola sparire, domandandosi cos'avesse di così
importante da
fare che non poteva aspettare dopo pranzo…
L'auto
nera con Ferdinand alla guida si fermò ai pressi di un
ospedale, ai
limiti di National City. Lui le aprì la portiera e Lena
Luthor scese
con eleganza, borsa in spalla; salì le scale che portavano
all'edificio ed entrò.
Attese
solo pochi minuti dopo che si presentò alla reception
cercando Ross
Fawrett e lui, indosso la divisa rosa da infermiere, la
richiamò.
«Suo
padre? Mi ricordo…», annuì, grattandosi
la nuca, «Gran brutta
caduta da cavallo».
Si
spostarono dallo stare davanti a una porta d'ascensore e cominciarono
a camminare. Lena era costantemente sull'attenti, temendo che
qualcuno li sentisse. «Lei è stato uno dei primi
infermieri a
soccorrerlo, se le mie fonti non sono errate».
«Sì,
è vero. A un primo sguardo: caviglia sinistra
rotta».
«Primo
sguardo?».
Lui
alzò le mani in segno di resa. «Sono stato
sostituito. Che cosa
cerca, esattamente, signorina Luthor?».
«E
poi è stato trasferito?», incalzò,
senza rispondere alla sua
domanda. Lo vide annuire.
«A
volte succede, non mi sono posto domande. Sono solo pochi chilometri
dall'altro ospedale. È il mio lavoro: vado dove
c'è bisogno di me».
«Ed
è stato sostituto da chi, posso saperlo?».
«Senta…»,
lui si portò le mani nelle tasche, scuotendo la testa,
«Mi dispiace
per ciò che è successo a suo padre, ma non posso
dirle più di
quello che le ho detto: caviglia rotta. Non so altro».
Lena
si irrigidì, per poi ansimare. «La ringrazio lo
stesso. Se posso
solo chiedere, vista la sua esperienza sul campo, magari, se ha
notato qualcosa di insolito in lui, dovuto alla caduta
o…?».
L'uomo
strinse gli occhi, cercando di fare mente locale, ma infine
scrollò
le spalle. «Non saprei. Non aveva altri segni evidenti, a
parte nei
palmi delle mani, qualche escoriazione per come ha cercato di
ripararsi dalla caduta», le sorrise, «Suo padre era
un tipo
loquace, signorina Luthor, non faceva che parlare del tempo!
Ahimè,
tuttavia, non diceva se aveva male da qualche altra parte,
probabilmente per l'adrenalina. Ora, se vuole scusarmi».
Lo
salutò e lei si appoggiò schiena contro il muro,
prendendo un
grosso respiro. Parlare con l'infermiere non le aveva detto molto
riguardo le condizioni fisiche, ma sul piano mentale c'era qualcosa
che non andava: suo padre non era loquace. Non lo era mai stato.
Scosse la testa, prendendo il telefono. Compose un numero e
lasciò
squillare parecchio tempo prima di decidere di richiudere. L'ex
segretaria di sua madre era sparita. Maledizione. A quel punto,
decise di rientrare.
E
così il fatidico giorno era arrivato. Per l'occasione, Kara
aveva
deciso di indossare dei pantaloni lunghi, marroni, per denotare
serietà, ma con sandali aperti e una camicia fresca e
leggera. Il
doversi dichiarare a Lena l'aveva un po' allontanata dal pensiero di
dover incontrare Cat Grant per un colloquio di lavoro, ma ora che era
all'interno della CatCo e stava aspettando l'ascensore, una parte di
lei era così in ansia che la stava mangiando dentro. Doveva
mettersi
bene in testa che quel posto per lei non significava soltanto il
lavoro desiderato da una vita, ma era anche il punto più
facile per
ottenere la verità sul suo passato. Doveva restare
concentrata e
camminare dritta fino al raggiungimento del suo obiettivo.
Lasciato
l'ascensore entrò in una sala piena di scrivanie, di persone
che
andavano e venivano, alcuni con pile di fogli tra le braccia, i
telefoni squillavano in continuazione e il rumore di scanner,
stampanti e computer riempiva l'aria. E di aria, quella vera e
pulita, pensò, sembrò mancare là
dentro. Una voce urlò il nome di
qualcuno e una ragazzetta si alzò da una scrivania come se
quella
avesse appena iniziato a prendere fuoco e così corse dentro
un
ufficio. Oh, non era difficile capire dove si trovasse Cat Grant.
La
vide da lontano attraverso i vetri e più urlava contro la
poverina e
più si rendeva conto che, a breve, sarebbe spettato a lei.
Ricevette
qualche occhiata là dentro, ma non si lasciò
fermare e bussò con
energia sulla porta, restando in attesa. Cat Grant scacciò
la
segretaria, che uscì con le lacrime agli occhi, e le
urlò di
entrare.
«Chiudi,
chiudi la porta», le fece cenno con la mano, disgustata; dopo
qualche istante finalmente la guardò, abbassando gli
occhiali da
sole, mostrando occhiaie rossastre. «Aspetta un momento: e tu
chi
sei? Avevo un appuntamento adesso con…», se mise a
sfogliare
rapidamente dei fogli che aveva sulla scrivania e Kara si
affrettò a
fare due passi avanti, portandosi una mano contro il petto.
«Oh,
con me, con me, signora Grant», si avvicinò
ancora, mostrandole la
mano, «Piacere di conoscerla, sono Kara Danv-».
«Ferma
dove sei!», le ordinò all'improvviso,
così Kara si bloccò. La
squadrò da capo a piedi, tenendo bassi i suoi occhiali.
«Ouh…»,
sbuffò, rimettendo a posto i suoi fogli con aria distratta,
«Mi
aspettavo un'universitaria tutto pepe, non una bimba del
liceo».
«I-Io
frequento l'università, signora Grant».
«Beh,
la tua faccia e il tuo abbigliamento mi dicono che sai appena
prendere l'autobus da sola…», ricercò
il suo nome nei fogli, per
poi leggerlo a bassa voce e ripeterlo, «Keira
Danvers».
«È
Kara,
veramente».
«Lena
Luthor mi ha parlato molto bene di te. Sembrava estasiata dal tuo
modo di fare, per come l'hai aiutata con quel caso alla Luthor Corp.
La cosa aveva emozionato anche me e anche se a guardarti ora quasi me
ne pento, voglio darti la possibilità di distinguerti. In
quel caso,
ho un posto alla CatCo per te. Deludimi e sei fuori. Patti chiari e
amicizia lunga. Beh… non proprio amicizia, ci siamo capite,
è un
modo di dire», aggiunse gesticolando, agitando la tazza che
aveva
appoggiata sulla scrivania, scoprendo con delusione che era vuota e
mugugnando.
«Q-Qualsiasi
cosa, signora Grant».
Qualsiasi
cosa, certo, qualcosa che pensava di dover
fare
da
sola.
L'aveva fatta sedere sulla scrivania della sua segretaria con il
compito di scrivere un articolo, uno solo, che la soddisfacesse, con
l'unica condizione che a seguirla e a curarle il pezzo dovesse essere
una delle sue dipendenti: Siobhan Smythe. Lei adorava Siobhan Smythe
e non vedeva l'ora di conoscerla. Prima.
Prima di scoprire che era un'arpia doppia faccia della peggior
specie. A ricordare l'articolo sul numero 432 del CatCo Magazine che
prima tanto amava adesso le veniva mal di stomaco. Non poteva
crederci di aver idolatrato una persona tanto acida e antipatica. Si
piazzava alle sue spalle e leggeva, così rideva e se ne
andava e
Kara barrava tutto, ricominciando daccapo. Non le dava consigli, si
limitava a prenderla in giro. Le masticava una gomma nelle orecchie.
E per di più, quando si sedeva alla sua scrivania, non
distante, la
chiamava spesso per farla andare da lei e no, non certo per aiutarla.
«Danvers,
considerato che sei qui perché non pensi di renderti utile e
portarmi un caffè? Per favore».
Kara
alzò gli occhi al cielo ed eseguì. Si accorse di
non sapere la
strada solo quando era già in viaggio in ascensore,
così torno
indietro.
«Che
sciocca, devo essermi scordata di dirtelo: pian terreno».
Kara
corse.
Quella
mattina non sembrò finire mai. La macchinetta si
bloccò ma infine
riuscì ad avere quel caffè. Sorrise nel leggere i
messaggi che Lena
le scriveva, dal so
che ce la farai,
al sei
la persona più forte che conosca.
Uno le disse credo
che non
smetterò mai di credere in te
e Kara sussultò. Era come se le avesse detto che l'amava, ma
usando
parole diverse. Forse erano davvero fatte l'una per l'altra.
«Oh,
non è possibile, sono proprio distratta questa mattina:
Kara, lo
prendo senza zucchero; potresti scendere a riprenderlo?».
Lei
la guardò con l'odio nello sguardo. Non disse nulla,
semplicemente
tornò indietro non appena le lasciò le monete.
Avrebbe voluto
spiegarle che non era la sua segretaria, ma non voleva farla
arrabbiare e di conseguenza far arrabbiare Cat Grant; non la
conosceva e non sapeva se la cosa avrebbe potuto infastidirla,
così
eseguì e basta, in silenzio. Lesse di nuovo tutti i messaggi
in
attesa del caffè, come per infonderle un po' della forza che
Lena
credeva lei avesse, poi tornò indietro. Per poco non si
scontrò con
una donna dai capelli argentati e ringraziò che non le cadde
il
caffè.
«Mh,
immaturo e incompleto…», disse Cat Grant,
esaminando il testo di
Kara. «Mi aspettavo di più dalla ragazza
determinata che ha scovato
una falla nei rapporti della Luthor Corp. Tu cosa ne pensi,
Siobhan?».
«Assolutamente
d'accordo, signora Grant», annuì e a Kara parve
perfino
dispiaciuta. «Ho provato a consigliarla, ma lei chiaramente
voleva
fare di testa sua… Forse si ritene tanto in gamba, dopo
quello che
è successo alla Luthor Corp».
Eh,
no. Poteva portarle il caffè e rifare la strada anche
quattro volte,
senza masticare nelle orecchie e ridacchiare del suo lavoro, ma non
le avrebbe permesso di dire nefandezze sul suo conto.
«No», alzò
la voce, «Non è ver-».
«Chiudi
la bocca, Keira, ho mal di testa», la donna la fece zittire,
portandosi una mano sulla fronte. Chiese a Siobhan Smythe di uscire e
poi guardò lei negli occhi, senza occhiali e mettendo le
mani con le
dita intrecciate. «Dovevi scrivere qualcosa, qualsiasi cosa,
che mi
soddisfacesse. Su qualsiasi argomento. Invece mi ritrovo con un
temino da scuole medie sullo sport. Dov'è il sentimento, la
ricerca…
dove sei tu, in queste righe?».
Kara
deglutì, capendo di aver fallito, e che non era nemmeno
colpa di
Siobhan, dopotutto. «P-Posso fare di meglio, signora
Grant». Era la
sua ultima spiaggia. Temeva di sentirla dire che poteva ritornare a
casa, invece le restituì il foglio e la rimandò
fuori.
«Ah,
Keira».
«Kara».
«Noterai
che per questo lavoro non si può puntare solo sulla
determinazione.
Se pensi di non essere all'altezza, allora questo non è il
posto per
te».
Uscì,
ritornando a sedersi. Udì Siobhan Smythe richiamarla ma
finse di non
sentirla, cercando di rimettersi al lavoro. A un certo punto se la
ritrovò di nuovo alle spalle, col fiato sul collo.
«Ti
stavo chiamando, Kara, svegliati. Dovrei fare delle fotocopie di un
documento: potresti andar tu?», le lasciò un
foglio sulla
scrivania, prendendo passo per allontanarsi. «Me ne servono
almeno
due. Grazie».
Kara
deglutì, alzando la testa. «Fattele da
sola».
«Come,
prego? Ho sentito male?».
«No.
Sto lavorando: fattele da sola».
Dietro
una scrivania poco più avanti, si mosse la stessa criniera
argentea
con cui Kara si era scontrata quando aveva la tazzina di
caffè in mano. Quella donna rideva con gusto, mettendosi
comoda
sulla sedia e sistemando i piedi incrociati sulla scrivania.
«La
micetta ha tirato fuori gli artigli. Miao»,
esclamò, muovendo la mano a mò di graffio.
Siobhan
Smythe la guardò appena con una smorfia, tornò
indietro a
riprendere il foglio lasciato da Kara e se ne andò per fare
le
fotocopie.
Per
richiamare l'ascensore dovette calmarsi. In ascensore,
perché le
mancava l'aria, dovette calmarsi. Quando le porte si
aprirono…
restò incantata: Lena Luthor era lì, parlava con
una coppia,
bellissima come non lo era stata mai. Quello. Quello era il momento
giusto. Lena era sua.
Uscì
con passo svelto, la sorprese alle spalle e in un attimo la
rovesciò,
la guardò in viso e, sotto lo sguardo sbigottito dei
presenti, la
baciò con passione. Quasi riusciva a sentire la musica in
sottofondo.
Le
porte dell'ascensore stavano per richiudersi e dovette infilare una
mano, svegliandosi di colpo, per non restare chiusa lì
dentro. Oh,
sì, era stato un bel sogno a occhi aperti, ma Lena la vide e
le
sorrise, così le sembrò, in fondo, un sogno
possibile.
«Com'è
andata? Devi assolutamente raccontarmi tutto».
L'abbracciò e Kara
prese un grosso respiro.
Quando
la lasciò le sorrise anche lei: «Sono stata
presa».
«Ma
è fantastico! Sapevo che ci saresti riuscita, non avevo
alcun
dubbio».
Uscirono
e decisero di andarsi a prendere un gelato per festeggiare, forse
l'ultimo della stagione. Camminavano l'una vicina all'altra e, di
tanto in tanto, si scorgevano a guardarsi e così ridevano.
«Siobhan
Smythe è una vera…», si
lasciò andare a una smorfia e a un
ringhio, facendo ridere l'altra, «persona
irritante e maleducata».
«Tu
non sai proprio come offendere il prossimo, eh?», rise,
finendo il
suo cono; Kara lo aveva già finito da un po'.
Si
sedettero sulla panchina di un parco e si guardarono, prima di ridere
di nuovo, senza apparente ragione, solo perché erano felici.
«È
tutto grazie a te. Se ci sono riuscita è grazie ai tuoi
incoraggiamenti; se ero lì per poterlo fare è
grazie a te per aver
parlato con la signora Grant».
«È
grazie a te che mi hai dimostrato di essere una futura reporter coi
fiocchi», rimbeccò, «O lei non mi
avrebbe mai dato-».
«Ascolto,
sì, me lo ha fatto capire», sorrise di rimando,
«La signora Grant
ha una personalità molto forte. E comunque è un
tirocinio, devo
finire gli studi… Devo ancora-».
«Sorprenderla»,
concluse per lei, «Ci riuscirai».
Kara
deglutì. Ora o mai più. Di
nuovo.
«Lena… le cose tra noi si sono un po' raffreddate
da quando siamo
tornate da Metropolis. Hai detto che non ho nulla da perdonarmi m-ma
sento che non è così», la
guardò dritta negli occhi, «Voglio che
siamo sincere l'una con l'altra, ti prego. Quello c-che sto cercando
di dirti è che… che-».
«Mio
padre è stato assassinato». Le parlò
sopra quasi di colpo e Kara
spalancò gli occhi, cercando di capire. «Mia madre
ha coperto il
suo assassinio e sto cercando di capire cos'è successo e
perché.
Non dovrei parlartene perché è rischioso, la
gente che ha avuto a
che fare dall'incidente alla sua morte continua a sparire e…
ho
paura». Kara si avvicinò, stringendole una mano.
«Ma voglio che
siamo sincere, Kara. Hai ragione e cercavo di dirtelo da un po', non
ne trovavo il coraggio… Niente più Roulette,
omissioni, niente. Ho
paura di non farcela da sola e… voglio stare al tuo fianco e
voglio
farlo sapendo di essere sincera».
Kara
la prese fra le sue braccia. «Ti starò sempre
vicina. Lo sai».
«Vale
anche per me».
Il
suo piano era fallito. Miseramente fallito in ogni sua parte. Eppure
tornò verso il campus con il sorriso stampato sulle labbra.
Non era
solo ciò che era successo alla CatCo, ma la confessione di
Lena che
si era fidata di lei e l'aveva sentita vicina come mai prima. Forse
anche più vicina di come sarebbe stato se fosse riuscita a
dichiararsi. Si amavano e lo sapevano; forse il resto poteva
aspettare.
Era
ormai vicina al cancello quando sentì il cellulare vibrare e
si
fermò. Forse era Lena e… ah, era solo James.
Se
tutto va come previsto, dovrei essere a National City verso la
seconda metà di ottobre. Allora, ti andrebbe di uscire con
me?
Kara
sorrise, scuotendo la testa.
Da
Me a JamesOlsen
Vedrò
di liberarmi! Non vorrei però che capissi male: si intende
come
amico, no?
Stavolta
glielo chiese espressamente, in modo che non ci fossero
incomprensioni. Fece ancora due passi che la risposta di lui non si
fece attendere:
Sì,
ovviamente! Tranquilla, Kara, non voglio turbarti.
Non
era la risposta che si aspettava e lesse con attenzione, aggrottando
le sopracciglia.
Da
Me a JamesOlsen
Turbarmi
per cosa?
Da
JamesOlsen a Me
Del
fatto che sei già innamorata di un'altra persona! Non sono
stupido,
mi interessi ma non voglio forzarti o ferirti!
Da
Me a JamesOlsen
Come
fai a saperlo?
Da
JamesOlsen a Me
Come
faccio? Lo hai detto tu! Ricordi? Lo hai detto prima di andare a
letto, alla festa di tuo cugino. Lena Luthor ti stava portando via e
hai detto delle cose, Kara. Ti sei dimenticata?
Kara
restò immobile, con il cellulare tra le mani. Forse James
doveva
essersi risposto da solo alla domanda, poiché aveva mandato
subito
un altro messaggio:
Hai
detto delle cose spiacevoli, Kara. Come che i tuoi genitori erano
stati uccisi e che ti stava andando male tutto, come che non sapevi
come comportati da capitano per la tua squadra, o che ti eri
innamorata della persona sbagliata. Non pensavo avessi bevuto tanto
da non ricordare, scusami. Con me puoi parlare quando vuoi, Kara!
Lena
lo sapeva. Per tutto il tempo, Lena lo sapeva. Lo aveva detto e non
ricordava. Lena lo sapeva.
Lena
aprì la porta di camera sua e la richiuse dietro di lei,
ancora col
sorriso sulle labbra. Poggiò la borsa su una poltrona e si
sciolse i
capelli. Aveva qualche minuto per rilassarsi prima di tornare in
università, così si liberò anche i
piedi dagli alti sandali e si
sedette davanti alla scrivania, accendendo il portatile. Parlare con
Ross Fawrett le aveva posto altre domande, più che fornirle
risposte, e non la portava da nessuna parte perché non aveva
fatto
nomi. Avrebbe dovuto aspettare qualche altro aggiornamento di Willis
per andare avanti, oppure scoprire che fine aveva fatto la ex
segretaria di sua madre che le aveva promesso di aiutarla a trovare
il coroner del caso di suo padre. Aveva davvero paura che avesse
fatto anche lei chissà quale fine. E per di più
non le aveva
lasciato nulla per aiutarla. Sospirò, poggiando la testa
sulla
spalliera. Era punto e a capo.
O
almeno lo era finché non le arrivò quella
notifica. Si fece
curiosa, cliccandoci. Apparteneva a un vecchio forum di medicina: ci
aveva girovagato a lungo quando cercava alcuni dei medici che si
erano occupati di suo padre, trovando, coi loro nomi, account non
più
attivi da mesi. Era un messaggio in posta privata. Lo aprì,
scoprendo nient'altro che una serie di numeri.
Ci
riprendiamo dallo stand alone della scorsa settimana con un capitolo un
po' più corto… Ma non per questo privo di
avvenimenti: Kara aveva deciso di dichiararsi, Lena invece
di essere sincera con lei e dirle di suo padre. Eliza si sta
trasferendo a villa Luthor (e tende a perdersi). Kara ha fatto prova
alla CatCo e abbiamo avuto modo di conoscere Cat Grant e Siobhan
Smythe, il suo idolo prima di poterle parlare dal vivo e adesso
sembra che finirà per odiarla. Poi Lena ha tenuto un
discorso
nell'azienda di famiglia e si prepara per prenderne le redini. Ha
avuto un incontro con uno dei primi infermieri ad aver soccorso suo
padre all'ospedale e ciò che ne ha ricavato è
stato solo farsi dire
che era loquace e parlava del tempo. E la serie di numeri in
notifica? Ah, poi sì, abbiamo anche saputo da James Olsen
che, in realtà,
Kara si era già dichiarata ma era troppo ubriaca per
ricordarlo:
Lena sa.
Tanto
impegno per una cosa che non sapeva di aver già fatto, anche
se non
certo come aveva in mente °°
La
situazione sembra sempre più complicarsi, eh? Eppure sono
ora vicine quanto mai lo sono state e prevedo che nel prossimo capitolo
le cose prenderanno una piega diversa...
La
pubblicazione torna di lunedì, lunedì 4 giugno,
con il prossimo
capitolo che si intitola Fretta di vincere :3 Non
mancate e
buona domenica!
|
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Capitolo 16 *** 15. Fretta di vincere ***
Saltava
da un muro all'altro. Faceva un balzo, si teneva con una mano in una
sporgenza e tornava giù saltellando. Faceva un lungo
percorso urbano
con salti e corsa, capriole a mezz'aria, saltando su bambini in fila
senza sfiorarli. In una clip, si arrampicava in mezzo a due stretti
palazzi, passando da un cornicione all'altro con dei salti precisi e
calcolati, con eleganza, senza mai dare la parvenza di poter cadere,
leggera come l'aria. Una volta giù rifacendo lo stesso
percorso al
contrario, si toglieva gli occhialini da aviatore e una cuffietta,
liberando i mossi capelli a caschetto, salutando la telecamera.
Le
ragazze borbottavano nel panico, guardando un video dopo l'altro
attraverso un unico cellulare mantenuto da una di loro al centro.
Megan vide che Kara stava tornando, così si
staccò dal gruppetto e
le andò incontro. Erano fuori, al campo da lacrosse per
l'allenamento con il tempo che per fortuna sembrava dalla loro parte:
qualche nuvola e sole tiepido.
«Allora?
Tutto a posto con Mike?», le chiese subito scorgendo il
ragazzo che
lasciava il campo. Avevano deciso di tornare in amicizia, o almeno di
tentarci.
«Sì,
mi ha chiesto se ci alleniamo insieme questa sera e magari un aiuto
mi servirebbe pure in vista della partita contro Gotham».
«Già,
a proposito…», le indicò le ragazze
della squadra incantate a
quel cellulare. Si avvicinarono insieme, tenendo d'occhio Mike che si
univa ad altri ragazzi, in fondo. «Tenterà un modo
per tornare con
te», le bisbigliò.
«Sì,
immagino di sì, ma…», scosse brevemente
la testa e l'altra
sorrise.
«Il
tuo cuore è già impegnato», sorrise a
sua volta, colpendola con
una gomitata complice.
Kara
non rispose, guardando il resto della squadra e battendo le mani per
richiamarle: «Va bene, la pausa è finita!
Sull'attenti». Nessuna
si mosse e Kara sbuffò.
«C'è
una cosa di cui dovresti essere a conoscenza»,
esclamò Megan.
«Me
lo dirai dopo. Ehi»,
urlò alle ragazze, «A qualcuna di voi interessa
ancora giocare a
lacrosse?».
«Dovresti
saperla adesso, Kara», insisté.
«Dopo».
«Adesso:
è su Selina Kyle», indicò il cellulare,
«Ci sono dei video».
Kara
abbandonò la sua posa dura e corse dalle sue compagne di
squadra,
prendendo il cellulare e guardando con i suoi occhi, spalancandoli
sconvolta, la ragazza che sorpassava con un salto un auto in
movimento.
«È
diventata piuttosto brava con il parkour dall'ultima volta che ci
siamo scontrate… I suoi video spopolano e a Gotham sta
diventando
famosa», fece notare Megan. Altre ragazze concordarono con
lei,
aggiungendo apprezzamenti su quanto era brava, che sarebbe stato
difficile prenderle la palla, che era diventata troppo brava per
loro. Megan sentì Kara grugnire, lasciando il cellulare e
ritornando
alla sua posizione iniziale.
«Questo
cambia qualcosa per qualcuna di voi?», domandò a
voce alta,
guardandole in faccia una per una. «Lasciate perdere Selina
Kyle e
il parkour! Pensiamo al nostro: alleniamoci, facciamo del nostro
meglio e ricordatevi che l'unico vero avversario che dovete
sconfiggere siete voi stesse ogni volta che diventate più
brave. Al
resto penseremo in campo quando ci ritroveremo faccia a faccia con
lei e la sua squadra. Non voglio sentire nessuna di voi lamentarsi
che pensa di non essere all'altezza», disse con motivazione.
«E
adesso riprendiamo coi giri di campo, poi con i tiri in
porta»,
indicò una ragazza, il portiere, che annuì.
«Forza, muovetevi!
Almeno venti per scaldarci». Tutte partirono e Kara
sospirò non
appena non poterono vederla.
Prima
di seguire le altre, Megan la affiancò. «Quindi
non sei
preoccupata? Il vero avversario siamo noi stesse?».
Kara
gonfiò le guance e aggrottò le sopracciglia,
mostrando una smorfia
indispettita. «Odio q-quella Selina Kyle e il suo
parkour».
Dopo
qualche analisi sul pacco destinato a Lena Luthor per assicurarsi che
non contenesse niente
di pericoloso, John Jonzz diede l'ordine di aprirlo e un agente
eseguì; tuttavia, l'unica cosa che il D.A.O.
trovò era tanta carta
arricciata e un foglio liscio, pulito, con su scritta solo una riga
di numeri.
Lena
Luthor ci aveva passato su qualche ora quella notte. Aveva provato di
tutto: numero di telefono, numero di un conto, di una password, aveva
provato a decifrare le lettere corrispondenti ai numeri per ottenere
delle parole, ma non c'era stato verso, finché non ebbe
un'illuminazione: creò dei piccoli gruppi e aggiunse i segni
corrispondenti così, davanti al pc, fece una prova,
sorridendo
compiaciuta. Si era fatta una bella dormita e l'indomani aveva
passato le ore tra l'università e la Luthor Corp, poi,
arrivata alla
conclusione che era la cosa giusta da fare dal momento che ormai
sapeva la verità, aveva deciso di chiamare Kara. Dirle tutto
era una
scommessa continua perché temeva di metterla in pericolo, ma
nasconderle le cose non aveva fatto bene l'ultima volta e, se nessun
altro avesse scoperto che lei sapeva, allora era protetta, si
giustificava. E averla dalla sua parte rendeva più sicura
anche lei.
Se Alex avesse scoperto che lo aveva detto a Kara… Di certo
si
sarebbe arrabbiata; d'altronde si sarebbe arrabbiata comunque, dal
momento che le aveva consigliato di farsi da parte. Alex Danvers non
sapeva che farsi da parte era qualcosa che lei proprio non riusciva a
fare.
«Ehi…
Come stai?», le chiese per cellulare mentre stava seduta di
peso
sulla sedia girevole di camera sua, spostandosi con i talloni dei
piedi coperti da sole calze velate. «Ho novità.
Però non penso che
parlarne al telefono sia una buona idea… perché
non vieni da me?
Sì, Kara, casa mia», si lasciò sfuggire
una piccola risata,
«Tecnicamente ora è anche casa tua e sia dia il
caso che tu non ci
sia ancora venuta di persona», mordicchiò il tappo
di una penna,
presa dalla discussione. Fece una smorfia con le labbra, ascoltando
la voce dall'altro capo. «No, certo, non voglio rubare tempo
al tuo
allenamento… Sì, le novità riguardano-
Va bene, ti aspetto»,
annuì con un sorriso, «Nessuna fretta, Kara. A
questo pomeriggio».
Era
forse un po' egoistico da parte sua non vedere l'ora che arrivasse.
Perfino condividere con lei una cosa spaventosa come quella, scoprire
cosa fosse successo a suo padre, diventava più facile.
Lasciò
la sedia e si diresse in bagno, decisa a immergersi nella vasca piena
fino all'orlo e rilassarsi.
Dall'altra
parte, intanto, Kara riattaccò la chiamata col cuore in
gola. Non
voleva che fosse fraintesa, voleva davvero aiutare Lena a sapere cosa
esattamente era successo a suo padre, ma andare da lei era un passo
falso. Lena non parlava e lei non parlava, ma la situazione tra loro
era ormai irrimediabilmente parecchio ambigua. Lena lo sapeva, era
inutile girarci intorno, eppure dirglielo le sembrava lo stesso tanto
difficile. Con la situazione di suo padre, poi, non voleva sbagliare
momento e risultare inappropriata.
Così,
infine, rinunciò all'allenamento con Mike, si fece una
corsa, una
doccia, e uscì per andare da Lena. Le aveva dato indicazioni
in più
per messaggio ma Kara aveva dovuto affidarsi quasi completamente al
suo istinto per non perdersi: era la prima volta in assoluto che si
inoltrava nella zona residenziale interna di National City. E
capì
presto, se non altro, poiché i Luthor si facessero sempre
portare in
auto da Ferdinand: c'era davvero parecchio da camminare seguendo la
pulita strada asfaltata, sul marciapiede che tagliava grandi distese
di terreno verdi e fioriti, tutti recintati. Tuttavia per lei non era
un problema camminare e, anzi, non le sembrava vero di poter
passeggiare sotto gli alberi che perdevano le prime foglie, ammirare
i paesaggi, salutare dei cagnolini che si erano affacciati da un
cancello, fotografare gli uccellini che riusciva a vedere e chiamare
degli anatroccoli lontani che seguivano la madre danzando goffamente
sull'erba fino a tuffarsi nella distesa di un lago. Era un luogo
protetto dallo smog in mezzo alla città, passando per un
vicolo
dietro un ospedale e negozi, e le era come sembrato di entrare nella
tana del Bianconiglio.
«Sono
contenta che tu e Lena siate diventate così amiche. Sorelle
sembrerebbe strano, ma si può parlare di amicizia»,
sentì dire da Alex al telefono e Kara digrignò i
denti, non proprio
d'accordo. «Verrà
anche alla tua partita?».
«Sì,
ha detto che ci sarà», mantenne il cellulare
contro una spalla
mentre accarezzava una gattina seduta sulle sbarre di un cancello,
facendo smorfie con la bocca per parlarle con una bassa vocina.
«Meno
male, sono contenta! Perché è probabile che io
non ci sia,
stavolta».
«Cosa?»,
si raddrizzò di colpo con la schiena, infastidendo la
micetta che
scappò via tra i cespugli. «Non ci
sarai?».
«Ooh,
mi dispiace, sorellina… Ma Maggie ed io avevamo prenotato
fuori e
Jamie vuole andare a vedere i delfini, così…
Glielo avevamo
promesso».
«M-Ma
la partita… Non hai mai perso una mia partita
ufficiale»,
ricominciò a camminare, mettendo su il broncio.
«La
partita è capitata proprio quel giorno
e…».
«Quindi
volevi dire che è sicuro
che non ci sarai».
«Sì.
Non ci sarò»,
la sentì sbuffare, «Mi
dispiace, Kara. Non mancherò mai più, lo
prometto».
«Non
fare promesse che non puoi mantenere», calciò una
foglia a terra,
sorpassando un altro terreno e un altro cancello.
«Non
legartela al dito in questo modo, per favore… E ti
scriverò per
gli auguri! Adesso devo andare. Ci… sentiamo più
tardi? Chiamami
stasera, o ti chiamo io».
«Va
bene, sorellona. Ti chiamo. Stasera».
«Davvero,
Kara».
«Davvero.
Ti chiamo io». La salutò e chiuse la chiamata,
alzando lo sguardo
al cielo limpido incorniciato dalle foglie scure degli alberi.
Sorrise. Era dispiaciuta che Alex non ci sarebbe stata ovviamente,
non mancava mai, ma amava farle credere di essere ancora più
dispiaciuta, e magari arrabbiata, di quello che era in
realtà: era
quasi il suo modo di assicurarsi che per lei ci sarebbe sempre stata.
Superò
un'altra villa prima di imbattersi in verde e nient'altro che verde
per un po', prima del prossimo cancello, altissimo e dorato. Era
arrivata. Alla sua destra, nel muro prima del cancello, vi era
affissa una targa con su scolpito Luthor;
rise vedendo che, manualmente, era stato attaccato con un nastro
adesivo un pezzo di foglio plastificato con su scritto Danvers.
Alzò il naso e guardò in mezzo alle sbarre, oltre
alla strada
circondata da aiuole e cespugli fioriti, osservando la grande villa
dei Luthor. Non sapeva se era la sua impressione, ma le sembrava
perfino più grande di altre villette sorpassate prima. Era
bianca e
alcuni muri, al pian terreno, erano composti da grigi mattoni a
vista. Vedeva una terrazza e colonne e lampioni. Suonò il
campanello
e la nasale voce di Lena le rispose al citofono: «Ce ne hai
messo di
tempo». Kara sorrise e intravide la porta aprirsi e lei
affacciarsi,
a braccia a conserte, nell'ingresso, mentre il cancello scorreva per
lasciarla passare. Camminò sulla strada asfaltata
guardandosi
intorno con curiosità. Sorpassò la rotonda
lentamente, guardando
che alla sua sinistra, oltre agli alberi, c'era un altro edificio,
più piccolo, che seguiva lo stesso stile della villa. Alla
sua
destra, invece, la strada proseguiva verso il garage. Lena
l'aspettava appoggiata contro una colonna di mattoni grigi. Kara la
squadrò con attenzione: calze corte e leggins neri al
ginocchio, una
maglietta larga che le scopriva una spalla, a maniche corte, i
capelli arruffati tenuti all'indietro con quella che le sembrava
proprio una matita. Senza trucco, semplice, bella come sempre. Si
immaginava ad andarle incontro saltellando per poi stringerla a
sé e
baciarla con passione… Le sue labbra così
vicine… oh, accidenti.
«Non
ci credo che ti sei persa, la strada è tutta dritta! Avrei
dovuto
insistere e mandarti la macchina».
Lena
l'abbracciò in modo goffo, non era mai successo, come se
all'improvviso non si ricordasse come si facesse e Kara la
guidò,
passandole una mano sulla schiena. «È che non sono
mai stata da
queste parti! Ho fatto delle foto, ogni tanto mi sono
fermata…»,
ansimò, guardandosi di nuovo attorno, «E
così è qui che abiti,
eh? Modesto…», rise e l'altra con lei, scuotendo
la testa.
«Non
hai idea di quanto! Vieni, ti faccio fare un tour».
La
fece accomodare davanti a lei e Kara si ritrovò in un ampio
ingresso
circolare: c'erano delle piante nei vasi, due bassi mobiletti in
legno, l'appendiabiti, quadri su cui erano dipinte le onde del mare
appesi nelle pareti bianco grigie, ai lati le scale per il piano
superiore che incorniciavano la stanza in modo elegante, sotto di
loro ingressi ad altre zone della casa, ad arco. Le scale
affacciavano su un soppalco protetto da una ringhiera in legno scuro
e, sotto, davanti a loro, l'ingresso finiva con lo scalino di quello
che sembrava un soggiorno, ma era molto più grande e
spazioso di
come solitamente Kara definiva un soggiorno. Era un magnifico salone.
«Seguimi»,
le disse Lena, prendendola per mano con coraggio. «Grossomodo
ti
avevo già fatto vedere quasi tutto in videochiamata, ma dal
vivo è
un po' diverso».
Kara
non riusciva a smettere di stupirsi, a bocca aperta. Un ampio tappeto
rettangolare stava sotto un tavolo e sedie; per centrotavola un vaso
dipinto a mano su cui erano immerse rose rosa. C'erano innumerevoli
quadri di paesaggi, cavalli, ritratti antichi di chissà
quale avo.
Su una parete, tra un angolo vicino a una portafinestra e un camino
chiuso, una grande cristalliera antica e davanti, adagiata su un
comodo e rotondo tappeto bianco, un pianoforte scuro. Kara
trascinò
Lena nella sua direzione.
«Questo
non lo avevo visto in videochiamata. Sai suonare?», le chiese
stupita e vide Lena annuire, abbozzando un sorriso.
«Non
lo faccio più come prima, sono piuttosto arrugginita, ma
sì, so
suonare».
«Non
me lo avevi detto», lasciò andare la sua presa,
che la metteva a
disagio, e le picchiettò una spalla. «Al
ristorante mi hai fatto
fare una figura, quella volta».
«Te
la sei cavata benissimo, direi», controbatté. Si
avvicinò alla
portafinestra e sollevò la tenda dai toni chiari,
mostrandole il
giardino: c'erano altre piante nei vasi coperte dalla tenda da sole
e, più avanti, verso sinistra e dietro gli alberi, si
intravedeva
l'altro piccolo edificio. «Lì c'è la
dependance, magari te la
faccio vedere dopo».
Dal
soggiorno entrarono nella sala da pranzo: Kara riconobbe alcuni
dettagli sullo sfondo e le pareti sul giallo. C'era un tavolo e le
sedie intorno, sul muro un grande televisore e, davanti, la zona
cucina, con penisola che riconosceva poiché Lena si era
videochiamata spesso seduta lì mentre beveva
caffè. Le fece vedere
che anche da lì si accedeva al giardino e all'ingresso, poi
tornarono indietro, le mostrò il bagno di servizio, che Kara
notò
brillava come uno specchio nero e rosa, sorpassarono il divano dai
toni chiari che si estendeva per metà salone, curvando
intorno a un
tavolino di vetro, così le fece vedere la biblioteca, non
mancandole
di farle notare che anche da lì si usciva in giardino o si
passava
all'ingresso o, aprendo un'altra porta, verso il garage: Kara
spalancò gli occhi vedendo che erano presenti tre macchine e
c'era
il posto vuoto di una quarta, che doveva essere quella nera che
solitamente guidava Ferdinand. Così Lena la portò
su per altre
scale, ritornando in soggiorno.
«Siete
voi», esclamò fermandosi a metà scala,
notando che sulla parete
erano affisse nei quadretti delle fotografie di famiglia. C'era una
Lena bambina con suo padre che la teneva in braccio, con sfondo il
molo e una barca. In un'altra foto un giovane Lionel Luthor era da
solo in un ritratto in bianco e nero. In un'altra foto c'erano Lionel
e Lillian insieme, stranamente abbracciati, erano giovani. C'erano
davvero tante foto di Lena bambina e poi ragazza, ma quelle di un
altro bambino erano almeno il doppio. Era la prima volta che Kara
vedeva Lex, capelli arruffati che mangiava un gelato, che teneva in
mano un diploma dritto con la schiena, a fianco a suo padre, seri
entrambi, o in sella a quella che sembrava la sua prima bicicletta.
Il taglio degli occhi era indubbiamente quello di suo padre, pensava
Kara, ma lo sguardo era assolutamente quello di Lillian Luthor. In
una foto, Lex e Lena erano in groppa a un cavallo insieme, con lui
che stringeva lei davanti, piccolina. Non erano poche le foto in cui
i due comparivano insieme e in molte di quelle, specialmente quando
Lena era piccola, lui sembrava proteggerla e stringerla a
sé. Si
vedeva che erano molto legati.
«Sali»,
le disse, attirando la sua attenzione, «Vieni qui».
La
fece fermare su di uno scalino in particolare e Kara scoppiò
a
ridere, scoprendo altre foto interessanti: Lillian ed Eliza insieme
in piscina, in un parco, in un'altra erano vestite da cerimonia e
Lena le fece notare che era stata scattata durante la loro festa di
fidanzamento. Come se non bastasse, in altre foto comparivano loro e
non ricordava neppure quando erano state scattate. Come lei e Alex
che leggevano una rivista sedute sul divano di casa Danvers-Luthor,
di schiena. In una foto c'era solo Biancopelo, l'amato gatto che era
stato scambiato per procione ed era rimasto con loro per poco. In
un'altra foto c'erano lei e Lena che si scambiavano uno sguardo.
Trangugiò,
capendo che erano state colte nel fatto. Erano state colte nel fatto
eppure quella foto era lì, appesa in mezzo a tante altre
senza
sospetto, ricordando di quando Lena le disse che avrebbero potuto
avere una relazione sotto il loro naso che non si sarebbero accorte
di nulla. Quella foto era così compromettente ai suoi occhi,
e così
innocente per quelli di Lillian Luthor che l'aveva scattata e fatta
incorniciare. Guardò la ragazza con la coda dell'occhio e
ritrovò i
suoi occhi chiari, mai così caldi, che la fissavano. Anche
lei
doveva aver pensato lo stesso.
Salirono
al piano superiore e si affacciarono dal soppalco verso l'ingresso da
cui erano entrate, mostrandole la botola per salire in soffitta, poi
Kara seguì Lena in un lungo corridoio e le aprì
davanti una porta
dopo l'altra, mostrandole velocemente un bagno, uno studio, un altro
studio più grande, una camera degli ospiti e un'altra camera
degli
ospiti, dichiarandole che sua madre aveva intenzione di chiedere a
lei e ad Alex di sceglierne una da far diventare la loro stanza, poi
un altro bagno. Saltò una porta e aprì quella di
Lex, buia, e poi
quella della camera delle loro madri, mostrandogliela velocemente,
rivelandole che la camera oltre al bagno privato accedeva alla
terrazza. Poi le mostrò brevemente un altro studio
più piccolo e
così aprì l'ultima porta, quella che aveva
saltato, dicendole che
era la sua camera.
Solo
in quel momento, come colpita da un'illuminazione improvvisa, Kara si
rese conto che erano da sole in quella grande villa. Da sole.
«N-Non
avete anche dei cavalli?», domandò di punto in
bianco e Lena annuì.
«Hai
ragione, seguimi». Si affrettò a indossare delle
ciabatte e tornò
indietro per il corridoio.
Cessato
allarme.
Cessato
allarme,
ripeteva nella mente, mentre piano sospirava. Uscirono da una
portafinestra
nel
salone
e Lena decise di mostrarle anche la dependance. C'era un soggiorno
che faceva anche da ingresso e sembrava adibito a zona relax, con
cuscini, televisore, peluche, divano e poltrone. C'era una cucina
più
piccola di quella della villa ma completa di tutto. Un bagno. Una
camera con letto matrimoniale, una con due letti singoli e un'altra
porta, dopo
qualche scalino, si affacciava
il
magazzino, buio, dove Lena le fece notare stavano sistemando
provvisoriamente le cose di suo padre. Uscendo dalla dependance, Lena
seguì una strada di piastrelle giallognole che portava
dietro la
villa, oltre qualche albero, a una recinzione. Aprì il
cancelletto e
Kara, oltre alla stalla, non poté fare a meno di notare a
quanto
fosse immenso il terreno che seguiva la recinzione. Una distesa verde
e a tratti fiorita, con qualche albero e cespuglio. Si avvicinarono
alla stalla e Lena le disse subito di stare attenta a dove metteva i
piedi per via del fango, appena in tempo che Kara scivolò un
piede e
si mantenne a lei, con
un po' di
imbarazzo.
«Lei
è Principessa», esclamò davanti a uno
dei box della stalla e si
affacciò subito l'enorme facciona di un cavallo bianco.
«Rispondeva
già a questo nome quando l'abbiamo acquistata», ci
tenne a
precisare e Kara sorrise, osservandola accarezzarle il muso e il
cavallo, buono, fidandosi ciecamente delle sue mani delicate.
«Non
ti morde», le disse, disincantandola, «Vuoi
provare?».
«Modestamente,
sono piuttosto brava coi cavalli», rispose con orgoglio. Con
un
ampio sorriso stampato in faccia, allungò una mano
lentamente e
cominciò ad accarezzarla.
«Hai
ragione», le sorrise a sua volta, «Allora sei
pronta per salirle in
groppa». Carezzò ancora Principessa e
aprì il box, mentre Kara
sbiancava.
«No».
«Sì».
«No.
Emh, Lena… Accarezzarla è ben diverso dal salirle
sopra»,
ridacchiò con palese nervosismo e Lena la guardò
con malizia,
intanto che sistemava una sella sopra il cavallo.
«Non
ti accadrà nulla, ci sono io», sorrise, toccandole
la punta del
naso, «Starete ferme e Principessa è
buonissima». Prese il cavallo
e l'accompagnò fuori dalla stalla, seguita da una Kara in
bilico,
temendo di scivolare di nuovo sul fango. «E ti voglio
piacevolmente
ricordare che per te mi sono gettata da una piscina alta metri su un
materassino; che era mezzo sgonfio, perfino».
«Per
me?».
Lena le sorrise e Kara arrossì, capendo di averlo detto a
voce alta.
«Dai,
monta su».
«I-Io
non so… non so da dove-», guardò la
sella da un punto all'altro e
Lena si portò dietro di lei, mostrandole come si faceva. Il
piede
destro, tirarsi su, portare la gamba sinistra dall'altra parte e
sedersi. Nonostante la paura riuscì al primo colpo e sorrise
entusiasta, accarezzando Principessa sul collo.
«Beh,
niente male, Kara Danvers…», si
complimentò, «Allora forse
riusciresti anche anche a galoppare un pochino».
Si
voltò di scatto, presa dalla paura. «Oh, no, no,
assolutamente no!
Ho paura di farle male, non-non sono capace, Lena».
La
ragazza scosse la testa e si aggrappò alla sella, sedendo
dietro di
lei e prendendole da sotto le mani le redini. «Un giro veloce
o
Principessa soffrirà per il peso, non è
abituata», le disse
soffiandole in un orecchio e Kara arrossì, annuendo.
Lena
scoccò le redini e Principessa partì, mentre
Kara, goffamente,
tentava di mantenersi prima ai ciuffi della criniera del cavallo e
poi alla sella. Sembrava spaventoso all'inizio, Principessa era
veloce e continuava a sballottarle su e giù, ma a un certo
punto
iniziò a rilassarsi e a godersi il panorama, il percorso, la
brezza
sul viso, il cielo sereno e i palazzi di National City che spuntavano
dietro gli alberi. Il respiro di Lena sul collo. Oh, sì, il
suo
respiro caldo che le solleticava la pelle.
Fecero
il giro e tornarono lentamente alla stalla. Principessa era
tranquilla e conosceva la strada, così Lena
sembrò approfittare del
momento e Kara non se lo aspettava, ma l'abbracciò,
poggiandole la
testa su una spalla. D'un tratto, e senza usare parole, era come se
Lena si fosse dichiarata per prima. Kara non poteva muoversi dalla
sua posizione, e forse l'altra aveva osato proprio per quella
ragione, così l'unica cosa che si azzardò a fare
fu alzare le
braccia e poggiare le mani, stringere appena, sulle sue braccia. Era
l'unico ricambio all'abbraccio che poteva.
«L-Lena…»,
deglutì, capendo che toccava a lei. «V-Volevo
dirti una cosa».
Principessa
si fermò e Lena la lasciò andare di fretta,
scendendo da cavallo.
Kara la vide sospirare, cercando di non guardarla negli occhi.
«Andiamo, Kara. Devo ancora dirti cos'ho scoperto questa
notte».
«Giusto»,
annuì, cercando di restare seria. L'aveva interrotta di
proposito,
certo… Lei aveva deciso di dichiararsi perché la
vita era una e
voleva viverla appieno, ma forse Lena non era dello stesso avviso e
l'abbraccio rubato in un momento che non poteva ricambiare ne era la
prova. Trattenne uno sbuffo, pensando che avrebbe dovuto immaginarlo.
«Andiamo».
Kara
arrossì. «Non posso».
«…
Perché?».
«Beh…
non so scendere».
«Come
sei salita, sciocca», rise.
Dopo
averla aiutata a scendere da cavallo, Lena liberò anche gli
altri
tre cavalli, tutti di un bellissimo e lucente marrone, e li
lasciò
correre, dichiarando che li avrebbe fatti rientrare prima del
tramonto. Tornarono dentro
e nella camera di Lena, che prima, per paura di restare lì
dentro da
sola con lei, Kara non
aveva
dato nemmeno un'occhiata. Era spaziosa, elegante come lo era lei,
ordinata e ben illuminata. C'era una scrivania moderna vicino alla
porta, una libreria e un mobile. Nella parete a destra un armadio a
quattro ante, una poltrona e la porta del bagno privato. Davanti il
letto, a due piazze; il comodino a sinistra del letto e un altro
mobile a destra. Nell'ultima parete erano disposte tre finestre e
sotto dei cuscini da terra e un tappeto, vicino una sedia. Era
accogliente e i dettagli la rendevano personale. Come i quadretti
appesi alle pareti che davano un tocco di colore caldo alla stanza. O
la parte dell'armadio che dava alla porta su cui aveva attaccato
parecchi post it di quelli che sembravano appunti. Nella parete sopra
il letto era appeso un arazzo con una citazione letteraria dello
scrittore in lingua romena Efim Tarlapan,
Se
sei libero sei tu che crei il mondo; se non sei libero il mondo crea
te,
con sfondo piccoli pesci colorati tutti
diversi che
nuotavano nel mare. Ma la cosa che più di tutti aveva
attratto Kara,
erano dei trofei sulla
bacheca
vicino alla libreria. Si avvicinò rapidamente e ne
sfiorò uno, che
aveva l'aspetto della torre degli scacchi. Lesse e la guardò
senza
fiato:
«Sei
una campionessa di scacchi?».
Lena
prese la sedia vicino alla finestra e la portò davanti alla
scrivania accanto alla sua, non trattenendo una breve risata: Kara
sembrava sempre così sorpresa. «Sì. La
cosa ti stupisce tanto?».
«Non
è che mi stupisca in quel senso, ma…»,
li guardò di nuovo uno ad
uno, adocchiando quanti primi posto erano presenti,
«è che non me
ne hai mai parlato».
«Non
ne abbiamo avuto occasione, credo», si sedette con lo sguardo
rivolto a lei, mentre il suo laptop si accendeva. «Ho
partecipato a
vari tornei dalle scuole elementari, ho smesso dopo il liceo. Troppe
cose a cui pensare, presumo».
«Wow…»,
bofonchiò rapita, «Ci sono ancora un sacco di cose
che non so di
te».
«Potrai
scoprirle quando vorrai», rispose e mantenne un sorriso fino
a
quando Kara si sedette accanto a lei: era il momento di parlare di
cose serie. Aprì la pagina del forum di medicina e
così il
messaggio privato, poi la sua casella email e le mostrò la
stessa
serie di numeri arrivata da un account sconosciuto a cui non
rispondeva nessuno. «Deve essere stata la ex segretaria di
mia
madre, per assicurarsi che arrivassero».
Kara
aggrottò le sopracciglia. «Ma a cosa si
riferiscono?».
Lena
copiò e incollò la serie di numeri che aveva
aggiustato durante la
notte e, quando inviò, il mondo ruotò, cambio
velocemente e si
avvicinò sempre di più a una zona specifica,
fermandosi infine su
una via, contrassegnando un'abitazione.
Kara
riconobbe subito Central City. «Coordinate…
È dove abita…?»
Lena
cliccò e si aprì la foto di una casa del luogo.
«Sono stata un po'
sciocca a non pensarci subito: doveva aiutarmi a ritrovare il
coroner, quindi mi ha inviato la sua posizione. Non è andato
poi
così lontano», esclamò, guardando la
casa e dopo lei. «A questo
punto, immagino che sia scomparsa di proposito per non farsi
coinvolgere».
«Ci
andremo», concluse Kara con determinazione.
«Sappiamo dov'è, non
ci resta che andarci a parlare».
«Vieni
anche tu?».
«Certo».
«Ottimo.
Pensavo di pernottare in un albergo: una notte dovrebbe essere
sufficiente».
«Non
è lontana da casa del mio amico Barry: prima chiedo a lui se
può
ospitarci», sorrise. «Mi ha sempre detto di andarlo
a trovare
quando voglio e se vado lì e non mi faccio sentire
chissà cosa
penserà».
Lena
perse il suo sorriso, non del tutto convinta che fosse una buona
idea. «Kara, ne sei sicura? Come faremo a spiegargli il
motivo della
nostra visita?».
Lei,
che stava già prendendo in mano il cellulare, si
fermò
soprappensiero. «Hai ragione. Sono certa che se dovessi dire
a Barry
il reale motivo per cui andiamo capirebbe, insomma, senza perderci in
dettagli, manterrebbe il segreto, ma se non te la senti vada per
l'albergo. Mi sta bene».
«Ti
fidi di lui?». Kara annuì e Lena
sospirò, alzandosi dalla sedia,
con improvvisa voglia di muoversi. «Allora mi fido del tuo
giudizio.
Una mano in più potrebbe tornarci utile,
dopotutto».
Gli
telefonò davanti a Lena, che le suggeriva cosa dirgli, e lui
rispose
che le avrebbe fatto sapere, ma le era parso piuttosto entusiasta.
«Mangi
qualcosa?».
Kara
sorrise e, scuotendo al testa con aria canzonatoria, Lena le fece
strada. Scesero di nuovo in cucina, con Kara che continuava a
guardarsi intorno e a scoprire cose nuove, come alcuni vasi che
sembravano antichi o il taglio delle colonne che reggeva l'enorme
salone. Le toccò, come per assicurarsi che non fossero
finte.
«Questa
casa è enorme… Come fai a non perderti tutte le
sere?», roteò su
se stessa, seguendola per la cucina, «Dovessi fare una caccia
al
tesoro qui, ci metterei dei giorni».
Lena
rise, aprendo la porta che dava al giardino per far passare un po'
d'aria. «Eliza si perde spesso, infatti».
«Okay,
cosa mangiamo?», si poggiò al bancone della
penisola, osservandola
dalle finestre che riempivano quasi l'intera cucina intanto che si
spostava fuori, sistemando chissà cosa.
«Prova
a guardare se sono rimasti dei gelati, altrimenti ti preparo
qualcosa».
Kara
si spostò curiosa, guardandosi intorno alla ricerca del
freezer.
«Sai cucinare?».
«Qualcosa»,
rispose, rientrando.
Aprì
il pensile di legno e rimase perplessa: era sicuramente una parte del
frigo, ma era pieno di alcolici su ogni ripiano.
Lena
rise, dietro di lei. «Ah, sì, hai trovato l'angolo
della casa
preferito di mia madre! Ti dirò che da quando Eliza abita
qui beve
molto meno del solito, ma li ama troppo per separarsene».
Richiuse e
le ordinò di andare a sedersi, così Kara
piantò i piedi, indecisa
se farlo lì davanti al bancone, davanti al tavolo in
sala da pranzo,
o nel divanetto o in una delle poltrone davanti alla tv, ma
quanto era grande quella tv,
o in uno degli sgabelli accanto a una delle finestre. Quella cucina
era più grande della sua camera e di quella di Alex messe
insieme,
pensò. E forse poteva includerci il bagno. Anzi ne era
certa. Infine
decise di accomodarsi lì davanti al bancone, appoggiando i
gomiti
nell'osservarla muoversi. C'era uno scomparto del freezer in basso a
sinistra, ah,
e pure uno in alto a destra, più piccolo. Tirò
fuori una scatola di
gelati confezionati e gliela mostrò, così lei
annuì.
Andarono
fuori a mangiare, sedute su degli sdrai sotto una tenda da sole.
Sull'erba era montata un'altalena, vicino a un albero, e Lena le
disse che da bambina ci si era arrampicata spesso prima che Lillian
la vedesse e la sgridasse ricordandole che non stava allevando una
scimmia.
«Avrai
avuto un'infanzia particolare con lei come madre».
Lena
ingoiò del cioccolato, scambiandole un sorriso.
«All'inizio stavo
attenta che non mi sorprendesse, Lex mi aiutava e stava giù
per
assicurarsi che non avessi bisogno di aiuto, ma poi penso di averci
nutrito un certo gusto e cominciavo a farlo solo per
infastidirla»,
morse e mandò giù un altro boccone.
«Lei aveva tutto il resto: i
miei ottimi voti a scuola, le mie lezioni di piano private, le mie
buone maniere con gli ospiti, cosa dovevo indossare fuori e in casa
in sua presenza, chi dovessi frequentare e con che frequenza e
chissà
cos'altro non mi viene in mente, controllava tutta la mia
vita… Io
volevo solo essere una bambina come le altre e arrampicarmi su
quell'albero».
Kara
allungò i piedi, riuscendo a sentire il sole oltre la parte
coperta
dalla tenda sopra le loro teste, giocando a muoverli. «E gli
scacchi?», domandò, «Anche loro erano
solo qualcosa che Lillian
aveva programmato?».
«Gli
scacchi erano miei e di Lex. Anche lui faceva delle gare e sempre lui
mi ha insegnato a giocare. Le facevamo credere che anche quello fosse
una cosa sua, ogni volta che portavamo a casa un trofeo vinto era
inconsciamente per merito suo, portava prestigio alla famiglia, sai,
ma erano nostri. Erano una cosa nostra».
Parlarono
ancora un po' degli scacchi e delle numerose partite, molte di quelle
vinte, a cui aveva partecipato, facendole capire quanto per lei
fossero stati importanti al tempo, come univano lei e il suo fratello
maggiore, e come si era divertita. Kara ascoltava rapita e ogni tanto
sorrideva, annuiva o rideva, e Lena altrettanto. I due fratelli
sembravano molto più vicini in passato che ora e Kara si
domandò
cosa o come successe, pensando che forse sarebbe accaduto lo stesso a
lei e ad Alex, ricordandole che non ci sarebbe stata alla sua prima
partita di stagione. Qualsiasi cosa avesse separato in quel modo Lena
e Lex, era pronta a combattere perché non capitasse anche a
loro.
Fecero
una passeggiata in giardino e Lena le raccontò altri
aneddoti di
quando era bambina, Kara si lasciò prendere dall'entusiasmo
e
raccontò a sua volta di lei e dell'Alex scorbutica con cui
aveva
avuto a che fare.
«E
di quando eri con i tuoi genitori, Kara? Che tipo di bambina
eri?»,
le chiese. Si era seduta sull'erba appoggiata schiena contro
all'albero e Kara sull'altalena, guardando il cielo.
«Ero…»,
fece un sorriso malinconico, «felice», poi la
guardò. «Ero
felice, credo».
«Qual
è la prima mossa?», le chiese, «Da dove
dobbiamo partire per
approfondire cos'è successo a loro?». Lena le
aveva già mostrato
cos'avevano trovato lei e Winn ma non era più di quanto Kara
già
non sapesse.
«Pensavo
che entrare a lavorare alla CatCo fosse la prima mossa da
fare», la
vide annuire e proseguì. «Lavorare lì
mi darà accesso a vecchi
articoli, vecchie fonti… Non voglio correre, voglio fare le
cose
per bene, ma voglio farlo. Devo farlo», aggiunse.
«Hai
mai pensato di andare a parlare con le persone che sono finite agli
arresti?».
Kara
si fece più seria di colpo, deglutendo e così
riguardando il cielo.
«Sì, ma… non voglio farlo, non adesso.
È presto».
Lena
capì subito dalla sua reazione quanto era presto, decidendo
di non
insistere. «Lo sai che sarò con te,
vero?».
«Lo
so», le sorrise, «E adesso devo decisamente
andare», scese dal
sellino dell'altalena. Il cielo si stava colorando di giallo,
lontano, e non aveva intenzione di farsi la strada per il campus al
buio, considerando quanto doveva camminare. «Ti
farò sapere cosa mi
risponde Barry e a che ora sarà la partita»,
esclamò rientrando in
cucina, mani dietro la schiena e con un sorriso,
«Perché hai ancora
intenzione di venire a vedermi, non è vero? Alex non ci
sarà e sono
molto arrabbiata con lei per questo».
«Oh,
non ho intenzione di farti arrabbiare, quindi caschi il mondo
sarò
presente». Chiuse e Kara recuperò la sua borsa che
aveva lasciato
nell'ingresso, quando Lena l'ammonì di aspettarla che
sarebbe
tornata subito, sparendo su per le scale. «Ecco, questa l'ho
fatta
per te», le passò una foto, «Per fortuna
mi sono ricordata; puoi
aggiungerla al tuo muro, con le altre».
Kara
rise vedendo la foto che ritraeva lei con Biancopelo in braccio,
scattata nel giorno in cui stavano lasciando i volantini per strada
in modo da farlo ritrovare con sua famiglia. Si vedeva la fila di
negozi di sfondo, sfocati, il cielo limpido, il rossore sulle sue
gote mentre sorrideva e il micio quasi più in posa di lei,
con i
baffetti che le accarezzavano il mento. «Bellissima.
Grazie».
«Sei
sicura che non vuoi un passaggio in macchina? Si sta facendo
tardi».
«Scherzi?
Supergirl ha una partita a giorni e si deve allenare: duro lavoro,
camminare fa bene, devo tonificare i muscoli».
Lena
si lasciò sfuggire un'occhiata sulle sue braccia nude,
sospirando.
«Eh, sì… ne hai proprio
bisogno».
«Come?».
Rideva e non aveva ben sentito il suo bisbiglio.
«Che
tra poco si farà buio, Kara».
«Non
è un problema. Ah, considerando che sei così
gentile, mi piacerebbe
anche avere una copia di quella foto appesa sul muro, per le
scale».
«Quale?»,
portò le braccia a conserte.
«Quella
dove ci siamo noi, d-dove ci guardiamo, sì»,
rispose mal
nascondendo imbarazzo, fissandola negli occhi chiari.
L'altra
annuì, avvicinandosi. «Sarà
tua».
Kara
sorrise e Lena le guardò le labbra, di sfuggita, un solo
attimo, ma
lei se ne accorse. Alzò la mano destra e le
sfiorò una guancia
lentamente, spostandole un capello scuro, ma non la abbassò:
restò
lì, ad accarezzarle delicatamente la pelle fresca.
Socchiusero gli
occhi e si avvicinarono; lo volevano entrambe e non potevano tornare
indietro. Si sfiorarono le labbra ma la serratura di casa
scattò e
si separarono all'istante, guardando altrove, col cuore che batteva
furioso in petto.
«Lena!
Sei a casa?», la porta si aprì e le due scorsero
lo stretto chignon
dei capelli scuri di Lillian mentre era abbassata intenta a pulirsi
le scarpe. «Ho visto i cavalli liberi, è tardi-
Oh, sei qui», le
vide e sorrise di colpo, «E c'è anche
Kara».
«Kara
è qui?». Dietro di lei entrò anche
Eliza, sorridendo estasiata nel
vederle insieme. «Finalmente sei venuta! Ce ne hai messo di
tempo,
eh? Tua sorella è venuta qualche giorno fa, anche se si
è
trattenuta poco».
Kara
guardò Lena perplessa, mentre l'altra tratteneva una risata.
Le
abbracciò entrambe e lo fece anche Lillian, ricordando alla
figlia
di far rientrare i cavalli.
«Resti
a cena, Kara?», domandò quest'ultima camminando
verso l'ingresso
per la cucina.
«No,
no, grazie».
«Ma
si è fatto tardi, quando arriverai al campus ti
sarà già passato
l'appetito».
«Oh,
questo lo dubito», rispose Eliza, facendole l'occhiolino;
«Se non
vuoi tornare al campus, però, puoi sempre restare a
dormire».
«No,
no, no, no, no, no, non posso», scosse la testa presa dal
panico ed
Eliza la guardò con sospetto, non capendo il
perché di tanta
agitazione, intanto che Lena, al suo fianco, si portava una mano sul
viso, coprendo un sorriso divertito. «Se resto a dormire, non
potrò
svegliarmi presto andando direttamente ad allenarmi la mattina. E ho
la squadra, adesso sono il capitano, ho delle responsabilità
e siamo
contro Gotham e già m'immagino quella Kyle, la loro
capitano, che si
prende gioco di noi che non siamo bene allenate, quindi no, n-non
posso, non posso proprio», annuì con decisione.
L'aveva convinta.
Eliza
e Lillian le dissero di essere dispiaciute di non poter andare a
vederla per via del lavoro e Kara uscì dalla porta seguita
da Lena
con la scusa che sarebbe andata a far rientrare i cavalli. Il cielo
era arancio e si stava scurendo in fretta. Il cancello si
aprì e
Kara si portò subito dietro, guardando Lena di sfuggita. La
salutò
con un sorriso veloce e si voltò per andarsene, quando ebbe
un
sussulto e, cogliendo il momento, tornò indietro con uno
scatto, a
lei che si era rassegnata a vederla andare via, e le spinse le labbra
contro le sue. Lena cercò di trattenerla ma Kara strinse gli
occhi e
si separò, camminando via velocemente.
«Kara!
T-Ti accompagno in macchina? È da un po' che non guido
e-», le
gridò e lei continuò a camminare all'indietro,
girandosi per
regalarle un altro sorriso.
«Ci
sentiamo presto, Lena». Doveva andarsene, doveva andarsene
subito.
Il
cancello si richiuse davanti a Lena che, ormai bordeaux, sospirava.
Se l'avesse accompagnata, oh, sapeva che non l'avrebbe lasciata
andare, non dopo quello.
Accidenti.
Accidenti. Accidenti. Accidenti. No, no, cos'aveva fatto?! Accidenti.
Camminava
avanti e indietro con rigidità militare per il corridoio
davanti
alla sua camera, prendendo grossi bocconi d'aria. Ancora non aveva
avuto il coraggio di aprire e incontrare Megan. Ma doveva farlo, non
poteva passare lì la notte, doveva anche riposare prima di
un
allenamento serio ed erano già passate diverse studentesse
per
chiederle come si sentisse.
Accidenti.
Prese un altro respiro e si fece seria, aprendo la porta. Megan
guardava un film sul tablet, seduta davanti al tavolo e a un piatto
ancora mezzo pieno. Mise in pausa prima di girarsi e vederla.
«Finalmente!
Se mi avessi detto che facevi tanto tardi non ti avrei scaldato le
patate che a questo punto saranno fredde di nuovo… Che hai
sulla
faccia? Sei rossa».
Stava
trattenendo il respiro e infine scoppiò, mostrandole un
enorme
sorriso che si spense a breve, guardandola con gravosità.
«È
un evviva, sì? Oppure un no?».
«S-No»,
le corse incontro, prendendo la sedia accanto e sedendo di peso.
«È
terribile, Megan! L'ho baciata».
«E
non è fantastico?».
«Come
una bambina bacerebbe sua madre», si lamentò.
«Va
bene… questo è un po' meno fantastico».
Kara
si lasciò andare si peso sulla sedia e poi si
passò una mano sulla
fronte, amareggiata. «Avrei voluto che il primo bacio fosse
diverso
da un casto labbra contro labbra, m-ma erano tornate Eliza e Lillian
e… non lo so cosa mi sia preso, stavo andando via, non
dovevo
neppure baciarla, e poi l'ho fatto in quel modo e lei ha cercato di
fermarmi e io lo so», la guardò spalancando gli
occhi, «cosa
sarebbe successo se mi fossi fermata ancora o se mi avesse
accompagnata in macchina come voleva fare».
«Wow,
è… meglio delle soap, direi».
«L'ho
baciata, Megan. L'ho fatto».
Lei
annuì. «E io sono fiera di te, Supergirl, ma devo
aggiornarti su
qualcosa».
«Hai
finito di vedere per conto tuo gli episodi di Wynonna
Earp?».
«No»,
sbraitò, per poi sorridere, «Anche se avevo una
mezza idea ho
tenuto duro e non l'ho fatto! Si tratta di Catwoman».
«Chi?».
Megan
prese il tablet e tolse lo schermo intero del film, in modo da poter
aprire Instagram, sotto lo sguardo curioso di Kara.
«Catwoman»,
ribadì, «È così che si fa
chiamare adesso». Le mostrò lo
schermo e Kara impallidì, mugugnando qualcosa come Selina
Kyle
e guarda
quanti follower.
«C'è stata una rivoluzione sul suo account questo
pomeriggio: ha
postato un altro video dove fa parkour all'interno della sua
università e i like sono schizzati; molti qui dicono che
sarà tosta
batterla e alcuni», prese una breve pausa prima di dirlo a
una Kara
pronta a scoppiare, «pensano che perderemmo, ragazza. Che lei
è
diventata troppo agile, adesso. Si sta facendo una
pubblicità
esagerata, ancora poco e supera i follower dell'account della nostra
squadra».
Per
tutta risposta, Kara grugnì, cercando di mantenere la calma.
«Non
saranno i follower a farla vincere in campo, ma capisco come la cosa
possa farla sentire in vantaggio: avere tanti tifosi, un nome figo
tutto nuovo», fece una smorfia, «E allora
risponderemo per le rime.
Trovati un nome figo tutto nuovo anche tu», la
fissò, stringendo un
pugno e alzandosi in piedi. «Le faremo vedere contro chi ha a
che
fare».
«Oh,
ne ho uno! Mi chiamava così mia nonna quando ero bambina, ci
sono
affezionata».
«Perfetto.
Noi vinceremo».
Megan
era certa che una parte dell'euforia di Kara fosse imputabile al
bacio, seppur casto come quello di una bambina, con Lena. Era
agitata, ancora più distratta del solito, ma di certo ben
presa dal
suo obiettivo: vincere quella partita. Come se vincere ne dipendesse
la sua vita e a Megan stava bene poiché spronava la squadra
a dare
il massimo e avevano tutte cominciato ad apprezzarla di più
come
capitano.
«Le
krypto-cosa?»,
sbottò il signor Jonzz, guardando Megan a occhi sgranati,
fuori nel
campo da lacrosse.
«Kryptoniane.
È un nome inventato».
«Questo
lo avevo intuito». L'uomo si passò due dita sugli
occhi, cercando
di accumulare pazienza.
La
ragazza stava registrando un video per Instagram mentre la squadra,
sotto comando di Kara Danvers, faceva dei giri di campo per
scaldarsi. «Ci siamo dati dei nomi per attirare
più tifoseria», lo
guardò per un attimo, annuendo, «I social network
al giorno d'oggi
ricoprono funzioni importanti. Ti posso chiedere il
favore…?».
Lui
si lasciò andare a un verso contrariato, ma infine le prese
il
cellulare, accettando di registrare un altro video per la squadra.
«Staccherò a breve. Non ho intenzione di mostrare
in diretta i
vostri punti deboli».
«Punti
deboli?», ridacchiò, «Lo sai, tesoro,
che noi non ne abbiamo…
Non
dubitare di
Miss
Martian»,
gli mostrò il muscolo del braccio destro con scherno mentre
raggiungeva in campo le compagne e lui scosse poco la testa,
arrossendo.
Stava
per attaccare la ripresa video, quando tornò serio di colpo,
ricordandosi una cosa. Sfilò il cellulare dal taschino dei
pantaloni
neri e compose un numero, ascoltandolo squillare. «Sono io.
Aggiornamenti sugli appostamenti all'indirizzo? Va bene, di' di
continuare a darsi il cambio per coprire le ventiquattr'ore. L'agente
Danvers? Dille di andare a farsi quella vacanza che aveva programmato
senza tante cerimonie; se non ci sono aggiornamenti non abbiamo
bisogno di lei. A presto». Staccò, infilando di
nuovo il cellulare
nel taschino e così cominciando a filmare per l'account
Instagram.
Tirare
in porta, parare, lanciare, scontrare, recuperare la palla, correre,
tirare, segnare, ricominciare daccapo. Seguirono giorni di intensi
allenamenti per le kryptoniane, Supergirl e Miss Martian, come
avevano deciso di farsi conoscere su Instagram. I follower crescevano
e in un video lanciarono una sfida a chi sarebbe riuscito a batterle,
così Catwoman replicò con un altro video in cui
alternava spezzoni
di parkour a un discorso con la sua squadra su come si sarebbero
scontrate con quella della Sunrise di National City ma che non
avevano paura di scendere in campo. Si era aperta una battaglia a
colpi di like prima ancora che di lacrosse.
Kara
e Lena si erano risentite quando la prima ricevette da Barry il via
libera, aggiungendo che Joe, il suo padre affidatario, non vedeva
l'ora di averle come ospiti. Nessuna delle due parlò del
bacio che
c'era stato tra loro e sembravano avere intenzione di continuare per
quella strada, senza imbarazzi, in armonia. La ragazza parlò
anche
con sua sorella che aveva ignorato, anche se non di proposito, per un
po', sentendosi accusata di essere ancora arrabbiata per la sua
assenza alla partita. Kara fu costretta ad arrendersi e a dirle che
era contenta che lei andasse in vacanza con Maggie e Jamie e di non
pensare al lacrosse. E così ricominciò ad
allenarsi e a fare video
e foto per il social network.
Era
finalmente arrivato il gran giorno. Chi più e chi meno, la
mattina
la squadra era stata impegnata in qualche classe, ma come Kara aveva
suggerito, gli allenamenti erano finiti e dovevano riposare per stare
fresche durante la partita. Il signor Jonzz si rifiutò di
chiamarle
kryptoniane fino all'ultimo, quando appena prima della partita, in
spogliatoio, si lasciò andare a un discorso commosso su come
fosse
fiero di loro e che la stagione era iniziata con il piede giusto, che
avessero vinto oppure perso.
Uscirono
per raggiungere il campo già illuminato e ognuna di loro
cercò di
adocchiare sugli spalti la propria famiglia, intanto che il cielo si
faceva scuro. Kara sorrise radiosa quando incrociò lo
sguardo di
Lena. Era l'unica lì per lei, ma era anche l'unica che
davvero
desiderava lì per lei, al momento. Si infilò il
casco e fissò le
proprie compagne di squadra una per una, soddisfatta di come aveva
gestito la cosa come capitano.
«Supergirl».
Megan attirò la sua attenzione e le fece cenno con la testa,
così
si voltò, scoprendo che Selina Kyle, indosso divisa nera e
gialla di
Gotham e casco in testa, era diretta verso di lei con passo sicuro,
mantenendo la stecca su una spalla.
La
ragazza le mostrò la mano destra, senza guanto, pronta per
stringergliela. «Sarà una bella sfida. Che vinca
la migliore…
Supergirl».
Kara
sciolse la sua posa e le strinse la mano con piacere, togliendo anche
lei il guanto. «Lo sarà sicuramente…
Catwoman, eh?».
Lei
rise, canzonatoria. «Stammi dietro, kryptoniana. Se riesci,
s'intende».
«Avrò
segnato prima che tu possa sbattere le ciglia, gattina»,
rimbeccò.
Ognuna
raggiunse i propri posti accanto alle compagne e, quando l'arbitro
fischiò, si scatenò l'inferno.
Era
proprio vero che Selina Kyle era diventata ancora più agile,
scaltra
e veloce dall'ultimo incontro. Saltava in alto ed era difficile
intercettarla, così si liberava della difesa e segnava
sempre più
di frequente. Kara cercò di far restare alta la
concentrazione della
sua squadra che ai primi fallimenti buttava giù il morale e,
alla
fine del il primo quarto di tempo, il signor Jonzz le sgridò
di non
distrarsi come sembravano fare, poiché se dovevano perdere,
dovevano
farlo sapendo di aver dato il massimo per non avere rimpianti.
Ritornarono in campo con una nuova luce negli occhi e Kara
suggerì
la strategia.
«Fermo
io la Kyle, non preoccupatevi di lei e passate la palla a Miss
Martian», la guardò e lei annuì,
«Possiamo vincere».
Catwoman
si rese subito conto che le regole del gioco erano cambiate e che
Supergirl le stava col fiato sul collo. Appena riusciva ad essere in
possesso di palla e cercava di correre verso la porta, Kara Danvers
le parava la strada come un carro armato, se saltava lo faceva anche
lei, e andava davvero in alto, le fermava ogni mossa e le prendeva la
palla da sotto il naso, lanciandola verso un'altra giocatrice della
sua squadra. Supergirl in quel modo aveva rinunciato a segnare, ma
non riusciva a farlo neppure più lei. Intanto, Miss Martian
aveva
segnato diverse volte e al secondo quarto si portarono in pari, con
il pubblico che esultava in visibilio. Lena applaudiva con altri e
perfino Mike Gand, seduto in basso, gridava con orgoglio.
Avendo
ormai imparato la strategia, Catwoman finse diverse mosse e si
liberò
di Supergirl, riportando la sua squadra in vantaggio. Era una
battaglia a chi la spuntava e, pari per un soffio alla fine del terzo
quarto, tutte cominciarono a sentir crescere dentro di loro una certa
fretta di vincere: non c'era più tempo per i giochetti.
«Siamo
agli sgoccioli, kryptoniana. Pensi di farcela?»,
ridacchiò Selina
Kyle e Kara sbuffò.
«Sarà
sempre così, tra noi. E sai già chi la
spunterà, no? Com'è andata
l'ultima volta? Ah, già: ho vinto io», le sorrise,
prima di
rinfilarsi il casco.
L'arbitro
fischiò e il gioco riprese. La palla passava in possesso da
una
giocatrice di squadra all'altra, e di porta in porta,, volando da una
rete di stecca all'altra. Selina Kyle segnò diverse volte
nonostante
il rafforzarsi della difesa, ma lo stesso Kara Danvers e Miss
Martian, che si davano il cambio e si passavano la palla con
maestria. Catwoman tentò di rubare la palla in loro
possesso, ma non
c'era più tempo per sbagliare e impararono dai propri
errori,
coprendosi a vicenda e, infine, vincendo la partita. Per due soli
punti, la squadra di National City si intascò la vittoria ed
esultarono, mentre la platea applaudiva per l'ottima partita a cui
avevano assistito.
«Se
me lo avessero raccontato, non ci avrei creduto», le disse
Selina
Kyle a partita conclusa, liberandosi del casco e lasciando respirare
la sua folta chioma di capelli ricci. Le due si scambiarono una
stretta di mano e poi un abbraccio per congratularsi a vicenda.
«Sei
davvero super
ma non montarti la testa, è chiaro, biondina? Alla prossima
non
avrai scampo».
«E
io ci conto». Fece la superiore con lei, ma quando la
lasciò per
spostarsi con le alte ragazze della sua squadra, tirò un
sospiro di
sollievo, incapace di credere di aver vinto.
Ce
l'avevano fatta. Era andata. Ed era il momento di festeggiare.
Entrarono
tutte insieme in palestra e molte cominciarono a saltare, a cantare,
gridare eccitate e ancora stupefatte della partita che avevano
giocato, gettando i caschi e le stecche a terra. Kara e Megan si
strinsero euforiche, gridando con altre
compagne. Poi lei la lasciò per andare dal signor Jonzz che
applaudiva soddisfatto a metri da loro e Kara scorse Lena per il
corridoio, così si avvicinò alle porte: la
ragazza si guardava
intorno spaesata ma quando incrociò il suo sguardo con il
proprio,
Kara sentì qualcosa dentro di lei, qualcosa che era scattato
e che
era incapace di fermarlo. O al contrario: era certa di non volerlo
fermare. La vide venire verso di lei con la bocca aperta per darle le
sue congratulazioni, ma appena l'ebbe tra le sue braccia non vi fu
altra certezza all'infuori di quella: doveva baciarla. La
guardò e
Lena socchiuse gli occhi, avvicinandosi. Le loro fronti erano vicine,
così tanto che, quando qualcuno le diede un colpo contro la
schiena,
la fronte di Kara sbatté contro quella di Lena.
«Ahio»,
sbottarono entrambe.
«Hai
la testa dura, Kara Danvers».
«È
vero», biascicò.
Si
scambiarono un sorriso e allacciarono il proprio sguardo all'altra e,
senza perder tempo, Lena l'attirò a
sé, affondando la
bocca nella sua, sentendo entrambe che tutto era finalmente al posto
giusto. Ci erano riuscite, si erano trovate. Le loro labbra morbide e
calde, i loro respiri pesanti, le
loro lingue unite; si accarezzarono con i pollici le guance arrossate a
vicenda, sorridendo ancora, cercandosi con gli occhi e con la
bocca.
Quel
bacio non avrebbe dato il via alla loro relazione poiché
sapevano
già entrambe che era iniziata da tempo, probabilmente da
quella sera
a casa di Clark Kent, a Metropolis. O no, forse prima, da quella
notte a casa Danvers-Luthor e stavano per baciarsi se non avessero
sentito le grida di Eliza per un procione. No, era partita molto
prima: non alla mostra organizzata dalla Luthor Corp e nemmeno dal
gelato alla vaniglia, come non era iniziata in piscina cadendo con un
materassino e non era iniziata facendosi la guerra a vicenda a colpi
di wi-fi e acqua calda che mancava dalla doccia. La loro relazione
era partita da uno sguardo dopo la valigetta caduta, su un treno.
Sapevano che tutto riportava a quel giorno, cambiando angolatura,
Lena che le passava le braccia intorno al collo e Kara che la teneva
sui fianchi, poi scese le mani e la
sollevò
attraendola a sé, poggiandola schiena contro il muro. Su
quel treno, a Lena che l'aveva
riconosciuta
subito e l'aveva osservata con attenzione. Su quel treno, a Kara
imbarazzata che non sapeva come interpretare le occhiate dell'altra.
Sapevano che quello che provavano doveva essere sbagliato, ma non
c'era nulla, ora che si toccavano e assaporavano con
intensità, che
le facesse pensare di essere nel torto. Ogni respiro affannoso,
l'alito bollente, le lingue che esploravano l'un l'altra, il desiderio
irrefrenabile, il calore provato erano tutte cose giuste, come gli
ultimi tasselli di un puzzle che avevano aspettato di finire da
giorni, in attesa di chissà cosa potesse cambiarlo invece di
accettarlo per quello che era.
Tutti
festeggiavano e solo alcune giocatrici, indicandole sorridendo, si
accorsero di loro avvinghiate. C'erano ancora urla, risate, strepitii
continui. Megan cercò di farsi spazio per ritrovare l'amica
e restò
a bocca aperta quando le trovò. «Alla faccia del
bacetto casto…»,
si lasciò andare a una smorfia di approvazione, guardando le
mani di
Kara che finivano sul fondo schiena di Lena, a come quest'ultima si
stringeva a lei con passione. Si voltò per tornare indietro
quando
Mike per poco non le sbatté addosso e Megan
sbiancò.
«Ehi,
cerco Kara», si grattò il mento, guardandosi
intorno; Megan saldò
i suoi piedi a terra, incapace di muoversi e dargli spettacolo.
«Hai
visto dov'è andata, per caso? Volevo farle i complimenti per
la
grande partita. Già, congratulazioni anche a te, Miss
Martian»,
sorrise.
«Grazieeesì.
L'ho vista, è tornata verso i dormitori, aveva lasciato
lì il suo
telefono». Lui la ringraziò e tornò
indietro, così lei
si
voltò, osservandole.
Kara
e Lena si erano incontrate sul treno, si erano guardate e qualcosa
era iniziato, qualcosa a cui ora, con passione, stavano dando un
nome.
Aaaaaah!
E alla fine… successe!!
Ditemi:
ve lo aspettavate così presto? Ahahah. Dai, vi prendevo un
po'
amorevolmente in giro però, quando parlavo di slowburn nelle note
al
prologo, non scherzavo mica ;D E così Kara e Lena, senza
parlarne
apertamente, si sono avvicinate al punto da baciarsi davvero, e mica
solo baciarsi…
Che
poi lo ammetto, quando ho ideato il capitolo, il bacetto a stampo
quando Kara va via da casa di Lena non era programmato, è
stato
aggiunto in stesura perché se ne sentiva il bisogno e le
cose sono
andate per il proprio corso. Le due non ce la facevano davvero
più:
quella è stata la miccia e dopo, complice l'entusiasmo dopo
partita,
la bomba è esplosa.
Cosa
ne pensate? Di Lena e Kara che si conoscono meglio, di villa Luthor
(a proposito, io ho cercato di immaginarla anche se non sono mai
stata granché brava in architettura, ma descriverla
è
complicatissimo; chissà che idea vi siete fatti),
dell'angolo della
casa preferito di Lillian, di come Lena ha parlato della sua infanzia
e di Lex, le foto, di Lena e Kara che pomiciano, della partita, di
Selina Kyle, di Lena e Kara che si scambiano effusioni, di Mike che
timidamente sta rientrando nella vita di Kara (contenti, eh?), di
Lena e Kara che… credo di averlo già
scritto…
Questo
capitolo segna la fine di uno step e l'inizio di un altro per il
rapporto tra Kara e Lena quanto per la fan fiction. Dunque vi faccio
delle domandine che per me sono importanti, ma a cui non dovete
rispondere per forza (anche se, se lo fate, vi vorrò un po'
più
bene, ecco), e potete farlo anche con due sole parole, niente di
esagerato.
La
storia continua a piacervi? Come trovate la trama? Cosa ne pensate
dei personaggi?
È
tutto XD
Piccola
nota:
Per
Selina Kyle, lo avrete magari notato, mi sono ispirata a quella che
credo sia la sua versione più recente: quella della serie Gotham.
Non per altro, ma cercando immagini online era quella che
più si
avvicinava alla mia idea del suo personaggio. Mi piace che i capelli
siano a caschetto e ricci e ce la vedo a saltare da una parte
all'altra con quelli che, quando sta senza cuffietta, rimbalzano.
Poi
vabbeh, chiaramente è più grande del personaggio
nella serie (anche
se non so quanti anni abbia ora, sono stagioni che non lo vedo) e non
è da classificare come un crossover con Gotham.
Bene,
passo e chiudo.
Il
prossimo capitolo si intitola Il rapporto tra sorelle
è
complicato e sarà pubblicato qui di
lunedì. Tra una settimana
esatta!
... e mi raccomando, se state guardando Wynonna Earp
con gli amici, non
fate i furbetti e aspettateli!
|
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Capitolo 17 *** 16. Il rapporto tra sorelle è complicato ***
«Chiudi
gli occhi».
Kara
aveva la tachicardia alta. La scrivania di Winn era vuota e
così
aveva direttamente bussato al suo ufficio, col cuore in gola.
Sapevano di dover parlare di ciò che era successo e si erano
date
appuntamento alla Luthor Corp, e ci aveva messo un po' per avere il
coraggio di bussare, e di aprire la porta quando le aveva detto di
farlo, e ora che si trovava lì davanti a lei non le aveva
dato il
tempo di dire nulla, semplicemente le aveva ordinato di chiudere gli
occhi. Così deglutì e perché avesse
deciso di darle retta le
sfuggiva, forse era il modo in cui la guardava o la voce accomodante
e calda con cui glielo aveva detto, ma lo fece, chiuse gli occhi. La
sentì arrivarle vicino; trangugiò ancora saliva e
sentì un brivido
percorrerle la pelle quando il suo respiro le batté su un
labbro e
poi la baciò, lentamente. Lena assaggiò il labbro
superiore e poi
l'altro e Kara non riuscì a fare a meno di schiudere le
labbra,
accoglierla, prima che si staccasse con delicatezza da lei. Era come
se le avesse portato via l'aria.
«Adesso
possiamo parlare», le sorrise con una strana espressione,
intanto
che riapriva gli occhi.
Kara
capì: sapeva tanto di bacio ricordo. Il bacio prima di
tornare alla
realtà. Lena l'avrebbe rifiutata, accidenti; sentiva, lo
aveva
sentito eccome, che non voleva rifiutarla, ma quel bacio sapeva
d'addio. Forse avrebbe dovuto allora cercare di riparare la
situazione, perché l'ultima cosa che Kara voleva era
rifiutarla, ma
se Lena non era della stessa idea… Perché, alla
fine, ci erano
riuscite. Erano riuscite a rovinare tutto.
Era
pur vero che la loro relazione era iniziata su quel treno la prima
volta in cui si erano viste, ma baciarsi era il trampolino di lancio e
ora sarebbe stato difficile fermarsi. Fermarsi prima che fosse troppo
tardi. O forse era già troppo tardi…
«Emh,
sì. P-Per quanto riguarda ieri… Non
volevo», sussurrò Kara,
«È-È
successo tutto così, all'improvviso».
Lena
alzò un sopracciglio. «Cosa?».
«Cosa
cosa?».
«Cosa
non volevi?», alzò anche il mento, mostrando un
sorriso malizioso.
«La tua lingua dentro la mia bocca, mordermi un labbro,
tirarlo, le
tue mani sul mio sedere, stringerlo, sollevarmi e spingermi contro il
muro. Sii più specifica, per favore».
Kara
arrossì e spalancò la bocca.
«Emh… tutto. Non volevo». Voleva o
no rifiutarla? Kara non riusciva a interpretare i segnali.
«Davvero?».
«No».
«Bene»,
sorrise compiaciuta Lena, «Perché lo volevo
anch'io». Le sfiorò
la guancia destra e si avvicinò, Kara chiuse gli occhi e si
toccarono, si baciarono, lasciandosi andare un attimo, riprendendosi
di nuovo, e di nuovo, finché lei non decise di staccarsi
piano e di
guardarla negli occhi, mentre l'alitava ancora addosso, così
totalmente presa da lei.
Non
voleva rifiutarla. Kara sorrise non riuscendo a trattenere la gioia.
«Quindi… lo facciamo?». Lena
inarcò un sopracciglio e Kara
avvampò di colpo, spalancando gli occhi. «Oddio,
cos'ho detto!? No,
non intendevo, cioè, non che mi dispiacere- no! Mh»,
fece
un rumore gutturale con la bocca e si
morse il labbro inferiore, tirandosi indietro di un passo,
«Intendevo-». Si guardò intorno
nell'ufficio di Lena, in cerca di
un aiuto qualsiasi, con palese imbarazzo.
«Lo
so cosa intendevi». Rise divertita e l'attirò di
nuovo a sé. Kara
la baciò come se le mancasse l'aria, avvicinandola alla
scrivania,
per poi staccarsi di nuovo, così presto che Lena
sospirò. «Non
dobbiamo farlo», le disse quest'ultima con le lebbra sulle
sue,
scuotendo la testa, così allontanandosi e godendosi lo
spettacolo
degli occhi di Kara tanto azzurri e grandi, per lei.
Ma…
«Non dobbiamo?», Kara la guardò con
espressione confusa.
«No.
Beh, è ovvio: siamo sorelle. Non in quel modo,
ma…».
«Non
lo siamo».
«No,
per niente». Lena la spinse contro la sua scrivania e
affondò la
bocca contro la sua, al punto in cui Kara per poco non dovette
mantenersi con i gomiti. «Scusa», si
spostò, «Non so cosa mi sia
preso».
«Davvero?».
«No».
Si
sorrisero e scoppiarono a ridere, arrossendo, consce di essere ancora
al punto di partenza e per niente sicure di ciò che
avrebbero dovuto
fare.
Non
riuscivano a fare a meno di baciarsi, di volersi, ora che quel muro
tra loro era caduto giù. L'immaginare di toccarla ancora le
aveva
fatto compagnia nei suoi sogni, quella notte dopo la partita.
Riuscire a toccarla, dopo tanto tempo che lo aveva desiderato, era
una sensazione indescrivibile per Kara. Le sue labbra, il suo sapore,
il suo alito caldo e il calore della sua pelle l'avevano ammaliata.
Era come aver trovato la sola cosa in tutto l'universo che la rendeva
felice. Lena aveva questo potere?
Avevano
rovinato tutto. O almeno per un po' lo avevano creduto…
MEGAN
«Tu
hai… visto tutto, non è vero?», le
aveva domandato al suo rientro
in dormitorio, più tardi del previsto, dopo aver lasciato
Lena
andare via con Ferdinand dopo la partita, quella notte. Non si
volevano lasciare. Non avevano parlato se non della partita e si
erano baciate di nuovo, prima dell'arrivo della macchina, per paura
che le scoprisse. Perché sapevano entrambe che non avrebbero
dovuto
farsi vedere e che era stato già abbastanza rischioso
ciò che era
accaduto in palestra, colte dal momento. La squadra di lacrosse e gli
studenti della Sunrise vari che avevano assistito alla scena, avevano
accolto le loro effusioni con un applauso, quella sera, tutti
così
eccitati di aver vinto che nessuno le aveva disturbate, né
probabilmente avevano davvero fatto caso a chi lei baciasse: tutti
sapevano che Lena Luthor e lei erano sorellastre. In ogni caso, era
una fortuna che non uno di loro avesse contatti con la loro famiglia
allargata.
Già
in pigiama, Megan era seduta sul letto e leggeva, non abbandonando un
solo attimo un sorrisetto divertito sul viso. «Era da tanto
che non
vedevo un episodio di Discovery Channel», aveva annuito,
chiudendo
il libro e fissando il suo visetto color pomodoro. «La
riproduzione
dei polpi».
«Oddio».
Se possibile, Kara era diventata ancora più rossa e si era
seduta
sul suo letto lentamente come se le sue gambe, a un certo punto, non
sarebbero più riuscite a reggerla. Infine, però,
le aveva sorriso.
«È andata. È fatta,
è-è successo e i-io… oh,
cielo», aveva
preso fiato, «le ho toccato il sedere».
«Oh,
l'ho notato».
«E
mi è piaciuto».
«Grande
conquista», aveva alzato un pugno in segno di
complicità.
«Cosa
credi che succederà, adesso, Megan? Cioè,
è-è palesemente un
errore quello che abbiamo fatto, ma- io la voglio. È
assurdo, no?»,
aveva deglutito e cercava di guardarla negli occhi ma, di tanto in
tanto, si fissava altrove, in un punto vuoto, incapace di trattenere
l'emozione. «Non voglio passare il resto della mia vita a
rimpiangere ciò che poteva essere e non è stato!
Ma capisco che è
pur sempre una situazione delicata e non so cosa ne pensa Lena,
p-perché sì, certo, abbiamo parlato di una
relazione che passerebbe
inosservata alla nostra famiglia, ma quanto potrà tenere, e
se
veniamo scoperte? Se Lena non volesse mentire? E io? Io voglio
mentire alla mia famiglia? Voglio mentire ad Alex?».
«Come
al solito tendi a correre troppo, non esiste la mezza
misura… Da un
bacio casto sei passata alla pomiciata, è chiaro che adesso
dalla
pomiciata tu stia passando alla fase sul matrimonio. Calmati,
Kara»,
scandì per bene, «vi siete baciate, non vi state
per sposare»,
aveva scrollato le spalle, appoggiando la schiena contro il muro.
«Per tutto il resto basta che ne discutiate tra voi.
Perché non
provate a vedere come la cosa vi fa sentire, va bene? Provate a stare
insieme per un po', vedete come va, se funziona, poi potete pensare
se parlarne alla vostra famiglia o meno. Sarebbe inutile farlo prima,
credo».
«Le
ho toccato il sedere…».
«Kara».
«L'ho
fatto, Megan», aveva risposto con un sibilo soprappensiero,
«Le ho
stretto le natiche e l'ho sollevata da terra…». Si
era girata con
lentezza, guardandola con occhi sgranati. «E se Lena non
volesse? Ho
corso troppo? N-Non mi era mai successo di… di lasciarmi
andare in
quel modo».
«Credi
che se non volesse, te lo avrebbe lasciato fare?».
«Era
tutto così… bello»,
«Mi
stavi ascoltando mentre ti davo consigli su ciò che mi avevi
chiesto?».
«Ha
un sedere… sodo».
«Niente»,
aveva sbuffato, «L'ho persa».
MIKE
Megan
le aveva detto che Mike l'aveva cercata dopo la partita e che solo
per caso non l'aveva scoperta durante il gesto affettuoso poco
fraterno con Lena. Quando si era svegliata, la mattina successiva,
aveva trovato sul suo cellulare un sacco di messaggi da parte sua in
cui le faceva i complimenti, ripetendole quanto Selina Kyle fosse una
tosta da sconfiggere, come magari lui avrebbe usato un approccio
diverso ma che il suo modo di fare aveva comunque fatto vincere la
squadra e di chiamarlo, di vederlo, di scrivergli, perlomeno. Aveva
completamente ignorato il cellulare dopo essere tornata in camera
quella notte. Lo aveva chiuso in un cassetto con l'ansia che Lena le
scrivesse per dirle che era stato tutto un brutto errore.
Perché
avrebbe potuto farlo, dopo che la frenesia fosse passata, ragionando
a mente lucida e lontana da lei. Poi si era semplicemente dimenticata
di dove lo aveva nascosto. I messaggi di Mike erano davvero
tantissimi, ma non era l'unico ad essersi fatto sentire: Alex le
aveva chiesto com'era andata, Eliza le aveva fatto i complimenti per
la vittoria non appena lo aveva saputo da Lillian che lo aveva saputo
da Lena, sicuramente dopo essere tornata a casa; aveva ricevuto anche
un messaggio da parte di Winn in cui le chiedeva a che ora fosse la
partita e uno da James in cui le chiedeva i risultati. E Lena. Lena,
sì, anche lei, come aveva immaginato, le aveva scritto.
Non
avevo mai visto niente del genere prima e sono sincera nel dire che
non vedo l'ora di rifarlo. Anche la partita mi è piaciuta
molto.
«Perché
sei così rossa?».
La
voce di Mike l'aveva fatta sussultare di colpo. Stava camminando col
cellulare in mano fino alla mensa, dove aveva detto di incontrarla
quella mattina, ma non aveva notato di essere arrivata davanti a lui.
«Sei
ancora eccitata per la partita?», le aveva sorriso,
invitandola a
seguirlo su uno dei tavoli, dicendole di aver già preso la
colazione
per entrambi.
«Eccitata?!
No, no, mh,
no. Stavo solo- emh,
rispondendo a Lena». Si era seduta davanti a lui, ancora
intenta a
guardare lo schermo e infine decidendo di inviarle un messaggio.
Mi
dispiace per quel
No.
Aveva cancellato.
Scusa
per il seder
Aveva
cancellato di nuovo.
È
stato forse un po' improvviso, non trovi?
Cancellato.
È
stato bello anche per me.
Aveva
grugnito, guance rossastre, cancellando di nuovo.
«Mangia,
Kara, o la frittata si fredda».
«Sì…».
Da
me a L!
È
stato bello, sì… Dobbiamo parlare!
Infine,
aveva inviato. Appena in tempo per sentirsi fare gli applausi dalle
ragazze e dai ragazzi in mensa, con cori, fischi e qualche grande
Supergirl
in ricordo della partita di ieri. Lei era arrossita ma, guardando
Mike, il suo entusiasmo era scemato: lui sorrideva ma il suo sguardo
era spento. Oh, non aveva certo voglia di stare appresso ai suoi
capricci e aveva già deciso che se non gliene avesse parlato
lui,
lei non gli avrebbe chiesto il perché di quella faccia.
«Supergirl
ormai è l'eroina, qui», aveva detto lui,
ingoiando.
Va
bene, non sarebbe riuscita a starsene zitta. «Sei geloso, per
caso?».
Lui
aveva abbozzato una risata, dando un'altra forchettata.
«Geloso di
te? Geloso di cosa?».
«Di
Supergirl. Tu sei bravo, ma ho come la sensazione che tu creda che io
sia più brava di te o qualcosa del genere e che sia geloso
di
questo… O di questo», si era guardata intorno
verso gli studenti
che, incrociando il suo sguardo con il loro, la salutavano e le
facevano i complimenti.
«No».
«No?».
«No,
Kara, andiamo! Abbiamo solo modi diversi di giocare».
«Okay»,
aveva dato un morso alla sua frittata, adocchiando lo sguardo di Mike
palesemente poco convinto, come se ci fosse ancora qualcosa che gli
desse fastidio.
«Okay?
Sai cosa…?», aveva sbuffato, «Lascia
perdere la partita, sei
stata brava e nessuno lo mette in dubbio, sei proprio l'eroina della
Sunrise, ma non volevo parlare di questo! Sì, di certo
volevo farti
i complimenti, come un po' tutti, ma è per quello che
è successo
dopo la partita».
«Dopo?»,
Kara si era bloccata, spalancando gli occhi. «Quando tu-
Quando tu
non mi hai trovata, giusto? Me lo ha detto Megan, che tu-».
«Oh,
dai, smettila di arrampicarti sugli specchi, Kara: Megan ti ha
coperto. Lo so. Delle ragazze mi hanno detto tutto».
Kara
aveva deglutito, cercando di calmarsi. Sì, anche se in
parecchi
avevano visto quel bacio, se così lo si poteva chiamare, non
aveva
temuto così tanto fino a quel momento perché
nessuno di loro aveva
contatti con la sua famiglia, ma era stata un'ingenua a pensare che
la cosa sarebbe finita lì: Mike, però, lo
conoscevano tutti. Aveva
cercato di sorridergli, era inutile mentirgli arrivati a quel punto,
tanto valeva cercare di salvare l'irreparabile: «Mike, non
puoi
capire».
«No,
io capisco eccome».
«No,
è successo tutto così all'improvviso,
cioè, non metto in dubbio
che fra noi ci sia stata subito una certa alchimia, sarebbe sciocco
negarlo, ma ci sono un sacco di attenuanti,
diciamo, e tu, ti prego, non devi farne parola con nessuno».
«Parola
con nessuno? E perché mai?», aveva riso
all'improvviso, «È una
cosa sexy».
Kara
si era fermata, non capendo. «Se-Sexy come-».
«Due
ragazze che si baciano! E poi eri presa dalla partita, dai, ci sta!
Me la immagino la scena», non era riuscito a togliersi un
sorrisetto
meravigliato dalla faccia. «Non me lo aspettavo,
sinceramente… Ma
ehi,
cosa c'è di male? Tutta esperienza, no? Io lo
accetto».
«Sei
contento che io abbia baciato qualcun altro?». Lo conosceva
bene e
lo immaginava nero di gelosia.
«Non
qualcun altro: una ragazza», aveva replicato, «E
non sono contento,
magari sorpreso, ma devi fare le tue esperienze… Mi fa
arrabbiare
che tu non me lo abbia detto! Chi era? Una delle tue classi? Non me
lo hanno saputo dire, accidenti, un sacco di gente e nessuno ha
riconosciuto la moretta».
Kara
aveva fatto subito un sospiro di sollievo. Ora aveva capito: aveva
coperto Lena quando l'aveva spinta contro il muro. Non poteva credere
che la sua esuberanza l'aveva portata a salvarsi da quella
situazione. «N-Non la conosci».
Lui
aveva annuito, finendo la seconda frittata e poi le aveva sorriso di
nuovo, entusiasta. «Un amico mi ha riferito che è
normale tra
ragazze… una specie di fase, prima o poi, un po' tutte la
provano.
Attizza, uh? A me di certo non dispiace».
Se
n'era andata poco dopo, non sapendo in che modo replicare. Una fase?
Pensava che un giorno sarebbe tornata da lui dopo aver sperimentato
con una ragazza? Perché Mike doveva sempre rovinare tutto?
LILLIAN
ED ELIZA
La
notte dopo la partita, Lena era tornata a casa con il cuore che
batteva così forte da sentirlo in gola, come un tamburo.
Quello era
stato oltre le sue aspettative. Oltre qualsiasi cosa. Se chiudeva gli
occhi, era ancora capace di sentire il respiro di Kara su di lei, le
sue labbra, la sua lingua contro la propria. Le sue mani nelle
natiche. Le aveva davvero non solo toccato il sedere, ma l'aveva
stretto tanto forte da sollevarla e no, di certo non se lo aspettava.
Si sentiva un po' frastornata in quel momento, e felice.
Ripensandoci, Kara si era davvero lasciata andare, probabilmente
complice l'euforia dopo partita. Era stata così brava, era
andata a
cercarla e, una volta che i loro sguardi si erano incrociati, sapeva
che sarebbe successo. Arrivate a quel punto, Lena pensava che era
già
tanto se era riuscita a separarsi da lei per tornare a casa. Aveva
preso il cellulare dalla sua borsa, intanto che posava le chiavi su
un mobiletto nell'ingresso dopo aver aperto la porta. Avendo scoperto
che non c'erano messaggi da parte sua, aveva deciso di inviargliene
uno lei, sorridendo con malizia.
Da
Me a Vaniglia
Non
avevo mai visto niente del genere prima e sono sincera nel dire che
non vedo l'ora di rifarlo. Anche la partita mi è piaciuta
molto.
Aveva
sorriso di nuovo con soddisfazione, prima di inviare.
«Lena!».
Nel buio e nel silenzio interrotto solo dal battere del suo cuore, la
ragazza per poco non era saltata sul posto nel sentire la voce di sua
madre. «La partita si è protesa fino a tardi? Ti
aspettavamo prima
per cena».
«Ceno
sempre da sola».
«Oggi
siamo tornate prima dalla Luthor Corp. Allora, com'è
andata?».
«Cosa?».
Il suo cuore aveva preso la rincorsa e aveva cominciato a battere
ancora più violentemente,
mentre sentiva il suo viso farsi caldo. Ma sapeva di dover star
calma: lei non poteva saperlo…
«La
partita, non è ovvio? Ci sei andata oppure no?»,
si era appoggiata
contro un mobiletto e aveva iniziato a squadrarla, a braccia a
conserte.
«Ah,
sì… sì, certo», l'aveva
sorpassata, dopo aver aver appeso la
giacca nell'appendiabiti, entrando in cucina. Ai suoi passi, la luce
si era accesa da sola e Lillian l'aveva seguita. «La squadra
di Kara
ha vinto. Ferdinand dorme nella dependance questa notte, mi ha
pregato di dirtelo».
«Passi
Ferdinand: voglio sapere di Kara. Ha vinto? Hanno
festeggiato?».
Lena
aveva ingigantito gli occhi, versandosi da bere. «Oh,
sì, ha
festeggiato. Hanno tutti festeggiato». Aveva immaginato che
una
vittoria simile, per Lillian, era un po' come quando lei e Lex
tornavano a casa con i trofei di scacchi: portava prestigio alla
famiglia, ora che Kara ne faceva parte.
«Bene,
ne sono felice. Ne sono felice», aveva ripetuto, annuendo con
lentezza. «E sono felice, naturalmente, che tu le sia
così
vicina…».
«Come?»,
si era appoggiata al bancone della penisola, sorseggiando dal suo
bicchiere. «Non starai per-».
«Oh
no, no, sono sciocchezze, Lena, andiamo. Facevo solo la madre
preoccupata; temevo che ti attaccassi a Kara con eccessiva
morbosità…
Ma che siate amiche va bene», aveva annuito, «Va
benissimo, per
questo dicevo che sono felice che tu le sia vicina».
Per
un attimo, Lena aveva pensato che volesse ancora ripeterle quanto con
Kara non avrebbe dovuto comportarsi come con le sue amichette,
come le aveva chiamate quella volta. Fortunatamente, tuttavia,
sembrava essere riuscita a convincersi del contrario o sarebbe stato
un problema se avesse immaginato che tra lei e la sorellastra ci
fosse del tenero.
«È
una ragazza così sfortunata, Lena».
«Cosa?».
«Sfortunata.
Per questo mi sta bene che tu e lei siate diventate amiche».
Alla
sua espressione confusa, Lillian precisò: «Oh,
suvvia, dubito che
tu non lo sappia, no?».
«Ti
riferisci…?».
«Ma
adesso ha noi, giusto? Siamo noi la sua famiglia; non le sei solo
amica, sei sua sorella ora e ti pregherei di restarle
accanto».
Lena
l'aveva guardata con attenzione: doveva aver bevuto. Non lo faceva
più così spesso, eppure le guance rossastre, il
fatto che fosse da
sola al buio in giro per casa, i suoi occhi lucidi…
Rassegnata,
aveva pensato che ogni tanto sua madre non riusciva a non ricascarci.
Avevano
sentito dei passi e si erano zittite, aspettando l'arrivo di Eliza.
Stretta nella sua vestaglia e ciabatte ai piedi, la donna era passata
dal soggiorno in cucina, adocchiando le due intanto che tratteneva
uno sbadiglio. «Sei tornata adesso, Lena?», le
aveva stretto un
braccio in un gesto d'affetto, avvicinandosi per bere anche lei
dell'acqua.
«Lena
ha portato buone notizie, tesoro: Kara ha vinto».
«La
sua squadra», l'aveva corretta, lasciando il bicchiere sul
bancone e
non togliendole da dosso mezzo sguardo, «Hanno vinto tutte
insieme».
«Sì,
naturalmente. Ma Kara ne è la capitano, giusto?».
Dava
prestigio alla famiglia: aveva ripetuto Lena per sé, a
mente.
«Che
notizia meravigliosa! Le manderò un messaggio, ormai
è tardi per
chiamarla».
Aveva
bevuto ed era sparita di nuovo verso il soggiorno e Lillian aveva
avanzato per raggiungerla, fermata solo un attimo verso Lena, per
dirle con un sorriso: «Non sarai abituata a sentirtelo dire,
ma…
siamo fiere delle nostre figlie».
Sorelle,
figlie. Lena si era appoggiata di nuovo al bancone, pensando a quanto
le cose stessero davvero per complicarsi.
La
mattina dopo, incrociandosi prima di uscire di casa, Eliza si era
premurata di riferirle l'ultima trovata:
«Devi
liberarti una di queste sere».
«Oh…
va bene. Perché?».
«Tua
madre ha avuto un'idea brillante: festeggeremo anche noi la vittoria
di Kara andando a cena tutte insieme! Una cosa da famiglia,
sai», le
aveva sorriso con orgoglio. «Sono felice di come lei tenga al
nostro
rapporto. Detto tra noi: ci sta seriamente provando e sappiamo che
Lex non verrà, dovremo cercare di far funzionare la cosa tra
noi, al
momento», aveva sospirato, per poi sorriderle.
«Siamo entrambe
molto orgogliose di voi che siete tanto unite. Sarete delle sorelle
magnifiche».
Non
possiamo farlo
Lo
aveva scritto per messaggio, ma non aveva avuto il coraggio di
inviarlo a Kara. Erano in macchina e, anche se bisbigliavano, Lena
riusciva a sentire chiaramente Eliza e Lillian che discutevano per
scegliere il locale in cui vedersi per festeggiare.
Non
potevano farlo. Avevano rovinato tutto.
Winn
bussò alla porta e le due si lasciarono andare di scatto,
sistemandosi ciò che indossavano, Kara i suoi occhiali, Lena
il suo
rossetto e, alzando lo sguardo, togliendolo con un fazzolettino dalle
labbra di Kara, che arrossì violentemente.
«Ne
hai ancora», bisbigliò.
«L-Lo
tolgo io», decisa e imbarazzata le prese il fazzoletto,
voltandosi
di spalle alla porta, mentre Lena chiedeva al suo assistente di
entrare.
«Signorina
Luthor. Kara», enunciò felice, con l'altra ancora
di spalle, «È
arrivato questo per voi, o meglio, in realtà è
per la signorina
Luthor, ma siete indicate entrambe e… Sì, sua
madre non doveva
sapere che Kara si sarebbe trovata qui, immagino». Le porse
una
busta chiusa con stampati i loro nomi e l'aprì subito,
avvicinata da
Kara. Winn le lanciò immediatamente un'occhiata e si
toccò il lato
destro del labbro inferiore. «Sei sporca. Qui».
Rise vedendola
agitata per ripulirsi.
Dalla
busta, Lena tirò fuori un foglietto plastificato rosso e
blu, i
colori della squadra di Kara, guardando con stupita sorpresa le
scritte colorate e, di sfondo, la giocatrice di lacrosse anonima che
lanciava in porta la palla. «Hanno deciso la data: tra due
giorni»,
guardò Kara, che annuì, sistemandosi di nuovo gli
occhiali.
Winn
uscì dall'ufficio e le due stettero in silenzio, fissando il
cartellino.
«Perché
l'invito?», chiese Kara all'improvviso. «Ci saremo
solo noi, anche
Alex ha impegni».
«Cerco
di smettere di provare a capirla da quando ha detto di essere fiera
di me», ammise, scrollando le spalle.
«Beh,
ci darà il tempo di andare da Barry, domani. La nostra
missione ha
la priorità».
Lena
rispose con un sorriso, avvicinandosi. «Mi dispiace per il
rossetto».
«Davvero?»,
trattenne una risata, mordendosi un labbro. Quel loro giochetto stava
durando un po' troppo.
«No,
ma… dovrebbe». La squadrò e si
distanziò dopo aver sospirato.
«Non so quello che dovremo fare, Kara, ma è ovvio
che dovremo
iniziare col prendere una ferma decisione, in merito. Loro si
aspettano che siamo unite, sì, ma-».
«Come
sorelle», finì per lei, per poi sbuffare. Strinse
i pugni con
decisione e la guardò, annuendo brevemente. Doveva farlo.
«Ascolta,
ci siamo già passate e non ha funzionato… Non so
come sia successo
ma sento che era così che doveva andare tra noi e che doveva
andare
fin dall'inizio. Non voglio passare il resto della mia vita a
rimpiangere… noi. Questo bizzarro rapporto tra sorelle
è
complicato: non lo siamo ed è evidente che non lo saremo
mai, ma
forse, forse possiamo essere qualcos'altro… Possiamo
tentare, darci
un'occasione», dalle sue labbra si formò un
piccolo sorriso,
«Ve-Vediamo cosa succede, okay? Vorrei davvero capire se
siamo fatte
per stare insieme oppure se è solo qualcosa di passeggero.
Non è
che dobbiamo sposarci domani, dopotutto». Ricordò
le parole di
Megan e mai si sentì così grata dei suoi preziosi
consigli.
Lena
la fissò a lungo prima di sorridere anche lei e
così annuire. «E
sia», le si avvicinò, guardandola dall'alto al
basso per via dei
tacchi ai piedi. Si accostò, sembrava volerla baciare e Kara
si
spinse verso di lei, ma le scivolò prima che potesse davvero
toccarla. Si allontanò mostrandole un divertito sorriso.
«Questa
si chiama tentazione, signorina Luthor».
«Credimi,
se volessi tentarti, te ne accorgeresti», sussurrò
facendole
l'occhiolino, mettendo mano alla maniglia della porta, per poi
voltarsi. «E sposarci non sarebbe una cattiva
idea».
«Come?».
«Avremo
già pronta la lista degli invitati. Cosa ne pensi? Giusto
magari
qualche accortezza…».
Kara
rise e Lena scosse la testa, mantenendo un sorriso.
Il
diretto per Central City era in ritardo, come suo solito. Sarebbe
stato meglio fare scalo, aveva suggerito Eliza quando le dissero che
andavano a trovare un amico, o prendere l'elicottero come nell'idea
di Lillian, ma infine ci riuscirono. Nonostante la metro fosse quasi
piena di gente, si erano tenute la mano per cercare due posti vicini
e poi non si erano più lasciate andare. Per l'intero
viaggio, Kara
non aveva fatto altro che parlare della partita e poi delle lezioni
che, a detta sua, stavano diventando troppo difficili perché
richiedevano la sua massima attenzione in aula, mentre Lena annuiva e
sorrideva, fissando la sua mano destra stretta a quella sinistra di
Kara, ripensando a quanto detto da sua madre. C'era qualcosa di
strano, che non la convinceva. Inizialmente pensava fosse preoccupata
per lei perché non voleva che rischiassero di rovinare i
rapporti
familiari, ma non ne era più tanto certa; nella loro ultima
discussione, dopo la partita, sembrava che la sua preoccupazione
fosse rivolta a un altro aspetto. Era abbastanza scontato che Lillian
sapesse cos'era successo alla famiglia di Kara, ma non si interessava
mai fino a quel punto a niente, a meno che non fosse per qualcosa di
personale o per qualcosa che le tornava utile. Qual era delle due?
Kara
le sorrise e lei ricambiò, ma si stette zitta. Aveva deciso
di
essere sincera con lei, ma quello… quello era un pensiero
pericoloso, tale che poteva rovinare ogni equilibrio della loro vita
familiare, oltre che non dirglielo significava proteggere lei da
Lillian.
«Siamo
quasi arrivate», Kara le carezzò la mano che aveva
intrecciata a
lei poggiandole sopra l'altra mano. «Andrà bene.
Magari il coroner
si è trasferito a Central City per altre ragioni slegate a
tuo
padre. Ma se così non fosse, ne verremo a capo».
Lena
la guardò e così si avvicinò,
rubandole un bacio.
«Questo
per cos'era?», la guardò negli occhi, le sue
guance si
imporporarono.
«Perché
sei tu».
Kara
arrossì e, con un sorriso lievemente imbarazzato, era quasi
tentata
di ricambiare, quando la femminile voce meccanica fece sapere ai
passeggeri di stare seduti composti per l'arrivo a Central City.
Quando uscirono litigarono per chi doveva portare lo zaino con il
necessario di entrambe; Barry Allen le aspettava fuori, mani nelle
tasche dei pantaloni stretti, giacchetta rossa aperta con la maniche
arrotolate, cappellino con la visiera tirata in avanti: appena Kara
lo vide, davanti alla porta, tirò via lo zaino dalle mani di
Lena e
scansò i passeggeri prima di lei, correndogli incontro. Gli
arrivò
addosso e lui la chiuse in un abbraccio. A Lena diede la mano e poi
si abbracciarono con meno confidenza, camminando nella folla per le
scale mobili e per uscire dalla stazione.
«Come
vi sembra Central City?», chiese loro una volta in macchina.
«Fa
incredibilmente caldo», rispose Lena, sbottandosi la
camicetta
scura. Notò che Kara le sorrise attraverso lo specchietto
per poi
spalancare gli occhi, diventare paonazza e guardare altrove. Doveva
aver notato in un secondo tempo che la stava guardando mentre si
sbottonava, pensò Lena, alzando gli occhi.
«Sì,
oggi è una giornata molto calda, in effetti»,
annuì lui.
Parlarono
del più e del meno che arrivarono. Lena notò solo
in quel momento,
mentre Barry spegneva l'auto, di una sirena adagiata vicino al cambio
manuale: non sapeva che il padre affidatario del ragazzo fosse un
poliziotto. Quando entrarono, già nell'ingresso Joe colse
Kara in un
caloroso abbraccio, come due vecchi amici che non si vedevano da
tempo. Dopo la salutò anche Iris.
«Signorina
Luthor», l'uomo, alto e vestito in giacca e cravatta, le
porse una
mano e lei gliela strinse imbracciando uno dei suoi sorrisi migliori.
«Lena.
Possiamo darci del tu».
Allora
lui rise, abbracciandola d'improvviso, tanto che fece una faccia
sorpresa e i tre, dietro di loro, risero di rimando. «Da noi
è così
che si fa».
Era
incredibile come Lena, che era loro coetanea, veniva subito trattata
come una pari dagli adulti. Portamento, abbigliamento, modo di
parlare e trattare o semplice conto in banca? Lena aveva spesso a che
fare con gli adulti, forse molto più che con ragazzi della
sua età,
ma era il tipo di vita che conduceva ad averla portata a crescere in
fretta. Per un attimo, Kara si domandò se non si fosse mai
sentita
esageratamente più matura ad avere a che fare con lei.
Si
prepararono per pranzo e Joe si vantò di ogni piatto portato
a
tavola. A confermare la sua analisi, quando l'uomo portò da
bere
chiese a Lena se voleva favorire e solo dopo, per correttezza, lo
chiese anche a lei. Quando vide Barry e Iris gettarsi da bere li
ammonì immediatamente di non esagerare. Dopo pranzo, i
ragazzi
salirono al piano superiore per sistemare le brande per la notte,
svuotando lo zaino con la loro roba. Kara si era portata dietro il
cuscino che ci era stato spinto dentro con forza.
Iris
chiese a Barry in privato se ci fosse qualcosa che non andava e non
che avrebbero voluto escluderla, ma capirono di dover stare
più
attente a cosa facevano se non volevano essere scoperte le loro
indagini private. Iris aveva capito subito che c'era qualcosa che non
andava, quanto tempo ci avrebbe messo un poliziotto?
Fortunatamente
la ragazza aveva altri programmi per la serata e si scusò di
doverli
lasciare soli, così i tre uscirono dicendo a Joe che Barry
avrebbe
mostrato alle ragazze un po' di Central City.
Trovarono
la casa subito e si fermarono a guardarla: carina, dalle tinte calde,
con le tende alle finestre e i fiori sul davanzale. Erano le sei e
mezza del pomeriggio; si erano assicurati di scegliere un orario
accessibile in modo da trovare il vecchio coroner a casa, ma nel caso
non ci sarebbe stato, avevano un piano d'emergenza. Lo stesso che
avrebbero comunque eseguito in sua presenza, perché non
erano certi
di cosa avrebbero trovato e non se ne sarebbero andati senza
risposte. Kara e Barry silenziarono i loro cellulari, si scambiarono
un gesto d'intesa e poi alzarono lo sguardo a Lena, che ancora
fissava la casa. Era il momento.
Mentre
la ragazza suonava il campanello, gli altri due restavano in attesa
dietro un cespuglio, guardando verso la porta.
«Sei
in tempo a lasciar perdere», sussurrò Kara al
ragazzo dietro di
lei.
«Il
piano è mio», rimbeccò.
«Ma
se dovesse andare male, cosa accadrebbe alla tua carriera?».
Lui
ci mise un po' a rispondere. «Vediamo di non essere beccati,
va
bene?».
Dopo
qualche minuto, finalmente la porta si aprì, mostrando un
vecchio
signore coi capelli bianchi, le occhiaie e gli occhiali da lettura
tenuti appesi con la cordicella sul collo. Squadrò Lena per
un po'
prima di proferire parola con un colpo di tosse. «So
perché è
venuta qui. Si accomodi». Lui la fece passare e poi chiuse la
porta.
Sapeva
chi era e cosa era venuta a fare. Se ci fossero stati ancora dei
dubbi sull'incidente di suo padre, il viso dell'uomo e come l'aveva
accolta a casa sua erano già una prova che qualcosa non
tornava.
Lena si lasciò guidare nel corridoio che odorava di polvere
e
tabacco, osservando le vecchie foto in bianco e nero, o in osso di
seppia, antiche, che abbellivano le pareti grigie, i manufatti sui
mobiletti, soprammobili che sembravano custodire una storia. Tenne
aperte le orecchie per captare la presenza di qualcun altro in quella
casa.
Sembra
sia solo.
Scrisse
velocemente e inviò, nascondendo il cellulare nella borsetta
quando
lui, entrando verso il soggiorno, si voltò verso di lei.
«Posso
prepararle del tè, signorina Luthor? Desidera qualcosa in
particolare?», domandò tormentandosi le mani,
gesto che serviva a
dissimulare tensione e Lena non se lo fece sfuggire.
«No,
la ringrazio. Prenderò magari un bicchiere
d'acqua».
Lui
la invitò a sedersi su un legnoso e vecchio divano e
sparì verso
quella che Lena immaginava doveva essere la cucina.
Da
Me a Vaniglia
È
sicuramente solo, ma è accondiscendente, potrebbe non
servire il
vostro intervento. Restate nascosti!
Da
Vaniglia a Me
Siamo
già in casa… Ops!
Spalancò
gli occhi. «Cosa…?».
Si morse un labbro, vedendo rientrare l'uomo e porgerle un bicchiere
d'acqua. Le chiese subito se qualcosa non andasse, vedendola
rimettere il cellulare in borsetta, appoggiata sulle ginocchia, e lei
non si trattenne di spostare i suoi occhi verso l'alto per poi
forzare un sorriso. «Tutto bene, signor Morgan. Lei mi
aspettava?».
«Non
aspettavo lei, ma aspettavo qualcuno. Prima o poi qualcuno sarebbe
venuto a chiedermi di suo padre, signorina». Si sedette sulla
poltrona davanti lentamente, attento a non fare peso sulle ginocchia.
«Ci
ho messo un po' a trovarla».
«Immagino
di sì…», annuì. «E
mi duole che lei abbia fatto tanta strada…
per niente».
L'espressione
sul volto della ragazza cambiò, sorpresa. «Come?
Cosa intende?». I
suoi occhi vitrei studiavano l'anziano, ma lui non pareva mentire e
in fondo non sembrava neppure qualcuno pronto a farlo.
«Non
ho fatto io l'autopsia sul corpo di Lionel Luthor, signorina. Dovevo,
era il mio incarico, ma appena mi era stato detto che era finito il
lavaggio e sono andato, non mi hanno fatto avvicinare».
Lena
deglutì. L'infermiere sostituito, il coroner sostituito.
Qualcuno
sembrava essersi occupato scrupolosamente di tutto. «Eppure
lei ha
firmato il rapporto, signor Morgan».
«L'ho
firmato, certo. E mi sarei anche potuto opporre, ma quando arriva il
corpo di un Luthor, ti dicono di farti da parte e sei a un passo
dalla pensione…», sembrò dispiaciuto,
abbassando i suoi occhi e
passandosi una mano sulla fronte.
«Capisco»,
emise allora lei, comprensiva.
«Avevo
a malapena dato un'occhiata al corpo prima del lavaggio».
«Non
saprebbe illuminarmi sulla causa del decesso?».
L'anziano
si grattò il mento coperto da barba, pensando bene a cosa
dire.
«Arresto cardiaco, signorina. Senza dubbi c'è
stato un arresto
cardiaco, come anche precisato nel rapporto».
«Ma?».
«Non
sono certo della natura dello stesso… E non mi fraintenda,
durante
la mia carriera di arresti cardiaci ne ho visti, ma lui era
particolarmente strano; al livor, il corpo di suo padre presentava
congestioni sanguigne piuttosto estese, come non ne avevo mai
visto…
come se-», si bloccò, guardandola, «come
se qualcosa glielo avesse
indotto. Ma non voglio dire che lo sia stato e senza averlo
aperto…
Mi ha capito».
Lena
abbassò lo sguardo, deglutendo, cercando di restare
professionale.
«Posso chiederle chi ha condotto il tutto, con chi ha
parlato, o…?».
Lui
la guardò aggrottando le folte sopracciglia, scrollando le
spalle
appena come se fosse la cosa più naturale del mondo.
«La moglie del
defunto, signorina Luthor: è stata sua madre Lillian a fare
entrare
un gruppo di specialisti che hanno pensato a tutto».
Lena
socchiuse gli occhi e trattenne il fiato, incapace di non pensare che
ci fosse sempre stata lei dietro a tutto, fin dal principio.
«Ehi,
Kara, vieni qui», bisbigliò Barry, tenendo ben
d'occhio il
pappagallo nella sua gabbietta che ronfava con la testa chinata da un
lato.
Erano
riusciti subito ad arrampicarsi per un cornicione e ad entrare da una
finestra del bagno lasciata socchiusa. Attenti a non provocare il
minimo rumore, trattenendo un sonaglio appeso alla porta del bagno e
fatto scattare aprendo la porta, i due avevano studiato velocemente
il piano superiore in cui si trovavano e si erano decisi ad entrare
in uno studio. Era pieno di scartoffie ovunque si posasse il loro
sguardo, intuendo che, per loro fortuna, il vecchio signor Morgan era
un accumulatore seriale che in quegli anni aveva amato portarsi il
lavoro a casa. Disgraziatamente, l'altra faccia della medaglia
imponeva un tempo eccessivamente lungo per cercare qualcosa legato
alla morte di Lionel Luthor là in mezzo, tempo che non
avevano.
Senza contare che non avevano fatto i conti con una guardia
inaspettata: un pappagallino colorato che dormiva ma che, a ogni loro
passo, muoveva una piuma. Si si fosse svegliato erano guai.
«Qui
sembrano esserci catalogati i suoi lavori per quel periodo,
ma…».
Si guardarono e Kara diede una veloce occhiata al pappagallo prima di
sfogliare anche lei, velocemente.
«Non
c'è nessun Luthor».
«No»,
confermò Barry, guardando anche lui in direzione del
pappagallo.
«Forse ha spostato altrove quel caso. Controllo in
giro».
Si
allontanò piano in modo da non far scricchiolare il
pavimento di
legno, mentre Kara continuava a leggere quei fascicoli. I suoi occhi
si spalancarono e provò ad attirare l'attenzione del
ragazzo. «Ehi!
Sst! Barry». Lui cercò subito di tornare indietro.
«Guarda! C'è
qualcosa». Si guardarono di nuovo e lui scattò una
foto.
«Mi
spiace che lo debba sapere da me, signorina»,
bisbigliò il vecchio
coroner con voce impastata, tormentando ancora le mani. «Sono
certo
che non sia facile da apprendere».
«Non
quanto immagina», disse d'un fiato, fermandosi quando
udì dei colpi
provenire dal piano di sopra. Si ghiacciò ma l'uomo era
rimasto
fermo, soprappensiero, fissava un punto vuoto. Un altro colpo e una
voce stridula che lei sbiancò. «Emh, si
è fatto tardi, signor
Morgan. La ringrazio per il tempo che mi ha concesso e mi scuso se
l'ho disturbata». Si alzò con fretta e, nel gesto
di rimettersi la
borsetta in spalla, toccò il cellulare, ma quando si accese
non vi
era alcun messaggio da parte di Kara. Si chiese cosa stessero
combinando: sentiva ancora una roca voce provenire dal piano di
sopra.
Il
signore l'accompagnò per il corridoio. Un'altra vocetta
stridula e
si voltò, così Lena si sforzò per
intrattenerlo.
«Signor
Morgan! Signor Morgan, senta». Si assicurò che si
fu girato per
scrivere velocemente su un biglietto e porgerglielo. «Se
pensa che
le verrà in mente qualcos'altro, può cercarmi
qui». Lo vide
voltarsi ancora e così lo scostò con una mano su
un braccio,
costringendolo a voltarsi. «C'è il recapito del
mio ufficio. Nel
caso non fossi disponibile, può parlare con il mio
assistente».
Lui
prese il foglietto, ma era palesemente distratto. «Mi sembra
di aver
sentito la mia pappagallina, Janice…».
«Naturalmente
sarebbe un piacere per me parlare di nuovo con lei, signor
Morgan».
«Sì,
sì, ma Janice…».
Lena
aprì la porta e lui la seguì, finché
la pappagallina non si fece
sentire più forte e non riuscì più a
trattenerlo. Salì le scale
cigolanti e vide il sonaglio davanti alla porta del bagno in
movimento, intanto che l'animale, dalla porta accanto, che era
aperta, ancora gridava.
«Flash!
Il flash!»,
tuonò la pappagallina e quando lo vide spalancò
le ali come per
richiamare il suo padrone. «Flaaash!
C'era flash!».
«Il
flash», brontolò Kara, «Ci pensi? Tutti
i bisbigli e il cercare di
non fare rumore, e poi il flash del tuo cellulare sveglia il
pappagallo».
«Sbrigati
a scendere, ci pensiamo dopo».
Quando
l'anziano si affacciò alla finestra del bagno,
trovò i due appesi
alla parete di casa sua con un pronto sorriso. Il neo detective Joe
West non si fece attendere troppo. I tre aspettavano la sua macchina
davanti alla porta di casa Morgan, con l'uomo al loro fianco.
Fortunatamente decise di non denunciarli, ma il padre affidatario di
Barry non sembrò dello stesso avviso. Mantenne l'aria
seriosa per
tutto il tempo, alla guida. Temevano che se avesse chiesto loro cosa
era saltato in testa, non sarebbero riusciti a raccontargli
più del
nel necessario e che avrebbe tentato di farli tornare sui loro passi.
«Ho
convinto io Kara e Barry ad entrare in quella casa, questo
pomeriggio».
Avevano
pranzato con qualcosa di veloce e Lena era scesa al piano inferiore
per parlare con Joe. Prima che si facesse idee sbagliate, sarebbe
stato meglio confidarsi con lui con ciò che poteva
raccontare. Lui
la guardò con la coda dell'occhio e poi spense la tv,
passandosi una
mano sulla nuca. Le fece segno di accomodarsi al suo fianco, sul
divano.
«Cosa
sta succedendo?», le chiese immediatamente. «Non ho
fatto domande,
ma sapevo che c'era qualcosa che non andava… Non equivocare,
sono
contento che tu e Kara siate qui, ma ho come la sensazione che non
fosse solo per venirci a trovare».
«Mi
dispiace», sorrise debolmente, «È colpa
mia. Il signor Morgan era
il coroner che si era occupato del caso di mio padre e la sua
è
stata… una morte poco chiara», deglutì,
«Volevo risposte, ma non
ero certa che fosse pronto a raccontarle, così li ho
convinti ad
aiutarmi».
«Quello
che hanno fatto è reato», si passò una
mano sul viso, «È stata
una fortuna che abbia deciso di non denunciare». La
guardò. Lei
doveva pensare che la discussione fosse finita perché stava
per
alzarsi, così prese voce di nuovo: «Conoscevo il
signor Luthor solo
di fama, quando era in vita non ero ancora detective. Lo descrivevano
come un uomo distaccato, preso dagli affari, un po' sulle
sue… Mi
spiace molto per quello che gli è successo. Anni fa stavo
per
perdere mia moglie, la mia ex
moglie», si corresse con un sorriso, scuotendo la testa,
«Non ci si
fa mai l'abitudine! Lei si era ammalata ed era molto grave e
sì, la
situazione è diversa, tuo padre stava bene prima di morire,
ma sai,
nemmeno Iris ed io eravamo pronti a perderla. O il piccolo Wally,
l'altro mio figlio», estrasse un altro sorriso,
«Lui sta con lei,
ha la custodia condivisa… Sono cose che ti cambiano,
Lena». Era la
prima volta che riuscì a dire il suo nome e lei si
sentì colpita,
come se nominarla fosse un improvviso gesto d'affetto. «Ti
cambiano
dentro», si toccò il petto. «E non sei
più lo stesso. Invece di
unirci, questo cambiamento ci ha diviso. Devi sentirlo, comprenderlo.
A te come ha cambiato?».
Passo
duro ed espressione stanca, poco più tardi Lena
salì le scale e si
affacciò in camera di Iris, dov'erano disposte le loro
brande. La
ragazza leggeva con una lucetta accanto, sdraiata sul suo letto, e
appena la vide sorrise, dicendole a bassa voce che Kara era con Barry
a chiacchierare sul balcone. La finestra era aperta per uno spiffero
e si sentivano le loro risate.
«Va
bene», la sentì dire, «Stiamo
sperimentando, siamo ancora
ufficialmente sorelle ma d'altra parte…»,
lasciò la frase a
mezz'aria e Barry intervenne:
«È
la vostra vita, Kara! È giusto che vi diate la
possibilità di stare
insieme, nessuno lo condannerebbe».
Lena
arrossì e guardò l'altra, che scrollò
le spalle.
«Non
lo sanno», bisbigliò. «Barry non sa che
si sente e va bene così».
Poi le mostrò il pollice in segno di vittoria.
Dormirono
vicine, quella notte. Schiena contro schiena, Lena infine si
girò,
con delicatezza, e provò ad appoggiarsi a lei, passandole un
braccio
addosso. Pochi attimi e Kara, forse d'istinto, le passò il
suo
braccio sopra.
Come
l'aveva cambiata? Si era sentita così persa dopo aver
scoperto che
era il suo padre biologico e che era andato per sempre. Aveva passato
anni a cercare di capire chi era per poi rendersi conto che non era
altri che una Luthor. Si era sentita presa in giro, forse. Delusa,
abbandonata, sofferente. Le mancava lui o un senso d'appartenenza?
Come l'aveva cambiata la sua morte? Si strinse ancora più
forte.
Lillian.
Lei aveva nascosto l'omicidio, lei non voleva che si sapesse che era
la vera figlia di suo padre, lei l'aveva cresciuta con freddezza come
a volerle far pagare di esserlo. L'aveva mai voluta? E cosa voleva da
Kara? Oh… Quel brutto pensiero era ancora lì
nella sua testa.
Lillian Luthor era capace di tutto.
Si
agitò tanto da tremare e Kara se ne accorse, svegliandosi e
sbadigliando. Si girò, pronta per guardarla in viso
attraverso la
fioca luce che filtrava dalla finestra. «Non riesci a
dormire?».
«È
stata Lillian, Kara». Non erano ancora riuscite a parlarne e
l'altra
spalancò gli occhi, faticando a crederci. «Lei ha
pagato degli
specialisti che facessero l'autopsia e ha fatto firmare al signor
Morgan il rapporto».
«Adesso
capisco perché non abbiamo trovato nulla su Lionel. Ma
abbiamo
trovato altro», sussurrò, «Chi ha pagato
il suo trasferimento con
pensionamento anticipato di due mesi».
«Mia
madre?».
«No.
Il senatore Gand».
Come
in un film, tutto a quel punto parve più chiaro e non solo
un brutto
sfocato pensiero nella sua testa. Sua madre e Rhea Gand che parlavano
alla mostra con strani sguardi dove sembravano capirsi solo loro,
l'interesse di Lillian per Kara, e un improvviso mal di pancia la
scombussolò dentro.
«Stai
bene? Non ti preoccupare, andrò io a parlare col senatore
Gand…
Sono certa che la madre di Mike non vedrà l'ora di
vedermi»,
accennò una risata ma Lena non riuscì a
ricambiare.
«Per
il momento fermiamoci, va bene? Voglio schiarirmi le idee, prima di
continuare».
Kara
fu costretta a dirle che accettava e si scambiarono un bacio,
guardandosi negli occhi, ormai abituati al buio.
Lena
odiava non poterle dire la verità, soprattutto adesso, ma se
ciò
che aveva immaginato era vero cambiava completamente le carte in
tavola. Era come un brutto risveglio.
La
mattina successiva andarono a farsi una passeggiata per Central City
tutti e quattro insieme, riuscendo da lontano ad ammirare l'enorme
stabile degli Star Labs. Poi pranzarono a casa e Joe ricevette una
telefonata dalla sua ex moglie in cui gli diceva di aver inviato da
lui Wally prima del previsto e così, meno di un'ora, e lui
era
piombato in casa con valigia e buon umore. Lena lesse sulla faccia di
Joe cosa avesse significato per lui quel cambiamento di cui parlava,
mentre spegneva il telefono e raccontava a loro la notizia. E si
vedeva che in fondo, da qualche parte, amava ancora la madre dei suoi
figli ma che le cose erano troppo complicate per stare insieme. C'era
sempre qualcosa di troppo complicato. Guardò Kara che
sorrideva
parlando con Barry e arrossì involontariamente.
«Oh,
oh, uh»,
il liceale attirò la sua attenzione, sorridendo da orecchia
a
orecchia. «Credo che la signorina Luthor mi abbia appena
colpito al
cuore», si toccò il petto con entrambe le mani.
«Sì,
e non sai quanto ti sbagli», rise Iris, scompigliando le
treccine
sulla testa del fratellino.
Tornarono
a National City appena qualche ora prima della cena che loro madri
avevano organizzato per la vittoria della squadra di Kara a lacrosse.
Lena avrebbe voluto affrontare sua madre e forse avrebbe anche avuto
il tempo di farlo prima di uscire di casa, ma appena le si
piazzò
davanti le parole le morirono in gola. Si accorse che non sapeva da
dove iniziare o che forse tutto ciò che aveva compreso di
quella
faccenda era una follia e che dirla a voce alta lo avrebbe
confermato. Ma una verità assodata c'era ed era che Lillian
Luthor
aveva pagato qualcuno per fare l'autopsia a suo marito per poi
nascondere tutto. E anche un'altra verità: teneva
stranamente a
Kara. Forse doveva solo rifletterci ancora prima di essere pronta a
dirlo.
Ferdinand
accompagnò con la macchina scura Lillian, Eliza e Lena al
ristorante, lo stesso in cui aveva portato Kara in quello che, amava
pensare, era il loro primo appuntamento. Buffa coincidenza. Quando la
maître venne dalla sua parte estraendo un sorriso, Lena
trovò un
modo, senza parlare, di farle capire che quella doveva essere la
prima volta che si vedevano. Presero un tavolino da quattro e mentre
Lillian ed Eliza si sedevano l'una davanti all'altra, Lena
notò che
il pianista era cambiato: c'era una ragazza ora.
Kara
si presentò dopo pochi minuti, con il fiatone e il viso
rosso. Non
aveva voluto che Ferdinand passasse a prenderla ed Eliza rise mal
nascondendo imbarazzo vedendola inchinarsi per cambiarsi le scarpe,
lasciare quelle sportive e infilarsi i tacchi che aveva nascosto in
borsa. Avevano tutte loro indossato qualcosa di elegante, come
richiesto nell'invito.
«Ogni
allenamento è importante», si
giustificò, sorridendo a Lena che le
sorrideva a sua volta, davanti a lei, in uno scambio di sguardi solo
loro.
«Avresti
dovuto farti da Central City a piedi, allora»,
rimbeccò Eliza.
«Non
credere che non ci abbia pensato». Rubò un pezzo
di formaggio dal
piatto degli antipasti già a tavola e così tutte
cominciarono a
servirsi.
Quella
cena era una delle cose più strane a cui le ragazze avevano
mai
partecipato. Le loro madri non perdevano occasione per guardarsi e di
tanto in tanto sorridersi, prendersi la mano o smarrirsi tra le note
suonate dal piano e mettere le due in soggezione, in special modo
ora. Ora che, potevano riconoscerlo, si guardavano allo stesso modo.
Mai come prima d'ora si resero conto di come le cose fossero
sbagliate: le loro madri stavano insieme e sembravano amarsi davvero.
Non dovevano far altro che essere felici per loro, andare d'accordo,
vedersi ogni tanto e festeggiare insieme il Ringraziamento, il Natale
e l'Indipendenza. Kara non doveva arrossire e guardare altrove quando
Lena, nel tentativo di fissarla, si leccava e mordeva un labbro.
Allungò una gamba per darle un calcetto e farla smettere:
scansò le
gambe di Eliza per pura fortuna, così si stirò e
le diede un colpo.
Spalancò gli occhi e la guardò pietrificata
quando si accorse che
non poteva tirare via il piede che Lena lo aveva chiuso tra le sue
gambe.
«Ma
parliamo di lacrosse». Eliza ruppe il silenzio, Lena le
lasciò
andare il piede e Kara tirò indietro la gamba con forza,
sbattendo
un ginocchio contro il tavolino e facendo tintinnare i bicchieri. Le
ragazze si guardarono solo un attimo fugace, con imbarazzo.
«Cos'hai
fatto?».
«M-Mi
stavo grattando. Scusate».
«Quando
sarà la prossima partita e contro chi?».
«È
troppo presto per dirlo, lo scopriremo dopo i ragazzi».
Lillian
la fissò e Lena fissò lei. «La squadra
maschile verrà sempre
prima della vostra, non è vero?», chiese la donna,
facendo
ciondolare il contenuto del bicchiere in mano. «Vi
sottovalutano
perché siete ragazze. Non comprendono il vostro reale
valore».
«Tu
sì?», intervenne Lena. «Non intendo
delle ragazze, ma di Kara.
Comprendi il valore di Kara?».
Quella
domanda restò sospesa, intanto che Eliza e Kara si
guardavano
interrogative e Lillian fissava sua figlia con intensità, a
labbra
strette.
«Kara
ha un'enorme valore per tutte noi».
«Forse
dovevo spiegarmi meglio: per te, mamma. Non per tutte noi, o per la
famiglia, ma per te».
Il
primo chef con la loro seconda ordinazione composta da frutti di mare
interruppe il discorso ma Lillian, seppur non aveva risposto alla
curiosa domanda, era rimasta a scrutare la figlia per un po', mentre
Eliza cambiava iniziando a parlare di lavoro.
«E
poi stiamo finalmente decidendo una data», disse a un certo
punto,
sorridendo alla donna davanti a lei.
«Oh,
okay… Quindi vi sposate- voglio dire, certo che vi sposate,
i-intendevo, emh, quando? Presto, tardi, cosa dobbiamo fare noi? Per
voi,
sì», balbettò Kara ed Eliza la
guardò estraendo un sorriso che
sapeva quasi di compassionevole, stringendole una mano.
«Oh,
Kara… Tesoro, il nostro matrimonio non cambierà
per niente le cose
da come sono ora. Sarà solo ufficializzato. Stavamo pensando
ai
primi mesi dell'anno».
Kara
e Lena si scambiarono una breve occhiata.
«Voi
non dovrete far nulla che non facciate già adesso: siate
serene,
comportatevi bene, sorridete. Fate le sorelle».
A
un certo punto Eliza rise, attirando l'attenzione. Aveva ancora un
boccone e ce lo scese prima di prendere parola: «Soprattutto
dal
momento che ci sarà un po' di movimento. Parlo di
giornalisti,
fotografi, chissà chi altro».
«Sarà
meglio invitare noi stesse i fotografi e i giornalisti, in modo da
non avere sorprese. Così abbiamo fatto Lionel ed io, al
tempo».
Ne
parlarono per un po' ed Eliza si elettrizzò nell'immaginare
Kara e
Alex, e chiaramente Lena, vestite da damigelle. Lei e Lillian
sembravano così eccitate dall'idea di diventare moglie e
moglie che,
dopo un po' di tempo che avevano accettato la cosa, Lena e Kara si
sentirono di nuovo a disagio. Disagio che si infrangeva appena i loro
occhi si incontravano e comprendevano di nuovo, di nuovo e sempre,
che quello che c'era tra loro era naturale come respirare e che no,
non ci avrebbero rinunciato.
Si
chiusero nei bagni con la scusa di andarsi a risciacquare e, con
silenzio, assicurandosi di essere sole, si diressero verso i lavelli.
Appena aprirono l'acqua, Kara ne approfittò:
«Che
cos'era quella scena, prima?».
«Quale?».
«Sai
di cosa parlo: il
valore di Kara…
davvero? Cosa cercavi di fare?».
Lena
ansimò, chiudendo l'acqua. «C'è una
cosa che devi sapere, Kara»,
deglutì, immergendosi nei suoi occhi azzurri. «La
famiglia Luthor
ha come una specie di aura negativa intorno… Una sorta di
mantello
invisibile. Fino ad ora, voi Danvers ci avete illuminato come il
sole. Anche tu lo hai fatto, Kara: mi hai illuminato con la tua luce.
Non voglio che questo cambi, non voglio che Lillian infetti voi.
Infetti te», le carezzò una guancia e Kara
coprì la sua mano con
la propria, sorridendo.
«Se
c'era una persona che mi irritava più di te, quando ci siamo
conosciute, quella era tua madre. Speravo di trovare qualsiasi cosa
per far lasciare lei ed Eliza, ma adesso non penso più che
sia così
tanto male», vedendo il volto di Lena contrarsi con aria
contrariata, Kara proseguì, sedendo sul mobile tra un
lavandino e
l'altro. «Non metto in dubbio che per te sia diverso, ma puoi
starne
certa: non perderò il mio sorriso, o la mia luce, se
è questo che
volevi sentirti dire. Sopravviverò ai Luthor».
Rise
e Lena si avvicinò di nuovo a lei, lentamente. «Ne
sei sicura?
Sopravviverai anche alla tua nuova sorella?».
Allora
Kara si lamentò, corrucciando lo sguardo. «Non
sorella! No, lei mi
ha già in pugno… E ha provato a tentarmi seduta a
tavola con le
nostre madri, l'incosciente».
Lena
rise, nascondendo la bocca con una mano. «Scusami. Ma volevi
colpirmi». Si avvicinò e poggiò la
testa su di lei, nascondendo il
viso. «Mi piaci così tanto, non hai idea di cosa
ti farei».
L'altra
avvampò, prendendole il viso e circondandolo con le sue
mani.
«Cosa?». Lo avvicinò a sé e
l'altra si tirò in avanti con i
polsi sul mobile.
Le
loro bocche si trovarono subito mentre i loro occhi si chiudevano.
Presero respiro e approfondirono il bacio, trovando una la lingua
dell'altra, intanto che Lena attirava la ragazza a sé,
stringendola
nei fianchi, facendole aumentare il battito cardiaco. La bocca di
Kara scivolò dalla sua e iniziò a baciarle il
collo, sempre più
lentamente, mentre le mani di Lena, lasciati i fianchi, avanzavano
lungo l'abito rosato dell'altra, salendo sulla pancia, passando le
dita sulla sua vita, premendo con i pollici. Si ritrovarono in un
bacio e la porta del bagno scattò. Si separarono
nell'istante,
rumoreggiando con la bocca. Una signora anziana entrò con
passo
lento, volgendo lo sguardo a terra e alla porta, non parve badare a
loro. Entrambe si sistemarono e Kara scese dal bancone, appena in
tempo che la vecchina le desse, a bassa voce, della teppista.
«Dice
a me?», aggrottò le sopracciglia mentre Lena
sogghignava.
La
donnina la scacciò con il gesto di una mano e Lena
intervenne: «Le
chiedo scusa, la mia sorellina, sa… Prometto che la
metterò in
riga».
Kara
si portò le mani sul viso per l'imbarazzo e, ridendo,
aprì la porta
e tornarono in sala.
Uh,
ma questo rapporto tra sorelle è decisamente complicato! E
così,
Kara e Lena, infine, hanno deciso di provare a stare insieme e vedere
cosa succede. Certo, tutto questo dovrà restare segreto,
sempre se
non riescono a farsi beccare nei bagni dei locali dalle vecchiette XD
Per
il resto, Lena ha captato qualcosa dal discorso di Lillian su Kara,
ha scoperto che a fare l'autopsia sul corpo di suo padre è
stata una
squadra di specialisti inviati dalla stessa Lillian e che a pagare il
trasferimento con pensionamento anticipato del coroner è
stato il
senatore Gand, il padre di Mike. Cosa sta succedendo? Ne scoprirete
di più leggendo il prossimo capitolo che è
sì uno stand alone, ma
è anche lo stand alone più importante che ho
scritto finora, credo,
inframezzato da diversi passaggi temporali, oltre al presente. Spero
non sarà difficile capirlo!
E
poi vi è piaciuta la gita a Central City? La cena a quattro,
madri e
figlie? Le scene iniziali con Megan/Mike/Eliza e Lillian?
Piccola
nota:
Di
autopsie ne so quanto di ingegneria spaziale, per intenderci! Ho
cercato di non esagerare con dettagli di cose che non conosco a
dovere, non voletemene!
Spero
che il capitolo vi sia piaciuto, ci rileggiamo lunedì
prossimo con
il capitolo 17 che si intitola Il mantello invisibile
:)
Il
titolo è un riferimento a quanto detto da Lena in questo
capitolo,
immaginerete quindi cosa vi aspetta…
(Avverto fin da ora che dopo il capitolo 17 salterò una
settimana per impegni, quindi lunedì 25 il capitolo 18 non
ci sarà, ma sarà pubblicato il 2 luglio!)
|
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Capitolo 18 *** 17. Il mantello invisibile ***
Seduta
davanti alla sua scrivania, si stava infilando gli orecchini
perdendosi attraverso il suo riflesso nello specchio tondo. Quando il
cellulare a fianco aveva suonato, lo aveva preso subito,
interrompendo la melodia.
Sto
arrivando.
Aveva
letto il messaggio e spento lo schermo, sbuffando senza energie.
«Devi andartene», aveva sentenziato quasi
freddamente.
«Oh,
sta già arrivando il fidanzatino?», si era
lamentata la ragazza
dietro di lei. Era distesa a pancia in giù sul letto sfatto,
nuda,
coperta a metà solo da un fine lenzuolo bianco.
«Credevo sapesse di
noi», aveva detto, sforzandosi per mettersi a sedere e
cercare i
suoi vestiti.
«Sta
arrivando mio padre, non Jack».
La
ragazza si era rivestita in fretta come aveva potuto e le era passata
di spalle per recuperare le scarpe. «Potresti cogliere
l'occasione
per parlargli di quello», le aveva indicato con un cenno
dello
sguardo la pila di fogli pinzati sulla scrivania, su cui Lena, a quel
gesto, aveva irrimediabilmente posato gli occhi. La ragazza le aveva
lasciato un veloce bacio sulla guancia prima di dirigersi alla porta.
Sentendo
la serratura di casa scattare, Lena le aveva detto di aspettare ed
era uscita lei per prima, sistemandosi il vestito lungo i fianchi e
chiudendo la porta alle sue spalle.
«Ti
aspettavo questo pomeriggio», le aveva detto nel raggiungerlo
davanti le scale. Gli sfiorò una guancia con un bacio,
ruvida per
via dei peli rigidi della barba, e lui la tenne a sé
circondandola
per i fianchi con un braccio.
«Ho
preso il volo prima, cominciavo ad annoiarmi», aveva risposto
lapidale, continuando a camminare per il corridoio raggiungendo una
porta.
Lena
si era appoggiata al muro accanto alla sua come di vedetta,
aspettando che passasse di nuovo. «Non avevi un'altra
intervista,
questa mattina?».
«Probabilmente»,
era uscito dalla camera, che aveva richiuso con cura, e l'aveva
superata, scendendo verso il soggiorno.
Lena
aveva riaperto la porta di camera sua e fatto uscire l'altra ragazza
che, con un cenno di tacere, l'aveva invitata a prendere l'altra
scala per arrivare direttamente nell'ingresso e andarsene.
«La
signorina Sinclair non si unirà a noi per
colazione?».
Le
due si erano guardate. Veronica Sinclair aveva alzato le spalle e
Lena le aveva annuito, un po' seccata che suo padre le avesse
scoperte.
Alto,
corporatura esile, con i capelli ordinati da un lato e la camminata
calcolata, il signor Luthor si era passato i laccetti del grembiule
verde sulla schiena e, dopo averlo legato, aveva aperto la cucina e
poi i pensili che gli servivano, cercando al loro interno. Lena e
Veronica si erano sedute davanti a lui, sul bancone della penisola,
guardandolo intanto che cucinava.
«Quanto
tempo», aveva detto lui rivolto alla seconda, servendole un
piatto
davanti e poi uno a sua figlia. «Era da un po' che non ti
vedevo,
forse da quando Lex si è trasferito».
«Oh,
è perché ho lasciato l'università,
signor Luthor», aveva
sussurrato con un flebile sorriso.
«Male»,
aveva decretato, versandole sul piatto una frittella direttamente
lasciandola scivolare dalla padellina. «Lo studio rende
liberi».
«Beh»,
aveva guardato Lena di sfuggita, che veniva servita a sua volta,
«Spero di trovare la mia libertà
altrove… Il mondo è grande».
«Speriamo
sia così», aveva risposto, aggiungendo una terza
frittella su un
altro piattino. «Ma mi permetto di dissentire: il mondo non
è poi
così grande». Aveva lasciato la padellina nel
lavello e si era
messo a mangiare la sua frittella lì, in piedi, tagliandola
con la
forchetta e mettendola in bocca. Poi, dopo averne trangugiato due
morsi, aveva detto dispiaciuto che avrebbe voluto metterci dello
zucchero a velo che si era dimenticato di far comprare.
«Lena. Non
ti vedi con Jack?».
Lei
aveva deglutito, adocchiando Veronica e il suo sorriso un solo
attimo. «Ci vediamo tra poco. È tornato questa
notte da Budapest».
«Ah,
benedetto ragazzo… Come vanno le cose tra voi? Mh?
Vi… trovate
ancora?». Sapeva a cosa alludeva allora suo padre e Lena
aveva preso
un grosso respiro, pensando a cosa dirgli, se non fosse che lui,
vedendo la sua reazione, l'aveva anticipata: «Non
è mia intenzione
fare la paternale, Lena. Sono cose tra voi, non mi interessa. La mia
è pura voglia di conversare… Tua madre ed io
abbiamo sempre
adorato Jack, ma», le si era avvicinato, guardandola
attentamente
negli occhi limpidi, «non siamo noi ad essere fidanzati con
lui. Mi
pare chiaro». Aveva iniziato a sparecchiare e Veronica
Sinclair si
era alzata, ringraziando e salutando Lena con una pacca su una spalla
e un malizioso sorriso, così se n'era andata.
Perché
non gli aveva detto che lui era il suo vero padre? Perché
glielo
aveva tenuto nascosto? Perché aveva lasciato che Lillian,
per anni,
la trattasse come qualcuna che era sempre in debito con loro per
averla adottata? Lo aveva guardato lavare i piatti, ferma e in
silenzio, ma erano tante le cose che avrebbe voluto urlargli e non
riusciva. Era così arrabbiata…
«P…
Papà».
Lui
aveva chiuso l'acqua e si era voltato con sorpresa, poiché
era da
tanto che non lo chiamava in quel modo. L'aveva guardata, in attesa.
Lena
aveva deglutito, abbassando lo sguardo e infine alzandosi dalla
sedia. No.
«Devo andare, passo in università prima di
trovarmi con Jack».
«Ho
capito. Invece io farò una bella corsetta a
cavallo… Ho proprio
voglia di rilassarmi».
«Va
bene. Buona giornata».
«Ah,
Lena». Lei era tornata indietro, voltandosi appena.
«Sei
meravigliosa, figlia mia».
Era
la terza volta che glielo diceva quella settimana e aveva deglutito
con sguardo duro, non sapendo come replicare. Aveva abbassato lo
sguardo e ribadito il saluto, andandosene. Non poteva sapere che
quella sarebbe stata l'ultima volta che lo avrebbe visto.
A
te come ha cambiato?
La
bara era ferma là in mezzo a tutti loro, un numeroso gruppo
di
persone in abito nero e sguardi assenti. Lillian Luthor aveva
incaricato la polizia di tenere lontani i giornalisti poiché
quel
funerale sarebbe stato intimo, per soli familiari e amici;
così loro
avevano scattato foto distanti, intralciati dagli uomini in divisa.
«Era
un uomo facile da avvicinare, colto e sarcastico anche se di poche
battute, ma in realtà se tanti credevano di poter dire di
averlo
conosciuto, erano in pochi quelli a potersi vantare di averlo fatto
davvero. Sotto l'armatura, mio padre era diffidente, forte,
orgoglioso, un uomo d'affari, che credeva nella scienza… e
nell'amore».
Lena
aveva ascoltato appena le parole del discorso di suo fratello. Si era
fatta distante e a malapena vedeva le persone che aveva intorno.
Aveva sentito il respiro affannoso di Lillian però, dietro
di lei a
un passo. Era andata a gettare la terra sulla bara per dare l'ultimo
saluto a suo padre e poi si era fermata a guardare distante, al cielo
limpido e soleggiato, ricordandosi di come tutto stesse andando
avanti malgrado la morte di Lionel Luthor. Come se quello, per il
sole che pretendeva di scaldarli, fosse un giorno qualunque.
Jack.
Si era appena ricordata della sua presenza quando l'aveva presa a
braccetto per andare verso le automobili e lasciare il cimitero. Lui
aveva aperto la portiera e lei era entrata per prima, così
si erano
messi vicini, in attesa, nella limousine, dell'arrivo di Lillian e
Lex. Si era appoggiata senza espressione sulla sua spalla e il
ragazzo aveva cercato di avvicinarsi per farle sentire la sua
vicinanza.
«Jack».
«Sono
qui».
«Credo…»,
era rimasta in sospeso con gli occhi pieni di lacrime, «Hai
chiamato
per Parigi? Quando parti?».
«Non
parto più», lo aveva sentito rispondere facendo un
rumore gutturale
e così ansimare, «Resto qui con te».
«Non
dire sciocchezze: non vedevi l'ora di partire».
«Non
vedevo l'ora di partire… prima.
Ormai…».
«Ormai?
Non ti aspetteranno; la morte di mio padre non avrà alcun
impatto su
di loro e non voglio che ne abbia su di te».
Lui
si era spostato e lei aveva alzato la testa. «Cosa
intendi?».
«Sai
cosa intendo», lo aveva guardato con intensità e
lui aveva sorriso
debolmente, passandosi una mano sulla barba.
«Parto
questo giovedì», aveva sentenziato, «Mi
mancherai».
«Anche
tu».
La
portiera si era aperta e Lillian si era fatta spazio, così
loro non
si erano più rivolti la parola.
La
sua prima volta a casa Luthor era una giornata come quella: limpida e
soleggiata. Se la ricordava bene, poiché dopo qualche ora
con loro,
dopo che le avevano mostrato la casa e si erano presentati, dopo che
era stata in giardino con il suo nuovo fratello maggiore e aveva
sudato, aveva osato alzarsi la gonna del vestitino per prendere aria
e Lillian Luthor l'aveva sgridata per la prima volta, colpendole una
mano, aveva detto lei, per ricordarsi che non doveva farlo
più. Lei,
che era una bambina silenziosa e si sentiva ancora impaurita e sola,
aveva trattenuto le lacrime con una smorfia e suo padre l'aveva presa
in braccio sotto l'aria indispettita di Lillian, che temeva la
viziasse. E l'aveva viziata: andava in camera sua ogni notte per
raccontarle la fiaba della buonanotte, la portava con lui nei viaggi
in montagna, ogni volta che tornava da un viaggio di lavoro in cui
non avrebbe potuto portarla con sé, invece, tornava con un
regalo,
la prendeva sempre sulle sue ginocchia anche se era stanco e
sembrava, a volte, che non faticasse a nascondere di preferire lei al
figlio maggiore. Non avevano mai fatto grandi chiacchierate, lui
amava i discorsi brevi, ma le aveva sempre lasciato qualcosa. O
meglio, lo aveva capito solo quando ormai lui era andato per sempre.
Caduta
da cavallo
Lo
scrisse su un post it giallo, strappandolo dal blocco e fissandolo
sul pavimento.
Protetto
con le mani
Caviglia
sinistra rotta
Ne
scrisse e strappò altri due, incollandoli accanto. Li
guardò e poi
ne strappò un altro.
Loquace??
Confuso
Ne
prese altri, sistemandoli e scrivendoci sopra, formando una fila.
Medici
sostituiti?
Arresto
cardiaco
Morte
Autopsia
coperta da Lillian
Su
quest'ultimo ci fece una freccia verso il basso e ci attaccò
sotto
un altro fogliettino.
Morgan
firma il rapporto: ricattato?
Fissò
uno per uno tutti i foglietti. Ne mancavano altri.
«Non
possiamo permettere che accada! È una follia,
Lillian».
Allora
bambina, Lena aveva fatto un incubo quella notte e appena aveva
aperto la porta di camera sua per andare a prendere un bicchiere
d'acqua, aveva sentito suo padre gridare dal piano di sotto. Lui
poteva essere severo, ma non aveva mai gridato. Non aveva mai amato
le sceneggiate. Aveva sceso gli scalini attenta a non fare alcun
rumore, cercando di gestire anche quello del suo respiro pesante.
«Ci
stiamo spingendo troppo oltre…».
«E
cosa pensi che accadrà? Dobbiamo proteggere i nostri
interessi,
Lionel. Lo condannerà! Dobbiamo fermarla».
«E
per farlo vorrebbero… ?».
Suo
padre a quel punto si era stato zitto e Lena, tirandosi indietro i
lunghi capelli lisci, si era affiancata alla porta chiusa della
biblioteca da dove provenivano le voci. Non si era accorta di aver
fatto rumore fino a quando non aveva udito la glaciale voce di
Lillian:
«Non
siamo soli».
La
porta si era aperta qualche secondo più tardi e suo padre si
era
affacciato per riportarla a letto. Erano andati insieme a prendere il
bicchiere d'acqua e poi l'aveva scortata con una mano sulla schiena
fin su al suo letto, dove le aveva rimboccato le coperte.
Era
tornato in biblioteca con il cuore che gli scoppiava in petto e si
era coperto il viso con le mani. «Per poco nostra figlia di
dieci
anni non ci scopriva…», aveva sussurrato,
ansimando. «Dobbiamo
uscirne finché siamo in tempo, Lillian».
«Ti
faceva comodo far parte del gruppo finché ci hai guadagnato,
e
adesso che insorge qualche problema ti vuoi fare da parte».
«Sai
che non mi sono mai fatto scrupoli nel comprare qualcuno se
necessario, ma qui non si tratta di denaro, non stiamo solo
discutendo di minacciare una giudice, ma di rapire una bambina! Una
bambina come la nostra», si era tolto quel boccone amaro e
Lillian,
seduta su una poltrona, lo aveva guardato con sconcerto.
«Non
faranno del male alla bambina, nessuno lo vuole».
«Non
fingiamo di non sapere che qualcuno dei nostri si è spinto
troppo
oltre durante questi anni, Lillian. La verità è
che stiamo
crollando e forse è il caso di lasciare che
accada».
«Vuoi
finire in prigione? Come crescerai i tuoi figli dalla
prigione?»,
aveva deglutito. Dritta con la schiena e sguardo vigile, in
realtà
era molto più scossa di quanto avrebbe voluto far credere.
Le sue
mani tremavano.
Lui
non era riuscito a sedersi e aveva camminato per tutta la stanza come
un matto.
«Se
la sorella non riuscirà a persuaderla dal
farlo…».
«Non
ci riuscirà».
«No»,
aveva sentenziato lei, «A quel punto la giuria-»,
era stata
interrotta.
«Lascia
che ci pensi Astra di questo. Voteremo, comunque. Andremo ai
voti».
Lillian
aveva abbassato la testa, prendendo respiro. «Voteremo
affinché li
lascino in pace? Non prendiamoci in giro, nessuno vuole veramente
arrivare a tanto-».
«Qualcuno
ha parlato di pena esemplare».
«Rhea
Gand ha manie di protagonismo, Lionel, lo sanno tutti», aveva
sbuffato. «Ma lei è una. Se siamo in tanti a
votare contro,
potremmo farcela e riusciremo anche a mantenere il nostro status. E
comunque lui non parlerà in prigione. O faremo in modo che
sia
così».
«Eri
la prima a volerla punire».
«Punire
la giudice? Sì. Ma fare del male a una bambina no. Mi
conosci,
Lionel. E se è l'unico modo per evitarlo,
allora…», aveva annuito
brevemente, come cercando di convincere se stessa. «In questo
modo
riusciremmo anche a proteggere la nostra famiglia».
Trasferimento
di Morgan pagato dai Gand
Lillian
/ Rhea Gand ??
Lillian
→ Kara
El
uccisi
Un'altra
freccia verso il basso e così un altro post it:
Organizzazione
criminale: la mia famiglia?
Ancora
un'altra freccia.
Luthor
e Gand assassini??
Lena
si tappò la bocca con una mano, leggendo tutti i fogli con
attenzione.
Si
inventava le cose? Era solo la sua impressione? Eppure tutto sembrava
combaciare… Ma non poteva essere vero.
«Astra?».
Lionel Luthor l'aveva chiamata per cellulare, teso come una corda di
violino, aveva preso un sospiro di sollievo quando l'aveva finalmente
sentita rispondere. «Da parte mia è tutto pronto:
un elicottero
sarà lì ad aspettarvi al punto stabilito. Prendi
la bambina e fai
presto».
«Sto
parcheggiando ora, se tutto va come previsto sarò fuori in
dieci
minuti, quindici al massimo», aveva risposto la donna con il
cellulare tenuto contro una spalla, fermando la macchina vicino al
cancello delle scuole elementari. Spenta l'auto si era tenuta la
testa con le mani, riprendendo il cellulare. «Grazie per
quello stai
facendo per noi. Se riesco a portarla abbastanza lontana da
loro…
Alura non vuole darmi ascolto e se non la porto via ora e
finirò in
prigione anch'io… Se dovesse succedere qualcosa a mia
nipote…».
«Hanno
perso la testa, non la perdere anche tu».
Lei
aveva annuito, anche se non poteva vederla, e aveva chiuso la
chiamata. Una volta uscita dalla macchina aveva gettato il cellulare
a terra e lo aveva rotto, così aveva varcato il cancello
tentando di
calmare il suo respiro e la sua camminata, pronta per fingersi la sua
gemella che passava a prendere la figlia da scuola.
Purtroppo
non era andato come previsto: Astra era stata arrestata nella scuola
e Lionel Luthor non aveva potuto fare altro che stare a guardare lo
svolgersi degli eventi come uno spettatore ignaro. Lui e Lillian
avevano votato perché non accadesse, ma avevano
sottovalutato quanto
la paura della prigione e quanto la minaccia che la spavalderia di
una giudice potesse essere contagiosa potessero smuovere gli animi
più profondi e bui. A quel punto, Lillian si era arresa e
con
accordo di Lionel avevano deciso di uscirne e provare a vivere la
loro vita lontano dal gruppo che, durante gli anni, era cresciuto in
numero e in potere. In ogni caso, tutto stava cadendo come un
castello di carte. Ma lui doveva ancora giocare l'ultima del suo
mazzo.
Siete
in pericolo
Scrisse
un foglio battendolo a macchina. Non aveva avuto tempo di farlo per
bene e lasciò che una persona e poi un'altra, dandogli il
cambio, lo
spedisse per lui.
Non
aveva saputo se il suo biglietto era arrivato a destinazione, ma
giorni e giorni dopo la giudice El, suo marito e i cognati non
c'erano più. Dato che si erano spinti fuori, nessuno del
gruppo si
era premunito di avvertire
i Luthor di ciò che stava per accadere e quando. Pena
esemplare,
aveva pensato allora, immaginando che i discorsi motivazionali di
Rhea Gand avevano riscosso il
successo
da
lei sperato.
Ma
loro, due bambini, erano sopravvissuti.
«Dicevi?
Sono stati adottati?», aveva domandato Lillian. Era da tanto,
ormai,
che non sentiva più nominare gli El; si era tenuta lontana
da loro
per paura ed era convinta, fino a quel momento, che suo marito avesse
fatto altrettanto.
«Il
più grande è finito a Smallville. Non ha
memoria», gli aveva detto
quella mattina, entrando alla Luthor Corp. «La piccola, la
figlia
della giudice, è stata adottata da una dei nostri
dipendenti».
«Una
dei nostri dipendenti? Di chi si tratta?». Le aveva mostrato
un
fascicolo, una volta in ufficio, e lei lo aveva preso con scrupolo,
aprendolo. «Eliza Danvers. Ha un curriculum degno di nota. La
terrò
d'occhio».
Il
campanello della villa suonò e Lena si mantenne il petto
dallo
spavento, rialzandosi. Tornò indietro e tirò e
accartocciò tutti i
post it che riguardavano gli El, seppellendoli dentro il compattatore
di carta sotto la sua scrivania. Andò ad aprire, tornando
con Kara
mano nella mano. Chiuse la porta, mentre l'altra si sedeva davanti ai
post it.
Si
guardarono e poi Kara li lesse con attenzione, prendendo in mano il
blocco dei foglietti gialli, strappandone uno.
Drogato?
Scrisse,
appiccicandolo sotto al foglietto con su scritto Loquace??
Confuso.
Lena
ansimò, non potendo obiettare.
«Andiamo,
Principessa. Cosa ti prende?». Lionel stava facendo il suo
solito
giro a cavallo, nel terreno di sua proprietà, ma l'animale a
un
tratto si era fatto agitato e si era fermato di colpo, non riuscendo
a proseguire. «Principessa!», aveva urlato il suo
nome, cercando di
farsi sentire sotto i suoi lamenti impauriti. Era la prima volta che
Lionel aveva a che fare con un cavallo così poco incline ad
obbedire. Aveva cercato di calmarla con la voce, l'aveva colpita con
i talloni e le redini, ma Principessa aveva fatto due passi e poi era
tornata indietro di quattro, si era guardata intorno come se
qualcosa, da qualche parte, le stesse mettendo paura. Lionel era
quasi riuscito a tranquillizzarla, stava per scendere dalla sua
groppa quando alla velocità di un pizzico sul proprio collo,
Principessa si era imbizzarrita di colpo come avesse avvertito che
qualcosa stesse per accadere e lo aveva buttato a terra con violenza.
Lionel aveva cercato di ripararsi come aveva potuto, era accaduto
tutto in un momento. Aveva pensato a un mancamento e, prendendo il
cellulare che gli era caduto da un taschino, aveva velocemente
composto il numero di emergenza. Ma la vista sfocata non era la sola
cosa che aveva iniziato a fargli scherzi: la testa aveva iniziato a
girare e quando l'autista di famiglia, Ferdinand, era corso a tirarlo
su, aveva già iniziato a sorridere di gusto. Lo avevano
preso. Aveva
sperato di riuscire a cavarsela, ma da giorni aveva temuto di essere
stato scoperto e quella era la loro risposta. Loro avevano vinto
quella battaglia.
Medici
sostituiti?
I
sostituti pagati da chi? Scrisse
Kara in un altro post it e incollandolo sotto, guardando Lena.
Lei
si lasciò andare a un sospiro, prendendo poi il blocco dalle
mani
dell'altra e strappando un altro foglietto. Cominciò a
scrivere e lo
incollò sotto l'altro ancora.
Lillian?
Kara
aggrottò le sopracciglia: non lo credeva possibile. Si
rifiutava di
pensare che Lillian avesse ucciso il marito. Coprire l'autopsia non
significava per forza che era lei l'assassina, ma solo che aveva
coperto chi aveva commesso l'omicidio. Anche se non sapevano ancora
per quale ragione. Ma l'assassina non poteva essere lei, si rifiutava
di crederlo.
Quanto
avrebbe voluto avere Alex al suo fianco per aiutarla a capirne
qualcosa insieme, in quel momento.
Anche
Lena non lo credeva possibile, anche se non lo escludeva. Non era mai
stata certa che lei e suo padre si amassero, ma sapeva che lo
rispettava e, credeva, in fondo da qualche parte gli volesse bene. Ed
era sempre stata fredda, dura, indisposta e di cattivo umore, o
almeno prima che si mettesse con Eliza, e di certo lo era sempre
stato con lei, ma non lo avrebbe mai ucciso. Mai. Non poteva neppure
essere un intralcio alla sua relazione con l'altra donna
poiché in
casa erano separati da anni. Però aveva pensato, per un
attimo, che
fosse in un qualche modo responsabile della morte dei genitori
naturali di Kara. Essere capace di uccidere loro, in quell'ottica, la
rendeva capace di uccidere chiunque. No. No, era impossibile. Allora
non aveva ucciso nessuno.
Lena
prese l'ultimo foglietto e lo accartocciò, lanciandolo
contro
l'armadio. Arrossì e abbozzò un sorriso quando
Kara le poggiò una
mano sulla sua, avvolgendola con il suo calore.
Lillian
Luthor poteva essere la peggiore persona del mondo, ma non
un'assassina.
Non
aveva aspettato Ferdinand, a cui aveva gridato per telefono di
restare in ospedale con Lionel quando lui l'aveva chiamata per dirgli
dell'incidente a cavallo. Era corsa chiamando un taxi e si era
fiondata nella struttura con il cuore in gola. Dopo aver ricevuto le
istruzioni su dove andare, aveva trovato la sala d'attesa piena e il
loro autista seduto su una delle sedie con lo sguardo basso e le dita
delle mani intrecciate.
«Dov'è?»,
aveva domandato a gran voce ancor prima di arrivargli vicino,
disturbando le altre persone in sala. «Ti hanno saputo dire
qualcosa? Le sue condizioni?».
Ferdinand
aveva scrollato le ampie spalle e poi scosso la testa.
Appena
riferito da un infermiere di doversi andare a sedere e di calmarsi,
Lillian aveva urlato dandogli dell'incompetente e che doveva parlare
con suo marito. Appreso chi fosse, un'altra infermiera le aveva dato
il permesso di entrare nella cuccetta del marito che era in attesa.
Lo aveva trovato sorridente, quasi divertito.
«Lillian!
Lillian, meno male che sei qui, devi guardare il tempo», le
aveva
detto lui, sorridendo sotto i baffi spettinati. Lei si era avvicinata
appena, palesemente sconcertata. «Il tempo! Hai capito? Fuori
splende il sole, Lillian».
«…
sono stati loro a farti questo?», aveva detto con voce
flebile, non
proprio certa di volere una risposta. «È una loro
minaccia?»,
aveva digrignato i denti; era furiosa ma cercava con ogni mezzo di
restare concentrata. «Tu non hai mai smesso, non è
così, Lionel?
Non hai mai messo da parte la tua crociata, fetido figlio di
puttana?! Era finita, finita! Ma tu dovevi… Questo
è un loro
avvertimento: oggi una caduta da cavallo, domani?». Aveva
ansimato a
denti stretti, stringendo i pugni.
L'uomo
l'aveva guardata con attenzione e quando aveva visto la tenda aprirsi
e il personale medico entrare per dire alla donna di farsi da parte,
aveva sentito il petto stringersi e il fiato uscire con forza:
«Il
tempo, Lillian. Guarda il tempo, perché è
finita».
Lo
aveva visto sorridere un'ultima volta prima che la tenda della
cuccetta si fosse chiusa davanti al suo naso. Fuori, un infermiere
l'aveva invitata ad allontanarsi e di attendere come gli altri,
così
si era andata a sedere, ancora fresca di rabbia. Era quasi tentata di
andarsene. Lui aveva promesso di mettere da parte tutto anni prima e
invece aveva continuato a raccogliere materiale contro ogni membro
del gruppo, quelli che erano riusciti a sfuggire alla galera molti
anni prima. Stupido
Lionel,
aveva pensato. Che parlava a sproposito perfino del tempo, in quel
momento che era stato probabilmente imbottito di antidolorifici. Lo
credeva un avvertimento, non certo una condanna a morte.
Lo
avevano fatto sdraiare e mentre un infermiere controllava lo stato
della caviglia sinistra, che si era rotta, tutti gli altri, aveva
notato Lionel seppur confuso tanto da vederli annebbiati, gli erano
sembrati presi da tutt'altro. Uno di loro lo aveva perquisito e gli
aveva tolto una penna dal panciotto, affidandola a una donna, che
l'aveva smontata. Gli avevano tolto l'orologio, una moneta, tutto
quello che aveva addosso per controllarlo con perizia. Un'altra donna
aveva controllato nel monitor il suo stato di salute e un'altra una
cartellina che aveva tra le braccia. Un altro uomo aveva riempito una
siringa con il contenuto di una boccetta e quello al suo fianco si
era assicurato che la flebo fosse ben messa.
Lionel
non era riuscito a smettere di parlare e aveva cercato di coinvolgere
nel suo delirio di parole disordinate ogni infermiere, ma loro lo
avevano ignorato, presi dal lavoro. Quando la tenda si era aperta
un'altra volta, Lionel Luthor non vedeva ancora bene, ma era certo di
conoscere quella figura anche se indossava un camice bianco da
medico.
«Vecchio
mio», lo aveva chiamato l'ultimo arrivato. «Non sai
quanto mi
dispiaccia ciò che ti sta succedendo».
«Tu»,
aveva sussurrato lui dopo averlo riconosciuto. «Dovevo
saperlo che
eri tu», aveva riso, come se avesse trovato la cosa
divertente.
Il
finto medico aveva pescato da una tasca del suo camice un foglio, che
poi aveva aperto con cura, con attenzione alle pieghe. «Credo
che
questo sia tuo», aveva detto, lasciandoglielo sul petto in
modo che
vedesse, che leggesse o lo riconoscesse, seppur con la vista
annebbiata.
Siete
in pericolo
battuto a macchina. Non era mai arrivato agli El; era stato in mano
sua per tutto quel tempo.
«Ho
aspettato per anni questo momento…», aveva
confidato la figura in
camice, riprendendo il foglio, piegandolo di nuovo con attenzione e
nascondendolo in tasca. «Dieci lunghi anni. Mi sono preso
cura di
quell'avvertimento come un tesoro, in attesa. Ma credi che volessi
arrivare a tanto? No», si era preso una pausa mentre
l'infermiere
gli passava la siringa. «Ovviamente no. Uccidere un Luthor
è sempre
un passo falso, comunque la si guardi. E allora ero giovane, peccavo
di innocenza, volevo solo proteggere i miei interessi come tutti;
come voi che vi siete tirati indietro prima dello scioglimento.
Avevamo National City in pugno, era nostra, vecchio mio. E qualche
passo falso ha portato alla distruzione», lo aveva guardato,
prendendo fiato, «di tutto quello che avevamo creato insieme.
Non
sono più quello di un tempo, le cose sono cambiate, come
avrai
immaginato». Si era scambiato uno sguardo complice con il
team di
infermieri e aveva scoccato la siringa.
«Pensi»,
aveva abbozzato una risata, «Pensi di aver vinto uccidendo
me? Per
quanto mi riguarda pecchi ancora di innocenza».
«È
qui che la vediamo in modo diverso: non ci sono vincitori né
vinti
in quello che sto per fare. Ma tant'è, qualcuno deve pur
farlo».
Aveva spinto l'ago della siringa nella flebo e Lionel aveva smesso di
ridere, lentamente. Aveva cominciato a sentirsi strano e l'uomo
stretto nel camice aveva osservato le sue reazioni, sollevandogli le
palpebre. «Va veloce, vecchio mio. Un attimo e
sarà tutto finito».
Gli aveva poi sussurrato il suo addio. Lionel aveva tentato di
afferrarlo per il colletto ma il suo corpo era diventato troppo
pesante e uno degli infermieri, senza sforzo, gli aveva abbassato le
braccia. Prima di uscire dalla cuccetta, l'uomo in camice si era
rivolto all'equipe che lavorava per lui. «Pensate alla sua
caviglia.
Il medico sta arrivando e a breve ci sarà un po' di
movimento».
Arresto
cardiaco
Morte
Le
due ragazze si guardarono. Lena scrisse un altro foglietto e lo
appiccicò sotto.
Arresto
cardiaco indotto? Da cosa? Un farmaco?
Si
lasciò andare a un mugolio soffocato e Kara la prese con
sé,
chiudendola contro il suo petto con le braccia. Lena strinse gli
occhi mentre lei le sussurrava qualcosa all'orecchio. Si scambiarono
un fugace bacio e restarono così per un po', nel silenzio
della
villa.
Lillian
si era accorta subito che qualcosa non andava. Si era alzata dalla
sedia e si era messa sull'attenti ancora prima di vedere il personale
medico andare e tornare dalla cuccetta di suo marito. Quando
portarono una barella, lei era già lì con il
fiato sul loro collo.
«Cos'è
successo? Dove lo portate?».
«Signora
Luthor, la prego, si faccia da parte». Un'infermiera l'aveva
spinta
indietro ma lei era troppo agitata per pensare al gesto subito.
Avevano intubato Lionel che sembrava privo di sensi e lo avevano
portato dietro delle porte. Solo in quel momento, scossa da brividi
di puro terrore, Lillian aveva capito che non era un loro
avvertimento: glielo avevano ucciso.
Come
sta Lionel? Brutta caduta?
Eliza
le aveva lasciato un messaggio ma lei non era riuscita a rispondere.
Non in quel momento, non poteva. Ora doveva pensare lei a tutto.
Autopsia
coperta da Lillian
Kara
fissò quel foglietto a lungo, più a lungo che gli
altri. Teneva
ancora Lena tra le braccia; la testa della ragazza adagiata su una
spalla. Riusciva a sentire il suo respiro che finalmente tendeva a
calmarsi, e così il suo cuore. Avrebbe voluto prendersi del
tempo
per rendersi conto che seriamente, oh accidenti, aveva Lena Luthor
appoggiata comodamente sulle sue tette, ma non riusciva a non pensare
a quanto stesse soffrendo in quel momento. E a Lionel Luthor;
perché
anche se non lo aveva conosciuto di persona, si sentiva in un modo o
nell'altro vicina.
Lillian
si era tenuta di peso contro i palmi delle mani sulla cornice del
vetro che divideva il corridoio dalla camera delle autopsie. Il corpo
di suo marito era lì davanti, su un lettino, coperto da un
solo
lenzuolo. Freddo e immobile come pietra. Non era riuscita a guardarlo
troppo a lungo. Avrebbe guardato chiunque e affrontato qualunque
cosa, eppure si era sentita vulnerabile quando lo aveva visto la
prima volta in quel modo. Forse lei e lui non si erano mai davvero
amati come ci si aspetterebbe da una coppia sposata, ma insieme
erano cresciuti e avevano superato le difficoltà legate alla
Luthor
Corp, avevano avuto un figlio e un'altra figlia, anche se non nei
modi canonici, avevano litigato e deciso tante cose, avevano
condiviso ricordi e costruiti altri. Erano sempre stati loro due per
molto tempo. E ora era solo lei.
Allora
non sapeva come si sarebbe comportata con Eliza Danvers. Stavano per
uscire allo scoperto e ufficializzare il loro rapporto, lei era la
cosa più bella che le fosse capitata nella vita dopo la
nascita di
Lex, ma quell'omicidio… e sapendo chi era la donna della sua
vita,
chi aveva adottato, misericordia, odiava ammetterlo ma aveva provato
paura. Paura vera. Aveva sentito l'istinto di andarsi a rifugiare
nella sua nuova vita di coppia, ma prima di farlo doveva essere certa
che fossero tutti al sicuro. Lei, i propri figli, Eliza e le sue
figlie.
Era
suo dovere assicurarsi che fossero tutti al sicuro.
Quando
il signor Morgan, il coroner, si era ritrovato lì davanti
spaesato
che ci fossero delle persone nella sua aula delle autopsie, il suo
primo impulso era stato quello di cacciarli, così un uomo
gli era
andato incontro intimandolo di calmarsi e Lillian, dopo aver preso un
grosso boccone d'aria, aveva fatto altrettanto, presentandosi.
Intanto, all'interno della camera, il suo team di specialisti aveva
spogliato Lionel del fine lenzuolo e iniziato ad aprirlo.
Lena
si destò di
scatto
e, senza guardare Kara, si era spinta in avanti per prendere di nuovo
il blocco dei post it, strappando un foglio e riprendendo in mano
anche la penna. In maiuscolo e coprendo tutto il foglietto, scrisse
Perché?,
attaccandolo sotto. Quello era il punto fondamentale. Perché
lo
avevano ucciso? Perché era successo?
«Perché?»,
aveva sbottato Lionel quasi un anno prima,
stringendo un pugno. Era davanti alla scrivania del suo ufficio alla
Luthor Corp. Stava guardando sullo schermo del suo pc uno dei video
di sorveglianza proveniente da uno dei laboratori. Stava guardando
sua moglie Lillian che baciava una donna, ma non una donna qualsiasi.
Aveva saputo che era presa da qualcuno da molto tempo; non era
difficile intuirlo dopo aver passato un'intera vita con lei che non
era mai stata innamorata e poi che all'improvviso lo era, e non di
lui, ma Eliza Danvers… «Perché Danvers?
Perché proprio lei?».
Si era passato una mano sul viso, esausto, e poi sui peli di baffi e
barba, lisciandoseli. Aveva chiuso il video e aperto una cartella
protetta da password, ricontrollando rapidamente un gran numero di
file, in special modo video e audio. Fermò il sensore del
mouse su
un file video in particolare, sotto il nome Lillian
Luthor,
passandosi una mano di nuovo sui baffi e dopo sulla labbra crespe,
pensando. Anche lei era colpevole. Era colpevole quanto lui, come
tutti loro. Quando quel video sarebbe stato pubblicato online, la sua
relazione con Eliza Danvers sarebbe stata distrutta. Si era grattato
la barba, per poi lisciarsela di nuovo. Cosa avrebbe dovuto fare?
Ricordava
ancora come se fosse accaduto solo poche ore prima quando, quasi
dieci anni prima, dopo aver visto la polizia chiudere le indagini sul
gruppo con le persone arrestate, aveva deciso di raccogliere le sue
testimonianze e quelle di altri individui coraggiosi coinvolti, prove
e tutto ciò che poteva, per fare in modo che tutti
pagassero; loro
compresi. Sua moglie lo aveva scoperto una sera più tardi,
rientrando prima dalla Luthor Corp a casa. I loro figli non c'erano,
pensava di potersi confidare in tranquillità alla
telecamera, seduto
sul divano in biblioteca, ma lei aveva aperto la porta, interrotto il
video, e gli aveva urlato contro.
«Tu
non vuoi finire in prigione, vuoi finire ammazzato!», aveva
stretto
i denti e guardato con odio; non l'aveva mai vista tanto adirata
prima, e di certo era più raro vederla di buon umore.
«Se devi
continuare con questa crociata ti voglio fuori prima che tornino i
ragazzi. Fuori da questa casa».
Aveva
provato a parlarle, a cercare di convincerla che fosse l'unico modo
perché nessuno la passasse liscia, ma non aveva voluto
sentire
storie. Infine, Lionel aveva deciso di prometterle che sarebbe
tornato indietro sui suoi passi, ma sapeva già in quel
momento che
non lo avrebbe mai fatto davvero.
«Da
quando ti sei ammorbidito in questo modo?», gli aveva
rinfacciato a
discussione conclusa.
Aveva
ancora il sensore del mouse puntato sul video con la sua
testimonianza contro la moglie, ma impresso nella mente quello della
sorveglianza dove lei baciava Eliza Danvers in un laboratorio,
pensando a quanto si fosse ammorbidita lei. Era restato a fissarlo a
lungo e poi aveva chiuso la cartella, appena in tempo per sentire
bussare alla porta.
Dopo
averle dato il permesso di entrare, la ragazza si era buttata in
avanti, ritirandosi dietro un'orecchia con una mano i lunghi capelli
corvini. «Ehi».
«Ehi,
tesoro. Sei pronta?».
«Vuoi
ancora andare a pranzare insieme?».
«Certo».
Aveva spento il pc e si era alzato, lisciandosi i baffi.
«Andiamo».
Lena
strappò dal pavimento tutti i foglietti, rialzandosi. Li
accartocciò
tutti insieme e Kara glieli sfilò dai palmi, lasciandoli
sulla
scrivania, così le chiese se potevano vedere un film,
tenendole le
mani nelle sue. Pensava che distrarla, ora, sarebbe stata la scelta
migliore.
Andarono
al piano di sotto, aprendo la porta della biblioteca. Quella sala era
enorme e oltre a file di libri che si estendevano per le pareti, con
tanto di scaletta mobile per visionare quelli più in alto,
c'erano
scaffali a parete con una vasta scelta di dvd e blu-ray, tra cui
molti documentari. Kara immaginò che Lena dovesse conoscerli
a
memoria. C'era uno schermo che pendeva dal soffitto, molto
più
grande di quello in sala da pranzo che, per gli standard di Kara, era
già enorme. Un divano curvo, dei tappeti e alte piante
vicino alla
portafinestra che portava in giardino. Lena chiuse la porta mentre
Kara leggeva i titoli in uno degli scaffali dei dvd. Ne prese uno e
lo rimise a posto. Un altro e lo rimise, chiedendole cosa le andasse.
Guardò qualche documentario e ne prese in mano uno,
sogghignando.
Stava per chiederle quante volte li avesse visti, quando Lena
portò
la mano destra sulla nuca di lei e l'avvicinò, baciandola
all'improvviso. Kara capì che doveva aver avuto un'idea
diversa su
cosa le andasse quando le tolse il dvd del documentario dalla mano e
lo portò sullo scaffale mentre, con veemenza, la spingeva
contro.
Aprì la bocca come se le mancasse l'aria e si baciarono
ancora. Kara
le portò le mani nei capelli e Lena sui fianchi,
spogliandola dalla
camicetta allacciata nei pantaloni. La pelle di Kara era
così calda
e quella di Lena così fredda che nel sentire i polpastrelli
addosso
ebbe un brivido. Prendendo respiro, Lena le poggiò le labbra
dietro
l'orecchio sinistro, baciandola lungo il collo, scendendo sulla
clavicola e l'incavo del collo, aprendo con foga i primi bottoni
della camicia, verso un seno. La sentì ansimare ma,
sfortunatamente,
udì anche la serratura della porta di casa.
Kara
si risistemò in fretta intanto che Lillian chiamava sua
figlia per
sapere se era a casa. Le due ragazze si scambiarono uno sguardo,
entrambe rossastre sulle gote e trattenendo il fiatone; Lena
alzò le
mani e, Kara deglutì, le sistemò gli occhiali che
si erano messi
storti.
La
porta si aprì d'improvviso. «Ah, sei qui.
C'è anche Kara».
Lei
la salutò con un gesto della mano e, ancora provata da
quello che la
donna aveva interrotto, si era girata con imbarazzo, passandosi una
mano sulla nuca e sistemandosi i capelli sulle spalle.
«Cosa
fate qui?».
«Sceglievamo
un dvd da vederci. Siamo delle eterne indecise», rispose
prontamente
Lena.
«Ricordatevi poi di rimettere
apposto». Chiuse la porta e la
sentirono allontanarsi.
Kara
le posò dolcemente le labbra sulle sue, sussurrando:
«Ci sarà
un'altra occasione». Così si voltò di
nuovo verso lo scaffale.
«Allora? Ci vediamo un film?».
«Va
bene. Ma non qualcosa per famiglie». La sentì
ridere, adocchiando
il dvd che aveva strappato dalla mano di Kara poco prima: Fuori
splende il sole,
il
Tempo spiegato ai bambini.
Sorrise, poiché era stato uno dei primi documentari che vide
quando
era piccola. Kara le disse di aver trovato un film che le piacerebbe
vedere, così lo rimise al suo posto, avvicinandosi a lei,
avvolgendola in un abbraccio.
Capitolo
corto ma quante cose sono successe!
Finalmente
scopriamo cos'è accaduto a Lionel, come tutto è
cambiato per
Lillian e… quanto i dubbi di Lena sui suoi
genitori implicati con
ciò che è successo a quelli di Kara abbiano riscontro
con la realtà.
Cosa
pensate che succederà adesso? Lena affronterà sua
madre? Dirà dei
suoi dubbi a Kara?
Facendo
il punto della situazione, abbiamo scoperto che non solo i Luthor
facevano parte dell'organizzazione criminale di cui abbiamo sentito
parlare per la prima volta nel capitolo dedicato all'infanzia di
Kara, ma abbiamo letto anche il nome di Rhea Gand e sappiamo di altre
persone che non sono state arrestate circa undici anni prima. Lionel
aveva cercato di reperire materiale sul loro conto ma qualcosa
è
andato storto dal momento che aveva tentato di avvertire gli El:
qualcuno di loro sapeva, lo ha tenuto d'occhio e abbiamo letto
cos'è
successo. E ora sappiamo che Astra, la mattina del suo arresto alla
scuola di Kara, era in contatto con Lionel. Sappiamo come Lena ha
lasciato andare Jack, di come avesse una relazione con Veronica
Sinclair, di come Lionel sapesse di sua moglie ed Eliza e di come
Lillian ha scoperto di Eliza e tutto è cominciato. Niente
accade per
caso, pare.
Spero
vi sia piaciuto questo capitolo stand alone un po' particolare, con
diversi cambi scene da passato a presente! Che non sia stato (troppo)
confusionario, soprattutto XD
Come
avevo anticipato la scorsa volta, il prossimo lunedì il
capitolo 18
non ci sarà, ma lo troverete puntuale come al solito il 2
luglio e
si intitola Casa
:)
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Capitolo 19 *** 18. Casa ***
Accadde
tutto in fretta: Kara aprì la porta della sua camera
in dormitorio, Lena la chiuse e, appena si girò, l'altra
l'attirò verso di sé con una mano sulla nuca e le
loro bocche si
trovarono subito. La prima sapeva che Megan sarebbe stata via fino a
tarda sera e le era sembrata subito un buona occasione per passare un
po' di tempo da sola con lei. Certo, erano consce di essere sempre
sulla stessa brutta situazione familiare, quella che fino a quel
momento aveva impedito a entrambe di farsi avanti, ma sentivano che
da quel primo bacio era caduto un muro tra loro, avevano deciso di
darsi un'occasione e sì, avevano deciso di sfruttarla
appieno.
Sapevano che se le cose non sarebbero andate bene tra loro sarebbe
stato difficile tornare a essere amiche, o magari diventarlo davvero,
ma speravano che non fosse una cosa impossibile se mai si fossero
trovate in quella situazione. No, in realtà non ci pensavano
davvero; non ci pensavano affatto perché nessuna delle due
poteva
solo immaginare che le cose tra loro non sarebbero andate bene.
Perché stava andando bene. Decisamente bene.
Lena
la spinse sul suo letto e si sedette sulle sue gambe, baciandola,
tirandole il labbro inferiore con i denti. Kara le baciò il
collo
verso il basso, piano, stringendola per i fianchi, riportando le mani
in alto le sciolse i capelli, che caddero su di loro come pioggia
scura. Capendo che l'altra non si sarebbe azzardata a farlo, Lena si
scansò da lei il tempo di slacciarsi i bottoni della camicia
bianca
che indossava, sfilandosela e gettandola via. Rise appena nel vedere
che Kara si bloccò, diventando rossa.
«Lo
sapevo».
«Cosa?
Cosa sapevi?».
«Che
mi guardavi le tette. Lo hai fatto spesso».
«I-Io
guardavo… cosa? No»,
rise con imbarazzo, girandosi da un lato e sistemandosi gli occhiali
sul naso. Lena glieli tolse e si spinse verso l'alto, in avanti, per
poggiarli sulla mensola, lasciando che Kara si abbassasse diventando
color pomodoro. Oh, le sue tette le stavano addosso. Per poco non le
sfioravano la faccia. «Io non-non ricordo di averlo
fatto».
«Ah
no?», le sorrise tornando a sedersi su di lei, per poi
portarle via
un bacio. «Giureresti di non aver guardato? Sono pronta a
darti
della bugiarda».
«Giuro
che… le ho guardate. Tante volte», ammise,
«M-Ma in mia discolpa,
posso dire che era davvero difficile non farlo», le
scappò una
risata imbarazzata.
Anche
Lena era imbarazzata. Terribilmente. Ma Kara lo era così
tanto che
la sentiva irrigidirsi; era spontanea ed era una delle cose che
più
di lei le piacevano, anche se non riusciva a trovare qualcosa di lei
che non le piacesse, ma doveva cercare di farla rilassare. Doveva
mettere da parte la sua ansia da averla lì con lei in un
momento
tanto intimo per pensare a farla sentire bene. E forse sarebbe
riuscita a far calmare entrambe. «Bene. E io ammetto che
potrei aver
indossato dei push-up, quando me ne sono accorta».
Kara
avvampò, ingigantendo gli occhi. «Non
lo faccio apposta,
eh? Mi avevi detto che non lo facevi apposta a stuzzicarmi con il tuo
corpo… Sei-Sei… Non lo so che cosa sei, ma di
sicuro lo sei»,
sbottò, vedendola ridere.
«Puoi
toccarle», sussurrò poi, intrappolando il suo
sguardo con gli occhi
verdi di un caldo innaturale.
«Eh?».
«Kara,
puoi toccarle». Lena la vide annaspare in parole mai uscite
dalla
bocca. Era adorabile, dannazione: più si comportava in quel
modo e
più le veniva voglia di mangiarla di baci. Ma non poteva;
doveva
fare con calma, non voleva rovinare tutto. «Anzi, voglio che
le
tocchi».
Kara
si morse un labbro, guardandole il seno tenuto su con un reggiseno di
pizzo nero. Le aveva guardate spesso, accidenti. Pensava
perché
erano grandi ma ora che poteva davvero toccarle, se voleva, si
rendeva conto che aveva sempre desiderato farlo; dalla prima volta in
cui la vide in costume, in piscina. Aveva da sempre desiderato di
poter toccare lei, accorgendosi per quanto tempo aveva covato un
interesse verso la sua sorellastra senza rendersene conto.
Però…
«N-Non devo… per forza…
Insomma…». Ricordava com'era stato il
loro primo vero bacio, dopo la partita: si era lasciata andare e
l'aveva sollevata di peso spingendola contro il muro. Sì che
avevano
deciso di darsi un'occasione, ma non dovevano correre, dopotutto.
«Toccami
le tette».
«N-Non
c'è fretta».
«Kara».
«No».
«Toccami
le tette».
«Ma-».
Si stava opponendo, eppure non aveva ancora spostato gli occhi da
lì.
Alla fine, Lena le prese le mani e gliele spinse verso di
sé, una
per seno. Lei sussultò, ma anche Kara lo fece e la
notò deglutire.
Così, neppure se ne rese conto, le sue mani non erano
più
semplicemente appoggiate, iniziò a premere dolcemente, ad
accarezzare la sua pelle oltre il pizzo, diafana, incredibilmente
calda e soffice.
Lena
sollevò una mano verso il suo viso e si baciarono, le
portò via un
labbro con i denti, piano, e glielo succhiò. Così
spostò
l'attenzione sull'orecchio sinistro di lei, baciandolo ai lati,
alitando leggermente, facendola sospirare.
Kara
sciolse la sua postura e chiuse gli occhi, le baciò il collo
e poi
scese verso i seni, mentre le mani le delineavano i fianchi,
tastando, sentendo come il corpo di Lena rispondeva a ogni suo tocco.
Tremava sotto la pressione dei suoi polpastrelli. La sentì
inarcare
la schiena e così l'avvolse, continuando a baciarla,
assaggiarla
delicatamente.
Quando
Megan aprì la porta, la richiuse a occhi chiusi e camminando
a
tentoni, facendosi sentire: «Sono io! Sono tornata prima, mi
dispiace. Siete vestite? Ci siete?».
«Ssh».
«Cosa?».
Aprì un occhio e poi l'altro, trovando Kara e Lena sdraiate
in un
abbraccio. Kara le faceva segno di fare silenzio poiché
l'altra, con
la testa appoggiata sul suo petto, ancora i capelli spettinati, aveva
il respiro pesante e gli occhi chiusi. «Dorme?».
Kara
annuì piano, facendole dopo il segno di avvicinarsi.
«Ti prego,
scatta una foto. Non posso farla io, non posso muovermi». Le
indicò
il cellulare sulla mensola e Megan si sporse per prenderlo, trovando
la fotocamera.
«Da
quanto stai così?».
«Da
un po'». Finse di dormire anche lei per la foto e all'okay
dell'altra riaprì gli occhi. «Mi si è
addormentato un braccio ma
non voglio svegliarla». Abbassò gli occhi e
sorrise nel vederla
fare quell'espressione rilassata. Si rivestirono e decisero di
parlare un po', abbracciate, che lei si addormentò. Era
così bella,
delicata; non si sarebbe mossa mai più se significava averla
in quel
modo tra le braccia.
«Oh,
credevo che avreste fatto quel passo in più,
oggi», sussurrò
sedendo sul suo letto, facendosi interessata.
«E
lo abbiamo fatto», arrossì di colpo,
«No-Non quello che pensi».
Si trattenne dall'alzare la voce, scorgendo incresparsi la fronte di
Lena. «Intendo il passo in
più… È che è la
prima volta
per me con una donna e-», si fermò, assicurandosi
che il respiro di
lei e il battito del cuore fossero regolari, «non so come
comportarmi, temo l'abbia capito».
«E
pensi che a lei questo importi?», abbozzò un
sorriso.
«Non
lo so…», ammise, «Mi fa sentire
inesperta».
«Magari
lo sei».
«E…»,
arrossì, «Credo che sia proprio lei a rendermi
così, così
impacciata… Non voglio rovinare quello che stiamo facendo,
non
dovremmo neppure, ed è così bello poterla
toccare… Non hai idea
di come mi faccia sentire anche solo averla tra le mie
braccia».
Megan allungò l'occhio a Lena mentre Kara parlava, ma non la
interruppe. «Mi fa sentire così
strana,
ma uno strano bello. Come se fossi leggera, e su di giri, mi fa
sentire felice… E-E non voglio esagerare, non voglio che si
faccia
un'idea sbagliata di me s-se mi azzardo a toccarla e non lo faccio
bene e…», lasciò la frase a mezz'aria,
deglutendo.
Megan
la fissava con un sorriso. «Kara, sei innamorata».
«Lo
so».
«Gliel'hai
detto?».
«Non
ancora, ma lo sa. Lo avevo detto da ubriaca, e io non lo ricordavo
prima, te ne avevo parlato di quanto siamo andate a casa di Kal, e
ora comincio a ricordarlo un po' ed è stato terribile,
co-come se
gliel'avessi sbattuto in faccia perché ero frustrata, e
adesso non
riesco più a capire come-», spinse le parole in
gola sentendola
muoversi sopra di lei, zittendosi di scatto.
Megan
abbassò lo sguardo e Lena aprì gli occhi,
sorridendole. «Ehi…
Perdonami, ma non credo di aver mai dormito così bene in
vita mia».
Si scambiarono un bacio e si alzò, così Kara fece
per muovere il
braccio dolorante senza lamentarsi a voce, sorridendo come se nulla
fosse quando lei si girò a guardarla.
Sì,
tra loro stava andando decisamente bene.
Seduta
a terra e circondata dalle riviste selezionate con perizia dagli
scaffali, Kara cominciò a sfogliare la prima dalla pila a
destra.
Era dell'anno prima e in copertina si parlava della morte di Lionel
Luthor. Le foto, anche nell'articolo che ne parlava lungo diverse
pagine, erano state scattate in cimitero, distanti. Riconosceva la
sagoma nera di Lena poiché l'avrebbe riconosciuta ovunque:
come un
radar, ogni volta che la vedeva le si seccava la gola, sentiva caldo
alle orecchie e il suo cuore saltava un battito. Le foto erano per lo
più sfocate, ma era riuscita a distinguere qualcun altro,
trovando
conferma nelle didascalie scritte da Leslie Willis, che si era
occupata dell'articolo. Raffiguravano nomi importanti, il signor
Luthor conosceva persone di spicco, non ne era sorpresa: i genitori
di Mike erano in prima fila, si leggeva nella didascalia. Lena le
aveva detto di aspettare e dimenticare i Gand, per il momento, eppure
il suo cuore continuava a tormentarla per andarci a parlare. Lesse
rapidamente l'articolo e sfogliò i numeri a seguire. Aveva
già
letto quegli articoli, ma al tempo non ci aveva dato la stessa
attenzione che poteva riservare loro adesso. Non aveva molto tempo a
sua disposizione, così chiuse e prese il primo della pila a
sinistra, molto più vecchio: in copertina compariva una
modella, si
parlava degli ultimi capi in passerella e, solo in una finestrella in
fondo a sinistra, insieme ad altre notizie, dell'esplosione che
uccise quasi un'intera famiglia. Il quasi
lo rappresentavano lei e Kal. Aggrottò le sopracciglia e si
sistemò
gli occhiali sul naso, aprendo la rivista.
«Le
prime ipotesi vagliano la vendetta di associazione mafiosa»,
lesse, irrigidendo le labbra. «I
due bambini, di cui non diffonderemo le generalità,
entreranno nel
sistema affidatario non appena li dichiareranno fuori pericolo».
Sbuffò, chiudendo il magazine. Ci rimise un po', sapendo di
non
avere altro tempo, prima di sfogliare i numeri successivi. Si
rifacevano con nuovi aggiornamenti della vicenda, la polizia aveva
abbandonato la pista sull'associazione mafiosa e aveva imboccato
quella giusta, parlando della corruzione a National City, degli
ultimi casi di sua madre in tribunale, delle minacce che avevano
trovato, di sua zia Astra che dalla prigione aveva dichiarato non
avrebbe parlato con nessuno se prima non le avessero fatto vedere la
nipote. Kara deglutì e prese un grosso respiro, resistendo
alla
tentazione di chiudere tutto e lasciar perdere perché quella
era la
sua sola occasione per capirci di più. In quell'articolo,
erano
stati elencati i nomi delle persone arrestate per corruzione,
traffico di denaro e altri capi d'accusa, tra cui concorso in
omicidio e terrorismo. Kara strinse ancor di più le labbra
con
disappunto quando scoprì che nessuno degli arrestati era
stato
accusato di omicidio di primo grado perché nessuno di loro
aveva
confessato e non erano state raccolte abbastanza prove. Secondo il
giornalista, essendo stata smantellata l'organizzazione criminale con
l'arresto dei membri, la polizia non riteneva di aver bisogno di una
confessione per l'omicidio degli El. Kara digrignò i denti e
trattenne la rabbia con respiri brevi e veloci, decidendo di scattare
una foto della
lista: avrebbe scavato a fondo sulla loro vita e avrebbe trovato il
diretto responsabile; lei non si sarebbe arresa.
«Ah,
eccoti qui».
Kara
balzò dallo spavento poiché talmente attenta in
ciò che stava
facendo che non si era accorta della porta del magazzino che si
apriva. Siobhan sorrise con una strana luce sadica negli occhi.
«Si
può sapere cosa diavolo stai combinando invece di starmi
appresso e
fare il tuo lavoro?».
«Siamo
in pausa».
«Sì,
quasi tre quarti d'ora fa, sfigata. Alza il culo: la signora Grant
vuole vederti».
L'ufficio
di Cat Grant odorava di premorte. O forse era solo l'ansia che
prendeva il sopravvento del suo corpo e delle sue sensazioni; temeva
davvero di esser nei guai: Siobhan Smythe l'aveva ripresa come una
scolaretta, nemmeno si fosse avventurata in uno dei corridoi proibiti
di Hogwarts. Odiava che la signora Grant l'avesse affidata a lei per
il suo tirocinio; chiunque ma non lei. A giorni alterni, ormai era
una settimana e mezzo che le stava dietro e aveva già
memorizzato
affidabili tecniche ninja per farla fuori. Avrebbe voluto andare
d'accordo con lei, esserle amica magari, ma si accorse molto presto
che quella era una sfida che non poteva vincere.
«Ah,
Keira, eccoti qua…», mormorò, davanti
alla sua scrivania, mentre
dietro di lei i monitor trasmettevano silenziosamente notizie da ogni
emittente.
«Kara».
«Sei
licenziata».
«Cosa?»,
spalancò gli occhi e la bocca, toccandosi il petto.
«Questo
è quello che mi sentirai dire se non ti deciderai a prendere
il tuo
incarico più seriamente», sbottò la
donna, alzando una mano per
aria. Vide Kara tirare un enorme sospiro di sollievo e avvicinarsi,
così riprese parola. «Sarà dura per te
sentirtelo dire, ma non ci
sarà la maestra a tenerti la mano se non terrai di nuovo
conto
dell'ora, siamo intese?».
«Sì,
signora Grant», s'irrigidì con la schiena,
«A-Assolutamente».
«Bene,
e sciogliti che non siamo in una scuola militare», la
rimproverò
infine, congedandola con un colpo di mano. «A lavoro ora,
sorprendimi».
Kara
si voltò rassegnata e si avviò alla porta con
sguardo basso,
tormentandosi la coda di capelli da un lato, quando la lista delle
persone arrestate fece di nuovo capolino nella sua testa e decise di
fare un passo in più. «Ah, s-signora
Grant?».
«Sei
ancora qui? Non me n'ero accorta».
«Non
si era chiesta cosa facessi in magazzino?».
«No.
A dire il vero non m'importa, ma ho come la sensazione che sto per
scoprirlo», alzò gli occhi verso di lei e Kara
tornò sui suoi
passi, incrociando le braccia al petto.
«Cercavo
vecchi articoli che riguardano i miei genitori. La loro morte, per
l'esattezza», catturò la sua attenzione e
continuò: «Loro sono
morti per mano di un'organizzazione criminale undici anni fa
e-».
«Stop,
stop, stop! Ti fermo subito! Dove vorresti andare a parare?»,
incrociò le dita delle mani, squadrandola con attenzione.
Deglutì,
facendo un altro deciso passo verso il suo capo. «Lei dice
sempre
che dobbiamo seguire il nostro istinto e raccontare ciò che
sentiamo
di dover raccontare e io pensavo di-», si fermò,
arretrando appena
quando sentì il duro sguardo della donna scrutarle dentro,
«di…
insomma, parlare di questo. Qualcuno mi ha privato dell'affetto della
mia famiglia e-e non sono sicura che tutti stiano pagando
adeguatamente per questo. Nessuno di loro è stato accusato
di
omicidio di primo grado! Nessuno ha confessato e-»,
trangugiò
ancora saliva, facendosi coraggio e alzando la voce, «e se il
vero
mandante fosse ancora là fuori?». Cat Grant si
appoggiò allo
schienale, senza staccarle occhio un solo attimo. «Se loro lo
avessero protetto? Si è parlato di personaggi di spicco, di
alte
cariche istituzionali, ricchi e potenti che hanno tenuto sotto
controllo la città per chissà quanti anni e
avrebbe senso»,
strinse i denti, «se quelli davvero in alto nella catena
alimentare
non fossero stati arrestati, allora». Cat si alzò
ma Kara, che
aveva preso il ritmo, continuò a parlare. «Voglio
scrivere di
questo! Di com'è stato traumatico, di che persone
meravigliose
fossero e di come hanno lasciato un vuoto dentro di me che non riesco
a colmare», esclamò con occhi lucidi, «e
di come dopo tanti anni
il vero colpevole non stia pagando per tutto questo… Certo,
se-se
lei me lo permette, ovviamente, signora Grant», si
calmò,
abbassando la voce.
Cat
Grant si spostò davanti alla sua scrivania con delicatezza,
appoggiandosi contro e mettendo le gambe incrociate, un braccio a
circondarle il petto e la mano sinistra libera, in modo che potesse
gesticolare. «Ricordo qualcosa, ormai molto tempo
fa…», mormorò,
alzando le sopracciglia, «Avevo acquisito una piccola azienda
e
volevo farla diventare beh,
ciò che è adesso. La CatCo allora era ancora un
fiorellino pronto a
sbocciare, tante idee, sponsor giusti… E qualcuno venne da
me a
propormi un affare, ed era un affare invitante»,
annuì ed era come
se non la guardasse, scavando tra i suoi ricordi.
«Rifiutai»,
chiosò seccamente, «Era ovvio. Non avrei permesso
a nessuno di
mettere mano nelle mie cose, anche se ciò significava
perdere grosse
somme di denaro che, allora, avrebbero fatto comodo alla CatCo. Il
mio istinto non ha mai sbagliato, naturalmente: erano soldi sporchi.
Mi invitarono una seconda volta e dopo mi lasciarono in
pace».
«Chi
era questo qualcuno?». A un'occhiata dell'altra si
gelò. «S-Se
posso chiederle, signora Grant».
«No,
non puoi. Sai perché ho potuto rifiutare, Keira?».
«È
Kara».
«Perché
mi volevano con loro, non contro di loro. Mi vedevano come una loro
pari. Per questo ho potuto rifiutare e andare avanti come uniche
conseguenze non poter essere invitata ai party, sai
che perdita.
Ciò che sto cercando di dirti è che questa non
è una favola, ci
sono degli squali là fuori, persone cattive
perché no, e tu», la
indicò, minuta e stretta al suo cardigan giallo,
«vorresti scrivere
contro di loro?».
«I
miei genitori-».
«I
tuoi genitori preferirebbero saperti al sicuro o a fare la piccola
detective per scoprire chi li ha uccisi?», le
parlò con la voce
sulla sua.
Kara
si inumidì le labbra e così annuì,
seria. «Quindi sta dicendo che
ho ragione nel dire che non tutti sono finiti in prigione»,
aggrottò
le sopracciglia, «Signora Grant, se lei sa
qualcosa-».
«Sto
dicendo che se,
come sostieni, non sono stati tutti arrestati, scrivere di loro
è un
suicidio», alzò entrambe le braccia e a passo
calcolato tornò
dietro la scrivania, sedendo comodamente. «Tanto varrebbe
uscire di
casa con un bersaglio sulla testa», la guardò,
serrando con forza
le mascelle. «E se non fosse un suicidio per te, lo sarebbe
di certo
per la CatCo: noi non scriviamo di cospirazioni, supposizioni, un
sacco di oni,
noi facciamo informazione, ci occupiamo di realtà, e gossip,
e moda,
le cose che interessano alle persone e-»,
la bloccò con una mano quando al vide aprire bocca,
«no, alle
persone che leggono CatCo Magazine interessano notizie concrete,
altrimenti leggerebbero le deliranti interviste di chi è
stato
rapito dagli ufo o gli opuscoli della chiesa».
Kara
arrossì, gonfiando le labbra con fare seccato.
«Quindi è un no?».
«È
un no», confermò, cercando qualcosa sulla sua
scrivania. Kara si
voltò per uscire dall'ufficio; ci aveva provato e le era
andato
male, sperava proprio ti attirare qualcuno in modo che parlasse, in
effetti, ma probabilmente non era quello il modo giusto per farlo.
«Ti ho detto di andare, per caso?». La ragazza si
girò di nuovo
con uno scatto. «Vuoi davvero provare a scrivere?».
«Oh,
sì», camminò rapidamente verso la
scrivania. «Sono pronta,
signora Grant, non se ne pentirà».
«Dovrai
comunque proseguire il tuo tirocinio sotto la guida di
Siobhan»,
alzò gli occhi, cercando conferma, «Ho un buco sul
prossimo numero
sulla famiglia, potresti provare a consegnarmi qualcosa. No
cospirazioni, nessun nome di
qualche criminale, no teorie su possibili assassini,
non
sei Olivia
Benson,
sei stata avvertita. Solo tu, il tema è la famiglia, cosa
provi;
deve essere qualcosa di vero, non voglio romanticherie da cinema di
serie b. E…», la guardò di nuovo,
segnando il suo nome, o meglio
Keira
Danvers,
nella sua agenda, infilandolo in mezzo ad altri nomi e cancellature,
«sarà anonimo».
«Anonimo?».
«Non
mi ripeterò. Al lavoro ora! Chop
chop».
La
congedò e Kara uscì dall'ufficio un po' delusa
che il suo primo
vero articolo non sarebbe stato firmato. Le stava dando una grande
possibilità, eppure ne era felice solo a metà.
Da
Me a L!
Farò
comunque del mio meglio, non voglio deludere le aspettative della
signora Grant, però una volta consegnato le
chiederò di poterlo
firmare. È ingiusto! E merito di firmarlo.
Da
L! a Me
Sii
sempre rispettosa e andrà bene. Cat Grant potrà
sembrare
implacabile, ma adora l'intraprendenza. Si innamorerà di te
e del
tuo lavoro, vedrai. Finirò per essere gelosa!
Kara
sorrise, arrossendo. Stava per rispondere quando le arrivò
un altro
messaggio:
Da
BadSister a Me
E
tu cosa le hai risposto?
Da
Me a BadSister
Nulla,
me ne sono andata. Ma appena sarò lì per
consegnarglielo, le
chiederò di poterlo firmare. Sarà il mio primo
articolo: devo
firmarlo!
Alex
annuì col cellulare in mano, leggendo la risposta e
rispondendo
subito a sua volta:
Da
Me a LittleSister
È
giusto, dovrai prenderti i meriti! Ah, sorellina, appena torni a casa
chiamami: devo parlarti.
Da
LittleSister a Me
È
successo qualcosa?
Da
Me a LittleSister
Voglio
sentirti su una cosa, niente di preoccupante. A dopo e ti voglio
bene!
Sorrise
nel leggere il suo ti
voglio bene
di rimando, infilando il cellulare nella tasca dei pantaloni stretti
dei jeans e avvicinandosi a una delle scrivanie davanti al grande
schermo sulla parete, dove l'aspettava John Jonzz.
«Sei
riuscita a contattarla?», le domandò l'uomo,
rimettendosi dritto
con la schiena che aveva piegata fino a poco prima, appoggiato allo
schienale di un dipendente che lavorava davanti a un pc. La vide
annuire e sospirò. «Abbiamo aspettato fin troppi
giorni per
interrogarla».
Nel
grande schermo alle sue spalle comparve la foto del coroner, il
signor Morgan, con una lista di dati in loro possesso.
«Speravo me
ne parlasse da sola…». Alex affiancò il
suo superiore ed entrambi
guardarono la foto dell'uomo a braccia a conserte. «E lui? Ha
chiamato?».
«No,
il che ci fa supporre che ciò che ci ha detto la prima volta
era
tutto: ha parlato solo con Lena Luthor, Kara Danvers e quel ragazzo
si sono intrufolati nella sua casa ma non ha trovato nulla di
insolito, a parte la sua pappagallina che non stava
zitta…», la
guardò con occhi pesanti, sbuffando, «Non ha fatto
altro che
parlare di quella pappagallina. Il ragazzo è Bartholomew
Henry
Allen», disse, mentre sullo schermo l'immagine cambiava e
compariva
una sua foto con i dati raccolti, «Star Central City
University,
ottimi voti, campione di corsa, stella della sua squadra di lacrosse,
vive con il detective Joe West, il suo padre affidatario. Lo abbiamo
fatto pedinare ma non si comporta in modo insolito, è
probabile che
non sappia nulla e che fosse lì solo per aiutare».
«Per
aiutare Kara», annuì Alex, «Sono amici.
Se Kara sa qualcosa lo
saprò». Lo aveva guardato con la coda dell'occhio;
sapeva che era
indispettito.
«Lo
avevi detto anche l'ultima volta, agente Danvers, invece eccola che
accompagna Lena Luthor, che avresti dovuto dissuadere dall'indagare,
a parlare con il coroner».
Alex
abbassò la testa rammaricata, per poi scuoterla brevemente,
pensando
che forse sua sorella stava diventando più brava ad avere
dei
segreti.
Da
Me a L!
Pensavo
che dovremo dirlo ad Alex… Non sopporto che ci siano segreti
tra
noi e poi potrebbe anche prenderla bene. Che ne pensi?
Da
L! a Me
Non
ne sono molto convinta, ma in fondo non conosco tua sorella bene
quanto te. Possiamo provare ad accennarle qualcosa e vedere come si
comporta.
Kara
estrasse un sorriso, mettendosi subito a rispondere:
Anche
perché temo lo abbia capito e che ne voglia parlare! Mi ha
chiesto
di chiamarla stasera…
Da
L! a Me
Ah.
Va bene, allora passa da me questa sera e vediamo di affrontarla
insieme. Sarà uno spasso.
Da
Me a L!
Perfetto!
Non vedo l'ora di venire!
Aggiunse
al messaggio una faccina e inviò, non rendendosi conto della
sinistra presenza alle sue spalle. «Scambio di messaggini
spinti
durante l'orario di lavoro…», esclamò
Siobhan, inarcando le
sopracciglia, «Non ti facevo così
audace… Però, cominciò a
rivalutarti». Si allontanò ridacchiando mentre
Kara sbiancava.
«Non-
Cosa stai cercando di insinuare?!». Rilesse il messaggio
inviato
rapidamente e spalancò gli occhi, mentre le gote si
imporporavano.
«Oh,
la bambina è imbarazzata, guardala come diventa
rossa», rise
l'altra, sedendo davanti alla sua scrivania. «Ma figurati!
Non mi
preoccuperei che il destinatario possa fraintendere, fossi in te, e
grazie al cielo non sono come te, s'intende»,
ridacchiò, alzando una mano e controllandosi le unghie,
«Sei così
pura che non faticherei a credere se fossi vergine».
Kara
stava per aprire bocca ma alla fine optò per ignorarla: era
lì per
lavorare e non per lasciarsi prendere in giro dall'arpia. Anzi, era
ormai ora di tornare a casa e di certo non ne valeva la pena. Prese
la sua giacca e la salutò con un cenno veloce della mano.
Da
Vaniglia a Me
A
casa tua. Avevo inviato prima per errore!
Lena
rise nel leggere l'ultimo messaggio: a volte, Kara era proprio una
bambina. Posò il cellulare sul bancone della cucina e
aspettò che
sua madre, che era fuori a prendersi cura di alcuni fiori con Eliza,
tornò dentro. Sapeva che Eliza doveva uscire, doveva tornare
alla
Luthor Corp, così ne avrebbe approfittato per parlare con
Lillian da
sola. Si sentiva pronta per affrontare quella discussione; ci aveva
rimuginato fin troppi giorni. Doveva farlo.
«Ci
vediamo questa notte, Lena. Torneremo tardi», le
comunicò tornando
dentro mentre entrambe si affrettavano ad andare a prendere le
giacche appese nell'ingresso.
«Esci
anche tu?».
«Devo
sbrigare alcune faccende». Uscì per prima, senza
guardarla, mentre
Eliza la salutava, per poi sussurrarle:
«Mi
porta fuori a vedere una mostra, torneremo tardi», la
abbracciò.
«Chiamo Alex e Kara e vedo se sono libere, così
magari ti fanno
compagnia, sei sempre sola», adocchiò dalla
finestra Lillian che
l'aspettava e fece due passi verso la porta. «Va
bene?».
«Ho
molto da studiare; la solitudine non è un
problema». Si salutarono
ed Eliza chiuse la porta. Aveva da studiare, ripassare alcuni
programmi per la Luthor Corp, organizzare dei pranzi d'affari con
futuri collaboratori, stilare un programma per le ragazze a cui
faceva da tutor e, se riusciva, dormire un po'. «Va bene.
Mettiamoci
al lavoro». Adocchiò il cellulare, tornando in
cucina. Beh… forse
poteva farlo più tardi. Chiamò subito Kara, che
era tornata da poco
alla Sunrise.
«Quando
posso ven- andare
da te?», Kara arrossì, ridacchiando contro il
cellulare, «Ah, va
bene… Tra poco allora, sistemo le ultime cose e arrivo. Mi
farò
una bella camminata, non preoccuparti». Chiuse la chiamata.
Sembrava
che Lena non vedesse l'ora di vederla, oggi. Poggiò il
cellulare
sulla mensola dietro al letto e sollevò lo schermo del
tablet che
aveva nascosto contro il copriletto, mettendo di nuovo su play e
sistemandosi comoda. Le sue iridi si aprivano tanto più le
si
coloravano le gote, di un rosa acceso. Guardando il video senza
riuscire a perdersi un attimo, la mascella si spalancò
lentamente,
deglutì, incurvò il collo e aggrottò
le sopracciglia.
«È
un porno, quello?».
«Aaah!».
«Aaah!
Perché urli?».
Megan
era appena uscita dal bagno, involta in un accappatoio; entrambe si
portarono le mani contro il petto, poi Kara cercò di mettere
pausa
ma le scivolò il tablet e la sua compagna di stanza
arrivò prima di
lei, sollevandolo e spalancando la bocca in un enorme sorriso.
«Un
porno tra due donne? La cosa si fa seria».
Kara
sbuffò. «Credo sia tardi per dire non è
quello che pensi, beh…
perché
è proprio quello che pensi»,
lo riprese
dalle sue mani, mettendo pausa.
«Però?».
«N-Non
c'è nessun però»,
arrossì.
«Quando
mi hai detto di non essere mai stata con una donna e di aver paura di
fare qualcosa di sbagliato non ti avevo fatto così
disperata. Ti ho
lasciato che dovevi studiare e scrivere l'articolo e ti ritrovo con i
porno», si sedette accanto a lei e Kara abbassò lo
sguardo,
stringendo i denti.
«Lo
so che i porno non rappresentano esattamente la realtà,
ma…»,
scrollò le spalle, «mi danno un'idea».
«Quando
verrà il momento, sarà una cosa
spontanea…», abbozzò una
risata, «Non credo tu ti debba preparare, non così
se non altro».
Allungò lo sguardo allo schermo del tablet. «I
porno danno un'idea
sbagliata del sesso».
Si
zittirono, poi si guardarono. Kara riprese il tablet e si scambiarono
un altro sguardo. «Cosa faccio…? Rimetto
play?».
Annuì.
«Mi sono sempre chiesta come fosse per le
lesbiche».
Mia
madre mi ha sempre detto che la famiglia non è qualcosa che
ti
capita per caso.
Che
per molti potrebbe sembrarlo, e diventarlo, ma che è
un'altra cosa.
La
famiglia sono persone che si cercano, che si confrontano, che si
tengono per mano quando tutto va male perché che sono la
forza l'uno
degli altri; e può capitare che queste persone abbiano tra
loro
legami di sangue, e altre volte no. La famiglia la cerchi, la
costruisci. Sono persone che si vogliono bene e questo va al di
là
dei semplici legami biologici. Mia madre lo sa bene, è una
scienziata. Me lo ha detto la prima volta quando ho passato la prima
notte a casa sua, quando ancora non era casa mia.
Sono
stata adottata, ho avuto una seconda occasione, una seconda madre,
una seconda famiglia. E sto per averne una terza: proprio
perché la
famiglia non capita, si sceglie, si crea.
Uscì
di casa di fretta. Dopo la visione, che aveva lasciato a Megan, Kara
aveva cominciato ad abbozzare il suo primo articolo e
continuò a
pensarci lungo il tragitto fino alla villa dei Luthor, scrivendo
qualche nota sul telefono. Aveva sentito così spesso sua
madre Eliza
parlare di famiglia, e ora che stava per sposare Lillian ancora di
più. La donna ci teneva perché restassero tutti
uniti, perché
funzionasse, quasi sicuramente perché anche per lei era una
seconda
occasione. E Kara era davvero scettica all'inizio, ma ora tutto
sembrava avere un senso e, quando Lena Luthor la guardava, il senso
era ancora più chiaro.
Superò
il cancello che aveva aperto per lei, intanto che l'aspettava davanti
al portone, richiamandola con un dito verso di sé. E ora
poteva
davvero baciarla… Sorrise e, labbra contro labbra, la spinse
all'interno, poi chiusero la porta con un tonfo.
«Aspetta», si
separò da lei, spalancando gli occhi, «Lillian non
è a casa?».
«Siamo
sole». Lena la prese per il colletto e l'attirò
verso di sé,
sorprendendola con un altro bacio, intanto che la mano sinistra
scendeva lungo la sua schiena e, stringendola, la spingeva contro il
proprio corpo. «Cosa vuoi fare…?», le
domandò con la bocca
schiusa, ancora vicine, guardandola negli occhi. «Non ti
sforzerò a
far nulla, lo sai…».
«I-I-Io…».
Cercò di schiarirsi la gola ma, essendo ancora tanto vicina
al suo
viso, ciò che emise Kara, trattenendosi, fu più
un verso d'agonia.
«Vorrei tanto fare l'amore con te, Lena».
«Possiamo
aspettare, va bene così», sorrise, acchiappandole
un labbro e,
senza staccarsi e chiudendo gli occhi, baciandola lentamente,
così
anche Kara li chiuse, lasciandosi trasportare.
Sapeva
che Lena poteva aspettare perché riusciva a farlo ogni
volta, ma
forse chi non poteva più aspettare era lei. Era in ansia per
la loro
prima volta, la sentiva arrivare, e ogni volta il suo corpo le faceva
capire di essere pronto, accaldandosi verso il basso ventre e, come
in quell'istante, lasciando che il cuore battesse a ritmi
più
calcolati, trattenendo il respiro. La voleva. Desiderava il suo corpo
nudo sul proprio, sentirla come mai prima. Anche se ne aveva paura.
Soprattutto dal momento che ne aveva paura.
Doveva
dirglielo. Ora. Erano sole ed era il momento giusto.
«Lena…»,
si staccò, aprendo un poco gli occhi chiari, frastornata da
quanto
potessero essere caldi i suoi baci. «Io ti vo-».
«Shh»,
le baciò il naso, alzandosi con la punta dei piedi scalzi.
«Non
preoccuparti». Si staccò e per un attimo Kara
sentì mancarle
l'aria. Le prese una mano e la trascinò dentro. «A
che ora devi
chiamare Alex?».
Oh,
Lena aveva frainteso e il loro momento era magicamente scomparso.
Kara sbuffò, ma cercò di non dare a vedere il suo
disappunto.
Provò
a chiamare Alex ma si inseriva la segreteria telefonica,
così le
inviò un messaggio per sapere che fine avesse fatto. Intanto
le due
sembravano aver trovato qualcosa da fare per ingannare l'attesa: si
erano sedute davanti al piano e Lena, armata di molta pazienza, stava
tentando di offrire a Kara una base di conoscenza.
«Sbagli».
Le spostò un dito, avvolgendo la mano con le sue.
«Anche questa.
Vedi?». Le spostò anche l'altra mano e
alzò lo sguardo su di lei,
rendendosi conto che non poteva che sbagliare se i suoi occhi erano
rivolti a lei e non al piano. «Cosa c'è
adesso?», rise
imbarazzata, rendendosi conto che non era riuscita a non far emergere
le sue emozioni come al solito.
Ti
amo,
pensò, e aprì la bocca per dirglielo, ma non ci
riuscì. «Suoni
qualcosa?».
«Ti
sei già arresa? Va bene. Lascia fare a me».
Appena
poté udire le prime note, Kara si perse. Non guardava il
piano o le
sue mani che suonavano, guardava lei e ascoltava la melodia che
produceva e che effetto le faceva. Il viso era rilassato ma, di tanto
in tanto, come il suono si faceva più alto, contraeva le
sopracciglia e si formava una piccola ruga in mezzo agli occhi. Kara
si assicurò di sporgersi per vederla meglio. Le labbra si
arricciavano, le narici di tanto in tanto tendevano a dilatarsi e la
melodia si fece più veloce e Kara si sentì
rapire. Chiuse gli occhi
e il buio diventò luce, diventò colore,
diventò lei. Pian piano,
si appoggiò a lei e la melodia cessò.
Sentì una carezza sul viso e
riaprì gli occhi. Non dissero nulla e continuarono a
guardarsi,
sorridendo e infine mettendosi a ridere, nascondendosi il viso per
l'imbarazzo.
Mi
manca la mia prima famiglia; a volte più di altre.
Mi
è stata strappata troppo presto e mi ritrovo a pensare alla
vita che
avrei fatto se ancora fossi con loro, che persona diversa sarei, e
Non
nego che mi manchi la mia famiglia di nascita, eppure una parte di me
non riesce ad immaginare una vita con loro, adesso.
Non
è vero che tutto capita per una ragione; è
un'assurdità che non fa
sentire meglio nessuno e chi, come me, ha perso qualcuno di caro,
concorderà, ma penso che la vita sia troppo complicata per
esprimerla con una frase ad effetto.
La
famiglia non è un blocco di cemento: cambia, cresce con noi.
Le
persone vanno, altre restano, alcune ci trovano. E ci innamoriamo.
Ricominciamo
con loro al nostro fianco.
«Il
mio fiore preferito è la plumeria», disse.
«Tocca a te».
Kara
aveva provato a ricontattare Alex e, nell'attesa, le due si erano
sdraiate sul divano, Kara con i piedi verso l'ingresso e Lena verso
la portafinestra che portava in giardino. I loro visi erano vicini e,
di tanto in tanto, Lena amava alzare le braccia e picchiettarle la
fronte o, quando era distratta, annusarle i capelli.
«Anche
a me piace molto», sorrise.
Si
accorsero che non avevano mai parlato così a lungo
semplicemente del
più e del meno e domande come qual
è il tuo colore preferito?
non erano mai sembrate tanto importanti.
«La
vaniglia», arrossì nel dichiararlo, «Il
mio gusto preferito è la
vaniglia».
Lena
arricciò il naso e infine si mise a ridere, non riuscendo a
farne a
meno. «Oh, credo lo sia anche il mio»,
confessò, «Adesso,
sicuramente». Rise più forte quando scorse lo
sguardo corrucciato
di Kara, che si portò su un fianco sorreggendosi con un
braccio.
«Smettila, così mi metto a ridere». Si
coprì il viso con le mani
e Kara, che cercò di liberarlo, si abbassò per
baciarla. Quella
posizione era assurda e risero a fior di labbra come due bambine,
continuando a baciarsi.
«Lena…»,
si assicurò di avere la sua attenzione, abbassando lo
sguardo per
vederle gli occhi. Prese un grosso boccone d'aria. «Ti
voglio…
adesso».
Per
un attimo lei tremò e si morse il labbro inferiore.
«Sei sicura?».
La vide annuire debolmente, come la posizione le permetteva,
così
sorrise, le carezzò dolcemente il viso e si sporse per
baciarla.
Si
misero sedute, guardandosi, cercandosi. Si scambiarono un altro
bacio, passionale e lento, intanto che le loro mani esploravano l'una
il corpo dell'altra. Lena cominciò a sbottonarle il cardigan
e a
sfilarglielo. La lasciò a mezze maniche e così
scese ad assaggiarle
il collo nudo, sentendo chiaramente i brividi sulla sua pelle
morbida. Tastò le sue braccia dapprima con un leggero tocco
e poi
con più forza, baciandole, accorgendosi di quanto fossero
toniche e
ricordandosi come l'aveva sollevata dopo la partita. Oh, se lo
ricordava bene. Kara tolse il cardigan e, senza perder tempo, Lena le
sollevò la canotta a pallini, baciandole la pancia,
così gliela
passò sopra la testa e la gettò da un lato,
ricercando le sue
labbra e la sua lingua. Le strinse il seno e Kara trattenne un
sospiro. «Tutto bene?», le domandò a
fiato corto, portando gli
occhi sui suoi. Kara non disse una parola, semplicemente
annuì e
Lena gliele strinse più forte, baciandola. Si accorse con
piacere
che aveva trovato un modo per zittirla, allungando le braccia sulla
schiena per sganciarle il reggiseno.
Kara
cercò di trattenere il fiato intanto che sentiva il cuore
rimbalzarle nel petto con ferocia. Le baciò il collo che era
a
portata di bocca mentre era contro di lei in un abbraccio per
arrivare ai ferretti del reggiseno, quando un suono molto forte che
rimbombava per tutta casa bloccò entrambe.
«Cos'è?».
«Il
campanello», sospirò seccata. Kara si era coperta
il petto e così
riagganciato i ferretti nel frattempo che Lena si alzava dal divano
e, davanti a un piccolo monitor in alto in una delle pareti, parlava.
«Cancello», tuonò: un led rosso si
accese e spense due volte e il
monitor da nero mostrò l'esterno della villa, perfettamente
a
colori.
«Alex?».
Kara spalancò la bocca dalla sorpresa e Lena la
guardò, notando che
si era già rimessa la canotta e si stava abbottonando il
cardigan.
Occasione sfumata. «Le ho detto che ero da te, ma non
pensavo…».
«Non
posso non ammettere che mi sarebbe piaciuto avere più tempo
per
conoscerci meglio, diciamo, ma dovevamo parlare con lei,
dunque…».
La
sorella maggiore fermò l'automobile presso la rotonda
all'interno
della villa ed entrò in casa abbracciando prima una e poi
l'altra.
Si spostarono in sala da pranzo e Lena sistemò le pieghe del
divano
prima che si notassero.
«Mi
spiace essere piombata qui all'improvviso: Eliza mi ha chiamato per
dirmi che eri da sola», si rivolse a Lena,
«chiedendomi se Kara ed
io ti avremmo potuto far compagnia, e poi quando Kara mi ha detto che
era già qui ho pensato di raggiungervi». Sorrise a
entrambe e sia
lei che Kara si sedettero intorno al tavolo, Lena le raggiunse con un
bicchiere d'acqua per l'ultima arrivata.
«Hai
fatto bene», le rispose, passandoglielo. Si
scambiò un'occhiata con
l'altra, che teneva lo sguardo basso.
«Tutto
a posto, Kara?».
Lei
rialzò lo sguardo d'improvviso al richiamo della sorella,
mordendosi
un labbro. «Sì, certo. Cosa dovre-», si
fermò e Lena sorrise.
«Sei
rossa», la fissò, «Incredibilmente
rossa. Non ti stavi allenando
qui, vero?». Sapeva che nascondevano qualcosa.
Kara
rise, ma non riuscì a formulare una risposta e Lena
intervenne per
dire che era appena tornata dalla dependance per prenderle qualcosa.
Oh, amava il suo modo di pensare lucidamente e avere una risposta
sempre pronta per tutto. Alex annuì ma tuttavia non
sembrò proprio
convinta.
«Beh,
considerando che ci siamo tutte: non vi ho mai chiesto alla fine
com'è stato a Central City». Chiedere
ciò che voleva sapere
direttamente, senza girarci attorno, era difficile se non voleva
compromettere la sua copertura. Come poteva sapere del coroner,
dopotutto?
«Caldo»,
rispose seccamente Lena.
«Ma
da Barry ci siamo trovate bene», aggiunse Kara.
Le
due si guardarono di nuovo, in modo fugace. Che Alex sospettasse di
una loro fuga romantica? Dovevano tastare il terreno…
«Sì,
Barry», ridacchiò Lena: sembrò avere
un'idea. «È stato quasi
strano, in realtà. Ci ha chiesto un consiglio sulla sua
situazione
romantica».
Alex
aggrottò le sopracciglia e Kara intervenne: «Barry
ha una cotta per
Iris, non lo sapevi? È praticamente sua sorella ma non gli
importa»,
strinse i denti e scosse la testa, «è deciso a
conquistarla e, sì»,
rise, «ne abbiamo parlato un po'».
«Beh,
è un po' strano, sì». Alex
guardò l'una e poi l'altra: Lena era
tranquilla, ma Kara sembrava aver schivato un treno in corsa: la vide
annaspare, era ancora rossa, e si tormentava le mani. Stavano
cercando di sviare l'argomento? Quindi era vero… Lena le
aveva
detto tutto e Kara la stava aiutando a fare luce sul caso di suo
padre. Poi avevano messo in mezzo anche questo Barry. All'improvviso
sorrise. «Come se avessi una storia con Lex», le
guardò di nuovo e
scoppiò a ridere. «Non sarebbe proprio lo stesso,
in fondo con lui
non ci sono cresciuta. Ma ci pensate? Al matrimonio di Eliza e
Lillian a braccetto, i giornalisti ne avrebbero per giorni».
Continuò a ridere, intanto che Lena e Kara si scambiavano
occhiate
seriose. «Senza offesa, sorellina».
«Figurati».
«Però,
ora che siamo in argomento, posso ammettere che in fondo è
un tipo
attraente», scrollò le spalle, «Ha i
suoi modi. Se non fossi gay
e felicemente fidanzata, s'intende… Magari conoscendolo
prima,
quando mi credevo etero…».
«Ohu,
basta», mugugnò Kara, piegando le labbra.
«Dico
solo che in un altro contesto sarebbe stato un buon partito.
Intelligente, ha portamento, un certo fascino a dirla tutta,
e-».
«Va
bene, è decisamente strano», Lena la interruppe e
alzò una mano in
segno di resa, così Alex sospirò, pur man tenendo
un certo ghigno
soddisfatto. Andò in bagno, lasciando le due da sole.
Le
due si guardarono, ingigantendo gli occhi.
«Strano», borbottò
Kara.
«Strano»,
concordò lei.
«Promettimi
che non solleveremo mai più quel discorso»,
brontolò a quel punto,
vedendo Lena annuire.
«Cestiniamo
l'operazione», spalancò gli occhi.
«Tuo
fratello con mia sorella… uh».
«Non
se ne fa niente».
«No»,
concordò, «Magari più
avanti…».
«Però
potremo metterla al corrente di un'altra cosa», le disse e la
vide
sospirare, facendosi più seria.
Intanto,
in bagno Alex si era appoggiata al lavello di ceramica nera, alzando
la testa e chiudendo gli occhi, cercando di pensare a un modo per
farle parlare senza doversi per forza svelare. Non voleva che un
altro agente si permettesse di svolgere il compito per lei,
perché
era quello che sarebbe successo se non fosse riuscita nell'intento,
John Jonzz era stato chiaro: qualcuno le avrebbe interrogate in
qualunque caso, che fosse lei o meno. Non voleva che sua sorella, e
nemmeno Lena Luthor, avesse a che fare con chiunque altro del corpo
poliziesco. Li riaprì, osservandosi intorno: era tutto rosa
e nero,
non ci aveva fatto caso. Quel grande bagno luccicava, aveva la vasca
da bagno e la doccia dall'altro lato, un lampadario lussuoso, un
quadro con le onde del mare, un mobile pieno di diversi prodotti,
tappeti morbidi e più specchi tondi e rettangolari,
impreziositi da
dettagli brillanti ai bordi. Alex incurvò la bocca,
annuendo: «Ti
tratti bene, Lillian».
Quando
uscì e tornò in sala da pranzo, davanti a Lena
sul tavolo c'era il
suo laptop e Kara ricontrollava dei fogli. Non ci mise molto a capire
che stava per ottenere ciò che voleva senza dover far salti
mortali:
si stavano svelando, la stavano per rendere loro alleata.
La
fiducia è un bene prezioso, ma non è automatica.
Va coltivata; a
volte è come fare un salto nel vuoto.
Ma
la fiducia è un punto fondamentale dei rapporti familiari.
Il
che non significa essere sempre trasparenti, badate, ma fare un passo
indietro, raccogliere un po' di coraggio e decidere di mostrare una
parte di se stessi agli altri.
È
inclusione. Costa fatica, può far paura, ma la famiglia
è anche
questo. Altrimenti… che senso ha?
«Ti
devo delle scuse», confessò Lena.
Alex
non riuscì ad essere troppo sorpresa quando le disse che di
aver
detto a Kara di suo padre, ma si sforzò per esserlo quando
le
raccontarono di aver trovato il coroner a Central City. Poi Kara si
avvicinò pallida e le mostrò la foto della lista
dei nomi che aveva
scattato col cellulare alla CatCo, stampata su un foglio intanto che
lei era in bagno.
«So
che posso sempre contare su di te. E chiedo il tuo aiuto, adesso,
Alex».
Si
sedettero intorno al tavolo, ognuna di loro con la propria lista in
mano e Lena davanti al portatile.
«Quando
i tuoi genitori furono assassinati anch'io ero una bambina»,
esclamò
Lena, trafficando sulla tastiera. «Quei nomi non mi dicono
nulla, in
sintesi. Ma per nostra fortuna, la rete conserva qualsiasi
cosa…».
Non
fu difficile risalire a brevi biografie complete di indirizzi, reato
che stavano scontando in carcere, carriera e rapporti. Sia lei che
Alex concordarono con Kara quando ipotizzò alle due che non
credeva
affatto che le persone importanti furono arrestate. Scoprirono che
alcuni dei nomi in lista, dieci anni prima, ricoprivano piccole
cariche politiche: il nome del senatore Gand si collegò a
molti di
loro e Kara prese un grosso boccone d'aria.
Quando
trovò altri nomi collegati a suo padre, però,
Lena sbiancò e li
saltò di proposito, dicendo alle due che sarebbero partite
da quelli
a cui aveva già preso dei dati. Lena avrebbe voluto che ci
fosse un
altro modo, un modo qualsiasi per tenere al sicuro Kara, specie di
quella che pensava fosse la verità sui Luthor, se non altro
prima di
avere in mano qualche certezza, ma sapeva che la ragazza avrebbe
indagato comunque e che l'unica cosa davvero utile che le restava,
era farlo al suo fianco.
«Davvero?»,
sbottò Alex, «Ti basta inserire un nome su Google
per ottenere ciò che ti serve?».
Lena
sogghignò. «Mi sottovaluti. Un nome su Google
lo possono trovare tutti, ma entrare in archivi protetti e siti non
indicizzati, beh… è un'altra storia. E
naturalmente conosco
persone che conoscono persone… Non è la prima
volta che trovo del
materiale su qualcuno», rispose saccente e Alex
s'imbrunì, poi
guardò sua sorella: non si sarebbero certo scordate che
aveva fatto
ricerche su di loro. «Mi ci vorrà un po' per
lavorarci; di certo
domani riuscirò ad entrare nel sistema della polizia di
National
City e vedo cosa sanno che noi non sappiamo. Se non hanno eliminato
ogni copia digitale come quando cercai di mio padre, s'intende. Vi
terrò aggiornate».
Maggie
Sawyer avrebbe potuto farlo, ma sarebbe stato meglio non metterla in
mezzo. Alex vide Kara sorriderle di gratitudine e abbassò lo
sguardo, sentendo un procinto di mal di pancia. Non immaginava
fossero già a quel punto. Al D.A.O. avevano nomi, avevano
ipotesi e
ci lavoravano da anni, mentre quelle due in così poco tempo
erano
quasi alla loro fermata. Senza prove o confessioni, l'agenzia
federale non aveva potuto far molto altro, senza scoprirsi
perché le
persone coinvolte potessero sentirsi al sicuro e fare dei passi
falsi, tenendo d'occhio Kara e Clark da quando li lasciarono andare
con le nuove famiglie adottive; avevano scavato a lungo sulla
questione da quando il caso scivolò per i loro uffici,
eppure erano
lì, allo stesso punto da troppo tempo. Quel caso era
diventato un
incubo e lei c'era dentro da solo un anno, neanche sapeva ogni
dettaglio che le avevano tenuto nascosto per non compromettere la sua
copertura. A loro serviva che fosse lì per assicurarsi che
Kara non
avesse contatti con chi avrebbe potuto farle del male, e per
proteggerla nel caso qualcuno si fosse azzardato a farlo. Avevano
agenti sotto copertura infilati dappertutto e non ne avevano ricavato
nulla. A quel punto, Alex doveva solamente comprendere se cercare di
ostacolarle con ogni mezzo, oppure andare avanti insieme a loro.
I
Gand. I Gand forse avevano qualcosa a che fare con la morte dei suoi
genitori. E avevano pagato il trasferimento a Central City del
coroner che aveva firmato il rapporto su Lionel Luthor. Era davvero
una bizzarra coincidenza per passare inosservata, soprattutto dal
momento che l'avevano sempre respinta e odiata, apparentemente, senza
ragione, quando usciva con il loro figlio. Non doveva più
attendere
come le aveva chiesto Lena; doveva andare avanti.
Alex
le diede un passaggio al campus con la sua auto, ricordandole con i
gesti e a parole che avrebbe sempre potuto contare su di lei.
Aprì
piano la porta della loro camera in dormitorio, non sapendo se Megan
fosse già a letto, ma quando udì strane vocine
femminili le si
rizzarono i capelli e si voltò lentamente. Megan era davanti
al
tablet, sdraiata sul suo lettino. Kara si accostò
cautamente,
aggrottando la fronte.
«Stai
ancora guardando porno?».
«Aaaah»,
si spaventò tanto che sembrò saltare centimetri
dal copriletto e
Kara si tappò le orecchie. «Da dove
spunti?».
«Ho
volato fin qui e sono entrata dalla finestra». Megan chiuse
le
pagine aperte e spense il tablet, porgendoglielo mentre entrava sotto
le coperte. «Bene, perché io ho da
lavorare».
«E
a breve abbiamo un esame. E ricordati gli allenamenti domattina,
capitano».
Kara
sbuffò, sedendo in una sedia davanti al tavolo e accendendo
una
lucetta. «Buonanotte, Megan», chiosò.
I
Gand… doveva andare dai Gand.
La
famiglia è un punto fermo; o così dovrebbe
essere. Mio padre, il
mio primo padre, era convinto che non si dovesse mai dare le spalle
alla famiglia. Lui e suo fratello erano molto uniti, e hanno
trasmesso questo valore a me e mio cugino. Ci ha permesso di essere
connessi anche quando non lo sapevamo.
E
forse, inconsciamente, ci ha fatto andare avanti.
Il
loro concetto di famiglia era biologico; ma era averne passate tante
sempre uniti quello che li aveva resi una vera famiglia.
Eppure
la biologia per altri è come una ricerca
d'identità.
I
bambini adottati pensano spesso che trovare i loro genitori d'origine
sia fondamentale per trovare loro stessi. Sono dell'idea che,
scavando sul loro passato, possano paradossalmente trovare loro
stessi nelle persone che hanno ora accanto.
Lena
non riuscì a dormire. Ci tentò davvero, ma infine
si alzò, prese
il laptop e si portò di nuovo al letto con gambe incrociate.
Davanti
la lista scattata da Kara, analizzò quanti più
nomi riusciva,
segnando sul foglio a matita delle piccole note o sottolineando e
barrando.
X:
Lavorava per i Luthor, è certo.
Le
scrisse un informatore in privato e lei si sventolò con una
mano,
portando poi tutti i capelli sulla spalla sinistra.
Z:
Che tipi di lavori? Era ufficiale o ufficioso? Le tue fonti?
X:
Non rivelo mai le mie fonti, lo sai. Ufficioso: niente che lo
ricolleghi a loro se non voci affidabili. Non si conosce il tipo di
rapporto.
Ansimò
e continuò ad ascoltare gli spostamenti di Lillian in casa.
Sembrava
che Eliza fosse andata a dormire, ma lei era scesa al piano terra.
Diede i suoi saluti all'informatore e abbassò lo schermo del
portatile, alzandosi e mettendo le ciabatte ai piedi. Scese al piano
inferiore ma Lillian non c'era e scorse attraverso una portafinestra
le luci accese della dependance.
«I
miei complimenti…», esordì, chiudendo
la porta dietro di lei.
Lillian
era seduta su un tappeto e frugava con le mani dentro uno scatolone
delle cose appartenute a Lionel Luthor, in magazzino. «Cosa
fai
ancora i piedi? Credevo dormissi».
«Non
riesco a chiudere occhio: continuo a pensare a te, e a mio padre,
programmare un omicidio». Vide chiaramente lo sguardo di
Lillian che
cambiava in muta sorpresa, girandosi per guardarla negli occhi.
«L'omicidio dei genitori di Kara».
La
donna si alzò, reggendosi le mani. «Cosa stai-
Come ti è saltato
in men-».
«Oh,
vuoi giocare la carta dell'ingenuità? L'ho scoperto, madre,
avete
lasciato le vostre tracce… Non mentirmi». Capiva
chiaramente nel
suo sguardo contratto che non sapeva come replicare a quelle accuse.
Non se lo aspettava, non aveva avuto tempo di inventarsi una storia.
«Eppure sono passati undici anni. Non ti sei costruita un
alibi
convincente in tutto questo tempo?».
«Gli
innocenti non hanno bisogno di alibi, dovresti saperlo».
«Tu
non sei innocente», sorrise senza una vena
d'ilarità nella voce,
«Hai coperto l'omicidio di mio padre».
«Si
tratta di questo?».
«Si
tratta delle tue continue bugie», per poco non
urlò, stringendo
forte i denti. «Quanti altri omicidi hai fatto insabbiare?
Era nei
piani rendere orfana Kara? Volevate uccidere anche lei?».
«Non
essere sciocca, Lena. Stai esagerando», si
avvicinò, stringendo gli
occhi.
«Per
Kara, non è così? Per questo ti sei avvicinata ai
Danvers?».
Lillian
affilò gli occhi e, veloce, le diede uno schiaffo.
Irremovibile, la
guardò dall'alto al basso mentre la figlia respirava a pieni
bocconi. Ma non provava a dire più nulla, ritta con la
schiena, lo
sguardo d'odio rivolto alla donna. «Ne hai parlato con
Kara?», le
chiese all'improvviso, spezzando la pesantezza del silenzio che si
era creato. «Non lo hai fatto, giusto?».
Sembrò mancarle la
parola, reggendosi la guancia dolorante, così lei
proseguì: «Siamo
più simili di quanto tu voglia ammettere, Lena. Sono stata
zitta a
lungo e così stai facendo tu, non rivelandole i tuoi
segreti, i tuoi
dubbi. Vuoi proteggerla o proteggere te stessa? Avevi paura di come
ti avrebbe guardato? Sono accuse importanti, le tue. Abbiamo sangue
diverso ma ti ho cresciuta e mi somigli più di quanto tu
creda…».
La guardò e Lena altrettanto, restando immobile, trattenendo
gli
occhi lucidi. «Sei davvero figlia di tuo padre, Lena. Hai
sempre
voluto sapere dei tuoi genitori biologici, ebbene, sei una Luthor a
tutti gli effetti».
Lena
finse di non saperlo, abbassando gli occhi e aprendo la bocca con
stupore, senza aggiungere nulla.
«Pensavamo
sarebbe stato più facile, allora. E non ero pronta ad avere
te,
figlia di un'altra donna. E adesso ti guardo, ti ascolto, e mi
accorgo di averti trasmesso qualcosa… come madre. Sei
comunque mia
figlia. E hai fatto bene a non farne parola con lei perché
è vero,
Lena: indirettamente ne eravamo coinvolti».
Lei
spalancò gli occhi, schiudendo le labbra.
«E
tuo padre è stato assassinato dalle stesse persone che hanno
ucciso
i genitori di Kara. Lui voleva smascherarli e lo hanno
zittito».
Lena
serrò le labbra e i suoi occhi chiari si fecero a specchio,
non
accorgendosi subito di quanto fossero pesanti e una lacrima le
rigò
il viso irrigidito. «Sai chi sono?»,
sussurrò.
«Lo
so», confessò, «Li ho coperti e devo
mantenere il segreto.
Ucciderebbero anche me».
Lena
allora annuì. Un'altra lacrima sfuggì al suo
controllo e, battendo
le ciglia umide, ne scesero altre due. Le credette. Era il primo vero
avvicinamento da quando era stata adottata da lei, il primo contatto,
il primo scambio di battute sincero. La bocca di Lena si
piegò senza
che lo volesse e allora singhiozzò, così la donna
l'attirò a sé e
la strinse fra le sue braccia per la prima volta nella sua vita. Lena
poté piangere e Lillian le passò una mano sui
capelli,
avvicinandola al suo petto.
«Cercavo
qualcosa da portargli al cimitero», sospirò la
donna. «Domani
andiamo trovarlo, Eliza ed io. Vuoi venire anche tu?».
Lena
annuì e, cercando di trattenere un singhiozzo,
mugugnò di dolore.
Sarebbe
stata zitta. Era ovvio che sarebbe stata zitta. Doveva proteggere
Kara da quel segreto e doveva proteggere Lillian. Il coinvolgimento
della sua famiglia non doveva assolutamente venir fuori.
La
famiglia è la nostra Casa.
Dovunque
andremo la ritroveremo sempre nelle persone che amiamo.
«Mmh»,
mugugnò Cat Grant. «Beh, mi aspettavo qualcosa di
diverso».
«Un
diverso buono o un diverso cattivo? Questo è un
diverso… buono?»,
deglutì quando la donna alzò lo sguardo su di
lei, senza dir nulla.
«N-Non deve rispondere per forza, signora Grant».
Era
stata sveglia quasi tutta la notte per scrivere il suo articolo e lo
aveva cancellato, rifatto, cancellato, modificato in ogni sua parte
almeno una decina di volte. Se avesse fallito, le si sarebbe
aggrovigliato lo stomaco.
«Devi
andare, adesso?».
«Sì,
ho lezione tra poco. M-Ma se vuole che resti, poi mi faccio prestare
alcuni appunti e… sì, posso
arrangiarmi».
«Va
bene», sospirò, mettendo via il foglio all'interno
di una
cartellina.
«Va
bene bene
o va bene male?
Devo restare o andare all'università?».
«Cielo,
Keira, non sei a un quiz televisivo: smettila. Potevi aspettare che
finissi di parlare: puoi andare all'università, segui i tuoi
corsi;
il va bene era riferito all'articolo: va bene,
avrà un posto
in rubrica. Le mamme casalinghe lo adoreranno».
Kara
esultò, lasciando perfino perdere come l'avesse chiamata,
per una
volta. «E posso anche fi-».
«No».
«Oh,
andiamo, non non ha neanche sentito la domanda». Il truce
sguardo di
Cat Grant le fece passare la voglia di obiettare.
«Lo
puoi firmare», ma alla fine acconsentì.
«E adesso, vai, vai, devi
studiare. Chop
chop».
Il
giorno della stampa,
Lena prese in mano una
delle prime
copie
del CatCo Magazine e Kara, con orgoglio, le indicò la pagina
corrispondente. «Casa,
di K- Keira
Danvers?».
«Cosa?»,
sbottò stizzita, capovolgendo la rivista per leggere con i
suoi
occhi. «No!».
Lena
non riuscì a non ridere ma, in quel momento, Kara aveva solo
bisogno
di un abbraccio.
Capitolo
luuungo anche questo, lo so! Con me dovete portare pazienza, ormai lo
avrete capito :P
Per
prima cosa: i pezzi a destra del capitolo sarebbero in teoria
parti dell'articolo scritte da Kara, ma non è detto che poi
le abbia
tenute, perché ha scritto e ricancellato più
volte °°
Oltre
questo… eccoci di nuovo qui! Cos'è successo in
questo capitolo?
Kara
e Lena pare che abbiano intenzioni serie, la loro relazione sta
progredendo, Lena aspetta Kara, ma sembra che sia proprio lei a non
poter più aspettare! Quest'ultima ha iniziato il suo
tirocinio alla
CatCo, battibecca con Siobhan e scava sul passato rileggendo vecchi
articoli del magazine. Le ragazze si sono svelate ad Alex, ma solo
per quanto riguarda la loro indagine. E Lena ha finalmente parlato
con sua madre di ciò che si stava tenendo dentro troppo a
lungo,
piangere e scoprire un avvicinamento nel loro rapporto da sempre
distaccato e freddo. Ah, qualcos'altro riporta ai Gand…
Ritornando
a parlare del precedente capitolo… ops,
credo di aver
distratto voi lettori con Lena e Kara, tanto che solo uno di voi
nelle recensioni mi ha parlato di un dettaglio importante! Ahi ahi!
Birbantelli :D
Ci
rileggiamo il prossimo lunedì con il capitolo 19 che si
intitola
Qualcosa da nascondere!
|
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Capitolo 20 *** 19. Qualcosa da nascondere ***
Mike
aveva aperto la porta di casa guardandosi velocemente intorno. Anche
lui era sembrato agitato quanto lei di quell'incontro. Si
frequentavano ormai da mesi e Mike conosceva già sia Eliza
che Alex,
e perfino Jeremiah; era normale che anche lui desiderasse di far
conoscere alla sua ragazza, Kara, la sua famiglia. Entrati in un
lungo corridoio, Kara si era subito resa conto che la casa sembrava
ancora più grande all'interno che all'esterno, ed era
luminosa,
piena di vasi antichi e quadri di famiglia, molti dipinti ad olio e
con grosse cornici in legno rifinite e lucenti. Anche i mobili
avevano un aspetto antico, come se tutto in quella casa fosse un
enorme museo. Lui le aveva stretto una mano e l'aveva tirata dentro
con un bacio e poi, superati i primi metri, si era affacciato dinanzi
a un grande arco alla loro sinistra dove, sotto qualche scalino, si
affacciava un ampio salotto, completo di divano, piante in vaso, una
vecchia e grossa scrivania in legno davanti a una portafinestra che
portava in cortile, su cui era seduto davanti un uomo. Una donna
invece era seduta su una delle poltrone e stava leggendo una rivista.
Mike
si era schiarito la gola ed entrambi avevano dimenticato cosa stavano
facendo, attenti al loro unico figlio. «Papà,
mamma, voglio
presentarvi la mia ragazza», l'aveva portata in avanti come
un
trofeo e lei era impallidita, reggendosi le mani e stringendo le
labbra. «Kara».
I
due coniugi si erano scambiati uno sguardo e si erano alzati adagio,
guardando a lungo la ragazza, tanto che lei aveva cercato di tirarsi
indietro con ansia improvvisa, se non fosse stato che Mike, a un
passo dai suoi piedi, glielo aveva impedito. Al contrario, il giovane
le aveva stretto la mano unita con più forza e le aveva
fatto capire
che sarebbe andato tutto bene, scendendo al suo fianco le scale che
li separavano.
«Credevamo
che non fosse una cosa seria», aveva immediatamente detto la
donna,
continuando a squadrarla con maniacale insistenza.
«Lo
è», aveva risposto il figlio, guardando Kara.
Lei
si era sentita sgradita dal primo istante, ma mai avrebbe immaginato
una tale ed esagerata reazione.
«Sei
ancora un bambino per avere una relazione seria», aveva
espresso il
suo parere il padre, il senatore Larson Gand. Kara si era sentita
così emozionata di conoscerlo e lui l'aveva freddata con una
sola
frase.
«Tutte
le ragazze con cui scopi sembrano importanti, alla tua
età», aveva
ripreso a dire la signora Gand, guardando lui e osservando lei, che
aveva aggrottato le sopracciglia indispettita. «Crescendo ti
renderai conto da solo che era solo una come tante».
«Ma,
mamma, cosa stai-».
«Non
interrompermi. Voi non siete fatti per stare insieme. Noi siamo i
tuoi genitori e sappiamo cosa è meglio per te», lo
aveva tirato in
avanti, separando le mani strette dei due. «Lei non
è adatta a te».
Kara
deglutì, ripensando alla prima volta che aveva messo piede
in quella
casa. I signori Gand si erano ripresi Mike da lei, spingendolo in
avanti e la madre lo aveva stretto tra le braccia, mentre lui
guardava indietro, verso di lei, con sguardo smarrito. Di certo Mike
doveva averne capito meno di lei di quel comportamento.
Bene.
Prese respiro e suonò il campanello. Doveva affrontarli.
«Si-Signorina
Kara?!». Ad aprirle la porta solo la domestica. Ormai da
tempo non
si vedevano più. «Cosa fa lei qui?».
«È
un brutto momento, Joyce?», strinse le labbra, cercando di
guardare
oltre la donna.
«Lo
è sempre, signorina», rispose a bassa voce.
«Devo
parlare con il senatore: può dirgli che sono
qui?».
La
donna, che credeva avesse dopotutto solo pochi anni più di
lei e
qualche capello bianco da stress, tornò dentro dopo qualche
remora,
lasciando la porta socchiusa. Quando la vide tornare, Kara sapeva che
portava cattive notizie. «Mi spiace, signorina. Ma la signora
Gand
sta riposando e il senatore non vuole si faccia chiasso, sta
lavorando». Se lo aspettava. Kara annuì, ma poi le
sussurrò le sue
scuse: la placcò come un'avversaria sul campo ed
entrò in casa,
dirigendosi subito verso il soggiorno. Joyce la seguì col
batticuore, ancora frastornata per aver sbattuto contro la porta.
«S-Sono rammaricata, signor Gand, non sono riuscita a
fermarla».
Seduto
davanti la sua massiccia scrivania, lui alzò lo sguardo e
così la
mano, congedando la domestica. Si alzò e fece a Kara cenno
di
sedersi su una delle poltrone, ma lei restò in piedi.
«Non
ci aspettavamo di vederti tornare», emise con sorpresa. Si
appoggiò
sulla scrivania, sedendo in un angolo e così reggendosi le
mani
sudate.
Quell'uomo
era imponente e le aveva sempre fatto una certa impressione, ma
adesso non sentiva più di dover riservare a lui un qualche
tipo di
rispetto. «Non è una visita di piacere e non sono
qui per Mike. Ho
saputo che è stato lei a pagare il trasferimento per
pensionamento
anticipato di Marcus Morgan».
«Marcus
Morgan?», sospirò lui, spostando gli occhi in modo
vacuo, «Dovrei
sapere chi è? Il suo nome non mi dice niente».
«Beh,
credo di sì: è stato il coroner che si
è occupato di Lionel
Luthor. Lo conosceva il signor Luthor, no?». Si strinse alla
cinghia
della sua borsetta, cercando di riordinare le idee.
«Ah,
capisco… Sì, ecco, ora ricordo. Sono un senatore,
Kara, ho a che
fare davvero con tantissima gente e i nomi…»,
lasciò la frase in
sospeso, guardandola dritta negli occhi. «E conoscevo il
signor
Luthor, certo. Un grande amico, una grande perdita. Perché
ti
interessa di Morgan?».
Kara
trangugiò. «Mi chiedevo il perché del
suo pensionamento
anticipato».
«Ho
fatto un favore a quell'uomo… Era stanco, il suo lavoro lo
opprimeva, così ho fatto qualche telefonata»,
scrollò le spalle.
Lei
si lasciò scappare un sorriso. «Adesso di lui si
ricorda bene,
eh?!».
«Ho
sentito che ora stai lavorando per Cat Grant. Sei qui per lei, scrivi
un articolo sul duro lavoro dei coroner o…?».
«No»,
si guardò brevemente intorno, «Sono qui
per… questioni private».
Agganciò di nuovo i propri occhi ai suoi, sperando di
cogliere una
bugia, qualcosa di sospetto, qualsiasi cosa. «Conosceva anche
i miei
genitori, senatore?».
«Jeremiah
e Eliza Danvers?! Certo, ai consigli della scuo-».
«No,
non loro. I miei veri genitori: Alura e Zor El». Lui scosse
immediatamente la testa ma Kara lo vide, lo vide chiaramente quel
bagliore nei suoi occhi, anche solo per un attimo: mentiva.
«Mi
spiace, ma…», scrollò le spalle e
serrò le labbra con forza,
«No. Perché…? Cosa hanno a che vedere
con il coroner o il signor
Luthor?».
Kara
stava per replicare, quando l'alta voce della signora Gand interruppe
ogni proposito: «Cosa fai tu qui? Non ti è bastato
spezzare il
cuore di nostro figlio?».
Era
nel corridoio, poco sopra le scale. La guardava con ancor
più
disprezzo di prima, come se avesse potuto ucciderla con un solo
sguardo. «Lei non era neppure favorevole alla nostra
relazione»,
sbottò, alzando un poco le braccia.
«E
questo ti dà il diritto di rifiutarlo?». Scese
velocemente le
scale, mentre suo marito chinava la testa. «Ti dà
il diritto di
venire qui e alzare la voce contro mio marito? A fare domande senza
capo né coda?».
«Non
sono domande senza capo né coda-», lei la
interruppe, parlandole
sopra.
«Sono
proprio curiosa di scoprire cosa ne penserà Cat Grant di
questo tuo
comportamento sconsiderato, ora che lavori per lei. Piombi qui senza
invito e pensi di poter fare quello che vuoi, mettendo bocca in cose
che non ti competono. La gente si fa male a causa di azioni di questo
tipo».
Kara
trattenne la rabbia davanti a quella donna che le gridava a pochi
centimetri dal viso. «Mi sta minacciando?». Quello
era troppo.
«Vattene»,
sibilò e Kara strinse forte i pugni, guardando di straforo
il
senatore Gand che aveva deciso di stare zitto. Poi però,
sopra la
scalinata, intravide Mike. Anche la donna si voltò,
intimando al
figlio di tornare in camera sua.
«La
stai sbattendo fuori?».
«Sono
cose che non puoi comprendere, tesoro».
«Smettila
di trattarmi come un bambino».
Kara
si riportò bene la borsa in spalla e riuscì a
superare i genitori
del ragazzo senza toccarli. Salì le scale e disse a Mike che
stava
comunque per andare via, girandosi e salutando i due nel modo
più
cortese che riuscisse a fare, in quella circostanza. Lui la
seguì
fuori e la signora Gand fissò suo marito, ancora adirata.
«Sta
mettendo il naso nei nostri affari e tu la lasci parlare»,
digrignò
a denti stretti, cercando di non alzare troppo la voce.
«Pare
che stia grattando la superficie, e allora?». Si
alzò, ritornando
dietro la scrivania e sedendo sulla sedia lentamente, lisciandosi i
pantaloni e sistemandosi i gemelli sui polsi. «Non ha niente
contro
di noi».
«Oh,
quindi per te è tutto apposto e discussione
conclusa?» .
«Sì…»,
rispose con distrazione, ritornando al suo lavoro. Per tutta
risposta, sua moglie grugnì rumorosamente, con palese
fastidio, e
lui le scoccò un'altra occhiata. «Se anche dovesse
mettere il naso
un po' più a fondo, ci penserà il Generale.
Perché
preoccuparsi, è solo una ragazzina che gioca a fare
l'ispettore
privato», borbottò, «Si avvicina
Halloween, si starà preparando.
Non prenderla troppo sul serio, la conosci».
«Non
ho mai voluto conoscerla, Lar, era questo il punto. Non dovevamo
permettere che si frequentassero fin dal principio»,
strizzò le
labbra e bofonchiò qualcosa prima di dirigersi alle scale:
«Giocherà
all'ispettore ancora per poco se rimette piede in questa casa,
così
potrà fare domande direttamente ai suoi genitori».
Mike
fermò Kara ad un braccio, scendendo le scale davanti
all'ingresso
della casa dei Gand, così fu costretta a girarsi.
«Perché non mi
hai detto che saresti passata? Ti avrei accolto io… Scusa i
miei,
sai, sono piuttosto frustrati in questo periodo, il
lavoro…».
Lei
abbozzò un forzato sorriso, guardando da un lato. Non
avrebbe detto
nulla a Mike: come avrebbe potuto? Erano i suoi genitori e non
importava quanto sembrassero cattivi. «Ultimo
periodo?».
Lui
rise, inarcando le spalle. «Sì… gli
ultimi trent'anni circa. Ah,
ho letto il tuo articolo, a proposito! Mi è piaciuto
molto», annuì,
«Sono proprio contento che tu sia riuscita ad avverare il tuo
sogno…
Lo hanno letto anche i miei. Ma perché il nome è
sbagliato?».
Kara
sbuffò. «Sono riuscita a farlo cambiare per le
ristampe, ma ormai
le prime copie… Lascia perdere. Adesso devo andare, ci
vediamo al
campus».
Lui
la afferrò di nuovo, prima che potesse sfuggirgli.
«Aspetta, Kara,
devo dirti… che sono ancora innamorato di te. Pensaci, va
bene? Non
mi devi rispondere ora, solo pensaci», inarcò le
narici, facendosi
coraggio.
Non
era riuscita a dargli una risposta. Aveva aperto la bocca per farlo,
ma le parole morirono in gola, sul nascere, e lo aveva salutato. Non
riusciva più a guardarlo come prima, forse anche a causa dei
suoi
genitori e di ciò che stava scoprendo, e sapeva che non si
meritava
un comportamento del genere a causa loro. Voleva bene a Mike, per
quanto litigasse sempre con lui, era stato una parte fondamentale
della sua vita. Ma una relazione con lui era impossibile, anche se
non fosse innamorata di un'altra persona. Il vero problema restava
riuscire a farglielo capire, perché era una causa persa.
«Ti
avevo chiesto per favore di aspettare… Se davvero loro sono
coinvolti, sono pericolosi», sussurrò Lena accanto
a lei,
sistemandosi il vestito scuro, più sobrio dei soliti,
lisciandolo
verso il basso. «Va bene… Come ti sono
sembrati?».
Kara
non aveva dubbi. «Colpevoli».
Erano
davanti alle porte di un locale di lusso, sistemandosi i capelli
legati all'indietro e l'abbigliamento prima di decidersi ad entrare,
parlando vicino a Ferdinand l'autista, che era in attesa. Lena aveva
organizzato parecchi pranzi di lavoro durante quei giorni con futuri
collaboratori della Luthor Corp e con quelli attuali, per assicurarsi
che i rapporti sarebbero rimasti buoni per lavori a venire, quando
l'azienda sarebbe passata completamente a lei. Aveva chiesto a Kara
di esserci e lei aveva accettato di buon grado, non mancando di
pensare, fosse anche solo un momento, che conoscere persone di spicco
l'avrebbe avvicinata a sapere la verità sui suoi genitori.
Anche se
Lena, da qualche giorno a quella parte, non sembrava più
molto
convinta della loro crociata.
Lena
annuì, prendendo un grosso respiro. «Dobbiamo
avvicinarci piano,
Kara… Non si scherza con questa gente». Non le
avrebbe detto di
Lillian e dunque non avrebbe potuto dirle che suo padre era stato
ucciso perché voleva portare a galla i colpevoli
dell'omicidio dei
suoi genitori, di conseguenza non poteva dirle nemmeno che dovevano
fermarsi e, in realtà, non le restava che rallentare le
cose. Dopo
si avvicinò a lei, cercando di non farsi ascoltare da
Ferdinand. «Ti
bacerei, in questo momento: salvata dalla luce del giorno».
Diede a
Ferdinand il comando di andare e lui aprì il portone,
aspettò che
fossero dentro e richiuse, camminando verso la macchina nera
parcheggiata a lato della strada.
Le
portarono verso un tavolo tondo dove quattro persone le aspettavano.
Loro si alzarono per stringere la mano a entrambe e poi si
accomodarono insieme.
«Kara
Danvers, il mio portafortuna», la presentò Lena ai
commensali. Si
guardarono in modo intenso, arrossendo debolmente.
«Sì,
era sui giornali», disse uno di loro, un uomo corpulento,
«La
sorella. Una delle nuove sorelle».
Ci
risero, cominciando con gli antipasti e versandosi da bere.
Stava
iniziando a essere difficile stare da sole per tanto tempo: Lena era
sempre più impegnata per lo studio, stava via delle ore per
fare da
tutor a delle ragazze della sua università, doveva andare
alla
Luthor Corp per progetti in sospeso e dare direttive al suo
assistente e anche Kara aveva lo studio, le lezioni, provare nuovi
affascinanti lati della personalità di Siobhan Smythe, per
non
parlare degli allenamenti con la squadra con il signor Jonzz che
sembrava starle particolarmente addosso. Gli unici momenti in cui
riuscivano a vedersi erano i pranzi di Lena. E chiaramente non era un
vero tempo per loro, ma solo un vedersi e spalleggiarsi. Si
mancavano.
Anche
Alex si lamentava che non passassero più tanto tempo assieme
da
quando lei e Lena le dissero di stare indagando sulla morte dei loro
genitori. E Kara aveva ricevuto anche nuove notizie da James Olsen,
chiedendole di perdonarlo ma che per ottobre non sarebbe riuscito a
passare per National City, posticipando per novembre. Le aveva fatto
i complimenti per il suo articolo però, e lo stesso suo
cugino Kal e
Lois. Temeva soprattutto il parere di questi ultimi e in particolar
modo del primo per alcuni passaggi in cui parlava della sua famiglia
di nascita, ma lui restò vago, dicendole che era fiero di
lei.
I
giorni passavano e Halloween si avvicinava. Lena osservava sbigottita
quanto Lillian avesse improvvisamente a cuore la festa che non aveva
mai voluto festeggiare da che lei avesse memoria. Aveva comprato
caramelle e biscotti per un esercito, cappelli e nasi da strega, ragni
di plastica e ragnatele che lei ed Eliza fissavano per tutta casa,
zucche lanterne sorridenti e una vera da intagliare. Aveva
addirittura portato a casa uno scheletro di plastica recuperato da
chissà dove, lo avevano vestito con un vecchio completo di
Jeremiah,
ribattezzato Junior e spedito fuori in cortile davanti al cancello.
Quando rientravano a casa, la notte, sembrava una presenza spettrale
per via dei riflessi di luce che gli battevano sopra dai lampioni.
Lena le sentiva ridacchiare a bassa voce durante la notte e quando si
alzava la mattina trovava qualcosa di nuovo, come un albero nero
circondato da pipistrelli e un gatto nero in corridoio al secondo
piano, fantasmini di carta pendenti dal sottoscala in salone, occhi
di vetro in un vasetto trasparente a tavola e la sagoma di un
Frankenstein dietro la doccia del bagno del primo piano. Se stavano
attentando alla sua vita, con quest'ultimo ci erano quasi riuscite.
Lillian
Luthor sembrava aver trovato qualcosa che, in fondo, le piaceva. La
vedeva sorridere con Eliza e ricordava quando lei bambina tornava a
casa con il suo fratello maggiore per mano, pieni di caramelle nei
sacchetti, accompagnati dal padre, dopo aver passato qualche ora
fuori a fare Dolcetto o Scherzetto e la sua aria insoddisfatta,
ripetendo quanto per lei fossero solo sciocchezze. Non aveva mai dato
un'occasione a nulla e si era persa tanto.
Anche
lei non festeggiava più da anni e vedere la casa piena di
cose
spaventose le faceva venir voglia di tornare bambina. Naturalmente,
Lillian aveva avuto modo di rivalutare Halloween per le Danvers, ne
era certa. Kara non faceva che ripeterle quanto non vedesse l'ora di
vestirsi a maschera ed Eliza aveva passato ore per intagliare la
zucca, fiera del suo operato. Avevano invitato anche Maggie e Jamie,
il che le rendeva entrambe su di giri, come se avessero dovuto
ospitare la presidentessa degli Stati Uniti. Lex aveva invece
preferito restare a Metropolis come suo solito; non sembrava volersi
spostare per le cose più serie, per Halloween di sicuro ne
avrebbe
fatto a meno.
«Lena».
Stava ammirando la fila di lombrichi di gomma che si calava da una
finestra in sala da pranzo che Lillian si avvicinò a passo
lento con
un pipistrello di carta in mano, uno degli ultimi acquisti. Si
guardò
intorno come per accertarsi che Eliza non fosse a portata d'orecchi e
proseguì. «Volevo chiedertelo prima, ma non
trovavo il momento più
appropriato. Credi sia una buona idea che Kara ti accompagni a quei
pranzi?».
«Temi
non sia all'altezza o che possa incontrare qualcuno di
pericoloso?».
Lillian non le rispose e Lena accennò un sorriso,
riprendendo
parola. «Kara sa badare a se stessa, non temere. E io sono
con lei.
Ci facciamo compagnia, tutto qui».
La
donna non disse più nulla e, appena Eliza la
chiamò, le andò
incontro.
Come
se lei per prima non ci avesse pensato ed era certa che quel pensiero
avesse sfiorato anche Kara, anche se non ne avevano parlato
apertamente. Non che volessero fiondarsi nei guai, ma erano discrete:
conoscere qualcuno, capire se avessero qualcosa da nascondere, e poi
magari approfondire in privato. Sperando che a lei non fosse venuto
in mente di andarci a parlare com'era successo con i Gand. Era
dannatamente impulsiva, quando ci si metteva.
Il
pomeriggio del 29 ottobre tornò a villa Luthor, in servizio,
Marielle. La sessantaseienne di origini sudamericane era la domestica
dei Luthor da anni; quando Lena fu adottata, lei lavorava
già lì.
Era stata via dalla famiglia per le vacanze estive che si erano
protratte quando Eliza insisté di farle prendere
più tempo, dato
che in fondo lei e Lillian non erano ancora sistemate. In
verità, da
quando Marielle girava di nuovo per casa, Eliza si sentiva a disagio,
non proprio abituata che qualcuno facesse le cose per lei. Le aveva
perfino proibito di toccare i fornelli, che erano diventati la sua
zona; amava imporre paletti. Non che non apprezzasse il suo aiuto, ma
per lei era strano oltre che nuovo. Tuttavia, erano diventate amiche
in meno di quarantotto ore e si erano date una mano a vicenda nel
nascondere per casa gli ultimi ragni di plastica rimasti, si erano
scambiate riviste e iniziata insieme una nuova serie tv, rendendo
Lillian Luthor un po' gelosa, ma restia ad ammetterlo.
Così,
la sera del 31 ottobre, era tutto pronto per Halloween.
Eliza
uscì fuori, avvicinandosi al cancello per accoglierle, ed
entrarono
tutte insieme vivacizzando la casa.
«Devo
ancora capire perché ti sei vestita da maniaco»,
rise Alex
rimproverano la sorella minore e subito la sua lamentosa replica:
«Non
sono un maniaco: sono un essere abominevole»,
sbuffò seccata, «Non
farmelo ripetere».
«Ragazze,
per favore, senza urlare», le ammonì Eliza
entrando mano nella mano
con una bambina, doveva essere Jamie, che non faceva che sculettare
per mostrare la sua gonna, e al loro fianco sotto quel pesante trucco
doveva esserci Maggie, la ragazza di Alex.
Fu
la prima ad avvicinarsi a lei.
«Non
spaventarti», rise, «Sono un po' più
truccata dall'ultima volta
che ci siamo viste». La sua faccia era completamente bianca e
nera
per creare un teschio; i capelli erano raccolti all'indietro in un
basso codino ed era vestita con pesanti maglione e pantaloni neri con
su la stampa delle ossa bianche.
«Oh,
non sei più truccata di com'ero io l'ultima volta che ci
siamo
viste», ricordò Lena il trucco dark che aveva
usato per passare
inosservata a National City, abbracciandola col sorriso.
Chiamò
la bambina e lei si avvicinò timidamente, nascondendosi per
metà
dietro alla madre. «Lei è Jamie, mia figlia. Di'
quanti anni hai a
Lena».
La
piccola guardò di straforo la madre e poi lei, tirando
subito in
avanti la manina destra e mostrando tre dita, ricevendo le
congratulazioni della ragazza, che si chinò alla sua
altezza.
«Sei
una supereroina?», domandò, accarezzandole la
gonna rossa che amava
mettere in mostra, osservando la stella stampata nel petto del
maglioncino azzurro, la mascherina tenuta con un elastico appoggiata
in fronte, il mantello rosso che le arrivava ai fianchi, i calzettoni
neri e sotto gli stivaletti blu. La vide annuire, così ne
approfittò
per chiederle come mai avesse anche una bacchetta magica da fatina
con sé.
«Per
fare le mashie».
Lena
annuì. «Era ovvio».
«Non
abituarti a vederla così timorosa: dalle il tempo di
ambientarsi e
l'unica magia riuscita per questa sera sarà che riesca a
tenersi la
gonna addosso fino all'ora di andare a dormire».
Vestita
da gangster in completo marrone a righe, Alex si avvicinò
con passo
lento, prese Jamie in braccio che le sollevò il cappello per
infilarselo lei e salutò Lena. Insieme raggiunsero Eliza in
sala da
pranzo, per salutare Lillian che era rimasta a controllare Marielle
che non mettesse le mani nella cena già pronta.
«Sei
vestita da Lena Luthor?», sbeffeggiò Kara,
avvicinandosi.
Lei
annuì, aspettandola con un sorriso. «Tra poco vado
a prepararmi,
Keira Danvers. Non volevo che la bambina mi vedesse per la prima
volta in costume». Indossava un maglione nero, leggins nero e
calze
nere. I capelli sciolti, lisci che le incorniciavano il viso.
Invece,
Kara aveva il cerone bianco in faccia, i capelli legati in una bassa
coda e un cappello a cilindro nero sulla testa; il suo corpo era
coperto da un mantello che teneva ben chiuso con le mani guantate. Ai
piedi scarpe lucide da uomo. «Non chiamarmi
così», si lamentò,
formando le crepe sul cerone in mezzo agli occhi.
Lena
la attirò accanto a sé con il colletto del
mantello, sorridendo con
malizia. «Cosa c'è là
sotto?».
«Viscere
e il resto».
«Umh…
sexy».
Stavano
per baciarsi, dimenticando dove si trovassero, separandosi nel
sentire i pesanti passi delle scarpe lucide di Alex avvicinarsi.
«Ragazze?». Non era il momento, né il
caso, così si lanciarono
un'occhiata e si girarono verso di lei; Kara ringraziò di
avere il
cerone, poiché sentiva le orecchie bollenti. «Di
cosa state
parlando? Del nostro… piccolo segreto?». Le
guardò, fermandosi in
mezzo a loro. «Voglio essere avvertita per ogni cosa, va
bene? Se
dobbiamo andare avanti con questa faccenda, dobbiamo farlo per
bene».
«A
onor del vero…», Lena prese parola,
«Pensavamo di andarci piano,
magari di… lasciar passare un po' di tempo».
Kara
sollevò le sopracciglia. «Ah
sì?».
Si
scambiarono un'occhiata e Alex annuì, passando una mano
sulle spalle
di entrambe. «È giusto, approvo. Meglio andarci
caute. E sui nomi
della lista?».
«Ci
sto ancora lavorando».
«Senza
fretta», aggiunse Alex. «Godiamoci la festa,
okay?».
Quelle
due erano sempre vicine, sempre. In realtà, Alex era un po'
seccata
che Kara avesse fatto coppia con Lena prima che con lei. Erano sempre
state loro due, si proteggevano a vicenda e a vicenda si sostenevano,
e non che non avesse mai apprezzato Lena, al contrario, ma si era
persa il momento in cui si erano avvicinate fino a quel punto. Quando
era successo. Si era tanto distratta tra la vita di coppia di Eliza e
Lillian, Maggie e Jamie, il suo lavoro e quello di copertura da aver
probabilmente allentato la corda a Kara. Ogni volta che quelle due
stavano insieme, ora, le sembrava di essere di troppo.
Certo,
era la sua gelosia fraterna ad essere di troppo, in quel momento,
doveva prenderne atto.
Lena
era andata a cambiarsi nella sua camera ed Eliza ad aiutarla,
Marielle si presentava a Kara e Lillian e Maggie si erano
inaspettatamente messe a parlare della crescita dei figli, mentre
Jamie tentava di far fuori più biscotti possibili intanto
che sua
madre non guardava. Così Alex si era chiusa in bagno,
registrando audio al telefono in cui annotava come stesse andando la
loro
indagine. Poi avrebbe dovuto fare rapporto a John: non poteva
permettersi di perdere dettagli, ricordando ancora bene la
discussione avvenuta con lui quando lei spiegò
ciò che Kara e Lena
avevano cominciato a fare. E il suo completo rifiuto.
«Sono
civili», per poco John Jonzz non aveva urlato, cercando di
calmarsi
passandosi una mano sul viso. «Dobbiamo interrompere questa
cosa:
adesso».
«Non
credo sia una buona idea, signore, la prego, mi faccia
spiegare».
«Assolutamente
no, agente Danvers, è fuori questione».
«Eppure
sono arrivate al coroner», aveva stretto i pugni.
«Sapevamo
già del coroner: quelle due hanno solamente rischiato di
attirare
l'attenzione».
«È
vero. Per questo, se ci fossi io al loro fianco, a guidarle,
correrebbero meno rischi». John aveva spalancato gli occhi,
colto
nel profondo da quel pensiero folle. Ma non aveva fatto in tempo a
dire nulla che Alex lo anticipò, scusandosi per il gesto.
«Signore,
per favore. Da quanto tempo siamo bloccati? Quando mi ha arruolata,
mi ha detto che avremmo trovato i veri responsabili e che li avremmo
arrestati. E possiamo solo supporre che sia stata Rhea Gand ad
ordinare l'omicidio dei genitori di mia sorella, ma non abbiamo
alcuna prova che la colleghi a loro. Nessuna prova».
«Devo
davvero ricordarti che sei un'agente sotto copertura e che il tuo
unico incarico è quello di assicurarti che non arrivino a
lei?».
Alex
si era bloccata, ricordandosi molto bene quando aveva scoperto dei
Gand: John le aveva detto di loro solo ed unicamente perché
Kara si
stava avvicinando alla famiglia del suo ragazzo e si era arrabbiata e
aveva tentato con ogni mezzo di tenerla lontano da loro, anche se non
avrebbe dovuto. Fortunatamente i Gand sembravano voler avere con lei
la stessa distanza e questo li aveva resi ancor più
sospetti. Era
orribile pensare che avrebbe dovuto proteggerla da loro senza tenerla
veramente distante per non farli insospettire. Aveva ringraziato il
cielo quando Kara le aveva rivelato che Mike aveva litigato con loro
per lei; anche se era niente in confronto alla sensazione di sollievo
provata di quando si erano lasciati. Non credeva che Mike fosse
cattivo, ma se anche non fosse stato per la sua famiglia, e di certo
la cosa non faceva che portare guai, lo aveva sempre ritenuto un
ragazzo sbagliato per sua sorella.
«John»,
lo aveva chiamato per nome, passandosi una mano sulla fronte e
prendendo un bel respiro. «Davvero non capisce? Quelle due
continueranno a cercare, a scavare, con o senza di me. E allora
sì
che saranno davvero in pericolo. Pensa di poterle sequestrare per
qualche ora, portarle qui e farle desistere? Non funzionerà.
Conosco
Kara e se conosco abbastanza anche Lena Luthor non si fermeranno. Mi
lasci collaborare con loro: smuoveremo le acque e qualcuno
farà un
passo falso. Per forza. Sono arrivate al coroner in quanto, un mese
di indagini? Veglierò su di loro e se sentirò che
c'è qualcosa che
non quadra, allora la chiamerò e richiederò
aiuto. Dobbiamo fare
qualcosa, John, o non chiuderemo mai questa faccenda».
I
due si erano guardati con attenzione, in completo silenzio,
all'interno di quella angusta aula interrogatori. John Jonzz era
ancora sul piede di guerra: aveva paura, ma in fondo la proposta
dell'agente Danvers era allettante. Da anni stava sotto a quel caso,
aveva trovato nomi, aveva fatto tante teorie, ma se si azzardava a
muoversi e attaccare, le sue prede sarebbero scappate. Ed erano prede
troppo importanti. Aveva scritto rapporti per anni, aveva inviato
spie che erano tornate a mani vuote. Sensazioni e voci di corridoio
erano l'unica cosa che aveva. Da quando la casa degli El era esplosa,
due bambini erano rimasti orfani e il caso era passato al loro
distretto, non aveva avuto che fumo e nient'altro. Gli arrestati non
avrebbero mai collaborato e l'unica che era seriamente intenzionata a
farlo aveva sollevato una richiesta che non le potevano soddisfare.
«Capisci da sola il rischio che mi stai chiedendo di
approvare?».
Lei
aveva sospirato, scuotendo un poco la testa. «Potrebbe essere
l'unico modo…».
Aveva
accettato, seppur con remora. Da quel momento, Alex Danvers doveva
annotare ogni cosa, ogni starnuto delle due ragazze e, se captava che
qualcosa sembrava non andare, chiamare i rinforzi. Aveva saputo che
sua sorella era andata a parlare con i Gand da sola, senza dire nulla
a lei o a Lena, quindi avrebbe dovuto starle col fiato sul collo
perché imprevedibile.
«Se
le cose si fanno difficili…», aveva attirato di
nuovo la sua
attenzione, prima che uscisse dall'aula. «Anch'io conosco
Kara, non
dimenticare che sono il suo coach e so quanto possa essere una mina
vagante, dunque, nel caso tu non riesca a tenerla
stretta…».
Lei
aveva spalancato gli occhi. «Non metterò una
cimice addosso a mia
sorella».
«Non
è solo tua sorella, non dimenticarlo. Dobbiamo essere pronti
a
tutto».
Per
quanto l'idea di metterle addosso una microspia non le piacesse
affatto, Alex non usciva di casa senza, nel caso il suo istinto le
avesse urlato di farlo. Di certo, il modo con cui era andata da Gand,
come una completa irresponsabile, l'aveva messa a dura prova in
questo senso.
Uscì
dal bagno, sollevata e seccata al tempo stesso che le due avessero
deciso di lasciar passare del tempo. Voleva chiudere in fretta quella
storia che durava ormai da troppi anni, ma in fondo si parlava di
Kara e la sua sicurezza era l'unica cosa che contava. Le
trovò tutte
in salone: sua sorella aveva il piatto delle caramelle in braccio e
Jamie le girava intorno come un'ape al fiore; appena si avvicinava
troppo, Kara si lanciava verso di lei e allora la bambina scappava
via urlando, facendo il giro del divano. Maggie smetteva di parlare
con Marielle ed Eliza, che a quanto pare era già tornata e
aveva
addosso stracci e la pelle verde con finte cicatrici segnate con
matita nera, solo quando doveva sgridarla. Lillian era in un angolo,
al cellulare. Si era messa un cappello da strega sulla testa e tanto
bastava perché fosse considerato un costume.
Buon
Halloween, principessina! Ti aspettavi un'email proprio oggi? Io no,
è festa e sto lavorando per te, vedi che culo.
Lena
scrollò gli occhi, leggendo la nuova email di Leslie Willis.
Aveva
appena finito di sistemarsi il trucco che le arrivò la
notifica.
Ma
ho succose novità che ti farà piacere ricevere
immediatamente, te
le allego. Sono tutti i nomi degli infermieri che hanno visitato tuo
padre in ospedale, il team che si è occupato di lui
più il medico
che gli ha guardato la caviglia. Un uccellino bene informato mi ha
fatto sapere che molti di loro si sono comprati una bella macchina
nuova dopo averlo visitato. Una bizzarra coincidenza, non trovi?
Beh,
da cosa ti vestirai per spaventare qualcuno, stanotte? I Luthor fanno
già abbastanza paura senza costume, ma questo già
lo sai.
Alla
prossima, bella.
Chiuse
la pagina e uscì dalla camera, lasciando perdere Willis. Era
curiosa
di leggere i nomi subito, ma davvero voleva andarci piano e ora aveva
una festa da celebrare. Iniziò a scendere le scale verso il
soggiorno, sollevando il vestito dagli stivaletti ai piedi, e
ricercò
subito lo sguardo di Kara. La vide spalancare la bocca quando il suo
sguardo si posò sul proprio e Jamie prenderle una mano di
caramelle
da sotto il naso. Lena aveva il vestito pomposo un po' stracciato e
sporco di sangue a macchie, anche lei il cerone che le copriva la
pelle già pallida, nel collo si notava distintamente una
linea netta
di come l'avessero tagliato in due, grondante di sangue. Era
pesantemente truccata intorno agli occhi scavati e aveva il rossetto
marrone asciutto, interrotto da un rivolo di sangue che le scendeva
sul mento. Sul capo un'alta parrucca di un biondo opaco, con i
boccoli spettinati e sporchi di sangue che le scendevano sulle
spalle.
«Oh,
eccola», disse Eliza, «Ci abbiamo messo un sacco di
tempo per
fermare la parrucca».
Restarono
senza parole e la bambina si nascose dietro Kara. Adesso lei capiva
perché avesse aspettato a mascherarsi. Il tempo di farle i
complimenti per l'idea dello spettro incattivito di Maria Antonietta
che Ferdinand suonò alla porta, pronto per portarle in
centro a fare
Dolcetto o Scherzetto. Appena lo vide, Alex prese Jamie per mano, che
non vedeva già l'ora di essere fuori. Maggie la
seguì a ruota,
chiedendo a Kara se lei e Lena si fossero unite a loro, che
accettarono con piacere.
Lillian
si avvicinò all'uomo che aspettava che ci fossero tutte,
davanti al
portone in ferrea posa militare, e si lasciò andare a un
sorrisetto
compiaciuto. «Ferdinand… e così ti sei
vestito anche tu… da
autista, per caso?». L'uomo non mosse un muscolo e lei rise
da sola
mentre le ragazze le passavano accanto e uscivano. Dietro di loro,
Eliza si assicurò che la bottiglia sparisse, consegnandola a
Marielle, il cui unico accenno alla festa era una spilletta a forma
di ragno sul maglione rosa.
«Tua
madre ha fatto una freddura», sussurrò Kara a
Lena.
«Fingi
anche tu di non averla sentita».
Alex
aprì lo sportello posteriore e lasciò andare la
bimba che saltellò
sui sedili, adocchiando quelle due indietro che bisbigliavano.
«Ferdinand
lavora anche nelle feste?», chiese allora Kara, abbassando
ancora di
più la voce squillante quando lo vide raggiungerle.
«Vive
solo, non ha famiglia a cui tornare», le rispose, scrollando
le
spalle, «Gli chiediamo se è disponibile e lui si
fa trovare
pronto».
Kara
annuì e poi sorrise, dimenticando l'autista, prendendole un
braccio
e avvicinandosi al suo orecchio sinistro. «Mi fai sesso
vestita
così».
Lena
spalancò gli occhi e sarebbe arrossita se il cerone sul viso
non
glielo avesse impedito. «Te ne approfitti perché
non posso saltarti
addosso», bisbigliò, quasi non muovendo le labbra.
«E, non di
meno, la cosa mi lascia perplessa… Intrigata, ma perplessa, Keira».
«Smettila
di chiamarmi così».
«Oh,
ora non ti arrabbiare, Keira».
«Ragazze?».
Alex le richiamò e le due smisero di ridere, separandosi ed
entrando
in macchina.
Era
sceso il buio ma le strade di National City erano ben illuminate dai
lampioni e dai palazzi e dalle case che aspettavano i Dolcetto o
Scherzetto. Le vie erano già piene di bambini e adulti
vestiti a
maschera, stelle filanti, carte di caramella schiacciate, cestini a
forma di zucca, pipistrello e fantasma. Tutto era pieno di colori, di
grida e risate; si sentiva musica che veniva dai locali aperti,
c'erano festoni, bancarelle su ruote che vendevano dolcetti,
giocattoli e palloncini.
Maggie
comprò da una mummia ambulante un piede di zucchero filato a
Jamie
che strepitava per averne uno, gelosa che lo avessero altri bambini,
promettendo a Kara che lo avrebbe dato a lei se la piccola non lo
avesse finito tutto. Quest'ultima si perse a guardarle a pochi passi
davanti a lei: sua sorella e Maggie, con Jamie in mezzo a loro che
richiamava l'una e l'altra ogni volta che riconosceva una maschera o
per cercare riparo quando qualcosa le faceva paura, ritrovandosi a
pensare che per quanto Alex cercasse di non affrettare le cose, loro
tre si comportavano già come una famiglia. Lena le porse
inaspettatamente un lecca-lecca e lei le sorrise, trattenendo la sua
voglia di darle in cambio un bacio.
«Ti
volevo parlare», ne approfittò. Le
indicò il marciapiede e si
assicurò che sua sorella non stesse guardando,
così si
allontanarono, camminando per la stradina dietro un locale.
«Perché
hai detto ad Alex che vogliamo lasciar passare un po' di
tempo?».
Cercò di non gridare troppo, ma la musica era davvero alta.
L'aria
con cui la guardava Kara era seria, eppure con il lecca-lecca in
bocca e il cerone sul viso, Lena faticava davvero a prenderla in quel
modo e trattenne un sorriso. «Perché vorrei che
sia così, Kara…
Godiamoci le feste, il tempo assieme, noi», le prese una mano
con le
sue, deglutendo e guardandola negli occhi dall'alto al basso, per via
dei tacchi negli stivaletti che indossava.
Lei
abbassò lo sguardo, sospirando. «Sei arrabbiata
perché sono andata
dai Gand, vero?», domandò a bassa voce mentre Lena
le filava il
lecca-lecca dalla bocca, allontanandoglielo. «Insomma, li
conosco!
Non pensavo di correre alcun pericolo, sono i genitori di Mike. Sanno
qualcosa, e sicuramente c'entrano qualcosa, ma-»,
cercò di
riprendersi il dolcetto ma si interruppe, quando Lena posò
delicatamente le labbra sulle sue. Schiusero le labbra, lasciando le
loro lingue si incontrassero, staccandosi piano per prendere fiato e
baciarsi ancora, piano pur non mancando di passione, terrorizzate che
potessero rovinare il trucco. «D-Dicevo… i
genitori di Mike…»,
la guardò e poi la spinse a sé, ricominciando a
baciarla. Lena le
lasciò le labbra per dedicarsi al collo e la
sentì sospirare e
rabbrividire. Il lecca-lecca cadde sull'asfalto. «A-Avrei
dovut-ah…
dirti che ah-ndavo». Kara si aggrappò al suo
vestito, tornando
indietro di un passo per appoggiarsi al muro, mentre lei le laccava
l'incavo del collo, sbottonandole il mantello.
«Prob-ah… bilmente…
si-sicuramente… avrei dovuto,
sì…», sospirò ancora,
«sì…
L-Lena?», la chiamò quando sentì le sue
mani fredde sui propri
fianchi attentare alla cintura dei pantaloni e il calore crescente al
basso ventre.
«Dimmi»,
la guardò mordendosi un labbro, gli occhi desiderosi di
averla. «Non
mi parlavi dei Gand?».
«Non
puoi farlo…», prese fiato. «N-Non puoi
farmi questo adesso che
dobbiamo tornare là fuori; si accorgeranno che non ci
siamo».
Lena
annuì con lentezza ma non si staccò da lei; le
leccò un orecchio e
la baciò, cercando di non toccare la parte bianca di cerone.
Kara
strinse più forte le dita in un lembo del suo vestito,
intanto che
le mani della ragazza scendevano delicatamente di nuovo sotto il
mantello, accarezzandole la pancia, si concentrò poi sopra i
pantaloni, insinuandosi in mezzo alle sue gambe e, dopo un lento
bacio sul collo, premette verso l'alto. Kara ebbe un sussulto e
così
la lasciò, guardandola negli occhi mentre quelli si
schiudevano
piano, fissandola con bramosia. La musica era alta e forte,
mescolandosi nell'aria fredda di fine ottobre con le grida dei
festeggiamenti. «Per quanto l'idea di rapirti e farti mia sia
allettante… hai ragione. E mi piange il cuore,
vaniglia», sussurrò
con un sospiro, sistemandole il colletto del mantello.
Kara
la sentì ridere mentre si allontanava, così
aggrottò la fronte e,
rossa sulle gote, la bloccò con una mano sulla spalla e la
appoggiò
con impeto contro il muro, arrivando alle sue labbra, stringendole i
polsi. Quando la lasciò, si guardarono senza dirsi una
parola,
prendendo fiato.
«Le
lasciamo qui, poi troviamo una scusa», sorrise Lena,
consapevole che
l'aveva fatta accaldare.
Ma
lei scosse la testa, ansimando. «Sei una
tentazione». Le prese la
mano e la spinse verso di sé, iniziando a percorrere insieme
la
stradina per uscire e tornare a quella principale piena di gente che
correva e strepitava. La sentì dire peccato.
«Però mi hai
convinto: ci fermeremo un pochino», la guardò
Kara. «Non troppo
tempo», ci tenne a specificare, alzando la voce,
«ma un pochino.
Godiamoci noi». Le lasciò andare la mano e il
marciapiede,
invitandola a seguirla con un gesto.
Lena
annuì, seguendola. «Mi sono dimenticata di
chiedertelo: come va con
Cat Grant?», dovette urlarle a causa del chiasso, mentre
cercavano
Alex, Maggie e Jamie.
«Quella
simpaticona di Rhea Gand le ha davvero fatto una telefonata per
mettermi nei guai», rispose aggrottando le sopracciglia.
«Ma la
signora Grant le ha dato pan per focaccia dicendole che nel mio tempo
libero posso fare quello che voglio che non è affar
suo».
«Quindi
tutto a posto?».
«Non
proprio. Mi ha rimproverata lo stesso», grugnì,
«Mi ha chiesto di
lasciarla in pace». E questo, per lei, era un altro motivo
che la
spingeva a considerare quella donnaa colpevole.
«Ragazze,
dov'eravate finite?», Maggie scheletro le raggiunse, battendo
sulla
loro schiena. Quando si voltarono videro anche Alex con Jamie per
mano, che guardava scrupolosamente all'interno del suo cestino ragno
quante caramelle avesse guadagnato fino a quel momento.
«Kara, alla
fine ti sei persa lo zucchero filato: non c'eri e lo ha finito
Alex».
«Ohu»,
si lamentò, osservata dalla maggiore.
Continuarono
il giro per un po' e tutte e tre convinsero Kara a non prendersi da
mangiare perché al rientro a casa avrebbero cenato, ma era
molto
scontenta della cosa. Così raggiunsero Ferdinand in una
strada
aperta al traffico e tornarono a villa Luthor-Danvers, trovando nel
salone una zona che comprendeva divano e cuscini a terra protetta da
tende appese al lampadario in modo che creassero una sorta di tenda
e, nella sala da pranzo, il tavolo già imbandito, con una
tovaglia
viola con su disegnate ragnatele, candele scure accese e piccoli
segnaposti con lapidi di carta.
Jamie
si gettò a capofitto sui cuscini in soggiorno, saltando e
gettando
all'aria caramelle. E avrebbe continuato se Maggie non l'avesse
minacciata di confiscargliele se non le avesse raccolte tutte e
rimesse nel suo cestino di Halloween.
«Gliele
prendo comunque o sarebbe capace di mangiarle tutte insieme in una
sera», disse, facendo una smorfia con la bocca, «Ma
Jamie non sa
cosa significa confiscare,
le basta la minaccia».
«I
bambini… tutti uguali a quell'età»,
l'appoggiò Lillian.
Cenarono
tutte insieme a parte la piccola, che aveva mangiato poco, ormai
satura di dolciumi, e si era addormentata stanca sul divano. Senza
gonna.
Troppo
prese dai loro sguardi e sorrisi complici, Kara e Lena non si erano
accorte degli sguardi che invece lanciava Alex nella loro direzione.
Soprattutto quando Maggie fece notare a Lena di avere parecchio
sbavato il rivolo di sangue che le usciva dalla bocca, che infine
decise di togliersi del tutto con un fazzoletto.
Finita
la cena, si dedicarono ai dolcetti e a qualche bottiglia. Eliza
convinse Marielle a unirsi a loro e le fece assaggiare i lombrichi di
cioccolato, i cupcake con le mani zombie in pasta di zucchero e i
biscotti fantasma con glassa, ricevendo i suoi complimenti. Kara
cercò di lasciarne solo perché voleva portarne
qualcuno a Megan,
che sapeva altrimenti si sarebbe risentita.
Jeremiah
videochiamò qualche minuto più tardi e, vestito
da vampiro, fece
gli auguri a tutte, prendendosi dei momenti per parlare con le
figlie, che si spostarono fuori. Risero e gli raccontarono della
giornata ma, spostando il suo sguardo sulla minore, Alex
notò che
era sporca sul collo bianco di cerone, dietro al colletto del
mantello. Allungò la mano d'istinto per ripulirla e
guardò la
strana sostanza rossa che si era trasferita sulle sue dita, cercando
di capire dove si fosse sporcata. Rientrando dentro, Kara
ritrovò la
gonna di Jamie incastrata sotto il gambo di uno sgabello.
Maggie
la ringraziò con un sospiro, mettendo la gonna direttamente
in borsa
per non perderla. «Era inevitabile», aggiunse poi,
sedendo di nuovo
a tavola.
«I
bambini… Vogliono una cosa e poi non la vogliono
più, eh?»,
rispose Lillian.
Si
lasciarono a qualche altro bicchiere, mangiando caramelle e dolcetti,
e Kara fu videochiamata da Kal, così si spostò di
nuovo fuori.
Anche lui era vestito da vampiro e lei rise, sottolineando la poca
originalità.
«Anche
mio padre è mascherato come te». Le
uscì d'impulso, eppure quando
sentì quella parola a voce alta rivolta a suo cugino le fece
una
brutta impressione, cercando di non perdere il sorriso. Quella era
una buona giornata e non voleva rovinarla.
Lui
però se ne accorse. «È tuo padre,
Kara», annuì. «Lascia perdere
il resto, vivi la tua vita».
Non
avrebbe saputo cosa rispondergli e si sentì sollevata di
vedere
Lois, con le orecchie da lupo in testa e il naso e i baffi disegnati
sul viso con la matita nera. La salutò e dopo le passarono
James,
che era con loro a una festa. Quando lei gli chiese da cos'era
vestito, lui sollevò il cellulare e le mostrò se
stesso da capo a
piedi: aveva indosso una tuta da basket arancione.
«Ammetto
di stare patendo qualche brivido per questa, ma ne vale la
pena»,
rise e lei con lui.
Si
salutarono con la promessa di rivedersi presto.
Maggie
portò Jamie in bagno e poi la aiutò a coricarsi
di nuovo sul
divano, coperta da un plaid che le passò Lillian.
«I
bambini», esclamò la donna, «Portano
problemi, ma come faremmo
senza di loro?!». Tornò in cucina con un ultimo
sorriso a Maggie,
che sorrise a sua volta, un po' perplessa.
Lena
passò di lì per raggiungere le scale e
annuì, guardando di spalle
sua madre che si allontanava. «Lex ed io abbiamo entrambi
avuto una
tata fino ai dodici anni».
«Si
spiega», rise.
Lesse
i nomi con attenzione, uno dopo l'altro. La curiosità vinse
e decise
di entrare nei loro conti, bypassando la sicurezza. Qualche minuto ed
era dentro, rifacendo lo stesso percorso più volte per
ognuno di
loro e andando a ritroso di circa un anno. I numeri scorrevano veloci
sullo schermo del laptop e Lena non toglieva occhio di dosso,
completamente presa, se non fosse per Kara che le masticava un
biscotto fantasma nelle orecchie.
«Ci
siamo…», emise e Kara passò un pezzo di
biscotto anche a lei, che
lo prese con le labbra. Lena indicò lo schermo e Kara
aggrottò lo
sguardo.
«Quelli…
non
ci capisco niente»,
la guardò, aspettando che ingoiasse. «Ci sono
virgolette, parole
sconosciute, numeri,
virgolette, e quel simbolo cos'è?».
«Sono
codici. Intendevo questo»,
sottolineò una serie di numeri e fece lo stesso con le altre
schede,
voltandosi di nuovo a lei, che aveva un altro biscotto in bocca.
«Nel
periodo dopo la visita di mio padre, è stato versato sui
conti di
questi signori e signore un'ingente somma di denaro».
«Sono
stati pagati».
«Per
il loro lavoro, per il loro silenzio o entrambi».
Kara
annuì, ingoiando. «Qualcuno è stato
molto generoso». Si
guardarono, entrambe soprappensiero. «E adesso ci fermiamo un
pochino?». Kara la vide annuire, prendendole un pezzo di
biscotto da
una mano e infilandoselo in bocca. «Come osi?».
Lena
rise e, dopo aver ingoiato, le rubò un veloce bacio.
«Vai prima che
Alex pensi che stiamo facendo qualcosa senza dirle nulla: io arrivo
tra poco, informo il mio contatto della pausa».
«Stiamo
facendo qualcosa senza dirle nulla», si alzò dal
letto su cui erano
sedute e prese la parrucca bionda di Lena che aveva lasciato accanto,
poggiandola in testa. «E dopo glielo diremo. È con
noi».
«Sì».
Aspettò un bacio di Kara e poi la vide andare via con la
parrucca
che le ciondolava dalla testa. La porta non si chiuse poiché
entrò,
con sua sorpresa, proprio colei di cui stavano parlando.
La
ragazza si guardò intorno, meravigliata. Era la prima volta
che
metteva piede in quella grande camera. «Lillian mi chiede se
dormirai qui stanotte o giù con noi». Intravide la
bacheca con i
trofei di scacchi, avvicinandosi e puntando il dito per leggere le
etichette. «Tutti tuoi? Non sapevo giocassi. Sei bravissima!
Cosa le
devo dire?». Le lanciò un'occhiata fugace, intenta
a fare qualcosa
al portatile.
«Non
ho mai fatto un pigiama party e questa è la cosa che
più si
avvicina. Dunque sono dei vostri», la guardò un
attimo e tornò
alla sua email.
Alex
diede un nuovo sguardo ai trofei, un po' intorno e uscì,
dicendole
che l'avrebbero aspettata per il racconto delle storie di paura.
Ho
dato un'occhiata e al momento ho deciso di prendermi una pausa. Vai
pure a festeggiare, Willis, divertiti.
Sorrise,
pensando di aggiungere qualcosa.
Con
quei capelli nemmeno tu hai bisogno di un costume per spaventare i
bambini.
Mi
farò sentire.
Era
buio fuori e dentro. Lillian ed Eliza erano uscite, Marielle tornata
a casa, Jamie dormiva su una delle poltrone, spostata per non
svegliarla. All'interno della tenda composta per l'occasione e con
una sola lanterna a forma di zucca in mezzo a loro sedute in cerchio,
le ragazze si lasciavano andare a racconti dell'orrore. Quelli che
raccontava Maggie erano i più riusciti e si vedeva che Kara
cercava
solo di fingere di non aver paura: spostando gli occhi ai lati,
tirandosi sul naso gli occhiali che continuavano a scenderle e non
riuscendo a stare seduta tranquilla, continuando a muoversi neanche
avesse avuto le puntine sul cuscino.
Alex
non riusciva a fare a meno di notare come Lena, di tanto in tanto,
guardava sua sorella e inclinava la bocca, schiudeva gli occhi. E
come sua sorella, invece, si tirasse sempre un po' verso di lei, che
fosse semplicemente per muoversi o per cercare un aiuto ai racconti
di Maggie. C'era qualcos'altro che non le dicevano. Era da tanto che
Kara non si lamentava più di Lena, che fosse per flirt o per
piccole
prese in giro, adesso che ci faceva caso. E il segno sul collo di
Kara… che fosse davvero ciò che pensava? Il
rivolo di sangue di
Lena era sbavato dopo che erano tornate a casa. Ma non poteva
crederci, era assurdo, e sicuramente si sbagliava. E, non sapeva
Lena, ma Kara era eterosessuale. Un'etero che si sarà
sporcata con
chissà cosa e l'altra avrà mangiato una caramella
che…
Però
le nascondevano qualcosa. Che fosse sulle indagini o qualcos'altro.
Glielo avrebbero detto o lo avrebbe scoperto presto, non riuscendo a
pentirsi di aver lasciato quella microspia su un trofeo in camera di
Lena.
Era
scontato: Kara pensa ai Gand → Kara va dai Gand XD Poteva mai
aspettare? Naah.
Loro,
in particolar modo Rhea, non hanno preso bene la sua visita. Pare
proprio che abbiano sempre saputo chi fosse e non erano felici di lei
neppure quando Mike la presentò a loro la prima volta.
Inoltre, Lar
Gand ha parlato di un Generale:
a chi si riferirà?
Vi
è piaciuto questo halloweenesco
capitolo?
Dopo
aver parlato con John Jonzz, Alex prende l'impegno di seguire Kara e
Lena nella loro indagine personale, se non che la seconda, dato il
suo recente colloquio con la madre, ha deciso di allentare la corda.
Nessuna delle due, inoltre, è molto felice che Kara sia
andata da
sola a parlare con i Gand. Come dar loro torto! E Alex comincia a
sospettare che nonostante l'abbiano accolta in ciò che
stanno
facendo, non siano completamente sincere e ha lasciato… eh,
proprio
così, una microspia in camera di Lena! Porterà
problemi? Cosa, o non
cosa, scoprirà?
Intanto, tra le due la situazione si fa sempre più calda; a
Lena piace stuzzicare Kara e Kara... ops. Eliza porta via le bottiglie
a Lillian e lei cambia.. e fa freddure °°
Ah,
nella mia fan fiction, il nome completo di Lar Gand è Larson.
Inventato, chiaramente. Lar
resta un diminutivo.
E un'ultima
cosa! Ho avviato la fan fiction anche su Wattpad e AO3
:3 Ora le potete trovare anche lì.
Ci
rileggiamo con il capitolo 20, il cui titolo è Felice,
lunedì 16! A presto :)
|
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Capitolo 21 *** 20. Felice ***
Da
L! A Me
Casa
libera. Questo giovedì.
Kara
sorrise nel leggere il messaggio, spegnendo il monitor quando vide la
docente guardare verso la sua direzione. Lo riaccese poco dopo,
mettendo il cellulare più vicino, nascondendolo sotto un
foglio su
cui stava prendendo appunti a lezione.
Da
Me a L!
Giovedì
ho l'allenamento con le ragazze e siccome saremo impegnatissime con
le lezioni, non posso neppure rimandare. A meno che non parli di
stare lì la notte, ma con Eliza e Lillian…
Inviò,
strisciando il cellulare sopra il foglio per rimetterlo via,
guardando verso la lavagna. Silenzioso, lo schermo si riaccese dopo
pochi istanti, così trascinò di nuovo il telefono
verso di sé,
infastidendo la ragazza accanto a lei sulla destra, che la
guardò
male.
Da
L! a Me
Con
loro in casa preferirei evitare, a meno che il rischio di essere
sorpresa a letto con la tua sorellastra non ti ecciti.
Kara
soffocò una risata, piegando la bocca che riparò
con una mano,
scoprendo la sua vicina guardarla male di nuovo. Le fece cenno di
fare silenzio e così annuì, guardandola male a
sua volta. Diede
un'occhiata alla lavagna, prese due appunti e poggiò la
penna.
Da
Vaniglia a Me
Non
credo sia il caso, anche se… Che ne dici di
venerdì? Se casa tua,
vostra o nostra ancora non ho ben capito, non è libera,
credo di
poter convincere Megs a sparire dal suo uomo.
«Anche
se…?!»,
sussurrò Lena leggendo, mordendosi il labbro inferiore.
Guardò
verso la lavagna e scrisse delle righe sul suo quaderno, lineare,
decisa, poi posò la penna nera di sopra, in orizzontale,
decidendo
di rispondere.
Da
Me a Vaniglia
Venerdì
sono impegnata con la Luthor Corp, che seccatura. Ma a voler essere
oneste, il mio letto è più grande.
Sfortunatamente Marielle è
spesso a casa, Eliza rientra prima di mia madre e Alex è qui
quasi
tutti i giorni per sistemare la sua nuova camera. Potremmo
approfittare di quando vieni a sistemare la tua, se non sono fuori.
Ma non avremo mai casa per conto nostro, questi giorni.
Aggiunse
una faccina triste e sbuffò lievemente seccata.
Avevano
deciso di mettere da parte le indagini per un po' e godersi la loro
relazione, di fare il grande passo, eppure trovare il giorno giusto
stava diventando più difficile di organizzare un
appuntamento con il
sindaco. Dopo la notte trascorsa ad Halloween, Lillian era riuscita a
convincere Eliza a convincere a sua volta le sue figlie ad avere una
camera per loro, in modo da rendere villa Luthor-Danvers veramente
Luthor-Danvers. Così le due avevano cominciato a renderle
più
personali le stanze scelte, spostando i mobili che non servivano
fuori per metterli in altre, aggiungendo mensole e piccole librerie,
poster, una parte del loro guardaroba invernale, foto e qualche
soprammobile. Nonostante Alex avesse un appartamento, scoprì
che le
piaceva l'idea di avere una bella camera nuova per lei in villa, per
le emergenze disse, e perché quello spazio sembrava tornarle
utile
per depositare le cose che in casa, modesta, non le stavano
più.
Da
Vaniglia a Me
E
fuori di casa? Anche se per la prima volta…
Non
concluse la frase ma vedeva che stava scrivendo ancora.
Domenica?
Marielle non lavora, giusto? Se Eliza e Lillian escono fuori a
cena…
Da
Me a Vaniglia
Torneranno
e ci troveranno. Non potremmo sapere a che ora saranno a casa, in
quel caso, non avranno orari. E Marielle lavora tutti i giorni.
Da
Vaniglia a Me
Fategliela
fare a quella poverina un po' di vacanza!
Kara
uscì dall'aula, libri e quaderno sottobraccio
e telefono appoggiato contro una spalla. Indossava una salopette
lunga in jeans e sotto una maglia a righe bianca e nera. I capelli
erano legati in due basse code e cercò di stringerne una pur
continuando a tenere il cellulare contro l'orecchio e tutto il resto
contro il petto, facendo le acrobazie. «La settimana prossima
non
posso», brontolò, diventando rossa sulle gote.
«Avrò… emh, il
ciclo»,
sussurrò poi, assicurandosi che nessuno ascoltasse. I
corridoi avevano le pareti giallognole per il tempo, c'erano studenti
seduti a terra, le finestre erano alte con i vetri impolverati e
strisciati dal passaggio degli stracci bagnati che usavano per
pulirli. Diversi
ragazzi e ragazze le passarono vicino per salutarla e lei
alzò
d'istinto il braccio sinistro, così tutto le cadde sui
piedi.
«Oh
no, rimandiamo», chiosò Lena dall'altra parte
della telefonata,
uscendo anche lei dalla sua aula. Aveva la valigetta tenuta salda con
la mano destra, posa composta, si muoveva elegante per i corridoi
puliti
dell'università col suo completo scuro composto da camicia,
giacca,
pantaloni stretti e scarpe alte ai piedi. I capelli erano legati in
un alto e stretto chignon. «Devo poterti toccare. A
fondo»,
arrossì impercettibilmente,
mordendosi
un labbro, cercando di mantenere contegno. Si fermò davanti
al
rubinetto dell'acqua e bevve un sorso, riprendendo il cellulare che
aveva appoggiato sul dorso della valigetta, ascoltando il respiro
mozzo dell'altra. Le
pareti erano su un bianco panna, con alcuni decori sopra il
battiscopa; i pavimenti tanto puliti che ci si poteva specchiare e le
finestre strette, con i vetri trasparenti. Lena salutò
un professore che le fece la mano e un'impacciata ragazzina a cui
faceva da tutor, che usciva da un'aula e che,
dopo
averle risposto con un debole sorriso,
scappò via.
Udì
Kara ridacchiare con palese nervosismo e le sembrò come di
vederla.
«E
se ci vedessimo questa sera? Do-Dovrei studiare, in effetti,
ma…».
«Non
vedi l'ora che ti possa toccare?». Lo sapeva che Kara doveva
essere
in imbarazzo, ma le era mancato poterla stuzzicare un po'. Riprese a
camminare, salutando ogni tanto qualcuno con il solo movimento degli
occhi e del capo, così si chiuse in ascensore.
«Cos-No…
Cioè, forse… sì»,
la sentì prendere una pausa e Lena arrossì,
ascoltando il suo
respiro attraverso il cellulare. «Sì.
N-Non vedo l'ora che possiamo toccarci. C'è qualcosa di male
in
questo?!».
«Assolutamente
no», sorrise uscendo dall'ascensore, avvicinandosi in
silenzio alle
porte della biblioteca. «Anch'io non vedo l'ora».
Kara
si fermò a pochi passi dalla portone spalancato
dell'edificio,
salutando con gesti muti e sorrisi altri studenti e studentesse, tra
cui una ragazza che si fece dare il cinque.
«Disgraziatamente,
questa sera tua madre e Marielle hanno intenzione di vedersi Netflix
quando la prima torna dalla Luthor Corp. Hanno una specie di
appuntamento»,
la sentì dire con sconforto e Kara sospirò,
facendo grosse le
guance.
Si
salutarono, staccando la chiamata. Kara uscì
dall'università e Lena
si rifugiò in biblioteca, dove regnava un tombale silenzio.
Non
potevano crederci che fosse tanto difficile. Via gli impegni, ma
erano ben consapevoli che se non avessero dovuto mantenere segreta la
loro relazione sarebbe stato un poco più semplice vedersi
per stare
insieme.
Da
Me a L!
Lunedì
non riesco, martedì 12? No impegni, ciclo passato, tu? Trova
una
scusa per allontanare Marielle da casa!
Spense
il monitor del cellulare, lasciando l'ascensore e passando attraverso
le scrivanie lì alla CatCo. Si tolse la giacca e la
segretaria della
signora Grant la salutò con un ampio sorriso. Vide che
l'ufficio di
Cat Grant era vuoto, allora capì che aveva tanto da
sorridere.
Da
Me a Vaniglia
E
mercoledì? Ho appena saputo da Marielle che non
lavorerà, mia madre
le ha detto di stare a casa perché lei ed Eliza staranno
fuori tutto
il giorno. In verità, pensavo di andare a Metropolis a
trovare Lex,
ma rimando di un giorno, così abbiamo il tempo per noi. Cosa
ne
pensi, vaniglia?
Lena
inviò, sorridendo con le guance arrossate. Poi spense il
monitor e
guardò fuori dalla finestra per un momento, prima di tornare
sul
libro e accoccolarsi meglio su quel divanetto.
Da
Vaniglia a Me
Mercoledì
13! È fatta, ci siamo riuscite. Non vedo l'ora, ma non
chiamarmi
così.
Ce
l'avevano fatta e Lena ringraziava che Marielle le avesse dato
quell'informazione importante non appena le chiese delle sue giornate
di lavoro, non capendo perché sua madre non gliene avesse
parlato.
Doveva sempre dire tutto all'ultimo momento. Aveva chiamato suo
fratello e gli aveva detto che si sarebbero visti il giorno dopo e si
era tenuta ben lontana da altri tipo di impegni. Non vedeva l'ora
veramente. Una parte di lei era convinta di aver sempre nutrito
interesse per Kara, ma solo ora riusciva a rendersene conto. La loro
relazione era un rischio ma non voleva pensarci, solo lasciarsi
trasportare, per una volta, verso qualcosa che la rendeva davvero
felice.
Entrambe
contavano i giorni che separavano l'evento, preparandosi come meglio
credevano.
«Cosa
dovrei indossare?», Kara chiese a Megan, distratta dalla
lettura di
un libro. «Allora?». Avrebbe chiesto ad Alex e
odiava non poterlo
fare.
Lei
alzò gli occhi con fare seccato e poi la degnò di
attenzione,
spostando il libro. «Non metterti nulla. Tanto quanto vuoi
che te lo
veda».
Kara
sbuffò. «Non parlo dell'intimo, so già
cosa indossare. Intendevo
se un vestito, una gonna o un pantalone».
Lei
ridacchiò. «Vale la mia precedente
risposta».
«Megan!
Ho bisogno di aiuto».
Così
fu lei a sbuffare, rimettendo di nuovo da parte il suo libro.
«Allora… qualcosa di facile da strappare di
dosso».
E
quando il tanto atteso giorno arrivò, fu un sospiro di
sollievo. O
quasi.
«E
i capelli? Raccolti o sulle spalle?».
«Tanto
si spettineranno comunque».
«Scarpe
alte o basse?».
«Basse.
Così non rischi di cadere durante la passione. E non
chiuderti in
bagno due ore per depilarti, devo uscire anch'io».
A
Kara mancavano decisamente troppo i consigli di Alex.
Per
non perdere tempo prezioso, Lena andò a prenderla e le
mandò un
messaggio quando si trovava in auto fuori dal cancello del campus
universitario. Kara era un concentrato di ansia e adrenalina. Aveva
prurito ovunque e le faceva male lo stomaco dal nervoso. Quando vide
Lena però, entrando in macchina, tutto ciò a cui
pensava era che
finalmente lei era sua. Si scambiarono un sorriso e un bacio, poi
partirono verso villa Luthor-Danvers.
«I
ragazzi hanno perso lunedì alla partita. Mike era molto
deluso del
risultato e credo terrà il broncio per un po', ancora non
gli è
passata… Anche noi avremo la partita a fine mese, saremo
contro
quelle di Metropolis. Verrai a vedermi?».
«Non
mancherò».
«Ci
sarà anche Alex, non potremo replicare il festeggiamento
della
possibile vittoria», rise Kara, intanto che il cancello si
apriva e
la macchina entrava. C'erano quasi. Sentiva la pressione salire,
caldo verso il basso ventre.
Lena
fermò l'automobile in garage e rimise le chiavi in borsa,
guardando
Kara. Le porse una mano e lei gliela strinse, così si
lasciarono
andare a un bacio, e a un altro, a un altro, tirandosi indietro i
capelli a vicenda, sorridendosi complici. Mano nella mano, entrarono
dalla porta che portava nella biblioteca e Lena stava per chiederle
se era sicura di farlo, se non fosse che, una volta chiusa la porta,
Kara la spinse contro il muro per baciarla ancora.
«Va
bene, tigre», si era morsa il labbro inferiore, guardandola
dal
basso verso l'alto, «In camera mia. Adesso». Finse
di morderle una
guancia e Kara rise. Si baciarono e salirono di sopra. Veloci, sempre
vicine, ad ogni passo un altro bacio, un'altra carezza, un'altra
risata. Aprirono la porta, ma qualcosa…
«Aspetta»,
Kara la fermò, tirandole la mano. «Ho sentito un
rumore».
Si
guardarono e deglutirono, tendendo le orecchie e lasciando la porta
aperta. E così scoprirono presto, tra mugolii e porte che
sbattevano, perché Lillian Luthor non aveva detto alla
figlia che
Marielle quel giorno non lavorava: anche lei ed Eliza avevano avuto
in mente un appuntamento. Un appuntamento proprio come il loro.
Si
guardarono ancora e spalancarono gli occhi, chiudendo la porta piano
per non farsi sentire. Si fermarono e, ascoltando passi spericolati
per le scale, risate e voci strozzate, fecero facce disgustate,
allontanandosi dalla porta.
«Lena…
tu mi… mi insegneresti a giocare a scacchi?».
Il
silenziò le involse ancora, interrotto solo dalle voci delle
due
donne.
«Assolutamente.
E ti dispiace se metto un po' di musica?».
Kara
annuì convinta, mentre Alex, che aveva aumentato il volume
del
trasmettitore non appena sentì che la microspia aveva
rilevato le
loro voci, cercò di captare il motivo per cui le due avevano
iniziato a sembrare tanto agitate.
«Ma
cos'è… ?», cercò di isolare
il rumore in sottofondo e poi, pian
piano, spalancò gli occhi. «Oh… OH.
Mio Dio». Spense con
disgusto e si allontanò, bloccando e cancellando la
registrazione.
Era
tutto saltato. Di certo la loro passione era venuta a mancare nel
sentire le loro madri fare ciò che avrebbero voluto fare
loro, quel
pomeriggio. In compenso si erano fatte una bella chiacchierata e Kara
aveva avuto modo di imparare alcuni segreti del gioco di scacchi.
Quell'occasione
mancata, tuttavia, aveva reso Lena di nuovo pensierosa. Kara la
rendeva davvero felice e voleva seguire il suo cuore con lei, ma era
pur vero che il futuro al suo fianco era incerto. Non avrebbero
potuto nascondere alle loro madri la loro relazione per sempre, e
forse era presto per pensarlo, erano ancora agli albori di una vera
relazione, ma stavano bene insieme e credeva di amarla. Da una cosa
del genere era difficile sfuggire. Era la seconda volta che si
innamorava e la prima volta, riconosceva, non era paragonabile. Jack
era l'amore della sua vita e aveva davvero pensato di sposarlo un
tempo, ma non le aveva mai dato le stesse sensazioni che le dava
Kara, seppure la conoscesse da molto meno. E non voleva pensare che
fosse tutto frutto del rapporto clandestino che stavano vivendo,
perché era come averla conosciuta da sempre e allo stesso
tempo
conoscerla un giorno alla volta. Se avesse dovuto spiegarlo, non ci
sarebbe riuscita. Non doveva dimenticare quanto e in che dosi,
Lillian e Lionel erano coinvolti nell'omicidio dei genitori di Kara.
E il fatto che non riuscisse a dirglielo; temeva la reazione di Kara
ed era stata dura ammetterlo a se stessa. Adesso tra loro andava
tutto bene e saperlo avrebbe potuto distruggere la loro nuova
famiglia, oltre che mettere in possibile pericolo Lillian, conoscendo
l'imprevedibilità dell'altra.
Sbuffò,
all'interno di quello spazioso vano della metro che l'avrebbe portata
a Metropolis di lì a poco. Tanto presa dai suoi pensieri, di
essersi
per un attimo dimenticata di essere in videochiamata con Lex.
«Qualcosa
ti turba, sorellina?»,
lo sentì, riportandola alla realtà.
«Qualcosa…
Forse».
«Puoi
parlarmene, se vuoi. A breve sarai qui, ne potremo discutere davanti
a un bicchiere».
«Mh…
perché no?», emise abbozzando un sorriso. Suo
fratello era sempre
stato un ottimo ascoltatore. «Mi vedo con qualcuno dopo tanto
tempo».
«Ah,
capisco. Ci vorrà proprio quel bicchiere».
D'altra
parte, anche Kara ebbe modo di pensarci. Per poco Eliza e Lillian non
le sorprendevano, o loro sorprendevano le loro madri, insomma, che
situazione imbarazzante. Proprio per via di quello che era successo,
si rese conto che lei e Lena stavano davvero facendo sul serio.
«Forse
è il destino… se io e questa persona siamo state
interrotte»,
brontolò davanti al cellulare, in vivavoce. Aveva un libro
aperto
vicino, doveva studiare, ma era troppo distratta per farlo.
«Se
il destino ha permesso che vi incontraste,
perché ora dovrebbe opporvi di stare insieme?»,
emise a bassa voce Winn, e Kara sbuffò.
«Avevamo
programmato tutto, sai, ultimamente ci viene difficile vederci e da
sol-sole, sì, i-io e questa persona… e
ora…».
«Allora
rimboccati le maniche e crea tu un'occasione per farvi stare da soli.
Magari non riuscite a-, sai, hai capito, ma potete passare un po' di
tempo assieme».
«Intendi
un appuntamento?».
«Sì.
Sì, sì, un appuntamento va bene»,
lo sentì ridacchiare. «E
nel caso il destino si metta di nuovo in mezzo, puoi chiamare me e
sì, potremmo uscire noi due, farti compagnia».
Senza
perder tempo, Kara si alzò e prese il tablet lasciato sul
letto
della compagna di stanza, accedendo a Google.
«Fare qualcosa di carino, ma anche divertente».
«Sì,
è una buona idea. Chiaramente molti uomini tendono a gusti
stereotipati. Che ne so, gare automobilistiche, mentre io»,
si lasciò andare a un'altra breve risata, che sapeva tanto
di
isterico, «io
sono diverso dagli altri uomini; mi piacerebbe andare al museo, per
dirne
una».
Non ricevendo risposta, lui proseguì. «T-Tu,
Kara, sei più tipa da uomini a cui piacciono le gare
automobilistiche o quelli a cui piacciono i musei?».
Lei
sorrise, poggiò il tablet sulla scrivania e si rivolse al
cellulare
con fare entusiasta: «Ho trovato! Grazie mille per i
consigli, Winn,
sei l'amico migliore che una donna possa desiderare».
«Ah…
Ma certo, figurati».
Lei
staccò la chiamata, pronta per proporre a Lena di uscire.
Disgraziatamente lei aveva dovuto rifiutare: l'indomani avrebbe avuto
una cena molto importante con sua madre e altri personaggi di spicco
a National City, così Kara l'ammonì di tenersi
libera per la sera
dopo. Non le aveva detto dove sarebbero andate, quella sarebbe stata
una sorpresa.
Perché
avevano deciso di dare una pausa alle loro indagini, forse Kara non
aveva detto a Lena di tenere d'occhio le persone con cui si sarebbe
vista a cena, ma Lena era allo stesso modo intenzionata a farlo. A
quella cena avrebbero partecipato ricchi, militari, politici e il
sindaco. Nondimeno, sapeva che erano stati invitati i Gand in
compagnia del loro unico figlio.
In
sala d'attesa del ristorante, Lillian e Lena li avevano visti,
attraverso una finestra, uscire insieme dalla macchina che era stata
affidata al parcheggiatore.
«Come
mai Eliza non è con noi?», domandò a
sua madre a fior di labbra.
«Ho
insistito ma non è voluta venire, ha detto che cene di
questo tipo
non sono fatte
per
lei», sbuffò seccata la donna. «Anch'io
avrei voluto averla qui;
non credere che impazzisca dalla voglia di- oh,
salve!!»,
il suo viso cambiò espressione di colpo non appena una
coppia si
avvicinò per salutarle. Un bacio distante alla guancia
sinistra, un
altro bacio distante alla destra. «Lena», le fece
cenno e la
ragazza si sforzò di sorridere, salutando quella donna allo
stesso
modo, che le fece notare quanto fosse cresciuta dall'ultima volta che
la vide, e dopo il marito. La coppia si allontanò e Lillian
guardò
la figlia alzando gli occhi al cielo. «Ci conviene seguirli e
andarci a sedere, prima che arrivino i Gand».
Sfortunatamente,
quando tutti gli invitati cominciarono a prendere posto a sedere sul
lungo tavolo in quella sala del ristorante adibita solo per loro, le
Luthor si ritrovarono i Gand proprio davanti. Mike sorrise subito a
Lena, salutandola una seconda volta, chiedendole come stava Kara. La
ragazza sospirò, capendo fin da subito che la cena sarebbe
stata
lunga.
«Lillian».
Il generale Lane si accostò per salutarla con affetto. La
donna si
alzò stringendogli la mano e lo baciò distante a
destra e poi a
sinistra. «È un piacere avervi qui; Rhea diceva
che ve la sareste
svignata, questa volta».
La
donna lanciò un'occhiataccia all'altra, che per tutta
risposta alzò
il calice con il vino e sorrise. «Non ci saremmo sognate di
mancare,
che sciocchezze», rise con eleganza, con una mano a coprirle
la
bocca.
Poi
l'uomo salutò anche Lena, che si era già alzata
dalla sedia. «Sono
contento di rivederla, signorina Luthor. Suo fratello… non
si fa
vedere da un po'. Come gli stanno andando le cose a
Metropolis?».
«Bene,
generale. Sta lavorando duramente».
«È
proprio da lui», annuì l'uomo, «Ha preso
da suo padre. Mi spiace
che non sia qui con noi. Per fortuna, pur non avendo avuto un
maschio, ho anch'io una figlia che segue le mie orme».
«Come
sta la sottotenente Lane?».
«Tenente.
Si fa strada in fretta», gonfiò la pancia pieno
d'orgoglio come un
uccellino, poi andò a sedersi a fianco del sindaco, che
chiese a
tutti di prendere posto, versandosi da bere.
Politica,
ma soprattutto gossip sui politici, erano l'argomento che andava
maggiormente e correva lungo il tavolo dei personaggi presenti. La
famiglia era il secondo argomento e il generale Samuel Lane non
faceva che riempirsi la bocca di belle parole per la sua
secondogenita Lucy. Quando il sindaco gli domandò come
stesse Lois,
invece, lui mostrò una smorfia di disapprovazione,
mugugnando che la
figlia stava ancora appresso al Daily Planet e che non si parlavano
da tempo. La sua era una famiglia di militari, anche Lena sapeva bene
quanto l'uomo non approvasse la carriera perseguita dalla
primogenita. Né il suo fidanzato, se non ricordava male.
«A
proposito di famiglia». Maxwell Lord, non troppo distante dai
Gand,
si voltò verso di loro con un sorriso, tagliando la sua
fetta di
carne con olive nere e verdura. «Non posso fare a meno di
chiedermi
come mai non siate venute accompagnate da tutta la nuova famiglia. Ci
avrebbe fatto piacere averle tra noi».
Molti
concordarono, a parte i coniugi Gand, che fecero finta di non sentire
parlottando tra loro a bassa voce, mentre Mike annuiva a bocca piena.
«Altri
impegni hanno richiesto la loro attenzione, questa sera»,
rispose
Lillian, riempendosi un bicchiere.
Lui
sorrise. «Sarà per un'altra volta,
immagino». Mangiò un boccone e
proseguì, non soddisfatto. «Alex
Danvers… Ammetto che mi sarebbe
piaciuto rivederla e speravo della sua presenza, qui».
Qualcuno gli
chiese chi fosse e lui sorrise come se gli avesse fatto un piacere,
nel chiederglielo. «La più bella ragazza del
mondo», rispose con
semplicità, lanciando un'occhiata alle Luthor. «Ha
rubato il mio
cuore».
Molti
risero a quelle affermazioni, non mancando tuttavia di appoggiarlo
come dei vecchi amici di scuola. Altri ricordarono il suo nome per
averlo letto nei giornali. Al suo fianco destro, qualcuno gli
batté
una pacca sulle spalle.
«Alex
Danvers è fidanzata», rimbeccò Lena e
Lillian la guardò di
straforo.
«Cosa
vuole che le dica, signorina Luthor: aspetterò».
«Ed
è gay», sorrise e udì la bassa voce di
Lillian dirle di lasciar
perdere.
Lui
ansimò e strinse le labbra, ma un sorriso gli
spuntò poco dopo. «E
anche qui, signorina Luthor: aspettiamo. Mai sentito parlare di
sessualità fluida?».
«È
qualcuno che non demorde, signor Lord».
«Sono
un inguaribile ottimista. E ottengo sempre quello che
voglio».
Qualcuno
rise e si riempirono altri bicchieri, altre chiacchiere, mentre i due
continuavano a scrutarsi come se non avessero concluso la loro sfida.
Ma Lena non era la sola; anche Lillian lo scorgeva spesso e
volentieri, non riuscendo a fare a meno di nascondere il disprezzo
che provava per lui. A un certo punto, dal suo posto da capotavola,
il sindaco si alzò in piedi e propose un brindisi in memoria
del suo
vecchio amico venuto a mancare: Lionel Luthor. Lillian e Lena furono
le prime ad alzarsi in piedi e poi tutti seguirono, con i bicchieri
pieni in alto. Lena non poté fare a meno di pensare che
l'assassino
di suo padre era lì, tra loro, bevendo in suo ricordo.
Inquadrò i
visi di chi riusciva, cercando di captare qualcosa, ma sembravano
tutti desolati, ipocriti doppiogiochisti. Conosceva molte di quelle
persone da sempre, molte di loro facevano parte della sua vita da
quando era stata adottata, e ora le facevano venire il mal di
stomaco: suo padre, i genitori biologici di Kara e chissà
chi altro
era passato sotto di loro. Facevano la bella vita sulla pelle degli
altri. Ma non sapeva chi era coinvolto e chi era innocente e mangiare
tra loro era rivoltante solo a metà, finché non
avesse saputo la
verità. Adocchiò sua madre, quando tornarono a
sedere e tutti si
misero a parlare di suo padre: lei sapeva la verità, ma non
poteva
chiederle di dirglielo perché se avesse voluto che lo
sapesse,
gliene avrebbe già parlato. E il rischio che le imponesse di
mettersi da parte era troppo alto.
Vide
il senatore Gand parlare di Lionel con il suo vicino a destra e
ingoiò un boccone, decidendo di provare a testare qualche
reazione.
«Posso chiederle, senatore Gand», attirò
la sua attenzione e posò
la forchetta, «se era molto amico di mio padre? Sto cercando
di
rimettere insieme alcuni pezzi della sua vita e non riesco proprio a
inquadrare il vostro rapporto». Sentì Lillian
respirarle addosso ma
cercò di ignorarla.
«Sì.
Sì, certo», sorrise lui con fare comprensibile,
intanto che tutti
parlavano di altro e nessuno badava a loro, a parte Rhea Gand e
Lillian, che non sembravano affatto entusiaste di quella domanda.
«Suo padre ed io ci conoscevamo da molti anni, era un caro
amico…
Sono stato molto male quando… quando è
successo», bevve un sorso
di vino e Lena non gli tolse occhio di dosso un attimo.
«Siamo
andati a cavallo insieme e abbiamo giocato a golf. Lui era molto
bravo a golf».
«Sì,
so che andava a giocare a golf… Da molti anni, ha detto:
dieci anni
fa, ad esempio, eravate già in ottimi rapporti,
amici…?».
«Lena».
Sua madre le lanciò un'occhiataccia, sibilandole di
smetterla, ma
l'uomo rispose:
«Sì.
In quel periodo ancora non ero senatore, chiaramente, mi facevo
strada a piccoli passi nel mondo politico, mi ha dato una mano
qualche volta. Ci eravamo conosciuti a una cena come questa; si parla
ormai di molti anni fa».
Rhea
si versò da bere, carezzò il braccio sinistro del
marito e si mise
in mezzo, attirando l'attenzione anche del figlio seduto al suo
fianco, che ancora masticava. «Cerca qualcosa in particolare,
signorina Luthor? Anch'io ero molto amica di suo padre e potrei
aiutarla a fare chiarezza, se desidera».
Le
due si scambiarono un silenzioso sguardo, lasciando in attesa il
senatore e suo figlio, Lillian che aveva stretto un braccio di sua
figlia per farla smettere e uno spettatore interessato: Maxwell Lord.
A
quel punto, Lillian si propose in mezzo, con tutta l'intenzione di
dare una fine a quella discussione. «Le manca suo padre,
com'è
naturale pensare. Manca a tutti».
Maxwell
Lord alzò di nuovo il suo bicchiere e ascoltando il suo A
Lionel,
allora tanti altri seguirono il gesto, di nuovo, bevendo in suo
ricordo.
Lena
e sua madre si guardarono appena. Sapeva che la donna era arrabbiata,
ma non poteva perdere un'occasione come quella che si era presentata
restando zitta.
«Lena»,
Mike attirò la sua attenzione e finalmente poté
scrollarsi di dosso
il pesante sguardo adirato di sua madre. «Posso darti del tu,
vero?». La ragazza annuì, così
proseguì: «Kara ed io stiamo
avendo un po' di problemi, ultimamente…».
Lena
vide Rhea Gand ingigantire gli occhi, continuando il suo pasto, ma
non ci diede peso.
«Ci
siamo un po' allontanati mentre voi siete così vicine e mi
chiedevo
se potessi aiutarmi a riconquistarla, se avessi un consiglio, magari.
Accetto qualsiasi cosa, a questo punto».
Le
sorrise e Lena non riuscì a trattenersi dal sorridere anche
lei,
seppure per un'altra ragione. Giocò con il gambo di un
bicchiere,
poi lo afferrò e bevve un sorso, continuando a fissare il
giovane.
«Oh, in verità non so se Kara è ancora
disponibile».
Il
sorriso sul viso di lui si attenuò fino a sparire e
aggrottò le
sopracciglia.
«Kara
è impegnata?», strabuzzò gli occhi
Lillian.
Chi
sembrava aver ritrovato la felicità era Rhea Gand.
«Beh, è
normale. È praticamente ora di mettere su famiglia, se ne
sarà
accorta anche lei».
Invece,
Mike era ancora sconcertato. «È
impossibile».
«Affatto»,
lo rimproverò sua madre. «Avrà
finalmente compreso che non era la
ragazza giusta per te e si starà vedendo con qualche ragazzo
più…
adatto.
Alla
sua portata, intendo. Sarà
giunto il momento che anche tu ti decida a fare sul serio con
qualcuna più al tuo livello». Accennò a
Lena e lei spalancò gli
occhi, colta da un momento di terrore.
Più
tardi, una volta tornata a casa, si chiuse fuori, temendo che
Lillian, ancora in piedi in giro per casa, potesse ascoltare la sua
conversazione al telefono con Kara. «Rhea Gand pensa che suo
figlio
ed io saremmo una bella coppia».
«Cos'ha
detto?!».
«Ha
cercato di sottrarci un appuntamento. Fortunatamente, o
sfortunatamente che sia, Mike ha insistito per smetterla
perché è
innamorato di te».
«…
ah».
«E…
io potrei avergli detto che ti vedi con qualcuno».
Kara
rise. «Hai
fatto bene, è la verità. E per domani non hai
preso programmi,
vero?».
«Sì
che ne ho preso: con te».
La
sentì ridere di nuovo e si diedero la buonanotte, ma Lena
non tornò
ancora dentro. Alzò gli occhi alla luna, ricordando una
scena
curiosa avvenuta dopo il dolce, quando sua madre era nei bagni da
troppo tempo ed era andata a cercarla, ritrovandola a confabulare con
Rhea Gand. Erano entrambe tese, litigavano, pur senza urlare. Si era
avvicinata alla porta del bagno già socchiusa, cercando di
catturare
il perché di tanta agitazione.
«Non
devi permetterti, non devi permetterti assolutamente», aveva
ringhiato sua madre a bassa voce. «Io penso alla mia
famiglia, tu
pensa alla tua».
«Se
fossi capace di pensare alla tua famiglia, mia cara, non ci
troveremmo a questo punto».
Poi
avevano notato lei dietro la porta e Lillian era uscita di corsa e
stretto un polso di Lena, guardato Rhea Gand con odio e l'aveva
trascinata via. Aveva salutato tutti ed erano uscite, aspettando
l'arrivo di Ferdinand con l'auto nera.
«Hai
detto qualcosa a Kara?», le aveva domandato intanto che erano
in
attesa, senza guardarla.
«No».
«Deve
stare lontana dai Gand. Ci siamo capite?».
«Sono
stati loro, non è vero? A uc-».
«Stai
zitta»,
aveva sibilato a denti stretti, guardandosi intorno. «Pensi
di
sapere e puntualmente non sai nulla. Sono stati loro e non è
stato
nessuno di loro, Lena. Ha davvero importanza? Deve stare lontano da
loro e devi farlo anche tu; togliti dalla testa le parole di quella
donna: voi a quel ragazzo non vi dovete avvicinare. Lasciate perdere
il passato e guardate al futuro». Aveva cercato di sorridere
e dopo,
per fortuna, era arrivato Ferdinand a interrompere quel momento.
Erano
stati loro? Non aveva prove di alcun tipo per accusarli ma
concordò
con Lillian: Kara doveva stare lontana dai Gand.
«Keiraaa».
Non aveva ancora ben chiaro cosa avesse fatto a Siobhan Smythe per
meritare il suo disprezzo, ma alcune volte era davvero insopportabile
e da quando aveva cominciato, per dispetto, a chiamala come faceva la
signora Grant, era perfino peggio e la sua riserva di pazienza stava
avendo la peggio. «Keira, devi farmi questo».
«Keira,
ho bisogno di te».
«Keira,
hai finito? No? Sbrigati».
«Keira?
Dove ti eri cacciata?».
«Keira?
Keira!».
Aveva
la sua voce nelle orecchie e andò a rifugiarsi in bagno con
la scusa
di stare poco bene per non sentirla cinque minuti di seguito.
Girò a
destra e poi sinistra, destra e sinistra, infine si fermò al
centro
del bagno e, stringendo i pugni, urlò, scaricando lo stress.
Un
altro pomeriggio come quello e sarebbe scappata. Ma forse era
ciò
che voleva Siobhan. Allora no: avrebbe ingoiato il rospo e le avrebbe
fatto vedere con chi aveva a che fare, perché Supergirl non
era mai
stata qualcuna che si arrendeva.
Uscì
dal bagno con una luce di fierezza negli occhi, si sistemò
gli
occhiali e percorse il corridoio a testa alta, rientrando in sala e
sopportando la sua petulante voce che la chiamava.
«Ti
fa correre da una parte all'altra come se fossi il suo dannato
cagnolino», Leslie Willis rise, avvicinandosi a lei intanto
che
poggiava dei fogli e una tazzina di caffè fumante sulla
scrivania di
Siobhan. «Ho capito che ti serve questo lavoro, cucciolo, ma
ricordati di non lasciare la dignità a casa».
Leslie
Willis non le parlava molto e quando lo faceva si limitava a
prenderla in giro, eppure per una volta sembrò aiutarla.
«…
Grazie? In realtà credo voglia farmi crollare. O impazzire.
O
entrambe le cose. Le dimostro che non mi spezzerà con
così poco».
La
donna la guardò da capo a piedi rapidamente e si
lasciò andare a
una breve risata. «Come ti pare, ma non confidarti con me:
solo
perché ti ho rivolto la parola, ora non ci metteremmo a
farci le
treccine a vicenda».
Si
allontanò in tempo perché Siobhan, distante, le
urlasse di andare a
recuperare i documenti da un ragazzo che si era piantonato in mezzo
alle scrivanie in attesa di sapere cosa fare. Siobhan Smythe la tenne
d'occhio, sorseggiando il caffè, mentre lei rideva e
scherzava con
l'impacciato ragazzo dei documenti. Le sorrideva, eccome se le
sorrideva, e come arrossiva. «Keira! Entro oggi,
magari?». La vide
scusarsi, prendere i documenti e risistemarsi gli occhiali sul naso,
così i due si salutarono.
«Ehi»,
la calda voce familiare di Lena la portò a sorridere
d'istinto,
alzando lo sguardo. «Disturbo?».
Kara
alzò le braccia felice e spalancò la bocca dalla
sorpresa quando la
ragazza le passò una tazza da viaggio fredda. Si era appena
seduta
ed era talmente stanca che non riusciva a concentrarsi: la visione di
lei che le portava qualcosa da mettere sotto i denti la
risollevò
totalmente. «Frullato? Oh, Lena, io ti- voglio
bene», sorrise.
«Cosa fai qui?».
«Mi
trovavo qui in giro e così ho pensato di ricambiare il
favore».
Kara
non aveva perso tempo e cominciò a bere come se stesse per
morire.
Era a metà tazza quando si passò la lingua sulle
labbra e la
ringraziò del gesto.
Inchinata,
Lena allungò una mano verso di lei e le passò un
dito sul labbro
superiore sporco di vaniglia, poi se lo portò alle sue e
Kara
deglutì. «Fa caldo qui dentro, non è
vero?».
«Già».
«Cosa
fai?».
Si
lasciò distrarre, guardando superficialmente i fogli che
aveva
davanti. «Rileggo un pezzo scritto da Siobhan: vuole che lo
riveda
per assicurarmi che non ci siano errori di battitura o solo che mi
tenga impegnata», scrollò le spalle, riprendendo
il suo frullato.
Lena
si alzò, annuendo. «Va bene, non voglio prenderti
altro tempo.
Passo solo a salutare un'amica e ripasso prima di andare».
Kara
la vide allontanarsi e così, dietro di lei, comparire lo
sguardo
perplesso di Siobhan. Finì il suo frullato e si rimise
mestamente a
lavoro, ignorandola.
Leslie
Willis, seduta sulla scrivania trafficando con il computer, sorrise
nel vedere Lena arrivare in sua direzione. «Guarda guarda chi
scende
da palazzo per venire a trovare gli umili servi»,
ridacchiò con la
penna in bocca e se la tolse per parlare di nuovo: «Mi
perdonerà
sua maestà, ma mi pesa troppo il culo alzarmi e inchinarmi
adesso».
Lena
scosse la testa e alzò gli occhi al soffitto, sedendo su una
sedia
vuota accanto, avvicinandosi. «Volevo rispondere alla tua
ultima
email; passavo di qui e ho pensato di farlo di persona».
«L'ultima
email non è di ieri, potevi rispondermi prima ma non lo hai
fatto
perché sapevi che saresti passata a dare la pappa al
cucciolo»,
sorrise, inquadrando Kara a metri da loro, dietro ad altre scrivanie.
«Non cercare di farmi fessa, dolcezza».
Lena
sorrise a sua volta, abbassando la testa. «A volte tendo
ancora a
sottovalutare il tuo intuito».
«È
adorabile», le disse, giocherellando con la penna.
«Sta leccando la
tazza?». Restarono a fissarla un momento: dopo aver cercato
di
catturare fino all'ultima goccia, Kara aveva aperto il tappo, ci
aveva passato prima un dito e poi la lingua, guardandosi intorno per
vedere che nessuno la stesse osservando.
«Già».
Leslie
fece una smorfia con le labbra, annuendo. «La
terrò d'occhio,
comunque», si fece seria, voltandosi a Lena un solo attimo.
«È per
questo che hai deciso di fare pausa, no? È questa la tua
risposta
all'email».
Lena
sorrise. «Non ti sfugge niente», prese una pausa.
«Sì. Più vado
a fondo della questione e più mi rendo conto di quanto siano
collegati la morte di mio padre e ciò che è
successo alla sua
famiglia d'origine e… voglio andarci cauta. Prendermi il
giusto
tempo. Pensarci bene passo dopo passo».
Leslie
annuì di nuovo, con convinzione. Non staccarono gli occhi da
Kara,
che videro alzarsi d'improvviso sulla sua postazione e andare
incontro a un ragazzo. James Olsen l'aveva abbracciata e si erano
scambiati degli sguardi, mentre ridevano.
«Oh,
lui ha una cotta per lei», le fece notare Leslie, adocchiando
Lena.
«Lo
so».
«Mh»,
sorrise, «Guardalo come fa il tenerone»,
commentò ancora,
vedendolo grattarsi la nuca e guardare evasivo intorno. «Che
bambinone. Pensavo che Mister Scultura Greca fosse qui per le foto
promesse a Cat Grant, ma guardandolo ora penso avesse altri piani in
mente», rise e guardò di nuovo Lena.
«Neanche un po' di gelosia,
principessa?».
Lei
sussultò, arricciando il naso. «Cosa?».
Le bastò un'occhiata di
Leslie per ammetterlo: erano state scoperte. Sospirò.
«Sì… Non
farne parola con nessuno; mia madre andrebbe di matto».
Rise
di gusto, lasciando la penna sulla scrivania e appoggiandosi schiena
contro la sedia, di peso. «Oh, amo le storie d'amore segrete!
In
fondo, sono una romanticona anch'io».
«E
così sei qua per delle foto», esclamò
Kara, indicandogli la
cartellina color seppia che aveva stretta sotto un braccio.
«Sì»,
le sorrise, mal nascondendo imbarazzo. «Solitamente le mie
foto
finiscono al Daily Planet di Metropolis, ma lavoro come freelance e
così… Non vedevo l'ora di venire a trovarti,
però. Abbiamo dovuto
rimandare e…», si grattò di nuovo la
nuca, «sarò qui a National
City fino a tarda sera, se ti va di uscire a bere qualcosa».
Kara
non riuscì a trattenere una smorfia e lui precisò
che sarebbe stato
tra amici. «Non è quello, ma proprio questa sera
sarò impegnata e…
Mi spiace, per una volta che riuscivamo a vederci».
«Ho
scelto un giorno sfortunato, non ci pensare».
Lena
e Leslie Willis non erano le uniche a osservare Kara e James Olsen
chiacchierare: Siobhan Smythe ne era estremamente incuriosita. Il
ragazzo sparì per poco nell'ufficio di Cat Grant e quando
uscì non
aveva più la cartellina con sé, ma un tenue
sorriso. Si avvicinò a
Kara e la salutò con un altro abbraccio e una promessa di
rivedersi
per quell'uscita mancata, così si lasciarono. James la
guardò a
lungo prima di sparire in ascensore.
Siobhan
manteneva ancora un'aria perplessa, non credendo ai suoi occhi: ma
cosa faceva quella Kara Danvers alle persone? Era la sua aria da
bambina delle scuole medie ad attrarli o che altro? Il ragazzo dei
documenti sembrava sul punto di chiederle di uscire, Lena Luthor poi,
che peraltro era la sua sorellastra, sembrava volesse mangiarsela
insieme al contenuto della tazza, e perfino il fotografo palestrato
le sbavava addosso. Doveva vederci chiaro: via al metodo scientifico.
Camminò pestando i tacchi sul pavimento con fretta fino a
Kara e non
le lasciò il tempo di dire nulla: la strinse per una spalla
e si
protese verso di lei, premendo con foga le proprie labbra sulle sue.
La lasciò solo dopo qualche istante, riaprendo gli occhi che
aveva
chiuso e passandosi il mignolo destro per togliere le sbavature del
rossetto. «Umh, non male, ma troppo dolce».
Kara
restò immobile, occhi ancora sgranati dalla sorpresa.
Leslie
Willis rise e batté le mani. Poi guardò Lena:
«Un po' gelosa,
ora?».
Il
bacio di Siobhan era diventato l'argomento principale da quando si
videro di nuovo, quella sera. Lena si fece trovare al campus
universitario di Kara come suggerito e, prima di uscire insieme, si
cambiò infilando qualcosa di caldo e si truccò
con rossetto nero,
matita nera intorno agli occhi e mascara pesante, perché se
aveva
funzionato per passare inosservata per le vie di National City quando
lo scandalo alla Luthor Corp di Metropolis aveva portato i Luthor nel
mirino, poteva funzionare per far passare alle due una serata
tranquilla, senza essere riconosciute e additate sorelle. E poi
sarebbero state aiutate dal buio. Kara chiamò un taxi e una
volta
dentro coprì gli occhi di Lena con una benda.
«Va
bene, questa mi fa venire strane idee per la testa»,
sussurrò,
avvicinandosi fino a sentirla con una spalla e Kara rise. «A
meno
che ora tu non abbia occhi che per Siobhan, s'intende».
«Noo»,
mugugnò, «Non parliamone più, per
favore. Ero talmente… presa
alla sprovvista che non ho saputo dire niente».
«Non
ha apprezzato la vaniglia», le trovò la bocca e la
baciò.
Kara
diede uno sguardo verso l'autista, ma lui neanche dava peso a loro,
così ricambiò, carezzandole una guancia, e si
spostò piano,
attenta a non farle cadere la benda. «Umh, no, credo di
no»,
ridacchiò. «Sei gelosa, per caso?».
«Altroché»,
ammise con tono serio, «Anch'io vorrei sapere cosa si prova a
baciare Siobhan Smythe».
Risero
e dopo ancora un poco il taxi si fermò, così Kara
aiutò Lena a
scendere. Il freddo della notte pizzicava la loro pelle come piccoli
spilli ghiacciati, mentre si sentivano voci e una musica piacevole
nell'aria.
«Dove
mi hai portato?», domandò curiosa la ragazza
intanto che la
invitava a seguirla tenendole le mani con le sue, ancora bendata.
«Posso toglierla?».
«Non
ancora, non essere impaziente. Te lo dirò io». La
musica e le voci
accompagnate da risate si fecero più forti. Le disse che
sperava le
sarebbe piaciuto dov'erano, nel frattempo che si avvicinava a lei
ferma e, dopo averle rubato un bacio, le sciolse la benda dagli
occhi. Così le sorrise. «Ieri c'era
l'inaugurazione, ho pensato che
fosse un posto carino in cui ancora non fossi stata»,
abbassò la
testa, guardandola di straforo.
Lena
spalancò gli occhi, osservando la grande pista ghiacciata
davanti a
loro, circondata dagli alberi del parco, sotto il capannone
illuminato da una corda di lanterne colorate e a un lato dalla
possente struttura che al suo interno ne ospitava un'altra. Aveva
visto spesso il posto passando in auto, ma non sapeva che avessero
finito di costruire.
Si
scambiarono un bacio ed entrarono, dove diedero loro i pattini della
giusta misura e la chiave dell'armadietto per lasciare le borse e le
scarpe, così alla restituzione della chiave il cartellino
con il
numero del loro armadietto. La pista all'interno era piena e decisero
di restare fuori dove si stava un po' più tranquille.
Oltremodo,
avrebbero rischiato di farsi riconoscere anche fuori per via di
alcune luci forti, ma all'interno sarebbe stato impossibile
nascondersi, poiché era tutto ben illuminato e il trucco non
sarebbe
stato sufficiente. Camminarono sulla passerella di gomma con i
pattini ai piedi fino allo corrimano che circondava la pista,
così
Lena passò sul ghiaccio, rise e si fermò davanti
a lei, separate
dalla sbarra. Ascoltarono la rilassante musica rilasciata dai
megafoni e accostarono i loro visi, catturando le loro labbra in un
lento bacio.
«Mi
piace qui», sussurrò Lena quasi sulle sue labbra,
«Hai avuto una
bella idea».
Kara
sorrise e infine rise, diventando rossa sulle gote. Si sporse verso
la pista e lasciò andare il corrimano. Tentò una
spinta e aprì la
bocca per risponderle, quando cadde rumorosamente sul ghiaccio,
pestando le natiche.
«Non
sai pattinare?», la accorse, inchinandosi e poi cercando di
tirarla
su.
«Non
l'ho mai fatto e-», si bloccò spalancando gli
occhi quando capì
che stava per scivolare ancora, forzando i piedi verso terra per
mantenersi salda. Sorrise a Lena che le prese le braccia per
reggerla. «Penso di aver sopravalutato il mio
equilibrio», annuì,
«Decisamente».
Lena
accettò subito la sfida: forse non sarebbe riuscita a
insegnarle a
pattinare, ma a saper restare sul ghiaccio senza cadere era la sua
priorità. Le strinse le braccia e provò a
muoversi con lei, così
la trascinò in mezzo alla pista, stando attente a non
colpire
nessuno. Kara sembrava una causa persa e riusciva a scivolare anche
in quel modo. Dalle braccia passarono alle sole mani strette e dopo
un po' di cadute e risate, Lena riuscì a farle fare un giro
quasi
completo al suo fianco.
«Sembrava
impossibile, eppure ora non stai andando male», le disse
appena
prima di vederla scivolare e cadere sul ghiaccio. «Mi
rimangio
quello che ho detto», si abbassò verso di lei e
Kara scosse la
testa, ridendo.
«O
forse lo faccio apposta per farmi aiutare».
Lena
sorrise e alzò un sopracciglio, prima di rispondere.
«Eeee no, cadi
seriamente».
«Sì,
e mi sono anche discretamente fatta male».
Risero
e Lena si tolse la cuffietta, spostando i capelli lisci dietro le
orecchie. La infilò a lei, sistemandole una piega, coprendo
le
orecchie. «Se dovrai cadere di testa, almeno l'avrai
calda».
Kara
le passò una mano sui capelli e l'avvicinò a
sé, facendola
appoggiare con le ginocchia, così si baciarono, non
importava se in
mezzo alla pista e magari rischiando di far cadere qualcuno, si
baciarono a lungo come se tutto aspettasse solo loro.
Un
altro giro sofferto e Lena la aiutò ad avvicinarsi di nuovo
verso il
corrimano.
«Insegnarti
a pattinare rischia di diventare un affaraccio lungo e faticoso,
potresti restare», le sorrise, chiudendola con le braccia tra
lei e
la sbarra. «Restiamo finché non chiudono e
poi…».
«A
casa tua?».
«Casa
nostra, sorellina», arricciò il naso e poi si
morse un labbro,
guardando le sue.
«Non
saremo sole».
«No»,
gonfiò le guance.
«E
credimi, non vorrei dover ripetere l'esperienza di sentirle».
«Oh,
nemmeno io. Hotel?».
Kara
ci mise un po' a rispondere e infine rise, appoggiando la testa su
una spalla di Lena. «Ho già detto al guardiano che
fa il turno la
notte che tornerò un po' tardi, mi
aspetterà».
«Dagli
buca».
«Non
posso», mugugnò dispiaciuta.
Lena
sospirò, accostandosi al suo orecchio sinistro.
«Sei tu la vera
tentazione».
La
sentì ridere e così si scambiarono un bacio,
fermando una ragazza
che stava tornando verso l'edificio con un gruppo di amici, in modo
che potesse scattare loro una foto. Quando Lena le passò il
cellulare, Kara vide che aveva agganciato lì la palletta
fuxia
portachiavi che le aveva regalato.
Si
misero vicine, abbracciate, e la ragazza scattò.
«Dove vi ho già
viste? Avete un che di familiare».
«D-Davvero?»,
Kara si protese e prese il cellulare per Lena, che cercò di
restare
più in ombra, facendo finta di nulla. «Non ne ho
idea».
La
ragazza raggiunse il suo gruppo e loro si guardarono, si scambiarono
un veloce bacio sulle labbra e scossero la testa, convincendosi che
in fondo aveva funzionato, era andato tutto bene. Rientrarono in
pista poco dopo, con Lena che trascinava Kara e poi l'avvicinava a
lei. Una foto ricordo di quel primo appuntamento ufficiale, ma
nessuna delle due si accorse del fotografo solitario che si
avvicinava al parco per fare qualche scatto e che presto sarebbero
state protagoniste di un'altra foto. Bambini aiutati dagli adulti,
gruppi di amici che facevano gare a chi arrivava prima ai lati
opposti del corrimano, e naturalmente le coppiette, dai più
avanti
con l'età ai giovani, scattò diverse volte,
affascinato.
Una
madre con un bimbo si avvicinò per farsi riprendere in posa
e lui
ringraziò, cercando il lato giusto per via delle luci.
Gli
chiese dove avrebbe potuto vedere le foto e lui sorrise, abbassando
la fotocamera appesa al collo. «Sul profilo Instagram
@JOlsenPH».
Lo ringraziò e si allontanò con il bimbo,
così riprese a scattare,
cercando momenti da catturare. Si dispiaceva di non aver potuto
uscire con Kara, quella sera, ma se non altro aveva trovato un modo
per spendere al meglio il suo tempo e rimpolpare il suo profilo
social. Un ragazzo e una ragazza si fermarono in mezzo alla pista per
abbracciarsi e scattò, poi un'altra coppia
catturò la sua
attenzione, due ragazze. S'inchinò, sistemò lo
zoom e altre
accortezze e scattò nell'esatto momento in cui le vide
scambiarsi un
bacio, e scattò ancora quando le vide sorridere.
Pensò di
approfittare dell'occasione per fare alle due un'altra o due foto
ancora, ma quando si separarono e una delle due scivolò a
terra,
zoomò di nuovo solo per guardarle meglio. Le sembrava di
averle già
viste. Scattò quando l'altra aiutò quella col
sedere sul ghiaccio a
rimettersi in piedi e allontanò lentamente la fotocamera
dalla
faccia, mentre spalancava la bocca e incurvava le sopracciglia in
sorpresa. «Kara?». Riguardò le foto e
spalancò anche gli occhi,
zoomando sul viso dell'altra. «Kara e… Lena
Luthor? Cosa?!»,
bofonchiò, incredulo.
Lena
tornò a casa con il sorriso perenne sulle labbra. Lillian ed
Eliza
avevano già mangiato e le ritrovò in biblioteca,
porta aperte, a
guardarsi un film abbracciate sul divano. Marielle era già
tornata a
casa. Si diresse subito verso camera sua, canticchiando a labbra
strette una delle musiche sentite a ripetizione sulla pista. Lei e
Kara avevano mangiato insieme fuori qualcosa, quindi non doveva
neppure preoccuparsi di passare in cucina.
Le
due donne la salutarono e dopo Eliza sorrise. «È
felice».
«Cosa?».
«Lena
è felice», rispose, «Chissà
come ha passato la serata».
Lillian
s'imbrunì. «Credo dovesse uscire con
Kara».
«Si
saranno divertite».
Entrò
in camera e lasciò la borsa sulla sedia della scrivania,
prendendo
il cellulare e coricandosi sul letto.
Da
Me a Vaniglia
Grazie
per la bella serata!
Inviò
e lasciò il cellulare da un lato del letto, sospirando. Era
stata
una delle sere più perfette della sua vita, una delle
più belle e,
ammetteva, non si sentiva così felice da tanto. Forse da
quando
vinceva i tornei di scacchi e Lex era al suo fianco per supportarla.
Si voltò sul letto e guardò verso i trofei,
ammirandoli. Si alzò e
andò loro incontro, guardandoli, riempendosi la mente di
ricordi.
Solo dopo qualche attimo si accorse che uno dei trofei a forma di
regina nera era storto. Cercò di raddrizzarlo, ma qualcosa
glielo
impediva: lo prese e trovò una piccola e curiosa scatolina,
grande
quanto una moneta. Aggrottò le sopracciglia e si
guardò
istintivamente intorno. Una microspia?
O-Ops!
Lena ha trovato la microspia, e diciamolo, c'era mancato davvero poco
che Alex, con quella, scoprisse cose che decisamente non voleva
scoprire così. Anzi, diciamo che ha sentito già
qualcosa che non
voleva sentire, e lo stesso Kara e Lena XD Ma adesso che Lena l'ha
scoperta, cosa succederà?
Arriverà
a capire che è stata Alex?
Intanto
chi le ha scoperte è Leslie Willis: grazie al suo intuito
non ci ha
messo molto tempo per capirlo! Più preoccupante che a
sorprenderle e
a scattare loro delle foto sia stato James Olsen! Lo storico amico di
Clark Kent come reagirà alla scoperta? E Siobhan
Smythe… beh, lei
voleva semplicemente capire se Kara ne valesse tanto la pena XD
Cosa
ne pensate invece dell'appuntamento? E della cena?
Purtroppo
sono attualmente senza linea e se riesco a pubblicare questo capitolo
è già un miracolo; sto consumando quella mobile
con il contagocce
perché non so per quanto tempo ancora starò
senza, quindi se non
dovessi riuscire a pubblicare la settimana prossima (ma spero di
sì)
o a non rispondere subito alle vostre recensioni (e già son
sempre
lenta con quelle ^^') sapete perché! Non dipende da me!
Questo
sfortunatamente cade con un'altra notizia: la fan fiction va in
vacanza! La mia idea è di pubblicare fino alla fine del mese
con il
capitolo 22, che è uno stand alone (tranquilli, il capitolo
21 vi
coccolerà un po', spero XD), ma ovvio, se a causa della mia
connessione assente non dovessi riuscire a pubblicare come si deve,
posticipo, prima della vacanza devo pubblicare fino al 22 in ogni
caso! Quindi l'idea è di prendermi agosto, il mio mese. E
poi voi
andrete in vacanza, immagino! Io no, farò la vacanza
sdraiata sul
letto a guardare Netflix, ognuno fa ciò che può
(sempre se mi torna
la linea, altrimenti mi deprimerò e basta). La
verità, comunque, è
che voglio avere un po' di tempo non solo per recuperare qualche
serie tv in sospeso, ma per portarmi un po' avanti nella scrittura!
Sono un pochino indietro, lo ammetto: certi capitoli sono
più
difficili a scrivere di altri e non so quanto tempo impiegate voi per
leggere, ma io per scrivere un capitolo ci metto almeno quattro o
cinque giorni quando va bene!
Colpa
mia che ho iniziato a pubblicare quando la fan fiction ancora non era
conclusa, sì, è vero, ma ancora attualmente non
so quanti capitoli
saranno in tutto, quindi non ho resistito e, devo dirlo, con alcune
delle vostre recensioni mi avete aiutato a considerare cose che avevo
scordato e ho avuto modo di aggiustare il tiro. Grazie!
Bene,
il tempo degli avvisi è finito! Spero che il capitolo vi sia
piaciuto e ci rileggiamo, incrociate le dita, lunedì 23 con
il
ventunesimo che si intitola Ribellione!
Sarà
un capitoletto bello corposo, credo il più lungo fino ad ora
;)
|
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Capitolo 22 *** 21. Ribellione ***
Il
cellulare non fece che squillare a vuoto e infine la chiamata si
chiuse. James non si arrese e continuò, camminando avanti e
indietro
intorno al suo letto, dove aveva gettato la borsa a tracolla e la
fotocamera che aveva portato con sé a National City. Era
appena
tornato a Metropolis e sapeva che era mattina molto presto, ma doveva
parlare con Kara. Le aveva inviato dei messaggi ma non gli aveva
risposto, e le chiamate andavano a vuoto.
«Maledizione…»,
borbottò poi, staccando e decidendo di inviarle un nuovo
messaggio:
Da
Me a Kara D.
Kara,
non so se tu abbia letto i precedenti messaggi, ma ho bisogno di
parlarti, possibilmente faccia a faccia, è importante.
Richiamami.
Si
era seduto sul letto esausto, non aveva dormito nulla nel viaggio di
ritorno e quelle foto… accidenti, le aveva riguardate spesso
cercando una spiegazione diversa da quella ovvia, o magari che si
fosse confuso e quella non era Lena Luthor, o l'altra non era davvero
Kara, ma ogni volta, ogni volta aveva come la sensazione che la
verità lo avesse colpito in pieno come un treno. La persona
di cui
si era innamorata era Lena Luthor? Oh, questa storia non sarebbe
piaciuta a Clark, già lo sapeva; non piaceva a lui per
primo.
Riguardò il cellulare ma non c'era nessun segnale da parte
sua, così
sospirò, decidendo di andare a farsi una doccia, in attesa.
Immaginò
che fosse molto occupata.
«Non
lo trovoooo», dichiarò Kara disperata, spostando
di nuovo il
materasso nella sua camera.
«Mi
farai fare tardi a lezione», corse Megan, rientrando dal
bagno.
«Abbiamo guardato ovunque».
«Stupido
cellulare», grugnì.
A
un tratto Megan si fermò, colta da un'idea improvvisa:
«Nella
borsa? Ieri sei uscita e la borsa…?».
Kara
aggrottò le sopracciglia e corse ad aprire il suo armadio e
così la
borsa. Poi, con vittoria, portò il cellulare verso l'alto.
«Simba»,
esclamò, «Pensavo di averti perso».
«Vedi
che succede a uscire con Lena Luthor, che poi dimentichi dove metti
la testa», rise a braccia a conserte, godendo dello sguardo
di Kara
farsi imbarazzato.
«Beh…
quando sono tornata ieri ero molto stanca», annuì,
passandole
avanti per sistemare il caos combinato in stanza alla disperata
ricerca del cellulare.
«E
pensa a quando finirete a letto insieme». Le
lanciò un sorriso
divertito e Kara spalancò la bocca per replicare, ma ci
volle
qualche secondo prima che dicesse qualcosa.
«Eh,
sì… Ci stiamo provando, diciamo. E ho una
discreta dose di ansia
che tendo a soffocare quando sono con lei perché so che
accadrà, e
accadrà presto, e io lo voglio, ma…».
«L'ansia».
«Sì.
S-Sto parlando di Lena Luthor», gesticolò nervosa,
arricciando il
naso. «Credo che la leggera sensazione di profonda fortuna
che sento
per averla al mio fianco non mi passerà mai».
Si
prepararono, presero con loro borsette e libri e uscirono dalla
stanza, chiudendo a chiave. L'una a fianco dell'altra, camminarono
per i corridoi dello stabile, in mezzo alle altre studentesse. Di
tanto in tanto salutavano qualcuna.
«Non
avete ancora trovato un momento?».
«No»,
sbuffò distratta, controllando le varie notifiche al
cellulare.
«Comincerei
a preoccuparmi».
«Cosa?»,
si fermò di scatto, spalancando gli occhi.
Megan
scrollò le spalle. «Dico che ormai state insieme
da un po' e se non
è ancora successo… potrebbe esserci un
problema». A una seguente
occhiataccia preoccupata di Kara, pensò di giustificarsi:
«Alla
nostra età è difficile che si aspetti un momento
giusto»,
virgolettò con le dita, tenendo la borsa sottobraccio.
«Le cose
succedono quando devono succedere».
Ripresero
a camminare e Kara sospirò pesantemente. «Ma noi
vogliamo che
succeda. Ieri, Lena non voleva lasciarmi tornare».
«Uh.
Dimenticavo che voi avete un piccolo problema chiamato famiglia
allargata»,
sorrise e insieme uscirono fuori, al sole che tiepido si affacciava
sul parco del campus. «Allora dimentica ciò che ho
detto prima.
Soffrite di una condizione particolare. Se volete, posso tenermi
impegnata il tempo che vi serve e la camera è vostra. Chiedo
a John
di uscire, ceniamo fuori, magari da lui», sorrise,
«torno per il
cambio di guardia, alle cinque e mezza, gli dico che mi sono chiusa
fuori… Potrebbe andare?».
«No».
«Non
vi basta?», ridacchiò, «Almeno per
l'inizio delle lezioni devo
essere al campus, ragazza».
Kara
arrossì, cercando di non ridere. «Ma cosa hai
capito?! È che
pensiamo di non essere a nostro agio, in camera… e
il letto di Lena è più grande»,
aggiunse velocemente. «Lascia perdere. Anche se non ci
sarà un
momento
giusto,
troveremo un momento. Succederà». Annuì
e riprese il cellulare,
intanto che camminavano fuori, salutando ancora qualcuno. «Mi
ha
chiamato James un sacco di volte…»,
mormorò perplessa,
cominciando a leggere i messaggi. «Dice che è
importante, ma mi
vuole vedere faccia a faccia».
«Non
lo hai visto ieri?».
«Sì,
e se pensi che ci siamo visti dopo un bel po' che volevamo farlo, e
alla fine non siamo neppure usciti perché, beh, lui aspetta
a venire
proprio il giorno in cui io e Lena avevamo un appuntamento, per
vederci di nuovo ora ci vorrà davvero tanto… Che
poi non posso
ritagliarmi un attimo perché sono impegnata».
«E
ricordati gli allenamenti».
«Appunto»,
alzò le spalle in segno di resa.
Provò
a chiamare James, in cortile, intanto che Megan entrava
nell'edificio. Dato che non rispondeva, gli lasciò un
messaggio,
sperando capisse.
Da
Me a JamesOlsen
Scusami,
James, ho avuto problemi con il telefono. Ti direi che possiamo
vederci quando vuoi, ma purtroppo non posso, avrò tanto da
fare con
la scuola, il lavoro e lo sport. Sarò libera solo per il
Ringraziamento ma lo passerò in famiglia. Mi dispiace, spero
che
qualsiasi cosa sia possa aspettare. Sentiamoci presto!
Le
aveva risposto una mezzora dopo, insistendo per potersi vedere. Kara
si chiese cosa ci fosse di davvero così importante che non
poteva
dirle ieri oppure per telefono, e alla sua risposta È
meglio se ne parliamo a voce l'uno davanti all'altra
le aveva messo addosso più perplessità del
dovuto. Che volesse
chiederle di uscire nonostante tutto? E perché tanto
mistero?
Infine, tra una lezione e l'altra, decise di lasciare lì il
suo
dubbio, poiché non poteva proprio accontentarlo.
Dopo
le lezioni tornò in camera per sistemarsi e prendere
ciò che le
serviva, così uscì per dirigersi alla CatCo. Una
volta fuori,
intravide Mike con i ragazzi della sua squadra andare verso il campo
di allenamento. La guardò imbambolato e sembrava volesse
raggiungerla, ma lei non aveva tempo, così lo
salutò solo con un
cenno della mano e lui la seguì con lo sguardo fino al
cancello.
«Oh,
cielo»,
la ragazza si bloccò, spalancando gli occhi: parcheggiata a
un
fianco del cancello vi era una limousine e Lillian Luthor, con
Ferdinand, erano lì davanti in attesa. Appena la vide, la
donna
sorrise e alzò una mano per salutarla, così Kara
deglutì e la
raggiunse col cuore in gola, camminando come se le gambe le fossero
diventate di piombo.
«Kara,
che piacere», l'abbracciò e la ragazza
cercò di ricambiare. «Ti
aspettavo. Hai un minuto per me?».
«Ah…
veramen-», si schiarì la gola,
«veramente sto andando alla CatCo,
non-», la donna la interruppe:
«È
perfetto. Ti diamo un passaggio, va bene?».
Kara
capì che non avrebbe accettato un no
come risposta, così, senza avere alternative,
accettò e cercò un
sorriso, entrando in auto davanti la portiera aperta da Ferdinand.
Lillian si sedette davanti a lei in quella spaziosa limousine e si
guardò intorno, grattandosi un braccio, decisamente a
disagio.
«Scusa
se non ti ho avvertito prima che sarei passata, ma è stata
un'idea
dell'ultimo momento». Lillian le sorrise e la limousine
partì. Kara
continuò a grattarsi. «È passato tanto
tempo dal nostro ultimo
colloquio madre-figlia».
Kara
si sforzò di annuire. «Sì, è
vero».
«Considerando
che abbiamo poco tempo», vide Kara guardare di sfuggita fuori
dal
finestrino e poi di nuovo lei, negli occhi, «non mi
perderò in
chiacchiere e andrò al punto. Cosa ne pensi del matrimonio
tra me ed
Eliza? Ne abbiamo parlato poco, con voi».
«V-Va
bene», aggrottò le sopracciglia. Lillian la
fissò, cercava come di
scrutarla dentro e Kara si sentì in un certo modo violata.
Non le
disse altro, come se si aspettasse un approfondimento.
«Mh…
Magari, sì, è… è, diciamo,
un po' una… novità?», chiese
cercando di capire cosa volesse sentirsi rispondere e lanciò
di
nuovo un'occhiata fuori dal finestrino, tentando di riconoscere la
strada e sperando di essere arrivata. «Ma sono felice per
voi.
Vo-Voglio dire, Eliza è una persona meravigliosa e si merita
di
essere felice e… e tu, sì, la rendi
felice», si guardò di nuovo
intorno, vaga, «quindi va bene». La
guardò, cercando una conferma.
Ricordava con malinconia i tempi in cui i colloqui madre-figlia con
Lillian prevedevano che lei facesse domande e non ascoltasse le
risposte, al contrario, ora si sentiva sotto esame e aspettava di
sentirla parlare perfino troppo, come se la risposta non la
soddisfacesse mai.
Lillian
le sorrise e annuì brevemente, così Kara si mise
in attesa della
seconda domanda dell'interrogatorio.
«Cosa
sei per mia figlia?».
Oh
cavolo.
Kara aprì la bocca lentamente ma dalle sue labbra non
uscì alcun
suono, prendendo tempo. Guardò di nuovo fuori, ma non
riconosceva la
strada. Stavano facendo il giro largo? Per un attimo, pensò
di
essere appena stata rapita.
«Siam-»,
sorrise, prendendo fiato, diventando paonazza. I suoi baci. Oh, i
suoi baci. La sua lingua, le sue dita sulla pelle, l'alito caldo, i
suoi sorrisi, come la stringeva a sé. Il suo seno. Oh,
accidenti.
Lei. Cos'era Lena per lei e lei per Lena?
«Un'amica», deglutì.
Lillian attese e Kara sentì improvvisamente caldo.
«C-Cosa intendi,
vo-voglio dire, è ovvio che siamo amiche, passiamo molto
assieme e
sì che all'inizio abbiamo avuto dei- mh, abbiamo avuto delle
incomprensioni, m-ma è acqua passata, insomma, Lena ed io
ci…
divertiamo tanto, insieme». Sembrava che limousine prendesse
altre
strade apposta, pensò, guardando di nuovo fuori.
«Bene»,
emise aprendo appena la bocca, e anche lei diede un'occhiata fuori e
poi al suo orologio. «Non voglio che tu faccia tardi. Mi
chiedevo
un'ultima cosa: Mike Gand. Non sapevo fosse il tuo ragazzo; adesso vi
siete lasciati, non è così?».
«Sì».
Non capiva dove volesse arrivare…
«Il
ragazzo ha chiesto di te alla cena, l'altra sera»,
parlò con voce
flebile, «Sembra intenzionato a riconquistare il tuo cuore.
Pensi di
dargli un'occasione?».
Non
trattenne una piccola risata, guardando un punto lontano.
«No. Mike
ed io ne abbiamo passate tante, ma… no. Lui non-».
«Lena
potrebbe aver detto che stai frequentando qualcuno», le
mostrò un
altro sorriso.
Arrossì,
abbassando gli occhi. «Sì»,
gesticolò, «M-Mi sto vedendo con una
persona-».
«Che
non è Lena?!».
«C-Come?».
La limousine si fermò e Kara guardò verso il
finestrino d'istinto,
capendo di essere arrivata. Quando si voltò a lei, Lillian
si era
accostata un po' e si allungò per prenderle una mano con le
sue,
incredibilmente fredde.
«Ti
chiedo scusa se ti sono sembrata un'impicciona. Lena ha frequentato
delle ragazze fino a non molto tempo fa e considerando il vostro
rapporto ho pensato… male. È alla disperata
ricerca di affetto; lo
ha fatto in passato, pensavo lo facesse anche con te. È
giusto che
tu lo sappia, Kara».
«I-Io
non-», scosse la testa, abbozzando un sorriso,
«Lena ed io non-
siamo amiche». Era riuscita a mentirle spudoratamente ancora
non
sapeva come.
«Dopo
la morte di suo padre, temevo si sarebbe chiusa in se stessa. Ha
lasciato le sue… amichette,
chiamiamole, e il suo fidanzato. Poteva avere un buon futuro con lui
e lo ha lasciato partire da solo… Lei e suo padre, dicevo,
avevano
un rapporto diverso, qualcosa che io non potevo capire, erano legati.
Ho visto il baratro in cui si sarebbe lasciata cadere e anche se lei
ed io non abbiamo mai avuto… quel rapporto»,
confessò, «è mia
figlia, non volevo si lasciasse andare. Lionel non me lo avrebbe mai
perdonato. Dunque sono contenta che lei sia felice, con te. Come
amica».
Specificò
all'ultimo e Kara non si mosse, tentando di non avere reazioni di
nessun genere per non smentirsi: la sua bocca produsse saliva ma
tentò di non deglutire con lei così vicina, di
non avere
sensibilità alle mani per non avere scatti bruschi; come con
il
corpo di gelatina, aveva iniziato a sentire prurito e non poteva
grattarsi.
«Il
vostro rapporto è meraviglioso, Kara. Parlo sul serio. Come
amiche».
Il
fatto che continuasse a ripeterlo le metteva ansia.
«Lo
dico a te, perché lei non mi ascolterebbe: non darle la
possibilità
di innamorarsi di te».
Kara
non riuscì a trattenersi: deglutì.
«Frequenta
questa persona che dici di star frequentando, tieni Lena vicino se ti
fa piacere, ma tienila distante dal tuo cuore. Lena si è
affezionata, ma non sai com'è fatta… Di certo non
siete fatte per
stare insieme, ma temo lei non lo capisca».
«M-Ma…»,
barbugliò. Non sapeva cosa rispondere, lasciando la bocca
aperta,
aggrottando le sopracciglia.
«E
ricorda che Eliza ed io ci sposeremo, siete le nostre figlie, avremo
questa nuova famiglia tutti insieme e sarà meraviglioso
così», la
guardò con intensità, negli occhi, mentre le
carezzava la mano che
aveva nelle sue. «Sono felice che siate tanto unite ed
è questo ciò
che conta».
La
lasciò andare e Kara non seppe cosa replicare, continuando a
guardarla. Aveva il respiro mozzo, accidenti. Aprì lo
sportello e
mise un piede all'esterno che Lillian colse un nuovo momento per
parlare:
«Ricordati
che siamo una famiglia, Kara. Ci proteggiamo a vicenda, non
è
così?».
Appena
la limousine partì, sentì finalmente di poter
respirare di nuovo,
guardandola allontanarsi. Entrò nel complesso della CatCo
con più
pensieri di prima. Lena bisognosa d'affetto. Non faticava a crederlo,
ma da come lo aveva detto Lillian, sembrava qualcosa da cui stare
alla larga. Non sapeva com'era fatta: certo, stando a quanto detto da
Lena più volte, era lei a non sapere com'era fatta sua
figlia. Lo
disse come se poi, dopo aver avuto il suo cuore, si sarebbe stufata
di lei. Si sarebbe stufata di lei? Sapeva che Lena aveva avuto altre
storie e non le interessavano; stava con lei, adesso, e si sarebbe
preoccupata solo di ciò che sarebbe successo tra loro. Da
tutto quel
discorso, infine, una cosa era ormai sicura: se mai avessero deciso
di uscire allo scoperto, Lillian sarebbe stata contraria.
Telefonò
a Lena una volta uscita dalla CatCo. Le avrebbe risparmiato i
dettagli, ma doveva sapere che sua madre sospettava qualcosa.
«Ho
avuto un incontro ravvicinato del terzo tipo, dal campus alla CatCo,
oggi».
«Mia
madre ti ha dato un passaggio?».
«Come
hai fatto a indovinare?», abbozzò una risata.
«Pensa che tu provi
qualcosa per me e… non è felice, Lena. Se non
altro pensa che stia
frequentando una persona che non sei tu».
«Dovremo
stare molto prudenti al nostro comportamento, tra pochi giorni. Il
fatto che saremo tutti sotto lo stesso tetto per due giorni
sarà…
complicato».
«Decisamente»,
concordò Kara ed era felice di sentirglielo dire: avrebbero
dovuto
comportarsi non certo in modo freddo, ma più composto,
felici ma non
troppo, vicine ma non troppo, parlare tra loro ma non troppo, non
isolarsi, restare concentrate e non esplodere, assolutamente, nei
loro momenti di passione incontrollata. Perché se non
avevano potuto
stare insieme fino a quel momento, di certo non potevano farlo con
madri e sorella a casa. E forse Lex, ma non erano sicure si sarebbe
fatto vedere. «In
ogni caso, tua madre è una donna spaventosa».
Lena
sorrise. «Però, ci hai messo solo dei mesi a
capirlo». La sentì
ridere e così anche Lena non perse il suo sorriso.
«Sono in
laboratorio, ti devo lasciare. Ci sentiamo questa sera?».
Vide Winn
piantonato davanti alla porta, cartella tra le braccia, così
lo
invitò a raggiungerla con un gesto, annuendo.
«Certo. Certo, a
presto». Chiuse la chiamata e il ragazzo la fissò.
«Nuova
fiamma?», rise, avvicinandosi al bancone dove lei stava
lavorando.
«Sguardo sognante, signorina Luthor». A una sua
occhiata si schiarì
la voce, cercando di tornare serio. «Non-Non dovevo
permettermi,
emh, chiudo la bocca».
«Allora?»,
lo incitò a parlare, sistemando sulla fronte gli occhialini
protettivi.
«Oh,
sì». Guardò la cartellina in modo
distratto. «Ho controllato il
numero di serie della microspia e appartiene niente popò di
meno che
al Department of Anti-Terrorism Operations, anche detto D.A.O.. Posso
risalire all'indirizzo a cui vengono inviati gli audio, se mi
dà
l'autorizzazione a procedere».
«Procedi».
Lui
esultò senza parlare, stringendo gli occhi e alzando un
pugno per
aria. «Sono eccitato! Spaventato, si sta parlando del D.A.O.
e se
scopre cosa stiamo facendo passeremo dei guai, ma eccitato».
Così
si accostò a lei, che aveva rimesso gli occhialini e si era
avvicinata a un microscopio, trafficando con alcuni arnesi.
«Ha
sistemato, signorina Luthor?».
Lei
non rispose subito. Chiuse lo sportellino di un piccolo aggeggio
usando fini attrezzi, poi si tirò di nuovo sulla fronte gli
occhialini protettivi, sollevando il suo lavoro per mostrarlo
all'assistente. «Grazie per il tuo aiuto, poco fa.
L'installazione è
avvenuta con successo: ora potrò disturbare il segnale della
microspia».
Lui
esultò di nuovo e alzò una mano per battere il
cinque ma, quando
vide che Lena non ricambiava, la abbassò pacatamente.
«Emh.
Fantastico! Non ricordo dove mi ha detto di averla
trovata…?».
«Non
l'ho detto». Ricontrollò il suo lavoro e lui
annuì, stringendo le
labbra, così uscì.
Era
già strano pensare che qualcuno avesse lasciato una
microspia nella
sua camera da letto, ma il D.A.O.? Da quando il D.A.O. le stava
dietro? Per via di suo padre e dei genitori e zii di Kara? Non era
quello a sorprenderla, l'esplosione della casa degli El era stata
definita un atto terroristico ed era felice di sapere che a dispetto
da ciò che si sapeva notoriamente stavano ancora lavorando
sul caso,
ma come aveva fatto il D.A.O. ad inserire una microspia non solo
nella sua abitazione, ma addirittura nella sua camera? E
perché
proprio nella sua e non in quella di Lillian? Era indiscutibilmente
strano. O meglio curioso. Loro non erano mai state delle sospettate e
quella era senza dubbi un'invasione della privacy; dunque l'aver
lasciato quella microspia non doveva essere parte di un'operazione
ufficiale dell'agenzia governativa. Inoltre, sarebbe stato
incredibile per qualcuno senza gli strumenti adatti, che non aveva
per via dell'inufficialità dell'operazione, entrare a villa
Luthor
con i vari allarmi di cui disponeva. Ad aver lasciato la microspia
doveva essere qualcuno che era entrato in casa con loro. E
poiché
dubitava fortemente che sua madre stesse collaborando con qualcuno e
che Eliza fosse a conoscenza di un qualsiasi dettaglio, a restarle
era Alex. Alex Danvers e il D.A.O.? Solo Winn avrebbe potuto
confermarglielo.
I
pochi giorni che le separavano dal quarto giovedì del mese
passarono
in fretta, o meglio per Kara e Lena. Eliza e Marielle trascorsero i
loro in fila nei supermercati, alla ricerca di occasioni ghiotte per
portarsi a casa quanto più cibo riuscivano: latticini,
verdure,
carne di prima qualità, la frutta in occasione, e
naturalmente tutto
l'occorrente per la preparazione di dolci. Per ultimo, dal macellaio
di fiducia passarono a prendere la portata principale: il maxi
tacchino che avevano ordinato. Eliza si era lasciata convincere a
farsi aiutare e lei e Marielle passarono le ore del giorno prima
sotto con i fornelli. Riempirono le zone frigo della cucina di cibo e
imbandirono la tavola in salone. Poiché Marielle avrebbe
avuto il
giorno libero, Eliza le regalò uno dei dolci da portare a
casa con
sé, intanto che Lillian si metteva d'accordo con un'agenzia
per
avere due dipendenti alla loro porta in tempo per la festa.
Alex
e Maggie, con la piccola Jamie che faceva i capricci di prima
mattina, furono le prime ad arrivare. La televisione in sala da
pranzo trasmetteva in diretta la parata di Metropolis e Lillian, al
telefono in biblioteca, discuteva a voce alta con il figlio.
«Inutile
che ti dica quanto io non apprezzi questo tuo comportamento. Sei
stato al fidanzamento, ci mancherebbe, ma gradirei la tua presenza
anche in altri momenti della nostra vita e il Ringraziamento si passa
in famiglia».
Lena
la sentì, consapevole che suo fratello cominciava ad
esagerare e che
stare via per il Ringraziamento appariva come una ripicca verso la
loro madre. Chiuse la porta già socchiusa, decidendo di
raggiungere
Jamie davanti la televisione.
Avrebbe
voluto parlare a quattrocchi con Alex, soprattutto dal momento che
Winn le aveva fornito l'indirizzo di cui aveva bisogno che coincideva
con quello dell'appartamento della ragazza, ma voleva che si potesse
trascorrere il Ringraziamento in serenità, soprattutto dal
momento
che era già Lex a portare problemi. Lei e Kara avevano
accolto Alex
nelle loro indagini, eppure lei non sembrava fidarsi, oppure
sospettava che non fossero completamente sincere. Di certo, avevano
rischiato che fosse scoperta la loro relazione. Per un attimo si
chiese se già non lo sapesse, non sapendo quando esattamente
aveva
posizionato la microspia, ma decise di tranquillizzarsi,
poiché se
Alex lo avesse saputo, di certo ne avrebbe parlato.
Tra
Lillian che le stava addosso e Alex che pareva nascondere
più
segreti di loro, lei e Kara avrebbero dovuto star maggiormente
attente, e lontane. O sarebbe stato troppo rischioso.
E
ci aveva creduto. Quando lo pensò, era davvero convinta che
fosse la
cosa migliore da fare. Però, quando Kara suonò al
campanello e andò
ad aprirle e così la vide, l'unica cosa a cui pensava, era
che
avrebbe voluto portarla con sé nella dependance e chiudersi
lì con
lei per delle ore. Ansimò, quando si baciarono sulla guancia
per
salutarsi ed entrò in casa. A quel punto, Lena
immaginò che quelli
sarebbero stati due lunghissimi giorni.
Alla
fine, come pronosticato, Lex non si presentò per pranzo.
Lillian
pareva piuttosto indisposta e mangiò appena, mentre Eliza
tentava di
farle assaggiare quante più cose possibili. Jamie
lasciò nel piatto
le cose meno interessanti ma si spazzolò le patate di
contorno.
Maggie e Alex risero tanto, tra loro, ritrovandosi spesso a parlare
come se non esistesse nessun altro. E così, anche Kara e
Lena si
sentirono un po' sole. Erano strano sapere di essere una coppia in un
tavolo di coppie ed essere le uniche a non potersi comportare da
coppia. O era così fintanto che nessuna poteva vederle.
Vedere le
loro espressioni, i loro gesti, come si cercavano e sorridevano, come
Lena passava la sua mano su una coscia di Kara…
Cosa?
Lei scattò, spalancando gli occhi. «Ehi! Cosa
fai?», le soffiò
appena, quasi senza usare la voce. Diventò rossa, ricercando
gli
sguardi delle altre, ma nessuna si curava a loro.
Lena
le sorrise con malizia, alzando la mano quando dietro di loro
passarono i due ragazzi dell'agenzia per sparecchiare e portare le
altre pietanze. Poco dopo le si avvicinò e, portando le sue
labbra
sull'orecchio sinistro di lei, pensò di rimetterle anche la
mano
sulla coscia, premendo appena. «Sai di cosa avrei voglia,
adesso?».
Kara
arrossì maggiormente, adocchiando Alex che si era girata
nella loro
direzione. «Smettila», sibilò a denti
stretti.
«Di
mandarino. Me ne potresti passare uno, per cortesia?», disse
a voce
alta di colpo, indicandole la cesta di frutta dall'altra parte del
tavolo.
Kara
ne prese uno e glielo servì, intanto che Lena le sorrideva
soddisfatta.
Bisognosa
d'affetto. Di tanto in tanto, quelle parole le ritornavano in mente,
non riusciva a farsele scivolare via. Era perché erano vere,
sapeva
che lo erano, e ogni volta il comportamento di Lena lo confermava. Ma
il tono in cui Lillian glielo disse continuava a infastidirla da
giorni. La inquadrò con lo sguardo, dura e indisposta mentre
al
fianco Eliza si era messa a parlare con Maggie. Tutte
chiacchieravano, scherzavano, e Lillian era sola, distante non tanto
con il corpo quanto con la testa. Isolata, si versò da bere
e
sorseggiò dapprima piano, poi buttò
giù tutto d'un sorso. Scorse
Eliza mentre le allontanava la bottiglia, inconsapevole, in quel
modo, di fare un favore ad Alex che si versò due bicchieri
uno dopo
l'altro. Maggie se ne versò uno per lei e dopo
spostò anche lei la
bottiglia, finendo davanti a loro. Lena si allungò per
prenderla
quando Kara l'anticipò e, veloce come un fulmine, gliela
sottrasse.
Si alzò, portando via la bottiglia della discordia.
Uscendo
per tornare in salone, uno dei ragazzi addetti al pranzo la
guardò
male per averla portata in cucina, come se essersi alzata fosse stato
un affronto al suo lavoro. Lasciò la bottiglia sul lavandino
che due
braccia l'avvolsero sulla pancia, attirandola verso di sé.
«Sai
di cosa avrei voglia, adesso?».
«…
di un mandarino?».
Lena
rise, lasciando che la ragazza potesse voltarsi verso di lei, pur
senza lasciare l'abbraccio.
«Non
ho un mandarino, ora. Però ho un bacio», la
guardò negli occhi,
«Lo vuoi un bacio?».
«Penso
di potermi accontentare».
Si
scambiarono un veloce bacio e Kara guardò dietro la ragazza,
per
assicurarsi che nessuno avesse visto.
«Ci
scopriranno», sussurrò, «Avevamo
promesso di starci attente». Si
separò da lei e Lena si morse un labbro.
«Hai
ragione. Proverò a starti lontana». Le sorrise e
Kara le suggerì
di tornare lei per prima. Lena fece due passi e poi tornò
indietro
di colpo, le morse scherzosamente intorno a un orecchio e
così sparì
verso il salone, mentre Kara avvampava.
Si
passò una mano sull'orecchio interessato e
sospirò, capendo che
avrebbero dovuto provarci molto meglio di così.
Poco
più tardi, proprio quando se ne andarono i due addetti al
servizio,
Maggie e Jamie le lasciarono per andare dalla famiglia di lei, anche
se non ne era entusiasta, mentre Jeremiah arrivò pochi
minuti dopo,
affermando di essersi perso, per portare via con lui Alex e Kara e
passare del tempo assieme. Fecero merenda fuori, passeggiando per le
vie piene di persone in festa, parlarono della relazione di Eliza e
Lillian perlopiù, poi delle partite di lacrosse, del lavoro
di Alex
in boutique e del suo rapporto con Maggie. Assisterono insieme alle
prime dei fuochi d'artificio e Jeremiah le riportò a villa
Luthor-Danvers quando già si era fatto buio. A Lillian parve
essere
tornato il buon umore e disse loro con dispiacere che Lex si era
dovuto trattenere poco e che lo avevano mancato solo per qualche
minuto. Kara si sorprese di sapere che era passato ma che anche
questa volta non era riuscita a conoscerlo; perfino Maggie, tornata
prima di loro, aveva potuto salutarlo.
Si
ritrovarono fuori tutte insieme per il secondo round dei fuochi
d'artificio e là, dove i palazzi sembravano stare tanto
lontani,
tutto apparve ancora più grande, colorato e luminoso. Alex
dovette
prendere in braccio Jamie per farla sentire al sicuro quando i primi
fuochi iniziarono a far troppo rumore e lei e Maggie si strinsero per
mano. Anche Lillian ed Eliza si tennero vicine, mentre la seconda
indicava i fuochi e rideva e Lillian, erano davanti a loro e Kara la
vide, guardava la donna al suo fianco.
Anche
Lillian Luthor era bisognosa d'affetto. Che ipocrita la donna,
pensò,
che si sarebbe presto sposata con chi amava ma non voleva che Lena
potesse innamorarsi di lei.
Sentì
le dita di Lena cercare le sue e, anche se erano al fianco di sua
sorella, gliele strinse. Anche lei meritava di essere felice.
«Torno
subito», le disse accostandosi a un orecchio e
sparì dentro. Amava
Lena. Forse Lena non doveva innamorarsi di lei e lei di Lena, ma il
tono di Lillian in limousine era stato troppo. Sapeva che Lena
chiudeva camera sua quando lei non c'era, fortunatamente l'aveva
vista conservare la chiave e, prima di tornare in casa, gliela aveva
sottratta, quando si era avvicinata, da una tasca della giacca che
aveva addosso. Salì al piano di sopra, aprì la
sua camera e ci si
chiuse dentro, adocchiando il blocchetto giallo dei post-it.
Dopo
cena, la piccola Jamie fu a prima a crollare, stanca; la lasciarono
sul divano, intanto che loro si intrattenevano con qualche gioco di
società. Era da quando Lillian lo propose a casa
Danvers-Luthor per
far andar d'accordo Lena e Kara che non giocavano; sembrò
ieri,
eppure tante cose si erano fatte diverse da allora. Lena vinse, ma
non si stupì nessuno a parte Maggie che aveva tenuto duro
per non
lasciarsi sopraffare, finendo per arrendersi. Quando si fu fatto
tardi ed Eliza e Lillian andarono a dormire, Maggie prese in braccio
la figlia ancora addormentata e lei e Alex andarono di sopra. Avevano
aggiunto un letto matrimoniale e un lettino singolo nella sua nuova
camera, così avrebbero potuto dormirci tutte insieme.
Rimaste
sole al piano di sotto, Kara e Lena parlarono un po', intanto che la
prima finiva qualche dolcetto. Più tardi decisero che era
arrivata
l'ora di andare a dormire e salirono di sopra, lasciando la tavola
com'era.
«Buonanotte».
Lena le sorrise e si appoggiò alla porta di camera sua,
inserendo la
chiave nella toppa.
«Tutto
qui?», borbottò Kara per non fare troppo rumore.
La guardò e alzò
un poco le braccia in segno di resa, sentendo l'altra sogghignare.
«Stai ridendo? Per cosa stai ridendo?»,
aggrottò le sopracciglia,
«Lo so cosa ci siamo dette, ma o-ora non c'è
nessuno, pare, siamo
sole qui, e vorrei, anzi pretendo
una buonanotte
decente da parte della mia ragazza segreta». Si
fermò sui suoi
passi e si portò le mani contro i fianchi, in attesa.
La
porta della camera di Lena si aprì e lei si
voltò, pur senza
avvicinarsi. Alzò un sopracciglio. «Ragazza
segreta?». La vide
annuire, senza scomporsi. Avrebbe voluto accendere la luce solo per
godere appieno del suo viso farsi rosso. «Troppo
rischioso».
«Troppo?».
«Eccome»,
trangugiò saliva.
«M-Ma
io voglio la buonanotte».
«Non
se ne fa niente».
Kara
gonfiò le guance e a quel punto capì che doveva
pensarci da sola:
con coraggio, si accostò rapidamente e la trattenne al viso
con la
mano destra su una guancia, portando la bocca alla sua.
Approfondirono il bacio subito; Kara l'avvicinò con la mano
sinistra
su un fianco e Lena le passò le mani dietro la testa,
passando le
dita fra i capelli. Si lasciarono andare con un pesante sospiro da
parte di entrambe, cercando di scrutare nei loro occhi nel buio.
«Va
meglio», annuì, tornando indietro di un passo, poi
un altro, un
altro, fino a quando non toccò la parete e si
spaventò, emettendo
mezzo grido.
Lena
rise, scuotendo la testa. «Buonanotte, Kara».
Col
cuore che batteva forte e veloce come non aveva mai fatto, tutte e
due le ragazze si chiusero nelle rispettive camere, spogliandosi,
entrando sotto le coperte. Sia l'una che l'altra, a pancia in su, non
riuscivano a calmarsi. Né a provare a dormire.
Lena
alzò la testa verso l'arazzo quando vide che c'era qualcosa
incastrato tra quello e il muro. Allungò la mano, sembrava
un
biglietto, e lo acchiappò.
Ti
amo
Lena
arrossì inevitabilmente, leggendo l'inconfondibile scrittura
di
Kara. Non sapeva come aveva fatto, ma era la cosa più carina
che…
ne vide un altro, dall'altro lato, e lo prese.
Ti
amo
Sorrise,
decidendo di rialzarsi. Accese la luce della stanza battendo le mani
due volte e ne trovò uno attaccato al comodino, di lato
verso il suo
letto. Camminò scalza fino all'armadio e tirò il
post-it giallo
incastrato tra due ante. Uno era attaccato sullo stipite della porta
del bagno. Si girò, adocchiandone uno sulla bacheca dei
trofei, uno
stava sul lato della scrivania e un altro attaccato al compattatore
della carta. Uno lo schiacciò poiché era su un
tappeto e così,
inchinandosi, ne trovò un altro attaccato da quella parte
del letto.
Ne trovò un altro, un altro ancora, perfino in un angolo di
una
finestra, sotto una sedia, e un altro ancora dietro un cuscino, una
lampada. Finì per contarne trentadue; doveva averle finito
il
blocchetto in uso e pensò si fosse fermata per quello,
ridendo. Non
riusciva a scrollarsi di dosso quel sorriso, e le guance rosse,
sorpresa di cosa avesse fatto per lei.
Nel
frattempo, ancora senza riuscire a calmarsi, Kara provò a
girarsi da
una parte del letto all'altra, ma non c'era nulla da fare. Era troppo
agitata e così, con il pigiama e le ciabatte ai piedi
aprì la porta
di camera e scese al piano di sotto per bere un bicchiere d'acqua.
Fino a quel momento, non aveva mai fatto caso al fatto che non ci
fossero interruttori per la luce e che quella, al piano di sotto, si
accendeva con i suoi passi.
Lena
uscì dalla sua camera e batté le mani due volte
per avere la luce
in corridoio. Guardò verso la nuova stanza di Kara e la
porta era
chiusa, così prese le scale per scendere al piano di sotto:
doveva
bere un po' d'acqua per calmare la tachicardia o non avrebbe preso
sonno. La luce in sala da pranzo era già accesa e si sporse,
trovando lei. E anche lei la trovò, voltandosi per tornare
indietro.
Lena le sorrise ma non disse nulla; così, stringendo le
labbra, le
si avvicinò e si versò da bere.
«Anche
tu non riesci a dormire?».
Lena
scosse la testa, ingoiando l'acqua. Lasciò lì il
bicchiere e
salirono di nuovo insieme le scale, in silenzio. Davanti alla porta
di camera sua, Lena la fermò ad un polso, prima che se ne
andasse.
«Mi fai un po' compagnia?».
Fu
in quel momento che Kara capì che essere andata a bere acqua
non
avrebbe aiutato il suo cuore a calmarsi: il modo in cui la
guardò, e
la invitò ad entrare, erano solo l'inizio.
Lena
si diresse subito verso i trofei e fece qualcosa che Kara non
riuscì
a notare, né a vedere per via del buio, poi si sedettero
entrambe su
un tappeto e la prima appoggiò la schiena contro il letto,
fissando
lei così tanto che per poco non sbatteva le ciglia. Kara si
guardò
attorno e anche se l'unica luce che avevano era quella delle stelle
fuori dalle finestre, sembrò a metà tra lo
cercare qualcosa e il
disperato tentativo di dissimulare imbarazzo e ambientarsi.
«Sai-».
Lena spezzò il pesante silenzio tra loro e Kara
sobbalzò, portando
una mano verso il petto solo per assicurarsi che non sarebbe morta,
quella notte. «Prima cercavo di dormire, poi ho alzato la
testa e ho
trovato un post-it», socchiuse gli occhi chiari guardandola
ancora
con attenzione, tentando di abituarli al buio.
«Un
post-it?».
«Sì.
E la cosa bizzarra, è che ce n'erano tanti altri. Trentadue
post-it
gialli con su scritto ti
amo».
Kara
rise, avvicinandosi. «D-Dici davvero? Beh…
è una cosa piuttosto
strana».
«Tu
non ne sai nulla?».
«Pff,
no, per niente».
«Alex»,
disse Lena con decisione, «Lo sapevo che era lei! A volte mi
guarda
in modo un po'… ambiguo».
Kara
scoppiò a ridere e Lena le sussurrò di fare
più piano, trattenendo
un sorriso. La prima si avvicinò maggiormente e
deglutì, per poi
mordersi il labbro superiore. Aprì la bocca piano,
raccogliendo
tutto il suo coraggio. «T-Ti amo». Vedendo che
l'altra era rimasta
ferma e senza parole, si lasciò andare: «Ti amo,
Lena». Anche nel
buio riuscì a vedere i suoi occhi grandi quasi sorpresi,
come se
ascoltare quelle parole fosse tutta un'altra cosa. Le prese il viso
con i palmi delle mani e si scambiarono un bacio, prima piccolo,
intenso ma breve, si guardarono e Lena si raddrizzò sul
posto a
sedere, sfilando la sua vestaglia e alzando la maglia del pigiama di
Kara che, aiutata da lei, le passò dalla testa per gettarla
a terra.
Le loro labbra si ritrovarono subito, spalancando la bocca,
assaggiandosi, trattenendo il fiato. Lena le passò le mani
sui
fianchi, strinse e abbassò la testa per baciarla sulla
pancia, così
salì fino al seno e, alzando lo sguardo verso il suo, si
perse nei
suoi occhi. Kara trattenne il fiato, abbassandosi il tanto giusto per
baciarla ancora. Annuì in un sorriso e Lena
ricambiò, lasciandole
un altro bacio, e un altro, un altro.
Si
alzarono dal tappeto e Lena la accompagnò sul letto;
sistemandosi
sopra di lei non perse tempo, baciandole intorno l'ombelico e
premendo con i polpastrelli la sua pelle tonica, far diventare bianca
la zona intorno alle sue dita, lasciarla e stringere ancora. Kara
chiuse gli occhi e sospirò rumorosamente quando
sentì le sue labbra
calde salire sul proprio corpo. Per un attimo ebbe i brividi e la sua
pelle cambiò, facendo sorridere Lena. Si baciarono con
passione,
senza respiro, e Kara tentò di tirarle giù le
spalline della
camicetta da notte, finendo per incastrarsi tra una di quelle e
un'ascella, non riuscendo a liberare le dita intanto che si
baciavano. Lena dovette lasciare le sue labbra per ridere piano e
Kara fu sul punto di capire se avrebbe dovuto nascondersi per la
pessima figura o esserne lieta, perché così
vicino a lei, mentre
rideva, illuminata dalla flebile luce della notte, era la visione
più
bella della sua vita, tanto che avrebbe voluto immortalare quel
momento nei suoi occhi, se avesse potuto. Decise di imbronciarsi,
diventando terribilmente rossa. Lena avrebbe potuto prenderla in
giro, non sarebbe stata la prima volta, invece la baciò. Era
un
bacio caldo, lento, che sapeva di parole non dette, mentre la teneva
dalla nuca sopra il collo e la mano libera le spostava i capelli
biondi dal viso. Quando si allontanò da Kara per mettersi
seduta, fu
lei a tirarsi sulla testa la camicetta scura e a lanciarla via.
All'altra
mancò il fiato, deglutendo, stringendo le labbra; sentiva il
viso
farsi bollente e il cuore, già veloce, pareva minacciarla di
scoppiarle in petto: Lena Luthor era su di lei con il solo intimo di
pizzo addosso, i capelli lisci che le scendevano sul seno, in una
situazione decisamente intima, che avrebbe richiesto una reazione
controllata e altrettanto intima. Ecco perché dalla sua
gola, ancor
prima che potesse aprire bocca, scaturì un soffocato cigolio
di
profonda agitazione molto più simile al verso di un animale
strozzato, temendo in altro modo che avrebbe urlato; sperò
con tutta
se stessa che lo non avesse sentito. Prese respiro e Lena fu di nuovo
su di lei, baciandola, tirandole via un labbro, dopo scese sul collo,
facendola sospirare.
«S-Sai
a cosa stavo pensando…?». Sentì Lena
riderle con l'alito caldo
sulla pelle e poi baciarla ancora.
«Deve
essere importante, se non può proprio aspettare».
Con
una mano, le tirò l'elastico dei pantaloni del pigiama e
Kara
sobbalzò. «N-No, è che…
pensavo a questo».
Lena
si fermò e, spostando i capelli da un lato, alzò
gli occhi verso di
lei, inarcando un sopracciglio. «Pensi a questo mentre lo
facciamo?».
«No»,
emise, mordendosi un labbro. «Penso a questo
perché ci pensavo da
quando sono qui, oggi. Pensavo che avremmo passato la notte insieme
da quando sono arrivata».
Lena
le strinse una coscia e si tirò su, guardandola in faccia.
«E lo
stare attente? Lo stare lontane?», bisbigliò,
osservandola ridere,
sotto di lei. Le spostò un capello dal viso e si
fermò per
carezzarle una guancia, lentamente.
«Beh,
sì, pensavo anche a quello. Ma è tipo come quando
la testa ti dice
di fare una cosa ma tu la ignori e non fai che pensare di farla, di
farla e basta. U-Una cosa così. Come una ribellione a te
stessa».
«Conosco
quella sensazione».
«Sì?».
«Anche
io pensavo a questo da quando mi sono alzata questa mattina. Sapevo
che sarebbe successo. Volevo che succedesse».
Kara
le sorrise e la baciò. Un bacio veloce, furtivo e, con una
mossa
rapida degna di un ninja, l'avvolse con le braccia e capovolse la
situazione, facendole segno di tacere dopo averla sentita mugolare di
sorpresa. Rise e Lena, in segno di protesta, infilò le mani
sotto il
pantalone del suo pigiama, stringendole le natiche. «Ehi».
«Shh».
Si
baciarono ancora. Lena riuscì a toglierle il pantalone e
Kara la
baciò intorno ai seni, diventando paonazza quando
trovò la forza di
sganciarle il reggiseno. Quella ragazza era la perfezione.
Restò a
godere della sua immagine quasi completamente nuda sotto di lei e
dopo si abbassò per prenderle un seno con la bocca,
sentendola
gemere piano, intanto che sentiva sotto di lei la sua bocca dello
stomaco abbassarsi e sollevarsi per via del cuore affannato. Kara
capì che non era la sola ad agitarsi in quella situazione e
che per
quanto potesse imbarazzarsi, quello aveva effetto anche su Lena.
Sapeva che la ragazza aveva più esperienza di lei, eppure le
sembrava così sotto pressione… Le
passò le mani sul busto,
carezzando ogni curvatura, i fianchi, piano, sfiorando la sua pelle
appena per sentirla deglutire e farlo ancora, poi, quando prese
l'altro seno e concentrare la mano destra su quello che aveva
lasciato. Le baciò la pelle intorno. Temeva a stringere
troppo e
pensò solo di sfiorare, toccare, sentire. Quando
alzò gli occhi la
vide accennare un sorriso e si alzò per baciarle quelle
labbra
ingrate, che l'accolsero come se fosse questione di vita o di morte.
«Ridi…?!»,
sussurrò, rossastra, contro le sue labbra mentre Lena
continuava a
sorridere, catturandola col suo sguardo e intrecciando una ciocca dei
suoi capelli con un dito.
«No.
Mi piace».
«Ti
piace?». La vide annuire e diventò ancor
più rossa, perfino sulla
punta delle orecchie. La baciò di nuovo e decise di scendere
ancora
sui suoi seni, ma Lena fu veloce a sganciarle il suo, facendole cenno
di fare silenzio, sollevandola.
Sedute
al centro del letto, Lena le passò la lingua sotto il collo
e Kara
tirò indietro la testa, socchiudendo gli occhi. Quando le
sfiorò il
seno fu sul punto di lasciarsi cadere.
«Come
la vaniglia…», le soffiò con un
sorriso, assaggiando la sua pelle
delicata e schiudendo le labbra.
Col
fiato corto, non disse una sola parola intanto che Lena si prendeva
cura di lei, capendo solo in quel momento quanto, accidenti quanto,
le piacesse quando la chiamava così. Poco dopo la fece
sdraiare di
nuovo e, col suo aiuto, sfilò le mutandine, calciandole via.
Si
guardarono negli occhi e Kara ingurgitò saliva. Non fu
difficile
intuire per Lena che l'ansia della ragazza crebbe a dismisura in
quegli ultimi secondi. Cercò di non ridere seppur la
trovasse
incredibilmente adorabile perché non voleva irrigidirla o
farla
imbarazzare; il suo compito ora era quello di farla sentire bene,
tranquillizzarla. La baciò e Kara ricambiò; si
accarezzarono a
vicenda e, per non farla sentire in svantaggio, arrotolò i
suoi slip
e li allontanò coi piedi. Spostò una gamba di
Kara e tra le sue ci
lasciò cadere il ginocchio destro, passando su di lei,
guardandola
negli occhi. Oh, per un attimo pensò che l'idea di mettersi
nuda non
aveva giovato sull'agitazione di Kara: sentiva il suo cuore battere
nel petto molto più veloce del proprio, già
discretamente provato,
ma, soprattutto, pareva che non riuscisse più a scendere lo
sguardo
oltre il naso, immobile come una scultura di pietra. «Kara,
puoi
guardare», sorrise, non riuscendo a farne a meno.
«Credimi se ti
dico che sono davvero molto nervosa, in questo momento»,
annuì,
spostando i capelli corvini da un lato. Kara la aiutò a
farlo,
acchiappando quelli erano rimasti indietro. «Siamo noi e lo
vogliamo
entrambe… Arrivate a questo punto, vergognarsi del nostro
corpo
sembra un po' sciocco, non trovi?».
Kara
le passò una mano sul viso e ne carezzò le forme,
prima che
entrambe si accostassero per portarsi via un bacio. Poi la
guardò,
attentamente, da capo a piedi come la posizione le permetteva,
imporporata di un rosa acceso sulle gote. «Sei
bellissima».
Lena
trattenne un sorriso e abbassò la testa su una sua spalla,
diventando rossa. «È un colpo basso, Kara Danvers.
Ti ho già detto
di essere nervosa».
«Non
credevo che la verità arrivasse a bloccarti».
«Oh,
stai zitta», arricciò il naso e la
baciò con passione. Mentre Kara
l'abbracciava e piegava la gamba lasciata libera dal corpo di Lena,
quest'ultima si insinuava con la mano destra sul suo corpo disteso,
tastando lungo il cammino, lasciando la sua bocca per baciarle il
collo, sentendola prendere un grosso respiro e muovere il bacino,
sotto di lei, quando arrivò al punto desiderato tra le sue
gambe. La
voleva, lo sentiva. Giocò un po', lasciando che arrivasse a
desiderarla e dopo interi minuti di sospiri e respiro corto in cui
Lena le ricordava di fare silenzio, infine entrò in lei,
piano,
guardandola mentre apriva la bocca e tratteneva il fiato. Non si
sarebbe persa quel momento. La baciò, muovendosi in lei e
con tutto
il corpo, i propri seni sui suoi turgidi, e la guardò negli
occhi
tanto a lungo che Kara arrossì lentamente, girando lo
sguardo. Ma
non le disse nulla; non aveva il fiato né le parole. Lena
capì che
doveva essersi sentita a disagio almeno un po' e si scusò
lasciandole un bacio sul collo, leggero, e un altro, fino a quando,
con un sospiro strozzato, non si fu di nuovo girata e Kara
attirò
quella bocca sulla sua.
Entrambe
in movimento, Kara la strinse sulle spalle e Lena si buttò
con tutto
il corpo su di lei, mordendole il collo, scendendo e baciandole il
seno, tapparle la bocca con un bacio quanto la sentì
irrigidirsi,
restandole vicino, fissandola. «Shh»,
bisbigliò contro il suo
orecchio destro, appena. Le sorrise dopo che la sentì venire
e
prendere aria. La baciò su una guancia, sul collo, sul
petto, poi
sulla fronte e sulle labbra, portando via le dita da lei, lentamente
e accarezzandola, continuando a baciarla.
Si
scambiarono un bacio e Kara non riuscì a non mantenere un
sorriso
sulle labbra.
Lena
le accarezzò il viso rosso, continuando a non farsi mancare
un suo
solo movimento di ciglia.
Kara
sospirò, ricercando i suoi occhi. «Mi
guardi…», aggrottò le
sopracciglia.
«Scusami»,
le disse, appoggiandosi di più verso il materasso senza
toglierle
occhio, allungando una mano per accarezzarle una guancia e, col
dorso, scendere su una spalla, e sfiorarle la pelle a cui venne
qualche brivido, lungo il corpo nudo. «Non potevo non farlo,
avrei
rischiato di perdere qualcosa. Non era mia intenzione metterti in
soggezione».
Lei
abbozzò un sorriso, poi alzò gli occhi e nascose
il suo viso contro
una spalla dell'altra. «Non mi hanno mai guardata
così».
«Allora
hanno perso una Kara bellissima diventare raggiante».
Kara
rise. «Lo dici perché vuoi continuare a fissarmi
senza che dica
niente».
«In
parte», rise appena anche lei, «Ma se non fosse
vero, perché
guardarti?». Rialzò il viso e lei ne
approfittò per regalarle un
bacio. «Durante l'orgasmo, il cervello rilascia il cosiddetto
ormone
della felicità e tu ti abbandoni
completamente…», lasciò la
frase a mezz'aria e Kara si morse un labbro, per poi sorriderle,
sospirando ancora.
«Voglio
fare anch'io un esperimento, signorina Luthor».
«Mi
piacciono gli esperimenti. Sentiamo».
Kara
la baciò con un gesto veloce e, con un sorriso divertito, la
spinse
schiena contro il materasso. Lena inarcò un sopracciglio e
lei
deglutì, tentando di frenare l'ansia, baciandole di nuovo i
seni e
scendendo verso il basso cautamente.
«Mi
piacciono molto
gli esperimenti, voglio dire», ripeté col fiato
corto.
Kara
rise, continuando a baciare il suo corpo nudo sotto il proprio.
«È-È
la prima volta per me con una donna e non sono affatto sicura, per
niente sicura di riuscire a fare ciò che- che hai fatto tu,
ma…»,
le aprì le gambe stringendole le cosce e Lena chiuse gli
occhi
d'istinto, trattenendo il fiato. Il cuore di Kara palpitò
forte
quanto quello dell'altra; d'altro canto, ora che si trovava
lì,
l'ansia era cresciuta esponenzialmente. Non sapeva se lo avrebbe
fatto bene o meno, aveva un'unica certezza: non poteva entrare nel
panico in quel momento. Lena era lì ed era lì per
lei; e voleva
farla sua più di qualunque altra cosa. Le strinse di nuovo
una
coscia e portò la bocca nella sua zona più
sensibile, già umida; a
Lena mancò il respiro e Kara la sentì muoversi
contro di lei,
mentre stringeva il lenzuolo.
Era sua. La strinse come non l'aveva mai stretta, morbida, calda,
aprendo e schiudendo la bocca, lasciando che la lingua la esplorasse.
La sentì gemere, seppur piano, e alzò la testa il
tanto giusto per
sussurrarle di fare silenzio; soddisfatta che ora potesse dirlo a
lei. All'improvviso sentì una mano di Lena sui capelli, il
suo corpo
che rispondeva a ogni suo tocco, respiro, movimento, finché
non la
sentì cambiare, fermarsi, stringerle i capelli, irrigidirsi
contro
di lei e poi lasciarsi andare senza un fiato, se non un mugolio, nel
silenzio della stanza. Kara le lasciò un bacio e
spalancò gli
occhi, diventando rossa, incredibilmente meravigliata di ciò
che era
appena successo. Risalì il suo corpo lasciandole dei baci,
non
riuscendo a guardarla negli occhi subito, li chiuse e la
baciò sul
collo e così la sentì prenderle il viso,
catturandole le labbra con
le proprie, la lingua. La lasciò e lei, ancora imbarazzata
per ciò
che aveva fatto, cercò di nascondere il viso sui suoi
capelli, se
non fosse che Lena glielo teneva ancora fermo verso il suo.
«Ti
amo». Fu allora che Lena la vide riaprirli lentamente,
grandi,
mentre deglutiva e fremeva su di lei. «Ti amo
anch'io… Scusa se…
non riuscivo a dirlo». Kara alzò una mano e gliela
portò su una
guancia, baciandosi ancora.
Avevano
cominciato a sentire freddo, poco più tardi, e si erano
tirate su le
coperte. Pancia in su, Kara la strinse tra le sue braccia ed entrambe
restarono così un po', non sapevano quanto, ascoltando l'una
il
respiro e il cuore dell'altra. «Mi sta venendo
fame…», ruppe il
silenzio e Lena rise, così rise anche lei.
«Sai,
non ti ho mai detto una cosa», sussurrò Lena. «Non
ti ho mai detto quanto stretta tra le tue braccia», fece una
pausa,
il rossore perpetuo sulle gote, «io mi senta al
sicuro». Kara
sorrise ma la lasciò parlare; la ragazza aveva il viso mezzo
schiacciato contro il suo petto. «Come quando quella volta
scendemmo
dal materassino», confessò.
«Già allora sapevo che saresti stata
un bel problema, per me».
«Un
problema?!».
Alzò
lo sguardo e la scrutò, trovando i suoi occhi azzurri mai
tanto
limpidi, abituate a focalizzare nel buio. «Guardaci ora:
direi che
il problema è evidente». La sentì
ridere e fece sorridere anche
lei.
«Allora
dovremo buttarci ancora».
«Come?!».
«Su
un materassino».
«Non
pensarci nemmeno». Kara abbozzò una risata e si
spostò; quando
l'altra capì che stava preparando per andarsene, la
trattenne
subito. «Aspetta», la guardò grave,
«Puoi restare ancora, è…»,
allungò lo sguardo verso l'orologio sul comodino che
affacciava alla
porta del bagno e deglutì alla vista delle 04:48 analogiche
che
luccicavano verdi nel buio. «Ancora pochi minuti?».
Sapeva che non
poteva farla restare, ma separarsi in quel modo sembrava
così brutto
dopo la notte che avevano trascorso; si sentiva leggera e fine senza
il contatto della sua pelle contro la propria.
Per
fortuna Kara ci ripensò e la prese ancora con sé,
lasciandole un
bacio delicato sulla testa. «Va bene: resto. Non piace
neanche a me
l'idea di andarmene…».
«Lo
so».
«Sai
a cosa pensavo?». Lena inarcò un sopracciglio e
sollevò la testa,
guardandola di sbieco. «Non a quello», rise
diventando rossa, «Ma
alla prima volta che ci siamo viste, sul treno».
«E?».
«Nulla.
A quel momento. E capisco che era… perfetto». Si
scambiarono un
bacio, per poi restare in silenzio.
Kara
la lasciò qualche minuto dopo le cinque. Dato che erano in
festa,
sapevano che avrebbero potuto dormire un po' di più,
così le disse
di restare sotto le coperte, con un ultimo bacio. Si rivestì
in
fretta, aprì la porta e la richiuse. Maggie. Kara
spalancò gli
occhi. Maggie spalancò gli occhi. Erano a pochi passi l'una
dall'altra poiché la camera di Alex era dall'altro lato del
corridoio a solo un metro di distanza. Le due si guardarono e poi si
studiarono, socchiudendo gli occhi alle prime luci del mattino che
entravano dalle finestre del corridoio.
Maggie
piegò le labbra in una smorfia e poi annuì.
«Stavo andando in
bagno».
«Anche
io», finse un sorriso divertito, «Ma ho chiaramen-ahah,
sbagliato porta! Lena dorme, credevo di poter usare il suo dato che,
insomma, ormai ero lì, ma non mi sembrava molto igienico,
è-è il
suo bagno privato, dunque sono… sono uscita».
Ridacchiò ancora,
piano per non destare sospetti, poi tornò seria di colpo e
abbassò
la testa, andando verso la sua camera. Si morse la lingua, tornando
indietro dalla parte opposta per il bagno. Pesava di averla fatta
franca, peccato che con la luce accesa del bagno, notò di
avere la
maglia del pigiama al contrario. Sbuffò arresa, sentendo
ancora il
sangue palpitare verso il basso ventre.
Pensavano
che avrebbero potuto dormire un po' più a lungo. Invece no.
Il
risveglio arrivò alle otto del mattino meno qualche minuto,
con
Eliza che si impegnò a bussare porta per porta per farle
alzare
poiché era il Black Friday e lei non si perdeva mai un Black
Friday.
Al contrario, Kara la sentì dire ad Alex, alzata per prima,
che era
già tardi. Solitamente le due stavano al campus e a casa la
notte
prima del Black Friday e avevano piacevolmente dimenticato quanto la
loro madre si eccitasse per queste cose.
«Alle
dieci inizio il turno in boutique», le ricordò
Alex in uno
sbadiglio, lasciando il corridoio.
«Oh,
figlia mia, tu sarai nel vivo
del Black Friday».
«Voglio
morire», urlò e poi Kara sentì dei
piedini correre, sospettando
fosse Jamie. La bambina si svegliava sempre molto presto, sapeva, e
sapeva anche quanto Alex odiasse lavorare in boutique durante il
Black Friday.
Si
alzò con calma. Aveva dormito poco, ma non si sorprese di
sentirsi
già completamente sveglia. Aveva ancora i battiti del cuore
accelerati e un sorriso felice, vide attraverso uno specchio.
S'incantò, fermandosi a controllarsi il viso rosso,
spingendosi le
guance; oh, temeva che avrebbero notato la sua felicità a
vista.
Aprì quello scuro armadio che le avevano lasciato per
mettere le sue
cose e prese una camicia e una camicia. Chiuse. Riaprì.
Scambiando
una delle due camicie con un pantalone. Oh, era come se, da un
momento all'altro, non capisse più niente. Si
assicurò di avere
davvero un pantalone e una camicia e, ciabatte ai piedi, prese
l'intimo di ricambio e uscì in corridoio, chiudendo la
porta. Scorse
dalla quella socchiusa poco avanti che Maggie era ancora a letto e
strinse i denti, passandole davanti a passo felpato. Sperava davvero
che non si fosse fatta idee sbagliate. O meglio, quelle giuste. La
porta della camera di Lena invece era chiusa e ci passò
avanti, in
ricerca il bagno. Allungò la mano per tirare la maniglia se
non
fosse che la porta si aprì e, prima che potesse farci caso,
sbatté
contro il suo naso.
Lena
trattenne una risata e Kara la guardò, già
vestita, capelli
raccolti, che si tendeva verso di lei. La tirò dentro e
chiusero la
porta. Si baciarono, spingendosi contro il muro e urtando un
mobiletto, e la roba che aveva con sé cadde ai loro piedi.
Poi Lena
non si trattenne e rise di nuovo, controllandole il naso.
«Non ci
credo che hai aspettato per venire in bagno proprio nell'esatto
momento in cui stavo ormai per uscire». Era un po' rosso e si
alzò
in punta di piedi per baciarglielo.
«Maggie
è a letto, tutti sono sotto e tu hai un bagno privato,
perdonami se
non immaginavo che… che eri qui». La
sentì ridere di nuovo.
«Sei
arrivata giusto in tempo».
«Non
hai un bagno tuo?».
«Sì…
e un giorno mi piacerebbe mostrarti la vasca».
«E
allora cosa facevi qui?».
«Mh…»,
si morse il labbro inferiore, «Forse aspettavo te».
Si
sorrisero e baciarono ancora, tenendosi vicine, le mani di Lena le
scivolarono sotto il suo pigiama. Kara capì quali erano le
intenzioni dell'altra e per quanto la prospettiva di replicare il
piacere della notte appena trascorsa la stuzzicasse, sentire la voce
di Eliza chiamarla l'aveva riportata tristemente alla realtà
dove
loro dovevano mostrarsi poco più che amiche. Si convinsero
che era
meglio sbrigarsi e Lena lasciò, seppur davvero dispiaciuta,
che si
lavasse da sola; accontentandosi di averla aiutata a spogliarsi
almeno fino al seno, riempendole la pelle già accaldata di
baci.
Quando
scese al piano di sotto, disse ad Eliza che l'aveva vista entrare in
bagno e che sarebbe scesa presto. Si scambiò uno sguardo con
Maggie
appena scesa, ancora sguardo assonnato, che le sorrise intanto che
beveva la sua tazza di caffè macchiato. Lo
scambiò con Alex ma non
troppo a lungo; aveva spento il disturbatore del segnale della
microspia quella mattina appena sveglia, ma non sapeva se avrebbe mai
scoperto che gliel'aveva manomessa e non voleva che leggesse dal suo
viso che le nascondeva qualcosa. Poi lo scambiò con Eliza
che,
eccitata per le spese del Black Friday, l'aveva abbracciata
d'istinto. E Lillian. Lei era un fantasma di se stessa e
guardò
appena chiunque: troppo stanca dal giorno prima per svegliarsi tanto
presto. Lena la vide farsi due tazze di caffè nel giro di
dieci
minuti. Jamie era incredibilmente felice: schizzava da una parte
all'altra sventolando un suo cappellino come una bandiera, masticando
biscotti. Non era la sola a essere così incredibilmente
felice: Kara
era un raggio di sole e sorrideva estasiata. Scese dalla scala con i
capelli ancora bagnati e Jamie le corse incontro al grido di zia
Kara.
Alex alzò un dito per replicare e dirle di non chiamarla
zia, ma
lasciò subito perdere, troppo depressa per via del Black
Friday per
darci abbastanza importanza.
Kara
la prese in braccio ed entrarono insieme in sala da pranzo.
«Perché
così felice?».
Sia
Kara che Lena lanciarono un'occhiata in direzione di Alex e la prima
deglutì, mal nascondendo una chiara agitazione.
«Cos- no-non sono
più felice di altre volte. Ho dormito bene».
Dannazione ad Alex e
al suo occhio di falco.
Sua
sorella aggrottò le sopracciglia, finendo il suo
caffè. «Ti sei
svegliata presto e non hai allenamento. Di certo non è
normale».
Passandole vicino le scombussolò i capelli.
Maggie
invece si comportò come se non avesse davvero fatto caso a
Kara che
usciva alle cinque del mattino passate da camera della sua
sorellastra ed entrambe tirarono un sospiro di sollievo, pensando di
essere al sicuro, almeno per il momento.
«Siete
pronte?», urlò a un certo punto Eliza, guardando
una per una e
mettendo ancor più in subbuglio l'animo della povera Alex.
«Forza!
Andiamo! In macchina, guido io, muovetevi». Tirò
fuori dalla borsa
un'agenda per tenere a mente le cose da arraffare in sconto e Lillian
la seguì senza fiatare, a passo di zombie. Le costrinse a
salire
tutte in macchina per andare in centro e lasciarsi coinvolgere dal
vortice delle spese pazze, mentre Maggie e Alex avevano la loro auto
parcheggiata in garage dalla sera prima e tornarono da sole; e la
seconda ne fu incredibilmente grata.
C'era
un po' di tensione nell'aria, la notarono tutte a parte Eliza, che
non faceva che blaterare sulle cose che avrebbe preso, affidando la
sua preziosa agenda alla futura moglie. Lei non ne capiva il senso,
glielo aveva ripetuto più volte: quando voleva una cosa,
bastava che
andasse semplicemente a comprarla, che fosse a prezzo pieno o in
sconto, senza dover certo litigare con qualcuno per averla. Ma
l'altra non le dava retta. Senza contare che, di tanto in tanto,
ricercava attraverso lo specchietto gli sguardi delle due ragazze ai
posti dietro. Lena guardava fuori dal finestrino e Kara al suo
telefono, leggendo altri messaggi e chiamate perse da parte di James
Olsen. Erano silenziose, forse troppo, e non si sfiorarono se non a
una curva, ritornando ognuna al proprio posto dopo un breve sorriso.
Lillian si chiese se Kara non avesse parlato della loro discussione
privata con Lena.
Eliza
le trascinò in un supermercato e mandò avanti
Kara per creare un
varco tra le persone in fila ed entrare ad ogni costo. Si accorsero
presto che per via del caos e delle grida e delle corse e delle tante
persone ammassate tra graffi, spinte e, Kara lo subì in
prima
persona, morsi, nessuno mai là in mezzo avrebbe notato le
Luthor.
Riuscirono a prendere una televisione nuova che Eliza si
combatté
con una madre e due figlie, inviò Kara a rubare dei cuscini
da un
carrello e diede a Lena un lettore dvd lanciandola tra i leoni,
«Quella
si è presa l'ultimo lettore in sconto dell'ottanta per
cento»,
in modo che potesse passare attraverso la gente distratta per
recuperare dei titoli dagli scaffali quasi vuoti per completare le
sue collezioni.
Kara
arrivò in soccorso della sua amata che per paura
lanciò la scatola
del lettore per aria, rifacendo una scena del famoso film The
Bodyguard
in salsa sconti. La trascinò mano nella mano e risero come
due
bambine, finché non furono investite dalla massa e corsero
in cerca
delle loro madri in mezzo alla fetente guerra.
Quando
uscirono dal supermercato, lo fecero a fatica mantenendo salde tra le
braccia i loro affari. Erano stanche e provate a parte Eliza che
considerava già dove mettere la televisione nuova e, a
dispetto
delle previsioni, Lillian, che manteneva un sorriso soddisfatto per
aver portato fino alla cassa con successo un cellulare nuovo dopo
aver litigato a spintoni con un gruppo di donne inferocite. Non si
era mai sentita tanto appagata come nel vincere il comprare quel
cellulare. Che non le serviva. Ma che aveva lottato con le unghie e
con i denti per avere; capendo finalmente, secondo lei, i veri
propositi di quella giornata nera.
«Lo
rifacciamo?», domandò con eccitazione ed Eliza le
strinse le mani,
dopo aver sistemato tutto sul cofano dell'automobile.
«Abbiamo
altre mete, non temere». Era commossa come se, per la prima
volta,
avesse davvero compreso quanto fossero anime gemelle.
«Noi
possiamo andarcene?».
Kara
ci tentò, ma Eliza la fulminò con lo sguardo,
intimando alle due di
entrare in macchina. «Siamo una squadra. Forza».
«Ci
uccideranno», le bisbigliò Lena in un orecchio,
aprendo lo
sportello.
Kara
sorrise e stava per raggiungerla quando sentì il cellulare
vibrare.
Ancora una chiamata di James e gli avrebbe risposto solo per dirgli
di smettere, ma invece, con sua sorpresa, era suo cugino. Si
allontanò per rispondere ed Eliza le suonò il
clacson per dirle di
fare presto.
«Ciao,
Kal, sono contenta di sentirti», gli disse subito accettando
la
chiamata, «Mi spiace che tra una cosa e l'altra non abbiamo
potuto
sentirci ieri».
«Sì,
dispiace anche a me, non preoccuparti, ma…».
La voce di Clark Kent era flebile, quasi assente, non certo gioviale
e sicura come suo solito. «Non
ti ho chiamato per questo».
«Cos'è
successo?».
«Dobbiamo
parlare, perché sono abbastanza… confuso
in questo momento, se non proprio…»,
lo sentì prendere fiato. Lei non capiva e lo
lasciò parlare, mentre
il suo cuore batteva a ritmi più forti. «Dobbiamo
parlare di lei, di voi. Non va bene, Kara, non puoi avere una
relazione con lei».
Deglutì,
spegnendo il suo sorriso. «Di cosa
stai…?».
«Lo
so, Kara. So di te e Lena Luthor».
Capitolo
lungo, lungo, spero non vi siate addormentati a metà :P
Anche se ne
dubito per un particolare: finalmente le nostre due protagoniste sono
riuscite ad andare a letto insieme! Non come avevano pianificato, la
villa era piena di persone, ma sapevano
che sarebbe successo e così doveva andare! E non di meno
sono
riuscite a dichiararsi a vicenda :) Ce ne hanno messo di tempo, eh?
Ma alla fine, le cose succedono quando devono succedere! E forse
Lillian, inconsapevolmente, ha aiutato. Anche se le sue intenzioni
erano l'opposto.
Ricapitolando…
James cerca disperatamente di parlare con Kara, ma vuole farlo faccia
a faccia, dopo ciò che ha scoperto. Non riuscendo a parlare
con lei,
pare che abbia invece parlato con Clark, che ha subito chiamato la
cugina: sembra proprio che non sia d'accordo sulla loro relazione.
Lena ha capito, e poi le ha confermato Winn, che a mettere la
microspia in camera sua è stata Alex; ora dovranno parlarne.
Dicevo,
Lillian parla con Kara perché ha intuito cosa sta succedendo
a Lena
e non vuole che si innamori di lei, consiglia alla ragazza di tenerla
lontano dal suo cuore. Peccato che a quel punto sia Kara, come mossa
proprio per via di queste parole, a fare qualcosa di decisivo: le
dice di amarla. Trentadue volte su dei post-it gialli prima che a
voce. E Lena la invita a stare in camera sua. È fatta! E poi
aveva
voglia… di mandarino, che capite?
Maggie
però ha sorpreso Kara che usciva dalla camera! Ops.
Avrà capito? In
fondo può capitare di sbagliare porta, in una grande villa
che
ancora non conosce a fondo… Anche se Alex ha notato la sua
felicità.
…
e
ora?
Ricordatevi
bene tutto quello che succede qui, perché il prossimo
capitolo sarà
uno stand alone che ci porterà ad ascoltare i pensieri, e a
vedere
le azioni, di un altro personaggio, e sarà l'ultimo capitolo
prima
della mia vacanza :) Ne ho parlato nelle note sullo scorso capitolo.
Piccoli
appunti:
-
Emh, io non sono per niente brava a scrivere, per non parlare di
descrivere, certe scene XD A voi l'ardua sentenza!
-
Quando iniziai a scrivere la fan fiction, era programmato che Lena e
Kara finissero a letto insieme a Natale XD Olè, è
accaduto un mese
prima! Vai a fidarti dei personaggi, quando scrivi, che vogliono
affrettare i tempi, ahah! Sono felice che sia successo prima; gli
eventi si stanno incastrando meglio.
-
“Cosa
sei per mia figlia?”:
è un rimando alla serie, seconda stagione. Era una cosa
programmata
fin dagli albori, questa battuta: doveva
esserci.
-
Forse dovevo scrivere questo sotto alle note del capitolo scorso ma
lo avevo scordato. È un piccolo promemoria per chi si
confonde nel
leggere dei salti temporali: quando succede, cambio tempo verbale!
→
presente:
Kara guardò il cielo.
→
passato:
Kara aveva guardato il cielo.
Adesso
sapete che se per caso c'è un personaggio che aveva
fatto
delle cose, e non che le fece,
state leggendo di qualcosa accaduto nel passato :) Poi se ci sono
tempi sballati da qualche parte è perché mi
confondo e sbaglio; in
quel caso chiedo scusa. Ci sono diversi modi per indicare una cosa
successa nel passato, ogni scrittore ne usa uno diverso: chi lo mette
virgolettato, chi in corsivo, io cambio tempo.
-
Questo non ha a che fare con la mia fan fiction, ma in generale con
EFP: state attenti perché si mangia le recensioni! O le
risposte
alle recensioni, in caso. Siccome sta capitando a molti, vi avverto:
quando scrivete una recensione, o una risposta che sia, copiate
il messaggio prima di inviare, perché non si sa mai, se poi
non ve
la pubblica o non la pubblica completa, che dobbiate riscrivere.
-
Importante:
sono ancora senza internet. A causa di problemi non so esattamente
quando riavrò la linea, quindi scusatemi se non riesco a
rispondervi
alle recensioni! Preferisco portarmi avanti coi capitoli con il poco
che mi resta; risponderò a voi appena potrò,
spero presto :( Per ora dico solo GRAZIE a tutti **
Dunque,
se tutto va come previsto, lunedì 30 avrete il prossimo
capitolo, il
22, che si intitola: Le
stelle!
Avete capito di chi si parlerà? :) Con mia sorpresa, avrete
a che
fare con un certo personaggio un poco prima di quanto avessi
pronosticato, anche se nel passato…
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Capitolo 23 *** 22. Le stelle ***
Vedersi
faccia a faccia, parlarne a voce per non essere frainteso, poterle
spiegare come aveva ottenuto quelle foto e chiederle, accidenti, se
era davvero lei quella degli scatti. James Olsen aveva provato a
contattarla più volte ma Kara Danvers diceva sempre di non
potersi
muovere, di avere da fare con gli allenamenti, di dover studiare, e
poi il Ringraziamento in famiglia. Non aveva tempo per lui. E poi si
era visto con Clark. Oh, lui era il suo migliore amico, si vedevano
quasi tutti i giorni, si dicevano sempre tutto e aveva provato a fare
finta di niente, a tenere per lui quello che doveva sicuramente
essere un segreto, ma si era accorto che gli nascondeva qualcosa e
odiava avere misteri con quel ragazzo, specie se poi, quei misteri,
riguardavano la sua famiglia. Così si era ritrovato a casa
sua e di
Lois per festeggiare insieme il Ringraziamento e, per non rovinargli
la festa, aveva aspettato che i suoi genitori tornassero a Smallville
per prendere la sua fotocamera e avvicinarlo, dirgli che doveva
prepararsi. Sapeva che la cosa lo avrebbe sconvolto.
«Devi
promettermi che non farai scenate, solo…», aveva
serrato le
labbra, facendo una smorfia poco convinta, «Magari ci pensi a
fondo,
metabolizzi la cosa, e sarai tranquillo con lei».
«Di
cosa stai parlando?», gli aveva chiesto con un sorriso, non
comprendendo il comportamento dell'amico. Finalmente gli avrebbe
svelato il perché di tanto rimuginare. Aveva adocchiato Lois
che
aveva lo sguardo perso nel vuoto, fingendo chiaramente di non sapere
nulla.
«Si
tratta di Kara…», gli aveva passato la sua
fotocamera dove sullo
schermo compariva una foto. «Ricordati quello che ti ho
detto».
Ancora
mezzo sorriso stampato in faccia, Clark aveva guardato attentamente
la foto e poi fatto zoom. Il sorriso si era spento poco a poco quando
la verità lo aveva trovato impreparato. Aveva guardato con
attenzione la foto e poi aveva schiacciato per visualizzare la
successiva, la successiva ancora. Stufo, era tornato indietro alla
prima foto, zoomando di nuovo sul bacio.
James
aveva sentito l'esigenza, dato il suo silenzio, di riprendergli la
fotocamera dalle mani.
Clark
era rimasto fermo, composto ma, lo conoscevano bene, piuttosto
turbato. E magari arrabbiato.
Lois
gli era andata vicino, passandogli una mano sulla schiena e con
l'altra strette le sue mani ancora per aria. «Va tutto
bene».
«No.
Non va bene», aveva chiosato trattenendo la voce,
profondamente
disturbato.
«Per
fortuna c'ero io lì. E la conosco», James si era
sentito grato di
poterlo dire finalmente, di togliersi quel peso, passandosi una mano
sulla fronte. «Un qualsiasi altro fotografo che le avesse
riconosciute le avrebbe vendute per scoop ai giornali direttamente il
giorno dopo».
«No,
no», aveva risposto Clark, iniziando a girare intorno ai suoi
stessi
passi, mantenendo basso lo sguardo e le braccia contro i fianchi.
«Quelle foto non devono vedere la luce, Jimmy, ti prego.
Lasciate
che le parli io».
«Oh,
eddai», aveva aperto bocca Lois, ghignando a braccia a
conserte;
«Sapevamo che l'avresti presa male, ma Lena Luthor
è… diversa».
Clark
l'aveva guardata con la sconfitta dipinta negli occhi. «Anche
Lex lo
sembrava».
Ricordava
che le stelle erano state l'inizio di tutto. Guardava il cielo, dalla
sua finestra nella vecchia casa dei Kent a Smallville, e si chiedeva
perché le stelle gli interessassero tanto, come se a un
certo punto
si fosse accorto della loro esistenza. E soprattutto perché,
insieme
alle stelle, ricordava il volto di qualcuno che non conosceva. Aveva
diciassette anni, era all'ultimo anno di liceo e stava cercando di
ottenere, grazie al suo impegno nel rugby giovanile, la borsa di
studio necessaria per proseguire gli studi a Metropolis. Non sapeva
ancora quale percorso avrebbe intrapreso una volta diventato
ufficialmente un adulto, ma nel mirino aveva avuto diverse
università
a quali fare domanda. Aveva una ragazza, Lana, degli amici e i suoi
genitori, Martha e Jonathan, erano i migliori. Non gli mancava nulla,
era felice, solare, eppure la sensazione di sentirsi incompleto lo
colpiva ogni volta che si rilassava, che chiudeva gli occhi, che
stava da solo. Era convinto che il volto che ricordava appena quando
pensava alle stelle ne fosse la causa: magari una sorellina o
un'amica molto intima di prima che perdesse la memoria. Aveva chiesto
ai suoi genitori che gli avevano rivelato l'esistenza di una cugina,
e allora sapeva che doveva essere lei e voleva ricordarla; per quella
ragione iniziò a collezionare stelle. Non la conosceva ma
gli
mancava. Non poteva andare a cercarla finché non l'avrebbe
ricordata.
Le
stelle erano state il suo chiodo fisso fino al compimento dei
diciotto anni e l'assistente sociale che si occupava del suo caso
venne a casa sua per parargli di ciò che era successo, se
avesse
voluto ascoltarla. Lui aveva accettato ma da quel giorno ebbe gli
incubi. Non era la storia di ciò che era successo ad averlo
turbato
e ciò lo turbava maggiormente, perché era la
sensazione di non
ricordare nulla, la sua famiglia, la sua cugina ancora là
fuori da
qualche parte e sola che avevano iniziato a tormentargli l'esistenza.
Lui doveva ricordare, doveva, e avrebbe fatto qualsiasi cosa, allora,
per avere la parte mancante della sua vita.
Aveva
frequentato il primo anno di università a Metropolis, dove
conobbe
Lois Lane e James Olsen, e iniziato prima con lui e poi con lei, a
cercare risposte a ciò che era successo. Era convinto che la
verità
fosse là da qualche parte e che doveva solo trovare un
indizio, un
qualcosa qualsiasi in modo che potesse aprire la mente ai ricordi
sopiti. Questa strada lo aveva portato a capire che ciò che
desiderava fare sarebbe stato giornalismo. E lo aveva portato dai
Luthor.
Quando
si era parlato di persone al potere che potevano essere state
coinvolte nell'assassinio dei suoi genitori e dei suoi zii, Clark non
aveva avuto dubbi ad immaginare che gli arrestati non erano i soli
che dovevano pagare e che qualcuno più in alto si era lavato
le
mani, non ci aveva messo molto ad indicare i Luthor come colpevoli.
Non esistevano prove a loro carico come di nessun altro che non fosse
al tempo già agli arresti, ma ogni volta che li vedeva
girare sui
loro macchinoni, entrare negli edifici come fossero stati i padroni
del mondo, sempre circondati da dipendenti come autisti o assistenti,
avevano mosso in lui un qualche sentimento di ripugno. Sapeva che
quella a Metropolis non era altro che una succursale della Luthor
Corp di National City ed era lì che vivevano, proprio la
città che
il gruppo di criminali aveva tenuto sotto scacco al tempo.
«Non
puoi accusarli senza uno straccio di prova», gli aveva
ricordato
Lois, al loro primo anno di università. «Sei
scemo? Serve proprio a
uno come te di inimicarsi una delle famiglie più influenti
della
zona». Lo aveva colpito sulla testa e quel giorno aveva
lasciato lui
e Jimmy pranzare da soli.
«I
suoi modi saranno pure bruschi, ma ha ragione, Clark», gli
aveva
detto lui dopo aver ingoiato un boccone, «Pensi di andare da
loro e
farli parlare? Avrai bisogno di molto altro».
Naturalmente
non era tanto sconsiderato, sapeva che doveva trovare qualcosa, per
questa ragione aveva iniziato con il suo nuovo migliore amico a
pedinare la famiglia da una certa distanza, in particolar modo Lex
Luthor, il primogenito, che era quello che più spesso si
faceva
vedere a Metropolis. Doveva avvicinarlo, trovare un qualunque
pretesto per conoscerlo.
«Ancora
una foto e ce ne andiamo», gli aveva detto Jimmy quella
volta,
mentre teneva d'occhio l'obiettivo che usciva da uno sportello
posteriore aperto dall'autista, davanti a una strada trafficata. Lex
si era tirato indietro i capelli che continuavano a finirgli sugli
occhi e si era sistemato la giacca sopra la camicia, guardandosi
intorno solo un momento, parlando con l'impiegato.
«Tutte
le volte che è a Metropolis, prima della Luthor Corp entra
in quella
caffetteria, e secondo te non coglierò l'occasione per
andarci a
parlare?», gli aveva rivolto la parola Clark, al suo fianco,
nascosti dietro un pilastro di un ponte, nella penombra.
«E
come pensi di fare? Ehi,
Luthor, posso parlarti un momento di quando la tua famiglia, forse,
ha fatto fuori la mia?»,
aveva ingigantito gli occhi, portandoli verso l'alto. «Sono
pericolosi, non so se voglio davvero avere a che fare con
loro».
«Ecco
perché resterai qui a coprirmi, non devi entrare con me e
non devi
farti vedere».
«Questa
storia non mi piace, Clark. Stiamo già violando la loro
privacy…
Forse ci stiamo spingendo troppo oltre».
Sul
viso di Clark si era tirato su un fine sorriso, guardando il suo
migliore amico e dandogli una pacca sulla spalla. Al tempo, Jimmy
Olsen era più basso di lui, magro, con un corto taglio di
capelli e
caratterialmente insicuro, non era un campione in qualche sport e mai
lo era stato, non piaceva alle ragazze, era timido e prendeva
coraggio solo perché Clark Kent lo voleva al suo fianco e,
con lui,
anche Jimmy si sentiva forte. Ma quella situazione… Temeva
che
Clark avrebbe perso di vista la portata del reale pericolo che
correvano a stare dietro ai Luthor. Di certo non era un gioco ed era
stato felice di aiutarlo a capirci di più sul passato che
aveva
dimenticato, ma stavano andando contro la legge. Clark sapeva che
Jimmy aveva paura e non gli avrebbe chiesto di fare più del
dovuto.
«Se qualcosa non ti piace, torna a casa. Dico sul
serio».
«Non
voglio lasciarti solo…».
Clark
stava per lasciare lui e il loro nascondiglio quando qualcosa aveva
toccato le loro schiene ed entrambi avevano alzato le mani per aria,
ingurgitando saliva. Clark aveva visto Lex entrare nella caffetteria,
ma gli era sembrato che ormai avesse perso l'occasione. O meglio,
qualsiasi occasione. Aveva intravisto con la coda dell'occhio Jimmy
chiudere gli occhi e poi ricercare il suo sguardo. «Va bene.
Lavori
per Lex Luthor?», aveva tuonato, cercando di nascondere i
suoi
timori a chi, dietro di loro, li minacciava con due pistole sotto le
scapole.
«Sì»,
aveva risposto una voce impastata alle loro spalle, che tratteneva
una risata. I due si erano girati lentamente e le pistole, colorate,
avevano schizzato acqua sulle loro facce incredule. «Lavoro
per Lex
Luthor e sono qui per far fuori scemo e più
scemo», aveva riso
divertita, continuando a schizzare.
«Lois!»,
l'aveva sgridata Jimmy, tenendosi il petto, «Per poco non
muoio
d'infarto».
«Alla
tua età? Fatti vedere da un medico,
però», gli aveva dato una
pacca su un braccio, «Forse calo di proteine. Non va mica
bene».
Poi aveva guardato l'altro, riponendo le due pistole d'acqua dentro
la borsetta. «Anche la tua faccia non è che sia
messa molto meglio,
ragazzone. Hai fatto merenda, oggi?».
«Siamo
qui per Lex Luthor e tu ci sorprendi alle spalle con due pistole?!
Che faccia devo fare?».
«Stavo
andando in piscina quando vi ho visto. Immaginavo stesse ancora sotto
alla vostra operazione di stalking».
«Monitoraggio»,
avevano risposto in coro per correggerla.
«Stalking»,
aveva ribadito, «Guardate sul dizionario, se non mi credete.
Qui per
Lex Luthor, eh? È là dentro?».
Tutti
e tre si erano piantonati dietro il pilastro, guardando verso la
caffetteria. Poi Lois aveva sorriso e si era sporta in avanti,
aprendosi un varco tra i due.
«Lasciate
fare a me. Ve lo do io il vostro Lex Luthor». Aveva
attraversato la
strada ed entrambi avevano sgranato gli occhi e tirato le mani in
avanti per fermarla.
«Sei
impazzita?!», aveva strozzato la voce Clark.
«E
cosa vorresti dirgli?! Torna qui», aveva detto a bassa voce
anche
Jimmy.
«Parliamone,
Lois», aveva continuato il primo.
«Quella
è fuori di testa», aveva ribadito l'amico,
guardando lui. Alla
fine, aveva visto attraversare rapidamente anche Clark, chiedendogli
di parargli le spalle. «Clark?! Non anche tu! Clark?! Io odio
i
Luthor», aveva stretto i denti, sollevando gli occhi al
cielo.
Lois
era entrata in quella caffetteria con una disarmante sicurezza. Aveva
da subito intravisto Lex Luthor e il suo aitante autista appoggiati
al bancone intanto che si bevevano qualcosa, così non si era
fermata
distante, facendo subito la sua ordinazione. Al contrario, Clark era
entrato sbattendo sullo scalino d'ingresso e si era rimesso in piedi
rapidamente solo per correre col viso nascosto dietro un giornale
raccattato su uno dei tavoli vuoti fin al carrello delle riviste,
guardando come un gufo Lois Lane e Lex Luthor a pochi metri. Ignorava
il piano della ragazza, finché non l'aveva vista prendere la
sua
tazzina di caffè fumante per spostarsi e andare proprio
verso di
lui. No, contro di lui. Addosso a lui.
«Oh,
mio Dio! Che cos'ho fatto?!», aveva cinguettato dispiaciuta a
un Lex
con la giacca e la camicia imbrattate di caffè. Clark si era
sporto
per guardare meglio, sconcertato, che per poco non rovesciava il
carrello delle riviste. Intanto, l'autista del giovane Luthor si era
subito mobilitato verso di lei, quando lui lo aveva fermato:
«No,
no, lascia stare. Può capitare a tutti», si era
voltato per
sorriderle, «Siamo così presi dalla nostre
giornate, magari ancora
mezzo addormentati», aveva ridacchiato, mentre Lois afferrava
più
fazzolettini di carta per provare a pulirlo. «Lasci stare,
signorina. Davvero, ho del ricambio, non si affanni».
«M-Ma
era caldo», si era spinta per cercare di pulirlo a ogni
costo. «Sono
così sbadata. E così dispiaciuta».
«Era
piuttosto caldo, effettivamente, ma-».
«La
prego, lasci che possa sdebitarmi in qualche modo».
Era
brava, aveva pensato allora Clark, ma ancora perplesso. Tuttavia
stava funzionando. O si sarebbe lasciato ripagare in qualche modo,
oppure Lois lo avrebbe ammorbato a morte, aveva continuato a pensare.
Se non fosse stato per un piccolo particolare.
«Aspetta,
ma… tu sei Lois? Lois Lane?».
Lei
aveva spalancato gli occhi, colta decisamente alla sprovvista, tanto
che non aveva saputo come rispondere.
«Non
spaventarti, ti ho riconosciuta da una foto. Tuo padre parla spesso
delle sue figlie alle nostre cene. Sono Lex», le aveva
aggiunto
dopo, forse perché doveva averla vista ancora notevolmente
sorpresa,
«Lex Luthor». Le aveva offerto la mano e lei aveva
fatto un lungo
verso di comprensione, stringendogliela.
«Oddio,
quindi mi stai dicendo che ho fatto doppiamente brutta figura?! Non
solo ho gettato il caffè addosso a un bel ragazzo, ma quel
bel
ragazzo è Lex Luthor. Non-ci-credo! Oh mio Dio, sono
sconvolta»,
aveva sorriso e poi si era passata una mano sulla fronte, ancora
dispiaciuta.
Clark
aveva roteato gli occhi, già stufo di come si stava
svolgendo la
situazione. L'aveva vista blaterare ancora con lui su come Samuel
Lane parlasse a cena di lei e di sua sorella minore Lucy, ridere come
se ci stesse flirtando, chiedergli scusa di nuovo e poi uscire
insieme a lui e al suo autista dal locale. Clark aveva affrettato il
passo verso una finestra, per poi abbassarsi di colpo quando li aveva
visti troppo vicini e Lois lo aveva ammonito con un solo sguardo. Era
uscito dalla caffetteria quando aveva visto l'auto di Lex Luthor
andarsene e Lois salutarlo. Anche Jimmy li aveva raggiunti.
La
ragazza aveva mostrato ai due un biglietto da visita tenuto stretto
tra le dita, guardando poi uno per uno con orgoglio. «Uomini
di poca
fede», sorrise.
Jimmy
aveva subito riso. «Sei stata fenomenale».
Clark
non era dello stesso avviso ed era riuscito a malapena a smuovere un
sorriso. Lex l'aveva invitata ad andarlo a trovare alla Luthor Corp e
lei gli aveva chiesto di andarci insieme, che glielo avrebbe
presentato perché quello era lo scopo finale, ma da quel
momento,
Clark aveva comunque iniziato a prenderla un po' in giro, dandole
della futura signora Luthor. Eppure, grazie alla sua intraprendenza,
era a un passo da ciò che voleva: conoscere i Luthor,
entrare nelle
loro vite e scavare sul passato. Non immaginava di certo che infine
sarebbe stato inutile, poiché proprio il giorno
dell'appuntamento
con lei, qualche ora prima, la macchina che accompagnava Lex Luthor
alla Luthor Corp ebbe avuto un incidente scontrandosi contro un'altra
macchina che andava molto veloce. Clark Kent non aveva smesso di
pedinare Lex solo perché avevano quell'appuntamento,
così, dopo
pochi attimi di titubanza a chiedersi il perché non uscisse
dall'auto, aveva lasciato la sua bicicletta a terra ed era corso.
Aveva aiutato l'autista ad aprire lo sportello dalla sua parte, in
modo che potesse uscire, e poi era accorso dall'altro lato per
aiutare Lex. Il ragazzo si era tenuto la testa per la botta presa e
Clark lo aveva trascinato sottobraccio fino ad allontanarsi dalla
vettura, poi l'autista, che ancora tossiva, si era avvicinato a loro.
Clark Kent aveva salvato la vita a un Luthor e non sarebbe passato
come un gesto inosservato.
L'appuntamento
con Lois era stato rimandato: Clark aveva accompagnato i due e le
altre persone coinvolte nell'incidente all'ospedale più
vicino ed
era rimasto vicino a Lex, seduto in sala d'attesa per sapere
qualcosa, fino a quando lui non aveva potuto che ringraziarlo di
persona. Per fortuna aveva solo sbattuto molto forte e non aveva
avuto niente di rotto, ma l'ospedale lo avrebbe tenuto in
osservazione per una notte.
«Ed
eccolo… l'eroe di Metropolis», lo aveva accolto
così nella sua
camera, sorridendo. «Meglio ancora: il mio eroe».
Lui
si era grattato la nuca per l'imbarazzo. «Ho fatto
ciò che avrebbe
fatto chiunque».
«No,
non chiunque, credi a me», aveva annuito Lex, abbozzando un
sorriso,
«Altri si sarebbero lanciati di proposito contro la mia auto,
ma che
resti tra noi».
Clark
aveva sorriso lentamente, a sua volta, incerto se farlo davvero.
«E
il mio eroe ha un nome?».
«Ah,
sì, certo: Clark. Mi chiamo Clark Kent».
Si
erano stretti la mano in tempo per vedere arrivare la famiglia.
Lillian Luthor era stata la prima a entrare nella camera con l'unico
letto occupato da suo figlio. Si era slanciata in avanti come se con
le sue cure avrebbe potuto aiutarlo a riprendersi prima, continuando
a chiamare il suo nome. Clark si era fatto piccolo e messo in un
angolo quando tutti e tre erano entrati per controllare le condizioni
del ragazzo. La madre era avvolta in un lungo vestito dai toni grigi
e aveva i capelli raccolti in alto, lo spazio tra le sopracciglia
contratto come se fosse stata troppo a lungo con un'espressione
accigliata. Aveva preso il viso del figlio tra le mani e lo aveva
controllato per ogni centimetro. Il signor Luthor si era avvicinato
appena al lettino del figlio, lo aveva guardato, gli aveva chiesto
come stava, così gli aveva lasciato una pacca contro una
gamba,
nemmeno a un braccio, e si era avvicinato a una finestra, guardando
fuori. La signora Luthor lo aveva interpellato di andare a chiamare i
medici e poi aveva sgridato la figlia di mettersi composta, dato che
si era seduta sul lettino di Lex, di stare attenta a non sgualcire il
vestito. Era lì che Clark aveva visto per la prima volta
Lena, col
viso innocente di chi era ancora poco più che bambina,
seccata che
la madre l'avesse sgridata e rialzandosi a peso morto dal letto,
incontrando i suoi occhi. Solo allora anche Lillian Luthor si era
accorta di lui, in un angolo.
«Lui
è il mio eroe», aveva spiegato Lex fiero,
«Il ragazzo che mi ha
tirato fuori dall'auto: Clark Kent».
Loro
lo avevano guardato imbambolati per qualche attimo, come sorpresi,
incapaci di elaborare le informazioni appena raccolte. Il signor
Luthor era stato il primo ad avvicinarsi, guardando per un attimo, di
straforo, sua moglie. Gli aveva stretto le mani nelle sue e lo aveva
guardato con una strana luce di audacia nello sguardo.
«Grazie.
Grazie per averlo tirato fuori da lì».
Lillian
Luthor, invece, si era avvicinata ancora particolarmente insicura,
trattenendosi indietro, come se avesse avuto i muscoli rigidi. Gli
aveva stretto la mano e gli aveva sorriso in quello che pareva un
movimento innaturale. «Grazie per aver salvato nostro
figlio».
«Ho
fatto solo ciò che a-avrebbe fatto chiunque»,
aveva ribadito Clark,
ma la voce un po' gli aveva tremato: la donna lo aveva messo in
soggezione.
«Kara…».
Il suo nome… Aveva
sentito
se stesso che chiamava la sua piccola cugina nel sogno, nell'incubo
che stava vivendo. «Kara,
ferma…».
Poi si era svegliato, sudato e così si era alzato per
correre sulla
scrivania della sua camera al campus universitario e disegnare
ciò
che ricordava, veloce, con le mani e la bocca che ancora gli
tremavano. Aveva chiuso gli occhi e trattenuto il fiato, spaventato,
ricordando lo scoppio. Si era stretto le orecchie e aveva gettato
tutto a terra, svegliando il suo compagno di stanza: lui si stava
abituando a quei comportamenti notturni, così si era girato
per
cercare di dormire ancora.
Dubitava
che gli incubi stessero risvegliando i suoi ricordi addormentati
perché si era avvicinato ai Luthor, ma era ancora convinto
della
loro minaccia e non gli era bastato conoscere appena il giovane Lex
per scagionarli. Lui lo aveva portato a casa sua a Metropolis, gli
aveva fatto fare un giro alla Luthor Corp e gli aveva chiesto di
chiamarlo se mai avesse avuto bisogno di qualcosa, perché
voleva
sdebitarsi, ma Clark non aveva ottenuto ciò che voleva. A
quel
punto, anche se li credeva colpevoli, si era reso conto che nemmeno
lui sapeva che cosa voleva.
«Pensavo
di trasferirmi per un po' di tempo a National City», aveva
detto a
Lois e Jimmy nella mensa della Freeform University Metropolis,
l'università che tutti e tre frequentavano. Loro lo avevano
guardato
allibiti, anche se comprensivi: sapevano che sarebbe potuto
succedere. «Ho lì le mie radici, voglio cercare di
trovare ciò che
mi manca».
«Andrai
a cercare tua cugina», gli aveva risposto Lois. Non era una
domanda,
sapeva che lo avrebbe fatto e ne prendeva atto.
Lui
aveva sorriso ma era ancora incerto, aveva paura di rivederla;
perché
se era vero che voleva ritrovare quella parte della sua vita
mancante, la stessa gli metteva addosso una paura indescrivibile e
quella Kara, sua cugina, sarebbe stata una persona vera, non un
ricordo confuso.
«Come
farai con gli studi?», gli aveva chiesto invece Jimmy. Era
felice
che l'amico avesse avuto l'idea di seguire il suo passato, ma gli
sarebbe mancato: senza di lui al suo fianco, era solo un ragazzetto
anonimo come tanti.
«Proseguirò
lì il secondo anno, in un'altra università. Ho
già fatto domanda,
in realtà… Penseranno a tutto loro, per il
trasferimento», aveva
debolmente sorriso. «Mi mancherete, ragazzi».
Jimmy
gli era arrivato addosso per abbracciarlo e si erano dati delle
pesanti pacche sulle spalle, ma Lois era rimasta bloccata sulla sua
sedia, continuando a mangiare la sua insalata.
«Mancherai
a Lana Lang», gli aveva detto poi, con tono accigliato.
Lui
aveva aggrottato le sopracciglia, mettendosi sulla difensiva.
«Saranno almeno due mesi che non sento Lana… Cosa
c'è, sei gelosa
per caso?».
«Pff.
Sciocchezze», aveva sibilato a denti stretti e occhi
socchiusi come
a voler dare un'aria di superiorità.
National
City era molto meno rumorosa di Metropolis. Era pur sempre una grande
città, ma Clark aveva trovato il traffico più
sostenibile. Nei
primi giorni lì si era sistemato nel nuovo campus della
nuova
università, era andato a parlare con i professori, si era
assicurato
che tutto ciò che lo riguardava fosse a norma, e poi aveva
iniziato
a girare per le vie in cerca di qualcosa che nemmeno lui sapeva. Si
era creato le sue abitudini, i suoi posti; Metropolis gli era mancata
già a una settimana che era via, ma si era deciso a restare
nella
disperata ricerca di chi era stato e di chi aveva amato.
E
trovare Kara, comunque, non era stato poi così difficile.
Vederla,
invece, lo era stato eccome.
Aveva
contattato l'assistente sociale e le aveva espresso il desiderio di
rivederla, così gli aveva lasciato il suo nuovo nominativo:
Kara
Danvers. Sapeva che abitava fuori National City e aveva preso il
treno. Aveva trovato l'indirizzo e si era appostato a pochi metri
dalla sua casa; una volta lì, però, si era
immobilizzato dal
terrore. Le sue gambe si erano fatte pesanti e non era più
riuscito
a muoversi, a fare un altro passo verso di lei. Era rimasto fermo a
studiare un piano, doveva solo bussare e poi tirare fuori un bel
discorso. Sembrava facile. Sembrava.
Il cuore gli stava scoppiando in petto. Immaginava che sarebbe stata
arrabbiata per averla cercata dopo anni, che magari lei, che
ricordava, aveva
sentito la sua mancanza ogni giorno. E cosa dirle per quella
mancanza? L'aveva sognata, ma di lei ricordava solo il viso, il suo
sorriso e le stelle. Ricordava che le voleva bene e che si
spalleggiavano a vicenda. Solo quella ragione lo aveva spinto a
tentare. Si era avvicinato che la porta di casa si era aperta e
l'aveva vista: alti codini biondi, incredibilmente più alta
dalla
Kara
che ricordava, stretta nei suoi pantaloncini in jeans, nella felpina
aperta. Sguardo basso, Kara si era avvicinata a un cespuglio e aveva
iniziato a spulciarlo di solo lei sapeva cosa. Lui aveva trangugiato
saliva e l'aveva fissata, tremante. Sapeva che quello era il suo
momento, ma lui conosceva appena quella ragazzina. Lei però
era
triste: aveva bisogno di lui, doveva farsi avanti. Doveva farsi
avanti subito prima che fosse tardi. Però…
«Oh,
mi hai aspettata?».
Un'altra
ragazza, dai lunghi capelli castani, era uscita dalla porta di casa
dopo di lei e aveva raggiunto sua cugina. Ancora con il corpo che
sentiva duro come la pietra, Clark si era tenuto ben nascosto dietro
una staccionata e dei cespugli, osservando le due.
«E
andavo senza di te?!», aveva sorriso Kara, portando le mani
dietro
la schiena. «Dove potrò mai andare senza mia
sorella?!».
«Da
nessuna parte», aveva prontamente risposto l'altra,
passandole una
mano sulla testa per poi spingerla indietro. «Hai imparato,
finalmente».
Clark
le aveva viste allontanarsi insieme, vicine, dandosi colpetti a
vicenda e soprattutto ridendo. Si era accorto in quel momento che
Kara non aveva affatto bisogno di lui. Era tornato al campus
universitario con una sensazione di sconfitta sulla pelle, eppure con
trattenuto sorriso sulle labbra, poiché lei era andata
avanti ed era
giusto lasciarla andare. Aveva oltrepassato il cancello del campus
dando un'occhiata in giro come al solito, inquadrando di sfuggita, in
mezzo ad un gruppetto di altri ragazzi, un viso conosciuto.
«Clark?
Clark Kent?».
Si
era fermato, ascoltando la composta voce di Lex Luthor chiamarlo. Lo
aveva visto salutare il gruppetto dei ragazzi con cui stava con uno
sguardo e così venire verso di lui, mani nella giacca dei
pantaloni
a righe, elegante come sempre. «Cosa fa qui Lex
Luthor?».
Si
erano stretti la mano come due vecchi amici e Lex gli aveva battuto
una pacca su una spalla. «Cosa fai tu, qui», aveva
rimbeccato lui,
con un ghigno. «Questa è la mia città e
in questa università ho
degli amici».
«Frequentavi
questo posto?».
«Oh,
no, no. Ho solo degli amici un po' ovunque, non studiavo
qui…».
Fu
allora che lui e Lex diventarono davvero intimi. Averlo nella sua
città, aveva reso Lex come un bambino a Natale: lo aveva
portato a
villa Luthor, lo aveva fatto partecipare a pranzi e cene di famiglia,
lo aveva incluso nella sua vita come se non avesse avuto nessun
altro, nonostante continuasse a vantare tanti amici. Qualche anno
più
grande di lui, Lex lo aiutava con gli esami, insieme giocavano alla
Play Station, leggevano fumetti, uscivano a bere qualcosa insieme,
parlavano di discorsi importanti come il futuro e la famiglia, anche
di quella a cui Clark mancavano i pezzi. Si era avvicinato a Lex
Luthor in modi in cui non avrebbe mai immaginato e aveva conosciuto,
sotto la sua armatura da giovane uomo d'oro per gli affari, un
ragazzo fragile, a tratti insicuro, che avrebbe voluto essere
più
spensierato e godersi la vita. Lex si era confidato a lui e lui si
era confidato a Lex perché, a dispetto di ciò che
aveva sempre
pensato sui Luthor, lui era diventato suo amico.
«Diventerò
reporter… Ma magari nell'immediato dopo gli studi
cercherò di
guadagnarmi dei soldi per mantenermi un posto dove stare, non
avrò
più il campus e non voglio tornare a Smallville dai miei,
sai, loro
hanno già abbastanza problemi e non voglio
pesare…», gli aveva
detto Clark una sera. Erano fuori sotto le stelle, nel giardino di
villa Luthor. Lui si era sdraiato sull'erba e Lex non ci era
riuscito, preferendo uno sdraio. Avevano birra e salatini, i signori
Luthor non c'erano e Lena era fuori con loro. Stavano bene, protetti
dal mondo, soli.
«Sei
fortunato, Clark».
«Perché?»,
aveva ridacchiato, «Non mi sembra proprio».
«Come
non ti sembra?», si era voltato per guardarlo in viso.
«Non vedi?
Puoi fare quello che vuoi, hai il mondo a tua portata, puoi decidere
di andartene domani e diventare chiunque tu voglia! Non sei legato
qui, Clark. Io so già chi sarò. Mio padre mi sta
passando la Luthor
Corp a Metropolis, vuole che sia io a guidarla. Non ho problemi ad
ammettere che è un impegno che sono pronto ad avere sulle
spalle
ma…», Lex si era fermato, guardando di nuovo verso
il cielo, «mi
sono sempre chiesto chi sarei stato, se non un Luthor».
Prima
di allora, Clark non l'aveva mai vista in quel modo: il suo amico
aveva una famiglia che a suo modo di vedere nascondeva più
segreti
di chiunque, una madre despota che se la prendeva per la maggiore con
la figlia adottata, un padre assente, non certo come il suo che gli
aveva insegnato a guidare e a fare lavori manuali, ma aveva soldi,
proprietà, un futuro sicuro. Ciò che molti si
sognavano di avere.
Si era accorto di non aver mai capito niente e che forse li aveva
sempre giudicati male.
Erano
passati mesi e il secondo anno universitario stava per concludersi,
indeciso se tornare a Metropolis perché anche lì
a National City,
ora, aveva qualcuno.
«Puoi
restare. Se non sai dove andare, la mia casa è sempre aperta
per
te», gli aveva detto un pomeriggio, rientrando al campus
dalle
lezioni. Lex andava spesso lì per incontrare qualche
ragazzo, così
approfittava della cosa per passare del tempo con l'amico.
«Lo
so, ma…», Clark si era grattato la nuca, ancora
molto indeciso.
«Mi piace qui a National City, ma pensavo di trovare le mie
radici e
invece non faccio che disegnare scarabocchi e ricordare due nomi. E a
Metropolis…».
«Ti
aspetta quella ragazza», gli aveva sorriso e poi fatto
l'occhiolino.
«Ho capito, ho capito», aveva annuito,
«Le ragazze vengono prima
degli amici».
Sia
Lois che Jimmy erano venuti a trovarlo, e lui era andato da loro, ma
gli era mancato passare del tempo vero in loro compagnia. Clark aveva
alzato la mano destra e così scombussolato la perfetta
pettinatura
di Lex, infastidendolo. «Dovrai tagliarti questa bella
chioma, prima
o poi».
«Non
accadrà mai», aveva deliberato lui, togliendo
dalla sua valigetta
un pettinino e sistemandoseli da un lato di nuovo.
Aveva
deciso di tornare, gli mancava solo un'ultima cosa da fare
lì a
National City, una cosa che aveva lasciato come ultima apposta
perché
era ancora più spaventosa che vedere sua cugina: non andare
nel
luogo dell'incidente, ci avevano costruito sopra, ma andare a trovare
nella prigione di Fort Rozz Astra, la gemella di sua zia, madre di
Kara. Aveva lasciato detto a Jimmy per telefono che aveva una
discreta paura di parlare con lei, di conoscere le risposte, e lui
gli aveva fatto gli auguri, aggiornandogli che gli avrebbe fatto un
regalo. Aveva sorriso, non capendo proprio di cosa stesse parlando,
finché non si era visto Lois Lane ferma davanti al cancello
del
campus, che lo aspettava. Il suo regalo.
«Jimmy
mi ha detto tutto e avevo la giornata libera,
così… Non mi
fraintendere, Smallville, non ho una cotta per te o qualcosa del
genere, ma devi andare a trovare una tizia in prigione e voglio
esserci per pararti le chiappe», aveva sorriso, tirandolo
verso di
lei per camminare.
Le
cose tra loro avevano cominciato a farsi strane da qualche tempo. Non
che si fossero mai definiti amici, ma c'era sempre stato tra loro
quello strano rapporto che li teneva vicini, e forse lei diceva di
non avere una cotta per lui, anche se dimostrava il contrario, ma lui
per lei l'aveva, l'aveva eccome e sarebbe tornato a Metropolis solo
per averla più vicino.
Li
avevano fatti entrare e si erano seduti davanti al vetro che li
avrebbe divisi da lei e gli altri criminali della prigione. Varcata
la porta dove l'attendeva la saletta delle visite, Astra, capelli
spettinati e sciupati, si era bloccata e aveva lanciato ai due
un'occhiata sospettosa.
«Io
questi non li conosco», l'avevano sentita dire alla guardia
carceraria accanto, che si era subito stizzita e l'aveva spinta per
andarsi a sedere davanti a loro. Astra aveva preso la cornetta e
così
dall'altra parte, seppur col cuore in gola, aveva fatto Clark.
«Sei
il figlio di Jor e Lara», aveva detto pigramente, per poi
chiedere
con più energia: «Dov'è Kara? Sta
bene?».
Si
era accorto che lei non doveva sapere che lui aveva perso la memoria.
Aveva abbassato lo sguardo indeciso su cosa dire e Lois lo aveva
spronato con uno sguardo. «Kara sta bene. Lei è
felice». Aveva
visto gli occhi della donna inumidirsi e si era sentito per un attimo
in colpa, anche se di fatto, per quel che ne sapeva, lei era una dei
responsabili di ciò che era successo alle loro famiglie.
«Lascia
perdere Kara, sono venuto in cerca di risposte».
Astra
si era soffiata il naso con un fazzolettino tirato fuori dalla sua
divisa color cemento e lo aveva guardato appena, prendendo un grosso
sospiro. «Voglio vedere mia nipote».
«Cosa?».
«Voglio
vedere mia nipote: è la mia richiesta, non avrai nulla da me
se non
potrò vedere Kara».
Clark
aveva stretto le labbra e la cornetta. Era ovvio che non avrebbe
potuto accettare la sua richiesta. Lois si era fatta dire cosa aveva
risposto la donna e aveva strappato la cornetta con grinta dalle mani
del ragazzo, particolarmente in estasi. «Sentimi bene!
Dopotutto
quello che è successo anche a causa tua, hai pure la faccia
tosta di
sollevare richieste? Tua nipote sta bene dov'è, senza di te.
E se le
volessi anche solo un briciolo di bene, lo sapresti da sola e la
lasceresti in pace».
Astra
l'aveva guardata a lungo e poi Clark, come se stesse rimuginando una
risposta. Infine aveva lasciato la cornetta e si era alzata per
andarsene. Clark dovette tenere ferma Lois per non farle sfondare il
vetro. Aveva tenuto lei e allo stesso modo tenuto buono se stesso,
cercando di non cedere alla rabbia.
«Accidenti,
cominciavo a essere geloso di questo Lex Luthor». Jimmy lo
aveva
stretto in un forte abbraccio al suo ritorno a Metropolis.
«Lo
pedinavi e ora finisce che siete diventati amici».
Clark
si era stupito di vederlo più robusto, poco più
alto di lui e gli
era parso perfino più sicuro di sé.
«Dicono che l'adolescenza
trasformi, ma sembra che a te abbia trasformato in ritardo»,
gli
aveva sorriso e lui si era tirato indietro, come imbarazzato.
«Umh.
Quel in
ritardo
si chiama Lucy», aveva risposto Lois, per lui.
Clark
aveva spalancato la bocca dall'incredulità. «Lucy?
Esci con sua
sorella?».
Jimmy
aveva annuito, mettendo le mani contro il petto in posa fiera.
«Lei
è… eccezionale, mi aiuta a tirare fuori il meglio
di me».
«Siamo
quasi cognati», gli aveva battuto il petto e questa volta era
stato
Jimmy a fare una faccia incredula.
«Tu
e Lois…? Voglio dire…», li aveva
indicati.
Lois,
che era andata da lui a National City per aiutarlo nel trasloco di
ritorno, si era portata una mano sul viso e aveva scosso la testa.
«Ci siamo scambiati un bacio e ora pensa che stiamo
insieme», aveva
sbottato. «Questi ragazzi cresciuti in
campagna…».
Il
tempo era volato da quando aveva ripreso l'università a
Metropolis.
Lui e Lois erano diventati ufficialmente una coppia, avevano entrambi
deciso che avrebbero proseguito la strada del giornalismo e Clark
aveva cominciato a frequentare un corso per chi riportava amnesie
come la sua a seguito di un trauma e una psicologa che lo aiutasse ad
andare avanti. Arrivato a quel punto, si era deciso che forse la cosa
migliore sarebbe stata lasciar correre. A volte si sentiva in colpa
all'idea di voler semplicemente essere felice e pensava che se solo,
forse, avrebbe ricordato di più, l'avrebbe pensata
diversamente. I
visi dei genitori che lo avevano lasciato erano solo un'ombra di
colore di una vita sfocata, e quelli che lui riconosceva come tali
erano la sua famiglia. Kara era felice. E forse, dopo aver accusato i
Luthor senza prove, si era reso conto di essersi voluto solo cercare
un nemico che non esisteva.
Alla
festa di laurea, Lex si era presentato con sua sorella Lena, allora
diciassettenne, e il ragazzo di quest'ultima, un certo Jack Spheer.
Gli aveva regalato una fornitura annuale dei fumetti che preferiva.
Clark era rimasto senza parole. «Io…»,
aveva spalancato la bocca,
«non so davvero cosa dire».
«Un
grazie
basterà», gli aveva dato delle pacche su una
spalla e si erano
abbracciati, mentre Lena aveva scattato loro una foto, e un'altra
mentre sorridevano all'obiettivo. Jimmy si era indispettito
perché,
essendo anche la sua festa, non aveva con sé la macchina
fotografica
per pensarci lui.
Intanto,
aveva avuto altro a cui pensare: alla cerimonia era presente anche il
padre di Lois e Lucy e aveva tirato fuori il petto per andare a
conoscerlo e provare a fare bella figura. Lui e Clark si erano
scambiati consigli, ma Lois, anche lei vestita da cerimonia, aveva
riso in faccia ad entrambi.
«Volete
piacere a mio padre? Io
non piaccio a mio padre, voi
non avete alcuna possibilità». Li aveva spediti
verso di lui,
augurando loro Buona
fortuna.
La
cerimonia era durata diverse ore. Clark aveva anche potuto
riabbracciare i suoi genitori arrivati da Smallville solo per lui.
Tutto stava andando bene, fino a quando una ragazza tra loro non si
era sentita male all'improvviso; Clark e altri si erano mobilitati
per soccorrerla e infine era stata portata via in ambulanza. La festa
era ricominciata in fretta, ma tutti i presenti si erano chiesti cosa
le fosse successo. Clark non lo avrebbe scoperto prima di un anno e
mezzo da quella festa.
Anche
se abitava ancora a Metropolis e lui e Lois stavano ponderando l'idea
di andare a convivere, Clark passava ancora molto tempo a National
City, anche a villa Luthor. Lex lo accoglieva come un fratello e
tutta la famiglia si era abituata ad averlo in casa. Lillian Luthor
lo guardava ancora, al tempo, come se non fosse particolarmente
felice della sua presenza, ma d'altro canto, Lex gli diceva sempre
che lei non era felice della presenza di nessuno. Lei e suo marito
non erano mai piaciuti a Clark, ma li sopportava perché
voleva bene
al loro figlio.
Lena
aveva iniziato l'università, stava ancora col suo ragazzo ma
Clark
la vedeva spesso in compagnia di diverse ragazze, non comprendendo
appieno che tipo di relazione avessero. Tra le ragazze che facevano
compagnia a Lena, c'era Veronica Sinclair. Era sua amica,
così si
definivano, ma a Clark non piaceva. In quel periodo, per guadagnare
dei soldi, si era proposto come tutor e lo avevano chiamato quando
serviva il suo intervento in alcune università di National
City,
compresa quella frequentata dalla giovane dei Luthor e Sinclair.
Sapeva che giravano brutte voci riguardo a quella ragazza e che gli
studenti la chiamavano Roulette, perché amava giocare
d'azzardo. Lei
in quella villa era un'ospite quanto lui, e non doveva piacergli per
forza.
Una
mattina si era trattenuto un po' più a lungo con un gruppo
di
studenti e, uscendo dall'aula data a disposizione, altri lo avevano
chiamato per soccorrere uno studente che si era sentito male. Aveva
trovato quel ragazzino, gracile e pallido, sdraiato sul pavimento di
un bagno. Sfortunatamente non era la prima volta che succedeva in
quella e in altre scuole, aveva cominciato a credere ci fosse
un'epidemia in corso. Aveva chiesto a una ragazza di chiamare i
paramedici dell'università ma lei e altri alle sue spalle
avevano
iniziato a confabulare e allora si era incuriosito, voltandosi di
scatto. Quando lo avevano sorpreso a girarsi verso di loro, avevano
cercato di nascondere qualcosa.
«Cosa
avete lì? Ha a che fare con lui?», aveva indicato
il ragazzo a
terra, inviando qualcun altro a chiamare i paramedici.
I
ragazzi erano diventati tutti incredibilmente silenziosi, a parte una
di loro, che batteva le labbra e guardava gli altri come a volersi
dare coraggio. Era bastato che Clark l'avesse chiamata per nome per
farla parlare, rimproverata dagli amici: «Io non c'entro
niente! Non
la volevo nemmeno quella roba».
«Di
cosa stai parlando?».
Fu
allora che la ragazzetta, mentre gli altri scappavano, gli aveva dato
quelle curiose pillole verdi all'interno di un sacchetto di plastica.
«Deve parlare con Roulette, signor Kent! Io voglio starne
fuori… È
a lei che ci rivolgiamo se vogliamo divertirci un po'».
Era
lì che tutto iniziò a crollare. I paramedici si
erano occupati del
ragazzo svenuto e lui, frastornato e arrabbiato, aveva consegnato
loro il sacchetto per assicurarsi che avrebbero saputo come
intervenire. Quella ragazza non gli era mai piaciuta, ma che
spacciasse droga nell'università lo aveva trovato
incredibile e
incredibile era che una persona come lei frequentasse Lena e Lex. Era
chiaro che loro non potevano saperlo. Era chiaro. Che
ingenuo.
Aveva
fermato Roulette da sola e l'aveva interrogata, in
università,
mostrandole un altro dei sacchetti che aveva sequestrato a dei
ragazzi. «Dieci pillole per sacchetto. Dove prendi questa
roba? È
così che ti paghi gli studi?».
Lei
non gli era sembrata per niente spaventata dal suo tono, né
che
l'aveva scoperta. «Ognuno fa ciò che
può».
«Mi
prendi in giro?». Aveva gettato il sacchetto a terra, vicino
a lei.
«Questa roba fa stare male i ragazzi e tu la vendi come
caramelle?».
«Frena,
boy scout. Per prima cosa non fa male a tutti, capita un caso ogni
tanto, è buona e di qualità. Io non vendo roba
scadente, okay? La
mia clientela è soddisfatta», si era messa le
braccia a conserte e
lo aveva guardato come se gli fosse superiore. «E secondo,
tesoro,
questa roba gira da ben prima che mi iscrivessi
all'università
proprio sotto il tuo bel nasino. Forse dovresti parlarne col tuo
amico del cuore: Lex».
Se
n'era andata e lui era rimasto sgomento. Lex lo sapeva? Non ci aveva
messo troppo per andare da lui e chiedergli spiegazioni. Gli aveva
mandato un messaggio, scoprendo che in quel momento si trovava alla
sua vecchia università, dove una volta gli aveva detto di
avere
degli amici. Tutto gli era diventato più chiaro in un
momento. Lo
aveva trovato circondato da ragazzi e lo aveva bloccato, scacciando
via tutti gli altri.
«Che
temperamento aggressivo», aveva riso lui, spostandosi un poco
per
respirare. «Cosa ti prende, amico?».
«Cosa
mi prende? Cosa-?», la voce per un attimo gli era mancata e
aveva
tirato fuori dal marsupio che si portava dietro il sacchettino di
pillole verdi, osservando lo sguardo di Lex cambiare espressione e
diventare più serio.
«Non
è come sembra, Clark».
«Non
è come sembra?», si era trattenuto dal non urlare,
mantenendo la
sua solita aria calma, «Da quanto tempo fai circolare questa
roba?
Quando ci siamo conosciuti era già in commercio?».
Lui
aveva alzato gli occhi al cielo e stretto le labbra, trovando le
parole da spiegargli, pur sapendo che al momento sembrava qualcuno
non proprio pronto a sentire spiegazioni. «Quella…
è una miscela
speciale, con la base di droghe sintetiche analizzate con
l'aggiunta di ingredienti che… che faccio io in laboratorio.
Aumenta la concentrazione, migliora le prestazioni e non crea
dipendenza, non è droga».
Clark
era rimasto inorridito da quella spiegazione e si era quasi pentito
di avergli dato l'occasione di parlare. «La fai tu? Fa stare
male i
ragazzi».
Lui
si era inumidito le labbra, prendendo respiro e infilando le mani
nelle tasche dei pantaloni. «È capitato che ad
alcuni soggetti-».
«Soggetti?»,
lo aveva interrotto, sconcertato di come li aveva chiamati.
«Che
ad alcuni soggetti»,
aveva ribadito, «più sensibili crei qualche
disagio, un piccolo
effetto collaterale che sto cercando di isolare e correggere. Mi sto
muovendo in questo senso, Clark, non mi piace che qualcuno stia male
per causa mia. Miglioro la formula appena ne ho occasione».
«Non
dovresti vendere questa roba», aveva agitato il sacchetto.
Era
affannato, il cuore gli era battuto in petto impazzito, incapace di
credere che quel ragazzo che parlava di soggetti e formule sulla vita
degli altri lo avesse definito suo amico. «Perché
non ne sapevo
nulla?».
«Perché
immaginavo avresti avuto una reazione di questo tipo. Ti conosco,
Clark, non volevo rovinare la nostra amicizia per questa
sciocchezza».
«E
la chiami sciocchezza?».
«La
tua è una reazione esagerata per i fatti che sono capitati
nella tua
vita, Clark. Sei un ragazzo ipersensibile a causa dei vuoti di
memoria dovuti allo scoppio e non volevo farti agitare».
Quella
era stata la goccia che aveva fatto traboccare il vaso: lo aveva
spinto contro il muro e lo aveva bloccato, guardandolo dritto negli
occhi chiari. Aveva detto quella frase con una voce talmente ferma e
distaccata, in quel momento dove lui non riusciva a pensare
lucidamente, da fargli tornare a galla tutti i suoi sospetti sui
Luthor. «Cosa sai tu di cosa mi è successo? Di
cosa è successo
alla mia famiglia?».
«Abbastanza»,
aveva risposto stringendo i denti, allontanandolo da sé e
sistemandosi la giacca. «Mio padre mi ha rivelato che erano
coinvolti, Clark», lo aveva visto spalancare gli occhi e
arretrare
un passo, «Che erano coinvolti ma che avevano tentato di
aiutarvi.
Di aiutare i vostri genitori. Ma anche che era ormai troppo
tardi»,
aveva abbassato gli occhi, prendendo un altro respiro. «Mi
dispiace,
Clar-».
«Tieniti
i tuoi dispiaceri! Da quanto lo sai?».
«Qualche
mese. Forse».
«E
in tutto questo tempo non hai pensato di dirmelo? Non hai trovato un
solo momento per parlarmene?».
«Te
ne sto parlando ora», gli aveva detto piano. Aveva cercato di
avvicinarsi a lui e dargli una pacca sulla spalla, ma Clark si era
tirato indietro. «Siamo amici. Non sapevo come dirtelo e
pensavo di
proteggerti, Clark, cerca di capirlo».
Ma
Clark aveva smesso di cercare di capire. Aveva smesso di provare a
parlare. Aveva chiuso. «Stai lontano da me», lo
aveva aggredito con
la voce e infine spingendolo via, dove per poco non lo fece sbattere
di nuovo contro il muro. «Ritira quella porcheria verde dalle
università o da qualunque altro posto tu e la tua amica
Roulette la
vendiate o andrò a denunciarvi».
Intuendo
che il pericolo dato dalla denuncia era reale e avendo intensificato
i controlli anti-droga dopo che erano state scoperte le pillole
verdi, Roulette aveva deciso di lasciare gli studi prima che si
facesse il suo nome e Lex si era trasferito definitivamente a
Metropolis, facendo della Luthor Corp lì il suo regno.
Clark
Kent era passato un'ultima volta a prendere le sue cose lasciate a
villa Luthor poco prima che il suo vecchio amico si trasferisse,
decidendo di chiudere definitivamente la faccenda perché,
con
delusione, si era reso conto di non conoscere realmente quelle
persone, troppo diverse da lui.
«Davvero
mi denuncerai?», gli aveva chiesto Lex prima che uscisse
dalla sua
camera con una scatola tra le braccia, contenente tutte le sue cose.
Clark
non si era neppure voltato. «Sì. Non puoi giocare
in questo modo
con la salute degli studenti».
Lex
aveva stretto i pugni e gli aveva urlato contro per la prima volta,
con voce strozzata: «Non vuoi capirmi, Clark. Ti ho
spiegato».
«Una
volta mi hai detto che avevi il futuro già segnato e che ti
eri
chiesto chi saresti stato, se non un Luthor», si era girato
solo per
un attimo, «Ci hai pensato e sei
finito a
fare lo spacciatore».
«Non
è droga! Pensavo fossimo amici, che anche se all'inizio non
avresti
compreso, poi-».
«Poi
che cosa?», se n'era andato, lasciando la porta aperta,
«Non siamo
amici. Forse non lo siamo davvero mai stati».
«E
allora vattene! E non farti più vedere».
«Me
ne sto andando». Diceva sul serio ed era convinto che
lì non ci
avrebbe mai più messo piede. Fortunatamente i coniugi Luthor
erano
alla Luthor Corp, perché non avrebbe avuto voglia di
vederli. Era
stata Lena a fermarlo, sulla soglia del cancello:
«Non
glielo fare».
«Che
cosa?». Aveva aperto la portiera del taxi che lo aspettava e
poggiato la scatola di cartone sui sedili, per poi guardare la
giovane Luthor con sconfitta e amara disillusione.
«Sei
l'unico vero amico che lui abbia mai avuto», gli aveva
confessato,
ma Clark non aveva intenzione di fermarsi.
«Tu
sapevi delle pillole verdi?».
«Sapevo
che le vendevano, non credo sia droga. Non sapevo che dei ragazzi
fossero stati male, ma sono certa che Lex se ne sta occupando.
Risolverà la situazione, lo fa sempre».
Lui
aveva abbozzato una risata, per poi scuotere la testa. «Non
credere
a tutto ciò che lui ti dice. E stai attenta alle persone che
frequenti», aveva
chiuso lo sportello dopo che si era seduto e il taxi lo aveva portato
via. Era stata l'ultima volta che aveva visto e sentito Lex e Lena, o
almeno fino alla chiamata dove quest'ultima gli aveva rivelato che
credeva che la sua nuova sorellastra era la sua cugina scomparsa e lo
invitava a presentarsi all'evento organizzato dalla Luthor Corp a
National City.
Ne
aveva parlato molto con Lois e aveva avuto davvero paura che fosse
lei. Non solo doveva rivedere la cugina che pensava di aver lasciato
andare, ma doveva affrontare il senso di profondo disagio che gli
aveva messo addosso saperla come nuova sorella di Lex Luthor e figlia
di quella donna, Lillian Luthor.
«Cosa
pensi di fare?», gli aveva chiesto Lois al riguardo.
«Le dirai del
coinvolgimento dei Luthor per quello che vi è
successo?».
Lui
ci aveva pensato a lungo, devastato da quella prospettiva.
«No. Come
potrei farlo? Non la vedo da anni e se non sanno che lei sa, i Luthor
sono innocui. Posso vegliare su di lei da lontano… Non ha
senso
metterle paura verso delle persone che stanno diventando la sua nuova
famiglia».
Vederla
stare insieme a Lena Luthor, però, gli aveva cambiato una
certa
prospettiva e il fatto che frequentasse la sua sorellastra, da quel
punto di vista, pareva l'ultimo dei problemi.
«Come
hai fatto a…?»,
gli rispose Kara, cercando di capire.
«Jimmy
vi ha viste, eravate nella nuova pista di pattinaggio su ghiaccio.
Ascoltami, so che avrei dovuto dirtelo prima e mi dispiace, ma non
puoi fidarti dei Luthor, non sai com'è Lena».
«Non
credo di seguirti».
«Loro
sono capaci di sembrare le migliori persone del mondo e non puoi
accorgerti della loro vera natura per anni, ma credimi, Kara, sono
bugiardi, manipolatori, non puoi sapere se lei ti sta
mentendo».
Kara si zittì, forse non sapeva come replicare, ma lui
sentiva che
lo stava ascoltando e il suo respiro corto e affrettato. Colse
l'occasione per raccontarle velocemente di Lex, della droga, di come
lo aveva preso in giro per anni in quella che credeva amicizia, di
come aveva fatto del male a dei ragazzi e di come, soprattutto, lui
aveva sottovalutato la cosa.
«Mi
stai parlando della tua esperienza con Lex, perché credi che
Lena
possa fare la stessa cosa?».
«Perché
è una Luthor, Kara. Sono cresciuti sotto lo stesso tetto,
sotto le
stesse influenze. Perché Lena…»,
trattenne il fiato, decidendo di
parlarle, infine, anche di quella cosa, «Perché
Lena lo faceva a
sua volta anche con il suo ragazzo: stava con lui ma lo prendeva in
giro e stava con altre. Loro due sono fatti della stessa pasta, Kara;
ti spezzerà il cuore. Noi siamo diversi da loro».
Kara
deglutì. La sua espressione era seria, aggrottando le
sopracciglia.
In verità, si stava piuttosto arrabbiando ed Eliza che
continuava a
suonarle il clacson per dirle di sbrigarsi non l'aiutava affatto.
«Il
tuo trascorso con Lex annebbia il tuo giudizio, Kal. Loro non
sono…
non sono come credi. E non conosci Lena», prese una pausa e
così un
bel respiro. «Ti prego… ti prego di farti gli
affari tuoi. E lo
stesso vale per James».
«Kara,
per favore…».
«Devo
andare». Chiuse la telefonata con voce lapidale e
tornò in auto,
nascondendo il telefono in borsa.
Clark
Kent sospirò pesantemente, lasciando scivolare il cellulare
sul
divano su cui lui e Lois erano seduti. La guardò con
sconfitta e poi
andò a ritirarsi sul soppalco, sdraiandosi sul pavimento,
guardando
il soffitto. Ora che erano spente si vedevano appena, ma le stelle
erano ancora lì e doveva solo portare pazienza.
U-oh!
Kara ha chiesto a suo cugino di farsi gli affari suoi (e anche a
James)! Pensavate che sarebbe andata diversamente? E cosa ne pensate
del passato di Clark e del suo trascorso con Lex?
A
quanto pare, il maggiore dei Luthor si era dato alla chimica,
Roulette aveva poi deciso di dargli una mano, ma Clark non l'aveva
presa proprio benissimo. Se già prima aveva sospetti sui
Luthor,
sentir parlare Lex di ciò che gli era successo lo aveva reso
un
pochino su di giri, scoprendo la loro verità. È
così che hanno
rotto la loro amicizia, nata tra lo stalking (o
monitoraggio… mh) e
il salvataggio.
Cosa
ne pensate di Lex? State dalla sua parte o in quella di Clark?
Per
il resto, abbiamo scoperto che Clark aveva già trovato Kara
in
passato, ma tra il suo non ricordarsi abbastanza di lei e lo scoprire
che non aveva bisogno della sua presenza nella sua vita
perché era
felice senza di lui, l'aveva lasciata andare… Ed era anche
andato a
trovare Astra, che tuttavia non gli era stata di grande aiuto.
Poi,
dite quello che volete, ma non so perché scrivendo questo
capitolo
mi sono accorta che la protagonista indiscussa, per me, è
Lois. Ruba
la scena. E un'altra cosa, mh, non so perché, ma trovo
l'amicizia
tra Kal e Lex un tantino ambigua XD
La
bella notizia di oggi è che mi è tornata la linea
di internet!!
Dopo quasi un mese ha dell'incredibile XD
Pian
piano, quindi, risponderò a tutte le vostre recensioni,
partendo
dalla più datata a quella più recente; abbiate
fede, arriverò da
tutti!
Ed
è qui che vi dico ci rileggiamo, con i capitoli, tra un mese
:) Mi
spiace fare pausa, è la verità, ma ho bisogno di
un po' di tempo,
come ho già spiegato! Spero solo di ritrovarvi tutti al mio
ritorno
e per ora vi dico grazie, grazie per il supporto che mi date ogni
volta, è davvero importante e mi date anche una
considerevole voglia
di scrivere e andare avanti, quindi… quella è
sempre ben accetta
:D
Ricordatevi
dove siamo arrivati, il prossimo capitolo si intitola Noi e
loro
e sarà pubblicato qui lunedì 3 settembre! Non
mancate e buone
vacanze ^_^
|
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Capitolo 24 *** 23. Noi e loro ***
Alex
sbuffò seccata. C'era qualcosa che non andava con la
microspia e non
riusciva a capire cosa: aveva lasciato registrare la trasmissione e
ora che ricontrollava trovava inspiegabili buchi e curiosi silenzi,
come se per ore e ore Lena neppure si muovesse, in quella camera.
Passava gran parte del tempo fuori, probabilmente alla Luthor Corp o
all'università, ma quando era sicura che fosse all'interno
di quella
stanza, perché nemmeno si muoveva? Era un vampiro e
nascondeva una
stanza segreta con la sua bara?
«Ti
ho sistemato tutto in cucina», disse Maggie dietro di lei,
osservandola lavorare davanti a piccoli aggeggi sul tavolo del
modesto soggiorno, vicino alle finestre con le tapparelle a
metà.
«Se non ci fossi io, mangeresti cibo in scatola fino a
rovinarti le
papille gustative».
«Grazie»,
alzò la testa e le sorrise, così si scambiarono
un bacio, quando la
ragazza si fermò alle sue spalle.
«In
ogni caso questa sera vieni a cena da me, ci siamo capite?».
«Sissignora».
«Ottimo.
Non vedo l'ora di andare a riprendere Jamie da mia madre: non mi
piace che passi tanto tempo in sua compagnia»,
guardò l'orologio al
polso e poi sul tavolo. «Che cosa stai facendo? È
il trasmettitore
della microspia?»; poi la guardò con rimprovero,
arrivando a
capire: «Ti prego, dimmi che non hai messo una microspia
addosso a
Kara».
«No,
non addosso a Kara, in camera di Lena…». Non che
quello fosse
molto meglio e lo sguardo di Maggie glielo fece intendere.
«Ma c'è
qualcosa che non mi convince: o Lena ha trovato la microspia e le ha
fatto qualcosa, oppure non funziona come dovrebbe. Ma se l'avesse
trovata… ne avrebbe parlato, penso. Se non con me, almeno
con Kara:
quelle due sono sempre appiccicate».
«Ah…
noto una vena di gelosia nella voce».
«Gelosa
di mia sorella? Ma no. Non so cos'è successo al loro
rapporto… ma
gelosa…».
Lasciò
la frase a mezz'aria e Maggie le sorrise, appoggiando i gomiti sul
tavolo. «Un pochino».
«Sì,
un pochino». Spense la registrazione e sbuffò.
«Resta il fatto che
la microspia non sta funzionando e che non possa andare in camera sua
a controllare, a meno di entrare scassinando la serratura. Quando lei
non c'è, è sempre chiusa a chiave, l'ho
notato».
«Sai»,
riprese l'attenzione, mantenendo il suo sorriso e piegando la testa
da un lato. «Io non sono un'agente federale sotto copertura,
ma
conosco un buon metodo che potrebbe tornarti utile: si chiama
chiedere».
Rise quando la vide accigliarsi. «Alex. In fondo lei e Kara
ti hanno
inclusa, potresti provare a fidarti».
Lei
si portò schiena contro la spalliera, sospirando.
«Mi nascondono
qualcosa… Sono strane, si comportano in modo strano, e sono
vicine
in modo strano, si guardano in modo strano e… lo so che
sembro
paranoica, ma se corrono dei rischi devo saperlo».
Maggie
le sorrise ancora, non togliendole occhio di dosso. «Sei
preoccupata
per loro, è normale, ma sono certa che se qualcosa non va te
lo
direbbero. Parli di Kara. Pensa che la notte del Ringraziamento l'ho
incrociata, quando sono uscita per andare in bagno».
«Incrociata
dove?».
«Usciva
dalla camera di Lena ed era tutta preoccupata perché aveva
sbagliato
a entrare lì invece che nel bagno».
«Dalla
camera di Lena?», spalancò gli occhi. Cosa stava
succedendo? Non
solo la microspia avrebbe dovuto trasmetterlo, ma…
«Aspetta,
non crederai che…?». Le due si guardarono e appena
una abbozzò un
sorriso, scoppiarono a ridere insieme. «Kara e
Lena?».
«Lo
so», continuò a ridere Alex, «Che
sciocchezze».
Maggie
guardò di nuovo l'orologio e disse di dover andare a
prendere Jamie,
così si spostò dal tavolo e cambiò
espressione di colpo,
abbandonando il sorriso e aggrottando la fronte perplessa. Alex fece
lo stesso appena la sentì allontanarsi: lasciò le
risa e fissò il
trasmettitore. Poco dopo decise di chiamare Kara per invitarla a
uscire: doveva fare delle commissioni e doveva parlare con sua
sorella, due piccioni con una fava. Di certo, però, mai si
sarebbe
aspettata una Kara col morale tanto a terra.
«Sorellina,
ti ho chiesto aiuto per un regalo da fare a Jamie… e tu stai
fissando una
coppa a quarta di seno»,
ridacchiò, avvicinandosi a lei per scrollarla, adocchiando a
sua
volta un completo blu notte. «Mmh,
magari questo lo regalo a Maggie,
però…», borbottò. In
realtà,
Kara non guardava nulla, era semplicemente incantata su un punto
qualsiasi e manteneva un broncio costante. Alex cercò di
scrollarla,
ma sembrava più difficile del previsto e non era abituata ad
averla
al suo fianco tanto zitta. «Allora? Cosa ne
pensi?», prese altri
due completi colorati e se li passò sopra, prima uno e poi
l'altro,
cercando di attirare la sua attenzione. «Come mi
starebbero?».
«Bene»,
enunciò senza neppure guardare e Alex li rimise apposto,
dopo aver
letto i cartellini.
«Ma
sì, tanto che importa se son carini, quando è il
momento di
sfoggiarli volano via in fretta», sorrise e guardò
sua sorella, ma
lei era ancora visibilmente assente. «È
così anche con la tua
nuova fiamma?».
«Cosa?
Come?», avvampò, spalancando gli occhi. Oh, ora
ricordava: quella
notte aveva indosso un intimo normalissimo, forse sugli slip era
raffigurato un pulcino o chissà quale altro tenero
animaletto da
fattoria, ma chi ci aveva fatto caso…
«Sono
ufficialmente offesa, sorellina», si allontanò
dalla zona intimo e
Kara la seguì a ruota. «Ti vedi con qualcuno e io
non so neanche il
suo nome, o la sua faccia: come posso maledirlo o minacciare la sua
vita nel caso ti farà soffrire se non conosco la sua
faccia?»,
scrollò le spalle, «Capisci che sono problemi
seri». Kara la
circondò in un abbraccio e sbuffò, ricordandole
che le era mancata,
così Alex sospirò. «Allora? Parlamene.
Se vuoi andiamo a mangiarci
qualcosa, penserò poi a cosa regalare a Jamie e Maggie per
Natale».
«E
va bene… Mi sto vedendo con u-una persona»,
confidò.
«Lo
stesso di cui parlavi in estate?».
Kara
spalancò gli occhi, cercando di fare mente locale: si era
completamente dimenticata di quell'assurda discussione in macchina
sulla persona con cui cercava di restare in amicizia ma che le
mandava segnali contrari. «S-Sì. Ecco, alla fine
la storia
dell'amicizia non è andata tanto bene… Ma non
stiamo insieme da
molto, ci vediamo da poco, usciamo poco, siamo entrambe molto
impegnate, io e questa persona e…».
Alex
la guardò con attenzione, facendo particolarmente caso al
fatto che
parlasse di persona
e non ragazzo.
Si chiese come avesse fatto a non farci caso molto prima.
«Allora,
parla. Come si chiama? Di dov'è? Come mai non me ne hai mai
parlato?».
«Beh,
perché… perché…
è complicato», si ricordò solo in quel
momento che non sapeva mentire e che non sapeva come sgusciare via da
quella spinosa discussione. «Non… Non posso
parlartene adesso».
L'altra la guardò spalancando gli occhi e Kara prese un
peluche da
uno scaffale, mostrandoglielo con la speranza di cambiare discorso.
Non funzionò: sua sorella la pregò di spiegarsi.
«S-Siamo in una
situazione delicata e… Non te ne posso parlare, adesso.
È… un
ragazzo nuovo della mia università».
«Un
ragazzo nuovo a fine novembre?».
«È
straniero», si giustificò.
No.
Kara decisamente non sapeva mentire.
«Il
problema è che Kal è contrario alla nostra
relazione».
«Tuo
cugino lo sa?», domandò indispettita.
«Glielo
ha detto James».
«L'amico
di tuo cugino lo sa? Quindi lo sanno
tutti tranne tua
sorella? La sorella che ti vuole bene e ti protegge dai mali del
mondo? La sorella che ti teneva la mano quando avevi gli incubi? La
sorella che ti ha mantenuto chiusa la porta del bagno quando al
giapponese ti sei mangiata da sola la barchetta formato maxi del
sushi?».
«Uh,
non farmi sentire in colpa», si lamentò a bassa
voce, «È
momentaneo, non vedo l'ora di raccontarti tutto! E in
verità, ecco,
James lo ha scoperto per caso. Ed è subito andato a dirlo a
Kal. E
Kal era… arrabbiato e ora sono io ad essere arrabbiata con
lui, e
odio essere arrabbiata con lui, ma mi ha fatto così
arrabbiare… E
James! Oh, sono così arrabbiata con lui
che…», sospese e terminò
la frase con un ingarbuglio di parole che Alex non riuscì ad
afferrare.
«Accidenti,
dai, vieni qui». Spalancò le braccia e l'accolse,
stringendola
forte. Ciò che stava pensando era davvero assurdo: Kara non
aveva
una relazione con Lena Luthor. Era la solita Kara che rendeva una
situazione semplice complicata ed era certa che ne avrebbe parlato
liberamente con lei non appena si fosse sentita pronta per farlo. Era
più assurdo il proprio comportamento nei suoi riguardi;
doveva
smetterla di farla sentire in colpa per qualcosa che non si sentiva
di condividere. E poi era arrabbiata con il cugino che era contrario
alla relazione con chissà chi, ed era su questo che doveva
concentrarsi da buona sorella maggiore: il suo dovere ora era farla
sentire protetta e amata più che mai. E, non di meno, in
questo modo
aveva un punto in più rispetto a suo cugino. «Su,
ti porto a fare
merenda».
«Sei
la sorella migliore del mondo».
«Ci
puoi scommettere».
E
così anche novembre passò, tra sport, scuola e,
per Lena, la Luthor
Corp. Aveva iniziato a prendere visione di alcuni progetti avviati
durante il corso dell'anno, impegnandosi a non trascurare nulla.
Certo, diventava piuttosto difficile per lei riuscire a concentrarsi
e non pensare, sdraiata sul letto davanti a fogli e libri aperti,
alla notte che aveva trascorso lì sopra con Kara solo due
settimane
prima. Aveva una voglia matta di stare di nuovo con lei e
più ci
pensava e chiudeva gli occhi e più riusciva a sentire ancora
il suo
odore, e il suo calore. Due settimane senza poterla toccare e
stentava a credere di non essere impazzita. Ormai, non pensava quasi
più ad altro ed era una tortura dover aspettare un momento
adatto:
entrambe erano così impegnate che quasi riuscivano a vedersi
per un
bacio. Diede una nuova occhiata ai fogli e, dato che si distraeva
molto facilmente, alla scrivania davanti e alla bacheca dei trofei,
ricordando la microspia. Ora il disturbatore era spento. Si
domandò
se non fosse arrivata l'ora di finirla e affrontare Alex Danvers.
Sì,
doveva decisamente affrontare Alex Danvers. Le vibrò il
cellulare
lasciato sul comodino e si sporse per prenderlo, cominciando a
pensare che fosse lei che doveva averle letto nel pensiero.
Allungò
un nuovo sguardo verso dove sapeva c'era la microspia e rispose al
cellulare, valutando il rischio.
«Sì?».
«Signorina
Luthor, mi spiace disturbarla ora che è libera, ma ha
chiamato in
ufficio il signor Lord che dice vorrebbe parlarle di un affare
urgente»,
Winn attese, sentendola sbuffare, così
l'anticipò: «Ho
già provato a chiamare io sua madre e suo fratello: lui dice
di non
essere interessato, ha già parlato con il signor Lord, e sua
madre,
emh,
non risponde».
«La
cosa non mi sorprende», si passò due dita in mezzo
agli occhi.
«Parlerò con lui più tardi; quando
passerò in ufficio lo
richiamerò e vedrò cosa vuole».
Congedò il suo assistente,
sbuffando di nuovo. Ci mancava solo lui.
Intanto,
Kara era sdraiata sul suo letto, in dormitorio. Era stata una
mattinata difficile tra le lezioni da una parte e Siobhan Smythe
dall'altra, che non faceva che lamentarsi di come dicembre facesse
impazzire un po' tutti là alla CatCo, dove facevano a gara
per
accaparrarsi il titolo migliore da lì a Natale. E quello
faceva
impazzire lei di riflesso, che doveva sopportare le sue lagne nelle
orecchie per ore. Sembrava piuttosto stressata in verità, ma
non le
avrebbe dato la soddisfazione di vederla preoccupata per lei. Invece,
era andata a parlare con Cat Grant affinché facesse scrivere
anche a
lei qualcosa per il periodo natalizio in arrivo e, anche se sembrava
che stesse piuttosto cercando di liberarsi della sua presenza come
una mosca fastidiosa, le aveva lasciato detto di presentarle un'idea.
Un'idea. Voleva un'idea. Ma era talmente stanca che l'unica idea che
le veniva in mente era quella di addormentarsi e dimenticarsi di
dover cercare un'idea.
Per
il resto, l'unica idea che poteva seriamente sfiorare il suo cervello
era di fare l'amore con Lena. Voleva fare l'amore con Lena. Le
mancava il suo profumo e la sentiva così distante,
ultimamente… E
ancora non ci credeva che erano riuscite a stare insieme, era tutto
così bello, e sì, a Kal non piaceva, e James si
era messo in mezzo,
ma era tutto così bello… Al diavolo Kal e James.
Sbuffò e si
spinse verso l'alto dietro la sua testa cercando di afferrare il
cellulare che aveva lasciato sulla mensola, pensando di inviarle un
messaggio. Da quel momento li aveva ignorati. Non sapeva quando li
avrebbe lasciati di nuovo parlare con lei, ma al momento era ancora
troppo arrabbiata per dare loro un'occasione. E non tanto James, che
conosceva da poco, ma suo cugino… lui non capiva. Si era
costruito
dei preconcetti sui Luthor che non gli facevano vedere in faccia la
realtà. Poi sapeva che Lena era stata con delle ragazze in
passato,
non doveva certo informarla lui. Anche se in fondo lo aveva dovuto
scoprire perché non glielo aveva detto. Ma si erano
chiarite. E
sapeva che stava con quel ragazzo, non spettava di sicuro a Kal
giudicarla. Ammetteva però che quel pensiero, di tanto in
tanto,
quando pensava di stare ancora con Lena, la sfiorava un po'. Accese
lo schermo del cellulare e, incantata a osservare lo sfondo di lei
con Biancopelo in braccio, stava per per accedere all'area messaggi,
quando il cellulare vibrò all'improvviso e se lo
lasciò cadere
addosso, spaventata. «Non ci credo…»,
borbottò sorpresa,
mettendosi seduta.
Non
sapevo a chi rivolgermi, ma so che lavori per un giornale lì
a NC e
mi serve aiuto, kryptoniana!
Kara
cliccò subito per il profilo Instagram di Selina Kyle e si
lasciò
guidare dai video pubblicati per inquadrare il problema, spalancando
gli occhi dallo sconcerto: doveva andare a Gotham subito; l'idea che
cercava aveva appena bussato alla sua porta.
Poco
più tardi, quella sera, chiamò Lena sperando
nella sua compagnia e
quando le disse come mai aveva deciso di andare a Gotham,
restò a
bocca aperta sentendo che Maxwell Lord l'aveva invitata a fare lo
stesso.
«Ci
ho parlato poco fa e ho rifiutato»,
rispose. «Quindi
i terreni che la Wayne Enterprises vorrebbe vendere sono attualmente
zone abitate?!».
«È
la zona delle case popolari, ci abita anche Selina… Dice che
non
solo vogliono sfrattarli, ma rastrellare i terreni, non avranno
più
nulla».
«Lord
ha assicurato che i terreni sarebbero stati pronti per
Natale… Non
capisco, queste famiglie hanno fatto appello? Anche se i terreni sono
della Wayne Enterprises, non può lasciare tanti sfollati per
le
strade, senza una sistemazione».
Kara
sbuffò, camminando avanti e indietro tra i letti del
dormitorio.
«Nei suoi video, Selina dice che se ne lavano le
mani… Stanno
facendo resistenza, le strade intorno alla Wayne Enterprises sono
assediate dai manifestanti, ma non basta e… ci sono malati,
povera
gente, non possono finire per strada; lei dice che i giornalisti non
si prendono la briga di fare il proprio lavoro e parlano solo a
favore della compagnia! Ma è da matti! Tutto questo non ha
senso,
dovrebbero aiutarli! Spera che io possa portare le loro voci fuori da
Gotham City per fare pressione».
«Va
bene»,
la sentì rispondere poco dopo. «L'incontro
con i possibili compratori è previsto domani,
dirò a Lord di
tenermi caldo un posto. Andremo a Gotham».
«Andremo
a Gotham», ripeté Kara, annuendo con decisione.
Il
giorno dopo, Kara e Lena, in compagnia di Maxwell Lord, raggiunsero
gli stretti palazzi sopra i cieli chiusi di Gotham City in
elicottero. Nonostante avesse ormai coltivato una certa abitudine a
viaggiare in elicottero, Lena Luthor era sembrata piuttosto in ansia
da quando salirono sul mezzo; una volta sollevati da terra, Kara
l'aveva presa per mano e Maxwell Lord, davanti a loro, sorrise con
una vena di curiosità nello sguardo. Una volta sul posto,
lasciarono
la pista di atterraggio e si divisero: Lena seguì Lord verso
una
macchina e Kara aspettò davanti a un negozietto che Selina
andasse a
prenderla. Sapendo di essere osservate, le due si salutarono solo con
una stretta di mano e Lena le promise che avrebbe cercato di far
cambiare idea sullo sfratto ai pezzi grossi della compagnia.
«Vi
trovo carine, se posso permettermi». Dopo interi minuti di
silenzio
dove il giovane uomo fissò ininterrottamente la sua compagna
di
viaggio, si decise a parlare. «Quando due famiglie si
uniscono non
va sempre a finire bene, in special modo per due tanto diverse come
le vostre. Eppure voi siete riuscite a trovare un'armonia. La trovo
personalmente una cosa molto bella».
Lena
non rispose, lanciandogli uno sguardo per poi dare di nuovo la sua
attenzione oltre al finestrino. Si strinse ancora più forte
contro
il suo impermeabile, trovando le temperature di Gotham molto
più
basse rispetto a quelle di National City. «Anche dopo quello
che le
ho detto, è deciso a voler prendere in considerazione la
vendita?».
«Certo»,
annuì lui. Per un attimo abbandonò il suo sorriso
e portò una mano
sull'altra, sospirando. «Sono affari, signorina Luthor. Non
godo nel
sapere che delle persone resteranno senza casa, ma se mi permette,
non è compito mio assicurarmi che abbiano un tetto sulla
testa, ma
della Wayne Enterprises». Lei si zittì, riportando
il suo sguardo
al finestrino: seppure in disaccordo sulla vendita, non poteva certo
dire che sbagliava a non considerarlo un suo problema. «Sono
dell'idea che suo padre avrebbe detto lo stesso, se fosse qui con
noi».
La
ragazza aggrottò le sopracciglia, assottigliando gli occhi.
«Ma non
è qui».
Lui
deglutì e guardò per il finestrino solo per un
attimo, fino a
dedicare di nuovo lo sguardo a lei e parlare: «Manca anche a
me, per
quello che vale». Aveva nuovamente attirato la sua
attenzione.
«Lionel c'era sempre quando avevo bisogno di un consiglio.
Lui era
il mio… grillo
parlante»,
sorrise, «Posso solo immaginare quanto manchi a sua figlia.
Alla
cena, parlava di lui con il senatore Gand. Non ho potuto fare a meno
di ascoltare… Se avesse bisogno di un qualche-»,
Lena gli parlò
sopra, interrompendolo:
«Non
si sforzi, Maxwell»,
lui spalancò gli occhi poiché era la prima volta
che lo chiamava
per nome, «Quando avrò voglia di parlare con lei,
magari di mio
padre, sarò io a chiamarla». Alzò le
sopracciglia e tornò a
guardare fuori dal finestrino, iniziando a vedere la lunga fila di
manifestanti con alti cartelli gridare contro il grattacielo della
compagnia.
Nel
frattempo, Kara e Selina si erano già trovate. Si
scambiarono una
stretta di mano e così un veloce abbraccio, quando la
seconda le
chiese di seguirla. Le strade erano levigate dal ghiaccio, davanti
alle loro bocche si formavano le nuvolette di vapore quando parlavano
e il sole era tappato da una coltre di nuvole grigie: Gotham era
fredda, tanto che perfino lei che sopportava bene l'inverno si era
stretta di più al suo giaccone. Selina indossava una
giacchetta più
corta della sua, con il collo scoperto, e dei guanti senza dita,
oltre alla cuffietta sulla testa: si chiese come facesse a non
sentire tanto freddo quanto sembrava soffrirne lei. Le parlò
di
quanto i potenti la stavano facendo franca, di come non ascoltavano
le loro richieste, per parlare in modo più specifico di sua
madre
malata che non poteva spostarsi di casa. Oh, Kara non ne aveva idea e
le rispose subito che le dispiaceva, ma Selina ci diede poco peso,
troppo presa a parlare della situazione generale in cui erano messi.
«Siamo
un sacco di famiglie e non conosciamo altri posti dove andare. Siamo
gli ultimi e gli ultimi non importano mai a nessuno»,
borbottò
piena di rabbia.
«Ti
prometto che farò qualunque cosa in mio potere per fermare
questa
follia».
Selina
le sorrise, annuendo. Attraversarono la strada attente a non essere
investite, poiché pareva che agli automobilisti non
importasse
granché che ci fossero le strisce pedonali, e passarono
attraverso
una piazza tappezzata da graffiti: c'erano diversi percorsi per lo
skateboard e bici da downhill, tanti ragazzi e ragazze facevano
gruppo e altri si allenavano. Schivarono un ragazzo in bici che
passò
a loro davanti e Selina salutò qualcuno, alzando un braccio.
«Vieni,
ti presento ai ragazzi». Si avvicinarono a un gruppetto.
C'erano
ragazze e ragazzi piccoli che potevano frequentare le scuole medie e
altri più grandi di loro, cappellini al contrario, borchie
sui
giubbotti in jeans e pantaloni strappati, bombolette alla mano o
skate ai piedi. «Ehi, lei è Supergirl, quella di
cui vi parlavo».
In
men che non si dica si ritrovò a dover stringere le mani di
tutti,
tra chi fosse felice di conoscerla, chi le diceva di essere stata
fortunata a sconfiggere Selina in campo da lacrosse e chi era
sorpreso perché dai video la faceva diversa.
«Più
robusta. E forte», si accentuò una voce maliziosa.
Il gruppo si
divise in due e lasciò passare quella ragazza come se le
dovesse il
rispetto: aveva lunghi capelli rossi, mossi, stretti jeans verde
chiaro e una giacca verde militare ben chiusa intorno a una sciarpa
bianca. Si avvicinò lentamente, squadrandola da capo a piedi
tanto
che Kara si sentì all'improvviso in soggezione.
«Dunque la nostra
Supergirl nasconde un'aria innocente da timida bambina»,
disse
lentamente formando un sorriso, portando una mano sul suo mento. Kara
se l'avrebbe scrollata di dosso se solo si fosse ricordata di
respirare e di smetterla di fissarle le labbra rosse. «Sei
carina
senza il casco. E gli occhiali ti donano un'aria sbarazzina»,
le
sorrise ancora, «Mi piaci». A quelle parole, il
gruppo intorno
sorrise e annuì quasi pronto in un applauso.
Si
sentì come se avesse dovuto superare il suo test per essere
accettata. Chi
diavolo…?
«E tu chi saresti?».
Le
mostrò la mano per una stretta, incantandola con i suoi
grandi occhi
di un verde smeraldo. «Pamela Isley, ma tu puoi chiamarmi
Ivy.
Lusingata di fare la tua conoscenza».
Selina
alzò gli occhi al cielo: sospettava che Ivy si sarebbe presa
il suo
tempo. «Dov'è Harley?», le chiese poi,
sperando di disincantarla.
Lei
si voltò all'amica e lasciò la mano di Kara di
colpo, che si sentì
come se l'incantesimo che le aveva fatto si fosse appena spezzato.
«Dobbiamo passare a prenderla».
Selina
sbuffò e disse a Kara che erano costrette a fare un'altra
sosta.
Salutarono il gruppo con la promessa di rivedersi davanti alla Wayne
Enterprises più tardi e le due si misero in marcia insieme
ad Ivy.
Dietro di lei, Kara notò che la ragazza attirava occhiate da
parte
di chiunque e non pensava fosse solo perché era
oggettivamente
bellissima e sculettava: aveva sempre avuto un buon udito e non le
era sfuggito il fatto che la chiamassero Poison
Ivy. Attraversarono e passarono dietro alcune case, su strette vie di
cemento spaccato su cui sorgevano alti rametti d'erba, ora seccati
dal freddo.
«Perché
ti chiamano Poison
Ivy?»,
domandò con voce ferma. Quasi tutti parevano avere paura di
lei, ma
di certo non ne avrebbe fatto a Supergirl.
Lei
si girò verso di loro scrollando le spalle.
«Dicono che sono
velenosa».
Si
tornò a girare e Selina ridacchiò.
«Alle scuole superiori alcuni
ragazzi della squadra di football avevano iniziato a prenderla di
mira. Si sono persi la finale: tutti ricoverati per un brutto attacco
di dissenteria. E non parliamo del suo ex».
«Ci
sono uscita una volta sola», le gridò
canticchiando, alzando il
dito indice destro.
«La
tormentava perché voleva uscire con lei. Glielo ha concesso
ma l'ha
pagata: lo ha avvelenato. Niente di grave, ma se non fosse corso in
ospedale…». Kara l'ascoltò sgranando
gli occhi. «Non vuole dirci
come ha fatto», la sentirono borbottare di segreto
professionale,
«Per non parlare di quando-».
A
quel punto, Ivy la interruppe: «La verità
è che odio a che fare
con la gente che non mi ascolta», scrollò di nuovo
le spalle per
giustificarsi.
«Non
ti hanno denunciata?». Kara non voleva credere alle sue
orecchie.
«Ci
provassero», fu la sua risposta, dopo essersi fatta una
pacata
risata.
Selina
proseguì: «Ehi, krypton, non sai come funziona
qui: o ti fai
rispettare, o ti passano sopra. La polizia non sta dalla nostra
parte, solo noi stiamo dalla nostra parte, okay? Qui ci si
arrangia».
Kara
intuì presto che non era solo il freddo o gli automobilisti
che non
rispettavano le strisce pedonali a rendere Gotham diversa da National
City.
Camminando,
vide la città che lentamente cambiava: sempre meno graffiti,
meno
urla, non si sentivano quasi più le sirene delle volanti,
pochi cani
che abbaiavano e c'era sempre meno gente che camminava per strada.
Passarono attraverso un parco e presero un'altra stretta vietta,
camminando dietro a case molto più curate e grandi di quelle
viste
finora in centro.
«Stiamo
andando a prendere la sua ragazza», la informò
Selina, «L'unica
che può resistere al suo veleno… così
dice lei», scosse la testa
con un sorriso. «È dei nostri, ma la sua famiglia
non proprio».
Oh,
capì immediatamente a cosa si riferiva quando arrivarono
davanti
alla casa ed entrarono scassinando un cancello: era ben curata,
c'erano i nani in giardino e le farfalle adesive attaccate alle
finestre, il tappeto sulla porta d'ingresso citava welcome
home
e c'era un dondolo sul retro, dove si avventurarono. Non dovevano
essere ricchi, ma di certo benestanti, lontani dal mondo di Selina
Kyle. Si chiese cosa avrebbe pensato nel guardare villa
Luthor-Danvers.
Ivy
ricercò una pietra in mezzo all'erba e la lanciò
contro una
finestra. Dopo poco, quella si aprì e una ragazza dal viso
pallido e
lisci capelli biondi si affacciò. «Mi preparo e
arrivo», intonò
con una vocina dolce, sparendo dalla loro vista.
«Lei
è Harley. Non farci caso».
«A
cosa?».
«Lo
capirai».
Passarono
pochi minuti, il tempo concesso ad Ivy per squadrarla ancora un po' e
sorriderle, che la ragazza che si faceva chiamare Harley
cominciò a
calarsi spingendo il sedere rosso dei leggins fuori dalla finestra.
Si arrampicò sul cornicione e poi si mantenne al traliccio
per
rampicanti sulla parete. Si muoveva velocemente, pareva piuttosto
abituata, anche se Ivy le raccomandava di stare attenta a dove si
reggeva. A un metro da terra si preparò a saltare.
«Ti
prendo», esclamò Ivy, spalancò le
braccia.
Harley
si lanciò. Un piede le si incastrò nel ramo di un
rampicante.
Schivò Ivy. Cadde faccia contro l'erba ghiacciata. Selina si
portò
una mano sul viso.
«Oh
cielo, si è fatta male?», Kara si
avvicinò, mentre Ivy la tirava
su.
«Ma
figurati, tanto peggio di così non può
diventare», borbottò
Selina.
L'attimo
per tirarsi sulle proprie gambe che rise, abbracciando Ivy di colpo,
per poi scambiarsi un bacio. Un lungo bacio. Si tennero strette e
Selina dovette attirare la loro attenzione rumoreggiando con la gola
per farle smettere. «Oh, lei è la famosa
Supergirl?». Prima
sciolti, ora i capelli erano legati in due alte codine e Kara
poté
notare che le punte di una coda erano blu e l'altra rosse. Indossava
degli shorts sopra grossi leggins rossi, strappati in diversi punti,
una giacca nera chiusa fino al collo e dei guanti senza dita come
quelli di Selina. Le prese le mani nelle sue e poi
l'abbracciò di
scatto. «Ma sei carinissima! Mi piaci». Si
allontanò da lei
mantenendo un saldo sorriso e Kara le notò il naso rosso e
graffiato
per via della caduta. Sia lei che Ivy la guardarono sospirando.
«Oh,
che sbadata che sono», si colpì la fronte,
«Posso offrirti
qualcosa?».
«Non
ci sono i tuoi?», le domandò Ivy perplessa.
«No,
non sono in casa».
«E
allora perché sei scesa dalla finestra?».
Lei
ci pensò su, per poi sorridere di gioia.
«Boh… mi piace,
suppongo».
Ivy
le diede un colpetto in testa, sgridandola, mentre Kara e Selina si
scambiavano uno sguardo: adesso la prima capiva a cosa si riferiva
l'altra.
Lasciato
il giardino di casa, il cui campanello citava Quinzel,
le ragazze portarono Kara in visita tra le case popolari che
sarebbero state rase al suolo. Notò subito che c'erano tanti
bambini, anziani in difficoltà, povera gente che aveva poco
e
rischiava di perderlo in un momento. Le strade erano fangose, le case
di chi le accoglieva per le interviste cadenti, la muffa dagli angoli
si espandeva lungo le pareti. Si ignorava ogni norma di igiene e
sicurezza. Lasciò che qualche cittadino si sfogasse per il
suo
cellulare, registrò tutto, e prese qualche appunto a penna
su un
taccuino. Quelle persone stavano subendo una grave ingiustizia e non
sarebbe rimasta con le mani in mano.
Davanti
alla Wayne Enterprises insieme ai manifestanti, Kara notò
che la
polizia non si limitava a tenerli lontani dalla struttura, ma che
spesso avanzava con forza per spingerli e forse far male a qualcuno
che osava alzare troppo la voce. A un manifestante caduto, Harley si
scagliò contro il poliziotto. Lui stava per colpirla che
Kara gli
fermò il braccio appena in tempo, lasciando che Ivy e Selina
potessero portare via lei e il manifestante. Intervenne un altro
poliziotto e Selina tirò indietro Kara, fermando di nuovo
Harley che
stava ripartendo alla carica, dietro di loro.
«Ehi!
Perché fate così?», gridò
Kara.
Se
non si fossero fermate, quello sarebbe stato un ottimo spunto per una
rissa, sapevano di non dover ricambiare a quella offensiva, gli
uomini in divisa non aspettavano altro; non potevano pensare solo a
loro, avrebbero caricato e colpito persone inermi.
«Le
forze dell'ordine dovrebbero proteggere i cittadini». Si
ricordò a
quando pensò di entrare in un corpo di polizia e ora, a
vedere loro,
faticava a capire se aveva idealizzato il mestiere oppure se c'era
qualcosa di profondamente sbagliato in quella città.
«Stia
indietro», fu la sola risposta di un poliziotto. Indossavano
caschi,
scudi, in completo antisommossa, come se si aspettassero di dover
caricare da un momento all'altro.
Kara
gonfiò il petto e deglutì, accendendo il
microfono del cellulare.
«Kara Danvers, per il CatCo Magazine. Può dirmi se
è stata la
Wayne Enterprises a concedervi di usare la forza sui
manifestanti?».
Loro si tirarono indietro e qualcuno rispose che non avrebbero
rilasciato dichiarazioni. Stava per insistere che vide il cancello
aprirsi e delle macchine uscire, così disse alle ragazze di
seguirla, aprendosi un varco tra la gente. Le perse di vista tutte
tranne una, che si fermò non distante. Lena uscì
e chiuse lo
sportello, così l'automobile mise in moto di nuovo.
Vedendola, le
andò subito incontro, stringendosi nel suo impermeabile.
«Con
Lord ci ritroviamo dopo».
Kara
la presentò alle ragazze e se Harley le si gettò
addosso con il suo
solito impeto, Ivy le strinse una mano, imbambolata e cercando di
incantare anche lei, Selina invece l'aveva salutata con un cenno
appena, non proprio felice di conoscerla. Kara non aveva dubbi del
perché si comportasse in quel modo.
«E
allora? Cos'hai scoperto dentro?», la incitò Kara
a parlare.
«Vogliono
vendere», sentenziò, rendendo le altre tre
irritabili. «Non c'è
stato modo di aprire dialogo, sono ben proiettati in questa
direzione. Senza contare che molte delle case nei terreni sono
abusive, senza regolari contratti e, quelle che li hanno, non pagano
l'affitto da anni».
«Ehi»,
Selina si accaldò improvvisamente e Kara sentì
subito l'esigenza di
mettersi fra le due, proteggendo Lena. «Cosa vorresti dire,
con
questo?».
«Sta
cercando di aiutare, va bene?», le provò a dire
Kara, intimandole
di abbassare le mani.
Fu
Ivy a prendere le mani di Selina con le sue, abbassandole le braccia.
«Giù gli artigli, gattina, a nessuno di noi
conviene inimicarsi la
super ragazza».
«Siamo
tutte amiche», aggiunse anche Harley, dando un pizzicotto su
una
guancia di Selina e un altro a Kara.
Lena
fece un passo in avanti, appoggiando una mano su una spalla di Kara,
facendole capire di potersi allontanare. «Sto cercando di
dire che
non esiste una soluzione facile. Ad ogni modo mi vedrò con
Bruce
Wayne, a breve. Non ha partecipato all'incontro ma sono riuscita a
scambiarci due parole e nemmeno lui sembra troppo entusiasta di
questa vendita».
«E
allora perché non ferma tutto?»,
domandò bruscamente Selina. «Voi
ricchi siete tutti uguali. Anche a lui interessa il proprio
tornaconto, alla fine». Harley annuì dispiaciuta e
Ivy, alla loro
destra, parve rifletterci.
«Con
questa affermazione pare che tu voglia mettermi all'interno di un
gruppo non ben definito di persone genericamente tutte diverse che
hanno in comune solo la fortuna, o la sfortuna che sia, di essere
nate in famiglie agiate. Che non è poi così
diverso dalla tua
condizione, avendo avuto la sfortuna, o tu la percepisci tale, di
essere nata in una famiglia più povera. Non è una
scelta, ma anche
se fosse, non vedo perché dovrei vergognarmi di farne parte,
come tu
sembra stia suggerendo».
Selina
sorrise, ma non sembrava un sorriso realmente benevolo, tanto che
Kara si sporse ancora un po' verso Lena e Ivy verso di lei, pronte a
fermarla di nuovo. «Non pensi di avere nulla di cui
vergognarti… è così forse
perché conosci solo la tua realtà».
Lena
alzò un sopracciglio. «Forse lo stesso vale per
te». A un altro
sorriso della Kyle, riguardò l'orologio al polso, dicendo di
dover
andare all'incontro.
«Sai
una cosa? Vengo con te, Luthor. Parliamo con Bruce Wayne».
Kara
strinse i denti, guardando l'una e poi l'altra. «Emh, non mi
sembra
una grande idea».
«No,
va bene», le rispose subito Lena. Indicò a Selina
di farsi avanti e
poi si rivolse a Kara, abbassando la voce. «Siamo qui dietro,
ci
metteremmo solo qualche minuto».
«Okay».
Uh, cominciava seriamente a pesarle il fatto di dover mantenere una
relazione segreta con lei: l'avrebbe voluta baciare, era
così sicura
di sé e altezzosa; probabilmente aveva intravisto una sfida,
nel suo
battibecco con Selina, che non aveva intenzione di lasciarle vincere.
Sperò solo che non si fossero azzuffate. La vide annuire e
allontanarsi con Selina Kyle al suo fianco, intanto che si sentiva
avvinghiare a entrambe le braccia. Presto si ritrovò stretta
al
braccio destro da Ivy e a quello sinistro da Harley.
«E-Emh… che
succede?».
«Umh,
personalmente credo sia un bene che siamo rimaste noi»,
rispose Ivy
sensibilmente vicino al suo orecchio.
Harley
rise. «Dobbiamo conoscerci meglio», rispose anche
lei, con un gran
sorriso.
Kara
deglutì, capendo di essersi sbagliata: Supergirl cominciava
ad avere
paura.
«In
realtà, non sono nata in una famiglia agiata»,
confessò Lena dopo
che uno dei poliziotti di guardia al cancello le fece entrare,
seppure con qualche remora su Selina. «La mia era una
famiglia
comune: solo io e mia madre». Ora aveva catturato la sua
attenzione.
«Mia madre è morta di cancro quando avevo quattro
anni e allora fui
adottata dai Luthor».
L'altra
restò zitta, ma una parte di lei si sorprese nel sapere che
avevano
qualcosa in comune, dopotutto.
Ancora
fuori dalla Wayne Enterprises, videro un ragazzo in compagnia di due
guardie affacciate a un ingresso posteriore e, prima di avvicinarsi
troppo, Lena si rivolse di nuovo a lei: «Non sai niente di
me, come
credo neppure della maggior parte della restante gente ricca nel
mondo. Sarebbe buona cosa informarsi, o quanto meno tacere se non si
conosce abbastanza di un argomento, prima di parlare. E magari fare
dell'erba un fascio su una vasta categoria di persone».
Camminò
più piano e lasciò che raggiungesse il giovane
Wayne per prima,
pensando a quanto le aveva detto. Non si sarebbe scusata di certo,
però…
I
due si strinsero la mano e lui congedò le guardie, che
rientrarono
nell'edificio. Selina si avvicinò poco dopo, dapprima cauta,
esaminando lui più attentamente, e poi di fretta,
dimostrando
sfacciataggine. Allungò la mano destra verso di lui che la
strinse
accompagnando un gesto del capo.
«Selina
Kyle. Abito nella zona delle case popolari».
«Mi
rammarico per ciò che sta succedendo, signorina
Kyle».
«Sì,
certo», estrasse un sorriso, «Ne sono
sicura».
Anche
il ragazzo le lasciò un sorriso, ma Lena intuì
che fu solo per
cortesia, esattamente come quello di lei. Poi abbassò un
poco la
testa e, stringendo le labbra secche, riprese a parlare. Era la prima
volta che entrambe lo vedevano dal vivo: Lena lo aveva intravisto
spesso nei telegiornali e in alcuni documentari, Selina in auto,
rigorosamente sui sedili posteriori, quando si spostava verso la
Wayne Enterprises. Distante, un ragazzo immagine che la compagnia
lanciava alla folla per distrarli dalla prossima fregatura, un
cartonato. Vederlo ora, alto e piuttosto robusto, chiuso nel suo
giaccone scuro, con i capelli ben pettinati all'indietro e quell'aria
di superiorità, Selina capì che si era sempre
sbagliata: non era un
capro espiatorio, ma uno di loro. Nient'altro che uno di loro.
«Non
sono d'accordo sulla vendita e domani rilascerò un
comunicato.
Sfortunatamente non ho abbastanza quote societarie per oppormi, anche
se ci ho provato».
«Su
questo grattacielo c'è sopra il suo nome, signor
Wayne…», gli
fece notare, alzando le sopracciglia. «Davvero è
tutto qui ciò che
può fare?». Lena le scoccò un'occhiata
e lui sospirò, così si
rivolse di nuovo a lei:
«Sarebbe
bello se fosse così semplice come crede. Purtroppo non lo
è.
Tuttavia, ciò che voglio dire, è che
pagherò gli avvocati per le
famiglie. Ognuno di loro ha bisogno di potersi difendere».
«Lo
farà davvero? Lei?».
«Io»,
ridacchiò, guardando Lena e poi lei.
Selina
si zittì, cercando di capire se stesse cercando di prenderla
in
giro, mentre Lena gli sorrise.
«Se
posso fare qualcosa…», propose quest'ultima.
«Sì.
Per questo l'ho fatta venire. Diffondete la voce: se c'è una
cosa
che possiamo fare per opporci realmente alla vendita, quella
è fare
pressione sociale». Selina fu colpita: era la sua stessa
idea.
«Questa gente odia la pubblicità negativa.
Cercheranno di
ostacolare il mio comunicato, domani. Signorina Luthor, se potesse
mettere in giro, per cortesia, la voce sul comunicato, gliene sarei
grato: devono potermi ascoltare più persone possibili, se
influenti,
ancora meglio».
«Non
mancherò».
Lui
annuì soddisfatto e dopo si rivolse ancora a Selina Kyle,
chiedendogli di raccontargli cosa si diceva dall'altra parte,
considerandolo come altro materiale da tenere presente per il suo
comunicato.
Intanto
Kara, in compagnia di Ivy e Harley, raccattò qualche altra
intervista dai manifestanti davanti alla società, tra chi
era più
arrabbiato e chi frustrato. Nell'aria si aleggiava un pesante
sentimento di sconfitta, lo scrisse sul taccuino, amareggiata. Si
allontanarono per riprendere aria, guardando la gente che, nonostante
sapesse di aver perso, continuava ininterrotta a far sentire la
propria voce. Se non altro, Kara aveva qualcosa di serio su cui
concentrarsi, poiché appena allontanava i suoi pensieri dal
lavoro
lì a Gotham City, si ricordava di avere Harley che
ispezionava il
suo viso con maniacale attenzione, trovandole più difetti di
un'estetista, e Ivy che non faceva che fissarla e ripeterle quanto
fosse diversa in video, che la telecamera non le dava giustizia.
Avrebbe pensato che ci stesse provando, se non fosse per la sua
ragazza a letteralmente un palmo da lei.
«Basta,
adesso parliamo di cose belle», enunciò Ivy con
fare scocciato. «Se
sentirò ancora un'altra testimonianza su come la nostra vita
faccia
schifo, giuro che avveleno qualcuno». Kara le
scoccò un'occhiata e
lei sorrise, avvicinandosi sinuosa tanto da abbracciarla.
«Rischio
di annoiarmi, sento queste cose tutti i giorni, capiscimi…
Parliamo
di qualcosa più… romantico».
Kara
deglutì; cercò un modo per allontanarsi che
Harley le tirò in alto
una ciocca di capelli e, selezionandone uno, glielo strappò.
«Ahia».
Non fece in tempo a sgridarla intenta a controllare il capello che
l'altra ragazza
la strinse più forte, avvicinando un sorriso malizioso.
«Dunque…
e così la nostra Supergirl ha la ragazza?!».
«Cosa?
No. Non proprio. No. Non… diciamo…
P-Perché non un ragazzo?».
«Beh,
credo sia piuttosto semplice: tanto per cominciare, penso di poter
dire con quasi assoluta certezza che quella Luthor sia una
ragazza».
Harley
rise, controllando ancora il suo capello. «Assoluta
certezza»,
ripeté annuendo.
Kara
arrossì, non riuscendo a trattenere un sorriso.
«Lena? I-Io e Lena
ma», ridacchiò nervosamente, «noi non-
è complicato! Noi non-».
Scosse la testa brevemente e Harley portò entrambe le mani
sul viso,
fermandola, schiacciandole le guance. «Emh,
okay…», si tirò
indietro, sgusciando dalla presa di tutte e due.
«Le
cose tra voi non vanno bene?», chiese Ivy.
«Sì,
cioè no. No, perché non stiamo-
cioè…».
«Ho
visto come la guardavi».
«Che
romantiche», aggiunse Harley in un largo sorriso.
Oh,
non poteva essere vero. Non potevano davvero averlo capito da uno
sguardo! «Lena è mia sorella! Sorellastra,
veramente», deglutì, stringendo i pugni e alzando
fiera lo sguardo.
«Ci proteggiamo… D-Da noi si fa
così».
Le
due si guardarono e poi guardarono di nuovo lei, con un velo di
sconcerto. Ivy trovò il coraggio di parlare per prima:
«Da voi le
sorelle vanno a letto insieme? Non capisco».
«Da
voi… cosa?!»,
sbraitò Harley, lanciando un nuovo sguardo ad Ivy al suo
fianco.
«Hai detto sorelle?»,
scosse la testa, «Pensavo di essere io quella a non avere tutte
le rotelle
a posto…».
Kara
alzò gli occhi al cielo. «Ma no, noi non siamo
davvero sorelle»,
irrigidì i denti, gesticolando, «Le nostre madri
stanno insieme e
non abbiamo legami di sangue; la nostra relazione
è-».
«AH!»,
la interruppe Ivy, alzando la voce e indicandola. «Come
dicevo io:
state insieme. Dopotutto, con quel bel faccino come poteva
resisterti».
Kara
sbuffò, guardando Harley alzare la mano e saltellare fino ad
ottenere l'attenzione di entrambe: «A me una volta
è successo».
«Cosa,
dolcezza?».
«Stavo
guardando un bel faccino e sono caduta», fece una smorfia.
«E
poi cos'è successo?», la spronò Ivy.
«Ho
pianto. Mi sono fatta un gran male». Si rifugiò
tra le sue braccia
e Ivy le baciò la fronte.
Noi
e loro,
pensò Kara. Noi di National City e loro di Gotham. Noi
ricchi e loro
poveri, secondo Selina. Noi El e loro Luthor, le aveva fatto notare
Kal. Possibile che tutto si dividesse in noi
e loro?
Guardò di nuovo verso i manifestanti, il noi,
e la polizia, il loro.
E poi il suo sguardo inquadrò qualcuno di conosciuto,
cominciando ad
avvicinarsi a lui senza avvertire le ragazze, lasciando che si
accorgessero da sole che si stava allontanando e così
seguirla. Oh,
era proprio lui: non troppo distante, scattava foto verso i
manifestanti e la polizia, cambiando angolatura e distanza, girando e
rigirando la fotocamera. Noi
e loro,
ripensò sbuffando: James Olsen era il suo loro,
ora.
«Lavori?»,
domandò, avvicinandosi.
Lui
si sorprese; era inchinato e alzò lo sguardo spalancando gli
occhi.
Il suo viso mutò rapidamente in un'espressione dolce,
sorridendole.
«Beh», inchinò un poco la testa,
«ciò che sta succedendo qui è
assurdo e qualcuno deve pur portare le loro voci fuori da
Gotham».
Kara
ricambiò al sorriso, ci mise poco a mettere da parte i
motivi che la
spingevano a tenerlo a distanza, dopotutto.
«Oh,
wow, ma qui abbiamo un fustacchione».
I
due si voltarono, scoprendo Ivy squadrarlo con espressione
provocante, un'unghia in bocca e uno scocco di sopracciglia, intanto
che Harley si avvicinava tendendo un abbraccio al grido di gli
amici di Supergirl sono anche amici miei.
Si
riunirono con il gruppo di amici della piazza e James
continuò a
scattare foto mentre Kara sentiva ancora qualcuno, tendeva in alto i
cartelli, cercava un dialogo con la polizia. Lui scattò
qualche foto
anche a lei. E anche ad Harley, che continuava a mettersi in mezzo
all'obiettivo per attirare l'attenzione, con linguacce o alzando le
code dei capelli come orecchie.
Kara
si accostò per vedere le foto e si sorprese nel vederne
alcune:
aveva catturato l'aria pesante che si respirava, la rabbia, la
frustrazione negli occhi dei manifestanti, dei ragazzi anche giovani
che lottavano per le proprie famiglie o gli amici, per il loro
futuro. In una foto c'era lei che parlava con un anziano; lui che le
sorrideva nonostante gli occhi stanchi e lei che lo supportava anche
solo con quella mano stretta su un braccio.
«Ti
stava a sentire», le annuì come orgoglioso.
«Tu e tu cugino e
avete questo superpotere in comune: riuscite ad avere subito la
fiducia degli altri, e allo stesso tempo, ad averla in loro».
Lei
sorrise, arrossendo un poco. «Proporrò le tue foto
alla signora
Grant».
James
spense la fotocamera, abbassando un poco lo sguardo e prendendo
respiro. Harley e Ivy stavano prendendo in giro la polizia con il
loro gruppo di amici, non li avrebbero interrotti. «Senti,
Kara…
Mi dispiace per come sono andate le cose», scosse un poco la
testa,
palesemente amareggiato. «Clark ed io siamo amici da tempo,
non
potevo nascondergli la verità».
«L'ho
capito».
«Non
dovevo mettermi in mezzo, non sono affari miei».
«No».
«È
solo che con Lex…».
«Kal
me ne ha parlato», lo fermò, «Ma
è diverso, e Lena non è Lex».
«Hai
ragione», lo disse, ma non gli sembrò realmente
convinto, su
questo. «Noi… Lui
è tuo cugino, pensa di proteggerti. Non avercela con
Clark».
«E
tu?».
«Pensavo
di proteggerti anch'io», rise un poco, grattandosi la testa
impacciato. «So che ci conosciamo da poco e tutto il resto,
ma sei
la cuginetta persa di Clark e lui mi ha parlato tanto di te e quando
ti ho visto la prima volta, non so, è scattato
qualcosa… Resterò
al mio posto», concluse, facendosi più serio.
Kara
apprezzò la sua sincerità. Gli mostrò
la mano e, quando lui la
strinse, lo avvicinò per un abbraccio. «Pace
fatta».
Risero
insieme, ricominciando a controllare le foto.
Bruce
Wayne accompagnò le due ragazze fino al cancello, aprendo
per loro
prima ancora che il poliziotto, di spalle, li notasse. «Vi
ringrazio
per il vostro tempo. Speriamo di vincere questa battaglia, o
farò in
modo che gli sfollati abbiano una sistemazione».
«Meglio
ancora se terranno le loro case, se permette»,
rimbeccò Selina
Kyle. Si strinsero le mani e le due ragazze si allontanarono, quando
il giovane Wayne aggrottò la fronte. «Ah,
signorina Kyle?».
«Sì?
Ha dimenticato qualcosa?».
«No,
vede… penso sia stata lei a dimenticare di restituirmi
qualcosa».
Strinse le labbra e spogliò un polso dalla manica,
così Selina
sfoggiò un sorriso e tornò sui suoi passi.
Intanto
che Lena guardava, Selina Kyle prese un orologio da una tasca del suo
giubbino e glielo chiuse bene intorno al polso, finendo per poggiarci
sopra entrambe le mani e guardarlo assottigliando gli occhi.
«È più
in gamba di quel che credessi», sussurrò e lui non
mancò di
sorriderle.
«Pronto
per sorprenderla».
Le
due ragazze ripresero a camminare vicine e Lena sentì
l'urgente
bisogno di controllare all'interno della sua borsetta.
«C'è
tutto», le fece sapere Selina. «Ho stima di Kara:
ringrazia lei,
Luthor».
James
Olsen non poté fare a meno di notare come Kara e Lena Luthor
si
stringevano per parlare tra loro, come la prima sorrideva e l'altra
le bisbigliava qualcosa a un orecchio. Non era certo di approvare la
loro relazione, ma era sicuro che non spettava a lui farlo; niente di
meno la loro era una relazione segreta poiché in fondo,
perfino
loro, sapevano di non dover stare insieme. Le lasciò per
continuare
il suo lavoro e Kara gli promise che avrebbe parlato con Kal.
Harley
si rattristì al punto da avere gli occhi lucidi quando
dovettero
lasciare le ragazze per tornare a National City. Kara dovette
prometterle che si sarebbero riviste presto o non le avrebbe
restituito un braccio. Poi fu il turno di Selina, che le
ringraziò
entrambe, con sorpresa, per il loro interesse.
«Farò
tutto il possibile», le promise di nuovo Kara.
«So
che lo farai, Supergirl». Si abbracciarono brevemente.
Invece,
Ivy si perse a squadrare Lena da capo a piedi, con insistenza, tanto
che la diretta interessata cominciò a innervosirsi. Le
baciò la
mano a lungo e poi sorrise con malizia nel guardare vicine lei e
Kara. Fortunatamente Lord aspettava a metri da loro l'arrivo
dell'elicottero o avrebbe assistito a quell'imbarazzante teatrino.
«Beh,
ragazze, è stato un piacere conoscervi»,
canticchiò Ivy,
portandosi poi un'unghia in bocca. «Se vi andasse di fare
nuove
esperienze…», guardò l'una e dopo
l'altra, «non esitate a
chiamarci». Le due arrossirono, mentre Harley sogghignava.
Si
allontanarono, avvicinandosi a Maxwell Lord. Kara restò
pensierosa,
con gli occhi sgranati e ancora imporporata sulle gote. «Ci
ha
davvero proposto… uno scambio di coppie?».
Lena
spalancò gli occhi e poi trattenne una risata, ormai troppo
vicine a
lui, che le chiese di seguirle per l'elicottero atterrato a momenti.
«Sai», si avvicinò a un orecchio,
bisbigliando, «non credo abbia
proposto quello».
«E
cosa- Ouh»,
avvampò, guardandosi indietro.
Aveva
promesso a Selina Kyle che avrebbe fatto del suo meglio. Ne
parlò
con Lena, in auto verso il campus: lei era ancora troppo inesperta e
nuova del settore, non era certa che Cat Grant le avrebbe affidato un
articolo di tale portata. «Ma è troppo importante
per rischiare che
salti tutto».
«Va
bene. Allora cosa pensi di fare?».
Kara
sorrise, dicendole di avere qualcosa in mente. Non si baciarono,
c'era Ferdinand davanti, e si salutarono tenendosi per mano. Per mano
fino a quando Kara non scese dall'auto e le dita di entrambe
scivolarono dalla presa.
Non
ci credeva che stava seriamente per farlo, ma era l'unico modo che
conosceva per assicurarsi che la notizia fosse pubblicata.
Quando
lo propose, Siobhan la guardò tanto meravigliata che
pensò per
prima cosa a uno scherzo. «Stai dicendo sul
serio?».
Kara
prese un bel respiro. «Sì. Mi piacerebbe che ti
prendessi a carico
questo articolo… Ho tutto il materiale», le
poggiò davanti, sulla
scrivania, il suo blocco degli appunti, «E ti farò
avere i file
delle interviste».
«Lascia
tutto qui», le disse con sufficienza, per poi adocchiarla
ancora,
sbigottita. «Ci penserò».
Era
un po' abbattuta che avesse dovuto consegnare il suo lavoro ad altri,
specialmente se con altri
si intendeva Siobhan Smythe, ma seppe che era la cosa giusta da fare
quando insieme a lei presentò l'idea a Cat Grant e lei
approvò,
convincendola a sbrigarsi. Era l'idea che Siobhan Smythe aspettava,
il titolo migliore da lì a Natale. Cat Grant le disse di
aver fatto
un buon lavoro e leggendo le bozze di Siobhan sull'articolo
scoprì
che l'aveva citata come collega.
«Ha
usato davvero quella parola: collega»,
raccontò ancora stupita, al cellulare. «Non
credevo nemmeno che
fosse a conoscenza del significato della parola, lei è
sempre un io,
io,
io».
Uscì dall'edificio, attraversando la
strada.
Lena
sorrise, dall'altra parte. «Quelle sono solo le bozze, magari
taglierà quella parte per la versione definitiva».
«Grazie…
saperlo mi rallegra, cominciavo a pensare che l'aria natalizia
potesse trasformarla in un essere umano decente»,
Lena la sentì ridere, «Non
vorrei si sentisse male».
Lena
scese dall'auto parcheggiata da Ferdinand a un lato della strada e
camminò sicura sul marciapiede fino ad affacciarsi a un
negozio,
ancora cellulare all'orecchio. «Ti devo lasciare, Kara, devo
sbrigare delle faccende. Ah… sono fiera di ciò
che hai fatto. Hai
mantenuto la tua promessa, malgrado tutto». Kara si prese del
tempo
e poi le sussurrò di essere felice di averlo fatto,
così si
salutarono con la promessa di rivedersi presto. Lena staccò
la
chiamata con un sorriso e rimise il cellulare in borsa, prendendo un
bel respiro e decidendo di entrare. Alex alzò lo sguardo per
darle
il benvenuto, ma quando vide che era lei si zittì, perdendo
la voce.
Nel
frattempo, Kara era quasi tornata al campus che la piccola Jamie le
andò incontro in una corsa al grido di zia
Kara.
«Maggie?», la vide ferma davanti al cancello; prese
Jamie in
braccio e la raggiunse. «Cosa fai qui?».
«Ehi,
scusami, spero di non disturbarti. Sapevo che saresti tornata verso
quest'ora e speravo di trovarti».
Il
guardiano le fece entrare e si inoltrarono nel parco, con Jamie
imbottita nel suo piumino giallo, saltellando da una parte all'altra.
«Lena?
Cosa… cosa fai qui?», ridacchiò Alex.
In realtà, una parte di
lei sapeva esattamente perché lei era lì e
vederla tergiversare,
voltando il suo sguardo da una parte all'altra della boutique quasi
vuota, le faceva salire l'ansia.
«Volevo
passare a trovarti in università, ma è successa
una cosa buffa»,
Lena si voltò verso di lei, «Quando ho cercato il
tuo nome negli
archivi, non ti ho trovato. È strano perché
quando feci indagini
sulla tua famiglia il tuo nome era lì, eri iscritta, nero su
bianco,
ma provando a scavare un po' più a fondo, sei solo un
fantasma. Non
frequenti le lezioni, non hai dato nessun esame fino ad ora. Quando
ho provato a chiamare chiedendo della mia sorellastra, ho scoperto
che lì non esisti».
Si
guardarono e Alex deglutì. «Hai trovato la
microspia?».
«Sì,
agente Danvers».
Maggie
la guardò con uno sguardo quasi materno, inclinando un poco
la
testa, mentre erano appoggiate su un piccolo ponte affacciate al lago
ghiacciato, che Jamie continuava ad indicare. Kara sapeva
perché era
lì e sapeva anche che non c'era nulla che potesse dirle per
sviarla
dalla verità.
«Posso
chiederti da quanto va avanti?». Maggie la vide sbiancare
poco a
poco e così le sorrise, sperando di darle conforto.
Kara
abbassò la testa. «Da sempre». Quella
risposta la sorprese e lei
abbozzò una risata. «N-Non so
spiegarlo… Lo so che le nostre
madri stanno per sposarsi, Lena ed io abbiamo fatto i conti con
questo tante volte, ma è successo e»,
sospirò, «e non abbiamo
potuto fermarci».
Lena
la fissò e Alex sentì un brivido percorrerle la
schiena quando le
mostrò la microspia che si era portata in borsa,
appoggiandola al
bancone di vetro della boutique. «Kara lo sa?».
«Oddio,
no», alzò le sopracciglia, sospirando.
«Lavoro sotto copertura per
proteggerla, non-», si fermò, ghiacciandosi,
quando quel pensiero
le sfiorò la mente: «Glielo dirai?».
«Non
spetta a me dirglielo», rispose Lena. E Maggie.
«Non
lo dirai ad Alex?», ripeté Kara, «Ero
convinta che vi diceste
sempre tutto».
«È
così», Maggie strinse le labbra, sporgendosi solo
un attimo per
sgridare Jamie che si stava allontanando troppo. «Ma questo,
Kara,
riguarda voi. E Alex in fondo già lo sa, anche se penso non
lo
voglia ammettere».
«Non
glielo posso dire», obiettò Alex, scuotendo la
testa. «Anche
volendo, è lavoro. C'è troppo in
ballo», abbassò la voce sempre
di più, guardandosi velocemente intorno, «Hanno
ucciso loro tuo
padre, non possiamo rischiare di attirare l'attenzione».
«Tu
lo sapevi?».
Alex
deglutì di nuovo, voltando un poco lo sguardo.
«Non potevo dirti
niente. Non ne so molto più di voi, comunque. Il mio compito
era
solo proteggere Kara, ma se riusciamo a portarci
avanti…», la
scrutò negli occhi chiari, prendendo una pausa prima di
proseguire.
«Ti chiedo scusa».
«Non
voglio le tue scuse», riprese la microspia e, pensandoci,
continuò,
aprendo un poco le labbra e avvicinandosi. «Voglio scoprire
perché
è stato ucciso, voglio proteggere Kara quanto te, e ho un
piano».
«No
che non ho un piano», Kara fece spallucce, «Nessuna
di noi due ha
un piano».
«Quindi
non avete considerato come andare avanti?»,
domandò Maggie,
«Pensavate di amarvi di nascosto per sempre, per
caso?».
«No,
certo che no». Maggie attese che continuasse, sbirciando la
figlia
con la coda dell'occhio, che stava scavando nella terra umida oltre
il piccolo ponte. «Ci stiamo solo… godendo il
momento, diciamo»,
confessò Kara. «Pensavamo di non poter stare
insieme e poi siamo
state insieme e ora non vogliamo altro che stare insieme».
«Dovete
dire la verità», le annuì,
accarezzandole un braccio. «Magari
andrà bene e non avrete più motivo di
nascondervi. E, se ti fa
sentire meglio, sono dalla vostra parte».
Kara
le sorrise e così fece anche Lena, più
brevemente. «Sei dalla
nostra parte, no?».
«È
rischioso…», valutò Alex, distraendosi
solo un attimo per
rispondere a una cliente. «Quella donna… Al D.A.O.
pensiamo sia
stata lei ad ordinare l'omicidio dei genitori di Kara, se scopre una
microspia… non sappiamo come reagirà,
è imprevedibile e
pericolosa».
«Farò
in modo di cancellare ogni dato che ricollega al D.A.O.: anche se la
trovasse, non potrebbe ricondurla a nessuno, saprebbe solo che
qualcuno la torchia».
«E
questo è già abbastanza pericoloso».
«Me
ne rendo conto».
«Ma
da qualche parte dobbiamo pur partire… Ci sto. Ma devi
promettermi
una cosa», guardò Lena negli occhi, «Non
diremo a Kara di questo».
Annuì,
sapendo di non avere molta scelta.
Aaaaah!
Eccoci di ritorno!
Sono
stata brava, eh? Capitolo puntuale come sempre.
Mi
spiace che lo scorso capitolo non abbia ricevuto granché
entusiasmo,
gli stand alone stanno perdendo il loro “fascino”,
ma ahivoi sono
capitoli importanti quanto gli altri per la trama e per i personaggi,
per capirli ecc, quindi “vi toccano” ugualmente :P
Allora,
allora… Maggie sa di Kara e Lena, Lena ha affrontato Alex e
siamo
andati a Gotham! Kara ha fatto pace con James e ha avuto modo di
riflettere, ma soprattutto abbiamo conosciuto un po' meglio Selina e
scoperto Ivy, Harley e Bruce Wayne! Vi piacciono? Vi hanno convinto?
Questo capitolo è stato un po' difficile da scrivere, tanti
personaggi, c'era anche Maxwell Lord, personaggi nuovi e purtroppo
introdotti per poco, come Bruce, ma non è detto che non
torneranno
in futuro (o meglio, è sicuro).
E
ora? Lena ha detto di avere un piano, ma come faranno a introdurre
una microspia in casa Gand? Sarà possibile? Non si prospetta
qualcosa di semplice…
Fatemi
sapere cosa ne pensate e… al prossimo capitolo che si
intitola
Pre-Natale
e sarà pubblicato puntuale come sempre lunedì
prossimo ~♥
|
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Capitolo 25 *** 24. Pre-Natale ***
Natale
arrivò in anticipò quando si divulgò
la notizia che la Wayne
Enterprises rinunciò alla vendita dei terreni delle case
popolari a
Gotham e Bruce Wayne, in un altro comunicato dopo quello di quasi una
settimana prima, disse che si sarebbe occupato personalmente dei
lavori per rendere le case sicure e accoglienti per tutti. Selina
Kyle scrisse a Kara per ringraziarla e, con suo immenso stupore, la
ringraziò anche Siobhan, poiché quell'articolo
fece il giro del
mondo. Sia l'articolo accompagnato dalle foto di James Olsen che il
comunicato di Bruce Wayne, visto e rivisto anche in web, oltre alla
raccolta firme, svegliarono l'opinione pubblica su quanto stava
accadendo e lo scandalo era alle porte. Avevano vinto. Anche Bruce
Wayne inviò un'email di ringraziamento a Lena; non solo per
aver
aiutato a divulgare il comunicato, ma anche per l'interessamento nei
riguardi della vicenda, al contrario dei tanti che si erano
presentati per acquistare i terreni.
In
vista delle vacanze natalizie, le strade di National City venivano
abbellite di festoni e luci con le forme di grandi fiocchi di neve, i
negozi si rimodernavano di rosso e oro e addobbavano le vetrine con
finta neve bianca e adesivi di pupazzi di neve o Babbi Natale con i
sacchi gonfi, nelle piazze gli alberi diventavano luminosi e i
cittadini riempivano i supermercati a ogni ora. E c'era qualcosa
nell'aria, Kara lo percepiva: l'aria fresca e pungente di dicembre
verso quel periodo iniziava ad assumere un sapore diverso. Ed era
bella. La rendeva più solare. O lo sarebbe stata di certo un
po' di
più se non fosse stato per lo studio e per l'ultima partita
prima
delle vacanze, che purtroppo avevano perso per un soffio. Si erano
battute e avevano giocato fino allo stremo, ma dovevano imparare ad
incassare, e proprio quando anche Lillian ed Eliza erano andate a
vederla giocare. Alex l'aveva stretta tanto da non volerla lasciar
andare, ma Kara non era triste, forse abbattuta, ma sapeva che la
squadra aveva dato il meglio. I ragazzi avevano giocato due giorni
prima e al contrario avevano vinto, rendendo Mike piuttosto irritante
quando si incrociavano nei corridoi. In realtà, Kara era
convinta
che il giovane Gand tentasse di prendersi una sorta di rivincita nei
suoi confronti: sapeva che era impegnata e ogni volta che le chiedeva
del suo nuovo ragazzo lei sviava il discorso. Non si stupì
di
sentirlo chiedere di un ragazzo nonostante sapesse di aver baciato
una ragazza dopo la sua prima partita: per lui una relazione con una
ragazza, per un'altra ragazza, non era un vero rapporto.
Durante
quei giorni, lei e Lena erano riuscite a vedersi poco, ma tanto
bastava per baciarsi, tirarsi e riprendersi, stuzzicarsi e lasciarsi
segni violacei di passione: forse Kara si era divertita un po' troppo
ma fortunatamente era inverno, così Lena riusciva a coprirsi
il
collo senza problemi e una sciarpetta scura diventò il suo
nuovo
indumento preferito. Dopo aver parlato con Maggie, una parte di Kara
si era convinta che uscire allo scoperto sarebbe stata la cosa
migliore, ma ogni volta che ricordava come Alex parlò di una
possibile relazione tra lei e Lex e lo strano dialogo tra lei e
Lillian in macchina un mese prima, i suoi propositi di parlare a Lena
dei suoi dubbi di dirlo a tutti scivolavano via in un C'è
ancora tempo,
oppure nel Non
è il momento.
Era appena riuscita a fare pace con Kal, che aveva accettato di lei e
Lena seppure ancora contrario alla loro relazione, che pensava
sarebbe stato meglio dare a ogni cosa il giusto tempo. Il suo
obiettivo, ora, era far conoscere meglio Lena a Kal e anche a James,
per questo motivo insieme ad Alex organizzò una festa
pre-natalizia
in casa Danvers-Luthor, con l'approvazione di Eliza.
Allo
stesso tempo, Lena si era vista in segreto con Alex per parlare del
loro nuovo piano: mettere la microspia in casa Gand. Alex le aveva
inviato per messaggio l'indirizzo e Lena aveva guidato fin
lì,
decidendo di non farsi accompagnare da Ferdinand per mantenere un
profilo basso. Optarono per incontrarsi fuori, di certo
però, pensò
Lena uscendo dalla macchina una volta arrivata, non si aspettava un
locale per donne gay. Non era mai stata da quelle parti e si
sistemò
per bene la sciarpa, prima di entrare. Le donne all'ingresso la
squadrarono e continuarono a tenerla d'occhio anche una volta che si
fu allontanata, cercando Alex Danvers.
«Oh,
eccoti», le fece la mano dal bancone. «Vieni,
prendiamoci un
tavolino laggiù».
Era
stata una mossa poco velata quella di farla entrare in quel locale:
il sospetto di lei e sua sorella minore insieme non riusciva ad
abbandonarla, così, sapeva che non era omofoba, ma se fosse
riuscita
ad inquadrare il suo orientamento sessuale magari si sarebbe data una
calmata.
Si
sedettero ai lati opposti di un tavolino accanto a una parete e Alex
le sorrise soddisfatta, osservando lo sguardo smarrito dell'altra che
tentava con disperazione di fingere che non si sentisse almeno un po'
a disagio. «Ti dispiace se ti ho fatta venire qui?
C'è abbastanza
confusione che nessuno baderà a noi». La musica
era fin troppo
alta, quella sera, in effetti, e il locale aveva il pienone.
«Oh,
no, figurati», strinse un poco le labbra, «Qui
va benissimo».
Umh,
pensò, forse lo disse per non passare per bigotta.
Cercò di pensare
a cosa dirle per farla parlare, quando si avvicinò la
ragazza per le
ordinazioni.
«Ehi,
Alex», la salutò, vedendo con la coda dell'occhio
di essere
accompagnata da una nuova ragazza. «Cosa prendete? Come sta
Maggie?».
«Maggie
sta bene», sorrise, grattandosi il capo. «Non
è come pensi, lei è
la mia sorella-».
«Aspetta!
Lena Luthor?». Alex spalancò gli occhi intanto che
Lena alzava la
testa e si mostrava alla giovane cameriera formando un flebile
sorriso. «Non ci credo! Come stai? Mai avrei pensato di
trovarti
qui! Ne è passato di tempo… e non mi hai
più richiamata! Aspetta…
voi vi conoscete?», le indicò e Lena
annuì.
«È
la mia sorellastra».
La
ragazza rise, mettendosi una mano sulla bocca. «Quanto
è piccolo il
mondo! Davvero da non crederci! Allora, sapete già cosa
ordinare?».
Alex
restò basita, guardando una e poi l'altra con occhi
sgranati. Non
poteva crederci. Era… cosa?
Disse velocemente che prendeva la solita birra quando si accorse che
aspettavano solo lei e poi attese che si allontanasse per fissare
ancora Lena Luthor. Cosa.
Stava. Succedendo?
«Tu e lei… voleva dire?!»,
indicò anche se ormai era sparita
dalla loro vista, continuando a fissare lei, non perdendosi ogni
battito di ciglia.
«Sì»,
rispose con naturalezza, «Non sapevo lavorasse
qui».
«Cosa?
Come?!», borbottò e Lena la guardò a
sua volta, con grandi occhi
verdi.
«Ci
siamo viste una volta».
«Ah…»,
spalancò la bocca in un sorriso, ancora incerta.
«O
due».
Ma…
«Capisco.
Perdonami, pensavo fossi eterosessuale», alzò le
sopracciglia, in
attesa di una sua reazione.
«Non
lo sono».
Basta?
Una risposta secca era tutto ciò che aveva da dire? Sperava
di
entrare in una discussione. Così rise appena, ringraziando
quando la
stessa ragazza si fermò per servire loro da bere.
«Le nostre madri
stanno insieme, Maggie ed io stiamo insieme, tu… ti sei
vista con
una ragazza».
«Una?»,
la interruppe la ragazza del locale, scoccando un'occhiata a Lena.
«Prima di me non ti vedevi con quella
dell'università? Com'era? Ah,
aveva un altro nome: Roulette».
Alex
la guardò e così guardò di nuovo Lena,
che annuì, abbozzando un
sorriso. Pareva più che altro seccata e si grattò
un poco la
fronte, tirando indietro un capello corvino sfuggito dalle forcelline
che li tenevano indietro. «Sì. Roulette ed io ci
siamo viste
qualche volta».
«Era
una tipa forte. Non si fa vedere da un po', peccato». Se ne
andò,
lasciando Alex senza parole.
«Okay…
Dicevo, anche tu ti sei vista con delle
ragazze. In pratica, a meno di nuove scoperte, solo Lex e Kara sono
eterosessuali». Lena deglutì e iniziò a
bere. «In famiglia non
capita spesso. Sarà un segno dei tempi che
cambiano», bevve un
sorso anche lei. «Avevo così paura di fare coming
out…», alzò
gli occhi al soffitto tirando su un sorriso, continuando, «Se
un
giorno avessi saputo che mia madre si sarebbe innamorata di un'altra
donna, e che poi la mia sorellastra ed io avremmo avuto questo in
comune… beh, mi sarei sentita meno sulle spine»,
agitò la birra
verso di lei, «Alla famiglia». Bevve di nuovo e
Lena la seguì,
borbottando un Alla
famiglia
lievemente meno convinto.
Lena
Luthor non era eterosessuale. Ma l'aveva controllata bene quando
provò a dire di Lex e Kara etero e non aveva avuto reazioni:
era
incredibile la sua faccia da poker. Poteva semplicemente
chiederglielo, ma forse sarebbe stato meglio chiederlo a Kara. O
chiederglielo quando sarebbero state insieme. Sì, forse era
meglio
aspettare un momento buono.
«Pensavo
che potrei andare io a casa dei Gand».
Lena
la fissò e Alex si sorprese: per un attimo si
scordò della
microspia e del piano. Oh, si stava lasciando coinvolgere un po'
troppo da quel pensiero che finiva per distrarsi per le cose
veramente importanti. «Scusami, avevo la testa da un'altra
parte.
Andare tu dai Gand? Con quale scusa? Ci sei già
stata?».
Lena
si appoggiò allo schienale della sedia, pensandoci.
«No, non credo…
I miei e i Gand si conoscono… o conoscevano da anni, hanno
sempre
avuto un rapporto particolare, non ben definito, si conoscevano
grazie ad altre amicizie in comune. Ma le nostre famiglie non si sono
mai avvicinate tanto da essere invitate a pranzo o a cena… Cena»,
rifletté, annuendo per sé e poi alzando una mano,
riavvicinandosi
al tavolino e appoggiando un gomito. «Hanno sempre fatto
delle cene,
vanno avanti da anni: la mia famiglia, i Gand, il sindaco e altre
persone come poliziotti, politici, capi d'azienda, o semplicemente
ricchi…».
Anche
Alex si appoggiò meglio sul tavolino. «Le punte di
National City…»,
bisbigliò, «Come i Gand, alcuni di loro potrebbero
aver fatto parte
dell'organizzazione criminale a cui la D.A.O. dà la
caccia».
«Ci
avevo pensato. Quello a cui non avevo pensato è che potrei
usare le
nostre conoscenze in comune per entrare in quella casa: ci
sarà pur
qualcosa che Rhea Gand vuole».
«Quella
donna ha tutto», le ricordò.
Lena
scosse lentamente la testa. «Tutti vogliono
qualcosa… Devo solo
capire qual è il suo
qualcosa».
Si
infilarono i cappotti per lasciare il locale che la cameriera si
avvicinò di nuovo per pulire il tavolino. Sorrise a entrambe
e
chiese ad Alex di salutarle Maggie. Le ragazze si coprirono bene e
Lena si tirò la sciarpa, assicurandosi che il segno violaceo
fosse
ben coperto. «Uh»,
la ragazza del locale si avvicinò con un malizioso sorriso.
«Quello
è un succhiotto? Un grande lavoro… Non fare la
timida, sono
contenta che ti vedi con qualcuno».
Alex
Danvers non era distante abbastanza per non aver sentito. Le vide
salutarsi e così Lena raggiungerla. Una ragazza le
fermò chiedendo
se potesse offrire loro da bere ma rifiutarono, uscendo dal locale
scontrandosi con la brezza gelida della tarda sera.
«Ti
vedi con qualcuno?».
Lena
alzò un sopracciglio, reggendosi la sciarpa.
«Non
fraintendere», ridacchiò,
«Curiosità da nuova sorella. Sono anche
più grande di te e abituata con Kara».
«Sì,
mi vedo con qualcuno. Una ragazza».
Faccia
da poker. Faccia da poker. Ciò che si chiedeva Alex era se
le
avrebbe mentito in faccia, se le avesse chiesto se era Kara.
«Bene…»,
annuì, formando un piccolo sorriso. «Sono felice
per te. Se mai
avessi bisogno di qualcuno con cui parlare, ricordati di me».
Si
lasciarono così, non sapendo ancora che si sarebbero riviste
solo
pochi giorni più tardi a casa Danver-Luthor per sistemarla
in vista
della festa. Kara aveva chiesto a Lena se le avrebbe fatto compagnia
e Alex lo aveva scoperto solo il giorno in cui si ritrovarono
lì
tutte e tre. Entrare là dentro dopo mesi, quando ancora
cercavano il
loro primo bacio, sembrava così strano.
Eliza
consegnò le chiavi ad Alex e le fece promettere che avrebbe
assicurato lei che nessuno avrebbe distrutto casa. Peccato che la
primogenita fosse già convinta che non avrebbe passato tutta
la sera
a quella festa e, allo stesso tempo, lo fece promettere a Kara. Poi
guardò Lena e aspettò un suo cenno,
poiché tra le due le sembrava
di certo la più matura a cui far promettere una cosa come
quella.
Lasciarono
le giacche nell'ingresso e Lena si tolse anche la sciarpa. Kara
l'adocchiò e strabuzzò gli occhi, in seguito
intercettò Alex e
corse come un fulmine in direzione della prima sperando di non essere
notata dall'altra, così le coprì il segno,
indicandolo con lo
sguardo.
Lena
scosse la testa. «Lo ha visto», sussurrò
talmente piano che solo
Kara potesse sentirlo e la vide ingurgitare saliva e tornare sui suoi
passi con fare impacciato.
Alex
le vide distanziarsi l'una dall'altra, in silenzio. Oh, era stata
davvero Kara a farglielo, dunque? Sua sorella era nota per l'impeto e
l'impulsività, ma… Era quello era il momento che
aspettava:
sarebbero state solo loro tre per ore in quella casa, quale altro
momento sarebbe stato migliore?
«Etcì».
Le Danvers si voltarono, vedendo Lena che si soffiava il naso.
«Scusate, devo aver preso freddo».
Era
sicuramente quello il momento che aspettava! Ora doveva trovare
l'occasione giusta.
«Avete
invitato qualcuno?», domandò Kara, entrando in
cucina.
«Solo
il mio assistente. Se non vi dispiace», rispose Lena, mentre
sia lei
che Alex seguivano Kara.
«Va
benissimo», le sorrise, «E tu, Alex?».
«Oh,
solo Maggie. Andremo via presto per andare a prendere Jamie dalla
babysitter e dopo resteremo a casa. Conoscendoti, tu avrai invitato
mezzo mondo».
Le
sorelle si sorrisero e infine Kara annuì. «Ci
sarà un po' di
movimento, anche se le nuove amicizie di Gotham non possono
venire».
Lena tirò un sospiro di sollievo, ricordando le occhiate di
Ivy.
«Sono impegnate nei lavori delle case popolari: Bruce Wayne
sta
mantenendo la promessa». Si sorrisero e anche Alex
annuì
soddisfatta.
«Sono
contenta di come la cosa si sia risolta», esclamò
lei. «E a
lavoro? Hai invitato qualcuno anche lì?».
Sapeva
dove Alex voleva andare a parare: anche lei non era nuova ai discorsi
su come Siobhan Smythe la facesse impazzire. «A dire il
vero… sì.
Ho cercato di essere educata, mi sembrava di fare un pensiero
carino». Ricordò di quando quella mattina si era
tanto tormentata
le mani dal farle sudare ed era andata a parlare per prima cosa con
Leslie Willis, che le aveva dapprima riso in faccia, poi l'aveva
stranamente ringraziata e infine aveva rifiutato, dicendo di avere
altri impegni. Con Siobhan Smythe sarebbe stato più facile,
era
convinta che avrebbe rifiutato.
«Keira?
Non fissarmi, per piacere, è già abbastanza
difficile lavorare da
quando mi stai tra i piedi», l'aveva fulminata con lo
sguardo,
alzando gli occhi dalla scrivania. «Non sarai diventata un
maniaco,
per caso».
Oh,
in quel momento era quasi tentata di non invitarla affatto.
«No…
emh, è solo che con mia sorella sto organizzando una festa
pre-natalizia e mi chiedevo», Siobhan aveva abbassato la
penna e
iniziato a ricambiare il suo sguardo sgranando gli occhi, «se
ti
andasse di partecipare. Leslie non viene, ma ci saranno altri amici
e-». Ecco, se lo aspettava: scoppiò a ridere anche
lei, più
delicatamente e con evidente presa in giro, trattenendosi con una
mano.
«Tu
inviti me
alla tua festa? Perché dovrei partecipare a una festa
insieme ai
tuoi amici sfigati? Devi essere proprio a corto di conoscenze o
disperata per chiederlo a me». Kara aveva alzato gli occhi al
cielo
e trattenuto la calma. «Non vorrei pensassi che dopo quel
bacio»,
l'aveva indicata, «oppure dopo che ti ho ringraziata per le
notizie
su Gotham tu possa pensare che ora tra noi ci sia qualcosa
come…
che so, un'amicizia,
o un'interesse»,
aveva terminato con disgusto, serrando gli occhi e scuotendo la
testa. L'aveva cacciata via senza guardarla, sventolando una mano e
Kara aveva sbuffato.
«Mi
sono pentita di averglielo proposto, anche fosse solo per
gentilezza», brontolò, guardando la sorella.
«Beh,
almeno non verrà. A perderci è lei»,
scrollò le spalle ma Kara
abbassò la testa.
«…
non proprio».
Doveva
tornare in università e si era già infilata il
cappotto quando
Siobhan l'aveva chiamata un'ultima volta, e per l'ennesima volta in
modo sbagliato. «Oh, mi mandi l'indirizzo allora? Ci vediamo
da te».
Diedero
una pulita frettolosa in tutta casa e, con musica ad alto volume,
sistemarono alcune decorazioni natalizie rendendola più
adatta alla
festa. Alex ricordò a Kara e raccontò a Lena di
un Natale passato,
il primo della sua sorellina con loro dopo l'adozione: era una
bambina e credeva ancora in Babbo Natale, così Jeremiah si
era
vestito di rosso, si era imbottito per diventare più grosso,
ben
truccato e sistemato una folta barba bianca, la notte era calato
dentro da una finestra mentre fingeva di essere in bagno, facendo il
giro della casa e Kara, da una camera all'altra, era stata la prima a
vederlo.
«Pensavamo
che sarebbe corsa ad abbracciarlo o che le avrebbe offerto il latte
con i biscotti che gli avevamo preparato, invece immagina questa
ragazzina alta un metro che vede un estraneo entrare in casa, nel
buio, e che corre per andarlo a picchiare», scosse la testa e
Lena
rise pacatamente, prima di starnutire ancora.
«Ma
è ovvio», brontolò Kara,
«Babbo Natale scendeva dai camini, non
dalle finestre! Quello lo fanno i ladri».
«Non
abbiamo un camino».
«Poteva
farne apparire uno: in teoria, Babbo Natale dovrebbe essere
magico».
Alex
scosse la testa, guardando di nuovo Lena, che agganciava
l'estremità
di un festone in soggiorno, in piedi su una sedia. «Le avete
impedito di picchiare Jeremiah?», ridacchiò.
«Abbiamo
dovuto tirarla via, era una furia».
«Abbiamo?
Eliza mi ha tirato via, tu stavi scattando foto alla scena».
«Oh,
devo vedere quelle foto», si mise in mezzo Lena.
Kara
impallidì. «No».
«Quando
le abbiamo fatto notare che non era qualcuno entrato per
derubarci»,
proseguì Alex, «si è scusata con Babbo
Natale in lacrime».
«Voglio
davvero vedere quelle foto».
«No»,
ribadì Kara. Si avvicinò a lei quando la vide
scendere dalla sedia
reggendosi la fronte, chiedendole come si sentisse.
«Effettivamente
non fai che starnutire», le fece notare Alex, anche lei
avvicinandosi. «Perché non vai a sdraiarti un po'?
Qui ci pensiamo
noi».
«Alex
ha ragione».
Capì
anche Lena quanto avesse ragione quando toccò il materasso e
iniziò
a sentire il suo corpo intorpidirsi e la testa a farle sembrare che
il soffitto girasse. Starnutì di nuovo e si girò
da un lato,
sperando di sentirsi meglio presto. Vide il letto di Kara, dall'altra
parte, ricordandosi di quando la vedeva dormire con Biancopelo e
ricordandole quando stavano per baciarsi, dando inizio a tutto.
Sospirò, chiudendo gli occhi.
«Non
vorrei che le fosse salita un po' di febbre», ammise Alex,
lasciando
Kara a occhi aperti. La maggiore finì di disporre alcuni
pupazzi di
neve di cartone in giro e diede di nuovo a lei l'attenzione, alzando
una bustina trasparente contenente rametti di vischio.
«Mettiamo
anche questi?».
Kara
era voltata verso il corridoio che portava alle stanze e Alex dovette
richiamare la sua attenzione per farsi notare. «Oh,
sì, sì,
certo», arrossì un poco, «Non
può essere una festa pre-natalizia
senza il vischio». Non riusciva a non pensare al fatto che
quando li
acquistò pensò di baciarsi sotto uno di quelli
con Lena, pur
cosciente di non poterlo fare davanti a tutti, ma ora che stava male
aveva ben altro per la testa. «Vado a portarle il termometro,
va
bene?».
Alex
tenne d'occhio Kara che corse da una parte e poi dall'altra, non
potendo fare a meno di sorridere: che stessero o no insieme, era
chiaro che sua sorella teneva a Lena in modo particolare. Non che non
avrebbe soccorso chiunque, ma era così
preoccupata…
Chiuse
bene la porta dietro di lei, camminando piano per non spaventarla,
così si appoggiò sul materasso, alle sue spalle,
e le lasciò un
bacio su una guancia, svegliandola lentamente. «Ti ho portato
una
cosa».
«Le
foto di quel Natale?», bofonchiò, riaprendo piano
gli occhi.
«No».
A quanto pareva non si sarebbe dimenticata tanto presto di quelle
foto. «Il termometro», glielo mostrò e
la sentì brontolare
rumoreggiando con la gola, rimettendosi a pancia in su.
«Alza», le
prese il polso, alzandole lei il braccio nell'esatto momento in cui
le chiese di farlo, infilandole il termometro sotto l'ascella,
spostandole poi il colletto del maglioncino.
«Mi
dica cosa devo fare, signora dottoressa».
Kara
tirò il termometro appena lo sentì suonare e
così le portò una
mano sulla fronte, tastando più volte, osservando il suo
viso
visibilmente stanco, con gli occhi calati e il rossore sulle gote.
«Hai la febbre. Trentasette e mezzo: non è molto
ma potrebbe
salire. Ti preparo qualcosa di caldo. Tu nel frattempo entra sotto le
coperte, per non prendere freddo».
«Mm…
mi ci metti tu?».
«No»,
si sforzò per restare seria. «Alex potrebbe
entrare da un momento
all'altro». Si avvicinò alla porta e prima di
aprire si voltò
ancora a lei: «È meglio se resti qua, questa
notte».
«Non
posso». Sembrò essere tornata seria di colpo,
soffiandosi di nuovo
il naso. «Ho delle ragazze da seguire domani, ho
già preparato la
lezione».
«Chiamale,
invia loro un messaggio, ma non potrai andare. È meglio se
resti al
caldo o potrebbe peggiorare». La lasciò sola,
chiudendo
delicatamente la porta. Rientrando in soggiorno, Alex le chiese
subito come stesse. «Ha un po' di febbre, le ho detto di
restare,
stanotte. Le farò compagnia, chiamo Megan di avvertire il
guardiano».
Alex
annuì, sistemando con fierezza anche l'ultimo fiocchetto
rosso. «Ci
resta da sistemare solo l'Albero di Natale. Un peccato doverlo fare
noi di fretta, senza Eliza o Jeremiah». Quando la
sentì staccare la
chiamata, si rivolse di nuovo a lei: «Resterò
anch'io. Sai, nel
caso ci fosse bisogno, non mi va di lasciarvi sole».
Kara
apprezzò, ma accidenti se avrebbe voluto restare sola con
lei. Sparì
per preparare a Lena qualcosa in cucina e Alex sospirò:
restare
significava avere più tempo per fare loro quella domanda,
era il suo
ultimo baluardo di speranza. Con Lena malata, tuttavia,
pensò se non
fosse il caso di evitare; ma se non lo avrebbe fatto ora, quando?
Poco
più tardi, le sorelle Danvers addobbarono l'Albero e Lena
uscì
appena in tempo dalla camera per sistemare le ultime cose insieme a
loro. A lavoro concluso, si sedettero tutte e tre sul tappeto,
schiena appoggiata al divano, ammirando l'Albero illuminato. Lena si
sentiva ancora un po' confusa, ma la febbre era scesa e si
accoccolava spesso al grosso maglione del pigiama che le aveva
prestato Kara, su cui era disegnato in stile cartoon un buffo enorme
gatto nero. Le maniche le coprivano anche i palmi delle mani.
Alex,
poi Kara in mezzo, e infine Lena. Zitte, pensierose, guardando il
gioco di luci come ipnotizzate, nel buio della sala.
«Quando
ero bambina», Alex spezzò il silenzio,
«non so perché ero
convinta che l'Albero di Natale potesse esaudire i desideri».
Sorrise verso di loro e dopo strinse le ginocchia, appoggiandoci il
naso. Anche lei indossava un pigiama: era rosso e bianco, a righe
sulle maniche e sui pantaloni.
«Cosa
desideravi?», le sorrise di rimando Kara, anche lei con le
ginocchia
sul naso. Il suo pigiama era blu e bianco, del medesimo motivo.
«Avere
una sorellina».
«Non
me lo avevi mai detto».
«Beh,
questo perché nel frattempo sono cresciuta e non volevo
più una
sorellina. Ti avrei volentieri scambiata con un po' di
popolarità a
scuola», rise e Kara la spinse con un colpo di spalla,
gettandola a
terra.
«Okay»,
sorrise, adocchiando Lena, che aveva ancora la faccia visibilmente
arrossata, e dopo l'Albero. «Rendiamola una tradizione della
famiglia Danvers-Luthor: esprimiamo un desiderio».
«Che
cosa desideri?», le domandò Lena appoggiando la
testa stanca sul
divano. Dopo starnutì di nuovo.
«Intendo
col pensiero».
«Ma
così non c'è gusto»,
controbatté Alex. «Concordo con Lena: cosa
desideri? Dai, inizia tu».
Kara
sbuffò un poco, pensandoci attentamente. Tanto attentamente
che Alex
dovette spalleggiarla a sua volta per farla sbrigare. «Va
bene»,
chiuse gli occhi, «Desidero… essere più
forte. Voglio essere
forte per ciò che mi attende». Le altre due la
fissarono, in
silenzio. Kara riaprì gli occhi e non riuscirono a
replicare,
neanche con una battuta.
Alex
chiuse gli occhi e provò per seconda. «Io desidero
essere pronta
nel momento del bisogno per le persone che amo».
Kara
l'abbracciò di scatto e Lena abbassò gli occhi
appesantiti,
pensando a cosa esprimere. Chiuse gli occhi e aprì la bocca,
ma
starnutì. Risero e risero ancora quando stette per
riprovarci ma
dovette soffiarsi il naso. Infine ci riuscì, prendendo un
bel
respiro. «Desidero essere coraggiosa. Poter andare avanti
senza la
paura costante di cosa accadrebbe se lo facessi».
Riaprì gli occhi
quando sentì la mano di Kara sulla sua.
«E
adesso desidero la cena», urlò quest'ultima,
rialzandosi.
Mangiarono
qualcosa di caldo e Lena, a cui stava pian piano risalendo la febbre,
prese una pastiglia. Dopo tornarono in soggiorno e insieme, sul
divano, si videro un film. Un film per famiglie, incredibilmente.
Terminato, Lena si sdraiò sul divano e Alex si
allontanò per
parlare al telefono, mentre Kara sgambettava sul tappeto sotto al
divano fino alla tv, per leggere per l'ennesima volta i titoli dei
loro dvd, aprendo lo sportellino del mobile. Lena la fissava, con
sguardo un poco vacuo.
«Alex
lo sa», bisbigliò e Kara si voltò,
capendo a cosa si riferisse.
D'altronde, Maggie le aveva detto la stessa cosa.
«Pensi
che dobbiamo dirglielo?».
«Eccomi»,
si ripresentò prima che potessero avere il tempo di
parlarne,
appoggiando il cellulare su un tavolino. «Volete vedere un
altro
film? Cosa sono quelle facce?».
Era
il momento: doveva fare quella domanda.
Era
il momento: dovevano dirglielo.
«No…»,
rispose Kara, rialzandosi e chiudendo il mobile. «Lena
è stanca,
meglio se andiamo a dormire e ci riposiamo»,
guardò una e poi
l'altra, tirando in dentro le labbra, «Domani c'è
la festa ma…
pensavo di rimandare».
«No»,
borbottò Lena, rimettendosi seduta un movimento alla volta.
«Domani
starò meglio. E poi non devi rinunciare per me».
Kara
sospirò: Lena non poteva sapere che in realtà il
vero motivo per
cui aveva avuto quell'idea era cogliere un'occasione per far
conoscere meglio lei e suo cugino: senza di lei non avrebbe avuto
senso.
«Va
bene, ci facciamo una bella dormita e domani decidiamo cosa
fare»,
annuì Alex, voltandosi verso Lena, «Dobbiamo
esserci tutte».
Le
lasciò andare nella loro camera in comune senza dir nulla.
Alla
fine, rinunciò. Sembrava così inappropriato in
quel momento che non
se l'era sentita. Se davvero quelle due stavano insieme come
sospettava, il pensiero che dormissero nella stessa camera la
turbò
un po', ma confidava nel fatto che Lena si sentisse male: avrebbero
dormito come ghiri in qualunque caso.
Kara
rimboccò le coperte a Lena e, sorridendosi, le diede un
bacio. Poi
le disse che sarebbe tornata subito e uscì dalla stanza.
Quando
tornò aveva già gli occhi chiusi e si
assicurò che non stesse
dormendo. «Ho una cosa per te».
«Mmh…
le foto di quel Natale?».
«Ah,
ma è un chiodo fisso, per caso?»,
ridacchiò e Lena sbuffò.
«Il
termometro?».
«No…
Le foto di quel Natale», rise e Lena spalancò gli
occhi, aspettando
che le passasse l'album. Lo aprirono insieme e Kara le diede un altro
bacio, sulla fronte questa volta, sentendo che era tiepida.
«Non hai
la febbre, meno male. Buonanotte».
«Ehi»,
la fermò per una manica e si diedero un altro bacio, serio
questa
volta, tanto che a Lena mancò il fiato. «Non le
guardi con me?».
Kara le sfuggì, passando dall'altro lato del letto intanto
che
scuoteva la testa. «Perché? Hai detto anche tu che
non ho febbre».
«Non
è per quello».
«E
allora per cosa?».
«Quel
letto… era di Alex», lo guardò, sedendo
sul suo. «Ha provato con
tanti ragazzi, su quel letto», confessò.
Lena
scosse la testa e allora si alzò, mentre Kara apriva le
coperte del
suo e l'aspettava. Lena si portò più vicino al
muro e Kara entrò
sotto le coperte facendosi spazio, accogliendola poi addosso a lei,
stringendosi, sdraiandosi. Le diede un altro bacio, mentre apriva
l'album e iniziava a sorridere, indicando lei da bambina.
«Eri
arrabbiatissima», disse. «Non ci credo: Alex non
scherzava, stavi
seriamente piangendo», continuò poi.
«Eri dannatamente carina».
«Ero?».
«Eri»,
annuì brevemente, «Adesso sei
bellissima».
Kara
sorrise e si nascose il viso diventato rosso. «Pff. Sei
un'adulatrice».
«No,
sincera. E poi sto male, quindi ancora più
sincera».
«Oh,
povera…», la baciò sulla fronte e poi
la baciò ancora su una
guancia, sulla testa, sul naso, fino a farla ridere. «Posso
fare
qualcosa per farti sentire meglio?».
Lena
sorrise con malizia, spostando il suo sguardo lontano. «Forse
qualcosa che puoi fare ci sarebbe…».
Kara
le prese l'album dalle mani e lo buttò sul pavimento,
spostandosi di
fianco in modo che potessero baciarsi. E continuarono a baciarsi, a
baciarsi senza lasciarsi respiro. Kara vedeva che seppure la febbre
fosse passata, Lena era debole, e si dispose sopra di lei, cercando
di non caricarle il peso. La baciò tra il collo e il mento,
assaggiando la sua pelle tiepida, facendola sussultare con i suoi
respiri caldi. Si guardarono negli occhi e, senza dire nulla, Lena le
prese la mano destra con la sua, accompagnandola, alzando il
pantalone del pigiama e l'elastico degli slip, guidandola. Kara
spalancò la bocca quando sentì che era
già umida, per lei. La
baciò e le sollevò una coscia con l'altra mano,
avvolgendola col
braccio d'istinto, spostando giù il pantalone e premendo la
sua
pelle piano, lasciando che ora fosse il suo corpo a guidarla.
Era
stato bello potersi svegliare tra le sue braccia, sentire il
movimento del suo petto, l'odore della sua pelle, il calore pesante
nell'aria. Lena si prese il tempo per guardare Kara dormire,
spostarle dei capelli indietro, toccarle il naso e assistere alla sua
faccia infastidita, cercando di non ridere per non svegliarla. Le
poggiò delicatamente le labbra sulle sue e dopo
cercò di saltarla
per scendere dal letto, alzando una gamba e poi l'altra, reggendosi
con le braccia, rendendosi conto di stare scivolando portandosi
appresso il suo corpo addormentato. Mise un piede a terra pestando
l'album e poi si voltò di scatto, reggendola prima che
cadesse
rovinosamente a terra. La tirò indietro e la vide sorridere,
così
le rimboccò le coperte e le lasciò un altro
bacio, osservandola
mettersi comoda nel sonno, portando l'album di foto sulla scrivania.
Doveva aver sfebbrato poiché era tutta sudata,
così raccolse la sua
roba del giorno precedente e uscì per andarsi a fare una
doccia.
Sfoggiò
un bel sorriso, dirigendosi in cucina. Aveva un po' di mal di gola,
oltre a doversi soffiare continuamente il naso, ma si sentiva rinata.
Stava già facendo colazione sorseggiando il suo
caffè accompagnato
da qualche biscotto quando Alex la raggiunse, preparandosi anche lei
un caffè.
«Ah,
dormire ti ha fatto proprio bene. Sembri un'altra rispetto a
ieri».
Si sedette davanti a lei e Lena annuì con un sorriso.
«Ah, senti…»,
Alex adocchiò la porta, assicurandosi che Kara non fosse
ancora in
piedi, «Hai poi trovato un pretesto per entrare in casa
Gand?».
«Ci
sto lavorando. Pensavo sarebbe stato più facile: sto
cercando di
entrare nei suoi conti e ho in mente di farlo per altri, ma
è
incredibilmente complicato».
«Non
posso aiutarti con questo: sono un'agente federale, nemmeno dovrei
sapere cosa stai cercando di fare».
«Non
sei autorizzata a collaborare con noi». La sua era
un'affermazione,
non veramente una domanda.
«Sono
autorizzata a procedere, ma non è una missione
ufficiale».
«Dovete
essere molto…», prese il cellulare quando lo
sentì vibrare,
«disperati
per autorizzarti a farlo».
Il
portachiavi a forma di palletta fuxia pelosa ciondolava davanti al
naso di Alex, mentre lei rispondeva a quello che sembrava un
messaggio. «Lo siamo», bofonchiò,
osservandola. «Le vuoi molto
bene», finì il suo caffè e Lena
guardò il regalo di Kara, prima
di Alex. La vide poggiare il cellulare di nuovo sul tavolo e prendere
un biscotto, così riprese a parlare, viaggiando nei ricordi.
«Quando
Kara entrò a far parte della mia vita, credevo l'avrebbe
rovinata.
Cercavo di trovare la mia identità, volevo essere notata,
apparire
per i ragazzi, e di colpo ero diventata “la sorella di quella
strana”, di “quella nuova”»,
rise; Lena la fissava, ma Alex
guardava distante, dove solo lei poteva. «La rifiutai. La
rifiutati
per tanto tempo. E adesso non posso immaginare come sarebbe la mia
vita se non ci fosse stata lei…», le prese un
biscotto dai suoi,
lasciando che un'occhiata le sfuggì sul succhiotto.
«Voglio
dirglielo», confessò Lena e Alex
aggrottò le sopracciglia. «Il
tuo lavoro non è affar mio, ma non posso collaborare con te
senza
che lei lo sappia». Si scambiarono un silenzioso sguardo,
sobbalzando dallo spavento quando Kara entrò in cucina con
un enorme
sorriso:
«Sapere
cosa?».
Ingigantirono
gli occhi, continuando a masticare. «Alex ha preso una
microspia,
stavamo pensando di infilarla in casa Gand».
«Una
microspia? Dove?», si appoggiò di colpo al tavolo,
guardando l'una
e poi l'altra.
«Me…
Me l'ha fatta avere Maggie, a poco prezzo», sorrise.
«È
fantastico! Dunque si ricomincia? Andrò lì e la
piazzerò».
«No!»,
obiettarono entrambe all'unisono.
Kara
sbuffò, andando a cercare qualcosa da mangiare.
«Va bene… Che vi
prende a tutte e due? Non c'è bisogno di reagire in questo
modo».
Nonostante
ancora qualche starnuto, Lena riuscì a convincere le sorelle
a fare
la festa. Non aveva mai partecipato a feste di quel tipo; da quando
frequentava le Danvers, si ritrovava a fare cose a cui non aveva mai
neppure pensato. Sistemarono la casa con gli ultimi ritocchi, qualche
addobbo dimenticato, e infine riempirono la tavola in soggiorno e
quella in cucina con bibite, salati e dolci, alcuni dei quali era
stata felice di prepararli Eliza per loro. Non mancò la
birra e
qualcosa di più forte. Alex ne aprì
già una che Kara le confiscò
per ricordarle che era presto per bere. Essendo rimaste a casa dal
giorno prima, Alex indossò un paio di jeans e una felpa
lasciati
nell'armadio della sua camera, Kara un vestito pesante con grosse
calzamaglie e Lena, che non aveva cambi, dovette scegliere qualcosa
tra gli armadi delle due, optando infine anche lei per un vestito
invernale, di un rosso molto scuro, scollato e con lunghe maniche che
le arrivavano a mezza mano, che piegò, ma trovato in camera
di
Eliza.
Winn
fu il primo ad arrivare: esattamente tre quarti d'ora prima
dell'orario che avevano indicato per la festa. Indossava un
maglioncino natalizio, azzurro e bianco per indicare la neve, con le
renne che uscivano da una cabina telefonica blu; figurava anche il
suo immancabile farfallino. Non avevano chiesto nulla, ma
portò una
bottiglia di spumante e un dolcetto incartato. Non faceva a meno di
sorridere, felice che l'avessero invitato, ma per il resto pareva
piuttosto a disagio: non era abituato ad andare a feste a cui
partecipava anche il suo capo. O non era abituato ad andare a feste
in qualunque caso. Per sfuggire a Lena, seguì Kara come
un'ombra, e
poi Alex quando prese un po' di confidenza; l'aveva conosciuto solo
da cinque minuti ma le aveva già parlato dei suoi videogames
preferiti da dieci. La ragazza si era nascosta in cucina per bere e
lui l'aveva fatta scoprire, meritandosi una brutta occhiataccia.
Dopo
arrivò Maggie, dicendo di aver appena finito il turno al
lavoro.
Aveva lasciato Jamie dalla babysitter, sapeva che avrebbe tardato, e
tornò a casa solo per cambiarsi, lasciare la divisa e
infilarsi in
un comodo paio di jeans. Alex fu felice di scaricarle Winn per un
po'. Lo guardava con un sorriso intanto che parlava, ma Kara, Alex e
Lena sapevano che il suo spirito era altrove.
Megan
fu la terza, puntuale all'orario stabilito. Anche lei indossava un
vestito invernale. Conosceva già Alex e Lena,
così le presentarono
Maggie e Winn, e la prima fu felice di potersi staccare dal ragazzo
per un po', approfittando del momento di confusione. Tuttavia Megan
lo colse sottogamba, mettendosi a parlare di lacrosse, gioco che lui
conosceva solo per sentito dire.
Barry
e Iris portarono Wally, il fratellino di quest'ultima, e con loro
arrivò anche Mike Gand e il suo broncio. Kara sperava che
invitarlo
lo avrebbe fatto rasserenare un po', ma a primo impatto le
sembrò di
essersi sbagliata. Barry se ne accorse subito e le disse che da
quando lo incrociarono, a poco dalla casa, la nominò tre
volte e il
suo ipotetico ragazzo cinque. Sembrava essersela legata al dito.
Fortunatamente lo vide sorridere di nuovo quando lo scorse parlare
con Winn: finalmente il ragazzo sembrava aver trovato qualcuno che
davvero aveva voglia di ascoltarlo. Maglione rosso con il grosso muso
di renna stampato sopra, Wally West e il suo buonumore diventarono
presto l'anima della festa, raccontando le storie delle sue
scorribande a scuola. Incantava tutti meno che sua sorella, che lo
fissava a braccia a conserte seduta su una sedia.
Kara
fece il giro del salone e cominciò a versare bibite nei
bicchieri, a
servire dolcetti, a parlare con tutti del più e del meno.
Poi
adocchiò l'orologio sulla parete, pensando a suo cugino che
ancora
non era arrivato.
«Non
ti stai -etcì»,
si coprì la bocca con una mano,
«divertendo?».
Erano
ad un lato del tavolo, scrutando con la coda dell'occhio dietro di
loro che tutti ridevano e chiacchieravano, formando gruppetti.
«Sì…»,
sussurrò e la guardò con un sorriso,
«Pensavo a Kal. Arriverà a
momenti».
«La
festa era per lui?», le domandò allora Lena,
cercando di capire
cosa le passasse per la testa.
Kara
mise su una smorfia, accartocciando le labbra.
«Forse», la guardò.
«Vorrei che vi conosceste meglio».
Lena
annuì. «Sa di noi?». Kara non disse
nulla, ma lo sguardo era
sufficiente. «E non è d'accordo».
«Sembra
come se te lo aspettassi», inarcò le spalle.
Lena
prese un dolce, stringendo poi gli occhi per starnutire, ingoiando in
fretta e, Kara le passò un fazzoletto, «Etcì».
«Questo
raffreddore ti sta dando il tormento».
Incurvò
le sopracciglia dispiaciuta, soffiando il naso. «Spero di non
contagiarti».
«Nah»,
sorrise con fierezza, «Supergirl ha una salute d'acciaio!
Dovremmo
restare qui anche stanotte, per sicurezza. Non vorrei prendessi
freddo, là fuori».
Lena
le sorrise con malizia, mandando giù un altro morso. Poi si
soffiò
il naso e Megan rapì Kara, riportandola accanto all'Albero,
in mezzo
alla scena.
«Dobbiamo
parlare della nostra partita contro la squadra di Gotham», le
fece
sapere, «Questo ragazzino non ci crede che hai saltato
più in alto
di Selina Kyle, le hai preso la palla e io ho segnato»,
indicò
Wally.
«Naaah»,
gesticolò lui, scuotendo la testa. «Ho visto i
video della Kyle e
lei è un mostro. Non si può saltare
più in alto, sarebbe volare!
Mi state prendendo in giro, belle! E poi delle ragazze non possono
essere così brave», sorrise, voltandosi.
Kara
assottigliò i suoi occhi. «Come,
scusa?».
Quando
il campanello suonò, fu Alex ad andare ad aprire. Siobhan
Smythe
entrò sfoggiando il suo cappotto impellicciato senza neppure
guardare, mormorando che si era persa e che quelle case erano tutte
uguali, fermandosi perplessa a poco dalla porta, guardando verso il
soggiorno. «Prego, benvenuta», le disse senza
espressione,
chiudendo la porta. Come tornò indietro, anche lei si
fermò al suo
fianco, spalancando gli occhi: Kara e Wally saltavano a ripetizione,
in mezzo a tutti che indicavano chi andasse più in alto,
sentendo il
ragazzino che si lamentava di essere poco più basso e quindi
svantaggiato.
Siobhan
scrollò le spalle. «Oh, almeno ci sono gli
alcolici».
Alex
le fece sapere dove poteva lasciare il suo cappotto e così
sfoggiò
il suo maglioncino marrone, scollato e a mezze maniche, la gonna
corta, scura, che le lasciava le lunghe gambe coperte da sole
pantacalze velate. Appena la vide, Wally mise male un piede e la gara
terminò che per poco Kara non gli cadeva sopra.
Kal,
Lois e James, che Kara era sicura sarebbe arrivato con loro, ancora
non si erano fatti vedere. Terminarono diverse ciotole di patatine e
pop-corn, vassoi di dolci, le tartine e quello con la torta aveva
ormai solo una fetta. Wally le passò davanti e prese
l'ultima. Quel
ragazzo aveva l'appetito di Barry, pensò. Si
voltò verso gli altri,
prendendo uno dei pochi tramezzini che restavano. Lena parlava con
Maggie e Alex sul divano, chissà di cosa. Iris faceva
salotto con
Megan, tra una sedia e la poltrona. Scorse Barry che tentava di
parlare con Winn, in piedi vicino alle scale per il corridoio che
portava alle camere. Tentava,
perché se in realtà ascoltava il ragazzo,
guardava da un'altra
parte. E Kara li vide, vicino a un tavolino, con una bottiglia e dei
bicchieri, Siobhan che beveva e Wally e Mike ai lati che la
incitavano, ridendo e alzando pugni in alto.
«Ehi,
piano con questa», si avvicinò subito, indicando
la bottiglia.
Siobhan
si accigliò. «Sono adulta e vaccinata,
tesoro».
«Mi
riferivo a lui», indicò Wally, che
sbuffò.
«Ah».
Kara
si allontanò e ripresero a giocare, ma la loro
felicità non durò a
lungo: prese la bottiglia e la sostituì con una di cola,
incassando
le loro lamentele.
«Bisogna
tenere il freno a Wally», esclamò Barry,
avvicinandosi a lei. Si
sedettero su delle sedie, a un lato del tavolo imbandito.
«Appena
gli dissi che saremmo venuti qui ha fatto i salti di gioia».
«La
festa dei più grandi», annuì Kara,
guardandolo bere cola e fare
gli occhi dolci a Siobhan, che a sua volta provava ad ascoltare Winn,
facendo smorfie con la bocca.
Anche
Barry annuì. «E tu come va? Lena ti cerca sempre
con lo sguardo, ho
notato. Ma anche Mike, come se gli avessi fatto un torto».
«Il
torto è stato mettermi con qualcuno che non sia
lui».
«Ma
non sa con chi…», la guardò e lei prese
altri tramezzini,
passandone uno anche a lui. «E sta venendo da questa parte,
Kara.
Buona fortuna». Si alzò, le diede due pacche su
una spalla e
scomparve per raggiungere Wally, mentre l'altro ragazzo prendeva il
suo posto sulla sedia.
Mike
guardò per un po' Barry, prima di dedicarsi a Kara, che
già temeva
di dover litigare con lui. Lo anticipò:
«Non
sto con Barry».
«Non
te lo avrei chiesto».
«Ma
lo avevi pensato».
«Mi
leggi nel pensiero, adesso?», sbottò. Prese anche
lui un
tramezzino, capendo di dover ricominciare daccapo. «Volevo
dirti che
sono contento che tu mi abbia invitato alla tua festa, oggi. Ho detto
a mia madre che andavo a una festa con dei compagni di corso o non mi
avrebbe lasciato uscire. Non so cosa le prenda». Kara lo
guardò con
attenzione, deglutendo. «Ma credo che ti odi. Penso sia un
bene che
tu sia innamorata di un altro, lei ci starebbe sempre tra i piedi e
avrei paura per te», scosse la testa, «Non so di
cosa sarebbe
capace».
Kara
capì che era veramente sincero. Rhea Gand era una donna
pericolosa,
in primis per la sua stessa famiglia.
«Possiamo
restare così, no? Amici?».
«Amici».
Si alzarono e Kara lo abbracciò, così il ragazzo
ricambiò, anche
se aveva lo sguardo imbronciato e non particolarmente convinto. Il
campanello interruppe la scena: Kara corse ad aprire, abbracciando
Clark Kent appena lo vide. Lui ricambiò subito ed
entrò in casa con
lei appesa al collo.
«Chi
la vuole?», rise, scrollandosela di dosso.
Kara
rise ed ebbe modo di salutare anche James, con una stretta di mano, e
Lois. Kara fece le presentazioni e Alex lo squadrò a lungo:
non se
lo immaginava così statuario, ed emanava senso di fiducia e
affidabilità. Ciò non toglieva che restava un po'
gelosa di lui e
dell'effetto che faceva sulla sua sorellina. Quando Clark e Lena si
videro e si strinsero una mano per un saluto, perfino Alex
notò la
strana aria che aleggiava tra loro. Avrebbe voluto parlare di
più
con lui o con lei per capirne le ragioni, ma dopo pochi minuti e
altri bicchieri vuoti, lei e Maggie si accorsero di dover andare.
«Mi
raccomando, Kara: che nessuno distrugga la casa», le
ripeté Alex.
Kara teneva d'occhio Lena che parlava con Lois e Clark, sul divano.
«Kara ?».
«Oh,
sì, sì, certo», mormorò,
«Nessuno distruggerà niente, parola
mia».
«Ehi,
Danvers», si accostò Maggie, stringendo un braccio
ad Alex per
richiamarla. «Credo di sapere dove sia finito il vino che
cercavi».
Tutte e tre guardarono verso l'Albero, dove Siobhan, in compagnia di
Wally attaccato come una zecca, e Mike e Winn dall'altro lato,
parlava con il viso incredibilmente rosso, ridendo sguaiatamente.
«In
realtà…», parlò Kara,
«ho nascosto io il vino. Lei ha bevuto
circa tre bicchieri, credo, le ho tolto la bottiglia, ma pare siano
stati tre bicchieri di troppo…».
«Beh,
almeno si sta divertendo», sbottò sua sorella.
«Lo sarei stata
anche io se non mi avessi nascosto il vino». Maggie la
portò via
tirandole un braccio, salutarono tutti e uscirono.
«Sei
proprio bellissima, te l'hanno mai detto?», tentò
Wally.
Siobhan
lo guardò da capo a piedi. «Ma grazie! Che tenero
sei. Quanti anni
hai detto di avere?».
«Quindici»,
rispose sfoggiando un bel sorriso, ma lei spense il suo.
«… e
mezzo. Quasi sedici, praticamente», cambiò
versione, vedendola
allontanarsi. «Sono maturo, per la mia
età».
Winn
sussultò, quando Siobhan si fermò accanto a lui.
Un'altra
ora passò veloce da quando Kara propose di fare un gioco
tutti
insieme: si divisero in due squadre e un membro di una e dell'altra
dovevano disegnare a turno qualcosa e, senza poter parlare, cercare
di far indovinare cosa stavano disegnando agli altri membri della
squadra, il tutto in al massimo tre minuti. Lei, Lena, Megan, Barry e
Iris, con aggiunta Wally sarebbero stati una squadra. Mentre gli
avversari sarebbero stati Clark, James, Lois, Siobhan, Winn e Mike.
La
precedenza fu data al più piccolo e appena
disegnò due ruote con
una stecca ad unirle, Lena indovinò subito:
«È una moto».
«Ehi
no, no, come fai a dirlo?», la fermò Siobhan.
«Indossava
un giubbotto da motociclista al suo arrivo. Non originale, ma
abbastanza ben fatto».
Wally
la guardò e con sguardo dolce portò le mani in
petto per simulare
il cuore che batteva, per poi indicarla: «Punto per
noi», rise.
Tutti si congratularono e lui e Barry si diedero il cinque, mentre
l'altra squadra si lamentava. Solo Clark l'aveva scrutata un po'
più
a lungo, escludendosi dal gioco.
Per
la seconda squadra si fece avanti Mike, che privo di fantasia aveva
provato a copiare una bottiglia di birra dietro di loro, lasciata su
un tavolino.
«È
un grattacielo! No, no, no, un verme in piedi?»,
provò Siobhan,
gridando.
Mike
scosse la testa, aggrottando le sopracciglia, guardando Winn che
alzava la mano: «Uno strumento da disegno?».
L'altro scosse la
testa, amareggiato. La clessidra indicava che il tempo stava per
scadere e quando Lois capì dove volava lo sguardo del
ragazzo,
indovinò appena in tempo.
Continuarono
a giocare, ridendo, sbagliando, conoscendosi meglio, gridando e
ancora mangiando, bevendo. Kara disegnò qualcosa che
sembrava uno
skateboard con un motivo ad onde, ma nessuno indovinò, solo
Clark
disse che era un cane, a tempo ormai scaduto. Lois picchiò
il suo
ragazzo e James quando non indovinarono cosa aveva disegnato lei e
Iris si demoralizzò quando scambiarono il suo missile per
una
supposta. Siobhan andò verso il cavalletto con i fogli con
tutta la
buona intenzione del mondo, ma quando la squadra cominciò a
dire
cosa sembrava ciò che disegnava, perse le staffe e si tolse
una
scarpa:
«Le
vedete? Sono uguali», la poggiò contro il foglio,
«Uguali». Se la
rimise al piede e tornò verso di loro.
«I-Io
lo avevo capito che era una scarpa», sussurrò
Winn, mentre Megan si
alzò per andare verso il cavalletto. «Sei
bravis-».
«Ah,
sì?», ingigantì gli occhi,
interrompendolo con una cantilena. «E
allora potevi dirlo, buono a nulla».
«Ma-Ma
ti sei tolta la scarpa quando…», il tono di voce
scemò, vedendola
alzarsi per andarsi a riempire un bicchiere. «Dovevo dirlo
prima,
sì», abbassò la testa.
Il
gioco finì nel momento che non c'erano più fogli
da usare e, ormai
tardi, Barry disse a Kara che loro se ne sarebbero andati. Avevano la
macchina, ma se si trattenevano ancora a lungo rischiavano di passare
la notte in autostrada. Aiutarono Kara a sistemare un po'
ciò che
potevano, Barry e Wally erano velocissimi, e poi iniziarono a
prepararsi. Kara però era distratta: Lena era sparita. Non
trovò
neanche suo cugino, o Lois, mentre James parlava con Mike,
così
cominciò a salirle l'ansia.
Intanto
Winn riprovò un avvicinamento con Siobhan accanto al tavolo
semivuoto, visibilmente paonazzo. «I-Io… mi
dispiace per prima,
abbiamo perso solo di un punto e quello della scarpa poteva essere
i-il punto, sì, del pareggio».
Lei
ingoiò il contenuto del suo bicchiere e lo guardò
alzando le
sopracciglia: «Scusami, ma credi davvero che m'importino i
punti di
quello stupido gioco?».
«No?
Oh, beh», sorrise all'improvviso. «Me-Meglio
così! Volevo solo
farti sapere che, emh, non è stata colpa tua: tu sei stata
bravissima. Sei bravissima. E bellissima. Brillante»,
continuò ad
aggiungere qualcosa dopo le sue conseguenti occhiatacce.
«Lo
pensi davvero?».
«Sì,
certo».
Mandò
giù il contenuto di un altro bicchiere e lo
guardò, abbassando le
sopracciglia. «Quanti anni hai?».
«Vent-».
«A
posto, può bastare».
Non
erano lì, forse si erano diretti alle camere. Kara fece per
affacciarsi al corridoio, scoprendo con orrore che, sotto il vischio
appeso, Siobhan spingeva Winn contro il muro. Era certa che ci
fossero almeno tre metri di lingua, in quello. Winn la
guardò e si
spaventò, ma anche se le sembrava una palese violenza nei
suoi
confronti, la incitò ad allontanarsi con lo sguardo.
Continuando a
fregarsi gli occhi per il disgusto per ciò che aveva appena
visto,
cambiò strada, dirigendosi in cucina, nel buio. Vide che le
luci
fuori erano accese e si affacciò alla finestra, sollevando
la tenda:
Lena e Kal erano lì, da soli, in piedi vicino ai cespugli.
Aggrottò
le sopracciglia con l'idea di raggiungerli, se non fosse per Lois che
le poggiò una mano su una spalla, fermandola.
«Lascia
che se la sbrighino da soli».
«Devo
sapere cosa si stanno dicendo».
«Allora
glielo chiederai dopo. È stata lei a chiedergli di uscire
per
parlare».
Li
guardarono un po', di tanto in tanto Lena si soffiava il naso o
starnutiva, poi Lois la convinse a tornare dagli altri. Andò
a
ricercarla più tardi, dopo che aveva chiacchierato con
Megan, con la
testa distante, sorprendendoli che rientravano. Kal le
poggiò una
mano sulla spalla per chiederle se erano rimasti dei dolcetti: ne
prese uno dal frigo e tornò in soggiorno, mentre Lena si
avvicinava.
«Va tutto bene?», le domandò, nel buio.
Lena
annuì, poggiando le braccia sulle sue spalle. «Ci
siamo chiariti».
«Sì?».
«Sì».
«Non
posso sapere cosa vi siete detti?».
«No».
Kara
si imbronciò gonfiando le guance e l'altra sorrise.
«Non vedo l'ora
di stare sola con te. Questa festa mi sta sfuggendo di mano: ho visto
Siobhan che si approfittava di Winn, sotto al vischio».
Lena
ridacchiò. «Fossi in te, mi preoccuperei di
più di ciò che
succederà a te quando io ti sorprenderò sotto al
vischio». Si
allontanò per mostrarle una mano per metterla in attesa e
così
starnutì, si soffiò il naso, e la avvolse di
nuovo, come nuova.
«Dicevo… Stanotte, da sole noi due, sotto al
vischio».
«Mi
piace questo programma».
Si
scambiarono un bacio nel buio, incuranti di ciò che stava
per
accadere: Siobhan Smythe entrò zoppicando e tastò
il muro varie
volte alla ricerca dell'interruttore, borbottando maledizioni. Quando
finalmente accese la luce, le sorprese bocca contro bocca e
spalancò
gli occhi, mentre le ragazze si separarono per fare lo stesso.
Se
ne andarono tutti di colpo, con una gran confusione. Kara
inquadrò
le luci dei vicini accendersi, qualcuno affacciarsi, e poi chiudere e
spegnere tutto: dovevano aver fatto fin troppo chiasso, quella sera.
Solo Megan restò con loro, chiedendo a Kara di poter dormire
lì
dopo che le disse che anche lei restava. Era molto stanca.
«Tranquilla,
non vi disturberò», la picchiettò con
un gomito. Kara le lasciò
detto di poter usare la camera di Alex e ci si chiuse dopo che le
prestò un pigiama. «Se non riesco a dormire,
comincerò a studiare
le scuse che dovrò al guardiano in tutte le lingue del
mondo».
Kara
si sdraiò sul letto, intanto che aspettava che Lena uscisse
dal
bagno. Sbuffò, sperando solo che Siobhan avesse bevuto
troppo per
ricordare ciò che aveva visto.
A
un certo punto la porta si aprì e Lena starnutì.
Richiuse. Riaprì,
mostrandole un ramoscello di vischio. All'invito di Kara di
raggiungerla al letto, lei eseguì, gattonando sul letto fino
a lei
e, tenendo il vischio in alto, si baciarono. «Finalmente sei
mia».
Crollarono.
Lena si risvegliò il mattino dopo con una foglia di vischio
che le
pizzicava il naso, sopra Kara, a pancia in su, che dormiva
pesantemente. Immaginò sarebbe stato per un'altra volta.
Prese la
roba per cambiarsi e, dopo il bagno, si diresse verso la cucina,
scoprendo che dal divano, verso la televisione, pendevano dei piedi
scalzi. Si avvicinò che schiacciò delle briciole,
così Siobhan si
riportò seduta, apparendo all'improvviso.
«Hai… Hai dormito
qui?».
Aveva
i capelli schiacciati da un lato e delle pesanti occhiaie. Non doveva
essere sveglia da molto. «Tu che mi sembri una persona molto
equilibrata, ti prego, sii sincera con me: ho pomiciato con un
quindicenne, ieri sera?».
«No,
con il nerd col farfallino».
Siobhan
tirò un enorme sospiro di sollievo, portandosi una mano
contro il
petto. «Oh, sia ringraziato il cielo». Si
rigettò a peso morto sul
divano.
Non
parlò di ciò che aveva visto ieri: aveva mal di
testa, era stanca
per aver dormito male e non guardava in faccia nessuno. Mentre Kara,
Lena e Megan si erano sedute vicine sul treno, lei era rimasta
distante, con gli occhiali da sole a dicembre, e non rivolse la
parola a nessuno. Di tanto in tanto Kara e Megan tentavano di
spiarla, non completamente certe che fosse sveglia.
«Non
si muove da troppo: sarà morta»,
bisbigliò Megan e Kara le fece
segno di tacere.
«Ti
sentirà. E-Etcì».
Lena
alzò un sopracciglio. «Salute d'acciaio,
eh?».
Siobhan
scese a una fermata diversa, Kara e Megan tornarono al campus dopo
che la prima e Lena si scambiarono un bacio vicino alle porte, non
c'erano molti passeggeri, e così lei aspettò
l'arrivo di Ferdinand
per passarla a prendere. Una volta in villa si tolse le scarpe e si
gettò sul letto. Uno starnuto svegliò i suoi
propositi di dormire
un po', decidendo di alzarsi. Mentre la vasca da bagno si preparava
mise ad accendere il pc, spogliandosi. Si avvicinò allo
schermo,
quando scorse una curiosa notifica. Un messaggio. Ci cliccò
sopra e
si aprì una grande finestra nera:
X:
Sei tu che cerchi informazioni sulla morte di Lionel Luthor? Posso
aiutarti, contattami. Io so cos'è successo.
Accidenti
ai tre bicchieri di troppo!
Vi
avverto, altri capitoli natalizi in arrivo, ahah! Vi è
piaciuto? Un
capitolo che possiamo chiamare di transizione, che mi sono divertita
a scrivere, anche se avrei voluto dare più spazio a un po'
tutti i
personaggi presenti, peccato.
E
così Alex e Lena si sono viste fuori, ormai Alex
è a un passo dalla
verità su quelle due ma non si decide a chiedere niente.
D'altra
parte hanno detto della microspia a Kara, anche se nascondendole la
sua reale provenienza, e sono sempre più convinte del loro
piano di
infilarla in casa Gand. Intanto, a fine capitolo, qualcuno scrive a
Lena: chi sarà mai? Potrà davvero aiutarla a far
luce su quanto è
accaduto a suo padre?
E
la festa… Io amo Siobhan! Far incontrare lei e Wally mi
è piaciuto
un sacco, anche se poi lei, giustamente, lo ha frenato e si
è data
da fare con Winn, un po' come è accaduto nella serie. E Mike
e Kara
si sono chiariti e pare che abbiano deciso di restare amici.
Durerà?
Mentre Lena e Clark hanno parlato fuori e chissà di cosa;
sembra che
Lena non voglia divulgare dettagli.
Nel
frattempo, un piccolo allegato al capitolo: il cane-skate
di
Kara XD
Fatemi
sapere cosa ne pensate e al prossimo lunedì con il capitolo
25,
Messa
di Mezzanotte :)
|
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Capitolo 26 *** 25. Messa di Mezzanotte ***
«Non
cade».
«No,
ma se continua a sporgersi così, potrebbe».
«Ma
no, sa quello che fa».
«Kara?»,
sbottò Alex, «Ma l'hai vista?».
A
quasi due metri da loro su una scala, Eliza si voltò.
«Ragazze?
Badate che vi sento». Appese un angioletto celeste con tanto
di
aureola su un ramo di un grande Albero di Natale, ancora spoglio.
«Cosa ne pensate?».
«Che
mancano almeno altri tre chili di angioletti misti per farlo
diventare un vero Albero di Natale», scrollò le
spalle Alex.
«Che
spiritosa mia figlia», finse una risata, scendendo e andando
a
disporsi in mezzo a loro, ammirando l'Albero con le mani sui fianchi.
«È meraviglioso», rispose da sola.
Gli
addetti ai lavori avevano portato quel vero albero potato dalla
riserva direttamente a villa Luthor-Danvers quella mattina, dopo che
Eliza lo aveva selezionato da un catalogo con Lillian. Lo avevano
messo al centro del salone, con tanto di vaso rosso carminio. Non era
solo alto, ma incredibilmente spesso; dovevano essere in tre per
poterlo abbracciare intorno ai rami bassi.
«Non
capisco perché avete preso un Albero, quando poi il Natale
lo
passerete a casa nostra».
«Alex»,
Eliza la fissò, «Anche questa è casa
nostra. E non posso pensare
che sia Natale in una casa e nell'altra no. Avete addobbato voi
l'altro, questo lo faremo tutte insieme, come da tradizione».
Kara
sorrise. «A me l'idea piace! Ed è bella l'aria
natalizia».
Eliza
l'abbracciò di scatto, commossa. «Tu sei mia
figlia».
Kara
mantenne quel sorriso intanto che la donna si allontanò per
aiutare
Marielle che vide rientrare dal magazzino della dependance con due
scatoloni di addobbi in braccio, mentre Alex sbuffò.
«Secondo me,
vuole solo due manovali in più». Guardò
sua madre. «E poi che
fine ha fatto Lillian?», le gridò.
«La
poverina è molto occupata con la Luthor Corp in questo
periodo
dell'anno».
Alex
ridacchiò, guardando Kara. «Oppure se
l'è svignata», sibilò,
facendo sogghignare la sorella.
Prima
le luci. Tra angioletti, Babbi Natale, renne dal naso rosso,
pacchetti e pacchettini. Tra fiocchi di neve bianchi e celesti, palle
rosse e oro, nastrini, fiocchi e pupazzi di neve. Kara sulla scala in
cima, Alex ed Eliza in basso, addobbarono l'Albero con pazienza e
attenzione, ridendo, ricordando ancora di Kara bambina che voleva
picchiare Babbo Natale calato dalla finestra, sentendola sbuffare.
Marielle passava gli addobbi. Quando terminarono le scatole ritrovate
in magazzino, la donna sfoggiò i nuovi acquisti che avevano
scelto
lei ed Eliza in negozio. Finito l'Albero, pensarono ad addobbare il
resto della casa, passandoci le ore.
Quando
Lena rientrò e trovò tutto illuminato,
spalancò gli occhi
incantata. Si guardò intorno, incredula che quella fosse
davvero
casa sua; non l'aveva mai vista tanto splendente e colorata nemmeno
quando era bambina e Lex obbligava i genitori a festeggiare il
Natale. C'era sempre stato un grande Albero nel loro salone, ma mai
era stato tanto bello. Nei corrimano delle scale erano intrecciati
cordoni dorati; alcuni fiocchetti rossi erano attaccati qua e
là
negli angoli dei mobili, nelle maniglie; un vaso trasparente su un
mobile era stato trasformato in una lampada, con le lucette gialle
all'interno e delle pigne e rametti; sul camino erano state appese le
calze, una per ognuno di loro, c'era anche quella per Lex; per
centrotavola c'era la Stella di Natale con un piatto di pigne e
candele rosse vicino. C'erano così tante luci in quel salone
che
anche con la luce spenta e di notte, ci avrebbero visto come di
giorno. «È tutto così…
bello».
Eliza
le andò incontro con gioia, abbracciando anche lei.
«Un'altra
soddisfazione! Grazie, tesoro».
Con
una scusa, Lena riuscì a portare Kara di sopra.
«Davvero bello»,
commentò ancora Lena.
«Sì,
mi piacciono tantissimo le luci natalizie», annuì
Kara, squadrata
da Lena.
Prima
di lasciare la scala, Alex scambiò con Lena uno sguardo.
Loro
chiusero la porta e si baciarono.
«Allora,
com'è andata?», le domandò Lena sulle
labbra. La teneva stretta
tra le braccia, mai che potesse sfuggirle.
«Beh!».
Kara strinse i denti, facendo una smorfia. «Col senno di poi,
forse
avrei fatto meglio a non chiederle nulla…».
Quella
era stata la sua ultima mattina prima delle vacanze natalizie alla
CatCo e, dato che nei giorni scorsi, dalla festa, non ne avevano
parlato, Kara sentiva che era finalmente arrivato il momento di
tirare fuori l'argomento bacio che Siobhan aveva interrotto tra lei e
Lena. La ragazza era pur sempre una giornalista, dovevano assicurarsi
che la cosa restasse tra loro.
«Siobhan…?».
Si era avvicinata a lei cautamente. Erano in pausa e lei era uno dei
pochi ancora rimasti seduti davanti la propria postazione. Aveva
alzato la testa verso di lei con tutta la calma e lentezza possibile,
adocchiandola con sufficienza.
«Parla!
Perché mi fissi, ho qualcosa tra i denti?».
Aveva
passato i secondi successivi a infilarsi le unghie in mezzo ai denti,
intanto che Kara tentava di capire come approcciarsi. «No,
emh… È
per quanto riguarda la festa a casa mia, veramente. Quanto è
successo…».
«Oddio»,
Siobhan aveva spalancato gli occhi di colpo. «Ora
ricordo».
Kara
aveva deglutito, fregandosi le mani. «Sì,
emh… Vo-Vorrei
chiederti, infatti, se potesse restare tra noi».
«Stai
scherzando, Danvers?», aveva abbassato la voce di colpo,
guardandosi
intorno. «Di certo non voglio che si sappia in giro. Nessuno
lo
vorrebbe».
«Beh…
non saprei; credo che i giornali farebbero a gara per scriverci sopra
qualcosa».
«Ma
allora stai davvero scherzando?», si era guardata di nuovo
intorno,
con fare palesemente nervoso. «La mia vita privata fa
così gola
alle riviste? Dopo l'articolo su Gotham, non per vantarmi, ma
effettivamente mi hanno seguito diverse nuove persone sui social e mi
hanno contattata… beh, cosa te ne frega, non voglio
spiattellare
ora i miei successi», aveva ridacchiato,
«Sarà per quando vorrò
tirarmi su il morale. Comunque
so per certo di non essere tanto famosa». Aveva scrollato le
spalle,
ricontrollando i suoi fogli. «Ancora,
s'intende. E cercare di adularmi non cambierà in alcun modo
il
nostro rapporto».
A
quel punto, Kara era certa che stesse parlando d'altro. «Temo
tu non
abbia capito…».
«Mi
stai dando della scema?».
«No,
no, no, no, no», aveva gesticolato, «No! Solo
che… ci siamo
capite male, non parlavo di te e…?».
«Il
quindicenne», aveva sussurrato, «Mi ha toccato il
culo. L'ho
lasciato fare quando pensavo… beh, fai finta che non abbia
detto
nulla».
«Ah…
emh, no. Io parlavo…».
«Oh,
certo», le aveva scoccato un'occhiata, «Ovviamente
di una cosa che
riguarda te, ci mancherebbe. Del bacio tra te e la Luthor».
«Shh»,
si era fiondata verso di lei tanto in fretta che Siobhan si era
buttata indietro, terrorizzata che la toccasse.
«Oh,
credi davvero che m'importi? Ciò che fai non è
affar mio».
«Dunque
resterà… tra noi?».
«Tra
noi… tra voi più che altro.
Puoi anche baciare il tuo cane,
per quel che mi riguarda», si era rimessa a trafficare con i
suoi
fogli, brontolando di come non fossero in ordine, prendendosela con
lei.
«Non
ho un cane».
«Altrimenti
lo faresti?», le aveva scoccato un'altra occhiata.
«Dai la colpa
all'alcol, per quel che vale. Il solo motivo per cui non vendo questa
roba, è che non ho prove. Finché non ho prove,
non è affar mio»,
aveva blaterato a bassa voce, con poco conto.
Lena
alzò un sopracciglio, ascoltando le parole di Kara.
«Quella ragazza
è davvero…».
«Già»,
annuì Kara. «Ma ce la siamo cavata…
È dal giorno prima della
festa che non parliamo di questa cosa: dirlo o non dirlo? È
certo
che non possiamo neppure continuare così».
«Non
per molto, hai ragione», concordò Lena, mentre
Kara si sedeva sulla
sedia davanti alla scrivania. Si abbassò verso di lei,
prendendo le
mani nelle sue. «Passiamo questo Natale in
tranquillità, poi
vedremo di dirglielo. Ma non parlo di Alex, dell'intera famiglia.
Prima del matrimonio devono saperlo».
Suggellarono
la nuova promessa con un bacio, dopodiché Lena le
mostrò,
accendendo il portatile, il messaggio che le era arrivato. Non aveva
risposto al suo nuovo interlocutore, ma aveva provato a capire da
dove provenisse il messaggio, un indizio qualsiasi, scoprendo che
quel qualcuno si era prudentemente tutelato.
«Hai
una vaga idea di chi possa essere?».
«Non
voglio sbilanciarmi», le disse, seduta sulle sue gambe, e
guardando
ininterrottamente il messaggio, «Ma ho lanciato un sassolino
parlando di mio padre alla cena, quella volta. Pensavo di non aver
ottenuto risultati, ma questo messaggio…».
«Pensi
sia stato uno di loro?».
«Qualcuno
di loro vorrà sapere cosa so. Ma è anche passato
del tempo dalla
cena e mi chiedo perché chiunque sia si faccia sentire solo
ora»,
ansimò seccata, «Potrebbe non essere nessuno di
loro. Ho lasciato
voce che cercavo informazioni sulla morte di mio padre ai miei
contatti; magari è solo qualcuno informato che si fa
avanti».
Si
stettero zitte, riflettendoci, continuando a osservare senza
espressione la barra bianca su sfondo nero che compariva e scompariva
aspettando una risposta al messaggio.
«Pensi
di rispondere?», domandò Kara a un certo punto,
aggrottando lo
sguardo.
«Non
prima di provare ad accedere alla sua identità. Finora ho
avuto poco
successo, ma so a chi rivolgermi per un aiuto».
Kara
annuì. In realtà, quel messaggio non le ispirava
niente di buono e
una parte di lei avrebbe preferito che Lena non rispondesse affatto.
Anche se l'interlocutore, in via teorica, non poteva conoscere la sua
identità e il messaggio era stato inoltrato in un canale
online, già
il fatto che Lena sperasse di hackerarlo era sufficiente per pensare
che l'altro poteva sperare lo stesso.
E
mentre la famiglia si spostava in casa Danvers-Luthor per le vacanze,
Lena continuò a lavorare sul profilo misterioso, prima a
casa e poi
alla Luthor Corp, cancellando ogni suo dato. Nemmeno la sua forza
combinata a quella del suo geniale assistente riuscirono a produrre
risultati, capendo che era arrivato il momento di accettare l'aiuto
che le aveva offerto l'altra Danvers: al D.A.O. avrebbe trovato
strumenti più adatti.
Così
si erano diretti lì, all'indirizzo che le aveva fornito.
Curioso che
ci fosse una banca. Seguita da un Winn in piena agitazione, si
lasciò
dietro le porte e andò dritta verso un corridoio riservato
al
personale. Un uomo in divisa la fermò e, quando gli fece
vedere
l'autorizzazione, invece, l'accompagnò dentro fino
all'ascensore.
Una volta lì e le porte si chiusero, Winn esplose in un
euforico
mugolio.
«Aaaah!
Siamo dentro alla sede del D.A.O.! Non mi sentivo così
eccitato da
quando dissero in tv che Oliver Queen è ancora
vivo».
Lena
evitò di girarsi verso di lui, lo sentiva saltellare.
«Ufficialmente
non esiste una sede qui a National City; è tutto
così misterioso».
Gli
aveva raccomandato di non parlare della microspia ma preferì
ricordarglielo, a bassa voce e avvicinandosi, poiché
notò la
telecamera in un angolo in alto.
Le
porte si aprirono in un ingresso che affacciava ad un breve
corridoio, con camere ai lati e un'ampia sala davanti. Due agenti li
stavano aspettando e dissero loro di seguirli. Li condussero alla
sala e un uomo, che dava ordini ad altri agenti seduti in tante
postazioni lungo le pareti, andò loro incontro appena li
vide, così
gli altri due li lasciarono.
«Signorina
Luthor», la salutò con reverenza, «Grato
della sua presenza». Poi
si voltò verso Winn, che intanto si era immobilizzato dalla
vergogna. «Signor…?».
«Oh,
oh, Winslow Schott Jr, signore! Molto felice di conoscerla e di
essere qui», non riuscì a trattenere una risatina
nervosa. Lena
aggiunse che era il suo assistente e l'agente del D.A.O.
annuì.
«Sono
il responsabile della sede qui a National City, John Jonzz. L'agente
Danvers mi ha spiegato la situazione e ho accettato di farvi venire:
avrete a disposizione i nostri computer e i nostri agenti».
Fu
in quel momento che apparve Alex, che li salutò.
Winn
spalancò gli occhi quando la vide al suo fianco.
«Bene»,
enunciò Jonzz. «Vediamo di vederci
chiaro».
Disse
loro di seguirli e Winn continuò a inquadrare Alex con la
coda
dell'occhio, chiudendo la bocca in una morsa ermetica
finché, con
mezzo passo deciso, non tirò una manica di Lena.
«Ma quella… Ma
quella non è la sua nuova sorellastra? La sorella di
Kara?». Gli
fece cenno di fare silenzio e lui continuò a fissarla.
John
Jonzz diede loro possibilità di accedere a uno dei computer
che andò
a visualizzarsi su un grande schermo a parete, in questo modo, Lena
li portò a leggere il messaggio bianco su sfondo nero. Tre
agenti,
vicino a loro, si misero subito a lavoro. Sebbene agli inizi sembrava
che riuscissero a sbloccare qualche codice messo a protezione del
profilo misterioso, poi questi li risputarono indietro, proteggendosi
con altri codici nati a convenienza. Divennero così tanti
che non
riuscirono a stargli dietro e dopo minuti e minuti di prove, altri
agenti diedero il cambio.
«Che
cosa sta succedendo…?», sbottò Alex.
Non aveva mai visto nulla di
simile.
Dopo
che altri tre agenti si arresero per via della testa stanca, John
Jonzz accettò che Lena e Winslow ci lavorassero di persona,
sperando
che con i nuovi mezzi potessero andare oltre. Un'altra agente
occupò
il terzo computer e si misero d'impegno per riuscire nell'impresa.
Non si arresero, nonostante faticassero ormai, dopo mezzora, a tenere
alta la concentrazione. Andarono avanti, ma proprio quando sembrava
che stessero avendo risultati, un allarme risuonò per tutta
la
struttura e John Jonzz ordinò agli agenti di troncare
immediatamente
la connessione.
«Siete
riusciti a debellarlo?», domandò poi alla sala.
«Appena
in tempo, signore. Nessun danno riportato», gli rispose un
agente a
uno dei computer poco distanti.
Lui
sospirò e poi, passandosi due dita in mezzo agli occhi, si
rivolse a
loro. «Virus a proteggerlo, è ben equipaggiato.
Non abbiamo
scoperto l'identità del nostro profilo misterioso, ma
sappiamo che,
chiunque sia, ci sa fare. Non è un novellino che vuole
rifilare uno
scherzo». Dopo si rivolse esclusivamente a Lena, con un tono
più
composto: «Se vuole rispondere, signorina Luthor, le
consiglio
caldamente di farlo qui, in modo che possiamo assisterla. Per quanto
ne sappiamo a contattarla può essere qualcuno facente parte
della
vecchia organizzazione criminale che vuole farle credere di aiutarla
in modo da arrivare a lei, magari proprio l'assassino di suo padre.
Non possiamo obbligarla, dev'essere una sua scelta, ma si
può fidare
che la proteggeremo».
Lena
guardò solo un attimo in direzione di Alex Danvers,
abbassando un
poco gli occhi vitrei per poi, duramente, guardare John Jonzz.
«Da
quanto tempo lavorate al caso?».
«Sono
informazioni riservate, mi dispiace».
«Non
avete protetto mio padre».
John
prese respiro e deglutì. «Non sapevamo delle
intenzioni di suo
padre, signorina Luthor. È stato molto bravo a nascondere la
sua
attività durante quegli anni».
«E
loro lo hanno trovato», chiosò. «Voi non
lo sapevate, loro sì.
Cosa vi fa pensare di poter proteggere me?». Si mise le
braccia
conserte, guardandolo con attenzione.
«Impariamo
dagli errori, signorina Luthor».
«Onestamente,
signor Jonzz, non sono sicura che possiate davvero proteggere
qualcuno. Per quanto riguarda il messaggio dal profilo misterioso,
comunque, non sono certa che risponderò. Dunque, al momento,
non mi
serve alcuna vostra assistenza. Ringrazio per la
disponibilità».
Se
ne andò e Winn la seguì con il cuore in gola,
lanciando un'occhiata
a John Jonzz e Alex Danvers.
«Quella
Luthor è davvero testarda», sospirò
John.
Alex
scosse la testa. «Lascia che ci parli io. Anche se non
dovessi
riuscire a convincerla ad appoggiarsi alla D.A.O., posso convincerla
ad appoggiarsi a me». Lo lasciò e corse dietro
alla ragazza e al
suo assistente, entrando in ascensore appena in tempo, prima che le
porte si chiudessero. «Lena», si voltò a
lei e, con una tensione
veloce del braccio, bloccò l'ascensore premendo un pulsante
d'emergenza, mettendo Winn in ansia. «Capisco la tua
riluttanza a
fidarti, ma al D.A.O. possiamo davvero proteggerti. Faremo tutto il
necessario per-».
«Cosa?»,
la fermò. «Il vostro compito è
arrestare i criminali e non mi pare
che fino ad ora abbiate fatto un bel lavoro. Non voglio mettere in
dubbio ciò che fate, ma se dovete arrivare ad appoggiarvi a
dei
civili per andare avanti…», sorrise appena, con
freddezza, «forse
state sbagliando qualcosa. Ho come la sensazione che continuando a
modo mio, otterrei più risultati».
Alex
lasciò che l'altra premesse di nuovo il pulsante d'emergenza
per
sbloccare l'ascensore e la tensione di Winn, non riuscendo a
replicare immediatamente. «Facciamo ciò che ci
è possibile»,
emise poi, con sguardo basso. «Allora faremo a modo
tuo», la
guardò. Anche lei conosceva bene i limiti imposti dal
D.A.O.. Con
loro sarebbe riuscita a proteggerle, mentre al loro fianco sarebbe
riuscita a trovare i responsabili per consegnarli alla giustizia.
«Ti
chiedo solo di tenermi sempre informata, per favore. Altrimenti non
potrò fare il mio dovere in questa storia».
L'ascensore
si fermò, le porte si aprirono, ma nessuno uscì.
Winn guardò una e
poi l'altra.
«Mi
sta bene», annuì infine Lena, prendendo passo
verso il corridoio.
Winn
vide Alex sospirare. Stava per uscire, quando la guardò
ancora con
attenzione. «Dunque… sei davvero tu?».
Lei ricambiò lo sguardo
confusa. «Sei la stessa Alex Danvers sorella di Kara? Ho
fatto
ricerche su di te, non è uscito che fossi un agente
fed-».
«Winslow»,
la voce riecheggiò per il corridoio deserto e lui strinse i
denti,
ricordando che il suo capo lo chiamava ancora col nome per intero
quando doveva riprenderlo per qualcosa.
«Devo
andare, agente Alex Danvers». Corse via e lei scosse la
testa, per
poi sbuffare.
Se
Lena Luthor aveva un piano, quel piano, al momento, consisteva nel
godersi il Natale con la sua nuova famiglia. Spense il pc e
lasciò
perdere il messaggio, ordinò dei dolci che il servizio della
pasticceria le portò direttamente a casa Danvers-Luthor e
tutte
brindarono all'arrivo del nuovo anno insieme. Durante quei giorni,
Eliza convinse le figlie ad arricchire maggiormente la casa di
addobbi per via della tradizione e perché anche i vicini
avevano più
addobbi di loro. Quando Kara tornò a casa, la sera del
ventitré
dicembre, trovò Alex in piedi sul tetto che installava le
luci sotto
direzione di Eliza, che le urlava cosa doveva fare. Non era la prima
volta che assisteva a quella scena, se non fosse che ora, ai piedi
della casa, c'erano anche Maggie che tentava di dare indicazioni
anche lei, Jamie che raccoglieva pietre e le ignorava, Lena che
storceva uno sguardo impaurita che Alex potesse cadere e Lillian, in
un angolo, che parlottava tra sé e sé di quanto
sarebbe stato più
facile chiamare un tecnico.
«Sarei
salita io…», sbuffò Kara. Lei era
quella addetta alle altezze ma,
ogni volta che si parlava di fare lavori sui tetti, tutti si
offrivano al posto suo: Jeremiah, Eliza e infine Alex.
«Non
dire sciocchezze, tesoro», ridacchiò Eliza,
prendendole
calorosamente un braccio. «Alex è brava, ormai lo
fa da qualche
anno».
Lena
si avvicinò, sussurrando contro un suo orecchio:
«È perché sei la
piccola di casa. Non importa quanti anni tu abbia».
«Lo
so», sbuffò di nuovo, adocchiando Alex: la vide
mettere male un
piede ma continuare a camminare tranquilla. Si allontanò
solo di
pochi metri con lei dalle altre, capendo che doveva dirle qualcosa,
ma continuando a lanciare un'occhiata verso la sorella.
«Senti,
mi chiedevo se ti andasse di farmi compagnia, domani. Alcuni
laboratori della Luthor Corp sono aperti e dovrò sbrigare
delle
piccole faccende urgenti. So che è il ventiquattro, magari
avevi
altri impegni…», lasciò la frase
sospesa, abbassando un poco gli
occhi.
«Non
ne ho, va bene», le sorrise.
«Non
so verso che ora finirò, ma se ti ho vicina avrò
un incentivo a
fare più in fretta, così potremmo trascorrere il
resto della serata
insieme».
Kara
annuì, arrossendo lievemente. «Trovo che sia un
buon programma».
Alex
le guardò e, per un attimo, perse l'equilibrio. Di sotto,
tutte
tranne Jamie trattennero il respiro, tra chi portava le mani alla
bocca e chi per poco non urlava, ma Alex sbatté solo il
sedere sulle
tegole, scusandosi.
«Il
prossimo anno ci salirò io», sbottò
Eliza, passandosi le mani fra
i capelli.
Quella
sera sul tardi uscirono tutte fuori di casa di nuovo. Squadrarono con
sufficienza gli impianti sui tetti delle altre case nel vicinato e
poi, seguendo un conto alla rovescia, Eliza accese il loro. Alex
prese in braccio Jamie che indicò subito con sguardo
meravigliato il
gioco di luci che illuminava la loro casa. C'era anche una renna in
posa fiera, con una zampa davanti che indicava il cammino; il naso si
illuminava di rosso e la bambina, appena se ne accorse, la
chiamò
Rudolph,
come la renna della storia. Girando lo sguardo non vedevano che luci,
Babbi Natale vicini alle finestre, renne e slitte di tutti i colori.
Le persone che passavano in strada le salutavano perfino in presenza
di Lillian e Kara immaginò che la diceria secondo cui il
Natale
rendeva davvero tutti più buoni nascondeva un piccolo fondo
di
verità, poiché lei rispondeva al saluto. Poco
dopo, dacché si
stava facendo tardi, Lillian chiamò Ferdinand che andasse a
prendere
lei ed Eliza per andare alla consueta festa natalizia con i
dipendenti alla Luthor Corp. Eliza sfoggiò uno dei suoi
enormi
maglioni natalizi con i pupazzi di neve, mentre Lillian un vestito,
seppur un poco più sobrio dei suoi soliti.
«Ci
ho provato, mia cara… Ma proprio non riesco ad indossarne
uno,
andarci vestita ad una festa è impensabile», si
giustificò
quest'ultima salendo in auto.
«Non
importa», le strinse una mano, mettendosi vicina.
«Non hai bisogno
di un maglione natalizio come il mio per mostrarti come la fantastica
persona che sei. Alla festa lo sanno; e chi ancora non lo sa, lo
scoprirà presto», rise un poco e si guardarono
negli occhi, poi si
scambiarono un bacio, intanto che la macchina partiva.
Rimaste
sole, le ragazze sistemarono prima la piccola camera di Alex con una
branda in più in modo che potessero starci tutte, dopo
guardarono un
film in soggiorno. Non erano certe di aver scelto quello giusto, ma
se non altro Jamie era entusiasta:
«Sììì!
Ghiascio con me, ghiascio con te, tutto qui è
ghiascio», saltellò
da una parte all'altra finché Maggie non la
minacciò:
«Adesso
cambiamo film».
«Noo».
Con
la piccola in prima fila sui cuscini su un tappeto davanti al divano,
le altre si fecero strette per starci tutte lì sopra. Alex
portò un
braccio intorno a Maggie e lanciò un'occhiata alle altre
due.
Qualsiasi cosa sperava di notare, aveva fatto male i conti: in mezzo
a loro tenevano le dita intrecciate l'una all'altra e non poteva
vederle.
La
maggiore riuscì a salvare la sorella minore col potere del
vero
amore mentre Jamie dormiva raggomitolata su un cuscino, Alex e Maggie
si baciavano ininterrottamente da almeno quindici minuti per
approfondire il potere del vero amore, e Kara e Lena a stento
sbattevano gli occhi, commuovendosi e congratulandosi a vicenda per
la fine del cattivissimo principe.
Stanche,
non aspettarono che le loro madri tornassero dalla festa natalizia
che si chiusero nella loro camera in comune. Alex le tenne d'occhio.
Aveva perso fin troppe occasioni per fare loro quella domanda, ma
ogni volta che si sentiva in dovere di farla, non sapeva nemmeno da
che parte cominciare.
Maggie
prese Jamie addormentata appoggiandola a sé e
così fissò la sua
ragazza, non trattenendo un sorriso. «Un nichelino per un tuo
pensiero, Danvers». La vide assottigliare lo sguardo.
«Sto
diventando paranoica», ansimò. «Prima
Kara ed io ci dicevamo
sempre tutto, e adesso pare che quel tutto lo racconti a Lena. E non
è solo questione di gelosia», specificò
all'ultimo.
Maggie
inclinò la testa da un lato e dopo oltrepassò il
divano,
invitandola a seguirla con uno sguardo. «Sono sicura che
presto ne
verrai a capo. Adesso però aiuta me a portare Jamie a letto,
che
devo chiederti un massaggio».
«Oh,
sono la maestra dei massaggi».
«Aspetto
solo te, maestra». Aprì la porta e la richiuse
dietro di lei con
una risata, a quasi un palmo dalla faccia di Alex, che la
riaprì di
fretta.
Quella
notte, il letto di Lena, appartenuto ad Alex adolescente,
restò
intatto. Nemmeno sollevarono le coperte che entrambe sapevano
avrebbero dormito vicine nello stesso unico lettino. Rischiavano di
tanto in tanto di cadere, ma era bello poter dormire abbracciate
senza avere l'ansia della separazione al mattino. Chiusero la porta a
chiave per evitare sorprese, ma dormirono e basta, beate, ascoltando
l'una il respiro dell'altra, e poi Eliza e Lillian rientrare a casa,
con un volo di tacco nel corridoio e battute e smancerie vietate ai
minori di quattordici anni.
Il
pomeriggio del ventiquattro dicembre, Lena colse sua madre da sola in
cucina e le spiegò che lei e Kara, quella sera, sarebbero
tornate a
National City per alcune faccende alla Luthor Corp. Sebbene la donna
ammirasse che fosse tanto dedita al suo lavoro, nascosta dietro la
porta, Kara la sentì piuttosto contrariata all'idea che
sparissero
da sole per un po'. La sentì perfino ipotizzare che ormai,
quando
tornavano a dormire in quella casa, lei e Alex potevano scambiarsi
camera per dormire. Kara deglutì: il momento in cui lo
avrebbero
detto a Lillian si avvicinava e quest'ultima, a quella prospettiva,
si dimostrava sempre più discorde.
«Potresti
andar da sola. Perché trascinare Kara con te quando anche
lei avrà
impegni, o li avrebbe se non le fossi sempre appiccicata. Ha una
relazione se la memoria non mi inganna: potrebbe passare del tempo
con questa persona invece che con-».
Kara
spalancò gli occhi quando Eliza le fece cenno di tacere e
dopo entrò
nella stanza. «Cosa succede qui?».
Kara
sentì Lillian prendere fiato, come improvvisamente stanca, e
così
le spiegò la situazione. «Se le cose si faranno
complicate saranno
costrette a passare lì la notte, cara, e le cose si fanno
sempre
complicate quando si lavora al cento per cento. Potrebbero perdersi
la Messa di Mezzanotte. Suggerivo a Lena di andar da sola, di
lasciare almeno che Kara potesse stare con Alex e te in quel momento.
So quanto ci tieni».
Era
vero. Da quando era stata adottata, Kara non ricordava neppure un
Natale in cui si fossero persi la Messa di Mezzanotte in chiesa.
Probabilmente ci sarebbe stato anche Jeremiah. Avrebbe voluto
partecipare, ma Lena sarebbe stata da sola e che piacesse o meno a
Lillian, sarebbe andata a National City con lei.
Eliza
sospirò. «Oh, mi sarebbe piaciuto avervi tutti per
la Messa,
perfino Lex non parteciperà, arrivando domani. Ma
capisco… è una
nostra tradizione, non vostra, e siamo ancora in questa strana fase
dove due famiglie tentano di amalgamarsi per diventarne una; per
unirle, qualcosa rischia di essere tagliata fuori», prese una
pausa.
«Lena si sentirà tutta sola ad andare, va bene se
Kara le fa
compagnia. Va bene così. Vorrà dire che il
prossimo anno verranno
tutte e due, e magari sarà Alex a non esserci»,
abbozzò una risata
e, incredibile, Lillian non ebbe da replicare.
Presero
il treno per il centro di National City alle diciassette e un quarto
e Alex, saputo che le due erano svignate via insieme, scrisse
all'unica persona con cui era riuscita a parlarne apertamente
senza provare vergogna per quell'insolita situazione:
Kara
e Lena stanno tornando insieme a National City, probabilmente
passeranno lì la notte. I miei dubbi si fanno sempre
più forti.
Pensi ancora che non sia pazza?
Inviò,
sbuffando.
Le
giornate erano corte e nel silenzio del treno scendeva la sera.
Guardando le luci lontane oltre il vetro del finestrino, Kara sorrise
nell'immaginare un lungo albero di Natale. Le piaceva tutto di quel
momento: la tranquillità, i suoni lontani a parte quello
lieve
dell'aria condizionata, le luci fioche dello scompartimento, il
movimento del treno sui binari, Lena che le teneva la mano, seduta
accanto. Avrebbe voluto restare così per sempre.
Appoggiò la testa
sullo schienale e si voltò a guardarla, sorpresa nel
guardarla a sua
volta.
«Mi
spiace se ti farò perdere la Messa di Mezzanotte. Non era
mia
intenzione, non avevo idea che fosse una vostra tradizione»,
bisbigliò.
Kara
scosse la testa, «Non importa», mormorò
anche lei. «È una
tradizione dei Danvers: non c'ero mai stata prima dell'adozione, con
i miei primi genitori, intendo. Sono felice di partecipare
perché
rende fieri di essere parte di qualcosa Eliza e Jeremiah;
c'è tutto
il quartiere, sai, tutti sorridono, si stringono insieme,
c'è calore
e attenzione, il buono delle persone. È questo
ciò rende bello quel
momento, non la Messa in sé. Tutti gli anni sono stata
vicino a
loro, oggi voglio stare vicina a te. È diverso il luogo,
cambia la
compagnia, ma il contenuto è lo stesso: sarò con
qualcuno che amo».
Le sorrise e Lena abbassò un poco la testa, facendole cenno
di aver
capito.
«Scappiamo»,
le disse di nuovo, a bassa voce, solo pochi secondi più
tardi.
Lasciò che avesse di nuovo la piena attenzione di Kara,
prima di
proseguire. «Potremmo farlo veramente: saremmo solo noi due,
lontano, dove più ti piacerebbe andare, dovunque, ovunque,
lontano
da qui».
«Ho
sempre voluto visitare l'Europa», mormorò con un
sorriso e vide
Lena accendersi, mettersi meglio sul sedile, girandosi verso di lei.
«È
fatta! Andiamo, prendiamo l'aereo e atterriamo in Spagna».
«Oh,
ma dobbiamo assolutamente girare per il Portogallo prima di andare in
Francia».
«Assolutamente»,
ribadì anche lei, annuendo. «Dalla Francia,
saliamo poi per
l'Inghilterra».
«Piove
sempre, ci ripareremo in qualche pub».
«E
faremo l'amore sotto la pioggia».
«Cosa?»,
rise, diventando rossa. «Va bene».
«Una
pioggia leggera, non vogliamo ammalarci. Il sistema sanitario inglese
ci impedirebbe per un po' di proseguire il nostro viaggio»,
risero
insieme ma, poco a poco, l'entusiasmo scemò e i loro sorrisi
si
spensero, così Kara guardò di nuovo fuori e Lena
abbassò la testa,
guardandosi distrattamente le mani fredde. Accidenti, avrebbe dovuto
mettersi i guanti o la pelle si sarebbe spaccata.
«Io… dicevo sul
serio, prima», deglutì, «sullo
scappare».
Lo
sapeva. All'improvviso l'aria si era fatta tesa e, con un groppo
all'altezza della bocca dello stomaco, Kara capì di essere
diventata
malinconica. Aveva come la sensazione sulla pelle che avrebbe perso
Lena, e doveva averla avvertita anche lei, perché scappare
avrebbe
permesso alle due di stare insieme. Scappare non era esattamente come
fare una vacanza. Non potevano di certo scappare davvero. Ed era
sciocco provare malinconia per qualcosa che ancora non era avvenuto.
Stava con lei ora, era quasi Natale, potevano essere felici. Dal
finestrino vide il cielo farsi più torbido, tanto che con la
notte
che si avvicinava non si vedeva più nulla nemmeno
all'interno del
treno e accesero le luci. L'improvviso bagliore le fece socchiudere
gli occhi e, rivoltandosi verso Lena, la scorse mentre si passava le
dita sul viso. «Ehi». Le tolse le mani da davanti
agli occhi,
capendo che cercava di tamponarli per far sparire le lacrime. I suoi
occhi erano così grandi e limpidi, appena rossi sulla pelle
intorno,
tutta bagnata.
«Mi
dispiace di farti perdere la Messa di Mezzanotte»,
sussurrò con
voce strozzata, trattenendo un singhiozzo.
«Ti
ho detto che non importa».
«No,
no, non è vero», scosse la testa.
«È che ti ho… ti ho mentito».
«Su
cosa?». Abbozzò un sorriso, stringendole le mani e
cercando di
guardarla negli occhi che continuavano a sfuggirle per fissarsi su
punti lontani.
«Non
ho del lavoro da fare», si interruppe e Kara dovette
lasciarle
andare una mano, che la vide passarsi sotto un occhio.
«Volevo solo…
passare del tempo con te».
«Oh…
va bene», annuì, «Ti avrei detto di
sì lo stesso». La vide
deglutire e ammutolirsi, guardandola finalmente negli occhi.
«Non
stai pensando di lasciarmi, vero?».
«No»:
Lena sollevò le spalle e finalmente sorrise, solo un attimo.
«Cosa
te… te lo fa pensare?».
Kara
abbassò un poco la testa e fu il suo turno di alzare appena
le
spalle e guardare altrove. «È il Natale. Amo il
Natale, ma mi rende
malinconica».
Si
avvicinò e la baciò, così Lena chiuse
gli occhi e si lasciò
trasportare in un bacio lento, pieno, che finì con il loro
ricercarsi negli sguardi e sfiorarsi le guance in una carezza.
«Anche
a me», disse e Kara sorrise.
Ferdinand
era già alla stazione quando il treno arrivò.
Lena si era
ricontrollata il trucco davanti a uno specchietto prima di scendere
dal vagone e affrontare l'autista. Si erano sorrise e avevano
continuato a lanciarsi sguardi anche in macchina, fino all'arrivo in
villa. Nemmeno una luce ad accoglierle dall'esterno: Eliza le aveva
dovute staccare a malincuore perché non ci sarebbero state
per
giorni. Ferdinand augurò alle due Buon
Natale
e se ne andò, così restarono sole. Si
abbracciarono e si baciarono,
e Kara ne approfittò per chiederle se andava tutto bene, ma
fortunatamente sembrava aver ritrovato il buon umore, sebbene il
senso di malinconia fosse ancora dietro l'angolo.
«Hai
già in mente di come passeremo questa sera tutta per
noi?», sorrise
Kara, battendosi le mani, davanti al portone.
«Umh…
forse sì», ammise, stringendo le labbra,
«Ho pensato a
qualcosina». Aprì il portone e, al momento in cui
lo spalancò,
tutto si accese: ogni lampada di Natale, ogni più piccola
luce,
l'Albero nella sua maestosa figura, ma c'erano anche luci in
più che
pendevano dal soffitto come pioggia nell'ingresso, intorno ai
corrimano delle scale insieme ai cordoni d'oro, e nei papillon di due
ragazze che vennero loro incontro, sfoggiando una divisa rossa e
bianca da cameriere natalizie.
Kara
restò a bocca aperta, trattenendo il fiato. Una delle due
ragazze le
diede un cappellino da Babbo Natale e lei se lo portò in
testa,
sfoggiando un divertito sorriso. «Che cosa hai
combinato?».
Una
delle due cameriere chiuse il portone e sfilò loro le
giacche, e
l'altra le invitò a seguirla. Lena sorrise pacatamente,
ancora
troppo fresca di lacrime, mentre Kara si guardava attorno con un
sorriso sempre più ampio, cercando di scorgere le cose in
più,
quelle che non avevano messo loro, tra l'ingresso e il salone.
C'erano altri nastri, candele, fiori e oh,
si bloccò: di certo i pacchi sotto l'Albero erano qualcosa
di nuovo.
E c'era il camino acceso. Ma non fece in tempo a porre domande che la
cameriera si fermò presso un tavolino: era a due posti, con
una
tovaglietta di Natale sopra, rossa con i bordi dorati, due sedie
davanti a due piatti con
coperchio,
e vicino ai bicchieri, al centrotavola, un candelabro d'oro con tre
candele rosse.
Mentre
Kara cercava di trovare le parole, una delle cameriere si
confidò
con Lena, che le fece un cenno affermativo con la testa. La ragazza
sparì e le luci si spensero di nuovo, a parte quelle
dell'Albero,
che si attenuarono fino a essere una luce di sfondo, mentre entrambe
le cameriere ricomparivano per passare da candela a candela e
accenderle tutte, fino alle ultime sul tavolino.
«Che…
che cosa hai combinato?!», le ripeté Kara a bassa
voce intanto che
si avvicinava a lei. Era fisicamente impossibile riuscire a perdere
il sorriso, tanto che le facevano male i muscoli facciali.
«Ho
qualcosa per te». La prese per mano e l'avvicinò
all'Albero,
prendendo il pacchetto stretto e allungato.
«Oh,
no… Io non ho niente per te».
«Kara…
sei qui, no? E non è abbastanza?».
Glielo
porse e Kara sfilò il nastrino e tolse la carta, trovandosi
davanti
a una scatola blu. Aveva iniziato ad agitarsi da quando le luci si
spensero, ma ora il cuore le batteva a ritmi incontrollati, poteva
sentirlo in gola. Deglutì, intanto che l'altra apriva.
«Mi
sono fatta aiutare, per questa», accennò a una
risata, mentre
l'altra si portava le mani alla bocca: le luci colorate dell'Albero
che andavano e venivano ad intermittenza si rispecchiavano sul
ciondolino d'argento della collana con la forma del simbolo degli El.
«Te
l'ha detto Kal?!», biascicò, incapace di
trattenere l'emozione.
Appena la scorse annuire, l'abbracciò e la baciò,
spingendola su di
sé. «M-Mi hai fatto due regali… e io
non ci posso, oh
cielo,
non ci posso credere». Si mise di spalle in modo che Lena le
agganciasse la collana intorno al collo e poi sfiorò il
ciondolo con
evidente commozione, trattenendo gli occhi lucidi. Si girò e
la
baciò di nuovo, mentre Lena la accoglieva tra le sue
braccia.
«Allora
sono tre regali», sorrise nel vederla spalancare gli occhi,
«Ma
quello lo apri dopo». Le indicò un maxi pacco e la
portò via, per
mano, fino al tavolino. Le due cameriere erano già dietro le
loro
sedie che attendevano per farle accomodare. «Avrai
fame».
Si
misero l'una davanti all'altra e le giovani donne, dopo aver
sistemato le sedie, si disposero ai lati pronte per togliere i
coperchi ai piatti. Lena le sorrideva, adesso, con una nota divertita
negli occhi e Kara non seppe cosa aspettarsi, fino a quando la
cameriera al suo fianco non sollevò il suo coperchio e,
trovando
quattro yogurt alla vaniglia e un cucchiaino, scoppiò a
ridere.
«Non
posso credere che l'hai fatto».
«Non
ne potrai più di yogurt», rise, appoggiando il
viso sulle mani
tenute dai gomiti sul tavolo. «Ti chiedo scusa, non ho
proprio
saputo resistere».
«Beh…
in verità, penso di poter dire con quasi assoluta sicurezza,
che mi
sta tornando voglia di yogurt da un po'».
«Perfetto».
Vide che Kara stava per aprirne uno che rise, così con un
cenno alla
cameriera, questa le tolse il piatto e gli yogurt, mentre l'altra
arrivava con un carrello su ruote dalla cucina. Sostituirono i piatti
di entrambe, aprendo i coperchi. «Ho fatto fare un po' di
tutto,
spero tu gradisca». Il tempo di finire la frase, che Kara
aveva già
portato alla bocca la prima forchettata.
Non
avrebbe dovuto piangere, in treno; o non avrebbe dovuto farsi vedere:
si era sentita una sciocca. Le nascondeva una cosa molto più
grande
di un semplice oggi
non ho da lavorare,
ma aveva così paura che lo venisse a sapere, così
paura di
dirglielo, così paura che tutto quello che aveva, ora,
poteva
distruggersi che… Kara era la cosa migliore che potesse
capitarle
nella vita; la sua nuova famiglia, poter contare su Eliza che la
trattava davvero come aveva sempre sognato potesse fare una madre,
Alex che a tratti sembrava volersi comportare anche con lei come una
sorella maggiore, poteva perdere tutto se la reazione di Kara sarebbe
stata anche solo un po' simile a quella che si aspettava. Si trattava
dei suoi genitori naturali. Fissò per un po' il ciondolo che
le
aveva regalato, appeso al collo, mentre mangiavano. Quel Clark,
accidenti… si era sentita gelare, la serata della festa, con
lui in
giardino, e non certo per le basse temperature, quando lo aveva
sentito dirle che lui sapeva della vicinanza dei Luthor agli omicidi.
«Non
fare che lo scopra da sola», le aveva detto senza guardarla
negli
occhi, con una nuvoletta di vapore davanti alla bocca.
«Potrei
dirglielo io, ora come ora penserebbe che stia cercando di mettervi
in cattiva luce. Kara è molto protettiva… Quando
ha scoperto che
sua zia era corrotta, ha creduto nella sua innocenza fino all'ultimo,
non avrebbe lasciato che nessuno parlasse male di Astra in sua
presenza. Farebbe lo stesso, se le dicessi dei Luthor». Aveva
scosso
la testa e poi si era sfregato le mani, cercando di riscaldarle.
«Pensavo che non dirglielo l'avrebbe protetta…
Anche io, al mio
tempo, cercai risposte. Ho preso solo abbagli. Questa strada, quella
che dovrebbe portare alla verità, è molto lunga
oltre che
rischiosa».
«Sai
che sta cercando di capire chi li ha uccisi?», gli aveva
chiesto.
«Certo»,
aveva abbassato la testa, trattenendo un sorriso. «L'ho letto
nel
suo sguardo. Dovresti dirglielo», l'aveva guardata in faccia
per la
prima volta da quando erano usciti in giardino. «A questo
punto, se
lo viene a sapere da sola, potrà farsi solo del male. Io ho
sbagliato a non dirle nulla, ma stavate diventando la sua famiglia,
stava vivendo la sua vita e non pensavo si mettesse a cercare
risposte, ma adesso le cose sono cambiate e voi state
insieme»,
aveva aggrottato lo sguardo, «come pensi che ti
guarderà quando
capirà che la tua famiglia poteva salvare la sua e non l'ha
fatto?».
Vide
Kara ridere, incantandosi. Era sporca di cibo vicino al mento. Di
cosa stavano parlando? Perché rideva? O era semplicemente
felice? Si
sporse sul tavolino e allungò un braccio verso di lei,
passandole un
fazzolettino sullo sporco. Kara si bloccò e le sua guance si
colorarono di un rosa acceso.
Era
il suo raggio di sole, non sarebbe riuscita a farla piangere.
Era
meglio scappare, scappare lontano, portarla dove nessuno le avrebbe
detto che i Luthor c'entravano qualcosa con tutto quello che era
successo in passato.
«Cosa
c'è?», le domandò Kara, vedendola
imbambolata. Lena aveva lasciato
cadere il fazzoletto, ma la sua mano era rimasta lì, sulla
sua
guancia, solo per accarezzarla.
«Devo
dirti una cosa…».
«Può
aspettare il prossimo piatto?», rise mordendosi un labbro e
Lena si
tirò di nuovo a sedere meglio sulla sedia, trovando la forza
di
sorriderle. Kara prese un altro piatto dai vassoi sul carrello e le
due cameriere le interruppero solo un momento per congedarsi
augurando loro Buon
Natale,
finendo il turno. Le scrutò fino a quando superarono il
portone e
chiusero, chiedendo a Lena se non fosse stato rischioso mostrarsi
intime davanti a loro, ottenendo solo un breve no
con la testa, spiegandole che avevano firmato un accordo di
riservatezza. Si stupì ma solo per poco: Lena era piena di
risorse.
Le sorrise, ingoiando un nuovo boccone. «Non mangi
più? Non hai
fame?».
«Ti
amo», le disse veloce, senza preavviso, guardandola negli
occhi.
Lena notò che l'aveva colpita, poiché
spalancò gli occhi e bloccò
la forchetta a mezz'aria.
«Questo-Questo
me l'hai già detto, cioè, non che non mi faccia
piacere sentirlo,
voglio dire».
«Ma?».
«N-Nessun
ma,
è che oggi mi sembri strana».
«È
il Natale». Si alzò dalla sedia avanzando verso di
lei senza
staccare gli occhi dai suoi, osservandola tremare appena, prima
ancora che potesse sfiorarla. Le prese le mani nelle sue e la fece
alzare, portandola più al centro del salone, vicino
all'Albero di
Natale. «Musica. Cd A,
brano dodici»,
esclamò a voce alta e, prima che Kara potesse aggrottare la
fronte,
la musica, lenta e dolce, partì.
«Dov'è
la radio?», chiese a occhi sgranati, guardandosi rapidamente
intorno.
«Shh».
L'avvolse con la mano sinistra lungo i fianchi e la tenne con la
destra sulla nuca, avvicinando la bocca alla sua, ricercando
contatto, chiudendo gli occhi e trattenendo il respiro.
Approfondirono
subito, assaggiandosi a vicenda, tenendosi strette, ascoltando l'una
il respiro corto dell'altra. Lena era così passionale,
avrebbe detto
Kara se le avesse lasciato un po' di fiato.
«Wow…»,
le sussurrò e basta, mordendosi il labbro inferiore, senza
riuscire
a staccare lo sguardo dai suoi occhi freddi.
Lena
le prese entrambe le guance e la baciò di nuovo, di nuovo,
poi la
prese per permetterle qualche passo di ballo, fino ad abbracciarla,
ancora in movimento sui loro stessi passi.
Kara
non poteva sapere cosa le fosse preso, ma era chiaro che qualunque
cosa la tormentasse, forse il fatto che si erano promesse di dirlo
alla famiglia dopo il Natale, o il messaggio dal profilo misterioso,
non era pronta per confidarsi. Così fu lei a prenderle il
viso con
una mano, ad accarezzarle una guancia fresca e a sorriderle, prima di
scambiarsi un altro bacio. Poi il pensiero la sfiorò: e se
la sua
fosse una passione forzata? Si sforzava perché la cosa
funzionasse?
Si stava stufando di lei? No, era impossibile. Perché quel
pensiero
doveva tormentarla in quel modo? Lena l'amava e glielo aveva
confessato proprio poco fa.
Nemmeno
si accorsero che aveva iniziato a piovere e la musica era finita,
quando dopo tanto che restarono solamente abbracciate a dondolarsi
simulando un ballo, avevano capito di volere di più. Kara
insinuò
le mani dietro la sua schiena, trovando la chiusura del vestito.
Aveva così bisogno di sentirla. Si inceppò e si
sforzò per non
sbuffare, così Lena si voltò, aiutandola. Il
vestito scivolò sui
suoi seni ed entrambe lo spinsero giù, così lei
si tolse anche le
scarpe coi tacchi, diventando improvvisamente più bassa.
Lena
notò che Kara era nervosa, lo era sempre d'altronde, ma era
più che
altro un guizzo nei suoi occhi azzurri, perché era molto
ferma
invece, sapeva cosa faceva e cosa voleva. Lasciò che le
sfilasse lo
chignon e si guardarono. Adesso era sua: con impeto, le
portò la
mano destra dietro la nuca e, liberandole a sua volta i capelli
dall'elastico della coda e dal cappello, la mano sinistra si
introdusse sotto il suo maglione e le tirò la camicia che
era
allacciata sotto i pantaloni, mentre la bocca si posò sulla
pelle
calda del collo, poi con i denti freddi, assaggiando e infine con la
lingua, lasciandole un brivido. Le sfilò il maglione
tirandolo su
per il collo, ritrovando la sua bocca, spettinandole i capelli.
Aprì
i bottoni della camicia con il suo aiuto e si baciarono di nuovo,
gettando l'indumento a terra.
La
pelle di Lena era così fredda quella sera che Kara
pensò di tenerla
stretta a sé, stringere
le mani sulla schiena più a lungo che poté anche
quando l'altra
cercò di spingerla indietro e riprenderla, andando addosso
all'Albero. La sentì chiederle scusa, in un bisbiglio e
con un sorriso,
attirandola di nuovo verso di lei e poi inchinandosi per sganciarle i
pantaloni. Glieli spinse giù con forza. Le sfilò
le scarpe e tolse
entrambi, così la sentì risalire con caldi baci
lungo le gambe,
stringerle gli slip ma senza toglierli, baciando la pancia, oh,
passando la lingua intorno all'ombelico. Per avere la pelle tanto
fredda, pensò Kara, la sua bocca era così calda
che l'avrebbe
sciolta…
Si
strinsero di nuovo, si baciarono di nuovo e Lena le prese una mano,
attirandola verso il divano. Ma si sedettero là solo pochi
attimi
che fu Kara a spingerla sulle spalle in basso, mettendosi sopra.
Lasciò che si sollevasse solo per fare in modo da poterle
sganciare
il reggiseno, e allo stesso tempo sganciò il suo. Kara la
baciò
lungo il collo, le strinse la vita, la sentì gemere intanto
che la
teneva con una mano sulla nuca e un'altra sulla schiena, come se
temesse a lasciarla andare.
«Stai
bene?», le domandò soffiandole addosso,
lasciandole un bacio poco
sotto a una clavicola.
«Shh».
«No.
Stai bene?», si ripeté, sollevandosi il tanto per
vederla negli
occhi, ma lei li aveva chiusi. «Lena… non credo
sia solo il
Natale». Non ricevendo risposta, alla fine si
alzò, camminando
scalza e quasi nuda fino al tavolino, coprendosi il seno con un
braccio per istinto.
Lena
riaprì gli occhi solo per cercarla. La rivide passarle
accanto
qualche attimo più tardi, con uno yogurt e un cucchiaino in
mano. Si
sporse e, alzando un sopracciglio, notò che si era seduta
sul
tappeto davanti al camino, riprendendo il cappello e infilandoselo in
testa. Uff, sapeva di aver combinato un guaio. Si alzò
lentamente
per non girarle la testa e salì al piano di sopra, anche lei
quasi
nuda e scalza. Quando tornò, portava con sé una
coperta colorata.
Si sedette accanto a lei e la coprì, poi coprì se
stessa. Il fuoco
stava quasi per spegnersi; dopo che se ne erano andate le due ragazze
che avevano fatto da cameriere non lo aveva più guardato
né
ravvivato nessuno, ma non le importava: perfino quella casa che
sentiva da sempre fredda, oggi sembrava un po' più calda.
«Ti
chiedo scusa», disse sinceramente, con gli occhi ancora fermi
a
osservare una piccola fiammella che lottava per sopravvivere, sotto
due grossi tronchi di legna.
«Non
devi», mormorò, col cucchiaino in bocca.
«Certo
che devo».
«Va
bene: devi», decise Kara, abbassando lo yogurt e
appoggiandolo sul
tappeto, mentre gesticolava con il cucchiaino ancora in mano.
«Mi
prepari una sorpresa ma sei triste, sei particolarmente…
emh,
irruente, ma sei co… come se la tua testa fosse
continuamente
altrove, e mi chiedi di scappare e ti metti a piangere e non
capisco…
M-Mi sento come se mi mancasse qualcosa e per questo», prese
una
pausa, leccando di nuovo il cucchiaino prima di metterlo via, dentro
al barattolino dello yogurt rimasto, «non
riuscissi… a capire cosa
ti passa per la testa e se non parli con me, Lena, non so che cosa
devo fare».
Era
arrabbiata, o almeno si sforzava per esserlo, ma Lena non riusciva a
fare a meno di pensare a quanto fosse bella in quel momento: gli
angoli della bocca sporchi di vaniglia, il ciondolo che le aveva
regalato, lucente, sul collo scoperto, le spalle nude con i boccoli
biondi che le coprivano a tratti, spettinati come la criniera di un
leone, con il seno nudo in scorcio, nascosta dalla stessa coperta che
le aveva dato per non prendere freddo e che ora smaniava dalla voglia
di toglierle. Anche se sapeva di essersi comportata in modo strano e
di averla indispettita, aveva ancora una voglia matta di farla sua.
Si
guardarono, ascoltando il rumore della pioggia che batteva
violentemente sui vetri. Lena era conscia che quello sarebbe stato un
buon momento per parlarle a cuore aperto, ma appena si sforzava per
farlo, le parole morivano prima di arrivare alla bocca, definendosi
una codarda. «Non… so cosa dire»,
mormorò infine, guardando di
nuovo il fuoco. Kara stava per riprendere il barattolino quando Lena
prese la sua mano e la portò contro il proprio petto,
baciandola un
momento. «Sono solo… un po' stressata,
immagino». La vide
guardarla con occhi grandi, ascoltando il suo cuore che batteva.
«Il
messaggio che mi è arrivato e non so da chi, dobbiamo
trovare un
modo per mettere la microspia in casa Gand e… le nostri
madri tra
poco si sposano. Sarà difficile per noi dirglielo. Non
voglio
perderti».
«Non
mi perderai», scosse la testa Kara, avvicinandosi per
portarle via
un bacio, «Non mi perderai mai». Lena l'amava,
ripeté per sé,
l'amava quanto l'amava lei. Si baciarono ancora, rischiando di
scivolare sul tappeto. «Dirglielo sarà una sfida,
tua madre annusa
l'aria e già si mostra contraria, e poi Eliza…
non so come la
prenderà al fatto che anche l'altra figlia frequenta una
donna».
«Kara…
lei sta per sposarne una».
Arricciò
il naso, trattenendo un sorriso. «Sì, lo so, ma
lei vorrebbe dei
nipoti… E per quanto ami Jamie, voglio dire… Alla
fine ha
accettato Alex, ma ci riempe la testa di questa cosa dei nipoti da
quando eravamo al liceo e penso abbia riposto le sue speranze in
me».
«I
figli non sono proprietà dei genitori: Eliza ti vorrebbe
felice
prima di ogni altra cosa, prima del suo stesso desiderio di avere dei
nipoti».
«Sì…»,
strinse le labbra, «beh, non sono certa di quale cosa venga
prima,
per lei. Senza contare che se sto con l'altra ragazza che sta quasi
per diventare un'altra sua figlia… Mi pare che le
possibilità di
avere dei nipoti diminuiscano». Si guardarono e risero,
finché Lena
non alzò le mani per sistemarle alcune ciocche sotto il
cappello.
«Tu
lo sai che anche due donne possono avere dei figli, vero?».
«Credo
lo sappia anche lei», rise.
«Forse…
dopotutto, saperlo è solo nel suo lavoro».
«E
Alex…», scosse la testa, abbassando un poco gli
occhi. «Non lo
so. Io penso che sarà semplicemente dalla mia
parte».
Lena
annuì. «Anche Lex».
«E
se anche mai ci dovessero dire di stare lontane?», Kara
aggrottò le
sopracciglia e Lena la guardò dritta negli occhi.
«Dovessero dirci
che è sbagliato, che non possiamo, c-che dobbiamo solo
essere
sorelle… beh, allora io dirò no.
Perché non ti lascerò. Neanche in quel
caso».
Lena
si sporse da un lato e la baciò. Strinse le sue labbra
morbide,
accolse la sua lingua calda, le tenne il mento e passò un
dito sulla
sua pelle accaldata per via del camino. Si chiese se, se avesse
saputo cosa lei sapeva, avrebbe continuato a pensare lo stesso.
«E
sui Gand troveremo una soluzione. Capiremo come agire
insieme»,
continuò, staccandosi da lei piano, mettendole una mano
davanti alla
bocca. «Sul messaggio, invece… non mi piace quella
storia, forse
dovremo solo ignorarlo».
«Ignorarlo?»,
si tirò su con la schiena di colpo, «Potrebbe
davvero sapere chi ha
ucciso mio padre».
«Oppure
potrebbe essere l'assassino», controbatté,
«E in quel caso è
chiaro che lo saprebbe».
«Non
possiamo ignorarlo, è troppo importante».
«Quindi
hai deciso che gli risponderai», aggrottò un poco
lo sguardo,
scettica. «Non mi avevi detto nulla».
«Lo
sto decidendo ora, credo».
«È
troppo rischioso».
«Per
trovare delle risposte bisogna rischiare, Supergirl. O vuoi essere la
sola a farlo? Devo ricordarti la tua visita ai Gand?».
«Era
diverso».
«Sì»,
annuì, «Lo hai fatto tu e non io. Questo
è diverso».
Kara
alzò gli occhi al soffitto, sbuffando. «Va
bene… Parliamone con
Alex, prima». Mi
darà ragione,
pensò.
«Perfetto».
So
già che concorderà con me,
pensò Lena.
«Non
voglio litigare con te», mormorò poco dopo Kara,
stringendole una
mano con la sua.
«Su
questo siamo d'accordo», sorrise.
«Io
ti capisco, Lena; abbiamo le stesse paure, in fondo. Ti chiedo
solo…
di non tagliarmi fuori dalla tua testa, di parlare con me, sfogarti,
di essere sincera su cosa succede», annuì con un
sorriso,
staccandosi di nuovo, mentre Lena deglutiva. «E ne usciremo
insieme». Lena si sbilanciò di nuovo verso di lei
per portarle via
un altro bacio, che sciolsero con un sorriso. «Tolgo il
barattolino
prima che», ammiccò e le guardò le
labbra con desiderio, ancora
tanto vicine, «prima di… sì, macchiare
il tappeto».
Si
mosse per prenderlo che Lena la fermò, le prese la mano con
il
barattolino quasi vuoto di yogurt e ci immerse un dito, per poi
infilarselo in bocca, sotto lo sguardo arrossato dell'altra.
«Conosco
una buona lavanderia», chiosò. Lo immerse ancora,
stavolta lo passò
sul collo di lei, tra un orecchio e il mento. La coperta
scivolò sui
loro corpi seminudi quando lei si sporse verso Kara per leccarle via
lo yogurt lasciato sulla pelle accaldata. La sentì tremare
ed era
certa che non fosse per il freddo. «Sfogati, Kara, dimmi cosa
ti
passa per la testa».
«Ti
stai vendicando per qualcosa?», sussurrò: aveva
usato le sue stesse
parole.
«Ti
sembra una vendetta?», ridacchiò, «Hai
una concezione strana di
cosa significhi vendicarsi, Kara Danvers… Io voglio solo
mangiarti». Kara tremò di nuovo,
impercettibilmente e, avvampando,
ingigantì gli occhi, cercando di concentrare altrove il suo
sguardo:
Lena non si perse un attimo del suo tentennamento e capì
che, con
una sola frase, riuscì a spezzare ogni sicurezza che si era
guadagnata con la confidenza presa fino a quel momento. Le
sembrò di
rivedere la ragazzina sbigottita a cui era caduto il gelato addosso
quando la paragonò alla vaniglia. E le piaceva.
Kara
aprì la bocca per rispondere ma non riuscì a dire
una sola parola
di senso compiuto, se non forse un mugolio sorpreso e imbarazzato che
tutto sapeva meno che di qualcosa in una lingua conosciuta.
Capì che
sarebbe sempre stato facile per Lena buttare giù le sue
difese
perché non riusciva a essere la ragazza determinata che
credeva,
come Supergirl in campo, quando si trattava di lei, del suo sguardo,
della sua voce, delle sue mani sulla propria pelle. Lasciò
che la
spingesse schiena contro il tappeto morbido, sfiorarle il seno con le
dita fredde, con l'alito caldo e la lingua, poi facendola
rabbrividire, con il cucchiaino ghiacciato sporco di yogurt sui suoi
seni turgidi. Le sfuggì un gemito breve, mordendosi un
labbro,
quando iniziò a leccarglielo via.
Non
era mai stato così. Lena era la sua prima volta con una
donna, ma
non era la prima volta che stava in intimità con qualcuno,
nel
cercarsi, volersi, desiderarsi e, avrebbe detto, anche mangiarsi. Ma
quello che riusciva a farle provare anche solo quando la sfiorava era
completamente diverso da quello provato fino a prima di lei, e forse
era anche perché l'amava e, a questo proposito, doveva
considerare
di non aver mai davvero amato qualcuno come amava Lena, ma era come
se sapesse sempre dove mettere le mani. E la bocca. E il resto. In
effetti, ovunque. Il suo corpo era tutto per lei. Dovunque la
toccasse diventava fuoco.
Le
passò lo yogurt sul mento e, dopo aver leccato anche quello,
la
imboccò, dopo si baciarono. Se ripensava di averle detto che
le
stava tornando voglia di yogurt solo un po' prima, alla
cena…
«Ti
piace?», le sorrise. Con una mano reggeva il cucchiaino, ma
con
l'altra era scesa in basso, tentandole gli slip.
La
fissò cercando di capire cosa risponderle, frastornata dal
calore e
conscia che presto avrebbe scoperto quanto la stava desiderando in
mezzo alle gambe, dove si sentiva già pulsare.
«… sì», deglutì,
«Non avevo mai- emh, di-diciamo mai pensato a questo buon
utilizzo
dello yogurt».
«Mi
hai ispirato, mia musa». Prese il cappello e se lo
infilò sulla
testa, facendo sorridere l'altra, poi si baciarono.
Lena
lasciò il cucchiaino sul tappeto e le tirò gli
slip, così Kara
alzò il bacino in modo da poterglieli sfilare. Entrambe
fecero
scivolare via anche i suoi, ma Kara non era certa che si sarebbe
lasciata toccare in quel momento, anzi, ne aveva avuto conferma
quando le sollevò le mani e le braccia sulla testa,
prendendosi un
attimo per tastarle e baciarle. Le sorrise ancora e la sentì
di
nuovo leccarle il collo, laddove era rimasto dello yogurt, e poi
scendere lentamente, tocco dopo tocco, sollevandole le cosce. Aveva
ancora la bocca umida di vaniglia, calda, come calda era lei. Kara
smise di respirare e incurvò la testa, quando la
avvertì su di lei.
A
un certo punto non si sentì più nulla se non il
suono della pioggia
scrosciante, i suoi respiri sommessi e il ticchettare di un orologio
sulla parete davanti, vicino al monitor collegato al campanello: era
da poco passata la mezzanotte. Non riuscì a trattenere un
sorriso.
Era
stato un modo diverso di accogliere il Natale. Si erano tenute
abbracciate lì sul tappeto, davanti al camino spento, nude e
protette da quella sola coperta. Poi Kara aveva mangiato qualcosa e
aperto l'altro regalo di Natale: un enorme gatto di peluche. Avevano
parlato un po' prima di prendere sonno, con la voce ormai impastata e
il peluche vicino. Kara si girò verso il camino con un
sorriso sulle
labbra e Lena le lasciò un bacio su una spalla, per poi
tenerla
stretta a sé, lasciando che lei l'avvolgesse con le braccia.
Lena
era certa che Kara stesse dormendo. «Vorrei tenerti
così per
sempre». Poi chiuse gli occhi mentre l'altra li riapriva con
il
groviglio sullo stomaco.
Risvegliandosi,
per fortuna, il senso di malinconia era scomparso. Era Natale ed era
tra le braccia di Lena, non poteva esserci inizio migliore. Sentiva
l'orologio, non c'era la pioggia, e il buon profumo di caffè
appena
fatto. Caffè?
Marielle non sarebbe venuta e se le braccia che sentiva addosso erano
quelle di Lena, come faceva a…? Riaprì gli occhi
piano e con
evidente confusione, aggrottando le sopracciglia. Si mise a sedere
portando con sé la coperta, sentendo che doveva aver
svegliato anche
Lena.
«Buongiorno».
Spalancò
gli occhi nell'ascoltare quella voce ferma, cercando di mettere a
fuoco la figura che aveva davanti, capendo di essere state scoperte.
Piuttosto alto, snello ed elegante, con una tazza di caffè
tenuta in
una mano e l'altra in tasca. Calvo.
«Tu
devi essere la mia nuova sorellina. È un piacere conoscerti
di
persona, finalmente».
U-oh! Beccate! Beh,
c'è da dire che finalmente conosceremo Lex :D
Succede
poco in questo capitolo, me ne rendo conto, ma è un
passaggio lento
a proposito, un far godere alle due protagoniste dei momenti felici
(o quasi, ops) tra loro e la famiglia.
Cosa
sta succedendo a Lena? A quanto pare, quando lei e Clark sono usciti
fuori a parlare nel capitolo precedente, hanno tirato in ballo anche
ciò che Lena insistentemente tiene nascosto a
Kara… Lena ha paura,
molta paura, di poter perdere tutto ciò che ha ora: non solo
Kara,
ma una famiglia. Come biasimarla? Sarà mai pronta a fare
quel passo?
Intanto
scopriamo che il profilo misterioso si è ben protetto e che
non sarà
affatto facile, forse impossibile, accedere alla sua
identità. Avete
idee a proposito?
Da
tenere presente Alex che invia un messaggio a qualcuno… Chi
sarà?
Kara
e Lena hanno avuto un altro momento di intimità, e non parlo
solo di
ciò che pensate! Hanno discusso, Kara vorrebbe che Lena
condividesse
i suoi pensieri con lei, e hanno probabilmente sporcato il tappeto. E
il groppo all'altezza della bocca dello stomaco di Kara? Avete mai
provato quel senso di malinconia?
Ditemi
cosa ne pensate e vi lascio al prossimo capitolo, che
riprenderà
proprio da dove siamo rimasti.
Il
prossimo capitolo si intitola L'amore non basta e
sarà
pubblicato qui lunedì 24 :D
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Capitolo 27 *** 26. L'amore non basta ***
Lillian
Luthor era in fermento. Nonostante non amasse poi così tanto
le
festività, perché Eliza lo sapeva che le
festeggiava per lei, non
era di certo tanto ingenua, da quando mise i piedi a terra quella
mattina era in stato di agitazione perenne. Per prima cosa, si era
cambiata abito tre volte, non decidendosi su cosa fosse meglio e
chiedendole continui consigli; quando un abito rosso ciliegia la
soddisfò sufficientemente, fu il turno delle scarpe. E
lì in casa
Danvers-Luthor non aveva una cabina armadio, così fu solo
indecisa
tra gli otto paia di scarpe col tacco che aveva a disposizione. Una
volta scelte, entrò in crisi perché non si
abbinavano abbastanza
col vestito e fu sul punto di telefonare al suo stilista, se non
fosse per Eliza che la rassicurò sul suo stile impeccabile,
ricordandole che sarebbe stato poco carino farlo lavorare la mattina
di Natale.
«A
marzo», sussurrò davanti allo specchio in camera
da letto,
lisciandosi il vestito. «Il quindici marzo».
«Sarà
perfetto, vedrai», le sorrise Eliza, avvicinandosi e
stringendola
sulle spalle. «I ragazzi saranno contenti».
«Sarà
perfetto», ripeté Lillian, annuendo e cercando di
convincersi
tirando un sorriso. «Anche oggi. Andrà
bene».
Annuì
anche Eliza, allontanandosi per cambiarsi un maglione che la
convinceva poco: l'agitazione di Lillian sembrava iniziare a
contagiarla. Sapeva perché era così tesa e in
fondo lo era un po'
anche lei. «Pensaci», si voltò, ancora
in reggiseno. «Solo mesi
fa eravamo così in ansia che i nostri figli si ritrovassero
tutti
sotto lo stesso tetto-».
«Eri
tu quella in ansia, tesoro», le rimbeccò.
«E
mancava solo Lex. Ricordi che Kara e Lena non andavano d'accordo?
Guardale ora, invece: un po' di tempo assieme e sono diventate
inseparabili».
Lillian
si fissò allo specchio, stringendo le labbra secche e
assottigliando
i suoi occhi. «È vero».
«Kara
non conosce ancora Lex, ma non sarà un problema. Sono
fiduciosa sul
futuro», sorrise, infilandosi un nuovo maglione, bianco e
celeste.
«Ci ritroviamo per festeggiare il Natale, la nostra prima
cena tutti
insieme e comunicheremo loro la data del matrimonio. Non sembra quasi
vero».
Lillian
sorrise, voltandosi. «Cosa può andar
male?».
Kara
deglutì, diventando rossa e tirando in su la coperta per
proteggere
il corpo nudo suo e di Lena, stirandosi solo per recuperare gli
occhiali.
«È
un piacere conoscerti di persona, finalmente», sorrise il
giovane.
«Non volevo svegliarvi, ma sto preparando la colazione, se vi
andasse di raggiungermi». Vide Lena svegliarsi e guardarlo
trattenendo uno sbadiglio, per poi girare lo sguardo da un lato.
«Magari prima rendetevi presentabili. Vi aspetto».
Sorrise e tornò
verso la cucina.
Kara
sbiancò, guardando lei col terrore negli occhi.
«Tuo fratello»,
mimò con le labbra e poi strinse i denti.
«Non
preoccuparti. Cominciavo a pensare che lo avesse capito». Le
sistemò
un ciuffo biondo che si era alzato a mò di cresta.
Sembrava
così incredibilmente calma, mentre Kara avrebbe voluto avere
il
superpotere di sparire da lì il più velocemente
possibile. «Cosa?»,
si trattenne dallo sbraitare e l'altra le prese le mani con le sue.
«Andiamo
a darci una lavata adesso, ci parlerò io con lui».
Aveva i capelli
spettinati, le labbra rosa, il viso gonfio e delicato, pallido,
sembrava una bambola.
«Ci
ha sorprese con solo una coperta addosso»,
bofonchiò ancora con
occhi spalancati.
Lena
strinse le labbra. «Ha trovato il momento meno adatto per
apparire
nella nostra vita».
Raggiunsero
il piano di sopra e, chiuse in camera di Lena, con i soli slip
addosso e la coperta, Kara girava in tondo per la stanza. Avevano
deciso di dire di loro alla famiglia dopo il Natale, e ora
Lex…
Voleva conoscerlo, non vedeva l'ora di conoscerlo, e ora
Lex…
Voleva fare buona impressione, e ora Lex… «Per
poco non mi vedeva
nuda», sibilò per sé, scorgendo Lena
rientrare dalla porta del
bagno, con i capelli umidi e già vestita con indosso una
gonna a
tubo di un rosso scuro e un maglioncino bianco. «Non mi
vedeva nuda
con la sorella…», proseguì, per poi
chiamarla.
«Ti
ho riempito la vasca con acqua calda», si
avvicinò, «Odio il fatto
di non poterci lavare insieme, ci tenevo. Ma devo andare a parlare
con Lex».
Kara
annuì, aprendo la bocca piano, ancora soprappensiero.
«Tu credi che
ci abbia viste nude?».
«Cosa?».
«Magari
quando è arrivato non eravamo coperte, eravamo nude e vicine
e lui
ci ha coperte». La vide sorridere, non capendo cosa ci fosse
di
tanto divertente.
«Glielo
chiederò».
«Glielo
chiederai?».
Le
toccò la punta del naso. «Glielo
chiederò». La sorpassò, ma
prima di aprire la porta si voltò ancora, mentre Kara
sospirava.
«Andrà tutto bene con lui, dico davvero.
Raggiungici, così
facciamo colazione e te lo dirà Lex stesso».
Kara
la vide chiudere la porta e così sospirò di
nuovo, stringendosi
nelle spalle. Entrò in vasca e si immerse tutta, per poi
prendersi
del tempo per appoggiarsi e lasciarsi coccolare dall'acqua calda.
Aveva bisogno di un attimo per pensare, di rilassarsi, prima di
uscire e affrontare una lunga giornata con la famiglia. E se il fatto
che Lex le avesse sorprese fosse un segno del destino? Forse
avrebbero dovuto dirlo alla famiglia quel giorno, a Natale, dove
tutti, o almeno in teoria, sarebbero stati più buoni. O
forse la
fame le impediva di ragionare lucidamente, brontolò
sbuffando,
ritrovandosi a fare la bolle con l'acqua alla bocca.
Lena
scese sicura per le scale e, affacciandosi in cucina,
inquadrò il
fratello vicino al bancone e gli andò incontro per
abbracciarlo. Si
strinsero e lui le tolse dal viso un capello umido, quando si
sorrisero. La ragazza fece una smorfia, poi, lasciandolo andare.
«Non
sono ancora abituata a vederti senza capelli».
«Non
immagineresti quanto è comodo», rispose altezzoso.
«Allora… Tu e
Kara», ritornò dietro i fornelli e Lena si
appoggiò al bancone,
abbassando un poco gli occhi e sorridendo.
«Lo
dirai a qualcuno?».
«Non
vedo perché dovrei. Anche se», si girò,
mostrando un sorriso,
«dirlo a nostra madre potrebbe avere dei risvolti divertenti: pensa alla faccia
che
farebbe».
Lena
scosse un poco la testa. «Fiuta la cosa da un po'».
«Ma
non mi dire», spalancò la bocca, «Non la
si fa a Lillian. Penso
che siate carine insieme».
Lena
arrossì. «Oh, dai».
«Dico
seriamente. Mi piace Kara: da quel che ho potuto intuire, è
una
ragazza in gamba. E a proposito di ragazze in
gamba…», si voltò
di nuovo, avvicinandosi a lei ancora con il mestolo in mano.
Kara
si rivestì con gli stessi vestiti del giorno prima e
tornò in
salone ingurgitando saliva, capendo di essere un po' nervosa. E chi
non lo sarebbe stato, al posto suo. Poi udì le loro voci e
cercò di
ascoltare il discorso, perché se parlavano di lei voleva
sapere
tutto prima di presentarsi. Presentarsi, poi, oh che idea sciocca,
presentarsi fingendo che, magari, non l'avesse vista nuda avvinghiata
a sua sorella minore.
«Dunque
non l'hai sentita?». Era la voce di Lex. Kara si
avvicinò piano.
«Di recente?».
«Perché
non mi dici come l'hai sentita tu, di
recente»,
udì la voce di Lena rimarcare bene le ultime parole.
Lex
prese una pausa breve, prima di farsi sentire di nuovo. «Mi
hanno
rubato una delle formule, Lena. E una delle ultime bustine di
pillole. Dev'essere stata lei».
«Rubate?»,
alzò la voce. «Ci andavi a letto insieme,
è così?».
«Pensavo
che non ci fosse più nulla, tra voi. Al contrario, non mi
sarei
permesso; mi offende che tu possa pensarlo».
«Era
mia amica. Non c'era bisogno di-». Oh, Kara non si rese conto
di
essersi avvicinata troppo e che Lena la vide, zittendosi di colpo.
«Vieni, facciamo colazione». La invitò a
raggiungerli e le sorrise
ma Kara non riuscì a ricambiare subito.
Stavano
parlando di una delle ragazze con cui era stata Lena? Un'amica,
disse. Doveva essere quella Roulette. Lex e Roulette erano stati
insieme e a Lena la cosa non andava giù. Forse c'era stato
dell'altro oltre all'amicizia e al sesso, come invece le aveva detto.
Che provasse ancora qualcosa per quella Roulette? Forse pensava a
lei, di tanto in tanto. Non era stata sincera? Oh, perché
non
riusciva a non pensare che qualcosa tra loro aveva smesso di
funzionare? Il senso di malinconia era passato, Lena si era confidata
sui suoi timori, non c'era nulla che le nascondesse, in special modo
altre ragazze. Doveva convincersene.
«Mi
dispiace per la curiosa circostanza in cui ci incontriamo»,
Lex le
si avvicinò con una mano tesa e lei gliela strinse. Vide con
la coda
dell'occhio Lena che si appoggiava al bancone, sguardo basso,
intuendo che doveva ancora pensare alla discussione con il fratello.
«Per prima cosa, voglio rassicurarti: non ti ho vista
nuda».
Kara
avvampò, guardando Lena. «Glielo hai
chiesto?».
«Non
l'ho fatto», si difese.
«Dovevi
chiedermelo?», fece lui, aggrottando lo sguardo.
«No».
«Sì»,
continuò Kara, per poi scuotere la testa. «No,
volevo dire no,
o-ovvio che no! Sapevo che, insomma», si portò
indietro una ciocca
di capelli, ridacchiando, «non avevi, tu», lo
indicò, «visto
niente». Rise ancora e Lex con lei, appena, ritornando dietro
il
bancone mentre Lena lo seguiva, tirando di nuovo fuori il suo
sorriso.
«Sapevo
di te e Lena», lo sentì confessare, intanto che
era impegnato
dietro ai fornelli. «O meglio, era un presentimento molto
forte.
Lena parlava di te con quel sorriso e con un tono di voce diverso che
non si può non pensare che ci sia sotto qualcosa».
Kara
si sedette davanti al bancone e Lena le porse un piattino, poi ne
aggiunse altri due più avanti. La guardò, facendo
una smorfia con
le labbra, così si girò. «Non ho un
tono di voce diverso».
«Oh
sì che ce l'hai».
«Non
ce l'ho», bisbigliò a Kara, che le sorrise.
«Sono brava a
nascondere le cose», disse poi a voce alta, perché
la sentisse.
«Oh,
ne sono certo. Ma non a me». Servì a Kara un
pancake e Lena fece il
giro per andarsi a sedere al suo fianco. Lex servì anche lei
e, dopo
pochi secondi, l'ultimo piattino, mettendo il pentolino sul lavandino
e raggiungendo le ragazze. Per un po' si stettero zitti, ascoltando
solo il reciproco masticare. «Non ho nulla in contrario alla
vostra
relazione, perché tu lo sappia», si
riferì a Kara, dopo aver
ingoiato un boccone. «Mia sorella è felice,
cos'altro conta? E
adesso avrò due sorelline felici. E non dirò
nulla a nessuno». Si
scambiarono uno sguardo, intanto che Lena si alzava per sparecchiare
la sua parte. «È una cosa vostra: ne parlerete
quando vi sentirete
pronte».
A
Kara sembrava tutto fin troppo bello. «O-Okay,
grazie… Se tutte le
reazioni fossero come la tua». Risero insieme e poi finirono
di
mangiare.
Quello
era Lex. Non si capacitava di come suo cugino Kal fosse riuscito a
litigare con lui, che sembrava così bendisposto e
comprensivo.
Sparecchiarono anche la loro postazione e Kara lo vide scrivere al
cellulare.
Sono
con loro, adesso. Ti direi di stare tranquilla. Tu non sei pazza, ma
qui è tutto ordinario, nulla di cui tu debba preoccuparti.
Lex
inviò e, accorgendosi di essere osservato, le sorrise.
Fu
bello passare del tempo con Lex. Al telefono, quando sentì
per la
prima volta la sua voce, le aveva messo addosso una strana sensazione
di disagio, ma parlarci dal vivo era l'esatto opposto: era
accomodante, ascoltava, sorrideva sincero e riusciva a farla sentire
a suo agio. In un certo senso somigliava davvero molto a Lillian, ma
il suo modo di fare era diametralmente l'opposto.
«Fissava
lo sguardo in basso e non riusciva a muovere un muscolo. Era
terrorizzata. Capii allora che aveva paura delle altezze»,
concluse,
congiungendo le dita delle mani.
«E
come ha fatto a imparare ad andare a cavallo?»,
domandò Kara,
completamente presa.
Lui
scrollò le spalle. «Tempo. Ha imparato a fidarsi
del cavallo, a
sentirlo, a capirlo. Sentendosi sicura con lui, è riuscita a
sconfiggere l'altezza. Tutti i Luthor vanno a cavallo, nostra madre
non gliel'avrebbe perdonata se non ci fosse riuscita». Forse
la vide
sbiancarsi, poiché accennò subito a una risata.
«Tranquilla, Kara.
Dubito che come figlia acquisita debba imparare anche tu».
Arrivò
Lena, scendendo la scala dal salone, dove loro si erano sistemati per
fare due chiacchiere. Si era sistemata i capelli, lisci, abbelliti da
un nastrino rosso. «La verità è che
senza Lex non ci sarei
riuscita», disse, andando loro incontro.
«È stato al mio fianco
tutti i giorni finché non ho preso confidenza con i
cavalli».
Kara
sorrise e alzò lo sguardo, così Lena si
avvicinò per portarle via
un bacio. Non riuscì a fare a meno di sorridere con
imbarazzo per
averlo fatto davanti a lui.
«Andiamo.
Torniamo all'altra casa prima che ci chiamino per sapere dove siamo
finite».
Annuì,
alzandosi. Lex disse loro che le avrebbe raggiunte quella sera e Kara
si fermò per fare un fiocco al nastrino nei capelli di Lena,
alzandosi in punta di piedi poiché aveva i tacchi alti.
Prese il
peluche e si misero i giacconi, andando a prendere il treno. Si
sistemarono su un vagone con poche persone a bordo, occupando tre
sedili. Si stettero zitte per tutto il viaggio, mano nella mano, con
un sorriso costante sulle labbra. La reazione di Lex al loro rapporto
aveva reso Kara speranzosa. Erano così felici che, forse,
stavano
cominciando ad abbassare la guardia. Nessuna delle persone
lì sul
treno badava a loro. Arrivarono e si alzarono insieme. Ancora vicine
ai finestrini, Kara sistemò di nuovo il nastrino di Lena,
facendo un
altro nodo e, così, sorridendo si scambiarono un bacio.
Presero il
peluche e si lasciarono le mani, scendendo alla stazione. Kara
spalancò la bocca dalla sorpresa quando vide Alex ferma
lì, in
piedi, che le aspettava con braccia a conserte e sguardo fermo.
Quest'ultima
aveva ancora il cellulare acceso in mano, ma gli occhi puntati su di
loro.
Da
Me a LexL
Sembra
che tu mi stia mentendo.
Da
LexL a Me
Stanno
andando a prendere il treno, tra un po' saranno lì. Non ho
mentito:
non c'è nulla di cui tu debba preoccuparti.
Spense
lo schermo e nascose il telefono in una tasca dei jeans, ammirando le
loro facce nell'esatto momento in cui capirono di essere state colte
sul fatto.
Lena
sospirò, mentre Kara sembrava sul punto di svenire. Poteva
ancora
fare finta di niente? «Sorellona», corse ad
abbracciarla, anche se
Alex ricambiò a stento. «Sei venuta a prenderci?
C-Come sapevi che
saremmo arrivate adesso? Lo hai visto?», le mostrò
il gattone di
peluche che aveva stretto in un braccio, «Lena mi ha, emh,
già dato
i suoi regali di Natale». Le mostrò anche la
collana, ma vide Alex
prendere fiato.
«Oh,
li ho notati». Guardò una e poi l'altra, ancora
poco distante.
«Possiamo parlare prima di tornare a casa?».
Erano
entrate tutte e tre nel piccolo bar ai pressi della stazione: c'era
solo una donna dietro al bancone, un anziano cane sdraiato vicino
alla porta, che Kara salutò con una carezza, e un uomo che
finiva il
suo drink leggendo un giornale. Si sedettero intorno a un tavolo; non
si tolsero nemmeno le giacche.
«Avete
notato che non hanno un condizionatore?», sbuffò
Kara, fregandosi
le braccia. «Com'è possibile che non abbiano un
condizionatore? Ci
credo che non hanno clienti; non è possibile non avere il
condizionatore con questo fre-».
«Kara»,
Alex la richiamò e la giovane Danvers notò che le
due non facevano
che squadrarsi in cagnesco, l'una davanti all'altra.
«ddo.
Non sentite anche voi un'arietta piuttosto fredda?». Le
guardò di
nuovo e così ansimò. «Soprattutto qui,
intorno a questo tavolo…»,
esclamò a denti stretti. «Non puoi semplicemente
essere felice per
noi?», disse a un certo punto con fretta, interrompendo il
tanto
rimuginare.
«Felice
per vo-», Alex si interruppe, «Da quanto tempo va
avanti questa
storia? Cercavamo di trovare un equilibrio come famiglia, stavamo
insieme per conoscerci meglio, e voi finite per mettervi insieme?
Credevo che i flirt fossero un gioco! Cosa sta succedendo? Mi
nascondevate questo?», spalancò gli occhi.
Guardò entrambe e poi
si fermò a lungo su Kara, che sentì un brivido
lungo la schiena.
«Lo hai nascosto a me? È
complicato,
è
straniero…
accidenti, Kara, sapevo che erano bugie, ma Lena… Io speravo
che,
se fosse stato vero, me ne avresti parlato». Si
voltò poi
all'altra, deglutendo e cambiando espressione, diventando
più
rigida. «O che me ne avresti parlato tu».
«All'inizio…
non pensavamo che sarebbe durata».
Lena
alzò un sopracciglio a quell'affermazione di Kara.
«Ah, no?».
«No.
Sì. No, cio-cioè sì». Kara
spalancò la bocca e guardò una e poi
l'altra. «Sapevo che sarebbe durata fin dal primo
istante-».
«Dal
primo istante, eh?», la interruppe Alex, stizzita.
Kara
guardò di nuovo lei e poi Lena. «M-Ma sapevo che
sarebbe durata
perché eravamo attratte l'una dall'altra e… Sto
cercando di dire è
che non era programmato! È successo e-e basta».
«Successo
e basta?». Lena si appoggiò al tavolino, con un
gomito.
«Non
mettermi in difficoltà anche tu»,
sibilò a denti stretti.
Allora
prese fiato e si risistemò sulla sedia, guardando Alex, che
la
contraccambiò con uno sguardo accigliato.
«Ciò che Kara vuole dire
è che non avevamo programmato di innamorarci».
«Innamorare?
Oh»,
sbuffò Alex, «La cosa si fa seria… E
quando mi hai parlato di una
ragazza con cui stavi uscendo ti era per caso sfuggito che si
trattasse di mia sorella?».
Kara
aggrottò la fronte. «Quando avete parlato di
questo?».
Le
due si scambiarono uno sguardo e Lena riuscì a parlare per
prima:
«Siamo uscite una volta. Per conoscerci».
E
perché non dirglielo? Le loro espressioni, d'improvviso, si
erano
fatte così tese. Possibile che le avesse appena mentito?
Eliza
finì di guarnire i cupcake con la glassa verde per dare
l'idea di un
Albero di Natale, mentre Lillian, al suo fianco, sistemava le
stellette e palline di cioccolata colorata intorno. L'aveva convinta
ad aiutarla dopo che, presa dall'ansia, aveva avuto l'idea di
cambiarsi di nuovo abito.
«Oramai
staranno arrivando», soffiò con bocca semichiusa.
Poi prese il
cellulare e fece una foto ai dolcetti, aggiungendola su Instagram.
«Sono
venuti bene?».
«Sono
deliziosi». Si scambiarono un bacio che Lillian
guardò di nuovo
l'ora.
Aveva
ragione, ancora qualche minuto e non tardarono ad arrivare. Eliza si
aspettava il solito chiacchiericcio frenetico che caratterizzava le
sue figlie durante le feste, invece entrarono in casa più
zitte di
quando scoprirono che le loro scimmie di mare erano morte. Alex
aprì
la porta e, dopo essersi tolta la giacca, disse di dover andare in
camera sua. Kara e un enorme gatto di peluche entrarono per secondi,
in silenzio e sguardo basso. Infine Lena, che le sorrise a stento.
La
donna rientrò in cucina con l'aria decisamente confusa,
mentre
Lillian scattava altre foto ai cupcake. «Hanno qualcosa che
non va».
«No,
sono deliziosi, te l'ho detto. Ho pubblicato anche una foto sul
profilo ufficiale della Luthor Corp e ti stanno lasciando i
complimenti».
«Davvero?»,
il suo sguardo si addolcì, prendendo il cellulare.
«Oh, dobbiamo
assolutamente invitare questi due al matrimonio», glieli
indicò,
«Sono del secondo piano, sempre così
gentili». Lillian annuì e
riprese il telefono, così Eliza tornò in
sé. «Ah, io però
intendevo le ragazze. Sono serie e silenziose, non è da
loro».
«Come
pranziamo andrà meglio», le sorrise, passandole
una mano su una
guancia in una carezza, «Il tempo di ambientarsi all'aria
natalizia».
Canzoni
natalizie in sottofondo con tanto di karaoke sulla tv, il Babbo
Natale sveglia che ogni mezzora gridava energicamente oh-oh
alzando una campanella, disposto su un mobile, Eliza aveva fatto
indossare a tutte, Lillian compresa, un capello da Babbo Natale,
eppure nulla sembrava servito allo scopo. Lillian sorrise ad Eliza,
le passò una mano sulla sua, ma Alex da una parte e Kara e
Lena
dall'altra erano ognuna per conto proprio, mangiando nel silenzio
più
assordante.
«Kara»,
Eliza attirò la sua attenzione e deglutì.
«E così Lena ti ha già
dato i suoi regali, eh? Molto bella la collana».
Lei
arrossì, ma si sforzò di non guardare Lena.
«Sì, è vero», la
toccò, non trattenendo un sorriso.
Sperava
che iniziasse una discussione, contava sull'unicità
dell'energia di
Kara, ma lei riprese a mangiare come se niente fosse.
Cominciò a
pensare che avessero litigato: sarebbe stata una novità, se
non per
Kara e Lena che non lo facevano da mesi, almeno per Alex e Kara, che
invece non lo facevano da anni. Tentarono altre discussioni, ma si
rivelarono solo buchi nell'acqua.
Costrinsero
le ragazze a restare con loro invece di rifugiarsi nelle loro stanze;
fu un'idea di Lillian. Alex si era seduta sulla poltrona accanto al
divano con le gambe incrociate, chattando con Maggie al cellulare. Di
tanto di tanto le si vedeva spuntare un sorriso, ma non durava a
lungo. Kara invece si era seduta sotto l'Albero e sfogliava un numero
del CatCo Magazine. Lena si stava intrattenendo con il suo laptop sul
divano.
«Vado
a prendere i cupcake, magari le risveglieranno»,
mormorò Eliza a un
orecchio di Lillian, per poi andare verso la cucina.
L'altra
invece si sporse verso di loro, reggendosi le mani con le dita
intrecciate. «Oggi è un giorno
speciale», catturò la loro
attenzione e continuò, «Fate di non
rovinarlo».
Si
guardarono tra loro un po' confuse, solo un attimo per poi tornare
ognuna ai propri passatempi. Alex guardò a lungo Lena, con
sfida, e
quest'ultima guardò Kara: immaginava il perché
doveva essere per le
sue. Kara, invece, guardò in direzione della cucina.
-
Quelle due stavano insieme da chissà quanto tempo. Forse da
quando
Kara smise di parlarmi dei continui flirt di Lena. Non ci posso
credere!
Scrisse
e inviò, ricevendo pronta risposta da Maggie:
-
Lo sapevi, Danvers.
-
Lo sapevo. Sai cosa? Hai ragione! Ho avuto dei dubbi, ma Kara avrebbe
dovuto parlarmene. E Lena mi ha mentito. Flirtava con mia sorella da
mesi, Mags, da mesi! Sono stata cieca per tutto questo tempo e l'ho
difesa da Kara, dicevo che era un gioco, che voleva solo
infastidirla… e invece ci ha provato davvero, ben sapendo
che era
la sua sorellastra. Che cos'ha di sbagliato?
-
Quindi stai dicendo che Lena ci ha provato con Kara per sfizio e che
Kara è cascata nelle sue avance? Pensi che tua sorella non
sappia
decidere per se stessa?
-
Non dico questo. Ma Kara è troppo buona e non sempre fa una
distingua sulle persone da frequentare: hai presente Mike Gand?
-
Ho capito cosa intendi. Ma tu hai sempre capito che tipo era Mike,
mentre invece ti sei fidata di Lena.
-
Ho sbagliato anch'io, è evidente. Devo capire
perché Lena non ha
ancora troncato questa cosa, se va avanti da tempo. Perché
sta con
Kara?
-
Ehi, Danvers, ti sei fermata a pensare che magari siano semplicemente
innamorate?
Alex
alzò lo sguardo dal cellulare con uno sbuffo, riguardando
Lena con
la coda dell'occhio. Vedeva chiaramente che, di tanto in tanto, si
fermava a inquadrare Kara.
Lena
ansimò. Sapeva che Alex le stava addosso e Kara non la
degnava di
attenzione. Chissà a cosa stava pensando in quel
momento…
Eliza
rientrò in soggiorno con il vassoio tra le mani e Kara si
alzò da
terra in tempo record. «I cupcake! Sì»,
esultò, «Sapevo che li
avresti fatti, era proprio a ciò a cui stavo
pensando». Ne prese
due ed Eliza l'ammonì subito di lasciarne per Lex,
dirigendosi verso
le altre due.
Alex
le fece subito i complimenti e ne prese uno, poi ci pensò:
«Conviene
che ne prenda uno anche per dopo. Sia mai che qualcuno finga che non
le piacciono per poi mangiarli di nascosto».
Lena
tese un'orecchia e quando Eliza si avvicinò le fece anche
lei i
complimenti. «Mi sono sempre piaciuti i cupcake»,
disse alla donna
con un sorriso, alzando la voce e prendendone uno,
«Probabilmente se
quel qualcuno li mangia di nascosto è perché non
è in una
situazione facile».
«Quindi
mi stai dicendo che è meglio fingere?»,
alzò la voce di nuovo,
«Nel non volere i cupcake e poi mangiarli?».
«No.
Dico che sarebbe meglio non giudicare per partito preso»,
diede un
morso e iniziò a masticare sfoggiando un sorriso.
«Chi mangia i
cupcake, intendo». Eliza si allontanò con una
strana espressione e
Lena guardò Alex, dando un altro morso, gustando lentamente.
«E
questo cupcake è buonissimo».
Alex
spalancò gli occhi e trattenne il fiato, intanto che Kara
intercettava il vassoio, prendendo un altro dolcetto.
«Kara…
Pensi stiano litigando usando i cupcake come metafora o qualcuno
mangia quotidianamente cupcake di nascosto?».
Lei
fissò Eliza con occhi sgranati e la bocca piena. Infine,
ingurgitò
sonoramente. «Ha-Hai notato anche tu il freddo,
oggi?», si fregò
un braccio con una mano, mentre l'altra teneva il mezzo cupcake che
le era rimasto, «Brr».
Alex
e Lena si fissarono assottigliando gli occhi quando Lillian
scattò
loro una foto per Instagram. «Formaggio»,
disse lei, scattandola anche a Eliza e Kara, di nuovo con la bocca
piena.
«Alex
e Lena stavano litigando», confidò Eliza a Lillian
una volta sole,
in cucina. Lena stava in soggiorno ancora al portatile, mentre Kara
ed Alex erano andate a cambiarsi per la cena di Natale. Tra poco
sarebbe arrivato Lex e loro avrebbero dovuto solo preoccuparsi di
enunciare la data del matrimonio, invece di pensare agli strani
comportamenti delle figlie.
«Quando?».
«Quando
ho portato i cupcake», prese fiato, reggendosi a un mobile e
passandosi una mano in fronte. «Non capisco cosa succede,
andavano
tutte d'accordo, era tutto perfetto…».
Lillian
la strinse in vita, appoggiandosi a lei. «Vedrai che
è momentaneo.
Qualsiasi cosa passi loro per la testa, non rovineranno questa
giornata, il nostro matrimonio né la nostra
famiglia».
Eliza
le sorrise e le circondò il viso con le mani, per poi
rubarle un
bacio. «Sai sempre la cosa giusta da dire».
«Perché
è la verità, mia cara».
Lillian
uscì dalla cucina con il solo intento di prendere Lena da
parte e
dirle chiaramente che qualsiasi problema avesse con Alex doveva
risolverlo in fretta, ma quando si affacciò al soggiorno non
c'era.
Kara
aprì la porta della sua camera che lei l'aspettava
lì, appoggiata
al muro. La vide sbarrare gli occhi e sorriderle, così le si
avvicinò, nel buio del corridoio.
«Sei
bellissima», sussurrò e Kara strinse le labbra,
arrossendo un poco:
la collana che le aveva regalato era ancora al suo collo, rifletteva
la luce dei lampioni fuori dalla finestra. Indossava un maglioncino a
righe bianco e rosso, allacciato sotto una gonna larga invernale;
sotto, delle grosse pantacalze e stivaletti con tacco. I capelli li
aveva sciolti. «Lisci», le disse, sfiorandole una
ciocca con le
dita, «Ti stanno bene».
«Non
so se togliere o lasciare gli occhiali», li sfilò
dal viso,
osservandoli, «Lillian farà un sacco di
foto».
Lena
circondò gli occhiali con una mano e dovette alzarsi in
punta di
piedi per prenderle le labbra con le proprie, lentamente. Kara chiuse
gli occhi e si assaporarono piano. Quando si allontanò, le
rimise
gli occhiali sul naso.
«Ci
vedranno», sussurrò Kara.
«Lascia
che lo facciano».
«Mi
hai mentito, oggi». Vide Lena abbassare lo sguardo quando
prese quel
discorso, ma doveva sapere che non avrebbe lasciato perdere.
«Alex
ed io ci siamo viste giorni fa, in un bar. Per donne gay»,
aggiunse
con un sorriso e Kara alzò le sopracciglia.
«Volevo incontrarla per
parlare dei Gand. Avevo paura ti saresti di nuovo fiondata a parlare
con loro, e pensavo che Alex ti avrebbe persuasa dal farlo».
«Non
sono un'inetta, posso badare a me stessa».
«Lo
so, ti chiedo scusa. Ho sbagliato». La guardò
dritta negli occhi e
Kara prese fiato, annuendo debolmente.
«Non
mentirmi più», le rubò un veloce bacio,
con la paura di essere
viste, e lasciò il corridoio.
Lena
la seguì proprio quando la porta della camera di Alex si
aprì e le
due si scambiarono uno sguardo. Naturalmente, aveva sentito tutto. A
quel punto, sarebbe stato meglio per Lena dire la verità a
Kara,
soprattutto dal momento che si era risentita perché aveva
intuito la
bugia, invece aveva protetto il suo segreto, il suo vero lavoro e la
microspia, il vero motivo per cui si erano viste. Alex si chiese
perché l'aveva protetta, con il rischio che correva.
Dopo
pochi minuti arrivò finalmente Lex, lamentando, seppur con
un
sorriso, che il taxi si era perso. Lillian lo abbracciò e
poi lo
abbracciò Eliza, mentre la prima scattava loro una foto.
Cercarono
di presentarlo a Kara ma quando anche loro si salutarono con un
veloce abbraccio, capirono che non tutto era perduto per la loro
famiglia allargata.
Era
strano vedere Lillian, che si muoveva come un robot, che spesso non
ascoltava, che era fredda e indisposta verso Lena, completamente
presa dal suo primogenito. In dieci minuti che era arrivato gli
scattò tante foto da riempire un album e gli ronzava attorno
chiedendogli se avesse bisogno di qualsiasi cosa come un'ape intorno
ai fiori. Quando riuscì a scappare dalle amorevoli cure
della madre,
Lex notò la strana aria che aleggiava sulle sue tre sorelle
e
nientedimeno lo sguardo aggrottato che Alex riservava a Lena e anche
a lui.
Per
la cena, Eliza accese di nuovo la tv con il karaoke e le canzoni
natalizie, scegliendo con attenzione tra quelle che lei stessa aveva
selezionato nei giorni precedenti aspettando il Natale. Poi
servì
con fierezza il tacchino a tavola, ascoltando i complimenti da parte
di tutti, che applaudirono.
A
un certo punto, Lillian si alzò e fece tintinnare un
bicchiere,
catturando l'attenzione dei presenti. «Oh…
Finalmente, eccoci qua.
Stentavo oramai a credere che ci saremmo ritrovati tutti sotto lo
stesso tetto. I miei figli, le figlie di Eliza. Siamo una bella
famiglia, non trovate?».
Kara
deglutì e sforzò un sorriso, guardando, con la
coda dell'occhio,
Alex che masticava rumorosamente fissando Lena e quest'ultima, vicino
a lei, che non la degnava di attenzione, lanciando invece un sorriso
a lei, che non poté non arrossire. Si girò il
tanto per vedere Lex,
che la guardava a sua volta, alzare un poco il bicchiere anticipando
un brindisi.
«Eliza
ed io siamo così fortunate ad avervi. E non posso esprimere
a parole
quanto mi senta fortunata io ad avere Eliza al mio fianco».
Abbassò
gli occhi per vederla sorridere e stringerle una mano con le sue.
«Siamo orgogliose di come abbiate accettato il nostro
fidanzamento e
la nostra nuova vita. Questa è la nostra prima cena tutti
insieme,
il nostro primo Natale, e dobbiamo comunicare qualcosa di
importante».
Allora
si alzò anche Eliza e lo sguardo stravolto di Alex si
incrociò con
quello di Kara. «Abbiamo una data», disse lei
sfoggiando un largo
sorriso, stringendo ancora la mano destra di Lillian. Era
così
visibilmente elettrizzata che Kara non riuscì a non
sorridere a sua
volta. Le due donne si guardarono e mentre Lillian le faceva cenno
con la testa, Eliza riprese parola: «Ci sposeremo il quindici
marzo».
Lex
fu il primo ad andare dalle loro madri per abbracciarle e fare loro
gli auguri. Non solo Lillian, Eliza lo strinse con forza e Alex le
notò gli occhi lucidi. Così fu la seconda ad
andare verso di loro.
Lena abbracciò Eliza per prima, le fece gli auguri e si
guardarono
con un sorriso, poi si costrinse ad abbracciare anche Lillian, che le
lasciò un lungo sguardo addosso anche quando si separarono.
«Sono
contenta per voi», esclamò Kara ad Eliza,
«Ti meriti questa
felicità».
«Oh,
tesoro», la riabbracciò una seconda volta.
«Anche tu», le disse
con una carezza e un sorriso, per poi lasciarla andare.
Kara
non ebbe il tempo di capire a cosa si riferisse che arrivò
Lillian.
L'abbraccio con lei era il meno strano e legnoso fino a quel momento.
Dopo la prese nelle spalle e fu sul punto di dire qualcosa, ma doveva
aver cambiato idea, poiché si limitò a sfoggiarle
un sorriso.
Nonostante
Alex fosse ancora arrabbiata con Lena e con Lex, e probabilmente con
Kara, condividere quel momento con le loro madri aveva fatto
sciogliere anche lei. Eliza portò a tavola i cupcake
rimasti, una
torta farcita ai mirtilli e altri dolci e biscotti, intanto che
Lillian scattava foto alle portate e a tutti i presenti, tra chi
ancora indossava i cappellini da Babbo Natale e chi aveva la bocca
piena. O entrambi, nel caso di Kara. Quando portò a tavola
gli
eggnog e ne presero uno a testa, Alex e Lena iniziarono una strana
sfida tra sguardi e bicchieri, bevendo tanto e in fretta che Eliza si
vide costretta a requisire quelli rimasti prima che concludessero la
serata entrambe brille. Nel frattempo Lillian continuò a
rimpinzare
l'unico figlio maschio; dopo un po', il giovane approfittò
di una
sua distrazione per sparire. Lex uscì in giardino dalla
porta in
cucina, con il giaccone indosso e il cellulare in mano.
Rimasto
in villa dopo aver salutato Lena e Kara, aveva provato a contattare
quella ragazza in ogni modo, lasciandole messaggi, chiamate e andando
anche a trovare vecchi amici in comune che avessero potuto sentirla
in quel periodo, ma sembrava scomparsa nel nulla. A quel punto,
decise di chiamarla ancora e, se non avesse risposto, lasciarle un
ennesimo messaggio in segreteria. Cliccò su Roulette
e provò a telefonare. Ancora solo squilli a vuoto.
«Veronica…
Sono stato paziente, ma a tutto c'è un limite. Richiamami
appena
senti il messaggio», prese una pausa ma non
riattaccò, valutando
cosa aggiungere. Così deglutì e prese fiato,
aggrottando lo
sguardo. «Sentimi bene: la formula che hai rubato non
è aggiornata,
non capisco cosa pensi di farci, contiene troppi effetti collaterali
e nemmeno potresti venderla. Torna da me… Torna prima che mi
arrabbi sul serio o… o almeno fatti sentire, altrimenti
dovrai
sperare che non sia io a trovarti». Riagganciò la
chiamata che
sentì la porta del giardino aprirsi.
Alex
camminò sull'erba incolta e ghiacciata con sicurezza,
adocchiando
Lex, cappellino da Babbo Natale sulla testa calva, illuminato dai
lampioni della luce. «Scappato dalle amorevoli cure della
mamma?»,
tirò un sorriso, avvicinandosi.
«In
parte. In verità mi sono ritrovato a dover fare una
telefonata.
Allora…», la guardò negli occhi,
«e così lo hai saputo».
«Hai
cercato di deviarmi. Pensavo che mi avresti detto la verità,
almeno
tu». Lui per primo, nella sua casa a Metropolis quando si
conobbero,
scherzò su Lena che ci provava con Kara. Allora non ci aveva
dato
peso, ma proprio per quello quando iniziò ad avere dubbi
scrisse a
lui che non fece che appoggiarla, dirle che di certo non si inventava
le cose perché sembrava possibile anche a lui, e ora, quando
le
serviva la sua conferma, le aveva invece scritto di non preoccuparsi,
che era tutto normale.
«Non
ho cercato di allontanarti dalla verità e mi spiace che tu
la veda
in questo modo», sorrise, alzando un poco le braccia.
«Mia sorella
e tua sorella hanno una relazione e non c'è nulla di cui tu
debba
preoccuparti».
Lei
annuì. «Molto comodo vederla
così».
«Sapevamo
entrambi che era vero, ma ti ostinavi a non volerlo. Cosa non ti
piace, di tutta questa faccenda, Alex Danvers?», chiese con
una
nuvoletta di vapore che usciva in mezzo alle labbra fini.
«Scherzi,
vero? Secondo te cosa può esserci che non mi piace? C'eri
anche tu
là dentro quando le nostre madri hanno detto che si
sposeranno il
quindici di marzo».
«No»,
scosse la testa, «Non è questo che ti turba e lo
sai. Sei troppo
intelligente per credere che il fatto che siano sorellastre possa in
qualche modo compromettere il rapporto di due persone che si
amano».
La vide ingigantire gli occhi e prendere fiato, così
sorrise. «Ecco.
Ecco cosa c'è», la indicò,
«Non credi si amino».
«No.
Io credo che Kara la ami, la ami davvero. Ma non è quel tipo
di
amore… È stata per anni appresso a un ragazzo che
non faceva che
sminuirla, condurre la sua vita, confonderla psicologicamente con
l'idea di amore, e lei lo amava, amava veramente».
«Quindi
pensi che sia Lena e non amare Kara», assottigliò
lo sguardo.
«Sì.
Forse è così», spalancò le
braccia, come se si fosse messa a
nudo. «Non voglio vederla di nuovo all'interno di una
relazione che
la trasformerà in un burattino. Ho sbagliato allora a non
mettermi
abbastanza in mezzo, non farò di nuovo lo stesso errore.
Senza
contare che qui c'è di mezzo il rapporto
familiare», gesticolò
puntando il dito indice destro nell'aria.
«Cosa
ti fa pensare che Lena non la ami?».
«Oh»,
sbuffò, lanciando il suo sguardo al cielo stellato, poi di
nuovo a
lui. «Mettiamo che la ami. Questo non basta. Anche Mike a
modo suo
l'amava, anche se la stava distruggendo. Non basta farle dei regali o
dirle due parole carine, non basta».
«Hai
ragione», il ragazzo annuì, infilando le mani
nelle tasche del
giaccone. «Allora parla con loro. È il mio unico
consiglio. Conosco
mia sorella e credimi se ti dico che non l'ho mai vista
così: è
innamorata. Ma hai ragione: l'amore non basta. Allora parla con loro,
scopri cosa le lega, e forse troverai ciò che cerchi. Del
resto io
non sono mai stato innamorato, non posso sapere cosa
cercare»,
scrollò le spalle con mezzo sorriso e aprì la
porta che portava in
cucina, lasciandola sola al freddo.
All'inizio,
pareva solo che Lena, ai suoi occhi, stesse prendendo in giro Kara. E
forse era davvero così. Non sapeva com'erano davvero andate
le cose.
Ma l'ultima cosa che voleva, era ritrovare la sua sorellina
incastrata in una relazione tossica e non accorgersi di quanto lo
fosse per decidere da sola di uscirne. Lena le era sempre sembrata
una brava ragazza, ma poteva dire di conoscerla abbastanza? In fondo,
di lei non sapeva neppure che era stata con altre ragazze fino a
quella sera al bar gay. Lei e Kara, però, si erano
avvicinate di
più, si conoscevano meglio. Quando rientrò, le
trovò sedute
accanto che ridevano e pensò che avrebbe dovuto accettare il
consiglio di Lex.
«Foto
di famiglia», disse a un certo punto Lillian, cercando di
coinvolgere i figli ad avvicinarsi all'Albero di Natale.
Eliza
la affiancò subito. «Le più belle le
stamperemo per
incorniciarle», fece sapere, prendendo Lex per un braccio e
poi
Kara, cercando di sistemare tutti e quattro vicini.
Una
con loro quattro insieme, un'altra con diverse posizioni, una sola
con le ragazze, una con Lex e Lena, un'altra con Alex e Kara, poi si
scambiarono. Ritrovandosi a fare la foto con Kara, Lex non non
poté
fare a meno di pensare a quanto, in un certo senso, gli ricordasse
Clark. Non era di certo l'aspetto, anche se avevano gli occhi dello
stesso colore e forma, ma era l'aria, qualcosa che non era possibile
descrivere. Ma era grato che non gli somigliasse troppo e
già
adorava il suo sorriso: non faticava a credere come Lena si fosse
potuta innamorata di lei.
Mentre
Lillian controllava le foto scattate e cancellava quelle venute
sfocate o troppo mosse, Eliza portò i regali. Non se li
aspettavano
e rimasero tutti a bocca aperta. «Non li abbiamo messi sotto
l'Albero per farvi una sorpresa», si scusò.
Ognuno
di loro trovò abbigliamento: Lex un completo e una camicia
bianca
che avrebbe potuto usare al lavoro; Alex una giacca di pelle firmata,
bordeaux, e per poco non le veniva un colpo; Lena un maglione grosso,
caldo e colorato; Kara una camicia a quadri come piacevano a lei.
Quest'ultima si avvicinò ad Eliza per ringraziarla,
accorgendosi che
Lena l'aveva preceduta: la donna le passava una mano su un braccio in
una carezza, le parlava sottovoce e poi, di colpo, la ragazza
l'abbracciò. Solo quando si lasciarono scorse che Lena aveva
gli
occhi chiari tanto lucidi da riflettere le luci dell'Albero.
«Grazie
per la camicia», l'abbracciò lei, annuendo quando
le chiese se era
come la voleva.
«Dovrai
ringraziare anche Lillian», disse e Kara la scorse mentre
parlava
con Lex. «Non sai quanti negozi abbiamo girato
perché non voleva
comprarne una che
sapesse di mercatino,
come diceva lei».
Anche
Alex arrivò per ringraziarla, tutta eccitata, con la giacca
già
indosso. «E voi non vi siete fatte un regalo?».
«Oh,
certo», sorrise assottigliando la bocca e alzando il mento
con fare
malizioso, «Ma ce li siamo già
scambiati».
All'improvviso,
il ricordo delle loro voci strozzate mentre salivano per la loro
camera da letto in villa, fece rabbrividire Kara. Sia lei che Alex
montarono una smorfia disgustata. «Oh, ew»,
sbottarono all'unisono e la minore guardò la maggiore con
sospetto.
«Ma
cosa avete capito?!», diede una piccola spinta a entrambe,
«E
comunque non parlerei di sicuro di queste cose con le mie
figlie».
Le mandò via.
Alla
fine, quel loro primo Natale tutti insieme non si stava rivelando
affatto male come si pronosticava. Continuarono con le foto dopo che
Lena tornò dalla sua camera in comune con Kara ed essersi
infilata
il nuovo maglione. Nella loro foto insieme si accorsero che non
sapevano come mettersi, continuando a sorridersi intanto che Lillian
aspettava, tutti aspettavano. Alex intervenne e le dispose,
così la
foto riuscì.
Lillian
ricontrollò quella foto con insistenza dopo averla scattata,
tenendo
ben impresso nella mente l'impaccio dei loro sguardi per trovare un
modo per stare vicine. Pensò che forse Kara doveva aver
detto a Lena
della loro chiacchierata privata, non c'erano altre spiegazioni, ma
quando lasciò a un mobile e all'autoscatto il compito di
fare una
foto a tutta la famiglia riunita e poi la guardò, il suo
sorriso si
spense.
Eliza
tentò di capire che cosa a un certo punto le avesse rubato
il buon
umore, ma non c'era stato verso di farla aprire. A parte lei, tutti
parlarono del più e del meno sgranocchiando gli avanzi, poi
le donne
se ne andarono a dormire e Lex decise di raggiungere la camera di
Alex che per quella notte sarebbe stata sua, dopo che lo avevano
convinto a restare. Così le tre ragazze sistemarono una
branda in
mezzo alla stanza e a nulla era valso il tentativo di Lena di
convincere Alex a dormire sul suo vecchio letto. Kara pensò
che
avrebbe potuto far dormire Lena con lei com'era già
successo, ma non
osò dirlo a voce e già sapevano entrambe che per
quella notte
avrebbero dovuto portare pazienza. Lena tornò in soggiorno
quando si
accorse di aver lasciato lì il suo laptop e Alex scorse Kara
prendere un pacchetto dalla sua scrivania, nasconderlo dietro la
schiena e raggiungerla.
Lex
cominciò a spogliarsi; era esausto e voleva addormentarsi
presto. Si
sedette sul letto a peso morto e con stanchezza diede una nuova
occhiata allo schermo del suo cellulare, sbuffando quando si rese
conto che lei lo stava ancora ignorando. Arrivata a tanto,
pensò se
non fosse il caso di darle un ultimatum. Spense lo schermo e si tolse
le scarpe, quando una melodica suoneria si alzò nell'aria e
riprendendo il telefono decise di alzarsi in piedi e rispondere.
«Avevo come il presentimento che avresti cercato di far
perdere le
tue tracce. Cosa ti ha fatto cambiare idea?».
Quella
ragazza rise. «Non
posso scappare da te, Lex. Lo sai. Neanche volendo. Buon Natale, a
proposito».
«Buon
Natale, suppongo…», si portò la mano
libera sulla fronte,
cercando di bloccare il nervoso crescente. «Parlami della mia
formula. Delle mie pillole. E smettila di giocare».
Roulette
ci mise qualche secondo per rispondere. «Mi
dispiace, tesoro, sai quanto tengo a te, ma anche quanto tengo di
più
ai soldi e qualcuno mi ha offerto una somma considerevole…
Sono
affari, non volermene».
«A
chi le hai vendute?».
«Frena,
amore, non mi conosci abbastanza se pensi che te lo dirò. Ti
basti
sapere che lui mi ha dato più di quanto tu abbia mai
fatto…»,
prese una pausa e Lex poté sentirla quasi sogghignare, «Il
riferimento sessuale è voluto».
«Dannazione,
Veronica, è la mia formula! E ancora acerba; cosa mai
potrebbe
farsene qualcuno di una formula che presenta danni collate-»,
si
fermò, spalancando gli occhi.
«Il
compratore ha una visione più ampia della tua»,
riprese parola, «Vuole
studiarla da quel punto e iniziare un nuovo progetto. Insomma,
è lui
il cervellone, saprà il fatto suo. E, tesoro, te lo dico
perché
davvero mi dispiace: la formula era libera, non ha proprietari
fintanto che non è registrata; avresti dovuto pensarci e
forse le
cose sarebbero andate in modo diverso. Buonanotte, Lex».
«Veronica,
non-». Riattaccò la chiamata e Lex strinse il
cellulare con forza,
formando dei pugni e colpendo il lettino.
Intanto,
nel buio del soggiorno contrastato solo dalle luci ad intermittenza
dell'Albero di Natale, Lena si era seduta sul divano col laptop sulle
gambe, leggendo e rileggendo il messaggio del profilo misterioso.
«Avevamo
deciso di chiedere un parere ad Alex», esclamò
Kara dietro di lei,
affacciandosi dallo schienale. «Adesso mi chiedo se
vorrà ancora
aiutarci».
«Sì
che vorrà aiutarci», rispose lei con sicurezza,
dopo essersi
toccata il petto per il piccolo spavento preso. «Non
cambierà
nulla. Alex è solo preoccupata per te, pensa che io sia una
minaccia
alla tua incolumità, non ha a che fare con
questo».
Le
piaceva quando parlava senza mostrare il minimo dubbio. Le
andò
incontro, prese il laptop e lo spostò sul tavolino,
abbassando lo
schermo. Lena la lasciò fare anche quando le prese una mano
e la
tirò su, da lei, verso l'Albero.
«Che
cosa hai in mente, Kara Danvers?».
Lei
si strinse nelle spalle. «Nulla di eccezionale in
realtà, solo
darti il mio regalo».
«Pensavo
non avessi un regalo».
«Non
lo avevo con
me»,
specificò con un sorriso. Prese la scatolina che aveva
nascosto in
uno dei rami con silenzio furtivo quando lei era sul divano e gliela
mostrò, lasciandogliela sui palmi delle mani. Lena
restò a fissarla
senza fare o fiatare fintanto che non la sentì ridere,
così tirò
un nastrino rosso intorno al pacchetto e dopo tolse la carta adornata
di Babbi Natale e renne, sorridendo nello scoprire una scatola
argentata. Fu Kara ad aprirgliela come aveva fatto lei quando le
aveva regalato la collana, mostrandole all'interno un fine
braccialetto color argento, semiridigo sui cui era agganciato un
piccolo ciondolo a forma di cuore, pieno. «Non è
che niente di che,
pensavo che avrei potuto regalarti qualcosa per-», non
terminò la
frase che la ragazza le passò una mano sul viso e la
baciò.
«Grazie»,
le sorrise.
Kara
le notò gli occhi lucidi, le gote arrossate; era
così pura, bella.
Le portò via anche lei un bacio, per poi aiutarla ad
agganciare il
bracciale intorno al polso sinistro. Un attimo di distrazione e
capì
che non erano sole, ma voltandosi, fortunatamente, vide che era solo
Alex.
La
maggiore si avvicinò quasi in punta di piedi e
chissà da quanto
tempo era là che le spiava. «Scusate»,
mormorò, alzando le mani
in segno di resa, «Non volevo interrompervi».
Kara
guardò in basso, da un lato, visibilmente seccata.
«Guarda in
cucina, forse un cupcake è rimasto».
Alex
annuì, capendo di esserselo meritato. Si
avvicinò, dondolando le
braccia per poi passarsi le mani addosso e prendere fiato.
«Vi devo
delle scuse», deglutì, guardando una e subito
l'altra. Lena la
stava ascoltando mentre giocava a girare il suo nuovo bracciale, e
Kara alzò gli occhi azzurri lentamente, dandole attenzione.
«Mi
sono resa conto di essere partita in quarta senza riflettere, non ci
ho visto, e non è giusto nei vostri confronti».
«Dunque…»,
mormorò Kara.
«Non
sono qui per benedire la vostra unione, datemi il tempo di
metabolizzare la cosa, ma voglio dirvi che sono dalla vostra
parte»,
rispose e dopo si rivolse alla minore, «Sarò
sempre dalla tua
parte, sorellina». Kara si avvicinò per
abbracciarla e Alex la
strinse, così lei e Lena si scambiarono uno sguardo che non
aveva
bisogno di parole, sorridendosi con gli occhi e facendo un breve
cenno col capo. «Solo… voglio dirvi di essere
sincere con loro»,
ricordò alle due, quando Kara la lasciò andare.
«Uscite allo
scoperto con Eliza e Lillian, in modo che possiate spiegarvi. Se lo
scoprono da sole chissà cosa penseranno. Non lasciate che lo
scoprano come l'ho scoperto io».
«Pensavano
di farlo dopo Natale», ricordò Lena e Alex
annuì, mettendo le
braccia contro i fianchi.
«Va
bene, ottimo. Se aveste bisogno di supporto psicologico, vi
darò una
mano».
Kara
scambiò un veloce sguardo con Lena e poi strinse i denti,
formando
una smorfia. «Un aiuto ci servirebbe… anche se non
con questo».
Alex
fece finta di leggerlo per la prima volta quando le due le mostrarono
il messaggio del profilo misterioso sul portatile di Lena. Lei e
quest'ultima si scambiarono un'occhiata, mentre Kara chiese alla
sorella da che parte stava, se fosse per ignorare il messaggio come
diceva lei oppure rispondere, com'era convinta di fare Lena.
«Non
possiamo ignorarlo», decise e la sorella si
accigliò. «Ma ha
ragione anche Kara nel dire che è troppo pericoloso.
Propongo un
test».
Un
test? Con il laptop sul tavolino, si sistemarono davanti, sul divano.
Al centro delle tre, Lena cliccò sull'area messaggi nera e
sospirò,
iniziando a digitare la risposta.
Z:
Sono io. Vorrei potermi fidare, ma non ho prove che tu dica il vero.
Incredibilmente,
il profilo misterioso rispose solo pochi minuti più tardi,
nonostante fosse il venticinque dicembre.
X:
La fiducia va guadagnata. Chiedimi qualsiasi cosa.
Le
ragazze si guardarono e Alex annuì: il profilo misterioso le
avrebbe
aiutate a risolvere una situazione in cui erano in stallo?
Z:
Ho un problema con Rhea Gand, la moglie del senatore Gand; immagino
saprai chi sia, non dovrò fare le presentazioni. Mi serve
un'informazione: quella donna sembra avere tutto, ma mi serve
qualcosa che le manca, che desidera. Puoi aiutarmi?
«Stai
bene?». Eliza si avvicinò dal lato del letto di
Lillian, baciandola
in mezzo alle scapole, tra i capelli sciolti. La donna pareva ancora
indisposta e non capì davvero cosa le fosse preso.
«Sì,
sono solo un po' stanca».
Eliza
la baciò ancora e chiuse gli occhi nel tentativo di prendere
sonno.
Lillian, invece, non ci riusciva. Si sporse a lato del comodino per
recuperare il suo cellulare e sfogliò la galleria,
ritrovando subito
le foto di quella sera. Il cellulare aveva scattato diverse volte il
momento in cui c'era tutta la famiglia al completo e ancora meglio
riusciva a notare gli sguardi di sua figlia e Kara cercarsi, le loro
mani sfiorarsi, fingere che tra loro ci fosse solo amicizia. Lillian
trattenne il fiato e chiuse la galleria, allontanando il telefono. Si
era confidata con Kara e lei le aveva mentito: avevano una relazione
ed era successo davanti ai loro occhi. A quel punto, ne avrebbe
parlato con Lena.
X:
Posso essere d'aiuto.
Ci
mise un po' a rispondere, forse ci stava pensando o stava facendo una
ricerca di chissà cosa o parlando con chissà chi.
Le ragazze non si
mossero, tenendo d'occhio un cerchio in basso a destra che girava,
segno che il profilo misterioso stava ancora scrivendo.
X:
C'è qualcosa che Rhea Gand vuole ardentemente: si tratta di
un
quadro antico, facente parte di una collezione. Lo ha perso in una
scommessa molti anni fa. Una scommessa persa con Maxwell Lord. Il
quadro è tuttora in suo possesso, affisso nel suo ufficio
alla Lord
Technologies. Scrivimi se avrò guadagnato la tua fiducia.
Allegò
una foto recapitata online del quadro e Kara trattenne il fiato.
«Ho
capito», esclamò, indicandolo. «Ha altri
quadri simili a questo,
con su disegnati dei fiori! Sono su una parete del suo salone, li ho
visti spesso quando con Mike-», si zittì,
arrossendo e poi
grattandosi dietro un orecchio, fingendo disinvoltura; «Beh,
sì,
q-quando stavo con Mike», aggiunse velocemente.
Sia
Lena che Alex finsero di non aver sentito e la seconda
annuì,
guardando entrambe: «Ora sappiamo su cosa lavorare: otteniamo
quel
quadro, sistemiamo la microspia e facciamo in modo che Rhea Gand lo
appenda nel suo salone».
Uh,
ora sanno come andare avanti! Il profilo misterioso sarà
stato
d'aiuto? Come otterranno quel quadretto e come faranno a darlo
modificato a Rhea?
Ecco.
Intanto, finalmente, sia Alex che Lex sanno della relazione tra Kara
e Lena. Cosa ne pensate delle loro reazioni? Ve le aspettavate? So
che la maggior parte di voi, se non tutti, si aspettavano maggior
supporto da Alex, ma dopo aver visto Kara con Mike e non avendo avuto
modo di conoscere la relazione tra lei e Lena, affidandosi solo ai
flirt “scherzosi”, è saltata a
conclusioni diciamo affrettate.
Diverso il discorso con Lex perché Lena, con lui, aveva
parlato di
una relazione anche se non aveva specificato con chi, e poi parlando
di Kara… beh, aveva fatto due più due.
Nientepopodimeno, Alex
scriveva a Lex nello scorso capitolo e a quanto pare si erano
già
scambiato messaggi in precedenza. Dopotutto, già loro si
erano
conosciuti.
Alex
vs Lena… Brr, che freddo.
E
poi cosa? Ah, Lex ha un problemino. Sappiamo che ha avuto una
relazione con Roulette, ohu, che Lena non ha preso
benissimo.
E, soprattutto, che Roulette ha rubato a Lex una formula e un
sacchettino delle sue pillole verdi. Pensavate che la cosa sarebbe
rimasta lì, ferma nel capitolo stand alone scorso? Nah XD A
chi avrà
venduto Roulette quelle pillole e la formula? Cosa vorrà
farci il
compratore?
Ah,
e un'altra cosa: dalle foto scattate in questo giorno di festa,
Lillian ha scoperto che le loro figlie stanno insieme! Ops.
Il
prossimo capitolo, che arriverà il primo ottobre,
sarà uno stand
alone! Accidentaccio XD Spero piacerà lo stesso
e… indovinate di
chi si parlerà? Il titolo è Inadeguato!
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Capitolo 28 *** 27. Inadeguato ***
Era
nato in una tiepida mattina di marzo. Un figlio voluto, in special
modo da sua madre: una giovane intelligente, bella e ambiziosa che
aveva conquistato il posto accanto all'erede dei Luthor. Si diceva
che nonostante Lillian non fosse nata in una famiglia ricca, avesse
l'aristocrazia nell'animo e che fosse stata una di queste cose a
toccare il cuore di Lionel Luthor ai tempi. Si somigliavano, andavano
d'accordo, e che ci fosse amore o meno, come dicevano le malelingue,
i due erano stati destinati. Così com'era destinato a una
vita di
successi il loro bimbo, che avevano chiamato Alexander.
Lex
Luthor era un bambino attento, silenzioso e timido. Prima di
frequentare una scuola privata sapeva già parlare tre
lingue,
risolvere espressioni matematiche da liceo e suonare due
strumenti. I suoi genitori lo avevano preparato a tutto, aveva avuto
gli insegnanti privati migliori che lo avevano seguito passo per
passo per essere il migliore, e lo era, ma se c'era una cosa per cui
non era stato preparato, quello erano i rapporti sociali. Era entrato
a scuola con l'unico scopo di spiccare, ma il suo diventare il
migliore della classe e il ragazzino più lodato degli
insegnanti lo
aveva reso anche il più odiato della scuola. La sua era una
scuola
prestigiosa, non esistevano piantagrane e ognuno di quei ragazzi
voleva emergere, Lex Luthor aveva sbaragliato la concorrenza e lo
avevano preso di mira per questo. Aveva passato il primo anno di
medie a mangiare da solo in un angolo, a doversi aspettare qualche
colpo da chi gli passava vicino, di essere scambiato per la porta
quando giocavano a pallone, perfino dai suoi stessi compagni di
squadra, e di essere picchiato alla fine delle lezioni. Tutti lo
conoscevano, tutti parlavano di lui, tutti lo odiavano;
perché se
non lo odiavano, allora finivano per essere emarginati anche loro.
«Cos'hai
lì?», gli aveva chiesto suo padre un giorno.
L'autista era andato a
prenderlo a scuola e una volta in villa lo aveva guardato un solo
attimo, ma quel solo attimo era stato sufficiente. Si era avvicinato
e gli aveva toccato il viso tastando appena, come avrebbe fatto con
qualcosa di troppo fragile, l'occhio destro tumefatto.
Li
aveva sentiti parlare di quello, la sera a seguire, quando pensavano
che ormai dormisse da un pezzo. Sua madre aveva singhiozzato come non
l'aveva mai sentita, come non pensava neppure ne fosse capace. Poi
l'aveva sentita starnazzare parole d'odio, come invece sapeva che
riusciva a fare benissimo.
«Voglio
andare a parlare con la scuola, ci siamo capiti? Non si devono
nemmeno lontanamente permettere di toccarlo. Incivili piccoli
bastardi. Non sanno contro chi si sono messi».
Suo
padre non era sembrato della stessa opinione. «Siamo stati
ragazzi
anche noi, Lillian, te lo ricorderai. Se andiamo a parlare con la
scuola, sarà preso ancora più di mira».
«È
un bambino, Lionel. Tu lo vedi come un ragazzo, ma ha appena compiuto
undici anni. È timido, non sa socializzare. Se
vedrà che i suoi
genitori sono dalla sua parte, magari…».
«Non
sa socializzare perché ha passato i suoi undici anni a casa
invece
di frequentare la scuola con i coetanei fin da bambino. Ma tu eri
contraria».
«Non
osare dare a me la colpa di quanto sta succedendo! Lex ha ricevuto la
migliore istruzione proprio perché non doveva dipendere da
un
istituto che lo avrebbe distratto con giochi da bambini. E tu non hai
obiettato, mi pare. Certo, se fossi stato più presente
durante
questi anni invece di andarti a divertire altrove, e ti saresti preso
cura di nostro figlio…».
«Ci
sono sempre stato per nostro figlio». Suo padre aveva
lasciato la
stanza e sceso le scale per il salone con passo svelto, chiudendo
lì
la discussione. Si stavano separando, allora ne era già
certo.
L'accusa di sua madre era fondata: Lionel Luthor era ancora
più
assente e aveva iniziato a trattarlo da adulto dai nove anni; e i
giochi con lui erano spariti, erano sparite le favole, erano sparite
le colazioni a base di pancake cucinati da lui. Era quasi sparito lui
dalla sua vita.
La
mattina seguente a quella discussione, l'uomo lo aveva preso da parte
prima che l'autista lo avrebbe accompagnato a scuola, decidendo di
dire al figlio qualcosa che, da lì in avanti, lo avrebbe
accompagnato durante la sua vita.
«Non
puoi farti mettere i piedi in testa. Reagisci ora o continueranno a
farlo per tutta la tua vita. Non gli stessi ragazzi, ma gli stessi
sentimenti, gli stessi motivi. Sapranno che con te potranno
prendersela sempre, come se potessero annusare la tua paura. Ti
perseguiteranno».
«Ma
loro sono più grossi di me».
«Saranno
sempre più grossi, Lex», gli aveva stretto le
spalle piccole e
gracili. «Ma tu sei un Luthor, sei intelligente e capace. Se
non
puoi batterli in un modo, trova un altro per farlo. Trova il tuo
modo».
Spinto
da quelle parole aveva provato a reagire, sferrando un pugno. Dopo
avevano dovuto portarlo in infermeria e chiamare la sua famiglia,
perché lo avevano picchiato più forte. Suo padre
non lo aveva
neppure guardato al rientro, mentre l'autista li riportava a casa.
Era rimasto così deluso.
Alla
fine dell'anno scolastico si era sentito sollevato e pronto per
ricominciare. Nuovo anno, nuove conoscenze. Si sbagliava: i primi
mesi erano la calma che precedeva la tempesta, capendo quanto mai
prima che ciò che gli aveva detto suo padre era vero e che
ci
sarebbe sempre stato qualcuno pronto ad assoggettarlo. Quei colpi e
quelle offese lo stavano lentamente distruggendo. Si sentiva debole,
non voleva più andare a scuola e si sforzava di farlo solo
per non
deludere ulteriormente suo padre perché, anche se lo sentiva
distante, Lex non aveva mai smesso di cercare la sua approvazione. Si
sentiva solo, e vuoto.
Finché
una mattina qualcosa gli frullò per la testa. Doveva
comprare un
nuovo spartito per il piano, così aveva portato a scuola i
soldi da
casa e, dopo aver visto un bulletto prendere i soldi da un altro
bambino, una scintilla era passata per la sua testolina: invece di
dare i soldi ai bulli che lo tormentavano, avrebbe pagato uno di loro
per essere protetto. A cosa serviva sapersi difendere se qualcuno
avrebbe incassato i colpi al posto suo, seppure per soldi? Luis era
un ragazzino di prima media ma grosso almeno due volte lui. Quelli
del suo anno gli stavano ben alla larga: era bastato fargli fiutare
l'offerta di essere pagato un tanto al giorno per metterlo dalla sua
parte. Il tanto al giorno era diventato un tanto alla settimana, poi
al mese; Luis era stato il primo, e poi altri si erano uniti a lui.
Sua madre si era arrabbiata perché comprava meno spartiti di
quanti
ne comperasse prima, ma non gli importava: finalmente riusciva ad
andare a scuola sereno. I bulli che lo tormentavano a scuola erano
spariti, diventati agnellini pronti al macello. Durante la seconda
media, Lex Luthor era diventato il capo. Eppure, se pensava, o almeno
all'inizio, che diventare il boss della scuola avrebbe risolto tutto,
avrebbe presto scoperto che si sbagliava. Quando i bambini della
scuola diedero una festa, scoprì solo il giorno dopo di non
essere
stato invitato.
Ora
era temuto, forse era il più ricco, e non era di certo
più una
vittima, ma era rimasto solo.
«Non
la voglio qui!», sua madre aveva gridato dalla loro camera da
letto.
Lex
aveva da poco compiuto tredici anni e, come al solito, si ritrovava
ad ascoltare le conversazioni private che non erano affatto private
di sua madre e suo padre. Stavolta aveva centrato il tema del
discorso prima ancora di sentirli iniziare a parlare: l'amante di suo
padre era scomparsa tragicamente e lui era rimasto l'unico tutore in
vita della figlia che aveva avuto con quella donna. Suo padre voleva
portarla a casa, ma Lex sapeva che non sarebbe mai successo
poiché
sua madre era contraria e, se sua madre era contraria, allora non se
ne faceva niente come al solito.
«Non
capisci che andrà a finire in un istituto se non la portiamo
qui?».
«Cosa
vuoi che me importi? Dimmelo, Lionel. Non capisco perché
dovrebbe
interessarmi. L'hai avuta con la tua amante: è morta? Sua
figlia non
è un mio problema».
La
faceva facile, aveva pensato il ragazzino. Lex aveva poi scrollato le
spalle e si era coperto meglio col lenzuolo, cercando di trovare di
nuovo concentrazione per leggere una
seconda volta
L'isola
del Tesoro,
che si stava portando dietro da troppi giorni, ormai.
«È
una Luthor, Lillian».
A
quelle parole era seguito uno strano silenzio e Lex aveva di nuovo
sollevato gli occhi dal libro per ascoltare meglio ciò che
succedeva
al di là del muro. La loro famiglia aveva sempre dato molta
importanza al loro nome: il suo nonno paterno, scomparso quando lui
aveva nove anni, era solito prenderlo da una parte e raccontargli di
quanto contassero per la storia di National City, che doveva essere
orgoglioso di essere uno di loro e che un giorno avrebbe dato il suo
nome ai figli. Così importanti che con la lettera del
cognome,
dovevano portare anche quella del nome: per questo motivo lui era
stato cresciuto come Lex, invece di Alexander. Se suo padre voleva
mettere in crisi Lillian con i suoi principi, quello era il modo
giusto.
«È
una bastarda».
«È
mia figlia», aveva ribattuto lui.
«Va
bene! Va bene!», l'aveva sentita urlare e se l'era immaginata
alzando le braccia con fare nervoso. «Portala qui.
È una Luthor.
Quella bambina troverà in me una madre, ma non pensare che
andrà
bene così: avrà in me una madre, ma io non
avrò mai in lei una
figlia».
Suo
padre era uscito dalla stanza poco più tardi e, avvicinando
l'orecchio alla parete, Lex aveva sentito sua madre piangere. A volte
aveva davvero odiato suo padre. Per quanto sua madre fosse una donna
con un carattere difficile, Lex non aveva mai accettato il fatto che
suo padre l'avesse tradita ed era certo che se anche a lei fingesse
di andar bene, in realtà non le andava bene per niente. Era
normale
che si arrabbiasse ed era normale non volere quella bambina. Una
sorella? Davvero suo padre avrebbe portato una bambina a casa sua che
avrebbe dovuto trattare da sorella? Non era pronto, in special modo
perché lei era il frutto di ciò che aveva
rovinato il rapporto dei
suoi genitori e aveva già deciso che l'avrebbe odiata. Non
sarebbe
stato difficile. Avrebbe fatto rimpiangere a quella bambina il fatto
di non aver desiderato di andare in un istituto. Non avrebbe
condiviso con lei tutto ciò che aveva. Per niente al mondo
lo
avrebbe fatto.
Così,
quando si era ritrovato faccia a faccia con lei pochi pomeriggi
più
tardi, Lex aveva faticato a salutarla. Era piccola, con un nastrino
giallo tra i capelli e indosso un vestitino scialbo, non sembrava una
Luthor. Anche se si chiamava Lena.
«Falle
fare un giro della casa, Lex», gli aveva ordinato suo padre.
Lui
era rimasto dapprima immobile, a guardarla, poi le aveva chiesto di
seguirlo. Fermandosi al piano di sopra, per un attimo pensò
di
buttarla per le scale. Sarebbe stato facile, un incidente poteva
capitare, non avrebbero dato la colpa a lui, o se non altro sua madre
lo avrebbe protetto. Però, un gesto cambiò tutto:
Lena si era
voltata, aveva cercato la sua mano e, dopo averla stretta, aveva
sceso le scale con lui mano nella mano. Lex non ce l'aveva fatta, si
era arreso subito: non a gettarla dalle scale, ma ad odiarla. Era
stato attento che non mettesse male un piede, che si tenesse, e
l'aveva portata giù sana e salva. Lei lo aveva chiamato fratello
quando l'aveva portata fuori, dopo che Lillian li aveva guardati di
malo modo, come se si aspettasse che in fondo un incidente capitasse
davvero.
Lillian
Luthor odiava Lena, Lex lo sapeva. Era riuscita in ciò che
lui non
aveva avuto successo. Tuttavia, crescendo, Lex si era anche reso
conto che sua madre in uno dei suoi propositi aveva fallito: aveva
giurato a se stessa che non avrebbe trovato in Lena una figlia, ma
era successo senza che se ne rendesse conto.
Lena
aveva seguito gli stessi piani scolastici che aveva seguito Lex e
ancor prima di compiere cinque anni aveva imparato a scrivere e
leggere e a suonare uno strumento. Solo che, a differenza del
maggiore, suo padre aveva deciso che avrebbe frequentato le scuole
elementari e Lillian non aveva avuto da replicare. La bambina aveva
seguito una rigida serie di regole ed era stata richiamata la tata
che se n'era andata ai dodici anni di Lex. Se non fosse stato per
lui, era convinto che Lena sarebbe morta di noia prima di avere
l'età
per entrare a scuola.
Eppure,
per quanto le volesse bene, non riusciva a non essere geloso di lei.
Vedere suo padre che ancora le raccontava la favola della buonanotte,
che la portava con lui fuori quando doveva spostarsi per lavoro, che
le faceva dei regali, che al mattino le preparava i pancake lo
mettevano di cattivo umore. Voleva odiarla e non ci riusciva. Era una
delle tante cose che non gli riuscivano.
Lui
canticchiava e lei aspettava col piattino davanti al bancone che la
colazione fosse pronta. Erano insopportabili.
«Ecco
a te, tesoro», le aveva detto una mattina.
«Aspetta, aspetta: le
fragole! Eccole».
Lei
aveva iniziato a mangiare e suo padre aveva alzato lo sguardo e lo
aveva visto lì, impalato che li guardava. Forse doveva
avergli fatto
pena, aveva pensato, come un cucciolo abbandonato.
«Lex,
ne vuoi?».
Allora
sapeva che doveva rifiutare e fingersi superiore, ma…
«Sì». Gli
aveva sistemato un piatto accanto a quello di Lena e poi messo su un
pancake anche per lui. Così erano ricominciate le loro
colazioni,
con sua madre in sottofondo che sgridava il marito che la colazione
poteva prepararla Marielle.
Lena
era stata un'amica ancor prima che una sorella, per Lex. Era l'unica
che non lo reputava uno scemotto, né un bambino ricco a cui
sottrar
qualche soldo, né un vittima da prendere a pugni, oppure un
pericoloso piccolo capo dei bulli della scuola. Era solo Lex. Eppure
si vergognava che l'unica persona che riusciva ad entrare nel suo
cuore era una bambina di cinque anni.
Si
iscrisse sotto consiglio di un suo insegnante in una scuola di judo
in modo che non si fosse sentito più insicuro, frequentando
le
lezioni in concomitanza a quelle extra di piano, che lo odiava ma sua
madre non gli avrebbe mai permesso di mollare, e i tornei di scacchi.
Lui amava gli scacchi e aveva insegnato a sua sorella a giocare; era
rimasto subito così fiero di lei.
«Va
bene. Adesso tocca a te». Lena lo aveva guardato e poi
guardato la
scacchiera, mordendosi il labbro inferiore. Poi aveva alzato una
manina per muovere una pedina e lui l'aveva rimbrottata subito:
«No,
no, non puoi! Te l'ho detto che non puo-», si era bloccato,
lasciandola fare e osservandola. Accidenti, era stata…
«Bravissima», aveva raccontato a sua madre,
«Eccezionale! Non ha
solo imparato a giocare, mi ha battuto per la prima volta; è
veramente eccezionale per una bambina così piccola, deve
poter
giocare anche lei ai tornei».
«No».
«No?
Perché non-».
«Perché
è piccola, e avrà avuto fortuna. E ora smettila
di strillare come
un matto, Lex, ne riparleremo quando sarà più
grande».
Oh,
non aveva atteso che fosse più grande: fortunatamente,
quando si
trattava di Lena suo padre era sempre pronto ad ascoltare e grazie al
lui la iscrisse al suo primo torneo per i bimbi delle scuole
elementari. Era arrivata terza, ma era la bambina più
piccola a
partecipare e, l'anno dopo, aveva vinto il suo primo torneo.
«Perché
non porti mai un amico a casa?», gli aveva chiesto Lena una
notte,
intrufolata in camera di Lex com'era solita fare, mentre i loro
genitori erano convinti dormissero entrambi. Erano seduti a terra su
un tappeto, giocando con qualche peluche a forma di animali.
Lui
aveva abbassato i peluche e l'aveva guardata accigliandosi un po',
come ferito da quell'insolita domanda. «Non ti basto
più?».
«Ovvio
che sì», per poco non gridava e lui le aveva
tappato la bocca,
facendole cenno di fare silenzio. «Ma giochi solo con me e io
a
scuola gioco con molte bambine. Anche alle lezioni di piano».
«Non
mi piacciono le lezioni di piano».
«Non
è vero».
«Sì
che è vero».
«Non
è vero».
«Sì
che è vero! Shh»,
l'aveva sgridata, tappandole di nuovo la bocca. «Non mi
piacciono le
lezioni di piano», aveva ribadito.
«Allora
perché ci vai?».
«Perché
come nostra madre ti costringe a stare seduta a tavola
finché tutti
non hanno finito di mangiare, costringe me ad andarci. Lascia
perdere». Si era intristito, forse troppo.
«Okay…»,
anche lei aveva abbassato i peluche che aveva in mano, guardandone
uno con distrazione. «E non hai un amichetto?».
«No»,
aveva sbottato e poi lanciato una mucca peluche dall'altra parte
della stanza. «Lascia perdere». L'aveva guardata e,
capendo che si
stava intristendo anche lei, aveva provato a cambiare strategia:
«Mi
basti tu».
Lena
aveva subito riso. «Non è vero».
«Sì
che è vero», l'aveva buttata a terra per farle il
solletico.
Non
era vero. Non le bastava affatto, ma voleva convincersi che fosse
così. Al suo quindicesimo compleanno provò lui a
dare una festa, in
modo da non essere escluso, e a dispetto della paura che lo
tormentava erano venuti in molti, ma nessuno aveva festeggiato con
lui e si erano solo goduti la festa, i gonfiabili in giardino, il
clown, lo spettacolo teatrale che aveva ingaggiato sua madre,
rendendosi conto che aveva di nuovo fallito. Era stata Lena, come
avesse capito che la festa non aveva funzionato, ad andare da lui,
trovandolo dietro la porta del bagno e così sedendosi
vicino.
«Tu
sei la mia anima gemella, lo sai?».
«Che
cosa vuol dire?».
«Che
non mi serve nessun altro, se ci sei tu accanto a me».
«Va
bene», aveva risposto la bambina, quasi seienne.
E,
così, la sola amicizia con sua sorella se l'aveva fatta
bastare, se
non altro fino ai diciassette anni. Era un ragazzetto alto, con i
capelli che tornavano sempre sugli occhi e qualche ricciolo, due
brufoli appena pronunciati, curato e dalla pelle lucida. Aveva una
cotta per una sua compagna di classe come tanti giovani della sua
età
e, come tanti giovani della sua età, anche lui non riusciva
a fare
colpo. Per via della fama trascinata fin dalla scuola media e da
quella che lo precedeva che riguarda i suoi genitori, nessuna
ragazzina voleva uscire con lui per paura e nessun ragazzino voleva
essergli amico. Sua madre una volta aveva detto che quando i bulli lo
tormentavano, non sapevano contro chi si erano messi: ora che erano
più grandi, però, il guaio era che lo sapevano.
«Scusami,
ma mia madre ha detto che non posso parlare con te».
«Scusa,
ti ho spinto? Mi dispiace, mi dispiace davvero, non volevo, puoi
perdonarmi?».
«Tu
sei Lex, giusto? I miei non vogliono che parli con te».
«Sei
Lex? Mi dispiace, ma non ho il permesso di frequentarti».
«Sei
quello
lì?
Il Luthor? Tua madre ha fatto licenziare mio padre, stammi alla
larga».
«Lex
Luthor? Emh, scusami, mi hanno chiamata».
«Scusa…
Lex, vero? Ho da fare, adesso. Ci vediamo… o
forse no»,
aveva detto poi, bisbigliando.
Lex
era diventato inavvicinabile.
Naturalmente
aveva provato a parlarne con sua madre quando lei aveva intuito il
suo cattivo umore una volta a casa dal liceo, e aveva presto capito
di aver fatto un terribile errore a confidarsi con lei.
«Ti
stai lamentando perché non riesci a farti degli amici?
Andiamo, Lex,
credevo che non ti interessassero cose come
queste…».
«Certo
che mi interessano», lui aveva aggrottato le sopracciglia,
«Sono
l'unico a non avere nessuno».
«Hai
noi. Non era abbastanza logico? Hai perfino Lena… come
farete ad andare d'accordo non ne ho idea»,
aveva aggiunto a bassa voce, riprendendo a leggere la sua rivista.
«Non
basta».
«Ah,
e così non basta?».
«No!
Voglio qualcuno della mia età, non capisci, qualcuno con cui
uscire
e divertirmi, e giocare, e fare tutte le cose che fanno i ragazzi
normali».
Lei
lo aveva guardato accigliandosi sempre di più, posando la
rivista
sul tavolino del soggiorno. «Mi pare di capire che
l'adolescenza
parli per te, Lex: tu non sei un ragazzo normale, è chiaro
questo?
Perché mai vorresti esserlo? Vuoi uscire e drogarti come
tutti
quelli della tua età? Accomodati. Tuo padre ed io non ti
impediremo
di comportarti come ritieni più adatto, poiché
sappiamo che sei
abbastanza intelligente da sapere cosa è meglio per te, ma
se vuoi
fare il selvaggio, aspettati qualcosa di contro», si era
alzata dal
divano e avvicinata a lui. «Ne subirai le conseguenze
com'è giusto
che sia. Se mai dovessi perdere di vista l'obiettivo dello studio per
queste sciocchezze, lo capirai», gli aveva poggiato una mano
su una
spalla e guardato negli occhi vitrei. «Ti ritieni
insoddisfatto
perché non hai amici? Pensa a quando sarete adulti, quando i
tuoi
coetanei dovranno faticare per trovare un posto e tu avrai la Luthor
Corp pronta per te. Pensaci».
Lui
si era scrollato e lei aveva ingigantito gli occhi. «Non la
voglio
la Luthor Corp! È colpa di ciò che siamo, come
Luthor, se non
riesco a piacere a nessuno».
Lex
non se lo aspettava. Era il primo e unico schiaffo che gli diede sua
madre da sempre. Improvviso, veloce, rumoroso e forte; tanto da far
spaventare perfino lei, quasi sul punto di chiedergli scusa per poi
ripensarci. Lex se n'era andato perché odiava piangere in
pubblico,
proprio come lei.
E
così era lo studio l'unica cosa a cui doveva pensare? E lo
studio
sarebbe stato. Aveva ripreso in mano vecchi progetti a cui stava
lavorando l'estate prima per passare il tempo libero ed era andato
alla Luthor Corp. Si era diretto ad uno dei laboratori, pensava fosse
vuoto, ma poco prima di aprire la porta aveva sentito la voce di suo
padre e si era affacciato alla finestrella, scorgendo lui in
compagnia di quel suo collega. Lex non riusciva a fare a meno di
essere geloso anche di quel giovane uomo, perché perfino lui
riusciva ad ottenere le sue attenzioni: c'era per Lena, c'era per sua
moglie e c'era per il suo lavoro. Lex aveva sbuffato e se n'era
andato, provando con un altro laboratorio. Mesi di lavoro e infine le
sue pillole verdi avevano acquistato anche un buon sapore: usando una
parte della droga che girava in quel periodo, la vertigo, la stessa
che tanto sua madre citava, combinata con lo studio, ciò che
per lei
era l'unica cosa che contava. Sarebbe stato il suo progetto della
vita, pensava, perché avrebbe sempre dovuto mettere cervello
e mani
per migliorare la formula.
«Sai,
io non mi arrabbierei più di tanto se non hai
amici», aveva
esclamato Lena un pomeriggio, poco prima che lui si dirigesse alla
Luthor Corp per lavorare alla formula.
«Ah,
no? E perché mai?». Era facile per lei, pensava,
quando la bambina
riusciva ad avere un sacco di amichette con cui parlare a scuola,
alle lezioni di piano e anche nei tornei di scacchi.
«Sono
adolescenti, Lex: gli adolescenti non sono maturi sufficientemente e
si lasciano condizionare».
Lui
aveva sorriso ma, subito dopo, scosso la testa. «Devi sapere
una
cosa, Lena: la maturità non ha a che fare con
l'età. Una volta si
cresceva prima, giusto? Allora l'ago della maturità pendeva
da
un'altra parte. In linea generale, la maturità resta un
percorso
privato. A volte non si è mai abbastanza grandi per essere
maturi.
Pensaci».
«Mmh…»,
lei aveva stretto gli occhi e passato due dita sul mento. «Va
bene,
hai ragione».
«Ma
certo che ho ragione», le aveva passato una mano sulla testa,
prima
di uscire.
Le
sue pillole diventarono famose proprio nel corso del suo ultimo anno
di liceo. Martin era un ragazzetto nuovo nell'istituto, nuovo in
città, così tanto che dei Luthor non sapeva
niente, se non di
averli già sentiti nominare. Lex era stato incaricato di
fargli fare
il giro della scuola e così, quando lo vide ingerire la
pillola poco
prima del suono della campanella, ne era rimasto affascinato:
«Amico,
cerchi di sballarti prima di lezione? Sei completamente
fuori».
«Trattieni
i tuoi entusiasmi, amico»,
gli rispose cauto, eccitato di aver potuto usare quella parola.
«Questa non serve per sballarsi, ma per aumentare la
concentrazione.
Aiuta lo studio».
«E
funziona?».
Lex
si era sentito gonfiare il petto, orgoglioso di poter dire che era
ovvio che funzionasse avendole create lui stesso.
«Amico,
sai cosa si dice dalle mie parti? Se sei bravo a fare qualcosa,
allora fatti pagare. Io ne compro subito, così mia madre la
smetterà
di darmi dello scansafatiche. E in più mi
sembrerà di sballarmi».
L'idea
di Martin gli era sembrata piuttosto sciocca, ma quando veramente si
era deciso di ordinargliene un sacchetto, tutto prese il via. Si era
sparsa la voce appena Martin aveva migliorato davvero i suoi voti e
molti altri avevano ordinato le pillole verdi per sapere se realmente
funzionavano. Lex Luthor si era adagiato sugli allori: i ragazzi e le
ragazze, ora, andavano da lui, senza dover rincorrere nessuno. Aveva
messo mano alla formula più volte nello stesso periodo;
aveva
cercato di migliorarla quando qualcuno aveva lamentato mal di testa e
aveva preso in prestito ingredienti base di altre droghe sintetiche,
lasciando sempre più la presa sulla vertigo. Finito il liceo
aveva
già cambiato la formula quattordici volte ed eliminato il
fastidioso
effetto dipendenza.
Aveva
clienti, il numero delle sue vendite salivano e il suo nome non
faceva più paura da quando veniva associato alle sue
pillole.
«Devi
uscire anche oggi?». Lena lo aveva guardato con rimprovero;
ormai
passava sempre meno tempo con lei. «Ho un torneo di scacchi,
oggi.
Non puoi mancare, lo sai». La bambina gli si era attaccata a
un
braccio e Lex aveva preso un grosso boccone d'aria, per poi
inchinarsi e sistemarle i capelli dietro le orecchie.
«Tornerò
in tempo per il torneo, vedrai. Quando sarai lì e ti girerai
intorno, mi vedrai già seduto sugli spalti perché
non posso
perdermi nemmeno una tua partita. Te lo prometto».
Lei
lo aveva guardato storcendo un labbro, per poi annuire. «Mmh,
va
bene».
Tuttavia,
era rimasto per la prima volta a chiacchierare con alcuni nuovi
clienti che avrebbero frequentato la sua stessa università e
si era
sentito così bene, così parte di qualcosa, che
aveva finito, per un
po', per dimenticarsi di lei. Aveva guardato l'orologio e si era
sentito in colpa, il suo sguardo si era impallidito tanto che gli
avevano chiesto se avesse perso un appuntamento. «No, no.
Dovrei
andare a un torneo di scacchi della mia sorellina. Ha dieci anni e
conta su di me».
Uno
di loro aveva subito riso. «Anche io ho una sorellina. Sta
sempre
appiccicata, una seccatura».
Lui
aveva ridacchiato meno convinto. «Già. Anche
lei».
Tornato
a casa, Lena non lo aveva neppure guardato. In quel periodo i loro
genitori erano più su di giri del solito e badavano a loro
raramente, tanto che a sostenerla per il torneo era rimasto solo
l'autista.
«Paul
mi ha fatto i complimenti», aveva sbottato, salendo le scale
davanti
al fratello. «Paul»,
aveva rimarcato, «L'autista. Sono arrivata seconda
perché tu non
c'eri».
«Sei
arrivata seconda perché sei bravissima e il vincitore
avrà avuto
fortuna».
«Non
ha avuto fortuna: era bravissimo e tu non facevi il tifo. Contavo su
di te», aveva le lacrime agli occhi, davanti alla porta di
camera
sua.
«Lena,
mi dispiace… Non mancherò più,
davvero, lo prometto».
«Mi
avevi già promesso che ci saresti stato oggi».
Aveva chiuso la
porta e lui aveva sbuffato, prendendo passo per andare nella sua
stanza. Si era sentito in colpa, ma al diavolo, era sempre stato con
lei, ora che finalmente aveva qualcun altro con cui parlare…
Lei
non avrebbe capito, era ancora una bambina, ma lui aveva bisogno di
respirare aria pulita. La loro differenza d'età non si era
mai fatta
pesare così tanto come in quel momento.
Passavano
gli anni e i clienti, aumentati a macchia d'olio tra alcune
università e due licei, erano diventati l'unica
soddisfazione di Lex
Luthor. Certo, le pillole gli avevano conferito un'innegabile
popolarità e le ragazze che facevano le carine con lui, che
volevano
sedersi nel trono al suo fianco, erano diventate parecchie, ma anche
se con alcune di loro era riuscito ad avere contatti e rapporti,
nessuna lo aveva mai veramente toccato al cuore. Sapeva che i suoi
genitori avevano litigato con alcuni vecchi colleghi d'affari e
avevano perso ingenti sbocchi di denaro in poco tempo, così,
colto
da un'insolita fretta, Lionel aveva deciso di iniziare il suo
primogenito al lavoro alla Luthor Corp di Metropolis, approfittando
del fatto che stesse per finire gli studi. Lex non era tanto
distratto come forse credevano i suoi genitori e sapeva benissimo che
erano in affari criminali per anni e che, improvvisamente, avevano
tagliato i contatti. Non sapeva con chi di preciso e certamente
cos'era successo, ma conosceva bene le voci che correvano su di loro
a National City, e in special modo gliene parlavano i suoi clienti
che, da un po' di tempo a quella parte, aveva iniziato a definire
amici. Andando a Metropolis per la Luthor Corp, Lex aveva espanso il
suo territorio e iniziato a vedere anche lì le sue pillole,
seppure
per una sola università. Aveva cambiato la formula tante
volte in
poco tempo dopo che alcuni studenti avevano cominciato a sentirsi
male, cercando di individuare il problema. Lena si era offerta di
aiutarlo, ma lui le aveva espressamente detto che avrebbe risolto il
problema con le sue sole forze. Non riusciva ad ammettere, in
realtà,
che lo stress lo stava mangiando dentro. Gli studenti che lamentavano
di stare male dopo aver ingurgitato le sue pillole stavano diventando
sempre più numerosi, alcuni clienti si erano rifiutati di
pagarlo ed
altri lo avevano insultato dicendo che come Luthor non avrebbero
dovuto fidarsi di lui, che era come la sua famiglia.
«Amici?
Non siamo mai stati amici, Luthor: prendevo solo le tue pillole, ma
adesso che molta gente sta male penso che mi tirerò
indietro. È
tutto qui».
«Non
sono mai stato tuo amico, al massimo cliente, e adesso ho deciso di
smettere».
«Lasciami
in pace, Luthor. Tu e la tua famiglia puzzate di marcio».
Le
parole delle ultime porte in faccia gli erano rimbombate in testa
giorno e notte, mentre lavorava alla formula e mentre tentava di
lavorare alla Luthor Corp a fianco a suo padre. Finalmente stava
passando del tempo con lui e non riusciva a concentrarsi come avrebbe
voluto, continuava a sbagliare e a essere distratto, non riuscendo a
fare altro che deluderlo. A deluderlo ancora proprio come da bambino.
In più, sentiva sua sorella distante come mai prima. Aveva
quattordici anni e non aveva quasi più tempo per lui, tra
studi e
amiche. Lei le aveva.
Lex
si sentiva di nuovo solo, di nuovo incapace, inadeguato a tutto,
anche di riuscire nelle cose più semplici. Aveva iniziato a
soffrire
di attacchi di panico e per questo, ogni mattina prima di dirigersi a
lavoro, si faceva fermare dall'autista in un bar, in modo che potesse
sciogliere la tensione. Era stanco, davvero. Si sedeva lì
davanti al
bancone e ripensava a cosa doveva fare per uscire da quella brutta
situazione. Si rivedeva di nuovo bambino e inchiodato dalla paura in
mezzo alla palestra, con tutti i bambini che cercavano di colpirlo
con un pallone. Anche se era passato tanto tempo da allora, le ferite
non guarivano mai. Non potevano.
Altri
clienti, o amici, dissero di voler interrompere, non riusciva a
sistemare la formula e suo padre gli aveva gridato di restare con lui
con la testa quando lavoravano.
«Scusami,
scusami…», aveva deglutito, passandosi le dita
sulla fronte e
chiudendo pesantemente gli occhi, «sono davvero stressato
e… non
lo so, forse ho bisogno di riposo».
«Pensavo
sapessi tenere meglio la pressione. È evidente che mi
sbagliavo»,
gli aveva ribattuto e Lex si era sentito ferito.
Possibile
che nessuno facesse uno solo sforzo per comprenderlo? Per avvicinarsi
davvero a lui?
«Lena».
Quella sera era tornato a National City poiché aveva bisogno
di
staccare, di passare del tempo con la sua sorellina. Non vedeva l'ora
di vederla e parlare con lei. «Ehi». Aveva aperto
la porta di
camera sua, dopo che aver bussato e chiamarla non erano stati
sufficienti e l'aveva vista che si abbassava le auricolari dalle
orecchie, seduta davanti alla sua scrivania. «Cosa fai?
Disturbo?».
«Sto
studiando», lo aveva guardato con curiosità.
«Credevo che saresti
rimasto a Metropolis».
«No,
sono stanco e volevo solo… vederti».
Lei
aveva addolcito lo sguardo, facendo una smorfia. «Mi
dispiace…
pensavo che non ti avrei visto se non per il fine settimana e sono
sotto con lo studio».
Lui
aveva scosso subito la testa, dicendole che sarebbe stato per
un'altra volta. Si era rifugiato in dependance e si era messo un dvd,
in modo che potesse riposarsi. Almeno aveva ancora se stesso. Ma
poi…
«C'è
un posto anche per me?».
Lena
si era affacciata dalla porta e lui aveva sorriso, annuendo e
facendole il gesto di avvicinarsi. Era ancora lì e solo per
lui.
Aveva sentito il petto scaldarsi di nuovo; la sua anima gemella lo
aveva trovato anche quella volta. Era bello poter ridere e parlare
liberamente con Lena.
«Quindi
adesso ti trasferirai a Metropolis?».
«È
possibile», aveva stretto le labbra con dispiacere.
«Il lavoro
chiama e purtroppo non posso far altro. Ma non subito, insomma, con
il tempo…».
Lena
lo aveva guardato in modo triste. «A te nemmeno piaceva
l'idea di
lavorare per la Luthor Corp».
«No,
non mi piaceva infatti», aveva concordato, sbuffando appena.
«Ma
sono un Luthor, Lena. Siamo Luthor. Non possiamo far altro che
accettarlo».
«Io
non sono proprio una Luthor», aveva sussurrato lei.
Lex
non aveva capito se quella prospettiva per lei era rassicurante o
d'altro canto triste. Una cosa però la sapeva per certo: non
poteva
dirle la verità. Così l'aveva abbracciata
ribadito che come Luthor
non potevano fare altro che accettare il loro destino.
Accettarlo.
Accettarlo e andare avanti. Ma Lex era il primo a non crederci e a
non volerlo accettare. Per questo motivo, non trovando proprio nessun
modo per liberarsi da quella situazione, da quella vita che lo
opprimeva da sempre, aveva manomesso i freni dell'auto. Il suo
autista era palestrato e non aveva pensato nemmeno per un attimo che
non avrebbe potuto farcela, per il resto doveva solo sembrare un
incidente. Era stanco. E Lena, per quanto gli volesse bene, aveva
sempre fatto amicizie e sapeva che non sarebbe rimasta sola. Non
aveva nessun altro e non sarebbe mancato a nessun altro. Naturalmente
aveva fatto male i conti, non valutando che un certo Clark Kent lo
stava pedinando da un po' e che, quel giorno, gli avrebbe salvato la
vita che lui non voleva più.
Clark
Kent era stato il suo raggio di sole in una vita buia. Dopo un po' di
tempo erano diventati amici, veri amici, e tutto aveva ricominciato
ad andare per il verso giusto: aveva modificato la formula e messo in
circolo una nuova partita di pillole verdi più sicure; i
clienti
erano aumentati di nuovo e qualche altro studente che, di tanto in
tanto, stava male non lo spaventata più perché
sapeva che avrebbe
corretto l'errore, che ci sarebbe voluto del tempo, ma che studiando
gli effetti sarebbe riuscito a risolvere il problema. Era fiducioso.
Si sentiva un ragazzo nuovo.
Con
l'aumento della produttività, si era reso disponibile ad
avere una
complice che l'aiutasse a consegnare le pillole verdi. Non che la
conoscesse bene, ma l'amica di sua sorella, che si faceva chiamare
Roulette, sembrava la persona giusta allo scopo: aveva una buona
parlantina, gli studenti già la conoscevano e si faceva
rispettare.
Era così che si erano messi in attività insieme.
Quando
la vedeva, quella ragazza lo affascinava. Sì, certo, c'erano
ben
nove anni di differenza, ma lei lo ammaliava. Ogni volta che apriva
bocca, sembrava che Veronica Sinclair stesse flirtando con lui. Ma
era il suo modo di fare, lo sapeva. Faceva così con tutti.
Anche con
sua sorella. Non era da lui, infatti, che si rifugiava diverse notti
al mese. Come del resto facevano altre ragazze.
Così
non era rimasto sorpreso quando una mattina aveva visto Veronica
uscire dalla camera di Lena. Era presto, saranno state le quattro e
dieci minuti, e gli era venuto appetito passata la notte a rivedere
alcuni dati per la Luthor Corp, invece di dormire. L'aveva vista
uscire quando era già affacciato alle scale, e
così era sceso in
cucina e lei era apparsa a pochi passi dopo di lui, avvolta in una
vestaglia di un verde scuro. Di Lena.
«Il
rosso è il tuo colore».
Lei
aveva alzato le sopracciglia, avvicinandosi al frigo e versandosi una
tazza di latte freddo. «Come, scusami?».
«Non
il verde, dicevo. Il verde, in ogni sua sfumatura, sta bene a Lena.
Lo indossa bene. Ma il tuo colore, invece, è certamente il
rosso».
Riprendeva a masticare una merendina al cioccolato che lei gli
sorrise compiaciuta, dondolandosi un po', dietro al bancone.
«Vedrò
di tenerlo a mente, allora», aveva risposto lei
avvicinandosi,
continuando a bere. «Uomo d'affari, scienziato brillante, ora
ti
intendi di moda: ci sarà qualcosa che non è nelle
tue corde, Lex
Luthor? Sei pieno di sorprese».
Lui
aveva sorriso, forse si era un poco imbarazzato, ma di sicuro non lo
mostrava. «Pensavo lo stesso di te, sai? Piena di sorprese,
come
amica di giorno e amante di notte».
Lei
si era seduta davanti a lui, mettendo una gamba sopra l'altra. La
vestaglia era scivolata da un lato ma Lex aveva guardato appena,
continuando a fissarla, invece, negli occhi a mandorla sicuri e pieni
di sé. «C'è qualcosa che vuoi dirmi,
fratello maggiore?».
«Non
ho intenzione di fare la paternale a Lena, non vedo perché
dovrei
dire qualcosa a te. Non sono affari miei,
però…», aveva finito la
sua merendina e accartocciato la carta, per poi piegarsi il tanto per
appoggiare il peso sulle gambe, guardandola con attenzione,
«però
tieni a mente che è la mia sorellina quella con cui vai a
letto e
che sono una persona un tantino… volubile», aveva
assottigliato le
labbra, accennando un altro sorriso.
Lei
non si era minimamente scomposta ed era una delle cose che
più gli
piacevano di lei. «Tendi a minacciare ogni ragazza, o Jack,
che gira
intorno alla tua sorellina?».
«Solo
quelle che ritengo ne abbiano bisogno».
«Oh»,
aveva abbassato gli occhi e lo aveva scrutato a lungo, nel suo
pigiama a quadri e l'aria dura. «Allora mi ritengo fortunata.
Tienimi d'occhio, fratello maggiore. Sia chiaro che questo non deve
intaccare la nostra collaborazione».
«Affatto.
Ci tengo quanto te», aveva fatto una smorfia lui. L'aveva
tenuta
sotto attento sguardo quando, con movimenti lenti e appena sinuosi,
se n'era andata per tornare da Lena.
Aveva
dormito poco e male e in questo modo, poche ore dopo, l'aveva sentita
andarsene dalla villa. A volte restava per colazione, altre, specie
quando i loro genitori erano in casa, fuggiva via come una ladra alle
prime ore dell'alba. Non sapeva bene perché, ma Veronica
Sinclair
era riuscita a conquistare la sua fiducia per quanto riguardava il
commercio delle pillole, ma non per come girava intorno a Lena.
«Allora…
tra te e Veronica». L'aveva fermata dopo aver pranzato ed era
uscita
fuori in giardino a prendere una boccata d'aria fresca.
«State
insieme?». Lena lo aveva guardato a lungo prima di decidere
di
rispondere:
«Sì
e no».
«Tu
e Jack vi siete lasciati?».
«Sì…
e no».
«Sta
spesso via, non è vero?».
«Sì.
E no».
«Lena».
Lei
aveva sbuffato e si era seduta schiena contro un albero, reggendosi
la gonna e mantenendola pulita dai fili d'erba. Lui si era inchinato,
guardando verso la sala da pranzo solo un attimo, attento che la loro
madre non li stesse spiando. «Jack ed io stiamo passando un
momento
particolare. Non ci siamo lasciati, ma non stiamo nemmeno insieme
come prima. Veronica ed io, invece, ci teniamo…
compagnia», aveva
sussurrato fissando un punto vuoto, giocando a muovere l'erba in
mezzo alle dita di una mano. Infine, presa coraggio, aveva guardato
Lex negli occhi. «Pensi di riprendermi?».
Lui
le aveva preso la mano e l'aveva allontanata dall'erba, stringendola
con le sue mani. «Che razza di fratello maggiore sarei, se
non fossi
dalla tua parte? Stai sperimentando, Lena… Che tu voglia
stare con
Jack, o che scopri di essere omosessuale, ti sosterrò.
Volevo solo
assicurarmi che fosse tutto a posto con Veronica».
«Non
ti piace?».
«No,
al contrario. La ritengo piuttosto sveglia, ma non vorrei ti facesse
del male».
Lena
aveva sorriso, stringendo le sue mani di rimando. «Siamo
amiche,
Lex. E non c'è nient'altro a parte questo e il sesso. Non mi
ferirà
un suo rifiuto o qualcosa del genere».
Lui
aveva annuito, grato della risposta. Era troppo preso dalla sua
sorellina per capire che, in realtà, il suo problema con
Veronica
Sinclair era vederla con lei, e non certo per istinto di protezione.
Avevano smesso di parlarne quando avevano visto arrivare Clark. Aria
smarrita, si era aggirato per il giardino da solo, quando dovevano
avergli detto che lo avrebbero trovato lì. Lena era rimasta
ancora
un po' sull'erba e Lex gli era andato incontro; si erano stretti le
mani e dato così una pacca su una spalla.
«Tutto
a posto?», gli aveva chiesto Clark al suo sguardo perso:
Roulette
era lì.
Era
passata vicino a loro, li aveva salutati con un gesto con la mano e
aveva raggiunto Lena davanti all'albero, intanto che Lex sospirava.
«Sì. Sì, certo».
«Non
mi piace quella ragazza», gli aveva detto lui, quando
entrambi si
erano girati a guardarla.
«Me
lo hai già detto, Clark. È una a posto, non ti
preoccupare». Gli
aveva ridato due pacche sulla schiena ed erano tornati dentro.
Clark
aveva iniziato ad andare spesso a trovarlo; non gli aveva regalato
solo la sua amicizia, ma un nuovo inizio. Forse proprio per questa
ragione non si sarebbe mai aspettato che qualcosa avrebbe potuto
incrinare i loro rapporti.
«Non
lo voglio qui, in questa casa», aveva sentito sua madre dire
a voce
un po' troppo alta quella notte, come tante altre notti prima, e Lex
si era messo ad ascoltare, ancora intento a ricontrollare i dati
della formula delle pillole verdi.
«È
amico di Lex. Parla più piano, Lillian», aveva
sentito suo padre,
«Potrebbe sentirti. Non dovremo parlarne qui».
Troppo
tardi, aveva pensato il ragazzo, dato che erano anni che li ascoltava
come se le pareti fossero state di carta velina. I due erano separati
in casa ormai da un sacco di tempo, eppure quando volevano discutere
tornavano lì, proprio vicino alla sua stanza, nella camera
che era
rimasta a Lillian. Si era avvicinato al muro con l'orecchio teso, per
assicurarsi di non perdersi nulla.
«Gli
ha salvato la vita e gli siamo tutti debitori, ma non voglio che si
avvicini a noi», aveva sbottato sua madre, «Quel
ragazzo non-», si
era fermata ed era seguito un breve silenzio.
«Lex
era così felice di portarlo a casa… Temi nel
conoscerlo? Immagino
come ti faccia sentire, probabilmente come fa sentire me. È
una cosa
che ti spaventa», era seguito un breve silenzio.
«Andiamo, Lillian,
lascia perdere. Puoi farlo? Puoi farlo?», aveva ribadito.
Questa
volta era stata sua madre ad uscire dalla stanza per prima.
Il
giorno dopo, lui e suo padre si erano diretti di nuovo a Metropolis e
Lex non aveva fatto a meno di notare quanto il suo genitore fosse
silenzioso. Aveva aspettato che fossero all'interno dell'azienda,
chiusi in ufficio, per iniziare a parlare:
«Non
ho mai fatto domande quando avete smesso di avere rapporti con
precedenti colleghi di lavoro, quando mi hai chiesto di stare attento
a quella vecchia volpe, ma adesso devo farti delle domande…
papà,
e vorrei che tu sia sincero con me così come io sono sincero
con te:
quanto i vostri precedenti affari erano coinvolti con Clark Kent e la
sua famiglia?».
Lionel
era sbiancato, quella mattina. Mai si sarebbe aspettato quella
domanda, segno che, in fondo, aveva sempre sottovalutato suo figlio.
Non era riuscito a fare a meno di dire la verità, di dirgli
tutto
quanto, chi erano e perché erano morti, dell'esaltazione di
Rhea
Gand, dell'organizzazione, di come non avrebbe potuto dirlo al suo
amico. Lionel si era sfogato. Aveva sottovalutato il suo ragazzo e
ora si era aperto con lui, discutendo insieme di colpe o non colpe,
facendolo arrabbiare ma al tempo stesso rendendolo partecipe di un
grande aspetto della famiglia Luthor.
«Non
vuoi capire, Lex: è la tua eredità. Tuo nonno era
uno dei fondatori
dell'organizzazione; siamo alcune delle radici di National City. E
abbiamo sbagliato ad andare avanti, ci siamo tirati fuori e paghiamo
ogni giorno. E forse dovremo ancora pagare il prezzo più
alto».
Lex
lo aveva guardato immobile; seppure per certi versi disgustato, non
ne era affatto sorpreso e tutto aveva acquistato un senso. Solo a
casa, a Metropolis, era riuscito a sfogarsi lui, da solo, colpendo il
muro. Clark era suo amico e i Luthor erano stati complici di chi gli
aveva rovinato la vita, ne erano quasi responsabili e, forse,
avrebbero anche potuto salvare la sua famiglia. Ci avevano provato,
ma forse non era stato abbastanza. Avrebbero potuto fare di
più,
allora? Si erano avvolti nel silenzio per paura, invece di farsi
avanti. Chi era davvero la sua famiglia? Di quali altri reati si
erano macchiati; quante vite avevano distrutto? Lui era come loro?
Una
cosa, però, la sapeva per certo: avrebbe mantenuto per
sé quelle
informazioni. Avrebbe ingoiato il boccone amaro e sarebbe andato
avanti fingendo di non averne mai saputo niente. Lo avrebbe fatto, in
special modo le avrebbe nascoste a Clark perché non avrebbe
potuto
perdere il suo unico vero amico, non doveva pagare lui il prezzo di
ciò che era accaduto in passato, eppure, un
giorno…
«Cosa
sai tu di cosa mi è successo? Di cosa è successo
alla mia
famiglia?», gli aveva urlato Clark. Aveva scoperto le pillole
che
gli aveva tenuto nascosto e quello…
Lex
aveva sentito una forte fitta alla bocca dello stomaco e gli era
mancata l'aria, ma aveva cercato con tutti i modi di restare
concentrato perché, assolutamente, non voleva perdere Clark
e doveva
restare lucido. A quel punto, una fetta della verità sarebbe
potuta
andare in suo soccorso. «Mi dispiace, Clar-».
«Tieniti
i tuoi dispiaceri! Da quanto lo sai?».
«Qualche
mese. Forse».
«E
in tutto questo tempo non hai pensato di dirmelo? Non hai trovato un
solo momento per parlarmene?».
«Te
ne sto parlando ora», gli aveva detto piano. Aveva cercato di
avvicinarsi a lui e dargli una pacca sulla spalla, ma Clark si era
tirato indietro. «Siamo amici. Non sapevo come dirtelo e
pensavo di
proteggerti, Clark, cerca di capirlo».
Ma
no. Clark non voleva capirlo. Non voleva capirlo esattamente come
tutti gli altri, non era diverso, e forse non erano mai stati davvero
amici. Clark Kent se n'era andato dalla sua vita così
com'era
venuto, portando dietro con sé la nuova vita che gli aveva
presentato, restituendogli solo tristezza e vuoto.
E,
come ogni volta che si sentiva solo, aveva cercato rifugio in sua
sorella. Aveva deciso di trasferirsi definitivamente a Metropolis e
una mattina era andato a trovarla in università per dirle
che
tornando in villa non lo avrebbe trovato. Roulette era sparita e
aveva lasciato il suo lavoro; non gli restava altro. Una ragazza gli
aveva detto che l'avrebbe trovata uscendo dal laboratorio di anatomia
e, una volta lì, affacciandosi alla porta, aveva intravisto
Lena
presa in giro da un ragazzo. Lui le lanciava qualcosa e lei faceva
finta di niente.
«Chi
è quello? Da quanto tempo fa così?».
«Oh,
lascia perdere. È un ragazzo un anno più grande;
ha saputo che farò
due anni in uno e cerca di prendermi in giro», aveva scosso
brevemente la testa, sbuffando. «Per cosa sei
passato?».
Lex
voleva rispondere, ma quel ragazzo era dietro di loro e rideva con il
suo gruppo di amici, facendo pernacchie con la bocca e bofonchiando
di come i Luthor avessero comprato il corpo insegnanti. Non aveva
capito davvero il reale motivo che lo aveva spinto a farlo. Se
davvero quel ragazzo se lo era meritato. Se in lui aveva rivisto gli
anni di prese in giro alle sue spalle. Se non voleva che anche solo
una goccia di ciò che gli era successo capitasse a Lena. Se
perché
frustrato e di nuovo sconfitto dalla vita. Ma lo aveva fatto: era
andato da lui e, senza dirgli nulla, gli aveva sferrato un pugno.
L'inatteso colpo aveva spinto il ragazzo contro il muro e il gruppo
di amici era rimasto paralizzato, indietro, intanto che Lex lo
colpiva ancora. E ancora. Lo aveva gettato a terra e aveva continuato
a colpirlo. Ancora. Ancora. Due insegnanti avevano allontanato Lex da
quel ragazzo o avrebbe finito per massacrarlo. Lena stava gridando;
era una delle tante voci che si erano alzate in pochi attimi. Ma era
tutto sordo e Lex non aveva sentito. Non aveva sentito fino a quella
domanda:
«Ma
sei fuori di testa? Cosa ti prende?». Lena era arrabbiata:
una vena
era comparsa sulla sua fronte, le narici dilatate, gli occhi erano di
ghiaccio, assottigliati.
Lui
si era passato una manica contro il naso, abbozzando appena un
sorriso. «Mi comporto da Luthor…».
Lo
avevano portato via intanto che il ragazzo passava dall'infermeria
all'ospedale. Lillian aveva convinto i genitori della sfortunata
vittima dello sfogo di Lex a non sporgere denuncia e lui si era
trasferito a Metropolis. Lex e Lena non si erano più sentiti
per un
po'.
Ma
se loro non si erano sentiti più, Lex aveva ritrovato
una cara
conoscenza durante le sue prime settimane di vita indipendente a
Metropolis. Veronica Sinclair aveva lasciato l'università e
si era
trasferita anche lei, suo malgrado, proprio da quelle parti.
«I
miei genitori non hanno preso bene il mio abbandono degli studi e mi
hanno tagliato l'accesso alle carte. Sto cercando lavoro e speravo
che un vecchio amico, nonché vecchio capo, potesse
aiutarmi».
Lui
aveva sorriso, decidendo di riprenderla con sé. Aveva
scoperto che
quella ragazza aveva ancora un grande potere su di lui. E
così,
quando lei aveva mostrato interesse nei suoi riguardi, Lex non era
riuscito a fare a meno di ricambiare.
«Ti
devo avvertire, Veronica: non sono qualcuno capace di amare. Se pensi
che vivrai una favoletta al mio fianco, ti sbagli di grosso».
«Se
pensi che vorrò la favoletta, sei tu a sbagliarti di
grosso», gli
aveva sfiorato una guancia e lui aveva chiuso gli occhi come
ammaliato, solo per un attimo. «Anche quando stavo con Lena
non
facevo che guardarti, Lex. Mi sei sempre piaciuto».
Lui
aveva abbozzato un sorriso e poi le aveva stretto i capelli, spinto
delicatamente contro un muro, e aveva appoggiato con foga le proprie
labbra sulle sue. Allora non sapeva per quanto sarebbe durato i loro
rapporto, né gli interessava davvero. Aveva preso Roulette
tra le
braccia e lei si era spinta su di lui, chiudendo le gambe attorno ai
suoi fianchi.
Non
ci sarebbe mai stato del tenero tra loro, Lex ne era sicuro, ma
qualunque cosa li legasse, per lui era più di quanto mai si
sarebbe
aspettato.
«Cosa
fai?». La mattina successiva, Veronica si era alzata dal
letto e,
nuda e scalza, si era affacciata davanti alla porta del bagno
adiacente alla camera da letto, osservando Lex che, davanti allo
specchio, si rasava la testa.
«Do
un segno chiaro a un nuovo inizio», aveva risposto lui, senza
guardarla.
Il
ragazzo incapace era cresciuto e si era svegliato un Luthor.
Eccoci
di ritorno con un capitolo particolare, incentrato sulla mia versione
per questa fan fiction di Lex Luthor. Un Lex inadeguato a tutto,
sconfitto su ogni aspetto, che infine ha accettato la parte
più
oscura di se stesso per andare avanti. Cosa ne pensate?
A
parte questo, abbiamo anche potuto leggere di come Lex e Lena erano
uniti, di cosa ha fatto allontanare i due per un po', dell'importanza
di Clark nella vita di Lex e che nonno Luthor, padre di Lionel, era
uno dei fondatori dell'organizzazione che, tra le altre cose, ha
ucciso i genitori di Kara e Clark.
Considerando
che lunedì ho diversi impegni, ho pensato di pubblicare il
capitolo
in anticipo! Spero sia stato gradito :D
In
ogni caso, il prossimo capitolo arriverà di
lunedì, ahah! Il
capitolo 28 riprende da dove abbiamo lasciato con il 26 e si intitola Il
piano :)
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Capitolo 29 *** 28. Il piano ***
Il
piano c'era, fortunatamente anche le risorse per metterlo in pratica.
Come ogni fine dell'anno, il trenta dicembre si sarebbe tenuto
all'auditorium della Luthor Corp un'asta per beneficenza e, proprio
come ogni anno, Rhea Gand si sarebbe precipitata per fare qualche
offerta e farsi fotografare e mostrarsi cittadina modello. Quello
sarebbe stato il momento in cui il quadro sarebbe entrato in suo
possesso: vedendolo all'asta, se ciò che aveva detto il
profilo
misterioso era vero, non se lo sarebbe lasciato sfuggire. Fecero
qualche ricerca su internet e capirono molto presto, sfortunatamente,
che il quadro che dovevano ottenere era per forza quello in possesso
di Maxwell Lord: in vendita erano esauriti da tempo e non esistevano
privati che volevano sbarazzarsene; d'altronde, se Rhea lo
desiderava, era qualcosa che non poteva avere in altro modo.
«Andrai
tu a prenderlo», decise Kara guardando sua sorella, che
spalancò
gli occhi.
«Cosa?
Perché io?», si passò una mano fra i
capelli.
«Perché
è te che ama di più».
Alex
ebbe come una specie di déjà-vu e si
accigliò.
Al
fianco di Kara sedute sul suo lettino del campus, Lena si rivolse ad
Alex: «Sei quasi mia sorella, potresti andare da lui con la
scusa
che mi stai aiutando a raccogliere materiale per l'asta. Solitamente
mando fattorini, si aspetterà qualcuno in ogni caso. Vai, ti
giri
intorno e noti il quadro».
«È
un oggetto di valore, non me lo cederà per
un'asta», protestò.
«Beh,
forse…», mormorò Kara e le due la
fissarono: «Ha una specie di
cotta per te, magari se glielo chiedi
gentilmente…».
Alex
assottigliò il suo sguardo, infine sbottò:
«No! Mi rifiuto
categoricamente di partecipare a questa cosa».
Le
ultime parole famose. Se le impresse bene a mente quando si
ritrovò
all'interno dell'ascensore alla Lord Technologies, pronta, o quasi,
per incontrare Maxwell Lord. Odiava essere lì. E odiava quel
piano.
Ma sfortunatamente era l'unico che poteva funzionare e avevano
davvero disperatamente bisogno di quel quadretto. Era il ventisette
dicembre, fuori c'era il nevischio, e lei era all'interno di un
ascensore pregando di non dover di nuovo colpire un uomo polpo.
«Non
ti agitare, tesoro. So che lo sei»,
la dolce voce di Maggie all'orecchio sinistro la fece sorridere,
alzando una mano per sistemare bene l'apparecchietto, poco
più piccolo di un'auricolare.
«Preferirei
dover affrontare un'invasione aliena proprio in questo momento
piuttosto che Maxwell ManoLesta
Lord, credimi», mormorò.
«Porta
pazienza. Ti sono vicina», le ricordò con un
sorriso, anche se non
poteva vederla. Kara le stava alitando sul collo, come se avesse
voluto sfilarle le cuffiette a una sua distrazione.
Appena
aveva saputo del piano e di tutta la storia sul messaggio del profilo
misterioso, Maggie aveva portato a casa, in prestito dalla stazione
di polizia, un kit con microauricolare e ricetrasmittente in modo che
potessero restare in contatto con lei. Alex ne era rimasta talmente
entusiasta che il suo ringraziamento fu un ti
amo
seguito da un abbraccio. Anche lei sapeva bene quanto non amasse
quell'uomo, le aveva raccontato qualcosa del loro unico incontro a
Metropolis, ma sapeva anche quanto era importante che riuscissero ad
avere quel quadro.
«Che
cos'ha detto?», domandò Kara, sporgendosi ancora
un po' su di lei,
come se avesse potuto ascoltare meglio. Maggie le rispose che era
ancora in ascensore e così guardò Lena, seduta
sul lettino di Megan
lì al dormitorio del campus, che le annuì.
«Ecco,
sono arrivata. Augurami buona fortuna»,
la sentì.
Alex
prese un bel respiro e sistemò di nuovo l'auricolare e la
collana
sotto il maglioncino, che conteneva il microfono e l'antenna, quando
vide le porte dell'ascensore aprirsi. Si guardò intorno e
sorpassò
un Alberello di Natale in un angolo per dirigersi verso la scrivania
della segretaria a metri da lì. «Vado a parlare
con la segretaria»,
sussurrò a bocca stretta, «Vedo l'ufficio di Lord,
ha le porte a
vetro. È seduto dietro la scrivania».
«Va
bene», annuì Maggie, guardando Kara al suo fianco
che smaniava per
avere notizie, «Tra poco sentiremo tutto».
«Cosa?
Cosa sentiremo?», la guardò accigliata,
«Io non sento niente,
senti solo tu». Maggie scrollò le spalle mentre
Lena disse di
calmarsi. «Non sono agitata, m-ma Alex deve prendere quel
quadro
cercando di non destare sospetti e Maxwell Lord ha una cotta per lei,
ha cercato di baciarla quando voleva rifiutarlo e presto saranno soli
in un ufficio in un piano di un palazzo dove non c'è
nient'altro».
«L'ufficio
ha le porte a vetro e fuori c'è la segretaria», le
fece sapere
Maggie.
«Lo
so, te l'ho detto io»,
corrugò lo sguardo Alex, avvicinandosi alla scrivania.
«No,
Danvers, parlavo con Kara».
«Cosa?
Cosa ha detto?», Kara le strinse un braccio.
«Che
me l'ha detto lei», scosse la testa.
«Cosa
ti ha detto lei?»,
sussurrò appena Alex con tono imbronciato.
«Ma
no, anche adesso parlavo con Kara».
Kara
le tirò una manica. «Insomma, stai parlando con me
o con Alex?».
Maggie
si scambiò uno sguardo con Lena in cerca di comprensione,
così
mentre lei si portava una mano sulla fronte, decise di abbassare le
cuffie e accendere il vivavoce. «Okay, Danvers, adesso ti
sentiamo
tutte».
Alex
annuì un poco, come se avessero potuto immaginare il gesto,
intanto
che prendeva l'attenzione della segretaria. Le chiese appena se
avesse appuntamento che le porte a vetri si spalancarono e il giovane
uomo prese la loro attenzione, mostrando un sorriso.
«E
poi gira voce che Babbo Natale non esista», esordì
e Alex si sforzò
di sorridere. «Un bel regalo in ritardo è pur
sempre un bel
regalo», la invitò ad accomodarsi con un gesto e
Alex, dall'altra
parte del suo auricolare, sentì le ragazze esprimersi con
versi
divertiti.
«Troppo
audace»,
disse Maggie.
«Cascamorto»,
commentò Lena.
«Se
la sfiora gli spezzo un dito»,
borbottò invece Kara.
Alex
continuò a sorridere con forza ed entrò
nell'ufficio che era ben
illuminato e odorava di menta. Lanciò una rapida occhiata
intorno a
lei, tra scaffali pieni di libri, di titoli e diplomi appesi, delle
piante in vaso, tanto che quando si sedette davanti a lui, aveva
già
scorto il quadretto interessato, affisso accanto ad altri quadri con
su dipinte delle piante.
«Stentavo
a credere alle mie orecchie quando mi hanno chiamato dal pian terreno
per dirmi che una certa Alex Danvers era qui per me».
I
commenti di disapprovazione non si fecero attendere e Alex trattenne
le risa. «N-Non sono qui per una visita di
piacere».
«Lo
so, mi hanno riferito anche questo. E così, quest'anno Lena
Luthor
affida le commissioni alla famiglia. Immagino sia un modo per
rendervi unite», le sorrise, incrociando le dita delle mani,
poggiando le braccia sulla scrivania e osservandola con interesse.
«Diciamo
che è così…». Si
grattò una gamba: il suo sguardo la metteva a
disagio.
Lui
strinse le labbra e all'improvviso abbassò gli occhi,
pensando.
«Voglio chiederle scusa, signorina Danvers. A Metropolis mi
ha
trovato un po'… per
le mie;
altre cose per la testa mi hanno impedito di comportarmi come il
gentiluomo che lei merita di conoscere. Non voglio arrancare scuse,
ma voglio che lei sappia che sono davvero dispiaciuto»,
scrollò le
spalle, «di… aver cercato di rubarle un bacio.
Ammetto di essermi
meritato quel colpo. Bel
colpo,
se posso permettermi», abbozzò una risata.
«Oh,
la mossa delle scuse…»,
borbottò Maggie; ad Alex parve quasi di vederla mentre
inclinava la
testa da un lato. «È
davvero interessato, Danvers. Prova a non farmi ingelosire».
Alex
abbassò gli occhi solo per un attimo, sorridendo, poi
spalancò la
bocca e prese fiato. «Non giriamoci intorno, sono qui solo
per fare
un favore a Lena Luthor e non per… fare amicizia»,
alzò le
sopracciglia e lui annuì, stringendo le labbra.
«Molto
bene. Allora…», si alzò mettendo le
braccia dietro la schiena,
così si alzò anche Alex. «Solitamente,
la giovane Luthor lascia
decidere me cosa donare per l'asta».
«Idiozie»,
sentì chiara la voce di Lena, «Mette
la cosa a suo favore in modo che possa sbarazzarsi di qualche
cianfrusaglia. Ho già parlato con lui, gli ho spiegato che
avevo in
mente un dipinto. È un collezionista, ne ha sempre da
parte».
La
ragazza annuì, voltandosi direttamente verso la parete con i
quadretti. «È un appassionato di piante e fiori,
signor Lord?».
«Lo
sono di qualsiasi cosa che abbia fascino», sorrise,
guardandola
attentamente.
«Uh,
questa è fine»,
commentò Maggie.
«Non
gli basta sentirgli dire di no una volta»,
ruggì Kara, «È
recidivo».
Alex
prese respiro e lui se ne accorse. «Lei cosa ne pensa,
signorina
Danvers?».
«C'è
di meglio», sbottò e gli sorrise a sua volta.
«Lena mi ha riferito
che è un collezionista, che ha sempre dei quadri da
parte».
«Come
ho detto, sono un appassionato di qualsiasi cosa abbia fascino.
È
certo che nessun quadro che posseggo, né che sia mai stato
inventato, possa mai essere bello quanto la creatura che ho davanti
agli occhi».
«Uh,
ew»,
udì le voci di Kara, Maggie, Lena e… quella era
Megan?
«Da
dove sei spuntata fuori?»,
domandò Kara.
«Ragazze,
ho aperto la porta e nessuno mi ha notata. Credevo steste ascoltando
un audiolibro. Ma quella era Alex?».
«Shh.
Alex è con Maxwell Lord in questo momento»,
Maggie tentò di abbassare la voce.
«È
meglio di un audiolibro»,
rispose Megan.
«Shh».
Alex
spalancò gli occhi. Rimase forse per troppo tempo incantata
ad
ascoltare le voci nella sua testa che Max Lord si avvicinò,
cercando
di attirare la sua attenzione. «Sicuramente anche di quelli
che
inventeranno un giorno», aggiunse con soddisfazione,
«Ma non voglio
adularla».
«Non
lo farebbe mai»,
sussurrò Maggie.
«Non
ne è capace»,
concordò Lena.
«Solo
che finora non ha fatto altro»,
brontolò Kara.
«Ragazze,
non sento»,
le rimproverò Megan.
«Mi
chiedeva dei quadri… Non ne ho portati con me, ma se
desidera può
venirli a vedere a casa, così sceglie lei quello che secondo
il suo
gradimento è il migliore per l'asta»,
annuì. «Sono a sua
disposizione».
«Eh
no! Questo è troppo»,
sentì sua sorella agitarsi.
«Ehi,
sto cercando di sentire come finisce»,
bisbigliò Megan.
Alex
deglutì e si portò una mano all'orecchio
sinistro, alla
microauricolare, spegnendola accompagnando un forzato sorriso.
«Mmh,
no, secondo il mio gradimento il migliore per l'asta è tra
quelli
sul muro, ma grazie lo stesso».
«Perdoni
se ci ho provato».
Lui
scrollò le spalle e lei incurvò la testa,
regalandogli uno
sprezzante sorriso. Il tutto mentre, dall'altra parte, si scatenava
il putiferio.
«Oh
cielo, Maxwell Lord ha preso Alex», sbottò Kara,
alzandosi di
scatto dal letto accanto a Maggie. «Deve aver trovato
l'auricolare
e- oh,
non oso pensare cosa le stia facendo adesso. Calmiamoci
tutte», le
guardò una per una, «Devo volare da lei
subito».
«No»,
la fermò Maggie ad un polso, «Torna qui,
sorellina, vedrai che sta
bene».
Lena
annuì, alzandosi e prendendo lei i polsi di Kara per farla
tranquillizzare. «Alex deve aver spento l'auricolare
perché stavamo
facendo confusione. Adesso rilassati, la sentiremo tra poco».
La
fece sedere al suo fianco e la vide lanciare un'occhiata alla
ricetrasmittente.
«Okay.
Ma se non si farà sentire entro cinque minuti,
sarà Maxwell Lord a
sentire me».
Intanto,
in mezzo ai due letti seduta a terra con gambe incrociate, Megan
sospirò. «Ci tenevo a sentire come
finiva… uff».
In
un altro contesto, e se non fosse un marpione tanto spregiudicato,
Alex era convinta che avrebbe potuto apprezzare alcune
caratteristiche di quell'uomo. In fondo non era neanche tanto male,
da qualche parte scorgeva un minimo di simpatia, ma anche al di
là
del suo tanto plateale interesse verso di lei, il suo sesto senso non
la convinceva per niente. «Quello sarebbe
perfetto», indicò il
quadretto in mezzo ad altri, «Mi piace, ha un non so che
di…
speciale». Lo sentì mugugnare.
«Mi
spiace, signorina Danvers, ma quel quadretto è davvero tanto
speciale come crede e non posso darglielo. Non metto in
dubbio»,
rise, «che animerebbe l'asta alla Luthor Corp, ma vede,
è una
vincita di tanto tempo fa, un ricordo, ci sono davvero tanto
affezionato».
«Un
ricordo?», domandò, mostrandosi interessata.
Sperava di convincerlo
a cederglielo con qualche moina, ma quando iniziò a parlare
si rese
conto che quello che aveva da dire poteva essere importante su Rhea
Gand.
«Quella
donna tanto pericolosa, non
lo crede anche lei?»,
guardò il quadro e poi Alex, «mi diede quel
quadretto quando perse
con me una scommessa. Allora ero praticamente un ragazzo, mi
affacciavo al mondo dei grandi in punta di piedi, ero aiutato
dall'esterno
perché mio padre si disinteressava dei miei piccoli successi
e Rhea
Gand, anche se allora suo marito era agli albori della sua carriera
politica e lei era solo una segretaria, era una donna che mi incuteva
un certo timore, come spiegarmi», ridacchiò per
sé e alzò le
sopracciglia, perdendosi nei ricordi. «Già allora
si comportava
come se il mondo dovesse sottostare al suo volere e può
immaginare
che effetto facesse a un ragazzo un po' insicuro com'ero quando i
nostri percorsi, per volere del sindaco e di altre persone influenti,
si incrociavano. L'ho conosciuta così. Lei era tra le
persone che
non credevano in me, che non avrei portato in alto la Lord
Technologies. Posso assicurare che lei non credeva e non crede
tuttora a nessuno, non che fosse personale, però…
feci con lei una
scommessa, una soltanto», strinse i denti e
abbozzò un sorriso,
«che entro tre mesi sarei riuscito a farmi un nome.
Quell'unica
scommessa», s'inumidì le labbra con emozione,
puntando in alto il
dito indice destro. «Quasi allo scadere di quei tre mesi, la
Lord
Technologies e il mio lavoro furono sulla
bocca di tutta National City», sorrise entusiasta.
«Potevo
finalmente competere con le grandi industrie. Vinsi e Rhea Gand mi
diede il quadretto che avevo scelto. Quello», lo
indicò, «Quel
quadretto. Quel quadretto segna il punto di svolta della mia
carriera. Ah,
naturalmente, mi creda, ha provato spesso a farmi un'offerta per
riaverlo, ma una scommessa persa è una scommessa persa».
«Quindi
è uno a cui piace scommettere», lo
guardò con la coda dell'occhio.
Lui
abbassò lo sguardo e sorrise, dando dopo pochi secondi di
attesa di
nuovo a lei la sua completa attenzione. «Mi piace
vincere», la
corresse, aggiungendo: «Ottengo sempre quello che
voglio».
Oh,
ora era certa che se avrebbero voluto quel quadretto, avrebbero
dovuto rubarlo. Come avrebbe fatto a convincerlo a regalarle una cosa
tanto importante per lui? Per un'asta, poi, dove sarebbe tornato in
mano alla sua precedente proprietaria.
«Non
metta su quella faccia, signorina Danvers, o potrei quasi cedere solo
per vederle fare un sorriso».
Alex
spalancò gli occhi: voleva davvero dire che era
corrompibile?
«Accidenti, è che…»,
increspò le labbra e ciondolò un po',
senza esagerare. Il tanto per non sentirsi sporca dentro.
«Non so,
come l'ho visto ho pensato è
perfetto,
che se lo avessi portato alla Luthor Corp, Lena e Lillian…
oh, è
una cosa così sciocca», scosse un poco la testa e
attese una sua
reazione.
«Sono
altre le cose sciocche, se mi permette», non si fece
attendere
troppo. «Mi dica».
Così
Alex si voltò a lui, aggrottando le sopracciglia.
«Ma no, davvero.
Mi rendo conto solo adesso che non ne vale la pena».
«Ma
dai, non si faccia pregare».
«E
va bene», sbuffò. «Il fatto è
che i Luthor stanno diventando
parte della mia famiglia adesso, sono diversi da noi, abituati a un
altro stile di vita e…», lasciò senza
terminare la frase,
scuotendo ancora la testa. «Pensavo di cogliere
quest'occasione per
far vedere ai Luthor che sono all'altezza del loro nome, che posso
essere parte della loro famiglia a tutti gli effetti! Quel quadretto
mi ha ispirato, come dire, come se avesse potuto dare anche a me
un…
un punto di svolta». Lo vide accigliarsi e capì di
aver osato
troppo. Accidenti. Accidenti. Aveva sbagliato. Aveva perso la sua
occasione d'oro?
Quando
rientrò al dormitorio del campus, Kara spostò di
lato Maggie che
stava per andare a salutarla e le saltò addosso. Certo, si
era
calmata quando Alex aveva riattivato l'auricolare e spiegato che
stava tornando da loro, ma era rimasta in stato di ansia perpetua per
tutto il tempo e solo rivederla le aveva fatto tirare un sospiro di
sollievo. Anche tra le sue braccia borbottò qualcosa contro
Maxwell
Lord.
«Allora,
com'è andata?», le chiese Megan, incrociando le
braccia al petto.
Non
sapeva quanto l'amica di sua sorella fosse a conoscenza di tutta
quella storia, ma non indagò, aprì invece la sua
borsa e,
lentamente e con cautela, tirò fuori un fagotto di stracci,
poggiandolo su un lettino. Tolse uno strato e poi l'altro, mostrando
il quadretto. Ce l'aveva fatta.
Tutte
sorrisero e Maggie l'abbracciò e poi la baciò,
stringendola ancora.
«Hai vinto, Danvers. Perché non ti vedo
raggiante?».
«Mh,
non so, forse ho giudicato male Maxwell Lord e quel quadro era
davvero importante per lui».
«Oh,
hai un cuore d'oro», le circondò il viso con le
mani e la baciò,
per poi allontanarsi a vedere il quadro insieme a Kara.
Alex
si tenne in disparte e Lena la raggiunse. «Sei davvero
dispiaciuta
per lui? Hai fatto ciò che dovevi».
Alex
annuì appena, tirando indietro le labbra. «Ssì…»,
si avvicinò a lei, iniziando a bisbigliare: «In
verità quel
bastardo mi ha sottratto un appuntamento». Lena
spalancò gli occhi,
restando immobile, mentre lei continuava: «Come
amici
ha specificato, quando gli ho spiegato, di
nuovo,
di essere felicemente fidanzata. Dovevo accontentarlo se volevo
portare a casa quel quadro».
«Ti
sei sacrificata come un bravo soldato», bofonchiò,
annuendo.
«Ho
fatto la mia parte, Luthor. Ora tocca a te. E dovrò pagare
da sola».
«Già».
Megan
diede un'occhiata al quadro e dopo si avvicinò alle due,
estraendo
un sorriso. «Sì, bello il dipinto, ma io mi
riferivo alla
situazione tra te e Maxwell Lord. Niente baci e abbracci?».
Alex
la degnò appena di un'occhiata.
Se
la prima parte del loro piano si era conclusa con la loro vittoria e
qualche effetto collaterale, la seconda era più lunga ma
molto più
semplice. Mentre Winn coordinava i lavori per l'asta da solo per la
prima volta, telefonando di tanto in tanto Lena per avere da lei
delle dritte, quest'ultima cancellava i dati della microspia che
riportavano al D.A.O.. Era il ventotto dicembre, erano pochi gli
uffici e i laboratori ancora aperti alla Luthor Corp, e la voce di
Kara, in quell'aula dov'erano solo loro due, rimbombava contro le
pareti.
«Non
ha piovuto troppo, anche se all'esterno per una passeggiata ci siamo
rimasti poco… Alla fine ci siamo divertiti»,
parlava di
quell'uscita del ventisei dicembre da almeno venti minuti, con un
sorriso stampato in faccia e gli occhi che brillavano.
«Jeremiah non
ha chiesto a te e Lex di venire perché vi conosce appena, ma
alla
prossima glielo proporrò, così possiamo passare
del tempo assieme e
avrete modo di conoscervi meglio».
«Non
importa», mormorò, attenta al portatile.
«Come?
Non ti va di passare del tempo con me, Alex e Jeremiah?».
Lena
prese respiro e allontanò gli occhi dallo schermo,
voltandosi verso
di lei. «Non è questione che mi vada o no, ma lui
è vostro padre.
Porta fuori voi due perché siete le sue figlie, Lex ed io
siamo di
troppo».
Kara
aggrottò lo sguardo, non del tutto soddisfatta di quella
risposta.
«Ma adesso siete di famiglia, quindi…».
«Non
la sua famiglia», si scambiarono uno sguardo e le propose con
una
mano di passare dalla sua parte e raggiungerla. «Va bene
così, è
un tempo solo per voi».
Kara
le arrivò accanto e si sporse verso di lei che era seduta su
una
sedia a ruote, poggiandole le braccia sulle spalle.
«È solo che…».
«Cosa?».
«Mi
dispiaceva uscire e lasciarti lì…».
«Mia
salvatrice», sussurrò, guardandole le labbra. Kara
si abbassò e
Lena le portò via un bacio, lentamente, dandosi modo di
assaggiarsi,
scoprirsi poco a poco. Tanto prese dal loro momento che non si
accorsero della porta del laboratorio che si apriva:
«Signorina
Luthor, avrei bisogno di- aah!»,
Winn tornò indietro di un passo, spalancando la bocca e
alzando le
braccia e un ginocchio, d'istinto.
Loro
si separarono ma, voltandosi verso la porta, lui non c'era
già più
e quella si chiuse da sola.
Il
loro tempo era finito. Lo sapevano. Avevano deciso che dopo Natale
avrebbero scoperto le carte e fatto coming out: dire alle loro madri
di stare insieme equivaleva a non nascondersi più, essere
libere,
vivere la loro relazione alla luce del sole con chiunque. Con il loro
piano della microspia in casa Gand avevano avuto qualche intoppo, ma
erano ancora di quell'idea. Si sentivano pronte, dopotutto. O quasi.
«Sei
riuscita anche tu a parlargli?», le chiese Lena una volta in
auto
con Ferdinand alla guida, di ritorno verso il campus di Kara. La vide
annuire, ma non sembrava così particolarmente convinta.
«Credo
che per lui sia stato come…», si voltò,
abbozzando appena un
sorriso, «essere un bambino e scoprire papà e
mamma a letto insieme
che si fanno le coccole», annuì ancora e infine
rise.
Anche
Lena sorrise. «Mi è parso un po' sconvolto, in
effetti. Aveva anche
una cotta per te».
«Come?
Winn?».
«Non
dirmi che non te ne sei mai accorta, quel ragazzo è un libro
aperto».
Kara
spalancò gli occhi e la bocca, arrivando a toccarsi il petto
con una
mano. «Tu menti! Non è possibile! Si è
sempre comportato così da
buon amico, con me…».
Lena
le toccò il naso con un dito, ricominciando a ridere.
«Sei la sola
persona al mondo più ingenua di lui».
Si
guardarono e si avvicinarono, ma lanciando un'occhiata al posto di
guida si lasciarono, cercando di tornare serie.
«E
il nostro lavoro…? Hai concluso?»,
domandò Kara.
«Sì.
Domani avverrà l'installazione».
«Ci
siamo quasi».
Si
strinsero le mani e si lasciarono andare quando la macchina si
fermò
davanti al cancello, per andare ognuna per la propria strada.
Entrambe si chiesero come sarebbe cambiata la loro routine quando non
avrebbero più dovuto fingere di non stare insieme. Se Kara
avrebbe
potuto dormire in villa ogni tanto, se Lena si sarebbe sentita un po'
meno sulle spine ogni volta che guardava sua madre ed Eliza insieme.
A quel proposito, se c'era qualcosa che spingeva Lena a fare
retromarcia sulla questione, era proprio sua madre: ogni volta che le
rivolgeva la parola faceva finta di non sentirla, aveva un
temperamento più chiuso anche con la sua futura sposa ed era
troppo
sulle sue, passava perfino più tempo del solito in
dependance, forse
a rivedere le vecchie cose di suo padre. Era decisamente strana ma
normalmente non ci avrebbe dato peso, ora tuttavia sperava che le
tornasse il buon umore molto presto perché avrebbero dovuto
avere
ogni tipo di aiuto possibile per quando avrebbero affrontato
l'argomento con loro.
Il
pomeriggio seguente, Lena tornò in laboratorio con il
quadretto per
lavorare con Winn sull'installazione della microspia ripulita. Era
già chiusa lì dentro dando una nuova occhiata
alla microspia quando
arrivò Kara con delle tazze da viaggio fumanti intorno a un
braccio.
Portò anche una scatola di ciambelle sperando nel perdono,
considerata l'amara sorpresa, del ragazzo.
«Così
potremmo tornare a essere amici senza…»,
agitò le mani, per poi
prenderne una e assaggiarla, «senza imbarazzi,
diciamo».
Lena
la sentì mugugnare un Sono
buone
intanto che si avvicinava a lei. L'avvolse con le sue braccia e
aspettò che ingoiasse. «È un gesto
carino».
«Grazie»,
disse ormai sulle sue labbra, prima di avvicinarsi ancora e baciarla.
Si strinsero e, mentre le mani di Kara l'avvolsero sui fianchi,
quelle di Lena arrivarono ad accarezzarle il contorno del viso, il
collo, insinuandosi fin su all'elastico per capelli, tentandoglielo.
Tanto prese da loro stesse che non si accorsero della porta che si
apriva:
«Signorina
Luthor, sono a sua disposi- aah!»,
Winn tornò di nuovo indietro, alzando le braccia e un
ginocchio,
sparì prima che potessero voltarsi verso la porta.
Lena
contrasse le sopracciglia in disperazione intanto che Kara la
rassicurava che sarebbe andata lei a recuperarlo.
Era
il ventinove dicembre, fuori pioveva a dirotto e all'interno di un
laboratorio alla Luthor Corp, Lena Luthor e Winn Schott Jr.
installavano con minuziosa attenzione una microspia nella struttura
di un quadretto prezioso. Era un lavoro semplice, ma richiedeva
davvero molta cura e un minimo errore poteva compromettere il valore
dell'oggetto, senza contare che la sua vecchia proprietaria avrebbe
notato delle differenze. Non doveva esserci nemmeno un graffio.
Un'ora ed era tutto finito; lasciando riposare il quadro all'interno
del suo fagotto di stracci, loro si erano seduti a mangiare
ciambelle, ripensando al piano. O almeno le ragazze.
«Credo
che mi sia sfuggito il motivo per cui abbiamo messo quella microspia
all'interno di un quadro che venderemo all'asta di domani».
Winn guardò le due, per poi masticare di nuovo.
«Non
l'abbiamo detto», chiosò Lena e lui
annuì, ma non si erano perse
il fatto che fosse un po' deluso.
Come
al solito, Lena si fece venire a prendere da Ferdinand in auto,
portarono Kara al campus e poi l'autista la scortò in villa.
Eliza
stava organizzando il pranzo di Capodanno nella sua casa fuori
National City e di tanto in tanto la sentiva parlare al telefono per
convincere qualche vecchio amico o collega di lavoro a partecipare
alla festa. Immaginava che Lillian si sarebbe sentita un po' a
disagio in un ritrovo intimo informale, ma di certo quel fatto non
giustificava quel suo bizzarro comportamento. Appena tornò a
casa,
udì Eliza al cellulare verso la cucina e lei, sua madre, era
davanti
alla porta della biblioteca con un'espressione contratta in volto.
Appena la vide, il suo essere contraria parve aumentare e Lena la
scorse mettersi una mano sulla fronte e darle le spalle, camminando
via. Anche in quel momento, la ragazza decise di starsi zitta e
andare a farsi un bagno caldo per rilassarsi.
Così,
il tanto atteso giorno dell'asta per beneficenza alla Luthor Corp
arrivò. Era già pomeriggio e Lena
indossò un abito scuro, aperto
sulla schiena e stretto sulle ginocchia, si tirò in alto i
capelli e
ripeté varie volte davanti allo specchio, da diverse
angolazioni, il
discorso che avrebbe aperto l'asta. Era un po' agitata, ammetteva a
se stessa, lo era ogni anno ma quello in special modo lo era un poco
di più per via del loro piano. Sperava davvero che tutto
andasse
come organizzato o non avrebbero avuto pronto un piano B da seguire.
Se anche solo Rhea Gand avesse deciso di non partecipare…
Era come
se Kara le avesse letto nel pensiero, guardando il suo cellulare che
vibrava sulla scrivania che le diceva di accettare una sua chiamata.
«Partecipa
ogni anno», affermò all'apparecchio, rispondendo
ai suoi dubbi e
così, senza che Kara potesse saperlo, anche ai propri.
«Deve
partecipare, vedrai, andrà tutto bene».
Aprì la porta di camera
sua e iniziò a percorrere il corridoio e poi le scale.
Sapeva che le
loro madri erano già uscite e che poteva parlare
liberamente.
«Allora, hai programmi per Capodanno? Pensavo di portarti in
un bel
posto, dove si vedono bene i fuochi d'artificio». Sorrise,
ascoltando la sua risposta. Forse arrossì. «Bene,
sì… è una
buona idea». Il suo sorriso si spense e le mancò
la voce quando
sorprese sua madre ai piedi delle scale che l'aspettava. Era pronta
per uscire, anche lei indossava un vestito, ma non sembrava
intenzionata a farlo nell'immediato. «Ti devo lasciare, ci
vediamo
lì». Chiuse la chiamata e finì di
scendere le scale, ignorando il
suo sguardo fintanto che poteva.
«Era
Kara?», le chiese Lillian con un tono di voce accusatorio.
Capì che
Lena aveva difficoltà a risponderle, probabilmente cercava
di capire
quanto avesse ascoltato della sua telefonata prima di farlo. Infine,
parve volerla affrontare: la vide voltarsi verso di lei e stringere
con nervosismo la borsetta che portava sotto un braccio.
Era
il trenta dicembre, ad appena un'ora e mezza dall'inizio della tanto
attesa asta alla Luthor Corp e Lena e Lillian, ancora in villa,
capirono che era arrivato il momento di parlarne.
«Avevamo
intenzione di dirvelo a giorni, veramente. Stai per dirmi che devo
lasciarla?».
La
donna scosse la testa e incurvò le labbra. «No,
cielo, no. Non devo
dettare ordini, Lena», provò ad avvicinarsi e la
figlia si vide
costretta ad accostarsi al muro. «Capirai da sola quando
è il
momento di farlo. Ma avevo bisogno di togliermi questo sassolino
dalla scarpa».
Si
scambiarono uno sguardo e Lena accennò un sorriso che tutto
era
fuorché divertito, portandosi una mano sulla fronte.
«Questo è
quello che fai sempre: rovini la mia vita, i miei rapporti sociali,
devi mettere bocca a tutto e infilarti nella mia testa
affinché io
faccia ciò che vuoi».
«È
questo che credi che io faccia? Oh, Lena, adulta e con la testa sulle
spalle e ancora non hai capito che non gira tutto intorno a
te».
«Stiamo
parlando della mia relazione con Kara».
«Esattamente:
Kara. Riguarda Kara, non te». Le strinse un polso con forza e
Lena
accennò al dolore, ma la donna non attenuò la
presa, anzi continuò
a dar forza, dando prova della palese angoscia che la tormentava.
«Ti
avevo avvertita di fare attenzione al tuo rapporto con lei, mi pare.
Non ti ha fermata il fatto che foste ormai sorellastre, ti sei
approfittata della sua ingenuità e di quanto foste vicine
per
circuirla e renderla una delle tue… Cosa, Lena, conquiste?
Ti sentivi così sola che non hai resistito?! Ti sei
attaccata al suo
affetto?».
«Smettila,
mi stai facendo male», bisbigliò incurvando le
sopracciglia, ferita
forse più dalle parole che dalla presa di quella donna su di
lei.
«Avevi
un
compito: andare d'accordo con loro. Non ti avrei mai chiesto
nient'altro e ora hai trasformato la nostra famiglia in un campo
minato con segreti, frottole e… ci vai a letto?»,
prese una pausa,
assottigliando gli occhi intanto che lei la fissava senza quasi
battere ciglio, «Oh, ma certo che ci vai a letto».
La lasciò,
allontanandosi ma non troppo, osservandola nel volto che le ricordava
un cane bastonato. «Per giorni ho pensato a cosa dirti e ora
ti
guardo e mi rendo conto che aspettare non ha giovato a nessuno, che
avrei dovuto affrontarti fin da subito».
«Non
è come credi…».
«In
cosa dovrei credere?».
Lena
si tenne il polso dolorante e si inumidì le labbra,
abbassando gli
occhi lucidi solo un attimo, per poi sfidarla ancora, mettendosi
dritta con la schiena. Deglutì. «Io la
amo».
Lillian
la fissò quasi imperscrutabile come se, arrivata a quel
punto della
discussione, si aspettasse di sentirglielo dire. Eppure quelle parole
la colpirono più di quanto credette di fare, anche se solo
per un
attimo in cui dovette anche lei ingurgitare saliva.
«Oh… Allora
dimmi, da figlia a madre, quali sono i programmi per il vostro
futuro? Dove hai intenzione di arrivare con lei? Credi che vi
sposerete, Lena? Ci hai pensato? Perché era questo che
volevi fare
una volta con Jack, non è così?».
«Non
permetterti di mettere Jack in mezzo in questa storia».
«Non
farmi passare per la strega cattiva. Sono arrabbiata, ma al di
là di
questo voglio cercare di farti capire una cosa: volevi sposarlo, lo
amavi e gli hai spezzato il cuore. Lo hai lasciato andare. Capisci
che questo non potrà succedere con Kara. Lei non se ne
andrà, è
della famiglia e dovrà vivere per sempre accanto alla
persona che le
spezzerà il cuore».
La
ragazza prese fiato, contraendo le sopracciglia e spalancando un poco
le braccia. «Stai presupponendo che le spezzerò il
cuore. Con lei è
diverso, con Kara non-», si bloccò in cerca delle
parole, lasciando
che lo sguardo venisse ingoiato dai fini occhi decisi di sua madre.
«È
sempre diverso, Lena», sussurrò e si
avvicinò per cercare ancora
con lei contatto. La figlia si allontanò d'istinto ma lei la
sfiorò
a un braccio, come a volerle lasciare una carezza, quasi pentita di
averla stretta poco prima, ritrovando un collegamento con lei.
«Ma
sei giovane. Alla tua età anch'io mi innamorai ed era
diverso. È
diverso ogni volta. Anche con tuo padre lo era, almeno
all'inizio».
Dopo aver tenuto per poco gli occhi bassi, la riguardò,
ritrovando
il suo sguardo perso nell'ascoltarla. «Sono contraria, ma non
posso
obbligarti a lasciarla adesso… prima che sia troppo tardi e
farle
del male, in modo che possiate salvare ciò che vi lega.
Vorrei solo
che ti ponessi alcune domande sulle tue precedenti relazioni e capire
se vuoi rischiare con lei. Non sei capace di mantenere delle
relazioni serie, Lena… Chiediti solo quanto dovrà
soffrire Kara
affinché tu possa capirlo». All'improvviso si
separò da lei e la
sentì recuperare fiato, come se avesse smesso di respirare
da un
po'. Lillian prese la sua giacca dall'appendiabiti e così la
borsa,
dicendo che rischiavano di fare tardi. Aprì la porta, quando
si
fermò ancora e la osservò. «I Luthor le
hanno già abbastanza
rovinato la vita, non credi?». Tirò la porta che
Lena fermò con
una spinta e con un braccio prese uno dei suoi, tirandola indietro
appena.
«Non…
rivolgermi più la parola», le disse quasi in un
soffio e Lillian,
girando lo sguardo sdegnato, non aggiunse altro, chiudendo la porta
dietro di lei. Lena ci si appoggiò contro e prese fiato
ancora,
ancora, chiudendo gli occhi che iniziavano a pizzicarle e stringendo
i pugni, poi colpendo alle sue spalle, con muto nervoso. Si aspettava
contrarietà da parte sua, ma quel discorso… era
fuori da ogni sua
immaginazione più remota. Era grata, a quel punto, che le
avesse
parlato prima che lei e Kara dicessero di stare insieme a lei ed
Eliza insieme perché non riusciva a pensare a come si
sarebbero
svolte le cose, in quella situazione. E in quel momento, di tempo per
pensarci, non ne aveva davvero: affacciandosi allo specchio si
sistemò il trucco e recuperò le chiavi di una
delle auto in garage,
pronta per l'asta e fare finta che quella discussione non fosse mai
avvenuta.
Ahi!
Capitolo più corto del solito, lo so. Questo perché, in prima stesura, il
capitolo 28 e il 29 erano un unico capitolo, ma c'erano troppe cose
da raccontare e rischiavo di farlo troppo lungo, così ho
tagliato al
discorso di Lillian a Lena e leggerete dell'asta la prossima
settimana!
Cosa
ne pensate? Vi aspettavate il discorsone di Lillian? E le sue
motivazioni per cui non dovrebbero stare insieme? Ma, soprattutto,
cosa farà adesso Lena? Lei e Kara avevano deciso di uscire
allo
scoperto, ma questo potrebbe cambiare tutto.
E
il piano? Alex è riuscita, ahilei barattandolo con un
appuntamento,
ad avere il quadro da Maxwell Lord e Lena ha cancellato i dati del
D.A.O. e inserito la microspia, ora riuscirà Rhea Gand a
comprarlo
all'asta?
E
per ora è tutto, gente! Ci rileggiamo presto con il capitolo
29 che
si intitola Come Orihime sull'altra sponda del fiume,
puntuale
di lunedì :)
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Capitolo 30 *** 29. Come Orihime sull'altra sponda del fiume ***
Quando
Lena arrivò ai pressi della Luthor Corp, nei parcheggi dove
lasciò
l'auto nel posto riservato a lei, il suo assistente Winn le venne
incontro subito. Appena la vide sbandierò le braccia,
alzando una
cartellina di fogli colorata. «Signori-», gli
mancò il fiato,
«Signorina Luthor». Arrivato al suo fianco
ansimò e continuò: «È
arrivata la signora Gand! Circa sette minuti fa! Mi aveva chiesto di
avvertirla se l'avessi vista e sì, ve-veramente ho provato a
contattarla anche al cellulare ma non ha risposto, e pensando fosse
importante sono rimasto qui fuori ad aspettarla per-per dirglielo il
prima possibile». Dopo averle passato la cartellina,
batté i denti
e si fregò le braccia infreddolite: era rimasto fuori con la
sola
camicia. La vide sfogliare i fogli all'interno della cartellina,
mentre la porta dell'azienda si apriva e li faceva passare.
«Ah,
quasi dimenticavo: la cercava Kara, emh… è
arrivata qui sui dieci
minuti fa e l'ho accompagnata al tavolo degli stuzzichini per
ingannare l'attesa».
«Hai
fatto bene», rispose freddamente, «Adesso vai, a
momenti diamo
inizio all'asta».
«Sì».
Lui annuì e sparì, per poi tornare rapido in
qualche secondo. «Sua
madre mi ha chiesto di lei, è arrivata proprio
poco…»,
assottigliò gli occhi e smise di parlare quando vide lei
ingigantirli.
«Lascia
che se la sbrighi da sola per qualsiasi cosa le venga in mente,
pensiamo all'asta».
«Subito,
signorina».
Non
ebbe il tempo di parlare con Kara all'auditorium, che salutò
distante e la vide andarsi a sedere insieme a sua sorella Alex e
Maggie Sawyer. Nel ritrovare i suoi occhi sentì un peso
enorme
all'altezza della bocca dello stomaco, intuendo che sarebbe rimasto
lì fino al momento in cui le avrebbe detto che, dopotutto,
sarebbe
stato meglio tenere ancora per loro quella relazione perché
non era
pronta a rivelarsi alle loro madri. Era l'unica scappatoia che le
veniva in mente. E poteva funzionare. Come poteva dirle che Lillian
l'aveva presa da parte per chiederle di rivedere le sue precedenti
relazioni in modo che capisse di doverla lasciare? A dispetto di
ciò
che immaginava sua madre, lei ci teneva veramente alla loro nuova
famiglia e non voleva che Kara pensasse tanto male di Lillian. In
fondo, seppure sottovalutasse i suoi sentimenti per lei, in modo poco
ortodosso quella donna sembrava volerla proteggere. La vide entrare
mano nella mano con Eliza e andarsi a sedere accanto ad alcuni
abituali compratori. Forse, pensò Lena, da Luthor sua madre
si
sentiva davvero in colpa per ciò che era successo alla
famiglia di
Kara molti anni prima.
Inquadrò
Rhea Gand in un attimo prima di accostarsi al leggio sul palco e dare
inizio all'asta con il discorso di apertura. Le era venuto bene;
nonostante avesse la voce un poco più bassa del normale, era
riuscita a restare professionale e tutti applaudirono. Vide i
giornalisti scattare foto, riprendere qualche scena, suo fratello Lex
entrare e andarsi a sedere distante da tutti, perfino Maxwell Lord
era presente, bisbigliando e sorridendo accanto a dei conoscenti, e
Rhea Gand, più attenta a fare bella impressione, a mostrarsi
membro
attivo della comunità e a portare in alto il mento, che ai
primi
pezzi dell'asta che venivano presentati dal giudice in microfono,
disposto da un lato accanto a Lena. Con i primi venti minuti di
vendita, pensò che avessero già recuperato una
buona somma per
l'ospedale pediatrico designato, ma aspettava il pezzo forte. Fino a
quel momento, la signora Gand si era fatta immortalare dalle
telecamere mentre alzava la sua paletta con il numero, ma era certa
che a vedere il quadretto, se ciò che aveva detto il profilo
misterioso era vero, si sarebbe finalmente comportata come una vera
acquirente. Ebbe ragione, poiché quando il giudice
presentò il
quadro con le parole scelte con cura da Lena e Winn il giorno prima,
la ragazza la scorse agitarsi, sistemarsi bene sulla sedia come
avesse avuto le puntine e tenere d'occhio il palco con la bava alla
bocca. Gli addetti lo portarono in visione, liberandolo dal panno
nuovo che avevano messo a proteggerlo. La televisione al centro del
palco lo mostrò a tutti e Rhea Gand, con grande
soddisfazione delle
ragazze, fu la prima ad alzare la paletta e a urlare una cifra ancor
prima che il giudice potesse annunciare il prezzo di partenza. L'uomo
guardò Lena per avere un via libera che non si fece
attendere,
vedendola annuire. Altri alzarono le palette e, presto, il quadretto
diventò l'oggetto più richiesto. Il tempo a
disposizione stava per
finire, ma Lena sussurrò al giudice di continuare, in modo
che la
cifra potesse aumentare. Era un azzardo, ma se la donna desiderava
davvero il quadretto come lasciava pensare, non se lo sarebbe
lasciato sfuggire a qualunque prezzo e Lena ne sarebbe stata un po'
più soddisfatta.
«Uh,
glielo sta facendo sudare», bisbigliò Alex in
mezzo a Kara e
Maggie.
La
ragazza diede l'ordine di chiudere e, abbozzando un sorriso, vide
Rhea Gand sospirare e abbassare la paletta, metterla in terra e dire
qualcosa alla vicina di posto, prima di allontanarsi.
L'asta
si concluse una decina di minuti dopo, accorciando il tempo degli
ultimi oggetti in vendita. Pian piano l'auditorium si
svuotò,
lasciando i compratori e pochi altri. I primi si misero in fila per
il pagamento e la consegna e Lena si spostò, godendosi lo
spettacolo
di una Rhea Gand, là in mezzo, con lo sguardo emozionato.
«Bella
asta», suo fratello la sorprese alle spalle e lei si
toccò il
petto. «Un peccato che non sia riuscito ad aggiudicarmi
niente.
Brava. Mi chiedevo solo se avessi un qualche problema con la moglie
del senatore Gand: mi pare di aver notato che l'oggetto fosse ormai
suo già molto prima che lo lasciassi dichiarare
venduto».
«Ha
soldi, se lo può permettere», rispose con voce
roca, senza
guardarlo negli occhi. «I bambini all'ospedale pediatrico ne
hanno
più bisogno di lei. E tu? Credevo fossi tornato a
Metropolis».
«No,
mi sto godendo un po' di meritata vacanza»,
accennò un sorriso.
Notò che era strana, ma non ci diede troppo peso
finché non vide
arrivare Kara in compagnia di Alex e la fidanzata di quest'ultima,
notandola alzare le spalle, muoversi in preda all'ansia come se
avesse voluto scappare e non poterlo fare, e infine grattarsi sotto
la nuca. Era incredibilmente nervosa.
«L'asta
è andata a buon fine», dichiarò Kara
con energia, alzando le mani
a pugno. Le abbassò quando sua sorella la spinse.
«Vo-Voglio dire
che è stata una bellissima asta, la prima… in
effetti… a cui
abbia mai assistito». Scambiò un sorriso con Lena
ma notò che
aveva qualcosa che non andava. «Posso rubarti un
momento?», le
domandò, congiungendo le mani.
Sfortunatamente
lo sguardo di Lena planò dietro Kara, a pochi metri da loro,
dove
Lillian ed Eliza parlavano con alcune persone. Vide sua madre alzarle
gli occhi e si gelò. «Non posso, ho davvero tanto
da fare adesso,
Winn mi sta aspettando» le rivolse lo sguardo appena e si
mosse, per
poi fare un passo indietro e riprovarci: «Ci vediamo dopo, va
bene?».
Kara
annuì lentamente, aggrottando le sopracciglia. Chiese che
cosa le
fosse preso, ma nessuno poteva risponderle. A parte forse Lex, che
seguì lo sguardo di sua sorella. Quando Lillian fu sul punto
di
tornare in villa, andò a recuperare la giacca sua e di Eliza
lasciate in portineria e lui non mancò di seguirla.
«Oh,
sei qui», sorrise lei, avvicinandolo. «Considerando
che sei ancora
a National City, cosa ne pensi se vieni a cena e resti a dormire?
C'è
ancora la tua vecchia camera, non l'ha toccata nessuno, lo
sai».
«Tu
sei…», abbassò gli occhi e
abbozzò un sorriso, prima di
guardarla e farle capire che era davvero serio,
«incredibile».
«Di
cosa parli?».
«Del
fatto che non riesci mai a farti gli affari tuoi», disse a
labbra
strette e la donna attenuò il suo sorriso, capendo a cosa si
riferiva. «Non sei contenta finché non riesci a
mettere bocca a
tutto ciò che ti circonda». Prese passo per
tornare indietro, ma si
affrettò ad aggiungere una cosa importante: «Ah!
Non disturbarti:
ho prenotato in albergo, naturalmente».
Il
profilo misterioso aveva avuto ragione e si era rivelato molto utile
e cruciale nella loro operazione microspia
in casa Gand.
Le ragazze, di nuovo in dormitorio al campus, accesero la
ricetrasmittente e la sentirono, il giorno dopo, parlare con il
marito e appendere il quadretto al muro accanto agli altri della
stessa collezione.
«A
me non piace»,
sentirono parlare Mike Gand, «È
uguale agli altri; solo il colore cambia».
«Ecco
perché non sei un critico d'arte, figlio mio: non capisci
niente.
Adesso vai»,
la sentirono strillare, probabilmente troppo vicina alla microspia.
«Uff,
non so cosa fare… Volevo invitare Kara a passare l'ultimo
dell'anno
insieme ma mi ha detto che è occupata! L'avrei inviata come
amico,
non capisco veramente che cosa devo fare con lei. Questa cosa
dell'amicizia non sta per niente funzionando».
Kara
abbassò gli occhi, imbarazzata, mentre Alex le
passò una mano su
una spalla per appoggiarla e Lena strinse le dita con le sue,
dall'altro lato.
«Lo
so io cosa devi fare: dimenticarla. Quante
volte devo ripeterlo affinché ti entri in testa? Il
mare è pieno di pesci e tu sei un ottimo partito».
«A
te, Kara non è mai piaciuta».
«E
avevo le mie ragioni. Vedi che non è riuscita a fare altro
che
rovinarti».
Tutto
si zittì. Udirono dei passi allontanarsi e solo allora la
voce di
Rhea, ancora tanto vicina alla microspia. Probabilmente doveva stare
ammirando il quadro. «Quella
stupida ragazzina… Lo ha plagiato, non pensa ad altro come
un
babbeo».
«Non
saprei…
probabilmente siamo stati troppo duri in
questa storia»,
parlò il senatore.
«Da
che parte stai?»,
domandò la donna. «Stupida
lei e stupida la Luthor. Ti sei perso il suo spettacolino ieri
all'asta: dovevi vedere come ha dilatato i tempi quando ha capito che
ero interessata al quadro. Chissà poi come sia riuscita ad
averlo da
Lord… almeno una cosa giusta l'ha fatta».
Sembrava
soddisfatta di riavere il quadretto con lei e poco importava che
pensasse che Lena aveva calcato la mano in modo da farle spendere
più
soldi, ora sapevano che era solo questione di tempo perché
riuscissero ad ottenere da lei o da lui informazioni importanti di
qualunque genere, o che magari confessassero. Erano colpevoli e non
c'era alcun dubbio; bastava solo che facessero una mossa sbagliata.
Maggie e Alex si offrirono di tenere la ricetrasmittente per prime,
registrando e salvando le cose più utili che riuscivano ad
ascoltare.
«Ehi»,
Kara si avvicinò a Lena, intanto che le altre due ritiravano
il
materiale e lo conservavano con cura all'interno di una borsa.
«Allora, per stasera? Tutto okay?». Sapeva che Lena
aveva dormito
in albergo con Lex la notte prima, ma non le aveva detto altro.
«Sì,
certo». Le sorrise, prendendole una mano e iniziando a
toccarla
delicatamente. I suoi occhi chiari erano tristi però, e
bassi.
Sfuggenti.
Kara
sollevò la mano sinistra libera per accarezzarle una guancia
fresca,
forzando la ragazza a guardarla. «Ricordi che ti avevo
chiesto di
non tagliarmi fuori dalla tua testa? Che succede? Se qualcosa non va,
puoi parlarmene».
Lena
annuì appena e le regalò un altro sorriso,
più sincero. «Ne
parleremo questa sera, va bene».
«Va
bene». Poggiò le labbra sulle sue che, dietro di
loro, Alex
rumoreggiò con la gola, così si voltarono.
«Noi
ce ne andiamo. Vi avremmo invitate a passare la sera con noi, ma pare
abbiate altri programmi in mente, quindi…».
Era
il trentuno dicembre, l'ultimo dell'anno; una giornata fredda ma poco
nuvolosa, perfetta per i fuochi d'artificio. Lena andò in
villa per
prepararsi per uscire e fu felice di non incrociare Lillian prima che
anche loro uscissero. Mentre Kara si preparava in dormitorio, Megan
le parlava dell'uscita che l'aspettava col signor Jonzz, che sarebbe
passato a breve a prenderla fuori dal cancello per andare al
ristorante. Kara era contenta per lei, ma non riusciva a non pensare
alla strana aria intorno a Lena. Credeva che con il discorso alla
viglia di Natale le cose si sarebbero rasserenate tra loro, invece
nonostante fossero passati dei giorni ricominciava a sentire il senso
pesante di malinconia contro la bocca dello stomaco: stava per
succedere qualcosa.
Uscirono
fuori ai pressi del cancello e si strinsero alle loro giacche: le
temperatura si stava abbassando. A un certo punto, Kara socchiuse gli
occhi e si accigliò, guardandosi intorno. Sentiva che c'era
qualcosa
di strano e diede un'occhiata dove poteva, scorgendo una coppietta
che usciva dal parco davanti al campus.
«Cosa
c'è?», le chiese Megan, iniziando a controllare
anche lei.
«Non
lo so… Sento come se…»,
scrollò le spalle, «Niente, lascia
perdere». Come se qualcuno le stesse osservando.
Jonzz
arrivò a breve e Megan salì in auto, scambiando
un bacio con lui.
Dovevano cercare di non farsi notare, ma in fondo era buio.
«Kara»,
la richiamò l'uomo, «Perché non aspetti
dentro il cancello?».
«Non
si preoccupi, starà arrivando».
Per
fortuna era così, poiché quella strana sensazione
cominciava a
darle realmente fastidio. Probabilmente si sbagliava però,
perché
non c'era nessuno.
Lena
passò a prenderla con un taxi. Era vestita con un lungo
abito da
sera, scollato e con spacco alto fin su una coscia, nero. I capelli
lisci, tenuti da un lato lungo la spalla. Il bracciale immancabile
sul polso. Gli occhi verde acqua risaltati dal mascara; le labbra
rosse e lucide, oh, erano da bacio. Da bacio immediato. Appena Kara
entrò all'interno del taxi e chiuse la portiera,
soffocò il saluto
di Lena con le proprie labbra sulle sue e la vettura partì.
«Scusa,
sei… No, voglio dire, tu mi devi chiedere scusa, sei
troppo…
troppo e», arrossì, parlando piano, «e
non riesco a resisterti».
La vide tirare un sorriso soddisfatto.
«Benissimo,
allora… Obiettivo raggiunto, perché non devi
proprio resistermi».
Si avvicinò e le morse l'orecchio sinistro, lasciandole
l'alito
caldo e un bacio bollente, tanto che Kara trattenne il respiro e
socchiuse gli occhi, sentendo il suo corpo farsi di gelatina e
accaldarsi. «E comunque… potrei dire lo stesso di
te», le sollevò
un boccolo biondo, raggomitolandolo con le dita.
Kara
indossava un abito da sera più corto, le arrivava alle
ginocchia e
aveva una fascia in vita, rosa pesca e aperto sulla schiena. Si era
lasciata i capelli sciolti e aveva dato volume ai boccoli, tenuti
indietro solo da due forcine rosa per lato. Aveva un trucco leggero,
le guance rosate, il rossetto color carne. Il ciondolo della collana
risaltava orgoglioso sulla base del collo. Kara rise, le prese il
viso con una mano e la baciò. Sembrava normale. Lena
sembrava se
stessa ora e la cosa la rendeva felice.
Con
sua sorpresa, il taxi le portò in stazione e salirono,
chiuse bene
nei loro giacconi, nello scomparto privato della metro che le avrebbe
portate a Metropolis entro ora di cena. Erano sole e avevano un po'
di tempo, così Lena le spiegò che avrebbe voluto
tenere ancora per
loro la relazione. Era assurdo se pensava che stavano viaggiando come
coppia verso un'altra città, che non avevano modo di
nascondersi da
sguardi indiscreti qualora ce ne sarebbero stati, e forse proprio
questo non convinse Kara, come se volesse il piede in due scarpe, ma
Lena si attenne a quella versione delle cose. Non poteva certo dire
di non esserne delusa.
«Cominciavo
a pensare che potevamo comportarci come tutte le coppie
normali», le
confidò Kara, abbassando lo sguardo.
«Perché ti sei tirata
indietro adesso?».
Lena
deglutì e anche lei rivolse altrove il suo sguardo, in cerca
di una
risposta. Aveva preparato quella sera settimane fa e pensava che per
allora ne avrebbero già parlato con le loro madri e che
tutto
sarebbe andato bene, e adesso… Di certo l'ultima cosa che
voleva
era chiedere a Kara di comportarsi in pubblico con lei come un'amica,
o una sorella. «Non credo di essere pronta. Pensavo di
esserlo, ma
ora che siamo così vicine…».
Ansimò e Kara le strinse una mano.
«Va
bene», la baciò sul capo, «Possiamo
aspettare».
Lena
le sorrise e la baciò, stavolta sulle labbra. Arrivando a
Metropolis
videro che stavano già lanciando i primi fuochi di prova e
si
incantarono, davanti al grande finestrino.
Non
ci fu bisogno di dirglielo: mossa dalle parole di Lena, Kara si
comportò di conseguenza e da quando lasciarono la metro
cercò di
attenersi al copione delle due amiche che andavano a festeggiare
insieme l'arrivo del nuovo anno. Chiamarono un taxi e si fermarono ai
pressi di un grande ristorante che Kara non conosceva, ma era di
lusso, lo capì presto: era un palazzo alto, adornato di
colonne e
archi, le automobili lasciate ai parcheggiatori costose e i clienti
erano tutti vestiti eleganti. Salirono le scale e Kara si
girò,
fermando anche Lena.
«Hai
visto qualcosa?».
«No»,
mugugnò. «No, non è niente».
Erano seguite? All'improvviso il
dubbio: e se fossero stati dei paparazzi? Avevano scoperto la loro
relazione e stavano scattando delle foto? Kara deglutì e
decise di
proseguire: non avrebbe rovinato quella serata con qualche paranoia.
Una
delle due ragazze fuori dalle tre porte automatiche d'ingresso diede
loro le benvenute. Quando entrarono, ad accoglierle fu un'immensa
sala circolare: in mezzo, come un grosso pilastro, c'era un acquario
alto almeno tre metri fino al soffitto con all'interno pesci
tropicali di ogni colore e forma; c'erano piccoli alberi di Natale
ovunque e addobbi natalizi come cordoni dorati e argentati, vischio;
intorno c'erano piccoli tavolini circondati da divani e poltrone,
tutto pieno. Sia sul soffitto che sul pavimento, lucido, grandi
disegni circolari che incantarono Kara. L'aria era calda, le luci
gialle e le pareti arancio, che davano un'aria accogliente.
Più
avanti c'erano due ascensori e dopo aver lasciato i giacconi a un
ragazzo che li portò dietro una porta e diede loro un
cartellino,
Lena la guidò per andare a prenderne uno. Le chiese se era
mai stata
lì, ma come poteva? Non sapeva neppure della sua esistenza.
Ammise
che lei c'era stata una volta sola, con suo padre quando era bambina
e che le era rimasto impresso. L'ascensore le portò al primo
piano:
lassù l'aria era diversa, le pareti erano bianco panna e
c'era anche
lì un grande acquario, stavolta rettangolare, che occupava
il centro
della sala. Si avvicinarono dai ragazzi che lavoravano dietro al
banco e Kara si perse nel guardarsi attorno, negli gli immensi vetri
invece delle pareti, al grande via vai di clienti, ai tavoli tutti
accanto ai vetri, occupati. Per un attimo si chiese se ci sarebbe
stato un tavolo anche per loro. Ora sapeva perché Lena aveva
scelto
quel posto, se non altro: spararono altri fuochi d'artificio e
attraverso i vetri si videro d'incanto; tutti gli ospiti si
affacciarono e subito applaudirono.
«Dobbiamo
attendere, dieci minuti al massimo», le sussurrò
Lena mentre si
allontanavano dal banco e un ragazzo, vestito elegante con tanto di
papillon dorato, servì loro un vassoio con due bicchieri di
champagne. C'erano altri divani e poltrone, probabilmente adibiti per
le attese, ma anche quelli erano pieni.
«Mi
stupisce una cosa», ridacchiò Kara incuriosita,
sorseggiando poi
dal suo bicchiere a coppa. «Soffri di vertigini e qui
è pieno di
vetri».
«I
vetri non possono aprirsi e fintanto che non ci vado troppo
vicino…».
Risero.
Avrebbero voluto scambiarsi un bacio, ma sapevano di non poterlo
fare.
«Kara?
Kara Danvers?». Quella voce, oh, Kara la conosceva
particolarmente
bene e le salirono i brividi seppure in quel ristorante ci fosse
caldo. Si voltò a destra e si sorprese nel vedere Siobhan
Smythe
seduta su uno di quel divanetti scuri con un gruppo di altri ragazzi
e ragazze, bicchiere di champagne alla mano. Chiese scusa al suo
gruppo e le raggiunse, ma per poco non cascò su una
poltrona,
cercando di non far cadere il contenuto del suo bicchiere.
«Ah, lo
sapevo che quel confetto rosa dovevi essere tu! E c'è anche
Lena
Luthor. Perché la cosa non mi sorprende?».
«Perché
siamo sorelle e passiamo molto tempo insieme?», rispose
prontamente
Kara.
«Sì,
chiamalo come ti pare», buttò un pesante sorso.
«Vi inviterei ad
intrattenervi con me e i miei amici ma…»,
incurvò le labbra,
«Loro sono diversi dal tipo di gente che frequentate. O
meglio che frequenti tu e Lena Luthor è costretta a farlo
per te»,
aggiunse velocemente, spalancando una mano.
Lei
alzò un sopracciglio. «Che sorpresa! Pare abbiano
più di quindici
anni».
Siobhan
sbiancò mentre Kara tratteneva una risata. Fortunatamente,
alcune
risa lontane le permisero di non ribattere, intanto che tutte e tre e
altre persone in sala si voltavano. «Ah, i due generali
insieme».
Il
generale Lane stringeva la mano di un uomo e rideva a voce
così alta
da disturbare le persone in sala. Era rosso, probabilmente
già
brillo. Accanto a lui, una donna in abito elegante.
«Quello
è il generale Lane e al suo fianco sua moglie,
Ella», esclamò Lena
in modo che Kara potesse riconoscerli. L'uomo indossava un completo
militare. «I genitori di Lois Lane».
«L'altro
invece
è
Adrian
Zod, conosciuto
semplicemente come Dru Zod»,
continuò Siobhan, «anche detto il Generale
per i suoi modi di fare autoritari. Se non avesse l'età che
ha,
personalmente, lo troverei un tipo piuttosto affascinante. È
insieme
alla famiglia, come vedo». Intorno all'uomo sui sessanta che
stringeva la mano al generale Lane c'era una donna, di sicuro la
moglie, in compagnia di una ragazza con in braccio un bambino, un
ragazzo e un altro più giovane.
«Lavorava
per la polizia di Metropolis, da qualche mese è il capitano
della
polizia a National City», precisò Lena.
Non
sapeva perché, ma Kara ebbe una brutta sensazione. E,
nondimeno,
quella di essere osservata si era fatta più forte. Si
guardò
indietro: non sapeva cosa pensava di notare, era pieno di gente ma
nessuno badava a loro. Si voltò di nuovo e diede un nuovo
sguardo ai
generali, quando all'improvviso sentì una presenza dietro di
lei e
scattò d'istinto: afferrò un braccio, spinse il
povero cameriere
all'indietro che cadde, facendo volare il vassoio vuoto. Kara lo
acchiappò a un palmo dalla testa di Siobhan, che
iniziò a urlare.
La ragazza deglutì e si accorse che la sala si era
ammutolita, tutti
fermi per assistere alla scena. Anche i due generali.
«Scu…
Scusate».
Lena
formò un sorriso e batté le mani una volta sola.
«Sembrava un
ragno».
Le
persone in sala risero e persero interesse, intanto che Kara dava una
mano al cameriere per aiutarlo ad alzarsi e ridargli il vassoio.
«Per…
Per fortuna era vuoto», sussurrò lei e lui la
guardò duro,
strappandoglielo di mani. Lo vide sfregarsi un braccio mentre si
allontanava, così adocchiò Zod e Lane che la
osservavano. Il
secondo fece un cenno con la testa e Lena ricambiò.
Siobhan
aveva ancora il fiatone. «Per poco non mi uccidevi, cosa»,
starnazzò,
toccandosi il petto. «Ti
credi un ninja, forse? Cos'era quello?
Meglio che me ne torni a sedere, prima che ti venga in mente un'altra
mossa di karate da sfogare su di me». Si allontanò
e ritornò dal
suo gruppo di amici, cominciando a parlottare e indicarla.
Una
donna, anche lei con papillon dorato, chiese alle due di seguirla
poiché il loro tavolo era pronto. Kara tirò un
sospirò di sollievo
poiché, stavolta, sapeva di essere osservata per davvero.
«Che
cos'era quello?», le domandò Lena in un bisbiglio,
raggiungendo un
ascensore a pochi passi dalla donna col papillon.
«Che
cosa?».
«Il
tentato camericidio», abbozzò una risata.
«Ah…
emh. Mi sentivo un po'… sotto pressione».
«Intendi
da Siobhan Smythe?».
Kara
ridacchiò. «Hai visto la faccia quando ha saltato
il vassoio?
Adesso sa che non deve esagerare nel farmi arrabbiare».
Lena
tentò di restare seria, infine rise anche lei. «Si
è messa a
urlare e si sono girati tutti».
Risero
insieme ed entrarono in ascensore. Questo le portò
all'ultimo piano
e, quando le porte si aprirono, Kara non poté credere ai
suoi occhi.
La ragazza col papillon sorrideva soddisfatta davanti alla sua
incredulità. Quella non era una sala come la precedente,
affatto:
c'era un solo tavolino e intorno a esso un vasto giardino, pieno di
fiori, erba, stradine da percorrere, con tanto di laghetto con carpe
koi attraversato da un piccolissimo ponte rosso di legno. A fianco
all'ascensore, c'era anche un tenero Alberello di Natale. Ma
ciò che
stupiva di più Kara era il soffitto: perché se in
quel piano le
finestre erano solo poco più grandi del normale, il soffitto
non
esisteva, era un vetro tenuto da una fine struttura che scendeva sul
muro. Alzò lo sguardo in alto e indicò le stelle,
catturata da
quando fosse meraviglioso ed enorme il cielo. La donna andò
a
spostare le sedie pronte per per loro e lasciò i
menù, ricordando a
Lena che per chiamarla le bastava schiacciare il bottone sul
telecomando lasciato sul tavolino, così riprese l'ascensore.
«È
immenso». Kara alzò le braccia e rise divertita,
iniziando a girare
in tondo tanto da farla sbandare e Lena la accolse tra le sue
braccia.
«Ma
non mi dire, ragazza dallo spazio», sorrise.
Kara
si rimise dritta e l'avvolse al collo con le braccia, catturando le
sue labbra con le proprie. Si separarono solo per riprendere fiato e,
intanto che chiusero gli occhi, si lasciarono andare, premendo
sull'altra il proprio corpo, bocca contro bocca, lingua su lingua.
Kara le portò le mani sui capelli e Lena contro i fianchi,
tastandole la schiena nuda, premendo i polpastrelli con passione.
«A-Andiamo
a mangiare, adesso», le disse poi lei, mettendosi a ridere da
sola,
«Intendo del cibo».
Kara
arrossì e abbassò la testa, portandole via un
altro veloce bacio. E
il cibo, lì, era davvero squisito. Dopo aver letto il
menù,
chiamarono la cameriera col tasto del piccolo telecomando e dopo una
decina di minuti, il tempo concesso alla cucina di preparare i primi,
arrivarono più uomini abbelliti coi papillon dorati coi
carrelli per
la cena. Mangiarono con gusto, parlando delle partite di lacrosse che
sarebbero riprese presto a gennaio, il lavoro di Lena alla Luthor
Corp, quello di Kara che si sarebbe di nuovo ritrovata a dover a che
fare con Siobhan, di Lex che in quei giorni si stava godendo National
City, infine del loro piano, di Rhea Gand, il senatore e il loro
figlio, Mike.
«Se
dovesse confessare…».
«Sapremo
che è stata lei, ma…», Lena scosse la
testa e incurvò le labbra:
Kara sapeva cosa intendeva dire.
«Non
potremo usarlo come prova perché sarebbero registrazioni
prese con
una palese violazione della privacy», si portò le
braccia sul
petto, pensandoci. «Finiremmo in un mare di guai, Maggie ci
ha
avvertito. Lei stessa passerebbe un mare di guai solo perché
ci sta
aiutando».
Lena
annuì, versandosi da bere. «Potremmo usare una
confessione come
un'altra qualsiasi informazione: contro di lei, in un altro modo,
magari spingendola a confessare in altra sede. Quello che
più
dobbiamo sperare di ricevere sono punti deboli».
Kara
prese un bel respiro, ripensando, anche solo per un attimo, a Mike.
«La cosa lo ferirà… So che Mike
è un po' tonto e tutto il resto,
ma non sa davvero chi sono i suoi genitori e non si merita di
ricevere una botta come quella. Non so come potrebbe
reagire».
«Purtroppo
non possiamo fare in altro modo».
Kara
concordò, seppure a malincuore.
«Allora…», riguardò il cielo
e
mal nascose un sorriso alla sua ragazza, coprendosi con la forchetta,
«se già con le finestre dei piani sotto non ti
potevi avvicinare,
cosa ne pensi di questo cielo stellato?».
Lena
ingurgitò un boccone, socchiudendo gli occhi e restando
più
impassibile che riusciva. «Mi concentro sui muri e cerco di
non
pensarci. Il senso di vuoto è un po' come le vertigini e
diciamo che
da piccola me lo ricordavo più divertente».
Kara
rise e così Lena con lei, arricciando il naso.
«Ma
sapevo che a te sarebbe piaciuto».
Kara
arrossì, fissandola.
Si
guardarono per un lungo tempo, mentre Lena ripensava alle parole di
sua madre e queste la ferivano ancora, riportando la sua mente a una
cena con Jack, in un altro ristorante, l'anno in cui morì
suo padre.
Lui che le stringeva una mano, lei che gli sorrideva come se lui
potesse davvero essere tutto il suo mondo. Lo aveva amato davvero e
ora amava Kara. Lo aveva lasciato e non aveva sentito niente. Stava
male per suo padre e il ragazzo con cui pensava avrebbe vissuto
accanto una vita si era rivelato per quello che era: un amore a tempo
determinato. Lo aveva amato, ma si era accorta di stare con lui solo
per abitudine, tanto che stava con altre relazioni a tempo
determinato, con delle ragazze, in cui si sentiva bene. Che sua madre
avesse ragione, in fondo? Le sue precedenti relazioni erano un
cercare un appiglio, un rifugio, un corpo caldo che la facesse
sentire non abbandonata? Capì con la morte di suo padre che
non
aveva bisogno di loro e di un rapporto forzato, che voleva vivere e
farlo amando davvero. Ma se non fosse affatto cambiata? Se la
relazione con Kara fosse la sua ricaduta? Poteva permettersi di
spezzarle il cuore?
I
fuochi d'artificio interruppero i suoi pensieri e vide Kara alzarsi e
guardare il cielo con un sorriso. «Oh, non ci credo,
guarda».
Lena
alzò lo sguardo e vide i lampi luminosi, gli scoppi, il
cielo
coperto da mille luci di ogni colore.
La
ragazza si avvicinò e la prese, portandola con lei sui
ciottoli del
giardino, sdraiandosi a terra. La tenne vicina a sé, con un
braccio
intorno al collo. «In questo modo. Se ti gira la testa, puoi
chiudere gli occhi e stringerti a me». Poi rise da sola.
«Spero non
entri qualcuno proprio ora».
«No,
è perfetto. Anche loro si saranno fermati a guardarli. Buon
anno
nuovo, Kara».
«Buon
anno nuovo anche a te». Si baciarono, illuminate da tanti
colori.
Era
il primo gennaio e le due ragazze pensarono che l'anno era iniziato
nel migliore dei modi, con i loro corpi stretti, i fuochi d'artificio
e la pancia piena. Se non fosse per quell'orribile groviglio
all'altezza della bocca dello stomaco che sentiva Kara, e per
quell'orribile pensiero nella testa di Lena che le diceva di
lasciarla.
I
fuochi durarono oltre un'ora e mezza. Le ragazze si fecero un giro
per il giardino e i camerieri passarono a prendere i piatti sporchi e
poi a portare il dolce. Mentre camminavano a piedi per raggiungere
l'albergo a poco da lì, i fuochi ricominciarono, anche se
non con la
stessa frequenza.
«Sono
bellissimi», disse Kara, di nuovo col naso
all'insù.
«Vero.
Peccato solo che oscurino le stelle: questa notte anche loro sono
bellissime», sorrise, osservandone alcune.
«Si
vedono meglio d'estate», la rassicurò Kara. Era
sul punto di
prenderle la mano, così vicina che sfiorava la sua, ma
all'ultimo
pensò che non sarebbe stato giusto e cambiò idea.
«Alcune si
incontrano solo d'estate».
«Di
cosa parli?».
Kara
le camminò davanti, facendo dei passi all'indietro,
estraendo un
sorriso. «Conosci la storia delle stelle Altair e
Vega?». In
verità, non ascoltò la sua risposta e
continuò a parlare: «Me
l'aveva raccontata…», prese una breve pausa,
bagnandosi il labbro
inferiore e riprendendo il suo sorriso, «mia zia, quando ero
piccola. Secondo un'antica leggenda, sulle sponde del Fiume Celeste,
che rappresenta la Via Lattea, viveva un imperatore del cielo, padre
di Orihime, che rappresenta la stella Vega. Orihime cuciva stoffa e
abiti per le divinità. Poiché lei non faceva che
lavorare e non
aveva tempo per l'amore, suo padre le scelse un marito: Hikoboshi, un
pastore che faceva pascolare i buoi attraverso le sponde del Fiume
Celeste. Rappresenta la stella Altair». Kara
ritornò al suo fianco
e non diede più peso ai fuochi d'artificio nel cielo,
aspettando che
il rumore finisse solo per continuare a raccontare.
Lena
la guardò incantata, anche lei senza dar peso ai fuochi che
ormai
non erano altro che un chiassoso contrattempo.
«I
due si innamorarono a prima vista», sorrise Kara.
«Da quel punto in
avanti, Hikoboshi e Orihime passarono tutto il loro tempo assieme,
dimenticando i reciproci lavori, ogni cosa», la
guardò, annuendo.
«Le divinità non avevano più abiti e i
buoi di Hikoboshi vagavano
per il cielo senza controllo. Il padre di Orihime, che era
l'imperatore, non poteva permettere che i due dimenticassero i loro
doveri per stare insieme, così li
punì». Si fermò quando si
fermò
anche Lena, ai pressi di un palazzo. «Lui li
separò e condannò a
restare ai due lati del Fiume Celeste, in modo che potessero tornare
ai propri compiti. Orihime chiaramente era distrutta e suo padre si
intenerì, concedendo ai due sposi di potersi vedere, ma solo
una
volta all'anno, il settimo giorno del settimo mese».
Arrossì quando
scorse lo sguardo di Lena rapito dal suo.
«Da
allora, il settimo giorno del settimo mese, uno stormo di gazze crea
un ponte con le loro ali e Orihime può raggiungere il suo
amato
Hikoboshi sull'altra sponda del Fiume Celeste».
Arrossì
ancor di più, sentiva le orecchie bollenti.
«Perché non mi hai
fermata se conoscevi la storia?».
«Perché
lo hai raccontato meglio di qualsiasi versione io
ricordassi», le
sorrise, portando le mani sui suoi capelli, disponendoglieli meglio
sulle spalle. «Il settimo giorno del settimo mese lunare del
calendario lunisolare, cade ad agosto».
«Dovremmo
vedere le stelle insieme, in estate».
«Approvo».
Kara
si guardò di nuovo intorno prima di seguire Lena nell'hotel,
con
ancora addosso quella strana sensazione. Non era passata, nonostante
avesse fatto finta di niente. Qualcuno le stava seguendo? Si
sforzò
per non sbuffare, per poi girarsi e guardare Lena, bellissima, che la
aspettava davanti al portone. S'incantò. Era così
affascinante, con
una strana aria stanca sugli occhi, i capelli che si erano fatti un
poco mossi per come si erano sdraiate sui ciottoli, le guance
arrossate, le labbra schiuse, lo spacco vertiginoso del vestito sotto
il giaccone. Quella coscia che sgusciava arrogante dal vestito era
una tentazione.
«Vieni?».
Kara
si voltò ancora solo una volta, poi la seguì.
L'hotel
era enorme e lussuoso e, dopo essersi presentate, le accompagnarono
nella loro camera prenotata. Erano in alto e anche da quel balcone si
vedevano chiaramente i fuochi d'artificio e, a intervallo, le stelle.
Uscirono fuori solo per poco. Lena parve volersi accoccolare tra le
sue braccia ma cambiare idea all'improvviso, rendendo Kara confusa.
«Vorrei
farti una domanda e… vorrei che mi rispondessi
sinceramente»,
propose, osservandola aprire la bocca con sorpresa. «S-Stai
pensando
di lasciarmi?».
La
sua voce era all'improvviso chiusa e Lena deglutì, rimanendo
immobile, poggiandosi al corrimano. Sapeva che ci stava mettendo
troppo a rispondere e più tempo ci impiegava, più
Kara avrebbe
pensato al peggio. Ma cosa poteva dire? La verità qual era?
«I-Io…
Cosa?», abbozzò un sorriso,
«Perché mi fai questa domanda?».
Kara
abbassò gli occhi. «Non hai… Non hai
risposto».
Tornò
dentro e Lena si fece forza, seguendola, chiudendo la portafinestra.
Le prese un braccio e, quando Kara si voltò, questa le si
gettò
addosso, baciandola e togliendole il respiro.
«Kara…».
«Shh»,
scosse la testa, «Non fa niente, era una domanda
stupida». La baciò
ancora. «Non devi rispondere a una domanda
stupida».
La
vide alzare le spalle e delineare un sorriso, prima di baciarla di
nuovo. Eppure era così triste.
Perché
doveva lasciare Kara? Non poteva capire se ciò che provava
era amore
vero stando con lei? Che Kara, a suo modo, la stesse rendendo
dipendente da lei? Dal suo calore, dal suo corpo, dai suoi baci, ma
anche soprattutto dalla sua voce, dal suo sorriso, dai suoi occhi
decisi, dal suo carattere tenero e forte allo stesso tempo. Forse
doveva davvero lasciarla per arrivare a capire se fosse un amore a
tempo determinato o no. Forse doveva davvero lasciarla
perché, se lo
era, più aspettava a farlo e più avrebbe lasciato
una voragine tra
loro impossibile da colmare. E aveva tristemente ragione sua madre:
Kara non se ne sarebbe andata, era di famiglia, e avrebbe vissuto
forzatamente con lei al suo fianco sapendo che qualcosa tra loro era
rotto e impossibile da aggiustare. L'amava e per questo doveva
lasciarla: perché non poteva sopportare l'idea della
possibilità di
farle tanto del male. Ma come poteva farlo? Come poteva, ora, che
tanto si volevano? Perché era così difficile?
Perché, seppure
senza dirle nulla, Kara era riuscita a capirlo?
Le
loro lingue si ritrovarono subito, i loro respiri strozzati, la
frenesia di un'amore, chissà, destinato a spegnersi. Kara si
separò
per prima e, con il fiatone, continuando a fissarla e camminando
all'indietro, si portò fino alla porta del bagno.
Così le fece
cenno di seguirla e Lena obbedì.
Non
dissero più una parola, attente a non rovinare quel momento.
Kara
le passò una mano sulla coscia che l'aveva tentata tanto
ardentemente per tutta la sera, stringendo forte, poi accarezzando
fin su alle natiche, mentre i loro sguardi erano vicini e Lena le
sfilò gli occhiali, poggiandoli su un mobile, per poi
affondare la
bocca nella sua. I loro respiri si fecero pesanti e caldi, intanto
che Kara le stringeva la pelle, attenta a non osare troppo. Lena le
passò le mani sui capelli e si distanziò il tanto
per vederla negli
occhi: brillavano, erano lucidi.
Avrebbe
dovuto interrompere ciò che stava per succedere; doveva,
davvero. Le
ricordò quella notte una settimana prima, alla vigilia di
Natale,
quando era lei quella tanto presa da Kara: allora, lei, aveva fermato
tutto finché non si fossero chiarite. Ma ora, che si
trovavano a
situazioni inverse, lei non ci riusciva. Non sarebbe riuscita a dire
no a Kara, a dire no a quello che stavano per fare, conscia che,
probabilmente, sarebbe stata l'ultima volta.
Kara
riuscì a slacciarle il vestito e le strinse i fianchi,
spogliandola,
alitandole sulla schiena calda, che baciò. Lena
saltò il vestito
sul pavimento e slacciò quello di Kara; le tirò
giù la chiusura e
le baciò il collo, la prima spalla liberata, il braccio, per
poi
salire lo sguardo e cercarla ancora nei suoi occhi, cercare il suo
desiderio, la sua voglia. Si baciarono con impeto e Lena le
tirò il
vestito che era rimasto in vita, portandole poi le mani sul seno, e
la bocca, slacciandole il reggiseno. Le baciò il collo;
immerse il
viso sui suoi capelli e Kara portò indietro la testa,
prendendo
grossi bocconi d'aria. Quest'ultima la circondò con le
braccia, la
strinse a sé; con la mano destra le carezzò il
collo e con la
sinistra i capelli disordinati.
Sentirono
di nuovo i fuochi d'artificio, ma erano ormai solo un sottofondo
lontano da ciò che stavano vivendo nei corpi e nella mente.
Si
sfiorarono, si accarezzarono, si baciarono e leccarono con bramosia,
finendo di spogliarsi ed entrando sotto la doccia. Lena aprì
l'acqua
e Kara si tirò indietro i capelli, lasciando che l'acqua le
scivolasse addosso. Lena fu subito su di lei, portando la bocca sui
suoi seni, facendola gemere piano e appoggiare alla parete di vetro
fredda. Portò le mani sui suoi polsi e glieli strinse,
alzandole le
braccia, aprendole le gambe con una coscia, sfiorarle il suo punto
più sensibile. Lena la lasciò andare appena Kara
si mosse,
prendendole il viso in una carezza e baciandola, e con l'altra mano
stringerle i capelli. Fu allora Kara a spingerla alla parete opposta,
così ghiacciata che Lena ansimò, ma si
lasciò guidare da lei tanto
sicura e ferma, mentre esplorava il suo corpo con le mani e con la
bocca, inchinandosi lentamente, spalancandole le gambe e poggiando la
sua lingua laddove Lena era bollente. Kara sentì il suo
corpo
vibrare sopra di lei e le strinse le cosce; era sua.
Come
doveva essersi sentito l'imperatore a dividere due cuori tanto
innamorati? Orihime era sua figlia e la stava strappando alla sua
felicità.
Lillian
era convinta di aver fatto la cosa giusta a parlarne con Lena in modo
che potesse pensare alla sua relazione con Kara e romperla ora, prima
che fosse troppo tardi. Così come l'imperatore aveva dovuto
pensare
agli Déi che non avevano più abiti e ai buoi di
Hikoboshi lasciati
al loro destino, anche Lillian aveva pensato a tante cose, da quel
giorno di Natale quando aveva scoperto che le due avevano una
relazione: che fossero sorellastre era importante, non voleva che le
ragazze, dopo una brutta rottura, minassero l'armonia familiare; ma
ciò che la tormentava davvero era molto altro. Kara era
ancora
quella bambina che, tanti anni fa, era il centro di discorsi e litigi
durati giorni tra lei e Lionel, tra loro e il resto del gruppo, con
Rhea Gand che batteva pugni sul tavolo e incitava il resto di loro a
rapirla per farla pagare alla madre. Kara era ancora quella bambina
per cui la zia, che era diventata una di loro, aveva rischiato la
libertà solo per salvarla da persone come lei. Kara era
ancora
quella bambina per cui Lionel aveva messo in discussione tutto e in
pericolo la sua vita, che alla fine aveva perso. Seppure lei e Lionel
avevano deciso di andarsene, lasciando ciò che avevano
aiutato a
costruire in mano ad altri, nessuno poteva correggere il passato e i
Luthor sarebbero sempre stati colpevoli. E gli El le vittime. Lillian
non riusciva ad accettare che una Luthor, sangue del sangue di
Lionel, del padre di Lionel, uno dei tre fondatori
dell'organizzazione, potesse intrattenere una relazione sentimentale
e sessuale con una delle loro vittime. C'era qualcosa di
profondamente sbagliato. Da Luthor, da colpevoli, avrebbero dovuto
avere il dovere di proteggere quella ragazza. Lena, che non era
capace di avere relazioni durature, le avrebbe solo fatto del male e,
da Luthor, sarebbe stata di nuovo colpevole. Non poteva permettere
che accadesse.
Ancora
non sapeva per qualche scherzo del destino si fosse innamorata di
Eliza che aveva adottato quella bambina, ma era perlomeno chiaro che
avrebbe dovuto vegliare su di lei. Lionel lo avrebbe voluto.
L'imperatore
voleva solo fare la cosa più giusta per un fine
più grande.
Non
aveva messo in conto che Lena, già adesso, si sentiva
carnefice
invece di vittima, colpevole, perché lasciare ora Kara era
probabilmente già troppo tardi. Il peso della voragine che
avrebbe
creato tra loro le stava premendo il petto come un pesante masso,
quello stesso petto che ospitava il cuore che, impazzito, batteva ora
di felicità.
Si
asciugarono e Lena la spinse sul letto. Kara era lì, per
lei, nuda e
perfetta. I suoi capelli erano spighe di grano bagnate, spettinate,
le scendevano sulle spalle e sul lenzuolo color arancio, come i raggi
del sole. Il suo sguardo era attento e la scrutava con attenzione, la
voleva. Le sue braccia erano tese, forti, che reggevano il peso del
busto orientato verso lei. I suoi seni ancora turgidi, le gambe
semiaperte, che l'aspettavano. Lena si chinò sul materasso e
salì a
gattoni disponendosi in mezzo alle sue cosce, accarezzandole,
così
si baciarono. Un fuoco d'artificio illuminò la stanza di
blu, poi di
verde, ma loro non si lasciarono neanche per un attimo, invece si
baciarono ancora, si guardarono e, nel momento in cui una mano di
Lena andò a stuzzicarle il punto desiderato tra le gambe,
Kara la
accolse, prendendo fiato.
«Rhea
Gand è rimasta a parlare al telefono come una vecchia comare
dell'asta alla Luthor Corp per ben due ore, Kara. Il primo dell'anno.
Due ore. Renditi conto di questa persona che a Capodanno, invece
di…
non so, fare qualsiasi cosa, si ritrova a pensare a Lena e all'asta.
Non ha davvero altri pensieri per la testa?».
Kara
era al cellulare sdraiata sul suo lettino del campus, ascoltando gli
aggiornamenti di Alex sulla microspia. Era passato qualche giorno da
Capodanno e a quanto sembrava, mentre loro passavano la giornata
facendo festa con amici e relazioni, Rhea Gand parlava al telefono
con un'amica del più e del meno. Rise. «Chiediti
se era messa
peggio lei che parlava al telefono o tu e Maggie che ascoltavate lei
al telefono invece di divertirvi».
Alex
ridacchiò. «Sempre lei, sorellina: Maggie ed io ci
stavamo
divertendo un mondo a sentire come minacciava Lena inventando parole
sempre nuove. Ne aveva qualcuna anche per Maxwell Lord. È
stato
istruttivo. Intanto Jamie giocava con gli altri bambini, non che
avessimo molto altro da fare. Mai
accettare inviti da altri genitori».
Alex la sentì ridere e la lasciò, dicendole che
presto si sarebbero
riviste per scrivere al profilo misterioso e ringraziarlo per la
dritta. Chiuse la chiamata e nascose il cellulare in tasca, cambiando
totalmente espressione. Accigliandosi, si spostò dal
corridoio ed
entrò nella sala più grande della sede del
D.A.O., dove tre uomini
stavano l'uno a fianco all'altro, aspettando il suo arrivo. Dispose
le mani sui fianchi e guardò con affronto quegli agenti uno
per uno.
«Mia sorella-poteva-scoprirvi»,
esclamò con cadenza e loro non mossero ciglio.
«Lei si accorge di
queste cose, potevate renderla sospettosa e se è sospettosa
trae
conclusioni affrettate e parte in quarta verso chissà dove.
Seguirla
è stata un'incoscienza. Chi vi ha autorizzati a
farlo?». Neanche il
tempo di porre la domanda che una voce roca interruppe
l'interrogatorio, affermando di essere stato lui. Alex
guardò John
Jonzz con un misto di delusione e incredulità.
«Perché mi fa
questo? Eravamo d'accordo che io avrei controllato Kara, questi
uomini-».
Lui
la interruppe: «Questi uomini», con un gesto del
capo li congedò e
si dispose accanto a lei, prendendola per le spalle in modo che lo
seguisse fuori dalla sala, «stavano provando a vegliare su
tua
sorella. Le cose sono cambiate adesso che avete messo una microspia
in casa di quella donna. Non basta più tenerla sott'occhio
come una
brava sorella maggiore, bisogna agire e tenerla sotto stretta
sorveglianza in modo che, se quella donna dovesse trovare la
microspia, non provi a farle del male».
Alex
si passò le mani sul viso, provando a ragionare.
«Lei se ne
accorge, John; sono pronta a giurare che se ne sia accorta! Non me ne
ha parlato, ma so com'è fatta. Cosa pensi che
farà quando capirà
che qualcuno la pedina?».
«Per
ora non lo so e non mi interessa, è della sua
incolumità che
parlo», aggrottò la fronte, fermo nella sua
decisione.
«Va
bene, allora…», bisbigliò scuotendo un
poco la testa, con fare
stanco e decisamente sconfitto, «Posso almeno decidere io chi
la
seguirà e come? Devo… Devo poter stare tranquilla
che non faccia
pazzie senza che io lo sappia».
Lui
annuì un poco, acconsentendo. «Va bene. Ma comportati
da agente,
non da sorella», le consigliò indicandola, intanto
che si
allontanava.
Alex
sospirò e scosse la testa; poi prese di nuovo il cellulare,
sentendolo vibrare. «Lena?», rispose al telefono.
«Sì,
organizziamo. Ci ritroviamo al dormitorio del campus di Kara, Megan
è
fuori».
Si
ritrovarono lì il giorno dopo, come avevano deciso. Lena
tirò fuori
dalla borsa il portatile e se lo portò sulle gambe, sedendo
sul
letto di Kara, intanto che le altre due si mettevano al suo fianco.
Così cliccò sull'ara messaggi nera e
sospirò, prima di scrivere
una risposta.
«Ricorda:
lo verifichiamo come fonte affidabile, non per questo realmente degno
di fiducia», precisò Alex sul suo lato destro.
«Decisamente
non mi fido di lui», ingigantì gli occhi Kara, dal
suo lato
sinistro.
Z:
Sei una fonte utile, volevo ringraziarti per la soffiata.
La
risposta arrivò a breve. X:
Ho i miei assi nella manica. Allora ho guadagnato la tua fiducia?
Z:
Andiamo
per gradi.
X:
In
fondo sono io che faccio un favore a te, cosa vuoi che ci guadagni?
Scrivimi se hai deciso.
Le
ragazze ci pensarono un po', non proprio convinte che in fondo non ci
guadagnasse nulla, non avendo proprio idea di chi fosse. Una brava
persona senza secondi fini, d'altronde, avrebbe parlato con la
polizia anni fa, se avesse voluto aiutare veramente. Ci avrebbero
pensato a lungo prima di scrivergli ancora.
Alex
decise di andarsene presto, doveva passare a prendere Jamie dalla
babysitter dato che Maggie ne avrebbe avute per le lunghe a lavoro,
così le salutò e le due restarono a fissare il
portatile per un
po', in completo silenzio.
«Sembra
come che se la sia presa», Lena parlò per prima e
alzò un
sopracciglio, spegnendo il laptop.
«Alex?».
«Il
profilo misterioso». Sistemò il portatile in borsa
e Kara aggrottò
la fronte.
«Non
m'importa», brontolò quest'ultima. «Ci
ha aiutato con il quadro,
ma non sappiamo niente di lui. O lei. Vedi?».
Scrollò le spalle e
la fece sorridere, ma il qualcosa che non andava era ancora
lì,
pendeva sulle loro teste come la spada di Damocle.
«Allora… adesso
me ne parlerai?», disse dopo aver preso fiato. L'avrebbe
lasciata.
Lena l'avrebbe lasciata e Kara lo sapeva che era solo questione di
tempo. Lo sapeva da un po' ed era arrivato il momento di affrontarlo.
Lena
restò seria e non mosse un muscolo. Era il momento. Era il
momento e
tutto di lei non era pronto.
«Io
pensavo…», iniziò, quasi senza voce,
«se non fosse il caso di
prenderci una pausa». Era riuscita a dirlo e si sentiva
ferita lei
per prima, non osava pensare a come stesse Kara, quando già
spalancò
gli occhi e si portò un po' indietro.
«…
pausa?».
«Ho
bisogno di pensare ad alcune cose e-».
Lei
la interruppe: «E-E non puoi farlo stando insieme? N-Non
riesco a
capire cosa-». Deglutì e sapeva di avere gli occhi
lucidi, mentre
il cuore le batteva furioso, tanto forte da faticare a tenere alta la
concentrazione su cosa le stava dicendo Lena. «Lo sapevo. Lo
sapevo
che… che… che mi avresti lasciata»,
sussurrò con la voce
strozzata. Lena tentò di avvicinarsi e lei si
tirò indietro. «Ma…».
No. No. Non riusciva ad affrontarlo, no. La gola le si era asciugata
e le gambe, oh, le gambe stavano per cederle. Forse tremava. No. Era
orribile. Perché glielo stava facendo dopo tutto quello che
c'era
stato tra loro? Eppure… Accidenti, eppure quella era davvero
la
risposta a tutto: dal groviglio alla bocca dello stomaco, alla
malinconia e le lacrime, e infine all'averci ripensato e non volerlo
dire alle loro madri. Lena si stava tirando indietro; magari era
stata bene, e forse… no, era sicura che lei l'aveva amata
davvero,
ma si era resa conto che erano sorellastre, che presto ci sarebbe
stato il matrimonio, che le loro vite sarebbero state complicate.
Troppo complicate. Oppure, come si era ritrovata a pensare altre
volte, si era semplicemente stancata di lei. Stancata di lei dopo
tutto ciò che era successo, perfino dopo la notte che
avevano
trascorso all'ultimo dell'anno.
«No!»,
si affrettò a dire Lena. Oh, no, no, no, no, non sarebbe
riuscita a
lasciarla davvero.
Non
voleva lasciarla. Ora lo capiva più che mai. «Vorrei
del tempo, questo non significa che-».
«Mi
ami». Kara si tirò indietro ancora un altro po',
trattenendo a
stento le lacrime.
Lena
lo vide, lo vide allora il momento in cui il cuore di Kara si
spezzò.
Capì di aver sbagliato, che era davvero già
troppo tardi. Aveva
sbagliato i conti e forse li aveva sbagliati da sempre, flirtando con
lei per gioco e lasciando che si avvicinassero tanto. Le fece del
male e, con il suo cuore che si spezzava, anche il suo non resse
più.
Il petto le faceva male, come un mostro che la graffiava dall'interno
e faticava a respirare.
«Perché
hai lasciato che succedesse?», le chiese allora, quando la
prima
lacrima le solcò una guancia. «Ti ho chiesto se
volevi lasciarmi
e-e tu non hai risposto, non hai obiettato quando ti ho detto che era
una domanda stupida e hai lasciato… hai lasciato che mi
perdessi
ancora in te, che andassimo a letto insieme, tu-», si morse
un
labbro e Lena spalancò gli occhi terrorizzati.
«No!
Ti giuro, Kara, non è come stai pensando, non lo farei
mai».
«Lo
hai fatto!», le gridò, «Però
lo hai fatto».
«Voglio
capire di più della nostra relazione, non- ti prego, Kara,
non
pensare che non ti ami veramente, non voglio lascia-».
Fu
allora Kara a interromperla, con sguardo duro. «Allora sono
io a
volerti lasciare».
«Cosa?».
«Mi
s-sento presa in giro in questo momento e… voglio essere
lasciata
sola». Strinse gli occhi chiusi e Lena restò
pietrificata davanti a
lei, senza sapere cosa fare.
«Kara…»,
le sussurrò, «Ti prego, devi
ascoltarmi».
«Ho
detto sola».
«Ti
prego…».
«Vattene!»,
gridò e spalancò gli occhi, tanto azzurri e
freddi che Lena
s'intimorì.
Lei
deglutì forzando la gola che le bruciava e, trattenendo gli
occhi
pesanti di lacrime aprì la porta, guardò per
l'ultima volta Kara,
ma lei non si mosse, non le disse di tornare indietro, non le disse
di fermarsi, non le chiese di raggiungerla, così richiuse
dietro di
lei e la sentì piangere.
Aveva
sbagliato fin da subito e creato un danno irreparabile tra loro. Si
irrigidì e strinse forte i pugni e gli occhi, rigando il
viso di
grosse lacrime. Singhiozzò e si portò una mano
contro la bocca,
appoggiandosi alla porta, cercando di reggersi e ignorare le ragazze
che passavano per il corridoio e avevano iniziato a guardarla. Il suo
corpo si stava contraendo dal dolore, non riusciva a resistergli, era
troppo forte.
Ora
lo sapeva. Sapeva come si era sentita Orihime sull'altra sponda del
fiume.
Cosa
odono le mie orecchie? Riesco a sentirlo, è un rumore
lontano. Sono…
applausi? No, forse… cuori che si spezzano. Ops.
Eeeemh,
il mio dovere mi impone di chiedervi come vi è sembrato
questo
capitolo, ma ho sinceramente un po' paura delle vostre risposte :P
Continuerò come se niente fosse, divento seria: vi
aspettavate che
sarebbe andata a finire in questo modo? Le motivazioni di Lillian, il
racconto delle stelle Altair/Hikoboshi e Vega/Orihime e il loro
paragone, Capodanno?
E,
oltre alla loro… rottura, c'è
dell'altro! La microspia è
finalmente in casa Gand insieme al quadretto: riusciranno a scoprire
qualcosa di importante? Cosa ne faranno delle informazioni? A quanto
pare John, prevedendo la pericolosità della microspia in
quella
casa, ha fatto pedinare Kara. Anche se ad Alex l'idea non è
piaciuta. Nel locale a Metropolis, Kara e Lena non hanno incontrato
solo Siobhan: ci sono due generali in città! È
finalmente svelata
l'identità del Generale nominato da Rhea
Gand capitoli
addietro? Ve lo aspettavate?
Riguardo
quest'ultimo ho piccole note da fare:
-
Ho cambiato il suo nome per forza di cose: Dru
diventa un
soprannome, mentre Adrian, che mi sembrava il
più adatto, il
suo nome di battesimo
-
Conosco poco questo personaggio, quindi l'ho caratterizzato con le
informazioni in mio possesso e delle ricerche al pc; spero possiate
comunque gradire questa mia versione di Dru Zod
-
Cercando in rete, ho capito che il Generale aveva famiglia, ma non ho
trovato nomi né quanti parenti avesse, quindi me li sono
inventata,
ahah
E
ora vi saluto, ma prima vi dico una cosa (e spero nessuno abbia
gettato il pc fuori dalla finestra: mi riferisco a te, Celian ;)):
non amo l'amaro, opto sempre per il dolce. Questa è una
rottura ma
ehi, la fan fiction non è finita!
Il
prossimo capitolo, puntuale come un orologio svizzero qui
lunedì 22,
si intitola Dipendenza da lei. Sarà uno
dei capitoli più
lunghi che abbia mai scritto ma a dispetto di questo e lo scorso non
era possibile tagliarlo. Alla prossima :)
|
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Capitolo 31 *** 30. Dipendenza da lei ***
La
giovane entrò nel locale sfoggiando un gran sorriso,
guardando
intorno a sé con interesse, odorando e chiudendo gli occhi,
assaporando ogni cosa di cui riusciva a inebriarsi. Era così
bello
essere lì, in libertà, che ancora stentava a
crederci. Si mise in
fila verso il bancone e tirò un poco fuori dalla tasca della
salopette il suo cellulare, ma non c'erano notifiche.
Stiracchiò le
braccia e, lanciando un'occhiata al bancone, scorse un ragazzo pagare
con la carta e un codice il suo cappuccino. Riprese il cellulare,
impiegando pochi click e un sospiro, fingendo disinvoltura, poi lo
infilò in tasca di nuovo. Quando il ragazzo le
passò vicino gli
sorrise e ci inciampò addosso, chiedendogli scusa e
ritornando così
in fila, guardandosi intorno ancora e tirando indietro la sua treccia
lunga e bionda. Arrivato il suo turno, tirò le auricolari
dalle
orecchie e ordinò un caffè lungo e una brioche.
«Paga
adesso?».
«Sì,
certo. Ho la carta».
La
ragazza al bancone le diede il pos e lei passò la carta e
ricopiò
tranquillamente la cifra apparsa sullo schermo del suo cellulare,
ringraziando. Si sedette su un tavolino vuoto e diede un morso alla
brioche, chiudendo gli occhi e gustandosela appieno. Una piccola
vibrazione al telefono le rovinò il momento.
Da
X a Me
Ti
ha scritto?
Lei
sbuffò, digitando rapidamente una risposta.
Buongiorno,
Indi, come stai passando la ritrovata libertà?
Grazie
per avermelo chiesto, angelo custode: tutto bene. Un ragazzo gentile
mi ha appena offerto la colazione.
Inviò,
alzando gli occhi al soffitto.
Da
X a Me
Me
lo merito, sono stat* maleducat*. Come ti senti ora che sei libera?
Ti stai godendo l'aria fredda del nuovo anno? E il nostro contatto ha
scritto?
La
giovane donna sorseggiò il suo caffè e, formando
un inebriato
sorriso, decise che ora si meritava una risposta:
No,
Lena Luthor non ha scritto niente di nuovo, ma sono certa che lo
farà
presto. Se vuoi, posso trovare un modo per accelerare la nostra
collaborazione con lei.
Da
X a Me
No.
E non usare il suo nome, nel caso qualcuno arrivi a questi messaggi.
Ha provato di nuovo ad hackerarti?
Da
Me a X
Nessuno
arriva a questi messaggi. A meno che io non voglia. E no, non ha
riprovato, deve aver capito l'antifona. Hai voluto la migliore,
ricorda. Quale sarà la nostra prossima mossa?
Da
X a Me
Nostra
mossa? Credo ci sia un fraintendimento, Indigo. Sei solo un tramite,
non un mio pari.
Lei
spense il suo sorriso e finì il caffè e la
brioche, cercando di
calmarsi, rispondendo ancora:
Mi
hai dato la libertà e te ne sarò sempre
riconoscente, ma proprio
perché sono la migliore, non dimenticarti di con chi stai
parlando:
faccio finta di non sapere chi sei, ma io arrivo ovunque. Non
mancarmi di rispetto mai più.
Da
X a Me
Non
è mio volere mancarti di rispetto e apprezzo il tuo lavoro o
non
saresti là a goderti la colazione. Ma sei tu a non doverti
dimenticare che, come ti ho fatto uscire dalla prigione, posso
tornare sui miei passi con la stessa facilità e farti
rinchiudere di
nuovo. Lavori per me: restiamo su questo accordo.
Indigo
fece una smorfia con la bocca e lasciò il tavolo, tirando su
la
chiusura del giubbino, pronta di uscire fuori dal locale al freddo.
Lasciò la carta sulla sedia.
Da
Me a X
E
sia, angelo custode. Appena si farà viva di nuovo,
sarò ponta a
lavorare per te.
Inviò,
rimise le auricolari nelle orecchie e lasciò il locale,
salutando
con un sorriso.
È
facile innamorarsi. Un'operazione naturale. Non voluto, eppure
piacevole cambiamento all'interno del proprio corpo, tanto che
all'improvviso un semplice gesto come un sorriso, da parte della
persona amata, rende il mondo più giusto. Eppure, se
è tanto facile
innamorarsi, tanto difficile è riuscire a costruire una
relazione.
La relazione è una scelta che comprende più
menti, più cuori, una
difficile gestione. Bella, ma non sempre destinata a riuscire.
Di
relazioni, Kara ammetteva che ne sapeva poco. Se di cotte ne aveva
avute parecchie tra le scuole medie e il liceo, la sola che si era
trasformata in relazione seria era quella con Mike Gand. Tanto simili
e tanto diversi; forse destinati fin dal principio a non funzionare.
D'altro
canto, Lena aveva sempre pensato che avrebbe sposato Jack Spheer, il
suo storico fidanzato. Stavano insieme da anni e anche se cercava
compagnia altrove, la ragazza non credeva di avere davvero scelta
fino alla morte del padre che aveva cambiato la sua prospettiva,
lasciando andare quel ragazzo e se stessa, liberi da una relazione
che ormai persisteva solo per inerzia. Le altre, solo relazioni di
corpi e non di mente o cuore.
La
cosa buffa dell'amore è la sua malleabilità:
può cambiare e
crescere con le persone che lo provano, ma le relazioni sono una
bilancia e se il peso da una parte all'altra è diverso,
allora
l'amore ha il potere di sgonfiarsi, arrestare la sua crescita e
cercare altrove ciò che può renderlo felice. O
quasi.
La
bilancia che teneva sul piatto i sentimenti di Kara e Lena aveva
subito uno scossone ma era rimasta in piedi. Tra loro non era finita,
lo sapevano entrambe, ma sapevano anche che qualcosa era cambiato,
lì, nel profondo, e faceva male.
Il
teatro si riempì a breve mentre, dietro gli spalti, gli
attori
finivano di prepararsi e ripassare le battute; e la crew, che correva
da una parte all'altra del palco, di sistemare gli oggetti di scena
con gli ultimi ritocchi. Kara inquadrò subito Lena e il
cuore le
saltò un battito, come volesse riuscire in qualche modo a
farle
sentire la sua mancanza. Lei e Bruce Wayne erano soli e si stavano
sedendo ai posti davanti della platea. Era bellissima, accidenti,
vestita di nero com'era solita fare, abbinata a un completo scuro di
lui. Ecco, ricominciò a farle male la pancia, lo sapeva.
Distolse lo
sguardo dalla finestrella rotta e nascose la testa tra le braccia,
aspettando l'inizio dello spettacolo.
«Non
ci credo che ti abbia lasciata». Selina spezzò il
silenzio, dietro
di lei. Stava tirando fuori i popcorn da una busta, sistemandoli
all'interno di una ciotola.
Kara
la guardò solo un attimo prima di poggiare di nuovo la testa
sulle
braccia. Al suo fianco, Ivy scrollò le spalle e Harley,
abbracciata
a lei, mise su una smorfia dispiaciuta.
«Tecnicamente… l'ho
lasciata io», trovò la forza di sussurrare, con la
voce impastata.
Si
trovavano all'interno di uno dei vecchi sgabuzzini del teatro
modernizzato da poco, a Gotham. Quando Selina aveva invitato Kara ad
andare a vedere con loro la prima di uno spettacolo, non pensava che
lo avrebbero visto da lassù, entrando sgattaiolando da un
vecchio
ingresso chiuso con qualche mattone rotto e due stecche
di legno. Lo sgabuzzino era pieno di robaccia impolverata appartenuta
a prima che il teatro fosse riaperto e ricostruito, ma la vista, da
quelle finestrelle un po' rotte, permetteva di vedere ogni angolo del
teatro, dalla platea ai palchi, dai palchi al palcoscenico. Ma, di
certo, non si aspettava di vedere Lena entrare con Bruce Wayne.
Da
quando si lasciarono aveva provato a parlare di nuovo con lei, a
lasciarle dei messaggi, delle chiamate, era andata a trovarla alla
Luthor Corp e le sembrava di essere diventata la sua stalker,
così
dopo un po' smise. Ogni volta che ci pensava, qualcosa dentro di lei
iniziava a farle tanto male che sembrava volerla spezzare in due e
piangeva. Era delusa, triste, anche arrabbiata. Dopo che la rabbia
contro Lena era passata, aveva iniziato ad accusare se stessa per non
averla lasciata parlare e ora sembrava che Lena non avesse
più nulla
da dirle. Ma la rabbia era un mostro, lo sapeva, non voleva
alimentarlo, ma cercare un contatto con lei sembrava inutile.
«L'hai
lasciata dopo che ti ha chiesto una pausa, che solitamente è
l'anteprima della separazione. Hai solo anticipato i tempi, ti sei
protetta, non hai sbagliato», continuò Selina,
avvicinandosi a loro
e porgendo i popcorn; Harley ci si tuffò a pesce.
Ivy
le scoccò un'occhiata. «E da quando sei l'esperta
in materia, tu?
Non sei mai stata con nessuno».
«E
tu cosa pensi di saperne? Ho avuto delle relazioni»,
sbottò di
rimando.
«No,
perché me ne avresti parlato, mi pare ovvio».
«Non
ti racconto tutto quello che succede nella mia vita».
«Questo
me l'avresti raccontato, tesoro; lo sai che amo le storie
d'amore».
«Puoi
amare quello che ti pare, ma non sono tenuta a dirti nien-».
«Shh»,
le interruppe Harley, indicando la finestrella davanti a lei,
rituffando la mano destra nella ciotola per pescare popcorn.
«Lo
spettacolo inizia».
Si
zittirono e Selina guardò Kara, in silenzio e sguardo basso,
che non
aveva ancora neppure toccato un popcorn. Le passò davanti al
naso la
ciotola e, quando lei alzò gli occhi, Selina le fece
l'occhiolino,
invitandola a prenderne qualcuno. Obbedì e li mise in bocca,
guardando attraverso la finestrella.
Le
luci calarono e, anche in platea, le voci si attenuarono, aspettando
l'arrivo del primo artista sul palcoscenico. Il personaggio, folta
barba bianca, vestito di stracci e malaticcio, tossì con
prepotenza
e iniziò a raccontare al pubblico della sua giovinezza e di
ciò che
aveva perso. Lena ne restò incantata.
«Conosco
l'attore», le fece sapere Bruce, a bassa voce.
«È molto bravo, lo
ha dimostrato in diversi spettacoli. Se ti interessa, dopo te lo
presento».
«Perché
no». Rispose senza guardarlo e così anche Bruce
portò di nuovo la
sua attenzione sul palco.
Il
personaggio cadde a terra e tossì ancora, rumorosamente, e
le luci
si fecero più alte, mostrando altri lati del palco e altri
personaggi, riportando in scena l'inizio della sua fine, con musica e
balletti.
Lena
strinse le labbra e tentò di restare concentrata. Il mostro
dentro
di lei, quello che era comparso dal momento che lei e Kara si erano
lasciate, ricominciò a farsi sentire, raschiandole dentro,
dal petto
allo stomaco. Il protagonista dello spettacolo, tanto per cambiare,
aveva perso il suo amore. Oh, proprio qualcosa per risollevarle il
morale.
«Ci
pensate?», bisbigliò Ivy. «Ora che Lena
è single, magari punta al
ragazzo che ti piace, Selina. Per questo sono qui insieme».
Kara
la ignorò, dando più sguardi a Lena che al palco,
intanto che
Selina ridacchiò, mettendo in bocca due popcorn.
«Non
mi piace Bruce Wayne, ma i suoi soldi».
«Sì,
ma noi lo sappiamo», cantilenò Harley scambiando
uno sguardo con
Ivy.
Le
scene rappresentate sul palco cambiarono ancora, mostrando il vecchio
protagonista stanco, adagiandosi sulla panchina vuota di una piazza,
in mezzo alla neve. Lena cambiò posa, portandosi una mano
sul mento,
sedendo meglio contro lo schienale. Guardava lo spettacolo, si
sforzava per farlo, ma i suoi pensieri erano per Kara. Non riusciva a
non pensare a lei. Perfino quando Bruce l'aveva invitata per la prima
dello spettacolo, il suo primo pensiero era volato a lei, chiedendosi
anche solo per un momento se sarebbero andate a vederlo insieme se
non fosse successo ciò che era successo.
Aveva
ottenuto il tempo che le serviva per pensare alla loro relazione, ma
lei le mancava così disperatamente che non riusciva nel suo
intento.
Per come si erano lasciate, poi… Era la sua dipendenza da
lei a
farle male o perché l'amava davvero? Sapeva che le aveva
fatto del
male e Kara, lasciandola, ne aveva fatto a lei. Il fatto che avesse
cercato di parlarle era la parte peggiore: ignorarla per darsi modo
di capirsi era stata la cosa più difficile della sua vita.
Avrebbe
potuto semplicemente lasciar perdere quel guardarsi dentro, quella
stupida ricerca della verità sul suo amore per lei e andare
a
trovarla, baciarla e rimettere le cose a posto com'erano, ma se poi
si fosse resa conto che era tutta una farsa, un'amore a tempo
determinato, chi ci avrebbe sofferto ancora era Kara. Doveva solo
lasciar passare del tempo e capirlo.
Il
protagonista ritrovò il suo amore pochi minuti prima della
conclusione dello spettacolo. L'aveva ritrovata dopo troppo tempo
pensando di averla persa, dopo aver passato anni a disperarsi di
essersene andata da lui, scoprendo che lei ancora lo amava, ma era
tardi: la malattia lo portò via da lei un'ultima volta,
separandoli
per sempre. Le tende calarono e le luci si spensero del tutto.
«Davvero
triste», commentò Bruce quando si riaccesero le
luci, scuotendo
amareggiato la testa mentre si alzava in piedi per applaudire agli
attori. «Il tempo è tiranno: aspettiamo qualcosa,
a volte anche
tutta la vita, per niente. Lui poteva andarla a cercare in qualsiasi
momento», le disse scrollando le spalle, «e invece
ha atteso tanto,
finché infine non c'era più tempo. Queste cose mi
lasciano tanto da
pensare ogni volta. Un bello spettacolo».
Lena
annuì brevemente, applaudendo anche lei. «Aveva
avuto i suoi
motivi».
«Sì»,
concordo lui, aggrottando un poco la fronte, «La paura di
ciò che
avrebbe trovato». Le sorrise e Lena ricambiò,
anche se per poco.
«Commenti
con tanta enfasi ogni spettacolo?».
«Oh,
temo di sì», ridacchiò Bruce.
«Mi appassionano. Voglio scusarmi,
nel caso diventassi noioso».
Si
misero in fila per allontanarsi dalla platea e si videro andare
incontro dei giornalisti. Qualcuno scattò loro una foto e,
con una
mano di Lena tenuta al braccio di lui, si fermarono, concedendo una
foto migliore.
«Bruce
Wayne e Lena Luthor: nuova coppia per il nuovo anno?»,
domandò un
giornalista puntando il microfono.
I
due si scambiarono uno sguardo e si misero a ridere. «No,
solo
un'uscita tra due amici», rispose Bruce. «Se volete
scusarci». Si
diressero verso il palcoscenico, mentre, dall'alto, Kara non si perse
un secondo.
Selina
si era allontanata dallo sgabuzzino per andare a prendere da bere e
Ivy guardava Kara imbambolata, intanto che, con la mano destra,
accarezzava la testa di Harley che si era appisolata. «Fa
male, non
è vero?», domandò Ivy, prendendo il suo
interesse.
«Un
po'… Sì. Fa male», rispose lentamente,
capendo subito a cosa
doveva riferirsi. Riguardò per un solo attimo in basso
attraverso la
finestrella, a Lena e Bruce che sparivano dalla sua vista dietro le
quinte.
«Lo
so cosa provi», si confidò Ivy,
«È qualcosa che ti mangia dentro
e ti toglie il fiato». Vide Kara guardare per un attimo
Harley e Ivy
annuì. «Sì, lei… beh, era
tornata fra le sue braccia, quella
volta. Il suo ex. Sai, lei non è sempre stata
così», scosse la
testa, senza smettere di accarezzarla un attimo. «L'avevo
inquadrata
già allora, ma non ci parlavamo. Lei arrivava da una
famiglia
benestante e io dalla strada, era ovvio che non ci parlavamo.
Studiava psichiatria, voleva aiutare gli altri, ma lui è
entrato
nella sua vita e… Si sono conosciuti in una
comunità di recupero:
lui era il ragazzo problematico, un sociopatico che amava giocare con
gli altri e lei aveva tante aspettative. Lo conoscevo, anche lui
veniva dalla strada. Lui l'ha cambiata», sussurrò,
spalancando gli
occhi verdi. «Una persona da cui starci alla larga. L'ha
circuita e
solo la sua bella testolina può sapere con precisione quante
cose le
ha fatto subire; stupri e violenze fisiche e psicologiche di ogni
genere».
Kara
deglutì, riguardando Harley che sonnecchiava e come Ivy, con
quel
solo gesto, si prendesse cura di lei. Quella ragazza aveva davvero
subito tutte quelle cose? La vedeva ora e pensava che era solare e
sbadata, un po' fuori di testa a onor del vero, ma di certo non
poteva immaginare…
«Harley
lasciò la scuola, finì per impazzire,
diventò il suo giocattolo e
poi lui la abbandonò una volta stufato. La presi con me ma
lei era
dipendente da lui e quando tornò… beh,
preferì lui a me»,
raccontò con voce spezzata, guardando lei e poi di nuovo
Kara. «Ora
è in prigione», le fece sapere, «e se
mai dovesse uscirne…»,
scrollò le spalle e la guardò dritta negli occhi,
«allora lo
ucciderò».
Kara
non disse nulla: per qualche strano motivo non ebbe paura delle
parole di Ivy, anche se sapeva che diceva il vero. Era così
seria e
amava così tanto Harley che avrebbe fatto di tutto per non
farla
tornare fra le braccia di quella persona malvagia. Per un attimo si
chiese se, al suo posto, sarebbe riuscita a fare lo stesso per
proteggere le persone che amava.
Nuovo
anno, nuove coppie:
così si intitolavano le prime pagine dei giornali di punta a
Gotham
dopo quella serata al teatro; naturalmente, Bruce Wayne e Lena Luthor
erano la prima coppia della lista, con foto e, accanto, ogni
minuzioso dettaglio su come i due sembravano aver passato la serata,
com'erano andati insieme dietro le quinte per parlare con gli artisti
e di come Bruce stesse facendo ambientare Lena nella sua
città, non
mancando di aggiungere la parola dell'esperto in linguaggi del corpo
che analizzava ogni loro movimento. Dopo quello scoop, molti altri
giornali fecero a gara per avere nuove foto o notizie della coppia
del momento.
«Un'uscita
tra amici,
ci fa sapere il rampollo Bruce Wayne, ma il nostro esperto parla di
un certo affiatament-»,
Kara si fermò, abbassando il giornale e sbuffando, sentendo
chiaramente lo stomaco che brontolava, e non certo per fame.
«E
cosa ti aspettavi?», esclamò aspramente Siobhan,
seduta vicino a
lei, davanti alla sua scrivania. «Non avrai davvero pensato
che tra
te e Lena Luthor avrebbe potuto funzionare?! Il mio unico rimpianto
è
non aver potuto sbattere la vostra relazione sui giornali quando ne
avevo avuto l'occasione…», disse guardandosi le
unghie, con
nonchalance. «Che spreco…»,
bofonchiò ancora e continuò fino a
quando l'assistente di Cat Grant non chiamò Kara di seguirla
e
quest'ultima ringraziò il cielo.
Se
non altro, i giornali avrebbero avuto dell'altro di cui parlare, dopo
gli ultimi scandali che avevano toccato la famiglia Gand. Durante
quelle due settimane da quando avevano installato la microspia in
quella casa, le ragazze erano riuscite ad ascoltare interessanti
conversazioni, e non solo i chiacchiericci da vecchia comare: Rhea
Gand amava maltrattare la loro domestica e farla piangere, Mike Gand
si vedeva con delle ragazze di nascosto ai genitori e Kara si era
rifiutata di ascoltare, il senatore Gand mangiava una coppa di gelato
ogni notte, organizzava partite di poker con colleghi di lavoro ogni
venerdì sera e, soprattutto, ricattava e offriva beni e
servizi in
cambio di voti e consensi. Fu quest'ultima informazione, ascoltando
alcune sue telefonate, a interessare Alex e Maggie: ne parlarono con
Lena e con Kara in diverse occasioni e si erano dette d'accordo per
sfruttarla, contattando Leslie Willis che provocò alcune
persone che
avevano lavorato e avuto a che fare con il senatore nell'ultimo anno.
Non tutti avevano voluto parlare, ma Leslie sapeva dove scavare e
aveva trovato materiale per un buon articolo. La vicenda era
rimbalzata ovunque e i giornali ne parlavano ancora, con
aggiornamenti e parole del senatore che si dichiarava estraneo ai
fatti.
«Lo
punzecchiamo», si era decisa Alex.
«Ascoltiamo
e selezioniamo ciò che ci torna utile», aveva
aggiunto Maggie, «A
costo di distruggere la sua carriera».
«Muoviamo
le acque e vediamo cosa va a galla», aveva concluso Alex.
Nelle
loro conversazioni dopo che il primo articolo era uscito su CatCo
Magazine, Rhea Gand era andata su tutte le furie e aveva interrogato
il marito come un bambino per sapere con chi aveva parlato,
redarguendolo che non capitasse più. Ma loro erano convinte
che
quello sarebbe stato solo l'inizio.
Kara
prese un bel respiro e aprì la porta per l'ufficio di Cat
Grant,
fregandosi le mani mentre si avvicinava alla scrivania.
«Voleva
vedermi, signora Grant?».
«Oh
sì, eccoti, Keira», alzò gli occhi
dalla scrivania e abbassò gli
occhiali.
Kara
gonfiò le guance ma non provò a correggerla.
«Ho
un compito tutto speciale per te: sei tu quella con la madre che si
sposerà con la ex signora Luthor, dico bene?». A
un suo breve
cenno, la donna ricominciò subito a parlare:
«Perfetto. Sfruttiamo
questa cosa: devi andare dalla tua nuova e cara sorella a chiederle
un'intervista. Naturalmente non gliela farai tu, sei…
parente, si
può dire, incaricherò qualcuno non appena
avrò il via libera».
«Lena?».
Lei
spalancò gli occhi e gesticolò con gli occhiali
in una mano,
sventolandoli. «Hai altre sorellastre di cui dovrei essere a
conoscenza?».
«N-No,
signora Grant», arrossì, imbarazzata.
«Un'intervista…
sulla sua nuova relazione con l'erede dei Wayne»,
borbottò,
scrivendo alcune cose su un'agenda, troppo occupata per rendersi
conto dell'impaccio dell'altra.
Kara
si toccò lo stomaco, sentendo ancora dolore.
Faticò a tenersi
concentrata. «Beh, m-ma… Lena non si vede con
Bruce Wayne».
«Ne
sei certa?».
Deglutì.
No. Affatto. «Sì», annuì e
Cat Grant scrollò le spalle.
«Bene,
meglio ancora: con l'intervista smonteremo questo assurdo
pettegolezzo e avremo l'esclusiva. Ora vai, vai. Vai e fissami
quell'intervista».
«No…»,
si diede forza, stringendo un pugno, guardando l'espressione di Cat
Grant cambiare esterrefatta.
«No?».
«No»,
avanzò un passo, «N-Non posso farlo…
Lena ed io abbiamo dei
problemi ultimamente-».
«Stop,
stop, stop», la donna alzò entrambe le mani,
bloccandola. «Keira.
Lasciami dire una cosa: i tuoi problemi personali, qui, con questo
lavoro, non c'entrano niente. Vorrei che ci pensassi davvero
attentamente nel rifiutare una richiesta. A questo proposito, pensavo
di incaricarti presto di un articolo, ma la cosa potrebbe andar
male…». Kara deglutì. «Dopo
questo rifiuto, comincio a pensare
che potresti non essere adatta a questo lavoro, dopotutto».
«I-Io
sono adatta a questo lavoro, signora Grant, ma-».
«Non
c'è nessun ma», si
alzò, raggiungendola svelta dall'altra
parte della scrivania. «O ne sei in grado o no. Ho convinto
Katie
Holmes a lasciarmi un'intervista per parlare del suo ex marito due
giorni dopo che era diventato ex: pensi di essere migliore di Katie
Holmes?».
«Beh,
no… no-non proprio, signora Grant».
La
donna la fulminò con lo sguardo e Kara impallidì.
«Allora cosa ci
fai ancora qui? Ripensa a Katie Holmes e procurami quell'intervista.
Chop chop».
Quando
uscì da quell'ufficio era più confusa di prima e
non aveva idea di
come risolvere la situazione. Poteva andare da Lena, con cui non
parlava da due settimane, a dirle di dover fissare un appuntamento
per un'intervista per la sua finta relazione con Bruce Wayne?
Perché
era finta, naturalmente. O almeno lo sperava. Il cellulare
vibrò e
scese al pian terreno per rispondere, non distante dalle macchinette
dove alcuni dipendenti si ritrovavano a bere caffè e
chiacchierare.
Era Alex, certo: la chiamava spesso dopo ciò che era
successo
all'ultima partita di lacrosse a cui aveva assistito. Sapeva che
voleva assicurarsi che stesse bene, ma iniziava a diventare pesante.
«Come
ti senti, sorellina?»,
le chiese e Kara prese un bel respiro.
«Bene»,
rispose duramente. «Anzi, per niente. La signora Grant vuole
che le
rimedi un'intervista con Lena per questa storia con Bruce Wayne ma io
ho rifiutato e non l'ha presa bene, così ha cominciato a
parlarmi di
Katie Holmes e a chiedermi se mi sentissi meglio di lei, ma al
momento non so nemmeno come parlare con Lena e questo-questo non ha a
che fare con il sentirmi migliore di Katie Holmes»,
ingigantì gli
occhi.
«Perdonami,
mi sfugge il passaggio su Katie Holmes».
«Lascia
perdere», si portò una mano sulla fronte.
«Il punto è-è che non
posso chiedere quell'intervista a Lena, è questione di
coscienza»,
concluse, camminando in tondo con sguardo basso. «Ma, se non
lo
faccio, ho come l'impressione di dover dire addio alla mia carriera.
Più che a diventare reporter, vuole spingermi a diventare
senza
cuore. C-Come Siobhan o, che so, Leslie Willis».
«Ehi»,
la voce di Leslie tuonò per il piano e Kara si
voltò, vedendola
alzare un braccio e con l'altra tenere un bicchierino di
caffè.
«Posso sentirti da qui, Madre
Teresa».
Kara
strinse i denti e si scusò con un gesto, allontanandosi.
«Capisci?
Non so cosa fare», bofonchiò, scuotendo la testa.
Sapeva che poteva
chiedere ad Alex di rimediare quell'intervista per lei, si sentiva
con Lena, era chiaro, ma non ci riusciva. Forse, una parte di lei era
convinta che quella sarebbe stata la giusta scusa per rivedersi e,
magari, chiarirsi e parlare.
Dopotutto,
Alex non provò a proporglielo. «Non posso sapere
cosa frulla per la
testa di quella donna, ma sono certa che stia tentando di spingerti a
dare il meglio di te. O
di Katie Holmes»,
aggiunse rapidamente. «Saprai fare la scelta
giusta».
Kara
annuì e riattaccò la chiamata. Alex, dall'altra
parte, fece lo
stesso. Alzò lo sguardo e incrociò quello di
Lena, seduta sul suo
divano in soggiorno. Era strano vederla così, invece della
sua
solita faccia da poker: si sforzava di tenere un comportamento serio
ma Alex lo notava, notava eccome il luccichio triste nei suoi occhi
di un verde acquoso, grandi. La irritava che fosse triste. Kara era
andata da lei in lacrime quando era successo e non avrebbe mai
perdonato Lena per quello, anche se, in fondo da qualche parte, se lo
aspettava e, forse, si era sentita un po' egoisticamente sollevata:
più la loro relazione andava avanti, più sarebbe
stato difficile
separarsi e, accidenti, odiava ammettere che era sempre stata
convinta che si sarebbero lasciate. Non metteva in dubbio che si
amassero, ma odiava pensare che erano troppo diverse per stare
insieme. Per il resto, non sapeva se essere più arrabbiata
con Lena
per averla fatta soffrire o più triste per Kara. Una cosa
però la
sapeva: la loro operazione doveva andare avanti.
«Kara
sta bene?».
Alex
non le rispose, poggiando il suo cellulare sul tavolo. Un'altra cosa,
per lei, era certa: non si dispiaceva affatto di averla spinta contro
il muro dopo averla fatta entrare in casa sua. Le aveva solo stretto
una spalla, non le avrebbe fatto del male, ma…
«Allora. Hai
novità?», si appoggiò contro il tavolo,
incrociando le braccia al
petto.
Non
rispose alla sua domanda, ma in fondo Lena se lo aspettava.
Abbassò
un poco gli occhi e dopo la guardò, con decisione.
«Mi sono sentita
con Bruce Wayne, di recente».
«Oh,
sì. È su tutti i giornali».
«Quello
che non è scritto sui giornali», prese fiato,
«è che sospetta che
i soci maggioritari della Wayne Enterprises stiano agendo alle sue
spalle per un qualche progetto segreto». Vide Alex aggrottare
la
fronte e proseguì: «Da quando è andata
male la vendita del terreno
delle case popolari sono sospetti».
«E
questo cosa ha a che fare con te?».
«Ha
sentito uno di loro discutere al telefono di National City. Non sa
con chi, ma mi vuole tenere informata».
Alex
scosse un poco la testa e abbozzò un sorriso.
«Sì, ci credo».
Lena
strinse un pugno e così deglutì, lasciando
perdere. «Parlane con
Kara. E con Maggie, certo. Se sono casi collegati, lo verremo a
sapere». Si alzò dal divano e Alex
annuì, incantandosi poi a
vedere un punto distante. «Lo so cosa stai
pensando».
«No»,
ridacchiò Alex, «Non lo sai proprio».
«Se
non avessi rovinato tutto con Kara, ne staremo parlando tutte
insieme, adesso».
Alex
si portò le mani sui fianchi, scrutandola con sguardo duro.
«Sì,
ma questa è solamente la punta dell'iceberg. Non avresti
dovuto-»,
la indicò, cercando di trattenere la rabbia, «Non
avresti dovuto
provarci con mia sorella. Accidenti, io ti ho difesa quando Kara
voleva farti i dispetti e ti ho difesa quando mi diceva che stavi
flirtando con lei; le dicevo che scherzavi, ma tu facevi sul
serio»,
la guardò truce. «E come si è arrivati
a tutto questo? Le nostri
madri si sposeranno tra due mesi e dovrai ricominciare a parlare con
lei per forza; lo capisci, questo?».
Sembrò
iniziare a sfogarsi. «Non ho scelto ciò che
è successo».
«Cazzate!
È sempre una scelta». Si scambiarono uno sguardo
duro e Alex
riprese a pieni polmoni: «Provavi attrazione per lei? Bene,
la
tenevi per te», fece lapidale. «Se non altro l'hai
lasciata prima
del matrimonio o ci sarebbe stato un qualche imbarazzo», si
mantenne
la fronte, «Avete ancora tempo per ricucire un
rapporto».
«Parlerò
con lei».
«Sarebbe
il caso», sbottò, «Ha provato a cercarti
e tu-».
«Non
ero pronta». Alex guardò in aria e Lena strinse i
pugni. «Non ho
lasciato Kara perché mi sono stufata di lei.
Perché lo so che è
questo che pensi».
Alex
sogghignò. «Credi di sapere tutto quello che
penso?».
«So
di aver perso punti con te e che mi sopporti solo per il nostro piano
contro i Gand, non sono stupida», strinse un poco gli occhi.
«E so
che pensi che ora mi veda con Bruce Wayne: ma non è
così».
«Non
è così?».
«No».
Lena le andò vicina, guardandola dritta negli occhi. Alex
deglutì.
«Non volevo lasciare Kara, avevo solo pensato di allontanarci
proprio per capire dove questa relazione ci avrebbe portato»,
si
portò una mano sulla fronte. «Ho avuto relazioni
molto diverse
prima di lei e non volevo farla soffrire».
«Troppo
tardi per questo, eh?».
Lena
non rispose, socchiudendo un poco gli occhi. «Non volevo che
si
arrivasse fino a questo punto, credimi».
«Va
bene», annuì alla fine, convinta che stesse
dicendo il vero.
«Spiegale questo, allora. Aggiusta qualcosa. Kara ti
ascolterà».
Lo
avrebbe fatto, o se non altro ci avrebbe provato. Se ne andò
dalla
casa della sua sorellastra in auto; guidava lei, non voleva
seccature. Una volta in macchina, prese il cellulare e trovò
il
numero di Kara. Pensò di premerlo ma lasciò il
pollice a mezz'aria,
indecisa, troppo indecisa. Kara sarebbe stata ancora arrabbiata?
Ciò
che aveva visto alla sua ultima partita di lacrosse…
accidenti, non
pensava che l'avrebbe rovinata fino a quel punto.
Non
si era seduta sugli spalti come sempre, aveva cercato di non farsi
vedere. Era rimasta in piedi, vicino alle persone che esultavano;
aveva intravisto Alex sugli spalti, era da sola, e poi Kara che,
palla nella racchetta, stava già correndo per il campo.
Avevano
provato a fermarla ma era inarrestabile.
«Allora?
Sei arrivata?»,
la voce di Lex al telefono l'aveva spaventata.
«Sì,
sì. Kara è in possesso della palla. Dovrei
aspettare la fine della
partita e provare a parlarle, ma non so se è il
caso…», aveva
scosso la testa, senza perderla d'occhio un momento.
«Devi
essere pronta. Per il resto, sono certo che le farà piacere
saperti
lì a fare il tifo per lei».
Una
ragazza della squadra avversaria era riuscita a farla cadere,
l'arbitro aveva fischiato e Kara si era tolta il casco, guardando la
sua rivale con sfida. La ragazza doveva averle detto qualcosa che non
le era piaciuta, non aveva idea di cosa fosse successo
all'improvviso, ma Kara l'aveva spinta, la ragazza aveva provato a
colpirla e così lei l'aveva gettata a terra per bloccarla.
Di lì a
poco la squadra di National City si era gettata contro le altre
giocatrici. L'arbitro aveva fermato la rissa e Kara si era tirata
indietro confusa. Lena aveva riconosciuto Megan andarle vicino e
parlarle e dopo l'arbitro, facendole cenno di uscire dal campo. Era
stata sospesa e, a giudicare dall'accesa chiacchierata tra lei e il
signor Jonzz, doveva essere stata esclusa almeno dalla prossima
partita.
Lena
era tornata sui suoi passi, dando le spalle al campo. «No.
Kara è
stata appena sospesa ed è colpa mia. Non me la sento di
vederla,
adesso».
«Non
può essere colpa tua, Lena».
«Lo
è».
Aveva
sentito Lex sospirare, dall'altra parte della chiamata, e
così se
n'era andata.
Lena
si passò una mano sulla fronte e lasciò il
telefono, decidendo di
rimandare.
Chiusa
la porta di casa dietro Lena, Alex si preparò in fretta con
il primo
abito trovato nell'armadio, pronta per la sua uscita con Maxwell
Lord. Era arrivato il momento di pagare il suo debito e non ne era
affatto entusiasta. Maggie lavorava e le aveva detto di tenerla
informata su qualsiasi intenzioni avesse l'uomo, ma l'unica paura di
Alex, a quel punto, era quella di annoiarsi. Per non rivelargli dove
abitava, si fece trovare pronta sotto la stazione dell'autobus e lui
passò a prenderla con una lussuosa macchina guidata da
un'autista.
Uscì dalla vettura e le aprì lo sportello, ma
invece di
ringraziarlo, Alex ci tenne a fargli sapere che aveva le mani anche
lei.
«È
sempre così indisposta con chi cerca di essere carino nei
suoi
riguardi, signorina Danvers?».
Lei
assottigliò i suoi occhi. «Di solito lo sono con
chi punta
imperterrito a una relazione con me dopo aver ricevuto un no».
Alex
si aspettava un ristorante di lusso, ma ammetteva di non essere mai
stata da quelle parti di National City e che il locale era davvero
molto elegante e raffinato, situato intorno a un parco completamente
illuminato da cordoni di luci dorate sulle siepi. Era spazioso, non
c'era brusio nonostante fosse pieno di coppie, e il servizio era
veloce e impeccabile. Ordinarono il primo e una bottiglia di vino e,
inaspettatamente, quando il sommelier si rivolse ad Alex con la
sua signora,
Maxwell lo corresse dicendo che non erano una coppia. Alex lo
apprezzò.
«Mi
parli della sua compagna, se le va», le sorrise, versandole
altro
vino.
«È
una poliziotta».
«Ma
non mi dica».
Alex
non si perse nei dettagli in nessun argomento affrontato, ma si
sorprese di quanto il giovane uomo avesse voglia di ascoltare. Lo
credeva pronto a parlare del suo lavoro, delle sue noiose giornate,
ma forse lo aveva dipinto molto più egocentrico di com'era
in
realtà.
«Lo
ammetto: la facevo molto più… come
dire», strinse le labbra,
«pesante
come persona, signor Lord».
«La
prego, mi chiami Maxwell».
«Maxwell»,
ripeté lei.
«O
Max, se le fa piacere», ridacchiò, ingoiando un
boccone.
Alex
scosse la testa ma un sorriso era fermo sulle sue labbra rosse.
Così
abbassò la testa e si mise a giocare con un fazzoletto,
facendosi
soprappensiero. «Scusa se mi permetto, Max»,
disse il suo nome alzando le sopracciglia, «Ma mi chiedo come
mai un
uomo intelligente, di buon portamento, ricco… perda tempo a
rincorrere una ragazza dichiaratamente gay. Non hai mai avuto una
compagna? Una moglie?».
«Ah…»,
strinse le labbra e annuì pensieroso, abbassando gli occhi
solo un
momento prima di concentrarsi di nuovo su di lei. «No. Mai
avuto una
moglie. Una compagna nemmeno, anche se sono umano e ho avuto anch'io
delle cotte e delle relazioni. Ovviamente», rise, scrollando
le
spalle e scuotendo un poco la testa. «Ma credo sia a causa
del mio
spirito romantico se non ho ancora avuto una signora Lord: per me una
relazione con qualcuno deve essere totale. Due corpi, un'anima.
Ammetto che non è facile trovare qualcuna che ricalchi
questa mia
idea della vita di coppia. Per altri versi, forse l'amore è
troppo
complicato per me. Con l'amore di mezzo, tutto è in
discussione, non
è facile», rise di nuovo e Alex portò
le braccia a conserte.
Ora
ne era certa: se non avesse mai capito di essere gay, se non fosse
stata già fidanzata o se fosse stata una ragazza etero,
avrebbe
ceduto alle sue lusinghe, prima o poi. Quell'uomo riusciva a
catturare il suo interesse e il fatto che in sua compagnia, alla
fine, non si fosse annoiata, era di sicuro un punto a favore. Ed era
comunque meglio di molti ragazzi con cui era uscita.
Fecero
un breve giro nel parco in attesa che arrivasse l'auto per portarli
via e Maxwell ringraziò Alex per aver accettato il pranzo.
Lei si
trattenne dal dire di non aver avuto molta scelta.
«A
breve sarò molto occupato per via di un affare che si
concluderà
presto, però mi piacerebbe rivederti e parlare di nuovo con
te,
Alex». Si affrettò ad aggiungere, quando la vide
accigliarsi: «Come
amici, si intende. Spero di non innervosirti, ma oltre all'interesse
che provo per te, mi piace stare in tua compagnia».
Lei
sorrise, ma non gli avrebbe mai dato la soddisfazione di dirgli che,
in fondo, era stato lo stesso.
E
così passò altro tempo fatto di incertezze, paure
e risentimenti.
Lena andò a stare da suo fratello a Metropolis, tenendosi in
contatto con Alex a National City e Bruce Wayne a Gotham. Kara e una
Megan molto curiosa tennero la ricetrasmittente della microspia per
una settimana e mezzo; ridendo per le lunghe telefonate di Rhea Gand
con le amiche del croquet e le recensioni dei libri quando aveva
ospitato nel suo salone il club del libro. Aveva orgogliosamente
mostrato il caro e vecchio quadretto a tutte le sue ospiti a turno e
Megan e Kara avevano passato una notte a parlarne, ridacchiando sulla
sua ingenuità. Allo stesso tempo, avevano avuto i brividi
per ciò
che doveva sopportare la sua povera domestica, Joyce. Quella ragazza
correva da una parte all'altra della casa a uno schiocco di dita, non
poteva concludere una frase che mancasse del signora Gand
o
signor Gand, doveva ricordare a memoria la
disposizione delle
spezie sullo scaffale poiché Rhea la interrogava e,
sentivano,
doveva schivare gli oggetti che lei le lanciava.
«Non
capisco», alzò le spalle Megan, un pomeriggio dopo
l'ennesima
sfuriata di Rhea Gand. «Perché non se ne va?
Meglio conservare la
propria dignità che avere a che fare con quella donna.
È malvagia».
«Non
può andarsene», le rispose Kara affranta,
prendendo appunti su un
blocnotes sugli spostamenti della signora Gand. «Mike mi
aveva
raccontato che è qui con visto scaduto e che sua madre la
tiene con
pugno duro per questo. Minaccia di chiamare la polizia per qualunque
cosa. Joyce non è neanche il suo vero nome: glielo ha dato
Mike
perché non riusciva a ricordarsi il suo e hanno iniziato a
chiamarla
così».
Lei
aggrottò la fronte. «Ma questo è
atroce. È schiavitù. Sarebbe
buon materiale per un articolo».
Kara
mantenne la testa con una mano e il gomito poggiato sul materasso,
voltandosi verso la sua compagna di stanza. «Metteremmo Joyce
nei
guai…», scosse un poco la testa e infine prese
respiro, prima di
continuare. «Ho provato a parlare con lei ma non vuole:
questo
lavoro l'aiuta a inviare i soldi dalla sua famiglia. E ho provato
anche a parlarne con Mike, ma… lui è convinto che
lei stia bene
con loro, che altrimenti se ne sarebbe andata. Dice che sua madre si
prende cura di lei».
«Mike
è stupido», sentenziò Megan senza giri
di parole.
Kara
sbuffò, iniziando a fare cerchietti in un angolo del foglio,
senza
motivo. «Joyce non parlava, lui mi ha convinta a lasciar
perdere e…
le cose sono rimaste così».
La
relazione con Mike era stata importante per lei; credeva davvero che
fosse l'amore della sua vita, quello giusto, il principe che le
raccontavano le favole, ma si era rivelato un abbaglio. Erano
così
abituati a stare insieme e Kara così assuefatta da lui, da
non
vedere tutto il resto. E forse, immaginava, per Mike era ancora tutto
fermo a quel punto, intrappolato in una relazione ormai inesistente.
«No…
pensavo a Kara».
Era il giorno dopo e Kara aspettava l'arrivo di Alex per passarle la
ricetrasmittente che spettava a Lena, che sentì la voce di
Mike
diventare via via più chiara; sembrava stesse parlando al
telefono.
Lo sentiva camminare. «Non
capisci, amico: ci siamo allontanati ma il suo cuore mi appartiene.
Lo capirà e farà come dico, così
torneremo insieme e si aggiusterà
tutto! Non sono disperato»,
sbottò poi per difendersi, con tono infastidito. «Tu
non conosci Kara: non può stare lontano da me.
Sì, ho provato a
dirle di restare solo amici ma non sta funzionando… Comunque
no,
vedrai che è come dico: questo qualcuno con cui sta ora non
esiste.
Sì, comincio a esserne sicuro: se esistesse,
perché allora non
farmelo conoscere? Sta solo facendo la preziosa e»,
lo udì ridacchiare, «lo
sai cosa succede quando fanno le preziose. Anche se lei è
diversa,
voglio
dire,
Kara è… la donna della mia vita».
Kara
sbuffò, controllando l'orologio: sua sorella sarebbe passata
presto.
«Cosa
fai qui? Non devi uscire?».
La
ragazza diede di nuovo attenzione alla ricetrasmittente, ascoltando
la voce del senatore Gand.
«Sì,
sto per uscire… E non urlare, sono al telefono».
«Vai
e chiudi la porta. Ora che tua madre non è in casa e tu che
stai per
uscire, posso dedicarmi bene ad alcuni documenti da
revisionare».
Kara
udì la porta chiudersi e i pesanti passi del senatore
allontanarsi,
sicuramente verso la scrivania. Si sarebbe occupato di buon materiale
da dare in pasto al CatCo Magazine? Oppure qualcosa che riguardava la
morte dei suoi genitori? Kara non poteva vedere, ma le telefonate
dell'uomo finora non le avevano deluse. Sentì cassetti
aprirsi e
chiudersi, la grande sedia strisciare, altre cose che venivano mosse.
Talmente concentrata a non perdersi un attimo che, quando bussarono
alla porta, si spaventò. Megan era fuori, doveva per forza
essere
Alex.
«Ehi,
Kara», Maggie l'abbracciò e poi entrò,
estraendo un grosso
sorriso. «Alex è stata incastrata con
l'università, così ha
mandato me a prendere la ricetrasmittente. Ah, sei ancora in
ascolto», la guardò e poi indicò
l'attrezzo, avvicinandosi.
Kara
chiuse la porta e la seguì, senza trattenere uno sbadiglio.
«Sì,
ora il senatore è da solo alla sua scrivania, pensavo
potesse
scappargli qualcosa di importante». Si torturò le
mani e la guardò
appena, mentre tendeva le orecchie e alzava il volume per non
perdersi nulla. «Q-Quindi Alex è
all'università, bene», annuì,
«Tutti sono… dove devono stare, certo».
Maggie
le sorrise e si riavvicinò. «Lena è a
Metropolis, nella loro casa
lì. Potevi chiedermelo, Kara».
A
Metropolis. Oh, era andata a trovare Lex o era un modo per stare
lontana da lei? «Bene… Certo, s-sarà
andata a trovare il
fratello, non si vedono spesso da quando si è trasferito
e… va
bene. Allora come farà a…?»,
indicò l'apparecchio e Maggie le
sorrise, inclinando un poco la testa.
«Verrà
a prenderla da Alex. Domani, credo».
«Prenderla
da Alex, certo. Certo», annuì e abbassò
lo sguardo.
«Hai
provato a…?».
«Chiamarla?
No. Non voglio insistere, avrà visto che ci ho provato,
quindi se
vorrà…», prese fiato, «se
vorrà parlarmi, mi chiamerà lei».
Maggie annuì di nuovo, era comprensiva, ma continuava a
fissarla con
quello sguardo che a Kara sembrava tra il rassegnato e il
commiserevole. Basta,
pensò, era arrivato il momento di lasciar perdere quella
discussione: doveva spegnere la ricetrasmittente in modo che la
portasse via, il resto poteva aspettare. «Ti
preparo…?».
«Sì.
Va bene».
Kara
allungò una mano per spegnerla quando la voce del senatore
Gand mise
entrambe sull'attenti, fissando l'apparecchio con attenzione.
«Stavo
pensando proprio a te, lo sai?»,
lo sentirono ridere e le due si scambiarono un'occhiata. «Finalmente…
Sì, va bene, allora ti aspetto. Sono solo e lo
sarò per tutta la
sera. Oh, lo sai che mi eccita. Ti aspetto».
Kara
e Maggie spalancarono gli occhi, decidendo di aspettare a staccare e
ascoltare cosa sarebbe successo. Dopotutto, non dovettero attendere a
lungo: a un certo punto sentirono il campanello, il senatore muovere
la sedia, i suoi passi, la porta aprirsi e, dopo poco, la porta
richiudersi, qualcosa sbattere, più passi movimentati e di
nuovo la
sedia della scrivania, insieme a una voce mai sentita prima che
rideva e sospirava rumorosamente.
«Sulla
scrivania? Oh, mi piace»,
disse il senatore con una risata: non lo avevano mai sentito
così
allegro.
«Non
ci posso credere: lei dev'essere uno di quei documenti da revisionare
di cui parlava», borbottò Kara.
«Sei
proprio un grand'uomo, Lar».
«Aspetta,
Gilda, ho ancora i pantaloni».
Entrambe
spalancarono la bocca, sorprese e terrorizzate allo stesso tempo.
«Okay…», Kara la guardò
schifata, «Sento che questo mi
bloccherà la crescita».
Decisero
di registrare ma di smettere di seguire in diretta ciò che
stava
succedendo. Ciò che avevano ascoltato fino a quel punto, in
ogni
caso, era sufficiente per affidare a Leslie Willis un nuovo incarico:
scoprire chi era questa Gilda e farsi dare qualche dettaglio da
sbattere sul giornale. Maggie le disse che ci avrebbe pensato Lena e
se ne andò portando via la ricetrasmittente, mentre Kara,
sdraiata
sul letto, continuava a pensare a lei. E al grand'uomo. Oh, era
terribile: doveva cancellare quell'immagine dalla sua testa.
Cat
Grant le aveva dato una proroga per quanto riguardava l'intervista,
ma sapeva di non dover abusare a lungo della sua pazienza.
Sbuffò,
prendendo il cellulare. Deglutì. Selezionò il
numero e restò a
fissarlo, con il cuore che batteva impazzito. Andava bene; andava
tutto bene. Ritrovò il suo coraggio e alla fine
cliccò, ma sospirò
di sollievo quando l'attesa finì, che le stava facendo
salire tanto
ansia da non sentire più il sangue circolare nelle vene, per
sentire
la segreteria telefonica. «… Lena. Sì,
s-sono io. Non ti chiamo
per… Non lo so, comunque ti chiamo per lavoro: emh, la
signora
Grant mi ha convinta a chiederti la disponibilità di
un'intervista
che non- no, non ti farò io, sulla tua-», si
fermò poiché per un
attimo si rese conto che non sapeva come dirlo ma che lo stava
facendo davvero e che era troppo tardi per tornare indietro. Solo
che, accidenti, non si aspettava che Lena stesse ascoltando in quel
momento e che, inaspettatamente, decise di rispondere:
«Kara?».
Lei si immobilizzò. «Per
lavoro, hai detto? Un'intervista?».
Tre
settimane e mezzo di silenzio e ora aveva deciso di risponderle solo
per lavoro? Kara si grattò la fronte e decise di tenere il
tono più
composto che riusciva. «Szì-
emh», che
cos'era quel verso?,
«Sì, vo-voglio dire… Mi ha chiesto di
chiederti se sei sì, se
sei tu disponibile».
«Sì,
va bene. Ma su cosa?».
Kara
si inumidì le labbra, cercando di tenersi concentrata,
capendo che
poteva farcela. «Su-Sulla tua relazione… con Bruce
Wayne». Non la
sentì rispondere subito, ebbe come un momento per pensare a
cosa
dire, a cosa fare.
«Va
bene. Dille di farmi sapere per quando sarà pronta».
Kara
strinse il telefono, sforzandosi per non esplodere lì, su
due piedi.
«Bene… A-Allora ti farò
invierò un messaggio».
«Kara?».
La sentì sospirare. «Dobbiamo
parlare. Dobbiamo vederci. Presto».
Le
relazioni sono composte da dialoghi: se il dialogo manca, un pilastro
della bilancia può rompersi e sgretolarsi fino a
compromettere la
stabilità della stessa. I segreti, le menzogne, una
relazione che si
intreccia all'altra sono scelte consapevoli che minano ciò
che si è
costruito fino a quel momento. Lo avrebbero scoperto presto i coniugi
Gand: Leslie Willis era riuscita a trovare la famosa Gilda, che non
era altri che la sua segretaria, un classico. Aveva sopportato appena
qualche minuto di domande e supposizioni che aveva raccontato della
sua relazione con il senatore senza battere ciglio; Leslie aveva
buttato giù una bozza entro giornata e l'aveva mostrata a
Cat Grant
che, seppur con qualche riserva, le aveva dato il permesso di andare
avanti.
«Posso
chiederti come mai questa tua assurda
passione per il senatore Gand, ultimamente?», le chiese
poggiando i
gomiti sulla scrivania, osservandola con attenzione. «Pare
che tu
stia cercando di provocargli un danno, lavorativo e di
immagine».
Leslie
alzò le spalle, sorridendo con gusto. «Quell'uomo
puzza da capo a
piedi e penso che mostrare la sua vera faccia al grande pubblico sia
un favore verso National City e gli USA! Ma se ti può
consolare,
farei la stessa cosa con chiunque, non è un accanimento
personale».
Non
per lei. E se l'era cavata così, almeno per ora. Per fine
gennaio,
l'articolo che inchiodava il senatore Gand e la segretaria Gilda era
prima online e poi cartaceo, nello stesso numero dell'intervista a
Lena. Per rispondere alle domande si era presentata alla CatCo e
Kara, appena l'aveva vista, si era nascosta nei bagni e in magazzino.
Che assurdità comportarsi in quel modo, eppure in quel
momento le
era sembrata l'unica cosa possibile perché il suo corpo
tremava e
sentiva lo stomaco svuotarsi.
«Lena
Luthor e Bruce Wayne: solo amicizia»,
Kara sorrise nel leggere anche solo il titolo e Siobhan, dandole uno
sguardo, roteò gli occhi, mentre per sé leggeva
l'articolo sul
senatore.
A
casa Gand, intanto, Rhea faceva lo stesso e andava su tutte le furie,
strappando la pagina del magazine e lanciandola in aria, verso un
marito che non riconosceva più. «È
vera, questa roba è vera?! Tu
mi hai tradito?».
«Tesoro…»,
mormorò senza voce e scosse un poco la testa con affranto.
«Non
osare chiamarmi in quel modo, sudicio-», si fermò,
andandogli
incontro con un dito puntato sul suo torace. A pochi metri da loro,
Mike era certo che sua madre stesse cambiando colore.
«Abbiamo fatto
dei voti, abbiamo giurato»,
urlò, «davanti a Dio che saremmo stati per sempre
e tu hai tradito
me e il nostro matrimonio».
«Rhea,
per favore».
«Non
toccarmi»,
Lena l'aveva sentita urlare di nuovo, dalla ricetrasmittente. «Non
pensare neppure di sfiorarmi. Sei immondo! Come hai potuto
farlo?».
«No»,
disse la ragazza al telefono, «Rhea Gand non aveva davvero
idea che
suo marito la tradisse: sto registrando tutto». Alex le disse
di
stare attenta a non perdersi dettagli importanti e lei annuì
di
istinto, per poi ansimare. «Senti, posso… posso
chiederti quando…
potrei vedere Kara, secondo te? Quando sono andata alla CatCo,
lei…
non c'era», sospirò di nuovo, fregandosi due dita
in mezzo agli
occhi, «e non saprei come chiederglielo per
telefono».
Anche
Alex sospirò e aspettò qualche secondo prima di
rispondere: «Puoi
provare alla festa di Martedì Grasso, magari…
Saremo in giro a
National City per guardare i carri del carnevale, ti farei sapere la
nostra posizione per messaggio».
«Grazie».
«Non
ringraziarmi… Spera di aggiustare qualcosa,
piuttosto».
Lena
chiuse la chiamata e si mantenne la fronte per il mal di testa
crescente, ascoltando che a casa Gand la situazione stava degenerando
e Mike sembrava essere intervenuto per fermare sua madre che stava
aggredendo suo padre. Avrebbe voluto dire che rendere pubblica quella
relazione era stato probabilmente un colpo basso, eppure non riusciva
a dispiacersi per nulla. Alzò lo sguardo e notò
di aver lasciato il
portatile aperto, sulla scrivania. Il pezzo di nastro adesivo nero
che aveva messo sulla videocamera frontale si stava staccando e le
sembrava come di essere osservata. Accidenti. Si alzò e lo
riappiccicò meglio, tappandola.
Una
mascherina per gli occhi, sul rosso. Un antico abito stile veneziano,
anche quello sul rosso. Del rossetto rosso e cerone bianco in faccia,
per renderla più pallida. I capelli raccolti indietro, in un
alto
chignon. Eliza le fece i complimenti, quando la vide scendere dalle
scale del salone in villa.
«Vai
con Kara e Alex alla festa? Più tardi andremo anche io e
Lillian, ma
non ci tratterremo a lungo».
Lena
e sua madre si erano scambiate uno sguardo freddo: doveva sapere che
non stavano più insieme, naturalmente anche Eliza si era
accorta che
passavano molto meno tempo assieme rispetto a prima.
«Nemmeno
io mi tratterrò a lungo, ho del lavoro da
sbrigare».
«Oh,
oggi è festa, Lena. Niente lavoro. Vai e
divertiti». Scambiò con
lei un caldo abbraccio e la lasciò andare. Era come se
avesse voluto
incoraggiarla e, anche se probabilmente non sapeva per cosa si era
sentita in dovere di farlo, la ringraziò ugualmente, solo
col
pensiero.
Ferdinand
l'autista la lasciò in una strada già affollata e
così si mise in
marcia, tra la gente in festa che saltellava, la musica alta e le
risate, le bombolette spray e i coriandoli che volavano col vento.
Seguì le indicazioni che le inviò Alex per
messaggio e sorpassò
diverse persone vestite nei modi più disparati, come serial
killer
con accette e puffi, fermandosi solo qualche istante per vedere
qualche carro che passava in mezzo alla strada, possente e con
animazioni, circondato da pagliacci. Così
riguardò il messaggio: se
riconosceva il punto in cui si trovava, doveva esserci quasi. Il
carro le passò davanti, incantata a guardarlo, che
dall'altro lato
della strada mise a fuoco lo sguardo di Kara con pochi secondi di
ritardo, mentre lei sembrava aver fatto lo stesso, spegnendo il
sorriso. Neanche l'eccitazione della piccola Jamie che le tirava la
gonna del suo vestito rosso e a pois neri da coccinella sembrava
poter far tornare Kara in sé. Alex e Maggie inquadrarono
Lena e la
sorella le parlò all'orecchio, così presero la
bambina e la
lasciarono.
«Ho
provato a cercarti», quasi urlò Kara, per farsi
sentire, «Tante
volte, veramente».
Si
erano dirette all'interno di una via meno trafficata, camminando
distanti, con i loro cuori che battevano all'unisono forse
più forti
della musica.
Lena
si fermò e a stento riuscì a guardarla negli
occhi, sfilandosi la
mascherina e lasciandola sul davanzale di una finestra. «Lo
so…
Avevo bisogno di tempo».
Abbozzò
un sorriso, scuotendo la testa e alzando un poco le braccia.
«L'hai
trovato».
Lena
deglutì e si accorse di non sapere cosa dirle. Aveva tante
idee per
la testa, tante cose che fino a poco prima scalciavano tra i suoi
pensieri per venire a galla, e ora che si trovava lì,
immobile
davanti a lei, non aveva più parole. Kara la guardava e
aspettava
qualcosa; più stava zitta e più cresceva la sua
ansia, più quegli
occhi azzurri la ferivano.
«A-Avrei
dovuto lasciarti parlare, quando… beh, sì,
quando…», infine,
trovò Kara il coraggio di parlare per prima ancora una
volta.
«No,
io… ho capito come ti sentissi e mi sono resa conto di
essermi
comportata da stupida», la fissò. «Oh,
Kara, volevo solo del tempo
per pensare, non volevo lasciarti».
«Solo
perché non ne trovavi il coraggio».
«No»,
aggrottò la fronte, sentendosi colpita. «Ti prego,
ci ho pensato,
sì, ma non ho mai voluto lasciarti davvero. Anche
se…», sospirò,
prendendo tempo per cercare le parole più giuste,
«Temevo di essere
dipendente da te».
«Cosa
intendi?», si portò le braccia a conserte.
«Temevo
di scambiare questo per amore». Vide il suo sguardo
incrinarsi e la
bloccò prima che potesse dire qualcosa: «Lo so che
ho detto che ti
amo. Perché è la verità,
ma… accidenti, è più complicato di
così e non so come spiegarmi».
Kara
diede solo uno sguardo alla strada principale dove intravedeva
bambini correre e lanciarsi stelle filanti, rincorrendo i carri che
si allontanavano con la musica, così si appoggiò
al muro e diede di
nuovo la sua piena attenzione a lei. «Non vado da nessuna
parte.
Sono qui, parlami».
Lena
si avvicinò, deglutendo. «C'è stato un
periodo, quando stavo con
Jack, che mi sono chiesta più volte se ci fosse qualcosa di
sbagliato in me. Le cose tra noi non erano più come un tempo
e…
lui si è allontanato», cominciarono a luccicarle
gli occhi, «io mi
sono sentita persa. Ero ancora una ragazzina ma, sai, ero davvero
convinta di amarlo. A livello mentale, eravamo connessi in un modo
che non mi sarei mai aspettata mi succedesse con nessuno, anche se a
livello fisico… Lui mi faceva sentire bene, ma non era
abbastanza».
Kara non la perdeva d'occhio un momento, in silenzio. «Senza
di lui
ho cominciato ad avere altre relazioni e se da un lato mi sentivo
finalmente bene, dall'altro mi sentivo sporca perché, anche
se
sapevo che anche Jack stava con altre donne, era sempre un
tradimento».
«Stavi
con Roulette», mormorò Kara e l'altra
annuì.
«Con
lei. Con altre», rispose, inumidendosi le labbra.
«Non sono mai
state delle vere e proprie relazioni, era solo sesso, ma facevo
questo a lui e allo stesso tempo non volevo staccarmi da lui, ne ero
dipendente. Sapevo che se lo avessi lasciato… mi sarei
sentita
male».
«Cosa
ti ha fatto cambiare idea?», si accigliò un poco.
«La
morte di mio padre. Lui insisteva che io fossi felice e sapeva, anche
se non ne abbiamo mai parlato apertamente, che con lui non lo ero
più. La sua morte mi aveva fatto capire che era arrivato il
momento
di lasciarlo andare e lasciar andare me stessa
perché… perché
stavo sprecando il mio tempo. Un tempo che non è infinito. E
poi sei
arrivata tu e hai illuminato tutto. Non riuscirei mai a farti capire
cosa sei stata per me fin dallo yogurt». La fece sorridere e
così
sorrise anche lei, anche se entrambe con una punta di amarezza.
«E
ho avuto paura, Kara, una paura matta di innamorarmi di te ma
è
successo e non l'ho fermato. Ho capito tardi che avrei dovuto
farlo».
«Hai
paura che mi ferirai com'è successo con Jack?», le
chiese,
stringendo le labbra.
Lena
abbassò i suoi occhi solo un attimo, cercando le parole:
«Kara,
dipendenza e amore non sono sinonimi. Voglio solo capire se
ciò che
provo per te è giusto. E sarai la mia sorellastra e
se… se ciò
che proviamo l'una per l'altra dovesse sparire, dovesse restare solo
questa dipendenza che a lungo andare ci renderà infelici,
allora
sarà impossibile per noi prendere due strade distanti. Non
voglio
rovinarti, Kara…».
«Rovinarmi?
Mi stai idealizzando, Lena. Sai della mia espulsione, vero?»,
si
accigliò, facendo due passi in avanti.
«Ciò che faccio o non
faccio non dipende da te. È chiaro, questo?»,
strinse un pugno.
«Chi ti mette in testa queste sciocchezze?».
Lena
tornò indietro di un passo e scosse la testa, stringendo le
labbra.
«Non cerco di idealizzarti, ma se non sono
capace-».
«Di
amare?», spalancò gli occhi. «Vuoi
proteggermi da te o qualcosa
del genere? Beh, se vuoi il mio parere resta una
sciocchezza!», alzò
la voce, cominciando ad arrabbiarsi. «Fino a una settimana
prima
avevamo deciso di dirlo in famiglia e quello che dici ora non ha
senso».
«Non
ha senso?», tornò indietro ancora.
«N-Non
in quel senso… Cioè, non ha senso- Oh, hai
capito. Voglio dire che
prima eri sicura e adesso temi di proteggermi da chissà
quale mostro
ti rivelerai essere e voglio sapere perché», si
fermò e Lena
deglutì, non fu capace di rispondere. «Hai detto
che non sapevi
cosa ci fosse di sbagliato in te? Niente. Sei una persona, Lena, e
sei capace di amare come tutti! Me lo hai dimostrato. Hai paura,
sì,
ma sai di cosa? Di fare sul serio. E non perché tu e Jack vi
siete
allontanati o perché avevi delle relazioni di sesso con
chissà chi,
ma perché temi di non farcela e a-allora ti inventi delle
giustificazioni. Sei dipendente da me? Siamo dipendenti entrambe? Non
ci dai il tempo di scoprirlo. È-È come se ti
stessi punendo per
qualcosa e avrei voluto che me ne parlassi ma è evidente che
non
lo vuoi fare»,
puntò un dito, gesticolando. «Siamo sorellastre ma
questo lo sapevi
fin dall'inizio, Lena. Lo sapevi prima di me, sul treno. Quindi
cos'è
cambiato?». Si prese una pausa e la guardò
duramente, mentre Lena
tremava.
«Ho
sbagliato».
«No!
Se tu hai sbagliato, allora abbiamo sbagliato tutte e due. Proprio
non lo capisci, Lena? Anch'io mi sono innamorata di te e sapevo le
stesse cose che sai tu».
Lei
prese fiato e si morse un labbro. No, aveva sbagliato davvero. Ora
più che mai capiva di aver sbagliato a tenerle tutto
nascosto sul
coinvolgimento dei Luthor sull'omicidio dei suoi genitori. Che quel
segreto l'aveva infettata dall'interno come un virus. Che aveva
permesso a Lillian di insinuarle dei dubbi. Che aveva permesso alle
sue relazioni passate di essere usate come scusa alla sua codardia.
Era dipendente da Kara? Non era più la domanda giusta
perché la sua
relazione con lei non era affatto come quella con Jack. Stava
perdendo Kara perché non era riuscita a dirle la
verità; verità
che non era riuscita a dirle per paura di perderla. E sapeva anche
che ora era troppo tardi; che dirglielo ora, già arrabbiata,
avrebbe
rovinato anche l'unico rapporto che sperava sarebbe rimasto intatto,
quello familiare. «So… So solo»,
riprese, a voce bassa per quanto
la musica permettesse, «Che dovremo pensare alla
famiglia», rialzò
gli occhi lucidi.
«Abbiamo
deciso entrambe di andare avanti, non era una tua
responsabilità o
che altro e voglio che tu lo capisca», aggiunse,
più calma ma
continuando a scuotere la testa. «Ma è chiaro che
c'è qualcosa che
ti blocca, Lena. E-E forse è tua madre, non hai un buon
rapporto con
lei, o forse è tuo padre, non lo so… Ma
risolvilo. E e-ecco, come
hai detto prima: il tempo non è infinito, va bene? Quindi
non
sprecarlo perché», deglutì,
accigliandosi ancora, «meritiamo di
essere felici. Entrambe».
Lena
alzò una mano e con indecisione tentò di
avvicinargliela al viso.
Kara sapeva che quello era il suo maldestro tentativo per dirle che
le dispiaceva. La ragazza aveva gli occhi talmente lucidi che a ogni
battito di ciglia rischiava di perdere una lacrima che sembrava
cercasse di mantenere con la forza; e comunque le avrebbero rovinato
il trucco. Le labbra erano tirate, secche nonostante il rossetto.
Vedeva che tremava. Vedeva la paura che provava. Vedeva il suo cuore
spezzato.
Kara
si avvicinò e la mano in aria di Lena incontrò il
suo viso; la
accarezzò solo un attimo che lei si avvicinò
ancora e l'abbracciò,
così Lena poté ricambiare. Non aveva bisogno di
parole per dirle
che, in caso di bisogno, ci sarebbe stata. Che ci sarebbe sempre
stata. Lena aveva bisogno di tempo per risolvere qualunque cosa la
fermasse e Kara glielo doveva concedere; e dopo era sicura, era
sicura che si sarebbero ritrovate.
Lena
strinse gli occhi e pianse, solcando il cerone bianco di lacrime.
Kara la strinse più forte e la baciò, non
poté trattenersi. Si
separarono minuti, ore, o forse mesi più tardi, perdendosi a
guardarsi negli occhi. Dei ragazzini corsero alle loro spalle e
urlarono qualcosa, ma non ci diedero peso e si baciarono sotto la
pioggia di coriandoli che lanciarono. Era un bacio dolce e aspro allo
stesso tempo, che sapeva di amore e di addio.
«…
Piangi?», le domandò Lena vedendola sofferente.
Credeva di essere
l'unica ad essere ceduta alle lacrime.
«F-Forse,
ma… mi è finito un coriandolo in un
occhio».
Lena
sorrise. «Lascia, ti aiuto io».
Le
relazioni sono scelte; scelte che non possono, per ovvie ragioni,
coinvolgere una persona sola. E così, mentre Lena e Kara si
erano
ritrovate e lasciate in un giorno di festa, due giorni dopo,
intervistati in uno show televisivo e insieme come solo una famiglia
forte come la loro poteva dimostrare, i coniugi Gand avevano
rilasciato una dichiarazione in cui denunciavano apertamente Leslie
Willis e la CatCo per le ingiurie contro di lui dai recenti articoli
che lo vedevano protagonista.
Per
mano a sua moglie, il senatore guardò la telecamera con
sguardo
duro: «Sono diventato bersaglio di questa giornalista, che
per
inciso in passato ha avuto problemi di droga. Mi accusa di
favoritismi, costringe una povera donna, la
mia segretaria, grande persona, che dopo questo evento ha deciso di
prendersi una vacanza dal mio studio»,
disse più velocemente rivolto alla presentatrice e poi
guardando di
nuovo la telecamera, «la costringe a dire il falso pur di
scrivere
un articolo che mi metta in cattiva luce. E questo
è-».
«Assurdo.
Noi siamo senza parole», rispose Rhea per lui, dando una
pacca sulla
spalla del marito.
La
presentatrice annuì e, dopo gli applausi del pubblico,
domandò:
«Senatore, cosa può dire riguardo l'accusa di
estorsione che la
giornalista della CatCo, Leslie Willis, le ha mosso contro?
È stato
denunciato?».
Lar
Gand si guardò intorno e lo stesso fece Rhea,
così alzò le spalle
e si sforzò per non sorridere e rimanere serio.
«Vede la polizia
intorno alla mia persona? No, non sono stato denunciato né
sono
indagato. Sono innocente fino a prova contraria, perché la
signorina
Willis è capace di manipolare le persone che hanno lavorato
con me
in questi anni ma è la loro parola contro la mia. Tutto
qui»,
scrollò ancora le spalle. «Non essendo riuscita ad
intaccare la mia
carriera, ha pensato bene di tentare di distruggere il mio
matrimonio». Lui e sua moglie si sorrisero davanti alla
telecamera.
«Ma come vedete tutti… non può
farlo», si scambiarono un casto
bacio a stampo e il pubblico applaudì estasiato, mentre la
conduttrice sorrideva.
Indigo
rise e, scuotendo la testa, spense la televisione sul mobiletto
antico e rovinato di quella camera di motel. Si girò verso
il
portatile aperto che stava sul letto e si sdraiò, ammirando
i
gattini sullo schermo di sfondo. Poi prese il cellulare con scatto
veloce non appena sentì un minimo di vibrazione.
Da
X a Me
Non
sei uscita a divertirti l'ultimo giorno di carnevale?
Ridacchiò
e allungò gli occhi al soffitto con finto entusiasmo, prima
di
rispondere:
Sono
lusingata che tu me lo abbia chiesto, ma no, odio gli spazi troppo
affollati. Ehi, angelo custode, ti sei mai innamorat*?
Da
X a Me
L'amore
è un rischio e non sempre vale la pena rischiare. Notizie
dal nostro
contatto?
La
ragazza sbuffò, scrivendo subito la risposta:
Sei
una noia, per questo sei single. No, nessun nuovo messaggio o ti
avrei contattato io come sempre. Sei impaziente e questo è
un
rischio! Il suo lavoro contro i Gand, piuttosto, non sta andando
troppo bene: li ho visti ora in tv.
Da
X a Me
Il
suo lavoro contro i Gand sta andando più che bene: sono
ancora in
piedi, ma sono feriti. Sono curios* su fin dove voglia spingersi, ma
in fondo non è affar mio. E neanche tuo. Da oggi,
sarà meglio che
acceda alla chat anch'io.
Indigo
grugnì contrariata e così non rispose.
Riaprì una finestra del suo
portatile e si accorse con dispiacere che lo schermo era ancora
completamente nero.
«Mi
tagli fuori, Lena… Potrei restarci male. Non sai che se
voglio, io
arrivo ovunque».
Anf,
anf, capitolo lungo lungo sul tema dell'amore e
delle
relazioni. Avrei voluto fare a meno della “voce
narrante”, spero
non vi abbia disturbato, ma non ho potuto evitarla XD All'inizio
quelle parti erano scritte anche loro al passato, ma non mi
piacevano.
Ebbene,
il capitolo vi è piaciuto? Lo so cosa state probabilmente
pensando:
Kara e Lena hanno parlato, e si sono pure baciate, ma non sono
tornate insieme. Qualcosa blocca Lena, e sappiamo tutti
cos'è, a
parte Kara, e quindi temo dovremo avere pazienza e vedere come la
cosa tra loro andrà avanti :) Se non altro, nonostante la
discussione, non sono in crisi e non si odiano! Qualcosa
dovrà pur
valere :P
Per
il resto, abbiamo avuto un'interessante onda d'urto che coinvolge il
signore e la signora Gand. Le ragazze hanno sguinzagliato Leslie
Willis in più occasioni per parlare del senatore sul CatCo
Magazine,
ma ciò che sembra aver fatto più male
è la relazione clandestina
del… grand'uomo e Gilda, la sua
segretaria. Lui e Rhea hanno
avuto una pesante lite, eppure sono andati in televisione a mostrarsi
più uniti che mai, denunciando Leslie e la CatCo. O-Ops.
Cosa
accadrà adesso?
Abbiamo
assistito all'uscita tra Alex e Maxwell Lord. I due hanno avuto modo
di conoscersi un po' meglio e Alex, inaspettatamente, non si
è
annoiata; al contrario, pensa davvero che in altre circostanze con
lui ci sarebbe stata. Ma ehi, sono proprio altre
circostanze!
In
tutto questo, abbiamo assistito all'entrata in scena di un nuovo
personaggio e del ritorno di altri personaggi. Per prima cosa, ecco
che sbucano di nuovo gli amici di Gotham: Bruce si vede e sente con
Lena, e Kara resta in contatto con Selina, Ivy e Harley. Si
è
parlato di relazioni a teatro e poi Ivy ha avuto un curioso racconto
da condividere con Kara sulla dipendenza di Harley per il suo ex che
l'ha distrutta. Ah, e non dimentichiamo che Bruce è convinto
che
alla Wayne Enterprises stiano agendo per qualcosa alle sue spalle. Il
nuovo personaggio invece è Indigo! Forse ve la ricordate,
nella
prima stagione di Supergirl, un po' più blu (ho preferito
che
mantenesse i capelli biondi della sua versione umana, piuttosto di
quelli arancio plastificati della sua forma aliena) XD Ci sa fare coi
computer! A quanto pare, c'è lei dietro al profilo di X,
anche se il
vero X è un altro.
Cosa
ne pensate della trama? Questo capitolo, per via della lunghezza,
è
stato pesante? Vi ha annoiato? Spero di no XD Cosa pensate che
accadrà adesso?
Fatemi
sapere un po' e… acc, mi spiace dovervi
dare una piccola
brutta notizia: il prossimo lunedì non ci sarà un
nuovo capitolo,
il tutto salterà di una settimana per impegni. Quasi mi
spiace
dirvi, a questo punto, che il prossimo capitolo è pure uno
stand
alone D: Ma ehi, sarà uno stand alone
solo per metà e
parlerà di un rapporto in particolare… Dunque, il
prossimo
capitolo si intitola Sorelle e sarà
pubblicato qui lunedì 5
novembre! Il tempo volerà :)
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Capitolo 32 *** 31. Sorelle ***
Kara
bussò con decisione e attese solo pochi secondi che Alex,
come fosse
già dietro la porta ad aspettarla, le aprì
andandole incontro per
un abbraccio; poi la sollevò di peso e la
trascinò dentro,
chiudendo la porta con un calcio. Ansimò, guardandosi
intorno in
casa della sorella, dal piccolo soggiorno all'ingresso per la cucina,
quello per la camera e il bagno, il piccolo balcone.
Appoggiò la
borsa a terra. «Sei sicura che posso restare?».
«Una
notte e due giorni, Kara. Ti rapisco solo per il weekend, tornerai in
tempo per le lezioni. Maggie e Jamie saranno dai genitori da questo
pomeriggio, io sarei comunque rimasta tutta sola».
L'abbracciò
di nuovo, dalle spalle, poi le disse di lasciare la giacca
sull'appendiabiti. Kara non faticava a immaginare come mai le avesse
chiesto di stare a casa sua per il weekend: lei e Lena si erano
lasciate, e sul serio questa volta, e come una buona sorella maggiore
si preoccupava per lei. Dopotutto, era quello che Alex aveva sempre
fatto.
«Cosa?»,
aveva gridato Alex, tirandosi indietro una lunga ciocca di capelli
castani. «State adottando una bambina? Verrà
qui?». Aveva rincorso
sua madre e suo padre per tutta casa, con il fiato corto e il cuore
in tachicardia.
«No,
Alex, resterà fuori in giardino», aveva ironizzato
una giovane
Eliza dando uno sguardo a Jeremiah al suo fianco, che aveva sorriso.
Così
l'uomo si era girato e aveva provato a prendere sua figlia da parte,
poggiandole le mani sulle spalle gracili. «Ehi, bambina mia,
andrà
tutto bene. Okay? Questo non cambierà quello che io e tua
madre
proviamo per te e non cambierà in alcun modo la tua vita. Te
lo
prometto».
Lo
aveva promesso, certo, ma Alex in fondo sapeva che quella era una
promessa che non poteva mantenere perché niente di tutto
ciò
avrebbe dipeso da lui. Quando per la prima volta quella bambina aveva
messo piede in casa sua, Alex si era assicurata di guardarla nel modo
più acido che riuscisse e di sbatterle la porta della sua
camera in
faccia. La porta della sua camera che presto avrebbe dovuto
condividere con lei. Per dispetto le aveva rovesciato il materasso e
messo tutte le sue cose sul pavimento, ma non era riuscita a fare
altro che farsi sgridare da Eliza. Sua madre infatti lo aveva rifatto
e poi aveva preso lei in disparte, in cucina, in modo che la lezione
non le sfuggisse.
«Devi
darti una calmata, ci siamo capite? Kara è tua sorella,
adesso, e ti
prego, ti prego, Alex», l'aveva implorata, «niente
più dispetti,
cerca di accettarla. Nessuno ti costringe a volerle bene da un giorno
all'altro, ma devi almeno accettarla». L'aveva guardata con
insistenza fino a quando non aveva aperto bocca.
«Va
bene», aveva detto tirandosi indietro i lunghi capelli,
accompagnando uno sbuffo, «Niente più
dispetti».
Niente
più dispetti, sì, ma nessuno l'avrebbe potuta
obbligare ad
accettarla davvero
come
sorella. Quella Kara era un'estranea ma, fin da subito, era riuscita
a prendere la completa attenzione di Eliza e Jeremiah per qualsiasi
cosa: l'accompagnavano a scuola a turno, quando per lei non si erano
più disturbati a farlo dall'età di otto anni,
perché a detta loro
esistevano gli autobus; le preparavano le sue merende preferite e si
assicuravano che non mancassero mai, quando lei, per chiedere dei
cereali specifici, aveva dovuto aspettare Babbo Natale; se
era Kara ad aver bisogno di qualcosa si precipitavano, mentre lei
poteva restare a chiamarli per ore e ore che non sentivano. Era la
loro vera figlia, accidenti: doveva passare in secondo piano?
Insistevano perché Kara fosse la loro nuova figlia, ma lei
non era
neppure capace di chiamarli mamma
e papà,
perché doveva venire prima di lei?
«Dillo»,
le aveva puntato contro un dito una sera, stufa di sentirla chiamare
i suoi genitori con i nomi propri. «Devi dirlo».
«No»,
aveva aggrottato la fronte l'undicenne, seccata che cercasse con ogni
mezzo di obbligarla.
«Devi
farlo, accidenti», l'aveva sgridata. «Adesso abiti
qui, sei loro
figlia, ti hanno adottata, quindi devi chiamarli mamma
e papà»,
l'aveva bloccata davanti a una porta, «Hai capito, Kara? Devi
farlo,
per forza».
«No»,
aveva mugugnato cercando di spostarla da mezzo per passare,
«Non lo
farò! Smettila».
«Alexandra
Danvers!».
Eliza aveva gridato come non accadeva spesso e il fatto che l'avesse
chiamata con il nome per intero poteva solamente significare che era
davvero arrabbiata. «Possibile che tu non capisca?! Lasciala
in
pace».
Per
quanto si sforzasse, Alex davvero non capiva e non capiva
perché
continuassero a difenderla e attaccare invece lei. Eliza e Jeremiah
si facevano in quattro per Kara e quella mocciosa non era neppure
capace di ricambiare il loro affetto nel modo più semplice
possibile, chiamandoli come una figlia qualunque avrebbe fatto. Si
premuniva sempre di ribadire più volte il mamma
e papà
in presenza di Kara solo per darle fastidio; un modo come un altro
per rimarcare quanto, in fondo, non sarebbero mai state vere sorelle.
E
da che Alex ricordava, allora il tempo era volato: un giorno
qualunque una bambina era entrata nella sua vita, e il giorno dopo
aveva già quasi quattordici anni ed era pronta per il suo
primo
giorno di liceo. Il suo
liceo. Alex doveva frequentare l'ultimo anno e aveva odiato con tutte
le sue forze l'idea di averla nella stessa scuola con lei, fosse
anche solo per un unico anno scolastico. Alex aveva una reputazione
da mantenere e Kara era strana, sempre per le sue, per la sua
età
guardava ancora i cartoni animati e si vestiva con salopette ricamate
con delfini stile cartoon: di certo non avrebbe voluto che qualcuno
l'associasse a lei.
Quella
mattina, Alex si era vestita con fretta e furia, aveva mangiato
qualcosa al volo ed era uscita di corsa per prendere l'autobus, senza
aspettare la sua sorellina, come le aveva invece raccomandato di fare
Jeremiah, che era ancora a casa a quell'ora. Prima di uscire dalla
loro camera, aveva intravisto Kara tirare fuori dall'armadio una
grossa gonna senza personalità che le sarebbe arrivata a
metà gamba
e una camicia a pallini: di certo non avrebbe voluto sedersi vicino a
lei sul bus. Non l'aveva aspettata neanche all'arrivo: era uscita
veloce spostando gli altri studenti e si era precipitata dentro la
scuola, ricercando il suo gruppo di amiche in tempo per lamentarsi di
quanto facesse schifo la sua vita da quando Kara era nella sua casa.
Stavano aspettando che la campanella suonasse chiacchierando e
salutando i ragazzi per il corridoio quando un'amica alla sua destra
l'aveva richiamata per dirle:
«Ehi,
Alex, ma non è tua sorella, quella?».
Lei
si era girata mancandole il fiato e il suo corpo si era gelato,
infine, spalancando gli occhi, nel momento in cui l'aveva inquadrata:
calze a rete sopra stivaletti col tacco e borchie, minigonna a righe,
magliettina bianca e nera, corta tanto le lasciava fuori l'ombelico,
i capelli sciolti raccolti da un lato. Quella non era sua sorella:
era un mostro che aveva frugato nel suo armadio. Immediatamente le si
era scagliata contro, spingendola verso gli armadietti. «Cosa
ti sei
messa addosso? Ma non provi nemmeno un po' di vergogna ad andare in
giro in questo modo?», l'aveva sgridata a bassa voce quando
si era
accorta che alcuni ragazzi si erano girati a guardarle.
«Tu
vai in giro in questo modo».
«Io
posso. È roba mia, vatti a cambiare».
«Non
ho altro».
«Torni
a casa e ti vai a cambiare», aveva insistito. «Ti
guarderanno
tutti».
«Lasciami
stare», l'aveva spinta con una spallata e si era rimessa a
camminare
e, Alex l'aveva guardata attentamente, era quasi sul punto di cadere
perché non abituata ai tacchi.
Un
ragazzo l'aveva fermata a pochi metri da Alex e l'aveva fischiata,
guardandola a lungo e poi chiedendole come si chiamasse. Alex si era
sentita sprofondare a vederla squadrata in quel modo dai ragazzi ma
non sapeva cosa fare se non chiamare suo padre che la venisse a
prendere da scuola; così stava per muoversi che,
all'improvviso,
aveva sentito Kara rifiutare quel ragazzo e lui insistere. Oh, a quel
punto forse avrebbe dovuto- Aveva visto Kara fermarlo per un braccio
e gettarlo con una spinta contro gli armadietti, tanto forte che lui
aveva sbattuto una spalla e aveva detto di essersi fatto male.
Così
si era allontanato e lo stesso tutti quelli che erano rimasti a
guardare la scena; anche Kara, poco dopo, se n'era andata per conto
suo, storcendo una caviglia ad ogni passo.
«Non
ci credo che si siano baciati», Alex fece una smorfia rivolta
alla
televisione, prendendo un'altra fetta di pizza dal cartone in mezzo a
loro, sul lettone.
Anche
Kara aveva lo sguardo imbronciato. «Nick ama Jess,
è solo
momentaneo…». Prese un'altra fetta anche lei che
l'altra la
rimbrottò che mangiava troppo in fretta, così le
fece la
linguaccia.
«Beh»,
incurvò la testa Alex, dopo aver ingoiato un boccone,
«Dopotutto è
Megan Fox. Chi rifiuterebbe un bacio a Megan Fox?».
«Devo
chiedere a Maggie cosa ne pensa?», le sorrise e Alex
annuì.
«Anche
Maggie bacerebbe Megan Fox».
Risero
e Alex si alzò per andare a prendere da bere, mettendo pausa
alla
televisione. Avendo già finito l'ennesima fetta di pizza,
Kara si
allungò per prendere il suo cellulare poggiato sul comodino,
ma non
c'era nessuna nuova notifica. Sbuffò e si portò
meglio il plaid
sulle gambe, decidendo di dare un'occhiata ad Instagram. Oh, come al
solito Lillian si era lasciata prendere la mano e aveva pubblicato
una decina di foto di Eliza in giro per villa Luthor-Danvers.
Sembravano felici. Tra poco si sarebbero sposate, dopotutto.
Sfogliò
le foto sul suo profilo, rivedendo quelle del Natale: era stato
appena due mesi fa, eppure quelli scatti le sembravano così
lontani…
Era strano che Lillian non avesse pubblicato neanche una foto di
tutti loro insieme. Oh, sorrise trattenendo una risata, guardandone
una di Alex e Lena che mangiavano i cupcake guardandosi in cagnesco.
Allora litigavano perché Alex non accettava il loro rapporto
e le
era sembrato un problema insormontabile, mentre ora quel momento le
mancava. Non avevano più nessun rapporto per cui litigare.
Le
brontolò la pancia e deglutì, vedendo Alex che le
arrivava accanto.
Cercò di mettere via il cellulare mentre le passava un
bicchiere
pieno d'acqua, ma notò il suo sguardo cadere su quelle
immagini.
Alex
passò dal suo lato e poggiò il suo bicchiere
d'acqua sul comodino,
guardandola con la coda dell'occhio mentre beveva, intanto che con
l'altra mano teneva stretta il cellulare. «Ti manca, non
è vero?».
Kara
appoggiò il bicchiere con tutta calma e le diede uno
sguardo,
decidendo di annuire. Prese il telecomando, stava per rimettere play
che la sorella la fermò.
«Mi
hai convinto», si sedette più vicino a lei,
strisciando le natiche
sul copriletto e spostando il cartone della pizza.
«Parlamene. Come
vi siete avvicinate? O… innamorate?»,
riuscì a dire e Kara
lentamente scosse la testa.
«Ma
no, guardiamo ancora qualche episodio, altrimenti restiamo…
indietro, restiamo indietro». Stava per cliccare play che
Alex le
prese il telecomando dalle mani, poggiandolo vicino al cartone della
pizza dal suo lato. Kara la guardò a lungo come se stesse
decidendo
il da farsi.
«E
va bene», finse uno sbuffo, appoggiando la schiena contro il
muro di
malavoglia. «Ma voglio un'altra fetta di pizza», la
indicò e Alex
sorrise, passandole il cartone.
Dal
momento che Kara, il primo giorno di liceo, si era presentata con i
suoi vestiti addosso, Alex aveva deciso di chiudere a chiave il suo
armadio e lo sapeva che lei aveva passato le ore a cercare un modo
per aprirlo, ma alla fine si era dovuta arrendere. Alex sperava che
in quel modo avrebbe riavuto la Kara di sempre, invece si era fatta
accompagnare da Eliza per negozi in modo che avesse potuto comprare
qualche nuovo indumento con i suoi risparmi; in quel modo, anche dal
giorno seguente, Kara si era presentata a scuola con minigonna e
ombelico fuori. Era come se avesse deciso di scimmiottarla e la
mandava in bestia.
«Non
puoi lasciarla andare a scuola vestita in quel modo», aveva
cercato
di convincere Eliza a riprenderla.
«Tu
vai a scuola in quel modo».
«Ma
io posso, mamma, non mettertici anche tu», si era portata le
mani
sui capelli con fare stressato. «Lei è piccola e
quell'abbigliamento non fa per lei».
«Avevi
la sua stessa età quando hai iniziato a vestirti
così. Anzi no, eri
alle medie», le aveva fatto notare, «Poi che
quell'abbigliamento
non faccia per lei mi trovi d'accordo. Ma è quello che
vuole, non
posso farci nulla. Non posso obbligarla a vestirsi come piace a me. O
a te», l'aveva riguardata attentamente.
«Ma
lei vuole copiarmi».
Eliza
si era messa a ridere. «Forse vuole attirare la tua
attenzione, chi
lo sa».
Aveva
chiuso lì la faccenda ma, per Alex, quello era solo un altro
motivo
per odiarla.
Fortunatamente,
dopo aver cercato con ogni mezzo di non spargere troppo la voce che
Kara fosse sua sorella, era riuscita a mantenere la sua
popolarità a
scuola, quella che si era costruita in quegli anni con le unghie e
con i denti. Finalmente i ragazzi più belli sapevano della
sua
esistenza e, nondimeno, le chiedevano di uscire. Aveva accettato la
richiesta di Jackson, che giocava nella squadra di baseball della
scuola. Era uno dei ragazzi che lei e le sue amiche avevano sempre
definito irraggiungibili sulla scala sociale del liceo; alto, moro,
dalla pelle color caffellatte, palestrato e single. Aveva provato a
stare con dei ragazzi, ma Alex era certa che sarebbe stato lui quello
che le avrebbe fatto perdere non solo la testa, ma anche la
verginità. Era pronta. Dunque, a fine lezioni, aveva deciso
di
fingere di perdere l'autobus e di restare a scuola. Lei e Jackson si
erano trovati in un corridoio deserto e il ragazzo l'aveva fatta
avvicinare agli armadietti, per poi riprenderla e trattenerla contro
il suo petto. Le aveva messo le mani lungo la vita, le aveva
accarezzato il sedere e, mentre continuavano a baciarsi, aveva
provato ad insinuarsi sotto la sua t-shirt. Forse stava correndo un
po' troppo e Alex aveva sentito la pressione salire e il cuore
battere rapido, ma quello che era successo di lì a poco
l'aveva
fatta arrabbiare come una iena.
«Giù
le mani da Alex»: neanche il tempo di capire che quella era
la voce
di Kara che Jackson era stato strappato via da lei e gettato a terra.
«Che
cosa cavolo stai facendo?», le aveva gridato. «Che
ci fai tu qui?».
Jackson
intanto si era rimesso in piedi e, frastornato, aveva tentato di
riavvicinarsi, ma Kara lo aveva spinto ancora e gli aveva fatto lo
sgambetto, ributtandolo a terra e intimandogli di stare lontano da
sua sorella. «È tua sorella?».
«No!
È una pazza furiosa, ecco cos'è».
«Lui
ti stava toccando», si era giustificata.
«Vattene
da qui».
«Ma
non ti ho vista e pensavo avessi bisogno di aiuto».
«L'unico
aiuto che vorrei è quello per liberarmi di te,
piaga», l'aveva
spinta per le spalle. Jackson aveva deciso di andarsene e Alex aveva
emesso un verso di rabbia, spingendola ancora. «Guarda
cos'hai
fatto! Hai rovinato tutto! Quando inizierai a comportarti da essere
umano, eh? Da normale?».
Kara
se n'era andata e Alex era sicura che, quella volta, era riuscita a
farla piangere.
Si
era lamentata del suo comportamento con Eliza e anche con Jeremiah,
prima di accorgersi che stava parlando di un ragazzo con cui avrebbe
voluto stare e allora si era stata zitta. Eliza era solo riuscita a
dirle che avrebbe dovuto portare pazienza, che Kara pensava di
aiutarla e che era stata lei quella a sbagliare. Alex non riusciva
proprio a capire perché la donna continuasse a prendere le
sue
difese sempre, anche quando palesemente aveva combinato un guaio.
Perché
quella ragazzina doveva per forza andare ad abitare da loro? Non
avrebbe potuto adottarla qualcun altro?
Stanca
e sconcertata, se n'era andata dritta in camera sua pur sapendo che
l'avrebbe trovata lì, convinta che avrebbe potuto sbatterla
fuori
almeno per quel pomeriggio. Ma quando aveva aperto un poco la porta,
la voce di Kara, talmente dura e incattivita da spaventarla, l'aveva
cacciata, gridandola di richiudere la porta.
«Adesso
basta», aveva gridato lei contro Eliza, che controllava
documenti
nel suo studio, la piccola camera vicina alla loro. «Quella
piccola
sanguisuga ha occupato camera mia. Camera nostra.
Non mi fa
entrare ed è tutto buio, chissà cosa
starà facendo».
«Calmati,
Alex». Lei aveva lasciato i documenti sulla scrivania e si
era
alzata, pregando alla figlia di seguirla. «L'ho comprata
questa
mattina, pensavo potesse piacervi ma tu sei rientrata più
tardi e
non l'hai ancora vista», le aveva detto. In corridoio,
l'aveva fatta
inchinare davanti alla maniglia, in modo che guardasse attraverso la
serratura: vedeva che c'erano delle lucette accese e Alex scosse la
testa, rivolgendosi ancora a sua madre. «È una
lampada che proietta
le stelle sul soffitto: a Kara piace molto e la camera dev'essere
completamente buia o non si vedono», aveva spiegato la donna.
«È
sdraiata. È tranquilla. Lasciala un po' a
rilassarsi».
Ma
Alex aveva contratto le sopracciglia. «È una cosa
da bambini»,
aveva ribattuto, rimettendosi in piedi. «E io dove vado a
rilassarmi?».
«Non
le dai un minimo di tregua, eh?», l'aveva guardata,
imbronciandosi.
«Non puoi nemmeno l0ntanamente immaginare cosa ha passato
Kara e
potrebbe non superarlo mai. Ma tu sai pensare solo a te
stessa».
Oh,
com'era possibile presupporre, si era risentita anche a quelle
parole. Nessuno mai le aveva detto che era egoista. Si era inchinata
di nuovo e aveva cercato le stelle che riusciva, inquadrandone
qualcuna. Beh…
era una cosa bella, dopotutto.
Kara
arrossì mentre Alex rideva, sdraiata sul letto al suo
fianco.
«Quindi
sei stata tu a baciarla per prima? Un bacio a stampo? Non ci
credo».
«Beh…
abbiamo tentato di baciarci spesso, veramente, e in quel momento io
dovevo andarmene ma Lena era lì, e mi guardava e no, non
voleva che
me ne andassi e…», prese fiato, «non lo
so, non credo di aver…
pensato in quel momento»,
ridacchiò, coprendosi la faccia
con le mani.
«La
mia sorellina che fa la prima mossa», sussurrò
Alex, «Però, chi
l'avrebbe mai detto?!».
«Ehi»,
s'imbrunì, «Ho fatto la prima mossa altre
volte».
«Sì,
come dimenticare la faccia di… come si chiamava? Brody?
Darren?».
«Zac»,
annuì, «era Zac».
«Oh,
giusto, mi confondevo. È passato così tanto
tempo…».
Era
passato tanto tempo, ma Kara lo ricordava ancora bene: aveva appena
allontanato con la forza un ragazzo che le aveva chiesto di uscire
con insistenza e si era voltata verso Zac che prendeva i suoi libri
da un armadietto. Sguardo pallido, spaventato, non aveva saputo cosa
dire quando lei gli aveva chiesto di uscire, ma di sicuro aveva
allungato uno sguardo al povero sfortunato accanto che ancora si
toccava un polso dolorante.
«Ti
sono sempre piaciuti i ragazzi», le fece notare Alex.
«Che cos'è
cambiato?».
«Anche
a te piacevano i ragazzi».
«Questo
è vero, ma-».
«Sei
gay. Io no», sollevò le spalle e la
guardò negli occhi. «Non sono
gay! Mi piacciono ancora i ragazzi e non è cambiato
perché…
perché amo una donna», trovò il
coraggio di dire quelle parole.
«Mi sono sempre piaciute anche le ragazze, comunque, anche se
non ne
abbiamo mai parlato».
«Davvero?
Perché non me ne sono mai resa conto?».
«Pss».
L'amica vicino le aveva spinto un gomito e Alex aveva alzato gli
occhi dalla rivista che stava leggendo. «Guarda tua sorella,
lì»,
la indicò. «Sembra che stia guardando il culo di
Samantha Jones»,
aveva riso e lei si era voltata, adocchiando Kara che, con le mani
dentro il suo armadietto, era girata da un'altra parte, a pochi
armadietti dal suo, proprio verso quello che sembrava il fondoschiena
di quella ragazza.
«Che
cavolo stai facendo?», le aveva strillato nelle orecchie
correndole
incontro, sbattendo una mano sull'armadietto adiacente.
«Guardi il
culo delle ragazze, adesso? Penseranno che sei lesbica».
«Pff»,
aveva messo su una smorfia indispettita. «No-Non guardavo il
suo
sedere», si era discolpata, voltandosi verso Samantha Jones e
mettendo le mani sui fianchi. «Ma la sua gonna. È
molto carina e-e
le sta bene».
Allora
Alex aveva allungato uno sguardo, sistemando le braccia a conserte.
«Mh…
in effetti sì, le sta bene. Le
sta proprio bene».
Avevano
continuato a fissarla finché non si era allontanata.
Da
quando, di tanto in tanto, Alex si era ritrovata a cercare le stelle
riflesse sul muro attraverso la serratura della porta, il suo
atteggiamento verso Kara aveva iniziato a cambiare. La trovava ancora
una ragazzina strampalata e ingestibile, ma forse quella lampada non
aveva avuto il potere di rilassare solo Kara, ma anche lei. Un
pomeriggio aveva aperto la porta e richiusa subito, in modo che non
le dicesse niente, ed era andata a sedersi sul suo letto, sguardo in
su, per contare le stelle anche lei. Il giorno dopo si era seduta in
terra vicino a lei. Il giorno dopo ancora era entrata con Kara dal
momento che voleva azionare la lampada e insieme avevano chiuso porta
e finestre, sdraiandosi a terra entrambe. Si era aperto qualcosa, tra
loro. Avevano trovato una connessione.
«Ehi,
tu lo sai che non devi vestirti così per forza,
vero?», le aveva
sussurrato una mattina, prendendola da parte prima che si cambiasse
per la scuola.
Kara
l'aveva guardata con sgomento. «Che cosa vuoi
dire?».
«Che
non puoi aver cambiato gusti nel vestire da un giorno all'altro!
Perché ti vesti in questo modo? Non è da
te».
La
ragazzina aveva abbassato gli occhi e stretto le labbra, cercando le
parole migliori per dirglielo. «Beh,
perché… perché tu ti
vergognavi di come mi vestivo e così…».
Alex
non era riuscita a dire nemmeno una parola e l'aveva lasciata sola
per cambiarsi. Era naturalmente vero: si era sempre lamentata di come
si vestisse e forse, dato che avrebbero dovuto frequentare gli stessi
ambienti, la minore aveva deciso di cambiare per non farla sentire a
disagio. Si era vergognata come una ladra poiché non si era
mai
messa il pensiero che ogni cosa che dicesse, ogni cosa che facesse,
aveva peso ed effetto su Kara. Solo la mattina successiva era
riuscita a trovare il coraggio per dirle che poteva vestirsi come
voleva perché, qualunque cosa avrebbe indossato, a lei
sarebbe
andata bene.
Si
erano avvicinate molto in fretta in quel periodo. Alex ricordava che
uno di quei pomeriggi, dopo un po' dall'essersi sdraiate a terra per
guardare le stelle riflettute dalla lampada, le aveva chiesto
qualcosa, e non ricordava di certo cosa, ma ricordava la sua voce
impastata dal pianto. Kara piangeva.
«Sei
triste? Ti rende triste o qualcosa del genere guardare le stelle
della lampada?», l'aveva stretta a un braccio e Kara si era
ripulita
gli occhi con le maniche del pigiama.
«No,
sono belle. Sono belle. Ma pensavo ai miei genitori», aveva
sussurrato, mettendo Alex in stato di agitazione.
«Sono
morti… vero?». Eliza e Jeremiah le avevano
accennato qualcosa, ma
non conosceva i dettagli del tragico destino che aveva segnato la
famiglia El. Aveva visto Kara annuire e poi si era stata zitta,
mettendosi un poco più vicina a lei. Per questo, con la
scusa di
dover andare in bagno, l'aveva lasciata lì e si era
affacciata alla
porta socchiusa dello studio di sua madre, chiedendole di dirle di
più.
Era
stato suo padre, la notte a seguire, a prenderla da parte un momento
prima che andasse a dormire per parlarle di Kara:
«Conoscevo
suo padre. Delle persone cattive, Alex, li avevano presi di mira e mi
aveva chiesto, se per caso fosse successo qualcosa a loro, di
prendermi cura di sua figlia».
«Quali
persone cattive?», si era fatta più seria.
«Verranno a prendere
anche Kara?».
«Oh,
no, no», aveva scosso la testa. «Non sanno che
è qui. Ma sono agli
arresti, adesso. Nessuno farà del male a Kara…
non più di quanto
le abbiano già fatto».
«Ma
lei ride sempre». Erano fuori in giardino e si era voltata
verso la
luce accesa della loro camera, d'intinto.
«Si
sta rialzando, Alex: è questo che fa. Cerca di starle
vicino. Non ha
mai avuto una sorella maggiore, tu non ne hai mai avuto una minore,
è
una situazione particolare per tutte e due ma sta
funzionando», le
aveva sorriso e poi l'aveva stretta nelle spalle. «Ma
guardati: sono
passati tre anni da quando è qui e finalmente ti preoccupi
per lei».
Si
era imbronciata subito. «Non mi preoccupo per lei».
Aveva stretto
le braccia intorno al petto ed era tornata dentro casa. Non si
preoccupava per lei, aveva ribadito a se stessa, ma forse per la
prima volta dopo tre anni aveva interesse a conoscerla.
Da
quel momento, Alex si era sentita un po' in crisi, accidenti: aveva
capito meglio Kara e il trauma che aveva vissuto, ma avrebbe tanto
voluto forzarla perché capisse che erano loro, in
quel momento, la
sua famiglia e che avrebbe dovuto accettarlo. Che avrebbe dovuto
andare avanti. Che avrebbe dovuto chiamare Eliza mamma
e Jeremiah papà,
per riuscirci. Aveva avuto una notte per pensarci. Una notte per
schiarirsi le idee.
La
mattina seguente si erano preparate, ognuna vestita come meglio
preferiva, ed erano andate a fare colazione in cucina. C'era Eliza
con loro e Kara le aveva chiesto di aiutarla a sistemarle la sua coda
di cavallo, mettendole alcune forcine. La donna era sembrata
genuinamente felice che la minore delle sue figlie fosse tornata in
sé. Alex aveva preso un ultimo biscotto e aveva atteso che
Kara
fosse pronta per uscire, poi si era girata da sua madre e, stupendo
entrambe, l'aveva salutata: «Ci vediamo allo stesso orario di
sempre! Ciao… Eliza».
Kara
aveva spalancato gli occhi e aveva guardato prima una e poi l'altra,
non riuscendo a fare a meno di sorridere.
Il
cambiare abbigliamento di Kara per non mettere a disagio Alex, aveva
fornito a quest'ultima uno
spunto
da mettere sul piatto delle idee che avevano affollato la sua mente
nelle ultime ore e così l'improvviso bisogno di fare lei,
questa
volta, qualcosa per avvicinarle. Kara aveva dei genitori e per quanto
questi fossero morti, sarebbero stati la sua mamma
e il suo papà
per sempre, anche se aveva un'altra famiglia.
Avevano
lasciato il cartone della pizza vuoto sul pavimento, avevano preso
delle bibite e si erano messe il pigiama. Sotto insistenza della
maggiore, Kara non fece che parlarle della sua relazione con Lena,
ora di nuovo sdraiate sul letto, l'una davanti all'altra.
«Le
avevo chiesto di parlarmene e credevo lo avesse fatto quando siamo
state in villa la vigilia di Natale-».
«Ecco
dov'eravate», sorrise, «Il lavoro la chiamava,
eh?».
«Beh,
s-sì», arrossì subito, distogliendo lo
sguardo da lei. «Il lavoro
e-era una scusa, voleva restare un po' da sola con me e-».
«Oddio»,
spalancò gli occhi all'improvviso. «Siete state
insieme! Avete
saltato la Messa per stare insieme, non negarlo».
«Non…
Non lo nego», non riuscì a trattenere un sorriso
imbarazzato.
«E
non era la vostra prima volta», la indicò,
stringendo i denti.
«No»,
spalmò la faccia sul materasso.
«Ah»,
le picchiettò la testa. «Siete state insieme anche
la notte del
Ringraziamento, Maggie ti aveva vista uscire dalla camera di Lena,
ora si spiega tutto. E ad Halloween? Avevi il segno del suo rossetto
sul collo, non ci credo, siete scappate per pomiciare e noi che vi
cercavamo preoccupate che vi foste perse! Avresti potuto parlarmene
in ogni momento, Kara. Davvero. Ogni-momento».
Kara
non rispose e finse di essere addormentata, ma dal momento che
soffriva il solletico non le riuscì più molto
bene. «Va bene. Va
bene, sono viva», rise, rossa in faccia. «Al
Ringraziamento… emh,
era la prima volta che stavamo insieme».
«Eri
tutta felice, quella mattina…», la
picchiettò ancora e Kara
avvampò.
«La
puoi smettere?», spalancò una mano, cercando di
fermare la sorella
e farle prendere le distanze. Era particolarmente imbarazzata e Alex
sorrise. «Sto cercando di costruire un discorso serio,
qui».
«Hai
ragione, scusami. Ma è tutto così», le
strizzò una guancia,
«nuovo per me sentirti parlare di queste cose».
«Ehi!
Avevo provato a parlarti di quando stavo con Mike, ma tu mi
interrompevi sempre».
«Avevo
le mie buone ragioni, credimi», annuì e poi rise,
così che anche
Kara rise, nascondendo di nuovo per un attimo il viso contro il
materasso. «Dopotutto, io non ti ho parlato del mio
appuntamento con
Maxwell Lord. E pensandoci, per come sono iniziate le cose tra te e
Lena…».
Kara
rialzò il viso in fretta, fissando la sorella.
«No, aspetta!
Appuntamento con Maxwell Lord? Quando?».
«Ed
ecco perché non te ne avevo parlato», le
carezzò la testa con una
leggera pacca. «Siamo usciti come amici, era il mio prezzo
per avere
il quadro per l'asta. È andato tutto bene».
«Come
amici?», si assicurò.
«Sì»,
alzò una mano in segno di resa. «Maxwell Lord non
ci piace, lo so,
ma avevamo bisogno di quel quadretto, no? Non è nemmeno una
persona
così noiosa come sembra». Kara la
guardò assottigliando i suoi
occhi e Alex sorrise. «Non mi sto affezionando a lui, Kara.
Rilassati. Continua a non piacermi, solo un pochino meno del
solito».
«Lo
terrò d'occhio».
«Oh,
ne sono sicura», rise, prendendo una pausa. «Ah! Ti
ricordi di
quando hai bagnato Lena lanciandole la palla in piscina?».
«Stai
cambiando discorso».
«No,
tu lo avevi cambiato, io lo sto riprendendo. E come ti aveva
guardato? Lo ricordi?».
Kara
sorrise sognante, decidendo di lasciar perdere Lord.
«Sì. Non so
come sia successo, che siamo passate da quelle occhiatacce
a…
questo. All'improvviso abbiamo iniziato a parlare e-», scosse
la
testa e sospirò, fissando un punto vuoto.
«È come se l'avessi
sempre aspettata, capisci? Non riuscirei a spiegarmi e può
sembrarti
strano, o pazzo», abbozzò una risata,
«ma è come se l'avessi
sempre amata e a un certo punto io l'abbia solo capito».
Alex
si fece più seria, deglutendo. «Non è
così strano», bisbigliò
mentre lei continuava a parlare.
«E
lo so che Lena prova lo stesso, e lo ha dimostrato… Lei
è sempre
attenta, e come mi guarda, e…»,
continuò a prendere fiato fino a
quando il suo sorriso pian piano svanì e parlò
più lentamente, «Ma
c'è qualcosa, Alex. Parlavo di questo. Ho come
un'impressione».
«Che
impressione?».
«Che
pensi di non meritarmi», strinse le labbra, guardandola di
nuovo
negli occhi. «Ha un blocco. Le avevo chiesto di parlarmene
quando la
vidi che aveva qualcosa che non andava, ma è-è
evidente che mi ha
rigirato le cose. O mi ha mentito, forse. Perché si comporta
così?
Sembra quasi che voglia punirsi. Ho pensato che potrebbe avere a che
fare con sua madre, perché con lei ha un rapporto fatto di
alti e
bassi. Più bassi, a dirla tutta»,
sussurrò. «Ma non ne ho idea.
So solo che questa cosa si mette tra noi. Soltanto questa
cosa».
«Forse»,
scrollò le spalle, «teme la reazione di Lillian ed
Eliza alla
vostra relazione. Probabilmente più quella di Lillian.
Avevate
deciso di uscire allo scoperto e si è tirata indietro
proprio prima
di farlo».
«Ci
ho pensato, ma… non lo so».
Kara
gettò di nuovo la faccia contro il materasso e Alex le si
avvicinò,
accarezzandole i capelli disordinati. «Vedrai che non
sarà nulla
che non si possa sistemare, sorellina. In qualsiasi caso, ci
sarò
qui io a prendermi cura di te».
I
suoi genitori non le avevano chiesto cosa l'avesse spinta, da un
giorno a un altro, a chiamarli con il loro nome, ma pareva che a loro
andasse bene. Anche se Alex e Kara si erano avvicinate come mai prima
d'ora, da quando prendevano l'autobus per andare a scuola a quando lo
riprendevano per tornare a casa, erano ancora quasi due estranee.
Frequentavano compagnie diverse, mangiavano in posti diversi a
pranzo, non avevano nulla di cui condividere se non qualche sguardo
quando si incrociavano nei corridoi. Sapevano dentro di loro che le
cose erano cambiate, ma lì, alla luce del liceo, erano
ancora due
Danvers che si conoscevano appena. Tuttavia, anche quel periodo stava
per giungere al termine, poiché un fatto aveva cambiato
tutto.
Una
sera come altre, Alex si era calata dalla finestra della loro camera
in comune per svignarsela con un ragazzo. Era da tempo che Kara non
usava più pedinarla perché non le capitasse
qualcosa di male,
eppure quella volta aveva avuto una strana sensazione sulla pelle e
così si era calata anche lei solo pochi secondi
più tardi,
seguendola dietro alcune case e poi fino a un parco. C'era un gruppo
di ragazzetti più avanti, dietro lo scivolo dei giochi per
bambini.
Aveva intravisto, nascosta dietro un albero, Alex incamminarsi verso
di loro e salutarli. A quel punto se n'erano andati tutti meno che un
ragazzo che, avvicinandosi a lei, le aveva messo una mano tra i
capelli e l'aveva baciata. A Kara non piaceva, era stata la sua prima
impressione, ma non voleva rovinare il rapporto che stava iniziando
ad avere con la sua nuova sorella, così si era girata per
andarsene.
Alex non l'avrebbe voluta lì. Se sarebbe stata abbastanza
fortunata,
aveva pensato, magari le avrebbe raccontato della sua serata
romantica una volta tornata a casa.
«Allora,
ti sta bene?», il ragazzo aveva sorriso e si era tirato
indietro con
la schiena, mani nelle tasche dei pantaloni: quell'atteggiamento da
duro piaceva molto ad Alex, ai tempi.
«Sì»,
aveva sorriso anche lei, entusiasta. «Possiamo andare da te
o…?».
«Da
me? Sei matta, il mio patrigno mi spacca la schiena se porto una
ragazza a casa», aveva ribattuto svelto lui. «Qui.
Andiamo lì
dentro, adesso», aveva indicato una casetta per bambini
collegata ad
altri giochi.
«Qui?
Lì dentro?», aveva indicato anche lei, ma con
incredulità. Per
niente al mondo avrebbe voluto perdere la sua verginità in
quel
posto. «Sei tu quello matto, io lì dentro non ci
metto neanche un
dito».
Di
lì a poco la situazione sarebbe precipitata. Si erano
conosciuti a
scuola, si piacevano, lui le aveva chiesto di uscire e lei aveva
accettato subito, contenta che un bel ragazzo voleva vederla
nonostante la voce che si era sparsa dopo il momento andato in bianco
di Jackson. Per Alex, lui era la svolta. O almeno lo era stato fino a
quell'uscita. Si era messa a gridare quando lui l'aveva presa per la
vita cercando di trascinarla dentro la casetta contro la sua
volontà,
ricordandole che era stata lei a dirgli di volerlo lo stesso giorno a
scuola. Alex aveva cercato di difendersi, ma si era sentita debole e
vulnerabile, incapace di muoversi ed esprimere la sua
contrarierà.
Kara era sbucata fuori all'improvviso, come, avrebbe detto Alex, un
supereroe. Lo aveva colpito con un calcio sul ginocchio destro,
facendolo piegare e lasciando andare la ragazza; dopo gli aveva
afferrato un braccio e tirato indietro, facendo abbassare il ragazzo
fino a fargli sbattere il naso contro il cemento della piazzetta. Gli
aveva poi messo un piede sulla schiena, tenendogli ben teso il
braccio verso di lei. Si era lamentato urlando, ma Kara, nonostante
fosse più bassa di lui e all'apparenza gracile, non si era
lasciata
intenerire e aveva stretto più forte.
«Ti
piace fare il duro, eh?», gli aveva chiesto, senza mollare un
solo
attimo la presa su di lui. «Scommetto che ti verrebbe male
farlo con
un braccio solo».
Lui
aveva gridato più forte, terrorizzato che glielo spezzasse,
mentre
Alex guardava Kara prendendo grandi boccate d'aria e reggendosi il
petto, con gli occhi grandi e acquosi, il viso rigato di lacrime e
mascara.
«Allora?
Farai il bravo se provo a lasciarti?».
Il
ragazzo l'aveva pregata di farlo, probabilmente aveva anche lui
iniziato a piangere, ma appena si era alzato in piedi a tentoni,
provò a girarsi e colpirla. Kara aveva schivato il colpo
tornando
due passi indietro, era probabile che se lo aspettasse, ma non aveva
fatto in tempo a ricambiare che un calcio di Alex lo aveva fatto
sbandare con una spinta, avendo già un equilibrio precario.
«Allontanati
da mia sorella», gli aveva gridato e lui si era deciso ad
andarsene,
dando a entrambe delle pazze.
Lo
avevano rivisto a scuola una settimana più tardi, ma non
aveva
rivolto la parola a nessuna delle due.
Non
avendolo più intorno, Alex si era lasciata andare
sull'asfalto,
sedendo e reggendosi la pancia e poi la testa, di nuovo la pancia,
respirando con affanno. La più piccola si era subito
precipitata
addosso a lei per sapere come si sentisse.
Kara
non le aveva chiesto cosa fosse successo, ma Alex si era comunque
sentita sporca. Voleva così disperatamente perdere la
verginità in
fretta da aver perso di vista ogni lucidità. La attraevano i
ragazzi, eppure una parte di lei aveva provato paura all'idea di
farsi avanti con loro, per questo aveva sperato subito di fare il
grande passo e togliersi il pensiero. Le sue amiche non erano
più
vergini da mesi e le avevano assicurato che sarebbe stato bello.
Voleva solo essere come loro. Di certo, a quell'età, non
poteva
avere la minima idea che il rifiuto che sentiva era perché
gay, ma
se non altro aveva smesso di cercare il rapporto forzato e aveva
avuto la sua prima volta, con naturalezza, con un ragazzo solo pochi
mesi più tardi, conosciuto nella palestra che lei aveva
deciso di
frequentare con Kara. Aveva deciso che non si sarebbe mai
più
sentita così vulnerabile come quella sera al parco. E che,
da
sorella maggiore, sarebbe stato compito suo proteggere lei e
ricambiare ciò che aveva fatto.
Aveva
preso il suo obiettivo molto seriamente, si era tagliata i capelli
per rendere i movimenti più naturali senza impicci, e aveva
continuato ad allenarsi e a partecipare agli incontri anche quando
Kara aveva deciso di restare a casa per avere più spazio da
dedicare
al tempo libero. Si era accorta di essere brava, che le piaceva
essere forte e indipendente. Si era accorta di stare scoprendo se
stessa e che doveva ringraziare Kara, per questo.
Kara
e Alex sollevarono le lenzuola e si coprirono, decidendo che era ora
di dormire un po'. Si girarono ognuna verso il proprio lato e la
minore chiuse gli occhi, quando la maggiore la destò:
«Volevo
chiederti scusa», deglutì, «Sai,
per… Ho giudicato male la
relazione tra te e Lena. Chiederò scusa anche a lei appena
potrò».
«Scuse
accettate», si voltò e Alex, sentendola, fece lo
stesso. «Pensavi
di proteggermi, lo so. E io avrei dovuto parlartene».
Le
scoccò un'occhiata decisa. «Finalmente lo hai
capito».
Kara
rise e così Alex, decidendo di girarsi di nuovo e augurarsi
la
buonanotte.
Un
capitolo molto corto rispetto ai soliti standard, e di certo
è anche
protagonista di pochi avvenimenti. Ma Kara e Alex avevano bisogno di
un pochino di tempo per parlarsi e così eccolo qui! Kara ha
potuto
raccontarle della sua relazione con Lena, Alex ha accennato il suo
appuntamento con Maxwell Lord, e intanto abbiamo aperto una finestra
sul passato per capire meglio il loro rapporto, come siano diventate
da due estranee che non si sopportavano a sorelle. Vi è
piaciuto?
Un'unica piccola nota: la serie tv che stavano guardando le nostre
sorelle nel presente è New
Girl. Io in realtà non la seguo, dunque spero
di non aver sbagliato qualcosa XD
Vi
do appuntamento a lunedì prossimo, qui e puntuale come
sempre, con il
32° capitolo che si intitola Colpo e contraccolpo
e, per
qualche strano motivo che non so, è finora uno dei miei
preferiti!
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Capitolo 33 *** 32. Colpo e contraccolpo ***
Cat
Grant guardò uno per uno i suoi dipendenti, richiamati nel
suo
ufficio per quella riunione straordinaria. Mandò
in uno dei suoi schermi su
parete il
pezzo dello show televisivo dove il senatore Gand annunciava denuncia
contro la CatCo e Leslie Willis che aveva scritto su di lui. Finito
il video, intrecciò le dita delle mani e poggiò i
gomiti sulla
scrivania.
«Lo
avrete visto già e ma era corretto riproporlo», si
tolse gli
occhiali e li dispose sulla scrivania, dandosi un'aria più
seria.
«Il senatore Lar Gand ha deciso di denunciare la CatCo,
quindi me»,
disse toccandosi il petto, «e la vostra collega Willis, che
ha
pensato di rendere pubbliche le sue malefatte, bla
bla.
È lunedì mattina già
da ore e
mi fanno sapere che di denunce neanche l'ombra». Qualcuno
iniziò a
parlottare a bassa voce e Cat Grant roteò gli occhi.
«Silenzio!
Solo perché non è ancora
arrivato nulla non significa che non sia una cosa seria. È
una cosa
molto seria. Quando vi minacciano di denuncia per aver fatto il
vostro lavoro significa una cosa soltanto: avete fatto un buon
lavoro». Le facce di tanti cambiarono, diventando
improvvisamente
più altezzosi e si sollevò un nuovo
chiacchiericcio, rendendo Kara
confusa e la signora Grant spazientita, tanto da alzare di nuovo la
voce: «Vi ho per caso dato il permesso di poter fare salotto?
Aver
fatto bene il vostro lavoro non significa anche non doversi prendere
le proprie responsabilità e le conseguenze. Leslie ha
attaccato
duramente il senatore e per questo lei ed io saremo questa sera alla
registrazione del dibattito televisivo per chiarire la nostra
posizione. Quando ci ha denunciate, il senatore Gand ha fatto una
scelta mirata di immagine, prendete nota: invece di procedere per le
silenziose vie legali, ha pensato di mostrarsi in televisione e fare
sensazionalismo», gesticolò disgustata, alzando le
mani. «Questo è
molto importante, deve difendere il suo profilo pubblico. È
come un
cane che nasconde la coda», li guardò di nuovo
tutti, per
assicurarsi di avere la loro completa attenzione.
«È stato colpito
e lui lo sa. Farà di tutto per vincere il dibattito
perché ne ha
bisogno. E
mi devo sorbire questa rogna,
quindi il mio consiglio è questo: scegliete sempre con cura
il
vostro nemico. Se non siete in grado di partecipare a un dibattito
televisivo, perché è là che si fanno
le battaglie adesso, allora
state a casa. Ci sono domande?». Kara fu l'unica ad alzare la
mano
distendendo completamente il braccio destro, ma Cat Grant la vide e
la ignorò. «Bene, meglio così
perché ho già un principio di mal
di testa. Ora tornate al vostro lavoro, chop
chop,
rendetemi orgogliosa, andate,
avanti».
Si misero in fila per uscire dall'ufficio che la donna
rialzò la
voce: «Non voi: Leslie, Keira. Vi voglio qui».
Kara
sentì un brivido e il suo corpo si bloccò,
guardando Leslie che non
sembrava affatto preoccupata. Poi guardò Siobhan,
impantanata
accanto a lei.
«Ti
ho per caso chiesto di restare, Siobhan?».
Lei
spalancò gli occhi e indicò Kara. «Oh,
pensavo che, siccome sono
la sua-».
«Hai
pensato male: fuori di qui. Via,
via, di fretta»,
la scacciò e mentre Siobhan Smythe usciva e sbuffava, «E
chiudi bene la porta»,
e chiudeva bene la porta dietro di lei, la signora Grant
pensò di
alzarsi dalla sua postazione e fare il giro, appoggiandosi contro la
sua scrivania, con gambe incrociate. Le squadrò attentamente
e così
ansimò. «So già che mi
pentirò per averlo chiesto, ma devo farlo
e quindi non provate a mentirmi che sarebbe inutile per me e molto
doloroso per voi. Fin dove volete spingervi contro il
senatore?».
Leslie
Willis tirò fuori un sorriso e Kara si accigliò,
guardando una e
poi l'altra. «Signora Grant, c-cosa le fa pensare che io ne
sappia
qualcosa?».
«Oh,
Keira, quei tuoi occhi da cerbiatta non sanno proprio come si
mantengono i segreti, perché tu lo sappia. Ti si legge lo
sguardo
colpevole sotto tutta
quella
agitazione che
non avresti neanche se
dovessi fare un provino da X
Factor e
Simon Cowell ti stesse fissando».
«Non
sono agitata». Mh,
stava forse sudando? Le bastò un'occhiata per zittirsi.
«Fo-Forse,
beh… Va bene», deglutì, «Mi
sento in colpa per la denuncia, non
pensavo si sarebbe arrivati fino a questo punto».
«Non
sapevi di essere nel mondo degli adulti?», le
domandò Cat Grant.
«Di
cosa ti sentiresti in colpa, tu?», le chiese invece Leslie,
scrollando le spalle.
«Per
te! Per-Per la CatCo», guardò prima Leslie e poi
Cat.
«Oh,
ma sentila che dolce», ridacchiò Leslie, rivolta
al loro capo. «E
magari pensa che sia pure la mia prima denuncia», scosse la
testa.
«Lavorare in questo settore significa essere aperti a rischi
del
genere. E magari pensi pure che mi abbiate infilato in mezzo,
cucciolo, ma non è così: ho accettato,
è parte del mio lavoro, mi
prendo le conseguenze e di certo non devi sentirtene in colpa tu»,
la indicò.
Cat
Grant le squadrò ancora, cercando di mettere a fuoco cosa
stava
succedendo. «Avete una fonte?», guardò
Kara.
«U-Una
specie, signora Grant, ma-».
«Affidabile,
ma non legale. Ora si spiega tutto». La ragazza
spalancò occhi e
bocca pronta per ribattere che lei la fermò: «Shh,
ora stai zitta», la sgridò, rivolgendosi di nuovo
all'altra. «Tu.
Sei sospesa».
«Cosa?».
«Hai
sentito benissimo», gesticolò con una mano per
aria. «Hai detto
bene: prendi le conseguenze».
«Pensavo
che le conseguenze fossero partecipare a quello stupido dibattito in
televisione», grugnì, stringendo i pugni.
«No,
quella è la mia conseguenza. La sospensione sarà
la tua
conseguenza al fatto che io
dovrò partecipare a quel dibattito per i tuoi articoli. E
ora
fuori».
«Ma-Ma
non può farlo».
«Posso
e lo farò. La sospensione è da domani quindi ora
rimettiti al
lavoro. E sorridi, Leslie, sorridi», le fece cenno di uscire
e
l'altra aprì la porta con uno scatto d'ira.
«Ti
odio e odio questo lavoro».
«Lo
so. Ora chiudi bene la porta».
Kara
strinse i denti quando questa sbatté. Capì con un
secondo di
ritardo che, essendo l'unica rimasta in ufficio, ora toccava a lei.
L'aria si era fatta così tesa… «La
prego, signora Grant, non mi
licenzi».
Lei
strinse gli occhi e la esaminò, per poi passarsi due dita
sul mento,
mentre la pressione di Kara saliva. «Ti avevo detto che
scrivere di
loro sarebbe stato un suicidio, quindi tu, e chissà chi
altro, hai
permesso che fosse Leslie a scrivere perché ha
più esperienza, si è
fatta le ossa e non ha scrupoli…».
«S-Signora
Grant, non è proprio così».
«Geniale».
«Cosa?».
La
donna prese passo per tornare dietro la scrivania e da lì
esaminarla
ancora. «Sia chiaro: non sto dicendo che il senatore Gand
abbia
qualcosa a che fare con niente, ma lo avete preso di mira e
dovrà
pur valere qualcosa».
«Lo
so che lei mi aveva detto di non farlo, ma-», scosse la
testa.
«Oh,
no», la fermò, «Io ti avevo detto che il
nostro giornale non si
occupava di cospirazioni, ma quanto avete fatto col senatore sono
fatti reali. E noi ci occupiamo di fatti reali. Questa sera, ad
esempio, mostreremo a tutti una copia dei messaggi che il senatore
scambiava con la sua segretaria. Basterà? Oh no, certo che
no, sento
già l'eco delle fandonie di quella donna mentre si arrampica
sugli
specchi, ma avremo comunque qualcosa di concreto in mano. Sparare a
zero e accusare ignoti era pericoloso e controproducente, ma non
posso e non voglio tenerti lontana dalla verità, Kara
Danvers».
Oh.
Kara spalancò gli occhi: Cat Grant l'aveva chiamata col suo
nome
corretto per la prima volta.
«Siamo
giornalisti: il nostro lavoro è trovare la
verità», portò le mani
sulla scrivania, guardandola attentamente negli occhi. «Sei
Supergirl, no?».
«C-Come?».
«Supergirl.
In campo è così che ti chiamano, vero? Non
cascarmi dal pero, ho
visto anch'io i tuoi video. Sii Supergirl, Kara Danvers. Non lasciare
che Leslie si prenda tutto il divertimento, per la miseria! Vuoi
lavorare qui, no? Comportati professionalmente, trova il tuo nemico,
sceglilo con scrupolo e un'ultima cosa», la guardò
con attenzione:
«accetta di poterne pagare le conseguenze».
Kara
strinse le labbra e si accigliò, annuendo.
«Sì, signora Grant».
«E
ora vai, chiama la mia assistente, che non ho ancora messo nulla
sotto i denti e non mi arriva sangue al cervello».
«Sì,
signora Grant». Uscì di corsa, non invidiando
affatto il lavoro di
quella povera ragazza.
Scegliere
il suo nemico. Essere professionale. Diede un'occhiata al cellulare.
No, nessuna notifica. Nessun messaggio di Lena. Niente di niente.
Sbuffò e si piegò con le ginocchia contro il
petto, sdraiata sul
letto. Era triste, ma per quanto potesse esserlo doveva lasciare a
Lena il suo spazio. Ed era davvero difficile farlo. Se solo avesse
accettato la pausa che voleva quando la prima volta le aveva
accennato qualcosa… Oh, ma non sarebbe cambiato niente; non
sarebbero comunque state insieme ed era palese che Lena avesse un
problema che si metteva tra loro, che forse la riguardava o forse no,
ma che doveva risolvere. E a breve ci sarebbe stato il matrimonio,
era giusto che avessero entrambe del tempo per capire se quello che
c'era tra loro era destinato a durare, perché veramente non
potevano
rovinare tutto, a quel punto… Stavano per dirlo alle loro
madri,
accidenti. Sbuffò di nuovo, distendendo le gambe. Trovare il
suo
nemico.
«Stai
facendo una lista delle cose che pensi di aver sbagliato con
Lena?».
Megan si andò a sedere sul suo letto, aprendo un libro.
«Ti sei
persa un grande allenamento. Beh, sì, l'ho pensato
io», scrollò le
spalle, «In attesa del tuo ritorno, sarò io il
capitano».
«Cosa
hai detto?».
«Che
sarò io il capitano. Voglio fare un buon lavoro, ti prego,
non
prendertela con me».
«No,
prima».
«Lena?
Delle cose sbagliate con Lena? Una lista?».
«Lista»,
puntò in aria il dito indice destro, alzandosi di scatto dal
letto e
aprendo l'armadio. «Avevo scattato la foto di una lista mesi
fa».
Uscì la testa dall'armadio con un foglietto spiegazzato e
Megan
richiuse il suo libro, dando un'occhiata con curiosità.
«L'avevo
scattata da un vecchio numero del CatCo Magazine: sono le persone
arrestate anni fa per concorso in omicidio dei miei genitori,
traffico di denaro e altri capi d'accusa»,
aggrottò lo sguardo e
Megan, al suo fianco, fece lo stesso. «Facevano parte di
quell'organizzazione criminale. Lena aveva cercato il più
possibile
su di loro ma non siamo riuscite ad andare avanti, non abbiamo
trovato collegamenti se non i Gand. Non volevo andare a trovare le
persone agli arresti perché non mi sentivo pronta, ma adesso
lo
sono, Megan», la guardò, «Ho trovato il
punto dove scavare e
inizierò dall'uomo che ha dato inizio a tutto questo: il
commercialista».
«Un
commercialista?».
«Faceva
anche lui parte dell'organizzazione. Mia zia», disse, per poi
prendere fiato, «l-lei aveva provato a dissuadere mia madre,
che era
giudice, dal farlo condannare, ma lei non ha ceduto. Il
commercialista è finito agli arresti e da lì
tutto ha cominciato a
crollare. Andrò da lui, domani. Poi seguiranno i nomi della
lista»,
la guardò con attenzione. «Sono Supergirl.
Supergirl può farcela».
Lei
la guardò stranita, poi decise di annuire.
Quando
si svegliò, quella mattina, Kara Danvers si sentiva
più carica che
mai. Il mal di pancia per l'assenza di Lena stava venendo soffocato
dal senso di giustizia e si rese conto che tenersi occupata in quel
modo avrebbe aiutato in tutti i sensi il suo corpo e la sua mente. E
forse anche il suo cuore. Non disse nulla ad Alex, che aveva di nuovo
il turno con la microspia; andò a lezione, fece le sue ore
alla
CatCo con Siobhan che si lamentava delle brutte giornate di pioggia
e, con determinazione dipinta sul volto, dopo mangiato prese
l'ombrello e un taxi per dirigersi in prigione. La sensazione di
essere seguita era ancora presente, ma era davvero solo una
sensazione: non c'era nessuno dietro di lei e la cosa cominciava a
mandarla in paranoia e forse ora, che iniziava un'indagine per conto
proprio, immaginava che la sensazione sarebbe cresciuta. Decise di
ignorarla e andare avanti. Fort Rozz era talmente enorme che imponeva
un senso di soggezione a starle tanto vicina; faceva paura. Kara
entrò nell'edificio costellato da guardie e
lasciò l'ombrello
nell'ingresso, perdendosi ad ammirare la grande sala d'accesso, piena
di poliziotti in divisa e altre persone; davanti alla guardiola c'era
la fila e prese un bel respiro, mettendo in conto di dover attendere
un po'. Possibile che ci fosse tanto movimento?
«Kara?».
Al
sentire quella voce si gelò, voltandosi di scatto.
«S-Signor
Gand?!». Lui si avvicinava lentamente con le mani infilate
nelle
tasche dei pantaloni, lasciando dietro di lui un gruppo di uomini in
giacca e cravatta che parlottavano tra loro. Lei si tirò in
su gli
occhiali, deglutendo.
«Cosa
fai qui? È la prima volta che vieni?».
Non
era sorpresa del suo interessamento. «Sto vagliando alcune
piste per
un articolo».
«Lavoro
intenso, non è vero?», la fissò con
attenzione. «Sei amica di
Leslie Willis?».
«Diciamo
che la conosco».
L'uomo
annuì, spostando il suo sguardo altrove solo per un momento.
«Mentre
Willis cerca di calunniarmi, il mio lavoro continua: sono qui con
alcuni colleghi per valutare le condizioni dei detenuti. Passeremo
per la sezione maschile e ci sposteremo in quella femminile.
Beh»,
diede un'occhiata alla guardiola dove due agenti stavano trafficando
al pc, «sarebbe più veloce se non avessero
problemi con i
database».
Anche
Kara lanciò laggiù uno sguardo, accorgendosi
subito, con la coda
dell'occhio, che lui aveva di nuovo posato i suoi occhi su di lei.
«Kara».
Si
voltò, scoprendo Lois Lane che le veniva incontro
spensierata. Si
abbracciarono e la ragazza passò un rapido sguardo al
senatore, così
diede la mano anche a lui e si salutarono; a Kara sembrò che
decisamente si conoscessero. «Senatore. Come sta la sua
segretaria?».
Lui
ci mise qualche secondo di troppo a rispondere. «Si sta
godendo la
vacanza lontano dai reporter».
«Capisco.
Lontano dai reporter che fanno domande, lontano da sua
moglie…»,
strinse i denti e lui le labbra, «Deve aver preso il primo
aereo».
Doveva
essersi sentito grato di non avere il tempo per l'impaccio di
rispondere: un uomo lo richiamò con un colpetto su una
spalla e gli
disse qualcosa a un orecchio, così si scusò
dicendo che il lavoro
lo chiamava. Dovevano aver sistemato il problema al computer e lo
videro passare per una porta alle sbarre, circondato da uomini in
divisa e uomini in completo. Non si girò a osservarle
un'ultima
volta.
«Ho
come la netta sensazione che sia stato lui a farla sparire sul primo
aereo», esclamò Kara.
Lois
non nascose un sorrisetto. «Beh, o quello, o se la poveretta
conosce
almeno un po' Rhea, sarà scappata a gambe levate prima che
la avesse
a portata di mani».
Si
misero in fila per la guardiola, parlando di come il senatore
sembrasse sulle strette dopo i recenti scoop di Leslie Willis,
concordando con la signora Grant dicendo che annunciare la denuncia
in televisione era stato un mirato atto a salvaguardare la sua
immagine.
«Sto
ultimando un articolo su questa soap tra il senatore, la moglie, la
segretaria e Leslie Willis della CatCo. Chissà se
denuncerà anche a
me», si chiese, corrucciando le labbra. «Cambiando
argomento, come
mai sei qui? Io devo intervistare un uomo per un caso di omicidio in
cui si dichiara innocente, è per il mio prossimo articolo.
È senza
dubbi innocente, se vuoi il mio parere», le fece sapere
subito, a
bassa voce. «È solo l'ennesima vittima della nuova
politica del
capitano Zod. Si è sempre dichiarato innocente, non ha mai
ceduto,
ma le prove puntano a lui e non importa se non avesse collegamenti
con la vittima di alcun genere. Prove tutto sommato superficiali, che
posso smontare perfino io», concluse scuotendo la testa e
Kara
aggrottò la fronte, ripensando al Generale
Zod, così com'era chiamato. Quell'uomo le aveva fatto venire
i
brividi quando lo aveva visto quell'unica volta.
«Tuo
padre e Zod si conoscono, lo sapevi? Si stringevano la mano l'ultimo
dell'anno, in un locale a Metropolis».
«Ah,
non lo metto in dubbio. Mio padre conosce un sacco di persone, ma non
significa che gli piacciano», accennò una risata.
«Quelle si
contano sulle dita di una mano: mia sorella, il nostro cane, il suo
lavoro».
Risero
e passarono avanti, quasi pronte per la guardiola.
«Io
sono venuta a trovare un uomo che mia madre fece condannare undici
anni fa».
«Tua
madre era una giudice, è vero», annuì,
«Di quelle forti».
«Sì»,
sorrise, arrossendo. «Lei era brava nel suo lavoro. Era un
commercialista prima di finire in carcere, vorrei fargli qualche
domanda».
Lois
sembrò apprezzare e quando fu il loro turno la fece passare
avanti.
Kara espose il motivo della visita e i suoi dati ma, quando la
guardia cercò il nome del detenuto sul database,
sembrò cambiare
espressione.
«Non
posso? Perché non posso parlare con lui?».
«Mi
spiace, signorina Danvers, ma è deceduto».
Lei
e Lois spalancarono gli occhi, guardandosi un momento. «Come
deceduto? Quando?».
Lui
fece una smorfia dispiaciuta. «Lo ha mancato di pochi mesi,
signorina: si è suicidato in cella la notte di Halloween, il
trentuno ottobre passato».
La
ragazza rimase immobile per qualche istante, soprappensiero. La notte
di Halloween, quando tutti festeggiavano, quell'uomo si era tolto la
vita? Perché? Se voleva togliersi la vita, perché
aspettare tanti
anni? Guardò Lois e il suo sguardo sembrò
rispecchiare i suoi
stessi interrogativi. Deglutì e le mancò il
respiro fosse solo per
un attimo, e quelle parole le uscirono spontanee, riaffacciandosi
sulla guardiola: «Deve cercarmi un altro detenuto, nella
sezione
femminile».
Sentire
che sua zia Astra stava bene e non le era capitato alcun tipo di
incidente le fece mettere il cuore in pace. Le fecero passare, Lois
la portò con sé e una guardia le
scortò all'interno.
«Dovresti
andarla a trovare, Kara», le sussurrò vicinissima,
camminando in un
corridoio tra le celle, a un metro dalla guardia. «Ormai sei
qui e,
se non ci vai, te ne potresti pentire», cercò di
convincerla ma
Kara era scettica, avanzando con disagio là in mezzo.
«Non
so… È passato tanto tempo», scosse
brevemente la testa. Appena si
ricordava la sua voce e, l'unico motivo per cui non era riuscita a
dimenticare il suo aspetto, era perché era identico a quello
di sua
madre.
«Se
decidi di andare da lei, ti farò compagnia io», le
assicurò, «Non
dovrai andar da sola».
Nel
frattempo, nei parcheggi sotterranei della CatCo, Leslie Willis
usciva dall'ascensore borbottando i primi insulti che le venivano in
mente. Verso Cat Grant, naturalmente. Appena udì il rumore
inconfondibile di tacchi, in tutto quel silenzio, roteò gli
occhi.
«Dovrai trovarti un'altra vittima sacrificale per i prossimi
giorni,
principessa: io ho già dato». Si tirò
un ciuffo platino indietro e
le lanciò uno sguardo svogliato.
«Cosa
è successo?», domandò Lena, fermandosi
e attendendo che si
avvicinasse.
«La
vecchia stronza mi ha sospeso. Due settimane di vacanza,
le ha chiamate. Niente sui Gand per un po'»,
sbuffò, «Proprio ora
che iniziavo a divertirmi».
«Non
ti ha denunciata?».
«Appunto»,
rise scuotendo la testa. «Ho messo il nostro gran senatore
con le
spalle al muro. E comunque mi ha denunciata solo a parole, per il
momento. Codardo».
Lena
ansimò, fissando per un attimo un punto distante,
mantenendosi
stretta con le spalle. «Troveremo un altro modo»,
sussurrò poi,
più rivolta a se stessa che a Leslie.
La
reporter annuì. «Sì, beh, come ti
pare». Le passò avanti ma
qualunque cosa avesse in mente parve cambiare idea poiché si
bloccò
all'improvviso, girandosi verso di lei ancora una volta.
«Dai,
vieni», le fece un cenno con la mano, «Offrimi da
bere».
Lena
sbuffò, raggiungendola. «Per una volta potresti
pagare tu».
«Sei
tu quella che ha soldi. Io ho i debiti».
Non
le chiese se Kara se ne fosse già andata. Quando si stava
dirigendo
alla CatCo, in fondo, sperava di vederla con la scusa di andare a
parlare con Leslie. Di incrociare anche solo uno sguardo con lei, per
sapere se stava bene. Da quando si erano lasciate al Martedì
Grasso,
non le aveva inviato nemmeno un messaggio. Dopotutto, non lo aveva
fatto neanche lei. La verità era che non sapeva cosa
scriverle
perché si sentiva in colpa. Ed era in colpa, accidenti; era
tutta
colpa sua. La cosa più assurda di tutte era che non sapeva
neppure
da che parte iniziare per rimediare.
Si
sedettero davanti al bancone di un bar quasi vuoto, a quell'ora di
tardo pomeriggio. Avevano chiesto da bere e Leslie Willis non aveva
fatto altro, da quando si era seduta, che lamentarsi di Cat Grant.
«Vedrai che lo lascio questo lavoro».
«Lo
dici ogni volta».
«Un
giorno lo farò sul serio, vedrai. E me ne andrò
in vacanza alle
isole Cayman», aggiunse, buttando giù un altro
sorso. «Quelle sì
che saranno vacanze e me le passerò tutte a inviare
maledizioni a
Cat Grant mentre mi abbronzo sotto il sole»,
ridacchiò, chiedendo
al barista un altro bicchiere. «Prima ciancia di denunce e
buon
lavoro svolto, poi mi dà la lieta novella. Odio quella
donna».
Considerato che Lena aveva smesso di commentare alle sue
esternazioni, le lanciò un'occhiata, scorgendola con sguardo
basso e
bicchiere in mano, ancora poggiato al bancone e quasi intatto.
«Non
sei di compagnia, Luthor».
«Come?»,
si destò e poi abbozzò un debole sorriso.
«Fammi indovinare: Cat
Grant è cattiva, odio il mio lavoro, odio lei, un giorno me
ne
andrò, vedrai».
Lei
assottigliò i suoi occhi. «Sai, è per
questo che non hai amici».
Lena
sorrise con più gusto, scuotendo la testa e mandando
giù un piccolo
sorso.
«Va
bene, mi arrendo», Leslie gridò, svegliando un
anziano signore
poggiato al bancone a pochi metri da loro. «Cosa turba la tua
raffinata testolina, quest'oggi? Ah, ma che dico: lo so! Ti sei
lasciata con il cucciolo, sei tanto triste, non sai più chi
coccolare e sei tutta sola chiusa nella tua lussuosa
villetta».
«Sai,
Willis?», le scoccò un'occhiata.
«È per questo che non hai
amici».
«Touché».
Mandarono
giù insieme i contenuti dei loro bicchieri, poggiandoli
vuoti sul
bancone.
A
volte odiava davvero l'intuito di Leslie: riusciva spesso a cogliere
cose che lei non voleva rivelare, o sfumature di qualcosa di cui
neppure era a conoscenza. La odiava, eppure era utile. Forse per
questo, per la prima volta, Lena decise di confidarsi con lei: le
raccontò di come si erano separate, delle sue precedenti
relazioni,
in special modo di quella con Jack, che credeva l'amore della sua
vita. Non pensava certo che Leslie potesse aiutarla in campo
sentimentale, né che potesse supportarla, ma quella
rispostaccia…
«Sì,
abbiamo capito, sei gay. C'è altro?».
«Non
sono gay», fece una smorfia con le labbra, tirando in su il
naso.
Leslie
in quel momento rise, battendo un pugno sul bancone. Si rese conto
solo poco più tardi che l'altra non rideva con lei.
«Aspetta, stai
dicendo sul serio? Oh, ciccia, lo hai detto tu: il sentimento c'era,
ma a letto ti faceva schifo».
«Non
ho detto questo».
«Sei
andata a letto con altri uomini?».
«Beh,
no, perché…», si fermò e,
dopo un po', spalancò gli occhi,
cominciando a sussurrare: «Sono gay». Scorse Leslie
alzare lo
sguardo al soffitto. «Non sono mai stata attratta dai
ragazzi, ma
Jack…».
«Era
un ragazzo, ti sei presa una sbandata e capita, dolcezza: sei
cresciuta sotto la guida di Miss Scultura di Ghiaccio Luthor. Pensavi
fosse il tuo grande amore, lo credo, forse eri convinta di non avere
altra scelta». Si sporse di nuovo verso il barista, urlando
di
potere avere altri due bicchieri per festeggiare, facendo spaventare
l'anziano al bancone. «E poi sei andata a consolarti da altre
donne.
Voglio dire: il sentimento è bello e caro, ma devono esserci
entrambe le cose. Perché se lui alza la band-».
«Sono
gay», ripeté, interrompendola, «Come ho
fatto a essere così
stupida?».
«Stupida?»,
Leslie la guardò torva, «Ti prego, mi stai facendo
passare per
quella brava ragazza che non sono, ma… tu non sei stupida.
Sei una
delle persone più intelligenti che conosco, diamine, non
devo
dirtelo io. Sai cosa? È solo che hai avuto rapporti
disfunzionali a
causa della tua madre stronza», scrollò le spalle
e poi bevve tutto
il contenuto del suo bicchiere in un sorso.
Secondo
Leslie Willis, tutti i suoi problemi sociali erano imputabili alla
fredda educazione impartita da Lillian Luthor. Una parte di lei,
seppure non volesse darle tanto potere sulla sua vita, era convinta
che avesse ragione. Sembrava facile, tuttavia, gettare tutte le colpe
su di lei: Jack era il suo porto sicuro e lasciarlo era un salto nel
vuoto, non sapeva che cosa l'avrebbe attesa ed era questa, la
dipendenza che aveva di lui, la cosa che davvero l'aveva bloccata in
quel periodo e che le aveva proibito di scoprirsi gay. Oh, se pensava
che aveva usato la relazione con lui come scusa per allontanarsi da
Kara…
«Allora?».
Leslie riprese la sua attenzione, appoggiando un gomito al bancone e
fissandola con occhi stanchi. «Ti sei incantata, bella. Non
pensare
di provarci perché sono dell'altra sponda, te lo dico
subito. Anzi»,
aveva scrollato le spalle e alzato il suo bicchiere, di nuovo
magicamente pieno, «Se conoscessi Hector, il tipo che
rifornisce la
macchinetta del caffè alla CatCo, oggi saresti etero anche
tu».
«Scoperto
perché bevi tanto caffè», rispose senza
guardarla.
«Quello
e perché sono dipendente dalla caffeina. Dai,
parlamene», alzò di
nuovo il bicchiere. «Sarà che questi cominciano a
fare effetto, ma
mi sento caritatevole e voglio aiutarti con il cucciolo: cosa vi ha
spinto a lasciarvi, seriamente?».
Il
barista si avvicinò e mentre Leslie si fece versare ancora
un po' di
scotch, Lena rifiutò, lasciando il bicchiere da una parte e
appoggiandosi meglio al bancone anche lei, con stanchezza
più
emotiva che fisica. Aspettò che l'uomo si allontanasse per
dirglielo, a bassa voce e senza guardarla negli occhi. «Lo
sai. I
miei genitori erano implicati nell'omicidio dei suoi. Non gliel'ho
ancora detto».
«Tutto
qui?», sbraitò lei e l'uomo anziano
saltò sullo sgabello,
decidendo di pagare il conto e andarsene. «Allora la
soluzione è
semplice, bella mia», si avvicinò di
più, scrutandola negli occhi
chiari, «Ti avvicini e glielo dici. E dopo, com'è
giusto che sia,
paghi il conto». Alzò le spalle e anche le mani,
allontanandosi di
nuovo.
Lena
scosse la testa, irrigidendo le labbra. «Sembra facile. Le
nostre
famiglie sono una sola, adesso. La ferirò. E la
ferirò per non
averglielo detto prima e questo-», si fermò,
mordendosi un labbro,
«è per questo che ci siamo lasciate:
perché non riesco a essere
sincera».
«Intendevo
questo con paghi
il conto,
Luthor. Cosa ti aspettavi? Devi prenderti le tue dannate
responsabilità». Si fermò anche lei e
spalancò gli occhi,
portandosi lentamente una mano sul cuore. «Che qualcuno mi
fulmini,
comincio a parlare come Cat Grant». Lena si alzò e
aprì la borsa e
il portafogli, lasciando soldi sul bancone. Leslie dovette seguirla
per il bar e riuscì appena in tempo a bloccarla prima che
uscisse.
«Che cazzo fai? Nemmeno mi saluti? Dannazione, ora che
cominciavo a
sentire», allungò e accorciò un
braccio, indicando se stessa e
Lena, «una connessione tra noi».
«Sei
ubriaca, Willis. Ti chiamo un taxi».
«Va
bene, io sono ubriaca. Ma tu sei idiota. Sei l'idiota più
intelligente di sempre perché ti fermi per paura alle
cose», scosse
la testa. «Per questo non hai lasciato Jack e per questo ti
sei
lasciata scappare Kara. Adesso so che farai: ti chiuderai a riccio,
farai finta di niente finché questo senso
pesante», si toccò il
petto, «che hai, quella-quella roba, quel segreto che ti
porti
dietro come se stessi espiando chissà quale peccato non
diventerà
di nuovo pesante come… un cazzo di mammut», rise.
«E allora, sarà
allora, che ti sentirai al punto di partenza e sarai di nuovo al
bivio: dirglielo o non dirglielo? La seconda opzione ti farà
ripartire da zero, un loop di merda; ti renderà infelice per
tutto
il resto della tua ricca vita. Anche la prima opzione ti
farà
soffrire», annuì, mentre Lena la fissava con le
lacrime agli occhi
e un'espressione dura. «Ti farà soffrire eccome ma
ti renderà
libera. E lei ce l'avrà con te, mi pare ovvio, ma sai qual
è la
cosa bella? Che siete sorellastre, Lena, dove cazzo vuoi che vada,
dovrà affrontarti! E forse», puntò in
alto un dito, reggendosi a
una sedia del bar per non cadere, «Forse lei ti
perdonerà. Per me
la scelta è facile, eh. Per me, ma per fortuna…
io non sono te»,
rise di nuovo e la ragazza scosse la testa, uscendo dal locale.
Le
chiamò un taxi e dopo sparì, lasciando Leslie al
suo sorriso
compiaciuto.
Kara
restò con Lois per tutto il tempo all'incontro con il
detenuto
protagonista del suo prossimo articolo. L'aveva tenuta d'occhio
mentre prendeva appunti, ascoltava con attenzione le parole dell'uomo
in lacrime, quasi non batteva ciglio data la concentrazione e la
risolutezza, spiegando anche a lei, che era al suo fianco, cosa stava
succedendo e dove avrebbe cominciato il suo lavoro. Con un solo
sguardo, Kara riusciva a percepire tutta la disperazione di quel
carcerato, chiedendosi se davvero fosse là a causa del
Generale Zod.
Una giuria lo aveva condannato, ma ad averlo portato davanti a loro
era stato lui. Non riusciva a togliersi dalla testa il commercialista
che si era suicidato ad Halloween e quel brutto presentimento che non
fosse un vero suicidio e che Zod era arrivato a lui prima di lei.
D'altronde, lui era al comando da qualche mese. Piuttosto grande come
coincidenza. Se Zod faceva parte della stessa organizzazione
criminale, allora forse stava saldando qualche conto rimasto aperto e
la voglia di andare a trovare sua zia si faceva ancora più
forte.
Lasciarono
la stanza quando riportarono l'uomo nella sua cella e Lois scosse la
testa, appoggiandosi al muro con fare esausto. Sentiva lo sguardo di
Kara sul suo. «So cosa stai pensando…
Perché è quello che sto
pensando anch'io».
«Stanno
tentando di riprendere potere, non è vero?», le
chiese, aggrottando
le sopracciglia. «Sai di chi parlo».
Si
zittirono quando una guardia le venne a prendere, così
ripresero a
camminare dietro la donna in divisa. «Clark non vuole che te
ne
parli», sibilò.
«Clark
non è qui», irrigidì i denti, chiamando
per la prima volta suo
cugino col suo nome per intero. «Se sai qualcosa, devi
dirmelo.
Comunque non mi fermerò e questo lo sa anche lui».
Lois
richiamò la guardia e le chiese di dare loro un momento,
così si
fermarono per il corridoio e si misero vicine, accostandosi a un
muro. «Per intenderci: io ero contraria ma lui…
sai com'è fatto!
Siamo venuti a trovare tua zia, tempo fa. Abbiamo provato a parlare
con lei ma è stata lei a non volere parlare con noi: vuole
solo te.
Ma lasciando perdere questo, ho continuato a fare ricerche per conto
mio, sai, profilo basso, mi tengo impegnata con altro e nessuno
sospetta, anche quando Clark ha deciso di lasciar perdere».
«Ha
deciso di lasciar perdere?». In fondo lo sapeva, eppure
sentirlo
dire in un certo senso la ferì.
Lois
mise su una faccia dispiaciuta. «Lui non ricorda tutto, lo
sai. Si è
sforzato, ma questa ricerca avrebbe finito per divorarlo, ho
continuato io per lui. E lui lo sa, anche se non vuole che gliene
parli: teme che mi succederà qualcosa se lo faccio, per
questo mi ha
chiesto di non dire niente anche a te. Vorrebbe che ne stia
fuori»,
prese fiato, guardando la guardia con la coda dell'occhio che,
appoggiata contro un muro anche lei, controllava il suo cellulare.
«Ma devi saperlo: sto stilando una lista di nomi, chi faceva
parte
dell'organizzazione che teneva in pugno National City e allora non
era stato arrestato. Inserisco in lista chiunque mi sembri
sospetto».
«Zod
ne fa parte».
«Non
c'è parte del mio corpo che mi sussurri il
contrario», astrasse un
sorriso. «Lavorava a Metropolis, prima. Lo tenevo d'occhio da
allora, sapevo che aveva avuto dei trascorsi a National City. Poi
è
stato trasferito con tanto di promozione e la cosa ha cominciato a
puzzare…».
«Il
commercialista potrebbe essere stato spinto al suicidio»,
sussurrò
Kara. «Devo avere quella lista».
«No»,
rispose prontamente, allontanandosi da lei e mettendo le braccia a
conserte. «Non ho prove concrete sui quei nomi e non farei
altro che
influenzarti. Tua zia, d'altro canto…».
Kara
sbuffò. «Lei saprà di certo chi
è coinvolto…».
«E
parlerà solo con te», le ricordò.
Così
Kara chiamò la guardia e le disse, svelta, di accompagnarla
nella
sezione femminile.
Lena
guidò fino ai pressi di un parco, così
parcheggiò in mezzo alle
altre macchine e si rilassò sul posto di guida, osservando
lo
scrosciare della pioggia sui finestrini. Riconosceva il parco: c'era
stata con Kara quando ancora non stavano insieme, quando avevano
deciso di esserci l'una per l'altra, quando lei per prima le aveva
detto che voleva che fossero sincere. Si sentiva così
stupida,
adesso. Deglutì e batté una mano sul volante,
prendendo fiato.
Sapeva cosa doveva fare: riprendere terreno con Kara e avere
così
modo di dirle la verità. Non poteva chiudersi a riccio come
le aveva
detto Leslie: era arrivato il momento di essere coraggiose e
affrontare ciò che le faceva paura. Sarebbe stato difficile,
ma non
poteva nascondere la testa sotto alla sabbia per sempre e arrancare
scuse.
Guardò
sul lato del passeggero la borsa con all'interno il suo laptop,
decidendo che era arrivato il momento di affrontare anche
qualcos'altro. Tirò fuori il portatile e si sedette sul lato
del
passeggero, aprendolo e accendendolo. Ritrovò con un click
la chat
del profilo misterioso e rilesse attentamente i messaggi, poi
pensò
a cosa scrivere, restando con le mani in aria. Stava per fare la sua
mossa che un'altra notifica prese la tua attenzione e aprì
la chat:
era uno dei suoi informatori.
X:
Compagn*, mi rivolgo a te che scavavi sul passato di Lionel Luthor:
stanno sparendo i dati. Ne sai qualcosa?
Il
cuore di Lena prese a battere più velocemente, sentendo il
sangue
ritirarsi. Come sparendo?
Scrisse di getto una risposta e l'informatore controbatté a
breve:
X:
Sì, mi stanno informando più persone che
ciò che era libero ieri,
oggi non c'è più. Tutto ciò che
riguarda il passato di quell'uomo
su internet sta svanendo. Com'è possibile?
Lena
irrigidì i denti e chiuse la chat, rileggendo i messaggi del
profilo
misterioso. Iniziò a digitare, cambiando completamente
natura del
messaggio che avrebbe inviato solo pochi secondi prima.
Z:
Lo stai facendo tu?
X:
Che cosa?
Z:
Sai di cosa parlo.
X:
Sì. È vero. Lo sto facendo io. Per te.
Lena
tremò e aprì solo un poco il finestrino, facendo
in modo che le
arrivasse aria poiché all'improvviso si sentì
soffocare. Guardò
con espressione dura l'inquietante messaggio e riportò le
mani sulla
tastiera.
Z:
Per me?
X:
Ciò che ha fatto quell'uomo resterà nel passato.
Per il resto, per
qualsiasi cosa avrai bisogno di me.
Z:
Sai chi sono?
X:
Sì.
Prese
un bel respiro, tenendo d'occhio il cerchio in basso a destra della
chat che girava, segno che stava ancora scrivendo.
X:
Lena.
Con
uno scatto spinse indietro il portatile che per poco non le cadeva
dalle gambe e prese fiato a più riprese, con un principio di
tachicardia. Loro non erano riusciti a scoprire chi era, ma il
profilo misterioso era più in gamba e capace, tanto da non
solo
sapere la sua reale identità, ma di essere anche in grado di
cancellare tutto ciò che di Lionel Luthor si sapeva nel web.
Avevano
a che fare con un professionista. Con un hacker professionista.
Deglutì e chiuse la chat, aprendo Google. Le serviva trovare
hacker
bravi, i più bravi della zona o limitrofi. Iniziò
a dare
un'occhiata ad alcuni profili che le squillò il telefono,
mettendo
in vivavoce e appoggiandolo sul cruscotto.
«Alex.
Sa chi sono», le fece sapere subito. «Il profilo
misterioso sa chi
sono e sta cancellando dal web ogni traccia di mio padre
per…»,
prese fiato, «presumibilmente essere considerato da me.
Oppure per
fare piazza pulita».
«È
più probabile che sia la seconda»,
le rispose dopo un breve attimo. «Mi
ha appena chiamato Kara: è alla prigione di Fort Rozz
e-».
«Fort
Rozz?», Lena impallidì, spalancando gli occhi.
«Sì.
Ha saputo che il commercialista è morto, quello che aveva
condannato
sua madre e che sua zia aveva tentato di salvare dalla prigione. Era
uno di loro. È morto nella notte di Halloween, suicidio.
Kara pensa
che di mezzo ci sia il nuovo capitano della polizia, Zod. Crede che
faccia parte anche lui dell'organizzazione e che stiano tentando ora
di riprendere il controllo. Ne parlerò con Maggie».
Lena
deglutì, mentre la tachicardia saliva. «E ora?
Cosa vuole fare
Kara?».
«Credo
voglia andare da sua zia, così mi ha detto. Mi è
parsa piuttosto
nervosa di andare da lei, comunque».
Lena
si lasciò andare di peso contro lo schienale, ricominciando
a
tremare. La zia glielo avrebbe detto. Sarebbe stato tutto inutile, il
suo piano per riconquistare la fiducia di Kara e dirle la
verità, se
sarebbe stata lei a dirgliela.
«Lena?
Hai il fiatone, tutto bene?».
«Sì.
Sì, sto bene».
«Se
pensi di non essere al sicuro, farò andare da te una scorta
che ti
protegga. Se ciò che ha detto Kara è vero,
seguendo ciò che hai
scoperto, con la cancellatura del materiale su tuo padre, il profilo
misterioso fa parte di quelle persone, Lena. Dobbiamo andarci
caute».
Oh,
non era affatto sicura che fosse così. Non che scartasse a
priori
che ne facesse parte, ma da come le aveva risposto, sembrava che
avesse cancellato quelle cose per fare in modo che avesse bisogno di
contattarlo. E un hacker, se bravo come si lasciava intuire, poteva
aver scoperto la verità online. Arrivare ovunque dalla rete.
Passò
il pollice destro sul nastro nero sopra la fotocamera del pc: poteva
davvero osservarla, dopotutto. «N-No… No, lascia
stare. Non mi
sento minacciata fino a quel punto».
«Forse
dovresti»,
replicò. «Intanto,
ho assistito poco fa a un'interessante discussione dalla nostra
trasmissione preferita: la microspia».
«Come
stanno i nostri vip?».
Alex
non si lasciò attendere: «Uniti
in tv, separati in casa. Ho sentito solo un pezzo della loro
discussione, si erano allontanati, ma se ho ben capito il nostro caro
senatore non parteciperà al dibattito e questa sera, a
registrare,
ci andrà solo la tenera mogliettina. Lui ha incrociato Kara
a Fort
Rozz e Rhea è andata su tutte le furie, hanno litigato
e… quella
donna odia davvero tanto Kara, credo abbia pensato che fosse
lì per
incontrare lui. Sta diventando paranoica».
«Pericolosa»,
aggiunse Lena. «Lo hai detto a Kara?».
«Sì.
Sì, certo, ne è al corrente. Non se ne preoccupa,
sai com'è
fatta».
Si stette zitta e lo stesso fece Lena, indugiando a lungo sulla
pioggia che si faceva via via meno forte. «Lena…»,
attirò di nuovo la sua attenzione, «Volevo
che tu avessi le mie scuse. Kara ed io ne abbiamo parlato e-».
«Va
bene», rispose lentamente, quasi senza espressione.
«No,
sono stata un po' dura. Kara ti ama e tu la ami, quindi…
risolvi
ciò che devi, lei ti aspetta. E poi siate felici».
Chiuse la telefonata e una calda lacrima rigò il viso di
Lena: se
Kara avesse scoperto tutto da Astra, non ci sarebbe più
stata alcuna
possibilità con lei. Aveva perso la sua occasione. Aveva
perso e
l'avrebbe pagata cara.
«Sei…
ubriaca?»,
starnazzò Cat Grant, spalancando gli occhi. Si era appena
presentata
sul set del programma televisivo per registrare il dibattito e aveva
sorpreso Leslie Willis già lì, seduta nel
camerino per gli ospiti
che canticchiava davanti allo specchio, facendo girare e rigirare la
sedia a ruote su cui era seduta.
«Rilassati,
meringa», ridacchiò, ironizzando sul suo completo
bianco, «Do il
meglio di me da ubriaca. E di certo non potevo restare lucida sapendo
di dover avere a che fare con Rhea Gand».
«Mi
metterai in imbarazzo», si recò sulla sua sedia,
poi, scuotendo i
capelli davanti allo specchio su parete. «Ma d'altronde non
sarebbe
la prima volta».
Leslie
rise, facendo un'altra giravolta con la sedia. «Tanto saremo
in due
contro uno. Non l'hai saputo?», si fermò e
cercò di riprendersi un
attimo dal capogiro prima di continuare. «Lei è
già qui ed è
sola: dicono che lui è troppo impegnato. Alla faccia del
voler
vincere il dibattito a ogni costo».
Cat
Grant assottigliò i suoi occhi e infine si
appoggiò meglio sullo
schienale della sedia, mettendo le gambe una sopra l'altra.
«Avranno
litigato… La coppia modello sta naufragando più
veloce di quanto
mi aspettassi», si voltò poi a lei.
«Abbiamo un vantaggio, cerca
di non sprecarlo».
«Signorsì,
capitano», rise e girò di nuovo; Cat Grant si
portò una mano sulla
fronte, prendendo un bel respiro.
La
guardia era davanti a una porta e, non distante, c'era Lois Lane che
aspettava solo lei, in quello stretto corridoio. Erano arrivate nella
sezione femminile del carcere e Kara si era allontanata solo un
attimo per telefonare Alex e aggiornarla, il tempo per andare a
chiamare sua zia Astra. Era la visita che la donna aspettava da quel
giorno a scuola, quando le avevano separate ed era stata arrestata.
Da quel giorno non la rivedeva. Le aveva sempre inviato delle
lettere, una ogni giorno, ma non ne aveva mai letta nessuna. Sua zia
aveva tradito sua madre e suo padre e aveva tradito la sua fiducia;
loro erano morti anche per causa sua. Il cuore le batteva
così forte
e si sentiva così leggera, camminando verso di loro, che
pensava di
svenire. Sarebbe riuscita a guardarla negli occhi e ascoltare la sua
voce dopo tanti anni? A rivedere nel suo volto sua madre e allo
stesso tempo chi era in parte responsabile di averla portata via da
lei?
«Eccoti»,
le sorrise Lois, accogliendola con una mano stretta su un braccio.
«Lei è già qui».
A
Kara mancò l'aria. Si avvicinò al vetro del
corridoio e si affacciò
alla stanza adiacente, dove i vetri separavano le detenute dai
visitatori. Alcune donne erano già sedute e parlavano
attraverso la
cornetta ai loro cari, ma una sola stava aspettando. Era seduta e si
guardava intorno come se si sentisse a disagio; i capelli sciolti
sulle spalle, spettinati e rovinati, il naso un po' rosso, gli occhi
incavati, un viso che, malgrado gli anni passati, le ricordava casa e
il dolore per averla persa.
«Kara»,
la chiamò Lois, appoggiandole con delicatezza una mano sulla
spalla
destra. «Il tempo che vuoi. Quando sei pronta, ci facciamo
avanti».
Accidenti,
faticava a pensare che ci sarebbe stato un momento in cui sarebbe
stata pronta. Tuttavia, non sapeva per quanto ancora sarebbe stato
orario di visite e non poteva restare in
quello stato
per sempre. Oh.
Kara spalancò gli occhi azzurri quando la donna, quella zia
che
ormai non riconosceva più, alzò lo sguardo e
incrociò il suo. Dopo
tanto tempo si erano guardate e la ragazza si sentì gelare,
facendo
mezzo passo indietro. Astra si alzò dalla sedia e
iniziò a battere
sul vetro, gridando il suo nome. Kara vide che due guardie la
intimarono di calmarsi e poi cercarono di metterla di nuovo a sedere
con la forza, ma stentavano a farcela, lei era forte e continuava a
battere e a chiamarla. Lois provò a dirle qualcosa ma Kara
increspò
i suoi occhi e si voltò, correndo via. Sentiva ancora le
grida di
sua zia. Le sentiva nella testa. Diede un pugno contro il muro,
spaventando una guardia, e se ne andò.
Paradossalmente,
se a National City la giornata era grigia e pioveva, a Gotham c'era
il sole, seppur pallido. In ogni caso, di certo Bruce Wayne non era
là fuori a godersi quel tempo inusuale: era stato oberato di
lavoro
e non usciva dal suo ufficio da troppe ore. E aveva come la
sensazione, anche se non osava dirlo a nessuno, che alla Wayne
Enterprises stessero cercando di tenerlo occupato il più
possibile,
e magari lontano da quello che i soci sembravano avere in mente.
Perché era certo che nascondessero qualcosa. Quando
cominciò a
farsi buio, qualcuno entrò nel suo ufficio per dirgli di
tornare a
casa e rilassarsi, che anche loro stavano staccando, e Bruce
concordò, stirando la schiena e sbadigliando. O almeno
finché non
si chiuse di nuovo la porta. Finse di essersene andato e chiuse a
chiave il suo ufficio, nascondendosi in uno dei bagni del piano.
Seguì il suo lavoro da cellulare e giocò a Candy
Crush per un po',
forse un'oretta, il tempo che sperava fosse sufficiente per uscire e
dare un'occhiata a ciò che i suoi colleghi stavano lavorando
in sua
assenza. Il corridoio era buio e tutti gli uffici erano chiusi e
spenti. Camminò comunque più piano che riusciva,
muovendosi
furtivo. Si fermò solo quando intravide una bassa luce
provenire
dalla sala conferenze: non poteva credere che qualcuno era ancora
lì
nonostante si stesse facendo notte. Si affacciò, restando
nascosto
dall'ombra.
Lei
parlava al telefono e accennò una risata, coprendola
con una mano per non fare troppo rumore. «Sei carino. Te
l'avevo mai
detto?». Soffocò un'altra risata e Bruce
alzò gli occhi al cielo,
incredulo che stesse ancora lì solo per scroccare qualche
telefonata. «Oh, mi stanno chiamando, ti devio lasciare. Ma
no,
sciocchino, è per lavoro. Ti richiamo».
Staccò la telefonata e
cliccò un pulsante sulla tastierina numerica, restando in
attesa.
«Allora. Posso dirle dire che è tutto pronto,
mancano solo le
nostre firme». Bruce la scorse annuire e giocare con una
penna. «Ho
i documenti qui davanti a me, possiamo procedere. No, non ne sa
niente. Intende il giovane Wayne, no?». Si alzò
dalla sedia e prese
in mano il cordless, camminando verso i vetri a muro del palazzo.
«Il
poverino pensa che sia dei nostri perché una volta diventato
maggiorenne ha iniziato a lavorare qui a tempo pieno, ma non
è a
capo delle cose, non vedo perché debba preoccuparsi. Ah, se
non è
preoccupato allora tanto meglio», la vide scrollare le spalle
e
poggiare la mano libera su un fianco. «Dopo questa il nostro
lavoro
in comune è concluso, giusto? Tanto per mettere in chiaro le
cose,
le dovevamo solo questo»,
disse, gesticolando come se avesse potuto vederla. «Perfetto.
È
stato un piacere fare affari con lei».
Chiuse
la chiamata e Bruce tornò qualche passo indietro, aprendo e
chiudendo una porta: quel rumore, nel silenzio che c'era, fece
spaventare anche lui.
«Chi
è?», chiese lei, mettendosi in allarme.
Non
ci volle molto per vederla uscire dalla sala conferenze e guardarsi a
destra e sinistra in attesa di vedere qualcuno. Ma non vide nessuno:
Bruce fu veloce a entrare dietro di lei mentre era impegnata a
cercarlo all'esterno. Con passo felpato si divincolò tra
tavolo e
sedie, allungando lo sguardo verso la postazione giusta.
«Nessuno?»,
chiamò di nuovo. Tornò indietro di corsa e
riaprì un'anta della
porta a vetri che si era chiusa. Controllò che non ci fosse
davvero
nessuno e allora tornò alla sua postazione, decidendo di
riordinare
tutto e andarsene.
Bruce
corse per le scale, tentando di non far rumore. Si spaventò
solo
quando udì il cellulare squillargli in un taschino del
giaccone,
prendendolo subito e aprendo la chiamata per farlo smettere.
«Sì?»,
rispose in un brusio. «Sto tornando. No, sto per tornare,
davvero.
Tornando
e per
tornare
sono sinonimi, in questo caso, Alfred», si sforzò
per mantenere
bassa la voce, fermandosi su un pianerottolo. «A tra
poco». Chiuse
la chiamata e guardò verso l'alto, con la paura di essere
scoperto.
Decise di inviare un messaggio subito, facendosi scudo del buio.
Da
Me a Lena Luthor
Non
capisco perché si siano premuniti di tenermelo tanto
nascosto, ma
sono riuscito a scoprire cosa combinano: la Wayne Enterprises ha
venduto un vecchio magazzino chiuso da tempo qui a Gotham, poco fuori
dal centro. Non so quanto possa interessarti, forse il compratore
è
di National City, comunque darò uno sguardo appena mi
sarà
possibile. Buonanotte.
Lena
lesse il messaggio e s'imbrunì, poi spense lo schermo del
cellulare
e si passò una mano tra gli occhi con fare stanco, dando di
nuovo
completa attenzione alla chat aperta con il profilo misterioso.
Z:
Dunque hai cancellato i dati su mio padre per farmi un favore?
X:
Sì.
Z:
Perché dovrebbe essere un favore?
X:
Perché non vuoi che si sappia.
Lena
deglutì.
X:
So che non vuoi che si sappia, Lena. Puoi fidarti di me, sono qui per
aiutarti.
Z:
Di cosa stai parlando?
X:
Sai di cosa parlo, ma ti piace girarci intorno. Non lo hai ancora
detto a Kara, vero?
Lena
si tirò più indietro, respirando a pieni polmoni,
rumorosamente.
X:
Vero?
Iniziò
a digitare con le mani che tremavano.
Z:
Come lo sai?
X:
Io arrivo ovunque.
Ma
quanto è inquietante Indigo da 1 a che ansia?
Bentornati
a un nuovo capitolo :) Se lo scorso era privo di sviluppi sulla
trama, con questo abbiamo recuperato qualcosa.
Cat
Grant ha dato una spinta a Kara e, andando a Fort Rozz, il
cucciolo (XD) ha incontrato il senatore, poi Lois, e insieme
sono
andate a conoscere un detenuto che giura di essere stato rinchiuso
ingiustamente. Nuove dure politiche del nuovo capitano della polizia,
l'uomo che chiamano il Generale Zod? Intanto, il commercialista
condannato da Alura è morto suicida pochi mesi fa e,
preoccupata
per la salute di sua zia da una parte e curiosa di ricevere le
informazioni giuste dall'altra, ha pensato di andare a
trovarla…
peccato che non abbia retto e sia scappata! Le avrebbe detto dei
Luthor, altrimenti?
Lena
si era seriamente preoccupata, tanto che per un attimo ha smesso di
pensare a X e la sua inquietudine. Difatti, pare proprio che X si sia
dato da fare per eliminare i dati online su Lionel Luthor. Se non
altro, grazie a questo, Lena si è messa in testa di poter
scoprire
chi è. Stanerà Indigo?
E
poi c'è Leslie Willis, che in questo capitolo amo
follemente. Il suo
discorso a Lena è la parte del capitolo che preferisco, lo
ammetto.
Ah!
Bruce Wayne ha finalmente scoperto una vendita che tanto avevano
cercato di tenergli nascosto. Chi avrà comprato un vecchio
magazzino
a Gotham?
In
tutto questo, la coppia scoppia! Uniti in tv ma separati in casa,
dice Alex, sui coniugi Gand. Cosa ne pensate di cosa sta succedendo?
Rhea sembra quasi arrivata a un punto di rottura…
Scrivetemi
cosa ne pensate del capitolo e se vi è piaciuto, io passo e
chiudo
;)
Il
prossimo capitolo si intitola Addio al secondo nubilato
e sarà
pubblicato lunedì!
|
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Capitolo 34 *** 33. Addio al secondo nubilato ***
Bruce
Wayne si fece lasciare dall'automobile dall'altro lato della strada
e, camminando velocemente, avvolto dal pesante giaccone, si
avvicinò
al vecchio magazzino. L'ingresso era sbarrato e nonostante fosse
stato acquistato da poco, stavano già aprendo ai lavori
allestendo
un cantiere. Il cartello segnava la data di inizio lavori, entro la
settimana, e chi aveva in mano il progetto. Tirò fuori il
cellulare
da una tasca in modo che potesse scriversi il nome, quando
sentì di
non essere solo.
«Posso
fare qualcosa per lei», si voltò,
«signorina Kyle?».
Lei
sorrise e, mani nelle tasche del giubbino nero, si accostò.
«Che
riflessi pronti, signor Wayne».
«Tende
a sottovalutarmi», la guardò, corrucciando la
fronte.
«Probabilmente»,
sussurrò, adocchiando anche lei il cartello.
«Tiene d'occhio
l'attività? Non è stato lei a
venderla?».
«Non
proprio».
«Per
esserci il suo nome, su quell'immenso palazzo, lei conta ben poco, lo
sa?».
Per
un attimo, Bruce pensò perfino di spiegarle che stava
tentando di
prendere in mano un lavoro che per anni, dopo la scomparsa dei suoi
genitori, aveva gestito qualcun altro che lo voleva fuori, poi si
chiese perché avrebbe dovuto e si zittì.
«Le serve qualcosa?»,
ansimò seccato.
«Mh»,
fece una smorfia con le labbra, «Forse è a lei che
serve qualcosa
da me». Lo vide contrarre le sopracciglia. «Ho
delle informazioni:
anch'io tengo d'occhio l'attività e sarò felice
di condividere ciò
che so. Se me ne darà occasione, s'intende». Le
fece l'occhiolino
e, prima che lui potesse risponderle, gli prese il cellulare dalle
mani e iniziò a digitare. Lui provò a riprenderlo
ma lei si tirò
più indietro, sfuggente. «Ho preso il suo numero e
ho scritto il
mio», glielo porse e Bruce la guardò torvo.
«Mi farò viva.
Presto».
Bruce
Wayne la tenne d'occhio mentre si allontanava, chiedendosi se
veramente quella ragazza poteva aiutarlo o se quello era stato solo
un tentativo riuscito per scambiarsi il numero.
Marzo,
il mese tanto atteso. O perlomeno lo era da parte di Eliza e Lillian,
che non stavano nella pelle per il loro matrimonio; d'altra parte,
per partire da Alex e finire con Kara e Lena, era il mese
dell'angoscia.
Nonostante
le avesse detto di non rivolgerle più la parola e
così era stato
per settimane, Lillian aveva telefonato a Lena per chiederle con
cortesia di ripresentarsi in villa a National City, constatando che
oramai si era trasferita a tempo indeterminato dal fratello a
Metropolis. Non le aveva chiesto scusa, ma ci aveva tenuto a dirle
che la famiglia aveva bisogno di lei con urgenza. L'urgenza era la
scelta degli abiti per il matrimonio, quello delle spose e quello che
avrebbero indossato loro, che sarebbero state le damigelle.
Naturalmente, dalla location alle partecipazioni di familiari e
amici, grazie al temperamento organizzativo di Eliza e all'aiuto
della wedding planner Janine, era già tutto pronto da
Natale.
Così
Lena si era ripresentata a casa dopo tempo e dopo tempo lei e Kara si
erano riviste, abbassando sguardi imbarazzati e scambiandosi poche
parole che non riguardavano altro se non il matrimonio imminente.
Alex aveva riferito a Lena che Kara non era riuscita a parlare con
sua zia e la cosa l'aveva tranquillizzata, per quanto la situazione,
comunque complicata, le permettesse: ora non le serviva che, pian
piano, riprendere terreno con lei.
In
tempi diversi, nei primi giorni del mese, Eliza e Lillian si erano
fatte accompagnare dalle ragazze per acquistare l'abito perfetto. Si
aspettavano un negozio d'abiti specializzato, invece Lillian
insisté
che fosse Felipe, il suo stilista, a prendersi carico di tutto. Si
erano trovate nel salotto di quell'uomo dall'accento francese che
mostrava loro diversi abiti da sposa realizzati di recente, alcuni
dei quali seguendo desideri della signora Luthor in persona. Mentre
Eliza, che era andata per prima, sceglieva quale provare, l'uomo
prese le misure a tutte le ragazze, spiegando loro che dopo l'abito
per Eliza sarebbe stato il loro turno per scegliere tra alcuni abiti
selezionati in precedenza dalle loro madri quale avrebbero indossato
come damigelle.
Sedute
sul divano in attesa di Eliza e Felipe, sgranocchiavano noccioline da
un vassoio. Erano zitte tutte e tre, troppo ansiose per reggere un
discorso. Quando la donna attraversò la porta che divideva
il
salotto dal corridoio, tutte loro spalancarono la bocca dallo
stupore.
«Mi
piacciono le vostre
facce», esclamò Felipe, congiungendo le mani con
soddisfazione.
«Cosa ne pensate, eh?».
Eliza
sorrideva raggiante, mantenendo la lunga gonna dell'abito bianco,
larga; c'era qualche ricamo impreziosito da brillanti in vita, nel
décolleté e nelle maniche, corte e strette. Era
un abito
all'apparenza semplice, ma ben rifinito nei dettagli.
Senza
parole, Kara prese la ciotola sulle ginocchia e iniziò a
mangiare
con foga interi pugni di noccioline.
«Sei…»,
bisbigliò Alex.
«Veramente
bellissima», finì Lena, alzandosi per
raggiungerla.
Provò
altri abiti successivamente, ma Eliza si era innamorata del primo e
non c'era stato verso, per Felipe, di spiegarle che sarebbe stato
meglio provare qualcos'altro per esserne sicura, così si
arrese. Era
stato veloce, lui disse che avrebbe aggiustato il vestito con le
ultime accortezze per essere indossato e poi mostrò alcuni
abiti ad
Alex, Lena e Kara per le damigelle. Da un catalogo e dopo dal vivo;
portò in salotto ogni vestito su cui mostravano interesse,
dicendo
loro di scegliere con calma. Chi diceva sì e chi no, non
riuscivano
mai a trovarsi completamente d'accordo e, se non altro, sia Lena che
Kara furono felici di riprendersi a parlare senza provare esagerati
impacci. Infine, solo un abito piacque abbastanza a tutte e tre le
ragazze: stretto e lungo, smanicato e color verde acquamarina. Felipe
era entusiasta della scelta e applaudì con garbo, riferendo
loro che
sarebbero stati pronti presto.
«Sono
un po'…», borbottò Kara, lentamente.
«Sì.
Anch'io», le rispose subito Alex.
Era
notte ed erano sdraiate sul grande tappeto in camera di quest'ultima
in villa Luthor-Danvers: avrebbero dormito là per tutta la
prima
metà del mese, per via del matrimonio; non le avrebbero
lasciate
sfuggire perché, dicevano, avrebbero potuto aver bisogno di
loro da
un momento all'altro e Lillian era comunque già abbastanza
nervosa
per Lex che si sarebbe fatto vivo all'ultimo momento, convinta che
avrebbe potuto amministrare il lavoro via skype.
«Quando
l'ho vista…», riprese Alex.
«Anch'io»,
concordò Kara.
«Non
ci credo che sta per succedere di nuovo… Voglio dire,
nessuna delle
due era presente al matrimonio di Eliza e Jeremiah, e ormai ci siamo
abituate a vederla con Lillian, e forse lo abbiamo pure accettato,
però…».
«Già»,
terminò Kara ed entrambe sospirarono. «Sta per
succedere. È
fatta».
«Si
sposa davvero. E tu come stai?», le domandò Alex,
voltandosi verso
di lei. «Vedere Eliza vestita da sposa ti ha fatto lo stesso
effetto
che ha fatto a me, ma sposerà la madre della ragazza che
ami…».
Kara
tirò su con il naso e si voltò completamente
verso la sorella,
prendendo qualche attimo per pensarci. «Lena ed io ci abbiamo
pensato così tanto tutto
il tempo
che non so più cosa pensare, adesso. E non stiamo
più insieme,
tecnicamente, quindi…».
«Ma
vi amate lo stesso».
«Sì…»,
soffiò. «La mia testa continua a dirmi di non
farmi illusioni, che
non sarà più come prima e che forse potremmo
anche non tornare
insieme mai. Ma tutto il resto di me sa che accadrà
perché mi basta
guardarla e…».
«Sì,
ho capito», le sorrise Alex. «Pensi di farcela a
divertirti un po'
durante l'addio al secondo nubilato?».
Kara
annuì, speranzosa.
Nel
corso della stessa settimana, dunque, le ragazze tornarono a casa di
Felipe lo stilista in compagnia di Lillian. Sia Alex che Kara
notarono quanto Lena fosse molto più chiusa e per le sue
rispetto a
quando erano con Eliza e pensarono subito che quelle due dovevano
aver litigato: sapevano che la ragazza aveva passato il suo tempo a
Metropolis e avevano creduto che fosse per la separazione tra lei e
Kara, ma ora la situazione sembrava suggerire che ci fosse
dell'altro. Se Eliza aveva impiegato molto poco per trovare l'abito
giusto, Lillian pareva invece essere intenzionata a trattenersi tutto
il giorno, indossandone uno dopo l'altro e facendo correre Felipe per
le stanze in preda al panico. Sia Kara che Lena avrebbero dovuto
studiare, e anche Alex finse di doverlo fare, ma non potevano
assolutamente spostarsi e avevano l'obbligo morale di commentare ogni
vestito bianco con cui la donna si presentava. Dopo ore di
insoddisfazioni e fastidiosi retromarcia da parte di Lillian,
finalmente scelse il vestito che, secondo lei, era quello perfetto
per dare un nuovo inizio alla sua vita: aveva la gonna stretta fin
sulle ginocchia, che seguiva una spirale di brillanti; mezze maniche
semitrasparenti e, lungo tutto l'abito, fiori ricamati su uno strato
di tulle. Fortunatamente, come per Eliza, era stato Felipe a
scegliere le scarpe per lei o rischiavano di non tornare a casa in
tempo per il matrimonio.
Anche
quella notte, Lena, che era sveglia, aveva sentito Kara andare in
camera della sorella. Le mancava e ora che erano sotto lo stesso
tetto più che mai; si pentiva così tanto, e si
vergognava, perché
si erano lasciate. Scese in soggiorno in camicia da notte e, seduta
sul divano con il laptop sulle gambe, continuò la sua
ricerca per
trovare l'identità del profilo misterioso. Non aveva
più parlato
con lui, o lei, ma sapeva di esserci vicina. Abbassò lo
schermo
quando udì dei passi scendere le scale. Oh. Tutte ma non lei.
«Sapevo
che dovevi essere tu». Lillian le sorrise e andò
in cucina,
tornando con in mano due bicchieri vuoti e una bottiglia di vino
rosso, che appoggiò sul tavolino davanti. Riempì
i due bicchieri e
si sedette sul divano non troppo distante dalla figlia, vedendola
trattenere a stento una smorfia di disapprovazione. «Andiamo,
Lena.
Bevi con me: all'inizio di una nuova vita».
«La
tua nuova vita», ribatté svelta.
«La
nostra», la corresse. «Non fingiamo che non ti
piaccia avere Eliza
come madre. Forse lei, più di me, riesce a
comprenderti». Sorrise
di nuovo, soddisfatta, quando vide la figlia mettere da parte il
portatile e prendere il bicchiere, bevendo un sorso. «So che
vi
siete lasciate», le disse a un certo punto e Lena trattenne
il
fiato, «E che dev'essere stato molto difficile per te. Ma hai
fatto
la cosa giusta, Lena. E in fondo lo sai».
«No»,
scosse la testa, rimettendo sul tavolino il bicchiere vuoto solo per
metà. «Ho fatto ciò che tu
volevi». La vide che riapriva la bocca e così
l'anticipò: «E ho
sbagliato. Me ne pento in ogni istante. Aver avuto dubbi, aver
lasciato che si allontanasse…».
«Oh,
Lena, per favore», scrollò le spalle.
«Vi volete bene ed è ciò
che conta: state ricominciando daccapo e funzionerà, questa
volta.
Per quel che vale, sono fiera di te».
A
quel punto ne aveva abbastanza: si alzò, riprendendo il
laptop
sottobraccio e decidendo di tornare in camera sua, voltandosi
un'ultima volta: «Che sia chiaro: sono qui per Eliza, per
Kara e
Alex. Non per te. Io e te abbiamo chiuso».
Lillian
la lasciò andare, servendosi dell'altro vino. Lena era
arrabbiata,
ma era certa che l'avrebbe perdonata, un giorno.
La
seconda tappa di marzo, prima del matrimonio, era l'intervista con
tanto di servizio fotografico che tutta la famiglia aveva promesso
alla CatCo. Se Lillian e anche Lena erano abituate ad aver a che fare
con giornalisti e fotografi, e seppure Kara lavorasse ormai
nell'ambiente, era dall'inizio del mese che dovevano stare attente a
come muoversi per paura di essere fermate da persone curiose,
giornalisti ficcanaso e paparazzi che sarebbero entrati in casa con
loro pur di fotografarle. Ancora non sapevano com'era stato possibile
che la data del matrimonio fosse rimbalzata online e Kara si era
ritrovata faccia a faccia con un fotografo che voleva vendere foto
sue e di Alex alla CatCo: naturalmente, dopo aver visto che era lei
la bionda delle foto, lui era sbiancato e aveva ridacchiato dicendo
di aver sbagliato indirizzo. Eliza si era ritrovata assediata dai
giornalisti nel reparto ortofrutta di un supermercato e Marielle, che
era con lei, aveva finto di svenire per farla scappare. Invece, Alex
si era ritrovata per la prima volta la boutique piena quando fu il
suo turno, ma si rifiutò di parlare di qualcosa di diverso
dagli
sconti. Cat Grant era stata categorica: Keira
lavorava per lei e, di conseguenza, ciò che le riguardava
era suo di
diritto prima che di chiunque altro. Doveva avere l'esclusiva.
Così
la famiglia si era ritrovata alla CatCo insieme e, orgogliosa, Kara
aveva fatto fare il giro su dove lavorava a Eliza, prima che la donna
fosse fatta scortare insieme a Lillian in una camera a parte per
l'intervista. Successivamente e a turno, anche lei, Alex, Lena e Lex
furono obbligati ad andare in un'altra camera per rispondere a
qualche domanda.
«Segui
un tirocinio qui alla CatCo; come ti senti ora a dover rispondere a
un'intervista e a dover comparire sulle pagine dello stesso giornale
per cui lavori?», le chiese una ragazza, foglio con le
domande in
mano e, in mezzo a loro, il registratore acceso sul banco.
Kara
fece una smorfia imbarazzata con le labbra e poi rise. Era un po'
rossa sulle gote. «È… sinceramente
molto strano. Mia madre si
risposa, tutto qui. È una cosa che fa molta gente ogni
giorno».
Lex
sorrise, mettendosi comodo sulla sedia con una gamba incrociata
sull'altra.
«Pensi
che il nuovo matrimonio di tua madre possa in qualche modo
influenzare la popolarità della Luthor Corp?».
Lui
abbassò un poco lo sguardo, mantenendo saldo il suo sorriso.
«Penso
che l'idea di famiglia faccia bene all'immagine dell'azienda. Il
fatto che si amino, inoltre, fa bene a noi come famiglia».
Alex,
invece, era sembrata un po' tesa: quella stanza, anche se con vasetti
di fiori e quadri di visi famosi appesi sulle pareti giallognole, con
quel banco in mezzo e il registratore che la aspettava, le sembrava
di essere a un interrogatorio.
«Quando
tua madre ti ha svelato l'identità della persona che
frequentava,
come l'hai presa?».
«Oh,
beh… Bene»,
sorrise, mentendo spudoratamente come sapeva ben fare. «Non
me lo
aspettavo, insomma, sarebbe stato difficile da immaginare, è
anche
il suo capo, ma è stata una gradita sorpresa e sono felice
che
Lillian farà parte della mia famiglia».
«Lena»,
l'intervistatrice la chiamò, dopo averla salutata e fatta
accomodare
davanti a lei, «Tua madre ha deciso di lasciare a te le
redini della
Luthor Corp qui a National City, tuo padre è venuto a
mancare da
poco più di un anno e lei si risposa, avrai delle nuove
sorelle, è
tutto un gran cambiamento in poco tempo, come stai gestendo la
situazione?».
Lei
scosse brevemente la testa, sforzando un sorriso che apparisse il
più
sincero possibile. «Prima di tutto, sono felice che mia madre
si
risposi. Abbiamo avuto del tempo per conoscerci, per diventare una
famiglia unita e ora verrà solo ufficializzato con una
cerimonia,
nulla che richieda chissà quale gestione da parte mia. E per
quanto
riguarda la Luthor Corp», prese una pausa, «sono
stata cresciuta
per questo».
Quando
uscì dalla stanza per le domande, trovò Leslie
appoggiata contro il
muro davanti con un bicchierino di caffè in mano: appena la
vide, le
fischiò. Distanti, Kara parlava con Siobhan, ma non sembrava
una
discussione amichevole. Seguendo l'ascensore, erano stati portati
tutti e quattro verso un'altra sala qualche piano più
giù, trovando
le loro madri. Laggiù si sarebbero cambiati con i vestiti
scelti
dalla troupe e si sarebbero lasciati truccare, pronti per il servizio
fotografico. E per quelle foto, tutto potevano aspettarsi meno che
James Olsen, felice di rivedere Kara.
«Perché
non mi hai scritto che saresti stato tu a farci le foto?».
Aveva
altro per la testa ma si costrinse di sorridere al ragazzo e, con la
coda dell'occhio, la sua attenzione si rivolse a Lena, capelli lisci
e sciolti che le ricadevano sulle spalle, trucco leggero che le
risaltava il colore degli occhi, che indossava un abito a pantalone
sul grigio, impeccabilmente elegante.
«Volevo
farti una sorpresa». Ricambiò al sorriso ma non
durò a lungo,
vedendo la sua espressione pensierosa. «Tutto bene,
Kara?».
«Sì»,
si destò e dopo s'incantò, nel vedere che Lena si
era fermata
davanti a lei e le sorrideva. Deglutì.
«Sì. È-È stata una bella
sorpresa».
Neanche
il tempo di ammirare Kara, pensò Lena, che sua madre
chiacchierava
animatamente con Lex, sebbene a bassa voce per non dare nell'occhio:
sentiva la sua voce nelle orecchie.
«Te
l'ho detto, non era mia intenzione festeggiare. Perché devi
farne un
dramma?».
Lillian
corrucciò le fini labbra secche con rabbia. «Era
il tuo compleanno
e non hai nemmeno risposto alle mie telefonate. Come dovrei
prenderla, Lex?».
Per
fortuna, James Olsen interruppe il brusio, iniziando a dettare ordini
agli assistenti per sistemare il set.
Qualche
piano più su, Siobhan Smythe lasciò velocemente
la sua postazione
quando ricevette un messaggio sul suo cellulare. Prese l'ascensore
che la portò al pian terreno e da lì la seconda
uscita, scendendo
una scala e aprendo la porta che apriva ai parcheggi. Facendo
rimbombare i tacchi delle sue scarpe, in tutto quel silenzio, si
fermò in mezzo a un parcheggio libero e si guardò
intorno,
aspettando l'arrivo di qualcuno. La donna, sguardo incattivito, non
si fece attendere a lungo. «Oh, eccola qui»,
sbuffò Siobhan, «Che
cosa vuole, stavolta?».
Rhea
Gand si accostò, palesemente infastidita dal tono della sua
voce.
«Novità. Ecco cosa voglio. So che la giovane El
è lassù con tutta
la nuova famiglia per avere un posticino nel vostro ridicolo
giornale. Puoi dirmi qualcosa a riguardo?».
Lei
roteò gli occhi. «Cosa crede che faccia qui
dentro? Che scaldi la
mia sedia? Lavoro, signora mia. Non sto appresso a Kara Danvers e la
sua famigliola, mi spiace deluderla. Anche perché non lavoro
in quel
settore e, non so se ha presente, ce ne sono diversi».
La
donna parve non gradire la sua supponenza e, all'improvviso, la
spinse contro un pilastro, fissandola truce. «Non osare
parlarmi in
questo modo, ragazzina».
Siobhan
riuscì a mettersi di lato tra la donna e il pilastro,
fingendo di
non essersi fatta male sbattendo per non darle soddisfazione.
«Senta», riprese fiato digrignando i denti,
distendendo la schiena
e acquistando coraggio. «Ho fatto come mi ha detto lei: mi
sono
avvicinata, ho finto di volerle essere amica e non immagina la
fatica, e sono felice che la mia informazione sulla data del
matrimonio le sia servita per distogliere l'attenzione dell'opinione
pubblica da suo marito e lei, ma adesso ho chiuso. Voglio che mi
lasci in pace perché non rischierò il mio lavoro
per questo»,
gesticolò puntando un dito indice e tornò
indietro di due passi,
con la paura che potesse sbatterla ancora, presa dalla rabbia.
«So
che come sua supervisore la mia posizione le faceva comodo, ma sono
certa troverà qualcun altro capace di entrare
così in contatto con
lei, mi creda, non è difficile»,
scrollò le spalle, sorridendole
con le labbra strette. «E adesso, se non le dispiace, torno
al mio
lavoro». Stava per voltarsi e prendere un bel respiro che
sentì un
rumore, la scorse con la coda dell'occhio frugare all'interno della
sua borsetta e si gelò. «Co…
Sta scherzando?».
Rhea
Gand le puntò contro una pistola e Siobhan si
immobilizzò, sentendo
le gambe farsi pesanti. La donna aveva lo guardo adirato, gli occhi
puntati fissi su di lei, fini. «Hai perso la voce,
stronzetta? Ti
eri dimenticata che non stavi parlando con una collega di quel
giornale da quattro soldi?».
Siobhan
prese fiato, deglutendo. «Metta giù quella
pistola», parlò con la
voce strozzata mentre tremava, faticando a non gridare.
«La-La
prego… Cosa vuole fare? Costringermi a fare la spia per lei?
Uccidermi…», deglutì, spalancando gli
occhi, «Uccidermi nel
parcheggio? Non sa quanta… quanta gente lavori in questo
posto»,
terminò con voce sottile, «si riempirà
di spettatori. Metta giù
quella pistola e…», sforzò un sorriso
dettato dalla paura,
«Faremo finta… che non sia mai successo. Va
bene?».
La
donna aprì la bocca pian piano, tenendola ancora sotto tiro.
«Ti
senti forte… Nascondi le tue insicurezze facendo sentire gli
altri
dei falliti, ma ora più che mai capisci che non vali niente.
E di
certo non mi servi più». La vide muoversi solo per
prendere fiato,
continuando a tremare. «Girati. Vai via».
«Cosa…?».
«Vai
via. Adesso».
Siobhan
non riuscì a voltarsi e fece un passo lento dopo l'altro,
all'indietro, sperando di arrivare più vicino alla porta
possibile.
Solo quando sentì di essere accanto al muro si
voltò e iniziò a
correre, aprendo e sbattendo la porta dietro di lei, appoggiandosi
contro con il fiatone, chiudendo gli occhi.
Rhea
abbassò l'arma lentamente, anche lei prendendo fiato a pieni
polmoni, con le labbra ancora strette dalla rabbia.
Lillian
ed Eliza avevano organizzato una festicciola con parenti e intimi in
un locale per l'addio al secondo nubilato. Immaginarono tutti che
doveva esserci stato un grosso zampino di Eliza nella preparazione,
poiché non si trattò di un locale lussuoso
né di una cena
elegante, ma del salone privato di un club con forti rimandi al
country. Non per niente, i parenti dalla parte dei Luthor non
sembravano granché divertirsi e avevano toccato appena del
cibo, al
buffet. Tuttavia, a Lillian non sembrò importare e parlava
con loro
solo quando si trovava costretta. Avevano conosciuto zia Lorna e
marito, che vivevano anche loro a National City ma che non si
rivedevano con Lillian dal funerale di Lionel. Qualche cugino di
secondo grado di Lionel con relativa famiglia che era arrivata quella
sera da Central City, dove vivevano. Come lo zio Leo, che non aveva
fatto altro che dormire in un angolo per tutta la serata,
svegliandosi come d'incanto solo per il dolce. Infine, la tenera zia
Lara, quasi novantenne, sorella maggiore di nonno Luthor, padre di
Lionel: l'unica Luthor che, effettivamente, riusciva a sorridere e
divertirsi. Quando fu partita la musica, zia Lorna la
riportò sulla
sedia prima che, a detta sua, si mettesse in imbarazzo ballando in
mezzo al salone.
Sia
Alex che Kara non si lasciarono sfuggire come tutti i parenti che
aveva chiamato Lillian erano in realtà parenti di Lionel.
Quando lo
fecero presente a Eliza, lei fece loro una smorfia per zittirle.
«I
parenti di Lionel sono gli unici che ha. Ha tagliato i
rapporti»,
bisbigliò mentre impilava in un piattino dei sandwich.
«È per
questo che mantiene il cognome», fece sapere, per poi
voltarsi verso
di loro e sorridere, «Mentre io mantengo Danvers
per le mie ragazze». Sorrisero a loro volta e dopo
riguardarono
verso il centro della sala, scorgendo zia Lara lamentandosi e
picchiettare zia Lorna sulle mani per lasciarla andare.
Dal
lato di Eliza, invece, si presentarono molti più parenti e
amici,
anche di lavoro. Zie e zii, i genitori di Eliza arrivati da una
frazione di Metropolis, cugini con prole a carico. Bambini, tanti
bambini rumorosi che correvano da una parte all'altra con pizzette
oleose tra le mani. Ma nulla che potesse svegliare zio Leo.
Lillian
ed Eliza parlavano con i genitori di quest'ultima. Alex si
intratteneva con suoi zii che non vedeva da tempo. Lex era uscito
fuori dal locale per prendere aria. E Lena, sola seppur il salone
fosse pieno, si era seduta su una sedia vuota accanto ad altre sedie
vuote, mangiando una pizzetta: ne tagliava un pezzo con le mani e lo
metteva in bocca, imbambolata nell'osservare Kara ridere e rincorrere
alcuni bambini. Sembrava proprio nel suo ambiente naturale. Poco dopo
scorse l'andatura lenta di zia Lara andare verso la ragazza e,
così,
tirarle una manica in modo da prendere la sua attenzione. Kara la
riaccompagnò a sedere e Lena la vide versarle da bere.
«Grazie,
cara. Come ti chiami?».
«Kara,
zia Lara».
La
donna restò a fissarla qualche istante e sembrava perplessa.
Lena si
avvicinò tanto da ascoltare la conversazione. «Io
sono Lara», si
toccò il petto e Kara sorrise, sperando di non offenderla.
«E
io mi chiamo Kara».
«Ti
chiami Lara anche tu?».
«Kara».
«Lara
anche tu».
Lena
trattenne una risata e le si accostò alle spalle.
«Zia Lara, posso
rubartela un momento?».
La
vecchina le fece un segno con la mano di avvicinarsi e poi
bisbigliò:
«Lo sapevi che si chiama Lara anche lei? Io non la
conoscevo».
Si
incamminarono un po' e poi Kara si fermò, prima che
potessero
allontanarsi troppo dal centro della sala. Non fu difficile per Lena
intuire il perché. «Prima la signora Grant mi
chiama Keira,
ora tua zia mi chiama Lara.
Cos'ha di sbagliato il mio nome?», brontolò a
bassa voce, senza
guardarla negli occhi.
«Come
stai?».
Kara
alzò lo sguardo, colta impreparata.
«Be… Bene. Mi concentro su
tante, tante cose, sì», annuendo si
portò le mani contro i
fianchi, riabbassando gli occhi. «Po-Possiamo parlare in un
altro
momento? Volevo mangiare ancora qualcosa prima che finisca
tutto»,
indicò dietro di lei, «I parenti dalla parte di
Eliza sono dei gran
mangioni».
Kara
si distanziò prima che aprisse bocca per risponderle e Alex
le tenne
d'occhio. C'era dell'imbarazzo, era evidente. Forse, pensò
Lena, a
Kara faceva male starle vicino. Le aveva spezzato il cuore,
dopotutto: ciò che aveva detto Lillian si era infine
avverato.
La
festicciola si protrasse più a lungo del previsto, era
già notte e
molti cominciarono a prepararsi per andarsene, con la promessa di
rivedersi puntuali al matrimonio. Anche Lex se ne andò:
deciso a
tornare in albergo e poi a Metropolis. Intanto, con l'aiuto di alcuni
parenti di Eliza rimasti, sistemarono ciò che non era stato
mangiato
e ripulirono per cortesia verso il locale. Con la coda dell'occhio,
Kara vide Lena tremare per il freddo ed era sicura che non si fosse
portata una giacchetta, così si tolse la sua e gliela
poggiò sulle
spalle, sorprendendola. Eliza le vide e sorrise, mentre Alex
sospirò.
«Potresti
avere freddo tu, in questo modo», le fece notare Lena.
Kara
scosse la testa e inarcò le spalle. «No. In
effetti sto meglio
così», le sorrise e si allontanò.
Lena
capì che non tutto era perduto. Che sarebbe stato difficile
e
diverso, ma che c'era ancora speranza per loro.
Pensavano
di aver chiuso con la festicciola fino al matrimonio, invece Alex,
con accanto Lena e Kara, una volta a casa mostrò alle due
donne dei
biglietti per Star City.
«È
il nostro regalo di nozze», spiegò.
«È stata un'idea un po'
improvvisa, ma speriamo la gradiate: questo weekend andremo in uno
stabile di lusso a Star City per festeggiare l'addio al secondo
nubilato».
Fortunatamente
Eliza era seduta in quel momento o le gambe non le avrebbero ceduto
dalla gioia. Abbracciò Lillian e poi le figlie, intanto che
anche la
prima ringraziava per il regalo, felicemente sorpresa.
E
così, con solo una borsa a testa con l'essenziale, partirono
verso
Star City di venerdì pomeriggio. Si lasciarono catturare
dalla vista
degli alti palazzi che tagliavano il tramonto, arrivando in hotel
appena in tempo per la cena. Eliza e Lillian avevano una camera a
parte, due piani più su di quella delle loro figlie.
«Non
voglio sentir storie: verso le otto busserò alla vostra
porta per
trascinarvi fuori a fare le turiste», assicurò
Eliza, prima di
entrare nella loro camera con Lillian a fianco.
Però
Alex ridacchiò, mettendo le braccia a conserte e mostrando
una
smorfia soddisfatta. «Vedo che qualcuna non ha ancora dato
un'occhiata la programma da seguire: era con i biglietti. Mi duole
deluderti, Eliza, ma non starete con noi, è la vostra
festa».
«Divertitevi»,
disse sorridendo anche Lena.
Eliza
rimase perplessa, poiché solitamente era lei a creare i
programmi.
Lei e Lillian entrarono dentro e le ragazze ripresero l'ascensore.
«Si
stanno riavvicinando», esclamò Eliza con un
sospiro, intanto che,
sopra il letto, toglievano dalle borse ciò che serviva.
«Di
chi parli?».
«Kara
e Lena. Non hai notato i loro comportamenti?». Osservando il
suo
disorientamento, Eliza rise. «Forse sei più
ingenua di quel che fai
credere».
Nel
frattempo, le ragazze avevano appena trovato la loro camera: due
stanzette da letto, un bagno, un minibar, un televisore e un divano
nel soggiorno in comune. Per evitare imbarazzi, Alex sistemò
direttamente la sua borsa sopra il letto matrimoniale, restando
d'accordo che lì sopra ci avrebbero dormito Kara e lei e
Lena nel
singolo nell'altra stanzetta.
«Noi
non abbiamo un programma da rispettare». Alex
iniziò a svuotare la
sua borsa. «Hai già qualcosa in mente da
fare?». Alzò lo sguardo
che Kara era davanti alla porta della stanzetta con il suo perso nel
vuoto. «Kara? Avevi detto che saresti riuscita a
divertirti».
«Cosa?»,
si voltò, spalancando gli occhi. «Ah, certo. E-Ero
solo un attimo
soprappensiero: pensavo al lacrosse».
«Il
lacrosse è nella stanza accanto?».
Kara
corrucciò le labbra e gonfiò le guance,
gettandosi sul letto e
poggiando i gomiti sul materasso, così la testa sulle mani.
«E va
bene: pensavo a lei», ammise a bassa voce. «Solo un
pochino».
«Pensi
di provare a riavvicinarti?».
«No…»,
si lasciò andare, sbattendo la faccia e poi si
girò schiena contro
il materasso. «Ha una cosa da risolvere, non
posso…», si bloccò,
scrollando le spalle, «Dai, no-non posso fare io questo
passo, lo
sa».
«Va
bene», concluse Alex, richiudendo la borsa e poggiando le
mani sul
materasso, per poi gattonare fino ad arrivarle vicino. «Fammi
una
promessa, sorellina: in questo weekend niente Gand, microspie,
lavoro, lacrosse e relazioni. Dobbiamo solo…
rilassarci», annuì
da sola, con convinzione.
Kara
rise e poi accettò, promettendo.
Aveva
fatto la promessa era intenzionata a rispettarla, ma già
dall'indomani mattina si accorse che non era per niente facile: Lena
uscì in vestaglia trasparente dalla sua stanza per correre
in bagno
e lei aveva appena aperto la porta. Aveva visto il suo fondoschiena
tenuto su da fini mutandine di pizzo sventolato davanti al proprio
naso. Oh, perché a lei?
«Cosa
guardi?».
«Cosa?
Che c'è? Niente!»,
richiuse la porta dietro di lei e per poco Alex non le
sbatté
contro.
Intanto
che Lillian ed Eliza rispettavano il programma che le vedeva in
sauna, le ragazze si vestirono e uscirono per fare un giro
nell'immenso hotel. Lex le aveva proprio suggerite bene: c'era una
sala dei videogiochi, una con i giochi dell'infanzia con gonfiabili e
grandi piscine di bolle colorate, una con il cinema, una biblioteca,
una sala del tè e, passando dall'esterno verso lo stabile
accanto,
videro le piscine, ora chiuse per il freddo; laggiù c'era la
sauna,
i massaggiatori, la sala dello yoga, e chissà quante altre
cose. Si
accorsero che ci avrebbero messo l'intera giornata per visitarle
tutte e si fermarono solo per mangiare. Andarono in biblioteca a
leggere, andarono in quella dei videogiochi e Alex e Kara
continuarono a sfidarsi mentre Lena faceva loro da giudice, presero
il tè di pomeriggio e si guardarono un film al cinema prima
dell'orario di cena. Per tutto il giorno, Alex Danvers non aveva
fatto altro che notare quanto gli sguardi delle due si ricercassero
in ogni istante, tanto che, alla visione del film, si era
già
seccata di fare il terzo incomodo. Decise che il giorno successivo la
musica sarebbe cambiata.
«Dove
andiamo oggi?», le chiese Kara per la quinta volta da quando
sua
sorella si era alzata in piedi, quella mattina. «Possiamo
andare dai
giochi per l'infanzia? Lo so che sono un po' grande, ma ho sempre
desiderato infilarmi nella vasca con le bolle, ti prego».
Si
sedettero a fare colazione nel salottino e Lena le raggiunse.
«Va
bene», acconsentì Alex, trattenendo un sorriso.
E
così, a metà mattina, raggiunsero la sala con i
giochi
dell'infanzia e i gonfiabili. Era già piena di bambini ma
Kara non
si lasciò intimidire, iniziando ad arrampicarsi nei percorsi
con
tubi e ponti di legno. Come al solito, Alex vide Lena incantarsi e
sospirare, così tirò fuori il cellulare.
«Accidenti,
Maggie mi sta chiamando», attirò l'attenzione di
Lena. «Devo
rispondere, ci vediamo più tardi».
La
ragazza non fece in tempo a bloccarla che Alex scappò via
dalla
sala, gridando se era successo qualcosa a Jamie. Solo dopo venti
minuti di gioco, fermandosi con la testa bloccata tra due tubi di un
ponte pericolante, Kara si rese conto che Alex se l'era svignata. Con
l'aiuto di Lena e del personale dell'hotel, riuscì a
togliere la
testa e se ne andò dalla sala ascoltando le risate dei
bambini.
«Erano
davvero strette…», brontolò,
«Troppo strette. Ho visto bambini
della mia stazza giocare lì dentro; sono pericolose per me
come per
loro. E io ho la testa piccola, insomma».
Lena
sorrise. «Almeno sei riuscita a tuffarti nella piscina delle
bolle
colorate».
Kara
le sorrise di rimando. «Mi hai visto? Dovevi entrare anche
tu, ti
sarebbe piaciuto». Si pentì di averlo detto: era
un
riavvicinamento? Ah, le cose andavano male. Proprio male.
Aprirono
la porta della loro camera e notarono che Alex non era lì,
chiedendosi dove sarebbe stata a divertirsi senza di loro.
Indigo
girò in tondo da una parte all'altra della stanza del motel.
Cellulare su una mano, in silenzioso, compariva sullo schermo
l'arrivo di una chiamata da un numero privato. Si erano sempre
sentiti per messaggio, perché ora le telefonava? Non poteva
essere
niente di buono se si disturbava a farlo. Era però sicura
che non
avrebbe potuto ignorare quella chiamata per sempre. Sospirò,
cliccando sulla cornetta verde e poggiando l'apparecchio all'orecchia
destra. «Cosa vuoi?».
La
voce meccanica e disturbata rise, ma non per molto. «Come
stai? Io sto bene, grazie per averlo chiesto»,
le fece il verso e la voce contraffatta proseguì: «Ti
sei presa troppe libertà, ultimamente, Indigo. Ho fatto da
garante
per farti uscire di prigione e mi ripaghi così».
«Libertà?»,
si portò una mano tra i capelli, spostando la treccia bionda
dall'altro lato. «Ti riferisci a Lena Luthor? Andiamo, lo sai
anche
tu che ho dovuto farlo: è solo grazie a me se ora per
qualunque cosa
le interessi dovrà cercare noi»,
digrignò i denti.
«Ti
avevo chiesto di non farlo».
«Stavi
sbagliando! Hai intenzione di prendertela con me perché ho
fatto
sparire qualche dato e le ho detto che sappiamo chi è? Non
mi sembra
di aver esagerato», sforzò un sorriso.
La
voce non sembrò dello stesso parere. «Ora
può risalire a te, Indigo. Le hai fornito delle
informazioni».
Restò
senza fiato e si voltò con uno spavento quando bussarono
dalla porta
accanto, così si resse il petto. «Non
posso», gridò, «Un
momento».
«Sei
stata sconsiderata. Alla luce di questi nuovi sviluppi, temo di non
potermi più fidare di te».
La ragazza non ebbe neanche il tempo di pensare a cosa fare che
bussarono ancora. «Apri,
Indigo»,
le disse all'orecchio.
Lei
deglutì e corse verso la finestra più vicina,
aprendo un poco la
tendina, ma non si vedeva nessuno. «Chi è alla
porta?».
«Un
amico venuto a prenderti»,
rispose e cadde la chiamata.
Indigo
si affacciò ancora ma da quell'angolazione non riusciva a
scorgere
nessuno. Bussarono di nuovo, più forte, così
camminò scalza fino
alla porta e guardò attraverso l'occhiello dello spioncino:
fece
appena in tempo a vedere un uomo dalla grossa postura che questo
buttò giù la porta e la rincorse. Indigo gli
piazzò un calcio
sulla faccia quando cadde sulla moquette del pavimento, ma era scalza
e non produsse gli effetti sperati: l'uomo le afferrò il
piede e
dopo l'altro, trascinandola verso di lui. Poi le coprì la
bocca con
un panno e Indigo smise di lottare, cadendo in un sonno profondo.
«Indigo
Brainer», disse Lena, volgendo lo schermo del pc portatile
verso
Kara e mostrandole la foto e il profilo della ragazza. «Era
in
carcere per aver hackerato il sito del governo e averci pasticciato
un po'. L'hanno catturata dopo anni che la cercavano, riuscendo a
imputarle altri reati minori di hackeraggio. Arrivava davvero
ovunque. Non ha finito di scontare la sua pena che è stata
fatta
uscire di prigione solo pochi mesi fa per buona condotta: qualcuno ha
garantito per lei, non dicono chi. È lei la nostra
X», la guardò
negli occhi. «Deve essere lei».
Kara
sospirò, distendendo la schiena contro il divanetto.
«Avrebbe
senso», annuì, «Ma cosa vuole da noi?
O… cosa vuole da noi il
suo garante?».
«Questa
sarà la domanda a cui cercherò di dare una
risposta da oggi in
avanti», rigirò il laptop verso di lei, guardando
Indigo in faccia.
«Non conosciamo questa ragazza e dubito, anche se
può essere
arrivata a sapere dell'omicidio di mio padre in rete, che voglia
semplicemente fare la buona samaritana. Quindi dobbiamo
trovarla».
Le rivolse un'occhiata e Kara annuì. «Non
sarà facile, l'FBI le è
stata dietro per anni, ma non ci resta che provare».
Dal
momento che la promessa con Alex era stata già infranta,
Kara decise
di essere sincera con lei su un altro aspetto del loro piano.
«Rhea
Gand ha diffuso la data del matrimonio».
«Cosa?».
Kara
prese un bel respiro. «Voleva distogliere l'attenzione dei
giornali
dal senatore, ma non è questo il punto», scosse la
testa, «Siobhan
faceva la spia per lei». Kara pensava che si sarebbe stupita,
ma in
realtà non si mosse come se, in fondo, se lo aspettasse da
parte
sua, attendendo dell'altro. «Me lo ha confessato quando siamo
andati
alla CatCo per l'articolo! L'ho già detto ad Alex. In
pratica
l'aveva mina-».
«Aspetta
un momento», la bloccò e questa volta
spalancò gli occhi per
davvero. «Siobhan Smythe sa della
nostra…», non riuscì a
concludere la frase.
«Sì»,
annuì, «Non gliel'ha detto. In realtà
non capisco perché l'abbia
fatto, forse non lo riteneva importante, ma mi ha assicurato di non
averlo detto, che in fondo non le ha detto nulla se non come mi
comportavo alla CatCo e, conoscendo Siobhan, voglio dire, per come si
lamenta per tutto, l'avrà torturata, ma…
Lena». Si assicurò di
avere la sua completa attenzione. «La signora Gand le ha
puntato
contro una pistola».
Lena
si portò una mano alla bocca. «È
arrivata a tanto?».
«Non
le ha fatto del male».
«Non
l'avevo chiesto».
«Però
mi è parsa davvero spaventata quando me lo ha detto. E-Ero
arrabbiata prima, però la sua faccia…
è stata sincera e ha chiuso
con la signora Gand».
«Possiamo
fidarci di Siobhan? L'hai
perdonata?»,
le chiese a bassa voce, ricercando di nuovo i suoi occhi.
Kara
annuì. «Sì. Probabilmente. Co-Comunque
dice che la signora Gand è
fuori di testa, che è stressata ed è una mina
vagante».
Lena
deglutì, abbassando gli occhi. «Ed è te
che prende di mira».
La
guardò con apprensione e Kara spostò lo sguardo,
arrossendo. «Non
sono preoccupata».
«Non
sei…
Kara, quella donna ha una pistola».
«Sono
capace di disarmare qualcuno».
«Ma
non sei a prova di proiettile», rimarcò, dura. Si
guardarono per un
po', ferme, finché Lena non abbassò lo sguardo e
sospirò. «Kara…
mi fido di te, so che sei forte e in gamba, ma non riesco a non
preoccuparmi», la riguardò negli occhi, per poi
scuotere
violentemente la testa e parlare di fretta: «Forse ho perso
il mio
diritto a preoccuparmi per te, ma-».
«N-Non
l'hai perso». Kara deglutì. Le uscì di
getto, non riuscì a
trattenerlo, ma fu felice di averlo fatto poiché le guance
di Lena
si imporporarono. Le mancava. Accidenti, quanto le mancava.
Si
fissarono per un po', perse l'una nell'altra, che Lena congiunse le
mani e prese fiato. «Kara, devo… devo dirti una
cosa…».
Poteva
davvero farlo ora? La fissò e Kara attese. Si sentivano
finalmente
vicine come non succedeva da un po'. Tanto prese dal loro imbarazzo e
dai sorrisi spontanei da non sentire subito i passi dietro di loro.
«Alex!»,
gridò Kara, improvvisamente in preda al panico,
allontanandosi da
Lena strisciando le natiche, pian piano. «Noi non stavamo-
Certo che
non stavamo! Vo-Voglio dire, non stavamo facendo niente… di
che!
Parlavamo di- Da… Da quanto tempo sei qui?».
«Abbastanza,
belle statuine. Ho aperto la porta, ma vi sentivo parlare e non vi ho
disturbato», le fece l'occhiolino. «Ora
però dobbiamo prepararci:
il tempo di Eliza e Lillian è finito e dobbiamo andare a
cena con
loro».
Lena
perse il suo sorriso e si morse un labbro, capendo di aver perso
l'occasione giusta.
Andarono
a mangiare nel ristorante dello stabile, intorno a un tavolo da sei
persone e a quelli di altre famiglie. C'era un bambino che piangeva,
a qualche tavolo da loro, ma a pensarci bene era forse l'unica cosa
entusiasmante che potevano seguire le ragazze mentre le loro madri
non facevano che parlare di come avevano passato il loro tempo
lì a
Star City.
«Adesso
la madre lo prende in braccio», bisbigliò Kara.
«I
massaggiatori erano davvero bravi, non mi sentivo così bene
da…
mai», ridacchiò Eliza, ingigantendo gli occhi.
«No,
lo prende il padre e lo porta fuori. Guarda: è
esausto», fece
notare Alex.
«Abbiamo
visto dei film al cinema in orari in cui non c'era nessuno»,
prese
parola Lillian, guardando e sorridendo Eliza al suo fianco,
«È
stato rilassante».
Ebbe
ragione Alex: il padre si alzò, prese in braccio il piccolo
e lo
portò fuori dalla sala, infastidendo le due sorelle.
«Ehi», Lena
picchiettò un gomito di Alex e poi mosse la testa in
direzione di un
altro tavolo, «Bambini che giocano intorno alle sedie in
passaggio
di personale». Loro tirarono un sospiro di sollievo,
cambiando
obiettivo.
Dopo
mangiato, la direzione consigliò agli ospiti di cambiare
sala e
prendere l'aperitivo davanti al palco, in vista dello spettacolo.
Alex insisté per andare ad assistere e si sedettero intorno
a un
tavolino, intanto che gli artisti dalla risata facile si esibivano.
Non tutti facevano ridere davvero e altri parevano sforzarsi
più del
dovuto per strappare un sorriso ai loro spettatori, così
lasciarono
presto il microfono e l'attenzione ai clienti che volevano esibirsi:
tra chi cantava, chi ballava e faceva sketch umoristici, si
divertirono molto di più. Assisterono alla dichiarazione
d'amore di
un uomo verso il suo compagno seduto a un tavolino non distante e
tutti applaudirono quando, alla proposta di matrimonio, lui rispose
sì.
Kara intravide con la coda dell'occhio Eliza sorridere a Lillian e
non riuscì a non sorridere anche lei: forse tra lei e Lena
non era
destino e non sarebbe mai riuscita a minare la felicità di
Eliza per
questo. Forse, che si fossero separate ora, prima del matrimonio, era
stato un bene. Forse-
«E
ora diamo il benvenuto a Kara Danvers», disse un uomo dal
palco al
microfono e lei impallidì, voltandosi di scatto.
«È qui da noi
perché sua madre si risposa e hanno deciso di
festeggiare». Eliza,
Lillian e Lena la guardarono, capendo che le aveva messe tutte
eccessivamente in mostra, ma lei non aveva fatto niente. «Ora
la
sentiremo in una canzone d'amore scelta appositamente per sua madre e
la sua futura sposa. Un bell'applauso».
«Cos-»,
spalancò gli occhi quando la luce a cono la
investì e gli sguardi
della sala si rivolsero tutti a lei. Diventò rossa, intanto
che Alex
la spingeva per un gomito.
«Dai,
forza», le bisbigliò, «Non vedi che ci
guardano tutti. Vai».
Il
viso di Eliza invece si sciolse. «Oh, Kara… Avevi
preparato questo
per noi?».
«È
un bellissimo pensiero, Kara», disse anche Lillian.
Kara
deglutì, ancora occhi spalancati e guance rosse, alzandosi
mentre la
sala iniziava ad applaudire. Salì sul palco con camminata
lenta e
Alex rise, scrivendo a Maggie.
Grazie
per la dritta, Mags. Kara è sul palco!
Le
inviò un cuoricino e la risposta di Maggie non si fece
aspettare:
Mandami
un audio!
Lena
si abbassò verso di lei, continuando a fissare Kara e
l'impaccio con
cui prendeva il microfono. «Kara sa cantare?».
«Oh,
sentirai».
Si
portò al centro del palco e, dopo aver parlato con il
presentatore
per sapere con quale canzone doveva esibirsi, ricercò tra il
pubblico la sua famiglia. A Eliza e Lillian che si tenevano vicine e
sorridevano. A Lena che la guardava come se al mondo non ci fosse
nient'altro. A quella disgraziata di sua sorella che le aveva giocato
un brutto tiro mancino: sghignazzava con soddisfazione, ma
gliel'avrebbe fatta pagare. Aveva cantato spesso e l'ultima volta lo
aveva fatto alla festa di compleanno della figlia di una cugina di
Eliza: tutte le bambine erano rimaste soddisfatte della sua
performance alla Lady Gaga. Le avevano sempre detto che era brava, o
più di brava in effetti, ma accidenti, davanti a un pubblico
del
genere e senza essersi preparata… Deglutì e
aprì la bocca
tremante. Di nuovo gli sguardi di Eliza e Li- Alex le mostrò
il
pollice. Gliel'avrebbe fatta pagare: inutile che cercasse di
appoggiarla con quel pollice dopo averla spedita a cantare su un
palco senza preparazione. Lo sguardo di Lena… Oh,
lei… Kara
sorrise e, dopo un inizio lento e timido, tirò fuori la voce
e la
sala applaudì. Qualcuno scattò foto e
sperò non fossero per i
giornali. Socchiuse gli occhi, abbassò la voce e di nuovo
gridò,
stringendo il microfono e dando sfogo a ciò che sentiva, a
ciò che
aveva dentro; tirò fuori con quelle note tutto
ciò che non poteva
dire a parole. La sala era ammutolita, tutti guardavano lei. Ma a
lei, Kara, bastava l'attenzione di una sola persona.
Sorriso
compiaciuto, Alex si accostò a Lena. «Allora, come
ti sembra?».
Lena
era totalmente rapita da Kara, tanto che udì e
sentì la presenza di
Alex dopo qualche secondo dalla domanda. «Come?».
Alex
si tirò indietro: non le serviva davvero una risposta.
Quando
finì la canzone, la saletta applaudì a
più riprese e Kara sorrise
di nuovo imbarazzata, riprendendo fiato e passando il microfono al
presentatore che le fece i complimenti. Raggiunse il suo tavolino che
tutti ancora applaudivano.
«Sei
stata bravissima, tesoro», l'abbracciò e
baciò Eliza. Si comportò
come se la canzone, dopotutto, fosse stata veramente per lei e
Lillian: ma Kara era certa che l'obiettivo di Alex fosse tutt'altro.
Anche
Lillian si alzò per abbracciarla, anche se molto
velocemente. «Non
avevo idea che fossi così brava: dopo averti ascoltato, sono
sicura
che chiunque salirà ora a cantare si sentirà
molto a disagio».
Lena
si sforzò per non rispondere a sua madre che non era una
competizione e si limitò a sorridere a Kara, mentre lei si
sedeva al
suo posto.
«Sei
stava brava, sorelli- ahio»,
Alex si tenne il braccio dolorante per il forte pizzicotto, conscia
che in fondo se lo era meritato.
Presero
un drink a testa e ascoltarono altre persone cantare, dire
barzellette, o tentare disperatamente di far ridere qualcuno. Nel
frattempo, mentre Eliza le stringeva una mano, Lillian chiese a Kara
se avesse voluto cantare al loro matrimonio sulla base che Lena
avrebbe suonato al pianoforte. Eliza glielo aveva chiesto diversi
giorni fa. Non poté rifiutare e lei e Lena si guardarono
come per
cercare, nei reciproci sguardi, un permesso, se fosse tutto a posto
tra loro. Se non altro, per quello si sarebbe preparata.
Selina
Kyle sorrise con gaudio quando scorse Bruce Wayne uscire
dall'automobile e lasciarla partire senza di lui, mentre la
raggiungeva davanti al vecchio magazzino.
Era
buio e aveva dovuto dire ad Alfred, il suo maggiordomo, che usciva
per tornare in ufficio. Anche se era ormai un adulto, non lo avrebbe
lasciato andare per parlare in mezzo alla strada con una ragazza
semisconosciuta. Era molto protettivo.
Lei
lo aspettava con le spalle appoggiate a un pilastro della luce e mani
nelle tasche del giubbino; si spostò subito come lui si
avvicinò.
«Allora, è pronto?».
«Per
cosa, con esattezza? Non potevano vederci al chiuso?».
«Ha
paura di me o del buio, signor Wayne?».
«Non
ho di certo paura del buio, e neanche di lei».
«Ah,
ho capito», ridacchiò, «Si sente esposto
qua fuori, le manca la
sua villa». Lui sospirò e scosse la testa,
lasciandola parlare. Gli
disse di seguirlo e si fermarono davanti al portone del magazzino.
«Ciò che già sapevo è che
chi ha comprato il magazzino ha
lasciato detto per le strade da dove vengo io che offriva lavoro ai
ragazzi di strada, di farsi avanti». Gli fece di nuovo cenno
di
seguirla e si allontanarono, camminando sul marciapiede verso il
centro di Gotham.
«Un
lavoro? Di che tipo?».
«Dovevano
presentarsi in un capanno che si muoveva per Gotham in questi giorni.
Ora che hanno trovato… personale»,
sottolineò la parola, «non si trova
più, è stato smantellato.
Alcuni ragazzi del parco sono stati rifiutati dopo un esame del
sangue, ma molti altri sono passati e mi è stato detto che
fanno da
cavie per alcune nuove pillole che andranno presto in
commercio».
Bruce
aggrottò la fronte. «Pillole? Si tratta di
droga?».
«La
cosa straordinaria», alzò le spalle lei,
«è che non si sa con
precisione cosa sia. Alcuni dei ragazzi si sono sentiti male e non
sono più andati anche dopo aver ricevuto molto denaro, altri
sono
tornati nonostante questo perché qui i soldi servono. Molti
di quei
ragazzi vivono letteralmente per le strade e hanno bisogno di quei
soldi, ecco perché penso che questa persona abbia scelto
Gotham con
scrupolo».
«Con
il nuovo magazzino, il compratore è intenzionato a produrre
quelle
pillole in serie», sospirò lui.
«Avrà sicuramente i permessi. Ma
se fosse stato qualcosa di pulito, perché la Wayne
Enterprises mi ha
tagliato fuori? Mi trattano ancora da ragazzino, posso capirlo, a
quella gente non piaccio, ma tanta riservatezza è comunque
sospetta».
Passarono
sotto alcuni palazzi. Le macchine sfrecciavano per le strade quasi
alla cieca, veloci, con curve strette e pericolose e Selina
notò il
disagio sul volto del ragazzo, che tentava con sforzo di dissimulare.
«Ho
partecipato anch'io».
«Cosa?».
«Mi
sono fatta viva al capanno quando era dalle mie parti, non potevo
lasciarmelo sfuggire! Volevano dare questo lavoro
ai miei amici, dovevo andare a vedere di persona. Ho passato il test
dell'esame del sangue e sono andata all'incontro»,
sospirò, «Si
teneva all'interno di un pub che stanno finendo di
ristrutturare».
Si fermarono e la ragazza lo indicò, proprio davanti a loro,
dall'altra parte della strada. Attraversarono subito. Al pub
mancavano delle scritte sulla facciata, le finestre erano scure e
polverose e all'esterno si erano depositati fogli di giornale e
vecchie cicche di sigarette. «Ci hanno fatti entrare dal
retro,
eravamo in gruppo di dieci», continuò a
raccontare. «Come vere e
proprie cavie ci hanno prima riempito di domande sulla nostra vita,
studio, famiglia, altre cazzate».
«Conducono
un esperimento».
Lei
annuì. «Naturalmente ho mentito. Poi ci hanno
fatto andare dentro
una saletta, uno alla volta. Nessuno lo direbbe vedendolo
così
sporco, ma sotto al pub, nelle stanze sotterranee, è
più pulito del
ciuccio di un neonato. Ci hanno offerto una pillola e dovevano
tenerci in osservazione».
Lui
deglutì. «L'ha presa?».
«Mi
ha presa per una scema?», sgranò gli occhi.
«Me la sono intascata,
ma una guardia mi ha beccata e me l'ha fatta restituire. Mi hanno
sbattuta fuori», sbottò. «Per fortuna io
ho la chiave». Sorrise e
si avvicinò alla porta.
Lui
si voltò indietro, in modo che nessuno li vedesse: c'erano
delle
persone e un via vai di automobili poco più in
là, ma nessuno
guardava da quella parte. «Signorina Kyle, cosa sta facendo?
Non
possiamo entrare in questo modo».
Lei
girò e rigirò la forcina, inchinata e con la
lingua che pendeva
dalle labbra, concentrata. Poi la serratura scattò e
sorrise,
girandosi verso il suo nuovo complice. «Vuole o no scoprire
chi ha
comprato il magazzino e questo pub? Prego, dopo di lei»,
aprì la
porta, facendogli il gesto di entrare per primo.
Lui
guardò Selina e poi all'interno del pub, infine
ansimò ed entrò,
così, soddisfatta, lei lo seguì, chiudendo alle
loro spalle e
accendendo una piccola torcia che aveva tenuto in tasca.
Alex
andò a letto per prima, lasciando Kara e Lena da sole nel
soggiorno
della loro camera per l'ultima notte lì a Star City.
Entrambe
sapevano che Alex aveva fatto apposta a lasciarle sole per tutto il
giorno e poi ad averle fatto cantare quella canzone ma, quando le
lasciò lì sul divano con un film in tv, si
sentirono di nuovo un
po' tese. Kara allungò lo sguardo verso di lei ma la
scoprì a
guardarla a sua volta ed entrambe si voltarono, colte in flagrante.
Solo un messaggio di Selina a Kara, e di Bruce a Lena, le
salvò da
quel terribile imbarazzo. Selina raccontò a Kara delle
pillole e del
magazzino, del pub. Bruce disse di sapere chi aveva comprato il
magazzino e anche un pub lì a Gotham. Dissero entrambi che
si erano
intrufolati all'interno del pub ma che non erano riusciti a scendere
al piano sotterraneo perché la porta era blindata, che non
avevano
trovato pillole ma tanta polvere e qualche documento sul bancone.
Lena spense la televisione e lei e Kara si scambiarono uno sguardo.
«Pensi
di dirlo a Lex?», le domandò Kara, facendosi
più vicina.
«Devo»,
abbassò lo sguardo. «Ma quando lo vedrò
di persona. Andrò a
trovarlo prima del matrimonio», poi deglutì e la
riguardò,
abbozzando un sorriso e scuotendo la testa. «Lex mi aveva
detto che
gli erano state rubate… Dovevamo aspettarci che era stato
lui».
Kara
trattenne il fiato, guardando altrove. «Quel tipo mi piace
sempre
meno».
«Andiamo
a riposarci, adesso», guardò l'ora sull'orologio
al polso e si alzò
dal divano, trattenendo uno sbadiglio. «Domani torniamo a
casa».
Kara
la seguì e si fermarono davanti alla porta di Lena, con
ritrovato
imbarazzo. «E così le nostre madri si sposano,
eh?», ridacchiò.
«Non
sembra vero», sorrise anche Lena. Entrambe tornarono serie di
colpo
e abbassarono gli occhi. «Beh… buonanotte,
Kara».
Lei
annuì, voltandosi. «Buonanotte, Lena».
Tenne stretta la maniglia
ma non aprì la porta; Kara sentì come uno stimolo
e si girò di
nuovo, di scatto, avvicinandosi a Lena e, quando si fu girata, la
costrinse a lasciare la porta già aperta, tenendole il viso
con una
mano e baciandola. Lena chiuse gli occhi e s'avvicinò a lei,
passandole una mano su un fianco. Si lasciarono, inspirarono e si
baciarono ancora finché, sempre Kara, non si tirò
indietro. «Oh…
S-Scusa», abbassò il viso diventato rosso,
«N-Non so cosa mi sia
preso».
«Già…
anche a me». Rossa anche lei, Lena si portò la
mano destra sulle
labbra.
«Tu
d-devi… I-Insomma, hai delle cose da pensare e
io… Mi dispiace»,
balbettò, non riuscendo a guardarla negli occhi.
«Dispiace
anche a me», sospirò Lena.
Si
chiusero all'interno delle proprie stanzette appoggiandosi alla porta
e reggendosi il petto. Entrambe sentivano il cuore in gola. No.
Decisamente non avrebbero dovuto.
Era
il giorno seguente quando, tornata a National City da qualche ora,
Kara si era precipitata lì sapendo di doverlo fare. Si era
presentata in portineria e, anche se era senza appuntamento e non
volevano lasciarla passare, dopo aver insistito per parecchi minuti,
aveva ottenuto il lasciapassare da lui in persona, dopo che lo
avevano chiamato per telefono. In ascensore, sentì lo
stomaco
brontolare poiché era un poco nervosa, ma non vedeva l'ora
di averlo
faccia a faccia. Doveva affrontarlo.
Dopo
che le porte si aprirono, si fermò per guardarsi un attimo
intorno e
così scorse il suo ufficio e lui, seduto davanti alla sua
scrivania.
Andò dritta, non curandosi della segretaria che aveva
tentato di
parlarle, poi di gridarle, e infine si era alzata in piedi per
fermarla. Kara spalancò la porta a vetri e Maxwell Lord si
alzò
dalla sua scrivania lisciando la cravatta, guardando lei e la sua
segretaria che aveva il fiatone, affacciata alla porta.
«Vai
pure, Nicole. Ci penso io». La segretaria annuì e
chiuse la porta,
mentre Kara teneva il viso contratto di rabbia. «A cosa devo
la
visita, signorina Danvers?». Le fece segno di accomodarsi e
tornò a
sedersi, ma Kara restò immobile dov'era.
«Deve
essersi risentito quando la Wayne Enterprises ha bloccato la vendita
dei terreni a Gotham City, non è vero?»,
assottigliò i suoi occhi
e solo allora si avvicinò alla scrivania, cercando di
scorgere nel
viso di lui un segno qualsiasi di sorpresa: mosse appena un
sopraccigli0, tenendosi con la schiena appoggiata contro la sedia, le
mani con le dita intrecciate, il suo sguardo che sosteneva il suo con
fierezza.
«Di
cosa parla?».
«Del
vecchio magazzino che si è lasciato vendere al posto di una
fetta
del terreno. Le serviva una base per la nuova fornitura delle pillole
rubate al mio fratellastro, no?».
«Ah»,
sorrise, «Capisco». Il giovane uomo prese un bel
respiro e si
riavvicinò alla scrivania. Inquadrò una ciotola
di caramelle sfuse
alla sua sinistra e gliele mostrò, chiedendole se gliene
andasse
una. Di sicuro, Kara non avrebbe accettato nulla da parte di
quell'uomo e neanche si mosse, lui al contrario ne prese una e la
mise in bocca. «Mirtilli».
«Sta
prendendo tempo perché non sa cosa rispondermi
o-».
«No»,
la interruppe Max. «Volevo davvero offrirle una
caramella… mentre
pensavo a come ne è venuta a conoscenza. Voi reporter, o
aspiranti
tali, riuscite sempre a meravigliarmi», rise. «Non
ho nulla da
nascondere, avrei solo voluto che restasse una sorpresa: sto aprendo
una nuova attività a Gotham. Gestirò da qui un
pub che offrirà
nuove entrate alla Lord Technologies. E sì, il magazzino mi
servirà
per la produzione di nuove pillole che andranno a ruba nel mio pub.
Non so cosa pensi di sapere, signorina Danvers, ma quelle pillole
sono e continueranno a essere assolutamente innocue: sviluppano,
diciamo, alcune funzioni cerebrali. E non creano dipendenza. So cosa
può sembrare, che vendere pillole in un pub sia
un'attività
illecita, ma le assicuro che ho il benestare del sindaco di Gotham.
Ho tutti i permessi del caso, può controllare».
«Lo
farò», rispose subito e lui sorrise.
«E…
accidenti, sono sicuro che il suo fratellastro la veda in modo
diverso, ma non ho rubato quelle pillole: mi sono state vendute. Ho
visto un affare e l'ho colto, tutto qui», scrollò
le spalle. «Mi
dispiace se in origine l'idea fosse sua, avrebbe dovuto registrarle.
Cosa che io mi sto apprestando a fare. È tutto completamente
in
regola», le sorrise di nuovo ma Kara non ricambiò.
«E
i ragazzi che stanno facendo da cavie?».
«Oh,
sa anche di quello?», la indicò. «Beh,
se possiamo chiamarle
cavie… io avrei detto lavorando»,
le scoccò un'occhiata, affrettando una veloce risata.
«Sto mettendo
a punto nuovi gusti e mi serviva qualcuno pronto a favorire. Chi
meglio dei ragazzi di Gotham: lo sa che molti di loro vivono per le
strade e non hanno dei soldi per la scuola, per un pranzo? È
vergognoso, per questo mi sono riferito a loro», la
fissò, «Sapevo
che avevano bisogno di denaro veloce».
Kara
scosse brevemente la testa. «Ha pensato proprio a tutto,
eh?».
Lui
si rimise composto sulla sedia, poggiando la schiena sulla spalliera.
«Cosa vuole che le dica, signorina Danvers: non amo giocare
impreparato».
«Tornerò».
«Sarò
felice di accoglierla», rise e la guardò
assottigliando i suoi
occhi, quando lei si fermò a un passo dalla porta. Maxwell
sospirò.
«Ora vuole dirmi di stare lontano da sua sorella».
«No»,
si girò e gli sorrise. «Volevo dirle di stare
attento alla reazione
di mia sorella quando lo verrà a sapere. Lei sa badare a se
stessa».
Aprì la porta e uscì dall'ufficio, più
nervosa di quando era
entrata.
Oggi
piccolo ritardo nella pubblicazione, ma è sempre
lunedì, no? ;)
Capitolo
lunghetto, spero non abbia annoiato!
Il
matrimonio di Eliza e Lillian si avvicina, il rapporto tra Lena e sua
madre è in crisi, abbiamo scoperto che hanno dei parenti
(!), Alex e
Kara sono in ansia perché si sono rese conto che la loro
madre si
sposa davvero, e Lena e Kara sono riuscite a riavvicinarsi grazie ad
Alex (e Maggie), pare. Beh sì, pare proprio di
sì, Lena stava per
dirle qualcosa di importante e sono ricascate fin troppo facilmente
nel turbinio dei loro sentimenti. Kara ha perfino dovuto cantare!
Nel
frattempo, abbiamo Selina Kyle e Bruce Wayne a Gotham che fanno
squadra per scoprire del magazzino. Vi aspettavate che il compratore
misterioso fosse Maxwell Lord? E che Roulette avesse venduto a lui la
formula delle pillole di Lex? Gli indizi c'erano tutti: ci teneva a
comprare un terreno e, fin dall'inizio della fan fiction, Lord
sembrava avere un conto in sospeso con Lex Luthor. E chissà
poi
perché. Io terrei d'occhio questa cosa per gli avvenimenti
futuri.
Kara non ha perso tempo: una volta tornata a National City, si
è
subito precipitata alla Lord Tech, ma Max Lord ha sempre una risposta
pronta per tutto…
Oh,
e Indigo? A quanto pare è stata sua l'idea di cancellare i
dati su
Lionel Luthor dal web, si è presa delle libertà,
in special modo
dicendo a Lena che sapeva della sua identità. Il nostro
profilo
misterioso si è risentito e ha mandato qualcuno a
“prenderla”.
Ops. Come dare torto al nostr* X: grazie a questa bravata, Lena
è
risalita a lei.
Ultimo,
e non certo per importanza: Rhea Gand ha una pistola. A quanto pare,
Siobhan si teneva in contatto con la donna perché voleva
tenere
d'occhio Kara e, quando ha deciso di chiudere questa strana
collaborazione, la donna non ha reagito proprio benissimo. Siobhan si
è presa una bella paura. Quella donna sembra aver superato
il
limite. Cosa accadrà, adesso?
Cosa
ne pensate della piega che stanno prendendo gli avvenimenti? Fatemi
sapere :)
Ebbene,
se c'era una cosa che mi mancava assolutamente quando pensavo al loro
matrimonio e alla famiglia Danvers-Luthor, o Luthor-Danvers, fate
voi, quello era un passato. Da che famiglia
provengono, che
tipi sono, e perché dannazione le due mantengono i cognomi
dei loro ex
mariti? Volevo dare una risposta a tutte queste domande; se per la
terza solo io per le meccaniche della fan fiction potevo rispondere,
delle prime due sulla serie non ci è dato sapere niente (a
meno che
non ci sia qualcosa nella terza stagione che non ho visto) e i
fumetti… emh, non leggo i fumetti, quindi non ho idea se
lì ci sia
qualcosa sulle loro famiglie di origine oppure no. Sta di fatto,
quindi, che mi sono inventata le loro famiglie di sana pianta. Qui le
ho presentate grossolanamente, ma avremo qualche scorcio in
più sui
rapporti con loro in due capitoli futuri e poi chissà.
Festeggiamo
le due 200 recensioni raggiunte con lo scorso capitolo!! Grazie a
tutti, spero che la storia continui a piacervi :)
E
ora una notizia che sicuramente non riceverà lo stesso
entusiasmo:
la settimana prossima non pubblicherò il capitolo di
lunedì, ma di
mercoledì. A causa di altri impegni e lentezza mia, non
sempre
riesco a tenere bene il ritmo di un capitolo scritto alla settimana e
per non farvi attendere troppo com'è già
successo, credo mi
prenderò ogni tanto dei giorni in più.
Sarà un esperimento,
vediamo se così funziona.
Allora
vi do appuntamento a mercoledì 28 con il capitolo 34: Paranoia.
Spero vi piacerà come piace a me :)
|
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Capitolo 35 *** 34. Paranoia ***
AVVERTENZA:
durante questo capitolo vi imbatterete in una scenetta che dovrei
segnalare, credo,
ed ecco il perché dell'avvertenza, ma non voglio fare
spoiler prima
ancora che il capitolo inizi e quindi dirò soltanto che,
appena
arriverete a leggerla, e
capirete che stavo parlando di quella,
se la cosa non dovesse piacervi, potete saltare qualche riga appena.
Non penso che sia nulla di che, ma non a tutti la cosa potrebbe far
piacere. Ma non è nulla di che.
«Non
che mi sia mai fidata realmente di lui, ma…», Alex
sospirò.
«E
ha i permessi, ho fatto qualche telefonata. È incredibile
che la
passi liscia», mormorò Kara.
La
maggiore scosse la testa. «Cominciavo a vederlo sotto
un'altra
ottica… immagino».
Ricordò
di quando lo aveva incontrato, e non proprio per caso, nel momento in
cui stava finendo il suo turno in boutique ed era uscita dalla porta:
lui era a pochi metri da lei, appoggiato al cofano anteriore aperto
di una costosa macchina da corsa. «Problemi al
motore?», gli aveva
chiesto, avvicinandosi. Vedendola, Maxwell si era illuminato.
«Così
pare…», aveva sospirato e alzato le spalle, dando
una nuova
occhiata al cofano. «So cosa può sembrare: sono un
inventore che
non sa aggiustare la propria auto, ma è nuova e…
credo mi sfugga
qualcosa».
Alex
aveva dato un'occhiata al motore molto velocemente e ci aveva
infilato una mano, notando qualcosa. «Devo aver trovato la
cosa che
ti sfugge: hai staccato questo». Riattaccato un tubicino,
aveva
inquadrato il giovane uomo con la coda dell'occhio abbassare lo
sguardo, colto in flagrante. «Perché sei
qui?».
«Cercavo
una scusa per vederti, lo ammetto. Sapevo che lavoravi qui e potrei
aver controllato gli orari dei tuoi turni…».
«Sei
preoccupato perché Kara mi ha detto della tua nuova e
brillante
attività a Gotham?».
Lui
aveva immediatamente sorriso. «Il pub apre domani, i lavori
hanno
fatto presto. Verrai a dare un'occhiata? Per te, drink
gratis».
«No,
grazie», si era allontanata, girandosi un'ultima volta verso
di lui.
«Sai, cominciavo quasi a credere che fossi diverso dall'idea
che mi
ero fatta di te, ma credo che fosse giusta, dopotutto».
Lui
aveva inarcato le sopracciglia, mosso dalla curiosità.
«E quale
idea ti eri fatta di me?».
Alex
aveva sorriso compiaciuta, felice che glielo avesse chiesto:
«Uno
stronzo».
Maxwell
era rimasto a bocca aperta e poi aveva abbozzato una risata,
scuotendo la testa.
«Quasi
dimenticavo», Kara fece una smorfia disgustata,
«che sei andata a
un appuntamento con lui. E non ci credo che tu me lo abbia detto solo
quando ormai il danno era fatto, invece di confidarti subito con
me».
Scrollò le spalle e Alex, seduta accanto, la
fissò assottigliando
gli occhi.
«Devo
davvero ricordarti che mi hai tenuta nascosta la tua intera relazione
con Lena?».
«Ah…
è vero», forzò un sorriso.
«Lena,
a proposito…», guardò la minore e dopo
s'incantò a giocherellare
con le dita sui peli del tappeto su cui erano sedute, nella sua
camera in villa Luthor-Danvers. Kara si ammutolì di colpo,
tornando
seria. «Non avete parlato, da quel bacio?».
Kara
sbuffò. «Sai, non è esattamente compito
mio parlare per sistemare
le cose… È stato mio l'errore di
baciarla».
«Lei
ha ricambiato, Kara», la vide sbuffare di nuovo.
«Sì,
ma… è perché mi ama, ma questo non
cambia le cose. Finché decide
di tenermi fuori da ciò che le passa per la testa, non ha
importanza. Io ho sbagliato».
Erano
passati tre giorni da quando, in quell'hotel a Star City, Kara aveva
preso Lena di sorpresa e l'aveva baciata. Si erano baciate per la
prima volta dopo la separazione. Era stato bello, ma rapido, e subito
dopo triste. Potevano stare insieme, in quel momento, e baciarsi
quanto volevano, invece c'era ancora quella cosa
a mettersi tra loro. Si domandava quando Lena sarebbe stata
abbastanza pronta per affrontarla. Nel frattempo, avevano passato le
ore a scegliere e poi a provare una canzone da suonare e cantare al
matrimonio. Lena aveva già pronta una base da suonare al
piano, ma
ora che sapevano che lei doveva cantarla, addio preparazione. Se non
altro, avevano passato del tempo assieme; con qualche impaccio forse,
ma il loro riavvicinamento, se a una delle due non fosse saltato di
nuovo in mente di baciare l'altra e bruciare le tappe, stava andando
bene. Era lento, ma stava andando bene.
«Proviamo
questa parte?», le aveva domandato Lena, avvicinandole un
foglio.
Kara le aveva annuito e Lena si era rimessa a sedere davanti al
piano, mentre lei si era alzata dal divano e sistemata vicina.
Aveva
iniziato a suonare con dolcezza, lentamente, e Kara aveva preso a
cantare seguendo il ritmo, con tono basso, poi più alto man
mano che
la musica si faceva più chiara e veloce. Di tanto in tanto,
Marielle
le andava ad ascoltare e, quando finivano, applaudiva finché
non le
si stancavano le braccia.
«Brave!
Brave! Avete davvero un gran talento», si era congratulata
con
palese emozione, tanto che entrambe avevano arrossito.
«Beh…
Speriamo di non deluderti al matrimonio», aveva riso Kara,
scambiando uno sguardo con l'altra.
«Non
succederà», aveva detto la donna con un sorriso,
congiungendo
entrambe le mani. «E sono così felice che la
signora Eliza mi abbia
invitata! Non sto nella pelle». Aveva sorriso a entrambe ed
era
tornata in cucina.
«Va
bene», esclamò Alex, alzandosi dal tappeto,
seguita dalla sorella.
«Passando ad altro: so che Lena ha parlato delle pillole a
Lex». Si
era diretta all'armadio e lo aveva aperto mentre, dietro di lei, Kara
si portava le braccia a conserte.
«Sì,
me lo ha detto. Secondo lei è turbato, e non a torto, ma non
sa
ancora cosa farà».
Dopo
aver sentito che la formula delle sue pillole era ormai in mano a
Maxwell Lord, Lex si era portato una mano sulla tempia ed era rimasto
fermo e zitto in quella maniera per qualche secondo. Lena lo aveva
scrutato a lungo e poi gli aveva avvicinato una mano per fargli
sentire la sua vicinanza, ma lui si era tirato indietro e infine
alzato dalla poltrona girevole del suo ufficio. «Una parte di
me…»,
non aveva concluso, deglutendo e faticando a restare calmo.
«Una
parte di me sapeva che c'era lui dietro a tutto. Nostro padre mi
aveva avvertito di tenerlo d'occhio, ma dopo il colpo di mesi fa ho
abbassato la guardia. È solo che… Veronica,
accidenti. Più di
tutto, ho abbassato la guardia con lei».
Lena
aveva rivolto altrove il suo sguardo, sospirando appena.
«Avrà
visto un'occasione di guadagno… Come ti muoverai,
ora?».
Serio
e imperscrutabile, Lex aveva aperto la bocca e sospirato appena,
prima di dire qualcosa, senza guardarla. «Non posso muovermi
per vie
legali. Quindi non farò niente».
Sua
sorella aveva abbozzato un sorriso canzonatorio. «Non farai
niente?
Tu?».
«Ti
dispiace? Ho del lavoro da sbrigare, ma non voglio essere
maleducato».
Si
erano scambiati uno sguardo e Lena si era alzata dalla sedia e aveva
raggiunto la porta, voltandosi un'ultima volta a lui, ancora
immobile; poi se ne andò, decidendo di non dire
più nulla.
Kara
scrollò le spalle, ancora ripensando a Lex, intanto che Alex
le
mostrava dei maglioncini per decidere quale indossare.
«Però…
pare che l'abbia presa meglio di come immaginavamo, anche se a Lena
non è piaciuto il suo sguardo».
Rimasto
solo nel suo ufficio, Lex aveva atteso fermo e in piedi ancora
qualche attimo, mentre nella sua testa tornavano a galla mille
pensieri e risvolti di quella faccenda. Le sue pillole erano in mano
a quell'uomo e non avrebbe potuto far nulla per riaverle. Non avrebbe
potuto muoversi in nessun modo. Si era fidato di Veronica e lei lo
aveva pugnalato alle spalle. L'aveva avvicinata troppo. Per quanto si
sforzasse per rimettere in piedi la sua vita, quando un minimo le
cose sembravano andargli bene, poi tutto crollava di nuovo. Era
esausto, arrabbiato, solo. A un certo punto gli venne da gridare e,
preso dalla collera, si era scagliato contro la scrivania e aveva
gettato tutto sul pavimento, per poi calciare il mobile.
«Ha
diritto ad essere arrabbiato», disse Alex. Con Kara al suo
fianco,
andarono in camera di quest'ultima in modo che si cambiasse per
uscire anche lei. «A quanto pare, quelle pillole erano uno
specie di
progetto di vita, per lui. Gli invierò un messaggio per
chiedergli
come si sente, più tardi».
Kara
prese un jeans, mostrandolo alla sorella, che lo approvò.
Così
iniziò a cambiarsi. «E Maggie? Cosa ci ha saputo
dire di Zod?».
Alex
sospirò, sedendo sul lettino. «Ne parla piuttosto
bene, non che mi
aspettassi diversamente…».
Maggie
aveva spalancato gli occhi appena, sorpresa, alla sua domanda sul
perché le interessasse sapere del capitano Zod; Alex le
aveva
risposto candidamente che era probabile che lui facesse parte
dell'organizzazione che aveva ucciso i genitori di Kara. Per lei, era
una cosa assolutamente impensabile. «No, senti…
Adrian Zod è un
buon capitano e una bravissima persona. Come siete arrivate a
pensarlo?».
Alex
si era grattata il mento, increspando le labbra.
«Emh… buone
sensazioni?».
«Sen…
sensazioni?».
«Beh…
diciamo che è sospetto. Si è suicidato un uomo in
cella a ottobre e
coincide con l'arrivo di Zod come capitano della polizia. Quell'uomo
era parte dell'organizzazione ed era stato giudicato colpevole dalla
vera madre di Kara», aveva provato a spiegarle, ma Maggie
aveva
scosso la testa.
«Può
essere solo una coincidenza, Alex. E poi abbiamo incrementato gli
arresti da quando lui è il capitano; ci fa lavorare sodo. Si
prende
cura della centrale».
«Incrementato
gli arresti», aveva sospirato, «E magari
accelerando la burocrazia?
Quando Kara è andata a Fort Rozz, Lois Lane era con lei e
hanno
parlato con un detenuto finito in carcere molto presto per un reato
ancora dubbio».
Maggie
aveva continuato a scuotere la testa con incredulità.
«Lascia che
se ne occupino gli avvocati, se ritene che ci sia stata
un'ingiustizia. Proprio tu parli? Sai com'è fatto questo
lavoro! Il
capitano Zod cerca solo di rendere più sicure le nostre
strade», le
aveva sorriso. «Non avete prove, Alex… Dagli
un'occasione e
potresti scoprire che è pulito».
Alex
e Kara uscirono dalla camera e scesero le scale che portavano
all'ingresso, infilandosi le giacche.
«Quindi…»,
borbottò Kara, «Maggie è dalla sua
parte?».
«No.
Non dalla sua parte», la difese, aprendo il portone per
uscire.
«Però è il suo capitano e fino a che
non avremo in mano qualcosa
di concreto su di lui, continuerà a credere che sia solo il
suo
capitano».
Salirono
sull'auto che la maggiore divideva con la sua fidanzata e si
allontanarono dalla villa, rientrando in centro. Si rendevano conto
che presentarsi lì era una mossa azzardata ma, in fondo, non
facevano nulla di male.
Passarono
dalla porta già aperta della centrale, ignorando lo sguardo
di un
poliziotto sulla soglia. C'era la portineria, ma era vuota, e
più
avanti un corridoio. Schivarono altre occhiate e proseguirono lungo
fino alla loro destra, affacciandosi alla sala: molte scrivanie,
telefoni che squillavano; a Kara ricordò la CatCo se non
fosse per
le divise. La centrale era silenziosa, calma; gli agenti giravano per
le scrivanie e parlottavano a bassa voce, senza disturbare i
colleghi. O il capitano Zod era un uomo estremamente severo, oppure
qualcosa non andava: non c'erano neppure civili lì dentro,
neanche
trattenuti; si accorsero presto di essere le uniche persone fuori
luogo e probabilmente per questo le osservavano, se non per essere le
figlie di Eliza Danvers che avrebbe sposato la ex signora Luthor.
Più
avanti c'erano uffici con le porte a vetri e, notarono rapidamente,
uno di loro era particolarmente sorvegliato, con due agenti che
facevano da guardia e altri due vestiti di nero al loro fianco,
immobili davanti alla porta con le veneziane abbassate, grossi come
bodyguard. Probabilmente lo erano.
«Dovremo
tornare in un altro momento…?!», soffiò
Alex, incerta.
«Neanche
per sogno», era più decisa Kara. «Ecco
Maggie». La inquadrò e
gliela indicò tirando in avanti il mento, così si
scambiarono
un'occhiata.
Annuirono
e camminarono velocemente fino a lei che, testa bassa, stava
scrivendo su un foglio sulla sua scrivania. Alex agganciò la
sedia
davanti alla scrivania accanto e la girò verso di lei;
così,
all'unisono, le sorelle Danvers si sedettero, appoggiandosi alla
scrivania. Maggie Sawyer alzò la testa lentamente e
guardò una e
poi l'altra. Riprese a guardare il foglio. Alzò lo sguardo
di nuovo
e sbarrò gli occhi.
«Che
c-
Cosa diavolo ci fate voi due, qui? Oggi?»,
tentò con forza di non gridare, afferrando le teste di
entrambe e
abbassandogliele. La videro rialzare gli occhi e guardarsi intorno,
prima di dare di nuovo a loro la sua attenzione. «Vi prego,
ditemi
che non ha a che fare con la vostra assurda teoria contro il
capitano! Non è il giorno né il momento
più adatto», riguardò di
nuovo intorno a lei, allarmata. In special modo verso l'ufficio
sorvegliato.
«Ma
no, siamo venute a trovarti», borbottò Alex,
lanciando un'occhiata
alla sorella.
«Passavamo
per caso», rincarò lei.
«Pensavamo
di farti una sorpresa», continuò.
«Che
non pare… emh, essere gradita?», la
guardò Kara.
Maggie
sospirò, formando una smorfia con le labbra. «Ma
no, è che…»,
riguardò l'ufficio e i colleghi per la sala, abbassandosi di
nuovo
verso di loro. «Oggi è in visita il senatore
Gand». Le vide
spalancare gli occhi e guardare verso l'ufficio anche loro,
così
riportò le mani sulle loro teste, cercando di abbassargliele
di
nuovo. «Di recente è stato a Fort Rozz, come
sapete, immaginavamo
che prima o poi sarebbe passato per la centrale, ma non sapevamo
quando, e così…».
«È
stato lui a farvi una sorpresa», concluse Alex.
«Ve
lo avrei detto questa sera», disse bisbigliando.
«Ora cerchiamo
solo di fare bella figura e che tutto resti in ordine finché
è
qui».
Nonostante
Maggie l'avesse fatta voltare, Kara non resistette alla tentazione di
dare una nuova occhiata a quell'ufficio. Si chiedeva di cosa stessero
discutendo lui e sicuramente il Generale Zod. Se davvero anche
quell'uomo era uno di loro, intanto che lei era lì seduta a
chiacchierare, quei due potevano stare cospirando chissà
quale
colpo. Si alzò dalla sedia di scatto e questa
strisciò, mettendo
Maggie in stato di agitazione. La sala era quasi completamente
silenziosa e attirò sguardi di più agenti; due di
loro parevano
aver avuto l'idea di avvicinarsi, ma la porta dell'ufficio
sorvegliato in quel momento si aprì e l'attenzione comune si
spostò
su di loro: in completo blu grigiastro e cravatta scura, il senatore
uscì per primo e le due guardie del corpo lo affiancarono;
dopo,
uscì l'uomo che Kara aveva visto solo qualche mese prima in
quel
ristorante a Metropolis, il Generale Zod. I due si strinsero la mano
con modi formali e il signor Gand si voltò per andarsene,
quando il
suo sguardo incontrò quello di Kara. I due agenti si
avvicinarono
per chiedere a entrambe chi erano e cosa facevano lì, ma
quando il
senatore le fece la mano, entrambi si ritirarono.
«Kara».
Accompagnato dai bodyguard, l'uomo si avvicinò a lei e sia
Alex che
Maggie lo fissarono con dovuta attenzione. Ma non erano le sole a
seguire la scena e Kara sentiva il suo sguardo addosso: il Generale
Zod era ancora davanti alla porta del suo ufficio e la squadrava
accuratamente. «Posso rubarti un attimo?».
Kara
annuì e lo seguì, quando Alex la fermò
per un polso, sussurrandole
all'orecchia di essere prudente.
«Cosa
vorrà da lei?», aggrottò la fronte
Maggie.
«Niente
di buono», rispose Alex, mentre entrambe li seguivano con lo
sguardo.
Il
senatore Gand si fermò poco fuori dalla sala, nel corridoio
con il
via vai di qualche agente in divisa. Poche volte ricercò il
suo
sguardo, mantenendo basso il proprio. Kara portò le mani sui
fianchi, in attesa. «Pensavo a te… È
stata una sorpresa trovarti
qui in centrale».
«Che
cosa vuole, senatore?».
Lui
prese fiato e strinse le labbra, come se fosse non particolarmente
convinto di qualcosa. «Ti devo delle scuse… Kara
Zor El».
Lei
spalancò gli occhi e le braccia si sciolsero, scivolandole
sui
fianchi: mai si sarebbe aspettata che lui la chiamasse con il suo
vero nome, il suo primo nome. Era un'ammissione?
«Potresti…
diventare una reporter coi fiocchi, prima di quanto
immagini».
«Di
cosa sta parlando?».
Lui
sospirò ancora e finalmente la guardò negli
occhi. «Ti concedo
un'intervista. Ho deciso di… ritirarmi dalla carriera
politica, ci
sono cose più importanti che richiedono la mia presenza e
dopo, con
quell'intervista», alzò le sopracciglia,
«potrei sicuramente non
averne comunque più una».
Kara
deglutì e strinse i pugni, fissandolo con odio.
«È stato lei? Ha
deciso di confessare?».
«Sai,
Kara», lui abbozzò un sorriso che spense a breve,
posando di nuovo
il suo sguardo altrove, dietro di lei. «Amo mia moglie. Lo
so, l'ho
tradita, è vero, ma non voglio essere giudicato per questo,
perché
farei di tutto per lei. E Rhea in questo periodo sta male; è
segnata
da…», sospirò, portandosi una mano
sulla fronte con fare esausto.
«Gli articoli di Leslie Willis hanno avuto una brutta
influenza su
di lei. Hanno ampliato un problema già esistente e sento
che, di
questo passo, finirò per perderla. Vorrei che sia tu a
concedermi
quell'intervista», posò di nuovo i suoi occhi su
di lei, «Devi
essere tu».
Seria
e decisa, Kara non cedette un solo attimo, continuando a fissarlo.
Il
senatore Lar Gand e i suoi bodyguard se ne andarono poco dopo aver
parlato con lei. Kara e Alex, in compagnia di Maggie, lo tennero
d'occhio per un po' intanto che usciva dalla centrale, in corridoio.
«Non
mi piace», esclamò subito Alex, scuotendo la
testa. «Potrebbe
essere una trappola».
Maggie
si voltò, guardando entrambe. «Neanch'io mi
fiderei, Kara.
Onestamente? Quell'uomo mi mette i brividi».
«Avrei
potuto rifiutare…», fece notare e Alex scosse di
nuovo la testa.
«Sapeva
che per te è importante: non considerava un
rifiuto».
«Ho
deciso io la data dell'intervista e deciderò io il
luogo», proseguì
Kara, per poi accigliarsi. «Potrebbe confessare l'assassinio.
Non
capite? Non posso tirarmi indietro adesso», strinse i pugni e
anche
lei scosse la testa. «Era serio e preoccupato che avrebbe
comunque
perso il posto. Vuole confessare per… per, a quanto pare,
proteggere lei o qualcosa di simile».
«Se
confessa per sé ed esclude la moglie, avremo una vittoria
solo a
metà», affermò Maggie. «Lui
forse finirà in prigione, ma Rhea
Gand potrebbe non subire conseguenze legali; dopotutto non ci sono
prove».
«E
durante questi giorni, non abbiamo nemmeno avuto niente di nuovo su
cui contare con la microspia», aggiunse anche Alex, per poi
guardare
la sorellina. «Continuo a pensare che non sia una buona
idea».
Kara
non sembrava qualcuna pronta ad ascoltare pareri contrastanti.
«Lasciate fare a me, va bene? Ho tutto sotto
controllo». Prese
passo deciso per uscire dalla centrale e Alex sospirò.
«La
stanno ancora seguendo?», le domandò Maggie in un
bisbiglio e la
vide annuire.
«Quando
non è con me. Sì», la tenne d'occhio
mentre spingeva la porta
chiusa per uscire.
Maggie
la guardò a sua volta mentre persisteva a spingere e, a un
certo
punto, tirare la porta tanto forte che le finì sul naso.
«Se
dovesse rivelarsi una trappola, se non altro, saranno pronti a
intervenire». Kara lasciò la porta per fregarsi il
naso, che
intanto si richiuse. Maggie sorrise e scosse la testa incredula,
continuando a fissarla. «Ma come fa
a…?».
«Sopravvivere?»,
scherzò Alex, alzando le sopracciglia. «Me lo
chiedo da quasi
undici anni». La videro finalmente uscire, così
Alex prese passo
per andarle dietro. Poi si fermò. Si guardò
intorno e lo stesso
fece Maggie. Infine scattò e si baciarono a stampo, veloci.
«Non
smetterò mai di pensare a quanto tu sia sexy con quella
divisa
addosso».
Maggie
rise, abbassando gli occhi e portandosi un ciuffo, sfuggito alla
coda, dietro un'orecchia. «Ripetimelo questa sera,
Danvers».
«Casa
mia?».
«Casa
mia».
«Oh,
casa tua?».
«Casa
tua», annuì Maggie e Alex sorrise soddisfatta,
uscendo dalla
centrale e seguendo Kara.
«Devi
aver parlato con qualcuno»,
gracidò Rhea Gand attraverso la microspia e Lena
deglutì appena,
restando quanto più riusciva impassibile. «È
come se qualcuno dicesse a quella Willis dove scavare! Devi aver
parlato con qualcuno, Lar. Devi averlo fatto tu perché io
non sono
stata».
«Forse
qualcuno dei nostri vecchi amici si è lasciato sfuggire
qualcosa»,
osò dire lui, a voce più bassa e Kara
guardò Lena che, a quel
punto, lasciò la ricetrasmittente sul letto e si
alzò per andarsi a
preparare per uscire.
«La
passerai ad Alex per me?», le domandò,
avvicinandosi alla scrivania
dove finiva di sistemare una borsa.
Sentirono
Rhea starnazzare contro il marito e Kara abbassò il volume,
alzandosi dal letto, dietro di lei. Poi la scrutò. Avevano
finito di
sistemare e provare la canzone per il matrimonio, così se ne
sarebbe
tornata a Metropolis dal fratello e sarebbe tornata con lui tra due
giorni. Ansimò. «Come stai?».
«Bene»,
si voltò per sorriderle. «E tu? Cat Grant ti ha
dato il permesso
per l'intervista?».
«Beh…»,
strinse i denti, alzando lo sguardo al soffitto. «In
verità, non
gliel'ho chiesto». Si affrettò a spiegare, quando
la vide
ingigantire gli occhi: «Mi direbbe di no! E io devo
fare quell'intervista».
Lena
lasciò la borsa e si voltò, sospirando.
«Ti prego, dimmi che
starai attenta».
Lei
arrossì un poco, annuendo. «Sarà la
settimana prossima, ho tempo
per prepararmi».
Allora
finì di chiudere la borsa e la tirò
giù dalla sedia, accostandola
alla porta. Così si voltò di nuovo, ascoltando i
battiti rapidi del
suo cuore. Deglutì. Kara era immobile, come se si aspettasse
qualcosa. Alzò lo sguardo e s'incantò
nell'ammirare il suo. «Avevi
ragione, Kara», disse, mentre le si asciugava la gola.
«C'è
qualcosa di cui non riuscivo a parlarti. Di cui non
volevo
parlarti», si corresse.
«E
hai cambiato idea?», le chiese subito, portando le braccia a
conserte.
Annuì.
«Ti dirò tutto dopo il matrimonio».
«Dopo
il matrimonio?», inarcò le sopracciglia.
«Perché non adesso?».
«Lo
capirai». Kara non controbatté e Lena,
più alta di lei per via dei
tacchi agli stivali, le si avvicinò, lasciandole un caldo
bacio
sulla fronte. La vide chiudere gli occhi e così si
staccò da lei in
fretta, troppo in fretta. Kara la seguì fuori dalla porta,
vedendola
scendere le scale con la borsa in mano.
La
ricetrasmittente sul letto, intanto, continuava a trasmettere. «Il
Generale? Ti ha saputo dire qualcosa?»,
domandò Rhea con frenesia, seppure la voce fosse bassa per
via
dell'audio ridotto. «Quando
ho provato a contattarlo io, non ha risposto».
«No.
Andare da lui è stato un buco nell'acqua».
«Lo
so io chi è che passa le informazioni! E lo sai anche tu,
Lar: Kara
Zor El»,
starnazzò la donna con odio, «Dev'essere
lei. Ti segue, Lar. Ed è collega di Willis. L'hai incontrata
in
prigione e poi alla centrale di polizia. Segue tutte le tue mosse,
quella. E poi lo va a raccontare alla matta coi capelli cotonati, che
non vede l'ora di screditarti».
«Come
può essere lei? Cerca di ragionare».
«A
me? Dici a me di ragionare?»,
alzò la voce. «Forse
dovevi pensarci prima di andare a infilarti nelle mutande di un'altra
donna! Non osare dire a me di ragionare! Vedrai che capirò
come fa.
Lo capirò».
Dopo
il matrimonio. Lo avrebbe capito. Dopo il matrimonio. Doveva essere
davvero molto importante se voleva dirglielo dopo il matrimonio, come
se avesse avuto paura che quel segreto avrebbe potuto rovinarlo. Cosa
nascondeva di tanto pericoloso da minare la stabilità della
loro
nuova famiglia? Cosa c'era di tanto pericoloso da decidere di starsi
zitta e non dirle niente fino a quanto non aveva rovinato la loro
relazione? Kara sbuffò, scagliando un pugno contro il sacco.
Ancora
un altro pugno. Più ci pensava, e più non
riusciva a capacitarsene.
Un altro pugno. Non riusciva a non arrabbiarsi. Un pugno ancora. Se
era una cosa importante, perché tenergliela nascosta? Un
altro, un
altro pugno. E perché dirle di aver ragione e lasciarla
brancolare
nel mare della curiosità e dei dubbi, se non aveva
intenzione di
dirle tutto subito? Di nuovo un pugno. Un pugno. Un pugno. Un pugno
ancora.
«Ehi».
Quella voce la destò e Kara prese fiato, passandosi un
braccio sulla
fronte madida di sudore. «Siamo tutti contenti di rivederti
in
palestra, Supergirl, ma tirando così finirai per rompere il
sacco»,
rise quell'uomo, riservandole un'occhiata. «E farti
male».
Si
scusò con l'istruttore, fermando il sacco. Appena lui si
allontanò
di nuovo, si guardò attorno, squadrando quanti
più visi possibile.
Non ricordava la palestra così frequentata, l'ultima volta.
Era
pieno di visi nuovi e altri… Oh, stava davvero diventando
paranoica: molte di quelle facce non le conosceva, ma alcune di loro
non sembravano nuove. Dove le aveva già viste? Allora era
vero che
qualcuno la seguiva? E se a seguirla era qualcuno pagato da Rhea
Gand? Prese ancora fiato e si avvicinò alla panchina,
sedendo e
tirando e rimettendo bene la fascia rossa che aveva sulla fronte, per
poi stringere l'elastico che le teneva legati i capelli. Dopo prese
l'asciugamano, tamponandosi sotto il collo, e la borraccia d'acqua.
Si accorse di essere osservata. Incrociando il loro viso con il suo,
alcuni sorrisero. Non sembravano di certo stalker e probabilmente la
guardavano per via del matrimonio di Eliza con Lillian. Bevve due
sorsi e si alzò dalla panchina, controllando il cellulare: a
quanto
pareva, forse per il suo amico Barry Allen le cose stavano per
mettersi meglio, felice di leggere che stavano rivedendo il caso di
suo padre. Se non altro, la giustizia poteva ancora vincere a Central
City. Gli rispose e tornò al sacco, stringendo le fasce
intorno alle
mani; così riprese a dar pugni. Doveva sfogarsi, sentiva di
essere
particolarmente stressata. Oh, e forse aveva davvero solamente voglia
di dar pugni.
Pensava
a Rhea Gand, a Lar Gand e all'intervista di continuo.
Dopo
aver lasciato la palestra, era stata attenta che altri se ne
andassero e poi che la seguissero, ormai certa che non fosse solo
paranoia. Era convinta che almeno uno, dalla palestra, l'avesse
seguita, poi erano diventati due e uno se n'era andato, dando il
cambio. Si era fermata diverse volte e aveva tenuto d'occhio le
persone dietro di lei. Ne era spuntato almeno un terzo. A un certo
punto entrò in un negozietto a quasi ora di chiusura e dalla
vetrina
scorse il terzo uomo, fuori, leggere un giornale. Oh sì, si
mischiavano tra la gente comune, erano bravi davvero, ma non
abbastanza. Uscì dal negozietto e, veloce, gli prese il
giornale
dalle mani, girandolo verso di lei.
«Lavori
a maglia? La facevo più tipo da sport»,
scherzò, adocchiando le
sue scarpe da corsa e i pantaloni sportivi attillati. «Dovete
lavorare sui particolari, se accettate consigli».
«Di
cosa… Di cosa sta parlando, signorina?», lui rise,
ma il suo
sguardo lo tradiva e continuava a guardare altrove, come se lo
mettesse in soggezione.
«È
stata la signora Gand?».
«Chi?»,
scrollò le spalle e Kara gettò il giornale a
terra, afferrando lui
per il colletto, che si tirò indietro alzando le braccia in
resa.
«Vi
ho scoperto, basta giocare: è stata Rhea Gand o
no?».
«No,
no! Non so chi sia, non ti stavo seguendo per conto di questa
donna».
«Ah»,
spalancò gli occhi, «Quindi mi seguivi per conto
di chi?».
Lo
lasciò andare e lui si abbassò, riprendendo il
giornale. Cercò una
pagina e gliela mostrò: c'era una sua foto in compagnia di
Alex e
Lena, così Kara sbuffò.
«Volevo… Volevo solo vedere dove andavi
e magari scattarti qualche foto».
Kara
ansimò e si passò una mano sul viso, amareggiata,
prima di
guardando di nuovo negli occhi e puntargli contro un dito:
«Stammi-lontano».
Si
allontanò e il sorriso del ragazzo scemò,
afferrando il cellulare
da una tasca del piumino che indossava. «Agente Danvers? Mi
ha
scoperto, sono fuori. Dovrà inviare qualcun altro
ma… sa che la
seguono». Attese risposta e poi chiuse la chiamata,
fregandosi il
colletto.
Kara
si era allontanata con il passo più veloce che riusciva. Non
era
convinta che quel tipo le avesse detto la verità. Dopotutto,
se
aveva costretto Siobhan Smythe a controllarla e a rivelarle cose su
di lei, poteva aver inviato qualcun altro e poteva essere chiunque.
Si girò altre volte ma, anche se non si sentiva
più osservata,
cercò di far perdere le sue tracce, seguendo strade mai
prese e
fermandosi più volte. Arrivò in villa che era
già buio, cenò con
qualcosa di veloce, da sola, e si chiuse in camera sua.
«Ti
senti bene, sorellina?», Alex bussò alla porta ed
entrò, armandosi
di un grande sorriso. «Non vieni da me? Parliamo un
po'».
«No»,
grugnì, gettata sul letto a pancia in giù.
«Sono stanca, ho solo
voglia di dormire, domani devo alzarmi presto».
Alex
chiuse la porta alle sue spalle e la raggiunse, sedendo sul letto e
dandole una carezza sui capelli. «Quindi vai a
Gotham?».
«Sì»,
brontolò, «Voglio vedere con i miei occhi cosa
combina Maxwell
Lord». Si voltò, rimettendosi a pancia in su e poi
seduta, verso la
maggiore. «Selina, le altre ed io andremo a divertirci.
Almeno mi
distrarrò un po'».
«Dal
matrimonio?».
«Dal
matrimonio, da Lena che mi nasconde le cose, da…»,
ansimò,
fermandosi e guardando altrove, scrollando le spalle, «dalle
persone
che mi seguono».
Alex
inarcò le sopracciglia, fingendo sorpresa.
«Qualcuno ti segue?
Intendi altri giornalisti, ancora? Fotografi?».
«Loro,
oppure… oppure persone pagate da Rhea Gand».
«Oh,
Kara, no…».
«Non
mi sorprenderei se fosse così, Alex. Tornando qui, ho
cercato di far
perdere le mie tracce», la guardò torva e Alex
abbozzò un sorriso.
«Kara,
Rhea Gand sa dove abitano i Luthor».
Si
guardarono immobili, finché Kara non sbuffò e si
rigettò di peso
sul letto. «Hai ragione. Non ci ho nemmeno
pensato».
Alex
sorrise ancora, scuotendo la testa e sdraiandosi anche lei.
«Tu
adesso ti fai una bella dormita e ti riposi. Smetti di pensare a Rhea
Gand, domani vai a Gotham e ti diverti, lascia perdere anche Lord.
Penseremo a lui a tempo debito».
Restarono
a guardarsi, finché Kara non aprì le braccia e si
abbracciarono in
quel modo, sdraiate sul letto, quasi sul bordo. «Sei la
migliore».
«Sì,
sì, lo so. Ma così non respiro e devo andare viva
da Maggie».
Kara
si bloccò e Alex ne approfittò per sgusciare
dalla sua morsa. «Ti
lasciano andare via?».
«Ho
detto alle due carceratrici che tu domani andrai a Gotham, che Lena
è
da Lex, e che avevo anche io una vita da mandare avanti».
Annuì,
rimettendosi seduta e sistemandosi i capelli che si erano arruffati.
«E poi credo che domani ne approfitteranno per stare
sole».
«Ew»
, Kara fece una smorfia ed entrambe si misero a ridere, rimettendosi
vicine.
«L'ultima
notte da fidanzate».
«Ci
sarà il lume di candela».
«E
i petali sul letto», aggiunse Alex, passandole poi una mano
su un
braccio e sorridendole. «Adesso vado. Ecco, ti voglio vedere
sorridere di più, lascia perdere Rhea Gand e Maxwell Lord.
Penseremo
a tutto insieme».
Si
scambiarono un'occhiata e Alex uscì dalla stanza tirando un
sospiro.
Kara
era sicura che erano stati i Gand a uccidere i suoi genitori e i suoi
zii. Aveva ragione Alex: doveva smettere di pensarci, almeno per il
momento, ma non ci riusciva. Inoltre, una parte di lei era sicura che
Lar Gand volesse svelarglielo nell'intervista. Doveva essere una cosa
seria. Era pronta per sentirlo?
Era
quasi grata all'idea che tra due giorni ci sarebbe stato il
matrimonio a distrarla da quel pensiero, anche se il matrimonio, di
per sé, di pensieri gliene metteva altri. E dopo il
matrimonio, Lena
avrebbe finalmente condiviso ciò che le passava per la testa
con
lei. Oh, no, sarebbe stato meglio distrarsi anche da quel pensiero:
era meglio pensare all'indomani, alla sua nuova gita a Gotham. Non
era una visita di piacere, voleva davvero andare a vedere il pub che
gestiva Maxwell Lord, ma era anche un modo per passare una serata
diversa con delle amiche. In fondo, era sempre un pub.
Così,
anche se non chiuse occhio, si alzò prestò la
mattina seguente e
partì per Gotham City, conscia che ci avrebbe impiegato
delle ore.
Selina le aveva detto che sarebbe rimasta a dormire da lei e che
poteva ripartire l'indomani alle prime ore del mattino per arrivare
in tempo al matrimonio, ma era ancora da decidere. Intanto, si
portò
appresso tutto il necessario in uno zainetto.
Selina
le fece fare delle passeggiate in cui le spiegava di nuovo la sua
avventura in quel pub, poi andarono a mangiare qualcosa in compagnia
di Harley e Ivy. Harley l'aveva accolta con l'abbraccio più
lungo e
caloroso della sua vita, tanto che, per un attimo, si
dimenticò
davvero dei Gand. Anche se probabilmente le aveva annusato i capelli.
Tuttavia,
nemmeno essere a Gotham lontano da National City, l'aveva salvata
dalla sensazione di essere seguita. Si era guardata intorno sui mezzi
e lo aveva fatto mentre erano sedute a mangiare, e aveva sempre come
il sentore di scorgere le stesse facce intorno a lei. Le erano andati
dietro e non potevano essere semplici fotografi: era l'unica vera
spiegazione.
«Non
giratevi», disse alle ragazze che, naturalmente, si girarono
tutte.
«Mi stanno seguendo».
«Sei
sicura? Posso provare a chiedere», urlò Harley,
fermandosi di
colpo. Ivy le mise una mano sulla bocca, costringendola a camminare.
«Mi
seguono da National City, lo fanno da giorni». A un certo
punto si
fermò lei, guardando Selina. «Dobbiamo seminarli.
E se prendessimo
strade alternative? Ne conosci qualcuna?».
La
ragazza estrasse un sorrisetto divertito, guardando Ivy e Harley e
poi di nuovo lei. «Tesoro, non esiste nessuno che conosca le
strade
di Gotham meglio di me. Piuttosto… vediamo se riesci a
starmi
dietro».
Harley
impazzì di gioia:
«Sììì! Questa è
una sfida, ragazze, ci sarà
da divertirsi», le abbracciò tutte insieme.
E
così, in men che non si dica, seminare chi le stava dietro
cominciava davvero ad apparire come una sfida: Selina Kyle conosceva
veramente tutte le vie e viottoli, compresi quelli non proprio
segnati sulle cartine di Gotham. Passarono attraverso due giardini
privati, dentro la casa di un'anziana che Harley salutò come
una
vecchia amica e a cui prese un biscotto da una biscottiera; salirono
su per la scala antincendio di un palazzo e Selina le costrinse a
seguirle sopra il tetto, dove Harley gettò il biscotto che
aveva un
sapore strano, poi all'interno di una casa buia e maleodorante dove
Ivy si lamentò; da una finestra passarono di nuovo per la
scala
antincendio del palazzo a fianco e da lì scesero di nuovo a
terra,
camminando per la stretta via dietro un ristorante. Era piena di
bidoni dell'immondizia e Ivy si tappò il naso, disgustata.
«Non
avevo capito che la sfida a seguirti comprendesse farlo nel
sudiciume», si lamentò. «Credo di aver
visto un topo».
«Dove?»,
Harley spalancò la bocca. Ivy glielo indicò e la
videro correre in
quella direzione, convinta di stanarlo.
Selina
si voltò verso di lei, indispettita. «Ringrazia
che non vi ho fatto
passare sui cornicioni», disse, facendo ridere Kara.
«Beh,
se non altro ha funzionato», sorrise lei, felice di non
sentire più
quella sgradevole sensazione.
«Bene»,
Selina ricambiò il sorriso. «Allora è
arrivato il momento di
divertirci, ragazze». Uscì dalla vietta e,
dall'altra parte della
strada e alla sua destra, indicò il pub.
Era
luminoso, c'era l'insegna al neon verde che citava The
Green Caravel,
le finestre erano a mo' di mosaico verde su più toni, c'era
la fila
e, davanti all'ingresso, un buttafuori. Si misero in fila,
guardandosi attorno. Sembrava che il pub attirasse molta gente,
perché altri continuavano ad arrivare.
«Non
c'è che dire… Lord ha fatto proprio un bel
lavoro». Kara scattò
qualche foto col cellulare, inviandole ad Alex.
«I
lavori sono stati rapidissimi», le fece sapere Selina.
«È
vero», concordò Ivy, «Quando iniziano a
sistemare qualcosa da
queste parti, ci impiegano degli anni. Si vede che il proprietario
aveva fretta», le fece l'occhiolino.
Selina
riguardò il locale e di nuovo loro. «Perfino il
magazzino sarà
pronto a giorni: avrà speso parecchi soldi, te lo dico
io».
Quando
spettò a loro e il buttafuori, un omone pelato di grossa
taglia, le
fece passare, si ritrovarono davanti a un vasto spazio che faceva da
ingresso: più avanti c'era il bancone lungo diversi metri e
carico
di persone, era pieno di tavolini sparsi, altri più grandi
stavano
dalla parte delle finestre, c'erano i tavoli da biliardo, le slot
machine, uno spazio per ballare, anche quello pieno di persone. Le
luci sul soffitto diffondevano una luce verde, era pieno di bottiglie
in mostra, dipinti di barche e grandi navi, un maxi schermo in alto
accanto al bancone che mandava in loop slide di mari e navi, tutte
sul tono del verde. Sull'ingresso, in alto, appariva di nuovo il nome
del pub scritto col fuoco sul legno: The
Green Caravel.
Portandosi
più avanti, non si lasciarono sfuggire che, oltre alla mole
di
persone, erano presenti diversi buttafuori che camminavano tra i
clienti, tenendoli d'occhio. Ognuno di loro indossava una maglia
verde scura con il logo del locale.
Kara
fece altre foto da inviare ad Alex, mentre tutte si guardavano
intorno, restando colpite, poiché malgrado tutto era davvero
un bel
locale.
«Cosa
ne pensi?», si avvicinò Selina, sussurrandole a un
orecchio. «Le
pillole si potranno chiedere direttamente al bancone?».
«Non
lo so… Dobbiamo dare un'occhiata».
«E
sia», le sorrise. «Intanto, divertiamoci un po'.
Giusto, Harley?
Harley?»,
si girò, ma erano sparite entrambe. «Che fine
hanno fatto quelle
due?».
«Credo
di averle trovate». Kara le indicò sulla pista da
ballo, mentre
erano intente a ballare sinuose, incantando diversi ragazzi e anche
ragazze.
«C'era
da aspettarselo», rise. «Vieni, facciamo noi il
lavoro sporco».
Si
avvicinarono al bancone e, appena due ragazzi si alzarono dai loro
sgabelli, ne approfittarono per sedersi. Quando il barista dietro al
banco si accostò, ordinarono da bere.
«Ah,
se posso», Kara lo fermò prima che si
allontanasse, «Il
proprietario mi ha riferito che qui avrebbe venduto delle pillole, ne
sa qualcosa? Come faccio ad averle?».
Lui
sembrò incerto su come risponderle, poi optò per
sorriderle. «Non
qui al bancone, signorina; le trova chiedendo in giro, la sapranno
indicare». Ringraziarono e lui si allontanò per
portare loro da
bere.
«Chiedendo
in giro, eh?», borbottò Selina, guardando
indietro. «Cosa ne
pensi, Supergirl? I buttafuori avranno un doppio stipendio?».
Kara
restò incantata a guardarsi intorno. C'erano molte facce.
Molti visi
sconosciuti che ridevano, gridavano, sbattevano qualcosa, che
ballavano. Nessuno di loro guardava lei. Nessuno di loro si rendeva
conto che lei era lì. Era salva, libera; Rhea Gand non la
stava
spiando, adesso.
«Ehi?
Sei con me?».
Kara
si voltò di nuovo, scoprendo che il barista le aveva
già servite.
Deglutì. Per un attimo si era incantata, accidenti. Pensava
di nuovo
ai Gand, all'intervista, al terzo uomo che l'aveva seguita dopo la
palestra il giorno prima, al matrimonio, a Lena. A Lena che doveva
dirle qualcosa. «S-Sì», scosse la testa,
prendendo in mano il
bicchiere. «Scusa, ero soprappensiero».
Selina
si alzò, anche lei prendendo il suo. «Vado a dare
un'occhiata in
giro e a fare qualche domanda. Resta pure qui, okay? Mi riavvicino
tra poco».
Vide
Selina farsi strada e sparire in mezzo a quei visi sconosciuti. La
lasciò fare. Voleva scoprire cosa aveva davvero in mente di
fare
Maxwell Lord, però, in quel momento, si era sentita di nuovo
un po'
persa. Tutti si divertivano e lei era lì, a rimuginare
davanti a un
bicchiere ancora intatto. Ne bevve un sorso che sentì il
telefono
vibrare e lo prese. Oh, Alex faceva i complimenti a Lord, dopotutto,
e le ricordò di divertirsi. C'era anche un messaggio di
Barry e
sorrise, nel leggerlo così emozionato al fatto che
potrebbero
provare l'innocenza del padre e, dopo anni, lasciarlo libero di
vivere la sua vita.
Da
Me a IlRagazzoDelFlash
Sono
davvero così felice per te, Barr! Spero che saprai qualcosa
a breve.
E naturalmente voglio essere informata, nel caso mi piacerebbe
venirti a trovare per festeggiare!
Da
IlRagazzoDelFlash a Me
Sei
la benvenuta, Kara! Nel caso darò una festa. Ti faccio
sapere presto
e auguri per domani!
Kara
sorrise, anche se sapeva di malinconico. Voleva essere davvero felice
per lui, e le aveva appena dato gli auguri per il matrimonio della
sua madre adottiva, eppure non riusciva a esserlo del tutto.
Sbuffò,
scrivendo una risposta rapida e bevendo in un sorso solo il contenuto
rimasto del suo bicchiere.
La
ragazza che aveva preso il posto di Selina si alzò e
un'altra si
sedette solo qualche secondo dopo. Però, a dispetto
dell'altra, lei
la osservava. Kara la inquadrò con la coda dell'occhio
sorridere e
chiamare il barista, che al momento era occupato più avanti.
«Delusione d'amore?», le domandò e Kara
ansimò, senza guardarla
negli occhi.
«Più
che delusione», rispose, ingigantendo gli occhi,
«direi montagne
russe d'amore».
Sbuffò, giocherellando con il bicchiere vuoto.
L'altra
rise con pacatezza. «Cielo,
come può essere essere una montagna russa?».
Ordinò un drink al
barista, arrivato da lei in fretta.
Kara
si voltò, fissandola negli occhi a mandorla. «Beh,
succede se ti
innamorati della tua sorellastra e le vostre madri si sposano
domani».
Lei
restò incantata e poi abbozzò una risata,
chiamando di nuovo il
ragazzo al bancone con un gesto. «Scusami, fammene due, per
piacere.
Ti spiace se ti offro da bere?» si rivolse di nuovo a lei,
«Credo
che tu ne abbia bisogno».
Il
barista portò i due bicchieri sul piano e si riprese quello
vuoto di
Kara, riponendolo sul lavandino. Le due ragazze alzarono i bicchieri
e buttarono giù un sorso, scambiandosi un sorriso.
«Allora,
la tua sorellastra, eh? Credevo che certe cose si vedessero solo nei
film».
«Nei
film d'amore, intendi?», bevve un altro sorso e l'altra
ragazza la
seguì. «Il mio film, è-è
più un film muto con i sottotitoli, ma
tu sei troppo piccola e quindi non sai leggere».
«Oh,
okay, allora è davvero grave come sembra… Almeno,
lei ricambia?».
«Sì»,
bevve un altro sorso, «E la cosa dovrebbe farmi felice? Beh,
lo-lo
farebbe se non mi nascondesse dei segreti. Perché, ecco,
sì, ha dei
segreti e ci siamo lasciate a causa di questi segreti del…
del…
segreti del cavolo», sbuffò, facendo diventare
rosse le sue guance.
«Tutti
hanno dei segreti». Bevve e Kara la seguì, finendo
il bicchiere.
Così richiamò il barista e se ne fece portare
altri due.
«Oh,
beh», gonfiò le guance, mettendo su il broncio.
«Ehi,
ascoltami: se siete davvero innamorate, riuscirete a passare sopra a
questi segreti, no?», le passò una pacca sulla
spalla e Kara si
girò solo un attimo per cercare Selina, o Harley, o Ivy.
«Mi
concentrerei sul matrimonio delle vostre madri, come mi hai
detto».
«Sì…
il
matrimonio e il resto»,
bofonchiò.
Guardò
anche lei verso la sua stessa direzione, per poi fissarla di nuovo
negli occhi azzurri. «La vita è lunga,
dolcezza… Troverete un
modo per ritrovarvi, se è destino che accada».
Le
passò la mano sul mento per una carezza e Kara si
scostò. «Devo…».
«Oh,
sì, certo. Mi è parso che qualcuno ti chiamasse,
da quella parte»,
indicò dietro di loro e Kara si voltò,
così la ragazza, svelta, le
lasciò cadere qualcosa nel bicchiere. Glielo
passò mentre la vedeva
alzarsi dallo sgabello. «Non dimenticare di finire
questo».
Kara
lo prese e buttò giù tutto d'un sorso, raschiando
la gola. Le
sembrava di aver ingoiato un insetto, ma non era pronta a raccontarlo
a quella ragazza sconosciuta che le aveva offerto da bere e che aveva
già ammorbato abbastanza. La ringraziò per la
compagnia e si fece
strada tra la folla. La ragazza con gli occhi a mandorla sorrise e si
alzò dallo sgabello anche lei. «È stato
un piacere conoscerti…
Kara».
Si
allontanò mentre Selina, che passava di lì e
aveva mancato la sua
nuova amica per poco, la teneva d'occhio. «Che cosa hai
fatto…?»,
sussurrò per sé. Riguardò lei che
sedeva davanti a un tavolino già
pieno e cercò Kara con lo sguardo.
Segreti.
Tutti hanno dei segreti, certo. Lei, ad esempio, si era fatta la
pipì
sulle mutandine quando aveva quattro anni ed era all'asilo. Si era
vergognata molto, tanto che aveva fatto promettere alla maestra di
mantenere il segreto. Quello era un segreto ed era un segreto che
avrebbe preferito non dire mai a nessuno; ma di certo non avrebbe
preferito quel segreto alla sua relazione con Lena. Dirglielo dopo il
matrimonio. Oh, certo. La pipì di una bimba di quattro anni
nelle
mutandine non avrebbe dovuto richiedere tanta cura come svelarlo dopo
il matrimonio tra le loro madri. Lena le aveva nascosto qualcosa di
importante, non della pipì, e chissà da quanto
tempo. Da quanto
tempo la baciava e fingeva di niente? Da quanto tempo andava a letto
con lei, sapendo che le stava mentendo su qualcosa? Aveva a che fare
con i Gand?
Si
toccò la fronte, notando all'improvviso quanto quello spazio
si
stesse facendo piccolo. La gente le sbatteva addosso.
«Ehi», gridò,
spingendo un ragazzo. Lui la guardò male e Kara strinse un
pugno.
«Cosa c'è? Non ti piace farti sbattere da una
ragazza, per caso?»,
rise. Oh, se n'era andato. L'aveva ignorata?
«Scappa… Non ne vali
la pena».
E
se Lena avesse dovuto dirle qualcosa sui Gand? Era a conoscenza di
qualcosa di tanto grande? Magari riguardava la morte dei suoi
genitori… Oh, non poteva crederci che sapeva qualcosa del
genere e
non le aveva detto nulla! Che razza di persona giurerebbe di amarla,
per poi nasconderle una cosa come quella?
Era
un film muto. Ma lei non sapeva leggere.
Prese
grandi bocconi d'aria, accorgendosi che qualcuno la guardava. No, si
stava sbagliando.
Oh,
respirò a pieni polmoni. Stava passando, lo sentiva: lo
spazio era
di nuovo largo, di nuovo normale, ma ancora pieno di gente. Le davano
fastidio. Strinse di nuovo un pugno ma rise, guardando la gente
intorno a lei. Le davano fastidio.
«Kara
Danvers». La voce ammaliante. Due braccia la cinsero in vita.
«Che
fai qui tutta sola? Vieni a divertirti con noi, no?». Ivy le
sorrise
e la prese per mano, così Kara si lasciò scortare
verso lo spazio
per ballare, dove Harley le stava chiamando arricciando le dita verso
di lei.
Selina
chiese di nuovo da bere al barista, ma non si sedette. Restò
in
piedi, scrutando la ragazza con gli occhi a mandorla girare da tavolo
a tavolo. Doveva essere lei quella che i buttafuori, alle sue
domande, avevano detto che rispondeva al nome di Roulette: doveva
chiedere a lei, se voleva quelle pillole. La vide mentre parlava,
ammiccava, rideva con eleganza e poi si guardava attorno, forse alla
ricerca dei prossimi clienti. Si alzò e la vide camminare di
nuovo
incontro un altro tavolo ma, stavolta, guardò più
lungo, verso dove
la gente ballava e, dopo, scrivere qualcosa su un'agendina.
Kara
sorrise, allungando la mano destra verso Ivy davanti a lei e
fermandogliela sul collo in una carezza, mentre quella sinistra
restava indietro, sul viso di Harley che le avvolgeva la vita.
Ballavano attirando parecchi sguardi, ma non importava a nessuna
delle tre. Ivy le sciolse i capelli, insinuando le sue dita in mezzo
alle ciocche bionde, mentre Harley le infilò una mano sotto
la
maglia e le sfiorò il collo con la bocca, alitandole addosso
e poi
sorridendo divertita.
Gli
occhi azzurri di Kara, grandi, si fermarono su quelli verdi di Ivy,
mentre quest'ultima le accarezzava una guancia calda e rosa con la
mano destra e portava la sinistra sulla sua schiena, avvicinandola a
lei e, di conseguenza, avvicinandole tutte e due.
Infine,
Harley osò: le poggiò le labbra sul collo e la
baciò con passione,
mentre sentiva Kara sospirare, tirando indietro la testa. Quando
Harley la lasciò per scenderle il colletto e baciarla
più sotto,
Kara fissò di nuovo Ivy, che ora le passava le dita sulle
labbra.
«Cosa
aspetti?», domandò Kara. La sua voce era decisa,
non un
tentennamento, intanto che anche la sua mano destra le accarezzava i
capelli rossi e mossi. Le guardò le labbra rosse senza
vergogna, e
di nuovo i suoi occhi.
Ivy
sorrise e infine rise. «Questa mi è nuova, super
ragazza». Ma non
se lo lasciò ripetere due volte e, dopo averla fissata con
bramosia,
si avvicinò e aprì la bocca, cogliendo le sue
labbra calde.
Entrambe chiusero gli occhi e si baciarono lentamente. Harley le
passò le mani fin sulla pancia, accarezzandola e
stringendola,
continuando a baciarla sotto i capelli. Appena le due si lasciarono,
Kara si tirò indietro e Harley sorrise, poggiando la mano
destra sul
suo mento e avvicinandolo al suo viso. Si baciarono anche loro,
piano, socchiudendo gli occhi. Ivy si abbassò per baciare
Kara
sull'incavo del collo, prendendosi il suo tempo. Dopo, anche Harley e
Ivy si baciarono.
«Uh!»,
gridò Harley prendendo fiato e ridendo subito a squarcia
gola, «È
come stare sulle montagne russe».
Le
montagne russe. Montagne russe d'amore, ripensò Kara.
«Ragazze,
dovete smetterla. Adesso», strillò Selina,
avvicinandosi di corsa.
Le raggiunse e tirò Ivy per la manica della sua maglia,
minacciandola con lo sguardo.
«Che
c'è? Che ho fatto, adesso?».
«Non
dirai sul serio?», domandò Kara, mentre Selina
spingeva tutte e tre
verso i tavoli.
«Non
puoi dirci cosa non dobbiamo fare: ci stavamo divertendo»,
Harley
inarcò le spalle, aggrottando lo sguardo. «Oh!
È perché non ti abbiamo incluso? Ma certo che
puoi partecipare
anche tu», le fece l'occhiolino e rise di nuovo, mentre
Selina
scuoteva la testa.
«Mi
spiace se sto facendo la parte della guastafeste, ma non potete fare
questo a Kara», la guardò accigliarsi, a quelle
parole. «Non ora».
«Puoi
dirlo forte che lo sei», la interruppe Ivy, mettendo le
braccia a
conserte. «Non so se lo hai notato, ma siamo tutte e tre
maggiorenni, cara. Dunque, se tu non vuoi partecipare ci sta, sei
persa per quel ragazzo ricco, ma non puoi proibirlo agli altri. E
Kara è single adesso, lascia che si distragga. Chi meglio di
noi?».
Finora
era rimasta in disparte a sentirle battibeccare, ma si era stancata
di sentire le loro voci nella sua testa, che ronzavano
fastidiosamente quanto quelle delle altre persone in quel locale.
Schiamazzavano e ridevano come degli idioti. Le davano tutti sui
nervi. Quei baci e quelle carezze, però, le avevano dato un
senso di
pace. «Vuoi decidere per me, gattina?»,
abbozzò una risata, «Vuoi
essere tu a dirmi cosa devo o non devo fare? Puoi provarci».
Selina
la guardò attentamente, ma decise di non accogliere le sue
provocazioni. «Dobbiamo andarcene». A un seguente
malcontento
comune, la ragazza sbottò: «È stata
drogata!», la indicò e sperò
di non aver alzato troppo la voce, guardandosi intorno. Solo due
ragazzi smisero di ballare per osservarle.
Kara
scoppiò a ridere. «Come, scusa?».
Ivy
e Harley, invece, si scambiarono un'occhiata perplessa: a loro
sembrava stare benissimo.
Selina
sbuffò e si accostò ad Ivy tanto da respirarle
addosso. «Vuoi
davvero portarti a letto una ragazza drogata che non sa quello che
fa? Le hanno messo qualcosa nel bicchiere, dobbiamo portarla via di
qui. Adesso».
Ivy
aggrottò la fronte e dopo alzò gli occhi al cielo
e sospirò,
rivolgendosi alle altre due. «A malincuore…
dobbiamo chiuderla
qui».
Anche
se Harley era ancora poco convinta e sicuramente dispiaciuta,
riuscirono tutte e tre a convincere Kara ad andarsene, dicendo che in
quel locale c'era troppa confusione. Pagarono e uscirono, mentre Kara
scuoteva la testa e rideva, tenuta stretta ad un braccio da Selina.
«Posso
camminare da sola, sai?».
«Voglio
che ce ne andiamo in fretta».
Erano
fuori, notando che non c'era più fila e il buttafuori era
rimasto
all'ingresso. Selina tirava ancora Kara e Ivy e Harley si guardarono
perplesse, mettendosi poi vicine e stringendosi una mano. Un gruppo
di chiassosi ragazzi passò al loro fianco, Ivy stava per
girarsi
dalle due dietro e chiedere chi mai avesse potuto drogare Kara, che
uno di quei ragazzi andò addosso proprio a quest'ultima e,
senza
pensarci, continuò a camminare. Fu Kara a fermarsi,
costringendo
Selina a fare lo stesso.
«Ehi»,
lo chiamò a voce alta, «Non ti hanno insegnato le
buone maniere?».
Lui
si fermò e, poco più avanti, il suo gruppo, in
attesa. Selina
sussurrò a Kara di lasciar perdere. Quei ragazzi avevano
mazze da
baseball, uno di loro giocava con un coltello e un altro aveva una
lunga barra di metallo che faceva strisciare a terra. Kara
però
sorrise, scrollandosela di dosso e accostandosi a lui. «Hai
ingoiato
la lingua, bad
boy?».
Il
ragazzo guardò i suoi compagni e poi lei, avanzando un
passo. Si
fermò, tuttavia, quando riconobbe Poison Ivy al fianco della
ragazza. «Smammate», disse e loro, pian piano,
tornarono indietro,
guardando lei e poi Kara, Kara e di nuovo Ivy.
«Ho
chiesto il tuo supporto?». Kara si accigliò,
guardando Ivy con
rabbia. «Ah, già: Gotham è ai tuoi
piedi, regina dei veleni.
Schiocchi le dita e tutti obbediscono
come dei cani»,
si assicurò di alzare la voce. «Hanno paura di
te… E non possono
far altro che tornare
a cuccia».
Fu
inevitabile: Selina non capì che droga avesse potuto portare
Kara in
quello stato, ma era evidente che fosse completamente fuori di
sé.
Il
ragazzo tornò indietro e chiese a Ivy di farsi da parte, ma
non
aspettò una sua risposta che alzò il braccio
destro per colpire
Kara e lei, più veloce, glielo afferrò, lo
strinse e lo girò con
un solo movimento circolare. Perfino i ragazzi del suo suo gruppo,
ancora distanti, dovevano aver sentito il crack.
Si avvicinarono veloci e Kara spinse il ragazzo, in urla, contro di
loro, ridendo di gusto. Presto scoppiò una rissa: altri due
cercarono di colpire Kara e lei si tirò indietro, facendone
inciampare uno, mentre all'altro pensò Ivy a fargli lo
sgambetto.
Provarono a colpire la prima con una mazza, ma non si aspettavano la
furiosa corsa di Harley contro di loro:
«Nessuno
tocca la mia quasi scopamica, buffoni!». Raccolse la mazza
caduta a
uno di loro e la usò per colpirli e rimandarli a terra.
Selina
ne spinse uno indietro e schivò il coltello di un altro,
guardando
Ivy e scambiando con lei un gesto d'intesa: dovevano allontanarsi, e
presto, prima che qualcuno, dal locale non distante, potesse chiamare
la polizia. La colpirono con un pugno sullo stomaco e Ivy si
vendicò
con una ginocchiata in mezzo alle gambe, così Selina gli
prese la
mazza e lo colpì sulla schiena.
Kara
era sicura, forte, veloce, quasi non sbagliava a muoversi. La videro
incassare un colpo di sbarra sul braccio sinistro ma non accennare
minimamente al dolore. Era improvvisamente diventata una macchina da
guerra. Gli prese la sbarra ma ci pensò bene prima di
colpirlo con
quella, gettandola lontano e poi scagliargli contro un calcio. E un
altro. Un altro ancora. Un amico cercò di aiutarlo e Kara lo
spinse
via, colpendolo ancora sullo stesso punto in mezzo alle costole. Lui
le gridò di smetterla ma lei non sentiva, non voleva;
nemmeno la sua
tosse la fermò dal colpirlo ancora con violenza.
A
quel punto, quando addirittura Harley aveva smesso di picchiarli
perché incantata da quell'orrore, Selina e Ivy allontanarono
Kara
per le braccia, sollevandola di peso, mentre i ragazzi tiravano via
l'amico ferito. Harley rilanciò la mazza al gruppo e le
seguì
mentre spingevano Kara, in preda a un attacco di rabbia.
Riuscì a
divincolarsi quando erano distanti, poiché allentarono la
presa.
«Drogata,
eh?», sibilò Ivy a Selina, entrambe confuse per
ciò che era
successo. Prendevano aria, ignorando i lamenti della ragazza che
gridava di non aver bisogno di loro.
«Devi
andare a prendere lo zaino di Kara, da me», le disse
ansimando e
l'altra annuì, allontanandosi con Harley, chiedendole di
rimando se
poteva farcela da sola con lei. Quando Selina la vide avere un
mancamento, zittendosi, la prese tra le sue braccia, ma si
tirò
indietro a breve. «Stai bene, Kara?». Aveva un
taglio sulla fronte,
sopra l'occhio destro, eppure si atteggiava come niente avesse potuto
scalfirla. «Ho bisogno del tuo telefono».
«Tu»,
la indicò Kara con collera, «Tutte voi! Dovete
smetterla di starmi
tra i piedi! Sono stufa della gente che mi controlla, che mi nasconde
le cose, della gente che… mi
pedina»,
deglutì. «Sai una cosa? Che ci provino a farlo
ancora. Ci provino.
Li rimanderò al mittente. Andrò io stessa da Rhea
Gand e la
affronterò faccia a faccia. E Lena… Oh, Lena.
Affronterò anche
lei». Prese il cellulare da una tasca del giaccone e Selina
glielo
adocchiò. «Ero così preoccupata che il
matrimonio potesse cambiare
il nostro rapporto da non rendermi conto che è stata lei a
distruggerlo! Ha risolto tutto. E adesso le dirò esattamente
cosa
penso di lei». Si passò una mano sulla fronte e,
per un attimo,
ebbe un altro mancamento, ma compose il numero, scuotendo la testa e
aspettando che rispondesse.
Appena
si udì la voce di Lena dall'altra parte, Selina le
sfilò il
cellulare dalla mano e si spostò. «Sono Selina
Kyle». Kara tentò
di recuperare il telefono e le imprecò dietro.
«Dovete venire a
prenderla, manderò le coordinate»,
deglutì, «Kara non sta bene…
è stata drogata».
Appena
chiuse la chiamata, Kara le si scagliò addosso, afferrandola
con
foga per il colletto della giacca. «Cosa ti dice il cervello?
Non
sono stata drogata, non sono mai stata meglio in vita mia».
«Smettila»,
la spinse ad un tratto.
«Tiri
fuori gli artigli, adesso? Vuoi farti sotto anche tu?».
«No»,
scosse la testa e le rimise il cellulare in tasca. «Tu non
stai
bene, Kara. La vera te non farebbe così».
«E
se fossi la vera io, questa? Ci hai pensato? Se mi stessi svegliando
ora?», si mantenne di nuovo la fronte, perdendo l'equilibrio,
e
Selina la accompagnò a sedere a terra, sul bordo del
marciapiede.
Cercò di scostarla con palese nervosismo, ma senza successo.
«Mi
gira la testa, dannazione…».
«Kara»,
si sedette al suo fianco, «L'ho vista io: una certa Roulette
ti ha
messo qualcosa nel bicchiere».
«Roulette?»,
spalancò gli occhi.
Quando
Ivy e Harley portarono lo zaino alle due, trovarono Kara addosso a
Selina. Non era addormentata, ma era talmente stanca da faticare a
tenere gli occhi aperti e le girava la testa. Non era più
nervosa,
aveva smesso di imprecare, anzi le guardava con insofferenza, come se
le dispiacesse. Solo altri pochi attimi di attesa e un'automobile
scura si fermò lì davanti. Un ragazzo pelato,
snello e in completo,
scese dalla parte del passeggero e prese Kara con sé. In
auto, Lex
Luthor le controllò gli occhi con una lucetta, le
ascoltò i battiti
cardiaci, le toccò la fronte. La rassicurò che
sarebbe andato tutto
bene, che ci avrebbe pensato lui. Kara dormì in elicottero
fino a
Metropolis e una volta lì, atterrati sul tetto di un
palazzo, riuscì
a camminare e prendere l'ascensore.
«Hai
avuto un po' di febbre», era sicura di aver sentito la voce
di Lex.
«Ti farò un veloce esame del sangue, non ti
farà male».
Ricordò
un posto tutto bianco; i colori e soprattutto le luci erano molto
forti e la costringevano a socchiudere gli occhi. C'erano provette,
un banco. Lex la fece sedere e qualcosa di freddo le toccò
il
braccio destro.
«Quasi
finito, Kara».
Era
davvero tanto stanca, ma la testa non le girava più.
«Roulette»,
sibilò.
«Cosa?
Cosa hai detto?».
«Roulette…
È stata lei».
Scorse
Lex fermarsi un momento, come soprappensiero, e un rumore la fece
voltare. Era la porta. Lena. Era lei. Era lei davvero. Lo sguardo
spaventato che la fissava, gli occhi grandi, il fiatone. In quel
momento non le interessava che le avesse tenuto nascosto qualcosa,
che le avesse mentito e per chissà quanto tempo, che il
matrimonio
tra le loro madri avrebbe potuto intaccare il loro rapporto
né
l'imbarazzo tra loro o qualsiasi altra cosa poteva venirle in mente.
Lei era lì. Kara si sentì sollevata, vigile. Lei
era lì e
nient'altro era più importante.
Lena
le corse incontro e Kara scese dallo sgabello, raggiungendola e
abbracciandola. Si tennero strette e la prima le lasciò un
bacio sui
capelli, guardando suo fratello con apprensione.
Kara
si addormentò subito. Lena le restò vicina,
sfiorandole con una
mano il taglio sopra l'occhio che le avevano medicato, accanto a un
livido che solo ora stava venendo a galla. Ne aveva anche uno su un
braccio, più esteso, ma fortunatamente non era niente di
grave. Lena
sorrise appena, pensando a quanto fosse tosta la sua ragazza. Selina
Kyle mandò un messaggio al suo telefono per chiederle come
stava,
dopo averle raccontato, a singhiozzi, cos'era successo quella sera:
il pub, Roulette, la rissa, Kara stravolta e arrabbiata. Le
inviò un
nuovo messaggio e la ragazza s'imbrunì, decidendo di
abbassarsi,
toglierle un ciuffo biondo dagli occhi e baciarle la fronte,
così
uscire della camera poco illuminata dalle sole luci attraverso le
finestre.
Intanto,
Lex era seduto sulla sedia girevole del suo studio lì in
casa
Luthor. Davanti al pc, sfogliava una galleria di foto ma, appena
sentì la porta aprirsi, chiuse la pagina. «Come si
sente Kara?».
«Dorme»,
rispose soltanto, chiudendo la porta dietro di lei, appoggiandosi.
Teneva lo sguardo basso. «Hai avuto il risultato delle
analisi?».
Il
fratello annuì, avvicinandosi di più alla
scrivania. «Ho
riscontrato qualche valore fuori norma, ma qualsiasi cosa le abbiano
dato, l'effetto sta svanendo. Domani avremo la Kara di
sempre», si
alzò, andando ad appoggiarsi al bordo della scrivania e
incrociando
le braccia contro il petto. «Non le hanno dato una delle mie
pillole. Loro sono fatte per stimolare la mente, ma è come
se a Kara
fosse stato fatto stimolare il corpo, probabilmente aiutati da una
massiccia dose di adrenalina. A giudicare gli effetti, e lo
confermano le analisi, Kara è una di quei soggetti
particolari a cui
le mie pillole avrebbero prodotto effetti collaterali piuttosto
consistenti».
Lena
fece un cenno con la testa e poi, finalmente, lo guardò
negli occhi.
«Quando Kara e le sue amiche sono andate via dal pub, si sono
scontrate contro un gruppetto di ragazzi armati». Lo vide
spalancare
un poco la bocca. «Sono entrati nel pub. Lo hanno distrutto,
Lex. Mi
hanno scritto che è dovuta intervenire la polizia. Tu eri a
Gotham
per affari. Ne sai qualcosa?», lo guardò
assottigliando i suoi
occhi.
Lui
abbassò la testa ed estrasse un sorriso. «Ho solo
fatto ciò che
ritenevo più giusto».
A
Lena mancò il fiato e, abbassando di nuovo il suo sguardo,
aprì la
porta della stanza ma non uscì. «Sono stati loro
ad aggredire
Kara». Aspettò di vederlo con la coda dell'occhio
apprendere la
notizia, così lo lasciò solo.
Lex
tornò a sedersi, riaprendo la finestra del pc e sfogliando
la
galleria che conteneva le foto del pub a pezzi. Poi prese il
cellulare e compose un numero, restando in attesa.
«Sì», soffiò,
con gli occhi fissi sulle foto. «Ottimo lavoro.
Ma… un'ultima
cosa: so che vi siete scontrati con una ragazza… Kara
Danvers. È
la mia sorellastra», prese una pausa, trattenendo il fiato,
«Toccatela ancora e sarà l'ultima cosa che
farete».
Capitolo
fresco fresco, di mercoledì, come avevo detto!
Come
avrete notato, Kara è entrata nel pallone! Doveva distrarsi
e
invece, la sua uscita con le ragazze (anche se una parte di lei si
era sicuramente distratta
a un certo punto XD), si è trasformata in un disastro.
Roulette
lavora per Maxwell Lord adesso ed è l'addetta alle pillole
che
distribuiscono nel locale; peccato che ne abbia gettata una
all'interno del bicchiere di Kara senza che lei lo sapesse e gli
effetti… eh, sono stati questi. A che razza di pillola sta
lavorando Lord?
Senza
contare che Kara ha parlato con Roulette senza sapere chi fosse. E
che Lex non ha reagito poi così bene nel sapere che Roulette
ha
venduto a Lord la ricetta delle sue pillole.
Oh,
e non dimentichiamo che il senatore Gand vuole essere intervistato da
Kara. Cosa avrà intenzione di dire?
Cosa
ne pensate della scenetta che avevo anticipato? Mi seccava scrivere
attenti
alla threesome,
insomma XD È che so che dovrebbe essere segnalato (se la
storia non è così fin dall'inizio), a meno che le
regole del sito non siano cambiate. Io personalmente ne avrei fatto a
meno. E quindi sì, una Kara fuori di sé si
è lasciata andare e le
è piaciuto ricevere quelle attenzioni da parte di Ivy e
Harley.
Se
non altro, a fine capitolo, Kara è stata accolta dalle
braccia di
Lena, letteralmente.
Cosa
accadrà adesso?
Il
matrimonio tanto atteso (?) è arrivato! E sarà
per metà… stand
alone. O meglio, ci sarà lo svolgimento della trama lineare
più
qualche salto temporale dovuto. Occhio ai tempi verbali per non
impazzire, ricordate: fece
qualcosa (presente); aveva
fatto
qualcosa (passato).
Il
prossimo capitolo sarà in realtà una prima parte.
Dunque ci
rileggiamo venerdì 7 con il capitolo 35 che si intitola La
sposa - Prima parte!
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Capitolo 36 *** 35. La sposa - Prima parte ***
C'era
un rumore lontano nell'aria, fastidioso, che sembrava diventare via
via più forte. Persisteva, smetteva per poco e ritornava con
prepotenza. Sembrava quasi un campanello. Oh, era un campanello.
Eliza
si svegliò di soprassalto, guardandosi intorno, scorgendo la
sua
futura sposa accanto a lei sul letto, ancora addormentata.
Cercò di
strofinarsi gli occhi impastati dal sonno e sbadigliò,
intanto che
il campanello suonava ancora. Si girò verso il comodino per
leggere
la sveglia, finalmente mettendo a fuoco i numeri, che anche Lillian
si mosse.
«La
truccatrice?», domandò quest'ultima con voce
debole, trattenendo
uno sbadiglio.
«No,
arriva alle otto e mezza e sono appena le sette e… dieci?
Dieci.
Dubito siano già i ragazzi». Tornò a
sdraiarsi, osservando la
donna al suo fianco con la faccia per metà schiacciata dal
cuscino.
Aveva le guance un po' rosse, le labbra rosa, l'occhio sinistro,
l'unico che vedeva, con la palpebra a metà, ancora
assonnata. I
capelli disordinati formavano un'onda verso il viso. Era
così…
bella. Le sorrise e la vide imbarazzarsi, coprendo la faccia con una
mano, così rise. «Credo sia troppo tardi per
nascondersi, futura
signora Luthor-Danvers». La sentì lamentarsi,
togliendo la mano dal
viso.
«Non
mi nasconderei mai da te, futura signora Danvers-Luthor».
Si
avvicinarono, prese dal loro momento, che il campanello
suonò ancora
e più a lungo, interrompendole.
«Oh,
accidenti, vuoi vedere che-», Eliza si bloccò e
l'altra alzò un
sopracciglio. «Lo so chi sono, devi prepararti». La
guardò
spalancando gli occhi e scoprendosi, per poi lanciarsi rapidamente
verso di lei e lasciarle un bacio su una guancia. Sparì
chiudendo la
porta.
«Sono?»,
bofonchiò Lillian.
Eliza
corse per le scale e, una volta all'ingresso, si chiuse bene la
vestaglia addosso, prendendosi un attimo per fare un gran bel
respiro. Il campanello suonò ancora e una mano
batté due volte sul
vetro della finestrella vicino. Va bene. Era pronta. Aprì e
la
famiglia Danvers era lì, quasi al completo. Sorrisero e si
riversarono dentro casa per abbracciarla. «Sono abbastanza
per
tutti?», chiese in una risata. Intanto che le donne e i pochi
uomini
della famiglia si disperdevano tra il soggiorno e la cucina,
guardandosi attorno incantati poiché per molti di loro era
la prima
volta che ci mettevano piede, sua madre le accolse il viso con le
mani calde e le sorrise, strizzandole poi le guance.
«La
mia bambina si sposa», le aveva detto la prima volta,
prendendole il
viso proprio come fece ora. Erano entrambe più giovani ed
Eliza non
era in vestaglia, ma immersa in un grosso pigiamone rosa. «Se
solo
tuo padre potesse vederti».
«Oh,
mamma, papà mi vedrà in chiesa», le
aveva risposto, abbozzando una
risata.
«Sì»,
aveva allora brontolato la donna, lasciandole il viso per scuotere la
testa e formare una smorfia contrariata. «Quel disgraziato
non è
voluto venire alla preparazione perché dice che è
roba da donne.
Allora, veniamo alle cose importanti: dove hanno lasciato il mio
futuro genero?». La signora si era incamminata verso il
soggiorno di
casa Danvers.
«Jeremiah
è in camera, prende lo smoking dall'armadio».
«Cosa?»,
aveva strabuzzato gli occhi, «Non sono ancora arrivati a
portarlo
via? Lo sposo non può vedere la sposa prima del matrimonio!
Roba da
matti».
«Allora…».
La voce di sua madre la riportò al presente, mentre le
lasciava il
viso e, con un'accortezza, le chiudeva meglio la vestaglia sulle
cosce. «Veniamo alle cose importanti: dove hanno lasciato la
mia
futura nuora?».
«È
ancora di sopra. Lillian si sta alzando», sorrise,
«Non vi
aspettavamo così presto».
«Che
cosa?», strabuzzò gli occhi, anche se la palpebra
destra era
ballerina per via dell'età. «Non sono ancora
arrivati a portarla
via? La sposa non può vedere l'altra sposa prima del
matrimonio»,
alzò le braccia all'aria, «Roba da
matti».
Eliza
sorrise di nuovo, commossa. Certe cose non sarebbero mai cambiate.
La
sveglia suonò solo qualche secondo appena, Lena la spense
subito,
aveva già gli occhi aperti. Aveva dormito molto poco,
assicurandosi
che Kara stesse bene, vicino a lei. E comunque, era stato davvero
difficile cercare di chiudere occhio pensando alla giornata che le
attendeva. Guardò il suo viso ancora rilassato e si mise a
sedere,
lasciando scivolare sulla spalla destra la spallina della camicetta
da notte che indossava. Si portò a bordo dal letto che la
sentì
muoversi e si voltò, vedendo che aveva gli occhi aperti. Non
riuscì
a trattenere un sincero sorriso. «Perdonami, non volevo
svegliarti.
È ancora presto, puoi restare».
Kara
tentò di parlare ma le uscì un verso strozzato,
così raschiò la
gola. «Sei stata con me tutta la notte?».
«Certo».
Si protese verso di lei, ricoprendosi almeno le gambe per il freddo.
«Non ti ricordi di ieri? Lex ti ha portato qui, a casa
nostra, a
Metropolis. Sei in camera mia».
Kara
roteò gli occhi, scoprendo la tinta color panna delle
pareti, un
vecchio poster colorato sopra il letto, dei mobili moderni e un po'
freddi, come lo era l'aria che respirava. Se possibile, quella casa
era ancora più fredda della villa a National City.
«Oh…»,
all'improvviso strizzò gli occhi e trattenne il fiato,
ricordando
cos'era successo. «Devo… Devo assolutamente
chiedere scusa a
Selina. E a Ivy e Harley, oh…»,
incurvò le labbra con dispiacere, «Mi sono
comportata da…».
«Sei
stata drogata, Kara. Non eri in te», le disse subito,
«Qualsiasi
cosa sia successa-».
«No,
no», la interruppe e si voltò, non riuscendo a
guardarla negli
occhi. «Io ero in me. Ricordo tutto, ero lucida e volevo dire
quelle
cose, volevo fare quelle cose».
Lena
ansimò un poco, poggiandole una mano su una spalla.
«Kara,
ascoltami… Ho parlato con Selina Kyle e va tutto bene.
Guardami.
Era l'effetto di qualsiasi cosa ti abbia messo nel bicchiere
Roulette».
«Era…
quella
Roulette?».
Lena
deglutì. «Lavora per Maxwell Lord, adesso. Vende
le pillole nel
locale e te ne ha somministrata una contro la tua volontà.
Non
sappiamo in che punti esattamente ti abbia colpita, quando sei
arrivata qui l'effetto stava già svanendo, eri…
Eri», scosse la testa, «manipolata
da qualsiasi cosa ci fosse nella pillola». Finalmente la vide
voltarsi.
«Ho
baciato Ivy e Harley, ieri».
«…
ah».
Lena tolse la mano dalla sua spalla e abbassò gli occhi,
anche fosse
per un breve momento. «Kara, noi non- non stiamo insieme. Va
bene,
insomma, non devi dirmelo per forza».
Lei
si tirò su reggendosi sui gomiti, guardandola attentamente
negli
occhi. Vedeva che la cosa l'aveva ferita, al di là delle
parole.
«Volevo farlo. Ero arrabbiata e… non lo so, a un
certo punto mi
sono sentita in grado di fare tutto quello che mi passava per la
testa», strinse le labbra. «Ho urlato a Selina, ho
istigato un
ragazzo e gli ho rotto un braccio. Volevo
farlo»,
sottolineò ancora. «Era la pillola o mi ha solo
dato la forza di
reagire?». Cercò di mettere più peso
possibile su un braccio solo,
poiché uno le faceva male. Parecchio male, se ci pensava.
Scorse il
livido e trattenne il fiato.
Lena
non le tolse occhio di dosso, anzi squadrandola dall'alto al basso,
seria, poi ingurgitò saliva. «Eri tu»,
le disse con sincerità,
«Eri certamente tu. Credo che tu fossi sotto pressione e che
la
pillola ti abbia dato la spinta necessaria per sfogarti. Ma, senza
pillola, non lo avresti mai fatto. Ciò che voglio dire,
Kara, è che
trovo assurdo che tu ti senta in colpa per questo», si
sforzò per
sorriderle. «Ne stai passando tante e tu sei una persona
buonissima:
la pillola ti ha colpito dov'eri più vulnerabile. Cerca
Selina,
chiedile scusa se pensi di doverlo fare, ma non lasciare che a causa
di Roulette tu ti senta uno schifo, Kara. Non te lo fare, non lo
meriti».
Kara
sbuffò, passandosi una mano sul braccio sinistro. Lena le
poggiò
alcune dita, facendole entrare i brividi.
«Sei
fortunata che sia solo un livido».
«So
come incassare», rispose in un brusio, alzando lo sguardo il
tanto
per vederla negli occhi. «Tra me e Ivy e Harley non
c'è…».
«Kara»,
deglutì, «Lo so. Non devi parlarmene,
davvero».
«E
se volessi farlo?», aggrottò la fronte,
scorgendola spostarsi
ancora, solo un poco. «I-Io non l'avrei mai-».
«Lo
so», le ripeté, «Non sono arrabbiata. E
non stiamo insieme.
Piuttosto, oggi abbiamo un matrimonio a cui pensare».
«Ooh»,
si lamentò con una smorfia, ributtandosi sul materasso di
peso. «No,
no», si coprì gli occhi, «Mi era
totalmente passato di testa».
Lena
le tolse le mani dal viso e non riuscì a non sorriderle.
«Da oggi,
saremo ufficialmente sorellastre».
Kara
le riprese le mani che stava allontanando, carezzandone il dorso con
i pollici. «Grazie», annuì,
«Chiederò scusa a Selina, ma grazie,
Lena». Si guardarono e, quando si poggiò di nuovo
sul materasso
anche lei, Kara le si protese accanto, le tolse un capello dal viso e
approfittò del momento per sfiorarle una guancia mentre, al
suo
tocco, Lena socchiudeva gli occhi e tratteneva il fiato.
«Non
farlo», sibilò.
Kara
si mantenne di nuovo con il gomito del braccio sano, guardando lei
negli occhi. «Ero arrabbiata e una parte di me lo
è ancora, non
posso negarlo», gonfiò gli occhi, «Ma
dopo quello che ho passato,
e-e per come mi sono comportata… quando ti ho vista, ieri,
tutto mi
è diventato chiaro. Non voglio che questo si metta tra noi,
Lena. Mi
dispiace e… Non m'importa se mi hai nascosto
qualcosa».
«Sì
che ti importa».
«Va
bene: m'importa», annuì. «Ma sono sicura
che avrai avuto una buona
ragione, per farlo».
«Sì.
C'era».
«E
mi dirai tutto dopo il matrimonio».
«Sì,
lo farò».
«Allora
va bene», sforzò un sorriso. «Qualsiasi
cosa sia, posso
accettarlo».
«No,
non lo farai».
Kara
trattenne uno sbuffo. «Va bene, non lo farò.
Mettiamo che sia vero,
ti autorizzo a dirmi te
lo avevo detto».
Le fece scappare una risata, poi scosse la testa, infine
tornò più
seria, scambiando con lei un lungo sguardo.
«Anch'io», le disse
Kara, come avesse potuto risponderle a qualcosa di non detto a
parole. «Anch'io. Lo sai. E lo sai che ci sei solo
tu». Dopo si
abbassò verso di lei e, piano, ancora guardandosi, le prese
le
labbra con le proprie. Socchiusero gli occhi insieme, lentamente,
lasciandosi trasportare dal bacio intanto che Kara le carezzava il
viso con una mano e Lena il braccio con il livido, attenta a non
farle male, prima di decidere di non cedere e allontanarsi.
«Davvero,
Kara, non possiamo».
Lei
abbassò lo sguardo. «Ti ho ferita».
«No.
Smettila, davvero, non è colpa tua. Io ferirei te. Adesso
sei così
perché hai passato una giornata intensa e… vuoi
farti perdonare,
anche se non ne hai bisogno», disse velocemente.
«Ma sei tu che non
perdoneresti me».
Si
distanziò, guardandola attentamente negli occhi.
«Dunque è… una
cosa tanto seria come sembra».
Lena
si alzò da letto, sistemando le lenzuola. Si
voltò a lei, prendendo
fiato. «Rifaremo questo discorso dopo il matrimonio,
promesso. Prima
di allora… te ne pentiresti».
Kara
annuì, rigettandosi sul materasso.
Villa
Luthor-Danvers, e prima ancora quando era solo Luthor, non era mai
stata tanto chiassosa. Per di più di prima mattina. Aveva
visto
quella villa poche volte prima del matrimonio con Lionel. Apparteneva
ai suoi genitori che avevano deciso di regalarla a loro per le nozze
e così di sistemarla. Il giorno del matrimonio avevano
sospeso i
lavori ma alcune zone della casa erano state piene di teli di
plastica, scale, secchi di cemento e mattoni. Già
infastiditi che i
lavori non fossero stati conclusi prima della cerimonia, i signori
Luthor avevano pregato tutti gli invitati di astenersi di mettere
piede in zone in via di ristrutturazione. Anche quella mattina la
villa era stata piena di persone, ma mai tanto chiassosa. Aveva
suonato il campanello e il domestico, a occhi sgranati, l'aveva fatta
accomodare. Vedendola attendere nell'ingresso, coperta da un pesante
giaccone e in scarpe a spillo, qualcuno dei parenti Luthor si era
avvicinato per dirle di dover sparire, perché non doveva
farsi
vedere dal futuro marito prima delle nozze, ma il signor Luthor si
era affacciato poco dopo e le aveva allungato una mano per farsi
raggiungere, sorridendo. L'aveva sempre accolta nella sua casa e
nella sua famiglia come una vera figlia.
«Non
può vederti prima del matrimonio? Noi non crediamo a queste
sciocchezze», aveva ribattuto, abbracciandola con garbo.
Lillian
aveva salito le scale, evitando qualche cumulo di polvere dei lavori
sfuggito alla pulizia prematrimonio della villa, e si era chiusa in
una delle stanze, in attesa di parlare con Lionel. Era la camera che
ora, nel presente, era diventata di Alex Danvers: la stavano
tinteggiando in quel periodo e metà dei mobili, antichi, era
stata
riversata da un lato. C'era un grande specchio da terra e ci aveva
passato sopra un fazzoletto per togliere il grosso della polvere.
Così si era specchiata, mento dall'alto al basso, petto in
fuori, le
mani intrecciate sul grembo. Aveva tolto dalla borsa una scatola in
pelle e da lì una grande collana impreziosita da dettagli in
oro
bianco e smeraldi che si era agganciata abbozzando un sorriso ma,
quando la porta si era aperta, si era messa sull'attenti, cercando di
nasconderla con il cappotto.
«Lillian!
Mi hanno detto che eri qui. Non hai paura che ti veda
Lionel?». La
ragazza era entrata e aveva chiuso la porta. Era un solo anno
più
giovane di lei; all'epoca, aveva diciassette anni.
«Lorna!
Suvvia, queste sono sciocchezze», aveva riso, attirandola
verso di
lei con il gesto di una mano. «Sono felice che tu sia qui, mi
chiedevo giusto se potessi aiutarmi nella preparazione, se volessi
venire nella casa dei miei genitori, solo per poco».
La
ragazza aveva sorriso e si era tirata dietro le orecchie i capelli a
caschetto neri. «Volentieri! Pensavo che ci avrebbero pensato
le
donne della tua famiglia». Aveva detto con una mano sul
petto.
«No…
mh. Ho litigato, di recente… Oh, non voglio ammorbarti con
queste
quisquilie», aveva gesticolato. «Tra noi
c'è semplicemente più
sintonia». Si era riaffacciata allo specchio e aveva lasciato
che il
cappotto mostrasse la collana, al che, Lorna Luthor aveva sgranato
gli occhi.
«Ma
quella…», aveva sibilato senza fiato.
«È stato Lionel a
regalartela?».
«Il
signor Luthor, naturalmente. Ieri, per indossarla al
matrimonio».
«Lo
zio?», aveva emesso un verso di sorpresa.
«È un cimelio di
famiglia, Lillian, apparteneva a nostra nonna. Ne devi essere molto
orgogliosa», le aveva sorriso, con gli occhi che brillavano.
Ci
aveva passato sopra due dita, quando lo sguardo dell'altra le aveva
concesso di farlo. «I giornali non parleranno d'altro, puoi
starne
certa. Non sapevo la tenesse lo zio, da quando lei è morta.
Avrei
puntato su zia Lara. Avrei tanto voluto averla». A
un'occhiata di
Lillian, lei le aveva sorriso. «Sta davvero bene intorno al
tuo
collo, voglio dire. Adesso sei una Luthor, Lillian. La collana
appartiene alla storia della nostra famiglia, è giusto che
la abbia
tu. Sarà sempre sul collo di una Luthor».
Avevano
sentito bussare alla porta e il viso di un baldo giovane aveva
sorriso, entrando nella stanza. «Discussioni da donne? Posso
interrompere?».
Lorna
e Lillian si erano scambiate uno sguardo d'intesa e la prima aveva
raggiunto il ragazzo, dandogli un colpetto su un braccio.
«Sei
fortunato, cugino. Non rovinare tutto». Poi era uscita,
mentre lui
aveva raggiunto l'altra davanti allo specchio.
«Cos'è
successo? Non ti aspettavo».
Lei
aveva increspato la fronte e poi deglutito. «Quei pezzenti mi
hanno
aggredita, stamane. Devono davvero partecipare anche loro al nostro
matrimonio? Sono contrari, non li voglio».
Lionel
aveva ansimato, scuotendo la testa. «Lascia che vedano con i
propri
occhi la loro figlia, nipote e cugina che va per la sua strada.
Lascia che vedano come hai scelto il tuo posto. Farà bene, a
quella
gente. Non dobbiamo escluderli, potranno fare parte della famiglia se
vorranno».
«Ma
loro non vogliono», aveva digrignato i denti e il giovane
Lionel le
aveva passato una mano sul viso.
«Non
ti agitare, Lillian. Portare rancore potrebbe far male-», si
era
interrotto, vedendo la collana. «È stato mio
padre?».
Lei
aveva sorriso raggiante, specchiandosi di nuovo. «Non ho
detto nulla
perché volevo fosse una sorpresa».
Lui
l'aveva circondata con le braccia, intrecciando le mani sulla sua
pancia e appoggiando il mento sulla sua spalla sinistra. «Sei
perfetta».
«Lo
so».
Lillian
si fissò davanti allo specchio da terra nella loro camera.
Ritrovandosi più vecchia, eppure sentendosi una donna nuova.
Si
voltò di scatto verso la porta quando sentì
qualcosa che si
rompeva, al piano di sotto. Alcune urla. E dopo risate. Normalmente
si sarebbe arrabbiata, ma scoprì che, in fondo, non le
importava.
Aveva tante cose di valore in quella villa, ma quello era il giorno
più felice della sua vita, sentiva che si stava realizzando
e
neanche un vaso rotto avrebbe potuto intaccare il suo buon umore.
«Accidenti,
hai sentito?». Eliza era rientrata in camera di corsa.
«Mia zia ha
fatto cadere un bicchiere, Marielle si è offerta di pulire.
Santa
donna, le avevo chiesto di essere un'ospite». Correva da una
parte
all'altra della stanza e Lillian la seguì attraverso lo
specchio.
«Marielle
è già qui?».
«È
arrivata ora, vuole aiutare. Non mi ha sorpreso: da quando le ho detto
che mi avrebbe fatto da testimone, è molto più
energica del solito. A proposito, ha chiamato la troupe della
CatCo: saranno qui a momenti. E sono certa non tarderà la
troupe
televisiva, sarà un caos tra poco. Janine la wedding planner
è già
in hotel, tra l'altro. Tra poco si sposterà in chiesa per le
ultime
preparazioni». Si fermò all'improvviso e la
guardò con attenzione,
in lingerie, scalza, con i capelli sciolti sulle spalle e ancora un
po' ondulati. «Ci credi?», le sorrise,
«Stiamo per sposarci».
«E
sei perfetta», le sorrise attraverso lo specchio ed Eliza
arrossì,
ridacchiando e scuotendo una mano. Lillian la vide dirigersi
ciondolando verso la cabina armadio, forse troppo con la testa per
aria: scomparve dallo specchio improvvisamente, cadendo ai piedi di
una panca.
Riprese
a specchiarsi e, nei suoi ricordi, Lionel l'aveva lasciata, dandole
un veloce bacio sulla fronte. Si era tolta la collana e,
delicatamente, l'aveva riposta nel suo contenitore. Il signor Luthor
aveva sempre avuto così tanti riguardi per lei che, si era
chiesta
spesso, negli anni a seguire, se non fosse stato perché
all'inizio
le faceva pena. O perché aveva visto in lei qualcosa. Aveva
lasciato
la stanza e, con passo silenzioso, si era affacciata nei pressi di
una porta quando aveva sentito dei brusii. Doveva essere il signor
Luthor quello che scorgeva dalla porta semichiusa, e l'altro, a
giudicare dalla voce, doveva essere il suo futuro sposo.
«Le
hai dato la collana? Avrei preferito che mi consultassi, prima di
farlo».
«Non
devo renderne a te». Il signor Luthor aveva abbozzato una
risata,
trattenendosi. «Stammi a sentire, figlio. Da oggi, Lillian
sarà una
vera Luthor e, da tale, dovrai parlarle degli affari che portiamo
avanti in famiglia. Erediterete tutto, da parte mia».
«Lo
so, lo so». Lillian lo aveva sentito sospirare e non le era
parso
mai tanto teso come in quel momento. «Ma non voglio
spaventarla e-».
«Sciocchezze.
Non la vedi ancora come la vedo io. E adesso tira su le braghe e
sposa quella donna». Lo aveva sentito camminare verso la
porta, ma
quando l'uomo era uscito, la giovane Lillian si era già
allontanata.
Kara
si rivestì di fretta con il cambio che si era portata dietro
nello
zainetto. Poco prima, aveva chiesto scusa a Selina e l'aveva pregata
di rigirarle anche a Ivy e Harley, pentendosi seriamente di come si
fosse comportata. E non osava pensare dove si sarebbe spinta se non
ci fosse stata Selina. Forse la colpa era davvero della pillola che
le aveva scombussolato il cervello, ma ricordava fin troppo bene la
sensazione di invincibilità che aveva provato per non
pensare che,
in fondo, avesse voluto tutto quello che era successo. Così
sicura
di sé e forte che niente avrebbe potuto piegarla. Si
vergognava nel
pensare che, a parte ciò che aveva fatto alle sue amiche e
involontariamente a Lena, le era piaciuto. Strinse gli occhi,
cercando di scacciare quel pensiero lontano dalla sua testa.
Ho
visto Ivy poco fa e mi ha chiesto di salutarti. Lei non è
per niente
dispiaciuta, kryptoniana, credimi.
Kara
ansimò, scuotendo la testa.
Per
quello che vale, io sono contenta che sei tornata in te.
Le
inviò uno smile e alzò lo sguardo verso la porta,
riportando i suoi
pensieri a Lena. Era vero che non stavano più tecnicamente
insieme,
ma era certa che doveva averle dato fastidio. Stava per mettere via
il telefono quando questo squillò.
«Come
sarebbe che sei a Metropolis?».
Sua
sorella le perforò un timpano e spostò il
cellulare dall'orecchio,
avvicinandosi a una vasta e luminosa finestra della stanza: erano su
un palazzo particolarmente alto e il cielo davanti a lei era sereno,
diventando via via più azzurro. «Ho avuto un
imprevisto, a
Gotham». Le spiegò tutto, perfino di Roulette; la
poteva vedere nei
suoi pensieri mettersi una mano sulla fronte.
«Arriverò a National
City con Lena e Lex. Devo assolutamente passare al campus, prima di
andare in villa… Ci sarà il finimondo. E la
microspia? Come
faremo?».
«Ti
sei fatta male? Lascia perdere la microspia, ora: sta registrando
tutto da ieri, ero occupata e oggi…»,
lasciò la frase a mezz'aria, ripensando al matrimonio.
«No,
sto bene… Avevo un po' di mal di testa prima, mi sta
passando. Più
che altro, dovrò farmi truccare per bene per coprire i
lividi»,
sussurrò, dando un'occhiata a quello sul braccio. Le faceva
davvero
male.
«Lividi?».
«Ma
non è niente di che, mi sono scontrata con una
sbarra».
«Una
sbarra? Hai detto una sbarra, sorellina?».
«Ma
sì, emh, nulla… invece il taglio sulla fronte si
vedrà anche con
il trucco».
«Taglio?
Kara, voglio sapere ogni dettaglio sulla serata di ieri».
Lei
strinse i denti. «Ma guarda che tardi, devo
andare». Chiuse la
chiamata prima che potesse replicare.
Dall'altra
parte, Alex chiuse con uno sbuffo innervosito, tenendosi un fianco.
Sentì la divertita corsa di Jamie dietro di lei, poi quella
di
Maggie che, con un vestitino giallo tra le mani, si fermò
per
prendere aria, reggendosi le ginocchia. «Verso dove ha corso
la
bambina mezza nuda?». Alex indicò e lei
sbuffò. «Ho bisogno del
poliziotto cattivo: hai sentito tua sorella o devi ancora
telefonare?».
«Devo
parlare con Lex», cercò il numero, «E
sarò subito da te. Mi
spiace». Le inviò un bacio, ma Maggie si
allontanò sdegnata,
stanando dietro un mobile la bimba che girava per casa con le sole
mutandine addosso.
Un
lungo abito bianco, uno scialle sulle spalle, il velo sui capelli
arrangiati a spirale sul capo: Eliza aveva sorriso, in casa Danvers,
vedendo il suo futuro sposo Jeremiah in piedi in salone che la
aspettava, in mezzo ad alcuni amici. Sapeva che l'aveva aspettata,
che non sarebbe riuscito a farsi portare da loro in chiesa prima di
vederla. Era rimasto a bocca aperta e si era avvicinato.
«Oh
mio Dio… sei uno splendore», le aveva allungato
una mano per
attirarla verso di lui, intanto che gli amici fischiavano e
applaudivano.
Lei
aveva arrossito e per poco non inciampava incastrando il vestito
sotto una scarpa.
«Nooo!»,
le urla della madre della sposa avevano riecheggiato per la casa.
«Noo! Non dovete vedervi prima, siete degli
irresponsabili». Aveva
colpito entrambi con un buffetto, ma loro si erano messi a ridere.
«Mamma,
stiamo insieme da anni, non sarà questo a portare
sfortuna».
Lei
aveva grugnito. «Ne riparleremo al vostro
divorzio».
I
due futuri sposi si erano guardati ancora, sorridendosi lentamente.
Poi, Jeremiah aveva portato la sua mano sinistra sul grembo di lei,
accarezzando il gonfiore sotto il vestito. «Almeno una cosa
buona
l'abbiamo fatta».
«Lascia
perdere mia madre», lo aveva baciato, «Ci sposiamo
per dare
stabilità alla nostra famiglia. Per lei, è
già scandaloso che sia
incinta ora».
Lui
aveva sorriso. «Sarà un bambino fortunato. O
bambina».
«Bambino»,
aveva sussurrato lei con convinzione. «Alex sarà
un bel maschietto,
me lo sento». Eliza gli aveva regalato un altro bacio e si
era
spostata, tornando al presente: il soggiorno della villa era pieno di
persone che andavano a venivano da una parte all'altra, e la povera
Marielle era quella che correva più di tutti, lavorando
anche quando
non avrebbe dovuto. La troupe televisiva riprendeva ogni centimetro
della casa, fermando qualcuno per intervistarlo rapidamente. La
troupe inviata dalla CatCo stava girando ogni angolo per trovare
quello migliore per le foto. Intanto, Danvers e Luthor erano quasi
tutti lì, che parlavano e cercavano di conoscersi e trovare
un punto
d'incontro, qualcosa che li unisse, Eliza lo sapeva, per scoprirsi
famiglia al di là di quel matrimonio. Tanto diversi, tutti
sotto lo
stesso tetto.
«Signora
Danvers, se vuole possiamo scattare le prime foto», le disse
una
ragazza con la macchina fotografica al collo, a fondo delle scale. La
truccatrice, al suo fianco, che aveva appena finito di sistemarla, le
fece cenno positivo.
«Lillian
è ancora impegnata con l'acconciatura e i nostri figli non
sono
ancora arrivati».
«Non
importa, ne facciamo qualcuna solo con lei. Credo che anche la troupe
televisiva voglia parlarle appena possibile».
Eliza
sospirò, dando una nuova occhiata in fondo alle scale. Tanti
ridevano, altri correvano, sua madre la guardò con
apprensione e
scosse la testa. «Oh, e va bene», sorrise e
sollevò l'abito
bianco, mentre la truccatrice tornava indietro per Lillian.
«Mi sono
già sposata, ma le interviste e tutte queste attenzioni sono
ancora
una cosa molto nuova, per me». La fotografa rise a sua volta,
facendole strada. Presentò la villa accanto a Marielle che
le faceva
da supporto. Le fecero delle foto, alcune con qualche parente e i
suoi genitori, un'altra con Marielle, parlando di lei come un'amica.
Davanti alla telecamera, sul divano in soggiorno, parlò di
come non
fosse stato affatto difficile trovare una chiesa che le ospitasse.
«Non
solo siamo due donne, ma siamo anche due donne già state
sposate,
credevo sarebbe stato complicato trovare un parroco disposto a
sposarci, pur se con rito civile, non religioso»,
spiegò. «Ci
tenevo, in un certo senso, perché è
così che ho sempre immaginato
il mio matrimo- beh, il mio secondo matrimonio?!», rise.
«È tutto
come un sogno, eppure, la cosa mi rende un po' triste perché
capisco
che se abbiamo tutto questo, è per lo stesso motivo per cui
ci siete
voi: perché non siamo persone comuni. Non lo sono
più io per la
futura moglie, per la mia nuova famiglia», spiegò.
«Può
parlarci del suo primo matrimonio?».
Lei
sorrise, portandosi una mano sulla pancia. «Ah…
cosa dire? Ero
incinta».
«Incinta»,
aveva detto a voce alta quella giovane, «Incinta. Ve lo dico
io, ho
ragione».
Dopo
essere passata in villa da Lionel, alcuni ragazzi Luthor e Lorna
l'avevano riaccompagnata nella sua casa, più in periferia.
Avevano
preso una delle loro auto, pagando il tassista che l'aveva portata da
loro e ringraziandolo per il disturbo. Erano stati fatti accomodare;
anche quella casa, molto più modesta a ciò a cui
erano abituati,
era piena di gente.
«È
incinta, vi dico. Si è fatta mettere incinta»,
aveva detto di nuovo
lei, nascondendosi dietro ad alcune cugine allo sguardo acido di
Lillian, fingendo disinvoltura. Sua cugina Bernadette, naturalmente.
Aveva sempre avuto la lingua lunga e velenosa.
«Ti
sembra il modo di scappare di prima mattina? Ero
preoccupatissima»,
sua madre l'aveva guardata assottigliando i suoi occhi chiari.
«Ci
vuoi andare vestita e conciata da sposa a questo matrimonio, o vuoi
scappare ancora? È tardi».
Lorna
aveva risposto per lei, mettendosi in mezzo e stringendo un braccio
di Lillian per farle sapere la sua vicinanza. «Adesso siamo
tutti
calmi e ci prepariamo per questo matrimonio. Sono qui per aiutarla,
quindi sarà un successo, signora».
La
giovane Lillian le aveva seguite verso la sua camera, dando un'ultima
occhiata alla cugina che sparlava e le sorrideva con malizia, ancora
vicina alle altre cugine.
La
Lillian presente, invece, si alzò e si guardò
allo specchio,
portandosi poi una mano contro la bocca dall'emozione. La truccatrice
le disse che era bellissima, ma lei faticò a rispondere. Si
rivide
per un attimo ancora diciottenne, davanti a uno specchio più
rovinato e antico, che si passava le mani sulla pancia, lisciando il
suo costoso abito bianco da Luthor. Così stonato nel
grigiore di
quella vecchia casa. Era l'inizio di una nuova vita allora, e lo era
ora. Lorna Luthor l'aveva abbracciata e le aveva fatto i complimenti,
agganciandole la collana di oro bianco e smeraldi. Nel presente si
toccò il collo spoglio.
«Oh,
sì. Aveva già in mente qualcosa da
indossare?», le domandò la
stilista. Era un peccato che Felipe sarebbe stato impegnato, quella
mattina.
Lillian
annuì.
«A
che ora ci aspettano?», domandò Maggie, vedendo
Alex infilarsi la
giacca. Era appena riuscita a vestire Jamie e pregava che sarebbe
riuscita a tenere quel vestito ancora giallo canarino per almeno la
cerimonia in chiesa.
«Ci
aspettano già, ma purtroppo devo andare da una parte,
prima», si
avvicinò a lei, dandole un veloce bacio a stampo.
«Sarò alla Lord
Technologies, ci metterò solo qualche minuto».
«Adesso?»,
spalancò gli occhi, «Vuoi mettermi al corrente di
quello che sta
succedendo o devo tirare a indovinare?».
«Incomincia
ad andare, se vuoi».
«Scherzi?
È il matrimonio di tua madre e mi chiederà dove
sei».
«Va
bene, aspettami, sarò di ritorno tra poco, devo solo fare
due
chiacchiere con Maxwell Lord». Aprì la porta di
casa e si tuffò
fuori.
«Non
hai preso al pistola, vero?».
«Ti
amo», urlò, chiudendo velocemente.
Non
si aspettava la fanfara ad accoglierla, ma di certo nemmeno che, al
primo tentativo in portineria, le dicessero di salire. Se pensava di
trovarsi davanti la dolce Alex Danvers venuta a trovarlo, quell'uomo
si sbagliava di grosso. Appena aprì la porta del suo ufficio
con una
spinta, Lord si allisciò la cravatta e, con un cenno per
farla
accomodare e un gran sorriso, aprì bocca per darle la
benvenuta, ma
lei lo interruppe. «A che gioco stai giocando?».
Veloce, ferma,
dritta al punto.
Lui
spalancò gli occhi, ma non spense il sorriso.
«Devo sapere di cosa
stai parlando, prima di poterti rispondere in modo accurato».
«Vendi
le pillole nel pub, e questo lo sapevamo, ma metterle nei bicchieri
di persone che non sanno cosa stanno per bere è…
inaccettabile»,
sbatté le mani contro la scrivania.
«Come?
Sei sicura? Metterle nei bicchieri di alcuni clienti
inconsapevolmente mi porterebbe in perdita. Perché dovrei
fare una
cosa del genere?».
«Mia
sorella era nel tuo pub, ieri sera. E una certa Roulette l'ha
drogata».
«Kara
era nel mio pub, ieri? Le è piaciuto? Disgraziatamente,
alcuni
teppisti hanno superato la sicurezza e hanno sfasciato tutto.
Dovrò
tenerlo chiuso per ristrutturazione, ma i lavori vanno
veloci».
«Mi
stai ascoltando?», spalancò gli occhi, battendo di
nuovo una mano.
«Questa Roulette l'ha drogata».
Lui
ansimò, lisciandosi di nuovo la cravatta. «Non
vendo droga, Alex.
Se anche il fatto sia realmente accaduto, ed è da accertare,
ciò
che Kara ha ingerito non è droga. Tutt'al più
stimolanti». La vide
alzare gli occhi al soffitto, allontanandosi dalla scrivania.
«In
ogni caso, farò accertamenti e ti ringrazio per il feedback.
Chiamerò Roulette e ispezionerò i video delle
telecamere. Con il
pub chiuso, se non altro saprò come tenermi
impegnato», sorrise.
Alex
guardò l'orologio sul polso e prese un gran respiro: era
quasi metà
mattina, doveva andare. «Tornerò».
«Le
mie visite preferite», rise, restando seduto. «E
auguri per la
nuova famiglia», quasi le gridò, quando lei era
già fuori
dall'ufficio. La tenne d'occhio e aspettò che
salì sull'ascensore,
prima di prendere la cornetta del telefono sulla scrivania e comporre
una serie di numeri. Ora era serio. «Devo parlarti, riguardo
ieri
sera. No, non al telefono, ti voglio qui entro giornata».
Chiuse e,
con il portatile sulla scrivania, accedette velocemente alle
telecamere del pub, ricercando un video in particolare e mettendo
play, osservando Kara e Roulette parlare al bancone.
In
quello stesso momento, i fratelli Luthor e Kara erano da poco
arrivati da Metropolis. Avevano lasciato Kara davanti al campus
mentre loro si dirigevano in villa per il matrimonio. La ragazza fece
in fretta: salutò Megan, smistò la posta e
nascose l'ennesima
lettera di sua zia nell'armadio, prese l'abito da damigella e lo mise
in borsa per portarlo via; in cinque minuti di pausa sedendo sul
letto, riprovò a bassa voce alcune frasi della canzone che
avrebbe
cantato quel pomeriggio.
«Sei
in ansia. Lo vedo che sei in ansia», annuì Megan,
seduta sul letto
davanti. Kara la guardò e trattenne il fiato. «E
sei anche rotta»,
le indicò il taglio sopra l'occhio. «Di questo
passo, John non ti
ridarà il ruolo di capitano».
Kara
sbuffò. «Ho ben altro per la testa». Si
alzò e prese la borsa in
spalla, decidendo che era ora di andare.
«Dunque,
posso fare il capitano al posto tuo?».
Kara
aprì la porta e tornò indietro solo di un passo,
facendo sobbalzare
la coda dei suoi capelli. «Scordatelo».
L'ansia
la stava mangiando dentro. La sola idea del matrimonio, in quel
momento, la stava divorando come un pasto caldo. Eliza si sposava. Si
sposava con Lillian Luthor. Era fatta, finita, era il capolinea. Ora
la conosceva, poteva dire che quella donna non era più una
completa
estranea, e di certo avevano passato del tempo assieme, ma l'idea del
matrimonio… Ma non avrebbero potuto stare insieme senza
sposarsi?
Due donne con altri matrimoni alle spalle, che avevano vissuto
un'altra vita prima di conoscersi, che erano tanto diverse…
Si
rendeva conto di parlare da egoista, ma una parte di lei era
fermamente convinta che, se le avessero detto che annullavano le
nozze, avrebbe saltato di gioia.
Stava
uscendo dal campus, quando il telefono le vibrò dalla tasca.
Per un
attimo pensò davvero che le avessero letto nel pensiero. Ma uff,
era solo solo Barry Allen:
Tanti
auguri per il matrimonio di tua madre, Kara!
Lei
alzò gli occhi al cielo.
Per
quanto riguarda mio padre, ne stanno ancora discutendo ma ti
farò
sapere presto qualcosa!
«Kara?».
Stava
per rispondere che la chiamarono e si voltò, scorgendo Mike
Gand che
veniva verso di lei in calzoncini e pieno di sudore. «Auguri
per il,
sai, matrimonio di Eliza».
«Non
toccarmi», mise le mani in avanti. «Mi devo ancora
fare una doccia,
ma la villa sarà piena di gente quando arrivo e non voglio
puzzare
di sudore», ridacchiò. «Di uomo. Di
s-sudore di… uomo».
«Che
hai sulla fronte?». Alzò la mano destra per
toccargliela che lei si
scansò. «È un livido,
quello?».
«Sì,
beh, ieri mi sono scontrata… beh, nulla di che, una specie
di
rissa».
«Rissa?»,
sgranò gli occhi. «Hai fatto a botte? Con chi? Chi
è stato?».
«Ma
niente, lascia perdere… Più che altro sono
preoccupata che non mi
si copriranno con il trucco e», ansimò,
spalancando le braccia,
«sarò immortalata nelle foto delle nozze come
Frankenstein Junior».
Il
viso di Mike si contorse di rabbia, pestando un piede a terra.
«Questo è perché sei testarda e non
vuoi che torniamo insieme!
Avrei dovuto esserci. Avrei dovuto proteggerti».
Kara
deglutì, aggrottando la fronte. «Non avresti
potuto fare niente».
«Sì,
accidenti, Kara, non capisci! Sei ti fai del male, io mi sento
responsabile», si portò una mano sul petto,
guardandola
attentamente negli occhi. «Dovrei stare al tuo fianco e
proteggerti
come mi ero promesso di fare. È il mio compito! Una ragazza
da sola
non-».
«Non
ero sola».
«E
dai, piantala! Ancora con questa storia del ragazzo?»,
spalancò le
braccia, guardandola duramente. «Lo so che non è
vero. Non sono
scemo e so che torneremo insieme, ma nel frattempo che non sei con
me, io non so come fare per-», si bloccò,
indicandole la fronte,
«evitare cose come questa».
«So
difendermi da sola, Mike».
«Lo
vedo come lo fai bene».
Kara
fece due passi in avanti per andarsene, poi tornò indietro
di uno,
riguardandolo negli occhi. «Sei possessivo, maschilista ed
egocentrico», lo indicò, «Per questo non
siamo insieme e non lo
saremo mai più. E ora scusa, devo rispondere».
Riguardò il
cellulare, accendendo lo schermo e prendendo passo per andarsene.
Mike
restò fermò per un po', con lo sguardo basso e
l'orgoglio ferito.
«A chi devi rispondere? Il tuo ragazzo che non
esiste?».
«Barry
Allen».
«Oh,
con lui riesci a sentirti, eh? Un grande amico… e magari
vuole solo
portarti a letto. Gliela darai?».
Lei
si fermò, prendendo fiato. «Lui è un
vero amico, Mike. Non lo fa
per interesse. E se vuoi saperlo, mi scrive per dirmi di suo padre
che uscirà di prigione e forse lo raggiungerò a
Central City per
festeggiare. Per qualcosa di serio, non per sminuirmi come persona
come fai tu, convinto che non vivrò senza di te».
Si voltò,
scrivendo il messaggio. «E magari adesso raccontalo ai tuoi
amici al
telefono di come sono stata cattiva nel rifiutarti di nuovo».
Se ne
andò velocemente e Mike restò senza fiato,
immobile, ripensando
alle sue parole.
Quando
arrivò in villa, Kara restò pietrificata dalla
mole di persone che
andavano e venivano ovunque. Si premurò di nascondersi la
fronte con
una mano, cercando di adocchiare i suoi colleghi della CatCo e la
troupe televisiva, che di certo non doveva riprenderla in quello
stato. Poi prese passo per salire una scala e cercò di farlo
velocemente quando scorse Lena avvicinarsi all'ingresso. Oh,
o almeno ci avrebbe provato se non avesse già indosso il
vestito da
damigella e lei era così bella da farle immaginare di
andarle
incontro e baciarla davanti a tutti, curiosa di come si sarebbe
svolta la mattina da lì in avanti. Forse avrebbero rubato la
scena
al matrimonio delle loro madri. Avrebbero scritto un articolo su di
loro. La troupe televisiva si sarebbe focalizzata sui loro primi
piani. Eliza e Lillian le avrebbero odiate per aver rovinato le
nozze. Accidenti, doveva smetterla di fantasticare a occhi aperti su
Lena e quel vestito e sulla loro relazione. Relazione che Lena non
voleva riprendere, per di più. Se
ne sarebbe pentita,
erano le sue parole, ma al momento l'unica cosa di cui si pentiva
davvero era non poterle sfilare quel vestito di dosso, in camera sua,
mentre tutti al piano di sotto pensavano ad altro. Oh
no,
ci era ricascata: stava di nuovo fantasticando su Lena e quel vest-
«Zia
Kara».
Jamie
le venne addosso e per poco non cadde contro il primo scalino. Scese
la mano per reggersi e di nuovo si ricoprì la fronte e
tirò sul
naso gli occhiali, guardandosi a destra e sinistra assicurandosi che
nessuno l'avesse notata.
Alex
le arrivò tanto vicino che non l'aveva vista, anche lei
vestita da
damigella, e prese la bambina per mano, scambiando uno sguardo con
Lena, davanti, appena arrivata. «Vieni, Jamie. Zia Kara ha da
fare,
adesso, giocherai con lei più tardi».
Pensò di darle un colpo su
un braccio prima di allontanarsi, Kara lo notò, ma ci
ripensò
all'ultimo: era già abbastanza rotta.
Lena
le lanciò un'occhiata e poi chiese a Kara di seguirla,
salendo le
scale. Non le rivolse la parola fino a quando non aprì
camera di
Alex ed entrarono entrambe, scoprendo Maggie che parlava con un'altra
ragazza.
«Oh,
eccovi», le sorrise la prima, andandola ad abbracciare e
scorgendole
il taglio sulla fronte. «Bruttino, ma ho visto di peggio. Lei
ti
aiuterà a coprirlo», indicò l'altra
ragazza, la truccatrice, che
le porse la mano per stringergliela.
«Hai
camera mia a disposizione», esclamò Lena,
guardandola negli occhi
il meno possibile. «Così avrai bagno e camera per
prepararti. Poi
tornerai qui e lei ti farà il trucco. Cercherà
di… sistemarti».
Kara
e Lena uscirono, mentre Alex rientrava e Maggie, braccia a conserte,
le faceva un segno col capo. «Dove hai lasciato
Jamie?».
«Oh,
è in buone mani», sorrise.
Al
piano di sotto, in cucina, Lillian Luthor in abito da sposa guardava
Jamie vestita di giallo
e Jamie vestita di giallo
guardava Lillian Luthor vestita da sposa. «Allora»,
deglutì la
donna, «Bambina…
Come ti vanno le cose?». La piccola non
si mosse e continuò
a fissarla, con serietà. «Va bene,
allora… vuoi una caramella?».
All'improvviso la vide sorridere e sorrise fiera di rimando, alzando
il mento.
«Puoi
restare». Kara la fermò davanti alla porta di
camera sua e Lena
abbassò gli occhi. «Non-»,
deglutì, «mi vedrai nuda, mi cambio
in bagno. Co-Così, però, se vuoi
parlare…».
«No,
torno da Alex e Maggie. È meglio così,
credimi».
Kara
s'imbronciò. «Non vuoi neanche
parlarmi?».
Lena
arrossì. «Non è questo. Se penso a te,
nuda, nella mia vasca…
Sono umana, Kara, e ancora decisamente attratta da te e…»,
poi abbassò la voce, «anche
se non arrabbiata, decisamente propensa a farti dimenticare di aver
baciato quelle due».
«Ah…»,
arrossì anche lei, sentendo le orecchie farsi bollenti.
«Beh, sareb…
umh», si
schiarì la gola. «A-Allora
è
meglio se non vieni den- Vo-Voglio dire»,
sobbalzò, «Nel bagno.
Venire dentro in bagno, cioè, c-con i piedi». Alla
fine, mentre
Lena spalancava gli occhi imbarazzata, Kara decise di entrare e
chiudere velocemente la porta.
Maggie
e Alex, origliando davanti alla porta dell'altra stanza, si
scambiarono un'occhiata e scossero la testa: non avevano parole.
I
fotografi avevano scattato diverse foto alla casa dove Lillian aveva
passato l'infanzia e l'adolescenza. Aveva sempre ricordato quei
momenti con profonda vergogna ma, adesso che era adulta, si chiedeva
più a fondo qual era stato il reale punto di rottura tra lei
e la
sua famiglia, che era di certo avvenuto prima del suo matrimonio.
Aveva conosciuto Lionel Luthor per caso, ma non per caso aveva
continuato a ricercare contatti con lui: a Lillian piaceva studiare
fin da piccola e lui andava nel suo liceo, voluto dagli insegnanti,
per parlare di commercio e finanza; lei alzava sempre la mano, lo
ricercava nei corridoi e una volta, pur di parlare con lui, si era
assicurata di sbattergli addosso una porta e mentirgli che le
dispiaceva. Avevano iniziato a parlare, trovando cose in comune. Se
non fosse che lei, a dispetto di lui, veniva da una famiglia
qualsiasi, comune, avrebbe detto povera.
Quattro anni più grande di lei, Lionel era già
maggiorenne quando
avevano iniziato a frequentarsi ma nessuno aveva osato denunciare il
loro rapporto. Lui era un Luthor e i Luthor erano intoccabili,
allora. Lillian lo ammirava e ammirava la sua famiglia; si sentiva
capita, accettata, mentre dai suoi zotici genitori riceveva solo
lamentele e urla per farle smettere di studiare e pensare a crearsi
una famiglia. Loro non volevano Lionel. Non volevano i Luthor. In
famiglia le ripetevano che quel ragazzo si sarebbe stancato di lei,
ma Lillian non avrebbe mai permesso che il futuro che si meritava le
sarebbe sfuggito di mano. Così, quando i fotografi si erano
tanto
impegnati per scattare foto a quella casa sporca e vecchia, Lillian
aveva cercato di non farci caso. Le aveva fatto schifo, ma era
inevitabile che i giornali avrebbero pubblicato le sue origini: era
il prezzo da pagare.
«La
vedi? La vedi, adesso?». Bernadette aveva picchiettato con un
gomito
un'altra cugina ed entrambe avevano riso, guardando Lillian, in abito
bianco, che usciva dalla casa mentre i fotografi scattavano altre
foto. Nemmeno vedere quella costosa collana intorno al suo collo era
motivo per zittirla.
«Io
non vedo niente. Ma tu sei sicura?», le aveva chiesto di
nuovo
l'altra cugina, pur sempre ridendo.
«Si
è fatta ingravidare». Avevano riso di nuovo
entrambe, mettendo una
mano per coprirsi la bocca.
Avrebbe
voluto ignorarla, ma stava iniziando a ribollire di rabbia.
Tutti
i presenti si portarono una mano alla bocca, vedendo Lillian scendere
dalla scala per il soggiorno in villa. I parenti Luthor applaudirono,
mentre la telecamera della troupe la riprendeva e riprendeva loro,
mentre suo figlio Lex, in completo, la aspettava in fondo alla scala.
Il ragazzo le tese il braccio destro e lei infilò sotto il
suo, dopo
aver toccato e odorato il fiore all'occhiello di Lex. La telecamera
riprese più volte sulla collana
e poi
sui sorrisi dei due. Quando staccarono le riprese, i fotografi e
giornalisti della CatCo la puntarono subito. «Sarò
da voi tra un
momento».
Vide
la giornalista e la fotografa scambiarsi uno sguardo e poi
controllare gli orologi, decidendo che erano ancora in tempo,
correndo verso il resto della troupe.
«Hanno
accompagnato Eliza in chiesa, sua madre ha insistito perché
non ti
vedesse vestita da sposa prima della cerimonia», le
sussurrò Lex,
quasi all'orecchio. «Le troupe si sono divise e Alex e Kara
sono
andate con lei, insieme ai parenti Danvers. Anche Lena».
«Ma
naturalmente», sibilò a denti stretti, sorridendo
per una foto. «Mi
sorprende che tu sia rimasto». Salutò con una
stretta di mano
alcuni parenti che non vedeva da tempo, facendosi immortalare insieme
a loro per un'altra foto.
«Non
adagiarti sugli allori. Se sono qui», sorrise e anche lui
salutò
verso la telecamera, che di nuovo riprendeva la casa,
«è solo per
tutto questo e per il futuro della Luthor Corp».
Lillian
annuì. «Mi sta bene»,
concordò, «Per ora».
Madre
e figlio si impegnarono a farsi riprendere, intervistare brevemente e
a farsi scattare foto separati e insieme, prima che conducessero
anche loro in chiesa. Impiegarono solo pochi minuti di limousine,
seguiti dalle altre automobili. Le strade bloccarono il traffico per
farli passare. All'arrivo in chiesa, questa era già piena di
altri
fotografi e giornalisti con microfoni e telecamere, anche semplici
curiosi tenuti indietro da uomini in divisa e transenne. Fecero
entrare i parenti Luthor per primi, dalle porte sul retro, e dopo
Ferdinand l'autista scese per primo dalla limousine, anche lui in
smoking e farfallino, per aprire la portiera davanti a Lillian. Tre
uomini la aiutarono con lo strascico che si fece aggiungere da Felipe
giorni fa, e Lex le prese di nuovo il braccetto per accompagnarla
all'altare. Non essendoci suo padre, né più il
signor Luthor, Lex
era l'unico che poteva prendere quell'incarico.
Janine,
loro wedding planner, si affacciò sulle porte della chiesa,
riguardò
di nuovo dentro, e dopo fece loro un cenno positivo con la testa, il
via libera che aspettavano. Degli uomini spalancarono del tutto le
porte e Lex e Lillian percorsero lentamente gli scalini d'ingresso.
La
chiesa era enorme, con soffitti altissimi, archi a tutto sesto a
destra e sinistra, vetrate che si estendevano per metri, raffiguranti
angeli e santi. Eliza aspettava davanti al parroco, vicino ai
testimoni, Lorna Luthor per Lillian e Marielle per lei, e alle loro
figlie che, tutte vicine, si sforzavano per restare serie e
sorridere, con dei mazzolini di fiori in mano.
«Vi
sento tremare», soffiò Eliza.
«Noi
non-», Kara provò a parlare.
«Smettila
o ti sentirai solo tu», brontolò Alex,
interrompendola.
«Non
sto parlando a voce alta», si giustificò e il
parroco le rivolse
mezza occhiataccia.
«Sì,
un po'», tentò di dirle Lena.
«Non
è vero».
«Shh»,
sibilarono insieme Alex e la loro madre. «E dopo mi
racconterai come
ti sei tagliata in fronte».
Kara
sbuffò: nonostante il trucco, era impossibile sfuggirle.
Eliza
deglutì e, dall'ansia, si portò una mano sulla
pancia. Al pancione
al suo primo matrimonio. Jeremiah era davanti a lei già
sull'altare
e, con un braccio a suo padre e l'altro a reggere la personcina che
portava in grembo, stava andando da lui in sposa.
«Questo
velo mi prude», aveva detto a denti stretti, mentre suo padre
l'aveva ignorata, sorridendo alla loro famiglia a lato della navata.
«Mi prude parecchio, spero me lo sollevi presto. E ti sento
picchiettare i denti, smettila». Lui aveva sgranato gli
occhi. «Per
di più, il mio bambino si muove. Ed è pesante.
Avrei dovuto
scegliere altre scarpe?».
«Eliza,
figlia mia, rilassati. Il bambino nascerà in preda a una
crisi di
nervi, se continui così», le aveva sussurrato suo
padre, ormai
vicinissimi a Jeremiah. «Prego che quella creatura
saprà tenere
testa il tuo carattere eccentrico».
«Alex?».
«Non
mi riferivo a tuo figlio». Con qualche capello sugli occhi
che
sballottava, suo padre le aveva fatto un cenno con la testa in avanti
ed Eliza aveva arrossito, guardando Jeremiah. Guardando Lillian,
finalmente davanti a lei. Ricercò lo sguardo di suo padre
che, solo
pochi attimi prima, l'aveva accompagnata all'altare una seconda
volta. Non aveva più capelli che gli ricadevano sugli occhi,
era
stempiato, con qualche ruga in più intorno agli occhi e sul
naso, ma
il suo sguardo era rimasto lo stesso e le indicò Lillian con
un
cenno del capo.
Le
immagini di Lillian che in abito da sposa saliva i gradini della
parrocchia, insieme alle prime foto della villa, di Eliza e le sue
figlie in giardino, di quelle dei parenti che applaudivano e
ridevano, rimbalzavano già in televisione, mettendo Rhea
Gand di
malumore. E non che ultimamente ci volesse molto per vederla in
quello stato. «Ne fanno una schifosa questione di
Stato», brontolò,
«E neanche un invito, Luthor». Strinse i pugni e
con rabbia ordinò
vocalmente alla televisione di spegnersi, così
lasciò quel
soggiorno, percorrendo il corridoio assicurandosi di pestare i piedi.
Stava per scendere gli scalini per il salone vicino all'ingresso, che
la porta di casa scattò e suo figlio Mike entrò
con il viso a
terra, quasi più nero del suo. «Problemi agli
allenamenti?», le
domandò curiosa, avvicinandosi.
Lui
scosse la testa. «Macché. Sto alla grande, sono in
forma».
«E
allora perché quella faccia tanto
giù?».
Mike
la guardò con attenzione, a quel viso affranto e tirato,
pensando se
dire o meno la verità. Alla fine sospirò.
«Ho incontrato Kara al
campus, oggi».
«Oh,
certo», spalancò le braccia, «Ancora
lei».
«Puoi
stare tranquilla, mi ha fatto capire molto bene cosa ne pensa di me e
perché non vuole tornare insieme»,
sbuffò. «Non le interesso, c'è
solo Barry Allen nella sua testa». Stava per prendere passo
che la
madre lo fermò per un braccio, dandogli una carezza su una
guancia.
«No,
resta. Parlarmene. Sono tua madre, mi preoccupo per te… Chi
è
questo Barry Allen? Il suo ragazzo?».
«Mah,
un amico suo, dice», strinse le labbra infastidito, alzando
gli
occhi al soffitto. «Un tipo di Central City, ha il padre in
prigione
e Kara ne è preoccupata. Forse lo liberano e vuole andare
lì a
festeggiare, non mi interessa. Per lui, Kara c'è sempre.
È con me
che ha dei problemi». Si separò dalla donna.
«La cosa che più mi
ha dato fastidio è stato scoprire che sapeva che parlavo con
alcuni
amici di lei al telefono e vorrei tanto sapere chi di loro ha fatto
la spia… Se lo trovo, passerà dei brutti
momenti». Scosse la
testa e si allontanò, mentre Rhea Gand restò
ferma e perplessa,
nell'ingresso.
Spia.
Qualcuno aveva fatto la spia? Scese gli scalini della sala di corsa e
inquadrò suo marito davanti alla scrivania che prendeva
degli
appunti con carta e penna. Appena la vide arrivare, nascose tutto in
un cassetto.
«Avevo
ragione», starnazzò.
«Su
cosa?».
«È
lei. È Kara Zor El che ci spia». Vide suo marito
trattenere il
fiato e passarsi due dita in mezzo agli occhi, ma non cedette.
«So
che devo sembrarti un po' fuori di me in questi ultimi tempi, e di
certo il fatto che Lillian Luthor non mi abbia invitata al suo
matrimonio mi ferisce profondamente, ma non sto perdendo la testa,
Lar, so quello che dico: lei conosce cose che non dovrebbe conoscere.
Cose che nessuno di noi direbbe e che lei viene a sapere
comunque».
Iniziò
a guardarsi intorno e l'uomo si alzò dalla sedia, dando
un'ultima
occhiata al cassetto, assicurandosi che fosse ben chiuso.
«Rhea»,
la prese per le spalle. «Ma ti senti? Lei non ci spia, sei tu
che
vuoi che sia lei per forza. Crei il tuo capro espiatorio per
ciò che
ci sta succedendo, ma è solo una ragazzina, nulla di
più».
«No»,
gli puntò addosso un dito, allontanandosi dalla sua presa.
«Sei tu
che sei sempre stato troppo indulgente con quella piccola ficcanaso:
avremo dovuto ucciderla quando era bambina, quando ti avevo suggerito
che avremo dovuto prendere provvedimenti per lei e per quell'altro
moccioso che è sopravvissuto. Ora non staremo qui a litigare
come
due sciocchi, quella Leslie Willis non avrebbe scritto di te, non
saremmo dovuti andare da Oprah a chiarire la nostra posizione e lo
stesso in altri programmi del genere», spinse il dito indice
destro
con il suo petto. «Lo sai che se mi invitano da Oprah
piacerebbe
decidere a me, di cosa parlare».
«Cara,
per favore», tentò un riavvicinamento, passandole
una mano su un
braccio. «Siamo cambiati, non siamo più quelle
persone. Ricordi?
Abbiamo abbandonato certe… attività»,
prese fiato. «Ci siamo
dedicati al futuro. Tutti sono andati avanti. Abbiamo perso quel
potere perché ci siamo spinti troppo oltre e non quel
giorno, Rhea,
ma da anni fino a quel giorno. Devi lasciar vivere in pace quella
ragazzina-». Lei improvvisamente sorrise e lui si
fermò.
«Sei
sempre stato un ingenuo, Lar», si tolse la sua mano di dosso,
scacciandola con un colpetto. «Nessuno di noi ha mai perso il
potere
o è andato avanti. Abbiamo solo deciso di nasconderci e io
dico
basta».
Il sorriso si spense e uscì dalla sala, intanto che il
senatore Lar
Gand restava lì, in piedi, senza più fiato.
«Stai
uscendo?», la vide riprendere il loro figlio.
«Devo
trovare chi ha fatto la spia a Kara, tornerò tardi.
Forse»,
aggiunse Mike, chiudendo la porta dietro di lui.
Eliza
aveva sorriso di gioia, accarezzando il pancione.
Lillian
aveva accarezzato il suo, solo un momento, allungando uno sguardo
alla cugina pettegola seduta in mezzo ai suoi zii, in chiesa. Quando
l'aveva vista guardarla, Bernadette aveva unito le braccia e le aveva
fatte dondolare come per simulare l'atto di cullare un neonato.
Lionel le aveva detto di essere bellissima, ma lei ci aveva fatto
caso appena. «Mi stanno guardando? Lo sanno?».
«No»,
aveva aggrottato la fronte lui, dando un'occhiata ai parenti e,
alzando lo sguardo, chiedendo un momento al parroco, prima di
procedere con la cerimonia. «Solo i miei genitori ne sono al
corrente, lo sai. E non lo direbbero a nessuno. La gravidanza
è una
sorpresa».
«Lei
lo va a dire a tutti», aveva stretto le labbra con odio.
«Lei
può dire quello che vuole, Lillian», le aveva
passato una mano su
una guancia. «Nessuno le crede».
Sangue.
Allora non era ancora successo,
ma
sarebbe capitato entro un'ora dallo scambio degli anelli.
«Pensa
di sapere la verità, ma in realtà-».
Il
viso di sua cugina ricoperto di sangue.
«lo
fa solo per farti arrabbiare».
Il
suo sorriso strafottente, solo pochi attimi prima.
«Perché
non ammetti e basta che ti sei fatta mettere incinta perché
altrimenti il ragazzo ricco ti avrebbe lasciata?».
Erano
sole. In una camera a parte nel locale in cui avevano deciso di
festeggiare il ricevimento.
Era
entrata lì per prendere aria, ma Bernadette l'aveva seguita.
C'erano
solo loro.
«Allora?
A me puoi dirlo. Dimmi la verità, cuginetta».
Lillian
si era sganciata la collana e l'aveva adagiata con cura su un mobile
di legno.
«Allora?
Allora? Allora? Non ti lascerò in pace fino a quando non
dirai la
verità».
Lillian
l'aveva guardata con odio, impassibile, sguardo fermo.
«Allor-».
La
sua ultima parola: Lillian aveva stretto tra le mani una targa di
marmo del locale,
un
soprammobile che era lì, alla sua portata, e gliela aveva
sbattuta
in faccia.
Era
pesante, aveva faticato a reggerla, ma l'avrebbe aiutata a colpirla
con più forza.
Lei
era a terra, grondante di sangue, ma non era abbastanza.
L'aveva
colpita.
Colpita.
Colpita.
Colpita
più volte, macchiando tutto di sangue.
«Devo
dirti una cosa, Lillian», aveva deglutito Lionel e lei si era
distratta, ritrovando un senso di paura riflesso nei suoi occhi.
«È
meglio che tu lo sappia prima di dirmi di sì. Riguarda la
mia
famiglia, i Luthor. Forse non sono esattamente ciò che pensi
che
siano».
Lei
aveva sollevato le labbra fini, sorridendo. «Oh, Lionel, mi
sottovaluti. So benissimo chi sono i Luthor».
«Lo
sai?».
La
giovane Lillian aveva annuito, fermando il proprio sguardo sui suoi
occhi. «L'ho sempre saputo».
Due
ragazzi che lavoravano per i Luthor erano entrati in quella stanza.
Avevano
guardato la ragazza a terra e il viso e il vestito bianco macchiato
di rosso di Lillian.
«Qui
ci pensiamo noi», le aveva assicurato uno dei due.
«Lei
si vada a sistemare, può stare tranquilla», aveva
preso parola
anche l'altro.
«La
portiamo noi all'ospedale».
Lillian
l'aveva guardata a stento, passandosi una mano sporca di sangue per
togliersi un ciuffo di capelli dal viso, sfuggito all'acconciatura
nel movimento. «Parlerà?».
Loro
avevano scrollato le spalle, guardando la ragazza esanime con
sufficienza.
«Ci
assicureremo che non lo faccia».
Allora
Lionel aveva sorriso, come sollevato. «Ma chi sei,
tu?», aveva
scrollato le spalle, «Mi sorprendi sempre».
Sangue.
Si era guardata le mani ricoperte di sangue.
Lillian
aveva sorriso di nuovo, fiera. «Sono una Luthor».
Eliza
la guardò negli occhi, faticando a mantenere la
concentrazione. «Non
ho fatto altro che pensare a questo momento e… adesso che
è
arrivato, non ho più», rise con un accenno di
singhiozzo, facendo
sorridere i presenti, «parole. E voce, come
sembra». Anche il
parroco rise. Così, la donna cercò di trovare di
nuovo una certa
serietà, abbassando solo un attimo gli occhi.
«Sai, non è stato
per niente facile aprirmi a te, agli inizi. Ammettere di provare
qualcosa e poi è stato tutto così bello che
temevo perfino a
condividerlo con le mie figlie, perché l'incantesimo non si
spezzasse, e… ammetto di aver cercato di sabotare i nostri
incontri
con loro».
Mente
i parenti ridevano, Kara aggrottò lo sguardo e Alex
roteò gli
occhi.
«La
verità, però, è che quell'incantesimo
andava spezzato. Una
relazione vera non è fatta di incantesimi, ma di pazienza,
complicità, di forza e… Perché
è tutto bello quando si comincia
a stare insieme, siamo al settimo cielo, ma è momentaneo, la
vera
relazione inizia dopo, dopo, quando ci accorgiamo dei difetti e
impariamo ad amare anche quelli. O a provarci».
Kara
deglutì. Improvvisamente si sentì di nuovo calda,
troppo vicina a
Lena; sentiva un braccio strofinare sul suo. Cercò di
vederla con la
coda dell'occhio, accorgendosi che lei faceva lo stesso.
«Perché
tu non sei perfetta, Lillian». Quella frase la
colpì, lo vide
attraverso i suoi occhi che si muovevano incerti. «Ti chiudi
in te
stessa e sei un muro impenetrabile. A volte temo di non riuscire a
raggiungerti, ma sei tu che mi cerchi, che mi trovi, e posso tirare
un sospiro di sollievo. Sei una persona difficile, testarda»,
le
sorrise, «scostante. Spesso arrabbiata nemmeno tu sai di cosa
e ami
guardare per ore le televendite alla tv quando vuoi rilassarti. E
quando sei soprappensiero, oh beh, allora ti chiudi in biblioteca e
cammini, cammini avanti e indietro cercando di sciogliere un nodo
invisibile, arrovellandoti il cervello. E non parli di cosa pensi,
no, questo mai, cascasse il mondo sei chiusa come un forziere. Sei
una sfida continua», aveva detto a voce un poco bassa.
«Lo so chi
sei, Lillian».
Sangue.
Aveva avuto le mani bagnate di sangue.
«E
ti amo. Ti amo davvero».
Lillian
spalancò gli occhi lucidi, sentendo il suo cuore perdere un
battito.
In un attimo, erano di nuovo solo loro. C'era Eliza all'interno di un
laboratorio alla Luthor Corp e lei che, dietro la porta, cercava di
spiarla. C'erano i suoi sorrisi e le sue gaffe. C'era il modo in cui
la guardava. C'era il modo in cui stringeva le sue figlie e si
rivolgeva a loro; l'aveva sempre osservata bene, lo faceva anche con
Lena, accogliendola come un cucciolo bisognoso di cure. Amava come si
prendeva cura degli altri; era una cosa che lei non sarebbe mai
riuscita a fare. E anche se, aprendo bocca per dire le sue promesse,
cercò di dirle a parole come la faceva sentire a starle
vicino,
amarla anche lei, sapeva che non sarebbe mai riuscita a fare
abbastanza. Eliza lo sapeva fare meglio. Qualsiasi cosa, tutto.
Lillian era una persona rotta ed Eliza stava ricomponendo i pezzi.
«La
sposa può baciare la sposa».
E
la prima parte è andata!
Allora,
come vi sembra questo
matrimonio? :D Essendo una prima parte, continueremo
a imboccare
tutte le strade
intraprese
in
questo capitolo (che
non sono solo Eliza e Lillian, o Lena e Kara, ma anche un
pochetto di Alex e Maggie, Maxwell
Lord e Roulette, Rhea e Lar e Mike) nel prossimo ;)
Allora.
Abbiamo esplorato un po' del passato di Eliza e Lillian e le loro
differenze: al matrimonio della prima c'era sicuramente più
armonia,
mentre in quello della seconda una “guerra” aperta.
Entrambe erano incinta! Eliza però si era sposata
a un'età
più “matura” rispetto a Lillian, solo
diciottenne. Il suo
matrimonio è quindi avvenuto anni prima di quello di Eliza e
Jeremiah, occhio.
E
poi c'è la questione “Bernadette”: beh,
Lillian si era
sicuramente presa un certo riscatto nei suoi confronti e l'aveva
fatta smettere di ghignare, ma… Insomma, pare si fosse
comportata
da Luthor, dopotutto. Pare avesse ragione il padre
di Lionel.
Cosa
ne pensate delle famiglie delle due? Spero vi abbiano convinto questi
personaggi inventati di sana pianta :)
Aggiungo
che la scena dove Lillian prende a colpi di targa la cugina, essendo
avvenuta sempre nel suo passato, ma dopo la cerimonia in chiesa tra
Lillian e Lionel, ho dovuto cambiare “stile” e
presentarla a
destra del testo per separarle adeguatamente. Spero non sia stata in
un qualche modo confusionaria, mi sono un po' arrangiata XD Ho
scritto che “sarebbe avvenuta di lì a
un'ora”, più o meno, ma
comunque…
E
le promesse! Ho lasciato immaginare al lettore le promesse di
Lillian, mentre per quelle di Eliza mi sono un po' lasciata andare.
A
parte le due spose, abbiamo Lena e Kara che erano a un tanto
così da
un riavvicinamento vero. Dopo aver passato una giornata particolare,
Kara era pronta a riappacificarsi con lei, ma non ha voluto. Pensate
che Lena abbia fatto bene?
Poi
Alex è andata a parlare con Maxwell, non ha perso tempo, e
lui pare
aver invitato Roulette a raggiungerlo. Mentre Rhea… eh, lei
ormai è
certa che sia Kara a spiarli, Mike ha alimentato le sue paranoie.
Cosa accadrà adesso?
Ora.
Abbiamo una notizia buona e una notizia cattiva.
Iniziamo
con quella buona: presto sarà Natale! (O almeno è
una notizia buona
per la maggior parte delle persone)
La
cattiva è che mi era completamente passato di mente che
presto sarà
Natale! Quindi le mie giornate saranno diverse da ora e avrò
molto
meno tempo per scrivere D: Sapete cosa significa? Già: pausa.
Devo per forza mettere in pausa la pubblicazione della fan fiction,
perché se continuo a pubblicare ma non ho tempo per
scrivere, non
avrò più nulla da pubblicare entro due settimane.
Senza contare che
volevo dedicarmi anche ad altre cosettine da scrivere e non so se
farò in tempo :/
E
sì, ve lo dico, sarà una pausa piuttosto
lunghetta. Mi dispiace, ma
non ho scelta. Spero di ritrovarvi tutti qui al mio ritorno :)
I
dettagli alle note sul prossimo capitolo!
Bene,
dunque ci rileggiamo sabato 15 con il prossimo capitolo, l'ultimo
prima della pausa, per concludere il matrimonio: La
sposa - Seconda parte.
Cosa vi aspettate? Fatemi sapere :)
|
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Capitolo 37 *** 36. La sposa - Seconda parte ***
Sei
persone trasportarono la grandissima torta nuziale a tre piani
nell'enorme salone del ricevimento. Panna, rose in pasta di zucchero
e dei disegni su tutta la superficie. La wedding planner, Janine, era
davanti che dettava disposizioni come un vigile, mentre tutti
applaudivano. C'erano i Luthor, c'erano i Danvers e tanti bambini che
esultavano alla vista di quel dolce gigantesco, la troupe televisiva
che aveva seguito attentamente l'ingresso fin dal furgone che lo
aveva trasportato, la troupe della CatCo che scattava foto agli
invitati e alla famiglia, e gli innumerevoli invitati, appunto, che
continuavano ad arrivare in quell'hotel in centro a National City,
prenotato completamente solo per loro per due giorni interi. Felipe
lo stilista le aveva raggiunte scusandosi per essersi perso i voti,
dicendo che in ogni caso si sarebbe commosso; Maggie aveva dovuto
trascinare via Jamie quando la bambina lo aveva indicato scambiandolo
per un pony arcobaleno della tv. C'era Cat Grant, vestita con estrema
eleganza. Marielle che si sentiva un pesce fuor d'acqua. Il sindaco,
che era arrivato con la scorta e probabilmente già un po'
brillo,
per come rideva. Dipendenti della Luthor Corp e amici. Erano presenti
diverse famiglie di spicco della città, perfino la padrona
di
Proiettile con lui in borsetta. C'erano diversi volti noti per la
televisione e alcuni della radio locale, alcuni giornalisti non per
lavoro, e perfino qualche campione in discipline sportive. Eliza per
prima era rimasta spiazzata dalla mole di persone che si stavano
presentando per festeggiare il suo matrimonio; ricordava gli inviti,
ma mai avrebbe pensato che avrebbero realmente partecipato. Quel
ricevimento era un vero e proprio evento; non ricordava così
tante
facce importanti nemmeno alla festa del loro fidanzamento e, per un
attimo, si sentì come se avesse dovuto sostenere un duro
esame, dato
che molti di loro la guardavano.
«Quando
abbiamo… Beh, quando mi hai detto che avremmo dovuto
invitare anche
loro», indicò Eliza, stringendo Lillian vicino a
lei, «e loro,
oppure loro, oh, e lui, lei è… non fa
scherma?».
«È
la campionessa in carica».
«Sì.
Ecco, dicevo… quando mi hai detto che avremmo dovuto
invitarli, una
parte di me era convinta che non si sarebbero davvero precipitati
qui, andiamo», rise, «Credevo fosse una
formalità. Che si usasse
nel tuo mondo».
«Il
mio mondo?!», Lillian sorrise, adocchiandola. «Ti
svelo un segreto,
mia cara», bisbigliò, «Partecipare
è la vera formalità. Alla
maggior parte dei nostri invitati interessa mostrarsi, farsi
riprendere e lasciarsi intervistare su quale vestito indossiamo
preferisce. È una nota da spuntare in un'agenda. Non sono
qui per
noi, sono qui per loro», sorrise, quando la signora le
mostrò
Proiettile nella borsetta. «Non lasciarti incantare da questo
mondo»,
sottolineò, carezzandole una guancia,
«Poiché è come un
bell'incarto su una scatola vuota».
Eliza
le baciò la mano che le aveva lasciato sul viso, trattenendo
un
sorriso. «Pensi che non lo sappia? Questo non mi
impedirà di andare
a farmi rilasciare un autografo». La vide sghignazzare e le
scivolò
via, dopo averle regalato un bacio.
Lillian
la tenne d'occhio mentre si divincolava tra i tavoli tondi e le
sedie, andando a infilarsi in discussioni già iniziate in un
gruppo
di invitati. La vide scambiarsi un bacio con loro, ridere mentre le
davano gli auguri. Era certa che, se esistesse qualcuno in grado di
rompere il duro muro che divideva quel mondo di facciate dal suo,
più
umano, quella era proprio la sua neo moglie. Forse lei, davvero, non
si sarebbe lasciata comprare.
«Lillian!
Eccoti, finalmente! Dove ti eri nascosta?», per poco, Lionel
non le
aveva urlato, pur conservando un tiepido sorriso.
Vestito
verde che esaltava gli smeraldi sulla collana, i capelli appena
lavati e ancora umidicci sulle punte, tenuti su da uno chignon, le
scarpe nere e ora lucidate; Lillian si era passata le mani sull'abito
e lo aveva lisciato, in special modo sul ventre ancora piccolo,
sperando di camuffarlo. «Sono andata a cambiarmi per essere
più
comoda, mio sposo». Si era alzata sulle punte dei piedi per
baciarlo
e lui aveva ricambiato, stringendola.
«Avresti
dovuto avvertirmi, qui tutti ti aspettavano». Lillian non
aveva
notato, prima di quel momento, quante persone fossero lì al
loro
ricevimento; quanti volti famosi dell'epoca, importanti; volti che
con lei, prima di allora, non c'entravano niente. Era davvero un
altro mondo; o così le era parso subito. Lionel le aveva
preso un
braccetto, invitandola a seguirlo in modo che facesse la conoscenza
di qualcuno di loro prima del pranzo.
Eliza
non era l'unica a meravigliarsi della quantità di persone
importanti
presenti in quell'hotel insieme a loro: i parenti Danvers, dal primo
all'ultimo, avevano iniziato a comportarsi in modo strano. Se
già in
presenza della troupe televisiva, in molti avevano iniziato ad
atteggiarsi sventolando mani, a fare facce concentrate e fingere di
guardare punti lontani, a sistemarsi gli abiti convulsamente e a
rinnovarsi il trucco ogni quindici minuti, ora si concentravano per
avere un aspetto più signorile, ridendo a battute in
discorsi altrui
e riprendendo i figli che, come ogni bambino avrebbe fatto, giocavano
a rincorrersi tra i tavoli. Odiavano l'idea di fare brutta figura,
ora, a confronto con i più pacati Luthor. Invece, Maggie
aveva
concesso a Jamie di andare a correre con gli altri bambini e giocare,
ma a un patto.
«Chi
è Rainbow Dash?», domandò Alex, alzando
le sopracciglia.
«Un
amico di Jamie», ridacchiò lei, andando a
rifugiarsi tra le sue
braccia e, alzando il mento, indicando lo stilista.
«Ooh,
Felipe», sorrise, mentre l'altra le insisteva di fare
silenzio,
battendole
una spalla.
Lo tennero d'occhio mentre, con concentrazione quasi maniacale, si
rimetteva da un lato il ciuffo di capelli arcobaleno riflettendosi su
uno specchietto da borsetta.
«Basta
che gli stia lontano. Non voglio che finisca sui giornali come la
bambina molesta che importunava lo stilista di una delle
spose».
Alex
ridacchiò. «Tu
ci credi che tutta questa gente stia
respirando la nostra stessa aria?».
Maggie
le sorrise. «So che avevano invitato anche il capitano Zod,
ma a
quanto pare ha declinato». Alex si fece più seria
e sospirò, tanto
che la ragazza si staccò da lei, guardandola negli occhi.
«Se Zod
fosse colpevole, pensi che Lillian lo avrebbe invitato?».
«Dubito
che Lillian conosca tutto di tutti».
«E
dai, Alex… Dai il beneficio del dubbio, per una volta.
Sappiamo dei
Gand e, se fosse uno di loro, il nome salterà fuori con la
microspia, prima o poi».
La
ragazza si appoggiò contro una sedia, sospirando
rumorosamente.
«Dovremo ascoltare due giorni di audio, da domani, a
proposito».
«Io
farò doppio turno, domani».
«Tu»,
la indicò, «sei davvero furba. Vorrà
dire che mi farò aiutare da
una delle due piccioncine sfortunate».
Maggie
intercettò il suo sguardo e sorrise, osservandole poco
lontano dalla
torta, in piedi e vicino al muro, che parlavano e sorridevano,
lontano da tutto e tutti, in un mondo a parte solo per loro. Si
chiesero entrambe di cosa stessero parlando. «Quanto ci
metteranno
per rimettersi insieme, secondo te?».
Alex
mise le braccia a conserte. «Lena le tiene nascosto qualcosa
e Kara
è su di giri, non le piace che le si nascondano le cose.
D'altro
canto, le sbava sopra da quando è arrivata e l'ha vista
vestita da
damigella, stamattina. Lena le ha praticamente detto che le
salterebbe addosso. Dunque…», ci pensò,
assottigliando i suoi
occhi, «do loro pochi giorni. Il tempo di parlarsi e
metabolizzare
la parentela».
«Stanotte»,
decise invece Maggie, mentre l'altra sgranava gli occhi. «Do
loro
fino a stanotte, credimi».
«Ma
no».
«Siamo
in hotel, si beve, farà caldo tra un po', si ride, si stanno
studiando con gli occhi, si vogliono. Stanotte»,
ribadì, «Vuoi
scommettere?».
«Ci
sto». Si strinsero le mani, riguardando verso le due.
«È troppo
presto».
«Vedrai,
Danvers».
Lena
non riusciva a staccare lo sguardo dalle sue labbra. Brillavano con
quel lucidalabbra. Si domandava a che gusto fosse. A che gusto
fossero le sue labbra, la sua bocca, la sua lingua. Doveva smetterla,
lo sapeva, ma non riusciva a fare a meno di guardarla e pensarla su
di lei. Doveva essere l'effetto del matrimonio.
«E
allora cammino lungo questo corridoio, sembrava deserto»,
Kara prese
una pausa, guardandola negli occhi, che lei rialzò,
«prendo la
racchetta del lacrosse per colpire quello che penso sia un ladro, i
rumori non smettono un attimo. Mi affaccio alla porta aperta, alzo la
racchetta e gliela sbatto in faccia», gesticolò,
facendo sorridere
Lena. «Ma era solo Mike».
«Mike?
Il tuo ex ragazzo?».
«Quel
Mike», annuì, roteando gli occhi. «Gli
ho fatto il naso rosso,
avevo paura che gli uscisse sangue e volevo portarlo da un medico, ma
quando mi giro per aiutarlo, lui è sparito o-o meglio, non
è
sparito, è ancora lì e lo trascino per andare
fuori, ma non era
Mike! Per me lo era, sapevo che era lui, ma in realtà era
solo un
enorme e gelatinoso orsetto gommoso».
Lena
rise ancora. «Non lo avrai mangiato?».
«No.
Per me era Mike e poi era rosso proprio come il suo naso, quindi era
per forza lui», scrollò le spalle.
«Fammi
capire, Kara Danvers: questa notte sono rimasta al tuo fianco con la
paura che potessi sentirti male, e non ho quasi dormito, mentre tu
sognavi di essere in compagnia del tuo ex ragazzo sotto forma di
orsetto gommoso?».
Lei
trattenne il fiato, per poi annuire.
«Precisamente», arrossì,
puntando altrove il suo sguardo. «Oh, ora si
mangia». Indicò i
camerieri e la gente che si preparava per andare ognuno al proprio
posto, segnati su un tabellone. Salvata dal pranzo, o almeno credeva:
la discussione era finita in un attimo imbarazzante, ma Lena era al
suo stesso tavolo e, sedendosi, scoprì che le era proprio
accanto.
Sentiva il suo cuore battere così velocemente. Accidenti,
voleva di
nuovo Lena con sé più di ogni altra cosa, e da
come la guardava e
le parlava, sapeva che per lei era lo stesso, ma erano al matrimonio
delle loro madri e dovevano stare attente a come si comportavano,
oltre al fatto che quel segreto pendeva ancora sulle loro teste
tenendo sotto scacco la loro relazione. Alex le si sedette dall'altro
lato e le sorrise, portando avanti la sedia. Anche Maggie le sorrise,
sistemandosi dopo Jamie, che aveva già morso un pezzo di
pane preso
nel cesto in mezzo alla tavola. Dopo entrambe sorrisero a Lena che,
accorgendosi dei loro sguardi, le aveva ricambiate in modo perplesso.
«Allora,
ragazze». Eliza prese la loro attenzione, mentre la
telecamera
girava intorno al loro tavolo. «Siete pronte per cantare e
suonare?».
Lena
e Kara si scambiarono uno sguardo, sentendo con una lieve dose di
ansia che la telecamera le stava riprendendo.
«S-Sì», annuì la
seconda, seppur con titubanza.
«Certo»,
disse anche Lena, più calma, mentre una cameriera serviva il
tavolo.
«Abbiamo fatto diverse prove, ormai ci verrà
naturale».
Lillian
era tra Eliza e Lex, quest'ultimo accanto a Lena. Le lanciò
un'occhiata. «Ma non vi siete ancora esibite davanti a tutte
queste
persone», fece notare. «È normale se vi
sentiste sotto pressione».
Lena
schiuse le labbra, fingendo di dover ancora ingoiare e così
prendendo tempo: non poteva di certo mostrare le sue antipatie verso
la madre sotto telecamera. Avrebbe tanto voluto che, invece di darsi
il cambio per mangiare, la troupe fosse andata tutta a pranzo e farsi
così gli affari propri. «Forse all'inizio
sarà strano, ma… Io
non mi esibisco con pubblico da tempo, come sai, ma sarà
come andare
in bicicletta e Kara dovrà solo guardare me». Le
scoccò
un'occhiata. «Le verrà bene». Lillian
spense il sorriso.
Lex
guardò una e poi l'altra, decidendo di porre fine a quel
discorso.
«Eliza, il tuo ex marito non si unirà a
noi?».
Lei
guardava ancora Lillian e alla domanda bevve un sorso di acqua.
«Sì,
ma sul tardi. Purtroppo doveva lavorare, altrimenti non sarebbe mai
mancato». Era sempre grata del fatto che, anche dopo il
divorzio,
fossero rimasti in buoni rapporti. Certamente non si sentivano tutti
i giorni e poteva capitare che non avessero contatti per mesi, ma lui
restava il suo migliore amico e questo non sarebbe mai cambiato: lo
erano prima di mettersi insieme da giovani, lo erano quando si erano
sposati da adulti e lo erano da divorziati. Mezza vita insieme e due
figlie meravigliose: non poteva essere diversamente. Eliza
rialzò lo
sguardo e, in un attimo, lo vide.
«Cosa
c'è? Ti senti bene?». Jeremiah l'aveva vista
sofferente e le aveva
stretto una spalla. «Forse dovresti saltare certe
pietanze», le
aveva fatto notare mentre lei, stringendo i denti, si era coccolata
il pancione.
«Abbiamo
scelto un menù apposta che io potessi mangiare. La dietologa
è
stata molto chiara, Jeremiah: forse Alex vuole solo farmi i
dispetti». Si era stretta di nuovo e lui aveva aggrottato lo
sguardo.
«E
se andassi a sdraiarti?».
«Oh,
certo», aveva ridacchiato lei, «Mi faccio
accompagnare a casa, una
mezz'oretta e torno subito al mio matrimonio».
«Lo
so», le aveva sorriso lui, accarezzandole il pancione.
«È il
nostro matrimonio, ma sei incinta e niente viene prima di
questo».
Lei aveva voluto sorridere di rimando, ma un dolore fortissimo
l'aveva fatta piegare e trattenere il fiato, spaventando tanto suo
marito che si era alzato bruscamente dalla sedia e l'aveva fatta
cadere a terra, attirando l'attenzione della sala nel locale.
«Chiamate il nove
uno uno»,
aveva urlato allora, soccorrendo Eliza.
Si
fregò la pancia, ora magra. Con la coda dell'occhio
guardò Alex che
convinceva Jamie a mangiare le verdure sul piatto. Non le aveva mai
raccontato di quando, al suo matrimonio, aveva avuto paura di
perderla.
Avevano
quasi finito di mangiare che Lex si alzò dalla sedia con un
bicchiere in mano e lo fece tintinnare, attirando l'attenzione di
tutti, in special modo dei giornalisti della CatCo e della troupe
televisiva. «Ed eccoci tutti qui, in questa giornata di
festa, di
risate e di commozione», scoccò un'occhiata a
Felipe in lacrime, in
un tavolo vicino. «Dovete sapere che non ero affatto convinto
che
questo giorno sarebbe arrivato. Quando mio padre, il mio amato padre
venuto a mancare un anno e mezzo fa, mi disse che mia madre aveva
un'altra relazione, io restai… non sconvolto come potete
pensare,
ma piuttosto disorientato. Mia madre non è mai stata una di
quelle
persone a cui basta guardarle per capire tutto di loro; è
riservata,
non ama le dimostrazioni d'affetto, in special modo se in pubblico.
È
una persona… particolare. Loro erano separati in casa da
anni, non
è che mi aspettassi un loro per sempre felici e contenti, al
contrario», si sforzò per osservarla, ferma ad
ascoltarlo, «Ma se
mi avessero detto che uno dei due avrebbe cominciato ad avere una
relazione, avrei puntato su mio padre», disse seriamente,
eppure
qualcuno rise. «Eliza è la persona più
buona che io abbia mai
conosciuto. Una vera e propria onda di positività nella
nostra
famiglia; una boccata d'aria fresca. Con lei vicino è tutto
nuovo,
più bello», la scorse con la coda dell'occhio
ringraziarlo, «Con
Eliza accanto, anche mia madre è una persona nuova. La rende
felice
e non c'è niente che conti di più»,
sorrise, alzando il bicchiere.
«Sono contento che una persona come lei, ora, sia come una
madre,
per me. Per noi». Inquadrò Lena e
ringraziò tutti per l'ascolto.
«Beh, il pranzo non è ancora finito, non lasciate
che si freddi.
Buon appetito e grazie a tutti per essere qui a condividere con noi
questo splendido giorno». Buttò giù un
sorso del bicchiere e tutti
fecero lo stesso, per poi applaudire. Anche zia Lorna diede loro un
lungo sguardo, mentre applaudiva.
Alla
Lord Technologies, intanto, la pausa pranzo stava quasi per finire.
La sala mensa era ancora piena di dipendenti. Alcuni finivano la
frutta e altri liberavano il tavolino dagli avanzi e dai piatti
sporchi, lasciando pulito. Max Lord era comodamente seduto davanti a
uno di quei tavolini, in centro alla sala, da solo. Leggeva un
giornale mentre sorseggiava caffè dalla tazzina. Il piatto
davanti
con le sole briciole, il vassoio della frutta quasi pieno, la
bottiglia dell'acqua a metà. Un uomo gli si
avvicinò chiedendogli
scusa per l'intrusione, poi Max lo congedò e, finendo di
bere il
caffè, aspettò l'arrivo di altri due uomini e una
donna: Roulette
era arrivata, finalmente, e aveva l'aria lievemente seccata.
«Un
attimo solo», le disse lui alzando un dito indice, in modo
che
aspettasse di finire di leggere un trafiletto.
«Sì», bofonchiò
dopo, «Spiacevole
avventura per la nuova apertura a Gotham…
sì… Ragazzi
del posto,
di
strada,
ah, i
lavori procedono spediti e speriamo che, questa volta, Maxwell Lord
spenda di più in sicurezza».
Lord scosse la testa, ripiegando il giornale. «Mi occupo di
sicurezza da anni e mi vogliono insegnare a fare il mio
lavoro»,
delineò un forzato sorriso.
«Quei
ragazzi sono spuntati dal nulla, hanno colpito l'omone all'ingresso
di soppiatto, cosa pensavi che sarebbe successo? Io di certo non
voglio mettermi in fila per insegnarti a fare il tuo lavoro, bello
mio, ma è chiaro che qualche allarme ci avrebbe fatto
comodo, là
dentro», gli fece notare la ragazza e lui alzò gli
occhi,
guardandola con attenzione e, infine, poggiandosi con la schiena
contro lo schienale.
«Non
pensi che se avessi voluto qualcosa di specifico, lo avrei installato
di persona?».
Lei
scrollò le spalle. «E perché non lo hai
fatto?».
«Perché
non lo volevo: la risposta era già nella domanda».
Si alzò,
intanto che lei ruotava gli occhi con fare nervoso.
«Mi
hai fatto venire fin qui per giocare? Pensavo che avrei coordinato i
lavori, in tua assenza», bofonchiò, «I
tuoi uomini mi hanno fatto
saltare il pranzo, a proposito. La cosa mi rende
suscettibile».
Maxwell
prese una mela rossa dal suo vassoio e gliela consegnò tra
le mani,
senza trattenere un sorriso. «Vieni con me,
seguimi». Fece un cenno
ai suoi uomini di attendere e con lei dietro, che masticava la mela,
uscì dalla mensa, percorrendo un corridoio, salendo due
scalini,
entrando in un altro corridoio con le luci più soffuse che
si
affacciavano a diversi laboratori divisi da enormi vetrate,
così
dopo entrarono in un ascensore che li portò a qualche piano
più
giù, sotterraneo. Un altro stretto e freddo corridoio li
portò
allora dinanzi a una massiccia porta, che Maxwell aprì
scansionando
la sua mano destra e dopo immettendo una password. Veronica Sinclair
si guardò intorno più volte per rendersi conto di
quanti schermi
collegati a delle telecamere di videosorveglianza avesse lì
dentro.
«Vedi, il motivo per cui non ho installato determinati
allarmi, a
parte quelli silenziosi, è che sarebbero andati contro i
miei stessi
interessi».
«Ami
che le persone ti sfascino il locale?», scrollò le
spalle,
adocchiando diverse immagini che non provenivano dalla Green
Caravel,
ma dall'esterno, affacciavano sulle strade.
«No»
ridacchiò, «Ma è sfortunatamente un
danno collaterale: voglio
assicurarmi che la mia clientela, dopo la pillola, abbia a
disposizione un luogo sicuro dove sfogarsi. Un allarme non farebbe
che creare il panico e porterebbe la polizia sul luogo prima del
tempo. L'importante è che io tenga tutto sotto controllo da
qui, da
questi schermi», ne toccò uno, battendolo con le
nocche. «Mi
aspettavo incidenti, anche se non di questo tipo».
«Li
avrà pagati Lex. Ci scommetto».
Lui
sorrise, sistemandosi la cravatta. «Sì, beh,
naturalmente il
pensiero mi aveva sfiorato».
«Non
per farmi gli affari tuoi e via discorrendo, ma», lei si
morse un
labbro, «non è illegale tenere tutte queste
telecamere? Sei fuori
molto oltre il locale».
«Capisco
le perplessità». Si sedette su una sedia,
guardando con una certa
fierezza gli schermi. «Ho i permessi accordati dal comune di
Gotham:
ricevono la loro percentuale sulle pillole, non hanno avuto motivo
per negarmi l'installazione. Fa parte del progetto, no? Devo tenere
sotto sorveglianza i soggetti finché posso, come ti avevo
spiegato.
Piuttosto…», sospirò, mettendosi a
scrivere sulla tastiera, «Non
sei qui per i ragazzi che hanno sfasciato il locale». Una
volta
finito di digitare, guardò in alto, verso uno schermo alla
sua
destra: Kara Danvers era lì con le sue amiche, si scontrava
con un
ragazzo che camminava con altri ragazzi, lo chiamava, lui si
avvicinava, Ivy si metteva in mezzo. «Perché non
mi hai detto che
stavi testando Kara Danvers? Avrei voluto essere informato».
Lei
aprì bocca, quando lui la interruppe: «E
risparmiami i tuoi non
sapevo chi fosse,
Veronica».
Lei
sorrise quasi orgogliosa, ingoiando un boccone. Lasciò una
mano sul
suo schienale, appoggiandosi con eleganza. «Naturalmente
sapevo chi
fosse: la sua faccia è apparsa su tutti i giornali
più volte per
via del matrimonio di sua madre con Lillian Luthor», disse
con
sufficienza. «Era lì, sul bancone, come un cane
bastonato. Volevo
conoscerla, era così sconfitta dalla vita che volevo darle
qualcosa
per tirarsi su», esclamò, stringendo le labbra.
«La
pillola rossa cadeva piuttosto a proposito».
Lei
annuì. «Quello che non mi aspettavo era la
velocità con cui ha
fatto effetto». Smise di parlare, incantandosi nel vederla
picchiare
quel ragazzo per strada e dare inizio alla rissa. «E che
violenza…».
«Il
suo corpo ha rigettato la pillola», le fece sapere Maxwell,
digitando ancora, mostrandole nelle strade successive il suo
comportamento, tra sbandamenti e stanchezza. «Hai i tuoi
appunti?».
Lei annuì, aprendo la borsetta e togliendo un bloc notes,
così il
giovane uomo sorrise. «Ottimo lavoro», lo
aprì, sfogliandolo.
«Sono felice dei risultati raggiunti, ma sfortunatamente le
pillole
rosse non sono ancora pronte», strinse le labbra con
disappunto. La
scorse ridere e a un certo punto si fece curioso.
«Non
vuoi sapere come sia riuscita a entrare nella sua testa?».
Veronica
lasciò lo schienale e si appoggiò al banco
accanto alla tastiera,
incrociando le gambe e sorridendo con malizia, tenendo il torsolo con
due dita. «La nostra ragazza è
innamorata… di Lena Luthor».
Maxwell
Lord sgranò gli occhi, abbozzando appena un sorriso.
«Cosa?»,
aggrottò la fronte, per poi restare senza fiato un momento.
«Questo
spiega qualcosa… Ha senso», sorrise,
«Hanno deciso di rendere
ancora più forti i legami familiari. Cosa ne pensi? Sapevo
che tu e
Lena aveste dei trascorsi».
Gettò
il torsolo in un cestino e incrociò le braccia al petto.
«Lena ed
io avremo sempre un legame. E comunque non sono fatti che ti
riguardano».
Lui
annuì e rise, incassando il colpo.
Lena
le sorrise, sedendo sullo sgabello davanti al piano.
Kara
ricambiò, sistemando il supporto del microfono.
Oh,
c'era davvero troppa
gente. Dopo il taglio della torta e altre foto, si erano convinte che
la mole di gente fosse misteriosamente lievitata. E ora toccava a
loro rendere quell'evento ancora più speciale.
Maggie
diede un colpetto a un braccio di Alex e le due si scambiarono
un'occhiata divertita. «Allora quanto scommettiamo,
Danvers?».
«Mamma?».
«Mmh,
vediamo… se vinci tu, ogni volta che siamo insieme cucino
io»,
Alex le scoccò un'occhiata, regalandole un largo sorriso.
«Ci
stai?».
«Mamma?».
Maggie
s'imbrunì. «Questo è se dovessi vincere
tu, tesoro, sarebbe come
una punizione».
«Mamma?».
Alex
scrollò le spalle. «Non mi hai fatto finire,
Sawyer: nuda. Cucinerò
nuda».
Maggie
spalancò gli occhi, diventando rossa.
«Mamma?».
«Accetto»,
annuì, «Ma solo se la bambina è fuori:
non me la traumatizzerai in
età prescolare».
«Mamma?».
«Andata»,
allungò la mano destra per stringere la sua. «Se
dovessi vincere
io, sarai tu a cucinare nuda per me».
«Mamma?».
«Con
il grembiule da cucina», aggiunse velocemente Maggie.
«Da te fa più
freddo».
«Mamma?».
Alex
sorrise a trentadue denti, per poi sussurrare: «E
sarò io a
slacciartelo quando farà più caldo».
Maggie
allungò la mano per stringergliela a sua volta.
«Andata anche per
m-».
«Mamma?».
«Cosa
c'è?», Maggie si voltò dietro di loro
con scatto, trovando la
bambina dall'altro lato del tavolo che le scrutava con occhi grandi.
«Tesoro
mio»,
aggiunse una volta calmata, forzando un sorriso.
La
piccola aprì bocca e a più riprese
cercò di parlare, riportando il
discorso al punto di partenza. «Ma lo shai che…
Ma-Ma lo shai che…
Ma lo shai che…». Le due la guardavano con
tenerezza. «Ma lo shai
che… che io… Ma lo shai che io… riesco
a gonfiare la teshta?
Allora, lo shai?». All'improvviso si tappò il naso
stringendolo con
una manina e trattenne il respiro, diventando immediatamente rossa;
così aprì gli occhietti che aveva chiuso prima
della performance,
aspettando la loro reazione.
«Wow,
è… sei bravissima, amore mio»,
annuì, guardando Alex con
complicità.
«Sì,
è vero. L'ho vista proprio gonfiarsi, è
stata… Tu l'hai vista
gonfiarsi?».
«Altroché»,
accarezzò il volto di Jamie, che sorrideva con orgoglio, le
fossette
bene in vista. «Ma non farlo troppo spesso, mongolfiera, o
resterai
troppo gonfia per giocare». La piccola annuì e
corse all'indietro,
sbattendo contro una sedia per un capogiro, e poi correndo di nuovo,
raggiungendo gli altri bambini dietro un tavolo. «Ho una
figlia
mongolfiera».
Kara
tremò, guardando il pubblico. Era tardi per tirarsi
indietro. Sapeva
le parole, conosceva la musica, doveva solo concentrarsi: poteva
farcela. Corse per un bicchiere di champagne,
bevendo
quasi tutto in un sorso.
Se non altro aveva avuto del tempo per prepararsi, stavolta. Oh, e
Lena. Beveva anche lei e appoggiava il bicchiere sul piano. Lena era
così bella… Si era sistemata i capelli lisci da
un lato, gli occhi
chiarissimi erano concentrati sullo spartito, le labbra rosse appena
schiuse. E la scollatura… No.
Non avrebbe dovuto guardarle la scollatura, accidenti. Doveva
concentrarsi sulla canzone, non sulle sue tette. Ma perché
finiva
sempre per guardargliele? Che si fosse messa i push up? Ma non voleva
tornare ancora con lei, non avrebbe avuto senso stuzzicarla…
No,
no, non aveva i push up. Deglutì. Forse doveva bere un altro
sorso.
«Psst»,
Maggie ridacchiò. «Guarda tua sorella».
Alex
spalancò gli occhi e si alzò dalla sedia per
muovere le mani e
disperatamente attirare la sua attenzione: «La testa di
Lena»,
mormorò, le avrebbe letto le labbra, «è
più su». Vide Kara
diventare paonazza fin alle punte delle orecchie e così
abbassare
gli occhi verso il microfono, imbarazzata.
«Ho
praticamente già vinto, Danvers»,
cantilenò.
«Ma
no», scrollò le spalle, «Kara si
è solo distratta. Ed
è pieno di giornalisti e lo sa, l'incosciente».
Le
luci del salone si attenuarono fino a diventare soffuse, con un
chiarore via via più luminoso verso le ragazze. C'era un
brusio in
sottofondo, ma nemmeno più i bambini alzavano la voce. Cat
Grant
fece avvicinare al suo tavolo una ragazza della troupe della CatCo e
all'orecchio le diede alcuni suggerimenti, accompagnati da
indicazioni; quando la ragazza si allontanò,
iniziò ad applaudire e
tutti seguirono.
«Ehi»,
Lena si mise al suo fianco, «Tutto bene? Basta che guardi me,
se
tutte queste facce dovessero metterti soggezione».
«Lo
farò».
Stava
per tornare alla sua postazione, ma si fermò all'improvviso,
avvicinandosi ancora, furtiva, stringendole un braccio. Poteva
sembrare che si stessero solo scambiando gli ultimi appunti,
invece…
«Ah, Kara: con guarda
me,
intendo il mio viso, non le mie tette».
L'altra
spalancò gli occhi, arrossendo ancora, vedendola
allontanarsi con un
sorrisetto malizioso stampato in faccia.
Quando
la musica partì, non volò più una sola
mosca in tutto il salone.
Lena era concentrata, Kara deglutì, ascoltando e, infine,
socchiuse
gli occhi insieme a lei, iniziando a cantare, lasciandosi
trasportare.
Alla
destra di Eliza, Marielle emise un verso emozionato, battendo un poco
le mani. Il gesto aveva subito suscitato un altro applauso ed Eliza
sorrise raggiante, fiera di loro. Aveva probabilmente gli occhi
lucidi. «Sono bellissime», sussurrò e
Lillian, alla sua sinistra,
guardò lei e poi loro.
Kara
staccò il microfono dal supporto e, con un sorriso, si
avvicinò a
Lena che le sorrise a sua volta. Non erano due ragazze che
ritrovandosi a far parte della stessa famiglia si esibivano per le
loro madri. Erano complici; come se entrambe stessero suonando ed
entrambe cantando, e non esisteva nessun altro, al di fuori di loro,
in quel momento. Erano insieme e sole. Kara la guardava e Lena lo
sentiva. Non si toccavano, eppure erano un unico corpo.
Lillian
le fissò. Non poteva farne a meno. Ascoltava la musica e le
parole,
ma non sentiva altro, nella sua testa, che la voce di sua figlia che
le diceva di amare Kara. Era vero. Vedeva anche lei la
verità,
adesso, ma una parte di sé non riusciva ad accettarlo. Per
Lena, con
Kara era diverso. Ma era sempre diverso.
«Sei
diversa», le aveva detto Lionel a un orecchio, quando erano
seduti a
tavola; l'unica tavolata al centro della sala, mentre gli invitati
sedevano in quelle davanti. «Ti trovo
più… felice», le aveva
accarezzato il viso e lei aveva socchiuso gli occhi e sorriso,
lasciandosi coccolare. «È perché siamo
marito e moglie? Abbiamo
davanti una lunga vita insieme, Lillian».
La
festa era continuata sulla pista da ballo. I Luthor avevano sempre
amato sfoggiare le proprie doti da ballerini e Lillian aveva riso
divertita, vedendo Lorna ballare con un cugino più piccolo,
alzando
il mento e sculettando come meglio riusciva, solo per poi voltarsi
verso di lei e farle la linguaccia. Il signor Luthor l'aveva sgridata
poco dopo, però, così entrambe erano tornate
serie. C'erano i
fotografi, dopotutto. Lionel le avrebbe chiesto di ballare non appena
sarebbe tornato dal parlare con alcune persone che non conosceva, non
ancora, in fondo alla sala, così se n'era rimasta seduta ad
aspettare. E avrebbe continuato se sua madre non l'avesse presa per
un braccio e alzata dalla sedia con la forza, lasciandole il segno.
«Mi
fai male», si era dimenata, «Smettila! Non
qui». Si era guardata
intorno, ma erano tutti intenti a ballare e nessuno badava a loro.
La
donna le aveva alzato una mano, facendole cenno di tacere.
«Anche se
ti sei sposata, sei ancora mia figlia e devi rispettarmi. Volevo
dirti che c'è qualcuno alla porta per te». Alla
porta?
«Hai visto tua cugina Bernadette? Non la trova
nessuno».
Non
aveva risposto ed era corsa fuori, alzando il vestito per non
inciampare. Si era guardata una volta sola indietro, poiché
non la
seguissero i giornalisti o qualcuno dei Luthor, e aveva aperto la
porta con una spinta. Era illuminato dai caldi raggi del sole, fermo
vicino a un'aiuola fiorita. Vedendola, era subito corso verso di lei.
«Credevo
di trovarti in abito bianco».
«Perché
sei qui? Ti avevo chiesto di non venire». Lillian era
arrabbiata e,
tesa, continuava a guardarsi intorno con la paura che qualcuno li
vedesse.
«È
vero che sei incinta? Così dice in giro
Bernadette». Il ragazzo
aveva provato a toccarle la pancia, ma lei si era tirata indietro.
«Ho visto la chiesa gremita, prima. Non potevo entrare
nemmeno
volendo, le guardie dei Luthor sono ovunque», anche lui si
era
guardato indietro, per un attimo. «Non dovevi sposarti con
lui».
«Lionel
mi ama e tu devi stare lontano da me», aveva digrignato i
denti.
«Lui
ti ha sposata solo perché gli ha detto di farlo suo padre,
lo sai
meglio di me. Tra noi almeno c'era qualcosa di vero», si era
toccato
il petto e poi aveva passato la mano sui capelli lunghi, mostrando
nervosismo.
«Non
vuoi proprio capire», aveva scosso la testa, «Era
finita ancora
prima che lui mi chiedesse di sposarlo».
«Non
è così! Uscivi con lui, ma tornavi da me e
adesso… hai deciso di
restare con lui solo perché è ricco e
può darti la vita che
desideri. E ti ha profanato prima delle nozze».
«Smettila!
Tra me e Lionel è diverso, non come credi».
Il
ragazzo aveva fatto un passo indietro, abbassando lo sguardo.
«Anche
tra noi lo era…».
Lillian
stava per lasciarlo lì, che un uomo aveva svoltato un angolo
del
locale accanto a un'aiuola e, guardando il ragazzo, si era piazzato
accanto a lei. «È tutto a posto, signora
Luthor?».
«…
Luthor?»,
aveva biascicato, sbiancando, guardandola ferito.
«Ti
stupisci? Sono una Luthor, adesso». Fu l'ultima volta che lo
vide.
Seppe che aveva lasciato National City, ma non lo cercò mai.
Lui
faceva parte del passato, di una vita che aveva ripudiato.
Si
era toccata il grembo e si era girata per tornare dentro. Le faceva
male, ma pensava che poteva essere per aver rivisto lui. Aveva
passato il corridoio del locale con quell'uomo al suo fianco ed era
tornata nella sala, ma la musica era bassa e solo i bambini ancora
ballavano. Sua madre le si era di nuovo scagliata addosso e le aveva
stretto con forza un braccio.
«Sei
stata tu l'ultima a vedere Bernadette! Perché non lo dici?
Nemmeno
al tuo matrimonio riesci a comportarti da adulta». L'aveva
lasciata
andare solo quando l'uomo, come una guardia del corpo, si era
ulteriormente avvicinato. «Dov'è tua
cugina?».
Lionel
era occorso in suo aiuto, spalleggiandola e cercando di far calmare
la donna, ma non era la sola, a quel punto, a essere su di giri:
tutti i parenti dalla parte di Lillian si chiedevano che fine avesse
fatto la ragazza e li avevano accerchiati. La donna si era calmata
solo quando era stato Levi Luthor, padre di Lionel e capofamiglia,
avvicinandosi, a chiederglielo con cortesia.
Quelle
persone erano una bomba pronta a esplodere alla minima offesa.
Odiavano che una di loro stesse sposando un Luthor; erano troppo
diversi e molti si erano chiesti spesso quanto avesse potuto durare
la loro vicinanza.
Bernadette.
Oh, l'ultima volta che l'aveva vista aveva smesso di ghignare. Era
piena di sangue. Le proprie mani erano piene di sangue. Si era fatta
una doccia, le avevano portato abiti puliti e le avevano rifatto il
trucco e i capelli. Bernadette era arrivata in ospedale senza
conoscenza. I Luthor conoscevano dei medici, lì. Loro si
sarebbero
presi cura di lei. Bernadette era viva, ma aveva smesso di ghignare.
Lillian aveva preso un bel respiro e poi deglutito, guardando sua
madre negli occhi. «Non so dove sia».
La
donna aveva urlato ma non era riuscita a colpirla, Levi Luthor
l'aveva fermata. Altri erano andati in escandescenza e avevano deciso
di lasciare il locale e la festa. La madre di sua cugina era in
lacrime, dicendo di volerla andare a cercare, dando la colpa ai
Luthor.
«Voi
le avete fatto qualcosa», la madre di Lillian aveva puntato
il
signor Luthor, che la guardava immobile. «La vostra famiglia
è
veleno e avvelena tutto ciò che tocca».
Aveva
chiesto a sua figlia di andare via con loro. Di allontanarsi da
Lionel. Di disintossicarsi, una volta per tutte. Ma era tardi:
Lillian era una di loro. Se n'erano andati e poche altre volte, da
allora, li aveva rivisti, prima di prendere totale distanza.
Lillian
si era tenuta stretta a Lionel, la sua nuova famiglia, e il dolore
alla pancia si era fatto più forte, costringendola a
piegarsi in
due. «Lionel…», gli aveva stretto un
braccio per cercare aiuto.
Il dolore, a quel punto, era diventato atroce. Lo sposo aveva gridato
a tutti di andare a prendere una macchina.
Lillian
si toccò il grembo e ansimò, ritrovando nella sua
testa le parole
della canzone. Kara era alle spalle di Lena, adesso. Capì in
quel
momento che, anche se non accettava il loro rapporto, non sarebbe
riuscita a tenerle davvero separate. Intravide Marielle che, faccia
in avanti, mimava con la bocca le parole della canzone. Ed Eliza che,
invece, era totalmente presa. Le strinse una mano e lei
ricambiò,
baciandola e riguardando le loro figlie.
La
canzone finì. Kara mantenne il microfono con entrambe le
mani vicino
alla bocca e lasciò gli occhi chiusi finché anche
la musica non si
affievolì. Anche Lena aveva gli occhi chiusi e tutte e due
li
riaprirono nello stesso momento. Erano rimaste un'unica cosa fino
all'ultima nota e, da quel momento, partirono gli applausi. Le due
sorrisero e si misero più vicine. Le telecamere ripresero
tutto e
più volte gli sguardi incantanti degli invitati, perfino dei
bambini. Le involsero le luci dei flash e Cat Grant applaudì
più
forte, piacevolmente sorpresa. Marielle si alzò in piedi per
applaudire.
«Sono
davvero, davvero bellissime», esclamò Eliza, per
poi passarsi le
dita sugli occhi e asciugarli dall'emozione. Le riguardò,
mentre a
entrambe, imbarazzate, veniva fatta qualche domanda davanti al piano.
Si sorridevano e si ricercavano di continuo.
«Allora», a un certo
punto guardò Lillian, disponendo la mano libera sulle loro
unite.
«Posso cogliere il momento per chiederti come stai vivendo
questa
cosa?».
Lillian
spalancò gli occhi, incerta su cosa si riferisse.
«Parlo
di Kara e Lena. Quelle due si sono innamorate sotto i nostri occhi,
eh?», sorrise, riguardandole solo un momento.
«Tu
lo sapevi?».
Eliza
ridacchiò, roteando gli occhi. «Tu mi sottovaluti,
mia sposa. E,
non di meno, le ho viste baciarsi, a Natale», strinse le
labbra,
annuendo. «Ero in cucina, sono uscita un attimo in giardino e
loro
erano in corridoio, le ho viste dalla finestra. Credevo di aver visto
male, all'inizio», rise, scrollando le spalle. «Ma
va bene», le
scoccò un'occhiata. «Non sapevo come prenderla, ma
poi loro non
hanno detto nulla e così ci ho pensato un po'… Tanto
po'. Meritano di essere felici anche loro, non pensi? Sono due brave
ragazze; sono le nostre
due brave ragazze».
A
Lillian si strinse lo stomaco. Si erano lasciate a causa sua e ora
veniva a sapere che non solo Eliza sapeva della loro relazione, ma
che perfino l'approvava. Ma nemmeno Eliza sapeva cosa avevano fatto i
Luthor a Kara. «Non so se siano adatte per stare
insieme».
«Ce
lo hanno fatto sentire ora», la corresse, riguardandole.
«Sono le
nostre figlie e anch'io penso che sia strano, ma è la loro
vita e
devono viverla come facciamo noi con la nostra».
Ancora
furiosa, Rhea Gand aveva setacciato il loro salotto a fondo nella
ricerca di qualsiasi cosa che Kara doveva aver lasciato quando era
andata a trovarli. Una piccola microspia, sicuramente. Era un bene
che la loro domestica, Joyce, stesse pulendo il piano di sopra in
quel momento, perché nessuno avrebbe voluto starle vicino.
Più
furbo era stato suo marito, a uscire proprio quando gli disse che
aveva intenzione di mettere a soqquadro quella stanza e il corridoio
fino al portone; tutto ciò che Kara aveva toccato o sfiorato
doveva
essere controllato. Quella stupida ragazzina… Dove l'aveva
messa?
Doveva esserci. A quel punto, le mancava solo la scrivania di Lar.
Sollevò i portapenne, dei documenti, delle cartelline,
aprì i
cassetti. Uno non voleva aprirsi. A quel punto era certa che avrebbe
dovuto escludere i cassetti dalla ricerca, però non amava i
segreti.
Lo forzò e riuscì a scassinarlo, presa dalla
foga. Portò il
cassetto sulla scrivania senza curarsi che potesse rovinare qualcosa
e iniziò a frugarci dentro. Non trovò microspie
di nessun genere,
ma qualcos'altro di equamente interessante: dei foglietti. Lar stava
preparando un discorso e Rhea gridò di rabbia,
accartocciando e
strappando tutto ciò che riuscì a trovare
all'interno del cassetto,
gettandolo sul tappeto. Quella ragazzina era entrata nella testa di
suo marito e lo stava tentando a fare passi falsi. Lo aveva messo
contro di lei. Kara Zor El lo aveva messo contro di lei.
Un
momento… Prese un bel respiro e cercò di
calmarsi, colta da
un'illuminazione improvvisa: all'asta di inizio anno, Lena Luthor
l'aveva fatta sudare per ottenere il quadretto, un quadretto che
aveva perso anni prima con Maxwell Lord, che non glielo avrebbe mai
consegnato per un'asta poiché aveva troppo valore. Lena
Luthor
sapeva che lei avrebbe partecipato all'asta, sempre lei faceva
domande su suo padre alla cena mesi prima e, sempre lei, era
diventata sorellastra di Kara Zor El. Come aveva fatto a non pensarci
prima…? Così presa dalla magnificenza del suo
quadretto… La
serratura di casa scattò intanto che Rhea lo adocchiava,
affisso
sulla parete.
In
sala risuonava nell'aria una musica allegra, portata dagli
altoparlanti.
Tutti
gli invitati si riversarono al centro per ballare, dopo che i tavoli
erano stati sgomberati ai lati e riempiti di stuzzichini e champagne,
vini e olive. La tenera zia Lara provò a scatenarsi ma zia
Lorna le
prese il braccetto per riportarla a sedere e così, dopo
qualche
attimo, si avvicinò Kara per chiederle di ballare. Zia
Lorna, che in
quel momento ballava col marito, aprì bocca contrariata ma
non osò
dire niente. E non osò dire niente nemmeno quando Lillian si
sganciò
la collana in oro bianco e smeraldi per passarla al collo di Eliza.
Era una Luthor anche lei, adesso, anche se avevano deciso entrambe di
mantenere ambi i cognomi. Era una decisione che la donna non riusciva
del tutto ad accettare, ma dopo la morte di Lionel, era Lillian la
capofamiglia dei Luthor e non sarebbe riuscita ed esprimerle i suoi
pensieri. D'altronde, non erano più le ragazzine di quando
si erano
conosciute; si erano allontanate negli anni e ognuna aveva preso in
mano la propria vita. Tutto era cambiato, da allora.
Intanto
arrivò Jeremiah ed Eliza lo accolse a braccia aperte.
Parlarono a
lungo loro due e Lillian. Lex chiese di poter fare un ballo con Alex
e Lena ballò con Jamie, mentre Maggie scattava loro qualche
foto con
il cellulare. Cat Grant fu intervistata dalla troupe televisiva e
dopo Felipe, ancora in lacrime.
«Keira».
La ragazza si mise sull'attenti quando, dopo aver lasciato zia Lara,
si era vista arrivare Cat Grant. Le portò le mani sui
capelli,
cercando di sistemarle un piccolo ciuffo ribelle che continuava a
lanciarsi verso l'alto. «Hai una voce meravigliosa, hai
qualche
altro talento nascosto?».
«Beh,
no… non credo». Si lasciò sistemare con
attenzione, notando che
non le rivolse un'altra sola parola fino a che non ebbe finito:
«Ora
vai bene», si toccò il mento, osservandola
dall'alto al basso. «Sei
pronta. Credo che qualcuna voglia ballare con te».
La
signora Grant lanciò uno sguardo e Kara la seguì,
scoprendo Lena
che, lasciando Jamie a Maggie e Alex, le sorrise. Arrossì,
girandosi. «Signora Grant, lei…».
Si
portò un dito contro la bocca, facendole cenno di tacere e
poi
sorrise. «Bella canzone».
Lena
le arrivò vicino mentre la donna si allontanava per dare
nuove
direttive ai suoi dipendenti. «Cosa voleva Cat
Grant?».
«Emh…
s-sistemarmi i capelli, credo». Le guance si colorarono di
rosa,
osservandola: era così bella, delicata. «Vuoi
ballare?». Le porse
una mano e l'altra trattenne un sorriso.
«Kara…».
«Ho
ballato con zia Lara appena due minuti fa, non dirmi che sarebbe
strano».
Lena
rise e così anche lei, prendendole la mano. «Solo
un ballo».
«Solo
un ballo».
Solo
un ballo, era vero; un ballo fatto da sguardi, da parole non dette,
da risate e sorrisi maliziosi. Solo un ballo. E poi aprirono la porta
del bagno, sbattendo all'interno, chiudendola con un calcio mentre
Kara spingeva Lena al muro, bocca contro bocca, mani sui fianchi una
e mani sul sedere l'altra.
«A-Aspetta,
aspetta», Lena si staccò e prese fiato,
assicurandosi che il bagno
fosse vuoto.
Kara
passò a controllare tutti gli scomparti, ma le porte erano
aperte ed
erano vuoti. Si precipitò di nuovo addosso a lei che la
strinse con
forza, scompigliandole di nuovo i capelli. Kara le baciò il
collo e
Lena trattenne il fiato, chiudendo gli occhi e mordendosi il labbro
inferiore.
«Aspetta,
aspetta», ci ripensò, respirando a pieni polmoni e
allontanandola
un attimo. «Non possiamo, Kara… Non-».
La baciò di nuovo e Lena
cambiò idea, stringendole il vestito, attirandola con forza
su di
sé.
«No,
aspetta… Ha-Hai ragione», fu Kara a tirarsi
indietro ma, appena
guardò il viso di Lena pieno di desiderio, che respirava con
affanno, i suoi propositi svanirono all'istante. La baciò,
si
separarono solo per prendere aria e si ripresero ancora. Kara le
toccò il sedere e Lena aprì le gambe,
così la prese in braccio,
portandola sul lavandino. Lena la chiuse con i piedi sulle cosce e
continuarono a baciarsi, a sentirsi, accarezzandosi con le mani e con
la lingua, assaggiandosi.
Si
erano così mancate che non riuscivano a controllarsi. Ma la
porta
del bagno scattò e le due si destarono dall'incantesimo:
Lena scese
dal banco e Kara aprì l'acqua; intanto che la prima si
controllava
un tacco con cui aveva rischiato di scivolare, la seconda si guardava
allo specchio, sistemandosi i capelli di nuovo imbizzarriti.
«Questi
tacchi…», mormorò Lena, «Oggi
non riesco a sopportarli».
Scambiò un sorriso con la ragazza entrata che si dirigeva
verso un
altro lavandino. Le vide sul collo il cartellino della CatCo.
«Kara!
Ma lo sai che hai davvero una bellissima voce? Siete state entrambe
bravissime, wow. Dovresti cantare più spesso comunque,
verrei a
sentirti! Magari potessi farlo alla CatCo, se ci facessero fare il
karaoke. Sarebbe bello, no?».
Kara
rise imbarazzata e si girò per avere supporto, ma Lena non
c'era già
più.
«Lillian
sembra tranquilla», mormorò Jeremiah, dopo che la
donna si era
allontanata per un'intervista veloce. Diede un'occhiata a Eliza, che
si toccava la collana, e ansimò quasi infastidito.
«Da vera Luthor.
Sei una Luthor, adesso?».
Lei
bisbigliò, guardandolo appena: «Non
ricominciare».
«Avrei
voluto che mi parlassi di Lillian Luthor quando avevate iniziato a
frequentarvi, non dopo il vostro fidanzamento e i giochi erano fatti.
Hai almeno un po' pensato a quello che ti dissi?».
Eliza
scosse la testa lentamente, sospirando. «Nulla di
più a cose che
già da me avevo pensato».
«Dunque
ci sei passata sopra?», lui la guardò con aria
dura,
all'improvviso. «I Luthor hanno avuto molto potere in
passato,
potrebbero perfino aver avuto a che fare con la morte dei genitori di
Kara! Nostra figlia! Io conoscevo quelle persone, Eliza».
«Le
conoscevo anch'io. Ti ostini a voler vedere solo il marcio
dappertutto, per questo abbiamo divorziato»,
ribatté lei. «Se
fosse così, Lillian me lo direbbe. In ogni caso, adesso i
Luthor non
sono più quelli di un tempo e devi accettarlo!
Guarda», indicò zia
Lara che, seduta davanti a un tavolo, passava dei dolcetti a due
bambini della famiglia Danvers, «Sarebbe capace di fare del
male?».
Lui
grugnì. «Ora no. Lara Luthor, sorella maggiore di
Levi Luthor. Suo
fratello costruisse un impero sopra quello che era già un
regno con
il loro nome dorato sopra. O così si dice».
«Si
sono dette tante cose e molte se ne dicono ancora».
«Voci
sì», sospirò, «E prove
nessuna».
Eliza
a quel punto strinse le labbra, corrucciandosi ma cercando di non
dare nell'occhio. «È il tuo lavoro, lo capisco, ma
non puoi
parlarmi di queste cose al mio matrimonio», lo
guardò con
gravosità. «Cosa pensavi di ottenere venendo qui a
parlarmi di
nuovo di questo? Già quando andai a lavorare per la Luthor
Corp
conoscevo le voci che circolavano su di loro e non è
cambiato
niente, Jeremiah. Niente. In passato, la sua famiglia poteva essere
stata coinvolta in brutte cose, non l'ho mai messo in dubbio, ma
è
passato. Amo Lillian. Sta cercando di rifarsi una vita e tu le remi
contro. Cerca di accettare che ora sono sua moglie».
Lui
strinse le labbra e si voltò, ritrovando Lillian che parlava
davanti
alla telecamera. «Lo sai che non riuscirò mai a
fidarmi di loro
completamente. Ho accettato che stiate insieme, ora sei sua moglie,
va bene, vi ho fatto anche gli auguri, e… vi ho fatto il
regalo di
nozze, lo hai visto? Sono delle posate, lo sai che non sono bravo con
queste tipo di cose», si grattò la nuca
imbarazzato, «Ma non
chiedermi di fidarmi. Proprio perché nel mio lavoro ne ho
sentite
troppe… non posso. Non mi metterò in mezzo, ma
non posso fidarmi.
Cercherò sempre di proteggerti e proteggere le nostre
bambine».
Lo
aveva fatto da sempre. Avevano portato Eliza in ospedale con
un'ambulanza e lui e altri invitati erano rimasti in sala d'aspetto.
Jeremiah era stato in preda all'ansia più nera, camminando
da una
parte all'altra con il cuore in gola, incapace di rilassarsi. Si
erano appena sposati e stava succedendo questo… Mille dubbi
e
perplessità avevano toccato la sua mente, in quel momento:
perché
non avevano aspettato a fare il grande passo, se aveva mangiato
qualcosa che le aveva fatto male, se il bambino stava rischiando la
vita.
Anche
Lionel Luthor, distante nel tempo, si era trovato in una sala
d'attesa. Avevano portato Lillian in ospedale e dopo un'ora ancora
non si sapeva niente. Lorna gli era stata vicino, seduti e in
silenzio, mentre Levi Luthor e sua moglie insistevano per avere
notizie.
E
dopo un certo punto, finalmente, un medico li raggiunse. Entrambi in
luoghi e in tempi diversi. Jeremiah si era gettato addosso a lui,
reggendosi le mani. Lionel si era alzato dalla sedia lentamente.
«Signor
Danvers», il medico sorrise, «Sua moglie sta bene,
la stiamo
dimettendo e può continuare a festeggiare, pur con
moderazione. Lei
e la bambina erano solo un po' stanche».
Lui
aveva tirato un sospiro di sollievo e la famiglia gli si era stretta
intorno, mentre continuava a sussurrare, con un sorriso, la parola
bambina.
Dopo pochi mesi dal loro matrimonio, Eliza mise al mondo Alexandra.
«Signori
Luthor», il medico li aveva richiamati vicini e Lionel si era
incamminato tremante. «Sono addolorato di dovervi dare una
brutta
notizia: la neosposa ha perso il bambino. Aborto spontaneo. Le cause
potrebbero essere molteplici».
Il
dottore parlava ma Lionel non sentiva. Si era estraniato. Tutti si
agitavano, Lorna forse gli aveva detto qualcosa, ma lui si era
chiuso. Lillian stessa si era chiusa, una volta saputo cos'era
successo. Solo quel giorno aveva gridato impotente. Non era
più
incinta e non lo era più stata per molto tempo, dopo tanti
tentativi
di avere di nuovo un figlio, fino all'arrivo di Lex dopo anni dal
matrimonio.
Entrambe
le spose si erano cambiate con altri abiti per stare più
comode e la
maggior parte degli invitati non erano rimasti per la cena, nemmeno
molti Luthor e Jeremiah, che doveva tornare a Metropolis. La festa si
protrasse oltre la cena per tutti gli altri, con ancora bibite e
dolci. La troupe inviata dalla CatCo li lasciarono poco prima della
mezzanotte e quella televisiva verso l'una, inquadrando per ultimi i
bimbi addormentati con la testa sui tavoli e i bicchieri di plastica
vuoti in mano. Anche Jamie era una di loro e Maggie era sicura di
averla sentita russare.
«Dobbiamo
portare la piccola mongolfiera di sopra», sussurrò
Alex,
spostandole i capelli sul viso da un lato.
Pian
piano, la famiglia e qualche ospite rimasto cominciarono a rifugiarsi
nelle camere dell'hotel assegnate, mentre, in sala, gli addetti
ripulivano un tavolo dopo l'altro.
Alex
e Maggie misero la bambina ancora addormentata sul suo lettino e le
rimboccarono le coperte, quando la seconda si accorse di aver
lasciato il cellulare in salone. Era molto stanca e uscì
dalla
camera sbadigliando, incrociando Kara nel corridoio. La vide
diventare subito paonazza.
«Devo…
Devo… Ho dimenticato di dire a Lena una cosa».
La
ragazza sbadigliò ancora e sorrise soddisfatta, considerando
di aver
già vinto la scommessa.
Kara
si portò una mano sul petto: le era venuto un coccolone
vedendo
Maggie in corridoio, considerando
che,
se fosse stato qualcun altro, non aveva una scusa pronta.
Sospirò e
ripensò a Lena. Accidenti, non si erano più
parlate dopo il loro
incontro nei bagni. Ogni volta che aveva tentato di avvicinarsi, la
trovava a parlare con qualcun altro. Doveva essersi pentita di averlo
fatto, considerando che avevano deciso di riprovare quel
discorso
dopo che le aveva detto quella
cosa.
Ma dopotutto era fortunata, pensò Kara, poiché il
matrimonio era
passato già da qualche ora e poteva finalmente parlare con
lei. E
forse non solo parlare. Oh, doveva smettere di ripensare alla sua
scollatura.
Kara
bussò con decisione e Lena le aprì dopo pochi
attimi. Era in
vestaglia, aveva lo sguardo assonnato, no,
e così tutti i suoi propositi sarebbero
svaniti via
con quegli occh-
Lena
le strinse il colletto del pigiama e la attirò verso di
sé,
all'improvviso, togliendole il fiato con le proprie labbra sulle sue,
insinuando la lingua, lasciandole addosso l'alito caldo. Kara chiuse
la porta con un calcio e si spinse dentro, ricambiando al bacio,
stringendola sui fianchi.
«M-Mi
aspettavi?», si guardò intorno: la camera era
identica alla sua, il
lettone già smosso, la televisione accesa.
«Ti
speravo».
Kara
arrossì, tirando in su gli occhiali. «V-Va
bene… emh, devi aver
bevuto troppo, questa sera».
«No,
no», scosse la testa, per poi reggersela un momento.
«Non sono
ubriaca, Kara, è che volevo parlarti. Ti stavo pensando:
devo darti
le mie scuse», sibilò con voce troppo calma, in
effetti, per essere
stata ubriaca. Le prese le mani con le proprie e la
accompagnò sul
letto, facendola sedere. «Quando ci siamo lasciate,
io…», si
portò le mani sui capelli, «Ti ho parlato di Jack.
Avevo rovinato
le cose con lui e non volevo rovinarle con te, temevo…
temevo di
non essere capace di avere con te la relazione che meritavi».
Kara
deglutì, vedendola girare un po' e dopo inchinarsi davanti a
lei.
«Ho
commesso un grave errore: ti amo, ti amo con tutta me stessa e non
voglio tenerti lontana da me», le disse guardandola negli
occhi,
corrucciando le sopracciglia. «Lascia perdere la dipendenza o
qualsiasi altra sciocchezza io abbia detto quella sera: le cose tra
me e Jack non avevano funzionato perché sono gay, e non
perché
incapace di amare».
«Gay?».
«Me
lo ha fatto capire Leslie».
«Leslie
ti ha fatto capire cosa?», aggrottò la fronte e
Lena sorrise.
«Lascia
perdere», rise con sincerità, cercando di tornare
seria, portandosi
una mano sulla bocca. «Sto cercando di dirti una cosa
importante,
Kara: ho avuto paura di non saper amare perché la mia
famiglia non è
mai stata esattamente un esempio in campo affettivo. Temevo di
scoprire di essere come loro. In special modo dopo che-», si
bloccò
e le vennero gli occhi lucidi, ma Kara fece una faccia strana, e
capì
solo in un secondo momento che la televisione la stava distraendo.
«Dopo che una cosa che ho scoperto mi stava-».
«Scusami,
Lena», la fermò con una mano e guardò
la televisione. C'era
un'edizione straordinaria del telegiornale e anche Lena si
alzò in
piedi, spalancando gli occhi, portando una mano contro la bocca e
trattenendo il fiato.
Quello…
Oh
cielo,
non stava succedendo davvero… Rhea era in lacrime, la loro
casa era
stata transennata dalla polizia, il trafiletto recitava la morte del
senatore Lar Gand.
Oh,
la pausa non poteva che cominciare dopo aver interrotto così
la
storia.
Ebbene,
vi aspettavate questo svolgimento? Cosa sarà successo al
senatore?
E, ops, Lena stava finalmente per dire tutto a
Kara: era il
momento giusto, il modo giusto, il discorso giusto, e ora…
la
verità dovrà aspettare!
Intanto
siamo tornati di nuovo indietro nel tempo ai precedenti matrimoni di
Eliza e Lillian per scoprire alcune cose in comune e le tremende
differenze. Il signor Luthor, come lo chiamava
Lillian, ora ha
un nome: Levi. Fratello minore della tenera zia Lara. Non
sono
personaggi di cui dovreste scordarvi, io lo dico.
E
Maxwell Lord: ma cosa fa? A quanto pare non era estraneo ai test
che faceva Roulette, anche se non sapeva di Kara.
Infine:
tra Maggie e Alex, chi si può dire abbia vinto la scommessa?
Piccola
nota: sorpresi che Eliza sapesse della relazione delle ragazze?
“ «Sono
contenta per voi», esclamò Kara ad Eliza,
«Ti meriti questa
felicità».
«Oh,
tesoro», la riabbracciò una seconda volta.
«Anche tu», le disse
con una carezza e un sorriso, per poi lasciarla andare.
Kara
non ebbe il tempo di capire a cosa si riferisse che arrivò
Lillian.
[...] ”
Capitolo
26. L'amore non basta. La donna scoprì di
loro in questo
capitolo e questa parte ne parla, a suo modo, con quel anche
tu,
detto da una Eliza eccitata che ancora non aveva riflettuto sul loro
rapporto, ma era Natale, aveva appena annunciato il suo matrimonio,
era felice e, a suo modo, era felice di vedere che la figlia aveva
trovato anche lei la felicità. Non so se mi avete
seguito con
tutti questi “felici”, mmh…
Okay,
adesso la parte brutta. Per emergenze familiari, non sono riuscita a
scrivere in questi giorni (né a rispondere alle vostre
recensioni e
rimedierò quanto prima), dunque sono rimasta ancora
più indietro e,
davvero, mi secca, ma dovrò fare una pausa piuttosto lunga
per
rimettermi un po' in pari. Spero di riuscire a scrivere bene
nonostante le feste e il resto, così da non farvi attendere
di nuovo
tanto presto. Ma non lo prometto; non posso.
Allora,
da questo capitolo siamo in pausa e il prossimo arriverà
di…
martedì. Martedì 29 gennaio. Impostatelo sul
calendario! Ah, sì,
il titolo. Il prossimo capitolo si intitola Il gioco cattivo.
Non perdetevelo :)
|
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Capitolo 38 *** 37. Il gioco cattivo ***
Nei capitoli
precedenti…
Finalmente Eliza e Lillian si
sposano. Nel passato, le vediamo impegnate nei loro precedenti
matrimoni con Jeremiah e Lionel; mentre i primi convivevano da
diverso tempo e si sposano quando lei resta incinta di Alex per dare
più stabilità alla loro famiglia, Lillian ha
solo diciotto anni
quando va in moglie a Lionel, convinto dal padre dopo pochi anni di
conoscenza.
Il matrimonio delle due
è un
evento a cui partecipano personaggi illustri e importanti come il
sindaco, famiglie di spicco di National City, volti noti e
giornalisti; il tutto è seguito da una troupe della CatCo e
ripreso
da una troupe televisiva. Rhea Gand segue con fastidio dalla
televisione, arrabbiata per non essere stata invitata e ancora
parecchio ossessionata da Kara, convinta che sia lei a spiarli per
poi riportare tutto a Leslie Willis e screditare suo marito.
È
ancora ossessionato anche suo figlio Mike, che scambiando due parole
con lei al campus prima di lasciarlo per andare al matrimonio della
madre, è rimasto sorpreso dal sapere che la ragazza sa
delle chiacchierate private tra lui e i suoi amici al telefono.
Arrabbiato, torna a casa e parla con sua madre di Kara che, invece di
stargli a sentire, è presa un amico di Central City, Barry
Allen.
Colta da un'idea improvvisa, Rhea capisce che dev'esserci una
microspia in casa e svuota il salone. Dopo aver frugato nella
scrivania di Lar e aver trovato un foglio scritto da lui che la manda
su tutte le furie, capisce come Kara, e così la sorellastra
Lena,
sia riuscita a introdurre la microspia in casa, adocchiando
il quadro comprato all'asta della Luthor Corp a fine anno.
Nel frattempo, Kara e Lena,
ormai
separate da un po', si lasciano prendere dalla passione. La seconda
decide di dichiarare di nuovo a Kara il suo amore e, finalmente, di
liberarsi del segreto che le ha tenute distanti. Ma il
telegiornale le interrompe con un'edizione straordinaria: il senatore
Lar Gand è morto.
Mike
aveva fatto scattare la serratura di casa aggiungendo una piccola
spinta, veramente infastidito. Avevano tutti negato, naturalmente, di
aver parlato con qualcuno delle loro discussioni al telefono e di
Kara. Più forti della sua frustrazione, potevano esserci
solo le
urla dei suoi genitori: si era distratto, sentendoli dal piano di
sopra. «Mamma?», l'aveva chiamata ma continuava a
litigare con suo
padre: era chiaro che non sentiva. A quel punto sarebbe stato meglio
dormire al campus e pensare ai fatti suoi; non facevano che
rimbeccarsi da tempo a quella parte. Più di altre volte,
sicuramente. Aveva dato un'occhiata verso le scale più
avanti del
corridoio e si era affacciato al salone, notando che il quadro
preferito di sua madre era a terra e che tutto intorno era in
completa confusione.
«Mi
hai voltato le spalle», l'aveva sentita gridare.
«Volevo
solo che pensassi a vivere la tua vita in
tranquillità», aveva
sentito ribattere lui.
Mike
era tornato indietro, verso la porta. Era deciso a tornare al campus
universitario: loro non facevano che strillare e non gli andava
neanche un po' di separarli, si sarebbero arrangiati. Forse avrebbe
mandato loro un messaggio, più tardi. Aveva teso una mano
verso la
maniglia quando lo aveva sentito. Lo aveva sentito forte, il rumore
più forte di tutta la sua vita, tanto che lo aveva fatto
sobbalzare:
uno sparo. Si era voltato verso le scale, con la tachicardia e il
volto pallido. Era sicuro di aver sentito qualcosa cadere, dopo. Si
era sentito gelare, e immobilizzare, e terrorizzare. Non aveva avuto
fiato e la gola si era fatta secca. E poi aveva sobbalzato di nuovo
dallo spavento, sentendo Joyce urlare.
«Vieni!»,
aveva sentito la voce di sua madre fredda e alta, imponente.
«Vieni
qui, ho detto! Devi aiutarmi! Hai capito? Devi aiutarmi»,
aveva
ripetuto le cose come avrebbe fatto con un bambino. «Devi
aiutarmi,
vieni qui! Presto! Tra poco questo posto si riempirà di
poliziotti e
giornalisti, vieni qui! Muoviti! Dai, muoviti».
Mike
aveva deglutito, forse aveva addirittura sudato, e di certo non
avrebbe saputo spiegare la forza che aveva tirato fuori per
raggiungere la maniglia della porta con una mano e girare.
Sgattaiolare fuori coperto dalle sue grida. E infine chiudere la
porta.
Alla
fine, Lena non riuscì a dire a Kara tutto ciò che
doveva ma, in
quel momento, entrambe avevano avuto altro a cui pensare: il senatore
Lar Gand era morto. Mentre tutti loro festeggiavano il matrimonio di
Eliza e Lillian, qualcuno si era introdotto in casa Gand e gli aveva
sparato. La domestica Joyce aveva chiamato la signora Gand al
telefono quando aveva sentito l'allarme di casa scattare; pensava di
essere da sola, ma era stata lei a trovare il cadavere dell'uomo poco
dopo, al piano di sopra. Pochi minuti e Rhea era tornata a casa,
aveva chiamato il nove
uno uno
in lacrime, urlando che suo marito era stato ucciso. Questa era la
versione ufficiale, se non altro. Sembrava fosse stato colto mentre
usciva dalla camera da letto. Non avevano rubato niente ed era stato
chiaro fin da subito, alle forze dell'ordine, che l'unico obiettivo
dell'intrusione era quello di farlo fuori.
«È
stata lei», Siobhan fu lapidale. «È
chiaramente stata lei! Ve lo
dicevo io che quella stava perdendo la testa: avrà tirato
fuori la
pistola come ha fatto con me e avrà premuto il
grilletto», prese un
bel respiro e, braccia intrecciate contro il petto, non
riuscì a
star ferma, camminando avanti e indietro.
Kara
abbassò la testa, per poi reggersela con fare stanco.
«Sono
d'accordo…», deglutì e vide Siobhan
indicarla, scrollando le
spalle. «Dovevo intervistarlo e lo avrà ucciso per
non farlo
parlare». Diede un'occhiata al telefono che aveva stretto in
un
pugno, ma non c'era nessuna nuova notifica, non sua: Mike non
rispondeva ai suoi messaggi e provando a chiamarlo c'era la
segreteria telefonica da ore.
«Non
abbiamo niente in mano», disse a un certo punto Alex, dando
una
veloce occhiata a Lena, dietro di lei, appoggiata contro una
scrivania con le braccia incrociate, pensierosa. «Dobbiamo
lasciar
fare alla polizia».
Kara
aggrottò la fronte. «Se la polizia è
corrotta, non le faranno
niente».
«Lo
so, ma questo non lo dire davanti a Maggie»,
replicò guardando
l'orologio, «Starà arrivando».
Siobhan
si portò le mani sulle tempie e le guardò grave.
«Le prossime
saremo noi! Capite?», fissò una per una, sgranando
gli occhi.
«Ehi», schioccò le dita verso Lena,
«Guarda che parlo anche con
te, Lena Luthor. Sei compresa nel pacchetto, cara».
«Senti»,
Alex le prese un braccio con calma, guardandola negli occhi.
«Andare
nel panico non aiuterà nessuno».
«Ma
certo!
Invece prendere un bel respiro e sorridere alla vita che sta per
finire per una morte prematura e dolorosa aiuterà
tutte», sorrise
forzatamente, afferrando una sedia dalla scrivania più
vicina.
«Guardami, Alex Danvers, aiuto qualcuno
così?», si sedette
indispettita e, sempre con le braccia incrociate, la fissò
con un
sorriso.
Alex
sbuffò, roteando gli occhi. «Se
sta pure zitta, aiuta me di sicuro»,
sibilò passando una mano sulla tempia, scambiando uno
sguardo con
Kara e Lena.
Le
ragazze avevano scoperto con sgomento che la microspia non dava
più
alcun segnale. Durante il matrimonio, nessuna di loro poteva stare
dietro alle discussioni da quella casa e avevano impostato la
ricetrasmittente in modo che registrasse, ma Rhea doveva averla
trovata e rotta e, nel farlo, la registrazione aveva riportato un
guasto perché non era stato interrotto manualmente. Che la
microspia
avesse registrato o meno l'omicidio, e in quel caso non avrebbero
potuto usarlo in tribunale, spettava a Lena e il suo assistente Winn
riuscire a riparare il danno e a trovare le registrazioni precedenti
al punto di rottura. Anche adesso, mentre loro erano radunate alla
CatCo, il ragazzo ci stava lavorando in massima priorità.
Con
due bicchierini di caffè fumante in mano, Leslie Willis le
raggiunse, dando solo un veloce sguardo verso l'ufficio di Cat Grant,
ancora vuoto. «Ecco», ne passò una a
Lena, che la ringraziò a
bassa voce.
Siobhan
aggrottò la fronte. «A me niente?».
«A
te ho portato la Xanax, tesoro», ridacchiò
frugando in una tasca
dei pantaloni con la mano libera, mentre Siobhan le mostrava il dito
medio. «Cosa sono tutte queste facce da funerale?
Cioè, sì, il
senatore è morto, è tutto molto triste, ma noi
ancora non lo siamo,
no? Su con la vita, tutte prima o poi dobbiamo morire».
«Ti
va bene che sarai la prima della lista», borbottò
Siobhan.
Alex
intervenne di nuovo per calmare la situazione, prima che si
mettessero a litigare. Intanto, dopo aver riprovato a chiamare Mike
senza successo, Kara scambiò un lungo sguardo con Lena.
Eliza
e Lillian avevano dovuto rinunciare al viaggio di nozze quando, la
mattina successiva, si erano ritrovate la polizia in hotel. Avevano
dovuto portare Lillian in centrale per rispondere ad alcune domande.
E avevano invitato Kara a fare lo stesso. Rhea Gand aveva citato
tutte e due, accusandole di aver potuto assassinare loro il suo amato
marito. In centrale avevano trovato anche Leslie, lì per lo
stesso
motivo.
«Non
sembra molto dispiaciuta per la morte del senatore», aveva
detto un
poliziotto a Lillian, mentre la stavano interrogando in una saletta
apposita.
«No.
Sono più che altro seccata, in effetti. Mi sono sposata ieri
e mia
moglie ed io avevamo in programma di partire questa sera per un bel
viaggio ad Aruba. Invece mi ritrovo qui, con lei che mi guarda come
se fossi la peggiore criminale del mondo perché, anni
passati, mi
sono ritrovata discutere con i signori Gand. Abbiamo dei trascorsi,
è
per caso diventato un reato?». Aveva picchiettato le dita
contro il
tavolo, fissandolo insistentemente.
«No»,
aveva risposto il poliziotto, scambiando uno sguardo con il collega
in piedi a fianco a lui. «Ma potrebbe scaturire in reato, se
quei
trascorsi contengono minacce di morte».
Lillian
trattenne un sorriso. «Suvvia, ero arrabbiata. Quello
è stato un
periodo difficile per gli affari e la Luthor Corp stava perdendo
clienti, ho litigato con i signori in questione e c'è stato
qualche
attrito. Può capirmi. Si parla di quasi undici anni fa, nel
frattempo le cose sono cambiate e sono rimasta in rapporto con la
coppia. Il sindaco può confermare. Se avessi ucciso io il
senatore,
perché mettere in pratica la minaccia dopo tanto
tempo?».
«La
vendetta è un piatto che va servito freddo, signora
Luthor-Danvers».
Lei
aveva stirato le braccia sul tavolo, avvicinandosi. «E allora
sarei
stata là a godermelo. Mi spiega perché dovrei
mandare qualcuno a
uccidere il senatore, dopo anni che ho in mente questo progetto,
mentre mi sposo? Che gusto ci sarebbe?». Si era avvicinata
ancora di
più, guardandolo attentamente negli occhi, così
tanto che lui si
era sentito costretto a retrocedere con la sedia, deglutendo.
«Sarei
stata là a godermi il suo corpo agonizzante. Se fossi stata
io la
mandante, cosa che non sono. Allora, mi serve un avvocato?»,
era
tornata indietro di colpo e i due poliziotti si erano guardati.
Leslie,
invece, aveva pesantemente sbuffato, dopo che le avevano fatto
rimettere giù i piedi che aveva sollevato sopra il banco.
«Perché
avrei dovuto uccidere il senatore?».
«Non
lo so, ce lo dica lei», le aveva ribattuto la poliziotta,
guardandola con attenzione e mettendo le mani intrecciate sul tavolo.
«Ultimamente ha scritto molti articoli dove lui è
l'unico
protagonista», aveva toccato i CatCo Magazine disposti alla
sua
destra, per poi rimettere le dita intrecciate.
«Oh,
e non dimentichiamo lo schiaffo in tv», aveva ghignato
l'altro
poliziotto, mentre Leslie gli lanciava un'occhiata e poi sbuffava
ancora. «La signora Gand le ha fatto male? Penso di aver
sentito il
rumore dello schiaffo direttamente nel salotto di casa mia».
«Beh,
lo schiaffo me lo ha dato lei, mica suo marito», aveva
scrollato le
spalle, poi si era rimessa bene sulla sedia, sorridendo al
poliziotto. «Hai guardato tutto?», alzò
un sopracciglio. «Non so
se hanno tagliato la scena dove cerco di sputarle addosso».
«Oh
sì, oh sì», lui si era gettato sul
banco, sorridendo come
elettrizzato. «L'ha mancata di poco, signorina Willis,
davvero di
poco. Forse le ha sputacchiato almeno una scarpa».
Lei
aveva annuito felice e la poliziotta aveva rivolto gli occhi al
soffitto, richiamando il collega. «Scusa? Stiamo interrogando
una
sospettata in un caso di omicidio», gli aveva bisbigliato con
tono
duro e lui aveva rumoreggiato con la gola, tornando serio e
rimettendosi al suo posto.
«Beh,
ieri sera guardavo Netflix», si era gettata sulla sedia,
mettendo le
braccia dietro la testa. «E poi perché avrei
dovuto ucciderlo?
Stava diventando la mia gallina dalle uova d'oro: i miei pezzi su di
lui andavano forte».
Quando
era spettato a Kara, sia Lena che Lex era rimasti fuori ad aspettare.
Alex era sparita per fare una telefonata, Lena poteva ben immaginare,
mentre Eliza e Lillian erano state trattenute da altri poliziotti.
Erano rimasti entrambi pensierosi, in silenzio. Fino a quando Lex non
aveva tirato fuori il telefono, iniziando a digitare.
«Cosa
fai?».
«Stavo
pensando se non fosse il caso di rivolgerci a un avvocato».
«No».
Lena gli aveva preso il cellulare dalle mani. «Se le
chiamiamo un
avvocato ancora prima che sia ufficialmente accusata di qualcosa,
daremo un'idea sbagliata e penseranno che abbia davvero qualcosa da
nascondere».
«O
peggio: che sia colpevole», aveva annuito, aprendo la mano
per farsi
ridare il cellulare. «Aspettiamo», aveva ansimato.
Dentro
la saletta, Kara aveva sospirato, mentre i due poliziotti la
guardavano.
«Allora»,
aveva detto la poliziotta in piedi, girando avanti e indietro,
«Mi
pare di vederla piuttosto in ansia».
«Lo
conoscevo, certo che sono in ansia», aveva scrollato le
spalle.
«Non
era solo un senatore, ma il padre del suo ex ragazzo, se le nostre
informazioni sono corrette», aveva detto l'altro poliziotto,
seduto
davanti a lei sulla sedia. Kara aveva annuito. «Che ora
è sparito».
«M-Mike
è sparito?», aveva spalancato gli occhi, guardando
uno e poi
l'altra. Aveva provato a telefonargli per tutta la notte, in camera
con Lena, il cuore in panne, ma era stato irrintracciabile.
«Non
lo sapeva?», aveva alzato le sopracciglia il poliziotto,
guardando
la collega.
«H-Ho
provato a contattarlo, ma…», aveva inspirato,
«Scusate, posso
sapere di cosa sono accusata?».
«Di
nulla, signorina», aveva detto lui, mentre l'altra si
avvicinava
ferocemente.
«Per
ora», aveva rimarcato per bene lei, poggiando i pugni sul
banco e
guardandola con sfida. «Sappiamo che si era messa in contatto
col
senatore per un'intervista. Su cosa si basava?».
Kara
l'aveva fissata senza battere ciglio. «È stato lui
a dirmi di voler
rilasciare un'intervista: voleva abbandonare la carriera politica,
non mi ha dato i dettagli».
Lei
aveva scosso la testa. «E voleva rilasciarla a lei, che non
è
ancora una professionista? Se non sbaglio, alla CatCo segue un
tirocinio», si era alzata, continuando a guardarla.
«Perché
avrebbe dovuto chiederla a lei?».
«Ha
chiesto di me. N-Non lo so-».
«Quindi»,
l'aveva interrotta, «non aveva niente a che vedere con il
fatto che
pensi che siano stati i coniugi Gand a commissionare l'omicidio della
sua famiglia?».
Kara
si era ghiacciata e per un attimo le erano mancate le parole.
«Rhea
Gand ha detto questo?».
«Risponda
alla domanda».
Kara
aveva deglutito, senza cedere un momento. «No. Non aveva a
che
vedere con questo».
«Ma
lo pensa davvero?».
Il
poliziotto seduto davanti a Kara aveva lanciato uno sguardo alla
collega, aggrottando la fronte, perplesso.
«Faora…», l'aveva
richiamata, «No-Non deve rispondere a questo, non ha a che
fare col
motivo per cui è qui».
Lei
aveva guardato lui e poi di nuovo Kara, sorridendo e annuendo,
decidendo di passare oltre. A quel punto, però, Kara ne
aveva già
abbastanza: si era sporta sul tavolo e si era accigliata, guardando
lei.
«Il
senatore voleva lasciare la politica, sembrava avesse fretta di
qualcosa, ma sono stata io a dirgli di vederci dopo il matrimonio di
mia madre, in modo che potessi essere più libera: ma lui
è morto
prima dell'intervista e sua moglie sta facendo di tutto per scaricare
l'attenzione sugli altri. Se il senatore era veramente coinvolto
nell'omicidio dei miei genitori, perché avrei dovuto
ucciderlo prima
che dicesse la verità?».
La
poliziotta l'aveva interrotta, fissandola a sua volta: «Aveva
detto
che l'intervista non avrebbe avuto a che fare con quello».
«Non-Non
è questo il punto», aveva battuto una mano,
cercando di mantenere
la calma. «Lui era… preoccupato di
qualcosa», aveva spalancato la
bocca e cercato di ricordare, «Parlava come se avesse voluto
proteggere
Rhea».
«Proteggerla
da cosa, signorina?», le aveva chiesto l'altro poliziotto,
interessato.
«Non
lo so… da se stessa, forse. Era diventata molto paranoica,
ultimamente».
«A
causa degli articoli scritti dalla sua collega Willis», aveva
prontamente risposto lei.
Kara
l'aveva ignorata, deglutendo. «Dico solo che se Rhea Gand
avesse
voluto fare qualche sciocchezza e lui si fosse messo in testa di
poterla evitare, anche lasciando la sua carriera, allora
lei…
allora lei avrebbe fatto qualsiasi cosa per non essere
fermata»,
aveva guardato lui e, dopo poco, lei. «Per non fargli fare
l'intervista».
La
poliziotta si era riavvicinata, portando una mano sul mento e
fissandola assottigliando i suoi occhi. «Sta davvero
suggerendo che
sia stata la vedova a ucciderlo?».
Non
aveva risposto. Quella poliziotta sembrava avercela con lei e di
certo non avrebbe voluto darle altri motivi per attaccarla.
Vestita
con addosso la divisa da poliziotta, Maggie passò attraverso
le
varie scrivanie e corse da loro quasi col fiatone, togliendosi il
cappello e sistemandosi un ciuffo di capelli sfuggito alla coda.
«Sono venuta prima che ho potuto». Tutte le si
misero intorno e
Siobhan si alzò dalla sedia. Maggie sorrise. «Non
siete delle
sospettate», si rivolse a Kara e Leslie, che tirarono un
piccolo
sospiro di sollievo, «E non lo è nemmeno
Lillian», guardò Lena.
«Ma non potrà lasciare la città.
È più che altro un consiglio,
finché le acque non si rassereneranno. Adesso che siete
ufficialmente non accusate, credo che potrò ottenere il
permesso di
lavorare al caso e vi terrò informate. Rhea continua a
puntare il
dito contro di voi, ma è lei la vera sospettata».
Siobhan si lasciò
andare a un mugolio di approvazione. «Per il momento la
trattiamo
con i guanti, non vogliamo che lo capisca; dobbiamo tenerla buona
intanto che le indagini vanno avanti».
Alex
e Kara si scambiarono uno sguardo, ripensando a Zod: se l'uomo
decideva di incriminare Rhea, forse non faceva parte
dell'organizzazione, dopotutto. Maggie continuò a parlare
della
polizia scientifica che si trovava ora sul luogo dell'omicidio che a
Kara vibrò il telefono e si allontanò subito,
sperando fosse Mike.
Ah, sbuffò: era Kal.
Kara,
come stai? Abbiamo saputo che insieme a Leslie Willis e Lillian
Luthor sei stata interrogata dalla polizia. Lois ed io non potremo
raggiungerti prima di domani. Stai a casa!
Il
tono del messaggio sembrava così preoccupato. Nessuno aveva
diffuso
la notizia del loro interrogatorio e si domandava come avessero fatto
a venirne a conoscenza. Gli rispose che andava tutto bene quando un
altro messaggio prese la sua attenzione, ma ancora una volta non era
Mike.
Da
IlRagazzoDelFlash a Me
Kara,
ottime notizie!! Questa sera faranno uscire mio padre di prigione,
non puoi assolutamente mancare!! Oggi grande cena tutti insieme e
domani festa, devi esserci! Ti spiegherò tutto quando sarai
qui!!
Scrivimi presto per farmi sapere quando puoi venire!
Sospirò.
Almeno Barry non aveva idea del caos che stava succedendo e
probabilmente non aveva neppure guardato la televisione, concentrato
su tutt'altro. Che suo padre stesse per uscire di prigione, se non
altro, era la buona notizia che sperava di sentire. Non gli rispose
ancora e tornò dal gruppo. O quelle erano le sue intenzioni
prima di
sentire le grida:
«Leslie!
Keira!»: Cat Grant era tornata. Aveva gli occhiali da sole e
con una
mano reggeva una tazza da viaggio calda. «Nel mio ufficio.
Subito».
Non si fermò neppure un istante, entrando e sbattendo la
porta.
«È
arrivato il momento della giornata che preferisco»,
canticchiò
Leslie, seguendo Kara che entrava in punta di piedi. Sentirono
Siobhan dire che avrebbe pregato per loro.
Maggie
prese per un braccio Alex e la tirò da una parte, in modo
che
potessero scambiare due parole in privato. Lena le raggiunse, dopo
aver dato una veloce occhiata al suo cellulare e aver comunicato a
suo fratello che né Kara né Lillian erano
indagate.
«Notizie
dal D.A.O.?».
Alex
sospirò. «Dobbiamo lasciar fare a voi. Non
possiamo intervenire
fintanto che sarà un omicidio slegato alla nostra indagine,
non è
di nostra competenza», scosse la testa.
«Però John è parecchio su
di giri e mi ha ordinato di non mollare Kara un attimo. Pensa
che…»,
non terminò la frase, scambiando uno sguardo con Lena.
«Non
è l'unico a pensarlo», sussurrò lei,
ansimando. «Kara e Leslie
saranno le prime che andrà a cercare». Perfino Lex
le era sembrato
preoccupato: non era tornato a Metropolis come da programma e aveva
invitato sorella e nuove sorelle a cena fuori, per quella sera. Per
un attimo, il pensiero di contattare il profilo misterioso, o meglio
ancora Indigo, per chiederle aiuto la sfiorò: forse lei
poteva
trovare qualcosa che incastrasse Rhea Gand.
«Lena?».
Alzò
lo sguardo e vide che entrambe la fissavano: si era persa troppo a
lungo nei suoi pensieri.
«Ci
chiedevamo se ci sarebbe voluto ancora molto per risalire alle
registrazioni della microspia», le fece presente Alex.
«No,
le avremo in giornata», assicurò. «Ma
non so quanto potranno
tornarci utili».
Le
due si guardarono. Sapevano che aveva ragione. «Devo
andare», disse
velocemente Maggie, rimettendo il cappello sulla testa.
«Insisterò
per lavorare al caso e vi farò sapere possibili
sviluppi». Lei e
Alex si scambiarono un bacio, così si allontanò
di corsa.
Entrambe
guardarono attraverso i vetri dell'ufficio, cercando di immaginare la
discussione. «Chiederò una scorta anche per Leslie
Willis. Almeno
finché la situazione non cambia», disse Alex,
mettendo le braccia
contro i fianchi. «Se arresteranno quella donna, mi
sentirò un po'
meglio. Pensi di essere in pericolo?», la guardò,
«Potrei
richiederla anche per te, lo sai; John me l'approverebbe a occhi
chiusi».
«Non
mi sento in pericolo», obiettò. «Sono
spaventata dagli eventi? Sì.
Ma non ho paura per me». Riguardarono verso l'ufficio,
scorgendo
Leslie Willis camminare inviperita verso la porta.
La
aprì e la richiuse sbattendola. «Mi ha sospesa! Di
nuovo! A tempo
indeterminato», alzò le braccia all'aria.
«Va a finire che mi
costringe al licenziamento».
«Cos'è
successo?», le chiese Siobhan, riapparsa davanti a lei solo
per dare
sfogo alla sua curiosità.
Lei
gonfiò le guance, riguardando l'ufficio con aria
contrariata.
«Siccome siamo state interrogate dalla polizia, pensa che sia
meglio
sospenderci per un po', per non dare nell'occhio. Dannazione,
passerò
le mie giornate a bere nei pub».
«Siamo?»,
la interruppe Alex e Leslie sbuffò.
«Sì,
anche la biscottina è sospesa», indicò
l'ufficio e si allontanò
scalciando.
Davanti
a Cat Grant, Kara ebbe lo stomaco in subbuglio. «S-Signora
Grant, la
prego, ci ripensi, non può sospendermi», corse
verso la scrivania,
con mani strette a pugno. Era stata sospesa dal lacrosse e ora dal
lavoro? Le serviva quel lavoro; una sospensione poteva essere
definitiva.
«Non
farlo; se avessi voluto sentire delle preghiere, mi sarei fatta
suora», rispose con sufficienza. Ricontrollò
alcuni fogli e poco
dopo rialzò il suo sguardo, trovandola ancora lì.
«Keira.
Ascolta», si sfilò gli occhiali da sole,
mostrandole le borse sotto
gli occhi, «Le vedi queste? Sono ciò che mi sono
guadagnata per
essere rimasta sveglia tutta la notte a rispondere a telefonate ed
email sulla morte del senatore. Ho un sacco di lavoro da sbrigare e
tu e Leslie, in questo momento, non siete altro che un piccolo e
insignificante dettaglio in un mare di scartoffie e cose da
ricordare».
Kara
deglutì. «Anch'io non ho chiuso occhio questa
notte, signora
Grant».
L'altra
la guardò un momento, poi sbuffò, sedendo meglio
sulla sedia e
poggiando gli occhiali. «Quando pensavi di dirmi di dover
fare
un'intervista a quell'uomo? Non ammetto simili comportamenti per chi
lavora per me».
Kara
trattenne il fiato, tirandosi più indietro.
«G-Gliel'avrei detto
presto, voglio dire, subito dopo il matrimonio, c-cioè,
oggi»,
annuì, «probabilmente oggi».
«Probabilmente?».
«Sicuramente»,
si corresse. Non sapeva come ne era venuta a conoscenza: a parte
poche persone e la polizia, nessun altro lo sapeva. Quella donna
aveva orecchie ovunque. «Era stato lui a… a
chiedermi di farlo».
«Quindi
se ti chiedessi di fermare un treno in corsa a mani nude tu
correresti a provarci?», la guardò aggrottando la
fronte. «Pensavo
fossi intelligente, Keira. Un'intervista al senatore era un lavoro
troppo grande per te, non eri pronta».
«Proprio
perché pensavo non me l'avrebbe lasciata fare, non ho detto
nulla»,
ingigantì gli occhi ma si pentì subito di averlo
detto, guardando
il viso contrariato di Cat Grant.
«Confermo
la sospensione».
«Ma-».
«Un
giorno molto vicino ti chiederò di parlarmi di cosa ti ha
chiesto di
fare il senatore, ma ora voglio che te ne vada prima che la rabbia
prenda il sopravvento e mi impedisca di dire ciò che sto per
dire:
non stai perdendo il lavoro. Hai ancora molto da imparare, è
vero,
ma sei sulla buona strada, sei capace e hai lo spirito giusto. E ora
sei sospesa». La vide scapparle un sorriso, ma un sorriso
molto
incerto. «Sai cosa devi fare ora? Tornare a casa, metterti il
pigiama e goderti questa piccola vacanza extra. Prendila
così, vai a
fare ciò che ti piace fare: che sia un bagno caldo, una
maratona
della tua serie tv preferita, una pizza, magari coccolarti con la tua
sorellastra, lì». Kara arrossì di
colpo, ingigantendo gli occhi, e
Cat mosse un sopracciglio: «Oh
sì, guardala come non ha occhi che per te»,
sussurrò e, all'improvviso, rimise gli occhiali, ritrovando
il suo
tono duro. «Non mi interessa. Basta che tu stia a casa,
lontano da
qui, non voglio vedere la tua faccia». Si alzò,
raggiungendola. La
spinse per quasi metà ufficio. «Stai a casa. E non
parlare con
nessuno», le aprì la porta.
«Fuori».
Kara
si vide costretta ad obbedire e per poco non inciampò su un
tappeto.
«Tutto
bene, sorellina?». Sia Alex che Lena si avvicinarono, mentre
Kara
guardava senza battere ciglio Cat Grant che richiudeva la porta e si
allontanava verso la scrivania.
«Ho
come l'impressione che la signora Grant mi abbia appena suggerito di
stare al sicuro», disse, voltandosi verso di loro.
«Anche lei pensa
che stia per succedere qualcosa».
Maggie
Sawyer era tornata in centrale. Il suo turno non era ancora finito e,
appena mise piede all'interno, notò subito il gran fermento.
Alcuni
suoi colleghi facevano gruppo e parlottavano a bassa voce,
escludendola. Aveva cercato spesso di ambientarsi, ma era ancora una
novellina e altri novellini come lei, quando aveva iniziato, erano
stati trasferiti o altri avevano stretto amicizie più
facilmente. E
non che avesse mai dato a qualcuno motivo di tagliarla fuori. Ora
parlavano della morte del senatore. Aveva sentito Faora Hui alzare la
voce, dicendo dispiaciuta che aveva deciso di votarlo alle prossime
presidenziali. Li lasciò perdere e inquadrò il
capitano Zod dietro
i vetri che circondavano il suo ufficio. Aveva la testa bassa e
scriveva qualcosa davanti alla sua scrivania; le dispiaceva
interromperlo, ma doveva ottenere quell'incarico.
Bussò,
lo vide alzare la testa e farle cenno di entrare, così
eseguì,
richiudendo la porta dietro di lei. «Scusi l'intrusione,
signore,
spero di non averla interrotta». Lui prese un pesante respiro
col
naso, continuando a controllare le carte in mano e indicandole con un
cenno la sedia davanti. «Oh, no, signore. Sto in piedi,
volevo solo
chiederle…», toccava freneticamente il cappello
tra le mani, come
un antistress, «considerando che non ho parenti o amicizie
coinvolte
nel caso-».
La
interruppe, assottigliando gli occhi: «Vuoi lavorare al caso
del
senatore?».
Maggie
trattenne un sorriso, restando nella sua posizione rigida.
«Sì»,
disse solamente, senza annuire.
«Perché
ci tieni tanto?», le chiese, dapprima guardando i suoi fogli
e dopo
alzando lo sguardo verso di lei, facendosi interessato.
«Abbiamo
abbastanza agenti impegnati lì».
«Beh,
è… un caso importante, signore. E devo farmi le
ossa, quindi
pensavo…».
«Vuoi
imparare e crescere», accennò un sorriso, durato
poco. «Permesso
accordato, mettiti in pari con gli altri. E, Sawyer?», la
fermò,
vedendola allontanarsi, «Proprio perché si tratta
di un caso
importante, devo ricordarti la discrezione? Abbiamo la nazione
addosso, non possiamo permetterci errori e non vogliamo attirare
l'attenzione dei federali».
Lei
annuì, tirando la maniglia della porta. Lo
riguardò solo un
momento, con attenzione, mentre completamente preso si rimetteva a
testa in giù sulle scartoffie sulla scrivania. Si era ormai
abituata
a vedere quell'uomo sempre rigido e composto, apparentemente senza
emozioni perfino quando sua moglie era venuta in centrale per
portargli il pranzo, una volta, ma ora sembrava quasi… in
lutto. Il
senatore Gand si era fermato parecchio nel suo ufficio, quando era
venuto a trovarlo. Che ci fosse dell'altro oltre al rapporto
professionale? Che si conoscessero al di fuori dell'ambiente
lavorativo? Alex avrebbe certamente detto che era perché
facevano
entrambi parte di quell'organizzazione criminale, ma Zod era un uomo
severo che amava rispettare le regole, non un delinquente.
«Signore?». Lo vide alzare lentamente la testa e
Maggie si rese
conto che lui non aveva neppure fatto caso che lei fosse ancora
lì.
«Le mie condoglianze». Uscì, lasciandolo
prima che potesse
replicare.
Kara
tornò al campus con una brutta sensazione sulla pelle. Lar
Gand era
stato ucciso, Mike era scomparso, e Rhea voleva la sua testa. Lo
sapeva. L'aveva sempre odiata dalla prima volta che mise piede nella
sua casa, e allora non poteva sapere ciò che sapeva oggi.
Che la
donna sapesse del suo sospetto su di loro per la morte dei suoi
genitori era un campanello d'allarme piuttosto forte… Oh,
come se non bastasse, se l'avevano seguita, ed era certa che qualcuno
l'avesse
fatto, avrebbero presto fatto la loro mossa. Il telefono le
vibrò di
nuovo e lo prese, controllando la maniglia della porta della sua
stanza, e poi girandola.
Tutta
intera, sorellina?
Alex
era più ansiosa di sempre, ma stavolta non poteva darle
torto. Le
rispose che stava bene, di essere tornata sana e salva.
Entrò dentro
e richiuse, guardandosi velocemente intorno. Non c'era nessuno.
Vibrò
di nuovo e si spaventò, così il cellulare
scivolò dalla sua presa
e cadde a terra.
Kara,
devo sapere se ci sei!
Era
ancora Barry. Accidenti, non gli aveva risposto.
Ho
controllato i diretti, questo sarebbe il migliore.
Le allegò uno screenshot delle linee e ne aveva cerchiato
una che
sarebbe partita tra qualche ora.
Sorrise
un poco amareggiata; il ragazzo ci teneva proprio ad averla con loro.
Non sapeva come dirgli di avere una cena con Alex, Lena e Lex, quella
sera. E del senatore. Come poteva dirgli no,
Barry, non potrò esserci perché hanno ucciso il
senatore e ora sono
un bersaglio?
Spense
lo schermo del telefono e si avvicinò al letto, quando un
rumore
proveniente dal bagno la fece sobbalzare. La porta si aprì e
Kara
strinse il cellulare con forza, lanciandolo in direzione della porta.
Megan scattò come un felino per non essere colpita e il
cellulare
finì dritto dentro il lavandino.
«Sono
io, imbranata».
«No!
Il cellulare!». Corse subito a recuperare l'oggetto usato
come arma,
mugugnando su quanto gli volesse bene.
Invece,
Lena era tornata alla Luthor Corp. Aveva mal di testa, una perenne
tachicardia e un senso pesante addosso a cui non riusciva a dare un
nome. Non che ammirasse il senatore, né era mai stata
particolarmente attaccata alla famiglia Gand, ma saperlo morto le
aveva ricordato suo padre. E forse Rhea aveva ucciso entrambi.
Aprendo
la porta del piccolo laboratorio, trovò Winn seduto
accovacciato
davanti a un banco; il monitor di un computer ormai spento, piccoli
pezzi di plastica sparsi intorno a lui e utensili da lavoro. Il
ragazzo era immobile. Lena si avvicinò piano, sentendolo
russare.
Ancora piano, si posizionò accanto a lui e prese fiato:
«Winslow».
«Aaah!».
Lui scattò in piedi, sbatté le ginocchia contro
il banco e la sedia
con le ruote gli scivolò sotto il sedere. «Ho
f-fatto, signorina
Luthor! Sono qui, so-sono sveglio, signorina Luthor». Aveva
gli
occhi rossi e il fiatone. «H-Ho fa- Cioè, sono
riuscito a sì, emh,
salvare il più possibile, trasferendolo verso-»,
si bloccò,
muovendo il mouse e rimettendo operativo il pc.
Lena
gli sorrise un momento, per poi tornare seria. «Vai a casa,
adesso
ci penso io».
«No,
sono… Sto bene», ridacchiò,
«Mi ero appisolato un momento ma-».
«Hai
fatto un buon lavoro, gli straordinari sono finiti. Vai a
casa».
Sapeva di avergli chiesto spesso di fare più del dovuto.
Lui
alzò gli occhi verso di lei e a quel punto lasciò
il mouse,
annuendo. La sorpassò e le diede le ultime accortezze, prima
di
accostarsi alle porte. «Emh, signorina Luthor…
posso chiederle
come sta Kara?!».
Lei
annuì, riprendendo la sedia e avvicinandola al banco,
sedendo. «Sta
bene. Le dirò che l'hai pensata». Winn sorrise e
uscì, intanto che
la ragazza si mise al lavoro. Schiacciò play
e si mise in ascolto, infilandosi le cuffie. Alcune tracce erano
ancora troppo disturbate. Prese il cellulare e inviò un
messaggio ad
Alex, dicendole di avere qualcosa. Ascoltò, mandò
avanti. C'erano
fin troppe cose inutili, discussioni senza senso, molte per cui Rhea
saltava da una conclusione all'altra. E nominava Kara fin troppo
spesso. Non si accorse della porta che si apriva e del ragazzo che si
avvicinava.
«Trovato
qualcosa?», domandò Lex, poggiando una mano sul
banco, vedendola
fare un sospiro. «Ho incontrato il tuo assistente e mi ha
detto
dov'eri».
Lena
tolse le cuffie e le scollegò, in modo che entrambi
potessero
sentire, cliccando play
sull'ennesima traccia.
Megan
rimase senza parole quando Kara le spiegò, brevemente,
cos'era
successo e cosa sarebbe potuto accadere ora. Fintanto che Rhea Gand
era a piede libero, restava una minaccia.
«Mike
non può essere scomparso», scrollò le
spalle, «Era qui, ieri».
«Lo
so, lo avevo incrociato anch'io prima di andare al
matrimonio».
«No,
più tardi, intendo. Sono stata con John ieri sera, mi ha
riaccompagnato perché aveva impegni, e l'ho visto passare
dal parco.
Ho provato a salutarlo ma non mi ha sentito; ha continuato a
camminare e l'ho lasciato fare», la fissò,
scorgendo il suo sguardo
preoccupato. «Sono certa che Rhea non gli ha fatto del
male», disse
subito, «Andiamo, è suo figlio, e ha sempre
straveduto per lui».
Kara
abbassò gli occhi. «E il senatore era suo
marito», li rialzò
lentamente, specchiandosi nei suoi. «Lo ha ucciso quando
aveva
deciso di parlare con me. E sai com'è fatto Mike»,
strinse i denti,
«Mi difende sempre».
A
quel punto, Megan si alzò dal letto con uno scatto.
«Va bene,
andiamo. Invece di stare qui a rimuginarci, possiamo chiedere ai suoi
amici se sanno dove è andato».
Kara
sorrise e le strinse la mano che aveva allungato verso di lei, per
aiutarla a rimettersi in piedi.
«Come
sta il cellulare?».
«Non
è rotto: ha passato di peggio».
Cambiarono
dormitorio, affacciandosi verso una grande sala con biliardo e
freccette pieno di ragazzi e qualche ragazza, bottiglie di birra
vuote appoggiate ovunque, e c'era della musica ad alto volume. E caos
là dentro, tanto caos. Schiamazzi, qualcuno si rincorreva.
«Noi
non abbiamo il biliardo», brontolò Megan mentre
Kara la tirava via
per una manica. «Perché non abbiamo il
biliardo?».
Qualcuno
le salutò e si fecero dare indicazioni, salendo al terzo
piano.
C'era del fumo puzzolente per il corridoio, anche se fumare era
vietato. Schivarono un ragazzo in corsa che, vedendole, aveva gridato
Supergirl
prima di svoltare un angolo. Bussarono alla porta della sua camera,
ma non rispose nessuno e andarono più avanti, trovando una
porta già
aperta: due letti, una piccola televisione accesa su un mobiletto,
indumenti sparsi; sigaretta in bocca, un ragazzo provava qualche nota
con una chitarra mentre due amici gli davano consigli.
Kara
e Megan si scambiarono un'occhiata e così la prima
bussò,
osservandoli intanto che alzavano uno sguardo, perplessi.
«Scusate
l'intrusione: avete per caso visto Mike Gand, oggi?».
Il
ragazzo con la chitarra la mise su un tappeto e si alzò dal
letto su
cui era seduto, mentre i due amici facevano lo stesso. «Non
sei la
benvenuta, qui, Supergirl», disse lui, togliendo la sigaretta
dalla
bocca e lasciando uscire il fumo. «Non
più».
«Ma
non ti vergogni?», le disse un altro, con sguardo
contrariato. «Gli
hai spezzato il cuore e quel poverino ha perso pure il
padre».
Kara
aggrottò la fronte e Megan intervenne: «Abbiamo
bisogno di parlare
con lui, è una cosa importante, non fate i
bambini».
«I
bambini noi?»,
si indicò il terzo ragazzo, abbozzando una risata e
guardando gli
amici. «La tua amica lì ha cercato di metterlo
contro di no- ah!»,
la indicò e Kara si avvicinò scattante,
afferrandogli il dito e
piegandolo un po': mentre lui si lamentava dal dolore, gli amici
smettevano di ridacchiare.
«Forse
non avete capito: non abbiamo tempo da perdere». Gli
restituì il
dito che il ragazzo stava quasi per mettersi a piangere, con occhi
lucidi. «E io non ho cercato di fare proprio
niente».
Lui
si strinse il dito ma non osò dire che gli faceva male; si
tirò
indietro e si stette zitto, mentre il primo ragazzo gli
lasciò la
sigaretta e si avvicinò a Kara tanto da respirarle addosso,
guardandola dall'alto al basso. Per un attimo, in quel solo attimo,
Kara ricordò la rissa a Gotham. Se avesse avuto in corpo
l'effetto
della pillola che aveva ingerito quella sera, in quel momento, cosa
sarebbe successo? Si era sentita così libera
di poter dare sfogo alle sue emozioni, senza freni, senza colpe,
senza pensieri, che era certa sarebbe potuta andare dritta
all'obiettivo. Il pensiero che Rhea avrebbe potuto tentare di
ucciderla, ora, si stava facendo pesante. Come pesante era il
sospetto che fosse accaduto qualcosa a Mike e che non poteva fare
niente per lui.
Anche
l'altro ragazzo tentò di avvicinarsi, ma Megan lo
bloccò
frapponendosi con un braccio e lanciandogli un'occhiata.
«Ti
credi davvero una super ragazza, uh?», le buttò il
fumo addosso
mentre parlava e Kara tossì, sventolando una mano.
«Fumare
fa male: non te lo ha mai detto nessuno?».
Lui
aggrottò la fronte. «E tu sei una rompiscatole:
non te lo ha mai
detto nessuno?».
La
ragazza grugnì e gli pestò un piede,
così lui la spinse e, mentre
l'amico tentò di avvicinarsi di nuovo per aiutarlo e fu
sbattuto
contro il muro da Megan, lei gli strinse le braccia e, mantenendolo
saldo, lo forzò a indietreggiare. Non poteva muoversi e fu
fatto
sedere sul letto, ma sorrise divertito.
«Forse
ora capisco cosa ci vedeva Mike in t- ah!»,
gli schiacciò di nuovo un piede e la guardò
torvo. «Ti piacciono
le cose forti, eh- aih»,
glielo schiacciò ancora, più forte. «E
basta! Va bene, ho capito!
Lasciami». Si strinse i piedi quando Kara decise di lasciarlo
andare, e lo stesso fece Megan con l'amico che aveva ancora la bocca
contro la parete. «Mike era qui, ieri. Era tutto incazzato,
pensava
che noi avessimo parlato di lui con te, poi se n'è
andato».
«No,
è tornato». A un certo punto, tutte le attenzioni
si rivolsero al
terzo amico, che ancora si stringeva il dito dolorante. «Era
tornato
più tardi, lo avevo incrociato in corridoio, ma non mi ha
neanche
guardato», deglutì, «P-Pensavo fosse
perché era ancora incazzato,
che ne so. Poi dev'essere uscito, il suo compagno di stanza non lo ha
visto».
Kara
e Megan si scambiarono un'occhiata, cercando di riflettere.
«Ora
potete uscire, Charlie's
Angels»,
gridò il secondo ragazzo; aveva ritrovato un po' di
coraggio, ma gli
bastò un'occhiata di Megan per andarsi a sedere sul letto
vicino
all'amico.
Fu
di nuovo il terzo a parlare: «Pensate che il suo
comportamento
avesse a che fare con suo padre?».
Dopo
il consueto stacco pubblicitario, la televisione mostrò in
un breve
video la casa dei Gand transennata, una foto del senatore in giacca a
cravatta e, dopo, una calca di persone intorno a un piccolo palco: la
didascalia del telegiornale recitava che Rhea Gand avrebbe dato un
annuncio e che era in diretta. La donna salì sul palco e
molti la
applaudirono. La videro fregarsi gli occhi inumiditi e avvicinarsi al
microfono, mentre le scattavano foto e la telecamera zoomava sul suo
profilo. «Grazie. Grazie alle persone che sono accorse e a
quelle
che mi vedono da casa. Il mio amato marito», si
fermò con un
singhiozzo e la gente applaudì ancora,
«Lui… non c'è più. Le
indagini vanno avanti e la polizia non può ancora
restituirmi il suo
corpo», singhiozzò ancora, addolorata,
«ma domani si terrà
comunque una cerimonia di commemorazione che sto organizzando in
queste ore. Sono fiduciosa che la polizia saprà dare
giustizia».
Il
cellulare in tasca di Kara vibrò: era Maggie.
«Nel
frattempo», continuò la donna, «ho
chiesto a tutti di presentarsi
qui per una cosa molto importante. Lar potrà essere morto,
ma io
porterò avanti il suo sogno come se fosse ancora qui con me
e come
avrebbe voluto: mi candiderò alle prossime elezioni
presidenziali».
Scattarono altre foto, ci furono altri lunghissimi applausi, mentre i
ragazzi in camera con loro si lasciarono andare a versi divertiti e
Megan in uno contrariato.
Stiamo
andando ad arrestarla.
Kara
rilesse più volte, non certa di aver letto bene.
Sappiamo
che ha mentito sulla sua giornata e potremo trattenerla delle ore in
stato di fermo, in attesa di prove schiaccianti.
Rialzò
lo sguardo alla televisione e Rhea sforzò un sorriso,
trattenendo le
lacrime, salutando la folla. La telecamera inquadrò una
volante
della polizia arrivata sul posto e Rhea spense il sorriso. Ne
seguirono altre due. Scattarono diverse foto sulle persone in divisa
che salivano sul palco e Megan si voltò verso di lei con un
sorriso.
Rhea Gand fu scortata giù dal palco e Kara riconobbe Maggie
tra i
poliziotti. Non poteva non ammettere che, vederla portare via da
loro, le aveva improvvisamente ridato ossigeno. Molti giornalisti
avvicinarono il microfono e un poliziotto senza divisa si
avvicinò,
spiegando che la donna aveva delle domande a cui rispondere di fronte
alla legge, senza entrare in dettagli.
«I
miei avvocati mi faranno uscire in giornata»,
starnazzò lei mentre
la facevano inchinare per entrare nella volante. «Voglio
parlare con
il tuo capo, con il vostro capo. Dov'è Zod? Devo parlare con
lui».
Riuscì ancora a dire che la cerimonia si sarebbe comunque
tenuta
nella sua casa, poi chiusero lo sportello.
«L'hanno
presa», esclamò Megan e Kara annuì.
«Ora
dobbiamo solo sperare che non abbia eliminato tutte le
prove». Le
due uscirono senza salutare.
«Ah»,
Megan tornò indietro di scatto: «Le Charlie's
Angels
erano tre», fece notare al ragazzo, prima di sparire.
La
donna camminò avanti e indietro in quella angusta cella. Non
sopportava l'idea di essere lì. Non che non si aspettasse
una cosa
come quella da parte della polizia, ma non della polizia con a capo
il Generale
Zod. L'avevano fatta cambiare e mettere addosso uno stupido completo
blu davanti ad alcuni agenti. Era stato umiliante. Per di
più,
l'avevano portata via durante il suo momento in diretta. Tutto quello
era inconcepibile. C'era un'unica cosa a cui riusciva a pensare che
le tirava su il morale: ciò che aveva iniziato, non poteva
essere
fermato.
Una
porta si aprì e Rhea tese le orecchie, aspettando il suo
arrivo:
mani dietro la schiena, posa militare, sguardo rigido con i piccoli
occhi scuri puntati su di lei. Rhea si avvicinò lentamente
alle
sbarre e lui attese il suo arrivo. Possibile che l'uomo stesse
venendo meno alla promessa suggellata molti anni prima? Avrebbe
dovuto tutelarla, non incarcerarla. Diede uno sguardo rapido verso la
telecamera, notando il led rosso che andava ad attenuarsi, segnando
lo spegnimento. «Fammi-uscire-di-qui», gli disse
piano, quasi come
un ordine.
Zod
non mosse neppure un sopracciglio davanti a quelle parole.
«Cos'hai
fatto, Rhea?».
«Ciò
che dovevo».
Intanto,
con Rhea Gand dietro le sbarre, Kara si sentì in dovere di
prendere
un attimo di respiro: tempestò Mike di messaggi e chiamate
per farsi
contattare presto e, nel mentre, le arrivò un altro
messaggio da
parte di Barry Allen. Sembrava piuttosto insistente, ma come dargli
torto: dal suo punto di vista, lo stava ignorando per l'intera
giornata.
«Hai
deciso di andare da lui?», le chiese stupefatta Lena, al
telefono.
Guardò Lex di fronte a lei che scuoteva la testa.
«Non penso sia
una buona idea».
«Mi
dispiace, so che dovevamo parlare e che Lex ci ha invitato fuori
ma…»,
la sentì prendere fiato. «Il
padre di Barry è uscito di prigione e gli avevo promesso che
ci
sarei stata e-e penso sia l'occasione giusta per…
allontanarmi un
po', solo un po'. Aspetto che Mike si faccia vivo, e
insomma… Con
Rhea Gand in prigione, siamo più libere».
Lena
l'ascoltò senza battere ciglio, infine deglutì,
passando una mano
sulla fronte. «Kara, io…».
«Lo
so, questa volta sono io a chiederti di aspettare. Ho il cervello un
po' confuso in questo momento e ti chiederei di venire con me,
perché
vorrei che venissi con me, ma non voglio chiedertelo e tu non
chiedermelo perché ho bisogno di staccare la spina solo un
momento e
che tu in questo momento non sia con me».
«Va
bene».
«Va
bene»,
la sentì replicare, «Ma
ti manderò un messaggio più tardi, okay?
P-Perché vorrei sentirti
e… mi manchi, Lena. So che ci siamo viste e ieri al
matrimonio…
beh… però mi manchi».
Non
seppe capire subito il perché, ma gli occhi chiari le si
riempirono
di lacrime. Le mancava. Avevano passato quella notte a parlare del
senatore e di cosa sarebbe successo, eppure, anche lei le mancava in
mille e più modi. «Anche tu», trattenne
il fiato più che poté,
fino a quando non staccò la chiamata e si passò
le dita sugli
occhi.
Lex
la guardò con sconcerto. «Per favore, dimmi che
Kara verrà a cena
con noi, questa sera».
Lena
scosse la testa, riguardando solo un attimo il monitor del pc che
indicava lo stato dell'audio che stavano ascoltando. «Era
strano…».
«Kara
era strana?».
«No,
il momento». Come
se dovesse succedere qualcosa,
pensò, ma non lo disse ad alta voce. Guardò lui
e, prendendo un bel
respiro, tornò seria come poté. «Kara
va a Central City dal suo
amico Barry Allen. Rhea è in prigione, ora, e
sarà più al sicuro
lì che qui. Perché tanto infastidito?».
Lex
alzò un poco gli occhi, stringendo forte un pugno.
«Il fatto che
Rhea Gand sia in prigione, non la esonera dal fare qualcosa contro
Kara».
Avrebbe
voluto dirgli che degli agenti del D.A.O. la seguivano, ma
preferì
tenere per sé quell'informazione, tenendolo d'occhio con
scrupolo.
«Che cosa vuoi dire?».
Zod
strinse i suoi occhi e deglutì, avvicinandosi alle sbarre.
«Lar non
doveva morire», sussurrò, «Che cosa ti
è saltato in testa?».
«Tirami
fuori di qui», ribadì lei, stringendo le sbarre.
«Lui mi ha
tradito: voleva rilasciare un'intervista alla giovane El
perché tu
hai ignorato le mie richieste di farla smettere. È entrata
nella
vita di mio figlio, poi voleva risposte e quando ti ho chiesto di
pensarci, tu non hai mosso un dito. Alla fine aveva preso anche lui.
Ho dovuto prendermi carico del problema e ora mi fai questo? Pensi
che mi sia divertita? Non
amo occuparmi delle cose di persona, non sai mai a quanto sangue
possa perdere un corpo finché…»,
sussurrò disgustata, per poi riguardarlo con massima
serietà: «Sono
stata costretta
a uccidere Lar».
Zod
socchiuse gli occhi per un tempo lunghissimo. Larson Gand non c'era
più e Rhea dava a lui le colpe di questo. Avrebbe potuto
evitarlo?
Conosceva entrambi da tanto tempo e, al di là
dell'organizzazione,
Lar era suo amico. «Costretta. Come sei stata costretta a
mandare
qualcuno che si occupasse degli El?».
Lena
spalancò gli occhi. «Sono stati loro?».
Eppure, una parte di lei
lo aveva sempre saputo.
«Rhea
Gand voleva uccidere la giudice perché si era sentita
sfidata»,
rispose Lex, abbassando lo sguardo. «Ma non voleva solo
ucciderla:
voleva ucciderli tutti, estirparli. Lei ha alzato l'idea, non voleva
dei nemici, e i membri hanno votato a favore».
Le
grida di Rhea Gand interruppero le parole di Lex, girandosi entrambi
verso il monitor. «Sei
un bastardo»,
la sentirono all'improvviso, continuando a dire parolacce.
«Ma
smettila»,
la seconda voce era più bassa, lontano, ma non avevano dubbi
nel
dire che si trattava di Lar Gand.
«Devi
smetterla tu! Smetterla di mentirmi! Ho letto le tue idiozie nascoste
nel cassetto. Eri pronto a tradirmi».
«Volevo
una vita diversa, Rhea! Quello che vuoi fare… Tu hai tradito
me e
la mia fiducia. Certe cose dovevano restare nel passato! Sepolte con
le persone a cui abbiamo fatto del male».
Le voci si affievolirono fino a sparire. Lena ebbe un brivido,
perché
sapeva che quelli erano gli ultimi istanti di vita di quell'uomo.
Lex
abbassò gli occhi. «Lui mi aveva parlato di loro.
Aveva
confessato».
«Papà…»,
anche Lena abbassò gli occhi e scosse la testa, intanto che
lui la
fissava con una strana espressione in volto.
«Lena,
penso sia il caso di dirti una cosa». La vide alzare lo
sguardo e i
suoi occhi chiari e grandi, feriti, lo colpirono come un pugno nello
stomaco. «Papà me l'aveva presentata come la mia
eredità»,
accennò un sorriso spento, per poi continuare:
«È anche la tua».
Lei si passò una mano sul viso e si asciugò le
lacrime,
inumidendosi le labbra. «E lo sapevi». Lo
capì dai suoi occhi;
nessuna sorpresa.
«Tu,
piuttosto: lo sapevi e hai preferito tenermelo nascosto. Lillian me
lo ha rivelato diversi mesi fa».
Lex
scrollò le spalle, prendendo fiato. «La nostra
è una famiglia più
complicata delle altre, Lena. Perdona la mia ingenuità: se
pensare
di regalarti anche solo un miraggio dove la tua reale famiglia era
là
fuori, magari migliore della nostra, era una cosa sbagliata, allora
sono colpevole».
Lei
deglutì, senza guardarlo. «Papà ne
faceva davvero parte, dunque»,
cambiò discorso.
«Lui
e Lillian», la corresse. «Nostro nonno era uno dei
fondatori, Lena.
Nostro padre poteva salvare gli El ma non ci è riuscito,
entrambi si
sono tirati fuori e Rhea Gand ha vinto», strinse i denti.
«Richiama
Kara, adesso», le disse, prendendo poi il suo cellulare.
«Da
famiglia e da Luthor, ora non ci resta che proteggerla dalla follia
di quella donna. Io chiamo Alex».
Rhea
Gand roteò gli occhi. «Sì. Come gli El.
Ti sei legato questa cosa
al dito. Come vedi, avevo ragione: se avessi dato retta a me, e li
avremmo fatti sparire da bambini, ora Lar sarebbe ancora
vivo»,
annuì con convinzione. «Ci saremmo risparmiati la
seccatura! Sei
sempre stato troppo idealista, Dru. A me piacciono le soluzioni
semplici: e a differenza tua, risolvo i problemi».
Zod
la fissò. Qualcosa si mosse in lui; dentro di sé
ribolliva. Odiava
le morti inutili. Odiava non essere riuscito a prevederlo. Odiava
come Rhea riuscisse a portargli via sempre qualcosa… Strinse
di più
gli occhi scuri e infine si voltò per andarsene.
«La
promessa, Dru», gli ricordò, «Altrimenti
ci penseranno i miei
avvocati: non hai prove e io ho una funzione da mandare
avanti». Lo
sentì aprire e chiudere la porta, così sorrise,
andando a sedersi
sul lettino freddo della cella.
Barry
le aveva perfino comprato online il biglietto. Doveva decidersi se,
una volta a Central City, gli avrebbe detto o meno ciò che
stava
succedendo. Non voleva rovinare la festa, ma non ci teneva neppure a
tenergli nascosto tutto; era suo amico e una parte della storia la
conosceva anche lui. Oh, il cellulare vibrò ancora. Dopo
Alex, a cui
aveva risposto che stava bene e che stava andando a prendere la
metro, era Lena. Scese gli scalini della stazione e raggiunse la
banchina, vedendo che era pieno di gente. Fissò il cellulare
con la
chiamata in arrivo. Avrebbe dovuto risponderle. Magari era una cosa
urgente. Sbuffò e allungò il pollice per
accettare la chiamata, ma
un urlo improvviso la fece voltare a destra e così
assottigliò gli
occhi, reggendo gli occhiali, per vedere meglio. Un altro urlo. Un
altro. All'improvviso, la calca cominciò a muoversi come
impazzita,
continuando a urlare e a spingere verso le scale.
«Ehi», tentò di
fermare qualcuno per avere spiegazioni, ma la spinsero da un lato, e
un'altra persona la spinse da un altro. Allora si avvicinò
verso il
punto da cui tutti scappavano e sentì delle urla che
parlavano di
una bomba sui binari. Una
bomba?
Cercò di correre verso le persone che continuavano a
spingersi e
aiutò un'anziana ad alzarsi da terra. Che Rhea Gand avesse
fatto
mettere una bomba per lei? E come faceva a sapere che sarebbe stata
lì? «Ehi», vide una poliziotta e
alzò una mano per farsi notare.
Erano stati piuttosto veloci a intervenire, per fortuna.
«Parlano di
una bomba sui binari?», anche se vicine, alzò la
voce per farsi
sentire in tutta quella confusione, ma sbiancò quando vide
la donna
in divisa alzare la pistola verso di lei.
Verso
di lei. Stava succedendo. Fu allora che si accorse che stava
succedendo davvero: Rhea l'aveva mandata a ucciderla. Ma, per
sfortuna della poliziotta, erano davvero tanto vicine: Kara le diede
un calcio contro il braccio e la pistola cadde a terra, sballottata
dai piedi delle persone allarmate che tentavano di mettersi in salvo.
Per un attimo si guardarono e si sollevò gli occhiali sul
naso. Le
pareva di conoscerla.
La
poliziotta cercò di colpirla ma riuscì a scansare
il colpo, così
la spinse. Tuttavia, la ragazza in divisa non le permise di farla
allontanare troppo e le corse addosso, la prese per il colletto del
giubbotto e la gettò a terra. Kara la colpì
contro la bocca dello
stomaco e riuscì a capovolgere la situazione.
Ora
si ricordava di lei. «Faora…
giusto?».
Lei
la colpì e Kara si sentì costretta a retrocedere.
Cercò di
colpirla ancora, ancora, scansò tutti i colpi e, a quel
punto, Kara
ricambiò e la poliziotta tornò indietro, cadendo
a terra quando
delle persone le andarono addosso. Cercò di individuarla che
fu di
nuovo contro di lei: la ragazza in divisa cercò di gettarla
sui
binari e, vedendo che non riusciva, tentò di spingerla per
le
spalle. Non si aspettava che Kara opponesse tanta resistenza; aveva
una presa tanto forte che, se fosse davvero riuscita a buttarla
giù,
sapeva che l'avrebbe trascinata con sé.
«È
stata Rhea Gand a mandarti?».
«Stai
zitta».
Kara
riuscì a strattonarsi dalla sua presa e la vide inquadrare
la
pistola. Corsero per prenderla e Faora arrivò per prima,
puntandogliela di nuovo addosso. «Ho visto che eri
armata», disse
con un sorriso e il fiatone, «Potresti aver messo tu la bomba
sui
binari».
«È
questo il piano?», si accigliò, sistemando gli
occhiali. «Mi hai
vista armata? Non ci crederà nessuno».
«Non
importa: a quel punto sarai comunque morta e io salirò classe».
Classe?
Kara la vide stringere la pistola e tutto si fermò. Sarebbe
morta in
quel modo? Una poliziotta l'avrebbe uccisa per scongiurare un allarme
bomba? Cosa avrebbe pensato Alex, quando non avrebbe risposto alle
sue chiamate per sapere come stava? E Lena? Avrebbe dovuto
risponderle, avrebbe dovuto dirle di amarla e sarebbe dovuta andare
da lei, ad ascoltare ciò che doveva dirle. Mike? Avrebbe mai
saputo
che sua madre l'aveva fatta uccidere? Eliza ne sarebbe stata a pezzi
e Lillian le sarebbe stata vicino. Megan avrebbe ripulito la sua
parte della camera. Cat Grant si sarebbe data la colpa per non averla
fatta smettere quando era in tempo. Leslie ci avrebbe bevuto su e
Siobhan… oh,
chi se ne importava di cosa avrebbe fatto Siobhan. E Kal. Kal si
sarebbe sentito di nuovo solo. No. Lei poteva farcela. Non sarebbe
morta lì e in quel modo. Lei
era Supergirl. Lei
era veloce. Vide Faora premere il grilletto e si spinse da un lato.
Dietro di lei c'era il muro. Avrebbe potuto ancora colpirla e
disarmarla. Poteva farcela. Sentì lo sparo e le caddero gli
occhiali
dal naso. Ne sentì un altro. L'aveva colpita? Quando Kara
alzò gli
occhi, scoprì che non era stata lei a sparare e che Faora
cadeva a
terra di schiena; la gente urlava. Tutto il mondo riprese ad avere un
suono, dei rumori. Stava bene. Si voltò e cercò
di mettere a fuoco
le scale più vicine: i colpi erano partiti da lì.
Alex era lì.
Pistola
tra le mani, Alex scese di corsa, facendosi spazio nella calca e
dando ordini ad alcuni uomini con lei di sparpagliarsi. Erano in
divisa. Lei aveva la divisa. Kara la sentì parlare di andare
a
cercare la bomba e, così, si inchinò su di lei.
Le toccò una
spalla e si scansò solo un attimo, reagendo d'istinto.
«Kara, come
ti senti? Kara?». Le prese gli occhiali, passandoglieli.
«H-Hai
il porto d'armi per quella?», le chiese con un filo di voce,
cercando di calmare la tachicardia. Non poteva non ammettere di aver
pensato di essere morta, sentendo quegli spari.
«Sei… decisamente
arrivata appena in tempo».
«Lex
e Lena avevano una brutta sensazione», le rispose.
Kara
la fissò meglio e più in là
guardò Faora, riversa a terra, il
sangue che camminava sulle piastrelle sporche. Alex andò a
sentirle
le pulsazioni.
«È
viva», disse toccandosi un'orecchia, «Chiamate
un'ambulanza».
Con
chi parlava?
«Agente
Danvers?».
«Agente?»,
Kara soffiò accigliandosi, cercando di rimettersi in piedi.
Un uomo
in divisa nera come le altre si presentò davanti a loro e lo
squadrò
attentamente, convinta di conoscerlo: ma certo, la spiava. Era il
giovane che aveva preso mentre la seguiva fingendo di leggere un
giornale.
«Abbiamo
trovato
la bomba»,
annunciò lui, scambiando solo uno sguardo con lei e
aprì un borsone
giallo, tirando fuori dei calzoni appallottolati intorno a un
orologio senza cinturino. «Era un falso allarme».
Alex
strinse le labbra con rabbia. «Era solo un diversivo: trovate
il
simpaticone che ha lanciato l'allarme, ora».
Poi riguardò Kara e il suo viso si trasformò,
incontrando i suoi
occhi: non più arrabbiato, ma mortificato. «Kara,
io…».
«Risparmiatela,
okay?», tuonò furiosa, bloccandola con una mano.
Alex
la vide allontanarsi mentre i paramedici scendevano le scale con una
barella. Era normale che fosse arrabbiata. La sua espressione le
aveva spezzato il cuore, ma sperava che Kara avrebbe capito.
Da
Anonimo
a Me
Kara?
Sono
Barry, segnati questo numero! Dovevo scriverti prima ma avevo perso
il telefono: qualche genio ha pensato di rubarmelo e gettarlo in un
cassonetto, ma deve aver buttato la SIM da un'altra parte.
Ma
che gente c'è in giro? Ho
letto che il senatore Gand è morto e volevo sapere se andava
tutto
bene! Rispondimi presto.
Kara
spense lo schermo del cellulare e riguardò sua sorella con
la coda
dell'occhio, mentre l'auto del D.A.O. la portava verso villa
Luthor-Danvers. Era al telefono e parlava con gli agenti che avevano
seguito l'ambulanza con Faora Hui priva di sensi. Il corpo di polizia
sarebbe stato avvertito tra un po'; dopo,
le disse Alex, quando avrebbe potuto dirlo anche a Maggie. Beh, era
stato rassicurante sapere che non aveva mentito anche a lei. Il
ragazzo che la seguiva, l'agente del D.A.O., le spiegò
mentre sua
sorella era al telefono che l'indomani mattina sarebbero passati a
prenderla per portarla nel loro quartier generale. I paramedici
l'avevano visitata e non avevano ritenuto necessario che andasse in
ospedale per qualche graffio e dei lividi, considerando che era
stanca, e Alex se n'era accertata, visitandola lei stessa e facendo
rapporto; ora che la loro operazione nell'ombra era saltata, volevano
giocare a carte scoperte e parlarle. Un'altra cosa che non avrebbe
fatto altro che rovinarle l'umore.
Quando
la macchina si fermò ai pressi del cancello, Lena era
già fuori e
aspettò di vederla per correre ad abbracciarla. Kara la
strinse
forte; capì presto che in quel momento era l'unica cosa che
le
serviva. Lena e Alex si scambiarono uno sguardo e la seconda
rientrò
in auto; doveva andare in ospedale per accertarsi delle condizioni
della poliziotta: la sua giornata non era ancora finita.
Rientrarono
in villa mano nella mano e, anche se in un primo momento, Lillian le
guardò con rimprovero, le domande su cos'era successo e la
preoccupazione di Eliza, vinsero su tutto e lei stessa sentì
dentro
di sé un sentimento di rabbia: Rhea Gand aveva osato toccare
un
membro della sua famiglia.
«Se
non altro, adesso so che sono lì per proteggermi e non per
attaccarmi», borbottò Kara, roteando lo sguardo,
dopo aver dato
un'occhiata dalla finestra alla volante degli agenti del D.A.O. ferma
davanti alla villa.
Seguì
Lena in camera sua e la prese fra le braccia, lasciandole un caldo
bacio su una guancia fresca.
Lena
la strinse a sua volta, accorgendosi che forse aveva iniziato a farlo
troppo forte. «Ho avuto così paura».
«Rhea
mi ha giocato proprio un bello scherzetto. E Barry non sa che si
è
finta lui. O forse era Faora…», disse lei,
distanziandosi dalla
ragazza e guardando anche lì fuori dalla finestra.
«Quella
poliziotta non pensava a cosa stava facendo, voleva solo compiere
ciò
per cui era stata assoldata. Non era lì per soldi o che
altro»,
esclamò accigliandosi, «Come se lo stesse facendo
per…
convinzione. C-Come se fosse stata la cosa giusta da fare».
Ripensò
a tutti i momenti dello scontro con lei. Come avrebbe dovuto agire e
non lo aveva fatto, o non lo aveva fatto per tempo. Gli occhi scuri
di Faora Hui su di lei. La sua determinazione. Ripensando poi,
invece, alla propria agitazione; a come aveva tentato di restare
calma e agire con sangue freddo perché una mossa sbagliata
le
sarebbe costata la vita. E ripensò alla pillola che le aveva
dato
Roulette nel locale di Lord a Gotham. Sapeva che, se l'avesse avuta
in circolo, sarebbe riuscita a disarmarla prima. Quella pillola aveva
tirato fuori da sé una personalità diversa e
l'aveva fatta
comportare male con chi le stava intorno, ma le aveva anche permesso
di non avere paura. Non ne avrebbe avuta, con quella.
Lena
abbassò lo sguardo e prese fiato e, sicuramente, un po' di
coraggio.
«Kara… devo-».
«No»,
la interruppe, «Ti prego, qualsiasi cosa sia non
adesso». Tornò
fra le sue braccia e Lena non poté che accoglierla.
«Baciami e
basta, okay?», le sussurrò, ormai sulle sue
labbra.
Quando
Alex tornò in villa per sapere come stesse la sorella
minore, Eliza
le gridò addosso. Aveva nascosto anche a lei di lavorare per
il
D.A.O. e si era sentita lei stessa ferita. Sapere che, invece,
Jeremiah ne era al corrente, la fece arrabbiare più di
tutto.
«Tua
sorella era in pericolo e non hai pensato di dirmi una sola
parola».
«Lavorare
sotto copertura significa questo», si giustificò
lei; «Se lo
avessi detto a qualcuno, anche a te, avrei rischiato di compromettere
tutto. Di metterla in pericolo. È il mio lavoro».
Poi
se ne andò. Non restò a dormire in villa, aveva
un bisogno fisico
di sentire Maggie vicina così come Kara ne aveva di Lena,
sdraiate
sul letto, abbracciate.
L'indomani
le avrebbe aspettate una dura giornata. Ancora non lo sapevano, ma
per assenza di prove e perché la scomparsa di Mike Gand lo
rendeva
un sospettato, Rhea sarebbe stata scarcerata alle prime luci
dell'alba.
Benritrovati,
gente! Allora, ditemi la verità, vi eravate dimenticati di Our
home, o questa storia vi era mancata? Sono stata via un po',
spero solo che non vi siate scordati di tutto ciò che
è successo
fino ad ora XD In caso, ho lasciato un piccolo promemoria sull'onda
del dov'eravamo rimasti prima del capitolo :)
Ma
dunque eccoci qui, alla fine è successo: Rhea Gand ha
inviato
qualcuno a uccidere Kara! Qualcuno che ha fallito grazie alla
prontezza di Alex chiamata da Lex e Lena per un “brutto
presentimento”. La donna si è servita delle
indicazioni del figlio
che le raccontava di Barry e il padre in prigione, fingendosi lui.
Intanto,
abbiamo assistito a interessanti discussioni parallele: da una parte,
Lex ha rivelato a Lena ciò che suo padre aveva detto a lui,
sull'organizzazione e che sono stati i Gand a mandare qualcuno a
uccidere i genitori di Kara, dall'altra Rhea che confessa di aver
assassinato suo marito per una sorta di tradimento nei suoi confronti
(e, stavolta, non c'entrava la segretaria!), scaricando le colpe a
Kara e direttamente a lui, Zod, per non averla fermata. E, per ultima
cosa, ha detto anche di aver ucciso gli El, confermando le parole di
Lex.
Cosa
ne pensate di Zod? Lui sembra molto più che infastidito, Lar
era suo
amico. Non solo nella discussione con Rhea, ma abbiamo potuto farci
un'idea di lui anche quando Maggie gli ha chiesto di poter lavorare
al caso del senatore. Nonostante il disappunto, pare proprio che non
possa far nulla contro Rhea per una sorta di promessa;
dopotutto, fanno parte dello stesso gruppo.
E
non dimentichiamo che Faora Hui, la poliziotta che ha cercato di
uccidere Kara, ha parlato di salire classe come
motivazione
per farla fuori: a cosa si riferiva?
Lena
e Kara sono rimaste insieme per tutta la notte, ma non hanno fatto
altro che parlare dei Gand mentre la seconda cercava di chiamare
Mike, che pare sparito. Lillian ed Eliza devono rimandare il loro
viaggio di nozze e Cat Grant ha sospeso Kara e Leslie.
Per
ultimo, finalmente Kara conosce il vero lavoro di sua sorella, e
così
anche Eliza, che si è parecchio arrabbiata. La copertura
è saltata,
cosa accadrà adesso?
È
arrivato il momento delle note ~ Ah,
è una sola, a onor del vero:
-
Faora Hui è la mia versione per la storia del personaggio Faora
Hu-Ul della DC Comics. Al
contrario dei fumetti, questa poliziotta è molto
più giovane di
Zod e no, non è la sua amante, ahah!
Il
22 ottobre questa fan fiction ha compiuto un anno! Su EFP, proprio il
22 ottobre avevo pubblicato il capitolo 30, Dipendenza
da lei, ma non ci avevo fatto
caso e ho perso l'occasione, accidenti! Rendetevi conto che sto
scrivendo da oltre un anno questa fan fiction: riuscirò a
finirla entro il
2019 o a ottobre festeggeremo i due anni? Ahahah! (Io rido
ma…
a-i-u-t-o, voglio finirla!! XD)
Però
abbiamo un altro compleanno da festeggiare! Infatti, il 7 febbraio
dello scorso anno pubblicai il prologo di Our
home qui su EFP :) A questo
proposito, quindi, ci rileggiamo direttamente nelle note del prossimo
capitolo che verrà pubblicato proprio giovedì 7
febbraio e si
intitola… Prendere le distanze!
Felice
di essere tornata, spero che siate ancora qua a seguirmi ^_^
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Capitolo 39 *** 38. Prendere le distanze ***
Il
vento aveva sbattuto violentemente contro le finestre, quel
pomeriggio. Era una giornata scura, fuori. Tutti avevano preso posto
intorno a un lungo tavolo.
Rhea
Gand si era messa in piedi e aveva alzato la voce, sbattendo i pugni
davanti a sé. «Non possiamo
permettercelo», aveva sottolineato con
voce dura. «Se lasciamo che la giudice El lo condanni,
sarà
l'inizio della nostra fine», aveva guardato una per una
più facce
possibili, ritrovando volti spaventati e altri perplessi. Suo marito
Lar era seduto alla sua sinistra e aveva la schiena contro lo
schienale e una mano sulla fronte, come amareggiato e pensieroso. Non
avrebbe osato aggiungere nulla.
«Tu
sei matta da legare», si era levata alta un'altra voce.
«Astra»,
l'aveva chiamata Rhea, «La tua opinione non dovrebbe contare
come
quella di chiunque altro in questa stanza. Non oggi».
«Sì,
certo», aveva detto freneticamente lei, alzandosi in piedi.
Quasi
aveva tremato, ma probabilmente dalla rabbia.
«Perché è di mia
sorella, che state parlando. Le cose tra me e Alura non vanno bene da
anni, ma è pur sempre mia sorella».
«E
allora cosa proponi?», l'aveva guardata con sfida.
«Vorresti
lasciarla fare?». Si erano alzate più voci del
dovuto, creando
brusio; nessuno sarebbe stato felice di quella scelta.
«No»,
si era difesa lei, guardando gli altri, cercando di farli smettere.
«No! Ma voglio parlarle. Forse-», si era azzardata
a dire, «riesco
a farle cambiare idea». Aveva visto Rhea Gand ridere e altri
seguire
il suo esempio. «Forse riesco a metterla dalla nostra parte,
abbiamo
uno spiraglio-».
Rhea
l'aveva interrotta, ribattendo con la voce sulla sua: «Tu
vivi in un
mondo di fiabe». Aveva sorriso guardando altri, cercando
appoggio.
«Non permetterò che una giudice mini il nostro
lavoro lungo anni.
Michaels sa troppe cose», aveva ringhiato, riferendosi al
commercialista, «E potremmo davvero essere certi che non
parli, una
volta in tribunale?».
«Lascia
che corrompi la giuria».
«La
giuria sì, va bene, ma non è
abbastanza», aveva urlato, «La
giudice El ci sta dichiarando guerra e io non intendo
perderla», si
era portata una mano contro il petto, ricercando negli altri
consenso. «Preferite dare ascolto a me, una
beta,
o a una
delta
che ha per famiglia il nemico?», la indicò e molti
avevano
applaudito, mentre altri erano rimasti in silenzio e nell'ombra,
più
incerti su come muoversi.
A
un certo punto, la porta si era aperta con uno scatto fulmineo e un
Dru Zod in divisa da sergente era entrato quasi senza guardarli negli
occhi, palesemente infuriato. «I Luthor stanno
arrivando», aveva
dichiarato, camminando fino a una sedia vuota, alla sinistra di
quella vuota del capotavola. Ma non si era seduto. Era rimasto in
piedi a fissarli, lanciando uno sguardo indispettito a Rhea.
«Hai
deliberatamente indetto una riunione senza avvertire i
presidenti».
Lei
aveva sorriso, preferendo non rispondere.
Nel
presente, Lillian Luthor non chiuse occhio per tutta la notte. Era
rimasta in biblioteca, a camminare. Poi si era rimessa a letto solo
per non far preoccupare Eliza. Ora più che mai sapeva di
aver
sbagliato in passato a non punire Rhea come avrebbe dovuto. Era una
questione di classe:
avevano giurato di proteggerli, allora, ma quella donna stava
diventando un problema enorme e in fondo lo era sempre stata. Avrebbe
dovuto occuparsene undici anni prima, pur dovendo infrangere quella
promessa. A un certo punto allungò un braccio e, arrivando
al
comodino, afferrò il suo cellulare.
Te
ne devi occupare.
Inviò.
Di certo non si aspettava una risposta alle quattro e mezza del
mattino:
Ho
giurato.
Lillian
strinse le labbra e ingurgitò saliva, cercando di non
agitarsi.
Dunque Zod non avrebbe fatto niente? Se fosse, avrebbe commesso il
suo stesso errore del passato.
Era
troppo nervosa per provare ad addormentarsi, ma a un certo punto gli
occhi le si chiusero per inerzia. Rivide Lena e Kara suonare al piano
e cantare, scambiarsi un bacio, dire a Eliza che avevano intenzione
di sposarsi. Oh, no, non lo avrebbe mai accettato. Si sarebbe opposta
con tutte le sue forze a quell'unione.
«È
perché sono una Luthor?», sentì
chiederle Lena.
«È
perché sono una El?», sentì rincarare
Kara.
Sì.
Sì, era così. Non potevano stare insieme
perché i Luthor non
avevano salvato gli El. Perché Rhea Gand li aveva fatti
uccidere e
loro non avevano mosso un dito per aiutarli. Perché non era
colpa di
Lena, ma era la sua eredità. Levi, Lionel, lei. Sicuramente
Lex.
Lena ce lo aveva nel sangue. Lena non era colpevole, ma lo sarebbe
stata di qualcosa, prima o poi. Gli El erano morti e Lillian non
aveva fatto niente. Rhea Gand avrebbe ucciso Kara e Lena non avrebbe
mosso un dito. Era colpevole. Colpevole come lei.
«Lillian».
La voce era distante. «Lillian. Svegliati, ti stai
agitando».
Aprì
gli occhi pian piano, mettendo a fuoco il volto di Eliza.
«Un
brutto sogno, non è vero?!», le sorrise con
amarezza e le sfiorò
il viso in una carezza, prima di portarsi una mano sulla fronte e
rigettare la testa sul cuscino. «Anche io avevo il sonno
agitato»,
confessò la donna, «Non riesco a fare a meno di
pensare a ciò che
ha rischiato Kara… e a ciò che Alex ha fatto.
Capisco volesse
proteggerla, ma…», ansimò.
«Quando l'abbiamo adottata, pensavamo
che non avrebbe mai dovuto correre rischi del genere,
capisci?».
Lillian
le prese una mano sotto le coperte e gliela strinse forte, cercando
di trasmetterle come poteva il suo conforto. «Kara
è una ragazza
forte».
«Sì,
questo è vero… Sono entrambe molto forti. Ma
saprai anche tu, come
madre, quanto ci si senta impotenti di fronte a tutto
questo».
Lillian non rispose. «Fortunatamente si hanno a
vicenda», si sforzò
per sorridere. «Alex e Kara. Kara e Lena. Ieri si sono tenute
per
mano di fronte a noi, ci hai fatto caso?», a quel punto rise
un
poco, scuotendo la testa. «Ce lo diranno e potremo godere
della loro
faccetta sconvolta quando diremo loro che già sapevamo che
stavano
insieme».
Lillian
deglutì e, lentamente, abbassò gli occhi.
«È a proposito di
questo che… credo che dovremo parlare». Prese
coraggio e non si
sarebbe più tirata indietro, ritrovando quando chiudeva gli
occhi le
immagini apparse nel suo sogno.
Eliza
si accigliò, voltandosi di nuovo verso di lei. «Di
cosa?».
«Anche
a luce di ciò che sta succedendo… non penso che
debbano stare
insieme».
«Ma-»,
Eliza trattenne il fiato, «Dici sul serio? Proprio alla luce
di ciò
che succedendo, penso che sia un bene che stiano vicine».
«Oh,
Eliza…», Lillian alzò lo sguardo.
«Comprendo bene il tuo punto
di vista, mia cara, ma sono sorellastre e sono ancora così
giovani».
«L'amore
non dipende dall'età», ribatté,
«Potrebbero anche stare insieme
per tutta la vita. A quante coppie-».
«Non
a noi», la interruppe l'altra. «Ho sposato Lionel a
diciott'anni,
tu stavi con Jeremiah dall'università, e guarda dove queste
relazioni ci hanno portato. Hanno ancora tutta la vita davanti e
vogliono legarsi adesso? Noi per prime dovremmo sapere a cosa vanno
incontro».
Eliza
scosse la testa, arricciando le labbra. «Le nostre relazioni
con
Jeremiah e Lionel ci hanno portato ad avere i nostri figli! Non penso
che sia stato un errore legare la mia vita a lui».
«Io
forse sì», ammise con durezza. «Avrei
voluto conoscerti molto
prima».
«Questo
lo capisco, ma… è diverso, Lillian. È
diverso», replicò,
stringendo forte la mano che aveva unita alla sua. «A loro
potrebbe
non succedere. Non possiamo lasciarci oscurare dalla nostra
esperienza personale. Kara e Lena hanno diritto a crescere e
sbagliare, e ad amare, come tutti. Devono fare le loro
esperienze».
«Ma
sono le nostre figlie».
«Lo
so, è strano, ma-».
«Ma
non sono adatte per stare insieme», ribadì
Lillian, chiudendo la
questione. «Non potrò mai accettare che Kara possa
avere una
relazione con Lena».
Eliza
si zittì. Riascoltando quelle parole nella sua testa,
intuì che ci
fosse un motivo ben preciso perché non accettava il rapporto
delle
loro figlie e che fino a quel momento aveva solo cercato di trovare
una scusa. «Non pensi che Kara possa essere alla sua
altezza?».
«Come?».
Eliza
le lasciò la mano, tirandosi indietro. «Non
è all'altezza di una
Luthor?».
«No»,
rispose prontamente e si scoperchiò, vedendo la moglie che
si alzava
e copriva con una vestaglia. «No, non intendevo di certo
questo!
Stai… Stai totalmente fraintendendo».
Alzò la voce quando la vide
sulla soglia della porta, infilando le ciabatte ai piedi.
«Allora
ti lascio il tempo di pensarci», chiosò Eliza,
aprendo e chiudendo
la porta alle sue spalle.
Intanto
a qualche porta più avanti, in camera di Lena, quest'ultima
era
seduta sul letto con il portatile sulle gambe e una mano contro il
labbro inferiore, pensando. Riguardò Kara al suo fianco che
dormiva,
la sua mano destra appoggiata sul proprio bacino, ricercando
contatto. Le sfiorò il taglio sopra l'occhio destro, ancora
visibile. Sapeva che Kara aveva la pellaccia dura, lo aveva
dimostrato più volte, ma… i suoi occhi chiari
planarono di nuovo
sullo schermo del laptop, guardando con attenzione e rabbia il video
con protagonista Rhea Gand che veniva scarcerata, pubblicato su un
blog di divulgazione. Quella donna aveva mandato qualcuno a uccidere
Kara e non poteva provarlo. Non le restava altra scelta…
Z:
Volevi che avessi bisogno di te? Ne ho bisogno ora. Davvero bisogno.
Inviò
il testo sulla chat con sfondo nero e tenne d'occhio la barra a
intermittenza che anticipava il prossimo messaggio, ma non c'era
riscontro.
Z:
Se stai tenendo d'occhio le news, sai che Rhea Gand era agli arresti
ma è già stata rilasciata. Ho bisogno di prove
concrete che sia
stata lei a uccidere suo marito. Devi sapere come posso trovarle.
Contattami al più presto.
Inviò
di nuovo e abbassò lo schermo del laptop, prendendo un gran
respiro.
Era abituata a vedere il profilo misterioso, o meglio ancora quella
Indigo, rispondere subito, ma ora non aveva neppure visualizzato.
Proprio ora che aveva più bisogno di lei. Lasciò
il portatile sul
comodino e si stese di nuovo, sollevando la mano che Kara aveva sul
suo bacino, rimettendogliela accanto. La vide mentre apriva le dita e
la cercava, borbottando qualcosa, corrucciando lo sguardo. Si
domandò
cosa stesse sognando e, piano, intrecciò le dita con le sue,
chiudendo gli occhi.
Non
erano state le uniche a passare una notte agitata. Dopo aver lasciato
Kara in villa, Alex si era ritrovata in ospedale per accertarsi delle
condizioni di Faora Hui, scoprendo che era stata operata d'urgenza e
che non era in pericolo di vita, ma era entrata in coma. Non si era
più svegliata. John Jonzz l'aveva chiamata per farle sapere
che
poteva tornare a casa a riposarsi, ma che gli affari interni erano
già stati avvertiti e che le avrebbero parlato l'indomani.
Aveva
sbuffato e si era tenuta la fronte al sol pensiero di dover dare
spiegazioni sul perché aveva sparato a una poliziotta per
proteggere
sua sorella. Non vedeva l'ora. Inoltre, da quel momento, la sua
copertura era ufficialmente saltata e, con lei, la loro operazione
contro l'organizzazione non era più nascosta. Maggie le
aveva
inviato un messaggio per sapere come mai non fosse ancora tornata e,
accidenti, aveva sospirato al pensiero di dover raccontare tutto
anche a lei. Così aveva abbandonato la cuccetta di Faora
Hui,
incrociando il medico che se ne occupava:
«Voglio
essere chiamata all'istante se la paziente si risveglia o se cambiano
le sue condizioni. Mi ha capito bene?», gli aveva puntato un
dito,
«Ho lasciato il mio numero». Lo aveva visto annuire
ed era uscita.
Prima
di tornare a casa, però, era passata di nuovo in villa:
voleva
accertarsi che Kara stesse bene ma Eliza l'aveva attaccata, come
aveva immaginato. Sia sua madre che sua sorella si erano comportate
con lei come se, a conti fatti, si fosse in un qualche modo divertita
a tenere nascosta una parte così importante della sua vita
come il
suo reale lavoro. O a mentire a entrambe. Alla fine non aveva visto
Kara, aveva pensato che stesse con Lena in quel momento,
così era
andata via, lasciando Eliza ancora arrabbiata.
Presentarsi
a casa di Maggie e abbracciarla tanto forte come se fosse appena
tornata da un lungo viaggio, non aveva prezzo. Aveva sentito il forte
bisogno della sua presenza, del suo calore. La piccola Jamie era
già
a letto da tanto e così avevano aperto due birre e si erano
sedute
su un divanetto, parlando di ciò che era successo. Maggie
era
rimasta a bocca aperta e, al momento in cui le aveva raccontato di
Faora Hui, si era portata una mano per coprirsela. Era una sua
collega, non poteva crederci che aveva tentato di uccidere Kara.
Tuttavia, aveva preso molto peggio un'altra notizia: grazie alle
registrazioni che Lena e Winn erano riusciti a salvare dalla
microspia, ora avevano le prove che Zod fosse coinvolto. Non che a
quel punto aveva continuato a negare, ma era rimasta molto sorpresa e
infastidita, quasi tradita.
«Io…
credo di averlo sempre saputo, ma non volevo accettarlo»,
aveva
confessato con amarezza. «Zod sembra un brav'uomo, mi ha
aiutato per
cercare di integrarmi in questi mesi, e a volte fa certi discorsi
motivazionali che… non ci volevo credere», aveva
scosso la testa e
poi appoggiata sul divanetto, chiudendo gli occhi.
«È così dedito
al suo lavoro. Voi non lo conoscete, ma è davvero l'ultima
persona
che mi sarei sognata di pensare coinvolta in tutto questo».
«A
volte non conosciamo mai bene a fondo qualcuno», le aveva
risposto
Alex, avvicinandosi.
Allora
Maggie aveva rialzato la testa e sorriso mentre la abbassava da un
lato. «Ascoltami: voglio dargli il beneficio del dubbio. Non
che lui
ne faccia parte, ormai lo sappiamo, ma se è vero che non
conosciamo
mai bene a fondo qualcuno, è anche vero che le persone
possono
cambiare, col tempo. So che sembra sciocco», aveva stretto le
labbra, «Ma voglio davvero pensare che ci sia dell'altro e
sentire
la sua campana».
Aveva
detto che se lo meritava e Alex di tenerlo d'occhio. Non potevano far
altro. Allora si erano coricate, vicine, stanche e pensierose,
nessuna delle due aveva dormito bene né a lungo.
La
notizia della scarcerazione di Rhea Gand arrivò quasi in
diretta:
Alex controllava le news da cellulare e Maggie ricevette un messaggio
da un collega: il capitano Zod stesso ne aveva ordinato la
scarcerazione.
«Non
ci posso credere», sibilò, portandosi una mano
contro la bocca.
«Credici»,
rispose Alex di fretta mentre, già in piedi sulla soglia del
letto,
si infilava i jeans. «L'avrà aiutata».
«In
ogni caso, non abbiamo ancora prove concrete contro di lei»,
sospirò
e si resse le braccia scoperte come se avesse sentito un'improvvisa
ventata di freddo. «Si è comportato da
poliziotto».
Alex
alzò gli occhi al soffitto e udì dei veloci
piccoli passi urtare
contro la porta. «Mamma!». Scalza e in mutandine,
Jamie saltò sul
letto e girò su se stessa fino a che non cadde di schiena
sul
materasso per poi cercare di rimettersi su come una tartaruga.
«Voglio i cereali buoni! Quelli buoni, hai capito quali?
Quelli
rosshi che shembrano shangue come-come si mettono collatte»,
disse tutto d'un fiato, guardando una e poi l'altra con occhi
sgranati. «Una mia amica non ci crede che diventa rossho il
latte,
devi fare la foto così li vede. Hai capito? Non ci crede
che-».
Alex
finì di infilarsi un maglioncino e tese la mano alla
bambina, per
poi interromperla, prima che ripetesse tutto per almeno altre tre
volte: «Dai, la faccio io la foto col telefono; andiamo a
mangiare i
cereali rossi».
«Sì».
Lei annuì e, prendendole la mano, balzò dal
materasso, tirandola
dietro di lei fino a uscire dalla camera. Appena le due furono fuori,
Maggie sospirò, riguardando il messaggio del suo collega sul
cellulare.
Le
cose avevano iniziato a diventare parecchio strane, dopotutto. Faora
Hui era in coma e gli agenti non erano gli stessi da un giorno
all'altro. Una buona parte di loro la guardò male da appena
si
presentò a lavoro, erano tutti più tesi del
normale e Maggie era
certa di aver sentito qualcuno parlare male alle sue spalle.
«Perché
fanno così?», chiese a una collega, Grace,
entrambe con una tazzina
di caffè bollente in mano, appoggiate contro una scrivania.
«Siamo
tutti turbati da ciò che voleva fare Faora, ma è
come se…».
L'altra
la guardò, increspando le labbra. Voleva provare a prendere
tempo
bevendo il caffè, ma le prese fuoco la lingua e
cercò di spegnere
l'incendio boccheggiando come un pesce e sventolando una mano.
«Emh…
L'agente del D.A.O. che ha sparato… emh».
Maggie
aggrottò la fronte, guardando con attenzione l'altra
poliziotta che
cercava di non fissarla negli occhi. «È la mia
ragazza, Grace, lo
so, ma-».
«Appunto»,
scrollò le spalle. «Ho sentito alcune voci
stamattina: pensano che
tu possa essere una spia del D.A.O.».
«Cosa?»,
alzò le sopracciglia.
«È
una specie di noi
contro loro.
Una di loro ha sparato a una dei nostri e tu non fraternizzi
semplicemente col nemico… ci vai a letto».
«È
una cosa terribilmente infantile», sentenziò,
lanciando un'occhiata
all'ufficio di Zod con le tapparelle abbassate. «E siamo due
corpi
differenti, non nemici».
Grace
increspò le labbra. «Sappiamo che avremo gli
Affari Interni, questa
mattina. Devono parlare col capitano per Faora», le fece
sapere.
«Quell'uomo è già abbastanza nervoso,
non vorrei essere in loro».
Intanto,
gli Affari Interni erano impegnati alla base nascosta del D.A.O. a
National City, in quel preciso momento. Si trovavano all'interno di
una luminosa saletta per le conferenze. Erano in due, da un lato del
tavolo ovale, dall'altro Alex, seduta davanti a loro, e John Jonzz in
piedi, poggiato con le spalle al muro, vicino alla sua agente.
«Da
quanto tempo fa pedinare Kara Danvers, sua sorella?».
«I-Io
non faccio sempre pedinare Kara, ma-».
«Risponda
alla domanda».
«Da
qualche mese».
John
alzò gli occhi, infastidito, rimettendo le braccia a
conserte. «È
tutto parte della nostra indagine», borbottò,
«Come documentato».
Il suo sguardo indicò le scartoffie che avevano sottomano,
ma loro
riguardarono Alex con insistenza, di fatto ignorandolo.
«Ha
visto la poliziotta alzare la pistola contro sua sorella e non ha
provato, prima di sparare a sua volta, a identificarsi?».
«Non
c'era tempo, l'ho già spiegato», alzò
le spalle, guardando
entrambi.
«Ha
sparato per uccidere, agente Danvers?», le domandò
uno dei due.
«Solo perché c'era sua sorella, là
sotto?».
«No»,
aggrottò la fronte. «Ho sparato perché
non avevo altra scelta».
«Poteva
mirare alle gambe», rispose saccente lo stesso uomo, annuendo
allo
sguardo del collega al suo fianco. «È sicura che
sua sorella non
fosse armata? Che l'agente Hui abbia provato a intimidirla e poi a
spararle perché le avesse dato un'impressione sbagliata,
qualcosa
che la facesse temere per le persone in stazione? È stato
segnalato
un allarme bomba», spiegò, leggiucchiando alcuni
dei fogli con
loro.
«Non
c'era nessuna bomba, era un diversivo: quella poliziotta era
lì per
uccidere Kara», strinse a pugno le mani sul bancone e John le
passò
una mano sulla spalla sinistra, probabilmente per cercare di
calmarla.
«Ha
una prova, per dire questo?», la guardò torvo
l'altro collega. «È
un'accusa piuttosto pesante, agente Danvers: l'agente Hui si
è
diplomata col massimo dei voti, ha dato prove eccellenti e si
è
sempre comportata da poliziotta responsabile. E non devo ricordarle
che ora è in coma perché lei le ha sparato. Anche
lei è la sorella
di qualcuno, agente Danvers».
Alex
strinse le labbra e John intervenne per lei. «Kara Danvers
era
pedinata per una ragione ben precisa, signori, è tutto
scritto lì.
La nostra operazione-».
«Non
ha portato ad alcun frutto», scrollò le spalle uno
dei due. «Ad
anni che ci state dietro, ancora nessun risultato. State rincorrendo
un fantasma, signor Jonzz. State solo sperperando i soldi dei
contribuenti. Per quanto ne sappiamo, l'organizzazione è
stata
smantellata anni fa e Kara Danvers avrebbe potuto apparire minacciosa
agli occhi di un'agente che cercava di salvare delle vite,
là sotto,
nel caos scoppiato a seguito dell'allarme bomba».
Alex
deglutì e fermò il suo sguardo altrove,
emotivamente sconfitta.
L'interrogatorio durò qualche altro minuto. L'agente Danvers
non
sarebbe stata punita, accettarono che avesse sparato a Faora Hui
perché non c'era altro modo di intervenire, ma avrebbe
dovuto
compilare parecchie documentazioni e, non di meno, avevano scartato a
priori che la poliziotta si fosse trovata lì per compiere un
omicidio. Lei e John Jonzz si erano fermati fuori dalla saletta, in
corridoio, per chiacchierare a bassa voce e lontano da orecchie
indiscrete. Entrambi concordavano nel pensare che, dopo questo,
avrebbero avuto i giorni contati prima che qualcuno ai piani alti si
sarebbe interessato alla loro indagine che non portava risultati.
«Adesso
pensa a tua sorella: portala qui; magari avremo modo di velocizzare
il nostro lavoro prima che ci impongano di chiudere baracca e
burattini». Le ordinò e Alex annuì.
Alex
e Maggie non erano le uniche cui quella giornata era iniziata col
piede sbagliato: Kara restò agghiacciata davanti alla
televisione
quando scoprì del rilascio di Rhea Gand. La polizia non
concesse
dichiarazioni e Maggie, per telefono, le scrisse che il capitano Zod
voleva concentrarsi sulla scomparsa di Mike. Anche Alex le
inviò un
messaggio, ma Kara lo ignorò. Sapeva che non le avrebbe
tenuto il
broncio a lungo, ma in fondo era ancora molto arrabbiata con lei.
Come aveva potuto? Non le aveva solo nascosto cosa faceva per lei, ma
le aveva anche privato di una parte importante della sua vita.
L'aveva perfino consolata quando il D.A.O. aveva rifiutato la sua
domanda, e invece… Non poteva non esserne arrabbiata.
Intanto,
suo cugino Kal aveva mantenuto la parola data. Durante le prime ore
del mattino, si videro arrivare in villa Kal, Lois e anche James.
Avevano viaggiato durante la notte per essere lì il prima
possibile
e poi si erano persi, ma arrivarono giusto una mezzora prima che
tornasse Alex accompagnata da due agenti del D.A.O. per portare Kara
alla base. Kal andò con lei, naturalmente. Lois e James,
invece,
restarono vicini.
«Gran
bella casa, davvero», sorrise lei, acchiappando il ragazzo
per una
manica, in modo che si abbassasse alla sua altezza: «Guardala
bene,
Jimmy», lanciò un'occhiata a Lillian, che andava
verso la cucina
con sdegno.
«Mi
sembra normale».
«Sì…
È proprio questo il punto», strinse gli occhi.
I
tre, in compagnia dei due agenti, entrarono in banca e poi presero
l'ascensore.
«Kara…»,
Alex la guardò con la coda dell'occhio come cercava di
ignorarla,
girando altrove lo sguardo.
«Lo
senti anche tu questo brusio?», si rivolse a Clark, al suo
fianco.
Il ragazzo lanciò uno sguardo ad Alex e riguardò
di nuovo lei,
provando a sorridere.
«Kara-».
«È
fastidioso».
«Dovrai
rivolgermi-».
«Proprio
fastidioso».
«La
parola-».
«Accidenti,
non smette».
«Prima
o poi», riuscì a dire, in uno sbuffo. Per un
attimo si zittirono
entrambe, mentre i due agenti del D.A.O. dietro di loro facevano
finta di nulla. «Devi parlare-».
«Oh,
no: rieccolo», Kara gesticolò, gonfiando le
guance.
«Con
me». Allora anche Alex gonfiò le sue, intanto che
le porte si
aprivano.
Alex
e gli agenti li guidarono lungo il corridoio fino al salone, dove ad
attenderli c'era una figura in piedi. Il passo di Kara si
bloccò
appena lo vide; le si irrigidirono i muscoli e si inarcarono le
narici. Quello era decisamente troppo.
«Oh,
ma fantastico», sbottò, avvicinandosi a John
Jonzz, spalancando le
braccia. «Qualcun altro deve svelarmi il suo reale lavoro?
Per caso,
anche Megan è un'agente sotto copertura?».
Lui
sospirò appena, guardandosi intorno. «No, e ti
sarei pregato se non
le dicessi niente».
«Anche
Eliza lavora qui?», proseguì indispettita.
«Jeremiah non lavora al
D.A.O. a Metropolis ma in realtà porta le pizze a
domicilio?».
«Hai
diritto a essere arrabbiata, ma-».
«Oh,
ho diritto a essere arrabbiata? Davvero?», scrollò
le spalle ed
entrò nella sala prima che lui o chiunque altro la guidasse,
portando in alto il mento, spalancando gli occhi: c'erano agenti
operativi e grandi schermi ovunque si posasse il suo sguardo, il
soffitto era molto alto, dietro una porta a vetri lontana si
intravedevano delle armi appese al muro. Sua sorella aveva a che fare
con quello. E anche il suo coach. Era impensabile.
Fecero
fare ai ragazzi un breve giro e li fecero strada fino a un tavolo, ma
Kara né Clark avevano voglia di sedersi.
«Quindi
voi avevate il caso aperto da tutto questo tempo?»,
domandò il
ragazzo, accigliandosi. Braccia incrociate poggiato contro una sedia,
occhi fissi su John. «Noi pensavamo che la cosa fosse finita
con gli
arresti di undici anni fa, di essere soli in tutto questo, e invece
voi…», scosse un poco la testa e Kara
annuì, concorde. «Siamo i
sopravvissuti alla nostra famiglia, dovevamo essere informati per
primi! Abbiamo finito per cercare risposte per conto
nostro-».
«È
pericoloso», per poco John non gli parlò sopra.
«Proprio per
questo non potevamo dirvi come stavano le cose: siete troppo
coinvolti».
«Certo
che lo siamo! Invece ci avete fatto spiare»,
borbottò Kara,
inacidita.
«Per
il vostro bene», annuì.
«Potevamo
esservi d'aiuto», continuò Clark.
«Siete
dei civili, non addestrati per-».
«Ma
adesso siamo qui», lo interruppe glaciale.
«No?».
John
scosse la testa, ma a quel punto non ebbe da ribattere. Fu Alex, che
fino a quel momento era rimasta in disparte, ad avvicinarsi e a
parlare per lui: «Abbiamo fatto del nostro meglio per tenervi
al
sicuro finché abbiamo potuto-».
Clark
si gettò in avanti. «Hanno cercato di uccidere
Kara».
Lei
non disse niente, ma guardò entrambi, per un momento. Vide
Alex
chiudere gli occhi e prendere fiato, guardarla e allontanare lo
sguardo subito dopo. Fino a ora, Kara aveva tentanto così a
lungo di
ignorarla da non aver minimamente fatto caso alla stanchezza del suo
volto o alle occhiaie.
«Beh…
Per fortuna sono arrivata in tempo».
«Ma
com'è potuto succedere?», chiese lui,
«Non era per quello che
alcuni agenti la seguivano?».
«C'era
un allarme bomba e-».
«L'hanno
lasciata sola», chiosò e Alex strinse le labbra.
John
poggiò una mano su una spalla della ragazza e si scambiarono
uno
sguardo d'intesa. «Abbiamo sottovalutato la
minaccia», ammise e non
con cuore leggero. «Rhea Gand era in prigione e-».
«E
adesso cosa pensate di fare? Quella donna è di nuovo
libera».
«Pensiamo
che non riproverà a minacciare la vita di Kara, adesso. Ha
gli occhi
della polizia puntati addosso, non oserà fare qualcosa di
sbagliato».
Lui
scrollò le spalle. «Come pensavate che non avrebbe
tentato alla sua
vita perché era in prigione?».
John,
Alex e Clark stavano per aprire bocca di nuovo, ma Kara ne aveva
abbastanza: sbatté le mani contro il tavolo e tutti la
fissarono,
sorpresi. «Adesso basta! Da tutte e due le parti! Parlate di
me come
se non fossi presente e, accidenti», aggrottò la
fronte, guardando
John e Alex, «finora non avete fatto altro che tenermi
all'oscuro di
tutto ciò che riguardava la mia vita, mi avete fatta spiare,
mi
avete nascosto chi eravate, avete lasciato che credessi che era Rhea
a tenermi d'occhio. Io cercavo risposte a ciò che era
successo e voi
lo sapevate ma, invece di includermi, mi guardavate come dall'esterno
di una bolla di vetro che voi chiamate protezione.
Dovete capire una cosa, tutti quanti», prese fiato,
guardandoli uno
per uno. «Io non sono una vittima»,
scandì per bene. «Non mi
sento una vittima e non voglio essere trattata da tale. Ho avuto la
sfortuna di aver perso la mia famiglia e attirato le ire di una donna
che, probabilmente, si sente minacciata da me in qualche modo, ma non
per questo sono una vittima. Voglio solo fare giustizia e combattere
affinché sia fatta. Voglio collaborare! Non mi interessa
altro».
Nessuno
si azzardò a dire qualcosa, a quel punto. Kara
scambiò un'occhiata
con Alex e, dopo, John la accompagnò in una stanza in modo
che
potesse dirgli in privato tutto ciò che sapeva su Rhea Gand,
il
senatore e chiaramente Mike. Nel frattempo, Alex scambiò due
parole
con Clark, accennandogli di Dru Zod. Sapevano che lasciar fare alla
polizia sarebbe stato rischioso, ma la microspia in quella casa non
era una missione del D.A.O., era illegale, e non potevano far nulla
se non tenere d'occhio la situazione e fingere di non sapere su
quell'uomo.
Non
si stupirono di certo quando Clark Kent ebbe l'idea di passare per la
centrale di polizia prima di tornare in villa, lasciando che
andassero senza di lui. Ciò che non si aspettavano era che
conoscesse Zod.
«Lois
mi aveva detto che lo teneva d'occhio da quando ancora lavorava a
Metropolis», si lasciò sfuggire Kara, in macchina.
Aveva chiesto a
suo cugino di accompagnarlo, ma era voluto andare da solo.
«Comunque,
alla centrale c'è Maggie. Nel caso avesse bisogno di
appoggio: l'ho
avvertita», rispose Alex, riguardando sua sorella di sbieco.
Era
ancora arrabbiata, ma se non altro le rivolgeva la parola.
«Maggie
crede ancora nella sua innocenza?».
«Maggie
sa delle registrazioni, ma vuole ancora dargli una chance»,
scosse
la testa. «Lo tiene d'occhio: poco fa mi ha scritto di aver
saputo
che Faora Hui era una sua allieva e che lo aveva seguito da
Matropolis con il trasferimento. E anche che…»,
scosse la testa di
nuovo, formando un piccolo sorriso incerto, «I colleghi la
trattano
diversamente ora che ho sparato a quella poliziotta».
Kara
guardò fuori dal finestrino e riabbassò gli occhi
lentamente, dando
una nuova occhiata a sua sorella. «Faora Hui è
collegata a Zod,
Rhea spinge Faora Hui a uccidermi, i Gand e Zod facevano parte
dell'organizzazione… Lui doveva esserne al
corrente». Alex non
rispose e Kara si accigliò. «E accidenti!
Perché prendersela con
Maggie se Faora Hui è in coma? Ha tentato di uccidermi,
è
responsabile delle sue azioni».
Alex
formò un sorriso, annuendo. «Kara, per quello che
hai detto alla
base…», si guardarono, «Pensavo di fare
la cosa giusta. Non
credevo che…».
«Lo
so», sibilò Kara con un sospiro, rivolgendo gli
occhi all'altro
lato del finestrino. Doveva tenersi calma. Sapeva perché
Alex lo
aveva fatto, e anche John, per quanto la cosa le desse fastidio.
Doveva solo tenersi calma, concentrata, non lasciarsi prendere dalla
rabbia proprio ora che Rhea Gand era di nuovo libera dopo aver
tentato di farla uccidere. Non poteva permettersi di perdere di vista
l'obiettivo. Doveva solo mandare giù tutto il resto.
Ingoiarlo e
digerirlo. E smetterla di pensare alla pillola che le aveva dato
Roulette al locale. Poteva farne a meno: dopotutto, era riuscita a
salvarsi da Faora. Deglutì. No, forse c'era riuscita solo
perché
era intervenuta Alex. Forse, senza di lei, ora non si farebbe questi
pensieri.
Nel
frattempo, Dru Zod era chiuso nel suo ufficio; tapparelle abbassate,
finestre chiuse. Anche lui non aveva dormito quella notte, tormentato
dal pensiero di aver dovuto rilasciare Rhea Gand. Oltre al
giuramento, era vero che non avevano ancora prove concrete che la
incastrassero e sapere che era stata lei per certo non lo aiutavano,
se non voleva che la donna lo trascinasse giù con
sé.
«Hai
mandato Faora», si era trattenuto dal non urlare, furioso,
davanti
alle sbarre che la dividevano da lui, quella notte. «Hai
mandato
Faora a uccidere la ragazza e ora in ospedale che lotta tra la vita e
la morte».
«Avrebbe
dovuto indossare il giubbotto», aveva replicato lei, con
sufficienza. «Quale poliziotta va in missione senza giubbotto
antiproiettile? E l'avresti addestrata tu?».
«Non
è questo il punto, Rhea», aveva stretto i denti,
formando un pugno,
gesticolando. «Quella non era una missione, ma una spedizione
punitiva personale».
«È
sempre personale».
«Le
avevi promesso di salire classe. Lo so», aveva stretto una
sbarra,
digrignando i denti, «Non spetta a te. Non sei al comando,
Rhea. Non
sei la presidente».
«Non
ancora», aveva alzato il mento, fiera.
«È solo questione di tempo,
Dru. Sono stufi dei tuoi tempi: avevi promesso un'ascesa, un ritorno
alle origini, ma siamo ancora confinati come topi da troppi anni.
Qualcuno, come quello sfortunato di mio marito, pensa davvero che
abbiamo chiuso, che ognuno sia per sé. Ecco cosa succede
quando al
comando c'è un inetto come te. Tanto valeva che
continuassimo a
stare sotto la guida dei Luthor», si era presa una pausa,
«Se non
si fossero tarpati le ali da soli, s'intende». Allora aveva
sorriso,
soddisfatta.
Zod
deglutì e strinse i pugni con rabbia, sulla scrivania del
suo
ufficio. Li nascose quando sentì bussare e sgranò
gli occhi quando
vide entrare Clark Kent. Si sarebbe aspettato tutto, ma non lui.
«Si
era fatto vivo quando Clark era tornato a Metropolis dopo un periodo
a National City, in cerca della sua memoria»,
spiegò Lois, sul
divano di villa Luthor-Danvers. Sia Lillian che Eliza erano uscite
per andare alla Luthor Corp, Lex era fuori, e mentre Lena teneva
d'occhio il cellulare in attesa di una notifica da parte di Indigo,
lei, Kara, James e Alex, che era rimasta dopo averla riaccompagnata,
si erano seduti insieme in salone. «Si era presentato in
università
per dirgli che conosceva suo padre». Le ragazze la guardarono
aggrottando la fronte, mentre James annuiva, conoscendo anche lui i
fatti. «Si era offerto di raccontargli cose su di lui e Clark
gli
era stato a sentire. Era vero. Abbiamo controllato il passato di
quell'uomo e, prima di entrare nelle forze dell'ordine, è
stato un
insegnante: era professore di inglese al liceo e uno dei suoi
studenti era Jor El».
«Il
padre di Clark», aggiunse James, abbassandosi e intrecciando
le dita
delle mani. «Ma credetemi se vi dico che quel tipo era
strano: Clark
pendeva dalle sue labbra, ma come lo guardava… C'era
qualcosa che
non andava».
«Abbiamo
provato a metterlo in guardia su quell'uomo, ma lui… Beh,
fortunatamente dopo un po' mi ha dato ascolto, Zod lo stava
trascinando in un tunnel di angosce ed era sempre di malumore e
aveva…», si bloccò, deglutì,
e proseguì a raccontare. «Dopo
averlo allontanato, ha cominciato a frequentare un corso per chi
riportava amnesie come la sua a seguito di incidenti ed è
migliorato, è potuto andare avanti con la sua vita. Ma di
certo non
è stato questo a mettermi in guardia su quell'uomo: sapete
cos'è
stato?».
Kara
annuì. «Il tempismo».
Lois
la indicò, annuendo a sua volta. «Il tempismo. Dru
Zod abitava a
Metropolis e non si era mai interessato a Clark. Cosa gli costava
andarlo a trovare una volta? Lo ha cercato solo dopo essere tornato
da National City, dopo aver tentato di fare chiarezza sul suo passato
ed essere stato in prigione a trovare Astra. Coda di
paglia?»,
scrollò le spalle. «Voleva assicurarsi di
qualcosa?».
Casa
Gand non era più transennata. Il corpo senza vita del
senatore si
trovava ancora sotto custodia del coroner in attesa che la polizia
scientifica desse il via per restituirlo alla famiglia. Rhea Gand si
era assicurata di passare a trovarli prima di tornare a casa e
continuare la preparazione della cerimonia di commemorazione per il
suo amato marito. In televisione, ora si parlava molto meno del
matrimonio tra Luthor e Danvers, tutti affranti per la perdita del
senatore, piangendo il politico e l'uomo. Rhea chiamò suo
figlio più
volte per sapere che fine avesse fatto, lasciandogli messaggi in
segreteria per spingerlo a tornare a casa prima che lo trovasse la
polizia, ma lui non rispondeva. Da quando era andato al campus per
sistemare quella faccenda per quella stupida ragazzina e alcuni suoi
amici, non aveva più fatto ritorno e a quel punto temette
potesse
sapere qualcosa ed essere scappato di proposito. Aveva telefonato al
campus, ma lui non era rimasto per la notte. Non averlo al suo fianco
in quel momento tanto delicato era controproducente. E, per di
più,
Faora Hui non era riuscita a uccidere Kara. Aveva perso un'occasione
e ora doveva stare attenta a come muoversi, sapendo che Dru era
contrario. Se la voleva morta, doveva farlo bene. Dopo lei, sarebbe
toccato a quella sfrontata della Smythe, che sapeva della sua
pistola, e poi l'altro ragazzino El, Lena Luthor sarebbe stata subito
la prossima. Si sarebbe lasciata Leslie Willis per ultima, invece.
Per lei, doveva fare qualcosa di speciale. Una volta presidente,
sarebbe stato più semplice.
E
lo sarebbe stata presto.
Gridò
a Joyce di muoversi, mentre con altri addetti ultimava il lavoro,
disponendo mazzi di fiori intorno alle foto di Lar su un tavolino.
Presto quel posto si sarebbe riempito di gente e tutto doveva essere
perfetto.
Quando
Kal tornò in villa, Lois si premunì di chiedergli
come stesse e, se
Kara non fosse stata troppo presa da altri pensieri, avrebbe notato
come temesse che il ragazzo cadesse in una qualche ricaduta.
«Non
ti ha risposto?».
Lena
scosse la testa. «Non capisco… Non si sarebbe
lasciata scappare
un'occasione come questa». Ricontrollò la chat con
sfondo nero dal
portatile, ma Indigo non aveva ancora visualizzato il messaggio.
«È
come se fosse scomparsa».
Kara
sbuffò. «Preoccupiamoci di una persona scomparsa
per volta, okay?»,
la indicò. Lanciò uno sguardo a suo cugino mentre
parlava di Zod
con Lois e James, prima di rivolgersi di nuovo a lei: «Senti,
voglio…», si morse un labbro, «Voglio
andare alla commemorazione
del senatore, adesso».
Lena
spalancò gli occhi. «Ti serve
compagnia?». Chiuse lo schermo del
laptop ma Kara la fermò.
«No,
ho mandato un messaggio a Megan, mi farà compagnia
lei», la guardò
negli occhi e Lena annuì lentamente, soprappensiero.
«Voglio
guardare in faccia Rhea. Voglio che capisca che non ho paura di lei.
Tu mi faresti», riguardò di nuovo i tre,
«un favore?». Lena planò
lo sguardo nella sua stessa direzione e Kara le sorrise.
«Voglio
solo assicurarmi che stia bene. E forse parlerà del
Generale,
quindi…».
«Non
lo mollerò un attimo».
Pranzarono
con qualcosa di veloce e Kara le sorrise ancora, prima di andare via.
Le cose tra loro erano ancora strane, eppure sentiva di non esserle
mai stata tanto vicina. Pensò che avrebbe dovuto avere paura
di Rhea
a un certo punto, ma si risparmiò dal dirlo. Gli agenti del
D.A.O.
le stavano ancora dietro e non avevano bisogno di nascondersi: era
protetta e doveva esserlo davvero, stavolta. Dalla finestra, la vide
entrare direttamente nella volante degli agenti, probabilmente per
rubare loro un passaggio, considerando che dovevano andare nella
stessa direzione.
«Perché
non ha voluto che l'accompagnassi?», si chiese Clark.
Alex
sospirò. «Non ha voluto nemmeno me, se
è per questo. Vuole
dimostrarci che non è una vittima».
Lena
si avvicinò, chiedendo a tutti se favorivano da bere
qualcosa.
Nessuno, nemmeno Alex. Scorse James guardarsi intorno in cagnesco,
Lois cercava dettagli e il suo sguardo si fermava spesso, Clark
teneva a freno un crescente disagio e la sua sorellastra era persa
nei suoi pensieri, in un angolo del divano. Lena prese fiato.
«Tu
non l'hai voluta quando sei andato a parlare con Zod», lo
guardò e
Clark si sforzò per sorridere.
«No,
ma… Era una cosa diversa».
«Diversa
perché eri tu?», domandò glaciale.
«Non so se lo hai notato, ma
Kara non è solo più la tua cuginetta:
è una donna adulta che sa
badare a se stessa e prendere le sue decisioni. Proprio come Zod non
avrebbe fatto del male a te perché in una centrale piena di
poliziotti, Gand non ne farà a lei durante la funzione di
suo
marito».
«Fai
la voce grossa, eh?», borbottò James a un certo
punto.
«Come,
prego?».
«Fai
la voce grossa», ribadì, guardandola negli occhi.
«Come Luthor,
proprio tu dovresti startene in silenzio e chinare la testa».
Alex
guardò lui e poi Lena, aggrottando la fronte. «Di
cosa sta
parlando?».
Lena
prese fiato e non mosse il suo sguardo nemmeno per un attimo, intanto
che Lois guardò torva James e Clark gli poggiò la
mano su una
spalla, per fermarlo o, forse, appoggiarlo. «James Olsen si
riferisce alla convinzione che lui, Clark Kent e Lois Lane hanno
sulla famiglia Luthor come membri dell'organizzazione quanto Zod e i
Gand. Qualcuno ha detto loro che erano coinvolti, dopotutto».
Alex
non trattenne un sorriso, trovando la cosa per un attimo divertente:
«Ma è assurdo! Se Lillian ne avesse fatto parte,
non avrebbe
sposato mia madre». Ricercò consensi, ma Lena
fissava ancora James.
Alex
non percepì il sussulto che ebbe provato a quelle parole.
«Quello
che James Olsen e i suoi amici non vogliono capire è che se
anche
questo dovrebbe rivelarsi vero, perché non metto in dubbio
che la
mia famiglia, in passato, possa aver fatto qualcosa di sconveniente,
non è un cognome a definire qualcuno e che, come Luthor,
posso
essere una brava persona quanto loro. Inutile che vi giriate attorno
in cerca di qualcosa che lo confermi: non troverete un singolo
quadretto con su scritto I
Luthor sono criminali»,
alzò il mento, mentre Lois le sorrideva con sfida.
«Ora. Volete
ancora restare per le vostre e fingere che non parliate della mia
famiglia alle mie spalle o provare a ricominciare daccapo e bere
qualcosa?».
Lois
Lane alzò una mano e si portò in piedi.
«Vediamo cosa offri, Lena
Luthor», la seguì in cucina e così fece
Alex, scuotendo la testa e
sbuffando: avrebbe dovuto bere parecchio, se voleva sopravvivere
anche a quella giornata. Rimasti soli in soggiorno, sia Clark che
James si scambiarono uno sguardo, rimuginando.
Nel
frattempo, la volante degli agenti del D.A.O. restò
parcheggiata
davanti a casa Gand. Avevano dovuto fare il giro tre volte per
trovare un punto libero dove farlo, considerando quante automobili
avevano circondato la struttura e quante persone, anche a piedi,
andavano e venivano dall'interno della casa. La porta era aperta e
Rhea accoglieva tutti con modi di fare garbati. Vestita con un
completo nero, singhiozzava e si stringeva a chiunque le portasse le
sue condoglianze: politici, commercianti, vecchi colleghi del marito
e amici, vicini di casa, sconosciuti che erano rimasti colpiti dalla
sua improvvisa scomparsa, elettori. Di tanto in tanto, la si poteva
scorgere a fare una smorfia con le labbra e asciugarsi delle lacrime
fantasma con un fazzoletto che si portava dietro; prima che si
fermasse a fissare in malo modo gli agenti di polizia che giravano
per le stanze, per lo meno. Le avevano detto che erano lì
nel caso
si fosse ripresentato suo figlio, ma non riusciva a fare a meno di
pensare che fossero spie di Dru Zod inviate per controllarla e non
aveva tempo, né l'occasione, per parlare a quattrocchi con
almeno
uno solo di loro.
Si
riavvicinò al tavolino con le foto del defunto marito e i
fiori,
toccandone una e singhiozzando, facendosi consolare dalle persone
intorno. Tutto stava procedendo bene. O così credeva:
spalancò gli
occhi e il corpo non riuscì a muoversi quando scorse Kara
Danvers
camminare in mezzo alla gente, sul suo salone. Cosa faceva
lì? Come
osava? Si mosse spedita verso di lei e, trovandola davanti,
improvvisamente la abbracciò. Kara e Megan spalancarono gli
occhi e
si guardarono, mentre la donna la stringeva tra i singhiozzi.
«Kara,
non credevo che ti avrei trovato qui. Sono così dispiaciuta
di aver
fatto il tuo nome, quando è successo. Sono stata
un'imprudente, ma
devi capire il mio stato d'animo… Volevo solo trovare un
responsabile, qualcuno da incolpare per avermelo portato
via».
Kara
manteneva gli occhi spalancati, ferma come una scultura di pietra.
Invece, Megan iniziò a trovare la cosa divertente e a
sorridere in
silenzio, indicando la donna agli occhi spiritati dell'amica:
«Dopo
fatti una doccia», ridacchiò e smise subito quando
il suo sguardo
incrociò quello di una vecchina in lacrime. «No,
io… emh. Scusi».
Si era completamente dimenticata di dove si trovasse e che non era il
caso di ridere.
«Qualcuno
da incolpare è piuttosto facile da trovare», emise
Kara a bassa
voce, mentre la donna prendeva le distanze.
«Basterà guardarsi allo
specchio».
«Tu
stai davvero suggerendo che possa essere stata io? Per quale mostro
mi dipingi», sorrise anche solo per un attimo,
«… stupida
ragazzina?».
«Lo
ha ucciso perché voleva confessare?».
«Era
diventato un ostacolo. Tu me lo hai messo contro»,
ringhiò,
singhiozzando di nuovo e portandosi il fazzoletto sul naso,
incontrando gli sguardi di altre persone e quello di un poliziotto,
che salutò con un movimento del capo.
Kara
guardò lo strano gesto con sospetto. «Oh,
dà a me la colpa? Crede
che ogni cosa che non le piaccia sia colpa mia? Dovrebbe andare in
psicoanalisi», scrollò le spalle, «Dopo
la galera, chiaramente.
Suo marito era una persona molto diversa da lei».
«Sì»,
annuì, «E tra i due, è lui a essere
morto», sibilò a denti
stretti. «Non paga di avermi messo contro mio marito, ti sei
presa
anche mio figlio?», la guardò di sbieco.
Megan
scambiò lo sguardo con l'amica, accigliandosi.
«Non sa dov'è?».
Lei
la guardò di malo modo, come se si fosse azzardata a parlare
senza
averne diritto. «Se lo sapessi, non avrei posto la
domanda».
«Non
l'ha digerita, non è vero?», riprese parola Kara e
la donna la
fissò. «Non le piace come sia riuscita a sfuggire
a quella
poliziotta. Aveva organizzato tutto in ogni dettaglio, fingendosi un
mio amico al cellulare. Ma le è andata male. Sono ancora
qui». Vide
Rhea Gand serrare con forza le labbra e Kara annuì.
«Sì, non l'ha
proprio digerita. Sappia che sarò pronta! Per qualsiasi
cosa, io ci
sarò».
Rhea
sorrise, passandosi il fazzoletto appallottolato sul naso un'altra
volta. «Sono felice che tu sia passata per portarmi le
condoglianze,
non lo dimenticherò».
Kara
annuì e lei e Megan si girarono per andarsene. Si fermarono
solo
un'ultima volta per guardare Lar Gand in foto e ricordare la sua
voce.
Lillian
era di cattivo umore. Il suo sogno, o meglio ancora incubo,
poi la sua discussione con Eliza, ora sua moglie non era passata nel
suo ufficio per pranzare insieme e, quando era andata a trovarla, le
aveva rivolto la parola appena. Eliza non conosceva le sue ragioni,
non poteva capire il motivo del suo rifiuto, e quel che era peggio,
era che non poteva fargliene parola. Era sua moglie, adesso, ma
avrebbe dovuto mantenere per sé quel segreto. Lo avrebbe
portato
nella tomba. Per di più, invece di essere alla Luthor Corp,
in quel
momento sarebbe stata in viaggio di nozze in costume da bagno e a
bere champagne se non fosse stato per quella donna. Era incredibile
come Rhea Gand riuscisse sempre a rovinare tutto. Ma non le avrebbe
toccato di nuovo la sua famiglia: quella era una certezza e si
sarebbe assicurata che lo capisse.
Per
questo aveva lasciato detto alla sua nuova segretaria di recapitare
per lei un messaggio a Eliza e, verso sera, era uscita dalla Luthor
Corp con tutta l'intenzione di fare una sosta prima di tornare in
villa. Casa Gand era ancora piena di persone: non avrebbe chiuso
quello sciocco teatrino che aveva allestito per almeno un'altra
mezzora. Povera Rhea, pensò Lillian, così stanca
da tutto quel via
vai. Quanti sacrifici per apparire agli occhi della gente come se
avesse dei sentimenti. La vide che scuoteva la testa, in un angolo
del soggiorno, parlando con alcuni uomini in giacca e cravatta.
Quante persone che volevano farle sentire il suo appoggio, a lei, che
era il male. A un certo punto pensò di cominciare ad
applaudire,
piano, godendo della sua espressione sorpresa. Le alzò gli
occhi e
li spalancò; le labbra le si irrigidirono. Era il momento di
calare
il sipario. Lillian sorrise, abbassando le mani.
«Congratulazioni,
Rhea», le disse, mentre molti si girarono per guardarla
allibiti.
«Sei sempre un passo avanti».
«Come
osi?!», starnazzò con odio, mostrando il suo vero
volto per pochi,
fugaci istanti. Riportò il fazzoletto sul viso e con sguardo
intristito si voltò verso gli uomini intorno a lei,
stringendo il
braccio di uno e sorpassandolo. Le riservò un'occhiataccia,
prima di
mettersi al centro del salone, accanto alle foto di suo marito, e
richiamare i presenti. «Sono molto stanca e ringrazio tutti
per
essere venuti a salutare accanto a me quel grand'uomo che era mio
marito, Larson Gand. Vi sono davvero grata per la compagnia, non lo
dimenticherò mai».
«Oh»,
borbottò Lillian, intanto che le persone si riunivano
intorno alla
donna per darle un ultimo, compianto saluto prima di uscire.
«Non
vorrei essere io la causa della chiusura. Mi sarebbe piaciuto
esprimere cordoglio di fronte a tutti». Alcuni si
avvicinarono anche
per salutare lei e si assicurò di essere gentile.
«Bastava
una letterina con un fiore, Luthor», le brontolò
di rimando a denti
stretti, «Senza il bisogno di precipitarti fin
qui».
«Giusto.
Perché tu sei qualcuno che ama fare le cose con basso
profilo,
dimenticavo. Per questo quando hai mandato qualcuno a uccidere la mia
figliastra, hai creato il panico in una stazione».
Rhea
deglutì e sbiancò. Con la paura che qualcuno
l'avesse potuta
sentire e perché si spingesse oltre, accelerò
l'uscita degli
ospiti, tirandoli verso il portone e ringraziando tutti, dicendo di
avere fretta. Lillian le sorrise compiaciuta, era impossibile non
notarlo. Appena la donna riuscì a far uscire tutti, perfino
l'ultima
vecchina che ancora stringeva in lacrime una foto di Lar che alla
fine le regalò, chiuse e si precipitò da lei
indicandola con il
dito indice destro, furiosa. Davvero furiosa. «Come osi
venire qui
con quella faccia tosta a rovinare la commemorazione per mio marito?!
Come osi accusarmi di fronte a tutte le persone che lui amava?! Con
che coraggio ti presenti qui e-».
«Toglimi
quel dito dalla faccia, Rhea», esclamò con calma,
interrompendola,
iniziando a fare un giro per il salone e guardando con dovizia i
fiori e le foto, prendendone una in mano: Lar Gand stringeva la mano
al sindaco, entrambi con un gran sorriso. «Era un uomo d'un
pezzo.
Ho sempre pensato che avesse dei ferrei principi, in fondo. Ma con
moglie te che riuscivi sempre a mettergli il bastone tra le ruote,
non è potuto emergere».
«Che
cosa vuoi, Lillian?». Prese fiato, fissandola con occhi
iniettati di
sangue.
«Siamo
entrambe vedove, adesso. Beh, io ho trovato la mia metà, se
non
altro», rimise la foto sul suo posto, senza degnarla di
sguardo.
Sentì i passi di qualcuno e poi Rhea Gand girarsi
velocemente verso
la porta e gridare:
«Esci
velocemente da qui, Joyce! Non ti ho chiesto di entrare, sparisci, ti
voglio fuori. Fuori». La ragazza scattò e
sentirono i passi correre
per il corridoio, sbandare, forse urtare qualcosa, ma correre fino a
sparire. Così si voltò di nuovo a lei:
«Ti avevo detto che non eri
capace di pensare alla tua famiglia».
Allora
anche Lillian si girò, passando le dita su alcuni fiori e
gettando
uno dei vasetti a terra, su un tappeto. Sapeva che avrebbe mandato
Rhea su tutte le furie e non per niente la fissò in
cagnesco, ma
senza aprire bocca. «Ricorderai… Quando Lionel
morì, ti
presentasti a casa mia. Lex era a Metropolis e Lena fuori con il suo
fidanzato o chissà con chi altro. Io ero da sola, con
Marielle. Ti
presentasti per sequestrare i computer, per controllare i documenti,
per mettere naso in ogni buco della mia casa. I tuoi uomini erano
ovunque». Diede un calcio al vasetto a terra, camminando sul
tappeto, facendolo rotolare gocciolante d'acqua fino al pavimento di
parquet.
«Tuo
marito voleva incastrarci tutti», si difese, ringhiando.
«Non
hai trovato nulla», sibilò stringendo i denti,
guardandola con
odio. «Ti chiesi se eri stata tu a ucciderlo».
«Non
ho ucciso io il tuo stupido marito», gracchiò,
stringendo i pugni
e, per un attimo, indicarla di nuovo. «Lo ribadisco. Se le
voci che
avrebbe fatto il traditore mi sarebbero arrivate prima, non ci avrei
pensato due volte a toglierlo di mezzo io stessa. Ma così
non è
stato. Si tratta solo di proteggere i propri interessi, lo sai, lo
hai fatto tu stessa. Ora ti ergi su un piedistallo come se fossi
superiore, ma non sei diversa da me, Lillian. Ti sei occupata
dell'autopsia, d'altronde. Perché sai che dev'essere stato
uno di
noi e hai dovuto proteggere te stessa di riflesso. Siamo due facce
della stessa medaglia».
Lillian
abbassò una mano e capovolse il tavolino, gettando a terra
fiori,
acqua, vetri rotti e foto. Ne calpestò una e Rhea la
guardò
immobile, forse troppo a lungo. «Non mi paragonare a te,
vigliacca:
hai ucciso l'unica persona sulla faccia della Terra che probabilmente
ti amava davvero. Per questo resterai sola con te stessa,
Rhea». Si
avvicinò a lei e la guardò negli occhi.
«Ti chiesi se eri stata tu
a ucciderlo, mi dicesti che non sapevi chi fosse stato e che saresti
stata felice di ucciderlo tu stessa se fosse stato un traditore,
sì.
Mi dicesti che non godevamo più della protezione
dell'organizzazione. Perché ci eravamo tirati fuori. Non
eravamo più
i presidenti, ma estranei. Ora ti dico una cosa, Rhea». La
prese per
il colletto e la donna alzò le mani, ma non provò
a sfiorarla.
«Avevi ragione: sono fuori dall'organizzazione, non sono
più la
presidente e non devo prendermi cura della classe beta. Avvicinati
anche solo di pochi metri di nuovo alla mia figliastra e ti
ucciderò.
Invia qualcuno a farlo per te e ti ucciderò. Tocca o manda
qualcuno
a farlo per te un membro qualsiasi
della mia famiglia e ti ucciderò. Dovunque tu sia, ti
troverò e
dovranno raccoglierti con un cucchiaino». La
lasciò e prese passo
per uscire.
Rhea
trattenne il fiato per un po' e, quando riuscì a respirare
di nuovo,
la fermò. Non gridò né alzò
affatto la voce, in effetti, ma si
fece sentire piuttosto chiaramente: «Kara Zor El era riuscita
a
convincere mio marito a rilasciare un'intervista in cui si prendeva
carico della morte dei suoi genitori biologici».
«Non
sarebbe la verità?», la guardò di
nuovo. «Anche se di certo
l'idea non era stata sua…».
«La
tua dolce figliastra sta scavando, Lillian. Se arriva a me, arriva a
te. Salteranno fuori i nomi di tutti e finirai in prigione. Dalle
spazio e un giorno, forse, condivideremo la stessa cella a Fort
Rozz».
Lillian
non rispose. Preferì andarsene e lasciarla alle sue
farneticazioni.
Ferdinand l'autista le aprì la portiera dell'auto scura e si
accomodò, accavallando le gambe. Farneticazioni,
già. Ma i Luthor
non erano riusciti a salvare gli El, né forse ci avevano
provato
abbastanza. Erano colpevoli. Se Kara era arrivata a loro, presto
sarebbe arrivata a lei e al suo segreto, e così la sua
famiglia, la
sua vita… tutto sarebbe stato distrutto.
Era
stata una lunga giornata. Clark Kent aveva raccontato di come Zod
riuscisse a catturare il suo interesse quando parlava di suo padre,
di come lo dipingeva un ragazzo in gamba, intelligente e forte. Di
come lui glielo ricordasse, per certi aspetti. Kara volle sapere di
cos'era andato a parlare con lui in centrale e Kal scrollò
le
spalle, dicendogli che lo aveva accolto come un vecchio amico, che lo
aveva fatto accomodare e che, alla sua domanda se faceva parte
dell'organizzazione che aveva assassinato i suoi genitori, aveva
risposto in un modo che forse avrebbe dovuto aspettarsi: Non
avrei mai fatto del male a Jor e a suo fratello.
«Quindi
è colpevole come i Gand», disse Kara, a quel
punto.
«No.
O meglio, non ne possiamo essere sicuri»,
controbatté Lois. «Ha
implicitamente detto che ne faceva parte, che ne fa parte tuttora e
questo già lo sapevamo, ma che lui non lo avrebbe fatto.
Mettiamo
che dica la verità e che tutte le storielle strappalacrime
che ha
raccontato a Clark siano reali: voleva bene al suo studente, allora
forse i Gand, i nostri maggiori sospettati-».
Lena
deglutì, a quelle parole, abbassando lo sguardo. Lei sapeva
per
certo che erano stati i Gand: suo padre lo aveva detto a Lex.
Però
non poteva dirlo o avrebbero voluto sapere come aveva avuto
quell'informazione e non era il momento, pensò, lanciando un
veloce
sguardo a Kara. Era già abbastanza grata che nessuno dei tre
avesse
detto a voce alta che Lex aveva rivelato il coinvolgimento sicuro
della sua famiglia, lasciando il dubbio.
«Li
hanno uccisi per lui», continuò Lois,
«perché non poteva farlo di
persona oppure,
come meglio lascia intendere, non lo sapeva», li
guardò uno per uno
e Lena annuì, mentre Alex sospirò e poi prese
parola:
«Non
conosciamo che tipo di ordine abbiano o avessero allora le persone
che ne facevano e ne fanno tuttora parte. Zod poteva essere un pesce
piccolo a cui non dicevano tutto, o lo avevano scavalcato».
«Giusto»,
annuì a sua volta Lois e Kara aggrottò la fronte.
«Faora
Hui parlava di salire
classe»,
disse, ricordando il breve dialogo con lei prima degli spari.
«Se mi
avesse ucciso, qualcuno l'avrebbe fatta salire di classe. Come un
premio. Era lì solo per quello».
«Dunque
la loro organizzazione si basa su classi?!»,
domandò Alex.
«È
stata Rhea», rispose e Clark la guardò,
prendendole una mano. «Rhea
le aveva promesso questa cosa. Dobbiamo incastrarla».
Verso
tardi, Alex tornò da Maggie che non vedeva l'ora di sfogarsi
sulla
sua giornata in centrale, mentre Lena e Kara accompagnarono Kal, Lois
e James in albergo. Lena aveva provato a invitarli a stare in villa,
ma loro avevano già prenotato per quella notte e l'indomani
sarebbero partiti presto per Metropolis; dovevano tornare al lavoro.
«Per
qualsiasi cosa, Kara. Qualsiasi», Kal l'aveva stretta a
sé, «Mi
devi chiamare».
«Anche
se scopro come sbattere in prigione Rhea Gand?», gli sorrise.
«Pensavo volessi restarne fuori».
«Lo
volevo», confessò, guardando Lois al suo fianco.
«Volevo andare
avanti con la mia vita, poi ho conosciuto Zod… Quell'uomo mi
era
entrato nella testa e-», la scosse, «Ed ero ancora
più sicuro di
voler andare avanti e lasciami tutto alle spalle. Ma questo riguarda
anche te, Kara. Non voglio interessarmi per Zod o per i miei genitori
che ricordo appena, ma per te. Voglio esserci per te».
Kara
lo strinse più forte e dopo abbracciò anche Lois.
Vicino
a loro, nel frattempo, James protese una mano verso Lena che
aspettava l'altra vicino alla porta della camera. Lei guardò
la mano
e dopo lui, così sciolse la posizione rigida e gliela
strinse,
intanto che il ragazzo sorrideva. «Volevo chiedetti
scusa».
«Uh»,
sforzò un sorriso, «Immagino non sia facile, per
te».
«No,
non lo è», ridacchiò. «Mi
sono comportato da scemo. Non penso che
tu sia solo il tuo cognome, voglio che tu lo sappia».
«Lieta
di sentirtelo dire».
Clark
li raggiunse per salutare Lena e così, rimaste sole, Kara
iniziò a
ridacchiare e si dondolò sui talloni solo un attimo,
guardando Lois
di straforo. «A-A proposito di Zod… Mi chiedevo,
giusto per
curiosità, se potessi dare-».
«No»,
rispose glaciale e Kara si corrucciò.
«Oh,
eddai, non avevo neanche finito».
«Non
ti lascerò dare uno sguardo alla mia lista sui possibili
membri
dell'organizzazione. Kara, potrebbe essere sbagliata e fare dei
danni. Non voglio influenzarti e…», prese fiato,
bloccandosi,
«Onestamente è giusto che tu segua una tua pista,
non la mia».
Uscirono
dall'hotel con Kara che continuava a sbuffare, in direzione del
parcheggio. Il profilo misterioso o Indigo che fosse non aveva ancora
visualizzato il messaggio, scoprì Lena dal cellulare,
così stava
per sospirare che un altro pesante sbuffo di Kara glielo
soffocò sul
nascere. «Non ha lasciato che vedessi la sua lista,
vero?».
«Devo
riuscire a convincerla», brontolò, guardandosi
intorno in cerca
dell'auto. «Ha ragione quando dice che dovrei trovare una
pista mia,
ma potrei… beh, potrei iniziare a creane una dalla sua.
Dopotutto,
aveva ragione su Zod».
Lena
la guardò furtivamente, poco avanti a lei. «Non ti
lascerà mai
vedere quella lista», sibilò nel silenzio del
parcheggio,
avvicinandosi alla macchina.
Kara
scrollò le spalle. «E perché mai? Ho
capito, non vuole
influenzarmi eccetera, però-».
Lena
la interruppe, fermandosi, diventando di colpo molto seria.
«Perché
sopra ci troveresti il nome dei Luthor».
Kara
si fermò a sua volta e, in un primo momento seria, poi
formò un
incerto sorriso. «Che vuoi dire? Lois sospetta dei
Luthor?». Il suo
sguardo era così fermo, notò. Non stava
scherzando? La vide
tremare, per un secondo. Diceva sul serio?
Lena
deglutì. «Perché è vero,
Kara», la guardò negli occhi. «I
Luthor ne facevano parte».
E
così… uno dei momenti più attesi di
questa storia è arrivato…
e io ve lo taglio tra un capitolo e l'altro :D Aemh,
perdonatemi, ma era d'obbligo!
Questo
è un capitolo pieno, tanti avvenimenti e anche qualche
chiarezza.
Per prima cosa: il rilascio di Rhea. Davvero Zod non aveva altra
scelta? Maggie vuole ancora credere in quell'uomo, nonostante ora
sappiano per certo che è parte dell'organizzazione. Abbiamo
scoperto
che Clark lo conosce: gli parlava di suo padre tempo fa
perché era
stato un suo insegnante e, per questa ragione, era entrato nel
“libro
nero” di Lois. Nel flashback d'inizio, vediamo Rhea scaldare
gli
animi nel gruppo e Astra attaccarla, convinta che potesse davvero
parlare con la sorella e farle cambiare idea, mentre Zod entra per
ultimo, arrabbiato, e fa notare alla prima di non aver avvertito i
presidenti della riunione. I presidenti erano nientepopodimeno che i
Luthor! Ve l'aspettavate? A confermarlo le stesse Rhea e Lillian nel
loro confronto. Le loro discussioni sempre sul filo del rasoio, eh XD
Anche grazie a loro abbiamo qualche informazione importante sulle
classi citate nel flashback e da Faora nel capitolo prima. Vi siete
fatti un'idea?
Intanto,
con la scoperta del lavoro di Alex, salta anche la copertura di John.
Kara è arrabbiata, ma se non altro ha ripreso a parlare con
la
sorella. Nel frattempo, gli Affari Interni hanno parlato con Alex e
John di Faora Hui e pare che ora siano preoccupati che li costringano
a chiudere la loro indagine contro l'organizzazione. Sta passando dei
guai anche Maggie perché la sua ragazza ha sparato a
un'agente!
E
non dimentichiamo della discussione tra Lillian ed Eliza:
c'è stato
un piccolo fraintendimento, ma dopotutto, Lillian non può
spiegarsi
meglio di così. Quella donna non accetta davvero che le loro
figlie
possano stare insieme!
E
ora… sì, finalmente Lena sta vuotando il sacco
con Kara. Se solo
Clark, Lois o James avessero detto, a voce alta, quando tutti erano
presenti, che era stato Lex a dire al primo dei Luthor che al tempo
erano coinvolti, sarebbe stata la fine. Lena ci ha provato e avrebbe
potuto insistere che era ancora tutto da dimostrare, ma era davvero
sollevata che non avessero continuato perché, a quel punto,
la
discussione sarebbe degenerata e non sarebbe finita bene. Ora ha il
tempo di dire tutto a Kara, da sole. Ma come la prenderà la
ragazza?
Con
questo capitolo, festeggiamo il compleanno di questa storia su EFP!!
Esattamente un anno fa, pubblicai il prologo e, senza dubbi, non mi
aspettavo che a distanza di un anno sarei stata ancora appresso a
questa fan fiction (ma quanto sono lenta D:)!
Piccole
curiosità ~
-
Quanto è cambiata questa storia da quando l'avevo in mente
un anno
fa ad oggi? Tantissimo. Avevo in mente delle linee base, dei punti
“focali” per orientarmi, un'idea di alcuni
personaggi da inserire
e quando, ma la verità è che la cosa si sta
trasformando tantissimo
intanto che vado avanti nella scrittura e nello sviluppo mentale. Mi
sono più chiare alcune cose che prima avevo solo abbozzato e
altre
si spiegano, ho dovuto aggiungere personaggi che all'inizio non mi
aspettavo (perfino Zod che ha ricoperto un vuoto, diventando
importante ai fini della trama), e mi sono resa conto, da sola, di
quanto sia grande, in un certo senso, l'intreccio all'interno della
storia e quanto curioso il rapporto causa/effetto degli eventi che mi
portano ad altri eventi. Che poi l'idea di base è
banalissima XD
-
Ebbene, lo confesso: quando ho iniziato a scrivere questa storia
c'erano due possibili svolgimenti e tutto partiva dalla morte di
Lionel Luthor. La sua morte è il centro della fan fiction.
Da
quello, c'erano due strade:
- non
investigare sulla sua morte, percorrere i punti focali comuni (uno dei
quali, era la separazione di Kara e Lena), qualche grattacapo (Rhea, ad
esempio) e andare dritti all'obiettivo sul finale
- investigare
sulla sua morte, percorrere i punti focali in comune e avere problemi
grossi, scoprire l'assassino, dare potere all'organizzazione (che,
nella prima strada, sarebbe stata solo di sfondo e non trattata) e
andare dritti verso l'obiettivo sul finale
Indovinate
quale ho scelto? XD I primi capitoli erano in comune a entrambi,
dall'ottavo avevo già scelto la mia strada (se ricordate, a
un certo
punto nelle note vi avevo chiesto cosa ne avreste pensato del cambio
di rating da giallo ad arancio: ora non ricordo quando esattamente
l'avevo chiesto, ma lì avevo già scelto quale
strada percorrere),
contando sulla morte dei genitori di Kara che, nella prima strada,
non sarebbe stata quasi affrontata. Cosa mi ha fatto scegliere? Una
serie di elementi: i vostri commenti a proposito sulla morte di
Lionel, il fatto che la seconda strada sarebbe stata una sfida
personale più ampia e la mia ispirazione, senza dubbio, mi
ha
portato lì. Sapete il sesto senso? Quello. Come se i
personaggi
nella mia testa avessero voluto approfondire e percorrere per bene
ogni passo di questa storia. Ho capito di aver preso la strada giusta
quando la mia mente ha cominciato ad aprirsi a tantissimi scenari in
cui sarei arrivata. L'assassino di Lionel Luthor solo nella seconda
strada sarebbe saltato fuori: merita di essere scoperto e di poter
raccontare la sua versione, perché è successo.
C'è
solo una “piccolissima”, anzi
tre,
cosette che mi fanno temere ogni volta per aver scelto questa strada.
Non che comunque me ne penta, sia chiaro, sono felice di poter
esplorare meglio e nel dettaglio ciò che avevo in mente,
perché
nella prima strada questo mi sarebbe stato impossibile,
però… La
prima è la paura di essere meno seguita: se è pur
vero che scrivo
per me stessa, ricevere i vostri pareri è importantissimo
che non ne
avete idea e pensare che possa annoiarvi, beh, mi mette un po'
“paura”. La seconda è la paura di non
riuscire a realizzare per
bene ciò che ho nella testa. E la terza
è… ma
porca miseria
quanto sto scrivendo; è OVVIO che, con la prima strada,
avrei
concluso molto prima, ahah! La lunghezza di questa fan fiction mi
preoccupa.
-
Giusto, per l'appunto, quante pagine di LibreOffice ho scritto
finora? Dopo un po' che il file dei capitoli diventa troppo pesante,
ne devo aprire uno nuovo. Due settimane fa ho iniziato il terzo file.
Per ora, sommando quelle scritte nei tre file, sono 542
pagine… Ed
è in corso!
-
Quanti capitoli saranno in tutto? Non ne ho idea! Che meraviglia
(a-i-u-t-o).
-
Dall'inizio, scrivo in un foglio di Blocco Note sul pc le linee base
per i capitoli a seguire fino a un certo punto. Man mano che vado
avanti nella scrittura, mi tocca rifare quella sul Blocco Note
perché
non va già più bene, diventa obsoleta in poco
tempo. Quindi potete
immaginare quanto tutto cambi durante la stesura da capitolo a
capitolo.
-
Una cosa curiosa che sarebbe dovuta accadere e che invece non
accadrà
mai: Lena avrebbe dovuto avere una mezza storia con James Olsen. Non
accadrà mai perché Lena a un certo punto si
è scoperta gay
(grazie, Leslie) e no, non era una cosa programmata ma è
successa e
basta. E sta bene così.
-
Un'altra cosa curiosa che non avevo programmato dall'inizio ma che,
alla fine, si è rivelato necessario perché mi
aiuta tantissimo ad
approfondire e fare il punto della questione sulla trama sono i
capitoli stand alone. L'unico che avevo seriamente programmato
dall'inizio è stato il capitolo quattro, quello di Lillian
ed Eliza,
perché mi sembrava doveroso far capire ai lettori come le
due erano
finite assieme o ci sarebbe stato un buco. E da lì ho
iniziato a
programmare gli altri, come ad esempio quello su Kara e Alex che
diventano sorelle, che è stato uno dei primi a venirmi in
mente.
Ancora
adesso non so bene quali saranno i prossimi stand alone, lo
capirò
dallo svolgimento della trama quale personaggio, o rapporto, merita
di essere approfondito in quel preciso momento.
-
Una piccola curiosità che riguarda me e il mio legame con la
fan fiction (e lo so, non ve ne
frega una
cipolla): sono
dislessica.
Amo scrivere e non è stato così da sempre, anzi,
un giorno ho
semplicemente iniziato e non ho più smesso, nonostante
tutto. Ho
scoperto di esserlo circa due anni fa, quando volevo diventare
scrittrice e provai a pubblicare. Ricevetti una recensione
così
brutta che mi buttò giù per diverso tempo.
È grazie a quella
brutta recensione, dopo una vita di non fai abbastanza,
non
ci sei ancora, sei bravina ma, potresti
fare di più
e via discorrendo, che cercai risposte sulla mia incapacità
di
emergere. È stato “bello” scoprire di
esserlo, perché aveva
tutto senso, compresi alcuni comportamenti, ma
“brutto” perché
dovevo accettare che non sarei mai stata davvero brava. Questo mi
aveva portato a non scrivere più, e così
è stato per quasi un
anno. Sapete qual è stato il mio nuovo inizio? Esatto,
questa fan
fiction.
Ho ripreso a scrivere da qui; era un esperimento, una sfida contro me
stessa.
Dopo
tutta questa marea di informazioni non richieste, vi propongo, se vi
va, di rispondere a una mia domanda, ora che siamo arrivati fin qui: secondo
te, chi ha ucciso Lionel Luthor? Domanda
di riserva se non vi piace l'altra o non sapete che dire: secondo
te, chi si nasconde dietro l'identità di X?
Sono
giusto curiosa di leggere le vostre idee, se ve le siete fatte! Non
abbiate
paura di dire "castronerie", tanto non risponderò a
nessuno con sì,
è giusto, o no, è sbagliato
XD E anche perché, ora come
ora, potete solo formulare ipotesi. Se, al contrario, avete voi una
domanda da fare a me, sono a vostra disposizione ;)
Bene.
E dopo aver scritto tante note quasi quanto è lungo il
capitolo, vi
lascio! L'appuntamento è per sabato 16 con il capitolo 39, Smettere
di scappare.
Avete idea di cosa accadrà?
|
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Capitolo 40 *** 39. Smettere di scappare ***
Oh,
le brontolava la pancia. Il dolore al petto, però, era
più forte.
Appena si svegliò, sentì subito la sensazione di
un macigno
all'altezza tra la bocca dello stomaco e il petto, aveva la gola
chiusa, un forte mal di testa e le tiravano i muscoli del collo. Ah,
ma quello era per come si era addormentata. Lentamente, aprì
gli
occhi appiccicati dal sonno e iniziò a mettere a fuoco
intorno a
lei: riconobbe la macchina, il sedile, Lena. Non si era nemmeno
accorta che le si era addormentata addosso. Erano crollate, ieri.
Esauste, pensierose, arrabbiate. Kara in special modo. Mise dritto il
collo e si distanziò dal sedile, cercando di allontanare
Lena da sé
e appoggiandola sul sedile a sua volta. La guardò mentre,
dopo un
sospiro, riprese a dormire tranquilla. Non poteva crederci che lei,
proprio lei, le aveva tenuto nascosto qualcosa come quello. Pensava
che più di tutti, sarebbe stata Lena a essere sempre sincera
con
lei, lo avevano promesso; avevano iniziato tutto insieme, dovevano
sempre e solo restare dalla stessa parte. Scavalcò passando
sui
sedili davanti e, ricambiando torva lo sguardo di una donna che nel
parcheggio era appena scesa da una macchina, ricercò il suo
cellulare all'interno del cruscotto, trovando tra gli altri un
messaggio da parte di Alex. Si chiedeva dove fosse finita e
ansimò,
immaginando che fosse preoccupata.
Sono
con Lena, tornerò verso pranzo a National City.
Inviò
e mise il cellulare in tasca dei jeans, sperando che avvertisse anche
Eliza. Non se la sentiva di mandare un messaggio anche a lei. Non se
la sentiva di parlarle, ora come ora. Come avrebbe fatto a farlo
senza accennarle di Lillian? Aprì lo sportello
più vicino e scese
dalla macchina. Poi rientrò, prese delle monete e
tornò a uscire.
Entrò nel localino lì davanti alla spiaggia,
doveva già essere
aperto da qualche ora. Andò in bagno e provò a
lavarsi un po', poi
pagò una ciambella con cui fare colazione; considerando che
avevano
usufruito del loro parcheggio per tutta la notte, sarebbe stato il
minimo. Camminò verso la spiaggia e mangiò
guardando i ragazzi che
si preparavano a surfare, a metri da lei. C'era il vento giusto,
pensò, spostandosi i capelli dal viso. Non voleva essere
arrabbiata
con Lena. Capiva perfettamente perché le aveva tenuto
nascosto una
cosa come quella ed era chiaro di come l'avesse tormentata fino allo
stremo, però… Però non riusciva a
smettere di tremare e a farle
male il petto. I Luthor avevano fatto parte della stessa
organizzazione che aveva ucciso i suoi genitori e, ora, i Luthor
facevano parte della sua famiglia. La donna che aveva sposato la sua
madre adottiva ne aveva fatto parte. La ragazza di cui era innamorata
era una Luthor. E lo sapeva bene, certo, che Lena non aveva colpe, ma
in quel momento non riusciva a non considerarlo. Era tutto
così
sbagliato. Lillian aveva sposato Eliza pur sapendo tutto. Dubitava
che le avesse accennato qualcosa o Eliza gliel'avrebbe detto. Lillian
Luthor non avrebbe mai ammesso la verità. Dannazione.
Sentì nella
testa, un'altra volta, lo scoppio della bomba che li aveva uccisi e
Kara strinse i denti, andandole di traverso la ciambella.
«Kara,
sali in macchina, per favore», le aveva detto Lena ore prima,
nel
parcheggio dell'hotel dove avevano lasciato Clark, Lois e James.
«Dimmi
che stai scherzando? Era questo che dovevi dirmi?». Aveva gli
occhi
sgranati, il cuore che minacciava impazzito di uscirle dal petto, i
muscoli tesi. «A-Aspetta…», aveva
trattenuto il fiato, fissandola
di sbieco, «volevi dirmelo dopo il matrimonio per non fare
che mi
mettessi in mezzo? Pensavi che se l'avessi detto a Eliza, lei
a-avrebbe annullato le nozze?».
Lena
aveva deglutito e abbassato gli occhi, sentendosi in colpa. Era stato
troppo egoista, non rischiare di perdere la sua nuova famiglia? Aveva
stretto la portiera che teneva aperta, solo un momento, per poi
guardarla con gli occhi pregni di lacrime. «Per
favore… sali in
macchina».
Kara
l'aveva guardata immobile fino a prendere una decisione, andandole
incontro e sedendo sul sedile a lato dell'autista. Aveva aspettato
che salisse anche lei e portasse l'auto fuori dal parcheggio per
dirle di portarla lontano, ovunque, in modo che potessero discutere
da sole della cosa. E avevano discusso, oh, praticamente per ore,
prima in macchina, poi sulla spiaggia sedute sulla sabbia fredda
della notte, e infine di nuovo in macchina. Ricordava di aver
gridato, lì sulla spiaggia. Era così nervosa.
Così furiosa. Ma
Lena si sentiva talmente in colpa che Kara non era riuscita a non
prenderle una mano, quando aveva incrociato i suoi occhi. Si era
calmata. Si era sentita tradita, sì, ma Lena… Le
si era spezzato
il cuore a vederla in lacrime dirle che le dispiaceva. Se non altro,
rifletté guardando un surfista cadere in acqua, ora sapeva
perché
la ragazza ci teneva a dirle tutto prima che tornassero eventualmente
insieme. E perché non gliel'avrebbe perdonato. Non poteva
non
ammettere che aveva avuto ragione a pensarlo.
Sentì
qualcuno avvicinarsi e si voltò, trovando la mano destra di
Lena
quasi davanti al naso, con il palmo alzato e sopra una caramella alla
frutta. Ansimò e gliela prese, togliendo la carta e
infilandola in
bocca, riguardando le onde del mare. Lena le si mise a fianco, in
silenzio. Capiva che avrebbe voluto chiederle qualcosa, ma che non
riusciva a parlare: Kara la vide abbassare gli occhi, guardare le
onde, adocchiare lei. O meglio i suoi piedi. «Sì,
ci ho pensato»,
rispose comunque, annuendo senza voltarsi verso di lei.
Lena
annuì un poco, a sua volta. «Avrei voluto essere
più coraggiosa e
dirtelo molto prima», confessò, lasciando basso lo
sguardo.
«Lo
sei stata», disse, tentando un goffo sorriso, spento a breve.
«Sei
stata coraggiosa. A-Avresti potuto non dirmelo mai e, quando lo avrei
scoperto, fare finta di niente, di non saperlo. E sei stata forte
a…
b-beh, sì, a tenertelo dentro. Deve averti fatto male. Non
che io
concordi, ma… sei stata forte. E non sei scappata questa
notte».
«Avrei
potuto?».
Kara
scosse la testa, sospirando.
Lena
si asciugò un occhio, abbozzando un breve sorriso.
«Non dovevi, lo
sai. Dovrei essere io a tirare su il morale a te, e non
viceversa».
«Posso
chiederti una cosa?». La vide annuire e allora Kara si
voltò,
aggrottando la fronte. «Mi accompagneresti da mia zia? Vorrei
sentirmelo dire da lei. Dei Luthor. Voglio sentirlo dalle sue labbra,
m-ma… non voglio farlo da sola».
Lena
le inquadrò la mano sinistra e per un attimo
pensò di
stringergliela, ma non ci riuscì. Si fermò.
«Non devi chiederlo».
Presto
si rimisero in macchina, pronte per tornare a National City.
Rhea
Gand, intanto, camminava sbattendo i tacchi delle scarpe lungo un
corridoio. L'avevano chiamata molto presto quella mattina e si era
subito preparata e chiamato l'ufficio del sindaco e al senato: ci
sarebbe stato il funerale di Lar il pomeriggio dell'indomani,
poiché
finalmente le avevano dato il permesso di far seppellire il corpo.
Appena si affacciò davanti al laboratorio del coroner,
però, si
immobilizzò: cosa faceva lui lì? Era davvero
troppo. Aprì la porta
con una spinta e il coroner la salutò con un tiepido gesto
del capo
e poi di una mano, abbassando la testa e allontanandosi,
intercettando lo sguardo dell'altro. Il signore chiuse la porta
dietro di lui, dicendo che li avrebbe lasciati soli, e Rhea
squadrò
l'altro con odio.
«Dovevo
immaginarlo che avresti convinto la scientifica e il coroner a
concludere in fretta», disse lui, senza neanche muoversi.
«Avresti
dovuto pensarci tu. Questo disinteresse da parte tua, non riesce a
frenarmi dal pensare che in fondo tu nutra il desiderio di arrestarmi
seriamente, Dru».
«Pensavo
volessi sollevarmi dall'incarico e diventare presidente al posto mio.
Lo hai fatto capire molto chiaramente, e ora ti aspetti
protezione?».
«Sei
un pessimo presidente e penso che farei un lavoro migliore,
ciò non
significa che tu non ti debba ancora comportare da tale». Si
avvicinò al corpo sul lettino, coperto da un telo.
Allungò la mano
per tirarlo via, che l'altro la fermò:
«Non
lo farei, fossi in te. Nessuno dovrebbe vedere una persona cara in
quelle condizioni».
Lei
grugnì e alzò il telo, sgranando gli occhi.
Richiuse poco dopo,
trattenendo il fiato. «Che cosa gli hanno
fatto…».
«Che
cosa tu
gli hai fatto, ti correggo», si mise al suo fianco destro.
«L'autopsia è stata invasiva e non poteva essere
diversamente. Tu
lo hai messo su questo lettino, Rhea. Ho letto il referto redatto, a
proposito», esclamò saccente, attirando
un'occhiata. «È stato
sparato a breve distanza. Usciva dalla porta della camera padronale,
lo hai aspettato all'ingresso, coincide con la polvere da sparo
trovata sullo stipite della porta. Non se lo aspettava. Le prove
dicono che è stato colto di sorpresa». La
guardò. «Si fidava di
te».
«Risparmiatela»,
gracidò, girando la faccia.
«Dove
hai messo la pistola, Rhea?».
«Dovrei
dirtelo?».
«Hai
appena detto che dovrei comportarmi da presidente. Se vuoi che ti
protegga, dovrei esserne al corrente».
«Mh,
avendo ben poca fiducia nei riguardi del mio presidente, comunque, mi
avvalgo del diritto di non rispondere», si
allontanò, facendo
qualche passo intorno. «È dove non la potrai
trovare».
«E
tuo figlio? Cos'è successo al tuo ragazzo?».
Rhea
scosse la testa, abbassando gli occhi. «Mi ha abbandonato,
con tutto
quello che ho sempre fatto per lui».
Al
contrario, Zod la alzò, annuendo debolmente.
«È un testimone?».
«Cosa?»,
spalancò gli occhi. «No! Avrei mai potuto fare una
cosa del genere
con lui in casa?».
«E
la domestica?».
«Joyce?
Era fuori». Non lo guardò negli occhi.
Zod
le scoccò un'occhiata. «Sei sicura?».
«Mi
chiedi se sono sicura? Non sono una tua studentessa, smettila di
farmi il terzo grado: se ti dico che non era in casa, allora non era
in casa. Era fuori e, quando è tornata, l'ho istruita su
cosa dire
alla tua marmaglia di piedipiatti: è tutto».
L'uomo
annuì ancora. «Non faranno archiviare il caso,
anche con il via
libera alla sepoltura. Se non troviamo un responsabile in fretta,
subentrerà l'FBI e-», lei lo bloccò:
«E
allora trova qualcuno».
«Tu
pensa ad avere una storia che regga in piedi». Zod si
avvicinò alla
porta e le riservò una lunga occhiata, prima di andarsene.
Rhea non
si fidava di lui ed era certo che gli avesse mentito su qualcosa, che
fosse sul figlio e perché era scomparso, o sulla domestica.
Se
c'erano testimoni, lo avrebbe saputo. L'importante era fare in modo
di chiudere il caso fintanto che era nelle sue mani. Ora come ora, la
priorità era ritrovare Mike Gand, l'unico figlio della
coppia. Era
scomparso da troppe ore e di lui non c'era traccia: i suoi amici non
lo avevano più visto dopo che se n'era andato dal campus
universitario, i parenti nemmeno sapevano che fosse sparito e avevano
appreso la notizia della morte del senatore dalla televisione, la sua
ex ragazza, Kara Danvers, non aveva idee e sembrava sincera. Era
impossibile che si fosse allontanato tanto ed era chiaro che Rhea non
prendeva abbastanza seriamente l'idea che, se non si fosse trovato
alla svelta, sarebbe stato lui il qualcuno a cui avrebbero accollato
l'omicidio. Non c'era segno di scassinatura; le prove dicevano che
l'omicida era già all'interno della casa quando era successo
e
poteva farle modificare, ma perché farlo? Doveva solo fare
presto.
Quella donna aveva agito d'istinto, ma si era scordata che suo marito
era un uomo importante e che non avrebbero semplicemente abbandonato
il caso se non si fosse trovato il responsabile. La presidentessa
degli Stati Uniti lo aveva telefonato per avere informazioni,
spronandolo a sbrigarsi. Tutti gli occhi erano puntati su di loro.
Volevano un colpevole. Non c'era tempo per tergiversare;
semplicemente non c'era.
E
lo sapevano tutti in centrale, Maggie Sawyer inclusa.
Quella
mattina era di pattuglia. Aveva accompagnato Jamie dalla babysitter,
uscendo da casa poco dopo di Alex, scoprendo di essere stata
assegnata a un nuovo partner. Non aveva cercato spiegazioni,
cambiavano non di rado le coppie per creare un ambiente di lavoro
sereno, e non che a lei importasse, solitamente, se non fosse che lui
era uno di quelli che, più di tutti, le parlava alle spalle.
George
era molto amico di Faora Hui, lo sapeva bene. Non per niente, quando
scoprì che erano stati assegnati, le aveva rivolto un'acida
occhiata, quasi fosse colpa sua.
Durante
il tragitto in auto aveva parlato appena, concentrato sulla strada.
Sentiva il suo fiato sul collo. Li contattarono alla radio e lui
rispose; solo in quel momento riuscirono a scambiarsi due parole,
discutendo se passare a destra o dritti e girare più avanti.
«Ci
scommetto che non è nemmeno uscito dal suo
quartiere», brontolò
poco più tardi, mentre Maggie girava a destra come lui aveva
suggerito, evitando di litigare.
«Parli
di Mike Gand?».
«Chi
altri?», sbottò, guardando fuori dal suo lato del
finestrino.
«Pensi
possa essere stato lui?». Gettò l'amo e
aspettò che abboccasse.
George
ridacchiò. «Ma neanche per sogno. Il figlio della
signora Gand non
avrebbe i connotati per fare una cosa del genere».
«Signora
Gand?». Non era tanto il nome con cui l'aveva citata, ma il come:
sembravano quasi in confidenza. «La conosci?».
«La
conosce Faora», rispose più gelido, a un certo
punto. Il sorriso
gli si spense e portò dritto lo sguardo, fissando un punto
vacuo.
«Te la ricordi? Faora? La nostra compagna che la tua
amichetta ha
quasi ammazzato», borbottò, «O te la sei
già scordata?».
Erano
vicini, doveva rallentare. Maggie deglutì. «Faora
ha quasi
ammazzato mia cognata».
«Quella
se l'era cercata», strinse i denti, «Aveva messo in
pericolo la
vita delle persone in stazione, fingendo che ci fosse una
bomba».
«Non
era stata lei», la difese, «Andiamo! Sono queste le
voci che
circolano in centrale? Kara non farebbe mai niente del
genere».
Mentre
lei accostava al marciapiede, lui sghignazzò.
«Quelli della
disciplinare non le hanno fatto un cazzo, non è vero? Alla
tua
amichetta».
«Smettila
di chiamarla così, odio quel termine»,
tirò il freno a mano e gli
riservò un'occhiata. «Alex Danvers è la
mia ragazza, non
un'amichetta». Lo vide ignorarla e aprire lo sportello,
così lo
seguì fuori.
«So
solo che Faora è in coma, che sua madre non riesce
più ad andarla a
trovare, e che voi siete tranquille con la vostra coscienza».
Restò
indietro, verso il cancello dello sfasciacarrozze che avevano
segnalato.
Maggie
prese un bel respiro, aprendo il cancello ed entrando. «Faora
ha
tentato di uccidere Kara e Alex ha sparato per salvarla. Sì,
stiamo
bene con la coscienza». Sentì i passi del suo
nuovo partner
seguirla e poi fermarsi all'improvviso. Sentì caldo alla
base della
testa, come se il sangue le si fosse fermato con lui. Si
voltò
lentamente e trattenne il fiato, quando lo vide puntarle contro la
pistola. «Cosa stai facendo?».
George
alzò le sopracciglia. Voleva ridere, ma non gli
riuscì. «Mi
domandavo cosa accadrebbe se fossi tu quella costretta in un letto
d'ospedale. La tua bambina verrebbe a trovarti con la tua
amichetta?».
Maggie
accostò una mano alla fondina e lo vide accorgersene. Stava
facendo
sul serio? «Metti giù la pistola», disse
soltanto, seria.
Poi,
d'un tratto, lui rise e alzò l'arma, rimettendola
all'interno della
fondina. «Accidenti, ti ho fatto paura? Era uno scherzo,
Sawyer.
Rilassati. Voi affiliati del D.A.O. vi prendete troppo sul
serio».
La sorpassò, cominciando a guardarsi intorno tra le lamiere
e le
auto da rottamare.
Maggie
non riuscì più a stare tranquilla, né
a dargli di nuovo le spalle.
Non sapeva neppure se avesse dovuto o meno indicare il caso al suo
capitano: che anche lui, come Faora, facesse parte
dell'organizzazione? Quanti poliziotti, suoi colleghi, ne facevano
parte? Per un momento aveva temuto che le sparasse davvero, in pieno
giorno e in servizio. Si vergognava di aver avuto paura, decidendo di
non dire nulla ad Alex. Se lui si era spinto a puntarle contro una
pistola, cosa avrebbero fatto gli altri che come lui la prendevano di
mira?
Kara
e Lena tornarono a National City. Si fermarono in un locale per
mangiare qualcosa di veloce per pranzo e, senza parlare di nuovo del
gruppo e della famiglia Luthor, si mobilitarono verso Fort Rozz.
Senza parlare affatto, in effetti. Kara aveva fretta: doveva essere
lì prima che cambiasse idea. E aveva una paura matta. La
tensione la
stava mangiando dall'interno. Si aspettava che prima o poi, davanti a
sua zia, ci sarebbe stata Lena al suo fianco, anche se certo non dopo
quella rivelazione. Non sapeva davvero come prenderla: odiava che le
si mentisse e ultimamente si era accorta che lo avevano fatto fin
troppe persone, eppure se l'unica col motivo più importante
per
nasconderle tutto era lei, era forse l'unica persona da cui si
sarebbe sempre aspettata la verità e la cosa le dava
fastidio. Al di
là del segreto che era una cosa enorme, che era importante
per il
suo passato e il presente, più di tutto le dava fastidio che
non era
riuscita a dirglielo prima. Sì, era davvero convinta che
Lena fosse
stata coraggiosa, per altri versi, e poteva solo immaginare quanto
avesse sofferto nel tenere tutto per sé e perché
la loro relazione
ne aveva subito, ma se nella ragione la comprendeva, qualcosa dentro
di lei si era spezzato e non riusciva a trovare pace. Forse solo sua
zia poteva aiutarla.
«L'ultima
volta che sono stata qui, ero con Lois», disse, abbassando un
poco
gli occhi e camminando avanti e indietro nello stretto corridoio che
anticipava la saletta delle visite, dove i vetri separavano loro
dalle detenute. «Volevo farmi forza, ero quasi sicura di
riuscirci.
Quasi»,
rimarcò e la ragazza le andò vicina, fermando i
suoi passi agitati.
Riuscì a prenderle le mani con le sue e Kara la
lasciò fare,
sentendo un brivido sulla pelle. Lena che la toccava le faceva sempre
un certo effetto, ma quello era stato diverso: invece di essere
piacevole, le provocò fastidio. Voleva contatto, ma non lo
voleva
allo stesso tempo. Avrebbe dovuto sforzarsi con lei, come le
suggeriva la ragione?
«Andrà
tutto bene», le sussurrò in un sorriso.
«È importante; ce la puoi
fare».
Kara
non ne era abbastanza sicura: si sentiva così leggera, alla
sensazione di rottura si aggiunse un terribile mal di stomaco e
brutta voglia che tentava con forza di ignorare. Il cuore le batteva
così poderoso che, chissà, avrebbe volentieri
vomitato quello.
Poteva sopportarlo? Non voleva cedere alla sua testa che le ripeteva
costantemente, e ora più che mai, che non era
così forte come aveva
sempre pensato.
La
guardia le fece accomodare all'interno della saletta e, mano nella
mano, si avvicinarono lentamente ai vetri. Solo un'altra prigioniera,
più lontano, aveva visite. Astra non era ancora seduta, la
vide
passare nel corridoio opposto attraverso le vetrate sbarrate,
accompagnata da due agenti e in manette. Le si strinse lo stomaco e
solo grazie alla mano tenuta con Lena non si tirò indietro.
Si
sedettero tenendosi vicine e, per un attimo, si guardarono.
«Mi
dispiace per quello che ti dirà»,
bisbigliò lei. «Farei qualsiasi
cosa se potessi cambiare il passato».
Con
sguardo stanco, Kara non disse nulla e si rivolse in avanti, a quella
donna. La vide sedersi e, pian piano, mentre si rendeva conto di chi
le stava davanti, sgranare gli occhi. Era lei. Era sua zia Astra,
tanto simile e allo stesso tempo diversa da sua madre. Così
cambiata, con qualche ruga in più; così uguale
che rivederla era
come tornare bambina e ritrovarsi a scuola, quando lei era venuta a
prenderla per portarla via. Lo stomaco le parve rigirarsi su se
stesso. Ma aveva smesso di scappare.
«Kara…»,
mormorò la donna e prese la cornetta, indicandole di fare lo
stesso.
In un attimo, l'altra prigioniera la guardò e all'improvviso
chiamò
per essere portata via, finendo prima la sua visita. Astra
l'adocchiò
appena ma, prima di riguardare sua nipote, si accorse che lei non era
sola, lanciando a Lena uno strano sguardo.
Kara
la fissò: quando era andata a vederla con Lois, sua zia le
era parsa
molto sciupata, ma al contrario ora aveva una carnagione più
vivace,
i capelli appena lavati, un cenno di trucco, perfino. Le cose erano
cambiate tanto in poco tempo e lo trovò un fatto piuttosto
curioso.
Prese la cornetta costringendosi a non tremare, deglutendo e
socchiudendo per un attimo gli occhi. «Zia
Astra…».
«Sì»,
rispose lei con un gran sorriso rigato di lacrime, poggiando la mano
sinistra sul vetro che le separava.
Era
inutile, per quanto si sforzasse, Kara non riuscì a non
commuoversi
e, anche a lei, presto si riempirono di lacrime gli occhi.
Sentì
Lena stringerle la mano vicina e sorriderle, così
ricambiò. Sua zia
era responsabile in parte di ciò che era successo ma, in
quel
momento, il pensiero la sfiorò a stento: era lì
con lei e le voleva
bene.
La
prigioniera veniva portata via in manette alle spalle di Astra
intanto che lei sorrideva di ritrovata gioia. «La mia
Kara… Quanto
sei cresciuta, guardati», le sfuggì un altro
commosso sorriso, «Ti
aspettavo da tanto tempo. Hai letto le mie lettere? Perché
non sei
mai venuta prima? Mi sei mancata così
tanto…».
Kara
abbassò lo sguardo e, con un singhiozzo, si tirò
indietro la
cornetta, sentendo la vicinanza della ragazza. «Non volevo
vederti»,
confessò, ritrovando la voce.
«Capisco».
Anche lei abbassò lo sguardo per un attimo, ma non si perse
d'animo,
troppo felice di rivederla per prendersela. «Mi dispiace non
esserti
potuta stare vicina… Sono la tua famiglia, ma non siamo
potute
stare insieme».
Kara
aggrottò la fronte, tirando su con il naso.
«A-Avresti voluto che
stessimo insieme? Hai tradito i miei genitori». Non doveva
dirle una
cosa del genere. Semplicemente non doveva.
«No,
no, non lo avrei mai-», si fermò e il suo sguardo
planò a Lena al
fianco della nipote, cambiando espressione, diventando più
dura.
Kara
la guardò a sua volta e poi di nuovo sua zia.
«Puoi parlare davanti
a Lena. Puoi fidarti di lei. Io mi fido di lei». La scorse
sorriderle, stringendo più forte le loro mani unite,
poggiate su una
sua coscia.
Astra
non trattenne un altro sorriso, per poi asciugarsi gli occhi con una
manica blu della divisa da carcerata. «Non sai cosa potrei
dirti».
«Oh,
lo so», la fissò, «Lo so
eccome».
«Siete
diventati una famiglia, eh? Si sono sposate, l'ho letto su una
rivista. Ce le passano qui, ogni tanto. Te ne ho parlato in qualche
lettera, ma è chiaro che tu non le abbia lette…
Non volevo che
diventassi la figliastra di quella donna», strinse i denti.
«Lillian?
Facevano parte della stessa organizzazione che li ha uccisi, vero? I
Luthor. E anche tu».
Astra
annuì debolmente, passandosi una mano sulla fronte.
«Non sai bene
cos'è successo in quel periodo, Kara. Lionel ed io avevamo
un piano.
E qualcun altro, ovviamente, persone fidate, dovevano aiutarci ad
aiutarvi. Io ho cercato di salvarli», strinse i denti,
avvicinandosi
di più al vetro. «Lillian Luthor non ne era al
corrente, poi non so
se Lionel glielo abbia detto, ma temevamo che ci avrebbe fermati
perché stavamo agendo per conto nostro, sai…
Lillian è diversa da
com'era Lionel», le sfuggì in un brusio,
«Lui ne era stufo, lei…
era di un'altra opinione. All'inizio, almeno. I giornali raccontano
di una Lillian diversa», ridacchiò e Kara
guardò Lena, senza dirle
nulla. «Quando sono passata a scuola per prenderti era per
proteggerti, Kara! Volevo dissuadere Alura dal condannare un
uomo-».
«Il
commercialista. Zachary Michaels. Lo so», la interruppe e
vide la
zia annuire.
«Dovevo
farlo perché sarebbe stato l'inizio; Michaels aveva mani in
pasta
dappertutto e sapeva troppe cose, troppe. Ma lei non voleva
ascoltarmi…», si intristì ma alla
ragazza quella reazione diede
fastidio. «Per lei era importante, lo vedeva come un punto di
svolta
della sua carriera». Il viso le si rigò di nuovo
di lacrime e
strinse gli occhi. «Ho pianto ogni giorno, Kara. Manca anche
a me».
La
ragazza lasciò la cornetta e la guardò con ira,
trattenendo le
lacrime. Lena le chiese cosa le avesse detto e Kara scosse la testa,
facendole capire che ne avrebbero parlato in un secondo momento.
Così
riprese la cornetta, respirando con affanno. «Non parlarmi di
mia
madre. Non dei miei genitori. Non farlo», la
pregò, cercando di
trattenere la rabbia crescente. «È anche colpa tua
se sono morti».
«No»,
lei arcuò la fronte, scuotendo la testa. «Non
voglio che pensi
questo! Te l'ho detto, ho cercato di salvarli! O almeno salvare te,
la persona più importante che avessi».
«Non
farlo».
Astra
si asciugò di nuovo le lacrime si portò una mano
contro la bocca,
alzando lo sguardo verso un orologio da parete, conscia che non
avevano molto tempo. «Dovevamo portarti al sicuro. Si erano
alzati
molti animi, la paura era divagata, nessuno voleva perdere
ciò che
avevamo costruito e qualcuno…»,
deglutì, «qualcuno propose di
rapirti per ricattare tua madre. Era questa l'idea iniziale».
Vide
la nipote irrigidirsi a quelle parole ma non si fermò, non
c'era
tempo. «Mi sono opposta e qualcun altro con me, siamo andati
ai
voti, ma… non avevamo raggiunto la maggioranza».
«Ai
voti?», domandò, aggrottando la fronte. Si
voltò verso Lena e le
disse subito questa cosa, così entrambe guardarono Astra,
che
annuiva. «Pensavo che fosse strutturata a classi».
Lei
sorrise. «Sai delle classi? Hai fatto i compiti, Kara,
sei… brava.
Sì, sì, abbiamo delle classi,
ma…».
«Abbiamo?».
Le irritava come sua zia si includesse: aveva fatto parte
dell'organizzazione, ma ne parlava come se ne facesse ancora parte
benché la prigione, nonostante questa avesse ucciso una
parte della
sua famiglia.
«Non
tutti i voti hanno la stessa valenza, dipende dalla classe, ecco,
eppure non eravamo comunque riusciti a raggiungere la maggioranza.
Quello dei presidenti vale di più ed entrambi avevano votato
contrari, ma non era stato sufficiente».
«Presidenti?
C'erano dei presidenti?».
«Sì»,
il suo sguardo planò di nuovo verso Lena. «I
Luthor. Lionel e
Lillian erano i presidenti».
Kara
si allontanò di nuovo dalla cornetta e prese fiato a
più riprese,
sentendo la tachicardia, guardando Lena a sua volta. «I tuoi
genitori erano i presidenti». Non aspettò che le
chiedesse di cosa
stesse parlando, né se fosse sicura. «Lillian era
la presidente
dello stesso gruppo di persone che ha portato via da me i miei
genitori e lei ha sposato la mia madre adottiva come se non fosse mai
successo niente», digrignò a denti stretti e,
mentre Lena deglutiva
e cercava di stringere più forte la mano di Kara che si era
fatta a
pugno.
Astra
batté il vetro, in modo da attirare l'attenzione.
«Kara, devi
saperlo: dopo aver perso la votazione, i Luthor si erano ritirati.
Davo a loro la colpa perché da presidenti non erano riusciti
a
fermare ciò che è successo, ma ho saputo che si
erano ritirati dopo
aver perso la votazione. Io mi ero allontanata perché c'era
un
mandato d'arresto a mio nome e Lionel non mi aveva detto niente, ma
loro-».
Kara
cercò di trattenersi dal non urlare e alzò
velocemente la mano che
fino a un attimo prima le stringeva Lena, sbattendola con forza
accanto al vetro. «Se n'erano lavati le mani, quindi? Mi stai
dicendo questo? Dovrebbe farmi sentire meglio o cosa?».
Astra
scosse la testa. «Loro non potevano vincere quella battaglia,
Kara…
Erano pochi quelli ancora fedeli. Qualcun altro aveva giocato con le
loro emozioni, spaventandoli al punto dal decidere di voler vedere
morta la nostra famiglia».
«Rhea
Gand», sussurrò e vide sua zia annuire.
«Stai
lontana da lei, Kara. È sempre stata qualcuno sopra le
righe, ma
aveva visto nella possibilità di colpire un nemico come la
sua
ascesa a presidente. Voi eravate il suo lasciapassare, ma le cose le
sono andate male e, invece di prendere il potere, il gruppo si
è
nascosto».
«Non
è lei la presidente, ora».
«No,
no», scosse la testa, accennando un sorriso, «E non
lo sarà mai.
Te lo prometto».
Kara
si morse un labbro e, pian piano, sciolse il pungo e accostò
la mano
al vetro, mentre Astra avvicinava la sua. «Dimmi
perché, ti prego!
Perché ti sei affiliata a loro invece di combatterli?
Perché hai
tradito così la tua famiglia e il tuo lavoro?».
Astra
trattenne il fiato e piegò le labbra, ferita dalle accuse.
«N-Non
puoi capire… Quando mi sono affacciata al loro mondo,
pensavo di
doverlo combattere. Ma la verità è che, insieme a
loro, potevamo
cambiare questa città. Avevamo in mente di fare tante cose
buone e
altre ne abbiamo fatte».
«Cosa?
Le cose buone si fanno alla luce del sole», la interruppe con
sconcerto, confidando velocemente a Lena cosa le stava dicendo.
«La
burocrazia, Kara, non sta dalla parte dei bisognosi, ma noi
sì».
«Hanno
ucciso i miei genitori e i miei zii».
«No…
Una di loro ne è responsabile, ha plagiato tanti, ma
l'organizzazione è… L'organizzazione è
come un mezzo: ci sono
soldi, contatti, risorse, e se usate a fin di bene possono cambiare
tutto. In meglio. Per questo è nata e per questo mi sono
unita a
loro, vedendo le potenzialità: per fare del bene».
Non
poteva crederci di stare realmente affrontando una discussione di
quel tipo. Kara allontanò la mano del vetro e vide
l'espressione di
sua zia mutare, dispiacendosi. «Ne fai ancora
parte?».
«Trova
le cose buone che abbiamo fatto, Kara. Trovale e capirai di cosa sto
parlando; leggi le mie lettere, se ne hai ancora qualcuna…
Fallo»,
le sorrise con speranza, tra le lacrime. «Quella
donna», si guardò
intorno, attenta a non fare nomi, «è cattiva,
Kara. Ma
l'organizzazione…», abbassò la voce,
«L'organizzazione può
ancora fare tanto».
Lena
la vide riguardare l'orologio appeso sul muro e chiese a Kara di
poter prendere la cornetta. «Devi aiutarmi», le
disse velocemente,
senza convenevoli. «Mio padre voleva smascherarli e qualcuno
lo ha
ucciso».
Astra
sospirò. «Sì, so della sua morte. Mi
è dispiaciuto tanto», si
portò una mano contro la tempia. «Non so chi sia
stato. Sembra un
omicidio strettamente legato a noi, ma la verità
è che non lo so e
non lo sa il nuovo presidente. È stata una sorpresa,
credimi. Ma la
verità è che i Luthor negli anni si sono fatti
molti nemici, cara
ragazza. Prima di Lionel e Lillian, il presidente era tuo nonno.
Potrebbe essere stato chiunque».
Lena
si morse un labbro e lasciò la cornetta; intanto
suonò un
campanello e videro alcune guardie venire verso la loro saletta: il
tempo concesso alle visite era scaduto e Astra batté il
vetro di
nuovo, freneticamente, in modo che Kara prendesse di nuovo la
cornetta dalla sua parte.
«La
mia bellissima nipote…», sorrise, accarezzando il
vetro tra loro
come se potesse realmente arrivare a toccarla. «Non devi
più venire
a trovarmi, Kara. Hai capito?».
Lei
la guardò grave, nonostante tutto. «Zia Astra,
Michaels è morto.
Qualche mese fa, nella sua cella».
Lei
sembrò pensarci e poi sospirare, intanto che le guardie
entravano
per dirle di doversi staccare. «Un danno collaterale,
temo… Ma non
preoccuparti, per me. Io sono al sicuro».
«Da
Zod?», domandò e la donna poggiò di
nuovo la mano sul vetro,
mentre una guardia l'affiancava e le intimava di nuovo di alzarsi.
Lena
si guardò intorno, scorgendo le telecamere: se potevano
registrare
le loro conversazioni, erano nei guai. Soffiò a un orecchio
di Kara
di sbrigarsi.
«Sono
al sicuro», le ripeté Astra, «Presto
saprai qualcosa, leggi le mie
lettere. Leggile, Kara… Ti voglio bene». La guarda
le spostò la
sedia e Kara le poggiò la mano sul vetro. Di nuovo vicine,
un attimo
fugace, e la prigioniera fu fatta scortare fuori di nuovo in manette.
Nonostante tutto, a Kara si spezzò il cuore e Lena si
sentì in
dovere di mettersi di nuovo vicina.
Una
guardia scortò fuori anche loro. Zitte, perse entrambe nei
propri
pensieri finché non uscirono dalla struttura e Kara
ringhiò a denti
stretti: «Mia zia non si rende minimamente conto del
problema. Era
una poliziotta e non si rende conto che nel fare le cose illegalmente
non è fare del bene. A prescindere».
«Il
mondo non è tutto bianco o nero, Kara». Lei la
guardò di straforo
e Lena impallidì. «Non sto giustificando
nessuno».
«Mi
fa così arrabbiare… E Lillian,
accidenti». A un certo punto
scoppiò: scacciò un urlo e colpì un
muro esterno della prigione
con un pugno, spaventando la ragazza al suo fianco. E quella
donna…
Quella donna malvagia aveva ucciso la sua famiglia e aveva tentato di
uccidere lei. «La ucciderò». Si rese
conto con qualche secondo di
ritardo dello sguardo di Lena ancora più pallido del solito
e si
affrettò a correggersi: «No-Non intendevo Lillian.
Ciò che ha
fatto è imperdonabile, ma mi riferisco a Rhea Gand. Non
c'è altra
soluzione, Lena», la guardò con sconforto,
asciugandosi le lacrime.
«Lo devo fare…».
«Kara»,
la chiamò e poi si guardò intorno, scorgendo
alcuni poliziotti che
guardavano nella loro direzione, probabilmente incuriositi dalle
urla. «Non qui. Andiamocene». Le prese un braccio
ma l'altra era
immobile. «Dobbiamo sperare che nessuno abbia
sentito».
«La
farà sempre franca», proseguì
imbambolata, stringendo i pugni e,
poi, aggrottando la fronte. «Perfino mia zia non si rende
conto; e
non basta promettermi che non sarà la presidente di quel
gruppo di
criminali: è già abbastanza pericolosa
così. Ha tentato di
uccidermi, ha ucciso suo marito e… ha ucciso la mia
famiglia, Lena.
Ancora non sappiamo dove sia Mike. Non ho altra scelta se non farla
fuori».
Lena
scosse la testa, incurvando le labbra. «No. No, non lo farai,
Kara».
«Devo
farlo, lo capisci?».
Pianse
di nuovo, ormai incontrollabile, e l'altra la strinse fra le braccia.
Ci riuscì. Era lì, aveva sciolto una barriera da
quando le disse
dei Luthor. Era fra le sue braccia e avrebbe voluto tenerla
così per
sempre.
«Lei
non si darà pace finché non mi avrà
ucciso o ucciso le persone a
cui voglio bene. Non posso permetterglielo».
«Ssh».
Lena la costrinse ad appoggiare la testa sulla sua spalla destra, ma
l'altra si tirò indietro. «Non lo
farai», le disse, guardandola
negli occhi. «Troveremo un altro modo, la incastreremo, te lo
giuro.
Se c'è qualcosa che non puoi permetterti, è che
Rhea ti porti via
anche te stessa. Adesso sei arrabbiata, ma tu non sei così e
non ti
permetterò di diventarlo, hai capito? Non voglio sentire
queste cose
da parte tua, non sono da te».
«E
se non ci fosse altro modo?».
«Ci
sarà. Ci sarà, vedrai. Hai detto che ti fidavi di
me. Fidati di me,
allora. Un modo si trova sempre». Assottigliò i
grandi occhi verdi.
Se un modo non ci sarebbe stato, lo avrebbe creato; avrebbe fatto
qualsiasi cosa, per lei. «Ci penserò io, Kara. Te
lo prometto».
Si
ricordava bene come l'aveva guardata Rhea Gand la prima volta che si
conobbero. L'orgoglio di Mike al suo fianco, lo sguardo perplesso di
Lar e quello curioso e inacidito di lei. Si domandava come aveva
fatto a non accorgersi fin da quel momento che c'era qualcosa che non
andava in quella donna, che non poteva semplicemente odiarla
perché
usciva con suo figlio. E Mike era così preoccupato; voleva
così
disperatamente che loro andassero d'accordo. E lo stesso lei. In quel
periodo, era davvero convinta che fosse Mike Gand l'amore della sua
vita e aveva preso seriamente l'incarico di rendersi simpatica agli
occhi della futura suocera… O almeno prima che Rhea dicesse,
per
l'ennesima volta, quanto Kara non era adatta per Mike. Lui si era
arrabbiato così tanto e avevano litigato. Ricordava di
essersi
sentita in colpa, per essere stata il motivo per cui il suo ragazzo
stava tagliando i rapporti con la sua famiglia. Che ingenua a pensare
che ci fosse stato qualcosa in lei che a quella donna non piacesse.
Rhea aveva fatto uccidere la sua famiglia e avrebbe ucciso anche lei
e Kal se ci fosse stata l'occasione. Accidenti, una parte di lei,
adesso, era ancora convinta che avrebbe dovuto ucciderla lei.
Anticipare quella donna, coglierla di sorpresa e farla sparire. Mike
non gliel'avrebbe perdonato e, di certo, lei stessa sarebbe stata la
prima a non perdonarsi. Stava seriamente pensando di uccidere una
persona, dopotutto? Voleva diventare un mostro anche lei? Undici anni
fa, i suoi genitori la incoraggiavano a diventare un eroe come quelli
dei fumetti che leggeva, perché era la sua ispirazione, e
ora voleva
uccidere qualcuno? Quale eroe lo avrebbe fatto…?
Ma
tutto quel peso addosso… non riusciva a sopportarlo. Si
sforzava,
doveva, non voleva cedere. Anche se conosceva un modo per star
meglio.
Allungò
lo sguardo a Lena che guidava e sospirò piano per non farsi
notare,
ripensando a quando le disse che ci avrebbe pensato lei,
promettendoglielo. Forse per farsi perdonare. Sicuramente
per farsi perdonare. Ma Rhea Gand era un suo problema, non di Lena.
«Oh,
cavolo», esclamò Alex quando, aperta la porta di
casa sua, se le
ritrovò davanti. Acchiappò Kara per una manica e
l'avvicinò a sé
per abbracciarla, facendole capire molto chiaramente quanto si fosse
preoccupata. Dopo le fece entrare, non lasciandosi sfuggire i loro
sguardi abbattuti. «Siete state in prigione? Da
Astra?». Non si era
seduta e sia lei che Kara camminavano a turno davanti a Lena sul
divanetto. Non era stato facile raccontarle tutto, dalla
verità di
Lena alle parole della zia a Fort Rozz: Alex si era passata
più
volte le mani nei capelli, psicologicamente provata. «Quindi
era
vero? Lillian faceva parte dell'organizzazione e ha fatto finta di
niente? Ha sposato nostra madre omettendo tutta questa faccenda?
Oh…»,
allora si sedette, prendendo un bel respiro per darsi una calmata.
«Io non ci posso credere… Non ci voglio
credere, non ha senso! Eliza non ne sa niente, è ovvio
che non ne sa niente».
«Dobbiamo
dirglielo», Kara la guardò.
«La
butterebbe giù», sospirò, rivolgendosi
poi a Lena, aggrottando lo
sguardo. «Da quanto tempo? Da quanto tempo lo sapevi? Da
sempre?
Quando questa estate ci hai chiesto di aiutarti con la morte di tuo
padre-».
«No»,
Lena si tirò indietro, abbassando gli occhi. «Non
ne avevo idea! Se
lo avessi saputo allora, le cose sarebbero andate
diversamente».
«Ce
lo avresti detto subito?».
Alex
glielo chiese senza girarci intorno e Kara la fissò mentre
apriva la
bocca ma non rispondeva. Glielo avrebbe detto subito? Quando ancora
non stavano insieme e stavano imparando a conoscersi, le avrebbe
detto, mentre mostrava loro le cose che aveva raccolto come il suo
certificato di adozione, che sua madre aveva avuto a che fare con le
persone che avevano ucciso la sua famiglia?
«Non…
non lo so», ammise infine, «Le cose sarebbero state
diverse, non so
come mi sarei comportata».
Alex
aprì bocca ancora che Kara la bloccò:
«Va bene, basta. Lena ha già
detto che le dispiace, andiamo avanti, okay? Sappiamo di Lillian, dei
presidenti, di Rhea Gand. Ora non ci serve che agire»,
guardò Lena
per un attimo, «La incastriamo. Troviamo il modo di farla
confessare». La vide annuire e accennare un sorriso,
probabilmente
perché stava accantonando l'idea di uccidere quella donna.
Non lo
avrebbe mai fatto, dopotutto.
Sapere
dei Luthor aveva turbato davvero tanto Alex Danvers. Lavorava a quel
caso da tempo e qualcuno che aveva fatto parte dell'organizzazione le
era stata tanto vicina senza saperlo. Era assurdo che stesse
capitando una cosa del genere. Quale mostro sposerebbe la donna che
aveva adottato una bambina che lei aveva aiutato a rendere orfana? A
non dirle niente. E quale capo avrebbe lasciato che la suddetta donna
sposasse la madre di una sua dipendente senza dire niente?
Ricordò
quando John l'aveva messa in guardia su Rhea perché Kara
stava
frequentando Mike, e su questo si era stato zitto? Come poteva lui
non saperlo? Si chiuse nella sua camera da letto dicendo di dover
fare una telefonata e aspettò di sentirle chiedere cosa
voleva per
sbottare arrabbiata: «Lillian Luthor ne faceva parte e tu non
hai
minimamente pensato che volessi esserne messa al corrente? Come posso
svolgere il mio lavoro, se sono la prima a non sapere le
cose?». Lo
sentì sospirare.
«Abbiamo
seguito i Luthor per anni. Loro sono stati i primi a cui siamo andati
a bussare la porta, ma erano puliti, Alex»,
confidò. «Se
guardi alla storia di questa città, saprai che i Luthor
hanno sempre
svolto un ruolo predominante, sempre. Levi Luthor era conosciuto
all'estero come un grande luminare, negli archivi storici
c'è un
reparto con il loro nome sopra, dannazione, perfino una ragazzina,
anni fa, ha scritto un tema sul lavoro dei Luthor per la
comunità.
La Luthor Corp aiutava diverse associazioni no-profit e, al tempo
stesso, realtà illecite. In passato qualcuno se lo era
lasciato
sfuggire, ma erano rimaste voci non confermate. Avevano molto potere,
tutti li rispettavano, ovviamente li tenevamo d'occhio, non
è tutto
oro ciò che luccica»,
prese una pausa. «Tu
sei giovane, Alex. Non hai vissuto il periodo di quando loro
sembravano avere in mano National City e forse per questo non ti sei
mai chiesta su di loro. Non è più così
da anni, almeno dieci. Le
acque si sono calmate, ma non abbiamo mai smesso di cercare
collegamenti. Ora tu mi stai dicendo di averlo scoperto, ma
c'è una
prova a confermare che Lillian Luthor ne facesse parte?».
Lei
trattenne il fiato e si passò di nuovo una mano sui capelli,
scuotendo la testa. «No», rispose con un brusio,
«No, non ne
abbiamo. La parola di Lex perché glielo ha detto suo padre.
E quella
di Astra, la zia di Kara».
«Un
ragazzo che dice di averglielo detto un uomo che ormai è
morto e
quella di una donna rinchiusa in prigione da anni per aver cospirato
contro gli Stati Uniti insieme a un gruppo di corrotti. Come capirai
da sola, non è granché. Come avrei potuto dirti
che sospettavamo
della donna che stava per sposare tua madre?»,
le domandò, ma non attese risposta. «Non
era necessario metterti in paranoia. Il tuo compito era soltanto
quello di proteggere Kara. Se i Luthor erano corrotti in passato, da
anni sono puliti e dunque non era una nostra
priorità».
«Era
una priorità per me, John… Come farò
adesso a dirlo a mia
madre?».
Lui
ci mise un po' a rispondere. «Parlale
da figlia, non da agente. Lo supererete come famiglia».
Chiusero
la chiamata. Alex strinse il cellulare e fissò il pavimento,
persa
nei suoi pensieri. La faceva facile, pensò. Sua madre si era
appena
sposata con lei, accidenti. Appena sposata. Che strana ironia adesso
che ci pensava: lei e Kara avevano cercato il marcio nella vita di
Lillian Luthor mesi fa e infine, non trovando nulla, avevano finito
per accettarla. Adesso avevano trovato il marcio ma si erano sposate.
Era tardi. Tornò da loro, trovandole separate e in silenzio:
Kara
che in piedi guardava fuori dalla finestra e Lena che si teneva la
fronte, seduta sul divanetto. Disse loro ciò che le aveva
detto John
e la sorella si sforzò per non arrabbiarsi ancora con lui.
«Va
bene, devo parlare con Lillian», disse a un certo punto,
interrompendo un altro silenzio.
«E
cosa vorresti dirle? Vorresti dirle di fronte a nostra madre
perché
non ha fatto abbastanza per salvare i tuoi genitori?»,
domandò
Alex, ancora in piedi, mentre Lena la guardava preoccupata.
«Sì»,
la fissò accartocciando lo sguardo, tesa e triste.
«Sì, se
necessario. Perché non mi ha detto niente! Perché
non ha detto
niente a Eliza, perché l'ha sposata, perché
voleva che la chiamassi
mamma
pur sapendo che fine avesse fatto la mia», gridò e
strinse i denti,
e così i pugni. Non cercò lo sguardo di Lena
neanche per un attimo,
ma sapeva che la guardava. La sentiva. Non voleva vedere il suo
sguardo rotto quanto il suo.
Alex
strinse i denti e il suo viso si raggrinzì, comprendendo il
suo
dolore. Lillian non aveva solo sposato la loro madre: si rendeva
conto in quel momento più che mai in che peso e misura la
donna era
entrata anche a far parte delle loro vite. Avevano imparato ad averla
intorno, ad ascoltarla, ad abbracciarla, a vederla mentre scattava
loro delle foto per il suo account Instagram. Non solo la loro madre,
Lillian aveva tradito tutte loro. Kara le passò accanto per
arrivare
alla porta e Alex la afferrò per un braccio, mentre Lena si
avvicinava alle due sorelle senza aprire bocca. «Non andare,
adesso.
Kara, non adesso».
«E
quando?», gridò. «Adesso è il
momento giusto».
«Non
lo è», le scosse la testa, avvicinandola a
sé, «Non sei lucida.
Aspetta un po' con me».
«Aspettare
cosa? Che mi passi la rabbia?».
«Lo
so, Kara. Lillian ti ha nascosto la verità! Lo ha fatto
Lena», la
guardò per un attimo, che se ne stava in silenzio,
«Lo ha fatto
John! E l'ho fatto io… Sei arrabbiata-».
Kara
si morse un labbro con pazienza e dopo strattonò il braccio.
«Come
non ne hai idea! Ma questo non riguarda te».
«Sì
che riguarda me», s'impuntò Alex, fissandola con
occhi lucidi.
«Ognuno di noi aveva un motivo per fare ciò che ha
fatto. E sono
arrabbiata anch'io con Lillian e posso solo immaginare quanto tu ti
senta tradita perché non è stata solo lei a
farlo! Ti è capitato
tutto insieme: ognuno di noi è responsabile della tua
rabbia. Non
posso parlare per lei, né per Lena o John… Ma a
me dispiace,
Kara», scosse la testa. «Mi dispiace veramente
tanto, sorellina».
Allungò la mano destra verso di lei e Kara la
adocchiò, gonfiando
solo un attimo le guance, per poi spingersi in avanti e
abbracciarla.
«Ehi!
Non ce l'ho con te, va tutto bene», le sussurrò
contro i capelli,
mentre Alex si aggrappava alle sue spalle. «Non ce l'avrei
mai con
te».
Lena
sorrise tiepidamente, tenendosi distante. Kara allungò lo
sguardo
verso di lei, le sorrise e ricambiò, ma sentiva che,
nonostante
questo, nonostante le sia stava vicino con sua zia, nonostante lei
stessa l'abbia abbracciata, le cose tra loro erano diverse. Fino a
ieri la sentiva vicina come mai prima, e ora… Ora si sentiva
di
troppo perfino lì, mentre faceva pace con sua sorella. Lei
era una
Luthor e, fino ad ora, non erano mai sembrati tanto estranei.
Alla
fine, Alex riuscì a convincerla a restare. Appena arrivarono
Maggie
e Jamie, si fecero portare da mangiare da un locale cinese e cenarono
insieme. Parlarono della candidatura annunciata di Rhea Gand e, dopo
che misero la bambina a dormire, di Fort Rozz, l'organizzazione e le
loro classi, del nuovo presidente provando a fare qualche nome e
chiaramente di Lillian. Lena era convinta che fosse Zod il nuovo
presidente e pensarono che Maggie avrebbe avuto da ridire, invece si
stette stranamente in silenzio, più silenziosa perfino di
lei, e non
accennò di nemmeno un episodio avvenuto in centrale. Era
particolarmente strana, in effetti, e Alex disse in privato alle due
che forse si sentiva poco bene. Kara spazzolò più
piatti da sola.
Mangiò con gusto, pur non dimenticando ciò che la
tormentava; non
sarebbe riuscita a chiudere occhio se non avesse prima parlato con
Lillian e Lena lo sapeva: ogni tanto si fermava a scrutarla, mentre
rideva e parlava con determinazione, ma si notava che la sua mente
era spesso altrove. Alex mandò un messaggio a Eliza per
sapere se
erano in villa entrambe e, quando ricevette risposta, le
guardò,
aspettando di sapere da loro cosa volevano fare. Vedendo Maggie tanto
silenziosa e per le sue, non se la sentiva di lasciarla sola e a
malincuore non le avrebbe accompagnate.
«Le
parlerò io comunque», assicurò alle due
ragazze, sull'uscio. «La
chiamo questa notte, sperando mi risponda. È mio dovere.
È già
abbastanza arrabbiata con me per il D.A.O., ma…».
Kara
la salutò con un abbraccio e cominciò ad andare,
ma Lena si fermò.
«Tutti noi avevamo un motivo per nascondere a Kara qualcosa,
è
vero», mormorò, guardando indietro e poi di nuovo
Alex. «Tu credi
che anche Lillian ne avesse uno valido? Sembrava l'avessi inclusa nel
discorso…».
La
guardò negli occhi e Alex li abbassò solo un
attimo, quasi incerta.
«Ssì…»,
soffiò con un filo di voce e le sorrise mestamente.
«Sai, a mente
fredda, penso che sia davvero innamorata di mia madre. La paura di
perdere tutto, può farti fare qualsiasi cosa».
Lena
si allontanò con capo basso, non sapendo come replicare. Perdere
tutto
era stata la paura che l'aveva attanagliata fino a quel momento, ma
Lillian? Era arrivato il momento di guardare in faccia la
verità.
Le
aspettavano, dato il messaggio di Alex. Si erano messe a guardare un
po' di televisione e per poco non si addormentavano vicine, sul
divano in biblioteca. Le aspettavano, sì, ma non si
aspettavano per
niente cosa avrebbero portato con loro quella sera. Seppure Kara non
fosse più arrabbiata come quel tardo pomeriggio quando Alex
l'aveva
bloccata, vedere il volto di Lillian le aveva smosso dentro
l'orribile sensazione provata a Fort Rozz che non aveva ancora
imparato a gestire: sapeva solo di doverlo fare, di doverlo fare per
forza perché non poteva più tirarsi indietro. Le
tornò di nuovo
alla mente lo scoppio che uccise la sua famiglia, il sangue sotto la
nuca di Kal, le notti insonni passate a piangere e i pomeriggi a
guardare le stelle con Alex. E poi la voce di sua zia Astra che le
diceva che i Luthor si erano tirati indietro, che avevano perso la
votazione, che non avrebbero potuto vincere quella battaglia. Era ben
consapevole che era Rhea la responsabile di tutto, ma Lillian sapeva
e non aveva detto niente. Aveva voltato le spalle alla sua famiglia e
ora smaniava per farne parte.
Lei
era colpevole.
Il
volto duro di Kara bastò a far capire a Lillian che era
arrivato il
momento di buttare giù le difese. Le bastò quello
per voltarsi a
cercare quello di Eliza, confuso. E quello di Lena, più teso
e
triste, distante. «Kara…»,
biascicò, cercando di trovare le
parole.
«No,
parlo io», si avvicinò a lei con passo deciso,
mettendo le braccia
incrociate contro il petto. «Quindi è andata
così. Entri a far
parte delle nostre vite e fingi che vada tutto bene, ti fidanzi con
la mia madre adottiva e, dalla prima volta che mi vedi, mi abbracci e
mi dici di poterti chiamare mamma.
Che persona sei, Lillian?», Kara corrucciò lo
sguardo e la vide
deglutire, tornare mezzo passo indietro e abbassare lo sguardo. Forse
non sapeva cosa dire? Dopotutto, perché dire qualcosa? Se
avesse
saputo cosa dire, magari lo avrebbe fatto molto prima.
«Cosa
sta succedendo?», domandò Eliza. Guardò
Lena vicino a lei, Kara e
dopo Lillian. Eppure, da come forte batteva il cuore nel suo petto,
già conosceva la risposta a quella domanda: Jeremiah aveva
ragione.
«Non
poteva andare tutto bene, per una volta?», esclamò
Kara a un
tratto, con voce rotta, cercando di calmarsi da sola, poi,
aggrottando la fronte. «Dovevo solo conoscere la fidanzata di
mia
madre, e non importa quanto trovassi strana la cosa, accidenti, e
nemmeno quanto inizialmente non mi convincessi, ho-ho
accettato che facessi parte della famiglia e ora scopro che tu sapevi
che fine aveva fatto la mia». Sentì di nuovo gli
occhi farsi gonfi.
Oh, no, non voleva piangere. Non adesso. Aveva smesso di piangere.
Sciolse la posizione rigida e strinse i pugni mentre, una Lillian
ferita, rialzava lo sguardo in cerca di quello di Eliza, ma appena i
loro occhi si incrociarono, quest'ultima li abbassò, con
delusione.
«Non hai trovato un
solo momento per dire la verità? Sapevi che erano in
pericolo e te
ne sei lavata le mani?».
Lillian
ingrossò il petto, cercando di restare lucida.
«Non volevo. Non
volevo che lo scoprissi, Kara, mi dispiace molto».
«Ti
dispiace?».
«Fa
parte di un periodo del mio passato che ho cercato di superare.
Volevo-».
«Proteggermi?»,
domandò a denti stretti, stufa di sentirselo dire.
«Proteggere
me stessa», disse con un filo di voce fissando lei, cercando
di non
pensare alla presenza di sua moglie. «Volevo
proteggermi», ribadì
e la sincerità stravolse Kara, poiché non se lo
aspettava. «Non
pretendo che tu capisca il mio punto di vista, Kara. Non lo pretendo
da nessuno. Ho fatto tante cose di cui mi pento e lasciare che la tua
famiglia pagasse la sete di potere di qualcuno che avrei dovuto
fermare è una di quelli. Era una responsabilità
dei Luthor e
abbiamo fallito. Avevo… paura», socchiuse gli
occhi e Kara si
pietrificò: era pronta a sputarle addosso ogni accusa che le
passava
per la testa, ma non ad ascoltare la confessione, né il suo
pentimento. «Sono stata egoista e non posso nasconderlo: mio
marito
è morto cercando di fare la cosa giusta frattanto che me ne
stavo al
sicuro, in cerca di un nuovo inizio». La fissò.
«Innamorarmi della
tua madre adottiva è stata la cosa migliore che potesse
capitarmi
nella vita e», strinse le labbra secche, «avevo
paura di perdere
tutto».
«Tu
non hai idea-», avanzò puntandole contro un dito,
determinata, «Non
hai idea di cosa significhi perdere tutto! Per davvero! E dover
ricominciare daccapo, s-sola al mondo, non ne hai idea»,
aggrottò
la fronte e la fissò truce.
«Hai
ragione», annuì. «Volevo
solo… essere accettata», precisò con
voce rotta. Pur mantenendo uno sguardo duro, si avvicinò a
lei e
spalancò le braccia. Provò ad abbracciarla ma
Kara si tirò
indietro e scosse la testa.
«Non
toccarmi». Non aveva senso. Non aveva senso continuare. La
lasciò e
a nulla valsero le parole di Lena per fermarla: uscì di casa
senza
neppure un giaccone, sbattendo la porta.
La
ragazza guardò Eliza, ma lei non aveva occhi che per Lillian
che era
rimasta immobile, così anche Lena la adocchiò:
non l'aveva mai
vista in quello stato; era abituata a vedere Lillian Luthor scomporsi
per poche cose al mondo, il più delle volte per rabbia, ma
così
rotta
era una cosa decisamente nuova. Come se avesse anche lei un'anima,
dopotutto. La vide restare ferma fin troppo a lungo, poi abbassare lo
sguardo e, lentamente, dare loro le spalle. Lena prese il giaccone di
Kara e il suo, infilandoselo, scambiando uno sguardo con Eliza. Dopo
uscì per raggiungerla.
«Mi
odi anche tu, adesso… non è vero?». Era
ancora voltata, Lillian
temeva di guardarla negli occhi e trovare di nuovo quella delusione.
«Non sono la persona che ti aspettavi».
«No,
ti sbagli», scosse la testa piano, arricciando le labbra.
«Sei
proprio la persona che mi aspettavo. E temevo che questo momento
sarebbe arrivato perché, per qualche strana ragione, dentro
di me ho
sempre covato il dubbio che ne fossi stata coinvolta, Lillian. Ma mi
sono innamorata di te e non volevo accettare che fossi
così…».
«Codarda?».
Eliza
sospirò. «Avrei voluto che me ne parlassi.
È questo che faccio io:
ti aspetto. Aspetto sempre che sia tu a fare il passo in avanti, per
darti il tempo necessario, solo che quando non arriva, allora tendo a
credere che non ci sia nulla di cui parlare e che mi sbagli. Non era
questo il caso», biascicò. «Kara era una
bambina particolare, sai?
Ne ha passate tante. Ha ragione lei». Camminò
verso l'ingresso,
prese anche lei la sua giacca e se la infilò, tornando
indietro solo
per avvertirla. «Le porto con me, a casa. Nell'altra
casa», delineò un breve sorriso,
«È la cosa migliore. Credo che
ci meritiamo tutte una notte per pensare». Non le disse altro
e
uscì, girandosi solo un'altra volta verso di lei, che era
ancora di
spalle.
Lillian
sentì un'auto lasciare il garage e tremò, non
certo per il freddo:
villa Luthor-Danvers era vuota, adesso. Mai stata così
fredda. Era
sola.
Si
stettero zitte in macchina e, una volta arrivate a casa
Danvers-Luthor, Kara si chiuse in camera e stanca disse che andava a
dormire. Era fredda. Lena notava quanto si sforzasse per essere la
Kara di sempre, ma che non lo era. Fingeva con lei. Ma fingere che le
cose andassero bene non lo rendeva vero. Non aveva voglia di andare a
dormire, così restò sul divano in soggiorno con
il laptop acceso
sulle gambe, tenendosi impegnata. Una ragazzina aveva scritto un tema
sui Luthor, aveva detto John Jonzz? Era una cosa piuttosto curiosa,
ma non faticò a trovare la scannerizzazione di un articolo
di
giornale risalente a tredici anni fa. Si trovava nel sito
dell'archivio di National City, fortunatamente non toccato dalla
pazza cancellatura di Indigo. Oh, quello era strano. Quello era
più
che strano, quasi inquietante: I
Luthor: un modello per tutti,
di Indigo Brainer. C'era persino una sua foto: una ragazzina con due
lunghe trecce bionde. Era suo quel tema. Indigo aveva scritto sulla
sua famiglia.
X:
Sono felice di sapere che hai bisogno di me.
Lo
schermo del pc si fece nero e apparve la chat: neanche a farlo
apposta, lei era tornata.
«Ancora
sveglia?».
Lena
si voltò sorpresa, scoprendo Eliza in vestaglia. Le si
avvicinò e
abbassò lo schermo del portatile. Aveva le occhiaie,
poverina, e
un'aria molto tesa che cercava di nascondere. «Mi dispiace
per-».
«Lena»,
la fermò, «Tu non hai nulla di cui
dispiacerti». Dopo le sorrise e
le poggiò una mano su una spalla, cercando di confortarla.
«Tu e
Kara avete litigato di nuovo?», non aspettò che le
rispondesse e
sospirò: «Ah, lo sapevi e non glielo hai detto.
Come avrai ben
notato, cose come questa non giovano alle relazioni
romantiche». Le
sorrise di nuovo e le fece l'occhiolino, intanto che l'altra
spalancava gli occhi e si imporporava sulle gote.
«Sì, so che state
insieme».
«Stavamo»,
la corresse dopo aver preso aria ed Eliza la abbracciò.
«Oh,
va bene, allora devi dirmi tutto».
No,
cose come quelle non giovavano affatto e lo sentiva bene Kara. Non
chiuse occhio, anche se restò a letto per tutta la notte.
Poteva
sopportare che John le avesse tenuto nascosto il suo reale lavoro,
poteva sopportare a fatica che Alex lo avesse fatto, d'altronde era
sua sorella, e avrebbe sopportato prima o poi che anche Lillian le
avesse tenuta nascosta una cosa come quella, seppur dolorosa, ma
Lena… si fidava di Lena. Lo aveva detto anche a sua zia. Non
esisteva persona al mondo a cui avrebbe dato se stessa se non a Lena.
E sebbene la ragione continuasse a suggerirle di perdonarla, di
riprovarci, il suo cuore si era chiuso e il suo corpo rigettava il
contatto con lei. La sentì quando entrò nella
stanza per coricarsi
e, prima di andare a letto, le rimboccò le coperte. Era un
gesto
così dolce, così tanto amorevole, che si
sentì in colpa per averle
dato fastidio. Non voleva arrabbiarsi con lei, ma era arrabbiata. Lo
era eccome.
La
mattina successiva, Lena si svegliò un poco più
tardi del solito e
scoprì con gli occhi impastati dal sonno che il letto di
Kara era
vuoto. Sentì un'improvviso crampo allo stomaco e si
alzò,
continuando a percepire la sgradevole sensazione. Trovò
Eliza in
cucina che faceva colazione: aveva ancora le occhiaie, ma il suo viso
sembrava più sereno. Almeno lei. «Sai
dov'è Kara? Si è svegliata
presto, il suo letto…».
«Ah,
sì, non ha voluto sentire storie: ha preso il primo treno
per
National City. Le ho chiesto di aspettare, ma…»,
corrucciò lo
sguardo e Lena prese fiato a pieni pomoni, sentendo di nuovo il
dolore allo stomaco: sapeva dare un nome a ciò che provava, oh,
certo, era il vuoto che si era creato tra loro. Doloroso e
nero.
Kara
rientrò al campus, diretta nella camera che divideva con
Megan. La
trovò sul letto che leggeva, sbadigliando.
«Non
temere, non è ciò che leggo a farmi venire
sonno», la rassicurò
vedendola rientrare. «È che non ho chiuso occhio.
Non sai l'ultima:
John ha detto che vuole parlarmi. Non sa che effetto fanno queste
parole a una donna».
Kara
deglutì, increspando la fronte. «Ha-Hai idea di
cosa?».
«No.
Spero solo non voglia lasciarmi, è così nervoso
ultimamente…».
Anche
Kara si sdraiò sul letto, con ancora le scarpe ai piedi. Che
volesse
dirle del suo reale lavoro? Oh, che razza di amica era? Era
così
presa da chi le aveva mentito, da non rendersi conto che lei stava
facendo lo stesso con Megan, sapendo di John Jonzz. Non spettava a
lei dirglielo e forse lui era sul procinto di farlo,
però… forse
non sarebbe stata diversa da chi lo aveva fatto con lei.
«Già…».
Qualcuno
bussò alla porta ed entrambe alzarono la testa, perplesse.
Chi
poteva essere a quell'ora?
Kara
si offrì di andare ad aprire. Tutti si aspettava meno che
lui e
spalancò gli occhi e la bocca: giaccone e pesante felpa
scura con
cappuccio sceso sul viso, un accenno di barba, sarebbe comunque
riuscita a riconoscerlo ovunque. Lo tirò dentro e chiuse la
porta,
abbracciandolo di scatto, felice che stesse bene.
«Porca
vacca», esclamò Megan, mettendosi seduta.
«Ehi…»,
soffiò il ragazzo, alzando una mano e scendendosi il
cappuccio. I
suoi occhi erano rossi, il suo corpo tremava e continuava a battere i
denti dal freddo. «P-Posso stare un po' qui?».
Mike
era tornato e Kara sapeva di doverlo tenere nascosto. Se non altro,
il tempo necessario. Tutto il corpo di polizia era ancora incentrato
sulla sua cattura e, anche quella mattina, Maggie Sawyer aveva dovuto
sopportare un collega ostile mentre erano fuori di pattuglia. Aveva
accennato qualcosa della situazione ad Alex, ma le aveva nascosto i
dettagli. Era esausta ma tremendamente felice di sapere che non
avrebbe lavorato il turno dopo pranzo. Così inviò
un messaggio alla
sua ragazza per dirle che stava già tornando a casa e si
diresse
direttamente dalla babysitter per riprendere Jamie. Immaginava
già
la sua faccia felice nel sapere che l'avrebbe portata lei al parco,
quel pomeriggio. Suonò il campanello e attese.
Suonò di nuovo,
faceva tardi.
«Ehi,
Maggie! Come mai qui?».
Le
sorrise incerta e l'altra alzò le sopracciglia, ancora
più confusa.
«Per riprendere mia figlia, ovviamente».
Scrollò le spalle ma
l'altra fece lo stesso, lentamente.
«Non
capisco… La tua collega l'ha presa appena dieci minuti
fa».
Collega?
Una collega l'aveva presa? «Cosa? Dimmi che stai
scherzando… I-Io
non ho dato l'autorizzazione a nessuna collega di-», le
mancò il
fiato, sentendo le gambe farsi pesanti e la testa girarle
vorticosamente. A nulla servirono le scuse della babysitter che le
diceva di aver visto il distintivo e essersi fidata. Una poliziotta
aveva preso Jamie. La sua bambina era in pericolo.
Quanto
sentimento aleggia intorno a questo capitolo, quanto… ah,
è
l'angst.
Benritrovati!
Come vi siete immaginati anche voi, Kara si è arrabbiata,
anche se
non vuole essere arrabbiata, ma è inevitabile, è
qualcosa che ora
l'ha infettata e le dà perfino fastidio un gesto dolce da
parte di
Lena come rimboccarle le coperte. Lena le ha mentito, come vi sareste
sentite al posto suo?
Però
ne hanno parlato a lungo e alla fine lo ha rinfacciato a Lillian,
che… che se la pugnalava, avrebbe sofferto meno. Il segreto
non è
più un segreto e anche Eliza ora sa la verità.
Intanto il profilo misterioso è tornato! Indigo fa di nuovo
capolino nella vita di Lena e quest'ultima scopre che proprio lei,
diversi anni fa, ha scritto un tema sulla famiglia Luthor. Ah, quanto
mi piace intrecciare le cose!
Non dimentichiamoci di Astra! Ha parlato con Kara e un poco con Lena,
dell'organizzazzione, a cui a quanto pare si considera ancora membro, e
sul possibile assassino di Lionel. Ma anche Astra, dice, non sa con
precisione chi possa essere stato non lo sa il nuovo presidente. Chi
sarà il nuovo presidente?
Tutto
questo mentre Maggie… Maggie ha dei problemi con alcuni
colleghi,
problemi che si stanno rivelando piuttosto seri se, ora, una di loro
ha preso Jamie! Cosa accadrà?
Lo
scoprirete nel capitolo 41 perché sì, il prossimo
è uno stand
alone! È uno stand alone che mi è piaciuto molto
scrivere, è
particolare, e ho dovuto inventare parecchio. Mi
dicono dalla
regia che una parte del passato di questo personaggio è
stata
rivelata nella serie in un episodio che non ho visto. Ho usato e tenuto
un nome da questo episodio per un personaggio, e ho cercato di
costruirne un altro secondo le indicazioni che mi hanno fornito dello
stesso nella serie, ma riguardo ai risultati non so dirvi…
Mah,
giudicherete voi. Spero di non aver fatto troppi danni XD
Allora
ci rileggiamo giovedì 28 con il capitolo 40 che si intitola Caro
Diario!
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Capitolo 41 *** 40. Caro Diario ***
Caro
Diario,
L'ho
rivista questa mattina. Veramente ci siamo salutate, mi ha anche
sorriso ed è stato bello. È bello che sappia
della mia esistenza.
Non mi aspetto molto altro, anche se
Aveva
smesso di scrivere, ascoltando dei rumori fuori dalla sua finestra.
anche
se siamo nella stessa classe di letteratura e informatica da un anno
e mezzo e abbiamo fatto le stesse scuole. Non può ricordarsi
di
tutti, giusto? Probabilmente non ricorda di quando le ho prestato un
libro, né dei soldi della merenda, o di quando a pallavolo
«Uff»,
aveva smesso di nuovo, poggiando la penna da un lato del foglio e,
con faccia imbronciata, portarsi una mano in fronte. «Davvero
non si
ricorda di me?».
Sai
che c'è, caro Diario? Alla fine chi se ne importa. Io ho una
cotta
stupida e lei ha un ragazzo, neanche uscirebbe con una come me.
Neanche io uscirei con una come me.
Aveva
poggiato di nuovo la penna e chiuso il diario, ascoltando di nuovo i
rumori fuori dalla finestra della sua stanzetta. Una macchina si
stava avvicinando. Sì, era quella giusta. Aveva lasciato la
scrivania e corso fuori dalla camera, percorrendo le scale verso il
piano inferiore, con un pronto sorriso stampato sul viso. La porta si
era aperta e un uomo alto e un poco brizzolato era entrato: il tempo
di chiudere dietro di lui, che la ragazzina gli era saltata addosso,
tutta eccitata. «Com'è andata a lavoro? Hai
arrestato dei
criminali? Ti sei appisolato nel tuo ufficio? Ti hanno portato le
ciambelle?».
Lui
aveva riso e se l'era scrollata di dosso con qualche
difficoltà,
rimettendola a terra e sistemandole la salopette.
«Cos'è che si
dice per prima cosa quando papi torna a casa?».
«Bentornato
a casa, papi».
«Brava
la mia bambina», le aveva strapazzato le guance là
dove si
formavano le fossette e lei si era tirata indietro.
«Non
esagerare, ho quasi quindici anni».
«Sei
tu quella che mi è saltata addosso». L'uomo aveva
lasciato il
cappello all'ingresso insieme al giaccone bianco, ed entrando in
cucina con la figlia a seguito aveva risposto prontamente punto per
punto a ogni sua domanda, compresa quella sulle ciambelle.
«E
i criminali erano criminali veri con le pistole?».
«Il
solito ubriaco», si era seduto stanco su una sedia vicino al
tavolo
in cucina, mentre sua moglie si era spostata dai fornelli solo per
dargli un bacio. «Siamo in paese, mija. Non è come
essere a Gotham,
qui la criminalità te la devi quasi cercare»,
aveva ridacchiato e
la figlia lo aveva guardato confusa.
«Allora
torniamo a Gotham! Mi piaceva stare lì».
«Ti
piaceva perché eri poco più che in fasce, ecco
perché», aveva
scherzato sua madre.
La
giovane Maggie aveva messo su una smorfia, seccata, poco prima di
riguardare sua padre e sorridere di nuovo, eccitata. «Beh,
chi se ne
frega di Gotham, qui sei diventato sceriffo! Hanno capito il tuo
valore». Lo aveva abbracciato ed era tornata di sopra,
intanto che
sua madre le gridava che era quasi pronto per cena. Il tempo di
superare il penultimo scalino che le risa di suo padre l'avevano
bloccata, sedendo lì solo per ascoltare.
«Cosa?
Anche qui?», aveva sentito chiedere sua madre, starnazzando.
«Sì,
sì… Ero al comune per sbrigare delle cose,
salutavo degli amici, e
spuntano questi froci all'improvviso, in branco come animali e
vestiti da pagliacci, sai, tutti colorati da froci, per chiedere il
permesso di sfilare».
Maggie
aveva stretto le labbra, continuando ad ascoltare.
«Ma
basta, non se n'è può più! Qui siamo
tutti cristiani, non basta
che queste pagliacciate le fanno in città, non sono mai
contenti»,
aveva replicato sua madre con una punta di acidità nella
voce. «Dio
li punirà».
Suo
padre aveva ridacchiato ancora. «Ma lasciali perdere, che
sono
malati, quelli. Non volevo parlarne davanti a Maggie».
«Certo,
è giusto. Ci manca solo di essere influenzata da quelli
là».
Aveva
sentito abbastanza: si era tirata su con forza ed era tornata in
silenzio in camera sua, prima che continuassero a parlarne.
Già, non
dovevano farlo davanti a lei, che era nell'età dello
sviluppo e sia
mai che avessero potuto contagiarle quella orribile malattia. Ah,
ogni volta che li sentiva parlare di quello, le faceva male qualcosa
dentro. Da quando aveva capito che le piaceva una sua compagna di
scuola, era stata una lotta continua con se stessa. Era normale
provare una cosa del genere per una ragazza, essendo lei stessa una
ragazza? Non aveva dovuto chiedere ai suoi genitori per sapere cosa
ne pensassero, le era chiaro da sempre, e anche la televisione diceva
che era sbagliato, e le riviste. Un'insegnante a scuola però
era
stata di un'opinione differente, cogliendo l'occasione di far tacere
due ragazzi che prendevano in giro un loro compagno per parlare di
omosessualità. Era allora che quel sentimento aveva trovato
un nome.
L'insegnante era riuscita a convincerla che non ci fosse nulla di
male in ciò che provava ma, da quando lei era stata
trasferita, le
cose si erano di nuovo fatte difficili. Poteva davvero considerarsi
una persona normale? Era una domanda che la tormentava da tempo.
Caro
Diario,
Forse
ciò che provo non è che sia sbagliato, ma
è passeggero. Un giorno
mi sveglierò che non ci penserò più e
potrò trovarmi un ragazzo
come le altre della mia scuola. Un ragazzo potrebbe innamorarsi di
me? Lo spero.
Era
stato quello il suo obiettivo al tempo: non voleva far arrabbiare i
suoi genitori, men che meno Dio, così si era messa in testa
di
provare a farsi piacere dai ragazzi. L'idea era quella, per lo meno,
prima di trovarsi davanti al cancello della scuola e ricordarsi,
venendo vista e indicata da tutti mentre le ridevano in faccia, che
lei era quella sfigata. Una ragazza l'aveva salutata e poi aveva
piegato le dita per mostrarle quello medio. Un gruppetto le era
passato davanti ognuno sul proprio skateboard e per poco non la
facevano cadere di proposito. Sentiva di essere osservata e dovunque
posava il suo sguardo, vedeva qualcuno voltato verso di lei che
sghignazzava come in un vecchio cartone animato. Non bastava la sua
cotta per una ragazza a farla sentire diversa, era comunque sempre
stata diversa per ragioni a lei sconosciute. Forse perché
non si
truccava? Perché non aveva mai indossato una gonna e le
piacevano
gli scarponi? Ah, a loro non sarebbe andata bene in ogni caso. Forse
quelle cose non le sarebbero mai piaciute; che male c'era a essere
diversa? E poi c'era lei, Elisa. La ragazza per cui aveva una cotta.
Elisa non era come le altre: non solo non la prendeva in giro, era
una tipetta che se ne stava piuttosto per le sue, con pochi amici ma
giusti. Un po' come lei, e un po' come loro. Perché Elisa
era
rispettata, se non altro. E si truccava, da non sottovalutare.
Maggie
era convinta che Elisa non l'avrebbe mai degnata di vere attenzioni
ed era anche solo felice quando i loro sguardi si incrociavano per
errore e si metteva in imbarazzo, così niente avrebbe potuto
prepararla a ciò che sarebbe successo a pochi giorni da
quella
pagina di diario. Confusa per la sua cotta verso una ragazza, da
giorni aveva approfittato della lezione di informatica per cercare
informazioni su quella che definiva un'omosessualità
passeggera e
suggerimenti per velocizzare il processo. In verità, dopo
due siti
porno che si erano accidentalmente aperti, ne aveva trovato uno dove
una ragazza, una ragazza proprio come lei, parlava di una cotta per
una sua compagna di classe ai tempi del liceo. Si era incantata a
leggere e così aveva scrollato la pagina per altre
testimonianze, e
altre, trovando quel conforto in cui non sperava: le persone
omosessuali erano felici. Una di quelle, però, era molto
diversa: un
ragazzo era stato forzato dalla famiglia a seguire un percorso
religioso per guarire da quella che, come suo padre, definiva una
malattia. Si era persa nel leggere delle atrocità che gli
avevano
inflitto per convincerlo di poter guarire; quante situazioni al
limite della tortura aveva dovuto subire, quanti danni psicologici,
quante sofferenze fino a rendersi conto di non aver nulla da cui
guarire e ricominciare la sua vita daccapo. Maggie aveva sentito i
brividi dalle cosce alla schiena, preoccupata che i suoi genitori
sarebbero potuti arrivare a tanto, se lo avessero scoperto. Certo,
loro le volevano bene, ma anche i genitori di quel ragazzo glielo
ripetevano spesso.
«Ehi,
hai un fazzoletto da prestarm-».
Si
era bloccata. Lei, Elisa, era alle sue spalle, sporta dal suo banco,
e si era bloccata guardando il suo monitor. Maggie era diventata
color pomodoro e, cercando di chiudere la pagina in fretta, aveva
finito per cliccare su cose che non aveva fatto in tempo a vedere,
aprendole pagine dopo pagine di siti porno. Se era rimasta perplessa
nel vedere le icone di piccoli uomini che si baciavano e innocenti
bandierine arcobaleno, chissà cosa doveva aver pensato di
peni in
movimento in primo piano. La sua agitazione nel chiudere tutte le
pagine aperte in simultanea aveva attirato la curiosità del
professore, ma era stata inaspettatamente Elisa a prendere tempo
rivolgendogli una domanda, quello necessario per chiudere tutto e
ritrovare i compiti che stavano svolgendo.
«Elisa»,
l'aveva chiamata a fine lezione, raggiungendola fuori dalla porta.
Aveva la tachicardia al pensiero di parlare con lei. «Mi hai
salvato
la vita, non so se te ne rendi conto».
Lei
aveva riso e l'aveva invitata a seguirla in un corridoio, per non
bloccare il via vai di studenti. «A casa tua non avete un
computer?».
«No»,
aveva risposto subito, sforzandosi per guardarla negli occhi.
«Mio
padre è della vecchia scuola e mia madre pensa che siano
pericolosi».
Lei
aveva riso di nuovo, con più gusto. Era facile capire per
Maggie che
quella cotta non se ne sarebbe davvero andata così
facilmente come
credeva. «In effetti, con tutte le pubblicità che
si aprono, è
pericoloso davvero».
Maggie
aveva tremato; aveva cercato di calmarsi, ma le era venuto da sudare.
«Sì, mh, me ne sono accorta».
Elisa
l'aveva salutata ed era uscita. Non aveva fatto in tempo a chiederle
se aveva visto cosa stava guardando, ma era stato perfetto
così. Le
aveva parlato, anche se alla fine non le aveva prestato quel
fazzoletto. Una volta a casa, aveva subito scritto la novità
sul suo
diario; pensava che sarebbe rimasto un ricordo felice e sporadico
chiuso nel cassetto, invece Eliza le aveva rivolto la parola
più
volte in quel periodo, si era seduta vicina a lei a lezione di
letteratura e ogni tanto la chiamava per farsi aiutare in
informatica. Neanche Maggie era bravissima, senza contare che, senza
farsi notare, continuava a cercare testimonianze sul suo argomento
preferito, ma in due riuscivano a cavarsela. Erano diventate amiche
senza che se ne rendessero conto, scambiandosi libri e andando a
chiudersi in aula audiovisiva per guardarsi dei film quando non
avevano lezione o, meglio ancora, quando avevano voglia di saltarne
una. A un certo punto, Maggie si era convinta che la sua cotta per
Elisa fosse stata inglobata nell'affetto che provava per lei come
amica, fino a quando proprio in quell'aula, intanto che entrambe
svuotavano i propri zaini per far vedere all'altra che film si erano
portate da casa, si era persa a fissarla: gli occhi concentrati, il
pesante tocco di eyeliner nero sulle ciglia, le guance rosa dal fard,
le labbra lucide, che schiudeva mentre sussurrava i titoli. Aveva
avuto un così forte desiderio di baciarla. Era tutto tornato
a
galla, o forse era sempre rimasto lì e non ci aveva dato
peso. Un
così forte desiderio che, a un tratto, semplicemente lo
aveva fatto:
Elisa aveva rialzato la testa per chiederle qualcosa, non aveva mai
saputo cosa, e si era avvicinata tanto in fretta da appoggiarle la
mano su una spalla e toccarle le labbra con le proprie. Era stato
rapido quel suo primo bacio. Il cuore aveva battuto così
forte e
aveva provato così tanta paura che, come in fretta si era
avvicinata, in fretta si era spostata, presa dal panico. Si erano
guardate a lungo, non sapeva quanto. Elisa era esitante. Forse. Ma
non così tanto da negarle un altro bacio: era stata lei a
prenderla
per una spalla e ad appoggiare le sue labbra calde. Non si era
fermata e l'aveva guidata verso un bacio più serio,
muovendosi,
staccandosi poco e piano, riprendendosi con delicatezza.
«Tu…
hai un ragazzo», le aveva ansimato quando si erano prese una
pausa
per respirare.
Elisa
aveva scrollato le spalle. «Ci siamo lasciati».
Doveva aver notato
la perplessità nello sguardo di Maggie. «Appena
adesso».
Oh,
avevano deciso che poteva andare bene e si erano baciate di nuovo.
Non si erano più viste un film e l'aula audiovisiva era
diventata
presto il loro nascondiglio per stare insieme.
Si
erano messe insieme davvero. Ed erano due ragazze. Maggie aveva
scoperto con quei baci che, più efficaci di mille
testimonianze, non
c'era nulla di male in ciò che provava.
Maggie
frequentava una scuola cattolica. I suoi genitori erano
dichiaratamente omofobi. E aveva una ragazza. Forse era il senso di
proibito che la faceva uscire di casa, la mattina, con un grande
sorriso sulle labbra. Era in quel periodo che aveva capito che i
ragazzi non le interessavano ed era convinta che Elisa fosse la sua
anima gemella con cui sarebbe rimasta per tutta la vita. Si
salutavano, si sfioravano le dita delle mani di nascosto, si
regalavano sorrisi e, una volta entrambe in quell'aula, da sole, si
baciavano e abbracciavano, restavano unite. Al suo diario, in estrema
confidenza, raccontava di Elisa ogni sera quando tornava a casa. Era
un periodo felice e non le interessava avere il mondo contro, se
stava con lei. Tuttavia, più passavano i mesi e
più quel senso di
proibito iniziava a farle paura: nella sua scuola, un ragazzo un anno
più grande aveva fatto coming out come bisessuale davanti
alla sua
intera classe e non solo molti ragazzi avevano cominciato a prenderlo
di mira e a bullizzarlo, ma i professori non avevano mosso un dito
per difenderlo. Da quando quella insegnante aveva parlato di
omosessualità per prima e poi si era trasferita, nessuno
aveva
voluto affrontare di nuovo l'argomento che era tornato a essere
tabù
e, la cosa ben peggiore, era che sembrava che a nessuno in
realtà
interessasse davvero affrontarlo. Erano in cortile quando il ragazzo,
a ora di uscita, era stato accerchiato da altri ragazzi per poterlo
offendere con epiteti omofobi. Maggie ed Elisa erano vicine. Appena
la prima aveva visto quella scena per l'ennesima volta, si era detta
che poteva bastare, che ne aveva abbastanza. Perfino il suo omofobo
padre sarebbe intervenuto vedendoli in quattro contro uno per
insultarlo e lei, che lo prendeva come esempio, aveva ignorato Elisa
che le aveva detto di non farlo e si era messa in mezzo. Sapeva cosa
sarebbe potuto succedere a farsi avanti in quel modo se neppure lei,
che sapevano era la figlia dello sceriffo, aveva fermato i ragazzi e
le ragazze della scuola dal prenderla in giro, ma in quel momento non
le era importato.
«Prendi
le sue parti? Ma lo sai che quelli come lui si impestano di
malattie?», le aveva gridato uno dei quattro, «Sta
con un ragazzo e
poi voglio vedere se ci staresti, dopo che lo ha messo in culo a
lui». Erano volate varie risatine a quell'uscita ma Maggie
non aveva
risposto. «Cosa c'è, giochi anche tu per l'altra
squadra, per
caso?».
Era
da quel giorno che la voce che lei era lesbica si era diffusa per
tutta la scuola. Senza contare che il ragazzo che aveva cercato di
difendere le aveva gridato che non gli serviva il suo aiuto e dopo un
po' di tempo aveva iniziato a prenderla in giro anche lui. Ed
Elisa…
beh, aveva perso Elisa.
Caro
Diario,
Sono
ancora triste. È già passata una settimana da
quando Elisa non mi
rivolge più la parola. Mi ha detto che non vuole che stiamo
insieme
perché ha paura che gli altri studenti pensino che stavamo
insieme.
Non voleva che scoprissero la verità. Ci trovo dell'ironico.
Ha
paura di scoprirsi come me? Cosa c'è di sbagliato a essere
come me?
«Ehi,
mija, cos'hai?». C'era freddo quella sera e stava piovendo.
Suo
padre era tornato a casa da pochi minuti e vedendo che sua figlia non
faceva altro se non guardare davanti alla finestra l'acqua che
scendeva, si era avvicinato e l'aveva abbracciata, portandola contro
il suo petto sedendosi accanto, sulla poltrona.
«Ahi»,
aveva sbattuto la testa contro qualcosa e suo padre aveva riso,
sfilando il distintivo.
«La
legge fa male, eh?», aveva continuato a ridere con
divertimento, per
poi infilarlo sulla maglia del pigiama di lei. Si erano sorrisi e
l'uomo le aveva toccato il naso, soddisfatto. «Ecco,
così ti voglio
vedere. Chi ti ha fatto soffrire? Un ragazzo? Devo andarlo a trovare,
da bravo sceriffo?». L'aveva vista scuotere la testa e poi
abbassarla, così, pensando di aver toccato un tasto dolente,
aveva
pensato di cambiare di nuovo discorso, indicando il distintivo.
«Un
giorno questo potrebbe essere tuo. Che ne dici?».
«Che
è troppo, per me».
«Troppo?
Che vuol dire?».
Maggie
aveva riguardato verso la finestra, soffermandosi sulle goccioline di
acqua che battevano e scendevano lungo il vetro. «Che non
sarò mai
abbastanza brava, abbastanza capace, abbastanza tutto».
«Ehi,
no», lui aveva aggrottato la fronte, forzando il suo viso a
girarsi
verso di lui. «Mija, chi ti dice queste cose? Fin da bambina
volevi
diventare poliziotto come me, perché adesso hai cambiato
idea?».
Lei
aveva sbuffato, ritrovando la forza per guardare di nuovo la
finestra. «Ho paura che sarò una
nullità, che se ci provo… Che
se ci provo, poi, finirò per deluderti».
«No,
no».
«Io
non so cavarmela come te, forse non ne ho la stoffa». Aveva
difeso
un ragazzo ma non era stata capace di controbattere a chi lo prendeva
in giro e, in quel modo, quel ragazzo invece di ringraziarla si era
arrabbiato e, cosa più importante, non aveva più
Elisa. Tutto
perché aveva voluto seguire il suo istinto, quello che
pensava che
un giorno l'avrebbe portata a fare la poliziotta. Suo padre aveva
cercato di tirarle su il morale, ma quella negatività era
troppo
radicata per starlo a sentire, o per stare a sentire sua madre quando
li aveva raggiunti.
«Non
dire assurdità», le aveva detto lei, «Tu
puoi fare tutto quello
che vuoi e quelli che oggi non credono in te, domani ne saranno
invidiosi».
«Ha
ragione tua madre, mija. Tu sei sangue del mio sangue e hai la mia
stessa stoffa per questo lavoro», le aveva detto con
convinzione,
prendendole le spalle. «E da domani, ti racconterò
meglio tutti i
miei casi; ti terrò allenata per quando farai
l'accademia».
Di
certo quello aveva aiutato nel farle tornare il buon umore,
finalmente: ogni giorno le descriveva un caso diverso della sua
carriera e insieme cercavano di risolverlo. Cominciava a sentirsi
tanto pronta per quel lavoro che la sicurezza che le offriva aveva
iniziato ad accompagnarla a scuola, imparando ad ignorare le offese
che riceveva puntualmente. Per di più, quelle voci sulla sua
presunta omosessualità l'avevano aiutata a conoscere
un'altra
ragazza: si chiamava Mary, frequentava l'ultimo anno e mancava poco
che compisse diciotto anni. Mary era più sicura riguardo il
suo
orientamento e non le importava che qualcuno la credesse la ragazza
di Maggie Sawyer: camminavano vicine per il corridoio, si scambiavano
quasi carezze davanti agli armadietti quando non passavano gli
insegnanti ma fregandosene di chiunque altro le guardasse. Chiunque,
perfino Elisa. Maggie l'aveva vista abbassare lo sguardo e andare
oltre, ma aveva sentito la sua gelosia nell'aria; non che volesse
importarle molto, all'epoca. Non voleva. Ma accidenti se le
importava: per quanto era stata bene con Mary, nella sua testa c'era
ancora Elisa.
«Posso
chiederti scusa?». Elisa l'aveva rincorsa per il corridoio,
con in
braccio i libri che le servivano.
Era
l'inizio del nuovo anno scolastico, Mary non c'era più e si
erano
separate, ma Maggie faceva finta che di Elisa non le importava. Non
per niente, aveva passato un'intera estate a lavorare con suo padre e
mandare all'acqua i tentativi della ragazza di vedersi con lei.
Dopotutto, Elisa l'aveva ferita, quante probabilità c'erano
che lo
avrebbe fatto ancora?
«Ti
prego, possiamo parlare? Da sole?». Un'occhiata di Maggie,
ferma
davanti al suo armadietto, l'aveva fatta sospirare. «Va bene
anche
qui», aveva annuito poi, adocchiando con la coda dell'occhio
gli
studenti che camminavano avanti e indietro nel corridoio.
«Volevo,
emh… chiederti scusa per come mi sono comportata. Non ho
fatto
altro che pensare a te, che pensare a te sempre».
«Quindi?».
Aveva preso i libri e chiuso l'armadietto. «Quindi cosa
vuoi?».
Elisa
aveva riabbassato gli occhi e si era guardata di nuovo intorno.
«Volevo… Quando stavi con quella
cinese».
«Mary
è coreana».
Elisa
aveva annuito. «Quando stavi con lei, io… Lo sai
che», aveva
sussurrato, guardandosi intorno un'altra volta, «penso di
essere
innamorata di te». Si era fermata. Forse pensava di ottenere
da
parte sua una qualche reazione, ma vedendola impassibile, aveva
continuato: «Voglio che torniamo insieme, Maggie. Dai, ci
siamo solo
noi due, lo sai», le aveva preso di sfuggita una mano,
accarezzandola un attimo e lasciandogliela in fretta. «Non ci
credo
che mi hai dimenticato per… la coreana», si era
ricordata
all'ultimo, prima di sbagliare. L'aveva guardata così come
avrebbe
fatto un cane bastonato e Maggie le aveva detto che era ora di andare
a lezione, sentendo la campanella suonare. L'aveva lasciata
lì,
ferma davanti agli armadietti, intanto che si allontanava in fretta.
Caro
Diario,
Elisa
mi ama!! Mi ama!! Hai capito? Fatico a crederci, veramente, lei ha
detto che mi ama. Che sforzo restare ferma mentre dentro di me urlavo
MI AMA. Sono felicissima, caro Diario! Ho deciso di darle un'altra
possibilità, ovviamente, come posso dirle di no? Mi ama! E
io amo
lei. Finalmente siamo di nuovo noi due, solo noi due. Questa volta
niente dovrà andare storto.
Ci
credeva davvero. Niente doveva andare storto: anche se Elisa aveva
ancora timore a stare con lei, diceva sul serio quando parlava di
stare insieme. Avevano ritrovato facilmente le vecchie abitudini e,
una mattina, si erano spinte un po' più a fondo. Tra le due,
la
prima volta che sono state insieme, era Elisa ed essere più
esperta
in relazioni, ma ora la situazione si era capovolta: non solo stando
con Mary, che era più grande, Maggie aveva imparato ad avere
più
sicurezza, ma aveva anche scoperto il proprio corpo e seppure con lei
non fosse arrivata a fare sesso, ci era comunque andata molto vicina.
Si erano spogliate e, rimaste col solo intimo addosso, avevano
iniziato a baciarsi e scoprire lentamente l'una il corpo dell'altra.
In quei mesi di esplorazione avevano ritrovato un'intimità
particolare. Erano davvero di nuovo solo loro due. Cosa poteva andare
storto? La direttrice della scuola.
Una
ragazza aveva denunciato alla direzione che l'aula audiovisiva era
spesso chiusa a chiave e, quando il professore di attività
sportiva
che custodiva il duplicato di ogni chiave era andato ad aprire, aveva
ritrovato Maggie ed Elisa sedute sul divanetto e abbracciate, con il
reggiseno in mostra e le gonne calate. La notizia si era sparsa in
fretta in tutta la scuola e la direttrice aveva richiamato entrambe e
i loro genitori.
«Non
accetto simili comportamenti nella mia scuola», aveva detto
la
donna, rossa in viso come il suo maglioncino; aveva tremato e neanche
riusciva a sedersi. «Solo parlando con i vostri genitori,
capirò se
sia il caso di espellervi». Le aveva avvertite tutte e due ma
poi
aveva concentrato il suo sguardo su Maggie, davvero arrabbiata.
«Tuo
padre è lo sceriffo della contea, ma non ti vergogni? Che
genere di
pubblicità gli fai, facendo certe porcherie».
«Mio
padre è fiero di me».
«Oh,
dubito lo sarà adesso, cara. Questo è oltraggioso
e schifoso».
«Non
lo è», l'aveva sfidata ed Elisa le aveva riservato
una lunga
occhiata. «Noi ci amiamo».
«No,
bella mia, quello che fate è contro natura. Un uomo e una
donna si
amano, voi state solo offendendo Dio».
«Dio
ci ha fatte così».
«Non
bestemmiare», aveva urlato ancora. Per fortuna, o sfortuna
che
fosse, erano arrivate le loro famiglie e la donna le aveva fatte
uscire dall'aula per parlare con loro a quattrocchi. Poi aveva fatto
uscire i suoi genitori ed entrare Elisa. Suo padre e sua madre, in
quel momento, avevano spiccicato poche parole, per lo più in
spagnolo, ma il tanto era bastato per farla sentire male e a disagio.
Poi Elisa e i sui genitori erano usciti; incrociandosi con i suoi
avevano litigato e gridato, e così avevano fatto a cambio,
entrando
loro tre in direzione. La direttrice era stata molto pesante nel far
capire quanto disgusto avesse provato nel sapere che due ragazze si
erano strusciate nella sua aula audiovisiva.
Caro
Diario,
Oggi
è successo un guaio. Ci hanno beccate, a me ed Elisa. Ho
provato a
difendere quello che proviamo, ma non è servito. Elisa non
lo ha
fatto, comunque. Ero da sola contro tutti e lei se ne stava in
silenzio. Sono arrabbiata con lei, ma spero ancora che possiamo stare
insieme. Anche qui a casa adesso non si respira una buona aria.
È
come se mio padre e mia madre stessero cercando di scoprire cosa
dirmi e cosa vogliono che faccia. Adesso non lo sanno ma sono sicura
che mi diranno presto qualcosa. Già conosco i loro discorsi
e non ho
voglia di litigare. Mi chiedo se mio padre vorrà ancora
espormi i
suoi casi, adesso che sa che sono stata con una ragazza. Non ho
ancora diciassette anni, cosa potrebbero farmi? Sono un po'
spaventata, è vero! Ho letto troppe cose brutte, per non
esserlo.
Anche Mary mi aveva raccontato qualcosa su alcuni amici fuori dal
paese. Il mondo vuole che siamo tutti eterosessuali, caro Diario. E
io, da sola, cosa posso fare?
«I
tuoi ti hanno sgridata?». Aveva riprovato a parlare con
Elisa, tre
giorni dopo, quando i suoi genitori avevano deciso che poteva tornare
a scuola. Non le avevano sospese, lo sceriffo aveva convinto la
direttrice e, anche se non erano neppure state punite, non per questo
non avevano sofferto di dure conseguenze: a scuola non si parlava
d'altro e tutti, dal primo all'ultimo studente arrivato, non facevano
che fissarle, ridacchiare, fare loro gestacci e scrivere sui loro
armadietti parolacce, oltre a lasciare i loro bigliettini con disegni
sconci e battute omofobe.
Elisa
le aveva riservato un'occhiata e poi l'aveva superata, senza
risponderle.
«Perché
fai così? Non è certo colpa mia se ci hanno
beccate, almeno ho
tentato di difenderci».
«Difenderci?»,
aveva starnazzato, bloccandosi a metà corridoio, attirando
l'attenzione di tutti gli alunni che passavano. «Hai
peggiorato la
situazione», le aveva gridato, a pugni stretti. Non aveva
aspettato
che le rispondesse: «Non ti rendi conto? I miei adesso
pensano che
sono lesbica e vogliono farmi andare a vivere da mia nonna, in
montagna! In montagna, Maggie! Non conosco nessuno,
lì».
«E
non lo sei?».
«Che
cosa?».
«Lesbica».
«Oddio,
no», aveva roteato gli occhi, «Quella parola mi fa
schifo. Io ero
solo curiosa, va bene? Ho visto che cercavi siti di omosessuali a
informatica e volevo capire se ci stavi, è tutto».
Maggie
aveva preso un respiro profondo e l'aveva fissata senza espressione,
intanto che gli studenti intorno ridevano. «I tuoi ti hanno
detto di
dirlo? Te lo hanno messo in testa loro?».
«Non
dare la colpa ai miei», aveva stretto i denti. «Ti
ho presa in
giro, va bene? Volevo vedere come ci si sentiva e adesso ne
pagherò
le conseguenze. Lasciami in pace».
Se
n'era andata e Maggie aveva sentito il cuore spezzarsi, mentre nel
petto le si infondeva una sensazione di perdita. Aveva provato le
vertigini, tutto insieme. Allora ci aveva creduto, certo che ci aveva
creduto. Sul suo Diario aveva scritto pagine e pagine di odio verso
Elisa, aveva pianto notti intere e capito di essere sola, senza di
lei e senza il supporto dei suoi genitori. L'amava e lei le aveva
fatto del male di proposito. Aveva passato il resto dell'anno
scolastico a pensarci e l'ultimo anno del liceo a provare a uscire
con dei ragazzi che ricambiavano interesse per lei; ogni tanto
qualcuno le aveva chiesto se le piacevano ancora le ragazze e lei
negava. Era stata sua madre a suggerirglielo, una sera sedute intorno
alla tavola, sorseggiando una tazza di tè fumante.
«Io
l'ho capito che lo facevi solo per attirare l'attenzione,
sai?», le
aveva sorriso con gentilezza. «Stavi passando un momento in
cui eri
insicura e volevi provare cose nuove, magari è stata quella
Elisa a
mettertelo in testa… Anche tuo padre in fondo lo ha capito,
ma lo
sai com'è lui, così orgoglioso che non lo
ammetterà mai. Se vuoi
riavvicinarti a quella testa di legno, prova a fargli capire che sei
cambiata, che stai crescendo e dimenticando quella fase…
beh,
quella fase che chiameremo esplorativa.
Adesso sai che non si deve fare e l'importante è
questo».
Maggie
si sentiva sola e sconfitta, non poteva far altro che provare a
fingere di avere un'attrazione che non aveva. Accettava le uscite dei
ragazzi, si mostrava incuriosita nei loro confronti, e suo padre era
felice di vedere che sua figlia stava riprendendo la giusta strada,
ricominciando a parlare con lei e a coinvolgerla nelle sue
attività.
Maggie si stava riappropriando di una parte felice e importante della
sua vita, anche se capiva quanto in quel modo ne stava perdendo
un'altra. Un ragazzo diverso la volta, solo baci, un solo
appuntamento per uno. Uno specchio per le allodole mentre raccontava
al suo Diario di questi ragazzi e dei loro interessi, cercando gli
aspetti positivi e ridendo dei più strampalati. Uno di loro
aveva
provato ad allungare le mani una volta, ma era bastato ricordargli
che era la figlia dello sceriffo per farlo tornare al suo posto. Suo
padre stava rientrando a pieno titolo nella sua vita, tanto era vero
che lei lo andava a trovare in ufficio, qualche volta. Quella sera,
ad esempio: era appena tornata da un orribile appuntamento e,
più di
non farsi riaccompagnare a casa da quel tizio, era corsa in stazione
di polizia. Purtroppo là fuori c'era un tempo terribile, tra
pioggia, vento e nebbia. Suo padre era fuori con la maggior parte
degli agenti per una rissa in un bar che era sfociata in un tentato
omicidio, così uno dei pochi colleghi rimasto le aveva detto
che
poteva aspettarlo nel suo ufficio, immaginando che non sarebbe
tornato prima di ore. Si era rilassata nel piccolo divanetto, seduta
sulla sedia della scrivania immaginando fosse il suo posto, guardato
la foto di famiglia incorniciata e curiosato nei cassetti, trovando
spille, post-it e una scatolina di pallottole. Il lavoro del
poliziotto era qualcosa di serio, si chiedeva se avevo caricato la
pistola prima di uscire dall'ufficio quando, a un certo punto, una
voce conosciuta aveva attirato la sua attenzione. Era uscita dalla
porta e fermandosi in corridoio, aveva intravisto in portineria
proprio Mary, che non vedeva da tanto. L'aveva salutata e l'aveva
fatta accomodare nell'ufficio quasi fosse suo.
«Dovevo
ritirare dei documenti per mio padre, non volevo che uscisse con
questo tempo, ma oggi sembra una stazione fantasma».
Lei
aveva riso, guardandola dalla sedia della scrivania mentre si sedeva
adagio sul divanetto. «Sono tutti fuori per un tentato
omicidio».
«Scherzi?
Qui?».
Aveva
annuito, accavallando le gambe, attirando l'attenzione di Mary.
Dopotutto, indossava una gonna. «Da quando te ne sei andata,
questo
postaccio sta diventando come Gotham City in quanto a
criminalità»,
avevano riso insieme.
«Sto
vivendo a Gotham, mi aiutano alcuni amici, e devo dire che in effetti
qui l'aria che si respira è molto peggio», avevano
riso di nuovo,
guardandosi.
«E
perché sei tornata?».
«Settimana
di vacanza. Ho scelto il momento giusto, pare», aveva
guardato dalla
finestrella alta la pioggia che, aiutata dal forte vento, sbatteva
sul vetro, tanto che a volte non si sentiva nient'altro. Maggie aveva
accavallato le gambe nell'altro senso e Mary aveva abbassato lo
sguardo. «E tu? Non avrei mai immaginato che avrei potuto
vederti
indossare una gonna».
«La
odio».
«E
allora?».
«Ero
a un appuntamento. Con un ragazzo», aveva inclinato la testa
da un
lato, serrando le labbra.
«Oh»,
l'altra aveva aggrottato la fronte, curiosa. L'aveva fissata intanto
che distendeva le gambe. «È andato
male?».
«Tanto
male». Maggie si era alzata dalla sedia e si era avvicinata a
Mary
sul divanetto, tanto vicino, per poi baciarla. Era stata la sua prima
volta, lì, nell'ufficio di sceriffo di suo padre. Mary si
era
trattenuta quella settimana soltanto e durante tutto il periodo erano
state insieme più volte, in macchina, a casa di Mary in
camera sua,
nello scantinato a casa di Mary accanto alla lavatrice, in camera sua
quando i genitori non erano in casa, e di nuovo accanto alla
lavatrice. Con lei aveva potuto parlare di Elisa, di quanto era
successo a scuola, dei suoi genitori omofobi e di come non vedeva
uscita, di come non riusciva più a sopportare i ragazzi con
cui era
costretta ad avere appuntamenti per provare ad avere un'assurda
parvenza di normalità.
«Quando
finisci la scuola, vieni a Gotham», le aveva detto.
«Potrai essere
te stessa e mandare a fanculo questa merda».
Allora,
era stata l'unica buona idea che avrebbe potuto tenerla in piedi fino
alla fine del liceo.
Caro
Diario,
Mi
sono informata spesso ultimamente, anche se già sapevo che
era
buona: l'accademia di polizia a Gotham ha recensioni molto positive.
Mio padre è stato formato lì e lui è
un ottimo poliziotto. Tra
qualche giorno potrò fare domanda: lui ha detto che mi
prenderanno
per certo, è sicuro. Ho paura che manderà le sue
referenze ma se
vuole farlo non posso proibirglielo, anche se mi vergogno: l'unico
modo sicuro che ho di lasciarmi indietro questo posto, è
entrare in
quell'accademia. Poi starò a Gotham e sarò
più libera di essere me
stessa. Non ho scelta, caro Diario, non biasimarmi.
Ce
l'aveva fatta. Suo padre forse aveva fatto qualche telefonata, forse
no, ma non aveva importanza: l'accademia di Gotham aveva accettato la
sua domanda. Si era trasferita in città quasi subito dopo il
liceo,
per iniziare ad ambientarsi alla vita di quel posto molto
più
caotica di quella di paese. I suoi genitori avevano insistito per
pagarle la caparra di un loft ed erano rimasti con lei per due
settimane in modo da aiutarla, poi aveva potuto cominciare ad
organizzare la sua vita da giovane aspirante poliziotta. Aveva
iniziato a frequentare la palestra, correva tutte le mattine e,
naturalmente, si era rivista con Mary. Oh, si era rivista spesso con
Mary, tanto che restava con lei per la notte. Tante notti. Avevano
iniziato ad avere una relazione più o meno stabile; Mary
voleva fare
la fotografa e aveva iniziato un corso nello stesso periodo in cui
Maggie aveva iniziato a frequentare l'accademia. In quel periodo era
difficile riuscire a vedersi tutti i giorni, spesso Maggie doveva
restare via per settimane ma, quando si rivedevano, ciò che
stava
nascendo tra loro era diventato più forte di prima. E poi
c'era
James.
Caro
Diario,
La
mia vita qui a Gotham è davvero così diversa da
quella che facevo
prima che stento a crederci. Ma volevo parlarti anche oggi di James
Sawyer. Passano le battute sul cognome che abbiamo in comune, ora
sembra davvero interessato a conoscermi e ho paura che Mary lo
scopra. Non che Mary sia gelosa, ma non voglio rischiare di rovinare
quello che stiamo facendo anche solo un po'. Se mio padre non venisse
ogni tanto in accademia per parlare della mia formazione, magari
potrei semplicemente rifiutarlo, ma così attiro troppo
l'attenzione.
Potrei rifiutarlo e dire che non mi interessa, ma l'ho visto parlare
con lui. È così rischioso che possa entrare in
contatto con la mia
vita libera con Mary. Caro Diario, pensavo davvero che sarebbe stata
più libera di così. La mia vita. Potrò
nascondermi per sempre? A
che prezzo?
No,
non poteva nascondersi per sempre e in fondo lo sapeva. Come aveva
sempre saputo che neanche ciò che di bellissimo stava
vivendo con
Mary sarebbe durato per sempre. E così, proprio com'era
successo
quando al liceo stava con Elisa, le avevano scoperte. Era bastato un
bacio per strada, un bacio solo, fugace, di saluto, perché
sua
madre, che l'aveva vista, avesse gridato contro suo padre che la loro
figlia era perduta.
Era
scoppiato il putiferio in poco tempo. I suoi genitori erano andati a
trovarla e l'avevano costretta a sorbirsi un lungo discorso
sull'importanza del rapporto dell'uomo con la donna che generava la
vita, in paragone a quello della donna con la donna promosso dal
diavolo che non generava vita, che la cessava, che non era approvata
da Dio, e che le avrebbe aperto la porta per l'inferno. E lei che
stava pensando che lo stava già vivendo… Quando
Mary era
rientrata, perché aveva le chiavi, li aveva trovati tutti
riuniti
insieme a un prete, che parlava al centro. Ma Mary indossava delle
borchie, una croce celtica al collo e aveva diversi piercing sul
viso, così sua madre aveva gridato, suo padre era rimasto
bloccato
sulla sedia e il prete era caduto ai loro piedi, quasi svenuto. La
ragazza se n'era andata sbattendo la porta quando il prelato aveva
iniziato a dire l'ennesima preghiera per salvare la sua anima a
distanza di pochi minuti dall'ultima.
«No,
perché dovrei fermarmi?», le aveva gridato quando
Maggie le era
corsa dietro. «È chiaro che non sono la benvenuta
qui! Credevo ti
fossi lasciata questa… questa cosa
alle tue spalle, venendo a Gotham».
«Non
è così semplice».
«Lo
è, Maggie! Sono
gay.
Dillo! Ti basta dirlo e te li potrai lasciare alle spalle, se davvero
lo vuoi».
Maggie
l'aveva fissata per lunghi attimi, ma non era riuscita a fare quel
passo. Era ancora troppo distante da lei e aveva aperto la bocca
appena, non sufficiente per far restare Mary. Era l'ultima volta che
la vedeva.
«Adesso
basta», le aveva detto sua madre, irosa. «Adesso
basta, va bene?
Davvero basta, è troppo! Tutto questo è
inaccettabile; tu non sei
così, non ti abbiamo cresciuto per essere così.
Devi smetterla, e
se non vorrai farlo, saremo costretti a chiedere aiuto», le
aveva
parlato la mattina successiva, una domenica. «Credevamo
che… Va
bene, va bene, non voglio arrabbiarmi ancora, ma questa è
l'ultima
chance che hai, Margarita», l'aveva fissata negli occhi.
«Tuo padre
vuole toglierti i soldi per il loft, vuole toglierti il pagamento per
l'accademia, finirai in mezzo a una strada. Ma io sono riuscita a
farlo ragionare».
Maggie
aveva sentito il terreno mancarle sotto ai piedi. Suo padre voleva
farle quello? E lo voleva solo perché stava con una ragazza,
invece
di un ragazzo? Era davvero così importante, per loro?
Più
importante della loro figlia? Si era dovuta mantenere contro un
mobile, per non cadere.
«Stai
con un ragazzo. Stacci seriamente insieme, però! Non parlo
di un
appuntamento e basta, Maggie, devi sentire com'è stare con
un
ragazzo, così non vorrai più stare…
con una lei». Oh, non
riusciva nemmeno a dirlo. «Fatti portare fuori a cena, dare
dei
fiori, tutte le cose che fanno i ragazzi, insomma, come…
come
riscaldarti con la sua giacca, per esempio», le aveva detto
piano,
con convinzione, come se fossero realmente solo cose che poteva fare
un ragazzo. «Se non lo fai», le aveva guardata con
monito,
«Proveremo a portarti da uno specialista».
«Un
cosa?»,
aveva strabuzzato gli occhi.
«Un
signore che lavora con la chiesa, lo conosce Don Matthew».
«Lo
stesso Don Matthew che voleva esorcizzare la mia ragazza?».
La
donna aveva portato gli occhi al cielo e una mano sul cuore.
«Non
era… la tua ragazza, Maggie, questa è…
confusione mentale,
quello che cercavo di dirti. Il diavolo ti sta tentando, lo dice
anche Don Matthew. Pensi che dovremo portarti subito da lui? Ha
aiutato molti ragazzi a guarire, sa quello che fa».
Maggie
l'aveva guardata a lungo, senza sapere cosa dire. Non aveva avuto
davvero parole, era solamente… sconcertata. Sua madre era
seria ed
era sicura di quello che le stava dicendo e Maggie sapeva di non
avere scelte.
Caro
Diario,
E
così successo ciò che temevo. Non ho molte
opzioni: o dico a tutti
che sono gay e vado a vivere per strada, rinunciando al mio sogno e
correndo il rischio di non rivedere mai più i miei genitori,
oppure
frequento un ragazzo. Una relazione vera, caro Diario. Mi mancano gli
specchi per le allodole, ora. Se mi rifiuto di frequentare un
ragazzo, i miei genitori mi porteranno contro la mia volontà
anche
se sono maggiorenne da uno strizzacervelli cattolico che non
farà
che torturarmi fino a quando non mi convincerò che non mi
piacciono
le donne. Bella cosa, vero? Non sono autosufficiente, hanno il
coltello dalla parte del manico. Se potessi pensare, caro Diario, so
dove la mente ti porterebbe: James Sawyer. È l'unico con cui
abbia
un po' di rapporto e sembra un bravo ragazzo. Inoltre anche lui
è
cattolico e i miei genitori non devono scoprire che non sono
più
vergine, quindi… accidenti, caro Diario, riuscirò
a trovare una
soluzione prima che vogliano farmelo sposare? Ho come la sensazione
che, di questo passo, sarò incastrata a vita.
I
suoi sospetti erano fondati. Doveva aspettare la fine dei quattro
anni dell'accademia di polizia per essere se stessa? Non lo aveva
pensato anche per la fine del liceo? Per la sua nuova vita a Gotham?
Alla fine dell'accademia, cos'altro ci sarebbe stato a impedirle di
vivere la sua vita? Perché i suoi genitori non potevano
semplicemente capire e accettare?
Con
immenso gaudio da parte loro, in special modo di suo padre, Maggie
aveva iniziato a vedersi con James Sawyer anche fuori dall'accademia.
Era un ragazzo gentile, intelligente e talvolta spiritoso; le portava
davvero i fiori e le prestava la sua giacca quando fuori faceva
più
freddo. Baciarlo non le dava più sensazioni di baciare un
cagnolino,
ma ci stava facendo l'abitudine. E l'abitudine, probabilmente, era
una cosa ancora più pericolosa.
«Ehi,
ti è caduto…», quella ragazza aveva
lasciato la frase a mezz'aria
e Maggie si era distratta, guardandola di sfuggita e poi il pavimento
di lamiera che sballottava: ormai si stava abituando alla metro di
Gotham e a quella vita frenetica. «Lascia, faccio
io». Si era
inchinata e le aveva raccolto il libretto, porgendoglielo con un
sorriso.
Maggie
lo aveva strappato con foga, neanche quella ragazza avesse voluto
rubarglielo. Era il suo Diario, quello. Il suo amato Diario, volume
sesto. Lo aveva iniziato da poco, da quando James Sawyer le aveva
chiesto di andare a vivere con lui.
«Oh,
dev'essere importante», era rimasta inchinata, a sorriderle
in quel
modo, tenendosi al suo sedile.
«Lo
è».
«Allora
occhio a non perderlo ancora», le aveva fatto l'occhiolino e
Maggie
aveva alzato gli occhi al cielo e sospirato. «Non ci
sarà sempre
una bella ragazza a porgertelo».
Non
le aveva risposto, anzi era scattata fuori appena il mezzo si era
fermato, spostandola con forza per passare. Tutti stavano uscendo,
pensava di essersene liberata, invece l'aveva raggiunta poco dopo,
ghignando.
«Il
tuo nome? Posso? Mi sembri una persona interessante da
conoscere».
«Senza
offesa, non è reciproco», aveva scrollato le
spalle, continuando a
camminare, uscendo dalla stazione con lei dietro.
Aveva
subito riso, mettendo le mani nelle tasche del suo giubbotto.
«Per
fortuna ho molta stima di me, o mi avrebbe fatto male. Allora provo a
indovinare? Sole? Marisol?».
Maggie
aveva strabuzzato gli occhi, continuando a camminare, attraversando
una strada.
«No?
Allora proviamo con Isabel? Aurelia? È Flora? Allora
forse-».
A
quel punto si era fermata, scuotendo la testa e ridendo.
«Stai
tirando fuori dal repertorio ogni nome latino che ti viene in
mente?».
La
ragazza aveva scrollato le spalle, annuendo con soddisfazione.
«Troppo razzista?».
«Offensivo»,
aveva scrollato gli occhi. «Mi chiamo Maggie».
«Oh,
bene, Maggie».
«È
Margarita, veramente», le era sfuggito in un brusio,
riprendendo a
camminare.
L'altra
rise, correndole dietro. «Ci stavo arrivando, era in lista!
Va bene,
allora. Piacere di conoscerti, io sono Kate. Kate Kane».
Kate
le piaceva. Le era piaciuta fin da subito e lo starle vicino, giorno
dopo giorno, non aveva fatto altro che confermarglielo. Era
ricambiata, lo sapeva, Kate non era esattamente qualcuno che
riusciva, né voleva, nascondere certe cose, ma Maggie con
lei era
stata chiara fin da subito: aveva un ragazzo e stavano per andare a
vivere insieme, quindi tra loro non ci sarebbe stato niente se non
amicizia. Anche Kate abitava in un loft lì a Gotham, due
strade
prima del centro. Da quelle parti diceva di avere un appartamento che
condivideva con suo padre, ma era un colonnello e, per fortuna, aveva
detto, stava via parecchio tempo da Gotham e da lei.
«Non
siete in buoni rapporti, sembra», le aveva detto quella sera,
quando
Kate l'aveva invitata da lei per bere qualcosa. «Anch'io
sono… di
nuovo ai ferri corti con mio padre».
Kate
aveva ridacchiato, appoggiandosi a un mobile e bevendo un sorso di
birra dalla bottiglietta. «Sono tornata a Gotham da pochi
giorni,
ero nel Corpo dei Marines», l'aveva vista fare un'espressione
sorpresa e aveva continuato. «Mi hanno espulsa per aver
scoperto la
mia relazione gay»,
aveva virgolettato con le dita, «con una
commilitone».
«Oh,
capisco».
«E
mio padre… beh, non ha preso bene l'espulsione».
«E
capisco anche questo».
Se
da una parte, con James Sawyer, avevano appena pagato la caparra per
un appartamento più grande con cui costruire una nuova vita
insieme,
dall'altro, Maggie si stava rendendo sempre più conto,
stando vicino
a Kate, quanto sarebbe stato bello poter
vivere
davvero. Amava i suoi genitori e avevano sempre fatto tutto per lei,
non voleva deluderli o abbandonarli, ma quello che stava per fare con
lui, come le diceva Kate, era come deludere e abbandonare se stessa.
Con Kate aveva scoperto meglio chi era e i suoi desideri, tanto che
una settimana dopo era riuscita a convincerla a partecipare con lei
alla parata del Pride che si era svolto a Gotham. Quella che i suoi
genitori definivano una pagliacciata, era per lei un fiume di gente
colorata, sorridente che non aveva paura di giudicare e essere
giudicata. Aveva detto di essere gay per la prima volta lì,
lo aveva
urlato, e tutti erano stati pronti per abbracciarla e farla sentire
al sicuro. Aveva conosciuto un uomo poco più grande di suo
padre
che, per aver dichiarato di essere gay, aveva perso la famiglia, tra
cui dei figli, e il lavoro, finendo a vivere per strada aiutato dai
centri lgbt. Lui aveva perso tutto ma il suo sorriso era
così libero
che la sua libertà aveva contagiato anche lei. Era triste
pensare a
ciò che aveva dovuto subire, ma aveva invidiato il suo
coraggio. Una
volta finito il Pride, il suo mondo si era di nuovo spento.
«Ehi»,
James le aveva sorriso, una volta aperta la porta di casa.
«Festeggiamo?». Maggie ricordava gli scatoloni
ovunque e che lui
aveva aperto una bottiglia di champagne, mettendo due bicchieri sul
tavolo.
Si
era guardata intorno e si era chiesta tante e troppo volte, varcando
l'ingresso fino a raggiungerlo in cucina, se era davvero quella la
vita che voleva fare. Aveva chiesto al suo caro Diario se una vita al
suo fianco non sarebbe stata probabilmente più simile a una
trappola
per lei e a un imbroglio per lui, che pensava di essere amato e non
lo era. Non stava forse condannando entrambi?
Si
erano seduti sul divano e avevano guardato la loro casa, battendo i
bicchieri e iniziando a bere. Lui era felice, lei spaventata, tanto
che la gola le si era chiusa e aveva faticato a mandare giù
lo
champagne. Avevano preso a parlare, James le aveva chiesto dov'era
stata e dopo se aveva trovato traffico per via dei gay. Avevano
lasciato i bicchieri su un tavolino e lui si era avvicinato.
Avvicinato troppo.
«Stavo
pensando che… stiamo insieme da un po'
e…».
Maggie
aveva deglutito e si era sentita svuotare il corpo, come se gli
organi avevano deciso all'improvviso di liquefarsi, salendole il
panico: voleva fare… sesso?
«Aspetta…
Pensavo fossi cattolico».
«Lo
sono».
«Ma…
e la prima notte di nozze?».
«Oh,
non dirmi che credi a queste cose?», aveva strabuzzato gli
occhi.
«Non voglio offendere la tua fede e in effetti non ne abbiamo
mai
parlato prima, ma non pensavo che… adesso siamo in una casa
nostra
e-».
«Va
bene». Maggie aveva deglutito e così accettato. Le
era venuta
voglia di vomitare tutti i suoi organi liquefatti, ma quella era la
sua occasione definitiva per capire se poteva realmente stare con lui
o mandare tutto al diavolo. Si erano stesi, dopo spogliati, e lui
aveva iniziato a baciarla. Le aveva fatto schifo. Non lo voleva, il
suo corpo non era riuscito a reagire come avrebbe dovuto, ma aveva
cercato con ogni mezzo di controllarsi, di fingere che stava andando
tutto bene. Di amarlo, almeno un poco.
Caro
Diario,
Non
ce la faccio. Come posso vivere così? James ed io siamo
stati a
letto insieme ed è stata la peggiore decisione della mia
vita! Lui è
stato paziente, ha cercato di coinvolgermi, ma deve aver capito che
la cosa non mi è piaciuta. Se dovessi chiedere un consiglio
agli
omofobi, loro direbbero che devo iniziare a mentire anche a lui, in
modo che alla fine riuscirò a mentire anche a me stessa? Non
andrò
dall'amico di Don Metthew, con questo ho chiuso davvero. Non possono
obbligarmi perché sono maggiorenne e perdere una casa e
l'accademia
di polizia, a questo punto non mi spaventa più. Niente
è più
spaventoso di una vita con un uomo che non amo! Per questo l'ho
lasciato. Era ora, vero, caro Diario? Non volterò di nuovo
le spalle
a me stessa. Mai più. Per questo, quando ho lasciato James,
ho
bussato alla porta di Kate.
Kate
aveva aperto. Maggie l'aveva spinta dentro e l'aveva baciata, avevano
preso fiato e si erano baciate di nuovo. Kate l'aveva presa in
braccio e l'aveva lasciata sul tavolo, aiutata a spogliarsi, sotto i
loro gemiti caldi, stringendosi, senza dirsi una parola. La prima
l'aveva ripresa tra le sue braccia ma avevano tirato la tovaglia.
Erano finite per fare l'amore sul pavimento, con metà
tovaglia
avvolta in una gamba di Maggie e con polvere di biscotti sui capelli.
Questa
volta avrebbe potuto funzionare. Maggie si era trasferita il giorno
stesso da Kate, ma non aveva ancora detto nulla ai suoi genitori, che
in quel periodo erano in paese. Avevano iniziato una serena
convivenza mentre proseguiva l'accademia per il tempo che le era
concesso e cercava lavoro, spargendo la voce tra gli amici di Kate e
quelli conosciuti stando con Mary. Doveva tagliare il cordone
ombelicale prima che lo avrebbe violentemente fatto suo padre. Erano
passati quasi sette giorni, James le rivolgeva ancora la parola ma
era freddo e non poteva chiedergli di mentire con suo padre, se lo
avesse visto o sentito. All'ottavo giorno della sua vera vita, aveva
trovato un lavoro come lavapiatti in un ristorante. Era felice di
iniziare e aveva imparato a districarsi tra il lavoro, l'accademia e
Kate. Stavamo insieme quando potevamo, ogni minuto era importante per
dimenticare di aver potuto seriamente pensare di passare la sua vita
con James Sawyer. Al decimo giorno della sua vera vita,
però, si era
sentita male al lavoro. Le era salita la nausea a stare a contatto
con tutti quegli odori e non aveva potuto proseguire. Era tornata a
casa che aveva bassa la pressione e temeva di aver preso la febbre.
Oh, sarebbe stata una tragedia! Aveva appena iniziato un lavoro che
non poteva neppure coinvolgerla quanto avrebbe dovuto per via
dell'accademia e il suo capo l'aveva guardata storto, ma quello che
aveva allora era ben peggiore. Prendere a pugni il lavello in bagno
era stata la sua prima reazione alla novità. Dopotutto, come
altro
avrebbe dovuto prenderla? Era giovane, aveva a fatica deciso di voler
vivere tranquilla, e ora, senza soldi da parte dei suoi genitori,
quasi in mezzo alla strada se non fosse stato per Kate, come avrebbe
fatto?
Caro
Diario,
Non
mi sono fatta sentire da tanto e credo che da oggi in poi
scriverò
sempre meno. Sono incinta. Di sette mesi. Una volta con un ragazzo e
sono stata fregata, bella cosa, eh? Non ho scritto da un po' e ci
sono stati tanti cambiamenti. Ora ti racconto! Per prima cosa, l'ho
detto a James. Ovviamente avrei dovuto dirlo subito a lui.
«Cosa…?
No… Ho usato il… mi hai visto».
Lui
era talmente impietrito che non era riuscito a parlare. Forse il
preservativo si era rotto e non ci avevano fatto caso, dopotutto lui
era stato molto preso e Maggie aveva avuto la testa altrove. Era
andata. James non sembrava pronto a fare il padre; era appena pronto
per convivere, era troppo presto. Lo capiva, perché era
troppo
presto anche per lei.
James
non farà parte della vita di mio figlio, o figlia, caro
Diario. Mi
ha consigliato di abortire e anche io, all'inizio, ero orientata
verso quell'idea. In fondo non stavamo neanche più insieme e
un
figlio ci avrebbe tenuti legati per sempre. L'ho lasciato andare e
non me ne pento. Quando il mio bambino sarà grande, forse
vorrà
conoscerlo e ci sarà il tempo per farlo, lo spero.
La
seconda novità, tieniti forte: non sto più con
Kate. È stato bello
con lei, non potrei mai descrivere quanto, ma sentivo che non era
adatta a me, alla vita che volevo.
Stava
rientrando a casa dall'accademia, quella sera. Aveva scoperto di
essere incinta da due giorni e non era ancora riuscita a dirglielo.
Aveva paura di come avrebbe reagito, ma sentirla parlare attraverso
il telefono, una volta rientrata e poggiato le chiavi, le aveva
aperto gli occhi.
«Ti
fanno impazzire, lo so», aveva riso con gusto, alle sue
spalle. «Io?
Oh, per carità, mi ci vedi con dei marmocchi? So appena
badare a me
stessa, al momento».
Quando
aveva chiuso la telefonata, l'aveva accolta e abbracciata. Glielo
aveva detto il giorno dopo, aggiungendole che l'avrebbe lasciata. La
loro relazione era iniziata da poco, ma era evidente che non erano
destinate a stare insieme. Kate aveva provato a riconquistarla, a
farle capire che se anche aspettava un figlio non le cambiava niente,
ma forse era Maggie quella che stava cambiando. Non se l'aveva presa
per ciò che aveva detto al cellulare, era solo una battuta e
a volte
le cose escono senza pensarci, ma sentirglielo dire le aveva fatto
capire che non voleva stare con Kate.
Lei
mi ha aiutato e continua ad aiutarmi molto in questo periodo, caro
Diario. È lei che paga la maggior parte delle mie visite
ginecologiche e mi ha dato un tetto sulla testa anche se l'avevo
lasciata. È ricca, sì, ma mi vergogno che mi
aiuti in questo modo.
È solo che non ho scelta, fino a quando non potrò
davvero
sistemarmi.
Infine,
l'ho detto ai miei genitori. Con loro è stato più
difficile, ma ce
la sto facendo, caro Diario. Sono fuori dalla vita che loro avevano
programmato per me.
«Ti
sei lasciata con James? E sei incinta?», sua madre era
sbiancata e
suo padre aveva dovuto reggerla per evitare che cadesse.
«Ho
deciso che terrò il bambino».
«Certo
che lo terrai», aveva ribattuto suo padre. «Sarebbe
un peccato
contro Dio! E adesso richiama quel povero ragazzo, convincilo a
riprenderti, o chi tirerà su tuo figlio?».
Maggie
già sapeva che quella sarebbe stata la discussione
più difficile
della sua vita. «Io. Io tirerò su mio
figlio».
«Cosa
dici?», sua madre le aveva picchiettato una spalla.
«Devi sposarti,
prima che la pancia cresca troppo».
Non
bastava che, per troppi anni, erano riusciti a convincerla a vivere
una vita che non voleva, ora avrebbero tirato dentro sia James che il
figlio che doveva ancora nascere? No. Non avrebbe più
accettato
simili compromessi per se stessa, e di certo non l'avrebbe fatto per
la creatura che le cresceva in grembo. Non le avrebbe fatto vivere
una bugia. «Non sposerò James», aveva
scosso la testa e sua madre
si era portata una mano contro la bocca.
«Servono
un padre e una madre per crescere dei figli, mija», suo padre
aveva
aggrottato la fronte. Cominciava ad arrabbiarsi.
«Serve
l'amore per crescere dei figli, papi», aveva deglutito,
inclinando
la testa. «Voi mi avete dato l'amore, non perché
eravate uomo e
donna, ma perché i miei genitori. Io darò tutto
l'amore necessario
al mio bambino».
Sua
madre si era di nuovo avvicinata e aveva provato a guardarla con
biasimo, sfiorandole un braccio. «È James che non
vuole sposarti?
Lo ha detto lui?».
«No»,
si era scrollata la sua mano di dosso, facendo preoccupare la donna.
«È una mia decisione», si era toccata il
petto. «Mia,
va bene? Non lo amo. Adesso sarò io a scegliere della mia
vita».
«Vuoi
tornare dalla tua amichetta con gli spilli e i buchi in
faccia?».
«No!
Mary non- non è un'amichetta e non ci sentiamo
più da… Posso
anche stare da sola».
A
quelle parole, sua madre si era dovuta sedere e suo padre si era
messo una mano sulla fronte. Non capivano. Forse non lo avrebbero mai
fatto. «Non si crescono i figli da soli, né tra
due donne».
«Non
è vero», gli aveva replicato con pazienza, pur
mantenendo con forza
le sue ragioni. «Molte lo fanno già. Il mondo va
avanti anche senza
i vostri preconcetti! Non importa se starò da sola, ma se
dovessi
avere qualcuno accanto, beh, allora quel qualcuno sarà una
donna»,
aveva di nuovo inclinato da un lato la testa, cercando di sorridere a
entrambi. «Sono gay. Dovete accettarlo».
Suo
padre si era messo entrambe le mani nei capelli e sua madre aveva
emesso un verso spaventato di angoscia. «Devi andartene,
allora»,
le aveva detto suo padre, all'improvviso. Si era messo le mani sui
fianchi e l'aveva fissata con sfida. «Non sei la figlia che
ho
cresciuto e siamo stati fin troppo ragionevoli con queste… cose.
Non avrai più nulla da noi, non sei nostra figlia, devi
andartene».
«No,
papi», aveva scosso la testa, con occhi lucidi.
«Non mi stai
mandando via, hai sbagliato: perché me ne sono
già andata».
Aveva
recuperato il suo giubbotto e si era avviata verso la porta. Mentre
suo padre era rimasto fermo a guardare, sua madre si era rialzata di
corsa e le aveva gridato per fermarsi, ma Maggie l'aveva ignorata.
Chiusa la porta di casa, l'aveva sentita ancora urlare contro suo
padre, dire che era incinta, che non la poteva sbattere fuori, e di
nuovo che era la sua bambina e che era incinta.
Non
voglio mentirti, caro Diario, non l'ho mai fatto: andarmene
è stato
durissimo quel giorno. Ero tornata in paese solo per quello, sapevo
come sarebbe finita, ma sono andata avanti a testa alta. Mi sono
continuata a pagare l'accademia di polizia con qualche lavoretto qua
e là di pulizia, attenta a non esagerare, perché
non volevo che
Kate pensasse anche a quello. Ho imparato ad arrangiarmi alla
giornata e sono davvero fortunata che mi abbiano concesso di
continuare le lezioni, per quanto il corpo mi permetta. Mi hanno
consigliato di fare una sospensione, ma lo farò solo se
strettamente
necessario. Non voglio restare indietro. Mi sto gonfiando e
più la
data si avvicina, più diventare madre mi terrorizza. Ma
farò tutto
il possibile per dare a questo bambino, o bambina, la vita che
merita.
E
così, più in fretta di quanto pensasse, la data
era arrivata ed era
nata una bambina. L'aveva chiamata come l'uomo che le aveva regalato
quel sorriso di libertà al Pride di Gotham: Jamie. Jamie
sarebbe
stata libera. Quella bimba così piccina era appena diventata
tutto,
per lei.
Kate
le aveva portato un mazzo pieno di palloncini colorati. Aveva
guardato la piccola, aveva salutato entrambe ed era uscita dalla
cuccetta per un caffè. Maggie l'aveva in braccio e la
fissava,
rivedeva se stessa e la sua paura di crescerla riflessa negli
occhietti castani. Ora sarebbe cambiato tutto. All'improvviso aveva
sentito bussare e si era sporta per controllare. Aveva visto altri
palloncini e un mazzo di fiori, ma il suo entusiasmo era scemato
quando aveva visto che, a portarglieli, erano stati i suoi genitori.
«Mija»,
suo padre era entrato per primo e, dietro di lui, sua madre, che era
sembrata titubante.
Caro
Diario,
Loro
sono rientrati a far parte della mia vita. Non preoccuparti: le
regole sono mie, adesso. Hanno deciso che non vogliono perdermi e non
vogliono perdere la possibilità di veder crescere la loro
nipote.
Sì, ho avuto una bambina, Jamie. Non li ho perdonati del
tutto, ma
hanno accettato di far parte di un gruppo di genitori di persone
lgbt, così impareranno, magari, ad aprire le loro vedute.
Era il mio
prezzo, se volevano avere a che fare di nuovo con me. E questo, devo
dire, mi porta una qualche soddisfazione. Sono già passati
diversi
mesi e pare che la cosa possa funzionare. Sto continuando a lavorare
e a frequentare l'accademia, loro si offrono di tenermi Jamie ogni
tanto, quando decido di lasciare in pace la babysitter. Anche Kate
l'ha guardata spesso, all'inizio. Ho freddato il mio rapporto con
lei, caro Diario, perché è successo
ciò che temevo: ha cercato di
baciarmi, ha detto di voler stare con me, di volere anche mia figlia.
Non sono innamorata di lei e non voglio ricadere in un altro errore.
E Kate… Kate non vuole dei figli, caro Diario. Non posso
costringerla a fare questa vita, non sarebbe diversa da James Sawyer.
Però mi sono vista con altre donne, in questo periodo.
Alcune di
loro erano come me, in cerca di uno sfogo per poi tornare a casa e
forzare un'eterosessualità che non c'è. Spero per
loro di uscirne
presto. Intanto, sto pensando se non sia il caso di trasferirmi,
appena avrò finito l'accademia. Gotham mi piace, ma non so
se voglio
crescere qui Jamie. Starei più lontana dai miei genitori, da
James e
da Kate. Non lo so. Ho voglia di innamorarmi seriamente, ma al
momento, il mio unico amore è quella bambina. La mia vera
vita è
questa, caro Diario. L'ho cercata a lungo ed è arrivata come
non me
la aspettavo, ma ho intenzione di godermela in ogni istante!
Un
capitolo sul passato di Maggie sembra quanto di più stand
alone
possa esserci, in questo momento, ma esplorare il suo personaggio e
la nascita di Jamie è importante proprio in questo punto
della
storia.
Spero
non vi abbia annoiato! Questo capitolo è così
pregno di dramma
omofobo che sono felice di averlo scritto, ahah!
Abbiamo
potuto notare il rapporto di Maggie coi suoi genitori, la sua
crescita personale, il suo rapporto con le altre donne e come queste
l'abbiano influenzata. Perché Maggie ha chiamato sua figlia
Jamie e
perché non ha un padre. Ah, certo, abbiamo anche scoperto
che ha
avuto una storia, seppure breve, con Kate Kane! Non mi sono lasciata
sfuggire l'occasione anche se, ehi,
Kate non è e non sarà un personaggio regolare o
importante ai fini
della trama. A meno di nuovi sviluppi, resta una guest
XD
Veniamo
alle note ~
-
Nelle note allo scorso capitolo, avevo scritto di aver usato e tenuto
un nome dalla serie sul passato di Maggie per un personaggio
è quel
personaggio è Elisa.
Nella serie, una certa Elisa era il primo amore di Maggie da che ho
capito, solo che era stata rifiutata e le aveva spezzato il cuore.
Beh, nella mia storia ho voluto giocare con questa cosa e farla
ricambiare, con la differenza che Elisa non ha “le spalle
larghe”
di Maggie per attutire i colpi, ha troppa paura e scappa da se stessa
e la verità. Comunque le spezza il cuore.
-
Sempre nelle note allo scorso capitolo, avevo scritto di aver
costruito un personaggio secondo le indicazioni che avevo dello
stesso personaggio sulla serie, e questo è il padre
di Maggie. Quando mi è stato spiegato di quell'episodio in
cui era
comparso il padre di Maggie, io avevo già buttato le prime
idee di
questo stand alone e me lo sono fatta raccontare per aiutarmi a
delinearlo, sta di fatto che caratterialmente lo avevo già
immaginato molto simile, quello che mi aveva sorpreso era l'aspetto!
Quando ho cercato su Google ci sono rimasta male, perché me
lo
aspettavo più basso, cicciotto e con il riporto, invece me
lo
ritrovo alto due metri e quasi col fisico da rivista XD Allora
niente, l'aspetto della serie ha “vinto”, e
scrivendo il
capitolo, mi sono immaginata quell'omone lì. Spero di averlo
reso
bene caratterialmente, ma non ne sono sicura.
-
La cosa curiosa del giorno: non mi piace Ruby Rose ma a suo modo, nel
crossover di quest'anno delle serie dell'Arrowverse, mi ha un
pochetto convinta e per immaginarmi Kate Kane ho preso proprio il suo
aspetto
-
Per chi non lo sapesse, mija
è usato nello slang ed è la forma abbreviata
dello spagnolo mi
hija,
mia
figlia.
Lo avrete sentito mille volte nelle serie tv!
- James Sawyer. Allora,
premettiamo che io di fumetti ne so davvero poco, a volte cerco info
quando mi servono o se sono curiosa su qualcosa in particolare, ma
cercando il padre di Jamie mi era uscito questo James, poliziotto, che
di cognome è Sawyer. Io non so se Maggie ha tenuto il suo
cognome anche da divorziata (nei fumetti sono divorziati, no?), oppure
se era James ad aver preso il suo (poco probabile), ma nella serie tv
è Maggie ad avere questo cognome per certo e
anziché impazzire per trovarne un altro che si addicesse al
ragazzo, ho preferito lasciare Sawyer anche per lui. Non è
così strano conoscere qualcuno che ha il nostro stesso
cognome, su :P (Averne una quasi storia è un altro discorso,
ma...)
E
ora ricordatevi com'è finito lo scorso capitolo, che tutto
riprenderà là dov'è rimasto! A sabato
9 con il capitolo 41 che si
intitola Noi
contro loro.
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Capitolo 42 *** 41. Noi contro loro ***
Il
cielo era sereno, c'era un poco di vento fresco, i lenti passi di chi
cercava di avvicinarsi il più possibile ai cordoni di
velluto che
dividevano loro dalla cassa da morto. Per l'ultimo saluto, disposero
la bandiera degli Stati Uniti sopra la bara di Lar Gand e una grande
ghirlanda di fiori. Erano almeno altre quattro le ghirlande disposte
intorno a dov'era adagiato il suo corpo. Rhea pagò per farlo
abbellire in modo che potesse tenere la bara aperta, ma il risultato
fu tanto deludente che, a spiegazioni sulla bara chiusa,
preferì non
rispondere. Era presente il corpo di polizia, i Marines, l'esercito
guidato dal generale Lane, che Kara adocchiò subito: al suo
fianco
doveva esserci la figlia minore, la sorella di Lois che aveva seguito
le orme di famiglia. Erano tutti in divisa, in posizione. Erano
presenti altri membri del Senato e politici, tanti giornalisti che
non si perdevano un momento; anche Cat Grant, che era dall'altra
parte. Parlottava con qualcuno vicino a lei e teneva la testa bassa,
incrociando le mani in avanti e restando in posizione eretta, in
segno di rispetto. C'era Maxwell Lord accompagnato da collaboratori,
che le aveva viste ma non poteva avvicinarsi. C'erano volti noti a
Lena, che partecipavano a pranzi o cene insieme ai Luthor e, appunto,
ai Gand. Il sindaco, ovviamente, scortato da due guardie del corpo.
Il Generale Zod; non si stupirono di vederlo. I loro occhi
incrociarono anche quelli distanti di un volto conosciuto: Bruce
Wayne. C'era parecchia gente con lui, ma era vicino solo a un uomo
anziano, poco più basso.
Rhea
Gand era sulla bara del marito da almeno venti minuti e singhiozzava.
La
gente continuava ad arrivare, il parcheggio era pieno, e la
collinetta d'erba del cimitero diventava via via più
affollata.
Difficilmente, Kara poteva immaginare così tante persone in
unico
luogo intorno a un silenzio tanto fitto. Si avvicinò a Lena
il
giusto per chiederle se sapeva qualcosa; lei guardò il
cellulare una
volta e sbuffò, scuotendo la testa. Dovevano attendere. Kara
la
scorse adocchiare il fratello Lex al suo fianco, che non accennava a
smettere di stare appresso al suo cellulare. Forse gli affari alla
Luthor Corp di Metropolis richiedevano assistenza, ma erano entrambe
convinte, in fondo, che fossero più gli affari di Lord a
interessargli, temendo che potesse agire contro di lui, presto o
tardi. Ma non avevamo tempo per questo, d'altronde, si sentirono
costrette a partecipare perfino al funerale. Non che non lo avrebbero
fatto volentieri in altre circostanze, ma Jamie era stata rapita e,
ora, niente era più importante del suo ritrovamento.
Seguirono
Eliza e Lillian, quando altre persone davanti a loro si mossero. Kara
non poté fare a meno di notare la freddezza del loro
rapporto:
sembrava che la prima stesse cercando di superare qualcosa e che
l'altra fosse in attesa di sapere il responso per comportarsi di
conseguenza. Avevano avuto una notte per pensarci, ma forse quel
tempo non era sufficiente; d'altronde, nemmeno lei era riuscita a
superare quei pensieri negativi per Lena, nonostante tutto.
Alex
non c'era. Aveva raccontato a sua madre che non avrebbe partecipato
perché Maggie si sentiva poco bene e voleva starle vicino e
così,
mentre loro vestite di nero aspettavano l'arrivo di un messaggio al
cellulare di Lena, lei e Maggie, a casa di quest'ultima, ripulivano e
caricavano le armi, scandagliando profilo per profilo su un cellulare
quelli degli agenti di polizia di National City in cerca di un
possibile obiettivo. Se il profilo misterioso, o una ragazza di nome
Indigo come aveva detto loro Lena, avesse deciso di negare all'ultimo
un aiuto per ritrovare la bambina, allora sarebbero state pronte con
una lista di sospetti da colpire. Una collega l'aveva presa, ma la
giovane poliziotta era convinta che ci fosse un gruppo dietro quel
gesto, non una singola che aveva perso la testa per vendicare Faora
Hui.
Una
volta saputo cos'era successo dalla babysitter, Maggie si era messa
in macchina e aveva chiamato Alex, trattenendo le lacrime, con una
voce chiusa e asciutta. Aveva ignorato lei che le diceva di
aspettarla ed era immediatamente corsa di nuovo in centrale. Una
volta lì, aveva iniziato a urlare e pestare, accusando chi
le
passava per la testa di aver rapito la figlia. «Vi conviene
dirmi
subito dove si trova, o giuro che ve la farò pagare
cara».
«A
chi credi di venire a minacciare?», aveva risposto uno di
loro,
avvicinandosi.
Maggie
lo aveva colpito in pieno viso e a nulla erano serviti i tentativi di
altri poliziotti per dividerli: se non fosse arrivato Zod, sarebbe
scoppiata una rissa fra le scrivanie.
«Si
può sapere cosa sta succedendo, qui?».
Gli
animi si erano placati, ma Maggie lo aveva fatto solo per paura di
quell'uomo: e se fosse stato lui a farla rapire? Lo stimava, ma il
fatto che facesse parte dell'organizzazione, in quel momento, non lo
rendeva degno di fiducia. Le cose erano cambiate, ora che Jamie non
era con lei. Intanto, era arrivata Alex. Tutti si erano girati a
guardarla, sapevano chi era, e alcuni dei loro sguardi si erano
tramutati in odio. Ma lei aveva deciso di passare oltre e raggiungere
la sua ragazza; era lei ad aver bisogno realmente delle sue
attenzioni. L'aveva abbracciata e Maggie non era riuscita a fare a
meno di piangere.
«Ci
stava minacciando», aveva detto uno dei poliziotti al
capitano.
«È
pazza! Si è persa la figlia e ci crede
responsabili», aveva urlato
un'altra, provocando una reazione in Maggie, che le si era quasi
scagliata addosso se Alex non l'avesse fermata.
«Attenta
a come parli», aveva ringhiato, puntandole contro un dito.
«Stai
davvero attenta o…».
«Che
cosa?», si erano guardate in cagnesco e Zod si era visto
costretto a
intervenire di nuovo:
«Smettetela
tutte e due! Siamo in una centrale di polizia, non in un asilo. Via,
non c'è nulla da vedere. Via», aveva decretato con
voce
autoritaria, guardando entrambe e gli altri poliziotti intorno alla
scena. «Sawyer, cosa credevi di fare?». Dopo aveva
preso lei da una
parte e, guardando Alex, le aveva chiesto se sua figlia fosse davvero
nei guai. Pensava davvero che si sarebbe fidata per parlargliene?
Maggie
aveva stretto le labbra. «A-Adesso che ci penso, potrebbero
essere
passati i miei a prenderla: telefonerò a loro».
Lui
aveva assottigliato gli occhi, come non fosse stato esattamente
convinto di quella versione. «Non puoi venire qui a urlare ed
emettere sentenze, hai capito? Pretendo ordine nell'ambiente di
lavoro», l'aveva adocchiata, «Prenditi la giornata
libera, domani».
L'aveva
sospesa, accidenti, mentre loro erano rimasti tutti in servizio. Non
era giusto, ma non avevano neppure provato a denunciare. A che pro?
Non sapevano chi ne fosse coinvolto. Maggie e Alex erano uscite,
guardando in malo modo i presenti, intanto che Zod insisteva che
tutti si rimettessero a lavoro.
Kara
riguardò Lena, di nuovo Rhea che veniva abbracciata da chi
si
avvicinava per portare i propri omaggi, e poi intorno, alle tante
persone presenti e più lontano, sperando di non inquadrare
Mike.
Aveva insistito tanto, al campus, per farlo restare nella loro stanza
con Megan. Era il funerale di suo padre, ma non poteva raggiungerli,
era pieno di gente di cui gran parte poliziotti.
«Sono
scappato, mi vergogno così tanto, non so cos'avessi in
testa…
dovrei almeno andarlo a salutare per l'ultima volta», aveva
detto
alle due seduto sul letto di Kara, con viso affranto e stanco. Aveva
detto di essere stato da amici e di aver girato perché non
sapeva
dove andare né cosa fare, fino a quando non aveva ritrovato
un po'
di coraggio per tornare indietro, conscio che non avrebbe potuto
continuare così: aveva finito i soldi con sé e
aveva la carta di
credito a casa. Andare da Kara era stata la prima cosa a venirgli in
mente.
«Ti
sospettano di omicidio», gli aveva detto Megan, a denti
stretti.
«Sei scemo? Appena ti prendono, non vedrai il cielo per un
po'».
«Ma
non ho fatto niente», si era tirato indietro, aggrottando la
fronte.
«Ho sentito mia madre sparare a mio padre, va bene? Ho avuto
paura,
non sapevo cosa fare; quelli non hanno prove per incolparmi».
Kara
aveva guardato entrambi e stretto le labbra, riflettendo. «La
polizia è corrotta, non puoi andare da loro. D'altro canto,
se non
vai da loro a testimoniare, è probabile tua madre che la
farà
franca. Ma se vai, potrebbero accusarti comunque al suo posto,
potrebbero trovare un modo», aveva riguardato Megan, che era
incerta.
«No,
no», Mike aveva scosso la testa e si era alzato in piedi.
«Mia
madre non mi farebbe accusare di omicidio, che stai
dicendo?».
«Hai
appena detto di averla sentita sparare a tuo padre».
«Sì,
ma…», si era zittito, pensandoci,
«B-Beh, mi vuole più bene.
Almeno
credo»,
era tornato a sedersi, tenendo lo sguardo basso. «Comunque
non
voglio affrontarla, vi è chiaro? Mia madre
pagherà per ciò che ha
fatto, ma non sarò io a testimoniare contro di
lei».
Megan
aveva scrollato le spalle. «Hai un gemello segreto che vive
in
soffitta?».
«No,
perché un gemello?».
«Lascia
perdere».
«Dicevo
che non sono l'unico testimone: c'era Joyce, con lei. Ha visto
tutto», aveva sorriso con speranza, guardando l'una e
l'altra.
«Joyce testimonierà».
Kara
si riguardò di nuovo intorno. Là in mezzo agli
alberi, in
lontananza, le era parso di vedere qualcuno o forse aveva le
allucinazioni perché non aveva dormito. Mike non sarebbe
stato così
sciocco da presentarsi davvero al funerale e Megan, in caso, lo
avrebbe fermato. Almeno sperava.
Lena
sospirò e si portò le braccia a conserte, dopo
aver dato uno
sguardo veloce al cellulare. Scosse la testa quando Kara si
voltò
verso di lei. Mh, si era rivoltata subito. Era fredda con lei,
indisposta, anche se non sembrava volerlo dare a vedere, standole
accanto. Quella mattina aveva preso la prima corsa per National City
senza neppure avvertirla e, quando dal campus l'aveva chiamata, era
solo per dirle che il suo ex era tornato. Sì, il suo ritorno
era
molto importante, ma non aveva speso nemmeno una parola per dirle
altro. Oh, che sciocca pensare alla sua relazione con Kara mentre la
piccola Jamie era ancora là fuori, con chissà chi
e dove. Era una
bimba adorabile e mai si sarebbe aspettata una cosa del genere.
Riguardò il cellulare: quanto ci avrebbe messo, ancora?
Avrebbe
potuto fidarsi di lei, d'altronde?
Dopo
aver saputo per messaggio da Alex che Jamie era stata rapita,
spiegando di non dire nulla a Eliza che in quel momento guidava
l'auto di ritorno a National City, il suo primo pensiero era stato
chiedere aiuto al profilo misterioso, Indigo. Era tornata a farsi
sentire proprio nel momento del bisogno.
X:
Ti farò sapere presto.
Z:
Cosa?
Le aveva scritto, aggrottando la fronte. Ti
ci vuole del tempo per sapere se puoi o meno aiutarmi a riportare una
bambina dalla madre?
Eliza
non le aveva chiesto con chi stesse chattando, probabilmente troppo
presa da altri pensieri, guardando la strada. Lei l'aveva adocchiata
appena e si era rivolta al finestrino, pensando. Aveva atteso quasi
tre minuti e doveva pensare, se non avesse potuto contare su di lei,
a dove altro avrebbe potuto rivolgere le sue attenzioni.
X:
Posso aiutarti. Lo farò più che volentieri! Dammi
una pista e ti
apro la strada!
Lena
aveva tirato un sospiro di sollievo, scrivendole dei colleghi di
Maggie e cosa aveva detto la babysitter quando lei era andata a
prendere la bambina. Era contenta che avesse accettato di aiutarle;
quasi le era mancata durante il suo periodo di silenzio. Ancora non
sapeva cosa voleva Indigo da lei, ma non poteva non ammettere che le
tornava utile.
«Ancora
niente?», le rivolse parola Kara, senza guardarla, fissando
Rhea che
stringeva delle mani e, più lontano, Max Lord che parlava
con
qualcuno accanto a lui. Si accorse del suo sguardo e Kara lo
abbassò.
Lena
stava per aprire bocca che il cellulare vibrò e anche
l'altra si
girò all'istante. «È lei»,
disse in un brusio, leggendo. «Ha
trovato Jamie, raggiungiamo Alex e Maggie».
Kara
annuì e, dicendo velocemente a Eliza che non potevano
più
trattenersi, la salutarono e cercarono di passare attraverso la
calca. Si guardò una sola volta indietro, verso quella donna
e la
bara del marito, che Lena la richiamò. Come si
voltò per seguirla,
però, qualcosa attirò la sua attenzione. Verso
gli alberi, più
avanti, dove c'era meno gente. Oh, non poteva crederci. Fece cenno a
Lena di seguirla e corse, raggiungendo in fretta il punto.
Alzò la
mano destra e lo picchiettò in testa. «Cosa ci fai
qui?», si
trattenne dal non urlare, riguardando indietro. «Ti avevo
chiesto di
stare al campus».
«Ahi»,
Mike si fregò in testa ma il cappuccio della felpa gli
scivolò un
poco e Kara lo picchiettò ancora, prima di tirarglielo sul
naso.
«Smettila, dai, smettila. È il funerale di mio
padre».
«Qualcuno
potrebbe vederti», sibilò a denti stretti.
«Avevo chiesto a Megan
di fermarti».
«Io
sono qui», la testa di Megan sbucò dietro un
albero vicino e Lena
si passò una mano sulla fronte. «Non sono riuscita
a fermarlo e
così l'ho seguito».
Lui
grugnì. «Mi ha detto di andare, se
volevo».
«Beh»,
la ragazza scrollò le spalle, guardando Kara e
avvicinandosi, «Non
pensavo l'avrebbe fatto».
Kara
scrollò gli occhi al cielo e tirò Mike per una
manica, intanto che
Megan gli schiaffava un altro buffetto sulla testa. Uscirono dal
campo del cimitero cercando di nasconderlo, così corsero
dove Lena
aveva lasciato l'auto al loro arrivo. «Dobbiamo riportarli al
campus», si sedette a lato dell'autista, senza guardare Lena
che
infilava le chiavi nel quadro.
«Resto
con loro, mi servirà solo il portatile». Mise in
moto e sistemò lo
specchietto retrovisore, adocchiando i due dietro: «Felpa blu
e
rossa, jeans blu: volevate proprio passare inosservati».
«No,
no», la donna in divisa si accigliò. Prese un
fazzolettino dalla
borsa e si pulì velocemente la manica che la bambina, a
fianco, le
aveva toccato. Poi si affrettò a pulire le sue piccole dita
oleose
mentre finiva di mangiare una pizzetta e gonfiava le guance.
Così
riprese il cellulare che aveva appoggiato sulle cosce, rimettendoselo
contro un orecchio. «Sono qui, la bambina aveva sporcato. Le
ho dato
da mangiare, poverina, aveva fame. Certo», annuì
di riflesso,
«Stiamo per arrivare». Allungò la mano
verso il finestrino del
vagone, sollevando la tendina e guardando gli alti grattacieli che
diventavano via via più vicini. Scorse Jamie ingoiare il
boccone e
mettersi la mano sulla bocca per pulirsi, così le
passò di nuovo il
fazzolettino, dandoglielo per finire da sola. «Sono
arrabbiata, è
ovvio che sono arrabbiata», si assicurò di non
alzare troppo la
voce. «Io dovevo passare a prenderla, solo passare a
prenderla, e
dopo qualcun altro l'avrebbe portata a Metropolis. Questo viaggetto
non era nei miei programmi». Ascoltò,
annuì di nuovo e si inchinò
per raccogliere il fazzoletto appallottolato che Jamie aveva buttato
sotto il suo sedile. Si rialzò e sbatté la testa
sui piedi della
bambina che aveva iniziato a far ciondolare. «Fanc-
No, non ce l'ho con te». Guardò storta la bambina
e, facendole
notare il fazzolettino, lo gettò nel vano portarifiuti.
«Sì, sono
sempre arrabbiata con te, con tutti. Lascia perdere»,
sbuffò.
«Basta che qualcuno poi sia lì… Ah»,
restò a bocca aperta, «Ma sarò da sola
o…? E allora perché non
li incontra qualcun altro, invece di dover andare io?»,
sbuffò,
fermando la bambina che aveva iniziato a dare calci più
forti.
«Certo, vi fa comodo! Oramai ci sono io con lei. E sai quanto
ero
scettica a questa idea… Faora non si risveglierà
in ogni caso».
La piccola le tirò una manica e lei le passò il
cappello da
poliziotta per farla giocare, ma in un attimo le cadde a terra.
«Faora ci aveva garantito un posto, ma non capisco come la
signora
potrà restare colpita da questo gesto». Si
abbassò per recuperarlo
e si prese altri calci in testa. La guardò male e,
rimettendosi
seduta, si rimise il cappello, cercando di ignorarla fintanto che
continuava a chiamarla tirandole una manica. «Ho preso la
giornata
libera per questo? Sì, comincio a pensare che mi abbiate
incastrato
con questa storia della ragazzina». Chiuse la telefonata
più
arrabbiata di prima e si voltò verso Jamie, che ancora le
tirava la
manica. «Cosa c'è, angioletto?», le
sorrise con estrema dolcezza.
«Mi
shcappa la pipì», la guardò tremante,
facendo gli occhi grandi.
La
donna si ghiacciò, quando vide che i pantaloni della piccola
erano
tutti bagnati. «Te la sei fatta
addosso…», la guardò impietrita.
«Mi
shcappava tanto… Io vado shempre a fare la pipì
adesso, ma tu non
mi hai portato». Jamie increspò le labbra e
strinse gli occhi ma,
appena emise il primo singhiozzo, lei la bloccò con terrore.
«No,
non piangere, tesoro, va tutto bene. Stai bene, okay? Andiamo in
bagno e sistemiamo tutto».
Mugugnando
su quanto odiasse essere lì con la bambina e
perché non portava un
pannolino, dovette toglierle le mutandine e i pantaloni bagnati,
accettando un pantalone pulito delle Tartarughe Ninja che una donna
lì sul treno aveva con sé in borsa. L'aveva vista
andare in bagno
con la bimba bagnata e, avendo quattro figli, conosceva il problema
molto da vicino.
«Il
pantalone lo può tenere», rise lei, aspettando
insieme fuori dalla
porta del bagno che, solo socchiusa, Jamie finisse i suoi bisogni.
«I
miei ragazzi neanche si ricordano tutto quello che hanno», le
diede
una spallata, «Noi madri ci dobbiamo sostenere, no? Quanti
figli
ha?».
«Emh…
solo lei».
«Oh,
non sa quanto è fortunata! Dopo il mio primo parto, una
botta e sono
rimasta subito di nuovo incinta. È un attimo, sa? Lo dicono
anche i
medici». L'altra la guardava impallidita, ma la signora non
si
fermava, continuando a raccontare le vicende della sua vita
famigliare. «E così, dopo che Michael, il secondo,
ha cacciato
tutto in macchina, mi son detta mai più fast-food prima
dell'ottovolante», ridacchiò, «E mai
senza cambi, ci siamo capite,
uh?», le diede una nuova spallata, mentre l'altra spalancava
gli
occhi. «Allora, dove siete dirette?».
«A…
Al nuovo parco divertimenti».
«Oh,
che coincidenza! Attenta a cosa le fa mangiare».
Ci
fu qualche secondo di silenzio, prima che Jamie le interrompesse:
«Ho
finito la cacca».
La
donna rise ancora, dandole due pacche su una spalla. «Beh, la
pausa
è finita, si torna a fare le mamme».
Uscì, mentre la poliziotta
restava ferma, di pietra.
X:
Ho fatto un bel giretto sui server delle compagnie telefoniche e ho
trovato messaggi interessanti scambiati da alcuni poliziotti di
National City. Ma non solo degli ultimi due giorni, parlo di
settimane cui un gruppetto si scambiava informazioni su Maggie Sawyer
e Alex Danvers, colpevoli di aver portato al coma una collega, una
certa Faora Hui. Hanno cancellato la chat, cancellano periodicamente
i messaggi, ma probabilmente non sanno che le compagnie telefoniche
conservano le copie.
Le
aveva scritto il profilo misterioso sulla chat con sfondo nero.
X:
Sto seguendo il gps dei cellulari dei furbetti che non hanno pensato
di spegnerlo, e portano tutti a Metropolis. So che questo pomeriggio
una poliziotta in divisa in compagnia di una bambina sono salite
sulla metro per raggiungere la città. Non può
essere nessun altro,
sono loro. Non posso risalire a lei, avrà il gps
disattivato, ma le
telecamere l'hanno ripresa. Non so ancora cos'hanno in mente, ma si
stanno radunando al nuovo parco divertimenti. È
lì che li
prenderemo!
Indigo
era abbastanza sicura di sé. Arrivate al campus, Lena
mostrò a
Kara, dal laptop, la foto che le aveva allegato la ragazza in chat,
estrapolata da una telecamera alla stazione: riprendeva una
poliziotta, coperta dal cappello, presa con mano a quella che era
indubbiamente Jamie. Se la fece inviare al cellulare e si chiuse di
nuovo bene la giacca, pronta per raggiungere la sorella.
Megan
chiese se le servisse aiuto e Kara rifiutò, dicendo di stare
qui nel
caso ci fosse stato bisogno. Il suo sguardo planò su Mike e
la
ragazza intuì che l'idea di lasciare lui e Lena sotto lo
stesso
tetto da soli non le piaceva per niente. Si scambiarono un gesto
d'intesa ma, prima di uscire, fu Lena a fermarla.
«Kara,
non arriverete mai in tempo. Faccio una telefonata; se andate alla
Luthor Corp, ci sarà un elicottero».
«Oh…
sì, va bene», annuì, ma la
guardò appena.
Mike
fece un passo per raggiungerla, preoccupato, ma Lena lasciò
il
portatile su un letto e le andò vicino per prima, facendo
sghignazzare Megan. Aprì la bocca e Kara attese, ma in
realtà non
sapeva esattamente cosa dire. Che stesse attenta? Lo sarebbe stata di
certo, non aveva bisogno di sentirselo dire. O forse. Ma non sarebbe
passato come un qualcosa di fuori luogo? Poi la vide annuire, da
sola, senza che le avesse detto niente.
«Non
preoccuparti. E… e magari ci sentiamo anche dopo,
dopo… beh,
d-dopo che sarò tornata», sorrise, ma solo per
poco. La guardò
negli occhi solo un momento, veloce, abbassandoli di fretta.
«Se
non sapessi come stanno le cose», Mike rise, alzando le
spalle,
«Sembrerebbe che ci sia una sorta di tensione sessuale, in
questo
momento». Si aspettò che ridessero, voleva essere
una battuta, ma
l'unica ad emettere un verso fu Megan, che di certo per un attimo le
era venuto da ridere.
Spalancò
gli occhi e arrossì, sentendosi osservata. «Da lui
non me lo
aspettavo», si giustificò.
Mike
aggrottò la fronte e poi guardò le due che,
imbarazzate, si
scambiavano sguardi rapidi stando attente a non sfiorarsi per errore.
«A-Allora
io vado», Kara tirò la porta e Lena
tornò mezzo passo indietro,
annuendo.
«Ti
sarò vicina… Vi
sarò vicina, volevo dire».
Kara
sorrise per un istante, solo un istante, prima di chiudere la porta.
Lena raggiunse il laptop e, mantenendo un costante piccolo sorriso
sulle labbra rosse, sollevò lo schermo. Sentì
solo in un secondo
momento lo sguardo insistente di Mike su di sé. Appena si
voltò,
lui prese un bel respiro, guardando altrove.
«Vado
a radermi. Speriamo che Kara stia attenta, accidenti, non
spetterebbero a lei queste cose».
X:
Sono quasi al parco divertimenti, le ho seguite tramite le
telecamere. I gps rilevati sono già lì, distanti
tra loro, vorranno
coprire più territorio possibile. Sono stati veloci. Sto
continuando
a leggere i messaggi della chat cancellata e pare che vogliano
consegnare la bambina a qualcuno. Ti farò avere presto
novità.
Lena
ansimò, guardando l'ora sullo schermo e prendendo il
cellulare per
far avere subito quell'elicottero.
Z:
Loro stanno andando a Metropolis, devo poterle aiutare, magari
entrando al parco divertimenti.
X:
Ti farò avere un pass speciale. Ah, Lena Luthor, riguardo
l'altro
favore: volevo occuparmi delle telecamere della prigione come mi hai
chiesto, ma sorprendentemente non vi hanno ripreso, non c'era niente
da oscurare.
Lena
fissò la chat, accigliandosi.
X:
Il video non è stato manipolato, non vi ha ripreso di
proposito.
Meno lavoro per me, si intende, ma è un fatto insolito, non
trovi?
Adesso
che ci pensava, la zia di Kara pareva piuttosto in forma per essere
una prigioniera e, quando era arrivata lei, l'altra donna che aveva
visite se n'era improvvisamente andata. Forse Astra non aveva detto
alla nipote proprio tutto.
Mano
nella mano con la poliziotta, Jamie continuava con la mano libera a
pizzicarsi in mezzo alle gambe, saltellando. Lei le aveva detto di
smetterla di farlo, ma non riusciva a farne a meno poiché
non era
solita stare senza le mutandine, anche se quei pantaloni con
Michelangelo dei TMNT
che sorrideva su una natica le piacevano molto.
«Siamo
quasi arrivate, angioletto», esclamò la donna alle
porte del parco
divertimenti, dopo che la bambina aveva immediatamente sorriso: quel
posto era parso fin da subito bellissimo, con pupazzi robot ad
accoglierli sulla strada, palloncini colorati tenuti dalle mani dei
visitatori, le giostre in lontananza, le risate contagiose, i profumi
dei dolci sugli stand e le urla divertite dei bambini. Il parco aveva
aperto da pochi giorni ed era pieno di gente. Lei pagò il
ticket
solo per un'adulta, Jamie era ancora troppo piccola ed entrava
gratis, così la trascinò con sé, prima
di accorgersi che era lei a
trascinarla.
«Angioletto,
smettila di metterti la manina in mezzo alle gambe, ti guardano gli
altri bimbi, non lo sai?».
Jamie
alzò il naso avanti e indietro senza smettere di sorridere,
eccitata
di dove si trovasse. «Non ci rieshco, e shcusa, shento l'aria
shul
culetto», si giustificò, per poi tirarla e andare
a vedere la pista
dei go kart.
Mentre
la piccola si teneva incollata contro una staccionata, lei si
guardò
attorno e riprese in mano il cellulare. «Non riesco a
vedervi. Dove
diavolo siete?», domandò con palese fastidio in
una telefonata.
«Non mi dire di stare calma, non sai cosa sto passando oggi.
Ah sì,
non pensi sia faticoso? Quando la bambina ha fatto i bisognini, avrei
dovuto chiamare te. Eccola che riparte», alzò gli
occhi al cielo,
quando la vide correre sotto il suo naso. Le acchiappò una
mano al
volo, prima che si scontrasse con una gigantesca mascotte che girava
per il parco ad abbracciare e fare foto con i visitatori.
«Quindi
non sono ancora arrivati? Questa storia non mi piace, mi sta venendo
voglia di riportarla indietro… Sì, lo so cosa ci
siamo detti,
però… E non voglio finire in carcere per
questo», alla fine
sbuffò. «D'accordo. Ci risentiamo più
tardi. Voi statemi intorno,
mai dovessi perderla di vista».
Jamie
alzò gli occhietti al cielo e vide delle piccole mongolfiere
sollevarsi verso le nuvole, tenute con una corda a terra. Erano
così
belle e colorate, così libere. «Guarda»,
gliele indicò e la
poliziotta alzò gli occhi, già pronta a dirle che
lassù non
l'avrebbe portata. «Io sho fare… Lo shai cosha sho
fare? Lo shai?
Gonfiare la teshta come… come… la monfolghiera»,
sorrise e chiuse gli occhietti, pronta per replicare il suo numero
meglio riuscito.
L'elicottero
le lasciò su una pista a qualche strada dal parco. Appena
scese,
Alex chiamò un taxi e Kara accese una videochiamata con
Lena, mentre
Maggie si assicurava di avere la pistola carica sulla fondina.
Sperava di non doverla usare in un parco divertimenti, ma non avrebbe
lasciato che le portassero via sua figlia.
«Ho
il segnale gps di alcuni dei loro telefoni», disse loro Lena,
vedendole mettersi sedute sul sedile posteriore di un taxi.
«Vi
passo le coordinate. Non sappiamo con precisione dove sia Jamie, ma
Indigo l'ha vista arrivare dalle telecamere dei negozi sulla strada e
mi ha fatto entrare nel sistema del parco: ho accesso alle
videocamere, così avrò modo di
cercarla».
Maggie
e Alex si strinsero per mano, davvero in ansia per quello che stava
succedendo. Jamie era vicina, adesso, erano a un passo dal
riabbracciarla, ma al parco, quei poliziotti avevano deciso di
consegnarla a qualcuno e dovevano fare presto. Dovevano fare molto
presto. Ogni minuto che passava, era un minuto in più in cui
avrebbero potuto perderla. Era incredibile che stesse succedendo una
cosa del genere solo perché avevano deciso di vendicarsi per
Faora
Hui nel modo più bieco e cattivo che conoscessero.
Chissà com'era
spaventata la loro bambina. Alex poteva dire che era almeno un po'
anche la sua
bambina?
«Siamo
vicine», Alex annuì, scorgendo gli enormi
ottovolanti diventare più
vicini e poi l'alto muro che recintava il parco divertimenti.
Maggie
deglutì. «Se le è successo
qualcosa… io non so cosa farei. Non
so cosa… o come… Ho paura, Alex. Ho davvero
paura», prese un bel
respiro, sentendo il cuore farsi agitato.
«Ho
paura anch'io, ma vedrai che sta bene. È una bimba in gamba,
sa il
fatto suo», le sorrise. «Ha preso da sua
madre».
Maggie
non riuscì a fare a meno di delineare un fine sorriso,
breve, ma
sincero. «Ha preso da te». Le rivolse un'occhiata
curiosa e così
annuì. «Tu la influenzi molto, ti
imita… La babysitter mi ha
raccontato di averla vista, al parco, dire di avere
un'identità
segreta».
«Ma
dai, è fissata coi supereroi».
Maggie
inclinò la testa da un lato, poggiandogliela contro una
spalla e
baciandogliela. «Di giorno vende vestiti e di notte lavora
come
agente il cui capo si chiama John».
Alex
spalancò gli occhi, arrossendo. «Oookay…
è un quadro preoccupantemente preciso»,
annuì. «Devo smetterla di
parlare di lavoro di fronte a lei».
«Già».
Si scambiarono un veloce bacio che si accorsero di essere arrivate.
Decisero
di dividersi, prendendo una fetta di segnali gps a testa. Kara
sistemò il suo cellulare all'interno di una tasca del
giubbotto e,
con la videochiamata ancora attiva, poteva parlare a far vedere a
Lena e gli altri dove si trovava. Con un'auricolare nell'orecchia
destra, invece, tutte e tre potevano restare in contatto tra loro; un
piccolo omaggio del D.A.O..
«Lo
so che non c'entra niente e tutto il resto»,
esclamò Megan,
guardando a sinistra dello schermo del portatile di Lena, seduta al
suo fianco, «Ma quel parco è davvero
bellissimo». Si sentivano la
musica e le risate, oltre a vedersi, anche se lo schermo saltellava
per via della camminata di Kara, le giostre lontane. Non ne aveva mai
visto uno così grande.
Lena
controllava sulla destra dello schermo le varie telecamere del parco,
mentre, in basso, la chat aperta con il profilo misterioso le dava
altri dettagli di quelle che si erano scambiate quei poliziotti.
Al
contrario, alla sua destra, Mike non guardava lo schermo del laptop:
sguardo basso, ogni tanto scorgeva Lena, senza dire niente. Era un
sospetto, però… la loro reazione alla sua
battuta…
«Ne
ho trovato uno», mormorò Alex, toccando
l'auricolare. Guardò le
indicazioni sul cellulare e di nuovo il poliziotto: in divisa,
sembrava che stesse semplicemente lavorando al controllo del parco,
concentrato. Estrasse la pistola e gli si avvicinò addosso
tanto
rapidamente che non avrebbe avuto il tempo di reagire, poggiandogli
la canna sullo stomaco. «Andiamo a farci una
passeggiata», mormorò.
Lui ringhiò ma non ebbe scelta che fare come diceva.
«Anche
io ne ho uno», toccò l'auricolare Maggie,
raggiungendo l'uomo in
divisa. Era in uno spazio separato dalla folla, dietro una casetta di
scena, e gli arrivò di spalle, puntandogli la pistola sulla
nuca.
«Voltati lentamente».
«Sawyer?»,
sibilò, «Io lo sapevo che ci avresti trovato; i-io
non volevo
farlo, l'ho detto agli altri».
«Ho
detto di voltarti lentamente», ordinò e lui
eseguì. Tentò di
prendere la pistola, ma gli andò male: Maggie lo vide e,
rapida, gli
incassò un bel calcio contro uno stinco, costringendolo a
piegarsi.
Per fortuna, tra la musica e le urla e le risate così alte,
lui
poteva gridare quanto voleva.
Maggie
gli mise le manette, intanto che Kara continuava a girare all'interno
del parco. Lei non aveva armi ma era sicura che non le sarebbero
servite. Era così carica, adesso. Così carica che
avrebbe potuto
sfogare la sua rabbia su qualcuno. Non era da sé, lo sapeva,
ma era
davvero preoccupata per Jamie. Si domandava se… No, no,
accidenti,
doveva smetterla di pensare a quelle pillole. Poteva farcela da sola,
sapeva gestire tutto senza aver bisogno di quella porcheria firmata
da Maxwell Lord. «Hai visto dov'è
Jamie?», domandò, girandosi.
Intravide la pista dei go kart e si fermò, guardandone una
fare un
breve tratto di strada. Era certa che avrebbe sentito l'entusiasmo di
Mike, invece il ragazzo non disse neanche una parola.
«No»,
soffiò Lena, con dispiacere. «Il parco
è davvero grande ed è
pieno di persone, non sarà facile», rispose,
leggendo velocemente
la chat con Indigo che le faceva sapere che stava raccogliendo tutto
il materiale utile dalle compagnie telefoniche per fare un regalino
finale. «Se Jamie è su un'attrazione, le cose si
complicano ancora fintanto che sarà
lì», aggiunse e Mike emise un piccolo sbuffo
seccato.
«Ehi,
ne ho uno o mi sbaglio?». Kara ricontrollò i
segnali gps e sorrise
soddisfatta, avvicinandosi a un poliziotto. «Mi perdoni,
signore,
posso avere un'informazione?». Lo strinse a un braccio e lo
allontanò dal centro prima che potesse fermarla, intanto che
continuava a ripeterle a bassa voce che lui non lavorava lì.
«Mi
sono persa e ci sono brutti ceffi in giro, ho proprio bisogno
dell'aiuto di un poliziotto onesto».
«Signorina,
per favore», se la scrollò di dosso con fastidio
alle porte di una
casetta di pan di zenzero e Kara lo fissò, mettendo le
braccia sui
fianchi.
«Aspetti
un momento». Veloce, lo colpì sul naso con il
polso destro e,
approfittando del suo piegarsi all'indietro per reggerselo, lo spinse
dentro con lei. «È lei uno di quei brutti
ceffi». Si guardò
intorno e dopo chiuse la porta.
Si
accorsero presto che nessuno di loro avrebbe tradito i compagni.
Dopotutto era stato proprio il legame che li univa a Faora, una di
loro, a farli finire lì. Alex lo lasciò
ammanettato a un palo della
luce dietro la casa degli spettri quando capì che avrebbe
solo perso
tempo a stare con lui, non prima di averlo imbavagliato. Al
contrario, con il suo Maggie insistette di più. Stava
perdendo la
testa, lo sentiva. Jamie era vicina, eppure mai era stata
così
lontana. La sua bambina, quasi tutto il suo mondo. Prese un bel
respiro e si mantenne la fronte, riguardando lui con odio e
puntandogli addosso la pistola. Era inginocchiato a terra, le mani
dietro la schiena, in manette.
«Cosa
pensi che accadrà, adesso? Il capitano vi ha promesso di
fare
carriera, se aveste preso mia figlia? Se non vi arresteranno, mi
rivolgerò all'FBI, puoi starne certo», prese di
nuovo fiato a più
riprese, aiutando il battito del cuore accelerato. Lui era
lì quella
mattina, in centrale, a fare finta di niente mentre qualcuno rapiva
Jamie. A trattarla da pazza. Lui che aveva parlato male di lei alle
sue spalle per giorni e ora, per niente pago di ciò che
aveva fatto,
rideva. Poi scosse la testa.
«Il
capitano?», ripeté due volte, ridendo ancora.
«Non pensi sia un
buon capitano? Allora ti abbiamo giudicata male fin dall'inizio,
Sawyer».
«Di
che cosa stai parlando?», gli andò addosso di
fretta. «Dov'è la
mia bambina?», urlò infine, poggiandogli la canna
della pistola
sulla mandibola. Lui ebbe un sussulto e smise di ridere, forse per un
attimo ebbe paura che gli sparasse davvero, ma non parlò,
anzi
strinse con più forza le labbra e lei lo colpì
alla base del collo,
tramortendolo. Non ne poteva più di vedere la sua faccia.
«Alex…
Kara», premette l'auricolare, «Un buco nell'acqua.
Dobbiamo capire
chi di loro ha Jamie, non parleranno».
«Beh,
sì, cominciavo a notarlo anch'io»,
sbuffò Kara, lasciando andare
l'auricolare e voltandosi verso il suo simpatico prigioniero: lo
aveva costretto a sedersi su una sedia colorata come dei bastoncini
di zucchero bianchi e rossi, legato con le mani dietro la schiena con
la cinta dei suoi pantaloni, la faccia tumefatta, rossa e dipinta di
sangue secco che gli era uscito dal naso.
«Sei
manesca».
«Zitto
tu, lasciami pensare», gli ribatté, prendendo il
cellulare. Gli
aveva gettato la fondina con la pistola a un lato del muro; era stato
facile sfilargliela dopo averlo spinto mentre si reggeva ancora il
naso. «Che cosa faccio con lui? Qualche idea?».
Alzò
lo schermo del telefono e mostrò a loro il poliziotto.
«Avrei
voluto esserci», confessò Megan. «Le
idee mi vengono meglio, dal
vivo».
«Ti
arresterò per aggressione a pubblico ufficiale»,
gridò lui,
attirando di nuovo la sua attenzione.
«Ah,
sì?», Kara gli si avvicinò.
«Prima o dopo che avrai spiegato di
fronte alla legge perché indossavi la divisa fuori dalla tua
giurisdizione, non in servizio, mentre insieme al tuo gruppetto hai
rapito una bambina?».
Il
poliziotto sputò e lei si tirò indietro appena in
tempo. «Non so
di cosa parli».
Gli
frugò in tasca e prese il portafogli, mostrandolo allo
schermo,
intanto che lui si lamentava. «Tua moglie lo sa che rapisci
bambini…
George?».
«Non
è mia moglie, vaffanculo! Ora capisco perché la
signora Gand ti
vuole morta».
Kara
a quel punto si zittì e Mike si freddò, accanto a
Lena. Dovette
alzarsi dal letto e passarsi le mani sui capelli, per calmarsi.
«Lavori
per lei? Non per Zod… Ma per la signora Gand».
Lui
serrò le labbra e Kara si tirò in su gli
occhiali, esaminandolo. Fu
in quel momento che una bambina si affacciò alla finestra
della
casetta di pan di zenzero e sbirciò all'interno:
«Ma
qui si può entrare?». Spalancò gli
occhi un paio di volte per
assicurarsi di vedere bene.
Kara
fulminò il poliziotto con lo sguardo, bisbigliando:
«Parla con lei
e ti faccio fare la fine della strega di Hansel e Gretel».
Gli
indicò il forno a lato e lui deglutì, ma vide
anche la fondina,
poggiata lì sotto, mentre lei si avvicinava alla
finestrella.
«Che
cosa fa quel signore?».
«Quel
signore è un orco, è stato molto
cattivo», le spiegò, «Stai
attenta là fuori, perché è pieno di
orchi come lui».
Lei
glielo indicò. «L'orco sta saltellando con la
sedia».
«Scusa
un momento. Ehi»,
gridò, correndo verso di lui e dando un calcio alla fondina,
spingendola più indietro. Gli strinse il naso rosso e lui
emise un
verso dolorante, lacrimandogli gli occhi. «Vuoi proprio che
te lo
rompa».
«Rompiglielo.
Stupido orco», gridò anche la bambina.
«No,
tu… emh»,
scosse la testa, «Non devi imitare. E non accettare caramelle
da
nessuno».
Lena
sorrise, assistendo alla scena dal suo taschino. «Kara,
è meglio se
lo lasci perdere. Non ci dirà dov'è Jamie e
Indigo mi fa sapere di
aver trovato gli stralci di dove parlano di lei nella chat: la
faranno uscire dal paese».
A
quelle parole, gli strinse il naso più forte e George
gridò dal
dolore, intanto che la bambina alla finestra esultava. «Chi
ha
Jamie, George? Non abbiamo tempo da perdere».
«Kara,
se non lo lasci non può parlare», le fece notare
Megan.
«Putta-».
«Adesso
puoi anche romperglielo», strillò, cambiando idea,
parlandogli
sopra.
Lena
perlustrava ancora le telecamere, ma spese un attimo per guardare
Mike, che non era tornato vicino, ma era andato ad appoggiarsi al
tavolo del cucinino, guardando a terra.
«Sarei
dovuto essere lì con lei», si passò
ancora le mani fra i capelli.
«Lavorano per mia madre, sarei dovuto essere
lì», continuava a
ripetersi.
«Avresti
peggiorato la situazione», lo interruppe Megan. «Ti
stai
nascondendo da loro, ricordi? Saresti stato una palla al piede, per
Kara».
«Una
palla al piede?», lui gridò tanto forte che lo
sentì la stessa
Kara, che continuò a frugare nel portafogli.
«Pensi che io possa
essere solo una palla al piede, per lei?».
Megan
sospirò e si astenne dal rispondere, ma Lena non lo fece.
«Sta
cercando di dirti che saresti stato d'intralcio in questo momento,
non che lo saresti nella sua vita».
Lui
la fissò. Sembrava che la discussione stesse terminando, ma
era solo
l'inizio. «Sei tu, vero?». Lena alzò un
sopracciglio, cercando di
capire, vedendolo trattenere una crescente agitazione. «Il famoso
ragazzo
di Kara, sei tu. Sei sempre stata tu», spalancò la
bocca e si portò
di nuovo le mani sui capelli lunghi, con fare stressato. «Eri
tu la
moretta con cui si era baciata alla partita… stiamo parlando
di
mesi e mesi fa, come ho fatto a essere così
scemo?!».
Megan
si sedette di nuovo accanto a Lena, abbassando la voce. «Noi
proprio
non ce lo chiediamo…».
Lena
abbassò gli occhi, riguardando le telecamere, passando da
una
all'altra. «Non è il modo né il momento
adatto per parlarne».
«Ma
tu sei… una ragazza! Com'è successo?».
Megan
spalancò gli occhi, bisbigliando ancora: «Io il
disegno non glielo
faccio».
Kara
era ancora vicina al poliziotto legato, in quel momento e, guardando
attraverso lo schermo il volto di Lena che si sforzava per restare
concentrato, sentì una fitta dentro.
«Oh,
odio queste stronzate d'amore», decretò il
poliziotto e Kara
aggrottò la fronte.
«Chiudi
il becco, tu».
«Già,
chiudi il becco, brutto orco», esclamò la bambina.
La
poliziotta era in preda a profonda agitazione. La bimba stava finendo
i suoi giri sul pony della giostrina e lei, appoggiata alla ringhiera
con fare esausto, attendeva con i genitori degli altri passeggeri
intanto che teneva d'occhio il cellulare. Non l'avevano ancora
chiamata e ciò poteva solo significare che non erano ancora
arrivati, per lei. Prima l'avrebbe consegnata, prima sarebbe tornata
a National City; non ne poteva più di quella situazione.
Quando il
giretto finì, la aspettò all'uscita, vedendola
arrivare con un
grosso sorriso stampato in faccia e delle graziose fossette sulle
guance. Era carina, lo ammetteva. Si stava davvero pentendo di aver
accettato di farlo. Le prese una manina e si misero a camminare.
«È
bellisshimo queshto poshto! Lo devo dire alle mie amiche che non ci
credono a queshto poshto, non lo shanno che c'è queshto
poshto».
«Non
sei un po' stanca?».
«Un
po' sholo, ma proprio poco, eh… Dov'è la mia
mamma?».
Lei
alzò gli occhi al cielo, perché sperava che non
le avrebbe mai
posto quella domanda. E naturalmente sospirò, prima di
risponderle.
«Ti avevo detto che sarebbe stata qui, ma non può
venire».
«Perché
no?».
«Perché
è occupata, angioletto. Vedi, la tua mamma non è
proprio una brava
mamma».
«Shì
che lo è, shì che è brava, certo che
è brava», la difese subito
e la donna la portò verso un tavolino con l'ombrellone
aperto,
sedendo lì, per riposare. Riguardò l'ora e non
c'era ancora nessuna
chiamata o messaggio. Che avessero cambiato idea senza avvertirla?
Impossibile.
«No,
Jamie. Vedi, le mamme vere stanno con i loro bambini ma lei ti lascia
sempre con altri». La piccola la guardava con attenzione,
ascoltando. «Ha lasciato che ti prendessi e non se
n'è nemmeno
accorta, angioletto». Jamie aprì la bocca per
parlare e aggrottò
la fronte dallo sforzo, ma lei la anticipò: «Le
mamme si prendono
cura dei bambini».
«La
mia mamma lo fa shempre! Anche io lo farò quando
sharò vecchia come
te! Avrò molti… molti bambini, shì,
tanti bambini», annuì.
«Avrò tanti bambini con Alex, perché
è bella Alex».
«Oh,
angioletto, a te manca proprio avere un papà». La
vide scuotere la
testa perplessa e proseguì: «Beh, anche solo di
una mamma come si
deve, di quelle che ti rimboccano le coperte e ti danno il bacio
della buonanotte. Una mamma vera», insisté e
finalmente la vide
spalancare gli occhi, come avesse colto qualcosa. «Hai
capito?».
«Shì,
certo che ho capito, io capishco tutto, le mie amiche invece non
capishcono tutto», scese dalla sedia quando vide passare il
carretto
dello zucchero filato, continuando a fissarlo, assorta.
«Allora io
ne ho due di mamme. Me lo compri quello? Allora, me lo
compri?».
Lo
indicò e corse tanto veloce che dovette fare presto per
starle
dietro. «Beh, ne avrai presto una sola, e nuova».
Alex
ne aveva già presi tre e ammanettati. Aveva finito le paia
di
manette, ma non sarebbe stato quello a avvilirla. Doveva sbrigarsi.
Jamie era ancora là da qualche parte e si portò
le mani sui
capelli, prendendo fiato. Era anche la sua bambina, quella di cui si
era tanto innamorata e la voleva indietro.
«Non
la troverete», le fece sapere l'ultima acciuffata, mantenendo
basso
lo sguardo.
«Scusami?».
La vide sorridere e si avvicinò, stringendo le manette che
la
tenevano bloccata alla sbarra di metallo della passerella di una
giostra, a lato del fabbricato. «Lo trovi divertente? Ha tre
anni».
Era alla centrale quella mattina e attaccava briga con Maggie. Che
faccia tosta.
«Hai
sparato a una di noi».
«E
allora vi prendete la figlia della mia compagna? Occhio per occhio?
Faora avrebbe ucciso mia sorella».
Lei
si morse un labbro, guardandola con sfida. «Avresti dovuto
lasciare
che la uccidesse… Hai solo tardato qualcosa di
inevitabile».
«Sai
qualcosa?».
«No»,
scosse la testa, «Ma avrei voluto. Forse se lei ci
inizierà, come
Faora ci aveva promesso… Abbasserai la cresta, Danvers,
vedrai».
«Lei?»,
strabuzzò gli occhi. Rhea Gand doveva iniziare questi
agenti? A
cosa? L'organizzazione? «Chi di voi ha Jamie?
Parla», batté un
pugno sul muro, accanto alla sua orecchia sinistra, ma lei si
limitò
a stringere gli occhi.
«Non
farete in tempo», disse allora. «La vostra Jamie
troverà presto
una nuova famiglia».
Alex
pestò un altro pugno e corse via, ignorando i due bambini
che si
erano avvicinati incuriositi attirati dai rumori.
«Ma
quindi siete state a letto o qualcosa di simile?», Mike si
era fatto
insistente.
«Non
il modo né il momento», ribadì Lena,
arrossendo.
«Kara
mi ha lasciato per te? Per una donna?».
«Mike,
per favore, basta adesso», disse anche Kara attraverso il
cellulare
che mostrava di nuovo le immagini del parco.
«Voglio
capire se mi hai davvero lasciato per una donna».
«No»,
si mise in mezzo Megan, alzando la voce. «Non ti ha lasciato
per
nessuno, ma perché siete incompatibili e non lo vuoi
capire».
Lui
si accigliò, quasi ferito. «Tante parole per non
rispondere alla
mia domanda: quando si sono conosciute, Kara stava con me. Quindi mi
ha lasciato per lei».
«Basta,
davvero», urlò Kara, guardata male da alcuni
visitatori del parco.
Prese il cellulare e fissò verso l'obiettivo:
«Quando ci siamo
messe insieme, noi ci eravamo già lasciati. E adesso non sto
più
nemmeno con Lena, quindi smettila una volta per tutte o sarò
costretta a chiudere la videochiamata». Riportò il
cellulare sulla
tasca e a camminare mentre Lena, che recuperava fiato e cercava di
restare il più impassibile che poteva, si concentrava sulle
telecamere. Non stavano più insieme. Sapeva che non stavano
più
insieme ma come lo disse, in quel modo, senza preoccuparsi delle
parole usate, le fece male. Come se non ci fosse più
speranza, per
loro. Ma doveva ingoiare il boccone amaro e passare oltre, ripetendo
che non era il modo né il momento adatto. Forse non si
sarebbero
sentite dopo,
quando sarebbe tornata, dopotutto. «Trovata»,
sibilò a un certo
punto, attirando le loro attenzioni. «Trovata»,
disse più forte,
trattenendo un sorriso. Doveva pensare solo a Jamie, adesso. Stavano
uscendo da un bagno e la piccola si punzecchiava in mezzo alle gambe.
«Ti invio la posizione, avverti Alex e Maggie».
La
poliziotta la riprese per mano. «Per fortuna non avevamo
ancora
preso lo zucchero filato, angioletto», sospirò,
portandosi l'altra
mano sul petto. «Se non fossimo arrivate in tempo, saresti
dovuta
uscire mezza nuda, da quel bagno. Ti dico una cosa: tu sei il motivo
per cui non avrò mai dei figli», annuì,
guardando la bimba intanto
che si avvicinavano dallo zucchero filato. «Mai»,
sottolineò, «Sarà un fantastico
anticoncezionale: appena un uomo
me lo proporrà, mi si seccherà».
«Che
cosha si shecca? Un fiorellino?».
«Una
specie di fiorellino molto speciale, angioletto».
Mike
era da un lato della stanza a pensare e Megan e Lena tenevano
d'occhio le due attraverso la telecamera. «Le compra lo
zucchero
filato», le fece notare la prima, «C'è
una guardia, più in là».
Intravidero un poliziotto del parco: la divisa era diversa,
più
chiara, non poteva essere un agente di National City.
Lena
tenne d'occhio l'uomo e aprì diverse pagine di dati.
«Forse riesco
a risalire a lui». Zoomò la telecamera e gli vide
il tesserino sul
petto, continuando a digitare. «Sono all'intero del sistema,
non
devo neppure chiedere aiuto a Indigo… Ci sono quasi. Fatto»,
sorrise soddisfatta e lo videro dalle telecamere leggere sul
cercapersone e poi guardarsi intorno, così Megan le chiese
cosa
avesse fatto di preciso. «Una segnalazione: donna che si
finge
poliziotta cerca di rapire una minore». Lo video avvicinarsi
alla
donna e lei scrollare le spalle.
«Oh,
le sta controllando il distintivo», esultò Megan.
«Noterà che è
una poliziotta di National City e si farà due
domande».
«L'idea
era quella… ma Jamie si sta allontanando». La
videro correre verso
una giostra, con il bastoncino dello zucchero filato stretto tra le
piccole dita. «Kara, si sta allontanando».
«Ci
sono». Era vicina. Vide la bambina, l'agente del parco che
scortava
la poliziotta da un'altra parte e poi lui: un ragazzo in divisa si
avvicinava rapidamente verso Jamie. «Ehi, dove credi di
andare?!»,
lo acchiappò per un polso e lo rovesciò a terra,
rialzando lo
sguardo. «Accidenti», si guardò intorno
e toccò l'auricolare,
«Ragazze, l'ho persa». C'era troppa gente, era
sparita in un
attimo.
«Sono
vicina», rispose Maggie. Correva dietro due attrazioni, il
cuore in
panne, c'era quasi. Era pieno di bambini, ma avrebbe riconosciuto la
sua in un secondo, le bastava uno scorcio, una ciocca dei suoi
capelli, il modo di camminare. C'era quasi. E invece riconobbe lei.
Usciva da un piccolo edificio, quello che usavano le guardie del
parco. Doveva essere la poliziotta che era stata fatta scortare poco
fa. Quella che aveva Jamie. Aveva preso lei
sua figlia…
«Ferma».
C'era così tanta gente che nessuno badò a lei che
le puntò contro
la pistola. La vide voltarsi con quello sguardo quasi dispiaciuto che
le mosse qualcosa dentro e fece una smorfia, disgustata. «Tu
hai
rapito la mia bambina… Sei una di loro?!». Non che
sperasse in una
risposta, in realtà.
Grace
sospirò, socchiudendo gli occhi solo un attimo e annuendo.
«Te
l'avevo detto, Maggie… Noi
contro loro.
Tu hai scelto da che parte stare e così anch'io. Volevo solo
farne
parte, non avrei torto un capello a quella bambina».
«Stai
zitta», a quel puntò gridò e la gente
cominciò ad accorgersi di
loro: due donne distanti un metro, solo una vestita da poliziotta, ma
era l'altra ad avere in mano la pistola. Scattarono le prime urla e
tutti a correre via, a ritirare i bambini dai giochi, a nascondersi
dietro i pilastri, alle attrazioni, ai carretti del cibo.
«Erano
pochi i colleghi di cui mi fidavo, pensavo-».
«Che
fossimo amiche?», concluse l'altra, con voce dolce,
mordendosi un
labbro. «Non volevo farlo, ma-».
«Ma
che cosa? Hai pensato che fosse giusto prendere mia figlia e farla
uscire dal paese perché Faora è in coma? Ti rendi
conto che non ha
senso?».
«Tu
non capisci, Maggie! Faora era importante per noi, ci avrebbe fatto
entrare», si zittì e delineò un altro
sorrisetto, «Tu non sei
tagliata, non avrei potuto parlartene. Non era niente di
personale».
«Lo
è diventato», rispose seccamente. Si
avvicinò con fretta e sperò
di darle un colpo, ma Grace si inchinò in tempo e la spinse
a terra.
Maggie le fece lo sgambetto ma perse la pistola, troppo vicina
all'altra: le bastò allungare una mano per recuperarla. Si
alzarono
in piedi intanto che la musica del parco aveva lasciato il posto per
una sirena e una raccomandazione da parte dello staff che suggeriva
ai visitatori di mettersi al sicuro. Presto sarebbero arrivate le
guardie del parco. Grace le puntò contro la pistola, tenendo
la sua
dietro la schiena. «Mi sparerai, adesso?».
«No»,
mugugnò, aggrottando la fronte, «Devo solo
trattenerti, mi spiace,
Maggie… ma se ti lascio andare, loro non mi faranno
entrare».
Eccolo.
Stava arrivando una guardia e avrebbe perso altro tempo. No,
accidenti, quello che vedeva era molto peggio: alto e muscoloso,
sguardo arrogante, Kweskill era uno dei colleghi che più si
era
divertito a importunarla da giorni. Grace sembrava felice di vederlo:
«Finalmente
si fa vivo qualcuno, ho dovuto stordire la guardia all'interno, mi
avete lasciata sola», si lamentò. «Dai,
aiutami, Charlie», gli
passò la pistola di Maggie e lei lo guardò con
odio, immobile.
Maggie
sapeva che doveva pensare a cosa fare alla svelta: poteva scappare,
doveva correre da Jamie, ma erano entrambi armati e Kweskill era
agile, per essere grosso. Forse Kara era ancora nei paraggi, o Alex.
Anche se una parte di lei sperava che nel frattempo avessero
già
trovato Jamie. Le bastava allungare la mano verso l'auricolare, senza
essere notata.
«Portiamo
Maggie lontano, poi vediamo di… di lasciarla,
vediamo», esclamò
lei, agitandosi; si notava che stava improvvisando. «Questa
sirena
mi sta frantumando i timpani e ho mal di testa, ma tra poco
arriveranno le guardie». Stava per chiedergli cosa stava
aspettando
che lui, veloce, girò la pistola che gli aveva passato e,
con il
dorso, la colpì alla base del collo, stordendola all'istante
e
facendole perdere conoscenza.
La
prese e la adagiò sui ciottoli, sorridendo a Maggie, che
rimase
esterrefatta. Poi mise il dito indice sulle labbra e le fece segno di
tacere, passandole la pistola. «Questo non gioverà
al suo mal di
testa».
Charlie
Kweskill l'aveva appena aiutata?
C'era
gente che urlava. Che si nascondeva. Le guardie del parco erano
bloccate dalla calca che chiedeva di essere protetta; era scoppiato
il panico che si era diffuso un po' ovunque in zona. C'erano troppi
bambini che correvano e genitori che strillavano i loro nomi per
ritrovarli. Anche Alex era una di loro. Gridava il nome di Jamie ma
non la vedeva. Kara le rispose che la stava cercando. C'era troppa
confusione, troppe voci; era certa che nemmeno Lena alle videocamere
sarebbe più riuscita a individuarla, in quel modo. Allora si
fermò
e prese un bel respiro: Jamie era da sola, adesso, nessuno avrebbe
scelto per lei dove andare. Sperando che qualcuno del gruppo non
fosse riuscito a trovarla prima di loro. Dove sarebbe andata da sola
una bimba di tre anni in un parco divertimenti come quello? Cosa le
piaceva? Corse verso il tabellone della mappa e all'improvviso ebbe
un'intuizione.
La
gente scappava da una parte all'altra, ma a Jamie non interessava:
era lì, ferma con le manine poggiate su una ringhiera,
guardando
sognante le luci colorate dell'arcobaleno dell'immensa fontana. La
sua bocca spalancata dalla continua sorpresa. Allora Alex la
chiamò
e le corse incontro, così la bambina si voltò
subito e sorrise,
indicando l'acqua.
«Hai
vishto?», la piccola l'abbracciò quando la prese
in braccio.
Alex
la strinse forte, prendendo un bel respiro. Il peso allo stomaco le
si stava attenuando, si sentiva più leggera, felice. Era
lì con
lei, adesso. Era salva. Si toccò l'auricolare e
faticò per riuscire
a parlare, respirando a pieni polmoni e continuando a sorridere.
«Maggie, è con me. L'ho presa. Jamie è
al sicuro».
«Mi
è caduto lo zucchero filato», la sentì
lamentare, «Mamma, me lo
compri un altro?». La guardò e Alex
spalancò gli occhi già
lucidi.
«Come
mi hai chiamato?».
«Allora,
me lo compri?».
Avevano
cercato di non mettere fretta al loro rapporto abitando in due
appartamenti diversi, anche se stavano quasi tutte le sere assieme da
una o dall'altra, perché pensavano sarebbe stata la cosa
giusta da
fare essendoci una bambina di mezzo. Alex non voleva che Jamie
chiamasse Kara zia,
né che pensasse a Eliza come sua nonna, ma solo come a una
nonna.
Era un modo per tutelarsi se Maggie, prima o poi, avesse deciso che
lei e la propria famiglia non dovevano più avere a che fare
con la
figlia. Stavano insieme, si trovavano bene insieme, erano innamorate,
ma per quanto lo sarebbero state? Era certa che Maggie fosse la donna
della sua vita, e che Jamie lo era ancora di più, ma la vita
stessa
era imprevedibile e la ragazza le aveva parlato spesso delle sue
passate relazioni e di come, in fondo, temesse che non sarebbe
durata. Non volevano accelerare le cose per non turbare la bimba se
si fossero separate. Eppure, appena Alex la sentì chiamarla mamma,
tutte le incertezze volarono via. E, a quel punto, niente fece
più
paura.
Maggie
lasciò Charlie Kweskill da una parte della piazza e corse da
Alex e
Jamie, stringendole, baciando sua figlia, baciando lei. Alex gliela
lasciò prendere in braccio e la strinse forte da mancarle il
fiato.
Si erano ritrovate, erano insieme, era finita.
Lena
disse a Kara che avrebbe mandato l'elicottero a prenderle e la
seconda spense la videochiamata, lasciandola con un sorriso.
«Che
tenerezza, vero?».
Kara
si voltò e il ragazzo le sorrise, stringendo le braccia a
conserte e
facendole l'occhiolino. Alto e massiccio, indossava la divisa. Era
uno di loro? Non aspettò le sue spiegazioni: gli
sferrò subito un
destro.
Indigo
mantenne la parola data e lasciò un regalo entro serata:
all'improvviso, tutte le varie chat dove quel gruppo di poliziotti
cospirava contro Maggie Sawyer e Alex Danvers organizzando il
rapimento della bambina furono online. Non mancava neanche un
passaggio, completi di nomi e cognomi. Quando le ragazze tornarono a
National City, il caso era già scoppiato e gli Affari
Interni
irruppero in centrale quella stessa sera per accertamenti. Anche se
le chat erano state pubblicate da diversi profili anonimi e
irrintracciabili su più piattaforme, e quindi inutilizzabili
al fine
di un processo, le compagnie telefoniche confermarono ogni dato e
ognuno di loro, da Metropolis, fu arrestato. Compresi due uomini che
avrebbero avuto il compito di portare all'estero la bambina. Zod non
sembrava entusiasta dello spettacolo che ne era scaturito,
soprattutto dal momento che, ora, l'intera centrale sarebbe stata
sotto indagine e dovevano ancora risolvere l'omicidio del senatore.
Ne uscì fuori che conosceva i fatti e che per questo, un suo
uomo
fidato, si era infiltrato tra loro per risolvere la faccenda. Non per
niente, Charlie Kweskill non fece nemmeno un'ora di galera, uscendo
pulito. Anche se con un occhio nero.
Maggie,
Alex e Kara erano dovute andare in centrale per depositare le loro
testimonianze, mentre veniva avvertito il capo della seconda, e
videro Charlie Kweskill rientrare dandosi le arie di chi sapeva
troppo stampato in faccia. Ne convennero che non tutti i colleghi di
Maggie erano uguali. Se quel gruppetto voleva entrare nelle grazie di
Rhea Gand, era chiaro, a quel punto, che la donna e Zod non dovevano
proprio trovarsi dalla stessa parte. Astra aveva detto a Kara che la
donna voleva conquistare il potere, ma che il nuovo presidente
dell'organizzazione si era insediato prima di lei e aveva nascosto al
mondo la loro presenza, rovinandole i piani. Lena era ancora convinta
che il nuovo presidente fosse proprio Dru Zod. Se era davvero
così,
allora forse stavano respirando l'inizio di un nuovo noi
contro loro:
due fazioni della stessa organizzazione che seguivano ognuno una
corrente diversa e il sorriso di Charlie Kweskill era, in proposito,
piuttosto eloquente.
Avrebbero
dovuto cominciare a schierarsi?
E
voi, per chi vi schierereste? Rhea, Zod o… nessuno dei due?
Tutto
sta a vedere come ci finiranno nel mezzo, bene o male, le
protagoniste di questa fan fiction.
E
così Jamie è stata ritrovata, e grazie anche
all'aiuto di Indigo,
riapparsa proprio nel momento del bisogno. La bimba ha capito di
avere due madri e Alex è stata la prima ad appurarlo e credo
che non
possa esserne più felice. Maggie ha scoperto con orrore di
Grace: era una delle poliziotte di cui si fidava, ma in realtà non
poteva
fidarsi affatto. A correre in suo aiuto questo Charlie Kweskill, che
lavora indubbiamente per Zod anche fuori dalla centrale di polizia.
Intanto,
oltre al funerale di Lar Gand, c'è Mike che scopre che Lena
e Kara
stavano insieme. (Grazie, risatina soffocata di Megan! XD) Come la
prenderà il ragazzo, secondo voi?
a)
Accetterà che le due abbiano avuto una relazione in
serenitahahahah
b)
Ha ben altro per la testa, quindi lascerà perderahahahah
c)
Se ne farà una ragionahahahah
d)
Si comporterà da persona maturahahahah
Ciò
che più preoccupa è come sta vivendo Kara la
cosa: non ha
esattamente perdonato Lena e forse pensa di non doverlo fare, mentre
non si toglie dalla testa l'idea delle pillole prodotte da Maxwell
Lord. Dal canto suo, Lena capisce Kara, ma è indubbio che
questa
situazione, anche come lei abbia affrettato a chiudere il discorso
sulla loro relazione, la fa stare male. Le ha sentito mettere un
punto alla cosa, l'ha ferita. Non che probabilmente, ormai, pensasse
che sarebbe andata diversamente.
Su,
su, non disperate come Lena, non è mai tutto perduto!
Cosa
ne pensate di questo capitolo?
Qualche
nota ~
-
Charlie Kweskill non è stato inventato. Nei fumetti
corrisponde al
nome di Quex-Ul,
un kryptoniano esiliato nella Zona Fantasma. Charlie
Kweskill è
il suo alias anche nei fumetti (uno
di due, per la precisione, ma mi piaceva di più Charlie).
Ha un cognome complesso, ci ho messo capitoli per impararlo a dire XD
E spero di dirlo in modo corretto; a scrivere… per fortuna
esiste
la correzione
automatica XD
-
George e Grace li abbiamo già “visti”:
il primo era il
poliziotto che, in pattuglia con Maggie, brontolava su Mike, Rhea e
Faora, e che poi le ha puntato la pistola contro “per
scherzo”
(cap 39); la seconda è la collega che prendeva il
caffè bollente
con Maggie una mattina, parlando appunto d ciò che aveva
fatto
Faora, dei loro colleghi ostili e degli Affari Interni che sarebbero
passati a parlare con Zod (cap 38).
-
Piccola curiosità legata al capitolo: questo è
l'ultimo capitolo del secondo file della fan fiction e si intitola
Noi contro loro, mentre il primo capitolo del file
è quello
che si intitola Noi e loro. Neanche a farlo
apposta!
E
ora… Cosa faranno Rhea e Zod? Vi fidate di Indigo (o del
profilo
misterioso dietro di lei)? Kara scapperà ancora da
ciò che è
successo tra lei e Lena? Lena cercherà di mantenere la
promessa
fatta a Kara due capitoli fa, sul fermare Rhea? Cosa
accadrà? Lo
scopriremo presto ~
Ci
si rilegge lunedì 18 con il capitolo 42 che
porterà con sé
qualche succosa svolta: Un
passo avanti!
|
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Capitolo 43 *** 42. Un passo avanti ***
Erano
passati appena tre giorni da quando, riportata Jamie a casa, le
ragazze avevano scoperto che Rhea Gand e il Generale Zod, pur facendo
parte della stessa organizzazione, si dovevano trovare ai due vertici
opposti. Charlie Kweskill
si era infiltrato nel gruppo di poliziotti che cospirava contro
Maggie e Alex per farsi notare da Rhea; Faora Hui doveva averli
convinti che la donna potesse iniziarli, come una di loro aveva detto
ad Alex. Anche Grace, colei che aveva preso Jamie dalla babysitter,
aveva spiegato a Maggie che lo aveva fatto solo per poter entrare a
farne parte. Peccato che non avessero spiccicato parola quando erano
stati interrogati dall'FBI, insediato nel distretto dopo il fatto.
Avevano interrogato tutti i poliziotti in cerca di altre mele marce e
subentrati con la forza per dare un contributo generale in centrale
in mancanza di agenti e, ovviamente, per lavorare fianco a fianco nel
caso della morte del senatore Gand. Dapprima per niente entusiasta,
Maggie notò in fretta un cambiamento in Zod, adoperandosi
per
collaborare. Come se niente avesse potuto piegarlo e, certo, questo
aveva contribuito ad avvalorare la teoria secondo cui fosse il nuovo
presidente. Se ciò era vero, forse Zod avrebbe fatto di
tutto per
far arrestare Rhea e, al tempo stesso, la donna avrebbe fatto tutto
quello in suo potere per buttarlo giù dal trono che voleva
per sé.
Intanto, proprio come non era passata neanche una volta a trovare
Faora in ospedale, Rhea non si era nemmeno avvicinata ai poliziotti
che, per lei, avrebbero fatto di tutto. Chissà che ci
fossero
rimasti male.
Kara
odiava restare con le mani in mano. Potendo riabbracciare Jamie e
vederla insieme a sua sorella e Maggie, di nuovo al sicuro, le aveva
smosso dentro qualcosa. Si chiese spesso cosa sarebbe successo se non
fossero arrivate in tempo. Quella situazione stava diventando troppo
grande per loro, per lei. Prima Rhea che mandava qualcuno a ucciderla
e salvata, chissà, solo grazie all'intervento di Alex. Poi
tutti che
le nascondevano qualcosa, da sua sorella a John, a Lillian. A Lena. E
gli agenti del D.A.O che le facevano ancora da scorta; riusciva a
seminarli se voleva, e Alex la sgridava. I Luthor che, da presidenti
dell'organizzazione, avrebbero potuto salvare la sua famiglia, in
passato, e non l'avevano fatto. A Rhea che li aveva uccisi e che non
si sarebbe arresa per salire al potere. Kara sentiva che stava per
perdere il controllo. Era troppo. Era troppo tutto insieme, troppo.
Stava cedendo. Era seduta sul letto in camera al dormitorio e
alzò
lo sguardo verso l'armadio davanti. Mettendo a fuoco un'anta, nel
buio. Sapeva che stava cedendo. Perfino sua zia Astra la stava
mettendo in crisi. Era convinta che l'organizzazione potesse fare
cose buone, non nascondendole il fatto di farne ancora parte, seppure
in prigione. Era andata a trovarla di nuovo, da sola, ma le avevano
detto che era indisponibile. Le aveva detto che non sarebbe
più
dovuta andare a trovarla, ma davvero non credeva che le avrebbe
negato la visita. Per quale ragione lo avrebbe fatto? Sperava che
l'avrebbe aiutata a trovare qualcosa contro Rhea, accidenti. Non
poteva semplicemente aspettare che il Generale vincesse la guerra
contro quella donna. Se non altro, perché in quel caso il
detto
sbagliava e il nemico del suo nemico non era affatto un amico, ma un
altro nemico, forse addirittura più subdolo.
L'organizzazione tutta
era sua nemica. L'importante ora era tenersi impegnata. Restare
concentrata sull'obiettivo e non permettere alla sua testa di cedere.
Riguardò l'anta dell'armadio e scosse la testa. Non doveva
davvero
cedere. E poi, beh, ogni tanto le riusciva anche di studiare per gli
esami. Era
indietro, accidenti.
Mike
si girò di nuovo, grattandosi un fianco. Non riusciva a
dormire, si
muoveva di continuo e Kara cercava di ignorarlo. Il ragazzo era sul
pavimento, tra il letto di Megan e il suo, sdraiato su un materassino
da divano che alcune studentesse del complesso avevano prestato alle
loro giocatrici di lacrosse preferite. Sentiva caldo e tirava
giù la
coperta. Poi freddo e la tirava su. E si girava. Kara non lo
ricordava così fastidioso. Sul letto, aveva acceso una
piccola
lucetta da lettura e portato dall'armadio la vecchia scatola che
conteneva alcune delle lettere che le aveva spedito sua zia da Fort
Rozz in quegli anni. Se non poteva aiutarla faccia a faccia, forse
poteva farlo da quelle. Finalmente aveva il coraggio che le serviva
per aprirle.
Piccola
mia, oggi è il grande giorno: finalmente sedici anni! Tanti
auguri!
Come festeggerai il tuo compleanno? Ti porteranno fuori in un locale?
Attenta ai ragazzi, so già che sbaveranno tutti per te.
Kara
ansimò, ricordando il suo sedicesimo compleanno: Jeremiah
aveva
invitato lei e Alex a stare da lui nella sua seconda casa a National
City dal divorzio con Eliza; aveva preparato tutto l'occorrente,
dalle candeline ai cupcake, dai palloncini appesi sul soffitto alla
tovaglia colorata, poi però aveva lasciato la torta nel
forno troppo
a lungo e si era bruciata, la casa si era riempita di fumo e le aveva
portate fuori al fast food. Le aveva detto che le avrebbe voluto fare
qualcosa di speciale e che forse era troppo grande per una festa di
quel tipo, il che era indubbiamente vero, eppure era stata una delle
giornate più belle e divertenti trascorse con lui. Era
andata avanti
con la sua vita mentre sua zia si perdeva tutto, di lei. E avrebbe
continuato a perdere ogni cosa se fosse rimasta in
quell'organizzazione. Per un attimo, si chiese come lo avrebbe
trascorso se ci fosse stata lei o, meglio ancora, se ci fossero stati
i suoi genitori. Era quasi tentata di non leggere più, ma
doveva
capire. Così ne aprì un'altra.
Kara,
devi venirmi a trovare perché devo parlarti. È
davvero importante,
troppo urgente! I giornali scrivono che la tua madre adottiva si
è
fidanzata con Lillian Luthor. La conosco, Kara, devi sapere alcune
cose che non posso scriverti. Quindi ti prego, vienimi a trovare se
stai leggendo questa lettera. Ho bisogno di vederti. Ti voglio bene.
Kara
la rimise all'interno della busta, rificcandola nella scatola e
tirandone fuori altre, a caso.
E
così Lillian Luthor ha sponsorizzato una mostra di
fotografia sulle
barriere architettoniche. Mi fa piacere saperlo; quando ero in
servizio, ho avuto a che fare con molti progetti del genere. Non per
la polizia. Alcuni amici ed io abbiamo devoluto dei fondi per
costruire strutture di ricerca, al tempo. E ci dedicavamo a rendere
più sicure le nostre strade. Sapevi che tuo padre lavorava
con tuo
zio a qualcosa di simile?
Kara
si accigliò, stringendo la lettera. Di cosa parlava?
Era
un progetto che a me e questi amici interessava molto, volevamo
finanziarli, ma le cose sono andate male, a un certo punto. Non posso
parlartene per lettera, è una cosa delicata, Kara. Ma devi
saperlo,
anche se non sono certa che capirai queste parole: c'era un'altra
strada, un caro amico ci teneva molto ad entrare in affari con loro,
ma le cose sono andate male. E questo lo sai anche tu.
Te
lo scrivo nel caso mai leggessi, anche se, dopotutto tutti questi
anni, ho i miei dubbi. Magari le getti nella spazzatura e non ci
pensi più. Ma io ci riprovo perché credo in
quello che ho fatto e
sono pentita di ciò che non ho potuto fare e vorrei che tu
sapessi
quanto ti ho voluto bene allora e te ne voglia ancora. Sei l'unica
famiglia che mi è rimasta.
Kara
restò a bocca aperta e le si seccò la gola. Era
un po' infastidita
che lei la considerasse la sua famiglia nonostante tutto, ma
ciò che
disse su suo padre e suo zio le interessava. Prese il cellulare e
scrisse un lungo messaggio a Lena, citandole alcune parti della
lettera. Ma, appena prima di inviare, ci ripensò.
Restò con il
pollice a mezz'aria e, stringendo le labbra, lo archiviò,
accanto
agli altri messaggi scritti per lei. All'inizio erano loro due, ma
adesso non aveva più la stretta necessità di
confidarsi con lei,
dopotutto. E no, stupidi
pensieri,
non aveva a che fare col perché Lena le aveva tenuto
nascosto dei
Luthor, ma perché… Sbuffò. Forse era
così. Forse era ancora
arrabbiata. Forse non le sarebbe passata. Rimise la lettera nella
busta. Forse… Riguardò l'anta dell'armadio e
strinse la busta
della lettera. Sapeva solo che le cose erano cambiate e che non
sarebbe riuscita a inviare quel messaggio né gli altri.
«Smettila
di sbuffare, ti sento e non riesco a dormire»,
borbottò lui
all'improvviso.
«Smettila
tu di muoverti, fai venire il mal di mare. Mica ci saranno le
pulci».
«Non
sono tanto sicuro che questo materasso non le abbia… Ed
è
scomodo».
«Non
dormirai qui con me».
Lui
si zittì, girandosi di nuovo. «Hai trovato
qualcosa che possiamo
usare contro mia madre?».
«No…»,
ansimò, «Mia zia sta ben attenta a non nominarla
mai, non nomina
nemmeno mai l'organizzazione, si riferisce solo ad amici, lavori
extra, cose di questo genere». Ne sfogliò alcune e
infine mise
tutto via, di nuovo dentro la scatola, piegandole per farcele stare.
«Pensavi a qualcosa?». Lasciò la scatola
ai piedi del letto e si
portò sotto le coperte, mettendo occhiali e cellulare sulla
mensola.
«Se
abbiamo l'arma del delitto, per esempio…?».
«Cosa?».
Kara si scoprì di nuovo e abbassò la testa.
«Sai dov'è?».
«Mia
madre ha una pistola, certo che so dov'è! È nel
salotto a fianco
alla camera da letto, nella cassaforte incastonata nel muro, dietro
un quadro. Ci nascondeva anche dei soldi e andavo a fare
rifornimento».
«E
me lo dici adesso? Sei qui da giorni, accidenti»,
gettò una mano
sotto al letto e picchiettò a caso, mentre lui si riparava
la
faccia; all'inizio infastidito e dopo mettendosi a ridere.
«E
scusa», sorrise, guardandola. «Sempre
così tra noi, eh?».
Il
sorriso di Kara, invece, si spense, ritornando a mettersi comoda sul
materasso. Gli diede la buonanotte a breve, mentre riprendeva il
cellulare e inviava un messaggio a Selina Kyle: non sapeva bene
perché, o forse lo sapeva, ma era certa che se avrebbe
voluto
compiere un'effrazione, lei avrebbe saputo darle dei consigli. Ne
inviò uno anche a Kal con gli aggiornamenti su sua zia e
dicendogli
che forse sarebbe riuscita ad avere l'arma che aveva ucciso Lar Gand.
«Ma
fa sempre così? Sono certo di averla sentita anche
ieri».
Kara
si voltò, ascoltando Megan: «I bianchi…
arrivano. No, bastardo,
arrivano».
Si
accigliò, annuendo. «Yep.
Ma credo che il bastardo
non sia casuale». Chiusero gli occhi, mettendosi a dormire.
Con
grandi probabilità, Kara aveva ragione: Megan aveva lasciato
John
quando lui le disse del suo reale lavoro. Si era sentita presa in
giro e questo stava influenzando sul suo rendimento sul campo di
lacrosse, non accettando i suoi suggerimenti e finendo per perdere
l'ultima partita giocata il giorno prima. Era contenta che finalmente
stesse per finire la sospensione di Kara, così sarebbe
tornata lei a
essere capitano.
«I
bianchi… Ci uccideranno tutti».
Kara
riaprì gli occhi di scatto. No, non erano state le parole di
Megan:
il cellulare vibrò e lo riprese con uno sbadiglio, pensando
a chi
mai avrebbe potuto risponderle a quell'ora.
Da
RagazzaGatto a Me
Un'effrazione,
eh? Questo è interessante, kryptoniana, considerando che
volevo
proportene una.
«Cos-?»,
alzò le sopracciglia e, confusa, le inviò subito
una risposta.
Da
RagazzaGatto a Me
Possiamo
parlarne anche adesso, se è urgente. Tanto sono qui!
«Qui…?
Q-u-i-d-o-v-e»,
le scrisse, stringendo gli occhi.
Poi
un rumore. La finestra scattò. «Qui».
Kara
balzò seduta con un urlo e Mike fece lo stesso, scattando e
coprendosi il petto nudo. Strabuzzarono gli occhi, osservando la
ragazza che portava dentro una gamba, tenuta alla finestra. Si tolse
gli occhialetti da aviatore dalla faccia e, guardando lui, gli fece
l'occhiolino. Un movimento e un brusio dall'altra parte della stanza
li fece voltare tutti, ma Megan ancora dormiva e parlava nel sonno:
«I
bianchi stanno arrivando, svelti… Tu sei un ba…
bastardo».
Dormiva, decisamente.
«Un'effrazione
alla Lord Technologies? E perché no alla Casa
Bianca?», tuonò Kara
dopo aver ascoltato cosa voleva proporle, per poi coprirsi la bocca.
Selina Kyle doveva essere completamente impazzita. Non ci sarebbe
stato modo di entrare là dentro.
«Come
sai, la Green
Caravel
ha riaperto i battenti, ci sono stata e… non mi convince,
c'è
qualcosa che non va. Scoppiano sempre più risse; la gente
non si
comporta normalmente, quando è lì. Alcuni dei
miei compari si sono
sentiti strani. Non voglio che certa roba giri per Gotham»,
le
disse. Era arrivata a National City con quello in mente e, solo una
volta lì, aveva pensato di chiederle se volesse partecipare.
Kara
abbassò lo sguardo e deglutì, lanciando
un'occhiata sola, di
sfuggita, all'anta del suo armadio. «Sarebbe un suicidio: non
posso
farmi trovare là dentro, ne andrebbe della mia
carriera», deglutì.
Selina
ansimò, scrollando le spalle. «Capisco il tuo
punto di vista, vuoi
fare la giornalista… Se ti beccano sei fregata e
c'è una grande
possibilità di essere beccati, Supergirl. Fai come se non te
l'avessi chiesto, ci proverò da sola».
Kara
la capiva: al suo posto, avrebbe fatto lo stesso. Sembrava che Lord
stesse perdendo il controllo sulla sua creatura, dopotutto, e che
allo stesso tempo non fosse abbastanza furbo da porvi rimedio. O
forse non voleva. Ma cosa ci avrebbe guadagnato nel far sentire male
le persone? Rischiava di perdere clienti, non aveva molto senso.
D'altronde, con lui era sempre tutto molto strano. Erano quelle
pillole a rendere la gente aggressiva? Deglutì di nuovo.
«Ivy e
Harley non ti aiuterebbero?».
«Non
gliel'ho chiesto. Ivy ha trovato un lavoretto di recente, in una
serra. Ama le piante», sospirò. «Vuole
guadagnare abbastanza per
chiedere ad Harley di andare a vivere insieme. Mi secca metterle nei
casini, capisci?». La vide annuire e sospirò di
nuovo. «Piuttosto,
ho provato a chiederlo al mio nuovo partner del crimine, ma pensa che
non sia una buona idea», sbuffò e roteò
gli occhi, pensando a
Bruce Wayne. «Credo abbia altro per la testa».
«Ti
piace, eh?».
«Cosa?»,
sobbalzò, arrossendo di colpo.
«Bruce
Wayne».
«Ah!
A
me? Wayne? Se potessi accalappiarlo, saprei cosa fare con i suoi
miliardi in banca, krypton, te lo dico io, ma non esagerare».
Kara
sorrise, pensando che non lo avrebbe mai ammesso.
«Oh,
è l'angolo rosa delle chiacchierate intime tra amiche? Posso
unirmi
anch'io?».
Kara
si accigliò. «Sei ancora sveglio?».
«Non
riesco a dormire sentendo voi che parlate». Mike si era
sporto sul
bordo del materasso mettendo le braccia a conserte, così
guardò
Kara, sfoggiando un sorriso. «Sapete chi ha altro per la
testa? Il
sottoscritto. Sì, pensare alla mia madre assassina mi riempe
la
testa per la maggior parte del tempo, ma la mia ragazza che se la fa
con la sorellastra tenendomi nascosto tutto mi tiene, diciamo,
impegnato».
Selina
guardò Kara mentre si portava una mano sulla fronte.
«Stavi con lui
quando tu e Lena…?».
«Ah,
lei lo sa? Fantastico», la indicò,
«Notare che non ha mosso un
sopracciglio quando ho nominato la mia madre assassina».
«Per
l'ultima volta, Mike», strinse i denti. «Non
stavamo insieme quando
io e Lena… beh, q-quando io e Lena abbiamo iniziato a
sentire-».
«I
vostri corpi caldi che si chiamavano?», alzò le
sopracciglia.
«Chiamalo
così».
Lui
ansimò, seccato. «Non posso nemmeno prendermela
con lei, dai, è
una ragazza… Quando ci siamo ritrovati a cena insieme, avevo
provato a chiederle consigli per riconquistarti-».
«Volevi
riconquistarla?», lo interruppe Selina, facendosi curiosa,
mettendosi più comoda.
«Non
sai cosa passa per la testa di un ragazzo innamorato. Avevo provato a
chiedere consigli a Lena Luthor perché erano molto vicine e
lei mi
aveva risposto con quella faccia», provò a
mimarla, tenendo
contratte le labbra e bassi gli occhi, fingendo di prendere un
bicchiere invisibile: «Oh,
Kara potrebbe non essere più disponibile.
Bella faccia tosta. Non eri più disponibile
perché stavi con lei,
certo, scemo io a sperare ancora in un noi».
Selina
lanciò uno sguardo a Kara che teneva gli occhi bassi, di
nuovo
improvvisamente triste.
«E
alla fine ti sei lasciata, ma è normale, tra ragazze non
funziona, o
meglio…», cercò di correggersi Mike,
«non funziona con tutte. Tu
sei abituata a un uomo, non può darti lo stesso una
ragazza». Stava
per aprire bocca di nuovo che Selina gliela tappò con una
calza.
«Pluah,
che schifo! Perché lo hai-», si zittì
quando le indicò Kara,
estraniata da entrambi, sola con i suoi pensieri.
«Hai
la sensibilità della carta vetrata, Gand», gli
mormorò.
«Forse,
ma è vero», Kara rialzò gli occhi,
piano. «Non quello che…
i-insomma», le sua guance si colorarono in un attimo,
«b-beh, non
la parte… Emh, Lena ed io ci soddisfacevamo
benissimo», riuscì a
dire diventando color pomodoro, mentre Mike girava lo sguardo.
«Però
è vero che ci siamo lasciate. C-Che forse non ha
funzionato».
A
quel punto, Mike decise di provare a dormire. Oh, quella discussione
aveva preso una brutta piega e non voleva sentirla parlare di Lena
Luthor. Era geloso e non credeva lo sarebbe mai stato di una ragazza.
«Dillo,
Kara», aveva scrollato le spalle Selina. «La
sentivi di nuovo
vicina, me lo hai detto, ma la confessione sui Luthor ti è
rimasta
sullo stomaco».
«Ma
no, è che…», fece una smorfia, portando
gli occhi da una parte
all'altra, pensando. «Io capisco perché Lena lo ha
fatto. Non
voglio avercela con lei».
«Però
ce l'hai con lei», la guardò negli occhi,
togliendosi un ricciolo
dal viso. «Ti senti tradita e prima lo confesserai a te
stessa,
prima riuscirai a superarlo. Sempre che tu lo voglia».
Kara
sfogliò Instagram e le sue foto, prima di dormire, facendo
una
smorfia ogni volta che incontrava il volto di Lillian. Era la grande
verità: ciò che sentiva contro Lillian era forte
e provava rabbia,
ma con Lena… la capiva e ciò la portava ad avere
un comportamento
più passivo; avrebbe voluto solo rimettersi con lei, amarsi,
e ora
non riusciva. Aveva un blocco e non sapeva come sarebbe riuscita a
combatterlo. Né se, come le aveva detto l'amica, lo volesse.
Forse…
Forse non le sarebbe mai passata ed era finita così.
Avevano
dormito poco, quella notte. Selina si era coricata ai suoi piedi,
Mike aveva russato, a un certo punto, e Megan aveva smesso di parlare
nel sonno sempre troppo tardi. Però fu la prima a svegliarsi
e
rimase immobile e con gli occhi a pesce per un po', seduta sul letto,
fino a quando non si svegliò la compagna di stanza.
«E quella?»,
la indicò. «Cos'è, miagolava fuori
dalla finestra?».
La
loro camera stava diventando decisamente stretta. Selina
andò a
farsi una doccia quando a loro il bagno non serviva più.
Megan
rimetteva in ordine alcuni libri e Kara la scatola con le lettere di
sua zia nell'armadio. Così si svegliò Mike,
mettendosi in piedi e
sbadigliando. Diede loro il buongiorno e si grattò,
girandosi. Megan
si tappò gli occhi con orrore e anche Kara, alla sua
reazione, si
voltò dopo aver guardato.
«Hai
mezza chiappa di fuori, depravato», gli urlò la
prima.
Lui
rise, tirando su i boxer. «Ammettilo! Cosa daresti per farci
un
giro», ridacchiò, camminando verso il bagno.
«Neanche
se fossimo gli unici due esseri umani rimasti e Dio in persona mi
pregasse di farlo per ripopolare la Terra», sbottò
di rimando.
Lui
scosse la testa e sorrise a Kara, prima di aprire. Non fecero in
tempo ad avvertirlo e, appena chiuse la porta del bagno, si
sollevarono le urla di entrambi. Mike si ricacciò fuori,
pallido,
ammettendo con il fiatone di essersi dimenticato di Selina Kyle.
Se
la convivenza in quello spazio angusto cominciava a essere un
problema, dalla finestra intuirono che ne sarebbero presto arrivati
altri: «Ehi, ragazza? Ti ha scritto Maggie, per caso?
C'è la
polizia, qua sotto».
Appena
Megan finì di parlare, sia Mike, che si stava vestendo, che
Kara,
sbiancarono. «Vai», la ragazza lo spinse verso il
bagno, «Stanno
arrivando». Aveva infilato mezzo pantalone e gli
lanciò dietro le
scarpe.
Selina
sorrise facendogli cenno di tacere, avvolta in un asciugamano,
laddove lui si appiattiva al muro.
Kara
e Megan nascosero il materassino sotto il letto di quest'ultima e
gettarono le cose di Mike sotto quello dell'altra, senza cura,
facendo più in fretta possibile. Neanche un secondo di
respiro che
bussarono alla porta e si guardarono. Quella situazione non era una
novità: altre volte era venuta la polizia per sapere se
avevano
visto il ragazzo o a ispezionare il posto per essere sicuri che non
lo stessero nascondendo ma, a dispetto delle altre volte, Mike c'era
davvero.
«Questa
è persecuzione», esclamò Megan,
sbuffando intanto che il
poliziotto apriva gli armadi e frugava in mezzo ai vestiti.
«Sappiamo
che lo state cercando: appena lo vediamo, vi faremo sapere».
Kara
si sforzò per non sorridere: la sua amica era scettica a
nasconderlo, all'inizio, ma da quando John le disse di essere del
D.A.O., prese in antipatia tutti i poliziotti e quella come una
missione personale. Non si lasciarono sfuggire il fatto che il
poliziotto non era accompagnato da un collega, bensì da un
agente
dell'FBI. Kara lo vide, più composto e faccia pulita,
curiosando
dove gli capitava: lanciò un'occhiata sulle sue foto e su
quelle di
Megan dall'altra parte, che aveva l'abitudine di immortalare dei
fiori.
Poi,
dopo tanto silenzio, parlò: «Ci hanno segnalato un
ragazzo in
questo dormitorio».
«Il
dormitorio è grande, va da
sé…», rispose Megan, incrociando le
braccia al petto.
Kara
scambiò uno sguardo con lei. «Il dormitorio
è sempre pieno di
ragazzi».
«Ci
hanno anche segnalato chiasso e che proveniva da questa
stanza»,
rispose allora il poliziotto.
«Oh,
è perché a noi piace cantare»,
annuì Kara e Megan l'appoggiò:
«E
ballare». Iniziò a schioccare le dita e a
muoversi, così l'altra
fece lo stesso, osservate dai due.
«Di
notte»,
precisò lui.
«Beh,
c-ci sta giudicando, per caso?», le mostrò una
smorfia, gonfiando
gli occhi. Appena l'agente dell'FBI si avvicinò al bagno,
però,
Kara corse defilata e si mise in mezzo, cominciando a bofonchiare le
prime scuse a venirle in mente come la privacy, la biancheria intima
che asciugava sullo stendino, o il disordine, perfino il calore del
vapore che aprendo la porta sarebbe uscito.
Il
poliziotto però la spostò e l'altro
alzò la mano per girare la
maniglia, quando la porta si aprì da sola ed entrambi gli
uomini
diventarono rossi, perfino le due ragazze. L'agente dell'FBI si
voltò
imbarazzato e l'altro lasciò la bocca aperta, tanto che
Megan ebbe
quasi la tentazione di chiudergliela. Selina era ancora involta
nell'asciugamano, nuda e scalza. «Ops»,
sorrise. «Dovete scusarle, maschioni in divisa, tentavano di
nascondermi. Sapete, nella mia camera non vuole proprio scendere
l'acqua calda», gesticolò con una mano, mentre con
l'altra si
copriva.
Riuscì
a convincerli. Il poliziotto costrinse quello dell'FBI a disagio a
entrare in bagno e dare un'occhiata, ma sembrava tutto a posto: il
vapore, la doccia con i vetri appannati, la cesta degli indumenti
sporchi in disordine, così se ne andarono, senza aggiungere
una
parola. L'avevano scampata per poco e Mike uscì dalla cesta
dove si
era rannicchiato, lamentando di puzzare di piedi.
Quella
situazione era ufficialmente diventata ingestibile. Non potevano
continuare a rischiare intrusioni della polizia, né potevano
stare
semplicemente fermi a guardare. Così Kara convinse Selina ad
aiutarla a entrare in casa Gand e Mike le istruì sulle cose
utili.
Uscirono quello stesso pomeriggio, approfittando degli impegni di
Rhea: sarebbe stata via con la domestica Joyce per il club del libro.
«Ma
no, non mi scoprirà», rispose in videochiamata a
suo cugino Kal
mentre, a piedi, si avvicinavano alla casa. «Ho aiuto, non
sono
sola», lo fece salutare da Selina, mostrandole lo schermo.
«Lei sa
quel che fa. Certo che è la prima volta che mi introduco in
casa di
qualcuno».
«Sì,
ma urlalo tranquillamente», la sgridò lei e Kara
si guardò
intorno, stringendo i denti.
«È
per una buona causa, Kal. Mi avevi chiesto di tenerti informato, non
farmene pentire. Oh, ciao, Lois», salutò la nuova
arrivata. Vide
Clark dirle tutto e lei guardare lo schermo e di nuovo lui, facendosi
seria.
«Controlla
che non abbia telecamere all'ingresso sul retro».
«Che
fai, l'aiuti?».
«Quelle
fregano sempre».
«In
quante case sei entrata?».
Kara
sorrise, pensando che fossero teneri. «Non preoccuparti, so
come
entrare in sicurezza».
«Perfetto.
Allora in bocca al lupo, Kara».
Lois le mostrò il pollice e, annuendo, chiuse la chiamata.
Non
persero tempo. Lei e Selina si nascosero dietro il muro di cinta e
dopo si avvicinarono alla casa, osservandola dietro le finestre: Rhea
urlava alla domestica e la poverina correva da una parte all'altra
senza un attimo di tregua. Mike non voleva confessare convinto che lo
avrebbe fatto Joyce, ma Kara non ne era tanto sicura: era pur sempre
lì con visto scaduto e, pur di non passare dei guai e
mantenere il
lavoro, sopportava di tutto. Restarono nascoste per un po', Selina si
fece un giro in ricognizione e, quando la videro infilarsi il
giaccone insieme a Joyce, si tennero pronte. Mike disse loro che non
avrebbe fatto tardi, dunque ogni minuto era importante. Loro
uscirono, videro Rhea sistemare l'allarme e allontanarsi insieme,
così corsero. Selina svitò il coperchio della
centralina
dell'allarme, mettendosi al lavoro per disabilitarlo; nel frattempo,
Kara adocchiò la finestra del bagno al primo piano,
iniziando a
capire come scalare il muro. Appena riuscì nell'intento,
Selina
rimise il coperchio e si arrampicò per prima, passandole
davanti e
facendole cenno di aspettare, reggendosi sui cornicioni e sui mattoni
del muro più esposti. La finestra del bagno aveva
difficoltà a
chiudersi del tutto, ricordò Mike, che le bastò
una piccola spinta
all'angolo alto per aprirla e, così, Selina entrò
dentro senza
sforzo. L'altra suonò il campanello e attese, poi il portone
si
aprì.
«Sì?
Vende qualcosa porta a porta, signorina?», scherzò
e la fece
entrare.
Quella
casa odorava di stantio, ora che Kara ci faceva caso. Era vecchia,
piena di soprammobili e quadri di dubbio gusto. Perfino Selina
aggiunse che non avrebbe saputo cosa rubare. Diedero solo un'occhiata
veloce al piano terra, al salone dove c'era ancora la scrivania di
Lar, rimasta immutata. Poi salirono di sopra. Dov'era stato ucciso
avevano pulito e non era rimasto neanche un segno del suo corpo steso
a terra, eppure entrambe avvertirono i brividi. Entrarono nel
salottino a fianco, spaesate.
«Non
avranno già controllato questa casa da cima a fondo? La
polizia,
intendo», le domandò Selina, mettendo mano a un
servizio da tè
antico sopra il tavolo tondo al centro. «Questo
varrà qualcosa?»,
ridacchiò dopo, fingendo di bere da una tazzina.
«Maggie
mi ha detto che hanno ispezionato, quando è successo, ma ora
non è
più sicura che i suoi colleghi l'avessero fatto con
l'intenzione di
trovare davvero qualcosa». O almeno lo pensava prima; ora
come ora,
sapevano che se Zod avesse voluto arrestarla lo avrebbe fatto
controllare come si doveva e forse erano lì per niente. Ma
se non
altro si sarebbe distratta, ciò che le serviva. Doveva
provarci.
Guardò attentamente il quadro di famiglia sulla parete,
grande,
dipinto a mano, loro erano più giovani e Mike bambino.
Oggettivamente bruttino, ma… Lo tolse facendo attenzione,
poggiandolo a terra. Si infilò i guanti, come le
ricordò l'altra
mentre ancora giocherellava con la tazzina, e iniziò a
digitare la
chiave di sicurezza che le aveva fatto memorizzare il ragazzo.
Sperava non l'avesse cambiata. La cassaforte si aprì, ma il
sorriso
delle due non durò a lungo: c'erano documenti, un sacco di
scartoffie impilate, ma nessuna pistola. «Non
c'è», sibilò Kara,
prendendo fiato. «Non c'è, Selina. Cosa
facciamo?».
Forse
guardare altrove, un po' ovunque, sarebbe stato auspicabile se non
avessero sentito, dalla finestra del bagno aperta, la voce di Rhea
urlare alla domestica dalla strada. Selina Kyle la guardò:
«Ce ne
andiamo».
Come
poteva già essere di ritorno? E il club del libro? Andarsene
a mani
vuote, proprio ora, era una scelta sofferta. Kara prese alcuni dei
documenti impilati in alto e lesse, sperando di trovare qualcosa che
la incastrasse, mentre l'altra le metteva fretta. C'erano nomi,
numeri, loghi di banche, qualcosa che non poteva sapere se le sarebbe
servito senza avere il tempo di leggere. Sentirono la sua voce
davanti al portone e dopo la serratura di casa: il tempo era scaduto.
Lei e Selina cercarono di risistemare i fogli sugli altri, ascoltando
la voce dal piano terra che chiamava il figlio: doveva essersi
accorta che qualcuno era in casa per via del sistema di allarme
spento, accidenti. Rimettendo i documenti al loro posto,
scivolò
dalla cassaforte un foglietto a quadretti scritto a penna: Kara lo
acciuffò prima che cadesse a terra schiaffandolo tra le
mani, ma
fece rumore. La donna continuava a cercare Mike, poi sentirono i suoi
passi sulle scale.
«Mike,
sei tu? Sei a casa?», manteneva un tono di voce dolce, non
poteva
significare niente di buono.
Sentirono
altri passi sulle scale e si nascosero dietro due mobili nel
salottino che Selina si accorse, sgranando gli occhi, di avere ancora
la tazzina in mano. Kara mimò dei gesti per convincerla a
riporla
sul tavolo, ma non c'era tempo: sentirono i passi vicini e restarono
immobili. La donna si voltò all'interno del salotto,
restò
all'ingresso, guardò appena per notare se era tutto in
ordine, e poi
tornò a uscire. Kara era più vicina al tavolo,
così Selina le fece
un gesto e lanciò la tazzina; lei la acchiappò al
volo, la riportò
sul tavolo e si nascose di nuovo. La donna tornò indietro di
corsa,
le sembrò di sentire qualcosa ma per fortuna, quando
arrivò, la
tazzina aveva già smesso di tintinnare sul piattino.
Seccata,
Rhea tornò al piano di sotto e chiamò la
domestica con un urlo,
così le due ne approfittarono per sgusciare in silenzio
dalla loro
posizione e andare verso il bagno, la loro via di fuga. Selina si
infilò dentro in fretta ma a Kara vibrò il
telefono e le scivolò
da una tasca. Il rumore attirò Joyce che usciva da una
stanza. Oh,
era tardi. L'aveva sorpresa. Le due si guardarono e Kara smise di
respirare. La domestica spalancò gli occhi. Rhea
urlò di nuovo e
sobbalzarono entrambe. «No, signora Gand», le
rispose dopo mentre
tremava, adocchiando quell'altra ragazza che, dietro la porta del
bagno, prendeva Kara per una manica in modo da trascinarla via.
«Non
c'è nessuno… signora Gand».
Joyce
aveva mentito a Rhea. Anche Kara spalancò gli occhi, di
riflesso:
quella ragazza aveva disobbedito per la prima volta. Le
sussurrò
grazie
e si arrampicò sulla finestra dopo Selina Kyle, andando via.
Le
aveva mentito. L'aveva aiutata, rischiando conseguenze. Kara pensava
che nulla avrebbe potuto farle riflettere come quel gesto, ma quel
foglietto che era uscito dalla cassaforte e si era portata dietro,
andava al di là delle sue aspettative. Kara lo
consegnò a Mike
quando tornò al campus. Megan era uscita e Selina non
tornò con
lei, dicendo che sarebbe passata per la notte, se avesse avuto uno
spazietto libero dove dormire. Così, soli, si presero del
tempo. Ne
avevano bisogno.
Dopo
averlo letto, Mike si paralizzò, riguardando lei.
«Ha confessato»,
sussurrò con un filo di voce.
«Voleva
farlo», annuì. «È la bozza
dell'intervista che voleva
rilasciarmi. Parla dei miei genitori. Ma dà a se stesso
tutta la
responsabilità», aggiunse con amarezza, abbassando
gli occhi.
«Possiamo usarlo contro tua madre per il suo assassinio, ma
non per
quello dei miei genitori… l-la esclude».
Mike
deglutì, pensando che quella era l'ultima cosa che suo padre
aveva
scritto prima di morire. Lo lasciò sopra il letto di Kara
per non
sgualcirlo e poi le si avvicinò. Si strinsero l'una
all'altro,
consci di quanto si fosse intrecciato il loro destino. Dopo, Mike le
passò una mano sul viso e le asciugò una lacrima,
così si
guardarono negli occhi, ritrovando quella complicità perduta
da
tempo.
Alex
e Maggie erano ancora scosse da quanto accaduto a Jamie con quei
poliziotti. Si erano prese due giornate libere, le avevano trascorse
tra loro, in casa, solo per riappropriarsi un po' della loro
libertà
e normalità. Prima di prendere quella decisione.
Maggie
batté le unghie sul bracciolo che la divideva da Alex alla
guida, in
macchina. Diede uno sguardo a Jamie sul seggiolino dietro che ancora
dormiva. Poi la strada, sorridendo. «Sai… fino a
non molto tempo
fa, sognavo di guidare questa strada a bordo di una moto. Jamie era
una nana avvolta in una copertina, pensavo sarebbe bastato un sidecar
per portarmela dietro».
Alex
rise, mani sul volante. «Avevo una moto, prima»,
confessò, «L'ho
venduta per pagarmi l'affitto».
«Ouh»,
fece una smorfia e dopo rise. «Peccato. Beh, potremo
comprarne una
un giorno, abbiamo due stipendi e potremo…
sì», si morse un
labbro, inclinando la testa, «andare a vivere insieme,
risparmiando
sull'affitto».
Alex
le lanciò un'occhiata e si guardarono, pochi secondi.
«Mi sembra
un'ottima idea».
Risero
come due bambine e Maggie riprese il suo telefono dal cruscotto,
chiedendosi se avesse avvertito Kara in tempo e fosse riuscita a
evitare che i suoi colleghi trovassero Mike nella sua stanza. Era un
caos da quando l'FBI arrivò in centrale, eppure, una parte
di sé si
sentiva sollevata dalla loro presenza. D'altronde, quei giorni erano
stati come una corsa sulle montagne russe e sarebbe stato almeno un
po' più facile se sua figlia non continuasse a chiederle che
fine
avesse fatto l'amica che l'aveva portata al parco divertimenti e
quando l'avrebbe potuta rivedere. L'indomani ci sarebbe stato il loro
processo, finalmente, e poteva almeno togliersi un pensiero dalla
testa. Per il resto, lei e Alex avevano deciso di portare Jamie dai
suoi in modo da tenerla distante fino a quando la situazione contro
Rhea Gand non sarebbe stata sistemata. Era la cosa migliore,
continuavano a ripeterselo. Jamie sarebbe stata al sicuro, anche se
farla stare con loro per un tempo indefinito le metteva angoscia. Era
stata una decisione difficile, ma ben ponderata. Senza contare che
lei e Alex si stavano presentando in casa loro insieme e si sarebbero
conosciuti. Poteva ammettere che cercasse di distrarsi per non farsi
mangiare dall'ansia. Alex aveva accettato di andare e ne era fiera,
soprattutto per via delle cose che le aveva raccontato su di loro, ed
era fiera della sua vita, ma la paura che provava all'altezza della
bocca dello stomaco era quasi più forte di lei.
«Sei
ancora in tempo a scappare, Danvers», le ricordò a
un certo punto.
Erano vicine. Le disse dove svoltare, stavano entrando in paese.
«Andiamo,
non sarà così male».
«Per
questo ti amo: non ti arrendi di fronte a un pericolo».
Alex
deglutì. Restò quanto più ferma
possibile; i suoi occhi fissi
sulla strada. Bene. Stava per conoscere i genitori di Maggie, andava
tutto bene. Tutto bene. Tutto be- oh, no, non sarebbe andato tutto
bene solo perché continuava a ripeterselo, aveva una paura
matta,
non sapeva in che dosi erano cambiati nel tempo ma erano stati
omofobi fino a poco tempo fa, insomma, e se poi non fosse piaciuta?
Era una donna, non sarebbe piaciuta a prescindere, ma se non piaceva
almeno il minimo sindacabile per vedersi alle feste programmate
avrebbe rischiato di compromettere il rapporto già in bilico
di
Maggie con loro. Ora volevano andare a vivere insieme, non poteva
permetterselo. Non poteva. Forse avrebbe dovuto portare qualcosa da
bere per fare bella impressione, perché non ci aveva pensato
prima?
O dei cioccolatini. No, cioccolatini, che idea stupida. Ma dei fiori,
forse. No, i fiori sarebbero stati troppo banali. Ma effettivamente,
dai racconti di lei, i due sembravano essere piuttosto all'antica e i
fiori… No, l'avrebbero comunque vista con sospetto
perché aveva
una vagina, dunque che avesse un regalo o meno faceva poca
differenza. E andava lì per Jamie, non per loro. Non per
loro. Non
per loro.
«Danvers,
devi girare. Alex?».
«Non
per loro»,
ripeté a voce e l'altra alzò un sopracciglio.
«Girare? Girare,
subito». Rumoreggiò con la gola e fece finta di
niente. Accidenti,
non sapeva nemmeno dove avrebbe potuto comprare dei fiori,
lì.
Jamie
si svegliò quando stavano parcheggiando di fronte alla casa.
Felice,
gridò che venisse slacciata dal seggiolino perché
da sola non
riusciva. Maggie stava per voltarsi indietro che scorse il volto
pallido della compagna, bloccandosi: «Ti senti
bene?». Le poggiò
una mano contro il braccio e la avvertì sussultare.
«Sì.
Certo. Una cosa veloce, andrà tutto bene, io sto bene, forse
sei tu
quella nervosa».
«Ssì»,
Maggie sorrise, arrossendo. «Vedi il lato positivo: non
è più lo
sceriffo e non potrà arrestarti».
«Confortante».
«Ma
ha ancora la sua pistola», piegò il collo da un
lato, stringendo le
labbra.
Alex
annuì lentamente, pensandoci. «Anche
noi».
«Ottima
osservazione», sorrise. Si avvicinò e si
scambiarono un bacio,
sentendo Jamie lamentarsi:
«Anche
io voglio un bacio, anche io lo voglio», provò a
spingersi in
avanti, «Voglio esshere libera, uffi».
Vorrei
scappare:
era l'unico pensiero di entrambe. Si presero per mano, dandosi forza
a vicenda. La serratura scattò, la porta cigolò,
Jamie si gettò
verso l'interno e la spalancò, saltando sulla gonna della
nonna. La
donna sorrise entusiasta e l'abbracciò, quando il suo
sguardo planò
su Maggie, Alex, Maggie, Alex, le loro mani unite, di nuovo Maggie,
di nuovo Alex, poi Jamie. «Ben…
Benvenute», forzò un sorriso e
si spostò dall'ingresso, con la bimba attaccata a una gamba,
per
farle entrare.
Beh,
non era poi tanto male. Sì, si percepiva un certo non so che
di
disagio nell'aria e, a parte Jamie, nessuno parlava, ma tutto sommato
poteva andare peggio. Lui strinse la mano a entrambe, con distanza,
mentre lei chiese se la bambina avesse già mangiato. Poi di
nuovo
silenzio.
«Devo
sistemare la camera per Jamie…», sibilò
Maggie dopo aver
rumoreggiato con la gola e interrompendo il silenzio imbarazzante. La
madre annuì, passandole una mano su un braccio.
«Sì,
certo, sali pure. Siamo contenti di averla con noi per qualche
giorno», si voltò verso il marito, che fissava
Alex, che fissava
lui. «Vero, caro, che lo siamo?». Dovette ripetere
per farsi
sentire ma, nonostante le rispose, lui continuò a guardare
la
ragazza.
«Così
è qui che sei cresciuta», Alex sorrise,
guardandosi intorno. Decise
di ignorarlo, di comportarsi normalmente. La struttura della casa era
vecchio stile, ma sembrava accogliente; c'era un camino, una poltrona
in pelle un po' macchiata dal tempo, tutti i mobili in legno, il
pavimento scricchiolava sotto i loro passi, la testa mozzata di un
cervo sopra una lampada, un cesto pieno di riviste, cosa…?
La testa mozzata di un cervo? Strabuzzò gli occhi,
accorgendosi che
c'era la testa di un altro animale, più avanti nel salone.
«Ti
interessi di caccia?», ridacchiò lui.
«Un uomo deve avere i suoi
passatempi. È più per uomini, no?». La
fissò di nuovo e Alex
cominciò a sudare. «Passano gli anni, ma la mia
mira non fa che
migliorare».
Lei
aprì la bocca a più riprese, pensando a cosa
dire, con sconcerto,
che Maggie la fermò, avvolgendole un braccio in vita.
«Non possiamo
trattenerci, papi, proprio un peccato non poter discutere
di… mh,
mira».
«Già.
E la tua camera? Non posso andarmene senza vederla».
«Ah»,
lei abbassò la testa e suo padre la scosse appena.
«È-È una
camera degli ospiti, veramente, adesso. La sistemo per Jamie, ma la
mia non c'è… più», si tolse
un capello dalla bocca e fece finta
di niente, mantenendo un forzato sorriso e così tornando
verso la
piccola che era rimasta con la nonna.
Alex
prese un bel respiro e strinse le labbra, ricordando ora, tutto
insieme, le angherie che aveva dovuto sopportare da loro solo
perché
gay. L'avevano cancellata dalla loro vita, per un breve periodo e, a
quanto pareva, la sua stanza ne aveva subito le conseguenze. Stava
per avvicinarsi di nuovo all'uomo che la donna si mise in mezzo per
chiederle se favoriva da bere qualcosa. Erano stati così
ingiusti
con Maggie che ora si vergognò un po' di aver pensato di
cercare di
fare semplicemente bella figura con loro.
«E
così vi siete conosciute per lavoro?»,
domandò lei, tornando con
due bicchieri mezzi pieni di birra fredda. Ne passò uno a
lei e uno
al marito, che guardò la ragazza con sfida. Di nuovo.
«Sei anche tu
una poliziotta».
«Lavoro
per il D.A.O., veramente», ringraziò e bevve il
primo sorso. Vide
Maggie salire al piano di sopra, con la bambina e una valigia,
lanciarle un lungo sguardo preoccupato: oh, i suoi genitori erano in
buone mani.
Lui
sghignazzò, spalle larghe, avvicinandosi con il bicchiere in
mano.
«Si dice che una certa indagine sia a un punto
morto», bevve un
sorso, «Forse dovrebbero lasciar fare ai
professionisti».
«Oh.
Ne conosce qualcuno?». Bevve di nuovo anche lei e l'uomo
assottigliò
gli occhi.
«Vi
fanno ancora tenere in mano le pistole, a proposito? So che fate
molto lavoro d'ufficio, ci sarà da annoiarsi».
Non
le avrebbe lasciato vincere quello scontro. Alex alzò le
spalle.
«Pare. Purtroppo, a noi arrivano poche ciambelle e spariamo
ai
bersagli per passare il tempo».
Lui
la fissò e si avvicinò ancora. Era alto, grosso,
ma Alex non si
sarebbe mossa di un centimetro. Qualche altra battuta, due sguardi e
uno strano silenzio, poi fu Maggie a tirarla indietro, cingendole un
fianco. «State andando d'accordo? Papi?».
«Naturale,
mija. Stiamo imparando a conoscerci».
«Sì»,
rispose anche Alex, «Hai finito di sopra?». La vide
annuire e poi
sussurrare, solo per lei, che era meglio andare. Guardarono Jamie
che, con la madre della ragazza, giocava a farle il solletico. Se non
altro, quello sarebbe stato il posto più giusto dove
lasciarla.
«Non
mi piace», brontolò a bassa voce lui sull'orecchio
della moglie,
adocchiando la loro figlia e Alex che salutavano la bambina.
«Risponde a tono, è sfrontata».
«Allora
potrebbe essere perfetta», rispose lei di rimando, facendo
storcere
il naso al marito. «Chiunque arrivasse, non ti piacerebbe per
tua
figlia. Almeno lei non si fa mettere i piedi in testa da te».
Jamie
abbracciò entrambe, promettendo di fare da brava. Maggie
faticò a
lasciarla, anche quando la piccola provò a scansarsi. Era
difficile,
dopo quello che avevano passato. Aveva avuto così paura di
perderla,
così paura che separarsene, anche se a fin di bene, era
davvero
dura.
«Solo
pochi giorni, okay?», le disse Alex alla sua altezza, quando
Maggie
riuscì a lasciarla e prese un grosso respiro. «Il
tempo di
sistemare una cosa molto importante e torniamo a prenderti. Ti
divertirai, qui?».
Jamie
annuì. «Ho un shaaacco di coshe da fare,
perché anche qui ho delle
amiche mie, lo shapevi? Lo shapevi che ho amiche qui? Allora, lo
shapevi? Ci vediamo poco però shono amiche mie anche loro e
giochiamo inshieme». Le passò una mano sul volto,
per vederla negli
occhi. «Mamma, shtai piangendo?».
Maggie
sorrise e Alex scosse la testa, scambiando uno sguardo con lei. Oh,
gli occhi di entrambe si erano fatti lucidi.
«Mamma?»,
la signora aveva esclamato sorpresa, dietro di loro. Sia lei che il
marito le guardarono ipnotizzati e confusi, ma le ragazze sorrisero e
li ignorarono, riabbracciando Jamie.
«La
faccia di tuo padre», rise Alex, una volta in macchina.
«Credo che
non la dimenticherò mai».
«Non
erano pronti a sentire la loro nipotina considerare entrambe come sue
madri», rispose Maggie in una risata, girando il volante per
uscire
da una strada, per poi tirare su con il naso. Avevano ancora gli
occhi lucidi, ma sapevano di aver fatto la scelta giusta. Ne erano
convinte. «Pochi giorni, giusto?», le
domandò e Alex sospirò.
«Riusciremo ad arrestare Rhea Gand e
poi…».
«Beh»,
Alex guardò fuori dal finestrino, pensando. «Forse
Zod non è un
pericolo per Jamie».
Maggie
la guardò di straforo, aggrottando la fronte. «Chi
sei tu, devo
aver lasciato Alex a casa dai miei», la fece sorridere.
«Sei la
prima ad attaccarlo, e ora pensi che non possa essere un
pericolo?».
«Non
lo so», scosse la testa, «La verità
è che non so più cosa
pensare. Jamie era in pericolo perché quei pazzi che
volevano farsi
grandi agli occhi di quell'altra pazza pensavano fosse una grande
idea rapirla e darla a un'altra famiglia, mentre Zod aveva mandato
quel Kwel…
Kwez-».
«Kweskill.
Charlie Kweskill».
Alex
roteò gli occhi. «Può una persona
chiamarsi in questo modo?»,
sbottò. «Aveva mandato lui per recuperarla. Voleva
aiutarci. Questo
non significa che mi piaccia e non cambio idea: dobbiamo trovare un
modo per incastrarlo e arrestarlo, come tutti quelli
dell'organizzazione. Però dico che forse, forse,
non è una minaccia per lei». Vibrò un
telefono, pensò subito
potesse essere Kara e così lo prese dal cruscotto, ma non
era il
suo, era quello di Maggie. «Parli del
diavolo…», bofonchiò,
rendendo l'altra curiosa. Le mostrò lo schermo: il nome Kweskill
in bella mostra. «Hai il suo numero?».
Maggie
sospirò. «E adesso che vuole? Devo tornare in
servizio, domani, ma…
Lascialo, lascialo, rispondo da qui», indicò il
sistema dell'auto.
«Sì, lui me lo ha chiesto e ho
accettato», la guardò, «Pensavo
sarebbe tornato utile». Vide la ragazza annuire e
cliccò un
pulsante sullo schermo del computer della macchina, accettando la
chiamata. «Kweskill. Dimmi».
«Ehi,
Sawyer, brutto momento?».
«No.
Sto guidando».
«Sei
sola?».
«Sì»,
lanciò uno sguardo a Alex, che annuiva,
«Sì, sono sola, dimmi».
«Sono
contento che domani torni in centrale, sai, non ci siamo conosciuti a
dovere a causa di quei simpaticoni. Ti chiedo scusa, a proposito:
dovevo prenderti di mira se volevo essere uno di loro,
capisci?».
«Nessun
rancore», ansimò. Alex fece una smorfia e sorrise.
«Bene,
mi fa piacere sentirlo. Sei la mia partner fissa, adesso! Lo avresti
scoperto domani, ma mi piace rovinare le sorprese»,
lo sentirono ridacchiare, «Mi
sarebbe seccato se ci fosse stato del livore per quello che
è
successo. Come sta la bambina?».
«Bene.
Sta bene».
«Ottimo»,
era come vederlo sorridere. «Volevo
anche parlarti… di un'altra cosa. Chiederti scusa, a nome
nostro».
Le
ragazze si scambiarono uno sguardo per un momento. Alex si
portò una
mano alla bocca, non poteva farsi sentire, e Maggie incurvò
la
testa, sospirando. «Vostro?
Di cosa stai parlando?».
Anche
lui prese fiato. «Non facciamo questo gioco, Maggie, su.
Sappiamo
che sai. E la tua ragazza sta indagando su di noi, quindi…
Volevo
chiederti scusa a nome di tutti. A nome del Generale». Il
ragazzo
scese dalla scrivania su cui si era appoggiato, guardando il suo
superiore accanto a lui, seduto sulla sedia. Charlie sorrise.
«Vogliamo parlarti, se sei d'accordo. Ci dirai tu quando
sarai
pronta e fissiamo un appuntamento, senza fretta»,
annuì a Zod, che
lo fissava. «Vorremmo che conoscessi ciò che
è davvero
l'organizzazione, non quello che fa sembrare Rhea Gand».
«Ti
rendi conto che stai confessando di farne parte? Che stai facendo dei
nomi?».
«Certo»,
sorrise ancora, camminando per l'ufficio in modo scanzonato.
«Presto
capirai che dovrai schierarti e che noi siamo la risposta. Ci fidiamo
di te, Maggie Sawyer», si portò una mano sul
petto, girandosi e
camminando in direzione opposta. «Ti stiamo accogliendo a
braccia
aperte, ma spetta a te. Volevo solo dirti questo. Domani ne
riparliamo, se sei d'accordo, non voglio farti pressioni. Vorrei che
mi considerassi un amico. Puoi contare su di me». Chiusero la
telefonata e il ragazzo, una mano sulla tasca del pantalone della
divisa e l'altra col cellulare in alto, come se avesse voluto
festeggiare, si girò a un Dru Zod pensieroso.
«È fatta», rise.
«Non
l'hai spaventata, vero, Charlie?».
«No»,
aggrottò la fronte, tirando le spalle indietro.
«Sono un ragazzo
adorabile, nessuno si spaventerebbe. Domani vorrà riparlarne
a voce
e avrò modo di… sa», strinse gli occhi,
passandosi una mano sul
petto, «creare un legame».
Zod
alzò gli occhi al soffitto, portandosi una mano sulla
tempia. «È
importante che Sawyer si fidi di noi, vedi di non fare il
pagliaccio».
«Sì,
sì, lo so, Generale», annuì.
«E se lei diventa dei nostri, anche
la sua ragazza lo sarà presto».
Dru
Zod gli intimò di stare attento e dopo lo
congedò. Rimasto solo in
ufficio, si alzò e guardò verso i vetri i suoi
agenti e quelli
dell'FBI lavorare insieme. Era grato di avere ancora Charlie al suo
fianco, dopo aver perso Faora a causa di Rhea. Gliel'aveva messa
contro, aveva superato ogni limite, ma sentiva che la resa dei conti
era vicina. Bussarono alla porta e diede l'ordine di entrare, vedendo
l'uomo sistemarsi la cravatta.
«Abbiamo
una pista su Mike Gand?», domandò, ma vide l'altro
scuotere la
testa. «Deve essere un testimone. I miei uomini lavorano
assiduamente per trovarlo, Zod, ma sembra che non stiamo facendo
abbastanza». Poi deglutì e sorrise con enfasi.
«Non vorrei
chiedertelo, ma sai, se potessi usare le risorse che sappiamo
avere…
Che ne so, qualche telefonata, se gli omega potessero scendere in
campo per scandagliare le strade ci farebbero risparmiare del tempo.
Non può essere andato lontano, è un ragazzino
viziato».
Zod
gli riservò un'occhiataccia, mettendo le mani dietro la
schiena,
riguardando attraverso un vetro. Ma
guarda!,
esclamò per sé, sapeva da ieri che era il
presidente
dell'organizzazione e ora parlava con lui come se ne fosse sempre
stato coinvolto. Gli aveva promesso collaborazione e un posto caldo
se le cose fossero andate bene, ma non amava che gli si dicesse cosa
avrebbe dovuto fare né che qualcuno potesse pensare di dare
ordini
ai suoi omega per lui. Non lo avrebbe concesso a nessuno, tantomeno
all'FBI. «No», chiosò con voce
autoritaria.
«Ma
non c'è più tempo».
«So
io quando c'è o non c'è tempo», si
risedette davanti alla
scrivania e l'altro impallidì, abbassando gli occhi.
«E adesso
esci». Lo vide annuire tiepidamente e richiudere la porta
dietro di
lui.
Invece,
Lena aveva trascorso quei tre giorni dal rapimento di Jamie in villa,
a studiare, diceva, ma per lo più a pensare a come
incastrare o
ferire metaforicamente Rhea Gand. Nemmeno lei aveva intenzione di
lasciar fare a Zod. Aveva promesso a Kara che sarebbe riuscita a
trovare un modo e non voleva venire a meno alla parola data. Forse
era la parte di lei che si sentiva in colpa a farlo, ma ci avrebbe
messo tutta se stessa per mostrarle che poteva davvero fidarsi di
lei, che poteva contare su di lei, che poteva amarla come fino a quel
momento prima di dirle della propria famiglia che non aveva salvato
la sua. Sapeva di non avere colpe in quello, che non poteva realmente
pensare una cosa simile, ma Kara era distante, adesso, e sentiva la
sua mancanza come un macigno pesantissimo. Molto più pesante
di
quello che aveva portato per quel segreto. Si era liberata di uno,
come avrebbe fatto a liberarsi del secondo? Giocherellò col
bracciale che le aveva regalato a Natale, sul polso sinistro. Era
così bello. Oddio, quanto l'amava… Non poteva
crederci di essersi
innamorata di Kara così tanto da stare male, adesso. Quanto
poteva
fare male, l'amore? Era la sua sorellastra, una ragazzina che metteva
su il broncio quando si arrabbiava, che a volte si mangiava le parole
e si imbarazzava facilmente, che era incredibilmente sicura di
sé
quando scendeva sul campo di lacrosse, comprensiva, a volte
infantile, il suo sorriso era quanto di più bello ci fosse
nel
mondo, anche quando rideva con voce nasale. Era forte e nemmeno lei
sapeva quanto. Sapeva di amarla, ormai era chiaro da tempo, ma tanto
da pensare che avrebbe voluto passare tutta la vita al suo fianco
era… Oh, accidenti, si sentiva uno straccio,
perché si stavano
riavvicinando e aveva mandato tutto all'aria. Non c'erano
più mi
manchi;
non più un solo accenno alla loro relazione. Ma non ci
sarebbe stato
un momento migliore per farlo e doveva
farlo. Era la cosa giusta, a prescindere da tutto. Forse doveva solo
aspettare che Kara digerisse cosa era successo. Diede uno sguardo al
telefono, ma di lei niente. Poi i passi affrettati avvicinarsi nel
vicolo e Lena si appoggiò alla parete per riflesso.
«Si…
Signorina Luthor, è lei?».
La
sua voce bassa e terrorizzata le suggeriva che, se non doveva essere
uscita di nascosto, di sicuro aveva i minuti contati. Guardò
l'orologio e si avvicinò alla luce. «Non ero
sicura che saresti
venuta».
Joyce
si torse le mani più volte, in ansia. Si riguardò
indietro e decise
di mettersi di più nell'ombra, con paura. «Non
v-volevo. Ma lei non
mi lascia scelta, signorina Luthor».
«Ammetto
di essere stata un po' sfrontata a indagare su di te e minacciarti di
denuncia, ma siamo con le spalle al muro e devo giocare tutte le mie
carte».
Joyce
prese fiato e si toccò i capelli, sistemandoli dietro le
orecchie.
«Lei vuole che testimoni, vero?».
Lena
annuì. «Sì»,
ribadì a voce. «So di chiederti molto, ma quella
donna è pericolosa-».
Joyce
la interruppe con la propria voce, attenta a riguardarsi intorno:
«Pensa che non lo sappia? La notte non dormo, da quando il
signor
Gand è morto. Rivedo il suo corpo quando chiudo gli
occhi», prese
fiato e Lena si zittì, riguardando l'ora. «I-Il
signor Gand ha
dovuto far partire la sua segretaria dall'altra parte del mondo e-e
la signora Gand la sta ancora cercando. N-Non voglio essere la
prossima, signorina Luthor. Non voglio morire
così… e-e se
testimonierò, sarò come già
morta».
«Se
testimoni, lei finirà in carcere».
«No»,
scosse la testa, «Quelle come lei vincono sempre, non restano
in
carcere tanto tempo, signorina».
Finalmente
Lena sentì un'automobile avvicinarsi e dovette calmare Joyce
per non
farla scappare, dicendole che aspettavano qualcuno. I passi sicuri
sui tacchi si avvicinavano in fretta. «Se decidi di
testimoniare,
lei potrà aiutarti», le sussurrò,
sentendola lamentarsi del luogo
dell'incontro.
«È
notte e questo è il vicolo più buio e sporco che
sei riuscita a
trovare, suppongo. Ho paura di aver calpestato un eroinomane, in quel
punto», indicò velocemente, con faccia schifata.
«Perché qui e
non direttamente nelle fogne, Luthor? Indosso le scarpe buone
apposta». Si fermò, quando capì che non
era sola: «Ah, è già
qui, bene». Le mostrò la mano e Joyce
spalancò la bocca:
«Lei
è la donna della televisione».
Si
diedero la mano e Cat Grant gliela strinse con calore.
«Ragazza mia,
la signorina Luthor mi ha spiegato la tua situazione e posso
aiutarti. Conosco le persone giuste-».
«Ne-Nessuno
può aiutarmi».
«Non
dire queste cose», le strinse la mano con più
forza. «Lei ti ha
messo in testa che nessuno può farlo, ma non è
vero, Estella», la
vide spalancare gli occhi castani nel sentirla chiamare col suo vero
nome, «E la schiavitù è stata abolita
da tempo. Conosco persone
che possono aiutarti a ottenere un permesso e a sistemarti. Possono
aiutarti a trovare lavoro e-».
La
giovane domestica sfilò la mano e si riguardò
intorno, deglutendo.
«Voi non capite: questo è tutto bello, ma non
servirà se sarò
morta».
Lena
e Cat Grant si scambiarono un'occhiata nel buio e la prima rispose:
«Faremo in modo che Rhea Gand resti in prigione, stavolta.
Faremo
qualsiasi cosa per trattenerla lì fino alla sua
morte».
Quando
tornò a casa, aveva la testa pesante. Sì, forse
era stato un colpo
basso minacciare quella che chiamavano Joyce di denunciarla per
clandestinità, ma non aveva avuto idee migliori e senza non
l'avrebbe ascoltata. E Cat Grant avrebbe potuto davvero aiutarla, se
lo avesse permesso. Le chiedevano solo di testimoniare e, forse, Kara
sarebbe riuscita a convincere Mike. Ignorò il silenzio che
riecheggiava per la villa e si chiuse in camera sua per ricominciare
a lavorare su Rhea Gand.
X:
Non trovo molto altro anche nei siti esteri.
Le
fece sapere Indigo e Lena aggrottò la fronte. Dopo aver
collaborato
per riportare Jamie a casa, le cose erano cambiate tra loro e si
sentiva più sicura nel lavorare insieme. Era davvero brava,
sarebbe
stata sciocca a non servirsi di lei se voleva risolvere qualcosa.
Sì,
ancora non sapeva cosa volesse con precisione Indigo da lei, ma si
era fatta qualche idea, trovando informazioni sul suo conto.
Z:
Grazie, quello che abbiamo trovato ci aiuta comunque a farci un
quadro più preciso su quella donna.
X:
Non devi ringraziarmi. Te lo avevo detto che avresti potuto fidarti
di me.
Prima
di sposare Larson Gand, Rhea faceva Taylor di cognome e abitava con
la famiglia a due isolati di dove abitava ora. I suoi genitori erano
benestanti: lui era il direttore di un'acciaieria a sud della
città
e lei aveva aperto un negozio di profumi artigianali nella zona buona
di National City. Rhea aveva anche una sorella maggiore, Petra. Oh,
era deceduta in seguito a un'incidente domestico quasi quarant'anni
fa, aveva solo ventiquattro anni. Caduta dalle scale. Vide diverse
foto scattate al funerale di Petra: Rhea aveva quindici anni, in ogni
scatto aveva la testa bassa. E quello, invece…
Caricò la foto
sulla chat con una freccia puntata sul ragazzino più alto e
robusto
che le stava a fianco e non dovette attendere per una risposta:
X:
È proprio lui, come stai pensando: un giovane Lar Gand. Si
erano
conosciuti al liceo, a quanto pare. Devi dare un'occhiata ai file
della quarta cartella: ci sono foto del periodo, Lena.
Oh,
scoprì che non era pronta a vedere una Rhea quindicenne e
brufolosa.
Non poteva crederci che stavano insieme da allora: alcune foto e
pagine erano state prese dagli annuari di quegli anni; lei era stata
capoclasse per tre anni di fila e lui capo degli studenti, vincendo
diversi dibattiti e portando la scuola alle manifestazioni. Non c'era
altro da dire: la politica era sempre stata una parte di loro.
Trovò
anche una foto di Petra e Rhea, abbracciate e sorridenti. Si
domandò
quanto avesse sofferto nel perdere la sorella. Ne sfogliò
diverse,
sembravano unite nonostante l'evidente differenza di età,
proprio
quella che c'era tra lei e Lex. Poi un'altra foto attirò la
sua
attenzione: riconosceva Petra, aveva un anello al dito e stava con un
ragazzo; sembravano intimi. Una foto scattata proprio da Rhea, al
tempo. Erano fidanzati, come diceva la didascalia: lui ne
uscì
distrutto dalla sua morte, stavano preparando le nozze. Il ragazzo
sembrava avere una faccia già vista, accidenti. Chi le
ricordava?
Gli occhi scuri, il viso severo, le labbra fini, magrolino e alto.
Capelli lunghi, come suggeriva la moda del periodo. Era felice e
quella felicità la confondeva, una volta inquadrato chi era:
Adrian
Zod. Il Generale stava per diventare il cognato di Rhea Gand?
Scrisse
subito un messaggio a Kara per dirle di aver trovato qualcosa, col
cuore agitato. Quei due si conoscevano davvero da tantissimo tempo e
non poteva essere una coincidenza che facessero parte entrambi,
meglio ancora contando Lar, dell'organizzazione. Quando era nata?
Anche loro erano tra i fondatori?
Z:
Grazie di nuovo. Continuerò a leggere, ma ho già
trovato cose molto
utili.
X:
A tua disposizione.
Lena
accese lo schermo del telefono, ma Kara non aveva ancora risposto.
Riguardò la chat e aggrottò la fronte,
deglutendo, pensando che
avrebbe potuto abbattere un muro.
Z:
Per fidarmi davvero di te, potremo cominciare con l'essere sincere.
Sai chi sono, e anch'io so chi sei tu.
X:
Non lo sai.
Z:
L'ho scoperto. Hai scritto un tema sulla mia famiglia al liceo,
quando avevi sedici anni. Mio padre aveva pagato per la
ristrutturazione di alcuni palazzi che stavano crollando nella zona
delle case popolari: abitavi lì con la tua famiglia, Indigo.
Inviò
e tenne d'occhio il cerchio in basso a destra che girava, segno che
scriveva. Poi sparì. Riapparse. Lena si passò una
mano sulla
fronte, riguardando il cellulare e la chat: che avesse rovinato le
cose anche con lei?
X:
Non sai niente.
Quella
era una notte strana. Lena temette di aver fatto il passo
più lungo
della gamba con il profilo misterioso e sperava di non averla messa
nei guai con il suo garante, chiunque fosse. Le mancava Kara in un
modo che non credeva possibile mancarle qualcuno e, aspettando con la
tachicardia una sua risposta, continuava a leggere i documenti e
guardare le foto che facevano parte del passato di Rhea Gand. E forse
non solo il suo. A casa di Maggie, lei e Alex iniziarono a discutere
animatamente sulla proposta di Charlie Kweskill. Stavano mettendo in
conto tutte le possibilità e ogni rischio. Alex era
fortemente
contraria, ma solo perché il rischio lo avrebbe corso
Maggie.
Difatti, lei non voleva sentir ragioni.
«Potrebbe
essere la svolta che aspettavi».
«Non
è più solo un caso, Mags: è la tua
vita».
Lei
incurvò la testa, estraendo un sorriso. «Non
possiamo lasciarci
sfuggire l'occasione e lo sai anche tu! Fammi andare come spia per il
D.A.O.».
Alex
ebbe come un déjà-vu: non era così che
aveva iniziato Astra Inze?
Al
campus, Kara non prendeva sonno. Megan e Mike si erano addormentati
da qualche minuto e lei ripensava al foglietto con la confessione di
Lar Gand. Non sapeva che Selina non era ancora arrivata
perché,
fuori dalla Lord Technologies, studiava il perimetro.
Da
L! A Me
Kara,
è importante. Ho in mano cose molto interessanti sul passato
di Rhea
Gand, dobbiamo parlarne.
Rilesse
il messaggio più volte e si alzò dal letto,
scalza, attenta a non
calpestare il ragazzo. Altro su Rhea. Come lo avrebbe gestito? Il
cuore saltò un battito e si avvicinò all'armadio,
aprendolo e
piegandosi sulle ginocchia. Non voleva cedere, ma la tentazione era
troppo forte, adesso.
Da
Me a L!
Avverto
Alex e Maggie. Ci vediamo domani?
Appoggiò
il cellulare sul pavimento e frugò all'interno dell'armadio,
sotto
le gonnelline. Tirò fuori un barattolino e si
rialzò in piedi,
mostrandolo davanti alla luce emessa da quella da lettura sul letto.
Le pillole rosse risaltavano attraverso il vetro. Lo aprì e
ne prese
una, sorpassando Mike a terra e avvicinandosi al tavolo per una
bottiglietta d'acqua. Doveva essere lucida; non poteva lasciarsi
prendere dalle emozioni. Come avrebbe superato la tensione? In quel
modo: si portò la pillola sulla lingua e la mandò
giù con l'acqua,
prendendo dopo un bel respiro.
Nemmeno
Rhea sarebbe riuscita a dormire. Joyce era andata a letto e lei era
rimasta sola in sala da pranzo, davanti alla televisione che mostrava
un servizio su suo marito, omaggiandone la brillante carriera.
Qualcuno si era introdotto in casa ma non mancava niente e non poteva
chiamare la polizia. Zod aveva mandato qualcuno a cercare la pistola?
Allora era arrivato il momento. Si morse un labbro con fastidio e,
recuperando la borsa appoggiata all'ingresso, la aprì per
cercare il
suo secondo cellulare, spostando la pistola. Dunque compose un numero
e attese. «Qualcuno è entrato in casa mia,
oggi», mormorò,
«Radunali. È ora di dare inizio
all'operazione».
Lo
so, lo so, ho cercato di stringere ma questo è uno dei
capitoli più
lunghi e ci ho potuto fare poco XD Spero non abbia annoiato!
Da
una parte abbiamo seguito Kara: lei e Megan ospitano Mike nella loro
stanza al dormitorio e mandano avanti una strana convivenza, tra
Megan che parla nel sonno, ospiti notturni improvvisi e piani per
entrare senza invito in case altrui. E non solo case! A quanto pare,
Selina Kyle si è messa in testa di entrare alla Lord
Technologies e
dare un'occhiata al lavoro di Maxwell Lord. Ha parlato del suo locale
a Kara senza sapere che, ops,
lei ha delle pillole rosse con sé. Questa ve l'aspettavate?
La
ragazza è andata nel pallone, diciamolo, ha iniziato a
pensare di
non riuscire più a gestire la situazione e le manca Lena, lo
sa, non
per niente le scrive dei messaggi che poi non invia, ma non riesce a
non avercela con lei, anche se non vorrebbe. Intanto, Mike pensa alla
loro relazione ed è seccato e Kara e Selina hanno preso quel
foglietto con la confessione di Lar da casa Gand. Rhea, capendo che
qualcuno si è introdotto, ha fatto una telefonata per dare
il via
all'operazione.
Cosa sarà? Cosa vi aspettate?
Poi
abbiamo seguito Alex e Maggie: hanno portato Jamie dai nonni per
tenerla lontano e al sicuro fino a quando non avranno risolto questa
faccenda con Rhea Gand, non sapendo bene come comportarsi invece con
il capitano della polizia Zod. Charlie Kweskill ha praticamente
confessato, invitando Maggie a dare uno sguardo all'organizzazione.
Sembra che lui e Zod abbiano dei progetti, in questo senso.
Infine,
abbiamo seguito Lena: si è fatta avvicinare da Joyce, la
domestica
dei Gand, minacciandola di denuncia e vuole che testimoni contro
Rhea, mettendola in contatto con Cat Grant, disposta ad aiutarla per
la sua situazione. Come Lena manca a Kara, Kara manca a lei e in un
modo che non credeva possibile, ma non saprebbe come fare a
riavvicinarsi se non aspettare l'altra. Nel frattempo, ha ormai
stretto una collaborazione con Indigo che le sta facendo avere tutto
ciò che trova su quella donna, scoprendo il suo passato: lei
e Lar
si conoscevano dal liceo, una sorella maggiore morta tempo fa e il
futuro marito di questa, Dru Zod. Rhea e Zod si conoscono da tanto
tempo, quindi: avranno avuto qualcosa a che fare con la fondazione
dell'organizzazione?
Piccola
nota:
Non
ho idea se, anche nel canon, Rhea abbia o avesse una sorella. Ma non
importa XD Ero indecisa fino all'ultimo sul nome da darle: prima
Petra,
poi Gaia,
sono tornata a Petra,
che mi convince di più.
Siamo
vicini all'operazione,
siamo vicini a un punto importantissimo per questa fan fiction! Il
capitolo 43 Anime
rotte
sarà pubblicato qui, alla solita ora, venerdì 29 ~
|
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Capitolo 44 *** 43. Anime rotte ***
La
sveglia suonò tre volte. Un mugolio e dopo una mano pallida
si
sporse fuori dalle coperte per schiacciarla. La mancò. La
mancò di
nuovo, ma la mosse e cadde a terra. Il rumore fece sobbalzare la
ragazza e si scoperchiò, sbadigliando rumorosamente: aveva
tutti i
capelli da un lato, le occhiaie e, si toccò un angolo della
bocca,
saliva secca. Brontolò, decise di alzarsi ma
inciampò sulla
sveglia, sbatté le ginocchia per terra e scacciò
un urlo di rabbia,
dandole un pugno, facendosi male di nuovo. No, proprio no. Prima un
incubo ancora vivido nella mente dove un uomo la rincorreva per
cercare di ucciderla, e ora questo. No,
ripensò rialzando la testa dopo aver sputato il dentifricio
sul
lavandino e sbattendola contro il mobile rimasto aperto. Decisamente
no. Siobhan Smythe non si sentiva affatto pronta ad affrontare la
giornata, se quelle erano le premesse. Da quando Rhea Gand era stata
rilasciata, dormiva sempre con un occhio vigile perché
temeva
mandasse qualcuno ad
ammazzarla
come aveva fatto con Kara Danvers. Dannazione, Danvers: lei era un
ninja ed era riuscita a sfuggire a quel destino una volta, dunque
avrebbe potuto proteggerla almeno al lavoro, e invece era ancora
sospesa. Sentiva che sarebbe successo qualcosa di brutto; se lo
sentiva nelle ossa. Ignorò i rumori dei camion che passavano
sotto
il suo appartamento e aprì una finestra solo per scacciare
un
piccione che si era adagiato sul davanzale, lasciandoci sopra un
ricordino. Odiava quei dannati topi volanti. Dopo andò in
cucina e
aprì il piccolo e ammaccato frigo. Che desolazione: se non
l'avesse
fatta uccidere quella donna, ci avrebbe pensato la fame prima che si
ricordasse di fare la spesa. Si preparò due fette di pane
con
ingredienti rimasti a caso, ed evitò a ultimo che una colata
di
mostarda le finisse sulle calze a rete. Mandò giù
un morso dopo
l'altro con ingordigia, ascoltando sulla tv, al telegiornale, un
pezzo del discorso pre-campagna elettorale di Rhea Gand andato in
onda ieri pomeriggio: la sala piena di invitati seduti intorno ai
tavoli, la donna sul palco, affiancata dal sindaco che, chiaramente,
la supportava.
«Il
mio amato marito sognava questo percorso da quando era ragazzo e lo
porterò avanti per lui».
«Bla,
bla, bla.
Mariticida», fece il verso, prima di mordere ancora la sua
colazione.
«Mi
impegnerò affinché le strade siano davvero
sicure. Questa è la mia
priorità».
Siobhan
spense la piccola tv che doveva ancora ingoiare l'ultimo boccone, si
assicurò di avere i denti puliti davanti allo specchio
all'ingresso,
e uscì di casa guardando avanti e indietro con apprensione;
scese le
scale e, avvicinandosi al portone dell'edificio, ricercò le
chiavi
della macchina in borsa.
«Buongiorno,
signorina Smythe». Grembiule sporco di cibo legato in vita e
al
collo, il ragazzo del ristorante cinese sotto casa la salutò
come
ogni mattina, affacciandosi dalla porta sul retro.
E
lei, come ogni mattina, si limitò a girare la faccia mentre
continuava a camminare nel viottolo e a regalargli un forzato sorriso
a labbra strette. Brontolò quando calpestò una
cartaccia a terra e
si riguardò di nuovo indietro, con la paura addosso. Lei
sapeva
della pistola. Sarebbe andata a cercarla, prima o poi.
Deglutì e
mise male un piede, inciampando sulle grate di un tombino.
Cercò di
tirarsi su, ma urlò quando capì che un tacco le
era rimasto
incastrato e che il ragazzo cinese stava correndo per soccorrerla. Le
macchiò la borsa e mezzo cappotto con pezzi di carapace di
gamberetti e per questo lo costrinse alla fuga picchiettandolo con la
scarpa non appena lui riuscì a liberargliela. «Tu
e i tuoi
gamberetti orientali», urlò nel vicolo. Si rimise
la scarpa e per
poco non sbandò contro un motorino parcheggiato, mettendo
male un
piede. Si accostò all'auto bianca e avvertì dei
passi che si
avvicinavano. Oh, no. Era lì per lei. Era successo, alla
fine. A chi
avrebbe assegnato la sua scrivania Cat Grant? Era dietro di lei.
Adesso.
Urlò. Si voltò velocemente e con forza gli
sbatté la borsa in
pieno viso. Lui ondeggiò e imprecò dal dolore;
non paga, Siobhan
afferrò lo spray al peperoncino da una tasca e, mostrandogli
tutti i
denti, più agguerrita che mai, glielo spruzzò
sugli occhi senza
provare pena. «Nessuno si prenderà la mia
scrivania, è chiaro?».
Cat
Grant la fissò, una volta alla CatCo; gli occhi che si
stringevano
in due fessure.
«La
polizia mi ha lasciato andare alle nove e mezza passate, non
è colpa
mia», sventolò una mano. «Uscito
dall'ospedale ha detto che
ritirerà la denuncia e sarei più felice se lo
facesse perché ha
capito come abbia agito per legittima difesa, ma teme che lo
maledica», spalancò gli occhi, guardandola grave.
«Come potevo
sapere che era il proprietario di quella stupida moto? Mi ha chiamato
banshee,
ci crede? Doveva pensare che non sapessi cosa significa, ma nessuno
mi dà del mostro solo perché-».
«Siobhan»,
la richiamò con voce dura, zittendola all'istante.
«Che qualcuno
maledica me
se dovessi mai azzardarmi di nuovo chiederti il perché di un
ritardo». Roteò gli occhi e la lasciò
alla sua scrivania con la
sua evidente voglia di chiacchierare.
Siobhan
Smythe però sapeva che stava per succedere qualcosa, se lo
sentiva
nelle ossa. Guardò verso la finestra e deglutì,
prima di iniziare a
lavorare.
7:40,
Centro di National City - 11 ore e 50 minuti all'Operazione
Da
quando si era alzato quella mattina, Dru Zod controllava assiduamente
l'orologio; più di altri giorni. Sua moglie era ai fornelli
e lui
leggeva il giornale, mentre il figlio tredicenne scendeva dal piano
di sopra per fare colazione, in divisa scolastica. Quel ragazzino era
sempre in ritardo. La donna lo sgridò in modo che si
sbrigasse prima
dell'arrivo del pulmino e l'uomo non li degnò di sguardi,
leggendo
con attenzione il discorso di Rhea Gand trasmesso in tv. Era la
quarta volta che lo sentiva e leggeva, dal giorno prima. Il bodyguard
non la lasciava mai sola, notò dalle foto.
Riguardò l'orologio. Il
figlio corse di nuovo di sopra e il campanello di casa
suonò. La sua
attenzione si rivolse tutta lì. Era curioso. Si
alzò dalla sedia,
ma sua moglie fu più veloce e la vide ritornare sorridendo e
scuotendo la testa.
«Il
tuo amico reporter».
Philip
Mcbrown. Zod sospirò: la CatCo Worldwide Media era a poco da
lì e
lui lavorava per il giornale di Cat Grant da qualche anno; era venuto
a trovarlo altre volte, prima di andare a lavoro. Si erano stretti la
mano come due vecchi amici e Zod lo fece accomodare a tavola, intanto
che sua moglie gli serviva il caffè caldo e lui la
ringraziava come
suo solito.
«Allora»,
l'amico gli scoccò un'occhiata quando la donna si
allontanò per
richiamare il figlio dalle scale, e
così sorseggiò dalla
tazzina. Come Zod lo guardò, lui accennò al
giornale, alla faccia
di Rhea in
una foto. «Cosa ne pensi? Ti aveva avvertito di questa
idea?». Poi
rise scrollando le spalle, poggiando la tazzina vuota sul tavolo e
dando i suoi complimenti alla donna, che andava a sistemare la
cucina. «Vuole i nostri voti? L'appoggio di… tutti,
sai? So che non siamo più il gruppo di un tempo,
ma…».
«Rhea
vuole sempre l'appoggio di tutti», rispose il Generale,
pacato.
«Quella
ha il pepe in zucca e forse non solo lì», rise.
«Ehi, ti spiace se
vado in bagno…?». Si alzò dalla sedia
con uno scatto e si voltò
immediatamente alla signora Zod già in modalità
d'attacco,
dicendole che chiaramente sarebbe salito di sopra perché il
bagno al
piano terra non era sistemato. Era solito, lo sapeva. E in casa Zod,
tutti erano abitudinari. Salì le scale e il Generale,
severo, lo
tenne d'occhio. Mcbrown entrò in bagno e si
guardò allo specchio,
assumendo un'espressione seria e prese fiato; si sistemò la
giacchetta e tirò lo sciacquone, uscendo dal bagno coperto
dal
rumore. Si guardò intorno ed entrò con passo
felpato nella camera
padronale. Si avvicinò a un comodino, si mise un guanto e
aprì la
giacchetta, tirando fuori una pistola. Prese fiato e lo fece:
aprì
un cassetto e la infilò dentro. Pensava di non essere visto
da
nessuno, ma un giovane Zod era proprio davanti alla porta in quel
momento; cartella della scuola in spalla, pronto per uscire, gli
mancavano solo le scarpe. Tornò verso camera sua e prese il
cellulare da una tasca.
Da
Chris a Me
Ehi
pa', il tuo amico ti ha messo qualcosa nel cassetto del comodino.
Sembra sospetto, poi non dire che non ho preso da te il naso da
sbirro!
Il
Generale lesse la sequela di faccine sorridenti e alzò gli
occhi al
soffitto. Philip Mcbrown aveva scelto, dunque? Non che fosse una
sorpresa. Il bip del cellulare interruppe il suo rimuginare:
Ehi
pa', posso andare al cinema domani sera? Ci vanno tutti i miei amici!
Lui
alzò gli occhi di nuovo.
Da
Me a Chris
Chiedilo
a tua madre.
9:52,
Sunrise National City University – 9 ore e 38 minuti
all'Operazione
Sudore,
fiato corto, all'improvviso un giramento di testa e Kara dovette
fermare la corsa, stringendo i denti. Le aveva detto che non ci
sarebbero più stati quegli spiacevoli effetti collaterali,
accidenti
a Lord.
Lui
aveva sorriso divertito e scosso brevemente la testa quando qualcuno
andò a dirgli in laboratorio che una certa Kara Danvers era
lì in
visita. L'aveva fatta salire nel suo ufficio e l'aveva raggiunta dopo
qualche minuto, il tempo di rendersi presentabile. Normalmente
avrebbe preferito che fosse l'altra Danvers ad andare a trovarlo, ma
in quel momento gli era sembrata la notizia migliore del mondo: Kara
aveva provato gli effetti della sua pillola rossa, al locale, e
quando aveva sentito per cos'era andata lì, il suo cuore si
era
riempito di gioia.
«Pensavo
non le piacesse l'idea delle pillole, signorina Danvers. Cosa le ha
fatto cambiare idea?».
Kara
aveva abbassato gli occhi, non proprio certa di quale fosse la
risposta. «Non… Non ho cambiato idea».
Lui le aveva riservato
un'occhiata sorpresa e lei si era spazientita, riprendendo la giacca.
«Senta, sa che c'è? Preferisco andarmene, i-io
neanche so perché
sono qui».
«No,
no, no, la prego! Si sieda», le aveva indicato la sedia su
cui si
stava alzando, diventando serio. «Sa
perché è qui e non vuole dirmelo, ma non
è un problema. Le darò
le pillole. Ho una formula migliorata rispetto a quando l'ha
accidentalmente presa l'ultima volta». L'aveva vista fare una
smorfia con gli occhi per quel accidentalmente,
ma non gli era importato. «Sarebbe un onore che lei le
provasse».
«Le
pagherò».
«Oh,
no, no, si figuri! Offre la casa. In cambio le chiederò solo
di
spiegarmi come la fanno sentire e», si era preso una pausa,
sospirando, «il suo sangue». Lei aveva sbarrato gli
occhi ed era
pronta a correre via, se non l'avesse fermata in tempo.
«Signorina
Danvers, il suo sangue mi aiuterà a capire come svolgere il
mio
lavoro. È per le stesse pillole che lo chiedo, non certo per
farla
arrabbiare, ci mancherebbe».
Era
ovvio che fosse riuscito a convincerla. Non che ci fosse voluto
molto, considerando che aveva lottato tanto contro se stessa da
giorni per non avvicinarsi ed eppure si trovava lì. Lui
l'aveva
accompagnata all'interno di un laboratorio e aveva indossato un
camice, mentre la ragazza si era guardata intorno, adocchiando le
tante persone, anche loro in camice, che andavano e venivano. Gli
aveva chiesto di Roulette, se avesse ancora l'abitudine di mettere
pillole gratis in drink altrui, ma Maxwell si era limitato a
sorridere. Aveva preso le fialette e preparato il braccio sinistro di
Kara per l'ago.
«La
prenda come una donazione», l'aveva guardata negli occhi,
pungendola. «Una donazione per la scienza e il
progresso».
Lei
si era morsa un labbro e guardato altrove. Aveva sempre odiato gli
aghi. «Sto passando un brutto periodo», era
riuscita a dire, con
gli occhi lucidi. «La pillola al locale mi aveva resa
più sicura
e…», aveva spalancato la bocca ma le era mancato
il fiato.
«Ha
paura», aveva detto lui cambiando fialetta, passando quella
piena a
una ragazza al bancone. «È perfettamente umano
provare paura,
signorina Danvers. E sono felice di dirle che le mie nuove pillole
rosse potranno davvero aiutarla, in questo».
Aveva
odiato quel momento in cui si era resa tanto sensibile davanti a lui,
accidenti. Ma non si era resa conto di esserlo fino a quel punto,
fino a quando lui non le aveva infilato un ago nel braccio in cambio
di quelle pillole. Era davvero arrivata a tanto? Rhea l'aveva ridotta
in quello stato, o era stato tutto nel suo insieme? Non voleva
più
sentirsi così fragile, ma neppure così disperata:
per quella
ragione, pur avendo le pillole, le aveva nascoste nell'armadio per
precauzione, sperando di non cedere.
«Questa
bellezza la chiamiamo kryptonite
rossa»,
le aveva rivelato Max, in una risata, mostrandole il barattolino di
vetro. Lei si era subito accigliata. «L'idea è
stata di Roulette,
non mia», si era giustificato subito. «Ed
è stata lei a dargliela:
la sua squadra, al lacrosse: vi fate chiamare le kryptoniane. Beh,
sì, anch'io ho visto qualche video delle sue partite. A
Roulette è
piaciuto e ci stiamo facendo l'abitudine, spero non sia un nome
registrato. Non mi guardi in quel modo, nemmeno io l'ho registrato,
lo
usiamo solo tra noi».
Kara
aveva stretto il barattolo e si erano guardati negli occhi, solo un
momento.
«Cosa
ne penserà sua sorella, vedendole le pillole?».
Il
volto di Kara si era irrigidito: «Non lo
saprà».
Scosse
la testa piano, serrando gli occhi con forza, inchinandosi e tenendo
le ginocchia.
«Kara?».
Lei
prese fiato a pieni polmoni e così riprese a correre con uno
scatto
rapido, tanto veloce che superò il ragazzo prima ancora che
si
accorgesse della sua ripresa. Era davvero felice che il suo amico
Barry fosse tornato a trovarla in vista della sua prima partita dopo
la sospensione. Correre al suo fianco era sempre stimolante, ma gli
parse un po' bruciato dalla sconfitta dopo tante corse alla pari.
Kara era concentrata, non un tentennamento. La pillola rossa le
infondeva una sensazione di libertà che forse non aveva mai
provato
davvero; fortunatamente il mal di testa era solo momentaneo e non le
veniva spesso: notava come Maxwell Lord doveva averci lavorato molto
per perfezionarle. Lo superò anche al seguente giro e si
fermarono,
andando verso gli spalti per recuperare una bottiglietta d'acqua. Gli
diede una pacca sulla schiena, ridendo, raggiungendo la panca per
prima.
«Accidenti»,
soffiò Barry, passandosi l'asciugamano sotto il collo.
«Stai
iniziando aprile coi fiocchi: o tu sei diventata incredibilmente
veloce, o oggi non è la mia giornata». Rise e Kara
con lui, anche
lei asciugando il sudore.
«È
che sto cercando di concentrarmi sui miei obiettivi».
«Già»,
il ragazzo annuì, fissandola tanto che lei rise, battendogli
di
nuovo la schiena.
«Non
guardarmi in quel modo, sto bene! Cerco solo di tenermi
impegnata».
Misero le bottigliette e gli asciugamani dentro lo zainetto della
ragazza, che si portò sulle spalle.
«No,
beh, ti capisco», sorrise, alzando le spalle. «Sono
anch'io sotto
pressione, ultimamente: il caso di mio padre è riaperto, ho
mollato
il lacrosse, vengo seguito da un allenatore sulla corsa e ho vinto la
borsa di studio degli Star Labs indetta dello scienziato e
multimiliardario Harrison Wells che è interessato ai miei
progressi
come scienziato e sulla corsa», disse tutto d'un fiato,
mettendosi
per un attimo sui talloni. La sua eccitazione era alle stelle.
«E
poi ho conosciuto una ragazza e…».
«Aspetta!
Una ragazza?», si accigliò. «Credevo che
per te ci fosse solo
Iris».
«Beh,
sì, c'è Iris… ma»,
gonfiò le guance, «sta con Eddie e lei
è
carina, così… Lavora agli Star Labs, l'ho
conosciuta lì».
«Uscite
insieme?».
«No».
«Okay,
ma quindi parlate spesso…?».
«No,
ma-».
«Barry…
almeno sa della tua esistenza?», lo fissò,
socchiudendo gli occhi.
«Sì,
certo», scrollò le spalle. «Conto di
riuscire a rivolgerle la
parola entro la settimana. O il mese, se
proprio…».
«Oggi
è due».
«Appunto,
quindi ho ottime possibilità», si
grattò la nuca e
si diedero il cinque.
«Poi sì, voglio dire, tutto questo non
è nulla in confronto alla
tua quasi ex suocera che ti vuole morta». Si allontanarono
dagli
spalti e Kara adocchiò un giovane che, alcuni scalini sopra,
si
mosse con loro per scendere. «Tu vinci a mani basse, senza
dubbi.
Anche per quanto è successo con Lena e la sua
famiglia… la tua
famiglia, cioè… mh. Sta-Stai bene, riguardo
questo?».
Lei
annuì subito, ascoltando i passi dietro di loro: li stava
seguendo.
«Sì», sorrise, «Te l'ho detto:
mi concentro sui miei obiettivi,
non ci penso più». Lo vide riaprire la bocca, ma
lei lo tappò,
sussurrando di correre al suo segnale: lo lasciò e, al suo
cenno con
la testa, scattarono, seminando il povero agente.
Ripresero
fiato dietro un muro, ricominciando a camminare. «Ti stanno
ancora
dietro, eh?».
«Li
odio», sentenziò fredda.
«Perché devono seguirmi anche qua
dentro?». Fu lui a batterle la schiena per darle il suo
appoggio, a
quel punto. Camminarono verso la vietta che separava
l'università
dal campus, quando un ragazzo passò troppo vicino a Barry e
lo urtò,
continuando a camminare. Lui non ci badò neppure, forse per
gentilezza, ma a lei diede fastidio e si voltò all'istante.
«Ehi!
Hai spintonato il mio amico e non gli hai chiesto scusa».
Barry
sorrise un po' a disagio, mentre il ragazzo fermato scrollava le
spalle. «Kara, non importa».
«Sì
che importa, ti ha spinto e non si è fermato», lo
fissò, senza
spostarsi di un centimetro: «Chiedigli scusa, ho
detto».
Con
Barry immobile, gli altri due si guardarono fino a quando il ragazzo
non cedette, mostrandole un sorriso incerto. «Sicuro. Scusa,
amico!
Starò più attento a dove cammino,
Supergirl», alzò le mani e
sparì.
Barry
la guardò mentre, sicura di sé, lo invitava a
seguirlo, come se
fosse tutto normale. Ma era normale? Cos'era appena successo?
10:46,
base del D.A.O. a National City – 8 ore e 44 minuti
all'Operazione
Lena
deglutì guardando Maggie mentre, restando ferma, le
sistemavano un
microfono aggiuntivo sotto la maglia, oltre a quello a un orecchio.
Era una prova per vedere come sarebbe stata, mentre gli agenti del
D.A.O. le spiegavano le cosa fare e come funzionavano. Le
possibilità
che la scoprissero erano davvero alte.
Ne
avevano parlato il giorno prima, ritrovandosi tutte a casa di Alex.
Maggie aveva cercato con difficoltà di evitare un discorso
serio con
Charlie Kweskill quella mattina; lui non aveva fatto altro che
lanciarle l'amo sul come non vedesse l'ora di discutere insieme sui
grandi progetti che avevano in mente per National City. E anche lei
non vedeva l'ora, di sicuro, ma con un microfono attaccato. Lena
aveva appoggiato la sua idea, seppure riconoscesse il rischio, Alex
aveva continuato a mostrare la sua contrarierà e Kara, dopo
un bel
po' che era rimasta soprappensiero, aveva detto che era una buona
idea. Una buona idea. Alex non voleva crederci e quasi neppure Lena.
Lo aveva detto con tale nonchalance da non sembrare quasi lei.
Immaginavano che tutto quello che stava succedendo la stesse mettendo
davvero a dura prova, ma… E dopo avevano parlato delle foto
ritrovate da Lena con l'aiuto di Indigo, a cui Kara fece una smorfia.
Nessuno di loro aveva mai sentito parlare di una sorella scomparsa di
Rhea, era stata una sorpresa, e mai quanto sapere che un giovane Zod
ne era il futuro sposo. Anche sapere che nemmeno Rhea era sfuggita
agli effetti devastanti dell'adolescenza era stato interessante. Ma
indubbiamente, i suoi brufoli erano passati in secondo piano rispetto
al resto. Ora più che mai sapevano che avrebbero dovuto
scavare sul
passato di quanti più membri certi dell'organizzazione
conoscessero
e scoprire come era nata. Intanto, Maggie sarebbe stata la loro voce
dall'interno. Se non l'avessero scoperta prima, almeno.
Alex
si mise al suo fianco, appoggiandosi contro un tavolo. Si mangiava le
unghie e respirava con affanno.
«Ci
riuscirà», sussurrò Lena, vedendola
voltarsi solo un momento.
«Non
ho dubbi che ci riuscirà», soffiò tra
le unghie. Scorse Lena
alzare un sopracciglio e Alex sbuffò, mettendo le braccia a
conserte. «Sapere che potrebbe non riuscirci è
tragico, va bene? Ma
sarò pronta a intervenire; lo saremo tutti. Ho
più problemi a
pensare che ci riuscirà. In quel
caso…».
«Temi
possa diventare una di loro a tutti gli effetti?».
Si
scambiarono uno sguardo e Alex sospirò. «Non so
cosa pensare. Non è
che Maggie si lasci influenzare, ma Zod ha un certo potere
su di lei», strinse i denti, scuotendo la testa.
«Nonostante
sapesse che era uno di loro, ha continuato a dargli una sorta di
fiducia che non meritava. E
la cosa quindi
non mi piace».
Come
darle torto, pensò Lena. «Senti,
hai…».
«No»,
sospirò di nuovo, anticipando la domanda, «Non
vedo né sento Kara
da ieri. Forse è solo molto scossa e sta cercando di reagire
in modo
freddo e scostante per non farle male, sai…
Forse-», si portò una
mano contro i capelli e fece una smorfia, stringendo le labbra.
«Sarà
passeggero, vedrai! Ti perdonerà anche lei, prima o poi. E
tornerete
quelle di prima».
Lena
spalancò gli occhi, annuendo lentamente. «Quindi
tu… mi hai
perdonato?».
«È
work
in progress»,
alzò il mento. «Ma falla soffrire di nuovo e sei
fuori, Luthor.
Sorellastre o no».
«Afferrato».
Emise un piccolo sorriso e Alex le diede una spallata inaspettata.
«Perché
non passi a trovarla, più tardi? Ha la partita, io non
potrò
esserci, ma-».
Lena
fissò un punto vuoto, deglutendo. «Non…
Non sono sicura di
riuscire a starle vicino, adesso», sospirò e
continuò prima che le
chiedesse dell'altro: «Mi manca, mi manca… tanto.
Ma sento che non
mi vuole vicino e mi guarda in un modo che-». Smise di
parlare
quando le si fecero gli occhi lucidi.
Alex
stava per dire qualcosa che John Jonzz le interruppe, mettendosi
vicino: «A che ora hai detto che parleranno?».
«Questo
pomeriggio alle cinque e mezza», gli rispose, cercando di non
fargli
notare il suo disappunto.
«Accidenti»,
sospirò, con le braccia sui fianchi. A un'occhiata
dell'agente, lui
sospirò di nuovo: «Non potrò esserci,
sarò fuori National City».
Le due lo guardarono spalancando gli occhi e lui scrollò le
spalle.
«Mi sono preso il pomeriggio libero dopo la partita, anch'io
ho una
vita privata di cui non devo rendere a voi. Soprattutto a lei,
signorina Luthor. Non mi è nemmeno chiaro il motivo per cui
si trova
qui».
Lena
rumoreggiò con la gola e fece un passo di lato.
«Vi lascio parlare
da soli».
Si
allontanò verso Maggie, mentre l'uomo sistemava le braccia a
conserte e Alex gli diceva che lei era lì per supporto
psicologico.
«Certo che ha la sua vita privata, è solo che
oggi… proprio
oggi,
sta succedendo questo e-».
Lui
la affiancò e annuì più volte,
pensando. «Capisco, lo so. È una
missione di vitale importanza, soprattutto se pensiamo alla lettera
di chiusura dell'indagine che ci è arrivata questa mattina,
e lei è
la persona più importante della tua vita e sta rischiando
tutto, per
questo seguirò da telefono e tu, Alex Danvers, sarai il capo
al
comando».
«Oh,
no», scosse la testa.
«Oh,
sì», insisté.
«Oh,
no».
«Oh,
sì.
Smettila di ripeterlo, ho poca pazienza da quando-», si
portò due
dita in mezzo agli occhi.
«È
stato lasciato», soffiò Alex quasi senza
accorgersene. «Conosco
anch'io Megan e-».
«Non
ne voglio parlare-».
«so
quanto si è risentita-».
«soprattutto
con i miei sottoposti-».
«ma
se vuole la mia opinione, lei è davvero innamorata
e-».
«e
prima che diventi imbarazzante, ti ordino di chiuderla qui»,
la
guardò e lei si zittì. «Da-Davvero
innamorata, hai detto?».
Lui
restò a bocca aperta e per un attimo Alex sorrise, cambiando
di
fretta espressione: «Che mi venga un colpo, Megan aveva un
appuntamento stasera. Deve uscire con lei, mentre la mia ragazza
rischia la vita?».
Lui
la indicò, aprì bocca per dirle qualcosa e la
chiuse di nuovo,
stringendo gli occhi. «Non prendo mai una vacanza e ricorda
che sono
il tuo capo», chiosò serio, chiudendo la questione
mentre si
allontanava.
Alex
si portò la mano destra sulla tempia e sospirò.
Era vero, il suo
capo non si prendeva mai una vacanza: un po' come lei che doveva
destreggiarsi tra il D.A.O. e la boutique, anche lui aveva il lavoro
e l'impegno come coach all'università di sua sorella. Poi
aggrottò
la fronte. Lei odiava la boutique e la sua copertura era saltata,
perché andava ancora a lavorare lì? Ah,
già: un buon doppio
stipendio. Strinse le labbra e annuì, riguardando Maggie: le
stavano
togliendo i microfoni. E adesso volevano andare a vivere insieme, in
una casa un po' più grande, quei soldi le avrebbero fatto
comodo.
Magari ci usciva anche quella moto di cui avevano discusso. La vide
sorridere mentre parlava con Lena e provò un brivido,
stringendo le
labbra di nuovo e facendosi più seria: Zod la voleva dalla
sua
parte? Non sarebbe riuscito a portargliela via.
13:14,
Basilica del Santo Padre – 6 ore e 16 minuti all'Operazione
La
basilica era vuota, a quell'ora. I loro passi rimbombavano tra le
navate. Rhea guardò in alto, verso il grande mosaico sul
soffitto
che rappresentava gli angeli in canto, e dopo ordinò al
grosso uomo
che la seguiva, il suo bodyguard, di aspettarla lì. Si
andò a
sedere e infine si inginocchiò davanti al Gesù in
croce, chiudendo
gli occhi. «Adesso sono sola, Petra»,
sussurrò, nominando la
sorella maggiore scomparsa parecchi anni prima. «Lar se
n'è andato.
Non è stato facile come sicuramente penserai, lui credeva in
me e io
l'ho deluso. Era evidente che, dopo tutti questi anni, avevamo due
idee diverse del futuro. Siamo sempre stati una cosa sola, ma adesso
porterò avanti i sogni di tutti e due. Chiedigli di
perdonarmi, se
può», riaprì gli occhi e
fissò le sculture. Poi li richiuse. «Ti
chiedo di vegliare su di me, Petra. Non credevi in me, ma dopo questa
sera, sarai costretta a cambiare idea. Mi prenderò con la
forza il
posto che è mio di diritto, sono stanca di aspettare. Questa
città
sarà ai miei piedi. E dopo lo saranno gli Stati Uniti
d'America».
Riaprì di nuovo gli occhi e si alzò, facendo il
segno della croce.
«Guida Mike affinché ritrovi la strada di casa:
è l'ultima cosa
che ti chiedo, sorella mia. Lui è tutto ciò che
conta».
Rhea
lasciava la chiesa in compagnia della sua nuova guardia del corpo,
ricordando Petra, intanto che Dru Zod, nello stesso momento ma in
centrale, chiuso nel suo ufficio, faceva lo stesso, tenendo in una
mano una piccola e logorata foto di loro due ragazzi, abbracciati,
con i sorrisi speranzosi di chi sognava una vita migliore. Una vita
insieme. Petra non c'era più, ma nei suoi ricordi non era
mai morta.
Si era sposato e aveva avuto due figli, pur con il groppo in gola di
ciò che aveva perso, di ciò che doveva succedere
e non era
successo. Vedeva i suoi figli crescere, una dopo l'altro, con la
sensazione sulla pelle che non doveva andare così, la sua
vita. Con
l'ombra di un mostro sempre presente a ricordargli che lui non si
trovava dove doveva stare, che un pezzo di sé era scomparso
con lei,
sotto quelle scale. Strinse i denti e chiuse la foto in un cassetto
della scrivania, pensando che la resa dei conti era vicina.
15:18,
Campus del Sunrise National City University – 4 ore e 12
minuti
all'Operazione
Lena
camminò per le scale del dormitorio con apprensione. Si
torceva le
mani, cercava di tenere controllato il respiro, la gola si seccava
tanto che le bruciava. Era davvero diventato così difficile
pensare
di vederla? Oh, perché le era successo di innamorarsi;
perché poi
proprio di lei. Sembrava che il destino gliel'avesse voluto fare di
proposito: ecco una piccola Luthor, la discendente diretta delle
persone che non avevano fermato l'assassinio di una famiglia, ebbene
dovrà innamorarsi della bimba sopravvissuta. Era talmente
cattiva
che sarebbe venuta in mente solo a Lillian per farle pagare di essere
la figlia del marito. Forse ancora non lo sapeva, ma era la
principessa di una favola dei fratelli Grimm. Di quelle che finivano
male, in un modo o nell'altro.
Si
fermò quando arrivò al piano giusto, spalancando
gli occhi: le
porte delle camere erano quasi tutte aperte e le ragazze disposte
intorno a dei tavolini lungo il corridoio; ridevano, gridavano e
facevano baldoria con dolci e bibite gassate. C'erano anche dei
ragazzi; sembrava proprio una festa e adesso capiva il
perché di
tanto schiamazzare da quando aprì il portone d'ingresso.
Inquadrò
un lenzuolo appeso da una porta a un'altra che festeggiava il ritorno
di Supergirl dopo la sospensione. E poi la vide e le mancò
il fiato.
Con lei al suo tavolo c'era Megan e anche Barry Allen. Erano rossi,
dovevano ridere parecchio. La vide urlare in risata alle giocatrici
di smetterla di mangiare se volevano scendere in campo senza dover
rimettere, poi si alzò da tavola riempendo un piattino di
dolcetti e
rientrare così nella sua camera, sicuramente per portare
cibo a
quello sfortunato di Gand, che non poteva uscire. Kara non aveva
bisogno di lei che le ricordava, ora, che le aveva mentito e cosa la
sua famiglia le aveva fatto. Una ragazza vicina la fermò per
chiederle se voleva unirsi, ma Lena ringraziò di fretta e si
voltò
per tornare verso le scale.
Kara
uscì in quel momento dalla stanza e il suo cuore
sussultò appena la
vide. Era stato un attimo, un attimo solo, ma l'avrebbe riconosciuta
sempre, anche in un mare di persone: era lei, era venuta a trovarla
ma all'ultimo aveva deciso di scappare. Si portò una mano
sotto al
collo e sospirò pesantemente, sentendo riaffiorare tutto:
Lena le
aveva mentito, si amavano, voleva solo stare con lei ma i Luthor
avevano fatto parte dell'organizzazione e non avevano salvato i suoi
genitori e i suoi zii. Lo scoppio. Rhea Gand che tentava di ucciderla
e lei che si sentiva impotente. Lo sparo. Non sarebbe mai stata
abbastanza forte. Gli occhi le si spalancarono e riempirono di
lacrime. Perché doveva farle così, adesso?
L'aveva vista il giorno
prima, andava tutto bene. Lena le mancava, ma andava tutto bene. Cosa
succedeva al suo corpo? Aveva bisogno di sentire Lena vicino, ma non
la voleva. I battiti del suo cuore aumentarono, il fiato si fece
corto; trovò la forza di deglutire e strinse gli occhi,
tornando
indietro alla camera e chiudendo la porta. Le serviva una pillola.
L'effetto stava svanendo, ecco cosa stava succedendo. Ma Mike era
lì,
seduto a gambe incrociate sul suo letto che giocava col tablet e
mangiava pasticcini. Non sarebbe mai riuscita a prenderla con lui di
mezzo.
«Mi
hai già portato la cola? Sei stata veloce». Si
girò con un pronto
sorriso ma, appena vide la sua espressione persa, il ragazzo si
alzò
e, andandole incontro, si lasciò stringere in un forte
abbraccio,
ricambiando. «Cos'è successo, adesso? Eri felice
fino a un momento
fa, stavi ridendo, mi hai sgridato di non tenere le scarpe sul letto
e ora piangi?».
«I-Io
non piango». Si fregò subito una guancia, quando
le scese una
lacrima.
«E
io non avevo le scarpe sul letto», controbatté
lui, lasciando che
si staccasse. «Allora, che succede? Puoi dirmelo? Se vuoi
dirmelo,
io sono qui. Ci sono per te, come tu ci sei per me, no?», le
sorrise, distanziandosi di poco.
Kara
lo sorpassò, poi si girò, fece altri due passi e
si rigirò verso
l'armadio. Si fregò gli occhi rossi e ansimò.
«È che-». Lui
aggrottò la fronte, ascoltando. «Ho visto
Lena».
«Quando?».
«A-Adesso.
Era fuori, era lì e… e-e lei… beh, lei
se n'è andata. Cavolo…»,
strinse i denti, guardando l'orologio: erano quasi le tre e mezza,
aveva la partita tra non molto e non poteva permettersi di deludere
tutte le persone là fuori che contavano su di lei.
Accidenti,
accidenti, accidenti. Tra quasi due ore, Maggie sarebbe andata a
parlare con Zod e il suo galoppino e lei non ci sarebbe stata. Come
poteva non essere al fianco di Alex, in un momento come quello? Era
stata davvero così egoista? Sapeva che era la cosa
più sensata da
fare, ma…
«Ehi,
Kara», Mike la strinse a un braccio, cercando di alzarle il
viso per
guardarla negli occhi. «Se continui così, rischi
un attacco di
panico. Guardami», la forzò e Kara
deglutì, cercando di calmarsi.
«Prima sei tesa, sicura, hai rischiato di cacciare Selina
Kyle ieri
notte perché non ti aveva dato un orario in cui sarebbe
tornata, ora
piangi… Non stai bene».
«Sto
bene», soffiò con sicurezza e, prendendo fiato, si
agitò,
scrollandoselo di dosso. «Sono solo stanca».
«Ci
credo, non fai che correre e dormi poco. Senti-», si sedette
sul
letto e Kara fece lo stesso, abbassando gli occhi. «Lascia
perdere
Lena, okay? Hai me. Lo so cosa ci siamo detti, abbiamo sbagliato
entrambi in modi diversi, ma è acqua passata. Adesso siamo
di nuovo
noi, no?». La vide scuotere brevemente la testa e Mike
sospirò.
«Lena ti fa stare male, ti ha mentito. Ci sono io al tuo
fianco, non
lei», proseguì, toccandosi il petto. «Lo
sai che non ti lascerei
mai sola, vero?».
«Non
lo hai mai fatto», sibilò distratta e lui le prese
il mento,
sollevandole il viso verso il suo. Voleva baciarla ma Kara si
scansò,
rimettendosi in piedi. «Che stai facendo?».
«Quello
che-», il ragazzo rise, scrollando le spalle,
«Quello che volevamo.
Non lo volevamo? Non ti lascerò mai sola eccetera».
«Eccetera?»,
si accigliò. «Me lo dicevi solo per farmi tornare
con te? Era
questo che avevi in mente fin da subito?».
«No».
Anche lui si alzò e aggrottò la fronte,
sentendosi accusato. «Certo
che no, ma-».
«Ma?».
«Smettila
di attaccarmi, pensavo che stessimo facendo pace», si
toccò la
fronte e tornò indietro di un passo, per poi stringere le
labbra e
riprendere fiato. «Tu sei unica per me, lo sai questo?
Pensavo che
tu e Lena… che fosse solo momentaneo, l'hai detto anche tu,
ti fa
soffrire».
«Non
l'ho detto: tu l'hai detto».
«Pensavo
che ormai stessi voltando pagina. Non l'hai detto ma lo pensavi! Ero
solo convinto che… anche io fossi unico per te».
Si portò di
nuovo una mano contro il petto e Kara prese fiato, scuotendo la
testa.
«Stai
cercando di passare per vittima? Non sei la vittima,
smettila».
«Mi
accusi di questo? Oh, certo», lui alzò gli occhi
al cielo e fece
dei passi indietro. «Pensare che volessi fare pace
è da vittima? Ma
è sempre colpa mia, giusto? Sono… egocentrico,
no? Mi avevi chiamato così? Mi hai accusato di
sminuirti».
«E
non ci credo che ci stavo cascando ancora».
«Vero?
Povera ragazza», sbottò Mike con ironia.
«Credevo che fossimo
sulla stessa barca, che mi aiutavi per questo, ma ora capisco
perché
lo fai. Adesso capisco bene, vedo le cose con
lucidità».
Gli
occhi di Kara si riempirono di nuovo di lacrime e si passò
le dita,
fregandoli. «Ah, sì? E cosa vedi?».
Nemmeno gli schiamazzi fuori
dalla porta avrebbero potuto interromperli.
«Vedo
il reale motivo per cui sono qui: pena. Io ti faccio pena, Kara. Il
povero ragazzo la cui madre ha ucciso il padre! Senza un posto dove
andare, solo al mondo, accolto anche se non mi vuoi»,
gridò ferito.
«Sono bisognoso di aiuto e per questo interessante ai tuoi
occhi:
perché tu devi sentirti indispensabile, Kara. Quello che fai
è
correre dalla gente che ha bisogno perché è
l'unico modo che
conosci per sentirti amata». La vide piegare le labbra e
scuotere la
testa, ma non aveva intenzione di fermarsi: «La tua famiglia
è
morta e hai bisogno di sentirti importante per gli altri per non
essere abbandonata ancora».
«Perché
mi fai questo?».
Fu
allora che, dopo aver bussato due volte ma non riuscendo a sentire se
avesse ricevuto il permesso di entrare, Barry aprì piano la
porta e
dopo la spalancò, vedendo Kara in lacrime: bloccò
subito il
ragazzo. La rabbia sul volto di Mike scomparve, si era sfogato, ma la
ragazza era a pezzi: era vero ciò che diceva? Che lo fosse o
meno,
Mike era sbagliato. Nella sua testa nulla funzionava come dovrebbe e
Kara gli aveva permesso di ferirla ancora quando si era giurata di
chiuderlo fuori.
«Non
metterti in mezzo, tu», Mike spinse Barry, ma quest'ultimo
guardava
ancora la sua amica.
«Cosa
c'è che non va in te, Mike?», riuscì a
dirgli lei, stringendo un
pugno.
«Oh,
cavolo», brontolò, «Forse sono solo
fatto così». Lei scosse la
testa e si avvicinò alla porta per uscire. «Kara,
ti prego! Ho
sbagliato, ma posso rimediare! Insieme a te è
diverso».
Lei
uscì senza dargli una risposta e Barry lo guardò,
scuotendo anche
lui la testa. Lo lasciò solo e richiuse la porta. Vedendo
Kara
uscire rapidamente dalla camera, Megan le corse dietro verso i bagni
e così fece Barry. La trovarono seduta sulle piastrelle che
fissava
il vuoto, giocando con la collana sotto il maglioncino. La collana
che le aveva regalato Lena a Natale, con il simbolo degli El.
«Kara,
posso-».
«Lo
so», soffiò in risposta prima che finisse di
parlare. «Mike è uno
stronzo».
«Volevo
suggerirti di non giocare alla partita, ma», annuì
Barry, «credo
si sia comportato proprio da stronzo».
«È
tossico per te», suggerì Megan, passandole un
fazzoletto: non
piangeva più, ma gli occhi erano gonfi e aveva bisogno di
rimettersi
in sesto. «Ho letto in proposito, quando cercavo su Google
se
qualcun altra si era ritrovata in una relazione con un agente
segreto», sbottò. La fissarono entrambi e
scrollò le spalle:
«Cosa? Mi ha chiesto di parlare e voglio
ridergli in faccia,
per questo esco con lui dopo la partita. Ritornando a Mike»,
puntò
in aria un dito, «è quel tipo di persona che
riflette sempre
l'attenzione su di sé e i suoi sentimenti, cercando di far
sentire
il partner in colpa. Gli uomini come lui promettono di cambiare, ma
non cambiano», strinse una mano di Kara. «Non
esiste la favoletta
dell'uomo che cambia con la donna giusta. Non cambiano mai e se ti fa
male una volta, è capace di farlo sempre».
Barry
si abbassò e le prese l'altra mano con le sue.
«Non so cosa ti
abbia detto di preciso, ma so che tu non meriti di stare
così per
nessun ragazzo, Kara. Come non meriti di stare male per nessuna
ragazza», aggiunse, pensando a Lena e guardando la collana.
«Pensi
che sia meglio rinunciare?», chiese allora Megan e Kara si
accigliò.
«No.
Abbiamo una partita da vincere».
«Sei
sicura?», le chiese anche Barry, mentre tutti e tre si
rialzavano.
Kara
annuì. «Sì. Mi serve un bicchiere
d'acqua e sarò come nuova».
Uscì dai bagni e i due si guardarono con preoccupazione.
Eppure
sembrò vero: solo pochi minuti, il tempo a John Jonzz di
chiamare a
rapporto la squadra, che Kara sembrò rinata. Aveva ancora il
viso
gonfio e gli occhi rossi, che preoccupò anche il coach, ma
non aveva
altro pensiero per la testa se non vincere quella partita.
Lena
si sedette sugli spalti, non troppo vicino al campo per non essere
vista. Non se n'era davvero andata e aveva preferito ingannare
l'attesa facendosi un giro. Quando vide la squadra scendere in campo,
intercettò subito Kara, casco già infilato,
camminata sicura. La
sua Supergirl.
«Ehi.
È libero?».
Lena
si spaventò balzando un poco e il ragazzo si
scusò in un sorriso,
sedendo vicino, mani nelle tasche dei jeans. Come aveva fatto Barry
Allen a notarla?
«Come
stai? Per tutta questa storia delle vostre famiglie e, sì,
il fatto
di averle mentito…», mosse la testa.
«Oh,
lo sai?».
«Non
che Kara abbia messo i cartelli, ma…
sì», annuì. Guardò Lena e
la squadra rossa e blu in campo: la numero dieci, Kara, era
già in
possesso di palla e correva, buttando sull'erba diverse giocatrici in
difesa.
Aveva
una carica incredibile, pensò Lena. «Come si
sente? L'ho vista ieri
ed era un po' sulle sue».
«Lo
è. Sulle sue. È un po' strana, in effetti: prima
piange, poi corre
e sprona le altre».
«Stava
piangendo?», il suo sguardo si fece grave e Barry prese
fiato.
«Ha
litigato con Mike: le ha detto delle cose che l'hanno ferita. Ma tu
come stai, invece?», insisté,
«Perché, beh, non hai risposto alla
mia domanda», si grattò, stringendo le labbra.
Lena
abbassò gli occhi verdi, unendo le mani sulle cosce.
«Bene. Mi
tengo impegnata».
Lui
annuì, sorridendo. «Ah. Questa l'ho già
sentita».
La
palla tenuta nella rete della sua stecca da lacrosse, la corsa rapida
verso la porta. Kara schivò un'avversaria e dopo un'altra.
Una
ragazza le fece cenno di passarle la palla, era più vicina
di lei
alla porta ed era libera. John Jonzz le urlò di
lanciargliela. Megan
le urlò di lanciargliela. Ma lei poteva farcela: la
sorpassò e
saltò con tensione, in posizione, e infine lanciò
la palla che
entrò direttamente in porta. La sua squadra aveva appena
racimolato
dei punti e si sarebbe sentita orgogliosa se non fosse per i lamenti
di qualcuna. Aveva segnato, erano in testa, cos'altro volevano?
Supergirl non sarebbe più scesa a compromessi: se stavano al
passo
bene ma, in caso contrario, restavano indietro.
«C'è
qualcosa che non va con Kara», esclamò a un certo
punto Barry. «A
volte è come se cambiasse radicalmente carattere. Guardala:
diresti
che solo fino a dieci minuti fa stava seduta a terra in un bagno
perché un ragazzo l'aveva trattata male? È come
se non le
importasse più niente».
Lena
strinse gli occhi e mise a fuoco la ragazza che segnava altri punti
per la squadra. Come se non le importasse… Anche il giorno
prima
sembrava aver fatto lo stesso. Cosa le stava succedendo?
La
tenne d'occhio e, finita la partita, lei e Barry assistettero
dall'alto a quella che sembrava un'animata discussione: alcune
giocatrici della squadra se la presero con lei che alla fine si
allontanò da sola, gettando il casco sull'erba.
Lasciò il ragazzo e
scese dagli spalti di fretta, entrando in palestra. Erano tutte
lì
e, invece di festeggiare, si lamentavano di Kara col coach Jonzz.
Scambiò uno sguardo preoccupato con Megan, che le
indicò un
corridoio. Aprì la porta dei bagni e seguì il
rumore dell'acqua che
scorreva, trovando Kara che si sciacquava la faccia davanti a un
lavandino. La vide alzare la testa subito, adocchiarla attraverso lo
specchio appannato che aveva davanti. E sorriderle, per giunta. Aveva
ragione Barry Allen, intuì Lena: c'era qualcosa di strano in
lei,
nei suoi occhi. La guardava in modo diverso.
Chiuse
l'acqua e si passò l'asciugamano sul viso, lasciandolo
penzoloni sul
lavandino. «Credevo te ne fossi andata».
«Sapevi
che ero qui?».
«Ti
ho vista», scrollò le spalle, annuendo. Si
avvicinò squadrandola
da capo a piedi tanto a lungo, insistentemente, che Lena si
sentì a
disagio e si tirò indietro. «Sei
scappata».
«N-Non
sono scappata», abbozzò un sorriso spento a breve.
«Ma-».
«Ma?»,
le sorrise in modo sfrontato, avvicinandosi ancora, notando che
retrocedeva man mano. «Non è quello che stai
facendo anche ora?»,
rise all'improvviso. «Lo so… Ti senti in colpa e
allora scappi da
me».
Lena
si spaventò quando toccò la parete dietro di lei,
deglutendo. «Ti
comporti in modo strano», le disse, «Sei tu quella
che sta
scappando».
«Oh,
no, a me non sembra proprio», rise ancora. Era
così vicina, adesso,
che poteva sentire il suo fiato corto sul viso. «Cosa
guardi?», le
domandò poco più tardi, notando il movimento
rapido dei suoi occhi
verdi. «Vuoi baciarmi?». Le carezzò una
guancia e Lena trattenne
il respiro, socchiudendo gli occhi. «Ti manco, eh? Anche tu
manchi a
me. Sai, potremmo lasciar perdere tutto quanto».
«Ti
ho ferita», abbassò gli occhi.
«Sì
che lo hai fatto. Mi fidavo di te, Lena», le
carezzò con il pollice
le labbra e lei provò a tirarsi indietro, così la
fermò col
proprio corpo sul suo, costringendola a guardarla negli occhi.
«Affrontiamola adesso. Vedi che stai scappando?».
«Sei
strana».
«Non
sono strana, smettila di ripeterlo», si innervosì,
abbassando la
mano dal viso alla spalla. «Sono lucida, adesso. Sono
perfettamente
in me».
«Le
tue compagne di squadra?». Lasciò che la guardasse
con curiosità,
prima di continuare: «Anche loro pensano che tu sia
perfettamente in
te?».
«Si
lamentano perché abbiamo vinto! Ci puoi pensare?»,
sbottò, per poi
sorridere. «Chi se ne importa di loro», le
carezzò di nuovo la
guancia, mentre con l'altra mano le cingeva un fianco, avvicinandola.
«Sei qui, parliamo di come mi hai spezzato».
«Spezzato?
Oh, per favore… Ho sbagliato, lo so», strinse le
labbra. «Mi
dispiace, Kara».
«Non
voglio i tuoi dispiaceri», scosse la testa, «Non
voglio le tue
scuse, non servono a niente».
«Che
cosa vuoi?».
«Te».
Provò
ad avvicinare le labbra alle sue e per un attimo parve funzionare,
Lena si mosse solo all'ultimo, cercando di allontanarla. «Non
puoi
volermi! Lo vedo come mi guardi! Ne riparleremo quando sarai in
te».
Kara
retrocedette solo un attimo. «Io sono in me,
perché non vuoi
capirlo?», sforzò un sorriso.
Qualcosa
nel suo sguardo la tradiva, come se una parte di sé se ne
rendesse
conto. «Stai male», le toccò la fronte e
Kara le strinse il polso.
«Che cosa hai preso? Sembri-».
«Perché
non puoi semplicemente accettare che adesso io sia
così?», la
fissò. «Non vado bene così?».
Kara
era molto suscettibile, sicuramente spezzata, ma non in sé.
Era
quasi violenta e per un attimo, con quella morsa sul polso, temette
potesse farle del male. Sapeva che non l'avrebbe fatto, ma il suo
sguardo duro le metteva addosso una sensazione che non le piaceva.
Tirò il polso e alla fine riuscì a farselo
lasciare,
massaggiandoselo. «Ne riparleremo quando sarai in
te», ribadì.
Stava per andarsene che lei la chiamò. Oh, si sarebbe sempre
fermata
se era lei a chiamarla. Si rivoltò, a quella Kara
irriconoscibile.
«Tu
pensi», abbassò gli occhi freddi solo un attimo,
riflettendo, «che
io mi sia innamorata di te perché avevi bisogno di
me?».
«Cosa?».
«Eri
sola, Lena, pensaci: tuo padre è mancato, non avevi
più un ragazzo
né una ragazza da cui andare a consolarti, odi tua
madre… Eri in
difficoltà, forse mi facevi pena», sorrise appena,
«Per questo mi
sono avvicinata a te: ho visto il tuo dolore e devo sentirmi
indispensabile per qualcuno per essere amata».
Lena
scosse la testa. Le aveva fatto pena? «È questo
che pensi?».
«Non
so», alzò le braccia in segno di resa.
«Lo chiedevo a te».
«No.
Non penso sia così, Kara». Si tirò
indietro. «Fammi sapere se è
questo ciò che pensi tu. Che ti facevo pena». Se
ne andò e lei non
la fermò, questa volta. Passò vicino a Barry che
entrava, cercando
di non guardarlo negli occhi.
«Tutto
bene?», chiese e Kara scrollò le spalle.
«Certo,
non hai visto? Ho vinto la partita».
17:30,
Centrale di Polizia – 2 ore all'Operazione
Maggie
Sawyer ingurgitò saliva. Era tesa. Parecchio tesa. Eppure si
trovava
lì, alla centrale, pronta per la prima missione per conto
del D.A.O.
sull'organizzazione criminale che le stava aprendo le porte. Si era
chiesta spesso perché avevano scelto proprio lei e le erano
venute
in mente varie ipotesi. Forse gliel'avrebbe chiesto. Charlie Kweskill
le aprì la porta dell'ufficio del loro capitano con fierezza
e la
fece accomodare. Il Generale Zod era già dietro la sua
scrivania,
con mani intrecciate. La aspettava. Stava per aprire bocca che la sua
attenzione si rivolse al collega che si sedeva sul bordo della
scrivania. I due si guardarono e Charlie scese, alzando le mani e
andando a sedersi accanto a lei, su una sedia.
«Grazie
per aver accettato l'appuntamento». Si guardarono e
annuì.
«Disgraziatamente potremmo trattenerci poco e siamo costretti
a
parlare un'altra volta». Vide Maggie accigliarsi con
curiosità e
lui si alzò dalla scrivania, andando ad appoggiarsi sul
bordo
davanti a loro. «Prima di parlare, devo chiedetti un favore,
Sawyer».
«Mi
dica».
«Devi-»,
sospirò e si grattò la nuca, increspando le
labbra, «Devi
toglierti i microfoni».
Maggie
si gelò, reggendosi alla sedia.
«C-Come?».
«Kweskill
ti aiuterà, se hai bisogno», disse mentre lui
annuiva. «Ci stiamo
aprendo con te, siamo sinceri. Ci farebbe piacere se la cosa fosse
reciproca». Fece un cenno a Charlie e il ragazzo si
alzò di scatto,
ma Maggie si tirò indietro, dicendo che li avrebbe tolti da
sola.
Non riusciva e, con delicatezza, l'agente le sfilò quello
sulla
schiena, mentre lei chiudeva gli occhi e tratteneva il respiro,
arresa, ferma. «Nessuno ha intenzione di farti del male,
Sawyer.
Capisco la tua reticenza, ma è frutto di stereotipi e
malintesi».
Maggie
riaprì gli occhi e lo fissò con sfida, stringendo
le labbra.
Intanto, dietro un palazzo, Alex Danvers si mise le mani sui capelli
quando perse il segnale, respirando a più riprese. Alcuni
agenti
erano al suo fianco e aspettavano solo un suo cenno per assaltare la
centrale, a pochi metri da lì. Avevano circondato l'edificio
ma,
come sapeva dei microfoni, era certa che Zod sapesse anche quello. A
che gioco stava giocando?
«La
tua bambina va a all'asilo?», le chiese una volta seduta di
nuovo.
«Sta
minacciando mia figlia?».
«Mio
figlio, Chris, ha frequentato l'asilo a Metropolis. Anche la mia
figlia più grande, Melanie. Adesso è suo figlio
ad andare
all'asilo. Come passa il tempo», alzò lo sguardo,
come se si stesse
perdendo in ricordi.
«No»,
soffiò, «Mia figlia non va all'asilo, non c'era
posto».
Il
Generale annuì. «Capisco. L'asilo è
importante, è là che si
fanno le prime amicizie e si impara a stare in gruppo. Tua figlia
potrà andare all'asilo da domani, quello che più
ti è comodo. Farò
una telefonata».
Maggie
deglutì e dopo sorrise. «Sta cercando di comprarmi
con un posto
all'asilo? E comprarmi per cosa, con esattezza? Cosa volete da
me?».
«Niente»,
Charlie scrollò le spalle.
«Non
cerco di comprarti, Sawyer, vorrei solo farti comprendere quanto non
siamo diversi. Avrai sentito tante storie sull'organizzazione, ti
sarai fatta tante idee, sbagliate. Perché dovrei minacciare
la tua
bambina, quando ho ordinato a Kweskill di infiltrarsi tra quei
poliziotti per proteggerla e proteggere te? Il mio nipotino ha quasi
l'età di tua figlia. Non toccherei dei bambini».
«Questo
è interessante perché», prese una
pausa, «la sorella minore della
mia ragazza è stata adottata perché la sua
famiglia è stata uccisa
dalla vostra organizzazione. E avrebbe ucciso anche lei, se solo non
si fosse trovata in giardino». Il cuore le batteva furioso,
guardando Zod negli occhi. La centrale era piena, fuori dalla porta.
Se si fosse trovata nei guai, magari l'FBI… Poteva sfidarlo,
metterlo alla prova.
«Kara
Danvers. Le cose sono più complicate di come appaiono:
l'organizzazione si era spaccata-».
«Non
avete fatto niente per impedire che Rhea Gand li facesse
uccidere»,
gli parlò sopra e Charlie strinse i denti, contrariato,
mentre Zod
sospirava.
Appoggiò
le mani sulla scrivania dietro di lui, mettendosi comodo. «Mi
piacerebbe parlare di quanto è accaduto undici anni e mezzo
fa nel
dettaglio, ma la verità è che non c'è
tempo», si rivolse a
Charlie che, rapido, annuì e si alzò, uscendo
dall'ufficio: Maggie
deglutì, capendo che l'aveva appena lasciata sola con lui.
«C'è
stata una spaccatura. Un terremoto ha diviso l'organizzazione in due
e mai come ora questo è visibile. Al contrario di Gand, io
preferisco costruire e non distruggere, lei vede dei nemici dove io
vedo alleati, per questo sei qui», la guardò negli
occhi. «Sì. Tu
e la tua ragazza ve lo sareste chieste spesso, Sawyer: sono il
presidente e da titolo ti chiedo di unirti a noi».
Maggie
strinse le labbra e deglutì. Lo sapeva. Lo sapeva ma
sentirglielo
dire le aveva fatto entrare i brividi.
Lui
la invitò ad alzarsi. «Sei una poliziotta in
gamba, ti ho tenuta
d'occhio. Hai volontà, intuito, sei pronta a tutto.
Qualità che
apprezzo». Andò dietro la scrivania e prese un
foglietto, scrivendo
velocemente a penna qualcosa. «L'organizzazione è
un bene per
questa città, Sawyer. È vero», disse,
stringendo il foglietto.
«Scavalchiamo la burocrazia, ci sostituiamo alla legge,
nonostante
io stesso ne sia un rappresentante. Ma proprio come tua figlia non
trova un posto all'asilo, tante persone si ritrovano ad aspettare
tempi lunghissimi per avere una casa, un mutuo, un lavoro o,
perché
no, un disabile è in difficoltà economica
perché non gli
riconoscono le agevolazioni. I tempi si dilatano, bisogna passare da
un ufficio all'altro, ma le persone ne hanno bisogno subito, non in
un futuro approssimativo. La verità è che puoi
sperare di passare
avanti solo se hai soldi. Ma dipende da cosa si tratta,
chiaramente».
Maggie
si lasciò scappare un verso e lui attese.
«L'organizzazione non
gira introno ai soldi, cap-», si fermò.
«Sono
ancora il tuo capitano, Sawyer, non avere di queste
difficoltà», la
fissò, indicandole il viso con il foglietto in mano.
«Sì. Gira
intorno ai soldi. Tutto funziona in base a quelli e con quelli si
aprono molte più porte di quanto immagini».
«Anche
minacciando le persone. O uccidendole».
Il
Generale annuì lentamente. «Bisogna sapersi far
rispettare o
nessuno ti prenderà sul serio. Ma non approvo le morti
inutili, no.
Per questo Rhea Gand ed io siamo su due modi di vedere
diversi». Le
passò il foglietto e Maggie aggrottò la fronte.
«Ti chiedo di
pensarci. Non ti costringerò, sarai tu a venire da me. Oggi
capirai
da che parte stare».
Maggie
inclinò un poco la testa, leggendo il foglietto e guardando
di nuovo
il Generale. «Non capisco, cosa…?».
«Consegnalo
al D.A.O., di fuori. Avranno i loro terroristi»,
guardò l'orologio
al polso. «Hai ancora circa sei minuti per uscire prima che
facciano
irruzione, so come funziona».
Maggie
trattenne il fiato e gonfiò il petto. Si voltò
per tornare
indietro, doveva fare presto, ma un pensiero le ronzava per la testa
e doveva toglierselo ora che ne aveva l'occasione:
«Capitano?», lo
chiamò con durezza e lui annuì. «Se lei
e Rhea Gand siete così
agli antipodi, perché allora non l'ha arrestata?
È stata lei».
«È
stata lei, lo so. Ci sostituiamo alla legge, ma parliamo del
senatore, non potevo permettermi di attirare l'attenzione senza avere
in mano qualcosa di schiacciante. Avrei potuto mettere a rischio
altre persone o me stesso. Avrai modo di capire che non sempre le
cose sono semplici come schioccare le dita, anche si tratta di agire
con l'organizzazione», annuì di nuovo.
«Avremo modo di parlarne,
se lo vorrai», riguardò l'orologio. «Tre
minuti».
Dietro
il palazzo, Alex guardò l'ora e ordinò ad alcuni
uomini, a voce e
tramite l'auricolare, su come posizionarsi e tenersi pronti. John
Jonzz seguiva tramite cellulare e le diceva di tenersi calma. Ogni
tanto il segnale saltava perché si trovava su un tram verso
Metropolis, accanto a una Megan interessata alla vicenda, anche se
lui cercava di tapparle la visuale. «Dai, Mags…
Dai», si passò
una mano sulla fronte. Aveva aspettato fin troppo. Fin troppo. Diede
il comando di avvicinarsi ma un attimo e la vide uscire, finalmente,
mostrando i microfoni scollegati. Fece un sospiro di sollievo, le
corse incontro e la abbracciò forte mentre John, vedendola
sana e
salva, le disse che avrebbe aspettato il rapporto l'indomani,
chiudendo la videochiamata.
«Anch'io
sono felice di vederti», le sorrise e si staccò,
mostrandole il
foglietto: «Ma dobbiamo fare presto, abbiamo poco tempo. Mi
ha
scritto qua alcuni luoghi che verranno colpiti, questa sera».
«Questa
sera? Da chi… Cosa? Colpiti? Da Zod?».
«No»,
scosse la testa, «Rhea Gand. Ha parlato di terroristi, Rhea
Gand
avrà qualcosa in mente».
Alex
strinse il foglietto, leggendo sopra i nomi, un orario:
«Diciannove
e trenta?», sussurrò tremando, «Ma
è tra pochissimo! Devo
richiamare John, dobbiamo prepararci».
19:26,
Centrale di Polizia – 4 minuti all'Operazione
Mentre
Alex Danvers cercava disperatamente di contattare John Jonzz a
Metropolis e di mettere su più squadre pronte per fermare
qualsiasi
cosa sarebbe successa entro pochi minuti, il Generale Zod
telefonò
alla moglie per ricordarle che lei e Chris dovevano restare a casa,
quella sera. Scese nel parcheggio dell'edificio e cercò
l'auto. Rhea
sarebbe andata a cercarlo, lo sapeva. Mancavano pochi minuti.
Alzò
le chiavi della macchina che un rumore dietro di lui lo mise in
guardia. Alzò le mani, fermo di schiena, quando una decina
di uomini
vestiti di nero completi di passamontagna lo circondarono, tutti
armati. Gli puntarono addosso i loro fucili e le loro pistole. Erano
arrivati. Dovevano essere alcuni omega più altri aspiranti
che Rhea
Gand aveva raccattato in quegli anni, come quel gruppetto di
poliziotti che aveva rapito la figlia di Sawyer.
Erano
le diciannove e trenta: era iniziato.
I
tacchi rimbombarono nel silenzio del parcheggio e Rhea si
fermò
vicino a un pilastro, con le braccia intrecciate contro il petto.
Sguardo serio, duro, irremovibile. Zod era a poco da lei e si girava
lentamente. «Senza scherzi, Dru»,
esclamò, mettendolo in guardia.
«Perché
la cosa non riesce a sorprendermi, Rhea?».
«Perché
sono determinata e tu hai qualcosa che io voglio. Ma questo non lo
sto facendo io, Dru», scosse piano la testa, «lo
stai facendo tu»,
gli regalò un sorriso e lui alzò le sopracciglia,
cercando di
capire. «Questo è il ritorno alle origini che ci
avevi promesso e
che sei stato troppo occupato per organizzare! I miei uomini sono
liberi per la città, adesso: ogni gruppo
assalterà uno specifico
luogo a tuo nome, Dru. Lo faranno per cercare i tuoi collegamenti con
l'organizzazione e cancellare tutto prima che qualcuno ti
scopra».
«Parli
di qualcosa che non esiste».
«Oh,
esistono adesso. Li ho sistemati e impilati io personalmente e i miei
uomini li depositeranno per te. Ciò che sto facendo,
è tutto per
te. Perché ti odio, Dru Zod», sibilò,
contraendo le labbra fini.
«Perché
ero l'amore di Petra?».
«Non
nominarla», urlò. «Non ne hai diritto,
Dru! Tu me l'avevi portata
via e lei aveva smesso di credere in me! Ma non importa adesso,
è
passato», riprese fiato per calmarsi, gonfiando il petto.
«È
passato. Ciò che è vero, è che tutto
qui è per te ma che non
sarai in grado di godertelo», scosse la testa. «Hai
ucciso Lar
perché voleva smascherarti e ora-».
«Tu
l'hai ucciso».
«Non
interrompermi! Tu odi quando ti interrompono e lo odio anch'io. Ho
ucciso mio marito ma sono generosa e lascio a te tutti i meriti! Ti
prenderai la colpa della sua morte e di quella delle vittime che
l'organizzazione farà questa sera. Devi esserne fiero, te lo
dico,
perché userò questo espediente per la mia
campagna elettorale. E
sai perché te lo dico?».
«Perché
stai per farmi uccidere», rispose lui, risoluto, senza un
minimo
cenno di paura.
«Perché
sto per farti uccidere», ripeté estasiata.
«Bravo. Tanti anni ed è
arrivata la fine… Beh, io adesso avrei una cena. O quasi.
Addio, Dru». Si voltò e alzò una mano.
«Uccidetelo».
Si
allontanò in fretta, odiava la vista del sangue. Lo si
sentiva dal
rumore dei tacchi via via più basso. Quando scomparve, gli
uomini
che avevano circondato il Generale Zod si misero in posizione. Lui
abbassò le mani, non disse una parola, e loro si prepararono
a
sparare. Ma prima che premessero i grilletti, quattro di loro si
girarono verso i loro stessi compagni e fecero fuoco per primi.
Zod
degnò appena di uno sguardo i loro corpi esanimi che
perdevano
sangue a terra. «Hai registrato?».
Uno
dei quattro rimasti si tolse il massamontagna e gli sorrise.
«Ogni
parola, Generale». Charlie Kweskill alzò una mano
e gli mostrò un
cellulare, tentando poi di togliersi alcuni peletti neri del
passamontagna dai denti.
19:33,
CatCo Worldwide Media – 3 minuti dall'inizio dell'Operazione
Siobhan
odiava gli straordinari. Era lì dalla mattina, aveva
pranzato con
qualcosa di veloce ed era tornata davanti alla sua scrivania per
finire un pezzo di cui non trovava le parole. Fortunatamente alle
venti avrebbe staccato, non ce la faceva più.
Andò in bagno,
fregandosi gli occhi stanchi. Accidenti a Kara Danvers. Seppure fosse
una spina nel fianco, doveva ammettere che quella ragazzina le
tornava utile come correttrice di bozze. Mh.
Si fermò, quando sentì un brivido salirle lungo
la schiena. Oh, il
presentimento che la accompagnava da quella mattina era più
forte,
adesso. Stava per succedere qualcosa di brutto, se lo sentiva nelle
ossa. Si accostò alla porta e la aprì piano,
cercando di non far
rumore, solo uno spiraglio. Vide delle ombre avvicinarsi e
tremò.
Quando scorse dei fucili, allora richiuse svelta
e
strinse i denti, tremandole le gambe. Erano lì per lei,
erano lì
per lei e l'avrebbero ammazzata. Cominciò a sentire delle
urla e si
girò, facendo lunghi passi a gambe aperte, chiudendosi
dentro uno
dei piccoli scomparti, con la porta che cigolava. La strinse per non
far rumore e poi, battendo i denti, scivolò accanto al
gabinetto a
terra. «Sono qui per ammazzarmi, sono qui per
ammazzarmi», borbottò
in preda al panico, cercando di digitare il nove
uno uno
con le dita che tremavano. Ma non rispondeva. L'emergenza
non rispondeva e cadeva la linea. Cosa stava succedendo? Era la fine
del mondo? Deglutì e allora chiamò l'unica
persona che sperava
l'avrebbe salvata. «… Kara»,
piegò le labbra in un lamento e si
fermò il tempo di tirare su con il naso. «Oggi mi
uccideranno,
Kara».
Che
l'operazione
abbia inizio!
Che
dite, ce la farà Siobhan a salvarsi o la sua brutta
sensazione avrà
la meglio?
Mi
è piaciuto un sacco scrivere la prima parte con il suo punto
di
vista, descrivere anche se a tratti dove vive e come non sia poi
così
perfetta come vuole mostrare. O almeno, a me piace pensarla
così. E
sì, sono sincerissima, amo il suo personaggio XD
E
poi aveva ragione, insomma, qualcosa stava per succedere!
Partendo
da Zod, abbiamo avuto uno scorcio della sua vita familiare e come,
nonostante sia sposato ed è pure nonno, pensi sempre a
Petra,
l'amore perso molti anni prima. Come lui stesso dice a
Maggie, l'organizzazione ha subito una spaccatura in passato e mai
come in questo momento è visibile, con Zod da una parte e
Rhea
dall'altra. Il Generale si è aperto con lei e, con un
discorso, la
invita a essere dei loro. Cosa ne pensate? Vi fidereste? E poi Rhea
ha cercato di farlo uccidere ma lui è previdente e non le
è andata
bene. Ops.
E
ora Kara. Abbiamo visto come si è procurata le pillole in un
flashback e come Maxwell Lord fosse entusiasta; come le pillole non
la rendano molto stabile e anche come sia restia a riconoscerlo. Se
da una parte, la pillola rossa la rende più concentrata e
veloce,
dall'altra, oltre al brutto carattere, la fa schizzare in un vortice
di sentimenti confusi appena l'effetto va perdendosi, com'è
successo
quando ha visto Lena di sfuggita in dormitorio. Barry le è
vicino, e
anche Megan, e poi Lena, beh… Lena ha provato a parlarci,
nei
bagni, trovandola strana. E sicuramente lo ha pensato a maggior
ragione quando le ha chiesto se pensava che si fosse avvicinata a lei
per pena. Accidenti a Mike e alle sue teorie! Capito che non
attaccava, sperando di avere di più da Kara, ha ben pensato
di
difendersi con ciò che in quel momento gli è
venuto in mente.
Ma
ora veniamo alle note!
-
Il discorso di Mike è ispirato alle cazz- emh,
alle cose
che la sua adorata controparte televisiva diceva davvero a Kara.
Adorabile.
-
Chris Zod: lessi il nome di Chris
quando, per l'ennesima volta, spulciai internet alla ricerca di dati
e personaggi per la fan fiction. Di sfuggita, è capitato per
caso,
il figlio di Dru Zod dovrebbe davvero chiamarsi Chris
sulla Terra. Se qualcuno ne sa di più, che mi informi!
-
In questo capitolo, Zod parla di precedenze, soldi, mutui e via
discorrendo e io in questa materia non sono proprio ferrata, dunque
spero di non aver scritto castronerie D:
-
Kryptonite rossa, banshee… Mi piace inserire riferimenti
alla
serie.
-
L'effetto della pillola rossa, ora come ora, non è
così
paragonabile a quello della vera kryptonite rossa della tv. A parte
che Maxwell Lord ci sta ancora lavorando, non posso rendere Kara
malvagia davvero, che questa fan fiction è solo un AU
innocente XD
Se Kara avesse avuto i poteri, ci avrei probabilmente marciato di
più
:/ Ma chissà.
Bando
alle ciance, la chiudo qui! Spero che il capitolo vi sia piaciuto
almeno un po' di come piace a me e col prossimo, finalmente, un
grosso punto di svolta! Fatemi sapere cosa ne pensate e ci rileggiamo
lunedì 8 aprile con il capitolo 44 che si intitola L'Operazione!
Piuttosto eloquente.
|
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Capitolo 45 *** 44. L'Operazione ***
Rhea
sgambettò con soddisfazione fino a una berlina bianca ferma
all'ingresso del parcheggio. Il bodyguard la aspettava in piedi ed
entrambi sollevarono la testa nel sentire gli spari. Lui le
aprì la
portiera destra posteriore e si andò a sedere all'altro
lato, mentre
l'autista metteva in moto. Trafficò con un tablet,
stringendo gli
occhi, e dopo glielo passò senza dire una parola.
«Oh,
bene. Abbiamo un posto in prima fila», sorrise, selezionando
delle
icone e cambiando video.
«Ogni
caposquadra ha la microcamera installata sotto il passamontagna, come
aveva ordinato», rispose l'uomo al suo fianco, mentre la
macchina
usciva svelta dal parcheggio e si allontanava dalla centrale.
«Oh! E
le centraline sono state sabotate,
naturalmente.
Ci metteranno un po' a rimetterle in funzione su tutta la
città.
Abbiamo campo libero, signora Rhea».
Rhea
selezionò proprio quella del caposquadra che spianava la
strada al
distretto di National City: urlavano e ordinavano agli agenti di
allontanarsi dalle proprie scrivanie. «Mi piace quello che
vedo, mi
piace», annuì. «Se fanno i bravi, si
farà male meno gente
possibile». Cambiò telecamera e cambiò
ancora, sentendo persone
che urlavano, vedendo i suoi omega che rincorrevano qualcuno e lo
sbattevano al muro, facendo irruzione in testate giornalistiche,
uffici pubblici e oh,
sorrise con gaudio, alla Lord Technologies ci stavano impiegando
più
tempo del dovuto, ma era quasi cosa fatta. «Ma dove
sono…?»,
cambiò ripresa su ripresa, «Dove sono quelli
che-».
Il
sorriso dell'uomo si spense e mortificato le prese il tablet dalle
mani. «Aspetti, aspetti, è uscita».
«Non
sono uscita, non ho cliccato-», cercò di
riprenderglielo.
«No,
aspetti, è uscita, vede».
«Ridammelo».
«Un
attimo, aspetti, e-ecco! Ecco».
Lei
fece una smorfia, strappandoglielo dalle dita e schiaffeggiandolo.
«Potevi dirmi dove cliccare». Riguardò
con attenzione e sorrise
maligna, seguendo la corsa di una squadra su per le scale della
Luthor Corp. «Allora non sei solo petto peloso e muscoli,
uh», si
rivolse di nuovo a lui, che arrossì imbarazzato.
Cambiò. La
microcamera riprendeva un uomo entrare in un campus universitario e,
cambiando ancora, un'altra mostrava la squadra all'interno di
un'automobile, mentre si infilavano i passamontagna. Erano quelli che
più le interessavano. Ah, finalmente tutto quello per cui
aveva
lavorato fin da ragazzina stava diventando suo. Sua sorella ne
sarebbe stata orgogliosa, adesso?
«Non
puoi impedirmi di farne parte, non puoi farlo», ricordava
ancora le
parole di quella sera. L'ultima
sera.
«Sì
che posso e non urlarmi, Rhea! Sei piccola ed è un giro che
non mi
piace. Non infastidirmi».
Aveva
cambiato idea. Glielo aveva promesso e aveva cambiato idea proprio
quando aveva accettato
di sposare
Adrian Zod. Sarebbe andata a vivere con lui, l'avrebbe lasciata
indietro da tutto, quando prima si preoccupava solo di lei, la sua
sorellina. La donna strinse le labbra secche con rabbia, al ricordo
e, aprendo la sua borsetta, prese uno specchietto e il rossetto
rosso, sistemandosi il trucco. Doveva entrare in scena.
Avrebbe
voluto occuparsi delle persone scomode una volta divenuta presidente
dell'organizzazione, ma perché perdere tempo? Aveva a
disposizione
un esercito adesso e quelle sarebbero passate in sordina come vittime
casuali. Quasi dodici anni. Quasi dodici anni da quando il posto le
era stato sottratto alle elezioni da Zod. Quasi dodici anni a tramare
vendetta, a racimolare consensi e a raccattare uomini e donne per il
colpo, per urlare a gran voce che National City era sua. Tutto per
arrivare a oggi. Non pensava lo avrebbe messo in pratica
così di
fretta, ma ora che si era liberata di quell'uomo, doveva togliere di
mezzo Lillian Luthor. Aveva dovuto agire prima che si coalizzassero.
Forse Zod non si sarebbe sporcato le mani, ma lei… Non
poteva di
certo sottovalutare la minaccia: se voleva avere per sé il
potere,
Lillian Luthor doveva sparire. Rhea aveva pensato a tutto.
Proprio
come lei, anche Lillian ed Eliza erano appena entrate in auto,
guidata da Ferdinand. Da quando aveva minacciato Rhea Gand, villa
Luthor-Danvers era rimasta sorvegliata da alcuni uomini che
lavoravano nella sicurezza della Luthor Corp e quattro di loro le
seguivano ora con un'altra berlina a pochi metri. Era una situazione
che a Eliza non piaceva, ma capiva che erano necessari. Avevano
finalmente parlato di ciò che era successo nel passato e
Lillian
l'aveva messa in guardia su Rhea, le aveva spiegato che minaccia
rappresentasse per loro e per Kara, e sua moglie aveva compreso,
dimostrando preoccupazione. Non le piaceva che fosse andata a
minacciare quella donna, anche se sapeva bene perché lo
avesse
fatto. Avevano giurato di non tenere più segreti tra loro.
Il loro
rapporto, da quest'ottica, ne stava di certo giovando, anche se non
era ancora tutto tornato com'era e, forse, non sarebbe accaduto fino
a quando quella situazione sarebbe aleggiata sopra le loro teste come
una nuvola di sventure. Forse Eliza aveva sempre capito che donna era
sua moglie, ma quella situazione non coincidenza affatto con la sua
idea di vivere una vita normale. Senza contare che, per lei, avrebbe
dovuto mentire a Jeremiah e non l'aveva mai fatto. Lui portava il
lavoro a casa, al tempo, e Lillian ciò che Jeremiah
condannava.
Quando dall'ufficio del sindaco erano arrivati i soliti inviti per la
prima cena dopo la morte del senatore, aveva accettato di
accompagnare Lillian perché voleva guardare in faccia la
donna che
aveva ucciso i genitori di Kara e minacciato la sua vita. Sapeva che
non avrebbe potuto dirle nulla, ma voleva vederla in faccia. Doveva
capire che volto avesse tanto odio.
«So
che le cose sono ancora strane, tra noi», mormorò
Lillian
abbassando lo sguardo, notando con la coda dell'occhio che Eliza era
girata verso il finestrino. «Ma ci tenevo a dirti quanto io
mi senta
fiera di te, in questo momento. So che questa situazione ti fa paura,
ma-».
«Non
mi fa paura», la interruppe con la voce sulla sua,
voltandosi. «Non
paura, Lillian: mi terrorizza. Il solo pensiero che possa succedere
qualcosa a Kara, o a te…», prese fiato e scosse la
testa, «Non do
a te la colpa: anche se non ti avessi sposato, sarei sempre la madre
di Kara e il passato sarebbe tornato a cercarla prima o poi,
ma-».
«Posso
proteggerci», affermò con sicurezza e la moglie
sospirò. Le loro
mani si sfiorarono.
«È
proprio questo che mi spaventa», confessò. La vide
mettere su
un'espressione curiosa ma non avere il tempo di dirle nulla che si
scusò di dover rispondere al telefono:
«Sei
sicuro?».
Eliza
la scorse mentre increspava il viso e dopo riattaccare. «Cosa
succede?».
«Ci
seguono».
«Cosa?
Come… Chi ci segue?», cercò di
guardarsi indietro dal finestrino.
«Un
auto, dietro, sta cercando di superare i miei uomini. Sta
accelerando», la guardò negli occhi,
«Beh… Probabilmente Rhea
sta cercando di farmi uccidere».
Eliza
sgranò gli occhi. E lo diceva con tanta naturalezza?
Di
certo, Alex non pensava di dover avvertire sua madre. Zod aveva
scritto sul foglietto alcuni dei punti che sarebbero stati colpiti,
quelli di cui sapevano con esattezza, non certo tutti. Lei e Maggie
non potevano immaginare quante parti di National City sarebbero state
occupate con la forza quella sera. Aveva convinto degli agenti del
D.A.O. a collaborare ma, senza il permesso di John Jonzz, rischiavano
che Rhea Gand si trovasse la strada spianata. La verità era
che
appena scoccarono le diciannove e trenta, non volò una
mosca: non un
singolo servizio al telegiornale, né un messaggio criptico
proveniente da una delle zone colpite, niente di niente. Se una delle
poche squadre del D.A.O. persuase a intervenire non avessero fatto
irruzione in uno studio televisivo, nessuno avrebbe scoperto cosa
stava accadendo, che degli uomini armati e in passamontagna stavano
davvero tenendo in ostaggio delle persone mentre, alcuni di loro,
controllavano e cercavano qualcosa negli appunti dei tg e visionavano
servizi che ancora dovevano andare in onda. Avevano bloccato il
colpo, disarmato quelle persone e messe in arresto, decisi a stare
zitti: se avessero lanciato un allarme, avrebbero potuto mettere in
pericolo la vita di altri ostaggi in altri dei punti colpiti. La
città doveva restare coperta dal silenzio.
«Ho
parlato con Kweskill», Maggie si avvicinò, intanto
che Alex metteva
giù il cellulare seccata, poiché John ancora non
le rispondeva.
Aveva provato a mettersi in contatto con suo padre a Metropolis, ma
il segnale era disturbato e
non voleva cercarlo al numero personale o sarebbe entrato in panico.
«Lui e una squadra sono entrati in centrale e li stanno
accerchiando: presto la libereranno e avremo aiuto».
Alex
aggrottò la fronte. «Molti tuoi colleghi si
trovavano in centrale e
parlo anche dell'FBI… quindi cosa intende con squadra,
con esattezza?».
Maggie
scrollò le spalle. «Lui li ha chiamati omega:
l'organizzazione».
«Ovviamente».
«Ho
spuntato questi», le mostrò il foglietto con due
nomi sbarrati. «Se
ne stanno occupando loro. A noi resta…».
«Oh,
ma guarda, c'è anche la Lord Tech. Non vedevo l'ora di
rivedere Max»,
rispose sarcastica. Si allontanò solo per sgridare una
dipendente
dell'emittente televisiva che scriveva sul cellulare: «Non
può
mandare messaggini, rischia di compromettere l'operazione, lo metta
via. Me lo dia».
Maggie
ansimò, vedendola discutere. Ricordava bene cosa si erano
dette e
come non si fidassero di Zod, ma era anche vero che, senza quei nomi,
lei e Alex sarebbero tornate a casa come in una qualunque altra
giornata. E di certo, non poteva perdere l'occasione di avvicinarsi
così tanto all'organizzazione: chiamò di nuovo
Kweskill e attese,
sperando di non metterlo nei guai. «Sì, qui tutto
okay, ma mi
chiedevo… se potessi essere dei vostri. Per dare una mano e
per
capire… Va bene, vi raggiungo». Chiuse la chiamata
con decisione e
disse a un'agente del D.A.O. di dire a Danvers che se n'era dovuta
andare. Che avrebbe capito.
Chi
non poteva comprendere perché Alex Danvers cercasse ancora
di
contattarlo era John Jonzz: due chiamate perse, poi se non altro
aveva smesso. Lui e Megan passeggiavano con il bastoncino dello
zucchero filato in mano tra gli stand e le giostre a tutto volume. La
ragazza sarebbe stata davvero felice di vedere il nuovo parco
divertimenti di Metropolis dal vivo se non fosse stata in compagnia
di John e del suo strano umore: era snervante il suo scusarsi per
aver dovuto fare il suo lavoro e quindi mentirle, che era come non
scusarsi affatto.
«Perché
non la richiami?», sbuffò, vedendolo pensieroso.
«Perché
mi sono preso un pomeriggio libero e volevo-»,
sospirò, alzando un
braccio, «passarlo in tua compagnia. È il mio
lavoro ad averti
indispettito e non voglio che si metta in mezzo anche oggi».
«Non
è il tuo lavoro ad avermi indispettito», scosse la
testa, alzando
gli occhi al cielo. «Sei grande e grosso, eppure a volte
ragioni
come un ragazzino», lo sgridò.
«Richiama, se devi. Peggio di
così».
«Pensavo
saresti stata felice, so quanto ti piacciono i luna park»,
seguì
con gli occhi due bambini ridere divertiti sopra una una giostra a
forma di polpo. «Se devi dirmi qualcosa, dilla. Se non
è stato il
mio lavoro a indispettirti, allora parlane. Invece di fare tu la
bambina e tenermi il broncio».
«Non
ti tengo il broncio».
John
le si piazzò davanti e la guardò contrariato.
«Peggio
di così»,
le fece il verso e Megan abbozzò un sorriso, solo uno,
voltandosi.
«Era
riferito a questa giornata storta. Tanto per fare un esempio: in
campo, Kara ha giocato come se fosse l'unica, se lo hai notato. E
prima non stava esattamente una meraviglia, ha litigato
con-»,
ingigantì gli occhi e John la spronò a
continuare, «con… con un
ragazzo, al campus, uno con cui…», si
grattò la fronte con un
mignolo, «non lo conosci, un tipo. Però piangeva
ed era a terra,
pensavo non avrebbe voluto giocare e poi invece bem,
si è ripresa in tempo record e non la poteva fermare
nessuno. E io
ci ho provato a mettermi nei suoi panni, forse voleva distrarsi,
però
le altre si sono arrabbiate. Da qualche giorno, si comporta come se
un alieno si fosse impadronito del suo corpo».
John
si zittì per poco, riflettendoci intanto che continuavano a
camminare. Si stava facendo buio e i giochi di luce delle giostre
rendevano il parco più magico. «Avevo notato
anch'io che era
strana, ma non mi permetto di dirle niente: era già
abbastanza
arrabbiata per averle nascosto
la
mia identità-».
«Tutti
gli altri invece l'accettano che è una
meraviglia», tuonò
sarcastica.
«E
mi pento di averle tolto il lacrosse per un periodo. Anche se era il
meglio per la squadra».
«Con
me come capitano, siamo andate che è un bijou»,
fece una smorfia.
«Vuoi davvero parlare di Kara Danvers a un
appuntamento?». John
aggrottò la fronte e restò perplesso,
finché lei non rise. «Ti
prendo in giro, lo so che l'ho nominata io! Parliamo di nuovo di come
tu mi abbia mentito, invece, e sii più originale. Andiamo.
Ma prima
un ottovolante».
Quasi
certamente, Kara non era l'argomento che avrebbero preferito
affrontare quei due a Metropolis, ma indubbiamente era il pensiero di
Lena. A parte l'uscire vivi dalla Luthor Corp, ovviamente. Lei e
James Olsen erano sgusciati via dal suo ufficio e si erano nascosti
sotto la scrivania vuota di Winn, che speravano fosse al sicuro,
quando avevano notato che l'ascensore era in movimento. Qualcuno
stava salendo a quel piano.
Tornando
indietro, a poco da quelle diciannove e trenta, Kara era davvero
l'unico pensiero di Lena. Continuava a pensare e ripensare alle sue
parole, a come doveva averle fatto pena e per questo si era
avvicinata a lei. Si era innamorata di lei. A come voleva rendersi
indispensabile per essere ricambiata. Cosa le prendeva? Da dove era
uscito un pensiero come quello? Era una cosa così stupida,
così…
Però aveva capito una cosa, se non altro: voleva lei. Per
uno strano
motivo, Kara era stata più diretta del solito. Per lei che
non
riusciva più a guardarla negli occhi senza sentirsi in
colpa, o per
Kara stessa che non l'aveva perdonata, si erano di nuovo fatte
tremendamente distanti. Girava il bracciale sul polso come incantata,
prendendo fiato. Il bracciale che le aveva regalato lei a Natale.
Come sentiva lei la sua assenza, doveva essere lo stesso per Kara,
anche se non era chiaramente in sé. In quel momento, era
seduta
davanti alla scrivania nel suo ufficio, con un grosso libro aperto
sotto il naso e altri tomi impilati intorno. Doveva studiare,
invece…
Credeva che l'aria della Luthor Corp avrebbe potuto distrarla e
almeno si era sentita fortunata che sua madre non l'avesse invitata
ad andare con lei ed Eliza alla consueta cena col sindaco. Pensare a
Kara le faceva perdere tempo: doveva studiare, solo studiare, ma
bussarono alla porta.
«Sono
mortificato, signorina Luthor, so che doveva studiare e che…
emh,
che m-mi aveva chiesto di restare fuori e-».
«Winslow»,
lo aveva richiamato, «Vai al dunque».
«Emh,
sì, lui ha insistito e non sono capace di mentire, quindi
gli ho
detto che c'era e spero, sì, che non le
dispiaccia». A una sua
conseguente occhiataccia, Winn si era grattato i capelli e annuito:
«Vuole parlarle un fotografo freelance, dice di conoscerla:
James
Olsen».
Lena
aveva infilato un segnalibro fra le pagine e chiuso il libro,
mettendolo da una parte intanto che lui entrava. Si era alzata e teso
la mano che il ragazzo si era slanciato per stringere. «Cosa
devo
l'onore?». Gli aveva indicato una sedia e lui aveva sorriso,
decidendo di sedersi dopo un breve girarsi intorno.
«Mi
trovavo a National City per lavoro e sono passato per-»,
aveva
sorriso di nuovo e abbassato lo sguardo, come se si fosse
imbarazzato. Lena aveva intrecciato le dita delle mani sulla
scrivania, alzando un sopracciglio. «Considerando che mi
trovavo in
giro, Lois mi ha chiesto di farvi avere una notizia, sta ultimando
adesso l'articolo che ne parlerà, ma-», aveva
deglutito.
«Ti
stai mangiando le parole. C'è un motivo per cui sei qui
o…?».
«Oh,
sì, sì, certo», aveva ridacchiato.
«Sono solo stanco. Lois mi ha
chiesto di dirvi che è arrivata al dunque con il caso del
carcerato
che aveva ascoltato a Fort Rozz: si è concluso tutto in
fretta e non
ha avuto il tempo di difendersi, ma pare che sia colpevole, a conti
fatti. O lei è arrivata a questa conclusione».
Aveva fatto una
smorfia e alzato le spalle, ma Lena aveva mancato il momento di
rispondergli che un allarme aveva iniziato a suonare nell'intero
edificio ed entrambi si erano alzati di scatto. «Cosa sta
succedendo?».
Lena
si era chinata verso il laptop, riattivandolo. «Qualcuno deve
essersi introdotto».
«I-Introdotto
come…?».
Non
aveva risposto, ma aveva temuto il peggio e sperato che le guardie
stessero agendo in fretta. Il laptop non era abbastanza veloce, ma
voleva accedere alle telecamere, accidenti. La vibrazione del
cellulare l'aveva fatta spaventare e lo stesso James.
Da
Anonimo a Me
Devi
uscire. Adesso.
Indigo.
E chi altri poteva essere, altrimenti? Lena non si era neppure
stupita del fatto che conoscesse il suo numero e aveva cercato di
calmare James che, di fronte a lei, sperava di non dare a vedere come
gli tremassero le gambe.
«Stanno
arrivando», mormorò il ragazzo con voce grossa,
scorgendo le luci
dell'ascensore dietro la scrivania, tornando al presente.
«Posso
fare qualcosa…? Non c'è un'altra via di uscita,
da questo piano?».
«Certo
che c'è», sibilò Lena. «Il
piano è diviso in due, qui c'è solo
un corridoio e il mio ufficio, ma ci sono dei laboratori al di
là
del muro», prese fiato, cercando di accedere alle telecamere
attraverso il cellulare. Non era il mezzo che preferiva, per questo
genere di cose. «C'è una porta segreta».
«Una
porta segreta?», si voltò, sgranando gli occhi.
«Dove?».
Lena
lo zittì quando udì l'ascensore fermarsi ed
entrambi si nascosero
meglio, sperando di non essere visti. Le porte si aprirono e i due
trattennero il respiro, appiattendosi. I lenti passi di quegli
stivali rimbombavano nel corridoio vuoto come i loro cuori
spaventati. James cercò di guardare senza esporsi troppo, ma
non
riuscì a capire in quanti fossero. Erano in trappola. Li
sentirono
spalancare la porta socchiusa dell'ufficio ed entrare e sapevano che
loro, per arrivare alla porta segreta, avrebbero dovuto passare
proprio lì davanti.
Da
Anonimo a Me
Fammi
entrare. Lena
aggrottò la fronte.
Dammi i dati d'accesso della Luthor Corp, vedrò per te.
«Dov'è
la porta segreta?», chiese James, in ansia. Sentivano rumori
e voci
all'interno dell'ufficio, come se lo stessero mettendo sottosopra e,
sapevano che se volevano passare, era quello il momento per farlo.
Lena
rilesse il messaggio e guardò il ragazzo: dovevano tentare.
Scivolarono dietro la scrivania e, pian piano, si rimisero in piedi e
camminarono appiccicati al muro fino alla porta aperta, sentendoli
chiacchierare.
«Sul
bordo», mormorò uno, «Il portatile
è sul bordo della scrivania.
Doveva essere qui un attimo fa».
James
la fermò quando tentò di passare avanti per
prima. Cercò di
mimarle quanto fosse rischioso, ma che passasse per ultima, a quel
punto, aveva davvero importanza? Lui le strinse un polso e decisero
di passare insieme. Un passo avanti e Lena spalancò gli
occhi quando
scorse di fretta che il divanetto era stato rovesciato, che era tutto
a terra. Non li videro. Lena corse fino a una presa di corrente e
James restò di guardia vicino alla porta, guardando avanti e
lei
dietro: davvero c'era un passaggio nascosto, su quel muro?
«Hai
sentito anche tu?».
James
le si avvicinò di corsa, sussurrando che non avevano
più tempo.
Intanto, lei mise la mano destra nella presa di corrente e
tirò
verso di sé come un cassetto, trovando un tastierino
numerico
olografico.
«Ho
sentito dei passi», continuò dall'ufficio e lo
udirono avvicinarsi.
«Signorina Luthor, è lei? Siamo qui per lei,
sa?», cantilenò e
udirono un'altra voce ridacchiare.
James
le ordinò di sbrigarsi e Lena digitò con
sicurezza, per poi
imprimere l'impronta del pollice destro sul tastierino. Udirono un
forte rumore di qualcosa che si spostava aprendo il muro e
così i
due uomini correre verso il corridoio. James la spinse all'interno e
si infilò appena in tempo, sfiorando due proiettili. La
porta si
richiuse poco dopo, quando Lena digitò dal tastierino
dall'altra
parte. Li avevano quasi presi. Quasi.
James
prese un bel respiro e Lena si toccò il petto. Per poco le
gambe non
le cedevano dall'ansia.
Da
Anonimo a Me
Lena.
Fammi entrare, ti scongiuro. Dimmi che stai bene.
Lesse
il nuovo messaggio e strinse gli occhi, appoggiandosi al muro. Indigo
poteva entrare nel sistema di sicurezza della Luthor Corp senza i
suoi dati d'accesso, perché continuava a chiederli?
«Ti
senti bene?», James le si avvicinò veloce e le
strinse un braccio.
Lena
guardò lui e adocchiò la mano, scansandosi. Forse
pensava di dover
fare l'uomo forte e proteggerla, ma di sicuro non lo trovava
necessario. Lo notò seguirla e così guardarsi
intorno: quel
corridoio era più stretto e buio, interno al palazzo diviso
tra
laboratori e il suo ufficio; di certo, ora quegli uomini armati
dovevano chiedersi come raggiungerli.
«Non
ci credo», lui
si
passò una mano in fronte e sulla nuca, sforzandosi per non
tremare.
«Sai chi sono?». Si rispose da solo in un lampo:
«Ma certo:
l'organizzazione. Pensavo ce l'avessero con Kara, ma devono aver
aumentato gli obiettivi».
Lena
prese passo deciso verso una porta a vetri e James le stette dietro,
mentre le piccole luci del corridoio si accendevano ai lati con il
loro passaggio. Accesero la luce all'interno e si affrettarono verso
un computer, avviandolo. Lui si girò indietro e
notò qualche
bancone coperto da teli, dei microscopi, celle in plexiglass, dei
figo e scaffali coperti anche quelli, chiedendosi cosa facessero
lì.
Le arrivò un altro messaggio e prese il cellulare in fretta
pensando
a Kara, ma era ancora Indigo che la pregava. Davvero non riusciva a
capirla. Lena avrebbe voluto cercare Kara, accidenti, ma non voleva
farla preoccupare. Se ancora si sarebbe preoccupata per lei, ora come
ora. Quando riuscì ad entrare nel sistema, notò
subito che alcune
telecamere erano state oscurate, che diversi uomini armati e in
passamontagna erano sparpagliati per la Luthor Corp, che almeno sei
di loro avevano radunato tutti all'interno del magazzino. Le guardie
non c'erano.
«Ehi,
ma lui», James indicò una finestrella e Lena la
ingrandì. «È il
ragazzo che mi ha fatto entrare».
«Il
mio assistente», si gelò, vedendo Winn sbattuto
contro una
scrivania mentre veniva minacciato con una pistola alla tempia.
«Sono
nell'ufficio di mio padre», borbottò.
«Certo»,
sentenziò d'un tratto e lei lo fissò attraverso
il vetro dello
schermo. «Come vecchio membro, staranno cercando qualcosa e
forzano
il tuo assistente ad aiutarli».
Odiava
ammettere che, questa volta, James Olsen poteva avere ragione.
«Forse», annuì, riprendendo in mano il
cellulare. Voleva cercare
Kara? Doveva almeno sapere se era al sicuro. Deglutì e fece
uno
squillo alla polizia, ma non rispondeva nessuno e la cosa mise in
agitazione il ragazzo. «Mio padre non ha lasciato nulla negli
archivi della Luthor Corp che portano all'organizzazione o li avrei
già trovati», mormorò e lui si
accigliò, «Non ha senso…
Perché
adesso?», scosse la testa. «Sono quasi due anni che
mio padre non
c'è più, è strano che si facciano vivi
solo ora. Devono avere un
altro piano, c'è qualcos'altro che vogliono».
«E
cosa potrebbe essere? È chiaro come sia tutto collegato a
voi
Luthor», si pentì di averlo detto nello stesso
istante in cui lo
disse, vedendola fare un'espressione strana. «No, aspetta,
non
volevo dire che-».
Lena
si alzò e gli passò davanti, ignorandolo. Prese
il cellulare e
lesse il nuovo disperato tentativo di Indigo per avere ciò
che
desiderava in cambio del suo aiuto, come se fosse realmente
preoccupata per lei. Se non aveva accesso alle telecamere della
Luthor Corp, come sapeva dell'attacco? Non le rispose e
provò a
chiamare Kara. Restò in attesa, in attesa, ma la linea era
occupata.
Come poteva essere occupata anche lei?
«Mi
uccideranno»,
Kara ascoltava i singhiozzi lamentosi di Siobhan. «Io
non voglio morire, Kara… Non voglio morire».
Lei distanziò il cellulare dall'orecchia, facendosi seria.
«Respira?», domandò.
Barry
Allen era chino su un corpo steso a terra, trovato vicino ai
cassonetti dietro il dormitorio. Era l'agente che li seguiva quella
mattina, ma non aveva documenti con sé. Il ragazzo prese
fiato e
scosse la testa. Si alzò e analizzò la scena.
«Deve essere stato
trasportato, non ci sono tracce di sangue e sembra averne perso
molto. Devono essere stati almeno in due, il corpo è
pesante»,
riguardò distrattamente il buco al petto.
«Considerando che non è
scoppiato nessun allarme, potrebbero aver usato un
silenziatore»,
guardò la ragazza e deglutì. «Lui era
qui per proteggerti, Kara».
«Lo
so… è il nuovo tentativo di Rhea Gand»,
aggrottò lo sguardo,
sentendo Siobhan piangere.
Quello
era senza dubbio il modo migliore per concludere quella pessima
giornata: la litigata con Mike, la discussione con Lena e quella con
le compagne di squadra che si erano risentite per aver vinto senza
fare grandi sforzi non bastavano, ci mancava il tentato omicidio con
omicidi di agenti che le facevano da scorta annessi. Eppure doveva
saperlo che ci avrebbe riprovato, ma mandare gli uomini
dell'organizzazione anche alla CatCo per Siobhan Smythe? Lo aveva
fatto perché lei sapeva della pistola? E Zod ne era al
corrente?
Prima
di quelle diciannove e trenta, si sentiva ancora in forma e, appena
uscita dagli spogliatoi, aveva inviato un messaggio a Selina Kyle per
dirle che accettava di entrare alla Lord Technologies con lei e
mettere naso negli affari di Maxwell Lord. Quelle pillole rosse
venivano perfezionate anche grazie ai suoi dati, quindi
perché non
scoprire in cosa consisteva esattamente il progetto?
«Ti
va una passeggiata?».
Oh,
Barry Allen aveva provato a farla aprire e dopo ci aveva riprovato
con la scusa di una passeggiata. «Sì»,
aveva scrollato le spalle,
«Perché no?». Non importava che non
avesse fatto altro che correre
fino a quel momento, in fondo camminando poteva prendere tempo.
Chissà cosa faceva Lena. No, si era fermata e scosso la
testa. Non
doveva pensare alla loro discussione, non doveva. La pillola doveva
tenerla lontana dalla sua testa! Si era accorta tardi che Barry la
stava fissando. «Cosa c'è?», aveva
sbottato.
Lui
ci aveva messo un po' a risponderle, pensieroso. «Tu,
emh… Credevo
non avresti accettato, hai finito adesso una partita, dovresti essere
stremata e invece non c'è neanche l'ombra di tutto questo,
in te».
«Non
capisco, c'è qualcosa di male a essere carichi?».
Lui
era rimasto a bocca aperta e poi si era grattato dietro la nuca.
«No,
ma-».
«Nessun
ma.
Vuoi passeggiare o no?».
«No»,
aveva scosso la testa. «Sono stanco e mi è passata
la voglia».
Erano
le diciannove e trenta quando si erano accorti, tornando verso il
campus, di essere seguiti di nuovo. A Kara sembrava di riconoscere
qualcuno, ma non aveva potuto dire con certezza se quelle facce erano
già presenti al campus prima o se erano lì per
lei. Fecero il giro
del dormitorio per seminarli sotto insistenza della ragazza, di certo
Barry non voleva alimentare il suo nervosismo, ma lì avevano
trovato
il corpo e Siobhan aveva chiamato.
«Kara,
se vogliono farti fuori…», borbottò,
nel presente.
Lei
sbiancò. «Mike».
Corsero
di fretta, sorpassando ragazze e ragazzi che brindavano al piano
terra. Come la videro, gridarono Supergirl
in preda alla contentezza e un ragazzo cercò di fermarla
solo per
dirle con un alito che sapeva di birra di aver registrato la sua
esibizione col telefono e che presto sarebbe stata virale. Dovette
scansarlo da sé con la forza e corsero alle scale.
«Aspetta…
è una festa, quella che sento? È-È
musica? Tu ti diverti mentre io
sto per morire?».
Kara
sbuffò. «No, carina, è la gente che
festeggia la mia vittoria,
naturalmente! Ho vinto una partita, questo pomeriggio, sai, non
esisti solo tu».
Barry
le fece cenno di tacere, mentre si avvicinavano al piano giusto: gli
assassini potevano essere ovunque.
«Tu
vinci le partite mentre io sto per morire? … aspetta: carina,
prego? Come ti perme-».
«Adesso
chiudi quella bocca se vuoi che sopravviva per venirti a salvare. E
devi uscire da quel bagno».
«Oh,
Kara… sono stata così cattiva con te»,
ricominciò a singhiozzare e piangere, tanto che Barry la
guardò
storto. «Così cattiva e tu non lo
meritavi… E-E non mi abbandoni,
oh, Kara! Giuro che non ti tratterò mai più
così male, Kara.
Kara?».
Siobhan tolse il cellulare dall'orecchio e lo passò sulla
gonna per
pulirlo, vedendo che la chiamata era stata interrotta.
«Quella
stronza ha riattaccato».
Kara
e Barry si armarono di una pentola lui e un'insalatiera lei, ancora
sporchi e lasciati allo sbando dal pranzo in corridoio, e si
avvicinarono furtivamente alla sua camera. La porta era aperta,
accidenti.
Mike
era sdraiato sul letto di Kara. Muoveva un piede a ritmo della musica
che aveva nelle orecchie, gli occhi chiusi, incurante del pericolo
che correva: proprio a pochi passi da lui, un uomo armato di pistola
e con passamontagna si avvicinava lentamente.
«Cosa?», disse
sorpreso, «Signorino Gand?».
Mike
sgranò gli occhi e si tolse una cuffietta mentre, dietro
l'intruso,
Kara e Barry colpirono senza pietà.
«Ha
riattaccato, ha riattaccato» ripeté Siobhan,
portandosi le mani sui
capelli e iniziando a ciondolare con paura. «Non posso stare
troppo
a lungo in questo bagno, ha ragione, puzzerò di candeggina e
pipì
marcia, ma ha riattaccato e non so che fare… Che fare!
Quella
stronza, bugiarda, traditri- Oh,
Kara»,
rispose al telefono, incurvando la bocca in un lamento.
«Temevo mi
avessi abbandonato».
«Ne
abbiamo catturato uno»,
disse lei con soddisfazione, «Ma
pensiamo possa essercene almeno un altro qui al campus e dobbiamo
trovarlo. Dopo potrò venire da te, Siobhan, ma non puoi
restare
chiusa in quel bagno, ti troveranno».
«Oh,
Kara», si odorò i capelli e incurvò di
nuovo la bocca, continuando
a lamentarsi. «Puzzo di pipì…
Troveranno il mio cadavere che
puzzerà di pipì».
«Non
troveranno nessun cadavere».
«Ma
puzzerò di pipì quando ci saranno i
soccorsi».
«Ringrazia
se non puzzerai di cadavere»,
la rimproverò. «Devi
uscire di lì».
«Ma
mi uccideranno, non so che fare, Kara, non so che fare».
«No.
Ti sarò vicino, okay? Ma ascoltami, devi uscire da quel
bagno
adesso».
Siobhan
tese le orecchie, zittendo il cellulare con una mano. Sentì
delle
voci, non potevano essere solo sue impressioni perché le
stava anche
formicolando la schiena e, o era di nuovo la brutta sensazione che la
metteva in allarme, o se l'era fatta addosso. Erano proprio voci.
Erano voci. «Kara, stanno arrivando! Mi
uccideranno». Stufa di
sentirsi ripetere di uscire da quel bagno, prese lo spray al
peperoncino dalla borsetta e lo tese in avanti, provando a uscire,
con calma. Scappò alzando i tacchi e allargando le gambe nel
tentativo di fare più piano, nascondendosi dietro un muro.
Li
ascoltò avvicinarsi: quei pazzi ridevano e urlavano, come se
si
stessero divertendo. Lei moriva di paura e puzzava di pipì,
mentre
loro ostentavano felicità. Strinse i denti e
abbassò il volume del
cellulare al minimo, provando ad allontanarsi: se riusciva a entrare
nell'ascensore…
«Zod»,
udì la voce di una donna, «Dobbiamo nominare Zod.
Chiamarlo
Generale».
«Perché?»,
chiese l'altra, anche quella di una donna. «Non ho capito
questa
cosa».
«La
signora Gand è stata chiara, tu fallo e basta! Ci
inizierà appena
sarà presidente, pensa a questo».
Siobhan
si ghiacciò e cercò di spiegare a Kara, a bassa
voce, cosa stavano
dicendo. Le sentì entrare nei bagni, accidenti. Nei bagni.
Se non
fosse uscita, l'avrebbero trovata. Corse verso l'ascensore, contando
che restassero ancora lì il più a lungo
possibile. «Prendo
l'ascensore e me ne vado», disse, battendo i denti.
«Fortunata
quella stronza di Willis», borbottò, schiacciando
convulsamente i
pulsanti per chiamarlo, continuando a voltarsi indietro.
«Starà
bevendo alcol in un sudicio bar e io qui rischio la vita. Se ci fosse
stata, sarebbe stata la prima a cui sarebbero andati a cercare,
questo è sicuro».
«Sei
preoccupata di essere l'unico obiettivo?»,
domandò Kara.
«Certo»,
sbottò. «Sarei scappata mentre le sparavano, non
sono mica matta».
Le porte dell'ascensore si spalancarono e Siobhan sgranò gli
occhi,
il collega di fronte sgranò gli occhi, ma erano soli. Lui le
prese
un polso e la tirò dentro. «Chiudi,
chiudi», cercò di urlargli a
denti stretti.
Agitato,
lui si gettò sui pulsanti a lato insieme a lei, premendo un
pulsante
e le porte si richiusero. «Che fine avevi fatto?»,
domandò l'uomo,
a bocca aperta. «Oh mio Dio, la CatCo è presa
d'assalto e tu eri
sparita, pensavamo ti avessero ucciso! Parlavano di un tale, un
Generale,
devono essere dei terroristi».
Siobhan
si portò il telefono all'interno del taschino della giacca
quando
non sentì più la voce di Kara risponderle, ma non
chiuse la
chiamata, intanto che metteva via lo spray. «Io sono esausta!
Per
poco non mi ammazzavano davvero», spalancò la
bocca, trattenendosi
dall'urlare.
Si
appoggiò e tirò un sospiro di sollievo, quando
lui si avvicinò per
odorarla e fare una faccia disgustata. «Ehi, Smythe, puzzi
di-».
«Non
ti azzardare!»,
gli puntò contro un dito. Solo allora vide che l'ascensore
non stava
scendendo, ma salendo. «Dove…? Razza di
rincretinito seriale,
dovevamo uscire, ci stai portando in pasto ai terroristi».
«No,
io… No»,
si portò le mani sui capelli corti, spalancando gli occhi.
«No, no…
No! I-Io non l'ho fatto apposta, tu mi dicevi di chiudere e io ho
schiacciato- Questa situazione mi fa uscire di testa».
Gli
fece cenno di tacere quando capì che l'ascensore si stava
fermando.
Dovevano farlo ripartire per portarli al piano terra. Solo farlo
ripartire. Le porte si aprirono, videro uno dei terroristi col fucile
venire verso la loro parte e si voltarono, quando scoprirono con
orrore che l'ascensore si stava richiudendo perché era stato
richiamato: uscirono di corsa e aprirono e chiusero la prima porta
che trovarono, quella di una piccola saletta per le interviste.
Un
piano più in alto, invece, gli uomini e le donne col
passamontagna
nero avevano circondato l'ufficio di Cat Grant: alcuni trafficavano
nelle scrivanie e nell'ufficio della donna erano in due. Lei si
teneva in disparte, vicino a un divanetto color panna. Guardava
quella che le puntava addosso un fucile, l'altro che le svuotava la
scrivania e controllava il portatile e, fuori, verso gli altri che
terrorizzavano e accerchiavano i suoi impiegati intanto che buttavano
tutto all'aria. Di tanto in tanto, qualcuno urlava con paura e loro
gridavano più forte. Nessuno fino a quel momento era stato
ferito.
Cat Grant avrebbe fatto qualsiasi cosa per farli andar via il prima
possibile. «Se posso dare una mano»,
esclamò a un certo punto,
attirando l'attenzione di entrambi. «State cercando qualcosa,
il
minimo che possa fare è darvi indicazioni su dove trovarla.
Credo di
conoscere abbastanza bene il mio ufficio». Li vide guardarsi.
«Vuoi
fare la spiritosa?», la donna si accostò.
«Cerchi di farci
arrabbiare?».
«Oh
no, al contrario. Speravo proprio di aiutarvi», si
portò le braccia
a conserte e lei avvicinò il viso coperto al suo, come
un'intimidazione: la signora Grant tenne alta la testa, pur avendo
paura, certo, ma non lo avrebbe ammesso. Non si era mai lasciata
spaventare da nessuno e non intendeva iniziare oggi.
«Cerchiamo
materiale su tu sai cosa, Grant», disse l'uomo, mentre
l'altra la
teneva d'occhio.
Cat
Grant non rispose: non c'era nulla sull'organizzazione nel suo
ufficio né in tutta la CatCo ma, se avesse detto quella
parola, le
avrebbero sparato? Da anni avevano cercato di convincerla a entrare e
si era tenuta ben distante, senza inimicarseli, ma ora cosa avevano
in mente? Senza contare che tutti, da quando erano entrati, non
facevano che nominare il Generale Zod. Perché fare dei nomi?
Certi
errori non erano da loro. A meno che, e la signora Grant
deglutì,
non fossero errori.
«Dillo,
Grant: l'organizzazione. Credi di essere intoccabile? Di poter fare
quello che vuoi alle nostre spalle?», rise lui, «Ci
stiamo
riprendendo il potere e dobbiamo portare via ogni cosa che ci
riguardi».
«Non-»,
si fece coraggio, stringendo le labbra, «Non esiste niente
del
genere, qui».
«No?»,
lui rise, portando in alto una cartella con documenti all'interno.
«E
questa? Volevi incastrare il nostro Generale, forse?».
Cosa?
Cat
Grant non aveva mai visto quella cartella prima di quel momento.
In
un sudicio bar a bere alcol non sarebbe stata una giornata sprecata,
ma per una volta, Leslie Willis poteva dire di stare divertendosi di
più, che Siobhan Smythe ci credesse o meno. Prima di quelle
fatidiche diciannove e trenta, infatti, era sdraiata sul letto del
suo appartamento a gemere insieme alla sua nuova frequentazione. Lui
era peloso e con le maniglie dell'amore: Leslie amava il suo fisico
che trasudava mascolinità. Uscivano da poco, ma era la
miglior cosa
che le era capitata nella vita dopo il ketchup sulla pizza. E di
certo aveva di che distrarsi per la sospensione alla CatCo. Quella
sera, però, era il suo uomo a essere distratto, cosa che non
capitava spesso quando era con lei: controllava sempre che ora fosse,
almeno prima che gli iniziasse a fare i grattini sulla schiena.
«Ti
piace così? O dovrei andare più in
basso…?», Leslie aveva riso
mentre, mordendo il labbro inferiore, spingeva i suoi grattini sempre
più giù, scoprendogli le natiche dal lenzuolo
fucsia.
Lui
aveva sorriso e, con gli occhi chiusi, si stava proprio rilassando. O
almeno fino a quando non ebbe udito un rumore sospetto in casa e
aveva sbarrato gli occhi. «Che ore sono, cicci?».
«Non
ti serve sapere l'ora, ragazzone. A meno che tu non intenda
l'ora…
di un bis?», si era sdraiata sulla sua schiena ma lui si era
scansato di colpo ed era scivolata sul materasso. Lo aveva visto
prendere la sveglia e così scendere di corsa dal letto,
cercando i
boxer. «Devi prendere la medicina? E che diavolo».
«Vestiti»,
aveva bisbigliato e, coperto le parti intime, ricercato i suoi
pantaloni per recuperare la pistola.
«Oh,
mai mettersi con un poliziotto: lo diceva sempre mia madre che siete
tutti paranoici e- aah».
Aveva
schivato un proiettile quando l'uomo aveva tirato dalla sua parte il
lenzuolo e l'aveva fatta cadere dall'altro lato. Poi si era messo a
sparare verso la porta e qualcuno si era nascosto. Più di
qualcuno
continuava a sparare all'interno della camera padronale e il
poliziotto aveva camminato a gattoni fino a lei.
«Stai
bene, mia topina?».
«Tua
topina un cazzo»,
aveva urlato, cercando di ripararsi la testa. «Mi stanno
distruggendo l'arredamento! Che cosa sta succedendo? Parla o giuro
che ti strappo un'orecchia a morsi».
«Devo
proteggerti, cuore», aveva detto smielato, voltandosi per
sparare
ancora. Forse aveva colpito qualcuno perché avevano sentito
qualcosa
cadere e un lamento. «Devo chiamare i rinforzi.
Nasconditi».
«Non
andrò sotto al letto», aveva sentenziato ma,
quando lui si era
mosso per recuperare la radio, un proiettile aveva sfiorato il
comodino e si era infilata sotto al letto più veloce di una
pantegana.
La
sparatoria era durata altri pochi minuti, il tempo a quattro uomini e
donne armati di entrare nell'appartamento e sparare agli intrusi.
Quando i compagni lo avevano visto in boxer a righe e cuori, lui si
era coperto, tornando defilato in camera. Aveva tratto in salvo
Leslie dal letto, dato il tempo di mettersi addosso qualcosa e
così
caricata all'interno di un furgoncino. Solo allora, quel poliziotto
conosciuto il giorno del suo interrogatorio per la morte di Gand, le
aveva rivelato cosa stesse succedendo a National City e che erano
entrati in casa sua per ammazzarla per conto di Rhea: loro sapevano
che Leslie Willis poteva essere un bersaglio, anche se non sapevano
dove l'avrebbero trasportata per far passare il suo assassinio per
accidentale. Di certo non dovevano aspettarsi una sparatoria nel suo
appartamento.
«Ti
sei avvicinato a me per questo? Bambolone dai piedi palmati, non ci
voglio credere che sono andata a letto con te»,
spalancò gli occhi.
«Due volte. Oggi». La donna e l'uomo con loro
fecero finta di
niente, spalancando gli occhi e grattandosi gli stinchi.
«No,
no», scosse la testa, avvicinandosi. «I-Io non l'ho
saputo prima di
pochi giorni fa, quando il Generale-», si fermò e
Leslie trattenne
il fiato, appoggiandosi per non essere sballottata dal movimento.
«Sei
uno di loro…», soffiò.
«Topina
mia, l'organizzazione non è ciò che pensi
tu», scrollò le spalle.
«Non è Rhea Gand».
Rhea
Gand. Maxwell Lord sapeva che quelle persone armate erano lì
per
conto suo. Li avevano radunati quasi tutti in sala mensa, mentre lui
e pochi altri erano stati fatti scortare davanti a dei monitor,
minacciati con pistole e fucili. Cosa volessero, restava un mistero.
Chi era ben sicura di sapere cosa voleva era Selina Kyle: si era
appena rimessa in postazione per studiare il perimetro del complesso
quando un gruppo di gente armata si era divisa ed entrata con la
forza sparando alle guardie, manomettendo i sistemi di sicurezza. Una
situazione che dalle diciannove e trenta stava paralizzando la
città,
per lei era una manna dal cielo. Le dispiaceva di non poter aspettare
Kara ma aveva approfittato della confusione per tenersi sul retro di
un furgone ed entrare, scappando in fretta per non essere vista,
nascondendosi dietro dei pacchi quando aveva sentito le urla ordinare
di alzare le mani: due uomini armati e in passamontagna avevano
chiuso le saracinesche del magazzino e spinto i dipendenti a seguirli
all'interno. Allontanati, Selina si era mossa veloce verso la porta e
spiato prima di uscire. Aveva sentito le grida spaventate, qualche
sparo finito chissà dove e aveva chiuso gli occhi,
appiattendosi al
muro per paura. «Cosa cavolo sta
succedendo…», aveva borbottato.
Si era nascosta dietro una porta quando aveva scorso delle ombre che
si avvicinavano e tentato di chiamare Kara, trovando occupato. Di
certo non poteva chiamare la polizia. Così aveva acceso la
torcia
tascabile che si portava dietro e si era guardata attorno, trovando
solo stracci, secchi e scope. «Uff… Allora, sono
Maxwell Lord,
dove terrei le cose losche?». Era certa che, riuscendo a
scendere di
sotto, nei laboratori, qualcosa l'avrebbe trovata.
La
situazione era meno rosea là sopra: la gente armata aveva
ordinato
ad alcuni dipendenti davanti ai pc di cercare file in memoria su date
che loro stessi fornivano. Maxwell era tenuto d'occhio, da un lato:
manteneva un'espressione enigmatica, come se fosse infastidito quanto
curioso. «Sapete? Non siete tenuti a farlo, potete parlarne
con me»,
si era indicato, «Invece di puntare le armi contro il mio
personale». Le donne e gli uomini ai pc si erano girati verso
di
lui, quasi sperando in un aiuto.
«Chiudi
quella fogna», gli ordinò una voce maschile,
accanto. «Ti sento
spesso in tv, sei solo tante chiacchiere, Lord. Ma ho sempre saputo
che hai la puzza al naso».
Lui
sorrise, annuendo un poco. Tirò fuori un cellulare da una
tasca dei
jeans, quando nessuno guardava. Scrisse velocemente qualcosa, prima
di essere sorpreso: l'uomo gli puntò la pistola e se lo fece
consegnare, per poi lanciarlo a terra. «Oh, è
nuovo. Tanto non
prendeva».
«Chiudi-quella-fogna».
«Posso
almeno sperare di sapere cosa fate qui?».
L'altro
si portò le mani in testa e dopo gli puntò di
nuovo contro la
pistola, seccato. «Ti potrei uccidere, lo sai, questo?
Perché non
stai zitto?».
Lord
sospirò, increspando le labbra. «No, non credo. Se
avessi voluto
spararmi, lo avresti già fatto, lo so, posso essere
irritante»,
alzò le spalle. «O non avete il permesso di farlo,
o vi manca il
coraggio e questo mi fa pensare che siate, in fondo, dei
dilettanti».
«Cosa?»,
strabuzzò gli occhi e gli puntò l'arma al petto,
ma la mano gli
tremava. Dopo si voltò e ordinò alle persone ai
pc di muoversi,
perché erano ancora fermi. Gli altri terroristi seguirono
l'esempio,
gridando.
«Non
dilettanti allo sbaraglio, avete una certa manualità, ma
sicuramente
questa è la vostra prima missione del genere. Mi
sbaglio?»,
assottigliò gli occhi e si accostò all'uomo,
sorridendo. «Lo so
chi siete e chi vi ha mandato», scosse la testa,
«Ma non c'è
niente per voi, qui», sussurrò infine.
L'uomo
col passamontagna non seppe cosa dire, ma presto non ce ne sarebbe
stato bisogno: si udirono spari, urla e tutti si voltarono verso due
dei loro uomini che presero a sparare contro gli stessi compagni.
Iniziò una sparatoria e Lord ordinò al personale
di mettersi al
riparo che, in quel momento, intravide Alex Danvers: oh, aveva forse
appena iniziato a sognare? Alex Danvers era venuta a salvarlo? Si
coprì dietro un muretto e la vide saltare su un tavolo con
estrema
precisione e sparare, abbassarsi e sparare, colpire un terrorista
alla spalla e sparare ancora verso altri uomini giunti sul posto. Gli
agenti con lei le davano man forte, certo, ma la vera star era solo
Alex Danvers. Aspettò che si riparasse contro
il
muretto a fianco a lui per salutarla: «Non puoi sapere quanto
sia
felice di vederti», attirò la sua attenzione,
«La mia giornata ha
appena iniziato ad avere un senso».
Lei
incurvò le labbra. «Chiudi la fogna»,
sbottò, alzandosi per
sparare ancora.
«Ah.
Dev'essere l'espressione del giorno».
Rhea
Gand era ancora in macchina, parcheggiata a un lato della strada:
sbottò con ferocia quando vide dal tablet che la centrale di
polizia
era stata liberata, era successo lo stesso a due emittenti
televisive, al municipio e ora il D.A.O. era entrato alla Lord
Technologies. Cosa stava succedendo al suo piano perfetto? Come
faceva il D.A.O. a sapere della sua operazione? «Qualcuno mi
ha
tradito», ringhiò, salendole la pressione. Aveva
chiaramente visto
dalle telecamere nascoste dai passamontagna dei capisquadra come
alcuni dei loro si erano ribellati. «Avevo pensato a tutto, a
tutto!
Come possono essermi sfuggiti questi dissidenti?». Aveva
anche
notato le facce conosciute di alcuni omega dalle riprese, persone che
aveva sperato di mettere dalla sua ma che si erano rivelati troppo
fedeli a Zod.
Il
bodyguard al suo fianco scrollò le spalle. «Il
Generale Zod deve
averla scoperta, signora Rhea».
«Non
dirlo: lui è morto. Abbiamo sentito gli spari».
Gli
spari, chiaro. Il bodyguard annuì ma non proferì
oltre, mentre lei
cambiava inquadrature. Accidenti, la squadra inviata a uccidere
Lillian Luthor si era esposta: li videro sparare verso l'auto in
pieno traffico, la gente per strada scappare, una macchina a fianco
sparare di rimando verso di loro.
«No,
no, no», strinse un labbro coi denti, sbavando il rossetto.
«Dovevano riuscire a creare un incidente, cos'è
questa porcheria?
Sono degli incompetenti». Lui alzò le spalle di
nuovo.
Gli
uomini alla Luthor Corp tenevano ancora in ostaggio il personale e
avevano fatto fuori le guardie, come programmato. Qualcosa da quel
macello poteva ancora salvarsi, dopotutto. «Devono solo
infilare una
chiavetta e inserire quei dati su Zod, perché ci mettono
tanto?
Incolperanno sia lui che i Luthor».
«Che
senso ha, signora Rhea? Pensavo volesse farli uccidere».
«Sì,
sì, certo», disse, «Ma con questo
morirà anche la loro
reputazione. Resterebbe quel Lex, ma lui non conta: si sa che ha dei
problemi, dagli una bella tragedia famigliare e cadrà in
depressione».
Il
bodyguard la fissò curioso: «Non lo fa uccidere
perché al momento
si trova a Metropolis, non è vero?».
«Certo
che è vero. Posso accontentarmi», rispose con
sufficienza e
riguardò il tablet. «Oh, pare che siano riusciti a
entrare: presto
troveranno Lena Luthor e sarà un nome da spuntare in
agenda».
Odiava
i Luthor. Forse non li avrebbe fatti uccidere se Lillian non l'avesse
minacciata, ma sarebbe stato un sospiro di sollievo non averli
più
intorno. Quando era più piccola e si affacciava al loro
mondo le
prime volte, nutriva una certa stima nei loro confronti. Erano una
famiglia potente e Levi Luthor era una specie di colonna portante.
Anche se sapeva, certo, che non era lui il vero re. Avrebbe dato
qualsiasi cosa per essere come loro e sapeva di potercela fare, erano
il suo esempio. Conobbe Lillian che era la fidanzata perfetta di
Lionel Luthor e stavano per convolare a nozze. Lei era già
membro
dell'organizzazione ma sapeva che Lillian, solo per andare in moglie
a lui, l'avrebbe scavalcata. Eppure al tempo non le interessava
poiché Lillian era bella, elegante, severa e, seppure poco
più
piccola di lei, un modello da seguire. Per questa ragione quando Levi
Luthor morì, era felice che Lionel e Lillian prendessero il
suo
posto in presidenza. Solo con l'andare del tempo capì che
loro non
erano che un miraggio, che non erano degni del posto in carica
né
del loro cognome, e che con la sua guida, l'organizzazione avrebbe
potuto dare molto di più. Ricercò consensi
già allora, instillò
dubbi sulla loro condotta e, quando trovò qualcuno adatto da
additare come nemico, sapeva che quei due sarebbero caduti in fallo.
Lionel era debole e avrebbe trascinato Lillian con sé. Non
si
aspettava di certo che Zod, dall'alto della sua influenza, che era
sempre stato leale ai Luthor come un cane, si sarebbe candidato
contro di lei. Aveva vinto per poco. E così aveva iniziato
ad
aspettare un momento migliore. Proprio lui, maledetto, che gli aveva
portato via sua sorella e voleva portarle via tutto il resto.
«È
stato lui, ammettilo! Dru ti ha fatto cambiare idea sulla mia
iniziazione». Le tornò alla mente il ricordo di
allora, ancora
nitido nonostante i tanti anni trascorsi.
Petra era così bella che si era domandata spesso se, alla
sua età,
anche lei lo sarebbe stata. Si vedeva allo specchio e trovava solo
una ragazzina in carne con una brutta espressione accigliata e i
brufoli sul mento, anche se già allora, un certo Lar Gand le
diceva
di essere bellissima. Non lo aveva scelto a sproposito; lui aveva
sempre avuto il dono di farla sentire speciale. Ma se dentro
sé già
covava la fiamma della determinazione, era in realtà molto
insicura
e senza persone come Lar, o come Petra, non avrebbe buttato
giù il
muro che ogni tanto rinforzava per proteggersi dal mondo. Entrare a
far parte dell'organizzazione era tutto ciò che voleva
perché loro
riuscivano a capirla e accettarla, a far emergere se stessa. A darle
uno scopo.
«Ti
prego, Petra! Non puoi abbandonarmi così», aveva
stretto i pugni e
lei l'aveva guardata con apprensione, avvicinandosi alle scale di
casa.
«Io
non ti abbandono, Rhea! Vado a vivere con lui, ma tu resti la mia
sorellina», si era avvicinata ma, quando lei era tornata
indietro
con odio, si era bloccata sui suoi passi. «Non puoi fare in
questo
modo, tu credi di conoscere quelle persone, ma non è
così! Sì, ti
fanno sentire speciale e parte di qualcosa di più grande, ma
c'è
dell'altro! Non fanno solo cose buone», aveva scosso la
testa.
«Vuoi
tenerti tutto per te».
«No!
Sei piccola e non puoi capire. E adesso basta: solo io posso
iniziarti e non intendo farlo».
La
Rhea quindicenne aveva aggrottato la fronte e, a bassa voce,
sibilato: «Non solo tu puoi farlo».
Guardò
il tablet e cercò di calmarsi, prendendo grossi e lenti
respiri.
Lena Luthor era in trappola all'interno della Luthor Corp, non
sarebbe potuta scappare. L'unico rimasto operativo al campus
universitario cercava Kara Danvers, ma insieme al compagno avevano
colpito gli agenti che le facevano da scorta, era questione di poco
prima che la trovasse. E quell'oca starnazzante di Siobhan Smythe era
caduta nella tana del lupo. La sua operazione poteva andare avanti,
non tutto era perduto.
Siobhan
tremò, tenendo il cellulare ben stretto nella tasca. La sua
chiamata
con Kara era ancora aperta, ma non rispondeva più. Doveva
venire a
salvarla, accidenti. A salvarla.
«Forse
qui non ci troveranno», esclamò lui, guardando
verso il vetro della
porta.
«Io
lo sapevo che stamattina me ne sarei dovuta restare al letto, lo
sapevo», ringhiò. «Cosa facevi in
ascensore, a proposito? Come sei
riuscito a scappare?».
«Ah…
s-si erano distratti un attimo e non mi hanno visto. Speravo di
scendere al piano terra ma ero molto nervoso e immagino di aver
sbagliato. Di nuovo», ansimò con ansia, passandosi
una mano sulla
fronte sudata. «Sono un uomo sfortunato». Prese il
cellulare e
provò a cercare campo, abbassando le luci dello schermo per
trattenere la batteria.
«Sfortunato?»,
sbottò lei, «Questa mattina ero alla centrale di
polizia per aver
aggredito un uomo e adesso non so cosa darei per tornare indietro e
farmi trattenere in cella! Tu sei semplicemente l'inetto di sempre,
Mcbrown».
Lui
emise un breve sorriso. «Già, penso tu abbia
ragione». Scrisse un
messaggio sul telefono e inviò:
È
con me. Aspettate il mio segnale.
Che
disastro! Che disastro! L'Operazione
ha chiuso National City in una scatola, ma se da una parte il piano
di Rhea non sta funzionando come dovrebbe (anche grazie a Zod),
dall'altra, le nostre protagoniste sono ancora in trappola.
Come
faranno a cavarsela, adesso? Qualcuno andrà in aiuto ?
Eh
sì, ho dovuto per forza di cose tagliare il capitolo a
questo punto,
sorry. Spero vi piaccia quanto letto finora :P
Facendo
il punto della situazione… Lillian ed Eliza stanno scappando
dalla
macchina inviata da Rhea, creando scompiglio sulle strade. Leslie
Willis se la stava spassando, finché non hanno iniziato a
spararle
addosso. Maxwell Lord, enigmatico come al solito, ha spazientito uno
dei terroristi che chissà se gli avrebbe sparato, distratto
all'ultimo da due dei loro che hanno iniziato a sparare contro i
compagni e dall'entrata in scena di Alex Danvers e del D.A.O.. Maggie
Sawyer è andata ad aiutare la squadra di omega
dell'organizzazione
guidata da Charlie Kweskill. Kara e Barry hanno trovato un corpo al
campus e sono riusciti a catturare uno dei terroristi inviati per
uccidere la ragazza. Lena, invece, si trova con James Olsen
all'interno di una zona nascosta della Luthor Corp, hanno visto dalle
telecamere che Winn è nei guai, ma pare proprio che questi
raggiungeranno presto anche loro; mentre Indigo, scrivendo
direttamente al cellulare di Lena, le chiede con preoccupazione di
darle i dati d'accesso dell'azienda per aiutarla. Siobhan Smythe se
la stava facendo quasi letteralmente sotto e ora crede di essere al
sicuro, ma lo sarà davvero? Tutto questo, intanto che John
Jonzz e
Megan mangiano lo zucchero filato a Metropolis. Ah, l'amor- emh,
che disastro. Davvero, che disastro!
Se
la caveranno tutti? O Rhea riuscirà a portare via almeno
qualcuno di
loro? Si dia il via al totomorte! Ah no, quello è per
l'uscita di
Avengers Endgame :P Si scherza…
In
attesa del prossimo capitolo, vi propongo un giochino
con
questo.
Solitamente,
quando e se metto dei piccoli indizi sul futuro della storia, non ho
l'abitudine di scriverlo e chi è attento se ne accorge,
altrimenti
pazienza. Stavolta, sarà sempre pazienza
se non li cogliete,
ma vi sto dicendo che ci sono. Allora, ci sono ben tre
particolari da scovare in queste righe e, se ne trovate almeno due
su tre, vincete una caramella virtuale!! (Lo so, accontentiamoci. Ci
sarà anche un bravissima/o!!).
- Il primo è facile,
si tratta di una cosa scritta, pulita pulita.
- Il secondo è di
difficoltà media, si tratta di una domanda che potreste
farvi su qualcosa.
- Il terzo è
difficile, si tratta di qualcosa che non è proprio scritto
sulle righe e che potreste capire solo più avanti. Ma se vi
accorgete del particolare in sé, è già
qualcosa.
In
realtà c'è anche un'altra domanda che potreste
porvi, ma non è
chissà quale dettaglio per la trama, anzi, è una
cosa che si saprà
col prossimo stand alone. Quindi la escludo dal giochino.
Non
mi vengono in mente note da scrivere, dunque chiudo e ci rileggiamo
venerdì 19 col prossimo capitolo e la seconda parte sull'Operazione
che si intitola Futuro
:)
Mi
spiace solo che il 21 sarà Pasqua ma il capitolo sulla
Pasqua sarà
il 47. Ero vicina a rilasciarlo per lo stesso periodo del calendario,
per una volta XD Non ci stavo coi tempi, peccato!
|
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Capitolo 46 *** 45. Futuro ***
Gli
agenti di polizia e quelli dell'FBI si erano rimessi in moto in tutta
National City, guidati da un Dru Zod nell'ombra e aiutati dal D.A.O.
che, dopo ciò che era successo all'emittente televisiva e al
municipio, avevano formato delle squadre d'azione per salvare gli
ostaggi e arrestare i terroristi. Mentre Maggie Sawyer, Charlie
Kweskill e omega dell'organizzazione liberavano pubblici uffici, Alex
Danvers e la sua squadra avevano messo in sicurezza i dipendenti
della Lord Technologies e risposto al fuoco delle persone armate. Due
di loro erano poliziotti infiltrati tra le fila di Rhea sotto ordine
di Zod e li aiutarono a fermarli.
Maxwell
Lord rimase affascinato dalla forza e l'eleganza dimostrata da Alex
anche in quella situazione difficile, come fosse riuscita a mantenere
il sangue freddo fino all'ultimo, anche quando le spararono contro.
Dopo aver ripreso il cellulare, le scattò una foto ricordo,
sorridendo entusiasta. Nel frattempo, non era stato difficile per
Selina Kyle girare indisturbata in quel luogo, sapendo che tutti
erano stati radunati dai terroristi. Era stata attenta a non farsi
beccare dalle telecamere ancora attive, raggirandole, e si era
affidata a una mappa disegnata per le visite guidate che aveva
trovato in pila su una scrivania di un ufficio. In quel modo avrebbe
saputo cosa avrebbe trovato e dove.
Si
era diretta alle scale esterne e scesa come da programma, trovando un
magazzino. Quel dannato posto era un labirinto anche con la mappa.
Aveva attraversato un corridoio esterno a vetri per passare da un
fabbricato all'altro e si era affacciata alle porte della sala mensa,
negli oblò, adocchiando tutte quelle persone spaventate che
cercavano di farsi forza a vicenda e si consolavano, mentre gli
uomini e le donne in passamontagna nero li gridavano per farli
restare fermi e in silenzio. «Non sai cosa ti stai perdendo,
Supergirl», aveva sussurrato e, scuotendo la testa, si era
allontanata.
Aveva
salito due scalini e preso un corridoio, poi un altro, confrontandosi
con la mappa e notando che quei posti non erano segnati: forse allora
si stava dirigendo nel luogo giusto. Si era incantata nell'osservare
i laboratori divisi da gigantesche vetrate. «Tu dovevi
divertirti un
mondo, da bambino, col Piccolo
Chimico».
I laboratori proseguivano lungo tutto il corridoio e non c'era
nient'altro se non un ascensore con le porte aperte. Aveva preso uno
specchietto dallo zainetto in spalla e lo aveva usato per riflettere
l'interno: non c'erano telecamere, bene. Sperava solo che non fosse
uno di quegli ascensori rumorosi. Davanti al tastierino con i numeri
ci aveva alitato sopra e scoperto quali erano i più
cliccati: aveva
diverse combinazioni da provare e le aveva segnate su un bloc notes,
provandone una dopo l'altra, indossando i guanti; fortunatamente
erano solo tre numeri, cominciava ad annoiarsi. Dopo non sapeva
quanto, finalmente si scendeva di sotto: le porte si erano chiuse
subito e, silenzioso, l'ascensore aveva iniziato a muoversi. Selina
aveva spalancato gli occhi quando le porte si erano riaperte: quel
corridoio era più freddo, stretto, illuminato da plafoniere
che
rendevano l'atmosfera un po' tetra. Non si sentiva un solo lamento
dai piani sopra, era insonorizzato. Doveva aver trovato ciò
che
cercava e aveva sorriso con soddisfazione. Aveva acceso lo schermo
del cellulare e iniziato a riprendere tutto in video, controllando
che non ci fossero telecamere: una in effetti c'era e salvaguardava
esclusivamente una robusta porta in acciaio. Doveva esserci qualcosa
di estremo valore dall'altra parte se era tanto sorvegliata. Aveva
messo pausa al video e notato che, affiancato alla porta, era stato
incastonato nel muro uno schermo, probabilmente per la chiave
d'accesso. Se era ad impronte, avrebbe potuto imbrogliarla rubandone
una dal tastierino dell'ascensore con un pezzo di scotch, ma la
telecamera restava un problema.
Così
aveva optato per una delle porte a fianco che non avevano bisogno di
chiavi, riaccendendo la torcia. C'erano due scrivanie e tanti, tanti
documenti impilati su più scaffali. Tanti da riempire due
pareti.
Aveva ripreso a girare il video, illuminando con la torcia.
«Non
avrò tempo per tutto questo», aveva sbuffato,
accostandosi alla
scrivania più vicina, trovando fogli con formule e dati che
non
sarebbe riuscita a capire neppure se fosse stata attenta a scuola.
«Kryptonite
rossa?
Davvero?», si era trattenuta dal ridere, «Quanta
fantasia, Lord, i
miei complimenti. Qualcuno qui è un tuo fan, super
raga-», si era
interrotta e sbarrato gli occhi di nuovo, avvicinando altri fogli
alla luce. C'erano altre formule, costi. Altri fogli. Nuove formule,
alcune barrate, schizzi di fiorellini fatti di cerchietti sul bordo.
«Abbiamo l'anima di una scolaretta», aveva riso,
avvicinandone
altri su cui erano stati presi degli appunti intorno allo schema di
un uomo a vista anteriore e posteriore.
Uscì
dalla Lord Technologies appena in tempo, coperta dagli spari del
D.A.O. che aveva appena fatto irruzione. Una volta fermati tutti i
terroristi, gli agenti li scortarono fuori ammanettati e a volto
scoperto, assicurandosi che non ci fosse nessun ferito tra il
personale. Alex stessa si occupava con un altro ragazzo delle
medicazioni più urgenti, che per fortuna andavano tra le
sbucciature
e le contusioni lievi.
«Pensi
che potrò essere medicato anch'io?», Maxwell le
mostrò
un'escoriazione sul dorso della mano destra, probabilmente causata
nella corsa per mettersi al riparo.
«Vuoi
un cerottino sulla bua?», Alex rise, mostrandogli davvero un
cerotto.
«Solo
se accompagnato da un bacino».
«Oh,
che tenero», aggrottò la fronte, «Chiamo
un collega che se ne
occupi se-».
«No,
no, Alex», lui ridacchiò e scosse la testa,
«Sto già molto
meglio».
«Molto
astuto», battibeccò, facendolo ridere di nuovo. Si
fermarono
davanti a uno dei computer e Max accettò il cerotto,
così presero
fiato e Alex ne approfittò per riposare. «Ho
sentito dire che ti
sei comportato da leone, prima che arrivassimo. Smascherando la loro
insicurezza».
Lui
sorrise. «Credo di avere talento nel far arrabbiare le
persone».
La
ragazza annuì. «Sì, beh, non fatico a
crederci! Ma è stato molto
rischioso», lo guardò, «Avrebbero potuto
spararti veramente».
«È
una sorta di preoccupazione verso il sottoscritto, quella che avverto
nelle parole e nel tono?».
Alex
si voltò verso di lui che la fissava sognante, appoggiandosi
al
banco di spalle. «Parlo seriamente».
«Anche
io. Sorrido di natura, ma prendo le cose molto seriamente, Alex
Danvers. E grazie, per quel che vale».
Lei
sospirò, scuotendo la testa. «Sei coraggioso. Incosciente,
ma coraggioso», lo indicò, per poi guardarsi
intorno. «Chissà che
tu non abbia salvato la vita ai tuoi dipendenti, prendendo tempo. La
tua famiglia sarà molto orgogliosa di te. Avrai qualcosa di
cui
vantarti, giusto per gonfiare il tuo già spropositato
ego».
Lui
abbassò gli occhi e serrato le labbra, spostandosi dal banco
del pc.
«Ah, no, non ho nessuno con cui vantarmi, temo di doverti
deludere:
la mia famiglia è morta da tempo».
Alex
restò a bocca spalancata e, per un attimo, si
vergognò come una
ladra. «Oh, scusami. Non lo sapevo».
«E
perché dovresti scusarti? Non è tua la
colpa», chiuse il discorso
e si allontanò. Un uomo della sicurezza con un grosso
bernoccolo in
fronte e un occhio tamponato dal sangue lo fermò per
mostrargli un
video di sicurezza e Maxwell annuì freddamente, congedandolo
nel
dire che ci avrebbe pensato dopo.
Alex
lo vide trafficare col cellulare e lo lasciò andare,
pentendosi di
averlo detto, quasi mordendosi la lingua. Di certo non era da Maxwell
Lord andarsene nel bel mezzo di un discorso con lei: aveva toccato un
punto debole. Parlare di famiglia era così scontato e
naturale, per
lei. Doveva stare più attenta, accidenti.
Una
volta tratta in salvo Leslie Willis, anche il furgoncino con quegli
omega dell'organizzazione e il poliziotto che usciva con lei si erano
messi in contatto con il Generale Zod per avere nuove disposizioni.
Se ne andarono in giro per le strade a scovare gli uomini di Rhea
Gand che si erano dati alla fuga da alcune delle zone appena
liberate. Ne fermarono uno che cercava di arrampicarsi su un albero
di un parco quando capì di essere stato individuato, un
altro che
era tornato comodamente a casa sua convinto che non lo avrebbero
trovato perché era mascherato, una donna che aveva gettato
il
passamontagna in un cassonetto ed entrata in un market per fare la
spesa. Ma alcuni di loro erano omega e conoscevano le loro
generalità; per trovare gli altri, invece, oltre le tracce
era
bastato interrogare quelli già presi.
«La
pulizia è quasi completa», disse la donna alla
guida, alzando una
bottiglia di birra per festeggiare, e tutti applaudirono. A parte
Leslie che se ne stava in un angolo cercando di ignorare gli sguardi
dei terroristi. «Almeno di quelli che sono fuggiti fino ad
ora»,
specificò poi.
Un
omega si dichiarò subito pentito e cantò come un
canarino, cercando
di instillare pena negli ex compagni, ma non sembrò
funzionare
perché quando si fermarono su una strada sterrata a lato di
un
edificio, li caricarono tutti su un altro furgone, ignorando la sua
disperazione e infilandogli uno straccio in bocca. Una donna
batté
due volte sulla portiera a lato e furono portati via.
«Il
Generale è stato chiaro», esclamò uno
di loro, dando una pacca su
una spalla del compagno dispiaciuto.
«Oh,
quindi ce lo hai un cuore», rimbrottò Leslie, a
braccia incrociate.
«Un cuore di panna. Sai che farò? Lo
segnerò in agenda. Quella
nera».
Lui
scrollò le spalle, avvicinandosi a lei. A breve sarebbero
ripartiti.
«Ho giocato a carte con loro, abbiamo parlato spesso delle
nostre
ambizioni, della nostra famiglia, del nostro futuro… Ci
hanno
tradito, lo so che non dovrei prendermela, ma-», scosse la
testa e
ansimò. «Dai, mia diletta. Sali, dobbiamo
andare».
Leslie
ingigantì gli occhi, sbuffando. «La puoi anche
smettere di
chiamarmi così, non devi impressionarmi, te l'ho
già data». Cercò
di aiutarla a salire ma lei, alla mano aperta, avvicinò la
sua solo
per mostrargli il dito medio, facendo da sola. «Non sei un
principe
azzurro, bello mio, scendi dal cavallo delle tue
aspettative».
Chiusero
il furgone e il ragazzo vide i due compagni dietro con loro ridere e
smettere solo a incrociare il suo sguardo. Sbuffò senza
espressione
e si appoggiò al suo fianco, quando il furgone
iniziò a spostarsi,
incurante di ciò che avrebbero raccontato di lui agli altri
compagni. In ogni caso, avevano già visto i suoi boxer ed
era tardi
per salvare la reputazione. La chiamò col cuore in mano.
«Lo so che
adesso reagisci male e sei scontrosa, ma io sono lo stesso uomo di
prima. E-E non so che tipo di ragazzi tu abbia frequentato prima di
me, ma-».
«Scusa?».
«È
che magari loro guardavano solo l'aspetto e-».
«Stai
dicendo che per te sono brutta?».
Lui
sbiancò. «Oh, no, no! Sei la donna più
bella che io abbia mai
visto», strinse i denti e incurvò gli occhi.
«Allora
qual è il tuo problema, ragazzone? Temi il
confronto?», strabuzzò
gli occhi e abbozzò un sorriso, «Non hai di che
temere, per
quello».
Cadde
uno strano silenzio all'interno del furgone e lui arrossì.
«Beh, ne
sono felice, insomma», rise e cadde un altro silenzio.
«Ma quello
che cercavo di dirti è che magari, magari,
per reagire in questo modo, loro ti hanno abituata a essere
considerata solo per l'aspetto esteriore che
è meraviglioso e bacerei in ogni istante della mia vita»,
disse velocemente e Leslie assottigliò gli occhi.
«Continua».
«Invece
che per la tua affascinante, sarcastica e bellissima
personalità. È
che tu mi piaci per come sei, Leslie. Non ho mai conosciuto qualcuno
come te e non volevo solo portarti a letto», la
guardò con occhi
dolci e lei trattenne il fiato. «O magari sei arrabbiata
perché non
ti ho mai fatto menzione di fare parte di un'organizzazione che tu
ritieni criminale, tenendoti all'oscuro del fatto che oggi delle
persone armate ti avrebbero cercato per farti fuori?»
Lei
sorrise con fare ironico, indicandolo. «Cento punti a
Grifondoro,
Harry».
Si voltò da un'altra parte roteando gli occhi, ma i compagni
lo
applaudirono.
«Lo
sai che mi chiamo Larry».
Intanto,
alla Luthor Corp, Lena e James erano ancora all'interno di quel
laboratorio, pensando al da farsi.
«Lena,
alcuni di loro… alcuni di loro sono spariti, li ho persi di
vista».
Il ragazzo strinse gli occhi, davanti al monitor del pc mentre
scandagliava le immagini delle telecamere.
Lena
era in piedi, dietro, riflettendo. Aveva provato a richiamare Kara ma
era ancora occupata e a quel punto pensò, con paura, che
potesse
esserle accaduto qualcosa di male. Rhea doveva aver attaccato diversi
luoghi: non cercavano qualcosa, era solo un pretesto per farle
uccidere, per farle uccidere tutte. Provò a chiamare Alex, e
Maggie,
ma non rispondevano. Forse non potevano guardare il cellulare o
peggio. Perfino Leslie Willis era irrintracciabile. Le stavano
colpendo tutte e tutte insieme. Provò a telefonare a Eliza e
dopo
sua madre, ma anche loro non rispondevano. Avevano una cena a cui
avrebbe partecipato proprio Rhea, accidenti. Si voltò verso
il
ragazzo e deglutì, facendosi coraggio. «Ti
indicherò la strada e
fingerai di esserti perso, ti porteranno giù e-».
«Cosa
stai dicendo?», lui sgranò gli occhi e si
alzò in piedi,
avvicinandosi.
«Non
vogliono te, vogliono me. Non ti faranno alcun male, ma se resterai
con me-». La vibrazione del cellulare la fece sussultare, ma
era
l'ennesimo messaggio da parte di Indigo.
«Stai
scherzando? Non ti lascio sola. Sei disarmata e…
È da pazzi».
«Credevo
non ti piacessero i Luthor», alzò il mento con
fierezza e lui
sfoggiò un tenero sorriso.
«Tu
non sei un cognome, giusto?». Si avvicinò ancora e
Lena inarcò un
sopracciglio, tornando indietro.
«Perché
sei qui, James Olsen? Pensavo avessi una cotta per Kara e, se avessi
avuto da dirci qualcosa, mi sarei aspettata di trovarti da
lei».
Lui
ridacchiò e imbarazzato si grattò la testa,
alzando gli occhi al
soffitto. «Beh, veramente… Credo che tu mi abbia
colpito. Pensavo,
ecco, che avresti potuto farmi conoscere una Luthor diversa».
«Mi
stai chiedendo di uscire?», spalancò gli occhi e
James arrossì.
«Sì.
Perché no? Tu e Kara non state più insieme e lei
è fantastica…
non sembra interessata a me, anche se questo, certo, non ha a che
fare col motivo per cui lo chiedo a te», sorrise impacciato e
Lena
restò a bocca aperta, non sapendo come e cosa dirgli.
«Credo che
tu… mi piaccia», continuò lui
abbozzando un sorriso, «Mi sento
un po' sciocco, in questo momento». Vederla immobile senza
dire una
parola lo stava facendo sentire molto più che sciocco,
pensò.
«Emh.
Wow, è…». Cambiò espressione
quando la sua attenzione fu presa
da un allarme silenzioso sopra la porta del laboratorio: lampeggiava
di rosso, qualcuno era entrato senza immettere il codice, non avevano
più tempo. Almeno l'avrebbero salvata da quella imbarazzante
situazione: «Sono gay», sentenziò di
scatto incurvando le labbra,
camminandogli avanti e spostandolo.
«S-Sei-
cosa?
Sei gay?». Oh, questa non se l'aspettava. «Sei
davvero gay o lo
stai dicendo solo per… per rifiutarmi con gentilezza? So che
non è
il momento migliore, ma-», fece una smorfia con le labbra.
«Davvero
gay», precisò, spostando un telo da uno dei frigo.
Non che le
avesse fatto bella impressione come persona, in effetti, ma non era
necessario che lo sapesse.
«E
cosa stai facendo?».
Lei
inserì una serie di numeri su un tastierino, aprendolo.
Frugò al
suo interno e ne prese una fiala, richiudendo il frigo e aprendo un
cassetto per cercare una siringa. «In questo modo non
sarò
disarmata. Sono entrati», annuì.
«Dobbiamo muoverci».
«Che
roba è?».
Lena
deglutì e diede una veloce occhiata alla siringa.
«Un… Un virus»,
asserì, scorgendo la sua aria contrariata. Sapeva che non
avrebbe
approvato e forse quello non lo aiutava a pensare bene dei Luthor, ma
era l'unica arma che aveva. Uscirono dal laboratorio e scrisse a
Indigo di aiutarla a rintracciare Kara. Le diede i dati d'accesso
come voleva, per non sentirglielo ripetere, e lei accettò,
rispondendo che era felice di risentirla poiché era
preoccupata. «So
quello che stai pensando, ma se non li abbiamo con noi, come pensi
che possiamo analizzarli per trovare una cura?».
James
fece una smorfia. «È questo che vuoi fare, ora?
Iniettarli a caso è
la tua idea di trovare una cura?».
«No,
è la mia idea di difesa».
Si
nascosero dietro una porta quando sentirono avvicinarsi voci che la
chiamavano. Erano in tre, le disse Indigo. Era un'area riservata e
non c'erano telecamere: Lena scosse la testa perché doveva
per forza
averli visti prima che entrassero in quel corridoio, quando ancora
non le aveva inviato i dati che voleva tanto disperatamente. Ma non
le interessava conoscere il suo gioco, in quel momento, voleva solo
che rintracciasse Kara per sapere se stesse bene. Il resto passava in
secondo piano. Erano due uomini e una donna, a giudicare dalle voci:
in due entravano in ogni porta e uno restava fuori per non lasciarla
fuggire. Lena guidò James all'interno di quel laboratorio e,
spostando una tenda, passarono a quello successivo. Lei conosceva la
Luthor Corp meglio di quelle persone. Forse potevano…
«Trovata»,
la donna del gruppo accese la luce e loro si ghiacciarono. Sentirono
i passi degli altri due dietro, erano in trappola: James
afferrò un
carrello e lo sbatté contro la donna, urlando a Lena di
scappare.
Lei passò avanti quando alla terrorista cadde la pistola ma
pensava
che il ragazzo fosse dietro di lei e, quando capì che non
era così,
in corridoio, tornò indietro: i due lo tenevano bloccato e
aspettavano il suo ritorno con una pistola puntata addosso a lui e
una verso la porta. Lena prese fiato, aveva paura ma, anche se lui le
diceva di andarsene, non poteva farlo: si abbassò verso la
donna che
si teneva un fianco indolenzito e tirò fuori la siringa,
mettendola
bene in vista. Deglutì, guardando i due con estrema
serietà.
«Lasciatelo
andare o glielo inietto».
James
stesso le gridò di non farlo: non sapeva di che virus si
trattasse,
ma era una follia. Forse era proprio la preoccupazione del ragazzo a
far cambiare le loro espressioni, dapprima divertite. «Non lo
farai.
Cos'è, acqua?», la donna rise, ma il volto
impallidito la tradiva.
«Prima
ti sentirai strana, avrai le vertigini, vorrai accasciarti a terra.
Poi sentirai lo stimolo del vomito ma non riuscirai a fare niente,
avvertirai un attacco di panico, le vene si ingrosseranno e il sangue
scorrerà più velocemente. Avrai la tachicardia e
non riuscirai ad
alzare gli occhi dal pavimento», disse Lena mentre tutti
ascoltavano
con attenzione. «Allora inizierai a vomitare davvero. Ma
tranquilla,
quella è una fase che non dura a lungo: ti verrà
di svenire. I tuoi
organi cederanno a breve e nel giro di poche ore sarai morta. Non
esiste cura», la sentì deglutire e Lena le
avvicinò l'ago al
collo. «A onor del vero, mi basterebbe iniettarti anche solo
dell'aria per ucciderti».
Lasciarono
andare James. Ebbero paura perché lei e il ragazzo avevano
paura.
Era stata una cosa automatica. Potevano fregarsene della compagna e
lasciarla al suo destino, ma era rischioso per loro stessi. Senza
contare che le preghiere della donna li avrebbero tormentati per
l'esistenza. Lui e Lena si allontanarono, lasciandoli indietro a
soccorrerla.
«Che
razza di virus è quello? Cosa fate in quel
laboratorio?».
«Questo?
Questa è acqua appena aromatizzata all'arancia»,
sibilò e lo vide
sgranare gli occhi, stupefatto. «Non mi hai visto prendere un
virus,
ho dovuto ingannarti. Non avrei sprecato le nostre risorse. Dobbiamo
sbrigarci».
Winn
aveva davvero bisogno di aiuto. Pensava che, siccome stava davanti a
un pc con connessione a internet, sarebbe stato facile inviare una
veloce segnalazione alla polizia, ma la donna che gli stava col fiato
sul collo non sembrava della stessa opinione, senza contare il
compagno: se ne stava posizionato davanti alla porta dell'ufficio e
ogni tanto li guardava: poteva captare la sua esasperazione anche
attraverso il passamontagna.
«Allora?
Ce la facciamo o no?», lei gli puntò addosso la
pistola e Winn
deglutì, riparandosi la testa.
«È
lento! N-Non sono io che lo faccio, okay? La chiavetta scarica da
sola i dati, non la mando avanti io», disse quasi in lamento,
osservando lo scaricamento che indicava ancora ventisette minuti.
«È
tanta roba».
«Cosa
hai detto?».
Lui
si riparò di nuovo la testa, appiattendosi contro la
scrivania.
«Po-Potrebbe dipendere dalla quantità dei dati, o
dal loro peso! Se
potessi fare qualcosa per velocizzare il processo, lo-lo farei, ma
non posso», tremò, «Non amo che mi si
puntino addosso le armi,
quindi… lo farei, se potessi, sì. Qu-Questo
computer non viene
acceso da più di un anno», ridacchiò in
preda all'ansia, «Non
vorrei doverlo riavviare… O
forse sì»,
sibilò a denti stretti, per sé. La donna
alzò gli occhi al cielo e
scambiò col compagno un'occhiata.
«Non
ci aveva detto che ci sarebbe voluto tutto questo tempo»,
starnazzò
lui, sbuffando.
«Il
Generale Zod», gridò lei, «Naturalmente
era lui che doveva dircelo! Ci annoiamo e basta».
«E
se non riusciremo a scappare, dopo?», l'uomo
abbandonò la sua
posizione rigida e Winn scorse con la coda dell'occhio lei che
spalancava le braccia in modo arrendevole.
Non
stavano guardando, era il momento: allungò la mano sinistra
e tenne
mantenuto un pulsante luminoso, riavviando il computer. Se lo
avessero scoperto, accidenti. Spalancò la bocca per
esternare il suo
disappunto e la donna si voltò subito, seguita dall'altro,
che entrò
nell'ufficio. In men che non non si dica entrambi gli puntarono
contro le loro pistole e lui si riparò la testa e
gridò
terrorizzato, dicendo che non era colpa sua.
«Questo
topo di fogna ci sta prendendo in giro», urlò lui.
Almeno
finché non udirono un rumore fuori ed entrambi andarono a
dare uno
sguardo, continuando a puntare le armi verso di lui sulla scrivania.
Poteva essere qualcuno dei loro salito a quel piano, ma non c'era
nessuno.
Winn
pregò che il computer si sbrigasse adesso, adesso che erano
distratti. Appena riapparve il desktop, una foto di Lionel con Lena
bambina, non perse tempo per avvertire la polizia, guardando loro
verso la porta di tanto in tanto. Luthor
Corp –
Uomini
armati
– ostaggi.
Inviò e attese con le mani che gli tremavano.
«Tu!
Ha riavviato? Cosa stai facendo?», lei gli corse incontro e
Winn
cercò di chiudere la schermata, ma era tardi.
«Cos…?». Strinse
la pistola e lo colpì in faccia, facendolo cadere dalla
sedia. «Il
nerd ha avvertito la polizia».
«Va
bene, ma sarà impegnata».
«E
se le cose non fossero andate secondo i piani?».
Si
guardarono, fermi, per poi decidere alla svelta che era meglio
pensare per sé. La donna riprese la chiavetta ed entrambi
corsero
fuori in corridoio. Non si aspettavano che James Olsen uscisse da un
angolo per saltargli addosso. I due persero le pistole e la chiavetta
nello scontro. Cercarono di divincolarsi e James riuscì a
strappare
il passamontagna dell'uomo, mentre Lena allontanava le pistole ed
entrava nell'ufficio per soccorrere Winn a terra. Ci fu un breve
scontro: la donna gli diede un pugno e l'uomo lo allontanò
da sé
con un calcio. Non che James fosse abituato a fare a botte e, anche
se ora era grande e grosso, era sempre stato Clark a difenderlo, ma
riuscì a colpire di rimando, buttarli a terra, almeno fino a
quando
lei non riuscì a tentoni ad allontanarsi il tanto per
recuperare la
pistola e a puntargliela addosso. L'uomo si riprese il passamontagna
e James deglutì. Aveva visto in faccia uno dei due: era
finita?
Lena
uscì dall'ufficio con una pistola e la puntò
verso i terroristi,
trattenendo il fiato. Era di suo padre. Sapeva che ne teneva una in
un cassetto e conosceva la chiave per aprirlo; il suo ufficio era
rimasto una sorta di museo da quando era venuto a mancare. Non aveva
mai stretto una pistola prima di quel momento. Li fissò e
loro
fissarono lei: era il loro obiettivo ed era davanti. Non sarebbe
riuscita a sparare a entrambi ma volevano rischiare? No. Lena li vide
abbassare le armi e allontanarsi piano, fino a girare il corridoio e
così andarsene.
James
deglutì. «Puoi metterla giù,
adesso».
Gli
occhi della ragazza erano vacui e lentamente riabbassò le
braccia,
allentando la presa. Forse era anche scarica, non lo sapeva, non
aveva pensato a controllare. Prese un bel respiro e Winn li
raggiunse, tenendosi un braccio che aveva sbattuto contro la
scrivania cadendo dalla sedia.
«Ne
arriveranno altri?», domandò, accorgendosi di
avere la bocca
impastata: perdeva sangue dai denti.
James
e Lena non risposero. Ancora a terra, il ragazzo adocchiò la
chiavetta e la nascose in tasca. Lei invece controllò il
cellulare,
potendo finalmente tirare un sospiro di sollievo.
Da
Anonimo a Me
Kara
Danvers è al campus e sta bene, l'ho vista dalle telecamere
esterne
in compagnia di un ragazzo.
Era
vero. Dopo aver legato e imbavagliato l'uomo che avevano catturato e
lasciato con Mike, Kara e Barry erano usciti di nuovo per cercare
almeno il complice certo che mancava all'appello. Si chiesero
perché
i due si fossero separati se non per coprire più posti,
così erano
entrati nel dormitorio di Mike. Kara era certa di trovarlo
lì. Forse
l'uomo di Rhea pensava di cercare il ragazzo e farsi bello ai suoi
occhi, avrebbe avuto un senso. Anche lì era in corso una
festa,
tutti erano ubriachi e allegri e non avevano la minima idea di
ciò
che stava succedendo intorno a loro. Salirono le scale, non c'era
nessuno, così si affacciarono al corridoio che portava alla
camera
del ragazzo.
«Hai
risentito Siobhan?», chiese Barry a un certo punto,
fermandosi. «Da
quanto non la cerchi?».
«Ehi,
abbiamo avuto da fare, ma sento che sta parlando, quindi sta bene.
Anche se non capisco con chi. Probabilmente non mi sente»,
sbuffò
annoiata. Perché tenere aperta una chiamata se poi non
parlavano tra
loro? «Non mi sembra in pericolo, adesso».
«Adesso
no, ma la CatCo sarà ancora piena di persone
armate», le fece
notare. «Si può sapere che ti prende?».
Si fermò e la vide
accigliarsi, guardandolo torva. «È da un po' che
volevo
chiedertelo! Sei strana e non l'ho notato solo io».
«Ti
riferisci a Lena? Oppure alle mie compagne di squadra che si
lamentano per aver vinto senza sforzi?».
«Senza
giocare,
Kara», la corresse, alzando le braccia e prendendo fiato,
lasciando
un mezzo sorriso incerto. «Hai fatto quasi tutto da
sola».
«Quasi,
no?», si portò le braccia a conserte e lui
restò senza fiato.
«Oookay…
Non è da te reagire così».
«Così
come?».
«Così…
così»,
la indicò. «Sei un'altra e noi siamo solo
preoccupati per te».
«E
allora fate una cosa: preoccupatevene in silenzio»,
sbottò, per poi
reggersi la testa e stringere i denti. Dovevano continuare, non
poteva venirle mal di testa adesso, non
poteva.
Avevano ripreso a camminare e mancava poco alla porta della camera di
Mike. Intravide Barry avvicinarsi per aiutarla e mise a fuoco dietro
di lui: in un attimo, tutti i suoi sensi tornarono operativi. La
porta si aprì e un grosso omone con un passamontagna a
coprirgli il
volto uscì. Forse doveva averli sentiti arrivare
poiché non si
sorprese affatto di vederli, e semplicemente alzò le braccia
che
imbracavano un fucile, puntandolo verso di loro. Spalancò
gli occhi
e afferrò il ragazzo per la felpa rossa. Si gettò
addosso alla
porta di una camera che aveva a sinistra e lo tirò con
sé. La
aprirono e si lanciarono a terra, sentendo sparare. Chiusero in
fretta, mentre lui la guardava a occhi spalancati, incredulo e col
fiatone.
«Cosa?
Come?».
«Era
lì, starà arrivando».
Si
alzarono velocemente dal pavimento ma sgranarono gli occhi entrambi
quando capirono che la camera era occupata: un ragazzo sopra e una
ragazza sotto si coprivano alla bell’e meglio con i propri
vestiti,
tirandosi indietro sul lettino. «Su… Supergirl?».
«Dovete
andare… in bagno!», esclamò Barry,
indicando la porta. «In
bagno, presto». La coppietta non se lo fece ripetere due
volte e,
mano nella mano, corsero a chiudersi dentro, terrorizzati. Poi si
voltò a Kara che, intanto, si era messa a guardarsi intorno
in cerca
di qualcosa. «Non proverà a sparare di nuovo,
anche se la musica di
sotto è alta, hanno usato un silenziatore per uccidere
l'agente del
D.A.O. e di certo non vorrà che scoppi il caos qui al
campus! Cosa…
cosa stai facendo?». La vide staccare la testa della scopa e
stringere il bastone come un'arma, poi voltarsi verso di lui con
sicurezza.
«Vado
a prenderlo».
«Ha…
Ha-Ha un fucile», per poco non trovò le parole,
«Abbiamo bisogno
di un piano».
«Sono
io il piano».
Per
fortuna Barry la tirò verso di sé per fermarla:
l'uomo sparò vari
colpi contro la porta e i due si abbassarono dietro il muro,
reggendosi le orecchie. Nonostante questo, riuscivano ancora a
sentire le grida della coppia dal bagno. Un altro colpo e, dopo un
pesante tonfo, il silenzio più assordante. Se non fosse
stato che a
tutti e due fischiavano le orecchie.
«Avrà
finito i colpi?», domandò Barry, cercando di
fermare Kara che si
rialzava stringendo il bastone.
La
porta cigolava. Il ragazzo afferrò il primo soprammobile
trovato e,
no,
troppo leggero, prese il secondo soprammobile trovato e insieme a lei
si avvicinò, spalancando la porta, pronti a colpire. Ma era
già
steso e il suo corpo giaceva su un lago di sangue che imbrattava la
moquette.
«Tutto
bene, signorina Kara?».
Si
voltarono pronti a colpire ancora ma i due uomini che andavano loro
incontro non sembravano minacciosi: maglioni e jeans, in mano ognuno
una pistola.
«Chi
dovreste rappresentare?», chiese lei, continuando a stringere
il
bastone della scopa.
«La
teniamo d'occhio per conto della signora Luthor-Danvers; lavoriamo
per i Luthor da anni».
«Lillian
vi ha mandato a seguirmi?», sbottò subito.
«Ma certo, non
bastavano gli agenti del D.A.O.».
«Siamo
stati molto discreti», commentò uno dei due,
scrollando le spalle.
«E
ci hanno appena salvato la vita», Barry fece spallucce.
Uno
dei due riprese subito parola: «Gli agenti del D.A.O. sono
feriti,
signorina Kara. Uno di loro è morto».
«Oh,
lo sappiamo», rispose con arroganza, «Arrivate
tardi. E comunque ne
abbiamo catturato uno, mentre voi vi giravate i pollici».
Proposero
parlando tra loro di portare via quegli uomini e di chiamare qualcuno
a pulire la scena del crimine che Barry li rimproverò
stizzito, ben
sapendo che in quel modo avrebbero compromesso le prove.
«Rischiate
di andare a processo anche voi», li avvertì, ma
non sembravano
dargli grande ascolto.
Intanto,
Kara cercò di ascoltare Siobhan ma non sentiva se non un
brusio.
Provò a chiamarla di continuo ma non rispose e
così guardò il
ragazzo, entrambi seri.
«Nulla?
Forse non può parlare», le passò una
mano su una spalla, «Non
pensare subito al peggio».
Lei
annuì. «Mai mi sarei aspettata che un giorno mi
sarei preoccupata
per Siobhan Smythe». Staccò la chiamata e
provò a farle una nuova
telefonata, magari sentendo la suoneria o la vibrazione… ma
niente.
Non accettava la chiamata. «Accidenti».
Barry
scosse la testa. «Siobhan, tu», sospirò,
«Qualcosa ci sfugge,
Kara. È strano che abbia mandato qualcuno a uccidere
entrambe nello
stesso momento, come se ci fosse uno schema».
«Oddio»,
soffiò, spalancando gli occhi. Barry la dovette afferrare
poiché
per un attimo ebbe un giramento di testa tanto forte che si
lasciò
cadere all'indietro. «Mollami, io sto bene», gli
scansò una mano.
«È Lena! Alex. E Leslie. Siamo tutte
bersagli», iniziò a correre
e gli uomini le stettero dietro, guardando lei e il cadavere sulla
moquette. «Come ho fatto a non pensarci, come ho fatto?! Devo
andare
da Lena! Devo andarci adesso! Oddio, Alex…».
«Kara,
Alex ha una pistola», le ricordò Barry,
«Ma Siobhan?».
La
pillola stava perdendo il suo effetto. Sentì le emozioni
invaderle
il corpo e la mente come un treno in piena corsa. Doveva prenderne
un'altra. E presto. Non poteva lasciarsi avvolgere da ciò
che
provava proprio ora; dalla sensazione del vuoto per non avere Lena
accanto, dalla rabbia, dalla delusione e dalla sconfitta. Le faceva
male il petto e faticava a respirare. Il suo corpo era come una
statua di creta, lo sentiva, sensibile e fragile al tocco. Spaccato.
Quelle pillole duravano sempre meno, non erano abbastanza efficaci,
doveva tornare da Lord appena possibile. Rientrarono al suo
dormitorio di corsa. I due uomini che lavoravano per Lillian si
stupirono di trovare Mike, ma in quel momento a Kara non importava.
Presero sotto custodia l'uomo imbavagliato e il ragazzo, che fino a
quel momento aveva fatto da guardia, andando con loro perché
lo
portassero al sicuro. La ragazza restò indietro,
aprì l'armadio e
tirò fuori il barattolino di vetro. Doveva prenderne
un'altra subito
perché doveva pensare a Lena senza lasciarsi travolgere da
ciò che
sentiva e la faceva distrarre, non c'era tempo. Barry si
fermò per
raccogliere il passamontagna dell'uomo e lei, confusa da ciò
che
provava e presa dalle emozioni, non lo vide vicino alla porta: la
scorse mettersi quella pillola in bocca e deglutire con un po'
d'acqua.
Non
le disse niente e, pensieroso, raggiunsero entrambi gli uomini che
caricavano l'assassino su un furgoncino nero. Poi tornarono indietro
per il cadavere, anche se Barry era contrariato. Molti ragazzi del
campus li videro passare e iniziarono a bisbigliare e chiedere cosa
fosse successo mentre festeggiavano. Guardarono con occhi sgranati
che Mike Gand era lì ed era vivo, e che un uomo steso da una
parte
del veicolo non lo era. Barry lo coprì con un telo,
sussurrando
buone parole per lui.
«Devo
andare, non posso stare qui».
Mike
corrucciò lo sguardo ma Barry rispose per lui, scendendo dal
furgone. «Non adesso, non puoi», le
consigliò, guardandola a
sottecchi. «Kara, loro ti starebbero dietro».
«Sto
solo perdendo tempo», ringhiò.
«Ragiona:
se vai ora, non te li toglierai dalle costole. So come
seminarli».
Tornarono
trasportando l'uomo che avevano ucciso in corridoio, facendo gridare
di paura qualche altro studente, seminando il panico. Dovevano
portare i feriti in ospedale e salirono tutti sul furgone, lasciando
gli studenti e il personale del campus appena arrivato a chiamare la
polizia. Solo pochi metri, non potevano correre di fronte
all'università, e lei e Barry aprirono le porte, saltando
giù.
Sbigottito come gli agenti feriti vicini, Mike li guardò
mentre a
poco si allontanavano, incerto se scendere anche lui. Guardò
gli
agenti e di nuovo la strada; si buttò quando era quasi
troppo tardi.
Uno dei feriti meno gravi chiuse le porte, sussurrando loro buona
fortuna,
fondendosi col buio.
«Devo
andare da Lena», decise Kara, mettendosi a camminare
velocemente.
«Non
sai neanche dove si trova», sbottò Mike, standole
dietro.
«Alla
Luthor Corp, me lo ha detto Winn quando mi ha chiesto della
partita».
Lui
strinse i pugni, lanciando solo un'occhiata a Barry, che non sembrava
volerle replicare. «Mi hai fatto scendere dal furgone per
questo? Li
hai visti quelli, no? Alla Luthor Corp ce ne saranno altri,
perché
ti preoccupi? È ben protetta, siamo noi quelli
scoperti».
Successe
in un attimo: Kara si fermò e lo spinse, facendogli mettere
male un
piede sul marciapiede e cadere. Lo guardò dall'alto al
basso, dura.
«Prima di tutto, io non ti ho chiesto proprio niente! Non
è un tuo
impellente bisogno elementare quello di seguirmi in qualsiasi cosa
faccio. E secondo, se mi sei venuto dietro solo per assillarmi,
allora vai verso l'ospedale e raggiungili. Non ho bisogno di
te».
«Kara,
fermati», Barry le strinse un braccio e la fece retrocedere.
Mike
rimase immobile e senza parole poiché la ragazza mai aveva
reagito
in quel modo prima di allora. Sì, avevano litigato a ora di
pranzo,
ma niente aveva a che vedere con quello. Si rialzò
lentamente e,
sconcertato, si girò, togliendo la polvere dai pantaloni.
«Allora
me ne vado».
«Finalmente»,
sussurrò lei, «Lo hai capito». Si
voltò e riprese a camminare,
seguita da un Barry molto confuso. Mike restò indietro, ma
infine li
seguì. «Devi trovare Alex», disse lei
all'amico, ignorando il
ragazzo a due passi da loro. «Se sta bene… Certo
che sta bene»,
si corresse, «Devi dirle di Siobhan. Dovete andare da
Siobhan. Non
posso andare da lei io, non farei in tempo».
«Non
devi, siamo in due», annuì. «Vado
direttamente alla CatCo e
intanto cerco tua sorella».
Kara
gli salvò il numero sul telefono e tentò di nuovo
di chiamare
Siobhan, ma non rispondeva. «Ci proverò fino alla
Luthor Corp, una
volta lì dovrò lasciarla».
«Quando
sarai arrivata, io sarò già alla
CatCo». Indossò il passamontagna
e sorrise.
Si
scambiarono un gesto d'intesa e Kara si voltò di nuovo
indietro,
guardando Mike, che aveva assunto un'espressione arrabbiata.
«Vuoi
dare una mano senza fare il bambino viziato?». Non
aspettò di
sentirlo rispondere: «Trova Leslie Willis».
«Facile.
Sarà alla CatCo-».
«È
stata sospesa con me, dovrai cercare il suo indirizzo».
Lui
strinse le labbra e mosse la testa, ma infine annuì.
«Sarà fatto!
Ti dimostrerò che ti puoi fidare, che posso essere come
te».
«Non
devi essere come me, coso.
Ti sfugge proprio il principio», disse Kara. Lei e Barry si
scambiarono un'occhiata d'intesa prima di dividersi, mettendosi a
correre. La ragazza trovò un taxi, ma alcune strade erano
state
bloccate per una sparatoria avvenuta in centro e dovette rimettersi a
correre. Cosa stava succedendo a National City? Provò a
chiamare
Eliza ma non rispondeva, accidenti. Non anche lei. Fortunatamente,
Barry era veloce e si sentiva ancora carico perché, al
contrario,
lui non aveva trovato nemmeno un taxi e dovette farsi tutta la strada
di corsa. Temette potesse essere successo qualcosa di brutto a
Siobhan poiché quella ragazza amava parlare, straparlare, e
lamentarsi.
La
verità, era che Siobhan Smythe si trovava ancora all'interno
della
saletta per le interviste insieme al suo collega. Al buio, si erano
messi a parlare a bassa voce perché non sapevano cos'altro
fare,
anche se la loro pancia aveva iniziato a brontolare dalla fame.
Avevano parlato di sport, di alcuni programmi in tv, delle elezioni e
di Rhea Gand, delle aspettative per il futuro, se a quel punto ce ne
fosse stato uno. Dove si vedeva tra qualche anno? Magari Cat Grant le
avrebbe affidato una rubrica tutta sua. Sarebbe stato bello. Una
bella promozione, perché no. Una famiglia… oh,
no, al contrario di
Mcbrown, non ci si vedeva proprio ad abitare nella classica casetta
con la staccionata bianca a cucinare biscotti mentre i suoi figli
giocavano fuori col cane. Era un'idea di vita che non le aveva mai
fatto gola. Anche se ora, in quel momento, ogni idea di vita le
faceva gola se fosse riuscita a uscire viva da quella serata. Siobhan
si era persa nel spiegare al collega come fosse stata quella donna,
Rhea Gand, a inviare quelle persone apposta per ucciderla, ma lui non
ci credeva. Gli raccontò della sua ossessione per Kara
Danvers e
cosa l'aveva obbligata a fare per lei, di come l'avesse minacciata
con la pistola proprio nei parcheggi della CatCo. Di come fosse
matta, matta da legare.
«E
tu pensi che lei abbia fatto tutto questo… per
te?», strabuzzò
gli occhi e Siobhan annuì.
«Mi
vuole morta, credimi. Non le sto di certo simpatica»,
alzò gli
occhi al soffitto e lui prese il cellulare: Siobhan vide la luce
dello schermo appena, da quanto era bassa. «È
scarico, vero?»,
domandò.
«Sì»,
scrisse qualcosa e lo rimise via. «Sta morendo, non posso
neppure
chiamare i soccorsi».
«Come
se non ci abbia già pensato io appena li ho visti arrivare,
geniaccio. O starei qui a parlare con te se avessi altra
scelta?»,
sbottò acida. «Non risponde nessuno».
Stava per riprendere il
cellulare che sentirono dei passi e videro un'ombra fermarsi davanti
al vetro della porta. I due restarono fermi e in silenzio, con la
paura negli occhi. Ma la porta si aprì. Siobhan strinse il
cellulare
pensando a Kara, ma non poteva farsi sentire supplicando aiuto,
così
allungò la mano per riprendere lo spray al peperoncino: era
la sua
unica difesa. La luce si accese e i due scattarono in piedi,
terrorizzati.
«Ma
guarda chi abbiamo qui! Mi era sembrato di sentire delle
voci»,
esclamò; era un uomo. Entrò al centro della
saletta e i due si
sporsero ai lati, guardandosi.
«Ti
prego, non sparare», disse subito lui, «Ho una
fidanzata a casa,
stiamo provando ad avere un bambino».
«Non
sparare, non sparare», pregò anche lei.
«P-Potrei, beh, anche io
un giorno potrei volere dei figli. Un giorno, lontano. Forse. A tutti
è concesso cambiare idea. Non per questo valgo meno di
Mcbrown».
Il
terrorista guardò lei, guardò lui, di nuovo lei e
alzò la pistola,
ma era a lui che sparò. Di fretta. Siobhan urlò e
anche Mcbrown, la
cui la camicia bianca si riempì di sangue.
«Brutto
idiota di un omega», urlò in preda al dolore,
«Ti avevo detto il
braccio, mi avrai sfiorato due costole». Si resse la ferita
sanguinante mentre Siobhan guardava lui e l'altro, sgomenta. A
tentoni per via della perdita che gli faceva provare le vertigini,
Mcbrown si avvicinò al terrorista che gli passò
la pistola.
Siobhan
sgranò gli occhi, impallidita, quando capì cosa
stava succedendo.
«Sei uno di loro… Sei uno di loro»,
mormorò. «Mi fidavo di te,
brutto stronzo! Mi sono confidata con te».
Controllò il cellulare
ma vide che la chiamata era staccata. Lo lasciò scivolare
dalle
dita, mente gli occhi le si riempivano di lacrime.
«Sono
venuto a cercarti… questo facevo in ascensore. Credo di non
aver
mai parlato con te… così tanto a
lungo… come oggi», disse a
denti stretti, sofferente. «Sei superficiale, non hai
niente… di
speciale, non… mancherai a nessuno. Hai ragione,
Smythe… la
signora Gand ti vuole morta», le puntò contro la
pistola. «E non
stai… simpatica a nessuno».
Ecco.
Era la fine, lo sapeva, se lo sentiva nelle ossa. Sarebbe morta quel
giorno, in quella circostanza, e puzzava di pipì. Ma Gand
non
avrebbe avuto il suo cadavere senza sudare: alzò il braccio
destro
e, iniziando a urlare, schiacciò lo spray al peperoncino
tanto forte
e tanto a lungo come non aveva mai fatto, facendo tossire e gridare
entrambi. Mcbrown non vedeva più niente e gli bruciavano gli
occhi,
per poco non respirava, ma sparò due colpi e Siobhan corse
verso la
porta aperta, rischiando di cadere, ciondolando, con la sua unica
arma ancora in mano. L'aveva colpita, se ne rese conto quasi subito.
Si sentiva bollente e bagnata, ma aveva solo voglia di correre. Di
correre lontano da lì. Udì Mcbrown ordinare
all'altro di trovarla.
Doveva correre lontano, anche se faticava a vedere dove metteva i
piedi. Era la fine. Girò un angolo e corse. Era la fine. E
puzzava
di pipì.
Barry
si era fatto strada attraverso una porta di servizio lasciata
incustodita e, quando sentì il rumore di spari,
cercò di seguirli.
Era stata una fortuna perché non le reggevano più
le gambe.
«Siobhan?», corse più veloce che
poté e la soccorse. «Sei
ferita?», gridò lui, col fiatone. Le mani gli si
riempirono di
sangue e trattenne il fiato per un attimo, guardandosi dopo intorno,
cercando di tirarla su di sé per nascondersi insieme: chi
l'aveva
ridotta in quello stato non poteva essere lontano. La
afferrò e,
come ridestata all'improvviso, lei lo guardò: indossava il
passamontagna.
Con
forza, Siobhan provò a gridare ma, anche se non le
riuscì, alzò di
nuovo lo spray e lo colpì a quelli che immaginava fossero
gli occhi.
Era debole, lo spruzzo gli urticò la vista e lo
sentì imprecare, e
tossire, ma non la lasciò andare. Doveva scappare, doveva
scappare.
Oh, non ci sarebbe riuscita. Capì tardi di non avere
più forze. Era
davvero la fine, dopotutto. Stava morendo, se lo sentiva nelle ossa.
Si
accasciò a terra e il ragazzo, togliendosi il passamontagna,
la
caricò su di sé e la trascinò dietro
una porta. Una volta lì
chiamò di nuovo il nove
uno uno,
sperando fossero reperibili, questa volta: Siobhan perdeva molto
sangue, non aveva tempo.
Rhea
era davvero su tutte le furie: la sua operazione non era andata a
buon fine come sperava, lo vide attraverso il tablet dalle telecamere
rotte e dalle prime notizie online, perché il silenzio a
National
City, che doveva essere il primo obiettivo da raggiungere, era stato
rotto. La Lord Technologies liberata dal D.A.O., la CatCo dalla
polizia e l'FBI che erano tornati operativi, circondando anche la
Luthor Corp dopo una chiamata anonima proveniente dall'interno,
Lillian Luthor era ancora viva e la squadra era stata fermata dai
suoi uomini, Leslie Willis sparita. Mentre molti dei suoi omega e
aspiranti tali erano stati arrestati e fermati, solo in pochi erano
riusciti a scappare. E chissà dov'erano. Erano tutti una
grande
minaccia per lei, adesso. Chiese al bodyguard di stringerle un
braccio per creare un livido e si sbavò di nuovo il
rossetto, poiché
quella era l'unica via d'uscita che poteva tentare.
Quando
Kara arrivò alla Luthor Corp, c'erano più volanti
della polizia e
tre ambulanze. Vide i soccorritori portare fuori dal palazzo due
barelle coperte da un telo nero e gridò, colpì un
poliziotto che la
bloccava e, proprio quando si misero in gruppo per trattenerla,
Charlie Kweskill ordinò di farla passare.
«Tranquilla,
non-», lui non riuscì a parlare che lo
ignorò, correndo da James,
seduto su uno dei veicoli dell'ambulanza.
«Dio
mio, Kara, stai bene?».
«Dov'è
Lena?», domandò subito, col cuore in gola. Sentiva
la tachicardia.
L'effetto della pillola era già svanito? Perché
duravano sempre
meno? «C-Certo, e tu? Tu come stai? Perché eri
qui? Non sapevo ci
fossi».
«Sta
bene, Kara», le sorrise, annuendo. «Mi ha salvato
la vita ben due
volte. È-È dentro».
Kara
corse subito, salendo le scale dell'ingresso. Ritrovò
Jeffrey il
portinaio e lo abbracciò: era ferito a un braccio e glielo
avevano
fasciato. Anche Winn aveva un braccio fasciato e un grosso cerotto
sul viso.
«Devi
vedere l'altro. L'altra,
veramente», sghignazzò, per poi tornare serio e
abbracciarla di
scatto con il braccio sano. «Sono contento che stai
bene».
«Anche
io di vedere te, Winn», si sforzò per sorridere.
«Devi aver
conciato l'altra per le feste».
«Sì»,
rise. «Peccato che sia scappata, o…».
«Ne
sono sicura».
Poi
incrociò Maggie, abbracciando anche lei. «Alex
è con il D.A.O., è
tornata alla base per l'arresto di alcuni uomini, ma verrà a
trovarvi. Sta bene ed è riuscita anche a mettersi in
contatto con
John, lui e Megan stanno tornando». Kara vide che le
mancò il
fiato, a un certo punto. «Kara, non sapevamo che sareste
state dei
bersagli; pensavamo volesse mettere a soqquadro la città per
andare
al potere, ma-».
«Non
è colpa vostra, lo so! L'importante è che stiamo
tutti bene; devo
andare da Lena, adesso».
Maggie
abbassò gli occhi solo un momento, per poi sorridere,
incurvando la
testa. «Certo, tutti bene. Sì. Vai, le abbiamo
lasciato del tempo
nel suo ufficio».
La
macchina con a bordo Lillian ed Eliza aveva deragliato, a un certo
punto. Si erano spaventate, ma non avevano riportato alcun danno e
gli uomini che lavoravano per i Luthor avevano consegnato i
terroristi agli agenti di polizia intervenuti sul posto. Lillian
aveva poi ordinato a Ferdinand di rimettere in moto e lei ed Eliza si
erano rimesse sulla strada per raggiungere il ristorante
dell'incontro, prima che le fermassero per aspettare l'ambulanza. Se
non altro, Eliza era riuscita a parlare con Alex al cellulare che
l'aveva rassicurata su come tutte loro stessero bene; almeno aveva
potuto tirare un sospiro di sollievo.
«Che
cosa vuoi fare, Lillian? Non sarà così
sprovveduta da farsi
trovare». Era preoccupata, come non esserlo. Sapevano che lo
stesso
ristorante era stato assediato, per via del sindaco che si trovava
lì.
«Non
la conosci bene quanto la conosco io, mia cara. Si fingerà
una
vittima come tutti noi».
Quando
arrivarono lì e videro le persone vestite di nero che
venivano
arrestate, raggiunsero il piazzale con i tavoli e scorsero Rhea,
proprio come aveva detto Lillian, che cercava di farsi passare per
vittima: raccontava di come due uomini avessero cercato di aggredirla
e come la sua guardia del corpo aveva dovuto sparare per farli
fuggire. L'agente dell'FBI raccolse la sua testimonianza e la
lasciò,
andando verso il sindaco che era terrorizzato, continuando a scolarsi
pieni bicchieri d'acqua accasciato su un tavolino. Anche altri
invitati erano sotto shock. Lillian alzò il palmo destro ed
Eliza
vide Ferdinand passarle una pistola.
«No,
fermati», si era messa in mezzo, coprendola, prima che
qualcuno
potesse vederle in quell'angolo. «Non stai facendo sul serio,
non
puoi volerlo
fare sul serio, Lillian».
«Ti
prego, devi lasciarmelo fare. Devo chiudere questa faccenda una volta
per tutte», strinse le labbra secche. «Era una cosa
che avrei
dovuto fare molto tempo fa, è una mia
responsabilità», socchiuse
gli occhi, diventando lucidi. «Lionel lo sapeva, per questo
aveva
cercato di fermarla undici anni e mezzo fa e per questo aveva cercato
di raccogliere prove sull'organizzazione, perché tutto
finisse.
Com'era iniziato, doveva finire. E lo hanno ucciso».
Eliza
le strinse i polsi e la guardò negli occhi, cercando di
mantenere la
calma. «E la tua seconda possibilità? Se premi
quel grilletto,
finirai in prigione. Non avremo più un futuro
insieme».
«E
vorresti ancora averlo con me, questo futuro?».
«Certo»,
disse, tremando. «Ti ho sposata, Lillian Luthor».
«Forse
però è questo che mi merito. È
così che dovevano andare le cose»,
annuì brevemente. «Non sai cosa ho fatto in
passato. Che tipo di
persona fossi».
«So
esattamente che tipo di persona fossi», le
accarezzò i polsi. «E
avremo modo di parlarne con tranquillità se è
quello che vuoi ma,
Lillian, non sei più quella persona e non puoi lasciare che
quella
donna malvagia vinca». Si voltò ed entrambe la
guardarono mentre
fingeva di piangere, singhiozzando, consolata da altri invitati.
«Lei
vuole distruggerti e, se le spari, è come se avesse vinto. E
questo
lo sai», riguardò lei e la pistola.
«Mettila via. Per favore».
Lillian
prese un bel respiro, alzò il mento e abbassò le
braccia. Fu allora
che Rhea la vide e, impaurita, sgranò gli occhi arrossati.
Capì che
era armata. Ma non ebbe il tempo di urlare:
«Rhea
Gand», una voce conosciuta si sollevò lungo il
piazzale e, mentre
tutti si voltavano, alla donna mancò il fiato: Dru Zod era
lì e le
andava incontro, mentre un'agente dell'FBI si avvicinava con le
manette e altri la circondavano. «Ti dichiaro in arresto per
cospirazione, terrorismo, omicidio plurimo e tentato
omicidio»,
prese una pausa, «Tra cui il mio».
Tentò
di divincolarsi e dichiararsi innocente ma si ghiacciò
quando il suo
bodyguard le fece vedere un cellulare, andandolo a consegnare a Zod.
L'aveva registrata? Lavorava per lui? L'aveva tradita? «Non
puoi
farmi questo, Dru! Non puoi», gridò. Sapeva che,
con quelle
registrazioni dove elencava il suo piano e le persone da colpire, era
fregata in qualunque caso e che ogni sua parola contro di lui o
l'organizzazione, a quel punto, sarebbe stata giudicata non
affidabile. Avevano le loro prove e gli aveva consegnato la sua
pistola, non voleva crederci. Non avrebbe più potuto neppure
trascinarlo con sé. Tutti la stavano guardando, tutto il suo
mondo
perfetto le stava crollando da sotto i piedi. «Fallo per
Petra! Non
puoi farmi arrestare, fallo per la sua memoria». L'agente che
le
mise le manette iniziò a leggerle i diritti mentre la
scortavano e
Rhea scalciò come indemoniata. «Avvocato? Ci puoi
scommettere che
avrete tutti notizie dai miei avvocati! Ve li ritroverete anche sotto
la doccia».
Ferdinand
ripose la pistola dietro la giacca e le due donne si allontanarono
con lui, venendo fermate dai paramedici. Rhea ancora urlava e la
videro l'ultima volta venendo trascinata all'interno di una volante.
Eliza si premurò di fissarla, si scambiarono un'occhiata,
poi
chiusero la portiera.
Kara
scosse la testa, appoggiandosi al muro dell'ascensore. Le girava di
nuovo tutto e aveva la tachicardia alta. Guardò
il cellulare: aveva chiamate perse da Lena, da Eliza e una da Megan,
tre da parte di Clark e ben sette da Mike, mentre Barry non si era
fatto sentire.
Sperava che fossero con Siobhan e
Leslie, adesso; avrebbe richiamato suo cugino più tardi,
invece. Le
porte dell'ascensore si aprirono e deglutì, uscendo pian
piano,
camminando per il corridoio. Non sentiva nulla. Non sapeva neppure
cosa le avrebbe detto o cosa avrebbe fatto. Si affacciò
all'ufficio
e vide che tutto era stato rovesciato, che i libri erano sparsi sul
pavimento e che Lena era lì che li raccoglieva, fregandosi
gli occhi
e mettendo giù il suo cellulare. Oh, risentiva tutto: i suoi
sentimenti verso di lei tornavano a galla come sparati dalla
pressione e non poteva fare nulla per fermarli. Quella stupida
pillola aveva fallito, ma ora… chi se ne importava. Non
voleva
fermarli. Voleva sentire tutto, voleva provare quella
felicità nel
rivederla sana e salva salirle lungo il petto ed esplodere, voleva
provare quella frenesia che la spingeva verso di lei.
La
vide alzarsi e notarla. Guardarla a lungo, come se il tempo si fosse
fermato; i libri raccolti scivolarono dalle sue braccia. Ora voleva
provare tutto, voleva sentirla. Kara trattenne il respiro e corse
all'interno dell'ufficio nell'esatto momento in cui anche Lena
scattò
verso di lei. Si ritrovarono e si abbracciarono, sorridendo, con
occhi lucidi. Si strinsero tanto a lungo da sentire ognuna il cuore
dell'altra che batteva e riconoscerlo familiare. C'era un insieme,
da qualche parte. Kara le portò le mani sulle guance fresche
e si
avvicinarono, appoggiando ognuna le labbra sull'altra, lasciandosi
per riprendere fiato e accogliersi di nuovo, più a fondo,
sentendosi
di nuovo loro.
Di nuovo loro due e loro due soltanto.
«No»,
sussurrò Kara, le labbra sulle sue, gli occhi semichiusi.
Era stata
così stupida, così stupida…
«Shh»,
scosse un poco la testa, «Lascia stare, non dire
niente».
«Devi
saperlo: no», la guardò negli occhi verdi grandi e
pieni,
specchiandosi: ritrovò lì la conferma delle sue
parole. «Non mi
sono innamorata di te per pena. Ho detto una cosa stupida. Stupida!
E-E ti ho ferito. Ero così… preoccupata che ti
fosse successo
qualcosa».
Lena
sorrise e arrossì vistosamente, abbassando gli occhi solo un
momento. «Sono felice di sapere che sei tornata in
te».
Anche
Kara rise e si lasciarono andare a un altro bacio, stringendosi.
«T-Ti hanno ferita? Perché-».
«No,
no, non piangevo per-», scosse la testa, «Parlavo
con Indigo».
«Parlavi?
Cioè, ti ha telefonata o…?».
«No,
un messaggio. Non voglio parlarne, adesso. Sono solo felice di sapere
che stai bene».
«Mi
conosci, sono fatta d'acciaio».
Kara
la strinse forte e Lena ricambiò, sentendosi finalmente al
sicuro
tra le sue braccia. Stavano bene lì, in quel momento, ad
ascoltare i
loro reciproci respiri e l'odore dei capelli. Non esisteva
nient'altro di più bello, al mondo. Avrebbero avuto tempo
per
perdonarsi, per sentirsi in colpa, o per parlare di ciò che
era
successo. Ora volevano solo sentirsi e, riguardandosi, baciarsi.
Maggie
Sawyer le scorse dietro la porta e tornò indietro, sbricio
un'altra
volta veloce per essere sicura e camminò a passi felpati in
corridoio per non farsi sentire. Scrisse rapidamente un messaggio,
rientrando in ascensore.
Tua
sorella e Lena sono insieme, le dirò dopo di Siobhan Smythe.
Tienimi
aggiornata!
Ops!
Siobhan?! Sappiamo che
è stata sparata, ma le sue
condizioni?
Il
problema vero è che dovremo aspettare per saperlo,
perché il
prossimo capitolo è uno stand alone e ci porterà
a capire di più
su un personaggio in particolare ;)
Il
punto della situazione:
Maxwell
Lord è salvo grazie ad Alex e una squadra del D.A.O..
Selina
Kyle ha frugato alla Lord Tech e pare che sia l'unica ad aver
guadagnato da questa situazione.
La
squadra di omega dell'organizzazione e di Larry, il poliziotto che
stravede per Leslie, hanno acciuffato i terroristi scappati dalle
zone liberate.
Lena
e James se la sono cavata e sono riusciti a superare la
difficoltà,
anche aiutando Winn e facendo scappare i terroristi che lo
minacciavano. Una di voi aveva visto giusto: James si è preso una
sbandata per Lena ma… mi sa che qui, a dispetto della serie,
non ha
avuto fortuna XD Intanto Indigo ha finalmente avuto i dettagli
d'accesso che tanto disperatamente voleva da Lena, eppure, come
quest'ultima nota, sapeva cose che avrebbe potuto sapere solo se
avesse avuto accesso alle telecamere già prima che le
inviasse i
dati d'accesso. Piuttosto strano. Senza dimenticare che Lena piangeva
prima dell'arrivo di Kara alla Luthor Corp, e piangeva proprio dopo
aver parlato con Indigo, come dice. Cosa sarà successo?
Proprio
Kara è stata attaccata mentre lei e Barry cercavano il
terrorista
mancante, peccato che sia stato poi più lui a trovare loro
XD
Mike
ora non ha più bisogno di nascondersi e Rhea, dopo aver
sudato
freddo nell'aver capito che Lillian era lì per ucciderla,
è stata
arrestata da Zod, ancora vivo e vegeto.
E,
oh sì, pare proprio che sia successo: Lena e Kara si sono
ritrovate,
si sono abbracciate e si sono baciate. Questo non significa che tra
loro sia tutto sistemato, solo che si amano e che certe situazioni
“scavalcano” di fatto tutto ciò che le
impediva di stare insieme
per farle ritrovare laddove si sono sentite terrorizzate all'idea di
perdersi davvero. Però è un grande passo avanti,
non c'è che dire.
Eppure, sapete, esiste un'altra versione di questo finale! Ne avevo
scritto un altro che sarebbe stato comunque un punto di svolta, ma
dal sapore tutt'altro che allegro! Lo volete leggere? Lo trovate a
questo link!!
Note?
Neanche stavolta ho qualcosa da dire, se non che, magari, mi
venivano in mente altri capi d'accusa per Rhea Gand, ma che quelli
elencanti sono l'essenziale (sperando di non aver sbagliato la
procedura perché, okay che è una fan fiction, ma
mi piacerebbe
tenere in considerazione la realtà).
Anche
in questo capitolo ci sono due piccoli indizi su qualcosa, anzi
qualcuno,
uno dei quali è praticamente lo stesso dello scorso
capitolo, uno
dei tre, il terzo. Ma come lì, è un indizio
difficile,
comprensibile magari più avanti, per chi lo può
ricordare.
Sarà
una cosa che vi farò presente quando potrò :P
Come
vi avevo anticipato, il prossimo capitolo sarà uno stand
alone, si
intitola Il
violino
e sarà pubblicato qui martedì 30 aprile :)
Intanto, buona Pasqua!
|
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Capitolo 47 *** 46. Il violino ***
Quella
dolce melodia la sentiva spesso anche quando non ricordava di farlo,
nei sogni. Il suono di quel violino le era entrato nel corpo un
giorno di tanti anni fa e non se n'era più andato, anche se
era uno
sconosciuto,
per lei. Era leggero, delicato. Scorreva nelle vene come il suo
sangue, incollato a se stessa, non se ne sarebbe mai liberata anche
se non lo capiva, non lo aveva mai capito, perché lei, di
musica,
non ne aveva mai compreso granché. I numeri binari erano il
suo
mondo; quelle sequenze
di zero
e uno
che le parlavano, che erano semplici, che poteva usare. Erano quasi
una parte di lei, come quella musica.
Ah,
finalmente aveva capito perché la sentiva: stava sognando,
infatti.
Cos'era successo? Non passava aria. Aveva provato paura, un
sentimento che pensava di essere quanto più distante da lei.
Come
qualsiasi sentimento. Era stata trattenuta con la forza, il peso di
quel corpo troppo possente su di lei, le aveva messo un panno contro
la bocca. Aveva respirato qualcosa, un odore mai provato, e
poi…
Quell'uomo l'aveva drogata? La musica. No, doveva dire basta, doveva
svegliarsi.
E
lo aveva fatto molto lentamente iniziando col
muovere le ciglia, sentendo le palpebre pesanti. La stessa testa era
pesante, girava tutto. Poi aveva mosso il naso, le mani,
così aveva
aperto gli occhi e spalancato la bocca per prendere aria. La prima
cosa che aveva visto era il soffitto bianco, le pareti bianche e,
abbassando lo sguardo, le piastrelle bianche. Si era accorta di
essere sdraiata sopra un materasso dismesso e protetta da una grossa
coperta di lana con su disegnate delle fragole, accanto a un tavolino
di legno, anche quello verniciato di bianco. E un armadio, dall'altra
parte; vecchio, anche quello mal verniciato di bianco. Non c'era
altro in quella stanza e perfino la porta chiusa era completamente
bianca. Passava la luce del giorno attraverso un'alta e stretta
finestrella e, la prima cosa che le era venuta in mente, era che non
ci sarebbe mai passata attraverso se avesse dovuto scappare. Non
sapeva dove si trovava. Si era messa seduta e tenuta la testa con
stanchezza, passando la treccia bionda dietro una spalla. I suoi
occhi azzurri, poi, avevano fissato le ciabatte pelose ai piedi.
Ricordava che quando era stata rapita in motel era scalza, se non
altro avevano pensato alla sua salute infilandogliele. Si era
riguardata intorno e aveva sbuffato. Era di nuovo una prigioniera?
Non poteva crederci, il suo angelo custode l'aveva rinchiusa? Le
aveva promesso la libertà in cambio di un lavoro,
perché farle
questo? Almeno era viva, aveva pensato. Questo significava che
sentiva di aver davvero bisogno di lei. «Diamine, lo sapete
che non
sono Magneto, vero? Almeno una tv». Forse c'era una
telecamera, da
qualche parte. Si era alzata in piedi e aveva faticato, a primo
impatto, a tenersi in equilibrio. Riprendendo possesso del suo corpo,
allora aveva avanzato verso la porta. Ovviamente sarebbe stata chiusa
ma perché non provare? Girando la maniglia, si era
incredibilmente
aperta senza sforzo e Indigo si era voltata indietro con sconcerto,
poi era uscita. «Va bene, sono quindi chiusa in
un…», soffiò,
capendo di trovarsi all'interno di uno scantinato: c'era la vernice
bianca in barattoli sopra un telo di plastica piegato, un altro
tavolo bianco e, intorno, vecchi mobili impolverati, ceste di
giocattoli, perfino una carrozzella per disabili, in un angolo. Aveva
seguito la scala che portava al piano superiore, scoprendo che la
porta, lì, era addirittura solo socchiusa. L'aveva fatta
rapire
perché aveva smesso di fidarsi di lei e ora l'avrebbe
semplicemente
lasciata andare? No, non ci credeva. Era fuori discussione, doveva
esserci sotto qualcosa.
Aveva
appena spalancato la porta che la dolce voce di una donna l'aveva
colta di sorpresa: «Oh, eccoti qui».
Indigo
aveva lasciato il corridoio e si era affacciata alla sala da pranzo,
dove una famiglia si stava apprestando a fare colazione: la donna le
aveva sorriso e mostrato una sedia vuota con un gesto, c'erano due
bambini che mangiavano pancake in silenzio e un uomo ai fornelli,
dall'altra parte. Era una cucina dai toni pastello, il frigo aveva
degli adesivi sopra, un siamese mangiava da una ciotola ai piedi
dell'uomo. Non sembrava una prigione.
«Vieni,
accomodati pure, cara, avrai appetito», le aveva sorriso
caldamente
lei. «Hai dormito troppo. Abbiamo sempre apparecchiato anche
per te,
nel caso ti fossi svegliata, e così…».
Aveva poggiato i gomiti
sul tavolo e si era tenuta la testa con le mani, per poi rivolgersi
ai bambini, che l'avevano subito salutata dopo essersi puliti la
bocca con un fazzoletto. La prima era una femminuccia e indossava una
camicetta bianca e una gonnellina blu. Il maschietto era seduto a
fianco, poco più piccolo, anche lui indossava una camicetta
bianca e
un pantaloncino blu. Molto coordinati. «Loro sono Amber e
Adam, i
nostri figli. Io sono Carol e lui è Noah, mio
marito».
Si
era avvicinata al tavolo molto lentamente, incerta. Con una veloce
occhiata intorno a lei, aveva notato gli allarmi alle finestre e
lontano, dietro le scale che portavano di sopra, alla porta di casa.
Forse non era Magneto, ma quelli avrebbe potuto aprirli, con un po'
di buona volontà e del tempo. Doveva esserci una centralina,
da
qualche parte. Quelle persone erano strane e forse non si trovava in
una prigione nel senso stretto del termine, ma qualcosa non andava di
certo. O aveva sbattuto forte la testa mentre la trasportavano e si
era risvegliata nel mondo girato in The
Stepford Wives
con Nicole Kidman, o quelle persone per essere così perfette
e finte
dovevano nascondere diversi scheletri nell'armadio.
«Preferisci
lo sciroppo d'acero o il cioccolato sul tuo pancake?», le
aveva
rivolto la parola l'uomo, indicando le bottigliette di plastica sulla
mensola vicino ai fornelli. «È
fondente».
Lei
aveva aperto la bocca ma non aveva detto alcunché e, come
avesse
potuto leggerlo nel suo sguardo, la moglie aveva subito ripreso
parola: «Non sei una prigioniera, cara. Rilassati».
Le aveva di
nuovo mostrato la sedia, mentre il marito portava a tavola i pancake
appena cotti.
«Succo
d'arancia?», le aveva chiesto di nuovo lui, mostrandole il
boccale.
Aveva
scosso la testa, perplessa. In verità aveva davvero molta
fame e
aveva guardato i pancake appena fatti con l'acquolina in bocca, ma
poteva fidarsi? Di certo non erano avvelenati, ne mangiavano tutti,
ma… perché portarla lì? Chi erano
quelle persone?
«No?»,
lui aveva sorriso, slanciandosi da tavola per aprire uno sportello.
«Beh, queste magari le vorrai avere, o così mi
è stato detto»,
aveva riso e, davanti al piatto disposto per lei, le aveva poggiato
tre foto. Vedendo Lena ritratta che usciva dalla Luthor Corp, si era
accigliata e le aveva prese in mano per sfogliarle, tenuta d'occhio
dai coniugi.
«Che
cosa…?», aveva guardato lui e poi lei, scuotendo
la testa, «Che
cosa dovrebbe voler dire?». Nella seconda foto, Lena
controllava il
suo cellulare, tirando indietro i capelli, sulla strada. Nella terza
foto, si trovava in villa Luthor-Danvers impegnata a spazzolare un
cavallo bianco.
«Sono
un investigatore privato», aveva annuito lui con fierezza.
«Un
uccellino mi ha detto che nutri una certa passione per la signorina
Luthor, e così…».
«Ben
immagino di quale uccellino parliamo», aveva risposto piccata
e, con
forza, aveva gettato le foto sul tavolo, facendo alzare la testa ai
due bambini. «Beh, potete tenerle. Non so cosa vi abbia
detto, ma so
che siete fuori strada. Mi ha rapito per cosa…? Pensavo il
peggio e
mi ritrovo qui», aveva alzato le spalle. «Ci sono
telecamere da
qualche parte? È uno scherzo? Le troverò, vi
avverto».
Lei
aveva subito riso e scambiato uno sguardo col marito. «Ma
certo che
le troveresti, cara. Beh, ci sono, naturalmente», aveva
indicato un
barattolo sopra un pensile in sala da pranzo, un orologio da parete
sopra la cucina, un portafoto all'ingresso e un quadro di fiori in
salone, sopra la tv. Indigo aveva memorizzato tutto. «Non
dobbiamo
nascondertele, come ho detto, non sei una prigioniera. Ci è
stato
chiesto di prenderci cura di te fino a quando avresti
capito».
«Capito
cosa?». Si era di nuovo voltata verso il salone, alla tv che
era
accesa. Non ci aveva subito fatto caso. Chi c'era? I coniugi si erano
scambiati un altro sorriso mentre Indigo si stava avvicinando al
divano, scoprendo una persona immobile più indietro, su una
carrozzina. Aveva deglutito e si era messa al suo fianco, guardandolo
con attenzione: anziano e sciupato, gli occhi chiari dietro le spesse
lenti degli occhiali, incantati alle immagini trasmesse in
televisione, ma spenti e vacui; le labbra secche aperte; i capelli
ben pettinati disposti da un lato con una passata di gel; era in
pigiama, con un plaid sulle gambe. Aveva due tubicini infilati su per
le narici, collegate a una bombola dietro la sedia. Oh. Indigo aveva
deglutito e si era tirata indietro, stringendo i pugni. Le era
passato un brivido lungo la schiena: sapeva chi era quell'uomo e
aveva capito eccome perché l'aveva rapita e portata
lì.
«Lui
è Howard», aveva precisato la donna, avvicinandosi
mentre si
lisciava la gonna fino alle ginocchia. «Devi averlo
già capito»,
le aveva sorriso. «Noi lo chiamiamo sempre e solo Howard,
pensiamo
che ci senta e… sai», si era zittita.
«Alla fine hanno ucciso
anche lui. Una parte di lui è ancora qui, certo, ma
è quella più
importante che se n'è andata. Pensavi fosse morto morto,
cara?», le aveva sorriso con dolcezza, per poi scuotere la
testa,
«Oh, no, no, no! Scommetto che invece lo avevi scoperto, sei
brava
con i computer».
«È
un hacker, tesoro», la aveva corretta il marito dalla tavola.
«Hakker,
hatter,
quello che è; brava
con i computer
lo capiscono tutti», gli aveva lanciato un'acida occhiata,
«tesoro».
Indigo
si era messa una mano in testa e si era tirata indietro la treccia in
un gesto involontario, cercando di mantenere la calma.
«Ebbene?»,
la donna, Carol, aveva ripreso parola. «Dalla tua reazione,
intuisco
che tu abbia già capito tutto ciò che c'era da
capire e perché sei
qui, cara. Ma non preoccuparti, puoi trattenerti con noi quanto
vorrai, sarai di compagnia». L'aveva lasciata sola e Indigo
si era
gettata su una poltrona con peso morto, provando una nuova
sensazione: non paura, ma rabbia.
Aveva
capito di essere fregata. Era libera di uscire? Forse, ma se parlava
a qualcuno di Howard era una donna morta. Aveva disobbedito una volta
e non voleva rischiare, così aveva pensato a
un'assicurazione,
qualcosa per tenerla in pugno in caso avesse di nuovo voluto fare di
testa sua. Le sarebbe bastato dirle che lei sapeva qualcosa che lui,
proprio lui, non voleva che si sapesse: che suo padre era vivo. In
condizioni quasi vegetative, ma vivo. Ora la teneva al guinzaglio.
Ricordava
di quando si era svegliata a Fort Rozz pensando sarebbe stata una
giornata come una qualunque altra: l'avevano fatta uscire di cella
con le altre per andarsi a lavare i denti e fare una doccia veloce,
tre minuti, non di più; spiata dalle altre detenute,
colpita,
offesa, spinta, toccata, derisa. La metà di quelle donne
potevano
essere sua madre, ma si comportavano come bambine; e lei dimostrava
ancora meno dei suoi anni, faceva loro i dispetti e le colpiva
volentieri, ma era sola contro tutte e sapeva di doverci fare
l'abitudine perché aveva ancora molti anni da scontare
dietro le
sbarre. Era stata presa da parte per confidarle che sarebbe stata
fatta uscire per buona condotta. A chi volevano prendere in giro? La
cercavano da anni per danni al sito del governo, di certo non avrebbe
creduto a quella balla. Eppure…
«Un…
cosa?», aveva alzato le sopracciglia,
fissando il direttore
del carcere.
«Un
garante», aveva risposto lui, serio, tirando i piccoli
occhiali da
vista sul naso. «Ti offre un lavoro. Se accetti, sei fuori,
avrai la
tua libertà. Se rifiuti, tornerai alla tua cella e sconterai
la tua
pena per intero. Allora, cosa facciamo? Cosa devo dire a questa
persona?».
«Accetto.
Qualunque lavoro fuori è meglio di una vita qui
dentro».
«Perfetto.
Sarà per te un ottimo regalo di Natale
anticipato».
Forse
era stata sua la colpa: aveva accettato a scatola chiusa quel lavoro
e, diamine, doveva immaginarlo che doveva essere qualcosa di losco,
altrimenti perché pagare per la sua scarcerazione?! Senza
contare
che sarebbe stato un lavoro non retribuito. Doveva capirlo che stava
solo cambiando carcerieri.
Le
avevano ridato la roba che aveva con sé quando era stata
arrestata:
uno vecchio zainetto sgualcito con delle merendine ormai andate a
male, un quaderno e delle penne, il suo cellulare con la batteria
scarica, un portafogli quasi vuoto e un temperino. La prima cosa che
aveva fatto una volta fuori era stata sentire la brezza fredda di
dicembre che odorava di vita e, di quella, non si sarebbe mai
stancata. Pensava che ad attenderla ci sarebbe stato questo suo
garante, non vedeva l'ora di conoscere quella persona che, davvero,
aveva creduto potesse ridarle la libertà, invece l'avevano
attesa
due persone che l'avevano fatta sedere su un auto per spiegarle i
dettagli del lavoro, darle dei soldi per sopravvivere e farle avere
il numero da cui si sarebbe messo lui in contatto con lei. Le era
sembrato se non altro un po' maleducato non presentarsi, ma in quel
momento, mettendo una mano fuori dal finestrino e chiudendo gli
occhi, beandosi di quel vento, aveva lasciato perdere, non era
importante.
Le
persone… ah, erano sempre un problema. Con i computer era
facile,
ma le persone erano imprevedibili, inaffidabili, i sentimenti
così
sopravvalutati. Lo aveva pensato subito, quando quella donna a fianco
a lei sul sedile posteriore le aveva spiegato il lavoro da svolgere.
«Quindi
devo solo parlare in chat con una ragazza che non sa chi io sia,
farmela amica, e dirle di sapere cos'è successo a suo
padre», aveva
scrollato le spalle, abbozzando un sorriso, «Tutto qui? Una
ragazzina distrutta dalla morte del padre che cerca di scoprire cosa
gli è successo, ah, capirai… Che senso
avrà, poi? Ormai è
morto».
«Non
deve interessarti il senso», le aveva risposto seccata,
passandole
poi una cartellina per documenti.
Indigo
l'aveva aperta: c'erano solo due foto.
«È… È lei la ragazzina
di cui parliamo? Lionel Luthor…? È lui il padre
che-?», aveva
sospirato pesantemente, tanto che l'altra l'aveva guardata con
riserbo.
«La
cosa ti crea qualche problema?».
«Affatto».
Perché
avrebbe dovuto? Perché una volta aveva stimato i Luthor e
quell'uomo? Perché aveva visto dei video di Lena bambina che
suonava
il piano e seguito le sue partite a scacchi? Perché quella
famiglia
aveva significato qualcosa per lei, in passato? Oh, i sentimenti
erano davvero sopravvalutati, non le importava e non aveva mosso un
muscolo quando aveva saputo della morte di Lionel Luthor, dunque no,
decisamente non ci sarebbe stato alcun problema. Aveva messo la
cartella con le foto dentro lo zainetto insieme alla mazzetta di
soldi ed era uscita dall'auto, iniziando a respirare
libertà. Era
quella l'unica cosa che le interessava.
Si
era comprata un portatile, aveva pagato in hotel una stanza e
ordinato un pranzo ricco che da sola non sarebbe mai stata in grado
di finire, solo perché per una volta aveva qualche soldo da
spendere. Aveva provato una strana sensazione di appagamento.
Piacere
di conoscerti, Indigo. Non hai bisogno di sapere chi io sia, ti basti
che da ora lavorerai per me. Hai il nostro obiettivo, sai i dettagli,
puoi iniziare anche subito.
Era
stato il suo primo messaggio per lei.
Da
Me a X
Se
non conosco il tuo nome, come potrò chiamarti?
Da
X a Me
Non
devi chiamarmi.
Da
Me a X
E
sia, allora sarai il mio angelo custode.
Seppure
i normali stimoli umani le dessero noia, la curiosità
l'aveva resa
la persona che era e non si sarebbe davvero bevuta la storiella che
non doveva sapere per chi lavorava. «E come mi piace dire: un
mistero è solo qualcosa a cui non ho ancora prestato
abbastanza
attenzione». Aveva fatto delle ricerche, le ci erano voluti
giorni,
notti insonni, aveva preso alcuni elementi di ciò che voleva
che
facesse con Lena e l'aveva sommato al modo con cui si esprimeva, le
parole usate, ogni dettaglio era importante, fino ad avere qualche
nome. Ancora non sapeva con esattezza chi era il suo angelo custode
perché diverse persone rispecchiavano il profilo, ma sapeva
di
esserci vicino e presto o tardi ci sarebbe arrivata. Perché
lei
arrivava ovunque.
Da
Me a X
Posso
sapere come mai tanto interesse per Lena e Lionel Luthor?
Da
X a Me
No.
Attieniti a ciò che ti dico, il resto non è di
tua competenza.
Aveva
avuto la certezza di con chi aveva a che fare solo quando si era
ritrovata davanti Howard, che doveva essere morto pochi anni prima, o
così diceva la stampa. Aveva scoperto di lui di recente,
vagliando
uno dei profili che rispettavano le caratteristiche del suo angelo
custode. Una data che non tornava in un certificato e tanto era
bastato a metterle la pulce nell'orecchio. Howard ci aveva guadagnato
un funerale e una lapide già pronta accanto a quella della
moglie, e
il suo angelo custode dei soldi in banca come erede. Invece, come ci
avrebbe guadagnato lei? Era arrabbiata, davvero molto arrabbiata,
così aveva deciso di smettere di collaborare. Le voleva
mettere il
guinzaglio mostrandole Howard per poterla ricattare? Dunque avrebbe
atteso che il figliol prodigo sarebbe andato a trovare il padre per
parlare, finalmente, faccia a faccia con lui. E fino a quel momento
era in sciopero: non sarebbe andata da nessuna parte, sarebbe rimasta
in quella casa come un peso da mantenere.
«Io
sono contenta che resti un po' con noi», le aveva detto Amber
quella
prima sera. Come lei, anche la bambina si faceva le trecce. I suoi
capelli erano rossi e fini, più chiari di quelli del
fratello.
«Ah,
sì?».
La
piccola aveva annuito, mentre attendevano fuori da una porta che i
signori finivano di sistemarle una camera. Pur di mandare avanti il
suo sciopero avrebbe perfino vissuto nella strana camera bianca nello
scantinato, ma era stata felice di sapere che ce n'era una per gli
ospiti al piano di sopra, vicina a quella dei figli. «Non ho
mai
avuto una sorella maggiore».
Indigo
aveva sorriso, si era inchinata alla sua altezza e le aveva
accarezzato una guancia calda. «E non l'avrai con
me», aveva
sussurrato glaciale, rimettendosi in piedi. L'aveva tenuta d'occhio
finché si era allontanata, senza che ci fosse rimasta male
come
immaginava, seguendola con lo sguardo all'interno della cameretta che
condivideva con il fratellino. La bambina si era inchinata per
raccogliere dal tappeto i giochi per lui. Era lei la maggiore. Aveva
visto Amber aiutare Adam ad allacciarsi le scarpe. Era lei la
maggiore. Era lei. E l'immagine del violino che cadeva a terra
l'aveva fatta sussultare.
«La
camera è pronta, cara».
Indigo
si era voltata e i due erano ai lati opposti della porta, aspettando
che entrasse. Uno stile essenziale, ma c'era tutto ciò che
le
serviva: un letto singolo, un armadio, una scrivania con sopra il suo
portatile, che non avrebbe usato se non per vedersi i film pirata.
Ah, sul comodino accanto al letto, vicino alla lampada, c'erano le
tre foto di Lena che le avevamo mostrato a colazione.
«Queste? Forse
non ci siamo capiti».
Entrambi
avevano riso. «Noi ti abbiamo capito benissimo»,
aveva risposto
lui, facendole l'occhiolino.
Prima
che andassero, Indigo aveva fermato lei. «Glielo avete fatto
sapere?
Gli ho scritto un messaggio, ma non mi ha risposto. Verrà
qui,
giusto? Almeno per suo padre?».
Lei
aveva sorriso incerta, tenendosi le mani. «Crediamo che non
sarà
entusiasta di questa scelta, cara».
«E
chi se ne frega, giusto?! Lui mi usa e dopo mi ricatta».
«Temo
non la vedrà allo stesso modo».
L'aveva
lasciata sola e Indigo, chiudendosi nella sua stanza, aveva preso con
forza le tre foto di Lena e le aveva chiuse nel cassetto. Sarebbe
venuto a parlare con lei, credeva. Perché o parlava con lei,
o non
se ne sarebbe fatto più niente.
Però
passavano i giorni e del suo angelo custode nessuna visita,
né un
messaggio o una telefonata. Carol stava via anche delle notti per
lavoro e Noah, che era un investigatore, stava più spesso di
lei, a
casa. Un team di infermieri si prendeva cura di Howard: lo
cambiavano, lavavano, lo mettevano a letto e gli davano da mangiare.
L'uomo non parlava, non si muoveva spontaneamente e, senza le bombole
d'ossigeno, non poteva neppure respirare. Lui era ancora con loro, le
aveva detto un'infermiera quando li stava guardando mentre gli davano
da mangiare, come se le fosse importato saperlo. Era guasto, un corpo
rigido e caldo che non rispondeva più ai comandi: se fosse
stato una
macchina, era da buttare. Gli aveva visto delle cicatrici sulla
schiena mentre lo stavano lavando: profonde bruciature, segno
indelebile dell'incidente che lo aveva rotto anni prima. Erano invece
due babysitter a prendersi cura di Amber e Adam quando i genitori non
erano in casa. Anche loro, come gli infermieri, avevano le chiavi.
Una babysitter veniva di giorno e un babysitter la notte, se entrambi
erano fuori.
Come
per scoprire l'identità del profilo misterioso, Indigo si
era fatta
molto curiosa anche per loro: chi erano quelle persone e che
collegamento avevano con il suo angelo custode? Dopotutto, loro
avevano in casa suo padre. Aveva cercato informazioni su di loro, non
spiccava niente di importante, erano persone comuni. Ma persone
comuni che erano imparentate con lui. Di tanto in tanto, le
ricordavano di cercare Lena Luthor come da lavoro e le passavano il
laptop già acceso, ma lei non ci stava. Voleva solo
incontrarlo dal
vivo e parlare con lui dei nuovi termini di lavoro, perché
non
poteva semplicemente rispettare questa sua richiesta? Sapeva chi era,
non doveva neppure nascondersi.
«Ecco,
si fa così».
Indigo
aveva spostato la testa dallo schermo del laptop e guardato i due
bambini, dall'altro lato del tavolo, che facevano i compiti. La
babysitter era andata a sistemare alcuni giochi e loro, rimasti soli,
avevano iniziato ad aiutarsi a vicenda. Aveva messo in pausa il video
di Lena che, nell'auditorium della Luthor Corp, annunciava il suo
passaggio a capo dell'azienda solo per poterli ascoltare. Non le
smuovevano niente. I sentimenti erano sopravvalutati, lo sapeva, lui
stesso glielo aveva detto. Lui, Cyan. Suo fratello.
Ricordava
sua madre che applaudiva sempre per prima e sempre più forte
di
tutte le mamme della classe quando Cyan si esibiva col suo violino.
Incantava tutti. Meno lei, che non capiva la musica. Indigo restava
in disparte in un angolo dell'aula e lo guardava: serio come sempre,
come gli veniva naturale muovere le mani e le dita per produrre
quella musica. Un vero prodigio, dicevano le maestre. Erano state
loro ad avviare una raccolta fondi per acquistare quel violino per
Cyan o la loro madre non se lo sarebbe mai potuta permettere. Quelli
erano i suoi ultimi giorni alla scuola elementare del quartiere,
perché Cyan era talmente avanti che era stato accettato al
liceo. Se
per Indigo erano i numeri binari il suo mondo, per Cyan lo era la
musica e non solo: in matematica era perfino più bravo di
lei, tanto
che, a fianco a lui, Indigo passava per ordinaria. Lui era un genio:
a due anni e mezzo aveva imparato a leggere e a sei risolveva le
espressioni. La sua materia era molto più accessibile alle
persone
come sua madre e il suo patrigno e, per questa ragione, avevano
iniziato a fare più lavori per mettere i soldi da parte e
permettere
a Cyan di andare al MIT, un giorno. Mentre lei era solo Indigo che
sapeva aggiustare i computer.
Indigo
aveva quasi sedici anni, Cyan appena otto.
«Stai
sbagliando», le aveva detto un pomeriggio proprio come
quello,
mentre faceva i compiti sul tavolo in salotto. «Hai iniziato
a
calcolare i numeri sbagliati. Se prosegui così, finirai per
ottenere
un quattro virgola sei periodico. Non come scritto sul tuo libro di
testo». Aveva stretto le labbra e Indigo sbuffato.
«Ho
controllato, il passaggio è giusto».
«Permetti?».
Lui le aveva preso la penna e le aveva riscritto sotto ogni
operazione.
Non
era facile avere a che fare con Cyan; a volte avrebbe preferito avere
un fratellino normale e, questo, lui lo percepiva. Forse per questa
ragione si lasciava condizionare da lei che cercava di spronarlo e
farlo giocare come ogni bambino della sua età: lo portava
sempre
nella piazzetta al centro del complesso di palazzi dove abitavano;
nessun bambino vicino voleva giocare con lui perché era
strano, così
lei doveva mettersi d'impegno.
«Quindi
dobbiamo calciare la palla e sbatterla contro quel muro?».
Indigo
aveva annuito, passando dietro le spalle le due trecce bionde.
«Non
abbiamo una porta, andrà bene il muro. Io sarò il
portiere, tu puoi
provare a calciarla. Vediamo chi vince».
Il
bambino aveva guardato la palla e poi lei, dopo il muro.
«Considerando la mia scarsa prestanza fisica, anche con uno
slancio
di quindici gradi, la possibilità che tu prenda la palla
prima di
toccare il muro è dell'ottantadue percento, laddove la
possibilità
che io sbagli a dare il calcio e la palla si muova di appena dieci
centimetri è di almeno il diciassette virgola tre percento.
È dello
zero virgola sette percento che io riesca a darmi abbastanza forza
per far arrivare la palla al muro», aveva assottigliato gli
occhi e
fissata. «Qual è lo scopo?».
«Far
arrivare la palla al muro».
«E
ci si diverte? Oh». Era deludente, per lui.
Erano
tornati all'interno del palazzo appena prima che cadesse un pezzo di
cornicione sulla piazza. Quel complesso stava cadendo letteralmente a
pezzi.
«Qui
devi cancellare», aveva detto Amber a Adam e Indigo era
tornata in
sé. Aveva visto la bambina passare la gomma sul quaderno del
fratellino e li aveva ignorati, rimettendo play al video. Forse
avrebbe dovuto smettere di dare tanta importanza a quella Lena. Aveva
provato ad accedere alla videocamera del suo laptop, ma era sempre
oscurato: era in gamba, sapeva che avrebbe potuto vederla. Che
avrebbe voluto.
Ma perché farlo, poi? Lena la intrigava: aveva seguito i
suoi
successi nel corso degli anni; era la ragazzina che avrebbe sempre
voluto essere. Che fortuna essere stata adottata dai Luthor. Ma forse
stava esagerando e, per questo, Noah pensava che portarle di tanto in
tanto delle sue foto le avrebbe fatto piacere. La pila all'interno
del cassetto del comodino si stava facendo alta.
Però
le guardava, non lo avrebbe ammesso. Le guardava e riguardava, prima
di mettersi a dormire.
Aveva
l'abitudine di svegliarsi molto presto perché da anni
dormiva poche
ore a notte, conscia di doversi sempre guardare le spalle. Vita da
latitante. Quella doveva essere una mattina come le altre, Lena non
si faceva sentire da un po' e non si aspettava affatto di risentirla
se non l'avesse prima cercata lei. Si era messa il laptop sulle gambe
e messo play a un film, ancora coperta sul letto. Oh, amava lo
sci-fi. Ripeteva a bassa voce le battute di Uma Thurman quando le era
arrivato un messaggio sulla chat con sfondo nero. Non sapeva nemmeno
lei per quale motivo aveva lasciato le notifiche attive. Forse, in
fondo, sperava di sentirla.
X:
Volevi che avessi bisogno di te? Ne ho bisogno ora. Davvero bisogno.
Il
suo cuore aveva accelerato i battiti. Indigo aveva sorriso
entusiasta: non solo l'aveva cercata, ma aveva bisogno di lei.
Ah…
non aveva bisogno di lei, ma del profilo misterioso, si era corretta.
Lena Luthor nemmeno sapeva della sua esistenza e non avrebbe dovuto
risponderle, se non voleva mandare al diavolo la protesta con il suo
angelo custode.
X:
Se stai tenendo d'occhio le news, sai che Rhea Gand era agli arresti
ma è già stata rilasciata. Ho bisogno di prove
concrete che sia
stata lei a uccidere suo marito. Devi sapere come posso trovarle.
Contattami al più presto.
«Sì,
ma naturalmente io ho la bacchetta magica», aveva sbuffato,
leggendo
il messaggio nell'anteprima, senza accedere alla chat. Però
le ci
erano voluti solo pochi secondi affinché trovasse articoli
su quella
donna, leggendo al riguardo. Doveva finire il film, ma la
curiosità
aveva preso il sopravvento: entrando nel sistema della polizia, aveva
trovato foto della scena del crimine, dando un'occhiata. Era
probabile che fosse stata lei a ucciderlo e, aveva notato, la polizia
concordava. Allora non aveva bisogno di lei, dopotutto.
Aveva
rimesso play al film e ignorata. Era la cosa migliore. Però
le aveva
fatto piacere sentirla e, quella mattina sul tardi, aveva ripreso le
foto dal cassetto e con un po' di pazienza le aveva incollate una per
una col nastro adesivo sulla parete sopra il letto in camera sua. Era
bello poterla ammirare.
«Indi!
Un uccellino mi ha detto che hai una chat a cui devi
rispondere».
Amber glielo aveva sussurrato in un orecchio, avvicinandosi di
scatto, interrompendo la sua visione di un film in salone, vicino a
Howard.
Indigo
aveva abbozzato una risata, accarezzato il gattino sulle sue gambe e
dato solo mezzo sguardo all'uomo in carrozzina. «Di'
all'uccellino
di presentarsi qui e parlarmi, se vuole che lo faccia».
Lei
si era tirata indietro e aveva scrollato le spalle, lasciando il
posto al fratellino Adam, che si era quasi gettato su di lei per
parlare all'orecchio: «L'uccellino ha detto di dirti che
sapeva che
l'avresti detto. E anche che cambierai la tua idea».
«Ah,
sì? E questo fantomatico uccellino ne è tanto
convinto perché?
Sentiamo».
I
due bambini si erano guardati complici e il piccolo si era passato la
lingua sulle labbra, soddisfatto che la battuta spettasse a lui:
«Ha
detto che il perché ce l'hai attaccato sul muro».
Erano
fuggiti via di corsa e Indigo aveva aggrottato la fronte: cosa voleva
insinuare il suo angelo custode? Lena Luthor non era in pericolo ma,
anche se lo fosse stato, cosa aveva a che fare con lei? Non era che
ci tenesse solo per delle foto, d'altronde. I sentimenti erano
sopravvalutati e l'unica persona di cui doveva preoccuparsi era se
stessa.
A
breve si era aperta la porta di casa e i due bambini erano schizzati
a salutare la loro madre, abbracciandola, rientrata dopo aver passato
fuori la notte. Li aveva seguiti con la coda dell'occhio mentre
sorridenti andavano tutti insieme in sala da pranzo. La loro
felicità
la infastidiva. Quando era sua madre a rientrare da uno dei tre
lavori che faceva, né lei o Cyan correvano ad abbracciarla:
lei
restava seduta a trafficare con uno dei cellulari vecchi, usati e
spesso rotti che il patrigno le portava e suo fratello accorreva solo
per farle il riassunto della giornata, andando per elenco.
«Stai
bene, cara?».
Indigo
aveva alzato le spalle. «Alla grande».
«Gli
infermieri?».
«Andati
via poco fa, tutto bene con Howard».
«La
babysitter?».
«In
bagno».
«Bene,
cara».
Era
sempre così gentile e carina con lei. Chissà
cos'avrà avuto poi,
da sorridere tanto? Aveva tirato fuori da una busta un pacco chiuso
di giochi a sorpresa per i figli e li aveva sentiti urlare dalla
gioia, lasciando perdere il film e guardando di nuovo verso di loro.
«Vieni,
Indi! Guarda cosa ti ho portato», aveva ricordato il suo
patrigno,
tornato a casa la sera trascinando un pesante bustone nero. Aveva
chiuso la porta con un calcio e lo aveva aperto, lasciandosi beare
dalla sua espressione sorpresa. Lei aveva sorriso e saltato.
«Sono
tutti pezzi di computer, tu ne capisci qualcosa. Io un po' meno, ma
ho preso tutto quello che c'era, forse qualcosa ancora va».
Lui
sapeva come farla felice. Era un ladro ma non le interessava, anzi le
aveva insegnato tutto quello che sapeva ed era stato lui a regalarle
il temperino al suo sedicesimo compleanno, che ancora oggi portava
con sé. Si faceva rispettare, era forte. Anche se non era il
loro
padre biologico, era sempre stata orgogliosa che Peter Brainer li
avesse adottati. Se non altro, lui era l'unico che si era sforzato
per comprenderla.
«Grazie,
mammina», avevano urlato Amber e Adam in coro, aprendo il
pacchetto
con calma, per non fare troppo baccano. Poi Carol aveva alzato lo
sguardo verso di lei e le aveva sorriso, facendole entrare i brividi.
Una delle sue prime sere lì, le aveva raccontato che era
sterile e
che quei bambini erano stati un regalo, avuti con la gestazione per
altri. Non che le interessasse saperlo, ma vederla felice con loro,
che li aveva desiderati tanto, la faceva sentire strana. «Ti
hanno
dato un nuovo lavoro, mammina?», le aveva chiesto Adam,
adocchiando
sul tavolo una foto e una cartella per documenti.
Mentre
la babysitter salutava e usciva, Indigo si era avvicinata verso di
loro e, curiosa, aveva gettato un'occhiata sul tavolo. Carol aveva
preso tutto e messo in borsa e lei aveva aggrottato la fronte.
Una
delle prime cose che aveva pensato quando si era ritrovata in quella
casa, era che la famiglia doveva nascondere degli scheletri
nell'armadio. Che lavoro faceva Carol? Non ne aveva mai parlato. La
sera del giorno dopo, quando sia lei che Noah era usciti, gli
infermieri lavavano Howard prima di metterlo a letto e la babysitter
guardava la televisione con i bambini, Indigo era salita al piano di
sopra diretta nella camera padronale. L'armadio era chiuso a chiave e
lei, frugando in alcuni portagioie, si era armata di forcina e lo
aveva aperto senza difficoltà. Si era chiusa dentro e aveva
adocchiato con delusione le camicie di lui, le cravatte disposte in
ordine di colore vicino a uno specchio, vestiti, gonne e camicie a
pois di lei. Era fin troppo prevedibile e, non soddisfatta, aveva
ispezionato le pareti, come le aveva insegnato il patrigno, fino a
notare uno strano rigonfiamento in un angolo. «Doppiofondo.
Che mi
prenda un colpo». Ci aveva appoggiato una mano e aveva
sorriso,
notando che il pannello si spostava. Ma aveva smesso di farlo presto,
vedendo cosa c'era là dietro. Aveva spalancato gli occhi:
c'erano
foto, mappe, appunti scritti di fretta, tutti attaccati sul fondo con
puntine colorate. Sotto, invece, c'erano due pistole di diverso
calibro, delle scatolette con proiettili e la custodia di quello che
già immaginava essere un fucile: non voleva neppure
toccarlo. In
basso a destra, invece, c'erano delle foto tenute insieme con un
elastico. Col fiato corto, le aveva prese con mano, iniziando a
sfogliarle. Sotto ognuno di quelle facce, la donna aveva lasciato un
segno con un pennarello rosso indelebile. Sapeva che era lei,
riconosceva la calligrafia. Continuava a sfogliare e deglutiva,
provando sulla pelle una brutta sensazione: era convinta che non
doveva trovarsi lì. Soprattutto dal momento che per certo
sapeva che
alcuni di loro erano morti. Più li sfogliava, e accidenti
quanti
erano, più ritrovava persone che ora erano morte. Persone
che erano
state uccise. Aveva deglutito e preso l'elastico di fretta ma le foto
erano cadute. Col cuore in gola, aveva cercato di raccoglierle,
soffermandosi su una di loro in particolare. «Oh,
no…», aveva
sussurrato esterrefatta al viso dell'uomo. Le aveva raggruppate e
rimesso di fretta l'elastico. Le si era gelato il sangue sentendo le
voci dei bambini di sotto e aveva richiuso tutto all'interno con
fretta, fissando il pannello. Si era nascosta in camera sua,
chiudendo a chiave. Era una killer. Carol. Una killer.
Perché non
aveva mai sentito parlare di lei?
La
prima volta che lo aveva visto, era dalla finestra della sua cucina:
un uomo così elegante, dove proveniva lei, era una
rarità. O era un
poliziotto come il signor Non, che si aggirava spesso da quelle
parti, o era qualcuno di importante. Sua madre le aveva gridato di
mettersi a lavare i piatti, ma l'aveva ignorata ed era scesa insieme
a Cyan per le scale del palazzo. In piazza si erano riversate molte
persone: vicini di casa, curiosi e uomini vestiti uguali che
trasportavano scale, prendevano misure, costruivano ponti. C'erano
anche reporter e fotografi, perché il gesto attirava
pubblicità.
«Finalmente il comune ha mandato qualcuno a ristrutturare
questo
posto», aveva sbottato.
«È
così. Sono arrivato io».
Quell'uomo
si era avvicinato e Indigo aveva spalancato gli occhi, guardando in
basso: aveva delle scarpe nuove e sicuramente costose, non adatte per
camminare tra la polvere. Era così stonato con l'ambiente.
«Lei
è Lionel Luthor, piacere di conoscerla», Cyan gli
aveva allungato
la mano, mantenendo il suo solito tono serio. «Sono felice
che sia
qui. Sono avvenuti diversi incidenti solo nell'ultimo mese e,
nell'ultimo anno, sono aumentati del quaranta percento. Può
capire
da solo in quale rischiosa situazione viviamo».
Lionel
aveva sorriso, abbassandosi al suo livello. «Tu devi essere
Cyan
Brainer, mi hanno tanto parlato di te». Doveva aver notato
come
Indigo si fosse improvvisamente allontanata, poiché l'aveva
subito
ripresa: «Aspetta. Avrò bisogno di qualcuno che
conosce questi
complessi come le sue tasche. Ti andrebbe di aiutarmi? Il tuo
nome?».
Lei
si era fermata: aveva guardato il fratello e Lionel, Lionel e il
fratello. Perché aveva scelto lei e non lui? Cyan era in
grado di
determinare le zone più friabili e dare le percentuali, lei
non
sarebbe stata utile. Non era neppure qualcuno di particolarmente
sociale che avrebbe potuto fargli compagnia, eppure si era accorta
con piacere, stando al suo fianco e aiutandolo nei giorni a seguire,
che nemmeno lui era un tipo molto socievole e che a volte amava stare
solo ad ascoltare e osservare. I lavori procedevano spediti, non
avvenivano più incidenti e una vicina di casa non rischiava
più di
cadere dal balcone. Il che, per alcuni, era diventato un problema.
Lionel Luthor ascoltava il parere di ognuno e lei lo aiutava a tenere
a mente le informazioni. Quello poteva farlo, non le sfuggiva mai
niente e non se n'era mai resa conto come in quei giorni. Si era
intristita quando i lavori stavano volgendo a termine e lui non
sarebbe più venuto a trovarla. Si era affezionata a
quell'uomo senza
rendersene conto e senza capirne il perché.
«Ti
ringrazio davvero per la tua collaborazione, Indigo. Non sei come mi
aspettavo».
«Come?»,
le aveva chiesto la sé sedicenne, accigliandosi.
«Mi…
aspettava?».
«Sai
perché ho chiesto il tuo aiuto e non quello di tuo
fratello?»,
l'aveva vista scuotere la testa e aveva annuito, lisciandosi la barba
ruvida. «Perché sapevo cosa aspettarmi da Cyan. Tu
eri l'incognita,
ma gli somigli più di quanto pensi», l'aveva presa
da parte,
camminando al suo fianco. «Sei molto intelligente, Indigo. Ti
lasci
oscurare dalla grande ombra di tuo fratello», aveva scosso la
testa,
«ma non farlo. Non mi stupirebbe, un giorno, se dovessi
diventare la
migliore del tuo campo. Puoi arrivare ovunque, se lo vuoi».
«Non
sono brava come Cyan», aveva sbuffato, «In
niente».
«A
Cyan manca qualcosa che hai», l'aveva stretta nelle spalle.
«Non
brava come lui, ma diversa da lui.
Perché vuoi essere uguale?
La cosa più preziosa che abbiamo da offrirci è la
diversità». Le
aveva dato una pacca su una spalla. «Cerca chi sei. Segui i
tuoi
sogni, non i suoi».
Il
signor Luthor le aveva regalato un cellulare nuovo come
ringraziamento, forse consapevole di averle dato una finestra per il
mondo. Lo aveva visto andare via e le era mancata l'aria. Quanto
poteva essere fortunata la figlia che lui aveva adottato? Era stato
allora che, per la prima volta, su internet aveva cercato e visto
Lena. Aveva scritto un tema a scuola sulla sua famiglia e sui loro
lavori per
la
comunità per ringraziarlo. Sperava di rivederlo quando i
giornalisti
erano andati nella sua scuola per fare le foto, ma si era
accontentata di una lettera scritta di suo pugno in cui le diceva
grazie.
Cyan poteva suonare il violino e incantare tutti, ma anche lei era
importante. Anzi, poteva essere la migliore.
Lionel
Luthor non meritava di morire. Cosa faceva la sua foto tra le altre
nell'armadio di Carol? Lo aveva… ucciso lei?
Col
portatile sul letto, aveva cercato subito informazioni su una killer
di Coast City, dove si trovava, trovando pochi che ne parlavano.
Davvero pochi. E per di più, la declinavano al maschile, non
conoscendo le sue generalità. Non c'erano recapiti e non era
mai
nominata; per avere i suoi servigi, bisognava solo scrivere su un
forum del dark web e aspettare di essere contattati. Non voleva
crederci che una parente del suo angelo custode era una killer
professionista. In che guai si era cacciata… E pensare che,
la
prima volta che aveva cercato dati su di loro, era segnata come
collaboratrice domestica. «Oh, sì… Ogni
collaboratrice domestica
che conosco tiene i pallettoni nell'armadio». Era scesa di
sotto e
ignorato Amber e Adam che le chiedevano di vedere i cartoni animati
con loro. Era ritornata nello scantinato, a tutto quel bianco. Quella
camera doveva nascondere qualcosa… e temeva di sapere cosa.
Temperino in mano, aveva iniziato a grattare la superficie del
tavolino, un pezzo dopo l'altro, fino a quando non si era accorta che
c'era del sangue asciutto, là sotto, incrostato. Si era
passata la
mano sulla bocca, cercando di tenersi calma. Aveva paura. Forse una
paura mai provata e lei non provava niente. Tutto quel bianco era
così sospetto, accidenti. Aveva grattato l'armadio e anche
lì
notato schizzi di sangue. Dovevano ridipingere quel posto molto
spesso poiché, oltre al sangue, c'era altro bianco, sotto.
Aveva
aperto l'armadio e sospirato, trovando catene, lucchetti, coltelli,
pinze sporche e altro macchiato di sangue secco.
Tornata
in camera sua, aveva subito inviato un messaggio alla chat personale
con il suo angelo custode, chiedendo spiegazioni. Non voleva dargli
la soddisfazione di pensare che ci tenesse a lei, ma doveva sapere
che Lena Luthor era al sicuro, dopo aver visto la foto tra i
documenti di Carol. Doveva saperlo. Vedendo che ancora non
rispondeva, aveva pensato di chiamare. Una, due volte. Doveva
accettare la chiamata, doveva.
Tre. No, alla quarta finalmente le aveva risposto.
«Qualcosa
mi dice che ho attirato la tua attenzione»,
aveva ridacchiato con
la sua voce meccanica.
«Hai
rifiutato di fare ciò per cui ti avevo fatto uscire di
prigione e
pensavo di ripagarti con il silenzio».
«Vaffanculo»,
aveva risposto di getto, stringendo un pugno. «Ti avevo detto
che
potevi contare su di me, invece mi hai rapito portandomi in questa
casa di pazzi e mi hai mostrato un uomo che dovrebbe essere morto;
morto,
diamine! E non posso arrabbiarmi? Volevo solo che venissi qui per
parlarne faccia a faccia. Dimmi che non l'hai mandata a uccidere Lena
Luthor».
La
voce contraffatta aveva ridacchiato di nuovo, palesemente divertita.
«No,
non l'ho mandata a uccidere Lena, le ho solo chiesto di mostrarti la
sua foto. Avresti fatto due più due; sei in gamba, Indigo,
anzi…
la migliore»,
la voce si era presa una pausa. «I
patti erano chiari: dovevi fare ciò che ti chiedevo di fare,
ma non
solo hai dato alla ragazza un modo per risalire a te, ma hai
cancellato informazioni su Lionel Luthor dal web senza che mi
informassi. Mi hai fatto arrabbiare, Indigo, ho dovuto prendere delle
precauzioni. Lavorerai di nuovo per me, più seriamente
questa volta.
Esci, divertiti, vai dove preferisci, non sei prigioniera. Ma sai
qualcosa che io non voglio che si sappia, adesso e, se ritengo che tu
sia inaffidabile, allora dovrò farti sparire. Magari lo
chiederò a
Carol»,
aveva riso. «Se
non ti preoccupi abbastanza di te stessa, e
so che tieni alla tua bella testolina,
allora pensa a Lena. Puoi fingere che non ti interessi di lei quanto
vuoi, ma ne hai maturato un'ossessione, Indigo. È chiaro. Mi
hai
mostrato il tuo punto debole senza pensare che lo fosse, ma non
fartene una colpa, è nella natura umana
prendersi… cotte».
«Io
non ho una cotta per lei».
Lui
aveva riso e sospirato. «Sei
convinta di non provare sentimenti perché li ritieni
superficiali,
lo so, ho letto la cartella che hanno scritto su di te a Fort Rozz.
Pensavi non lo facessi? Mi parlavi di amore, quando tu per prima non
vuoi saperne e lo credi ridicolo. È stato tuo fratello a
convincerti
che sia così?».
Quella
musica era riapparsa nella sua testa. Il violino che cadeva.
«Io
sono lui. Lui era me».
«No,
Indigo. Lui era una persona molto diversa da te e sinceramente mi
strugge il cuore pensare che tu abbia chiuso in un cassetto le tue
emozioni per lui. Tu provi qualcosa: sei umana, non uno dei tuoi
computer».
«Smettila!»,
aveva urlato all'improvviso. Rabbia… Provava rabbia. Aveva
chiuso
la telefonata e preso un grosso boccone d'aria, riprendendo possesso
di se stessa. Che sciocchezze. Che sciocchezze, aveva ribadito. Non
si prendeva cotte perché lei non provava quel genere di
emozioni. E
Lena era più piccola di lei, di certo molto intelligente e
bella, e
sì una Luthor, ma una cotta… Lei non si prendeva
cotte. E neanche
ossessioni, aveva deciso. Si era gettata sul letto e ci aveva
pensato. Ci aveva pensato a lungo. Poi, quella notte, le aveva
scritto.
Z:
Sono felice di sapere che hai bisogno di me.
Lena
aveva visualizzato e Indigo sorriso.
«Non
stai mangiando, cara. Ti senti poco bene?».
Erano
a cena e Indigo aveva alzato la testa dal piatto, fissando Carol.
Aveva deglutito, dicendole di non avere appetito. Il suo angelo
custode la stringeva in una morsa, insinuava delle cose e aveva
nominato Cyan. Come si permetteva? Poi aveva visto Noah portare a
letto i figli e, per non restare sola con lei, si era alzata da
tavola, ma…
«Resta,
cara. Ti prego», le aveva indicato la sedia e Indigo aveva
deglutito, rimettendosi seduta. «Sappiamo che hai trovato il
doppiofondo dell'armadio. Ci tenevo a spiegarti che si tratta solo di
lavoro; non sono una cattiva persona».
«Mh,
uccidi la gente, vero? Li torturi o qualcosa del genere… e
poi li
uccidi?».
Lei
aveva accarezzato il gatto che le faceva le fusa intorno alle gambe e
aveva provato a sorriderle. «Ognuno di noi è
più portato verso
qualcosa, cara. Tu hai la tecnologia che ti parla, io… io
uccido.
Non
sempre, sia chiaro»,
aveva aggiunto velocemente, come se avesse potuto fraintenderla.
«Ho
trovato una foto, tra le altre…», si era fatta
coraggio. Le
avrebbe fatto del male? Forse non se lo aspettava, ma si sarebbe
difesa prima di farsi fare la pelle. Di certo non avrebbe provato
pena nel colpirla solo perché la conosceva. «Una
foto che
ritraeva-».
«Lionel
Luthor», le aveva risposto subito, prendendo in braccio il
siamese.
«Lo conoscevi, lo so. Mi avevano assoldato per ucciderlo ma
il
committente aveva cambiato idea, dicendo di preferire vedersela di
persona. Il mio compito con lui è stato quello di far
imbizzarrire
il cavallo per provocargli un piccolo incidente che lo portasse ad
aver bisogno dell'ospedale. Oh,
sì»,
aveva detto all'ultimo, alzando il dito indice destro, «L'ho
dovuto
drogare perché non sfuggisse. È stato facile. Non
odiarmi, cara.
Era lavoro».
Era
lavoro. Ricordava bene come quell'uomo si rivolgeva a lei, le sue
pressioni perché seguisse i suoi sogni. Solo lavoro. Non le
avrebbe
detto chi era il committente, ci avrebbe scommesso. Ma in fondo
importava davvero? Era morto, ormai. Irrecuperabile, era stato
buttato. «Dunque ora mi ucciderai?».
Lei
aveva iniziato a ridere sguaiatamente, fermandosi con una mano contro
la bocca. «Oh no, cara, certo che no. Mio cugino non me lo
perdonerebbe mai e, ammetterò, mi piaci. Sei tanto
simpatica. E non
uccido per questo», scosse una mano per aria, continuando a
ridere.
Non
era riuscita a dormire, quella notte. Il suono del violino le aveva
inondato la testa come un mare in piena. Cyan. Cyan doveva sorridere,
doveva giocare e immaginare, ma non riusciva. Era chiuso nel suo
genio: era quello ciò che gli mancava e che lei aveva. Ma
era
davvero qualcosa per cui andare fieri di avere?
«I
sentimenti sono sopravvalutati», le diceva lui, guardando il
loro
patrigno che baciava la loro madre. «Pretendono di farti
sentire
bene e ti smuovono le interiora», aveva deglutito,
«Ma è solo
un'illusione, un bisogno egoista per far sentire bene noi
stessi»,
aveva alzato le spalle. «Siamo soli. È
tutto».
Indigo
non si era arresa. Dopo la sua discussione con Lionel Luthor, si era
convinta che Cyan fosse difettoso, che ci fosse una sorta di bug nel
suo sistema che doveva provare a correggere. Lo aveva portato fuori
sul piazzale anche quella sera; era quasi ora di cena. Avevano
sentito qualcuno discutere a voce alta e si erano avvicinati quando
si era sollevata anche quella del loro patrigno. Uno di loro aveva
alzato le mani, capitava spesso ma, quando erano volati i primi
proiettili, Indigo si era riparata la faccia e aveva cercato di
afferrare il fratellino per tirarlo indietro. Era lei la maggiore,
avrebbe dovuto proteggerlo. Ma era tardi: Cyan era stato colpito. Lo
aveva visto cadere a terra con un tonfo, come ora ricordava cadere il
violino.
Non
aveva dormito, ascoltando la musica che le scorreva nelle vene. Cyan
era lei. Lei era lui.
Intanto,
aveva ripreso a lavorare per il suo angelo custode, non poteva fare
altrimenti. Lena Luthor le aveva chiesto aiuto per la figlia della
ragazza della sua sorellastra che era stata rapita ma, prima di darle
conferma, aveva dovuto aspettare con comodo che lui le dicesse di
procedere. Una volta che le aveva detto di sì, si era subito
messa
all'opera.
Z:
Posso aiutarti. Lo farò più che volentieri! Dammi
una pista e ti
apro la strada!
Ah,
era felice di quella svolta. Non poteva crederci che, lavorare con
lei, l'avrebbe fatta sentire così bene. Sapeva che
ciò che provava
non era davvero importante, però…
però, per un attimo, lo aveva
pensato.
Aveva
trovato intere conversazioni cancellate di quei poliziotti che
volevano farla pagare alla collega e alla sua ragazza, aveva
ispezionato le telecamere delle strade, degli esercizi commerciali,
delle stazioni. Era eccitante.
Non
so ancora cos'hanno in mente, ma si stanno radunando al nuovo parco
divertimenti. È lì che li prenderemo! Le
aveva scritto entusiasta.
Da
X a Me
Ottimo
lavoro, Indigo. Sii sua complice, deve avere bisogno di te. Deve
fidarsi. Dalle ciò che vuole.
Il
suo angelo custode aveva iniziato a darle indicazioni del genere e si
era chiesta spesso il perché, tra un messaggio e l'altro.
Alla fine
di quella serata, aveva confezionato con orgoglio le chat che si
erano scambiati quei poliziotti e le aveva pubblicate online. Sperava
che quel gesto avrebbe fatto colpo in Lena; intanto, a restare
piacevolmente colpito era stato proprio il suo angelo custode.
Da
X a Me
Sei
piena di risorse, hai fatto davvero un buon lavoro.
Da
Me a X
Ma
non faremo mai del male a Lena Luthor, vero?
Lui
ci aveva messo un po' a rispondere:
No,
certo che no. Per essere qualcuna che non prova determinati
sentimenti, tieni davvero tanto a lei. Ebbene, se devo
tranquillizzarti: non faremo mai del male a Lena, Indigo. Il nostro
proposito è avvicinarci a lei, essere suoi amici e
confidenti.
Forniremo risposte alle sue domande e le serviremo perché
lei serve
a noi. Lena ed io abbiamo qualcosa in comune, anche se non lo sa.
Aveva inviato e dopo aveva ripreso a scrivere. Per
questa ragione non sono nemmeno contrario al tuo interesse per lei:
se preferisci, puoi uscire e raggiungerla, dare modo alla tua
umanità
di venire a galla, non mi importa. Al contrario, sarebbe proficuo per
il nostro lavoro: dal vivo, avrebbe modo di legarsi meglio a te e
darci retta per la seconda parte del lavoro.
Il
suo angelo custode aveva iniziato di nuovo a insinuare qualcosa che
non c'era, ma in quel momento era più quella seconda
parte
di cui parlava a interessarle. Se non voleva farle del male, in cosa
consisteva? Aveva
scavato di nuovo sul suo conto e trovato curiosi legami con i Luthor
in passato, anche per quanto riguardava la sua famiglia. Per quanto
riguardava Howard. Non c'erano vere e proprie prove, ma aveva perfino
iniziato a ipotizzare che avesse fatto parte della loro stessa
organizzazione, un tempo.
Il
team di infermieri aveva messo a letto Howard e se n'era andato,
così
lei aveva aperto la porta della camera e si era avvicinata,
specchiandosi nei suoi occhi chiari e spenti. Era davvero ancora
lì,
intrappolato all'interno di quel corpo rigido? «Non
è possibile
aggiustarti», aveva sibilato, avvicinandosi al letto,
toccando la
sponda. «Il danno è stato troppo profondo. Aveva
ragione Carol. I
Luthor ti hanno ucciso, Howard?», lo aveva guardato
attentamente
negli occhi. «Oppure, vuoi che ti chiami-».
«Indi!».
Quella
voce l'aveva fatta spaventare e si era voltata, scoprendo Noah
davanti alla porta.
«Howard
è molto stanco, deve riposare».
Lei
era uscita e l'uomo aveva chiuso la porta, per poi accompagnarla
davanti alla sua. Impossibile da aggiustare: il corpo umano non
permetteva tutte le sostituzioni che servivano. Intrappolato come
Howard, aveva visto Cyan sul letto d'ospedale, pensando a quanto gli
esseri umani fossero imperfetti e fragili. La loro madre gli aveva
portato il violino e le sue manine lo avevano tenuto saldamente. Era
stato operato, ma i danni erano troppo profondi. Il loro patrigno non
c'era: era stato arrestato insieme ad altri dal signor Non che era
stato il primo ad arrivare, quella sera. Indigo si era avvicinata
lentamente, esaminando il suo fratellino: lei era bionda, lui castano
scuro; lei aveva gli occhi azzurri, lui castani. Non si somigliavano
affatto; figli di padri diversi, diversi per natura, diversi in
tutto. Aveva visto che sulla fronte gli avevano disegnato tre punti
con un pennarello azzurro e sua madre, con uno spento sorriso, le
aveva detto che era passato un clown per tirarlo su. Quelle cose non
funzionavano con lui, ma immaginava che Cyan lo avesse permesso per
tirare su lei.
«Vieni»,
lui aveva sussurrato senza voce e si era avvicinata. Aveva allungato
una mano verso uno dei pennarelli sul vassoio e sua madre l'aveva
aiutato, così lei si era inchinata e lasciata disegnare la
fronte.
Tre punti come i suoi, ma rossi. Un gesto stupido, senza scopo, come
calciare il pallone contro il muro. Si erano guardati e sua madre si
era commossa, accarezzando il figlio. Il corpo umano non permetteva
tutte le sostituzioni che servivano per tornare in funzione. Non lo
permetteva. La loro madre si era allontanata per parlare coi medici e
Cyan aveva fissato la sorella maggiore col suo tono serio di sempre;
sofferente, ma perfettamente consapevole di ciò che stava
accadendo.
Cyan sapeva di stare per morire. «Dimmi, Indigo. Se io fossi
una
macchina, cosa diresti delle mie condizioni?».
Lei
aveva deglutito. «Compromesso. È impossibile la
sostituzione delle
parti guaste», aveva allungato una mano verso di lui, in una
quasi
carezza. Era la prima volta che ci provava e non ci era riuscita,
riportandola indietro. «Il sistema si spegnerà a
breve. Difettoso.
Da buttare».
Cyan
era stato ad ascoltarla attentamente e aveva sorriso per la prima
volta di cui Indigo aveva memoria. «Lo sapevo che sei uguale
a me»,
le aveva detto con un filo di voce. «Io sono te,
Indigo».
«Io
sono te», gli aveva risposto di rimando. Lo aveva visto
alzare il
violino per provare a suonare, ma gli era sfuggito dalle dita. Era
scivolato a terra senza che lei lo avesse fermato, un suono molto
forte aveva preso a rimbombare per la stanza e Indigo non aveva
ricordo di cos'era successo dopo con precisione, se non che sua madre
l'aveva fatta spostare di peso, i dottori si erano fiondati su Cyan,
che lui non era riuscito a suonare ma che quella musica c'era stata
lo stesso. Era entrata in lei, scorrendo col suo sangue. I sentimenti
erano sopravvalutati: non doveva essere in pena per lui che si stava
spegnendo, perché proprio lui aveva ragione. Non era lui ad
avere un
bug nel sistema, a mancargli qualcosa, ma l'esatto opposto.
Quel
qualcosa in più che Cyan non aveva era il vero errore e lo
aveva
notato in sua madre. Dopo la morte del suo fratellino, era caduta in
quella che i medici definivano depressione e aveva tentato di
uccidersi una volta di troppo, quando l'avevano chiusa in una casa di
cure. I sentimenti l'avevano danneggiata. Rimasta sola, appena
diciottenne, Indigo si era allontanata di casa portando Cyan con
sé.
Nei
tre giorni successivi, i coniugi erano stati molto più
attenti a non
lasciarla sola con Howard, dicendo ai loro figli e alle persone che
lavoravano per loro di tenerla d'occhio, come se a Indigo fosse
importato qualcosa, a quel punto. Quell'uomo non avrebbe potuto
rispondere ai suoi quesiti, era morto, e stava lavorando sodo per
Lena Luthor, molto più importante. Si era divertita a
scandagliare
il web e a rigirarlo come un calzino per avere informazioni su Rhea
Gand per lei, suddividendo tutto in comode cartelle. Il suo angelo
custode le aveva lasciato carta bianca su quella donna e non poteva
farla più felice.
X:
Grazie di nuovo. Continuerò a leggere, ma ho già
trovato cose molto
utili.
Z:
A tua disposizione.
Aveva
sorriso con soddisfazione, dando una carezza al gatto addormentato
vicino a lei. Aveva fatto molti progressi con Lena, anche se ancora
temeva dei piani del suo angelo custode per lei. Credeva di avere
tempo, che avrebbe potuto proteggerla, forse.
X:
Per fidarmi davvero di te, potremo cominciare con l'essere sincere.
Sai chi sono, e anch'io so chi sei tu.
Indigo
aveva letto con interesse dal portatile e il cellulare aveva vibrato
quasi nello stesso istante: lui doveva stare leggendo la chat, in
quel momento. Scrisse rapidamente che non lo sapeva e aveva preso il
telefono.
X:
L'ho scoperto. Hai scritto un tema sulla mia famiglia al liceo,
quando avevi sedici anni. Mio padre aveva pagato per la
ristrutturazione di alcuni palazzi che stavano crollando nella zona
delle case popolari: abitavi lì con la tua famiglia, Indigo.
Il
fiato le si era fatto corto, provando a scrivere velocemente e poi
cancellando. Non sapeva cosa fare. Cosa fare! Come l'avrebbe presa
lui? Aveva letto il messaggio sul cellulare dove le faceva i
complimenti, poi aveva squillato. Indigo aveva provato a scrivere di
nuovo, forse doveva farlo prima di accettare di parlare con lui, ma
aveva cancellato di nuovo, di fretta. «Cosa
faccio?», gli aveva
allora chiesto al telefono, agitata.
«Sapevo
che ti avrebbe scoperto»,
lo aveva sentito sospirare, «Ma
come ho detto, arrivati
a
questo punto non è
più
importante,
al contrario possiamo usare questo legame tra voi a nostro vantaggio.
Spingi su questo».
«Pensavo
di essere invisibile, per lei», aveva scosso la testa e, dopo
aver
riletto il messaggio sulla chat con sfondo nero, si era alzata dal
letto su cui era sdraiata, camminando per calmarsi. «Non
posso più
farlo».
«Non
puoi?».
No,
non aveva più tempo. «Tu odi i Luthor. Pensavi che
non l'avrei
scoperto? Hai voluto la migliore», aveva stretto i denti e
sentito
il suo respiro, calmo. «Mi hai detto che non hai intenzione
di farle
del male ma non ti credo. Non posso crederti! Sono stati loro a
uccidere tuo padre, vuoi solo vendicarti».
«È
vero»,
aveva risposto. «Voglio
vendicarmi, ma usare Lena per questo. Ti avevo detto che io e lei
abbiamo qualcosa in comune e che non le avrei fatto del male,
è
così: lei distruggerà i Luthor per noi».
«Lei
è una Luthor».
«No.
Lena è stata adottata; è anche lei una vittima. E
quando saprà
cosa hanno fatto i Luthor in passato, sceglierà da che parte
stare.
Credi che loro abbiamo fatto del male solo alla mia famiglia?»,
aveva preso una breve pausa. «È
una conseguenza degli atti spregiudicati dei Luthor se Cyan
è morto,
Indigo».
«Questo…
Questo non è vero».
«È
vero. Per che cosa credi che stessero litigando il tuo patrigno e
quegli uomini, quella sera? Non essere ingenua, nessuno fa niente per
niente».
Dopo
aver sentito cosa aveva da dirgli, Indigo aveva stretto le labbra e
si era riavvicinata al portatile per risponderle. Lena non sapeva
niente. Come lei, era stata ingenua.
Z:
Non sai niente.
Aveva
iniziato a pensare che forse non era adatta per quel lavoro. Sapeva
che i sentimenti erano sopravvalutati, che erano un errore che si
ripeteva nel sistema umano, ma anche che, senza che lo avesse voluto,
provava qualcosa per Lena Luthor e non voleva farla soffrire. Ed era
chiaro che avrebbe sofferto, se avesse cercato di metterla contro la
sua famiglia come voleva il suo angelo custode. Forse era troppo per
lei. Non le era mai successo prima e perfino andare a letto con delle
persone, non era stato che un mero sfogo per il suo corpo umano, un
richiamo della natura a cui doveva piegarsi per passare oltre. Era
qualcosa di nuovo che la stava travolgendo come mai niente era
riuscito a fare.
Ma
poi c'era stato l'attacco a sorpresa a National City e i suoi piani
erano cambiati. Aveva seguito Lena per le telecamere della Luthor
Corp: l'aveva vista entrare nel suo ufficio con dei libri, immaginava
dovesse studiare; aveva visto che era distratta, per le sue; poi gli
uomini armati fare irruzione nell'edificio e le era preso il panico.
Non poteva sapere se avrebbe visto la chat e, per non perdere tempo,
l'aveva subito avvertita tramite cellulare; non le importava che a
quel punto memorizzasse il suo numero. Aveva inviato un messaggio
anche al suo angelo custode per avvertirlo, ma lui ci aveva messo un
sacco di tempo a contattarla. Lena non le aveva risposto ma,
vedendola uscire con quel ragazzo dall'ufficio, si era passata una
mano sulla fronte.
«Che
cosa fai, Indi?», Amber si era affacciata dalla porta della
camera
insieme a Adam e lei li aveva appena degnati di un'occhiata, seccata.
È
il momento che aspettavamo per testare i nostri progressi con lei.
Le
aveva scritto il suo angelo custode, finalmente.
Richiedile
i dati d'accesso del sistema di sicurezza della Luthor Corp in cambio
del tuo aiuto. E non lasciarti prendere dalle emozioni, Indigo: se
non li avrai, non potrai aiutarla.
Lei
aveva digrignato i denti con fastidio. Non era una debole, Cyan aveva
ragione sui sentimenti, ma non voleva che Lena fosse stata ferita o
peggio.
Da
Me a X
Sono
già nel sistema di sicurezza, sarebbe una perdita di tempo!
Aveva
inviato ma non aveva ottenuto risposta. Non poteva aiutarla se non le
inviava quei dati? Ma avrebbe rischiato la vita. I due bambini si
erano messi accanto a lei sul letto e avevano seguito i passi di Lena
al suo fianco, attraverso le telecamere. Le avevano indicato gli
uomini armati e si erano eccitati come se stessero seguendo un film,
ma Indigo era in pena. Era in pena perpetua e guardava le immagini
trattenendo il respiro, mentre la musica suonata da Cyan con il
violino si ripeteva il loop nella sua testa. «Forza,
Lena». Le
aveva inviato un altro messaggio. «Inviami quei dati. Voglio
quei
dati. Fatti aiutare». Aveva visto tre terroristi entrare
nell'area
riservata, l'avrebbero trovata. Aveva sentito gli sguardi dei bambini
su di sé, come forse l'avrebbe guardata Cyan: con
compassione perché
si stava struggendo in quel modo per una persona che non era se
stessa. Però il cellulare aveva vibrato e Indigo aveva
potuto
respirare di nuovo: le aveva inviato i dati d'accesso, poteva
aiutarla.
Devi
rintracciare Kara, ti prego. Ho paura che le sia successo qualcosa.
Oh,
l'aveva fatto per Kara, c'era da aspettarselo. Ma questo non lo
avrebbe detto al suo angelo custode.
«Chi
è… Kara?»,
aveva domandato Adam e Indigo gli aveva allontanato il telefono dalla
faccia.
«Non
ti riguarda». Le aveva scritto che erano entrati in tre e di
essere
prudente, dopo aveva cercato Kara per lei, come da richiesta. Stava
benissimo, era con un ragazzo. Magari nemmeno pensava a lei. Amber e
Adam avevano esultato quando Lena aveva puntato la pistola contro
quei terroristi che poi erano fuggiti. Lena stava bene. Ora poteva
scriverle, sapendo che non l'avrebbe distratta:
Kara
Danvers è al campus e sta bene, l'ho vista dalle telecamere
esterne
in compagnia di un ragazzo.
Da
Lena a Me
Grazie,
Indigo. Lo apprezzo.
«Ti
ha detto grazie»,
avevano detto in coro i due in un sorriso, costringendo la ragazza ad
alzarsi dal letto.
Si
era grattata la nuca e sapeva cosa significava: che era imbarazzata.
Le era sfuggito un sorriso dalle labbra e si era accaldata. Oh. Per
essere un bug del sistema, prendersi una cotta per un'altra persona
la faceva sentire bene. Incredibilmente felice.
Sono
contenta che tu stia bene! Grazie per i dati. Questo è il
mio numero
personale, a proposito. Ora sai chi sono, possiamo essere sincere e
aiutarci tra noi.
Aveva
inviato e atteso, lontano da sguardi indiscreti, aspettando una
risposta dondolando sui suoi passi.
Da
Lena a Me
Considerando
che vuoi che siamo sincere, perché te la sei presa tanto
quando ti
ho detto di sapere chi fossi? Ti ho messa nei guai?
Indigo
si era morsa un labbro e deglutito, scacciando Amber e Adam da camera
sua: ora voleva stare sola.
Vuoi
saperlo davvero? Il
suo angelo custode sarebbe stato contento, adesso.
Tuo
padre aveva finanziato la ristrutturazione dei palazzi del mio
quartiere che stavano crollando per scopi personali, Lena. Alcune
delle persone che abitavano lì, compreso il mio patrigno,
dovevano
tenere dei pacchi per conto dei Luthor per un uomo d'affari di Star
City che avrebbe mandato qualcuno a prenderli. Era un traffico
illegale coperto da tuo padre. Un giorno qualcuno si è messo
a
litigare per soldi e hanno iniziato a sparare.
Aveva di nuovo ingurgitato saliva, prima di finire di scrivere il
messaggio. Il
mio fratellino di nove anni è morto per lo scontro a fuoco
di quel
giorno. Quando me lo hai scritto, ho ripensato a quello che
è
successo e a tuo padre. Sono contenta che tu
stia
bene.
Aveva
stretto i pugni e indurito lo sguardo. Anche se dalle telecamere del
corridoio davanti al suo ufficio non poteva scorgerla, sapeva che
Lena doveva aver iniziato a soffrire perché amava suo padre
e lo
aveva appena dipinto come un criminale, gettando sulle sue spalle il
peso della morte di un bambino. Lena avrebbe sofferto per causa sua e
lei era lontana. Se proprio doveva provare cosa significava avere una
cotta, allora lo avrebbe fatto di fianco a lei, accettando una
vecchia idea che le aveva proposto il suo angelo custode. Indigo
aveva staccato tutte le foto di Lena dalla parete, spento il suo
portatile, preparato lo zainetto con il temperino e le ciabatte
pelose, pronta per lasciare quella casa e andare da Lena.
Da
X a Me
Hai
fatto la scelta giusta, Indigo. Vai, esplora la tua umanità,
diventa
la confidente intima di Lena se lo desideri, ma attieniti al lavoro e
presto distruggeremo i Luthor insieme.
Vi
aspettavate tutto questo da uno stand alone su Indigo?
Ammetto
che mi è piaciuto un sacco buttarlo giù, cercando
di scoprire come
avrei potuto caratterizzare questa persona complicata, che passato
avrei potuto darle per spingerla a comportarsi come fa e il resto. Vi
è piaciuto?
Piccola
curiosità: è stato scritto in due tempi diversi
perché la parte
iniziale, quando Indigo si sveglia e si ritrova a casa di Carol e
Noah, doveva in realtà fare parte del capitolo 42.
Un passo
avanti. È stata tagliata in favore e in attesa di
uno stand
alone completamente su di lei che avesse più senso. E poi in
quel
capitolo non ci faceva niente, dai XD
Dunque.
Indigo era stata rapita durante il capitolo 33. Addio al
secondo
nubilato e ora sappiamo cosa le è successo
parallelamente a ciò
che succedeva a Lena e Kara. Anzi, diciamo Lena. Sappiamo che si
è
risvegliata in questa casa abitata da strani personaggi e da un uomo
in sedia a rotelle, Howard. Solo vedendo lui, Indigo è
riuscita a
capire chi sia il suo angelo custode, il garante che l'ha fatta
uscire di prigione con l'unico scopo di avvicinarsi a Lena, darle
risposte e… metterla contro i Luthor. A quanto pare,
quest'uomo
misterioso odia i Luthor e sembra che sia così per via di
ciò che è
successo ad Howard. Inoltre, abbiamo saputo che questa Carol
è una
killer ed era stata assoldata dall'assassino di Lionel Luthor per
ucciderlo ma che aveva poi cambiato i suoi piani in corso d'opera,
richiedendo i suoi servigi solo per fargli avere l'incidente a
cavallo e drogarlo. Ricordate il capitolo 17.
Il mantello invisibile?
Il
passato di Indigo è un po' triste e il fatto che si sia
“presa a
carico” il fratellino morto, facendolo vivere
in lei, è sì
struggente, ma in questo modo lui la influenza notevolmente. Lionel
Luthor ha cercato di darle un'identità, ma Cyan gliel'ha poi
portata
via prima della sua morte. Cosa ne pensate?
Indigo
non sembra sapere come comportarsi, soprattutto ora che è
messa di
fronte all'evidenza: ha una cotta per Lena. Ops.
Piccole
note ~
-
Cyan. Come saprete, Indigo è un colore,
precisamente
l'indaco. Che nome potevo dare secondo voi a suo fratello? XD Cyan
è il ciano, appunto. Non potevo non cogliere questa
possibilità, mi
stuzzicava troppo! Tra l'altro, ci ho messo un po' a scegliere il
colore e il nome adatto e Cyan mi piace un sacco. Ma c'è
dell'altro
riguardo a lui che voglio segnalare: per crearlo, ho preso spunto da
un personaggio della serie. Sapete quale?
-
I tre punti che Cyan disegna sulla fronte di Indigo sono un
riferimento al suo reale aspetto nella serie.
-
Coast City: è una delle città immaginarie
dell'universo DC Comics,
nota per Lanterna Verde.
-
Il signor Non è proprio lui: il marito
di Astra. Era un
poliziotto e ha arrestato le persone coinvolte nella sparatoria in
cui è stato sparato Cyan, ma sappiamo dai capitoli
precedenti che,
come sua moglie, era stato arrestato perché faceva parte
dell'organizzazione. Mi piaceva troppo l'idea di nominare Non in
questo capitolo su Indigo, dato il rapporto dei due nella serie (che
qui è molto diverso, per carità XD).
E
ora ricordatevi per bene dove eravamo rimasti con lo scorso capitolo
che si riparte! Il prossimo capitolo sarà pubblicato
venerdì 10
maggio e si intitola Ricomincio da qui.
Sarà un nuovo inizio?
Occhio al titolo ;)
|
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Capitolo 48 *** 47. Ricomincio da qui ***
Scusate il
ritardo! Ma ecco qui il capitolo in tutta la sua lunghezza.
Buona lettura!
Kara
si passò una mano sulla fronte. Poi contro la bocca. Sui
capelli.
Cercava costantemente di tenere calmo il respiro che seguiva
l'agitazione dei battiti cardiaci. Erano giorni che il suo cuore non
accennava a placarsi. Eppure poteva riprendere a dormire: Rhea era
stata arrestata, non le serviva più la scorta del D.A.O. ed
era
perfino riuscita a dare un esame l'altro ieri. Non lo aveva passato,
però era riuscita a presentarsi. Erano stati comprensivi: le
avevano
dato più tempo considerando che, tra Rhea che cercava di
ucciderla e
lo studio, aveva dato più peso alla prima. E
Lena… Qualcosa aveva
ripreso a funzionare tra loro e, al solo pensiero, le si coloravano
le gote. Erano un po' più vicine adesso e se riusciva a
concentrarsi, era ancora capace di sentire il sapore della sua lingua
e le sue labbra contro la bocca. Voleva poter dire che ora erano
serene e che presto sarebbero tornare a stare insieme ufficialmente
perché tra loro, in realtà, non si era mai
interrotto nulla per
davvero ma, seppure Lena non se la fosse presa per ciò che
le aveva
detto nei bagni dopo la partita, sapeva di averla ferita e forse era
anche quel pensiero a non farla dormire la notte. Ne avevano
riparlato, erano consapevoli entrambe che ciò che le aveva
detto era
un'assurdità, e le aveva chiesto scusa naturalmente, ma Lena
aveva
annuito e se n'era andata, chiudendo la questione. Era come se
gliel'avesse lasciata passare perché, in fondo, anche lei
aveva
qualcosa di cui farsi perdonare. Non sapeva davvero come comportarsi.
Intanto, il suo cuore restava in perenne agitazione. E fra breve ci
sarebbe stato il processo di Rhea e l'avrebbero chiamata a deporre;
il pensiero non la rendeva di certo allegra. E infine lei. Siobhan.
Sospirò, alzando il viso verso il lettino d'ospedale:
Siobhan
dormiva, la flebo attaccata a un braccio, gli occhi infossati e viola
nelle borse, pallida. L'avevano dichiarata fuori pericolo, era stata
operata, ma Kara si sentiva responsabile per ciò che le era
successo: lei le aveva chiesto aiuto ma non era andata. C'era mancato
davvero poco; se Barry non l'avesse trovata e chiamato
ininterrottamente i soccorsi… Si sedette sulla sedia accanto
al
lettino e si mise comoda, chiudendo gli occhi.
«Sei
ancora qui?». Kara li riaprì subito, vedendo
Siobhan accigliarsi.
«Senti un po', non è che ti sarai innamorata di
me, spero». Piegò
la faccia in disgusto, scoccandole un'occhiataccia.
«Ti
piacerebbe», rimbeccò, estraendo un sorriso
gentile.
«Non
sono interessata. Soprattutto se non hai un dolce per me», la
guardò
con occhi grandi, squadrandola. «Non hai un dolce per me
nascosto
sotto quella camicetta giallo semaforo, vero?». Kara
arrossì e
Siobhan scrollò gli occhi. «Oh, dimenticavo che
sei una bimba delle
medie. Un dolce, Danvers, con la glassa al cioccolato ricoperta da
caramello».
«Il
dottore ha detto-».
«Chi
se ne importa del dottore», provò a urlare, ma si
resse un fianco
dal dolore e, stringendo i denti, bloccò con il palmo di una
mano
lei che si avvicinava a soccorrerla. «Gli spazi personali,
rispetta
gli spazi personali. Sto bene. Sono solamente stufa di stare qui e
non sono nemmeno a dieta, cielo, sto diventando un tutt'uno con
queste pappette insapore. Dove vai?», sgranò gli
occhi quando la
scorse alzarsi dalla sedia e sollevare la borsa in spalla.
«A
prendere del cibo».
«Oh,
finalmente».
«Per
me, non per te», uscì dalla cuccetta, sentendola
bofonchiare.
Cambiò piano, prendendo l'ascensore. Si guardò
attorno, poi infilò
le monetine nella macchinetta e aprì la busta della
merendina,
reggendosi lo stomaco. Si appoggiò contro il muro e prese
fiato,
pensando a quanto sentisse la mancanza delle pillole, ora che era
scoperta. Le avevano come tenuto la mano quando capiva di essere
arrivata al limite e coccolata, proteggendola dai sentimenti
ingombranti, ma da quando era successo l'attentato, non le aveva
più
prese. Credeva che non ne avrebbe più avuto bisogno, felice
di
provare di nuovo i sentimenti per Lena. Era pur vero, però,
che di
tanto in tanto le mancavano quando scendeva la sera e il cervello la
costringeva a pensare, o quando guardava Siobhan sul lettino e
ricordava di averla lasciata al suo destino. Il giorno prima, Winn
era andato a trovarla e per farsi forte davanti a Siobhan, aveva
pianto solo una volta fuori dalla porta, su una spalla di Kara. Se
non altro, non l'aveva presa seriamente quando gli chiese chi fosse.
Era così in pena per lei che guardandolo, Kara non era
riuscita a
non pensare che aveva rischiato di morire mentre era al telefono con
lei. Accidenti.
«Non
creano dipendenza», le aveva detto Maxwell Lord una volta
tornata da
lui. «È lei che sente di averne bisogno: qualcosa
la logora e le
mie pillole la anestetizzano. Ne ha prese troppe con poca distanza
l'una dall'altra, avrebbero potuto farle male, a cosa pensava? Forse
dovrebbe provare ad affrontare i suoi problemi, invece di nasconderli
sotto al tappeto». L'aveva guardata mentre scuoteva la testa,
alzando gli occhi. «Penso sia duro sentirselo dire,
ma… in questo
modo, cara la mia piccola Danvers, sta solo ritardando qualcosa.
Più
tempo passa, più grande diventa il problema».
«Non
sono fatti suoi», gli aveva risposto, aggrottando la fronte.
«No,
certo. In fondo, posso studiare meglio le pillole grazie al suo
contributo, non che voglia lamentarmi, si intende», gli aveva
sorriso e Roulette, vicino, gli aveva passato una fiala per il
prelievo. «Volevo solo essere gentile, o di aiuto, ma
tant'è…»,
aveva scrollato le spalle e si era alzato dalla sedia, pronto per
pungerle il braccio. L'aveva vista fare una smorfia, al momento di
toccare l'ago.
«Mh,
sì, a questo proposito… Ho deciso di
smettere».
Lui
si era accigliato, guardandola con attenzione. «Ha deciso di
affrontare i suoi problemi, dunque».
«Non
ho nessun problema da affrontare», aveva sbottato, tenendo
d'occhio
la boccetta col suo sangue che veniva etichettata. «Questa
è
l'ultima, Lord. Se la faccia bastare».
«Va
bene», aveva sorriso, alzandosi in piedi. «Capisco.
Sono un po'
amareggiato, ma chi non lo sarebbe al posto mio, stava diventando
quasi essenziale per lo sviluppo della kryptonite
rossa»,
aveva riso. «Ah, una cosa. Considerando che ne ha assunto una
dose
massiccia, sarebbe il caso che-».
«Andrò
in astinenza?».
Maxwell
le aveva scoccato un'occhiata. «Nausea, fastidi generici.
Può darsi
che sentirà di essere più sensibile del solito.
Potrebbe
raggiungermi e farsi tenere sotto osservazione».
«No,
grazie», aveva decretato e si era alzata in piedi, dandogli
le
spalle e infilando il giubbotto.
«Si
riguardi, allora. Ah! Prima che se ne vada: come sta sua sorella?
Intendo la Danvers», aveva sogghignato e Kara aggrottato la
fronte,
cercando di capire il perché del suo strano tono di voce.
«Neanche
questi sono fatti suoi».
Ingurgitò
l'ultimo boccone e risalì le scale, fermandosi a un altro
piano. La
merendina le andò quasi di traverso quando udì i
pianti di una
donna. Si accostò, affacciandosi alla porta aperta della
cuccetta
dove riposava Faora Hui, ancora in coma. La donna che piangeva le
stava accanto, su una sedia, e un uomo cercava di rassicurarla
massaggiandole le spalle: quando la intravide affacciata,
andò alla
porta e la chiuse.
Oh.
Aveva quasi voglia di vomitare, adesso, e si mantenne lo stomaco,
sentendo il suo cuore farsi agitato, il respiro accelerato. Corse
via, tornando verso le scale. Quella poliziotta aveva cercato di
ucciderla e forse non doveva provare pena per lei, ma sentire sua
madre piangere era tremendo.
Camminando
per il corridoio verso la camera di Siobhan, udì subito
delle voci:
«Qualcuno che finalmente riesce a capirmi».
Kara
avanzò verso la porta e la vide stringere con mani piene un
grosso
panino e spalancare la bocca. Corse per strapparglielo appena in
tempo. «Salame?», strabuzzò gli occhi,
guardando Leslie Willis con
rimprovero, accanto a Lena. «Volevi ucciderla?».
«Sei
una guastafeste, Danvers», si lamentò Siobhan.
«Portatevela
appresso quando andate, vi prego. È qui tutti i giorni, non
la
sopporto più». Riprese il panino e la
guardò con odio, scoprendo
che le aveva tolto il companatico. «Te lo sei mangiata? Sei
una
schifosa egoista». Le riservò un'acida occhiata ma
morse comunque
il pane, piangendo nel coglierne il sapore.
Kara
le fece la linguaccia e adocchiò solo di sfuggita,
abbassando gli
occhi, che Lena sorrise.
«Ha
ragione, pulcino: sei una guastafeste», brontolò
Leslie, «Non
gliel'avrei fatto mangiare seriamente, quello era il mio dannato
pranzo».
«Coba?»,
mormorò l'altra con la bocca piena.
Lena
sorrise di nuovo e Kara si accorse, solo in quel momento, che lo
faceva per Leslie. Sorrideva per lei. Oh, accidenti…
«L-Lena,
posso parlarti un momento?». Le annuì e uscirono
fuori,
socchiudendo la porta.
«Senti,
umh… T-Ti hanno già, sì, chiamato per
rilasciare la
testimonianza?», gesticolò e strinse le labbra.
«Sono
andata ieri», confessò, grattandosi in fronte.
«Con mia madre».
«Oh»,
sbottò. Perché non glielo aveva detto?
«Ah… bene. I-Io devo
andare oggi, m-mi hanno chiamato oggi, sì»,
deglutì ancora,
cercando di fermare il suo balbettare.
«Oh»,
ansimò Lena, annuendo. «Oggi…
Bene». Perché non glielo aveva
detto subito? «Comunque», mantenne il suo tono
serio, «ho
ascoltato una strana conversazione tra il Generale e mia madre,
ieri».
Ricordava
che erano in attesa in corridoio: Lillian a qualche metro da lei,
perché Lena non voleva che pensasse che l'aveva perdonata o
qualcosa
di simile solo per aver rischiato di venire uccisa da Rhea; non
cambiava quanto fatto in precedenza. Il Generale Zod le aveva
raggiunte e si era affiancato alla donna.
«Che
cosa devo dire?», gli aveva chiesto Lillian. La voce fine,
quasi un
sussurro. Non le vedevano, ma si trovavano all'interno della base del
D.A.O. e le telecamere dovevano essere ovunque.
«Ciò
che è successo. Devi solo ricordare che ti chiederanno di
ripetere
tutto in tribunale», aveva risposto lui con sicurezza.
«È finita.
È fuori».
«Fuori?».
«È
fuori e molto presto lo capirà. Abbiamo chiuso con quella
donna, non
può toccarci». Le aveva dato una pacca
confidenziale e abbassato la
testa per un saluto, prima di voltarsi, guardare lei che era dietro
sua madre, e andarsene.
«Cosa
ne pensi di lui?», domandò Kara, reggendosi lo
stomaco.
«Ci
ha liberato di Rhea Gand, ma non mi fido».
«Io
neppure», annuì. «Forse non è
un pericolo in questo istante, ma
non mi darò pace fino a quando l'organizzazione tutta non
verrà
smantellata».
Lena
sapeva che diceva il vero e, seppure era felice che Zod avesse
fermato Rhea, le dispiaceva di non poter essere stata lei a farlo,
dimostrando a Kara che poteva mantenere fede alla sua parola. Forse
poteva farlo neutralizzando Zod e distruggendo l'organizzazione,
proseguendo ciò che aveva iniziato suo padre. Per Kara, per
tutte le
loro vittime, per il suo stesso padre. Anche se forse non lo
conosceva così bene. La vide riaprire la porta per entrare
che la
fermò, stringendole un braccio con delicatezza:
«Stai bene?».
«Cosa?».
«Lo
stomaco».
Oh,
si stava ancora massaggiando. «Ah, no», tolse la
mano all'istante,
ridendo, «È solo fame». Non
sembrò averla convinta, ma non chiese
oltre. Almeno sapeva che Barry non aveva fatto la spia: le aveva
detto di averla vista prendere la pillola, prima di ripartire per
Central City. E lei, con faccia tosta e balbettando più del
dovuto,
gli aveva spiegato come prendesse delle medicine per calmare i nervi.
«Non
sembrano funzionare», gli aveva risposto lui, in un sorriso.
Di
sicuro non per come aveva trattato Mike lasciato il furgone con gli
uomini di Lillian, pensò. Sapeva di essersi comportata male.
Sentirono
Leslie e Siobhan parlare e Lena le trattenne il braccio, mantenendo
gli occhi bassi. «E al pranzo di domani, ci
sarai?».
«C-Certo»,
arrossì. «Ci hanno invitate per Pasqua, Eliza
farà le uova ripiene
e non posso proprio perdermele. Ma… saremo sole con
loro», strinse
i denti, facendo una smorfia.
«Alex?»,
esclamò con sorpresa, «So che Lex vuole stare a
Metropolis, ma
Alex…?».
«È
stata invitata dai suoceri: li sta raggiungendo ora, Maggie
è lì da
ieri».
Alex
colpì la radio della macchina due volte per farla partite,
gonfiando
le guance. Le si rizzavano i peli delle braccia: significava che
stava arrivando. Deglutì, tenendo d'occhio la strada bagnata
per la
recente pioggia. A National City non aveva piovuto, pensò:
era
distante. Già, distante dalla sicurezza.
«Va
bene, Alex. Ci sei già stata, ci hai parlato, va tutto bene.
Andrà
tutto bene», si disse per infondersi coraggio. Avrebbe dovuto
passare una notte lì, la colazione la mattina dopo e il
pranzo. Per
fortuna, Maggie aveva pensato di proporle di andare a cena in un
localino del posto quella sera, se non altro; oltre a restare lontano
dai suoi genitori, potevano trascorrere del tempo solo per loro. Una
cosa normale dopo tanto, senza preoccuparsi dell'organizzazione o di
lavoro.
Il
D.A.O. stava lavorando sodo dall'arresto di Rhea Gand: anche se i
simpatici agenti degli Affari Interni non avevano speso una parola
per scusarsi, finalmente avevano ottenuto la revoca sull'obbligo di
fermarsi con l'indagine. L'organizzazione esisteva ufficialmente di
nuovo e anche se collegavano a quella donna il comando
dell'attentato, sapevano che qualcun altro si nascondeva nell'ombra
in attesa di essere consegnato alla giustizia. Il D.A.O. di National
City e l'inchiesta sull'organizzazione che durava da anni
rimbalzarono su tutti i giornali quando si parlava della vedova del
senatore Gand che, ora, oltre al resto, rischiava di essere imputata
per il suo omicidio. Cat Grant accettò diversi articoli che
ne
parlavano da altrettanti diversi punti di vista, tra cui quello di
Leslie Willis dal titolo Il
marcio e l'odio.
Alex aveva avuto occasione di leggerlo, non stupendosi delle parole
di riscatto usate per attestare la sua vittoria nei confronti di
colei che la voleva morta per censurarla. Sapeva che aveva parlato
anche con sua sorella, ora che la sospensione era finita, ma non
sapeva cos'avesse in mente per lei.
Rispose
a una telefonata di Maggie che si assicurava che non si fosse persa e
girò il volante per cambiare strada, iniziando a respirare a
pieni
bocconi. Ce la poteva fare.
«Questa
è la nostra indagine e voi qui siete solo degli
ospiti». Alex
ricordava quando John lo aveva precisato, riferendosi al capitano Zod
della polizia e a quello dell'FBI. «Gand resterà
agli arresti qui
al D.A.O. fino a quando non sarò io stesso a
deciderlo».
«L'indagine
sull'omicidio del senatore ha la priorità», gli
aveva rimbeccato il
terzo, tenendosi più indietro. «Perché
non ne fa parola con la
presidente? La chiami! La chiami adesso, su».
Si
trovavano all'interno della grande sala intorno a un tavolo tondo,
con gli agenti che lavoravano ai computer su grandi schermi. Nessuno
di loro si era perso il guardarsi attorno di Adrian Zod, fatto
accomodare nella tana del nemico. Apparentemente sulle sue, in
realtà
faceva molta attenzione a tutto ciò che vedeva o sentiva,
elaborando; serio e riflessivo, l'uomo aveva preso parola dopo un
altro urlo di John, che si era appoggiato contro il tavolo.
«Possiamo
estendere tutti i capi d'accusa in un unico processo e collaborare,
senza contenderci quella donna come un trofeo di caccia. Ne parleremo
col procuratore».
Alex
aveva avuto i brividi, osservando John Jonzz prendere piano respiro
mentre lo squadrava. «Già, perché non
collaborare? Può cominciare
col dirmi come facesse a sapere dell'attentato prima ancora che si
svolgesse. Ah, i suoi uomini infiltrati fra quelli di quella donna,
nelle fila degli aspiranti membri dell'organizzazione, che
chiaramente lei conosceva. Come dimenticare! E non aveva pensato di
fermare l'attentato sul nascere, invece di lasciare che si
propagasse, se conosceva la mandante?».
«Abbiamo
cercato di limitare i danni».
«Limitare
i da-», si era bloccato, «Delle persone sono morte,
altre sono
state ferite e lei poteva evitarlo», lo aveva accusato,
indicandolo.
«Non
conoscevo ogni punto dell'attentato, avrei rischiato di peggiorare la
situazione. Rhea Gand doveva essere colta sul fatto», aveva
prontamente ribattuto.
Al
suo fianco, Maggie aveva annuito e Alex aggrottato la fronte,
osservandola con preoccupazione mentre i due avevano continuato a
battibeccarsi.
«Tengo
a ricordarle, signor Jonzz, che non ho tenuto per me l'informazione:
l'FBI era a corrente della situazione e-».
L'altro
lo aveva interrotto, infastidendolo: «È chiaro che
l'FBI sia al
corrente molto più che della situazione».
Alex
vide l'uomo in giacca e cravatta sistemarsela e allontanarsi di
qualche passo, girando lo sguardo. Aveva subito sogghignato:
«Guardalo come fa orecchie da mercante».
«L'FBI
è sotto il controllo dell'organizzazione», aveva
bisbigliato
Maggie. «Charlie mi ha detto qualcosa, al
riguardo».
«Ha
detto cosa?».
«Ma
no, niente. Il Generale li tiene in pugno».
«Da
quando lo chiami Generale?».
Maggie
aveva scrollato le spalle, sorridendo. «Alex, fa parte del
gioco:
devo essere una di loro, se voglio che funzioni». L'aveva
vista
scuotere la testa, non certo convinta.
Alex
scosse la testa anche nel presente, facendo rallentare la macchina.
Aveva ripreso a piovere e si stava avvicinando alla casa. Una cena
solo per loro era quello che le serviva per ritrovare la
complicità
con la sua ragazza. Forse si stava solo creando paranoie inutili e
Maggie si avvicinava a loro davvero solo per lavoro, ma la paura che
l'organizzazione gliela portasse via non le faceva abbassare la
guardia, soprattutto dopo la discussione di quel giorno, quando John
le aveva prese da parte per dirle di non indossare più dei
microfoni
e di fingere di rinunciare alla missione per conto del D.A.O..
«Non
giriamoci intorno, signor Jonzz», gli aveva risposto Zod,
«So bene
che una parte della sua indagine porta il mio nome sopra».
Molti
agenti avevano smesso di digitare ai computer per voltarsi e
ascoltare. «Ha coinvolto una delle mie agenti, cercando di
mettermela contro. Un po' subdolo, ma se non altro ho potuto usare la
connessione tra voi per avvertire voi stessi dell'attentato. E ha
funzionato», aveva rimarcato, innervosendo John.
«Allora
perché non parlarne?», aveva alzato le braccia,
per poi metterle a
conserte. «Sappiamo che fa parte dell'organizzazione, signor
Zod.
Solo così poteva sapere dell'attentato e lo ha usato per
liberarsi
di un membro scomodo come Rhea Gand, con la stessa rete che sperava
di usare contro di lei. Voleva ucciderla e l'ha ripagata
incastrandola».
Avevano
visto Dru Zod sorridere per la prima volta. «Ha una fantasia
molto
vivida, signor Jonzz. Se queste sono le sue convinzioni, lo provi.
Fino a quando non avrà una prova che confermi la sua
brillante
teoria, temo dovrà lavorare con me e con l'FBI al caso della
morte
del senatore Gand».
John
odiava la sua arroganza. Dopo aver detto a Maggie di smettere di
portare i microfoni affinché lui si fidasse, si era
allontanato
rimarcando il fastidio: «Lo prenderemo quel figlio di una
buona
donna».
Alex
parcheggiò l'auto e, coprendosi con le mani la testa per via
della
pioggia, corse fino alla porta, prendendo fiato prima di suonare il
campanello.
L'agente
del D.A.O. l'aveva fatta accomodare all'interno di una saletta, dopo
un corridoio. C'erano due agenti di guardia, delle sedie e un
tavolino basso, nessuna finestra. Si sedette a gambe accavallate e
aprì la borsa con sé, ricontrollando per
l'ennesima volta se avesse
portato il bloc notes degli appunti. Sarebbe stato più
facile
presentarsi con la pillola rossa in circolo e senza il blocco che
sentiva in petto, ma forse la forte sensibilità che sentiva
era la
chiave per scrivere quell'articolo che, non sapeva se le avrebbe o
meno avviato la carriera ma, era probabilmente il punto di svolta
della sua vita.
La
porta si aprì, pensò fosse arrivato il suo
momento e si alzò, ma
qualcuno entrò e richiusero subito. Mike Gand si guardava
attorno e
sbuffò, mettendo le mani nelle tasche dei jeans. Le sorrise,
quando
la vide.
«E
dove sei, adesso?». Non avevano avuto modo di parlarsi dopo
l'attentato: come Selina Kyle, nemmeno lui era più tornato
al campus
e sapeva che per delle ore era stato trattenuto dal D.A.O., poi
più
nulla.
«A
casa», aveva alzato le spalle, mettendo anche lui le gambe
incrociate, distendendosi sulla sedia. «Hanno detto che
potevo
andare e allora… Sto cercando di capire cosa fare, quel
posto»,
scosse la testa, prendendo fiato, «quel posto non fa per me,
Kara. E
credo che lascerò gli studi».
Lei
si accigliò, sentendo un groppo all'altezza della bocca
dello
stomaco. «È-È per causa mia
o-».
«No»,
si affrettò, «È che neanche quello fa
per me! Devo… Devo capire
il mio posto nel mondo».
Lei
sorrise. Ora Mike era solo: senza di lei, sua madre in prigione, il
padre morto, Joyce non sarebbe mai più tornata a lavorare
lì,
mentre Cat Grant si stava prendendo cura di lei, preparandola per
testimoniare. Mike doveva ricominciare. Poi abbassò la testa
e lo
guardò con la coda dell'occhio. «M-Mi devo
scusar-».
«No,
non lo devi fare, Kara. Andiamo», rise. «In questi
giorni, ho
parlato con così tanti poliziotti, avvocati e psicologi che
ho
capito… Ero così cieco, non vedevo cosa stavi
passando anche a
causa di mia madre, quanto… quanto questa situazione fosse
grande»,
la guardò negli occhi. «Volevo solo che stessimo
insieme e credevo
che fosse questo che significasse amare qualcuno, non ti stavo a
sentire! Adesso che mia madre è stata arrestata,
credo… credo di
dover fare qualcosa per me, per la mia vita, ricominciare da qualche
parte, da solo», vide Kara deglutire appena
sussurrò quelle parole,
sapendo che diceva il vero. «Farà male, ma non mi
ami più, lo so,
devo lasciarti andare. Sei andata avanti senza di me e io come uno
sciocco a non capirlo», abbozzò un sorriso.
«Non lo volevo vedere.
Magari sono io che devo chiedere scusa a te».
«Lo
apprezzo», gli regalò un altro sorriso e
annuì, stringendogli un
braccio. «Come mai qui, oggi?».
«Pensano
possa fare il miracolo», strinse le labbra e sorrise.
«Mia madre
non parla se non tramite gli avvocati e per dire di essere finita in
un malinteso».
«Che
faccia tosta», brontolò, «Hanno le prove
audio».
«Sì,
beh, lei dice che quelle prove sono state prese senza autorizzazione
e che non saranno ammesse in tribunale. Pensano abbia ragione,
probabilmente, o non sarei qui».
«Vuoi
strapparle una confessione?».
«Tenterò.
Sarà la prima volta che la vedo da
quando…».
Gli
strinse le mani e si abbracciarono. «Andrò da lei,
dopo. Se non
dovessi riuscirci tu, con me lo farà».
Quell'ultimo
abbraccio, poi lo chiamarono e Kara attese altri pochi minuti. Mentre
lui veniva scortato davanti al tavolo che lo divideva da sua madre,
lei entrava nella saletta per rilasciare la sua testimonianza
sull'attentato, rivivendo il momento in cui lei e Barry Allen avevano
trovato il corpo dell'agente assassinato. Ogni dettaglio di quelle
ore era importante. Ogni battito del cuore, pensò Mike,
deglutendo
con terrore nel vedere lo sguardo sorpreso di Rhea; poi commossa si
era alzata in piedi per raggiungerlo, fermata dalle manette che la
tenevano legata al tavolo e da due agenti vicini. Era rimasto
impalato, prima di decidere di sedersi e parlarle. Ogni goccia di
sudore che aveva solcato il viso di Kara che correva per raggiungere
Lena alla Luthor Corp, con la testa piena di scenari raccapriccianti
che si sarebbero potuti avverare da un attimo all'altro. Ogni passo
verso la meta sempre più lento, mentre l'effetto della
pillola che
avrebbe dovuto schermarla da quelle sensazioni scivolava via dal suo
corpo. Ogni pensiero di rabbia, nel sentire Rhea dire che lo aveva
fatto per lui, per un futuro migliore, ribattendo che lo aveva fatto
per lei, per lei e per lei soltanto. Che lui era lì, con
Kara. Così
com'era presente quando lei aveva sparato a suo padre. Ogni brivido,
come quello provato da quella donna nel capire che il figlio diceva
il vero, anche se provava a negare e gridare che erano stati loro
a farglielo dire. Ogni fitta, pensò Rhea, nel sentire che
lui
avrebbe testimoniato contro di lei; quella del sapere di essere
traditi dal sangue del proprio sangue, e lo pensò anche
Mike, perché
suo padre non c'era e non sarebbe tornato. Come non sarebbero tornati
i genitori di Kara, morti per la sua sete di potere.
Dopo
aver testimoniato e giurato che lo avrebbe ripetuto in tribunale,
Kara aspettò di poter essere lei a parlare con quella donna,
bloc
notes in mano. E, questa volta, non si sarebbe fermata. Era pronta ad
affrontarla, si disse, reggendosi lo stomaco.
«Un
articolo?», aveva chiesto a Cat Grant, nel suo ufficio alla
CatCo.
«Un
articolo, hai presente, Keira? Quelli per cui vorresti essere
assunta?». L'aveva vista arrossire dall'imbarazzo e
avvicinarsi di
più verso la scrivania, così la signora Grant
aveva continuato:
«Ricordi quando ti dissi che un giorno ti avrei chiesto di
dirmi
cosa voleva da te il senatore? Te lo sto chiedendo ora e-ah-ah»,
l'aveva bloccata con il palmo di una mano bene in vista. «Lo
scriverai in questo articolo. Parlerai del senatore, di sua moglie e
del tuo rapporto con entrambi, di come abbiano deciso e posto fine
alla vita della tua famiglia. Di come abbiano cercato di uccidere te,
persona scomoda». L'aveva indicata e Kara era rimasta ferma.
«La
verità, Kara Danvers. La tua e quella che raccoglierai. Sei
pronta!
L'articolo uscirà il giorno del processo, te lo assicuro. A
dispetto
di qualunque verdetto, quella sarà la verità e lo
verranno a sapere
tutti. A National City. Ovunque».
La
verità. Nient'altro che quella.
Entrò
in quell'aula dopo aver mangiato qualcosa, sentendo la pressione del
sangue salire e la brutta voglia farle girare lo stomaco, scorgendo
Rhea che batteva le unghie sul tavolo, scocciata che suo figlio se ne
fosse andato ma che le visite non erano finite. La vide cambiare
espressione quando si accorse di lei; infastidita, adirata. La odiava
più di ogni altra cosa al mondo. Le disse di non aveva nulla
da
dirle, ma lei sì e sarebbe stata costretta ad ascoltarla.
«Mia
madre si chiamava Alura Inze ed era una giudice, una di quelle brave.
Sapeva fare il suo lavoro e non aveva paura di te. Ma tu sì.
E
tanta», la guardò negli occhi e Rhea non mosse un
sopracciglio.
«L'hai fatta uccidere perché non si sarebbe
piegata a te, perché
con la sua morte potevi dare un segnale ai membri
dell'organizzazione, far vedere che potevi occuparti di loro, non
è
così?». Oh, non avrebbe risposto. «Il
segnale doveva essere forte,
per questo hai chiesto che fosse fatta esplodere la casa. Lei, mio
padre, i miei zii. Quasi dodici ann-».
«Non
so di cosa tu stia parlando», le ringhiò contro,
ma Kara aveva
appena iniziato.
«Basta
mentire, sei qui! Credi che i tuoi avvocati riusciranno a farti
rilasciare?», aggrottò la fronte, «I
soldi non possono tutto,
Rhea. Sei fregata! Non hai più i tuoi appoggi, perfino il
sindaco
non vuole più avere a che fare con te, dopo ciò
che hai fatto. Sei
con le spalle al muro. Mio cugino ed io siamo scampati a quella sorte
per caso», ricominciò, mentre lei la fissava senza
espressione. «La
notizia di saperci vivi doveva averti fatto andare di traverso i
pranzi di Natale degli ultimi anni, immagino», strinse le
labbra,
incurvando la testa all'indietro mentre riprendeva a camminare
davanti al tavolo. Poteva continuare? Sentiva come delle unghie
raschiarle lo stomaco e le girò la testa. Ma quella era la
resa dei
conti, non poteva scappare: «Soprattutto dal momento che quel
gesto
non ha subito l'effetto sperato, no?», gesticolò,
squadrandola.
«Perché non sei salita sul trono, ti hanno
fregata. Peggio ancora
dev'essere stata quando tuo figlio ha presentato la sua ragazza a te
e tuo marito», si fermò, le mani sul tavolo.
«Me.
Ti ricordavo la sconfitta?».
Finalmente
si mosse una ruga sul suo viso. Chiese agli agenti di riportarla
nella sua cella, ma non sarebbe andata da nessuna parte: era sua.
«Mike
mi amava».
«Attenta
a quello che dici».
«Oppure?»,
strinse gli occhi, scrollando le spalle. Non le faceva paura.
«Ti
dava fastidio che mi amasse, non è vero? Ti ha sempre dato
fastidio.
Tuo figlio non poteva stare con me, una El; rappresentavo i tuoi
sogni infranti. E hai provato a separarci, ma Mike ha preferito
allontanare te, invece di me». Non le faceva paura lei, ma
quello
che rappresentava e quello che le mancava per colpa sua.
«Sono
riapparsa per rovinarti la vita, vero? Forse-Forse è questo
che devi
aver pensato! Hai ucciso i miei genitori, ma io ero lì, con
tuo
figlio, e tu-».
La
donna scattò: all'improvviso si lanciò contro il
tavolo con ira e
gli agenti del D.A.O. si gettarono su di lei per fermarla, a fatica.
«È tutta colpa tua», urlò,
«Saresti dovuta morire quel giorno
con quella sfrontata di tua madre; avrei dovuto farti dare la caccia
come un animale! È solo per Lar che non ti ho fatto uccidere
quando
eri bambina, non avrei dovuto dargli retta! Sei uguale a lei, a tua
madre; una rovina per Mike e per me! E giuro che se esco di qui, io
lo giuro, ti ucciderò io stessa».
Kara
si mantenne indietro, deglutendo. Sentì gli occhi azzurri
inumidirsi
e la fissò con attenzione, intanto che gli agenti la
rimettevano giù
con la forza, continuando a dimenarsi. «Sì,
Rhea», scosse la
testa, per poi alzarla con orgoglio. Non sapeva se sarebbe tornata
utile come confessione, ma bastava a se stessa. Ce l'aveva fatta, era
una vittoria. «Hai ragione quando dici che sono come mia
madre»,
gonfiò il petto, stringendo un pugno, «Ma tu non
uscirai mai più
di qui. Ho aspettato anni per questo e ora… ora è
finita». Le
vennero in mente le parole usate da Zod parlando con Lillian, come le
disse Lena. «È finita e te ne renderai conto anche
tu». Uscì
dalla sala ascoltando le sue grida, capendo che era bastato poco, in
fondo, per farla crollare e, quando chiuse la porta, sorrise,
scoccando una lacrima.
Per
certi versi, era un paradosso: per scrivere la parola fine
e ricominciare la sua vita, Kara doveva rivivere tutto quel che era
stato. Com'era la sua infanzia prima che i Gand e l'organizzazione
gliela portassero via? Era notte e Megan borbottava nel sonno come
suo solito mentre lei, davanti alla scrivania e sollevata sulla sedia
con gambe incrociate, stendeva la prima bozza dell'articolo. Come
sarebbe stato adesso se non avesse conosciuto Mike? Quel figlio avuto
da una gravidanza non cercata, portata avanti per volere di Lar,
probabilmente l'unico che lei avesse mai amato; ricordò una
foto in
particolare nel loro salotto, dove lei stringeva il piccolo fra le
braccia. Che premeditato scherzo del destino innamorarsi di lui per
cercare un futuro e trovare il passato. Ora anche il loro capitolo
era finalmente concluso, Kara lo sentiva. A differenza delle altre
volte, Mike era pronto per trovare la sua strada e lei per capire
come riappropriarsi della propria.
Anche
Lena sentiva che con l'avvicinarsi del processo di Rhea si chiudeva
una porta per lasciare spazio ad altro. Era il riscatto di Kara, ma
anche il primo pezzo dell'organizzazione che veniva sradicato, un
passo in più verso lo scoprire cosa ne era stato di suo
padre. Fu in
quel momento che pensò a Indigo: lei poteva davvero saperne
più di
lei e non faceva a meno di ricordare quando, la prima volta che
l'aveva contattata, le aveva detto di sapere cosa gli era successo.
Sarebbe stato il caso di chiederglielo? Poteva fidarsi, arrivate a
quel punto?
Provò
a chiudere gli occhi, ripensando alla testimonianza che aveva dovuto
rilasciare al D.A.O.: di come aveva agito in fretta, aveva visto il
suo assistente a terra e dopo aveva digitato la password per aprire
un cassetto sulla scrivania, stringere la pistola fredda custodita al
suo interno.
«Ha
sparato?», le avevano chiesto. «Ha mai sparato,
quel giorno,
signorina Luthor?».
«No».
«E
dove si trova la pistola di suo padre, in questo momento?».
Lei
aveva scosso la testa lentamente, con bocca aperta.
«Non… Non si è
più trovata».
Riaprì
gli occhi, deglutendo e rimettendosi a pancia in su, sul letto.
Sentiva ancora il freddo metallo della pistola fra le dita. Suo padre
avrebbe sparato, nella sua situazione? Era sicura che lo avrebbe
fatto.
In
casa Sawyer, nel paesino natale di Maggie, neanche lei e Alex
chiudevano occhio. Avevano passato una bella sera a cena fuori e
avevano provato a distrarsi ma, una volta sdraiate, le loro menti si
accesero come un faro sulle questioni irrisolte. Sdraiate sul
materasso di un divano letto, controllavano con apprensione che, nel
lato opposto della stanza, Jamie dormisse sul lettino. Il suo leggero
russare le rassicurava, dandole un senso di protezione. Alex
lasciò
un bacio sui capelli di Maggie e la strinse più forte a
sé. La
sentì ridacchiare, a un certo punto.
«Penso
che ci abbiano sentite rientrare, prima».
«Sono
quel tipo di persone che origliano?».
«Come
non ne hai idea, Danvers. Controllano ogni nostra mossa».
Oh,
rassicurante. Come se di pensieri non ne avessero altri.
Quando
Kara arrivò in villa, fu Lillian ad aprirle. Lo sguardo
tirato,
doveva sicuramente trattenere il respiro. «Ciao, Kara.
Benvenuta».
Mantenendo
un improvviso broncio, le passò davanti degnandola di appena
un'occhiata, incontrando lo sguardo di Lena davanti all'ingresso. Oh,
era già lì. Indossava un abito stretto e i
tacchi: perché nessuno
le aveva detto che doveva presentarsi in modo formale? Guardando
Lillian con la coda dell'occhio, notò che vestiva un
tailleur. E
perché farlo, poi? Non erano forse in famiglia? Si
scambiarono un
tepido sorriso e la ragazza sparì, così anche lei
si dileguò in
cucina. La salutò appena, accidenti. Per quanto ancora tra
loro
sarebbe stato un continuo alti e bassi?
Sapeva
che Marielle non ci sarebbe stata, poteva girare indisturbata in
cucina. Aprì il forno e chiuse gli occhi, spalancando le
narici e
beandosi del buon profumino delle cosce di pollo con contorno di
patate e verdure. Ma dov'erano le uova ripiene?
I
passi si interruppero davanti all'ingresso ed Eliza si portò
le
braccia a conserte. «Kara», strillò.
La
ragazza si voltò di scatto dallo spavento, con mezzo uovo in
bocca e
l'altra metà in mano. «Oh, gacie»,
bofonchiò, masticando. Alla sua espressione confusa,
ingoiò in
fretta. «Sei vestita come una persona normale».
Pantaloni e
maglione, di colpo i suoi jeans e camicia non sembrarono più
fuori
luogo.
«Lasciane
per pranzo», le aveva indicato la mano sinistra che, furtiva,
stringeva un altro uovo davanti alla teglia. La vide sorriderle e
finire la metà nella mano destra, avvicinandosi.
«Come sta la tua
amica?».
«Amica?».
«La
signorina Smythe».
«Amica»,
rise, con il mezzo uovo in bocca. «Ha iniziato la
fisioterapia,
presto potrà camminare aiutata dalle stampelle. Si
riprenderà alla
svelta, vedrai, quella è tipo il diavolo in forma
umana».
«È
bello che tu le sia così vicino», sorrise con
orgoglio e Kara non
aggiunse nulla, perdendo per un attimo la sua espressione allegra:
lei non sapeva quanto si sentisse in colpa, invece. «Sei una
ragazza
eccezionale, lo sai. Te lo dico sempre e-».
«Non
perdonerò Lillian», la interruppe, facendole
serrare le labbra con
una smorfia.
«Oh,
Kara. Sei tremenda». Le prese le mani e poi, vedendo che
erano
oleose, le passò un fazzolettino dal piano in cucina,
riprendendo le
mani pulite con le sue. «Non ti avrei chiesto di perdonarla,
questa
è una cosa che può venire solo da dentro di te. E
hai ragione, lo
sai che sarò sempre dalla tua parte», le
carezzò una guancia,
costringendola a guardarla negli occhi, che Kara aveva abbassato.
«Vorrei solo che non ti chiudessi
perché-».
«Perché
è tua moglie e quindi parte della mia famiglia».
Eliza
annuì. «Lillian ha fatto tante cose di cui si
vergogna e si pente,
sta cercando di ricominciare e-», strinse gli occhi,
«Ti ricordi
quando ruppi il vaso in argilla di Jeremiah?».
Kara
gonfiò le guance. «Ho chiesto scusa mille volte
nell'ultimo
decennio».
Lei
rise. «Non è passato un decennio! Non ti piaceva e
lo avevi rotto
di proposito, Kara, Jeremiah era molto deluso».
«Lo
so, me ne sono- ah.
Pentita», si morse un labbro, girando di nuovo lo sguardo.
«Non
ti aveva rivolto la parola per tre giorni».
«Almeno
un mese».
«Tre
giorni, Kara. E gli avevi chiesto scusa perché-».
«Perché
ci teneva e non volevo che guardandomi pensasse solo al vaso rotto!
Ma, Eliza… Lillian non mi ha rotto un vaso».
«No,
infatti. Stavi male per un vaso, pensa a quanto possa star male lei
per questo», le strinse le mani con più forza,
accarezzandole. «Ci
ha nascosto la verità e sta pagando per questo. Non ti
chiedo di
perdonarla, ma di non pensare continuamente a ciò che ti ha
fatto
quando la guardi perché ci sta provando e le dispiace. Se
non lo
fai, è come se non avesse altro da dare come persona, o come
membro
di questa famiglia», le sorrise. «Senza mettere in
conto la rabbia
che provi e non meriti». Lena stava entrando e le vide,
così si
fermò, tornando due passi indietro attenta a non sbattere i
tacchi.
Voleva andarsene subito ma:
«Forse
me la merito».
«Cosa?
La rabbia? È per Lena, che lo dici?». Tese le
orecchie,
appiattendosi al muro. «Come va tra voi?».
«Bene.
Sì. Insomma… credo».
«Credi?».
«Forse».
«Kara»,
udì la voce di Eliza e Lena sospirò, alzando gli
occhi al soffitto.
«Non avete fatto pace?».
«N-Non
abbiamo da far pace», ridacchiò.
«Lei
è sicura di sì».
«Te
ne ha parlato?». La voce di Kara cambiò tono,
diventando più
bassa.
«Non
proprio, si tiene per sé le cose ma… si intuisce.
Ci sta male,
Kara». Lena chiuse gli occhi e trattenne il fiato, a quelle
parole.
«Si sente in colpa, lo so. Sono abituata ad avere a che fare
con
Lillian e Lena, in confronto, è un libro aperto. Almeno su
questo»,
prese una breve pausa, «E mi chiedo come abbia fatto a non
capire
molto prima di voi due perché, adesso che lo so,
è così palese
che…».
«Ho
fatto una scemenza».
«Di
cosa parli, tesoro?». Lena trattenne il respiro, chiudendo
gli
occhi.
«N-Non
stavo bene e-e ho detto una cosa cattiva. A Lena. La rabbia che provo
mi fa comportare da stupida e in quel momento non me ne sono resa
conto e-e poi… poi però le ho chiesto scusa, ma
non credo che
basti».
Anche
Eliza cambiò tono di voce. «Erano sincere? Le tue
scuse erano
sincere?».
«Certo
che lo erano», rispose come se si sentì accusare.
«Forse
sei tu che non ti perdoni e, per questo, ti sembra che scusarti non
sia sufficiente».
Kara
non disse nulla per qualche secondo e Lena sospirò,
emettendo un
verso soffocato in gola. «I-Io la amo, Eliza. L-Lo so che
è strano,
che non doveva succedere o-».
«Va
bene, Kara. Va bene per me».
«Le
cose tra noi sono strane, adesso, e vorrei solo… Vorrei solo
non
averla ferita perché se prima pensavo di avere una cosa da
risolvere, con lei, o-ora ne ho due», prese una pausa. Lena
intuì
che la sua voce si affievoliva ancora, si strozzava: piangeva?
«Non
si meritava quello che ho detto. E Siobhan…»,
prese un'altra
pausa. «Non sono la brava ragazza che pensi».
«Cosa
c'entra lei?».
«Ero
al telefono con lei, quando hanno assalito la CatCo. Dovevo
raggiungerla, Eliza, ma non l'ho fatto e lei-».
«No»,
la voce della donna si era fatta categorica, sopra la sua.
«Questo
ti proibisco anche solo di pensarlo. Ciò che le è
successo non è
colpa tua».
Lena
sospirò, sentendo quelli che dovevano essere singhiozzi.
«Sai cosa?
Vorrei ricominciare tutto daccapo, con lei».
«Siobhan?».
«Lena.
Dimenticare ciò che ha fatto». Lena scosse la
testa e si allontanò,
piano. «E ciò che le ho detto io».
«Questo
è impossibile, Kara. Ma se davvero la ami, saprai cosa fare.
Adesso
smetti di piangere, dai». Si sorrisero ed Eliza
lasciò che rubasse
un altro uovo ripieno. «E comunque non ti ho mai ringraziato:
quel
vaso era orrendo». Finalmente le vide fare un sorriso.
Lillian
alzò un sopracciglio con curiosità, scorgendo sua
figlia ciondolare
verso il salone. «Sei rossa, Lena. Hai sbattuto la faccia da
qualche
parte o devo supporre ci sia di mezzo Kara?».
Lei
serrò le labbra, osservandola sistemare la tavola con le
ultime
accortezze e piegando i tovaglioli di stoffa: non la vedeva fare una
cosa del genere da… ah,
mai. «Non parlarmi come se tutto fosse a posto».
«Dovrai
perdonarmi, prima o poi. Sono tua madre, Lena. Che ti piaccia oppure
no».
«Questo
mi rende solo più difficile allontanarmi da te»,
rimbeccò
glaciale.
Lena
aveva guardato Lillian, Lillian lei e Kara, Kara aveva guardato Lena,
Eliza le figlie e dopo Lillian. Il pranzo era stato lento all'inizio,
e silenzioso, dove ognuna di loro ascoltava solo i propri pensieri e
il masticare, e tutte il masticare di Kara, che sembrava una
macinacaffè, ma soprattutto fu…
«Terribile»,
sussurrò lei al cellulare, guardandosi intorno: c'era molto
chiasso,
i bambini nel parco gridavano e correvano alla ricerca delle uova
nascoste, era pieno di coppiette e famiglie felici, e lei si era
dovuta coprire con un cespuglio per rispondere. «È
stato terribile,
Alex! Dove sei? Finiranno le uova».
«Siamo
vicine, lo so, oggi il tempo non sembra trascorrere e c'è
traffico»,
la sentì sospirare, «Jamie
non vedeva l'ora di andare a caccia. Ora dorme».
Kara
sventolò l'unico che aveva in mano, trovato lì
dietro, pensando che
ne avrebbe raccolte altre per lei.
«Comunque»,
disse Alex, «per
quanto terribile, non deve esserlo stato quanto il nostro
pranzo».
«Volete
fare a gara, per caso?», gonfiò il petto.
«Quando Lillian ha ben
pensato di tirare fuori l'argomento me e Lena insieme, Eliza ha
capito che siamo state intime e si è messa a dire che siamo
fortunate a essere entrambe ragazze mentre mangiavamo le uova
ripiene, perché-».
«Oh,
ha fatto le uova ripiene»,
sentì Alex in un lamento.
«Che
buone»,
sentì anche Maggie.
«Ragazze?
N-Non è quello il punto», sbottò.
«Ha parlato di come lei, alla
nostra età, doveva pensare alle protezioni».
«Ow»,
risposero insieme.
«Potete
capire l'imbarazzo generale», emise Kara, mettendo un braccio
su un
fianco. «Comincio a pensare che Lillian non sia l'unica ad
alzare il
gomito, di tanto in tanto. Però sì»,
sorrise, «le uova ripiene
erano davvero buone».
«Beh,
non è che a noi sia andata molto meglio»,
proseguì Alex, ricordando il pranzo:
La
madre di Maggie aveva guardato Jamie, Jamie le polpette, Maggie aveva
guardato entrambi i suoi genitori, suo padre Alex e Alex aveva
fissato il piatto, seguendo pochi e precisi movimenti per non
attirare l'attenzione. Purtroppo, non sarebbe stato sufficiente.
«Sei
mai stata con degli uomini, Alex?», aveva chiesto l'uomo e
lei era
sbiancata, soffocando con un pezzo di carne in bocca.
«Lillian
ci ha chiesto se abbiamo avuto degli appuntamenti per capire che
volevamo stare insieme», tuonò in uno sbuffo Kara.
«Mio
padre ha fatto il paragone tra gli uomini con cui è stata
Alex e il
mio ex serio»,
proseguì Maggie.
«Beh,
Lillian ha chiesto se abbiamo fatto sesso in villa»,
continuò,
gonfiando le guance. «Beh, n-non con queste parole, ma- Si
è fatta
capire chiaramente. Molto
chiaramente. Eliza era più rossa di noi due e probabilmente
anche dei
drappi dei
toreri alle
corride».
«Suo
padre ha chiesto se non avessi voluto dei figli»,
proseguì Alex, «Perché
con loro non ne ho avuto».
«E
nella nostra camera in casa Danvers. O
Danvers-Luthor,
insomma. Perché siamo giovani e bla
bla».
«E
ha continuato- cosa?
Avete fatto sesso nella nostra
camera?».
Maggie
si mise a ridere: «Due
ragazze attratte l'una dall'altra che dormono vicine nella stessa
stanza: ehi, chi ci avrebbe mai pensato?».
«Certo
che ci ho pensato, però-».
Kara
arrossì, spalancando gli occhi. «N-Non erano
domande da porre, in
qualunque caso. E quella camera non è più tua da
tempo, sorellona»,
sbuffò. «Dopo ci ha chiesto se siamo convinte di
essere anime
gemelle e se saremmo tornate a stare insieme».
«Sì»,
aveva annuito Kara a quella domanda, «Probabilmente, voglio
dire».
Si era voltata a Lena che aveva messo i gomiti sul tavolo solo per
poggiare la testa e ascoltarla, sfoggiando un ambiguo sorriso.
«N-Noi
sì, emh», si era leccata le labbra e aggrottato la
fronte, cercando
di capire che cosa volesse dirle con quello sguardo. «Abbiamo
avuto
dei… delle difficoltà, un momento,
ma-», aveva alzato la
forchetta con un boccone pronto, continuando ad annuire,
«passerà».
L'aveva riguardata, ma Lena si era limitata a fissarla:
perché non
era intervenuta?
«Io
devo fare la pipì»,
sentì Jamie a un certo punto, appena sveglia. Alex chiuse la
chiamata per l'urgenza e Kara ansimò, prendendosi un momento
per
capire cosa fare con Lena e, ricordando il suo sguardo a tavola,
cercare di decifrarlo. Le era sembrata molto chiara quando si erano
ritrovate dopo l'attentato e si erano abbracciate e baciate, e sapeva
che avevano delle cose da lasciarsi indietro, ma quello sguardo
perché? Girò il cespuglio, scontrandosi contro
qualcuno, perdendo
l'uovo colorato con pallini sull'erba.
«Oh,
ti chiedo scusa». Quella ragazza si abbassò per
riprendere l'uovo e
glielo porse, sorridendo.
Kara
lo riprese con mano e fissò lei finché si
allontanava. Aveva uno
strano sorriso, pensò. Bionda, una lunga treccia. Le
sembrava di
averla già vista da qualche parte, ma dove?
«Chi
era?».
Sussultò,
trovando Lena improvvisamente vicina. «Mi hai fatto
spaventare»,
sorrise, «Ci sono andata addosso»,
scrollò poi le spalle,
osservandola. «Sono più adatti per la caccia alle
uova», rise, «I
jeans, intendo». Stava così bene con i capelli
raccolti in una coda
e gli occhiali da sole.
«Eliza
mi ha detto dov'eri, credo abbia secondi fini», si
voltò verso lei
e Lillian, sedute su una panchina fuori dal parco.
«Dà
anche a te questa impressione? Tua madre odia la possibilità
di noi
insieme ma lei… penso che ci shippi».
«Shippa
la Karlena», le annuì, guardandola. «Ne
sono sicura».
«Karlena.
Mi piace», rise e le mostrò l'uovo. «Per
te. Ne cercherò altri
per Jamie».
Lena
lo prese e sorrise, ma la sua espressione si indurì a breve.
«Dobbiamo parlare, Kara». Erano così
vicine che temette potesse
percepire la sua tachicardia. «Che ne dici se andassimo da
qualche
parte?».
La
guardò a bocca aperta, accigliandosi. «D-Devo
cercare le uova»,
rise con imbarazzo, «Non possiamo parlarne qui? So di cosa
vuoi
parlare».
«Sì?»,
alzò un sopracciglio. Kara si tirò dietro il
cespuglio e la seguì.
«Al
pranzo, mh… Ho detto qualcosa che non dovevo?
P-Perché tu non hai
detto nulla e-», lasciò la frase a mezz'aria,
notando il suo
impaccio.
«No»,
ansimò, spostandosi di poco. «O meglio sì.
Non so come dirtelo, ma… Non si può ricominciare
come vorresti».
«Non
ti seguo». Il suo cuore iniziò a battere frenetico
e lo stomaco a
rigirare su se stesso: l'astinenza si faceva sentire più
forte
quando di mezzo c'era lei, non se ne stupì, la metteva in
subbuglio
facilmente anche senza quella sensibilità amplificata, e
adesso…
Lena abbassò gli occhi e Kara si imbrunì di
nuovo, trattenendo il
fiato.
«Ti
ho sentito quando ne parlavi con Eliza, scusami. Ti avevo promesso
che saremmo sempre state sincere tra noi e non ho mantenuto quella
parola, non puoi fingere che non l'abbia fatto, Kara», si
morse il
labbro inferiore, riguardandola. «Non voglio che lo
dimentichi, ma
che riuscissimo a superarlo»,
prese una pausa, cercando le parole, «Tu no? O tra noi, con
tutta
onestà, non penso funzionerebbe».
Lei
strinse le labbra, spostandosi dallo starle tanto vicina.
«Cosa vuoi
dire? C-Che devo prendermela per forza con te? È questo che
vuoi?».
Lena la fissò, i suoi occhi mai così freddi.
«Va bene, allora»,
corrugò le labbra, reggendosi lo stomaco. «Mi sono
sentita tradita,
mi ha dato fastidio perché me lo sarei aspettato da tutti ma
non da
te, Lena! Non da-», si fermò, reggendosi di nuovo
mentre lei
stringeva le labbra e alzava la testa. Era una fortuna che intorno ci
fosse così tanta gente e una musica trasmessa dagli
altoparlanti,
dando loro una parvenza di privacy. «Volevi sentirti dire
questo?».
Lena
scosse la testa, voltandosi solo per un momento. «Andiamo a
parlarne
da un'altra parte, va bene?».
«No,
non voglio andare da un'altra parte perché-»,
deglutì, «Perché
non voglio litigare con te».
«Come
non volevi dirmi quanto ti fossi sentita tradita?», non
aspettò che
le rispondesse. «Scappavi da questo, Kara»,
esclamò a voce alta.
Kara non voleva litigare, ma Lena non pensava che ci sarebbe stato
altro modo per affrontare ciò che avevano dentro, a quel
punto. Era
inevitabile e si sentiva come un vulcano pronto a esplodere. Forse,
questa volta, avrebbe potuto lasciarsi andare invece di chiudere
tutto in se stessa. «Non dirmi che non è
così! Dovevi farlo
uscire, prima o poi. Finalmente hai avuto la decenza di confessarlo.
Sì, quindi, volevo sentirlo». Lasciò
che l'uovo scivolasse
sull'erba e strinse i pugni, gli occhi lucidi.
«Cavolo,
ho sempre capito perché lo hai fatto e non volevo
rigirartelo».
Trattenne di nuovo il fiato e Lena adocchiò con
curiosità come si
reggesse lo stomaco. Di nuovo. «Ho odiato che lo sapessi,
l'ho
odiato, Lena! I-I miei genitori sono morti davvero tanto tempo fa e-
p-per quanto la cosa possa ancora farmi male-».
«Certo
che ti fa male! Non pretendo che ti passi solo perché scorre
il
tempo».
«Per
quanto possa farmi ancora male, Lena… Non era quello il
punto!
Okay? Non era quello… Avrei voluto sapere subito che la
ragazza di
cui mi sono innamorata, che la sua famiglia, avesse a che fare con
quello. Ho-Ho odiato che lo sapessi perché lo hai tenuto per
te
invece di affrontarlo insieme a me, ma non volevo dirtelo. N-Non
volevo dirtelo perché non volevo che stessi male per colpa
mia e-».
«Ma
è successo, Kara», sbottò a un certo
punto, stupendosi lei stessa,
lasciando l'altra immobile. Il viso le diventò rosso e si
trattenne
indietro, mantenendo le lacrime.
«P-Pensavo
che avrei potuto tenermi per me la delusione…»,
scosse la testa e
si morse il labbro inferiore, «Pensavo che mi sarebbe
passata… Non
volevo ferirti».
«Sai
cosa? Lascia stare, questo è stato un errore», si
voltò per
andarsene e Kara scosse la testa, spingendosi in avanti per
raggiungerla: non ce ne fu bisogno, Lena tornò indietro e
cambiò
idea all'ultimo. Avrebbe voluto andarsene eccome ma, se lo avesse
fatto, non ci sarebbero stati più ponti per comunicare con
lei, lo
sapeva. L'avrebbe persa, arrivate a quel punto, perché
questa
discussione poteva essere il loro inizio… o la fine di
tutto.
Valeva la pena rischiare? Cos'era tutto questo, se non qualcosa per
ritrovarsi?
«Un
errore?», la sentì ribattere, «U-Un
errore cosa?
Tirarmi fuori queste parole con le pinze o riavvicinarti a me, o-o
stare con-».
«Non
lo dire», la fermò, severa. «Questo non
lo dire o te ne
pentiresti. Tu credi davvero… insomma, di avermi protetta
facendo
come hai fatto? Non pensi che sapere di averti fatto del male,
aspettando a quando me lo avresti rinfacciato, cercando un modo per
farmi perdonare, mi abbia fatto sentire peggio?»,
piegò le labbra,
portandosi una mano sul petto e vide Kara tornare indietro di un
passo, massaggiarsi lo stomaco e, per un attimo, piegarsi in avanti.
«Stavi male, Kara, ma stavo male anch'io… E-E tu
non te ne sei
nemmeno accorta». Non aspettò che le rispondesse
e, dopo una breve
pausa, continuò, facendo la voce grossa: «Ti ho
mentito perché
avevo paura», strinse i denti, «A volte le cose non
vanno come sono
state programmate, Kara», si leccò le labbra con
un gesto
involontario, chiudendo un pugno. «Credi di essere perfetta?
O
pensavi alla nostra relazione come a una favola, dove saremmo sempre
state felici e sorridenti? Benvenuta nel mondo reale! Perché
io sono
reale, molto reale, e mi hai pugnalato più volte e sono
stata zitta
perché mi sentivo in colpa», le si ruppe la voce e
tornò un altro
passo indietro, prendendo fiato. «Nel mondo reale, le cose
non vanno
sempre come vorremmo», aggiunse a fatica.
Kara
iniziò a piangere, piegando le labbra. Ricordò in
quel momento,
come se la sua testa non aspettasse altro, il giorno in cui si erano
conosciute. «Sai,
potevi farmi male»,
le aveva detto. «Sul
treno, prima di scendere. Stavo per cadere».
Lena
aveva riso, girandosi verso di lei. «Credimi,
se avessi voluto farti male, te ne saresti accorta».
Se
n'era accorta, adesso. Le fece male perché le
sbatté in faccia la
verità e la riconobbe come tale; riconobbe com'era stata lei
a far
male a Lena. Perché era vero che non si era accorta di lei,
troppo
occupata a cercare di trovare un modo per proteggere se stessa da
ciò
che stava succedendo. Ciò che le aveva fatto Mike, lo aveva
riflesso
su Lena senza accorgersene. E come poteva Lena perdonarla, adesso?
Kara fece una smorfia con le labbra e si piegò ancora
più in
avanti, iniziando a respirare con affanno. Non riusciva a fermarlo e
le unghie che raschiavano all'interno del suo stomaco la stavano
lacerando. Ma non avrebbe voluto mostrarsi così, non avrebbe
voluto
e tentò di trattenere il fiato e rimettersi dritta con la
schiena.
Non voleva che Lena pensasse che stesse cercando di attirare
l'attenzione su di lei, o una scusa per farsi compatire,
eppure…
«Adesso
capisco», sussurrò Lena con fiato corto e Kara la
scrutò. «Il
cambiamento in te. Ha senso. Hai preso quelle pillole, non è
vero?
Sei in astinenza? Come ho fatto a essere così
cieca?!». La fissò
come cercava di reagire, immobile. «Ne è valsa la
pena, almeno…?
Ti ha fatto stare meglio?».
Kara
si mise dritta e trattenne il fiato più che poté.
«No», rispose
poi, piano. «No. Mi ha permesso di farti del male.
Ma… non ho
scuse», parlò a scatti e deglutì,
«Sapevo cosa facevo… era un
errore». Ogni volta che parlava, una fitta le comprimeva il
ventre.
«Sapevo cosa facevo…».
Una
sirena si levò sul parco, così entrambe alzarono
lo sguardo agli
altoparlanti: la caccia alle uova doveva essersi conclusa, accidenti.
Lena le sorrise con amarezza e tornò indietro, seguita con
lo
sguardo da una ragazza lontana:
«Avevo
ragione su Kara Danvers», sibilò lei, abbassando
il cellulare e
staccando la sirena. Indigo le tenne d'occhio ancora, spalancando gli
occhi, cercando di capire perché, invece di lasciarla sola,
Lena
stesse tornando indietro per porgerle una mano.
«Andiamo»,
disse quasi in un bisbiglio, calma. «Vieni con me. Vorrei
farti
degli esami e darti qualcosa».
Kara
fissò la sua mano e, come se il tempo si fosse fermato,
comprese
quanto quel momento sarebbe stato cruciale. Poteva rifiutare il suo
aiuto e andarsene da sola, oppure accettare e accettare anche tutto
ciò che era successo. Preferiva la rabbia e la paura, o
preferiva
Lena? Alzò la mano e gliela strinse, facendosi aiutare a
tirarsi in
avanti.
Si
dispiacque di non aver potuto cercare uova per Jamie e di non averle
fatto compagnia quando sarebbe arrivata, ma sapeva che non ci sarebbe
mai stata scelta migliore se non seguire Lena, in quel preciso
momento. Alla Luthor Corp, la fece sdraiare su un lettino e la tenne
d'occhio mentre andava avanti a indietro, prendendole del sangue e
misurandole la pressione. Ogni volta che la toccava, era un fuoco
sulla pelle. In silenzio, non c'era nessun altro se non loro e il
loro batticuore. Lena aveva la straordinaria capacità di
tenersi
tutto dentro e metterlo da parte, pensò Kara. Che stupida
era stata
ad accusarla di non aver affrontato insieme il segreto sui Luthor e
poi aver fatto lo stesso, non affrontando insieme la scoperta,
andando a cercare un rimedio per il suo dolore e lasciandola
indietro. Strinse le labbra e si toccò lo stomaco, quando
un'altra
fitta la colpì. Eppure, essere lì vicino a lei,
la faceva sentire
già molto meglio.
Sullo
schermo del pc, Lex controllò i dati che Lena gli aveva
passato,
rassicurandola. «Ma se vi fa sentire più serene,
prendo
l'elicottero e sarò lì in giornata».
Lena
scosse la testa. «No. Voglio stare sola con lei, se non ti
spiace».
Lo lasciò e raggiunse Kara, ancora sdraiata.
«Qualche valore alto»,
le fece sapere, «Penso che la discussione ne sia stata
motrice, ti
passerà appena inizierai a rilassarti. Durerà
probabilmente ancora
qualche giorno, se-», si avvicinò e Kara la
fissò, fissò come si
sforzava per restare composta ma come si stesse rompendo pian piano,
riflesso nei suoi occhi freddi. «Se non ne farai
più uso».
«Ho
smesso, te lo giuro».
Lena
annuì. «Allora posso consigliarti
qualcosa».
«Cosa?».
«Una
camomilla», si costrinse un sorriso, almeno fino a quando non
fu
catturata dalla mano sporta di Kara, rimessa seduta. Gliela strinse
e, lentamente, si sollevò sul lettino davanti a lei,
lasciandosi
accogliere dalle sue braccia, dal suo calore, dal suo profumo.
Appoggiò la testa contro una spalla e strinse gli occhi,
respirando
più forte. Quanta sofferenza le aveva viste protagoniste
fino a quel
momento, fino al momento in cui il corpo di Kara si schiuse per lei,
baciandola sui capelli. Senza rendersene conto, Lena si
ritrovò a
piangere mentre la cullava.
«Mi
dispiace», le disse Kara sui capelli, «Ti chiedo
scusa. Sono qui.
Sarò sempre qui».
Avevano
litigato, pianto e, incredibilmente, si erano perdonate. Avevano
perdonato anche loro stesse. Kara pensò che Lena avesse
ragione,
quando capì che sfogarsi aveva fatto bene a entrambe,
giurando a se
stessa che mai, mai avrebbe messo di nuovo il suo corpo in balia di
quella porcheria rossa. Qualunque cosa sarebbe successa.
Intanto
la fine di aprile fu vicina e, con lui, l'inizio del processo contro
Rhea Gand. Giorni e giorni in tribunale ad ascoltare gli uomini e le
donne che, per lei, avevano paralizzato National City, alzando le
armi, cercando di uccidere le persone scomode. Crollarono tutti sotto
il peso delle proprie coscienze o delle possibili minacce del
Generale Zod, come ipotizzarono Alex e Maggie, e confessarono. Rhea
si trovò ancora più con le spalle al muro. Philip
Mcbrown, che
lavorava alla CatCo, ammise di aver parlato tanto a lungo con la
vittima, Siobhan Smythe, per assicurarsi di fare la cosa giusta per
la causa, perché sapeva cose che la signora Gand non voleva
si
sapessero. Poi furono ascoltati loro, uno per volta, con giorni di
distanza. Siobhan che si presentò in tribunale con le
stampelle,
Leslie Willis, Cat Grant, Maxwell Lord, Lillian ed Eliza, Lena, Kara.
Ascoltarono Estella, la domestica di casa Gand che rispondeva al nome
di Joyce: tremò e non riuscì a guardare Rhea
negli occhi quando
parlò dell'omicidio di Lar Gand, ma tutti in aula
trattennero il
fiato, ancora increduli che avesse potuto uccidere lei suo marito.
Quando
la corte chiamò Mike Gand a deporre, Rhea cercò
di attirare la sua
attenzione con ogni mezzo necessario, anche urlandogli il suo amore,
ma lui descrisse cosa aveva sentito quel pomeriggio, facendo
combaciare alla perfezione la sua testimonianza con quella della
domestica. Portò il foglietto che suo padre aveva scritto di
suo
pugno prima di morire. Disse che ne era venuto in possesso rientrando
a casa quando sua madre non c'era, ricercando lo sguardo di Kara.
«Mio padre voleva prendersi carico di tutto. Non avrebbe
messo di
proposito mia madre nei guai», esclamò, guardando
la donna solo
brevi secondi. «Lui la amava».
La
prova fu catalogata ed esaminata in giornata. Lo stesso Dru Zod si
ritrovò a testimoniare, raccontando di come avesse cercato
di
incastrarlo in quell'organizzazione di cui sapeva poco e niente,
portando a conferma delle sue parole non solo le prove audio che
ascoltarono giudice e avvocati in privato, ma anche la pistola che
aveva fatto mettere in casa sua da Mcbrown, un amico in comune di
vecchia data. Tutto quello perché lo odiava, ritenendolo
responsabile, nel suo delirio, di averle portato via la sorella.
Era
finita per Rhea: capì che ciò che le aveva detto
Zod quando era
stata arrestata era vero solo in quell'aula, quando lui
parlò di
Petra e tutti lo stettero a sentire. Era tutto dalla sua parte.
Le
telecamere erano state spente, in quel momento dopo l'arresto, in
centrale. Lo sapevano entrambi. Zod l'aveva guardata così
come
avrebbe fatto con un insetto, qualcuno che era pronto a schiacciare.
«È finita», le aveva mostrato il
contratto a cui aveva firmato da
ragazza al suo ingresso come membro dell'organizzazione.
«Volevi
essere a capo di tutto, ma vedi, Rhea, c'è un motivo se il
presidente sono io e non tu». Glielo aveva strappato davanti
agli
occhi, che si erano ridotti in fessure. «Noi proteggiamo la
classe
beta, non potevo toccarti dal momento che avevi assassinato un altro
membro appellandoti al pretesto che stesse agendo contro gli
interessi dell'organizzazione, ma cospirando contro di me, mettendo
membri dell'organizzazione contro altri membri, sei caduta nello
stesso inganno. Hai infranto una regola. Sei fuori, Rhea. Non godi
più di alcun beneficio».
L'aveva
tagliata fuori, esclusa da ciò che era quasi tutto il suo
mondo, e
all'improvviso sentì freddo.
«Ordine,
ordine», gridò il giudice, battendo il
martelletto. Avevano un
ultimo tester da interpellare. L'avvocato si alzò e
rumoreggiò la
gola, prima di scandire bene la voce e farsi sentire da tutta l'aula:
«Chiamo a deporre per l'accusa Astra Inze».
Kara
spalancò gli occhi e lei e Lena, e dopo con Alex, si
scambiarono
un'occhiata, scuotendo la testa. Cosa stava succedendo? Videro le
porte dell'aula aprirsi e Astra venire scortata da due guardie di
Fort Rozz. La liberarono dalle manette e lei giurò di dire
la
verità, sedendo. Notò Kara, ma lo sguardo
planò subito su Rhea e
così, lasciando lei e molto altri di stucco,
rivelò come, quasi
dodici anni fa, avesse agito in difesa della nipote e della sorella,
di come avesse scoperto, una volta infiltrata nell'organizzazione,
del potere di Rhea Gand e come avesse cercato di annientarla
dall'interno, sapendo di poterlo confessare solo ora che lei era a
processo. A piede libero, avrebbe potuto prendersela con la sua
famiglia rimasta in vita.
«Non
è vero», borbottò Kara, scuotendo la
testa. «L-Lei ha giurato, ma
sta dicendo il falso».
Alex
annuì. «Ha trovato un modo per
salvarsi».
Lena
la appoggiò, fissando la donna. «Azzarderei a
scommettere che lei e
Zod si siano messi d'accordo. Con questa testimonianza, è
molto
probabile che si aprirà un nuovo processo per tua zia,
Kara», la
guardò, «Potrebbe essere scagionata».
Aveva
pensato a tutto, ripeté nella testa Rhea. Era la svolta che
aspettava, ma Zod l'aveva usata per distruggerla. Che cosa avrebbe
pensato sua sorella Petra di questa fine? Se la meritava davvero?
Voleva solo essere quella importante, per una volta. Voleva vincere.
E l'avevano vinta.
Quando
fu trasferita a Fort Rozz dopo il processo che l'aveva condannata a
passare tutta la sua vita in carcere, Rhea capì molto presto
che
quella per lei non era una fine, ma un nuovo, terribile, inizio.
Stava uscendo dalla sua cella per andare al ritrovo comune, quando il
passaggio le fu sbarrato da alcune prigioniere. «Non sapete
chi
sono, è evidente. Fatemi passare», strinse i denti
con ira. Ma
quando vide due guardie della prigione mettersi ai lati e Astra
arrivare, tutto cambiò:
«Lo
sanno benissimo, Rhea», enunciò fiera.
«Non sei nessuno»,
proseguì con voce sicura, «e io una beta.
Sorpresa?». Scambiò uno
sguardo con le altre detenute e lei tornò indietro di un
passo. «Se
non vuoi fare la stessa fine di Michaels, il tuo tirapiedi che ha
pensato di minacciare il Generale, farai ciò che ti diremo
di fare e
starai al tuo posto. Accetta il mio consiglio, lo dico per
te», le
scoccò un'occhiata.
Caduta
dallo spazio:
così intitolò Kara l'articolo in cui
parlò della sua infanzia
cancellata, della sua famiglia uccisa e di chi gliela aveva portata
via, uscito il giorno del verdetto sul CatCo Magazine. Scalò
in
breve diverse classifiche sugli articoli più letti del
periodo e,
per festeggiare la sua vita che prendeva un nuovo inizio, Eliza e
Lillian la invitarono a cena fuori con tutta la famiglia. Quella sera
si divertì molto e si sforzò per non guardare
Lillian come solo
quella che aveva fatto parte dell'organizzazione e glielo aveva
tenuto nascosto. Doveva andare avanti. Scambiò un sorriso
anche con
Lena e, sotto al tavolo, si tennero per mano. Ci sarebbe sempre stata
lei nella sua vita. Era la sua
calda
certezza in un futuro dubbio.
Anche
suo cugino lesse l'articolo e con Lois le fece i complimenti,
invitandola di nuovo a stare da lui per un po', per cambiare aria.
Glielo aveva già chiesto dopo l'attentato terroristico di
Rhea ma,
non potendo muoversi per via del processo, aveva dovuto declinare.
Ora, forse, avrebbe potuto raggiungerlo a Metropolis se Siobhan non
avesse avuto bisogno di lei. Eliza e Lillian fecero i bagagli per il
viaggio di nozze verso Aruba che avevano dovuto rimandare e,
lasciandola di sasso, li fece anche Mike: andò a trovarla al
campus
per salutarla e dirle di aver deciso di partire per arruolarsi nel
corpo dei Marines.
«Oh,
wow, è…», non sapeva cosa dire.
«Lo
so: affrettato», alzò le spalle, «Ma ne
ho bisogno. Lo sai». Si
sorrisero e abbracciarono.
Nel
frattempo, dopo aver meditato di agire a processo contro Rhea Gand
concluso e trascorso quei giorni a tenere d’occhio le serate
al The
Green Caravel,
Selina Kyle pensò di radunare Ivy e Harley in piazza per
metterle al
corrente su cos'avesse trovato a National City introdotta alla Lord
Technologies.
«Le
sta testando», disse seria. «Il locale è
solo una facciata, usa i
clienti per i suoi test. Pensa di venderle».
«E
chi gliela comprerebbe quella robaccia? Non sballa neppure»,
commentò Harley, alzando le spalle.
«Ha
già un compratore», fece sapere Selina.
«Vi basti sapere che
dobbiamo smontare questo progetto sul nascere perché
è estremamente
pericoloso».
«Va
bene», sorrise Ivy, «Ci sto. Supergirl
sarà dei nostri?».
Selina
prese fiato, accigliandosi. «Supergirl è
compromessa», esclamò
con sicurezza, «Ho trovato i suoi test, laggiù.
Sarà lei il nostro
primo obiettivo».
Capitolo
lunghiiiiiissimo! Me ne rendo conto, ma dovevo chiudere delle cose e
aprire la strada a ciò che verrà adesso. Spero di
non aver
annoiato!
Tante,
tante cose! Potremmo parlare di John che se la prende con Zod e che
non vede l'ora di arrestarlo, o di Siobhan che è ancora
viva!!
Nessuno ha creduto che sarebbe morta, mi sa, ma io ci ho
provato…
ehi, la amo troppo per non “semplicemente” ferirla
e regalarle
una lezione di vita (oltre che a essere figo per la trama! Pensiamo
alla Trama™).
Potremmo
parlare di come Kara si sentisse in colpa per Siobhan, della sua
astinenza dalle pillole rosse, di come abbia affrontato Rhea,
chiudendo quella parte della sua vita insieme a quella vittoria e al
suo articolo uscito il giorno del processo. Ecco, sì,
potremmo
parlare del processo, di come Rhea non ne sia uscita esattamente
vittoriosa, di come Zod l'abbia esclusa dall'organizzazione quando
era stata appena arrestata, o potremmo parlare della fine di
Michaels, il commercialista trovato morto in cella ad Halloween. A
quanto pare era un fidato di Rhea che aveva provato a minacciare il
Generale, qualcosa che non avrebbe dovuto fare.
Potremmo
parlare della pistola di Lionel usata da Lena per allontanare i
terroristi da James che adesso pare sia scomparsa (mh), del pranzo e
delle domande scomode di Lillian, della tenera discussione tra Kara
ed Eliza che, in fondo, ha ottenuto un po' di quei risultati sperati
quando la prima ha deciso di provare a vedere Lillian in modo
diverso, di darle una possibilità. Cosa che non sembra voler
fare
Lena.
Potremmo
parlare di come Lillian ed Eliza non siano state le uniche a fare le
valigie: Mike ha chiuso con Kara (finalmente, eh?) ed è
pronto per
intraprendere un percorso suo nella vita e cosa fare se non entrare
nel corpo dei Marines?! Lasciamoglielo fare, togliamocelo di torno XD
Potremmo
parlare di Selina Kyle e di cosa ha scoperto alla Lord Tech, del
primo obiettivo suo e di Harley e Ivy (che cosa combineranno?),
oppure di Indigo che segue Lena e Kara come una brava stalker,
mettendosi in mezzo come riesce.
Ma
infine, lo so di cosa potremmo parlare e di cosa si
preferirà
parlare: della discussione tra Kara e Lena! Ebbene sì, ci
siamo
arrivati! Queste due hanno litigato! Kara si è sfogata, Lena
ha
fatto altrettanto perché sapeva che era l'unico modo per
ritrovare
ciò che avevano perso. E che dire, sembra che abbia
funzionato! Lena
ha dato una scossa alla situazione e Kara ha preferito lei
all'orgoglio o alla paura, anche quando ha capito delle pillole. Per
non parlare dell'abbraccio e del pianto di Lena, o delle loro mani
unite durante la cena. Una grossa svolta! Sarà la volta
buona?
Questo
capitolo è stato modificato così tante volte
durante la stesura che a un certo punto non capivo più che
sapore avesse XD La litigata tra Kara e Lena, nella mia idea iniziale,
doveva avverire tra qualche capitolo, in balia di una situazione un po'
diversa, ma è stato anticipato grazie a una discussione in
chat che mi ha aperto gli occhi su come Lena stesse soffrendo e niente,
dovevo anticipare e farla sfogare. Era il minimo e ho scoperto che ci
stava, ci stava decisamente bene! Ora che hanno litigato, ora che si
sono tolte questi sassolini dalle scarpe, possono finalmente
ricostruire un rapporto più solido di prima :) Un'altra
modifica importante riguarda(va) il pranzo, anzi due pranzi (da una
parte Lillian, Eliza, Lena e Kara, dall'altra i genitori di Maggie,
Maggie, Alex e Jamie), che ho modificato ancora fino a racchiudere
tutto in quella telefonata tra Kara, Alex e Maggie. L'idea del pranzo
mi piaceva molto, ma accidenti se non riuscivo a scriverla! Rischiava
di sembrare un minestrone di cose già lette e non mi
convinceva. Per far ridere, mi era stato suggerito in un'altra chat di
usare l'espediente di Kara e il suo rapporto col cibo e diciamo che,
male o bene, l'ho inserita comunque. Anche perché Kara/cibo
è l'unica ship seria nel fanon e nel canon XD
Mi sono avanzati dei "ritagli" da queste modifiche, ma nulla che valga
la pena farvi leggere come extra.
Spero
che il capitolo vi sia piaciuto, passo e chiudo. Ci rileggiamo
martedì 21 con il capitolo 48 che si
intitola Lo
strano caso del rapimento alla stazione!
Vi immaginate qualcosa? :P
|
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Capitolo 49 *** 48. Lo strano caso del rapimento alla stazione ***
Selina
Kyle poggiò i gomiti sul banco, scorgendo le pesanti
occhiaie del
suo interlocutore dall'altra parte. «Devo
parlare?», disse con voce
più bassa del solito, muovendo piano le labbra. «E
va bene, allora.
Racconterò ogni cosa». Prese un bel respiro e
socchiuse i suoi
occhi. «È iniziato tutto questa mattina, quando le
mie compagne ed
io siamo arrivate con la prima metro a National City. Ci siamo
immediatamente dirette al campus del Sunrise National City University
perché che era lì che avremmo potuto controllare
il nostro
obiettivo», sorrise, mordendosi un labbro. «Ebbene,
l'abbiamo
tenuta d'occhio costantemente mentre si allenava con
un'amica».
«Costantemente»,
ripeté Ivy con sguardo sognante, al suo fianco. «Molto
costantemente». A
un'occhiataccia dell'altra però si zittì subito,
sospirando.
«Lascia
fare a me», brontolò, per poi riprendere la sua
aria seria e
tenebrosa. «Aveva le ore contate: tenemmo d'occhio i suoi
spostamenti e, quando lasciò il campus, come ci era stato
detto, la
seguimmo. Sapevamo di dover agire alla svelta…».
Kara
aveva sorriso, tenendo d'occhio il cellulare: oh, era in buon orario.
Finalmente andava a trovare Kal e Lois a Metropolis, era
così
eccitata. Le cose tra lei e Lena sembravano essersi sistemate, nel
senso che erano pronte a ripartire da zero; Siobhan Smythe l'aveva
cacciata a un certo punto, ma riusciva a fare tutto da sola ed era
tornata a casa sua, quindi andava bene; Rhea era rinchiusa a Fort
Rozz e sì, Zod e l'organizzazione facevano paura, ma non si
sentiva
di nuovo così serena dai tempi della merenda dopo la scuola.
Aveva
aperto la sua copia del Daily Planet e letto l'articolo scritto da
Lois Lane riguardo l'arresto di Rhea Gand e sull'organizzazione,
lasciandosi andare a qualche ricca dichiarazione di chi aveva
lavorato per la donna e di altre storie intrecciate, aprendo
un'inchiesta. I giornali facevano a gara per avere uno scoop sul tema
del momento e quello di Lois le era parso uno dei più
completi e ben
articolati. Dopotutto, il processo della donna si era svolto molto in
fretta, volevano un colpevole per l'omicidio di Lar Gand, ma c'erano
ancora molti interrogativi e punti oscuri che andavano oltre ai tre
ergastoli per lei, come i processi di tutte le persone coinvolte. Di
certo, Alex e il signor Jonzz ci avrebbero lavorato per settimane.
Aveva
ripiegato il giornale e conservato nello zaino in spalla, quando
un'auricolare le era scivolato dall'orecchio destro e la musica, in
quel momento bassa, aveva lasciato spazio ai rumori circostanti. Kara
si era guardata attorno perché, per un attimo, le era parso
di
essere seguita di nuovo. Eppure quei tempi erano finiti, accidenti,
non voleva ancora vivere nella paranoia. Aveva spento la musica e
tolto entrambi gli auricolari, mettendoli via in una tasca del
giubbino. Aveva sceso le scale della stazione e notato che c'era poca
gente, lontana. Andava a finire che si stava immaginando veramente le
cose, questa vol- ah!
Si era toccata il petto dallo spavento e preso un grosso respiro:
«Harley?!?», aveva sbottato, «Potevi
uccidermi».
In
piedi davanti a lei, due piccoli chignon biondi con ciocche rosse e
blu ai lati alti della testa, jeans stretti e strappati, stivaletti e
giacca aperta in jeans nera, Harley aveva sorriso da orecchio a
orecchio: «Non era mia intenzione ucciderti», aveva
poi riso, «solo
rapirti».
«Cos-».
Non
aveva fatto in tempo a finire di parlare che un cappuccio nero le
aveva coperto la testa e più mani avevano tentato di tenerla
ferma.
Tentato,
certo, poiché si era dimenata come un bufalo e una di loro
si era
beccata almeno due gomitate. «Selina! Ivy», le
aveva chiamate, «Che
state facendo?».
«Come
fa a sapere che siamo noi?», aveva sentito la domanda di Ivy,
mentre
Selina le incitava a tenerla ferma. Alla fine, erano riuscite a
portarla via.
«Lo
so cosa state pensando», sussurrò Selina Kyle
davanti ai due
uomini, i suoi occhi stretti in due fessure, «rapire una
persona?
Come abbiamo potuto? Dovevamo essere prudenti». Scosse la
testa. «E
credetemi, la prudenza non è mai troppa, in special modo in
questo
frangente».
Ivy
batté le unghie sul banco, per poi fissarsi lo smalto
luccicante. «E
mi piace legare le persone».
«Sto
parlando io».
Ivy
alzò le spalle, sorridendo con malizia.
Kara
aveva cercato di calmarsi per non consumare tutto l'ossigeno,
assecondando le tre matte ed eseguendo i loro ordini. L'avevano fatta
accomodare su una sedia non sapeva dove e non aveva opposto
resistenza quando aveva sentito una di loro fermarle le mani dietro
la spalliera. Finalmente le avevano sollevato il cappuccio e le aveva
fissate tutte e tre, dopo lo sporco posto in cui si trovava, con
pochi mobili abbandonati e tante ragnatele.
«Ci
guarda con istinti omicidi, lo sapevo», aveva bofonchiato
Selina,
tirando indietro le altre due per parlare in privato.
«Dovremo
aspettare. Temo che ora come ora, non avremo niente da lei».
Ivy
e Harley si erano scambiate un'occhiata perplessa, sentendo Kara a
pochi metri: «Avrete tanti di quei calci, come no. Guardate
che vi
sento».
«Sentite?
È fuori di sé», aveva proseguito.
«Ci
puoi scommettere che lo sono! M-Mi avete appena rapita, razza
di-di…
psicopatiche», aveva risposto accigliandosi e soffiando con
rabbia,
cercando di spostare un ciuffo di capelli dal naso. «Mi avete
fatto
perdere la metro», aveva ringhiato dopo, «Cosa vi
prende, oggi?».
«A
me sembra normalissima, ti dirò», Harley aveva
sorriso, parlando a
voce alta. «Nella scala della normalità, le do un
sette meno solo
per via dei capelli più ribelli e vigorosi». Per
averle messo e poi
tolto il cappuccio, si erano ovviamente spettinati.
«Più originali,
se non altro».
«Si
può sapere cosa vi passa per la testa?», aveva
domandato ancora,
stanca di venire osservata dalle tre come se fosse un topolino in
gabbia. O un pezzo di carne, a giudicare il dito tra i denti di Ivy.
Selina
Kyle si era avvicinata e abbassata ai suoi piedi, legati alle gambe
della sedia. «Gettiamo la maschera, Supergirl: sappiamo di te
e
Maxwell Lord». Aveva ignorato il cosa
levato da Harley. «Prendi le sue pillole, lavori per lui per
completare i test».
«D-Di
cosa diavolo parli?».
«Abbiamo
bisogno che sbolli fino a quando non l'avrai più in circolo,
e
potremo farti qualche domanda».
Kara
aveva sbuffato di nuovo, gonfiando le guance, seccata. «Sono
pulita,
Selina. Non sto più prendendo quella roba».
Lei
aveva annuito. «Naturalmente è così che
direbbe chi le prende
ancora», aveva guardato poi le due dietro di lei, che avevano
annuito a loro volta. «Ma non preoccuparti, Supergirl. Ne
usciremo
insieme».
Si
era rialzata e Kara roteato gli occhi, cercando di saltare sulla
sedia. «Non ho una pillola in circolo, sono perfettamente
normale!
Andiamo! Selina! Ho smesso di prenderle, i-io ve lo sto
giurando».
Le tre si erano allontanate piano e allora Kara aveva compreso e
accettato che sarebbe stato inutile. «Almeno liberatemi dalle
manette. Perché hanno le piume?».
Selina
aveva adocchiato Ivy e così indicata. «Avevamo
solo le sue».
Kara
era arrossita quando, sventolando i capelli rossi legati in una coda,
Ivy si era voltata per sollevare le sopracciglia e scoccarle
un'occhiata.
«Naturalmente
sapevamo che ci avrebbe mentito», disse Selina Kyle,
abbassando gli
occhi sul banco solo un momento. «Avevo trovato le prove che
eseguiva i test delle pillole, come potevo fidarmi di lei? Dovevamo
solo aspettare che l'effetto svanisse… Qualche ora, al
massimo. Lo
avevamo previsto ed eravamo attrezzate per l'emergenza».
«Dove
lo metto il secchio?», aveva urlato Harley, saltellando.
Selina
le aveva dato indicazioni e Kara sbuffato di nuovo. Dietro di lei,
Ivy le stava massaggiando i capelli, giocando a seguire i riccioli.
Si sarebbe lamentata in altre circostanze, ma la verità era
che
senza si sarebbe annoiata e che, massaggiarle la testa, la faceva
cadere in trance: odiava ammettere che era davvero brava. «Psst,
Ivy. Puoi dirmi almeno dove ci troviamo?», le aveva domandato
a
bassa voce.
«Siamo
vicino alla stazione».
«Questo
lo so, c'ero anch'io quando mi avete trascinata».
Aveva
subito riso. «È una piccola casetta abbandonata
sotto la stazione»,
aveva risposto intonando una melodia. «L'abbiamo trovata
qualche
giorno fa, cercando un posto dove nasconderti».
«Oh,
quindi la cosa è premeditata?», aveva ingigantito
gli occhi e
stretto le labbra in una smorfia.
«Ci
siamo preparate. Ovviamente. Sapevamo che saresti partita per andare
a Metropolis, abbiamo interrogato più di qualche tuo collega
in quel
campus, finché qualcuno, con
me,
ha parlato», aveva sorriso assottigliando le labbra dipinte
di un
rossetto verde brillante. «Con me. La gattina stava
spaventando
tutti».
Kara
aveva spalancato gli occhi. «O-Okay… Emh,
senti… T-Tu almeno lo
sai che io sono in me, vero? Che non c'è bisogno di
legarmi?».
Ivy
aveva inclinato la schiena, appoggiando il mento sulla sua spalla
sinistra. Allora aveva estratto un sorriso malizioso, abbassando la
voce in un caldo sussurro: «Forse non vedevamo l'ora di
legarti».
Kara
aveva deglutito; arrossendo vistosamente, non aveva saputo come
ribattere. Le era sembrato di essere appena entrata nel cast di un
brutto film di serie zeta, dove tre persone la rapiscono per chiedere
un riscatto: la ladra, la ragazza con disturbi mentali e la maniaca.
Ma forse avrebbe potuto usare la cosa a suo vantaggio.
«Ivy?»,
aveva attirato di nuovo la sua attenzione e la ragazza le aveva
lasciato andare i capelli, mettendosi di fronte a lei; jeans verdi
come suo solito, un giubbotto di pelle profumato che l'aveva
inebriata come avrebbe fatto un fiore. «Posso farti una
proposta?».
Se loro credevano che lei fosse sotto effetto della pillola rossa,
avrebbe potuto giocarsela: con quella in circolo, al locale a Gotham,
non aveva forse baciato lei e Harley?
«Sentiamo»,
aveva sorriso. «L'idea mi piace già».
«Oh,
s-sono certa che ti piacerà anche il resto», aveva
ridacchiato,
cercando di smetterla di sembrare nervosa. «Perché
non mi liberi?»,
aveva detto in fretta, «Chiama Harley e sbarazzati di
Catwoman:
riprendiamo ciò che… mh, a-abbiamo iniziato al
locale. Solo noi
tre».
Ivy
aveva sorriso di nuovo, abbassando la testa da un lato. «Mmh,
beh…
se lo faccio, la gattina se la prenderà con me».
«No»,
aveva corrugato la fronte lei, scuotendo la testa. «Inviala a
comprare qualcosa, c-come, chessò, delle ciambelle. Comincio
ad
avere fame».
Lei
si era morsa un labbro, fissandola. «Anche io comincio ad
avere
fame». Kara aveva ingurgitato saliva sentendosi in
soggezione,
eppure le era parso funzionare. Le aveva suggerito di slegarla ora
che Selina si era allontanata e si era abbassata ad accarezzarle una
gamba, tirando la corda. «Le manette potremo tenerle, se ti
va»,
aveva riso. Peccato che Selina era rientrata prima del previsto e le
aveva scoperte.
«Era
chiaramente sotto il controllo di quelle pillole», Selina
serrò le
labbra, continuando a raccontare. «Le fanno qualcosa a
livello
caratteriale e sapevo che non avrei dovuto lasciarla sola con
lei»,
scrollò le spalle, «Ha dei punti deboli troppo
evidenti e ha
cercato di approfittarne».
L'altra
la guardò, estraendo uno dei suoi sorrisi migliori.
«Le persone
giuste colpiscono nei punti giusti, cosa vuoi che ti dica».
Guardò
verso gli interlocutori e alzò le spalle anche lei, con
rassegnazione. «Sei gelosa perché a te queste cose
non succedono».
«Mi
succederanno quando sarò io a farle succedere»,
rimbeccò subito a
una smorfia dell'altra.
«Lo
direbbe qualcuno a cui non succedono».
Selina
stava per riprendere parola che uno degli interlocutori
rumoreggiò
con la gola, riprendendo l'attenzione delle due. «Dov'ero
rimasta?».
Non
sapeva quanto tempo era trascorso dal suo rapimento alla stazione, ma
le era sembrato di essere là dentro quella casetta a
respirare
polvere da ore e ore, mentre sopportava Harley che improvvisava
balletti senza senso davanti a lei, Ivy che puniva quest'ultima e la
medicava quando cadeva, Selina che, seduta davanti lei su uno
sgabello, le parlava del lacrosse, dicendo di capire il
perché
all'ultima partita sembrava stesse giocando da sola, dai video
online. Per ingannare l'attesa, a un certo punto, Ivy aveva proposto
di giocare a carte e si erano sedute intorno a lei, sistemandole
sullo sgabello al centro. Sarebbe stato interessante giocare se non
avesse avuto le mani tenute dietro la schiena ed era impossibilitata
a nascondere le carte della sua mano.
«Il
cinque. No, butta il cinque. Quello di cuori, voglio dire».
Harley
aveva indicato una carta dietro l'altra, poi le erano cadute quasi
tutte dallo sgabello e Selina l'aveva sgridata: «Non si
può
continuare così».
«Non
l'ho fatto di proposito, quante storie», aveva sbuffato lei,
gonfiando le guance.
«Ha
detto che non l'ha fatto di proposito, smettila di starle sempre
addosso», l'aveva invece giustificata Ivy, facendo fare una
smorfia
di disappunto all'altra.
«E
tu smettila di proteggerla sempre, sa farlo da sola».
«Certo
che so farlo da sola», aveva ridacchiato Harley,
«Ma se a farlo è
lei, è più divertente». Aveva iniziato
a sfogliare tutte le carte
del mazzo e Selina si era arresa, sospirando. Poi aveva guardato Kara
e scosso la testa. In special modo quando le carte del mazzo avevano
cominciato ad arrivarle sul naso. «Adesso ti alzo le
man-».
Ivy
l'aveva bloccata appena alzata da terra, mentre Harley, sdraiata tra
i batuffoli di polvere sul pavimento, aveva riso di gusto. Dopo aveva
portato fuori quest'ultima per farle prendere aria e fare quattro
chiacchiere in privato, intanto che Selina raccoglieva le carte,
sperando di non perderne nessuna.
«Harley
è particolare», aveva commentato Kara, vedendola
amareggiata e così
annuire.
«So
che non dovrei prendermela, ma a volte è come avere a che
fare con
una bambina», aveva sbarrato gli occhi. «E tu come
stai, a
proposito? Cominci a sentire l'effetto che svanisce?».
«No»,
aveva schiuso le labbra, «Perché non ne ho in
circolo. Insomma,
come te lo devo dire? Stiamo solo perdendo tempo. Se almeno mi
dicessi cosa vuoi sapere invece di tenermi legata qui». Aveva
allungato lo sguardo dietro di lei, dopo, attenta che non si stesse
avvicinando nessuno. «Ho paura che Ivy se ne approfitti
intanto che
sono legata», aveva sussurrato, facendo ridere Selina.
«Ha
atteggiamenti da ninfomane, ma non ti toccherebbe contro la tua
volontà. Fa solo scena», aveva sorriso. «Almeno
credo».
«Credi?»,
aveva domandato di botto stringendo i denti, rossa sulle gote.
«Quindi
non ne hai in circolo?», le aveva chiesto subito,
assottigliando gli
occhi, come avesse potuto analizzarla. «Io vorrei crederti,
ma come
faccio? E se ti libero e provi a colpirmi?».
«Non
sono Rocky
Balboa»,
aveva brontolato, spalancando la bocca. «Se non ti fidi,
chiama
Lena. Lena sa che sono pulita».
«Quindi…»,
Ivy assottigliò le labbra con sensualità,
fissando una delle
persone davanti a lei dall'altra parte del banco, «abbiamo
aspettato
che arrivasse la sua sexy ex, quasi non più ex,
ragazza». Si leccò
le labbra e l'altra si imbrunì.
«Ci
stai provando? Seriamente?», la sgridò Selina.
«No»,
scosse la testa lei, «Sto parlando normalmente. Che avrei
fatto,
adesso?».
«Batti
le ciglia come una farfalla e fai la voce da rimorchio».
«Questa
è la mia voce».
«Non
è la tua voce, perché menti?».
«Ha
parlato Sherlock
Holmes.
Come se la tua voce fosse così bassa e oscura, di
solito».
Selina
portò gli occhi al soffitto, stirando le braccia sul banco.
«Dicevamo. Abbiamo aspettato l'arrivo della sua ex,
così da essere
certe che dicesse il vero», proseguì, attenuando
la voce.
«Fortunatamente, lei sapeva cosa fare».
«Mh».
«Mh?
È l'unica cosa che ti viene in mente, vedendomi legata a una
sedia?», si era lagnata Kara, aggrottando la fronte.
Appena
era entrata nella piccola casetta abbandonata e l'aveva vista, Lena
sveva estratto un divertito sogghigno. «Beh», si
era voltata verso
le tre, appoggiando la valigetta che si era portata dietro sul
pavimento, mettendo le braccia a conserte. «Dovrei poter fare
delle
piccole verifiche per essere sicure che sia pulita».
Kara
aveva fissato Lena con sgomento, spalancando la bocca. «No,
non ci
credo. S-Stai al loro gioco?». L'aveva tenuta d'occhio mentre
apriva
la valigetta, tirando fuori lo strumento per sentire la pressione, e
così avvicinarsi. Ivy e Harley avevano guardato il
procedimento,
mentre Selina aveva allungato un occhio al resto all'interno della
valigetta. Lena le aveva sollevato la manica di un braccio e
sistemato intorno la fascetta nera, estraendo un divertito sorriso.
«Oh, quindi è davvero un gioco, per te»,
le aveva scoccato
un'occhiata e sollevato i lati della bocca. «Ti
diverte?».
«Tanto»,
aveva bisbigliato, soddisfatta. «E ora stai ferma».
Lena sapeva che
Kara non si trovava nella posizione adatta per misurarle la
pressione, ma sapeva anche che quelle verifiche non servivano a
niente. Kara non aveva più toccato una sola pillola, ma
vederla
legata lì da quelle tre l'aveva messa di buon umore.
Perché non
stuzzicarla un po'? «Oh, è un po' agitata e
potrebbe dipendere
dalla pillola», aveva guardato le altre, che si erano fatte
più
serie.
«Oppure
perché sono legata qui e sento un crampo lungo i
polpacci», le
aveva fissate, sbottando.
Selina
si era portata le braccia a conserte, sollevando un poco le spalle.
«Pensavo che dovessimo fidarci di Lena».
«B-Beh,
questo prima di sapere che si sarebbe messa dalla vostra
parte».
Kara
non aveva potuto far altro che assecondare Lena per tentare di uscire
da quella assurda situazione. Si era fatta controllare la lingua, gli
occhi con una piccola luce puntata sulle pupille, perfino la saliva,
facendola sputare più volte su diversi pezzi di plastica,
finché
non le si era seccata tanto la gola che aveva rischiato di soffocare
appena aveva tentato di parlare. Selina, Ivy e Harley non sapevano in
cosa consistevano le analisi, Lena avrebbe potuto fare qualsiasi cosa
le sarebbe venuto in mente, o almeno così credeva.
«Non
dovremo toglierle il sangue?», aveva domandato a un certo
punto Ivy,
picchiettando due dita contro il mento, pensierosa. «Non
è così
che fate voi persone di scienza?».
Lena
aveva deglutito, guardando Kara con serietà. «Beh,
a volt-».
«Prendiamole
il sangue», si era sollevato l'urlo di Harley, con un pugno
per
aria.
Quando
l'avevano vista con in mano un coltello, Ivy l'aveva portata fuori di
nuovo e Lena era riuscita a convincere Selina che l'esame del sangue
non sarebbe stato necessario, avendole già controllato la
saliva.
Fortunatamente non aveva obiettato, persa in altri pensieri.
«Ripeterò l'esame della saliva tra qualche minuto.
Credo che presto
potremo accertarci se è pulita davvero; potrebbe aiutarla
rilassarsi
un po'».
«Non
penso che sia una buona idea quella di slegarla», l'aveva
guardata
con la coda dell'occhio, notando che le stava fissando. «Se
è
davvero sotto effetto di quella pillola… Tu non l'hai vista
picchiare quei ragazzi dopo il locale, ma io sì e ti
assicuro che
non vorrei essere la prossima».
Entrambe
si erano voltate a guardarla e Kara aveva grugnito. «Sai,
temo sia
tardi per quello», aveva così sussurrato Lena.
Selina aveva deciso
di lasciarla provare e uscire fuori per parlare con le altre due.
Lena, finalmente rimasta sola con lei, le aveva sorriso di piacere.
L'aveva vista rispondere al sorriso appena, scuotendo la testa e
diventando rossa. Così si era avvicinata a lei e, mentre la
analizzava attentamente con gli occhi, aveva iniziato a slegarle una
gamba.
«Oh,
sì», aveva mormorato Kara, buttando la testa
all'indietro. «Era
ora», aveva detto quando le aveva liberato anche l'altra,
stirando
le gambe come aveva potuto. «Tu sei-».
«Potrai
ringraziarmi dopo, non c'è di che».
«Prego?».
«Dovevo
studiare e avevo giurato che non mi sarei allontanata dai libri, poi
Selina Kyle mi chiama per dirmi che ti hanno presa perché
pensano tu
sia sotto l'effetto della pillola, dicendomi che hai espressamente
chiesto di me».
«Espressamente?!»,
aveva riso, diventando ancor più rossa.
«Avrei
potuto lasciarti al tuo destino, invece eccomi qui. Supergirl»,
aveva sottolineato, schiudendo le labbra. «Quindi, non
c'è di che».
«Mi
avresti potuto liberare fin da subito, però».
Lena
aveva sorriso di nuovo, alzandosi. «Oh, avrei.
Ma sarebbe stato meno divertente».
Meno
divertente, oh, certo. L'aveva lasciata a bocca aperta,
eppure
era riuscita a fargliela spalancare un poco di più centesimi
di
secondo più tardi, sentendo i suoi polpastrelli che le
tastavano le
cosce. «E-Emh… Po-Po-Potresti- Potresti non
farlo?». Aveva
sentito il sangue scaldarle le orecchie.
Lena
aveva annuito. «Va bene. Pensavo che ti avrebbe aiutato a
distendere
i muscoli. In questo modo, dalla tua saliva si capirà che
non hai
pillole in circolo».
Kara
aveva stretto le labbra, sorridendo con forza. «L-Lo so che
rovinerebbe l'atmosfera, ma», era riuscita a deglutire con la
gola
secca e si era inumidita le labbra, «non aiuta solo a
distendere i
muscoli e… qualsiasi
cosa tu avessi in mente per torturami e ti assicuro che funziona:
m-mi sta scappando la pipì e-».
Lena
aveva arricciato le labbra e riso, notando il rossore. Stava per
ribattere che aveva sentito la porta riaprirsi dietro di lei: le tre,
con Pamela Isley in testa, avevano fatto due passi sicuri verso di
loro, guardandosi con complicità.
Ivy
esaminò con una veloce occhiata quanti più volti
sorpresi e
interessati riuscisse, dall'altra parte del banco davanti a lei:
erano tutti così rapiti dal racconto suo e di Selina.
Riaprì le
labbra piano, stringendole solo una volta per sentire la compostezza
del suo rossetto verde. «Lei non era del tutto
d'accordo», indicò
la ragazza al suo fianco con un cenno del capo, «Ma era
chiaro che
avremo avuto bisogno di aiuto per quel piano. Sì, sono bella
e
intelligente, ma non posso far tutto io: ci serviva qualcuno che, una
volta prese quelle pillole, le analizzasse. La sua ex era il
candidato più gettonato».
«L'unico
candidato», corresse
Selina,
per poi riguardare le persone davanti a lei, stringendo gli occhi.
«Se volevamo che il piano funzionasse, il suo cervello era
l'unica
opzione che avevamo».
Kara
aveva guardato nella loro direzione, mentre Selina, Ivy e Harley
stavano spiegando a Lena come avrebbero voluto rubare delle pillole,
del locale a Gotham e di come i clienti mutassero al punto di
picchiarsi fra loro, dei test trovati alla Lord Technologies, dei
dati, mostrando a Lena ogni video girato dalla prima col cellulare.
Aveva filmato alcuni test compilati coi dati di Kara e l'interessata,
ascoltando, aveva abbassato gli occhi.
«Vuole
venderle», le aveva fatto vedere allora delle foto e Lena era
rimasta a bocca aperta, facendosi seria.
«A-All'esercito?
Cosa?», si era accigliata, «Il generale
Lane-».
«Il
generale Lane è il suo contatto», aveva
specificato velocemente
Selina, intanto che Lena seguiva un video. «Ne faranno una
specie di
potenziatore
per soldati,
una cosa del genere».
La
ragazza aveva alzato la testa verso Kara che, appena scambiato quello
sguardo con lei, aveva abbassato la testa di nuovo. «Da
quello che
riesco a leggere, è un progetto in corso. Se le pillole non
sono
ancora pronte per la vendita, abbiamo un vantaggio», aveva
sibilato
con sicurezza, facendo zoom sulle foto sfocate.
«Pensi
di andare a parlare con lui o con Lane?», le aveva chiesto
Ivy, ma
Lena aveva scosso la testa.
«Nessuno
dei due. Con mio fratello», aveva rialzato il mento dal
cellulare,
instillando perplessità nelle altre. «Maxwell Lord
ha rubato la
formula base di queste pillole, progettata da mio fratello. Solo lui
può analizzare la formula a cui sta lavorando Lord
e», aveva
stretto le labbra, «scovare il punto debole per-».
«No»,
aveva obiettato Selina a gran voce, scuotendo la testa. «Non
possiamo fidarci».
«Di
mio fratello? O di me?».
«Di-»,
Selina si era bloccata, sentendo lo sguardo di tutte addosso.
«Ci
siamo aperte a te, okay? Perché devi coinvolgere
lui?».
Lena
era tentata di ripeterle come lui ne fosse il proprietario originale
che, all'improvviso, aveva parlato Harley, fermandola: «Se il
fratello maggiore Luthor ha fatto le pillole per primo», le
aveva
fatto un sorriso, avvicinandosi, «perché non lo
dice a tutti e se
le riprende? Avrà le sue prove, no?».
Mentre
Lena era rimasta a bocca semichiusa, prendendo in considerazione il
suo intervento e capire come Lex avrebbe potuto agire, Selina l'aveva
ripresa di rimettersi seduta e Ivy l'aveva accolta fra le braccia.
Lex pensava di aver perso perché non aveva registrato la
formula, ma
con le prove in mano a suo carico avrebbe potuto testimoniarne la
paternità. Se sarebbe stato pronto ad affrontare le accuse
che lo
avrebbero additato come spacciatore, naturalmente.
Ne
avevano discusso ancora poco, che Lena aveva pensato di fare un nuovo
esame della saliva a Kara. Prima le aveva fatto bere, questa volta.
Per sua fortuna, Lena non aveva più voglia di giocare: Kara
Danvers
era risultata pulita. Selina aveva pensato che le sarebbe andata
addosso e le aveva chiesto scusa di corsa, ma lei l'aveva stranamente
ignorata e bisbigliato solo, con espressione spenta, di dover andare
a prendere un po' d'aria, e così era uscita.
«Posso
farti compagnia?». Lena l'aveva raggiunta dopo poco, mani
intrecciate, sguardo comprensivo. Si era avvicinata quando aveva
visto Kara girarsi, sorridere appena e annuire, spostandosi sul masso
ricoperto di muschio per farle spazio. All'improvviso tutto aveva
tremato e le due avevano socchiuso gli occhi finché non era
finito,
passata la metro.
Vicine,
in silenzio ancora per poco, che Kara aveva sentito il bisogno di
parlare: «Mi ha usato. E-E io gliel'ho lasciato
fare», aveva
stretto le labbra e deglutito; non era riuscita a guardarla negli
occhi in quel momento, si vergognava così tanto.
«E sai qual è la
parte peggiore? Che lo sapevo. Sapevo che lo stavo aiutando a
sistemare quelle pillole e allora non mi importava, non mi importava,
ed è-è assurdo se penso che poi-», si
era fermata, Lena zitta al
suo fianco, «se penso che poi ho rischiato di rovinare tutto!
La
fiducia delle mie compagne di squadra con cui ora faccio fatica per
farmi prendere sul serio, la mia amicizia con Barry, con
Mike… Il
mio rapporto con le persone che amo. Ho fatto del male a te»,
aveva
sospirato, ascoltando Lena prendere un grosso respiro, a labbra ben
chiuse. «Ho sbagliato tutto», aveva di nuovo
abbassato la voce,
scuotendo la testa. «Non ha cercato di convincermi o altro,
l'ho
aiutato io. L'ho a-aiutato spontaneamente e se questa roba
andrà
all'esercito… Non fanno bene, ne devono prendere
costantemente per
mantenere alte le prestazioni e-e capovolgono la
personalità… Sarà
anche colpa mia».
«Kara,
tu non potevi sapere che Lord le avrebbe vendute
all'esercito».
«No,
ma… non cambia», aveva delineato un fine e
amareggiato sorriso.
«Se lo avesse fatto qualcun altro, non so come avrei reagito.
Non
vedevo quanto- Non vedevo niente, ho fatto tutto questo per una mia
minima illusione di sentirmi al sicuro», aveva chiosato.
«Non
volevo che essere forte, e ho fatto l'esatto opposto».
«Va
bene, basta». Lena l'aveva fissata, costringendo l'altra a
guardarla
a sua volta. «Hai sbagliato, è vero, nessuno
direbbe il contrario,
ma è successo e non puoi passare il tempo ferma a
ripensarci. Tutti
sbagliamo, accettalo. Anche tu, Kara Danvers. E puoi trascorrere
tutto il tuo tempo a pensare a quanto fatto sapendo di non poterlo
cambiare, oppure puoi imparare da questo sbaglio e diventare la
persona forte che vorresti essere». Le aveva preso una mano
con la
sua e Kara l'aveva accolta, stringendogliela. «Una
persona…»,
aveva bofonchiato, perdendo il filo del discorso, guardandole le
labbra. Si era poi immersa nei suoi occhi azzurri che si erano
immersi nei suoi verdi. «Forte…». Forse
avrebbe potuto, avrebbero
potuto… Incantate, Harley a qualche metro da loro sapeva
cosa
stavano per fare e l'ultima cosa che avrebbe voluto era far rumore e
interromperle, ma aveva messo male un piede, una foglia aveva
scricchiolato e le due avevano perso la loro connessione, si erano
sorrise e abbassato i reciproci sguardi. «Adesso pensiamo a
come
bloccare la vendita di quelle pillole», aveva detto Lena
intanto che
Kara annuiva, alzandosi. L'aveva seguita con lo sguardo tornare verso
la casetta, sorridere ad Harley che restava impalata accanto
all'ingresso, ed entrare. Dopo, invece, i passi scoordinati della
ragazza che si stavano facendo vicini.
«Hai
detto delle cose belle», aveva esclamato, «Penso
che Kara sappia
quanto è fortunata ad averti».
Lena
aveva sorriso. Stava per aprire bocca che, ancora una volta, l'aveva
anticipata:
«Anche
Ivy è tanto dolce con me, anche quando non sono certa di
meritarlo»,
aveva riso, sulle sue. «So di essere molto fortunata ad
averla
perché, se lei non mi amasse, non lo farebbe nessun altro.
Avevo un
ragazzo prima ma era moooolto distante dall'essere dolce con
me»,
aveva stirato le braccia dietro la schiena, dondolando sui talloni e
ammirando il cielo. «Anche se io ci ho provato a essere dolce
con
lui», aveva aggiunto poi, con un filo di voce.
Lena
aveva notato i suoi occhi lucidi anche solo per un attimo e aveva
sentito un groppo all'altezza della bocca dello stomaco. «Lo
dirò a
mio fratello», aveva detto dopo, cercando di distrarla.
«Cercherò
di convincerlo a riprendersi la sua formula».
Harley
le aveva regalato allora un sincero sorriso. «Ogni tanto mi
riesce
di dire mezza cosa intelligente», aveva risposto
ridacchiando.
Lena
aveva sorriso a sua volta, scuotendo un poco la testa. «Sono
certa
che lo fai più spesso di quanto tu creda».
Harley
aveva girato i tacchi, gonfiando il petto con orgoglio.
«È
fortunata ad averti», aveva ribadito, camminando verso la
casetta.
«Le
ho spiate da una finestra», sorrise Ivy, asciugandosi il
contorno
degli occhi tamponando piano, cercando di non macchiarsi col trucco.
«Erano così carine. E dolci. E tenere».
Selina
roteò gli occhi. «Ti pare una cosa normale spiare
la gente dalla
finestra?».
«C'erano
delle piantine, lì dietro. Cresciute spontaneamente. Volevo
ammirarle e mi sono ritrovata ad ammirare loro», si
tamponò di
nuovo sotto gli occhi, sospirando. «Non puoi capire
perché sei
sola».
Selina
spalancò gli occhi. «Non riesci a parlare senza
fare una battuta
sulla mia situazione sentimentale?».
«Quale
situazione sentimentale?».
Si
fissarono con sfida e qualcuna delle persone dietro il banco
cercò
di farle continuare il racconto, almeno all'inizio senza
granché
successo. Dopo un breve botta e risposta, Selina decise di
continuare, ignorando la sfrontatezza dell'altra: «Dal
momento che
l'obiettivo principale era dalla nostra, era arrivato il momento di
affrontare il drago, entrare al castello e svegliare la
principessa»,
sorrise, «Ovvero di fare sul serio e prendere quelle dannate
pillole».
«Ma
il drago era furbo», continuò Ivy. «Non
si sarebbe lasciato
portare via la principessa. Quale drago lo farebbe?».
La
numero dieci rosso e blu stava correndo sul campo di lacrosse con
estrema velocità e precisione. Poi si era fermata,
trovandosi a un
bivio, e dallo schermo se ne percepiva la tensione: il ragazzo che
teneva il
cellulare
che stava registrando il video era stato il primo a gridare, con
altri ragazzi accanto, che Kara Danvers poteva passare la palla a una
compagna scoperta perché altrimenti non sarebbe riuscita ad
attraversare
e segnare. A dispetto delle aspettative però, e con una
prova
atletica degna di grandi campioni, Danvers si era tenuta la palla e
tutti sugli spalti avevano iniziato a fare il tifo, gridando di
gioia, urlando Supergirl
a
squarcia gola. Aveva superato gli avversari e si era slanciata per
lanciare la palla contro la porta. Incredibile, aveva segnato. Si
erano sollevate urla festose e il proprietario del telefono lo aveva
girato per riprendersi in camera, con una mano in testa e la faccia
rossa, strillando su quanto fosse super
ciò a cui aveva appena assistito. Di certo, lo aveva pensato
anche
Maxwell Lord, rimpicciolendo la finestra del video per metterlo in un
angolo dello schermo del suo pc, scoprendo sullo sfondo il faccione
del generale Lane.
«Allora,
cosa ne pensa?», aveva domandato con un fine e altezzoso
sorriso.
«Che
questi video amatoriali gridano troppo», si era lamentato
l'altro,
ma Maxwell ci era passato sopra.
«Le
mie pillole rosse hanno reso questa Supergirl
ancora più super»,
aveva intrecciato le dita delle mani, poggiandole sulla scrivania e
mettendosi più vicino alla webcam. «Non aveva
bisogno di aiuto in
campo, la numero dieci è riuscita da sola a giocare quasi
tutta la
partita. Aveva mai visto qualcosa del genere? Questa è la
dimostrazione più recente. Voglio ancora dare una
controllata al
lavoro ultimato, ma dovremmo esserci, generale Lane. Così
potremo
siglare l'accordo».
«Ci
stai impiegando troppo tempo, Lord. Mi aspettavo che fossero pronte
già un mese fa», aveva detto indispettito,
«Ma mi auguro che
questa volta fili tutto liscio. Prima di siglare l'accordo, vorrei
assistere a una dimostrazione dal vivo su cosa queste pillole saranno
in grado di fare ai miei soldati».
«Ma
certo, generale Lane». Poi gli aveva chiesto di scusarlo
vedendo
lampeggiare una lucetta della segreteria e pigiò un tasto,
ascoltando la voce della sua segretaria. «Deve scusarmi
ancora,
generale Lane, imprevisti dell'ultimo minuto richiedono la mia
presenza. Spero di risentirla presto per aggiornarci sui preparativi
per la dimostrazione».
«E
sia», aveva detto stizzito. «Buona
giornata».
Max
glielo aveva augurato di rimando e si era tenuto pronto per l'arrivo
di Kara Danvers, spegnendo il monitor del computer. In
realtà, non
era poi affatto sorpreso del suo ritorno e anzi si era chiesto spesso
quando lo avrebbe fatto. Difatti, quando la ragazza si era accomodata
davanti alla sua scrivania e gli aveva chiesto altre pillole, non era
apparsa nemmeno una ruga di meraviglia sul suo volto. Ma per il
motivo contrario di ciò che si aspettava Kara; anche se
tutte
insieme lo avevano messo in conto.
«No»,
aveva sentenziato Maxwell Lord.
«Vuole
negarmi altre pillole?».
«È
quello che sto facendo». Le aveva sorriso, incrociando le
dita delle
mani e mettendosi più comodo sulla sedia girevole.
«Ci ha messo
tanto a tornare da me, signorina Danvers. Probabilmente
troppo».
Lei
aveva scosso brevemente la testa, abbozzando un sorriso e, con
disinvoltura, aprendo uno dei taschini del giubbino che indossava,
quello che nascondeva il cellulare. «Beh, perché
pensavo che… Che
non ne avrei avuto più bisogno», aveva annuito,
cercando di darsi
un'aria maggiormente seria. «Ho capito che mi
sbagliavo».
«Che
si sbagliava?».
«Sì.
Ho-Ho fatto una gran partita l'ultima volta che ho giocato a
lacrosse, non so se ha visto, può trovare dei video. Sono
virali»,
aveva alzato il mento con fierezza.
«Sì,
credo di averne visto uno».
«Ecco»,
si era accigliata. «So che con quelle darei
più… risultati».
Lui
aveva sorriso di nuovo, appena, e sospirando aveva lasciato la sua
posizione comoda per tirarsi in avanti. «Con ci
ha messo tanto tempo,
intendevo dire che le pillole non le vuole davvero, signorina
Danvers. Non per uso personale, se non altro. Magari le vuole davvero
e intende passarle al suo fratello acquisito, non mi stupirebbe. Ci
ha messo troppo e,
se le avesse volute, sarebbe tornata molto prima di fissare una data
per la nuova partita della stagione».
Lei
si era accigliata di nuovo. «Segue tutti i movimenti della
mia
squadra?».
«Sono
un grande fan», aveva riso, per poco. Aveva notato con
curiosità
come si allargasse quel taschino del giubbino, di tanto in tanto.
«Lei ha qualcosa in mente», l'aveva indicata,
«Ma l'ingenuità non
mi appartiene più da tempo e le chiedo cortesemente di
uscire. La
ringrazio di essere passata».
Ma
Kara non se ne sarebbe andata senza avere nulla in mano ed era
rimasta sulla sedia, stringendo un pugno. «Voglio davvero le
pillole. Per me. Perché senza mi sento… male.
Anche se alcune cose
della mia vita stanno ricominciando a girare per il verso giusto, mi
sento sempre come un nervo scoperto, c-come… se dovessi
sempre
avere paura. L'assassina dei miei genitori è in galera ma
non mi
basta», aveva scosso la testa, prendendo fiato, «Il
gruppo di cui
faceva parte è ancora là fuori e temo di non
saper gestire la… la
tensione. Non senza quelle». Aveva stretto i denti e Maxwell
i suoi
occhi, scrutandola con attenzione.
«Va
bene», aveva detto piano, ancora fissandola. «Ma
voglio che la
prenda qui. Gliene darò una e dovrà prenderla
davanti ai miei
occhi. La chiami curiosità scientifica».
Kara
aveva deglutito e così accettato, decidendo di seguirlo
fuori dal
suo ufficio. Avevano preso l'ascensore e, dopo un corridoio, si erano
spostati verso un altro ascensore, scendendo ai laboratori.
Già
conosceva la strada.
«Se
ne vorrà ancora, poi, dovrà tornare»,
le aveva specificato lui,
uscendo dal secondo ascensore. «Ho da poco rivisto il lavoro
e ho
una nuova formula potenziata da quando le ha prese l'ultima volta. Ho
inviato giusto ieri le nuove direttive alla fabbrica a Gotham e ne
stanno producendo proprio in queste ore». Avevano superato
una
guardia e aperto le porte del laboratorio. «Roulette. Ti
ricordi di
Kara? È tornata», aveva detto con un sorriso alla
giovane che si
era unita a loro, anche lei in camice bianco.
«Vedo.
E la cosa non mi sorprende», aveva sorriso anche lei,
seguendo Lord
che, davanti a un frigo, lasciava un codice a cinque cifre sul
tastierino per aprirlo.
Maxwell
aveva tirato fuori un piattino su cui erano disposte tre piccole
pillole rosse, prendendo una e rimettendo il resto al sicuro.
Così
gliel'aveva mostrata e Kara aveva stretto le labbra con decisione.
«Questa è per lei», aveva detto di nuovo
lui, mettendogliela in
mano e chiedendo poi a Roulette di portarle dell'acqua.
Come
la ragazza le aveva passato una bottiglietta, Kara si era tenuta
pronta: aveva ringraziato Maxwell per l'opportunità e si era
messa
la pillola sulla lingua, così aveva deglutito mettendo
l'acqua in
bocca. Aveva sentito alcuni versi di disapprovazione attraverso il
suo cellulare anche avendolo tanto lontano e si era preoccupata di
cosa avrebbe pensato Lena della sua decisione, dall'altra parte. Ma
lo aveva fatto perché adesso aveva deciso di essere forte
davvero.
«Bentornata
in squadra», si era congratulato il giovane, chiedendo a
Roulette di
accompagnarla. Non era la prima volta.
«Il
piano aveva fallito», cantilenò Ivy, facendo
dondolare un braccio
disteso sul banco. «Che disgrazia, che disonore, che
perdita».
Selina
sbuffò. «Avevo previsto un finale del genere.
Sapete?», li guardò
uno a uno, indicando solo qualcuno di loro. «Ho imparato
nella vita
che bisogna sempre avere un piano d'emergenza. E chi fa da
sé…».
Prima
di uscire dalla Lord Technologies, la volta in cui era riuscita a
intrufolarsi là dentro, Selina Kyle aveva lasciato per le
emergenze
un'entrata speciale: aveva trovato un punto cieco alle telecamere
all'esterno, sorvegliato solo da una guardia che passava in quel
esatto punto ogni dieci minuti, la grata di un condotto d'aerazione.
Così si era premunita di lasciarla allentata dai bulloni. Il
suo
permesso. Aveva portato con sé Ivy e, mettendo il cellulare
in
silenzioso e staccando la videochiamata con Kara, se lo erano
nascosti in una tasca interna dei giubbotti, mettendosi a gattoni per
entrare nell'edificio e chiudere la grata prima che passasse la
guardia. Ce l'avevano fatta, erano dentro. Avevano ritrovato
facilmente il piano del laboratorio dov'era stata Kara pochi secondi
prima ma non avevano considerato il corridoio pieno di guardie.
Una
delle guardie davanti al banco sorrise e lanciò un'occhiata
soddisfatta verso i colleghi a destra e sinistra mentre veniva
elogiato per aver scovato e portato nella saletta le due ladre.
«Sì,
parliamo di voi», Ivy sorrise. «E di te, ragazzo
d'oro», indicò
sensualmente la guardia che non riusciva a stancarsi del sorrisetto
sulla faccia. «Sei tu il nostro uomo! Sei tu! Vero,
gattina?»,
diede una spallata a Selina, che si sforzava per non sorridere.
«Per
quanto brave, lui ci ha sorpreso. Spero che ai piani alti si
accorgano di te, campione! Ti selezioneranno per un premio per la
nostra cattura, come minimo. Te lo meriti, bel visino. Te lo meriti
proprio».
Intanto
che molti applaudivano e si congratulavano con lui, Selina si
abbassò
verso la compagna, bisbigliando qualcosa che nessuno di loro avrebbe
percepito: «Stai esagerando con la commedia. Abbassa i toni
se non
vuoi mandare tutto all'aria. O le ragazze non avranno tempo».
Ivy
si passò un dito sul rossetto verde, per poi sorridere con
soddisfazione. «Frena. Abbiamo finito di raccontare, qua ci
serve
qualcosa per intrattenerli e le lusinghe funzionano sempre».
Il
loro piano fallito? Il loro piano continuava.
Mentre
Selina e Ivy si facevano catturare da una delle guardie, Kara si
trovava in ascensore con Roulette, in quel momento. Silenziosa,
determinata. L'altra l'aveva spiata con la coda dell'occhio
più
volte prima di pensare di dire qualcosa:
«Come
sta Lena?», le aveva chiesto. L'aveva guardata e, non
ricevendo
risposta, si era spazientita. «Andate ancora a letto insieme?
So che
vi siete separate», si era accigliata solo un breve attimo,
alzando
il mento e riprendendo parola. «Il guaio di avere una
relazione nel
senso stretto del termine. Però sento il suo profumo su di
te. Lo
riconoscerei ovunque, non importa il tempo trascorso
separate…».
Ancora nessuna risposta. Kara immobile. Roulette aveva preso fiato,
decidendo di proseguire quel discorso a senso unico: «Hai
provato a
leccarle dietro l'orecchio sinistro?», aveva chiesto,
riguardandola.
«La fa impazzire ancora? Non sai quanto impazziva con me; era
lei a
chiedermelo».
Fu
allora che Kara, finalmente, aveva avuto una reazione, voltandosi.
«Fo
cofa ftai ferfando di fafe»,
aveva detto. L'altra aveva incurvato un sopracciglio, confusa; meno
confusa ma sicuramente più schifata quando Kara, dopo aver
preso un
fazzoletto da una taschina, aveva aperto la bocca e sputato la
pillola rossa. Così aveva premuto un altro numero sul
tabellone
dell'ascensore e, quando le porte si erano aperte, Kara l'aveva
fermata dall'uscire al piano terra e l'ascensore era ripartito con
entrambe verso la nuova destinazione.
«Non
la passerai liscia», aveva esclamato Roulette, con sicurezza
nella
voce. «Ci sono telecamere ovunque, non capisco cosa pensi di
fare».
«Lascia
deciderlo a me», aveva sorriso. «E per tua
informazione: non sei
mancata a Lena nemmeno una volta», aveva stretto le labbra,
abbassando la testa da un lato con una smorfia.
Quando
le porte dell'ascensore si erano riaperte, Harley era lì che
aspettava e Kara le aveva mostrato la pillola rossa sputacchiata. Si
era messa a ridere, prendendola in mano nonostante la saliva.
«Come
hai fatto?», le aveva chiesto, ignorando il forte e
disgustato
sguardo della terza ragazza.
«Ho
imparato a infilarle dietro i denti con la lingua quando da bambina
dovevo prendere i medicinali», aveva scrollato le spalle e
stretto
un braccio di Roulette per non farla scappare. «Poi mia madre
lo
aveva scoperto e sono stata in punizione per sei mesi. E ho trascorso
il primo malata».
Harley
aveva messo la pillola sputata all'interno di un barattolino di
plastica e l'aveva guardata mentre la faceva sbattere da una parte
all'altra. Questo intanto che dei passi si avvicinavano e Roulette
aveva spalancato gli occhi, sussurrando il suo nome.
«Per
quel che vale», aveva detto Lena, mani nelle tasche del
cappotto,
posizione severa, «sapevo che non l'avevi
ingoiata». Aveva sorriso
e Kara a sua volta, felice che avesse creduto in lei.
Le
tre con Roulette a seguito avevano preso le scale posteriori che,
come aveva detto loro Selina, non avevano telecamere a riprendere.
Roulette non era per niente entusiasta di quella situazione e del
guaio in cui si stavano cacciando, ma per il resto non aveva tolto
occhio di dosso a Lena Luthor, che non vedeva da tempo e che non le
aveva riservato nemmeno un saluto. Aveva immaginato che doveva essere
arrabbiata con lei per via della formula rubata a Lex e della storia
delle pillole. Oppure perché era stata a letto con Lex.
Aperte
le porte del piano col laboratorio che le interessava, Harley aveva
lanciato un'occhiata per prima, scorgendo le telecamere e come
giravano per riprendere il corridoio. Non c'era nemmeno una guardia,
però, sorridendo con gaudio all'idea che Ivy e Selina erano
riuscite
a creare un perfetto diversivo. Era uscita per prima attenta a
restare nei punti ciechi per quei pochi secondi scoperti dalla
telecamera. Avevano spinto Roulette ad andare e aveva camminato
normalmente, in attesa di Lena e Kara, dietro, che seguivano la
strada segnata da Harley. Così erano tutte entrate nel
laboratorio,
ignorate dai ragazzi che giravano là dentro in camice. Anche
lì
dentro c'erano telecamere ma erano fisse e riprendevano i frigo e le
dispense, come aveva avuto modo di notare Kara anche solo pochi
minuti prima.
«Tocca
a te». Lena aveva guardato Roulette, rivolgendole finalmente
la
parola. «Dovrai rubare le altre due pillole rimaste in frigo
e
vogliamo la formula. Ce la dovrai far avere».
«Mi
mettereste nei guai», aveva scosso la testa, stringendo le
labbra
fini. «Non avete modo di costringermi a farlo».
«Ne
sei sicura?», aveva riso Harley. «Facciamo
così: tu ci dai quello
che vogliamo e ce ne andiamo in silenzio come siamo arrivate,
perché
se non lo fai, allora comincerò a spaccare tutto quello che
vedo e
credimi», l'aveva fissata, «posso mettermi
d'impegno e non vedo
l'ora. Farò taaanto chiasso. Rovescerò questi
frigo fino a trovare
quelle pillole».
«Tu
sei matta».
«Grazie»,
aveva annuito, tirandosi indietro con braccia incrociate contro il
petto.
«Guarda
che non scherza», l'aveva provata ad ammonire Kara.
«Per questo è
con noi. Forse Lena ed io staremo buone o quasi, ma lei no. Lei
farà
un disastro. Arriverà la polizia, si metterà a
frugare ovunque, e
chissà quante cose interessanti troveranno qui
dentro».
«Senza
contare che non ti stiamo chiedendo qualcosa di assurdo»,
aveva
aggiunto Lena. «Non sarebbe la prima volta che rubi pillole e
formula. Ti ci potresti quasi abituare».
Erano
riuscite a convincerla. Aveva aperto il frigo inserendo il codice a
cinque cifre sul tastierino e consegnato le due pillole ad Harley,
che le aveva conservate in un altro barattolino e nascoste in una
tasca con cerniera. Dopodiché, tutte e quattro erano tornate
alle
scale, poiché la formula non si trovava lì,
dovevano dirigersi in
un altro laboratorio. Harley le aveva piacevolmente ricordato che
avrebbe spaccato tutto se si fosse azzardata a tradirle.
«Quindi?»,
chiese la guardia eroe alle due ragazze, «Come finisce il
vostro
racconto?».
Ivy
e Selina si scambiarono uno sguardo, sorridendo. «Ma non
è ancora
finito», disse la seconda.
All'improvviso,
un forte rumore prese l'attenzione di tutti e si misero sull'attenti.
Ci volle poco per vederli tuffarsi uno appresso all'altro fuori dalla
saletta, rendendosi conto di aver lasciato qualche piano incustodito.
«Ehi, voi due», le guardò l'ultimo,
indicandole, «Non muovetevi
da qui».
«Baci,
baci», Ivy gliene inviò due. «E chiudi
bene la porta quando esci,
che fa freddino».
Appena
la chiave entrò nella toppa, Selina spense il sorriso e, con
l'altra, spostò con forza il banco fino al muro,
così ci si
arrampicò, camminando fino a trovare la grata del condotto
d'areazione. Lei impegnata a far saltare i bulloni con un cacciavite
nascosto in una scarpa e Ivy scrivendo qualcosa su un pezzo di carta
con una penna glitter e arcobaleno che tirò fuori dal
reggiseno.
«Cosa
stai facendo?», la rimproverò, «Vieni ad
aiutarmi».
«Invio
baci», scrisse kiss
kiss
e lasciò un cuore circondato
da margherite stilizzate,
ammirando il tutto con soddisfazione. «Credi che riuscirai a
svitare
i bulloni più in fretta sapendo di avermi lì a
guardarti?».
«Ho
quasi fatto, spiritosa. Tra poco scatterà
l'allarme… Ci hanno
messo un sacco di tempo, accidenti».
Si
arrampicarono su per il condotto e Ivy lasciò il foglietto
sul
banco, infilando di nuovo la penna tra i due seni. Una volta fuori,
Harley si attaccò contro Ivy e si baciarono
appassionatamente,
sentendo l'allarme suonare per l'edificio. Selina le dovette per poco
trascinare via.
Roulette
abbassò lo sguardo quando Maxwell Lord la fissò.
«Quella piccola
bugiarda aveva nascosto la pillola dietro i denti», strinse i
suoi,
nel dirlo. «E l'altra biondina, la matta, aveva promesso di
non
rompere niente ma appena avuta la formula ha comunque rovesciato uno
scaffale. Diceva che era un segnale».
«Ci
ha giocato», annuì lui, accennando un sorriso.
«Aveva una squadra
pronta a fregarci».
«Andrò
da Lena e-».
«No,
no», scosse la testa lui, appoggiandole una mano su una
spalla per
rassicurarla. «Lascia che provino a fare qualsiasi cosa
abbiano in
mente di fare. Presto siglerò l'accordo con il generale Lane
e non
voglio attirare attenzioni inutili; quell'uomo è
già abbastanza
irascibile. Me ne occuperò personalmente quando
sarà il caso». Lei
sospirò e scrollò le spalle, così
Maxwell la congedò. Non si
erano fatte riprendere perché sarebbe stata la loro parola
contro la
sua. Si chiese se avessero avuto intenzione di coinvolgere Lex
Luthor, ma non aveva importanza: non avrebbe lasciato che qualcuno
mandasse a monte la vendita. «Ah, e- Che si assicuro che i
condotti
d'areazione siano ben chiusi, questa volta»,
gridò, per poi
passarsi una mano sul volto e sospirare. Questa non se l'aspettava,
non se l'aspettava proprio…
E
così ce l'avevano fatta: avevano le pillole e la nuova
formula
ideata da Maxwell Lord, ora dovevano solo esaminare tutto e sperare
di trovare qualcosa di illegale o nocivo dal mettere il generale Lane
al corrente. O meglio, Lena lo avrebbe fatto. Selina non le disse
nulla, ma sapeva che ne avrebbe parlato col fratello, presto o tardi.
A quel punto, se fosse servito a cancellare la vendita e a chiudere
il locale e la fabbrica a Gotham, era tanto di guadagnato.
Harley
e Ivy costrinsero Kara ad accompagnarle a prendere la metro e lei e
Lena si separarono dopo lenti sguardi. Le tre le guardarono, ma non
ebbero il coraggio di dare loro dei consigli non richiesti e
aspettarono l'allontanamento di Lena per suggerire a Kara di
buttarsi. Di nuovo. Perché era evidente che, nonostante
tutto, loro
fossero fatte per stare insieme.
Alla
fine, non aveva studiato e avrebbe trascorso anche quella notte
insonne dietro i libri, eppure Lena non riusciva a togliersi un
tenero sorriso dalle labbra. Sì, aveva un lavoro in
più da sbrigare
e avevano rischiato tanto, anche se erano state attente a non farsi
immortalare dalle telecamere, ma quella giornata era stata perfetta
da quando aveva ricevuto quella telefonata da parte di Selina Kyle. E
chi lo avrebbe mai immaginato che rapire Kara sarebbe stata una delle
miglior cose di sempre. Ci scherzò su, ridendo tra
sé e sé mentre
si avvicinava lentamente con l'automobile a villa Luthor-Danvers. Si
sporse in avanti per vedere perché c'era qualcosa che
bloccava
l'ingresso al cancello. No, non qualcosa, ma qualcuno. Lena
tirò il
freno e aprì lo sportello, scendendo dal veicolo. Non seppe
cosa
dire e restò a bocca aperta, riconoscendola, ricordandola
dalle foto
online che aveva visto su di lei.
Indigo
era spettinata, infreddolita, spaventata. Si reggeva le braccia e
tremava, battendo i denti. «Ti ho trovata»,
sibilò lei, cercando
di abbozzare un sorriso. «Finalmente ti ho
trovata».
Ops,
Indigo ha deciso di fare un passo avanti!
Ebbene
sì, è un capitolo dal sapore un po' tonto,
ma considerando
quanto sono seri e pieni gli altri capitoli, questo mi è
quasi
scivolato dalle dita :D
E
così quelle tre hanno rapito (!!) Kara, hanno chiamato Lena
che si è
divertita fin quanto ha potuto, e hanno detto loro dei piani di
Maxwell Lord per le sue pillole rosse: venderle al generale Lane.
Darle in mano all'esercito è pericoloso e se c'è
una cosa che
Selina, Harley e Ivy desiderano ardentemente è la chiusura
del
locale e della fabbrica a Gotham. Maxwell Lord decide di lasciar
perdere per non creare attenzioni di troppo, e in ogni caso non ha
prove e nessun fermo. E infine… Indigo si è
presentata a Lena!
Avrà modo di “esplorare” la sua
umanità, come le aveva detto il
suo 'angelo custode' per messaggio?
A
parte dirvi che di tanto in tanto siete incappati in qualche
citazione (davvero XD) scema, non credo di avere note da stilare e,
sperando che il capitolo vi sia piaciuto… ci diamo
appuntamento il
1° giugno con il capitolo 49 che si intitola Come una
candela
:)
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Capitolo 50 *** 49. Come una candela ***
Quella
vasca era enorme. Riusciva a girare su se stessa e a fare le bolle
con la schiuma. Riempiva le mani di acqua e, avvicinando le labbra,
soffiava le bolle e le ammirava volare e scoppiare. Così si
rilassò
di nuovo, adagiandosi lentamente, sorridendo estasiata nell'ammirare
l'alto e luminoso soffitto, corredato da un lussuoso lampadario. Lena
Luthor le aveva lasciato un asciugamano per il corpo sul bordo della
vasca e dei vestiti puliti su un mobile, in modo che si cambiasse.
Suo fratello Cyan l'avrebbe guardata con commiserazione per
ciò che
provava, eppure, pensò sospirando, se così era
sentirsi felici,
allora voleva esserlo sempre.
Lena
le aveva creduto. Quando la trovò davanti al cancello della
sua
villa e le disse di essere scappata dal suo aguzzino, il garante che
l'aveva fatta uscire di prigione in cambio dei suoi servigi che poi
l'aveva rinchiusa quando aveva deciso di prendere le parti di Lena,
lei la accolse, le aprì le porte della sua villa e, sperava,
non
solo quelle. Disgraziatamente quello che stava vivendo era solo in
parte una libertà, lui la teneva ancora in pugno e al
contrario
sperava che l'avvicinamento delle due potesse velocizzare il suo
piano per mettere Lena contro la sua famiglia, i Luthor, ma Indigo
voleva vedere il bicchiere mezzo pieno della faccenda: ora poteva
starle vicino, poteva vegliare su di lei e stare dalla sua parte alla
luce del sole.
E
poteva conoscerla, conoscerla dal vivo. Dopo aver passato anni a
seguirla sui video online, adesso poteva parlarle, guardarla mentre
si rivolgeva a lei, non a una videocamera. E aveva sempre preferito
le videocamere alle interazioni umane; questa la diceva lunga su come
quella ragazza la faceva sentire.
Nello
stesso momento, Lena passeggiava in camera da pranzo, cellulare in
mano contro un orecchio. Era molto agitata di avere Indigo Brainer in
casa sua, dal vivo, dopo aver passato mesi a immaginarla dietro lo
schermo che le rispondeva in chat. Avevano trascorso qualche ora
della notte a parlare e dopo l'aveva lasciata a dormire sul divano
ma, al contrario di Indigo, lei non aveva dormito affatto, con la
testa affollata da troppi pensieri. Almeno, ora ne poteva parlare con
Kara. «Dice di non conoscere la sua vera
identità», rispose al
cellulare, passandosi i capelli sciolti da un lato con la mano
libera. «Non è riuscita a capire chi sia il suo
garante».
«E
tu le credi?»,
la voce di Kara dall'altra parte.
Lena
si voltò indietro, cercando di scorgere che non fosse uscita
dal
bagno. «Glielo devo. Mi ha aiutato tante volte. Ci
ha aiutato tante volte», si corresse, passandosi ora la mano
in
fronte, sospirando. «Non sa dove
andare…». Udì una voce
meccanica provenire dall'altra parte della telefonata e attese.
«L'hai
sentito? Sono quasi arrivata a Metropolis, devo andare»,
la sua voce all'improvviso più bassa. «Mi
spiace essere partita per andare da Kal proprio adesso. Avrei voluto
conoscere questa Indigo».
«Non
importa, la troverai qui quando tornerai. Si spera»,
sollevò un
breve sorriso. «Tu divertiti».
«Sì…
E tu stai attenta»,
la sentì dire in fretta e Lena sorrise. Kara non si fidava
di
Indigo, lo intuì subito. Ma si preoccupava per lei e non le
dispiaceva quest'attenzione particolare.
Staccò
la chiamata e sospirò, stringendo il cellulare tra i palmi
delle
mani, prendendosi un attimo per pensare, in silenzio.
Accartocciò le
labbra e puntò gli occhi verdi sul soffitto. Con Indigo al
suo
fianco, forse sarebbe stato più facile scoprire cos'era
successo a
suo padre. Un peccato che fosse il suo garante a dire di sapere cosa
gli era successo, perché di sicuro, adesso che era scappata,
lui non
gliel'avrebbe detto. Sempre se fosse stato vero.
«Mi
dispiace così tanto», le aveva detto Indigo,
corrucciando lo
sguardo davanti a lei sul divano, quando le aveva portato le coperte
per sistemarsi per la notte. «So quanto tieni a scoprire su
tuo
padre, ma non potevo più lavorare per lui, dovevo
andarmene»,
l'aveva guardata negli occhi con disperazione, avvicinandosi col
sedere a dov'era seduta. «Quell'uomo, so
che è un uomo…
Quell'uomo è pericoloso. Non conosco i piani che aveva per
te, ma
iniziava a mostrarsi per ciò che era: ha voluto che ti
chiedessi i
dati d'accesso del sistema di allarme alla Luthor Corp solo per
sentire di avere la situazione sotto controllo, quando tu rischiavi
la vita. Non potevo permettere che giocasse in questo modo con
te».
Non
fosse altro, le era tutto più chiaro. E magari proprio col
suo aiuto
sarebbe riuscita a capire chi era quest'uomo e cosa voleva da lei.
Intrecciava convulsamente le dita delle mani pensando a cosa fare che
un forte rumore rimbombò per il salone e, destata dai suoi
pensieri,
Lena poggiò il cellulare su un mobile e si
affacciò a una parete,
al piccolo monitor in alto. «Cancello»,
esclamò, aspettando.
Aggrottò lo sguardo e restò a bocca aperta quando
riconobbe
l'automobile, decidendo di coprirsi velocemente con il primo giaccone
a portata di mano sull'appendiabiti all'ingresso e uscire fuori,
lasciando il portone solo socchiuso.
Vedendo
che si avvicinava, Roulette spense il motore dell'auto e
aprì la
portiera. «Lui è qui?»,
domandò subito, allungando lo sguardo
verso il portone. «Lex! È qui o è a
Metropolis? Devo parlargli».
Lena
si strinse, cercando di ripararsi dal vento: indossava solo un
leggins scuro e una felpa e sentiva il freddo che la colpiva
attraverso il tessuto. «Devi andartene, non sei
più la benvenuta
qui».
Roulette
la fissò, restando immobile, quasi ferita da quelle parole.
«Non
sono la benvenuta?!», abbozzò una risata,
«È perché sono stata
con Lex o per Kara?». Sollevò le sopracciglia,
regalandole uno
sguardo curioso. «Per averle messo una pillola nel bicchiere
o per…
beh, quello che le ho detto ieri?».
«Cosa
le hai detto ieri?».
«Oh,
non lo sai», sorrise, scrollando appena le spalle.
«Ma niente,
figurati. Giocavo con lei. Ottimo il teatrino alla Lord Technologies,
a questo proposito… Sei fortunata che Max abbia tanta
pazienza e
troppo da perdere per stare dietro a voi».
«Max?»,
Lena arcuò un sopracciglio.
Roulette
scosse la testa, lasciando intravedere un sorriso. «Non ci
vado a
letto, non fare quella faccia».
«Non
me lo stavo chiedendo».
«Per
restare in tema, dunque Lex non c'è? Gli hai mostrato le
pillole e
la nuova formula rubate a Max? Perché devi recapitargli un
messaggio
da parte mia: deve-lasciarmi-in-pace», strinse i denti,
avvicinandosi alle sbarre del cancello. «Lo blocco ovunque e
riesce
sempre a rintracciarmi. Personalmente, all'inizio lo trovavo carino a
insistere. Adesso comincia a diventare pesante e deve
saperlo»,
gesticolò, sguardo duro, «Se non la smette,
dovrò rivolgermi alla
polizia».
Lena
sospirò, non sapendo proprio cosa passasse per la testa di
suo
fratello. «Gli recapiterò il messaggio. Ora puoi
andartene».
Roulette
sorrise e stava per girarsi verso l'auto, se non che il suo interesse
fu catturato più avanti, verso il portone. «Ah,
che preferisci
proprio le bionde, di questi tempi. Ti dai da fare».
Si
voltò anche Lena, scoprendo che Indigo aveva spalancato il
portone;
scalza, indossava solo un largo maglione bianco e le si notavano gli
slip sotto, i lunghi capelli ancora bagnati, sciolti. La
scacciò con
un gesto e sospirò.
«Oh,
non preoccuparti per me, sono l'ultima che può
giudicare», si
affrettò ad aggiungere l'altra. «Kara
sarà felice di sapere che
hai trovato rapidamente una sostituta. Da parte mia, già
sapevo che
sei qualcuno che fa alla svelta».
«Vattene»,
le disse soltanto, stringendo le labbra. Vide Roulette sorridere e
alzare le spalle, tornando alla sua automobile. Così fece
retromarcia e, ricordandole di dare a Lex il suo messaggio, se ne
andò.
A
Metropolis, invece, Kara era appena scesa dalla metro, riabbracciando
Kal che era andato a prenderla. Era felice di poter passare qualche
giorno con lui e Lois, finalmente, se non fosse che la sua mente era
ancora con Lena e quella Indigo, che aveva aspettato proprio un
momento propizio per apparire nella loro vita. L'idea che Lena fosse
sola con lei non le piaceva: quella ragazza aveva passato mesi a
scriverle in chat, a farle perfino paura all'inizio, e poi non
importava che le avesse aiutate in qualche occasione, dal momento che
aveva confessato di averlo fatto per lavoro e che dietro a lei c'era
qualcun altro, un uomo sconosciuto che ce l'aveva con Lena per
chissà
quale motivo. Come facevano a essere certe che avesse smesso di
lavorare per lui? Non la conoscevano, non potevano semplicemente
fidarsi. Anche se Lena sembrava volerlo fare.
Avevano
cambiato tappetino davanti all'ingresso dell'appartamento.
Tredicesimo piano. L'etichetta del campanello con su scritto
Kent-Lane. Era da davvero tanto tempo che non tornava lì e
Kara si
sentì in dovere di prendere un grosso respiro, esattamente
come
allora, ricordando l'ansia che provava. Quella volta c'era Lena al
suo fianco e quante cose erano cambiate, da quando avevano avuto una
breve discussione per via di Roulette. Accidenti, ora ricordava
quanto si era ingelosita senza rendersene conto, e tra loro doveva
ancora tutto iniziare. Sorrise al ricordo, Clark aprì la
porta di
casa e, mentre il bovaro correva nella loro direzione, appese le
chiavi all'ingresso.
«Keplero».
Kara fece il grande errore di abbassarsi per accarezzarlo,
poiché il
cagnone si alzò su due zampe e le leccò il viso.
Se Kal non fosse
stato dietro di lei, l'avrebbe sicuramente buttata a terra.
«Sei
bello, sei bello», lo accarezzò sotto il collo,
ascoltando suo
cugino di non viziarlo troppo con le coccole. Kara lo vide baciarsi
con Lois, abbassandosi verso di lei che era seduta davanti al tavolo.
Seppure poco per via della luce delle vetrate dietro, notò
che il
tavolo era pieno di fogli e cartelle. Si chiese se non stesse
lavorando a un nuovo articolo. Notò i due scambiarsi parole,
strani
sguardi, e così Lois alzarsi e andare verso di lei con un
pronto
sorriso.
«Sono
così felice che resti con noi per il fine
settimana», si
abbracciarono e Keplero le fissò finché non lo
chiamò Clark,
correndo da lui scodinzolando. «Per pranzo ordiniamo cinese,
ti
va?». La vide annuire e così la guidò
verso il tavolo, a un Clark
particolarmente nervoso. «C'è qualcosa di cui
dobbiamo metterti al
corrente, Kara. E speriamo che non ti faccia arrabbiare».
Non
farla arrabbiare? Le premesse non erano buone, perché se lo
pensava,
qualcosa per arrabbiarsi probabilmente c'era. Si affacciò al
tavolo
e notò un gran lavoro di scrittura: tantissimi fogli
riempiti a
penna da entrambi, con correzioni, frecce, pasticci negli angoli. Ma
anche alcuni fogli stampati in bianco e nero. C'era un tablet con lo
schermo spento, un portatile e, vicino, una pennetta usb. A cosa
stavano lavorando?
Lois
prese proprio quest'ultima, mostrandogliela. «So che dovevamo
consegnarla alla polizia, e che quando salterà fuori che ce
l'abbiamo dovremo dirle addio, ma… Sì»,
annuì e strinse i denti,
quando l'espressione di Kara si corrucciò,
«è una delle chiavette
usb con cui i terroristi di Rhea Gand cercavano di incastrare il
Generale Zod all'interno dell'organizzazione».
«È
caduta ai terroristi alla Luthor Corp: Jimmy l'ha raccolta e l'ha
data a noi», proseguì suo cugino.
Kara
trattenne e il fiato e dopo si lasciò andare, scrutando
negli occhi
uno e poi l'altra. «Alex la sta cercando. Ne avete altre, per
caso?», incrociò le braccia contro il petto.
«Abbiamo
solo questa, è che…», Lois sorrise,
rimettendo la chiavetta sul
tavolo. «Ci sono cose… interessanti».
«Non
ti arrabbiare, Kara», ripeté Clark, al che lei
sbottò:
«Non
sono arrabbiata, ma potreste finire nei guai, per questo».
«No,
non per quello», Lois abbozzò una risata,
scambiando uno sguardo
con l'altro. «È che la chiavetta non contiene solo
dati riguardanti
Zod: è piena di eventi, date, dettagli… sui
Luthor». Oh, ora sì
che prese la sua attenzione. «Alcune cose sono
particolarmente
specifiche. Il loro coinvolgimento nell'organizzazione è
evidente».
Col
cuore in gola, Kara allungò le mani verso il tavolo e prese
alcuni
dei fogli fotocopiati, leggendo rapidamente qualcosa, aggrottando la
fronte.
Clark
e Lois si scambiarono un'altra occhiata e il primo le poggiò
una
mano su una spalla. «Per quel che ne sappiamo, quella donna
ha
raccolto tutto questo per incastrare Zod e i Luthor. Ci siamo messi
d'impegno per catalogare tutto e cercare di distinguere il vero dal
falso, non farti prendere dal panico».
«O
dagli eventi decontestualizzati con il solo fine di far apparire i
Luthor colpevoli», finì Lois, avvicinandosi di
più anche lei.
«Incastrano
Lillian…», bofonchiò Kara, scuotendo la
testa.
Clark
provò a sorridere. «Molte delle cose sul suo conto
sembrano
costruite ad hoc per darle in pasto al pubblico».
«Molte»,
si lasciò sfuggire Kara, prendendo un foglio dietro l'altro,
guardandone altri ancora. «Non tutti. E
Lionel…», si morse il
labbro inferiore, «Lionel Luthor pagava- chi è
quest'uomo?». Non
fecero in tempo a dirle che ancora non avevano finito di lavorarci e
che non potevano esserne sicuri, che lei sbuffò, seccata.
«Non va
bene, non va bene… A-Alex sta cercando questi dati, deve
consegnarli al D.A.O. e-», scosse di nuovo la testa,
bloccandosi.
«Ah,
sarebbe meglio che questo resti tra noi, per il momento»,
sussurrò
Clark, appoggiato dall'altra, che lo indicò.
«Non
farà piacere a Lena», disse dopo, quasi senza
ascoltarli. «È
molto affezionata al ricordo di suo padre, non… uff».
«No,
Kara», Lois le aveva stretto un braccio, attirando la sua
attenzione. «Non puoi dirlo a nessuno, adesso. Nemmeno a
Lena».
Lei
s'imbrunì, rimettendo i fogli sul tavolo con un gesto
seccato. «Non
posso non dirglielo! È per via di un segreto che ci siamo
lasciate
e-e non posso fare lo stesso errore ora che ci stiamo
riavvicinando».
No,
non poteva. Capiva perché glielo avessero detto e
comprendeva la
loro posizione, ed era spaventata dall'idea che quelle cose potessero
essere divulgate, ma era convinta che avrebbe rischiato più
a
tenerglielo nascosto che a dirglielo. Mangiarono cinese mentre
continuavano, tutti e tre intorno al tavolo, a lavorare a quei dati.
Lois e Clark le mostrarono prima quelli che avevano già
schedato
come faziosi o totalmente falsi, facendo confronti in rete con date
ed eventi, e dopo su quelli che ancora dovevano finire di fare i
dovuti controlli. Per quanto la situazione fosse in parte pesante, si
divertì a lavorare al fianco di quei due, che avevano
più
esperienza di lei in merito. Imparando da loro e sbirciando come si
consultavano, di tanto in tanto, ai lati opposti del tavolo. Come
Lois lo stuzzicasse e l'altro restasse al gioco. Era un'esperienza
piacevole, se non altro, e le veniva da sorridere.
Più
tardi quella sera arrivò anche James che si scusò
di non averle
detto della chiavetta, spendendo anche lui qualche parola per
ricordarle di non doverne parlare a nessuno. La cosa
cominciò a
starle stretta. «Appena sapremo con certezza quali sono i
fatti
realmente accaduti e quali no, potremo darla a tua sorella e dirle
cosa si è scoperto», disse, aggrottando la fronte.
«E così dirlo
anche a Lena. Dobbiamo solo verificare, essere sicuri… Anche
per
non farla agitare senza motivo», esclamò.
«Agitare?»,
strabuzzò gli occhi, non piacendole la parola usata.
«Sì.
Hai capito cosa intendo», annuì il ragazzo.
«Si agita quando c'è
di mezzo la sua famiglia, voglio… proteggerla
da questa cosa».
Kara
scrollò le spalle, stringendo le labbra. «Quindi
non è perché ti
ha rifiutato?». Sentì Lois trattenere una risata
dietro di loro,
sul divano che, a gambe incrociate e con il cane sdraiato vicino,
continuava a leggere alcuni dei fogli stampati. James non rispose, lo
videro restare a bocca aperta per un po' e provare a dire qualcosa e
infine rinunciarci, allontanandosi.
Mantenere
un altro segreto con Lena adesso era da pazzi. Come poteva anche solo
pensare di farlo? Quella sera prese il cellulare con l'obiettivo di
scriverle e dirle tutto, fermandosi all'ultimo. Forse, se glielo
avesse detto, sarebbe corsa lì per dare un'occhiata anche
lei? E
avrebbe trascinato con sé quella Indigo? Sbuffò.
Di sicuro, con le
sue conoscenze informatiche, quella ragazza avrebbe potuto dare un
grande aiuto a catalogare quelle informazioni, se si fidasse
abbastanza di lei. E al momento, Kara non si fidava affatto. Scrisse
ad Alex per dirle che stava bene e che era si era sollevato un vento
molto forte, trattenendosi del dirle della chiavetta. Con lei lo
avrebbe fatto in un secondo momento. Dopo scrisse a Siobhan per
chiederle come stesse, ma non ricevette risposta. Al solito, non che
si stupisse. Così giocherellò con il cellulare,
dopo cena. Scorse
Lois, dietro la porta di una stanza, parlare animatamente al
telefono. Si ricordò delle pillole rosse e di suo padre, ma
i due
non avevano un grande rapporto e non era convinta di dirglielo
adesso. Allora decise di salire sul soppalco, aspettando l'arrivo di
Clark. Sentiva i suoi passi.
«Hai
deciso di dirglielo, non è così?», le
domandò, sedendo sui
cuscini sul pavimento.
«Dirglielo?
Oh, Lena», annuì, «Devo»,
rispose, immobile.
«Va
bene. Mi fido delle tue scelte».
«Devo
solo», continuò lei, facendo una smorfia con le
labbra, «capire
come. Non vorrei che si precipitasse qui, non… non
è il momento».
Allungò solo una volta lo sguardo, nel sentire Lois alzare
la voce.
«Con chi ce l'ha?».
Kal
sorrise, decidendo di sdraiarsi, le braccia incrociate dietro la
nuca. «Con sua sorella. A quanto pare, domani
verrà a farci visita
e anche lei e resterà qui per il weekend».
Aspettò che Kara si
coricasse al suo fianco, per continuare. «Pare che Lucy abbia
litigato con il padre e si è presa una piccola
vacanza».
Con
suo padre? «E Lois non è contenta che sua sorella
venga a
trovarla?».
«Sì,
ma…», ridacchiò, «avrebbe
preferito che prima l'avvertisse, qui
ci sei tu e non pensavamo di avere altri ospiti».
«Per
me non è un problema se c'è anche lei».
Lui
sorrise. «Non farci caso, litigano per tutto».
Kara
si avvicinò, abbracciandolo, così lui
ricambiò, stampandole un
bacio sulla fronte. Spensero la luce, rivedendo le stelle insieme.
Da
L! A Me
Kara,
come vanno le cose da tuo cugino? Qui con Indigo non saprei cosa
raccontarti. Come avevo sospettato, è una ragazza davvero
singolare,
non ragiona come farebbero altri. Ha una personalità atipica
e non
vedo l'ora di fartela conoscere. Se già dormi, buonanotte e
sogni
d'oro.
Kara
arrossì, leggendo al fianco di Kal ancora stretti sul
soppalco,
intorno alle stelle luminose.
«È
una cosa seria, vero?», chiese il ragazzo a un certo punto.
«Tra te
e Lena Luthor».
Lei
arrossì e alzò gli occhi, quasi pronta per
riprendere l'argomento:
«Lo so che-».
Ma
lui la interruppe e non se lo aspettava: «È okay,
Kara. Siete
adulte. E dopo ciò che è successo…
Ascolta, per quel che mi
riguarda, potresti conoscere la tua anima gemella anche domani,
l'importante è che tu sia felice. E se pensi di esserlo con
lei,
allora va bene. Lo so che mi sono opposto, ma vedo la cosa in modo
diverso, adesso», sussurrò. «Lena non
è Lex, e con
te lei è… diversa da come l'ho conosciuta io.
Dovete solo riuscire a far funzionare questa cosa delle sorelle»,
rise, «ma per il resto… per
me è okay».
Kara
lo fissò per un po', quasi fino a metterlo in imbarazzo.
«Ti ha
convinto Lois a dirmelo?».
Lui
rise e così anche lei. «Beccato.
Dice che per te è importante sentirtelo dire».
«Lo
è», lo strinse più forte.
Da
Vaniglia a Me
Qui
le cose vanno bene, o meglio andrebbero meglio se non fosse per una
cosa di cui devo parlarti. Ma ti chiamerò domani, okay? Con
“personalità atipica” di Indigo cosa
intendi? Spero che vada
tutto bene e per qualsiasi cosa, Lena, qualsiasi cosa devi chiamarmi!
Buonanotte e sogni d'oro anche a te.
Lena
arrossì e sospirò, per poi deglutire e fare finta
di niente quando
Indigo, davanti a lei, ancora con quel maglione addosso e un
pantalone lungo, la fissò. A volte, era vagamente
inquietante.
Avevano
trascorso l'intera giornata a parlare per conoscersi meglio e Indigo
le aveva raccontato la sua famiglia e nel dettaglio cos'era successo
a suo fratello Cyan, quanto lui fosse particolare. Questo aveva
ampiamente risposto alla sua domanda sul perché, anche lei,
sembrasse tanto strana. Le aveva anche parlato di suo padre e quanto
era stato importante per lei a quell'età. E dopo come aveva
smesso
di credere in lui, per ciò che aveva scoperto di aver fatto
in
cambio della ristrutturazione dei palazzi nel suo quartiere. Lena si
era intristita di nuovo, ma Indigo aveva cercato di tirarle su il
morale:
«Sono
sicurissima che tuo padre avrà fatto anche altre tantissime
belle
cose quando era in vita. Lo scopriremo insieme». Le aveva
sorriso e
Lena aveva tiepidamente ricambiato.
«Perché
hai deciso di aiutarmi?», le aveva chiesto a un certo punto
quella
sera, prima di ordinare per la cena. «Dovevi solo fare un
lavoro, ma
hai deciso di lasciare tutto per me. Perché?».
Indigo
era rimasta a bocca aperta, come se stesse cercando di ricostruire i
pensieri per poter rispondere in modo adeguato.
«Perché mi
interessi». Rapida, concisa, tanto che Lena alzò
un sopracciglio
dalla sorpresa. «Non mi sono mai interessate le persone, Lena
Luthor. Ma tu hai qualcosa di diverso e sento cose, per te, che non
ho mai provato per nessun altro».
«Oh…
Aspetta, aspetta, fermati», aveva sorriso, improvvisamente
imbarazzata. «Stai dicendo di avere una cotta per
me?».
«Sì.
Credo di sì», aveva confermato, alzando le spalle.
«Sembra che ciò
che provo lo si chiami così. E ho cercato di convincermi che
non
fosse vero, ma… è stato inutile. Vorrei vederti
felice perché la
cosa renderebbe felice me di rimando. Spero di non metterti in
difficoltà», era arrossita, il cuore le batteva
frenetico: cosa le
stava succedendo? Tutte quelle emozioni solo per averle detto cosa
sentiva? Accidenti, aveva avuto bisogno di tenersi, o rischiava di
cadere perché non le reggevano i muscoli. Che strano scherzo
che le
stava facendo il suo corpo. «So che hai una relazione aperta
con
Kara Danvers. Non state insieme ufficialmente, ma la ami».
Lena
aveva annuito lentamente, specchiandosi nei suoi grandi occhi
azzurri. Non sembrava mentire. Ogni cosa che diceva, era con tanta
disinvoltura che l'avrebbe messa in soggezione in qualunque caso.
«Amo Kara, sì. Tra noi le cose sono-».
«Complicate.
Presumo», l'aveva interrotta. «Non comprendo bene
ciò che provi
per lei, sono abituata a pensare a me stessa, ma se è anche
solo in
parte simile a ciò che io sento per te e mi spinge a fare
cose per
te, allora…», sorrise, fissando il suo viso roseo.
«Non voglio
sostituirmi a Kara, Lena. Ma mi piacerebbe esplorare e comprendere
ciò che sento. Arrivare alla conclusione se vale la pena o
no. Se è
un bug del sistema umano, oppure se è stato solo
irrimediabilmente
frainteso. Ti aiuto, in cambio voglio solo», la vide
deglutire,
«attenzioni. Le tue. Pensi di potermi aiutare con
questo?».
Andò
a dormire, sbirciando dalle scale Indigo che si coricava sul divano,
coprendosi. Aveva bisogno di vestiti, non aveva neppure un pigiama.
Rilesse il messaggio di Kara e chiuse la porta di camera sua dietro
di lei, spegnendo il telefono, con l'ombra di un piccolo sorriso
sulle labbra.
Quella
mattina, Kara si svegliò sentendo di nuovo, dopo giorni, un
groppo
all'altezza della bocca dello stomaco. Aveva sognato Indigo, c'era
anche Lena, erano tutte e tre insieme e parlavano. Non ricordava di
cosa, ma le era rimasto impresso lo sguardo afflitto di Lena.
Perché
riusciva a farla soffrire anche nei sogni? E neppure ricordava che
aspetto avesse questa Indigo, addirittura sognarla…
Sbuffò e
riaccese il cellulare. Lena le dava il buongiorno, dicendole che
quella mattina sarebbe passata Alex in villa. E così lesse
il
messaggio di Alex che le diceva che sarebbe passata da Lena e di
stare tranquilla, che avrebbe esaminato questa Indigo per lei. Rise,
stirando le gambe sul materasso del divano-letto nella camera degli
ospiti. La ringraziò; sua sorella capiva il suo stato
d'animo. Oh,
c'era anche un messaggio di Siobhan:
Sto
bene, Danvers, smettila di starmi addosso. Non ho bisogno di una
fottuta babysitter.
Kara
strinse i denti. Sì, stava bene. Se non altro era tornata
quella di
prima, anche se le era parsa felice di sapere che, per quanto sarebbe
tornata alla CatCo, lei le avrebbe fatto ancora da assistente
perché
non era più sospesa. Temeva che per ciò che aveva
subito
nell'attacco terroristico le restasse una specie di trauma addosso,
ma forse era una persona più forte di quella che si
aspettasse.
Forse.
Diede
uno sguardo anche su Instagram e sorrise nel vedere le foto scattate
ad Aruba di Eliza e Lillian. Si stavano rilassando e risanando il
loro rapporto. Lillian le faceva un sacco di foto, anche quando
dormiva. Ripensò a quando Eliza le disse di dare una seconda
possibilità a sua moglie e sospirò,
perché ora stavano venendo a
galla possibili attività illecite di Lillian e come avrebbe
dovuto
comportarsi? Mettersi d'accordo con Alex per mentire al D.A.O. e alla
polizia? Non era giusto… Una parte di lei era convinta che
avrebbe
dovuto lasciare che le cose seguissero il naturale corso degli eventi
e che Lillian venisse arrestata, ma… Stava cambiando, ma le
cose
fatte restavano. Che brutta situazione. Sbuffò. Ora era
meglio
lasciarle a godersi il sole.
Si
alzò e indossò una maglia e un pantalone di
pigiama, pronta per
fare colazione. Sistemò il divano-letto e notò
che, a fianco della
porta chiusa, c'erano due trolley. Per un attimo si
dimenticò che
oggi sarebbe arrivata la sorella minore di Lois, Lucy Lane. E che
avrebbero dovuto dormire nello stesso letto perché non c'era
altro.
Sperava se non altro che andassero d'accordo, non sapeva cosa
aspettarsi.
Si
infilò le calze con l'antiscivolo e uscì dalla
stanza dopo aver
tirato le tende alle finestre. Andò in bagno pochi minuti e,
udendo
dei rumori, percorse il corridoio, affacciandosi al salone: la
ragazza era seduta a gambe accavallate davanti al banco che divideva
questo dalla cucina, girando il cucchiaino dentro una tazzina e
leggendo da un tablet. Aveva i capelli a caschetto un poco mossi, un
maglioncino fine, un paio di jeans chiari attillati e gli stivali ai
piedi. Appena capì di non essere sola, si voltò e
le sorrise.
«Ehi»,
fece. «Tu devi essere Kara».
Decise
di avvicinarsi. Si sentì così inadeguata in quel
momento: era in
pigiama con nuvolette, arcobaleni e piccoli unicorni, i capelli
spettinati e le borse sotto gli occhi, quando lei era ben truccata,
elegante e bellissima. Non se la immaginava così. Che
figura, pensò,
deglutendo. Keplero andò a farle le feste e Kara prese
tempo,
sentendosi in soggezione.
«Lois
e Clark sono usciti presto per andare a fare un po' di spesa. Detto
tra noi, credo che mia sorella volesse parlare con lui di me in
privato», rise e le mostrò la mano destra,
allungandosi verso di
lei. «Sono Lucy, piacere».
«K-Kara»,
le strinse la mano con evidente impaccio, «Ma già
lo sapevi, certo,
quindi…», rise per le sue. Prese posto accanto a
lei e la vide
bere un sorso del suo tè.
«Questi
sono tuoi, vero?», le mostrò i suoi occhiali e
Kara li prese,
indossandoli. «Clark ha detto che li hai lasciati sul
soppalco, ieri
notte», sorrise, prendendosi un momento per squadrarla da
capo a
piedi. «E così sei sua cugina. La famosa cugina di
Clark. Mi hanno
tanto parlato di te, e credo di averti intravisto al funerale di Lar
Gand. Soprattutto James, voglio dire, è stato lui a parlarmi
più di
te in assoluto; credo che avessi fatto colpo».
«Conosci
James?».
«È
il mio ex», si alzò, dopo aver bevuto un altro
sorso. «È per
questo che credo che non si farà vivo qui finché
ci sarò io.
Parlare al telefono è facile, ma credo che dal vivo gli
faccia
ancora un po' male, vedi, l'ho lasciato io». Kara non
poté
togliersi il sorriso: era spigliata, le piaceva. «Vuoi che ti
preparo qualcosa?».
Non
capiva davvero come lei e Lois riuscissero a litigare,
perché era
evidente quanto Lucy
fosse
intelligente,
spiritosa, e si era accorta di potersi perdere in lunghi discorsi con
lei senza annoiarsi. Prima che tornassero lei e Clark a casa, le
aveva brevemente raccontato di come abbia seguito il mestiere di
famiglia entrando nell'esercito, come suo padre si aspettasse sempre
troppo da lei e che non sempre andavano d'accordo, come amava
immaginare la
sua sorella maggiore.
E che forse era colpa del
loro padre
se, dopo aver passato un'infanzia e un'adolescenza unite, adesso
litigassero tanto. Lois aveva scelto una carriera che amava ma non
riusciva ad accettare come anche Lucy, oltre al volere dell'uomo,
amasse ciò che faceva. Avevano parlato un po' ancora di
James e Kara
si divertì a dirle, quasi la conoscesse da sempre, come il
ragazzo
si fosse infatuato prima di lei e dopo di Lena. Ma anche se le
sembrava di conoscerla da sempre, non era davvero così e
Lucy non
aveva idea di quale
Lena parlasse. «Ah, Lena Luthor, la mia… emh»,
strinse i denti, forse arrossì, e Lucy intercettò
la sua
difficoltà, mentre accarezzava Keplero, seduto in mezzo a
loro.
«Lena
Luthor, aspetta, naturalmente so chi è, ma dimenticavo:
è la tua
sorellastra, adesso, vero? Le vostre madri si sono sposate».
«S-Sì»,
ridacchiò con palese nervosismo, per poi puntare altrove il
suo
sguardo. Sorellastra,
certo. Ah, lei non sapeva di tutti i loro trascorsi; dopotutto, la
loro relazione doveva restare segreta o i giornali non avrebbero
parlato d'altro, i Luthor erano pur
sempre
una famiglia importante. E adesso erano la sua
famiglia importante. Suo cugino e Lois tornarono appena in tempo,
prima che si lasciasse sfuggire qualcosa di troppo.
Nel
frattempo, dopo aver trascorso la prima mattina a cercare nel suo
armadio qualcosa che Indigo potesse indossare per uscire, Lena
aprì
il cancello all'automobile di Alex Danvers, arrivata per parlarle.
Così le aveva scritto per messaggio. In fondo temeva di cosa
volesse
parlarle.
«Nervosa?»,
domandò a Indigo. Alex era un'agente del D.A.O. e lei era
appena
scappata dal suo garante che era l'unico motivo per cui non si
trovava in prigione, forse un po' di tensione avrebbe dovuto
provarla.
«No»,
esclamò con sincerità, scrollando le spalle.
«Alex Danvers sarà
anche un agente federale, ma è sempre la tua sorella
acquisita,
voglio dire, non potrà mai essere obiettiva, è
troppo coinvolta. Sa
quanto potrò tornare utile per aiutarti a trovare chi ha
ucciso tuo
padre e quanto potrei esserlo per contrastare l'organizzazione. Sono
uno strumento utile, non mi tradirà».
«Non
sei uno strumento, Indigo», scosse la testa Lena,
«Ma una persona».
Le
sorrise e, probabilmente, arrossì, sentendosi accaldata.
«Tutti
trovano un modo per usarmi. Sei gentile, grazie».
Lena
non seppe cosa replicare, perché in fondo, a malincuore,
sapeva che
aveva ragione e che anche lei si era ritrovata ad usarla
e ancora credeva di poterlo fare. In quel momento, se ne
vergognò.
Alex
lasciò la macchina parcheggiata accanto alla rotonda davanti
al
cancello e salutò Lena da lontano e, davanti al portone, le
diede un
breve abbraccio, così entrò. Oh, l'espressione di
Alex era seria:
come aveva immaginato Lena, non si trovava lì per piacere.
«Devi
essere Indigo Brainer», le allungò una mano per
stringergliela,
trovandola a pochi passi dall'ingresso mentre Lena chiudeva il
portone.
«Alexandra
Danvers», le strinse la mano e le lasciò un
sorriso. Aveva con sé
la pistola, gliela notò subito. Per le emergenze? Non si
fidava di
lei, questo era certo. «Come stanno Maggie e
Jamie?».
Alex
si prese il suo tempo, fissandola nei suoi profondi occhi azzurri.
Per un attimo, dimenticò come Indigo avesse aiutato lei e
Maggie a
ritrovare Jamie quando era stata rapita. Indigo sapeva tante cose di
loro, forse troppe. «Bene», si sforzò
per ricambiare il sorriso,
abbassando poco dopo lo sguardo. «Mi piacerebbe parlare con
te di
tante cose».
«Vuoi
dire interrogarmi, agente?».
«Interrogarti,
sì», annuì. «Ma sei
fortunata, perché ho promesso a Jamie che
noi e sua madre saremmo andate fuori questo weekend, quindi non sono
qui per te», si voltò verso Lena solo un attimo,
che sospirò.
«Credi di poterci lasciare sole qualche minuto?».
Indigo
scambiò uno sguardo con Lena e dopo sorrise, tornando
indietro.
«Naturale. Andrò a dare di nuovo un'occhiata al
tuo armadio, per
vedere se c'è qualcosa che potrei indossare»,
disse, camminando
verso le scale. Le tenne d'occhio salendo gli scalini, osservandole
allontanarsi verso la sala da pranzo. Si chiuse in camera di Lena e
si guardò attorno, prendendo poi il suo cellulare da una
tasca
posteriore dei pantaloni. Le avrebbe lasciate sole come voleva la
maggiore delle Danvers, ma questo non significava che non avrebbe
potuto origliare e non per niente aveva installato una cosetta molto
utile nel cellulare di Lena durante la notte, quando lei dormiva. Per
proteggerla, doveva sapere tutto ciò che le riguardava;
così attivò
il programma da remoto dal proprio telefono, entrando nel suo e
accedendo al microfono.
Da
X a Me
Come
sta Lena? State creando una connessione?
Uff,
pensò. Il vizio di parlarle senza salutarla non lo avrebbe
mai
perso. Non
disturbarmi adesso, angelo custode, ho da fare. Sono con lei.
Scrisse rapidamente, ascoltando la voce di Alex Danvers dall'altra
parte.
«Non
sono qui in veste ufficiale, ma solo come… la tua sorella
maggiore
preoccupata».
Si
sedettero intorno al tavolo e Lena abbassò gli occhi.
«Non sei qui
per dirmi di stare attenta con Indigo, vero?».
«No»,
confessò. «Anche questo è preoccupante,
non puoi fidarti di quella
ragazza e credo che tu lo sappia. Ricordarti che sa troppe cose sul
nostro conto, forse più di quelle che vorremmo»,
la guardò con
apprensione. «Ma oggi non lavoro e sono passata a trovarti
per una
ragione e, quando tornerò, lo farò da agente e
vorrei che tu non mi
mentissi, Lena. Ci stanno sfuggendo ancora troppe cose dall'attacco
terroristico di Rhea e siamo oberati di lavoro, non rendermi le cose
difficili. Dov'è la pistola di tuo padre?». La
vide immobile, non
ebbe neppure un sussulto. «Dobbiamo catalogarla, è
una prova dal
momento che l'hai usata per allontanare dei terroristi. Sappiamo che
ti sei solo difesa e non hai sparato, quindi…
dov'è? Non sei nei
guai ma devi farla uscire».
Lena
prese un grosso respiro. «Ho già detto ai tuoi
colleghi che non lo
so».
«E
sappiamo entrambe che questo non è possibile»,
insisté, allungando
le mani sul tavolo verso di lei.
Indigo
si alzò dal letto e ispezionò con veloci occhiate
la stanza,
riflettendo. Dove nasconderebbe una pistola? No, non una
pistola, ma la
pistola di suo padre, un oggetto legato a lei sentimentalmente, non
solo un'arma di difesa. Aprì l'armadio ma non c'era nulla di
sospetto. Così si voltò, tornando indietro.
Doveva restare vicino a
lei, a portata di mano. Aprì uno dei cassetti sul comodino,
trovando
una scatola scura. La aprì e sorrise, ammirando la pistola
argentata.
«Da
sorella maggiore?», chiese Lena, pronunciando un piccolo
sorriso.
Rispose quando la vide annuire. «È con me. Ma non
posso
lasciarvela, era di mio padre».
Alex
sospirò e si portò e mani sulle tempie, scuotendo
poi la testa.
«Tutto perché non vuoi che venga catalogata come
prova?».
Lei
scosse la testa, abbozzando uno spento sorriso. «Non posso.
Non
posso separarmene, non posso farlo».
«Facciamo
così», disse Alex. «Tornerò
durante la settimana in veste
ufficiale e mi consegnerai la pistola senza storie, ti prego. La
porterò al D.A.O. dove verrà catalogata come
prova e spiegherò al
mio capo come dovrò restituirla per difesa. Anche se Rhea
Gand è a
Fort Rozz, sappiamo che almeno un altro assassino è in
libertà, ha
ucciso tuo padre e quindi ne hai bisogno», spiegò
mentre la
fissava. «Ma dubito che tu abbia il porto d'armi e se vuoi
che te la
restituisca, dovrai averlo».
Lena
deglutì e sospirò seccata.
«Farò il porto d'armi».
«Bene.
Grazie». Si domandò se il solo motivo per cui non
voleva separarsi
dalla pistola era il legame sentimentale. In fondo, dopo ciò
che
aveva passato alla Luthor Corp, non si stupirebbe se avesse
sviluppato una sorta di paura, se si sentisse in qualche modo
vulnerabile da quell'esperienza. «Se dovesse servire,
potrò darti
lezioni. Maggie ed io ti aiuteremo volentieri». La vide
annuire e
sospirò, notava come Lena si sforzasse per restare
inflessibile.
«Ah, prima di andare devo chiederti un'ultima cosa: i
terroristi
inviati da Rhea cercavano di installare e infiltrare dati sui luoghi
che colpivano, collegamenti di Zod con l'organizzazione… Tra
tutti
quelli che supponiamo avessero, ne abbiamo trovato molto pochi e
molto poveri di dati. E questo rende Adrian Zod molto felice.
Sappiamo per certo dalle testimonianze, come quella del tuo
assistente, come cercassero di installare il contenuto di una
chiavetta nel computer di tuo padre, nel suo ufficio. Non l'abbiamo
trovata», scosse la testa, «Tu ne sai
qualcosa?».
«No»,
portò le braccia a conserte. «So che Winn ne ha
parlato, ma non
l'ho vista».
Alex
annuì, alzandosi. Le credeva, questa volta. «Va
bene. C'era anche
James Olsen con voi, lo chiederò a lui in settimana. Adesso
devo
andare».
Si
salutarono e Alex notò Indigo affacciata sulle scale. Si
comportava
come se fosse a casa sua, completamente a suo agio. La
squadrò e le
fece un cenno con la mano, dicendo che sarebbe tornata. Così
uscì,
seguita da Lena. «Ascoltami», si
avvicinò, sicura che quella
ragazza non stesse ascoltando. «Quella tipa
strana», indicò, con
la porta socchiusa dietro di loro, «nasconde qualcosa. Non
darle
incondizionatamente la tua fiducia. Lo so che ci ha aiutato, ma non
la conosciamo e il suo trascorso non porta a niente di
buono».
Indigo perse il sorriso, ascoltando dal suo cellulare la voce di
Alex, ancora collegato a quello di Lena che aveva addosso.
«Non
affezionarti, okay? Quando riusciremo ad arrivare al suo garante, e
ci arriveremo, il suo permesso cadrà perché la
stava usando per
perseguitarti. Lei tornerà in prigione». Indigo
serrò le labbra,
prendendo fiato a più riprese. «Appena mi
sarà possibile, andrò a
Fort Rozz per parlare con il direttore del carcere, devo prendere
appuntamento. Non gli dirò che Indigo è qui con
noi, ma cercherò
di scoprire com'è stata rilasciata e da chi.
Capirò chi c'è dietro
a tutto questo».
Lena
non rispose e Alex si allontanò, entrando in macchina. Sopra
le
scale, invece, Indigo pensò subito di avvertire il suo
angelo
custode con un messaggio.
Non
preoccupartene, avevo già pensato a
quest'eventualità. È
tutto sotto controllo.
Sospirò,
leggendo la risposta. Sperava dicesse il vero, perché tutto
poteva
sopportare, tranne l'idea di tornare dietro le sbarre. E non voleva
di certo separarsi da Lena così presto. Quando la ragazza
chiuse il
portone e tornò dentro, si affacciò verso di lei,
sopra le scale,
chiedendole di scegliere qualcosa da mettersi, così
sarebbero uscite
a fare shopping. Indigo sorrise, annuì e corse di nuovo in
camera.
Non era mai andata a fare shopping, mai. Era così emozionata
di
provare una cosa che, alla sua età, sarebbe dovuta essere
normale.
Aveva quasi trent'anni e si era persa così tanto della vita,
e ora
che si era accorta di poterlo fare, non si sarebbe fermata, nemmeno
se ci fosse stato il suo fratellino Cyan a consigliarle.
La
treccia bionda che scendeva su una spalla, sopra il cardigan scuro
che copriva una maglia fine, jeans chiari, quelli che aveva sentito
più della sua misura, e le sue scarpe da ginnastica che,
anche se un
po' ammaccate per gli anni che se le portava dietro, erano sempre le
più comode. Lena aveva insistito che indossasse uno dei
giubbini
appesi nell'ingresso perché, anche se era maggio e
cominciava a fare
bel tempo, oggi la giornata era un po' nuvolosa. Al fianco di Lena
Luthor, Indigo si sentiva un'altra. Forse provare emozioni non era
davvero un bug del sistema umano come si era convinta, ma qualcosa di
particolare, da scoprire, a cui poteva dare una chance. Sapeva che in
questo modo avrebbe dato ragione al suo angelo custode, dato che lui
era stato il primo a cercare di sfondare quel muro che aveva tirato
su, ma era un rischio che pensava di voler correre.
Lena
prendeva la roba che secondo lei poteva starle bene e gliela portava
davanti al camerino, ignorando la commessa che allungava più
volte
lo sguardo verso di loro. «Ti sta bene praticamente
tutto», le
disse.
Indigo
arrossì. «Lo pensi davvero? O lo dici solo per
farmi sentire cosa
si prova a ricevere un complimento da parte tua?».
Lena
scosse la testa e abbozzò un sorriso, alzando gli occhi al
soffitto.
«Lo penso davvero», la guardò,
arrossendo sulle gote. «Dai, entra
in quel camerino e dimmi cosa ti piace».
Lena
non sapeva cosa pensarne di lei, era un enigma. Era come se Indigo
stesse partendo da zero per molte cose e lei era lì per
indirizzarla. Eppure aveva gusto, era decisa, ed era molto attenta a
ciò che le stava intorno, un riflesso che sicuramente aveva
sviluppato negli anni in cui aveva vissuto da latitante. Indigo
Brainer non aveva avuto una vita facile e forse avrebbe dovuto
odiarla, come Selina Kyle agli inizi, solo per il suo essere ricca,
invece provava per lei qualcosa che sembrava più l'opposto.
Certo,
le aveva confessato di avere una cotta per lei senza mezzi termini,
ma era abituata a cercare di capire le persone, più che
fermarsi
alle sole parole. Perché, in fondo, le persone mentivano e
lei
veniva da una famiglia di bugiardi. A che gioco stava giocando quella
ragazza? Voleva davvero solo aiutarla perché aveva una cotta
per
lei? Ammetteva che la intrigava. Forse troppo.
«Mi
piace questo», le mostrò un maglione blu elettrico
e Lena annuì.
«Prendiamolo».
L'aveva vista fermarsi e controllare il cartellino, così
glielo
prese dalle mani. «Te lo regalo, non devi vedere il
prezzo». Andò
a pagare quello e un pigiama, così, prima di uscire, si
perse a
guardare altri capi esposti, lasciando che anche Indigo facesse un
giro per conto suo. La tenne d'occhio, a un certo punto: andava sul
sicuro, ma notava come non fosse abituata a rilassarsi là in
mezzo.
Dopo la vide fare qualcosa di strano, come adocchiare la commessa che
ancora spiava verso di lei e prendere il suo cellulare,
dopodiché
scattò un allarme e Lena non collegò subito la
cosa se non che,
mentre la donna andava a fermare una coppia che stava uscendo dalla
boutique, Indigo corse in cassa e prese qualcosa intanto che era
distratta, mettere il tutto in tasca e raggiungerla con un sorriso.
«Andiamo».
Le prese una mano e dovette seguirla fuori. La sirena della boutique
suonava ancora ma la commessa non le fermò, impegnata a
controllare
la coppia. «Tieni. Per te», tolse da una tasca due
portachiavi, un
accendino colorato, un paio di orecchini di bigiotteria e una
coccinella portafortuna di plastica. Lena restò a bocca
aperta.
«È
così che sopravvivi?», le domandò,
arcuando un sopracciglio. «Con
il telefono ti apri la strada e poi rubi? Non hai mai pensato di
trovarti un lavoro, con quello che sai fare?». Era
affascinante, ma
un talento sprecato.
Indigo
ansimò, abbozzando un sorriso sarcastico. «Nessuno
vuole darmi un
lavoro serio, Lena Luthor. Provengo dalla parte più povera
di
National City dove spacciano droga, il mio patrigno era un ladro,
sono stata in prigione e ci sarei ancora se non fosse per l'unico che
oh,
ma guarda!,
mi ha offerto un lavoro, ma sporco e non retribuito, in cambio della
prigione», la scrutò, tornandole alla mente le
parole di Alex
Danvers. «Finirò comunque di
nuovo a
Fort Rozz, no? Tu cosa mi consiglieresti di fare?».
Lena
deglutì. Le prese gli oggetti rubati dalla mano e le chiese
di
seguirla. Rientrarono nella boutique e pagò gli oggetti
rubati,
chiedendo scusa da parte sua. La commessa la guardò come se
fosse un
mostro, incredula che Lena Luthor frequentasse una ladra. A quel
punto, doveva sicuramente aver considerato che quella era solo
qualcuno che somigliava fortemente a Lena Luthor, poiché
nemmeno
salutò. Dopodiché, presero un portachiavi a testa
e Lena le lasciò
il resto.
«Kara
Danvers non si sarebbe comportata come me, non è vero?
Queste cose
lei non le fa?», giocherellò col portachiavi e, al
suo fianco, Lena
scosse la testa.
«No,
non le fa. È molto corretta, ha un buon cuore», si
fermò,
accorgendosi tardi delle parole usate. «Non che tu non lo
abbia»,
scosse la testa. «Tendi solo a sottovalutarti. Tutti possono
avere-».
«No,
no. Ho capito cosa intendi», si avvicinò,
fissandola attentamente.
«Lei gioca a lacrosse, vuole fare la giornalista. Io sono una
ladra
e una fuggiasca», si avvicinò ancora e Lena si
bloccò schiena
contro un palo della luce. «Eppure sappiamo che Kara non
sempre si
comporta in modo corretto, e come ti abbia fatto soffrire».
Lena
deglutì, abbassando gli occhi. «Anche Kara
è una persona e le
persone fanno degli errori, Indigo. Tutto sta a come reagiamo a loro
e… come pensiamo di porre rimedio. Anche io ho
sbagliato».
Indigo
si distanziò di poco. «Le persone sono
così strane… Okay. Ma
potresti prendere in considerazione l'idea che Kara non sia la
persona giusta per te. E non sto dicendo che io lo sia, sto ancora
cercando di capire come ci si comporta una
persona»,
sorrise, abbassando gli occhi. «Però potresti, non
so, pensarci»,
si avvicinò ancora e si fissarono. «Non sono un
buon partito, ma
farei di tutto per renderti felice».
Si
distanziò da lei e Lena poté riprendere fiato,
seguendola, portando
una mano contro il petto.
Lucy
si portò i capelli dietro l'orecchio con un gesto istintivo.
Da
quando c'era lei, Lois e Clark non parlarono più della
chiavetta usb
e avevano passato il loro tempo a provare una nuova ricetta e a
guardare un film tutti insieme, attenti a non parlare di politica o
di attualità, perché volevano evitare di creare
incomprensioni.
Passavano il loro tempo tutti e quattro insieme, ma a Kara piaceva
quando lei e Lucy potevano parlare tra loro, come in quel momento. I
capelli sfuggirono di nuovo e lo fece ancora, alzò il
braccio e
aggiustò il ciuffo dietro l'orecchia con le dita che
tenevano una
penna, mentre sfogliava il giornale.
«Oh,
inconcludente», rise, non aspettando una sua reazione.
«Mi
dispiace, Kara Danvers, ma il tuo risultato al test A
quale Casa di Hogwarts
appartieni
non
ha portato a nulla. È un test
mal fatto,
non disperare», concluse, voltandosi.
Oh.
Kara deglutì e abbassò gli occhi, accorgendosi
solo in quel momento
che la stava fissando. E Lucy doveva essersene accorta,
altroché,
poiché rise e riguardò subito le pagine del
giornale.
«Dicevo,
se-se teniamo conto delle tue risposte»,
rumoreggiò con la gola,
arrossendo, «allora posso assegnarti sia alla Casa Tassorosso,
che a quella Grifondoro»,
annuì. «Io sono Corvonero,
nemmeno a perdere il nostro tempo».
«Mi
sta bene».
«Allora,
vuoi uscire? O restiamo qui con mamma
e papà
che presto vorranno vedere un altro film pur di non rischiare di
parlare con me?».
Kara
rise, guardando verso Kal e Lois che chiacchieravano dietro il
bancone in cucina, seguiti da Keplero. «Conosci posti
interessanti
qui a Metropolis?».
«Per
favore, vivevo da queste parti», inclinò la testa,
aggiungendo un
sorriso. «Giochi a lacrosse? Ti porto a vedere il
campo».
Salutarono i due e presero l'ascensore, entrando nel parcheggio del
palazzo e avvicinandosi a una moto. Lucy le passò un casco
ed
entrambe se lo infilarono, così misero in moto, l'una dietro
l'altra, e sparirono velocemente.
Le
piaceva. Kara se ne rese conto subito, come se fosse stato immediato,
appena la vide quando era in pigiama e in calze antiscivolo. Se non
ci fosse stata Lena, magari… Accidenti, si era perfino
dimenticata
di chiamarla per dirle della chiavetta, ma in ogni caso sapeva di non
poterlo fare davanti a lei. Doveva avere pazienza e rimandare tutto
alla fine di quel weekend. La strinse forte e sorrise nel godersi il
panorama, passando su un ponte; e dopo urlare, attraverso un tunnel.
Andavano veloci, ma lei aveva sempre amato la velocità e, su
quella
moto, le sembrava quasi di volare. Arrivate a destinazione,
parcheggiarono accanto ad altre moto e Lucy le indicò i
campi che
avevano a disposizione: non c'era solo quello di lacrosse, ma di
tennis, per la corsa, il rugby, c'era perfino la bocciofila,
più
avanti. Kara corse e Lucy le stette dietro, iniziando a farsi un giro
e a guardare altri che si allenavano. Le chiese dove volesse andare e
Kara la invitò a provare il lacrosse. Pagarono pochi
centesimi per
le attrezzature base e Kara le infilò il caschetto sulla
testa.
«Prova a segnare», la sfidò, mettendosi
davanti alla porta.
«Come
devo fare?». Ci provò e riprovò. Lucy
aveva il fisico adatto, ma
era una vera frana e non riuscì a lanciare nemmeno una
volta, così
optarono per il tennis, scoprendo che sarebbero state più
brave a
ping pong. Risero e provarono le bocce giocando con un gruppo di
anziani, dandosi il cinque a ogni punto. Tra loro e ai vecchietti,
che furono felici di averle avute di compagnia per una partita. Dopo
se ne andarono, decidendo di farsi una pausa prendendosi da bere in
un chiosco, sedendo su una panchina del complesso a bere. Lucy le
lanciò un'occhiata, sorrise e arrossì, voltandosi
di nuovo. «State
insieme? Tu e Lena Luthor?». Kara sbiancò
spalancando gli occhi,
così che Lucy rise. «Me ne sono accorta da come
parli di lei e
guardi il cellulare come se fossi in attesa. Non mi sono sbagliata,
eh? Tranquilla, non lo dirò ad anima viva», scosse
la testa, per
poi guardarla nei grandi occhi azzurri. «Deve essere strano,
penso…
Per il mondo, siete sorellastre».
«Non
stiamo più insieme… veramente»,
abbassò gli occhi solo un
attimo. «Ma quasi. N-Non stiamo insieme nell'immediato, in
questo
momento, ma è come se lo fossimo. Almeno credo.
Sì, di-diciamo di… sì».
«Che?»,
scoppiò
a ridere e Kara formò un sorriso incerto, per poi alzare il
mento e
decidere di spiegarle il suo rapporto con lei, di come si erano
conosciute e innamorate, di ciò che le aveva divise a grandi
linee,
facendo un riassunto, fino a quando non le mostrò i messaggi
che le
aveva scritto nel periodo in cui erano separate. Scritti e mai
inviati. «Ooh,
ma che carina», si lasciò sfuggire, leggendone
qualcuno.
Kara
arrossì e sorrise a labbra strette, riprendendo il
cellulare.
«Dovresti
inviarglieli. Se fossi lei, li apprezzerei».
«No»,
fece una smorfia, «Non ci sono solo messaggi c-come questi.
Anche
quelli più… arrabbiati».
«Inviale
solo quelli dolci», la guardò, «La
riconquisteresti in un attimo.
O… quello che è».
Kara
deglutì e abbassò lo sguardo, sentendo le
orecchie farsi bollenti.
Oh, le piaceva, sì, ma… Si accorse in quel
momento che si era
presa una cotta per lei. Al primo colpo. E, osservando Lucy
arrossire, aveva come l'impressione di essere ricambiata. Aveva le
traveggole, per caso? A Lucy, lei piaceva? Quella
Lucy?
Quella
notte si cambiarono in bagno entrambe, una dopo l'altra, ed entrarono
sotto le coperte fredde in due tempi diversi. Kara scrisse un
messaggio a Lena per dirle di aver conosciuto la sorella minore di
Lois e che era simpatica, chiedendole come stava andando con Indigo.
Non vedeva l'ora di andare da lei, ma d'altra parte, non avrebbe
voluto che con Lucy finisse tutto così presto, in due giorni
stretti. L'indomani era domenica e lunedì mattina entrambe
sarebbero
tornate alla loro vita di sempre e non importava che Lucy le avesse
detto di essere in lista per vedere un appartamento lì a
Metropolis,
considerando l'idea di prendersi un periodo sabbatico e di
trasferirsi.
«Posso
chiederti un consiglio?», le domandò in un
sussurro e Lucy si voltò
verso di lei.
«Su
Lena?».
Kara
annuì, mordendosi un labbro. «È che, mh,
Kal e Lois mi hanno chiesto di tenerle un segreto, ma è
stato
proprio un segreto a farci allontanare», parlò a
bassa voce, mentre
Lucy ascoltava con attenzione. «Secondo te, cosa dovrei
fare?».
Lei
sorrise. «Sai già cosa fare. E se vuoi davvero il
mio parere,
diglielo prima di peggiorare le cose».
«Grazie.
Sai, sei molto diversa da come ti immaginavo». La vide ridere
e
sorrise anche lei.
«Penso
di capire perché».
«Non
prendertela con Lois. Vi volete bene, si nota».
«Se
non ci volessimo bene, ora non sarei qui». Si guardarono e,
dopo un
po', si girarono ognuna dal lato opposto per prendere sonno,
augurandosi la buonanotte.
Era
trascorso solo un giorno, ma a Kara sembrava molto di più.
Il
mattino seguente si svegliarono a poco l'una dall'altra e Lucy
entrò
in bagno prima di lei solo perché, nella corsa,
inciampò su un
tappeto. C'era quasi, dannazione. Fecero colazione con Lois, davanti
a loro, che squadrava incuriosita il loro sogghignarsi. Kara
andò
poi a cambiarsi e si ricordò solo in quel momento che non
aveva
ancora acceso il telefono, ritrovando un messaggio da parte di Lena.
Con
Indigo faccio progressi. Come ti ho scritto, è una persona
singolare, è vero, ma è una brava ragazza e spero
che, quando ci
vedremo, potrai darle un'occasione. Quindi sei con Lucy Lane? So che
è una persona molto rigida e lavora a stretto contatto con
suo
padre, stai attenta. Lei potrebbe sapere qualcosa sulle pillole che
Maxwell Lord vuole vendere.
Oh!
Non ci aveva neppure pensato, si era distratta. Aveva ragione Lena.
Come poteva chiederglielo? Di sicuro, e sorrise, Lucy era tutt'altro
che quella persona rigida come veniva etichettata.
Le
propose di uscire prima ancora che Kal e Lois trovassero qualcosa da
fare assieme, e accettò perché, in fondo, avrebbe
voluto passare
quelle ultime ore insieme a lei. Le dispiaceva di abbandonare suo
cugino ma sperava che avrebbe avuto del tempo per lui in altre
occasioni, mentre Lucy chissà quando l'avrebbe rivista.
Si
infilarono i caschi, conservarono il pranzo al sacco nel vano della
moto, e partirono. Volarono sulla strada a lungo, uscendo da
Metropolis e così in autostrada. Si riposarono davanti a un
vecchio
telefono a gettoni, dissetandosi, e si rimisero in marcia, fermandosi
al prossimo distributore per fare benzina.
«Per
fortuna il vento si è calmato», disse Lucy,
sorridendo a Kara con
il casco tenuto tra le braccia. «Cosa ti prende? Non volevi
uscire?». Notò che era strana; e come non notarlo
se, invece di
parlare, era insolitamente taciturna. «Ti dispiace di aver
lasciato
quei due da soli o…», si imbarazzò
improvvisamente, finendo di
gettare benzina e togliendo il cavalletto dalla moto.
«Oh,
no, no, no. No», scosse la testa, «È
solo che-», strinse i denti,
decidendo di tirare fuori il rospo. «Conosci Maxwell
Lord?».
«Delle
Lord Technologies? Sì. Anche da vicino, posso
dire».
Mh,
pensò, perfetto. Lucy Lane sapeva di quell'affare. Kara la
fissò
con decisione, stringendo il casco. «So che vuole siglare un
accordo
con tuo padre, Lucy. Riguarda delle-».
«No,
no», la bloccò con una mano. «Non
parliamo di lavoro, okay? Non
posso parlare di queste cose fuori dall'ambiente, non mi è
permesso».
«Quindi
conosci questo accordo?».
«So
che sta lavorando con mio padre a un progetto, non conosco i dettagli
e, se li sapessi, non potrei comunque dirteli», scosse la
testa,
sorridendo con amarezza. «Non voglio neppure sapere come tu
ne sia a
conoscenza, Kara. Sono cose private».
Adesso
capiva a cos'era dovuta la rigidità scritta da Lena per
messaggio:
quando si trattava di lavoro, Lucy cambiava, diventando molto seria e
irremovibile. «Scusa se te ne ho parlato». Era
meglio tenere per sé
quelle informazioni, per ora. In fondo, anche se sembrava di
conoscerla da tempo, non era così.
Lucy
le disse di rimettersi il casco e glielo allacciò, infilando
poi il
suo e rimettendosi a cavalcioni sulla moto. Non si era arrabbiata, ma
glielo disse solo quando arrivarono a destinazione, affacciandosi
sulla scogliera, ammirando le onde alte del mare e di sotto la
spiaggia. Era già pieno di gente, nonostante fosse maggio e
il tempo
non dei migliori. Parcheggiarono e sulla sabbia sistemarono due
asciugamani, restando a maglietta lunga e slip, non avendo un
costume. Passarono una bella giornata, nonostante tutto. Pranzarono
col pranzo al sacco che si erano portate dietro, si fecero una
passeggiata sul bagnasciuga e parlarono di nuovo del più e
del meno,
scherzando. Un ragazzo in compagnia di un amico tentò un
approccio e
le due si misero più vicine, stringendosi una mano.
«Beh,
noi veramente stiamo insieme, quindi…», Kara
aggrottò la fronte.
«Non
ci sono più le ragazze di una volta», si
arrabbiò uno dei due,
trascinato dall'amico.
«No,
devono essersene appena andate, infatti, vai a controllare»,
rise
Lucy, indicando dietro di loro. «Oh, basta
ragazzi», si lasciò
sfuggire dopo, sedendo sul suo asciugamano. «Non per sempre,
magari», specificò e Kara forzò una
risata. «Dopo James, sono
stata con un altro, anche lui un militare. Mio padre odiava James e
non sopportava che ci stessi insieme, poi ha odiato anche lui. Non
gli andrebbe bene chiunque», asserì, prendendo un
grosso sospiro.
«O nessun uomo. Non ho ancora provato a presentargli una
ragazza».
A
Kara venne subito da ridere. «S-Sei bisessuale, Lucy? Ti
piacciono
anche, sì, le donne?».
«Non
lo so», fissò le onde del mare,
«Probabilmente. Sono sempre stata
con ragazzi, ma… le ragazze mi hanno sempre
attratto», si voltò
di nuovo a lei, sorridendo. «Sono più belle. Tu?
Hai avuto
esperienze, oltre Lena?».
Kara
arrossì, voltandosi, questa volta. «No»,
mostrò una smorfia.
«Anch'io ho avuto esperienze etero e dopo Lena…
B-Beh, mi sono
innamorata di Lena e sapevo di essere sempre stata attratta dalle
ragazze, in fondo, ma non mi era mai successo di-di fare nulla con
nessuna, quindi lei-», prese fiato, bloccandosi. Sentiva lo
sguardo
di Lucy sulla pelle. Era attratta da lei? Oh, accidenti. «E-E
dovrei
anche chiamarla, a proposito», si alzò di scatto,
cercando il
cellulare nelle tasche dei pantaloni che- oh,
non aveva addosso. Sentì Lucy ridere mentre si girava alla
ricerca
dei pantaloni. Li trovò a fondo dell'asciugamano, ma il
cellulare
non c'era.
«Lo
hai lasciato nella busta del pranzo al sacco»,
suggerì Lucy,
poggiando la testa contro le ginocchia piegate. «Lo hai
spostato
prima e anche quando ci siamo fermate e ti sei presa dell'acqua,
controllando che non ti fosse arrivato un nuovo messaggio. Sei
innamorata di lei, calma, l-l'ho capito».
Kara
avvampò. «C-Cosa intendi? Io e te…? Okay»,
dichiarò con decisione, sedendo sull'asciugamano dell'altra
ragazza.
«L-Lo senti anche tu? È come se-».
«Se
ti avessi sempre conosciuto?», concluse Lucy.
«Succede. O meglio, a
me non era mai successo, prima
d'ora,
ma mi hanno detto che capita ed è come accendere una
candela:
un'attrazione improvvisa e forte».
Lena
fissò Indigo mentre, davanti a lei nella sua camera, si
cambiava,
infilando il nuovo maglione blu elettrico. Quella ragazza non aveva
il suo stesso senso del pudore. Accidenti. La sua pelle candida, i
muscoli tonici sul ventre, il reggiseno ricamato che le accarezzava
il seno. Accidenti a lei. Arrossì, spalancando la bocca e si
voltò,
sentendo il cuore farsi agitato. Oh, basta. Non doveva. Non poteva.
«Destinata
a non durare a lungo», continuò Lucy.
«Potrebbe durare giorni, o
mesi. Poi si spegne e ti lascia a raccogliere i cocci. Non
rovineresti ciò che hai con Lena per qualche ora con
me», concluse.
Lena
deglutì, rivoltandosi quando Indigo la chiamò.
«Come mi sta,
allora?», domandò, «Nei camerini e nei
negozi, tra luci e specchi
in posizioni strategiche, ti convincerebbero che ti sta bene anche un
sacco nero di immondizia».
Lena
abbassò gli occhi. «Ti sta bene veramente. Ma
rimanderei per un
parere completo ai sacchi dell'immondizia».
Indigo
la fissò immobile qualche secondo e dopo si
accigliò. «Hai fatto
una battuta?». La vide piegare le labbra in un sorriso e poi
scoppiare in una breve risata. «Anche l'ironia è
così prettamente
umana».
Kara
le sorrise e abbassò il volto accaldato. «No, non
rovinerei la mia
relazione con Lena, lei è… Scusami».
Anche se provava qualcosa per Lucy, da quando la conosceva, non
faceva che nominarle Lena; solo adesso che ne stavano parlando se ne
rese conto.
Ma
l'altra scosse la testa. «Lascia stare. Sono felice di averti
conosciuta e ti lascio il mio numero, appena ritroverai il
cellulare», risero. «Quanto a lei, posso solo
consigliarti di
essere sempre sincere tra voi, sempre».
Kara
annuì. Le adocchiò rapita le labbra carnose. Oh,
no. Rialzò subito
gli occhi. Lucy se ne accorse e si morse un labbro.
Indigo
si avvicinò e Lena mise dritta la schiena, appoggiata allo
stipite
della porta. Perché la guardava in quel modo? Forse lei
la stava guardando in quel modo. Lena allungò una mano
contro il suo
petto per tenerla distante ma il braccio era molle, si
piegò, e
Indigo le accarezzò il mento, e una guancia, il collo,
fermandosi su
una spalla. «Posso…», sibilò
lei, «provare una cosa?».
«Una
cosa umana?», le domandò, guardando i suoi occhi e
le sue labbra.
Aveva il fiato corto. Non poteva. Era così strano
ciò che stava
succedendo e che provava. La vide arrivare: Indigo inclinò
la testa
e sfiorò le labbra con le sue, trattenendo il fiato, intanto
che
Lena, deglutendo, le schiudeva ed entrambe socchiudevano gli occhi,
assaggiandosi.
Lucy
sorrise. «Devi… Devi dirle tutto, Kara. Non puoi
permetterti che
niente rovini ciò che provate se…», le
guardò le labbra anche
lei e notò lo sguardo di Kara sul suo. Come avrebbe potuto
non
farlo? Era così palese.
«Se…». Un altro se
farfugliato e si avvicinò a lei, appoggiando le labbra alle
sue,
chiudendo gli occhi. Sapevano di salsedine e qualcosa di dolce, in
retrogusto. Kara accolse quel bacio e socchiuse anche lei gli occhi,
fino a quando, lentamente e prendendo fiato, non si separarono una
appresso all'altra, guardandosi. «De-Devi dirle anche
questo»,
deglutì, annuendo con decisione.
Lena
strinse più forte gli occhi e, nel frattempo che Indigo
cercava di
approfondire, le poggiò le mani sulle spalle e la spinse
lontana da
sé questa volta, staccandosi piano e spalancando la bocca.
«Non
posso», biascicò, ancora intontita da
ciò che provava. «Non posso
farlo», allora si allontanò dalla porta e Indigo
sospirò.
«Mi
rifiuti per Kara?», le chiese, col cuore in panne. Era stato
bellissimo, non capiva più niente, il suo corpo era a fuoco.
Il suo
cuore batteva talmente forsennato che era come scoprire di essere
viva, come vedere i fuochi d'artificio nella stanza, come…
Avrebbe
voluto continuare. Non sapeva neppure come facesse a essere ancora in
piedi. Doveva avere un altro bacio da lei, lo voleva, come una
droga. Ma doveva andarci cauta e portare pazienza. Lo avrebbe voluto
ora, ma non voleva forzarla. Non poteva. Sapeva come andavano queste
cose perché aveva visto abbastanza film. Questo succedeva a
baciare
qualcuno per cui si provava sentimentalmente qualcosa?
«Per
te. Ti rifiuto per me e per te», specificò Lena,
mordendo il labbro
inferiore. «Se dovessi mai andare oltre con te, me ne
pentirei
amaramente perché sono innamorata di lei e
questo… questo non è
giusto, anche se-».
«Provi
qualcosa».
Lena
annuì. «Posso distinguere un'attrazione momentanea
da una cosa più
seria e, Indigo, non voglio illuderti, non posso farlo».
Uscì dalla
porta aperta, lasciando l'altra ai suoi sospiri, toccandosi le
labbra.
Il
primo e ultimo bacio, pensò Kara col sorriso sulle labbra.
Aveva
appena preso la metro, salutato Kal e Lois dicendo loro che sarebbe
tornata a trovarli, e Lucy, dicendosi reciprocamente che era stato
bello conoscersi. E adesso non vedeva l'ora di andare da Lena e
conoscere questa Indigo di cui, invece, era certa non sarebbe stato
un piacere. Da una parte, temeva la reazione di Lena a ciò
che era
successo con Lucy, ma tecnicamente non stavano ancora insieme di
nuovo, e sempre tecnicamente tra lei e Lucy era iniziato e finito in
due giorni, il tempo dato a una candela di accendersi, scaldarsi e
spegnersi. Amava Lena: non avrebbe mandato all'aria ciò che
c'era
tra loro per una piccola fiamma e sperava che questo non avrebbe
influito. Sperava. Ma certo. Era ovvio. Sgranò gli occhi,
prendendo
in mano il cellulare.
«Cosa?
Hai baciato un'altra? La sorella di Lois?»,
sua sorella alzò la voce, stridendole in un orecchio. «Sei
seria?».
«Dici
che Lena se la prenderà? Vo-Voglio dire, non stiamo insieme,
quasi o
non ancora, o più o meno sì, ma… pensi
che potrebbe prendersela?
Prima sembrava una bella idea quella di baciare Lucy, ma
adesso…
Quando le dissi di aver baciato Ivy e Harley… beh,
lei-».
«Hai
baciato chi?».
Kara
strinse i denti. «Non te ne avevo parlato? Sì che
te ne avevo
parlato».
«Sì
che me ne avevi parlato, ti prendevo in giro»,
la sentì ridacchiare. «Sii
chiara con lei, sorellina. Così la finirete una buona volta
di
creare tutti questi drammi esistenziali. Volete stare insieme?
Stateci, per l'amor del cielo»,
sbottò e Kara quasi la vide portarsi una mano in fronte.
«Hai
ragione. Sarò sincera, come mi ha detto di fare
Lucy».
«Hai
parlato a Lucy di Lena? Tu ci sai proprio fare»,
rise.
«Sai
cosa faccio? La chiamo. Adesso. Così si prepara o qualcosa
del
genere. Anche perché devo parlarle della
chiavet-», si bloccò e
spalancò gli occhi.
«La
cosa?»,
la sentì,
«La cosa,
sorellina?».
«Sttssh!
Non- ti sent- più. Shtsh! Ci sentiamo presto, ti voglio
bene». Staccò la chiamata e la
vecchina davanti le riservò un'occhiataccia. Perfetto. Ora
doveva
inventarsi qualcosa da dire ad Alex. Ma ci avrebbe pensato
più tardi
e ignorò i suoi messaggi in cui le chiedeva di cosa stava
parlando,
e le sue minacce in particolar modo, decidendo di chiamare Lena.
Avrebbe dovuto dirle della chiavetta, in primo luogo, invece del
bacio. Voleva farlo, ma forse a voce… Sbuffò.
Stava
per accendere il laptop in sala da pranzo quando le arrivò
la
chiamata di Kara. E il suo sorriso si spense man mano che le diceva
cosa conteneva la pennetta usb rubata da James ai terroristi di Rhea
Gand. Si lasciò cadere su una sedia con stanchezza e Indigo,
che la
vide turbata, le si sedette accanto. «Star City? Sei
sicura?»,
domandò, guardando la ragazza e facendo a lei un cenno
d'intesa.
Chiuse la telefonata sospirando pesantemente. «Hai detto che
mio
padre aveva lasciato dei pacchi per una persona di Star City, nel tuo
quartiere, giusto?», domandò a Indigo, che
annuì. «Erano per la
Queen Consolidated».
Indigo
sorrise, allungando una mano verso la sua sul tavolo, quella che
ancora manteneva il cellulare, e gliela strinse. «Non so tu,
ma io
ci sono stata a Star City: caotica, però si mangia bene. Ho
sempre
desiderato tornarci».
Come
una candela: accendersi, scaldarsi e spegnersi. Ma spero che ora non
accendiate le torce e prendiate i forconi per venirmi a prendere
sotto casa, ecco, ahahah!
Devo
confessare una cosa: shippavo Kara con Lucy nella prima stagione,
altro che contendersi James! E le ho shippate fin da subito, al loro
primo incontro. Non le ho mai shippate quanto shippo Kara e Lena
però… ci stava e scrivere di questo loro breve
flirt mi è
piaciuto. Per non parlare di come stia scoprendo la ship tra Lena e
Indigo! Mi piace. Completamente campata per aria nella serie, non
avrebbe avuto senso dato che Indigo era una nemica della prima
stagione e Lena non c'era, ma ehi,
in questa fan fiction tutto è diverso e mi piace incasinare
mescolare le cose XD E non so, sono carine. No?
Dunque.
Lena e Kara in questo capitolo sono separate! Kara va da Kal e Lois,
scopriamo che la chiavetta rubata da James nello scontro alla Luthor
Corp con i terroristi è finita in mano loro e stanno
scandagliando
ogni dato, conosciamo Lucy e no, proprio non vuole parlare di lavoro.
Lena e Indigo sono da sole in villa ora che Lillian ed Eliza sono ad
Aruba, fanno conoscenza e la prima cerca di inquadrare la seconda
che, come un rompicapo, la intriga in modo particolare. Dai dati
raccolti nella pennetta usb, veniamo a conoscenza di alcuni misfatti
di Lillian per conto dell'organizzazione, di Lionel e Star City. E
ora che si fa? Ma si va a Star City, naturalmente!
Questo
capitolo è diverso da come lo avevo immaginato la prima
volta. Kara
doveva già conoscere da poco Lucy, e Lena Indigo, le due coppie
dovevano già avere un rapporto particolare ed era qui, in
questo
capitolo, che Kara e Lena avrebbero litigato (cosa poi anticipata).
Avrebbero litigato perché, tempo prima, Lena avrebbe chiesto
a Kara
se avesse voluto tornare insieme a lei e lei, indecisa, non avrebbe
risposto, così vedendola con Lucy si sarebbe arrabbiata, e
si
sarebbe arrabbiata ancora di più quando Kara avrebbe fatto
la
passiva-aggressiva gelosa del suo rapporto con Indigo.
Ve
lo scrivo perché l'idea mi piaceva molto! Avrebbero dovuto
incontrarsi a Metropolis, al parco divertimenti, l'ultima notte. E
l'idea di farle incontrare lì c'era ancora durante la
stesura, ma
non c'è stato il tempo, il capitolo andava bene
così. È già
abbastanza lungo, tra l'altro, e avrei dovuto cambiare abbastanza il
finale.
Per
il resto… una chicca: è nascosto qualche piccolo
parallelismo che
riporta ai primi capitoli.
Ci
rileggiamo martedì 11 con il capitolo 50 (!!) che si
intitola: Peso,
significato e potere
|
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Capitolo 51 *** 50. Peso, significato e potere ***
Warning capitolo lungo!
Affrontate la lettura con una fonte d'acqua vicino per restare idratati
e, per non dovervi alzare, anche del cibo. Grazie dell'ascolto.
Un
bacio non ha sempre lo stesso peso, significato, né potere.
Può
fermare una guerra. O iniziarla. Può dare moto a una
rivoluzione,
scatenarla all'interno di qualcuno, far perdere la bussola ad altri.
Un bacio a volte non ha valore ed è costretto dalle
circostanze,
altre lo si regala come una caramella, tanto per fare,
perché piace
e ci si dimentica. Un bacio sulla guancia, sulla fronte, a stampo,
con la lingua o senza; che dura un secondo o secoli. A volte un bacio
è solo un bacio, altre è un inizio, o una fine.
Quello tra Kara e
Lucy, che sapeva di salsedine con retrogusto dolce, era stato
entrambi: l'inizio e la fine di un giovane amore inesplorato che
andava bene così, il picco maggiore e la stessa sua discesa,
qualcosa che poteva essere e non destinato a essere mai. Molto
diverso eppure tanto simile a quello più forte tra Lena e
Indigo, di
passione momentanea e di un desiderio non ricambiato, composto da
ingenuità, curiosità e paura. Paura da entrambe
perché, se Indigo
avrebbe voluto capire ciò che provava e andare fino in fondo
temendo
il rifiuto, qualcosa di mai sperimentato sulla pelle, Lena si
preoccupava di ciò che aveva sentito e di ciò che
poteva aver
sentito l'altra, sapendo di non poter rischiare che si illudesse di
poter avere altro oltre a quel piccolo e breve piacere. E tutte e
quattro, in un modo o nell'altro, sarebbero finite per ripensarci.
Con diverso peso, significato e potere.
Lena
Luthor, ad esempio, sapeva di avere altro a cui pensare, ma le labbra
dal sapore inaspettatamente amaro di Indigo le sentiva ancora sulle
sue. E le davano fastidio. Non aveva il minimo dubbio sul suo amore
per Kara e sapeva di aver sbagliato, ma era come se l'altra le avesse
smosso qualcosa, come se avesse con lei una connessione diversa e,
d'altra parte, stimolante. E questo le faceva paura.
«E
Kara sa di ciò che provi per questa Indigo?».
Lena
sobbalzò e restò a bocca aperta, voltandosi verso
il fratello e
spostando gli occhialini protettivi sulla fronte.
«Come?». Non era
sicura di aver sentito bene…
Lex
le scoccò un'occhiata perplessa e pensò di
avvicinarsi, arrotolando
i guanti in lattice e gettandoli nella spazzatura. «Chiedevo
se Kara
e questa Indigo andassero d'accordo», assottigliò
gli occhi,
cercando di captare il perché la sua sorellina fosse tanto
sulle
nuvole. Gli aveva raccontato che era un'amica di penna venuta a
trovarla, ma era palese che quest'amica sembrasse covare idee che
andassero oltre l'amicizia.
Si
sentiva così stupida… «Ah,
sì… o meglio no, non proprio»,
sospirò.
Kara
aveva stretto gli occhi in due fessure, messo le braccia a conserte
ed emesso un verso indisposto con la gola. «Non mi
piace», aveva
dichiarato senza mezzi termini, infastidita. «Non mi piace,
nasconde
qualcosa, lo sento nell'aria che- che la circonda», aveva
irrigidito
la bocca, gesticolando con una mano svelta e così
riprendendo la sua
posizione arrabbiata. «E non so se lo hai notato»,
aveva fatto una
smorfia, «Ma sarebbe impossibile non notarlo: ti
muore dietro».
«No».
«Sì.
Sì, lo hai notato, ho ragione, non dirmi che non
è vero».
«Va
bene, me lo ha detto».
«T-Te
lo ha proprio detto?», aveva spalancato la bocca, facendo
sorridere
Lena. «Che faccia tosta».
«Sei
gelosa?», le aveva rimbeccato, facendo arrossire Kara.
«Pff»,
aveva trattenuto una forzata risata, portando gli occhi al soffitto.
«No! Certo che no! È solo che… Che
quella tipa non mi piace, non
mi deve piacere per forza e-».
«E
sei gelosa».
«S-No»,
l'aveva guardata, zittendosi di colpo.
«Mi
piace che tu sia gelosa».
«Non
sono gelosa. Te l'ho detto».
«Sì
che sei gelosa», aveva arricciato il naso,
«Ammettilo».
«N-Non
posso essere gelosa, perché io- noi… noi non
stiamo insieme.
Ancora. Di nuovo».
Lena
era rimasta a bocca aperta e poi aveva abbassato lo sguardo, annuendo
con uno spento sorriso.
Si
era allontanata e Kara aveva cercato di fermarla: pensava avrebbe
ribattuto in qualche modo, non certo quella reazione.
Forse
si era sentita in colpa. Non c'era niente tra lei e Indigo, ma quel
bacio… Non era riuscita a dirle del bacio ma sapeva di
doverlo
fare. Tra loro ora era questione di sfumature: erano una coppia, ma
non lo erano, si amavano e si riavvicinavano per poi lasciarsi andare
di nuovo. E lo facevano e lo ripetevano. Si erano conosciute in una
situazione strana e non volevano stare insieme, però lo
volevano. Si
erano lasciate per via di dubbi e avevano iniziato a riavvicinarsi.
Si erano di nuovo allontanate per dei segreti, fino a quando non
avevano litigato e si erano perdonate. E ora in che fase erano? Quale
sarebbe stata la prossima mossa?
«Non
piaccio a Kara, non è così?», aveva
ridacchiato Indigo,
prendendola da parte solo un momento.
Lena
aveva sospirato. «Dalle del tempo, magari poi-».
«Mh.
Pensi che mi importi? Può pure odiarmi per averti baciata,
m'importa
solo di te».
«Kara
non lo sa, veramente».
«Non
lo sa?», aveva alzato la testa incuriosita, ricercandola con
lo
sguardo mentre intenta a scrivere sul suo cellulare, in salotto in
villa. «Questo è interessante».
«Non
dirglielo», l'aveva ammonita con uno sguardo,
«Glielo dirò io al
momento buono».
«Sarà
fatto. O meglio, non
fatto».
Lena si era allontanata e Indigo aveva ripreso a guardare l'altra,
allungando la bocca impercettibilmente, formando una smorfia con le
labbra.
Lex
sorrise, riprendendo posizione davanti al microscopio. «E hai
deciso
di portarti dietro entrambe a Star City? La nostra sorellastra
è
piuttosto… esuberante e l'altra ci prova con te, Lena, non
sarà
facile amministrare un triangolo del genere fuori casa».
Lena
si riportò gli occhialetti sul naso e ansimò,
cercando di
riprendere concentrazione. «Non c'è nessun
triangolo e loro
impareranno ad andar d'accordo, non sono bambine. E ormai ho
già
preso l'impegno e abbiamo l'hotel prenotato», intravide il
sorrisetto sulle labbra di Lex, ma non sarebbe andata oltre con quel
discorso. «Allora?», gli chiese,
«Reagisce?».
«E
ancora non mi hai detto cosa andrai a fare a Star City. Non
c'è
niente cui valga la pena di andare in visita».
«Impegni
personali».
«Sì…
naturalmente», sorrise. «Facciamo che ci creda,
come che Indigo sia
un'amica di penna». Lex le sollevò una mano per
attendere, mentre
si avvicinava e allontanava al loro campione al microscopio.
«Va
bene… Guarda tu stessa», le lasciò il
posto con un velo di
fierezza. «Maxwell Lord ha davvero potenziato la formula, ma
non ha
stabilizzato abbastanza il prodotto finale».
«Ha
cercato di riprodurre gli effetti che ha avuto su Kara,
immagino…»,
borbottò lei, osservando le particelle del campione che
continuavano
a moltiplicarsi.
«Voleva
puntare sulla forza e ha speso sulla durata»,
scandì lentamente,
fissando un punto distante. «E funziona, da questo punto di
vista.
Lord e Lane avranno i loro supersoldati,
dopotutto. Ma se qualche soldato
dovesse, come Kara, essere un soggetto più sensibile,
potrebbe
provare spiacevoli conseguenze».
«Spiacevoli
conseguenze?», alzò la voce. «Non si
parla di una semplice perdita
del controllo o di un banale mal di testa, quei soldati potrebbero
essere aperti a pericolosi attacchi cardiaci già
all'assunzione di
una seconda pillola», lo guardò torva, rialzando
il viso dal
microscopio. «Quando va bene».
«Questo
perché, proprio come quando ero io a lavorarci, non
è riuscito a
correggere completamente l'errore contenuto nella formula originale.
Può pasticciarci sopra e creare qualcosa di nuovo, ma fino a
quando
non individuerà e correggerà
l'errore…», guardò distante e Lena
prese fiato.
Il
volto di Lex era adornato da un'espressione enigmatica che pareva
passare tra lo scherno e il compiaciuto, provocando in Lena non poco
fastidio. «Dunque? Sembra che la cosa ti stia quasi
bene».
«Cosa
vorresti sentirti dire, sorellina?», la guardò.
«Il ladro del mio
lavoro non è riuscito a fare meglio di me e potrei perfino
rilassarmi, adesso: fallirà da solo non appena gli effetti
collaterali saranno di pubblico dominio. Maxwell Lord ha già
perso,
ma è in modo esasperante talmente un pallone gonfiato da non
rendersene conto per pensare di fermarsi in tempo».
«Quindi
vuoi gettare la spugna? Non fare niente perché, in ogni
caso, ha
perso?»,
scrollò le spalle, accentuando la sua delusione.
Il
fratello prese fiato e si allontanò dal banco, togliendosi
il
camice; così si avvicinò a un lavello,
tirò poco su le maniche e
si sciacquò le mani, afferrando l'asciugamano accanto.
«So che
vorresti che affrontassi la legge per reclamare la paternità
delle
pillole e bloccare l'accordo sul nascere ma…»,
sospirò,
riavvicinandosi a lei mentre si sistemava i gemelli sui polsini del
completo. «Mi spieghi perché dovrei tuffarmi
spontaneamente in guai
legali per fermarlo, quando si fermerà da solo?».
«Sai
bene perché. Se anche solo uno di quei soldati
finirà in condizioni
critiche a causa di quelle pillole, sarà anche colpa
nostra».
«Colpa
nostra?», sorrise, «Non la vedo dallo stesso punto
di vista. Lui ha
creato questa variante delle mie pillole verdi, lui le ha comprate da
Roulette che le ha rubate a me, e sarebbe colpa nostra? Sapere e non
aver fatto niente sarà il piccolo prezzo da pagare in cambio
del suo
fallimento di portata mondiale».
Lena
strinse i pugni di rabbia. Non poteva credere che suo fratello
avrebbe lasciato che succedesse solo per ripicca. «Per questo
tormenti Roulette? Non voglio che si avvicini di nuovo in villa
perché tu non sei capace di lasciarla in pace».
Lui
roteò gli occhi, continuando a mantenere la sua espressione
imperturbabile. «Cerco di convincerla a tornare dalla mia
parte in
tempo, è tutto. Credo, a onor del vero, di essere piuttosto
gentile
nei suoi confronti, nonostante ciò che è
successo».
«In
tempo per cosa?», arcuò un sopracciglio,
«Non potevi già sapere
del fallimento di Lord».
«Difatti
non è a questo che mi riferisco», le diede le
spalle verso la porta
del laboratorio, mani in tasca. «Non è tua
competenza
preoccupartene, sorellina, mi pare tu abbia già abbastanza
cose a
cui pensare».
«Stai
progettando un fallimento di Lord tutto tuo?» lo
fermò a due passi
dalla porta, «Ti prego di non fare idiozie».
Lex
si voltò, osservandola con riserbo. «Come ho
detto, non devi
preoccupartene».
«E
invece sono proprio io a preoccuparmene», ribatté
lei con
decisione, «L'ultima volta gli hai fatto distruggere il
locale a
Gotham, non oso pensare di cosa tu sia capace e la cosa mi lascia
interdetta. Non sei più un ragazzino, sei a capo di
un'azienda e
tutto ciò che fai si ripercuoterà sul nome dei
Luthor».
«Beh…
la fortuna vuole essere dalla mia, allora: i nostri avi si sono
macchiati di peccati ben peggiori», si lasciò
sfuggire mentre Lena
aggrottava lo sguardo; dopodiché si allungò per
aprire la porta.
«Lex»,
lo chiamò prima che uscisse,
«Ripensaci».
Il
giovane sapeva che doveva riferirsi a entrambe le cose, ma non
riuscì
a sorriderle. «State attente durante la vostra gita a Star
City:
quella città ha due facce».
Se
ne andò e Lena sospirò. Se lo conosceva bene,
avrebbe preso
l'elicottero quanto prima per tornare a Metropolis. Sapeva che Lex
era arrabbiato e cosa significassero per lui quelle pillole che gli
erano state rubate, ma non poteva seriamente pensare di far rischiare
la vita a dei soldati solo per sentirsi migliore di Maxwell Lord.
Quella loro gara infantile doveva finire prima di provocare seri
danni a qualcuno.
Intanto,
a villa Luthor-Danvers, Kara era impegnata nella lettura di un libro
di testo, ma impegnata
era una parola grossa, poiché leggeva una riga e adocchiava
Indigo
dall'altra parte del tavolo, in salotto, intenta a maneggiare il suo
cellulare. Kara lesse un'altra riga e le lanciò un
nuovo sguardo. Quella non si muoveva, era una sfinge, non poteva
captare neppure cosa stesse pensando. Lesse una nuova riga e no,
nemmeno la finì che dovette riguardare Indigo
poiché la sentì
raschiare la gola. No, non stava facendo niente. Impassibile. Si
chiese se fosse davvero umana, dopotutto.
«Credi
che riuscirai a leggere senza fissarmi per ogni respiro, Kara
Danvers?», le chiese a un certo punto spaccando il silenzio,
facendola sussultare. Non spostò i suoi occhi dallo schermo
del
cellulare. «Perché tu ti senta meglio, sto
giocando a Battaglia
Navale, non progettando uno sterminio mondiale».
Kara
arrossì con fastidio, corrucciando lo sguardo.
Aprì bocca per
rispondere che-
«Oh,
è arrivata Lena».
«Cosa?»,
si guardò attorno, «Io non sento nien-»,
non finì di dirlo che
udirono il rumore metallico del cancello della villa che strisciava e
dopo il suono della sirena che sottolineava il passaggio dell'auto.
«Come facevi a-?». Che domande, pensò
mentre quella sorrideva:
dalle telecamere. Altro che Battaglia Navale.
Entrambe
si alzarono di fretta per correre all'arrivo di Lena, con Kara che si
lasciava andare a un sospiratissimo meno
male, non ne potevo più,
guardata male dall'altra. Scattò la serratura del portone e
Indigo
si fermò davanti all'ingresso, distese il piede destro,
nella corsa
Kara ci inciampò e finì muso sul tavolino vicino
al portone proprio
quando questo si aprì. Vedendo Lena, il cuore di Indigo
saltò un
battito e non poté fare a meno di delineare un piccolo
sorriso di
felicità. «Bentornata».
«Kara?
Cos'è successo, stai bene?», si inchinò
subito per soccorrerla.
Dal colpo, per poco non cadeva un vaso.
«Quella
mi ha fatto lo sgambetto», si lamentò subito,
lanciandole
un'occhiataccia d'ira intenta a massaggiarsi il naso rosso e
recuperando gli occhiali caduti.
«Sarai
inciampata sul tappeto», sussurrò Lena per poi
guardare l'altra,
che sollevava le spalle.
«Non
sono inciampata sul tappeto, avevo preso la mira».
Indigo
a quel punto sorrise. «Forse non dovevi correre in casa.
Succede».
Si
fissarono in cagnesco per un tempo lunghissimo, quello dato a Lena
per chiudere la porta, riposizionare il vaso sul mobiletto, lasciare
le chiavi sul cestello, togliersi il cappottino, spolverarlo dalla
polvere sollevata dal vento, allontanarsi. «Avete ancora
intenzione
di venire a Star City con me? Perché Bruce Wayne
verrà a prenderci
a breve», gridò alle due che si decisero subito a
seguirla.
Era
proprio vero. Dopo un periodo di stallo in cui lei e Bruce Wayne non
si erano più sentiti, era bastata una chiacchierata di sfogo
da
parte di Lena perché il giovane dicesse di conoscere Oliver
Queen
della Queen Consolidated. Non era lui ad amministrare l'azienda ma il
patrigno, Walter Steele, tanto bastava per decidere di organizzare un
incontro e avere delle risposte. In realtà, Lena credeva di
conoscere già quelle risposte, ma non si sarebbe messa
l'anima in
pace fino a quando non le avrebbero confermato le sue paure.
«Ho
detto alla signora Grant che sarei tornata la prossima
settimana»,
borbottò Kara, all'interno della camera di Lena.
«Siobhan non è
ancora tornata e comunque il lavoro è poco. Al campus ho
avvertito
tutti e non mi aspetteranno per le lezioni, anche se non hanno preso
molto bene la notizia, sono indietro e non riesco a concentrarmi per
studiare».
«Era
più interessata alla mia Battaglia Navale»,
incalzò Indigo che,
intanto, si lasciava sistemare i capelli sciolti da Lena. Di tanto in
tanto sorrideva con beatitudine come se, essere toccata da lei, la
potesse mandare in paradiso.
«Vorrà
dire che, quando torneremo da Star City, ti farò lezioni
private»,
disse invece Lena, voltandosi per sorriderle. Notò subito
Kara che
avvampava, ma non riuscì a inquadrare per tempo lo sguardo
indispettito di Indigo. «Ecco», riguardò
lei, «Lasciamo i capelli
così, distesi sulle spalle, mossi, hai più
possibilità di passare
inosservata che con la solita treccia».
Kara
frugò all'interno della sua borsa, avvicinandosi di corsa
alla
sedia. Sorrise a labbra strette infilandole un cappellino arancio e
nero dei Giants,
forse un po' stretto, e dopo un paio di occhiali con
la montatura nera e
lenti non graduate. «Le cosette che ho portato! Il miglior
modo di
passare inosservati è indossare un cappello e, ovviamente,
un paio
di occhiali», annuì con soddisfazione,
«Darà un tocco generale».
Indigo
ringraziò impassibile e si alzò per guardarsi
meglio allo specchio.
Era perfetta. Perfetta, perché non sembrava più
lei: indossava una
felpa rosa di una misura più grande, pantaloni grigi
sportivi, e
Lena l'aveva convinta a cambiarsi le scarpe, indossandone un paio da
ginnastica nuove, bianche, che lei aveva usato una volta sola. Se non
accettava di doversi travestire,
Lena Luthor non l'avrebbe portata con sé per paura che il
suo
garante avesse potuto rintracciarla. Ah, il garante da cui era
scappata, certo.
Era meglio assecondarla. Senza contare che le piaceva avere le sue
cure per sé. Anche lì, attraverso lo specchio,
non perse occasione
per riguardarle le labbra rosse, dietro le lenti degli occhiali.
Erano così invitanti e le ricordava calde. Chissà
come sarebbe
stato averle sulla pelle. Sospirò e le gote iniziarono a
imporporarsi. Notò che Lena se ne accorse ma non farci caso,
e
neanche lei ci fece caso poiché non le importava, la
vergogna era
una cosa distante da lei: la voleva e Lena lo sapeva. Era tutto.
Bruce
Wayne passò a prenderle in limousine una mezzora
più tardi e, con
le indicazioni di Lena, si fermarono sotto casa in periferia di Winn
Schott Jr, che aveva tanto insistito per essere dei loro e conoscere
Oliver Queen. In verità, per poco non sbatté il
naso entrando nella
vettura, inciampando all'entrata quando scorse Bruce Wayne: era
così
emozionato e concentrato di poter fare bella figura, che fece una
pessima figura e si scusò balbettando almeno dieci volte da
quando
lasciarono casa sua. La limousine li portò fino al campo di
volo per
prendere l'elicottero che li avrebbe portati a Star City e Indigo
controllò con curiosità come Kara stringesse una
mano di Lena con
le sue, in special modo quando si alzarono in volo. Lena Luthor aveva
paura di volare, lo intuì da come si sforzasse per mantenere
un'espressione dura, con risultati appena sufficienti.
«Tu
hai mai volato in elicottero?», le domandò Winn.
Bruce
Wayne era alto, spalle larghe, piegato in una posa non troppo
naturale, sembrava teso. Indigo assottigliò gli occhi,
osservandolo
con attenzione come sembrasse nascondersi dietro il giaccone
primaverile.
«Per
me non è la prima volta», proseguì
Winn. «Ho seguito spesso la
signorina Luthor nei suoi viaggi».
Era
sicura che a Gotham facesse più freddo che a National City,
ma lui
lo teneva ancora ben chiuso fino al collo e con il colletto alzato.
Gli avevano detto che lei era un'amica di penna di Lena, la stessa
scusa usata con tutti quelli che non sapessero già di lei, e
Bruce
lo aveva accettato di buon grado; era quasi passata inosservata, in
effetti.
«M-Ma
è come se fosse, eheh,
la prima volta ogni volta».
Inosservata,
continuò a pensare Indigo, squadrando i suoi pantaloni
costosi e le
scarpe lucide. Ed era pensieroso, totalmente distaccato dal gruppo.
Sorrise. Il riccone aveva indiscutibilmente qualcosa per la testa,
qualcosa di molto più interessante di un'amica di penna di
Lena che
andava con loro per scoprire di qualche vecchio affare del signor
Luthor, che in caso contrario sarebbe stato curioso.
«Un
po' di paura c'è sempre, ma», annuì
Winn, per poco, «dicono sia
il modo più sicuro di viaggiare».
Indigo
aggrottò la fronte, voltandosi alla sua destra.
«Scusa, parlavi con
me?».
Il
volto di Winn diventò più pallido man mano che il
suo entusiasmo
scemava. Riuscì a sorridere a scuotere la testa con
amarezza, per
poi guardare altrove e starsi zitto. Fu un volo molto silenzioso.
Dall'alto,
sembrava che Star City si stesse già preparando per la
notte: il
cielo cambiava, le nuvole si schiarivano e così, dietro la
sagoma
dei grattacieli lontani, sfumavano scie giallastre. L'elicottero
aveva il permesso di atterrare sul tetto della Queen Consolidated e
appena aprirono le porte furono investiti dal vento freddo. Una
donnina li aspettava. Li intravide arrivare e rimase ferma in attesa
fino a quando non li notò avvicinarsi e, reggendosi le
braccia e la
gonna per il freddo, diede loro una spiacevole notizia, atteggiandosi
con aria colpevole:
«Il
signor Queen non potrà esserci come promesso: un impegno
improvviso
lo ha trattenuto».
«Quale
impegno improvviso?», si era aggrottata Lena. Erano andati
lì con
l'unica intenzione di parlargli, aveva dato la sua parola e poi non
si presentava? La vide mettere un'espressione indisposta.
«Potete
portarci da lui?», domandò allora Bruce.
Una
berlina della Queen Consolidated fu messa a disposizione e gli ospiti
del signor Queen furono condotti fino alle strade di quelle che
l'autista chiamava le Glades. Sembrava un po' spaventato di
avventurarsi laggiù e non faticarono a intuire
perché: cassonetti
che bruciavano, spazzatura, vagabondi, serrande di esercizi
commerciali abbandonati abbassate e rotte, scritte sui muri. Era
lampante il degrado e l'eccesso di atti vandalici che sembrava
dominare quella parte di Star City. Lena intuì subito che
era a
quello a cui si riferiva suo fratello parlando di due facce della
città. Ora non le restava che domandarsi cosa ci facesse
lì
qualcuno come Oliver Queen.
L'autista
li fermò davanti a un vecchio magazzino, dicendo loro che
avrebbero
dovuto passare per la porta di servizio, a sinistra. Il fabbricato
era cadente: il passaggio anteriore bloccato da mattoni e sbarre
d'acciaio, le finestre in alto rotte e con teli di plastica che
pendevano fuori. Si guardarono attorno spaesati, soprattutto Winn,
che balzò dalla paura anche quando l'autista fece loro un
colpo di
clacson per avvertirli che si sarebbe allontanato e che sarebbe
passato a prenderli più tardi.
«Ma
se dovessimo andarcene subito, l-lui ha il nostro numero, vero? O
siamo bloccati qui?», chiese intanto che tremava, e quasi
certamente non per il freschetto del vento della sera.
Seguirono
la strada a sinistra come suggerito e scorsero un gruppetto di uomini
entrare attraverso una porta cigolante che si richiuse da sola. Bruce
Wayne la spinse e, dopo aver aspettato il loro consenso,
aprì. Li
involse subito un forte odore di alcolici e sudore, sentirono risate
e incitamenti, e urla divertite. Dopo un piccolo ingresso, si
affacciò loro un grosso locale con una grande gabbia di
metallo al
centro. Le pareti erano ridipinte di verde scuro; su una di queste,
era affissa una grossa lavagna con segnati nomi e numeri in colonna.
Non c'era molta gente, solo qualche gruppetto sporadico intorno alla
gabbia, ma si notava come il locale fosse abituato a contenere molte
più persone date le innumerevoli e caotiche orme di scarpe
lasciate
sulla polvere del pavimento sporco. Più avanti c'era un
servizio
barman e l'uomo che ci lavorava si incantò a guardarli come
se
avesse visto un fantasma. In effetti, lì dentro sapevano di
essere
fuori luogo, con i loro vestiti buoni e le facce pulite.
Winn
brontolava e li seguì come un cagnolino con la coda tra le
gambe
mentre si avvicinavano alla gabbia: c'era qualcuno lì, due
uomini si
picchiavano. Gli spettatori incitavano i due a colpirsi e un uomo
robusto, più vicino alla gabbia, era pronto con asciugamani
e
borracce d'acqua. Uno degli uomini dietro le sbarre fu colpito tanto
forte che volò prima di cadere a tappeto. L'uomo robusto
aprì la
porta della gabbia e portò da bere a quello k.o., intanto
che
l'altro girava intorno, inarcando le spalle, gonfiando il petto nudo.
«Dovevo
immaginarlo», commentò secco Bruce, mentre Lena e
Kara si
scambiavano un'occhiata, chiedendosi se il vincitore fosse davvero
Oliver Queen come sembrava.
Con
soli pantaloncini addosso, notarono quanto il suo corpo fosse stato
sottoposto a diverse torture: c'erano cicatrici più o meno
grosse
che gli segnavano il petto, e la schiena era messa addirittura
peggio, riuscendo a contare i segni indelebili che dovevano aver
lasciato delle frustate. Dai giornali e dai tg, si era reso noto
come, dopo tre anni in cui si credeva morto per via dell'incidente
con lo yacht di famiglia in cui morì suo padre, l'erede dei
Queen fu
ritrovato su un'isola che, fino a quel momento, si credeva deserta.
Nessuno parlò di cos'avesse passato in quei tre anni tanto
nel
dettaglio.
«Oh,
porca miseria», borbottò Winn, a bocca aperta.
«Quello è Oliver
Queen», infine lo gridò, lo puntò come
avrebbe fatto un bimbo
appena visto Babbo Natale scendere dal camino, e tutti si voltarono
nella loro direzione, Oliver Queen compreso.
Altri
due uomini sostituirono gli sfidanti nella gabbia. Oliver Queen li
raggiunse e salutò Bruce Wayne con un accenno di confidenza,
formalmente, come se in realtà fossero solo poco
più che
conoscenti. Dopo si voltò per stringere le mani delle
ragazze.
«Sono
felice di conoscerla, signorina Luthor. È increscioso che ci
scambiamo la prima stretta di mano quando non sono», prese
una
piccola pausa, formando un lieve sorriso, «esattamente
presentabile».
«Avrebbe
dovuto attendere il nostro arrivo alla Queen Consolidated come
accordato e avrebbe evitato questo spiacevole inconveniente»,
rispose piccata, e lui le regalò un nuovo piccolo sorriso,
muovendo
impercettibilmente le labbra spaccate.
«Mi
stavo annoiando», fu la sua giustificazione. «La
sua sorellastra?»,
indicò Kara. Salutò lei, Indigo presentata come
un'amica, e infine
Winn, l'assistente di Lena, che diventò rosso. Erano sicuri
che
presto o tardi gli avrebbe chiesto un autografo.
«Questo
non mi sembra il luogo più adatto per parlare di
ciò che siamo
venuti», si accigliò Kara. Non fosse altro, si
sentivano ormai dei
pesci fuor d'acqua.
«No»,
decise Oliver Queen, con espressione seria, «infatti. In ogni
caso,
il mio patrigno non si trova a Star City e non rientrerà
prima di
giorni. Non potrete rivolgervi a lui», mise le mani dietro la
schiena. Aveva una posizione fin troppo rigida per essere qualcuno
che avrebbe sentito i dolori dei colpi già da quella notte.
«E come
vedete, io sono occupato. Perché non rimandare a domani?
Ora, se non
vi spiace, tolgo il disturbo…». Stava per tornare
indietro verso
la gabbia che Bruce Wayne lo fermò e lo prese da parte,
intanto che
Winn bisbigliava dispiaciuto come non sembrasse particolarmente
felice di vederli.
Non
seppero cosa si dissero con esattezza Bruce e Oliver accompagnando
quegli sguardi di fastidio e prevaricazione, ma qualunque cosa fosse,
era evidente che qualcosa era andato storto, poiché li
portò alla
gabbia. Oliver Queen entrò per primo e attese il suo
avversario che
si preparava nello spogliatoio.
«Se
vinco, verrà con noi adesso», fu l'unico commento
di Bruce quando
gli chiesero spiegazioni. Lena non riuscì a fermarlo, erano
convinte
che lo avrebbe fatto a pezzi. Ma quando uscì dagli
spogliatoi, gli
spettatori non furono gli unici a restare a bocca aperta: Bruce Wayne
era muscoloso ed essendo anche solo poco più alto di Oliver,
il
risultato di quello scontro non era scontato. Entrò nella
gabbia
senza preoccuparsi di venire fotografato, con i soli calzoncini scuri
addosso. Girarono intorno alla gabbia, in posizione. Nessuno
sembrò
voler attaccare per primo finché Bruce non si
scagliò in avanti e
Oliver si scansò di lato, cercando di colpirlo, l'altro
parò il
colpo con entrambe le braccia, ributtandolo indietro.
«Si-Signorina
Luthor…», appena dietro di Lena, Winn
provò a bisbigliarle a un
orecchio, non staccando gli occhi dallo scontro. «Lei sapeva
che
Bruce Wayne sapesse combattere?».
«Non
ne avevo idea…», soffiò tra i denti.
Notava come Oliver Queen
fosse in un certo senso soddisfatto, mentre Bruce Wayne infastidito,
con in testa l'unico obiettivo di vincere. «È una
totale perdita di
tempo», sbottò, «Una superflua
ostentazione di virilità». Alla
sua destra, Indigo si allontanava dagli spettatori con gli occhi
fissi sullo schermo del cellulare, così si voltò
a sinistra,
trovando Kara che, invece, era impegnata a riprendere lo scontro.
«Cosa stai facendo?».
Lei
strinse gli occhi, pizzicando lo schermo per fare zoom sul video.
«È
per Selina».
Indigo
camminò verso il bagno quasi in punta di piedi, ancora occhi
sullo
schermo. Si assicurò con la coda dell'occhio che il barman
assistesse allo scontro, si appoggiò schiena alla porta e,
con una
mossa furtiva, piroettò alla porta accanto, entrando negli
spogliatoi. C'erano due panchine, odore di sudore che le sembrava di
svenire e una decina di armadietti. Per sua fortuna, quelli chiusi
erano poco meno della metà. Appoggiò il suo
zainetto su una panca e
recuperò una forcina di fortuna. Fischiettò a
labbra strette,
aprendo un armadietto dopo l'altro fino a trovare quello che le
interessava. Oh, per sbloccarlo serviva la sua impronta. Sorrise,
perché Bruce Wayne non aveva idea di chi fosse.
Portò i due
cellulari sulla panchina e li collegò con un cavo,
continuando a
fischiettare.
Fu
uno degli scontri più longevi mai visti in quello sporco ex
magazzino, ne erano sicuri. Nessuno dei due vinse; Oliver era stanco
dagli incontri precedenti e si ritirarono dandosi il cinque,
appianando le loro divergenze. Decisero di non parlare di cose serie
per quella sera e andarono a mangiare tutti insieme in un localino
cinese del posto, lontano dal degrado ma anche sconosciuto, in modo
che potessero avere un po' di privacy. Non volevano di certo attirare
giornalisti. Senza offesa per Kara, disse Oliver; la conosceva
proprio dai giornali, per via del matrimonio delle loro madri ma
anche per gli articoli sul CatCo Magazine, ammettendo di aver letto
l'ultimo, sull'organizzazione e Rhea Gand, solo di sfuggita. Non si
toccò l'argomento.
Bruce
confessò che lui e Oliver si conoscevano per lo stesso
maestro di
arti miste che avevano frequentato. Saltò fuori che aveva
iniziato a
seguire la prestigiosa palestra da quando ebbe dodici anni, laddove
Oliver iniziò pochi mesi dopo essere stato recuperato
dall'isola,
dando modo di sfogare le sue frustrazioni e imparando a incanalare la
rabbia. Ebbero modo di capire presto come quel ragazzo, che
sicuramente portava le sue cicatrici più profonde dentro di
sé, non
era una persona facile: parlava il giusto, era categorico, sempre
molto serio, non amava scherzare e stava quasi per le sue. Almeno
quanto Indigo, pensò Lena. Quando erano in gruppo, quella
ragazza si
staccava ancora più volentieri, ma se non altro stava
mangiando con
gusto e continuava a ordinare. Anche Kara continuava a ordinare, ma
per lei era una cosa normale. Oh, Lena notò come Indigo
fissasse
proprio Kara, di tanto in tanto, e si portò una mano sul
viso in
modo arrendevole: era forse una competizione? Sarebbe finita per
stare male.
Bruce
fu il primo a lasciarli, dicendo che sarebbe tornato subito in hotel
perché stanco. Poco più tardi li
lasciò anche Oliver. Winn e
Indigo restarono a penzoloni tra la sedia e il tavolo qualche minuto,
pieni come uova, prima che anche loro si muovessero, chiamando un
taxi. L'autista incaricato dalla Queen Consolidated aveva
già
staccato, ormai. Lasciarono il loro tavolo e Lena prese anche lo
zaino di Indigo con sé, mentre lei sballottava tra le sedie.
Kara fu
la prima a notarlo, cercando di non dare a vedere come, in fondo, le
avesse dato un po' di fastidio. Almeno, Indigo cercò di
farselo
ridare indietro.
«Non
è pesante».
La
ragazza non insisté subito, pensando di farselo restituire
una volta
in taxi. «È perché c'è il
portatile», esclamò, «Mi serve.
Adesso. Devo controllare una cosa e viene meglio». Winn le
fece
subito i complimenti poiché conosceva la marca ed era una di
quelle
con funzionalità all'avanguardia. Ma lei lo
ignorò di nuovo. Si
infastidì perché Lena le restituì solo
ciò che aveva chiesto
tenendosi lo zaino, ma fece finta di niente e lo accese, per
sé,
frugò un po', per poi sorridere.
Si
lasciarono fermare direttamente davanti all'hotel, entrarono nelle
loro camere per lasciare le borse e decisero di bere qualcosa nel bar
vicino alla hall, prima di andare a letto. Kara ripensò allo
zaino e
al modo con cui Lena, in modo generico, si prendesse cura di Indigo.
Cominciò a pensare che, quando non aveva ribattuto al fatto
che non
stavano insieme, era perché avesse scoperto del bacio tra
lei e
Lucy. Quello, oppure che si fosse presa una sbandata per quella.
O entrambe le cose. Oh.
Sbiancò e deglutì, percorrendo il corridoio e
arrivando alle porte
dell'ascensore. Ma glielo avrebbe detto… Lei avrebbe dovuto
dirle
del bacio e ancora non lo aveva fatto! Accidenti. Improvvisamente
aveva così paura. Cosa c'era stato tra lei e Lucy? L'aveva
baciata
per provare o per cosa? Cosa significava? Lei e Lena erano in un
continuo prendersi e lasciarsi e questo sembrava l'ennesimo tassello
di questo loop infinito. Le porte si aprirono e fece per entrare che
si richiusero all'istante. Ma
che-? Per
poco non le prendevano il naso. Schiacciò il pulsante per
richiamarlo ma non si apriva, era sceso a un altro piano.
Sbuffò,
seguendo la moquette per il prossimo ascensore, ripensando a Lena.
Forse questa era la fine. Un brivido freddo le percorse il corpo. Si
sentì ghiacciare e si fermò, prendendo fiato.
Ecco, ci mancava la
tachicardia. Aveva perso Lena? Il suo corpo le sembrava così
vuoto,
in questo momento. Non sentiva la terra sotto i piedi, era leggera e
vuota. Tanto vuota. Prese fiato, occhi sgranati, il cuore che
palpitava con fretta. Chiamò l'ascensore. No. Non voleva
crederci.
Era stata così stupida, così stupida
che… Le porte si aprirono,
entrò dentro e pigiò per il piano terra,
appoggiandosi a una delle
pareti. Forse sapeva del bacio, o forse era stata lei a innamorarsi
di Indigo e allora… E allora cos'avrebbe fatto, lei? Era ben
cosciente che avevano cose importanti in ballo a cui pensare, ma Lena
era tutto ciò che voleva, tutto ciò che non
avrebbe mai riavuto se
l'avesse persa definitivamente.
E persa poi per cosa? Un bacio in spiaggia con- Sussultò. Le
porte
si aprirono e fece per uscire che- ma non era il piano terra.
Controllò sul display e- piano
dodicesimo?
Ma gli ascensori dell'hotel erano forse impazziti? Stava per
schiacciare la nuova destinazione che le porte si richiusero da sole
e l'ascensore iniziò a muoversi. Forse lo avevano chiamato
altrove,
ma cominciò a temere fosse posseduto da un poltergeist.
Piano
tredicesimo. Quattordicesimo. Quindicesimo. Deglutì. Era
l'ultimo e
le porte si aprirono che- no, si richiusero di nuovo.
Lena
controllò l'orologio al polso, sbuffando. «Penso
che andrò a
vedere se Kara si sente bene, è strano che non sia ancora
qui».
Winn
annuì e pensò di andare con lei, intanto che
Indigo sorrideva di
gusto, giocando col suo cellulare. I due si alzarono dai loro
sgabelli che Kara si presentò al bar. «Tutto
bene?», domandò Winn
e Lena le andò incontro: sembrava turbata.
«Sono
dovuta schizzare via da un ascensore impazzito mentre le porte si
chiudevano. Ma mi aveva sfilato una scarpa e, quando ho cercato di
riprenderla, stava per prendermi anche un braccio. Così mi
sono
fatta sei
piani
a piedi nel tentativo di ritrovarla», disse d'un fiato,
ansimando.
Notò subito come, davanti a un piccolo tavolino, il laptop
con lo
schermo semichiuso e il cellulare, Indigo si stesse divertendo un po'
troppo. «Lo credi divertente?», le andò
incontro furiosa, per poi
guardare i due. «È stata lei. Com'era
prevedibile», portò le
braccia sui fianchi.
«Come
può essere stata lei?», domandò Winn.
«Certo
che non è stata lei. Perché dovrebbe farlo,
Kara?», la protesse
Lena.
«Io
sto giocando a Battaglia Navale e tu sei paranoica»,
scrollò le
spalle Indigo.
Kara
brontolò, ma decise di lasciar perdere perché,
più che il fatto
increscioso dell'ascensore, a darle fastidio era come Lena l'avesse
difesa. Di nuovo. Forse i suoi dubbi avevano delle fondamenta,
dopotutto… Forse avrebbe dovuto parlargliele lei. Forse non
avrebbe
dovuto prendersela così tanto, dopo aver baciato Lucy Lane.
Aveva
commesso l'errore più grande della sua vita.
«Bruce
Wayne sembrava particolarmente strano, oggi», udì
parlare Lena,
capendo che i suoi viaggi mentali l'avevano tenuta impegnata per un
po'. «Non mi aspettavo che sapesse combattere, ma…
Non so, non me
la raccontano giusta lui e quel Queen. Non so cosa aspettarmi,
domani».
«Io
posso aiutare a fare chiarezza», interruppe Indigo. Si
protese tra
loro e mise davanti a Lena il suo portatile, sopra il bancone. Dopo
premette play su una traccia audio e Lena alzò di poco il
volume,
poiché l'unico chiasso proveniva dal fondo del locale da due
uomini
un po' brilli.
Udirono
rumori di fondo non comprensibili e si chiesero cosa stessero
ascoltando, fino a quando non sentirono una voce chiara e perfetta:
«Ce
ne hai messo».
Era Bruce Wayne e pareva essersi mosso.
«Ho
aspettato, non volevo che sospettassero».
Oliver Queen. Loro si guardarono e guardarono Indigo.
«Ho
hackerato il suo cellulare», rispose con nonchalance,
«Perché
sapevo che il damerino nascondeva qualcosa. Ascoltate, che è
interessante. Risale a quando se ne sono andati dalla cena».
Winn
spalancò gli occhi ed entusiasta stava per chiederle cosa
avesse
usato e quando, che Lena lo fermò, tappandogli la bocca con
un
fazzolettino di carta: i due stavano parlando.
«Ti
avevo chiesto di mentire a Lena Luthor, non di andare a divertirti
invece di venire all'incontro».
«Me
lo avevi chiesto»,
prese una breve pausa, «ma
non ti ho detto che lo avrei fatto. Credo ci sia un fraintendimento,
Wayne: ti rispetto, non prendo ordini da te. Non mentirò a
nessuno a
meno che non pensi che ci sia una buona ragione per farlo e, in
questo specifico caso,
non ne trovo una».
Sentirono rumore di bicchieri, il versarsi qualcosa da bere.
«Lena
Luthor è un'amica e non voglio che scavi nel passato di suo
padre.
Non ti sembra sufficiente?».
«Amica?».
Udirono rumori di spostamento, poi il vetro del bicchiere che
tintinnava. «Un'amica…
intima?».
«Un'amica
e basta. Non sono come te».
«Come
me, come?»,
era
un sospiro? «Leggo
anch'io i giornali: mi è parso di capire che ti piaccia
avere la
compagnia di fanciulle diverse ogni sera. Uno strano giro
di…
amicizie».
Bruce
non rispose subito. «Arriviamo
al punto: l'organizzazione sta riprendendo potere e Lena Luthor deve
starne fuori».
«Perché?».
«Perché
così ho deciso. È ancora in tempo».
«Tu
non lo sei?»,
pausa. «Hanno
contattato anche te. Ma certo. Ti conosco, Wayne: non pensi ad altri
che a te stesso. Non cerchi di proteggere Lena Luthor, non la vuoi in
mezzo. Non pensi che potrebbe essere troppo tardi? Che abbiano
già
contattato anche lei?».
Lena aggrottò la fronte e Kara fece lo stesso, scambiando
un'occhiata con lei.
«Potrebbero
non farlo»,
sentirono rispondere Bruce.
«Lo
faranno»,
ne sembrò certo Oliver Queen. «Questione
di tempistiche. A meno che non pensino che la
signorina Luthor non
sia pronta»,
lo sentirono muoversi.
«Non
sembri preoccupato. Accetterai l'invito? Fare affari con
loro?».
«Aspetto
che
vengano a chiedermelo di persona… per
rispondere gentilmente che non sono interessato»,
lo sentirono e quasi lo videro, nei loro pensieri, impegnato a fare
uno di quei piccoli sorrisi sicuri.
Avevano
lasciato il bar. Indigo si era ripresa il portatile sottobraccio e
aveva stretto una mano di Lena per farle sentire la sua vicinanza.
Dal canto suo, Lena avrebbe voluto dirle che ciò che aveva
fatto a
Bruce era sbagliato ma… non ci riuscì. Ascoltare
quella
conversazione era stato se non altro illuminante. Era andata avanti,
con la testa stanca, intanto che Indigo aspettava Kara, indietro.
«Scusa
per lo scherzo dell'ascensore».
«Quello
lo chiamo scherzo?»,
brontolò.
Indigo
allungò uno sguardo a Lena e impercettibilmente sorrise,
rivolgendosi di nuovo a lei. «Mi sento ancora nuova ai
sentimenti,
diciamo, umani. Non che volessi ferirti, mi stai simpatica, in fondo,
ma… ma diciamo che credo di essere gelosa. Di te e Lena. Voi
due
avete dei trascorsi e noi invece…»,
deglutì, assicurandosi che la
stesse ascoltando, «siamo solo all'inizio. Ho così
paura che tu
possa, come dire, riconquistarla». La vide accigliarsi e
sapeva di
aver fatto centro.
«Cosa
vuoi dire…? Voi siete…?».
«Beh…
sì. Non te lo ha detto?». La lasciò
sola, scrollando le spalle, e
così raggiunse Lena.
Erano
tornare nelle proprie camere ma era dura riuscire a prendere sonno
dopo ciò che avevano sentito. Lena si affacciò
alla finestra e,
sotto, su una panchina di
pietra davanti
a una piscina all'aperto, appena illuminata dai lampioni giallastri
del parco interno dell'hotel, vide Kara. Da sola. Cosa faceva
lì? Si
strinse intorno a una vestaglia trovata in camera e, ora che era a
pochi passi da lei, la fissò con attenzione: i capelli da un
lato,
mossi, in pigiama, con le ciabatte ai piedi. Era
così… Accidenti.
Aveva tanto a cui pensare, eppure niente era importante quanto quello
che sentiva in petto per lei: e
allora perché erano così distanti? Si
avvicinò lentamente e Kara si accorse della sua presenza,
voltandosi
per farle un sorriso. Non che fosse falso, ma a Lena parve un po'
spento, quasi malinconico. «Ehi», si
avvicinò e lei le fece
spazio.
«Ehi.
Nemmeno tu riesci a dormire?». Con le gambe accavallate, le
diede un
colpetto di ciabatta bianca sulle sue; portavano le stesse con il
logo dell'albergo.
Lena
scosse la testa. «Sono stanca, però… O
forse è proprio perché
sono stanca che non riesco a dormire».
«Domani
diremo loro di sapere di cos'hanno parlato»,
azzardò Kara. «È la
cosa migliore. Scoprire le carte. Sentire cos'hanno da dirci.
E…
tutto. Andremo avanti in qualunque caso», la
guardò di nuovo.
Lena
sorrise e annuì. Restarono di nuovo in silenzio a osservare
l'acqua
della piscina che, mossa dalla leggere brezza del vento, si
increspava. Si stava bene, lì. Stavano bene insieme,
lì. Lena la guardò con la coda dell'occhio e,
quando Kara si voltò
e le sorrise, sorrise anche lei. «Dobbiamo convincere Lucy
Lane a
fermare l'accordo delle pillole».
Kara
sospirò. «Lex non ha ceduto?».
Scosse
la testa, fermandosi per prendere fiato. «È
testardo. Pensa che
Lord fallirà e non gli importa se qualcuno si fa male. E la
nuova
formula è… pericolosa. A meno che Roulette, in
qualche modo, sia
riuscita a imbrogliarci e a rifilarci una formula obsoleta. Ma se
fosse, Lord stava comunque per fartene assumere una».
Kara
parve pensarci un momento. «Allora potremo rapire Roulette e
farci
dare delle risposte».
Si
guardarono con serietà finché, pian piano, non
scoppiarono a
ridere. «Per un attimo, credevo dicessi sul serio».
«Per
un attimo l'ho pensato». Risero di nuovo e Lena si strinse
nelle
braccia quando un brivido di freddo le ghiacciò la schiena.
Kara non
se lo lasciò sfuggire e si avvicinò,
appoggiandosi a lei. «Lena,
devo…».
«Anch'io»,
deglutì e si voltò, cercando di prendere
coraggio.
«Ti
sei innamorata di Indigo?», parlò per prima, di
getto, lasciando
Lena a bocca aperta.
«Cosa?
No».
«Oh,
per Babbo Natale, la Befana e gli elfi uniti,
meno male», prese un grosso respiro, facendo scoppiare Lena
in una
fragorosa risata. «Credevo che- Vi vedevo unite e come la
difendi
sempre».
«Indigo
non ha mai avuto nessuno che la difendesse, Kara, cerco solo
di…
farla sentire umana e non un problema, ma non sono innamorata di lei.
Però…», era il momento e
deglutì. «Però c'è
dell'altro, è
vero». Aspettò che la guardasse negli occhi,
sapeva di doverlo
fare. Se non che lei le parlò quasi con la voce sulla sua:
«Siete
state a letto insieme?», abbassò gli occhi.
«Oddio,
no!», strinse le sopracciglia, arrossendo, «Come ti
viene in mente
una cosa del genere?».
Spalancò
gli occhi azzurri e si morse la lingua. «Indigo!»,
esclamò dopo, stringendo i denti.
Lena
scosse la testa, sospirando. «Non voglio
giustificarla», anticipò,
«Ma ha una cotta per me e sa quanto tu sia importante per me,
e non
sa come interagire e probabilmente pensava di fare qualcosa di furbo
dicendoti che siamo state… intime, quindi…
lasciala perdere, per
favore».
«Sono
importante per te?».
«La
persona più importante», rispose.
Deglutì, guardandole le labbra.
«Lo sai. Ma ci siamo baciate». Veloce, quasi
indolore. Quasi.
Kara
restò a bocca aperta. «E-E ha… Okay»,
abbassò gli occhi e così il viso, fissando
l'acqua della piscina.
Sentiva di nuovo la tachicardia. Lena e Indigo si erano
baciate… Si
erano baciate e a lei come poteva dare tanto fastidio?
Come poteva essere così ipocrita?
«Scusami»,
la sentì, con la voce quasi strozzata.
«Ha…
significato qualcosa?».
«In
quel momento, forse. Era… solo un momento». Lena
strinse il bordo
della panchina, reggendosi saldamente per non cadere, tanto si
sentiva svuotata. Quanto peso dava a quel bacio? E quanto gliene dava
Kara? «Mi dispiace, non dovevo. So che non stiamo insieme,
ma-».
«No»,
Kara scosse la testa, rialzando lo sguardo senza guardarla negli
occhi: non ne era capace. «Non dispiacerti
perché… perché io ho
baciato Lucy Lane», sputò il rospo e non
sentì più nulla se non
il brontolio della sua pancia e il batticuore. Lena non se lo
aspettava; all'inizio, non si era nemmeno mossa.
«Tu…
cosa?».
Lena restò senza parole ed entrambe fissarono l'acqua della
piscina
che specchiava il giallo delle luci esterne.
«N-Non
so come, o cosa…», sospirò.
«Sono stata una stupida! Una
stupida», strinse i pugni. «E-Era un momento-
Voglio dire, che
anche per me-», si fermò di nuovo.
Perché non le veniva una frase
di senso compiuto? Nemmeno lei sapeva cos'era stato? «Nel
momento
era qualcosa, ma quel qualcosa è morto lì,
stecchito, perché io
amo te e lei lo sa. Non ho fatto altro che parlarle di te. E mi ha
suggerito di dirti tutto». Non si aspettava che Lena restasse
in
silenzio. «Non avrei-».
«Che
cosa siamo noi due, Kara?», domandò Lena, seria.
L'acqua della
piscina si increspò di nuovo e l'ampolla gialla dei lampioni
si
accartocciò. Non facevano che continuare a farsi del male a
vicenda,
per poi far tornare tutto com'era prima. Ma una situazione come
quella quanto poteva durare? «Questo gioco che facciamo, di
continuo», sorrise appena, «questo tira e molla o
girarci intorno
che sia, dobbiamo fermarlo. Siamo sopravvissute a tutto e ci lasciamo
fregare da cosa?
Una… cotta?».
La guardò e Kara altrettanto, facendo una smorfia che era
quasi un
sorriso, annuendo. «Non ce la faccio più. Stiamo
insieme o non
stiamo insieme! Per davvero».
Kara
annuì ancora, guardò l'acqua della piscina e di
nuovo Lena, di
corsa. «Io voglio stare con te». La gola le si
seccò mentre Lena
la fissava. «Ha-hai ragione: e posso stare qua a maledirmi
per aver
baciato un'altra, ma il solo pensiero di averti persa,
prima… A
quanto sia stata stupida! M-Mi manda in paranoia! Mi fa sentire
persa! Anche tu sei la persona più importante per me
e… non ce la
faccio a pensare di stare lontana da te, Lena Luthor, non
posso».
«Sì»,
Lena arrossì. «Allora smettiamo prima di farci
male di nuovo,
perché… Davvero credevi che preferissi Indigo a
te?», sussurrò,
arcuando le sopracciglia. «Non avrei dovuto, non so cosa mi
sia
saltato in testa, perché nemmeno io posso pensare di stare
lontano
da te. Non prendiamoci in giro, ti prego. Farei qualsiasi cosa per
non perderti».
«Va
bene».
«Va
bene», la fissò di nuovo. «Quindi,
è così…», sorrise e le
sfiorò un braccio con due dita, mentre Kara s'incantava ai
suoi
occhi. «Avrei voglia di-».
«Anch'io».
Kara sollevò la mano sinistra e le accarezzò una
guancia. Le sue
dita erano calde, scontrandosi con la pelle fresca.
Allora
Lena le sfilò gli occhiali dalle orecchie, guardando il suo
viso
accaldato. Li appoggiò dietro e si avvicinò
lentamente, socchiuse
gli occhi, e Kara fece altrettanto. Le loro labbra si incontrarono a
metà strada, assaggiandosi con delicatezza.
«Com'è stato?», le
domandò, col fiato sul suo. «Può
funzionare?», tentò un sorriso.
Ora sapeva a cosa si riferivano i cantanti con farfalle
sullo stomaco e
perché spendevano tanto tempo a scriverne ancora. Quanto
peso poteva
dare al bacio con Indigo? Chi se ne importava.
Kara
abbozzò una risata. «Mh, mi è piaciuto.
Se adesso vogliamo
ritentare… pe-per essere sicure che funzioni, no?
Per-». Non finì
ciò che aveva da dire, neanche ricordava cosa stava per
dire, che si
baciarono di nuovo e il vento, delicato, sollevava loro i capelli.
Lena
si staccò piano e la riguardò negli occhi.
«Meglio o peggio di
Lucy Lane?».
Gli
angoli della bocca di Kara si sollevarono, formando un piccolo
sorriso finché non si morse un labbro. «Ah,
me lo merito. Ma chi è quella gelosa, adesso?».
«Oh,
quindi ammetti che eri gelosa?», si tirò indietro
e si leccò le
labbra, guardando le sue, un attimo.
Kara
sollevò gli occhi al cielo e annuì, decisa.
«Ero gelosa. Avevo
ragione a esserlo. E adesso vieni qui». La vide arricciare il
naso e
si baciarono di nuovo, aprendo la bocca e accogliendo una la lingua
dell'altra, lasciarsi un attimo per respirare e riprendersi subito,
accarezzandosi a vicenda, passando le mani sulle braccia dell'altra,
sui capelli, sulla schiena. Questa volta era quella giusta. Doveva
esserlo, perché lo avevano scelto consapevolmente. Avrebbero
fatto
le cose per bene, nel modo giusto, senza fretta. O
quasi.
Aprirono
la porta della camera di Lena con un calcio e Kara la richiuse
spingendoci sopra Lena e finendole addosso, baciandola sotto il
mento, stringendole i polsi contro il legno. Lena si sporse solo un
attimo per chiudere a chiave che Kara la sollevò, facendola
emettere
un verso sorpreso, soffocato dopo da una risata, reggendosi a lei.
«Speculare,
Kara: la camera è speculare alla tua», le disse
con urgenza e lei,
da destra, girò a sinistra per il letto.
«Dovevamo
andare nella mia». La lasciò andare e si baciarono
di nuovo,
sobbalzando sul letto.
«La
mia era più vicina e sembrava che volessi saltarmi addosso
in
ascensore».
«E
questo è vero», strinse i denti.
Affondò la bocca sotto i suoi
capelli e le morse impercettibilmente il collo, lasciandola andare a
un'altra breve risata, felice. «P-Posso sfilarti la
vestaglia?».
«Devi
sfilarmi la vestaglia», la corresse. «Basta che fai
piano, la
camera di Indigo è a una parete da qui».
Kara
si accigliò subito, rossa sulle gote, lanciando
un'occhiataccia
verso la parete. «Questo è inquietante»,
brontolò, «Che poi hai
visto come ha hackerato il cellulare di Wayne; magari lo ha fatto
anche col tuo».
«No
che non lo ha fatto»:
la voce di Lena attraverso il suo telefono e Indigo sospirò.
Era
sdraiata a pancia in giù, sopra il materasso ancora fatto,
mentre
prendeva appunti sul suo portatile. Sentirle insieme l'aveva messa di
malumore: era questo che si provava a venire rifiutati? Non riusciva
nemmeno a concentrarsi. «Ma
se ti fa sentire meglio»,
udì, sentendo un rumore forte di qualcosa che si spostava, «Lo
chiuderò in un cassetto. E prenderò anche i tuoi
occhiali, prima
che li schiacci».
Altri rumori forti. E all'improvviso si voltò, ricordando il
suo
zaino. Dove l'aveva lasciato? Oh,
cavolo…
Doveva averlo ancora Lena.
«Mettilo
sotto gli asciugamani»,
sentì suggerire Kara e lei, seccata, abbassò del
tutto lo schermo
del laptop, mettendosi in posizione fetale sul letto. Era finita? Si
sarebbe ancora presa cura di lei, adesso?
Lena
chiuse e si appoggiò alla cassettiera, osservandola mentre
si
rialzava e la raggiungeva. «Soddisfatta,
così?».
«Abbastanza».
«Abbastanza?»,
inarcò un sopracciglio, aspettando il suo arrivo.
Kara
le sorrise e la circondò con le braccia. Si baciarono
subito,
lasciandosi andare appena, riprendendosi, assaggiandosi come da tempo
non erano più riuscite a fare. Era bello; si sentivano
di nuovo, finalmente. Sentivano ciò che avevano provato mesi
fa
quando si erano conosciute e quando si erano stuzzicate fino al primo
agognato bacio dopo una partita di lacrosse; sentivano la loro prima
notte insieme al Ringraziamento; cos'avevano provato a separarsi,
cosa a stare lontane, e cosa sentivano adesso, più forte di
sempre.
I respiri mozzi, la tachicardia; i loro corpi che, a contatto,
parevano quasi prendere fuoco. Sentivano i loro cuori spezzati che si
risanavano, la felicità che saliva dalla bocca dello
stomaco, la
leggerezza di essere nel posto giusto con la persona giusta. E ne
ebbero una nuova certezza, ovviamente: era lei la persona giusta.
Nessun altro oltre lei ed era come respirare per la prima volta dopo
tempo.
E
ne era passato davvero tanto, di tempo. Troppo. Così tanto
che,
nello sfiorarsi, provavano un nuovo imbarazzo che si scontrava
inesorabilmente con la consapevolezza di conoscersi. La memoria del
corpo, contro la titubanza della mente.
«Adesso
va meglio», boccheggiò Kara e Lena
insinuò le mani sotto la maglia
del suo pigiama, tastando con decisione, facendole venire i brividi.
Nel frattempo, Kara pensò di sfilarle la vestaglia che
andò a
depositarsi sulla cassettiera, andando a baciarle le spalle, nude. Le
spostò una spallina della camicia da notte verde acqua e
baciò
ancora, con l'alito caldo. Le portò una mano dietro i
capelli
corvini e si guardarono negli occhi attraverso la fioca luce che
passava dalle finestre, baciandosi, un respiro profondo, le labbra
piene che sapevano di tutto ciò di cui avevano bisogno. Per
quanto
di cose importanti da pensare ne avessero a sufficienza, era proprio
vero che tutto ciò di cui avevano bisogno per sentirsi bene,
o
complete, era racchiuso in quei baci. Sapevano di poter affrontare
tutto il resto, insieme.
«A-Aspetta»,
le sussurrò Kara di punto in bianco, ancora su di lei.
«Volevo…
in ascensore, sembrava che volessi, sì,
però… se tu vuoi, cioè»,
la guardò negli occhi, diventando rossa, «se pensi
che stiamo
andando troppo in fretta, a me va-va bene, va più che bene
se
possiamo sdraiarci e stare vicine, solo vicine, okay? Voglio anche
solo starti vicino».
Lena
le passò dolcemente una mano sul mento e si
assicurò di rubarle un
breve bacio. Leggero, d'amore e forte. La intravide guardarle le
labbra quando la lasciò andare. Un attimo furtivo e basta,
incatenando gli occhi ai suoi. «Lo voglio, Kara. Lo voglio
dal
matrimonio delle nostri madri, accidenti. Probabilmente in ascensore
ci sono telecamere o», biascicò lentamente verso
l'orecchio
sinistro di lei, insinuando la mano destra sui suoi capelli,
stringendo, «non mi sarebbe dispiaciuto averti anche in uno
spazietto un metro e mezzo per un metro e mezzo, contro lo
specchio».
«Va
bene-
emh, bene», abbassò la voce, dopo un primo
tentativo stridulo,
imbarazzandosi.
Lena
si spostò un poco dalla cassettiera e fece cadere la
vestaglia sui
piedi coperti dalle ciabatte e lasciò di nuovo a lei la
situazione
in mano, in attesa. La sentì deglutire, era nervosa. Forse
avrebbe
dovuto fare qualcosa per farla sentire a suo agio, anche se le era
sempre piaciuto il suo tentennare. Ma infine si mosse: le
afferrò i
lembi della sua camicia da notte e se la lasciò sfilare e
gettare a
terra. Il tempo di toccare il parquet che Kara era di nuovo su di
lei, leccandole il collo, assaggiandolo con le labbra piene, intanto
che con i polpastrelli, delicati, le girava i fianchi, toccava la
pancia, saliva fino al reggiseno. La bocca bollente raggiunse le sue
curve. Baciò mentre Lena sospirava, occhi semichiusi,
afferrandole
di nuovo i capelli biondi. «Kara», la
chiamò col fiato corto e
l'altra alzò gli occhi, ritrovando i suoi. «Non
sono fatta di
porcellana», sorrise, per poi sospirare di nuovo.
«Va bene. Puoi
farlo. Toccami».
Kara
arrossì di nuovo, ma decise di non lasciarsi prendere dal
panico.
Non era la prima volta che stava con Lena e non doveva aver paura di
sbagliare con lei, era sciocco: mesi separate e ora che poteva
toccarla di nuovo, temeva di fare una mossa falsa. Ma ci sarebbe
stata una mossa falsa da poter fare, a quel punto? L'unica cosa
veramente sbagliata che poteva saltarle in mente era fermarsi e se
poi, in qualunque caso, avesse di nuovo avuto il panico, avrebbe
improvvisato. Poteva improvvisare? Doveva improvvisare. E baciarla,
che fosse in un qualunque punto del suo corpo, era ciò che
le veniva
meglio. E che le piaceva fare. Riaprì la bocca,
poggiò la lingua in
fiamme, schiuse le labbra. Le strinse i seni con entrambe le mani,
forte. Più decisa, adesso, arrossendo fino alla punta delle
orecchie, sentendola gemere appena.
«Va
meglio». Accidenti, le sfuggì: non avrebbe dovuto,
lo sapeva.
Temeva di bloccarla, ma non lo fece: Kara le strinse più
forte,
attenta a non farle male, inchinandosi, baciando più in
basso, in
mezzo ai due seni pieni. Aveva caldo ma i brividi di freddo allo
stesso tempo. Era piacevole, sentiva l'eccitazione crescere. Si
appoggiò di nuovo alla cassettiera, quasi sbattendo, e Kara
scese,
leccandole intorno all'ombelico, stringendo i fianchi pallidi.
Era
così perfetta e non l'avrebbe persa, pensò Kara.
Adesso lo sapeva
quanto mai prima. Non era una questione di fortuna, Lena l'amava
davvero o di occasioni per lasciarla andare ne avrebbe avuto
parecchie. Quella stessa sera, ad esempio. E invece erano di nuovo
loro due, come se non si fossero mai lasciate davvero. Rivide il
momento in cui le disse di andarsene, arrabbiata, dopo Capodanno:
l'aveva sentita piangere dietro la porta della sua camera, al campus.
E ricordava quando si tennero per mano in casa Danvers-Luthor sul
divano, guardando un film con la famiglia, non riuscendo a fare a
meno di toccarsi. Quando, nella loro camera in comune, ci fu il loro
primo bacio mancato, sentendo Eliza gridare per il procione. Che poi
era un gatto. Ricordava i barattolini di yogurt a Natale, in villa. E
ricordava la testata al loro primo bacio serio, dopo la partita. Fu
allora che capì che per quanto Lena avesse provato qualcosa
per
Indigo, non sarebbe mai stato lo stesso. Esattamente come non sarebbe
stato lo stesso per il bacio tra lei e Lucy. Avevano un diverso peso
quei baci che le lasciava sulla pelle. Un significato profondo. Il
potere che avevano l'una sull'altra. Era tutto giusto, adesso.
Lena
la attirò a sé e la baciò come se le
mancasse l'aria. Kara la
strinse per le spalle, le passò le mani sotto il mento, sui
capelli.
Lena la aiutò a liberarsi dalla maglia celeste del pigiama,
sbottonandole un bottone dopo l'altro, assaggiando la sua pelle
bollente. La gettò sul pavimento e abbracciò Kara
sui fianchi,
passandole la punta della lingua sull'incavo del collo, sentendola
per poco trasalire. Sorrise e la riguardò negli occhi
semichiusi che
la seguivano, tentando con le mani l'elastico dei pantaloni del
pigiama. Non batté le ciglia, continuando a fissarla mentre
la mano
destra si intrufolava sotto gli slip. Non la fermò e anzi
spalancò
gli occhi. Kara deglutì e Lena tirò via la mano,
ridendo di nuovo,
facendola accigliare. Le abbassò i pantaloni celesti e le
baciò una
coscia in un punto a caso, poi l'altra in un altro punto a caso.
«Okay.
L'hai voluta tu», sbottò. Scacciò le
ciabatte dai piedi e tirò
giù il pigiama, così la risollevò
stringendole le natiche e la
ributtò sul letto, togliendo anche le sue, di ciabatte. Si
baciarono
di nuovo, e di nuovo, finché Lena non si lasciò
andare a una risata
e Kara rise a sua volta, senza un perché.
«Vuoi
dirmi qualcosa?», la stuzzicò Lena, arcuando un
sopracciglio. «Non
tenere le cose per te. Se vuoi stare con me, dobbiamo condividere
tutto».
«È
che non- Non vedevo l'ora di-», si morse il labbro inferiore,
spostando i suoi occhi per la stanza semibuia, «Mi sei
mancata».
Neanche il tempo di dirlo in completa serietà che
avvampò di colpo.
«N-Non intendevo che mi sei mancata in que-quest-questo contesto,
o meglio sì, decisamente
mi sei mancata anche in questo contesto», annuì,
non mancando di
portare lo sguardo sul suo seno in vista, tenuto su dal reggiseno di
pizzo verde scuro, decorato e invitante. «Ma mi sei mancata
in»,
fece una smorfia con la bocca, «generale, diciamo. Tutto. Mi
è
mancato tutto».
Lena
le circondò il collo con le braccia nude, reggendosi per
sollevarsi
il tanto giusto per rubarle un bacio piccolo e lento, per poi farle
un sorriso. «Anche tu mi sei mancata. In modo generale,
diciamo
tutto», la citò e si sollevò per
baciarla di nuovo. «Ti amo, Kara
Danvers. E so che le cose che si dicono in momenti di questo tipo
sono pericolose-».
«Pericolose?».
«Molto
pericolose. Prese dall'eccitazione, le persone dicono qualunque cosa,
ma io sono certa di quello che sto per dire
perché… ci ho pensato
a lungo, ecco perché. E adesso sento di potertelo dire e
devo
rischiare, dunque mi devi credere se dico-».
«Sì».
«Che
voglio passare la mia vita con te». Arrossì e si
morse anche lei un
labbro, osservando il suo volto, dagli occhi che brillavano alle
labbra che tremavano.
Kara
aprì la bocca ma non riuscì a dire niente, non
subito. «… Sì».
«Sì?».
«Sì,
è-è… Io- sì. Ma non penso
sia pericoloso dirti che è lo
stesso», sorrise appena, tremandole ancora le labbra,
«E che ti amo
anch'io, Lena Luthor. Tanto. Di più». Le
sfilò le braccia dal
collo, tenendole fermi i polsi fini fino ad appoggiarli sul
materasso. Restarono a guardarsi e Kara si abbassò su di
lei,
premendo contro il suo petto, sentendo il suo cuore battere forte
quanto il proprio, sfiorando le labbra rosse con le sue, ferma,
chiudendo gli occhi entrambe, baciarsi con passione. Le
lasciò un
polso e, con la mano sinistra, la toccò lungo il reggiseno,
un'anca,
il bacino, una coscia. La pelle era così morbida e fresca.
Strinse,
strinse con più fermezza e l'aiutò a piegare la
gamba destra.
Accarezzò, esplorò, salì verso
l'interno, stuzzicando la sua zona
più sensibile sopra gli slip.
«Sei
diventata così intraprendente…», le
disse ed entrambe si misero a
ridere.
«S-Stai
cercando di rovinare tutto, per caso?».
«Credimi
se ti dico che rovinare
non è la parola adatta», sospirò.
«Sdrammatizzo. Per quanto io
stia bene con te e sia eccitata in questo momento, sono in perenne
ansia. E mi piace», deglutì, «avere il
controllo delle cose. E ora
non ne ho. Fingo di averlo, ma… l'ho perso
sull'ascensore».
Kara
sorrise e si abbassò per prendere le labbra con le sue.
«Bene», la
baciò di nuovo, «Almeno non sarò
l'unica a improvvisare».
Sorrisero e le portò via un altro bacio.
Lena
la convinse a rimettersi seduta e, sulle ginocchia, arcuò la
schiena
per slacciarsi il reggiseno. Abituati alla poca luce della stanza, i
suoi occhi verdi parvero di vedere Kara diventare bordeaux, aprendo
la bocca. Lanciò l'indumento oltre il letto e
lasciò un placido
consenso. Kara le toccò un seno e poi l'altro, sfiorando la
pelle
delicata, i capezzoli turgidi.
«Devi
dirmi la verità», la baciò.
«Te lo sei sganciata da sola perché
pensavi che io mi sarei incartata?».
«Ma
no», ridacchiò, portando le mani dietro la schiena
di lei per
sganciarle anche il suo. «Li tolgo io entrambi
perché sapevo che ti saresti incartata». Le
baciò il collo e i
loro seni liberi si sfiorarono, mentre Kara sorrideva, sussurrandole
di aver fatto bene. La spinse sulle spalle e si portò sopra
di lei,
sperando di ritrovare un minimo di quel controllo o sarebbe esplosa.
Doveva
sentire Kara sua. Completamente. La
baciò alla base del collo, sulle curve del seno, sulla bocca
dello
stomaco, scendendo intanto che la toccava senza timore, fino ad
arrivare al punto interessato. Le spostò gli slip da un lato
e la
sentì sospirare, incurvare la schiena, stimolandola laddove
era già
umida. L'altra mano le massaggiava una natica, stringendo quanto
necessario. Era sicura di averla sentita dire il suo nome con voce
davvero bassa, un bisbiglio. Allora smise. Tirò
giù gli slip e li
lasciò sul letto, le accarezzò le cosce e di
nuovo le natiche,
poggiando la bocca su di lei, e lei, con un movimento involontario
del corpo, spinse il copriletto col tallone dei piedi.
Kara
trattenne il fiato, chiuse le mani in due pugni saldi e
inarcò di
più la schiena, spingendosi verso di lei.
Lena
la sentiva gemere delicatamente, e chissà che
forse lo
faceva ricordando
che nella stanza accanto c'era Indigo. Affondò le unghie
sulle sue
natiche e così la lingua. Non ci sarebbe mai stata una Lucy
Lane
qualsiasi a portargliela via. Non se lo aspettava e continuava a
ripensarci. E Lucy Lane le aveva consigliato di essere sincera, eh?
Che premurosa, che- Oh…
era
gelosa? Lei non era una persona gelosa. Non era mai stata gelosa, ma
non aveva nemmeno
mai
amato qualcuno in
quel modo,
era vero. Kara non era la prima, ma l'unica.
Era stata così stupida a baciare Indigo, e quell'amaro delle
sue
labbra… Ora era tutto così insignificante.
Avevano baciato Indigo
e Lucy, ma avevano finito per scegliersi lo stesso. Lei aveva scelto
Kara e Kara aveva scelto lei. Amava lei. Era tutto vero. Quei gemiti
erano per lei, il corpo di Kara rispondeva alle sue cure. Si
irrigidiva per lei
e
Lena le passò le mani sulle cosce, appoggiò la
lingua e schiuse le
labbra, sentendola lasciarsi andare, tirare indietro il copriletto
coi piedi e metterle le mani sui capelli. Risalì sul suo
corpo e
Kara provò un brivido, pensando di coprirsi il viso con le
mani, ma
glielo proibì e la baciò.
Si
guardarono. Lena si stava appoggiando al materasso che lei le
portò
via un nuovo bacio, e così sulle labbra di lato, sulla
guancia, su
un orecchio, facendola ridere, sotto il mento, sul collo.
«Cos'hai
in mente?», le domandò a fior di labbra.
«Improvviso.
Sono intraprendente, lo hai detto anche tu», disse con
orgoglio, «E
hai ancora un paio di slip addosso, pare. Non si fa». Riprese
a
baciarla sotto il mento e Lena chiuse gli occhi, deglutendo, sapendo
di non volersi opporre. Avrebbe potuto farle qualunque cosa avesse
voluto, se solo si fosse decisa a metterselo in testa. E non avrebbe
concesso quel lusso a nessuno, davvero nessuno, prima di lei. Era
vero che le piaceva avere il controllo, e accidenti, lo aveva appena
riacquistato un po', ma perderlo… stava amando perderlo.
Sentì i
suoi baci nell'interno coscia. La sentì sfilarle gli slip e
riprendere a baciarla, toccarla con un polpastrello e dopo con le
labbra calde. Con la lingua bollente. Lena spalancò la bocca
e
ansimò, trattenne il fiato. Decise di stringere il
copriletto e
mordersi la lingua quando sentì le sue dita toccarla e poi
dentro di
lei. Sì, stava proprio amando perdere il controllo.
La
luce del sole le illuminò e Kara mosse gli occhi pian piano.
Il
volto di Lena era a poco dal suo naso, ancora dormiva. Era
così
bella con la bocca schiusa e un ciuffo di capelli sugli occhi.
Sorrise e cercò di spostarglieli dal viso, osservandola
muoversi e
fare un verso con il naso chiuso. Solitamente si svegliava prima di
lei, ma doveva essere molto stanca e l'aveva tenuta sveglia,
quindi…
Restò ferma a guardarla a lungo. Una volta sola le
punzecchiò una
guancia e rise sottovoce, vedendola sbuffare. Probabilmente
bastò a
svegliarla perché, appena le avvicinò di nuovo la
mano, Lena gliela
scacciò con una sua neanche fosse una mosca.
«Sei-»,
barbottò, rendendosi conto di avere la voce impastata,
intanto che
apriva gli occhi. «Credo di amarti un po' meno, adesso,
mi…
rimangio tutto». Kara rise e Lena con lei, chiudendo gli
occhi e
stirando le gambe sul materasso. Quando li riaprì, la
ritrovò a
fissarla. Restarono ferme, semplicemente a guardarsi respirare.
«È
bello», esclamò lentamente.
«È bello svegliarsi così. Senza
preoccuparsi di nascondere ciò che abbiamo, ciò
che siamo».
Lo
era davvero. Entrambe desideravano un futuro in cui non sarebbero
più
state solo sorellastre,
ma compagne. Lena aveva ragione quando disse che le parole spese in
un momento di sesso sono pericolose ma, quelle in particolare, da
quel momento, diventarono per loro un impegno. Se le legarono al
dito, era un anello di parole, una promessa.
Restarono
a letto ancora un po' e dopo andarono insieme a farsi un bagno caldo,
nella vasca del bagno della camera. Si baciarono fra bolle di schiuma
e vapore; passandosi la spugna e tastando con forza i loro corpi
morbidi; assaggiandosi di nuovo, a fondo.
Kara
indossò una gonnellina larga e una camicetta, uscendo per
prima dal
bagno, passandosi l'asciugamano sui capelli ancora umidi, portandoli
da un lato. «In quale cassetto mi avevi lasciato gli
occhiali?». La
sentì risponderle e poi accendere il phon. Li
ritrovò subito,
insieme al suo telefono, che lasciò sulla cassettiera. Se li
rimise
e li tolse di nuovo perché sporchi ma, abbassando lo
sguardo,
adocchiò uno zaino. Non era di Indigo? Non doveva frugare,
non
doveva frugare, non doveva, verissimo, ma appoggiò gli
occhiali e
frugò lo stesso, lanciando uno sguardo al bagno per
assicurarsi che
Lena non stesse uscendo. Un temperino, la carta di una caramella ma
più a fondo… Spalancò gli occhi e
rialzò lo sguardo di nuovo
verso il bagno: una foto di Lena? Ne prese altre e le
sfogliò. Ce
n'erano ancora, aveva il fondo pieno di foto esclusivamente di Lena
in momenti casuali della giornata fuori casa. Ma cosa…?
«Kara,
posso sistemarti i capelli?», gridò dal bagno,
spegnendo il phon.
«Kara?». Uscì e l'altra
arrossì: indossava una gonna a tubo nera,
un dolcevita verde a collo alto, smanicato, i capelli lasciati sulle
spalle, le labbra già rosse. Notando il suo sguardo
imbambolato, le
puntò contro un dito. «Non ci pensare
neanche», la ammonì, «Ci
aspetteranno, sono quasi le dieci».
«Ci
ho pensato in effetti, ma… devo allontanarmi»,
disse, camminando
di spalle verso la porta. «Vado a riprendere il mio telefono:
l'ho
lasciato nella mia stanza ieri notte». La vide annuire e
tornare
verso il bagno, così uscì. Due passi veloci e si
ritrovò davanti
alla porta della camera di Indigo. La spinse dentro appena
aprì,
chiudendo con un calcio. Indigo spostò la sua mano da una
spalla con
una contromossa rapida ma, nonostante Kara non se lo aspettasse, fu
veloce a reagire e le fece lo sgambetto, costringendola a piegarsi e
così sbattendola contro il muro, con un braccio a bloccarle
il
collo.
Indigo
strinse i denti e provò subito a liberarsi dalla presa,
senza
successo. «Lo dirò a Lena»,
ringhiò.
«Le
dirai anche delle foto che tieni nel tuo zaino?», si
assicurò di
non urlare, perché il bagno era vicino. «Ah? Le
hai fotografate tu?
La stavi spiando?».
«No,
no, non le ho scattate io, lasciami», le
picchiettò il braccio
sotto il collo con il suo, non riuscendo a liberare il sinistro che
le teneva stretto contro il muro. «Lasciami, per favore,
lasciami!
Me le hanno date».
«Chi?
Chi te le ha date?».
«Un
tipo, un investigatore… Lui voleva spronarmi a
lavorare», esclamò
a fiato corto, «Il mio garante». Kara
allentò la presa e Indigo
tossì, massaggiandosi la gola. «Lui aveva mandato
questo
investigatore a seguire Lena… per costringermi a lavorare
per lui».
Prese fiato, inchinandosi il tanto per reggersi le ginocchia.
«Non
lo conoscevo, okay? Veniva da me e mi portava queste foto.
L'alternativa era lasciarle lì quando sono
scappata».
Kara
scosse la testa, stringendo le labbra. «Giuro che se mi stai
mentendo…».
«Cosa?
Lo dici a tua sorella che mi riporterà in
prigione?», prese un
grosso respiro, rimettendosi dritta con la schiena.
Kara
stava per ribattere che cambiò idea, abbassando gli occhi
solo un
momento. «Lena si fida di te. Ci tiene a te»,
ammise. «Falle
sparire e-», si riavvicinò alla porta, afferrando
la maniglia, «e
chiudiamola qui».
Se
ne andò, lasciando Indigo piuttosto confusa: avrebbe potuto
fargliela pagare dicendo tutto a Lena, non capiva perché non
avesse
colto l'occasione. Non capiva proprio.
Ritrovarono
Bruce Wayne alla hall dell'albergo e Lena, dritta con la schiena,
sguardo arrogante, pensò subito di affrontarlo. Non gli
disse di
aver ascoltato la conversazione tramite il suo telefono, ma che lo
sapeva, sapeva che aveva chiesto a Oliver Queen di mentire e che
pretendeva delle risposte.
«Non
rifilarmi la storiella che lo fai per me, perché non
attacca», mise
le braccia a conserte. Dietro di lei, a pochi metri, Kara, Winn e
Indigo sembravano quasi di guardia.
«Tuo
padre era immerso fino al collo in questioni pericolose».
«Credi
che non sappia che faceva parte dell'organizzazione?», si
trattenne
per non urlare. «Voglio capire chi era mio padre. E chi lo ha
ucciso».
Lui
strinse le labbra e, svelto, delineò un fine sorriso,
guardando
altrove: la capiva, era una cosa che avevano in comune ed era quello
che li aveva avvicinati. Anche lui non aveva fatto altro, per anni,
che cercare risposte sulla morte dei suoi genitori. «Mi hanno
contattato, giorni fa», disse, infastidito. «Ne
riparleremo. Non
adesso, non qui».
«Ti
hanno spaventato tanto da decidere di tagliarmi fuori?». Lo
guardò
negli occhi e lui sbuffò.
«Credo
che qualcuno stia tentando di uccidermi», deglutì
e Lena spalancò
occhi e bocca, sorpresa. «I miei soci alla Wayne Enterprises,
forse.
Oppure loro perché non ho dato risposta e sperano di
spronarmi a
farlo». La vide provare a dire qualcosa, muovere le labbra
senza
uscirle un fiato. «Che tu voglia crederci o meno, speravo di
tenerti
lontano da tutto questo per non attirare l'attenzione. Tu non sei
come me o Oliver Queen: il nostro trauma ci ha trascinato
nell'oscurità, ma non è stato così per
te. La morte di tuo padre
ti ha svegliata e ora… dovresti guardarti: i tuoi occhi
risplendono. Lascia perdere. Chi ha ucciso tuo padre la farà
franca
in qualunque caso».
Ma
non ci sarebbe stato un finale alternativo di quella storia: Lena era
già dentro fino al collo per il solo fatto di chiamarsi Luthor.
Ed era troppo avanti per rinunciare adesso alla verità. Per
questo,
quando si trovarono alla Queen Consolidated con Oliver Queen,
pretesero di sapere ciò per cui erano venuti. In che modo
erano in
contatto Lionel Luthor e Robert Queen? Di cosa si occupavano? Il
giovane, senza provare il minimo riserbo, le confessò che
Lionel
Luthor pagava suo padre per finanziare una compravendita di armi per
le bande delle Glades. Probabilmente, a detta sua, con l'obiettivo di
tenere National City pulita, mandando i criminali altrove.
E funzionava. Scoprì affari di quel tipo con la morte
dell'uomo e
ora era deciso a tenersi impegnato cercando di sistemare i suoi
errori, con l'aiuto del patrigno. Lena avrebbe voluto possedere lo
stesso spirito di rivalsa: non aveva mai pensato a suo padre come a
un santo, ma… più scopriva cose di quel tipo su
di lui, più si
metteva in testa come in realtà non conoscesse affatto
quell'uomo.
Lo stesso che da bambina la prendeva sulle gambe e le raccontava una
storia, pagava per armare persone pericolose. Non dimenticando il
fratellino di Indigo morto in un effetto collaterale.
Proprio
lei cercò di tirarle su il morale, ma Lena
preferì rifugiarsi tra
le braccia di Kara.
«Non
prendertela», le disse Winn prima di salire sull'elicottero
che li
avrebbe riportati a National City. «Quelle due hanno un
rapporto un
po'… emh, particolare»,
si grattò la nuca, imbarazzato. «Quando sono
vicine, è come se non
esistesse nessun altro», la sua espressione scemò,
per poi
sorridere quando Indigo lo guardò appena e lui
pensò di avvicinarsi
di più, iniziando a bisbigliare: «So chi
sei». Lasciò che lo
degnasse di attenzione, finalmente, spalancando gli occhi.
«Faticavo
a riconoscerti all'inizio, saranno stati gli occhiali, ma…
sono un
tuo grande ammiratore e-e ho tenuto d'occhio la tua storia»,
le
corse dietro mentre lei, zitta, cercò di raggiungere Lena e
Kara.
«Mai avrei pensato che il garante che ti ha fatto uscire di
prigione
fosse la signorina Luthor! Ma non lo dirò a nessuno, lei non
lo ha
detto a nessuno e tu non dovrai attirare l'attenzione, penso: il tuo
segreto è al sicuro, con me», annuì.
Indigo
lo fissò. Lo fissò a lungo finché lo
spinse, entrando in
elicottero. «Lasciami perdere», furono le sue
uniche parole. Era
giù di morale e gli ammiratori, come si era definito lui,
non erano
che seccature. Una volta dentro, vide Lena e Kara di nuovo prese per
mano. La prima chiuse gli occhi e appoggiò la testa su una
spalla
dell'altra. Oh, non era solo la paura di volare: Lena era turbata,
non faticava certo a capire questo. Il suo garante voleva metterla
contro la sua famiglia e quello di oggi sembrava il primo vero passo
verso la realizzazione del piano. Sarebbe stata felice del risultato
se non tenesse a lei. Eccolo, pensò, aveva trovato il primo
aspetto
negativo del provare sentimenti: il rimorso.
Questo!
Questo è decisamente il capitolo più lungo finora
e spero di non
superare il record in futuro °° Avete preso fiato? Il
capitolo vi è
piaciuto? E la piega che sta prendendo la storia?
Abbiamo
avuto modo di conoscere la mia versione di Oliver Queen per questa
fan fiction. Non sarà un personaggio importante o che
apparirà
spesso, anzi, però mi piaceva l'idea di definire il suo
profilo con
poche battute. Abbiamo saputo che l'organizzazione sta riottenendo il
potere e che ha contattato sia lui che Bruce Wayne. E lui pensa che
loro, o qualcun altro, stiano cercando di ucciderlo D:
Abbiamo
saputo che tipo di accordi aveva Lionel Luthor con Robert Queen, il
padre di Oliver. Che Winn è un fan di Indigo, che lo
è anche di
Oliver Queen (glielo avrà poi chiesto l'autografo?) e, quasi
certamente, di Bruce Wayne. Che questi due sono stati nella stessa
palestra (Lega degli Assassini quale?XD) e che,
ovviamente,
sanno darne di santa ragione. Ah, questi ricconi… un hobby
normale
mai. E, se chiedono, Kara ha le prove da spedire a Selina Kyle.
Intanto
abbiamo Indigo che si è divertita a prendersela con Kara, ma
ha
fatto il passo più lungo della gamba dicendole che lei e
Lena sono
state insieme, doveva immaginarlo che le due ne avrebbero parlato. O
sperava litigassero? Sta di fatto che hanno parlato e deciso di darci
un taglio con questo loop del prendersi, farsi del male e
allontanarsi, così… beh, è andata!
Sì, sono tornate insieme!
Eddai, era ora!
Adesso.
Una notizia positiva e una negativa!
Prima
la positiva, su: il prossimo capitolo non sarà un capitolo,
ma un
missing moment di questo capitolo. C'è
una parte in più, una
piccola parte in più che ho dovuto scrivere, che non cambia
il
finale del capitolo e la sua direzione, ma semplicemente si incastra
in un punto particolare e, spero, vi piacerà!
(Sì, si parla di Kara
e Lena)
La
notizia negativa, invece… Col missing moment della settimana
prossima vado in pausa e quindi no, non ci sarà capitolo 51
prima di
venerdì 30… agosto. Non prendetela a male (?), ho
davvero bisogno
di una pausa (dove continuerò a scrivere).
E
ora… anticipazioni!
Il
capitolo 51 sarà uno stand alone con Zod e l'organizzazione
come
punto focale.
Sarà
un capitolo che parla di figli, ed eredi, in un passato dove Levi
Luthor era preoccupato per Lionel, dove Dru Zod sognava un futuro con
la sua fidanzata Petra e pretende, nel presente, una confessione da
parte di Rhea Gand. Il presente dove l'organizzazione sta riprendendo
potere e Alex e Maggie se ne rendono conto subito: alla centrale di
polizia arrivano nuove reclute per sostituire i rapitori di Jamie
arrestati e sembrano tutti sotto gli ordini del Generale, non come
capitano della polizia, per non parlare di Fort Rozz dove la prima e
il Generale si fermano per un breve scambio di parole e le guardie
del carcere non aspettano che un cenno per bloccare la ragazza. Il
presente dove Faora Hui, che era come una figlia per il Generale e
lei lo ha tradito, si risveglia finalmente dal coma. Quale destino la
attende?
Il
capitolo 51 sarà pieno, pieno di indizi, un succo delle cose
che
sono successe nel passato che, inevitabilmente, hanno influenzato il
futuro e si intitola L'erede.
Anticipazioni
generali di cosa leggeremo prossimamente? Ma sì. Però
in
ordine casuale e senza contesto.
Processo.
Allusioni sul sesso. Siobhan ubriaca. Pillole rosse. “Sei
quasi mia
figlia”. Omicidio. Bicipiti di James. Doppio gioco. Casa
nuova.
“Lascia stare, fragolina di bosco, ci penso io”.
Festa da Maxwell
Lord. Confessione. Famiglia a pezzi. Millenovecentosettantacinque.
Licenziamento. “Vedrai, la casa al lago è
ciò che ci serve”.
Palestra e allenamenti, sudore e tentazioni. Fuga. “Io non
sono la
mia famiglia”. Paura. Vacanza. Promesse non mantenute.
“Quella è
in latex?”. Vergogna. L'assassino inaspettato. Sentimenti
nuovi.
Insieme.
Sembra
che ho scritto parole a caso per la Settimana Enigmistica, e
invece…
Allora,
ci rileggiamo il prossimo martedì con il missing moment che
si
intitola L'anima gemella e, se tutto va bene, in
altre
pubblicazioni prima del ritorno con Our home e il
capitolo 51 ~
Grazie!
|
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Capitolo 52 *** 50+. L'anima gemella ***
La
luce del sole le illuminò e Kara mosse gli occhi pian piano.
Il
volto di Lena era a poco dal suo naso, ancora dormiva. Era
così
bella con la bocca schiusa e un ciuffo di capelli sugli occhi.
Sorrise e cercò di spostarglieli dal viso, osservandola
muoversi e
fare un verso con il naso chiuso. Solitamente si svegliava prima di
lei, ma doveva essere molto stanca e l'aveva tenuta sveglia,
quindi…
Restò ferma a guardarla a lungo. Una volta sola le
punzecchiò una
guancia e rise sottovoce, vedendola sbuffare. Probabilmente
bastò a
svegliarla perché, appena le avvicinò di nuovo la
mano, Lena gliela
scacciò con una sua neanche fosse una mosca.
«Sei-»,
barbottò, rendendosi conto di avere la voce impastata,
intanto che
apriva gli occhi. «Credo di amarti un po' meno, adesso,
mi…
rimangio tutto». Kara rise e Lena con lei, chiudendo gli
occhi e
stirando le gambe sul materasso. Quando li riaprì, la
ritrovò a
fissarla. Restarono ferme, semplicemente a guardarsi respirare.
«È
bello», esclamò lentamente.
«È bello svegliarsi così. Senza
preoccuparsi di nascondere ciò che abbiamo, ciò
che siamo».
Kara
annuì. «Allora facciamolo più
spesso», incalzò. «Le nostre
madri sono in viaggio di nozze, Marielle con la sua famiglia, abbiamo
la villa solo per no-», si fermò e
corrucciò lo sguardo, mentre
Lena scoppiava a ridere, portandosi una mano sul viso. «Indigo!»,
brontolò con forza sperando quasi potesse sentirla,
dall'altra parte
della parete. «Non possiamo, che so, farla trasferire da
qualche
altra parte? Credi che vorrà stare da Alex per un
po'?».
«Pensi
che Alex abbia voglia di farle da babysitter?».
Kara
si morse un labbro. «No, ha già tante cose che-
Anzi, sai cosa? Non
importa fintanto che dormirà lontano da noi. Ha un suo
letto, no? In
un'altra stanza distante?».
Lena continuava a ridere e, quando finalmente riuscì a
liberare il
viso dalla mano, Kara scoprì che era completamente rossa.
«Sì…
Sì, ha un letto suo», rispose, fermandosi a
guardarla di nuovo. «O
no, in effetti: ha dormito sul divano fino ad ora, ma le
farò avere
un letto».
«Che
sarà lontano dal nostro».
«Certo»,
sorrise e dopo le guardò le labbra.
«Perché
no in dependance?».
«Vuoi
davvero mandarla a fare cose losche in dependance?»,
arcuò un
sopracciglio: non si fidava di lei, non faceva che ripeterlo.
«No,
okay. Va bene che stia semplicemente lontano».
«Non
dormirà accanto a noi, te lo giuro. Non lo
permetterò». Si
guardarono con serietà e scoppiarono a ridere di nuovo.
«Posso
farti una domanda?». Aspettò una sua occhiata
intanto che stirava
le gambe e le braccia, mettendosi a pancia in su.
«Perché Lucy
Lane? Cos'ha di speciale?».
Kara
la guardò solo un momento, sollevando le sopracciglia,
cercando di
capire come avrebbe dovuto rispondere a quella domanda. Era un
trabocchetto? «Non-», si fermò,
allungandole un'altra occhiata,
socchiudendo gli occhi: «Sei davvero
gelosa?».
Lena
aprì la bocca per dire qualcosa che sbuffò,
decidendo di girarsi a
pancia in giù e mettendo la testa sulle braccia piegate,
comoda.
«Non sono gelosa e non hai risposto alla mia
domanda». Non
gliel'avrebbe data vinta facilmente.
«A
me sembra gelosia bella e buona», si rimise di lato,
avvicinandosi.
Le prese un piede con i suoi sotto le lenzuola e Lena sorrise,
cercando di nascondersi dietro un braccio. «Ammettilo e
risponderò
alla tua domanda».
«Non
posso ammetterlo: non sono gelosa».
«Allora
sei una bugiarda», soffiò. «Ti
è rimasto impresso».
«Certo
che mi è rimasto impresso: la ragazza che amo ha baciato
un'altra e
vuoi che non mi rimanga?».
«E
non si chiama gelosia? Su, fai uno sforzo», si
avvicinò ancora un
po', baciandole il gomito destro, che aveva vicino. «Non sei
tu
quella intelligente? Quella che ha dato gli esami di due anni in uno?
».
Lena
la guardò con attenzione fino a quando non
scoppiò a ridere,
nascondendo la faccia in mezzo alle braccia. «Hai vinto, sono
gelosa», la fissò,
«Contenta?».
«Finalmente»,
sbraitò in una smorfia.
«Sono
gelosa. Parecchio gelosa perché non mi sono mai esposta
tanto quanto
con te», confidò e anche lei si spostò,
mettendosi di lato. Ma non
riuscì a riprendere il piede dalla morsa di Kara, al
contrario
glielo tirò dalla sua parte. «E… mi
piacerebbe che escludessimo
chiunque altro dai baci, da questo momento in avanti, per
piacere».
«Non
potrei essere più d'accordo».
«Bene».
«Bene».
Seguì
un momento di silenzio e Lena tirò indietro un labbro.
«E ora
rispondi alla mia domanda».
Kara
rise nel mentre che si rimetteva a pancia in su, non riuscendo a
stare ferma. Si sforzò per restare seria. «Kal ed
io parlavamo di
te e-».
«Di
me? Continua».
«Lui
diceva che accetta il nostro rapporto».
«Un
passo avanti», commentò. «Ma arriva al
dunque: cosa c'entra questo
con Lucy Lane?».
«B-Beh,
lasciami finire! Prometti che non ti arrabbierai?»,
dissimulò un
sorriso.
Lena
girò il viso verso il cuscino e, quando fu pronta, la
riguardò. «A
tuo rischio e pericolo, Kara Danvers».
«O-Okay»,
arrossì. «Ques-Questo non è di grande
aiuto, ma… È come se Lucy
fosse la mia anima gemella». La fissò come
cambiava espressione:
era proprio lì che la voleva.
Spalancò
gli occhi e la bocca, trattenendo il fiato. «Dimmi che non lo
hai
detto davvero».
«Emh».
«Che
ho sentito male- La tua… anima gemella?».
«Più
o meno», sorrise, «Ma lasciami finire prima
che-».
«Che
io lasci già te?».
«No,
ma che-».
«Sto
scherzando. Forse»,
disse, ridacchiando, «Spiegati, ti prego. Questa discussione
sta
diventando più lunga della tesi che sto preparando da un
anno».
Kara
scrollò gli occhi e sbuffò, anche lei rossa sulle
gote. «Dicevo
che Kal ed io parlavamo di te e-e del nostro rapporto, no?»,
la vide
annuire. «E sentivamo Lois che parlava al telefono con Lucy
che
sarebbe venuta a stare da loro il giorno dopo, dunque»,
strinse i
denti, «Kal dice qualcosa come Ehi,
sono felice del tuo rapporto con lei»,
cercò di imitare la sua voce, ingrossando il collo,
«Con te,
intendeva. Potresti
pure conoscere la tua anima gemella domani, ma se sei felice con Lena
allora va bene.
I-Insomma, una cosa così».
Lei
si accigliò. «Quindi Lucy è arrivata il
giorno dopo e tu pensavi…
a quello che disse tuo cugino?».
«No.
Non in quel momento, in quel momento no, è solo che, quando
l'ho
vista, allora sì che ci ho pensato perché ho
sentito-».
«Ricordi
che dissi a tuo rischio e pericolo?»: Lena la interruppe.
«Sto…
esagerando?», si fermò e la vide prendere fiato,
guardandola a
sottecchi.
«Un
tantinello, sì».
«Un
tantinello, okay. Ma Lucy era così bella… poi ci
ho parlato ed era
sveglia, e simpatica, e come si muoveva che-», rise quando,
allora,
la vide voltarsi dall'altra patte, cercando di sfilare il piede
incastrato tra i suoi. «Lena! Lo sto dicendo apposta,
fermati,
aspetta», continuò a ridere e riuscì a
farla girare di nuovo.
«Volevo capire quanto saresti stata gelosa e-e poi, ehi, non
sei tu
avermelo chiesto?».
L'altra
sospirò, lasciandosi stringere una mano con le sue,
delicate, calde.
«Non immaginavo di sentirti dire che è la tua
anima gemella».
Kara
fece una smorfia con la bocca, seguendo con lo sguardo il profilo del
suo viso, poi del suo mento, il naso, gli occhi verdi quasi grigi,
incatenati si suoi. Arrossì, avvicinandosi un po'.
«Ma lo sei anche
tu».
«…
anche?»,
bisbigliò, «Qual privilegio».
«Tu
sei l'anima gemella vera»,
rise. «Dopotutto, non è stato un caso che, quel
giorno sul treno,
sono inciampata sulla tua valigetta. Su quale altra valigetta avrei
potuto inciampare?».
«Le
nostri madri stavano per sposarsi, ti avrei conosciuta in ogni
caso»,
ribatté.
«Sì,
okay, ma sbattere sulla tua valigetta era stato un segno del
destino».
«Oh,
del destino. Allora…».
«Certo»,
sbraitò, accigliandosi. «Voleva che tu mi notassi,
altrimenti non
mi avresti fissata in quel modo ansiogeno-»,
disse e Lena abbozzò una risata, «e non mi avresti
irritata! Questo
perché il destino voleva che mi rendessi conto di te! Che
c'eri!
Voleva dirmi Guarda,
Kara, ecco la ragazza per cui moriresti da adesso in poi».
Lena
si bloccò, non ebbe più parole e
arrossì un poco, mentre l'altra
sorrideva soddisfatta, convinta di aver vinto la discussione.
«…
moriresti?
Questa… Questa è un'esagerazione, Kara,
non-», scosse la testa,
ma non riusciva a smettere di sorridere.
«Non
lo è».
«Lo
è».
«Non
lo è! Se ti dà fastidio non lo dirò
più, ma non lo renderà meno
vero», strinse le labbra.
Occhi
sui suoi finché Lena non scoppiò a ridere, rossa,
girando lo
sguardo verso il soffitto. Doveva dargliela vinta, accidenti.
Sentì
improvvisamente caldo e si scoperchiò a metà,
mordendosi un labbro.
Kara stava ancora aspettando. Anche lei sarebbe morta per Kara, ma
non era pronta a dirlo a voce alta; era qualcosa che aveva sempre
faticato ad accettare come sentimento d'amore e sentirglielo dire
l'aveva spiazzata. Vivere per amore, e vivere unite, era meglio di
qualsiasi morte come dimostrazione d'amore. «Sì,
va bene, ti sei
salvata».
«Ed
era messa male, a proposito», sgranò gli occhi.
«Cosa?
La valigetta? Non era messa male, sei tu che-».
«Sì
che- e-era in mezzo! Era in mezzo», fermò Lena ad
un braccio quando
la vide sollevarsi, spingendola su di sé. Si guardarono di
nuovo e
la seconda delineò un breve sorriso.
«Vuoi
lasciarmi andare? Devi restituirmi un piede».
«Allora
paga pegno», annuì, stringendo e poi
accarezzandole un polso. «Io
ti ho detto di Lucy».
Lei
abbassò la testa da un lato, continuando a fissarla.
«Vuoi che ti
racconto di Indigo?».
«Aah…»,
spinse la testa all'indietro, affondando sul cuscino bianco.
«Basta
Indigo! Un bacio. Mi accontento del bacio del mattino».
«E
bacio sia». Si lanciò in avanti e, lenta,
catturò le labbra di
Kara con le proprie, schiudendo con delicatezza. Si lasciarono di
poco per prendere fiato ed entrambe socchiusero gli occhi, baciandosi
di nuovo. Kara le portò una mano sulla nuca e le
lasciò andare il
piede, sotto le lenzuola. Fu allora che Lena vide la
possibilità di
fuga: la baciò un'ultima volta, veloce e a stampo, e si
sollevò
d'un tratto. Nuda davanti a Kara, tirando giù il lenzuolo
con lei.
«Hai detto di accontentarti di un bacio e vorrà
dire che mi farò
un bel bagno caldo da sola».
L'altra
sgranò gli occhi. «U-Un bagno caldo, hai
detto?». Lena si chiuse
in bagno e lei sorrise, prima di scendere dal letto cercò la
sua
valigia e brontolò, ricordando che, naturalmente, si trovava
nella
sua camera a una porta da quella. Si sedette sul materasso e
ricercò
i suoi slip, dando un'occhiata sotto al letto. «Posso
prendere la
tua vestaglia? Devo recuperare qualcosa da mettermi».
La
porta del bagno si aprì un poco e la testa di Lena, capelli
spettinati buttati da un lato, sbucò fuori insieme al
vapore. «Sto
riempendo la vasca, ti conviene sbrigarti o chiuderò a
chiave».
Il
tempo di dirlo, che Kara si avvolse intorno la vestaglia e corse
fuori, scalza, facendo ridere l'altra. Tornò indietro quando
si
accorse di aver lasciato la chiave della camera nella taschina della
maglia del pigiama che indossava la notte precedente. Trovò
la
maglia, ma non c'era la chiave. Impallidita, si gettò sul
parquet e
tastò con nervosismo finché non trovò
la chiave, a un passo dal
finire sotto la cassettiera. La strinse e uscì fuori di
nuovo, di
corsa, inciampando sul tappeto della corsia e per poco non
baciò il
quadrò appeso nel muro davanti. Stava per passare la chiave
con la
tachicardia che saltò dallo spavento quando udì
una voce chiamarla
alle sue spalle. «Winn?»,
spalancò gli occhi, rossa. Lui sbadigliò e lei
gli notò il
pullover al contrario.
«Allora
sei tu», rise, «Sei… Sei senza occhiali!
Vieni a fare colazione
con me al bar?», si tappò la bocca con le mani, al
secondo
sbadiglio. «Mi sa che sei l'unica già
sveglia». Le notò tardi i
piedi scalzi, le gambe nude dietro la vestaglia, i capelli arruffati.
Il ragazzo arrossì visibilmente, formando un tenero sorriso
e
deglutendo. «Ti sei- emh… Chiusa fuori, per
caso?».
«Sì»,
sorrise. «No», tornò seria di colpo,
ripensandoci e passando la
chiave, aprendo la porta. Poi rise, nervosa. «I-Io ero solo
andata
a-», indicò la porta di camera di Lena,
«a chiedere una cosa a
Lena, voglio dire! Lei a-aveva qualcosa che io volevo e- me l'ha
data».
«E…»,
lui arrossì ancor di più, riabbassando gli occhi
alle gambe nude,
«la nascondi sotto la vestaglia?».
Cominciò una risata ma tentò
subito di tornare serio, se non fosse per uno sbadiglio dell'ultimo
secondo, poco convinto.
Lei
corrucciò lo sguardo, alzando il mento. «Lo so io
dove tengo le
cose che- beh, tu ha-hai il pullover al contrario, sei ancora
addormentato, vai a prendere quel caffè».
Lui
sbadigliò ancora, tappandosi la bocca. «Il
caffè, giusto. Il
caffè», si voltò e si
rivoltò di nuovo. «Vuoi venire con me a-
Kara?».
Lei era sparita.
Accidenti
a Winn.
Beccate la mattina dopo! Non poteva crederci! Se non altro, il
ragazzo sembrava in piedi per volontà divina, forse con uno
sbadiglio in più non si sarebbe accorto di niente. Corse
verso la
valigia e la aprì di fretta, prendendo le prime cose che-
no, un
pantalone no, oggi c'era un bel sole. Afferrò anche una
gonna e si
fiondò sulla porta, aprendola pian piano. Tirò
fuori la testa e
Winn non c'era, non c'era nessuno, bene. Richiuse dietro di lei e
camminò in punta di piedi fino alla camera di Lena,
spalancando la
porta. Richiuse anche lì e, prendendo fiato, si
ritrovò davanti
alla porta del bagno. Bussò e attese, agitata. Non sentendo
nulla,
bussò più forte e decise di farsi sentire:
«Posso entrare?». Era
una risata quella che captava
dall'altra parte?
«Non
penserai davvero che ti avrei chiuso a chiave? Certo che puoi
entrare».
Alzò
gli occhi al soffitto e deglutì, girando la maniglia della
porta.
C'era un bel tepore, e vapore. Kara lasciò la roba sopra un
mobiletto e notò il lenzuolo bianco sul pavimento,
saltandolo,
attenta a non inciampare ancora. La vasca era spaziosa, ma non era
sicura che ci sarebbe stata anche lei, adesso. Lena era appoggiata
con la schiena su un bordo, le curve del seno esposte e sottolineate
dall'acqua e poca schiuma, deglutì, davvero
poca schiuma. Lena riempiva tutto intorno; era nell'aria e anche in
quella nei suoi polmoni. Lena era in tutto, dentro quel bagnetto. La
sentiva ovunque e la rendeva nervosa. Deglutì di nuovo,
sentendosi
bollente.
«Temevo
fossi scappata dall'altra tua anima gemella»,
soffiò Lena,
delineando un sottile sorriso. Si assicurò che i capelli
fossero ben
raccolti con una pinza e tornò indietro col sedere il tanto
per
bagnarsi fino al naso e risalire, osservata dall'altra.
«Te
la sei legata al dito?», brontolò.
«Pensa piuttosto a Winn, che mi
ha sorpreso qua fuori con solo questa addosso».
Lena
scoppiò a ridere. «Poteva essere Bruce Wayne, ti
è andata bene».
«O
la tua preziosa Indigo», proseguì lei e Lena le
lanciò
un'occhiata, leccando un labbro.
«Almeno,
e ne sono sicura, non è la mia anima gemella».
Cambiò espressione,
rinunciando a sorridere, nel momento in cui Kara si sfilò la
vestaglia e restò nuda davanti a lei, i capelli che le
ricadevano
disordinati sulle spalle. Prese un bel respiro e decise di bagnarsi
ancora fino al naso, aspettando il suo arrivo.
Kara
saltò i bordi e si bagnò piano. L'acqua era
calda, eppure provò un
brivido quando, inchinandosi verso la ragazza, i suoi capezzoli
turgidi ne sfiorarono il livello. La circondò con le braccia
e si
accostò al viso con il suo, accarezzandole dolcemente le
labbra con
le proprie, attirandole a sé, per poi spalancarle e lasciare
spazio
alle loro lingue, assaggiandosi, chiudendo gli occhi. Si lasciarono
andare e si scambiarono un lungo sguardo, prima che Kara decidesse di
passarle le mani bagnate sulle spalle, in una carezza.
«Quello che
ho detto prima…», prese una breve pausa,
assicurandosi che la
stesse ancora seguendo con lo sguardo. «Lascia perdere la
storia
delle anime gemelle, davvero. Scherzavo. Amo te. Ci sei sempre tu nei
miei pensieri da quando ti conosco e-e potrei… potrei farti
leggere
una cartella intera di messaggi che ho scritto a te e non ho mai
inviato». Notò il suo sguardo cambiare, farsi
curioso. «Non posso
pensare di stare con un'altra, Lena. Sei tu la mia anima gemella, se
davvero esiste un'anima gemella, o… O facciamo
così: se anche non
dovessi esserlo, comunque vorrò te. Vorrò sempre
te. O non sarei
qui adesso, o non ti avrei scritto quei messaggi, o non sarei stata
con te questa notte, non ti avrei baciata- A-Avrei semplicemente
rinunciato a stare con te», disse con decisione, scuotendo
appena la
testa.
«Ma
io lo so», sussurrò piano. «Stavo
scherzando anch'io, vaniglia».
«Oh»,
diventò ancor più rossa e Lena alzò la
mano destra, decidendo di
bagnarle le braccia. «Potevi fermarmi».
«No.
Sono contenta che tu l'abbia specificato», sorrise e
l'avvicinò a
sé, «Vaniglia», affondando di nuovo
contro la sua bocca.
«Ti
piace proprio… Vaniglia,
dico».
«Anche
a te».
Kara
annuì, arrossendo. La spinse per le spalle, in modo che
restasse
appoggiata al bordo e, con estrema leggerezza, continuando a fissare
i suoi occhi, le passò le mani intorno al corpo nudo;
delineandone
le curve, sentendo la sua pelle reagire al tocco, strinse sulle cosce
e poi sui fianchi, allungandosi per leccarle dietro un orecchio.
Lei
ansimò. Le circondò le spalle con le braccia
bagnate e l'avvicinò
a lei, che decise di non lamentarsi per qualche brivido quando le
gocce percorsero la sua schiena ancora asciutta. In fondo, il vapore
mescolato nell'aria del bagno stava riscaldando la sua pelle fresca,
rendendola morbida. Chiusero gli occhi e si baciarono a lungo, a
fondo; Kara le accarezzava i fianchi e Lena la tratteneva,
massaggiandole il collo, la schiena, le spalle, toccando con
insistenza, insinuando le dita intorno ai capelli finché,
lasciando
le sue labbra calde, non decise di abbassare le mani e recuperare
acqua a dita strette, nel tentativo di bagnarle la schiena.
Godé
osservandola mordersi il labbro inferiore, impreparata a quel gesto.
Fu allora che la vide distanziarsi da lei un poco, piegarsi
all'indietro e bagnarsi fin su i capelli, tornando da lei con l'acqua
che le scendeva sulla pelle. «Mi è improvvisamente
venuta voglia di
piscin-», si bloccò quando Kara la
acchiappò di nuovo sui fianchi
e, con uno scatto rapido, la spinse verso il basso, lasciando che
scivolasse il sedere e si bagnasse i capelli. Rise e Lena la
picchiettò contro una spalla, togliendosi la pinza e
gettandola
fuori dalla vasca. Prese fiato e andò sotto il livello;
notò come
la guardava
mentre si rimetteva dritta con la schiena e cercasse le sue labbra,
non mancando di fargliele avere presto, abbracciandola.
Sedute,
si baciarono di nuovo e Kara scese per leccarle sotto il collo,
massaggiarle i seni, lasciandoli alle labbra bramose, sentendola
sospirare quando le massaggiò l'interno coscia.
«So che potrei…
mh, rovinare il momento ma…».
«Cosa…?»,
si lasciò andare a un altro pesante sospiro, dal momento che
iniziò
a vezzeggiarle in mezzo alle gambe, sentendo il sangue pulsare.
«Non
è che ci aspettano o-?», lasciò la
domanda a mezz'aria, sentendo
la sua eccitazione crescere, mordendole delicatamente una spalla.
Lena
chiuse gli occhi, iniziando a respirare con affanno.
«… no. No.
Credo». Le graffiò la schiena senza volerlo
aggrappandosi a lei,
lasciando che il suo corpo l'accogliesse. «Ho
detto… Quando
ho detto?»,
mormorò cercando di fare mente locale, occhi chiusi, intanto
che il
suo corpo era pervaso da scariche lievi, aprendo un poco di
più le
gambe.
«Va
bene», si convinse Kara. Con la mano libera, si
infilò sui capelli
zuppi e avvicinò il viso al suo, baciandola all'improvviso e
aspettando che ricambiasse, se non che le venne da sospirare di nuovo
e si concentrò sul collo, andando così a
spingerla contro sé dalla
base della schiena.
«No,
non ci aspe-», spalancò la bocca e trattenne il
fiato, affondando
le unghie sulla sua carne pur di non farsi sentire.
«Verso… le
dieci. Forse», gemette.
«Shh»,
le morse il lobo dell'orecchio sinistro, fingendo sicurezza. Il suo
cuore batteva frenetico e sentiva il desiderio crescere dalla bocca
dello stomaco più il corpo di Lena si contraeva contro il
proprio,
più si muoveva in lei. Poteva dire di averlo fatto altre
volte ma,
all'interno dell'acqua, erano così leggere che…
poteva sollevarla
con una mano sola, avvicinandola. Lena era così totalmente
abbandonata a lei da sentire per la prima volta di avere davvero la
situazione sotto controllo. Sì, naturalmente temeva ancora
di
sbagliare, come poteva essere in altro modo, ma si sentiva in pieno
potere. Lena doveva essersi sentita in quel modo spesso, con lei.
Anche quando era lei a cercare di farla stare bene, Lena teneva il
timone fosse solo per istanti, la indirizzava, e ora… sapeva
che il
timone era solo sulle sue mani ancora troppo inesperte. Ma
funzionava. Funzionava perfino meglio della scorsa notte. Poteva
farcela. Era completamente sua.
Affondò
la bocca tra i seni, le strinse una natica per reggerla contro
sé e,
con l'altra mano, spinse ancora, e ancora, massaggiando con il palmo,
col movimento, la sua zona più sensibile.
Lena
conficcò di nuovo le unghie contro la carne sulla schiena e
stavolta
pensò di chiederle scusa. Una seconda volta,
poiché nella prima
aprì la bocca ma non le uscì una parola, se non
un ansimo
concitato.
Kara
avrebbe voluto dirle che non le stava facendo male, ma anche lei non
riuscì a parlare. Sentì il corpo di Lena reagire
in modo diverso
all'improvviso, aumentare i gemiti sommessi. Così
le
sfiorò
il collo con le labbra, la lingua, baciandoglielo infine.
Sentì le
unghie e i polpastrelli dell'altra sulla schiena comprimere con
energia, poi bloccarsi, il corpo irrigidirsi, il suo fiato
strozzarsi. Quando si lasciò andare, Kara pensò
di rubarle un
bacio. La lasciò senza fretta passando ad accarezzarle una
coscia,
dopo una natica, baciandola di nuovo, stavolta ricambiata.
Lena
portò entrambe le mani sul viso
di Kara
e lo mantenne in una morsa stretta, facendo sue quelle labbra
sfrontate, lasciandosi andare il tempo di prendere aria e baciarsi
ancora. La guardò con occhi pieni e Kara deglutì
con imbarazzo,
abbassando di poco il viso per baciarla sotto il mento, un sorriso,
su una guancia, un sorriso più ampio.
«Voltati»,
le disse dopo, ansimando. Era quasi sul punto di stupirsi di aver
ritrovato la voce, sentendo il petto leggero.
«Non
mi fanno male. Li sento a stento».
«So
che sei convinta di essere fatta d'acciaio, ma- grazie»,
annuì,
aspettando che si girasse di schiena. Glieli sfiorò uno a
uno.
Piccoli segni bianchicci e rossi appena, intorno. Si abbassò
per
baciarglieli e Kara si lasciò andare a un sospiro. Dopo Lena
prese
la spugna e ci versò il bagnoschiuma, iniziando a
massaggiarle la
schiena con delicatezza. Kara non si mosse, decidendo di chiudere gli
occhi. Una passata di spugna, una mano sensibile per spostare le
bolle della schiuma. Lena arrossì involontariamente,
sentendo quanto
le piacesse. «Non volevo», si leccò un
labbro. «Non mi era mai
capitato di… Non così»,
confessò.
«Non
mi fanno male, te l'ho detto. Li sento perché me li hai
fatti, ma»,
deglutì, «forse… forse, ecco, un
pochino mi è piaciuto sentirti
così», diventò rossa anche lei.
«Ti ho sentita», si fermò,
passando i suoi occhi da una parte all'altra. Lena si fermò
dal
passarle la spugna, ascoltando. «Ti ho sentita bene. T-Tutta,
diciamo. Non che le altre volte io non ti abbia senti-».
«Ho
capito, Kara», riprese a passarle la spugna. «Ti
sei spiegata. E
adesso voltati di nuovo».
Il
tono le era arrivato alle orecchie fin troppo autoritario. Si
girò
piano e, nonostante cercasse di fare la dura, sembrava ancora provata
con la bocca socchiusa e i sospiri pesanti. Le venne da sorridere e
Lena doveva averlo notato, poiché abbassò gli
occhi di colpo e
arrossì vistosamente, nonostante fossero entrambe arrossate
per via
del vapore e l'acqua bollente. Avvicinò il viso al suo,
piegandolo
da un lato, e aspettò che volesse baciarla anche lei prima
di farlo,
lentamente.
«Va
bene», bisbigliò Lena, «Ho capito. Ed
è piaciuto anche a me… Ma
non abituartici troppo». La baciò.
«Adesso lasciati lavare»,
aggiunse rilanciando un sorriso, schiacciando la spugna sotto un
pugno.
«Posso
lavarmi da sola».
Lei
ridacchiò. «Immagino tu lo sappia fare,
sì, ma… voglio farlo
io», alzò il mento e Kara chiuse gli occhi,
cercando di restare
ferma. Lena le portò via un bacio e le tirò un
labbro, ridendo di
nuovo, passandole la spugna piena di schiuma sulla pelle rosea e
delicata. «Allora… stiamo di nuovo
insieme».
Kara
annuì, per poi spalancare un occhio solo. «Non era
ovvio? Abbiamo
anche l'esclusiva sui baci».
«Vero»,
finse di morderle il collo e Kara avvampò. Il suo corpo ebbe
una
scossa quando le passò la spugna in mezzo alle gambe,
sensibile. «Ma
stavo pensando a una cosa».
«A
cosa?».
Lena
rise di nuovo, non riuscendo a farne a meno e si spostò il
tanto
necessario per guardarle il volto. «Quando torneranno da
Aruba, mia
madre non ne sarà entusiasta». Kara
spalancò entrambi gli occhi e
Lena sorrise.
«Beh,
stavolta non si metterà in mezzo», la
ammonì con lo sguardo.
«Questo
è certo».
«Accetterà
che stiamo insieme e basta».
«Sottoscrivo»,
annuì Lena. «Lo farà con le buone o si
abituerà col tempo, con le
cattive. Ti bacerò davanti a lei tante di quelle
volte».
Kara
arrossì e mancò un bacio con Lena, che sorrideva.
«Ah, que-questo…
Beh, magari non così tante, vorrei fare tante di quelle cose
nei
prossimi anni che», la vide ridere, «non ci tengo
affatto a morire
così giovane».
«Ucciderebbe
me, non te».
«Ma
tante di quelle cose vorrei farle con te… e
quindi…».
Lena
annuì, passandola la spugna sul seno. «Va
bene». Kara scrollò le
spalle, prendendo la spugna a Lena e passandogliela su un braccio.
«Le potrò dire che sei la mia anima gemella,
almeno. Che le piaccia
oppure no».
«Eliza
ci appoggerà», concordò Kara.
«Sì»,
le riprese la spugna e immerse un dito nella schiuma bianca,
passandolo poi sul naso con soddisfazione. «Eliza ci
shippa».
«Ci
shippa».
«Ascolteremo
le loro conversazioni attraverso le pareti».
«Almeno
non dovremo sentire altro».
Si
guardarono ancora e, questa volta, restarono così degli
interminabili secondi, passando dal sorriso a uno sguardo
più serio.
«Ew», fecero una smorfia, in
coro.
«Forse
litigheranno per noi e-», proseguì Kara.
«Dopo
faranno la pace e-», continuò Lena. Si guardarono
di nuovo e Lena
le alzò un dito pieno di schiuma, schizzando. «Lo
terremo per noi».
«Esatto»,
annuì convinta l'altra. «Non ti perderò
ora che ti ho ritrovata
e-», scosse la testa, afferrandole entrambe le braccia,
lasciando
che galleggiasse fino a lei. «Aspettiamo il momento propizio,
i-in
modo che potremo dirlo anche fuori casa e diventare… una
vera
coppia. E a quel punto…».
«Una
coppia alla luce del sole», sorrise entusiasta, annuendo
piano. «I
giornali non parleranno d'altro! Oh… scusa, ragazza della
CatCo».
Kara
l'attirò ancora più a sé; si
alzò sulle ginocchia e la tirò in
avanti, piegandola e gettandola sull'acqua con la schiena. Rise,
vedendola togliersi le ciocche corvine dal viso, decidendo di
aiutarla. «E potremo svegliarci come oggi e fare il bagno
insieme
tutte le mattine?».
«Forse»,
sorrise Lena, «Se mi prometti, Kara Danvers, che mi
avvertirai prima
di buttarmi in acqua».
«Mh…
vedremo».
«Vedremo?».
Entrambe
desideravano un futuro in cui non sarebbero più state solo
sorellastre,
ma compagne. Lena aveva ragione quando disse che le parole spese in
un momento di sesso sono pericolose ma, quelle in particolare, da
quel momento, diventarono per loro un impegno. Se le legarono al
dito, era un anello di parole, una promessa.
Dopo
poco uscirono dalla vasca e si asciugarono. Erano quasi le dieci,
dovevano sbrigarsi.
Scusate,
solitamente pubblico la notte o il pomeriggio verso le 15, ma non
avevo sistemato il missing moment prima quindi mi serviva qualche
oretta in più :3 A questo proposito, ringrazio tutti per le
recensioni (intendo anche alle altre fan fiction) e
risponderò nei
prossimi giorni!
Questo
missing moment si è scritto quasi da solo e spero vi sia
piaciuto :)
E
ora… ci rileggiamo il 30 agosto! Fate da bravi, godetevi le
vacanze
e spero di ritrovarvi al mio ritorno ~
|
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Capitolo 53 *** 51. L'erede ***
I'm
back, bitches! [cit]
Emh.
Eccoci finalmente di ritorno dopo le vacanze estive! Spero di esservi
mancata. Vi siete
divertiti? Ma soprattutto, vi ricordate dove eravamo rimasti e che al
mio ritorno vi aspettava un bellissimo stand alone? :D Beh,
sarà un
po' difficile da seguire, ma se potete state attenti: questo capitolo
è molto importante per il passato, il presente e il futuro
della fan
fiction. E chi vuole cogliere (?), colga!
Buona
lettura!
Ricordava
la sirena dell'ambulanza, parcheggiata di fronte a casa Taylor, che
girava ininterrottamente. Petra lo aveva chiamato per andarla a
prendere e si era mosso subito da casa, aveva parcheggiato l'auto a
pochi metri ed era sceso reggendosi i capelli alle spalle,
spettinandosi, spalancando gli occhi di terrore. Aveva iniziato a
correre senza rendersene conto ed era già davanti alla porta
di
casa, aperta. Qualcuno lo aveva afferrato per le spalle e forse aveva
detto qualcosa, era sicuro che avesse detto qualcosa, ma non aveva
sentito, non ricordava una sola parola di quel momento
perché,
l'unica cosa che davvero aveva sentito, era la sua tachicardia che si
appoggiava a un attacco di panico crescente. Cos'era successo? Doveva
andarla a prendere, doveva solo andarla a prendere e… Rhea.
Aveva
visto quella ragazzina, lì, a pochi metri dalla porta. Dei
poliziotti la circondavano: le avevano messo sulle spalle una coperta
e cercavano di parlarle, ma lei non emetteva fiato. Era immobile, si
guardava le mani. Aveva visto come si guardava le mani. E dopo aveva
visto lei
e sì che ricordava le urla. Sembravano distanti, provenire
da
qualcun altro, ma erano sue: strazianti, disumane come ciò
che aveva
provato. Aveva gridato il suo nome e si era messo a correre, nessuno
poteva fermarlo. Petra giaceva a fondo delle scale: gli occhi aperti,
la bocca socchiusa, un braccio girato al contrario, riverso sulla
schiena. Più cercava di ricordare quel momento,
più Adrian Zod la
ricordava fredda, di pietra, di un colore più simile al
marmo che a
quello di un cadavere. Il suo cervello si sforzava per sostituire le
reali immagini con ciò che indicavano le sue emozioni. Non
voleva
perdere quelle immagini, ma non poteva fermarle. Ci provava sempre.
Voleva ricordare Petra com'era morta davvero, non come l'aveva
sentita allora e la sentiva oggi. Voleva ricordare Petra com'era
morta, e non solo il suo sorriso e com'era fare l'amore con lei.
Voleva ricordare Petra com'era morta e Rhea che si guardava le mani.
«Non
fategliela toccare! Spostatelo da lì». I
poliziotti lo avevano
tirato indietro e lui aveva urlato di nuovo.
Avevano
coperto il corpo di Petra Taylor con un telo e il giovane Dru Zod
aveva lanciato un'occhiata irosa alla quindicenne Rhea Taylor, che
ancora si guardava le mani. «Tu! Sei stata tu!»,
aveva gridato e
lei sobbalzato, spalancando gli occhi impauriti, tornando un passo
indietro. «Lo so che sei stata tu». L'aveva poi
indicata ai
poliziotti: «È stata lei! Ha ucciso la mia Petra!
Era gelosa! È
stata lei».
Tremando,
Rhea aveva continuato a guardarlo mentre lo trascinavano fuori.
Allora aveva paura e, in questo momento, ne provava altrettanto,
perché erano soli in quella saletta delle visite, divisi da
una
grata e un bancone che lui poteva sorpassare e lei no, ammanettata a
un gancio. Le telecamere erano spente, la porta chiusa e con le
tapparelle abbassate. C'era uno specchio ma non era sicura che,
dall'altra parte, qualcuno stesse tenendo d'occhio il loro colloquio.
E poi, anche fosse, non aveva dubbi su come Fort Rozz fosse sotto il
suo comando. Nessuno sarebbe venuto a salvarla, se a Dru Zod fosse
venuto in mente di ammazzarla. «Sei venuto qui per
guardarmi?», gli
domandò. Voleva provargli come non avesse paura, ma era
inutile se
la gola le si seccava e le mani, tenute strette sul banco, tremavano.
«Stavo
osservando i tuoi occhi», disse piano, attento a non perdersi
un suo
solo movimento di ciglia. «Non avevo mai fatto caso a quanto
fossero
diversi da allora». Lei alzò un sopracciglio e
lui, serio, rispose:
«A quando uccidesti Petra».
Lei
spalancò le narici e cercò di stringere i pugni,
ma non poteva.
«Non ho ucciso mia sorella. È stato
un-».
«Incidente»,
la interruppe. «Dicesti questo. Dicesti molte cose, al
tempo»,
prese una pausa, aprendo la bocca ancor prima che gli uscisse una
parola. «Sei stata lucida, poi confusa, di nuovo lucida. Ho
riguardato così spesso i file del caso, da quando sono
entrato in
polizia, da sapere ogni virgola dei fascicoli a memoria. Hai fatto di
tutto per farti considerare una testimone inaffidabile: la povera
sorellina incapace di ricordare cos'era veramente successo, troppo
scossa emotivamente, troppo», si alzò dalla sedia
e lei sussultò,
«turbata. Un incidente, però c'era qualcun altro
in casa, poi di
nuovo un incidente. Non ci sono mai stati elementi per riaprire il
caso. Te la sei sempre cavata».
«Che
cosa vuoi, Dru? Uccidermi per vendicarti? Almeno sii chiaro…
Finirai per uccidermi di noia», barbottò infine,
non troppo
convinta. «Petra è caduta dalle scale,
no-».
«Lo
so che l'hai spinta tu!», urlò all'improvviso,
battendo le mani sul
banco.
Lei
restò ferma, ghiacciata. Un brivido di paura le percorse
tutto il
corpo come una scossa di terremoto.
«Ma
non voglio ucciderti», specificò con voce
più calma, tirando le
labbra fini. «Voglio che confessi».
«Così
da… Così da», riprese un po' di
coraggio, «farmi uccidere dal
sistema? Vuoi chiedere la pena di morte? Per questo hai fatto in modo
che non la chiedessero al processo su Lar?».
Lui
si rimise dritto con la schiena, sistemando la giacca e i polsini.
«No. Non hai capito, Rhea: la confessione è per
me. Per Adrian Zod,
non per il sistema. Tu resterai qui dentro, viva, controllata, alla
mia mercé. Tu resterai qui per me perché sei
più utile da viva,
che da morta».
Lei
lo fissò con aria di supplica, ma doveva sapere che non
sarebbe
servito. «Non… confesserò»,
strinse i denti, «mai». Scosse la
testa e lui sospirò.
«Lo
farai. Ma ora mi serve un favore, sarà Astra a parlartene.
Andate
d'accordo? Sì?».
«Come
farai quando il tuo cagnolino uscirà di qui?»,
domandò lei,
irrigidendo le labbra. «Lo farà presto, no? Il
processo inizierà a
giorni. Hai già addestrato qualcuno di fiducia? Come fai a
sapere
che non ti tradiranno di nuovo, come quella poverina di Faora Hui?
L'hai addestrata tu», rise, «l'hai cresciuta quasi
come una figlia
e lei ha preferito me a te. Ho sentito che si è risvegliata
dal
coma. Cosa le succederà?».
Zod
abbassò lo sguardo e dopo si avvicinò lentamente.
Le poggiò una
mano su una spalla e la sentì tremare sotto di lui, con
evidente
paura. L'uomo si limitò a picchiettare. «Pensa
alla tua
confessione». Dopodiché la lasciò,
chiudendo la porta della
saletta dietro di lui. Charlie Kweskill era seduto sulla panchina
lì
in corridoio e si alzò di scatto appena lo vide, andandogli
incontro. «No, non ha confessato ma lo
farà», rispose a una sua
occhiata.
«E…
E se non lo farà?», domandò incerto,
tenendosi indietro a lui di
un passo. «Cosa faremo per tirarle fuori le parole dalla
bocca,
Generale?».
Lui
sospirò a labbra strette, decidendo di non rispondere.
«Com'è
andata con Maggie Sawyer, stamane?».
«Oh,
bene. Stiamo legando, come avevo previsto», annuì
accompagnando un
sorriso soddisfatto. «Mi racconta della sua bambina
all'asilo, ha
iniziato a frequentarlo. Parliamo del più e del meno. Sembra
fidarsi».
«Non
fare il passo più lungo della gamba, Charlie»,
chiosò lui ed
entrambi entrarono in un ascensore.
Il
ragazzo pigiò il pulsante e si tenne distante da lui un
passo,
aggrottando la fronte. «Non lo faccio, Generale. Cerco solo
di
essere accomodante, per favorire un rapporto di amicizia. Mi piace
quella ragazza, magari riesco a farla aprire su cosa pensa di noi per
il turno pomeridiano», guardò l'orologio sul
polso, mordicchiando
un labbro. «Sì, ho giusto il tempo di mettere
qualcosa sotto i
denti e vado. Vuole unirsi a me per un milkshake a gusto
unicorno?».
Lui
si accarezzò la pancia che iniziava a brontolare, facendo
una
smorfia con la bocca. «Mia moglie mi ha messo a dieta,
passo».
«A
dieta lei? Noo»,
corrucciò la fronte, esterrefatto. «Non lei,
Generale! Io non la
trovo affatto ingrassato, magari giusto un po' sui fianchi, ma
è per
via dell'età». Deglutì e
impallidì quando l'altro si volto per
fissarlo assottigliando gli occhi. «Ma non si
nota», aggiunse di
fretta, «anzi, lei è un bell'uomo! Vorrei essere
ancora così
affascinante alla sua… dove
sta lei».
«Sai,
Charlie», si girò di nuovo verso le porte
dell'ascensore,
disponendo le mani dietro la schiena. «Un giovane
intelligente come
te dovrebbe sapere quando è ora di tirarsi indietro a una
discussione prima di peggiorare la situazione». Diede
un'occhiata al
suo cellulare, per poi nasconderlo in un taschino.
«Sì,
Generale».
«E
cambio di programmi: non avrai il turno pomeridiano con Sawyer, lei
è
con me, sono arrivati i pacchi. Fatevi sostituire e vai a trovare
Faora in ospedale».
«Oh,
volevo giusto andare a vedere come sta. Dev'essere difficile
riprendersi, nella sua condizione», gli venne da sorridere
involontariamente, prima di ricordarsi che la ragazza aveva tradito
il Generale e che ora il suo futuro era appeso a un filo.
«Meno
pagliacciate, più professionalità», gli
ricordò Zod, in risposta
al suo entusiasmo. «Fammi sapere come sta; passerò
a trovarla
domani».
Le
porte dell'ascensore si spalancarono e Alex Danvers sbarrò
gli
occhi. I due le fecero spazio e la salutarono con gesti silenziosi
mentre uscivano, che lei ricambiò, fredda. Le porte stavano
per
richiudersi che Alex serrò le labbra e le bloccò
con una mano,
andando incontro ai due, chiamando il capitano Zod. La
guardò, in
attesa, e lei prese fiato, decidendo di fare buon viso a cattivo
gioco. «Volevo ringraziarla per il posto all'asilo per Jamie.
A lei
piace molto, può conoscere altri bambini e… si
diverte», tentò
un sorriso. Lo vide annuire e, dopo poco, voltarsi, così
proseguì:
«Mi chiedevo solo quando ci farà pagare questo
favore. E come».
Charlie
Kweskill piegò le sopracciglia con curiosità e
Dru Zod la guardò
con insistenza, prima di proferire parola: «Pensa che ci sia
un
prezzo da pagare? La felicità e l'istruzione della bambina
non è
sufficiente?».
Alex
abbozzò una risata sarcastica, guardando intorno a lei come
le
guardie di Fort Rozz giravano in tondo come vespe, fingendo
disinvoltura, assicurandosi di non perdere ogni suo movimento. Era
certa che se avesse provato a prendere la pistola dalla fondina,
sarebbero schizzati su di lei per bloccarla. «Non
è così che
funziona con voi, solitamente», scrollò le spalle,
facendo
intendere di non avere intenzioni bellicose.
«È
chiaro che si sbaglia e ci confonde per qualcos'altro, agente
Danvers», mormorò il capitano Zod. «Le
mie intenzioni sono
cristalline e lo sono sempre state per Maggie Sawyer, e
perché non
dovrebbero esserlo per lei, che è la sua compagna. Non
c'è
nient'altro».
Alex
ingurgitò saliva, prendendo fiato a narici spalancante.
«Prima o
poi la metterò agli arresti… Generale».
«In
attesa che arrivi quel giorno», soffiò lui, senza
scomporsi, «le
auguro una buona giornata». Si allontanò e Charlie
lo seguì a
ruota, affermando quanto non sembravano starle simpatici.
Alex
li tenne d'occhio fino a quando non uscirono dal complesso e
sparirono dalla sua vista, tornando indietro verso l'ascensore.
Sbuffò, quando le porte le si chiusero davanti. Sentiva
anche lei la
frustrazione che gravava sulle spalle del suo capo, John Jonzz.
Sapevano di Zod e avevano le mani legate, in assenza di prove. E lui
poteva continuare a fare ciò che voleva, indisturbato. Come
monopolizzare la centrale di polizia, o così le disse
Maggie: anche
lì non avevano prove atte a dimostrarlo ma, da quando l'FBI
aveva
lasciato il distretto ed erano arrivate le nuove reclute per
sostituire la perdita degli uomini e donne che avevano rapito Jamie
quella volta, aveva avuto come la sensazione sulla pelle che fossero
tutti sotto gli ordini di Zod e non come capitano della polizia, ma
come presidente dell'organizzazione, come Generale.
Erano omega. O come monopolizzare quel posto, il carcere Fort Rozz.
Nessuna prova anche qui, ma l'aria che si respirava da quelle parti
tirava inequivocabilmente in un senso ben preciso. Se solo fosse
riuscita a impossessarsi delle chiavette con i dati che i terroristi
di Rhea Gand avevano cercato di immettere nei punti colpiti…
Grazie
a Kara, ora sapeva che una di quelle pennine usb era nelle mani di
Clark Kent e Lois Lane, ma era comunque in alto mare per tutto il
resto. Doveva solo sperare che Indigo Brainer non avesse niente a che
vedere con l'organizzazione, in modo che il direttore della prigione
non le mentisse e poteva risolvere qualcosa. In mezzo a tutto quel
disastro, almeno una cosa.
Le
dissero di accomodarsi e lo stesso direttore, seduto dietro la
scrivania, le indicò la sedia. Era un uomo in carne, pochi
capelli
brizzolati ai lati, occhialetti fini e tondi sorretti dal naso dalla
pelle grassa e butterata. Le sorrise e le strinse una mano, mentre
Alex si sedeva. «Qual buon vento la porta qui, agente
Danvers?».
Notò
come l'uomo si sfregava le mani e forzava un sorriso, quasi fosse
nervoso. Ma nervoso perché? Sapeva già
perché si trovava lì?
Maggie
era nervosa. Le sue mani tremavano: cercava di stringerle sul grembo,
seduta con lo schienale dritto sull'automobile a lato del guidatore,
ma le sfuggivano dalle dita e, subito, schizzavano al suo controllo.
Zod notò la sua bocca muoversi con incertezza, quasi volesse
prendere parola per poi cambiare idea sul momento di farlo.
Dopotutto, le aveva detto che le serviva per qualcosa di urgente, ma
non aveva specificato dove sarebbero andati e perché.
Parcheggiarono
vicino ad altre macchine e si tolsero la cintura di sicurezza, ma lui
non aprì la portiera e lei attese.
«Voglio
metterti al corrente, Sawyer: ciò che troverai non ti
piacerà».
Lei lo guardò con un misto di curiosità e paura.
«Ma devi sapere
che avrai il potere decisionale. Che tutto dipenderà da
te».
«Non
so ancora di cosa si tratta, signore».
«Ti
spiegherò quando ci sarai davanti», le disse
serio. «Credi di
essere pronta?».
Maggie
non rispose subito. Scosse la testa poco, stringendo le labbra e
guardando in avanti: si trovavano in un deposito di box. Cosa mai
avrebbe potuto contenere lì? E che potere decisionale
avrebbe dovuto
avere in merito? Sperava solo che non ci fossero cadaveri
perché
ormai iniziava a immaginarsi il peggio. «La verità
è che… non lo
so», scrollò le spalle e lui annuì, in
ascolto. «Il mio ingresso
nell'organizzazione non potrà avvenire dentro un box. Ne
sono
certa».
«No,
difatti», anche lui guardò in avanti, solo un
momento. «Ma spero
che ciò per cui siamo qui oggi avrà un relativo
peso sulla tua
decisione di unirti a noi».
Beh,
allora non l'avrebbe uccisa dentro quel box. Era il suo secondo
pensiero. In ogni caso, aveva la pistola nella fondina della divisa.
«È che…», sospirò,
formando un sorriso malinconico. «Quando mi
sono iscritta nella polizia, non pensavo mi sarei ritrovata in
situazioni di questo tipo, mi trova impreparata, l'accademia non
accennava a niente di simile», abbozzò una risata,
durata poco.
Allora deglutì, scuotendo ancora la testa. «Era
mio padre il mio
mentore… e non posso chiedergli consigli di questo
genere»,
inclinò la testa da un lato, focalizzando un punto lontano
del
parcheggio, senza interesse. «Da quando mi vuole nella sua
organizzazione, mi chiedo cosa avrebbe fatto lui al posto
mio».
Cosa…
avrebbe fatto. Zod abbassò lo sguardo perdendosi nei
ricordi,
rivedendo Petra che, incerta, camminava avanti e indietro sui propri
passi. Che cosa avrebbe fatto?
«Ho
cambiato idea e non so come dirglielo», aveva detto Petra,
cercando
di forzare un sorriso. Si era portata i capelli sciolti dietro le
orecchie e ripreso a camminare. «Rhea non è pronta
e anzi, sai che
cosa comincio a pensare? Di non esserlo nemmeno io! Che non dovrebbe
esserlo nessuno», aveva ripreso a dire, frenetica.
«Pensavo che
nell'organizzazione avremo cambiato questa città, ma i
Luthor… i
Luthor no, Dru, non sono normali, si comportano come
mafiosi».
«Non
puoi cambiare idea, Petra», aveva risposto lui, aggrottando
la
fronte. «Abbiamo firmato i contratti, non puoi fingere che
non sia
successo e», aveva sorriso e anche lui si era tirato i
capelli
lunghi dietro le orecchie quasi a sventola, «abbandonare
perché
loro non ti piacciono».
Petra
si era fermata di scatto lisciando convulsamente la rigida gonna alle
ginocchia, color porpora, che indossava. «Questo
però non mi
obbliga a iniziare la mia sorellina di quindici anni! Tu lo faresti,
al posto mio? Non dormo al pensiero di cosa avrebbe fatto Rhea al
posto mio».
Zod
scosse lentamente la testa, sforzandosi per tornare alla
realtà.
Uscirono dall'auto e, chiavi in mano, la guidò all'interno
del
complesso, districandosi tra i corridoi fino alla serranda del box
interessato. Non c'era alcun rumore, nessun altro che cercava il
proprio box, solo gli uccellini che cantavano sugli alberi davanti al
parcheggio e qualche clacson lontano. La vedeva come ispezionasse
ciò
che le stava intorno e come, probabilmente, cercasse di memorizzare
il percorso verso il box: era una poliziotta ma, soprattutto, una
poliziotta che ancora non si fidava del tutto di lui. «Ho
prenotato
il deposito completo per quarantotto ore: non disturberà
nessuno».
Maggie gli annuì, ma le sue pupille erano dilatate e gli
occhi
schizzavano da una parte all'altra: aveva paura. Inserì la
chiave
nel lucchetto e sollevò la serranda. Lei entrò
all'interno del box
solo dopo di lui, con la mano destra che aleggiava intorno alla
fondina della pistola. C'era buio. L'uomo riabbassò la
serranda e
superarono l'ingresso coperto da teli di plastica, sollevandoli al
loro passaggio. Appena li vide, Maggie Sawyer si comportò
esattamente come si aspettava: cercò di raggiungerli in
fretta per
poi bloccarsi all'ultimo, domandandosi perché quella coppia
fosse
legata e imbavagliata a una sedia, girandosi con sconcerto verso di
lui. «Non ti agitare. Ricorda che hai tu il potere
decisionale».
Maggie
manteneva gli occhi spalancati, guardando lui e di nuovo loro. Cosa
stava succedendo?
Lui
era un uomo alto, talmente che la sedia sembrava fatta per dei
bambini; la fronte ampia, gli occhialetti rettangolari e sporchi che
gli scivolavano dal naso sudato; era vestito elegante, con completo
grigio a scacchi e una cravatta anonima. Anche la donna era elegante,
indossando un vestito estivo a tema floreale, i capelli cotonati che
ricadevano sulle spalle, le scarpe col tacco. Oh, una le era
scivolata via dal piede.
Erano
legati e non potevano parlare perché il bavaglio glielo
impediva, ma
lo facevano abbastanza con gli occhi spiritati che la seguivano, in
cerca di aiuto.
Aveva
paura di trovare cadaveri, o che volesse ucciderla, ma le persone
rapite proprio non le erano venute in mente. «Chi sono? Che
cosa
hanno fatto per essere qui?». Incurvò la testa,
cercando di
scorgere dettagli che a un semplice sguardo sarebbero passati
inosservati.
«Considerali
un regalo», mormorò da un angolo del box mentre li
osservava
dibattersi. «I miei li hanno rintracciati prima che
lasciassero il
continente per fare ritorno in Russia. Ti presento il signore e la
signora Petrov, che erano pronti a prendere tua figlia e partire con
lei verso una nuova casa».
A
quelle parole, Maggie ebbe un brivido, fermandosi. Loro erano la
coppia a cui quei poliziotti che l'avevano rapita l'avrebbero
consegnata? Tornò indietro di un passo e aggrottò
la fronte,
fissando i loro sguardi colmi di terrore. No, non era pronta a
questo, perché…? Credeva che la faccenda si fosse
conclusa e che
vivesse solo nelle sue paure più nere che la spingevano a
controllarla perché dormisse o che giocasse e non fosse
sparita. La
sua bambina… Chiamata Jamie per simboleggiare la
libertà, rapita,
venduta e trascinata in un paese repressivo dove essere gay, come la
sua mamma, era un crimine. Per un attimo pensò di sentirsi
male, ma
c'era un'ultima lettura più terrificante di
quell'avvenimento: il
suo potere decisionale in cosa consisteva? Cosa voleva che facesse
con quella coppia?
Come
potesse leggerle nella mente, Zod si allontanò dalla parete
e la
raggiunse mentre si sedeva sul cemento, guardando con lei i signori
Petrov che ballavano sulla sedia per cercare inutilmente di
liberarsi. Le poggiò una mano una spalla e Maggie
sussultò, per poi
scuotere la testa e reggersi la fronte. «Non eri preparata a
questo», mormorò, «ma era qualcosa di
irrisolto. Non era mia
intenzione turbarti».
«Ci
è… Ci è riuscito lo stesso. Da quando
tempo sono qui?».
«Sono
arrivati questa mattina. Hanno viaggiato con la mia squadra per
qualche giorno». Parlava con naturalezza, come se fosse stato
normale. «Hanno controllato la cronologia del loro
pc».
«Chi?».
«La
mia squadra. Li conoscerai», rispose pacato. «Il
signor Petrov è
sterile, sono fuori dalla lista di adozioni per via dell'età
e non
volevano perdere altro tempo seguendo le delicate procedure per
l'inseminazione artificiale, ma hanno soldi. In questo modo»,
le
lasciò la spalla, facendo un passo indietro mentre Maggie
era
intenta a guardare negli occhi di una e poi dell'altro,
«pensavano
di velocizzare il tutto partendo per un continente straniero
e…
prendendo un bambino piccolo che qualcuno, per loro, avrebbe fatto
sparire».
Maggie
deglutì, fissando gli occhi verdi di lei che la fissavano a
sua
volta, sperando nella salvezza.
«Il
rapimento di minori è in continua crescita. Spariscono per
traffici
sessuali, di organi o, da paesi come il nostro, per andare incontro a
famiglie come i signori Petrov. Cambiano nome, taglio di capelli, una
nuova identità», fece una smorfia con le labbra,
scrollando le
spalle, «ed è fatta». Camminò
di nuovo verso una parete,
controllando la reazione della ragazza: stringeva un pugno, ma
tratteneva bene le emozioni. «I signori Petrov cercavano una
femminuccia. Non bianca perché avevano già la
storiella pronta da
raccontare ai vicini, vero, signori Petrov?», li
interpellò e due
sgranarono gli occhi, ricominciando a dimenarsi sulla sedia.
«Adottata dai paesi meno fortunati. Perché loro
tengono al parere
dei vicini».
Una
normale coppia di mezza età, incapace di difendersi,
impaurita,
legata, che rappresentava esattamente quanto di più marcio
esistesse
negli esseri umani. Così innocui a prima vista, era la
seconda volta
che i signori Petrov erano tanto vicini dal portarsi via una bambina
strappata a qualcun altro. Era proprio lì che Dru Zod voleva
vedere
come avrebbe reagito Maggie Sawyer. I due non erano solo clienti
della compravendita di minori, ma avrebbero preso la sua, di bambina,
se le cose fossero andate come quei poliziotti che volevano fargliela
pagare fossero riusciti nell'intento.
«E
cosa posso fare io?», domandò, rialzandosi con
pesantezza dal
pavimento. Le gambe a stento riuscivano a tenerla sollevata.
«Non…
Non so cosa…». Non aveva parole ed era spaventata,
confusa, e
arrabbiata, probabilmente molto arrabbiata. Che cosa voleva da lei?
Che per entrare a far parte di quell'organizzazione, uccidesse quei
due a sangue freddo davanti a lui? Come se la paura di ciò
che
sarebbe successo a Jamie, a primo impatto, non le suggerisse
già di
premere il grilletto. Se li avesse lasciati andare, d'altronde, cosa
le diceva che non ci avrebbero provato ancora con un'altra bambina?
Ma era tutto sbagliato. Non avrebbe davvero ceduto agli istinti o
come avrebbe riguardato Jamie in faccia? Se voleva spingerla a
uccidere per entrare in quell'organizzazione, allora avevano chiuso.
«Non li ucciderò, io», scosse la testa,
indicandoli e guardando
Zod, «non lo farò».
Lui
si avvicinò e annuì, abbassando lo sguardo.
«Sei ben cosciente
che, se li lasciamo andare, non potremo fare più niente? Se
tornano
in Russia, li avremo persi».
Maggie
sospirò con stanchezza, provata. Riguardò loro
che le rivolgevano
occhi di supplica e scosse brevemente la testa, iniziando a
sorridere, senza capire perché. «Non posso farlo.
Se questo è un
test, allora non sono la donna giusta, capitano»,
scrollò le
spalle.
«Li
lascerai andare?», chiese di nuovo e Maggie annuì.
«Li
lascio andare. Non… posso», lo guardò,
«Non posso», ripeté.
Tornò indietro, sollevò i teli di plastica e
riaprì la serranda,
uscendo fuori.
Dru
Zod non si scompose: lentamente guardò i due, i teli di
plastica e
prese il suo cellulare da un taschino, componendo un numero.
«Qui ho
finito», esclamò, infilando l'altra mano in tasca
dei pantaloni.
«Puoi venire a pulire», aggiunse, ignorando i
signori Petrov che lo
imploravano sotto i bavagli. Quando uscì nel parcheggio,
trovò
Sawyer seduta sul bordo di un muretto di un'aiuola, sotto l'ombra di
un albero. Aveva il cappello della divisa tra le gambe e lo stringeva
mentre lo fissava senza interesse. Temeva sarebbe scappata: voleva
chiedergli scusa e avere una nuova occasione per entrare
nell'organizzazione per conto della sua missione verso il D.A.O., o
non aveva così paura di lui come in realtà a
volte dimostrava?
«Cosa avrebbe fatto tuo padre, se i signori Petrov avrebbero
cercato
di rapire te, da bambina?», le domandò una volta
seduto al suo
fianco, senza guardarla.
Lei
sorrise ancora, spegnendolo a breve. «Preferisco non
pensarci.
Sicuramente, lui non l'avrebbe delusa».
«E
tu pensi di averlo fatto?».
«Non
è così?».
«Hai
dimostrato sangue freddo in una situazione che avrebbe fatto uscire
di testa chiunque», disse piano, scorgendo un punto distante,
vacuo.
«Il fine di questo incontro non doveva per forza coincidere
con la
conclusione che avevi in mente. Siedi in macchina, ti riporto in
centro».
Si
alzò e non la guardò nemmeno per un'istante,
lasciandola
disorientata. Perché tanta premura? Si occupava di persona
di ogni
membro che aspirava a entrare nell'organizzazione oppure era in cerca
di qualcosa in particolare?
Sono
sempre più convinta che stia usando me per arrivare a te.
Scrisse velocemente il messaggio, in auto. Io
non ho nulla che gli interessi, ma tu stai lavorando al suo caso per
il D.A.O., Danvers. È chiaro.
Aveva
sempre voluto dei figli. Anche Petra. Quando sua figlia Melanie aveva
cinque anni, aveva registrato un filmino con una vecchia cinepresa e
ancora amava riguardarlo, la notte, quando non riusciva a prendere
sonno: la bambina lo chiama perché si vergogna a farsi
riprendere e
sventola la gonna del vestitino che indossa, agita il capello di
paglia, gioca in giardino con dei bambini invitati alla festa e
infine spegne le candeline della torta, regalandogli un immenso
sorriso. Melanie era emotiva, inglobata dal lavoro che amava, moglie
di un marito presente, madre di un bimbo timido che vorrebbe
proteggere dal mondo. E il secondogenito Chris, tredicenne, un figlio
inaspettato alla sua età. Avere lui era stato riscoprire il
mondo
con occhi nuovi. Testardo, spiritoso, svogliato come non era lui alla
sua età. Anche Petra voleva dei figli e aveva sempre
immaginato, che
quel figlio avuto tanto tardi, fosse un dono da parte sua. Chris
somigliava a Petra.
«Notato?
Lo stanno per chiamare», aveva detto il signor Luthor a bassa
voce a
un giovane Adrian Zod, appena seduto al suo fianco. Gli aveva
lasciato il posto libero. In realtà, aveva un'intera fila di
posti
liberi all'interno dell'auditorium, davanti a due guardie armate. Le
luci erano fioche, illuminavano il palco e un uomo che parlava. Dopo
gli applausi, un ragazzetto rigido e ben vestito di un completo blu
scuro era salito per avvicinarsi al leggio con un plico di fogli in
mano. Il signor Luthor aveva tiepidamente applaudito, insieme alla
sala. «Non ci ha dormito la notte», aveva
sussurrato, «Lionel
vuole lasciare il segno, in questa scuola».
Il
ragazzo aveva iniziato a parlare circa il suo progetto per la fine
dell'anno scolastico e Zod si era perso nei suoi pensieri, sbirciando
Levi Luthor al suo fianco che guardava il figlio con espressione
seria. Il discorso, il progetto che stava spiegando così
come
avrebbe fatto un uomo adulto e come incantasse tutti non avrebbe,
forse, dovuto renderlo fiero? Aveva diciassette anni e usava le
espressioni di un laureando. Eppure, Levi era a un passo
dall'annoiarsi. Poi lo aveva visto scuotere la testa e sospirare,
attirando la sua curiosità.
«Lionel…»,
aveva ripreso a sussurrare, «non è
adatto».
«A
cosa?».
«Al
nostro progetto, quello a cui lavoriamo ormai da quattro
anni», si
era girato per guardarlo, «Sì, sono passati
quattro anni. Il tempo
ci sfugge di mano».
«Perché
non lo è?», gli aveva chiesto con disinvoltura.
«Lionel è
intelligente, maturo; gestisce bene la
contabilità-», si era
fermato, vedendolo scuotere la testa di nuovo.
«Gli
manca una cosa», aveva puntato un dito indice, «Una
cosa. Ed è la
cosa più importante di tutte». Dru Zod si era
accigliato e Levi
Luthor non si era lasciato attendere: «Il ragazzo sa
ragionare bene,
ma gira troppo intorno alle cose, non ha un punto fermo, la
risolutezza. Non è adatto», aveva ribadito.
«E tu hai con te la
lista dei novizi?». Zod aveva velocemente annuito, aprendo la
borsa
che portava con sé e mostrandogli una cartella. Levi Luthor
l'aveva
subito aperta e letto i nomi uno dopo l'altro, seguendo con un dito.
«Manca Rhea Taylor. Perché?».
Dru
aveva deglutito. «Petra ha cambiato idea. È
convinta sia ancora
troppo giovane».
«Un
gran peccato», aveva commentato lui, richiudendo la cartella.
«L'età
è indicativa, le qualità che cerchiamo vanno
subito a galla e a lei
non mancano di certo». Aveva sporto la cartella indietro alle
spalle
e una delle guardie l'aveva presa con sé. «Prendi
Lionel», aveva
continuato a bassa voce, indicando il figlio al centro del palco, con
un gesto del capo, «Se non le trovo una donna da affiancargli
che
sopperisca a questa sua mancanza, un giorno potrebbe distruggere
tutto quello per cui stiamo lavorando oggi». Si era zittito e
aveva
ascoltato pochi minuti del discorso di suo figlio, assottigliando gli
occhi. «La ricerca dell'erede», aveva scosso la
testa, «non è
facile. Voglio bene a Lionel, l'ho cresciuto io e nel miglior modo
possibile, ma non potrà essere il mio erede»,
aveva sospirato
pesantemente, guardando nella sua direzione. «Non deve
saperlo. È
emotivo e potrebbe fraintendere le mie parole, Dru.
Comprendi?». Il
giovane aveva annuito, pur dispiaciuto. «Lionel
sarà sempre mio
figlio, ma qualcun altro dovrà prendere il mio
posto», aveva
aggiunto con decisione, guardando di nuovo l'altro. «Tu e
Petra?
Metterete su famiglia?».
«Ah,
sì, sì, certo», si era accigliato con
decisione, «Non appena ci
sposeremo. Faremo le cose per bene».
«Siete
già in ritardo», aveva ribattuto, riguardando
Lionel sul palco che
intratteneva l'auditorium. «Dovete sperare di non incorrere
in
qualche problema. Non avete ancora provato a cercarne…? No?
Senza
il matrimonio, meglio così. Dà
stabilità a una famiglia», aveva
continuato, vedendolo scuotere la testa. «Spero che siate
fortunati.
Noi…», aveva sospirato. «Abbiamo cercato
a lungo un figlio prima
di Lionel».
Zod
strinse gli occhi. Un altro ricordo stava venendo a galla. Petra,
certo. Sempre Petra. Gli parlava, era arrabbiata perché
aveva
litigato con Rhea. Succedeva spesso, in quel periodo.
«Non
mi piace», aveva detto. Sentiva la sua voce lontana e doveva
sforzarsi per vedere il suo volto. «Hai visto anche tu come
quella
donna passa il suo tempo sempre intorno a mia sorella! Ovviamente lei
vuole entrare a far parte dell'organizzazione: in modo che possa
stare sempre vicina ai Luthor. Questa mattina la credevo sola, non
c'era la scuola e mamma le ha detto di restare a casa. Torno e la
trovo là, con Rhea».
Il
giovane se stesso aveva sorriso. «Non capisci, Petra. Per lei
è
probabilmente come una figlia».
«…
prima di Lionel. Abbiamo perso un figlio», gli aveva detto
Levi
Luthor, mentre il diciassettenne Lionel spiegava dal palco.
«Non
riusciva a restare incinta e quando poi è
successo… lo abbiamo
perso. Tre mesi. Aborto spontaneo. È una maledizione di
famiglia»,
aveva lentamente scosso la testa, amareggiato. «E dopo
Lionel, non
ci siamo più riusciti. Da tre
fratelli…».
«Di
cosa stai parlando?», aveva continuato Petra e Dru Zod aveva
abbassato gli occhi, vergognandosi di dire una cosa tanto intima che
doveva restare privata.
«Lara
Luthor non può avere figli», si era stretto nelle
spalle e Petra
aveva sospirato. «Me lo ha confessato Levi, l'altra mattina.
Loro
hanno faticato ad avere Lionel, Lara non può e
Louie… sappiamo
com'è andata con Louie».
Levi
Luthor si era zittito e aveva sorriso di gioia quando una delle
guardie gli aveva portato davanti, per mano, una bambina con indosso
un vestito scuro a pois bianchi lungo alle ginocchia, con i capelli
neri stretti in une due basse code. «Lorna»,
l'aveva chiamata,
dandole la mano per seguirli a sedere. «Sei una signorina, ma
guardati. Allora non ti siederai sulle gambe dello zio?».
Lei
aveva prontamente scosso la testa, accompagnando il gesto da un verso
con la gola. «Ho dodici anni, sono grande per queste
cose», si era
seduta al lato opposto, «Sono qui solo per ascoltare
Lionel».
Petra
si era messa le braccia a conserte. «Non mi convince lo
stesso! Lo
so che sembro pazza, ma se non può avere dei figli, allora
perché
ha detto a Rhea che è meglio non averne? Io ero
là e ho ascoltato
parti della loro conversazione». A un certo punto si era
messa le
mani fra i capelli e si era andata a sedere vicino al suo fidanzato.
«Forse sto davvero diventando pazza», l'aveva
guardato con occhi
grandi, stanchi, e lui le aveva circondato il viso con le mani per
accarezzarla. «Se non può avere dei figli, per
questo si convince
che sia meglio stare senza?».
«Hai
tanti pensieri per la testa», le aveva bisbigliato prima di
baciarla
teneramente sulle labbra. «Pensiamo al nostro matrimonio,
adesso.
Dimentica l'organizzazione e i Luthor; non litigare con Rhea. Pensa a
noi due, al nostro sì.
Ai nostri futuri figli».
Petra
aveva sorriso, allungando le labbra per baciarlo a sua volta.
«Ai
nostri eredi?».
«I
nostri eredi».
Si
erano baciati e Zod, nel presente, sentiva che si stava svegliando.
Aprì gli occhi pian piano e la sensazione di vuoto che gli
comprimeva il petto gli rammentò che Petra non c'era
più. Era come
non avere aria per respirare; non importava che fossero passati quasi
quarant'anni dalla sua morte o che lui si fosse sposato con un'altra
e avesse avuto con lei dei figli. Dei figli che non erano eredi.
Si
stropicciò gli occhi e uscì dall'automobile,
passando sulle strisce
pedonali per attraversare. Charlie Kweskill lo aspettava seduto in
una corsia dell'ospedale, appoggiato tra lo schienale e il davanzale
di una finestra, con gli occhi chiusi, le braccia a conserte e le
gambe accavallate. Gli altri poliziotti che facevano di guardia alla
cuccetta di Faora Hui lo indicavano per prenderlo in giro, senza
emettere un verso. Appena lo videro arrivare si portarono
sull'attenti e Zod si fermò a un passo dall'altro, pensando
di
sferrargli un calcetto per svegliarlo: Charlie sobbalzò,
sbatté un
piede a terra, perse l'equilibrio e cadde dalla panca, facendo ridere
i colleghi. Almeno fino a quando il capitano non si voltò
verso di
loro e pensarono bene di ammutolirsi. «Stai dormendo durante
la
notte, Charlie?».
Lui
si toccò il petto muscoloso, sospirando e dopo sollevandosi.
«Non
proprio, Generale», forzò un sorriso,
spolverandosi il pantalone.
Si
vergognava a dire che si preoccupava per Faora ora che si era
risvegliata? Dru Zod ben conosceva il legame che li univa e poteva
immaginare. Dopotutto, lui stesso era preoccupato. «Siamo in
due»,
confessò, per poi chiedere al gruppo dove fosse l'agente che
mancava
all'appello. Aprì la porta della cuccetta e pensò
che trovare al
suo interno le sorelle Danvers gli avrebbe fatto venire subito in
mente qualcosa di pungente da dire, ma la prima persona che vide fu
Faora e tutte le intenzioni morirono sul nascere. I capelli sudati e
schiacciati contro il cuscino, immobilizzata sul materasso sollevato
per metà, la pelle quasi gialla, emaciata, lo sguardo
terrorizzato
nel vederlo lì. «Lasciateci soli», si
rivolse alla guardia
all'interno, che annuì, che ad Alex e Kara, sedute a fianco
del
letto, «Per piacere».
Kara
lo guardò sorto e uscì fuori inviperita, intanto
che Alex si teneva
più distante: «Degli agenti del D.A.O. verranno
presto, ho ottenuto
il permesso di darle una scorta. Una scorta vera. Non ha parlato, ma
se avrà bisogno di sfogarsi, saprà di poter
contare su di me». Gli
lanciò uno sguardo di sfida e uscì, lasciando Zod
a un lungo
sospiro.
«Anche
tu, Charlie».
«Com-
Pensavo
non sapesse che ero dietro di lei».
Zod
si voltò a sottecchi e il ragazzo mostrò i palmi,
tornando
indietro. Guardò Faora un'ultima volta, con paura, prima di
richiudere la porta. L'uomo prese la sedia lasciata da una delle
sorelle e si sedette, mentre lei alzava gli occhi al soffitto e
deglutiva.
«Ho…
paura», disse lei, lentamente. La gola bruciava ora che
ricominciava
a parlare.
«Mi
hai tradito», esclamò di rimando.
«Potevo aspettarmelo da tanti,
ma da te, Faora, proprio no. Da te, come da Charlie, proprio
no». Si
sforzava affinché la voce apparisse dura. Alzò
gli occhi solo
quando la sentì piangere: scosse la testa tra le lacrime,
tenuta
appoggiata sul cuscino, e provò a stringere i denti.
«Lo
so che… è tardi, Generale. Ma… mi
dispiace… così tanto».
Zod
non proferì parola, passandogli nella mente le immagini di
lei e
Charlie, in campagna, che si allenavano a sparare alle lattine. Un
gioco, più che un allenamento. I sorrisi, i suoi due ragazzi
che si
davano il cinque. «Che cosa…», la voce
gli si strozzò, ma tentò
con tutte le sue forze di mantenersi lucido, «ti aveva
promesso Rhea
Gand?».
Lei
deglutì e prese fiato. «Di… diventare
beta», aveva sorriso, solo
per poco. «Una beta… e la sua erede».
Zod
aveva scosso la testa. «E tu ci hai creduto. Oh,
Faora… Quella
donna non ama nessuno pari a se stessa. Forse solo suo
figlio».
«Non
lo avrebbe… iniziato mai».
«No.
È vero», concordò, «Non
è adatto».
«Non
volevo deluderla… Generale. Volo
solo…», fissò il soffitto
bianco, «essere notata».
«Pensavi
che, con me, non avresti avuto speranze? È questa l'idea che
ti ho
dato?».
Faora
allora chiuse gli occhi, formando un flebile sorriso. «Ha
sempre
preferito… Charlie».
Zod
si alzò, sentendo l'irrefrenabile impulso di camminare.
Quelle
parole lo ferivano quasi quanto il tradimento stesso e i sorrisi di
Charlie e Faora, in campagna, sbiadivano.
«Mi
uccideranno… vero?», borbottò a un
certo punto. «I colleghi qui…
ne conosco uno solo, ed è l'unico… che non mi
guarda… da
traditrice», continuò e lui ascoltava, voltandosi.
«Le cose sono
cambiate… me l'hanno detto».
«Non
ti uccideranno», rispose pacato. «Ci
sarà una convocazione dei
beta, presto. Voterò per te».
Lei
scosse la testa. «La votazione non funziona, Generale. Non
ha…
funzionato in passato e… non funzionerà
adesso». Strinse le
labbra e il viso le si rigò di altre lacrime.
«Ricorda quando… ci
ha raccontato… i suoi rimpianti, Generale? Il suo
alunno… è
morto perché la votazione ha… fallito».
«Non
è stata la votazione a fallire».
Lei
sorrise amaramente. «Sarei dovuta morire quando…
Alex Danvers mi
ha… sparato. Era qui perché… vuole
proteggermi», cercò di
ridere, ma le mancò il fiato.
«Proteggermi… da voi. Sarei dovuta
morire… quando mi ha sparato».
Zod
pensò di dire qualcosa, ma preferì uscire. Chiese
agli agenti se la
famiglia era passata a trovarla e, a risposta positiva, decise di
andarsene. Charlie Kweskill voleva seguirlo ma infine restò
indietro, a fare da guardia. A proteggerla.
La
votazione non aveva fallito. Continuava a ripeterselo, sforzando i
suoi ricordi a venir fuori. Dava consigli a Faora, rimproverava
Charlie, dava la parola a Jor El che, dal banco, aveva alzato una
mano. Era tornato più indietro, più indietro. Sua
moglie era in
procinto di partorire Melanie, la loro primogenita, e si sforzava
perché non le mancasse niente, a stento dormiva,
districandosi tra
il preparare gli argomenti da portare in classe e la sua presenza
all'organizzazione così, quando a lezione uno studente
alzava la
mano, per lui era sempre una manna dal cielo. E lui, il ragazzo che
si faceva chiamare Jor, era lo studente più preparato e
capace a cui
avesse mai avuto il piacere di insegnare. Sapeva che anche suo
fratello, che per tutti era Zor, due classi più
giù, era un
sollievo per il corpo insegnante. Aveva tante cose da fare e una
bimba in arrivo, ma aveva piacere di restare oltre l'orario per
discutere con loro di temi scientifici, dare qualche dritta,
confrontarsi e, perché no, fare loro da mentore.
Lo
aveva visto da lontano. Ricordava il sole caldo di quel pomeriggio,
andando avanti nel tempo. In quel periodo, lavorava per le forze
dell'ordine a Metropolis ed era tornato a National City solo per
parlargli. Sapeva che portava in quel parco a giocare suo figlio e
sua nipote, così lo aveva raggiunto. Mani nelle tasche dei
jeans
scuri, camicia color pastello, corta, sbottonata sotto il collo, Dru
Zod si era avvicinato lentamente alla panchina dov'era seduto e
leggeva da un cellulare. Dopo un ventennio di potere,
l'organizzazione sperava di rinforzarsi in fretta dopo lo scivolone
dato dall'arresto di alcuni beta con l'arrivo del nuovo millennio;
servivano menti fresche e sapeva dove trovarle. Lo aveva visto
abbassare l'apparecchio e sospirare: si aspettava il suo arrivo, dopo
che per giorni aveva rifiutato le sue telefonate. «James,
detto Jor,
El», si era seduto al suo fianco e il giovane aveva sorriso,
mettendo via il telefono.
«Professore».
«Non
sono più un professore da tempo. Qual è il tuo
campione?».
Jor
aveva alzato la testa e seguito il suo sguardo verso dei bambini che
giocavano a pallone, poi aveva abbozzato una risata e scosso la
testa. «No, no, Kal è quello
laggiù», lo aveva indicato,
dall'altra parte: seduto sull'erba a gambe incrociate e appoggiato
contro una giostra per l'infanzia, aveva i capelli lisci tirati
dietro le orecchie, neri, gli occhiali da vista che si tirava in su,
mentre leggeva concentrato un fumetto. Sulla giostra alle sue spalle,
una bimba dai capelli biondi legati in due code lo guardava
dall'alto, affacciandosi.
Zod
aveva sorriso di rimando. «Tale padre…
Perché non leggere a
casa?».
«E
il rischio di avere un contatto sociale di qualche tipo?».
«Proprio
tu parli», lo aveva finalmente guardato negli occhi,
strabuzzando i
suoi, «che la tua vita sociale comprendeva unicamente tuo
fratello?
Ricordo ancora le vostre pause pranzo a disegnare quel logo».
Lui
aveva riso divertito, inclinando la testa da un lato.
«L'emblema
degli El», aveva ricambiato lo sguardo, «Significa speranza».
«Ci
perdevate dietro tanto di quel tempo. James e Zachary El, meglio
ancora Jor e Zor El che, tra un progetto scientifico e l'altro,
disegnavano speranza».
Avevano
sorriso di nuovo, guardando in direzione dei bambini.
«Perché è
qui, professore?», aveva chiesto dopo, con la voce
più seria e
malinconica mentre l'altro si piegava in avanti.
«Lo
sai perché. Ti chiedo formalmente, a te e tuo fratello, di
venire a
lavorare per noi», lo aveva guardato e allungato una mano con
un
biglietto da visita. «Potete chiamare a quel numero in
qualsiasi
momento». Aveva squadrato Jor prenderlo ed esaminarlo.
«Non
pretendo una risposta subito. Teniamo d'occhio i vostri lavori per la
comunità dal sito online e saremo entusiasti di avervi in
squadra.
Siamo pronti a finanziare qualsiasi-».
«No»,
lo aveva bloccato e Zod era rimasto con le parole in bocca, odiando
che lo si interrompesse. «Lusingati, rifiutiamo».
«Non
vorrai parlarne con Zor prima di prendere una decisione? Con le
vostre mogli?».
«Siamo
già d'accordo su questo», aveva annuito cercando
di forzare un
sorriso. «Sapevamo perché ci teneva a parlare con
noi, professore.
Ma non possiamo: la vostra visione del mondo non coincide con la
nostra».
«Potresti
sbagliarti».
«No,
non penso», aveva accennato una risata. Gli stava restituendo
il
biglietto da visita, ma Zod gli aveva suggerito di tenerlo con
sé,
in caso sarebbe servito. Si era alzato e aveva richiamato i bambini.
«Non
finirò mai di corteggiare il vostro genio», si era
premurato di
dirgli prima di vederlo andar via. «Tu e tuo fratello siete
preziosi
e adatti. Vi ricontatterò non appena avrò
occasione».
Jor
si era limitato a sorridere. Aveva preso in braccio la nipotina Kara
e, a fianco del piccolo Clark, si erano allontanati.
Le
immagini al telegiornale gli avevano bloccato la digestione, quel
giorno di un ricordo più recente. Lo ricordava bene, era
avvenuto
quasi sei anni più tardi da quell'incontro al parco. Stava
per
uscire di casa per tornare a lavoro che il programma che stava
guardando sua moglie in televisione si era interrotto per lasciare
spazio a un'edizione straordinaria del telegiornale, mostrando la
casa di Zor El in fiamme, o ciò che era rimasto, i pompieri,
i
vicini che parlavano con la polizia. Sapeva che era stata Rhea, che
il suo piano per conquistare la presidenza dell'organizzazione era
ufficialmente iniziato.
«È
sano come un pesce, signor Zod».
Lui
si ridestò, passandosi due dita in mezzo agli occhi. Era
sdraiato su
un lettino. «È sicura?».
La
dottoressa annuì, poggiando le braccia a conserte sulla
scrivania.
«Il suo cervello non ha nulla che non vada, mi creda. Si
comporta
come un qualunque cervello sotto stress», aggiunse,
«E non mi
stupisce, con quello che ha passato».
Zod
si innervosì di scatto, rialzandosi e specchiandosi nei suoi
enormi
occhi neri. «Allora perché tende a sostituire i
miei ricordi con
altri, a confonderli, a farmi credere di aver
visto…», si era
fermato, abbassando gli occhi, «il corpo di Petra fatto di
marmo,
invece del suo reale… reale corpo senza vita?».
«Signor
Zod, lei pretende troppo», scosse la testa. «Se
continua a vivere
nel passato, nei suoi ricordi invece di andare avanti, la sua mente
avrà sempre più difficoltà a ricordare
nel dettaglio perché
aggiunge qualcosa di nuovo ogni volta. Qualcosa di ciò che
sente»,
spiegò, corrucciando la fronte. «Le dico che
è fisicamente
impossibile ricordare una vita di dettagli e i suoi sentimenti
giocano un ruolo predominante, in questo campo: ricordiamo solo gli
avvenimenti che per qualcosa ci hanno colpito, quando il corpo
capisce che è bene ricordare e registra, per qualcosa di
molto
felice oppure, naturalmente, di molto triste e traumatico».
«Ma
i ricordi solo l'unica cosa che mi resta. La pago affinché
mi aiuti
a ricordare, a non perdere nulla».
La
donna sospirò e infine si arrese. «Molto bene.
Cosa ricorda della
morte di Petra, signor Zod?».
«Rhea
che si fregava le mani», disse subito, senza nemmeno
pensarci.
«E
dopo? Cos'è successo dopo la sua morte, signor Zod? Cosa
ricorda dei
momenti successivi?».
L'uomo
chiuse gli occhi, cercando quelle immagini. Il corpo di Petra sotto
le scale, Rhea quindicenne che lo guardava spaventata. Più
avanti.
Il giorno successivo, dai Luthor. La voce di Lara Luthor, dolce. Gli
stringeva le spalle e cercava di farsi guardare, ma lui era un corpo
esanime, un pupazzo cucito con carne e vuoto. Cosa gli diceva? Farsi
forza? Contare su di loro, ovviamente. Una tragedia, già.
Qualcosa
sul non fare pazzie, oh… Cercava di consolarlo e poi era
arrivata
Rhea e aveva stretto lei tra le braccia, forte. Lui aveva alzato il
volto il tanto giusto per ritrovare il suo vuoto riflesso sugli occhi
di quella ragazzina. Aveva gli occhi imperlati di lacrime, Rhea. Ma
non aveva emesso un solo verso quando Lara l'aveva tenuta con
sé.
Non aveva ricambiato l'abbraccio. Era anche lei fredda come il marmo.
«Lara
Luthor non poteva avere figli», disse, mantenendo gli occhi
ben
chiusi. «Rhea era per lei come la figlia che non aveva mai
avuto».
«I
Luthor tengono molto alla famiglia, non è
così?», aveva domandato
la dottoressa. «Così mi ha specificato anche la
settimana scorsa,
signor Zod. I Luthor avevano accolto lei e Petra, e anche Rhea, in
famiglia».
«I
Luthor hanno sempre dato molta importanza al loro nome. All'avere dei
figli ed eredi. Se non per una cosa, per l'altra: portare avanti la
propria stirpe. Ci avevano accolti, ma non eravamo dei loro. Non lo
siamo stati mai. Il sangue del loro sangue è la cosa
più importante
che hanno».
Mentre
lo diceva, gli era subito venuto in mente quando aveva raggiunto
Lillian nell'hotel dell'aeroporto dove lei e sua moglie Eliza avevano
soggiornato prima di partire verso Aruba in viaggio di nozze. E al
suo secco no,
quando le aveva proposto di tornare nell'organizzazione. Eppure, era
la sua eredità.
«Ne
sei sicura?», aveva insistito per poi sorseggiare la sua
soda,
seduti intorno a un tavolino. «Sarai al mio fianco, a
guidarmi».
La
donna aveva ordinato un altro dolcetto e aveva chiesto che fosse
incartato per sua moglie. «Sono sicura di averti
già risposto,
Dru», aveva chiosato, stringendo le labbra fini.
«Il
tempo ti ha cambiato, Lillian. Levi Luthor ne resterebbe molto
deluso, se potesse sentirti».
«Ma
non può, non è così?».
«Eri
la sua erede».
Lei
aveva ridacchiato appena, ringraziando il cameriere che le aveva
portato il piccolo incarto. «Che sciocchezze. Ora osservo le
cose da
un'altra ottica, Dru: ho una moglie e una famiglia che non voglio
perdere. Se prima era il successo a guidarmi, adesso rispondo ad
altro. E no, non ci sarà modo in cui mi potrai far cambiare
idea»,
aveva aggiunto alla fine, senza neppure guardarlo in faccia.
Allora
lui si era alzato dalla sedia, sistemando le pieghe dei pantaloni.
«Ebbene, in questo caso tolgo il disturbo».
«Dru»,
lo aveva chiamato all'ultimo e si era girato verso la donna che,
finalmente, lo aveva degnato di un lungo e serio sguardo.
«Non tanta
fretta: voglio chiederti di non proporlo ai miei figli. Lasciali
fuori da tutta questa storia, non li riguarda».
«Io
penso di sì, Lillian», aveva risposto con aria
altezzosa, mettendo
le mani nelle tasche dei pantaloni. «E sono adulti in grado
di
prendere da soli le proprie decisioni».
Come
se non avesse già contattato Lex Luthor giorni fa. Anche lui
gli
aveva risposto negativamente, ma sapeva che era solo questione di
tempo.
«E
Lena?», gli chiese la dottoressa a un certo punto e Zod
sospirò.
«Cosa ne pensa della figlia adottata?».
«Non
è adatta», decretò con voce fredda.
«Non so se lo sarà mai».
Lasciò
lo studio della dottoressa con un mal di testa maggiore di quando era
entrato. Sentiva la sua memoria come un fiume in piena e non era
sicuro di riuscire a controllare la sua deriva, ma non voleva
perdersi niente, non voleva dimenticare una sola virgola di
ciò che
era stato e gli era stato portato via. Petra, una vita con lei e i
loro figli. Jor e Zor che discutevano di scienza disegnando un
simbolo di speranza. Charlie e Faora uniti che si sfidavano a chi
colpiva più lattine. Lionel ragazzo che, un giorno, decise
di
rivolgergli la parola e accettarlo in famiglia. O quel che era.
L'amicizia con Lar Gand lunga anni. E Rhea che era la causa di quasi
tutti i suoi rimpianti più grandi.
«Mi
ha portato via anche Faora e senza che me accorgessi», disse
davanti
alla cornetta della saletta delle visite del carcere, separato da un
vetro da Astra Inze. Era stanco, provato, e sentiva che lei era
l'unica che poteva davvero comprendere la sua frustrazione, portando
nel suo cuore rimpianti di un peso simile al suo, quanto delicato.
«Faora è scivolata dal nido perché lei
l'ha chiamata. Poteva
scegliere chiunque, ma aveva mandato lei per ferirmi».
«Il
mio voto lo conosci», rispose lei, sospirando. «Se
tutto andrà
come deve, Faora andrà in carcere per aver lavorato con
Rhea, e non
parlerà», scosse la testa. «Non ti
tradirà di nuovo. E almeno
sarà viva». Lo vide alzare gli occhi scuri
attorniati da profonde
occhiaie e trattenne a stento un commosso sorriso. «Cosa
dicono gli
altri beta?».
«Devo
ancora interpellare gran parte di loro, sono giorni molto pieni. Sai
qual è la cosa più brutta di questa
faccenda?». Lei restò in
ascolto, aspettando. «Che una parte di me vorrebbe punirla
per aver
tradito la mia fiducia, dopo che per me era come… una
figlia»,
ammise, per poi scuotere la testa. «Da domani si
aprirà il tuo
nuovo processo. Come ti senti?».
Lei
non trattenne un sorriso e si portò una mano contro la
bocca.
«Eccitata. E nervosa. Ma fiduciosa che andrà tutto
bene! Presto
potrò uscire di qui e riprendere la mia vita da dov'ero
rimasta».
«Te
lo auguro».
In
tempo per l'inizio del nuovo processo su Astra Inze, il D.A.O. si
mosse rapidamente quando Rhea Gand fece i nomi di chi, quel giorno di
quasi dodici anni prima, mise la bomba in casa El dove morirono i
genitori di Kara e quelli di Clark. Seppure cercassero di forzarla
con la promessa di protezione, la donna non aveva mai avanzato l'idea
di parlare, sapevano che era manipolata da Zod e che se lei aveva
fatto quei nomi, allora era perché lui voleva che li
facesse, ma era
comunque un passo in avanti e qualcuno festeggiò come se
fosse una
vittoria. Non certo Alex Danvers. Dopo aver lasciato Fort Rozz, Dru
Zod tornò in ospedale e, questa volta, davanti alla cuccetta
di
Faora c'era un gran fermento: i genitori della ragazza, Charlie e
altri poliziotti, Maggie Sawyer e la sua compagna Alex Danvers, e poi
lei, l'unica che se restava distante dal vespaio, l'agente del D.A.O.
che avevano messo di guardia, Carina Carvex.
Alex
Danvers si era molto arrabbiata quando, dai piani alti del D.A.O.,
avevano appoggiato la sua scelta di una guardia per Faora Hui ma che,
invece delle cinque persone che aveva richiesto, ne avevano accettate
due sole, per il cambio turno. Prendere o lasciare. Qualcuno doveva
essersi convinto che non avrebbero toccato una di loro. Oppure che
non era importante proteggere una persona che non avrebbe parlato,
quando avevano disponibile Rhea Gand, un pesce molto più
grosso.
Il
padre di Faora teneva tra le braccia la moglie e Charlie e un altro
poliziotto cercavano di tenerli distanti dall'agente Danvers. Era
chiaro come i signori scaricassero la responsabilità e la
rabbia per
ciò che era successo alla figlia su chi le aveva sparato.
Maggie
tentava di mettersi in mezzo e Alex minacciava di andarsene. Si
stupì
come non fosse intervenuto ancora un medico per costringerli a fare
silenzio.
Si
zittirono quando scorsero lui in corridoio, lasciando la scena al
pianto disperato della signora Hui. Allora la donna lasciò
il marito
e corse incontro a Zod, finendo tra le sue calde braccia.
«Io
non ci credo che la mia bambina cospirava in questa… in
questa
organizzazione, per conto di quella donna malvagia. Io non ci
credo»,
disse fra i singhiozzi. «Glielo dica, signor Zod. Lei conosce
bene
Faora, glielo dica! Qui c'è stato un grande malinteso e
Faora ha
paura di quella Gand! E lei-», puntò Alex Danvers
con un dito, «lei
dovrebbe essere processata per quello che ha fatto alla mia
bambina»,
sputò con odio. «Dovrebbe vergognarsi».
Stava per andare di nuovo
incontro ad Alex che la fermò e dopo il marito, decidendo di
trascinarla via. Salutarono Faora e lasciarono l'ospedale con lei che
ancora piangeva.
«Io
non ce la faccio», sospirò a un certo punto Alex
Danvers, alzandosi
dalla panca in corridoio. Guardò Maggie al suo fianco e
scosse la
testa, reggendosela. Era così esausta. «Me ne devo
andare, ho
bisogno di prendere aria e… ho tante cose a cui pensare, non
voglio
sentirmi anche in colpa per aver scelto mia sorella a lei».
Deglutì
e lanciò uno sguardo a Zod, sospirando di nuovo.
Lui
notò come avrebbe voluto dire dell'altro ma come
cambiò idea,
sapendo di essere ascoltata.
«Vai
in macchina, ti raggiungo subito», le sorrise Maggie
inclinando
appena la testa da un lato, comprensiva, tenendole una mano con le
sue.
Alex
voleva chiederle di andare con lei adesso, ma sapeva che sarebbe
stato inutile poiché aveva una missione da portare a
termine. Fissò
di nuovo Zod e diede ordini a Carvex prima di lasciare il corridoio.
Charlie
Kweskill era dentro con Faora e lo sentì ridere dalla porta
chiusa,
intanto che si avvicinava al capitano affacciato davanti a una
finestra con una posa rigida e le braccia dietro la schiena. Era come
se l'aspettasse. «Se posso, conosce da tanto i genitori di
Faora
Hui, capitano?», domandò Maggie.
L'uomo
annuì. «Da quando Faora entrò in
accademia, a Metropolis»,
sospirò. «Era una promessa, non mi stupisce che i
genitori non
accettino la verità. Anche io fatico a farlo»,
confessò, non
distogliendo lo sguardo dai palazzi di fronte, al di là del
vetro.
Maggie
gli notò una strana luce negli occhi.
«Tuo
padre cos'avrebbe fatto al posto loro, Sawyer?».
Lei
delineò appena un sorriso e scosse la testa, aprendo la
bocca prima
ancora di sapere cosa rispondere. «Probabilmente non ci
avrebbe
creduto come fanno loro. Ma mi aspetterei di tutto dall'uomo che
cercò di cacciarmi quando gli dissi che intendevo vivere la
mia
omosessualità alla luce del sole»,
scrollò le spalle e lui le
scoccò un'occhiata. «Devo andare»,
abbassò la testa. «Apprezzo
il gesto dei nomi degli assassini degli El. Perché lei lo
sappia».
Lo lasciò e lui gonfiò il petto, sapendo di aver
acquistato un
punto.
Ma
rimase sovrappensiero poiché, davvero, non si aspettava
quella
risposta su suo padre. Si era sempre immaginato come un uomo
all'antica ma non aveva mai, mai pensato che
l'omosessualità, così
come altri orientamenti non eterosessuali, fossero motivo per
discriminare qualcuno né, di certo, aveva mai pensato che
fosse
normale non accettare un figlio per questo. Un figlio che, infatti,
non andava accettato, ma compreso e ascoltato così come
aveva fatto
Levi con Lionel o lui con Melanie e Chris, consapevole che, in un
posto come l'organizzazione, loro non avrebbero potuto vivere una
vita vera e piena. Non erano adatti. Così come non era
adatta Kara
Danvers, la figlia di Zor El: sapeva che il pensiero sfiorava la
testa di Astra da quando la possibilità di uscire da Fort
Rozz si
concretizzò, ma era già pronto a rifiutare la sua
proposta per il
futuro. Non avendo figli suoi, non le restava che la nipote che, per
lei, era come tale.
Il
giorno dopo si terrò la prima chiamata del nuovo processo,
quello
per la scarcerazione. A giorni ci sarebbe stato quello di suo marito
Non. Erano presenti Kara e Alex Danvers, Maggie Sawyer, Lena Luthor,
e anche Clark Kent e la sua fidanzata, Lois Lane. Li
incrociò
durante la pausa, fuori dall'aula. Rivedere Clark, che somigliava
così tanto a suo padre Jor, era sempre un colpo al cuore,
per lui.
Lo rivedeva bambino al parco e poi rivedeva Jor in classe alzare la
mano. Non fece in tempo a perdersi in ricordi che la figlia di Zor
gli si piazzò davanti con aria di sfida.
«Non
cambia niente, deve saperlo». Lena Luthor le era vicina, Alex
Danvers, e si mosse anche Clark Kent.
«Come,
prego?».
«Ha
fatto dire a Rhea Gand i nomi degli assassini dei nostri genitori, ma
non cambia niente, per noi. Non è che la prendiamo in
simpatia o
qualcosa del genere, adesso», gonfiò il petto,
facendo una smorfia.
«Non
so di cosa tu stia parlando».
Kara
stava per riaprire bocca che Clark si spiazzò tra i due e
spinse
indietro lei, alle braccia della sorella e della sorellastra.
Lui
e Zod si guardarono a lungo ed entrambi non emisero fiato. Dopo poco
tornarono in aula e Astra si sedette accanto al suo avvocato non
mancando di allungare uno sguardo a Kara. Le era mancata durante quei
tanti anni a Fort Rozz. Le era mancata davvero come una figlia.
Dru
Zod tenne d'occhio il cellulare e uscì quando ricevette una
chiamata, mentre Astra Inze parlava di fronte a tutti. Aveva
finalmente ottenuto il verdetto della decisione dei beta su Faora
Hui, ma non era ciò che si aspettava.
Quella
notte non tornò a casa e chiamò sua moglie per
dirle che restava
fino a tardi in centrale. Era rimasto davvero lì, chiuso nel
suo
ufficio e con le tapparelle abbassate, una luce gialla e fioca dalla
lampada sulla scrivania. Stappò una bottiglia di vino rosso
e ne
versò in un bicchiere, aspettando a bere. Non avrebbe fatto
nient'altro. Era il presidente e non aveva alternative se non
comportarsi da tale o fare come Lionel e Lillian in passato, quando
la votazione aveva scelto di rapire una bambina, Kara, per farla
pagare alla giudice, lasciando l'incarico. Faora aveva tracciato il
suo destino quando scelse Rhea e non provò a immaginare di
qualcuno
che entrava nella sua cuccetta durante la notte e le toglieva la
vita. No, non voleva pensarlo. Prese il bicchiere e mandò
giù d'un
fiato. Era come sua figlia. Quasi un'erede. E adesso un nuovo
rimpianto. Lasciò il bicchiere sul banco e
appoggiò la schiena allo
schienale della sedia, chiudendo gli occhi. Ora era pronto per
ricordare lei e Charlie che si sfidavano a chi sparava più
lattine
in campagna, in una giornata felice, dandosi il cinque.
E
così, alla fine Faora ha pagato il prezzo del suo
tradimento.
Immaginavate sarebbe finita così? Prima di scrivere
metà capitolo,
io no (a volte, le cose si scoprono solo mentre si va per scriverle).
Ma non c'era altro che si potesse fare, temo: non potevano fidarsi di
lei, restava un problema. Ed era appena uscita dal coma, poveraccia.
Questo fatto avrà conseguenze?
Abbiamo
seguito Zod in varie fasi del suo passato e del suo presente in
questo capitolo: un Lionel diciassettenne, qualcosa in più
sulla
famiglia Luthor di allora e sulla nascita dell'organizzazione, come
Zod avesse cercato di reclutare Jor e Zor El, il nuovo processo di
Astra che si apre, i signori Petrov e Maggie che non sa come
comportarsi (e voi lo avreste saputo?), Lillian che rifiuta di
entrare di nuovo nell'organizzazione, la morte di Petra e Rhea che si
guardava le mani. Cosa vi ha colpito di più? Scrivetemi le
vostre
impressioni e, chissà, magari ciò che avete colto
:3
Zod
è un uomo tormentato, ha la sua età e ha visto
tante cose: l'idea
di scrivere di lui seguendo i suoi ricordi mi ha affascinato. Ma non
so quanto possono essere stati confusionari, ecco XD
E
ora qualche nota doverosa ~
-
Non so quanti anni di differenza ci siano tra Jor-El e Zor-El nei
fumetti, so solo che il primo è il maggiore e il secondo il
minore
(o mi sbaglio? Dubbi
esistenziali e dove trovarli).
Per comodità, avendo dovuto fare un schemino di date che non
vi dico
per scrivere questo capitolo, ne ho messi due.
-
Essendo questa fan fiction AU dove quei due non sono alieni, ho
optato per loro due nomi normali (come ho fatto con Zod) e tenuto Jor
e Zor
come soprannomi. James
e Zachary
erano quelli che ho trovato più in sintonia. E James
è davvero un nome comune e sfruttato un sacco, quindi ci
sta
sempre, come il formaggio.
-
In una scena abbiamo un medico che parla di stress, cervello,
ricordi, sostituzione di elementi nei ricordi in base alle
sensazioni, ecc: tengo a specificare che è tutto scritto in
funzione
alla narrazione, io davvero non mi intendo di niente di tutto questo
e quando ho fatto delle ricerche in merito non avevo trovato
granché.
È fantasia.
-
Abbiamo un nuovo personaggio (che verrà presentato meglio
sui
prossimi capitoli): Carina Carvex. Avete idee su di lei? Carina
ci stava tantissimo come nome, le sta bene.
-
Una curiosità. Pubblico su Wattpad da un
po', eppure ho
scoperto solo durante queste vacanze estive che, tra le varie
funzioni del sito, c'è una cosetta molto interessante che ti
permette di vedere da quali parti del mondo hai lettori. Con mio
immenso stupore, ho scoperto che seguono Our home
anche in
Francia (sul 5% del totale, mica poco), in Spagna, negli Stati Uniti,
in Svizzera, in Israele e addirittura in Senegal. Magari si parla
sempre di italiani in giro per il mondo, ma in ogni caso mi fa un
piacere enorme! Si aggiorna ogni tot di giorni, quindi segna solo i
lettori recenti e a volte escono fuori paesi nuovi, ma Francia e
Stati Uniti non sono mai spariti. Scoprire questa cosa mi ha fatto
andare in un brodo di giuggiole? Sì. Abbastanza, ahah!
Piccole
conquiste personali.
C'è
anche il modo di scoprire la percentuale di età tra i
lettori e il
sesso, se specificati. E altre statistiche. Ci vorrebbero cose di
questo tipo anche su EFP.
Sperando
che il capitolo vi sia piaciuto, è un piacere darvi di nuovo
appuntamento con il capitolo 52 per lunedì 9 settembre e si
intitolerà Chi
sono io?
Un
personaggio in particolare tornerà sulla scena!
|
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Capitolo 54 *** 52. Chi sono io? ***
La
sveglia suonò tre volte, quattro, cinque. La sesta era
quella buona
e una mano pallida si sporse dal copriletto per spegnerla. Era
sveglia da un po', in realtà, ma non le andava proprio di
alzarsi
dal letto. Si scoperchiò lentamente e sbadigliò
pacata, girandosi
dall'altro lato. Ancora cinque minuti, forse venti, e finalmente
poggiò i piedi a terra. Ancora cinque minuti, forse dieci, e
si
portò in piedi. Il corpo era pesante, le gambe si muovevano
a fatica
e, prima di allontanarsi troppo dal letto, ci si ributtò
sopra a
peso morto. Fissò il lampadario con aria assente e le mani
le
scivolarono sul fianco sinistro, così Siobhan Smythe
sollevò la
canotta del pigiama in raso che indossava, passando due dita delicate
sul vistoso cerotto. Fece una smorfia, e si rialzò.
Aveva
smesso di farle male, così avevano detto i medici. L'avevano
aperta,
tolto il proiettile, ricucita, così la pelle si era
cicatrizzata e
rinata sotto una nuova forma, stava bene. Andò in bagno,
aprì il
mobiletto sopra il lavello e prese una scatola di cerotti. Si
alzò
la canotta di nuovo e si staccò il cerotto vecchio,
lasciando
prendere aria alla cicatrice. Era pulita, neanche troppo grande,
poteva andarle peggio. La ricoprì subito col nuovo cerotto.
Odiava
vederla. Aveva smesso di farle male, così avevano detto i
medici, ma
al diavolo i medici!
Lo borbottò per sé, perché a lei quel
segno ancora troppo rosso
sulla pelle faceva male, faceva male eccome. «Mica ce l'hanno
loro»,
continuò a borbottare. «Non sono loro a sentirlo,
a essere stati
sparati».
Ignorò
i rumori dei camion che passavano sotto il suo appartamento e
così
anche il piccione che quotidianamente si adagiava sul davanzale di
una finestra. Andò in cucina che era ancora scalza e in
pigiama,
aprendo il piccolo e ammaccato frigo. Era pieno: sua madre le aveva
fatto la spesa giusto il giorno prima, ma non le andava di prepararsi
qualcosa che afferrò la scatola del cibo cinese da asporto
avanzato
dalla notte e le bacchette, sedendo davanti alla tv. Mangiò
in
fretta e non guardò nulla, la lasciò spenta. Una
volta finito,
lasciò tutto sul tavolo e andò a cambiarsi di
fretta. Scese le
scale lentamente e aprì il portone dell'edificio guardando
al
traffico con occhi sgranati. C'erano molte, molte macchine. Molte,
molte persone. Una coppia le passò davanti e si
tirò indietro,
prendendo grossi bocconi d'aria. Andava tutto bene. Chiuse il portone
e ricercò le chiavi dell'auto in borsa.
«Buongiorno,
signorina Smythe. Ha bisogno di aiuto?». Grembiule sporco di
macchie
nere, affacciato dalla porta sul retro, il ragazzo
del ristorante cinese sotto casa era ancora più apprensivo
da quando
seppe della sparatoria alla CatCo.
Lei
allungò una mano verso la sua direzione per fargli cenno
negativo,
camminando a tentoni nel viottolo. Lo sentì rientrare e si
spaventò
quando la porta sbatté, saltò quando
passò un gatto e si mantenne
contro un muro quando suonò un clacson. Andava tutto bene.
Prese
altri grossi e lenti respiri profondi, appiattendosi contro la
parete. Si toccò là dove le avevano sparato e
scivolò a terra,
piegando le ginocchia. Altri respiri profondi. Gli occhi lucidi, le
labbra secche tirate, i denti stretti. Le lacrime.
Ore
prima…
L'alto
cancello di villa Luthor-Danvers si aprì e Indigo mise via
il
cellulare in tasca, tirando meglio il cappuccio della felpa sulla
testa e rientrando. Corse verso il portone, mentre il cielo si
accendeva a nuovo giorno.
Il
cellulare vibrò sul comodino e Kara si sporse dal letto per
prenderlo, stropicciandosi un occhio appiccicato e sbadigliando. Si
mise un poco seduta e pigiò sullo schermo, accigliandosi
improvvisamente.
«Cos'è
successo?», le domandò Lena con la voce impastata,
al suo fianco,
reggendosi con un gomito sul materasso. Sbadigliò subito
anche lei,
coprendosi con un palmo.
«Alex.
È-È Alex… Faora Hui è
morta», deglutì Kara, guardando grave
l'altra che si portò una mano sul viso. «L'hanno
uccisa questa
notte».
«Hanno
detto così? Sono stati i medici dell'ospedale
o…?».
«No.
Alex ha detto che è stata uccisa, non si sa ancora niente,
al
momento. Ha parlato con una dottoressa che si occupava di lei e
dicono già che il suo corpo era provato, che si erano
sbagliati a
dichiararla fuori pericolo», prese fiato e rimise il
cellulare sul
comodino, rimettendo la testa sul cuscino mentre Lena l'avvolgeva con
un braccio, baciandole una spalla. «Ma è chiaro
che l'hanno uccisa,
no? Loro. La polizia. Zod. Diranno che è stato per il colpo
inferto
da Alex, ma…».
«Alex
è già stata scagionata, non la incolperanno di
omicidio».
«Parlavo
dei genitori di Faora. E Alex… Anche lei penserà
che una parte di
questo sia colpa sua».
Lena
la baciò ancora, lasciandosi stringere a sua volta.
«È a casa,
adesso?».
«Ha
detto che tornava a casa perché ha il turno in boutique
questa
mattina, ma… non lo so», sospirò.
Alex
strinse i pugni e, appena lo vide arrivare dalla corsia davanti,
decise di andargli incontro con rabbia. «È
così che risolvete le
cose?», urlò e la voce rimbombò nel
silenzio del reparto. Spinse
Adrian Zod appena lo ebbe sotto tiro e lui, con un gesto,
fermò i
poliziotti pronti a intervenire per allontanarla. «L'hai
fatta
ammazzare perché era un peso? Sei un bastardo, e un
vigliacco», lo
spinse ancora.
«La
prego, agente Danvers», mormorò Zod.
«Cosa?»,
sputò di rabbia, «Mi
prende per qualcuno che non sono?
Sono
diverso?
La
conoscevo e le volevo bene?
Cosa?». Stava per colpirlo di nuovo, tenuta d'occhio dai
poliziotti
intorno, che si sentì tirare indietro. Maggie
uscì dalla cuccetta
di Faora Hui sentendola gridare e riuscì a spostarla grazie
anche
all'aiuto di Carina Carvex, l'agente D.A.O. che doveva fare da
guardia e si trovava ancora lì dalla notte.
«Alex,
Alex», Maggie le prese il viso e riuscì a farsi
guardare, mentre
scuoteva la testa. C'erano poliziotti, i medici che uscivano dagli
altri reparti e restavano immobili, alcuni pazienti: tutti guardavano
lei, e ascoltavano. «Fermati, vai a casa. Sei stanca, qui ci
penso
io».
«Ma
ti senti?», bisbigliò, ingigantendo gli occhi.
«Vuoi dargli corda?
Ha ammazzato Faora così come avrà ucciso quella
coppia, o pensi
davvero che li abbia lasciati andare perché glielo hai detto
tu?»,
strinse i denti, inspirando pesantemente.
Maggie
scosse la testa e si riguardò intorno, mentre l'agente
Carvex si
metteva tra loro e Zod. Erano tornate insieme al box, non erano
passate le quarantotto ore che l'uomo aveva descritto come il tempo
di prenotazione, ma avevano trovato tutto pulito, nessuna traccia
della loro presenza. Riguardò il suo capitano con la coda
dell'occhio e poi di nuovo la compagna. «Guardati, renditi
conto di
dove sei. Vai a casa, ti prego. Ti prego», la
supplicò e Alex
abbassò gli occhi, portandosi una mano sulla fronte. La
tenne
d'occhio mentre si allontanava con l'agente Carvex e dopo
lanciò uno
sguardo a Zod, che ricambiò.
Appena
arrivate dentro l'ascensore, Alex spinse Carina Carvex contro la
parete, chiedendo spiegazioni.
«Non
ho visto niente e non mi sono allontanata», sbottò
lei in difesa.
«Ero da sola e non potevo fidarmi dei poliziotti, per questo
sono
andata in bagno una volta sola». Alex si allontanò
e sospirò,
portandosi una mano in fronte e poi sui capelli. «Ma quando
sono
tornata, ho controllato e Faora Hui era ancora viva. Pensavo non
sarebbe successo niente e speravo soltanto arrivasse in fretta la
mattina per il cambio».
«Ci
hanno giocato», soffiò Alex, arrendevole.
«Avevo richiesto più
uomini ma a nessuno importava».
«Non
era importante quanto Rhea Gand», scrollò le
spalle l'altra. I suoi
occhi castani squadrarono Alex. «E Jonzz non ha avuto voce in
capitolo, ci ho parlato anch'io. Credi che…?».
«No»,
Alex scosse la testa, puntando gli occhi al soffitto. «No, se
qualcuno dell'organizzazione comandasse al D.A.O., avrebbero
già
sospeso l'indagine». Senza contare che se Maggie aveva
ragione ed
era lei il vero obiettivo di Zod, faceva tutto solo per arrivare a
quell'indagine contro di lui. Forse era così. Era una
possibilità…
Diede un pugno contro la parete più vicina.
«Cosa
ti turba, Danvers?», strinse le labbra, seria.
«Faora Hui non era
una tua responsabilità».
«Lo
so, è che…», si appoggiò
spalle alla parete appena colpita,
sospirando. La guardò, prima di decidere di confidarsi.
Conosceva
Carvex da quando era entrata al D.A.O., una sola settimana dopo di
lei; avevano parlato spesso, erano spesso nella stessa squadra,
poteva dire di conoscerla abbastanza. Ma fidarsi? «Sento che
stiamo
perdendo e loro vincendo. Ho accettato il lavoro per proteggere mia
sorella e dare la caccia a persone che si nascondevano nell'ombra e
adesso che non si nascondo più e stanno
contrattaccando», puntò in
alto gli occhi lucidi, visibilmente provata, «sento che non
riesco a
starci dietro. E Maggie, ciò che sta facendo… Mi
preoccupa,
Carina. Non è che non voglia credere in lei, ma lui le entra
nella
testa, lo so, lo vedo…». L'altra annuì,
sospirando e mettendo le
braccia a conserte. «Va tutto male…»,
proseguì Alex. «Ogni cosa
che faccio va male. I dati lasciati dai terroristi di Rhea negli
uffici pubblici non portano a niente di concreto e i collegamenti a
Zod sembrano forzati, altre chiavette non si trovano e… Non
sono
nemmeno riuscita ad ottenere il nome di una persona che… oh,
lascia
perdere», si asciugò gli occhi con le dita,
ripensando al garante
di Indigo che restava una figura ignota poiché il direttore
di Fort
Rozz, infastidito dalla sua visita, aveva richiesto un mandato che
non avrebbe potuto avere. Si sentiva davvero con le spalle al muro.
«Alex»,
la chiamò per nome, poggiandole una mano su una spalla.
«Ti aiuto
io con quei dati, va bene? All'università ero brava, in
questo
genere di cose. Posso dare una mano. Ma tu non vorrai lasciarti
andare, vero? Perché è l'ultima cosa che ci
serve».
«Sì»,
sorrise all'improvviso, «Hai ragione».
«Lo
so che ho ragione», rise e contagiò anche l'altra,
mentre si
aprivano le porte dell'ascensore.
Tornò
a casa e diede le disposizioni alla babysitter, controllando che
Jamie ancora dormisse. Accidenti. Tutto andava male ma,
pensò,
guardando la piccola che stringeva i pugnetti mentre bofonchiava nel
sonno, non si sarebbe arresa. Quello mai. Iniziò a cambiarsi
per
andare in boutique, pensando per l'ennesima volta che avrebbe dovuto
rinunciare a quel lavoro, che lesse i messaggi di Kara in cui le
chiedeva se si sarebbero potute vedere quel pomeriggio.
Ansimò.
Sapeva che sua sorella avrebbe voluto tirarle su il morale dopo
ciò
che era successo a Faora, ma non si sentiva pronta ad affrontarla,
non era il caso: non voleva che Kara leggesse il fallimento che
provava dai suoi occhi. Le disse di dover lavorare dopo aver lasciato
la boutique che, appena prima di mettere via il cellulare, le
capitarono sott'occhio i primi articoli online che parlavano di Astra
Inze e della sua possibile scarcerazione: spuntavano i primi nomi di
chi la vorrebbe di nuovo in servizio, dichiarando che aveva
già
pagato abbastanza per reati non commessi. E anche su quello, sembrava
proprio che stessero vincendo…
Anche
Kara ne lesse uno e poi sbuffò, mettendo via il telefono sul
bancone
della cucina. Non voleva pensarci, non voleva pensarci proprio e
prese una padellina. Bene. Ora toccava a lei: guardò il
piano di
cottura, poi la padellina, decidendo di aprire pensili a caso fino a
trovare gli ingredienti necessari per i pancake. Aveva tutto, adesso,
ma… come si accendeva? La fiamma non ci sarebbe stata su
questa
cosa? Non ne aveva mai usata una fatta in quel modo.
Le
braccia nude di Lena si infilarono sotto le sue e
l'abbracciò,
facendola sorridere. «Stai preparando la
colazione?».
«Diciamo
che l'idea era quella, ma…».
«È
a induzione», rise, staccandosi, «Lasciami fare, ti
faccio vedere».
Oh,
non sembrava difficile. Ancora in canotta e pantaloncini Kara, in
camicia da notte Lena, si appoggiarono contro il bancone e si
baciarono in un abbraccio, prendendo del tempo per guardarsi e
sorridersi finché non notarono che il pancake stava
bruciando. Lena
rise e scosse la testa, iniziando ad apparecchiare per la colazione e
pensando che avrebbe dovuto svegliare Indigo in modo che mangiasse
con loro. Solitamente si svegliava presto, era strano che non fosse
ancora uscita dalla camera degli ospiti che le aveva affidato. Oh, ma
c'erano i giornali sul bancone, forse era già in piedi e non
si
erano incrociate. Sarebbe stato meglio andarsi a cambiare, allora. Ne
prese uno e lesse un trafiletto, con soddisfazione.
«Ehi,
tesoro», la chiamò, facendola voltare,
«È iniziato».
Bruce
Wayne e Lena Luthor: nuovo appuntamento in vista?
Kara fece una smorfia, leggendo il titolo. «Bruce Wayne ha
sparso la
voce, quindi… lo facciamo davvero?».
«Uh,
non essere gelosa del mio finto appuntamento», si
avvicinò il tanto
per baciarla, rapida. «Portiamo allo scoperto chi cerca di
ucciderlo, niente di che», rise.
«Niente
di che?
Ma sentila. Ci stai prendendo gusto, per caso? Nelle situazioni
pericolose?», scrollò le spalle e la vide farle
una smorfia con le
labbra, così Kara pigiò il pulsante sulla piastra
per spegnere e
sollevò velocemente Lena, di sorpresa, facendola sedere sul
mobile
della cucina accanto al piano cottura.
«Oh.
Ma buongiorno», sorrise e Kara ricambiò.
«Buongiorno»,
la baciò a fior di labbra, continuando a sorridersi.
«È
stasera che devi andare alla festa di Siobhan Smythe?».
Kara
annuì. «Da domani l'avrò di nuovo tra i
piedi alla CatCo.
Perché?». La vide piegare le labbra e guardare
altrove, mormorando
un verso.
«Ma
nulla, sai, rientrerai tardi… Le giornate si fanno sempre
più
piccole…».
«Pensavo
di andare a dormire al campus, se mi lasciano entrare».
«Ah».
«Per
non disturbarti e lasciarti dormire», finì la
frase con una risata,
vedendo l'espressione imbronciata di Lena. «Ma non sembri
d'accordo,
okay, devo tornare qui?».
La
ragazza sorrise, stringendo le braccia intorno alle sue spalle e
baciandola di nuovo. «Non posso pensare che non ti
avrò questa
notte…», le sussurrò, guardandola negli
occhi.
«Puoi
avermi adesso o», arrossì, «quando vuoi.
Per fortuna quella Indigo
dorme ancora. Non svegliamola, restiamo così fino al momento
di
uscire».
L'altra
strabuzzò lo sguardo, allontanandosi dal suo viso.
«Non è già in
piedi?».
«No.
Dormiva nella sua nuova cameretta quando sono passata per scendere le
scale, ho aperto la porta».
«E
allora chi ha portato dentro i giornali?».
Entrambe
si voltarono e provarono un brivido di freddo. Occhi spalancati,
faccia bordeaux, una mano che stringeva un annaffiatoio: la
giardiniera Ingrid veniva ogni due giorni per annaffiare le piante e,
com'era prevedibile, se n'erano completamente dimenticate.
Non
voleva pensare a sua zia, non voleva proprio. Controllò i
libri che
aveva tra le braccia, proseguendo per il corridoio. Non voleva
pensare a sua zia, ma forse tutti gli altri lo facevano: a ogni
passo, sembrava che i colleghi alla Sunrise la seguissero con i loro
sguardi ora più che mai. Non era la sua immaginazione,
nemmeno si
sforzavano di distogliere l'attenzione quando si girava a guardarli.
Ricontrollò i suoi libri e, quando sollevò la
testa, sobbalzò,
portandosi indietro. «Megs? Potevi farmi venire un
infarto». Megan
era apparsa all'improvviso, ma il suo sguardo attento su di lei
sembrava nascondere altro rispetto al resto dell'istituto. Non fosse
per il sorrisetto sulle labbra.
«Dunque
tutto bene, eh?».
«Tutto
bene cosa?».
Iniziarono
a camminare, scendendo le scale. Megan non rispose subito, ma
continuò a fissarla e Kara arrossì.
«Dunque tu e
e-emh-
Lena…», si lasciò andare a un finto
colpo di tosse, «vi
appartate di nuovo?».
«C-Che
cosa vuoi di-».
«Ehi,
almeno una delle due fa sess-».
«Shh»,
Kara si voltò e rivoltò indietro, facendole segno
di tacere,
«Abbassa quella voce. È così
evidente?». Tutti la seguivano con
lo sguardo, mancava poco che ascoltassero le sue conversazioni.
«Ragazza,
hai il sorrisetto da beatitudine e non resti a dormire al campus da
quando sei tornata da Star City. Non ci vuole molto a fare due
più
due». Risero un poco e Kara arrossì di nuovo.
«Non
hai fatto ancora pace con il tuo e-emh-
tipo?». Arrivate al piano terra tutti si voltarono nella loro
direzione e Megan pensò di alzare le braccia per intimidirli
neanche
fossero dei passerotti. Però funzionò.
«Se
con pace»,
ridacchiò, scrollando gli occhi, «intendi che
abbia ripreso a
dargliela, allora no. Ogni tanto parliamo, non come prima,
ma… non
lo so, voglio farlo soffrire, credo», la guardò
negli occhi e Kara
aggrottò la fronte. «Non soffrire
soffrire, è chiaro, lo amo anche se mi ha
mentito… Vorrei solo che
capisse che ha sbagliato, non mi pare di chiedere troppo».
Si
fermarono quando scorsero proprio John Jonzz, attraverso una
finestra, che si allontanava dallo stabile con uno scatolone tra le
braccia. Corsero fuori e lo bloccarono, sbalordite. Non potevano
crederci che…
«Ho
perso il mio incarico come coach», forzò un
sorriso, i suoi occhi
malinconici raccontavano meglio di lui cosa stava succedendo.
«Lo
sceriffo vuole che mi dedichi a tempo pieno all'indagine
sull'organizzazione, ma in ogni caso era questione di tempo»,
guardò
Kara, «Ero qui per tenere d'occhio te e, adesso che Rhea Gand
è
agli arresti, la mia presenza non serve». Sorrise a una e poi
all'altra, abbassando gli occhi solo un momento.
«Ma
non puoi andartene», Megan scosse la testa pian piano,
visibilmente
delusa. Lo guardò negli occhi e lui le regalò un
lungo sorriso, per
poi annuire.
«Ve
la caverete, il nuovo coach arriverà presto. Tenete a mente
ciò che
vi ho insegnato».
«Non
parlo del lacrosse».
John
aprì la bocca ma non disse nulla, per poi sospirare.
«Credete nelle
vostre capacità e nel gioco di squadra»,
proseguì e Megan scosse
la testa, guardando dopo Kara al suo fianco.
«Supergirl», lui la
chiamò. «Occhi sempre ben aperti: anche se lei
è fuori dai giochi, il resto della squadra non
accetterà sconfitte
e tu non devi perdere la calma. Una nuova giocatrice tornerà
presto
in campo e ti metterà a dura prova». Kara si
accigliò, mentre
l'uomo si rivolgeva a Megan. «Miss Martian! Andrò
dai verdi
per il fine settimana, se… se ti andasse di fare quattro
chiacchiere, sai dove puoi trovarmi». Sorrise di nuovo a
entrambe e
si allontanò, sollevando la scatola con le sue cose.
«Verdi?»,
domandò Kara, «Parlate in codice,
adesso?».
Megan
abbozzò una risata, tenendo d'occhio l'uomo che raggiungeva
il
cancello del Sunrise. «È una lunga storia. E tu?
Parlava
dell'organizzazione, non è vero?».
«Di
mia zia», sospirò. «Parlava di mia
zia».
Non
voleva pensare a sua zia, ma tutto non faceva che vertere di nuovo a
lei. E forse non poteva scappare da questa cosa come avrebbe voluto,
dopotutto. Chiudere gli occhi, pensare ad altro e girarsi dall'altra
parte, non avrebbe fatto sparire il suo problema. Avrebbe voluto solo
perdersi in Lena e pensare a come costruire una relazione con lei nel
loro strambo ambiente familiare, studiare e farsi assumere alla
CatCo, uscire la sera ogni tanto, giocare a lacrosse e vincere il
campionato. Avrebbe voluto pensare a come costruirsi una vita felice
adesso che Rhea Gand era in prigione, ma la morte di Faora Hui e
l'uscita imminente da Fort Rozz di sua zia erano qualcosa di troppo
grande per essere ignorato. La verità era che aveva paura di
scoprire, rivedendo Astra, quanto nonostante tutto le volesse bene.
Voleva essere arrabbiata con lei, ma la sola idea di poterla toccare
le scombussolava lo stomaco. Accidenti. Forse non poteva ignorare
tutto troppo a lungo, ma poteva provarci fino allo stremo. Dopotutto,
le veniva bene poiché la sua distrazione rendeva il mondo
più
giusto.
Da
Vaniglia a Me
Questa
notte ordiniamo italiano? Se proprio insiste, potrà mangiare
con noi
anche Indigo.
Lena
sorrise, spegnendo il monitor del cellulare e lasciandolo sul banco.
Le ragazze a cui faceva da tutor accanto a lei sorrisero a loro
volta, scambiandosi uno sguardo malizioso. Lena non se lo
lasciò
sfuggire. «Su, non lasciatevi distrarre»,
commentò svelta,
riprendendo tra le mani il tomo che aveva lasciato sulle gambe. Le
tenne d'occhio: una riga scritta sui loro bloc notes e una nuova
occhiata, riprendendo a sogghignare. «E va bene.
Cos'è successo di
tanto importante da non poter andare avanti?».
Le
ragazze erano esitanti, adesso. Ma una di loro si fece coraggio,
iniziando a parlare senza guardarla negli occhi troppo tempo:
«Gira
una voce, signorina Luthor», scambiò rapida uno
sguardo con l'amica
a fianco. «Gira voce che lei sia la fidanzata nascosta di
Bruce
Wayne, il più ricco di Gotham».
Ah.
Lena aprì la bocca, ma non fece in tempo a dir nulla che
ripresero a
parlare, svelte:
«È
carino? Da vicino? Mia cugina dice che è il suo
tipo», ridacchiò
la seconda.
«Quindi
è vero che lei è la sua fidanzata nascosta? Era
suo il messaggio?»,
chiese la prima.
«Mia
cugina dice che anche lei è il suo tipo,
però», ridacchiò di
nuovo la seconda.
«Anche
io vorrei un fidanzato nascosto», si perse nei pensieri la
prima,
«Meglio ancora se ricco, ovvio».
«Ragazze,
ragazze», le fermò, prima che potessero riprendere
a viaggiare con
la fantasia. Non erano mai state così disinvolte, prima
d'ora.
«Bruce Wayne ed io siamo solo amici. Mi duole deludervi, ma
la voce
che gira è solo questo: una voce». La guardarono
con sconfitta, ma
fortunatamente pian piano riuscì a farle riprendere un
minimo di
concentrazione. Si domandava cosa ne avrebbero pensato quando
avrebbero scoperto che era gay e la sua fidanzata nascosta una
ragazza. Fidanzata nascosta.
Almeno una cosa la voce che girava l'aveva azzeccata: era impegnata,
ma solo di nascosto. Se ci riuscivano. E andava bene così,
ora come
ora.
Le
tenne d'occhio fino a quando non lasciarono la biblioteca,
salutandole un'ultima volta. Almeno avrebbe avuto un po' di tempo per
se stessa. Si accomodò su un divanetto vicino a una finestra
a prese
il cellulare, rispondendo a Kara. C'era anche un messaggio di Indigo
che le chiedeva quando sarebbe tornata a casa. Oh, le sembrava di
avere non solo una fidanzata nascosta, ma anche una figlia nascosta a
carico. E quella? Una chiamata persa di Lillian, non ci
voleva… E
se la chiamava da Aruba doveva essere importante. Sperava solo che
non fosse per sapere di Faora Hui perché non avrebbe proprio
saputo
cosa dirle. Partì una nuova chiamata e Lena
sbuffò.
«Finalmente
ti sei decisa a rispondermi, Lena»,
sentì dall'altra parte, sopra un fruscio fastidioso.
«Non
puoi richiamare più tardi? Sono molto occupat-».
«So
di te e Kara».
Lena
si zittì, mordendosi il labbro inferiore.
«… Ingrid?».
«Ma
figurati, le lascio lo stipendio all'ingresso per non dover parlare
con me»,
la sentì sospirare ed era come vederla. «Gloria
Harris. Mi ha chiamata Gloria Harris».
Lena
spalancò gli occhi. «… la padrona di
Proiettile?».
«È
andata a ritirare un capo su misura da Felipe e lui si è
lasciato
sfuggire il gossip. Lo ha saputo da Marielle».
Lena si portò una mano contro la bocca, ascoltando sua madre
che
sembrava esasperata. «Naturalmente
è stata Ingrid a dirlo a Marielle questa mattina.
Così ho dovuto
prima convincere Gloria Harris che Felipe ha capito male. Ho dovuto
minacciare Felipe che avrei distrutto la sua carriera se avesse messo
in giro quella menzogna. Ho chiamato Marielle e ha pianto, giurandomi
che non lo avrebbe detto a nessuno. E infine ho dovuto telefonare
Ingrid, che ho intuito essere ancora in linea e non svenuta solamente
dai sospiri pesanti di paura».
Lena
abbozzò una risata, trattenendosi. «Ingrid lo ha
detto a Marielle
che lo ha detto a Felipe che lo ha detto a Gloria Harris? Lei lo
avrà
detto al cane. Lo ululeranno per tutto il vicinato», rise di
nuovo,
tappandosi un poco di più la bocca.
«Non
è divertente, Lena. Non è il momento per fare di
spirito, mi
sembra. Sono certa che potete evitare di dare spettacolo come animali
in calore di fronte al personale».
«Come
sei premuro-».
«Inutile
dire come me lo aspettassi».
«E
il viaggio di nozze come sta andan-».
«Evitate
almeno di fare certe cose in cucina».
«Eliza
come st-».
«Il
bancone è fatto per cucinare, Lena».
«C'è
vento o sei davanti al condizio-».
«Voglio
sperare che non abbiate fatto sesso in cucina».
«Che
bei discorsi madre-fi-».
«Sono
molto preoccupata per le condizioni igieniche di quella cucina,
Lena».
«Discorso
davvero edificante, lo terrò a men-».
«Se
proprio volete fare sesso, non comportatevi come conigli e aspettate
di essere in luoghi più consoni allo scopo».
«Devo
andar-».
«Il
letto, Lena. Il letto»,
proseguì imperterrita.
«Non quello in camera di Kara, che ci ha dormito zio Leo in
tempo di
guerra. Il tuo letto, se proprio…».
«Davvero.
Devo andare».
Lillian
sospirò, sopra a tutto quel fruscio. «Devo
solamente sperare che Gloria Harris, come mi ha giurato, non lo abbia
detto a nessuno e
non parlo del suo dannato cane»,
aggiunse velocemente. Sembrava davvero così preoccupata.
Lena
scosse la testa. «Tu lo sai che questa resta una cosa
temporanea e
che un giorno, si spera non troppo lontano, Kara ed io usciremo allo
scoperto come coppia, vero?». Finalmente, sua madre non le
parlò
sopra e, anzi, non disse più una parola. «Apprezzo
il silenzio»,
sorrise. Dopo poco staccò la chiamata. Sapeva che Lillian
avrebbe
dovuto pensarci su prima di avere una risposta seria da darle.
Sperava ne avrebbe parlato con Eliza, se non altro.
Da
Me a Vaniglia
Mi
spiace: mia madre sa.
Inviò
e si sistemò meglio sul divanetto, appoggiando la testa
stanca.
Lanciò uno sguardo alla borsa che aveva sistemato vicino e
sospirò
pesantemente, chiudendo gli occhi. Non sapeva come dirglielo. E
doveva farlo. Doveva farlo presto. Proprio perché volevano
essere
una coppia seria, e un giorno fidanzarsi ufficialmente, non poteva
nasconderle della pistola di suo padre che portava con sé.
Secondo
ciò che le aveva detto Alex il pomeriggio prima, si
aspettava di
dover litigare con lei e questo le metteva ansia.
«È
per un discorso generale sulle armi o non vorrebbe che io fossi
armata?», aveva domandato alla ragazza che, intanto, aveva
colto
l'occasione per scambiarsi velocemente uno sguardo con Maggie,
vicino. Erano andate al poligono e avevano aiutato Lena a impugnare
la pistola e a sparare. Le avevano dato il porto d'armi in fretta in
modi non proprio legali, dopotutto, e non aveva avuto modo di
imparare col giusto tempo.
«Kara
preferisce sistemare le cose in altro modo, non le piacciono le armi.
Potrebbe non prenderla affatto bene», le aveva detto
sinceramente.
«Ti direi di spiegarglielo in modo che capisca come ti
senti».
Lei
aveva arcuato un sopracciglio e scosso appena la testa. «Come
mi
sento?», domandò, non certa di aver intesto cosa
intendesse.
«Come
ti senti dall'attacco terroristico di Rhea».
Dall'attacco
terroristico? Lei pensava che- No. Insomma, non aveva paura. Se
chiudeva gli occhi, non rivedeva nessuno che cercava di ucciderla.
Stava bene. Lei e James Olsen avevano corso e un proiettile era
passato vicino alle loro teste, ma ce l'avevano fatta. Quando era
entrata all'interno dell'ufficio di suo padre, il suo assistente Winn
era riverso sul pavimento, aveva immesso la password in un cassetto
della scrivania, impugnato la pistola ed era corsa fuori
perché
James stava lottando contro due di loro. Due di quei terroristi coi
passamontagna. Quando era uscita, uno di loro era a volto scoperto.
Rivide il suo volto fra quelli delle persone arrestate. Lena aveva
seguito quasi ogni processo, alcuni dei quali accanto a Kara. Ma
stava bene. Come la faceva sentire? Non aveva paura, ma era vero che
si sentiva più sicura con la pistola vicino. Con la pistola
puntata
si erano fermati. Ma non per questo aveva paura, era solo per
sicurezza e impugnare la pistola le infondeva quella sicurezza.
Nessuno la rincorreva quando- Riaprì gli occhi di scatto e
prese un
grosso respiro. Si guardò intorno e dopo la borsa. Non aveva
paura
adesso, ma non voleva rischiare di averne mai più.
Maggie
guardò Charlie Kweskill con la coda dell'occhio, seduto sul
sedile
del passeggero mentre lei guidava. Si erano appena rimessi in strada
dopo aver controllato due attività di nuova apertura e lui,
solitamente molto loquace, quasi non aveva emesso fiato. Quanto bene
conosceva Faora? Il ragazzo era rimasto con lei come aveva potuto ma
non ieri notte, pensò. Maggie sospirò e
girò il volante, tenendolo
ancora una volta d'occhio. «Abbiamo qualche minuto di pausa,
ti va
un burrito? Conosco un posticino non lontano che fa al caso
nostro».
Notò come si fosse sforzato per sorriderle e annuire.
Parcheggiò
vicino ad altre auto e si sedettero sugli sgabelli di un bancone
davanti al chiosco che, nell'insegna, aveva un grande burrito in
verticale con tanto di scarpe e braccia che, sorridente, assaggiava
un altro burrito più piccolo. Si sarebbe aspettata qualche
battuta
di Charlie su come il disegno sembrasse sdoganare il cannibalismo,
invece restò zitto, forse nemmeno lo notò.
Ordinarono e Maggie
scambiò qualche battuta con l'anziano proprietario, prima di
dedicarsi di nuovo a lui: decise di sorridergli, sperando si
confidasse. «Offro io», disse, inclinando la testa
da un lato.
Lui
si accigliò. «Mi vedi messo così
male?».
Maggie
sorrise di nuovo. «Avevi una storia con lei? Con
Faora?».
Charlie
ingigantì gli occhi, diventando paonazzo. «No,
certo che no! Faora
era come una sorella, per tutti i burrito. Ho altri gusti»,
rise,
per poi addentare con foga il suo burrito e ringraziarla mormorando
con la bocca piena.
«Condoglianze».
Lui si limitò a un cenno e Maggie
sospirò appena,
nascondendo la bocca dietro il burrito. «Dev'essere
difficile.
Proprio quando non c'eri per il turno di notte», scosse la
testa,
«Cos'è successo, a proposito? Mi sarei aspettata
di trovarti in
ospedale quando sono arrivata questa mattina». Un morso e
guardò la
sua espressione. Oh, era così triste. In lutto, non c'erano
dubbi.
«Beh…
non- Non voglio parlarne», azzardò una risata
soffocata dall'aria
terribilmente triste che attraversò il suo sguardo. D'un
tratto gli
occhi lucidi. «È ancora presto, capisci? E-Era
come mia sorella e
adesso… e adesso è troppo presto».
Il
tempo di finire il burrito, bere dei sorsi d'acqua, pagare e
rimettersi in auto che Maggie decise di non mollare la presa: si
dispiacque per lui, era un bravo ragazzo, ma l'organizzazione in cui
stava aveva ucciso quella sorella che amava e doveva rendersene
conto. Non mise in moto e si voltò verso Charlie che, in
fondo,
aspettava di risentirla, tenendo la testa bassa.
«È stato lui, lo
so», bisbigliò e il ragazzo la guardò
negli occhi, sorpreso. «È
per forza stato lui, ha mandato qualcuno a ucciderla ma tu non eri
d'accordo, vero? Per questo ti ha costretto restare a casa,
stanotte?».
«No»,
scosse la testa, increspando la fronte, «No, no, no! Sono
rimasto a
casa perché volevo dormire dato che avevamo il turno
stamattina. Lui
chi? Chi intendi?».
«Zod»:
Maggie non si trattenne di certo. «È stato lui ad
aver spostato il
turno a stamattina, così sapeva saresti rimasto a casa a
riposare!
Tu non eri d'accordo con lui, vero?».
Charlie
si portò le mani sulla fronte all'improvviso e
gettò all'indietro
la testa, appoggiandosi con sconfitta sul sedile. «No che non
ero
d'accordo! Non me lo hanno detto, okay? Non ne sapevo
niente».
Maggie lo fissò attonita e lui diede un calcio in avanti con
frustrazione. «Ma il Generale non voleva», scosse
la testa, «Non
dipendeva da lui; non ogni cosa che succede dipende da lui».
«Lo
stai difendendo? Charlie? Faora è morta e-».
Lui
la interruppe, brusco: «E non è colpa
sua», ringhiò. «Smettila!
Non dire queste cose, non le dire! Ancora non sei una di noi, non sai
come funzionano le cose. Faora non doveva affidarsi a Rhea Gand e sai
cosa? Se lo aspettava. Me lo ha detto. Ma non abbiamo potuto farci
niente», scosse la testa. «Il Generale voleva bene
a Faora; non lo
conosci e non conoscevi lei. E adesso andiamocene, per
favore».
Maggie
girò la chiave nel quadro e si allontanarono dal chiosco.
Lui era a
pezzi. Era chiaro come Charlie Kweskill stesse soffrendo e cercasse
goffamente di trovare giustificazioni a ciò che era
successo. Aveva
trovato il punto debole su cui spingere per portare il ragazzo dalla
sua parte, ma era incredibile il suo attaccamento a Zod e
pensò a
lungo, durante il loro giro, a come spezzare quel legame. Se voleva
riuscire nella sua missione, doveva far soffrire Charlie, per quanto
brutto fosse anche solo il pensiero di doverlo fare. Ma era lavoro,
no? Si chiese, guardando lui con la coda dell'occhio mentre scuoteva
la testa e si riportava una mano sulla fronte. Era solo lavoro.
Lavoro.
Alex allungò lo sguardo verso una cliente e
assottigliò gli occhi.
«Signorina? Signorina, può accarezzare il
pellicciotto a casa con
tutta calma, se lo vuole. È in sconto come tutto
l'abbigliamento
invernale. Non deve-». Oh, la cliente la guardò
male e si
allontanò, nascondendosi dietro le stampelle di una corsia.
Accidenti. Che avesse perso il suo tocco? Forse non aveva
più
pazienza per stare dietro a tutto, pensò esasperata. O forse
perché
ormai le andava male qualsiasi cosa e il suo lavoro in boutique non
faceva eccezione. Ecco: la cliente sgusciò via dalla porta
principale quando non stava guardando. «Buona giornata anche
a lei,
eh», sbottò. Si accomodò sulla sedia
girevole e sbadigliò;
ripensò a Faora Hui un momento, solo un momento, rivedendo
quello in
cui le aveva sparato salvando Kara. Il suo cellulare vibrò,
distogliendola da quel pensiero. Oh, la segretaria di Max Lord: una
delle chiamate che più aspettava, finalmente. Forse qualcosa
stava
ricominciando a girare per il verso giusto. «Si è
liberato un posto
in agenda? Ma non mi dica», rispose sarcastica.
«No, no, non me lo
passi, non me lo- Ehi»,
forzò un sorriso e si portò un ciuffo di capelli
rossi dietro un
orecchio d'istinto, non poteva vederla. «La tua segretaria mi
stava
dicendo- Sì, sì, va bene. Oh, se spargessi la
voce ai dipendenti
sulla pennina usb te ne sarei grata. Sì, sono in
difficoltà… Non
così
in difficoltà, non ti allargare»,
sussurrò a denti stretti,
grattandosi sopra un occhio, «Ricorda che sono impegnata,
già. E
gay, già», ascoltò e gonfiò
le guance proprio in direzione di una
coppia appena entrata in boutique. Arcuò le sopracciglia e
scosse
una mano perché capissero che la scocciatura non era rivolta
a loro,
aggiungendo anche un dito verso l'apparecchio, ma loro dovevano aver
capito l'esatto opposto e tornarono sui propri passi, uscendo.
Sbuffò. «No, non mi stai annoiando: due clienti
hanno frainteso»,
serrò le labbra, «Lascia perdere.
Allora… sì, ci vediamo
presto». Chiuse la chiamata che lui la stava ancora
salutando.
«Signorina,
quanto viene questo?».
Alex
si girò brusca. «Che, non lo sa leggere il
cartellino?». Oh,
fantastico, si era giocata un'altra cliente: la donnina
abbassò la
testa, mise su una smorfia e tornò indietro; pian piano,
Alex la
seguì con lo sguardo mentre si avvicinava sempre
più alla porta
fino a uscire. Forse doveva considerare l'idea di non essere
più
tagliata per quel lavoro. Anzi, di non esserlo mai stata. Le sembrava
di essere diventata Kara. Sbuffò e riprese il telefono:
probabilmente doveva accettare quella chiacchierata con sua sorella,
dopotutto. Strinse gli occhi e compose un numero, appoggiandosi al
banco con un gomito. «Lena. Ehi, senti… non ho il
numero di
Indigo, se puoi recapitarle un messaggio per me… Lei
è brava e un
aiuto mi servirebbe. Se potessi prelevarla questo pomeriggio,
così
posso farle anche qualche domanda», giocò a
piegarsi le labbra con
le dita, nervosa, fissando un punto vacuo del negozio. Non che ci
fosse qualcosa di male in Carina Carvex che le aveva proposto il suo
aiuto ma, non sapeva bene perché, il suo istinto le diceva
che prima
avrebbe fatto meglio a cercare di arrangiarsi per conto proprio.
Forse Indigo poteva arrivare dove loro non arrivavano. Forse, non che
non si fidasse di Carina Carvex, ma se c'era davvero un infiltrato al
D.A.O. era meglio aspettare. «Ah, sì, di' a Kara
che sono molto
impegnata e adesso che Faora… voglio dare il massimo. La
chiamerò
questa sera sul tardi! Quindi siete tornate insieme?»,
aggrottò la
fronte. «No, beh, mi pare di capire… Stai facendo
le veci del suo
avvocato. No, no, dicevo così per- Va bene, devo andare,
passo a
prendere Indigo alla fine del turno in boutique. Saluta
Kara».
Sbuffò a chiamata conclusa, scoprendo un cliente a fissarla,
davanti
al banco. «Scusi, diceva?».
«Ancora
niente, ma vorrei pagare. Da quasi cinque minuti».
«Oh,
sì». No, non era tagliata per quel lavoro.
Indigo
sembrò riluttante ad andare con Alex, all'inizio. Guardava
il suo
cellulare ancora più in continuazione, come sperasse in un
permesso
scritto, ma alla fine si convinse a sedere con lei in macchina,
intanto che Lena le salutava dalla porta. Quest'ultima notò
come si
comportasse ancora più stranamente da quando lasciarono Star
City,
ma immaginò dovesse essere perché adesso che lei
e Kara erano
tornate insieme, considerava l'idea di non avere più
speranze. Che
fosse per quello o no, era davvero strana. Chiuse la porta e
guardò
l'ora: presto sarebbe arrivata Kara per studiare insieme, glielo
aveva promesso.
Da
Me a X
Alex
Danvers vuole che l'aiuti con alcuni dati che i terroristi di Gand
hanno lasciato in giro. Cosa devo fare a riguardo, angelo custode?
Da
X a Me
Puoi
procedere. Aiutala, ma avvertimi su ogni cosa nel dettaglio e mi
raccomando, Indigo, stai attenta a ciò che fai o dici:
è in gamba.
Alzò
la testa dal cellulare e sbirciò sul sedile davanti Alex che
guidava. «Finalmente quella chiacchierata promessa,
eh?».
Alex
la guardò dallo specchietto. «Fai un buon lavoro e
potrei mettere
una buona parola per te».
«Quale
onore», ingigantì gli occhi.
L'altra
non disse più nulla. In realtà, pensava davvero
che abbassarsi a
chiedere aiuto a quella ragazza era la riprova del suo sentirsi alle
strette. E se Indigo facesse parte dell'organizzazione? O il suo
garante e fosse ancora in contatto con lui? Proprio adesso le
venivano in mente quei pensieri terribili? Era tardi e il suo aiuto
sarebbe stato davvero utile… Avrebbe dovuto farle fare un
test,
forse. Ma prima le domande. «Dove hai detto che ti teneva
rinchiusa
il tuo garante? Hai detto che eri rinchiusa e sei scappata,
giusto?».
Guardò la strada e lei, la strada e di nuovo lei. Non se lo
aspettava e stava tergiversando, pessimo segno.
«Oh,
in un… vecchio magazzino. Sembrava un garage,
puzzava».
«Di
cosa?».
«Eh?».
«Di
cosa puzzava?».
Indigo
scrollò le spalle, guardando fuori dal finestrino.
«Di vernice».
«E
dov'era? Possiamo andare a darci un'occhiata, per capire se troviamo
indizi sul tuo garante misterioso».
«No,
senti…», guardò in avanti, sporgendosi,
tirando la cintura di
sicurezza. «Ho già spiegato a Lena-».
«E
io voglio che lo ripeti». Indigo sembrò scocciata
e Alex
assottigliò gli occhi.
«Come
ho
già spiegato a Lena»,
rimarcò, «sono scappata senza guardarmi indietro.
Non ricordo dove
diavolo ero, solo che mi trovavo nei dintorni delle vecchie
palazzine, dove abitavo da bambina. Ho dovuto manomettere una
centralina e sono uscita da una serranda».
«Quindi
non ricordi dov'eri, ma ricordi che eri nei dintorni delle vecchie
palazzine?».
«Sì.
Lo so che non mi credi, lo leggo dalla tua faccia, sorella
poliziotta, ma è così. Sono scappata di corsa e
quando mi sono
fermata ho notato di conoscere alcune strade: ecco perché le
palazzine», sorrise e riguardò fuori.
Non
un sussulto: analizzò Alex. Dopo un primo impatto
disorientato,
parlò con una naturalezza sfacciata e Alex non era certa
fosse la
verità, quasi come se dire bugie e la verità
fossero in fondo la
stessa cosa, per lei.
Da
Me a X
Non
crede a una parola di quello che dico, ma vorrà che l'aiuti
lo
stesso perché è stressata. Sicuramente non dorme
bene, ha le borse
sotto gli occhi. Questa indagine contro l'organizzazione la sta
consumando.
Da
X a Me
Tieni
per te le tue supposizioni e fa' il tuo lavoro. Non ti ho fatto
uscire di prigione per leggere le tue teorie. Non farmi ripetere,
Indigo.
Lei
alzò gli occhi dal telefono e gonfiò le guance,
seccata. Non
è divertente lavorare per te
scrisse velocemente, ma si trattenne dall'inviarlo.
«Scrivi
a lui?», aspettò che la guardasse, «Al
tuo garante?».
«Giocavo.
La nostra discussione era morta, e
così…».
Veloce,
pensò. Indigo aveva la risposta pronta.
La
portò a casa sua, dove era riuscita a portare una buona
parte del
lavoro. C'erano le chiavette recuperate dagli attacchi agli uffici
pubblici e alcune cartelle gialle, tra cui quella che volevano
lasciare alla CatCo. Aveva dovuto contrattare con Cat Grant per
averla, offrendole alcuni dettagli non troppo specifici da poter
divulgare. Avrebbe comunque preso quella cartella, lo diceva la
legge, ma aveva avuto paura dello sguardo minaccioso della donna.
«Abbiamo interrogato Rhea Gand su questa roba, ma come
è ovvio non
ha detto una parola», scrollò le spalle,
avvicinandosi al tavolo
con esasperazione. «Abbiamo interrogato i terroristi uno per
uno e
la solfa si è ripetuta. E lì dentro non
c'è nulla di
confermabile».
«Beh,
se non c'è lo scoprirò presto. Mi pare di capire
di essere qui
apposta, sorella poliziotta».
Alex
annuì, prendendo una chiavetta in particolare dal tavolo e
mostrandogliela. «Prima questa», le sorrise,
«È pieno di dati sul
capitano della polizia, ma nulla che lo incastri».
«Ci
penso io. Passami un computer».
Alex
la tenne d'occhio quando Indigo le strappò le chiavetta
dalla mano
per andarsi a sedere: era una delle sue pennine personali, ci aveva
raccolto vario materiale su Zod e lo teneva aggiornato costantemente.
Ma conteneva anche file compilati da lei e Maggie su vecchie
supposizioni, ormai superate, e dati obsoleti che ancora non si era
presa la briga di cancellare. Il tempo di mettersi a lavoro che
suonarono il campanello.
«La
tua tipa?».
«Ha
le chiavi», rispose, alzandosi dalla sedia.
Impugnò la pistola
lasciata sulla fondina appesa sulla spalliera e si avvicinò
cautamente, allungandosi per osservare dallo spioncino.
Sospirò e la
mise via appoggiandola su un mobiletto, aprendo la porta.
«Carina!
Cosa fai qui?».
Carina
Carvex mise su una smorfia con la bocca, alzando le spalle.
«Passavo
di qui e ho pensato che magari avremmo potuto lavorare a quei dati
insieme, se non hai altro da fare», sorrise. «Sei
con la fidanzata?
Ho interrotto qualcosa?», due passi e guardò
dentro, inquadrando la
ragazza che, senza battere ciglio, trafficava davanti a un monitor.
Guardò la bionda e poi Alex, tornando indietro.
«Oh, vedo, occupata
lo sei di sicuro. Credo che toglierò il disturbo»,
ridacchiò e
l'altra contrasse le sopracciglia, seguendola fuori.
«Ehi,
Carina! Credo ci sia un malinteso, quella…»,
indicò verso la
porta e l'altra agente rise, incurvando la schiena.
«Non
lo dirò mica a Maggie Sawyer», sorrise.
«Non fosse altro ma la
conosco appena, sei fortunata».
«No,
no, no, no, io e quella… no»,
rise anche lei, lasciandosi contagiare dall'altra fino a quando non
agitò una mano. «No, è
un'amica».
«Okay!
Non sono un prete, non aspetto una confessione». Rise e anche
Alex.
«Può essere chi vuoi».
Alex
chiuse la porta e perse subito il sorriso. Non le piaceva come si
fosse improvvisata a casa sua. Forse iniziava a diventare paranoica
anche lei… Sospirò, rimettendo via la pistola.
Lena
aveva insistito perché studiassero in cucina, a quell'ora
passava
più luce. E il fatto che Lillian fosse tanto preoccupata per
l'igiene di quell'area della villa era… sì, in
effetti era stato
piuttosto rilevante nella sua decisione. Portò un bicchiere
d'acqua
a Kara e lo poggiò vicino a un libro, rispondendo al suo grazie
con un sorriso. La vide controllare il telefono e rimetterlo sul
bancone.
«Siobhan
non ha risposto. Volevo la conferma sull'orario»,
bofonchiò; si
mise una penna in bocca mentre prendeva in mano un libro e lo
appoggiava su un altro che aveva sulle cosce, seguita dallo sguardo
di Lena: tolse la penna e giocherellò con quella tra le
dita, mise
su una smorfia con le labbra rosa, aggrottò la fronte, si
passò la
lingua tra i denti. «Me lo passi-», si
bloccò quando alzò la
testa e incontrò il suo sguardo, arrossendo.
«N-Non ho qualcosa tra
i denti, vero?».
«No»,
Lena sorrise, scuotendo lievemente la testa. Si leccò le
labbra e
Kara avvampò, deglutendo.
«Pensavo
davvero che avremmo studiato».
«Anch'io.
Dopo».
«Senza
Indigo… Senza
Ingrid»,
rise Kara, serrando i denti.
«Tornerai
tardi, stanotte».
«Già…
Po-Possiamo almeno mangiare qualcosa, prima? Ho fame
e…».
Lena
annuì. Si alzarono e sistemarono i libri da un lato del
bancone ma,
quando Kara si stava appena spostando, Lena l'agganciò tra
lei e il
mobile, facendola sussultare.
«Non
hai intenzione di lasciarmi andare, immagino». La vide
scuotere la
testa, mentre si avvicinava e le mordeva sotto un orecchio.
«O-Okay!
Volevo mangiare, ma-».
«Penso
che mangerò prima io».
Kara
rise con un tono di voce inaspettatamente alto.
«B-Beh». Voleva
prenderle un polso che Lena la bloccò di nuovo.
«Qui? Non è perché
tua madre al telefono-».
«No».
«No?».
«Ovviamente
no. Per chi mi hai presa?!».
Si
guardarono e Kara scoppiò a ridere. Nemmeno il tempo di
capire se
stesse dicendo sul serio che lei la baciò. Si baciarono e
ribaciarono. Lena la spinse contro il bancone e le sbottonò
la
camicetta, baciandole sopra un seno. Capì che stava per
sganciarsela
dai pantaloncini e la fermò con le mani sui polsi: non era
necessario. Salirono sul bancone e Lena, su di lei, la spinse in
basso; dopodiché arcuò la schiena e si
passò il top tra le braccia
e la testa, gettandolo a terra. Kara non fece in tempo a deglutire
che Lena era di nuovo su di lei per baciarla, strusciarsi addosso,
sbottonarle i jeans corti. Le prese i polsi e le tirò in
alto le
braccia, poggiandole i gomiti sul bancone.
«Queste
restano qui», le mise una mano sull'altra e
arrossì, sorridendo.
«O-Okay…».
Non oppose resistenza e Lena le baciò il braccio sinistro in
più
punti, stringendolo con forza. Non nascondeva di certo quanto le
piacessero le sue braccia. Le strinse davvero forte i bicipiti e
scese fino a spalancarle la camicetta, passando un dito sinuoso lungo
la giugulare e Kara trattenne il fiato. Le faceva entrare i brividi
ma… erano brividi belli. Lena poggiò la bocca
bollente appena
sollevò l'indice e Kara sentì un fuoco pervaderle
il corpo.
«Lo-Lo-Lo sai che- emh»,
aspettò che la guardasse ma lo fece a stento per forse due
secondi,
riprendendo a passarle il dito, e poi la bocca, lungo il corpo.
«Ce-Certo che lo sai, te lo RI-»,
si fermò, avendo alzato troppo la voce quando Lena le
abbassò il
reggiseno per giocare con un capezzolo. «Dicevo, che te lo
ricorderai-».
«Mi
piace quando sei nervosa», sorrise, leccandole l'ombelico.
«Non
sono nervosa».
«Inizi
a parlare. Cosa stavi dicendo?». Le spinse in basso i
pantaloncini e
Kara sollevò le braccia così che Lena la
sgridò, aggrottando la
fronte. «Rimettile lì», le
puntò il dito severamente e si sollevò
su di lei per rimetterle le mani una sopra l'altra. «O verrai
punita». Rise, osservando la faccia sgomenta di Kara.
«…
p-punita
in che senso?».
«Ti
piacerebbe scoprirlo». La vide spalancare gli occhi e infine
emettere un verso gutturale, forse nel disperato tentativo di
ritrovare la lucidità. «Allora, stavi
dicendo?», si morse un
labbro, «Io ricordo cosa stavo facendo». Le
punzecchiò la pancia e
poi la morse, facendola ansimare.
«…
ah, sì. Sì. Dicevo che tra poco, sì,
tra pochi giorni, sarà un
anno che-», alzò la testa e con occhi sgranati di
nuovo quando la
avvertì morderle un po' più forte.
«Tu… Tu sei ben consapevole
che io mi vendicherò, giusto?».
«Ah-ah.
Immagino di sì. Sarebbe un tuo diritto»,
bisbigliò.
Kara
scosse la testa, in un sorriso. «Sarà un anno che
ci conosciamo»,
riuscì a dire e spalancò la bocca quando Lena
infilò una mano
sotto i suoi slip.
«Dovremo
festeggiare», sorrise, abbassandosi di nuovo per morderle un
fianco.
Sì,
era decisamente meglio che pensare a sua zia. Il processo continuava
e anche quello di suo marito Non, lo zio con cui non aveva mai avuto
un grande legame poiché era sempre fuori per lavoro. O
così
dicevano. Kara ci ripensò anche fosse solo per poco mentre
era al
locale dove si teneva la festa per il ritorno alla CatCo di Siobhan
Smythe. C'era un grande televisore a schermo piatto sul muro sopra il
bancone e trasmisero un aggiornamento, e dopo anche quello sulla
morte di Faora Hui. Accese lo schermo del suo cellulare, ma Alex non
le aveva fatto sapere niente. Si voltò sentendo Leslie
Willis urlare
di avere altro da mettere nel bicchiere e altri colleghi intorno la
imitarono, ridendo e battendo sui tavoli. Erano palesemente ubriachi,
constatò. Almeno tenevano ancora sulla testa i cappellini
colorati e
a punta della festa. Ma dov'era Siobhan? Si voltò e
rivoltò e, oh,
non l'aveva notata prima: era sul bordo di un tavolo, da sola, con
una bottiglia e un bicchiere davanti. Non aveva una gran bella cera.
«Ehi,
biondina! Psst».
Stava per andare a raggiungerla che qualcuno la chiamò e si
voltò:
quell'uomo ruttò e le mostrò una rivista,
aprendola e indicandole
una foto. «Non sei tu questa qui?».
Kara
sbiancò: sotto gli articoli che parlavano di sua zia Astra
citavano
lei e i Luthor, notava dalle altre foto. Fantastico: avevano di nuovo
i giornalisti alle costole; e si lamentava lei che avrebbe
esattamente voluto fare la giornalista. La signora Grant
però era
stata chiara: era sua,
non poteva parlarne con nessuno. Scosse la testa e sperò che
fosse
troppo ubriaco per insistere, così si allontanò.
«Credo che siamo
le uniche non ubriache della festa», si sforzò per
sorridere,
sedendo vicino a Siobhan. Ma lei non la degnò di
un'occhiata. «Emh,
vero? Oppure la metà che manca te la sei scolata da
sola?», indicò
la bottiglia. Sperò di avere una sua reazione. Una
qualsiasi,
accidenti.
«Ti
ricorda una festa, questa qui?», finalmente parlò,
anche se con una
voce finissima, non quasi da lei.
«Non
lo è?», temette quasi a chiedere. Siobhan
finalmente alzò lo
sguardo dal tavolo, mostrando i suoi occhi segnati da profonde
occhiaie. Doveva aver bevuto eccome, ma forse si era limitata a un
bicchiere poiché sembrava troppo lucida e ricordava com'era
avere a
che fare con lei da ubriaca. Una cosa era certa: a quella festa,
Siobhan non si stava divertendo affatto. La ragazza borbottò
qualcosa di troppo basso da captare anche per lei, ma Kara non era
sicura che in fondo fosse qualcosa di senso compiuto e rizzò
le
orecchie.
«Aveva
ragione», disse e alla fine lo sentì. Siobhan si
versò da bere
fino all'orlo del bicchiere e l'altra la guardò con
sconcerto. «Sono
qui solo per far baldoria, quelli lì! Non per me! Aveva
ragione lui:
non sto simpatica a nessuno». Si portò il
bicchiere alle labbra con
fatica, gocciolando sul tavolo e sulla mano, e non lo lasciò
fino a
quando non ci fu più che una sola goccia sul bordo.
«Chi
aveva ragione? Non ti farà male bere
così?».
«E
non seccarmi, mamma»,
sbottò. Oh, quello lo faceva capire chiaramente.
«McBrown. Aveva
ragione McBrown: l'aveva detto che non sarei mancata a
nessuno»,
rise e si versò un altro bicchiere: Kara cercò di
allontanarglielo,
ma era abbastanza lucida da riuscire a morderle una mano.
«McBrown
quello che ti ha sparato?», aggrottò la fronte,
«Dai retta a
quello lì?».
Siobhan
sorrise intanto che cercava di alzarsi, scolato il bicchiere.
Sbarellò ma la spinse appena tentò di avvicinarsi
per aiutarla.
«Sei come una zecca, Danvers. 'dio,
vai a succhiare sangue altrove».
Kara
la tenne d'occhio mentre, ondeggiando, andava verso i bagni. Prese
Leslie Willis da una parte e provò a farle notare come
Siobhan fosse
esclusa e stesse male, ma non sembrò averla convinta o non
le
avrebbe fatto quella risata sorda di divertimento, per poi urlare
davanti a tutto il locale.
«Ehi,
Smythe». Tutti si girarono a guardarle. «Vuoi un
aiuto per
pisciare, fiorellino?».
Siobhan
alzò un braccio e le mostrò il dito medio; il
rapido gesto la portò
cadere all'indietro su un uomo che giocava a biliardo, facendolo
sbagliare. Kara la tenne d'occhio ancora per assicurarsi che entrasse
in bagno senza essere aggredita.
«Vedi?
Non lo vuole il mio prezioso aiuto», esclamò
Leslie prima di
ricominciare a ridere.
Possibile
che avesse ragione Siobhan? A nessuno in quella festa importava di
lei? La tirò via quando uscì dal bagno e prese a
pomiciare senza
motivo con l'uomo cui era caduta addosso. Le stava mettendo le mani
dappertutto e si stava aggregando l'altro giocatore, quando lei non
si era accorta di niente. Non era entusiasta della sua intromissione,
ma come poteva permettere che si facesse trattare in quel modo?
«Non
dovevi succhinare
sangue altrove?», si fermò da sola per mettersi a
ridere.
«Succhinare, Danvers. Succhinare! Vai a
succhinare», continuò a
ridere. «Ho bisogno di un altro bicchiere».
«Hai
bisogno di tornare a casa».
«E
perdermi il divertimento della mia splendida festa?».
Sapeva
che in quel modo Siobhan si stava autodistruggendo, ma più
di
controllarla e dirle che sarebbe stato meglio andarsene non poteva
fare. Pian piano tutti i loro colleghi se ne andarono e Leslie, nel
farlo, si nascose una delle bottiglie ancora chiuse in borsa: non
aveva tempo anche per lei e lascio correre, sbuffando. Promise a
Siobhan di riaccompagnarla a casa e inviò un messaggio a
Lena per
dirle che avrebbe fatto tardi e ad Alex… ah, la stava
ignorando,
per caso? Non si era fatta sentire per tutto il giorno. Decise di
lasciarle il suo tempo, riguardando l'altra che si leccava le dita
infilate in una bottiglia vuota.
Lena
lesse il messaggio e sorrise, per poi sospirare.
«Kara
farà tardi, uh?», domandò Indigo. Erano
sdraiate sugli sdraio in
giardino, osservando le stelle e ascoltando i grilli cantare. Avevano
entrambe una copertina e in mezzo un tavolino con succhi di frutta.
Lena
non le rispose, chiudendo gli occhi. «Che cosa vorresti fare
in
futuro?».
L'altra
si voltò a fissarla. «Intendi domani o un futuro
approssimativo?».
«Che
cosa hai sempre voluto fare, Indigo? Non hai mai avuto un sogno?
Un'aspirazione?».
Indigo
restò ferma a pensarci per un tempo lunghissimo, osservando
una
stella brillare. «Non lo so». Era sincera: non
aveva mai pensato a
una cosa del genere, probabilmente per aver sempre vissuto alla
giornata.
«Un
mestiere che da bambina avresti voluto fare una volta
grande?».
«Non
lo so».
Lena
accettò quella risposta, stando zitta. Lena lo sapeva, lo
aveva
sempre voluto: essere come suo padre. Rivedeva la sé bambina
che
prendeva una mano di Lionel ma, una volta grande, con più
consapevolezza, lo lasciava andare. Aveva la pistola in mano, adesso.
Non sapeva se avesse mai conosciuto veramente quell'uomo. Non
conosceva sua madre, quella biologica. Chi erano e la loro storia,
quale la sua…
«Chi
sono io?», chiese Siobhan e Kara si avvicinò
meglio contro il
tavolo. La ragazza era di nuovo in fase depressa. «Ho come la
sensazione di stare buttando la mia vita… Ques… to
lavoro è tutto ciò che ho e adesso ho paura di
metterci piede e…
La ferita brucia e quegli stupidi dei medici che-», prese
fiato,
deglutendo ciò che le era rimasto in gola. «Sono
sola, Fanvers.
Davers.
Danvers», si tenne la testa con le mani, lasciandosi andare
di peso
sul tavolo. «Ho speso tutto il mio tempo, tuuutto
per sentirmi realizzata e non ho mai… mai davvero notato
quanto mi
stessero lontano le persone. Stavo bene come ero prima della
sparatoria, okay? E adesso… E adesso invece… non
lo so più,
Fanvers.
Ho amici ma», si girò, alzando le spalle,
«dove sono loro, adesso?
Mi manca avere qualcuno. Forse. Che siano gelose o meno del mio
successo non-non mi interessa, dai, peggio per loro…
Però… Però
aveva ragione lui: sono sola».
«Ci
sono io».
Siobhan
si lasciò scappare una risata, rimettendo un dito nel collo
della
bottiglia e leccandolo. «Lo so! Ti tratto male e sei sempre
qui. Non
lo meriti… Sei come un cane», annuì e
rise, facendole allontanare
la testa quando provò ad accarezzarla con una mano pesante,
imitando
un verso. «Ho paura, Fanvers.
Danvers. Ho paura perché morirò sola…
senza sapere chi diavolo
sono o potevo essere».
«Dai,
ti riaccompagno a casa». Si alzò e le
allontanò la bottiglia,
meritandosi una parolaccia.
Riaccompagno
Siobhan: è ubriaca e non si regge in piedi. Poi sono da te! Inviò
a Lena, gonfiando le guance.
Era
vero che non si reggeva in piedi, ma di certo non si aspettava di
dover combattere con lei: il momento depressione era finito e ora non
faceva che ridere, cercare di sporgersi per correre da qualche parte
e aveva perso un tacco, di inchinarsi per raccogliere monete che
vedeva solo lei, e di baciarla. Accidenti, aveva provato a baciarla
già due volte da quando lasciarono il locale e poi si
metteva a
ridere di gusto, attirando gli sguardi dei pochi passanti.
Pensò che
oramai avrebbe pomiciato con chiunque, impestando l'aria di alcol
ogni qual volta che apriva la bocca.
«Voglio
baciarti, Fanvers.
Danvers. Il tuo cognome è così luungo».
«Ti
pentirai di quello che stai dicendo e facendo, quando tornerai in te
dopo la sbornia».
«È
qui che ti sbagli, dolcezza», rise, reggendosi al suo collo.
«Vuoi
salire?».
«Io
porto su te», puntualizzò. Quando Kara si
fermò davanti al portone
che il navigatore diceva fosse di casa sua, cercò di
lasciarla in
piedi ma barcollava troppo.
«Tu
te ne pentirai se non- Tutti vorrebbero me»,
proseguì, mentre l'altra cercava di aprire con lei
attaccata. Cercò
di baciarla di nuovo e Kara scansò la testa tirando il collo
indietro più che poté.
«Va
bene». La lasciò un attimo, riuscì ad
aprire e- Siobhan cascò a
terra come un sacco di patate. La trascinò per le scale
sentendola
ripetere che se ne sarebbe pentita. Aprì la porta e diede
un'occhiata veloce, allora la accompagnò sul letto, dove si
gettò
di peso.
«Resti
a farmi compagnia?».
«Siobhan…
Se dovessi raccontarti domattina quello che mi stai
dicendo-».
«E
fai come vuoi, Fanvers.
Danvers. Poi non ci sarò più. Perché
quando sarò lucida, il mio
culetto uscirà da quella porta e-».
«Questo
è il tuo appartamento. E quella una finestra».
«Stai
cambiando discorso».
«No».
Scrollò le spalle, «Hai bevuto troppo».
«Peggio
per te… E quando ti ricapita?», esclamò
in un singhiozzo, «Poi
ti odierò di nuovo perché sei perfettina
stupidina…
È la mia prima esperienza con una ragazza»
«Okay,
m-ma noi non-».
«A
parte al liceo», rise, stirando il braccio destro e
ondeggiando una
mano per aria. «Gira tutto, guarda le orbite»,
rise, ributtando la
mano con peso morto sul materasso. «Al liceo era diverso,
capisci? I
ragazzi facevano i ragazzi, no, le ragazze, e le ragazze
facevano…
ho perso quello del discorso».
«Il
filo».
«Sì»,
rise di nuovo, «Al liceo bevevo di brutto».
«Credo
tu abbia un problema con l'alcol. O con la tua omofobia
interiorizzata».
Alzò
la testa di scatto, reggendosi con i gomiti sul materasso.
«Chi è
interiore,
scusa? Come ti permetti? E io che ti ho anche invitata a fare sesso
con-», si bloccò, gonfiò le guance e
sgranò gli occhi, Kara
corse, stava cercando un cestino o un recipiente che Siobhan alla
fine si portò una mano contro la bocca e riprese a ridere,
gettandosi sul materasso. «Falso allarme, Fanvers.
Danvers», disse, continuando a ridere.
Kara
sospirò e si portò le mani sui fianchi.
«Sai, anche se non fossi
impegnata, e anche se fossi una persona più…
diciamo tranquilla,
non sarei comunque venuta a letto con te. E non perché sei-
beh,
no-non sei brutta, ma… sei ubriaca, Siobhan»,
strinse i denti e
scosse la testa. Lei era zitta, adesso, ma le notava gli occhi
aperti. «Chi verrebbe a letto con te in queste
condizioni?».
«Tutti».
Non poteva vederla, ma Kara scrollò gli occhi. «E
io sono
meravigliosa, lo so che sono meravigliosa, nessuno si è mai
tirato
indietro».
«Dovresti
trattarti meglio», sbottò. «Puoi andare
a letto con tutti quelli
che ti pare, ma non così, Siobhan. Non così, non
ne sei in grado».
Riprese la borsa lasciata sul bordo del letto e se la rimise in
spalla, «Devo andare, riguardati».
«Aspetta»,
la chiamò con una voce di nuovo bassa e Kara si
fermò: aveva smesso
di ridere? «Non sono meravigliosa davvero…
è per questo che lui
aveva ragione, lo sappiamo tutte e due. E tu sei… sei
così…
così», cercò le parole, impastando la
bocca, «perfettina
stupidina
che… Come faccio a essere più simile a te? Tutti
amano Kara, non
Siobhan».
«Proverai
a baciarmi ancora se mi siedo?», aspettò un suo
verso contrariato
prima di avvicinarsi, scrivendo a Lena che ci avrebbe messo ancora un
po'. «Non devi essere simile a me, Siobhan. E non sono
affatto
perfetta, e non tutti mi amano! Tu non sei sbaglia- Sei un
tipo
di persona, ma hai un sacco di pregi», si fermò
quando la sentì
singhiozzare, voltandosi. «Stai piangendo?».
«Sto
perdendo acqua, certo che sto- Devo vomitare». Si
alzò di corsa a
occhi sgranati e Kara con lei, standole dietro fino ad arrivare al
bagno. La seconda la aiutò a piegarsi ma le
scacciò una mano quando
premette sul cerotto. Tirò lo sciacquone e si
sfilò la maglia corta
davanti a lei, togliendosi il cerotto e aprendo il mobile per
prendere la scatola.
«Non
hai- Siobhan!», scosse la testa, «Non hai bisogno
di quello».
«Sì
che ne ho bisogno».
«No,
vedi, non hai più-».
«Lasciami»,
si divincolò e applicò il cerotto pulito. Storto,
ma lo applicò.
Neanche sentì che metà cicatrice era rimasta
fuori. Non le faceva
male: era altro a farlo. Si portò a tentoni di nuovo sul
letto e
Kara riprese il telefono, allontanandosi dalla camera da letto:
«Lena,
farò davvero tardi: sta male e aspetto almeno che si
addormenti, che
si riprenda un po'».
«È
meglio se resti, Kara, non lasciarla sola»,
le consigliò con voce calda, «Buonanotte.
Ti amo».
Kara
era un po' dispiaciuta, ma sapeva anche lei che era la cosa giusta da
fare. «Buonanotte e ti amo anch'io». Chiuse e si
andò a sedere a
terra, con spalle contro il materasso. Alzò gli occhi e si
spostò
quando si accorse di essere in direzione di vomito.
«Pensavo
a una cosa… da un po'…»,
mormorò e Kara stette a sentire.
«Sarei dovuta morire… quando mi ha
sparato?».
«Non
dirlo neanche per sogno!», alzò la voce e Siobhan
si tirò in su
con spavento, reggendosi il petto.
«Sei
ancora qui, tu? Oddio, credevo di parlare da sola».
Kara
non riuscì a fare a meno di ridere, convincendola a tornare
a
sdraiarsi. Le confidò così di essere stata sua
fan un tempo, come
lei fosse stato il suo esempio. Nascondendole di esserlo stato solo
fino a prima di conoscerla, almeno. Se faticava a capire chi era,
poteva fare lei un esempio.
Parlarono
finché non si addormentò. Poi la
accompagnò di nuovo a vomitare e
di nuovo a letto. Quando la sentì russare,
giocherellò col
cellulare per restare sveglia ancora un po' e lesse di altre notizie
riguardanti sua zia, dei processi in vista su chi aveva ucciso
materialmente i suoi genitori e come la citassero spesso. Come la
stava vivendo all'interno della famiglia Luthor, ora che ne faceva
parte? Accusavano Lillian ed Eliza di essere partite in viaggio di
nozze, lasciando lei ad affrontarlo da sola. Spense lo schermo del
telefono e appoggiò la testa contro il materasso, sbuffando.
Astra
sarebbe tornata nella sua vita molto presto. Era sua zia e, da
qualche parte, le voleva bene. I suoi genitori erano morti e lei
voleva bene a chi in parte ne era stata la causa: che razza di
persona era? Astra l'aveva cresciuta. Chi sarebbe diventata, un
giorno, Kara Danvers?
Nel
frattempo, Alex era seduta sul letto, con il cellulare in mano e le
dita quasi sullo schermo: doveva chiamare Kara, ma ormai era tardi.
Intravide con la coda dell'occhio Maggie che si rivestiva di corsa
dall'altro lato del letto, infilando un jeans. «Sei sicura
che devi
andare?».
«Sì.
Voglio
andare», specificò, infilando una maglia corta e
dopo le scarpe,
saltellando sul tappeto. «Chiama tua sorella, ti sta
aspettando. E
se si sveglia Jamie, sono andata a comprare il gelato»,
sorrise.
Alex
sospirò. «Chiamami per qualsiasi problema e arrivo
subito». Poi ci
pensò, quando lei era già alla porta:
«Il gelato? A quest'ora?».
«Funziona
sempre», richiuse e corse. Prese la macchina e, quando
arrivò sotto
al ponte, vicino al bar segnalato dal ragazzo, notò che
c'era Adrian
Zod con lui. Charlie era riverso sui ciottoli, fra la puzza: era
sporco, piegato su se stesso, piangeva e gridava. Maggie
sentì
subito un forte odore di alcol nell'aria. Non sapeva perché
aveva
chiamato lei invece di chiunque altro e non mancò di pensare
che
fosse una sorta di trappola per portarla dalla loro parte, ma quel
pensiero svanì non appena scorse i suoi occhi e ci lesse la
disperazione: nessuno poteva fingere in quel modo.
«Guarda,
Charlie, è arrivata Maggie. Maggie Sawyer».
Lo
sguardo del giovane la pugnalò dritta al petto. Parlare a
Charlie di
Faora Hui era solo lavoro, giusto? Farlo soffrire lo era?
L'organizzazione andava fermata a qualunque costo, era esatto?
Riuscirono
a portare Charlie sui sedili posteriori dell'automobile del Generale
e lui, incredibilmente, si fermò per ringraziarla.
«Non ha più
nessuno, Sawyer. Con i suoi non parla da tempo e sua sorella, quella
vera, è morta da bambina. Lei era malata. Aveva ritrovato
con Faora
qualcosa di simile, per questo lui… Per questo te lo sto
dicendo.
Non vorrei che si legasse a te in quel modo, adesso».
«Non
è un problema, per me», rispose lei, svelta. I
suoi occhi scuri,
pensò Maggie: i suoi occhi scuri erano tristi, soffriva.
Anche lui
era in lutto. Come poteva? L'organizzazione era più
importante della
vita di quella ragazza, per non aver fatto niente per impedirlo?
«Condoglianze anche a lei, signore».
Lui
annuì, distogliendo lo sguardo. «Sembra difficile
immaginarlo, non
è vero? Mi vedono tutti dal basso all'alto come se
fossi… non lo
so», si resse la fronte e sospirò: anche lui aveva
bevuto, a
giudicare dall'alito. «Sono una persona anch'io, Sawyer. Non
ho
potuto salvare Faora quando potevo, non avrò mai…
non avrò mai»,
sospirò di nuovo, «una confessione da parte di
Rhea Gand e mi
sento… non lo so, perso. Forse. Nessuno lo capisce,
questo», serrò
le labbra e Maggie si incuriosì, inclinando la testa da un
lato.
«Una
confessione su cosa», deglutì,
«Generale? Sull'omicidio di Lar
Gand?». Aveva fatto una registrazione in cui lo diceva, come
poteva
essere?
«Le
saresti piaciuta, lo so», annuì più a
se stesso che a lei,
scorgendo Charlie Kweskill che si era addormentato sdraiato su quei
sedili. «A Petra. Saresti piaciuta a Petra».
«Petra…
la sua fidanzata, Generale?». Ricordava di aver letto di lei,
Lena
Luthor aveva detto qualcosa a riguardo ad Alex e a lei. Cosa
significava che voleva da Rhea una confessione? Non era sua sorella?
«Mi dispiace per Petra, signore».
Lui
annuì ancora, le diede una pacca su una spalla e
aprì la portiera
della macchina, svegliando Charlie con un sussulto. Si portò
al
volante ma, prima di mettere in moto, si passò una mano
sulla fronte
sudaticcia. «Passi il tempo a sperare in una confessione per
poterle
dare l'ultimo saluto ma hai paura che se accadrà, non
sarà come ti
aspettavi e non vuoi lasciarla davvero andare. Ha senso per te,
Sawyer?».
Li
guardò andare via ed entrò nella sua automobile
con la tachicardia.
Pestò il volante e dopo strinse gli occhi, appoggiando la
testa sul
sedile. Non sapeva cosa fare, cosa pensare, come muoversi, come
affrontare la sua infiltrazione e come ingannarli. Come avrebbe
potuto? Chi
avrebbe potuto?
Kara
rispose subito al cellulare quando lesse il suo nome, non potendo
fare a meno di formare un sorriso. «Finalmente ce l'hai
fatta».
«Scusa,
sorellina. Stavo per non farlo. Non avrei voluto
farlo…»,
confessò Alex. «Mi
sento una fallita, in questo momento e non volevo che, per
te…».
«Lo
so», mormorò Kara. «Per questo avresti
dovuto chiamarmi subito,
invece, scema. Tu non hai fallito proprio niente, non potevi fare
più
di ciò che hai fatto… anche per Faora. Ma se
davvero credi di aver
fallito in qualcosa, allora rialzati. Ci si rialza sempre e lo sai
più di chiunque altro», si fermò quando
la sentì piangere. «Sei
la migliore di tutte, Alex», sorrise ancora, «La
mia sorellona è
sempre la migliore».
E
finalmente Alex! All'ultimo, proprio all'ultimo, ma sei riuscita a
chiamare Kara!
Faora
Hui è stata uccisa alla fine dello scorso capitolo e ha
lasciato
alcuni personaggi disorientati.
Alex
in primo luogo perché è stata quella che le ha
sparato per
proteggere Kara (cap 37), la madre della ragazza l'ha accusata in
ospedale e, soprattutto, la voleva proteggere dall'organizzazione.
Che poi non è un bel periodo per la maggiore delle Danvers,
considerando che, ogni cosa che fa, non mostra risultati: dalla
protezione di Faora alle indagini con le chiavette, per concludersi
con il suo appuntamento dal direttore di Fort Rozz che ha deciso di
chiederle un mandato se vuole sapere del garante di Indigo (a
proposito, se volete leggere il pezzo tagliato, potete farlo qui). È
un bel pasticcio e ora teme perfino che ci siano spie di Zod
all'interno del D.A.O.: non riesce a fidarsi completamente di Carina
Carvex, anche se la conosce da diverso tempo, ma questo la porta a
dare una chance a Indigo.
Charlie
Kweskill è crollato sotto il peso del lutto e Maggie Sawyer
si trova
ora davanti a un bivio: è il punto debole del ragazzo, ma
sarà
disposta a fargli del male pur di fare il suo lavoro? Quale tipo di
persona lo farebbe? Che poi è il tema del capitolo: che
persona sono e sarò destinata a diventare?
Kara
ripensa a sua zia ed è alle strette, Lena a volte sente di
non avere
radici e porta con sé una pistola, Siobhan si
è persa nel suo
trauma.
Ma
non ci sono solo cose drammatiche, su! Kara e Lena stanno vivendo
insieme (a Indigo) in villa e sono… ah,
sono state scoperte! Ops.
Volevano tenere per loro la relazione e invece la giardiniera Ingrid
lo ha detto a Marielle che lo ha detto a Felipe che lo ha detto a
Gloria Harris, la proprietaria del famoso Proiettile, che non ha
perso tempo per dirlo a Lillian anche se in questo momento si trova
ad Aruba! E Lillian ora starà saltando dalla gioia! Mi
sembra quasi
di vederla!
Capitolo
lungo, lo so, ma era difficile farci star tutto >__<
Il
prossimo capitolo, tremendamente di passaggio, si intitola Di
piani segreti e traumi di cristallo e
sarà pubblicato il 19 settembre! Tremendamente e
drammaticamente
di passaggio, pare dal titolo °°
|
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Capitolo 55 *** 53. Di piani segreti e traumi di cristallo ***
Le
arrivò un messaggio e si alzò dal letto,
vestendosi di fretta. Era
già sveglia e lo sapevano che non era solita dormire molto.
Aprì il
portone e l'alto cancello dorato connettendosi con il suo cellulare,
disattivando la sirena che segnalava il passaggio. Era ancora buio e
Indigo si tirò il cappuccio sulla testa, voltandosi indietro
un'ultima volta prima di salire sulla berlina parcheggiata fuori che
la aspettava, col terrore di essere sorpresa a uscire dalla villa,
prima o poi.
«Basta»,
disse stringendo i denti mentre si sfilava il cappuccio dalla testa.
«Questa storia deve finire, l'ho già detto al tuo
capo: non
possiamo vederci nel cuore della notte e non per quelle stupide
foto».
«Non
è il mio capo», rispose Noah seduto a fianco, sul
sedile del
guidatore. Come se lui si divertisse a viaggiare quasi ogni notte per
la zona residenziale di National City; il lavoro era lavoro, ma
quello diventava monotono anche per lui che era un investigatore e
restava appresso a loro già fin troppo tempo durante il
giorno.
«Non
posso averle e se mi beccano qui fuori cosa faccio? Odio non avere in
mano un piano ben preciso o delle certezze qualsiasi».
«Lui
dice che avere queste foto ti aiuta a concentrarti sul tuo
obiettivo», le rispose l'uomo, passandole una cartellina
gialla di
carta.
«Ho
capito», sbuffò di nuovo, arrendevole. Gli
strappò la cartellina
dalla mano. «Ci stai spiando e, se non porto a termine il mio
incarico, ve la prenderete con lei», esclamò
Indigo senza
guardarlo, incantandosi a osservare gli alberi neri per via della
notte che, lontano dal finestrino, venivano sballottati dal vento.
«Ma come ho detto: non posso più tenerle,
caro», gli sventolò la
cartellina gialla. «Kara Danvers mi ha trovato le foto e, se
me ne
trova altre, sono fregata. Gliel'ho spiegato, ma sembra non
ascoltarmi».
L'uomo
si costrinse un sorriso, scrollando le spalle. «Ti ascolta,
Indi. Ma
teme che tu ti distragga: gli hai parlato di come la signorina Luthor
ti sembri turbata e sa cosa provi… Vuole riportarti sulla
strada
giusta».
La
giovane decise di avvicinarsi lentamente al volto dell'uomo
spingendosi con le braccia sulle maniglie del sedile. Aprì
la bocca
piano, sussurrando: «Lo sono». Lui restò
immobile fin quando lei
non si riportò composta sul sedile, sbuffando.
«Oggi starò via con
Alex Danvers, a proposito. E forse non solo oggi, non posso tirarmi
indietro, è come se mi avesse grossomodo noleggiato.
Non potrò stare dietro a Lena e proprio oggi che lei e
quell'altra
andranno a Gotham City», alzò gli occhi al cielo.
«Sai del piano?
A lui l'ho raccontato».
«Sì
e non gli interessa, quindi puoi restare con Alex Danvers,
ma…».
«Ma?»,
alzò le sopracciglia.
«Mi
ha pregato di dirti di andarci piano, non sei completamente libera di
agire».
«E
lo dice solo adesso? Ieri-».
«Ieri
le cose erano diverse. Puoi aiutarla, ma fai che i dubbi restino
dubbi, non puoi spingerti oltre», spiegò Noah,
annuendo.
«Ha
ricevuto lamentele, forse? Qualcuno dell'organizzazione non vuole che
mi impicci negli affari loro?».
Lui
scosse appena la testa, guardando altrove. «Non posso dirti
niente,
Indi. Solo… fai il tuo lavoro, non quello degli altri. Ah»,
sorrise a un certo punto, aprendo il cruscotto. «Spero non
abbiamo
preso troppo caldo qui dentro, tieni». Le passò un
fagotto color
pastello e Indigo sgranò gli occhi, arrossendo
involontariamente.
«Carol li ha tenuti da parte per te, sono biscotti alla
cannella. Mi
ha pregato di portarteli o Amber e Adam li avrebbero fatti fuori
tutti».
«Ah…».
«Ti
salutano, però».
La
ragazza ne era felice, eppure sbuffò: «E come
pensi che li potrò
nascondere, questi, eh?».
«Finiscili
prima della luce del mattino», le consigliò prima
di sbloccare la
portiera.
Scese
e fece per chiudere il cancello, salutando l'uomo con un cenno del
capo che non era neppure certa avrebbe visto, nel buio. Biscotti alla
cannella, questa era nuova. Aprì il portone con cautela e lo
richiuse, salì le scale con passo felpato e si chiuse nella
camera
che Lena le aveva affidato, affacciandosi in un lungo e antico
specchio da terra prima di raggiungere il letto. Aprì il
fagotto e
iniziò a gustare i biscotti che aprì la cartella
gialla delle foto.
Era certa che avrebbe visto Lena come sempre ma si stupì,
tirando
fuori la prima: era lei. Era lei impressa mentre guardava qualcosa,
da lontano. Prese subito le altre foto e scoprì che erano
tutte sue
e in tutte era rappresentata con lo sguardo distante, sognante: non
guardava una cosa qualsiasi, ma Lena Luthor. In ogni foto, lei
guardava Lena e un brivido le percorse la schiena.
Stupido
Noah. Stupido angelo custode.
Quando
quella mattina Kara si svegliò sul tappeto di una camera da
letto
che non conosceva, per poco non si spaventò. La testa le
girava
quasi avesse bevuto lei e la schiena era a pezzi, senza contare che
puzzava di sudore e di prodotto contro gli acari. Ah, lo sentiva su
per il setto nasale: doveva averlo respirato tutta la notte. Fuori la
mattina era ancora giovane ed era abituata a sentire gli uccellini
cinguettare al campus e in villa, ma lì sentiva solo il
rumore del
passaggio dei camion e voci che parlavano, gridavano e ridevano in
quello che sembrava proprio cinese.
«Vuoi
farti la doccia?».
Alzò
la testa e Siobhan era in piedi, già lavata e truccata, ben
vestita
e pronta per presentarsi alla CatCo. Avrebbe lavorato per quasi tutta
l'estate, a differenza sua. «Buongiorno anche a te.
No», si
strofinò un occhio. «Non ho cambio, torno in
villa».
L'altra
scrollò appena le spalle. Stava per allontanarsi ma
cambiò idea
all'ultimo, tornando sui suoi passi. «Emh,
senti…», abbozzò una
risata poco convinta, «riguardo ciò che
è successo ieri-».
«Ti
ricordi qualcosa?».
Spalancò
la bocca e infine chiosò in fretta:
«No». Aggiunse una scrollata
di spalle e Kara scosse la testa.
«Allora
neanch'io…?».
Si
scambiarono uno sguardo e Siobhan, palesemente nervosa,
sparì in
fretta dalla camera, per poi urlarle di raggiungerla per fare
colazione quando sarebbe uscita dal bagno.
Kara
ci entrò e intravide subito la scatola dei cerotti sopra il
lavello.
La prese e sbuffò, immaginando che non sarebbe riuscita a
farle
capire di non averne bisogno. Dopo guardò intorno: ieri
notte,
quando era entrata in bagno, dormiva quasi in piedi e non ricordava
neppure com'era fatto. Era poco più piccolo del bagno in
casa
Danvers-Luthor e decisamente ordinato; tanti profumi in bella vista e
in fila su uno scaffale, degli asciugamani colorati piegati uno sopra
l'altro su un mobile, un adesivo con dei delfini nell'alto angolo
sinistro dello specchio, e c'erano delle ciabatte pelose a terra,
accanto al cesto della biancheria. «E così questa
è casa tua,
eh?», esclamò quando uscì, chiudendo la
porta. Seguendo la strada
per la cucina, si incantò a osservare un piccione
comodamente
adagiato sul davanzale di una finestra. «Non me la
immaginavo…
così»: conoscendo i suoi gusti raffinati, si
sarebbe aspettata un
certo stile anche nel resto della casa, e non certo
quell'appartamento modesto o la collezione di fatine e fiori su un
mobile in salotto. Erano davvero carine.
«Ah,
sì?», sbottò offesa, «E cosa
ti aspettavi? Non ho i soldi che mi
escono da ogni orifizio come la tua sorellastra barra
amante barra…
quel che è, Danvers».
A
Kara venne da ridere. Normalmente le avrebbe dato fastidio, ma questa
volta decise di non prendersela. «Stiamo insieme di
nuovo», rispose
e Siobhan la guardò, aprendo il frigo. «Voglio
dire, non è una
cosa ufficiale e se
potessi non dirlo a nessuno, grazie»,
disse d'un fiato, «te lo dico da amica e perché
così non devi
usare il… la
barra,
ecco…», gesticolò, sedendo su una sedia
davanti al tavolo. Tenne
d'occhio la sua espressione quando lo disse, ma Siobhan ben
pensò di
nascondere il viso dietro lo sportello del frigo e ignorare il tutto.
«Cosa
mangi, di solito?». Ecco, cambiò argomento.
Si
fece dare un passaggio in macchina fino alla strada sterrata per
villa Luthor-Danvers. Oh, davvero non vedeva l'ora di toccare terra:
in auto con Siobhan Smythe era come stare sulla giostra fuori
percorso e senza freni. Senza contare che urlava e sbuffava per ogni
macchina, o pedone, secondo lei fuori posto. E imprecava se solo, per
giunta, notava qualcuno guardarla di traverso. Ringraziò
chissà
quale Dio quando toccò terra, tuffandosi fuori dallo
sportello.
Stava per chiudere che l'espressione di Siobhan la fermò:
era così…
distante, come se si fosse paralizzata per alcuni pensieri di troppo.
«Va tutto bene? Vuoi aspettare e andare insieme alla
CatCo?».
Ricordava solo adesso che in uno dei tanti farfugliamenti della notte
prima, Siobhan le aveva confidato di aver paura di rimettere piede al
lavoro. C'era tutta la sua vita lì, ma era anche il luogo
dove le
avevano sparato.
Si
destò all'improvviso e, dopo un attimo di smarrimento,
aggrottò la
fronte. «No, perché dovrei? Ci vediamo
lì».
Se
ne andò con la stessa velocità di un cavallo
imbizzarrito e Kara si
chiese se non fosse un po' troppo orgogliosa da riconoscere di aver
bisogno di aiuto. Così si mise in marcia per la villa, non
mancava
molto. Sapeva che aveva poco tempo: doveva andare alla CatCo, poi al
campus e approfittarne per mangiare qualcosa, di nuovo alla CatCo e
di corsa alla Luthor Corp per prendere l'elicottero che le avrebbe
portate a Gotham. Ma quando Lena le aprì il portone e la
baciò,
qualcosa in lei scattò: le strinse i fianchi sopra una
maglietta e,
con foga, approfondirono il bacio, finendo contro il portone e
sbattendolo al muro. Lei le sorrise e Kara arrossì,
guardandola
negli occhi, ancora tanto vicine da avere il respiro ognuna sul viso
dell'altra. «O-Ops…
C'è Indigo che-?».
«Non
preoccuparti, tigre: Indigo è in giardino». Si
separarono e si
misero a ridere, chiudendo dietro di loro. «Temevo andassi
direttamente alla CatCo».
«Mi
devo lavare e cambiare, puzzo di insetticida. E questo?».
Prese un
pacchetto imballato lasciato sopra il mobiletto all'ingresso.
Lena
la abbracciò per le spalle, baciandole la schiena e facendo
una
smorfia. «Sì,
puzzi.
È la chiavetta che ha inviato tuo cugino, con i dati
lasciati alla
Luthor Corp dagli uomini di Rhea Gand».
«Perché
non l'hai aperta?». Aprì subito il pacchetto,
mentre l'altra le
diceva che era indirizzata a lei. «Potevi farlo».
Un bigliettino le
diceva che lui e Lois avevano fatto una copia dei dati e che le
mandavano i loro saluti e baci. Sorrise e le mostrò la
chiavetta.
«Un lavoretto per Indigo non appena si libererà
con Alex».
Lena
guardò verso il giardino e strinse le labbra. «Non
sono sicura di…
Mi sembra di sfruttarla, così».
«Si
è proposta lei».
«E
la stiamo sballottando da una parte all'altra»,
sbuffò, ma si
distrasse in fretta, mordendosi un labbro. «Non devi farti
una
doccia?».
«Tu
te la sei già fatta?». Le lanciò
un'occhiata e le si imporporarono
le gote, nascondendo un piccolo sorriso compiaciuto: «Mi
piace
quando indossi le mie magliette».
Lei
rise, dondolando sui talloni delle calzette. «Non volevo che
Indigo
mi vedesse in camicia da notte. E no, la doccia è ancora nei
programmi da fare». Scosse la testa e le fece cenno di
seguirla:
Kara si mosse e a quel punto lei le fece la linguaccia, così
da
farsi correre dietro.
Sfruttarono
il bagno in camera di Lena e Kara l'aiutò a riagganciarsi il
reggiseno, baciandole le spalle. L'aria era così calda di
vapore e
la loro pelle così morbida che non avrebbe voluto staccarsi.
«E
com'è andata con Siobhan? Si è
ripresa?», le chiese d'un tratto,
voltandosi e scambiando con lei un bacio. Kara fece una smorfia
incerta e Lena le sistemò i capelli sulle spalle; era
già
sfortunatamente vestita.
«Non
lo so… So che le hanno consigliato lo psicologo per
ciò che le è
successo, ma non credo abbia fatto tutte le visite che le
spettavano», alzò gli occhi al soffitto e Lena ne
approfittò per
metterle bene il colletto della camicia. «È come
se si rendesse
conto di aver bisogno di aiuto solo quando beve», ci
pensò,
«Oppure… beve quando si rende conto di aver
bisogno di aiuto.
Cos'aveva
che non andava il colletto?».
Lena
accennò un sorriso e si infilò il vestito,
così Kara le tirò su
la cerniera. «Lo sai che non puoi salvare tutti,
vero?», si voltò,
guardandola negli occhi. La fermò, prima che protestasse.
«Con
questo non voglio dire che tu non debba provarci, se lo vuoi. Solo
devi», sospirò, scrollando le spalle,
«mettere in conto che non
tutti vogliono essere salvati». La vide annuire e
abbracciarla per i
fianchi.
«Sei
bellissima».
«Sei
in ritardo».
Kara
gonfiò le guance e la lasciò andare,
avvicinandosi alla porta del
bagno e facendole la linguaccia a sua volta, per ripicca. Indigo
guardava la televisione in sala da pranzo e, quando Kara le
passò
dietro per la cucina, si divertì a scuoterle i capelli
così che la
treccia, sistemata sul capo con le forcine, si staccò.
«Di
buonumore?», brontolò lei con la bocca piena di
cereali, poggiando
la tazza di latte sul banco solo per sistemarsi di nuovo i capelli.
Kara
si diresse direttamente in frigo, trovando e aprendo uno yogurt alla
vaniglia. Lo avrebbe mangiato al volo intanto che i capelli finivano
di asciugarsi. Prese un cucchiaino e si portò un boccone in
bocca,
passando di nuovo davanti alla tv, incantandosi quando udì
il nome
Astra
Inze.
Trasmisero una sua vecchia foto con la divisa da sergente e dopo un
video di lei in manette, in tribunale.
Indigo
guardò Kara e la tv, di nuovo Kara e la tv, deglutendo la
colazione.
Si lasciò scappare dopo un piccolo sorriso, senza ombra di
divertimento. «Adesso vedo la somiglianza», la
osservò come prese
la sua attenzione. «Tua zia era uguale a tua madre, non
è vero? La
conoscevo di vista, lì a Fort Rozz; non che ci volessi avere
a che
fare con quella e il suo gruppetto. Era meglio star lontane».
Kara
abbassò lo yogurt e strinse le labbra, fissando lo schermo
della tv.
«Come… Come stava?», deglutì.
Indigo
rise. «Pensi che la tua zietta se la passi male in prigione?
All'inizio, probabilmente, che ne so. È li da
anni», scrollò e
spalle. «Ma ti ha presa per il culo, e questo lo
so», incurvò la
testa, sorridendole di nuovo. «Sapeva che saresti potuta
andare da
lei, l'avevano avvertita, quella volta».
«Di
cosa parli?».
«Della
prima volta che sei andata a trovarla. Sì, so tutto. Mi
piace farmi
gli affari degli altri e, in prigione, non che ci fosse altro da
fare», alzò le spalle, prendendo un'altra
cucchiaiata di cereali.
«L'ofganizzazione
confolla Foft Roff da un po'»,
borbottò con la bocca piena, per poi ingoiare.
Lena
si avvicinò piano, appoggiandosi alla parete tra la sala da
pranzo e
il salone, ascoltando.
«Hanno
infilati i loro artigli un po' ovunque finché non
è stata
completamente infettata. Eri con Lois Lane, la tipa di tuo cugino. La
voce girava nei corridoi. L'hanno truccata come un'appestata solo per
farti credere che oh,
poverina, come se la passa male»,
rise, dopo aver parlato con una vocina sgradevole. «Ma lei,
lì
dentro, è una fottuta regina! E adesso, l'unico desiderio
della
regina è quello di uscire per andare ad abbracciare la sua
nipotina
adorata». La adocchiò e Kara
s'irrigidì. La vide stringere il
barattolino dello yogurt e, senza dir nulla, uscire velocemente dalla
sala da pranzo, scontrandosi con Lena che stava per entrare.
«Ehi,
Kara», la chiamò ma l'altra le urlò di
essere in ritardo. «Dovevi
proprio dirglielo?», strinse i denti e corse verso
l'ingresso.
Indigo
abbassò gli occhi e spense il sorriso, prendendo un altro
boccone di
cereali. Era la verità, perché non avrebbe dovuto
dirglielo?
Cos'era esattamente quel fastidio interno che provava?
Sua
zia l'aveva presa in giro? Kara non faticava a crederlo, non la
conosceva più. Faceva appena in tempo a riordinare i
pensieri che le
riguardavano, capendo di volerle bene, che tutto si contorceva di
nuovo. Non poteva continuare così. Astra voleva ritornare
alla sua
vecchia vita, eh? Peccato che la sua vecchia vita, semplicemente, non
esisteva più. La sua nipotina adorata
non era più una bambina, aveva un'altra famiglia e lei non
ne faceva
parte. Accidenti. Quanto ancora si sarebbero stravolte le cose fino a
quando non sarebbe uscita di prigione? Avrebbe affrontato la
verità
una volta davanti a lei ed era arrivato il momento di dire basta a
quell'attesa; ora forse avrebbe fatto semplicemente meglio a proibire
i telegiornali, in quella casa.
«Kara,
non-».
«Non
importa, Lena, davvero, non… non dire niente»,
finì il suo yogurt
camminando sul pianerottolo, girando in tondo. «Quello che
pensa mia
zia non ha importanza e lo capirà! Lo
capirà», annuì e Lena
l'abbracciò, così si scambiarono un bacio.
«Sei pronta?», abbassò
la voce, «Se sei pronta…».
«Fammi
andare a prendere le chiavi». Le prese il barattolino vuoto e
rientrò, notando Indigo appostata davanti all'ingresso che
si
torceva le dita delle mani. Le passò a fianco e lei la
seguì a
ruota. «Devi chiedere scusa a lei, non a me»,
specificò subito e
Indigo s'imbrunì.
«Non
volevo chiedere scusa», la rincorse. «Mi sono resa
conto che l'ha
ferita ma… ma è la verità,
e-».
«Lo
so che è la verità, Indigo», si
fermò con rabbia, una volta
entrate in cucina. «Ma ci sono modi e modi di dire le cose e
tu hai
usato quello sbagliato. E lo so che...», ansimò,
cercando di
riprendere la calma. «Lo so che dentro di te riesci a capire
dove
hai sbagliato. Non sei così come ti dipingi, Indigo, apri
gli occhi!
Smettila! Se sei qui perché vuoi esplorare i sentimenti
è perché
sai già di poterne provare, sai cos'è l'empatia e
devi solo
svegliare questa parte di te che hai soffocato». Indigo non
riuscì
a dirle niente ed era certa che fosse meglio così.
«Non sei tuo
fratello, Indigo. Non lo sei mai stata, va bene?», scosse la
testa,
bisbigliando. «Lo so cos'hai fatto per tenerlo vivo in te ma
non
funziona… meriti di essere la persona», la
indicò, stringendo i
denti, «che sei tu.
Sei viva, ti prego… Segui te stessa, non lui».
Indigo
deglutì, gli occhi lucidi, la bocca semiaperta. Forse era
proprio
vero che era diversa dal suo fratellino Cyan o quelle parole non le
avrebbero provocato tanto rumore dentro di lei. «Tuo padre mi
ha
detto una cosa simile, una volta».
Lena
annuì e deglutì, a fatica. «Qualcosa di
giusto lo faceva anche
lui, allora». Andò ad appoggiare il barattolino
vuoto e le passò a
fianco di nuovo, fermandosi per dirle che Alex sarebbe passata presto
a prenderla. «Ah, dimenticavo», si
voltò, «È arrivata la
chiavetta che aspettavamo da Metropolis, la controlleremo assieme.
Per il momento, non dirlo ad Alex. Voglio poterla visionare io, prima
del D.A.O.». Aspettò di vederla fare un cenno e si
mosse per un
passo, fermandosi ancora, con una mano contro il muro. «Ti
andrebbe
di lavorare per me?».
Indigo
spalancò gli occhi e pian piano si accigliò.
«Lavorare… Un
lavoro-».
«Hai
detto che nessuno ti darebbe un lavoro. Io sì. Non
rispondere
adesso, riflettici», uscì, andando a recuperare le
chiavi
dell'auto. Raggiunse fuori Kara e le sorrise, così l'altra
ricambiò.
Pensò di non riprendere con lei l'argomento, anche se era
preoccupata. Non poteva decidere per lei, ma non ne sarebbe affatto
felice se quella Astra Inze volesse tornare a far parte della sua
vita, non poteva negarlo. Così si limitò a
chiederle come stesse e
si scambiarono un bacio.
Ecco,
non c'era Marielle, e nemmeno Ingrid, ma per poco non le sorprese
l'autista di famiglia, Ferdinand. Credevano non lo avrebbero rivisto
finché Lillian ed Eliza non fossero tornate dal loro viaggio
di
nozze e per poco Kara non cadde in un'aiuola per scansarsi in tempo
da Lena e non ripetere la briosa esperienza avuta con la giardiniera.
Ne uscì che aveva sbagliato giorno, convinto che le signore
sarebbero tornate quella mattina.
«Figurati»,
incalzò Lena, mettendo le braccia a conserte. «Ti
avrebbe chiesto
di andarle a prendere all'aeroporto».
Lui
abbassò la testa, sospirando appena. «Ha senza
dubbi ragione,
signorina Luthor».
Chiese
loro se volessero essere accompagnate e, a risposta negativa, se ne
andò quasi con la coda tra le gambe. Voce da soprano, adatta
al suo
fisico possente. Kara rise, poiché da quando lo conosceva,
quella
era la prima volta che lo sentì parlare tanto a lungo,
mentre Lena
era convinta che la vacanza di Lillian avesse sbalzato la sua
routine: non era solito sbagliare giorni, era sempre stato molto
attento e preciso. Videro arrivare Alex in auto quando loro uscivano,
quella di Ferdinand ancora vicina. Si salutarono, prendendo la
direzione opposta.
«Ho
chiesto a Indigo di lavorare per me», disse Lena,
«Eviteremo di
sfruttarla e… Non credo che Siobhan sia l'unica a cui serva
uno
psicologo: gliene consiglierò uno». Sapeva che era
la cosa
migliore. «Magari non tutti vogliono essere salvati
ma… è nostro dovere provarci». Vide
Kara sorriderle come se ne
fosse fiera e Lena si leccò le labbra, imbarazzata.
Si
era già ritrovata in una situazione simile: quando Eliza
stava per
sposare Lillian, la luce dei riflettori era continuamente puntata
sulla loro famiglia, ma non le era mai capitato di non sentirsi a suo
agio all'interno della CatCo. Quelli che avrebbe voluto che
diventassero i suoi colleghi al cento per cento non facevano che
guardarla di nascosto, per non parlare dei bisbigli, perché
il suo
udito funzionava più che bene. Era scontato come Cat Grant
avesse
ordinato a tutti di non tormentarla, ma restava qualcosa che la
metteva a disagio. L'indomani doveva perfino tornare in tribunale per
il processo di suo zio Non e doveva essere l'argomento di punta per
molti. E Leslie Willis non c'era e non poteva contare sulle sue
stupide battute per distrarsi, quando anche Siobhan Smythe era
così
silenziosa da non sembrare lei. Se non altro, pensò
controllandola,
riusciva a restare sulla scrivania a lavorare, anche se si distraeva
più del dovuto e scattava sulla sedia a ogni rumore sospetto
o se
qualcuno le passava accanto. Era evidente come avesse bisogno di
aiuto.
«Danvers?
Mi stai fissando, per caso? Smettila».
Kara
serrò le labbra con forza e si voltò. Il suo
carattere per fortuna,
o sfortuna che fosse, non sarebbe mai cambiato.
Non
vedeva il momento di tornare al campus, finché non si
accorse che
anche lì, ancora,
era la più chiacchierata del complesso. Stava diventando una
cosa
ridicola e ne discusse con Megan durante una pausa, se non fosse che,
anche lei, aveva la testa da un'altra parte: aveva provato a
telefonare John ma non rispondeva. Non lo ammetteva, ma la ragazza si
pentiva di non avergli dato subito una seconda possibilità
in modo
da restare in contatto.
Seguì
le ultime lezioni di giugno prima della sospensione e si
segnò sul
cellulare quali argomenti avrebbe dovuto studiare con più
attenzione
per gli esami, sperando che Lena le avrebbe dato una mano. Non voleva
chiederle di fare anche questo, avevano già tante cose in
ballo e le
loro giornate si stavano riempiendo di impegni, ma rischiava di non
farcela, questa volta. Doveva rendersene conto e mettersi sotto con
lo studio perché era importante, che avesse avuto il posto
alla
CatCo o meno. Senza dimenticare le ultime partite della stagione. Oh,
ansimò… star dietro a tutto era un'impresa anche
per Supergirl.
Intanto,
dopo aver lavorato sotto ad altri dati in casa di Alex Danvers, lei e
Indigo ripartirono in macchina verso la Lord Technologies dove la
prima aveva fissato un appuntamento. In verità, avrebbe
voluto
essere ovunque meno che lì e Indigo non si lasciò
sfuggire il suo
nervosismo, tenendola d'occhio con la coda dell'occhio.
«Non
sapevo che dovevamo venire qui», mormorò lei dopo
che Alex parlò
con la guardia al cancello, che la fece passare. Odiava non avere in
mano un piano preciso o delle certezze qualsiasi, senza contare come
tutto, con Lena, si stesse complicando. Come le stava entrando dentro
e scavando. Come probabilmente avesse ragione. Come poteva
continuare? Temeva che i suoi sentimenti prendessero il sopravvento e
mandasse al diavolo la sua missione, prima o poi. Ma non poteva.
Oh…
Non poteva. Si ricordò le foto e strinse forte i pugni,
cercando di
prendere aria e tornare se stessa, almeno ora.
«Non
preoccuparti, resterai fuori, voglio parlare con lui in
privato»,
soffiò, cercando parcheggio.
«Non
ti piace?», le domandò a un certo punto e Alex
sorrise. «O forse è
il contrario. Sei agitata».
«Smettila
di psicanalizzarmi. È solo che non vedo l'ora di essere
già fuori
di qui».
Scesero
dall'auto e Indigo stette a un passo da lei. Le fecero passare in
portineria e presero l'ascensore. La segretaria le salutò
pacata e
sia Alex che Indigo si fissarono a guardare Maxwell Lord attraverso i
vetri del suo ufficio, intento a digitare sul portatile. Alex chiese
alla segretaria se l'altra ragazza potesse restare con lei e si fece
annunciare, vedendo il giovane che si alzava di scatto dalla sedia e
si lisciava la cravatta, allungando uno sguardo verso di loro e non
mancando di sorridere.
«Prego,
prego», abbassò lo schermo del portatile e le fece
cenno, mentre
chiudeva la porta dietro di lei. «Accomodati,
Alex», le sorrise
gioviale, «Ti stavo aspettando». Diede un'altra
veloce occhiata
fuori, verso la scrivania della segretaria, a Indigo che si passava i
capelli sciolti dietro le orecchie. «La tua amica»,
strinse gli
occhi, «mi pare di averla già vista da qualche
parte».
«Non
la conosci», disse in fretta lei, scuotendo la testa e
sedendo, «È
solo… Una collega del D.A.O., fa lavori di
segreteria», annuì.
«Curioso»,
sorrise, sedendo e congiungendo le dita delle mani, «Portarsi
dietro
chi non lavora sul campo non è proprio usuale».
«Non
sono qui per parlare della mia collega».
«Oh,
sì». Si illuminò e aprì un
cassetto alla sua destra, tirando
fuori una pennetta usb e mostrandogliela. Alex spalancò gli
occhi,
mettendosi dritta con la schiena. «Ho sparso la voce tra i
dipendenti, come promesso. Così è saltata
fuori», gliela passò e
Alex la tenne stretta, controllandola con attenzione quasi avesse
paura di un falso. «Uno di loro se l'era portata a casa
credendo
fosse sua. Per fortuna non l'ha aperta».
«Dovrò
parlare con lui», disse distratta, custodendo velocemente la
chiavetta in borsa.
«Quando
vuoi».
«Devo
chiedertelo, Maxwell: è stata alterata? Hai cambiato i dati
al suo
interno?».
Lui
scosse lentamente la testa, mettendo su una smorfia incuriosita.
«Avrei dovuto? Non ho nulla da nasconderti, Alex».
«Beh,
ne dubito. Per cominciare, cosa ci facevano qui alla Lord
Technologies gli uomini di Rhea Gand?»,
assottigliò gli occhi.
«Hanno attaccato luoghi ben precisi, Max,
non voleva solo creare caos a National City, è stato un
attacco
mirato. Che rapporti avevi con lei? O con Dru Zod?».
«Oh,
è un interrogatorio?».
«Sono
in servizio, sì».
«Bene.
Allora, agente Danvers», si appoggiò alla
scrivania, mettendosi
composto. «Devo confessare di aver lavorato a un progetto per
loro,
all'inizio della mia carriera qui alla Lord Technologies».
«Loro?».
«Sai
di chi parlo», sorrise e poi sospirò.
«Conosco Rhea Gand e questo
già lo sapevi. Anche allora, era una spina nel
fianco».
«Dovrò
poter accedere ai dati di quel progetto».
«Oh,
non so, si parla almeno di dodici, tredici anni fa, Alex…
Potrebbero essere andati perduti».
Lei
fece una smorfia. «Ti chiederei di controllare».
Il
giovane sospirò, quando si accorse che intendeva dire in
quel
momento. Chiamò la sua segretaria e le disse di raccogliere
tutti i
dati relativi a un misterioso ACM-63, ma la stessa donna, dalla voce,
ne sembrò spaesata. «Fai la ricerca e stampa
tutto», chiuse la
chiamata e alzò le spalle, riguardando Alex:
«Ancora non lavorava
per me».
«Perché
lavorare con l'organizzazione, Maxwell?».
Lui
scosse la testa, sospirando. «Non sapevo che lo fosse e
pagavano
bene. E prima che tu me lo chieda, no, non era nulla di losco: qui
alla Lord Technologies abbiamo disegnato, progettato e costruito
l'impianto d'acqua per l'Angel
Children's Memorial»,
inspirò. «Ti aspettavi qualcosa di
diverso?».
Alex
trattenne il fiato, abbassando gli occhi un attimo. «Le
fontanelle
della piazza? Sei serio? Perché l'organizzazione avrebbe
dovuto
finanziare qualcosa del genere?».
«Non
porgere queste domande a me, ho solo svolto il mio lavoro»,
sorrise,
appoggiandosi si nuovo sullo schienale. «Non era di mio
interesse
fare domande, volevo solamente il mio trampolino di lancio».
«Con
quanti di loro hai avuto a che fare? Con Zod?».
Il
giovane scosse amaramente la testa, prendendo un altro sospiro.
Guardò un attimo, solo un attimo, di nuovo fuori verso
Indigo che,
davanti alla scrivania della sua segretaria e a un cellulare, portava
un'auricolare all'orecchio sinistro. S'incuriosì, per poi
riguardare
l'altra che aspettava una risposta. «Non sono neanche davvero
certo
che quell'uomo ne abbia fatto parte; per quanto ne so, Rhea Gand lo
odiava e voleva semplicemente incastrarlo».
«Non
hai risposto alla mia domanda», alzò un
sopracciglio.
Lui
annuì, stringendo di nuovo le mani sulla scrivania.
«Il mio tramite
con loro era Rhea Gand. E suo marito, Lar. Mi spiace
deluderti», le
sorrise ma Alex non ricambiò.
Non
capiva: una parte di lei era sicura che gli stesse mentendo. Lo
guardò negli occhi e, con voce sicura, arrivò al
dunque: «Fai
parte dell'organizzazione?».
Lui
spalancò dapprima gli occhi, poi gli angoli della bocca si
sollevarono e si mise a ridere. «No», rispose
candidamente, «Non
faccio parte di alcuna organizzazione».
Accidenti,
non era sicura che stesse dicendo il vero ma, d'altro canto, non
aveva alcune prove a dimostrarlo e questo progetto sulle fontanelle
la sviava. Lo stesso forse doveva pensarlo Indigo che, morsicandosi
le unghie della mano destra, ascoltava la conversazione tramite il
cellulare di Alex Danvers. La segretaria si era rimessa a giocare a
poker online, non che avesse altro da fare: l'aveva vista cercare
negli archivi con noia, trovando giusto qualcosa, non che si fosse
messa di grande impegno.
«Non
volevo sollevare l'argomento, ma…», Alex si
alzò dalla sedia e si
avvicinò alla parete con appesi un gran numero di quadri e
quadretti, la stessa parete che, mesi prima, avevano visionato
insieme alla ricerca di un quadro per l'asta alla Luthor Corp,
adocchiando quello che aveva vinto in scommessa proprio contro Rhea
Gand. Maxwell si alzò a sua volta e la raggiunse.
«Proprio qui, mi
parlasti di tuo padre», lo guardò, «Di
sfuggita, forse, ma lo
ricordo bene. Entravi nel mondo degli adulti, dicesti che eri ancora
un ragazzo, e tuo padre non si interessava abbastanza a te».
«Adesso
accusi mio padre di averne fatto parte, quando era in vita?»,
le
sorrise di nuovo, mettendo le mani nelle tasche dei pantaloni.
La
ragazza scosse la testa. «Sono solo curiosa,
Maxwell», si concentrò
su alcuni quadri, fissando le pennellate ordinate. «Una
curiosità
personale, non ai fini dell'interrogatorio. Quando ho fatto irruzione
con la mia squadra e ho arrestato gli uomini di Gand, mi hai detto
che la tua famiglia è morta da tempo e sono stata
indelicata. Ti
chiedo scusa».
«Non
devi, davvero». Si avvicinò a un quadretto in alto
e lo staccò
dalla parete: mostrava un fiume e una casetta quasi al limitare della
cornice. «Era il preferito di mio padre. Lo aveva comprato da
ragazzo e credo lo amasse più di me», rise,
mostrandolo ad Alex.
«Lo custodisco gelosamente perché mi ricorda
perché sono diventato
quel che sono diventato», lo riattaccò al chiodo,
con cura. «Lui
non credeva in me e guardarlo mi ricorda come mi sia preso una bella
rivincita». Sospirò, riprendendo il discorso e
appoggiandosi alla
sua scrivania: «E, alla fine dei giochi, come questo non
conti più.
L'ho perdonato. Mia madre è morta quando ero bambino e lui
non era
più stato lo stesso, aveva perso tutto e dunque…
ho cercato
altrove l'appoggio paterno che mi mancava». Alex lo
guardò rapita:
Maxwell aveva gli occhi lucidi, era distante con la mente, anche se
sembrasse cercare con ogni mezzo di restare ancorato al presente.
«Sono diventato la persona che sono e lui… se
n'è andato. Non
stava bene, la malattia lo stava divorando e immagino abbia
vinto».
«Mi
dispiace», mormorò e lo vide annuire, senza
guardarla negli occhi:
doveva fargli davvero male parlarne.
Lui
sospirò di nuovo, incrociando le dita delle mani e
appoggiandole
contro le ginocchia, piegandosi. «E adesso ha
trovato… ciò che
cercava, agente Danvers?», la riguardò negli occhi
e lei si
paralizzò sul posto, vergognandosi all'improvviso.
«Mio padre non
faceva parte dell'organizzazione, te lo garantisco. Era uno
scienziato così come mia madre, un brav'uomo. Non magari un
padre
eccezionale, ma un brav'uomo, questo sì. E mi ferisce come
tu non
sia sincera con me, Alex. Puoi chiedermi qualunque cosa», si
alzò e
si avvicinò a lei, così le sorrise, mettendola in
soggezione, «E
io vedrò di risponderti come meglio potrò
fare».
Alex
deglutì. «Che non è esattamente come
dire la verità».
Lui
rise con garbo, aprendo la bocca per dire qualcosa e infine zittirsi,
scuotendo l'indice destro mentre si riavvicinava alla scrivania,
aprendo un cassetto. «Tu sei esigente, Alex Danvers.
Sarà anche per
questo che mi piaci».
Lei
arrossì involontariamente, portandosi una mano sulla fronte.
«Maxwell, io-».
«Lo
so. Ma sono una persona paziente», scrisse velocemente
qualcosa su
un biglietto e glielo porse, soddisfatto. «Per evitare
l'imbarazzo
dello scambiarsi i numeri e fare squilli di sorta».
Alex
lo prese, leggendo sopra un numero di telefono.
«Il
mio. Quello privato». Si rimise le mani nelle tasche dei
pantaloni,
soddisfatto. «Se dovesse venirti in mente qualcos'altro,
potrai
scavalcare la mia segretaria e chiedermelo direttamente».
«Io
non so se- Non posso prenderlo».
«Perché
no? Da amici. O se preferisci, per lavoro».
Squadrò
attentamente entrambe dal vetro del suo ufficio quando le vide
chiamare l'ascensore. La segretaria le fornì le fotocopie di
ciò
che aveva trovato e lui sospirò di nuovo. Alex Danvers
e… Indigo
Brainer. I capelli sciolti e gli occhiali sul naso non potevano
camuffarla a uno sguardo attento come il suo. Maxwell sorrise,
tornando a sedere davanti alla sua scrivania.
Indigo
la osservò attentamente, una volta tornate in auto.
«Hai ottenuto
ciò che volevi?».
L'altra
si appoggiò sul sedile e prese una grossa boccata d'aria,
per poi
afferrare la pennetta usb che le aveva consegnato il giovane Maxwell.
«Se potresti aiutarmi con questa, per piacere».
«Cosa
devo cercare?».
«Qualsiasi
cosa». Sfogliò le fotocopie del progetto sulle
fontanelle. Era
tutto lì? Forse lui davvero non c'entrava niente.
Perché
all'improvviso era convinta di dover trovare il marcio anche dove non
aveva mai dato prova di esserci? Era così stanca e stava
prendendo
un'altra strada sbagliata. Avrebbe dovuto chiedere a Lex per la
storia delle pillole, forse. Si conoscevano da anni…
«Devo capire
se mi ha mentito».
«Sì
che ha mentito».
Alex
si rimise velocemente dritta con la schiena, guardandola.
«Cosa
intendi?».
«Beh»,
l'altra scrollò le spalle, trovando la forza per fare un
breve
sorriso, «tutti mentono, Alex Danvers. Ingenuo pensare il
contrario,
le persone sono così… prevedibili».
Alex
gettò le fotocopie sui sedili posteriori e portò
le mani sul
volante prima di ricordarsi di dover ancora mettere in moto. Il tempo
di farlo che un'altra idea le balenò per la testa e Indigo
attese,
perché sapeva che stava per arrivare una nuova richiesta.
«Tu su
internet puoi trovare di tutto, giusto?».
«Su
internet qualsiasi cosa. Internet è un magico
mondo», fece
dell'ironia, ma l'altra non rise.
«No,
no, lascia perdere», scosse la testa e mise di nuovo le mani
sul
volante, guidò l'auto fino a uscire dal parcheggio e la
fermò di
colpo a pochi metri dalla guardia al cancello. «Tu potresti
scoprire
tutto su una persona, giusto?».
«Maxwell
Lord?», indicò alle sue spalle l'edificio.
Alex
fece una smorfia con le labbra e riprese il volante per l'ennesima
volta. «No, no! Lascia perdere, era un'idea
stupida». O forse no,
stupida no, ma cattiva probabilmente: Maxwell Lord le aveva
raccontato di suo padre e gli aveva fatto male farlo, e lei avrebbe
voluto scavare ancora su di lui ignorando il suo diritto alla
privacy? Tutto tornava, non sembrava nascondere niente. Era
così
frustrata da doversi accanire su di lui perché, cosa, le
faceva le
avance? Quello era troppo anche per lei. Si spaventò quando
vibrò
il cellulare e gonfiò le guance quando lesse chi la
chiamava. Fece
cenno a Indigo di fare silenzio e accettò:
«Carina, ehi… Non mi
aspettavo una tua- Cosa?»,
si accigliò, «Di' che sto lavorando, ho appena
recuperato la
pennina lasciata dai terroristi di Gand alla Lord
Technologies».
Prese una pausa, accigliandosi. «Adesso si ricordano che lo
conosco
di persona? Quando dovevo far seguire mia sorella, nessuno si era
opposto. Va bene, va bene. No, non lo dirò a
Jonzz… Anche lui è
una vittima dei piani alti e ultimamente non so nemmeno cosa gli
passi per la testa». Staccò e strinse il telefono;
chiuse gli occhi
per pensare, sentendo Indigo che la fissava. «Non uscirtene
con una
delle tue o ti caccio fuori attraverso il finestrino chiuso».
«L'ho…
aperto», bisbigliò, «C'è
caldo».
Alex
la fissò, rialzando lo sguardo e Indigo si tenne indietro
sul
sedile. Decise di non replicare e mise di nuovo in moto, scusandosi e
salutando la guardia al cancello.
Sarebbe
dovuta tornare a interrogare Maxwell Lord con Carina Carvex,
fantastico. L'avevano assegnata come compagna. Ed era già
tanto se
non l'avevano sospesa perché si erano accorti all'ultimo che
aveva
conoscenze sul caso e che non poteva interrogare nessuno da sola. Ma
si volevano mettere d'accordo? Faceva comodo a tutti quando il caso
era Kara e doveva tenerla d'occhio senza destare sospetti.
Fortunatamente era brava nel suo lavoro o non sapeva… Emise
un
sospiro stanco, tornando verso casa. «Pranziamo e lavoriamo
alle
chiavette, ma dobbiamo aspettare la mia collega».
«Quella
Carina Carvex?».
Alex
annuì, girando il volante. Per fortuna Jamie era all'asilo e
Maggie
a lavoro, perché l'aria si sarebbe fatta pesante.
«Oggi dobbiamo
passare tutta la giornata insieme, non posso riportarti in villa,
quindi vedi di non metterti a dire cose strane… Anzi, parla
con lei
il meno possibile. Ti presenterò come», fece una
smorfia con le
labbra, «un'esperta di informatica. Ma se fa domande, allora
fingi
di star male e ti rinchiuderò nella mia camera da letto
perché non
posso, non posso proprio segnalarti al D.A.O.».
«Carina
Carvex è quella che si è presentata ieri da
te?».
Alex
parcheggiò e spense il motore, alzando le sopracciglia.
«Perché?».
«Ma
nulla, sono un'osservatrice».
Kara
tornò
alla CatCo con la testa pesante e stanca, ma per fortuna non mancava
molto per quell'elicottero. La sua salvezza. E, lo doveva ammettere,
Lena le mancava già. Era assurdo, ma stava diventando la sua
droga e
sapeva che doveva essere lo stesso da come la guardava colma di
desiderio ogni volta che i loro sguardi si incrociavano. Era come se,
d'altra parte, stessero recuperando tutto ciò che avevano
perso a
stare lontane per mesi. Un po' impegnate ma… non c'era nulla
di
male.
Prese
un lungo sospiro e si alzò dalla sedia con uno scatto,
rimettendo a
posto le sue cose ma, quando cercò Siobhan, si accorse che
non era
ancora tornata. Si era alzata almeno una mezzora fa per andare in
bagno, accidenti. Lasciò tutto com'era e andò a
cercarla. Sentì i
suoi respiri sommessi e veloci non appena aprì la porta e li
seguì.
Doveva aver capito che c'era qualcuno poiché all'improvviso
smise,
fino a farsi sentire facendo un verso con la gola.
«Qui
è occupato».
La
sua voce era rotta, pensò Kara. Si era sforzata per farla
uscire
alta, probabilmente piangeva fino a un secondo fa. Aprì una
delle
porticine cigolanti degli scomparti e- no,
impallidì mentre quella ragazza le gridava di richiudere.
Non era
Siobhan. Si toccò il petto e andò dritta
all'altro unico scomparto
chiuso, ma questa volta pensò bene di bussare.
«Emh… sei
presentabile?».
«Sono
in bagno. Secondo te lo sono?».
«Va
bene, allora… aspetto qui». Si appoggiò
al pilastro vicino e si
guardò i piedi, quando poi sentì lo sciacquone e
la ragazza di poco
prima uscì dalla porticina, stringendo gli occhi nella sua
direzione. Le chiese scusa stringendo i denti e mettendo le mani
unite, così la vide lavarsi le mani e uscire.
«E
per cosa staresti aspettando?».
Kara
alzò gli occhi al soffitto ben illuminato, ciondolando coi
piedi.
«Te».
Ci
mise qualche secondo a rispondere, con la voce più bassa.
«Aspetti…
il niente».
Okay,
ora basta,
pensò, rischiando il peggio e aprendo la porticina. Siobhan
era
seduta sul gabinetto chiuso, le gambe incrociate; il trucco impastato
intorno agli occhi, le mani tremavano come le sue labbra, gli occhi
spalancati la seguirono. Non era arrabbiata, ma terrorizzata. Si
abbassò e cercò di non sospirare; non voleva
farla chiudere di
nuovo e temeva a fare qualcosa che le avrebbe dato fastidio.
«Sei
tornata troppo presto».
«No»,
scosse appena la testa.
«Sì.
Sì, Siobhan. Lo psicologo ti ha detto che potevi
tornare?».
Lei
emise un verso divertito, alzando gli occhi al soffitto, passandoci
le dita. «Lui non capiva… Non capiva come mi
sentivo».
«Ah,
davvero?», alzò le spalle e strinse le labbra per
un attimo,
cercando di mantenere la calma. «Perché sai cosa
vedo io? Una donna
forte che ha bruciato le tappe perché vorrebbe tornare
quella di
prima ma non si rende conto di come non sia semplice come schioccare
le dita». Si fermò, vedendola formare una smorfia.
«Pensi di
essere pronta perché vuoi disperatamente tornare alla
normalità ma,
Siobhan, anche se il corpo è guarito, dentro ci
metterà un po'».
Era silenziosa, fin troppo. «Cosa ne pensi?».
Adesso non era
ubriaca, non aveva scuse e faceva una fatica immane a confidarsi, lo
notava come la sua bocca si apriva senza emettere fiato, come gli
occhi cercassero un riparo, come le mani… Gliele strinse e
Siobhan
provò un brivido, lo captò anche lei. Ma non la
scacciò ed era già
qualcosa.
«A
te non è servito… tutto questo tempo».
«A
me…?». La bomba, Kal sdraiato su un letto e senza
memoria, la
terapia, una nuova famiglia, Faora Hui che tenta di spararle, gli
uomini di Rhea al campus che la cercano, il cadavere dell'agente del
D.A.O. trovato da lei e Barry Allen, Rhea Gand che la minaccia e le
dice in faccia la verità. Scosse la testa, stringendo le
labbra.
«Ogni persona è diversa, Siobhan. Non devi
paragonarti sempre-»,
si fermò, deglutendo. Si paragonava sempre a lei.
Chissà per quale
motivo poi, se la credeva tanto perfetta, non faceva che disprezzarla
per la maggior parte del tempo. A meno che non fosse per invidia,
ma…
«Non pensare che per me sia tutto semplice, non lo
è, è solo che
non siamo uguali e non-non c'è un modo giusto o…
o sbagliato di
reagire. E i-io non ho mai preso un proiettile, tu sì e sei
stata…
coraggiosa». Annuì e Siobhan con lei.
«È cambiato qualcosa dalla
sparatoria, non è vero?», sussurrò,
vedendo che annuiva: gli occhi
erano spalancati e respirava velocemente. «Ho capito che vuoi
tornare la persona di prima ma, Siobhan, forse non lo sei
più». No,
sbagliato: si era messa a scuotere la testa e a respirare ancora
più
in fretta. «Non avere paura. I-Intendo dire che…
adesso che sei…
insomma, che sei diventata più forte dopo lo
sparo-», si morse un
labbro. «Non sempre il cambiamento è una brutta
cosa! Potresti non
tornare come prima e non esserci nulla di male, in questo».
Accidenti,
forse stava aggravando la sua agitazione, pensò, vedendole
gli occhi
spalancarsi e il petto sussultare. «Adesso respira con me,
okay?
Okay?». L'aiutò, cercando di calmare i suoi
battiti cardiaci.
Non
seppe con certezza come fece, ma riuscì veramente a
tranquillizzarla, a un certo punto. Le strinse le mani per aiutarla
ad alzarsi e, non se lo aspettava, Siobhan l'abbracciò.
Veloce e
subito dopo si era tenuta distante come se avesse potuto prendersi
una malattia. E non era ubriaca, continuò a ripetersi. Le
disse di
aver sistemato la bozza che le aveva dato da visionare e di aver
aggiunto qualcosa che poi avrebbe deciso lei se tenere o meno,
così
le diede altro a cui pensare. L'aiutò a lavarsi e le
portò la borsa
per risistemarsi il trucco. Era ancora un po' preoccupata, ma sperava
di poterla lasciare da sola senza che succedesse niente.
Così, di
nuovo davanti alla scrivania, recuperò le sue cose e prese
la borsa
in spalla.
«Vai
via?».
«Emh,
sì. Lena ed io abbiamo una… cosa
da sbrigare. A Gotham».
«Oh,
Gotham. Capisco». Abbassò lo sguardo avvilito e
pinzò dei fogli.
Kara si voltò per andarsene ma…
sbuffò, arrendevole.
Salirono
sull'elicottero sopra la Luthor Corp e si allacciarono le cinture
pronte per prendere il volo. Lena prese la mano di Kara, Kara le
sorrise, Lena no: guardò lei e dopo Siobhan, davanti a loro,
che
invece si guardava attorno spaesata, fingendo disinvoltura. La
ragazza sollevò le spalle e si avvicinò al suo
orecchio destro:
«Non potevo lasciarla, mi farò
perdonare».
«Ci
puoi scommettere che lo farai», bisbigliò e le
sorrise maliziosa,
il tempo per farla arrossire e puntare il suo sguardo altrove,
imbarazzata.
Era
già tarda sera quando sia Alex che Indigo ricevettero
rispettivamente un messaggio di Kara e Lena per dire loro che
sarebbero tornate da Gotham ormai l'indomani mattina sul presto. Alex
non era del tutto convinta che sarebbe stato un bene portare Indigo
in villa e lasciarla da sola per la notte come avevano detto loro, ma
d'altro canto lei era stanca e voleva finire la serata tranquilla con
le sue due ragazze.
Strano
ma vero, e di certo non ci avrebbe scommesso un dollaro, Carina
Carvex non fece troppe domande sulla ragazza, come se si aspettasse
che fosse già stata indicata da lei al D.A.O. ed era meglio
così,
sperando non la nominasse a voce alta a lavoro. Gliel'aveva dovuta
perfino presentare come Linda Danvers, una lontana cugina informatica
di poche parole. Rischiava di perdere il lavoro, ma si rendeva
abbastanza conto da sola che era già troppo oltre per
rimediare
subito a tutto quel pasticcio. Perfino
John non sapeva di lei.
«Non
era una tua amica?», Carina aveva sorriso, alzando le
sopracciglia.
«È la stessa ragazza di ieri o no? Ho riconosciuto
gli occhiali».
Allora
sì che aveva sudato freddo. «S…
Sì. Sì, era… era lei. Avevo
la testa altrove, scusami. Ma è mia cugina e siamo anche
amiche».
Carina Carvex le aveva sorriso e non aveva detto altro: non sapeva se
definirla fortuna.
Tra
le altre cose, avevano visionato la chiavetta data da Maxwell Lord e
non trovarono nulla che valesse la pena pensare che ci fosse
dell'altro: parlavano del progetto sulle fontanelle all'Angel
Children's Memorial
e di come Adrian Zod volesse, a capo dell'organizzazione, scavare
sotto la storica piazza per una base segreta, usando l'impianto
idraulico come facciata. Era una cosa che non trovava riscontro da
nessuna parte: Indigo cercò in un lungo e in largo e Carvex
telefonò
all'ufficio del sindaco e alla biblioteca comunale. Rhea Gand se lo
era inventato di sana pianta per incastrare l'uomo che tanto odiava.
Un altro buco nell'acqua, ma in fondo era felice di saperlo,
poiché
Lord era pulito. Almeno su quello.
Alex
accompagnò Indigo in villa che era già buio,
fermando l'auto
davanti al cancello. Anche lei sembrava stanca: da quando Jamie
tornò
dall'asilo e dissero a lei di fare una pausa dal pc, la bambina non
aveva fatto altro che parlarle, giocare con le sue braccia lasciate
inanimate fingendo che si allungassero, e saltarle addosso neanche
fosse un peluche. Indigo era rimasta inaspettatamente paziente:
glielo si leggeva negli occhi che avrebbe voluto essere ovunque meno
che lì, ma a loro stava bene che almeno si controllassero a
vicenda.
«Non
guardare troppa tv, non lasciare briciole sui tappeti, non rompere
niente e vai a letto presto».
Indigo
rise. «E mettere il pigiamino pulito, no? Sono più
grande di te,
mammina».
Alex
scrollò gli occhi, poi scese con lei dalla macchina,
accompagnandola
davanti al cancello che si apriva. Si salutarono con un cenno del
capo. Aveva intenzione di aspettare lì fino a quando non
sarebbe
entrata dal portone. Però la vide tornare indietro
all'ultimo,
illuminata dalla luce dei lampioni in giardino.
«Devo
dirti…», soffiò appena e
deglutì, «Non ti puoi fidare di quella
Carvex».
Alex
abbozzò un sorriso. «E invece mi dovrei fidare di
te?».
Si
salutarono di nuovo e, intanto che Indigo chiudeva il portone, Alex
si allontanò con l'auto.
Diamine.
Rischiava grosso nel dirglielo e quella… quella nemmeno la
prendeva
sul serio. Risentì la dolce melodia di suo fratello nella
testa e
pestò i piedi a terra. «Basta, Cyan»,
urlò per poi fermarsi, con
i pugni ben stretti, prendendo aria. La musica era cessata. Non
sapeva per quanto sarebbe durato quel silenzio e respirò a
pieni
polmoni, prendendo il cellulare dalla tasca dei pantaloni e
componendo un numero. Attese, camminando avanti e indietro nello
spazioso salone. Era così brutto
quel posto ora che era sola; così silente e inquietante, con
i suoi
pensieri, con quella musica. Era tornata. Digrignò i denti.
Loro non
le avrebbero mai dato retta. Qualsiasi cosa avrebbe fatto o detto,
mai. Non potevano fidarsi di lei ed era… era vero. Era vero.
Non
potevano. Staccò la chiamata e ci riprovò,
aspettando. Doveva
rispondere, doveva. Riattaccò la chiamata e
riprovò. Odiava quel
violino. «Lo odio», disse a voce, coprendosi
l'orecchio libero. «Lo
odio, lo odio, lo odio». Era nella sua testa; doveva farlo
smettere
ma non ci riusciva. «Lo odio».
«Indigo.
Che cosa… odi?».
Lei
si spaventò, sentendo la solita voce alterata del suo angelo
custode
per telefono. La musica di Cyan era sparita, così si
portò una mano
sulla fronte e prese grossi bocconi d'aria, cercando di calmare la
tachicardia. Socchiuse gli occhi, quasi felice di sentirlo.
«N-No…
nulla, io-».
«Perché
mi hai chiamato? Puoi scrivermi».
A
quel punto riaprì gli occhi e, riappropriandosi della sua
consueta
calma, si sforzò per riordinare i pensieri. «Io
sono… confusa.
Questo gioco che stiamo facendo, che
mi stai facendo fare»,
specificò, «è fuori
controllo». Formò un sorriso di rabbia,
mordendosi un labbro. «Non capisco davvero cosa speri di
ottenere,
tu-».
«Come
ti ho sempre detto, Indigo, non sta a te porti di queste domande. Io
ordino, tu esegui. È piuttosto semplice»,
prese una pausa. «Ti
ho già detto che non faremo del male a Lena. Dunque cosa ti
preoccupa, questa volta?».
«Ma
non si parla solo di Lena…». Avrebbe sempre fatto
del male a lei e
a loro, in un modo o nell'altro. Era così sbagliata.
«Kara e Alex
Danvers-», lui la interruppe subito:
«Non
preoccupartene. Stai diventando empatica, Indigo. Sarei orgoglioso di
te, in altre circostanze, ma…».
«Io
sto portando avanti il mio compito, solo che sento di andare alla
cieca», starnazzò decisa. «E quelle foto
che tu mi fai avere non
fanno che aumentare la mia confusione», si morse un labbro,
nervosa.
«Mi dici che non farai del male a Lena, ma continui ad
inviarmele
come monito che se non farò come dici, sarà Lena
a pagarne le
conseguenze». Girò ancora intorno al salone, non
riusciva a
fermarsi.
«È
un modo come un altro per tenerti sotto controllo. Per ricordarti che
non sto allentando la presa, che ti tengo d'occhio di continuo,
Indigo. Lena non si farà alcun male se tu continuerai come
stai
facendo. Nessuna confusione, hai notato anche tu?».
Indigo
deglutì e si fermò, irrigidendosi. «Non
penso… Non penso che
sarà facile metterla contro i Luthor. Ci sono io qui, non
tu, e la
vedo… Vedo com'è arrabbiata con suo padre ma come
tenga
disperatamente a lui. L'unica cosa a cui riesce a pensare è
trovare
il suo assassino. Sta facendo tutto questo solo per trovarlo. E tu
sai chi è… quindi
perché…».
Il
suo angelo custode si prese una pausa, pensando alla prossima mossa.
«D'accordo,
allora»,
sospirò. «Se
l'unico modo per ottenere il suo odio sui Luthor è questo,
le darò
l'assassino che cerca».
Proprio
in quel momento, nella camera buia e illuminata solo da tre monitor
di pc su una scrivania di uno studio scientifico, un uomo in camice
bianco trafficava chino su una tastiera, scrivendo rapidamente dei
dati che apparivano segnati su uno degli schermi. Tossì e
tolse la
sigaretta dalla bocca, spegnendola sul posacenere già colmo,
vicino.
Non si sorprese nel sentire la porta alle sue spalle cigolare, anche
se era tardi.
La
donna entrò e richiuse, dando un'occhiata intorno.
Afferrò una
targhetta da un tavolino e ci lesse attraverso la luce Dr
J Phillings,
poi la rimise a posto. C'era confusione e polvere, per non parlare
dell'odore di
cenere e stantio
persistente dentro quelle mura; doveva non aprire le finestre da
mesi, forse dall'ultima volta che era venuta a trovarlo. Si
sporse per aprine una
e lui si voltò scattante, facendo stridere perfino la sedia
con le
ruote.
«Non
toccare niente», imprecò con fermezza, per poi
rivoltarsi,
accendendosi una nuova sigaretta. «Cosa ci fai qui, Carina?
Pensavo
che il Generale ti avesse finalmente proibito di venirmi a
trovare».
Teneva d'occhio lo schermo e la tastiera a turni, senza degnarla di
sguardo.
«Il
Generale non ha mai proibito a nessuno di parlare con gli espulsi,
Phillings», precisò Carina Carvex, mettendo le
braccia a conserte e
appoggiandosi in un banco dietro di lei, attenta a non colpire le
provette da chimico.
L'uomo
rise, finendo per tossire. «Naturalmente perché
dovrebbe
preoccuparsi… se scambio due parole con la persona che mi ha
segnalato e fatto espellere dall'organizzazione».
Lei
sorrise, alzando il mento. «Ti brucia ancora, vecchio? Il
Generale
ha dei codici e tu li hai infranti, non mi lasciavi scelta»,
ribatté
in un sorriso orgoglioso. «Ne andava della mia
coscienza».
Lui
rise così tanto che la cenere della sigaretta cadde sulla
tastiera.
«Tu hai una coscienza così come ce l'ho io. Ho
fatto ciò che
andava fatto».
«Pensi
solo alla tua cazzo di carriera».
«È
stata la mia cazzo di carriera a portare soldi all'organizzazione
quando tu ancora prendevi il latte da tua madre, ragazzina»,
le
puntò contro un dito, decidendo poi di capovolgere la
tastiera sul
pavimento e soffiare per togliere la cenere. «Lecchi il culo
di Zod
come-».
«Io
non lecco il culo di nessuno», si arrabbiò,
spingendosi in avanti.
Solo
allora, così vicino, il dottore notò che Carvex
aveva le maniche
della giacca pregne di sangue asciutto. Sembrava che avesse cercato
di lavarle senza grande successo. «Acqua fredda e un goccio
di
limone», allungò lo sguardo e lei sorrise,
appoggiandosi di nuovo
contro il banco. «Ti definiresti un'esperta?».
«Colpa
mia, mi sono tolta l'abitudine di girare coi limoni nel beauty
case»,
ridacchiò, ma smise con una smorfia seccata quando vide che
lui non
stava ridendo affatto. «E tu quella del sarcasmo…
Ah no, colpa mia
anche qui: mai rinvenuto», scrollò lo sguardo.
«Ho
saputo che il Generale ha una nuova preferita», sorrise,
battendo la
sigaretta sul posacenere, «e non sei ancora tu. Tanto impegno
per
niente».
«Sono
indecisa se ritenere più importante che qualcun altro trovi
interessante parlare con te, o», sorrise, «che tu
abbia modo di
parlare con qualcuno oltre a me. È incredibile, vivi in
questa
stanza, eppure», batté le mani sulle ginocchia.
Lui
brontolò. «La solita insolente».
«Mi
conosci».
«Adesso
basta», si alzò. Testa tonda per via dei capelli
cortissimi,
occhialetti sbilenchi sul naso adunco, poco più basso di
lei, molto
magro, la fissò con rimprovero, tenendo le labbra serrate.
«Il tuo
papà orso non ti vuole bene e vieni a sfogarti con me; non
posso
farci niente, ragazzina, non sono il tuo analista, sei senza cuore e
per questo non gli piacerai mai. Qualcuno doveva pur
dirtelo». Si
rimise a sedere e Carina Carvex abbassò
gli occhi, aprendo bocca come per dire qualcosa e poi zittirsi
all'ultimo, facendo una smorfia.
«Beh,
sei fuori strada, è questo che non capisci»,
ritrovò la voce,
formando un sorriso fiero, «non mi interessa essere la sua
erede, io
faccio quel che faccio per lui perché è
giusto», mostrò un
sorriso più ampio. «E quando vengo qui,
è solo per accertarmi che
tu fallisca, Phillings. Chi sbaglia paga».
«Sto
realizzando una nuova formula di super soldati da vendere al generale
Lane», si vantò. «Mi manca ancora poco,
davvero poco, e potrà
dare la sua fiducia a me e scordarsi di quel bellimbusto di Lord e le
sue pilloline da impotenti… E neanche tu potrai farmi da
uccellaccio del malaugurio, Carina».
Lei
annuì. «Almeno è lo spirito giusto! Se
vuoi qualcosa, vattela a
prendere. È quello che ho fatto io oggi»,
aggiunse, tornando verso
la porta e
arrossendo vivace.
«Dovevo visionare dei file per il Generale ma l'agente che li
ha in
custodia era restia a farmi partecipare, così ho fatto
qualche
telefonata qui e là ai piani alti su come stesse lavorando
da sola e
boom,
fatta! Immagino avrai anche i fondi per completare il progetto. Beh,
tanti auguri, vecchio».
Chiuse
la porta dietro di lei e l'uomo strinse i denti e i pugni, gettando a
terra con un colpo secco di mano il posacenere, rompendolo. I fondi.
Come faceva quella stupida a sapere che era al verde? Eppure mancava
poco, davvero poco…
Non
temete, avremo la parte su Gotham sul prossimo capitolo, non la sto
saltando XD
Ebbene,
alzi la mano chi aveva capito che Carina Carvex fa parte
dell'organizzazione! Ops!
Sappiamo che è stata lei a telefonare ai piani alti del
D.A.O. per
farsi assegnare come partner di Alex, e Indigo… come lo
aveva
capito? Ma dal suo incontro con Noah: prima era libera di fare quello
che voleva e solo dopo aver conosciuto Carvex non lo era
più: troppo
per una coincidenza. Sembra proprio che Carvex sia una fedelissima di
Zod, o così traspare dallo scambio di battute tra lei e
questo
strano nuovo personaggio. Cosa ne pensate di lei? Per quanto riguarda
questo Phillings, invece? Pare anche
lui interessato a vendere una formula per supersoldati al generale
Lane ma,
al
contrario di Lord, è al verde e potrebbe non arrivare prima
di lui.
Argh.
Chi è quest'uomo? Sappiamo che è stato espulso
dall'organizzazione
e il tempismo con cui ci viene presentato potrebbe non essere
casuale. Chissà.
Per
il resto… Indigo è sempre più
stressata da questa situazione. Ne
sta soffrendo, ha un piede in due scarpe e le foto che le fa avere
Noah sono inquietanti. È costantemente tenuta sott'occhio,
il suo
garante non vorrebbe sorprenderla nel fare passi falsi.
Dall'altra
abbiamo Alex, anche lei sempre sull'orlo di una crisi di nervi XD Non
sa dove sbattere metaforicamente
la testa e stava facendo di Maxwell Lord un bersaglio. Il giovane in
realtà ci ha dato un'informazione importante, ma adesso
dobbiamo
soltanto decidere se fidarci o no, se credergli o no.
Un'altra
che invece sta perdendo la testa pensando a sua zia è Kara,
e
diciamo che Indigo ci ha messo la zampa in questo ^^' A quanto pare,
Astra sapeva della visita di Kara in carcere e si era preparata
appositamente per vederla. Ahi.
Però ha aiutato Siobhan che, anche lei, non sta esattamente
passando
un periodo felice né facile.
La
domanda del capitolo è (nuova rubrica?
XD):
“Non
tutti vogliono essere salvati”: siete
d'accordo con Lena?
Note
~
Carvex
è un personaggio liberamente ispirato a Car-Vex,
kryptoniana confinata insieme a Zod
nella Zona Fantasma.
Anche
il dottor Phillings è un personaggio ispirato ai fumetti: il
suo
nome è Jax-Ur
ed è stato il primo kryptoniano a finire confinato nella
Zona
Fantasma per i suoi crimini. Una volta sulla Terra prende il nome di
dottor Phillings. Phillings:
mi piace tantissimo come suona questo
nome, provate
a ripeterlo!
Sì,
ci ho passato ore a leggere la wikia della DC Comics :P
Comunque,
per mettere i puntini sulle i, ricordatevi che
questa è una
fan fiction AU e tutti i personaggi, male o bene, sono
“riveduti”
e “plasmati” secondo il loro background di questa
storia, che è
il loro passato, presente, ecc. Chiaramente cerco di tenere le loro
caratteristiche base/carattere in genere o non avrebbe senso, ma
ecco, dico questo perché non vorrei che vi faceste
influenzare da
queste informazioni: tutto può succedere, basta che sia
coerente con
la storia che sto raccontando.
E
si chiude qui,
gente, ci si rilegge il primo ottobre con il capitolo 54 che si
intitola Cicatrici.
Si svolge durante la stessa giornata di questo capitolo, però
a
Gotham!
|
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Capitolo 56 *** 54. Cicatrici ***
Era
appena pomeriggio quando Bruce Wayne lasciò la Wayne
Enterprises
vantandosi pacato, con chi gli capitava sott'occhio, di avere
quell'oggi un appuntamento importante e di doversi preparare. Da
giorni a quella parte tornava presto, ma non con quel sorriso
stampato sulle labbra che destò varie curiosità e
chiacchiericci,
per i corridoi, che riguardavano lui e Lena Luthor. La voce doveva
girare in fretta. Lo avevano salutato tutti e gli avevano augurato
una buona giornata; nessuno lo aveva guardato in modo diverso, o
seguito, se non altro lì dentro. Sapeva che la signorina
Kyle si
divertiva a stargli dietro da qualche giorno, ma aveva già
deciso di
non affrontarla: quella ragazza lo rendeva nervoso e non sapeva bene
perché. Era silenziosa e si appostava come un animale in
agguato, ma
non faticava ad immaginare come fosse lì sotto suggerimento
di Lena
Luthor o della sua sorellastra per tenerlo d'occhio, quindi si era
semplicemente deciso a sopportarla.
Il
sorriso gli si spense non appena tornò in villa. Si
ritirò nel
vecchio studio dei suoi genitori, rimasto intatto da allora, e si
accomodò su uno dei divanetti, poggiando e aprendo un
portatile
proprio sul tavolino davanti. In tempo per accettare una
videochiamata su Skype:
«Come
si sente, signorino Wayne?»,
domandò l'anziano con uno spiccato accento inglese,
dall'altra parte
dello schermo. «La
vedo… sofferente. Non dovevo partire».
Alfred
era via da appena mezza giornata e già si sentiva in piena
apprensione da mamma chioccia, pensò Bruce. Ma dopotutto,
era l'uomo
che si era preso cura di lui per tutti quegli anni, che lo aveva
cresciuto e temprato, gli concedeva ogni tanto di esasperarlo come
avrebbe fatto un genitore. «Alfred, avevi promesso di
smetterla con
questo signorino;
sono grande, penso tu lo sappia».
«È
un uomo adulto, me ne rendo conto eccome, me ne dispiace»,
si scusò in fretta, «Tendo
a vederla ancora come un bambino e a non arrendermi al tempo che
passa inesorabile, signori- emh,
signor Wayne».
«Grazie»,
per poco non gli sfuggì un sorriso, ma solo per poco.
«Sto bene,
Alfred. Credo di essere solamente un po' stanco perché non
dormo di
nuovo bene, ultimamente».
«Si
faccia preparare una rilassante tisana alle erbe, prima di sdraiarsi.
Le farà bene; personalmente la prendo sempre appena prima di
addormentarmi o rischio di non chiudere occhio»,
sorrise e Bruce lo ringraziò.
Non
gli aveva accennato del pericolo che correva, non voleva far
preoccupare Alfred e soprattutto non voleva che rinunciasse al suo
viaggio: era la prima volta che incontrava il suo gruppo di amici di
birdwatching del continente. Quell'uomo non prendeva mai una vacanza,
non avrebbe potuto essere così egoista nei suoi confronti. E
poi
sarebbe rimasto via solo tre giorni, poteva sopravvivere.
Bussarono
alla porta e diede l'ordine di entrare: vide uno dei nuovi membri del
personale che trascinava dentro lo studio un carrello e il giovane
deglutì, abbassando il volto fin quando l'uomo non gli porse
una
tazza e gli versò la tisana davanti ai suoi occhi e a mezzo
schermo
di Skype.
«Come vedi, la tisana è già
qui», disse allo schermo, prendendo
la tazzina. Ringraziò l'uomo e lasciò che
trascinasse di nuovo
fuori il carrello.
«Mi
sono premurato di lasciare dei consigli allo staff in mia assenza, in
modo da non farle mancare nulla, signorino- mi scusi, signor Wayne.
Mi ci vorrà qualche tempo»,
aggiunse subito. «E
adesso la lascio, così riposa. Buona continuazione».
«Buona
giornata, Alfred». Alzò la tazza e
sembrò lì per berla ma, appena
la chiamata staccò, la rimise sopra il sottobicchiere in
argento,
abbassando lo schermo. Avrebbe voluto seguire il consiglio ma non si
sentiva ancora così disperato da bere quella roba,
così guardò
l'ora e si accoccolò sul divano, riprendendo la sua partita
a Candy
Crush.
In
realtà, Lena e Kara non erano del tutto sicure che ci
sarebbero
riuscite: l'idea di sbloccare quella situazione era venuta in mente a
Kara quando Lena le aveva raccontato di come Bruce Wayne fosse certo
che qualcuno stesse tentando di ucciderlo. Ed era un'idea sciocca, o
così le aveva detto Selina quando l'aveva chiamata per
sentire se
voleva partecipare al grande piano. Da quel momento lo aveva seguito,
ma le era sembrato tutto nella norma.
So
chi vuole ucciderlo.
Le aveva scritto per messaggio. Io.
È noioso: le scimmie di mare che allevavo a dieci anni hanno
fatto
una vita più interessante della sua! Sono stanca di star
dietro a un
boy scout ricco.
Ma
a Lena l'idea era piaciuta così tanto che era stata lei a
convincere
Bruce Wayne a farsi aiutare.
«No,
Luthor»,
aveva provato a declinare per telefono. «Non
voglio che vi mettiate in mezzo. È una cosa di cui mi
occuperò da
solo».
«Uh,
dunque tu puoi chiedere a una persona di mentirmi perché hai
arbitrariamente deciso che fosse il meglio per me, ma io non posso
aiutarti chiedendotelo?», la voce si era fatta dura.
«Non ti
permetterò di crogiolarti nell'autocommiserazione come un
cavaliere
solitario. Abbiamo deciso, Wayne».
Lo
aveva sentito sbuffare. «Tu
e chi altro?».
«Ti
farò sapere».
Non
era della stessa opinione Alex, che sapevano sarebbe stata impegnata
e non volevano altro da lei se non consigli. E quelli erano arrivati
di certo:
«Lasciate
fare alla polizia», aveva strabuzzato gli occhi.
«Se fosse davvero
in pericolo, secondo voi non si sarebbe già riempito l'aria
di
guardie del corpo?».
«Non
sai com'è fatto», aveva ansimato Lena.
«E
non si può esattamente contare sulla polizia, a
Gotham», aveva
fatto una smorfia Kara.
«Leggete
anche voi i giornali, ogni tanto? Esce quasi ogni sera con una nuova
ragazza, non mi sembra in pericolo di vita», aveva ribattuto
Alex.
«Il vero unico consiglio che posso darvi è:
lasciate perdere».
In
quei giorni era particolarmente su di giri poiché quella
povera di
Faora Hui si era appena risvegliata dal coma e stava lavorando per
farle ottenere una scorta dal D.A.O., quindi non diedero peso a come
avesse trattato la cosa con superficialità. Bruce Wayne
usciva ogni
sera per crearsi una routine e dare modo ai suoi aggressori di
costruire un piano d'attacco mentre lui si teneva pronto: era stata
Kara a capirlo secondo ciò che le aveva raccontato Selina
Kyle da
quando aveva iniziato a seguirlo, non che si fosse confidato, di
sicuro. Ma il suo piano si basava completamente sulla fiducia in se
stesso. Ed erano contente di sapere che il giovane non mancava di
autostima però, senza qualcuno ad aiutarlo, poteva rivelarsi
molto
rischioso giocare al bersaglio in quel modo. Loro avrebbero costruito
le condizioni adatte per farsi sorprendere, ma sarebbero state anche
pronte a intervenire. O almeno speravano, imprevisti permettendo.
In
primo luogo, si erano fatte descrivere perché era convinto
che
qualcuno volesse ucciderlo. In secondo, si erano fatte dire chi e
quali luoghi frequentasse abitualmente. In terzo, si erano fatte dare
di nuovo nomi e luoghi da Selina Kyle per essere sicure.
Quell'avventura a Gotham sarebbe stata una buona distrazione
dall'imminente scarcerazione di Astra Inze e dall'assassinio di
Lionel Luthor ancora avvolto nel mistero.
E
ora si trovavano finalmente lì, a poco dall'obiettivo.
A
Gotham City il cielo era più scuro, colmo di nuvoloni e
nebbia che
sembrava costantemente portatrice di sfortuna. Il pilota ci mise non
poco a trovare il modo di atterrare e, quando aprirono il portello
per scendere, dovettero tutte fermarsi per indossare una giacchetta.
Bruce Wayne era là, a metri da loro sul tetto della Wayne
Enterprises, che le aspettava.
«Quale
strega cattiva ha maledetto Gotham?», brontolò
Siobhan reggendosi
le braccia per il freddo, mentre raggiungevano il giovane.
«Dunque
volete farlo per davvero», esclamò lui, forse
ancora sorpreso.
«Dubbi?»,
domandò Lena, scambiando uno sguardo complice con Kara.
Siobhan
si presentò da sola prima che Kara potesse farlo e
lasciarono il
tetto. Bruce, per mano a Lena come indicava il loro piano, fece fare
un giro panoramico all'interno alle ospiti, ricevendo non poche
occhiate e strette di mano. Erano molti i dipendenti eccitati che
correvano a salutarla. Kara era quasi sollevata di non essere al
centro dell'attenzione per una volta, se non che quella stessa
attenzione era rivolta alla sua ragazza che doveva fingere di uscire
con un altro. E, all'improvviso, erano di nuovo solo
sorellastre.
«Dunque
la tua sorellastra, con cui stai insieme, deve far finta di stare
insieme al rampollo», Siobhan indicò una e poi
l'altro, parlando a
bassa voce, dietro di loro, «e di essere semplicemente la tua
sorellastra?».
«Precisamente»,
rispose a denti stretti, annuendo a stento.
«E
in questo bel quadretto di famiglia, io chi dovrei rappresentare?
Cosa ci faccio qui?».
«Me
lo stavo chiedendo anch'io; precisamente».
Furono
interrotte da alcuni soci del giovane Wayne che vennero anche loro a
salutare e conoscere Lena Luthor: sguardi felici, arrossati, denti
bianchissimi e sorrisi pieni di finta gioa che non potevano passare,
a un occhio attento, per qualcosa di diverso. Lena e Bruce
presentarono Kara come sorellastra della ragazza e Siobhan come amica
e collega di quest'ultima, facendola ghiacciare: amica,
in effetti, era davvero un parolone e fece sghignazzare Kara. Non
mancarono di fare loro domande sul loro possibile fidanzamento, da
quanto tempo si stessero frequentando, se intendevano fare sul serio
e alcuni di loro già prevedevano una fusione futura tra la
Wayne
Enterprises e la Luthor Corp. Correvano più veloci di quanto
avrebbero fatto loro se la cosa fosse stata reale.
«Il
nostro piccolo Wayne potrebbe essere una nuova brillante aggiunta per
la Luthor Corp», disse a un certo punto uno di loro
sorridendo da
orecchio a orecchio, tenendo le mani cicciotte nelle tasche dei
pantaloni. Voleva sbarazzarsene? «Lex Luthor dovrà
cominciare a
tremare», rise e fece ridere con lui tutto il gruppo, mentre
tra
loro si scambiavano uno sguardo impacciato.
«La
stessa Lena dovrebbe, vorrai dire»: Bruce parlò
sopra le loro
risate, interrompendoli. «Lena prenderà il comando
della Luthor
Corp di National City per le sue capacità, non
perché è stata
adottata. Avrebbe dura concorrenza dal suo stesso… mh, ragazzo?»
sorrise e guardò lei che sorrise a sua volta, stringendo
più forte
il suo braccio.
Smisero
di ridere poco a poco, guardandosi. «Ma
ovviamente», rispose l'uomo
facendo l'occhiolino alla Luthor, appiattendo la cravatta rosa lungo
la rotondità del suo pancione. «Non volevo dire
che… Anche una
donna può tremare
per questo», sottolineò la parola riprendendo a
ridere, contagiando
qualche altro.
«Beh,
è tempo che questo piccolo
Wayne
venga via con me, adesso. È stato un piacere. Ma ve lo
riporterò
intero per domattina, non temete», rise, «La Luthor
Corp non ha
intenzione di sottrarlo ai suoi obblighi per la Wayne
Enterprises».
A
quel punto il suo sorriso sembrò farsi tiepido, intanto che
altri li
salutavano con altre strette di mano e baci di convenienza. Diedero
loro le congratulazioni e, mettendosi a parlottare, li lasciarono.
Avevano tempo prima dell'appuntamento vero e proprio: era il momento
di mettersi in mostra in giro per Gotham, e per dividersi.
Kara
e Siobhan li salutarono e lasciarono soli a bere in un localino. La
prima e Lena si erano scambiate una lunga occhiata prima di
separarsi, sapendo di non potersi lasciar andare ad alcuna effusione.
Da
L! a Me
Mi
manchi già.
Kara
sorrise e arrossì, leggendo il messaggio.
«Lena
Luthor?», domandò Siobhan, camminando a fianco a
lei sul
marciapiede. «Davvero? Oh cielo, vi siete lasciate neanche un
minuto
fa», borbottò con una smorfia di disgusto mentre
Kara continuava a
sorridere, digitando la risposta. «Siete delle adolescenti in
preda
agli ormoni, forse? Ehilà? Terra chiama Kara Danvers!
Nulla?»,
annuì, stringendo le labbra, «Nulla. Oh, bene, ho
sempre pensato
fossi infantile, Danvers, te lo devo dire, ma Lena
Luthor…».
Siobhan
strabuzzò gli occhi e Kara finalmente sollevò i
suoi dallo schermo
del cellulare. «Stai parlando con me?».
Si
fermò così anche l'altra. «Stai
scherzando?».
«Che
cosa?».
«Uff»,
gonfiò le guance. «Cammina».
«No,
davvero, cosa stavi dicendo?», scrollò le spalle e
la raggiunse ma
si fermò di nuovo, improvvisamente, nel ritrovarsi davanti
ai propri
passi una ragazza intenta a sistemare molto velocemente un piccolo
quadernetto di appunti. Quasi non guardava dove andava. Dietro di lei
un'altra ragazza, e un ragazzo, un altro dietro trascinava una
videocamera, e un altro ancora una fotocamera, pulendo l'obiettivo.
Lei e Siobhan si portarono a un lato del marciapiede per farli
passare e Kara si nascose il viso con una mano, abbassandosi il
giusto.
«Sono
qui per loro?».
Annuì,
rivolgendole uno sguardo. «Il piano sta funzionando: abbiamo
attirato l'attenzione. Vieni, dobbiamo incontrare una
persona». Se
ricordava bene la strada, dovevano esserci quasi. Oh, quello era il
parchetto dei bimbi rovinato e abbandonato, più in
là c'erano delle
aiuole e dei robusti alberi, e un capannone in disuso, ciò
che
cercava. Le inviò un messaggio per dirle che era arrivata e
si
avvicinarono.
«Quindi?
Chi stiamo aspettando qui?», chiese Siobhan, una smorfia di
disapprovazione perenne nello sguardo. «Non so tu, ma io
sento odore
di pipì e uova. O uova e basta. Uova marce che sanno di
pipì.
Gotham è pulita quanto i bagni alla stazione di servizio
dopo il
passaggio di motociclisti ubriachi», sbottò e
l'altra la guardò.
«Cosa c'è?», arrossì,
«Non ho sempre fatto la reporter, sai?».
«Okay…
ma non dire questa cosa dell'odore davanti a lei», strinse i
denti.
Siobhan
stava per ribattere che, inaspettato, qualcosa cadde in mezzo a loro
in picchiata e lei si sbalzò talmente indietro dallo
spavento che,
urlando, inciampò in un'aiuola e finì sopra a un
cespuglio.
«Dirmi
cosa?». Selina Kyle si rimise dritta con la schiena e si
voltò per
aiutare la poverina caduta all'indietro, mentre Kara fermava a stento
le risa, andando anche lei in suo soccorso.
«Ma
sei un puma o ti credi un Fantasma dell'Opera in incognito?»,
gridò
Siobhan e, mentre agitava le braccia, dietro di lei, rossa fino a
scoppiare, Kara non riusciva più a trattenersi.
«Calmati
, non è-».
«Non
dirmi di calmarmi». Guardò in alto, cercando di
capire la dinamica
per cui era sopra un tronco e poi era scesa come se niente fosse.
Selina
allora scrollò le spalle. «Mi sto allenando.
Faccio parkour.
Piacere, Selina. Selina Kyle». Le porse una mano ma Siobhan
fissò
lo sporco di terriccio sul palmo e i polpastrelli, irrigidendo le
labbra.
«Sì.
Siobhan Smythe. Come se ti avessi toccato, scusa, ho la
fobia».
Kara
finalmente scoppiò a ridere di colpo e Siobhan si
irrigidì. «Hai
il sedere pieno di foglie», indicò nascondendo il
sorriso e lei
sbiancò, provvedendo subito a pulirsi, imbarazzata, e dopo
passandosi il gel igienizzante nelle mani. Pensò di offrirlo
a
Selina ma lei, dopo aver rifiutato, se le spolverò battendo
i palmi.
«Niente
di nuovo», mormorò poco più tardi,
sedute sopra una panchina di
pietra nel parchetto; Siobhan non faceva che riguardarsi intorno e
odorare nell'aria come un animale. Selina tirò fuori il suo
cellulare e sfogliò la galleria con le foto che aveva
scattato in
quei giorni seguendo Bruce Wayne. «Tizi che lavorano con lui;
non mi
sono potuta avvicinare per fotografarli meglio e nemmeno
tutti»,
specificò, mostrando una foto con un gruppo di persone
distanti,
oltre un cancello. «Ho notato che lo guardano con insistenza
quando
lui è distratto. E gli parlano dietro, è certo.
Alcuni di loro
fumano e li ho beccati fuori a prenderlo in giro. Ridevano. Non mi
sono potuta avvicinare neppure lì, peccato».
«Questo
lo conosco», Kara indicò il viso gonfio e
incredibilmente rosa
dell'uomo che sembrasse non vedere l'ora di sbarazzarsi di Wayne e
che amava fare battute ridicole.
«A
lui piace molto prenderlo per i fondelli, solo alle spalle»,
confidò, alzando lo sguardo dal cellulare. «Mi
sono avvicinata
appostandomi dietro il cancello, quando era abbastanza vicino: gli
piace trattarlo come se fosse ancora un poppante e non lo vuole in
mezzo alle cose
da grandi.
Gira una brutta aria, ma a parte questo, non mi sembra così
grave da
minaccia di morte». Cambiò foto e ancora, svelta e
a disagio,
quando si imbatté in quelle scattate proprio a Bruce Wayne.
«Ignorale», disse ridacchiando, «Mi
sembrava strano, qui, per
quello ho fotografato anche lui. E… ignora anche
lei», aggiunse
con disappunto, passando una, due, quattro, sette, undici foto del
faccione di Harley che faceva le boccacce. «Non mi sono
accorta
prima di questi selfie…», dichiarò
imbarazzata.
«Avete
stilato dei profili per ognuna di queste persone?»,
domandò
Siobhan, facendosi finalmente interessata. «Escludendo
lei… mi
pare chiaro», indicò la dodicesima foto di Harley,
con
l'occhiolino.
«Lena
ed io abbiamo letto su di loro, ci ha aiutate In… un'amica»,
Kara si zittì. «A-Abbiamo fatto una ricerca in
rete, ma non hanno
nemmeno una multa non pagata. Sono solo ricchi e antipatici»,
ansimò.
«Tanto
per cambiare», sghignazzò Selina.
«Magari le multe non pagate se
le sono fatte sparire dagli amichetti nei posti giusti. È
così che
fanno i ricchi». Sfogliò rapidamente altre foto di
Harley
promettendo che le avrebbe cancellate tutte e si fermò su
altri
scatti interessanti. «Sono persone che ogni giorno hanno a
che fare
con lui: l'autista, il clochard che soggiorna vicino a un bar dove
prende il cappuccino, le persone che lavorano nel bar, un cliente
abituale con cui scambia qualche parola, e- no, eddai,
basta», brontolò, ritrovando l'ennesima foto di
Harley. Nella foto
successiva aveva ripreso per metà la sua faccia e, in primo
piano
dietro di lei, il sedere di Ivy sotto una gonna attillata, quando era
inchinata. In quella dopo ancora erano insieme e sorridevano
abbracciate. Poi si baciavano. In un'altra le facevano la linguaccia.
«Secondo te è perché sono in cerca di
attenzioni? Pensi che non le
prenda abbastanza in considerazione?», sbuffò
appoggiando il mento
contro il palmo di una mano, mandando avanti l'ennesima foto in cui
entrambe si sollevavano il naso, allargando le narici.
«Forse
è una richiesta di aiuto», rifletté
Kara.
«Sì,
potrebbe. Non c'è altra spiegazione».
«No,
non c'è», continuò annuendo mentre
Siobhan, sempre più
infreddolita, iniziò a camminare intorno alla panchina su
cui erano
sedute, sperando di scaldarsi.
«Queste,
invece, sono del personale a villa Wayne», ritrovò
le foto giuste e
cercò di zoomare sui loro volti sfocati. «Anche
qui non ho potuto
avvicinarmi molto. Sono passata oltre il cancello, anche se alto non
è stato difficile, ma questi tizi e tizie escono raramente
fuori e
non lo fanno nemmeno tutti. Non fumano, quindi…»,
allargò le
spalle.
«Ti
sono sembrati strani? Qualche comportamento particolare?».
Selina
annuì, con disinvoltura. «Sì, questa
tizia», indicò una donna
bassa dietro le foglie di un albero, «Lei ha una relazione
con
quest'altro», sfogliò due foto indietro, indicando
un ragazzo alto.
«Si baciano sotto il pesco quando non li vede nessuno, si
danno
appuntamento», guardò Kara e fece spallucce,
«ma non credo che una
relazione nascosta sia pericolosa per Wayne. Oh, e
quest'altro».
Indicò un uomo più grande. «Raccoglie
foglie, credo ne faccia una
collezione. Ma anche questo non sembra pericoloso per Wayne…
E
quest'altro, questo». Indicò infine un altro uomo,
più anziano.
«Questo tizio se n'è andato questa mattina e non
è più tornato.
Mi è sembrato di capire sia il capo del
personale», gonfiò le
guance, pensando, «Forse è andato in vacanza,
aveva una macchina
fotografica appesa al collo e una valigia. Quindi… non mi
sembra-».
«Pericoloso
per Wayne», finì per lei.
«Se
qualcuno è pericoloso o no per Wayne lo possiamo stabilire
mentre ci
incamminiamo da qualche parte?», sbottò Siobhan
d'un tratto,
stringendo le braccia contro il petto. «Ho freddo e si sta
mettendo
vento».
«Perché
ti sei messa una minigonna se hai freddo?»,
domandò Selina in una
bassa risata, ma Siobhan la ignorò, ricominciando a
passeggiare
intorno a loro. «Ma dove l'hai pescata questa
tipa?», continuò a
ridere.
Kara
sbuffò, dando una nuova occhiata alle foto.
«Lasciamo perdere, per
il momento. Speriamo che salti fuori qualcuno oggi che siamo qui o
dovremo piazzare una nuova trappola», sfogliò
ancora la galleria e
sorrise, richiamando l'attenzione di Selina.
«Questo
è troppo», aggrottò la fronte lei:
nelle altre foto era lei la
protagonista e stava dormendo seduta con le braccia incrociate su un
banco e prima Harley finge di abbracciarla con espressione estasiata,
dopo le mette sulla testa un foglio con su disegnato un fumetto e la
scritta io
puzzo;
in quella successiva era Ivy a tenere un cartello con su disegnato un
balloon e la scritta Bruce
Wayne
accanto a un cuore. «Io le ammazzo».
«Adesso
ce ne possiamo andare? Per favore?».
Si
alzarono, ma solo dopo essersi fatte due selfie per i loro rispettivi
account Instragram
e
facendo gridare Siobhan per l'esasperazione. Decisero di portarla a
casa di Ivy, dove si era trasferita da poco. Si erano dirette in
centro, camminando velocemente nelle vie che puzzavano di fritto e di
carne bruciata. Si fermarono solo perché Selina salutasse un
gruppo
di ragazzi e dopo percorsero una stradina in mezzo a due palazzi,
iniziando a salire su per una scala antincendio. Siobhan non
mancò
di farsi risentire presto:
«Dobbiamo
davvero passare per questo ricettacolo di batteri? Anche i miei
sandali si ammalano a contatto con questi scalini
appiccicosi».
Kara
era decisa a starsi zitta e ignorarla, ma Selina Kyle non fu dello
stesso avviso e, qualche scalino più su, si voltò
bruscamente,
seccata. «Senti, principessa, le cose che puoi fare adesso
sono due:
o attraversi con noi questo ricettacolo di batteri e dai ai tuoi
preziosi sandali un antibiotico, oppure resti qui fuori a far
prendere freddo al tuo delicato sedere principesco. Ci siamo
intese?», sorrise e riprese ad andare, mentre Kara si girava
indietro; forse doveva essersi sentita in colpa per averla portata
con lei a Gotham. Dopotutto la loro non era una gita di piacere,
avevano un piano da portare avanti e lei, lì, era di troppo.
Ma non
avrebbe voluto che si sentisse in quel modo, non voleva che fosse di
nuovo triste.
«Dammi
la mano, dai», le allungò la mano destra, che
Siobhan adocchiò con
titubanza. «Così non devi toccare le
inferriate». Allora gliela
prese e strinse forte, mentre Kara la faceva passare avanti.
Stava
per fare un passo che si voltò di scatto: «Se ne
parli a qualcuno»,
sollevò le loro mani unite, «sei morta,
Danvers».
«Non
c'è di che», rispose, sorridendo appena.
Alzò gli occhi al cielo
quando ripresero a salire.
Passarono
attraverso una finestra lasciata aperta e sia Kara che Siobhan
spalancarono la bocca entrando all'interno di una spaziosa camera
piena di vasi con piante e fiori. Ce n'erano davvero di tutti i tipi:
grossi, piccoli, alti, piantine adagiate sotto l'altra finestra,
colorati, senza fiori, con foglie larghe e sottili, spessi, con spine
e senza; sembrava di essere entrate in un giardino botanico al chiuso
e Siobhan si grattò sotto il collo ancor prima che una
zanzara
potesse pungerla. Kara sapeva che a Pamela Isley piacevano le piante,
ma quello… Oh, c'era anche qualche scatolone impilato,
più a
fondo: davanti a tutto quel verde, sembrava più incredibile
vedere
un elemento del genere. Selina si raccomandò loro di stare
attente a
dove avrebbero messo i piedi, aggiungendo che, una volta sistemato,
quello sarebbe diventato un salotto.
«Un
comune salotto a Jumanji»,
bisbigliò Siobhan guardando in basso e Kara sorrise.
Sorpassarono
i vasi e uscirono dalla sala, incrociando Ivy con in braccio una pila
di libri. «Ehi, ragazze! Che bello, le prime ospiti! Sono
emozionata». I capelli rossi erano raccolti con una pinza
sulla nuca
e indossava una tuta verde da ginnastica, una gamba del pantalone su
e l'altra scesa, camminando con le sole calze antiscivolo ai piedi.
«E
io chi dovrei essere?», sbottò Selina.
«Tu
fai parte della famiglia».
«Fai
poco la carina: ho visto le foto in galleria», Selina non
mancò di
guardarla truce e Ivy sorrise.
«Ops».
Riprese a camminare nel corridoio, accanto ad altre piante in vaso.
«Statemi dietro. Harley sta sistemando la libreria in camera
da
letto. E chi è la ragazza nuova? Carne fresca?».
«Come,
prego?».
«Shh»,
Kara fece segno di non replicare, «Le piace
scherzare».
Anche
la camera da letto era spaziosa, ma soprattutto luminosa: le due
finestre erano spalancate e da quel lato non c'erano palazzi
abbastanza alti da oscurare il panorama urbano di Gotham City. Kara
presentò Siobhan come sua collega alla CatCo e, quando Ivy
adagiò i
libri che aveva sottobraccio sul pavimento, le strinse una mano,
guardandola attentamente negli occhi com'era solita fare. Harley si
alzò da terra dove stava sistemando i libri nell'ultimo
ripiano di
una libreria e scansò la compagna per stringerle anche lei
la mano e
presentarsi.
Lena
non le aveva fatto inviato altro, ma Kara sapeva che, a quest'ora,
lei e Bruce sarebbero andati a cena. Fino a quando erano insieme era
probabile non sarebbe successo niente, pensò, o l'eventuale
assassino avrebbe già avanzato un'offesa durante le sue cene
precedenti con altre ragazze. Però, ammetteva, un po' di
ansia la
provava lo stesso: e se Lena fosse stata in pericolo a restare con
lui? Sbuffò e si sedette sul materasso appoggiato a terra,
senza
doghe. Siobhan la imitò e, rigida come uno stecco da gelato,
quasi
cadde all'indietro.
«E
i tuoi si sono decisi?».
Kara
si distrasse, ascoltando Selina che parlava con Harley nel frattempo
che Ivy era sparita per andare a prendere altri libri.
«Ti
trasferisci qui?».
«Beh,
non ancora…», scrollò le spalle,
mettendo su uno sguardo
avvilito. «Non voglio litigare con loro ma non sono
maggiorenne
dall'altro ieri, quindi aspetterò ancora un pochino per
vedere se
cambiano idea».
«Altrimenti?».
«Altrimenti
scappo di casa. Non
sono loro prigioniera»,
rise fin quando non si accorse di aver messo i libri di mezza fila al
contrario, «Oh,
no»,
ricominciando daccapo.
Kara
la guardò con un'aria interrogativa e scese dal materasso
per
aiutarla, intanto che Selina decise di spiegarle come i genitori di
Harley non vedessero di buon occhio la relazione tra lei ed Ivy,
preoccupati per lei e la sua salute da quando era uscita da quella
con il suo ex. Kara guardò l'altra con la coda dell'occhio
fin
quando non si voltò per sorriderle:
«Lascia
stare, lo so cosa pensi. E cosa pensano loro, cioè che sono
matta,
ma io non sono matta, o non più matta di loro, almeno:
dormono con
le calze ai piedi», sottolineò. Sentì
addosso lo sguardo stranito
di Siobhan e si voltò in fretta per sorriderle.
«Sono solo
eccentrica perché mi piace ridere e sono pazzamente
innamorata».
Selina
si alzò di fretta. «Ben detto. Beh, adesso devo
andare». Andò a
scombussolare i capelli di Harley raccolti in alto. «Ho visto
la
galleria del telefono e me la paghi».
L'altra
rise a squarcia gola. «Ti sono piaciute, lo so».
Scambiò
uno sguardo con Kara una volta raggiunta la porta e fatto passare
Ivy. «Ti aggiorno se c'è qualcosa di diverso,
Supergirl».
Annuì.
Sapeva che stava andando a tenerli d'occhio e presto sarebbe andata
anche lei.
Selina
uscì salutando tutte e Siobhan prese il rimbalzo per
alzarsi,
chiedendo dove fosse il bagno.
«Oh,
non è difficile», rispose dolcemente Ivy,
«esci di qui e giri a
destra, la porta davanti».
Uscì
dalla camera borbottando: «Spero di non dover contendere il
wc con
Bagheera».
Era
stato Bruce a scegliere il locale della cena: era la seconda volta
che ci andava e la prima ne era rimasto talmente entusiasta che
portare lì Lena Luthor lo rendeva orgoglioso. Ancor prima di
sedere
al tavolino prenotato, le elencò già tutti i
piatti che le
consigliava. La sala era era piena di tavoli vuoti, prenotati tutti
in modo da avere più privacy; una bella facciata per il
grande
bluff. I giornalisti e i blogger scattavano foto attraverso le
vetrate del locale e loro fecero finta di niente, sorridendo al
sommelier quando portò loro il vino scelto anche secondo le
sue
indicazioni.
«A
dispetto di questo bislacco tentativo per far uscire allo scoperto
chi tenta alla mia vita, sono contento di poter cenare fuori con
te»,
le sorrise, alzando il bicchiere col vino bianco prima di assaggiarne
un sorso. «E sei bellissima, stasera».
Lena
sorrise di rimando, assaggiando un sorso a sua volta. Si era cambiata
prima di andare a cena, indossando un lungo abito da sera, sul rosso
granata, certamente più adatto all'occasione. «Lo
dici a tutte le
ragazze che cenano con te?», sorrise ed entrambi si
fermarono,
scambiandosi un'occhiata, quando il primo chef portò a
tavola il
primo a base di pesce, augurando loro buon appetito.
«A
qualcuna sì», confessò.
«È buona educazione e mi piace pensare
di essere un gentiluomo. Ma tu mi fai restare senza fiato,
Lena…
L'educazione mi impone di dirlo, ma per quanto riguarda te è
pura
verità».
«Allora…
grazie», arrossì. «Abbiamo una
teoria», riprese la sua attenzione
mentre assaggiavano il loro piatto, gustando il sapore a occhi
chiusi. Si sentivano osservati, ma era quello che speravano di
ottenere. «Uscivi con quelle ragazze per creare una tua
routine e
prepararti a qualsiasi cosa?».
Lui
sorrise. «Mi avete scoperto. Per inciso, le ragazze sapevano
fin da
subito che le cene erano in amicizia. Un po' come la nostra».
«Non
proprio come la nostra».
Lui
finì di ingoiare, riportando alle labbra il bicchiere.
«Si sono
divertite e ci hanno guadagnato dei like
su Instagram»,
poggiò il bicchiere. «Non mi interessa cosa dicono
i giornali,
lasciano il tempo che trovano. Ora come ora, non è
importante.
Alfred non è concorde, ma…».
«Alfred?».
«Il
mio maggiordomo», si affrettò a spiegare.
«Vorrebbe che mettessi
la testa a posto, che trovassi la donna da avere al mio fianco per
più di una sera. Ma trovare quella giusta non credo sia
così
semplice», ridacchiò. «Per uscire una
sera non ci vogliono chissà
quali standard, ma per la vita… Oh»,
sospirò, «A parlare così, mi sembra di
essere lui. E tu cosa ne
pensi, Lena?», le scoccò un'occhiata.
«La ricerca della persona
giusta mi è sempre sembrata un po' come il mito di Babbo
Natale:
incanta i bambini ma, quando cresci, ti accorgi che era solo
fantasia», proseguì, indugiando a lungo su un
boccone.
Disilluso:
Lena conosceva quella espressione e quei sentimenti. Li conosceva
molto bene. «Io spero sia reale», spezzò
il silenzio che si era
creato e Bruce le alzò di nuovo gli occhi, incuriosito.
«Sono
impegnata. Ho trovato… la mia persona giusta».
«Oh,
non ne me ne avevi parlato. Beh, immagino che la percezione cambi
quando si è innamorati», poggiò la
forchetta, complimentandosi a
bassa voce con lo chef. «Ed era d'accordo con questa
cena?»,
domandò poco dopo, passandosi il fazzoletto di stoffa sulle
labbra.
«Spero di non imbattermi in un ragazzo furioso dalla gelosia,
perché
i giornali», si voltò verso la vetrina
più vicino, «non
parleranno d'altro almeno per un po'».
Lena
abbozzò una risata, scuotendo un poco la testa e arrossendo.
«Un
po' gelosa lo è, ma… la tengo a bada»,
scherzò. «In realtà
l'idea è stata sua quando le ho raccontato che qualcuno
voleva
ucciderti, anche se non la cena, quella è stata una mia
idea»,
sorrise di nuovo quando lo vide aggrottare la fronte, cercando di
capire. «È una ragazza, Bruce. Ed è
venuta con me, oggi».
Lui
spalancò le labbra dalla sorpresa. «Non sembrava
che… Bene. Ed è
in carriera. Spero si sia ripresa bene per ciò che
è successo,
prima non mi sembrava una cosa carina da ricordarle, ma-», si
bloccò, quando la vide accigliarsi. «La reporter
della CatCo,
giusto? Quella Siobhan Smythe?».
«Oh
no, no, no, no», scosse la testa, iniziando a gesticolare,
«Mi ero
dimenticata- no! Intendo Kara».
«Kara?
Ma è la tua-», vide Lena annuire, distogliendo lo
sguardo con un
sospiro. «Bene. Sono felice per voi, allora. L'aveva esclusa
perché,
sai, tua madre e sua madre…», sorrise,
«Solo non avevo capito che
tu… Che insomma, tu», aggrottò la
fronte di nuovo, imbarazzato.
«Mi
piacciono le donne», prese una piccola pausa, vedendolo
annuire.
«Non è una cosa pubblica, al momento».
«Non
preoccuparti». Si sporse per versarle altro vino e lo
versò dopo al
suo bicchiere, guardando con la coda dell'occhio i fotografi che non
accennavano a placarsi, scattando da diverse angolazioni. Il suo
aspirante assassino poteva perfino essere uno di loro,
pensò.
Deglutì. Era stata una grande idea quella di farsi avvistare
in
pieno giorno a bere qualcosa, in questo modo chi tentava alla sua
vita avrebbe scoperto il locale nello stesso istante in cui lo
avrebbero fatto i reporter che, ovviamente, avrebbero dato
aggiornamenti su di loro in diretta. Non avrebbe avuto il tempo di
entrare nella troupe del ristorante e avvelenare il suo cibo, ci
avevano pensato; anche per questa ragione ne sceglieva uno nuovo ogni
sera. L'assassino e il suo committente potevano essere chiunque e
ovunque; dovevano tenere alta la guardia.
«Hai
qualche idea?», domandò lei dopo che il primo chef
portò a tavola
il secondo. «Su chi possa volerti morto?».
Bruce
abbozzò una risata. «Ti sarà difficile
crederlo, ma non sono
apprezzato da tutti».
«E
chi lo è?».
«Da
bambino, ho visto i miei genitori morire davanti ai miei occhi. Un
balordo li ha sparati durante una rapina, in un vicolo, uscendo dal
cinema. Da quel momento, diventai il bambino di troppo per
molti»,
si appoggiò contro lo schienale della sedia, puntando i suoi
occhi
sul tavolo dove giocava con due dita a piegare un fazzoletto di
stoffa. «Essere figlio dei miei genitori mi rendeva un
bambino amato
ma, una volta che loro non c'erano più, sono diventato
discendente
di un'eredità troppo grande e troppo complessa per la mia
giovane
età; tante persone si sono offerte di dare una mano, sono
stato
messo da una parte, costretto a vendere fette del mio patrimonio se
volevo che la Wayne Enterprises avesse un futuro. Alfred mi
è stato
accanto, mi ha cresciuto come un figlio e ha cercato di darmi il
meglio e il meglio dell'educazione per poter riprendere un giorno
tutto ciò che mi spetta come Wayne, ma», si
fermò per riprendere
fiato, «chi fino a questo momento si è occupato di
tutto alle mie
spalle, non è felice del mio nuovo ruolo in questo ambiente.
È
difficile, Lena…», sospirò.
«Penso che a volermi morto possa
essere chiunque qui a Gotham», si lasciò andare a
uno spento
sorriso e Lena ansimò, lasciando la forchetta sul piatto.
«Senza
dimenticare…».
«Parlami
di loro», lo fissò, «Come ti hanno
contattato? Quando? Chi?».
«Un'email
al mio account. Lo uso per lavoro, è pubblico, ma non mi
aspettavo…», sospirò, scuotendo un poco
la testa, «Non mi
aspettavo affatto niente del genere». Prese il cellulare e
cercò
ciò che gli interessava, passandolo alla ragazza. Sentirono
addosso
i flash delle fotocamere.
Lena
lesse con attenzione, portandosi una mano contro la bocca.
«Vogliono
collaborare… È incredibile».
«L'organizzazione
è sicura che mi riprenderò l'intero patrimonio di
famiglia e
vogliono aprirsi la strada a progetti futuri insieme», si
riprese il
telefono. «Sarebbero anche disposti ad aiutarmi, qual
premura».
«Vogliono
espandersi».
«Probabilmente»,
annuì il giovane. «Stanno riprendendo potere e
immagino vogliano
assicurarsi sbocchi fuori da National City. Un'email simile
è stata
inviata a Oliver Queen e a chissà chi altro».
«Vogliono
ricostruirsi una rete».
«Se
hanno inviato qualcuno a spaventarmi per spingermi ad accettare la
loro proposta, non mi stupirebbe».
Se
ne restarono in silenzio quando arrivò il dessert. Ma era
ovvio come
entrambi stessero macinando nuove idee e approfondendo il discorso
per conto proprio, non per niente, Bruce non tardò a
spezzare quella
calma apparente:
«Che
cosa sai di questa gente, Lena? Non ti hanno contattato come
è
successo a me, giusto?».
«No.
No e non so se… Sto cercando di smascherarli,
Bruce», lo fissò
negli occhi. «Ho nomi, alcune piste, non sono la sola
e-».
Lui
la interruppe, dopo aver ingoiato: «Lo fai per tuo
padre?».
«Sì.
Anche», annuì decisa. «Voglio arrivare a
chi lo ha ucciso. So che
mio padre stava cercando di fare esattamente lo stesso, di
raccogliere dati per incastrali e smontare l'organizzazione, ma non
è
riuscito in tempo e voglio portare al compimento ciò che lui
ha
iniziato».
«Mi
dispiace di aver cercato di ostacolarti… Devi comprendere il
mio
punto di vista, Lena: ho perso i miei genitori anch'io e crescendo ho
compreso l'importanza di custodire ricordi sereni e le belle cose di
loro. Non volevo che scoprissi brutte cose su tuo padre
perché»,
sospirò, sorridendo, «non vorrei che lo odiassi.
Non fraintendermi:
non per lui, ma per te. Non meriti di stare male, ma di ricordarlo
come l'uomo che era quando eri bambina». Lena si perse nei
suoi
occhi, trattenendo il fiato. «Non sai quanto darei per avere
altri
ricordi felici da custodire sui miei genitori».
E
in un attimo, Bruce non c'era più. Lena era tornata
indietro: aveva
un piatto pieno davanti, sul tavolo, ma non ricordava cosa c'era e
sapeva solo che non voleva mangiarlo. Si sentiva stanca e triste. Suo
padre era seduto davanti e leggeva un giornale: aveva la barba
ruvida, gli occhi sottili, i capelli leggermente spettinati.
«Lena?
Non stai mangiando», si era imbronciato. «Devi
finire tutto».
Lei
si era tenuta la pancia e guardato un punto distante. «Non
voglio
farla arrabbiare, però…». La sua voce
era bassa, impastata.
«E
allora provaci, su». Si era alzato e seduto sulla sedia
accanto a
lei, composto. Aveva preso la forchetta e provato ad imboccarla, ma
lei aveva serrato le labbra. «Lena… Se non mangi,
non diventerai
grande. Facciamo in questo modo: un boccone tu e un boccone io fin
quando non finisce il piatto. Non lo diremo a Lillian, sarà
il
nostro segreto», aveva aggiunto in fretta, quando la piccola
si era
sporta di nuovo per guardare. «Inizio io». Si era
messo il boccone
tra i denti e la faccia nauseata non si era fatta attendere.
«Oh, ma
è disgustoso», aveva tirato in fuori la lingua e
Lena si era messa
a ridere, «Faticheremo a finirlo tutto». Aveva
preso un'altra
forchettata e gliela aveva messa davanti alla bocca: Lena aveva
subito strizzato gli occhietti, emettendo anche lei un verso
schifato.
Avevano
finito il piatto. Ricordava di non aver mangiato tutto quello che le
spettava poiché non ce l'aveva fatta, ma suo padre si era
spazzolato
il resto e non aveva detto nulla a Lillian, come promesso.
Ma
le cose non potevano essere così semplici. Forse era stato
un buon
padre per lei, ma era importante avere un quadro completo dell'uomo
che l'aveva messa al mondo e non glielo aveva detto, fingendo di
averla adottata come Lillian. Le aveva nascosto di essere la sua
figlia biologica, le aveva nascosto di far parte di un'organizzazione
criminale, le aveva nascosto che stava rischiando la vita per
distruggerla. E così era morto. Gli voleva bene e sempre
gliene
avrebbe avuto, non sarebbe cambiato. Probabilmente no, non sarebbe
cambiato.
«In
qualunque caso», la voce di Bruce la riportò alla
realtà e
spalancò gli occhi. «Distruggere un'organizzazione
come quella, che
rinasce dalla propria cenere come una fenice»,
spiegò, serio, «è
rischioso quanto difficile. Hai idea di cosa potrebbe succederti se
ti scoprono? Scusa», chiuse gli occhi un attimo.
«Tuo padre.
Un'idea ce l'hai». Lena sembrava così rapita dai
suoi pensieri,
adesso. «Hai trovato la persona giusta con cui condividere la
vita e
vuoi rischiarla in questo modo? È una fortuna più
unica che rara,
Lena. Goditi tutto questo, è il mio consiglio», le
sorrise,
avvicinandosi al tavolo intanto che la fissava, quasi potesse
leggerle la mente attraverso gli occhi lucidi. «Ci
sarà tempo per
fare gli eroi».
Kara
se n'era andata da almeno mezzora e lei non sapeva cosa fare in
quella casa piena di piante, umidità e insetti. La padrona
di casa,
quella Ivy, era uscita per comprare qualcosa da mettere in frigo,
così disse, però per farlo si era vestita come
una donna di facili
costumi e non aveva fatto domande. L'aveva salutata con un sorriso
raggiante e si era intrattenuta con quella che pareva essere la sua
ragazza, per almeno sette minuti davanti alla porta. Sette minuti,
accidenti, e aveva sentito rumori, cominciando a salirle il panico:
si stavano baciando o esaminando l'esofago a vicenda? L'altra, tale
Harley, si era addormenta proprio accanto a lei sul letto,
all'improvviso, come se non esistessero regole di cos'era giusto o
sbagliato fare con ospiti in casa. Aveva conosciuto persone di Gotham
prima e avrebbe giurato non erano così. Oh, non avrebbe
dovuto
seguire Kara Danvers perché si sentiva sola, che stupida. Si
stava
approfittando di lei e della sua gentilezza? Non era una bambina,
poteva rialzarsi anche se qualcuno non le teneva la mano. Forse.
Forse
no.
A volte sentiva di farcela e di essere normale, quella di sempre, ma
altre… altre aveva solo voglia di bere e scappare da non
sapeva
cosa. Forse aveva ragione Kara Danvers: non era più quella
di prima.
Se ci pensava, le saliva il panico perché lei amava
la se stessa di prima. Non aveva mai avuto bisogno di nessuno, aveva
creato un muro intorno a sé e aveva sempre potuto contare
sulle sue
sole forze, e ora si sentiva sola?
Ma non poteva essere l'alcol il suo rimedio a tutto e dopo la notte
prima… Aveva proposto a Kara Danvers una cosa
che… che avrebbe
tanto voluto dimenticare. E che le faceva senso.
Forse. Scosse la testa, accigliandosi. Sperava se non altro che lo
avesse dimenticato Kara. Che stupida, che stupida. Poi
perché lei?
Perché non c'era nessun altro? Era così
disperata? Basta bere:
aveva deciso. Avrebbe dovuto prendersi più cura di se stessa
e… E
qualcosa. Fare qualcosa per uscire da quel tunnel buio. Qualcosa di
concreto, che… Si sollevò la maglia il tanto per
controllare il
cerotto sulla cicatrice e, come sentiva, si era sfortunatamente
staccato da una parte e non aveva ricambi. E adesso come avrebbe
fatto? Doveva aspettare il ritorno della tizia coi capelli rossi per
sapere se aveva un cerotto da darle? Poteva controllare da sola.
Siobhan si mosse per alzarsi dal letto, pian piano per non svegliare
l'altra; mise forza sulle gambe e-
«Cosa
hai fatto lì?».
Cadde
di nuovo, reggendosi il petto dallo spavento. Schiaffeggiò
la mano
destra di Harley quando le alzò la maglia per controllare.
«È
una cicatrice? Sembra proprio bella».
«Bella?
Sei suonata? Ho rischiato la vita, mi hanno sparato»,
sbottò,
urlandole nelle orecchie.
Harley
non fece caso al suo temperamento e, con la maglia ancora sollevata,
le strappò il cerotto, gettandolo indietro. «Beh,
a me piace. Ha
una bella forma e si vede che hai rischiato grosso», rise.
Ma
Siobhan era paralizzata dalla paura: le aveva tolto il cerotto e non
aveva altro, non aveva altro per proteggerla, era scoperta, come
avrebbe fatto adesso? Si sentiva vulnerabile, e fine,
e piccola. Provava freddo. Guardò la cicatrice come
ipnotizzata,
spalancando gli occhi, ascoltando i battiti del cuore accelerati. Le
mancava la sua pelle liscia, lì. Le mancava qualcosa che,
forse,
andava al di là di questo.
Harley
ci passò il dito e dopo il naso, odorando la parte
interessata.
«Che
stai facendo?», si tirò indietro disgustata.
«Cercavo
di capire perché portavi quel cerotto: sembra pulita,
chiusa. Sei
strana».
«Non
sono io quella strana», urlò.
Perché
sentiva come se, con quel colpo, Philip Mcbrown non le avesse
lasciato solo un segno esteriore? Sì, forse il suo corpo era
meno
bello con quella, ma c'era dell'altro, le aveva lasciato una
cicatrice dentro, dal colpo mortale che le aveva inferto prima di
sparare: sei
superficiale,
non
hai niente di speciale,
non
mancherai a nessuno.
Era così vero. Si toccò la cicatrice. Era
così vero.
«Mi
hai mostrato la tua, io ti mostro la mia», disse fiera
Harley,
alzando la maglietta. C'era una cicatrice in un fianco, sotto
l'ombelico, quasi nello stesso punto in cui si trovava quella di
Siobhan. Aveva la pelle piegata e rosa in un segno più lungo
del
suo; erano evidenti i punti di dove l'avevano ricucita.
Siobhan
si incantò e le tremò la voce:
«Come… Come ci stavi lasciando le
penne?».
Harley
rispose con una naturalezza disarmante: «È stato
il mio ex».
«Il
tuo ex? Saw
l'Enigmista?».
Harley
la fissò e, d'un tratto, non trattenne più una
risata e Siobhan si
lasciò contagiare, cadendo entrambe con la schiena sul
materasso.
«Mi piaci, ragazza strana abbandonata qui da Supergirl! Ma un
enigmista proprio no, anzi, dirò che è stato
piuttosto chiaro:
voleva guardarmi negli occhi mentre mi accoltellava e scoprire se
cambiavano. Ma non voleva uccidermi», specificò
gonfiando gli
occhi, «poi ha smesso».
«E
sarei io quella strana?». Harley rise di nuovo e Siobhan con
lei,
scuotendo la testa. Stava ridendo, non credeva a se stessa: non le
serviva bere per perdere la ragione.
Bruce
abbassò gli occhi e Lena ansimò: era arrivato il
momento che
attendevano. Uno sguardo mal interpretato, un gesto di troppo e la
ragazza si alzò bruscamente dalla sedia, urlandogli contro.
La
reazione del giovane fu immediata e indicò il tavolo dove
avevano
consumato da poco il dessert, gesticolando con pugni di rabbia.
«Adesso
basta! Pago la mia parte del conto e me ne vado»,
urlò lei, facendo
impallidire il cameriere più vicino.
«Devi
per forza fare così? Questa scenata è
necessaria?», controbatté
Bruce. «È pieno di giornalisti, là
fuori».
Lena
si fermò il tempo di guardarlo un'ultima volta, stringendo
le labbra
con rimprovero. «Ci vediamo, Bruce».
Lei
uscì per prima come stabilito e, sempre come stabilito, la
vide
portarsi dietro quasi tutti i giornalisti con la promessa di dire
loro, in lacrime, perché avessero litigato. Appena
sbocciata, la
loro relazione si stava già appassendo. Bruce si
rifugiò in bagno
per darle uno stacco, dopodiché pagò e
uscì dalla porta sul retro,
ringraziando lo staff per averglielo concesso. Adesso era solo e
turbato, vagava senza destinazione e fuori dalla sua routine: se
qualcuno voleva ucciderlo, era il momento buono per provarci.
Intanto,
Lena camminò velocemente sui suoi tacchi il più
possibile,
nascondendo il volto con una mano. I giornalisti la tempestavano di
domande sulla sua serata e, quando pensava di essere andata
abbastanza lontano, si fermò, passandosi due dita in mezzo
agli
occhi. «Andatevene, per piacere! È
finita».
«La
sua relazione con Bruce Wayne è finita?»,
domandò una ragazza
vicina e lei si tirò indietro, piegando le labbra e
nascondendo di
nuovo gli occhi.
«Non
lo so, io… Ho cambiato idea, non riesco a dire niente in
questo
istante, per favore… Andate via».
Riuscì a convincerli ad
allontanarsi, e dopo averle scattato delle foto, solo quando
minacciò
di chiamare la polizia. Non era certa che non ce ne fossero ancora
appostati da qualche parte però si sentiva scoperta e sola e
tanto
bastava per farle salire la tachicardia, ricordandosi di avere la
pistola di suo padre in borsetta. Per fortuna, Kara non si
lasciò
attendere troppo: l'aveva seguita da quando lasciò il locale
e si
limitò a dirle che era fatta, così Lena finse di
piangere sulle sue
spalle, non mancando di approfittarne per stringerla un po'
più del
dovuto, rivedendo suo padre che metteva in bocca una forchettata per
lei.
Bruce
ansimò pesantemente, continuando ad avanzare. La luna era
alta e il
cielo scoperto, senza una nuvola: illuminava la via solitaria. Si
sentiva il traffico distante, un cane abbaiare, risate provenire da
chissà dove. C'era afa dovuta ai condizionatori degli
esercizi
pubblici accesi, odori stantii. Un lampione era rotto e
inspirò
ancora più pesantemente. Quando aveva accettato quel piano,
non
aveva accennato alla sua paura dei luoghi bui. E perché poi
avrebbe
dovuto? Si girò velocemente indietro, ma non c'era nessuno;
non
c'era freddo ma aveva i brividi e si passò le mani sulle
braccia
coperte dalla giacca. Basta, doveva smetterla: non era un debole, lo
sapeva. Lo aveva dimostrato quando, da bambino, si era arrampicato
sul cornicione di una finestra solo per il brivido di farlo. Lo aveva
dimostrato quando i bulli lo picchiavano a scuola e si era sempre
rialzato. Lo aveva dimostrato quando il suo maestro di arti miste,
Ra's al Ghul, lo aveva gridato per dirgli che era negato e anni dopo
gli aveva tenuto testa. Non avrebbe permesso che un trauma lo
segnasse. Non lo avrebbe permesso, no- Delle voci. Due uomini si
stavano avvicinando alle sue spalle, sentiva i passi pesanti e
scoordinati. Il committente aveva mandato due persone? Non aveva
paura e prese fiato, aggrottando la fronte. Avrebbe dovuto avvertire
con un messaggio Lena Luthor, ma se ne sarebbe occupato da solo.
Perché era così che lui sistemava sempre le cose:
da solo.
I
due uomini a un certo punto ridacchiarono e accelerarono il passo,
iniziando a chiamarlo con appellativi offensivi. Pestarono una
cartaccia, calciarono una lattina vuota, presero dalle tasche dei
coltelli a serramanico. Uno dei due lo fermò per il colletto
e lo
avvicinarono al muro, urlando di farsi consegnare i soldi.
Dei
balordi. Troppo grande per una coincidenza: quel qualcuno aveva
mandato ad ucciderlo dei balordi fingendo una rapina, proprio com'era
accaduto quando era bambino ed erano morti i suoi genitori.
«No»,
disse serio e i due lo afferrarono per la giacca e lo spinsero
più
forte contro il muro, senza che lui desse loro soddisfazione.
«Non
avrete i miei soldi».
«Certo»,
aveva detto invece suo padre allora, nei suoi ricordi. «Tutto
quello
che vuoi». Aveva tirato indietro lui, che era bambino, e
aveva fatto
lo stesso sua madre, riparandolo col suo corpo.
Bruce
ricordava il batticuore violento di quel giorno, gli occhi
spalancati, le labbra che tremavano di paura. Era buio, in un vicolo
come quello, il balordo aveva una pistola. Aveva stretto le dita sui
cappotti dei suoi genitori e poi tutto era successo molto in fretta:
loro gli avevano dato tutto ciò che avevano quel giorno e
lui li
aveva sparati lo stesso, entrambi, di fretta, nascondendo le cose di
valore sotto il cappotto. Bruce era rimasto di pietra accanto ai loro
corpi che si accasciavano sui ciottoli. Ma aveva guardato lui, il
balordo. Aveva fissato i suoi occhi tremanti mentre gli puntava la
pistola alla tempia. Lo aveva lasciato lì, non aveva
sparato, gli
aveva già tolto tutto quello che aveva. Il se stesso bambino
si era
abbassato sui loro corpi e, ancora senza versare nemmeno una lacrima,
aveva provato a svegliarli. Si era toccato il petto e aveva
continuato a scuoterli per ore, al buio, da solo, prima che arrivasse
la polizia.
«Devi
darci i soldi o ti facciamo la pelle, questa notte», quella
voce
dura lo riportò al presente e Bruce lo guardò
senza energie, come
se non gli importasse. «Diciamo sul serio».
«Davvero?»,
gli domandò, guardando prima uno e poi l'altro. Doveva
bloccarli e
interrogarli in modo che gli dicessero chi li aveva mandati ma, non
avrebbe saputo bene esprimere perché, in quel momento non
gli
interessava abbastanza. Voleva tornare a casa e riprendere in mano
una vita che, da anni, aveva cercato con fatica di costruirsi,
però,
guardando i loro volti di rabbia mentre sputavano parole che
odoravano di vino scadente, si chiese se, in fondo, ne valesse la
pena. Non voleva morire, ma era strana la sensazione che gli
comprimeva il petto e gli sussurrava di interrogarsi sulla sua vita.
Gli faceva ancora male, era quella la verità: nonostante gli
anni
passati, nonostante il balordo non gli avesse sparato, gli aveva
lasciato una cicatrice dentro che, ora e sempre, bruciava. Bruciava
da matti.
Fu
la sirena della polizia a far scappare i due, mollandolo con le
spalle appoggiate contro il muro. La macchina e la sua sirena
passarono di corsa sulla strada vicina al vicolo e Bruce
fissò loro
prima che sparissero, poi riguardò dalla parte opposta
quando scorse
con la coda dell'occhio un'ombra muoversi veloce: la ragazza
balzò
da una scala antincendio, mostrandogli il cellulare.
«Ho
allertato la polizia di una rapina qui vicino. Ha
funzionato».
Bruce
Wayne la guardò e riguardò più volte,
scuotendo appena la testa.
Che cosa gli era preso? Li aveva lasciati andare, non voleva
crederci. Si era-
«Pietrificato»,
disse Selina Kyle nel buio, accigliandosi. «Ti ho visto
combattere,
Wayne, mi aspettavo qualcosa e restavo lì ad aspettare fino
a quando
non mi sono resa conto che non avresti fatto un bel niente».
La
sua voce era così dura. «Li hai lasciati
scappare», replicò,
«Avevo tutto sotto controllo, non avevi il diritto
di-».
«Salvarti
il fondoschiena, vuoi dire?», si avvicinò,
mettendo via il
cellulare.
Bruce
aprì la bocca ma non seppe cosa dire, squadrandola da capo a
piedi
appena fu invasa da un cono di luce; era diversa da solito: indossava
dei bizzarri occhialetti da aviatore sulla fronte e sopra una
coroncina con due orecchie da gatto, i soliti ricci erano ordinati da
un lato, si era messa sulle labbra un rossetto rosso vivace; aveva
degli stivali alti, pantaloni neri e aderenti riflettevano la luce,
come il top che- rialzò gli occhi, rendendosi conto di
averle
guardato troppo a lungo il seno decisamente gonfio.
Gonfio, pensò. Non aveva sinonimi; aveva appena dimenticato
l'intero
vocabolario che sfoggiava nelle discussioni con gente altolocata. Non
che non avesse sempre pensato che fosse una bella ragazza,
ma…
«Quella è in latex?». L'aveva chiesto
davvero?
Selina
lo guardò negli occhi e non poté fare a meno di
sorridere un po',
alzando un angolo della bocca. Gli appoggiò la mano sinistra
contro
il petto e passò la mano destra sulla sua nuca, stringendo i
capelli
corti, così si spinse sulla punta dei piedi e lo
baciò. Veloce,
chiuse gli occhi e lui ricambiò, spingendola da
sé solo un momento,
quel tanto che bastava per guardarsi e capovolgere la situazione: la
afferrò per le spalle e la sbatté contro il muro
mettendosi su di
lei e affondando la bocca nella sua. Selina gli passò le
braccia
intorno al collo e si aggrappò, ignorando il suo cuore che
scalpitava furente contro il petto.
«Scusa,
era…», lui si distanziò di poco,
borbottando con gli occhi
semichiusi, «era troppo-».
«Zitto»,
sussurrò lei e gli tirò un labbro,
così Bruce le strinse i
fianchi, baciandosi di nuovo, a lungo.
Harley
mise su un'espressione triste quando anche Siobhan si
intristì, mano
ancora sulla sua cicatrice, per coprirla. «Non ti piace
proprio,
eh?». Lei non rispose e così si
avvicinò strisciando sul
materasso, allungando le labbra in una smorfia. «Non capisco
perché».
«Perché?»,
urlò e l'altra si tappò per un attimo le
orecchie, «Sei seria,
biondina? È il segno che mi ricorda come stavo per morire e
quanto
la mia vita faccia schifo. Naturalmente sto intraprendendo un
percorso di successo, e non per vantarmi, ma alcuni miei pezzi sono
davvero forti e i più letti degli ultimi anni», le
puntò contro un
dito, «Ma non c'è davvero altro di me
e… stavo per morire. Stavo
per morire».
Harley
piegò le labbra in un'altra smorfia, mettendosi a pancia in
giù sul
materasso. «Però sei viva, no?»,
battibeccò, appoggiando la testa
su una mano retta dal gomito sul materasso. «Quante lagne!
Stavi per
morire, l'ho capito, ma non è successo e puoi ancora fare
tutto
quello che ti pare! Se la tua vita fa così schifo, felicitazioni,
sei in tempo per rimediare», spalancò la bocca per
un gran sorriso.
«È questo il bello delle cicatrici: ti ricordano
che stavi per
crepare malissimo e che non è successo. Puoi sfoggiarla come
un
trofeo di guerra, come ti pare, ragazza strana che urla
troppo».
Siobhan
corrugò la fronte pronta per ribattere ma, non venendole in
mente
niente di pungente, si zittì, fissando il soffitto bianco.
Alla
fine, il piano non sembrò funzionare. I balordi che avevano
aggredito Bruce Wayne quella sera erano solo quello, dei balordi, non
lavoravano per nessuno e, quando più tardi lui, Selina e
Lena e Kara
li rintracciarono, dovettero lasciarli andare. Quando avevano
raggiunto i due, le ragazze li ritrovarono già sulle tracce
degli
aggressori. In ogni caso, Selina Kyle era convinta che nessuno
minasse per davvero alla vita del ragazzo che, per lei, era solo
paranoico. Se ne andò e presto lo fecero anche Kara e Lena
per
andare a recuperare Siobhan da casa di Ivy. La ritrovarono che,
seduta con loro intorno a un tavolo, rideva e scherzava mangiando
cibo giapponese. Questa era nuova: Kara scambiò uno sguardo
sorpreso
con Lena poiché per poco non riconosceva la collega con quel
sorriso
sincero stampato in viso senza aver bevuto. Per esserne sicura
domandò conferma ad Ivy e, quando lei portò a
tavola altri piatti
di sashimi, si convinsero a restare, inviando un messaggio ad Alex
per dirle che avrebbero cenato fuori e di farlo sapere a Indigo. Ne
ordinarono da asporto quando Kara non sembrò sazia. Non era
mai
sazia.
Nel
frattempo, Bruce era già tornato a villa Wayne. Era stanco e
aveva
il cervello altrove, frastornato per aver rivissuto un momento
traumatico e, allo stesso tempo, dalla passione e coinvolgimento
inaspettato che si era ritrovato a provare con Selina Kyle. Non
capiva cosa gli aveva fatto, era… Gli piaceva. Gli piaceva?
Quella?
Non se n'era mai reso conto, prima. Accese il portatile e si
trascinò
fino al vecchio studio dei suoi genitori, sul divano. Forse Alfred
aveva voglia di parlare un po' con lui, se non gli era di disturbo.
Bussarono alla porta e diede l'ordine di entrare.
«Signor
Wayne, le preparo la tisana alle erbe, come suggerito da Alfred prima
di partire».
Lui
lo guardò pensandoci, finché non sentì
un rumore provenire da
fuori, attraverso le finestre aperte, e sorrise. «Sai cosa
dico?
Questa notte voglio provare qualcosa di diverso, rilassarmi. Va bene,
berrò quella tisana. Ma prima che tu vada», lo
fermò, «se potessi
farmi un favore: apri il portone e chiedi all'ospite in giardino se
vuole entrare invece di vagabondare come una ladra».
L'uomo
annuì pacato e richiuse la porta dietro di lui.
Quella
Selina Kyle non credeva che qualcuno stesse tentando di ucciderlo,
quindi perché continuare a seguirlo se non fosse che aveva
ancora
voglia di vederlo? O voglia di baciarlo, magari. Sì, la
tisana gli
avrebbe allentato la tensione e magari proibito di pensare di nuovo
al vicolo buio, così da concentrarsi… su altro.
La porta si aprì
e Bruce prese un grosso boccone d'aria vendendola entrare e
richiudere. Era sempre stata così sensuale o…?
Ah, doveva
smetterla di sentirsi come un dodicenne.
Lei
si appoggiò alla porta, scuotendo piano la testa.
«Io sono una
ladra, Wayne».
Lui
rise. «Mi hai sentito o te l'ha detto?».
«Me
l'ha detto?
Me lo ha gridato aprendo il portone: non
fare la ladra che il signore ti vuole vedere»,
fece a voce grossa, avvicinandosi lentamente. Si guardò
intorno con
attenzione. «Come sapevi che ero qui fuori?»,
raggiunse il divano
più vicino, accarezzando la stoffa pregiata.
«Questo posto è
praticamente un museo», ridacchiò.
«Mi
segui da giorni, Selina Kyle, lo so. Sentivo la tua presenza qua
fuori. Tendi ancora a sottovalutarmi».
Lei
scosse la testa, arrossendo. Si rese conto che forse era vero che gli
piaceva lui, oltre al suo denaro. E quelle labbra, quella lingua,
quei capelli sottili fra le proprie dita, il petto marmoreo che la
spingeva contro il muro e non le lasciava respiro, le sue mani
grandi, come l'aveva guardata… Deglutì,
abbassando lo sguardo.
«Perché
sei qui, Selina?».
Ne
voleva ancora, era abbastanza ovvio e lo sapeva anche lui.
Bussarono
alla porta e lei tirò un sospiro di sollievo. L'uomo
tirò dentro il
carrello e i due si stettero zitti mentre adagiava il sottobicchiere
sul tavolino, la tazzina e versò la tisana, senza guardarli
negli
occhi. Infilò nella tazzina il cucchiaino e la
avvicinò al ragazzo,
riprendendo il carrello.
Selina
lo adocchiò attentamente intanto che si allontanava.
«Bevi spesso
questa roba?». Bruce sembrò spaesato:
guardò lui e di nuovo l'uomo
del personale che apriva la porta per uscire. C'era un odore strano
nell'aria e lo sentì da quando fu versata quella tisana.
In
centro, le ragazze ringraziarono per la compagnia e si alzarono per
andarsene. Era tardi ed era meglio richiamare l'elicottero della
Luthor Corp che Siobhan, presa da un momento di loquacità,
chiese
cosa ne era stato del loro piano e di Bruce Wayne. Le raccontarono
degli aggressori, della cena, dei giornalisti, ma di persone che
volevano ucciderlo per un qualche complotto neanche l'ombra.
«Forse
è ancora presto», disse Harley in una risata.
«Se volessi uccidere
il riccone, ci penserei due volte dal farlo totalmente a
caso».
Siobhan
la indicò, scrollando le spalle. «Avete
ricontrollato i membri del
personale che lavorano per lui? La biondina dalla risata
schizofrenica ha ragione», si portò le braccia a
conserte. «Un
assassino rispetta i suoi tempi e per farlo si infila nella sua
quotidianità. Sveglia, Danvers»,
schioccò le dita, «Il
maggiordomo! È sempre il maggiordomo».
Kara
e Lena si scambiarono uno sguardo e non ci misero molto a prendere
ciò che serviva e precipitarsi a villa Wayne. Lena
provò a
chiamarlo per cellulare ma non rispondeva e questo non faceva che
dare più credibilità all'ipotesi di Siobhan.
Quando non si mosse
nessuno neppure al campanello davanti al cancello, allora chiamarono
la polizia, decidendo di fare irruzione. Passarono da una finestra
aperta, ringraziando che non avesse installato le zanzariere, e
corsero con foga all'interno. Quel posto era un labirinto ma
sentirono delle voci e le seguirono. Una delle voci era di Selina?
«Voi
cosa ci fate qui?», Selina spalancò gli occhi.
«Come
siete entrate?», domandò Bruce.
Il
personale della villa era intorno alla sala mentre al centro, accanto
a Bruce e alla ragazza, un uomo era legato a una sedia, reo di aver
provato ad avvelenare il giovane Wayne. Harley abbassò la
mazza da
baseball, prese il cellulare e scattò una bella foto
ricordo.
La
polizia scortò in centrale il membro del personale che
tentò di
uccidere l'ereditiero, interrogando per almeno tre quarti d'ora
Bruce, Selina Kyle e il resto del personale alla ricerca di un
possibile complice. Una donna bassa pianse tutto il tempo, ripetendo
come lo amasse e come lui l'avesse presa in giro per costruirsi una
copertura. Le avrebbe fatto male per un tempo lunghissimo.
Bruce
non era entusiasta dell'arrivo della polizia poiché lui e
Selina
avevano appena iniziando a interrogarlo e, in special modo la
ragazza, ebbe un brivido quando loro irruppero in scena. La notizia
sarebbe apparsa ovunque adesso, forse spaventando chi lo voleva
morto. Il nome sarebbe saltato fuori in ogni caso, era questione di
ore o, considerando che si trattava di un Wayne, minuti. E alla fine
Bruce ebbe modo di assaggiare la famosa tisana durante la sua
videochiamata con il maggiordomo Alfred, spaventato che al suo
signorino
sarebbe potuto succedere qualcosa di male in sua assenza. Selina Kyle
attese nel divanetto vicino che finisse di parlare con lui, provando
Candy
Crush.
Le
ragazze se n'erano appena andate quando videro le volanti della
polizia precipitarsi in villa. Raggiunsero insieme casa di Ivy per
recuperare le loro cose e poi lasciarono lei e Harley, andando a bere
qualcosa in un bar lì vicino. Sentirono di aver bisogno di
assestarsi un attimo prima di chiamare l'elicottero che le venisse a
prendere. Lena prese qualcosa di appena alcolico, Kara un analcolico
e Siobhan, con gran sorpresa, decise di non bere niente che non fosse
un bicchiere d'acqua fredda, dandosi a qualche nocciolina
finché non
si accorse di conoscere un gruppo di ragazzi a un tavolo e andare a
parlare con loro. Kara la tenne d'occhio per un po', cercando di
capire se fosse veramente tranquilla o se stesse fingendo. D'altra
parte, anche Lena si comportava un po' stranamente da quando
andò da
lei dopo la cena con Bruce Wayne.
«Ti
senti bene?», Kara le poggiò una mano su un polso
e Lena alzò lo
sguardo per adocchiare il barman, notando che non era minimamente
interessato a loro: era come se fossero due persone qualsiasi in un
luogo qualsiasi e non capitava spesso.
«Sì»,
le sorrise. «Sì, sono solo un po' stanca.
Pensavo».
«Un
nichelino per i tuoi pensieri», sorrise, per poi mettersi a
gesticolare. «È-È una citazione famosa,
adesso non so precisamente
di dove, però-», si interruppe, quando la vide
sorriderle di nuovo,
incantata.
«Vorrei
non dover tornare a National City, stanotte. Avvisiamo Indigo, e
Alex, e restiamo qui. Ci prendiamo una camera. Ho voglia di stare
tranquilla, anche solo per stanotte».
Kara
era quasi sul punto di cedere. «E chi riaccompagna Siobhan a
National City?», la indicò con uno sguardo.
«Mi dispiace averla
invitata senza dirti niente».
«Non
importa», si alzò dallo sgabello e le sorrise di
nuovo. «Vai a
prenderla, adesso telefono».
Kara
annuì e, quando si fu girata, gonfiò le guance
poiché l'idea di
restare lì per la notte piaceva anche a lei. Siobhan
scherzava e
rideva, pensava avesse vinto l'alcol, invece non aveva neanche il
bicchiere. La chiamò che era ora di tornare a casa e l'altra
la
fulminò con lo sguardo:
«Non
vedi che sto parlando?».
Tutti
i ragazzi sul tavolo si girarono a osservarla e Kara roteò
gli
occhi, sospirando. Ecco, l'incantesimo era finito: era tornata quella
di sempre. «Non ho voglia di discutere: se vuoi tornare a
casa, ti
consiglio di raggiungerci fuori entro tre minuti». Si
allontanò
vedendo Lena uscire che Siobhan la chiamò e la
seguì, fermandola a
un braccio.
«Scusa»,
la lasciò subito, tirandosi indietro. «Scusa,
io…», abbozzò un
sorriso che spense subito, faticando a guardarla negli occhi.
«Voglio
che tu sappia che so… So tutto quello che hai fatto per
me», forzò
un sorriso e Kara si portò le braccia a conserte.
«Hai fatto quello
che non avrebbe nessun altro al posto tuo. Sei stata un'amica e lo
apprezzo… Credo che… Credo che parlerò
con Cat Grant e mi
prenderò ancora dei giorni, tornerò dallo
psicologo», abbassò la
voce, «e andrò a lavoro quando sarà lui
a dirmelo».
«Penso
sia la cosa migliore», sorrise anche lei.
«E
credo che resterò qui, mi daranno loro uno strappo a casa.
Li
conosco, non preoccuparti; perché so che lo faresti,
Danvers»,
scosse la testa e Kara rise. «E ho chiuso con le bevute. O
almeno ci
proverò perché voglio… trattarmi
meglio». Arrossì, abbassando
di nuovo lo sguardo.
Glielo
aveva detto lei la notte prima, quando era ubriaca: Kara si
stupì
che l'avesse davvero ascoltata. Ma non che si ricordasse tutto,
quello lo sapeva eccome perché non sapeva fingere molto
bene. Le
chiese se fosse davvero sicura e Siobhan tentò qualcosa:
alzò le
braccia e le riabbassò, provò in un altro modo e
tornò ad
abbassarle, e- e
va bene.
Kara l'abbracciò e la sentì deglutire, per poi
ricambiare
lentamente. «È rimasta», disse a Lena
una volta fuori dal bar.
«Cosa facciamo? Vuoi chiamare l'elicottero?».
L'altra
sorrise come se le avesse appena dato la notizia migliore del mondo e
scosse la testa.
Kara
non era affatto certa che lasciare Indigo da sola in villa fosse una
buona idea, ma d'altra parte non potevano chiedere ad Alex di
guardarla anche durante la notte come se fosse una babysitter
sottopagata. Lena si fidava e dopotutto, se anche avesse voluto
rubare qualcosa e sparire, dove sarebbe andata? Scelsero velocemente
una delle camere libere in un piccolo hotel in centro a Gotham City.
I rumori provenienti dalle altre camere erano molesti, quelli del
traffico sotto forse anche di più, i colori delle pareti
erano
grigio sporco e la moquette vecchia, ma era tutto pulito e, in quel
momento, perfetto.
«Vuoi
sdraiarti? Provare a dormire un po'?», le chiese Kara,
sistemando il
letto. La credeva stanca in un altro senso, poiché appena i
propri
occhi azzurri si posarono sui suoi, intuì presto che le
intenzioni
erano tutt'altre.
Lena
scosse la testa, arrotolando la maglia e sfilandola dalle braccia.
«Voglio sentirti», soffiò quasi in un
brusio. Si avvicinò piano e
si baciarono ancor più piano, assaggiandosi e socchiudendo
gli
occhi, dosando il battito mentre, allo stesso tempo, era Selina a
sfilarsi il top e gettarlo sul pavimento lucido. Bruce la prese per i
fianchi e la portò al sicuro contro il suo petto nudo,
abbassando il
volto per aprire la bocca e accoglierla, baciarla. Lena spinse sul
letto Kara e Bruce tirò Selina sul suo, su di lui. Si
baciarono
ancora, entrambe le coppie, nel cuore della notte.
Quella
fu una lunga notte, tanto che i raggi del sole faticarono a bucare il
cielo di nebbia sopra Gotham City e portare il giorno. E fu davvero
lunga per tutti, anche per Siobhan Smythe.
Mosse
le labbra ed emise un rumore sordo con la gola, svegliandosi con
calma. Si sentiva bene, quella mattina. Stirò un braccio
addormentato e, nel momento di farlo cadere, lo gettò su un
altro
braccio che di certo non era suo. Aprì un occhio e poi
l'altro,
sbadigliando. Sorrise: era una splendida giorna- Si voltò a
destra e
i lunghi boccoli rossi di Ivy coprivano il cuscino, poi a sinistra e
la bocca di Harley le stava baciando una spalla intanto che russava,
allora deglutì: non lo aveva sognato. Prese fiato a pieni
polmoni,
spalancando gli occhi: non
lo aveva sognato.
E sorrise.
Eeeh,
diciamo che forse forse, ma forse eh, Siobhan non è davvero
più la
stessa. Cosa volete che sia la voglia di cambiare, di scoprirsi di
nuovo e crescere! D'altra parte, credo che nemmeno ad Ivy e Harley
sia andata male XD
Per
il resto, abbiamo scoperto che in fondo i presentimenti di Bruce
Wayne erano fondati! Il tipo si era infiltrato tra il personale e
usato una delle donne che lavoravano lì per crearsi una
copertura,
ha aspettato che Alfred se ne andasse e, infine, ha cercato di
avvelenarlo sfruttando un piccolo cambio di routine con l'arrivo di
Selina e decidendo di bere la tisana. Avrebbe aspettato se fosse
andata male con la tisana ancora una volta, di certo non poteva
rischiare di farsi scoprire. Mai fidarsi del maggiordomo. Tranne
Alfred.
Piaciuta
la cena Luthor/Wayne? Hanno avuto modo di chiacchierare un po' e Lena
ha ripensato a suo padre, mentre il ragazzo ha rivisto la morte dei
suoi nel vicolo.
Fatemi
sapere cosa ne pensate del capitolo :) Lo
so, poco Kara e Lena come coppia in questo capitolo, ma avrò
modo di
farmi ““perdonare””. Non
mi vengono in mente note e allora passo e chiudo.
Il
prossimo capitolo si intitola Amore
e altri drammi
(perché
l'amore sì,
è un dramma) e
sarà pubblicato qui puntuale come sempre sabato 12 ottobre ~
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Capitolo 57 *** 55. Amore e altri drammi ***
Maxwell
Lord si portò la cannuccia alla bocca e bevve un sorso di
succo
d'arancia, poggiando di nuovo la bottiglietta sul tavolino. Il sole
picchiava al di là dell'ombrellino colorato che lo
proteggeva,
accanto a quelli chiusi e altri aperti dei tavolini intorno. La
cameriera, gentile, si fece il giro dei tavoli sulla piazzetta e si
fermò per chiedergli se gli servisse qualcosa. Aveva
il suo giornale, il succo d'arancia e waffle con marmellata.
«Grazie
mille, signorina, sono a posto». Lo lasciò
scambiandosi un sorriso
e il giovane continuò a leggere il giornale. Guai in vista
per la
Wayne Enterprises: sembrava proprio che alcuni soci del rampollo
Bruce Wayne avessero pagato qualcuno per ucciderlo. Le ragioni erano
ancora ignote, anche se si ipotizzavano divergenze lavorative. Lui
scosse la testa e continuò a leggere: il tentato omicidio
proprio la
sera della rottura definitiva tra il giovane Wayne e Lena Luthor, una
brutta giornata. Allora inarcò un sopracciglio.
All'improvviso
qualcuno gli fece ombra, sedendo davanti, e Maxwell sorrise
compiaciuto. «Sapevo che saresti tornata da me, Alex;
favorisci
qualcosa?».
Lei aggrottò lo sguardo. «Cosa
vuoi?».
«Come?», appoggiò il giornale
sul tavolino, estraendo uno dei suoi sorrisi migliori. «Sei
venuta
tu a sederti al mio tavolo».
Alex Danvers si sporse
all'indietro e puntò la strada alle sue spalle.
«Ah, sì? Quindi è
un caso che la boutique dove lavoro sia proprio
laggiù?».
Lui rise. «Beccato! Speravo
proprio mi notassi. Ti avrei chiamato, ma tu non l'hai ancora
fatto-».
«Potevi avvicinarti-».
«Potevo restarci male, ma qui ho
scoperto-».
«Invece preferisci appostarti
come un maniaco».
«Degli ottimi waffle», finì e
lei si portò le braccia a conserte. «Vuoi ordinare
qualcosa?
Signorina», chiamò la cameriera alzando un dito.
«Può portare-
Cosa preferisci?».
«No, no, non voglio niente»,
sorrise alla ragazza, scuotendo la testa, «grazie, non mi
devo
trattenere».
«Sei difficile, Alex Danvers».
Lei forzò un sorriso. «Allora,
perché sono qui?», si appoggiò al
tavolino. «Immagino non perché
ti sei ricordato qualcosa di importante sull'organizzazione».
Le
cadde l'occhio sulla sua polo celeste: era la prima volta che lo
vedeva vestito casual e non con camicia o camici da lavoro.
«No. Ma per invitare te e le
tue sorelle», abbozzò
una risata, nel dirlo, «a una festa che si terrà
da me a fine
mese». Le porse un bigliettino da visita bianco con il logo
della
Lord Technologies: sopra c'era impresso un indirizzo, una data e un
orario. «Potrà venire anche la tua fidanzata:
sarò un po' geloso,
ma vedrò di tenerlo per me», rise.
«Anche Lex Luthor è invitato,
a proposito, mi farebbe piacere la sua presenza. Vedrò di
recapitargli io stesso l'invito, ma se vuoi anticiparmi, nessun
rancore».
«A cosa si deve tutto questo?
Semplice piscina party?». Lex invitato? Sembrava che Maxwell
fosse
pronto per la prossima mossa su quel loro giochetto di potere che
facevano da tempo.
«Curioso che tu l'abbia detto! La
piscina c'è, ma festeggeremo la riuscita di un progetto
molto
importante per la Lord Technologies e il mio lavoro. Tanti invitati,
tanto alcol, tanti volti noti e alcuni meno noti. E ci saranno i
dolci: non possono mancare a una festa, no?», sorrise.
«Allora,
cosa ne pensi?».
«Si sta parlando delle pillole,
non è vero? Conosco i tuoi piani riguardo
l'esercito».
«Non volevo fare spoiler, ma…»,
sospirò, «il generale Lane ed io siamo alle
battute finali. Sarai
dei nostri?».
Alex scosse brevemente la testa,
facendo una smorfia con le labbra. «Non lo so. Manca ancora
un sacco
di tempo, lo userò per pensarci».
«Sì, certo». Prese forchetta e
coltello e tagliò un pezzo del primo waffle sul piattino,
gustandolo
a occhi chiusi. «Buonissimo. Sicura di non
volerne?».
«Sicura». Alex serrò con forza
le labbra e gonfiò un poco le guance, pensando a quelle
pillole: per
un attimo, rifletté se non fosse il caso di accennargli
degli
effetti collaterali importanti riscontrati da Lena e Lex su quelle
rubate alla Lord Technologies, in questo modo avrebbe magari bloccato
la vendita, ma era così sicuro di sé che
probabilmente non le
avrebbe nemmeno dato ascolto. Beh, doveva provarci. «Riguardo
quelle
pillole-».
Lui la bloccò, riprendendo a
sorridere. «No, ti prego, non parliamo di lavoro! Oggi
è il mio
giorno libero, tu hai appena finito il turno; se è
importante, hai
il mio numero». Vide Alex sbuffare, e si stava per alzare,
così la
fermò, indicando il giornale: «Sapevi della tua
sorellastra e Bruce
Wayne? Pare proprio che qualcuno sia tornato a casa col cuore
spezzato. L'amore è un rischio», la
fissò e lei deglutì. «La mia
babysitter, quella che ho avuto dopo la morte di mia madre, era
innamorata di mio padre. Gli è stata più vicino
che a me», rise,
ma per poco e Alex notò come i suoi occhi, ogni volta che
ritornava
al passato, gli si facevano lucidi. «Era mio padre ad avere
effettivamente più bisogno di cure: ogni volta che rischiava
di
lasciarsi andare, lei lo riportava indietro. Mio padre non l'ha mai
amata… lui non era più capace di amare
qualcuno», spezzò un
sorriso, «ma a lei non interessava: era sempre lì,
anche quando lui
non la sentiva». Alex abbassò gli occhi, seria,
mentre lui prendeva
un altro boccone di waffle e marmellata. «Questo è
l'amore»,
sospirò.
«E lei che fine ha fatto?»,
domandò, «Dopo la morte di tuo padre?».
«Se n'è andata. Non avevo più
bisogno della babysitter, ero adulto, ma veniva tutti i giorni per
assicurarsi che stesse bene e poi è scomparsa
com'è scomparso lui.
L'ho rivista al funerale e», scrollò le spalle,
pensandoci, «due
anni fa? Più o meno. Sono certo che, dovunque sia ora, sia
ancora
innamorata di lui».
La mente di Alex si accese,
ricordando una vecchia discussione con Maxwell: «Due corpi,
un'anima».
Lui alzò subito gli occhi e la
bocca formò un sorriso sincero, scoperto, genuino.
«Mio padre era
ancora innamorato di mia madre nonostante fosse morta»,
spiegò,
«Era incompleto, per questo si lasciava andare e non era
più capace
di amare. La sua anima era per metà con lei».
«Per essere qualcuno che nutre
risentimento verso il proprio padre, è sempre il tuo
esempio».
Maxwell sorrise, poggiando la
forchetta sul piattino. «Nutrivo risentimento per avermi
abbandonato, ma il loro amore è sempre stato il mio ideale
da
seguire, Alex. Non fraintendermi. Le figure genitoriali, per quanto
buone o brutte siano, ci restano dentro. Ah, e sono felice di
scoprire che mi ascolti e non parlo a vanvera», rise,
ricordando il
loro appuntamento in cambio del quadretto che aveva vinto a Rhea
Gand.
«In ogni caso, sono certa che
Bruce Wayne saprà riprendersi».
«Sì»,
annuì, vedendola alzarsi. «Vieni alla mia
festa», aggiunse,
veloce, «Ti aspetterò».
Alex
sospirò, rimettendo a posto la sedia. Maxwell sognava
un'amore oltre
la morte come quello dei suoi genitori, senza rendersi conto che il
suo verso di lei era più come quello della sua babysitter
verso suo
padre: un'amore che non sarebbe mai stato corrisposto. L'amore era un
rischio: almeno se ne rendeva conto.
«Prima
che vai, scusami, non voglio importunarti ancora».
Aspettò che si
voltasse. «Puoi dire tu a Lena Luthor e Kara che possono
venire alla
festa anche le loro amiche di Gotham? Loro sanno a chi mi riferisco.
Oh, e le tue colleghe: la biondina con gli occhiali e l'altra, quella
più spiritosa, che è venuta con te per un secondo
interrogatorio.
Ora che ci penso: sono circondato da belle ragazze», si
appoggiò
soddisfatto allo schienale e Alex non trattenne mezza risata,
dicendogli che non prometteva nulla. Così la vide andarsene.
Voleva
un pubblico per la sua vittoria, pensò lei. Ma non era certa
che lo
avrebbe detto a Carina Carvex: a lavoro era un conto, non la voleva
intorno anche nei giorni di festa. E Indigo, figurarsi. Ma
cambiò
idea d'un tratto: forse sarebbe stato meglio portarsela appresso
invece di lasciarla sola in villa. Ma cosa andava a pensare? Non era
nemmeno certa che ci sarebbe andata a quella festa. Però si
parlava
delle pillole e sarebbe stato il caso di farlo e tenersi informata.
Sospirò, entrando in macchina. Accidenti a Maxwell Lord:
passava il
suo invito, ma il discorso sull'amore era certa che le sarebbe
rimasto addosso per un po'.
E
lo pensava anche lo stesso Maxwell. Gli piaceva confidarsi con lei,
svuotarsi di un peso, affidarlo a qualcuno. Si stava rendendo conto
che lei gli piaceva davvero molto e, allo stesso tempo, come il
sentimento non fosse ricambiato. Due corpi e un'anima. Non avrebbe
mai avuto l'amore che sognava.
L'amore
che invece era certa di aver trovato Kara con Lena. Loro erano
arrivate a un nuovo traguardo del rapporto, anche se, in questo
momento, la prima si stava arrovellando il cervello per una questione
importante:
«Non
posso dire che- mh,
mi dispiaccia… Emh, voglio dire»,
gesticolò, rossa fino alle
orecchie dall'imbarazzo. «Arrivando al dunque, ho bisogno del
tuo
aiuto». Vide Megan alzare gli occhi al soffitto e inspirare,
in
attesa, così iniziò a girarle intorno, nella loro
camera in comune
al campus. «Nel senso… Un aiuto, del tipo, sessuale».
«Tu
lo sai che io non sono mai stata con una donna, vero? Esistono
ragazze etero, Kara, accettalo».
«Sì,
sì», abbozzò una risata svelta e scosse
la testa, sedendo al suo
fianco sul letto. «Certo che- Ma puoi aiutarmi lo
stesso». Megan
sospirò sconfitta, abbassando il libro che aveva tra le dita
e
tenendo il segno. «Da quando Lena ed io siamo tornate a stare
insieme, ci capita spesso di… di
stare assieme.
Ma questo
è un periodo stressante, a letto crolliamo dal sonno, e ci
capita di
stare assieme… in momenti
diversi».
«Comincio
a non seguirti più, ragazza. Diversi
in che senso? Siete almeno nello stesso posto?».
«Certo»,
arrossì, «Intendevo- È-È
come se non potessi farne a meno»,
puntò lo sguardo lontano e, per un attimo, l'altra la
seguì,
adocchiando il suo armadio. Appena Kara si girò lo fece
anche lei,
guardandola negli occhi. «E questo è
okay… beh, lei sembra
proprio che decisamente
non possa farne a meno», annuì con convinzione.
Era
trascorsa quasi una settimana da quando lasciarono la camera
d'albergo di Gotham City e, da allora, sembrava proprio che il loro
appetito sessuale, invece di andare verso una situazione di calma, si
fosse ulteriormente impennato e Kara non poté fare a meno di
pensare
che fosse perché erano abbastanza impegnate da non avere
più un
tempo decente da dedicarsi e ritagliavano i momenti che capitavano, o
perché si avvicinava il loro anniversario. Non certo quello
in cui
si erano messe insieme ufficialmente, e neanche quello prima della
rottura, o quello del loro primo bacio, no, ma quello del loro primo
incontro sul treno, quando tutto iniziò. Si sentiva attratta
da Lena
in momenti che neanche immaginava. E Lena…
«Siamo
andate in palestra. Ricordi che ti avevo detto che Lena voleva
imparare le basi dell'autodifesa?».
Si
erano cambiate negli spogliatoti della palestra indossando leggins e
canotte, legando in alto i capelli, entrando nella saletta ignorando
gli altri sguardi: tutti si erano zittiti di colpo e si sentiva
nell'aria solo la musica casuale degli altoparlanti, ma avevano
deciso di far finta di niente. Si erano accaparrate una panchina e
avevano lasciato i propri asciugamani e borracce d'acqua fresca,
distendendo un tappetino in una zona libera. Kara aveva invitato Lena
a seguirla e dato i primi suggerimenti per cominciare. Prima che
iniziasse a fare sul serio, doveva fornirle ciò che era
necessario e
andare con del riscaldamento.
«Però
sei messa male: divarica le gambe. Un po', così».
«Uh,
Kara?! Sei sfrontata… di fronte a tutti».
L'aveva
fatta arrossire, con le mani ancora adagiate sui suoi fianchi.
Nessuno aveva potuto sentire quel bisbiglio, ma si era bloccata come
un tronco di legno.
Megan
rise, portandosi una mano contro la bocca. «Era una battuta
innocente! Dai, te la si fa con nulla».
«Non
ho finito», mugugnò.
Dopo
qualche esercizio di riscaldamento si erano fermate a bere. Lena si
era sentita talmente madida di sudore e, aveva notato, anche Kara non
scherzava, pur non sembrasse stanca allo stesso modo: l'aveva tenuta
d'occhio mentre era andata a recuperare un sacco, parlando con quello
che le disse essere l'istruttore. L'aveva fermata e lui aveva
adocchiato Lena. L'aveva informata su come lì dentro fosse
al sicuro
dalle domande indiscrete su sua zia e ciò che stava
succedendo,
dicendo che aveva avvertito tutti di lasciarla in pace e lei aveva
sorriso e annuito, ringraziando. Era felice di vedere che, a parte
quei primi sguardi, la gente era troppo impegnata a tenersi in forma
per pensare a loro. Aveva preso il sacco e lo aveva agganciato
vicino, facendo cenno a Lena di raggiungerla. Lei però aveva
scosso
la testa.
«Vai
avanti tu, penso di dover recuperare ancora un po' d'aria»,
si era
sventolata una mano sul viso.
Kara
le aveva fatto una smorfia e Lena una linguaccia. Carina, accaldata e
già stremata, aveva pensato Kara, notando alcuni ciuffi dei
capelli
corvini che si slacciavano dalla rigida coda di cavallo per il
sudore, formando la criniera di un leone. Allora aveva tirato un
sospiro e iniziato a dare pugni al sacco: era da tempo che non lo
faceva e presto si era concentrata solo su quello, sentendosi libera.
Amava dare pugni al sacco, che fosse per allentare la frustrazione
com'era stato altre volte, per sfogo, o per semplice passatempo. Si
era sistemata le fasce strette intorno ai pugni e aveva ricominciato
subito; non si era resa conto di come Lena la stava fissando. Tutto
il suo corpo era in tensione, dai piedi, le gambe e le cosce, fino ad
arrivare alle braccia, alle mani potenti. Non colpiva con i pugni, ma
con tutto il suo corpo. La schiena si slanciava sinuosa intanto che
il sudore le imperlava la pelle: scendeva, ogni goccia lasciava una
scia lungo le sue forme toniche. Lena si era morsa un labbro e, senza
accorgersene, si era ritrovata a inspirare. I bicipiti rigidi, le
spalle alte, la schiena tesa, il sedere era…
«Kara?».
L'aveva fermata con un verso quasi stridulo e l'altra si era voltata:
Era
così rossa in volto che le era passato per la testa potesse
essersi
sentita male. Si era avvicinata e inchinata, incontrando i suoi occhi
verde acqua.
«Dobbiamo
andare».
«Ti
senti bene?».
«No»,
aveva sospirato, per poi fare un verso con la gola e far scivolare il
suo sguardo caldo lungo il suo braccio destro. Aveva avanzato la mano
sinistra e osato premere coi polpastrelli, sentendo i brividi
dell'altra.
«L-Lena?
Cosa stai-?». Oh, l'aveva capito subito cosa
stava.
«Shh»,
l'aveva riguardata negli occhi, «Dobbiamo andare. Adesso».
La
cadenza delle sue labbra accaldate l'aveva fatta avvampare. Avrebbe
voluto baciarla lì, morderle quelle labbra, subito, ma non
poteva.
Avevano recuperato le loro cose e si erano rifugiate negli
spogliatoi: il tempo di appoggiare tutto su una panchina, facendo
scivolare una borraccia sul pavimento, che si erano avvinghiate e
baciate, lasciandosi senza fiato, sbattendo le gambe. Le mani di Lena
avevano stretto le sue braccia: la pelle era morbida e sudaticcia, ma
i muscoli ancora in tensione. Kara l'aveva sollevata, appoggiandola
contro una parete, per poi baciarla più volte sotto la
mandibola:
Lena era così calda, la pelle così tenera. L'idea
di andarsene
c'era, ma il desiderio andava consumato in fretta. Lena le aveva
poggiato una mano sulla nuca rovinandole la coda, contemporaneamente
l'altra mano le aveva spinto l'addome, facendosi rimettere a terra il
tanto per arrivare a baciarle le clavicole. Sapevano cosa stavano
facendo e quanto fosse sconsiderato, ma forse era anche quello a
renderlo tanto eccitante.
«Quindi…»,
Megan scosse appena la testa, mantenendo un sorriso costante,
«mi
stai dicendo che l'avete fatto negli spogliatoi?».
Kara
le scoccò un'occhiata. «Ma no-non è
andato esattamente tutto
liscio: abbiamo sentito un rumore e la magia, emh, si è
bruscamente
interrotta come una doccia gelida… M-Ma e-era un falso
allarme e
perciò…», planò lo sguardo
altrove, contraendo le labbra, «Siamo
state veloci e discrete». Megan spalancò gli occhi
e Kara si agitò:
«M-Ma non è quello il punto».
«Okay»,
sorrise, scrollando le spalle, «L'avete fatto negli
spogliatoi.
Intendevi questo con diversi?
Gli spogliatoi?». Notò come una smorfia le
uscì naturale.
E
l'ultima partita di lacrosse giocata? Avevano vinto ed erano andate
tutte in palestra a festeggiare la finale che si avvicinava. Felice
della vittoria, felice che avesse riconquistato senza non poche
energie le sue compagne di squadra, felice che il nuovo coach non le
avesse mosso contro delle critiche, appena aveva visto Lena, Kara
l'aveva presa per mano e portata via, nascondendosi dietro un muro
per baciarla. Da lì era bastato poco che sparissero dalla
circolazione. Si erano baciare lungo il tragitto, rischiando che si
facessero vedere, ridendo come due bambine, fino ad appartarsi
lì
nella sua camera al campus. Lena le aveva tolto il casco e se lo era
infilato lei; poi l'aveva spinta sul primo letto sulla sua strada.
«Ottima
partita», le aveva sussurrato, sistemandosi sopra di lei con
un
sorriso. «Festeggiamo in fretta».
Megan
le lanciò un'occhiata: «Per questo sei sparita! Il
nuovo coach ti
cercava». Sorrise fino a quando non si accorse di un
particolare:
«Aspetta, aspetta! Non avrete per caso…? Sul mio
letto?».
«No»,
per poco non gridò, scuotendo velocemente la testa,
«No, no, certo
che no! Ci siamo spostate in tempo», strinse i denti e Megan
si
accigliò:
«Basta!
Perché non chiedi ad Alex di aiutarti con questa…
cosa?».
«Beh…
perché lei…», stralunò lo
sguardo, gonfiando le guance.
Non
accadeva spesso ultimamente: Maggie non era di turno, Alex si era
presa la giornata libera per dare modo al suo cervello di riposare e
così, approfittando della bella giornata, avevano deciso di
passare
qualche oretta fuori insieme a Kara e Lena, e ovviamente Indigo. Si
erano fatte dei giri per le vie a guardare le vetrine e dopo avevano
accontentato Jamie e si erano fermate davanti al bar in un parco per
mangiare il gelato. Kara aveva avuto come una specie di
déjà-vu:
Lena non aveva fatto altro che fissarla, intenta a consumare il cono
prima che si squagliasse.
«A
cosa lo hai preso?», aveva domandato Alex, sedendo a fianco a
Lena.
Lei
aveva sorriso. «Vaniglia», aveva scoccato
un'occhiata a Kara il cui
gelato era per metà sulle dita e cercava di leccarlo via.
Alex aveva
guardato una e poi l'altra e Maggie, invece, aveva trattenuto una
risata.
Alla
fine, Kara aveva ceduto, diventando paonazza. «Devo
andare». Si era
alzata in fretta.
«Anch'io»,
Lena le era corsa dietro.
Alex
aveva spalancato gli occhi, incredula di ciò che era appena
successo. «Siete scandalose», aveva urlato in tempo
per farsi
sentire. E mentre Indigo cercava di mangiare il cono perennemente
disturbata da Jamie che ce lo aveva metà disperso sulle
guance e
l'altra metà sul colletto, Maggie aveva annuito.
«Tu ci credi a
quello che è appena successo?», le aveva chiesto
Alex.
«Oh,
dai. Sono all'inizio di una relazione e gli ormoni giocano brutti
scherzi».
«Noi
non eravamo così».
«No,
infatti». Alex stava per aprire bocca di nuovo che Maggie
l'aveva
interrotta: «Il ristorante sulla trentottesima? La centrale,
e io
ero in servizio? Casa tua, innaffiavi le piante? Oppure cosa ne pensi
del teatro Lum-».
«O-Okay,
hai vinto», l'aveva fermata rapidamente e nascosto la bocca
dietro
il cono, diventando rossa.
Immaginava
che ad Alex la loro relazione sarebbe sempre apparsa un po' strana.
Forse perché, meglio di lei, riusciva a considerare Lena la
sua
sorellastra e Kara che era sua sorella… Si vergognava un po'
a
parlarne con lei per questo.
Megan
scrollò gli occhi. «Va bene, ho capito: solo io
posso aiutarti e tu
e Lena siete animali in calore. Cosa posso fare, per te?».
Kara
s'imbrunì, abbassando lo sguardo e iniziando a giocherellare
con le
pieghe del copriletto. «N-Non siamo- Beh, ecco, il punto
è questo»,
si stirò le dita delle mani, deglutendo: «Vorrei
farla pagare a Lena».
Lo disse con una voce talmente bassa che Megan si avvicinò,
chiedendo di ripetere. «Vo-Vorrei- È
già difficile dirlo una
volta», sgranò gli occhi.
«Allora
ti farai aiutare da chi ha il super udito».
«Pff.
Vorrei… farla pagare a Lena».
Megan
la fissò a lungo senza dire niente, finché non le
regalò un tenero
sorriso. «Questa è facile: non
dargliela».
«Noo,
non in quel senso», si agitò, con le guance color
porpora. «Ti
spiego. È che lei, una volta, ha-ha preso il totale
controllo e mi
ha impedi-impedito di muovermi». Riuscì a dirlo,
prendendo aria a
pieni bocconi. «E ho promesso che mi sarei vendicata,
gliel'avrei
fatta pagare ma…»,
si leccò un labbro, «ho paura di non avere
fantasia, e proprio
perché ultimamente stiamo insieme così spesso,
anche se di
fretta…». Si agitò di nuovo
dall'imbarazzo e Megan spalancò la
bocca, per poi sogghignare.
«Adesso
sì che è chiaro! Non puoi chiedere a Google
come tutti?», scosse la testa e riguardò il suo
libro solo per un
momento, sospirando. Kara gonfiò le guance e lei le
poggiò una mano
sulla spalla destra. «Avrò anche esperienza con un
uomo più
grande, Kara, ma non saprei cosa dirti. Né se davvero voglio
raccontarti qualcosa», disse con onestà, piegando
le labbra.
«M-Ma
io non voglio», sgranò gli occhi, «No,
aiuto, no. No, no, no…
no, no». Si tappò gli occhi.
L'altra
rise. «Sai che fai? Fissate un appuntamento, fate qualcosa
di…
carino. Non credo che Lena stia al centro di una stanza a pensare a
cosa ti inventerai per fargliela
pagare»,
virgolettò. «Poi se ti venisse qualcosa sul
momento, tanto di
guadagnato. Darei tantissimo ora come ora per avere anche solo un
appuntamento carino».
Megan
abbassò gli occhi e Kara le prese una mano con le sue.
«Non sei
ancora riuscita a parlare con John?». La vide scuotere la
testa.
«Questo
fine settimana dai verdi
non c'era, non è andato. Lo chiamo e non risponde. Quando
passo da
lui non è in casa. Oppure non mi apre», prese
fiato. «Vorrei
capire cosa gli succede, se è perché ci siamo
mollati o perché…
Vorrei stargli vicino».
L'altra
annuì, accarezzandole la mano. Che ironia, pensò:
Megan voleva
allontanarlo apposta per fargli capire il suo errore, e ora lui
sembrava sparito dalla sua vita. «Probabilmente sta lavorando
sodo,
per…».
«Però
mi piacerebbe sapere se almeno sta bene, non mi lascia neanche un
messaggio», scrollò le spalle. «Sai cosa
faccio io? Studio
matematica», le indicò il libro, «che
era il motivo per cui ti ho fatto venire qui, a proposito,
do l'esame e lo supero… e mi attacco alla sua porta come un
accidenti di adesivo, te lo dico io», alzò la voce
all'improvviso,
stringendo i pugni. «Prima o poi dovrà tornare a
casa, ha i pesci
rossi». Si guardarono e risero.
«Ottimo
piano. Dunque… matematica?», le indicò
il libro e Megan lo aprì.
Pensò di sorriderle, ma non poté fare a meno di
pensare,
malinconicamente, quanto forse ora si pentisse per non averlo
perdonato subito. Cosa passava per la testa di John?
«E
tornando un attimino veloce al discorso di prima»,
mormorò, finendo
per sorridere da orecchio a orecchio e distraendo entrambe:
«Se sei
in cerca di idee, so di un certo film con un
polpo…».
«Cosa?».
Non
ebbe fortunatamente il tempo di chiedere spiegazioni, se ne avesse
avuto intenzione, che bussarono alla porta e, quando andò ad
aprire,
il guardiano le consegnò un mazzo di fiori. Poi un altro. E
un
altro. Fece passare un uomo in divisa da giardiniere con un carrello
che cominciò a depositare fiori, in vasi, dappertutto.
Quando uscì
entrò un secondo carrello e poi fu turno del terzo. Sembrava
finita,
ma la porta fu sbarrata dal quarto carrello. Probabilmente era stato
svaligiato il fioraio. La stanza al campus fu invasa dal profumo di
fiori e Kara arrossì, leggendo il biglietto con il suo nome
e un
cuore accanto. «Mi sa che le manco».
«Eh
sì, in fondo sarai stata via già trenta
interminabili minuti»,
scherzò Megan, odorando in un vasetto e borbottando che le
sembravano più numerosi della scorsa volta. «Beh,
ringraziala da
parte mia», si voltò, «Tu tornerai alla
vostra villetta e questi
resteranno qui, quindi…». Risero, decidendo di
distribuirne alcuni
ad altre compagne di camere, o quella stanzetta sarebbe diventata
infernale in poche ore.
Studiarono
matematica e Kara se ne andò. Appena chiuse la porta, Megan
lanciò
un'occhiata rigida al suo cellulare. Odiava che John non si facesse
sentire e lui lo sapeva che era una cosa che lei odiava. Insomma, che
fine aveva fatto? Doveva chiedere ad Alex Danvers dove fosse la base
del D.A.O. a National City per vederlo? Per sapere se era ancora
vivo? Quando aveva deciso di lasciarlo, di certo non immaginava che
sarebbe stato licenziato alla Sunrise e che avrebbe avuto
difficoltà
a rivederlo. Lei sperava che lui avrebbe capito il suo punto di
vista, che le avrebbe chiesto scusa e niente di più, che
tanto
bastava per tornare insieme. Perché le faceva questo?
Perché era
scomparso dalla sua vita? Che fosse così
impegnato… da non trovare
un attimo solo, per lei? Riprese il cellulare e provò a
chiamarlo
per l'ennesima volta.
«Rispondi…
Rispondi, eddai…»,
bisbigliò, mordendosi un labbro.
Forse
lei aveva interpretato male ciò che c'era stato tra loro. Se
lui
l'aveva esclusa, probabilmente era perché, in fondo, a John
stava
bene così. Era più grande di lei e… ma
non voleva crederci, non
poteva
crederci. Erano già passati davanti a queste cose, era
assurdo.
Assurdo. Chiuse la chiamata ma, prima di gettare il cellulare
sull'altro lato del letto, compose un messaggio: Se
non ti decidi a richiamarmi, forse la rivedrai a Natale. No,
cancellò. Era preoccupata e quel messaggio era fuorviante.
Richiamarmi,
per favore. Ho bisogno di vederti!
Inviò e restò col pollice a mezz'aria,
rileggendone tanti altri
inviati simili a quello. Poi sbuffò, tornando al suo libro.
Kara
salutò alcune ragazze e si intrattenne a parlare con un
professore
per un esame che avrebbe dovuto dare a breve, poi si
incamminò
nonostante il sole picchiasse cocente. Era pomeriggio e non c'era
traffico, tutto era fermo e c'era insolita calma; intorno alla
Sunrise National City University non c'erano palazzi molto alti e il
sole batteva sull'asfalto, ma man mano che si avvicinava in centro e
gli edifici crescevano imponenti, i raggi del sole lasciavano posto
all'afa. Un solo attimo e non mancò di pensare a sua zia
Astra e
all'organizzazione, a come quella città, per loro, doveva
apparire
come un enorme tabella con zone da conquistare. E chissà
quante ne
avevano già conquistato, infettandole al loro interno. Loro
si
trovavano lì, da qualche parte. Potevano essere chiunque e
lavorando
ovunque. Davvero avrebbe preferito non pensarci e godersi il suo
anniversario e i tanti momenti con Lena, ora come ora. Aveva scoperto
chi le aveva ammazzato la famiglia e Rhea Gand era dietro le sbarre
di una prigione, ma quell'organizzazione non solo era in piedi, si
stava espandendo a macchia d'olio, e c'era ancora un assassino in
libertà e che forse faceva parte dei loro. Avevano ancora
così
poche informazioni. Alzò la testa, ammirando quei palazzi:
amava
National City e non si sarebbe arresa. Lei e Lena non si sarebbero
arrese. Affrettò il passo verso la Luthor Corp. Avrebbe
voluto
portare con sé almeno un mazzo di fiori, ma si sarebbero
afflosciati
per il calore e sarebbe tornata più tardi a prenderli: se
Megan
credeva che li avrebbe realmente lasciati tutti lì si
sbagliava di
grosso. Allentò il passo solo quando sentì
vibrarle una coscia.
«Ehi, Eliza», la salutò, accettando la
videochiamata. Il video
saltava, si bloccava e sfumava in tanti piccoli pixel azzurri di mare
e cielo, ma la vedeva felice e addirittura abbronzata. «Dove
sei?».
«Non
si vede? È un albero»,
si tirò più indietro e cercò di
riprendere l'albero
spettacolarmente ricurvo, dalle foglie verdi, che puntata alla riva.
«Li
chiamano Fofoti
e sono un'icona, qui»,
specificò con un gran sorriso. «E
tu dove sei?».
«Io
vado alla Luthor Corp, ho appena lasciato il campus».
«Ah,
è bellissimo qui, ma d'altra parte non vedo l'ora che
passino questi
pochi giorni che ci dividono dal tornare a casa… sono a
pezzi. Ma
non dirlo a Lillian, la costringo alla movida ogni notte»,
aggiunse, e Kara intravide un occhiolino tra quei pixel che
sembravano creare un puzzle. «E
allora, come vanno le cose… tra te e Lena?».
Kara
decise di fermarsi davanti alla vetrina di un esercizio commerciale
chiuso, approfittando dell'ombra. Allora non trattenne più
un
sorriso. «Beeene… Ne hai parlato con Lillian? Cosa
ne pensa?».
«Lei
è entusiasta»,
le parve di vederla annuire, camminando sul bagnasciuga. «Ha
capito che vi amate e sta iniziando ad accettare la cosa».
Kara
scoppiò a ridere, fermandosi con una mano contro la bocca e
tornando
seria di colpo. «È fantastico! E… che
mi dici della verità?».
«A
quella ci sto lavorando, tesoro, sono dalla vostra parte. Facciamo
progressi: ha capito che non può farci niente. A piccoli
passi per
volta».
Oh,
le mancava. Anche lei non vedeva l'ora che passassero quei giorni che
la dividevano dal loro ritorno a casa. Si salutarono e, appena prima
di staccare, adocchiò qualcosa dall'altro lato della strada.
Perfetto, non poteva entrare alla Luthor Corp senza un'intera scatola
di ciambelle.
Questa
volta le sbarre elettriche non le facevano paura: indossava dei
pantaloncini sopra il ginocchio, lisci, niente che potesse fermarla.
Si sbagliava: la donna che sostituiva Jeffrey, la guardia
all'ingresso, sbiancò quando la vide piegarsi in due per
reggere in
alto la scatola rosa, dopo aver sbattuto un ginocchio e messo male un
piede. «Maledetti
cosi»,
bofonchiò, andandole incontro. Doveva incastrarsi, o
sbatterci, ogni
dannata volta. «Buon pomeriggio. Ciambelle?». Lei
la guardò a
occhi sgranati, arrossendo. Kara la vide guardarsi a destra e
sinistra, per poi puntare all'interno della scatola. Nessuno poteva
resistere, avrebbe conquistato il mondo con una sola di quelle. La
lasciò mentre ne assaggiava a bocconcini una al cioccolato,
entrando
in ascensore.
«Ti
serve aiuto? Se-Se ti serve aiuto, chiedimi subito qualsiasi
cosa»,
borbottò Winn: Kara lo sentì da appena si
aprirono le porte
dell'ascensore. Ce l'aveva con Indigo, naturalmente. Erano seduti
davanti alla stessa scrivania, distanti pochi centimetri l'uno
dall'altra; lui non faceva che invaderle gli spazi personali e lei,
d'altro canto, non lo degnava di uno sguardo, continuando a digitare
al pc. Era strano vederla seduta lì, ma si stava abituando
ad averla
intorno. Appena la notò arrivare, Winn alzò una
mano e sorrise da
orecchio a orecchio.
«Lavoro
stressante? Una ciambella e passa la paura», aprì
la scatola e
Indigo ne prese una veloce come un battito di ciglia. «Ehi!
Non si
usa almeno salutare?».
Le
alzò una mano intanto che continuava a digitare con l'altra,
la
ciambella tenuta con i denti, occhi fissi sullo schermo.
Kara
assottigliò gli occhi ed emise un verso indispettito con la
gola,
distratta da Winn che faceva una strana conta per sceglierne una. La
porta dell'ufficio di Lena era aperta e la vide dapprima con la coda
dell'occhio che si appoggiava allo stipite, in attesa. Quando
alzò
gli occhi, lei le faceva cenno di entrare, lo spacco della gonna
lungo la coscia destra, le braccia a conserte, muoveva le labbra
rosse per sussurrare qualcosa. Non la capì ma non aveva
importanza e
la seguì, per poi tornare indietro e recuperare la scatola
con le
ciambelle rimaste. Tirò un calcetto alla porta e
ritrovò le sue
labbra sulle proprie, mentre l'accoglieva con le braccia intorno al
collo.
«Hai
lasciato la porta aperta», bisbigliò con un
sorriso e Kara si
voltò.
«Non
potevo farla sbattere», si giustificò.
Cercò di allontanarsi ma
Lena la fermò, aprendo la scatola e scegliendo rapida una
ciambella.
«Emh… grazie per i fiori. Sono tutti bellissimi,
più che
bellissimi, e molto profumati e…», alzò
gli occhi al soffitto,
abbozzando un sorriso, «ringrazia anche Megan. Anche a lei
sono
piaciuti molto». La vide sorridere, impegnata a spezzare la
ciambella con le dita e a mangiarne pezzo dopo pezzo.
Lena
allora ingoiò e la fermò per una guancia,
così si avvicinarono il
tanto per scambiarsi un veloce bacio. Quasi. C'erano quasi che si
immobilizzò e sforzò per trattenere una risata,
adocchiando Winn,
paonazzo, davanti alla porta. «Dimmi».
«Ah…
e… sì… sì, sì,
certo. Ha una chiamata da-».
«Grazie,
richiamerò io a momenti».
«Perfetto,
signorina Luthor». Stava per andarsene ma, con evidente
imbarazzo,
non si trattenne e tornò sui suoi passi:
«Siete… tornate insieme,
se posso?». Le indicò con un perenne sorrisetto
stampato in faccia
e le due si scambiarono uno sguardo complice, per poi negare
all'unisono. «Oh, mi era sembrato che…».
«Hai
visto male», chiosò Lena.
«Forse
sei stanco per via del lavoro», aggiunse Kara.
«Le
stavo togliendo un pelucchio dal viso, hai capito male»,
continuò
la prima.
Lui
non perse il sorriso e guardò negli occhi una e l'altra, con
evidente confusione. Gli chiesero di chiudere la porta ed
eseguì;
per fortuna non le sentì scoppiare a ridere dopo averlo
fatto.
Finirono
una seconda ciambella dopo essersi scambiate una serie di baci di
fronte alla scrivania, poi Lena fece quella telefonata, informandola
che, disgraziatamente, avrebbe avuto ancora da lavorare prima di
tornare a casa per studiare insieme. Se non altro, a breve sarebbero
finalmente iniziate le agognate vacanze estive, in tempo per
rifiutare di stare a casa Danvers-Luthor quando avrebbero fatto
ritorno le loro madri, o Indigo sarebbe rimasta sola. Il loro
ritorno, già, sarebbe stato un po' imbarazzante, lo
sapevano: adesso
tutte erano a conoscenza della loro relazione e certe cose non
sarebbero più passate inosservate. Quasi come con Winn. Ma
lui era
facile da prendere amorevolmente in giro.
«Come
si sta comportando Indigo?», le chiese Kara prendendo
un'altra
ciambella, appoggiandosi col sedere sulla scrivania intanto che Lena,
alle sue spalle, compilava un modulo.
«Bene.
È molto efficiente. Ti ho sentita ringhiarle contro,
prima», emise
a bassa voce, non staccando gli occhi dal foglio.
«Mi
ha preso una ciambella senza nemmeno salutare».
«Oh,
che affronto».
Kara
sì pulì i bordi della bocca con un mignolo,
portando gli occhi al
soffitto, riflettendo. «Non è che Winn teme di
essere sostituito?
La vedrà tanto produttiva e lui non si è nemmeno
preso un po' di
vacanza dopo ciò che è successo». Gli
era rimasto un piccolo
livido sul viso di quel terribile giorno mentre il braccio era di
nuovo sano, ma parte i primi giorni dove nessuno aveva il permesso di
entrare alla Luthor Corp per le indagini, era subito tornato
operativo, quando ancora indossava la fasciatura. Ci teneva a quel
lavoro, era chiaro. «L'ho sentito prima dire che le offre il
suo
aiuto».
«Lo
fa spesso».
«Ma
non ne ha bisogno e quindi…», scrollò
le spalle.
Lena
alzò lo sguardo, poggiando un gomito sulla scrivania.
«Kara, Winn
ha una cotta per lei. Cerca un modo per attaccare bottone, non sta
pensando alla sua posizione in pericolo, puoi stare
tranquilla».
Abbozzò una risata quando la vide voltarsi di scatto come se
avesse
appena fatto la scoperta del secolo. «È troppo
occupato a starle
dietro per fare questo tipo di ragionamenti».
Kara
spalancò gli occhi e la bocca, poggiando le mani sulla
scrivania.
«Accidenti! Come ho fatto a non capirlo subito?!».
«Non
trova il coraggio per chiederle di uscire»,
riguardò il foglio,
giocando con la penna in mano. «Non lo aveva nemmeno per
chiederlo a
te».
«Pff.
Winn non aveva- Beh, non ha importanza, devo trovare il modo di
aiutarlo», si portò la mano destra sotto il mento
e Lena scosse la
testa, spuntando una casella del modulo.
«Ti
fidi di Indigo, adesso?».
«No,
ma… non sono io a doverci uscire. Anzi, lui potrebbe
conoscerla
meglio e capire cosa ci nasconde», fece una smorfia con la
bocca,
mettendo le braccia a conserte guardando la porta chiusa, quasi
potesse vederli attraverso, seduti davanti a quella scrivania.
«A
meno che a lei non interessino i ragazzi… Bisogna
indagare», si
voltò di scatto e Lena impallidì, alzando
lentamente il viso dal
foglio. «O non sia Lenasessuale.
In tal caso…», strinse i denti e l'altra
scoppiò finalmente a
ridere, mettendo giù la penna.
«Lenasessuale?
Come ti è venuta in mente?».
«Non
ridere, la sottoscritta si è unita al Lenasessualesimo».
Si avvicinò di nuovo con le mani poggiate sulla scrivania e
la
ragazza si alzò, sfiorandole il naso con il suo.
«Quindi
è una corrente di pensiero? Mi era sembrato di capire che
fosse un
nuovo, intrigante orientamento sessuale»,
analizzò, assottigliando
gli occhi.
«Mh,
entrambe le cose… Io ci sono sotto per entrambe le
cose», le portò
via un bacio, prima che potesse sfuggirle.
«E
questo mi piace», le accarezzò una guancia e si
baciarono ancora, e
di nuovo, con più calma. Lena le tirò il labbro
inferiore,
squadrandola dal basso all'altro, attenta ai suoi occhi azzurri.
«Sai? Devo mostrarti una cosa, Kara, ma qui siamo troppo esposte…
Il magazzino CA
sotto, invece…».
«Uh.
Non vedo l'ora di vedere questa cosa».
Oh,
il magazzino CA
un piano sotto aveva visto parecchie di quelle
cose
in questo periodo. Uscirono dall'ufficio celando la fretta e dissero
ai due che sarebbero tornate presto. A Kara non sfuggì come
Indigo,
di tanto in tanto, riguardasse il suo cellulare che teneva sulle
gambe. Riconosceva che adesso stava esagerando a pensare male di lei,
ma… Trovava pericoloso come, in fondo, si stesse abituando
alla sua
presenza, accettandola quasi fosse dei loro. Indigo non aveva fatto
nulla di male da quel giorno in albergo e le aveva trovato le foto di
Lena che potesse meritare le sue ire, ma non riusciva a fidarsi. Come
se aver sbagliato una volta, significasse avere un'onta addosso che
non poteva cancellare. Era pur vero che, di lei, non si era mai
fidata davvero. Forse lo pensava perché aveva una cotta per
Lena e
non lo nascondeva, perché l'aveva baciata,
perché… non lo sapeva
più il perché. Che fosse solo gelosia? Indigo
aveva confessato di
aver lavorato per una persona che ce l'aveva con Lena per motivi
ignoti e, se avesse detto una bugia, era pronta a scommettere che a
quel punto sarebbe già saltata fuori. Ma d'altro canto era
una
persona sincera e, più le persone sono sincere,
più mentono
facilmente. Intanto, con la psicologa pagata dalla Luthor Corp per i
dipendenti aveva iniziato un percorso, come sotto clausola di Lena
per poter lavorare per lei. Lena aveva convinto la donna a parlarle
della salute di Indigo, e magari a rivelarle le sue confessioni,
infrangendo il segreto professionale. Anche se non certo gratis. Il
fatto che Winn avesse una cotta per lei la stuzzicava: lui era un
bravo ragazzo, un po' imbranato e goffo, ma intelligente e dolce,
Indigo più un rebus; forse il primo avrebbe potuto appianare
qualche
enigma che le riguardava.
«Stavo
pensando a una cosa».
Lena
serrò le labbra con forza, alzando gli occhi al soffitto e
smettendo
di baciarle intorno ai bordi del reggiseno. «Non dirmi a Winn
e alla
sua cotta per Indigo, ti prego». Rideva: già
conosceva la risposta.
«O-ps».
Kara irrigidì i denti, facendo dondolare la testa da un
lato.
«Pensavo a Winn e alla sua cotta per Indigo! Voglio davvero
aiutarlo, potrebbero anche essere fatti l'uno per l'altra! Ha-Hai
visto come entrambi si interessano di informatica?»,
gesticolò,
accigliandosi.
«Kara,
anche io mi interesso di informatica».
«Beh,
m-ma avranno altro in comune… E non sono nemmeno le cose in
comune
che c'entrano o si potrebbe pensare che stiamo insieme
perché le
nostre madri sono sposate», la fece sorridere.
«Ma!», puntò in
alto un dito, «È questione di chimica: dobbiamo
capire se quei due
fanno le scintille».
Lena
si morse un labbro, sospirando rumorosamente.
«Sarò io a fare le
scintille, tra poco».
Kara
improvvisamente si destò, diventando cremisi sulle gote. La
baciò
scattante, osservando il suo sguardo duro. «S-Scusa. I-In
effetti,
possiamo pensare a Winn e Indigo più tardi».
«O
tu
ci potrai pensare più tardi, perché io ho da fare
cose più serie».
«Io
ci potrò pensare più tardi», si
corresse subito e sorrise, così
lo fece anche l'altra, avvicinandosi per catturarle le labbra con le
proprie.
Approfondirono
il bacio, sorridendosi, passandosi le mani sulla pelle accaldata a
scoperta del bacino, delle braccia, intorno al seno. La loro
intimità
era ormai quasi interamente costituita da quei momenti rubati, veloci
ma passionali. Troppo studio, troppo sport, troppo lavoro, troppo
correre da una parte all'altra, troppo da pensare e troppo un po' di
tutto, tutto insieme. Ma il fatto che avessero tanto bisogno di
sentirsi, era ciò che le rendeva felici. E si erano date
appuntamento, non sarebbero mancate: all'anniversario sarebbe
successo. Avrebbero avuto un vero momento per loro, senza fretta e
non in un magazzino o nel bagnetto di un locale. Se lo dovevano e lo
meritavano.
«Hai
da fare il nove di giugno?», le domandò Lena
quando si stavano
rivestendo, in fretta.
Kara
passò la lingua su un labbro, per poi annuire.
«Oh, sì. Devo
prendere un treno per tornare a casa, tu? Ah, era un anno
fa…»,
alzò gli occhi, spalancando la bocca in un sorriso.
Lena
arricciò il naso. «Mi hanno consigliato un
localino appena fuori
National City. Non molto conosciuto e questo è un bene,
potremo
passare inosservate o quasi. Si mangia bene, e questa è
l'altra cosa
positiva: un'ampia scelta di secondi. È andando verso
l'autostrada,
non lontano», sibilò assottigliando le labbra.
«Approvato»,
stirò le braccia in aria, per poi allungare le mani verso il
suo
viso e passarle i pollici sulle guance. Dopo il locale sarebbero
tornate in villa e per allora avrebbe dovuto avere tutto pronto.
Ancora non sapeva esattamente cosa, ma doveva essere già
pronto. «E
Indigo per allora avrà un'amichetta dove stare
o…?». Neanche finì
di dirlo che spalancò gli occhi nell'esatto momento in cui
l'idea le
attraversò il cervello: «Ci sono!
Combinerò un appuntamento tra
Winn e Indigo per il nove e avremo la villa solo per noi! Due
piccioni con una fava». Sapeva che i suoi occhi dovevano
quasi
brillare, ma Lena sospirò arrendevole, dopo aver visto l'ora
dall'orologio sul polso, appoggiando la testa contro il suo petto.
Dopo
aver staccato con Kara, Eliza non perse tempo a chiamare Alex,
sperando di non interromperla a lavoro. Uno o l'altro che fosse. In
fondo, da qualche parte, era ancora un po' arrabbiata con lei per
averle tenuto nascosto di essere un'agente del D.A.O.. Tante storie
su come stesse ancora studiando, su come non vedesse l'ora di
lasciare il suo lavoro in boutique, e poi… La
verità era stata
dura da digerire.
«No,
non mi disturbi»,
la vide a sbalzi mentre saliva le scale. «Sto
andando a casa da Maggie, per oggi abbiamo finito entrambe. Ci
guardiamo un film con Jamie, restiamo a casa a riposare. Siamo
stanche».
Eliza
si accigliò. «Non avevate deciso di
trasferirvi?», calciò l'acqua
limpida, distratta, per poi salutare da lontano un'altra coppia che,
come loro, era lì in il viaggio di nozze. Li avevano
conosciuti
giorni fa e, di tanto in tanto, sedevano intorno allo stesso tavolo
nei locali notturni. Lillian li sopportava, che era più di
quel che
succedeva di solito.
«Non
cominciare»,
brontolò Alex: Eliza capì che si era fermata,
anche se i pixel
continuavano a muoversi.
«A
fare cosa?», scosse la testa, «Stai facendo la
faccia imbronciata?
Lo chiedo perché non lo vedo».
Alex
sbuffò. «Trovare
una casa adesso è un suicidio, ci penseremo a settembre. Con
questo
caldo, poi. Stiamo mettendo i soldi da parte, ce la faremo, non
essere in apprensione».
«Non
lo sono. O magari non più di altre volte», ammise.
«Vorrei solo
vedervi soddisfatte e tranquille, tesoro. Stai tenendo d'occhio tua
sorella?». Non capiva se la figlia avesse appena stralunato
gli
occhi oppure se era il video frammentato a renderla strabica.
«La
vedo così turbata».
«Per
te, Kara è sempre turbata»,
battibeccò. «Sta
bene! Se non ci vediamo tutti i giorni, comunque ci sentiamo per
telefono. Adesso dorme in villa con Lena e- con Lena»,
si corresse in fretta, «quindi
sta bene. Devo andare, Eliza. Saluta Lillian».
«Va
bene, ti richiamo prima del nostro ritorno! Preparati a venire a
stare a casa Danvers-Luthor per qualche giorno e avverti quelle due
di fare lo stesso», la ammonì, indicandola.
«Vacanza di famiglia».
Alex
si sforzò per sorridere, ma per fortuna l'altra non poteva
notare la
differenza da un sorriso sincero.
Si
salutarono che la donna le fece vedere il mare dietro di lei,
così
staccò. Raggiunse Lillian in spiaggia, accoccolata sopra uno
sdraio,
la testa protetta dall'ombra di un piccolo ombrellino, occhiali da
sole, un bicchiere vuoto sul tavolino accanto, su cui era appoggiato
anche un libro. Eliza si fermò a guardarla: aveva slacciato
le
cordicelle del pezzo sopra del costume e, perfettamente in posa,
prendeva il sole. O almeno lo prendeva prima che lei si mettesse in
mezzo. La vide alzare la testa e abbassare gli occhiali.
«Non
vieni a farmi compagnia?», le domandò Lillian,
alludendo allo
sdraio accanto, rimasto vuoto.
«Ho
salutato i McNeel, prima».
Lillian
si rimise gli occhiali da sole e appoggiò di nuovo la testa.
«Non
vedo l'ora di passare anche questa notte a parlare di foche»,
disse
a bassa voce, sentendo che ridacchiava. Il giovane marito della
coppia era un addetto che ripuliva i bisogni degli animali nelle
vasche di uno zoo marino e si intratteneva spesso a parlarne. Era un
vero appassionato.
«No,
veramente… pensavo a fare qualcosa di diverso, questa notte.
Ci
restano pochi giorni, avremo tempo per le foche». La vide
rialzare
la testa, lentamente. «Questo posto offre così
tante attività».
Allora Lillian riabbassò la testa. «Nel nostro
bungalow, per
esempio», sussurrò e sorrise, nel vederla
rialzarsi di nuovo,
«potremo invitarli lì». Non trattenne
una risata, vedendo che si
riabbassava ancora. «I cocktail, Lillian».
A
quel punto, la donna si sfilò gli occhiali da sole,
ripiegandoli e
poggiandoli sul tavolino. «Sii diretta, Eliza: cosa hai in
mente per
stanotte?».
«Sesso,
Lillian. Faremo sesso».
«Oh,
bene», emise un sospiro e sorrise. «Finalmente
un'ottima ragione
per aver sopportato le foche».
La
sua seconda metà dell'anima, pensò Alex, finendo
di salire le
scale. Non sapeva dove né chi fosse quella per Maxwell Lord,
anche
se lui avrebbe desiderato fosse lei come la povera babysitter aveva
desiderato suo padre, ma la sua era certamente Maggie. Una parte di
lei, quasi si dispiaceva di non poter ricambiare e offrirgli
ciò che
gli serviva. La sua concezione di amore era totale e con lei non
l'avrebbe avuta, eppure persisteva. Era così sicuro che
prima o poi
avrebbe ceduto, cambiando perfino orientamento sessuale, o il suo era
masochismo prima ancora che perseveranza? Voleva togliersi dalla
testa che si fosse innamorato: era più che altro un
capriccio e una
cotta. La voleva così come avrebbe voluto un giocattolo a
cui aveva
messo gli occhi sopra. Sperava che, prima o poi, avrebbe riflettuto
le sue attenzioni su qualcun altro.
Bussò
quando si accorse di aver lasciato le chiavi in un altro paio di
pantaloni. Maggie ci mise un po' per aprire, insolitamente scalza e
coperta da un accappatoio. «Scusami, ho lasciato le chiavi a
casa.
Stavi per entrare in doccia? Dov'è Jamie?», si
guardò attorno: di
solito, le correva incontro per saltarle addosso.
Maggie
chiuse. «Jamie è dalla babysitter».
«Ancora?».
Stava quasi per uscire e andare a prenderla lei. «Credevo che
dovessimo vederci un film».
L'altra
annuì. «Ho già scelto io il film, spero
non ti dispiaccia:
Cappuccetto rosso».
Alex
spalancò la bocca, vedendo che Maggie si stava slacciando la
vestaglia. «Oh-Ooh»,
sentì improvvisamente caldo, intanto che l'altra scopriva il
suo
completo intimo, rosso magenta: lasciò cadere la vestaglia
ai suoi
piedi e si infilò in
testa il
cappuccio piumato
del completo,
invitandola a seguirla.
«Ho
sempre pensato che al lupo servisse solo un po' d'amore»,
confessò
Maggie.
Anche
a Indigo serviva un po' d'amore? Kara non riusciva a non pensarci. Di
sicuro non da Lena, però.
Sarebbe
stato un lavoro difficile? Forse, ma lo sporcarsi le mani non l'aveva
mai spaventata. Ricordava con affetto e orgoglio quando, a
diciassette anni, aveva aiutato una ragazza timida e insicura del suo
corso di astronomia a chiedere un ragazzo popolare di uscire. E con
ancora più affetto e orgoglio quando lei ebbe il coraggio di
rifiutarlo dopo che l'avevano sentito prenderla in giro con un gruppo
di amici. Forse Winn avrebbe potuto fare lo stesso: avere modo di
farsi forza, chiedere a Indigo di uscire e poi scoprire di che pasta
era fatta. Ma soprattutto tenerla lontana dalla villa il nove di
giugno, così avrebbe potuto preparare il dopo
locale
senza impicci. Non era detto che, anche se fosse riuscita a combinare
un appuntamento, sarebbe andato così bene da non doverla
veder
tornare per dormire, in fondo si trattava del primo appuntamento, ma
l'importante era che le avrebbero lasciato le chiavi, perché
se si
azzardava a suonare…
Il
volto inquieto e smarrito di Winn si aggirava per il corridoio.
Appena le vide uscire dal magazzino, tirò un sospiro di
sollievo
enorme, ricordando a Lena il suo appuntamento. Kara strinse l'altra
per un braccio il tempo di chiederle se poteva distrarli dal lavoro e
Lena le lanciò una lunga occhiata seriosa, pregandola di non
esagerare.
«Ah,
lo sapevo»: lui sorrise soddisfatto, l'espressione entusiasta
di chi
era convinto di saperla lunga. «Siete tornate a stare
insieme, ve lo
si legge in faccia! N-Non lo dirò a nessuno, se-».
Lena
lo freddò: «Hai preso un granchio, rimettiti a
lavoro», lo indicò
e lui impallidì, annuendo e tornando un passo indietro.
Mancavano
pochi minuti al suo appuntamento di lavoro e probabilmente sarebbe
stato solo il primo di oggi, dunque andò verso l'ascensore,
lasciando a Kara il resto.
Winn
si rimise in marcia per salire al piano che Kara lo
affiancò, non
trattenendo uno sghignazzante sorriso. La guardò due o tre
volte,
veloce, chiedendosi cosa avesse da fargli quella faccia, quando d'un
tratto lo strinse per le spalle e sobbalzò dallo spavento.
«E
così hai una cotta per Indigo, eh?».
«Cosa?»,
diventò color pomodoro in fretta, spalancando gli occhi.
«No»,
sorrise, scuotendo la testa.
«Sì».
«No…
Forse un pochino, ma lei…».
«È
perfetto, Winn!», lo fermò, guardandolo negli
occhi.
«…
lo è?!».
«Ti
aiuterò a chiederle di uscire».
Per
un attimo, parve che il ragazzo si fosse fatto più alto,
quasi si
fosse messo sulla punta dei piedi dalla contentezza. Magari era
davvero così. «Lo faresti?».
«Certo!
Tu mi avevi aiutato con Lena, quando… beh, non sapevi che
era Lena,
ma mi hai aiutato».
Il
sorriso di Winn si freddò: lo ricordava eccome, ma il suo
intento
era tutt'altro e lei non l'aveva capito. A quanto pareva, continuava
a non capirlo. Se non altro, considerando i precedenti, sembrava che
dell'aiuto gli servisse senza dubbi. «Come vuoi agire?
Perché provo
a parlarle, ma lei non risponde e-».
«Lascia
fare a me! Segnati questa data: il nove avrete un appuntamento.
Comincia a pensare dove».
«Il
nove?», sorrise. Come faceva già a
sapere…? «Perché proprio il
nove?».
«N-Non
fossilizzarti sul perché, ma segnati la data e
basta», fece una
smorfia, annuendo.
TENTATIVO
DI APPROCCIO N°1: IL CIBO
Kara
sapeva che per ottenere l'attenzione di Indigo non era necessario
essere gentili e parlarle a bassa voce com'era solito fare Winn, come
se lei, al sentirlo, potesse rompersi da un attimo all'altro:
rischiava di ottenere l'effetto mosca, o ronzio che fosse,
cioè
fastidio. Ottenere l'attenzione di Indigo era in realtà
piuttosto
facile: la gola. In villa non faceva che sgranocchiare qualsiasi cosa
facesse. Una brutta abitudine.
Aveva
rubato il ragazzo pochi minuti, il tempo di uscire, comprare qualcosa
di convincente e tornare alla Luthor Corp. La porta dell'ufficio di
Lena era chiusa al loro ritorno e Indigo non li guardò
rientrare.
Kara mandò avanti Winn quasi con una spinta, appoggiandosi a
un muro
e allungando lo sguardo verso di loro, fingendo di giocare col
telefono in mano. Quando lui si voltò verso da lei con
panico, gli
sventolò la mano, incitandolo a farsi avanti.
«E-Emh».
Niente, lei non si mosse e lui si girò di nuovo verso Kara.
«Tieni,
Indigo, spero ti piacciano», prese coraggio e le porse il
piccolo
incarto di cioccolatini. «Quando li ho visti, ho-ho pensato a
te».
Lei alzò gli occhi e lui sorrise, il piano stava
funzionando, ma si
distrasse: scivolò in avanti, l'incarto finì con
una spinta su un
portapenne, il portapenne spostò una tazza e il
tè schizzò tra la
tastiera, l'incarto e i pantaloni della ragazza. Lei si alzò
di
scatto e lui, che stava ancora cadendo, le spinse il monitor.
«Oh,
mi dispiace! I-Io non volevo».
Kara
si portò una mano contro la fronte.
TENTATIVO
DI APPROCCIO N°2: LE SCUSE
I
cioccolatini potevano funzionare, potevano:
l'incarto era ormai pregno di tè alla pesca e Indigo lo
lasciò da
un lato della scrivania, correndo in bagno per pulirsi.
Possibilità
andata in fumo? No, si era solo creata una nuova ghiotta occasione.
«Non
fare quella faccia da disperato, con lei devi essere più
deciso».
Lui
si portava continuamente le mani contro il viso, asciugandosi il
sudore della fronte con la cravatta. «Non gli
piacerò mai! A chi
voglio prendere in giro?!», sbottò disperato.
«L'ultima volta che
ho avuto una sbandata, lei non si ricordava nemmeno il mio
nome».
Kara
aggrottò la fronte e strinse i denti. «Non te la
prendere, Siobhan
è fatta così».
Lui
si tolse le mani dal viso con uno scatto, demoralizzato.
«Siobhan
non si ricordava il mio nome?!».
Kara
si morse un labbro mentre lui piegava di nuovo la schiena e si
copriva il volto, ormai abbattuto. Accidenti, presto lei sarebbe
uscita dal bagno e lui ancora piangeva su se stesso, non poteva
permetterlo. «Winn», gli poggiò una mano
su una spalla,
infondendogli coraggio. «Forse bagnare i cioccolatini non
è stata
la mossa migliore che potessi fare, ma le donne amano i ragazzi che
si prendono la propria responsabilità e chiederle scusa, in
modo
deciso, fa al caso tuo. Questa possibilità è
ancora migliore di
quella dei cioccolatini».
«Dici
davvero?», alzò il viso.
Il
volto di Winn era rosso dal naso all'attaccatura dei capelli, gli
occhi lacrimosi e le sopracciglia spettinate. Kara entrò con
lui nel
bagno degli uomini per renderlo presentabile e lo spinse di nuovo
verso la sua nuova opportunità. Si appiattò
davanti alla porta del
bagno delle donne e tese le orecchie, spiandoli dalla serratura.
Lui
avanzò determinato verso di lei, come le disse di fare Kara.
Indigo
cercava di smacchiarsi i pantaloni fregando le dita nella zona umida
e Winn le porse un fazzolettino profumato. «M-Mi
dispiace». Ancora
un balbettio, accidenti. «Tieni, prendi questo. È
colpa mia, mi
sono distratto». Lei prese il fazzoletto e lui
ingurgitò saliva,
cercando di trattenere l'ansia contorcendosi le mani. «Mi
sono
distratto… per-perché», non
di nuovo,
«tu sei-».
«Magari
stai più attento». Lo interruppe e gli rimise in
mano il fazzoletto
usato, sorpassandolo e uscendo dal bagno.
Winn
restò impalato, deglutendo ancora. «Bellissima»,
finì di dire con uno spento sorriso.
TENTATIVO
DI APPROCCIO N°3: DOMANDE
Indigo
si dimostrava più dura del previsto. Winn forse era
già sul punto
di gettare la spugna, ma non Kara. La seguì con una corsa
spericolata dopo che uscì dal bagno; per poco non cadde e,
quando
vide passare Lena con un gruppo di uomini e donne dall'altro lato del
corridoio, le mostrò il pollice in segno di vittoria.
«Indigo! Come
vanno i pantaloni?».
«Cosa
vuoi?».
«Uh…
come siamo, beh, precipitose. Non voglio… niente».
«Allora
perché rincorrermi, Kara Danvers?», si
fermò. «Cosa vuoi?».
Kara
spalancò le narici, guardandola dritta negli occhi azzurri.
Ansimò
e decise di vuotare il sacco: «Ti piacciono gli
uomini?».
L'altra
spalancò gli occhi, la fissò per un tempo che
sembrò lunghissimo e
infine se ne andò.
Il
tentativo di approccio numero quattro? Chiederglielo direttamente:
fallito perché lei non aveva sentito. Il tentativo di
approccio
numero cinque? Portarle dell'altro tè per sopperire al
danno:
fallito perché non aveva più voglia di
tè. Il tentativo di
approccio numero sei? Farle vedere un video di animali coccolosi:
fallito perché non le facevano tenerezza gli animali
coccolosi.
Tentativo di approccio numero sette? Farle vedere un video di neonati
che ridevano: fallito perché non le facevano tenerezza
nemmeno i
neonati che ridevano e si sbrodolavano la pappa sul mento. Tentativo
di approccio numero otto? Portarle dei fiori; in fondo con Kara
funzionava: fallito perché era allergica e corse di nuovo in
bagno.
Kara la rincorse ancora una volta fuori, per sapere come stava.
Tentativo di approccio numero nove?
«No,
Winn, non funzionerà», bisbigliò Kara,
«Quella non li legge i
bigliettini».
«Ma
se non mi ascolta, almeno leggerà»,
scrollò le spalle il ragazzo.
«O quello, o lascio perdere. Nessuna ragazza vorrà
davvero uscire
con me. Non so nemmeno se sono il suo tipo».
«Va
bene», gonfiò le guance, «Prepara quel
bigliettino».
Appena
Lena si liberò dai suoi appuntamenti, Kara entrò
nel suo ufficio
con la coda tra le gambe. Fallire non le piaceva per niente. Si
andò
a rifugiare tra le braccia di Lena in modo tanto disperato che
sembrò
doverci andare lei a quell'appuntamento. «È andata
male. Indigo è
più dura di… E non le piacciono i video dei
cuccioli! A che razza
di persona non fanno tenerezza i cuccioli?»,
brontolò.
Lena
sorrise. «Non è omosessuale».
«Cosa?».
Si spostò, alzando le sopracciglia.
«Non
è omosessuale, gliel'ho chiesto. E nemmeno Lenasessaule»,
abbozzò una risata. «Non si sente rappresentata da
nessun
orientamento sessuale e… credo che possa
funzionare», alzò il
dito indice destro e si andò ad appoggiare sulla scrivania,
incrociando le gambe: «Ha mangiato i cioccolatini».
Kara
spalancò la bocca, raggiungendola con uno slancio.
«Ha mangiato…?
Ma erano bagnati di tè».
«Non
sembrava importarle».
«Ma
tu hai detto…», la indicò,
assottigliando lo sguardo. «Aspetta
un momento, avevi detto di avere altro da fare, non volevi
impicciarti».
Lena
annuì, sistemando le braccia contro il petto. «Ho
colto
un'occasione, ma stavo lavorando».
«Grazie»,
soffiò, accanto a lei. Kara la baciò e si
specchiarono negli occhi
l'una dell'altra.
Il
bigliettino finì sul pavimento, spinto con un gomito, e dopo
schiacciato dalla suola delle scarpe, ma Winn, a dispetto delle
aspettative, non provò ad arrendersi di nuovo e fece
qualcosa di
molto coraggioso che Indigo non poteva ignorare: scavalcò la
difesa
del computer dell'azienda su cui lavorava l'altra con un virus
innocuo modificato per far apparire un bigliettino digitale che si
aprì sul suo desktop, in modo che leggesse per forza il suo
invito a
uscire insieme. Era lontano qualche metro da lei che si fregava le
mani e, quando la vide alzare lo sguardo per cercarlo, gli parve di
sciogliersi.
C'erano
le stelle, e cos'era quello, un cane? Un gatto? Indigo strinse sotto
le dita quel bigliettino, cercando di focalizzare e tradurre quei
segni scritti a penna con un segno tremolante. No, era una W,
la W
di Winslow.
Pensava non fosse capace di disegnare, invece non era capace di
scrivere. Per quello, forse, il bigliettino digitale le era sembrato
più formale. Iniziò qualche giro sulla sedia a
ruote davanti alla
scrivania, tenendo stretto quel biglietto. Ci teneva tanto, quel
Winslow, a uscire con lei? Scorse Lena affacciata allo stipite della
porta del suo ufficio e si fermò con fermezza, andandole
incontro.
«Se ti avessi scritto un biglietto come questo, saresti
uscita con
me?». Glielo mostrò e Lena lo prese, leggendo.
«Oh,
è tenero». L'altra la guardò scrollando
le sopracciglia e le
riprese il bigliettino, calpestato
e spiegazzato, formando
un sorriso. «Non ha preso bene il rifiuto, vero?».
Indigo
si appoggiò di spalle al muro, arrendevole. «Credo
sia andato a
piangere. Kara gli è corsa dietro: adesso avrà un
nuovo motivo per
avercela con me», sbottò. «Sono uscita
con altri ragazzi, ma per
farci del sesso. Non credo che sia questo il motivo per cui vuole
uscire lui», ammise, abbozzando una risata.
«Winslow è in cerca di
qualcosa che non sono sicura di riuscire a dare: ho visto come mi
guarda e non saprò come comportarmi da persona, ma riconosco
come le
persone funzionano».
Lena
sospirò. «Forse credi di saperlo».
«Mio
fratello era più bravo a saperlo».
«Potresti
provarci, e magari divertirti». Allungò lo sguardo
al foglietto,
che lei stringeva ancora tra le dita. «Non partire dal
presupposto
che non sarai capace di dargli ciò che cerca»,
sussurrò in un filo
di voce, «Non puoi fasciarti la testa ipotizzando che te la
romperai».
Si
scambiarono uno sguardo e Indigo sollevò di nuovo il
biglietto.
«Saresti uscita con me, per questo?».
Lena
annuì, sorridendo, tornando all'interno del suo ufficio.
Per
quanto Indigo sostenesse di non riuscire a comportarsi da persona,
Lena trovava buffo come il suo tirarsi indietro, quasi per paura,
fosse una cosa indiscutibilmente umana. Non era certa che a bloccarla
fosse la sua cotta per lei, ma proprio la consapevolezza di non
funzionare, e magari di far restar male Winn. La
psicologa le spiegò come, per quanto si sforzasse per
restare
impassibile e sopprimere i sentimenti, Indigo stava perdendo il
controllo. Stando a questo, forse, pensò, temeva di non
essere
meritevole di essere felice perché, com'era successo con
Kara e al
discorso su sua zia a Fort Rozz, le veniva facile ferire le persone
essendo solo sincera.
Avrebbe potuto dare un'occasione a se stessa, prima ancora che a
Winn; non accettando di uscire con lui per forza, ma a lasciarsi
andare dalle rigide imposizioni che si era costruita dopo la morte
del fratello.
Era
probabilmente quello che aveva fatto lei alla morte di suo padre, al
contrario, che le aveva dato una possibilità di innamorarsi
di Kara,
prima ancora che tutto il resto. E tra due giorni sarebbe stato il
loro anniversario; sorrise. Erano successe così tante cose
in un
solo anno.
«Lo
ha rifiutato», farfugliò Kara agitata quando era
sola con Lena, a
casa a studiare. «Winn ha fatto di tutto e ci sono davvero
rimasta
molto male io per lui. Magari non è il suo tipo, ma se
potesse
almeno spiegarsi con lui…». Finì per
fare un lungo verso con la
gola e stringere i pugni.
«È
probabile che Indigo non sia ancora pronta per questo grande salto
nella vita sociale, Kara. È in terapia, ma nulla
è immediato».
Sicuramente
aveva ragione lei, ma lo sguardo afflitto dell'amico le tolse il
sorriso, in un primo momento, continuando a pensarci. A meno che
Indigo non sperasse ancora in qualcosa con Lena. E intanto
l'anniversario si avvicinava e lei non aveva ancora le idee chiare in
testa su
come
farla pagare a Lena.
E no, il polpo era fuori questione. Fargliela
pagare,
poi, che idea scema.
Vendicarsi
avrebbe significato cercare un modo per prevalere sull'altra e, per
quanto la cosa, da un punto di vista, potesse apparire stimolante, se
chiaramente voluta da entrambe, Kara si accorse che avrebbe dovuto
rimandare quell'idea perché non le riusciva altro se non
essere
irrimediabilmente dolce con lei. E in fondo, se essere dolce le
veniva tanto bene, perché cambiare?
Le
sorrise e mise giù il libro, stirando le braccia. Poi
poggiò un
gomito sul tavolo del salotto e la fissò fino a quando non
se ne
rese conto e, imbarazzata, sorrise d'istinto.
«Cosa
c'è?».
«Basta
studiare, andiamo a prenderci qualcosa: un gelato, un pasticcino, un
waffle, una crepe, cioccolatini imbevuti di tè alla pesca, dicono
siano buoni,
qualsiasi cosa».
Lena
scoppiò a ridere, arricciando il naso. «E
l'esame?».
«So
tutto». La vide inarcare un sopracciglio e così si
alzò dalla
sedia, mostrandole una mano per convincerla. «Prendiamoci un
momento
per noi. Lo so, c'è l'anniversario, ma ci meritiamo una
pausa».
Lena
abbozzò un sorriso e scosse la testa, accettando mentre le
stringeva
la mano. Disse a Indigo che non sarebbero tornate tardi e si
infilarono in auto, osservando il cielo che si imbruniva. «Ad
arrivare in centro, sarà già buio». A
Kara non interessava: la
fissò per tutto il tragitto in macchina, facendole venire da
ridere
senza motivo, così tentava di distrarla chiedendole di
cambiare
canzone alla radio.
«Facciamoci
una passeggiata».
Kara
la prese per mano che ancora erano dentro al parcheggio e Lena
l'abbracciò di scatto, fermandola, sapendo che erano ancora
sole e
alla penombra dei lampioni, lì. Al sicuro. Era poco
più alta di lei
per via dei tacchi e le carezzò una guancia, avvicinando il
viso al
suo. Si sorrisero e ascoltarono una il respiro dell'altra, toccando i
reciproci nasi, guardandosi di sfuggita, rosse sulle gote, alla
ricerca delle loro labbra. Si assaggiarono piano, continuando a
stringersi, e dopo approfondirono il bacio assicurandosi di prendere
fiato. Si staccarono lentamente che…
«Ahi»,
a un certo puntò Kara scattò, iniziando a
grattarsi un braccio.
«Stupide zanzare».
Ringhiò
e Lena rise, prendendole una mano e trascinandola in avanti. Potevano
rischiare ma solo un pochino, magari camminando in vie non troppo
illuminate. Stavano uscendo dal parcheggio che tre ragazzi, invece,
stavano appena entrando. Lena si fermò e la gola
iniziò ad
asciugarsi: aveva una strana sensazione. Kara cercò di
spingerla e
allora la lasciò fare, ma quando, appena sorpassati, uno dei
tre si
rivolse a loro, fu Lena a cercare di tirarla. «Andiamo via,
Kara»,
disse quasi in un sussurro.
Loro
non sembravano della stessa opinione: «Tutte
sole?», chiese uno dei
tre, «Siete fidanzate?».
Kara
inarcò le spalle e sorrise: al contrario di Lena, non
sembrava per
nulla preoccupata. «Sì, lo siamo».
«E
volete divertirvi senza di loro?», domandò un
altro, facendo un
passo in avanti e scambiandosi un'occhiata con gli amici. «Vi
hanno
lasciate sole».
«Loro
chi?».
Lena
le tirò il braccio. «Scusate, dobbiamo
andare».
Il
terzo allora sbottò: «Stiamo solo parlando, che
male c'è? Ci
facciamo un giro, vi va?».
«Per
conoscerci meglio», continuò il primo. Vicino a
Lena, pensò di
allungare una mano per prenderle quella libera, ma fu Kara a
scattare: lasciò la mano dell'altra e, in un gesto naturale,
gli
strinse il polso, girandogli il braccio verso il basso, bloccandolo.
Era la sua mossa preferita. Lui urlò e gli amici stavano per
intervenire in suo aiuto.
Per
Lena, tutto sembrò svolgersi al rallentatore. Il cuore
accelerò i
battiti, il fiato si fece corto, e all'improvviso rivide gli uomini e
le donne di Rhea Gand alla Luthor Corp, protetti dai passamontagna.
Li minacciavano, proprio come quei ragazzi stavano minacciando lei e
Kara. Tirò la mano destra dalla borsetta e strinse la
pistola, la
impugnò con entrambe le mani, puntandola sui tre a turno.
Spaventati,
i ragazzi alzarono le braccia sulle spalle e si lasciarono andare a
un verso impaurito, mentre Kara spalancava gli occhi: una
pistola?
Amo
questo capitolo! Sono sincera, a dispetto di altri, ho amato scrivere
questo, ma il finale… Quel finale è proprio una
doccia fredda!
Bentornata,
gente! Voi cosa ne pensate di questo finale? E del resto del
capitolo? :)
Beh,
questa cosa della pistola doveva pur saltar fuori prima o poi, e
perché non farlo in un momento simile, con Lena che ancora
non ne ha
parlato a Kara? :D Eh, già. Però sono carine e
anche se impegnate
trovano il modo di coccolarsi.
Un
capitolo sull'amore (e altri drammi, appunto) con diversi punti di
vista e coppie, tra Lena e Kara, Winn e i suoi tentativi per uscire
con Indigo, Eliza e Lillian, appena Megan e John, Alex e Maggie, Alex e Maxwell
Lord…
eh, ma quest'ultima è a senso unico, ahah. Amori e altri
drammi, sì,
eppure questo capitolo contiene un passaggio importante che non
sembra affatto importante, proprio qui dove la trama pare essere
messa da parte. Chissà che forse ve lo farò
notare io quando sarà
il momento giusto :3
Il
prossimo appuntamento
sarà
martedì
22 ottobre con il capitolo cinquantasei che si intitola
L'anniversario
– Prima parte.
Sì, l'anniversario sarà diviso in due capitoli e
occuperanno lo
slot (?) che spetta al capitolo stand alone. Ci saranno parti nel
passato? Oh, eccome ~
Ma sapete qual è la cosa bella bella? Che il capitolo
parlerà
dell'anniversario in cui tutto è iniziato e Lena e Kara si
sono
conosciute, e proprio il 22 ottobre è stato il giorno in
cui, due
anni fa, iniziai a scrivere Our
home,
l'inizio di tutto! Esatto, col prossimo capitolo festeggeremo il
secondo compleanno della fan fiction! E neanche l'avessi fatto
apposta a far cadere questo capitolo, dell'anniversario, proprio il
giorno del compleanno: avevo già selezionato la data e dopo
ci ho
fatto caso XD È proprio un anniversario ~
|
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Capitolo 58 *** 56. L'anniversario - Prima parte ***
UN
ANNO FA
Lena
aveva gonfiato le guance, tenendo il cellulare tra le dita. «Le
vedrò al vostro matrimonio-», aveva stretto i
denti, «Lasciami
parlare! Lasciami finire! Non è necessaria la mia presenza
lì».
Aveva allontanato il telefono dall'orecchio di colpo.
«Sì, faccio
parte di questa famiglia», aveva scosso una mano seccata
mentre
ascoltava sua madre dall'altra parte, adocchiando il suo assistente
davanti a lei che, in attesa, aveva iniziato a dondolarsi sui
talloni. «Non voglio stare in quella casa per giorni, con
delle
complete- lasciami
parlare,
estranee… mamma». Le aveva sempre fatto un po'
strano chiamarla
mamma
e, da quando aveva scoperto di essere la figlia biologica del padre,
per un qualche motivo, lo era diventato ancora di più.
«Eliza è
dolcissima, ma preferirei restare qui a lavorare».
«Dunque
non ti interessa conoscere le tue sorellastre? E per l'amor del
cielo, Lena, è vacanza»,
aveva sbottato Lillian dall'altra parte del cellulare, «I
dipendenti tornano a casa per le vacanze e mia figlia vuole restare
lì a lavorare. È qualcosa di
inconcepibile».
Winn
si era grattato con nervosismo, avrebbe preferito essere altrove.
Aveva alzato gli occhi al soffitto, si era guardato attorno con
distrazione e dopo aveva ben pensato di iniziare a tirarsi le
cuticole dalle dita per fingere di non stare ascoltando e distrarsi:
la signora Luthor gli aveva sempre fatto un po' paura.
Lena
aveva sbuffato appena, fregandosi gli occhi stanchi. «Se
avessi
voluto che conoscessi le figlie di Eliza, allora avresti combinato
prima un incontro. Andare a viverci insieme, anche fosse per qualche
giorno, è prematuro. E non conosco la casa, e
se-».
«Te
lo chiedo per favore, Lena. Facciamo che questa cosa funzioni. Vieni
qui e le conosci, resterai dei giorni e ti comporterai da figlia
esemplare, poi-».
«Poi
che cosa?», era stata lei a interromperla. «Non
puoi convincermi a
farlo».
«Non
ci sarà nemmeno Lex… Che figura mi fate fare?! Te
lo chiedo per
favore».
«Cosa?
Lex non-», aveva scosso la testa e sbuffato di nuovo,
battendo le
dita sulla scrivania. Lex non ci sarebbe stato? La situazione non
faceva che peggiorare. «E va bene», aveva sospirato
pesantemente e
non le importava che sentisse. «Senti… potresti
mandarmi
Ferdinand? In vacanza? Ferdinand non va mai- Va bene. Ho capito. Ma
mi manderai una macchina almeno una volta lì o non
saprò dove
andare. Sì, ci risentiamo». Aveva staccato la
telefonata
ingigantendo gli occhi, guardando Winn che, intanto, si era rimesso
composto, dritto con la schiena. «Anche la tua famiglia
è così
complicata?».
Lui
aveva scrollato appena le spalle, sorridendo. «Oh beh, non
così,
ma… ognuno ha i suoi guai. Volevo dirle che ho aggiornato le
schede
riguardanti la famiglia Danvers come mi aveva chiesto, signorina
Luthor. Qualche dato in più che ho scovato
recentemente», sorrise,
«giusto dei dettagli. Come Kara Danvers che pratica
sport».
«Sport?»,
aveva alzato un sopracciglio, sorpresa. Aveva aperto i file in quel
momento, sul suo laptop, e l'occhio era caduto proprio in una delle
sue foto. «Ha il fisico da sollevatrice di
fermacarte».
«Emh,
veramen-».
«Va
bene, Winslow, ti ringrazio per l'ottimo lavoro. Da domani puoi stare
a casa, è vacanza. A quanto pare… lo
sarà anche per me», aveva
gonfiato gli occhi, tenendo strette le labbra. Lui se n'era andato in
fretta e lei aveva dato una nuova occhiata ai file di Eliza, Alex e
Kara Danvers. Solo dei dettagli, aveva detto il suo assistente,
allora magari nemmeno li avrebbe letti. Tra meno di due giorni
sarebbe andata nella loro casa, dopotutto. Ormai il tempo era scaduto
e si sarebbe fatta un'idea migliore di loro conoscendole di persona.
Conoscere le sue sorellastre, poi… Già immaginava
come anche loro
non avessero alcun interesse a conoscerla. Lillian stava con questa
Eliza da tempo e adesso si era messa a fare tutto di corsa. E
nondimeno, se queste Alex e Kara avevano interesse a far parte della
famiglia, non si sarebbero già presentate per la cerimonia
di
fidanzamento? Non poteva certo credere che nessuno le avesse
invitate. Senza contare del comportamento di Lex. Suo fratello era il
solito guastafeste. Lo aveva chiamato mentre sistemava tutto per
tornare a casa, ma si era attaccata la segreteria telefonica. Aveva
ansimato, infastidita, e si era allontanata dal suo ufficio,
chiamando l'autista che la venisse a prendere. Almeno lui aveva
risposto. Aveva salutato il portinaio e, con passo deciso, era uscita
dalla struttura, continuando a chiamare Lex senza successo. Fuori si
era già fatto buio: il cielo era così grande e
malinconico,
stellato. L'aria era fresca, un poco umida e si era fregata le
braccia. «Lex. Richiamami, per piacere»,
lasciò il messaggio. Era
entrata nella vettura quando Ferdinand era sceso per aprirle la
portiera, così se n'era andata, continuando a osservare il
cielo dal
finestrino.
PRESENTE
«Hai
una pistola?». Kara strabuzzò gli occhi e
alzò la voce senza
rendersene conto. «Avevi una pistola in borsetta per tutto
questo
tempo?».
I
ragazzi erano scappati dal parcheggio e Lena aveva riabbassato
l'arma, custodendola appena riuscì a riprendere fiato.
Tremava,
accidenti. Nonostante fosse andata al poligono con Alex e Maggie, non
era così facile impugnare una pistola per difendersi, senza
neppure
contare lo sguardo allibito di Kara che la trapassava da parte a
parte. Alex aveva ragione e non che lo avesse messo in dubbio,
però
il tempo era trascorso in fretta, non aveva avuto l'occasione e
ora…
«Da
quanto tempo hai una pistola? È carica? Lena?
Perché non mi
rispondi?», si stava spazientendo.
«Da
un po'… Dall'attentato alla Luthor Corp».
«Da-»,
si bloccò, sorpresa, «E non hai pensato di
dirmelo?».
«Andiamo
a parlarne in macchina, per favore».
«Di
fermarmi e dirmi ehi,
Kara, sai che mi sono tenuta la pistola?!»,
spalancò le braccia.
«Va
bene, ho capito. Adesso possiamo andare in macchina?»,
ribadì.
Vedendo che non collaborava, allora restò ancorata sui suoi
passi
anche lei, mettendo le braccia a conserte e uno sguardo duro.
«Ti
avevo chiesto di andare, volevo che ci allontanassimo ma non mi hai
dato ascolto».
«E
per questo tiri fuori una pistola?», ribatté.
Quando finalmente si
accorse di stare gridando, pensò di abbassare i toni,
sospirando e
portandosi una mano sulla fronte. «Quei ragazzi non erano una
minaccia. Okay? Dovevo solo mollare il polso e se ne sarebbero
andati! Perché lo hai fatto?».
Lena
strinse i pugni. «Perché avevo paura»:
urlò anche lei e gli occhi
le si fecero piccoli, lucidi e severi, freddi.
«Perché avevo paura,
accidenti; secondo te l'ho fatto perché sarebbe stato
divertente?!
Non siamo tutti come te, Kara Danvers», la fronte si
corrugò, «ti
puntano una pistola contro e pensi a disarmarla, ne esci con appena
un graffio, ma se io non avessi avuto quella pistola… non so
cosa
sarebbe successo».
Kara
serrò le labbra con forza, accigliandosi. «Pensi
che… io non
abbia avuto paura quando Faora Hui ha tentato di uccidermi, alla
stazione?», le chiese a bassa voce, «Pensi
che… non abbia pensato
di morire?».
Lena
si lasciò scappare una lacrima e alzò gli occhi
al cielo: grande e
malinconico, stellato, l'aria fresca e un po' umida, come un anno
prima. Si asciugò il viso, mordendosi un labbro.
«Alla
Luthor Corp e-era una cosa diversa, hai usato la pistola per
difenderti e difendere James, e Winn, ma adesso…».
«Adesso
cosa?»,
domandò, ricominciando ad alzare la voce: «Ci sto
provando, Kara!
Tu stai bene, io no. Sei forte, io no. Sei sicura di te, io no. Non
sai come mi senta. Perché non riesci a metterti nei miei
panni?».
«E
tu perché non pensi che avresti potuto ferire qualcuno? Non
è un
giocattolo».
«Oh,
grandioso», spalancò le braccia e
abbozzò un frustrato sorriso,
tirando su con il naso. «Pensi che, secondo me, sia un
giocattolo?»,
girò sui suoi passi, colma di nervoso.
«La
pistola di tuo padre… Credevo l'avessi rimessa a
posto…»,
bofonchiò, quasi per sé.
Lena
riprese fiato, togliendosi i capelli dal viso. «Sono stata al
poligono con Alex, so come si usa».
«Alex?»,
s'imbrunì.
«Non
prendertela con lei, adesso», si rimise dritta con la
schiena,
guardandola negli occhi. «Mi ha aiutato dopo che ho preso il
porto
d'armi». Ricominciò a tremare e probabilmente,
questa volta, dalla
rabbia. Erano entrambe su di giri, non riuscivano a capirsi. Il cuore
era agitato quasi quanto prima. «Loro non erano una minaccia?
E se
qualcuno di loro fosse stato armato? Erano in tre, Kara. In
tre»,
insisté. «Tu forse pensavi non sarebbe stato
nulla, vedere come la
discussione sarebbe andata avanti, ma abbiamo un'organizzazione che
non sappiamo come e se ci prenderà di mira, qualcuno ha
assassinato
mio padre, il mio assistente ha ancora un livido in faccia
perché
una donna armata lo ha colpito alla tempia. Faora Hui è
morta,
Kara», scosse la testa. «E l'unico modo che ho per
difendermi e
difendere te è quella pistola. Quella pistola,
Kara», abbassò gli
occhi lucidi per asciugarseli, mentre l'altra sospirava e alzava le
braccia, non riuscendo a star ferma.
«I-Io
questo l'ho capito, ma-».
«Non
l'hai capito».
«Guardati»,
strinse i denti e Lena si guardò le mani: tremavano.
«Vuoi
difenderci in questo stato?».
Lena
chiuse gli occhi e trattenne il fiato, aprendo e chiudendo i pugni
più volte. «Prima non tremavo».
«Sì
che tremavi», disse a bassa voce, «Ti ho
vista».
Sì,
tremava. «Non è questo il punto»,
mormorò.
«E
allora dimmi tu qual è! Aiutami a capire,
perché…», scrollò le
spalle; stava per riaprire bocca che una famiglia con bambini a
seguito entrò nel parcheggio: una bimba sul passeggino
guardò
entrambe a turno, incantata. I loro genitori si voltarono, ma
proseguirono dritti: dovevano aver sentito le urla. Sarebbe stato
meglio entrare in macchina e presero passo. Chiusero gli sportelli e
si guardarono, scuotendo la testa.
«Non
ti piacciono le pistole, adesso lo terrò a mente»,
disse Lena,
infilando le chiavi nel quadro.
«No.
È l'unica cosa, forse l'unica, che ci distingue da loro».
«Non
è l'unica», controbatté a bassa voce,
sistemando il sedile.
«Okay,
non è l'unica», scrollò le spalle.
«Ma non è questo… Questo…
Sono loro
che si armano-».
Lena
la interruppe: «La vita non è un fumetto,
Kara».
All'altra
si arrossarono le gote, colta sul vivo. Strinse le labbra e la
guardò
solo un momento, notando che si stava mettendo alla guida.
«Non
parlavo dei fumetti! Ce ne stiamo andando? Non usciamo
più?».
Lena
allora si fermò, decisa a guardarla in faccia.
«Vuoi passeggiare
come se niente fosse successo? Andiamo, allora», si strinse
nelle
spalle e si slacciò la cintura.
«No,
no, non così», la fermò esasperata e
Lena serrò la bocca,
mordendosi un labbro. «I-Io voglio davvero
capire-», si bloccò e
la vide appoggiarsi al sedile con un'espressione truce: era come una
bomba pronta a esplodere e la cosa la innervosiva perché
doveva
essere lei quella arrabbiata e non il contrario. Era lei ad avere la
pistola.
«Non
c'è nulla da capire, Kara», la guardò
di nuovo. «Porto con me la
pistola di mio padre perché mi sento vulnerabile e quando
quei
ragazzi… Non avevo intenzione di sparare nessuno, volevo
solo
spaventarli e farli allontanare. E ha funzionato. Sei tu che ti butti
a capofitto in una situazione pericolosa senza pensare alle
conseguenze. Ti avevo chiesto di andarcene: è tutto
lì».
«Non
parlarmi come se fosse colpa mia», si agitò,
contraendo le
sopracciglia. «Non si usano le pistole per spaventare la
gente! Loro
non erano pericolosi, io avevo tutto sotto controllo»,
gonfiò il
petto, «e tu non dovresti portare una pistola in
borsetta».
«Tu
avevi tutto sotto controllo», replicò fredda,
«Tu».
«E
se ti fosse caduta? E se avessi sparato, anche solo per
errore?».
«Per
errore»,
strizzò gli occhi, estraendo un fine e incerto sorriso,
«Oh…
Certo».
«È
un attimo, Lena. Si sentono tante di quelle cose… Non
è per non
fidarmi di te. Vedo che faccia stai facendo»,
borbottò e l'altra si
portò una mano sulla fronte, trattenendo il fiato.
«Dovrebbero
esserci più controlli sulle armi e sulla loro vendita,
questo a-a
prescindere», gesticolò.
«Sai
una cosa? Lasciamo perdere. Sono stanca, ti prego».
«Uccidono
più le armi in mano alla gente comune che quelle ai
terroristi».
«Andiamo
a casa».
Si
guardarono e Kara si zittì, stringendo le labbra. Si sentiva
un
fuoco, non avrebbe voluto far finire lì quella discussione.
Come
poteva Lena non capire la gravità della cosa? La difesa
personale
andava al di là di una cosa come quella. I suoi genitori
erano morti
per colpa della gente armata. Erano i cattivi a portare le armi, non
il contrario; ed era un concetto universale, non circoscritto ai
fumetti.
Lena
si rimise alla guida in silenzio, quando si sentì pronta.
Lei e Kara
restarono zitte, ascoltando i propri pensieri e le canzoni proposte
dalla radio locale. Quando cominciarono ad allontanarsi dal centro,
Lena si azzardò a guardare Kara con la coda dell'occhio che
non
staccava lo sguardo dal finestrino; i capelli mossi dal vento: era
seria, imbronciata. Non era così che si immaginava la
serata, tanto
valeva restare a studiare. Doveva aver appena sbattuto il muso contro
un suo limite: capiva perché non le piacessero le armi, era
lampante, ma le dava fastidio come Kara non riuscisse a separarsi da
quel pensiero binario che divideva criminali da persone perbene.
Forse quei ragazzi non erano o non erano ancora una minaccia, ma si
era spaventata e… Forse avrebbe dovuto pensarci
più lucidamente,
questo glielo concedeva. Tremava davvero, dopotutto.
Lasciarono
il centro e la vibrazione del cellulare di Lena fece saltare dallo
spavento entrambe, poi la ragazza chiese all'altra di leggere per
lei, non avendolo collegato al computer di bordo. Ah, era solo Indigo
che chiedeva se sarebbero tornate per cena, che aveva fame. Ci
mancherebbe, pensò Kara. Lena le chiese di rispondere, ma
lei
s'incantò a veder dondolare la palletta pelosa e fucsia che
teneva
ancora agganciata: gliel'aveva regalata lei. Il suo primo regalo a
Lena. La toccò scompigliandole il pelo, poi
sospirò, digitando il
messaggio di risposta. «Sarebbe capace di mangiarsi un pacco
di
pop-corn per cena, se non dovessimo tornare»,
brontolò Kara.
Osservò Lena con la coda dell'occhio e, nel vederla
sorridere,
allora anche le sue labbra si piegarono un poco.
«Sì,
è vero».
Abbozzarono
una risata, a bassa voce, tornando serie e zitte.
Era
difficile credere che avesse covato quel terrore dentro di lei tanto
a lungo. Da dove era uscito? Tremava davvero. Neanche se ne rendeva
conto. Alex e Maggie le avevano insegnato a impugnarla e a sparare,
ma non sembrava sufficiente. Aveva ottenuto il porto d'armi, ma non
era sufficiente. Tremare in quel modo, tenendo in mano una pistola,
poteva rivelarsi più pericoloso che non averla. La paura di
loro era
pari solo alla paura di sparare. E quei tre… Lena
sospirò: erano
solo ragazzi. Kara aveva ragione su quello e sbuffò. Le
mancava
qualcosa che non avrebbe potuto sistemare con un certificato o un
bersaglio al poligono.
Kara
osservò il cielo fuori dal finestrino un poco aperto e dopo
ancora
Lena, concentrata alla guida. Stavano per tornare a casa e avevano
chiuso in quel modo la discussione. La scena di lei che le chiedeva
di andare via non la lasciava in pace. In quel momento, non aveva per
niente fatto caso a come si fosse stretta per allontanarsi insieme.
Alla sua fretta. Alla sua paura. Non aveva per niente pensato a come
si sentisse, voleva solo, cosa,
giocare con quei tre? Volevano provarci e lei non vedeva l'ora di
rimetterli al loro posto? Strinse le labbra e abbassò lo
sguardo,
amareggiata. Voleva che attaccassero briga di proposito? Non erano
una minaccia, ma forse se ne sarebbero andati e basta, se lei non
avesse insistito a rivolgere loro la parola. Perché lo aveva
fatto?
Lasciarono
l'auto in garage e cenarono prima che Indigo razziasse cibo
spazzatura in cucina. Si guardarono insieme qualche episodio su
Netflix come al solito, vicine più fisicamente che con la
testa, e
dopo Kara decise di andarsene a letto. Non ne avevano più
parlato ma
sapeva che lo avrebbero dovuto fare o sarebbe rimasto qualcosa di
irrisolto e non le piaceva litigare, quindi l'avrebbe aspettata
sveglia, in camera sua dove dormivano ogni notte, pronta per far
pace. Ma forse Lena doveva ancora prendere del tempo per sé,
poiché
non arrivò. Kara si affacciò alla finestra e la
vide fuori, seduta
su uno sdraio sull'erba, accanto a Indigo. Non poteva crederci che si
stesse sfogando con lei. Brontolò e tornò a
sistemarsi sotto il
lenzuolo. Lena sarebbe arrivata presto. O così sperava.
Forse si
addormentò a un certo punto, per poco. Apriva di scatto gli
occhi e
Lena ancora non c'era. «Okay», si alzò,
infilando un pantaloncino
corto, una canotta e le ciabatte. Le aveva lasciato il tempo per
pensarci, ma non era tornata e doveva essere arrivato quel delicato
momento di preoccuparsi un po'. Aprì appena la porta della
camera
affidata a Indigo e la scorse con il portatile acceso, sdraiata a
letto: doveva vedere un film. Quanto tempo era passato? E allora
dov'era Lena, da sola? Sperava non pensasse che fosse ancora
arrabbiata. E un po' lo era, in effetti. Non che non si fidasse di
Lena, non sapeva come dirglielo, ma non si fidava delle armi da fuoco
e questo… questo sperava lo capisse. Guardò fuori
dal soggiorno e
aprì una portafinestra: Lena era ancora lì, da
non crederci. Che si
fosse addormentata sullo sdraio? Stava per fare un passo per uscire
ma si trattenne vedendola muoversi, così socchiuse davanti a
lei,
ferma. Non le piaceva indubbiamente litigare con Lena, ma immaginava
di doversi abituare al fatto di non andare sempre d'accordo su tutto.
Se voleva passare la sua vita con lei, di tempo per litigare ne
avrebbero avuto molto altro. E come avrebbero sistemato le cose? Le
sfuriate, l'alzare la voce, anche l'incolparsi a vicenda: erano cose
che doveva mettere in conto. Sarebbe successo e sarebbe successo
anche di dirsi cose spiacevoli solo per ferirsi in un momento di
rabbia. Di rinfacciare qualcosa. Avevano già litigato prima
di oggi,
d'altronde. Tornò indietro e salì gli scalini due
a due. Sarebbe
successo spesso di litigare: doveva accettarlo. Afferrò un
plaid
dall'armadio. Ma amare qualcuno non aveva mai significato anche
andare sempre d'accordo. «Posso?», le chiese, una
volta arrivata
alle sue spalle. Lena le sorrise e Kara le sistemò addosso
il plaid,
mettendosi poi accanto a lei, sull'altro sdraio. Prese il lembo dalla
sua parte quando Lena glielo passò, sistemandoselo sulle
gambe. Era
abbastanza grande per tutte e due. Dopo guardò il cielo: ah,
si
sentiva così piccola e smarrita ogni volta che ci si
specchiava
dentro. Un po' di nuovo bambina. Spalancò le narici: amava
l'odore
di umido che portava con sé la notte d'estate.
«Avrei…
Avrei dovuto dirti della pistola», sussurrò
l'altra, perdendosi nei
suoi occhi. Erano in penombra, ma quell'azzurro pareva brillare.
«E
io avrei dovuto darti ascolto», confessò.
«Avevi paura e non l'ho
capito. Mi-Mi sono fermata lo stesso», morse il labbro
inferiore.
«Pensavo solo a me e non avevo capito… Ti ho
mancato di rispetto,
ti chiedo scusa».
«Avrei
potuto uccidere qualcuno, Kara», proseguì
amaramente. «È vero che
tremavo. Non posso portare la pistola di mio padre con me se non sono
capace di riconoscere un pericolo serio da un gruppetto di
gradassi»,
scosse la testa, gli occhi vacui. «Se non sono capace
di… usarla».
Avrebbe potuto, la paura, impedirle di pensare e agire lucidamente?
Poteva conoscere il più piccolo aspetto di una pistola e il
suo
funzionamento, ma quando entrava in una situazione di stress allora
ogni concetto sfumava per far posto alle emozioni. Ed era sempre
stata brava ad immagazzinare emozioni, o così credeva. Aveva
messo
in discussione molte altre cose da un anno a quella parte, da quando
conosceva Kara.
«Cos'è
successo?», le domandò lei, sospirando. Le prese
una mano fresca,
cominciando a scaldargliela con le sue. «Perché
non mi hai parlato
di come ti senti- ahi»,
si picchiò un braccio, ma la zanzara fece in tempo a
scappare e si
lagnò, iniziando a grattarsi. «Di come ti sentissi
dopo l'attacco
alla Luthor Corp?».
«Non
lo so… Non so come mi sentissi; probabilmente, pensavo di
essere…
normale. Prima di questa sera, lo pensavo davvero»,
poggiò un
gomito sulle gambe, riprendendo la mano mentre lei si grattava
furiosamente, in questo modo resse la testa. «Le zanzare non
ti
lasciano in pace, eh?», le chiese subito dopo: aveva preso a
grattarsi anche in fronte.
«Che
siano maledette», replicò. «Beh, i
segnali c'erano ma non li ho
colti: volevi che ti insegnassi l'autodifesa, Lena», le vece
notare
intanto che, svelta, schiacciò una zanzara sul dorso di una
mano.
«Andremo in palestra più di prima. Ti senti
vulnerabile e non
voglio», la guardò negli occhi. «Vorrei
che ti sentissi più
sicura. Perché ha-hai ragione! Winn è stato
colpito, tutti siamo
stati colpiti dalla furia di Rhea e se penso a Siobhan… A
Faora… E
non sappiamo cosa verrà dopo! Chi ha ucciso tuo padre: non
conosciamo la sua identità e non sappiamo
cos'accadrà», si
accigliò, gesticolando. «Non conosciamo i piani di
Zod. E non
sappiamo se il tizio che ha fatto uscire Indigo di prigione sia una
minaccia oppure no… Hai ragione! Hai ragione su tutto!
Dunque se-se
vorrai portare con te la pistola…», prese fiato e
deglutì. Lena
doveva aver notato la sua riluttanza.
«Non
ti senti tranquilla sapendo che è qui, vero?».
«No»,
forzò un sorriso, «Per niente. E c'è
anche Indigo, insomma».
Lena
rise pacata. «Accidenti, ce l'hai proprio con lei! Adesso
pensi che
prenderà la mia pistola per spararci?».
Lei
alzò gli occhi, gonfiando le guance. «Sparare noi
non so, ma
qualcuno».
«Qualcuno
a caso?».
«No,
però… Non mi fi-».
«Non
ti fidi».
Si
scambiarono uno sguardo e Kara si appoggiò stremata allo
sdraio. «So
che non posso farci niente», ansimò,
«anche se lo vorrei, lo
vorrei davvero tanto, ma almeno eviterai di tremare se la porterai
con te. Con dell'allenamento, la pistola intendo, no-non parlo di
Indigo. Per essere più sicura di te e del tuo corpo.
Basta… Basta
che mi dirai di averla. Devo sapere quando l'avrai, ti prego. Chiedo
solo questo».
Lena
si avvicinò, poggiando la testa sulla spalla sinistra di
Kara. Prese
un grosso respiro. «La lascerò in una cassaforte,
Kara»,
bisbigliò. Lei non rispose, ma la sentì tirare un
sospiro di
sollievo. «Fino a quando non sarò più
sicura, almeno».
«V-Va
bene». Non poté fare a meno di sorridere,
più serena.
Si
lasciò accogliere dalle braccia di Kara e chiuse gli occhi.
La sua
pelle era così calda in confronto alla propria fredda,
rimasta fuori
a lungo. E profumata. Spalancò le narici per catturarne
appieno
l'odore, mischiato con quello fresco dell'erba. Si sentì
baciare
sulla tempia e sorrise. Si sarebbe potuta addormentare così:
i
grilli che cantavano, il plaid sulle gambe, le braccia di Kara che la
proteggevano, il suo cuore che le infondeva sicurezza battendo contro
il proprio corpo. Risuonava in lei. Forse si stava addormentando
davvero. Riaprì gli occhi all'improvviso e
abbozzò una risata: «Le
sento ronzare».
«Mi
stanno mangiando le caviglie», si lamentò,
stringendo i denti. «Ma
non voglio muovermi».
«A
me non pungono».
«Hai
il sangue velenoso, ecco perché».
Lena
si accigliò. «Non ho il sangue
velenoso».
«Invece
sì. Ahi».
UN
ANNO FA
La
palla era caduta sull'erba e le giocatrici, racchetta in mano,
avevano corso da più direzioni per acchiapparla. Una ragazza
dalla
maglia rossa e blu era riuscita a prenderla per prima, lanciandola
verso un'altra giocatrice della sua squadra, la numero dieci.
Quest'ultima aveva raccolto la palla al volo e cominciato a correre,
seguita dalle compagne e attesa da quelle avversarie che stavano
iniziando a sistemarsi per farle da muro. La numero dieci aveva
passato velocemente la palla a una compagna libera e sorpassato una
in difesa, così la palla era tornata in suo possesso. Era
vicina
alla porta e mancava poco allo scadere del tempo. Davvero, davvero
poco. Cinque.
Aveva saltato, evitando lo sgambetto di un'avversaria. Quattro.
Un capello era uscito dal casco e se lo stava mangiando, infilato tra
i denti. Tre.
Aveva passato la palla intanto che si abbassava, evitando di sbattere
contro la stecca di un'altra giocatrice messa per bloccarla. Due.
La compagna le aveva rilanciato la palla a un passo dalla porta,
bloccata dalla difesa. Uno.
Aveva saltato, teso il braccio e la stecca, il busto si era piegato
sinuoso, e così la numero dieci aveva lanciato: la palla
aveva
solcato l'aria con estrema velocità, tanto che il portiere
l'aveva
notata solo una volta che aveva ormai toccato la rete, cadendo ai
suoi piedi. Il tempo era scaduto, avevano vinto.
Tutte
avevano iniziato ad esultare, le stelle filanti cadevano sui loro
volti eccitati ed erano andate a stringere le mani delle avversarie
che si erano congratulate. Loro faticavano a contenere la delusione
di aver perso la finale a pochi secondi dal fischio. Intanto si erano
slacciate i caschi, gettandoli sull'erba del campo e facendo strada
al loro coach e all'arbitro. La numero dieci aveva stretto la mano a
una ragazza dell'altra squadra e dopo si era tirata i lunghi capelli
biondi alle spalle, mettendo le mani sui fianchi per osservare la
platea: eccola, l'aveva vista e si era alzata in punta di piedi,
salutando sua sorella.
Il
pubblico si stava disperdendo e Kara era rimasta ferma ad aspettarla,
non immaginando che qualcun altro era pronto a darle le sue
congratulazioni per aver fatto vincere la squadra: Mike Gand l'aveva
avvolta in un caloroso abbraccio e dopo aveva premuto le labbra sulle
sue, lasciandola disorientata. «È stata una
partita entusiasmante,
bisogna ammetterlo».
«Già…»,
lei si era tirata indietro. Aveva cercato di mettere in pausa la loro
relazione la sera prima, ma il ragazzo sembrava aver già
dimenticato
tutto.
«Che
ne dici, ne parliamo a pranzo? Avrei giusto qualche trucchetto nuovo
che potrei consigliarti per domani».
«Domani?
Questa non era la finale?».
Kara
aveva tirato un sospiro di sollievo nel sentire la voce di Alex alle
sue spalle. «Hai visto agli ultimi secondi?», le
era andata
incontro quasi saltellando, stringendo i pugni, così si
erano
abbracciate.
«Sei
stata in gamba, sorellina», aveva annuito. «E come
sei passata
sotto quella stecca… Si vede che sei mia sorella»,
aveva riso.
«Lì
me la sono vista davvero brutta», aveva ingigantito gli
occhi.
«Temevo di perdere l'equilibrio, ma la velocità
è stata dalla mia,
meno male, per fortuna», aveva riso anche lei, parlando
velocemente.
«O avrei passato quegli ultimi secondi a rialzarmi,
probabilmente.
Molto probabilmente». Era così euforica.
«Allora?
Per il pranzo?».
Ah,
si era dimenticata di Mike, accidenti. Cominciava a prendere in
considerazione l'idea di separarsi anche solo per come, a volte, lo
ignorava senza farlo di proposito. «Ricordi che ieri abbiamo
parlato
di una pausa…? È che-».
«Ma
sì».
Lui l'aveva interrotta con uno sbuffo. «Tu
hai parlato di una pausa, io
non vedo perché farla considerando che stiamo comunque
insieme. Sai
che ti dico? Fai come vuoi», aveva alzato le braccia,
emettendo un
sospiro. «Pensavo avremo potuto festeggiare; ti avrei dato
qualche
consiglio perché, ho pensato, che la prima squadra siamo
sempre io e
te, ma… vabbeh, come ti pare».
Si
era allontanato e Kara aveva provato a richiamarlo, ma lui l'aveva
ignorata. E di proposito. «Credi che dovrei
seguirlo?», aveva
chiesto ad Alex, sistemata a fianco a lei.
«No.
È arrabbiato, gli passerà da solo», si
era accigliata e, con una
smorfia, aveva brevemente scosso la testa. «Allora? Di che
partita
parlava?».
Kara
stava per aprire bocca che alcune compagne di squadra si erano messe
a saltellare dietro di lei, scompigliandole i capelli intonando un
Supergirl
in coro, così aveva aspettato che se ne andassero per
parlare,
sorridendo e tentando di riparare al danno con le mani sui capelli.
«Questa era la finale, ma domani abbiamo un'amichevole per la
raccolta fondi per comprare il materiale del prossimo anno».
«Neanche
un giorno di tregua?».
«Chiedilo
al coach Jonzz», aveva scrollato le spalle.
Non
aveva notato come Alex avesse lanciato uno sguardo serioso all'uomo,
intento a festeggiare.
«Verrai
a vederci, vero?».
«Ah?»,
si era destata dall'incanto, «Mi spiace, sorellina, ma domani
sarò
impegnata con l'università, non potrò esserci.
Non pensavo giocassi
e ho preso impegni».
«Ma…»,
l'aveva guardata con dispiacere, «non manchi mai a una mia
partita».
«Beh,
quelle del campionato le ho viste tutte, no? Domani sarà
un'amichevole», non si era arresa di fronte alla sua smorfia
amareggiata. «No? Vero, sorellina? Vero?» l'aveva
riabbracciata e
l'altra aveva dovuto cedere per forza, lasciandosi sfuggire un
sorriso.
«Almeno
non mi abbandonerai dopodomani», aveva parlato piano ed
entrambe
avevano stretto i denti, scambiandosi uno sguardo. «Si torna
a
casa».
«E
non sarà mai più come prima», aveva
aggiunto Alex. «Ti chiamerò
quando sarà arrivato il momento. Potremo farci forza a
vicenda».
«Comincia
una nuova avventura per le sorelle Danvers». Avevano riso,
per poi
sospirare.
PRESENTE
Kara
Danvers si alzò di buona mattina e con un umore splendido:
la
dolcezza si era impossessata del suo corpo e, dopo aver fatto
colazione, si era messa in cucina per sfornare biscotti. Non che
volesse disturbare Eliza durante i suoi ultimi giorni di viaggio di
nozze con Lillian, ma le aveva inviato giusto un messaggio per
chiederle una delle sue ricette e si era messa d'impegno, ignorando i
messaggi successivi della sua madre adottiva che le chiedeva passo
dopo passo come stessero venendo. Biscotti farciti di crema
pasticcera al limone: Eliza li aveva definiti semplici,
ma Kara aveva rifatto la crema già tre volte.
Ieri
notte, lei e Lena avevano fatto pace e avevano dormito vicine; e se
pensava che aveva messo la pistola di suo padre in una cassaforte
lì
in villa, allora non poteva chiedere di meglio. Considerando che
Indigo non le aveva viste farlo, era tanto di guadagnato. Non si
poteva mai sapere. L'indomani era l'anniversario e non stava nella
pelle. Il loro anniversario:
a un certo punto sorrise. Faceva un po' strano; ne era passata
parecchia di acqua sotto i ponti da quel giorno sul treno e dai loro
sguardi irritati. Eppure aveva rinunciato al volerla
far pagare
a Lena: se pensava al loro inizio, quelle parole sembravano assumere
un altro significato. Arrossì. Aveva rinunciato, ma qualcosa
doveva
pur venirle in mente e si trovava ancora in alto mare: sperava che
quei biscotti l'aiutassero a darle un po' di ispirazione.
«Assaggi?»,
la imboccò con il cucchiaino pieno di crema e anche Lena
arrossì,
tenue, annuendo.
«Mmh…
Buona. Migliore di prima», esclamò, continuando ad
annuire e
puntando gli occhi al soffitto, gustando appieno del retrogusto
rimasto sul palato. «Mi piace, non è affatto
male».
«Davvero?»,
chiese a bassa voce vicino a lei, ancora il recipiente tra le mani.
«Perché volevo portarne a Winn per tirargli su il
morale e alla
CatCo: un bel ricordo ai… quasi
colleghi prima delle vacanze», disse d'un fiato scuotendo la
testa
intanto che Lena ancora annuiva, avvicinandosi un po' di
più.
«Andrai
bene, Kara».
«E
non potrei sopportare di fare brutta figura con loro».
«È
perfetta».
Kara
sollevò gli angoli della bocca e la guardò negli
occhi. «In questo
caso, ti sei guadagnata un altro cucchiaino», glielo porse e
Lena
spalancò la bocca, in attesa. Kara fissò le sue
labbra schiudersi,
intanto che chiudeva gli occhi, il respiro lento.
«Sai… sto
pensando di metterne un po' da parte», sussurrò
ipnotizzata e la
vide farle un sorriso.
«Oh,
potresti».
Kara
la imboccò e rimise il cucchiaino nella ciotola della crema.
La
fissò fino a quando non furono entrambe interrotte da un
fastidioso
sgranocchiamento. Si voltarono all'unisono, scoprendo Indigo davanti
al bancone con una tazza di latte e cereali davanti al naso.
La
ragazza scrollò le spalle: «Sono sempre stata qui.
Ma prego»,
riempì il cucchiaino di cereali al cioccolato,
«non fate caso a me
proprio adesso. Non vorrei rubarvi la scena».
Kara
si accigliò, puntandole contro il cucchiaino. «A
te niente crema».
«Non
la voglio! Non disturbarti», sorrise, «Dopo
ciò a cui ho
assistito, sono certa di non volerne».
Lena
la fermò dal colpirla in testa col cucchiaino.
Indigo
era irritante, impicciona, molesta, strafottente, maleducata; non
capiva davvero come riuscisse Lena ad andarci d'accordo. Non solo la
notte prima: le capitava di sentirle parlare, con la televisione
spenta e bassa voce, come se fossero amiche da tempo. Non era gelosa,
ma Indigo, al contrario, si comportava sempre come una bambina
dispettosa con lei. E poi le veniva naturale trattarla male di
rimando e ripensare a come non potessero fidarsi di lei. Lena lo
faceva, Kara non poteva. Se non altro, proprio per proteggere Lena da
quella relazione che, era evidente, in qualche modo le stava a cuore.
Forse, portando i biscotti a Winn, avrebbe anche potuto trovare il
modo di dirgli di lasciar perdere perché lui era un ragazzo
d'oro e
meritava di meglio. Meritava senz'altro di meglio.
Rifece
la crema al limone e infornò i biscotti. Alcuni erano venuti
un poco
bruciacchiati sui bordi e inviò la foto a Eliza per farla
smettere
di bombardarle la chat, non potendo immaginare che l'avrebbe
scatenata a scriverle di consigli sempre nuovi con una parola ad
invio. Tolse la vibrazione, entrando in auto con i recipienti.
Un
recipiente per il campus: divise i biscotti con le compagne di
squadra e il nuovo coach che sostituiva John Jonzz. E si
pentì
subito di averglieli offerti: Stephen Millard, grassoccio, capelli
bianchi e con la pelle più arancione di una carota, con la
sua
solita sprizzante simpatia e quasi ci prendesse gusto, si mise a
riderle in faccia, sputacchiando briciole.
«Questo
non cambia niente, però. Se non ti comporterai da capitano
esemplare
alla partita, oggi, farai la finale in panchina come
riserva».
Aveva
visto il video in cui aveva giocato da sola quando era sotto effetto
delle pillole e si scoprì che non era un suo fan. Insisteva
nel
dirle, non proprio sottilmente, come notasse quanto le piacesse stare
sotto i riflettori, dal matrimonio di sua madre, a come stesse usando
la strage della sua famiglia per fare carriera alla CatCo e, da
ultimo, il rilascio da Fort Rozz di sua zia che sembrava alle porte.
Le ripeteva come non vedesse l'ora di leggere la sua sulla rivista.
Per
fortuna, Megan e le altre erano abbastanza emozionate di essere
passate in semifinale anche quest'anno e avevano gradito i biscotti
portafortuna, distraendola dalle sue insinuazioni.
«Psst»,
Megan le sussurrò all'orecchio, «Hai poi trovato
qualcosa per
fargliela
pagare?».
Kara
arrossì e le ficcò un biscotto in bocca.
Un
recipiente per la CatCo: un biscotto per ogni scrivania, tranne che
per Cat Grant a cui ne conservò tre a parte in piccolo
pacchetto con
nastrino, lasciandoglielo sulla scrivania per quando sarebbe tornata
tra poche ore dal suo ultimo viaggio di lavoro. Sperava non lo
prendesse, almeno lei, come un tentativo di favoritismo.
Sorpassò la
scrivania che al momento occupava da sola poiché Siobhan non
c'era e
si indirizzò a quella di Leslie, ma era vuota. Al solito, la
immaginava davanti alla macchinetta del caffè.
Così prese
l'ascensore; non si aspettava di trovare Lena davanti alle porte che
si aprivano. «Ehi», le sorrise e si
guardò intorno per assicurarsi
che non ci fosse qualche curioso. «Cosa fai qui?».
Lei
sospirò: «Non rispondi al telefono». La
vide mordersi un labbro,
prendendole una mano per istinto. «Ti volevo impedire di
venire alla
Luthor Corp sputando fuoco: Indigo ha accettato di uscire con Winn.
In innocua amicizia. Non fare domande».
Aveva
accettato? Questo era… beh, non se lo aspettava. La
guardò con
sospetto e Lena alzò le sopracciglia per tutta risposta.
«Va bene.
Farò comunque il
discorsetto
a tutti e due, anche se in
amicizia,
ma…», aprì il recipiente che si era
portata dietro per Leslie
Willis e gliene porse uno, «Ti meriti qualcosa di
dolce». Lena
arcuò un sopracciglio e si morse un labbro mentre Kara
avvampava,
indicandoglielo: «Il
biscotto.
A-Anzi», riaprì velocemente il recipiente con il
rischio che le
sfuggisse il tappo dalle mani, «adesso non te lo do
più».
Lena
le fermò la mano e, portandosela alle labbra, morse il
biscotto; le
incatenò gli occhi ai suoi, mandando giù pian
piano intanto che la
stringeva e, con le labbra calde e umide, inspirando, le sfiorava le
dita. La vide deglutire e la lasciò andare di corsa solo
quando
udirono un verso indisposto a labbra strette: Leslie Willis girava il
suo caffè, non mancando di sorridere maliziosa.
«Che
dolci siete: e così avete ripreso a scopare!».
Le
due si sorrisero e Kara si voltò per indicarla, contraendo
le labbra
e tuonando secca: «A te niente biscotti».
Era
la solita, niente di cui stupirsi: Leslie Willis aveva un concetto
tutto suo dell'amore. Sarcastica, sosteneva di essere una romantica
in fondo, ma esattamente non si capiva quanto in fondo bisognasse
scavare per trovare questo lato. Le prese in giro fino a quando Lena
non le lasciò e continuò a prendere in giro Kara
inviandole bacini
divertiti ogni qual volta che poteva, prima che ricominciasse a
lagnarsi dei compiti assegnati da Cat Grant, proseguendo come non
vedesse l'ora di andare in vacanza. Lo gridò talmente forte
che fu
la prima cosa che sentì la donna quando tornò
alla CatCo, aprendosi
le porte dell'ascensore.
«Se
ci tieni tanto, posso anticipare la tua vacanza: basta chiedere e la
carrozza tornerà zucca con un solo colpo di
bacchetta».
Andò
nel suo ufficio e Leslie fece una smorfia con tanto di linguaccia.
«Vecchia strega… Lo lascio questo lavoro: voglio
proprio vederla
mettersi d'impegno per trovare una Cenerentola migliore
di me»,
gridò.
Kara
decise che lasciarle un biscotto sarebbe stato un dovere: forse
sarebbe riuscita ad addolcirla un po'.
Infine,
un recipiente per la Luthor Corp: un biscotto per la guardia
all'ingresso e per ogni dipendente che lavorava ancora e incrociava
sul suo cammino. A un uomo in particolare ne lasciò due,
poiché lo
vide proprio di cattivo umore e stressato e gli fece un po' pena.
Infine salì con l'ascensore al piano dell'ufficio di Lena.
La porta
era chiusa, Indigo alla scrivania non c'era e Winn nemmeno si era
accorto della sua presenza, sorridendo allo schermo del computer con
una faccia imbambolata.
«Posso
lasciarti un biscotto?». Lui rimase immobile e Kara
aggrottò la
fronte, ripetendosi fino a che il ragazzo non le rispose che poteva.
Kara gli lasciò il biscotto accanto al gomito che aveva
appoggiato
vicino alla tastiera e la sentì ringraziarla, ma non era
certa che
si fosse davvero accorto della sua presenza. «Figurati.
Almeno apri
gli occhi prima di mandarlo giù». Winn
annuì e Kara lo vide
tastare la scrivania in cerca del biscotto, così lo
aiutò,
avvicinandoglielo.
«Grazie,
Kara. Ka-?
Ehi, Ka-Kara», si destò, sorridendo entusiasta.
L'abbracciò di
colpo e si portò il biscotto in bocca, prendendo un grosso
morso.
«Non
bi abebo sebntito»,
si tappò la bocca che sputacchiava briciole. «Sai
la novità?».
«Hai
ripreso a giocare a Fortnite?».
Oh, certo che la sapeva.
«Esco
con Indigo! Domani. Ha accettato», si portò il
resto del biscotto
in bocca e tossì, battendosi il petto: per poco non
soffocava.
«Ce-Certo solo come amici, ma… Avrò una
possibilità per farla
innamorare di me. Ed è solo merito tuo».
«Nah,
qui c'è lo zampino di Lena…». Non
poté fare a meno di sorridere
anche lei, contagiata dalla sua felicità. Indigo non le
piaceva, ma
Winn era così euforico che non poteva rubargli quel momento,
specie
se poi aveva deciso di aiutarlo in quello proprio il giorno prima;
sarebbe apparso se non altro un po' incoerente. «Sono felice
per
te», lo abbracciò di nuovo e gli porse un altro
biscotto a patto
che lo mangiasse piano. Dopo ne passò uno a Indigo che stava
rientrando dall'ascensore con scartoffie in mano, Lena con lei. La
prima la guardò per un attimo come se fosse un'aliena,
dopodiché
accettò e mangiò il biscotto.
UN
ANNO FA
Aveva
seguito il telegiornale con interesse, girando il caffè
nella
tazzina, seduta davanti alla televisione. Quasi non si perdeva
un'edizione in quel periodo, sperando, chissà, di sentire
aggiornamenti sulla morte di suo padre. Il suo decesso era stato
classificato come incidente e ormai era passato un anno e non ne
parlava più nessuno; le faceva rabbia. Sua madre l'aveva
tagliata
fuori da ogni esito, da ogni cosa che lo riguardasse, come non la
volesse in mezzo. Le aveva chiesto se potesse visionare il referto
dell'autopsia ma aveva ricevuto in cambio da parte sua solo un secco
no.
Se la sua morte era davvero stata un'incidente, cosa aveva da
preoccuparsene tanto? Dubitava fosse per proteggerla; non l'aveva mai
fatto e non avrebbe iniziato di sicuro in quel momento. Nulla, non ne
parlavano. Un altro buco nell'acqua e Lena si era tenuta la testa,
rifiutando il resto del caffè. Una lacrima sfuggita le aveva
solcato
il volto perlaceo e, quando aveva iniziato a sfogliare il cellulare e
visto le foto che pubblicava Lillian di lei ed Eliza, allora aveva
stretto i denti. Lei si stava rifacendo una vita e sorrideva,
perfino. Sorrideva come non l'aveva mai vista fare da che aveva
memoria. Lei sorrideva, nascondeva i dettagli intorno alla morte di
suo padre e lui era rimasto nel passato, dimenticato. Era stato
dimenticato dalla donna che aveva sposato e con cui aveva avuto un
figlio. Sì, lui l'aveva tradita o lei non sarebbe nata, ma
aveva
scelto Lillian a sua madre. E Lillian aveva scelto altro. Non sapeva
davvero come comportarsi né cosa pensare; non poteva contare
sulle
opinioni di Lex: i loro rapporti si erano un po' freddati da quando
si era trasferito definitivamente a Metropolis. Aveva riguardato
qualche foto, sfogliando Instagram.
Non che non volesse che Lillian potesse rifarsi una vita, ma era il
suo comportamento a darle il voltastomaco e a farle rifiutare quella
nuova famiglia che voleva costruire. Dopotutto, Eliza sembrava darle
la felicità che non era riuscito a darle Lionel. E sembrava
davvero
che quella donna stesse con lei non per soldi ma perché
l'amava
davvero, per quanto quel pensiero le era sembrato surreale agli
inizi, come se davvero Lillian potesse riuscire a farsi amare da
qualcuno. Non per niente, aveva iniziato a raccogliere materiale
sulle Danvers proprio per quel motivo. Aveva lasciato la tazzina
mezza piena e detto ad alta voce alla tv di spegnersi, ritrovando il
silenzio pesante della villa. Era sola, non si sentiva volare una
mosca e i raggi del sole allungavano le ombre sul pavimento. Stava
per alzarsi che un messaggio l'aveva fermata:
Da
Madre a Me
Mi
è arrivata voce che i dipendenti terranno una festicciola
presso un
locale a poco dalla Luthor Corp, questa sera. Potresti partecipare?
Non hanno chiesto di me ma sicuramente vorranno te, Lena. Sei
benvoluta, d'altronde.
Lena
aveva fatto una smorfia, ma il sorriso si era spento a breve. Oh, di
certo non avrebbe fatto la spia per lei a una festa dei dipendenti.
Aveva spento il monitor, pensando di rispondere più tardi
per
rifiutare. Si era incamminata verso il salotto, soffiato sul tavolo
dove aveva adagiato un mazzetto di menta su un vasetto di vetro
quella mattina e ne aveva inspirato il profumo, così aveva
avanzato
per le scale ignorando le foto che si trovavano sulla parete, dritta
per la sua stanza. Aveva chiuso la porta anche se era sola, per
abitudine. Aveva camminato scalza fino al letto e si era sdraiata,
chiudendo gli occhi. Aveva sentito abbaiare dei cani, lontano,
attraverso la finestra aperta. Si erano sentiti gli uccellini. A
breve sarebbe andata a richiudere i cavalli per la notte. Non voleva
andare in quella casa con delle estranee dall'indomani, non voleva
andarci proprio e continuava a ripensarci. Aveva le sue abitudini, il
suo silenzio. Non si sarebbe sentita a suo agio. Non voleva conoscere
quelle persone in quel modo o, forse, non voleva conoscerle affatto.
Non le interessavano e se aveva cercato informazioni su di loro era
davvero solo per assicurarsi che qualcuno non stesse truffando
Lillian, anche se non era la prima sprovveduta del caso. Eliza
sembrava una brava persona, forse fin troppo per i Luthor.
Sicuramente
fin troppo per i Luthor, che infettavano ogni cosa che toccavano.
Forse doveva andare e cercare di rovinare tutto prima che si
sposassero: le era passato per la mente, almeno un attimo. Sarebbe
stata la cosa migliore per Eliza Danvers, anche se non se ne sarebbe
accorta. Non subito. Ma non poteva farlo: se si amavano davvero,
almeno loro, perché non lasciarle fare? Anche se significava
unire
due famiglie tanto diverse per farle diventare una sola. Anche se
significava avere due sorellastre con cui non aveva nulla da
spartire. Anche se significava sopportare quella situazione stramba.
Se si amavano, almeno loro. Se si amavano, era meglio lasciare le
cose al corso naturale degli eventi perché, se lei era
infelice, non
poteva egoisticamente pretenderlo anche per gli altri.
PRESENTE
La
gente cominciava ad arrivare riempendo gli spalti e l'agitazione del
coach Millard stava diventando ingestibile per chiunque gli stesse
vicino. Erano in molte a chiedersi come si sarebbe comportato se
fossero passate in finale, se quella era la sua reazione solo adesso:
non stava fermo un secondo e continuava ad andare avanti e indietro
mille volte in quello spogliatoio, toccando le spalle delle
giocatrici e contandole, parlottando per sé, quasi avesse
paura di
perderne qualcuna. Dava loro consigli all'ultimo guardando tutto
fuorché loro negli occhi e si distraeva con niente
interrompendo
discorsi a metà per scappare da qualche altra parte.
Guardò a
destra, sinistra, in alto e anche in basso, poi strinse gli occhi
bruni e una vena spuntò rabbiosa sulla tempia destra:
«Dov'è
finita Danvers?».
Lena
sorrise, lasciando delicatamente le sue labbra calde. «Sei
sicura di
non fare tardi?», chiese in un bisbiglio e la
guardò negli occhi,
passando la gamba destra dietro le sue.
Kara
guardò velocemente l'orologio sul polso di Lena, per poi
baciarle la
mano e farla ridere. «No, ho ancora qualche
minuto». Si abbassò
per cogliere di nuovo le sue labbra che bussarono alla porta e si
fermò. «… O secondo».
Quando
Lena aprì, l'espressione di Megan non lasciava a
interpretazioni:
avevano bisogno di lei.
«Millard
è furioso. Dov'è?». Ora era certa di
aver fatto più che bene a
bussare invece di aprire con la chiave: Lena indossava la maglia col
numero dieci di Kara e aveva le gambe nude; sperava indossasse almeno
una gonna o dei pantaloncini, là sotto. Proprio la testa di
Kara
sbucò dalla porta, regalandole un sorriso. Al suo arrivo,
allora sorrise con forza anche Megan, aspettando lì davanti
come una
sentinella.
Kara
uscì con fretta e furia dalla camera al campus e per poco
non sbandò
contro il muro. Lena la chiamò e anche Megan le fece cenno
di
fermarsi: si rese conto così che non aveva ripreso la maglia
della
squadra, tornando indietro. La sfilò a Lena e si scambiarono
un
bacio dietro la porta solo socchiusa, lasciandola.
«Buona
fortuna», le gridò Lena e richiuse la porta dietro
di lei: doveva
recuperare le sue cose e correre agli spalti dove Indigo e Alex le
avevano tenuto il posto. Prese la borsa e la aprì con
istinto,
sapendo che non avrebbe ritrovato là dentro la sua pistola.
Era
sicura di aver fatto la scelta più giusta a metterla via e
le cose
tra lei e Kara erano tornate stabili, ma non poteva negare di sentire
ancora lo spettro della paura all'altezza della bocca dello stomaco.
Fino a quando non avrebbe ritrovato più sicurezza,
pensò. Fino a
quando non avrebbe impugnato quella pistola con cognizione di causa e
non per l'ultima delle paure, pensò ancora. Poteva farcela.
Suo
padre teneva quella pistola chiusa in un cassetto del suo ufficio per
emergenza e non per spaventare qualcuno: non sarebbe stata degna di
possederla se non avesse compreso la differenza. Si
allontanò verso
la porta e scorse una lettera aperta e una foto sul tavolo. Kara le
disse che Mike Gand le aveva scritto ed era arrivata quella mattina
al campus. Il suo ex, soffiò. Era strano, se ci pensava. Era
strano
per quante cose erano cambiate in un solo anno. Uscì e
richiuse con
la chiave che le aveva lasciato, percorrendo velocemente, e con i
tacchi, il corridoio.
Ciao,
Kara.
Come
stai? Dimmi che avete vinto il campionato! E i miei compagni hanno
vinto? O non è ancora finita la stagione? Ci stavo pensando
proprio
stanotte e non riuscivo a prendere sonno. Mi sembra di essere qui da
tutta la vita e mi capita di non ricordarmi più che giorno
è, pensa
se mi ricordo della stagione di quest'anno. È l'unica cosa
che mi
manca adesso, a parte te. Però sto insegnando ai ragazzi qui
come si
gioca, se solo fossero in gamba almeno, ma sembrano delle galline.
Sono atletici ma credimi, negati per il lacrosse. Ci siamo costruiti
le racchette con calze e mutande vecchie sfilacciandole, non devono
vederle i superiori! Almeno gioco con amici e ridiamo. Ho le giornate
piene e mi piace, ho imparato a sparare e a fare un agguato. Mi sto
impegnando molto e penso di poter fare carriera. Come ti ho detto
nell'altra lettera, mi manchi davvero e non è uno scherzo
quando lo
scrivo. So che ami lei, ma sarai sempre una parte della mia vita.
Quella importante.
E
proprio per questo volevo dirti che ho conosciuto una tipa qui che mi
piace. Ride alle mie battute, ci sta. Ci siamo baciati ieri. Non
è
nulla di importante ma era giusto dirtelo! Neanche questo devono
sapere i nostri superiori perché è vietato, ma lo
sai come sono
fatto: le regole sono fatte per essere infrante.
Ti
scrivo di nuovo appena ho tempo, penso a qualcosa di notte. Stammi
bene, sei nei miei pensieri.
A
presto,
Mike
La
foto di gruppo riprendeva i ragazzi e le poche ragazze in tuta
mimetica, alcuni con i cappellini in testa e i fucili sottobraccio.
Sorridevano tutti, soprattutto quelli un po' sporchi di fango sugli
stivali e i pantaloni, come Mike, che sfoggiava la testa rasata,
abbracciando un ragazzo e una ragazza ai lati. Forse non aveva
trovato ancora il suo posto, ma ci era senz'altro più
vicino, aveva
pensato Kara poco prima, aprendo la lettera. Un po' più
vicino.
«Già
non gli stai simpatica e parti col piede sbagliato, se arrivi anche
tardi, Millard non ti lascerà in pace»,
sbottò Megan aprendo la
porta dello spogliatoio e lasciando passare Kara.
«Pensavo
di avere tempo», si giustificò lei, aspettandola
ed entrando
insieme. «Lui mette tutte sotto pressione con larghi minuti
d'anticipo».
Appena
l'uomo la vide, gli occhi gli si fecero piccoli e spalancò
le narici
come un toro, correndo verso di lei. «Un altro ritardo come
questo e
non ti basteranno i biscottini Oreo
del mondo per salvarti dalla panchina, sono stato chiaro?!».
«E-Ero
in bagno», si tirò indietro con terrore e Megan si
tappò la bocca
in tempo per non lasciarsi sfuggire una risata. «E non erano
biscottin-».
«Muoviti!»,
gridò allungando un braccio e Kara obbedì
abbassando la testa,
seguita a ruota dall'amica.
«Mi
manca il tuo ragazzo», le disse muovendo la bocca mentre
apriva
l'armadietto e prendeva il casco e la stecca. Megan le rispose con
un'alzata di spalle: di certo il coach Jonzz mancava più a
lei. Uff,
odiava le persone che le urlavano contro.
Intanto,
Lena aveva raggiunto da poco Indigo e Alex, sedendo in mezzo alle
due. L'altra squadra, le ragazze di Coast City in divisa verde e
bianca, si vedevano già: si stavano riscaldando i muscoli e
agitando
la stecca. Lena sospirò: per la prima volta era davvero in
ansia,
quasi dovesse giocare lei.
«Dunque:
se perdono, Kara Danvers e le altre non andranno in finale?»,
domandò Indigo, riprendendo a succhiare dalla cannuccia la
sua
bibita. Le altre due si voltarono.
«È
così», confermò Lena.
«Ti
piace il lacrosse, Indigo?», domandò invece Alex,
vedendola
scrollare le spalle.
«È
la prima partita a cui assisto, quindi lo scoprirò
oggi», succhiò
e deglutì. «Il mio patrigno giocava a calcetto, ma
non sono mai
andata a vederlo».
«Perché?».
«Perché
non giocavo anch'io e a me piaceva giocare, non guardare: ho sempre
pensato che mi sarei annoiata. E poi mio fratello… beh, lui
diceva
che sarebbe stata una perdita di tempo e restavo con lui».
Le
altre due si scambiarono uno sguardo nel contempo che lei riprendeva
a bere. «Tuo fratello non avrebbe ben visto il tuo
appuntamento con
Winn, non è vero?», si fece curiosa Lena, ma in
realtà conosceva
già la risposta.
«Winn?»,
sbottò Alex, ingigantendo gli occhi. «Hai un
appuntamento con Winn?
Tu?».
«In
amicizia», specificò Lena.
Indigo
scrollò le spalle di nuovo. «No. Lui non sarebbe
concorde con tutto
quello che faccio, ultimamente: stare qui per vedere qualcuno che
gioca, uscire con un possibile amico domani, avere una cotta per
te»,
rispose candidamente, «No. Non lo avrebbe accettato
perché io e lui
siamo…», deglutì, fissando il vuoto.
Erano uguali.
Ma forse non più. Strinse un labbro e Lena le
poggiò la mano destra
sulla spalla sinistra.
«Stai
attenta alla partita e saprai se ti piace o no assistere», le
indicò
in basso, dove le due squadre si stavano mettendo in posizione sul
campo. «Così capirai se tuo fratello aveva
ragione».
Indigo
annuì e guardò di sotto, riprendendo a succhiare
rumorosamente
dalla cannuccia e dando non poco fastidio ad Alex: per fortuna, col
chiasso che avevano iniziato a fare gli altri spettatori accanto, era
quasi irrilevante. Lei tirò fuori il cellulare da una tasca
e
cominciò a riprendere in video la partenza, sistemandosi il
cappellino sulla testa per via del sole che, ancora cocente, si stava
preparando a lasciar spazio alla sera.
La
palla volò tra due giocatrici di Coast City e una di loro
non se la
lasciò sfuggire, cominciando a correre per il campo. Non si
aspettava il placcaggio deciso di Megan per cui cadde e la palla fu
raccolta dalla racchetta di Kara, portandola in direzione opposta.
Sperava proprio che il coach Millard non si perdesse neanche un
nanosecondo della sua azione. Corse, corse e passò la palla
a una
compagna un esatto attimo prima di scontrarsi con un'avversaria,
avendo la meglio. La numero otto le ripassò la palla e, con
quella
all'interno della rete della racchetta, sorpassò due ragazze
che
provarono a fermarla in coppia, scivolando tra loro. Mise male un
piede nell'atterrare ma non lo diede a vedere e frastagliò
l'erba,
passò la palla dall'alto alla numero due continuando a
correre per
raggiungere una distanza ideale tra lei e la porta. Il portiere si
mise in posizione mentre un'altra in difesa cercò di
bloccarle il
passaggio anche se non aveva con sé la palla: era quello che
volevano. La numero due era pronta per passarla, Kara si tese in
avanti e la accolse, si voltò rapida e, invece di lanciare
in porta,
tese la stecca per mandarla più indietro: la palla
volò fino alla
rete della racchetta di Megan che, a quel punto, era pronta a tirarla
in porta: segnò.
Il
fischio dell'arbitro si levò in aria e le ragazze si
scambiarono un
cinque
e si batterono un pugno, congratulandosi per il lavoro svolto,
adocchiando le avversarie. Quello era solo l'inizio e avevano la
vittoria in tasca.
UN
ANNO FA
«Mia»,
aveva gridato la piccola Jamie, aprendo e chiudendo una manina per
aria, cercando di raggiungere una polpetta di riso che Kara le aveva
tenuto in alto. Dopo, la ragazza l'aveva fatta cadere in una finta
picchiata e la bambina l'aveva acchiappata, schiaffandola in bocca in
tempo record.
«Oh,
che rapidità! E anche una certa
voracità», aveva riso, guardando
prima la piccola e dopo Maggie a fianco, anche lei ridendo.
Quest'ultima
si era messa una polpetta in bocca e dopo si era allungata per
sistemare i capelli della figlia a cui stavano cadendo sugli occhi,
sistemando una forcina. «Quindi domani è il gran
giorno, eh?
Nervosa?», le aveva chiesto con un sorriso e Kara aveva
serrato le
labbra, fingendo disinvoltura.
«No.
Insomma, dovrei?». Aveva alzato una mano per richiamare
l'attenzione
del cameriere del ristorante che passava intorno ai tavoli,
comprendendo un poco più tardi che, essendo sedute a terra
sui
cuscini, avrebbe dovuto sforzarsi di più per farsi notare:
si portò
sulle ginocchia, tendendo un braccio e facendo ridere Jamie che si
stava sporcando il mento di riso. Aveva ordinato un altro piatto di
polpette e nigiri misti che erano finiti da un pezzo, aggiungendo
ravioli di carne, onigiri, dei maki, sashimi e dell'altra salsa di
soia. Maggie aggiunse due bastoncini di pesce per la bambina, che
avrebbe finito lei, e Kara non resisté alla tentazione di
cambiare e
chiedere non una, ma una doppia porzione di ravioli di carne e degli
uramaki, prima che li dimenticasse. Più ne mangiava,
più sembrava
venirle fame. «Eliza ha fatto tutto di corsa, non ci ha
nemmeno
lasciato il tempo di capire che la relazione con questa donna
è
seria», aveva gesticolato parlando con la bocca mezza piena,
finendo
di ingoiare. «Sappiamo che sono ricchi, probabilmente snob.
La
secondogenita è-», si era fermata di colpo quando
il cameriere era
tornato con i nuovi piatti sul carrello dietro Alex, che aveva finito
la sua telefonata.
«Di
cosa parlate? Mi sono persa qualcosa?», aveva chiesto alle
due
mentre si sedeva, allungando la mano con le bacchette per afferrare
un nigiri con tonno. «Non ditemi della giornatina che ci
aspetterà
domani», aveva piegato le labbra in una smorfia,
«Non vedo già
l'ora di essere tornata a casa e di lasciarmi alle spalle i giorni
che ci aspettano».
«Anch'io»,
aveva commentato veloce Kara.
Maggie
non era della stessa opinione: «Andate lì con le
migliori
intenzioni: potrebbe non essere così male come vi
aspettate».
Le
sorelle Danvers si scambiarono uno sguardo: avrebbero tanto voluto
avere un po' del suo ottimismo.
Nel
frattempo, nella grande villa Luthor, Lena stava consumando il suo
pasto a lume di candela, in sala da pranzo. Lentamente
poiché al
telefono: «No, insistete. Andate avanti senza di me per quel
che
riuscite a fare, sistemate e dopo godetevi le vacanze estive. Buona
serata anche lei, la ringrazio». Aveva staccato e messo in
bocca una
forchettata del suo piatto, componendo un nuovo numero in memoria.
Aveva ingoiato e si era pulita la bocca, attaccando la chiamata.
«Ho
letto il messaggio che hai lasciato», si era messa ad
ascoltare,
contraendo le sopracciglia. «Ascoltami, non preoccuparti del
professor Miller, ci parlerò io. Passerò
domattina, faccio in tempo
prima di andare… in vacanza», si morse un labbro.
«Passerò io,
adesso cena in tranquillità. Hai studiato per quell'esame,
non hai
di che preoccuparti». Aveva salutato anche la studentessa a
cui
faceva da tutor e presa un'altra forchettata; ormai il piatto si
stava raffreddando. Aveva fatto mente locale per capire se aveva
dell'altro in sospeso prima di prendere il treno l'indomani e,
sperando di aver risolto tutto, si era messa a leggere le ultime
news: ma nulla di nuovo sulla morte di suo padre. Aveva spento il
monitor del telefono e si era passata le dita sugli occhi con
stanchezza. Non aveva più voglia di mangiare e, dopo uno
sbuffo, si
era spostata il piatto da davanti. Aveva altro a cui pensare, non
aveva decisamente voglia di perdere tempo andando in quella casa per
giorni e fare finta di essere interessata a loro e alla famiglia.
Doveva pensare a suo padre perché era già passato
un anno e- I suoi
pensieri avevano viaggiato in fretta, ripensando ai file di ricerca
sulle Danvers: la maggiore delle figlie, Alex, era impegnata con una
poliziotta. Quello era interessante, dopotutto: se fosse riuscita ad
entrare in comunicazione con lei, avrebbe potuto chiederle un favore
riguardo al referto del coroner su suo padre. No, no. Quella Maggie
Sawyer era ancora una novellina, non avrebbe potuto di certo
aiutarla. E poi avrebbero cominciato a fare domande e non aveva
voglia di includere qualcuno nel suo tormento. Il suo tormento,
ripeté nella testa. Non aveva voglia di fingere di voler
avere un
rapporto. Non aveva voglia di niente, in realtà. Si era
alzata e
aveva lasciato così il tavolo, passando per il salone dove
aveva di
nuovo soffiato intorno al vaso di vetro con dentro il mazzetto di
menta, poi si era diretta in camera sua, lasciando che le luci si
spegnessero nel silenzio e nel vuoto della villa.
Quella
giornata si era prospettata un incubo fin dalle prime luci dell'alba:
la macchina del caffè non faceva il caffè ma
acqua sporca e Lena
dovette restare minuti al telefono per trovare qualcuno che venisse
ad aggiustarla in fretta poiché da quel pomeriggio non ci
sarebbe
stata; andando a trovare i cavalli, aveva notato il gancio di un box
rotto e anche lì aveva dovuto telefonare per farlo
aggiustare; aveva
dovuto parlare con sua madre Lillian per venti minuti per sentirsi
ricordare come avrebbe dovuto comportarsi in casa della sua
fidanzata; era andata in università e aveva mancato di poco
il
professor Miller con cui doveva parlare, aspettando il suo ritorno in
biblioteca dove non era più disponibile il libro che stava
leggendo
in quei giorni e dovendo dunque passare il suo tempo libero al
cellulare che aveva meno della metà della batteria,
spegnendosi
proprio sul più bello, a poco dal vincere un livello
difficile in
cui era incartata da giorni; senza contare che, invece del professor
Miller, aveva incrociato una professoressa con cui aveva avuto un
diverbio un mese prima e si erano entrambe sforzate di rivolgersi la
parola per sola educazione; infine, era riuscita a parlare col
professor Miller per telefono, ma a dirgli solo metà delle
cose che
doveva; intanto la menta si era già afflosciata e il tecnico
della
macchina del caffè aveva sbattuto contro un tavolino di
vetro mentre
passava in salotto, togliendosi la scarpa e la calza del piede
sfortunato per assicurarsi che fosse intero, rilasciando nell'aria un
puzzo sudato di vecchia stagionatura, non riuscendo a fermarlo dal
camminare con l'alluce pronunciato fino a lei per chiedergli di
passargli la sua valigetta. Mai più in quella casa, su quel
pavimento, qualcuno avrebbe dovuto azzardarsi a camminare scalzo.
Aveva
mangiato per pranzo qualcosa di veloce in un locale vicino alla sua
università e dopo aveva passato il suo tempo a passeggiare,
per
prendere aria e calmare il nervoso, fino all'ora di prendere quel
treno. Aveva cercato di convincere Lex a partecipare a quella vacanza
ma non c'era stato verso e, in quel momento, si era sentita sola
contro tutti. Non era abituata a prendere il treno ed era pieno di
universitari molto diversi da lei, più chiassosi e poco
ordinati. C'era un gruppo di ragazzi e si era seduta il più
distante che era
riuscita a fare, così il treno era partito dopo qualche
minuto. Non
riusciva a rilassarsi e, ogni volta che il mezzo si fermava, aveva
l'ansia che qualcuno avesse potuto sedersi vicino a lei. Fino a
quando…
«È
stato bellissimo! E Supergirl ha vinto ancora».
Perfetto,
aveva pensato: altri universitari molto gioiosi in arrivo. Un trolley
le aveva pestato un piede e così era caduta la sua
valigetta,
inchinandosi subito, seccata, per raccoglierla. Quando aveva sentito
quella voce stridula chiederle scusa, aveva cercato di mettere su la
faccia più acida che conoscesse, sfogando su di lei il peso
di
quella giornataccia che non faceva che peggiorare. «Guarda
dove
cammini». Oh, capelli biondi, occhi azzurri, sguardo da pesce
appena
pescato: quella sembrava proprio… No, doveva sbagliarsi.
Sicuramente. L'aveva tenuta sott'occhio, accigliandosi. Non poteva
crederci… era davvero lei, la sua nuova sorellastra: Kara
Danvers.
L'aveva fissata con rimprovero mentre, come se si trovasse
tranquillamente nel salotto di casa sua, parlava a voce alta con la
sorella al cellulare. E di lei. Lamentandosi, perfino. Era stato
allora che Lena aveva pensato che, in fondo, con quella si sarebbe
potuta divertire.
Eh
sì, Lena si è divertita parecchio da quel momento
in avanti! E poi
diciamolo, nei primi capitoli abbiamo sentito la campana di Kara, ora
invece avremo anche quella di Lena :) Sia mai che qualcosa possa
essere stato “frainteso”, comunque, adesso sappiamo
che la
giornata per lei non era iniziata proprio come una delle migliori e
che, sommato al fatto che proprio non le voleva conoscere e non
voleva andare, le è successo di essere sgarbata quando una
ragazza
dalla voce stridula le ha colpito un piede e fatto cadere la sua
valigetta.
E
ora abbiamo anche una panoramica maggiore su com'era Lena e la sua
vita prima del prologo di Our
home.
E lo stesso di Kara, come stesse cercando di allontanare Mike e come
lei e Alex stessero fronteggiando il cambiamento.
Nel
frattempo, nel presente le nostre due beniamine hanno litigato, e
come poteva essere altrimenti? Penso che litigare sia normale e che
una coppia in questo non faccia eccezione, ma d'altra parte tutto sta
a come lo si affronta e a come poi si trovi il punto d'incontro. E
pare che loro lo abbiano trovato; dopotutto, il giorno dopo sono
ancora, e normalmente, unite.
Tra
pistola, biscotti, Leslie Willis, la lettera di Mike, il nuovo coach
Millard e Indigo… come vi è sembrata questa prima
parte del
capitolo? Cosa vi aspettate dalla prossima?
Questo
capitolo parla dell'anniversario e oggi, come scritto in
precedenza,
cade il secondo
compleanno della fan fiction! Due anni fa, oggi,
scrivevo il prologo, scrivevo di Kara e Lena che incrociano i loro
sguardi sul treno. Per loro è passato un anno, per noi due.
Auguri,
Our
home!
E auguri a voi che leggete, e grazie.
Allo
scorso compleanno (festeggiato il giorno del primo compleanno della
pubblicazione, quindi a febbraio) avevo scritto un lungo papiro su
note e curiosità sulla fan fiction, ma questa volta non
sarò così
fantasiosa e anzi, mi spiace accompagnare il festeggiamento da una
notizia non proprio positiva! O magari una un pochetto più
positiva
sì, ma una decisamente non lo è e iniziamo da
questa: la fan
fiction va di nuovo in pausa.
Ahimè,
adesso che la storia entra in un passaggio importante
(perché sì,
che ci crediate o meno, abbiamo superato la metà e, a meno
di
imprevisti, si va verso il finale che sarà pieno di
avvenimenti) è
per me molto più dispendioso lavorarci su, e devo prendermi
più
pause, senza contare a volte la mia scarsa motivazione.
Continuerò a
scrivere ma ho deciso che lo farò con calma, con i miei
tempi e, per
questo, stavolta, non ci sarà una data! Sono sempre stata
precisa e
puntuale, ho sempre rispettato gli impegni presi, adesso sento il
bisogno di lavorare solo per me. Dunque quando ci rileggeremo? Appena
avrò una data la scriverò sull'introduzione della
fan fiction per
avvertirvi! Potrebbe essere quando ho concluso tutto (e ci
vorrà un
po'), oppure quando avrò voglia di rilasciare un capitolo e
mandare
un po' avanti la pubblicazione :) Se devo essere sincera, questa cosa
mi scoccia perché, come ho già scritto altre
volte, essendo già la
fan fiction di suo parecchio lunga, tardare ancora temo vi faccia
scordare, a voi lettori, ogni cosa fino a questo momento. Forse
l'interesse calato per la fan fiction mi ha aiutato a prendere questa
decisione; se avessi ricevuto più feedback, è
naturale, mi sarei
sforzata di più per proseguire e non cedere. Ma devo
prendere una
pausa e devo fare con calma, quindi probabilmente è meglio
così. Mi
spiace per chi, nonostante tutto, è ancora qui…
eh, quello sì. Vi
ringrazio molto e spero di non deludervi al mio ritorno!
Quando
andrò in pausa? Credo faremo in tempo a leggere la seconda
parte
dell'anniversario e un altro capitolo. Vedremo.
La
notizia un pochetto più positiva, invece, riguarda la
nascita di una
serie che gira intorno Our
home,
la fan fiction madre: è assai probabile che
creerò sul sito una
serie per racchiudere questa e alcuni suoi spin-off, quelli che mi
verranno in mente e avrò voglia e piacere di scrivere. Su
personaggi
secondari/terziari apparsi in Our
home
oppure piccole avventure che riguarderanno le stesse protagoniste.
Perché l'ispirazione è birichina (per non dire infame)
e mi fa pensare e scrivere altro. Vuoi per distrarmi, vuoi
perché mi
aiuta
a liberarmi dalla pesantezza di alcuni passaggi di Our
home
che richiedono molta
concentrazione,
perché non cimentarmici. In fondo, dopo che ho scritto
altro, sono
anche più presa
in
questa. Dunque aspettatevi qualcosa se vi può interessare. Se
non vi interessa… nulla, avete solo la notizia negativa, mi
spiace
e ignorate questo avviso XD In
pratica sì, avrò il “mio
universo DC” XD E sì, ho già iniziato
qualcosa, proprio perché
l'ispirazione è infam- emh, birichina.
Di
nuovo grazie a voi che siete ancora qui nonostante tutto, grazie
davvero! Non sapete quanto sia importante, per me.
Allora
ci rileggiamo con L'anniversario
– Seconda parte
martedì 29 ottobre! Una settimana esatta. Non mancate ~
|
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Capitolo 59 *** 57. L'anniversario - Seconda parte ***
PRESENTE
La
mattina del nove giugno pioveva. Pioveva davvero forte e i nuvoloni
grigi oscurarono la camera di Lena, per cui sembrava ancora notte
quando Kara si svegliò, con quell'odore di fresco e il
fruscio. Si
stupiva sempre quando riusciva a farlo prima di Lena e poteva vederla
dormire: la bocca era semiaperta e schiacciata dal cuscino soffice,
per cui sembrava fare una smorfia buffa; le guance rosa, alcuni
capelli contro gli occhi, appiccicati. Glieli tolse, staccandoli
piano: non abbastanza, poiché l'altra si svegliò
quasi subito e
provò a parlare, ma dovette deglutire per avere successo.
«Non
riesci… Non riesci a toglierti il vizio»,
sbadigliò, «di
toccarmi quando dormo?». La guardò e si
stropicciò un occhio,
sorridendo.
«Ti
toglievo i capelli dagli occhi, questa volta non volevo
scocciarti».
«Questa
volta»,
sottolineò alzando un sopracciglio e la vide ridere.
«Che ore
sono?».
«È
mattina, anche se non sembra».
«Okay»,
sorrise, spostando una mano appoggiata sul suo petto per passargliela
intorno al viso. «Buon anniversario».
«Buon
anniversario», si avvicinò e si baciarono,
fregandosene dell'alito
del mattino. Così sorrisero e si baciarono di nuovo.
Indigo
era già in piedi che faceva colazione quando Kara scese di
sotto, in
canotta e pantaloncini, scalza. Si scambiarono uno sguardo truce per
il solo fatto di essersi notate e, mentre la prima masticava cereali,
la seconda aprì il frigo per mangiare quel che era rimasto
dei
biscotti con crema al limone. Sembrava ce ne fossero meno di quelli
che ricordava e adocchiò l'altra, ma stava guardando Les
tres bessones,
Tre
gemelle e una strega,
senza più pensare a lei. La fissò facendo degli
occhi due fessure e
mandando giù un biscotto, appoggiandosi a un mobile.
«Lo
trasmettono ancora?».
«Così
pare».
«Lo
guardavo da piccola».
Nemmeno
si sforzò di girarsi. «Io no».
Kara
assottigliò ancora di più gli occhi.
«È per bambini».
«Non
si consumerà se lo guardo anch'io».
Anche
lei scalza, in pantaloncini e con una t-shirt di Kara: Lena raggiunse
il salotto che le sentì parlare e si fermò. Era
ormai diventata
un'abitudine: non voleva interromperle perché spesso trovava
interessante il loro battibeccarsi. Almeno prima di un possibile
linciaggio, per quello doveva correre: quelle due erano come cane e
gatto.
«Ed
è interessante?», chiese ancora Kara.
«Sai
che lo è o non lo guarderei: perché fai domande
di cui conosci già
la risposta? Sto cercando di ascoltare. E comunque hai proibito i
telegiornali, in questa casa. Perché non vai a lucidarti le
scarpette che userai alla finale?».
Lena
sorrise perché Indigo diceva il vero: il processo a sua zia
monopolizzava le notizie e Kara non ne poteva più.
Ciò che stupì
davvero Lena, era che Indigo non guardasse davvero i telegiornali
perché Kara non voleva. Alla morte di suo padre, ricordava
che lei
non guardava altro, mentre Kara era il suo opposto e, per stare
serena, preferiva aspettare risvolti più che mangiarsi
l'anima poco
a poco.
«E
così oggi uscirai con Winn, eh?».
«È
quello che volevi», finalmente si voltò e l'altra
si raddrizzò
con la schiena. «Non sono nata ieri, so che non mi volevi in
mezzo.
Per questo ho accettato di andare a cena».
Gli
occhi di Kara si strinsero ancora. «Che intenzioni hai con
lui?».
«Conversarci,
suppongo», alzò le spalle. «Che
è già quanto di più io sia
abituata a fare di solito. Finito l'interrogatorio? E tu, con
Lena?»,
le domandò di rimando e Kara aprì la bocca, poi
la richiuse di
scatto.
«No-Non-»,
si schiarì la gola, «Dunque… Devo
pensare che tu ti sia arresa
con lei o qualcosa del genere, no?».
«Ci
speri, Kara Danvers», sorrise tagliente. «La mia
cotta per lei non
cambia anche se siete una coppia», aveva preso una breve
pausa.
«Forse non sono gelosa, è tutto qui».
«Quindi
vuoi ancora-?».
«Conquistarla.
Beh», l'aveva sentita ridere, «per quanto mi
riguarda, Lena può
stare con entrambe. Ho visto che funziona in certe culture».
«Tu
guardi troppo Real
Time».
«E
tu hai proibito i telegiornali», ribadì
prontamente.
Lena
entrò prima che Kara decidesse di lanciarle qualcosa:
afferrò il
cucchiaio di legno che lei aveva stretto con forza e ci si
legò i
capelli con poche e precise mosse, decidendo di lasciarle un bacio su
una guancia.
Era
da qualche giorno che ci pensava e ne aveva sempre più la
certezza:
per quanto Kara rafforzasse l'idea di non sopportare Indigo e non
fidarsi di lei, aveva accettato la sua presenza nella propria vita.
Anzi, era andata oltre.
Ricordava
che anche loro due litigavano molto i primi tempi, anche se era
diverso. Un anno prima… Ora ricordava: un anno prima, le
aveva
buttato giù mezzo armadio.
UN
ANNO FA
«Ti
dispiace? Dovrei cambiarmi». Lena aveva indicato l'interno
della sua
valigetta poggiata sul letto e Kara aveva spalancato gli occhi e la
bocca come se le avesse appena chiesto di atterrare su Marte. Quella
era la camera che dovevano condividere, perché le era
sembrata una
richiesta tanto assurda? Poteva andare in un bagno, ma non aveva
ancora visto com'erano e immaginava fossero più piccoli di
quelli in
villa, lì dentro invece poteva approfittarne per
ambientarsi. Senza
quella Kara, si intendeva.
Quando
l'altra sembrava aver capito, era uscita in fretta e aveva chiuso la
porta. Finalmente.
Lena
si era guardata attorno di nuovo, immersa in quei toni pastello. Era
proprio la camera di due bambine. Ma dove era capitata? Cosa ci
faceva lei lì? Era così fuori posto…
così- aveva sentito un
rumore e si era voltata verso la porta: possibile che quella Kara
Danvers era ancora là dietro che aspettava per rientrare?
Accidenti,
non voleva darle neanche un po' di tregua. Si era stirata le braccia
in alto e, sperando che l'avesse potuta sentire, aveva iniziato a
fischiettare, togliendo la roba dalla valigetta lentamente e
sistemando sul letto con cura. Aveva sorriso soddisfatta quando
l'aveva sentita scendere le scale come avrebbe sentito fare un
elefante e si era incantata nel passare la mano su una camicetta
bianca che si era portata dietro. Si era un po' sgualcita all'interno
della valigetta. Ma non importava. Si era di nuovo guardata intorno,
sedendo sul letto e notando quanto questo fosse soffice, quasi non
aspettandoselo. Aveva continuato a fischiettare lentamente, distratta
da ciò che vedeva: la vita delle sorelle Danvers doveva
essere molto
diversa dalla sua, era abbastanza intuibile. Era riuscita a
immaginarsele mentre parlavano affacciate dai propri letti prima di
prendere sonno, a quanti compiti dovevano aver svolto su quella
scrivania più piccola della sua, a quante chiacchiere tra
loro
dovevano aver assistito quelle pareti e quante, invece, erano rimaste
lì come segreti inviolabili. Si era alzata e, ancora
fischiettando,
aveva adocchiato il cestino, vedendo quella Kara nella sua
immaginazione che disegnava e gettava tutto, schiacciando la carta in
una palla. E l'armadio. Lo aveva aperto e l'aveva vista correre per
scegliere cosa indossare a un appuntamento con le amiche.
Avrà avuto
delle amiche con cui uscire, quando stava qui? Aveva studiato
attentamente l'interno dell'armadio, pensando a quanto fosse piccolo
e non avrebbe saputo dove altro mettere la sua roba. Ci sarebbe
stata? Probabilmente no, avrebbe dovuto togliere qualcosa di Kara
Danvers.
Aveva
smesso di fischiare, camminando di nuovo verso il letto e, scansando
il suo vestiario, sdraiandosi di lato, pensando. Quella giornata era
pesante e orribile e l'unica cosa che riusciva a distrarla era
proprio la faccia di Kara Danvers quando aveva scoperto che la
ragazza a cui aveva pestato il piede e fatto cadere la valigetta sul
treno era lei, la sua nuova sorellastra. Insomma, nemmeno a lei
piaceva la situazione con le loro madri? Di cosa poteva lamentarsi,
almeno aveva la sorella con cui spalleggiarsi, non era sola in una
casa nuova circondata da persone che non la volevano lì.
Aveva
gonfiato le guance e sbuffato: era arrivata da neanche mezzora e
quelle due l'avevano guardata di straforo come se stessero sparlando
di lei o ideando un piano per farla fuori. Le era sembrato proprio
che quella Kara Danvers fosse una di quelle persone che non
dimenticava facilmente né lasciava correre. Si era
già fatta
un'idea di entrambe, ma era con la minore che avrebbe dovuto averci
più a che fare, lì dentro. Il solo pensiero di
farsi piacere quella
ragazza le faceva venire il mal di stomaco: non solo da un punto di
vista era sua madre che voleva costringerla a farsela piacere, o non
avrebbe dovuto condividere una camera con lei sapendo che ce n'era
un'altra, e non solo era una rana dalla bocca larga che si era
permessa di parlare male di lei al telefono e ad alta voce in un
vagone con altra gente a bordo, ma Kara Danvers, come lei, era stata
adottata e il caso aveva voluto che diventasse figlia di una donna
dolce e premurosa invece che di una che l'avrebbe potuta considerare
come la figlia di troppo. Era di troppo allora e si sentiva di troppo
in quel momento. Sapeva che era stupido; si trattava solo di ridicola
gelosia per cui quella Kara non aveva colpe, ma il pensiero non
poteva fare a meno di venirle lo stesso. E un po' se ne vergognava,
pensando che avrebbe dovuto fare finta di niente. Che cosa le stava
succedendo? Da quanto tempo provava un tale rancore? Da quando suo
padre era morto, era come se tutto quello che aveva passato nella sua
vita le si stesse aprendo come un ventaglio: la morte della sua madre
biologica, l'adozione alla famiglia Luthor, Lillian che la trattava
con insufficienza, l'averle proibito di cercare le sue origini, la
scoperta di essere la figlia biologica di Lionel Luthor, l'uomo che
l'aveva sempre coccolata e le aveva nascosto tutto di proposito. Le
domande, i dubbi, la rabbia. Lillian che voleva risposarsi e creare
una nuova famiglia in cui era costretta a prendervi parte. E
dopotutto, se non ne avesse preso parte, che cosa le sarebbe rimasto?
Lillian non era mai stata la madre che avrebbe voluto, ma era
comunque sua madre.
Aveva
chiuso gli occhi e pensato che, per dormire la notte, avrebbe avuto
bisogno di qualcosa per distrarsi. Anche se il letto era soffice.
Dopo aveva spalancato gli occhi di colpo, continuando a pensare.
Anche quello in casa Luthor quando era bambina era un letto soffice e
anche molto più grande, eppure non prendeva sonno se non
dopo una
favola della buonanotte. Si era sentita un'estranea in villa Luthor a
quattro anni e si era sentita un'estranea in casa Danvers.
Si
era rialzata e preso un grosso respiro, riguardando l'armadio: era
arrivato il momento di mettersi al lavoro e non vedeva l'ora di
assistere alla faccia arrabbiata di quella Kara perché lei,
a quel
punto, non poteva far altro che difendersi da una situazione che la
stava schiacciando, sperando che le cose sarebbero potute cambiare in
meglio. Quella piccola Danvers aveva pestato il piede alla Luthor
sbagliata.
PRESENTE
Non
vedeva l'ora di tornare in villa: aveva risposto a quattro chiamate,
ne aveva fatte altre sei, aveva compilato due moduli e un altro stava
per arrivare. Senza contare che doveva passare molto velocemente in
università per aiutare su un argomento rapido due
studentesse a cui
faceva da tutor. Erano gli ultimi giorni ed era oberata; se non altro
si era presa la sera libera per l'appuntamento con Kara. Non fece a
meno di sorridere. Quella sarebbe stata la sua ora d'aria. Se l'anno
prima non voleva andare in vacanza, adesso invece non vedeva
semplicemente il momento di lasciarsi tutto questo alle spalle; era
perennemente con la testa da un'altra parte, pensando a quel momento
con lei che aspettava impazientemente neanche non la toccasse da
mesi. Temeva che a distrarsi in quel modo avrebbe fatto qualche
danno. Si stropicciò gli occhi e sbadigliò,
coprendosi con una
mano. Stava per alzarsi e approfittare del momento di quiete per
affacciarsi davanti al balcone che il cellulare vibrò, e
vibrò
ancora, e ancora, continuava a vibrare e fece appena in tempo a
notare che era Kara a riempirla di messaggi: stava impazzendo? No,
forse no, ma qualcosa di certo aveva in mente, intuì,
iniziando ad
aprirli:
Da
Vaniglia a Me
So
che questo
Da
Vaniglia a Me
Non
è il nostro anniversario di coppia
Da
Vaniglia a Me
Ma
quello in cui ci siamo
«Aspetta»,
strinse i denti: non faceva in tempo a leggere che ne arrivavano
altri due sopra.
Da
Vaniglia a Me
Conosciute.
Però vorrei
Da
Vaniglia a Me
Che
questo giorno
Da
Vaniglia a Me
Sia
importante allo stesso modo
«Accidenti,
Kara», brontolò, «Non riesco a seguirti,
perché diavolo…?».
Da
Vaniglia a Me
Perché
è stato il giorno
Da
Vaniglia a Me
perché
è stato il giorno
Da
Vaniglia a Me
Sbagliato
messaggio: lo avevo già inviato, scusa.
Lena
rise, appoggiandosi allo schienale della sedia e continuando a
leggere.
Da
Vaniglia a Me
In
cui tutto è
Da
Vaniglia a Me
Cambiato.
Perché non mi aspettavo
Da
Vaniglia a Me
Di
trovare l'amore su quel treno.
Da
Vaniglia a Me
Perché
non mi aspettavo di trovarlo
Da
Vaniglia a Me
In
te, Lena. Perché è stato
«Ancora?».
Da
Vaniglia a Me
Strano.
E abbiamo iniziato col
Da
Vaniglia a Me
Piede
sbagliato. E a pensarci
Da
Vaniglia a Me
Eppure,
era quello giusto. Perché
«Non
saresti proprio riuscita a scriverlo tutto insieme, eh?!».
Da
Vaniglia a Me
Anche
se ci saremmo conosciute
Da
Vaniglia a Me
Lo
stesso, non sarebbe stato lo stesso
«Dovrò
rileggerti daccapo», brontolò.
Da
Vaniglia a Me
Senza
questo giorno strano.
Da
Vaniglia a Me
Non
sarebbe stato lo stesso
Da
Vaniglia a Me
Se
questa giornata sarebbe
«Sarebbe?».
Da
Vaniglia a Me
Stata
diversa. E allora mi sarei
«Oh,
sarei
adesso…».
Da
Vaniglia a Me
Innamorata
di te in modo
Da
Vaniglia a Me
Diverso.
E ciò che voglio
Da
Vaniglia a Me
Dirti
è che questo è un anniversario
«Arriva
al dunque», si accigliò.
Da
Vaniglia a Me
Importante
e che non cosa altro scrivere
Lena
si tappò la bocca, contenendo una risata.
«Finalmente. Considerando
che a stento capisco il resto…».
Da
Vaniglia a Me
Ma
che ho scoperto perché
Da
Vaniglia a Me
Eliza
ci prende gusto e che oggi
«Ah,
ecco l'ispirazione…».
Da
Vaniglia a Me
Dopo
un anno
Da
Vaniglia a Me
Mi
sono vendicata per avermi
«Vendicata?
Addirittura?».
Da
Vaniglia a Me
Buttato
giù mezzo armadio.
Lena
scoppiò a ridere arricciando il naso, spostando la sedia
dalla
scrivania e passandosi una mano sulla fronte. «Non posso
crederci».
Da
Vaniglia a Me
Kara
non dimentica.
«E
me ne sono accorta, tesoro», bofonchiò per
sé. Adesso sì che era
distratta, pensò mentre arrossiva. Come poteva mettersi a
lavorare?
Rilesse tutto cercando di collegare solo il testo e sorrise ancora,
pensando a una risposta: Dove
ti trovi? Devo dirti anch'io una cos-
Alzò la testa dalla tastierina quando udì la sua
voce: era lì? Si
affacciò dalla porta e si scambiarono uno sguardo intanto
che era
davanti alla scrivania con il suo assistente e Indigo.
«Kara», mise
su un'espressione seria, appoggiandosi allo stipite, così
raschiò
di gola e fece cenno con un dito. «Devo dirti una cosa: puoi
venire,
per piacere?». Quello sguardo. Kara la stava fissando con lo
sguardo
di un'intensità che- Cosa?
Scosse
la testa?
«Mi
spiace ma sono qui per parlare a quattrocchi con Winn».
Lui
alzò gli occhi dal monitor e guardò entrambe,
confuso. «Cosa?
Perch-».
«Andiamo.
Un attimo», lo prese a braccetto e lo allontanò
dalla sedia. «Non
ti faccio niente». Guardò di nuovo in direzione di
Lena e le
sorrise in modo diverso, divertito. «Ne parliamo
stanotte».
Lena
alzò un sopracciglio: lo aveva detto davvero? Si
portò le braccia a
conserte, riflettendo: sì… era davvero diventata
più
intraprendente e si chiedeva cos'avesse in mente. Si scambiarono uno
sguardo a lungo, verso l'ascensore; così a lungo che Kara
inciampò
su un piede di Winn e non cadde solo perché tenuta a
braccetto con
lui. Lena sorrise e si portò una mano sulla fronte; intanto
dalla
scrivania si levò alta una voce:
«Imbranata».
«Zitta
tu». Accidenti, proprio la caviglia che le faceva male dalla
partita. Brontolò, piegandosi un momento e cercando di
trascinare di
nuovo il ragazzo.
«T-Ti
sei fatta male?».
«Sì-
No! No, lascia perdere. Emh. Ti volevo parlare»,
lanciò un'occhiata
a Indigo, non capendo se li stesse sorvegliando da dietro il monitor
o fosse solo la sua impressione, «del tuo appuntamento con
lei. Lo
so che sarà tra amici ma so anche che tu-».
«Vi
posso sentire».
Kara
s'imbrunì subito, urlandole contro:
«Spostati».
«Io
sto lavorando».
«Non
ascoltarci, allora».
Paonazzo,
Winn cercò di svignarsela senza successo.
«Veramente anche io devo
tornare a lavorar-».
«Dopo»,
lo strattonò e gli fece una smorfia, guardando di nuovo
Indigo che,
sbuffando, si stava infilando le cuffiette alle orecchie.
UN
ANNO FA
Alex
era entrata nella stanza in punta di piedi, adocchiando Kara che,
allibita, era rimasta ferma davanti al suo letto. Era come guardare
una statua di marmo, inespressiva e senza fiato. Le si era avvicinata
cautamente, dando un'occhiata a tutti quei vestiti piegati sul suo
letto. Temeva sarebbe schizzata da un momento all'altro se avesse
anche solo messo male un piede, così le aveva stretto le
braccia,
accarezzandole, andando quasi ad abbracciarla. «Sorellina, va
tu-».
«I-Io
devo fare qualcosa con quella». Ecco, era successo. Si era
destata
all'improvviso, scrollato Alex e stretto i pugni, iniziando a
camminare in direzione della porta quando l'altra l'aveva fermata
appena in tempo.
«No,
no, aspetta, aspetta», l'aveva di nuovo tenuta tra le
braccia. «Ne
abbiamo parlato poco fa, ricordi? Dobbiamo dare una
possibilità a
lei e a sua madre».
Kara
aveva gonfiato gli occhi e spalancato la bocca come se Alex si stesse
facendo sfuggire l'ovvio. «Que-Questo prima
che mi buttasse giù mezzo armadio», aveva indicato
con una
scrollata di spalle il suo letto e la roba disposta in pile.
«È-È
evidente che questa Lena non vuole far parte di questa famiglia, non
le interessa e si comporta da bambina capricciosa». Aveva
gonfiato
le guance e distolto lo sguardo dalla maggiore che pareva quasi
volesse far sentire lei quella bambina capricciosa. «Abbiamo
iniziato col piede sbagliato, i-io questo lo capisco, ma invece di
chiedere scusa, lei mi svuota mezzo armadio per farci stare le sue
cose».
«Non
che avesse altro posto-», si era bloccata quando Kara l'aveva
fissata, accigliandosi. «Non sto prendendo le sue difese, ma
credo
solo che tu stia esagerando almeno
un pochino.
Questa situazione sarà difficile per noi quanto per
lei», aveva
forzato un sorriso, ma Kara sembrava irremovibile: quando si metteva
in testa una cosa…
«Oppure
è solo snob», aveva grugnito, difatti.
«Avrà pensato che le sue
cose abbiano più valore delle mie. Beh, sai cosa ti dico?
Non mi
interessa chi è», aveva assottigliato gli occhi
con grinta e dopo
formato un piccolo sorriso, «io sono superiore a queste
cose».
«Brava».
Aveva
gonfiato il petto. «Vuole solo infastidirmi. Se vuole giocare
alla
bambina capricciosa, allora non mi resta che dirlo a Eliza e a sua
madre».
L'espressione
di Alex era mutata in fretta, abbandonando il sorriso.
«Cosa?».
«Voglio
proprio vedere cosa dirà per discolparsi».
«Fare
la spia per questo non mi sembra molto più
maturo…»: un sibilo
che era rimasto inascoltato.
«Te
lo dico ora, Alex, e vedrai se non ho ragione», aveva
annuito,
dandosi autorevolezza: «non potrò mai
considerare quella ragazza mia sorella. Mai. Non importa cosa
succederà in questi giorni, questa cosa non può
accadere.
Semplicemente… non può».
PRESENTE
Sopra
le scale, Lena aspettava Indigo per scegliere con lei qualcosa dal
suo armadio da indossare, truccarla e sistemarle i capelli, come si
era offerta. In realtà le era venuto il dubbio che avesse
accettato
di farseli sistemare da lei solo per passare del tempo insieme, ma
non le dispiaceva. Kara l'aveva fermata per farle il tanto temuto
discorsetto
dopo quello che fece a Winn alla Luthor Corp, cercando di anticipare
al ragazzo alcuni comportamenti di lei, dirgli cosa le piaceva per
sperare forse di aiutarlo in questa impresa per conquistarla, non lo
sapeva, ma anche di non pressarla troppo, ricordandogli che se lei
non era interessata di non insistere e infine consigliandogli di
riaccompagnarla a casa. Aveva sentito solo metà della loro
discussione perché non era giusto spiarli; Kara non lo
sapeva, ma
c'era una telecamera vicino all'ascensore. Il riaccompagnarla
le diede da pensare: forse non per galanteria, ma doveva aver pensato
che il suo garante avrebbe potuto trovarla più facilmente se
l'avesse sorpresa a camminare da sola per National City.
«Winn
è tipo il ragazzo più buono sulla faccia di
questa terra», la
sentì dirle dal fondo delle scale. «Ma non si sa
mai e per
qualsiasi cosa… chiama Alex».
«Alex?
Perché non te, Kara Danvers?». In
realtà, sapeva perché ma voleva
sentire come si sarebbe arrampicata sugli specchi.
«Alex
perché… Beh, chiama me solo se strettamente
necessario. A-Anzi,
state fuori dai guai e nessuno dovrà chiamare
nessuno», chiosò.
«Stai attenta: Winn è emotivo! So che state
uscendo come amici, ma
lui- non farlo piangere! Di nuovo. Non fate troppo tardi
perché
avete entrambi da lavorare l'indomani, basta che non suoni: Lena ti
darà le chiavi. Non s
u o n a r e».
Lena
arrossì: andava bene che Kara avesse qualcosa che le
frullava in
testa per quella notte, ma negare a Indigo di suonare il
citofono…
Adesso le era venuto in mente: senza rendersene conto, la trattava
come una sorellina, nonostante fosse lei la più grande. Si
sentiva
quella responsabile tra le due. Non si fidava, ma questo non le aveva
impedito di affezionarsi.
Quando
Lena uscì per accompagnarla in auto, Kara chiuse con forza
il
portone e si guardò attorno nel salone con panico. Ecco, era
adesso
che doveva preparare quel
qualcosa
che doveva aver avuto già con precisione in testa da giorni
dove ora
c'era il vuoto. Aveva rinunciato a farla
pagare
a Lena, ma quella era la loro
serata, la loro giornata speciale dove non avevano altri impegni se
non loro due insieme. Ma perché doveva essere difficile? Non
era
riuscita a pensare a niente di concreto e aveva lasciato tutto
all'ultimo istante. In un attimo di terrore perché sapeva
che Lena
sarebbe tornata da un momento all'altro, si fiondò in bagno
e, con
grossi respiri, si bagnò la faccia per ritrovare un po' di
lucidità.
Chiuse gli occhi e si bagnò ancora, prendendo fiato. Poi li
riaprì
di scatto, specchiandosi: le gocce d'acqua precipitavano pesanti,
contrassegnandole ogni curva del viso. Deglutì: poteva
provare.
Il
locale era un po' più rustico di come non sembrasse sul
dépliant,
ma era gradevole con i colori caldi alle pareti, i dettagli in legno,
i sorrisi dei dipendenti e la musica leggera dalla parte del
ristorante: il locale infatti si divideva in due, i tavoli da una
parte e dall'altra, più piccola, videogiochi cabinati, il
biliardo,
e anche il jukebox. Si avvicinarono ai tavoli che l'aria odorava di
patatine fritte. Gli altri clienti non badarono a loro e iniziarono a
pensare a cosa ordinare, leggendo il menù: c'era davvero la
molta
scelta che si aspettavano.
«Sono
felice di essere qui».
Lena
alzò lo sguardo. Oh, si sentiva calda, probabilmente aveva
il viso
rosso e Kara le sorrideva in quel modo che…
«Anch'io. Molto». Era
strano: si conoscevano da un anno, si amavano da mesi, stavano
insieme da un po', o per meglio dire di
nuovo,
erano intime quasi tutti i giorni da Gotham a quella parte, anche se
spesso non con il tempo che avrebbero voluto, eppure, ora che si
trovavano a un vero appuntamento, si sentiva sulle spine. Cosa c'era
per cui fremere in quel modo? Alla Luthor Corp, dopo quei messaggi,
avrebbe voluto saltarle addosso. Giusto appunto, decise di chiederle
se l'invio dei messaggi in quel modo irritante le era piaciuto per
rompere il ghiaccio, quando arrivò la cameriera per
l'ordinazione.
In quello, Kara era sempre più veloce di lei.
«Scusate»,
la ragazza faceva su e giù al tablet con la testa,
riguardandole più
volte, «è che… vi ho già
visto, da qualche parte?».
«No»,
dissero quasi insieme e si scambiarono uno sguardo complice, mentre
Kara scuoteva la testa.
La
cameriera non sembrò convinta, ma non fece altre domande e
loro si
sorrisero. Insomma, Lena si era perfino lasciata convincere a
indossare i jeans per apparire più casual, come avrebbe
potuto
riconoscerla? Ci risero non appena la ragazza si allontanò.
I
capelli li aveva legati in una coda ed erano mossi, Kara invece li
portava lisci e slegati. Lena una smanicata in chiffon fasciato sul
collo, violetto, Kara un vestito corto sul giallo, tagliato da un
sottile cinto verde acqua. Avevano trascorso il tempo in macchina a
dirsi quanto fossero belle e, di tanto in tanto, cadeva l'occhio.
Aspettavano tanto quella serata.
Non
che volesse annoiare Kara, ma Lena le parlò un po' del suo
lavoro,
di cosa voleva ottenere non appena avrebbe avuto il comando della
Luthor Corp, della sua tesi, e anche di alcune ragazze a cui faceva
da tutor, cosa studiavano e cosa sarebbero volute diventare una volta
uscite da lì. Kara le ricordò del periodo in cui
voleva diventare
poliziotta, con Mike al suo fianco. Oppure una supereroina e ci
scherzarono su.
«Sai?
Ti vedrei bene in calzamaglia. Te l'avevo già
detto?», si portò la
forchetta in bocca e chiuse gli occhi lentamente, per assaporarne
meglio il gusto.
Kara
la fissò incantata e le scivolarono gli occhiali dal naso:
amava
quando faceva così. «Ah, sì? Forse,
no-non mi ricordo».
«Ma
non sei quella che non dimentica?», rise. «A
proposito, non erano
gli elefanti a non dimenticare mai? Si spiega qualcosa».
«Ehi»,
aggrottò la fronte. «Sei insopportabile, lo
sai?».
«Me
lo hanno già fatto notare». Si guardarono
finché non scoppiarono a
ridere e Lena la indicò come per dirle qualcosa,
abbassandosi per
prendere un'altra forchettata. Kara fu più rapida e le
soffiò il
pezzo di pollo con sopra una mezza mandorla da sotto il naso,
facendola restare a bocca aperta. «Le supereroine non rubano,
Supergirl», sottolineò a denti stretti,
«Non devo essere io a
dirtelo».
«Non
confa
quanfo
fi
parfa
di cibo», fece una smorfia e ingoiò.
«Né soprattutto se si parla
del cibo della mia fidanzata». Oh!
Spalancò
gli occhi e si bloccò come una statua dopo averlo detto,
mentre Lena
si sentì calda e girò lo sguardo. Stavano
insieme, avevano parlato
di stare insieme per sempre e quello era il piano a lunga durata, ma
al fidanzamento vero, cioè una promessa di matrimonio,
dovevano
ancora arrivarci. Se non altro in modo ufficiale. Che figura,
pensò
velocemente Kara: aveva appena bruciato il famoso passo per volta. Si
agitò freneticamente e iniziò ad imboccare aria
impegnata a cercare
cosa dirle per togliere entrambe da quella situazione imbarazzante,
che la vide prendere un pezzo di pollo e due mandorle, allungando la
forchetta verso di lei.
«Gli
elefanti hanno bisogno di mangiare diversi chilogrammi di cibo al
giorno», esclamò in un sorriso malizioso.
«E anche questo si
spiega».
Kara
avvampò, accigliandosi. Ma non avrebbe rifiutato altro pollo
alle
mandorle, il suo lo aveva già finito minuti fa: si
abbassò il tanto
che serviva e, arrossendo, chiuse la forchetta tra le labbra.
«Ma
non fono
un efefante»,
brontolò poco dopo, masticando.
Lena
continuò a ridere, già pronta per un'altra
forchettata. Era felice
di vedere che aveva funzionato e la imboccò varie volte,
continuando
a mangiare anche lei e a parlare.
Lillian
ed Eliza sarebbero tornate tra meno di una settimana e risero
pensando a come avrebbero potuto nascondere Indigo e ipotizzando
varie soluzioni: la villa era grande, ma Lillian la conosceva come le
sue tasche e la ragazza si era fatta le sue abitudini che erano
difficili da nascondere.
«Potrebbe
stare nella dependance, se non fosse che», la senti fare un
verso
indisposto ancor prima di finire, «è ancora piena
di cose di mio
padre che non abbiamo spostato». Scrollò le
spalle. «Mia madre ci
entrerebbe spesso».
«Possiamo
tenerla chiusa in un armadio e farla uscire solo per fare la
pipì».
«Sei
tremenda», abbozzò una risata. «A questo
punto, di meglio potrebbe
esserci il mio bagno: lì non ci entrerebbe», si
portò in bocca
dell'insalata. «Ma è una soluzione che presenta
non poche
inconvenienze».
«Come
io che corro al bagno più vicino quando sento che
è arrivato il
ciclo», prese una pausa per sogghignare, «e lei
è addormentata
nella vasca».
Lena
rise. «La vasca piena di briciole».
«E
cereali al cioccolato», aggiunse veloce.
Fortunatamente
le donne si sarebbero trattenute poco lì, trasferendosi a
casa
Danvers-Luthor per le vacanze. Lena porse sul tavolo anche la carta
del pagarle una camera d'albergo, ma temeva sarebbe stata scoperta
dal suo garante; dopotutto, la prima regola per nascondere qualcosa
con successo era farlo nel luogo più ovvio e quel luogo era
villa
Luthor-Danvers. Allora accennarono alla sua uscita con Winn e, poco
dopo, Kara si perse a parlare di lacrosse, ordinando un altro piatto
di pollo alle mandorle. Nonostante ora stessero mangiando l'insalata,
la tentazione fu più forte di lei, ascoltando la pancia che
reclamava.
«Giuro
che mi metterò a fare di nuovo corsa la mattina appena
sveglia».
«Non
devi giustificarti con me».
«Lo
dicevo al mio metabolismo», gonfiò gli occhi,
«si sta facendo un
po' meno d'acciaio, ultimamente». Sorrise amareggiata,
appoggiandosi
allo schienale. «E ho paura che se non mi vede in forma,
Millard non
mi farà seriamente giocare la finale. O mi
toglierà il ruolo di
capitano». Afferrò un pezzo di formaggio dal
centrotavola,
ficcandolo in bocca. «Quell'uobo
non asbetta abtro»,
mugugnò scrollando le spalle.
Quando
arrivò il piatto, allora stava raccontando delle sue
aspirazioni
alla CatCo. Sapeva di avere ancora da studiare e temeva che, alla
lunga, Cat Grant le dicesse di restare a casa fino a quando non
avrebbe completato gli studi. Inutile che Lena le dicesse quanto
fosse portata o non starebbe ancora lì dopo tutto quel
tempo, per di
più dopo aver già pubblicato degli articoli; per
Kara era già
tanto se non le chiedeva di portarle il caffè, sentendosi
costantemente in bilico.
Non
si sapeva come, finirono per parlare anche di Megan e di John Jonzz.
Alex le disse che l'uomo si era preso una vacanza, ma la cosa non
l'aveva del tutto convinta. In fondo, anche se avevano rotto,
perché
far preoccupare Megan in quel modo? Cambiarono argomento quando la
discussione si fece pesante, passando al dolce.
«Non
ci credo», Kara parlò a bassa voce e sorrise,
indicando alle spalle
di Lena. «Guarda chi c'è», disse,
mettendo in bocca una fetta di
torta gelato all'amarena.
Lena
non esitò e spalancò gli occhi: quella era
Leslie. Leslie Willis e
il suo nuovo ragazzo a cena: lui sventolava una forchetta piena di
cibo, parlando e masticando. Un appuntamento romantico?
«Com'è
che si chiama? Harry?».
«Larry»,
la corresse Lena. Le veniva da sorridere, ma d'altra parte era
incredula. «Non sapevo ci uscisse ancora. Fa
parte-», si morse un
labbro, pensando che forse non era il caso di nominare
l'organizzazione all'appuntamento o lei sarebbe finita per pensare a
sua zia, ma Kara non ci badò, dandole ragione.
«Ma
guardala… Fa shempe
battute shull'amoe
ed è qui anche lei», borbottò l'altra,
bocca piena.
Lena
sorrise, voltandosi di nuovo. Prese anche lei una forchettata e, dopo
aver ingoiato, propose: «Dovremo andare a salutarli. Dopo,
sempre se
a te-».
Kara
annuì, allungando la mano con la forchetta per prendere un
assaggio
della sua cheesecake al caffè e cioccolato. Lena la
lasciò fare,
scuotendo la testa. «Oh, sì. Salutiamo
i…», ci pensò,
scrollando gli occhi, «Che nome doffemo
dafe?».
Lena
rise, pensandoci un momento. «I Larslie»,
agitò le mani e infine le puntò contro la
forchetta così, quando
la vide deglutire, l'allungò verso di lei, imboccandola.
Capì
quanto le piacesse farlo. Si sorrisero poco dopo e, quando intuirono
che nessuno guardava loro, si avvicinarono per strapparsi un bacio.
«La
tua lingua è fredda», sussurrò Kara e
Lena rise, arricciando il
naso.
«Anche
la tua. Ma conosco un modo per riscaldarle», le
sussurrò, prima di
rubarle svelta un altro bacio.
Avevano
appena finito il dolce quando Kara si alzò per parlare con
Alex al
telefono e Lena non le staccò occhio di dosso, appoggiando i
gomiti
sul tavolo. Quando Kara la guardò, allora
arrossì. Se le avessero
detto come sarebbero andate le cose, un anno fa, non ci avrebbe mai
creduto. Innamorarsi di lei era stato quel qualcosa di non
programmato che le aveva cambiato la vita. Era costantemente sola e
lo notava solo adesso, si sentiva infelice ma non desiderosa di
cambiare, arrabbiata per ciò che era successo a suo padre,
affezionata al silenzio della sera, dipendente dai telegiornali che
non facevano che peggiorare il suo umore. Era un circolo vizioso.
Quella cena, la loro prima cena a casa Danvers-Luthor, Kara l'aveva
fulminata con lo sguardo perché le loro madri non si erano
arrabbiate come sperava per la questione dell'armadio e lei aveva
ricambiato con un sorriso. Si divertiva a vederla arrabbiata con lei;
voleva vedere come reagiva, trovandola… carina. Anche se non
lo
ammetteva. Carina. Molto più che su quei file a cui avevano
lavorato
lei e il suo assistente.
«Eccomi
qui, scusami», si sedette svelta, passando un indice sul
piatto.
«Alex voleva parlarmi di Eliza: è stata delle ore
con lei al
telefono ed era arrabbiata perché non trovava me per
distrarla. Non
sapeva che non eavamo
a cafa»,
finì, con il dito in bocca. Si accorse solo allora che Lena
la
fissava e le si imporporarono le gote, deglutendo.
«Cosa?».
«Ti
amo».
«A-Anch'io
ti amo», si morse un labbro e si guardò attorno.
«Oh, i Larslie
sono davanti al jukebox: cosa facciamo, andiamo?».
I
lamenti arrabbiati di Leslie Willis vivacizzarono la sala,
prendendosela contro la macchina che le aveva rubato la monetina
senza averle messo la canzone scelta. La videro prenderla a pugni e,
distante, uno dei dei ragazzi che lavoravano lì inquadrarla
minaccioso.
«Lascia
stare, fragolina di bosco, ci penso io».
Quel
Larry aveva preso il suo posto davanti al jukebox e, dopo un pugnetto
più delicato, si mise a cercare una moneta nel suo sacchetto
portamonete tirato fuori da un taschino. Leslie sbuffò
innervosita e
si voltò, le vide arrivare, digrignò i denti e si
rivoltò con uno
scatto, mettendo le mani sui fianchi.
«Sì… cactus di-?! Che
diavolo»,
si morse la lingua, non trovando qualcosa per ribattere prima che
fosse troppo tardi. «Perfetto. Tu ce la farai».
Aveva una dannata
reputazione da mantenere.
Il
tono della sua voce era più finto del colore dei suoi
capelli e le
due si scambiarono un'occhiata complice, facendo una smorfia. Kara
avvolse Lena per le spalle e si fermarono, salutandola, captando la
sua agitazione nel trovarle lì non appena schizzò
come se avesse
preso la scossa.
«Ehi,
chi si rivede…». Scrollò le spalle e
forzò un sorriso, guardando
indietro con la coda dell'occhio: Larry aveva trovato la moneta e
stava selezionando la canzone. «Non pensavo vi avrei trovate
qui…
Ci sono molti ristoranti a National City».
Oh,
era davvero nervosa. «Lo frequenti ancora?», chiese
Lena, arcuando
un sopracciglio. «Credevo, dopo ciò che
è successo…».
«Perché
fa parte della Banda
Bassotti,
dici? Beh, scopiamo solo, mica gli chiedo i documenti».
«Questo
a me sembra un appuntamento», rispose Kara guardando Lena e
lei
annuì.
«Non
è un appuntamento».
«Sì
che è un appuntamento».
«Non
è un appuntamento», ribadì.
«È
un appuntamento, Leslie», controbatté anche Lena.
La
musica partì e Larry alzò in aria le braccia
pelose in segno di
vittoria. «Grande! Adesso è un appuntamento
perfetto, baby»,
l'abbracciò per le spalle incurante della sua aria funesta,
di
pietra, e solo dopo si accorse di loro. «Ehi, io vi conosco!
Piacere, Larry», allungò la mano e gliela
strinsero a turno. «Vi
avevo viste quella volta in centrale, quando è morto Gand!
Brutta
storia. Ma è stato anche il giorno in cui ho conosciuto la
mia
lolita», le sorrise e le ragazze ebbero come l'impressione
che
l'anima di Leslie si fosse appena divisa dal corpo, poiché
nemmeno
gli occhi rispondevano più. «Che bella coincidenza
trovarvi qui».
«Infatti»,
abbozzò un sorriso Lena, «Ci sono molti ristoranti
a National
City», guardò Kara, che annuì.
«Oh,
no, è perché io abito qui in zona»,
sorrise, indicando verso la
porta. «Nelle collinette lassù, in campagna. La
mia metà ama stare
in luoghi appartati e ne approfittiamo. Sta da me, e
così…».
«Oh,
li ama tantissimo», sibilò Lena. «Tu lo
sapevi, Kara?».
«Sì,
Leslie è una persona così riservata anche a
lavoro».
Fu
allora che gli occhi della donna ebbero un sussulto che, se avesse
potuto, le avrebbe fulminate.
«Lavoriamo
insieme alla CatCo», gli fece sapere.
Lui
si mostrò sorpreso, fermando il ritmo che aveva preso
seguendo le
note della canzone: «Davvero? Non parla spesso di queste
cose, ci
focalizziamo su… altro»,
inclinò la testa e abbozzò una risata
imbarazzata. «E voi due?»,
le indicò e non si lasciò sfuggire l'attimo per
baciare lei,
stranamente silenziosa. «Come mai qui? Siete sorelle, adesso,
vero?
Vi godete un po' di pace dalla città?».
«Sorellastre»,
disse veloce Kara; aveva preso ad annaspare e si passava la lingua
sulle labbra come se si stesse trattenendo, guardando l'altra in
aiuto. «Le nostre madri-».
«Le
nostre madri sono sposate».
«Sposate,
sì», annuì, togliendole il braccio
dalle spalle. «Noi ci… ci
fre-frequentiamo… per questo. Sì».
Lui
sorrise entusiasta. «Le invitiamo a mangiare il dolce con
noi,
cicci? Vi va?».
Finalmente,
Leslie ebbe un segnale chiaro di vita: «No»,
sbottò. «Il dolce lo
avranno già mangia-».
«Perché
no?», dissero in coro. «Nessuno nega un bis al
dolce», aggiunse
Kara, facendo strada.
Lei
lo guardò adirata e lui scollò le spalle.
«Ho piacere a conoscere
le tue amiche».
«Non
sono mie amiche».
Non
ricordarono di aver mai riso tanto come quella sera, dopo essere
uscite dal locale. Sì, non si aspettavano di passare una
parte del
loro appuntamento con i Larslie
a vendicarsi amorevolmente di Leslie Willis, ma ne era valsa la pena
e, in un certo senso, combattendo fianco a fianco quella battaglia,
si sentirono più unite che mai. E se prima si domandavano
cosa ci
facesse lei con uno come lui, bastò quella mezzora per
chiedersi
cosa ci trovasse lui in una come lei. Lui era troppo buono per
l'organizzazione e di certo lo era per Leslie Willis. Arrivarono
davanti a un palo della luce e Lena, abbracciata a Kara, ne
approfittò per avvicinarsi e rubarle un bacio. L'aria fresca
di
pioggia pizzicava sulla pelle.
«Ehi»,
Kara rise, «Potrebbero vederci qui sotto»,
sussurrò voltandosi:
non erano troppo distanti dal locale e ricordava bene un uomo che
fumava fuori dalla porta.
«Nessuno
guarderebbe noi, Kara. Siamo invisibili, qui». La strinse
più forte
e la colse in un nuovo bacio, più atteso, più
lento, più caldo.
Non c'era nessuno, nel paesello si sentiva solo l'allarme lontano di
una macchina e il miagolio dei gatti. Era una serata perfetta.
«Hai
freddo? Hai i brividi»: Kara aggrottò lo sguardo e
cercò di
scaldarle le braccia con le mani; a quel punto si sfilò la
giacchetta, infilandola sopra a quella altrettanto fine che l'altra
già indossava. La circondò di nuovo con le
braccia e la strinse per
avvicinare la bocca alla sua: le mordicchiò un labbro, lo
assaggiò
e la vide sorridere; spalancarono le labbra accogliendosi, chiudendo
gli occhi. Si baciarono di nuovo, e di nuovo, tenendosi avvinghiate.
A
un certo punto si separarono inspirando piano e Lena, con gli occhi
sui suoi, allungò la mano destra per accarezzarle il
contorno del
viso fermandosi sulla piccola cicatrice che aveva in fronte, sopra un
occhio, tastando con delicatezza. «Devo confessarti una cosa,
Kara».
Lei arcuò un poco le sopracciglia con curiosità e
Lena, con il
cuore che batteva agitato, continuò: «La
capisco… Anche io ero
come Leslie. Mi vantavo di essere romantica e leggevo molti romanzi
d'amore, immedesimandomi nella protagonista, ma in realtà mi
veniva
difficile pensarmi seriamente in una relazione vera. Non
più, dopo
Jack. La cosa mi terrorizzava», scrollò gli occhi
verdi.
«E
cosa è cambiato?».
«Tu.
Sei arrivata tu: conoscevi la risposta». La vide lentamente
mutare
espressione, intanto che anche le orecchie cambiavano colore,
surriscaldandosi. «Non voglio… Sai, non vorrei
passasse come una
romanticheria da quattro soldi…».
«Non
lo è».
«E
non credo alle persone che cambiano per amore, Kara, è una
cosa da
libri. Io dico… davvero. Mi hai svegliata: non sapevo di
essere
pronta prima di conoscerti».
Le
labbra di Kara si piegarono e così se le nascose verso
l'interno per
trattenere un sorriso; dopo spostò lo sguardo verso il
locale, verso
un altro lampione per osservare gli insetti in controluce, verso gli
alberi dall'altra parte della strada, verso una macchina
parcheggiata. Di che colore era poi quella macchina? Ah, ma era
quella di Lena. Continuò a contorcersi le labbra, si sentiva
così,
così…
«Sei
imbarazzata».
«No,
io…».
«Riesco
ancora a farti imbarazzare, Kara Danvers».
Lei
strinse i denti e buttò il collo all'indietro.
«A-Andiamo a farci
un giro qui? Non ci veniamo mai». Dopo averla chiamata fidanzata,
questo era il punto più alto della serata, pensò.
La sentì ridere
ma non ci badò, alzando gli occhi e tentando di trattenere
un felice
sorriso. «Che cosa ci sarà da quella parte, un
canale?».
«Kara»,
la bloccò fermandole una mano, «Vuoi vedere il
canale? Non vuoi
andare a casa?».
«N-Non
c’è fretta».
«Prima
che torni Indigo?».
Maledizione,
pensò, mordendosi un labbro. Restarono in quel modo per
qualche
secondo: Kara buttata in avanti e Lena che la tratteneva con una
mano, ancorata sui suoi passi. Se ci avesse messo peso, sarebbero
cadute entrambe.
«Che
cosa hai combinato?». Kara si voltò piano e Lena
si assicurò di
stringerle più forte la mano nella sua, strisciando il
pollice sul
dorso. «Lo sai che a me interessa solamente essere con te e
che il
resto…». Lasciò la frase a mezz'aria,
studiando il suo
comportamento.
«È
che», tornò a mettersi dritta, accarezzando la
mano unita a sua
volta, «mi sembra», arrossì vistosamente
sotto la luce del
lampione, «una cosa un po'… banale. Non riuscivo a
trovare
niente». Gonfiò gli occhi, iniziando a
gesticolare. «A-Avrei
voluto avere più fantasia, mi era sembrato di aver trovato
un'idea
carina e poi mi dici una cosa così…
così perfetta
che andare a casa ora mi sembra di rovinare tutto».
L'altra
rise, spostando anche lei lo sguardo da un'altra parte.
«Perfetta?».
Kara era più adorabile del solito e avrebbe voluto fare
qualche
battuta, ma cedette al desiderio di abbracciarla. La strinse e si
alzò in punta di piedi per baciarle la fronte. «Tu
sei… assurda».
«Cosa?».
«Andiamo
a casa, ti prego», la fissò, tenendole di nuovo
una mano. «Però
andiamo prima a vedere velocemente quel canale perché mi hai
messo
curiosità», lo indicò, tirandola dietro
di lei.
UN
ANNO FA
Kara
si era coricata sul letto con tanti pensieri a frullarle nella mente.
Quella Lena Luthor doveva ancora essere in salotto, da sola, a
guardarsi un film. Beh, poteva starci il tempo che voleva,
ma… Ciò
che aveva detto a tavola su come Lillian volesse più bene al
primogenito, l'aveva davvero colpita e non faceva altro se non
pensare che, se vero, doveva essere terribile. Eliza e Jeremiah
avevano sempre trattato lei e Alex allo stesso modo, anche se lei
aveva già dieci anni quando avevano iniziato a conoscerla.
Le erano
stati vicini, l'avevano supportata e sopportato il suo periodo buio
ai primi tempi; erano stati indispensabili per la sua
serenità, per
farla sentire voluta e amata. Accettata. Aveva sempre pensato che
fosse una cosa normale in un'adozione, nulla in più di altre
famiglie, ma quella Luthor pareva funzionare in modo diverso. Era
arrivata alla conclusione che, forse, era per quella ragione che Lena
si dimostrava tanto acida con lei: questa unione famigliare aveva dei
punti in comune a un'adozione e doveva ricordargliela. Non era stata
accettata dai Luthor, o per lo meno non da Lillian, e così
temeva di
non essere accettata da loro allo stesso modo. E lei, adottata a sua
volta, era quella che più di tutti avrebbe potuto starle
vicino.
Beh, aveva indubbiamente sbagliato qualcosa fin dal treno, ma poteva
ancora recuperare, aveva pensato. Se solo si fosse presentata intanto
che era sveglia, sdraiandosi anche lei, avrebbero potuto parlare da
persone civili. E forse darle quella possibilità che prima,
a causa
dello scherzo all'armadio, non aveva voluto assolutamente darle. Beh,
aveva continuato a pensare mentre gli occhi le si chiudevano dalla
stanchezza, poteva rimandare la discussione da persone civili
all'indomani. Però la porta era scattata in quel momento e
si era
aperta piano, così Kara aveva finto di dormire, lasciando
gli occhi
chiusi. L'aveva sentita camminare come se si stesse muovendo in punta
di piedi, sentendoli scricchiolare sopra il pavimento di legno. Aveva
sbirciato una volta sola, vedendola sistemarsi il letto in modo
ordinato, poi aveva richiuso le palpebre pesanti. Quella Lena poteva
non essere tanto male, in fondo. In fondo.
PRESENTE
C'era
qualcosa di diverso nell'aria, quella notte. Qualcosa di nuovo e
vecchio allo stesso tempo, di fresco e caldo, di dolce e aspro, che
sapeva di versioni di loro che andavano a letto, l'una davanti
all'altra e, mentre una provava a dormire pensando di darle
un'occasione, l'altra metteva play a un documentario sul cellulare
per riuscire a dormire in una casa nuova, ritrovando nella voce del
narratore quella di suo padre che le leggeva una favola; sapeva di
versioni di loro che tornavano in villa col cuore in gola, che erano
nervose, che si sentivano piccole e grandi in momenti diversi o gli
stessi, amate e speciali, fortunate, anime affini con cicatrici
invisibili che sapevano curarsi con uno sfiorarsi. Stava accadendo
parallelamente a distanza di un anno, eppure Kara e Lena non potevano
sentirsi più distanti da quel giorno: allora non si
sopportavano,
poi però iniziarono a conoscersi e a innamorarsi quasi
subito, a
provare ad allontanarsi per fermare il terremoto che si apprestarono
a sentire dentro, e finalmente cascarci, baciarsi, toccarsi, fare
l'amore tra bigliettini e tanto sospirate dichiarazioni d'amore,
separarsi e piangere, arrabbiarsi e… aspettarsi, perdersi e
tentare
disperatamente di ritrovarsi e farlo, farlo con il pericolo concreto
di non esserci più un noi.
Era passato molto più tempo in quei trecentosessantacinque
giorni,
sei ore, nove minuti e nove virgola cinquantaquattro secondi di
trecentosessantacinque giorni, sei ore, nove minuti e nove virgola
cinquantaquattro secondi. Avevano trascorso una vita e, ora, ne
iniziavano un'altra. Alle vecchie loro tutto stava per succedere, si
stava ripetendo in quel momento, intanto che le nuove loro si
accingevano a un nuovo percorso.
Lena
chiuse gli occhi e Kara deglutì, stringendo il lembo di
stoffa rossa
tra le dita. La prima faticava a restare dritta con la schiena,
agitata com'era; non voleva darglielo a vedere perché la
conosceva e
sapeva bene che doveva averla anticipata in quello, soprattutto per
come si era fatta strana fuori dal locale. La seconda era un fremito:
e se avesse fallito? Se a Lena sarebbe venuto da ridere e non in modo
positivo? Era una cosa così… banale. O forse esagerata?
Aveva come l'impressione di essersi messa in quella situazione tutta
da sola: aveva creato delle aspettative in Lena e su se stessa senza
che fosse obbligata a far nulla, e adesso… Adesso erano
lì, l'una
davanti all'altra, e l'unica cosa che Kara poteva fare era andare
avanti, provarci, dare del suo meglio per rendere quella notte unica.
Tremò
nell'atto di alzare le braccia; raggiunto il volto di Lena, le
carezzò una guancia e, non mancando di emettere un breve
sospiro, le
passò il pezzo di stoffa sugli occhi. Non poté
resistere alla
tentazione di baciarla, circondandole il collo per fare un fiocco.
Lena
sorrise. «Ah… Finalmente so cosa passa per la
mente della mia
fidanzata». Attese, certa di averla sorpresa nel ripetere
quella
parola in modo così naturale com'era stato per lei.
«Non vedeva
l'ora di bendarmi». Allora la sentì ridere e dopo
abbracciarla,
rubandole un bacio e infine, tanto vicino all'orecchio da sentire il
fiato battere sulla pelle, sussurrarle di fare silenzio. Oh, ora
voleva anche dirle di stare zitta? «Avresti dovuto tapparmi
anche la
bocca con qualcosa, Kara. Non è sicuro»,
ridacchiò. Aprì la mano
destra sentendo le sue dita cercarla e così si strinsero,
lasciandosi guidare all'interno della camera.
Aveva
fatto in tempo a vedere le candele accese sui mobiletti, comodini e
scrivania che illuminavano la stanza creando un'atmosfera calda e
tenue, più intima; il letto coperto da un lenzuolo color
orchidea e
delle ciotoline di diversi colori, di sicuro trovate in cucina,
disposte ai piedi del letto. Si domandò cosa contenessero ma
prima
era troppo distante per sbirciare e ora la regola le imponeva di
tenersi la benda. E non poteva violare una regola. Forse non era
pronta a dirlo a voce ma, a parte la paura di inciampare, non le
dispiaceva l'idea.
I
loro respiri erano l'unico rumore che Lena riusciva a captare
nell'aria. Sentiva l'odore di cera squagliata e quella leggermente
bruciacchiata della fiammella, del deodorante rimasto sui vestiti,
l'odore dolce della sua pelle come se potesse disperdersi a ogni
tocco.
Kara
si accorse presto di aver sbagliato: voleva tendere le redini del
gioco come Lena aveva fatto con lei senza fargliela
pagare
com'era nell'idea iniziale, e aveva impostato delle regole, ma non
era suo
il compito di rendere quella notte unica: era di entrambe. Erano
insieme in quel gioco e poteva funzionare solo se insieme avrebbero
giocato. E nessuna delle regole di Kara impedivano a Lena di prendere
iniziativa.
L'aiutò
lentamente a spogliarsi, sistemandole la benda dopo che le
sfilò il
top. Lena sentiva i polpastrelli bollenti di lei che le sfioravano il
bacino e le sue labbra, se possibile ancor più bollenti,
passare
sullo sterno e perdersi lungo il seno sinistro. Le venivano i
brividi. Normalmente le avrebbe detto di premere, ma stavolta non si
sarebbe azzardata: Kara non temeva più di farle male, il suo
tocco
era leggero di proposito, voleva che la sentisse in quel modo e se la
sarebbe goduta. Alzò la mano destra e le trovò i
capelli: cominciò
a prenderle ciocca dopo ciocca con entrambe le mani e a giocare con
loro intanto che sentiva la sua lingua che, com'era caldo il sole, le
infiammava la zona intorno all'ombelico. Bagnata, calda; le sue
labbra morbide accarezzavano. Sentì un sospiro ancor prima
di
rendersi conto che era suo. L'aiutò ancora e risero finendo
sul
letto, quando Lena sbatté il mento sul suo naso.
«Non
capisco come tu abbia fatto».
«Se
non lo sai tu, come potrei io con una benda?».
Però trovò
facilmente la sua bocca, annusando il suo respiro e aroma di
ciliegia: aveva preso da poco quel rossetto, glielo aveva consigliato
lei; era così forte che sarebbe stato impossibile non sapere
di
esserle tanto vicino. Era sopra di lei, quindi si resse con un gomito
e con la mano sinistra libera le vezzeggiò la pancia,
tenendo le
dita unite e il palmo pronunciato. Non voleva rovinare tutto
iniziando a stringere. Il suo profumo era come lievemente zuccherato,
lo percepiva ora come mai prima; concentrò l'aria intorno,
le
entrava dentro come una droga e allora, arrivata al limite, colse le
sue labbra. Era da tanto che voleva sentirla di nuovo così.
Inspirarono, si lasciarono e si ripresero come se fossero due parti
della stessa entità, sorprendendosi in un abbraccio caldo,
sbottonando e tirando via ciò che ancora impicciava i loro
corpi.
C'era
qualcosa di diverso nell'aria, e non era solo la cera che colava o
l'aroma alla ciliegia che si mischiava con quello alle rose del
rossetto di Lena.
Era
sdraiata sul letto, nuda. Sentì Kara che si separava da lei
dall'aria che prese il suo posto. Le mancava già ma sapeva
che,
qualunque cosa contenessero quelle ciotoline, doveva essere andata a
prenderle.
«E
ora non ti muovere».
Avrebbe
voluto dire qualcosa, ma la verità era che le si
seccò subito la
gola dall'ansia. E poi dirle cosa? Come se avesse avuto le parole per
farlo. La attese, semplicemente. Avvertì la pressione del
materasso
cambiare: doveva essere salita. Sentì con le dita della mano
destra
che doveva aver appoggiato una ciotolina, un'altra, un'altra alla sua
sinistra e una quarta. Che cosa…? Poi captò il
suo odore e il suo
respiro sulla bocca dello stomaco prima ancora del movimento del
materasso che le diceva che stava per mettersi su di lei. Ma no, non
sdraiarsi: si sedette sulle sue cosce, gambe piegate. Passò
poco che
la risentì di nuovo inchinarsi in avanti e, inaspettato, un
goccio
d'acqua al centro del petto. Colta di sorpresa, percepì il
suo corpo
inghiottirsi rapidamente; la pelle si tirava a contatto con una cosa
tanto fredda in contrasto col caldo provato fino a quel momento.
Sospirò rumorosamente da stupirsi lei stessa, piegando
indietro la
testa.
«È-
È tiepida», la sentì balbettare.
«Lo giuro. L'ho messa prima di
venire in camera e-e io la sento-».
«Va
bene, vaniglia», sorrise. «Sono io quella
accaldata, non è colpa
dell'acqua».
«…
Giusto».
Le
venne di nuovo da sorridere poiché doveva essersi allarmata
per la
sua reazione. Ma andava bene, andava molto bene e sospirò,
intanto
che le passava le dita bagnate lungo le braccia, sotto le ascelle,
sotto il collo per poi passarle la lingua. Anche l'acqua odorava di
buono. «Mirtilli?». La sentì ridere
appena prima di baciarle
dietro un orecchio. Riconobbe chiaramente il rumore dell'acqua
incresparsi su una di quelle ciotole e dopo sentire la scia lungo il
suo ombelico: glielo riempì d'acqua e ci immerse la lingua.
Lena
trattenne il fiato.
Era
un misto di sensazioni: se da un punto di vista gli odori la
drogavano, dall'altro il conflitto nato dal caldo e dal freddo
accompagnati dal suo tocco leggero le rendeva la pelle sensibile da
impazzire. Non capiva più da quanto tempo si trovavano
lì. Né per
quanto tempo sarebbe riuscita a resistere. Era una tortura,
pensò.
Una tortura piacevole
che risvegliava qualcosa all'interno e, allo stesso tempo, scopriva
all'esterno.
Le
bagnò i fianchi, lasciò che una goccia le
solcasse il ventre. Cercò
di bagnarle anche i piedi ma Lena per poco non le diede un calcio e,
pur non mancando qualche risata divertita, sembrò
rinunciarci. Le
bagnò il naso e seguì l'acqua con un dito fino
alle sue labbra, che
lo catturarono. Non se lo aspettava e la sentì emettere un
verso di
stupore e così, quando glielo lasciò andare,
sorrise compiaciuta.
«Arancia», borbottò. Quell'acqua era
aromatizzata all'arancia.
«E?».
«Menta?».
La sentì sporgersi e le poggiò due dita sul mento
per farle aprire
la bocca. La goccia d'acqua le arrivò dritta sulla lingua.
«Limone».
Le poggiò un dito umido sul naso: pensò che
doveva aver indovinato.
«Posso chiederti dove hai-», le parole le si
fermarono in gola
all'improvviso: non si era accorta, distratta, che Kara si era
spostata per bagnarle i capezzoli.
«Di…
cevi?».
Doveva
sorridere. La vedeva con l'immaginazione. «Dove…
hai-», sospirò,
sentendo le sue dita umide che giravano intorno al capezzolo destro:
aveva la pelle d'oca su tutto il seno. Un dito, tre,
cominciò a
passarle delicatamente la mano, sfiorando appena, bagnando con
piccole gocce il centro. Glielo baciò e Lena alzò
le mani per
cercarla, accarezzandole le braccia nude. Avrebbe tanto voluto
arrivare a quell'acqua. «Dove hai preso…
l'acqua?».
«Shh».
Lena
aggrottò la fronte. «Dove, Kara?». Lo
aveva capito, voleva il
silenzio, ed era perfino strano da parte sua che ogni volta si
metteva a parlare, ma stavolta era lei a sentire il bisogno di farlo,
di estraniarsi un attimo.
«Segreto».
Ah,
okay.
Se non fosse bendata, lei… Ma certo, pensò Lena.
Per questa
ragione Kara riusciva a stare zitta in un momento di tensione: lei
non poteva vederla. Si vergognava quando la guardava negli occhi:
aveva risolto un impiccio, ma era momentaneo. Un senso era fuori uso,
ma gli altri erano più attivi di sempre. La costrinse a
sollevarsi,
spingendola e chiedendole di avvicinarsi una volta sedute, ma le
labbra gliele sfiorò soltanto. Non la fermò:
tastò il materasso
fino a trovare una di quelle ciotole e ci immerse le dita. L'acqua
era poca e si bagnò appena i polpastrelli, portandone uno in
bocca.
«Mela e…».
«Cannella».
«Cannella»,
ripeté. Si avvicinò a lei, seguendo l'odore di
ciliegia. Doveva
essere ferma, forse voleva vedere cosa avesse in mente di fare: con
la mano sinistra le toccò le labbra per essere certa che non
si
sarebbero spostate e, con le dita della mano destra, bagnate, ne
seguì il contorno. Scese sul mento e le colse il viso con
entrambe
le mani, allora la baciò. Il suo corpo andò a
fuoco quando sentì
le sue braccia passarle sulla schiena e tenerla stretta a
sé, contro
il suo seno nudo e bollente. Allungò ancora la mano destra,
lasciandola, e tastò fino a trovare una delle ciotole, non
sapeva se
la stessa. La baciò di nuovo e la lasciò svelta,
staccandosi il
tanto per passarle le dita umide sul collo. Poteva sentire le vene
pulsare. Scese seguendo le clavicole, e gliele baciò,
ascoltando i
suoi ansimi. Si bagnò ancora e le lasciò andare
una goccia. Sentì
impercettibile gli schizzi sulla propria coscia destra: doveva aver
preso il materasso. Allungò per bagnare le dita che la mano
di Kara
le guidò il polso fino a dove serviva e, ancora unite, le
lasciò
cadere la goccia sul suo corpo. Le appoggiò la mano sul suo
stomaco,
sentendolo bagnato. Giocherellò con le dita passeggiando
fino
all'ombelico, lasciando le sue. La bagnò intorno,
abbassò la testa
e le colse con la bocca una spalla, lasciandole una scia di baci fino
al collo. Bagnando la mano e passandole le dita dall'altro lato. Kara
tremava sotto di lei: finalmente poteva sentire la tortura del caldo
e del freddo insieme. Si bagnò di nuovo le mani, allungando
entrambe
le braccia, e le lambì i fianchi, l'interno coscia. Poteva
averlo
emesso molto piano, ma il suo udito lo aveva percepito lo stesso: un
gemito. Era stato di certo un gemito. Le accarezzò le cosce
mentre
Kara, bagnata, pensò di coccolarle sotto le braccia. La sua
pelle
era così sensibile che avrebbe potuto rompersi. Si baciarono
di
nuovo e fu Kara a infilarsi in mezzo alle sue gambe e a stimolarla
con le dita bagnate. Quando la sentì allontanarsi creando il
vuoto
freddo, capì di non poter resistere:
«Kara». La sua voce era
strozzata, quasi un brusio. «Per favore». Non
poteva farglielo, non
dopo tutto quel tempo a scaldarla e a farle entrare i brividi. A
farla accaldare là in mezzo alle gambe.
La
sentì toccarle le spalle, il viso, il suo respiro sulle
proprie
labbra. La fermò tenendo il braccio sinistro e
poggiò l'altra mano
sul fianco destro, aiutandola a sdraiarsi di nuovo. La bagnò
piano
lungo il suo corpo e trasalì, prendendo un grosso sospiro,
chiamandola ancora. Non poteva più resistere. Poi, dopo
qualche
attimo in cui non captò più nulla, la sua lingua
fu proprio dove ne
sentiva più bisogno, sentendo il suo corpo ritrarsi com'era
successo
con la prima goccia fredda. I brividi sulla pelle. Spalancò
la
bocca, stirò le dita dei piedi e tirò il
lenzuolo. Sentì una delle
ciotole cadere, ma l'acqua doveva essere così poca che
l'altra non
si mosse, continuando a infiammarle dentro, fuori, ovunque; il calore
saliva dalle ginocchia su per lo stomaco. Poi cambiò.
Percepì le
dita umide vezzeggiarle l'interno coscia e la sua lingua
salì a
baciarle la pancia, in fiamme. Lena sollevò le gambe,
respirando a
pieni polmoni.
C'era
qualcosa di diverso nell'aria, quella notte. Lo sentivano.
«Sono
di Eliza».
Lena
spalancò gli occhi. «Hai rubato l'acqua
aromatizzata di Eliza?».
«Sapevo
che ne teneva in un armadio e così…»,
diventò rossa quando la
fissò. «Gliele ricomprerò».
Lena
rise e l'abbracciò, Kara ricambiava. Erano sedute sul
materasso, sui
cuscini e coperte dall'unico lenzuolo. Ebbero qualche brivido di
freddo quando l'acqua finì e la loro temperatura corporea
sembrò
tornare normale, trasportandole dal loro mondo a quello dove una
finestra si era spalancata di colpo dopo una folata di vento.
«Che
ore saranno?», domandò Kara e Lena si sporse per
recuperare il suo
cellulare sul comodino.
«Non
abbiamo sentito Indigo rientrare, vero?».
Kara
stirò un sorriso. «A-Avevo la testa da un'altra
par-».
«Ho
una sua chiamata persa», le parlò sopra e si
imbronciò.
«Le
avevo chiesto di chiamare Alex. O me. Quella ragazza non mi ascolta,
non-», Lena le tappò la bocca con un dito e,
vedendola con il
cellulare a portata d'orecchio, decise di fare silenzio.
«Indi-
Winn?»,
strabuzzò lo sguardo, «Come mai…?
Cosa?». Il suo sguardo si fece
paonazzo e guardò l'altra; anche lei aveva appena perso il
sorriso.
«Stiamo arrivando», staccò la chiamata
con decisione.
«Cosa
è successo?».
Lena
aprì il lenzuolo per scendere dal letto, ricercando con uno
sguardo
rapido i suoi vestiti. «Hanno avuto un incidente»,
spiegò in
fretta. «Stava riaccompagnando Indigo qui e una macchina gli
è
andata addosso».
Anche
Kara si alzò subito, infilandosi gli slip.
«Co-Come stanno? Dove
sono?».
«Bene,
non- Ancora sul posto o… o meglio lo è
Winn». La guardò grave:
«Appena ha capito che sarebbe intervenuta la polizia, Indigo
è
scappata. Dobbiamo andare a cercarla».
Il
capitolo sembra lungo, ma è una magia: è colpa di
Kara e dei suoi
messaggi a singhiozzo che richiedevano l'andare a capo XD
Ebbene,
ben ritrovati! Vi è piaciuto questo capitolo?
Come
ho scritto altre volte, e la situazione non è che sia
proprio
cambiata, io non sono mai sicura su certe scene, come ho le scritte e
descritte, ecc… Anche questa, come altre, l'ho riscritta
due/tre
volte perché non mi soddisfaceva, poi l'ho lasciata
decantare giorni
e rileggendola non l'ho trovata così male come ricordavo. A
voi
l'ultima parola!
Cosa
ne pensate del resto? Della cena, Leslie Willis e il suo appuntamento
(è
un appuntamento, Leslie)
con Larry, del rapporto cane/gatto di Kara e Indigo (e non è
difficile intuire chi sarebbe il cane e chi il gatto, tra le due),
Winn e Indigo, del passato e di come si sentisse Lena, dei pensieri
di Kara, di Tre
gemelle e una strega…
Voi l'avete mai visto? Onestamente io ne avrò visto qualche
pezzetto
anni fa, non l'ho mai seguito, ma era tenero.
La
pausa annunciata nelle note dello scorso capitolo si avvicina,
purtroppo… Ma intanto, ci si rilegge sabato 9 novembre per
il
capitolo 58 che si intitola Dei miei sbagli :)
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Capitolo 60 *** 58. Dei miei sbagli ***
Indigo
lo guardò con la coda dell'occhio, intento a guidare.
Sembrava
sereno; aveva sbadigliato due volte da quando si erano messi in
macchina e pensò che forse doveva essere abituato ad andare
a
dormire molto presto. D'altronde erano rimasti fuori a lungo,
più di
quello che si aspettava di sicuro. E non aveva nemmeno dovuto
rifiutarlo di nuovo. Lo riguardò, prima di voltarsi al
finestrino
dalla sua parte e picchiettare una gamba con le dita. L'aveva fatta
ridere e quasi non ci credeva. Una volta sola e lui ci aveva provato
per tutta la sera; si sarebbe dovuto ritenere soddisfatto
poiché era
da tanto che qualcuno non ci riusciva. Nessuno ci aveva provato prima
di lui, però. Oh, guardandosi attraverso il finestrino
notò che i
capelli si erano fatti crespi; neanche tutto il tempo che ci aveva
impiegato Lena a sistemarglieli. E il trucco si era… Oh, il
trucco.
Non sembrava più lei e cominciò a pensare che
quel travestimento
stesse davvero dando i suoi frutti. Era certa che nemmeno suo
fratello Cyan l'avrebbe riconosciuta, adesso. Si sentiva diversa e,
per un attimo, si chiese quando sarebbe finito come sarebbe tornata
alla sua realtà e con quali pesi sullo stomaco. Non sarebbe
rimasta
in quella villa per sempre, a spese di Lena mentre le cospirava alle
spalle per conto di qualcuno che, forse e non le era chiaro, la
odiava. Di certo odiava i Luthor. Cene con un amico di lavoro, il
lavoro stesso, Kara Danvers che, probabilmente, non la odiava
così
tanto. Sarebbe tutto finito. Non sapeva quando, ma sapeva che era
così che sarebbe andata.
«Mi
ha- emh», Winn si fermò, estraendo un sorriso,
«Mi ha fatto
piacere uscire con te. Come amici, voglio dire, tu mi piaci…
mi
piaci molto, ma-».
Anche
questo sarebbe finito, Winslow,
pensò. Che a
lui, lei
piacesse o meno, non aveva alcuna importanza.
«Mi
piacerebbe», la guardò solo un momento, voltandosi
e riguardando
avanti la strada, «uscire di nuovo solo… mh, per
conoscerci.
Niente di serio se», rise, «tu-tu non vuoi, certo
che non vuoi».
Quanto
parlava, pensò ancora. Era diverso dai ragazzi con cui era
abituata
a uscire di solito. Non sapeva però se questo era un bene,
doveva
pensarci: con loro non aveva mai avuto paura di sbagliare
perché
volevano una cosa soltanto e lei voleva lo stesso, non si era mai
posta il problema di pesare le parole né di fingersi una
persona
interessante con cui fare conversazione. Di fare conoscenza. Lei
stessa non aveva mai voluto conoscere qualcuno, se non Lena.
«Magari
possiamo… tenerci in contatto?»,
allungò lo sguardo al suo
cellulare poggiato sulle gambe e Indigo gli lanciò
un'occhiata.
«Come amici. Non… Non è una trappola,
vorrei davvero solo parlare
per…», deglutì,
«perché ti ritengo una persona incredibile. E
non perché ero», rise, «lo sono ancora,
un tuo fan».
Era
seccante. «Va bene».
Il
ragazzo estrasse un sorriso e annuì, riguardando avanti. Fu
allora
che successe: veloce, la strada era buia, fece appena in tempo a
vedere le luci che quell'auto finì loro addosso.
La
vecchina uscì dalla macchina che le tremavano le gambe.
«Oh,
cielo…». Winn si resse la testa, appoggiato allo
schienale. Gli
girò tutto, stordito, aprendo gli occhi per controllare
Indigo al
suo fianco. La macchina aveva preso un urto molto forte.
«Stai
bene?».
«Sì…
Che cavolo è successo?», ringhiò,
sporgendosi per guardare la
signora attraverso il vetro che andava lenta contro di loro. Winn
scese dall'auto per assicurarsi che anche lei stesse bene e Indigo
sbuffò, aprendo la portiera per raggiungerli e guardare il
danno.
«Non
vi ho visti», ripeté lei per l'ennesima volta,
portandosi una mano
contro il petto. «Voi mi siete venuti addosso».
Winn
si portò le mani sui capelli vedendo le condizioni dell'auto
che,
continuava a ripetere, stava ancora pagando, con in sottofondo la
donnina che imperterrita proseguiva a lamentarsi.
«Lei
è venuta addosso a noi», Indigo guardò
la macchina e la signora,
indicandogliela. «Pure dritta, sembra fatto apposta. Diamine…».
La signora si animò immediatamente al fronte di quelle
accuse e la
ragazza prese il cellulare, componendo il numero di Lena. O avrebbe
dovuto chiamare Alex Danvers?
«Indigo,
aspetta», lui si avvicinò scattante, voltandosi
per guardare la
signora che ancora borbottava infastidita. «Prima di chiamare
qualcuno, dovremmo-».
«Io
chiamo il nove
uno uno»,
sbraitò l'anziana.
Cellulare
già a portata d'orecchio e Winn sbiancò, ma mai
quanto Indigo. La
signora chiese assistenza e lei tornò indietro di un passo,
mentre
il respiro le si faceva pesante, corrotto dall'ansia. «Non
posso
stare qui», confabulò. Le pupille si dilatarono,
sentì prurito
alle gambe, e alle mani. Se ne doveva andare, se ne doveva andare
subito. «Non posso stare… Chiama…
Chiama tu», biascicò senza
nemmeno guardarlo in faccia. Gli passò il cellulare e si
voltò
iniziando a correre. La donnina chiese cosa stesse succedendo, ma
Winn restò immobile, cellulare in mano.
Diamine,
diamine. Indigo si accorse di aver preso a tremare, fermandosi sotto
l'ombra di un albero. Non sapeva se era scappata a sufficienza, ma lo
sperava. Gli aveva lasciato il suo telefono, diamine! Ci
pensò solo
una volta lì, ormai. In quel momento, le era sembrata la
cosa più
naturale da fare poiché doveva chiamare: la paura era un
sentimento
che le impediva di pensare lucidamente. Se solo Winslow fosse stato
un po' più accorto, le avrebbe letto le chat con il suo
angelo
custode. C'era un codice di accesso, ma lui era in gamba e lei aveva
abbassato la guardia. Come poté commettere un errore
così banale?
Sentì
voci, l'erba che si muoveva, il vento che, lontano, sbatteva
qualcosa. Quando spostava i rami degli alberi sembrava parlarle. Poi
dei passi. Erano vicini, sempre più vicini e si
guardò in giro, nel
buio. Non vedeva nessuno, ma sentiva di non essere sola. Poteva
nascondersi, doveva abbassarsi. Era la polizia? Winslow l'avrebbe
coperta, ma l'anziana… No, la polizia si sarebbe
identificata,
c'era qualcun altro. Assottigliò lo sguardo e
delineò un'ombra, ma
sfortunatamente era ormai troppo vicina. Era alto e imponente, lo
aveva già visto. Oh no, lui no… L'aveva rapita
nel motel, lo
riconosceva. Deglutì e fece mezzo passo indietro: doveva
provare a
scappare da lui fosse stato anche inutile, mentre cercava di capire
cosa avesse fatto ora di sbagliato. Non voleva che la portasse via;
non voleva lasciare la villa e quella vita, non così presto.
Ma lui,
invece di aggredirla, si fermò:
«Non
devo toccarti. Puoi restare». La voce inaspettatamente
armoniosa e
acuta l'avevano colta di sorpresa. «Chiedo scusa a te e al
tuo
amico, ho fatto creare l'incidente perché dovevo parlarti
prima che
tornassi in villa. Sapevo che ti saresti allontanata, sei una ex
detenuta: comprensibile».
Indigo
non capiva: in
villa?
Lo disse in un modo così colloquiale, come se ne fosse
abituato.
«È
difficile trovarti sola, dopotutto. Ma dovevo avvertirti».
«Per
conto suo?», grugnì. A quel punto, il suo angelo
custode non poteva
inviarle un messaggio?
«No»,
rispose pacato e si voltò indietro una sola volta,
ascoltando il
vento. «Dovevo avvertirti sulla mia presenza a villa
Luthor-Danvers», affermò con voce armoniosa, quasi
da soprano.
Lei
ascoltò attentamente e ingigantì gli occhi,
deglutendo. Era
circondata, pensò allora Indigo, continuando a reggersi alla
corteccia dell'albero. Non poteva permettersi una sola mossa
sbagliata: lui, Noah che le stava dietro e la fotografava, il suo
angelo custode che le scriveva come per assicurarsi che non si
dimenticasse di lui. Sarebbe tutto finito, ora ne era ancora
più
certa. E sarebbe finito male.
Pochi
minuti più tardi fu Kara a trovarla e a riportarla indietro,
prima
da Lena e insieme in villa.
«Che
cosa accidenti le era passato per la testa?», Kara
sbottò,
camminando in cerchio in salotto. Era ancora agitata e lo era anche
Lena, seduta sul divano. Quest'ultima si teneva strette le ginocchia
sul petto, pensando. «I-Io l'ho capito, okay»,
fermò i passi di
colpo. «Era in prigione, è stata fatta uscire da
una persona per un
lavoro e solo per quel motivo, se n'è andata da lui e ha
avuto paura
di essere scoperta, ma scappando in quel modo…»,
gesticolò, «che
cosa pensava di fare? Aggirarsi da sola… Questo garante
può aver
mandato qualcuno a cercarla. Doveva restare lì»,
annuì, «e i
poliziotti nemmeno l'avrebbero riconosciuta». Poi
guardò Lena, che
alzò lo sguardo a sua volta. «Ha-Ha gli
occhiali».
Lei
sospirò, tenendo la testa con una mano. «Doveva
scappare».
«Cosa?».
«La
polizia avrebbe registrato il suo nominativo, Kara. Lui l'avrebbe
trovata».
Lei
spalancò la bocca, iniziando a calmarsi. «A
questo… non avevo
pensato». Dopo si andò a sedere al suo fianco,
abbassando la testa.
«Ma non avrebbe dovuto allontanarsi».
«Non
troppo. Avrà avuto paura», borbottò,
guardandola negli occhi.
«Andiamo a dormire. Ci siamo prese uno spavento ma nessuno si
è
fatto male seriamente. A
parte l'auto di Winn».
Si alzò dal divano e le prese le mani con le sue, aiutandola
a
tirarsi su e a seguirla. «E gli occhiali, Kara…
non so come
dirtelo, ma non funzionano al cento per cento come
copertura», le
ricordò sulle scale.
La
macchina di Winn era ancora dal carrozziere, mentre la vecchietta che
gli era andata addosso cercava di convincere le forze dell'ordine che
era stato lui a non vederla arrivare e a non fermarsi, continuando a
blaterale su come ci fosse anche una ragazza che poi era magicamente
scomparsa. Sapevano che il caso era passato tra le mani di Maggie
Sawyer e Charlie Kweskill, dunque si risolse in fretta. Meno in
fretta il tempo che Winn doveva passare con il collare a causa del
colpo di frusta; erano trascorsi tre giorni dall'incidente e gli
avevano consigliato di tenerlo per almeno due settimane, ma anche
solo per via del caldo, non ne poteva semplicemente più. Nel
frattempo, Indigo si era fatta più strana del solito, da
dopo
quell'incidente: era diventata di nuovo fredda, non rispondeva
più a
Kara come al solito anche se tendeva sempre a stuzzicarla, stava per
le sue e non si intratteneva più come prima in chiacchierate
con
Lena, che chiedeva consiglio alla psicologa. Sembrava che le
eccessive temperature di quei giorni le avessero tolto la voglia di
fare qualunque cosa, a parte mangiare. Ma sapevano che si sentiva con
Winn e almeno non si preoccuparono troppo. Pian piano si stava
riappropriando del suo solito umore anche se era spesso distratta;
decisamente non da lei.
Era
quasi metà giugno e, dopo l'anniversario, le cose avevano
ripreso
pian piano il proprio corso.
Per
prima cosa, grazie all'intenso studio con Lena, Kara riuscì
a dare
due esami a poche ore di distanza, e un terzo il giorno dopo, quando
pensò che fosse ormai troppo tardi per recuperare e che
sarebbe
morta nell'impresa.
«Mi
sta scoppiando il cervello. Se non dovessi farcela, ricorda che ti
amo e ti ho sempre amata», disse una sera, mollando un libro
per
tenerle una mano. Era già sul punto di pensare cosa lasciare
e a
chi.
Non
lo dava a vedere e si impegnava molto per seguire lei e le ragazze a
cui faceva da tutor, ma anche Lena era molto stressata: era
finalmente in vacanza dalla Luthor Corp, ma si sarebbe laureata entro
l'anno e quando di tanto in tanto Kara si svegliava durante la notte,
la trovava al centro del letto con una lucetta bassa circondata dai
libri, oppure china davanti alla sua scrivania. Di norma non la
disturbava, ma una notte l'intravide ciondolare dalla stanchezza e si
sporse dal letto per prenderla tra le braccia e così, con
appena un
po' di controvoglia, farla sdraiare.
«Non
ho finito…», soffiò in un brusio, occhi
chiusi.
«Hai
bisogno di riposo; ritroverai tutto domattina», le
stampò un bacio
sulla fronte e la vide sorridere, appesantendo il suo respiro come se
già stesse dormendo. Così la coprì e
la tenne stretta tra le
braccia, lasciando i libri aperti su quel lato del letto.
Era
capace di svegliarsi prima di lei e davvero ritrovare il filo
lì
dove lo aveva lasciato ore prima. E lei si stava svegliando davvero
presto poiché aveva ripreso l'impegno di correre ogni
mattina. Le
lasciava un bacio con il rischio di graffiarsi con una penna che Lena
metteva in bocca, si alzava di corsa, andava a lavarsi e vestirsi e
usciva. Solo per infastidirla bussava alla porta chiusa di Indigo,
passando in corridoio. C'erano un sacco di strade sterrate che valeva
la pena di attraversare da una villetta all'altra, e Kara si era
segnata in testa un percorso immaginario che prendeva ogni giorno: si
fermava per ascoltare gli uccellini cinguettare su un albero su cui
aveva sorpreso un nido, ad accarezzare un cane dietro un cancello che
l'aspettava, a osservare una cucciolata di gattini appena nati con
mamma gatta intenta a lavarli, a salutare con un'alzata di mano una
vicina che, in vestaglia, apriva la portafinestra di un balcone ogni
mattina alla stessa ora prima di andare a lavoro. Al percorso
inverso, salutava invece la sua domestica che entrava con l'auto
dietro il cancello. Si stava costruendo le sue abitudini e per poco
non pensò di lasciare la sua camera al dormitorio, anche se
significava trascorrere meno tempo con Megan. Ma doveva frenare
quella voglia, forse avrebbe cambiato idea alla fine delle vacanze
estive, quando non avrebbero più avuto la villa solo per
loro.
Intanto,
Faora Hui e il suo destino erano ancora sulla bocca di tutti, e come
poteva essere altrimenti. Quella quasi metà di giugno
portò con sé
anche una svolta che le riguardava: il coroner diede il via alla
sepoltura della salma e i genitori le organizzarono il funerale.
Anche quella fu una giornata particolarmente soleggiata.
«Come
sto?». Maggie si spinse per bene la camicia dentro i
pantaloni e
Alex si avvicinò per lisciarle la giacca nera sulle spalle.
«Voglio
venire anch'io», confidò poi a bassa voce,
guardando la compagna
negli occhi. Lei ricambiò al suo sguardo con una vena di
compassione
che Alex cercò di ignorare.
«È
meglio di no… Vorrei tanto che fossi al mio fianco, ma non
credo
sia una buona idea».
Si
scambiarono un lento bacio e chiusero gli occhi appoggiando ognuna la
fronte sull'altra, prima di separarsi. Alex cercò di
costringersi a
restare a casa ma non ci riuscì, l'impulso di presentarsi fu
troppo
forte: si cambiò indossando un sobrio abito nero e raggiunse
il
cimitero. Quando con la macchina si accostò al parcheggio,
intravide
subito Maggie e quel Charlie Kweskill l'uno accanto all'altra. Lui
era alto e palestrato, lei minuta, come non notarli. C'era meno della
gente che pensava: Faora aveva perso gli ossequi che spettavano a una
poliziotta e probabilmente anche quelli come membro
dell'organizzazione. Aveva tradito entrambi. Stava per parcheggiare
che una macchina dietro alla sua le fece gli abbaglianti.
«Sapevo
che saresti andata lo stesso». Kara l'abbracciò e
dopo Lena,
entrambe in nero.
«Pensavamo
di farti compagnia», aggiunse la seconda e tutte e tre
insieme
lasciarono le macchine, con andatura lenta.
I
lamenti della madre di Faora, tra le braccia del marito affranto,
sovrastavano la voce del sacerdote locale che parlava con un
libricino aperto davanti al naso. La bara era al centro, circondata
da corone di fiori. Adrian Zod aveva la testa china e le mani tenute,
vicino ad altre persone che immaginarono essere famigliari della
ragazza. Erano ormai vicine e i passi attirarono l'attenzione di
qualcuno. Erano lì solo per dare l'ultimo saluto a Faora Hui
come
tutti, per farle sapere che non avrebbero voluto che le cose
andassero in quel modo, ma non appena sua madre alzò la
testa,
allora strinse gli occhi e i denti con rabbia cieca, correndo in loro
direzione.
«Come
ti permetti?!», prese a urlare, incurante di aver interrotto
il
rituale religioso. «Come ti permetti di farti vedere
qui?!».
Kara
si mise in mezzo e Lena tirò Alex per un braccio, mentre il
padre di
Faora raggiungeva la moglie e così anche Maggie, fermando
altri
parenti arrabbiati. Anche Charlie si avvicinò e
tentò di placare
l'ira della donna.
Alex
aveva gli occhi lucidi, ci volle poco che il viso le si rigò
di
lacrime. «Mi dispiace…»,
sussurrò, «... mi dispiace». Non era
in grado di dire altro in quel momento, ma non quelle parole
né
quelle lacrime arrivarono al cuore in frantumi della madre di Faora
che, con voce fredda e spezzata, le ordinò di andarsene. E
lo fece:
Alex si voltò e Kara le andò dietro, chiamandola
e infine riuscendo
a fermarla. Le parole le morirono in gola non appena l'ebbe vista
girarsi e, rossa e con gli occhi gonfi dal pianto, scosse la testa.
Kara la prese subito tra le braccia e Alex si lasciò
stringere,
iniziando a dar sfogo a tutta la sua frustrazione e al suo dolore.
Non era colpa sua, sapeva che non lo era, ma una parte di lei non
riusciva a toglierselo dalla testa. Era stata lei a sparare Faora:
avrebbe potuto agire diversamente, quel giorno? Ci sarebbe stata
un'altra strada? Maggie si avvicinò e Kara la
lasciò a lei,
stringendola a sua volta, bisbigliandole qualcosa e regalandole dei
baci caldi. Così la minore delle Danvers si voltò
verso Lena e le
due si scambiarono uno sguardo triste, consapevoli che sarebbe potuto
succedere.
Se
non altro, considerando che era meglio non restare ferma a pensare
allo sguardo ferito della madre di Faora che la malediceva, l'afoso
pomeriggio successivo, Alex decise di prendere in mano la situazione
e spuntare dalla lista delle cose da fare qualcosa che doveva fare da
tempo. Non aveva il turno in boutique e il giorno libero al D.A.O.,
dunque si diresse alle vecchie palazzine dove diceva di essere
cresciuta Indigo e da dove era convinta di essere scappata dal
garante che la teneva prigioniera. Alex era sempre più
convinta che
Indigo non fosse altro che una brava bugiarda e per quanto Kara si
stesse affezionando alla sua presenza, le dava ragione. C'era
qualcosa che non tornava in lei e voleva scoprirlo. Almeno sapeva che
sarebbe stata utile in qualcosa.
Parcheggiò
vicino ad altre macchine e si mosse a piedi: il marciapiede era
friabile ai bordi, c'erano buchi sul cemento, i balconi di alcune di
quelle palazzine avevano l'aria di essere ancora attaccati con appena
uno strato di colla vinilica. Cercò la via dove la ragazza
aveva
passato l'infanzia e, sulla piazzetta al centro dei complessi,
alzò
la testa, adocchiando l'appartamento. Incrociò qualche
donnina
anziana che non si lasciò scappare dettagli sulla famiglia
che
viveva lì un tempo: Indigo fu descritta come una ragazzina
seria e a
tratti timida, ma era più che altro del suo fratello
più piccolo
che amavano raccontare, il prodigio morto a nove anni in seguito a
una sparatoria. Alex parlò un po' con loro fuori e dopo con
chi la
fermò sulle scale della palazzina, entrata per dare uno
sguardo
all'appartamento. Le aprirono la porta della casa che era rimasta
vuota da quando la famiglia si era divisa: c'era polvere, puzzo di
muffa, cacca di uccelli essiccata sul pavimento e piume. Tante piume.
Una delle finestre era rotta e i piccioni entravano liberamente.
«È
rimasta così da allora?», si voltò
verso il padrone, che aveva le
mani nelle tasche dei pantaloni e lo sguardo annoiato.
«Per
quel che ne so, sì. A parte gli uccelli. Nessuno
è più tornato,
nessun altro la vuole».
Sapeva
che la madre di Indigo era stata accolta in una casa di cure dopo la
morte del bambino e più tardi sarebbe passata a trovarla.
Sullo
stipite di una porta c'erano segnati a matita i livelli di crescita
con a fianco i nomi di Indigo e Cyan. Li fotografò prima di
andarsene, ricordando che anche i suoi genitori avevano segnato la
sua crescita, quando era piccola.
Dopo
continuò il suo giro a piedi per cercare il famoso magazzino
secondo
cui lei era scappata dal garante. Ne trovò uno e il
proprietario si
offrì gentilmente di farla entrare, mostrandole le merci:
salumeria,
non vernici. Indigo le aveva detto che il magazzino, o garage,
puzzava di vernice. Si fece dare indicazioni, chiese alle persone del
posto se, per caso, avevano visto una ragazza sospetta aggirarsi da
quelle parti poco tempo fa, e la descrisse, ma nessuno le
poté dare
qualche informazione importante. Quel magazzino, o garage, non
sembrava esistere. O almeno non da quelle parti.
«Ci
ha detto una bugia», riferì a Kara tramite
cellulare, rientrando in
auto. «Se Indigo è scappata davvero, non
è scappata da qui».
Kara
non si lasciò attendere: «Beh,
la cosa non riesce a sorprendermi… Nasconde
qualcosa. Quando
eravamo a Star City, le ho trovato nella borsa tante, e
davvero tante,
foto di Lena scattate in momenti casuali della giornata. Non l'ho
detto a Lena e Indigo da allora non ha più fatto niente di
strano,
ma…».
Alex
sbuffò, dopo aver sistemato il sedile per la guida.
«Avresti dovuto
dirmelo. E come si era giustificata?».
«Ha
detto che gliele faceva avere il garante, ma non lo so… Non
so se è
vero».
«Beh,
a questo punto, ogni cosa che esce dalla sua bocca dobbiamo prenderla
con le pinze. Dobbiamo tenerla d'occhio, sorellina». Mise in
moto,
lasciando la telefonata in vivavoce. «Non ha mentito sulla
sua
infanzia, ma lo ha fatto sulla sua fuga: cos'ha da nascondere? E se
non fosse affatto…».
«Scappata»,
finì Kara per lei. «Potrebbe non essere
scappata». Staccò la
telefonata e guardò fuori verso il giardino, dove Indigo e
Lena
parlavano riparate sotto la tenda da sole. Parlavano chissà
di cosa,
poi. Se il garante voleva qualcosa da Lena e Indigo stava lavorando
per lui, allora…
«Alex
non ha trovato il magazzino, va bene», Lena
scrollò le spalle e
scosse la testa. «Questo non può dimostrare altro
se non che Indigo
si è sbagliata. Può capitare, stava
scappando».
Kara
provò a metterla in guardia, non poteva non dirglielo, ma
lei…
«Alex ed io pensiamo che possa ancora lavorare per il suo
garante».
La vide serrare con forza le labbra, seccata. «Pensaci, Lena:
se lei
sta ancora lavorando per lui e lui vuole qualcosa da te, è
per
questo che è venuta qui ed è
-è… beh-».
«Tu
e Alex pensate che menta sulla sua cotta per me?».
Mise
le braccia a conserte e guardò Kara con occhi freddi, tanto
che lei
deglutì, sentendosi in soggezione. «N-Non sto
dicendo che lo
faccia, ma… potrebbe! Sì, potrebbe! Cerca di
entrare nelle tue
grazie pe-per qualcosa, non so cosa, ma forse è il caso di
chiederglielo».
«Lasciala
in pace», le chiese subito dopo. «Tu ed Alex. Non
vi fidate di lei,
è chiaro da tempo, ma Indigo sta facendo un percorso con la
psicologa ed è provata, non voglio che le mettiate pressione
per
qualcosa di cui non avete prove! Si sta riprendendo adesso da
quell'incidente-».
«Dove
non si è fatta niente», provò a
obiettare, tappandosi subito a un
suo sguardo.
«La
conosco», precisò nonostante Kara
gonfiò le guance, «O meglio sto
imparando a conoscerla e vedo come mi guarda, non sta mentendo! E ce
la sta mettendo tutta per farsi apprezzare. Dunque… lasciala
in
pace, Supergirl.
Tu ed Alex».
Si
allontanò e Kara gonfiò anche gli occhi: ce
l'aveva con lei,
adesso? Abbassò la testa e riprese il cellulare da una tasca
dei
pantaloni quando lo sentì vibrare.
Da
BadSister a Me
Sono
andata a trovare la madre di Indigo: soffre di alzheimer, Kara.
Ricorda di aver avuto dei figli e nient'altro, pensa che siano
bambini ed entrambi vivi. Le infermiere non mi hanno saputo dire
molto, è la prima volta che qualcuno va a trovarla da quando
si
trova lì.
Kara
aggrottò lo sguardo. Certo, se fosse davvero scappata, il
capezzale
di sua madre sarebbe stato il primo luogo dove il garante l'avrebbe
aspettata per riprendersela. Se fosse scappata. Rialzò lo
sguardo e
la ritrovò a pochi passi da lei, rientrata dal giardino. I
loro
sguardi si incrociarono.
«Fammi
indovinare, Kara Danvers», le sorrise, «ho fatto
qualcosa di
sbagliato? Tutto ciò che faccio lo è,
no?».
Kara
si stette zitta, soprappensiero, adocchiandola fino a vederla andare
di sopra.
Durante
quei giorni, e in pausa dallo studio, lei e Lena si misero di serio
impegno per controllare i dati all'interno della chiavetta inviata da
Clark Kent e Lois Lane. Lena trovava che lavorare al suo fianco e non
dietro un pc era eccitante: Indigo era veloce e attenta ai
particolari, non si fermava di fronte a un dubbio e scavava subito
sul web in cerca di conferme; e niente poteva fermarla, aggirava ogni
divieto, entrava dove voleva. Era un aiuto davvero prezioso.
Da
X a Me
Ti
sei ripresa dall'incidente? So che mi sono già espress* in
altre
occasioni, ma mi dispiace davvero che il nostro amico in comune non
abbia pensato di rivolgersi a me, invece di fare ciò che ha
fatto,
Indigo. Spaventarti in quel modo… È fatto
così. Ti chiedo di
nuovo scusa al posto suo.
Lei
restò immobile, col cellulare in mano. Le chiedeva scusa da
quando
seppe dell'incidente, quasi si preoccupasse per la sua salute. Era
irritante, a modo suo. Anche più di altre persone irritanti.
«È
Winn?».
Indigo
alzò lo sguardo serio di scatto, ritrovando gli occhi verdi
e
indagatori di Lena che la fissavano. Forse era rimasta ferma ad
analizzare quelle lettere un po' troppo a lungo. Stavano lavorando
davanti al laptop e a documenti sparsi per il tavolo, non poteva
permettersi di distrarsi in quel modo. E proprio perché
quella
chiavetta usb conteneva tanti dati sui Luthor, non solo avrebbe
dovuto scriverlo a lui, ma sarebbe dovuta essere più
presente per
lei, che ogni volta che scoprivano qualcosa di nuovo era un tuffo al
cuore.
«Sono
contenta che tu e Winn», bofonchiò, reggendosi la
tempia per
appoggiarsi al tavolo, «andiate d'accordo».
«Abbiamo
tanto in comune».
Lena
sorrise, non smettendo di fissarla. «Sono contenta che tu
possa
contare su qualcun altro, oltre a me. E Kara»,
alzò gli occhi, «Fa
tanta scena, ma ci tiene a te».
Indigo
non rispose, riportando il suo sguardo al cellulare.
«Posso… Posso
rispondere a Winslow?». La intravide sorridere ancora e
annuire,
così riaccese il monitor, scrivendo rapidamente.
Da
Me a X
Ho
davanti una usb piena di materiale sui Luthor. Lena ed io la stiamo
esaminando e sembra che molte delle cose riportate siano vere e
confermabili, mentre altre, da piccole verità, sono
semplicemente
montate per apparire più grandi e spaventose. Come devo
comportarmi,
angelo custode? Non voglio ferirla.
Da
X a Me
Temo
che quello sia un passaggio obbligatorio per il tuo lavoro, Indigo.
Che siano dati reali o meno, è l'occasione che aspettavamo e
devi
coglierla. Usala contro i Luthor. Segna il suo cuore. Un giorno
capirà anche lei chi sono e chi sono state quelle persone. E
guarirà.
Indigo
spense il monitor e la guardò, poi di nuovo il laptop e quei
dati,
scorrendo con il mouse. Con la coda dell'occhio, notò Lena
dare un
nuovo sguardo ad alcuni documenti sul tavolo, prendendoli in mano:
era stanca e provata, glielo si leggeva in faccia. «Ci
fermiamo?»,
propose.
«No»,
sorrise mestamente lei, scuotendo la testa. «Devo
sapere».
Lena
non aveva bisogno che lei spingesse su quei dati per metterla contro
i Luthor, perché stava percorrendo quella strada da sola. I
Luthor
stessi la stavano portando su quella strada.
Eppure,
se le cose di cui preoccuparsi e occuparsi non mancavano, c'era
qualcos'altro che richiedeva la loro urgente attenzione in quelle
calde giornate di giugno: la vendita delle pillole rosse di Maxwell
Lord al generale Lane. Il primo aveva detto ad Alex che a fine mese
si sarebbe tenuta una festa a casa sua in occasione della riuscita
del progetto e lei ne parlò prima con Maggie e, cogliendo
l'occasione di un pomeriggio libero prima del ritorno di Eliza e
Lillian, andò in villa e poté accennarlo a Lena e
Kara. Compreso
l'invito. Maggie era scettica ed era convinta che, a quel punto, non
era più una cosa che riguardava loro ma solo i diretti
interessati,
Maxwell Lord, Lex e il generale Lane, e che avrebbero dovuto lasciare
che se la sbrigassero da soli.
«Lex
non ha denunciato il furto quando doveva», spiegò,
«se lo avesse
fatto, allora sarei potuta intervenire». Guardò
Alex al suo fianco,
sul divano in salotto della villa. Incurvò la testa da un
lato e
prese fiato quando si accorse che non era d'accordo. «Siamo
agenti,
Alex. Finché non c'è reato, più che
avvertire delle nostre
scoperte, non possiamo fare altro». Le strinse più
forte la mano
con la sua, voltandosi per incrociare gli sguardi delle altre due,
sull'altro lato del divano. «A meno che qualcuno non
vorrà di nuovo
introdursi in proprietà privata per rubare merce»,
notò Kara
abbassare lo sguardo e digrignare i denti, «Ma lo sconsiglio:
ho
saputo che alla Lord Technologies hanno aumentato i sistemi di
sicurezza. La verità è che abbiamo già
altro a cui pensare senza
doverci impicciare dei problemi altrui». Si alzò
dicendo di dover
andare in bagno, allungando lo sguardo a Indigo che, seduta sugli
scalini tra l'ingresso e il salone, trafficava con il cellulare
fingendo di non ascoltarle.
«Oookay»,
mormorò Kara. «Quindi… Maggie non
sarà dei nostri».
«Al
prossimo furto?», Lena arcuò un sopracciglio
curioso.
«I-Intedevo
nel fermare questa cosa», scrollò le spalle.
«Non arriveremo a
tanto… di nuovo».
Alex
si portò in avanti, sistemando le braccia sulle gambe con
fare
stanco. «Scusatela. È molto per le sue da un po' a
questa parte;
senza contare che ormai, per sapere qualcosa sulle sue giornate, devo
aspettare di leggere il rapporto», mormorò.
«E non vuole. Ieri
abbiamo litigato…».
«Oh,
Alex», Kara la raggiunse subito per abbracciarla,
«Mi dispiace».
«Penso
che in fondo non abbia torto sulle pillole», le interruppe
Lena e le
due si voltarono. Sapeva che Kara le avrebbe fatto quello sguardo
contrariato. «Aspettate, non sto dicendo che dovremo
lavarcene le
mani, ma sono anche conscia che, più di quello che stiamo
provando a
fare, non c'è davvero altro. Non possiamo denunciare il
furto delle
pillole originali al posto di Lex».
Kara
scosse la testa, facendo una smorfia con le labbra.
«Insistiamo, no?
Okay, non c'è altro, ma è abbastanza»,
strinse i pugni. «Dobbiamo
convincerli. A ogni costo».
«Kara…»,
Alex scosse la testa e la sorella si voltò scattante.
«È pur vero
che non possiamo insistere per sempre. Se sono già arrivati
a questo
punto…».
«Da
che parte state?».
Lena
fissò Kara attentamente, come si agitasse quasi fosse
personale,
allora prese un bel respiro. «Richiamerò Lex,
più tardi. Proverò
a fare il miracolo».
«Grazie»,
le sorrise Kara di rimando. «E io chiamerò Lucy
Lane. Magari questa
volta vorrà…», ingigantì gli
occhi, «Proverò a farmi
ascoltare». A una smorfia di Lena, allora abbozzò
una risata. «È
l'unico contatto che abbiamo con il generale Lane».
Lei
si portò le braccia a conserte, arricciando il naso.
«Non sto
dicendo niente».
«Pff».
Kara poi rivolse lo sguardo di nuovo a sua sorella: Alex guardava
altrove, immobile. Non ebbe bisogno di dirle niente, sapeva che la
stava fissando.
«Cosa?»,
stralunò gli occhi. «E va bene!
Chiamerò Lord! Sarà una pasqua,
non aspetta altro», sbuffò.
Maggie
uscì dal bagno qualche secondo più tardi e Indigo
la tenne d'occhio
di nuovo: il viso incavato, basso, batteva impercettibilmente le dita
delle mani contro i jeans, era distratta. Pensò che il suo
ruolo
come spia la stesse consumando; doveva passare un periodo difficile e
si chiese come mai. Al suo angelo custode non interessava e per
questo non le aveva mai ordinato di tenerla d'occhio, al contrario le
aveva espressamente chiesto di stare alla larga dai piani
dell'organizzazione, però… Però,
forse, era a lei che
interessava. A Indigo persona. Poteva avere anche lei degli interessi
al di là del suo lavoro. Oh, si chiese che cosa avrebbe
lasciato di
sé a quelle persone una volta che se ne sarebbe
andata…
L'avrebbero ricordata come una traditrice? Era lei la vera spia.
Inquadrò Lena, mentre tutte si alzavano dal divano per
salutarsi.
«Jamie
ancora all'asilo?», chiese Kara, curiosa.
«Oh
no, oggi è con i suoi», Alex prese un grosso
respiro e Maggie
altrettanto, passandosi una mano sulla fronte. «La riportano
loro
stasera. Ceneranno con noi».
«Si
sono autoinvitati», precisò l'altra,
incamminandosi a fianco a loro
verso Indigo seduta sulle scale. «Come se non ci fossero mai
abbastanza buone notizie».
La
salutarono a turno, passando per l'ingresso, e lei alzò
appena una
mano. Le continuò a guardare anche quando aprirono il
portone per
uscire.
Chiese
un bicchiere, seduta davanti al bancone del bar. Aveva detto a Maggie
che sarebbe andata alla base del D.A.O. per rivedere alcune pratiche
e che una volta lì ne avrebbe approfittato per fare quella
telefonata a Maxwell Lord, ma la verità era che aveva
bisogno di
aria, di un momento suo per pensare. Sentiva come se qualcosa le
stesse sfuggendo di mano. Maggie non la respingeva, si comportava
come sempre, ma il fatto che non la tenesse aggiornata su cosa stesse
facendo in centrale e del suo rapporto con Charlie Kweskill e Zod, la
metteva di malumore e non riusciva a non farglielo notare. Si animava
sempre troppo quando li nominava, non voleva. Sapeva che era stata
una pessima idea quella di coinvolgerla, lo sapeva. Faora Hui era
morta e lei non voleva includerla in quel mondo che l'aveva uccisa.
Beh, a quel punto sarebbe stato meglio pensare a Maxwell Lord: era
come visualizzarlo che saltellava dalla gioia, all'interno del suo
ufficio.
«Uno
per me e un altro per la signorina». Alex si voltò
alla sua
sinistra, ritrovando Carina Carvex intenta a sedersi sullo sgabello.
«Con ghiaccio, per piacere», aggiunse rapida, per
poi sorriderle.
«Combattiamo la calura, eh?! Sembra che questo giugno sia
più caldo
dei precedenti, non trovi anche tu?».
Alex
annuì, lanciandole un'occhiata. «So che
è presto per bere, ma non
sono in servizio».
«E
io non sono John Jonzz», ribatté, facendole
l'occhiolino.
«Cosa
fai qui?».
«Mh,
ti seguivo». Carina la vide ridere così si
sentì subito in dovere
di specificare per non essere fraintesa: «Dico davvero, ti
seguivo.
Non era una battuta». Ringraziò il barman e fu lei
a ridere,
osservando la sua faccia confusa. «Hai vinto, se mi guardi in
quel
modo non posso che spiegarmi, collega: ero preoccupata per
te».
Carina abbassò gli occhi e sorrise un poco. «Sei
contenta? Sono
andata al funerale di Hui l'altro giorno e ti ho vista… Ero
lontano, non volevo che la madre se la prendesse anche con me; non mi
aspettavo di vederti arrivare ed eri, beh, eri un
po'…», arricciò
il naso e bevve un sorso, passando a lei la palla.
«Un
po' penosa», proseguì Alex, anche lei portando il
bicchiere alle
labbra.
«No»,
sorrise, dandole un colpetto. «Penosa
mai. Coraggiosa
credo ti si addica di più. Sei andata là a testa
alta, fregatene
del resto. La morte di quella ragazza non è colpa tua: te lo
ripeto
ancora e te lo posso ripetere all'infinito».
Arrossì, voltandosi di
scatto. «Guarda cosa mi stai facendo dire,
partner», aggiunse,
osservandola con la coda dell'occhio mentre abbassava lo sguardo:
«per la prima volta, penso ti aver trovato un'amica
e», sorrise,
«non sopporto di vederti così a terra».
Alex
finì il resto del bicchiere in un sorso, sentendo il suo
sguardo su
di lei. Cosa voleva? Si erano parlate altre volte, molte volte, ma
ultimamente sembrava starle addosso come un segugio. Forse era
davvero una spia dell'organizzazione, dopotutto. Era così
stanca che
vedeva complotti ovunque. «Sei il tuo
ragazzo…», iniziò,
mantenendo basso lo sguardo, «fosse coinvolto in qualcosa di
pericoloso-».
«Il
mio…?
Un
assicuratore. Il massimo del pericolo sarebbe
stato
che gli si bucasse
una gomma in autostrada», scherzò ma, vedendo il
suo sguardo serio,
tornò seria di colpo anche lei. «Oh, ma parli di
Maggie? Scusami».
Sospirò.
«E di punto in bianco decidesse di tagliarti fuori da quello
che gli
succede: come la prenderesti?».
Carina
scrollò le spalle, ordinando altri due bicchieri al barman.
«Non
bene. Ma trattandosi della… Di punto in bianco…?
Cosa intendi per
di
punto in bianco,
Danvers, dopo il funerale di Hui?». Aspettò che
confermasse,
bevendo un sorso. «Ha visto com'eri al funerale e ha pensato
di
tenerti al sicuro. È possibile?», si scambiarono
uno sguardo. «Non
la conosco bene quanto te, ma è quello che farei
io».
Alex
finì il bicchiere e non rispose, alzandosi dallo sgabello.
Lasciò i
soldi sul banco e stava per ringraziarla della compagnia che Carina
le disse di riprenderseli, spostando la banconota.
«Offro
io, non preoccuparti. Ti ho seguita», alzò le
spalle, «è il
minimo».
«Ma
no», tirò indietro la banconota. «Non ho
bisogno-».
«Che
sia gentile con te? Danvers, andiamo», scrollò lo
sguardo, «Siamo
partner e ci sosteniamo a vicenda». Toccò la
banconota proprio
nell'esatto momento in cui lo fece anche lei e le loro mani si
sfiorarono. Un attimo fugace e Carina ritrasse subito la sua,
abbassando gli occhi di nuovo, sfoderando un altro sorriso,
più
impacciato. «Cielo, non vorrei che Maggie Sawyer si faccia
idee
sbagliate», prese a ridacchiare, ma non rialzò lo
sguardo. «Prima
ti seguo, poi… beh».
Alex
decise di mettere via la banconota e ringraziò in un
sussurro. «E-E
come vanno le cose tra te e il tuo assicuratore?».
Perché aveva
come percepito del disagio tra loro, tutto a un tratto?
«Male,
effettivamente: ci siamo lasciati. Ieri».
«Come?
Mi dispiace». Ne aveva parlato altre volte e le era sembrato
un
bravo ragazzo.
«Beh,
non… È complicato, partner», si era
sforzata per sorridere,
questa volta: non sembrava da lei. «Non sono la brava ragazza
che
credi e… se n'era accorto», alzò il
bicchiere in mano con un
gesto.
Alex
scrollò le sopracciglia, formando un sorriso.
«Tutti abbiamo un
lato di noi che non vorremmo mai far conoscere agli altri. Specie se
poi sono persone a cui teniamo».
Carina
Carvex scolò il contenuto del suo bicchiere e ne chiese un
altro al
barman, intanto che annuiva quasi con rassegnazione.
«… già. Ho
sbagliato tante di quelle cose, che Babbo Natale non mi rivolge la
parola da anni. Ma non ero innamorata di lui, forse è meglio
così.
Non sempre… riusciamo a ottenere ciò che
vorremmo. No?», borbottò
e poi deglutì, prendendo il nuovo bicchiere e ringraziando
con un
cenno il ragazzo dietro al bancone.
Alex
la ringraziò di nuovo e se ne andò, persa nei
suoi pensieri. Carina
Carvex amava il sarcasmo, ma lì non ne aveva trovato
traccia. E in
effetti le era sembrato un discorso strano. Quelle parole, e come si
era comportata, sembrava quasi che… No, era fuori
discussione: le
stava dietro perché interessata? Non era nemmeno la prima
volta che
nominava Maggie in quel modo ma… no. Allora era certamente
una spia
che voleva mettere mano all'indagine, perché quello non lo
accettava; non anche lei, dopo Max. Come se di problemi non ne avesse
già altri. Non anche lei.
Nel
frattempo, ripensando alle pillole rosse e a Maxwell Lord, Kara si
era fatta una veloce passeggiata fino al campus. Aveva bisogno di
allenamento, quindi aveva rifiutato quando Lena si propose per
accompagnarla, lasciandola sdraiata a letto per riposare. La ragazza
aveva chiamato suo fratello come promesso ma non era riuscita ad
ottenere niente, se non l'ennesimo no.
Kara si era così imbrunita che Lena le aveva preso il viso
con le
mani e le aveva fatto una nuova promessa:
«Se
anche con Lucy Lane e Maxwell Lord non dovessimo cavare un ragno dal
buco, andremo a Metropolis, da Lex», aveva annuito.
«Abbiamo
da studiare… E poi la finale-».
«Torneremo
in tempo per la finale e possiamo sempre studiare
lì», si erano
guardate negli occhi.
Kara
sapeva di chiederle molto.
Megan
aprì la porta della camera al dormitorio con la testa tra le
nuvole.
John non si era ancora fatto sentire e dalla preoccupazione stava
passando lentamente alla rabbia- un rumore. Chiuse la porta dietro di
lei con la schiena, setacciando con lo sguardo il tavolo davanti: i
due vasetti di fiori erano stati spostati e così anche le
sedie.
Ancora quel rumore. Avanzò lentamente, scorgendo dall'alto
che
l'armadio di Kara era aperto. C'era qualcuno e- «Oh, sei
tu», si
rilassò.
Kara
sobbalzò di scatto, sbatté la testa su una
mensola dell'armadio e
tornò a picchiare le ginocchia contro il pavimento.
«Certo che sono
io! Abito ancora qui».
«Ne
sei sicura? Mh», poggiò la borsa sopra il letto e
si passò
l'asciugamano che aveva con sé sul volto sudato.
«Ti ho coperta col
coach, prima. Hai saltato l'allentamento».
«Oh,
no», la guardò grave e si portò le mani
sui capelli, «Mi era
completamente passato di testa».
L'amica
scrollò le spalle. «Millard ha creduto alla storia
del dentista. Se
vuoi essere credibile, dovrai solamente perdere un molare entro
domani».
«U-Un
molare?»,
aggrottò la fronte, continuando a trafficare con la testa
dentro
l'armadio. «Aspetta… domani?», si
affacciò di colpo, «Io non…».
Oh, era in un bel guaio…
Megan
si sedette sul letto a peso morto, sconfitta. «Non ci sarai
domani,
vero?».
Kara
deglutì, abbassando gli occhi e mordendo il labbro
inferiore. Diede
una nuova occhiata dentro l'armadio, tirando fuori una pila di fogli
sparsi: dovevano essere lì. «Forse
andrò a Metropolis, domani…»,
mormorò, sfogliando. «Credo che mi
perderò gli allenamenti fino
alla partita».
Megan
a quel punto si alzò, camminando verso di lei e
inginocchiandosi.
«Ti coprirò, per quanto
potrò», garantì. «Cosa
cerchi?».
«Dei
certificati… Potrebbero essere importanti».
Maxwell Lord le
rilasciava un certificato ogni volta che andava da lui per gli esami
e le toglieva il sangue: chissà che non potessero rivelarsi
utili
per convincere Lex.
«Aah,
finalmente»,
sospirò Maxwell, per telefono. Alex lo mise in vivavoce,
seduta sul
lato del guidatore in auto: ferma lì, poteva ancora guardare
Carina
Carvex seduta davanti al banco del bar. «Mi
fa piacere sentirti. Cosa posso fare per te, Alex?».
Si
era memorizzata un discorso che aveva ripetuto fino a poco prima di
comporre il numero, ma al momento esatto in cui lui rispose, lo ebbe
già perso. «Emh…». Tanto
valeva andare dritta al punto. «So che
ti sembrerà improvvisato, ma… devi fermare
l'accordo sulle
pillole. Non puoi venderle».
Forse
lui doveva essersi sorpreso, poiché rispose non prima di
lunghi e
silenziosi secondi. «Ah…
Così tua sorella è riuscita a metterti in mezzo?
Per meglio dire,
entrambe
le tue sorelle. Loro e le loro amiche non hanno fatto altro che
cercare di ostacolarmi, prima al locale a Gotham City, poi qui.
Sapevi che hanno fatto irruzione alla Lord Technologies e sono
riuscite a rubarmi qualcosa?».
«Sì,
io…», abbozzò una risata che
cercò di dissimulare, attenta con
lo sguardo a Carina Carvex che usciva dal bar, prendendo un cellulare
e rimettendoselo in tasca: la vide guardare a destra e sinistra e
dopo attraversare la strada davanti a lei, così
cercò di
nascondersi, abbassandosi sotto il volante.
«Oh,
dunque ne eri al corrente»,
sembrò sbalordito. «Non
dovrei ricordartelo io, ma sei un'agente».
«Un'agente
federale», ribatté, rialzando la testa e
accendendo il motore per
seguirla: era a piedi, perfetto. «Non ci occupiamo di piccoli
furti.
E tu non hai denunciato, mi pare».
Lui
ridacchiò. «Touché,
Alex Danvers»,
esclamò. «Non
volevo metterle nei guai per una cosa da nulla. Ma ammetto che questo
loro cercare di mettermi il bastone tra le ruote inizia a darmi
fastidio».
Carina
Carvex riprese in mano il cellulare: Alex la vide cercare qualcosa e
portarselo all'orecchio, per poi rimetterlo subito via. Passeggiava,
non aveva fretta. «A metterle nei guai… E io che
credevo non
volessi semplicemente la polizia tra i piedi mentre procedevi con i
tuoi loschi affari».
«Loschi?
Mi ferisci»,
cantilenò.
La
seguì fino a una chiesa. Alex assottigliò gli
occhi mentre la vide
dare una monetina a un uomo che mendicava davanti al passaggio, chino
ai suoi piedi. Carina Carvex entrò dal portone e lei
fermò la
macchina dall'altro lato della strada, lasciandosi andare a uno
sbuffo seccato. «Beh, le ragazze non cercano di metterti il
bastone
tra le ruote perché sei loro antipatico-».
«Sono
antipatico?».
«Un
po'. A volte. Ma non è questo, Maxwell: Lena ha analizzato
le
pillole e la formula che ti hanno rubato e ha scoperto che potresti
creare notevoli danni ai militari. È molto rischioso, per
questo
devi annullare tutto».
«Sì…
sono a conoscenza di questo inconveniente: si parla di una minoranza
ristretta e sono sicuro di poter risolvere prima di siglare
l'accordo»,
spiegò, «Ci
sto lavorando ormai da tempo e sono a una svolta, non sono uno
sprovveduto. E questo grazie anche al contributo di tua sorella,
certo. Parlo della bionda».
«Mia
sorella?», Alex si voltò verso il cellulare di
scatto. «Cosa
c'entra?».
«Kara
non te ne ha parlato?»,
intonò gioviale. «È
curioso come proprio lei che è stata la prima a venirmi
contro, sia
stata anche l'unica ad avermi dato un serio aiuto per quanto riguarda
la realizzazione di questo principio in più che sto
sviluppando come
rimedio. Kara è parte di quella ristretta
minoranza».
Alex
provò un brivido. «A-Arriva al dunque, Maxwell:
come ti è stata
d'aiuto mia sorella?». La rivide nei suoi pensieri, a come
fosse
agitata e insistente per fermare quell'accordo. Non voleva crederci.
«Mi
dispiace, non avrei voluto essere io a dirtelo, pensavo ne aveste
già
parlato: Kara ha assunto le mie pillole rosse per un periodo,
facendomi da cavia. Mi è stata davvero molto utile e non
finirò mai
di ringraziarla».
Alex restò immobile, a bocca aperta. «Se
me lo avessi chiesto, invece di partire in quarta, ne avremo parlato
tranquillamente e magari davanti a un buon caffè».
«Devo…
Devo andare». Deglutì e mise su una faccia
seriosa, rimettendo in
moto la macchina e staccando la telefonata. L'auto si
allontanò
svelta e, dopo poco, Carina Carvex uscì dal portone della
chiesa,
con le mani nelle tasche dei pantaloni e guardando in sua direzione.
Sorrise divertita, tenendola d'occhio fino a sparire.
C'era
stato un periodo, e
lo ricordava bene, in cui Kara si comportava in modo strano, diverso
dal solito. Pensava fosse perché lei e Lena non stavano
insieme e
aveva scoperto il collegamento dei Luthor e l'organizzazione, ma a
quanto pareva c'era dell'altro a scombussolarle la testa.
Maledizione;
strinse per bene il volante, girando a una curva. Doveva saperlo in
quel modo? Da Maxwell Lord? Le inviò un messaggio per sapere
dove si
trovava e accelerò. Una volta al dormitorio, salì
le scale con il
cuore che le batteva in gola e ogni volta che deglutiva le bruciava.
Era arrabbiata, ma soprattutto spaventata. Era una parte di quella
minoranza? Poteva farle molto male e lei non aveva pensato di
includerla. Maggie la stava tagliando fuori, Kara lo aveva fatto
prima di lei. Era già stremata da quella situazione, non
poteva
sopportare oltre. Bussò e attese. Bussò di nuovo,
più forte, e
Megan le aprì. La salutò e si buttò
dentro, trovando la sua
sorellina sul pavimento tra un letto e l'altro immersa in un mare di
fogli e foglietti. «Cosa cavolo stai facendo?».
«Sto…
cercando delle cose», affermò senza guardarla,
leggendo un foglio e
mettendolo alla sua sinistra. Megan le si sedette vicino,
ricominciando ad aiutarla. «Perché sei corsa qui?
Hai parlato con
Lord?».
«Oh
sì, ci ho parlato con Lord», si portò
le braccia a conserte.
«Spero tu non sia tanto impegnata da non poter rispondere a
questa
domanda: le pillole di Lord, per quanto tempo?».
Megan
la guardò curiosa e Kara spalancò gli occhi,
sbiancando. Pian
piano, alzò la testa verso la maggiore.
«Ah… Ops».
«Ops?»,
sollevò un sopracciglio.
«Te…
Te lo ha detto lui?». Si tirò in su gli occhiali,
nervosa. «Ma
certo», strinse i denti, «Te lo ha detto per sviare
l'argomento
accordo
con Lane».
«E
tu invece quando pensavi di dirmelo? Avrei preferito- Accidenti a te,
Kara», si interruppe e ansimò, fino a
inginocchiarsi e abbracciarla
di colpo, sotto lo sguardo perplesso di Megan che, facendo finta di
estraniarsi, continuava a smistare fogli. «Per fortuna stai
bene…
Sei stata-così-sconsiderata», dopo le
batté contro una spalla e
Kara si lamentò, cercando di tirarsi indietro.
«Non so cosa farei
se ti capitasse qualcosa, lo sai».
«Scusa,
sorellona».
«Scuse
non
accettate: sono contenta che stai bene, ma sono lo stesso molto
arrabbiata. Se me lo avessi detto, avrei saputo cosa rispondere a
Lord e alla sua sfacciataggine. Dovremo essere una squadra, noi due.
Ti sarei stata vicino e- oh», le balenò il
pensiero, «immagino
l'abbia fatto Lena», concluse, vedendola arrossire. Kara fece
una
smorfia, annuendo. «Per questo sei
così», aggrottò lo sguardo e
strinse i denti, «così
testarda dal fermare quell'accordo a ogni costo? Cosa ti ha
fatto?».
Kara
abbassò la testa e Megan scrutò il suo sguardo,
continuando a
controllare i fogli uno dopo l'altro. «Ero… molto
arrabbiata», si
limitò e i suoi occhi si posarono su un foglio in
particolare: ne
aveva trovato uno, finalmente. Lo prese e glielo passò,
lasciando
che si sistemasse meglio con le ginocchia. Mentre sua sorella era
impegnata con la lettura di quelle analisi, Kara riprese a parlare,
fissando un punto vacuo nella stanza. «Ho commesso un
gravissimo
errore», deglutì. «Non mi sentivo bene,
non riuscivo a dormire e
volevo solo… non pensare. Dovevo essere lucida,
capitemi», scosse
la testa, «perché non potevo permettermi di
abbassare la guardia ed
ero così presa da me stessa che… A-Avevo
già preso una di quelle
pillole, al suo locale a Gotham. Era stata Roulette a mettermela nel
bicchiere. Quelle mi avrebbero permesso di concentrarmi senza pensare
alle cose che affollavano la mia testa e l'ho aiutato. Maxwell Lord
mi ha dato quelle pillole perché io gliele ho
chieste», si voltò
verso Alex, sguardo duro. «L-L'ho aiutato a realizzarle senza
nemmeno rendermi conto dello sbaglio che stavo commettendo! Non
voglio che quelle pillole create anche grazie a me finiscano nelle
mani sbagliate, Alex! Se quei militari dovessero sentirsi
male…
Sono pericolose e-e lo erano ancora prima che diventassero come
quelle controllate da Lena e Lex. Devo fermarli».
Alex
abbassò il foglio e dopo gli occhi, riabbracciando sua
sorella. «Ce
ne sono altri?», glielo indicò. «Vi
aiuto». Vide Kara sorriderle
e ringraziarla, portando un po' di quei fogli dalla sua parte.
Megan,
che fino a quel momento era stata zitta, passò loro un
foglio con le
analisi. «Dunque… ti drogavi?».
Pinzarono
tutti i fogli interessati, con il logo della Lord Technologies bene
in vista. Erano quasi le diciotto e Alex decise di riportare Kara in
villa, sperando di andarsene in tempo per l'arrivo della loro madre
dall'aeroporto. Sarebbe andata a salutare lei e Lillian l'indomani,
aveva già sufficienti parenti da sostenere per un'unica
giornata. Al
suo fianco, Kara era di nuovo soprappensiero e fissava il finestrino:
aveva provato a telefonare a quella Lucy Lane e, per quanto
infastidita dal tema della conversazione, le era stata a sentire,
ammettendo di non saperne molto e che ne avrebbe parlato a suo padre;
il problema arrivò poco più tardi, quando la
chiamò lei per dirle
che l'uomo era stato a una dimostrazione e che ne era entusiasta
tanto che non avrebbe bloccato per niente al mondo quell'accordo. Ma
Alex sapeva che, per quanto avrebbero tentato di buttarla
giù, la
sua sorellina non si sarebbe arresa. «Ehi»,
attirò la sua
attenzione. «Devi promettermi una cosa, Kara. Anzi, dobbiamo
promettercela entrambe», aggiunse, guardando avanti.
«Lo so che non
sono stata un'ottima sorella a nasconderti del mio lavoro; che ti ho
tenuto nascosta una cosa grandissima, anche se per te, e mi dispiace,
Kara, lo so che… che è una cosa che ti
è rimasta impressa, anche
se è passato del tempo. Abbiamo cercato di tornare come
prima, ma…»,
la stava guardando, la intravedeva con la coda dell'occhio.
«Adesso,
facciamolo davvero… Finiamola di comportarci
così».
Kara
serrò le labbra. «Come quando non mi hai detto
della pistola di
Lena?».
L'altra
fece una smorfia con le labbra. «Era giusto che te ne
parlasse lei,
ma sì… okay. Non importa se tutte e due abbiamo
tante cose che ci
riempono le giornate, io… rivoglio mia sorella»,
puntualizzò e
le sembrò che sorridesse.
Arrivarono
in villa a momenti e spalancarono gli occhi quando si accorsero di
un'auto parcheggiata al centro del vialetto: Ferdinand l'autista
stava tirando giù i bagagli. Era troppo tardi.
«Le
mie ragazze», all'ingresso, Eliza corse in loro direzione
tenendo le
braccia spalancate e le abbracciò insieme, stringendole. Le
due
ricambiarono lentamente.
«Non
vi aspettavamo prima delle diciannove, diciannove e venti»,
Alex
controllò l'orologio.
«L'aereo
ha fatto presto», sorrise la donna, accogliendo nelle mani il
viso
di una e poi dell'altra. «Guadatevi. Mi siete mancate
così tanto».
Dietro
di lei, Lillian stava dando indicazioni a Ferdinand su dove posare i
bagagli, e dietro di lei ancora, Lena cercava di parlare a Kara con
gli occhi. Indigo era poco più indietro, verso il divano. Si
teneva
ben distante dalla scena, subendo crampi allo stomaco dal panico che
non poteva esternare.
Lillian
si avvicinò per salutarle e Kara ne approfittò
per svignarsela non
appena la donna abbracciò Alex.
«Indigo
ed io abbiamo sistemato un po' la camera in cui dorme», Lena
bisbigliò a Kara non appena l'ebbe vicina, prendendola a
braccetto.
«Ho detto alle nostri madri che è un'amica, non
sanno che dormirà
qui. Mia madre prima la fissava, non so quanto
potrà-».
«Oh,
lo devo dire…», la voce di Eliza la interruppe e
tutti si
voltarono verso di loro, mettendole in imbarazzo. «Sono tanto
fiera
di voi, ragazze», sorrise e corse ad abbracciarle di nuovo,
con le
lacrime agli occhi. Lillian invece preferì non esprimersi,
proseguendo a dare ordini a Ferdinand.
Indigo
aveva il respiro affannoso e sperò che nessuno se ne
accorgesse.
L'autista non la guardò neppure un istante, facendo il suo
lavoro
senza dire una parola. Lei non faceva a meno che pensare
all'incidente, all'avvertimento, alle sue mani grosse e pesanti che
le stringevano le caviglie, al panno contro la bocca per farle
perdere conoscenza. Perché lui, perché
lì… Chiuse gli occhi,
ricordando il momento in cui scappò dall'incidente.
«Le
signore stanno per tornare e io sarò di nuovo in
servizio», le
aveva detto col solito tono, «Tu dovrai fingere di non avermi
mai
visto. Sono il loro autista». Ferdinand aveva abbassato la
testa e
si era mosso per tornare indietro, ma lei aveva trovato il coraggio
di fermarlo:
«Il
loro autista? Lavoro per lui o per loro?».
Lui
aveva sorriso per la prima volta. «Per chi paga».
Indigo
deglutì e tornò un altro passo indietro,
sbattendo sul divano e
finendo per sedercisi e spalancare gli occhi, adocchiandolo.
Quell'uomo fingeva perfino meglio di come riuscisse lei. Lena si
voltò e le fece uno strano sguardo, come se si stesse
chiedendo
cos'avesse. Doveva essere pallida. Si sentiva come dentro a una
gabbia e, in un attimo, le mancò il fiato. Doveva
allontanarsi e
doveva farlo subito. Si rialzò e, a passo felpato, dietro a
tutti,
raggiunse le scale. Non si accorse dello sguardo di Alex e dopo
quello di Kara che la seguirono. La trovarono appoggiata contro una
parete in corridoio, che si reggeva il petto. Ma i loro sguardi
sembravano tutto fuorché premurosi.
«Cerchi
qualcosa?», attaccò Kara, avvicinandosi.
«Ti
sei persa?», le fece invece Alex,
«Perché noi siamo tutti di
sotto».
Indigo
cercò di calmare il proprio cuore, di ritrovare la sua
sicurezza.
Prima o poi, sapeva che sarebbe successo, anche se non poteva lodare
il loro tempismo. Sfortunatamente, non poteva proprio dire loro la
verità. «Dovevo cambiare aria. C'è
troppa gente e non mi piacciono
i luoghi affollati».
«Eppure
lo spazio è grande», sospirò Kara,
guardando la sorella.
«È
ora di tirare fuori il sacco, Indigo», sollecitò
lei, vicino.
«Perché non ci parli del tuo garante».
«Di
come non sei scappata da lui. E di cosa vuole da Lena, una volta per
tutte», concluse l'altra, seria.
«Non
so di cosa cavolo state parlando, voi due».
«Oh,
noi crediamo tu lo sappia eccome», insisté Kara.
«Perché
tutta questa attenzione su di me, adesso? È tornata vostra
madre».
Le sorelle la guardarono duramente e Indigo non resistette alla
tentazione di formare un sorriso, mostrando loro che non aveva paura,
che non era pronta a lasciarsi sopraffare. «Adoro i team-up.
Ma
purtroppo per voi non ho nulla da dirvi, dolcezze, la mia versione
già la conoscete».
«E
andrebbe bene se non fosse una bugia», intervenne Alex,
intanto che
Kara rifletteva sul da farsi.
«Lavori
ancora per lui, lo sappiamo. Facciamo così: noi non ci
arrabbiamo,
okay? Vogliamo solo-».
«Okay?»,
chiese incerta la maggiore, «Non ci arrabbiamo?».
Kara
serrò le labbra con forza e non cedette, diretta a Indigo:
«Non ci
arrabbiamo! Vogliamo solo la verità, sapere che cosa vuole
da lei
perché, beh, perché se è vero che ci
tieni, allora ce lo dirai.
Ricordati che io so qualcosa che tu non vuoi che Lena sappia: non
vorresti che fossi costretta a parlarle di quelle foto».
Indigo
spense a breve il suo sorriso, ma si rafforzò la sua
sicurezza
quando intravide dietro di loro Lena, con le braccia a conserte.
«Kara?».
La voce era austera ed entrambe si fermarono come colte sul fatto, ma
lo sguardo di Lena restava focalizzato solo su una delle due sorelle.
«Ti avevo chiesto di lasciarla stare», scosse la
testa con
delusione. «So di quelle foto, me lo ha detto. Lei ci parla
con me e
mi ascolta».
Kara
impallidì e per un attimo Alex si sentì di
troppo. Lena si voltò
per tornare alle scale intanto che Indigo sorrideva a Kara con pura
soddisfazione, avanzando un passo verso di lei, gongolando:
«Ho
giocato d'anticipo, scusa. Ti aspettavi davvero che mi sarei lasciata
ricattare da te?». Le sorpassò sbattendo di
proposito contro le
loro spalle, camminando in mezzo, per poi scendere le scale a fianco
dell'altra, sperando che quel Ferdinand se ne fosse andato.
«Non
volevo... non volevo ricattarla», brontolò.
«Sembrava un
ricatto?».
«Eh,
sì. Sembrava proprio un ricatto, sorellina»,
sollevò le spalle.
Alex
se ne andò poco dopo. Eliza e Lillian provarono a invitarla
a cena,
ma ne aveva già una molto impegnativa ed era in ritardo.
Maggie
l'avrebbe uccisa se l'avesse lasciata sola con loro. L'indomani le
due donne si sarebbero trasferite per l'estate in casa Danvers-Luthor
ed Eliza si infastidì non poco quando le dissero che non ci
sarebbero state poiché avevano in programma di andare a
Metropolis.
Senza dimenticare che entrambe avevano ancora impegni con
l'università e sarebbe stato meglio non muoversi, per essere
più
vicine. Lillian non insisté come se, da parte sua, non fosse
poi un
dramma, al contrario. Dopotutto notarono come si sentì un
po' a
disagio per tutta la cena, non mancando di concentrare il suo sguardo
a Indigo un po' troppo a lungo. Con la scusa di doverla salutare,
dopo cena, Lena accompagnò la ragazza fuori, lasciando Kara
a
rimuginare.
Era
infastidita dal suo comportamento ma non poteva non ammettere che, in
fondo, se lo aspettava, ripensando alla faccenda delle pillole rosse
e al suo temperamento. E proprio ripensando a quello, e a Lillian al
fianco di Eliza, che iniziò a pensare. Aprirono il cancello
e
restarono lì fuori qualche minuto, in silenzio, fregandosi
le
braccia per via del fresco vento leggero. Kara si sentiva
responsabile per quelle pillole, voleva rimediare a un terribile
sbaglio. Lena ingurgitò saliva, fissando con
severità un albero, in
lontananza. Ripensò alla pennina usb e a quelli dei suoi
genitori,
sbagli terribili e ingiustificabili. Guardò Indigo e vide
che stava
per aprire bocca, così la anticipò:
«Devo chiederti… un favore».
Lei
si fece curiosa. «Qualsiasi cosa».
Forse
spettava a lei non rimediare, ma cancellare
quegli sbagli che erano molto più che sbagli.
«Quando puoi», la
guardò negli occhi, «devi contraffare i dati sulla
chiavetta che
riguardano i miei genitori. Non dovranno risultare colpevoli. So che
Clark Kent e Lois Lane hanno fatto una copia».
Indigo
sorrise. «Ci penso io. Con una connessione a internet, arrivo
ovunque. Lo sai». Il piano del suo angelo custode era vicino
a
compiersi, pensò.
Eliza
e Lillian dormivano, erano andate a letto presto dalla stanchezza,
Indigo era chiusa nella sua cameretta, a chiave, e dopo essere uscita
dal bagno, Kara rientrò nella camera di Lena. Chiuse la
porta piano,
iniziando a camminare verso il letto a tentoni, per via del buio:
aveva già spento tutto, si aspettava i libri al centro del
copriletto. Un passo troppo corto e mise male un piede, facendo
scivolare il tappeto e sbattendo le ginocchia contro il legno del
letto. Imprecò in silenzio, passando dall'altra parte.
Allora
gattonò fino al suo lato, infilandosi sotto il lenzuolo.
Pensò che
Lena doveva essere ancora stanca e dormire ma, appena si
sistemò, le
braccia dell'altra la raggiunsero. Si voltò per ritrovare il
suo
viso, cercando di capire se fosse arrabbiata. «So
che-».
Lena
la interruppe subito, diretta: «Non chiedermi
scusa».
«Oh…
Okay?!».
«Ti
avevo chiesto di lasciarla stare e non lo hai fatto, non voglio le
tue scuse perché so che lo rifaresti. Va bene»,
sospirò infine con
pesantezza, continuando a parlare a bassa voce. «Non posso
farci
niente, Kara, sei inamovibile: fino a quando non ti sarai assicurata
al cento per cento che lei è a posto, continuerai a stare in
guardia. Una delle cose che più amo di te è il
non arrenderti», le
accarezzò una guancia, sorridendo. «È
importante per te e non
voglio cercare di cambiarti. Per questo ti ho suggerito di andare da
Lex, perché lo so, non puoi farne a meno. Ti chiedo solo una
cosa».
«Lo
farò! Sono stata avventata, con Alex, e vedrò di
stare più attenta
a lei, so che ci tieni e Indigo… Indigo… la
sopporto, diciamo,
non è-», si mangiò le parole,
«Ma voglio assicurarmi che non ci
tradisca perché lei è qui e… e noi
parliamo di cose importanti e…
Vuoi che non abbia ascoltato quando parlavamo di Lane, delle pillole
e di Lex?». Prese fiato. Lena la guardava attentamente.
«Voglio
assicurarmi che sia dalla nostra parte, che sia dei nostri».
«È
qui da un po', Kara».
«E
non è successo nulla, lo so, ma potrebbe non voler dire
niente.
Perché se lei sta fingendo e-e non è solo per
cosa parliamo davanti
a lei, okay? Ma…», si morse il labbro inferiore,
«le vuoi bene. E
non potrei sopportare che ti ferisca». La verità,
nient'altro che
la verità spogliata di tutto il resto.
Lena
smise di accarezzarle la guancia e avvicinò il viso al suo
per
baciarla. Lenta, le prese un labbro e dopo l'altro, mentre entrambe
socchiudevano gli occhi e si lasciavano andare, inspirando. Si
portò
sopra di lei e Kara la strinse sui fianchi. «Hai
ragione», riprese
ad accarezzarle la guancia, «Le voglio bene».
Abbassò gli occhi e
appoggiò la testa sotto il suo mento, lasciandosi
abbracciare. «Non
sono molte le persone che possono dirsi mie amiche e lei ha
conosciuto mio padre; mi piace parlare con lei, Kara, e mi ascolta,
mi supporta… Mi fido di lei. Ciecamente. Capisco il tuo
volermi
proteggere, ma cerca di capire che se Indigo mente e mi prende in
giro…», disse in un brusio,
«sarà stata mia la decisione di
fidarmi».
Indigo
contrasse le labbra, ascoltando la lontana voce di Lena attraverso il
suo cellulare. Era seduta sul letto, seria.
«Non
tua»,
mormorò Lena attraverso l'apparecchio. «Non
devi proteggermi dalle mie decisioni, o dai miei sbagli, anche
se…
lo apprezzo. E non sai quanto ti amo per averlo detto»,
prese una pausa e l'audio registrò il rumore di qualcosa che
si
spostava. La voce si fece ancora più tenue, quasi difficile
da
comprendere. «Ascoltami,
accetta le mie decisioni anche se non ti piacciono e, se poi
avrò
sbagliato, stammi vicino. Avrò bisogno di te».
Indigo
strinse il telefono con rabbia e interruppe l'applicazione. Allora
spense il monitor e lo gettò a terra, facendolo volare
contro un
piccolo armadio. Diamine,
pensò, stringendo gli occhi e passandosi una mano sulla
fronte. Era
una spia, le avrebbe portato sofferenza. Quando aveva lasciato la
casa di Carol e Noah, era convinta che sarebbe bastato starle vicino
per salvaguardarla, ma ora che c'era tanto vicina il pensiero le
provocava un fastidio mai provato. Le avrebbe fatto del male e non
poteva farci niente.
Kara
accettò, lasciandole un caldo bacio sui capelli.
«E
se invece a sbagliare dovessi essere tu…»,
proseguì Lena,
rialzando la testa per adocchiare il suo viso, «lo
accetterai, mi
dirai che mi ami», la intravide sorridere, «mi
ricorderai quale
persona meravigliosa io sia», allora Kara rise, «e
io ti bacerò,
Kara Danvers. Ti bacerò tantissimo. Perché sei
fatta così e io amo
quel così».
«Non
dobbiamo aspettare che mi sbagli su qualcosa per dirti che ti amo e
che sei una persona meravigliosa», contestò veloce
e la strinse più
forte; chiusero gli occhi e aprirono la bocca per cingersi in un
lungo bacio. Kara infilò la mano destra sui suoi capelli
corvini,
accarezzandola.
«Ti
sei fatta male?».
La
guardò e increspò la fronte.
«Le
ginocchia», sussurrò e l'altra rise, buttando la
testa
all'indietro. «Un bel tonfo».
«E
aspetti ora per preoccupartene?».
«Prima
dovevo fare quella arrabbiata». Riabbassò la
testa, appoggiandola
di nuovo sotto il suo mento.
Restarono
così, in silenzio e quasi sul punto di prendere sonno,
intanto che i
pensieri affollavano le loro menti stanche.
«Le
voglio bene anch'io».
La
sua voce era stata quasi un soffio, ma sicura. Lena decise di non
dire niente e, rialzando appena la testa, le stampò un bacio
su una
spalla, richiudendo gli occhi.
Ed
eccoci tornati! Vi è piaciuto il capitolo? Con questo,
ritorniamo di
pieno ritmo alla trama principale, seguendo i punti di vista di vari
personaggi e loro problematiche:
Maggie
pare si sia decisa a voler tagliare Alex dai risvolti della sua
missione e quest'ultima non la prende proprio bene, finisce per
parlarne con Carina Carvex e dopo fa una scoperta non felicissima su
Kara da Maxwell Lord. Che dite, lui gliel'ha detto con innocenza o lo
ha fatto di proposito? E che dire invece di Carvex? Fingerà,
non
fingerà? Sappiamo che lavora per Zod, però. E
povero assicuratore!
Lillian
ed Eliza sono tornate a casa e Lena, pensando proprio anche alla sua
madre adottiva e al matrimonio delle due, ha ben chiesto a Indigo di
cancellare le prove che vedono lei e Lionel immischiati in brutti
affari nell'organizzazione. Si tratta di passato, dopotutto, no? Suo
padre è morto e non può più pagare,
mentre Lillian si sta
rifacendo una vita molto diversa… D'altra parte, far
cancellare
quei dati è ammettere che erano colpevoli e Indigo
è convinta che
sia un segnale del compimento del piano del suo angelo custode che
vuole mettere la ragazza contro i Luthor. E Indigo in realtà
non è
che ne sia poi entusiasta; pensava sarebbe stato facile restarle
vicino al momento del crollo, ma Lena si fida e lei sta entrando in
crisi perché sa che la farà soffrire. Indigo non
vede vie d'uscita!
E
qui abbiamo Kara che vorrebbe proteggere Lena anche dalle sue stesse
decisioni e affetti. Non le dispiace avere
Indigo in giro e ormai lo ha praticamente ammesso, ma non riesce a
fidarsi di lei e ci si mette anche Alex a darle manforte. Senza
dimenticare il suo temperamento verso quelle pillole che sente quasi
come una sua responsabilità. Quell'accordo va fermato! Ma ci
riusciranno o sarà troppo tardi?
E
ora parliamo di Ferdinand: autista di fiducia dei Luthor, incubo di
Indigo, che offre servigi a… chi paga. Parole sue. Ve
l'aspettavate?
Nota
~
-
Ferdinand. Ovviamente.
So
del doppiogiochismo di questo personaggio da un beeeel po' di tempo,
ma lui era un'ombra, un personaggio sempre presente a cui nessuno mai
ha fatto caso, neanche voi lettori, eppure c'è un punto
particolare
nel capitolo 53.
Di piani segreti e traumi di cristallo
che è strano,
ma a cui nessuno ha badato.
Ecco,
non c'era Marielle, e nemmeno Ingrid, ma per poco non le sorprese
l'autista di famiglia, Ferdinand. Credevano non lo avrebbero rivisto
finché Lillian ed Eliza non fossero tornate dal loro viaggio
di
nozze e per poco Kara non cadde in un'aiuola per scansarsi in tempo
da Lena e non ripetere la briosa esperienza avuta con la giardiniera.
Ne uscì che aveva sbagliato giorno, convinto che le signore
sarebbero tornate quella mattina.
«Figurati»,
incalzò Lena, mettendo le braccia a conserte. «Ti
avrebbe chiesto
di andarle a prendere all'aeroporto».
Lui
abbassò la testa, sospirando appena. «Ha senza
dubbi ragione,
signorina Luthor».
Chiese
loro se volessero essere accompagnate e, a risposta negativa, se ne
andò quasi con la coda tra le gambe.
Ferdinand
passava come l'ennesimo caso di personale dei Luthor che si trovava
lì per caso e oh,
per poco non le beccava, ma Ferdinand non stava lavorando per i
Luthor in quel periodo perché Lillian ed Eliza non c'erano,
non
poteva essere un caso come la giardiniera, a meno che non fosse una
persona sbadata e avesse davvero sbagliato giorno, ma…
Voce
da soprano, adatta al suo fisico possente. Kara rise, poiché
da
quando lo conosceva, quella era la prima volta che lo sentì
parlare
tanto a lungo, mentre Lena era convinta che la vacanza di Lillian
avesse sbalzato la sua routine: non era solito sbagliare giorni, era
sempre stato molto attento e preciso.
Ferdinand
non sbagliava. La risposta era già lì: non
sbagliava. Si trovava lì
per una ragione ben precisa, infatti, ed era parlare con Indigo prima
del suo ritorno in servizio, ma pensava di trovarla da sola: Kara e
Lena dovevano uscire e Indigo doveva aspettare Alex in villa.
Videro
arrivare Alex in auto quando loro uscivano, quella di Ferdinand
ancora vicina. Si salutarono, prendendo la direzione opposta.
Lui
era lì. Stava aspettando che le due si allontanassero ma
Alex era
arrivata troppo presto, rovinandogli i piani. Per il resto, Indigo
non era mai sola e lui non aveva scuse per presentarsi in villa e
parlarle.
Potrei
inoltre dire che sembrava quasi una “forzatura” per
fare la
scenetta, l'autista che sbaglia giorno e casualmente per poco non
scopre le protagoniste in effusioni intime, ma le forzature cerco di
smussarle quando mi servono alla trama e in questo caso nemmeno
serviva alla trama, quindi il suo essere lì serviva ad
altro. Occhio
a queste cose perché mi piace giocarci :P (A meno che non
siano
errori… e quello può sempre essere XD)
Ma
lo so, lo so, Ferdinand è un personaggio
“ombra” anche perché è
un OC, magari lo si considerava solo come un personaggio di sfondo e
non “giocabile”. Anche se, poco a poco, ho tentato
di dargli
importanza e una caratterizzazione, basta anche solo pensare al
capitolo 19.
Qualcosa da nascondere,
in uno scambio di battute tra Kara e Lena.
«Ferdinand
lavora anche nelle feste?», chiese allora Kara, abbassando
ancora di
più la voce squillante quando lo vide raggiungerle.
«Vive
solo, non ha famiglia a cui tornare», le rispose, scrollando
le
spalle, «Gli chiediamo se è disponibile e lui si
fa trovare
pronto».
Perché
cercare di caratterizzare un personaggio di sfondo? Lo sapevo
già
durante quei capitoli, ovviamente, molto prima perfino di sapere che
avrei aggiunto Indigo alla fan fiction, per dirne una.
Per
il resto, oggettivamente non credo ci siano altri momenti in cui
avreste potuto “captare” qualcosa di strano sul suo
personaggio,
o non mi vengono in mente. O meglio sì, ce n'è
uno, fa sempre parte
del suo doppiogiochismo, ma riguarda altro e… stay
tuned!
Che
poi accidenti,
la rivelazione di Ferdinand sarebbe dovuta avvenire in un altro
contesto com'era stata concepita agli inizi, ma vabbeh, se ci
sarà,
resterà sempre
una
rivelazione ma solo per i personaggi, presumo.
E
ora eccoci qui. Avrei voluto pubblicare almeno un altro capitolo
prima di annunciare la pausa ma non ho fatto in tempo e, siccome
anche il titolo ancora non mi convince e potrei cambiarlo in corso
d'opera, non ve lo posso rilasciare come al solito. Sorry.
E
allora pausa, si va in pausa! Una pausa a tempo indeterminato, come
avevo spiegato. Conto di pubblicare il capitolo successivo a questo
appena potrò e, chissà, potrei tornare prima
ancora di aver finito
di scrivere tutto quando mi andrà! Semplicemente. Per questo
tenete
d'occhio l'introduzione alla fan fiction perché lo
scriverò
ovviamente lì e, forse forse, se interessa (e se mi viene in
mente,
soprattutto XD), potrei scriverlo nelle mie storie su Instagram
al profilo 'dragonmanuart'. Giusto perché è
più pratico! Occhio, non vi sto chiedendo di seguirmi,
potete anche solo controllare le storie ogni tanto, anche
perché lì pubblico solo disegni e potrebbero non
interessarvi ;)
E
vi lascio così, senza un titolo, ma con un grazie
e a un alla prossima ~
GOOD NEWS, PEOPLE! Our home sta
tornando: il capitolo 59, Il prezzo
da pagare,
sarà disponibile sabato 7 marzo :3 Non mancate!
|
Ritorna all'indice
Capitolo 61 *** 59. Il prezzo da pagare ***
SONO
TORNATAAAAA!
Bentornat*
sulle righe di Our home :3
Spero
che il capitolo vi piaccia ma, prima di lasciarvi alla lettura, un
piccolo recap non guasterebbe ››
Cos'è
successo in villa Luthor-Danvers di recente? Prima di tutto,
ricordate una certa chiavetta usb? L'Operazione di Rhea Gand che
aveva immobilizzato e tenuto quasi sotto sequestro National City
aveva il compito di smascherare Dru Zod a capo dell'organizzazione e,
per farlo, la donna aveva lasciato ai suoi uomini e donne delle
chiavette usb da svuotare su alcuni luoghi chiave della
città, tra
cui la Luthor Corp. La pennina portata alla Luthor Corp non conteneva
dati solo su Zod, ma sulla famiglia Luthor, incastrando di fatto
Lionel e Lillian. Il piccolo oggetto è passato dalle mani di
James
Olsen a quelle di Clark Kent e Lois Lane, è stata spedita in
villa
per Kara Danvers ed è stata esaminata da Lena Luthor e
Indigo
Brainer. Un bel macello! Gran parte dei dati al suo interno trovano
riscontri, sono veritieri, e dopo averci riflettuto, Lena chiede a
Indigo il favore di contraffare quei dati per salvaguardare la sua
madre adottiva che ora si sta rifacendo una vita al fianco di Eliza.
Una decisione affrettata? Giorni e giorni a lavorare a quei documenti
digitali e a parlarne con Indigo che non ne poteva semplicemente
più.
Sapeva che i suoi avevano fatto parte dell'organizzazione, che ne
erano i presidenti prima di Zod, ma in che dimensioni la sua famiglia
era colpevole?
Uh-oh!
Un bel problema: ciò che Lena non sa, e Indigo ne
è convinta, è
che la modifica e cancellazione di alcuni di quei dati è un
passetto
in più verso il piano del nostro X.
Vi ricordate il profilo
misterioso? Colui che diceva
di sapere chi ha ucciso Lionel Luthor, ha fatto uscire Indigo di
prigione per farla lavorare per lui, l'ha fatta rapire da un omone
quando lei si è messa a fare di testa sua, lasciandola in
una casa
dalle tinte pastello che nasconde vari scheletri nell'armadio: il
padre di famiglia Noah è un investigatore privato e la segue
dovunque vada, sua moglie Carol è una killer su commissione,
i loro
due figli, e infine Howard, un uomo su sedia a rotelle in stato
catatonico che abbiamo scoperto essere niente popò di meno
che il
padre del nostro profilo misterioso. Ma attenzione, quest'uomo non
dovrebbe essere lì, dovrebbe essere morto da anni, e da qui
un
ricatto: fai di nuovo di testa
tua, cara Indigo, e con la scusa che sai cose che io non voglio che
tu sappia, come mio padre ancora in vita, e io ti faccio uccidere.
Non accetta mosse avventate! Approfittandosi della cotta di Indigo
per Lena Luthor e del suo incuriosirsi sui sentimenti umani che aveva
rifiutato di provare da anni per il trauma subito alla prematura
morte del suo fratello più piccolo, Cyan, il profilo
misterioso,
chiamato da lei angelo custode,
aveva invitato Indigo a raggiungere la ragazza e ad adempiere al suo
lavoro lì accanto a lei. Ma è qui che viene il
bello: con la
riscoperta dei sentimenti, Indigo è combattuta per
ciò che sta
facendo perché si sente in colpa per Lena e non vuole
ferirla.
Senza
contare che, ehi,
ho nominato l'omone, giusto? Quello inviato dal profilo misterioso
per rapire Indigo? Bene, si chiama Ferdinand e lavora anche come
autista per la famiglia Luthor da diverso tempo e Indigo…
beh,
Indigo ha paura di lui. Chi non lo sarebbe?!
Ma
se Indigo è riuscita ad ottenere la fiducia di Lena, non si
può
dire lo stesso per Kara e sua sorella Alex. Quest'ultima si
è recata
nel luogo dove Indigo è cresciuta, alle vecchie palazzine,
cercando
conferme alle storie raccontate da lei fino a quel momento: la sua
infanzia si trova tutta lì, ma qualcosa non torna,
perché diceva di
essere scappata da quell'uomo e di averlo fatto da quelle parti, ma
è
una palese bugia. Alex lo racconta a Kara e insieme affrontano Indigo
faccia a faccia per farla confessare. Se ricordate, non è
andata
troppo bene: Indigo si è tenuta i suoi segreti e Lena l'ha
protetta.
Ma qui viene il bello! Dopo aver provato e riprovato a chiedere a
Kara di lasciare in pace l'altra senza successo, si è
semplicemente
arresa, ha capito che Kara non può farlo perché
non si sentirà
tranquilla con se stessa fino a quando non saprà che Indigo
è
completamente dalla loro. Dopotutto, le chiede solo di lasciarle fare
i suoi sbagli se fidarsi di Indigo si rivelerà uno di loro,
e che
per quel momento sarà suo il compito di starle vicino.
Ma
il profilo misterioso non è l'unico a minare la
serenità che i
protagonisti di questa fan fiction desiderano ardentemente: le
pillole rosse create da Maxwell Lord stanno diventando un bel
problema. Ve le ricordate? Derivate da studi fatti da una formula
rubata dalle pillole verdi ideate da Lex Luthor per lo studio, le
pillole rosse donano resistenza, energia, ma anche un carattere
aggressivo che Kara Danvers sa molto bene. C'è un motivo ben
preciso, infatti, se la ragazza desidera fermare la vendita di queste
pillole all'esercito: le ha provate sulla sua pelle per un periodo,
un brutto
periodo, quando pensava che con quelle in circolo sarebbe riuscita a
rimuginare meno sui suoi problemi. E difatti è stato
così, peccato
per gli effetti collaterali che l'avevano quasi portata a perdere la
sua squadra al lacrosse e a ferire le persone a cui vuole
più bene,
come Lena. Entrambe sono decise a fermare quell'accordo tra il
generale Lane e Maxwell Lord: Kara prova chiamando Lucy Lane, la
figlia minore del generale; Lena cerca di convincere Lex a uscire
allo scoperto e rivendicare le pillole verdi in modo da fermare il
loro derivato; infine convincono Alex a chiamare direttamente Maxwell
Lord. Peccato che nulla sembra funzionare! Anzi, quel simpaticone di
Maxwell ha ben pensato di rivelare alla nostra Alex che la sua
sorellina aveva fatto uso delle sue pillole! Ma va bene, va bene,
alla fine le sorelle si sono chiarite e hanno deciso: ehi,
niente più segreti tra noi, chiaro?!
Chiaro. In tutto questo, a mali estremi estremi rimedi: Lena propone
a Kara di andare direttamente a Metropolis per parlare con Lex e
convincerlo. È la loro ultima spiaggia…
Alex
resta perché ehi,
di problemi ne ha già parecchi senza dover stare a
rincorrere
pillole! Vi ricordate Faora Hui? Faceva parte dell'organizzazione, ma
aveva tradito Zod mettendosi dalla parte di Rhea che le aveva
promesso di fare di lei una beta
e la sua erede,
chissà poi che vorrà mai dire. Beh, Faora Hui
è morta. Zod non è
bastato a salvarla da un destino crudele: prima il coma inferto dai
proiettili che Alex le aveva scaricato in corpo per salvare Kara da
lei, poi i beta
dell'organizzazione che, in maggioranza, hanno deciso di seccarla per
il suo tradimento. È morta in ospedale dopo essere uscita
dal coma
e, per non averla salvata da loro, Alex si è sentita in
colpa. Non
era una sua responsabilità, lo sappiamo tutti e lei per
prima, ha
dovuto spararle per proteggere sua sorella che Rhea voleva morta, ma
tant'è… Proprio dopo il funerale di Faora Hui,
coincidenza o no,
no, sappiamo tutti che non lo
è, Maggie Sawyer ha iniziato
ad allontanare la sua compagna dai risvolti della sua missione per
infiltrarsi nell'organizzazione. Ops,
male male, ma fosse solo questo: Alex pensa che una sua collega e
partner sia una spia e faccia parte dell'organizzazione, Carina
Carvex. Beh, lo è! Noi spettatori
sappiamo che lo è! Ma nell'attesa che Alex lo attesti,
Carina è
gentile e amichevole con lei, forse troppo.
Il
recap è finito? Oh sì, meno male! Solo un'ultima
cosa: le madri
delle nostre beniamine sono tornate dal viaggio di nozze, ma se Eliza
accetta di buongrado la relazione tra Kara e Lena, Lillian…
beh,
Lillian no.
E
ora vi lascio al capitolo… Buona lettura ~
Indigo
non riuscì a dormire ma dovette aver chiuso gli occhi anche
solo un
momento quando pensò di aver visto Ferdinand all'interno
della sua
camera da letto, davanti alla porta. Il suo volto scuro e in una mano
il panno con cui quella volta l'aveva rapita. Sapeva che non era
reale e aprì gli occhi di soprassalto, con la musica suonata
da suo
fratello nella testa. Era disorientata, stanca, amareggiata e
sconfitta, ripensando alle parole di Lena qualche ora fa, sentite
tramite il suo telefono. Non ricordava di essersi mai sentita
così
provata dalla sparatoria in cui fu colpito Cyan. Cercò il
cellulare
sotto le coperte per controllare l'ora e s'incantò
nell'osservare la
foto di sfondo con la fontanella all'interno del locale della sua
uscita con Winslow.
Lui
ci aveva buttato dentro una moneta legandola a un desiderio, convinto
che in quel modo avrebbe potuto avverarsi. Era la cosa più
stupida
che avesse mai sentito, ma l'aveva convinta a farlo e aveva scattato
la foto alla fontanella per non dimenticare dove aveva gettato la
moneta. Non seppe esattamente perché lo fece, in
realtà, ma in
fondo la fontanella era bella, aveva perfino le luci blu sotto
l'acqua. Proprio lì davanti, impedendole di farsi rivelare
il
desiderio che altrimenti non si sarebbe realizzato, Winslow le aveva
detto di poter contare su di lui. Sarà stato l'alcol in
circolo a
farle credere, anche solo per un secondo, che potesse essere vero.
Forse
la sua vita lì la stava davvero cambiando; quel
travestimento le
stava entrando sottopelle e non era pronta a dirgli addio. Kara e
Alex Danvers non si sarebbero fermate dal smascherarla e Lena ne
avrebbe sofferto in un modo, o nell'altro. Si alzò dal
letto,
sudata. Le cadde il cellulare dalle mani e, respirando a fatica, si
abbassò per riprenderlo. Non era mai stata tanto distratta.
Doveva
capire come giocarsela, era intelligente e non poteva aspettare che
il suo angelo custode risolvesse tutto per lei; naturalmente lui ci
avrebbe provato, o così aveva detto. Chissà che
cosa aveva in mente
di fare… Richiuse la porta della stanza con uno scatto,
dietro di
lei, e si guardò intorno, decidendo di scendere di sotto.
Non si
sentiva nulla, se non qualche ticchettio. Si passò la mano
sulla
fronte e spostò i lunghi capelli da un lato, aprendo il
frigo per
mangiare qualcosa. Dopo aver ascoltato Lena e Kara, ne aveva parlato
con lui in cerca di una soluzione e, oh, come si era sentita
patetica… Se non altro, le aveva scritto che quella notte
Noah non
si sarebbe avvicinato per via del ritorno delle signore
Luthor-Danvers in villa; poteva almeno togliersi un pensiero dalla
testa. Spostò una sedia dal bancone e ci si sedette per
mangiare uno
yogurt, immaginando la faccia di Kara Danvers l'indomani mattina. Uh,
era troppo freddo. Lo lasciò sul banco e aprì uno
sportello per
cercare una merendina. Cosa sentiva? Forse non era fame, le saliva la
nausea e le si stavano comprimendo i muscoli contro le costole.
Annusò i biscotti dentro la biscottiera e ne
assaggiò qualcuno,
prima di riprendere lo yogurt. Uh.
Era la sua umanità che veniva fuori? Si toccò lo
stomaco,
trattenendo il respiro.
Intanto,
Lillian Luthor si stava svegliando lentamente. Era così
stanca da
aver faticato ad addormentarsi e aveva mantenuto il sonno leggero, e
di certo quei rumori al piano di sotto non l'aiutavano a
concentrarsi. Al suo fianco, Eliza aveva la faccia quasi interamente
coperta dal cuscino e provò a spostarla per farla smettere
di
annaspare, ricevendo un'occhiataccia. Le accarezzò una
guancia e
scese dal letto. Se Lena o Kara ancora sveglia, poteva approfittarne
per parlare con lei o l'altra a quattrocchi. Non voleva che
pensassero che odiava la loro relazione, anche se di sicuro non
l'accettava a braccia aperte. Reputava ancora sbagliato il loro
rapporto, ma… No, avrebbe dovuto usare parole migliori.
Considerava
già un piccolo miracolo che Kara non ce l'avesse
più con lei per il
suo passato nell'organizzazione, non era il caso di inimicarsela
adesso, poteva fare di meglio per mantenere la sua posizione e allo
stesso tempo… Ah,
sbuffò seccata, non lo sapeva nemmeno lei. Sperava solo che
il tempo
sarebbe stato dalla sua parte: erano giovani e crescendo…
Proprio
il non avere il suo appoggio come madre poteva rendere a quelle due
stimolante lo stare assieme; chissà che, in caso contrario,
senza
ostacoli, si sarebbero annoiate. Beh, di certo quel pensiero la
sfiorava.
Nel
salone non c'era nessuno. Nemmeno in sala da pranzo e- si
voltò,
notando una sedia fuori posto. Sul bancone c'erano briciole e anche
sul pavimento, per non parlare di un vasetto di yogurt aperto. Ne era
rimasto sul fondo. Lena non avrebbe mai lasciato quel pasticcio, non
aveva osato neppure da bambina, e le veniva difficile credere che
Kara… Decise di tornare a letto e riprovare a prendere
sonno,
quando notò la luce accesa sotto la porta del bagno e le
chiamò,
prima una e poi l'altra. Non rispose nessuno e, già adirata
al
pensiero di chissà quali brutte abitudini si fossero prese
in loro
assenza, aprì la porta di scatto per spegnere la luce.
Lillian
rimase immobile, occhi spalancati.
Seduta
sulla tavoletta, Indigo la guardò.
Lillian
la guardò.
«Potrebbe
richiudere la porta?».
Lillian
richiuse.
Com'era
possibile che quella ragazza fosse ancora lì? Lena l'aveva
accompagnata fuori e sapeva che qualcuno doveva passare a prenderla.
Cosa faceva in casa sua? L'aspettò in salone, seduta sul
divano.
Perché mentire a lei ed Eliza? E non fosse altro, aveva
perfino
un'aria già vista, anche se non le veniva in mente nessuno.
Che
fosse una delle precedenti amichette di sua figlia? Sgranò
gli occhi
ancora una volta. No, era fuori discussione, non poteva… Era
bionda, gli occhi azzurri. Di certo poteva vederci uno schema. Appena
la ragazza uscì, la fulminò e le fece cenno di
accomodarsi accanto.
«Era tuo lo yogurt?».
«Sì,
signora…». Si avvicinò, lanciando uno
sguardo al bancone. «Se è
per sistemare, lo faccio; mi scusi ma, vede, mi sentivo poco
bene»,
si passò una mano sulla tempia, contraendo le sopracciglia.
Sapeva
di dover essere gentile con la signora Luthor. Senza dimenticare le
tante cose che aveva letto sul suo conto e lo sguardo freddo che le
riservava ora.
«No,
puoi pensarci domattina. Vieni, accomodati, fammi compagnia. Anche tu
non riesci a dormire? Sei Linda,
giusto?».
Indigo
sorrise e annuì lievemente. Odiava quel dannato nome con cui
l'avevano presentata alle loro madri, lo stesso che aveva usato Alex
Danvers per presentarla a quella Carvex. Ma era stata una precauzione
in più, come anche gli occhiali che- diamine,
li aveva lasciati nella sua camera.
«E
così sei un'amica di Lena, eh? Dimmi, da quanto tempo vi
conoscete
voi due?».
Doveva
pensare a qualcosa perché la donna era sospettosa.
«Non molto, ma
abbiamo subito instaurato un legame».
Lillian
assottigliò gli occhi, diffidente. «E ci siamo
già conosciute, da
qualche parte?», forzò un sorriso, a un certo
punto, fissandola
accuratamente come negava e apriva bocca per dire qualcosa,
fermandola: «Come mai ti trovi qui, Linda? Pensavamo fossi
uscita,
dopo aver cenato tutte insieme».
Lei
sorrise di nuovo, abbassando gli occhi un momento, come per simulare
imbarazzo. «Pensavano non avreste capito, signora».
Lillian
esitò, irrigidendo il viso. «Non avremo
capito… cosa,
più precisamente?».
Indigo
sorrise, inclinando solo un poco la testa: «Dormo sempre
qui».
La
donna ebbe i brividi. Sempre?
Da quando lei ed Eliza erano partite in viaggio di nozze,
Lena…
Come poteva essere vero? Doveva esserci un malinteso. «Che
tipo di
legame hai con mia figlia?».
Fu
Indigo a indugiare, restando fintamente colpita da quella domanda.
«Beh, signora Luthor… Luthor-Danvers…
Credo di essere innamorata
di sua figlia».
Lei
irrigidì anche le spalle, trattenendo il fiato. «E
Kara sa di
questa cosa?».
«Sì,
certo».
Proseguì,
incerta: «E le sta bene?».
Indigo
tirò fuori il sorriso migliore che riuscisse a fare.
«Non proprio,
all'inizio… Ma vede, a tutto ci si fa abitudine. Noi tre
siamo
serene, adesso».
Lillian
deglutì, restando di pietra. Zitta, meditò a
lungo, passando
convulsamente le mani per lisciare la vestaglia di seta. Non poteva
essere, continuava a ripetersi. Stava con Kara e già non
comprendeva
la loro relazione o quel che fosse, ma credeva avesse almeno messo la
testa a posto, e ora questa ragazza… Deglutì,
bofonchiando con
paura: «… Noi
tre?».
Lex
Luthor finì di bere il suo caffè e
portò con cura la tazzina vuota
sul piattino posto sul comodino alla sua sinistra, affondando con la
schiena sul cuscino. Sdraiato a letto, chiuse gli occhi per
rilassarsi ancora un momento che la porta del bagno adiacente si
aprì
e la adocchiò arrivare: capelli lunghi e lisci, mori, petto
scoperto
e con soli slip indosso, la giovane gli andò incontro
serena,
stirando le braccia all'aria prima di inchinarsi e, dopo una carezza,
scambiarsi un bacio.
«Sono
stata bene, questa notte», sorrise e lui di rimando.
«Possiamo
vederci ancora?».
Sospirò,
dissimulando una smorfia all'improvviso. «Sono stato bene
anch'io,
ma sono molto impegnato». Osservando l'altra spegnere il
sorriso,
continuò: «Non è per te, sai di essere
meravigliosa. Ma adesso
devo proprio prepararmi e…», lanciò uno
sguardo alla sveglia, «è
meglio che tu te ne vada». La fissò dritta negli
occhi e lei parlò
molto poco da lì al recuperare la sua roba e vestirsi per
andarsene.
Le raccomandò di non dimenticare nulla e la ragazza
sbatté la porta
dietro di lei. Lex lasciò il letto caldo con tutta calma,
camminando
nudo fino alla sua cabina armadio e aprendo le ante a scorrimento. Al
suo interno, tutto era ordinato secondo colori caldi e freddi, ben
piegato. Non ci mise molto a scegliere.
L'auto
lo attese col motore già acceso. Un uomo gli aprì
lo sportello
posteriore appena uscì dall'edificio, intanto che un altro
chiudeva
il portone tenuto aperto al suo passaggio. Salirono con lui in
macchina e questa partì.
«Avete
recapitato la mia lettera?», domandò a uno di
loro, seduto davanti
a lui sulla limousine.
«Sì,
signor Luthor. La signorina Sinclair ha ricevuto la lettera, ma non
ne è sembrata entusiasta, signore».
Lex
sorrise, guardando al di là del finestrino. Non si aspettava
affatto
qualcosa di diverso: Roulette doveva portare pazienza, presto si
sarebbe stancato di avvertirla e lei se ne sarebbe resa conto. Quel
Maxwell Lord avrebbe fatto la sua mossa di lì a poco e
sapeva di non
poter restare indietro, proprio per questo, prima di presentarsi alla
Luthor Corp per controlli quotidiani, aveva accettato di vedersi con
alcuni collaboratori in un localino. In un localino a National City.
L'elicottero partì poco dopo il suo arrivo.
Domani
l'ultimo richiamo al processo per Astra Inze, questa volta a porte
chiuse. Dodici anni a Fort Rozz, ex sergente della National City
Police Department, accusata di aver cospirato contro gli Stati Uniti
e la sua stessa istituzione per conto di un'organizzazione criminale,
la donna potrebbe essere ora scagionata da ogni accusa a fronte di
nuove prove e testimonianze raccolte dopo l'arresto di una delle
teste di punta dell'organizzazione, la vedova del compianto senatore
Lar Gand ed ex candidata alle presidenziali: Rhea Gand, da nubile
Taylor.
In
prima pagina. Lex ripiegò il giornale e lo
appoggiò sul tavolino,
accanto alla sua tazzina di caffè macchiato, vedendolo
arrivare. La
seconda tazzina di caffè di quelle che sarebbero state una
lunga
serie fino alla sera. L'uomo davanti a lui si tolse il cappello e lo
salutò pacato, guardandosi attorno con circospezione. Aveva
il viso
un poco emaciato, gli occhi piccoli e scavati: Lex gli
lanciò
un'occhiata appena, dopo avergli dato il buongiorno. Si
portò la
tazzina alle labbra e poi la rimise sul piattino con precisione
maniacale, girando il manico fino a quando non puntava dal verso che
riteneva essere quello giusto. «Allora. Pensavo mi avresti
spedito
tutto via e-mail. Perché hai insistito affinché
ci vedessimo fuori
se non fai che guardarti alle spalle come un animale
ferito?», gli
domandò, appoggiandosi allo schienale della sedia.
«Rilassati,
amico mio. Nessuno sta badando a noi due, qui dentro», si
girò
anche lui, alzando l'indice destro per indicare i suoi due uomini
fermi davanti all'ingresso in posa militare. «Prendi
qualcosa? Un
caffè? O sei più tipo da cappuccino? Succo
d'arancia?».
«N-No,
io- Signor Luthor, grazie, ma-».
«Fammi
compagnia», insisté Lex. «Ti
prego».
L'uomo
acconsentì e si fece portare un caffè. Dopotutto,
Lex Luthor era
andato fino a National City per parlare con lui, il minimo che
potesse fare era assecondarlo.
«Posso…?». Lo vide annuire,
assaggiando un cornetto ripieno alla marmellata. «I-Il fatto
è che,
signor Luthor, non sono certo di potergli inviare il materiale che
desidera, questa volta». Si innervosì quando lo
vide aggrottare le
sopracciglia e tossire, pulendosi la bocca con un fazzolettino: era
una notizia certamente negativa, ma proprio per questo non avrebbe
potuto parlargliene se non a voce, in modo da spiegarsi. «Da
quando
c'è stata un'effrazione alla Lord Technologies, il signor
Lord ha
aumentato di gran lunga i controlli! Sono sempre riuscito a portargli
qualcosa, ma adesso-».
«Avevamo
un accordo».
«E
non voglio venire meno, non lo voglio davvero»,
abbassò gli occhi,
specchiandosi sulla tazzina di caffè. «Ma mi sta
riuscendo davvero
difficile, ora, mi stanno addosso. Se il signor Lord scopre cosa
faccio, non si limiterà a licenziarmi! Rubare dati sensibili
all'azienda mi costerà come minimo-».
«Tu
capisci», lo interruppe, guardandolo con aria quanto
più
impassibile, «che se non avrò quei dati, non
avrò modo di
completare il mio progetto? Se non riuscirò a completarlo,
sarò
molto triste. E se sarò molto triste, temo dovrò
concentrare
altrove le mie attenzioni», si pulì di nuovo la
bocca, sistemando
il tovagliolino piegato con cura accanto alla tazzina vuota.
«Tua
moglie lavora ancora al National
City Museum?»,
domandò con curiosità, guardandolo
distrattamente. «Due volte a
settimana, la paga non è granché, deve viaggiare
in bus ogni
giorno. Tua figlia invece si è appena iscritta alla
facoltà di
medicina, non è vero? Rette troppo alte, il lavoro part-time
non
coprirà abbastanza le spese e voi dovete fare tanti
sacrifici».
«La
prego, signor Luthor», lui deglutì. «Lei
ci tiene tanto, è la
chiamata della sua vita». Lo vide mordere di nuovo il
cornetto e
pulirsi. «Signor Luthor… farò tutto
ciò che posso per farle
avere quei dati».
Lex
annuì e, dopo avergli stretto la mano, lo
congedò. «Mh, non ha
bevuto il suo caffè», notò in un
secondo momento con disappunto,
rivolto a uno dei suoi uomini che si erano accostati al tavolo. Gli
lasciò bere il caffè e si alzò,
sistemando per bene la camicia
celeste e togliendosi la giacca, iniziando a sentir caldo: il sole
batteva cocente e i suoi raggi illuminavano per metà il
tavolino.
«Il mio secondo appuntamento?».
Lui
ingurgitò velocemente per rispondere il prima possibile.
«A cinque
minuti, signor Luthor».
«Perfetto.
Fa troppo caldo», si allargò il colletto,
«mi riserverò di
attendere in un tavolino all'ombra».
Era
stato un buongiorno particolare, quel primo dal ritorno delle loro
madri dal viaggio di nozze. Kara e Lena si svegliarono a poco l'una
dall'altra e, mentre la seconda ricontrollava di aver pensato a tutto
quello da portarsi dietro a Metropolis per studiare, l'altra si
preparò per uscire e andare a correre. Lena la
guardò a lungo,
distratta e, appena prima che aprisse la porta, la fermò.
Kara si
voltò scattante, tornando indietro. C'era qualcosa che le
frullava
per la testa, non era difficile intuirlo, e si sedette accanto a lei
sul letto, vedendola aprire la bocca senza emettere fiato.
«Non
vuoi andare a Metropolis?».
«No,
no, non è questo, è che…»,
la guardò e le sorrise. Si sarebbe
arrabbiata? Ci aveva pensato tutta la notte… Ieri aveva
chiesto a
Indigo di modificare i dati sulla chiavetta riguardante i suoi
genitori e lei ci avrebbe lavorato questa mattina, ma non poteva
nasconderlo a Kara: non solo aveva il diritto di esserne al corrente,
ma doveva essere d'accordo con lei o non avrebbe potuto farlo. Scosse
la testa, sorridendo di nuovo. «Vai a correre, ci pensiamo
dopo».
«Ma
è importante?».
«Sì,
ma… dopo».
La
spinse via dopo un bacio e Kara, un po' perplessa, uscì.
Incrociò
Lillian in corridoio ed evitò di battere una mano sulla
porta chiusa
di Indigo. Le diede il buongiorno, ma lo sguardo della donna la
attraversò.
«Lena?
Farà tardi?».
Lei
abbozzò un sorriso. «N-No, uscirà tra
poco». Solo in quel momento
si accorse che, nonostante avesse una stanza sua, l'aveva vista
uscire esattamente da quella della figlia. E sì che sapeva
che
stavano insieme, ma forse sarebbe stato meglio andarci caute con loro
intorno. Di certo non immaginava di trovarla già in piedi ad
aggirarsi come un fantasma. «T-utto bene? Sarete stanche per
il
viaggio, i-io-», indicò la porta dietro di lei,
rossa
dall'imbarazzo, «ho a-appena dato il buongiorno a Lena,
sì-».
«So
che avete dormito insieme, Kara».
«Ah…
be… bene. Io… sì, io vado…
a correre». Iniziò subito,
scappando dalla sua aspirante madre più in fretta che
poté.
Per
Lena fu diverso: la madre l'aspettò davanti alla porta e per
poco
non la fece balzare dallo spavento, chiedendole di rientrare. La
seguì all'interno e chiuse la porta, adocchiando la
confusione di
quella camera: il letto sfatto, la valigetta aperta sopra e libri
ovunque, persino dell'intimo in scorcio sul tappeto, l'armadio
aperto. Trattenne il fiato, vedendola mettere le braccia a conserte.
Cos'era ciò che indossava? Una maglietta a righe, quasi
sbiadita,
usata tanto che non l'avrebbe tenuta neppure per straccio. Una
maglietta… di Kara.
«Cosa
vuoi?».
«Risparmiami
il tono insolente, per piacere, e parlami di Linda»,
assottigliò
gli occhi e provò un freddo sorriso. «Parlami di
voi tre».
A
quel punto, Lena arcuò un sopracciglio dalla confusione.
«…
tre?».
Era
stato divertente dover spiegare a sua madre quanto si fosse
sbagliata. Dopo aver riso di gusto, chiaramente. Aveva del tutto
frainteso cosa c'era tra loro; cosa non
c'era tra loro. E non che avesse frainteso a caso poiché
Linda, o
meglio Indigo, lo aveva cercato di proposito e lo aveva fatto
dicendole quella che era semplicemente la sua verità.
Impressionante. Lena ne rimase colpita perché Lillian
Luthor, di
certo, non era un'ingenua. Ci aveva pensato e ripensato a lungo,
sistemando la valigetta, e quando Kara tornò dalla corsa
mattutina,
la prese in disparte per dirglielo prima che le venisse in mente di
sbattere Indigo fuori di casa. E Kara faticò eccome per non
anche
solo maledirla. «Non importa, ci ho pensato io», le
sorrise e le
scoccò il labbro inferiore con l'indice destro, con un'idea
in
testa, avvicinandosi al suo viso con il proprio. «Indigo
doveva
mantenere la sua copertura, non è grave. Adesso dovresti
pensare ad
altro», allora le morse un orecchio e Kara
trasalì, tornando
indietro.
«E-Ehi,
pensavo… pensavo andassimo a fare colazione», le
scoccò
un'occhiata, «ma sto cambiando idea».
«Cambiala.
Ho voglia di prendere un altro tipo di discorso, con te». La
baciò,
passandole le mani sui fianchi e fino al sedere, mettendole
imbarazzo. Finito, la prese per mano, trascinandola in bagno.
«In
bagno…?».
«Shh.
Parlo io, tu potrai farlo dopo».
Quando
la porta si riaprì, Lena si muoveva i capelli con le dita,
stringendo un elastico. «Allora sistemati. Ti aspetto di
sotto».
Prese il telefono e le sorrise.
Kara
sospirò, appoggiandosi allo stipite.
Cosa
le era passato per la testa? Non riuscì proprio a resistere
e ora
avrebbe dovuto mettersi d'impegno per parlarle di quei dati sulla
chiavetta e la loro cancellazione. Avevano fatto colazione con Indigo
vicino e l'aveva presa in disparte, in salotto, per avere modo di
spiegarsi. Era un po' nervosa perché non poteva permettersi
che
quella discussione andasse male. E in fondo, una parte di lei era
pronta a sentirla predicare che era sbagliato, e chissà che
cosa ne
avrebbero pensato suo cugino e quella Lane, che avrebbero trovato un
altro modo per proteggere Lillian dalle accuse che ne sarebbero
conseguite, ma la sorprese, restando ferma a pensarci.
Abbassò
il volto e dopo, ricercando Lillian ed Eliza al di là del
vetro che
affacciava al cortile, strinse i denti.
«Facciamolo», si rivoltò a
osservare Lena. «Facciamolo, va bene. Lillian non
è più, insomma,
ha sposato mia madre e adesso… dobbiamo limitare i danni, se
possiamo. Giusto?».
Lena
la sentì deglutire e un brivido gelido le
attraversò il corpo. «Sei
sicura? Cosa dirai a tuo cugino? Indigo dovrà modificare
anche la
loro copia dei dati: lo sai, questo?».
«Ci-Ci
parlerò io con lui», fece una smorfia con la
bocca, gesticolando
con una mano. Ma tornò presto soprappensiero e la reazione
non
sfuggì alla sua ragazza. «Non abbiamo scelta. Lo
dirò ad Alex, più
tardi, così non avremo problemi! Lei capirà
perché».
Lena
lo sperava. «Ah, a proposito, hai sistemato? Per il
lacrosse?».
Si
stava voltando per lasciarla e si fermò, in un sorriso.
«Tutto
fatto», annuì complice. «Ho chiamato e
ho lasciato alle ragazze
della squadra dei compiti per allenarsi»,
dichiarò, «mi terranno
aggiornata su Instagram.
Non è come essere lì, ma… Spero vada
tutto bene. Millard invece
non mi è sembrato convinto quando gli ho detto che era
un'urgenza
familiare e ha urlato». Si morse un labbro. «Lo
sento ancora,
veramente». Era dispiaciuta, ma aveva dovuto fare una scelta.
«Andrà
bene», le accarezzò con il pollice il dorso di una
mano e si
scambiarono un sorriso.
«Potrebbero
cacciarti». La voce di Indigo, alle sue spalle, fece balzare
dallo
spavento entrambe. Lena sorrise e Kara aggrottò lo sguardo
neanche
avesse potuto mangiarsela.
«Con
quello che hai combinato questa notte, sarebbe saggio da parte tua
almeno tacere per non attirare l'attenzione, considerando che non hai
neppure chiesto scusa».
«Avrei
dovuto?», inarcò le sopracciglia, «Ho
dato delle indicazioni alla
signora Luthor, ma non le ho detto cosa pensare», si
giustificò,
formando un sorriso fiero. «Avrebbe potuto riconoscermi,
ormai mi
aveva scoperta in casa sua; dovevo pur darle qualcosa per distrarsi.
E ha funzionato, mi sembra. Prego».
Kara
strabuzzò gli occhi. «Preg-?!».
Lena
la fermò dallo slanciarsi verso di lei. «Adesso
sanno che è
un'amica che sta con noi per studiare. Si è
risolto».
«Grazie
a te, non certo a lei». Le lanciò un'occhiataccia,
per poi
sussurrare: «Un'amica innamorata
di te… Pff».
Erano
partite quasi subito dopo aver pranzato e aver cancellato e
modificato quanto bastava quei dati: alle spalle di Indigo che
trafficava al pc, Lena e Kara si tennero per mano, sperando di stare
facendo la cosa migliore. Eliza riempì le borsette di tutte
e tre
con contenitori di cibo in modo da non ingegnarsi per cena o spendere
dei soldi, e Indigo, sorpresa dal gesto, cominciò a
mangiucchiare da
quando salirono sull'elicottero che le avrebbe portate a Metropolis.
«Sai
che nessuno te li porterà via, vero?», Kara
sollevò le
sopracciglia, osservandola annuire e ignorarla.
Lena
la vedeva comportarsi normalmente, ma in fondo sapeva che la scelta
su cancellare o meno quei dati doveva ancora far pensare Kara. Lei
per prima cominciava ad avere dei dubbi e decise di assicurarsi che
quel gesto ne sarebbe valso la pena.
Indigo
prese il cellulare e scattò una foto al panorama dalla
finestrella
intanto che prendevano quota.
L'elicottero
le lasciò su una pista dedicata e le ragazze attraversarono
per
raggiungere la monorotaia. Snack al burro d'arachidi in bocca per
Kara e Indigo, quasi facevano a gara a chi finiva prima, guardandosi
in cagnesco; Lena le lasciò ai loro brontolii mettendosi le
cuffie
nelle orecchie, pronta per una breve immersione nello studio. I
palazzi altissimi splendevano baciati dai raggi del sole e Indigo
restò affacciata, scattando altre foto. Anche Kara ne
restava ancora
affascinata; era stata lei a chiedere a Lena di farle lasciare prima
dall'elicottero in modo da sedere in monorotaia. Ricordò
quando un
anno prima era lei quella attaccata al vetro, verso casa di suo
cugino per la prima volta. Allora non conosceva Lex e ora stavano
andando da lui per convincerlo a fare qualcosa che avrebbe avuto
conseguenze legali. Sperava sarebbe andato per il meglio. Poi si
voltò, sentendo il peso della testa di Lena su una spalla.
Si
premurò di mettere stop alla traccia sul cellulare che stava
ascoltando prima che il sonno la vincesse, accarezzandole una
guancia.
Il
palazzo era altissimo, a una strada da quello della Luthor Corp. Il
portiere si alzò scalpitante dalla sua postazione non appena
vide
Lena e corse per aprire loro le porte dell'ascensore, con la chiave
apposita. L'edificio apparteneva alla famiglia Luthor così
come gli
altri in zona: conteneva uffici, quelli di esercizi privati, case in
affitto per vacanze e quella della famiglia dove si era sistemato Lex
Luthor, in alto. L'ascensore aveva le porte a vetri e Lena se ne
teneva ben distante. L'interno era lussuoso ed elegante, aveva la
moquette e le porte con decori intagliati. Lena aprì con la
chiave
ed entrarono. Non appena Kara e Indigo ci misero piede, si sentirono
delle bimbe smarrite: c'erano grandi vetrate, molta luce naturale su
un arredamento moderno e freddo che andava dal bianco al grigio
perla, asettico, molto diverso da quello in villa. C'era un
pianoforte anche lì, bianco, vicino a una vetrata. Una
libreria, una
piena di dischi in vinile e un vecchio giradischi. Un piano-bar con
una lunga selezione di liquori. Un enorme dipinto con angeli e demoni
in battaglia che ricopriva una parte della parete tra il salone e la
sala da pranzo. Due divani bianchi, due tavolini in vetro su grandi
tappeti. Enormi lampadari a goccia scendevano dall'alto soffitto
color panna. Kara c'era già stata, poco prima del matrimonio
di
Eliza e Lillian, ma non poteva dire di esserne abituata.
«Dovevate
avvertire che sareste passate». Con un pronto sorriso, Lex
scendeva
dalle scale senza corrimano: pantaloni scuri, camicia celeste con le
maniche arrotolate ai gomiti, ciabatte grigie ai piedi. «Sono
felice
di vedervi». Salutò con un abbraccio Kara per
prima, avvicinandosi
alla sorella.
«È
anche casa mia», incalzò lei, giocherellando col
mazzo di chiavi in
mano prima di nasconderlo in borsa. «E così pare
che siamo riuscite
a farti una sorpresa». Forzò un sorriso di
convenienza e si
scambiarono un abbraccio anche loro, breve. «Sei
solo?».
«Chi
vuoi che ci sia? Lo sai, sono un lupo solitario». Si
avvicinò a
Indigo e lei gli mostrò la mano. «La famosa amica
di penna. O così
hanno pensato di presentarti a me».
Lei
gli strinse la mano con energia. «Il fratello maggiore di
Lena.
Vorrei dire famoso
anch'io ma, per la verità, vieni nominato appena».
Lui delineò una
risata, lasciando la presa. «Piacere, Indigo».
«Oppure
Linda», aggiunse alla svelta Kara e lei restò
impassibile.
«Ignorala».
Lex
le sorrise, squadrandola da capo a piedi a lungo per poi voltarsi
alla sorella, emettendo un sospiro. «Se mi avresti detto che
sareste
passate, mi sarei tenuto la giornata libera. Ma sono tornato
piuttosto tardi da National City e mi stavo preparando per andare
alla Luthor Corp».
«Non
c'è problema», commentò velocemente
Lena, scambiando uno sguardo
con le altre due, «Veniamo anche noi».
Lui
annuì. «Beh, perfetto. Allora non mettetevi troppo
comode che tra
poco faccio chiamare la macchina».
Kara
s'imbrunì: a cosa serviva la macchina? La Luthor Corp era a
pochi
passi. Ricchi:
ansimò, pensando.
Lex
sapeva perché erano lì, non ne sembrava troppo
sorpreso né troppo
infastidito, in effetti. Dal canto suo, probabilmente doveva
già
essere consapevole che non sarebbero riuscite a smuoverlo dalla sua
posizione. Kara sperava che mostrargli i certificati che le lasciava
Maxwell Lord durante gli esami del sangue avrebbero fatto la
differenza, mentre Lena e Indigo si sarebbero preparate per il piano
b:
la prima sapeva che il fratello covava di attuare qualcosa contro
Lord e l'altra era pronta a scoprire cosa, connettendosi ai suoi
server.
In
attesa, Lena portò le ragazze a fare un breve tour della
casa: la
zona giorno con due salotti, la sala relax con il cinema, quattro
bagni, sala di pranzo e cucina, di sopra la zona notte con le camere
da letto e altri quattro bagni, le camere degli ospiti e un'altra
sala relax, infine di sopra, il tetto dell'edificio che faceva da
terrazzo, che custodiva la piscina. Indigo tornò di sotto
mentre
Kara si affacciava per osservare il panorama: il palazzo era davvero
alto e lassù, con i capelli che ondeggiavano nel vento, le
sembrava
di volare.
Sorrise,
chiudendo gli occhi e inspirando aria pulita. «Si vede
proprio
tutto», sorrise da orecchio a orecchio. L'unica altra volta
in cui
era stata in quella casa non aveva avuto tempo per quello.
«La
monorotaia», indicò. Cercò Lena dietro
di lei, ma stava sotto il
gazebo, distante. «Hai mai fatto il bagno qui?».
«A
volte», ammise, ricercando il telefono che vibrava in borsa,
chiedendole scusa.
Kara
camminò da una parte all'altra, sporgendosi dal muro
perfino,
cercando la casa di suo cugino Kal. La notte, la vista da
lassù
doveva essere poetica. Sentì Lena parlare con una delle
ragazze a
cui faceva da tutor e sorrise, voltandosi per osservarla: poggiava la
mano libera su uno sdraio, le gambe incrociate, nude, sotto la gonna
a tubo, i capelli lisci legati in una coda alta che sobbalzavano a
ogni suo movimento, gli occhiali da sole, le labbra rosse, ferma non
distante dalla piscina dall'acqua limpida. Apparteneva a quel mondo e
lo sapeva, ma ogni tanto riusciva a coglierne le piccole conferme
quotidiane. Si rivoltò verso il cielo e sentì i
suoi tacchi che si
avvicinavano. «Mi sono accorta ora, di nuovo
intendo… che sei
davvero
ricca. Come Lex io
non mi muovo a piedi
Luthor».
Lena
salutò la ragazza al telefono e finse di non aver sentito,
non
sapendo cosa risponderle. L'abbracciò di schiena e Kara le
strinse
le braccia. Non era lei a essere tanto ricca, ma la sua famiglia che
ora, volente o nolente, era in parte anche di Kara. Ripensò
ai suoi
genitori colpevoli, a entrambi nell'organizzazione. Quanto denaro
avevano racimolato alle spalle di altri? Quanto di quello era sporco?
«Kara… Riguardo a quei-», chiuse gli
occhi e l'altra le lasciò
le braccia per recuperare il suo telefono che le vibrava in tasca.
«Una
chiamata da Lucy Lane…?», bofonchiò
sorpresa.
Si
fece dare indicazioni da Lena su quale strada prendere per
raggiungerla, dispiacendosi di non poter andare alla Luthor Corp
anche lei, ma in ogni caso sapeva che era la presenza di Indigo
quella che più serviva lì. Lucy le disse di
essere a Metropolis e
di volerla incontrare per parlarle e, ricordando ancora come l'aveva
freddata quando le nominò quell'accordo la prima volta,
sembrò un
gran passo avanti. Si incontrarono davanti a un negozio di dischi e
si abbracciarono come due vecchie amiche, dondolando.
«Ho
dato uno sguardo alla dimostrazione, volevo vedere con i miei occhi
di cosa si stesse parlando. Era in un video sul portatile di mio
padre. E avevi ragione, Kara. È qualcosa di… Mi
dispiace di non
averti lasciato parlare la prima volta, ma davvero non credevo
che…»,
Lucy ansimò, per poi scuotere la testa con amarezza.
Camminavano al
centro di una piazza, in mezzo ai bambini che correvano e lanciavano
un pallone. «Hanno fatto stancare il soggetto con una corsa;
era
stremato, Kara, ma ti giuro che dopo aver assunto una di quelle
pillole, lui…», scrollò le spalle,
deglutendo, «pochi minuti e
ha ripreso come se niente fosse. Ed era ancora più veloce,
dava
maggiori risultati dall'inizio della dimostrazione».
«Lo
so», sospirò, abbassando gli occhi.
«Voglio
fermarli, Kara. Mio padre se la prenderà con me»,
annuì,
abbozzando una risata, «molto
probabilmente, ma non posso lasciare che questa cosa vada in porto.
Era così innaturale, avresti dovuto vederlo»,
strinse le mani per
dare un'idea, aggrottando la fronte. «Non voglio nemmeno
pensare che
effetto faccia dall'interno».
«Già…
Ti sconvolge il cervello», aggiunse lei, fermandosi.
«C'è una cosa
che devi sapere…».
Alla
Luthor Corp, intanto, Lex si prese del tempo per fare una piccola
visita guidata a Indigo, seguiti da una Lena annoiata. Alle loro
spalle, notava come suo fratello, di tanto in tanto, allungava una
mano verso la vita di lei e l'avvicinava a sé. Che fosse per
accompagnarla a una curva o per guidarla verso un'ascensore, era
sempre più stretta, violava il suo spazio personale. Strinse
gli
occhi: non sarebbe accaduto. «Vieni, Indigo», li
interruppe,
prendendo lei per un braccio. «Lasciamo Lex al suo lavoro, ti
farò
vedere io il resto». Si allontanarono svelte, prendendo di
nuovo
un'ascensore. Salirono all'ultimo piano e, mentre Indigo si guardava
intorno, Lena tolse un mazzo di chiavi dalla borsa e aprì
una porta,
facendo cenno all'altra di entrare con lei. Era un ufficio spazioso:
due librerie ai lati, un cestino vuoto vicino alla porta, qualche
certificato e disegno antico incorniciato sulle pareti e, davanti,
sopra un tappeto persiano, una scrivania con monitor, portafoto e
portapenne. Dietro, enormi vetrate. «Era l'ufficio di mio
padre
qui», disse Lena, camminando verso la poltrona in pelle e
passandoci
una mano come avesse potuto farla tornare al passato.
Dopodiché si
scrollò e accese il computer fisso, mentre l'altra le
poggiava una
mano su una spalla per farle sentire la sua vicinanza. «Di
quanto
avrai bisogno?».
«Dammi
una mezzora, quaranta minuti. Non vedo l'ora di vedere con cosa
avrò
a che fare», si accomodò sulla poltrona,
esclamando come una bimba
in un negozio di dolciumi. Era eccitata di dover superare un nuovo
sistema di sicurezza.
Lena
annuì, voltandosi per tornare alla porta.
«Sarò da Lex, voglio
parlare con lui di una cosa. Hai il tempo che ti occorre». Si
scambiarono uno sguardo complice e, prima di uscire, le sorrise.
Lucy
e Kara si erano sedute su una panchina, facendo volare via i
piccioni. La prima era rimasta senza parole, non credeva che Kara
avesse avuto un'esperienza così diretta con quelle pillole
rosse.
Diede un'occhiata ai certificati che la ragazza aveva con
sé,
commentando con lei i valori del suo sangue. Sospirò
pesantemente,
poi, prima di proferire qualcosa. «Sono senza parole, Kara,
davvero,
io non… potevo immaginare che tu…»,
mormorò, infine alzò gli
occhi su di lei. «Mi dispiace per tutto questo».
Kara
scosse la testa, abbandonandosi sulla panchina. «Gliel'ho
chiesto
io, sapevo, o
quasi,
a cosa andavo incontro», scrollò gli occhi.
«Non posso accusarlo
di niente».
«Hai
preso parte a un esperimento nel vero senso del termine, ti ha
raggirato e non eri neppure retribuita. Non potevi essere a
conoscenza al cento per cento di cosa andavi incontro, ma»,
gonfiò gli occhi, «è vero, ti sei fatta
avanti tu e in tribunale
sarebbe rischioso».
«Di
cosa parli?».
«Ehilà,
Kara! Sono un'avvocata», sorrise, «Voglio fermare
le pillole in
modo del tutto legale, portando a processo il suo creatore. Devo solo
trovare un appiglio per la denuncia».
Anche
sul volto di Kara si formò un sorriso entusiasta, pensando a
Lex. Se
fosse riuscita a convincerlo a prendersi la paternità delle
pillole
originali di fronte alla legge, Lucy Lane avrebbe potuto fargli da
avvocata. Era perfetto, pensò. Però…
«Mh…».
Lucy
la guardò con attenzione. «Hai qualcosa in mente
che possa tornare
utile?».
«Sì,
ma no- cioè», scosse la testa,
«sì, sì, ma non era…
è che
queste pillole, me ne vergogno così tanto e tu non hai
battuto
ciglio e…».
«Kara»,
Lucy le poggiò una mano sulle sue, sul suo grembo.
«Non devi
giustificarti con me e lo hai detto tu, stavi passando un periodo
difficile. Non dico che avrei fatto lo stesso, ma non sono neppure
mai stata nella tua situazione».
Le
stava per rispondere che sentì vibrare il cellulare. Poteva
essere
Lena e urgente, ma quel nome la stupì, scambiando con
l'altra al suo
fianco uno sguardo incerto; così accettò la
chiamata. «Leslie?».
La voce dell'altra era cupa come non era mai stata e per un attimo si
spaventò. «Stai bene?».
«Sei
tu quella deve curarsi di se stessa, passerotto». Leslie
Willis accennò una breve risata, mantenendo un basso tono. «Sai
il mio uomo? Quello che fa parte dell'organizzazione e a cui non
avevo parlato di te come collega di lavoro; quello stesso uomo a cui
non ho detto della tua relazione con la Luthor per non attirare
attenzione su voi due?».
Lei deglutì, increspando la fronte. Quindi era per quello
che
Leslie… «Quello.
E si dice grazie,
a proposito. Venendo al dunque, ci siamo visti per pranzo e mi ha
girato una voce che circola nel suo ambiente, sai
l'organizzazione?!»,
sottolineò. «Si
dice che tu abbia assunto certe pillole poco salutari, fino a poco
tempo fa».
Non sentendo reazione da parte sua, Leslie non perse un momento: «A
me onestamente non importa e ho deciso che non ti venderò,
cucciolotta, ma attenta, non sappiamo da chi sia partita la voce e
non mi stupirebbe se arrivasse ai piani alti. Ci siamo
capite?».
Kara
staccò la chiamata col cuore in gola e sentì un
brivido pervaderle
tutto il corpo. Loro sapevano. Come potevano…? Solo poche
persone
sapevano. Deglutì, prendendo un respiro profondo.
Appena
la vide arrivare, Lex arcuò un sopracciglio. Non si
stupì neppure
di vederla sola. Era seduto intorno a un tavolo tondo con l'ennesima
tazzina di caffè in mano e un tablet, anche lui solo; alle
spalle un
piano-bar, in una saletta calda con vari monitor accesi su una parete
e i dipendenti che circolavano. A breve la maggior parte di loro
sarebbe andata in vacanza e iniziavano a prendersela comoda.
«Ti
devo parlare». Non si avvicinò troppo, restando
dall'altra parte
del tavolo.
Lui
fece una smorfia, abbassando la tazzina sul piattino. «Le tre
parole
più terrificanti al mondo», borbottò.
«E puoi farlo qui?», alzò
le braccia. Nessuno avrebbe osato origliare, ma Lena non doveva
essere dello stesso avviso a giudicare dallo sguardo irritato.
«No».
«Ti
prego, sorellina. A sentirti prima, pensavo volessi lasciarmi
lavorare», le mostrò il tablet e lei
sbuffò.
Si
andò a sedere accanto a Lex, accavallando le gambe sotto il
tavolo e
lanciando sguardi furenti alle persone che passeggiavano vicino.
«Tu
e Kara avete deciso di sposarvi?», esordì non
togliendo occhi dal
tablet, facendole spalancare i suoi e irrigidirsi, arrossendo.
«Cosa?».
«Peccato.
Pensavo a un buon modo per far entrare in crisi nostra madre. Allora
sei qui», la guardò, serio, «per le
pillole. Di nuovo».
Lena
sospirò. «Sì. Ma in questo esatto
momento per un'altra cosa». Ora
sì che aveva la sua attenzione. «Lillian
e… I nostri genitori
facevano parte dell'organizzazione e io voglio saperne di
più»,
pronunciò a bassa voce e il fratello schizzò,
mettendosi dritto
sulla sedia.
«Non
nominare-».
«Tu
sei voluto restare», lo fulminò. Si guardarono in
giro e si
alzarono dalle sedie lentamente. Il giovane si lisciò la
giacca e
Lena gli gettò un'occhiata determinata per farsi seguire.
Entrarono
in un'ascensore e si mossero di poco che la ragazza lo
bloccò con
loro all'interno. «Ne erano i presidenti»,
specificò, «prima di
Adrian Zod». Sapeva che lo sapeva, era inutile girarci
intorno e lo
fissò sollevare le sopracciglia in conferma. «E
prima ancora, lo
era il nostro nonno paterno, Levi Luthor. Mi avevi confessato, una
volta, che lui era uno dei fondatori».
«È
vero», replicò Lex.
«Cos'altro
sai? Chi erano gli altri fondatori?», gli parlò
addosso, avanzando
mezzo passo. «Quali altri membri della nostra famiglia hanno
avuto a
che fare con tutta questa faccenda?».
Lex
restò immobile, non affatto colpito dal suo impeto.
«Non ne so
molto più di te, Lena. Come mai, proprio ora, questa
frizzante
voglia di verità?».
Lei
contrasse lo sguardo. «Sapere che i tuoi genitori erano dei
criminali, e così tuo nonno, non è abbastanza per
te, Lex?».
«Riguarda
il passato».
«Ma
è la nostra eredità. Lo avevi detto
tu… È ciò che ci ha
lasciato nostro padre».
Allora
Lex sorrise, ansimando e sollevando lo sguardo un momento: sapeva che
lei non aveva torto. «Non serve scavare, Lena. Prima cercavi
un modo
per proteggere Kara, ma adesso la minaccia è dietro le
sbarre,
lascia perdere l'organizzazione e ciò che è
stato. Che cosa vuoi,
nomi? Sapere quante persone ci sono finite in mezzo? Non lo
so»,
strinse i denti, «La nostra famiglia era malvagia.
È questo che
vuoi sentirti dire?».
Lei
non si mosse, prendendo grossi bocconi d'aria, finché non
sbloccò
l'ascensore. Ne aveva già abbastanza.
«Davvero
non capisco cosa vai cercando…», sibilò
lui alle sue spalle.
«Sono cose che hai sempre saputo».
Le
porte si aprirono e lei si voltò solo una volta, fissandolo
con
sdegno: «Ah, Lex: tieni le tue mani a posto». Si
allontanò in
fretta, lasciando suo fratello senza dirgli più una parola.
Strinse
un pugno di rabbia e afferrò il cellulare da una tasca,
scoprendo
una telefonata persa da Alex. Si chiese se…
Decise di salire le scale per incrociare meno dipendenti possibili,
richiamando la sua sorellastra. Era stremata… I dati
cancellati
avrebbero protetto la sua famiglia e metteva di mezzo Kara. Ma loro
questo lo meritavano? Quanti Luthor erano stati dei criminali?
Lillian sarebbe mai cambiata davvero, o era solo un'illusione? La
donna che l'aveva cresciuta era fredda e dispotica, non le aveva mai
dato l'amore che le serviva, e ora per lei… Peggio era solo
che ci
stesse pensando Kara, la cui organizzazione aveva ucciso la famiglia.
Prese un altro boccone d'aria, destandosi quando Alex rispose. Oh,
accidenti…
Lei era quasi sul punto di urlarle contro: la notizia le era arrivata
in fretta. «Calmati, non riesco a capirti
se…», prese tempo,
appoggiandosi spalle al muro. «La usb?»,
mormorò, iniziando a
mordersi un labbro.
«Sì.
Ho parlato con Lois Lane e ha detto che i dati copiati dalla
chiavetta usb che lei e Clark hanno spedito a voi sono magicamente
cambiati. Mi ha chiesto cos'è successo. Pensava che, a
quest'ora, i
dati originali sarebbero stati in mano al D.A.O. ma, guarda un po',
non è così»,
Alex si prese una pausa, prendendo fiato per trattenersi. «Pensavo
anch'io sarebbe stato così. Sai chi è che
può modificare dei dati
così facilmente?»,
si fermò ancora e Lena chiuse gli occhi, appoggiando al muro
anche
la nuca. «Sono
stata paziente,
Lena. Pensavo fossimo una squadra, ma questo è decisamente
troppo! È
il mio lavoro e voi non fate che intralciarlo. Ho chiuso abbastanza
occhi per te o per chiunque altro e adesso basta! Quando tornerai a
National City, mi dovrai delle spiegazioni»,
rimproverò, «E
fai che siano convincenti. Mi hai capito?».
Staccò
la chiamata e Lena trattenne il fiato.
Quella
giornata aveva preso una piega inaspettata. Erano andate a Metropolis
per convincere Lex a prendersi la responsabilità su quelle
pillole
e, da ultimo, erano state loro a rendersi conto di doversi prendere
la responsabilità su qualcosa che avevano commesso.
Lena
e Indigo tornarono a casa per prime, dopo Lex, in silenzio, e infine
Kara, adirata come poche volte l'avrebbero vista. Appena ebbe Indigo
accanto, la prese per le spalle e la sbatté al muro. La
seconda
provò a scansarsi ma fu tutto inutile, fino a che non
intervennero
gli altri due a separarle.
«Che
cosa hai detto, eh? È stato lui a fartelo fare?»,
Kara strinse i
denti e trattenne il respiro, fissando l'altra con ira. Tenuta
indietro da Lex, si sentì lasciare andare solo quando il suo
umore
cambiò, iniziando a tremare e a scenderle le lacrime.
«Non importa
per quanto tempo starai con noi, vero? Sarai sempre una sua
spia…
una traditrice».
Anche
Indigo tremò inaspettatamente a quelle parole; Lena
poté captare
attraverso i suoi occhi come e quanto riuscirono a ferirla.
Sembrò
che non riuscisse neppure a difendersi. «Kara,
cos'è successo?»,
le chiese con gli occhi grandi, frapponendosi tra loro.
«Lo
sanno», disse, «Loro sanno di me e delle pillole, e
Leslie…»,
deglutì, cercando di calmarsi. «Leslie mi ha
avvertita». Fissò
ancora Indigo senza che reagisse, ancora ferma da come si erano
separate, con il pugno sinistro alzato e l'altro sul volto, per
proteggerlo. La fissò a lungo, incantata. Che
cosa…? Quegli occhi
erano terrorizzati, cosa stava succedendo? L'aveva aggredita
e… Lei
non aveva provato a fare niente e… Aveva sbagliato. Oddio,
cosa… Kara deglutì, rendendosi conto dell'errore.
«Non sei stata
tu…», mormorò, abbassando il viso per
guardarsi le mani. «Cos'ho
fatto…?!». Scambiò uno sguardo con
Lena, anche lei amareggiata,
mentre scuoteva la testa.
«Io
non ho detto niente», Indigo provò a parlare,
abbassando le
braccia. «Non ho detto niente, razza di scema, lo
giuro».
Aveva
fatto qualcosa di terribile e Kara se ne pentì all'istante,
avvicinandosi a lei e, inaspettatamente, provando ad abbracciarla.
Era l'unica cosa che le venne in mente e, seppure all'inizio
sembrasse che l'altra non sapesse come comportarsi e Kara
pensò che
l'avrebbe sicuramente rifiutata a un certo punto, ricambiò
invece,
goffa, e a tentoni. La sentì deglutire.
Lena
sospirò con un sorriso e Lex si lasciò andare a
un piccolo
applauso: «E tutto è bene quel che finisce bene.
Così adesso
qualcuna di voi potrà spiegarmi cos'è appena
successo».
Non
glielo spiegarono, ma Indigo ci andò vicino quando, dopo
aver cenato
insieme e in silenzio con i manicaretti confezionati per loro da
Eliza, restò con lui di sotto a bere, mentre Kara e Lena si
presero
una boccata d'aria sul terrazzo, in modo da parlarsi e aggiornarsi su
ciò che era successo in quelle ore.
«Mi
ha chiamata Alex», confessò Kara.
«Quando ero fuori con Lucy e non
ho risposto. Ha richiamato prima. E mi ha lasciato un
messaggio»,
sbuffò, «adirato»,
aggiunse svelta a labbra strette. «Vuole sapere
perché non gliel'ho
detto perché, beh», si avvicinò al
muro, appoggiando le braccia a
conserte, «ci siamo promesse esattamente
ieri
di essere sempre sincere e-e ha ragione. Pensavo di avere
più
tempo», scosse la testa e la lasciò andare a peso
morto contro le
braccia.
Nonostante
la paura dell'altezza, Lena si accostò al muretto e le
poggiò una
mano sul braccio destro. «Non glielo dire».
«Cosa?».
«Che
lo sapevi», rispose subito e l'altra rialzò il
viso. «Ho fatto
tutto da sola, con Indigo. L'idea è stata comunque
mia».
«Non
ci penso neanche», borbottò, corrugando la fronte.
«Me lo hai
chiesto e io ti ho detto che andava bene. Abbiamo protetto
Lillian».
«Forse
non dobbiamo», cambiò tono di voce e Kara
ricercò i suoi occhi,
tentando di leggere al di là delle parole cosa intendesse.
«Forse…
sbagliamo».
«Cosa
stai…? È la cosa giusta, Lena»,
scrollò le spalle, «Eri tu
che-».
«Magari
ho cambiato idea», si passò la lingua su un labbro
e prese fiato,
chiudendo gli occhi.
«Beh,
ne riparleremo», chiosò, prima di riprendere il
filo del discorso,
ricordandosi all'ultimo: «E Alex… Alex lo
capirà».
Lena
abbozzò un mesto sorriso, scuotendo la testa. «No,
Kara, non questa
volta… Lei ha fatto un giuramento e il suo distintivo le
impone di
trovare la verità».
Kara
esplose come un vulcano: «Ma le persone vengono prima della
verità».
Lena
spalancò gli occhi e, inaspettatamente, sentì il
bisogno di
baciarla. Si guardarono attraverso la fioca luce del terrazzo,
lasciandosi andare.
«È
il tuo modo per zittirmi?», sussurrò Kara, ma
l'altra non sorrise,
non questa volta.
«Temo
Alex non la vedrà allo stesso modo»,
bisbigliò a fior di labbra,
rimettendosi dritta. «Dovrà mentire al suo capo e
ai suoi colleghi
per coprirci. È come se…»,
abbassò gli occhi, «come se la
obbligassimo a farlo». Attirò verso di
sé il suo braccio destro e
le prese la mano con le sue, mordendosi un labbro. «Ora una
di noi
due deve mantenere un buon rapporto con lei, non può essere
arrabbiata con entrambe. Ed è più facile che sia
tu perché»,
accennò una risata, «è tua sorella da
molto più di tempo».
Kara
ricambiò con un sorriso, per poco, scuotendo la testa.
«Non è
giusto, Lena».
«E
cosa lo è?». Appoggiò la fronte sulla
sua e finirono per
abbracciarsi. «Torniamo di sotto, adesso», Lena la
tirò per mano,
«Prima che Lex ci provi con lei».
«Ci
provi?».
Le
annuì con disappunto. «Mettiamolo alle strette,
almeno avrà altro
a cui pensare e faremo ciò per cui siamo qui».
«Indigo
è riuscita a…», si zittì,
ricordando di come l'avesse aggredita.
«Sì,
è riuscita», le prese anche l'altra mano, fermando
i suoi passi.
«Ti perdonerà, Kara, tornerete come
prima».
Increspò
le labbra. «Lei…», soffiò
infastidita di colpo e l'abbracciò,
pensando di sussurrarle una cosa all'orecchio, così Lena
sorrise.
«Non
hai rovinato nulla», la rincuorò, vedendola
annuire.
«Lena,
se non è stata Indigo… non sono molti a saperlo.
Maxwell Lord?».
«Lo
ha detto ad Alex ma perché-», si bloccò
a bocca aperta, guardando
altrove e poi di nuovo lei, dopo averci pensato. «Altro
a cui pensare…».
«Altro
a cui pensare»,
spalancò gli occhi e ripeté a voce più
alta, colpita dalla stessa
illuminazione. «È una distrazione! Lena, lo ha
fatto apposta!
Maxwell Lord ha sparso la voce per tenermi lontano dai suoi
affari».
Spalancò le narici, aggrottando la fronte. «Appena
torneremo a
National City, mi troverà di fronte al suo ufficio. Non
posso
crederci… È davvero così preoccupato
di ciò che posso fare?».
«Ma
perché farlo ora? Sa che siamo qui per cercare di convincere
Lex?».
«Potrebbe!
Non lo so, ma è davvero l'unico… è
l'unico che ha un motivo per
distrarmi».
Si
scambiarono uno sguardo complice, prima di andare. Come se non
avessero davvero altro a cui pensare, quella non poteva essere una
coincidenza. Dopotutto, se non era stato Maxwell Lord, chi altro?
Quando scesero le scale, trovarono Lex e Indigo con i bicchieri in
mano che ridevano di gusto. Avevano le guance imporporate di rosa e
Lena chiese loro di cosa stessero ridendo. Indigo indicò
Kara,
ricordando a tutti con quale forza l'avesse spinta contro il muro.
«No,
Kara, non pensar male», esclamò lui,
raggiungendola e passando un
braccio sulle sue spalle. «Commentavamo la tua energica
forza, non
c'era ombra di presa in giro, non mi permetterai mai». Le
chiese se
volesse bere e andò a prepararle un bicchiere, per poi
girarsi verso
la sorella minore. «Accennavo a Indigo delle nostri doti.
Cosa ne
pensi di una prova? È da parecchio che non suoniamo insieme,
noi
due». Passò il bicchiere a Kara e si sporse verso
il piano, che
Lena raggiungeva lentamente, pensando di dargli corda. Un momento per
rilassarsi se lo avevano guadagnato un po' tutte.
Si
andarono a sedere, mentre le altre due andavano verso uno dei divani;
Kara ci si buttò sopra quasi a peso morto, non potendo fare
a meno
di pensare.
«Accompagnami»,
sussurrò Lex alla sorella al suo fianco.
«Tu
accompagna me», precisò lei.
Lente,
le note iniziarono ad apparire chiare e armoniose nell'aria. Kara
chiuse gli occhi, abbracciata a una spalliera, mentre Indigo si
guardò attorno, alzandosi per recuperare il telefono che
aveva
lasciato su uno sgabello. Quest'ultima guardò Kara e poi i
due
Luthor, mordendosi un labbro. Non aveva mai compreso la musica e
quale effetto facesse alle persone: suo fratello Cyan suonava il
violino e incantava tutti, ma non lei. Era sempre stata diversa.
Bevve un sorso del suo bicchiere, l'ultimo, specchiandosi sul goccio
di liquore che restava sul fondo. Era sempre stata diversa e lei,
lì
con loro, non ci faceva nulla.
Da
Me a X
Sei
stato tu! Hai sparso tu la voce di Kara Danvers e quelle dannate
pillole nell'organizzazione.
Inviò e attese, lontana da lei che si rilassava sulla
spalliera.
Da
X a Me
E
come l'ha presa la nostra supereroina Kara Danvers?
Da
Me a X
Se
l'è presa con me, brutto infame. Avresti dovuto avvertirmi.
Da
X a Me
L'avessi
fatto, saresti stata preparata, Indigo. Ma ora sei innocente ai suoi
occhi, giusto? Dunque, mi pare di capire che ti lascerà in
pace,
come desideravi. E abbiamo sistemato anche Alex, con quel messaggio
da Lane che ha fatto sì che si parlassero. Stiamo vincendo,
Indigo,
dovresti esserne orgogliosa. Ma vacci piano con le parole, sono una
persona sensibile.
Strinse
le lebbra e spense il monitor. Sarebbe sempre stata la spia, la
traditrice. Lui stava vincendo e lei affondando. Quel travestimento
le stava entrando sottopelle e doveva fermarlo. Sarebbe andata
avanti, decise, ma lo avrebbe fatto secondo le sue regole, non quelle
del suo angelo custode. Non poteva fare altrimenti. La musica
cessò
e Indigo si destò.
Il
giovane sorrise, alzandosi e reggendo il bicchiere, bevendo tutto
d'un fiato. «Bene. E adesso che siamo tutti stanchi, sereni e
forse
un po' brilli», alzò il bicchiere vuoto,
«credo sia arrivato il
momento di affrontare l'elefante nella stanza: le pillole. Fate del
vostro peggio, signore». Kara e Lena si scambiarono uno
sguardo e la
prima si alzò dal divano, così Lex la
indicò con un sorriso:
«Abbiamo la prima candidata. Prego, sono tutto
orecchie». Poggiò
il bicchiere su un mobiletto, sopra un sottobicchiere, e si
portò le
mani nelle tasche dei pantaloni, dando a lei ogni attenzione.
Quella
giornata la stava consumando, ma doveva fare un ultimo sforzo e
sospirò, inumidendosi le labbra. «So che non vuoi
fermare
quell'accordo, Lex», lo vide annuire, «E posso
immaginare che ogni
mio tentativo vada a vuoto, ma non posso non provarci e devi
ascoltarmi, per favore», il ragazzo annuì di nuovo
e lei deglutì.
«Le ho provate».
«Lo
so, Kara», scrollò le spalle, «Sono
andato io a Gotham a
prenderti. Era stata Roulette. Ah»,
sospirò poi, «Plurale.
Di questo parlavate quando hai aggredito Indigo. Non ti sei fermata a
quella per caso».
Lei
abbassò gli occhi un momento, uno solo, stringendo un pugno.
Era
difficile raccontare di nuovo una cosa privata di cui si vergognava
profondamente, ma sperava di fare del bene. Lena le portò i
certificati che aveva ancora nella borsa e Lex ne esaminò
qualcuno,
attento. Eppure, ogni cosa che diceva e ogni cosa che gli mostrava
non sembrava sortire l'effetto che tanto sperava. «Non devi
farlo
per me, non devi farlo per chi assumerà quelle pillole ma,
Lex, se
il tuo scopo è solo quello di battere Lord, allora non pensi
che
possa essere più gratificante andare là e
soffiargli l'accordo sul
nascere? Vedere la sua faccia mentre gli porti via, con una sola
comunicazione mondiale, un minuzioso lavoro durato mesi?».
Lui
ci rifletté con attenzione, appoggiandosi a un tavolino.
«Mh,
questa è interessante. Mi piace».
«La
base del suo lavoro è il tuo, Lex! Lo stai lasciando fare
mentre
cerca di arricchirsi proponendo al mondo qualcosa che contiene il tuo
genio. E il tuo errore», proseguì e lui si fece
serio. «Lo hai
letto in quei certificati. Quello
ti appartiene. So che affronterai dei guai legali ma ne uscirai a
testa alta e… e c'è un'amica che vorrebbe farti
da avvocata».
Lui
mostrò appena un sorriso. «Colpo di
scena».
«Vuole
fermare la vendita di quelle pillole ed è disposta a
rappresentarti
in tribunale se ti farai avanti! È la figlia di Lane.
Lucy», lo
vide sorprendersi, per una volta. «Andrà contro
suo padre per
farlo».
Lex
si rimise dritto, passeggiando per il salone. «Non si
può dire che
la situazione non si stia rendendo affascinante. Qualcun'altra vuole
tentare?», alzò le braccia e Kara concluse
sperando che ci pensasse
bene.
Lena
restò seduta e, lanciando uno sguardo a Indigo, prese a
parlare:
«Non hai interesse nel rivendicare le pillole originali
perché
paghi e minacci alcuni dipendenti della Lord Technologies
affinché
rubino per te dati sensibili», disse in un fiato, guardandolo
appena. «Ho tutto, Lex».
Lui
sorrise, abbassando il viso e dopo annuendo. «Ma
certo… Sai, mi
domandavo se ci saresti riuscita», riferì,
guardando Indigo.
«Sapevo che eri brava, ma non così
brava. Sei all'altezza della tua fama, Indigo Brainer». Oh,
avrebbero voluto dire di essere sorprese, ma in realtà una
parte di
loro aveva sempre saputo che avesse riconosciuto la ragazza, essendo
stata ricercata per un lungo periodo. «Avete intenzione di
denunciarmi?», chiese, squadrando i loro visi seri.
«Voi non
capite. Ho finto tante, troppe volte che gli attacchi di
quell'individuo non mi toccassero, sono andato avanti, curioso fin
dove si sarebbe spinto, ma mi ha portato via qualcosa di
così
importante che non posso ignorare l'affronto, questa volta».
Ingurgitò sonoramente saliva e prese fiato. «Ora
ho la possibilità
concreta di chiudere definitivamente questa faccenda. E
chissà che
così non scoprirò cos'ha Maxwell Lord contro la
mia persona».
Lena
assottigliò gli occhi, slanciandosi in avanti.
«Vuoi colpirlo dov'è
più vulnerabile. Ma sbagli, così non
finirà mai. Tu non sei così,
Lex».
Il
giovane annuì. «Sì, beh… Hai
ragione, sorellina: sono peggio».
Loro si zittirono e prese passo verso il piano-bar, fermandosi solo
per indicare Kara. «Ci penserò. Qualcuna di voi
vuole ancora
bere?».
Lena
deglutì, abbassando gli occhi. Lasciò il piano e
poggiò una mano
su una spalla del fratello, prima di allontanarsi con Indigo a fianco
che le disse, tra loro, che sarebbe rimasta per bere ancora.
«Non
trattenerti a lungo», lanciò uno sguardo a lui.
«Puoi stare nella
camera a fianco alla mia, degli ospiti. Stai bene?». La vide
un po'
strana e, facendoci caso, era stata in disparte per tutto quel tempo.
«Sì.
Ho solo bisogno di bere un po', di rilassarmi». Tenne
d'occhio Lena
salire di sopra che Kara la raggiunse, appoggiandole una mano su un
braccio.
«M-Mi
dispiace davvero per-».
«Non
farlo. Ce l'hai sempre avuta con me: cos'ha di diverso,
stavolta?».
Kara rimase senza parole e Indigo sentì le sue dita premere,
prima
di lasciarla e salire anche lei le scale. Il suo angelo custode ci
aveva visto giusto, eppure lo odiava per averlo fatto.
Lex
le scoccò un'occhiata. «Soli io e te».
Aprì una nuova bottiglia e
riempì un altro bicchiere, approfittando per congratularsi
ancora.
«Sai, potrei offrirti un lavoro qui alla Luthor Corp.
Potrebbe far
comodo una come te».
«Lavoro
per Lena».
«Sì…
peccato». Si sedettero su sgabelli vicini, di fronte al
piano-bar,
che lui la squadrò ancora: poggiò un gomito e
così il mento,
incantandosi, senza vergogna. «Non c'è qualcosa
che possa farti
cambiare idea? Qualcosa che posso offrirti? Vedi, mia sorella ha
tanti pregi, ma pecca quando si parla di saper coltivare i talenti. E
un talento come il tuo sarebbe uno spreco gettarlo via. Al contrario,
io saprei come sfruttare la tua capacità al massimo delle
tue
potenzialità».
Lei
bevve, poggiando il bicchiere sul banco. «Non lo metto in
dubbio»,
bofonchiò senza guardarlo.
Lex
si avvicinò cautamente, battendo il proprio bicchiere con il
suo.
«Hai un debole per mia sorella, eh?».
«…
Lei ama Kara».
«Oh
sì, non ha occhi che per lei. Mi dispiace. Temo tu sia
arrivata
tardi, Indigo, credo tu sappia che sei il suo tipo».
La
ragazza finalmente lo guardò negli occhi, mostrando un
sorriso.
«Arriva al dunque, fratello di Lena»,
borbottò, «Ci stai girando
troppo a lungo e mi sto annoiando».
Ricambiò
il sorriso in fretta, quasi soddisfatto. «Sei il suo tipo. E
il
mio». Si avvicinò ancora e Indigo si sporse,
chiudendo gli occhi e
affondando la bocca nella sua, afferrandogli il colletto.
La
vista da lassù, la notte, era poetica. Aveva ragione. Kara
si
affacciò dal terrazzo e Lena le strinse sui fianchi.
Metropolis era
un cielo di luci che sembravano stelle, di musiche nell'aria e di
leggera brezza sulla pelle.
«Devo
chiamare Alex», Kara spezzò il silenzio.
«Aspetterà che mi faccia
sentire».
Lena
la baciò dietro il collo. «Fallo».
«Sei
sicura?». Si voltò per lei, ricercando i suoi
occhi.
«Sì,
Kara. È la cosa migliore». Allora le
baciò le labbra, staccandosi
piano. «Ti aspetto in camera». Era stata una
giornata
particolarmente intensa. Lena chiuse la porta e scese verso le
camere, entrando nella sua con una pesantezza insostenibile per le
spalle. Aveva bisogno di sdraiarsi e spegnere il cervello. Dormire
senza pause fino all'indomani. Le
persone vengono prima della verità
aveva detto Kara. Voleva proteggere Lillian anche dopo ciò
che era
successo alla sua famiglia. Proteggere i Luthor a discapito della
verità.
Dormiva
quando Kara la raggiunse. Le lasciò un bacio sulla fronte,
le
sistemò meglio le coperte e, dopo aver controllato Instagram
per l'allenamento delle ragazze, si coricò anche lei,
cogliendola in
un abbraccio.
«Perché
Linda?»,
le domandò Lex curioso. Sorrise impercettibilmente,
stringendo con
fervore le cosce della ragazza contro il suo corpo nudo.
I
lunghi capelli biondi scendevano selvaggi sulle braccia e sul seno
scoperto, turgido. A quella domanda, si sforzò di guardarlo
negli
occhi, abbassando la testa. «Mi hanno presentato con quel
nome a tua
madre», emise in un gemito, «E alla madre di Kara
Danvers».
«Ti
sta bene», concluse, stringendo più forte la sua
morsa.
«Lo
odio», tuonò seccata e spostò con una
mano i capelli dal viso,
appoggiandosi meglio contro il suo petto.
«E
perché mai?», interrogò, ansimando.
«Almeno si sono sforzate…
per trovarti un nome nuovo. Di Indigo
non se ne trovano tante… sei fortunata se… mia
madre non scoprirà
chi sei. Almeno potrai», si fermò, cambiando tono
di voce, «stare
tranquilla… il tempo che vorrai».
Indigo
si morse un labbro e lo graffiò al torace, alzandosi da lui
in
fretta e passando all'altra parte del letto.
Lex
prese fiato a pieni polmoni e si portò seduto.
«Cos'è successo? È
per qualcosa che ho fatto?».
«No»,
si rivoltò un istante e ricercò i suoi slip,
infilandoseli. «Il
problema è mio, la tua virilità è
salva». Sentì una sua mano
sudata cercarle la schiena ma non gli disse altro, arrotolando il
resto dei suoi indumenti e uscendo dalla camera buia.
Era
stata una giornata particolarmente intensa e l'indomani mattina,
subito dopo che Kara cercò e trovò il suo
cellulare, scoprì con
sgomento che non sarebbe stata l'unica.
Da
Megs a Me
Kara,
è un disastro! Millard è furioso! Ci ha riunite
stamattina e
parlava di un cambio in vista della finale, tra le ragazze si
è
sparsa la voce di quelle pillole e ho paura che non ti farà
giocare.
Rispondi presto.
Tremò.
Gli occhi spalancati dal terrore, scorse anche un messaggio da parte
dell'ufficio di Cat Grant. Aveva una chiamata persa. Deglutì
e le
mancò il fiato; si sentiva come se dovesse svenire da un
attimo
all'altro ma si armò di coraggio, telefonando alla
segretaria.
Ancora
sotto il lenzuolo, Lena la guardava in piedi di fronte al letto. La
scorse riagganciare e abbassare il cellulare con fare arrendevole,
capendo che qualcosa non andava. «Cos'è
successo?». Si alzò per
andarle incontro.
«Ho
perso tutto, Lena», si voltò, tirando su con il
naso; i suoi occhi
azzurri carichi di lacrime. «Ho appena perso
tutto».
E
pare che il prezzo da pagare sarà caro!
SONO
TORNATAAAAA!
(2) Okay, ci saranno altre pause perché non ci giro intorno,
scrivere
questa fan fiction e curarla nei dettagli è un lavoro
impegnativo
che richiede tempo, e anche per questo pubblicherò i
capitoli con un
certo stacco, ma intanto sono tornata! Mi mancava pubblicare, mi
mancava sapere i vostri pareri, spero siate ancora qui XD Our
home
vi è mancata?
E
ora si ricomincia con la domanda di rito: vi è piaciuto
questo
capitolo? :3
Primo:
Indigo e Lex. Ve l'aspettavate? Indigo ha rifiutato Winn se ricordate
nei capitoli precedenti, ma è stata subito con Lex. I due
ragazzi
dopotutto sono molto diversi. Per il resto, avevamo lasciato Indigo
in una situazione non proprio rosea e ce la ritroviamo adesso che la
cosa pare addirittura peggiorata. O forse…
Kara!
Povera Kara! Sta facendo di tutto per fermare quell'accordo sulle
pillole e l'averle usate per un periodo, ora, le sta tornando
indietro come una grande onda di mare in tempesta. Prima o poi la
cosa doveva venir fuori oppure no? Leslie Willis l'aveva avvertita,
ma tutto si è svolto così in fretta che nel giro
di ore si è
ritrovata ad aver perso tutto. Come la prenderà? Come la
affronterà?
X,
il nostro profilo misterioso. È lui la causa di tutto:
all'inizio
del capitolo scopriamo che doveva far qualcosa per distrarre Kara e
Alex da Indigo e così è stato. Non si
può dire che non sia di
parola!
Parliamo
di Lucy. Finalmente la minore delle sorelle Lane è riapparsa
ed è
decisa anche lei a fermare quell'accordo con le unghie e con i denti.
Queste pillole non piacciono proprio a nessuno, eh. Tranne forse
proprio a Lex! Il giovanotto non vuole fermare l'accordo
perché sta
confezionando una vendetta per conto proprio, ma sarà la
strada
giusta da seguire?
Ed
ecco Lena… La ragazza aveva deciso, già nello
scorso capitolo, di
far cancellare a Indigo quei dati dalla chiavetta usb per proteggere
Lillian e il resto della sua famiglia, ma ora comincia a nutrire
dubbi sempre più pesanti su questa scelta e sull'aver messo
in mezzo
Kara. Perfino Lex non si è trattenuto nel dire che la loro
famiglia
era malvagia. Secondo voi qual era la scelta migliore da prendere?
Ah!
un'ultima cosa, infine. Non l'avete letto? C'è qualcosa, in
questo
capitolo, che non torna… Ma cosa?
Note
~
-
Avvocata.
Lo so, vi vedo attraverso lo schermo che avete fatto facce strane nel
leggere questa parola! Ma ahi,
l'italiano non ammette i vostri “non
si può sentire”:
ebbene sì, è una parola esistente ed è
corretta. Avvocatessa?
L'Accademia della Crusca le ammette entrambe e, personalmente,
preferisco la prima ;)
-
Lex e Indigo. Doveva succedere, era una cosa che avevo pronosticato
da tempo, ma ciò che non era pronosticato è che
mi piacessero così
tanto! Argh,
li shippo. Mi è successo senza volerlo, mentre scrivevo ho
notato
una chimica fra loro incredibile. Sapete quando i personaggi prendono
vita propria? È stato questo il caso. Ma con ciò
non intendo dire
che ora saranno una coppia, o forse sì ma non da ora, o
forse no e
non lo saranno mai perché non sono destinati o
perché sono entrambe
persone molto complicate… Il fatto è che non lo
so e, anche se lo
sapessi, non lo direi di certo qui :P Lo scoprirò scrivendo
e voi
leggendo.
E
ora bando alle ciance. Ringrazio chi di voi sarà ancora qui
a
leggere questa lunga storia e ci diamo appuntamento a sabato 28
marzo con il capitolo 60 che si intitola Fuga
dalla Casa degli Specchi
:) Non mancate!
Lo so, lo so, l'attesa è tanta, ma è comunque
meglio di qualche mese, no? Senza contare che i capitoli sono lunghetti
:3
|
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Capitolo 62 *** 60. Fuga dalla Casa degli Specchi ***
Le
davano fastidio e Megan strinse per bene i pugni, decisa ad
affrontarle. Stavano sul campo a chiacchierare invece di prendere sul
serio gli allenamenti assegnati, sparlando di Kara e di come avesse
passato il tempo a divertirsi o a cercare un modo per essere migliore
di loro trascurando gli impegni con la squadra. Non poteva stare ad
ascoltarle per un altro secondo di più: «Siete
incredibili», urlò
camminando a passo spedito verso di loro. «Ingrate,
arroganti,
ridicole. Non provate neanche un po' di riconoscimento per tutto
quello che ha fatto Kara per noi, per la squadra?».
Una
di loro scrollò le spalle, cercando di inquadrare i volti
delle
compagne per avere manforte. «Oh, beh, e ora ci pianta in
asso per
una pillolina».
«Non
c'è nessuna conferma di questa storia».
«Beh,
il coach ci crede», sostenne un'altra ragazza, gonfiando il
petto.
Megan
alzò gli occhi al cielo, seccata. «Beh,
il coach è un idiota», sbottò. Si
accorse troppo tardi degli
sguardi delle ragazze che le stavano suggerendo, in ritardo, di
starsi zitta. Sbiancò, girandosi e trovando Millard a pochi
passi,
fumante di rabbia. Si stava preparando per l'eruzione del vulcano che
un'altra compagna di squadra, camminando verso di loro a testa bassa,
le portò con titubanza il cellulare che suonava, chiedendo
scusa a
entrambi, certa di aver interrotto qualcosa. Ignorava di averle
appena salvato la vita. «Devo… devo
rispondere», indicò il
cellulare e, con un finto e breve sorriso, gli sfuggì. Era
quasi
certa di averlo visto grondare saliva come un vecchio cane rabbioso,
ma ci avrebbe pensato dopo. Portò il cellulare all'orecchio
e
rispose senza che avesse prima visualizzato il numero. Appena
udì la
sua voce, le gambe smisero di muoversi.
«È
un brutto momento?».
Megan
prese un grosso boccone d'aria, per poi serrare le labbra con forza.
Eccolo. Dopo giorni e giorni e giorni ad aspettare che si facesse
vivo, esordiva con una domanda assurda, dovendo ben immaginare come
non aspettasse altro che risentire la sua voce. «…
Ho… Ho appena
dato dell'idiota al nuovo coach», bofonchiò e lo
sentì fare una
breve risata.
«Quindi
ti stai trovando bene».
Oh,
ma naturale, pensava che lo avrebbe salvato il sarcasmo? Giorni
trascorsi così nervosa, così in pensiero, e lui
faceva del
sarcasmo. «Dove sei? Dove sei stato?». Riprese a
camminare,
allontanandosi dal campo verso gli spalti. L'aveva tagliata dalla sua
vita all'improvviso senza una singola parola e ogni secondo in
più
che passava al cellulare, ogni parola in più che le diceva,
la sua
rabbia accresceva. Se poi era per dirle di aver trascorso quel tempo
a Metropolis e di aver tolto la sim dal cellulare per non essere
disturbato, come poteva, John, non prevedere che sarebbe scoppiata?
«Ti prendeva così tanto tempo inviarmi un
messaggio per dirmi che
saresti stato irreperibile? Sono stata in pensiero, John, per
giorni», sottolineò, tirando le labbra.
«Per-giorni. Avevo bisogno
di sapere che stavi bene e tu avevi tolto quella dannata
sim».
Lui
sospirò. «Non
volevo ti preoccupassi».
«E
cosa pensavi che sarebbe successo?», si nascose sotto gli
spalti
vuoti, schiena contro un pilastro.
Lui
ci mise un po' a rispondere: «Ci
siamo lasciati e tu…».
«E
io?».
«Non
mi hai dato una seconda possibilità e pensavo non mi avresti
cercato. Lo so che ti avevo detto che avremo parlato, ma
pensavo…
Sei impegnata. Avete le ultime partite e gli esami e-».
«Non
parlarmi come se fossi una studentessa qualsiasi», a quel
punto
inveì, passandosi una mano sui capelli, tirando dietro un
orecchio
una ciocca sfuggita all'elastico. «Io sono una:
non avete,
ho».
Prese un grosso respiro, stringendo un pugno. «Fammi capire
per
bene: il fatto che io non ti abbia subito il via libera
perché
volevo comprendessi come mi sentissi, mi impedisce in qualche modo di
preoccuparmi per te?! Ero in pena, John. Soprattutto ora che so che
lavoro fai».
«Mi
dispiace».
Lei
strinse gli occhi un istante. «Vai al diavolo».
Chiuse la
telefonata senza possibilità di replica, guardando poi il
cellulare
che tremava, stretto con collera. Lo fece, lo mandò al
diavolo. Si
sentì liberata di un peso e, allo stesso tempo, triste. I
propri
occhi apparivano così piccoli sullo schermo del telefono,
così
sottili e lucidi. Ma non avrebbe pianto. Megan si voltò per
appoggiare la fronte contro il pilastro, sconfitta. Le mancava, era
l'uomo della sua vita, ma ogni volta che il pensiero di perdonarlo le
sfiorava la mente, lui faceva o diceva qualcosa di sbagliato che le
permetteva di tirarsi indietro. Dei giorni a Metropolis. Aveva tolto
la sim. Era chiaro che, qualsiasi cosa avesse per la testa, ora a lui
stava bene che le cose tra loro fossero così. Poteva andare
dove
voleva e sparire e se lei conosceva almeno in parte
quell'organizzazione e il resto contro cui lui indagava, e grazie a
Kara e non di sicuro a John, probabilmente stava combinando qualcosa
e la voleva fuori, semplice, come se bastasse a non farle pensare a
lui di continuo. Di continuo, maledizione.
John
Jonzz si si grattò la nuca e, sbuffando, rimise via il
telefono in
una tasca dei pantaloni neri. Aprì lo sportello dell'auto e
uscì,
incantandosi a osservare la sua immagine riflessa nello specchietto
laterale. Era capace di riconoscersi? Chi era quell'uomo e che ne
aveva fatto del John finalmente felice di avere la compagna giusta
accanto? Si allontanò mettendo su una faccia seriosa e
raggiunse
Fort Rozz dall'altra parte della strada. Sapeva che fine gli aveva
fatto fare: aveva messo davanti il suo lavoro e non avrebbe avuto il
lusso di pensare a un'alternativa. Stare con lui poteva essere
rischioso, di questi tempi. La amava e anche per questo avrebbe
dovuto lasciarla andare. Non lo sapeva Megan, ma neanche al D.A.O.,
in effetti, sapevano cosa gli passava per la testa. Per fare il suo
lavoro, aveva sposato la drastica decisione di nascondere come lo
stava facendo al suo stesso lavoro: c'era almeno una spia al D.A.O.,
ne era sicuro, e non poteva permettersi azzardi. Aveva detto loro che
sarebbe andato a fare una vacanza, lasciando altri a coordinare in
sua assenza, e ora era tornato a National City, come niente fosse,
solo per chiacchierare con Astra Inze prima della sua imminente
scarcerazione. In passato l'aveva già interrogata diverse
volte, ma
non voleva perdersi l'occasione di farlo per quella che poteva essere
l'ultima.
L'uomo
si sedette e guardò la donna per un po', prima di proferire
parola.
Lei fece altrettanto mentre era tenuta stretta dalle manette dal suo
lato del tavolo: era pulita, i suoi capelli vaporosi, le labbra piene
e una carnagione vivace. La vita in carcere non sembrava
così dura,
dopotutto. «Ti tratti bene», iniziò
spezzando quel silenzio e
avvicinandosi con un gomito sul tavolo. «Non ti fanno mancare
nulla,
bene».
«Cosa
insinua, agente Jonzz?».
«Niente»,
rispose con una scrollata di spalle e una smorfia sul viso.
«Non
vorrei dire qualcosa di troppo, in verità: qui tutto ha
orecchie.
Era solo un'osservazione: stai bene, sono contento. Sono solo passato
a salutarti». Si sgranchì le dita, andando ad
appoggiare la
schiena. «L'appello al processo di questo pomeriggio potrebbe
essere
l'ultimo. Emozionata, suppongo».
Astra
piegò le sopracciglia, commossa. «Sono passati
dodici anni… sì,
sono emozionata».
«Tante
cose da fare. Ritrovare ciò che si è lasciato in
un mondo che
intanto è andato avanti», intrecciò le
dita delle mani, dando di
nuovo peso sul tavolo. «Come Kara, ad esempio». La
tenne d'occhio e
sorrise impercettibilmente quando la vide alzare un sopracciglio come
colto da una piccola scossa elettrica: il suo nervo scoperto,
pensò
lui. «Le ho fatto da coach, in questi ultimi anni»,
incalzò con
fierezza, rimettendo dritta la schiena. «Lacrosse.
È molto brava».
«Non
sapevo che durante il tempo libero, agli agenti del D.A.O. fosse
permesso insegnare sport».
«Era
una copertura. Dovevo tenerla d'occhio, sai da cosa. Kara Danvers ha
sempre vissuto con qualcuno che le guardava le spalle da quando la
sua casa è esplosa. E così suo cugino»,
spiegò. «Prime di me, lo
hanno fatto altri. Non lo ha mai saputo ma è da quando Rhea
Gand è
agli arresti che è libera per la prima volta».
Astra Inze sorrise
e, con occhi chiusi, lui la adocchiò tirare un sospiro di
sollievo.
«Eppure…», si interruppe, guardando lei
che riapriva gli occhi,
«il vento sta cambiando da queste parti. E tu lo
sai».
A
quel punto lei si irrigidì e, prendendo fiato a narici
spalancate,
si accostò al tavolo, guardandolo con severità.
«Se è vero che
sta cambiando lo fa in meglio, agente Jonzz. Non è un
pericolo per
Kara».
«Così
come non era un pericolo per i coniugi El?», le
domandò,
guardandola dritta negli occhi. «Come non lo era per Faora
Hui?».
«Faora
Hui è morta per complicanze dovute al coma»,
riprese lentamente, «E
non osi neppure nominare la mia famiglia! Non faccia questo giochetto
con me, agente-».
«Continua
pure a ripeterti questa favoletta se ti fa sentire meglio»,
le parlò
sopra, «ma tu ed io sappiamo bene qual è la
verità e
sai»,
alzò la voce un momento, «sai bene come nessuno
può essere
ritenuto davvero al sicuro. Pensaci… Astra». La
notò deglutire.
«Pensa attentamente a dove è riposta la tua
fiducia quando uscirai
di qui».
«…
Sta… Sta di nuovo insinuando qualcosa, agente
Jonzz?».
«No.
Ti trovo bene, dico davvero». Si alzò e la donna
ebbe un sussulto.
«A-Aspetti!
Agente Jonzz, la prego», si lasciò andare a un
sospiro quando lo
vide fermarsi e girarsi ancora. «Posso chiederle un
favore?».
«Un
favore da me?».
«Non
glielo chiederei se non ritenessi che è
importante», ingerì
saliva. «Mia nipote, Kara… può
assicurarsi che stia bene?
Connessione familiare, sa? Ho paura stia passando un brutto
momento».
Lui
uscì dalla saletta. Quella donna era chiusa come dietro
spessi muri
d'acciaio. Aveva perso la famiglia per conto delle stesse persone per
cui ora avrebbe dato la vita e lo trovava fuori da ogni concezione.
Il fatto che l'unica responsabile della morte degli El fosse Rhea
Gand a John non bastava e non convinceva, soprattutto dal momento che
la sua cattura era stata giostrata da Adrian Zod. E quella Gand,
ancora più dura, preferiva fare scena muta agli
interrogatori più
che tradire quell'uomo. Ma come darle torto, pensò: non si
sarebbe
sorpreso nel sentire se fosse stata minacciata di morte. Davanti alle
porte a vetri per uscire, si incantò nell'osservare la sua
figura,
tirando la giacca in avanti e alzando il mento. Non si sarebbe dato
pace fino a quando non avrebbe portato dietro le sbarre di una cella
ogni membro di quell'organizzazione, a cominciare proprio da Zod.
Avrebbe ristabilito l'ordine delle cose. Uscì, scendendo le
scale
esterne. La storiella della connessione familiare era interessante:
cosa sapeva Astra Inze, dentro Fort Rozz, che lui non sapeva? Le
notizie dovevano girare veloci tra i membri dell'organizzazione.
Tornò in auto e tolse la modalità aereo dal
cellulare, scrivendo
Kara
Danvers
su Google.
Kara era famosa nell'ambito sportivo del continente, il nome
Supergirl
era conosciuto da chiunque si interessasse a sufficienza della
materia, ma ultimamente, a causa del matrimonio delle signore Danvers
e Luthor, era stata sotto i riflettori per riflesso e questo la
rendeva bersaglio di gossip più o meno grandi. Non si
stupì infatti
di trovare notizie sul suo conto su piccole testate, ma di vederla
affiancata a una parola come doping
era un altro paio di maniche. John spalancò gli occhi,
incredulo.
«Danvers», chiamò al telefono.
«Alex… Cos'è la storia di tua
sorella e di queste pillole che gira sul web?
Sì…», sospirò,
«Sì, sono tornato ma sono ancora in vacanza
ufficiale e tornerò
presto a partire per… questioni private».
Alex
strinse le labbra. Stava attraversando la strada e le sudavano le
mani. Si fermò davanti a un'auto parcheggiata e si nascose
appena
poco sotto quando, sul marciapiede a pochi metri, Carina Carvex si
voltò un'istante. Per poco non la sorprendeva seguirla.
«Ho
chiamato Kara e…». Allungò lo sguardo,
osservandola parlare con
un'anziana che vendeva frutta e verdura esposta fuori dal negozio.
Alex si tirò il berretto verso gli occhi, assicurandosi,
attraverso
il finestrino vicino, che bastasse a darle un'aria diversa.
«Non
posso andare a trovarla, è a Metropolis in questo momento.
Lei e
Lena dovevano parlare con Lex di… queste pillole, in
effetti. È
una storia un po' lunga e adesso non posso trattenermi per
telefono».
La vide andarsene con due sacchetti pieni e si alzò per
seguirla,
usando i passanti per coprirsi, mentre ascoltava il suo capo quasi
imprecare. «Emh, sì… è vero,
ma non era doping! I giornali
esagerano! Kara passava un brutto periodo e-», si
zittì, alzando
gli occhi al cielo e gonfiando le guance intanto che lo ascoltava,
«No, non lo sapevo… Non era doping»,
insisté. Carina Carvex
svoltò a una curva e Alex pensò bene di
controllare il riflesso di
una vetrina di un esercizio commerciale davanti prima di girare anche
lei: la stradina era libera. Girò, trovando solo cassonetti
e una
puzza maleodorante. Dove poteva essere entrata? E se si fosse accorta
di lei? Lo sperava bene, era un'agente, ma non lo sperava affatto per
se stessa. «Mi auguro soltanto che questa voce smetta di
girare. Le
spiegherò meglio per email». Sospirò.
«A quello… sì, ci sto
lavorando proprio
adesso,
dunque… Benissimo. Si goda le vacanze». Chiuse la
telefonata e
selezionò il numero di sua sorella, ricominciando a
camminare; era
meglio non farsi trovare lì, in ogni caso. Stava squillando,
squillava ancora, era tutta la mattina che ci provava. In
realtà,
non era per niente riuscita a sentire Kara dal giorno prima e, dopo
ore che provava inutilmente, cominciava a preoccuparsi sul serio. Le
inviò un altro messaggio, pensando che forse avrebbe dovuto
sforzarsi per inviarne uno anche a Lena e parlare con lei. Si
fermò
e ansimò seccata, inquadrando con curiosità la
vetrina di un
negozio di elettronica.
Com'era
perdere tutto? Ritrovarsi in un attimo smarriti; sentirsi piccoli,
esclusi, rinnegati, soli. Kara non era nuova a quelle sensazioni e la
scoperta del suo mondo che le crollava sotto i piedi un'altra volta
non le lasciava respiro. E conscia che erano state le sue stesse
azioni a compiere quell'infausta vicenda, era ciò che le
dava il
colpo di grazia.
Il
cellulare continuava a vibrare sopra il lenzuolo. Smetteva qualche
secondo e ricominciava. E così da ore.
Era
seduta sul centro del letto a gambe incrociate. Si pizzicava e tirava
il labbro inferiore con due dita, intenta a fissare il vuoto. Non
sapeva per quale motivo si ostinasse a tenere il cellulare accanto
nonostante non volesse leggere messaggi né ricevere
chiamate. Da
nessuno. Aveva intravisto i nomi di Megs, Leslie, Lucy, quello di
alcune compagne di squadra e naturalmente Alex. Ringraziava il cielo
che sua madre non leggesse certe riviste online. Cosa ne sarebbe
stato del suo futuro? L'unica cosa che voleva davvero era lavorare
alla CatCo e Cat Grant aveva deciso di tagliarla fuori. E del suo
presente? Come sarebbe stato il suo presente? Millard non le avrebbe
fatto giocare la finale, era fuori dalla squadra. Per quanto tempo
ancora avrebbe avuto la possibilità di giocare e ora non
poteva più?
Il tempo scorreva, nuove cose avrebbero preso il posto del lacrosse
una volta lasciata la Sunrise. Era stato davvero Maxwell Lord a farle
questo? La voce si era propagata così in fretta che non
aveva avuto
il tempo di prepararsi a ciò che sarebbe accaduto. E poteva
dare la
colpa a Lord, a Millard, o a Cat Grant, ma era solo sua. Pensava di
rimediare bloccando la vendita di quelle pillole, ma le conseguenze
si erano estese a macchia d'olio prima che avesse il tempo di
comprenderle. Si guardò intorno, osservando quei mobili
dall'aspetto
freddo tirandosi il labbro inferiore tanto da farsi male. C'erano
libri, dischi, dadi, alcuni peluche in alto, un orologio da tavolo
dall'aspetto antico, chissà quanto era costato. Altri libri,
una
scacchiera portatile chiusa, soprammobili in vetro, bamboline di
porcellana. Sul comò davanti al letto, al centro della
stanza, c'era
un cofanetto portagioie aperto con all'interno tre piccoli specchi:
riusciva a vedere il suo riflesso su tre angolazioni differenti e in
ognuno faticava a guardarsi, doveva distogliere gli occhi. Aveva le
occhiaie, era spenta; odiava sentirsi così ma non aveva le
forze per
farne a meno. Non adesso. E più osservava con attenzione
quella
camera che era il doppio della sua a casa Danvers-Luthor, quasi il
quadruplo del suo dormitorio al campus che divideva con Megan, e
più
un pensiero in qualche angolino remoto della sua mente si rimpolpava
di nuove certezze. Si lasciò il labbro e abbassò
gli occhi,
scoprendo una chiamata persa da un numero aziendale. Questo era
nuovo. Si passò una mano sulla fronte e ansimò,
sentendo bussare
alla porta.
«Ehi…
Posso entrare?».
Kara
scrollò le spalle. «È camera
tua».
Lena
chiuse la porta dietro di lei, aggrottando lo sguardo: il tono con
cui le aveva rivolto la parola era così duro che Kara doveva
essere
ancora lontano dal riprendersi. Si sedette sul letto davanti a lei,
le adocchiò il cellulare un istante e glielo mise
più lontano per
appoggiare meglio una gamba e, così, prenderle le mani con
le
proprie, spostandole le dita che aveva riposto sul labbro.
«Ti porto
qualcosa da mangiare? Puoi ordinare quello che preferisci, non hai
che da chiedere. Hai mangiato pochissimo e Indigo si sta già
atteggiando come se avesse vinto chissà quale gara ci fosse
tra voi
due».
Kara
abbassò gli occhi e allungò uno sguardo al suo
telefono che,
ancora, non accennava a smettere di vibrare. «Non lo
dubito…»,
boccheggiò soprappensiero. «Ma non ho fame,
adesso. Grazie lo
stesso». Abbassò lo sguardo, prendendo fiato.
«Lo
so che adesso tutto ti sembrerà nero, Kara, ma sono certa
che si
sistemerà. Non posso dirti che sarà facile, o che
non cambierà
niente, ma sono sicura, davvero sicura, che tutto si
sistemerà. In
un modo o nell'altro. Col tempo», le sorrise, allungando la
mano
destra per carezzarle una guancia. «Hai tutto il diritto di
sentirti
giù e puoi stare qui tutto il tempo che vorrai».
«No,
no», scosse la testa, «Ho solo bisogno di un altro
momento, uno
soltanto, e dopo…», le parole vennero meno e
accartocciò le
labbra, prima che Lena la stringesse a sé. Avrebbe voluto
mostrarsi
forte di fronte a lei, ma non riusciva a pensare a un modo per
risolvere le cose. Sapeva che sarebbe uscita da quella porta a testa
alta e che avrebbe trovato un modo per tirarsi su e ricominciare
perché era quello che riusciva a fare meglio, ma ora come
ora non
era che un miraggio. Scelse di separarsi da lei allungando le braccia
ma, appena si accorse dello strano sguardo dell'altra, pensò
di
scusarsi. «È che… che ho
bisogno-».
«Di
stare da sola». Lena annuì e si alzò.
A
Kara mancò il fiato e la fermò in un lampo:
«Non è colpa tua».
«…
lo so», mormorò, riavvicinandosi di nuovo.
«Ti stai punendo, Kara,
e non sei pronta a parlarne con me. Lo capisco. Quando vuoi,
sarò
qui».
«È
che… è che ho rovinato tutto, Lena».
«Non
è vero. Ci sei già passata, avevi già
affrontato tutto questo per
quelle pillole, non tornare lì con la testa. Non
fartelo».
Lei
tirò su con il naso e, prima che potesse trattenerle,
sputò quelle
parole con naturalezza: «Non è per le
pillole». L'altra si fece
curiosa, corrugando lo sguardo. Kara si passò una mano sulla
fronte,
come se stesse usando quei secondi, quei secondi velocissimi, per
decidere se condividere o meno con lei ciò che le passava
per la
testa. Infine si alzò come una molla e la raggiunse, posando
lo
sguardo indietro solo per assicurarsi che quel cellulare, che ancora
vibrava, fosse ben sepolto da almeno tre cuscini. E ora come
spiegarsi? Si fregò convulsamente le mani, oramai davanti a
lei. Si
guardarono e Lena scrollò le spalle, invitandola a dire
qualcosa.
Bene, aveva lanciato la pietra e non poteva tirare indietro la mano.
«Le pillole… Non è solo questo. I-Io ho
sbagliato ad affidarmi a
Maxwell Lord e preferirei dimenticarmi di quel periodo, davvero, ma
non riesco a togliermi dalla testa che…», la
guardò negli occhi,
trattenendo il respiro, «che-che se fossi stata
più presente, non
sarebbe successo».
«Più
presente? In che modo?».
Alzò
gli occhi, mordendo un labbro. «Beh, ho saltato gli
allenamenti, ad
esempio. E mi sono fatta odiare da Millard quando avrei potuto
tentare di… di-», si fermò, bloccando
le mani a mezz'aria, «beh,
lui mi avrebbe odiata comunque, ma avrei almeno potuto fare qualcosa
per rimediare, se ci fossi stata! E la CatCo… fo-forse non
mi sono
impegnata abbastanza, e lo so che non essendoci Siobhan che
è in
malattia… però, però avrei potuto
chiederle di darmi altri
compiti, qualcosa»,
alzò la voce, chiuse gli occhi e li ingigantì,
stringendo i denti e
i pugni, «per far capire alla signora Grant che davvero
tenevo a
quel lavoro». Scosse la testa. «Invece ho lasciato
che accadesse!
Ho… Ho…», si guardò intorno
un'altra volta, ai libri, alle
bambole, agli orologi, a quel portagioie aperto che rifletteva lei e
Lena sui piccoli specchi. «Non…». Non
trovava le parole. «Mi
sono accorta di… di aver dato per scontate molte
cose».
Lena
annuì lentamente e avvicinò la mano destra alla
sua sinistra, le
sfiorò le dita e, come colta da un pensiero veloce, si
allontanò
bruscamente, mettendo le braccia a conserte. «Ti sei
distratta»,
mormorò, procedendo verso la porta. Quasi le era mancata la
voce.
«No…
No! Non intendevo come se…». Lena
delineò un mesto sorriso e Kara
sentì di aver sbagliato qualcosa. «Lena, aspetta!
Non è-».
«Non
me la sto prendendo, Kara».
«Oh,
e perché», si tirò in su gli occhiali,
mettendo su una smorfia, «a
me sembra il contrario?».
Lei
sospirò. «Ti ho chiesto io di venire qui e tu
avevi gli
allenamenti».
«E
tu avevi da studiare», scrollò le spalle.
«Lo hai fatto per me: io
volevo venire qui a parlare con Lex. Ho dato alle pillole la
priorità, era quello che volevo»,
continuò velocemente,
aggrottando lo sguardo e andandole incontro.
«Ma
non è tutto qui, giusto?», riprese secca.
«Quante volte ti ho
chiesto di restare in villa».
«Non
sono mai stata male in villa con te», si guardò in
giro un istante,
uno solo, ma non sfuggì allo sguardo attento dell'altra.
«Però
lo vedo che c'è qualcosa. Parla. È questo che
dovremmo fare»,
insisté. «Sei stata da me più di quanto
io…», sorrise di nuovo,
puntando lo sguardo a un punto vuoto: «In realtà,
proprio io non
sono mai stata tanto in villa come in quest'ultimo periodo con te.
Perfino quando ero bambina cercavo una scusa qualsiasi per uscire. Tu
ed io, e Indigo, stiamo vivendo insieme e questo… questo
è… è
stato bello».
Kara
restò immobile qualche secondo, tornando un passo indietro e
infine
sputando il rospo: «È
bello, m-ma… Ma mi sono accorta solo adesso che…
Non volevo che
fraintendessi».
«La
villa non è casa tua, Kara. Cosa devo fraintendere? Anche se
Eliza e
Lillian lo vorrebbero, stavi vivendo da
me, trascurando la tua…», lasciò di
nuovo la frase a mezz'aria,
irrigidendo le labbra.
«È
casa tua, è vero», si arrese Kara. «E io
sto davvero bene lì con
te, non smetterò di dirlo. Ma…»,
serrò le labbra anche lei, dopo
averle inumidite.
«Abbiamo
stili di vita molto diversi, Kara. E non ti ho mai chiesto di venire
a vivere con me».
«Io
l'ho pensato», le sorrise, corrugando lo sguardo.
«I-Io ho pensato
di lasciare il campus per andare a vivere con te».
Pensò
di sorridere anche lei, ma il desiderio le si spense in fretta,
aprendo la porta di scatto. «Beh, adesso sai che sarebbe un
errore»,
chiosò. «Mi trovi di sotto se-», era
già fuori dalla porta quando
udì il campanello dell'appartamento suonare. «Deve
essere Lucy
Lane», bisbigliò, girandosi di nuovo verso
l'interno. «Voleva
parlare con Lex delle pillole, spero non sia già uscito. Ha
provato
a cercarti per dirtelo ma non rispondi al telefono, dunque…
ha
chiamato me».
«Cosa-»,
la fermò con la mano sulla maniglia per richiudere,
«Cosa mi stavi
dicendo?».
Lena
scosse la testa, formando un sorriso. «Se ti venisse fame,
sai dove
trovarmi». Uscì e si appoggiò alla
porta chiusa alle sue spalle,
prendendo grosse boccate d'aria. In quel momento, l'unica cosa che
avrebbe voluto era scappare. Il campanello la destò e si
coprì
rapidamente il volto con una mano quando vide il suo riflesso sullo
specchio di fronte: non poteva sopportare la sua immagine dura ora,
così scese le scale. Si guardò attorno e in
salone non c'era
nessuno. Adocchiò Lucy Lane nello schermo che riprendeva il
portone
del palazzo e, premendo un pulsante, ordinò al custode di
farla
salire. Lasciò la porta dell'appartamento socchiusa e
squadrò
Indigo da capo a piedi quando la notò arrivare
per sedersi con pigrizia su uno dei divani. «Dove sei
stata?».
Lei
alzò le spalle. Dov'era stata? Aveva aperto la porta del
bagno e Lex
l'aveva chiusa, spingendo lei contro il muro. Con la mano destra a
premerle
il mento e la sinistra a stringerle un polso, il
giovane aveva affondato la bocca nella sua, lasciando il mento solo
per avvicinarle un fianco contro il suo corpo. Con gli occhi ancora
chiusi, Indigo era riuscita a trovare la forza di liberare entrambe
le mani e a spingerlo per le spalle, chiedendogli di smetterla.
«Ieri
notte non eri dello stesso avviso», l'aveva guardata, col
fiatone.
«Ieri
notte era ieri notte, ora è ora», gli aveva
risposto a voce ferma,
adocchiando le sue labbra calde. «Non puoi pensare che se ti
do il
permesso di toccarmi una volta, quello valga per sempre».
Lex
aveva sorriso, scuotendo la testa a breve. «Questa notte,
se…»,
anche lui si era incantato a osservare le sue labbra, rimettendosi
dritto con la schiena, «se mi darai il permesso di toccarti,
ovviamente, sei cortesemente invitata a trascorrere le ore in mia
compagnia. Desidererei davvero riprovarci».
«Voi
uomini non amate proprio che vi si rifiuti, eh?».
«Non
equivocare le mie intenzioni: non è una rivincita per come
mi hai
piantato in asso la notte scorsa, quella che voglio, Indigo»,
aveva
sorriso di nuovo, «Sono davvero irrimediabilmente attratto da
te e
ti odierò quando te ne sarai andata. Sempre che siano ancora
quelle
le intenzioni».
«Lo
sono».
«Allora
ritorna», l'aveva pregata, alzando una mano verso il suo
viso,
bloccandola per scoprire se, da parte sua, ci sarebbe stato il
permesso di toccarla. Aveva seguito il suo sguardo verso la mano e
dopo al suo viso. Era un sì? Le aveva portato lentamente le
dita
dietro l'orecchio sinistro, accarezzandole la guancia col pollice.
«Puoi venire a trovarmi quando vuoi».
«Lo
avevo capito, fratello di Lena».
Lui
aveva abbozzato una risata. «Raggiungimi, questa
notte». Le aveva
dato un veloce bacio a stampo sul collo e se n'era andato, lasciando
la porta aperta alle spalle.
«In
bagno», rispose con nonchalance a Lena, alzando gli occhi dal
cellulare.
In
quel momento entrò Lex, intento a sistemarsi la cravatta, e
Lena gli
lanciò un'occhiataccia.
«Tutto
a posto con Kara?», chiese il fratello spezzando l'insolito
silenzio. Nemmeno il tempo di chiedergli a cosa si riferisse, che
Indigo riprese:
«La
tua faccia: non sembra derivante da coccole».
Sbuffò.
«Ebbene, siete pregati tutti e due di farvi gli affari
vostri».
La
porta si aprì pian piano proprio in quel momento, mentre
sbucava la
testa di Lucy Lane chiedendo di poter entrare.
Lena
la squadrò: alta, capelli un poco mossi tirati indietro da
un
fermaglio, labbra piene con un accenno di rossetto color carne; si
teneva in forma, il top bianco che indossava non lasciava molto
spazio all'immaginazione. La famosa figlia di Lane che aveva deciso
di seguire le sue orme: non l'avrebbe riconosciuta senza la divisa ed
era comunque da tempo non si incontravano dal vivo. Si tirò
dietro
le spalle i lisci e lunghi capelli corvini, mettendo su una delle sue
espressioni più fredde. «È un piacere
rivederti», le allungò la
mano destra e l'altra la accolse subito, non mancando di sorriderle.
«Il
piacere è mio». Diede una sbirciata al salone e
strinse la mano a
Lex, poi a Indigo, che si presentò come Linda, suo malgrado.
Chiese
di Kara e Lena si distrasse dal fissarla, spiegandole che in quel
momento stava riposando. «Posso capire, avrà
tanto per la
testa… Beh», si voltò verso il ragazzo,
stringendosi le mani,
«credi che potremmo parlare in privato?».
Allora,
Lex le fece cenno di seguirlo. «Sarà un enorme
piacere per me
sentire le ennesime motivazioni per cui dovrebbe valere la pena
andare a processo».
I
due salirono di sopra e Lena si sedette accanto a Indigo, reggendosi
la testa e ritrovando il suo cellulare dietro un cuscino. Si
sentì
osservata ma, quando la guardò, lei aveva già
riportato gli occhi
sullo schermo del cellulare. «Ti senti ancora con
Winn?».
«Ogni
tanto».
Le
sorrise e l'altra la fissò con espressione curiosa.
«Sai una cosa?
Stai meglio. Da quando ti ho conosciuta, intendo».
Il
cuore le mancò un battito. «Tu dici?».
«Sì.
Ed è per questo che devi promettermi una cosa».
Aspettò che la
guardasse di nuovo per continuare: «Stai lontano da mio
fratello,
per favore. Vedo come ti guarda e non mi piace».
«Non
ti piace tuo fratello?».
Lena
inspirò pesantemente e allontanò lo sguardo per
finire su un punto
vuoto, reggendosi di nuovo la testa. «Una volta avrei
risposto a
questa domanda in modo differente. Gli voglio bene, ma ci sono lati
di Lex, Indigo, che avrei preferito non scoprire e», scosse
la
testa, «temo potrebbe avere brutta influenza su di
te».
Indigo
abbassò gli occhi, ritrovandoli sullo schermo del telefono.
Lena
credeva di poterla guarire, salvare, cambiare… Strinse
l'apparecchio, finché non decise di prendere fiato.
«Farò ciò che
posso».
Com'era
perdere tutto? Megan non lo sapeva. Si era sempre considerata come
una ragazza normale con dei problemi e, a dispetto di Kara che aveva
perso la famiglia, o di altre persone, anche fortunata. Il fatto che
il dubbio di aver perso definitivamente John non le desse modo per
pensare ad altro, né le lasciasse in pace lo stomaco che
sentiva
restringersi, non le faceva cambiare idea. Era solo un uomo, avevano
avuto una relazione ed era giovane, non avrebbe lasciato che questo
le condizionasse la vita. Non più. Non era come perdere
tutto, aver
perso solo lui. Cominciò a correre intorno al campus per
allenarsi,
da sola.
Intanto,
Kara aveva trascorso il tempo a leggere di se stessa online. Non
aveva ancora avuto il coraggio di riprendere in mano il cellulare, ma
ne aveva avuto a sufficienza per farsi del male dando uno sguardo ai
commenti sotto le notizie accedendo al portatile di Lena: alcuni
erano delle sue compagne di squadra che la accusavano di aver barato,
quando quella volta giocò una partita quasi interamente da
sola. Ci
aveva messo un po' per riconquistarle, da poco aveva perfino portato
per tutte loro dei biscotti, e adesso la odiavano di nuovo; ci
sarebbe voluto un miracolo. Gonfiò le guance. Per di
più,
probabilmente aveva ferito Lena. Si portò entrambe le mani
sul viso,
scivolando, reggendosi la fronte. E non sapeva ancora esattamente
come avesse fatto a ferirla. Non era il vivere con lei il problema,
ma di averlo fatto in quel modo e in una casa dove non si sarebbe mai
sentita pienamente a
casa,
nonostante si stesse abituando. Proprio come quella camera, anche
quella in villa era
un luogo che di lei non aveva niente.
Non si era minimamente accorta di come, pian piano, stesse
tralasciando alcune cose importanti per… non per stare con
lei ma,
in un certo senso, quasi.
L'aver perso tutto le aveva aperto gli occhi. «È
colpa mia, solo
mia», sussurrò al telefono: si era decisa.
«Non avrei mai dato le
colpe a Lena, eppure in qualche modo, da come si è
comportata, è
come se gliele
avessi date. Se anche lei mi avesse chiesto di restare, e a volte lo
ha fatto, sono sempre stata io a voler restare. Non mi ha costretto.
Come io volevo venire qui a parlare con Lex a discapito degli
allenamenti. Ho scelto cos'era più importante…
No-Non che me ne
penta, sia chiaro, è solo che non mi ero resa conto di come
stessi
lasciando la presa sul resto della mia vita. E anche»,
deglutì,
«stare da lei. Io voglio vivere con Lena, solo magari
non… non a
casa sua, Alex». Irrigidì la bocca
perché qualcosa la infastidiva,
ma non poteva fare altrimenti e scrollò gli occhi.
«Vuoi
una casa vostra»,
la sentì risponderle. «Come
potrei non comprenderti, Kara: Maggie ed io abitiamo attualmente in
due case, ricordi?»,
ridacchiò.
«Come
siete riuscite a far quadrare le cose per tutto questo
tempo?». Si
alzò dalla scrivania e si gettò a sedere sul
letto, riguardando
quel portagioie. «A bilanciare le vostre carriere, le vostre
cose,
e-e c'è Jamie», sorrise, «Avete una
bambina che vuole anche lei il
suo spazio, tra giochi, e impegni, la babysitter. Come…
?».
«Nessun
segreto, sorellina. Pensi che sia sempre stato come lo vedi adesso?
All'inizio neppure sapevo di Jamie, ricordi? Abbiamo costruito le
nostre vite insieme, ci siamo messe d'accordo sui singoli impegni e
quelli di Jamie. Ci siamo sbagliate spesso e abbiamo litigato; a
volte la mia carriera è venuta prima e altre quella di
Maggie, ma
siamo sopravvissute. Devi avere pazienza, Kara. Adesso ti è
successo
questo e ti sei accorta all'improvviso di cosa stavi facendo, ma te
ne saresti accorta in ogni caso più tardi o…
avresti sistemato il
tiro senza neppure costruirci un caso sopra»,
la sentì ridere ancora, senza ombra di presa in giro. «Non
avere fretta. Tutto troverà il modo di andare al posto
giusto. E
sono contenta che tu abbia deciso di chiamarmi, finalmente,
cominciavo a stare davvero in pensiero».
Si
sdraiò, non trattenendo un altro sorriso. Sapeva che sua
sorella non
aveva potuto telefonare a Lena per sapere di lei e la cosa non le
piaceva per niente, ma anche in quel caso avrebbe dovuto portare
pazienza.
«E
come ti senti, a proposito? Pensi ancora che sia stato Maxwell
Lord?».
«Beh,
è… Lui avrebbe avuto un motivo per farlo. Me la
vedrò io. E ora
va meglio, comunque, mi sto riprendendo. Prima ero giù,
è vero, ho
passato letteralmente
le mie ore a trovare una ragione per cui tutto è successo ma
adesso,
adesso devo venirne fuori». La sentì tirare un
sospiro di sollievo.
«Devo perché… devo capire come fare a
riottenere tutto quanto».
Era strano, ma si sentiva davvero molto meglio. Tanto tempo trascorso
a piangere su ciò che aveva perso, senza rendersi conto di
un peso
che era sparito.
«Vedi
come tutto cambia quando ne parli con la tua sorellona?».
Si fermò quando sentì Kara ridere. «E
dimmi una cosa:
umh,
Lena è uscita, per caso?».
«No»,
aggrottò la fronte, «No, non
credo…». Il suo istinto la portò a
non chiederle il perché e si zittì, deglutendo.
«Ah, Alex! Oggi
c'è…».
«Sì».
«Andrai?».
«Sono
già qui, sto aspettando una collega. Il processo
è a porte chiuse,
ma come agenti ci siamo fatte dare il permesso»,
la sua voce cambiò, facendosi più tenue. «Inizierà
tra mezzora. Ti farò sapere più tardi».
La
ringraziò e, dopo aver staccato la chiamata, si
portò il cellulare
sul ventre e prese un grosso respiro. Sua zia non starà
nelle pelle,
pensò. Oggi il giudizio finale. Appena in tempo per
scrollarsi quel
pensiero di dosso che il cellulare vibrò a lungo. Chi la
chiamava
con tanta veemenza? Ancora il numero aziendale e gonfiò le
guance.
«Ehi,
Danvers».
Carina
Carvex le toccò una spalla e Alex si voltò,
notando che aveva il
fiatone.
«Ho
ancora le cose del mio ex a casa e stavo sistemando, non mi ero
accorta dell'orario», si scusò. Captò i
suoi brividi al tocco e
non poté che esserne, almeno un po', soddisfatta.
«Siamo in
tempo?», si sistemò accuratamente il colletto
della camicia.
Carina
aveva una macchia violacea intorno al collo: Alex non poté
che
constatarla, furtiva. «Sì…
Sì, sei arrivata giusto in tempo,
stanno aprendo ora le porte. Cos'hai fatto al collo?».
Lei
abbassò la testa d'istinto e accennò uno spento
sorriso. «Oh,
nulla… Ho avuto un-», si ritrovò a non
sapere cosa dire, non
credeva che se ne sarebbe accorta. Fu una fortuna che, procedendo
verso l'entrata, videro Astra Inze passare in corridoio, scortata da
due guardie. Ancora in manette, la divisa blu da carcerata, aveva
un'aria paradisiaca e un sorriso smagliante. «Si vede
già fuori di
qui», sibilò lei e Alex non poté che
concordare.
«Andiamo
a prendere posto».
Com'era
perdere tutto? Indigo non lo sapeva. Non si era mai accorta di avere
qualcosa e di averla persa se non dopo tempo che era successo. Aveva
una famiglia e l'aveva persa come l'aveva persa Kara, anche se in
modi diversi, ma non ci aveva dato il giusto peso. Indigo si era
abituata presto a stare da sola, a contare su se stessa, a non
fidarsi degli altri neanche quando erano gentili. Perché
nessuno era
gentile senza volere qualcosa in cambio. Si era seduta davanti al
pianoforte, osservando i tasti bianchi e quelli neri. Sentiva lo
sguardo di Lena addosso, anche se si era allontanata di qualche metro
per rispondere al telefono. Si comportava in modo strano,
pensò, e
non era solo per aver avuto una discussione con Kara o quel che
fosse. Lo avrebbe scoperto quella notte ascoltando le loro
conversazioni dal suo cellulare. Stava per premere un tasto che
fermò
l'indice a mezz'aria, fulminandola con un'occhiata svelta e
improvvisa. Non
lo aveva:
Lena aveva lasciato il telefono in salone, sul divano, per salire al
piano delle camere da Kara. Se lo portava sempre dietro per via del
lavoro e lo aveva lasciato per andare da Kara? Curioso. Tanto
curioso.
Kara
scese le scale di casa Luthor soprappensiero. Di sicuro, si sarebbe
aspettata di tutto men che quello e non vedeva l'ora di parlarne con
Lena, ma era al cellulare. Davanti al pianoforte, Indigo sembrava
molto annoiata. E Lex e Lucy… Oh, li sentì
scendere in quel
momento, con la ragazza che lo sollecitava di chiamarla per ogni
domanda o dubbio gli fosse venuto in mente. Lui sospirava
rumorosamente come al solito, probabilmente non ancora abbastanza
convinto di andare a processo. Lo sarebbe mai stato?
«Kara».
Si abbracciarono appena la vide e allora sia Indigo che Lena,
nonostante fosse ancora al telefono, si voltarono per fissarle.
«Come
stai? La voce si è sparsa nel giro di ore, mi dispiace
così tanto»,
scosse la testa e lei le sorrise.
Si
toccavano: inquadrò Lena. Lucy le teneva le spalle e Kara le
braccia. I loro corpi erano a pochi centimetri di distanza. Oh, ma
cosa andava a pensare. Chiuse la chiamata e si accostò a
loro,
intanto che Lex chiedeva a Lucy Lane, e così a tutte, se
voleva bere
qualcosa. Indigo lo raggiunse scattante. «Devo avvicinarmi
alla
Luthor Corp», si posizionò tra le due
costringendole a separarsi, e
così guardò Kara. «Mi
assenterò qualche minuto. Mi hanno chiamato
per dirmi che sono arrivati dei documenti, cose che non possono
aspettare». La sua voce era così ferma e dura.
Notò Lucy
sorriderle ancora e dopo sorridere alla sua ragazza: a che gioco
stava giocando? No. Doveva smetterla di fare così: si
rimproverò
tra sé e sé.
«O-Okay…»,
Kara si tolse un capello dal viso, pensandoci. «Vuoi che
venga
con-».
«No.
Ci impiegherò qualche minuto appena, tu avrai da…
aggiornarti con
la tua amica, probabilmente».
Lucy
cambiò espressione di colpo e Kara s'imbrunì.
«Oh, veramente io
devo andare! Non pensavo di-».
«Ma
no», Lena forzò un sorriso. Talmente forzato da
mettere soggezione
in entrambe. «Trattieniti ancora, sarai di compagnia. Non sei
forse
in vacanza?».
«Ma,
Lena», Kara cercò di prendere parola,
«Dobbiamo parlare».
«Parleremo
dopo», finì, dando loro le spalle.
Kara
roteò gli occhi e allora scandì per bene la voce:
«Mi ha chiamato
Maxwell Lord». Tutti si voltarono e ci fu silenzio, anche da
parte
di Lex e Indigo al bancone del piano-bar. «Non è
stato lui, o… o
almeno così ha detto. Anzi, ha colto l'occasione per
propormi di
essere la sua testimonial». Ingigantì gli occhi e
guardò i volti
dei presenti, sorpresi, uno per uno. «Una
testimonial… per le
pillole di cui io voglio fermare la vendita. Notate anche voi il
paradosso in questa storia?».
Lena
si portò una mano sulla fronte e iniziò a ridere,
e così Lucy,
dopo Lex, gettandosi ancora da bere. Indigo invece sospirò,
portando
gli occhi al soffitto per poi inquadrarle di nuovo: l'aria si era
fatta tesa fino a qualche secondo fa. Studiò Lucy Lane
poiché era
lei a rendere Lena nervosa.
«Maxwell
Lord non ha perso tempo», commentò Lena, per poi
dare uno sguardo
all'ora sul polso. «Comunque sono contenta di sapere che hai
ripreso
a controllare il cellulare poiché Leslie Willis ti sta
cercando».
Vide lo sguardo di Kara mutare. «Mi è sembrata
gentile, il che è
strano: cerca di non rompere la magia».
Indigo
osservò Kara Danvers annuire, ma non ne era entusiasta. Ora
era una
sua ex collega, dopotutto. E, in un attimo, Lucy Lane
scrollò le
spalle e si strinse nelle mani: adesso era lei quella nervosa. Forse
doveva sentirsi di troppo in quel teatrino.
«Colgo
l'occasione per dire che sono davvero, davvero felice che voi
due»,
quest'ultima prese parola, passando lo sguardo da una all'altra,
«stiate insieme. Non so cosa ti abbia raccontato Kara, ma
sono una
grande sostenitrice della vostra relazione».
Ci
aveva provato, pensò ancora Indigo, ma non sembrò
andare a buon
fine, dato lo sguardo duro di Lena e quello impacciato di Kara.
«Sì»,
la prima alzò il mento, mostrando un freddo sorriso.
«Kara me lo ha
detto».
E
così vide Lena andarsene, Kara allontanarsi per fare quella
telefonata e Lucy Lane che non accennava a smettere di fregarsi le
mani, guardandosi intorno con l'aria di una bimba spaurita. E adesso
veniva verso di loro: certo, ora lo avrebbe accettato quel
bicchierino. C'era stata tensione, una tenera agitazione, imbarazzo,
probabilmente una gelosia preesistente, analizzò, poggiando
un
bicchiere, già vuoto, alle labbra. Doveva esserci stato
qualcosa tra
quella Kara Danvers e la figlia minore di Lane, e Lena ne era al
corrente. Riafferrò il bicchiere, ritrovando gli occhi di
Lucy Lane
a poco dai suoi.
«Non
so… Hai una faccia già vista, è
possibile?», le puntò contro un
dito e Lex rumoreggiò con la gola.
«Lane.
Perché non mi parli nel dettaglio dei rischi di espormi a un
processo».
Non
si poteva dire che il giovane non fosse intervenuto per tempo ma,
quando Kara scese le scale e si affacciò al salone, corse ad
aiutarlo nel separarle.
Alex
Danvers uscì dall'aula con un gran mal di testa. Una volta
in
corridoio si affacciò di sotto, alle scale, prendendo fiato.
Era
fatta, Astra Inze era libera. O meglio lo sarebbe stata tra pochi
giorni, il tempo dato alla burocrazia di avviarsi. Non ci sarebbe
stato altro modo di trattenerla, l'organizzazione aveva vinto. Libera
e pulita, pronta per rientrare nella vita di sua sorella. E adesso
come sarebbe riuscita a dirglielo?
«Caz-».
Carina ci si gettò a fianco contro il corrimano,
trattenendosi dallo
sbraitare non appena si ricordò di dove fosse, voltandosi
indietro
per assicurarsi che nessuno la stesse guardando male. Strinse i
denti. «È fatta, partner. Siamo
fottute»,
aggiunse in un bisbiglio. «Sono la prima a voler essere
positiva, ma
quella donna, Danvers, quella donna fa parte dell'organizzazione al
cento per cento e la lasceranno andare perché non abbiamo
prove
sufficienti. Questa non è davvero una buona
giornata», si rimise
dritta e osservò alle loro spalle l'avvocato e altri
stringersi la
mano. Alex si stette zitta e Carina non mancò di pensare a
come
stesse cercando di capire qualcosa di lei. «E il
marito?», le
chiese. «Cosa ne sappiamo del marito?».
«Verrà
rilasciato», rispose con sicurezza. La fissò, per
poi scuotere la
testa. «Se è stata rilasciata lei, non ci sono
speranze. È finita,
Carina. Non ci resta che tornare a casa a leccarci le ferite e
prepararci per il prossimo round».
Le
sorrise. «Completamente d'accordo. Vediamo di prepararci a
dovere,
stavolta! Quei due torneranno dietro le sbarre prima di arredare
casa».
Anche
Alex provò a sorriderle e insieme scesero le scale. Non
capiva
davvero se parlasse seriamente o se stesse solo fingendo. O Carvex
era davvero brava, o stava perdendo tempo a starle dietro e avrebbe
dovuto cominciare ad analizzare qualche altro collega.
«Senti,
casa mia non è lontana. Ti vuoi riposare un po'?»,
Carina le batté
amichevolmente una spalla. «Potremo approfittarne per
digerire i
dispiaceri insieme, oppure devi già tornare?».
«Sì,
mi dispiace», mise su una smorfia mortificata,
«Devo andare a
prendere la bambina da casa di un'amichetta».
«Oh,
giusto. Doveri da mamma», sorrise di nuovo.
«Sì,
sarà per-».
«Un'altra
volta, certo», le batté di nuovo una spalla.
«Ah…
E-», allungò lo sguardo verso il suo collo coperto
dal colletto e
si indicò il proprio. «So che non sono affari
miei, ma…. se avrai
bisogno di parlarne, puoi contare su di me».
Carina
Carvex si toccò il collo e abbassò il capo.
«Non è niente. Ci
vediamo domani, partner». Attraversò la strada.
Anche se Danvers si
era diretta verso la macchina, sentiva il suo sguardo addosso. Si
aspettava che la seguisse, invece si allontanò subito e le
dispiacque un po'. Forse diceva il vero, per la bambina. O forse
aveva usato una scusa, pensò ancora, perché della
giornata ne aveva
avuto abbastanza. Si affacciò di fronte a una vetrina e
aprì il
colletto della camicia, tastando con un polpastrello il livido,
ancora ben visibile. Stava diventando più piccolo, sarebbe
sparito
presto. Non faceva più male e in fondo l'aveva in qualche
modo
deliziata lo sguardo allarmato della collega. Sorrise, richiudendo il
colletto.
Com'era
perdere tutto? Astra Inze lo sapeva, lo sapeva eccome. Una stimata
sergente di polizia, membro di un'organizzazione segreta che poteva
cambiare National City, zia di un'adorabile bambina che l'amava alla
follia, moglie di un uomo intraprendente, sorella di una giudice
affermata, tutto perso in poco tempo, senza che avesse la
possibilità
di capire come uscirne. Era tutto il suo mondo e sapeva, lo sapeva
bene che non avrebbe mai riavuto tutto ciò che aveva perso,
ma una
parte di quelle cose si sarebbero sistemate, col tempo. Ne era sicura
e rise con piacere quando la riportarono dentro la sua cella.
Kara
chiuse la chiamata perdendosi in un punto vacuo, venendo inglobata da
esso. Sentiva le voci degli altri come echi lontani, le gambe molli
tanto da non essere sicura di essere ancora in piedi, la testa
leggera, vuota, grande. Guardava, ma non vedeva. Sentiva, ma non
capiva. Doveva svegliarsi.
«Kara?».
Lena la prese per le spalle. «Kara, cos'è
successo? Era Alex,
vero?».
Annuì
e mise a fuoco stringendo gli occhi e sistemando gli occhiali sul
naso, scoprendo che tutti la fissavano. «Quando sei
tornata?».
«Adesso».
Lena
la circondò con un braccio e Indigo le tenne d'occhio mentre
la
portava vicino alle scale per un po' di privacy. Avevano lasciato
entrambe i loro cellulari su un mobiletto. Un gesto spontaneo,
allontanarsi e appoggiarlo, ma non era da loro. Non lo era. Prese
fiato, a labbra chiuse. Stava per tornare verso il piano-bar che Lucy
Lane le stava di nuovo dietro.
«Quindi?
Questo garante com'è?».
«Non
lo so», alzò gli occhi al cielo. «Mai
visto».
«Scusa,
ma… non ti credo».
Si
sedette su uno sgabello, alzando un bicchiere per farselo riempire da
Lex che le porgeva la bottiglia, cominciando a lamentare ironicamente
di non essere un barman. «Che novità,
tesorina».
Arcuò
un sopracciglio. «Tesorina,
prego?».
Lena
la strinse tra le braccia e Kara si lasciò prendere da quel
tepore;
sentiva il suo cuore battere agitato, forse ce l'aveva ancora con lei
per la discussione avvenuta nella sua camera, ma non se la sentiva di
chiederglielo.
«Come
ti senti? Vuoi parlarne?».
Kara
ingurgitò saliva, rannicchiandosi tra i suoi seni. Lena
poteva
davvero diventare molto alta con i tacchi ai piedi. «No,
voglio
dire, no-non so di cosa parlare… Aspettavo questo momento,
sapevo
che sarebbe successo, che era solo questione di-», la strinse
più
forte. «Mi ha fatto sentire strana, ma in realtà
nemmeno so come
dovrei sentirmi».
Lena
si abbassò il tanto per lasciarle un bacio sui capelli.
Intravide
Lucy Lane a qualche metro, con il bicchiere pieno e una mano sotto un
gomito; si scambiarono uno sguardo. Non avrebbe saputo descriverlo,
ma la convinse a trattenere Kara di più con lei. Poi
un'illuminazione: «Ricordi il parco divertimenti di quando
rapirono
Jamie? Andiamo». La guardò alzare il volto
arrossato. «C'ero stata
solo con la videocamera del tuo cellulare, ricordi? Anche
Indigo…
In quel periodo, non la conoscevamo di persona e ci aveva aiutato a
ritrovarla. Non so quante volte ci sarà stata in un parco
simile,
potrebbe farle piacere. Potrebbe farlo a tutte. Prendere un po'
d'aria. Andiamo».
«Vuoi
andare davvero?».
Lei
annuì. «Mi faresti compagnia, Olaf?».
Kara
sorrise, guardando per un attimo le proprie calzette raffiguranti il
famoso pupazzo di neve abbracciato a un ombrellone da spiaggia. Le
lasciò un bacio, slanciandosi.
«Andiamo»: glielo sussurrò a fior
di labbra e si allontanò per proporlo a Lucy Lane.
«Si
prospetta una bella serata tra ragazze. Vi auguro che sia
così».
Lex afferrò la giacca da infilare sopra la camicia da un
appendiabiti, incamminandosi lento verso la porta con il cellulare in
mano pronto per chiamare la macchina che lo venisse a prendere.
Lena
lo scrutò e si appoggiò a un tavolino con le
braccia sul grembo.
«Vieni con noi. Cos'hai da perdere? Alla Luthor Corp
sopravviveranno
senza di te». Kara concordò, facendogli cenno di
aggregarsi.
«Non
sono un tipo da luna park. Dovresti saperlo, sorellina».
Fu
Indigo a prendere la sua attenzione: «Fai uno strappo alla
regola.
Non ci sono mai stata, può essere divertente»,
lanciò uno sguardo
a Lena. «Siamo esseri umani, Lex Luthor. Hai paura di
scoprirti tale
anche tu?».
Lex
spezzò lo sguardo enigmatico sul volto, abbozzando una
risata e
prendendo fiato mentre scuoteva brevemente la testa. «E sia.
Mi
avete convinto, verrò con voi. Ma non siederò su
alcuna
attrazione».
Il
parco divertimenti era pieno di visitatori, talmente che era
possibile passeggiare senza essere quasi riconosciuti, cavandosela
con qualche occhiata e tutt'al più l'imbarazzo del personale
degli
stand. Gli occhi di Kara parevano brillare e si fermava dal tirare
Lena da una parte all'altra solo perché si vergognava a
farlo di
fronte a Lucy. Veniva investita da uno strano imbarazzo. L'ultima
volta che era stata lì aveva un altro stato mentale, adesso
il parco
sembrava ancora più bello.
«Allora?»,
Lena sorrise a Lex che, mani nelle tasche dei pantaloni, le camminava
a fianco. «Sei vivo».
Lui
arcuò le sopracciglia, sollevando le spalle.
«Così pare». In
realtà, non si sentiva per niente a suo agio, ma aveva
deciso non di
dare a quel posto un'occasione, ma di darla a lei, sua sorella, a
Kara e perché no a quella Indigo. Alla compagnia. Magari
anche alla
sua aspirante avvocata. Ci tenevano disperatamente al fermare
quell'accordo e ci avrebbe scommesso che era per quel motivo e per
quello soltanto che Lena l'aveva invitato ad andare con loro. Da
quando aveva preso a pugni quel ragazzo nella sua università
e si
era trasferito a Metropolis lontano da lei, le cose tra loro erano
cambiate, dopotutto.
E
forse Lex non se lo aspettava, ma si divertì davvero.
Kara
trascinò Indigo sui seggiolini volanti. Come promesso, Lex
si
astenne, ma anche Lena si tirò indietro e restò
in basso ad
aspettarle. Appena la giostra iniziò a girare vorticosamente
e
Indigo capì che Kara e quell'altra cercavano di acchiappare
un
peluche appeso a un palo, tentò con ogni sua forza di darsi
lo
slancio necessario muovendo le catene del suo seggiolino per
arrivarci per prima e, a convenienza, dietro Kara, di calciare il suo
per impedirle di prenderlo.
«Indigo
è competitiva», commentò Lex, ma la
sorella non lo stava
ascoltando, inquadrando Kara e quella Lucy Lane che si prendevano la
mano per aiutarsi a darsi lo slancio.
Indigo
mise su il broncio quando vide Kara riuscirci e sventolare il peluche
come un trofeo. E così al secondo giro. E al terzo. Al
quarto, il
bigliettaio le regalò il peluche.
Al
momento degli autoscontri, fu Indigo a fregarsi le mani con
soddisfazione, gongolando come fosse l'unica attrazione su cui aveva
già seduto da ragazzina e che Kara non avrebbe potuto
batterla
sull'inesperienza. «Non mi sconfiggerai». Appena fu
data carica
alle macchine, quella blu di Indigo partì alla riscossa,
sbattendo
con violenza contro la gialla ancor prima che Kara avesse premuto
piede sull'acceleratore. Le stette dietro, maledicendo gli altri
giocatori che le venivano addosso, sabotandole i piani. Quando fu
quella rossa di Lucy Lane a sbatterle contro lo prese come un
affronto personale.
Dopo
salirono sulla piovra e Kara convinse Lena a sedere con lei,
lasciando a Lex il compito di scattare foto. Il tentacolo portava la
navetta in alto di qualche metro e Kara le sorrise, stringendole una
mano e intrecciando un braccio sotto il suo. Quando iniziò
ad
abbassarsi e alzarsi velocemente, sentì la mano di Lena
aggrapparsi
con le unghie. «Non hai ancora visto niente».
«Kara…»,
la fissò, «no».
Sorrise
a trentadue denti, avvicinandosi a un orecchio: «Ti fidi di
me?».
«No».
Kara
mise svelta il broncio.
«Non
mi trascinerai su un ottovolante».
Le
ultime parole famose: sapeva che neanche quella secca risposta le
avrebbe dato quella certezza. Aveva i piedi di marmo, le gambe
faticavano a piegarsi per camminare e Kara l'aveva presa per mano per
essere sicura che non le sfuggisse, facendo ridere Lex dietro di
loro.
«Non
dirmi che hai paura di qualche curva, Lena», la
interpellò Lucy.
Oh,
sicuro, e così non l'avevano ingannata i suoi occhi che si
facevano
piccoli dal terrore?! «E non ne ho…
difatti», la voce le tremò,
ma forse la musica degli altoparlanti l'avrebbero coperta,
perché
non poteva mostrarsi debole di fronte a lei.
«È
che preferisce stare coi piedi per terra», chiarì
Kara. Deglutì e
sorrise con impaccio quando Lucy le sorrise a propria volta.
«Ma lei
non ha paura». Strinse con più sicurezza la mano
di Lena con la
sua: al bando l'imbarazzo, sapeva che Lucy era solo felice per loro
poiché quando le aveva parlato della sua relazione con lei,
le cose
sembravano più complicate di com'erano davvero.
Indigo
ridacchiò. «È risaputo che i Luthor non
hanno paura di nulla,
no?», inquadrò Lex e lui sbiancò,
quando si accorse che non era la
sola a essersi voltata per osservarlo.
«Ah…
Ragazze, i Luthor non hanno paura di nulla, sono tutti gli altri ad
avere paura dei Luthor, è vero. Ma ricordate, io sono
qui per
non salire su alcuna attrazione».
«Quindi»,
Kara scrollò le spalle, «hai paura».
«No,
non ho-».
«Ha
chiaramente paura», aggiunse Lena.
«So
cosa state cercando di fare», ridacchiò.
«Non
sei all'altezza», serrò le labbra Indigo.
«Ad alcuni uomini può
succedere».
Lex
puntò gli occhi al cielo e a quel punto sospirò,
gonfiando appena
la bocca. «Siete delle carogne», le
sorpassò, andando a fare i
biglietti. «Delle carogne infami».
Si
misero in fila e, adocchiando il volto paonazzo di Lena, Kara scosse
la mano con lei. «Fai delle belle foto quando saremo in
alto», le
sussurrò, lasciandola. Avrebbe voluto baciarla, ma sapeva di
non
poter rischiare.
Lena
abbassò lo sguardo, prendendo una grossa boccata d'aria.
«Se mi
stringerai a te», la guardò, «possiamo
lasciar perdere le foto».
Aveva
paura, aveva chiaramente paura e Kara non l'avrebbe costretta
davvero, ma Lena decise di provarci. Chiuse gli occhi per la maggior
parte del tempo, reggendosi a Kara al suo fianco così come
avrebbe
fatto un gatto su un parapetto, tirando fuori le unghie. Lucy
alzò
le mani e Indigo rise così tanto da farle male fa faccia. La
fortuna
del giovane Lex aveva impedito a tutte di voltarsi e notare il
bluastro del suo viso tinteggiato dall'orrore.
«È
stato bellissimo», Indigo si lasciò andare a
un'esclamazione di
gioia quando scesero dall'attrazione, «mi sento leggerissima,
mi
sembra ancora di essere lì sopra».
Lucy le batté due pacche sulla schiena e Kara rise, non
ricordando
di averla mai sentita comportarsi in quel modo, cercando uno sguardo
con Lena che… oh,
Lena faticava a non sbandare, reggendosi a una ringhiera, e Lex, per
ultimo, si teneva lo stomaco, guardando in avanti con occhi
spalancati. Il sangue doveva essersi ritirato, se lo sentiva.
Quando
ormai stava per scendere sera, il gruppo si fermò davanti al
tiro a
segno e mentre Kara vinceva tutti i quadri uno dopo l'altro con le
freccette, Lucy sparava ai barattoli col fucile a pallini. Anche
Indigo provò, lasciandosi spiegare da quest'ultima come
fare.
Vinsero altri peluche da fare compagnia al lemure dei seggiolini
volanti. Anche Lex decise di tentare la sorte e, quando vinse solo un
paperotto, decise di comprare la tigre bianca di peluche dietro a
tutti gli altri, quella più grande. Il giostraio gliela
concesse con
titubanza. La regalò a Indigo e Lena scrollò gli
occhi al cielo dal
fastidio.
«Non
ti potevi esimere, giusto?».
«Non
so se hai notato, sorellina, ma non ho mai avuto grandi
capacità se
non per gli affari. E se in questo modo posso far felice una ragazza
che è sempre triste, allora perché
no?». Gliela indicò con lo
sguardo e Lena sospirò: Indigo scompariva dal momento che
abbracciava quella tigre.
Sedettero
sulle tazze da tè, Kara e Lucy urlarono dall'alto della
torre
verticale a caduta libera, si fecero un giro all'interno della Casa
dei Fantasmi e Indigo si divertì a far paura Kara alle sue
spalle,
Kara vinse il toro meccanico, e dopo lo vinse Lucy, salirono su un
altro ottovolante e, con la pancia che brontolava un po' a tutti, si
fermarono ai pressi del furgoncino della pizza. Lex pensò di
offrirla a tutte e Indigo ne approfittò per farsi aggiungere
due di
tutto. A uno sguardo smarrito di Kara, Lex diede anche a lei il
permesso di farlo.
«No,
io non posso accettare». Lucy era di un altro pensiero.
«Lascia
perdere i convenevoli, Lane», replicò,
«Oggi non sei la mia
avvocata, ma un'amica della mia sorellina acquisita».
Alla
sua aria ancora incerta, fu Lena a spingerla: «Accetta,
è solo una
pizza».
Solo
una pizza. Una pizza offerta da un Luthor. Se qualcuno una volta le
avesse detto Lex Luthor un giorno le avrebbe offerto un trancio di
pizza, lei lo avrebbe preso per matto.
«Non
farti problemi». Lena gliene passò uno quando
prese il suo,
ordinando altri due tranci al gestore.
Si
allontanarono e, appena Kara finì il suo in tempo record,
Lena le
passò prontamente uno dei due extra che aveva riposto in un
sacchetto che teneva in braccio con qualcuno dei peluche vinti.
Mangiarono seduti su due panchine e si alzarono per fare una
passeggiata. Il parco, con il buio, era diventato un mare di colori e
suoni diversi, di lampi di luce e risate. La leggera brezza della
sera trascinava nell'aria odore di popcorn caramellati. Si stava
bene. Considerando che tutti avevano mangiato meno che Lex, Indigo lo
sfidò ad assaggiare qualcosa che non avrebbe mai toccato,
indicandogli una bancherella.
«Sai,
non lo pensavo così buono. Ne avevo sentito parlare ma ne
sono
sempre stato scettico; dopotutto», passò uno
sguardo sulle mani,
«ci si sporca più del dovuto. Ma è
buono, buono davvero. Dovrò
darle questa soddisfazione. Mi sfugge il nome».
«Hot
dog», sibilò Lena, accanto.
«Giusto.
Allora, vuoi parlarne o pensi di risolvere le cose con lo
sguardo?».
Sua sorella studiava insistentemente le altre, davanti a loro: si
divertivano davanti al Gioco del Martello, cercando monete per farlo
partire. «Cos'è successo? È tutto il
giorno che ci rimugini».
Lena
ci pensò poco prima di confidarsi, in realtà. Era
vero che molti
lati del fratello non le piacevano e avrebbe preferito non scoprirli,
ma era pur sempre il suo Lex, da qualche parte là in fondo.
«La mia
ragazza dà la colpa alla nostra relazione se ha perso la
squadra e
l'impiego alla CatCo».
«Mh,
fatico a crederlo, conoscendola», fece una smorfia, accortosi
di una
macchia di ketchup sulla camicia. Alzò gli occhi al cielo e
imprecò
per sé, cercando di mangiare in fretta e finendo per
sbrodolarsi di
salse sul mento.
«No,
infatti», sospirò. «Dà la
colpa a sé stessa per non aver saputo
gestire il tutto».
«E
tu invece pensi che la colpa sia tua».
Non
rispose, mordendosi un labbro. «Sono stata egoista con lei.
Le
chiedevo di restare, si è abituata a vivere in villa,
trascurando il
campus».
Lex
prese fiato a pieni polmoni dopo aver ingurgitato l'ultimo boccone,
ricercando in fretta, con due dita, un fazzoletto dal taschino: era
la prima volta che ne usava uno e si sentì improvvisamente
un
temerario. «Disperato, imprescindibile impulso… Lo
so, sorellina,
sono un Luthor anch'io», abbozzò un sorriso,
«È un bisogno
d'amore. Un sentirsi compresi e desiderati. La paura che, se se ne
andrà, capirà di non aver bisogno di
te».
Lo
sguardo di Lena si mostrò particolarmente scocciato da
quella
affermazione. «Lo so che è una cosa che non ha
senso.
Oggettivamente lo riconosco».
«Ma
siamo persone: capita che i pensieri viaggino dove non
vorresti»,
strinse i denti disgustato poiché, dalla luce dei lampioni e
delle
attrazioni, la macchia sulla camicia parve essersi dilatata. Sapeva
che passarci il fazzoletto era una procedura delicata e difatti era
stato prudente, ma non abbastanza. «Tu e Kara siete una bella
coppia, Lena. Hai con te delle salviette umide?». La
ringraziò,
strappando la salvietta dalla confezione tirata fuori dalla borsa.
«Cosa ti fa credere che potrebbe stancarsi di te?».
La
ragazza mise su una smorfia seccata e alzò l'indice, in
silenzio,
puntando davanti a loro: Kara saltellava dalla gioia, abbracciando
Lucy Lane.
«Oh
oooh,
guarda quanto hai fatto», esultò lei, con un
sorriso splendente.
«Va
bene», l'altra sorrideva compiaciuta del risultato,
«vi sfido a
fare meglio di me, bellezze».
Kara
prese subito il martello, accettando. Si portò in posizione
e colpì
forte la tabella, facendo schizzare il punteggio. Lucy Lane rimase
senza fiato.
«Non
ci voglio… Non ci voglio credere! Ti hanno svezzato con
latte e
ambrosia, da bambina?». Risero e passò il martello
a Indigo, che
era dubbiosa sul provarlo.
Lex
rise appena, sollevando le spalle. «Adesso ha
senso».
«No,
non lo ha», ribatté svelta. «So che
è stupido essere gelosi, Kara
sta con me».
«Beh,
sono decisamente affiatate: comprendo e condivido la
perplessità. Ma
sì, Kara sta con te e vi correte dietro da diverso tempo,
dunque non
credo che tu abbia di che preoccuparti per davvero,
sorellina».
Le
ragazze attirarono la loro attenzione, dopo aver fatto giocare
Indigo. Sarebbe stata infastidita di non aver fatto un punteggio
più
alto se non fosse che era la prima volta che giocava e non usava
delle videocamere e l'immaginazione per farlo. Mise da parte
l'orgoglio e, quando Kara le chiese se volesse provarlo ancora, non
esitò a ripetere l'esperienza. Lena e Lex li raggiunsero e,
dopo
aver colpito la tabella, Indigo guardò il ragazzo ed emise
una
smorfia divertita.
«Oh,
Lestat.
Chi hai massacrato per avere quell'hot dog?».
Lex
guardò lei, la camicia, Lena, poi strinse le labbra fini.
«Torno a
casa», chiosò secco. «Indigo,
vuoi-?».
«Indigo
resta qui». Lena fu lapidale.
«Neanche
un po' di compagnia…». Si avvicinò
furtivamente alla sorella,
assottigliando un sorriso: «Sì, sei decisamente
un'egoista». Stava
per girarsi, tornando indietro di scatto. «Hai una
sciarpetta, per
caso?».
Lena
aprì la borsa, ci guardò dentro e-
«Siamo a giugno», lo guardò
torva.
Lui
sbuffò. «Non sono abituato. Qualcuno solitamente
porta le cose per
me e non so come-». Se ne andò, bofonchiando
infastidito nel
cercare di coprire quella macchia sulla camicia.
Erano
in fila alla Casa degli Specchi quando Kara notò, tra i
volti di una
folla, quello di una persona conosciuta. Indigo era già
entrata e
Lena la seguì, mentre lei e Lucy tornavano indietro. Non
avrebbe mai
pensato di trovarlo così facilmente, per caso, ben sapendo
come
Megan lo considerasse ormai scomparso. «… coach
Jonzz?».
L'uomo
sobbalzò, trovandosela davanti. «Kara!»,
le passò una mano su una spalla, formando un sorriso.
«Come ti
senti? Tua sorella mi ha spiegato cos'è successo».
Dopodiché si
accorse dell'altra ragazza, porgendole una mano. «Tenente
Lane. Non
sapevo vi conosceste».
Kara
abbassò lo sguardo e, dopo aver deglutito, tirò
un sospiro. «Bene.
Le chiedo scusa, ho-ho perso la squadra e tutto ciò per cui
abbiamo
lavorato, ma-».
«Non
devi chiedere scusa a me», lui scosse la testa, cercando di
essere
comprensivo. «Ammetto di essere rimasto spiazzato dalla
notizia-».
«Lavorerò
sodo», continuò lei e lui la fissò.
«Ho fatto uno sbaglio, ma
sono pronta a ricominciare».
John
sorrise, annuendo pacato. «C'è solo una cosa che
può fare una
persona dopo aver perso tutto», le disse, fissandole dritta
negli
occhi, «rimboccarsi le maniche. Fare di meglio. E se
c'è qualcuno
che può farlo, quella sei proprio tu… Supergirl».
Lucy
abbozzò una risata a quelle parole. «Super…
Non
fatico a capire perché»,
le lanciò un'occhiata e la vide sorridere.
«Riguardo…»,
John riprese, più serio, e Kara ben sapeva a cosa si
riferisse:
meglio ancora, a chi.
«Le cose sono fatte, Kara, ma eravamo pronti a questo. Vai
per la
tua strada, non lasciarti condizionare. Ci siamo capiti?».
Lei
annuì. Stavano per tornare verso la Casa degli Specchi che
si fermò
sui suoi passi. «Uh, coach Jonzz?». L'uomo la
guardò di nuovo.
«Chiami Megan. La prego». Lui le riservò
un sorriso spento, non
avrebbe saputo come interpretarlo. Ma era tardi, si era girato e loro
tornarono verso la Casa degli Specchi, pensando che avrebbero perso
quelle due.
Il
trenino girava ancora intorno alla pista, fortunatamente. John
sorrise fiero e due bambine lo salutarono da una delle piccole
carrozze, così inviò loro un bacio.
«Facci
una foto, papà», urlò la maggiore.
«Stringi
bene Tanya, tesoro. Non la mollare, tienila forte per mano».
Prese
il cellulare, scattando una foto all'ennesimo giro.
Com'era
perdere tutto? Lui lo sapeva, il suo angelo custode. Indigo ne era a
conoscenza, lo aveva scoperto. Dopo aver compreso chi fosse e chi
Howard, l'uomo che Carol e Noah tenevano in casa con loro, era stato
tutto in discesa. Per quel motivo odiava i Luthor: aveva bisogno di
un capro espiatorio, un colpevole da colpire, da distruggere per
vendicare le sue sofferenze. Le loro
sofferenze. Eppure, doveva sapere che una vendetta non gli averebbe
ridato
niente.
Indigo
guardò lontano e indietro. Si era persa. La sua immagine
rifletteva
ovunque, distorta in più modi. Provò a chiamare
Lena ma non la
sentì, non ricordava di essersi spinta tanto oltre. Era
colpa sua,
si era lasciata prendere dall'entusiasmo; mai avrebbe creduto che
quel posto le sarebbe piaciuto fino a quel punto. Aveva riso,
giocato, vinto un portachiavi peluche sparando con un fucile a
pallini. Non aveva rubato niente, non aveva sentito l'impulso di
hackerare quel posto. A parte forse i seggiolini volanti. Ora
sì che
suo fratello non l'avrebbe riconosciuta. Chiamò di nuovo
Lena e
tentò di tornare sui suoi passi, trovando un vicolo cieco.
Quel Lex
Luthor le aveva regalato una tigre bianca peluche talmente grande che
avrebbe potuto farle da letto. Udì le risate e le voci di un
gruppo,
ma non le riconosceva. Le avevano offerto la pizza. Da quando era con
loro, viveva a spese dei Luthor. Non sarebbe dovuta entrare in quel
posto da sola, diamine. Strinse i denti e camminò toccando
il vetro,
trovando un altro vicolo cieco. Prese il cellulare ma la linea era
assente. Certo, mica poteva essere così semplice.
Sbuffò,
ricominciando a camminare. Era abituata ad aspettarsi sempre qualcosa
in cambio, ma Lena le aveva offerto un lavoro. Più rivedeva
il suo
volto che via via si faceva più deformato e disperato, e
più non
poteva non pensare a come se ne sarebbe dovuta andare e basta.
Scappare lontano da Lena e Kara Danvers, da Winslow che voleva
esserle amico, da quello che le stavano facendo. Non avrebbe dovuto
aspettare che tutto finisse, ma farlo finire e basta.
E
lui l'avrebbe trovata.
Il
respiro le si fece corto e deglutì, voltandosi di scatto
sentendo un
rumore. Il suo angelo custode avrebbe pagato quell'autista per farle
del male. Se fosse scappata, Noah che era un investigatore l'avrebbe
trovata. Se avesse voluto farla uccidere perché lei sapeva
di lui e
sapeva di Howard, avrebbe lasciato che Carol facesse il lavoro
sporco. Magari che la torturasse con gli attrezzi trovati in garage
e, dopo, avrebbero tinteggiato il sangue con pennellate bianche.
Sentì la tachicardia salire, la gola restringersi. Si
voltò di
nuovo, e di nuovo, ma ritrovava solo se stessa ancora e ancora.
E
ne sarebbe valsa la pensa di farsi uccidere per loro? A chi voleva
prendere in giro? Lena le aveva offerto un lavoro perché si
sentiva
in colpa a chiederle di fare delle cose per lei. Lex Luthor le aveva
regalato la tigre peluche perché voleva fare sesso. Appena
era
successo l'irreparabile, Kara Danvers l'aveva subito accusata. Aveva
già deciso, strinse i pugni. Doveva seguire il suo piano e
se la
sarebbe cavata, sarebbe sopravvissuta come aveva sempre fatto. Da
sola. Era inutile ripensarci. Una spia, una traditrice. I cellulari
lasciati su un mobiletto. Si portò le mani sui capelli e si
piegò
su se stessa, stringendo i denti.
«Indigo!
Indi, cosa ti succede?». Lena le corse incontro e insieme
scivolarono sul pavimento. Lei piangeva e Lena era sicura che si
fosse divertita, cosa le era successo all'improvviso?
«Mi
dispiace, Lena…», scosse la testa, piegando le
labbra in una
smorfia. «Ho paura, non sono forte abbastanza, non
posso»,
singhiozzò, stringendosi sulle sue braccia. «Non
posso… Devi
scusarmi».
«Indigo,
di cosa stai parlando?», l'avvicinò sul suo petto,
cercando un modo
per calmarla. Ma sapeva di cosa stava parlando. «Kara ha
ragione,
vero?», le domandò poi a bassa voce, senza che ci
fosse ombra di
accusa, sperando nella confessione. «Non sei
scappata». La vide
scuotere la testa e singhiozzare ancora e a Lena si seccò la
gola.
«Mi
ha lasciato andare… Voleva che andassi da te»,
ammise, «Che ti
trovassi. Mi dispiace così tanto», la
guardò, tirando su con il
naso. Non si arrabbiò, parve capirla. Nei suoi occhi
trasmetteva
comprensione. Perché doveva renderle le cose così
complicate con
quell'indulgenza… falsa? Era falsa. Doveva
esserlo.
«Cosa
vuole da me, Indigo? Qual è il suo scopo?».
«Vuole
solo», si fregò gli occhi, «vuole solo
che tu sappia la verità
sulla tua famiglia, i Luthor. Il mio compito è quello ti
farti
aprire gli occhi su chi sono. E chi erano», aggiunse, con la
voce
strozzata.
«Bene»,
la ragazza si lasciò andare a uno sguardo duro.
«Sono io a volerne
sapere di più. È perfetto».
Le
persone erano sempre un problema. Imprevedibili, inaffidabili, i
sentimenti così sopravvalutati. Indigo ne era ancora
convinta, ma
non si era resa conto di come, nel tempo trascorso con loro, si stava
riscoprendo in quel modo anche lei.
Gliel'ho
detto. Scrisse
per messaggio, una volta tornata a casa Luthor. Ho
detto a Lena qual è il tuo scopo, angelo custode. Hanno
capito che
le spio dai cellulari e sto seguendo un nuovo piano. Uno mio, questa
volta.
Da
X a Me
Stai
giocando col fuoco, Indigo. Devi stare molto attenta, ti avevo
pregato di non fare di testa tua.
Anche
lui, come una qualsiasi banale persona, si stava lasciando guidare
dai sentimenti. Ma lei non aveva intenzione di restarci in mezzo.
«Tieni».
Kara
Danvers la sorprese alle spalle e spense subito il monitor del
cellulare, voltandosi. Il lemure peluche vinto sui seggiolini volanti
le stava a un palmo dal naso, scrutandola con i suoi vivaci occhi
rossi. «Cioè?».
«Cioè
te lo regalo», le sorrise, infilandoglielo sotto un braccio.
«Ci
siamo divertite, giusto?».
«Lo
fai perché», biascicò, «vuoi
che ti perdoni per avermi aggredita
ieri. Fatto!
Felice?».
Kara
fece una smorfia con le labbra. «Ci siamo divertite. Non devi
perdonami per forza, insomma, m-mi piacerebbe, ma»,
gesticolò, «sei
un'amica. Te lo regalo per questo». Si allontanò e
Indigo fissò il
lemure.
In
camera di Lena, quest'ultima parlò a Kara di cosa le aveva
rivelato
Indigo nella Casa degli Specchi. I cellulari vicino, sopra il letto.
Lasciando che Kara parlasse di come non si stupisse affatto della
cosa, Lena tirò fuori un piccola agenda dalla borsa, aprendo
al
segnalibro.
«Non
sono sicura sia tutto qui, Kara. Ma possiamo contare su
Indigo».
Prese una penna, scrivendo qualcosa.
Lei
sospirò. «Sì, beh, forse. Indigo
non…», guardò il cellulare,
sospirando ancora, «non è come vuole farci credere
di essere».
LUI
ODIA I LUTHOR. INDIGO NE HA PAURA: LO SO PER CERTO
Le
mostrò il foglio dell'agenda e Kara la guardò
negli occhi, serrando
le labbra. Sui fogli prima, si erano appuntante tutto ciò
che
sapevano o credevano di sapere sul fantomatico garante di Indigo.
Dovevano raccogliere ogni dettaglio. «Dovremo stilare una
lista di
nomi per capire…», mormorò, facendole
cenno di passarle l'agenda
e iniziando a scrivere. «Chi può avercela tanto
coi Luthor da
volere che tu ne sappia di più su di loro?!». SA
CHI È?,
le mostrò e Lena scrollò le spalle.
«Sarà
una lunga lista, Kara».
Lei
gonfiò il petto e sospirò, per poi sussurrare:
«E poi perché
proprio tu…?!». DEVE
SAPERLO
STIAMO
AL PIANO, CI PENSEREMO DOPO,
le scrisse Lena di rimando, giocando con la penna in mano.
Indigo
sistemò la tigre bianca di peluche sul letto e, sotto una
zampa
simulando un abbraccio, il lemure che le aveva dato Kara Danvers.
Ascoltava ciò che dicevano ma sapeva di dover stare molto
più
attenta da quel momento in avanti, conscia che, le cose importanti,
se le sarebbero tenute per loro. Cercò di riposare un po' e
dopo
uscì dalla camera. Loro non c'erano: dopo aver sentito Kara
parlare
con l'amica Megan al telefono, erano salite di sopra, sul terrazzo
del tetto. Indigo salì le scale e si affacciò
alla porta a vetri:
erano in piscina entrambe. Parlavano. I telefoni distanti, sugli
sdraio. Scaltre.
«Mi
ha consigliato di andarci appena possibile, prima che parta in
vacanza», annuì Kara. «A mani vuote
o-».
«Cat
Grant penserà che cerchi di corromperla»,
finì Lena per lei,
appoggiandosi al bordo con le spalle. «È stato
carino da parte di
Leslie. Si sarà affezionata a te», le sorrise.
«Chi non lo
sarebbe?».
Kara
arrossì e la raggiunse galleggiando, rimettendosi dritta a
poco dal
suo corpo e, così, esaminarle le labbra. Si baciarono
teneramente e
finirono per guardarsi ancora. «Lena…»,
prese fiato, abbozzando
un altro sorriso. «Per quanto riguarda-».
«No,
lascia perdere. È tutto a posto», le
passò una mano sul viso,
spostandole un ciuffo bagnato attaccato a una guancia. «Anche
io
voglio andare a vivere con te». Ricambiò il suo
sorriso. «Quando
saremo pronte, intendo».
«In
una casa nostra», saltellò fino ad appoggiarsi
alle sue spalle,
affondando con un altro bacio sulle sue labbra. «Ne avevo
parlato
con Alex e… Oh,
Alex!»,
esclamò, intanto che lei le passava le mani sott'acqua per
reggerla
sui fianchi. «Sei sicura che non devi dirmi
niente?», arcuò le
sopracciglia e l'altra non trattenne una mezza risata.
«Ha
spedito un cellulare alla Luthor Corp».
«Sì,
lo sapevo», esultò. «È
proprio da mia sorella».
«È
questo che sono andata a prendere. Indigo non potrà
hackerarlo, zero
internet: lode ai vecchi modelli. Così potrò
continuare a stare in
contatto con lei».
«Quanto
ti amo».
«Ha
fatto tutto Alex», la guardò torva e Kara rise.
«Quindi
non va bene che io sia così… beh, se… ssualmente
attratta da te in questo momento», si morse un labbro e finse
di
pensarci, facendo ridere e arrossire l'altra.
«Eccome
se va bene: sai quanto ami quando sei se-ssualmente
attratta da me», la prese in giro e cambiò
espressione di colpo,
addolcendosi. «Vieni qui». Si baciarono di nuovo, e
di nuovo,
sentendo i respiri caldi dell'una sull'altra. «Sono contenta
di
vedere che ti sei ripresa, a proposito. Cominciavo a credere che ci
sarebbe voluto un po'».
«Anch'io»,
confessò, reggendosi alle sue spalle. «Quando ho
smesso di cercare
di capire come ho lasciato che succedesse, mi sono resa conto di
esserne sollevata», rise quando l'altra la fissò
con curiosità.
«Era un peso, cercavo costantemente di correggere
ciò che avevo
fatto, tenendolo dentro e-e ora… è andato! Ora
non mi resta che
rimboccarmi le maniche», le vennero in mente le parole di
John, mai
più azzeccate, «e questo lo so fare. Ce la
farò». Lena si
avvicinò per baciarla e Kara ricambiò, pulendole
il volto
dall'acqua. «E dovrò trovare il modo di dirlo a
Eliza. Lei…», si
morse un labbro, «Questo sarà un po'
più difficile, per lei sono
quasi una santa,
non so come…».
«Farai
anche questo. Trova il momento giusto, non aver fretta», le
sussurrò
dolcemente, baciandole una guancia e facendola ridere e arrossire.
Non che volesse ricordarglielo, ma… «E tua zia?
Cos'hai deciso di
fare?».
«Niente»,
si strinse nelle spalle. «Lei farà la sua vita e
io la mia.
Cercherà di parlarmi, saprò in quel momento cosa
fare. Ora voglio
solo… essere positiva. Ti sembra che abbia
senso?».
Si
era tormentata così tanto… «Mi sembra
l'unica cosa che ne abbia,
ora».
«Sì?».
Era
tornata a essere il suo sole. «Oh, sì».
I
loro corpi abbracciati, uniti, le loro bocche una sull'altra.
Lontano, Indigo le guardava con espressione spenta, non sapendo
descrivere cosa provasse. Si allontanò e scese le scale,
fermandosi
alla porta chiusa di Lex Luthor. Lo aveva promesso a Lena, ma aveva
davvero senso mantenerla? E a quale scopo? Voleva Lex Luthor quanto
lui voleva lei, non serviva nient'altro.
«Finalmente»,
lui posò il suo telefono sul comodino.
«Solitamente non amo
aspettare, ma per te…».
«Non
ti è saltato in mente che non sarei venuta?».
Chiuse la porta e
avanzò verso il letto.
«No».
Si sedette e il lenzuolo gli scivolò addosso.
«Sapevo che lo
avresti fatto». Appena Indigo si fermò, lui si
alzò, nudo,
afferrandole il mento per arrivare alle sue labbra con le proprie,
talmente fredde dal farle provare i brividi. Li sentì, dal
contatto.
Chiusero gli occhi e Indigo lo strinse per le spalle con forza,
intanto che il ragazzo le sollevava la maglietta. Si separarono per
permettergli di gettarla sul pavimento e lei lo baciò con
foga,
inspirando. «Cosa ti è successo, oggi, Indigo
Brainer?», sorrise
lui, passando le mani per slacciarle il jeans. «Non che mi
dispiaccia, si intende, ma credevo di essere il solo a non vedere
l'ora di averti, questa notte. È che volevo chiederti un
favore
prima che l'aria inizi a scaldarsi troppo».
Per
un attimo, lei alzò gli occhi al soffitto. «Non
farò nulla contro
Maxwell Lord».
Fu
categorica e il ragazzo rise. «Pensi davvero che te lo avrei
chiesto? Credo di poterlo sconfiggere senza ricorrere a certi
trucchetti, no, non ha a che vedere… È che da
tempo sto cercando
di mettermi in contatto con una ragazza e, nonostante ogni mio
tentativo, non fa che ignorarmi».
«Dovresti
porti due domande».
Lui
rise ancora, baciandola sotto la mandibola. «Sì,
naturalmente me le
sono fatte, ma», si fermò, leccandosi un labbro.
«il fatto che è
odio quando mi si ignora e sto davvero cercando di evitare di usare
le maniere forti. Ha fatto una cosa imperdonabile e devo parlarle di
persona. Pensi di poterla convincere?».
«Una
ex», capì.
«Gelosa?».
Lei
abbozzò una risata sarcastica. «Come se me ne
importasse», gli
morse il labbro inferiore dopo un bacio, scoccandolo. «Lo
farò».
Lex
sorrise e le involse il volto con le mani piene, abbassandosi dopo
essersi guardati negli occhi, per spalancare la bocca e accogliere
così la sua lingua, inspirando.
Anf,
anf, anf! Quanto è lungo questo capitolo! Vi ho
fatto aspettare
parecchio, sì, ma c'è così tanta roba
da leggere, no? :)
E
ora… ah, vi ricordate quando, alla fine
dello scorso
capitolo, vi ho chiesto cosa c'era che non tornava? Ne parleremo
nelle note qua sotto ~
Intanto,
cos'è successo? Indigo ha confessato! È
stressata, è stremata, e
Kara e Lena stanno evidentemente giocando sporco, ma se n'è
accorta.
Come poteva essere altrimenti se, sapendo di essere spiate dai
cellulari, avevano iniziato a “dimenticarli” per
avere privacy? E
a nasconderli sotto i cuscini! A spostarli, a stare attente alle
parole da usare durante le conversazioni, ecc… Cosa
succederà
adesso? Chi avrà la meglio fra le le due
“fazioni”?
Frattanto
abbiamo un Lex sempre più invaghito di Indigo, e la ragazza
che da
parte sua non vuole stargli lontana, nemmeno dopo averne parlato con
Lena. Ed è arrivata Lucy per parlare con Lex delle pillole,
rendendo
Lena piuttosto gelosa, anche se la trova una cosa assurda. Ma
d'altronde Lena era per le sue, in quel momento, dopo aver discusso
con Kara che si è accorta ora di aver dato poco peso e
spazio ad
alcuni aspetti della sua vita. Voi ve ne eravate accorti? Ormai stava
vivendo in villa, aveva perfino pensato di trasferirsi lì,
ha
saltato gli allenamenti con la squadra, ha trascurato il campus:
prima o poi doveva farsi due calcoli. Cosa ne pensate di questa
discussione, come la vedete?
Beh,
se non altro ora che si è liberata di quel peso non deve far
altro
che ricominciare!
Uh!
nel frattempo Astra Inze è libera, processo vinto,
sarà un
personaggio giocabile sul tabellone molto presto! Cosa ne pensate? E
di Carina e Alex? O meglio ancora, cosa di Megan che pensa di aver
perso John, e John che è… padre? Ve
l'aspettavate? Quest'uomo è
così misterioso… Dopotutto, è tornato
a farsi sentire, ed era
ora, e non sappiamo esattamente cosa stia combinando durante quella
che lui chiama “vacanza”. Insomma, c'è
almeno una spia al D.A.O.
e probabilmente è meglio lavorare da soli, la prudenza non
è mai
troppa.
In
soldoni, cosa ne pensate di questo lunghissimo capitolo?
Oh,
non vi preoccupate, anche il prossimo sarà decisamente
lungo… ma
sarà uno stand alone!
Arriviamo
alle note ~
-
C'era qualcosa che non tornava… Qualcosa di grande, in
effetti, che
potrebbe dare una lettura diversa a gran parte delle cose successe
nel capitolo precedente! Ah, questi cellulari, sempre in
giro… :P
Ripassiamo insieme dei punti importanti del capitolo scorso:
Ricordate?
Durante la notte, Lillian Luthor aveva sorpreso Indigo ancora in
villa e la ragazza, per togliersela dai piedi, le aveva offerto una
bizzarra conversazione in cui le ha fatto credere, dicendole la sua
verità, ciò che voleva. Era bastato poco.
Lena
ne rimase colpita perché Lillian Luthor, di certo, non era
un'ingenua. CI AVEVA PENSATO E RIPENSATO a lungo, sistemando la
valigetta, E QUANDO KARA TORNÒ dalla corsa mattutina, LA
PRESE IN
DISPARTE PER DIRGLIELO prima che le venisse in mente di sbattere
Indigo fuori di casa. […] «Non importa, ci ho
pensato io», le
sorrise e le scoccò il labbro inferiore con l'indice destro,
CON
UN'IDEA IN TESTA, avvicinandosi al suo viso con il proprio.
«Indigo
doveva mantenere la sua copertura, non è grave. Adesso
DOVRESTI
PENSARE AD ALTRO». […]
«E-Ehi,
pensavo… pensavo andassimo a fare colazione», le
scoccò
un'occhiata, «ma sto cambiando idea».
«Cambiala.
Ho voglia di prendere UN ALTRO TIPO DI DISCORSO, con te». La
baciò,
passandole le mani SUI FIANCHI e FINO AL SEDERE, […]
Ebbene
sì: Lena l'ha perquisita. Tutto molto romantico ma, se
avesse avuto
con sé il cellulare, avrebbe dovuto sfilarglielo.
Lo
so, lo so, era difficile intuirlo da queste parole ma, emh,
spiegatemi una cosa: sì che la Lena della mia fan fiction a
volte
sente il bisogno di fare cosacce in momenti poco opportuni, ma
così
dal nulla? Stava pensando a Indigo e alla discussione tra lei e sua
madre, come le era salita la voglia di stare con Kara?
«In
bagno…?».
«Shh.
PARLO IO, tu potrai farlo dopo».
Quando
la porta si riaprì, Lena si muoveva i capelli con le dita,
stringendo un elastico. «Allora sistemati. Ti aspetto di
sotto».
PRESE IL TELEFONO e le sorrise.
Kara
SOSPIRÒ, appoggiandosi allo stipite.
Kara
sospira, certo, ha molto a cui pensare.
Portarla
in bagno per fare le cose sconce, senza i telefoni, era una buona
copertura se Indigo stava ascoltando, e avrebbero avuto un tempo indefinito per
discutere in perfetta privacy.
Cosa
le era passato per la testa?
Ora
sì che aveva complicato le cose: sarebbe stata la giusta
strada da
seguire?
Non
riuscì proprio a resistere e ora avrebbe dovuto mettersi
d'impegno
per parlarle di quei dati sulla chiavetta e la loro cancellazione.
[…] Era un po' nervosa perché non poteva
permettersi che quella
discussione andasse male.
Doveva
mettersi d'impegno per parlare a Kara dei dati di quella chiavetta
fingendo di farlo per la prima volta. E dovevano essere convincenti.
Che grandi attrici. Ma non del tutto…
[…]
una parte di lei era pronta a sentirla predicare che era sbagliato, e
chissà che cosa ne avrebbero pensato suo cugino e quella
Lane, che
avrebbero trovato un altro modo per proteggere Lillian dalle accuse
che ne sarebbero conseguite, ma la sorprese, restando ferma a
pensarci.
Abbassò
il volto e dopo, ricercando Lillian ed Eliza al di là del
vetro che
affacciava al cortile, strinse i denti.
«Facciamolo», si rivoltò a
osservare Lena. «Facciamolo, va bene. […]
What?!
Ne avevano parlato in privato, ma evidentemente non così nel
dettaglio… Kara non stava recitando:
Lena
la sentì deglutire e un brivido gelido le
attraversò il corpo. «Sei
sicura? […]
Eh,
no, non stava recitando.
Anche
per questo motivo una discussione tra le due, più avanti,
sul
terrazzo del tetto di casa Luthor, si era fatta particolarmente
strana. Ma dobbiamo necessariamente trattenere
questa parte e
altre sospese nel tempo perché ci arriveremo più
avanti, promesso,
in un altro capitolo. È davvero difficile estrapolare una
diversa
chiave di lettura, altrimenti, senza delle informazioni importanti
che si avranno solo successivamente. In questo, focalizziamoci sul
“lavoro” sotto copertura.
«Non
abbiamo scelta. LO DIRÒ AD ALEX, più tardi,
così non avremo
problemi! Lei capirà perché».
Lena
lo sperava. «Ah, A PROPOSITO, HAI SISTEMATO? Per il
lacrosse?».
Si
stava voltando per lasciarla e si fermò, in un sorriso.
«TUTTO
FATTO», annuì COMPLICE. «Ho chiamato e
ho lasciato alle ragazze
della squadra dei compiti per allenarsi»,
dichiarò,[…]
“A
proposito di Alex, hai sistemato?”, ah, “e per il
lacrosse?”.
“Tutto
fatto”, le ha detto con complicità, “E
sì, anche per il
lacrosse”.
Che
complicato dover parlare in modo che Indigo, dai cellulari, non
potesse capire.
Poi
sappiamo che Kara ha sbottato! Non sappiamo ancora che cosa si sono
dette precisamente Lena e Kara nel bagno la mattina, ma evidentemente
dovevano tenere con lei un certo comportamento, comportamento che
è
andato a farsi benedire quando Kara ha scoperto da Leslie che
l'organizzazione sapeva delle pillole di cui aveva fatto uso.
«Torniamo
di sotto, adesso», Lena la tirò per mano,
[…]
«Indigo
è riuscita a…», si zittì,
ricordando di come l'avesse aggredita.
«Sì,
è riuscita», le prese anche l'altra mano, fermando
i suoi passi.
«Ti perdonerà, Kara, tornerete come
prima».
Increspò
le labbra. «Lei…», SOFFIÒ
INFASTIDITA di colpo e l'abbracciò,
pensando di SUSSURRARLE una cosa ALL'ORECCHIO, così Lena
sorrise.
Che
cosa le avrà detto? Non lo sapete, esatto, così
come non lo sa
Indigo. Cosa bisogna fare pur di trovare un modo per parlare
liberamente…?! Specie se si vuole parlare di una persona
che, si
sa, sta ascoltando o lo farà in tempi brevi.
«Non
hai rovinato nulla», la rincuorò, vedendola
annuire.
Non
ha rovinato una parte del piano? Oh, chissà, lei lo spera.
E
comunque…
[...]
Sarai sempre una sua spia… una traditrice»
Cosa,
cosa, cosa? In pratica, Kara aveva già rivelato a
Indigo che lei
e Lena sapevano che stava lavorando col garante e la cosa ci calzava
così a pennello, dato che Kara l'aveva sempre accusata, che
neppure
lei se n'è accorta, dandole ragione. Perché in
quel momento Kara
era perfettamente in sé, non stava recitando nessuna parte.
Era
seriamente arrabbiata e Lena preoccupata, per quello si era lasciata
andare a un sospiro quando Kara aveva pensato di abbracciare Indigo
per salvare baracca e burattini.
In
poche parole: vi ho preso in giro, cari lettori, così come
Lena e
Kara (e Alex) stanno “prendendo in giro” Indigo. Ma
è stato
davvero, davvero complicato scrivere quel capitolo
“fondendo”
verità e bugia in modo che ci fossero piccoli indizi per
scoprire la
seconda pur lasciando che, a una lettura normale, passasse per la
prima. Non è detto che mi sia venuto bene, ho cancellato e
riscritto
così spesso, e alcune cose come ho detto sono ancora da
“risolvere”,
ci torneremo più avanti, quindi… boh, fatemi
sapere cosa ne
pensate!
… no,
please, non tiratemi pomodori, su! Che mi creano
acidità XD
Bene,
ringrazio chi mi ha letta fin qui (anche se mi ha tirato pomodori?
Mmh, su questo dovrò
rifletterci…) e segniamoci il prossimo
appuntamento con Our home per sabato 18 aprile. Il
prossimo
capitolo si intitola Marsington, nome curioso, e
come ho detto
sarà un lungo stand alone! Di chi si parlerà?
Teorie? ~
Non
ne ho parlato prima perché mi sembrava fuori contesto e
ritenevo
questo sito di scrittura amatoriale come un piccolo spazio
“libero”
da ansie di sorta, ma stavolta mi permetto di dire solo una cosa:
siate attenti e responsabili e, se potete, state a casa. Al momento,
è l'unica “arma” che abbiamo.
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Capitolo 63 *** 61. Marsington ***
C'era
una volta un borgo, lungo la costa, di onesti e umili pescatori:
Marsington. Il duro lavoro e la dignità contraddistinguevano
i
paesani, dediti alla salvaguardia del proprio approvvigionamento e
autonomia lunga secoli. O così si diceva. Il tempo spesso
mite
favoreggiava la pesca e Marsington divenne presto uno dei maggiori
fornitori di pesce di tutta la contea. Un avvenimento tanto
importante, però, non poteva che portare con sé
visibilità e gli
sguardi ghiotti di chi vedeva nel nostro bel paesino
un'opportunità
maggiore di far denaro. A quel punto arrivarono gli uomini e le donne
di città, coi loro abiti puliti e i soldi che, erano certi,
avrebbero aperto loro tutte le porte. Costruirono nel cuore della
piccola Marsington la loro azienda all'avanguardia e portarono via lo
spazio a chi per quel lavoro, che era molto più che un
lavoro, aveva
dedicato la vita. Marsington si spezzò a metà: da
una parte chi si
arricchiva in modo veloce, arraffando ciò che il nostro mare
offriva, e dall'altra ciò che restava degli umili pescatori
che,
insieme, poterono coalizzarsi per mettere in piedi un'impresa che
potesse competere con l'altra. Perché era impensabile
arrendersi,
bisognava lottare e tenere duro per preservare ciò che era
caro. E
così, nel tempo, le due metà di Marsington
combatterono duramente
per la sovranità del territorio; battaglia che non si era
mai
spenta. Neanche oggi. Ciò che restava di noi, con le tute e
gli
stivali di gomma verdi. Contro i loro discendenti, con i colletti
bianchi delle camicie ordinate. Verdi e Bianchi non avrebbero mai
smesso di farsi la guerra. Mai.
Megan
non poteva dimenticare quelle parole, sua nonna non faceva che
ricordargliele non appena ne aveva occasione, perdendosi nei ricordi
della sua infanzia quando, i ragazzi dei Bianchi e i ragazzi dei
Verdi come lei, si davano battaglia nella pineta di Marsington,
all'epoca molto più estesa. Aveva sempre notato come
dell'astio di
fondo covava nell'animo dei suoi concittadini, ma non ci aveva dato
peso fino a una certa età, quando alcuni avvenimenti
familiari la
portarono proprio a stare a casa della nonna, dal territorio dei
Bianchi a quello dei Verdi. L'odio era un sentimento che veniva
tramandato nelle generazioni e avvelenava Marsington. Non fu mai
così
felice come quando si trasferì a National City per
frequentare la
Sunrise, allontanandosi da quel luogo che, temeva, l'avrebbe
trasformata. E c'era stato un periodo in cui si era sentita tanto
vicina a farlo.
«Mia
nonna mi riempiva di storie dei ragazzi Bianchi che odiava»,
sospirò
con espressione triste, staccandosi dal finestrino su cui si era
appoggiata. «Una volta, un ragazzo le aveva fatto lo
sgambetto e le
aveva spinto la faccia su una pozzanghera piena di fango», la
guardò, scuotendo brevemente la testa. «Era
assurdo pensare che
quel ragazzo non era che il figlio dei suoi vicini: il padre aveva
firmato un contratto con la Swordfish
Company
proprio qualche giorno prima di quello scontro. Per mia nonna, quel
ragazzo con cui era cresciuta, era improvvisamente diventato uno di
loro
e nient'altro. È stato così anche per mio padre,
che era suo
figlio. Quando nacqui io, per lei, lui era già un
traditore».
Kara
annuì lentamente, riflettendo. Dal finestrino, sembravano
quasi
arrivate. «I
Bianchi…»,
annuì di nuovo, aggrottando la fronte. «Quante
storie ti raccontava
tua nonna su questi Bianchi?».
«Mh,
tante».
«E…
volevano ucciderla? Vo-Voglio dire, magari non ucciderla ucciderla,
ma…».
Megan
assottigliò gli occhi, riflettendo. «Beh, secondo
lei… Perch-?».
«Ed
erano Bianchi perché stavano in quella fazione, non
perché…
bianchi?!»,
assottigliò lo sguardo anche lei e si fissarono.
«Bianchi,
Kara. Tutti quelli che stavano per la Swordfish
Company,
anche solo i clienti sono dei Bianchi».
«Bianchi»,
ripeté e Megan arcuò le sopracciglia.
«Bianchi».
«Bianchi»,
continuò. «È-È per essere
sicura di una cosa».
«Quale
cos- Oh!»,
allungò la bocca e dopo si mise a ridere. «Bianchi!
Tu pensavi- ma
no»,
sventolò una mano a un'anziana seduta dall'altro lato del
bus che le
stava fissando, «Non Bianchi davvero bianchi, o non tutti,
non
capisca… male»,
abbassò il tono della voce, «Si
è girata.
Ah, ora mi
sta ignorando».
Kara
trattenne una risata a labbra strette e l'amica le diede un colpo al
braccio. Ma lei non credeva alle sue orecchie, finalmente quel
borbottio durante il suo sonno aveva un'origine. Controllò
il
cellulare un attimo, gonfiando le guance.
«Va
tutto bene? Mi spiace, non eri costretta a venire qui con
me»,
sospirò di nuovo. «Con tutto quello che avrai per
la testa, il
funerale di mia nonna è l'ultima cosa di cui hai
bisogno».
«Ma
no», le sorrise subito, rimettendo via il telefono.
«Mi fa piacere
essere qui e mi aiuta distrarmi un po'. Appena tornerò a
National
City, sarà tutto cambiato. E l'idea di affrontare Millard, a
essere
onesta, mi terrorizza un po'…».
«Ti
farò compagnia in panchina, ragazza. Quella finale
sarà un vero
disastro, te lo dico io».
«Perché
in panchina? Cosa è successo?».
«Emh»,
Megan strinse i denti ma, appena realizzò di essere arrivate
quando
l'autobus scese da una stradina di collina, si accese, mettendosi in
piedi. «Scendiamo qui, eccoci».
Le
strade di Marsington erano pulite, un vento leggero soffiava l'aria
di mare dal porto fino a lì, il cielo era poco nuvoloso ma
non c'era
freddo. Davanti alla fermata c'era un parco e dall'altra parte della
strada piccoli locali con le facciate colorate; il marciapiede
ospitava il via vai dei paesani. Di certo non erano a National City.
«Mi
piace», Kara si guardò attorno, entusiasta.
«Sembra di essere
all'interno di una cartolina».
L'autobus
partì e le ragazze iniziarono a camminare davanti al parco.
«Forse,
per ora… Questo posto nasconde bene i suoi
demoni», abbozzò una
risata e si guardò attorno nervosa, stringendosi le mani.
«Ti ho
mai detto che John ed io ci siamo conosciuti prima che entrasse come
coach alla Sunrise?». Scrutò Kara annuire e infine
realizzare ciò
che stava per dirle, spalancando gli occhi.
«Sì», alzò le braccia
all'aria un momento, «Vieni. Seguimi». Tagliarono
strada passando
per l'erba del parco, vicino a dei bambini che giocavano con
l'altalena. Oltrepassarono una stretta vietta e Megan portò
Kara a
passare per una scorciatoia attraverso il cortile di una casetta
antica e abbandonata, saltando un piccolo muretto. Scesero qualche
scalino e si ritrovarono davanti a un'altra strada e, più
avanti,
altri negozi. Megan sembrava conoscere quel posto come le sue tasche.
Si fermarono ai pressi di altre casette a schiera e lei ne
indicò
una: dietro il cancelletto chiuso, un uomo era chino a innaffiare una
piantina in un vasetto vicino alla porta e a una sedia usurata. Lo
videro tossire e riprendere a innaffiare. «Anche John
è di qui. I
Jonzz sono pescatori da generazioni. Dei Verdi. E quella…
quella è
casa sua. Dov'è cresciuto».
«È…?».
Megan
sorrise. «Suo padre». Si voltò indietro
insieme a lei quando sentì
le voci di alcune signore anziane che la chiamavano. Alcune del
gruppetto si avvicinarono per salutarla e darle le loro condoglianze;
tutte squadrarono Kara da capo a piedi, malnascondendo sorrisi schivi
e critiche a bassa voce. L'amica la presentò come una
collega
dell'università e le donnine le lasciarono a breve,
camminando in
branco verso la fine della strada, mani in avanti e schiena ricurva.
«Vanno in chiesa», spiegò,
«Sono Verdi».
«Hai
notato che alcune ti hanno salutata e altre… non
proprio?»,
ridacchiò e lei scrollò le spalle.
«Perché
per alcune sono dei Verdi anch'io, ma per altre resto una Bianca come
i miei genitori. È complicato, Kara. Questo posto
è… come ti
dicevo. Anche per il padre di John sono una Bianca», si
voltò di
nuovo, vedendolo rientrare, lasciando la porta aperta.
«Lo
conosci di persona?».
«Sì,
ma», sbuffò, «perché lo
conosceva mia nonna. Lui non sa che
sto-», si fermò, prendendo fiato, «stavo
con suo figlio. È di vecchio stampo, Kara, qui sono tanti
come lui.
Immagina la faccia di quest'uomo quando John ha preferito andarsene
invece di ereditare l'attività di famiglia. John voleva fare
altro,
ma qui non è qualcosa che si accetta con naturalezza.
Nessuno
arriva, pochi se ne vanno davvero», chiosò con
rassegnazione. «È
come se fosse un mondo a parte che… che tenta di tenerti
qui».
Kara
cominciava a capire com'era che la sua amica non parlasse spesso del
suo paese d'origine; d'altronde, ora che ci faceva caso, si sentiva
osservata: non solo le signore poco prima, ma qualunque abitante di
Marsington passasse di lì la teneva d'occhio neanche fosse
diventata
un'attrazione da circo.
«Ignorali»,
scosse una mano, facendole cenno di seguirla ancora. «Si
staranno
chiedendo chi sei, cosa sei venuta a fare, qual è il tuo
nome, il
tuo stato sociale, che numero di scarpe porti. Gli stranieri fanno
sempre quest'effetto e», gesticolò, allargando gli
occhi, «adesso
che le signore del gruppo della chiesa sanno che sei qui, lo
saprà
tutta Marsington prima che si
ricordino del funerale di mia nonna».
John
Jonzz si grattò la nuca, addentrandosi all'interno della
piazza.
Alcuni bambini si divertivano a schizzarsi con l'acqua delle
fontanelle, seguiti a vista dai genitori seduti sulle panchine. Il
sole batteva cocente, non c'era vento, si sudava un po'.
Seguì la
scultura disposta al centro, accompagnata dalla fontana più
grande e
maestosa di tutta la piazza, inquadrando Alex Danvers seduta sul
muretto vicino all'acqua limpida. Batté i fascicoli che
teneva in
mano contro una coscia e si schiarì la gola, fermandosi e
attirando
la sua attenzione. Lei sospirò non appena lo vide, alzandosi
in
piedi.
«Credevo
avrebbe fatto tardi, signore».
«Sono
tornato da Ivy Town giusto qualche minuto fa. Ti avrei avvertito se
avessi fatto ulteriormente tardi».
«Ivy
Town?», si fece sorpresa, «Credevo fosse a
Metropolis».
«Sì,
infatti. Spostamenti… privati», pensò
di sorridere e si guardò
attorno di nuovo, osservando la scultura e i piccoli angeli
rappresentati. Angeli su sedie a rotelle. «Immagino tu non
abbia
scelto questo posto casualmente».
«No,
signore», guardò anche lei. «L'Angel
Children's Memorial. Mi è
rimasto impresso da quando Maxwell Lord mi fece avere il vecchio
progetto sull'impianto idrico delle fontanelle per conto
dell'organizzazione. Mi sono scervellata a lungo per capire quale
fosse il nesso tra loro e questa piazza, ma…»,
prese fiato e
strinse le labbra. «So che è stata fondata nel
millenovecentosessantatré a seguito di un incidente stradale
ai
danni di uno scuolabus di ragazzi disabili, ma non ho trovato
altro».
«Era
il pullman di un'associazione che si occupava di ragazzi con
disabilità fisiche e mentali», la corresse John,
aprendo uno dei
fascicoli che aveva con sé e passandoglielo.
«Andavano in gita. Ho
fatto qualche ricerca anch'io. Online non si trova nulla ma, se sai
dove scavare, d'altronde… Non sono rimasto con le mani in
mano
mentre mi fingo in vacanza», le fece l'occhiolino e Alex
sbirciò
all'interno, esaminando le foto riportate del grave incidente: il
pullman finì sotto una scarpata e morirono tutti, dodici
ragazzi,
l'autista e due educatori. Ma qualcos'altro attirò la sua
attenzione
e la ragazza spalancò gli occhi:
«I
Luthor? I Luthor commissionarono il memoriale nel
sessantatré?», lo
guardò, incredula.
John
le indicò di proseguire e Alex girò pagina,
trovando due foto
sbiadite e rovinate sui bordi: nella prima due ragazzi e una ragazza,
nella seconda il più piccolo dei tre era solo, su una sedia
a
rotelle. «Louie… Louie Luthor? Non l'ho mai
sentito…. Perché
non l'ho mai sentito?», aggrottò lo sguardo.
«Fratello
più giovane di Lara e Levi Luthor. Nato prematuro con
conseguenti
danni nello sviluppo, le sue condizioni si sono aggravate negli anni
ed è morto nel millenovecentosettantacinque».
«Louie
aveva… sedici anni quando successe l'incidente, giusto?
Era-?».
L'uomo
annuì. «Risulta tra gli iscritti all'associazione.
Ma non era con
loro quando accadde: i suoi lo avevano sottratto per iscriverlo in un
istituto privato, dove forse speravano di vederlo fare progressi. Si
ritiene che sia stato lui a volere il memoriale».
Alex
sospirò, abbassando gli occhi. «I suoi
amici… Non capisco,
signore. In quel periodo, non esisteva ancora
l'organizzazione…
credo».
«Ancora»,
ripeté quella parola, osservando i piccoli angeli della
scultura.
«Non esisteva ancora. Si pensa che Levi Luthor sia stato uno
dei
fondatori, Alex. Più scavo su questa famiglia e
più mi domando se
non troverò in questo modo le radici di
quell'organizzazione, se non
sia tutto collegato. Se Louie Luthor non faccia parte, a suo modo, di
un disegno più grande. Tutto parte da qui, ne sono
convinto», annuì
per sé, per poi girarsi e guardarla negli occhi.
«È per questo che
sono diventato un agente. Proprio per questo tipo di cose».
Ricordava
che la televisione faceva i capricci e l'immagine saltava, ma lui
cercava di non perdersi nemmeno un fotogramma sui detective nel
programma che seguiva, restando a bocca aperta e picchiando la
scatola a mano aperta. Suo padre lo aveva sgridato di non farlo e
dopo era andato ad aprire la porta di casa, sentendo il campanello
suonare. La casa della famiglia Jonzz era antica come tutte quelle
della zona, non c'erano tante stanze e lui era costretto a vedere la
tv nel soggiorno che faceva da ingresso; appena quella donna era
entrata, bagnando il tappetino e lasciando lì il suo kway
fradicio,
lo aveva salutato mettendogli una mano sulla testa, infastidendolo.
Una
donna era morta in un paese come il loro, negli anni settanta. I
detective interrogavano dei sospettati, scavando nel loro passato e
in quello della vittima. In sottofondo, la nave mercantile era in
ritardo a causa del brutto tempo, sarebbe tornata al porto la mattina
successiva: la donna e suo padre erano preoccupati.
«Beh,
questi sono quelli che ti dovevo». La signora aveva
appoggiato una
mazzetta sul tavolo, spostando i lunghi capelli bianchi che, a
riccioli, le scendevano lungo il seno prosperoso sotto il maglione.
«Allora, domani cosa vuoi fare? Chiami i ragazzi?».
Suo
padre aveva brontolato e John scosso la testa, cercando di seguire il
programma. «Se riesce a smettere di piovere sì,
volevo salpare il
prima possibile. Mi sarebbe piaciuto portare i miei di ragazzi.
Iniziare a fargli conoscere il mestiere. Ma con questo
tempo…».
John
aveva spalancato gli occhi: per fortuna, avendoli alle sue spalle,
poteva fingere di non aver sentito e sperare che il maltempo
perdurasse.
«Vero,
Johnny?». Lo aveva interpellato e, non ricevendo che una
debole
scrollata di spalle, aveva ripreso a parlare con la signora:
«È
incantato. Non c'è modo di schiodarlo da quella televisione;
è
tutti i giorni che guarda di queste stragi, rapimenti, gente morta
ammazzata… Con sua madre non lo faceva».
«Quanto
ha, adesso? Dieci?».
«Dodici»,
aveva sospirato l'uomo. «Non so neanche se siano programmi
adatti a
dodicenni… Io non me ne intendo. Io…»,
la sua voce era mancata e
la signora lo aveva preso per le spalle e aiutato a sedere.
«Stai
facendo del tuo meglio. Sei un buon padre. I ragazzi sono tutti
così,
eh», aveva cercato di rassicurarlo e John, che sentiva tutto,
aveva
stretto le labbra dal fastidio. «Anche quel disgraziato di
mio
figlio da ragazzino non ti dico… E adesso è
peggio», si era
fermata, alzando le braccia per poi sbatterle sui fianchi rotondi.
«Sta per diventare padre, il traditore, e sai che mi ha
detto?
Vorrebbe che li aiutassi, che ci fossi per quando nasce la bambina.
Quello è tutto matto!», aveva sbottato e il padre
di John si era
messo a ridere. «Se pensa che farò finta di
niente… Ma guarda un
po'. La vedrò da lontano quella bambina. Eccome. Chi sta per
i
Bianchi non può pretendere niente. I figli non smetteranno
mai di
darti problemi». Aveva grugnito con sdegno.
Dopo
poco se n'era andata, infilandosi il kway zuppo. Suo padre aveva
chiuso la porta a fatica poiché il vento lo spingeva
all'indietro,
bagnandosi il viso di spilli di pioggia ghiacciata. Anche se aveva
riso poco fa, sembrava ancora triste. John odiava vederlo
così:
aveva sempre l'impressione che fosse colpa sua.
I
detective non erano riusciti a capire chi fosse l'assassino e il caso
era stato archiviato. La donna non aveva trovato giustizia e lui
aveva protestato e spento la televisione, seccato.
«È
per tua madre, eh?». Aveva inquadrato il figlio voltarsi
verso di
lui con la coda dell'occhio, mentre era intento a contare i soldi.
«È
per lei che sei così fissato con quella robaccia, la gente
ammazzata?», si erano scambiati uno sguardo e l'uomo aveva
alzato la
testa, rigettando la mazzetta sul tavolo. «Devo ricominciare
daccapo. Non mi piace che ti fissi con quelle cose, hai capito? La
gente muore tutti i giorni, Johnny. Niente di
più».
Il
ragazzino lo aveva visto stringere i soldi ripescandoli dal tavolo
banconota dopo banconota, allontanandosi borbottando dalla camera.
Sua
madre era morta un anno prima; l'avevano investita in città,
lontano
dalle sicure vie di Marsington. Era con lui e suo fratello quando
successe ma, a parte i forti rumori, non ricordava nulla di quel
giorno. Eppure suo padre di una cosa aveva ragione: era per lei che
si era interessato. O meglio, ne era stata una causa. Cos'aveva
provocato quell'incidente che l'aveva portata via da loro? Un
sedicenne non era stato attento e l'aveva messa sotto, ma
perché era
successo? Perché beveva, quel pomeriggio? Perché
era scappato da
casa? Perché suo padre lo picchiava? L'andare a ritroso con
gli
eventi che avevano portato alla morte di sua madre era stata la
miccia che aveva acceso la sua passione. Non ricordava molto
dell'incidente, ma ricordava bene la storia del liceale che l'aveva
investita.
Cosa
aveva spinto un ragazzo di buona famiglia come Levi Luthor a volere
di più, a fondare un'organizzazione come quella una volta
cresciuto?
Era sempre stato nei suoi piani che diventasse ciò che era
diventata? Un fratello più piccolo e malato aveva avuto una
qualche
rilevanza nelle sue decisioni? Chi erano stati i suoi compagni nella
fondazione? Chi conosceva? Com'erano cresciuti i tre fratelli Luthor?
C'era
un grande movimento davanti alle scale d'ingresso che portavano a
casa della nonna di Megan. Lei e Kara restarono lì davanti
qualche
minuto, quello dato ad alcuni uomini di salire verso la porta con
grandi vasi di fiori colorati. Poi si intravide una donna: Kara
poteva dire di conoscerla, anche se ci aveva forse scambiato una
parola sola in tre anni. Appena le inquadrò, scese le scale
di corsa
e abbracciò la figlia.
«Sono
così sollevata che tu sia venuta. Ero preoccupata per il
traffico,
potevi inviarmi un sms».
«Nessuno
invia più gli sms, mamma», delineò un
sorriso. «Te la ricordi
Kara?».
«Sì,
ma naturalmente». Lei le mostrò la mano ma la
donna l'abbracciò di
scatto neanche fosse una vecchia amica e lei ricambiò
battendole
timidamente una mano sulla schiena, guardando l'altra. Appena la
lasciò andare, la donna si asciugò un occhio
lucido con una manica
del suo cardigan color pastello. «Sono contenta che non sei
venuta
da sola. Tua nonna avrebbe apprezzato. Non sei più andata a
trovarla».
Suonava
come un'accusa e la ragazza deglutì, trattenendosi dal dire
qualcosa. Kara sorrise con circostanza e allora Megan chiese alla
madre se potessero entrare in casa. C'erano tante persone che
passavano da una parte all'altra e, di tanto in tanto, si fermavano a
salutare lei e la sua amica, riprendendo a fare o a pensare qualsiasi
cosa stessero facendo o pensando.
«Sono
tutti parenti?».
«Questi?
Oh, no», Megan sorrise mestamente, «Sono la vera
famiglia di mia
nonna, i pescatori. Quelli della Very
Bold Shrimp.
Prima andava a pesca anche lei», spiegò e si
avvicinò a un mobile,
prendendo in mano un portafoto d'argento, «con
l'età ha preferito
restare a lavorare nell'amministrazione. Credo l'abbiano costretta,
veramente, non era una che mollava». Le mostrò la
foto di lei
bambina che abbracciava sua nonna, robusta, con i riccioli dei
capelli bianchi e indomabili che le scendevano sulla schiena.
«Era
un pezzo grosso, sai… La stimavano tutti». Poteva
sentire la sua
voce che la chiamava se riusciva a sforzarsi, ad afferrare un
ricordo: era una bimba dai codini crespi che amava giocare con la
terra e dare dei nomi agli insetti, le dava della marziana e forse
non con affetto, ma per la sua stranezza. Ogni volta che le
avvicinava le mani sporche di fango, ogni volta che saltellava
secondo lei più del normale, ogni volta che urlava, e non
stava
ferma, ogni volta che parlava con un bruco o con il cielo, per lei
era Miss
Martian,
una piccola aliena giunta sulla Terra per complicare la sua vita.
Quando aveva capito che il nome le piaceva, aveva smesso di usarlo
per dispetto. Kara le strinse un braccio quando la vide farsi triste
e così tirò su con il naso, appoggiando
nuovamente la foto e
cercando di distrarsi, cambiando il tono della voce. «Tra i
Verdi,
si intende. Vedi?», indicò con un cenno del capo
sua madre che
andava da parte all'altra della casa e lei né le altre
persone
presenti si scambiavano una sola parola, cercando di evitarsi e non
toccarsi. «Bello, vero?», ironizzò.
«Ecco cosa intendo: mia madre
è una Bianca e in circostanze normali non sarebbe la
benvenuta, qui.
Beh…», a questo punto rise, guardando lei e Kara,
«aspetta,
ovviamente è nera, ma con Bianca intendo-».
«I
Bianchi, quelli-».
«Bianchi
per colletto
bianco»,
la vide annuire, «all'inizio li chiamavano così in
paese. Bianchi
non di pelle. Lo hai capito, dai, era ovvio».
«Quelli
dell'altra fazione. La Swordfish-».
«Company,
sì», rise ancora, agitando una mano.
«è nera ma Bianca. Anche mio
padre è nero ma dei Bianchi. E quel tizio
lì», le indicò uno che
passava per uscire, «è bianco ma Verde. Dei Verdi.
E quell'altro».
«Sì.
Un bianco. Ma voglio dire, no, dei Verdi. Bianco ma Verde»,
Kara
contrasse le sopracciglia, non trattenendo un sorriso, «Li-Li
vedo,
voglio dire, quali sono neri e quali bianchi».
«Ma
non quali dei Verdi e quali dei Bianchi», scosse la testa,
«Quello
non puo- Nana!»,
all'improvviso la sua voce si fece più acuta, abbassandosi
per
salutare uno yorkshire color miele e strapazzargli il pelo.
«Bella
che sei, bella che sei. Era da un sacco che-».
Kara
si abbassò subito al suo fianco e la cagnolina, felice, le
andò
addosso agitando la coda.
«Le
piaci! Fatti annusare. Bella
che sei».
«È
un'amore», sollevò il viso quando la piccola
tentò di leccarle il
naso, salendole in braccio.
«È
di mia nonna… Era»,
si corresse. «Ha provato per anni a insegnarle a ringhiare ai
Bianchi e agli estranei, ma… Bianchi dei Bianchi,
dico».
«Bianchi»,
la guardò, annuendo. «Ma Bianchi dei Bianchi per
dire che sono dei
Bianchi, o Bianchi… come bianchi, ma non veri bianchi dei
Bianchi?».
Megan
ingigantì gli occhi, ferma un istante a bocca aperta. Nana
ne
approfittò per saltarle addosso e leccarle il mento e lei
decise di
spingere Kara per una spalla, facendole perdere l'equilibrio.
«Ehi,
bella, ti odio proprio quando fai così».
Scoppiarono
a ridere e salirono di sopra passando sulle scale di legno cigolanti,
con la cagnolina Nana ai piedi. La casa era piccola e di vecchie
costruzioni, c'erano travi in legno visibili che sorreggevano la
struttura; una parete era di pietra e la nonna di Megan ci aveva
inchiodato sopra portafoto grandi e piccoli sulla sua famiglia, o
meglio entrambe: non solo i colleghi di lavoro in gruppo o sulle navi
con le onde del mare alle spalle, ma per quanto era sembrato che
odiasse il figlio che era passato per i rivali nella pesca, molte di
quelle foto erano anche sue da piccolo fino a padre, con la piccola
Megan in braccio. In una foto tra le più grandi c'erano loro
tre
vicini, o quasi, la donna non lo sfiorava. Era triste pensare che non
fossero più riusciti a trovare un rapporto stretto da un
certo punto
in poi, anche se era evidente che si volevano bene. Sui mobili lungo
lo stretto corridoio c'era una teca con su incollati dei pezzi di
corda ognuno con un nodo differente, dei piccoli timoni soprammobili,
un vecchio cappello, quelli che sembravano dei premi. Kara si chiese
chi avrebbe tenuto tutte quelle cose per lei, ora che non c'era
più.
Megan
la invitò a entrare in una delle camere: un lettino singolo,
una
scrivania in legno deteriorata e un piccolo armadio con un'anta
pendente, sotto l'unica finestra in alto, stretta. «Questa
è stata
la mia camera per un po', quando sono venuta a vivere qui».
«Vivevi
qui?».
Megan
ricordava l'aria triste della sé tredicenne nel vedere
quella camera
per la prima volta, quando la nonna le aveva detto che sarebbe stata
quella dove avrebbe dormito. Aveva sfiorato un attacco di panico, o
aveva cercato di farselo venire per farsi portare via dai suoi,
impietositi. Non aveva funzionato, ma aveva vinto un pacco di piselli
surgelati, nel caso sarebbe caduta e avrebbe sbattuto la testa. Sua
nonna era sempre stata una donna pratica.
«Sì…
i miei stavano passando un brutto periodo al lavoro e probabilmente
nel loro matrimonio, così mi hanno-», si
fermò il tempo per
spostare la scrivania di qualche centimetro dal muro, abbassandosi e
chiamandola per vedere, «costretta a stare qui
per… non ricordo,
forse due anni».
«Due
anni?», si sbalordì, lasciando tra loro lo spazio
per la testa di
Nana, che scavava annaspando per passare e metterci il muso.
«Che
dici? Avranno avuto il tempo per risanare il matrimonio?»,
ridacchiò, accarezzando la cagnolina. Dietro la scrivania
erano
attaccate tante figurine su sportivi famosi graffiate e ingiallite
dal tempo, di cui Megan, dall'espressione compiaciuta, ne sembrava
particolarmente orgogliosa. «Mia nonna e i miei forse non
andavano
d'accordo, ma hanno sempre avuto in comune questa fobia per la colla
delle figurine, e io ho sempre sentito l'impulso della
ribellione».
Risero e ne approfittò per raccontarle di come nascondesse
le
merendine sotto il materasso poiché erano bandite, in quella
casa.
«Almeno, è stando qui che ho capito che avrei
fatto sport. Non
avevo mai passeggiato da queste parti e c'è un campetto da
basket,
te ne avevo raccontato? Non è lontano e ci passavo spesso,
iniziando
a giocare con altri ragazzi. Quelli che non mi prendevano per Bianca,
almeno». La fermò con una mano sulla bocca prima
che ricominciasse
e risero di nuovo, sedendo sul letto insieme alla yorkshire.
«Va
bene. E adesso che siamo sole, la porta è chiusa e Nana non
potrà
raccontarlo in giro, puoi dirmi cosa c'è che non
va».
«Cosa-
Cosa intendi, non-».
«Guardavi
il telefono».
Oh,
se n'era accorta. Di certo non avrebbe voluto darle l'impressione di
essere distratta. «Okay, ma io non-»,
formò un fresco sorriso,
«non voglio ammorbarti anche oggi con la mia vita,
è morta tua
nonna e c'è il funerale e…».
«Mia
nonna diceva sempre che se non sei capace di ascoltare... non ricordo
bene. Il riassunto è che lei amava farsi i fatti degli altri
e
passare per saggia, credimi, sarebbe felice di sentirti e darti
consigli inutili mettendoci il suo vissuto. Parla», si
spostò con
le natiche un po' più vicina, alzando il viso quando Nana
provò a
baciarla ancora. «E poi sono brava ad ascoltare, no? Sai
cosa? Mi ci
vedrei bene come barman per arrotondare, ascoltando i problemi dei
clienti ubriachi».
Kara
rise, riguardando il telefono. «Sai dove posso metterlo in
carica?».
Megan si portò subito in piedi e lei la fermò a
un polso, lontano
dall'inquadratura della camera. «Prima controllavo la
batteria, mi
sono dimenticata di metterlo prima di uscire…»,
continuò
guardando lo schermo e dopo premette per spegnerlo, attenta nel farlo
senza destare sospetti. «Oh, ecco, infatti si sta spegne- Eeecco
fatto».
Lo mise via, mentre l'amica la guardava confusa.
«A
cosa si deve la recita?».
«Ci
avrà già beccate, ci scommetto»,
borbottò per sé, riguardando
lei e inarcando le spalle. «Indigo ci spia attraverso i
cellulari».
«Lei
fa cosa?
È per questo che hai usato il mio per parlare con Alex e
guardi il
tuo di continuo?».
Kara
strinse i denti. «Sì... A-Aspetto un'email da Pizza
Hit
perché ho diritto a un buono, veramente, ma... anche da Lena
che
adesso è con lei, senza contare che, da quando la cosa delle
pillole
è uscita fuori, la gente non fa che cercarmi per
sapere», gonfiò
le guance. Le riferì dei suoi sospetti e di quelli di Lena
che,
nonostante tutto, difendeva Indigo per un motivo o per un altro.
«Renditi conto che Lena mi ha letteralmente fatto capire che
voleva
fare… fa-fare, sai cosa intendo»,
arrossì violentemente, «in
bagno. E mi ha messo le mani sul sedere ma-ma era solo per
assicurarsi che non avessi il telefono con me,
quindi…».
Megan
sorrise con gusto, mettendosi comoda. «Le pieghe che prende
la tua
vita non le leggo nemmeno sui romanzi. Continua, non
fermarti».
«Quindi
entriamo in bagno e mi aspettavo che avrebbe
voluto… beh, invece
no.
Lei è cambiata di colpo e voleva parlarmi di Indigo. Penso: Indigo:
ancora?!
M-Ma era per dirmi che aveva capito che lei-», bussarono alla
porta
e si ammutolì di colpo.
Appena
la testa del padre di Megan sgusciò dalla porta, la
cagnolina saltò
dal letto per corrergli incontro. «Ragazze! Ciao, Kara.
Adesso
chiudiamo casa, fatevi trovare di sotto. Okay?». Richiuse
subito. La
voce era pacata come suo solito, ma aveva le occhiaie ed era spento.
Non aveva nemmeno sfiorato Nana, la quale gli era andata appresso.
«Con
chi starà?», chiese Kara,
«Nana?».
«Non
lo so», ansimò, rialzandosi. «I miei non
sono tipi da cani. Forse
quelli della Very
Bold Shrimp.
Insomma, non possiamo mica portarcela dietro al campus». Rise
e Kara
con lei.
«Non
accettano cani o altri animali», continuarono a ridere.
«E
poi dovrei portarla a fare la pipì».
«E
nasconderla al custode».
«Metti
che la polizia passa di nuovo per cercare qualcuno che
stiamo…
casualmente
nascondendo».
Kara
scosse la testa. «Può succedere! E poi
abbaierebbe».
«Sì,
è sempre un cane, è imprevedibile».
«E
non è proprio che mi vada di abbaiare davanti alla polizia
mentre è
in corso un sopralluogo».
Megan
la indicò, dandole manforte. «O di fingere che il
cuscino pieno di
peli sia del mio letto», strabuzzò gli occhi,
annuendo. Poi si
stettero zitte, fissandosi.
«L'ho
trovata che girava nel porto da sola». La voce di sua nonna
era
dura, come se fosse improvvisamente stata reduce da un incontro a
fuoco contro pirati sanguinari. «Questa sera andrà
dal
veterinario». Si era spostata quando una Megan appena
quattordicenne, con un'espressione di una granita sciolta al sole, si
era avvicinata alla cucciola lasciata sul tavolo con le mani verse e
una vocina che non le aveva mai sentito fare. Le aveva lasciato tutto
lo spazio che le serviva, osservandola coccolare e infine prendere in
braccio la piccola. «Potrebbe avere le pulci».
Le
aveva subito chiesto come l'avrebbero chiamata e la donna le aveva
fatto una faccia strana, ingigantendo gli occhi, per dirle come
l'unico modo per chiamare un cane che non era di loro
proprietà
sarebbe stato cane.
«Nana. Si chiama Nana».
«Cane».
La
cagnolina le aveva scodinzolato finché non si era
addormentata fra
le sue braccia e la nonna, con il broncio, aveva mormorato fino a
sera che era pronta a scommettere che erano stati i Bianchi ad
abbandonarla al porto. L'aveva portata dal veterinario insieme alla
nipote e dopo aveva deciso di adottarla poiché, secondo lei,
non
aveva voglia di creare annunci per la ricerca di un padrone e
così
era stato più sbrigativo. La cucciola di appena quattro mesi
aveva
trovato una casa, buon cibo, tante coccole, e Megan una scusa in
più
per uscire di casa e fare nuove conoscenze, perché tutti si
fermavano di fronte a una cagnolina, dando modo di essere ben vista
anche dai Verdi a dispetto dei suoi genitori. O, se non altro, ci
aveva provato.
«Tu!
Non potete stare così vicino alla mia casa».
Burbero, l'uomo le
aveva lanciato un'occhiata sinistra, passando la scopa sul cortile
davanti al portone.
«Non
le fa la pipì sul cancello, le sto insegnando le buone
maniere»,
aveva replicato lei, cercando di tirare indietro Nana con il
guinzaglio.
«Non
dicevo al cane, ma a te», aveva sbottato e Megan aggrottato
la
fronte. «Le spie dei Bianchi non sono benvenute
qui».
«Non
sono una spia».
Megan
sapeva che quell'uomo era uno dei pescatori colleghi della nonna, ma
ancora non sapeva che era il padre dell'uomo della sua vita. Non lo
aveva sentito arrivare, era già dietro di lei quando si era
accorta
della sua presenza, intento a sgridare il genitore:
«La
vuoi lasciar stare? Non vedi che è una
ragazzina?».
Megan
aveva deglutito, restando a bocca aperta per lo spavento. Al
contrario, Nana aveva cercato di farsi dare una carezza, tirando il
guinzaglio.
L'uomo
dietro il cancello aveva sbuffato, gesticolando. «Ne capirai
tu, di
queste cose, Johnny. Ascolterei tuo fratello, non te». Era
rientrato
a casa, lasciando la scopa davanti al portone.
Giubbotto
in pelle nero, un bracciale con le borchie e più anelli
nelle dita
di entrambe le mani: quel ragazzo sembrava appena uscito dai suoi
sogni più metal. «Se la prende a cuore,
eh?», aveva riso,
arrossendo. «Perché tuo fratello? Ha una qualifica
sulla faida
Verdi-Bianchi?».
Lui
aveva sorriso, scuotendo la testa. «Lascialo
perdere». Si era
inchinato per accarezzare Nana. «Mio fratello è
pescatore come lui
e questo gli conferisce ogni qualifica mondiale», le aveva
fatto
l'occhiolino.
Era
rimasta davanti al cancello a salutarlo, mentre entrava in casa.
Quando era rientrata lei non aveva fatto altro che porre a sua nonna
domande su quella famiglia. Ogni volta che usciva con Nana per farle
fare le solite passeggiate si assicurava di passare da quelle parti,
sperando di rivederlo. Non fosse stato per sua nonna che aveva fatto
leva sulla salute della cagnolina, sarebbe uscita perfino con il
cielo in tempesta. Le piaceva e non le interessava che fosse
più
grande. Ma essendo appunto più grande non abitava
lì e non sapeva
quando sarebbe passato di nuovo a trovare il padre. Passarono giorni
e dopo mesi, fino al giorno in cui lo sceriffo di Marsington aveva
arrestato un giovane del posto, un pescatore: il fratello di John
Jonzz. Era rimasta piazzata davanti al loro cancello, ma quando Nana
aveva cominciato a fare i capricci perché voleva muoversi,
l'aveva
riportata indietro: proprio nel breve tragitto lo aveva intravisto in
macchina.
«Tu
non dovevi nemmeno presentarti qui», suo padre aveva iniziato
a
gridargli addosso, furente. «Non dovevi! Se fossi stato
più
presente in famiglia, invece di andartene, non sarebbe successo! Tuo
fratello aveva bisogno di te. Noi
avevamo bisogno di te. Ci abbandoni e poi ti presenti come se niente
fosse».
John
era uscito di casa trattenendo le lacrime agli occhi. Era un agente
sotto copertura in un gang a National City, in quel periodo, un
lavoro che lo stava consumando e non poteva farne parola con nessuno,
non aveva resistito a vedere suo padre così a pezzi che
scaricava a
lui le colpe di ogni cosa. Era arrivato al limite. Era stato suo
fratello a scegliere di spacciare, perché doveva pagare
anche lui?!
Il
genitore era frustrato e pieno di livore, non si sarebbe calmato nel
giro di poco, così ebbe l'idea di farsi una passeggiata e
dare modo
al suo corpo di ricaricare. Sarebbe entrato all'interno di un bar a
bere qualcosa se non avesse visto dalle vetrate all'interno molti
amici di suo padre e probabilmente di suo fratello, allora aveva
pensato di cambiare strada e appoggiarsi al muretto di cinta di un
vecchio campetto da basket. Lì, John l'aveva sentita
arrivare, non
pensando che si sarebbe fermata e seduta sul muretto, a quasi un
metro da lui. La conosceva? Aveva un viso familiare.
«Un
po' giù? È tuo fratello quello arrestato,
vero?».
L'aveva
guardata, per poi piegarsi e cercare qualcosa dalle tasche dei jeans.
Aveva il viso ancora pulito e liscio di una bambina, con del mascara
e un ombretto vistoso sugli occhi che indicavano la sua transizione
verso l'adolescenza. John aveva annuito, prendendo un pacchetto di
sigarette e un accendino. «Era stato già
trattenuto diversi mesi
fa, lo sceriffo lo aveva lasciato andare», aveva scrollato le
spalle, «Non poteva più chiudere un occhio. Peggio
per lui. Ma mio
fratello portava avanti il lavoro di famiglia e mio padre si
è
appena ricordato che io non lo faccio, dunque…».
Aveva lasciato
cadere la frase a mezz'aria e gli era parso, con la coda dell'occhio,
che la ragazzina avesse annuito e scrollato le spalle anche lei,
interessandosi.
«Bello
schifo. Mi dispiace. Sarei giù anch'io, amico, te lo dico,
ma», gli
aveva indicato le mani con un'alzata del mento, «quella roba
non ti
aiuterà a sistemare la faccenda con tuo padre».
Si
era appena acceso la sigaretta e John aveva sorriso. Aveva fatto un
tiro e l'aveva guardata, scuotendo la testa. «Sto cercando di
smettere».
«Lo
vedo. Ti riesce benone», aveva riso intanto che lui faceva un
altro
tiro, sollevando la sigaretta dalle labbra solo per ridere anche lui.
«Che te lo dico a fare, vai alla grande da solo».
Si era fermata
quando lo aveva visto annaspare per trattenere una risata.
«Occhio!
Vedi che fa male?», si era sporta verso di lui che, dopo aver
tentato di riprendere un tono più serio tossendo un po',
aveva
deciso di spegnere la sigaretta.
Gliel'aveva
mostrata e lei sorriso soddisfatta. «Questa è per
lo stress.
Rilassa. Tu non iniziare mai».
«Oh,
tranquillo», aveva sorriso di nuovo con fierezza, mettendosi
dritta
con la schiena. «Non c'è pericolo per me
perché voglio fare
sport».
«Ottimo.
Brava», le aveva risposto, finendo per scrutarla ancora.
«Tu sei la
nipote di Ada Morz, giusto?». L'aveva vista farle cenno di
risposta
positiva, girandosi all'indietro solo per notare i ragazzi entrati
nel campetto per giocare, che l'avevano salutata. Lei si era limitata
a un cenno della mano. «Figlia di Bianchi, nipote di Verdi. E
tu
come ti vedi?».
Lei
ci aveva pensato un po', piegando leggermente la testa. «Mmh…
vedo me via di qui. Sì, penso vada bene! Mi vedo lontana da
Marsington subito, quando potrò farlo».
«Quindi
sei come me», aveva esclamato orgoglioso. «Sono
John. John Jonzz».
Aveva allungato il braccio destro e lei si era sporta per battergli
il pugno.
«Megan
Morz, John Jonzz».
John
guardò l'ora sull'orologio al polso e passò il
resto dei suoi
documenti nelle cartelline ad Alex al suo fianco.
«È chiaro come la
famiglia Luthor è la chiave, dobbiamo capirne di
più. Non credo che
Lena Luthor ne sappia qualcosa, è troppo giovane, ma puoi
tentare».
Lei
gonfiò le guance appena, per poi sospirare. «No,
non credo che…
Se sapesse qualcosa, lo avrebbe detto. Almeno dovrebbe. Se non a
me…
Scusi, signore: divagavo».
«Di'
pure, Alex. Esporre i propri dubbi ad alta voce può aiutare
a
sciogliere i pensieri».
«È
che…», lei abbozzò una mesta risata,
«sembra tutto uno scherzo
del destino. Mia madre sposa Lillian Luthor, diventiamo una famiglia,
e veniamo a scoprire che i Luthor non solo facevano parte
dell'organizzazione che ha ucciso la famiglia della mia sorella
adottiva, ma che il nonno paterno dei nostri fratellastri era uno dei
fondatori. Che loro ne hanno sempre fatto parte, che hanno le loro
radici ovunque in questa città. Io indagavo su di loro senza
saperlo
ed è… è ironico, John», lo
chiamò per nome, riuscendo a
sorridere di nuovo, senza reale divertimento. «Ancora
più ironico è
per Kara se penso che-», si bloccò e
spalancò gli occhi, intanto
che lui si faceva curioso. «Che… Che…
Beh, che ha stretto un
buon rapporto con… con Lena Luthor», si
grattò la nuca.
L'uomo
si portò due dita in mezzo agli occhi, abbassando la testa.
«Adesso
è chiaro», farfugliò, per poi mettersi
a ridere. Alex lo guardò
senza fiato, non comprendendo il motivo che lo portasse a riderci su
in quel modo. «Stanno insieme. Avrei dovuto cogliere i
segnali,
accidenti».
«John…».
«Non
preoccuparti», ridacchiò di nuovo, rialzando la
testa. «Credo di
saper mantenere un segreto. Ho più esperienza in
merito», continuò
a riderci. «Vorranno che la cosa resti tra loro, immagino.
Anzi
scusa se… se rido un po'. È che è
ironico, hai ragione. È
ironico davvero», la guardò, «il
destino. A volte è facile
domandarsi se certe cose capitino per caso o perché ci
muoviamo
seguendo i fili di qualcosa di più grande di noi.
È tutto
collegato, Alex», fissò l'acqua cristallina.
«Si gira il mondo e
si ritorna al punto di partenza», soffiò,
perdendosi in alcune
immagini nella sua testa: Megan Morz che lo aveva inquadrato
assottigliando gli occhi, entrando sul campo da lacrosse. Aveva
accettato l'incarico come coach alla Sunrise, doveva vegliare su Kara
Danvers, si era preparato. Lo aveva fatto per interagire con le
ragazze della squadra, alle strategie e aveva studiato il profilo
della ragazza che doveva tenere d'occhio senza, a suo modo, dare
nell'occhio, ma non si era preparato a rivedere quella ragazzina. Era
cresciuta, era diversa. Non la rivedeva da anni e lei lo aveva
scrutato come stesse cercando di forzare la mente a collegare il suo
viso a un nome. La nipote di Ada Morz che lui aveva preso da parte
preoccupato che sapesse chissà cosa del suo passato che
avrebbe
potuto divulgare, finendo per stringere con lei un rapporto che
andava al di là di quello tra un professore e un'allieva.
«Signore»,
Alex si portò al suo fianco, camminando tra aiuole e
fontanelle. «Va
già via?».
«Ho
un funerale, questa sera. Non vorrei arrivare tardi», si
sistemò i
polsini della giacchetta estiva che indossava. «Leggi i
dossier che
ti ho dato; mi raccomando la discrezione. Puoi accompagnarmi fino
alla macchina». Aveva come l'impressione che lo avrebbe
comunque
fatto. «Come sta andando con Carina Carvex? Mi è
sempre sembrata un
po' strana, ma non mi ha mai dato motivi per dubitare della sua
fiducia. Non un'ombra, sicura di sé, dotata, e
sagace».
«Quella
ragazza mi-», si fermò quando per poco non
investì un bambino che
correva, rimettendosi al suo fianco, «confonde le idee. Non
capisco
se menta così bene o- Ma mi ha invitato da lei, di recente;
ho
ancora un'opportunità. Ma devo parlarle di una cosa urgente,
prima
che vada. Volevo parlarle di Maggie. Maggie Sawyer, la mia-».
«Sta
facendo un buon lavoro: Charlie Kweskill si fida, sta instaurando un
rapporto con Zod ed è l'unica, in questo momento, che
può davvero
arrivare così vicino all'organizzazione». La vide
alzare gli occhi
al cielo, ma la cosa non gli avrebbe fatto effetto.
«È la nostra
miglior opzione. So cosa vuoi chiedermi e la risposta è no»,
esclamò deciso. Scesero le scale verso la strada.
«L'unica che
potrebbe chiedermelo è la diretta interessata e comunque
proverei a
farla desistere per il bene dell'indagine».
Dietro
di lui, Alex strinse i pugni, prendendo aria a pieni polmoni.
«Lei
sta cercando di tagliarmi fuori, signore», rispose
esasperata, «Ho
paura che-».
John
scosse la testa e decise di bloccare i suoi passi rapidi, passandole
una mano su una spalla. «Capisco. Umanamente posso
comprenderlo,
Alex, ma siamo agenti. È il nostro lavoro e Maggie Sawyer
sapeva a
cosa andava incontro prima di iniziare», la guardò
negli occhi e la
ragazza si lasciò andare a un sospiro breve, amareggiata.
«Non
lavora per il D.A.O. ma ha avuto anche lei un'istruzione simile alla
nostra, sa quello che fa. Non credi che abbia diritto a un po' di
fiducia? A onor del vero, voi due siete le uniche di cui io mi possa
veramente fidare, ora come ora». Riprese svelto a camminare
verso le
strisce pedonali, con Alex dietro di lui. «Se cerca di
tagliarti
fuori come dici, penserà che sia la cosa migliore, al
momento. E da
come ti agiti, probabilmente ha ragione lei».
Infilò la chiave
nell'auto e la vide pensarci ancora e fremere.
«Quindi-».
«Sì:
la lascerò fare».
«Neanche
se-».
«No».
Si
guardarono e Alex brontolò piano, per non farsi sgridare.
«Mi fido
di lei-».
«Restiamo
a posto così, allora», la interruppe prima che
seguisse un ma.
Aprì lo sportello e sedette sul sedile del guidatore,
accorgendosi
qualche secondo più tardi che Alex Danvers si era messa a
fissare
pensierosa i sedili posteriori. Si voltò e, non mancando di
schiarirsi la gola roca, afferrò un piccolo peluche a forma
di
elefante, mettendolo via all'interno del cruscotto. Accidenti.
Solitamente non era così distratto. Le bambine dovevano
averlo
dimenticato e adesso Alex Danvers… Ma non disse niente. Si
guardarono e la ragazza non emise una parola, mentre lui
cominciò a
sentirsi a disagio, come se le avesse appena fatto un torto. Si
conoscevano da anni, si fidava di lei che era una brava agente e una
brava persona, ma se lui di Alex sapeva tutto, Alex non avrebbe
potuto dire lo stesso. Anni a stare sotto copertura da una parte
all'altra senza rendersi conto di essersi isolato, di non avere
nessun complice accanto. Di aver passato sempre tutto da solo, anche
quando non ce ne sarebbe stato bisogno. Alex Danvers era una sua
sottoposta, ma era anche un'amica? Mise in moto e si salutarono,
lasciandola indietro ai suoi pensieri e alle sue supposizioni. Si
accorse di aver commesso uno sbaglio e che, con ogni grande
probabilità, era lo stesso che aveva commesso con la sua ex
moglie.
E con Megan Morz.
Avevano
vinto! Era la prima partita con lui come coach della squadra e non si
era più sentito nella pelle, applaudendo fino a fargli male
le mani.
Era orgoglioso del suo lavoro al D.A.O., ma fare il coach gli aveva
permesso di essere fiero di una squadra di giovani e talentuose
ragazze che lui aveva portato a quella vittoria. Era una sensazione
indescrivibile ed era sicuro che fosse lì, in quel momento,
che
tutto era iniziato. Solo ora poteva capire che era iniziato molto
prima.
«Posso
chiederti una foto? Ooops,
errore mio», Megan aveva tirato indietro la testa, mordendosi
un
labbro. «Posso chiederle
una foto, professore?».
L'aveva abbracciato e si erano fatti quella foto, con lui palesemente
in imbarazzo. Megan l'aveva pubblicata su Instagram la sera stessa,
lasciandogli una dedica speciale per la vittoria: John l'aveva letta,
era carina, peccato che nominasse la partita una sola volta in otto
righe.
Era
sempre stato consapevole di averle dato troppa confidenza, di averle
lasciato più di un'opportunità di fare lo stesso
e che non avrebbe
dovuto perché per lei era una figura autoritaria ora, ma
avevano
Marsington in comune, un passato e una storia che li legava, una
faida che li segnava e da cui erano scappati. Era bello stare a
parlare con lei del paese da dove provenivano, dopo le partite,
quando le altre giocatrici se n'erano già andate. A sparlare
degli
altri professori della Sunrise prima di iniziare un allenamento. A
darle dei suggerimenti per studiare. Lei ricambiava stando ad
ascoltare quando lui non riusciva più a tenersi dentro i
problemi
che comportava la vita dentro e fuori dal carcere di suo fratello, e
delle lamentele di suo padre. Megan li conosceva ed erano l'unico
aspetto della sua vita che riusciva a condividere tranquillamente con
lei. Tra loro c'era qualcosa, non poteva negarlo. Tornava a casa con
il petto gonfio e la testa leggera, neanche si sentisse un ragazzino.
Aveva ricominciato a provare qualcosa che aveva perso nel tempo,
quando si era innamorato e aveva iniziato a costruire un'idea di
famiglia ancor prima di avere il suo sì.
Ma non poteva farlo a Megan Morz. Non poteva avere una relazione con
lei e non poteva perdersi a sognare di averla, facendo del male a se
stesso. Non potevano e lo sapevano, per quello ci erano cascati
dentro con tutte le sconvenienze del caso.
«John!».
L'aveva
sentita chiamarlo prima ancora che arrivasse vicino alla porta del
suo ufficio. Stava compilando dei documenti e aveva alzato la testa
allarmato, poiché la voce gli era parsa sofferente. Si era
alzato e
aveva aperto la porta, vedendola entrare trascinandosi la gamba
destra. «Cos'è successo?».
Si
era seduta su una panca, mostrando i denti in una smorfia di dolore.
«Mi fa male, stavo correndo… Sarà uno
strappo muscolare?». Lo
aveva fissato e John abbassato gli occhi sulla gamba, tastandola in
più punti.
«Sei
sicura? Come ha iniziato a farti male? Lo senti in che punto, di
preciso?».
«Mah,
un po' dappertutto, non riuscivo più a muoverla».
«Dappertutto?»,
lui aveva tastato ancora, ma aveva capito presto che era un
trattamento inutile. Sollevando il mento e trovando i suoi grandi
occhi scuri a fissarlo, non era riuscito a frenare un sorriso
impacciato; dopotutto, come avrebbe potuto fare diversamente quando
il suo cuore aveva iniziato a non capire più niente e il suo
stomaco
a contrarsi agitato? «Non hai fatto nulla alla tua
gamba».
«Beh,
che ne so… sarà passato». Aveva
abbozzato un sorriso e si era
sporta verso di lui veloce come un fulmine, approfittando di come
fosse inginocchiato alla sua altezza, e gli aveva portato via un
bacio.
Aveva
trentadue anni, una ex moglie, svariate ex ragazze che erano state
con lui durante i suoi periodi sotto copertura prima che si sposasse
ma, in quel momento, si era sentito come un goffo tredicenne al suo
primo bacio in una capanna in un campo scout, lontano dagli sguardi
di chi avrebbe potuto punirli. La punizione, nel suo caso, sarebbe
stato il licenziamento non da uno ma da ben due lavori. Aveva sempre
desiderato entrare negli scout.
Si
era allontanata guardandogli le labbra senza vergogna, deglutendo, e
infine cercando i suoi occhi come nel tentativo di trovare
lì il
consenso per riprovarci. «Aspettavo da tanto per
farlo…».
«Ah,
sì?», si era sorpreso lui stesso di avere ancora
una voce.
«Anch'io». Quella risposta l'aveva fatta sorridere
e, mentre lei
gli aveva circondato il collo con le braccia, era stato lui a
spingersi in avanti per baciarla ancora. Più lentamente, si
erano
dati il tempo di scoprirsi, di sentirsi, e capirsi.
Da
allora smettere non solo era diventato impossibile, ma non era stato
neppure un pensiero che aleggiava sulle loro testoline infatuate,
continuando a vedersi di nascosto per dare un senso a ciò
che
sentivano. E avrebbe dovuto, certamente, perché stavano
facendo
qualcosa di proibito e nessuno doveva scoprirli.
«Kara
lo sa», gli aveva detto una mattina, entrando di filata nel
suo
ufficio.
John
aveva alzato il volto funereo, spalancando gli occhi.
«… cosa?».
Erano appena passati tre mesi, com'era potuto succedere e
perché
proprio con la ragazza a cui doveva fare da guardia?
Megan
aveva sollevato le spalle, appoggiandosi alla sua scrivania.
«Lo ha
scoperto; è molto in gamba».
Ricordava
di stare sfogliando l'album di foto sul cellulare e ne aveva zoomata
una in particolare dove dava un bacio su una guancia di John,
scattata in palestra quando erano soli. Sapeva di non poterne tenere
molte con lui o correvano il rischio di farsi scoprire, così
ne
stava scegliendo qualcuna da cancellare, muovendo la testa a suon
della musica nelle orecchie. L'aveva mossa all'indietro e poi
più
indietro, accorgendosi di aver toccato qualcosa: si era girata
lentamente e il faccione di Kara Danvers era a un palmo dal suo,
facendola schizzare da un lato dallo spavento, iniziando a urlare.
Anche Kara si era messa a urlare e avevano continuato a urlare
insieme per un po', con ognuna una mano sul petto.
Per
fortuna Kara Danvers si era rivelata brava nel mantenere il segreto,
nonostante non desse esattamente l'idea di poterci riuscire,
imbarazzandosi con loro, all'inizio, quando i due erano nello stesso
posto insieme. C'erano gli allenamenti, la capitana stava lasciando
l'istituto e tutte cercavano di dare il massimo per prendere il suo
posto, le partite si stavano facendo più difficili man mano
che la
stagione avanzava, non aveva il tempo e la voglia per pensare alla
relazione segreta di qualcun altro. D'altro canto, i diretti
interessati stavano accendendo la passione, cominciando ad accorgersi
che cose come baciarsi e toccarsi senza esplorare oltre i propri
corpi stessero diventando limitanti. Fu proprio in quel periodo che
John, venendo a patti con la propria coscienza, aveva deciso di
chiudere tutto prima che- beh, magari poteva aspettare ancora po',
aveva pensato con la lingua avvinghiata sulla sua, non c'era tutta
questa fre- no, dove gli aveva appena messo le mani? Va bene, si era
messo fretta proprio in quell'istante, staccandosi da lei e
riprendendo fiato. Megan lo aveva guardato con occhi languidi,
prendendo fiato anche lei.
«Non
ti è piaciuto? Non ti è piaciuto, non
è vero? Puoi dirmelo, Jonzz:
sono aperta a critiche». Si era slanciata per catturargli le
labbra
di nuovo e lui l'aveva spinta leggermente, con le mani sulle spalle.
«No,
vedi… è proprio questo il punto: dobbiamo
parlare».
«Oh-oh,
suona male. Sei nervoso?», non aveva trattenuto un sorriso,
abbassando gli occhi. «Perché anch'io lo
sono… e tanto. Poi avrai
più esperienza di me, ma questo-».
«No»,
lui aveva stretto gli occhi e indietreggiato, confabulando vari la
la la
per scacciarsi il pensiero dalla testa. «No, ascoltami, non
parleremo di sesso», aveva iniziato a gesticolare, mettendo
una mano
in avanti con tono lapidale. «È stato un errore,
non possiamo
continuare. Sono il tuo coach, per la miseria! Qui mi sto giocando la
carriera, e sono più grande, non possiamo farlo! Io
non posso farlo: devo essere responsabile per te».
«Sì,
okay…», si era seduta al banco dietro di lei,
mantenendo un'aria
più sicura e ferma di quanto lui si aspettasse. E aveva
preso un bel
respiro, prima di proseguire: «Non è che siccome
sei più grande di
me, io qui sia un'ameba incapace di provvedere a me stessa, bello.
Sono adulta e consenziente, direi», gli aveva sorriso.
«Non sei
responsabile per me: nessuno lo è a parte me medesima,
questo almeno
è chiaro?!». Aveva sollevato le sopracciglia
quando si era accorta
che lui non le avrebbe dato una risposta a breve.
«Sì, sei il mio
coach. Eri il mio coach anche quando abbiamo iniziato ed è
andata
bene fino ad ora, perché adesso dovrebbe essere
diverso?».
A
volte riusciva ancora a sorprendersi nel sentirla parlare in quel
modo così sicuro: aveva sempre la risposta pronta.
«Ho smesso di
fumare».
Lei
aveva riso, arrossendo. «Ci credo, Jonzz, o non saresti
durato due
giorni, con noi».
John
si era avvicinato e le aveva circondato il volto con le sue mani
grandi, abbassandosi il giusto per catturarle un bacio. Gli aveva
dato la sua risposta pronta, ma non era sicuro di voler davvero
provarci: andare al di là di quei baci significava portare
la
relazione a un livello più alto, più serio, e lui
era non solo il
suo coach, ma un agente federale che non poteva rivelarle la
verità.
Come avrebbe potuto rifiutarla, allora? Con quale coraggio, cercando
di ignorare i suoi e i propri battiti del cuore? «Non
possiamo…
Megan».
Si
era staccato e allontanato, e Megan, in quel momento, aveva sentito
il vuoto circondarla. «Davvero?», gli aveva
chiesto, scendendo dal
banco. «Esci da quella porta, allora. E mi starà
bene così»,
aveva deglutito. «Non che mi stia bene sul serio, mettiamolo
in
chiaro, ma lo so, sei tu quello a rischiare il lavoro e… Lo
so che
non mi vedi come vedi le altre, come… una ragazzina
che
voleva la relazione proibita con l'insegnante,
quindi non lo penserò, non me la prenderò.
Incasserò il colpo e la
sto facendo un po' lunga, quindi», aveva annuito, aggrottando
la
fronte, «vai se devi andare! Non aggiungerò una
parola». Non
avrebbe funzionato comunque, aveva pensato la ragazza: un Verde e una
figlia di Bianchi, lontani da Marsington ma sempre suoi per nascita,
cosa era passato per la testa di entrambi?
John
aveva sentito il suo cuore spezzarsi, ma non poteva restare. Senza
guardarla, mantenendo lo sguardo basso era uscito da quell'aula.
Doveva finire in quel modo, non avrebbe dovuto incrociarla la sera
intento a recuperare una cartella lasciata alla Sunrise il
pomeriggio. Non avrebbe dovuto offrirle di andare a mangiare
qualcosa. E forse lei non avrebbe dovuto accettare. Non avrebbe
dovuto accettare di andare nel suo appartamento dopo aver mangiato.
Non avrebbe dovuto accettare di farsi sfilare i vestiti. Ma aveva
ragione Megan: erano due adulti responsabili di loro stessi,
consenzienti e, se n'erano accorti, innamorati.
Era
uscita dalla doccia e, involta in un asciugamano, si era allontana
dal bagno. Era mattina da qualche ora e per fortuna non aveva lezione
presto. Aveva visto John seduto sul divano, piegato in avanti e
ancora in boxer; le era sembrato pensieroso e aveva sperato davvero
che non si stesse pentendo di essere stati a letto insieme. Si era
avvicinata cauta, passandogli una mano su una spalla.
«Qualcosa non
va?».
Lui
ci aveva messo un po' a trovare il fiato per permettergli di dire
quelle parole, con ancora lo sguardo puntato al suo cellulare:
«Questa notte…», aveva deglutito,
voltandosi, «Questa notte è
nata mia figlia».
«La
tua chi?».
Avevano
lasciato Nana a casa della nonna e, a piedi, abbandonato il
territorio dei Verdi salendo in pianura verso quello dei Bianchi. I
genitori di Megan erano passi avanti, lontani tra loro cercavano
comunque di parlarsi, se non quando, di tanto in tanto, si fermavano
per scambiare quattro chiacchiere con gli abitanti della zona. Anche
lì Kara si sentiva osservata, tenendo il passo vicino
all'amica che
le sembrava essersi fatta stranamente più torva. Le case
erano
diverse, di costruzioni più recenti senza dubbi, ma un po'
tutte
uguali tra loro e senza colori particolari. In cima alla pianura
spiccava l'edificio con gli uffici della Swordfish Company dove
lavoravano anche i genitori di Megan e lei, a bassa voce, le
raccontava di com'era stata spesso lì, da bambina, quando la
nonna
non poteva farle da babysitter. C'era stata altrettanto spesso anche
da ragazza ma non era pronta a confidarglielo, stando ben attenta ai
volti delle persone intorno a loro. Non voleva rivederlo. Il suo
corpo si stava ribellando e aveva iniziato a farle male lo stomaco
dall'ansia; sperava davvero che se ne fosse andato da Marsington
fosse anche solo per studiare prima di sposare una poveraccia
qualsiasi tra quelle del posto che le andavano dietro e restare
ancorati lì per la vita. Appena vide i suoi occhi luminosi
spiccare
alle spalle di un uomo, capì che le sue speranze erano state
vane e
che adesso si cominciava a correre: strinse Kara per un braccio e la
trascinò per un po', forzandola ad andare più
veloce. «Ti prego,
non fare domande e cammina».
«Megs!
Megs, aspetta».
Troppo
tardi.
Scambiò con l'amica uno sguardo preoccupato e avanzarono
più lente,
aspettando il suo arrivo. Lo stomaco iniziò a restringersi
più
forte e il ragazzo si infilò con prepotenza tra le due,
adocchiando
Kara con un sorriso.
«Wow,
un'amica di Megs? Le sue amiche sono amiche mie».
«Non
penso proprio». Megan aveva cercato di raggiungerla
allungando una
mano verso di lei, ma il ragazzo si era mosso di proposito per
colpirla e farla indietreggiare. «Ce l'hai ancora con
me?».
«Con
te? Mai». Sorrise di nuovo e mostrò la mano destra
a Kara per
stringergliela. «Armek. Piacere».
Kara
era confusa, non le piaceva l'aria che si stava creando tra loro. Gli
strinse comunque la mano, forzando un po' la presa. «Kara.
Piacere
mio».
«Che
stretta! Le ragazze di città sono tutte come te,
Kara?».
«Oh,
non tutte», rispose sarcasticamente, lanciando uno sguardo a
Megan.
Armek
si tolse un ricciolo arancio di capelli dal naso e rise, infilando le
mani nelle tasche dei jeans larghi e al ginocchio che indossava.
«Megs ti ha parlato di me, Kara?».
«Veramente
no».
«Eppure
sono il suo ex fidanzato», la guardò con la coda
dell'occhio,
camminando dritta in avanti e con occhi bassi. «Dovevamo
sposarci».
Notò la curiosità della ragazza e
proseguì: «C'era il progetto di
prendere casa qui, mia zia ne ha una libera. Bella»,
continuò lui
senza abbandonare il suo sorriso. «Eravamo anche andati a
vederla.
Dovevamo lavorare alla Swordfish», la indicò con
il mento e Kara
seguì il suo sguardo. «Era tutto
perfetto».
«Non
era perfetto per niente»: finalmente Megan decise di parlare,
ma
senza alzare troppo la voce da poco più che un sussurro,
sentito
grazie a un silenzio momentaneo dal vociare degli abitanti.
«Sì
che lo era», ribatté sognante lui. «E lo
sai. Menti, continui a
mentire a te stessa; cosa vuoi che ti dica, Megs», si
fermò,
parlando con calma e scuotendo un poco la testa. «Continua a
mentirti, se ti sta bene».
Alzò
una mano per prenderne una sua e Megan si tirò indietro
d'istinto
tanto che Kara, che assisté alla scena, non poté
fare a meno di
notare a come non avesse agito per ribrezzo a un ex fastidioso, ma
per paura. Megan si era portata indietro una mano per ripararsi il
viso. Poiché il tempo passa, ma la memoria del corpo non
dimentica,
e Kara strinse le labbra: Armek la picchiava?
«Oh,
eddai», rise lui, «Non ti posso nemmeno sfiorare,
adesso? È
assurdo, questo; lo sai, vero?».
«Forse
è meglio che te ne vada». Kara attirò
la sua attenzione e il
ragazzo si voltò verso di lei, scrollando le spalle.
«Oggi è il
giorno del funerale di sua nonna, vuole essere lasciata in
pace».
La
fissò, smettendo di ridere. «E lo sai tu che vuole
essere lasciata
in pace… Kara?», guardò Megan,
insolitamente taciturna e
arrendevole, e di nuovo lei. «Non lo sento dire da
Megs».
Megan
allora chiuse gli occhi, prendendo fiato. «Devi andartene,
Armek».
Lui
abbozzò una risata, riguardando ancora una volta entrambe
con fare
incredulo. «Siete d'accordo, eh? Beh, tanto io non ci vado al
funerale della vecchia Verde. Quella era pazza, Kara. Non lo sapevi?
Megs non te lo ha detto?», alzò le mani al cielo,
«Mi aveva
puntato addosso un fucile, era tutta suonata. Una vecchia Verde
pazza». Si spostò, riguardando un'altra volta la
ragazza: «Ci
vediamo in giro, Megs».
Kara
la guardò e le prese una mano senza chiederle niente,
ricominciando
a camminare per raggiungere casa dei suoi.
Armek.
Il suo punto buio; il baratro che, per un periodo, la stava
ingoiando. Marsington l'avrebbe tenuta lì con lui, ne era
sicura. Al
tempo vedeva Armek come il suo futuro, non come la sua probabile
fine.
«Sei
brava a basket», pallonava meglio di chiunque, lo ricordava
bene.
«Vediamo come te la cavi contro di me, piccola».
Non era riuscita a
prendergli la palla e lui aveva sorriso con gaudio, raddrizzando la
schiena. «Niente male», le aveva sorriso e Megan
arrossito. «Ti
sei allenata coi Verdi? È per quello che non riesci a
prendere la
palla, sono tutte schiappe; scommetto che li battevi a occhi chiusi.
Il campetto c'è anche da noi, okay? È
più bello, e nuovo. Non lo
sapevi? Ti ci porto io».
Era
un bel ragazzo, popolare, dagli occhi chiari e accesi; a quel tempo
aveva i riccioli di un verde fosforescente e di un biondo dorato
sulle punte. Armek era gentile all'inizio, le faceva conoscere posti
e persone nuove; veniva rispettato dai ragazzi dei Bianchi e metteva
a tacere quelli che la definivano una spia dei Verdi per via di sua
nonna e del tempo che era stata a vivere con lei. Le mostrava che
poteva essere una Bianca e vivere a Marsington, se avesse voluto. Il
loro primo bacio era avvenuto al concerto di una band rock locale di
ragazzi che conoscevano, davanti agli applausi degli amici. Il suo
primo schiaffo al suo compleanno, perché non aveva
rispettato
l'orario stabilito per vedersi e lui aveva dovuto aspettarla. Odiava
aspettare, la colpa era stata di Megan ma lui si era comunque
scusato, riempendola di baci. Il secondo schiaffo l'aveva fatta
sbattere contro un tavolo, perché gli era finita addosso con
un
bicchiere pieno e lo aveva bagnato sui jeans nuovi, facendogli fare
brutta figura davanti agli amici. La colpa era di Megan che avrebbe
dovuto stare più attenta, ma lui si era comunque scusato e
quella
notte erano stati insieme per la prima volta. L'aveva coccolata,
aveva pensato a lei. Il terzo schiaffo era stato più forte,
l'aveva
buttata a terra. Era di malumore e Megan non avrebbe dovuto
insistere quando lui le diceva di doversi stare zitta. La sera si era
scusato però ed erano usciti insieme a prendere da bere.
Aveva
offerto lui, era gentile. Poi gli schiaffi erano stati sostituiti da
colpi più forti, dai calci a terra dopo le spinte, o dai
lanci di
oggetti se ne aveva a portata di mano. Era dolce con lei, quando
voleva fare l'amore. Le baciava sempre i segni lasciati sul corpo,
prendendosene cura fino alla guarigione.
«Ti
voglio sposare, Megs», le diceva a fior di labbra.
«Sei la ragazza
più bella del mondo».
La
faceva sentire unica e speciale e Megan era sempre stata convinta, al
tempo, che avrebbe imparato a conoscerlo più a fondo e a
capire come
comportarsi con lui per non farlo arrabbiare. Perché era
colpa sua
se la colpiva, lei era convinta che lo fosse e si vergognava.
D'altronde sapeva di essere fortunata: molte ragazze della sua
età
sbavavano dietro ad Armek e lui aveva scelto lei, non loro. Sarebbe
rimasta a Marsington con lui, era la sua vita.
Kara
le stringeva ancora la mano quando arrivarono alla casa piena di
persone e il volto di Megan parve farsi assente. La lasciò
solo
quando si vide costretta poiché loro avevano iniziato a
sommergere
la ragazza di saluti e abbracci, ma lei la cercava da là in
mezzo
ogni secondo, affinché non la lasciasse sola con loro. La
madre
dell'amica le offrì da bere dentro casa, ma dovette
rifiutare e
aspettarla: non poteva allontanarsi da lei in quel momento, vedeva
che era molto più fragile di quando erano arrivate a
Marsington, che
fosse per la nonna o per aver rivisto quel ragazzo. Si chiedeva se
davvero lui la picchiasse: in quel caso, capiva perché non
ne avesse
mai fatto parola. Ma Megan era una ragazza indipendente, sapeva farsi
rispettare e l'aveva sempre difesa perfino da Mike che mai avrebbe
osato toccarla: com'era riuscita a diventare un'altra persona, con
lui al suo fianco? Marsington aveva conosciuto un'altra Megan.
La
casa era più spaziosa di quella della nonna al vecchio
territorio
dei Verdi, con mobili dai design più moderni e le pareti
lisce e
rifinite. Ordinata, odorava di prodotti chimici e smalto per legno.
C'erano tante foto di Megan bambina e di loro tre insieme, vicino ai
soprammobili in legno e a quelli in porcellana. Alcune erano appese
accanto ad attestati dei membri della famiglia. Megan le
mostrò le
stanze in modo sbrigativo e, per le sue, le chiese di seguirla al
piano di sopra come alla casa della nonna. Aprì la porta di
camera
sua, riconoscibile per la targhetta plastificata con il suo nome, e
richiuse dietro di loro. C'era molto più rosa che nella
camera
dell'altra casa, come le tende, il copriletto, il tappeto, una casa
delle bambole alta un metro, sul pavimento. Kara gliela
indicò
poiché non la credeva quel tipo di bambina e Megan
arrossì
vistosamente, sorridendo e avvicinandosi alla finestra aperta.
«Quelli
sono i miei nonni materni», sollevò l'indice
destro, puntandole una
coppia di anziani vicino ad altre persone: lui si sorreggeva con le
stampelle e lei lo aspettava a ogni passo. «Come sono
eleganti…
Hanno deciso di venire al funerale, a quanto pare. Non facevano che
sparlare di lei quando era in vita e ora guarda quanta
ipocrisia».
Adocchiò l'arrivo di altri parenti e diede loro le spalle,
mettendo
le braccia a conserte. «Mia nonna non era pazza»,
sibilò e Kara le
sorrise mestamente, standole vicino. «Quello che ha detto
Armek…
Scusa per lui».
«Non
devi chiedermi scusa né dirmi niente, se non
vuoi», scosse piano la
testa e Megan ansimò, abbassando lo sguardo. All'improvviso
le
appariva come fatta di vetro filato in procinto di rompersi;
delicata, fragile Megan. Kara non l'aveva mai vista sotto
quell'aspetto.
«Lo
aveva davvero minacciato col fucile. Mia nonna»,
sussurrò con un
sorriso e si voltò per chiudere la finestra. «Lo
hai capito,
Kara…», si fermò stringendo la
maniglia, sussurrando, «mi
metteva le mani addosso».
Lei
deglutì e restò in silenzio, aspettando che si
girasse.
«Solo
John lo sa. Ne ho parlato solo con lui».
«Verrà
al funerale?».
«Non
lo so», rimise le braccia a conserte, «Forse oggi
ha il turno con
le figlie».
«Cos…»,
Kara spalancò gli occhi, creduto di aver sentito male.
«…
le-figlie? John Jonzz? Ha delle figlie?».
Allora
anche Megan spalancò gli occhi e a un certo punto le
spuntò un
sincero sorriso sul viso. «Sì, tipico di
John… Non sono l'ultima
a sapere le cose! Quell'uomo non riesce a non avere dei segreti,
è
evidente», annuì. «Ha due figlie! Kym ha
quattro anni e Tanya…
due anni».
«Due
anni?», arcuò le sopracciglia sempre
più sorpresa, e come poteva
essere altrimenti: John Jonzz era stato il loro coach per due anni e
mezzo e, che ne sapesse, lui e Megan erano stati insieme circa due
anni.
«Una
figlia…», aveva mormorato alla scoperta, due anni
fa. Non riusciva
a smettere di tremare. Avevano appena passato la notte insieme,
pensava di conoscerlo, si era innamorata di lui e ora…?
«Hai una
figlia?».
John
si era alzato dal divano con fare stanco, rimettendo via il telefono.
L'aveva guardata e sospirato, quasi fosse infastidito della
situazione. «Veramente è la seconda-».
«Seconda
che?».
«Kym
va alla materna».
«Non
dirmi figlia
perché sto per urlare».
«Megan,
aspetta». Aveva cercato di andare verso di lei ma la ragazza
aveva
camminato all'indietro fino a scontrarsi con il muro.
«Cosa?
Cosa devo aspettare? Pensavo fossi un uomo diverso, John! Non avevo
alcuna intenzione di diventare la tua amante».
«Cosa?»,
lui aveva aggrottato la fronte, avvicinandosi a lei. «Non lo
sei».
«Non
sei stato sincero e non toccarmi», lo aveva fulminato con lo
sguardo, appiattendosi al muro.
«Lasciami
spiegare, ti prego».
«Non-toccarmi».
Megan
annuì di nuovo: guardava il cielo farsi più
nuvoloso al di là del
vetro, sentendo lo sguardo dell'amica su di sé.
«Sono scappata da
Marsington, quando ho lasciato Armek. E mi sono innamorata di
John»,
sorrise di nuovo, breve, inumidendosi le labbra. «Quando l'ho
visto
la prima volta in campo, era appena arrivato… ho avuto come
un
flash e il mio corpo ha fatto una reazione strana: era come se lui
dovesse essere la mia persona da sempre. Ma avevo paura,
Kara», le
lanciò un'occhiata amara, «Lo volevo e avevo
paura. Puoi capire la
mia reazione quando ho scoperto che aveva famiglia. Beh, erano
già
divorziati, Tanya non… non era prevista, a quanto pare non
sapevano
fosse incinta quando hanno divorziato, ma io non volevo ascoltarlo.
Armek mi riempiva di bugie, Kara. Mi manipolava e mi picchiava, mi
raccontava un sacco di idiozie. E quando John… Ho avuto
ancora più
paura perché non volevo ritrovarmi in una situazione
peggiore»,
abbassò di nuovo i suoi occhi, fissando un punto vacuo.
«Per questo
non potevo passarci sopra quando scoprii che era un agente del
D.A.O.. Finché non avesse capito come mi ha fatto sentire,
allora…»,
la guardò e forzò un sorriso. «Mi
conosci, vado dritta al punto
quando voglio qualcosa e anche se avevo paura a imbarcarmi in una
nuova relazione non volevo altro, e l'ho fatto, ho baciato John e
sono andata avanti, volevo
andare avanti… ma ciò che mi ha lasciato Armek
è pesante», gli
occhi le si fecero lucidi.
I
caldi abbracci di John potevano diventare quelli di Armek quando
chiudeva gli occhi. Il ragazzo la stringeva tanto forte come per
paura potesse sfuggirgli, però: riusciva a trovare la
differenza e a
sorridergli quando li riapriva. Era un lavoro continuo. Ma una notte
in particolare accadde una cosa diversa. Era rimasta
nell'appartamento di John e ricordava che lui l'aveva svegliata di
soprassalto, preoccupato per lei. Era sudata, le disse di parlare ad
alta voce nel sonno, Megan pensava di stare solo sognando e non
capiva cosa stesse succedendo. Fu quella notte a presentargli Armek
che prese forma dai suoi ricordi. John la strinse con lui fino al
mattino.
Armek
era ovunque in lei. «Non toccarmi», aveva gridato
un pomeriggio.
«Devo andare, lasciami in pace». Armek la stava
assorbendo.
«Non
parlarmi così, cazzo, te l'ho detto mille volte»,
le aveva
afferrato un polso e lo aveva stretto così forte da
lasciarle il
segno. Megan era riuscita ad andarsene, ma lui l'aveva seguita fino
al territorio dei Verdi.
La
nonna aveva ragione e se n'era resa conto solo una volta che si era
seduta sul bus per scappare da Marsington, guardando attraverso il
finestrino il suo paese natio che si allontanava. Con sé
solo due
borse piene e il petto vuoto che si graffiava perché non era
riuscita a parlarle. Perché si vergognava.
«Megs!
Megan!», lui aveva urlato il suo nome fuori dal cancelletto
della
casa di Ada Morz. L'aveva vista uscire e raggiungerlo per dirgli di
andarsene, che si sarebbero rivisti quella sera e che voleva stare un
po' per conto suo, ma a lui non stava bene. Non poteva stargli bene
qualcosa che non aveva potuto decidere lui. «Torni dai
Bianchi con
me, adesso»,
le aveva ordinato. «Dobbiamo parlare, non me ne vado senza di
te».
Le aveva di nuovo stretto il polso e Ada Morz, che era uscita fuori
con la cagnolina Nana che abbaiava dietro il cancello, era tornata di
fretta in casa solo per uscire imbracciando un fucile, caricandolo
davanti a lui.
«Vattene
da qui, rifiuto umano». La donna era stata attenta a uscire
dal
cancelletto senza farsi seguire dall'adirata Nana che grattava
attraverso le sbarre per passare.
Lui
era rimasto di pietra, ma anche Megan, che di certo non si aspettava
quella reazione da parte della nonna. «Vuoi spararmi, vecchia
svitata?». Allora si era rivolto alla ragazza, prendendo
fiato:
«Megs, tua nonna vuole uccidermi! Ti rendi conto?!
È fuori di
testa».
La
nonna la chiamava di raggiungerla, Nana ringhiava e abbaiava, Armek
le parlava ad alta voce nelle orecchie che dovevano andarsene prima
che partisse un colpo. Li aveva guardati e si era messa tra i due,
alzando i palmi delle mani. «Metti giù quel
fucile, che stai
facendo?! Mettilo via». Non ricordava per quanto tempo era
stata là,
dando le spalle ad Armek per proteggerlo, a dire a sua nonna di
abbassare il fucile. «Ti prego, nonna, mettilo via! Smettila!
È il
mio fidanzato».
«È
una bestia», aveva urlato e i vicini si erano affacciati,
assistendo
alla scena a occhi aperti.
«Credevo
di meritare tutto…», mormorò Megan
davanti a Kara. «Credevo di
meritare quei lividi; che erano colpa mia perché sbagliavo
sempre
qualcosa». Non erano colpa sua. Aveva fatto tardi, non
meritava uno
schiaffo. Gli aveva versato addosso dell'acqua, non meritava uno
schiaffo. Lui era di malumore, lei non meritava di essere colpita
perché cercava di parlargli. Non erano colpe, ma lui le
faceva
credere che lo fossero e dopo le faceva credere di perdonarla per
quelle colpe che non esistevano. «Non mi sono mai sentita una
vittima, Kara, davvero. Credevo di stare bene, con lui. Di amarlo. E
quando lo guardo, anche adesso, ritrovo chi ero con lui e mi sembra
ancora normale pensare che fosse colpa mia…». Kara
strinse le
labbra e Megan aggrottò lo sguardo. «Che dovevo
starci più attenta
e lui non mi avrebbe toccato più». Si prese una
pausa, tirando su
con il naso. Si accorse di aver iniziato a tremare e prese fiato,
nascondendo il viso con un polso. «Perché i suoi
occhi mi
guardavano con amore, Kara, e io non volevo vedere altro…
Era
gentile. Era gentile», ripeté.
La
nonna aveva mosso il fucile per farla allontanare, ma Megan era
rimasta lì, immobile a fianco a lui. «Guardami,
Megan», le aveva
detto, stringendo i denti. «Quando un ragazzo ti fa del male
una
volta, allora è capace di farlo sempre».
Su
quel bus che la portava a National City per la prima volta, Megan
aveva pianto. Non le era rimasta che la vergogna. Dopo la colpa, la
vergogna.
«Mi
vergogno del mio tempo passato con Armek», gli occhi le si
riempirono di lacrime e aprì la mano per coprirsi una parte
del
viso. «Mi vergogno di come mi sia lasciata trattare e di non
essere
riuscita a dire», sbatté le palpebre e le prime
lacrime le rigarono
le guance, «a dire a mia nonna che aveva ragione. A dirle grazie».
Megan
aveva avvolto un braccio di Armek e si erano allontanati, con Nana
che abbaiava disperata dietro il cancello e sua nonna che la chiamava
per dirle di non andare con lui. Solo allora Ada Morz aveva abbassato
il fucile, facendo un passo verso di loro:
«Non
lo fare! Torna qui, Megan», le aveva urlato.
«Torna… Miss
Martian».
I
passi di Megan si erano fermati e aveva guardato indietro pochi
istanti, il tempo per Armek di tirarla via.
Non
era più tornata. Da quel momento, la relazione con Armek si
era
fatta più difficile: sua nonna aveva piantato in lei un seme
che era
cresciuto in fretta e l'aveva svegliata quel tanto che bastava per
capire che doveva andarsene, se voleva una vita libera. Aveva preso
quell'autobus e si era vergognata. Non poteva andare da sua nonna e
dirglielo, quel sentimento di disgusto glielo aveva impedito. Non
sarebbe riuscita a guardarla in faccia. E ora era tardi.
Kara
non resistette alla tentazione di abbracciarla e l'accolse contro il
suo petto. Megan era ferita e non lo aveva mai mostrato. Spiritosa, e
forte, si preoccupava degli altri, aveva tentato con ogni mezzo di
seppellire i suoi demoni, quelli che imputava a quel luogo, a
Marsington. A Kara si strinse il cuore: le paure della nonna che
quasi ogni notte mormorava in sogno, non sembravano altro che un
riflesso del suo trauma esternato in altre forme. Le visioni della
nonna fuse al terrore della nipote. «Non
vergognarti… Non vedo
vergogna in niente di ciò che mi hai detto. Tua nonna ti
amava,
Megs. Shh»,
mormorò, sentendola piangere e iniziare a singhiozzare,
«Shh…
Lo sapeva che sei libera. Ti amava così tanto».
I
riccioli bianchi le scendevano dalle spalle lungo il seno prosperoso.
Non sorrideva poiché era difficile riuscire a fotografarla
quando
accadeva. Molti passarono a toccare la superficie plastificata della
foto accanto alla bara, in cimitero, con lo scopo di salutarla. Tanti
piangevano. Era pieno di Verdi e molti Bianchi: Megan si
guardò
attorno sorpresa, ascoltando la voce del predicatore. Non si
aspettava quell'affluenza, non si aspettava quella gente, e
perché i
suoi nonni materni apparivano tristi? Erano ipocriti fino a quel
punto? Arrivarono altre persone, e altre ancora. Verdi e Bianchi. Si
voltò e rivoltò e Kara la prese di nuovo per
mano, lasciandole un
sorriso. Erano tutti lì per lei, realizzò a un
certo punto. Erano
davvero lì per lei. Uno dei pescatori che lavorava con la
nonna
prese il posto del predicatore quando ebbe finito la funzione e disse
a tutti, con fierezza, che Ada Morz era e sarebbe rimasta un pilastro
della comunità. Si sentì così
orgogliosa nel sentire quelle
parole. Inquadrò tra la folla anche il padre di John e
sorrise,
sorpresa poi nel vedere proprio John accanto a lui. Era venuto. Era
lì. Sorrise di nuovo quando lo notò ricambiare il
suo sguardo e
sorridere a sua volta.
L'ultima
volta che si erano sentiti lei lo aveva mandato al diavolo, ma la
prese tra le braccia appena poté, senza aspettarsi
nient'altro, da
parte sua, se non che ricambiasse. Megan appiccicò il viso
contro il
suo petto, inspirando il suo odore. Le era mancato, accidenti. Erano
sulla piazzetta davanti alla fermata dell'autobus, spostandosi,
ancora abbracciati, in uno spiazzo senza erba. Il funerale era durato
poco e le ragazze dovevano prendere il pullman per tornare a National
City entro sera, dunque avevano saltato il rinfresco a casa Morz. In
strada a quell'ora non passava molta gente e si sentivano protetti.
Il sole stava per tramontare.
«Ti
devo delle scuse», mormorò lui. «Ho
sbagliato, Megan».
«Lo
hai capito solo oggi?», rise e si staccò da lui
piano, mantenendo
un sorriso.
John
le prese la mano destra e gliela accarezzò.
«Vorrei aggiustare le
cose».
«Va
bene».
«Parlo
seriamente», increspò la fronte. «Sono
talmente abituato a essere
qualcuno che non sono per lavoro, che ho finito per perdere di vista
la mia connessione con le persone importanti. Non accetterò
più
ruoli sotto copertura», rassicurò, «Ho
chiuso. Sarò io al cento
per cento, adesso. Un agente del D.A.O., un ottimo cuoco», la
vide
sorridere, «padre di due splendide bimbe, innamorato di una
ragazza
meravigliosa».
Megan
arrossì, voltando lo sguardo altrove e lasciandosi scappare
un
sorriso compiaciuto. «Oh, davvero?».
«Alla
luce del sole», confermò. «Voglio fare
le cose per bene, questa
volta. Lo saprà mio padre, gli piaccia oppure no, e ti
farò
conoscere Kym e Tanya. Se vorrai».
Megan
lo guardò con la coda dell'occhio e infine rise, annuendo.
«Mi
piacerebbe». Gli strinse la mano e sorrise di nuovo,
abbassando gli
occhi dall'imbarazzo.
Kara
era seduta al bordo del marciapiede, accarezzando Nana accanto a lei.
Ogni tanto il suo sguardo incontrava gli occhi grandi della cagnolina
che saltava per baciarle il naso e doveva spostarsi per tempo, prima
le lavasse gli occhiali. Fu la prima ad accorgersi del ritorno di
Megan alle loro spalle, scodinzolando. «Com'è
andata?».
Le
si sedette vicino, divaricando le gambe per far accovacciare Nana
davanti a lei. Le sorrise per tutta risposta e Kara fece una smorfia
con la bocca, dandole infine una spallata.
«Ehi,
Megs».
Le
due si ghiacciarono nel sentire quella voce e schizzarono in piedi di
colpo, mentre la cagnolina tirò il guinzaglio fino allo
stremo,
prendendo a ringhiare.
«Posso
avvicinarmi o rischio che mi assalga la belva?», lui
ridacchiò, con
le mani nelle tasche dei jeans.
«A
tuo rischio e pericolo», controbatté svelta Kara,
stringendo i
pugni. «E anche a Nana non piaci».
Lui
spalancò gli occhi stupefatto e dopo si lasciò
andare a un verso
divertito, capendo l'antifona. «Okay, okay…
All'amica di città di
Megs non piaccio più. Immagino cosa ti avrà
raccontato. Vero, Megs?
Le hai detto che ti ho dato uno schiaffo?».
«Vattene,
Armek», si limitò, tenendo stretto il guinzaglio
di Nana.
«No,
no, voglio sapere cosa le hai raccontato! Sarò passato per
il
cattivo… Si è presa un ceffone e fa la vittima,
ma-». Non finì
di parlare: Kara avanzò velocemente verso di lui e si
fermò a un
passo dal colpirlo in pieno viso, mentre la guardava con
strafottenza. «Vuoi colpirmi, Kara? Fallo. Vediamo che
succede».
La
mano destra di Kara, stretta a pugno, tremava. Stava per farlo, lo
avrebbe tanto voluto, ma si ricordò la sua passeggiata con
Lena, in
quel momento, quando dei ragazzi le importunarono, e
desisté,
aprendo la mano e tornando un passo indietro. Guardò la sua
amica
Megan che era terrorizzata e capì che non era il caso, che
non
avrebbe risolto picchiandolo. «Vattene»,
chiosò con voce dura, ma
lui non si mosse.
«Altrimenti?»,
scrollò le spalle. Era sicuro di sé, insolente,
abituato a ottenere
tutto ciò che voleva.
«Altrimenti
dovrò chiedertelo anch'io», si levò una
voce alle loro spalle e
John, dopo aver toccato un braccio di Megan per darle sicurezza,
lasciò la piazza e andò incontro al ragazzo sulla
strada,
appoggiando una mano fugace su una spalla di Kara. «Le
ragazze te lo
hanno chiesto gentilmente, io non assicuro che farò lo
stesso». Lo
guardò dritto negli occhi e Armek gonfiò il
petto, dimostrandogli
di non aver paura di lui solo perché era poco più
grosso. John si
portò le mani sui fianchi e sollevò la giacca,
palesando
involontariamente la presenza di una pistola sulla fondina.
Armek
non poté non vederla e sorrise, tirandosi indietro.
«Scusa, amico…
Non avevo capito». Tornò indietro per andarsene,
guardando Megan
un'ultima volta: il modo in cui lei fissava quel tizio non gli
piaceva per niente. «Oh… È molto
più ciò che non avevo capito»,
indicò lui con la mano destra e lei con la sinistra, finendo
per
unire i due indici e simulando uno scoppio. «Rispetto, Verde.
Ti
rispetto. Chiunque se la scopi ha il mio rispetto».
Se
ne andò e Nana iniziò solo allora ad abbaiarlo,
facendosi dare
della coraggiosa in modo sarcastico da John, che riprese di nuovo
Megan tra le braccia.
Qualcuno
sull'autobus le guardò male per aver fatto salire la
cagnolina, ma
erano stanche e non ci badarono. Appena il veicolo partì,
intanto
che il cielo si tinteggiava di giallo e arancio, Megan si
appoggiò
allo schienale tirando un lungo sospiro di sollievo. Marsington si
allontanava e lei poteva respirare di nuovo, anche se, questa volta,
al funerale di sua nonna le aveva mostrato che un altro paese era
possibile.
«John
restava?», riuscì a chiederle Kara mentre spostava
gli occhiali
sulla fronte, non potendo a fare a meno di ridere tra una leccata di
Nana e l'altra.
Megan
scosse la testa. «Salutava il padre e ripartiva. Ha detto di
dover
andare a Metropolis», riferì, sorridendo,
«Sta seguendo una pista.
Gli credo».
Fermo
davanti alla sua auto parcheggiata all'ingresso di Marsington sulla
strada in collina, il cielo si era già fatto buio e John
Jonzz
parlava al telefono. «Dica, sceriffo. Rhea Gand? Ho
già interrogato
la signora Gand e non-», lo aveva interrotto e John si
lasciò
andare a un ansimo esasperato. «Sì,
sì… Lo capisco, signore, ma
mi permetta: mi sta davvero chiedendo di dimenticarmi di Adrian Zod
per concentrarmi su Gand? Su Gand che è già agli
arresti? Non
parlerà e credo sappiamo entrambi perché
è così, sceriffo»,
scosse la testa, forzando un sorriso. «Adrian Zod minaccia
Gand, non
faccia finta di nient-», sospirò di nuovo,
ascoltando la voce
dell'altra parte. «Certo, sceriffo. Naturalmente questo non
avrà a
che fare con i suoi rapporti con Zod?! No, non mi
permetterei… La
ringrazio, sceriffo. Le auguro un buon proseguimento».
Staccò la
chiamata e si passò una mano sul viso. Zod gli stava
mettendo i
bastoni tra le ruote: si era sentito pizzicato, era ovvio, e questo
non era che un segnale che stava facendo bene il suo lavoro.
Alzò
una mano per riporre il cellulare sul taschino quando captò
di non
essere solo, nel buio, portando la mano sulla fondina.
Afferrò la
pistola e si voltò scattante. Ma non fece in tempo a
difendersi che
un'ombra premette il grilletto prima che potesse vederlo. John
spalancò la bocca, iniziando a sentire pervadergli in corpo
la
sensazione spiacevole del caldo bagnato. Era stato colpito, non
sapeva dove. L'ombra puntava ancora l'arma contro di lui e forse
avrebbe sparato di nuovo se John non si fosse inginocchiato e,
stremato, accasciato al suolo, facendolo scappare. Il cellulare gli
sfuggì dalla mano e strinse gli occhi lucidi, sentendo un
freddo
innaturale.
Aveva
undici anni quando sua madre morì sulla strada, investita da
un
adolescente sconvolto al volante. Non ricordava niente se non i forti
rumori, di quel giorno. Ricordava la storia del ragazzo che l'aveva
messa sotto. John spalancò la bocca per uno spasmo,
riaprendo gli
occhi. Vedeva la strada, adesso. Non conosceva la storia di chi gli
aveva sparato. E Marsington non faceva rumore.
Lo
ammetto, questo è uno degli stand alone che preferisco. Mi
è
piaciuto seguire Megan nel suo paese natio e lasciarmi travolgere dal
passato suo e di John. Inutile dirlo, alcune cose non le sapevo
neppure io finché non mi sono ritrovata a scriverle ed ero
lì che
“oh, adesso ha senso...”.
È piaciuto anche a voi?
Note
~
-
Marsington e i pescatori Verdi
e Bianchi: quanto mi sono
divertita a scervellarmi per trovare un nome che suonasse bene e allo
stesso tempo richiamasse il pianeta Marte! È ovvio, Megan
Morz
(M'gann M'orzz) e John Jonzz (J'onn J'onzz) sono marziani nel canon,
il loro paese non poteva che ispirarsi a questo, soprattutto dal
momento che dovevo trovare un modo per inserire la questione Verdi e
Bianchi, cioè Marziani Verdi e Marziani Bianchi del canon.
Ho fatto
qualche ricerca, all'inizio pensavo a una fabbrica e a una strada che
divideva le due “fazioni”, ma quando ho trovato
alcune foto di un
paesino del New England che affaccia sul mare mi sono innamorata, la
mia Marsington doveva essere simile e doveva quindi essere di
pescatori.
-
Armek:
l'Armek di questa fan fiction è molto diverso da quello
della serie
tv. Per prima cosa, (quasi) tutti i personaggi di questa fan fiction
sono più piccoli di quelli della serie o di altri soliti
media, ma
Megan, caso strano, nella serie è più grande che
nei fumetti, che è
poco più che adolescente, se non ricordo male. Nella mia fan
fiction
ha quindi l'età di Kara, è a una via di mezzo tra
quella della
serie e quella dei fumetti e avevo pensato per lei a un ragazzo della
stessa età, mentre quello scelto dalla serie è un
uomo enorme e
decisamente adulto. Ma quello della serie ispirava violenza,
ricordiamo tutti l'episodio dove è apparso, e quindi una
cosa è
rimasta… Ma se devo dire la verità, questo
è uno degli aspetti
che non mi aspettavo finché quasi non mi sono ritrovata a
scriverlo:
l'Armek di questa fan fiction si è evoluto e scritto quasi
da solo,
era già così, io dovevo solo raccontarlo.
-
Kym e Tanya:
ricordavo che nella serie J'onn J'onzz aveva due figlie che erano
decedute e volevo dare loro nuova vita in questa fan fiction, ma non
ricordavo i nomi, così le avevo battezzate a modo mio e mi
piacevano
un sacco. Ecco, poi sfogliando la wikia per cercare altre cose mi
capitano all'occhio i loro nomi e ci resto malissimo XD Sì,
i nomi
che avevo scelto io erano più belli, davvero più
belli, ma ogni
volta che rileggo questi, alla fine, mi suonano sempre meglio, sono
quelli giusti. Le figlie di J'onn nel canon della serie si chiamavano
K'hym J'onzz
e T'ania J'onzz.
-
«Guardami, Megan», le aveva
detto, stringendo i denti. «Quando un ragazzo ti fa del male
una
volta, allora è capace di farlo sempre».
Sono
le parole che la nonna di Megan, Ada Morz, le grida per cercare di
farla allontanare da Armek. Vi ricordano qualcosa?
[…]
strinse una mano di Kara. «Non esiste la favoletta dell'uomo
che
cambia con la donna giusta. Non cambiano mai e se ti fa male una
volta, è capace di farlo sempre».
Questa
è Megan che parla a Kara dopo la sua ultima lite con Mike, capitolo
43: Anime rotte.
Spero
di non aver dimenticato altro da segnalare e ci rileggiamo un po'
più
tardi, stavolta: a sabato 23 maggio con il capitolo 62 che si
intitola: Colpa.
Chissà di che cosa si tratterà…?!
Ah,
giusto... JOHN? D:
|
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Capitolo 64 *** 62. Colpa ***
La
tigre bianca peluche non entrava sull'elicottero fermo sul tetto
della Luthor Corp, e l'uomo, con il logo dell'azienda sul taschino
della giacca, dovette chiedere aiuto a un collega per piegarla e
farla distendere sui sedili. Indigo era rimasta indietro: mentre Lena
non guardava, Lex la prese per mano per fermarla.
«Chiamami»,
le sorrise e le passò il suo biglietto da visita, rimettendo
le mani
nelle tasche dei pantaloni. «Per qualsiasi cosa.
Verrò a prenderti.
Sai, lo pensavo davvero quando ho detto che avrei odiato quando te ne
saresti andata».
Davanti
all'elicottero, Lena la chiamò e Indigo strinse il
biglietto,
nascondendolo in tasca e sorridendo anche lei. Non gli disse nulla e
raggiunse la ragazza, così il velivolo prese quota.
Kara
se n'era andata prima per accompagnare la sua amica Megan al funerale
della nonna di quest'ultima e loro due decisero di tornare a National
City e lasciare a Lex la decisione sull'andare a processo. Lena aveva
salvato i dati rubati alla Lord Technologies che Indigo aveva
raccolto dai server personali del fratello, ma non era sicura che
avrebbe dovuto ma, soprattutto, voluto usarli. Se Lex non voleva
andare a processo, in che modo lo avrebbe costretto a farlo
denunciandolo di furto e ricatto? L'idea iniziale prevedeva la
minaccia ma non aveva sortito grande effetto; ogni volta che doveva
scontrarsi con lui non trovava modo per attaccarlo. Era testardo e, a
quel punto, l'unica cosa da fare era confidare che quella Lane lo
convincesse. Se ci fosse stato un altro modo per fermare Maxwell Lord
senza violare o raggirare la legge, Lena ci avrebbe provato.
Lanciò
un'occhiata a Indigo intenta ad accarezzare quella tigre, vicino al
lemure che le aveva regalato Kara, cercando di distrarsi dal balzo
che l'elicottero aveva appena fatto, reggendosi e irrigidendo il suo
corpo dalla paura. Era stato un gesto carino da parte di Kara
lasciarle quel peluche: forse aveva sperato di colpirla nel punto
giusto riguardo al loro piano nei suoi confronti, e rimediare di
certo alla sfuriata avuta per la storia delle pillole. Le
fissò il
volto serio incredibilmente sereno, date le circostanze: aveva
confessato di lavorare ancora per il garante, ma non era certa che le
avesse detto tutto ciò che sapeva sul suo conto. L'aveva
lasciata
andare, le aveva dato le sue foto per costringerla a lavorare, o
così
le aveva detto, e poi? Che altro? Il magazzino o garage dove diceva
di essere stata prigioniera le prime volte non esisteva, aveva
cambiato versione, diceva di essere stata in una casa. Una casa
vuota. Lena sapeva che mentire è facile se non si punta
troppo in
alto, ma se ci si costruisce una storia molto vicina alla
verità.
Che Indigo fosse stata davvero in una casa? E se non fosse stata
vuota? Se ricordava dov'era e non voleva dirglielo per non doverci
andare? Voleva proteggere lei o il garante? Aveva davvero una cotta
per lei, altrimenti a cosa sarebbero servite quelle foto? Lena
strinse le labbra e continuò a osservare quello sguardo che,
come il
suo, era perso nei pensieri. Le sorrise quando l'altra posò
gli
occhi azzurri su di lei, cogliendola in flagrante. La vide
riabbassarli e dopo trafficare col cellulare. Oh, ma certo, anche lei
doveva darci un'occhiata. Aprì la sua borsa e prese quel
vecchio
modello di telefono che aveva inviato Alex Danvers alla Luthor Corp
di Metropolis per farglielo avere, tenendolo nascosto. Accedette alla
cartella degli sms, cominciando dal primo tra quelli che ancora non
erano letti.
A.
Danvers:
Kara mi ha detto che vorresti davvero cancellare quei dati sui
Luthor. Anzi, mi ha detto che non capisce se vuoi cancellarli o no.
Ha usato il cellulare di Mega
A.
Danvers:
Megan, dicevo. Dunque non preoccuparti. Mi ha detto che è
d'accordo
con quest'idea e che per poco non si faceva scoprire, parlandone a
voce con te con i
A.
Danvers:
cellulari in bella vista. Da sorella, posso capire ciò che
vuoi fare
per la tua famiglia e per tua madre, Lena. Ne ho letto un po' insieme
a Maggie, per ora lo
A.
Danvers:
teniamo per noi, e abbiamo capito perché vorresti cancellare
tutto.
E non odio Lillian, ho accettato che sia parte della mia famiglia. Ma
da agente non posso
A.
Danvers:
lasciarvelo fare, spero tu possa capire. Lillian ha sbagliato,
è
complice di crimini più o meno gravi. E verrebbe sporcata la
memoria
di tuo padre. Ma se tutto
A.
Danvers:
quello che c'è su questi dati è vero, come Indigo
dice, allora
la
verità salirà a galla e non potrò fare
niente per impedirlo.
Ognuno si prenderà le proprie
A.
Danvers:
responsabilità. Staremo vicino a Lillian perché
è cambiata e sono
certa che avrà il miglior avvocato. Mi dispiace, Lena. Non
avrei
voluto che le cose andassero
A.
Danvers:
così ma devi capire la mia posizione! Affronteremo tutto
insieme,
come una vera famiglia. Te lo prometto. Odio scrivere su questi
dannati tastierini minuscoli e
Lena
sospirò, alzando il mento e socchiudendo gli occhi. Si
aspettava
proprio questo da parte di Alex. Né più
né meno. Quando ha
lasciato che Kara le inviasse una copia di quei dati, era una cosa
già fatta. Eppure non poteva non pensare a Rhea Gand, dietro
le
sbarre della sua cella, che sogghignava soddisfatta di essere almeno
riuscita nell'intento di rovinare la sua famiglia.
A.
Danvers:
odio il conteggio caratteri degli sms. Spero che Indigo ne valga
davvero la pena, perché se non fosse così e mi ha
fatto spendere
uno stipendio in sms per
A.
Danvers:
niente, uno stipendio in sms per NIENTE, la strozzo.
«Tutto
bene?».
Lena
sorrise amaramente. «Sì… Sì,
riflettevo», tirò in basso il
cellulare dentro la borsa.
A.
Danvers:
Ok, non uno stipendio, ma è comunque più di
quello che avrei speso
a 15 anni con le amiche del cuore. Ed è abbastanza.
Lena
abbozzò un sorriso.
A.
Danvers:
E se pensi che Indigo non ne valga più la pena, posso
prelevarla io
e farle sputare la verità. Conosco 100 e 1 modi, alcuni dei
quali
tanto creativi, per farlo.
Lena
contrasse le sopracciglia, continuando a leggere.
A.
Danvers:
Di' a Kara di rispondere al cellulare, per favore. Sì che
Indigo può
spiarla, ma non le interesseranno i codici di Pizza
Hit!
Sono arrivati a me per email.
A.
Danvers:
Di' a Kara che la sta cercando Eliza! Se non la trova,
continuerà a
chiamare me sperando che io con una bacchetta magica la possa far
parlare con Kara da qui.
A.
Danvers:
Glielo hai detto? Questi stupidi sms mi stanno facendo uscire pazza,
ti scrivo su WhatsApp.
A.
Danvers:
Ho cercato di inviarti uno screen dei messaggi di Eliza, ma
è lento
e non ce la fa. Stupida connessione. Il mondo mi sta prendendo in
giro? :(
A.
Danvers:
Ho usato una faccina, vero? Il mondo sta per finire.
Lena
cercò di trattenere una risata, con una mano sulla bocca.
L'ultimo
sms glielo aveva inviato poco prima e allora si fece più
seria,
aprendolo.
A.
Danvers:
Sono qui con Maggie, lei esce tra poco. Ho provato a dirlo a Kara, ma
ancora ignora i messaggi.
Astra
Inze. La bocca di Lena si irrigidì. Lei stava uscendo da
Fort Rozz
in quell'istante e forse era un bene che Kara avesse altro per la
testa. Come avrebbero fatto con lei? Cosa sarebbe cambiato per loro?
D'altro
canto, Astra ci rimase davvero male quando per lei si aprì
il
cancello del carcere e sua nipote non c'era. Una parte di lei aveva
accettato quella possibilità, ma non le fece meno male. Dru
Zod la
aspettava per abbracciarla e non riuscì a trattenere gli
occhi
lucidi, stringendosi a lui come a un'ancora. Il tempo di sbattere le
palpebre pesanti di lacrime che, dietro all'uomo, Alexandra Danvers e
una ragazza che non conosceva erano appoggiate contro un'automobile a
lato della strada, guardando in loro direzione. Astra sorrise e
richiuse gli occhi, decidendo di non dare alla loro presenza
più
peso del dovuto: lei era una donna libera, adesso. «Grazie,
Dru».
Lui
le batté altre due pacche sulle spalle e insieme si
incamminarono
verso la strada dov'era parcheggiata la macchina del Generale.
Sarebbe stata da lui qualche giorno, il tempo di trovare una
sistemazione e ricostruirsi una vita.
«Dov'è
Kara?», non riuscì a trattenersi appena passarono
davanti alle due
ragazze.
«Non
qui», rispose aspramente Alex. La studiò da capo a
piedi, mettendo
dritta la schiena.
«Oh,
e sei venuta tu a darmi il bentornato
nel
mondo reale?
Non dovevi disturbarti», le sorrise, prendendo tempo per
asciugarsi
gli occhi con un fazzolettino di carta. «Mi hanno parlato di
te,
sono contenta di conoscerti. Non sei mai venuta a trovarmi, ma
scommetto che lo avresti voluto. Posso dire che il tuo capo
è venuto
spesso, al contrario», proseguì con un sospiro,
ammirando il sole
abbagliante e caldo come non lo ricordava.
«Abbiamo… Abbiamo una
persona che amiamo in comune, quindi spero che potremo andare
d'accordo». Le tese la mano destra e l'altra ragazza con lei
la
squadrò, e dopo Zod alle sue spalle.
Alex
deglutì e gliela strinse, sfidandola con gli occhi.
«Si vedrà»,
tentò anche lei un sorriso, rigido.
Si
lasciarono e Zod sorrise, mettendo le mani nelle tasche dei
pantaloni. «Un giorno capirai, Alex Danvers, che non siamo
vostri
nemici. Vogliamo il bene per National City esattamente come voi del
D.A.O.. Maggie lo sa», le lanciò uno sguardo,
facendo un passo
verso la portiera della sua auto.
«Oh,
aspetta! Lei è Maggie? Mi ha parlato di te»,
sorrise anche lei e,
mentre la ragazza le stringeva la mano, Alex al suo fianco si
innervosiva, sperando non lo desse troppo a vedere. «Sono
molto
felice di conoscerti. Sei il futuro del distretto, da quanto ne so.
Beh, ci rivedremo lì, allora».
Li
tennero sott'occhio fino a quando non si allontanarono sulla berlina,
contenendo i malumori. Li videro perfino salutare con una mano
attraverso il finestrino, maledizione, come se si prendessero gioco
di loro.
«Non
dirlo», Maggie l'anticipò, chiudendo gli occhi.
«Cosa?
Non devo dire che stanno gongolando alle nostre spalle?»,
strinse un
pugno, iniziando a gesticolare. «Che ci stanno prendendo per
il
culo? O non devo parlare del Maggie
lo sa?
Che diavolo vuol dire, a proposito?», si strinse nelle
spalle,
«Oppure non devo far notare quanto quella donna sia sicura di
riprendere il suo ruolo nel distretto di National City? Non basta
Zod, Charlie Kes-
Kwez-»,
fece una smorfia con le labbra, irritata.
«Kweskill».
Alex
le puntò l'indice. «E chissà quanti
altri, lei?! Quel distretto
sta diventando il covo dell'organizzazione».
«E
cosa dovrei fare?», scrollò le spalle.
«Pensaci, Alex: cosa dovrei
fare? Non vado più al lavoro? E col mio secondo lavoro come
la
metto? La presenza di Astra Inze al distretto non cambierà
assolutamente niente», alzò le sopracciglia,
portando la testa da
un lato, amareggiata. «Esattamente come non ha cambiato
niente
venire qui adesso», andò ad aprire la portiera.
«Niente?»,
la raggiunse, «Sa che le stiamo addosso».
Entrarono
in auto e Maggie si portò le mani sul viso. «Lo sa
già», soffiò
dopo, rassegnata. «Zod lo sa già, Alex».
Lei
la fissò per un momento e ansimò. La rabbia
accumulata fino a poco
prima scomparve, piegando le sopracciglia con rammarico. «Oh,
tesoro… Cos'è successo?».
Lei
si appoggiò al sedile con stanchezza. «Devo ancora
scriverlo
sull'ultimo rapporto, ma… Ma non è cambiato
niente, in fondo… Sa
che sto lavorando per voi e lo ha sempre saputo, non gli importa! Ho
solo avuto conferma. Lui è comunque convinto che io sia
dalla sua».
Alex
la vide mettere un'espressione triste e non capì come
avrebbe dovuto
interpretarla. Riuscì a prenderle una mano con le sue e a
sorriderle
dolcemente. «Ed è questo che dovevamo ottenere,
no?». Era quello
il suo momento? Voleva così disperatamente che Maggie
lasciasse
l'incarico che ora, potendo cogliere un'occasione, non riusciva.
Forse doveva solo mettere da parte le sue paranoie e farle sentire la
sua vicinanza e la sua fiducia, come le aveva detto John. Alex
ansimò
di nuovo, scrutando il suo volto tormentato. Magari era per questo
motivo che aveva deciso di escluderla, perché non le dava il
suo
appoggio. «Ti senti in pericolo con loro? Al
distretto?». Doveva
essere sollevata di vederla scuotere la testa, ma il sorriso che
accompagnava il gesto le metteva inquietudine, come se fosse una
domanda quasi ridicola. In fondo perché avrebbe potuto
essere in
pericolo? Il cadavere di Faora Hui era ancora caldo.
«Me
lo ha detto Charlie», sorrise di nuovo e finalmente la
guardò negli
occhi. «Dice che potrebbe mancare poco alla mia
iniziazione».
«Anche
se lavori a un'indagine contro di loro?».
«Non
gli importa. Te l'ho detto». Lasciò le sue mani e
si avvicinò
svelta per rubarle un bacio, mettendo in moto l'auto.
Erano
così sicuri di loro?
Il
volto di Charlie Kweskill era di certo così sicuro. Le
raccontava
del suo ultimo appuntamento andato in bianco con una schiettezza
disarmante, come se si conoscessero da sempre, tanto da farla
sentire… in colpa. E allora lui doveva averlo avvertito,
ovviamente. «Lo hai detto al D.A.O. che ci vogliamo bene? Che
siamo
amici?», aveva riso, perfino arrossito, bevendo poi dalla sua
borraccia. «Ancora poco e ci siamo, Mags. Il Generale dice
che
apriremo le iniziazioni per la fine dell'estate. Ci sarà una
cerimonia».
«Iniziazioni?»,
il suo sguardo si era adombrato e lo stomaco aveva preso a farle
male. Non sarebbe stata l'unica? Lo aveva visto mettersi a ridere.
«Sì!
Altri stanno aspettando, come te. In parte… sai
chi?», le aveva
puntato un dito, «I nuovi al distretto. Abbiamo bisogno di
omega
dopo la faccenda con Gand, quindi... Oh, omega,
cioè soldati», le aveva spiegato brevemente,
«Una specie.
All'iniziazione lo saprai. Beh, comunque tu sei sei diversa…
voglio
dire, per via del D.A.O., gli altri al confronto sono solo…
nuovi
del campo, gente che vuole fare di più».
«È
questo che credete di fare? Di
più?».
Lui
aveva annuito, entusiasta. «Ti mostrerò, a tempo
debito».
Alex
si passò una mano sulla fronte, esasperata. «Lo
sai che… puoi
contare su di me, vero?».
Maggie
portò la testa da un lato. «Sempre»,
rispose. Sempre,
ripeté nella testa. Ci credeva. Ma con quale faccia avrebbe
rivelato
alla donna distrutta per non aver salvato Faora Hui di aver pensato
di mollare l'indagine che avrebbe portato i suoi assassini a Fort
Rozz? Di averlo pensato perché voleva bene a quelle persone?
Guidò
l'automobile lontano dal marciapiede e non riprese l'argomento.
Tigre
bianca tra le braccia e lemure attorno al collo, Indigo
seguì Lena
dietro la porta della biblioteca in villa. Avevano visto la macchina
di Eliza parcheggiata in garage e, prima di entrare, la ragazza le
aveva raccomandato di non farsi fregare sulla sua identità.
Credevano che le donne fossero a casa Danvers-Luthor, non se le
aspettavano in villa. Appena le vide, Eliza corse ad abbracciare una
e l'altra, chiedendo loro dove fosse Kara. Lena trattenne un sorriso
e le ricordò che era andata con l'amica Megan al suo
paesino;
naturalmente Alex glielo aveva detto, ma sembrava avere la memoria
corta.
La
donna sospirò seccata. «Peccato, dovevo proprio
parlarle di una
certa cosa…». Il suo sguardo si smarrì
e poi riguardò entrambe:
«Che bei peluche! E quanto è grande quella
tigre». Sorrise nel
vedere la ragazza portarsela meglio contro il petto. «Allora,
considerato che siete qui-».
«Non
ho trovato l'ombrellone da giardino, mia cara», la voce di
Lillian,
appena rientrata da fuori, la interruppe. «Ero sicura che ce
ne
fosse uno di riserva. Vorrà dire che ci fermeremo a
comperarne uno
nuovo». Non le notò, trascinando uno scatolone
all'interno del
salotto.
Eliza
le disse che andava bene e si voltò di nuovo verso le due.
«Dicevo,
considerando che siete qui almeno voi», si strinse le mani,
sospirando, «vorrei chiedervi se poteste almeno concederci
una
cena».
«Credevo
le volessi con noi dei giorni, mia cara». Lillian le
passò alle
spalle con in braccio lo scatolone, salutandole con fretta per
passare alla porta alle loro spalle e arrivare al garage.
Eliza
fece una smorfia. «Sì, mi sarebbe piaciuto,
ovviamente, ma so che
avete i vostri impegni e così… Cara, quello
è pesante», allungò
le mani verso di lei e sentirono Lillian emettere un cenno di
disapprovazione.
«Sono
invitata anch'io?», Indigo guardò Lena al suo
fianco e di nuovo la
donna che, insieme a un gran sorriso, si permise di avvicinarle una
mano per toglierle un ciuffo biondo appiccicato a un ciglio.
«Ma
certo», intonò gioviale, stringendosi di nuovo le
mani. «E lo
chiedi pure? Non ti lasceremo mica sola».
Lillian
passò alle loro spalle in quel momento, rientrando.
«Preciso che
l'idea è di Eliza e che, se fosse stato per me, non nascondo
che
lasciarti sola e fuori di qui sarebbe stata una
possibilità». I
loro sguardi si incrociarono e a Indigo, per lo sforzo, le
scivolarono gli occhiali dal naso: Eliza glieli sistemò
subito.
Lillian non doveva aver preso bene quella chiacchierata nel cuore
della notte.
«Va…
bene. Ne parlerò con Kara appena è di
ritorno», esclamò Lena,
annuendo con un sorriso. «Sono certa che dopo gli esami che
dovrò
sostenere e la partita…».
«Sì,
certo».
«Saremmo
felici di stare con voi qualche giorno», concluse.
Eliza
sorrise di nuovo e per poco non la videro dondolare sui talloni dalla
contentezza. «Parli proprio come parte di una
coppia».
Lena
arrossì e abbassò lo sguardo, mentre Indigo
alzava gli occhi al
soffitto, ed entrambe si allontanarono per salire di sopra.
«Tesoro».
Poco dopo sentirono Eliza gridare. «Ero sicura fossero in un
armadio, ma devo essermi sbagliata; hai per caso visto dove ho messo
l'acqua aromatizzata?».
Lena
spalancò gli occhi e Indigo la vide sbiancare, infilandosi
velocemente dietro una porta prima che la donna potesse notarla,
ancora troppo vicina.
E
così, gli ultimi giorni di giugno trascorrevano in fretta e
la festa
a casa di Maxwell Lord per l'accordo delle pillole con il generale
Lane si avvicinava. Lex non aveva ancora deciso cosa fare, ma
sapevano che si stava tenendo in stretto contatto con Lucy Lane che
aggiornava costantemente Kara che, da parte sua, aggiornava Lena che
le dava l'impressione di essere sempre più infastidita. Non
era
certa che il fratello avrebbe seguito la ragione quanto invece lo era
Kara, che era certa anche di un'altra cosa: di tutta quella
situazione, non era esattamente quello
a dare fastidio alla sua ragazza. Intanto, come avevano stabilito,
Kara decise di tornare a vivere al campus con Megan; un modo per
riappropriarsi di una parte della sua vita. E di certo all'amica una
mano faceva comodo ora che avevano scelto di accogliere una
coinquilina.
Megan
tranquillizzò sua madre al telefono confermando di poterla
tenere
con loro e la fecero entrare all'interno di un borsone per
accompagnarla dentro. Aspettarono il turno di un custode in
particolare e si avvicinarono con un borsone a testa, salutandolo e
augurandogli buon lavoro. Ormai erano certe che la cosa si sarebbe
conclusa lì, liscia come l'olio, ma perché doveva
andar bene quando
poteva andar male?
«Stupida
legge
di Murphy»,
bofonchiò Megan a denti stretti ed entrambe si voltarono,
sorridendo
al custode e rispondendo alla sua domanda: «Era il funerale
di mia
nonna».
«Mi
dispiace… Oh, ma sembra pesante. Lasci che la
aiuti», lui scattò
in avanti e le ragazze si tirarono indietro all'unisono, scuotendo la
testa.
«Ehi!»,
Kara frappose una mano tra loro e lui. «Sta cercando di
insinuare
che, come donne, abbiamo bisogno dell'aiuto di un uomo?».
«No».
«Sì».
«No,
è che-».
«Ha
mai sentito parlare di emancipazione?».
«Ma
io non- Ma- Ma
si muove?!».
«Sono
giocattoli a carica», rispose prontamente Megan.
«…
Li aveva al funerale?».
«I
giocattoli a carica della nonna di Megan. Vuole cercare di offendere
anche la sua memoria, adesso?».
«No».
«Io
mi sento offesa», ribatté Megan vedendo l'altra
annuire. Adocchiò
attraverso la cerniera aperta: Nana era tranquilla, ma se avesse
spinto per tirare fuori la testa arruffata proprio adesso…
Potevano
cavarsela con i giocattoli a carica
a forma di cane
della nonna? Si sforzò per non mollare la presa e, come
avesse
potuto farlo apposta per metterle in difficoltà,
abbaiò. Megan e
Kara si ghiacciarono. Abbaiò. Aveva visto una mosca? Non
abbaiava
mai e aveva scelto proprio… Scattante, Kara si
lasciò andare a uno
starnuto. E a un altro. Un altro, girandosi per scambiare uno sguardo
disperato con l'amica alle spalle.
«Era
un cane?».
«Scusi?
Mi sta dando del cane?». Kara starnutì di nuovo,
tentando con ogni
mezzo di renderlo simile al verso della cagnolina.
«Dev'essere
l'allergia! Ci offende come donne, la nonna di Megan morta e ora
sentenzia sui miei starnuti. Si vergogni».
«È
fortunato se non faremo reclamo in direzione»,
spuntò sdegnata
anche Megan. «Andiamo, Kara». Entrambe se ne
andarono, tenendolo
d'occhio da lontano fino a sparire dietro gli alberi del parco e
così
iniziare goffamente a correre. Kara inciampò e il borsone le
finì
sul sedere; rimessa in piedi, la raggiunse.
«Nana,
monella». Erano appena entrate nell'edificio quando Megan la
sgridò,
infilando la testa verso la borsa: quando una ragazza del dormitorio
che passava per uscire la guardò, lei parlò
ancora a bassa voce,
fingendo di farlo con Kara e voltandosi. Lei toglieva la posta dalla
cassetta. «Andiamo, comincia a essere pesante e non vorrei
abbaiasse
di nuovo e farci scoprire… non già oggi; non ho
nulla per
corrompere qualcuno. Non so ancora come abbiamo fatto a
scamparla».
«Ha
una cotta per te».
«Cosa?».
Kara
emise un brusio a bocca chiusa, controllando la posta.
«È per
questo che non dice mai niente: tu pensavi fosse un po' toccato, ma
ha solo una cotta per te». La consueta lettera da parte di
sua zia
non c'era, ora che era uscita di prigione, ma ce n'era una da parte
di Mike e una busta di un bianco candido che prese la sua attenzione.
Il suo nome era stato scritto con una calligrafia a mano particolare,
molto elegante. Voltandola, trovò il logo impresso della
Lord
Technologies. La aprì subito, scoprendo un biglietto morbido
al
tatto, anche quello bianco e con studiati decori celesti ai lati.
«Mi
ha invitato ufficialmente», soffiò e Megan
allungò lo sguardo.
«Oh!
Io non ci sarò? E dire che lo avevo perfino shippato con
Alex».
Avrebbe scrollato le spalle se non fosse stato per il borsone
pesante. «Sai cosa penso? Che dovresti chiedergli i danni
morali,
con quello che stai passando a causa di quelle pillole».
«Lui
non ha colpe. O così mi ha detto»,
gonfiò le guance e il suo
sguardo si posò in basso.
Megan
la seguì.
Nana
le guardò, naso bagnato all'insù per odorare.
«Nan-»,
Megan le spinse la testa dentro con delicatezza, prendendosi una
leccata, e Kara si piazzò davanti per coprirla.
Lena
continuò a studiare sodo. Passato un esame ne diede un
altro, non
fermandosi. Durante quei giorni camminava per casa parlando da sola
per memorizzare meglio il tutto, facendosi domande a cui rispondeva
poco dopo e chiedendo al lettore in salotto di riprodurle delle
tracce caricate appositamente.
«Musica.
CD E, traccia uno».
Indigo
era in sala da pranzo per non disturbarla, iniziando una nuova pista
a un videogioco. Si era scoperta molto brava ai videogiochi da quando
Winslow gliene fece provare uno online al lavoro. Se non altro, tutto
quel vincere riusciva a distrarla abbastanza: il suo angelo custode
le aveva inviato vari messaggi da quando gli disse di aver confessato
a Lena di lavorare ancora per lui e aveva provato a chiamarla tre
volte. Lo ignorava e sapeva di non doverlo fare, rischiava grosso. In
più, la sua preoccupazione aumentò quando non
vide arrivare Noah
verso le prime ore del mattino: niente più foto inquietanti?
Aveva
deciso di metterle paura e apprensione in altro modo? Avrebbe
scommesso che fosse troppo occupato per incaricare Noah se non
spendesse tutto quel tempo per cercare di parlare con lei di persona.
Forse, e deglutì, anche lui aveva deciso di cambiare piano
quando si
era messa a farlo lei. Distratta, arrivò seconda e si
trattenne
dallo sbattere il joypad sul pavimento, sentendo il campanello della
villa suonare. Che lui avesse inviato Ferdinand? Il cuore
accelerò i
battiti, preoccupata. Si affacciò al salone ma
tirò un sospiro di
sollievo vedendo entrare Alex Danvers. Lei e Lena si guardavano
appena negli occhi e Indigo si morse un labbro. Quanto di vero c'era
in quella discussione che avevano avuto al telefono per la
cancellazione dei dati? Alex Danvers sembrava davvero nervosa e- oh,
guardò in sua direzione e allora si nascose.
«Indigo»,
Lena la raggiunse. «Alex ed io dobbiamo parlare, saliamo di
sopra.
Va bene?».
Lei
scrollò le spalle, scivolando con le calze ai piedi fino al
joypad.
«Non mi occorre nulla, vai pure. Sono al boss e devo
concentrarmi».
Lena
adocchiò la televisione e di nuovo lei, sorridendo
mestamente prima
di andarsene.
Le
sentì sulle scale e lasciò il gioco in pausa,
prendendo il
cellulare. Loro l'avevano scoperta, ne era ormai sicura, ma questo
era avvenuto prima o dopo la cancellazione dei dati? Lei e la sorella
Danvers erano davvero ai ferri corti?
«Dovevate
dirmelo! Ma cosa vi è saltato in testa?», Alex
strinse le labbra,
fissando Lena che si rintanava vicino alla porta del bagno. Il
cellulare di quest'ultima era poggiato sul comodino e Indigo, se in
quel momento le stava spiando come credevano, poteva sorprendersi
della performance attoriale di Alex, al limitare della videocamera.
«Kara mi ha detto che non lo sapeva. È
così?».
«Sì.
Sì, non lo sapeva. È stata una mia
idea».
Alex
si passò una mano sulla fronte, prendendo fiato.
«Sei la sua
ragazza e la stai trascinando in questa storia! Deve proteggerti come
io adesso devo proteggere voi con il mio capo, è assurdo.
Capisci
quanto lo sia?».
«L'ho
fatto per la mia famiglia. Tu non hai idea di-», Lena
deglutì e lo
sguardo di Alex si fece più intenso, «di cosa
significhi essere una
Luthor».
Lena
aveva gli occhi lucidi e puntò lo sguardo altrove,
notò Alex. Lo
fece nonostante la videocamera non la potesse riprendere. Non
fingeva? Allora aveva ragione Kara? Avrebbe seriamente cancellato
quei dati per loro. «Allora spiegami. I Luthor sono anche la
mia
famiglia, adesso», borbottò.
Lena
temporeggiò. «Non è… Non
è affatto lo stesso e tu lo sai»,
formò un breve sorriso, freddo. «Se dovessi
scoprire domani che la
tua nonna materna ha rapinato una banca, come ti sentiresti? Se
scoprissi che tuo padre ti ha nascosto di essere corrotto e che
lavora nell'organizzazione? Tua madre ha sposato la mia, ma non ha
sposato i Luthor. Loro restano un mio problema, non tuo. Le colpe di
mio padre sono la mia eredità, non tua. Non di
Kara», annuì
convinta, «Né di Eliza. Mia», si rimise
dritta con la schiena,
fissandola negli occhi mentre Alex restò in silenzio, a
bocca
aperta. «Capisci?». Si guardarono e l'altra
finì per sospirare
debolmente.
Alex
scese le scale poco dopo e Indigo riprese a giocare, cercando di
battere il boss prima che Lena venisse a vedere. La loro discussione
sembrava vera ma, che lo fosse o meno, Lena stava proseguendo la
strada battuta fino a quel momento come previsto. Se non altro, ora
aveva qualcosa da riferire al suo angelo custode per evitare che la
facesse uccidere. Le serviva e, fino a quando era così,
poteva stare
tranquilla.
Da
X a Me
Liet*
di risentirti, non mi piace essere ignorat*. Grazie per
l'aggiornamento. Mi pare di essere sempre stat* gentile con te,
Indigo, ma la mia pazienza non è infinita e ringrazia che
sono una
persona impegnata: sparisci di nuovo e invierò Carol invece
di Noah.
Non accetterò altri passi falsi da parte tua, è
un avvertimento.
Lei
deglutì, spegnendo il monitor. Le era appena arrivato anche
un
messaggio da parte di Winslow che le chiedeva a quale livello era
arrivata, ma in quel momento non le interessava rispondere. Si
affacciò verso il salone, osservando Alex e Lena, ad almeno
un metro
e mezzo di distanza, che camminavano verso il portone.
Lo
sguardo di Alex si posò sulla posta lasciata su un mobiletto
all'ingresso, spostando due carte per osservare la busta bianca
già
aperta con su scritto il nome Lena
Luthor
con una calligrafia particolare. «È arrivata anche
a te».
«Questa
mattina».
Alex
si voltò. «La mia è un po'
diversa», azzardò un cenno con il
movimento del capo, «Un invito a me e a… alla mia
collega bionda
con gli occhiali. Non conosce il suo nome. Gli avevo detto che Indigo
lavorava in segreteria, non sa altro».
«Linda.
Useremo questo, si sta abituando anche con le nostre madri»,
precisò
Lena, ma il suo sguardo si fece più serio di colpo.
«Perché l'ha
invitata? L'ha vista una volta sola».
Alex
scrollò le spalle, rassegnata. «Maxwell Lord vuole
pubblico, in
realtà non mi sorprende affatto. Ha invitato anche una mia
collega,
mi ha fatto sapere che le è arrivato in un…
messaggio», per poco
non si confondeva con gli sms e Lena le lanciò un'occhiata.
«Beh,
diglielo. Dovremo inventare una storia e che sia credibile».
«E
funzionerà?», domandò, arcuando un
sopracciglio. «L'ha vista una
volta di sfuggita, ma se si fermerà a parlare con
lei… Indigo è
brava, in realtà, nelle discussioni, ma-».
«Oh,
lo sappiamo», aggiunse velocemente Alex.
«Ma
è sempre un rischio. Confidiamo nel fatto che, essendoci
molte
persone, le probabilità che parli proprio con lei sono
ridotte?».
«Dovesse
succedere, accorreremo in suo aiuto», finì,
annuendo. La guardò
un'ultima volta e aprì il portone per uscire. Si fece vedere
da lei
mentre prendeva da un taschino il piccolo cellulare vecchio modello,
iniziando a digitare. Poi salì in auto mentre il cancello si
apriva.
A.
Danvers:
Mi piacerebbe parlare con te senza il tuo telefono a riprendere, un
giorno di questi.
Lena
prese fiato, poi chiuse la porta. Determinata, non avrebbe lasciato
che quel pensiero e quella faccenda rovinassero i suoi buoni
propositi di finire con gli esami da sostenere: riprese subito a
studiare.
Tra
le prime cose che fece Kara, invece, fu andare a parlare con Cat
Grant come le aveva suggerito Leslie Willis. Si presentò
lì
prestissimo e seguì la donna da quando uscì
dall'ascensore, ma lei
non la degnò di sguardo come di parola, entrando nel suo
ufficio e
chiudendole la porta sul naso. Leslie Willis rise e Kara
sbuffò,
fregandosi il viso. Per prima cosa iniziò a bussare
nonostante la
segretaria le avesse caldamente consigliato di non farlo. E
bussò
più volte. Si fermò a uno sguardo concitato della
segretaria che, a
ogni colpo della mano sulla porta, muoveva la testa un po'
più in là
per scuoterla. Per seconda cosa, allora, pensò bene di
telefonarle
nell'ufficio proprio attraverso la segretaria. Non rispose. Come
terza cosa convinse la donna ad annunciarla ma, appena davanti alla
porta, lei si tirò indietro e tornò a sedere,
impaurita. «Potrei
aprire la porta e… A-A quel punto sarebbe costretta
a-».
«Sbatterti
fuori».
«Ascoltarmi».
«Non
ci credi nemmeno tu, cucciolo».
Leslie
Willis non la stava aiutando per niente. «Beh»,
iniziò a camminare
intorno alla scrivania della segretaria, tirando in su gli occhiali
dal naso. «Qua-Quanto pensi possa arrabbiarsi, se lo
faccio?».
Leslie
tolse la penna dalla bocca, pensandoci. «Intendi in una scala
da
esci
fuori da qui di corsa
a non
mettere mai più piede alla CatCo?
Mmh, fammici pensare».
Kara
gonfiò le guance e si arrese, sedendo di peso su una sedia.
Accidenti. Lo sapeva, lo sapeva qual era il problema: Cat Grant aveva
creduto in lei e per ripagarla di quella fiducia era uscita quella
storia sulle pillole. E la signora Grant sapeva che era vera
poiché
era in gamba e non credeva alle voci di corridoio. Si chiese come le
fosse arrivata, ma aveva davvero importanza, allora? Però
non se ne
sarebbe andata: era lì per parlare con lei e chiarirsi e
costi quel
che costi- La porta si aprì. Cat Grant la fissò
con severità e le
fece cenno di accomodarsi; Kara sbiancò.
«Su,
muoviti. Veloce».
Kara
deglutì, si allisciò i capelli sul capo fino allo
chignon, sistemò
gli occhiali e deglutì ancora, che non era abbastanza. Ora
sì che
la colazione le stava ballando in pancia: perché aveva
cercato con
ogni mezzo di farsi ricevere e non credeva, a quel punto, che il
momento sarebbe arrivato così in fretta. Stava per
rilassarsi e non
aveva più le parole. La segretaria le mostrò il
pollice all'insù,
Leslie Willis alzò la penna mangiucchiata per aria e lei si
sentì
un guerriero giunto al fronte, chiudendo la porta alle sue spalle.
«Signora Grant, oh
la ringrazio, la ringrazio per avermi ricevuta»,
camminò rapida
fino alla scrivania, gesticolando. La vide sedersi e forse non la
stava guardando, no, non la stava guardando, si era messa a
controllare il perché la sua sedia si era bloccata o cosa
stava
schiacciando, non lo sapeva, ma sperava almeno che la stesse
ascoltando dietro quell'aria altezzosa cui niente sembrava scalfire.
«Non sa quanto io sia felice di-di sapere che non abbia
proprio
scelto di ignorarmi, perché mi dispiace, mi dispiace e devo
assolutamente spiegarle la situazione! Io…», si
fermò intanto che
lei si sedeva di nuovo, dopo aver trovato una moneta sul tappeto.
Kara deglutì. Spiegarle…?
«Io… sono colpevole», la notò
lanciarle un'occhiata, finalmente.
«Ho assunto quelle pillole e mi piacerebbe dire che mi hanno
ingannata o… Ma niente del genere. L'ho fatto e»,
raggrinzì le
sopracciglia e la scrutò odorando la moneta e contrarre il
viso
schifato, per poi tenerla con le punte di due dita e schiaffarla
dentro un cassetto, «non ho scuse al riguardo. Ho commesso un
errore, un grave errore, e mi prendo la totale
responsabilità di
que… quell'errore. E mi ha licenziata, quindi…
forse dovrei»,
stralunò gli occhi, «a-accettarlo
perché è la giusta conseguenza,
e lo accetto, o meglio no, non lo accetto, ma lo capisco, ecco,
volevo dire che lo capisco. Lo capisco, signora Grant»,
annuì. La
donna si appoggiò sullo schienale della sedia e alla fine la
inquadrò, restando immobile e in silenzio. Tanto silenzio.
Così
tanto che Kara pensò che sarebbe svenuta dall'ansia. Aveva
senso ciò
che aveva detto? Sperava di far partire una discussione e-
«Hai
finito?», si passò due dita sul mento.
«Sei venuta fin qui solo
per dirmi che capisci perché ti abbia licenziata? Mi
aspettavo una
qualche scusa patetica come no,
signora Grant, c'è stato un malinteso,
o al limite che ti saresti prostrata ai miei piedi per chiedermi una
seconda occasione, che avresti fatto qualsiasi cosa e allora io avrei
accettato con riserva a patto che avresti fatto da babysitter a mio
figlio novenne con la passione di smontarmi l'ufficio,
perché la
scuola è chiusa e perché la terapista
dell'istituto ha pensato bene
di dire davanti
a lui
che passare più tempo con me avrebbe fatto bene a entrambi,
e ora
non vuole più andare al campo estivo, sconvolgendo i miei
piani e…
il mio ufficio», sospirò, fissando un portapenne.
Kara
non capì cosa ci fosse di sbagliato, fino a quando non la
vide
dividere le matite dalle penne. «Vuole… Vuole che
faccia da
babysitter a suo figlio?», tentennò.
«Certo
che no, Keira. Dovessi chiedere a ogni persona che lavora per me di
guardare il bambino dovrei rivedere le buste paga. Che comunque mi
stresserebbe meno del dover passare ore»,
la fulminò, «al telefono con i responsabili del
reparto finanziario
che mi chiedono di spiegare loro come
mai una
ragazza che fa uso di droghe fa un tirocinio come reporter da
noi»,
la vide deglutire e, sospirando, Cat Grant si appoggiò alla
scrivania, giocando con gli occhiali da vista. «Mi hai messo
in una
bella situazione, Keira. Parlavo con loro e il bambino mi smontava
l'ufficio, ma non è per quello che ti ho fatto venire
qui».
«Fa-Fatto
venire qui?», indicò alle sue spalle e dopo lei,
socchiudendo le
labbra.
Cat
Grant si alzò e fece il giro, appoggiandosi alla scrivania
sventolando gli occhiali in mano e sorreggendo un gomito su un
fianco. «Tu ci tieni a questo lavoro, Keira? Sì o
no, non ho tempo
da perdere».
«Sì!
Sì, sì, ci tengo, signora Grant»,
strinse i denti. Stava per
aggiungere un ma
ma i suoi sensi di ragno, o meglio ancora la colazione che girava
vorticosamente in pancia, le suggerirono di tenerlo per sé.
«C'è
una cosa che i miei dipendenti dovrebbero sempre tenere a mente per
avere un futuro roseo alla CatCo e con me», la
fissò, «Dirmi.
Sempre. Tutto.
Voglio sapere se fai tardi la sera, voglio sapere cosa mangi per
pranzo e per cena, voglio sapere con chi vai a letto… e
qui ci sarà da fare una piccola parentesi, a proposito»,
la indicò con gli occhiali in mano. «Voglio sapere
se hai allergie,
se hai passato il morbillo e la varicella, se al liceo hai pestato il
piede al compagno sbagliato. Voglio sapere se sei Marvel
o Dc,
se preferisci dolce o salato, alba o tramonto, Jess o Logan. Voglio
sapere quali persone di spicco conosci e, soprattutto,
voglio sapere se hai mai fatto uso
di droghe».
Kara
ingurgitò rumorosamente, stringendo le labbra.
«Sì… ha-ha
ragione, signora Grant-».
«Ah-ah!
Non interrompermi, Keira, so di aver ragione, grazie per la tua
opinione non richiesta». Si allontanò dalla
scrivania con un colpo
di fianco e si rimise gli occhiali, pensando di andarsi a riempire un
bicchiere dall'altro lato dell'ufficio. «La trasparenza
è un
elemento fondamentale. Non vuoi dirmi qualcosa? Sei fuori, tanti cari
saluti e chiudi bene la porta. Ma se vuoi restare», la
guardò negli
occhi, accompagnandola con lei a sedere sul divanetto,
«pretendo di
sapere tutto, ogni particolare della tua piatta vita prima che
qualcuno là fuori me lo venga a dire e io debba tenere lunghe
discussioni al telefono con il reparto finanziario mentre mio figlio,
qui da solo, distrugge l'ufficio».
Kara
provò un brivido e iniziò a sudare freddo,
annuendo lentamente.
«Non
sei un cavallo: puoi dirmi a voce di aver capito?».
«S-Sì»,
arrossì dall'imbarazzo, «Signora Grant. Ho capito.
Quindi… mi
riprende a lavorare per lei…?».
«No»,
bevve un sorso, «Non ci penso neanche. Fino a quando questa
storia
non si sgonfierà, Keira, non ho intenzione di prendermi
questa
responsabilità». Finì il contenuto del
bicchiere e lo tenne vuoto
in mano, incrociando le braccia sul petto. «Sarebbe cattiva
pubblicità. Devo pensare prima di tutto al mio
nome», la indicò
con un cenno, «Ma tu puoi, frattanto, impegnarti
affinché il
tuo
venga ripulito. So perché hai preso quelle pillole, conosco
tutta la
faccenda e non spetta a me giudicare, questo è un aspetto
che
riguarda solo te. Ma se vuoi essere Supergirl,
allora dovrai fare meglio di così».
Quando
uscì dall'ufficio si sentì svuotata di un peso
non indifferente,
anche se le gambe erano ancora pesanti dall'agitazione provata. Cat
Grant era capace di metterle paura allo stato puro e, allo stesso
tempo, di guarirla. Era una strana combinazione.
«Dunque
ti permetterà di tornare quando le acque si saranno
calmate?»,
le domandò Lena al cellulare e Kara si morse un labbro,
attraversando la strada a fianco di altri pedoni.
«Mmh…
Mi ha chiesto di tornare quando sarò pronta per fare domanda
di
assunzione».
«Beh,
ma è ottimo».
«…
se ci sarà posto».
«Ouch…
Ti assumerà, Kara. Se così non fosse non avrebbe
perso tutto questo
tempo con te».
Non
che avesse torto, in fondo lo pensava anche lei. Si prendeva
così
tanta cura di ogni suo aspirante reporter? Era stata così
anche con
Leslie Willis all'inizio della sua carriera? E con Siobhan Smythe? A
volte le passava per la testa che la donna fosse così
attenta nei
suoi riguardi per quello che era successo ai suoi genitori, per
l'organizzazione o perché non voleva lasciarsi scappare
l'occasione
di avere qualche esclusiva. Allora perché dirle di fare
esperienza e
ricordarle che dovrà presentarle un articolo soddisfacente
per avere
il lavoro? Il tirocinio era ufficialmente finito, o passava la
domanda di accesso o non la passava. «E c'è
un'altra cosa, Lena»,
si fece più seria, guardando distrattamente le vetrine
illuminate
dal sole. «Le pillole non sono l'unica cosa che è
arrivata alle sue
orecchie. Per ora dice che non ci sono prove ma solo voci: noi.
Qualcuno deve averci visto o riconosciuto… e-e
com'è arrivata
alla signora Grant… Dobbiamo essere più
prudenti».
Lei
sospirò. «Ce
la siamo presa alla leggera, non giriamoci intorno…
Sì, dobbiamo
esserlo».
Lena
tornò a studiare e Kara ricominciò a leggere i
messaggi arrivati al
suo telefono. Doveva farlo per affrontare quella storia e lasciarsela
un giorno alle spalle, anche immaginando che Indigo potesse leggerli
e diffonderli al suo garante, chiunque fosse. Probabilmente, a lui
interessava comunque più Lena e i Luthor, rispetto a lei. Ne
aveva
molti anche da parte di Alex…
Sia
lì che sui social erano ancora in tanti a chiederle delle
pillole e
perché lo avesse fatto, temendo che la signora Grant avesse
ragione
a tenerla distante. Dopotutto, non era nemmeno ancora riuscita a
riconquistare le sue compagne di squadra. Ex
compagne di squadra: ora non aveva più una squadra.
A
ogni istante libero lasciava le coccole alla cagnolina Nana e si
piazzava davanti alla porta dell'ufficio di George Millard. Megan
ogni tanto riusciva a farle compagnia; era quasi diventata una
manifestazione di resistenza.
Il
giorno tanto atteso infine arrivò e la squadra
cercò di
visualizzare la vittoria della finale senza di lei sul campo. Senza
di loro, veramente: dare dell'idiota al proprio coach a quanto
sembrava non era considerato goliardata pre partita. Ma Megan lo
domandò lo stesso, per esserne sicura.
«La
prego, non mi faccia giocare, va bene, non entrerò in campo,
ma non
mi cacci», Kara puntò i piedi, impedendogli di
passare verso lo
spogliatoio.
«Può
stare con me in panchina», pretese Megan a fianco.
«Farà bene alla
squadra saperci entrambe lì a dare consigli! Per
favore».
Lui
le fissò con aria palesemente annoiata, ma doveva sapere che
non se
ne sarebbe liberato. «E va bene», roteò
gli occhi e brontolò del
loro sospirato entusiasmo. «Ma non giocherete e
tu
sei ancora fuori dalla squadra, signorina», le
puntò sul viso un
indice cicciotto particolarmente rosa, per poi passarle avanti con
una spinta e aprire la porta.
Appena
entrarono, Kara sentì una ventata d'aria gelida che le
avvolse le
ossa del corpo in un secondo: tutte si girarono a guardarle con
espressione sconfortante o tra le più arrabbiate. Il coach
batté le
mani provando a spronarle e continuarono a cambiarsi, ma la solita
euforia sembrava oramai un ricordo.
Millard
scrollò le spalle abbozzando una risata, riguardando verso
le due.
«Ho cambiato idea, Danvers: riconquistale e giocherai la
prossima
stagione. Hai un'opportunità, sei contenta?» .
Si
allontanò dando uno sguardo a una cartella in mano e Kara,
volto
smarrito, provò ad annuire, inumidendosi le labbra.
«Pezzo
di merda…», bisbigliò Megan accanto a
lei. «Vuole divertirsi
alle tue spalle».
«Ce
la posso fare».
«Che?»,
Megan diede un'occhiata alle ragazze, una delle quali
picchiò
l'armadietto con forza apposta per attirare l'attenzione, e dopo lei,
che pareva più pallida del normale. «Ammiro la tua
ritrovata
speranza, ragazza, ma qui ci serve più un
miracolo». Cominciarono a
camminare e la numero quattro andò loro addosso di
proposito,
spingendo Kara con una spallata e chiedendo fintamente scusa. Si
fermarono a guardarla e, mentre l'amica gonfiava le guance dal
fastidio, lei si limitò a uno sguardo truce. «Ci
parlerò io».
«Adesso
pensiamo alla partita», si tolse gli occhiali, fregandosi gli
occhi.
«John verrà a vederci… mh-
vederle?».
«Spero
di sì… Non mi ha risposto. Forse non poteva.
Richiamerà o lo
rivedremo direttamente dopo».
Si
scambiarono uno sguardo e, prendendo fiato, cercarono di parlare con
le ragazze sulla strategia da adottare solo per sentirsi rispondere
che avevano già una strategia che oggi non le avrebbe
incluse.
Nessuna era pronta ad ascoltare Kara sui consigli che era solita dare
loro a ogni partita e il coach Millard, in fondo allo spogliatoio,
ogni tanto pareva ridacchiare. Sarebbe stato un lavoro lungo e
difficile e forse quell'oggi non sarebbe riuscita a risolvere
né a
cercare di spiegarsi con loro, ma era davvero sicura di farcela
perché, semplicemente, non si sarebbe arresa al contrario.
Lei e
Megan si andarono a sedere in panchina con le riserve e
tentò, per
tutto il corso della partita, di mettere da parte il pensiero che ce
l'avessero con lei e gridare in supporto e dare talvolta suggerimenti
utili. Quella partita era importante per tutte e sperava che
avrebbero messo da parte anche loro ciò che provavano per
provare a
vincere. Ma forse si sbagliava:
«Smettila»,
mormorò la riserva al suo fianco destro, seduta in panchina.
«Stai
zitta, non ti vogliono sentire! Rischi che facciano il contrario e
perderemmo per colpa tua. Siamo già sotto».
Kara
stava per aprire bocca che Megan, al fianco sinistro, la interruppe:
«Zitta tu. Se perdiamo sarà solo colpa loro che
non sono capaci di
scindere e mettere da parte l'orgoglio. Siete arrabbiate? Chi se ne
frega».
Intanto,
sugli spalti, sia Alex che Lena erano preoccupate per l'atteggiamento
che sembravano tenere verso Kara. Non potevano sentirle ma, da come
si comportavano, era evidente che non l'ascoltassero. Separate da
Indigo che beveva un succo di frutta, non parlavano spesso tra loro,
continuando la loro farsa.
Ma
quella situazione e la partita non era la sola cosa a dare a Megan da
pensare: John non appariva da nessuna parte e non le aveva scritto
né
telefonato. Non era da lui, non dopo aver parlato a Marsington al
funerale della nonna. Non si sarebbe mai perso una loro partita e di
certo non la finale. Tuttavia, se di John Jonzz non c'era traccia,
un'altra figura aveva deciso di mostrarsi sugli spalti e sia Alex che
Lena, e così Indigo, si erano alzate in piedi, incredule di
vederla
lì: Astra Inze e la sua aria da Alice
appena
atterrata nel
Paese delle Meraviglie
cercavano la nipote con una mano sopra gli occhi per ripararsi dal
sole. Alex pensò di raggiungerla e loro la seguirono, anche
se
Indigo con molta meno voglia.
Si
stava allontanando verso il cancello aperto e si fermò
quando udì i
passi dietro di lei. Sapeva già chi si sarebbe trovata di
fronte e
si assicurò che vedessero un sorriso radioso pronto sul suo
volto.
«Volevo aspettare la fine della partita per vedere Kara, non
stavo
scappando», si girò. «Mi sarei aspettata
di vederla giocare, ma…
Volete farmi compagnia? Vi offro un drink da qualche parte?».
Teneva
i capelli mossi all'indietro con delle forcine, era truccata,
indossava un completo blu con giacca e scarpe con tacco alto; era
strano vederla in quel modo, come se non fosse mai stata la stessa
Astra Inze di Fort Rozz e Alex scrollò gli occhi.
«Dovresti
andartene», ammonì, seccata. «Lascia
Kara in pace».
Astra
aprì piano la bocca, tinta di un rossetto rosso brillante.
«È mia
nipote, non potete tenermi lontana da lei per sempre». Solo
allora,
sforzando la vista, notò Indigo Brainer poco più
lontano da Lena
Luthor, nell'ombra degli spalti. «Un vecchia conoscenza, e
chi
l'avrebbe mai detto».
Alex
e Lena si voltarono a lei d'istinto ma, lontano solo qualche metro,
Kara era lì, vicino a Megan. Dovevano averla vista,
accidenti.
Il
viso di Astra si sciolse come un pezzo di ghiaccio dalla commozione.
Ebbe le lacrime agli occhi non appena Kara posò i suoi su di
lei,
avanzando qualche passo; il labbro inferiore iniziò a
tremare.
Sua
zia era lì, a pochi metri, fuori da Fort Rozz che
gliel'aveva tenuta
distante per dodici anni. Nel frattempo era cresciuta, aveva imparato
a odiarla ed eppure a ritrovarsi in pena per lei, per poco. Non
sapeva cosa aveva passato e mai se lo era chiesto; si era sempre
sforzata affinché la tenesse distante anche dal suo cuore,
ignorando
quelle lettere che continuavano ad arrivarle ogni giorno, ma adesso
che era lì… non lo sapeva. Forse non cambiava
niente o cambiava
tutto, poiché camminò da lei senza neanche
rendersene conto.
La
donna le prese il volto con entrambe le mani e le lacrime le rigarono
il suo. La guardava e sfiorava come avrebbe fatto con qualcosa di
fragile; ma non sua nipote, era il momento a essere fragile, che
poteva rompersi da un attimo all'altro e lei sarebbe scappata via
dalle sue cure. Non voleva che accadesse. Kara non riusciva a dire
una parola, incantata, e Astra sorrise di gioia. «Quanto sei
bella…
Sono così fiera, così fiera di te».
Fiera?
Era la parola che meno si aspettava nel periodo attuale e, di certo,
non aveva alcun diritto di dirglielo. Sapeva che non ne aveva. Ma il
cuore le batteva impazzito: rivedere quegli occhi azzurri
così
familiari a un palmo dal naso la riportava a una casa che non
esisteva più. Che strana sensazione sulla pelle, spiacevole
e
piacevole al tempo stesso, verso una felicità non piena,
nostalgica
che le bucava il ventre. Faceva male, ma le erano mancati.
«Anche
tua madre lo sarebbe stata».
No.
Non avrebbe dovuto. Kara s'imbrunì e tornò un
passo indietro,
staccandosi dalla sua presa. Si voltò e scoprì
Lena, Alex, Megan e
Indigo che squadravano Astra e allo stesso tempo, senza una parola,
la invitavano a venire verso di loro. Così la ragazza
tornò
indietro ancora, riguardando sua zia.
«Non
preoccuparti, Kara», iniziò a dire, tamponando gli
occhi con i
polpastrelli. «Avremo tutto il tempo, adesso, per parlare.
Tutto
quello che ci occorre. Non dobbiamo fare tutto subito»,
sorrise,
prima di allontanarsi verso il cancello. Si assicurò che
loro non la
stessero guardando o seguendo, spiando attraverso due sbarre della
palizzata d'acciaio, e si appoggiò, prendendo fiato un
momento. Sua
nipote, non poteva crederci. Aveva potuto toccarla e parlarle dopo
così tanto tempo, tante lettere inviate, tante ore a
immaginarla
crescere lontana da lei, alle discussioni che avrebbero avuto, a
tutto quello che si stava perdendo, stretta in quattro mura. Ora le
cose sarebbero andate diversamente. Era stato così intenso
il loro
incontro… Non l'avrebbe più lasciata andare.
Aprì bocca e prese
un'altra grande boccata d'aria, spostandosi. Allora puntò
una
macchina parcheggiata e attraversò, lasciando la sua
espressione
commossa per una più dura. Aprì la portiera
posteriore destra e si
sedette, salutando un uomo che la stava aspettando, mani intrecciate
sulle ginocchia.
Sembrò
turbato, ma le diede il bentornato con un sorriso e le alzò
una mano
per stringerla, che lei nemmeno guardò. «Sono
felice di vederti! Di
vedere che stai bene! Sei-Sei uscita da poco, giusto? Quando mi hanno
detto che volevi parlarmi…», l'uomo si tolse un
ciuffo castano
dagli occhi: l'ansia lo stava facendo sudare più del
necessario. «Ho
saputo che sei… sei una beta, adesso. Metteresti una buona
parola
per me?», si sforzò per ridacchiare.
Lei
lo guardò a stento. «Sapevi che esiste, a Fort
Rozz, un reparto in
isolamento che i detenuti chiamano la
Zona Fantasma?»,
fece una breve pausa. «Sai perché lo chiamano
così? Mettono lì le
persone che vogliono punire, o quelle che devono essere interrogate a
lungo termine e vogliono indebolire. Ti senti sola, inizi a sentire
voci che esistono solo nella tua testa, lo scorrere dell'acqua e non
sai se c'è davvero o è immaginazione, rumore di
passi ma non c'è
nessuno, non puoi dormire e non sai se è giorno o
è notte. Mi hanno
tenuta chiusa lì quasi un anno intero»,
piegò una smorfia,
simulando un sorriso. «All'inizio della mia detenzione. Poi
per mesi
che sembravano altri anni. È stata dura prima che
l'organizzazione
prendesse il controllo».
«Mi
dispiace…», mormorò lui e la donna
incurvò la testa, trattenendo
le lacrime. «I-Io non sapevo…».
«Certo
che non lo sapevi: non sei venuto a trovarmi neanche una volta in
dodici anni», lo informò e lui deglutì.
«Ho pensato a così tante
cose, quando ero lì dentro… Hai saputo di Lionel,
invece? A lui è
andata peggio. Quand'è stata l'ultima volta che lo hai
visto?». Lo
vide balbettare.
«B-Beh,
credo… Credo quando ci siamo messi d'accordo per portare te
e tua
nipote via da National City, quindi-».
Astra
annuì. «Sai cosa si pensa all'organizzazione? Che
sia morto per
aver cercato di aiutare gli El. A distanza di anni, qualcuno deve
aver saputo che Lionel stava aiutando me a scappare con mia
nipote».
L'uomo scosse la testa e dopo scrollò le spalle; lei
socchiuse gli
occhi, affranta. «Tu ne sai nulla?». Era stanca di
vederlo agitarsi
senza saper dire niente di utile e si inchinò per prendere
un guanto
infilato nella tasca della portiera. «Da qualcuno devono
averlo
saputo».
«No,
no! Non da me, Astra, io non- non lo avrei fatto mai, lo giuro! Ero
fedele, sono
ancora fedele», deglutì, portando le mani in
avanti. «L'unica cosa
che volevo era lavorare con voi! Un giorno avrei voluto-».
«Cosa?».
«Essere
dei vostri! Un omega, iniziare dal basso, lo giuro! Mai ti avrei
tradito, o tradito Lionel Luthor».
Lei
chinò la testa, prima di riguardarlo negli occhi.
«Tutto quel tempo
nella Zona Fantasma e non ho mai, mai tradito nessuno»,
biascicò,
smettendo di ascoltare l'uomo al suo fianco.
«Ti
prego».
Afferrò
una pistola dalla borsetta e, in silenzioso, gli sparò in
pieno
petto. Uscì e lasciò la pistola sul sedile,
togliendosi il guanto e
gettando anche quello. Dopodiché batté il vetro
dalla parte del
guidatore. «Andate», ordinò.
«Ho bisogno di distendermi».
Col
vetro abbassato, l'impacciato Larry le diede l'okay
e la berlina si allontanò.
«Ehi».
Lena le si avvicinò. Avrebbe tanto voluto darle un bacio, ma
anche
se si trovavano all'interno del locale di lusso, sarebbe stato meglio
non attirare troppo l'attenzione, considerando la voce che girava.
Anzi, rifletté, proprio perché si trovavano
lì sarebbe stato
meglio non farlo. «Come ti senti?».
Kara
era appoggiata al bancone, il bicchiere vicino, ancora intatto.
«Bene», le sorrise, «Siamo qui per
festeggiare, quindi… Perché
così seria? Hai finito con gli esami, e col massimo dei
voti.
Stamattina hai consegnato la tesi e ti sei tolta un peso. Al posto
tuo starei gridando di gioia». Le prese le mani e, sentendosi
osservata, le lasciò, abbassando lo sguardo. Dei signori
più in
fondo alzavano i bicchieri in continui brindisi, altri due parlavano
come loro davanti al bancone, lontani: nessuno sembrava considerarle,
perfino il barista risciacquava i bicchieri canticchiando, ma lo
avevano pensato anche altre volte e sentivano che non era ancora
arrivato il momento per fare un bel coming out pubblico.
«Perché
Lillian ha scelto di vederci proprio qui?».
Lena
si guardò attorno, sedendo anche lei. «I miei
frequentavano questo
posto», assottigliò lo sguardo.
«Nostalgia?».
«Solo
questo bicchiere costa più della mia istruzione»,
lo osservò Kara,
mandando giù il contenuto d'un sorso.
«Andrà
bene, Kara», attirò la sua attenzione.
«Si sistemerà tutto».
Si
tirò gli occhiali sul naso, formando un lungo sorriso.
«Lo so. So
che si sistemerà tutto ed è davvero»,
annuì, «la prima volta
sono sicura che succederà. Ero soprappensiero, forse, un
po'»,
gesticolò, «sì… ma
è diverso. Dopo ciò che è successo, ho
smesso di piangermi addosso».
«Non
lo hai mai fatto».
«Forse
sì. Ma so che se anche mi ritroverò a sentirmi
giù per qualunque
motivo, o arrabbiata, e mi andrà di rifugiarmi lontano dal
dolore…
sarà momentaneo. Perché non lascerò
che queste cose mi consumino
di nuovo com'è successo con le pillole», la
guardò dritta negli
occhi. «Non lascerò che le cose cattive o
sbagliate che succedono
si alimentino di me e di ciò che sono». Per un
attimo, fu come
rivedere suo padre, nella sua cameretta intento a spiegare a una
bambina di dieci anni come funzionava la rabbia. Ora lo capiva come
mai prima. «E so che ci sarai anche tu, con me. Qualunque
cosa la
affronteremo insieme perché sei mia complice
e…», i suoi occhi si
allontanarono, guardandosi di nuovo attorno, «la cosa
più bella che
mi sia successa».
Lena
aprì la bocca, avvampando lentamente.
«Sì… Andiamo in bagno».
«Cosa?».
«In
bagno. Adesso», propose, «Prima che arrivino
Lillian ed Eliza. Qui
ci sono le telecamere, lì no».
Kara
aprì la bocca pian piano e infine si alzò di
fretta, mettendo male
un piede dietro un gambo dello sgabello e raschiandolo sul pavimento,
facendo girare tutti. «Scusa-Scusate». Scorse Lena
coprire una
risata con una mano, alzandosi anche lei, più pacata.
«Non
è successo niente…»,
intonò, rimettendo a posto.
Lena
le si aggrappò sulle spalle, sbattendola contro le pianelle
lucide
del muro appena chiusero la porta, affondandole la lingua in bocca.
Kara la strinse per i fianchi e tastò energicamente, fino a
che non
sentì che la borsa le scendeva da una spalla e gliela
acchiappò al
volo.
«Ops»,
Lena rise e solo un attimo più tardi incrociò lo
sguardo allarmato
dell'altra. «Cosa-?». Oh, il cellulare.
Già, era acceso e lo aveva
in borsa. Anche lei lo teneva in borsa, ma sembrò essersene
resa
conto solo ora. Si avvicinò a un orecchio, dopo averle
lasciato un
bacio sul collo. «Non ci sentirà. Non le
importerà se ci
coccoliamo un po'».
Rossa
dall'imbarazzo, Kara balbettò:
«È-È che-che, sì…
sta
squillando».
«Oh».
Sospirò subito e lo cercò in borsa.
«Lillian… Sono arrivate,
dobbiamo andare. Salvata dal cellulare», si morse un labbro e
le
catturò un bacio.
«Avremo
dei giorni per recuperare».
Quasi
aperta la porta, Lena si voltò, scrutandola negli occhi
intanto che
l'altra, passandole il braccio a un palmo dal naso, richiudeva. Si
lasciò mettere una mano sul viso e spalancò di
nuovo le labbra,
chiudendo gli occhi. Un bacio lungo, pieno. La guardò con
intensità
quando si lasciarono. «… sì»,
non riuscì a dire altro, in un
sussurro. Oh, se solo Kara non volesse dormire al campus quella
notte, accidenti. Si risparmiò dal dirle quanto la
desiderasse, non
voleva che si sentisse soffocata: aveva ragione dopotutto, avrebbero
avuto dei giorni, anche se sotto lo stesso tetto delle loro madri.
Lillian
ed Eliza stavano ordinando da bere e, appena le videro, la seconda
corse ad abbracciarle. Prima Lena, sfiorandole una guancia arrossata,
e dopo la figlia, staccandosi il tanto per scrutarle gli occhi.
«Cosa…
c'è? Che succede?». Oh, lo sentiva, lo sentiva:
non riuscì a fare
a meno di arrossire maggiormente.
Eliza
la riabbracciò. «Non volevamo
interrompervi», mormorò divertita.
«Senza imbarazzo, piccola mia: devi ricomprare l'acqua
aromatizzata».
Quando
l'abbracciò Lillian, Kara aveva ancora gli occhi sgranati,
immobile
come una statua di cera.
Si
sedettero attorno a un tavolino e si fermarono a parlare. La Luthor
Corp stava lavorando a un nuovo progetto e presto ci sarebbe stata
una nuova mostra, simile a quella dello scorso anno, ma stavolta
incentrata sull'immigrazione e sugli ostacoli dati dai confini. Lena
disse che avrebbe iniziato a lavorarci in quei giorni, ora che era
libera dallo studio. Nominarono anche il lacrosse ed Eliza si
stupì
molto di sentire che il coach non avesse voluto farla giocare.
Nessuno le aveva detto ciò che era successo e Kara
sentì l'impulso
di vuotare il sacco, se non fosse che Lena, sotto gli occhi in panico
di Lillian, le strinse una mano per fermarla. Non
adesso,
le soffiò all'orecchio. Eliza sorrise a entrambe, mentre la
donna a
fianco a lei sembrò assentarsi con la mente e con lo
spirito. Con la
conseguente sconfitta alla finale, le ragazze l'avevano incolpata per
la sua assenza in campo e Kara non se l'era presa, al contrario di
Megan: sarebbe stata pronta a strigliarle, se non fosse stata troppo
occupata a preoccuparsi per la mancata presenza di John Jonzz.
Eliza
colse un momento di pausa per ricordarle della cena a cui le avevano
invitate. Dissero di poter restare dei giorni, non c'era bisogno di
sottolineare una cena in particolare, finché non
sputò il rospo,
con palese nervosismo:
«Volevo
parlartene prima ma… e possiamo sempre annullare se non ti
va, non
voglio farti pressioni! Ho invitato tua zia, Astra… per
quella
cena».
Le
loro espressioni si freddarono, scambiandosi uno sguardo.
Bentornati,
people!
Vero,
vero, questo è un capitolo di passaggio, ma tutte queste
cosettine
dovevano pur trovare una collocazione :3
Kara
che va a parlare con Cat Grant, Lena che studia, la finale della
stagione senza Megan né Kara in campo, zia Astra che uccide
un tizio
in auto, la discussione tra Alex e Maggie sull'organizzazio- oh,
sì,
ha proprio ucciso un tizio in auto. Dunque, un tizio che avrebbe
dovuto aiutare lei a scappare con Kara dodici anni fa; abbiamo saputo
che anche qui abbiamo un'interpretazione della Zona
Fantasma
e che Astra laggiù se l'è passata poco bene; che
ha sparato al
tizio perché pensa che abbia potuto tradire Lionel.
Dopotutto, se
Lionel Luthor è morto, qualcosa è andato storto e
Astra pare
intenzionata a scoprire cosa.
Ah,
e l'autista era Larry! Non un Larry a caso, ma l'unico Larry della
fan fiction, il ragazzo- no,
fidanza- ah,
ma che dico, scherzavo, il tizio con cui Leslie Willis ama uscire
ogni tanto, ma solo per il sesso, così dice lei. Non voglio
incorrere nelle sue ire XD
Che
altro? Oh, sì: continua la farsa tra Lena e Alex che fingono
di aver
avuto una discussione, l'iniziazione di Maggie nell'organizzazione
pare avverrà per la fine dell'estate, Eliza ha capito che
fine ha
fatto l'acqua aromatizzata, ops,
e Kara proprio ora si è ricordata che deve ricomprarla,
infine…
infine le lettere di invito con il logo della Lord Technologies,
perché Max non ama passare in sordina. Ha invitato le nostre
eroine,
ma anche Carina Carvex e Indigo, che mi sa dovrà proprio
fingersi
Linda
ancora un po'. Sappiamo che Maxwell sa chi è, ma loro non
sanno che
lui sa, eh. Ma no, niente invito per Megan, anche se lo shippava con
Alex, cosa che gli farebbe piacere sapere, senza dubbi.
Note?
Nah, stavolta credo che passerò, ci sarebbe da fare una
piccola
parentesi per la sola Zona
Fantasma
ma credo che tutti, o quasi, sappiano già cosa sia. L'ho
introdotta
“per caso” in realtà, mi è
venuta in mente mentre scrivevo il
dialogo e l'ho lasciata, perché in fondo questo
spiegherebbe, o
almeno in parte, le motivazioni che spingono Astra Inze a fare quel
che fa.
Detto
questo, ci ritroviamo qui per il prossimo capitolo, che mi piace
particolarmente, e si intitola Lemuri
al buio.
Titolo curioso. Ah, sì, lo pubblicherò sabato 6
giugno! Non
mancate!
|
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Capitolo 65 *** 63. Lemuri al buio ***
Villa
Luthor-Danvers, mattina. Lillian aveva sorpreso Kara uscire dalla
camera di Lena, e poi era scappata di corsa. Dopo che quella notte
Indigo, conosciuta da lei come Linda, le aveva fatto capire di essere
impegnata in una relazione a tre con Kara e Lena, la donna aveva
interrogato la figlia per farsi dire la verità. Lena aveva
riso,
certo, seppure qualcosa, da quella situazione, le aveva dato da
pensare più del dovuto. Per quel motivo, una volta che Kara
era
tornata, aveva deciso di mettere in chiaro con lei la situazione.
«Indigo
doveva mantenere la sua copertura, non è grave. Adesso
dovresti
pensare ad altro», le aveva morso un orecchio, ben sapendo
che Kara
le sarebbe caduta ai piedi. Dovevano avere privacy.
«E-Ehi,
pensavo… pensavo andassimo a fare colazione, ma sto
cambiando
idea».
Era
sua. «Cambiala. Ho voglia di prendere un altro tipo di
discorso, con
te». L'aveva baciata e colto quell'occasione per passarle le
mani
sui fianchi e fino al sedere, tastando con sicurezza. Perfetto.
Allora l'aveva trascinata in bagno. «Parlo io, tu potrai
farlo
dopo». Appena chiusa la porta, le aveva lasciato la mano e
cambiato
espressione di colpo. «Va bene, devo parlarti. È
importante».
Avrebbe riso nel vedere la sua faccia totalmente presa alla
sprovvista, confusa e forse dispiaciuta poiché le aveva dato
un'idea
diversa di ciò che avrebbero fatto in bagno, ma doveva
buttare fuori
ciò che aveva per la testa e subito.
«Indigo», aveva emesso con un
filo di fiato, «Ho dovuto controllare che non avessi con te
il
telefono, nei pantaloni: potrebbe spiarci da lì».
Kara
aveva scrollato le sopracciglia, appoggiandosi al muro e sbuffando.
«Adesso
lo pensi? Te lo avevo detto-».
«Lo
so, Kara», aveva alzato l'indice destro, seria, «Ma
ti prego, fammi
finire: Indigo lavora per lui. Per il garante». L'aveva vista
sospirare e scuotere la testa appena, eppure era quasi certa che le
avrebbe fatto piacere sentirla darle ragione. «Ne sono
sicura,
stavolta. È l'unica cosa sensata che spiegherebbe alcuni dei
suoi
comportamenti. Torna tutto. Ha manipolato mia madre per farle credere
ciò che voleva e… potrebbe averlo fatto anche con
me», l'aveva
guardata attentamente, «Sto parlando dei… dei dati
sulla chiavetta
usb che ci ha inviato tuo cugino». Si era passata una mano
sulla
fronte e, esasperata, le aveva spiegato così come avrebbe
voluto
cancellare quei dati per proteggere Lillian e i Luthor, come lei e
Indigo ci avevano lavorato tanto e ne avevano parlato. Si stava
facendo davvero tante e troppe domande sui Luthor e Indigo ne era
sempre molto interessata. Forse aveva un motivo specifico per
esserlo; dopotutto era così che si erano conosciute,
poiché il
garante sapeva cos'era successo a suo padre. «Dobbiamo
farglieli
cancellare. O meglio, farle credere di farlo», aveva
deglutito. «Se
è parte del suo piano, facciamolo».
«Ma
tu vuoi davvero cancellarli?», aveva indagato assottigliando
gli
occhi, scrutandola.
«Non…
Non pensiamo a questo, adesso», sapeva già cosa le
avrebbe detto,
se ne avessero parlato seriamente. E non voleva.
«Vuoi
farlo».
«Non
lo so più, in questo momento. Concentriamoci sulla finta
cancellazione».
«Beh…
Alex sta aspettando quei dati», aveva scrollato le spalle,
mettendo
le braccia a conserte.
«Dobbiamo
includerla». Si era avvicinata a lei. «La cosa
porterebbe
conseguenze, giusto? Non sarebbe felice di sapere che li abbiamo
cancellati. Dunque potrebbe essere proprio questo che dobbiamo
fare»,
aveva fissato lo sguardo in un punto vuoto, allontanandosi di nuovo,
«Fargli credere che abbiamo incassato il colpo, che ha creato
una
crepa. Improvvisiamo un po'».
«Gli?»,
Kara aveva sorriso.
«Non
è Indigo di cui dobbiamo preoccuparci, Kara. È
lui. È sempre stato
lui. Sono stata cieca a non vedere come Indigo possa manipolare le
persone, e tu lo sei stata nel pensare che possa essere lei il
nemico, qui. Ma non lo è. Stavamo sbagliando
tutto… sbagliando
gioco». Kara era incerta, ma la stava a sentire.
«Lei si sta
aprendo con noi, non è la stessa Indigo che ho trovato
davanti al
cancello la prima volta. Le vuoi dare una possibilità? Se
gliela
vuoi dare facciamolo, altrimenti…».
«O-Okay»,
aveva stretto gli occhi un momento, alzando le braccia e prendendo
fiato, «Quindi manipoliamo Indigo che pensa di manipolare
noi? E
dopo? E se se è così brava nel manipolare le
persone, non può
averlo fatto anche nel farci credere di essere…
cambiata?», le
aveva domandato, scrollando le spalle.
«La
teniamo in prova. Ci sono cose che non si possono fingere, Kara. Tu
stessa hai ammesso di volerle bene… quindi cosa ti ha
colpito? Cosa
ti ha fatto cambiare idea?».
Kara
aveva sospirato. «Mettiamo che hai ragione… Qual
è il piano?
Dobbiamo scoprire chi è lui?».
«Dobbiamo
portarla dalla nostra parte».
«Ed
essere certe che lo sia», aveva puntualizzato lei,
allungandole
un'occhiata. «Mi fido del tuo giudizio. Facciamolo, ma voglio
che
siamo prudenti. Copierò i dati della chiavetta e li
invierò ad
Alex», si era rimessa dritta con la schiena.
«Userò un servizio
cloud online, devi darmi qualche minuto. Prenderò il
cellulare di
Eliza».
Lei
aveva annuito. «A Maggie».
«Maggie?».
«Indigo
ha passato del tempo con Alex e…», si era fermata
quando l'altra
aveva gonfiato le guance, annuendo a sua volta. «Io
distrarrò
Indigo. È importante che, qualunque cosa diciamo da adesso
in
avanti, saremo consapevoli di farlo sapendo che lei potrebbe
ascoltarci».
«Potrebbe
leggere i nostri messaggi e vederci dalle videocamere».
«Dobbiamo
essere assolutamente certe, se vogliamo parlare tra noi, che non
possa vedere né sentire».
Kara
si era morsa un labbro, soprappensiero. «Ci
scoprirà».
«Sì»,
aveva detto decisa, «Sì, lo farà.
Senz'altro. Proprio per questo
non abbiamo molto tempo, Kara. Adesso che lo sappiamo dovremo
recitare delle parti quando abbiamo i telefoni con noi, stanche e
nella ricerca di privacy potremo comportarci in modo diverso, o
lasciarli indietro senza rendercene conto. Ma lei lo
farà», si
erano scambiate uno sguardo, «È una persona
attenta e analizzerà
ogni nostro comportamento», aveva aggiunto, fissandola.
«Ascoltami:
per quel che ne sappiamo, potrebbero essere controllati il mio, il
tuo e il cellulare di Alex. Io avrei fatto così. Non ci
scoprirà
subito e quello sarà il passo importante: includiamola,
facciamola
sentire a suo agio, diamole ciò che le è
mancato… affetto.
La destabilizzerà. Quando è morto suo fratello si
è chiusa, non ha
nessun altro; noi siamo tutto ciò che le resta. O deve
pensare che è
così».
«Pensi
che possa sentirsi in colpa? E se anche lui è importante per
lei? Il
garante?».
«Scopriamolo.
La prima cosa che farà, cercando di proteggersi,
sarà ammetterlo.
Da una parte avrà lui, dall'altra noi. La forzeremo a una
scelta! E
intanto dovremo raccogliere tutto ciò che sapremo su di
lui».
«Dopo?
Quando avrà confessato cosa facciamo?».
«Cercheremo
di capire la sua scelta», aveva deglutito. «Una
volta che avrà
scelto noi, sarà più facile».
«E
se non avrà scelto noi?», aveva scrollato le
sopracciglia. Non
potevano scartare quell'ipotesi e Lena lo sapeva, eppure ci aveva
messo un po' a rispondere:
«In
quel caso, troveremo comunque il modo di usarla per arrivare a
lui»,
aveva preso fiato, come se le fosse costato dire quelle parole.
«Mettiamola così: siamo in stallo, o lasciamo
perdere, oppure-».
«Contrattacchiamo.
Mi piace», le aveva lanciato uno sguardo orgoglioso e Lena
aveva
annuito. Si era avvicinata a lei e, dopo aver sorriso, si erano
scambiate un bacio.
«L'adrenalina.
Ti mette eccitazione?».
Kara
era arrossita, alzando gli occhi al soffitto. «Beh, in
verità
e-ero… già… già
prima», aveva ridacchiato nervosa e Lena
l'aveva spinta delicatamente di nuovo contro il muro, rubandole un
bacio intanto che lei le infilava le mani sui capelli. «Mi
avevi
tratto in inganno», aveva biascicato e allora era stata Lena
a
ridacchiare.
«L'ho
fatto… Come portarti in bagno senza domande e non destare
sospetti?», le aveva baciato dietro l'orecchio sinistro e
così,
velocemente, aveva pensato di leccarglielo all'interno, facendola
lamentare mentre le salivano i brividi. «Ma adesso
è ora di
colazione», aveva chiosato allontanandosi e facendole la
linguaccia,
vicino alla porta. Aveva preso un elastico e Kara l'aveva fermata in
tempo, a poco dalla maniglia della porta:
«Senti,
lo so che… che è sciocco, ma… Ma
Indigo non ci avrà mica…
beh»,
era arrossita, aprendo un poco la bocca, «beh, sì,
insomma»,
stretto gli occhi un attimo, «Tu pensi che lei… ci
abbia… ci
abbia sentito-».
Aveva
ingigantito gli occhi e si era lasciata andare a un verso di
disappunto, contraendo lo sguardo. «No! Cielo, spero di no!
Perché
dovrebbe…? No», aveva scosso la testa e si erano
scambiate uno
sguardo. «Resetta questa idea o ci farai scoprire subito.
No»,
l'aveva indicata e scosso la testa di nuovo, disgustata.
«No»,
aveva ribadito per sé.
«E
comunque questa me la paghi», si era pulita l'interno
dell'orecchio
e Lena le aveva sorriso, così un pensiero veloce le aveva
solleticato la mente: doveva chiederglielo. «Ah,
Lena?». Lei si era
fermata e Kara aveva deglutito. No, era meglio lasciarla andare.
«Niente», aveva detto, vedendola uscire.
«Allora
sistemati. Ti aspetto di sotto».
Le
aveva lanciato un'occhiata e Kara, sospirando, si era appoggiata allo
stipite. Suo cugino e Lois se la sarebbero presa, ma non avrebbe
potuto avvertirli. Non subito. Ciò che avrebbero fatto era
rischioso: se Indigo invece di stare dalla loro avrebbe avvertito il
garante… non sapevano ancora nulla di lui, e cosa avrebbe
potuto
fare. Era qualcuno che le conosceva? Era nell'organizzazione?
Dovevano fidarsi di Indigo nonostante tutto e questo era decisamente
rischioso. Si giocavano tutto. Ora avrebbe dovuto prendere la
chiavetta e copiare i dati prima di colazione. Lo spettacolo poteva
cominciare.
Gli
occhi rossi e accesi di quel lemure sembravano seguirla con lo
sguardo: da qualunque angolo si mettesse a osservarlo, gli occhi la
fissavano. Indigo si era preparata lo zaino e l'aveva appoggiato
contro un angolo del letto, sul tappeto. Quando era arrivata
lì in
villa Luthor-Danvers non aveva che il temperino, qualche ricambio
intimo, cartacce e quelle foto di Lena che le faceva avere Noah. Ora
aveva delle t-shirt nuove, dei pantaloni corti e lunghi, in jeans e
di stoffa, il maglione blu elettrico, qualche camicia e tante paia di
calze lunghe e corte. Aveva dei portachiavi e il piccolo peluche che
aveva vinto al parco divertimenti. Un paio di rossetti scelti con
Lena in un negozio, insieme a una boccetta di un profumo speziato e
deciso che diceva fosse perfetto per lei. Una penna che cambiava
colore che le aveva regalato Winslow a lavoro. Un blocchetto di
post-it colorati a forma di mela per prendere appunti. L'enorme tigre
bianca distesa sul suo letto con cui dormiva a fianco, che le aveva
preso Lex Luthor. E infine quel lemure, da Kara Danvers. Una volta ci
avrebbe messo molto meno per prepararsi, ora aveva dovuto scegliere
cosa portare con sé e lo trovava un fatto curioso
poiché non si era
resa conto di quanto le cose di sua proprietà fossero
aumentate,
fino a quel momento. E se avesse dovuto scappare velocemente, un
giorno? Quelle cose la inchiodavano lì.
«Sei
pronta?». Lena si affacciò alla camera dalla porta
aperta e la
osservò: si era lasciata le scarpe da ginnastica,
abbinandole a un
jeans stretto alle ginocchia e a una lunga maglietta celeste.
«Vuoi
che ti sistemi i capelli?», entrò e Indigo si
affacciò allo
specchio, infilando una mano tra le ciocche disordinate per
sollevarne una parte.
Si
sarebbe fatta una treccia, ma doveva evitare e acconsentì.
Almeno si
sarebbe potuta beare di Lena che le massaggiava la testa.
«Porta
questo», afferrò il lemure, per poi lanciarglielo
con poco slancio
contro al petto. «La tigre è troppo ingombrante
per il treno, ma
con la mascotte non avremo problemi». Le sorrise e, verso
l'uscita,
le ricordò che l'avrebbe trovata nel suo bagno personale per
mettere
mano ai capelli.
Indigo
guardò con distrazione il lemure e il suo sguardo
s'imbrunì,
chiamandola per nome per fermarla. «La moglie di tua madre,
Eliza…
Mi ha invitato a stare con voi perché si è
sentita costretta?».
Lena si appoggiò alla porta aperta con una mano, voltandosi.
«È un
modo come un altro per tenermi d'occhio e capire cosa faccio sul
serio qui; sono un'estranea, dopotutto».
Lei
scrollò le spalle, pacata. «Mia madre
avrà accettato per questa
ragione, sono pronta a metterci la mano sul fuoco. Ma Eliza…
Eliza
no», scosse la testa, con il sorriso sulle labbra.
«Ti avrebbe
invitato in qualunque caso. Lei è molto diversa da mia
madre…
Dalle un'occasione. Ad ogni modo, saremmo state Kara ed io che non ti
avremo lasciata sola per niente al mondo», concluse.
«Ti aspetto in
bagno».
La
vide andarsene e tirò in avanti il lemure, osservando di
nuovo i
suoi occhi rossi e quasi ipnotici, riflettendo.
«Sei
sicura che posso andare?». Nel frattempo, Kara teneva in
braccio
Nana che cercava di baciarle il mento, tra i due letti della camera
in dormitorio al campus. Si era preparata il trolley e lo aveva
lasciato a fianco di una sedia. Megan sarebbe rimasta come al solito,
anche se avevano finito le partite, gli allenamenti e le lezioni
erano sospese. Pensava se ne sarebbe andata via qualche giorno con
John ma, non solo non si era presentato alla partita, era scomparso
di nuovo. E stavolta sembrava una cosa piuttosto seria
poiché anche
Alex non riusciva a rintracciarlo; disse loro di non andare nel
panico, che si sarebbe fatto risentire presto, ma Megan era di
tutt'altro avviso e Kara si dispiaceva a lasciarla sola.
«Sì»,
confermò l'amica, sistemando in ordine la pila dei libri nel
suo
armadio. «Hai bisogno di prendere aria e divertirti,
ragazza… e
magari di fare anche altro, se
capisci cosa intendo»,
fece spallucce e lei arrossì indisposta, rilasciando la
cagnolina
sul pavimento. «Avrò Nana a farmi compagnia e se
so qualcosa di
John, ti faccio uno squillo», posò lo sguardo di
nuovo sui libri.
Sentiva la sua presenza e, dopo qualche attimo di silenzio,
pensò di
scattare: «Vai! Dico seriamente, bella, stai facendo le
radici
piantata lì».
Kara
sentiva davvero di aver bisogno di quei giorni con Lena a casa
Danvers-Luthor: a parte la cena con sua zia Astra, si sarebbero prese
il sole in giardino, avrebbero dormito nello stesso lettino
schiacciate e sudaticce, fatto colazione insieme in una cucina
più
piccola e accogliente di quella in villa, magari le avrebbe chiesto
di fare una passeggiata nel cuore della notte quando in giro non
c'era anima viva; avrebbero avuto del tempo insieme in un luogo che
non suggeriva loro neanche un pensiero negativo. Voleva essere
semplicemente spensierata.
Salì
sul treno e la trovò appena alzò la testa:
indossava un vestito a
fiori, i capelli lisci da un lato su una spalla e il volto
nell'ombra, coperto da un cappello di paglia ed enormi occhiali da
sole. Kara si guardò: i pantaloncini corti fino quasi al
sedere, la
t-shirt a righe orizzontali bianche e nere infilata nel pantalone
sotto una camicia a quadri blu, aperta; scarpe da ginnastica e si
passò una mano sui capelli legati all'indietro in una coda
di
cavallo. Sarebbero sempre state così diverse. Lena le
sorrise nel
vederla osservarsi e le fece cenno di avvicinarsi piegando un dito.
«Tutto
a posto con Megan?».
«Beh,
sì… no,
non proprio», si sedette al suo fianco, stringendo i denti.
«Speriamo solo che John si faccia sentire pre- cos'hai da
guardare?», si sistemò gli occhiali, sorridendo
imbarazzata. Si
voltò velocemente per annotarsi gli sguardi degli altri
passeggeri,
mentre il treno prendeva velocità. «C'è
gente… ricordi?»,
borbottò a labbra strette.
«Sì.
Certo. Infatti non sto facendo niente», scrollò le
sopracciglia. «È
solo che non ti ho dato un ba-».
«Niente
ba-».
Lena
premette le labbra rosse su una guancia e Kara si sentì
avvampare,
riguardandosi intorno. «Solo uno piccolo, no?», le
sussurrò con un
soffio caldo su un orecchio e, prima che l'altra potesse prevederlo,
ci passò la lingua.
Kara
scattò e si portò una mano contro l'orecchio
colpito, sentendo i
brividi pervaderle il corpo, mentre notava con quanta soddisfazione
si fosse messa a sedere composta.
«Oh,
okay… Se volete vado a sedermi da un'altra parte»,
Indigo uscì
dalla porta a scorrimento e si portò un pollice alle spalle.
Se
sapeva a cosa andava incontro, probabilmente sarebbe rimasta in bagno
un po' più a lungo. Ma Lena la invitò a sedere
davanti a loro,
lanciandole il lemure. Glielo rilanciò di rimando e
colpì Kara, che
si mise a ridere quando la vide abbassarsi dalla paura che le
tornasse indietro con forza.
L'inizio
non era male, rifletté Kara. Poteva davvero essere
spensierata come
aveva sognato per quella piccola vacanza… Però
c'era Lillian.
Appena i loro sguardi si incrociarono, arrivate a casa, capì
quanto
sarebbe potuta essere grande la portata del suo sbaglio. Accidenti,
come aveva fatto a essersi dimenticata, anche solo per un momento,
che la donna sapeva di loro e non accettava minimamente la cosa? In
fondo, da quando le loro madri erano tornate dal viaggio di nozze non
avevano avuto molto tempo per metabolizzare la novità. Se
proprio di
novità si parlava.
Se
da una parte Eliza non faceva che guardare una e l'altra e sorridere,
una e l'altra e sorridere ancora neanche avesse potuto immortalare
quella scena per i posteri, Lillian le guardava con la coda
dell'occhio appena, lontano come un animale selvatico, come cercando
un modo per approcciarsi. Se non altro, la loro relazione non era
l'unica cosa a indispettirla: di tanto in tanto la si poteva vedere
che squadrava Indigo, o meglio Linda, da testa a piedi. Se c'era una
cosa che poteva irritarla più di una relazione tra le loro
figlie,
quella era che qualcuno riuscisse a prenderla in giro giocando col
suo punto debole. A neanche mezzora dal loro arrivo, temevano che si
sarebbe vendicata di lei bruciandola col solo sguardo. Si consolavano
sapendo che non avesse il potere per farlo. In conclusione, avevano
già trovato l'aspetto positivo della faccenda: Lillian
infastidita,
zero foto per Instagram.
«Ragazze,
sorridetemi», la voce di Eliza alle loro spalle.
«Potete tenervi
per mano per le foto di famiglia?».
Certo,
dovevano aspettarsi quel colpo di scena.
Indigo
si sistemò nella piccola camera di Alex, e Kara e Lena
rientrarono
in quella con i due lettini che trasmise loro una magnifica
sensazione di casa e tranquillità, con un pizzico di
nostalgia. Ma
non solo. Si baciarono, abbracciandosi. Poggiarono il trolley e la
valigetta sul primo lettino e si avvinghiarono come si fossero
mancate, per poi sorridersi. Kara si morse un labbro e Lena si
passò
la lingua. Si ritrovarono lentamente che-
«La
porta è aperta», la voce di Lillian le
ghiacciò, passando in
corridoio.
«Se
potreste, per favore, non muovervi». Il flash della
fotocamera le
accecò ed Eliza si assicurò di chiudere per loro,
ringraziandole.
Le
due si guardarono imbarazzate e si separarono per ordinare le loro
cose. Va bene, era stato un inizio che aveva messo tutte, o almeno la
maggior parte di loro, un po' a disagio, ma erano certe di potersi
comunque rilassare, si parlava solo di qualche giorno.
Eliza
decise di pranzare in cortile, c'era un bel sole e il vento muoveva
appena le foglie. Aiutarono tutte ad apparecchiare la tavola e, nel
tentativo di sistemare i bicchieri, le loro mani si sfiorarono. Lena
accolse l'iniziativa di accarezzargliela in modo ammiccante e Kara le
lanciò uno sguardo preoccupato: Eliza era di spalle e Indigo
stava
contando le tovagliette, allora forse poteva lasciar correre, le
piaceva e- Lillian!
La vide passare dietro la sua ragazza e sfilò la mano
così
velocemente che la picchiò contro un boccale di vetro che
picchiò a
sua volta l'insalatiera e la tavola si riempì d'acqua e
lattuga e
pomodori. Rossa dall'impaccio com'era rossa la sua mano,
finì che
Lena gliela massaggiò per tutta la durata del pranzo.
Lillian seduta
davanti a loro.
Si
scambiarono un bacio fugace dopo essersi lavate i denti e- Lillian!
«La
porta è aperta». Gliela chiuse lei, con uno
scatto.
Quel
pomeriggio lo avevano passato gran parte del loro tempo là
fuori, a
parlare del progetto sponsorizzato dalla Luthor Corp
sull'immigrazione. Lena ne era entusiasta: ora che aveva più
tempo a
disposizione non vedeva l'ora di selezionare e ascoltare le storie
che sarebbero state raccontate con le foto proposte. Rientrarono,
abbracciate e sorridenti, e- Lillian!
Se la ritrovarono davanti che portava fuori il bidone vuoto della
spazzatura.
Più
tardi decisero di vedersi un film tutte insieme, appena prima di
cena. Lena sentì una conversazione tra Eliza e Indigo dove
la prima
invitò la seconda a scegliere il film per tutte. La donna
non lo
sapeva, ma involontariamente avrebbe potuto aiutarle a conquistare la
ragazza. Tra una sparatoria nello spazio profondo e l'altra, Eliza
alla fine si addormentò su una spalla di Lillian e a ogni
sussulto
pensò di commentare la scena di turno fingendo di aver
seguito fino
a lì, ma sua moglie parve piuttosto attenta, in
realtà, e con la
coda dell'occhio, ma di sicuro non al film. Corrugò lo
sguardo:
quelle due non stavano affatto passando la serata film come lo scorso
anno a tirarsi cuscini, preferivano bisbigliarsi all'orecchio e
ridere a bassa voce, vicine, tanto da sfiorarsi con le labbra a ogni
respiro. Stavano ancora ridacchiando. Kara controllò il suo
telefono
e Lena parve perdere interesse, finché non le
bisbigliò
qualcos'altro. Si incantarono a fissarsi e mancò un cuscino
dalle
loro schiene, voltandosi- Lillian!
Fecero finta di niente, chiedendo il titolo del film. A un'ora e
quarantaquattro minuti. Indigo sembrò offendersi.
Era
incredibile come continuassero a incrociarsi con la donna ogni qual
volta che si ritrovavano in atteggiamenti intimi. O neanche, in
realtà. Non che lo facessero di proposito a trovarsela
intorno. Kara
non riusciva ad avvicinarsi a Lena quando la chiamava se c'era anche
lei nella stessa stanza con loro, poiché si sentiva
osservata e le
veniva il fiatone dall'ansia. Si scattarono perfino una foto insieme
sotto il pesco in cortile e notarono solo dopo, con lo zoom, che
sullo sfondo vicino al tavolo c'era Lillian. Con occhi rossi. Stava
diventando inquietante: perché non l'avevano notata prima di
scattare?
Durante
la cena, Kara si sentiva fiera di sé: non aveva rovesciato
niente,
non si era fatta di nuovo male alla mano che ancora era rossa, non
aveva sfiorato Lena neanche per errore e- cos'era
quello?
Quello che sentiv- oh.
Rossa fino alle orecchie, spalancò gli occhi e
ingurgitò
sonoramente il boccone.
«Ancora
mi sembra così strano», sospirò Eliza,
sorridendo a entrambe.
«Siete bellissime. Sono contenta che tra voi stia andando
tutto
bene».
Lena
ricambiò con un grande sorriso a sua volta, adocchiando Kara
che,
alla sua sinistra, la sentiva farsi rigida. Sentiva,
chiaro. Le accarezzava la coscia destra coperta da un pantaloncino
corto da un po', dopodiché la lasciò per gettarsi
un goccio di
vino.
«E
tu cosa fai nella vita, Linda?», Lillian la puntò,
dando forse a
loro un po' di tregua.
Indigo
si tirò i capelli sciolti dietro le orecchie, finendo di
bere. Le
due la fissarono, ma non aveva bisogno di aiuto, sapeva bene cosa
dire. «Attualmente sto studiando». Non poteva
fregarsi e la donna
annuì, seguendola con lo sguardo intanto che prendeva una
forchettata. «Conto di entrare nel mondo dell'ingegneria
informatica», aggiunse.
«Oh,
interessante», si appoggiò allo schienale della
sedia. «Quale
università hai detto di frequentare?».
«Non
mi è parso di averlo detto, veramente».
Notò Lena che stava per
prendere parola, ma l'anticipò: «So dove vuole
arrivare ma devo
deluderla. Non frequento nessuna delle università delle
vostre
figlie. Ha ragione se ho intuito ciò che sta pensando, ci
aiutiamo
nello studio a vicenda, ma ci siamo conosciute in altre circostanze,
in effetti: in fila, pensi, a prendere un caffè da Bitter
and Music.
Lo conosce?», le scoccò un'occhiata. Non poteva
non conoscerlo, era
uno dei locali in centro molto vicino alla Luthor Corp, non lo aveva
scelto a caso. «Le consiglio il cappuccino con una spruzzata
di
cacao magro e panna». Lena e Kara si scambiarono uno sguardo,
mentre
Indigo sorrideva sfrontata.
«Mia
madre ha mollato l'osso», borbottò Lena, una volta
chiuse in camera
per cambiarsi per uscire: volevano farsi una passeggiata come
desiderava Kara e ne avrebbero approfittato per mangiarsi un gelato.
«Tu
dici?». Si sfilò la t-shirt da casa e
notò lo sguardo di Lena,
occhi grandi, posarsi su di lei.
«Oh,
sì», si accostò, intenta a infilarsi
una maglietta marrone con una
vertiginosa scollatura su una zip obliqua aperta. «Indigo se
l'è
cavata, ma lei non ha insistito. Non è un buon
segno».
Kara
lanciò uno sguardo ai cellulari lasciati sul suo letto e le
si
imporporarono le gote, chiudendo la zip della maglietta di Lena, sul
seno. «Questa non vedrò l'ora di
togliertela», si stupì lei
stessa di averlo detto.
Lena
le infilò una mano sui capelli sotto la nuca e si
avvicinò per
baciarle il collo, lentamente, facendo sì che alzasse il
mento.
Scese pian piano, facendola sospirare. «Scusa. Per
prima».
«Non
sei… sincera, Lena».
Lei
rise un poco. «È vero», la
riguardò negli occhi. «So che non
avrei dovuto e non ho scuse. Dev'essere fastidioso e-».
«Mi
è piaciuto», arricciò il naso,
«Un pochino».
Lena
la guardò negli occhi, staccandosi il tanto per lasciarle lo
spazio
di infilarsi una t-shirt con un cono gelato sorridente stampato
sopra. Sollevò un sopracciglio e Kara rise, guardando
altrove mentre
le si imporporavano le gote.
«Questo
non ti autorizza a farmelo quando siamo a tavola con le nostre
madri».
«Me
lo appunto». La baciò una volta, due, spingendosi
verso di lei
sollevandosi sulla punta dei piedi. La baciò una terza volta
e lo
fece su una guancia, lo fece sotto un orecchio e, svelta, glielo
leccò all'interno, scattando indietro con passo felino prima
che
potesse afferrarla. Le fece la linguaccia quando era ormai vicino
alla porta, mostrandole i sandali che avrebbe indossato fuori per non
incorrere alle sue ire.
Kara
si pulì l'orecchio e fece una smorfia, aprendo la bocca per
mimarle
un «Ti
prenderò».
La
luna era calante ma le vie del paesino venivano illuminate dalle
luminarie pronte per la festa del patrono che si sarebbe tenuta
l'indomani. C'erano i festoni colorati già appesi da balconi
a
finestre ed erano pronti già alcuni stand ora chiusi; non
poteva
mancare il palco nella piazza principale, dove avrebbero suonato le
musiche popolari. Non c'era molta gente in giro se non davanti a un
bar, dove sui tavolini all'esterno degli uomini giocavano a scacchi e
ridevano. Si presero un gelato e Kara fece fare a Lena e a Indigo il
giro turistico ma, invece di mostrare loro le architetture simbolo e
i pezzi storici, le riempì di aneddoti sugli abitanti che
conosceva
e quelli capitati a lei e ad Alex quando erano più piccole.
Confessò
di ricevuto il primo bacio davanti a una cabina telefonica: ora non
c'era più, l'avevano tolta solo pochi anni fa e al suo posto
spiccava un lampione.
«Era
vecchia e inutilizzata o… almeno lo era per
telefonare», rise e
passò oltre, incuriosendo Lena.
Indigo
fissò il lemure che si era portata dietro, mandando
giù la punta
del suo cono. «Perché mi avete chiesto di
venire?», domandò a un
certo punto, fermandole. «Non era quello che avreste voluto:
passeggiare da sole, al chiaro di luna o cose del genere? Non
è
quello che fanno le coppie?», sorrise sfrontata.
Non
sapevano se fosse l'influenza di Lillian e l'aver cambiato ambiente,
ma Indigo si comportava ancora più stranamente del suo
solito. Era
cupa e allo stesso tempo lasciva. Non che non se ne preoccupassero,
ma ci tennero a ricordarle che non l'avrebbero lasciata sola, che
avrebbero avuto altri momenti solo per loro. Ne parlarono anche una
volta tornate a casa, chiudendosi in camera. Citarono il suo garante,
guardandosi attentamente negli occhi per ponderare bene le parole da
usare, sapendo che le avrebbe potute ascoltare. Speravano che parlare
bene di lei, anche con l'intenzione di proteggerla da lui, l'avrebbe
smossa, in qualche modo. Volevano colpirla proprio laddove Indigo
diceva di aver sempre avuto difficoltà: nei sentimenti. Se
non ci
fossero riuscite, allora Lena avrebbe compreso di aver sempre
sbagliato con lei.
«Non
importa chi sia, lei non è come lui»:
la voce di Lena attraverso il cellulare di Indigo era determinata.
Kara le diede ragione e Indigo, sdraiata sul letto, si
massaggiò la
fronte, per poi sbuffare e decidere che ne aveva abbastanza: prese il
telefono lasciato sul comodino e chiuse, connettendosi a un altro
apparecchio. Così lo rimise a posto, ascoltando i rumori
dall'altra
parte senza grande interesse, veramente. Non si aspettava nulla e non
capiva neppure perché avesse sentito il desiderio di
spiarlo. In
quella registrazione era ancora giorno e lo sentì fare
qualche
telefonata di lavoro, incontrare dei dipendenti, parlare con quella
Lucy Lane, dare ordini a chi lavorava per lui e spostarsi, infilare
il telefono in tasca, toglierlo, appoggiarlo, riprenderlo. Indigo si
stava addormentando in quel modo, sentendo i suoi respiri non troppo
lontani dal microfono.
«Indigo».
Spalancò
gli occhi e si portò a sedere di soprassalto.
«Lo
so che mi hackerato il cellulare e mi stai ascoltando. Te l'ho
lasciato fare».
Lei
deglutì ancora, impaurita, affondando le unghie sul
copriletto. La
registrazione era di qualche ora fa.
«Lo
avrai sentito, o forse no e non importa, ma ci tenevo a lasciarti i
miei ringraziamenti: la mia ex ha deciso di incontrarmi. A quanto
sembra»,
Lex aveva preso una pausa, divertito, «non
riusciva più a connettersi a internet e le appariva un
messaggio che
le diceva di chiamare me. Ma sono convinto sia stato l'ammutinamento
di Alexa
a persuaderla definitivamente. Hai un grande dono, Indigo. Non che te
lo debba dire io, è chiaro».
Stupido
Lex Luthor, pensò. Stupido Lex Luthor.
«Lo
prenderemo», decise Kara e Lena le scoccò
un'occhiata.
«Cambiando
argomento… Il tuo primo bacio. Davanti a una cabina
telefonica»,
contrasse le sopracciglia e le puntò contro un dito,
«Wow, così
spavaldo».
«Uh,
qualcuna è curiosa», si avvicinò,
squadrandole la maglietta
marrone e la sua scollatura coperta dalla chiusura, arrossendo.
Così
la affrontò di nuovo negli occhi, capendo di essere stata
sorpresa.
«Beh, lui a-aveva quattordici anni, quindi… E Alex
ci aveva
beccato e», digrignò i denti intanto che l'altra
rideva, «aveva
fatto la spia a Eliza e Jeremiah, dunque… imbarazzante»,
decretò.
«Tanto?»,
le prese le mani con le sue, scortandole fino alla zip.
«Taaanto»,
emise un verso con la gola e i suoi occhi planarono tremolanti sui
loro telefoni. Non voleva certo che Indigo sentisse, voleva
spegnerli, ma Lena le fece aprire la chiusura e sentì
l'impulso di
baciarla, non spostando le mani dal suo seno caldo. Appena
udì il
telefono vibrare, però, capì che era il suo
momento e si slanciò
per acchiapparlo prima che Lena le tendesse un'altra trappola: lo
sapeva che si divertiva nel vederla vergognarsi e trattenersi. Era
davvero certa che Indigo non le sentisse comunque? Beh, lei no.
Lena
prese il suo per spegnerlo e la notò sorridere, per
sé, leggendo
qualcosa. Stralunò subito lo sguardo.
«Era
Lucy», le fece sapere e, sentendo di nuovo la vibrazione,
continuò
a leggere, digitando subito una risposta. La guardò con la
coda
dell'occhio e sorrise. «Dice di aver convinto Lex, questo
pomeriggio. Non glielo ha detto specificatamente, ma ne è
sicura».
«Okay».
Si andò a sedere sul suo lettino, senza degnarla di sguardo
e
togliendosi i sandali.
«Mi
ha dato la buonanotte e… sto spegnendo».
«Va
bene».
«Cosa?»,
alzò gli occhi e le spalle, «È solo la
buonanotte».
«Ti
ho sentita». Mise via i saldali, continuando senza guardarla.
Kara
la fissò, lasciando il cellulare sul suo lettino e
avvicinandosi a
lei. «Oookay,
cos'hai?».
«Niente».
«Già»,
le si sedette accanto, «Lo ved- ehi!».
Si dimenticò cosa stava per dire, interrotta. Non se lo
aspettava
per niente: Lena le andò addosso e la spinse sul materasso,
sedendo
su di lei impedendole di muoversi, bloccandole anche le braccia con
le sue. «Stavi fingendo?», spalancò la
bocca e gli occhi
dall'incredulità, seconda solo alla sua pressione che, in
pochi
secondi, schizzò alle stelle, sentendosi la pelle diventare
bollente. Ritrovò la lucidità poco dopo, ancora
incredula: «Tu lo
sai che-».
Lena
le baciò sotto il mento e le fece mancare le parole. Si
assicurò di
strusciare il seno che, poderoso, sgusciava quasi dalla zip aperta,
inchinandosi e alitandole addosso prima di baciarla e morderla piano.
«Cosa devo sapere?», esortò, leccandole
l'incavo del collo. La
sentì deglutire forte come una scossa di terremoto.
«Che
posso- C-Che posso… Che posso, sì,
liberarmi», strinse gli occhi
chiusi, prendendo fiato.
«Oh,
lo so», le rubò un bacio, abbassandosi fino al suo
orecchio
sinistro. «E la domanda è: lo vuoi?».
Kara
sentì Lena spostarsi e infilare un ginocchio tra le sue
cosce,
bloccandole una gamba con l'altra. Il suo seno continuava a
comprimere sul proprio ventre, intenta ad abbassarsi e a sollevarle
la t-shirt con il cono gelato, arrotolandola fin su le ascelle; le
spostò il reggiseno solo per baciarla intorno. Non voleva.
Certo che
Kara non voleva, non adesso. Le avrebbe lasciato fare ciò
che voleva
perché anche lei lo sentiva, sentiva di volerlo. La gola le
si seccò
e faticò a deglutire, ma non avrebbe chiesto di bere per
niente al
mondo, in quel momento, se poteva resistere. Cercò di
controllare il
suo respiro fin quando il suo petto non si sollevò, senza
volerlo,
per prendere una grande riserva d'aria. Era in ansa? Che sciocchezze.
O forse un po'. Non era ansia, ma attesa. La desiderava, accidenti.
La desiderava da giorni e non avevano avuto un momento; la desiderava
da quando l'aveva vista con indosso quel cappello di paglia in treno
e la desiderava da quando si era infilata quella maglietta marrone
con la chiusura sul seno. La desiderava oggi come forse non l'aveva
desiderata da mesi. Sarà stata la lontananza, Lillian che le
sorprendeva come una sentinella o l'aria accogliente di quella camera
che aveva visto il loro rapporto evolversi, ma si era acceso un fuoco
improvviso che lei, tenendola ferma in quel modo, non faceva che
alimentare.
Lena
le slacciò il reggiseno e glielo sfilò da sotto
la maglietta,
aprendo la bocca per accogliere il suo seno destro e sentirla gemere,
mordendosi il labbro inferiore. «Kara», la
chiamò, sollevandosi di
nuovo e lasciando che il suo ginocchio destro la spingesse in mezzo
alle cosce. La baciò e la sua lingua solleticò la
propria. Si
guardarono e si baciarono di nuovo, a lungo, sentendo le sue dita
insinuarsi sulla sua schiena e lasciando che le sfilasse quella
maglietta marrone che, lo ammise a se stessa, sapeva le sarebbe
piaciuta. Le loro labbra umide si scontrarono ancora. Non ricordava
nemmeno più cosa volesse dirle, sentendo la tentazione
crescere, e
il calore, che aveva iniziato a pervaderle su per le cosce,
continuando a spingere con il ginocchio. La amava da sempre, ma in
quel momento di più. Amarla di nuovo, come non l'avesse
amata mai in
quel modo. E l'indomani l'avrebbe amata ancora e con un amore
diverso, perché era così che funzionavano le
relazioni vere, lo
aveva capito: diverso ogni notte e ogni giorno, ogni secondo e a ogni
respiro. La sentì con la lingua e col palato, con i suoi
polpastrelli che le accarezzavano e tastavano il seno, spostato il
reggiseno sopra le sue dita. Lasciò che le baciasse il collo
e si
abbassò per fare lo stesso che-
«Non…»,
oh, si era dovuta fermare, accorta di non avere aria. «Non
leccarmi…
dentro l'orecchio. Ti prego». Avvertì e rise quasi
senza fato
quando sentì Lena farlo, accarezzandole una guancia a mano
aperta.
«No,
adesso non-», anche lei era affannata e si inumidì
le labbra, «non
lo faccio. Te lo prometto». Si inchinò per
baciarla di nuovo e Kara
si sporse per non lasciar andare le sue labbra. Ma doveva
lasciargliele, pensò Lena. Doveva perché sentiva
il bisogno di
spostarsi. E lo fece piano, le spinse ancora il ginocchio e la
sentì
mugugnare, ricercando contatto. Le slacciò i pantaloncini
velocemente e glieli abbassò, baciandole l'ombelico intanto
che le
infilava una mano sotto gli slip. E, con l'altra mano, si
aiutò ad
abbassare anche quelli. Kara non si tirò indietro e Lena
riprese col
donarle brevi baci lungo il tragitto che la divideva dalla sua meta,
già umida, premendo la lingua e poi le labbra calde.
Sentì il corpo
dell'altra rabbrividire e le sue dita piegarsi, ferme sulla propria
testa, poi chiamarla, a bassa voce. «Vuoi che mi
fermi?». Il volto
di Kara per poco non illuminava la penombra, palesemente rossa. La
vide aprire la bocca e scuotere la testa piano, non riuscendo a
emettere una parola. «Lo prendo per un no»,
sussurrò.
Non
riusciva a trattenersi. Kara ci provava, ma era colta da una tale
eccitazione che nemmeno il pensiero di trovarsi sul lettino che prima
apparteneva ad Alex sarebbe riuscita a fermarla. Magari ad Alex non
glielo avrebbe detto, ecco. Era più forte a ogni centesimo
di
secondo che passava, a ogni fiato che bloccava e che invece, subito
dopo, si lasciava scappare, a ogni muscolo che tendeva. Aprì
la
bocca e tirò indietro la testa, reggendo quella di Lena
più forte.
Cresceva, sentiva che scorreva dentro di lei come un'onda bollente
che mai avrebbe voluto fermare. Ma il suo corpo alla fine si
irrigidì
e dovette lasciarsi andare, accorgendosi solo dopo del verso
strozzato sfuggito alla gola. Si tappò, ma era tardi.
Decisamente
tardi. Sperava tanto che nessuno oltre quelle mura l'avesse sentita,
giacché udì Lena sghignazzare. Le chiese scusa,
ma intanto era lei
quella a vergognarsi come una ladra.
«Scusami.
Scusami, non volevo prenderti in giro», mormorò,
portandosi una
mano in bocca per coprire il sorriso. Rammaricata, si portò
al suo
fianco e cercò di accarezzarle il volto, che lei girava
prontamente.
Sembrava proprio che non gliel'avrebbe data vinta.
«È una cosa
normale, Kara… Non darti pena. E l'ho sentito solo
io», le baciò
una spalla e continuò a riempirla di baci, sentendola
ridere. «Nel
caso, potremo sempre dire a Indigo che c'era un gatto». Kara
le
lanciò un'occhiataccia e Lena arrossì.
«Scherzavo. Ti trovo
piuttosto dolce, a dirla tutta».
«Non
puoi uscirtene sempre così e pensare»,
tentò con ogni sua forza di
tornare seria, recuperando fiato, «di cavartela».
«D'accordo,
vorrà dire che mi farò perdonare»,
emise piano, sentendola
prendere fiato. «Farò qualsiasi cosa tu voglia per
rimediare al
fatto di aver riso», suggellò la promessa con un
bacio sulla sua
spalla destra, spostando la t-shirt per il colletto.
«Qualsiasi
cosa?».
«Qualsiasi».
Finalmente
Kara si voltò, scrutando i suoi occhi luminosi.
«Ci sto, Lena
Luthor. Quando voglio?».
Lei
arcuò un sopracciglio. «Sento che
finirò per pentirmene, ma sì…
quando vuoi».
Kara
ne sembrò soddisfatta ma alla fine si tirò a
sedere, coprendosi il
volto di nuovo, e Lena la seguì.
Non
era sua intenzione essere indelicata, la conosceva, perché
di
nuovo…? «Kara-».
«Emh…
è che- e-ero piuttosto presa».
«Meno
male. Mi sarei stupita del contrario. Lo ero anch'io».
«…
E lo sei ancora?».
Lena
si portò i capelli ormai un poco mossi da un lato,
sorridendo
imbarazzata. «... oh... sì»,
confessò.
«Anch'io».
La voce di Kara si fece più sicura di colpo, gettandosi
addosso a
lei così forte che per poco non caddero dal letto, troppo
vicine al
bordo. Aiutò a spostarla più al centro, intanto
che la guardava
esterrefatta.
«Ah…
Questa dovevo aspettarmela», disse con un filo di voce e Kara
le
sorrise con una ritrovata arroganza, abbassandosi il tanto per
catturarle le labbra con le proprie.
La
amava. In quella notte anche più di prima. La
sentì con la lingua,
col palato. La sentì col profumo della sua pelle,
mordendogliela
senza premere nel contempo che le sfilava il reggiseno. La sentiva
quando la stringeva forte a sé, quasi avesse paura le
sfuggisse via.
Dovevano portare pazienza, sarebbero andate a vivere insieme e allora
lo avrebbe compreso anche il corpo di Lena, che ricercava contatto
come un disperato, che non se ne sarebbe andata.
«Lena», la chiamò,
ingurgitando per non far seccare la gola di nuovo,
«Ti-».
«Sì».
Si
baciarono e Lena la strinse per le spalle, tastò
energicamente le
sue braccia in tensione mentre si sorreggeva e allungò le
dita verso
la t-shirt con il cono gelato non più arrotolata, gettando
le mani
sotto di essa per esplorare meglio la sua pelle tonica e stuzzicarle
i capezzoli, attirandola poi verso di sé sulla schiena.
«È un bel…
cono gelato».
«Cosa?»,
si guardò la t-shirt quando Lena gliela indicò e
toccò con un dito
la protuberanza lasciata dai seni turgidi. Le prese il dito con una
mano e se lo portò in bocca, baciandolo prima, e dopo
affondandolo,
incontro alla propria lingua. Lena la guardò con occhi pieni
di un
verde innaturale, sospirando, così glielo lasciò
solo perché non
poteva trattenersi dal baciarla ancora. Quelle labbra l'avrebbero
sempre tentata, era una delle certezze che aveva. Si separarono e si
ritrovarono; fiato affannato su fiato ancor più affannato,
lingua
calda su lingua bollente. Lena le morse un labbro, piano, e Kara le
prese i polsi per aiutarla a distendere le braccia lungo il
materasso, intrattenendosi in un altro intenso bacio. Dopo le
inspirò
sulla pelle accaldata, intenta a baciarle l'incavo del collo, e le
accarezzò lungo il viso, dietro le orecchie. Non
parlò. Non più
una parola, nel buio. La gola pulsava, il calore partì di
nuovo dal
basso ventre ed esplodeva chissà dove fuori e dentro di lei;
provava
impazienza. Si sentiva un tutt'uno con Lena che, dopo respiri corti e
acuti, iniziò a baciarle lungo i seni, sollevando la t-shirt
il
tanto giusto, aggrappandosi ai fianchi nudi. Non un tentennamento,
non una domanda che servisse a smorzare la tensione adesso, non
serviva. Si sorrisero, respirandosi addosso e ricercando contatto
ancora e ancora, pelle contro pelle. Kara si appoggiò meglio
su un
fianco e lasciò che la mano destra andasse ad accarezzarle
intorno
all'ombelico, a massaggiarle sopra gli slip sotto la gonna, a
vezzeggiarle l'interno coscia. Si scontrò con una mano di
Lena a un
certo punto e si guardarono negli occhi.
Lena
si allungò appena per arrivare alle sue labbra con le
proprie,
mentre l'aiutava a slacciarle la gonna e, sollevando il bacino, a
insinuarsi sotto gli slip.
Gli
occhi azzurri sui verdi. La mano di Lena si adagiò sul suo
braccio
destro, sentendo il muscolo mettere forza; lo percorse fino alla
spalla, le colse il viso e, guardandosi, gli occhi di Lena si fecero
più grandi di colpo, nel frattempo che le si strozzava il
respiro.
La bocca si spalancò un poco; si spalancava un poco di
più a ogni
sussulto del suo corpo, a ogni gemito sommesso.
Kara
si accostò per baciarla e la sentì inspirare
prepotentemente con il
naso. Le lasciò la bocca quando spinse dentro di lei con
più
energia, mantenendo un ritmo, e allora prese a baciarle sotto la
mascella. La percepì inghiottire saliva e le
passò la lingua dal
basso all'alto, chiudendo con le labbra, non aspettandosi quel
brivido da parte sua, seguito da un gemito.
La
mano sinistra di Lena le segnò una coscia premendo a tratti,
facendo
salire la sua eccitazione. Si aggrappò a una natica e lei si
lasciò
andare a un lieve sospiro.
Kara
infilò la coscia destra in mezzo alle sue sul materasso in
modo da
sdraiarsi sul suo corpo e darsi più spinta, intanto che Lena
divaricava le gambe come la gonna le permetteva, piegando il
ginocchio sinistro. La sentiva, la sentiva con ogni parte di
sé e
rialzò gli occhi per vedere i suoi: grandi, di un verde
quasi acqua
stavolta, caldi. Suoi. Per lei.
Lena
si sforzò per non chiuderli anche quando capì che
stava per cedere,
continuando a osservare quell'azzurro più del cielo che era
di Kara
e che era anche un po' suo. Spinse la testa all'indietro
poiché non
poté farne a meno, arcuò il bacino e si
lasciò andare, spalancando
la bocca; il calore invadeva il suo corpo e quella scossa le entrava
nel cervello.
Kara
la guardò ed ebbe un sussulto, tremandole un labbro. Una
volta le
disse che, durante l'orgasmo, il cervello avrebbe rilasciato quello
che chiamano l'ormone della felicità e ora lo vide passare
attraverso i suoi occhi, chiaro e potente. Lena si lasciò
guardare.
Le attraversò il corpo e lo sentirono in due, in modi
differenti. E
Kara, che dopo un breve massaggio le cinse il viso, la
baciò. Senza
fiato entrambe, ma con impudente passione.
«Vivere
insieme? E dove vi piacerebbe stare? Avete già
un'idea?». La voce
di Eliza Danvers-Luthor appariva amorevole anche alle sue orecchie
distanti qualche metro dalla cucina.
Indigo
era andata con l'intenzione di fare colazione, ma ci
ripensò: non
aveva una grande voglia di ascoltare quella conversazione. In fondo
parlavano di un futuro che non l'avrebbe inclusa, e come poteva
essere altrimenti? Erano una coppia e ambivano a esserlo per tanto
tempo, lei era di troppo. Come quando erano uscite la scorsa notte,
pensò: se l'erano portata dietro per un altro motivo, che
coincideva
con il non farla stare sola per caso. Si girò per tornare
sui suoi
passi e per poco non sbatté addosso a Lillian Luthor, o
Luthor-Danvers, immobile come il bronzo. A giudicare dai suoi occhi
spiritati, anche lei doveva aver sentito.
Lillian
si costrinse a deglutire e, prendendo fiato, decise di degnarle
un'occhiata. «Incredibile, non è vero?»,
le domandò, proseguendo
in fretta: «Anche due persone come noi riescono a trovare
qualcosa
in comune». Stava per aprire bocca di nuovo che, andando
verso i
fornelli, Eliza le notò e le invitò a entrare,
baciando sua moglie
che raggiungeva la macchina del caffè.
Lena
si alzò, rimettendo la sedia al suo posto. Aveva un treno da
prendere, non voleva far tardi: informò loro di dover fare
una
capatina alla Luthor Corp per quel progetto, che non ci avrebbe messo
molto. «Tornerò molto prima che inizi la festa del
patrono,
promesso», avvisò Kara. Si guardarono negli occhi
per salutarsi e
pensò di inchinarsi verso di lei, ma lo sguardo dell'altra
che
inquadrò Lillian la fermò.
«Baciatevi
pure», esordì Eliza, stringendo le mani sul
grembo. «Siate voi
stesse, non pensate a noi».
Le
due si sorrisero e Lena si abbassò svelta, lasciandole un
veloce
bacio a stampo prima di allontanarsi e sentire Eliza applaudire. Le
ragazze sorrisero di nuovo, in imbarazzo, e Kara si alzò di
fretta
per seguirla fino alla porta. Una volta lì davanti la
fermò
avvolgendola dalla schiena e, facendola voltare verso di lei, senza
un pubblico, le fu più facile affondare la bocca nella sua,
tenendola stretta a sé.
«Siete
così belle», esclamò Eliza, vedendola
tornare quasi camminasse sui
talloni dalla felicità.
Il
viaggio in treno fu più rapido di quanto lo fosse stato
all'andata,
passandolo per metà a leggere un libro e per l'altra
metà a
guardare il paesaggio che cambiava al di là del finestrino.
Aveva
detto una piccola bugia, anche se di certo Indigo, attraverso il
telefono hackerato, doveva sapere che lo era: a lavorare a quel
progetto ci avrebbe pensato una volta conclusa la vacanza, ma doveva
assolutamente essere a National City per un appuntamento concordato
quella mattina, appena sveglia. Aveva dormito benissimo accanto a
Kara, le era mancata e, forse non così assurdo, le era
mancata
quella cameretta dai colori pastello dove si era innamorata di lei.
Si era svegliata molto presto e il suo cervello aveva cominciato a
macinare un pensiero dopo l'altro, accovacciando la testa sui suoi
capelli dorati, beandosi del suo odore. Non voleva compromettere il
buonumore di Kara, ma sarà stata l'aria assonnata e il suo
profumo a
confonderla, a farla alzare dal lettino e, dopo averle lasciato un
bacio sulla base del collo, prendere il cellulare e fare quella
telefonata. Solo una volta in stazione pensò che doveva
essere stata
un'idea sciocca. Ma oramai si trovava lì e perché
no provarci?
Attese qualche minuto e la vide scendere dalle scale davanti a Fort
Rozz. Non aveva spento il telefono, ma lo aveva sepolto abbastanza in
fondo alla borsa e in mezzo ad altre cose che sperò in un
po' di
privacy in più.
«Puntuale
come gli svizzeri, signorina Luthor», esclamò
Astra Inze,
fermandosi al suo fianco. «Togliamoci subito un impiccio: del
lei
o del tu?».
«Indifferente».
«Oh,
bene», sorrise, invitandola a seguirla con uno sguardo,
riprendendo
a camminare. «Posso offrirti qualcosa? Ho saltato la
colazione e sto
letteralmente morendo di fame». Si avvicinarono in un locale
intanto
che la donna, che sembrava avere una grande voglia di parlare, le
raccontava delle condizioni di suo marito Non ancora in prigione. Il
processo andava per le lunghe, ma era questione di poco e lo avrebbe
riavuto al suo fianco. «È sempre stato un po'
schizzinoso, sai, ma
dopo l'esperienza prigione penso che gli potrà far piacere
anche una
bella zuppa, che guardava sempre con quel sospetto…
Scusami», si
fermò per prendere un enorme morso al suo grosso panino a
tre
strati, tappandosi la bocca con una mano per masticare e ingoiare,
«ma da quando sono fuori ho sempre fame». Chiuse
gli occhi dopo un
altro morso e masticò piano, con espressione appagata.
«Dovevi
prendere qualcosa anche tu. La carne è cotta a
puntino», incalzò e
si rimisero in cammino, tra i suoni dei clacson insistenti sulle
strade e le voci dei passanti a fianco: era metà mattina e
c'era
molto traffico. «Non mi aspettavo la tua
telefonata», la cercò con
la coda dell'occhio.
«E
io che avresti accettato».
«È
successo qualcosa a Kara?».
«No.
Sta bene. Ma volevo proprio di parlare di lei».
Astra
parve sospirare e dopo cercare attentamente, aprendo in due il
panino, se era rimasto ancora del formaggio. «Mi faresti
compagnia?
Ho trovato casa, non è lontano da qui e possiamo camminare,
così
apro un po' per arieggiare». Attraversarono, ascoltando il
chiacchiericcio di due automobilisti lontani.
A
Lena non stupì affatto che avesse già trovato
un'abitazione, così
come non le stupì affatto che avesse cambiato argomento. La
seguì
all'interno di un palazzo e si misero da una parte sulle scale
dell'ingresso per lasciar passare due ragazzini che correvano,
sgridati da quella che sembrava la madre, prima che chiudesse la
porta. Scelta insolita, si incuriosì la ragazza: sicuramente
essere
vicino a Fort Rozz le permetteva di andare a trovare il marito quando
voleva, ma era certa che l'organizzazione si sarebbe potuta
permettere un luogo più tranquillo invece di un appartamento
in una
palazzina per famiglie.
«Già
ammobiliata, meno stress», spiegò, entrando in
ascensore. «Mi
hanno consigliato di ridurre lo stress dopo l'esperienza che ho
vissuto. Tu lo credi possibile?», Astra sospirò,
scrollando le
spalle, «No… Ho troppe cose da fare, e da pensare,
di cui
occuparmi adesso che sono… beh, libera».
Lena
le lanciò un'occhiata. «Per
l'organizzazione?», domandò con
coraggio, a bassa voce.
Astra
non parve sorprendersi e rispose con sufficienza: «Tra le
altre
cose. Ho un ruolo diverso, altre responsabilità…
Ma non parliamo
di lavoro».
Le
porte dell'ascensore si aprirono e Lena seguì la donna verso
una
porta, intenta a ricercare le chiavi. Sarebbe entrata in casa sua?
Erano da sole. In realtà non temeva che l'avrebbe aggredita,
ma si
ricordò solo in quel momento, dopo tempo, di non avere con
sé la
pistola. Kara le aveva insegnato qualche trucchetto se Astra Inze le
avesse dato un segnale ostile di qualunque tipo, ma non era quello a
preoccuparla, quanto più scoprirsi ancora oggi assuefatta
dall'arma.
L'appartamento
era spazioso e luminoso. C'era un salottino che portava alla sala da
pranzo divise da un'arcata e un breve corridoio verso le porte delle
camere. Astra aprì le finestre e la invitò in
sala da pranzo,
chiedendole se volesse bere qualcosa. «Mi trasferisco a
giorni, ti
piace?». Portò la bottiglia di vino rosso sul
tavolo accompagnata
da due bicchieri e la aprì davanti a lei, forse per
assicurarle che
non nascondesse niente. «Sai, devo porgerti le mie
scuse». Prese la
sua completa attenzione e versò da bere a entrambe, sedendo
accanto.
«Quando tu e Kara siete venute a trovarmi, non mi fidavo
affatto a
parlare di cose… più private
davanti a te. Non sono mai stata grande fan dei Luthor e tua madre,
per cominciare, non mi ha mai dato motivo di pensare che mi
sbagliassi».
Lena
arcuò un sopracciglio, bevendo un sorso. «Ne ho
una vaga idea».
«Tuo
padre», ingoiò, «è banale
dire che era diverso, ma per certi
versi lo era davvero».
«Non
sono qui per parlare di mio padre».
«No?»,
sorrise, finendo di bere e guardandosi attorno. «Allora, a te
piace?
Pensi che Kara verrebbe a stare qui? Magari nei week-end»,
borbottò
con un sorriso. «Mi è parso di vedervi molto
affiatate e io non sto
con lei da molto tempo. Com'è? So qualcosa, ma…
è cresciuta. Ha
qualche hobby in particolare? Cosa le piace fare? Ha un
ragazzo?»,
si fece curiosa e Lena ingigantì gli occhi, prolungando la
sua
bevuta. «Mi sono persa tante di quelle cose»,
abbassò lo sguardo
un momento e si portò le braccia sul grembo.
«Dunque non mi hai
chiesto di vederci per parlare di tuo padre, non per farmi
riavvicinare a Kara…», la guardò negli
occhi, piegando le labbra
con cruccio, «Mi hai chiesto di vederci per dirmi di starle
lontano.
Alex Danvers ti ha-».
«Alex
Danvers non c'entra niente». Lena poggiò il
bicchiere vuoto sul
tavolo, alzando il mento. Non sapeva da dove iniziare. «Non
avrei
usato queste parole», giocò ad accarezzare lo
stelo del bicchiere,
assorta. «È vero quando dici di esserti persa
tante cose di lei.
Con l'arresto di Rhea Gand è riuscita a perdere un peso non
indifferente che si portava dietro da anni», la vide
stringere le
labbra, ben sapendo dove volesse andare a concludere,
«rivedere te
la riporterebbe un passo indietro, a quando ha perso i suoi
genitori».
«E
cosa vuoi saperne tu di quel giorno?». Astra si
alzò, mettendo le
braccia a conserte e cominciando a camminare, nervosa. «Non
voglio
mancarti di rispetto, Lena, ma non sai proprio niente di ciò
che
stai parlando».
«So
quanto mi ha detto Kara».
«Che
era una bambina», ribatté, portandosi una mano sul
volto. «Ho
fatto di tutto per salvarli da quel giorno! Rhea Gand non ha portato
via solo a Kara la sua famiglia, l'ha portata via anche a
me»,
strinse i denti. «Restiamo solo io e lei».
«Se
le vuoi bene dovresti sapere-».
«Cosa?
Pensi che non le voglia bene?».
«Dovresti
starle lontana per non far riaprire vecchie ferite»,
sostenne,
accigliandosi. «Comprendo il tuo punto di vista, ma penso per
prima
cosa al benessere di Kara».
«Beh,
è chiaro che anche tu le voglia molto bene»,
forzò un sorriso,
riprendo a camminare in cerchio. «Sono contenta che abbiate
questo
tipo di legame, sarà stata sola per chissà
quanto… Ma mi
costringi a essere antipatica: io sono la sua famiglia, Lena Luthor.
Voi siete… un surrogato. È mio il compito di
pensare al suo
benessere. Sei la sua sorellastra da quanto tempo? Dei mesi? E pensi
di avere più voce in capitolo di me, che ero lì
alla sua nascita?
Che ero lì quando ha mosso i primi passi? No»,
piegò la testa da
un lato senza perdere il sorriso. «Il sangue che scorre nelle
sue
vene la lega a me. Non ai Danvers e men che meno a voi Luthor. E
questa cosa tra», agitò una mano, provando una
risata che spense a
breve, «Danvers e Luthor è già
abbastanza… ridicola
senza mettere di mezzo Kara», fermò i suoi passi,
sospirando. «Come
il diavolo e l'acqua santa, qualcosa che… no, qualcosa che
funziona
solo per miracolo, probabilmente. Ma ciò che voglio dire,
Lena, è
che non puoi chiedermi questo», strinse un pugno pian piano e
così
gli occhi, riaprendoli di scatto e alzando la voce, «Non puoi
chiedermi di rinunciare a tutto ciò che mi resta».
Lena
allora si alzò, rimettendo a posto la sedia.
«Anteponi la tua
felicità alla sua».
«Oh
no, non metterla su questo piano! Pensi che non mi accetterebbe? Mi
crede davvero responsabile?».
«No,
credo che ti accetterebbe… è questo che mi
preoccupa. Non voglio
rivederla triste».
«Allora
abbiamo una cosa in comune».
Lena
chiuse delicatamente gli occhi, prendendo fiato, per poi
allontanarsi. Era stato un viaggio a vuoto? Ci aveva provato, era suo
dovere farlo per lei; ora il suo compito sarebbe stato quello di
stare al suo fianco e accettare le sue decisioni, così come
lei
aveva accettato le sue e le era andata incontro su Indigo.
«Noi
ci eravamo già conosciute. Lo sapevi?».
Fermò
i suoi passi e si voltò, aggrottando la fronte.
«So
che non vuoi parlare di tuo padre, ma… Avevi due anni, due
anni e
mezzo. Non te lo ricorderai. Eri con lui, in braccio. Mi aveva
chiesto di vederci in un hotel e io», si appoggiò
al tavolo,
fissandola, «stavo cercando di entrare nell'organizzazione,
non
potevo lasciarmi scappare l'occasione, e accettai. Voleva un mio
consiglio perché nella polizia mi ero occupata di vari casi
in cui
c'erano di mezzo dei minori».
«Un
consiglio di che tipo?», restò a bocca aperta,
interessata.
«Voleva
riconoscerti».
Lena
spalancò gli occhi e scattò mezzo passo indietro.
Riconoscerla?
Accettarla come sua figlia biologica? Astra Inze lo sapeva?
«Sì,
so che sei davvero sua figlia biologica, Lena. Non lo dirò a
nessuno, me lo aveva fatto promettere», guardò in
basso un istante.
«Era molto preoccupato per la situazione all'interno della
vostra
famiglia… Quella volta non era sceso in dettagli, ma
qualcuno si
era opposto e temeva le conseguenze».
«Chi?».
Astra
sorrise. «Te l'ho detto, non sono mai stata grande fan dei
Luthor e
tua madre non era l'unica stronza, da quelle parti. C'è
sempre un
capofamiglia, Lena. Tuo padre era preoccupato perché il
capofamiglia
ti voleva nei Luthor, ma non voleva che si sapesse che eri sua nipote
di sangue… La tua è una famiglia potente, sarebbe
stato uno
scandalo. Neanche tua madre, chiaramente», aggiunse, svelta,
«Lei
non voleva neppure sapere che esistessi». Si guardarono e
Lena
irrigidì le labbra, pensando che era arrivato il momento di
andarsene. «Ti voleva bene», la fermò
dal voltarsi e lasciò il
tavolo, raggiungendola. «E lo troverò, Lena. Lo
prometto a te come
l'ho promesso a Lionel davanti alla sua tomba»,
deglutì, «Il suo
assassino. E la pagherà».
Lena
raggiunse la porta. «Non venire a quella cena»,
ribadì con
chiarezza e chiuse dietro di lei.
Il
suo assassino.
Astra Inze voleva…. Lena si portò una mano in
fronte, sedendo
composta sul sedile del treno. Era quello di cui si stava occupando
nell'organizzazione ora che era fuori? Vendicare l'assassinio di suo
padre? Allora non era stata l'organizzazione e lo stavano cercando.
Chissà che lei avrebbe avuto più fortuna.
Appoggiò meglio la
testa, chiudendo appena gli occhi. Aveva dormito poco e si era
svegliata troppo presto. Voleva essere lei a trovare chi lo aveva
ucciso, accidenti, non poteva lasciare che Astra Inze e
l'organizzazione lo facessero sparire. Voleva guardarlo negli occhi e
chiedergli il perché. Voleva… per fortuna non
aveva con sé la
pistola. Lui voleva riconoscerla? Aveva circa due anni e mezzo, la
teneva in braccio. La sua madre biologica e suo padre avevano
continuato a vedersi…? Quante domande le si erano accese in
testa,
quante gliene avrebbe voluto fare, se fosse stato ancora in vita.
Sulla sua madre naturale, la sua malattia, su come si erano
conosciuti e perché erano stati insieme anche se lui era
sposato.
Chissà se gli sarebbe piaciuta Kara. Oh, sorrise, era sicura
di sì:
piaceva a tutti e non avrebbe fatto eccezione. Cosa avrebbe pensato
della loro relazione e del loro desiderare di andare a vivere
insieme? Cosa le avrebbe detto, quali esatte parole avrebbe usato? Lo
trovò, chiudendo gli occhi, delineato con le forme dai
colori accesi
che si trovavano al di là, nella sua immaginazione, con la
barba e i
capelli pettinati da un lato. Lo vide parlare e, anche se non
sentì
la sua voce, si lasciò cullare, addormentandosi per qualche
minuto.
Sto
tornando. Tu e Indigo andate d'accordo?
Kara
sorrise leggendo quel messaggio. Ancora non aveva sentito l'impulso
di soffocarla, quindi poteva dire che stavano andando d'accordo. Si
voltò per puntare Eliza che, in salotto, mostrava un vecchio
album
di foto a Indigo. La ragazza fingeva disinteresse, giocando a
picchiettare quel lemure, ma ci buttava l'occhio e si metteva a
commentare.
«In
famiglia siamo andati al mare, una volta. Mio fratello era piccolo
come una palla», scherzò e Kara mosse l'angolo
destro delle labbra
rosa, commuovendosi.
«Hai
un fratello?», le domandò Eliza e l'altra
annuì, senza scendere in
dettagli. «Guarda questa. Kara e Alex erano appena tornate da
una
gara di nuoto e lo vedi il ragazzino dietro di loro?», rise,
indicando un punto sulla foto. «Jeremiah aveva cercato-
Scusa, il
mio ex marito. Aveva cercato di farlo rientrare nella foto
perché la
sua espressione era troppo divertente. C'era rimasto così
male…».
«Oh,
sì», sogghignò lei. «Questa
è Kara?», ci poggiò poi un dito,
«Ci credo che ha vinto: era piatta come una tavola,
sarà andata
lisci- Ahi-»,
si fregò la testa e s'imbrunì quando le
arrivò contro una penna.
«Fa male».
Eliza
la sgridò e Kara mise su il broncio.
«L'ho
lanciata piano…».
Quando
tornò a casa Danvers-Luthor, Lena capì
perché le parole di Astra
Inze su Kara non l'avevano minimamente ferita. Eliza era intenta a
innaffiare le piante con Lillian che la teneva abbracciata intorno ai
fianchi; parlava con la moglie ma intanto guardava di straforo quella
che per lei era Linda che, sul divano, annuiva cercando di
memorizzare le regole del gioco di carte che le stava spiegando Kara,
il tutto mentre il lemure, a fianco, assisteva alla scena con
impietosa normalità. Kara alzò lo sguardo,
sorridendole. Loro erano
quanto di più lontano di un surrogato, erano l'unica vera
famiglia
di Kara. Quelle di Astra Inze erano parole pregne di tristezza e
solitudine, bisognosa di attaccarsi a qualcuno per non sentirsi
persa. Capiva perché Eliza l'avesse invitata a cena: non era
solo un
modo per permettere a Kara di non perdere i contatti con una parte
della sua famiglia di nascita, ma anche perché Astra
comprendesse
che la nipote una famiglia l'aveva e che, se lo desiderava, poteva
farne parte anche lei. Non doveva contenderla se le avesse dato modo
di non sentirsi un'esclusa.
A.
Danvers:
Quindi tuo padre voleva riconoscerti? Non so cosa pensare. Comunque
quando avremo un momento dobbiamo parlare. Ah, e con Astra?
Sdraiata
sul lettino di Kara in camera, Lena digitò cercando di non
emettere
rumori sospetti.
A.
Danvers:
Sì, verrà comunque anche secondo me! Fatemi
sapere. Intanto ho
preso spunto: ho invitato quel Charlie qualcosa a cena. Studiamo il
nemico.
Kara
entrò in camera in quel momento e si coricò
defilata al suo fianco,
stampandole un bacio sulla fronte. «Sono riuscita a staccarmi
da
Eliza solo adesso. Com'è andata da mia zia?
Perché sei voluta
andare?».
Lena
sorrise e, dopo aver colto le sue labbra, le sussurrò contro
un
«Dopo»,
finendo per morderle un labbro.
Si
baciarono a lungo, socchiudendo gli occhi. «Non ci credo che
ci
stiamo baciando e non stia apparendo Lillian da nessun angolo della
stanza».
Lei
rise. «Dovremo approfittarne».
Si
ritrovarono, mettendo via il vecchio telefono. «Ci vuole una
foto
che immortali la novità».
Sorrisero
e scattarono. Una boccaccia e scattarono. Gli occhi a palla e la
bocca tirata e scattarono, finendo per ridere, una con la testa a
fianco dell'altra.
«Controlliamo
che non appaia Lillian alle nostre spalle», rise Kara,
prendendo il
cellulare per sé.
Lena
si portò una mano sul viso, ridendo anche lei. «Se
riesce a farlo
qui, prometto di chiederle se vuole partecipare alla foto, la
prossima volta».
Kara
trattenne un'altra risata, passandole il cellulare. «Oh,
oh!
Preparati a chiederglielo».
Lena
rise ad alta voce: la faccia imbronciata di Lillian era stata
tagliata e incollata senza cura in mezzo alle loro teste vicine,
sopra i capelli distesi sul materasso. «Glielo chiederai
tu»,
continuò a ridere, non notando lei che si incantò
a osservarla,
voltandosi di fianco.
«Era
da un po' che non ti vedevo ridere così».
«Non
è vero… Così
come?». Lena la guardò a sua volta.
«Sono felice. Ho dato gli
esami, prenderò la mia terza laurea; non potrei sentirmi
più
libera». L'altra si paralizzò e Lena
arcuò un sopracciglio.
«Cosa?».
«Terza?»,
si portò seduta di scatto e Lena la seguì,
appoggiandosi con i
gomiti.
«Beh…
sì».
«Quando
hai trovato il tempo?».
«Ti
sorprenderà, ma… prima non avevo tutta questa
vita sociale». Si
guardarono e iniziò a ridere da sola, contagiando l'altra.
«Oh,
mi sorprende», ridacchiò, «davvero
tanto». Si riparò con un
braccio quando Lena le schiaffeggiò una coscia.
«Non lo avrei mai
detto».
«Stai
esagerando, Kara Danvers», si mise dritta, accostandosi con
sguardo
contrariato.
«Come?
Ti ho solo dato ragione, mi sembra», sorrise con contentezza,
alzando le spalle.
«Stai
decisamente
esagerando», riprese, arcuando di nuovo un sopracciglio.
«Non ti
conviene oltrepassare la linea-».
«Quale
linea?», sussurrò a poco dal suo viso.
«Quella
del concesso… Poi dovrei mostrarti chi comanda».
«Oh…
e chi comanda? Sono curiosa», la tenne d'occhio mentre si
avvicinava
ancora e le avvolgeva il volto con una mano. Lasciò che le
baciasse
un angolo delle labbra e dopo il collo, sentendo il suo alito salire.
Percepì il suo fiato sull'orecchio e, dopo… no,
la lingua no!
Le passò la lingua all'interno dell'orecchio e Kara
sentì un
brivido lungo la schiena, ma non fece in tempo ad acchiapparla che
Lena la spinse indietro, alzandosi in fretta per scappare.
«Eh no,
adesso no». Kara scattò e si gettò
giù dal letto con un piede,
scivolò sul tappeto e per poco non baciò il letto
di Alex,
bloccando anche l'altra per un attimo, che si fermò per
ridere. Lena
riuscì ad aprire la porta e Kara le avvolse le braccia
intorno alla
vita, placcandola in corridoio e sollevandola. «Ti ho
presa».
«No,
no, no, Kara, mettimi giù», si aggrappò
sulle sue braccia, «Questo
non vale, non vale». Non poteva fare a meno di ridere, anche
se
essere sollevata non le piaceva per niente.
«Ah,
non vale?».
«Te
ne pentirai! Dammi retta: mettimi giù. Adesso»,
calciò con i piedi e Kara rise, almeno fino a quando non
sentirono
uno schiarirsi di gola ed entrambe smisero di muoversi, intanto che
Lena scivolava a terra, una volta allentata la presa: Lillian era
lì,
passava proprio in quel momento.
«E
non è la parte peggiore». Indigo era a pochi passi
da loro, davanti
alla porta aperta della camera di Alex, cellulare in mano:
«Quelle
due fanno sesso».
La
donna scrollò gli occhi, riprendendo a camminare.
La
musica che partiva dalla festa al centro del paese si sentiva
già
quando aprirono la porta di casa. Indossarono qualcosa di comodo e
carino e si portarono dietro delle giacchette per quando avrebbe
fatto più fresco, muovendosi a piedi verso la piazza. I
vicini le
salutarono ma restavano sempre un po' straniti, nonostante il tempo
trascorso, quando vedevano Lillian. Specie se anche lei cercava di
approcciarsi come chiunque altro, con il volto tirato e finto di chi
avrebbe voluto farne a meno. Scrollò gli occhi quando scorse
Kara
parlare a un orecchio di sua figlia; si sfioravano ma non osavano
tenersi per mano, c'era troppa gente. Quella Linda restava a un passo
da loro, fino a che non le vide cercarla e tirarla al loro fianco.
Un
turbinio di colori in perenne movimento veniva proiettato sulle mura
delle case intorno alla piazza dove un altro proiettore, sul punto in
cui gli abitanti amavano destreggiarsi in qualunque tipo di ballo,
scagliava l'immagine di stelle piccole e grandi che si formavano e
riformavano. Occuparono due tavolini esterni di un locale e si
presero da bere, notando solo in un secondo momento di intravedere
facce conosciute tra quelle impegnate a ballare; allora non
mancò
molto prima di sentire un sonoro «Zia
Kara»
in loro direzione. Jamie le raggiunse con una corsa, impantanandosi
sulle gambe di un signore, costringendo poi Kara a ballare insieme a
lei.
Eliza
scoccò ad Alex un'occhiata quando lei e Maggie si
avvicinarono,
fintamente offesa. «Potevate avvertire».
«È
stata una decisione dell'ultimo minuto», rispose vagamente
scocciata
e Maggie le diede un colpetto a un braccio con un gomito, spronandola
a comportarsi bene.
«Abbiamo
portato Jamie al parco e siamo venute direttamente»,
spiegò Maggie,
«Così possiamo stare insieme». Si
voltò verso la pista e inquadrò
la figlia che saltellava tenuta stretta alle mani di Kara.
Indigo
restò col bicchiere in mano, appoggiato sul tavolino.
Esaminava Kara
e la sua pazienza con la coda dell'occhio e le persone intorno far
festa: c'era chi gridava dal ridere, sovrastando la musica; le
coppiette che si tenevano per mano e quelle che si baciavano davanti
a tutti; gli anziani che, scacchi in mano, guardavano chiunque e
dovunque, soprattutto le Luthor, commentando tra loro; Lena guardava
Kara, chissà cosa stava pensando; Eliza discuteva e Lillian-
oh,
stava guardando lei. Indurì il viso, voltandosi. Lei non ci
faceva
niente in quel posto, lo sapeva. Tutto ciò stava diventando
ridicolo: non poteva arrivare al punto di ciò che il suo
angelo
custode aveva in mente e andarsene? Stava già passando con
loro
troppo tempo, erano trascorsi dei mesi. Voleva andarsene. Adesso
voleva farlo, aveva cambiato idea, le bastava arrivare alla fine di
quello stupido incarico e sparire dalle loro vite. Lui sarebbe stato
felice e l'avrebbe lasciata vivere la sua vita in pace, e
loro… La
sua vita in pace… e loro… Indigo
abbassò gli occhi. No, no,
doveva concludere quella storia alla svelta perché quello
era un
attacco bello e buono, non era mica un'ingenua: le tante cose in suo
possesso, l'invito a stare lì, quel gioco di carte, sapevano
dei
cellulari. Avevano qualcosa in mente e si erano schierate: Lena era
dalla parte di Kara, ora, e lei si stava spazientendo.
Inquadrò di
nuovo la pista da ballo e a quel punto vide lui, e gli occhi le si
dilatarono. Cosa faceva lì Lex Luthor?
Il
giovane avanzò dritto verso di lei, porgendole una mano.
«Vieni a
ballare con me?», le domandò e Indigo mise su una
smorfia: non
sapeva ballare e non avrebbe imparato oggi. E di certo non lo avrebbe
fatto solo perché glielo chiedeva lui. «Allora,
vieni a ballare sì
oppure no?», insisté, prendendole un braccio e
tirando.
«Non
sei costretta, ma almeno sii chiara o te lo
romperà», Alex Danvers
rise e Indigo ebbe come un sussulto, scoprendo che le mani che le
tiravano il braccio erano molto più piccole.
La
mocciosa Sawyer…?! Era stata la sua immaginazione? Che
scherzo era
quello? Stava imparando a dormire da sveglia? Si alzò e si
lasciò
tirare da Jamie fino alla pista, trovando Kara e Lena che ballavano a
fianco. E adesso cosa non andava nel suo cervello?
Non
tornarono a casa troppo tardi. Kara continuò a canticchiare
un
motivetto suonato dal palco quella sera e si infilarono il pigiama.
Era passata circa mezzora quando Lillian si ritrovò a
camminare per
il corridoio buio. Lentamente, strisciava le ciabatte pelose. Aveva
un giramento di stomaco in corso e le bruciava la gola, ma non poteva
tornare da Eliza fino a quando non lo avrebbe fatto: l'obiettivo era
affrontare i suoi demoni entro la giornata, anche se era piuttosto
tardi. Aveva deciso. Prese un bel respiro e si affrettò di
colpo,
fermando i passi solo quando sentì le loro voci attraverso
la porta
chiusa della camera.
«Ah!
Ti regalo un bel Quattro
più»,
Kara rise con finta moderazione, «Pesca».
Quella
Linda brontolò. «Lo sospettavo già
questo pomeriggio: è un gioco
stupido».
«Diventa
un gioco stupido quando sai che stai perdendo miseramente»,
replicò.
A
quel punto Lena alzò la voce, ma si capiva come trattenesse
le risa:
«Non picchiarla, aspetta! Tanto non vincerà
comunque».
«Perché,
pensi di vincere anche adesso?». Lillian se la immaginava,
con la
fronte imbronciata e gli occhi innamorati. Oh, innamorati,
cielo. «È un gioco sulla fortuna, non puoi vincere
ancora tu».
Poi, a voce tanto bassa che Lillian dovette avvicinarsi un po' di
più, la sentì dire: «Oltrepasso la
linea del concesso se dico che
non giocherò mai più a niente contro di
te?».
«Non
ti piace perdere».
«Mi
basterà vincere contro Indigo».
«Posso
picchiarla, adesso?».
La
donna le sentì ridere e deglutì. Indigo.
Non poteva disturbarle adesso, non era il caso. E forse era perfino
sollevata di non doverlo fare. Ma Indigo.
Aveva un vago ricordo, aveva già sentito quel nome.
«L'hai
vista? Era un sorriso o me lo sono immaginata?», chiedeva
Kara con
voce stridula.
«Non
stavo sorridendo», rispose… Indigo;
la sua voce era piatta come suo solito, ferma.
«No.
Era uno spasmo dovuto al muscolo stanco», le venne in
soccorso Lena
e udì darle ragione.
Lillian
tornò indietro di mezzo passo e infine si voltò,
facendo il
percorso inverso fino alla sua camera con Eliza, chiudendo la porta
alle spalle. Tirò un sospiro di sollievo una volta
lì, al riparo.
Eliza la guardò di straforo, alzando gli occhi dal libro che
stava
leggendo già sotto le lenzuola.
«Non
ci sei riuscita, non è vero?».
Si
mosse fino al letto con pesantezza; le gambe le stavano cedendo per
via dell'ansia raccolta.
«Non
capisco, tesoro», appoggiò il libro sulle gambe
coperte, mantenendo
il segno e abbassando gli occhiali da lettura dal naso.
«Sembrava ti
fossi decisa a dirle che accetti la loro relazione, ma continui a
boicottarti da sola», trattenne un sorriso, scuotendo
brevemente la
testa. «Le faresti contente, lo sai».
«Quella
ragazza, tale Linda…
non mi piace». Si sfilò le ciabatte e la raggiunse
sotto le
lenzuola.
«Oh,
amore…», allungò un braccio verso di
lei, stringendole una mano,
«Non offenderti, ma non ti piace mai nessuno». Rise
e Lillian serrò
la bocca, fissando lo sguardo in avanti con un misto di rassegnazione
sul volto. «Le vedo gli occhi e trovo una bambina
smarrita».
«Non
è più bambina da un pezzo, mia cara».
«Ah,
ma lo è stata. E non lo è ancora, da qualche
parte?».
Lillian
le sorrise sprezzante, mettendosi di lato e sistemando il cuscino.
«Non offenderti, amore,
ma tu vedi del buono in tutti, non fai testo. C'è del marcio
in
quella ragazza, te lo dico io».
Eliza
sistemò un segnalibro tra le pagine e lasciò il
libro sul comodino
di lato, spegnendo la luce. Si fermò a osservare il suo
sguardo
sicuro nella penombra, dopo aver anche lei sistemato il cuscino sotto
i capelli. «Hai cambiato argomento», la scorse
sospirare. «Perché
ti è così difficile, Lillian? Non sei obbligata a
dirglielo, né ad
accettarle, ma sarebbe più facile, per te… Ne
abbiamo discusso».
«Lo
so».
«Sicuramente
siamo una famiglia fuori dagli schemi».
«Lo
so».
«E
ho capito che per ciò che è successo con
l'organizzazione ti
sentivi in debito verso Kara-».
«Lo
so».
«E
vederla in coppia con una Luthor ti fa sentire strana e-».
«Lo
so».
«Ma
non c'è nulla di meglio dell'amore che provano per unire le
due
famiglie».
«Lo
so».
«E
quando si sposeranno dovrai trovare il tuo sorriso migliore».
«Lo
so».
«Vorranno
avere dei bambini e dovrai prepararti a fare da nonna. Stavano
pensando che cinque potrebbero bastare».
«Lo-
Cosa?».
Eliza
sghignazzò nel vederla con occhi sgranati. «Mi
avevi persa qualche
battuta fa», le passò una mano sul viso.
«Prenditi il tempo che ti
occorre. Buonanotte, Lillian». Si voltò, chiudendo
gli occhi.
Ma
l'altra non si addormentò subito. Indigo.
Un nome così particolare era difficile da dimenticare.
«Cara?». Le
rispose con un sussulto e un verso. «Quelle due parlano di
matrimonio e figli?».
«Buona-mh-notte,
tesoro».
Indigo
odiava doversi comportare da persona,
che richiedeva sempre aspettative. Da ragazzina ci aveva provato
disperatamente sperando che Cyan, suo fratello, facesse lo stesso,
finendo per essere stato lui a insegnare a lei che non era
necessario. Provare qualcosa verso qualcuno non era sbagliato, ma
pericoloso. Sua madre si era ammalata perché teneva a Cyan e
aveva
dimenticato come si faceva a vivere. Lui era morto in pace, non aveva
avuto di quei problemi. E ora Lena Luthor e Kara Danvers volevano
addomesticarla? Allora non avevano capito niente di lei. Uscita dalla
loro camera in comune non tornò in quella di Alex per
dormire, ma si
andò a sedere sul tappeto in salotto, al buio, con la
schiena
poggiata sul divano, perché voleva pensare. Aveva quel
lemure
peluche con sé che la fissava con i suoi luminosi occhi
rossi. Non
sapeva neppure perché se lo era portato dietro, le dava
fastidio e
lo lanciò in avanti. In quel momento sentì una
porta aprirsi.
Avrebbe inviato un messaggio al suo angelo custode sperando avesse
un'idea per velocizzare i tempi e decise di attendere.
Deglutì
quando le due pensarono di sedersi con lei, Kara a destra e Lena a
sinistra, recuperando il peluche:
«Sapevi
che i lemuri hanno un comportamento sociale molto più
complicato di
quanto comunemente si immagina?», raccontò Lena,
appiattendogli i
peli morbidi intorno al muso. «Costruiscono rapporti
duraturi, si
scelgono. Le cerchie sociali incidono anche sulla loro
sopravvivenza».
«So
che lo sapete», la voce fredda di Indigo spezzò il
successivo
silenzio.
«Sappiamo
cosa?», tentò Kara e la videro sorridere di gusto.
«Oh,
basta così. Riponiamo le armi, ragazze, possiamo
smetterla», fissò
un punto vuoto e buio davanti a lei. «Sono stanca di questa
situazione, avete vinto: lavoro per lui come già sapete, non
ho mai
smesso, ho hackerato i vostri cellulari, gli riporto informazioni
quando so qualcosa, non vi dirò nient'altro
perché non so
nient'altro», mentì, annuendo con un sorriso
sprezzante. «E no,
non vi ho sentito: non ci tengo a sentirvi fare sesso»,
lanciò
un'occhiata a Kara e lei si sentì colta sul vivo, arrossendo
e
aggrottando lo sguardo. «Potete smetterla di essere gentili
con me,
di includermi, di invitarmi, di regalarmi qualcosa, di fare qualunque
altra cosa insieme a me. Di giocare con le carte… Non siete
obbligate. Non mi interessa! Non sorrido. E non mi piace venire alle
feste di paese con voi a mangiare un gelato. Ne ho
abbastanza».
Lena
e Kara si guardarono: l'avevano portata al limite prima di quanto si
immaginassero, erano riuscite nel loro intento. O quasi.
«Mi
avete beccata: vi prendo in giro da quando mi conoscete! Non sono un
lemure e non ho stretto con voi alcun legame sociale o familiare come
pensate, non me ne frega niente», continuò con
voce dura. «Ho
smesso di cercare di capire i sentimenti delle persone; anche quelli
che provo per te, Lena Luthor», guardò lei di
straforo, questa
volta. «Voglio solo finire il lavoro e andarmene. Solo
questo».
Forse
si aspettava una qualche reazione più scomposta, ma le due
non
fecero niente del genere. E ora cosa fare? Come continuava il piano?
«Non
ti credo».
Indigo
si voltò, squadrando Kara Danvers. «A
cosa… non credi? Sono
sincera».
«Lo
sei», aggiunse Lena, facendola voltare dall'altro lato.
«Sei
sincera quando sorridi, sei sincera quando perdi e ti si tirano i
muscoli facciali. Sei sinceramente felice quando ti diverti. Sei
sincera quando capisci che stai bene con noi e non vuoi
andartene»,
proseguì, intanto che lei la fissava con le narici
spalancate e le
labbra rigide, non riuscendo a muoversi. «Ti piace
sinceramente
giocare ai videogiochi e parlare con Winslow dei trofei vinti. Ti
piace sinceramente guardarmi, a volte… lo so, me ne
accorgo».
«Cos-»,
Kara trattenne un verso indispettito.
«Ti
piace sinceramente stuzzicare Kara e farla innervosire».
«E
quando io faccio innervosire te», aggiunse lei e Indigo
brontolò
con un deciso no.
«Ti
piace sinceramente essere inclusa, fare parte di una famiglia, se
così possiamo chiamarla…», Lena
abbozzò un sorriso, arrossendo.
«Sei sinceramente combattuta, Indigo, perché hai
paura».
«Non
ho paura».
«Vedi?»,
Kara attirò di nuovo la sua attenzione, abbassando la testa
da un
lato e aggiungendo un sorriso: «A questo non
credo».
Indigo
strinse i pugni e fissò un punto vuoto. Perché il
suo corpo stava
reagendo in quella maniera? Perché la tachicardia, il freddo
improvviso, il prurito alle gambe dalla voglia di scattare e
scappare? E perché il principio di vomitare? Lo stomaco
quale
scherzo le stava giocando, adesso? Lo sapeva, avrebbe dovuto
aspettarselo: era il loro attacco finale, il colpo decisivo…
per
quello faceva tanto male. Ma loro non la conoscevano, non sapevano
niente di lei, non sarebbero riuscite ad addomesticarla. Dov'era la
musica di Cyan quando le serviva? Basta, era ora di finirla! Spinse i
piedi per darsi lo slancio e… no, si mosse appena, restando
ancorata a quel tappeto. Si accorse di stare piangendo quando la
vista le si offuscò. Cosa… Lei non
sapeva… Lena la abbracciò e
Kara fece altrettanto, sussurrandole che ormai si era abituata ad
averla intorno. Indigo non sapeva cosa fare, l'avevano
fregata…
Quella situazione la metteva a disagio ma non riusciva a muoversi.
Forse… Forse non voleva. Era per quello che non riusciva.
Restarono
così, nel buio.
Aveva
smesso di cercare di capire i sentimenti, si ripeté. Era
così.
Aveva ufficialmente smesso. Aveva smesso perché erano punti
deboli e
trovò l'immediata conferma nello sguardo di Astra Inze non
appena,
giunta per quella cena, ritrovò di nuovo sua nipote. E
trovò una
conseguente conferma, poco più tardi, in quello preoccupato
di Kara
Danvers nell'apprendere che il suo ex coach era in ospedale in bilico
tra la vita e la morte. Cose che succedevano, pensò Indigo.
Le
persone erano così fragili, corrotte, problematiche. E
ancora
imprevedibili, inaffidabili, i sentimenti così
sopravvalutati. Erano
un bug del sistema. Aveva smesso di cercare di capire i sentimenti,
ma li provava. Li provava anche lei.
Questo
è senza il benché minimo dubbio uno dei capitoli
più lunghi, e che
più mi piacciono, che abbia mai scritto. Che non ho il dono
della
sintesi lo avrete già capito, ma veramente, non sono
riuscita a
tagliare via niente, doveva essere così, in bene…
o in male.
E
anche in questo capitolo c'è una una scena che non sono
sicura di
aver scritto bene, sapete di che parlo XD Ancora una volta, a voi la
sentenza!
All'inizio
del capitolo abbiamo la scena mancante del capitolo 59 che apre, e
che questo capitolo a suo modo chiude, l'“attacco”
di Kara e Lena
e il percorso di Indigo riguardo ai sentimenti. E chi avrà
vinto,
alla fine? Di certo Lena e Kara si sono impegnate, lei se
n'è
accorta. La metafora coi lemuri è venuta fuori “a
naso”, volevo
qualcosa e avevo un lemure (sì, non era stata pensata nel
capitolo
scorso quando ho introdotto il peluche), avevo letto qualcosa su di
loro in passato quindi ho cercato ciò che mi serviva e bam.
E nulla, i lemuri sono carini, pur coi loro occhi spiritati.
Ah!
Una scena importante che mi piace tanto è quella tra Lena e
zia
Astra! Entrambe vogliono bene a Kara, in modo differente, e hanno una
loro visione di come la seconda dovrebbe approcciarsi con lei, che
sono diametralmente opposte: Lena pensa che dovrebbe lasciarla stare
perché Kara si è appena chiusa la storia di Rhea
Gand alle spalle,
l'altra che è suo diritto stare con Kara perché
sono una famiglia
e, nel suo immaginario, l'unica famiglia. Da che parte state? Ma non
è tutto: da tenere in considerazione, io lo dico,
ciò che Astra ha
riferito a Lena su suo padre e sul volerla riconoscere, cosa che poi
sappiamo non è successa.
Abbiamo
una Lillian “scatenata” che si ritrova sempre in
mezzo e ora
sappiamo che cercava un modo per parlare con loro e… oh,
dirle che
accetta la loro relazione. Come proposito non ha avuto grande
successo, diciamolo, sarà che non sembra accettarle per
davvero come
forse, emh, dovrebbe
XD Apprezziamo lo sforzo?
Essendo
anche un capitolo corposo, vi farò attendere un pochino per
il
prossimo: segnatevi il 27 giugno, Our
home
torna col capitolo 64 che, oh sì, sarà anche
questo mooolto
corposo, ricco di informazioni, da leggere con calma, c'è
davvero
tanta, tanta roba, e si intitola Angel
Children's Memorial.
Lo avete già sentito questo nome, oh
sì…
|
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Capitolo 66 *** 64. Angel Children's Memorial ***
Salve!
Qui la vostra Leslie Willis!
Sono
stata scelta per questa introduzione al nuovo capitolo, non
pagata, sottolineiamo,
per dire a tutti voi che vi apprestate a leggere che questa robaccia
è lunghissima! Ed è ironico
se pensiamo che succede davvero pochissimo; la maggior parte del
tempo lo si passa sedute a fare salotto, è incredibile. Beh,
tenete
d'occhio i dettagli, non li ripeteremo per nessuno. No, proprio
nessuno, intendo, non si fanno favoritismi e, se dovete andare in
bagno, correte ora o ve la dovrete fare addosso.
Dalla
regia mi dicono di ricordarvi di tenere a mente il passaggio dei
tempi verbali! Dal presente, tipo La
principessa si
svegliò
in un mondo di fiabe;
al passato, La
principessa si
era svegliata
in un mondo di fiabe ma era l'lsd.
Dovete perché, sembrerebbe, noi protagoniste avremo
parecchio
da
ricordare e partiranno i filmini in stile flashback.
Ricordatevi
di me, che se non ci fossi queste starebbero a girarsi i pollici.
Grazie
per l'ascolto, è stato quasi un piacere.
Leslie
Era
stato inaspettato. Aveva sentito il cellulare vibrare accanto al
piatto e Alex aveva chiesto scusa, alzandosi per andare a rispondere.
Avevano lasciato Jamie dai nonni e, seduto davanti a loro, Charlie
Kweskill rideva sereno. Tutto sommato, la cena stava proseguendo
meglio di come si era immaginata.
«Posso
prendere altre polpette?», aveva chiesto lui con l'acquolina
in
bocca ed entrambe le mani già al centrotavola.
Maggie
gli aveva dato il permesso, alzandosi per andare a riempire il
boccale d'acqua. Nessuno dei due era pronto per vedere Alex tornare
da quella telefonata con la pistola puntata verso il giovane
poliziotto.
Lui
aveva spalancato la bocca, portando le mani in alto. «Okay,
le
lascio».
Alex
riempì le guance d'aria ripensando a quella notte, quella
cena, due
giorni fa. Aveva appena parcheggiato l'auto e stava raggiungendo la
boutique a piedi, chiave magnetica già in mano.
«Che
cosa succede?», le aveva chiesto Maggie, lasciando il boccale
sulla
penisola del cucinino. Guardava la sua compagna e lui, che sembrava
spaesato almeno quanto lei.
«John
è in ospedale, lo hanno saputo adesso. Qualcuno gli ha
sparato».
«Cosa?
John… Come- Come sta? È terribile».
«Ohi,
okay… Non è…», lui aveva
cambiato espressione di colpo. «Mi
metterò in piedi, okay? Non sparare… Noi non
c'entriamo niente con
questa storia! È la prima volta che lo sento».
La
prima volta che lo sentiva, ripensò Alex. Dal suo volto
pallido
sembrava dire la verità, ma come poteva fidarsi? Diede
un'occhiata
al cielo anche oggi soleggiato fin dalle prime luci del mattino e
passò la chiave magnetica, con un movimento automatico.
Spinse la
porta per entrare e ci sbatté contro la fronte. Non si era-
Passò
la chiave magnetica di nuovo e la spia si fece rossa. La
passò
ancora, e ancora, sempre rossa. «Oh, e cosa ti prende,
adesso…?».
Ci appoggiò la fronte sopra, sconfitta.
L'Angel
Children's Memorial. Kara girò su se stessa per ammirarla
appieno:
non aveva mai considerato quanto fosse grande quella piazza, non
passava spesso da quelle parti. Sorrise, osservando gli uccellini che
volavano da un albero all'altro, dopo innumerevoli cinguettii. Era
bella. Fermò la mano sopra una delle fontanelle, lasciandosi
schizzare, così si strinse la camicia grigia a quadri legata
in
vita, cercando di visualizzare il punto dell'incontro.
Aveva
avuto così paura. Quando Alex le aveva telefonato per dirle
di John,
le era mancato il respiro ed era tornata alla cena che quasi tremava.
Sua zia le aveva chiesto cos'era successo e lei aveva sentito
l'irrefrenabile impulso di fissarla torva, andando direttamente verso
di lei, col cuore che palpitava frettoloso in mano. «Siete
stati
voi?». Lei diceva di non capire e Kara si stava spazientendo,
stringendo un pugno. «Siete stati voi? Dimmelo! Qualcuno ha
cercato
di uccidere John», si era voltata verso Lena di scatto, che
tra le
altre voci le chiedeva cosa stesse succedendo. La cena non stava
andando poi così male, erano riuscite a trovare argomenti di
discussione che non includessero lei e Kara era quasi tentata di
darle in futuro una possibilità, ma quella telefonata aveva
spezzato
la serenità conquistata, mettendo tutte nel panico. Astra
compresa.
Si erano fiondate all'ospedale e avevano raggiunto il reparto. Megan
le era corsa incontro per un abbraccio, in lacrime.
«Non
mi fanno entrare perché non sono parente», era
riuscita a dire tra
i singhiozzi.
Alex
e Kara si erano scambiate uno sguardo e la seconda si era avvicinata,
con l'amica ancora tra le braccia, al vetro che affacciava alla sua
cuccetta: l'uomo respirava attaccato a un tubo, le condizioni
sembravano stabili. Gli avevano indotto il coma, aveva precisato
Alex, lì da qualche minuto prima di lei. Gli avevano sparato
a
Marsington dopo che se n'erano andate ed era stato soccorso
lì, il
padre gli era stato vicino ma non avevano avvertito nessuno, neppure
la sua ex moglie. Alex non sapeva neppure che avesse una ex moglie.
Il trasferimento all'ospedale con le cure all'avanguardia di National
City era stato scelto come ultima spiaggia, le aveva spiegato la
sorella, e solo qui i medici avevano avvertito loro. Era tutto
così
incredibile, surreale, e sbagliato. Lo avevano salvato per miracolo,
ma dovevano tenerlo sotto stretta osservazione per dichiararlo fuori
pericolo.
Astra
aveva dato un'occhiata all'uomo e si era poi voltata verso il
ragazzo, preoccupata. «Kweskill».
Lui
aveva annuito, cellulare in mano. «Chiamo il
Generale».
Kara
sorrise, correndo verso un chiosco in particolare della piazza.
«Cosa
fai già qui? Non avevi il turno in boutique,
stamattina?».
Affacciata
con le braccia a conserte sul corrimano in ferro, Alex
sospirò con
pesantezza, facendo dondolare la testa. «Avevo…
Mi hanno licenziata», mormorò con delusione.
«A quanto pare non
andava a genio che avessi mentito sull'università
nascondendo il mio
primo lavoro».
Kara
girò il chiosco, circondato da piccole aiuole, per trovare
le scale
ora all'ombra. «E lo hanno saputo solo adesso?».
«No»,
Alex si voltò per aspettarla. «Ma prima faceva
comodo avermi lì,
ora hanno assunto una sostituta. E addio salario extra».
«Mi
spiace, sorellona». Le andò incontro per un
abbraccio e si sentì
annusare i capelli.
«Sei
stata all'ospedale anche ieri tutta la notte?».
«Sì…»,
si staccò, fissandola con sdegno, «Ma mi sono
lavata! Sono andata
al campus a farmi una doccia e… a dare da mangiare a
Nana».
Appena
aperta la porta, dovette fare i salti mortali per non far abbaiare la
cagnolina o coprire i versi pestando qualcosa. Aveva raggiunto i
croccantini con mosse che avrebbero fatto impallidire Roberto Bolle e
così, proprio come un tesoro mistico, toccando la scatola
tutto si
era placato: Nana si era messa a sedere e l'aveva guardata con occhi
languidi, girando la coda come una trottola e la testa per percepire
al meglio quando quelli sarebbero finiti nella ciotola. Aveva messo
la testa nell'armadio per cercare il cambio per la doccia e se l'era
ritrovata ai piedi, seduta che la fissava, e la ciotola vuota.
«Ma
davvero quel cane non fa rumore quando voi non ci siete?».
«Dorme»,
chiosò, gettando a terra il suo zainetto.
«E
com'è andata con nostra madre, a proposito?», le
sorrise, «Non ho
avuto un attimo per chiedertelo prima».
«Beh,
sono state ore estenuanti», la scusò, scrollando
le spalle e
sorridendo anche lei. «Bene. Forse anche troppo
bene».
Era
stata all'ospedale un'oretta, ascoltando con Lena, Indigo e Megan
accanto, da una parte sua zia Astra e Charlie Kweskill che parlavano
di ciò che era successo e di come neanche il Generale, che
aveva
detto di stare arrivando, ne sapesse niente, e dall'altra Alex e
Maggie che interrogavano e sgridavano il signor Jonzz per aver voluto
tenere nascoste le condizioni del figlio. Che razza di chiusura
mentale girava per Marsington? Un agente del D.A.O. era stato sparato
e a nessuno era venuto in mente di fare una telefonata? Alex aveva
scambiato quattro parole al cellulare anche con i dottori che si
erano occupati di lui in paese e Kara l'aveva vista esausta, quasi
sul punto di litigare con un'infermiera avvicinata per dirle di non
urlare in reparto. Megan aveva la testa appoggiata su una sua spalla
di Kara; aveva smesso di piangere, ma sembrava un corpo vuoto senza
volontà e lei si era scambiata uno sguardo con Lena. Poi
ricevette
un messaggio da parte di Eliza. «Megs», l'aveva
chiamata, «Devo
tornare a casa… mh, di mia madre, casa di mia madre, per-per
recuperare la mia roba e dopo tornerò qui, okay?».
«Non
devi tornare-».
Kara
aveva interrotto i suoi sussurri spenti, intanto che si alzava dalla
sedia: «Voglio tornare». Poi si era rivolta a Lena:
«Se vuoi puoi
stare qui con lei, prenderò le cose di tutte e
tre».
«E
chi ti riaccompagnerà a casa?».
Zia
Astra era a due passi da loro, chiavi in mano.
Eliza
l'aveva abbracciata calorosamente. Le aveva già spiegato
cosa sapeva
di John per telefono e la donna l'aveva aiutata a recuperare le sue
cose e quelle di Lena e Indigo. Con fretta, aveva detto che sarebbe
tornata in ospedale anche per non lasciare Megan da sola e la donna
si era di nuovo spesa in buone parole per lei, che se lo aspettava da
parte sua perché Kara si sforzava sempre di fare la cosa
giusta. Ma
lei era una persona normale e come tale sbagliava: stressata dalla
situazione, in un attimo aveva sbottato, sentendo i passi di Lillian
e Astra avvicinarsi alla porta della camera. Le aveva detto tutto in
un pasticcio di parole confuse, con occhi lucidi: delle pillole e di
come si era comportata, di come aveva cercato di tenere nascosto
tutto e di come, per quello, aveva perso la squadra e l'impiego alla
CatCo. Poco importava come avesse cercato di rimediare evitando la
diffusione e vendita delle pillole, non sempre lei prendeva le
decisioni giuste. Voleva riaffrontare la vita con positività
e il
sorriso, con la speranza di rimettere a posto le cose, ma voleva
farlo come la persona che era, non come quella figlia perfetta che la
sua madre adottiva credeva che fosse. Ma la donna l'aveva sorpresa di
nuovo e, dopo aver pianto e averla abbracciata perché non le
era
stata vicino quando aveva bisogno di lei, le aveva spiegato come
quello non l'avrebbe mai cambiata ai suoi occhi.
«Non
ho mai pensato che fossi priva di difetti, Kara…»,
le aveva preso
il volto con le mani, passandole i pollici sulle guance accaldate.
«Non è l'assenza di sbagli a determinare quanto
una persona sia
eccezionale, piccola mia, ma come si ha intenzione di
rimediare».
Dietro
Eliza, sulla porta, zia Astra aveva assistito alla scena e Kara, per
un momento, l'aveva fissata: il suo sorriso era freddo, bastava poco
per spezzarlo.
«Oh,
questo non mi sorprende», Alex roteò gli occhi,
mettendo le braccia
a conserte. «Avessi fatto io la stessa cosa, mi avrebbe
cacciato di
casa».
«Qualcuna
è gelosa», le fece la linguaccia. «O non
si sente abbastanza
eccezionale».
«Hai
solo avuto la fortuna di essere più piccola», le
fece il verso,
distogliendo lo sguardo. «Quindi eri con Astra?
Com'è stato?».
«Oh,
beh…».
Astra
stava guidando. Sul sedile del passeggero, Kara guardava fuori dal
finestrino. Sulla radio canzonette locali e interruzione.
«Kara-».
«No»,
l'aveva freddata lei. «Non ora».
«Bene»,
rispose alla sorella, vedendo oltre al corrimano e senza interesse le
persone illuminate dal sole che passavano per la piazza.
«Beh,
aspettiamo Lena prima di cominciare? Mi ha detto che stava arrivando.
Devi spiegarci perché hai scelto proprio questa
piazza».
«Perché-
mh».
Entrambe si affacciarono dal chiosco sentendo la sua voce, ritrovando
Lena a due passi, ferma per bere da una tazza da viaggio. Sotto il
braccio portava un cestino da pic-nic. «Scusate, ho dovuto
parcheggiare lontano e ho la gola secca», bevve di nuovo,
sotto il
suo cappello di paglia. «Dicevo. Perché questa
piazza è stata
costruita dai Luthor».
Kara
s'imbrunì e Alex la aspettò davanti alle scale,
prendendo parola:
«Lo sapevi?».
Lei
scosse la testa e, vicino a Kara, si scambiò con lei un
veloce bacio
a stampo, coperte dall'ombra del chiosco, dal cappello e dagli alberi
intorno. «Me lo ha detto mia madre quando le ho chiesto di
quel nome
che mi avevi dato, Louie Luthor. Cosa fai qui, non dovevi essere al
lavoro, a quest'ora?». Poggiò il cestino,
lanciandole uno sguardo.
«Sì,
beh, è lungo da spiegare».
«È
stata licenziata», rivelò Kara e Alex
serrò le labbra,
indispettita.
«Non
così lungo», ribatté, vedendola alzare
le spalle. «Quindi è così
che facciamo adesso? Abbiamo fatto pace, noi due?».
Lena
chiese se volessero da bere e Kara si fiondò sul thermos
dell'acqua,
prendendo un bicchiere. Ne passò uno anche ad Alex che,
allungando
la mano, domandò se avesse portato con sé anche
dell'alcol. «Pace…
momentanea? Anche se non ho dell'alcol?».
Alex
fece una smorfia, annuendo e sospirando appena, scocciata.
«Giusto
perché dobbiamo collaborare, Luthor… Sono a corto
di alleati,
dopotutto», rispose amaramente.
«Non
direi», aggiunse velocemente Kara, facendole l'occhiolino.
Quella
giornata lo avrebbe dimostrato.
Il
giorno prima, arrivate in ospedale per andare a trovare John Jonzz e
per far compagnia a Megan che era spesso lì, le tre ne
avevano
approfittato per rifugiarsi in bagno, senza borsa né
cellulare, per
far il punto della situazione. Indigo era una di loro? Lena era certa
che non le avrebbe tradite, Kara voleva fidarsi, Alex sposava un
altro pensiero:
«Continuiamo»,
aveva guardato una e l'altra. «È una grande cosa
che siate riuscite
ad abbattere le sue difese, ma se facciamo un passo falso ora avremo
perso il vantaggio su di lei. E sul suo garante. Sa che abbiamo
cancellato quei dati, che la cosa ha creato dissapori tra noi,
qualche complicazione, spingiamo su questo, lasciamo che le cose
facciano il loro corso. Dobbiamo assicurarci che Indigo passi al
garante le informazioni che noi vogliamo fargli arrivare e
nient'altro. Mi sta bene che sia con noi, ma ho avuto a che fare con
fin troppi bugiardi, quindi», aveva alzato le mani,
«andiamoci
caute, un passetto per volta».
Lena
si era costretta ad accettare, ma sperava proprio che continuare su
quella strada non le avrebbe portate, prima o poi, a vanificare il
traguardo raggiunto nel loro rapporto con la ragazza.
Alex
era uscita dal bagno per prima e Kara aveva stretto un braccio di
Lena, destandola dai pensieri. «Tutto bene?», le
aveva chiesto,
prima di un lungo sorriso. «Lo so che la situazione non ti
piace, ma
credo in fondo che Alex abbia ragione… O avremo fatto tutto
questo
per niente». L'aveva vista annuire sforzandosi di sorridere,
ritrovando di nuovo quella domanda che da giorni avrebbe voluto
farle, da quando avevano iniziato a contrattaccare. «Lena,
posso-?».
«Sì»,
aveva poggiato una mano su quella di Kara, «Credo anch'io che
potrebbe aver ragione… Ti aspetto fuori». Le aveva
lasciato un
bacio su una guancia ed era uscita.
Kara
aveva deglutito, abbassando lo sguardo e uscendo anche lei.
Lena
rimise tutto nel cestino e picchiettò una mano di Kara,
inchinata,
che si era messa a sbirciarci dentro. Le sorrise quando la vide
assottigliare gli occhi e così cercò di scansarsi
subito: Kara
l'avvolse per la vita e la spinse addosso a lei a terra, facendola
ridere e gridare.
«Oh,
ma tranquille… Come se non ci fossi», Alex
arrossì, dando
un'occhiata al suo cellulare e andando a recuperare la sua borsa che
aveva lasciato sui mattoncini, «Continuate pure»,
proseguì
sentendole ridere mentre era girata di spalle, «Io comincio a
mettermi a lavoro. Senza fretta, eh?».
Interrompendo
le risa, Lena riuscì a scansarsi, adocchiando Alex che
tirava dei
documenti dalla borsa e sfogliandoli. Le chiesero scusa in coro e si
riportarono in piedi. Lena tirò fuori dal cestino una
tovaglia per
sistemarla sui mattoncini a terra per i documenti e a quel punto si
posizionarono in cerchio. Lena ne usò un'altra per sedersi,
piegata,
mettendo le gambe da un lato.
«Comincio
io», annunciò Alex, portandosi un ciuffo rosso
dietro un orecchio,
«Visto che ho la mattina libera e ho un po' di tempo in
più prima
che vada a Marsington questo pomeriggio…», le
guardò. «Questi
sono ciò che mi ha dato Maxwell Lord a proposito di questa
piazza.
Progetto ACM-63», mostrò loro dei fogli pinzati.
«Angel Children's
Memorial, commissionata dalla famiglia Luthor e costruita nel
millenovecentosessantatré; la Lord Technologies si
è occupata di
disegnare e sostituire, nel duemilacinque, il vecchio impianto idrico
che aveva da allora. Max dice-», si fermò quando
Kara sottolineò
il modo con cui l'aveva chiamato, «Max
dice di aver avuto a che fare nel periodo solo con i Gand, che erano
stati loro, come portavoce del gruppo, a commissionare il progetto.
Da allora mi sono chiesta spesso che tipo di interesse potesse avere
l'organizzazione per questa piazza, finché John non mi ha
portato
questi», mise più avanti dei fascicoli, aprendone
uno. Lena e Kara
lo girarono dalla loro parte, leggendo distrattamente diversi fogli e
scrutando le foto.
«Dunque
lui è Louie Luthor…»,
sussurrò Lena, arcuando le sopracciglia.
In quella foto era bambino e lo sorreggeva una stampella: aveva lo
sguardo impacciato e i riccioli che gli ricadevano sugli occhi.
«Il
mio prozio, padre di zia Lorna. Non sapevo della sua esistenza.
Voglio dire», rimise la foto all'interno del fascicolo, che
Kara
stava ancora sfogliando, «che anche zia Lorna avesse avuto
dei
genitori era indubbio, ma nessuno ha mai parlato specificatamente di
lui. Nemmeno la stessa zia Lorna».
Kara
strinse le labbra, continuando a leggere. «Aveva otto anni
quando il
padre è morto… Neanche io parlo spesso dei miei
genitori e li ho
persi a dieci».
«Il
fatto che ci tengano a curare questa piazza nel corso degli
anni»,
intervenne Alex, «significa che non lo hanno mai dimenticato.
John
stava lavorando a questo, era convinto che le radici
dell'organizzazione risiedessero nella famiglia Luthor»,
guardò
Lena, «e che Louie ne fosse un ingranaggio
importante».
Quest'ultima
sospirò, formando un flebile sorriso. «Mio nonno
Levi era uno dei
fondatori», confessò. «Mio fratello lo
ha confermato, era stato
nostro padre a dirglielo. Io non l'ho mai conosciuto, si era ammalato
ed è morto quando Lex aveva nove anni. Immagino»,
mosse le spalle
un momento, «che avesse lasciato tutto in mano ai miei
genitori».
«Aveva
ragione John», Alex posò lo sguardo sui fascicoli.
Indigo
era dall'altra parte della piazza, in quel momento. Scorgeva il
chiosco ma dovevano essere sedute e non le vedeva. Era in ritardo ma
se ne restava lì impalata invece di raggiungerle, seduta
sullo
schienale di una panchina dipinta di blu. Passò una mano sui
capelli
raccolti in una treccia bionda, portandosela in avanti. Era nervosa.
Avrebbe potuto ascoltare cosa dicevano attraverso i cellulari, ma non
ne aveva il coraggio. Loro si fidavano di lei e il pensiero le
metteva mal di pancia. Quella era stata una conseguenza naturale al
gioco che stavano vivendo, e di certo non voleva ricadere ancora una
volta nel circolo vizioso sui sentimenti o altre idiozie. Aveva
smesso di pensarci. Accettava di provarne, ma non per questo avrebbe
basato la sua vita su di loro. Lei non aveva bisogno di punti deboli
come quelli.
«Brainer,
eh?».
Indigo
si era girata di scatto, nei suoi ricordi, prima di quella cena.
Si
stava lavando le mani per un tempo indefinito poiché Astra
Inze era
appena arrivata e loro si conoscevano da Fort Rozz, si era messa
addosso una strana agitazione. Doveva pregare che quella donna non
dicesse qualcosa di lei alle madri di Lena e Kara. Troppo tardi per
sperare che la sua copertura non saltasse: Lillian l'aveva sorpresa,
sguardo tirato e sinistro.
«Avevi
un so che di già visto, ora mi è tutto
più chiaro». Indigo si era
fatta pallida e la donna le aveva chiuso il rubinetto.
«Quante belle
storie ci avete raccontato. E ora riprova: com'è che un
avanzo di
galera come te ha conosciuto le nostre figlie? Sono sicura che
sarà
una storia più affascinante».
Per
fortuna lei era una che pensava in fretta e stava già per
riprendere
in mano la situazione, ciò che l'aveva sorpresa davvero era
che non
ce ne sarebbe stato bisogno:
«In
fila da Bitter
and Music».
Lillian si era voltata, ghiacciandosi, intanto che Kara si
affacciava. «Lena era distratta e le ha dato una gomitata, il
cappuccino era… beh, per metà sulla sua
maglietta», aveva riso,
adocchiando Indigo. «Così gliene abbiamo offerto
uno e-», aveva
deglutito, «ci siamo andate a sedere insieme. Abbiamo
scoperto che
lei è molto brava con i computer e-e il resto,
sì…».
«E
perché non ci avete detto subito la
verità?».
«Pff,
perché è stata in prigione e ancora non si
è sistemata, pensavamo…
beh», lo sguardo freddo di Lillian metteva ansia anche a lei,
«beh-beh, che vi preoccupaste di-di chi accoglievamo in
casa».
Lillian
aveva sorriso, guardando una e l'altra. «È la
seconda volta che
escono fuori bugie sul conto di questa ragazza, non fatemi tenere il
conto. Non voglio dare l'impressione di essere arrabbiata con te,
Kara, ma mettiamo caso che ci sia una tabella con dei punti,
figurativa,
si intende», aveva sorriso e loro deglutito, «ora
ne avete perso qualcuno.
Direte voi a Eliza la verità, va bene?!». Stava
per andarsene ma
l'avevano vista voltarsi all'ultimo momento: «Anche tuo padre
era in
prigione, non è vero? È stato rilasciato anni fa,
quando erano
stati riaperti i casi di Non O'Halloran a causa del suo arresto, il
marito di», si era lasciata scappare un fine sorriso,
indicando
verso il salotto da cui provenivano le voci, «Astra Inze.
Qual
coincidenza».
Se
n'era andata e Indigo, per un attimo, aveva sentito le ginocchia
farsi deboli. Suo padre… Suo padre era libero da anni?
Com'era
possibile?
«Non
lo sapevi?», Kara l'aveva guardata, «Di tuo
padre?».
Lei
aveva deglutito, slanciandosi per asciugarsi le mani. «Lena
distratta mi ha dato una gomitata?».
Kara
aveva messo su una smorfia soddisfatta, tirando gli occhiali sul
naso: «Storia mia, svolgimento mio».
Il
viso di Indigo si corrugò, mordendosi un labbro. Suo padre,
Peter
Brainer… No, no, non doveva pensarci, era fuori discussione,
non
gli sarebbe entrato nella sua testa proprio adesso, non poteva
permetterselo. Strinse un pugno. Per quale diamine di motivo suo
padre, che era l'unica persona di cui si fidava da ragazzina, non
l'aveva mai cercata nonostante fosse fuori di prigione da anni? Si
alzò di scatto, tirando in spalla il suo zainetto.
«Dobbiamo
saperne il più possibile», la voce di Kara.
«E se andassimo a
parlare con zia Lorna?».
«Non
ho un grande rapporto con lei», rifletté Lena.
«È sempre stata
presente alle feste familiari, ma parla a stento anche con mia madre.
Potremo tentare, ma non garantisco».
«John
ci è stato», Alex sorprese entrambe.
«Questo ci porta al secondo
fascicolo, era compreso di registrazione. L'ho già
sentita… la
possiamo riascolta-», si fermò, sentendo passi
vicini, e si
affacciarono: Indigo si fermò davanti alle scale del
chiosco,
riportando la treccia su una spalla.
«Era
ora!», sbottò Kara, accigliandosi.
«Dov'eri finita? Abbiamo
iniziato senza di te».
Lei
fece una smorfia, piegando le labbra. «Ora che sapete che lui
non mi
sta cercando, sarò anche libera di farmi una passeggiata per
i
motivi miei o il mondo gira intorno a te, Kara Danvers?».
Lena
fermò Kara per i polsi quando la vide scattare per mettersi
in
piedi.
Altri
passi vicini e una voce squillante e inspiegabilmente allegra
interruppero la chiacchierata. «Buona, gente».
Valigetta sotto
braccio, fine giacca piegata sulle maniche con un motivo bianco e
nero che creava un'illusione ottica, degli stivaletti con tacchi che
la facevano sembrare molto più alta del solito, Leslie
Willis
sorrise da orecchio a orecchio. «Scusate il ritardo, ho
portato da
bere».
«Non
sei in ritardo, avevi detto per le dieci e mezza e sono appena le
dieci e dieci», le fece sapere Lena, intanto che Alex
esultava
timidamente.
«Oh,
beh, dev'essere l'abitudine», mantenne il sorriso, spostando
lo
sguardo a Indigo accanto a lei. «Non mi avevano detto che ci
sarebbe
stata anche Elsa».
Leslie
Willis salì per prima e lasciò la sua valigetta
vicino al muretto
del chiosco, aprendola. Tra i vari documenti al suo interno
tirò
fuori una fiaschetta e due bicchieri ripiegabili, chiedendo chi altri
ne volesse, con Alex già accanto che le diceva, a bassa
voce, di
essere la sua nuova migliore amica. Quest'ultima sapeva di non poter
esagerare, doveva essere in servizio tra qualche ora, ma un
bicchierino per digerire il licenziamento dalla boutique non glielo
avrebbe tolto nessuno. Indigo le stava raggiungendo che Kara fu
veloce ad afferrare la fiaschetta e tirarla verso di lei, facendo
storcere il naso alle altre. Ecco, pensò Alex, glielo
avrebbero tolto.
«Mi
spiace, ma dobbiamo essere lucide», obiettò,
custodendola nel
cestino da pic-nic di Lena, «Ed è quasi
metà mattina».
«Ottima
deduzione, fiorellino! E io come ci arrivo all'altra metà,
eh?»,
brontolò Leslie, adocchiando poi Alex in cerca di aiuto:
«Ma lo può
fare?». Lei sollevò le spalle, già
arresa. «A proposito… ma tu
non dovevi essere a lavoro?».
«Ragazze»:
Lena attirò l'attenzione di tutte, mettendo le braccia a
conserte.
«È bello ritrovarci tutte insieme in questa
bellissima mattinata
del trenta giugno; fa caldo, ognuna di noi ha cose per la testa o
vorrebbe solo rilassarsi, lo capisco… Ma se ci siamo
ritrovate oggi
è per un altro motivo». Si sedette di nuovo sulla
tovaglia,
piegando la gonna sotto le cosce, e le altre si guardarono.
Indigo
le andò subito vicino mentre Leslie, dietro Alex, mostrava i
palmi
delle mani, appoggiandosi alla ringhiera in ferro.
«Ineccepibile»,
commentò, sospirando.
Alex
si mangiò la tentazione di rinfacciare il momento in cui lei
e Kara
stavano giocando a rotolarsi sui mattoncini e si andò a
sedere,
riprendendo il suo posto. La sorella le mostrò il
registratore e,
riconquistato il silenzio, le diede il via.
Zia
Lorna non era mai stata persona da grandi chiacchierate,
ricordò
Lena. Anche quando lei era bambina era fredda, distaccata, e non
perdeva occasione di punzecchiare la vecchia zia Lara, impedendole di
fare qualunque cosa che, secondo lei, l'avrebbe messa in ridicolo. Ma
alla piccola Lena non era sembrata che si comportasse in modo tanto
lontano da sua madre. Aveva avuto dei figli ma anche lei, come
Luthor, aveva faticato a portare a termine le gravidanze: Lydia ora
aveva ventisette anni, e Liam, che di anni ne aveva otto, era il suo
miracolo. Ora che Lena ci faceva caso, era curioso quanto poco
conoscesse i suoi lontani cugini: se zia Lorna alle feste partecipava
spesso, se non necessario non era solita portarsi dietro anche loro.
«Vedo
il bambino correre per portare un pallone da calcio dentro l'auto di
famiglia»,
aveva commentato John Jonzz al registratore in mano. «La
vedo, sta uscendo da casa. Dubito parlerà, ma se Louie
Luthor è
tanto importante come credo per la nascita dell'organizzazione, ogni
cosa può fare la differenza».
Lorna
Luthor aveva subito aggrottato la fronte, ordinando al figlio di
entrare in auto. «Com'è entrato?».
«Il
cancello era aperto; ho suonato, ma…».
«È
un giornalista? Cosa vuole?».
«No».
John allora le aveva mostrato il distintivo e la donna aveva cambiato
espressione, scocciandosi.
«Non
ho nulla da dire».
«Non
sa neanche per cosa sono qui».
Lei
aveva emesso un verso di scherno. «Per i Luthor, suppongo.
È
l'unico motivo per cui- Liam,
torna in macchina. Subito»,
ordinò gelida, indicando la portiera al figlio,
«L'unico motivo per
cui continuano a tormentare me e la mia famiglia. Senta, io non so
niente», si era fermata davanti a lui, fregandosi le mani.
«Non
siamo noi quelli sotto ai riflettori: se Lex ne ha combinata un'altra
a Metropolis o Lillian ha divorziato e si è risposata ancora
non
deve seccare me; sono fuori al loro mondo, non so cosa facciano, come
e perché. Ho sposato un Wright, le dice niente? No?
È perché noi
non siamo nessuno. Se vuole scusarmi…».
Lui
aveva notato la sua agitazione dietro le parole usate per cercare di
scacciarlo. L'aveva bloccata a un passo dal suw: «Veramente
volevo
chiederle di suo padre».
Lei
si era voltata lentamente, con occhi sgranati e la bocca semiaperta.
Le ci era voluto un po' per riprendersi. «Cosa…
Cosa c'entra mio
padre, signor…?».
«Jonzz.
Agente Jonzz».
«Bene,
agente Jonzz», si era avvicinata e gli aveva puntato un dito
al
petto, «Le dirò solo una cosa: lasci mio padre
riposare in pace».
«Era
un brav'uomo, vero? Non voglio mancarle di rispetto, né
farlo a suo
padre».
Lei
si era intristita ma aveva cercato con ogni mezzo di restare in
piedi, deglutendo. «Se ne vada. Sa dov'è il
cancello».
«Si
tormentava le mani, parlare dei Luthor non la faceva sentire
chiaramente a suo agio»,
aveva registrato John dopo l'incontro. «E
quando ho nominato suo padre ha finito per chiudersi. Non posso fare
a meno di chiedermi se sto percorrendo la strada giusta. Devo
spostarmi, i Luthor non sono gli unici interessanti».
Lena
abbassò gli occhi, dopo che la registrazione si concluse e
Kara le
strinse una mano, adocchiata da Indigo dall'altro lato.
«Quando ho
parlato con mio fratello in cerca di risposte, ha detto una cosa che
mi è rimasta impressa: che la nostra famiglia era
malvagia»,
ingurgitò sonoramente, con la bocca socchiusa.
«Non lo avevo preso
troppo sul serio, che i Luthor siano scostanti e freddi non
è una
novità per nessuno, ma da come zia Lorna si teneva
distante… Non
ci ho mai fatto caso. Sembra quasi che ci odi».
Ci
fu un attimo di silenzio: Kara aumentò la stretta e Lena
ricambiò,
Alex scorse le foto di Lorna Luthor sul fascicolo, la sua casa e
quella dove abitava da bambina con i genitori, Leslie adocchiava gli
uccellini sugli alberi e Indigo serrò le labbra, fissando
Lena.
«Sembra
che siamo vicine», Kara spezzò il silenzio.
«Non è quello che
vuole il tuo garante?».
Indigo
fissò lei, a quel punto, lasciandosi a una debole scrollata
d'occhi.
«Ed
è quello che voglio anch'io», aggiunse Lena con un
sospiro. «Non
ho cambiato idea, al contrario, ora sono più motivata a
farlo».
«Sveglia,
fanciulle!», Leslie Willis gridò e
batté le mani, avvicinandosi al
gruppo con due larghi passi. «È chiaro o
no?», guardò una per
una, «I Luthor sono i fondatori di quella dannata
organizzazione».
«Il
nonno di Lena era uno di loro, lo abbiamo già
chiarito», intervenne
Kara, «Se ti fosse possibile non
urlare…».
«No,
non mi è possibile»,
le fece il verso, «perché sono qui non pagata e mi
hai tolto
l'alcol», spalancò le braccia. «Okay,
prima che miss perfettina mi
interrompesse, intendevo dire che lo sono loro,
chi erano? Questo Louie, il padre di tua zia, chi è
l'altro?».
Prese il fascicolo dalle mani di Alex, leggendo rapidamente e tenendo
il segno con un dito. «Ecco, ecco, qui: erano tre fratelli,
giusto?
C'è la foto», la mostrò. «Il
piccolo è il Louie di cui la figlia
non vuole parlare, Levi che è tuo nonno, quello di mezzo, e
questa
spilungona qui, la maggiore. Ci scommetto» .
Kara
si rabbuiò: «Se zia Lorna odia suo padre e odia i
Luthor, perché
ha chiamato i suoi figli con la lettera l?».
«Le
piaceva? Hai mai fatto caso che i nomi più belli iniziano
con la
l?».
«C'è
anche da tener conto che Louie Luthor è morto giovane, nel
millenovecentosettantacinque.
Avrà avuto il tempo? Quando sarà nata
l'organizzazione, più o
meno?», osservò Alex.
«Non
aveva mica l'età per la tetta quando è passato a
miglior vita, non
sappiamo nulla con precisione».
Anche
Lena era scettica, scuotendo la testa. «Zia Lara
nell'organizzazione? Non riesco a immaginarla».
Leslie
roteò gli occhi. «Sì, ricordo cosa mi
hai raccontato di lei, ma
sappi che prima di pagare qualcuno che le cambiasse i pannoloni,
aveva anche lei una personalità e tu non eri lì
per conoscerla».
«Tu
non hai peli sulla lingua, eh?», fu l'unico commento di
Indigo e
Leslie gliela mostrò, sfacciata.
«Dacci
anche tu il tuo pensiero se ne hai uno, Let
it go».
Si buttò a terra, riguardando le altre. «Beh, io
ho risolto il caso
e voi pensate al resto, non posso mica fare tutto da sola.
Mangiamo?».
C'era
qualcosa che sfuggiva ai loro pensieri. Forse Lena non riusciva a
ragionare lucidamente perché si trattava della sua famiglia,
persone
che conosceva. Lo aveva messo in conto, ammettendo finalmente
qualcosa che aveva tenuto per sé per quasi un anno: aveva
trovato
dei collegamenti al nome Luthor, riconducibili a suo padre e non solo
ai Gand, quando copiarono quella lista di nomi su chi era stato
arrestato per l'omicidio degli El. Allora pensava davvero che tenere
segreto il coinvolgimento della sua famiglia fosse la cosa migliore
per tutti. Magari zia Lorna non odiava suo padre ed era davvero un
brav'uomo come aveva detto John e Leslie Willis si sbagliava, ma
c'era qualcosa che sfuggiva ai loro pensieri.
«Allontanate
il vostro naso dagli affari dell'organizzazione». Lillian era
stata
chiara quando il giorno prima era tornata in paese solo per parlare
con lei, dopo essere stata in ospedale. Neppure il tempo di nominarle
Louie Luthor che era partita in quarta. «Mi prendete per
stupida?
Indigo Brainer è finita in prigione per crimini informatici.
Ricordo
di averti già chiesto, Lena, di starci lontano ma, come al
solito,
le mie parole vengono puntualmente ignorate».
«Sarebbe
più facile se ci dicessi tu ciò che vogliamo
sapere».
La
donna aveva sorriso, arricciando la fronte. «E
cos'è ciò che
volete sapere? Chi ha ucciso gli El? La mandante era Rhea Gand, caso
chiuso. Chi ha ucciso tuo padre?», l'aveva fissata,
«Ho sempre
pensato fossero stati loro, ma non ho un nome da darti. Forse ho
commesso un errore».
Lo
diceva in quel modo così naturale, così
come… «Stai mentendo».
Lillian
aveva scrollato un sopracciglio, impassibile. «Può
darsi. Voglio
che ci passi sopra».
«Per
proteggermi da chiunque sia stato?», aveva scosso la testa,
«È
ridicolo. Tu non hai mai cercato di-».
«Proteggerti,
certo, perché tu sei sempre convinta che io faccia di tutto
per
farmi odiare da te. Non ti è mai passato per la mente che mi
abbia
fraintesa? Il nome che ho in mente non è chi penseresti e
non ho
prove. Non voglio nemmeno lontanamente pensare di accusare questa
persona e assistere a ciò che scatenerei», la sua
voce si era fatta
più sottile. «Non è da lui che ti
dovresti vedere le spalle, Lena,
ma dall'organizzazione. Perché se il suo nome salta fuori,
vero o no
che sia colpevole, ci passeremo tutti. È un castello di
carte,
figlia mia», si era avvicinata con sguardo duro.
«Per questo motivo
l'organizzazione ha rischiato di sparire dodici anni fa con l'arresto
di un singolo commercialista. Per questo motivo mi sono impegnata a
occultare l'omicidio di tuo padre. Togli una carta e stai a vedere
cosa succede».
Lena
passò una mano su quei fascicoli, assorta.
«Ed
è per questo che ho chiesto aiuto a una persona»,
esordì Kara con
un pronto sorriso. «Sarà tra noi verso ora di
pranzo, prima non
poteva e al tardo pomeriggio dovrò allontanarmi anch'io,
quindi…
Geneanologia». Kara non badò all'espressione
annoiata di Leslie che
buttava la testa da un lato con la bocca aperta, continuando:
«Ha
fatto l'Albero genealogico sulla famiglia di un mio amico e»,
lanciò
uno sguardo a Indigo, «tu potresti aiutarla a cercare
materiale per
fare quello sui Luthor».
«È
una buona idea», si complimentò Lena e sentirono
Alex alzarsi per
sgranchirsi le gambe, e così controllare l'ora.
«Dopo
pranzo devo andare, posso lasciare a voi i fascicoli che mi ha fatto
avere John? Non potrei, ma… Li riprenderà
Maggie», vide sua
sorella annuire. «Non è stato solo da Lorna
Luthor, magari qualcosa
può tornare utile».
Leslie
Willis le picchiettò un piede con uno dei suoi, attirando
l'attenzione. «Quindi non ci sarai quando esporrò
cosa ho portato
io? È una vera chicca, vi tremeranno tutti i
peli».
Ridacchiò
e le altre con lei. «Se sarai
sintetica…».
«Ci
proverò solo se riavrò il mio alcol».
Jamie
non smise di parlare da quando andò a prenderla dalla
babysitter,
contenta che avesse più tempo da passare insieme. Ma Maggie
la
ascoltava a stento, mano nella mano con lei. Si fermarono per
aspettare che il semaforo tornasse verde per i pedoni e
sospirò,
pensando a ripensando a quella mattina. Jamie saltò quando
scattò
il verde e Maggie la strinse più forte, sentendo la manina
sudata.
«Possho
reshtare con mamma Alex quando torni a lavoro? Eh? Possho
reshtare?»,
le tirò la mano e Maggie tornò in sé,
scuotendo brevemente la
testa e raggiungendo l'Angel Children's Memorial dall'altra parte
della strada. «Quanto è grandisshima, eh, guarda,
il parchetto dove
gioco io con miei amici non è così grande, eh,
non lo è no», la
tirò tanto che finì per sfuggirle e correre sugli
ultimi scalini e
incontro a una delle fontanelle, ridendo, mettendo subito le mani
nell'acqua. «C'è l'acqua qui, guarda, mamma, nel
parchetto dove
andiamo noi shempre non c'è quesht'acqua, eh, non
c'è no».
Lei
sorrise, fermandosi per ammirarla intenta a saltellare, facendo
volare su e giù la sua gonnellina arcobaleno in raso,
cercando di
acchiappare l'acqua che schizzava verso l'alto. Le scattò
qualche
foto, inviando quelle meglio riuscite ad Alex con scritto che erano
arrivate un po' prima perché… Arrivate
prima:
Maggie chiuse così il messaggio, inviando.
Jamie
riprese a correre verso un'altra fontanella e Maggie la
seguì,
sentendo il cellulare che vibrava.
Da
Danvers♡
a Me
È
bellissima! Sono già qui anch'io, raggiungeteci. Come mai?
Non
finivi il turno a mezzogiorno?
Da
Me a Danvers♡
Sì,
ti racconto questa notte, abbiamo staccato prima. E tu non dovevi
stare in boutique?
Maggie
sospirò, richiamando Jamie che si stava allontanando verso
un gruppo
di bambini. Le fece la mano, indicandole dove doveva andare. Il
cellulare vibrò ancora e Maggie sorrise, scuotendo la testa
nel
vedere la foto che le aveva mandato: sedute sugli scalini del chiosco
davanti a lei, Kara teneva tra le braccia Lena, uno scalino
più in
basso. «Lasciale in pace», rise, leggendo la
didascalia: Anche
io immortalo momenti.
Ricordo
con rammarico quando si odiavano.
Lena
teneva la testa poggiata sulla sua spalla destra e, di tanto in
tanto, chiudeva gli occhi. Ciò che le aveva detto Lillian
aveva
riacceso in lei il desiderio di cancellare quei dati dalla chiavetta
usb che avevano salvato. Sposta una carta dal castello, toglila.
Voleva davvero vedere cosa succedeva? Lillian doveva cadere con loro?
Sentì un bacio di Kara sulla fronte e sorrise, destandosi.
«Cosa ne
penseresti di un ipotetico week-end in una casa che affaccia su un
lago?».
Il
volto di Kara si increspò, pensandoci.
«… Hai una casa sul
lago?», indagò subito, sentendola ridere.
«Sì,
Kara. È della famiglia, non propriamente mia. Sono anni che
non
passiamo là una vacanza».
«C'è
qualche altra struttura di cui dovrei essere a conoscenza? Saresti
capace di dirmi che possiedi uno zoo e farlo costruire in una notte
solo per farmelo vedere il giorno dopo».
Lena
rise ancora, portandosi una mano sul viso. «È un
quadro piuttosto
accurato di cosa potrebbe accadere», puntò in aria
un indice e si
allontanò il tanto per guardarla negli occhi. «Ci
verresti?».
«In
uno zoo?».
«In
uno zoo?!»,
le picchiettò una coscia, «Kara Danvers, parlo sul
serio! Ci
verresti? Alla casa su-».
«Sì.
Sul lago. Mi piacerebbe», si sorrisero e Lena
tornò ad appoggiarsi.
«Hai notato anche tu come prima di conoscerci vivevamo una
vita
tutto sommato tranquilla?!».
«È
vero. Il nostro incontro ha scatenato i precisi eventi che ci hanno
portato fin qui», rifletté, stringendo i denti.
«Sarà stato il
destino», sussurrò sprezzante con un sorriso,
sentendola ridere a
sua volta intanto che la chiudeva tra le braccia.
«Lena?».
«Sì?».
«Pensavo
a una cosa… Se tuo non-», si fermò
quando scorse Jamie correre
verso di loro: «Ehi, guarda chi c'è».
La
bambina saltò tra le braccia di Alex, alzata dagli scalini
per
acchiapparla, e dopo corse a salutare loro, mostrando la gonnellina
nuova con uno speciale orgoglio negli occhi. Salì
all'interno del
chiosco sapendo che Indigo si trovava lì e loro due la
sentirono
chiederle, pressante, perché fosse da sola. Maggie e Alex ne
approfittarono per baciarsi fugaci.
«Mi
avresti avvertita, accidenti! Leslie è andata a prendere i
panini
per me e per lei e…», diede un'occhiata
all'orologio al polso, «se
non torna entro cinque minuti mi toccherà pure andarla a
cercare».
«Non
preoccuparti: Jamie ha già mangiato e io… ho
mangiato qualcosa.
Allora, come mai sei qui-».
«Te
l'ha detto?», Kara per poco non gridò,
«Non si può licenziare
qualcuno in questo modo».
Maggie
allungò lo sguardo verso Alex, intenta a fulminare sua
sorella con
gli occhi. «Sono stata licenziata»,
sospirò scrollando le spalle,
sentendo in sottofondo Lena che, a bassa voce, redarguiva Kara nel
dire che era possibile e così iniziare un piccolo
battibecco.
«Ouch»,
lei serrò le labbra, dispiaciuta, e pensò di
circondarle il collo
con le braccia. «Non importa. Odiavi quel lavoro. Prima
pensiamo
alla casa, avremo tempo per la moto». Si baciarono ancora
finché
non udirono un sonoro verso indisposto e Jamie correre a separarle.
Poco
più tardi si sedettero tutte di nuovo sugli scalini appena
battuti
dal sole, tenendo d'occhio Jamie che, in fondo, giocava a rincorrersi
con altri bambini. Mordendo e masticando i loro panini, tappandosi la
bocca, ascoltavano Iris West in videochiamata sul laptop di Lena dire
loro che aveva già provato a fare le prime ricerche sulla
famiglia
Luthor e capire così con cosa aveva a che fare.
«Non
ve lo nascondo, ragazze, sarà un lavoraccio»,
ammise, prendendosi un minuto per bevicchiare il suo latte macchiato.
Videro la ragazza delle ordinazioni passarle alle spalle, un momento.
«Fortunatamente
so a chi rivolgermi per una mano, un mio professore. È stato
lui ad
aiutarmi con quello di Barry, è un vero esperto del
settore»,
informò, inquadrando una di loro dallo schermo. «Se
poi avrò l'aiuto di Indigo per quanto concerne il lato
informatico,
conto di fare un buon lavoro».
Indigo
si limitò a un breve cenno del capo e Kara, due scalini
sotto, finì
di masticare prima di prendere parola: «Ti ringraziamo, Iris.
Il tuo
è un aiuto prezioso».
«Non
sai quanto rappresenti per me», proseguì Lena.
«Per
noi», aggiunse Alex, dall'altro lato.
«Oh
no, io ringrazio voi»,
sorrise estasiata. «Questo
progetto è una vera sfida per me, non vedo l'ora di
mettermici!
Senza contare che mi farà fare bella figura col mio
professore, il
che non è proprio da buttare».
Il
suo entusiasmo le contagiò e si scambiarono qualche altra
battuta;
infine, dopo averle detto di salutare Barry, chiusero la
videochiamata e Lena recuperò il suo laptop.
L'unica
a essersi quasi esclusa, a quel punto, parve Leslie Willis. La
reporter ciucciò dalla fiaschetta e, come suo solito,
gridò invece
di parlare, ammutolendo le altre: «Perfetto, ne sapremo di
più
sulla famiglia ricca e saremo tutte felici e soddisfatte»,
gesticolò, scrollando le braccia, «ma mi permetto
di avanzare una
critica». Si alzò, appoggiando la schiena al
muretto del chiosco e
indicando Maggie Sawyer più in basso: «Lei.
Non siamo forse tutte d'accordo che il suo capo è anche il
capo
dell'organizzazione? Ehilà, dov'è il suo
contributo? Siamo tutte
serene nel parlare di alberi genealogici e professori e crediti che
stiamo dimenticando di dare attenzione a quella che qui più
di tutte
può dare informazioni utili», enunciò
d'un fiato, pensando di
provocare qualche reazione: «Oppure è qui solo per
riferire a lui
cosa sappiamo?!».
Alex
si alzò come una molla. «Emh. Mi permetto di
ricordarti che vai a
letto con uno di loro».
«Sì,
ma
emh,
lui non conta», si portò le braccia a conserte,
gonfiando gli
occhi. «Io sfrutto lui e non il contrario. Qui stiamo
parlando del
capo, ti è chiaro? Larry può fare il capo solo in
un determinato
contesto, se afferrate cosa intendo», si lasciò
sfuggire di
proposito, a labbra strette, ottenendo diverse reazioni: Alex e Kara
fecero una smorfia disgustata chiedendole di smetterla, Indigo
nascose il viso tra le braccia a peso morto, Lena piegò le
labbra e
scosse la testa ma Maggie, invece, Maggie no, lei era presa da altri
pensieri. «Oh, lo so cosa avete pensato, razza di maniache!
Ma io
parlavo del-».
«Ha
ragione», se ne uscì Maggie di punto in bianco,
notando poco
distante lo sguardo appagato che Leslie le riservava. Non riusciva a
fare a meno di dare attenzione alla sua tachicardia che, da aver
saputo di John Jonzz, aumentata esponenzialmente quella mattina, non
riusciva a liberarsene. Prese un bel respiro: «Dru Zod
è uno dei
fondatori».
Erano
appena arrivati all'ospedale e si erano precipitati a sapere delle
condizioni di John. Avevano parlato con un primario e con diversi
medici. Vedere John Jonzz disteso su quel letto bianco le aveva fatto
mancare il respiro e, per un attimo, la terra sotto ai piedi. Tutto
quel tempo che stava passando con Charlie Kweskill e a lasciarlo
entrare nella sua vita, quel suo abbassare la guardia con Dru Zod in
centrale, il suo abituarsi a stare con loro; era stato John Jonzz ad
affidarle quell'incarico che, forse, stava tradendo senza
accorgersene. Lei voleva mollare e ora John stava in un letto
d'ospedale. Lui non avrebbe mollato, era certo, per quello qualcuno
lo aveva punito.
«Lo
giuro, Mags… Lo giuro», Charlie non aveva fatto
che ripeterlo.
«Non siamo stati noi».
«Se
non voi, allora chi?», aveva digrignato i denti, cercando di
non
alzare la voce in corridoio. Alex si era allontanata solo qualche
metro per chiamare Megan e Kara al telefono e l'aveva vista
guardarla, incuriosita.
«Non
ne ho idea. Hanno avuto una discussione di recente, ma è
tutto a
posto».
«Ti
sembra a posto?».
«Ma-»,
si era tirato indietro, alzando le braccia muscolose in segno di
resa, «Calmiamoci, okay? Non è stato il Generale,
non potrebbe
farlo di testa sua senza avvertire i beta e io so
che non sono stati avvertiti».
I
beta, i beta… non era la prima volta che sentivano questa
parola:
la gerarchia.
Erano
tornate all'interno del chiosco: Alex seguiva la bambina dall'alto
intanto che Maggie raccontava cos'era successo quella notte, seduta a
gambe incrociate davanti ai fascicoli, uno dei quali già
aperto;
Kara era in piedi con le braccia a conserte tra la sorella e Lena
che, seduta con le gambe piegate sulla tovaglia, appoggiava la
schiena al muretto; Indigo era invece rimasta seduta all'entrata,
distendendo una gamba; infine Leslie Willis, che batté le
mani
soddisfatta che servisse il suo intervento, seduta sul corrimano
sopra il muretto reggendosi a uno dei quattro pilastri in cemento.
«E
qui vi beccate la mia prima chicca per voi, bimbe belle»,
alzò una
mano, «So per cosa stanno i beta».
Tutte
si fecero più interessate e Alex si voltò verso
l'interno,
spronandola a continuare.
«Suonano
le trombe», enunciò con un largo sorriso da
orecchio a orecchio,
«rullano i tamburi».
«Leslie!»,
la richiamò Lena mentre Kara si portava una mano in faccia.
Lei
perse il sorriso. «E va bene, come volete, questa volta
rinuncerò
al pathos. Come suggerisce il nome, i beta sono la classe punta
dell'organizzazione, quelli che stanno in alto; i
nuovi ricchi
se dovessimo vederla come una società. E, per certi versi,
la nostra
organizzazione sembra proprio una società. Piccola piccola e
quatta
quatta. Aggiungiamo, scontato,
che l'alpha
equivale al presidente: il caro capo della polizia, in questo
caso»,
le guardò, soffermandosi su Maggie. «I tuoi nuovi
amici non te lo
hanno spiegato, tutto questo, per prepararti al magico mondo di Oz,
Dorothy?».
Lei
sospirò. «Non so cosa immagini, ma»,
scosse la testa,
inclinandola, «quando sto con loro sto lavorando».
«Per
la polizia, per il povero agente Jonzz o per… il Generale?»,
virgolettò non mancando di sorridere, spazientendo lei e in
particolare Alex.
«Se
hai qualcosa contro di me, non fare la preziosa, dimmela e basta. Il
tuo ragazzo ha avuto qualcosa da ridire sul mio conto, per
caso?».
«Basta,
Willis», la rimproverò invece Alex.
«Siamo tutte dalla stessa
parte, qui, e se hai qualcosa da dire dilla, ma smettiamola di
accusarci a vicenda».
Lena
la tenne d'occhio mentre gonfiava le guance e guardava altrove, un
momento, così scambiò uno sguardo con Kara, che
si fece curiosa a
sua volta.
«Va
bene. Non
toccare la ragazza del boss…»,
bisbigliò. «I beta sono quelli che comandano,
dicevo.
Congratulazioni a tua zia per la promozione, comunque»,
indicò Kara
e sia lei che Indigo deglutirono. «Mi piace questa cosa:
essendo un
gruppo non esiste l'ognuno
per sé,
la mia fonte lo ha detto chiaramente», arricciò la
lingua, «votano.
Per ogni cosa vanno a votazione. E solo i beta e l'alpha possono
votare, sono gli unici ad avere voce in capitolo sulle sorti
dell'organizzazione e i suoi membri. È così che
ci ha lasciato
quella sfortunata di Faora Hui: la maggioranza dei beta ha votato
esattamente per seccarla», abbassò l'indice destro
e Alex serrò le
labbra, dando un'occhiata all'orologio e di nuovo a Jamie, fuori.
«E
la tua fonte sarebbe…?», Alex già
conosceva la risposta e Leslie
sollevò le spalle.
Kara
si morse un labbro. «Avevamo ipotizzato qualcosa del genere.
Faora
voleva diventare una beta, se i beta sono quelli che
comandano…
beh, ha senso. E mia zia… lei è proprio come
loro». Si sentì
osservata e si voltò un attimo, ma Indigo puntava ora lo
sguardo
agli alberi. Perché la stava…?
«Va
bene», prese parola Lena, «Dunque quel Kweskill
è uno dei beta?!
Per questo sapeva che non erano stati avvertiti, perché lui
non era
stato interrogato a proposito?».
«Non
esattamente», riprese parola.
Aveva
creduto a Charlie. Non era riuscita a non credergli e… ed
era
uscita dall'ospedale. Si era girata e aveva sceso le scale fino al
portone aperto, sentendo i suoi passi che l'avevano seguita fino al
parcheggio. Le aveva chiesto perché era scappata e lei si
era girata
con gli occhi gonfi di lacrime per urlargli che non stava scappando
in quell'istante, ma che forse lo avrebbe fatto: «Voglio
chiudere
con tutta questa storia». Non aveva aspettato il suo secondo perché:
«Perché sento di non esserne in grado,
Charlie», aveva abbassato
appena la testa, scuotendola e così guardarlo con
stanchezza. «Mi
sei amico e io devo trovare il modo di incastrarti. Lo
capisci?»,
gli si era avvicinata e lui, dal suo mezzo metro in più
d'altezza,
l'aveva guardata senza battere ciglio. «Sei gentile e mi
guardi come
se potessi davvero darti ciò che stai-», si era
trattenuta,
riformulando, «Dovremo essere nemici, noi due, Charlie.
Dovresti
smetterla… E Dru Zod… io devo poter arrestare
quell'uomo! Devo
poter arrestare lui, e te, e chiunque altro ci sia in mezzo. Ma sento
di non potercela fare e questo», aveva stretto gli occhi,
«mi
impedisce di fare il mio lavoro e ora John… Mi sono
sopravvalutata.
Lui è intubato e io non so fare il mio lavoro». Un
messaggio da
parte di Alex che le chiedeva dove fosse andata aveva interrotto il
suo sfogo, tornando dentro.
Leslie
Willis le guardò con estrema soddisfazione.
«Gamma?»,
Lena trattenne un sorriso, «Hanno usato tutto l'alfabeto
greco?».
Lei
fece una smorfia. «Nah, solo alcuni. Poca fantasia,
suppongo».
«E
i gamma
per cosa dovrebbero stare?», domandò Kara,
interrotta da un verso
di Alex che, guardando prima fuori e poi Maggie, sembrò
allarmata:
«Jamie
sta tirando i capelli a una bambina! Vado io, tranquilla», la
fermò,
vedendola alzarsi, «Pensavo si sarebbero fermate alle parole,
ma…
Torno subito, continuate pure». Fece spostare a Indigo una
gamba e
sparì di corsa, urlando il nome della bimba.
«Lasciala, Jamie,
lasciala».
«Ha
iniziato lei», udirono la voce della piccola, stridula, sotto
l'altra che gridava.
Maggie,
Kara e Lena, e dopo Leslie, si affacciarono con curiosità e
commentarono la scena: la bambina a cui Jamie stringeva i capelli
aveva iniziato a tirare pugni, ma era Alex a prenderli quasi tutti,
intenta a convincere l'altra a lasciarla, forzandole le manine che
erano diventate tenaglie.
«Dovrei
andare ad aiutarla», Maggie si sentì in colpa
all'ennesimo pugno
inferto vicino al naso.
«Alex
è sempre stata brava a incassare»,
considerò Kara, stringendo i
denti.
«C'è
una concreta possibilità che non ci riesca»,
aggiunse Lena,
tirandosi indietro.
«Scommetto
cinque dollari che si aggiungerà alla rissa il bimbo a
destra: sta
puntando Danvers troppo a lungo», incalzò Leslie,
tentando di
indicarlo. «La sa lunga quello lì, eh-eh. Oh! Che
slancio, sapevo
non mi avrebbe deluso». Il terzo bimbo si era attaccato a una
gamba
di Alex per liberare le amichette.
Indigo
seguì solo distrattamente la scena dietro ad alcuni alberi
lontani.
Lontani come lo erano state le auto di quel parcheggio: Charlie
Kweskill aveva aspettato il Generale davanti gli scalini d'ingresso
quando gli aveva scritto di essere vicino ad arrivare. Qualcosa lo
stava tormentando, ma non era il tentato omicidio di John Jonzz:
«La
prego, Generale, devo sapere: ha detto a Sawyer della mia sorellina
morta? Lo ha fatto? Ha… usato
la mia storia per avvicinarla a me?».
Lui
aveva sospirato appena, serio. «Potrei… averle
detto qualcosa.
Siete uniti o mi sbaglio, forse?».
Charlie
Kweskill aveva esitato. «Beh… sì.
Avrebbe dovuto coinvolgermi,
Generale».
«Non
era necessario. Stavi male per Faora e ho pensato che il tuo dolore
avrebbe potuto avvicinare Sawyer a te e, di conseguenza, a noi.
Bisogna sapersi aprire e lasciar andare un po' di umanità
per
raggiungere i propri obiettivi, Charlie».
Indigo
aveva ascoltato con attenzione la sua lezione secondo cui l'empatia
poteva davvero rivelarsi un'arma, se usata a dovere. I sentimenti
sfruttati come punti deboli ma, secondo Dru Zod, erano da celebrare e
non condannare.
«Levi
Luthor era convinto che l'empatia fosse un pericolo per gli affari,
ma io sono di un altro avviso», gli aveva battuto un braccio
in modo
amicale, «L'empatia unisce».
Stava
per superarlo ed entrare che lui lo aveva fermato: «Ma ha
sbagliato
un calcolo, Generale: Maggie Sawyer vuole lasciare, rischiamo di
perderla».
L'uomo
era rimasto fermo forse per un momento in più, pensando.
«No, non
lo farà. Accelera. Includila, sai di cosa parlo. Non
permettiamoglielo».
Lui
si era messo agli ordini ed erano entrati, così Indigo si
era
spostata, rientrando anche lei prima che Lena fosse andata a cercarla
nei bagni o che Kara Danvers fosse tornata in auto con quella Inze.
Maggie
sfogliò alcune delle foto nel fascicolo, con cura. John
Jonzz aveva
seguito la figlia di Dru Zod, Melanie, per tre giorni a Metropolis
prima di tentare un approccio: l'aveva fotografata intenta a portare
il figlioletto all'asilo, era la dirigente in un centro benessere e
l'aveva tenuta d'occhio in un incontro con i colleghi, sorpresa a
fumare una sigaretta all'esterno, a baciare il marito non distanti da
una finestra della loro abitazione in centro, in un palazzo. Era per
questo che lui e Zod dovevano aver discusso, pensò. John
aveva
pedinato sua figlia per accertarsi che non facesse niente di sospetto
e dopo si era avvicinato a lei per chiederle di suo padre. Non
sembra sapere nulla della doppia vita di quell'uomo,
aveva scritto John sul fascicolo, è
pulita.
Adrian Zod non doveva aver apprezzato l'intrusione.
«Da
quel che ho capito, i gamma
svolgono quasi un lavoro di segreteria», proseguì
Leslie. «E sono
numericamente inferiori a tutte le altre classi. Il gamma di spicco,
neanche a dirlo, è il vostro Charlie».
Maggie
alzò lo sguardo e Alex rientrò nel chiosco dopo
aver lasciato Jamie
fare pace.
«Charlie
Kweskill è il segretario di Zod?!», quella di Lena
non sembrò
proprio una domanda.
«Non
mi sorprende», sindacò Alex, massaggiandosi sotto
un occhio.
«Spiega perché è sempre appresso a
lui», scambiò uno sguardo con
la compagna.
«I
gamma sono gli occhi e le orecchie di quell'organizzazione, se volete
il mio parere», precisò Leslie, scivolando a terra
dal muretto e
allungando le gambe. «Il mio uomo li ha definiti i guardiani»,
ridacchiò, ma fu l'unica a farlo, sotto lo sguardo
interessato di
Kara e Lena.
«E
lui ti ha raccontato tutto questo?», domandò la
prima, stringendo
gli occhi e vedendola annuire.
«È
un gran chiacchierone, in special modo se sai toccare i punti
giusti».
Loro
si erano riguardate mentre Alex la pregava di smetterla con le
allusioni sul sesso, dando uno sguardo all'orologio e dicendo a
Maggie di dover andare, intenta a sfogliare ancora quel fascicolo.
Dopo aver abbandonato la pista su Melanie Zod, John Jonzz aveva
stretto proprio sul Generale, il presidente dell'organizzazione,
fotografandolo, tra le altre cose, a una cena con lo sceriffo della
contea e le rispettive famiglie. Oh, questo doveva averlo messo nei
guai… L'organizzazione aveva tra gli accoliti lo sceriffo?
Più che
mai era comprensibile perché Alex, e ancora prima John, non
potessero fidarsi dei loro colleghi.
Vicino
a panchine, aiuole e fontanelle, Kara si era messa a rincorrere i
bambini che le sfrecciavano intorno cercando di toccarla, giocando
con loro per distrarre un'inconsolabile Jamie da quando Alex l'aveva
salutata per andare a lavoro. Lena la fissava mentre era seduta su
una panchina blu accanto a Indigo, sopra la spalliera, che non faceva
che fare qualcosa, qualsiasi cosa fosse, col suo cellulare. Si
stavano prendendo una pausa, a breve anche lei avrebbe dovuto
lasciarle per andare alla Luthor Corp. Sentiva i bambini chiamarla
mostro
e alcuni discussero sul piano per attaccarla insieme. Ridevano e
gridavano, controllati a vista dai genitori. Kara ne
acchiappò uno e
lo lasciò andare quando fu accerchiata: Lena sorrise, Kara
sembrava
nel suo habitat.
«Come
sta andando?». Maggie le si sedette accanto con un pronto
sorriso,
guardando lei e dopo Kara, e arrossì appena, sorridendo a
sua volta
e abbassando un poco lo sguardo.
«Bene,
direi», rispose, lasciando la bocca socchiusa.
«Pensiamo che
andremo a vivere insieme».
«Ma
è fantastico», riguardò verso Kara,
«sono contenta per voi».
«Voi
come lo fate funzionare?».
Maggie
ci pensò, prima di rispondere: «Nessun piano. E
credo non servirà
nemmeno a voi, è evidente».
Ci
fu silenzio per un po', passato ad ascoltare gli uccellini che
volavano vicini e le risate dei bambini e quelle di Kara. Lena
lanciò
un'occhiata a Leslie che, vicino al chiosco, era impegnata in una
telefonata; poi a Indigo, immersa nel suo mondo. Con la coda
dell'occhio, vide Maggie farsi improvvisamente seria. «Non
vuoi
farlo, vero?», soffiò a un certo punto,
intravedendola scuotere
tiepidamente la testa. «Sono l'ultima che può
darti lezioni»,
forzò un sorriso. «Ho fatto cancellare quei dati
sulla chiavetta
usb», aggiunse poi. «A volte ho dubbi. Se
farlo… o non farlo,
quale sarebbe stata la migliore opzione».
Maggie
abbassò la nuca, lasciandosi anche lei andare a un tirato
sorriso.
«Capisco… Alex me lo ha detto», la
guardò. «Mi sento stupida.
Non riesco a odiare Zod o a temerlo come la minaccia che dovrebbe
rappresentare. Io penso davvero che lui ritenga di fare del bene per
National City e che poi lo faccia nel modo sbagliato. Perché
so che
è sbagliato, non trascendo su questo,
ma…».
Lena
accennò una risata. «Oh, sì. Mia madre
mi ha disprezzato da quando
sa della mia esistenza, mi ha educato alla sua indifferenza, non mi
è
stata vicina mai, non mi ha mai fatto sentire amata, eppure credo
che, nel suo modo contorto, mi voglia bene. E io gliene voglio a
lei», la voce si fece dura e gli occhi lucidi.
Maggie
le prese una mano con la sua, stringendola; si sorrisero.
«Charlie
mi viene a prendere, tra un'ora. Riporto la bambina dalla babysitter
e… mi ha promesso di mostrarmi alcuni risultati
dell'organizzazione».
«Ci
penserà Kweskill», le aveva detto Zod,
all'ospedale, «Ti mostrerà
le potenzialità dell'organizzazione che Petra ed io abbiamo
aiutato
a fondare».
Lena
la guardò, incuriosita.
«Ho
paura di scoprire che hanno ragione», confidò.
«Non dirlo ad
Alex».
Glielo
promise, ma sembrava il minimo. Non che volesse che lei dicesse a
tutti sul suo voler bene a sua madre. Accidenti, quello non avrebbe
dovuto dirlo.
«Magari
scopro che è tutta una messa in scena, che mi stanno
ingannando»,
proseguì lei; «Che il Charlie che sto imparando a
conoscere è la
maschera di un'organizzazione che vuole da me chissà
cosa».
«Non
credo»: la voce di Indigo spaventò entrambe, non
accorte che le
stava ascoltando. Mostrò loro il suo cellulare, chiarendo di
essere
entrata nel suo profilo Facebook
solo per curiosare e non per crear danni. C'erano più foto
del
ragazzo e di Maggie insieme, con tanto di date dei momenti in cui
erano state scattate. In alcune mangiavano, in altre erano in auto,
in altre ancora davanti alle vetrine, facendo facce buffe.
Maggie
arrossì. «E-E-E… quelle sono state
scattate nelle pause, per
chiarire. Lavoriamo… di solito. Come sei
entrata?».
«CharlieIlMagnifico93:
è la sua password».
Lena
e Maggie rimasero in silenzio per qualche istante.
«Beh…
Non credevo le avesse ancora», riprese parola, guardando il
telefono, «Almeno le ha settate che può vederle
solo lui, perché
organizzazione o meno, se il capitano ne vede anche solo una ci
lascia a casa senza stipendio».
Indigo
grugnì. «Sì, il lavoro è
meglio tenerselo stretto, naturalmente.
Ma permettimi, carina: non sono molti i membri dell'organizzazione
certi ad avere un social e il massimo che fa questo Charlie
è
condividere appelli per animali in adozione, vi risparmio su cosa
mette i like,
l'unica cosa della sua vita che posta sono le sue foto con te.
Private».
«Ricordi»,
commentò Lena.
Non
mancò molto che Leslie andasse da loro per richiamarle
all'appello,
ma non era sola. «L'ho trovata che vagabondava qui intorno e
volevo
chiedere a mammina e papino se posso tenerla»,
indicò la ragazza a
fianco e in cambio ricevette un dito medio. Kara correva in loro
direzione e Leslie sorrise: «Ah, ecco papino». Si
bloccò, fissando
Lena a sottecchi, «Mi correggo… tu sei
papino».
«Siobhan!»,
Kara allungò le braccia, «Sei venuta
davvero».
«Sì,
sì, va bene, ma manteniamo le distanze per il quieto
vivere», la
bloccò, arretrando. «Mi hai chiesto una cosa e
sono qui, ma non
posso trattenermi e dunque sarò breve».
«Cosa?»,
sbottò Leslie, «Hai lasciato a casa un centrino ad
ago e filo a
metà?».
Siobhan
la guardò sinistra. «Allontanati da me o prendo lo
spray al
peperoncino. Sfidami, Willis. Ti prego, fallo». Leslie
scherzò
ancora ma le piacque come di fatto si allontanò per davvero,
fosse
anche solo un passo. «Sono stata a Fort Rozz a trovare Rhea
Gand»,
guardò di nuovo Kara e dopo le altre, che si accigliarono.
«Viaggio
a vuoto: la stronza non vuole parlare».
Rhea
Gand l'aveva guardata dapprima con sconcerto e poi si era messa a
ridere dietro il vetro che le divideva, camminando verso la sedia per
le visite. Probabilmente era l'ultima persona che pensava sarebbe
andata a trovarla. Siobhan l'aveva fissata con disprezzo, indicandole
più volte la cornetta dal suo lato, accartocciando le
labbra.
«Non
vuole parlare con nessuno, che ti dava la certezza di essere
così
speciale?», brontolò Leslie.
«Non
sei in malattia?», le domandò invece Maggie.
«Sì,
sono andata per mia pura soddisfazione personale»,
raccontò con una
luce negli occhi. «Sto cercando di…»,
scosse una mano, «sai,
affrontare i miei demoni e cose del genere, per guarire».
Indigo
non resistette: «Oh, si intende questo con l'affrontare i
propri
demoni?».
«Emh,
scusa, mi pare nessuno ti abbia interpellato, Frozen!
Da dove è uscita questa qui?», si
guardò attorno, arricciando il
naso, «Non c'erano già abbastanza Principesse
Disney
in questa storia?».
«Siobhan»,
la richiamò Kara, «Non ti ha saputo dire proprio
niente? E da come
si comportava…?».
Lei
scrollò le spalle. «Ho provato a dirle
ciò che si sarebbe voluta
sentir dire, a farle sentire… sai, la mia vicinanza, a tirar
fuori
un po' di conforto umano… quelle cose
lì».
«È
che ti manca la materia prima, per quello»,
gracchiò acida Leslie e
lei la ignorò, indicandole la borsa.
«La
odio, ma pensavo che farle sapere di comprenderla e volere da lei un
aiuto per spodestare Zod potesse… ma ha paura. È
una cosa che
riesco a capire perché…», si
fermò per un attimo, abbassando la
voce, «so
come ci si sente.
Non che questo cambi qualcosa: dovesse crepare domani,
stapperò lo
spumante».
«Paura…»,
farfugliò Maggie, per poi alzarsi in piedi e richiamare la
figlia.
«Zod mi ha esplicitamente detto di volere una confessione da
Gand
per la morte di Petra, la sua fidanzata di allora. È
convinto che
lei l'abbia uccisa e se è vero che ha paura, non mi
sorprende».
Richiamò Jamie che fingeva di non sentirla, prima di dare di
nuovo a
loro la sua attenzione: «Dobbiamo saperne di più
su questa Petra».
Kara
lanciò un'occhiata a Indigo, che annuì, seppur
seccata.
Levi
Luthor. Adrian Zod. Petra Taylor.
Levi
Luthor: fratello di mezzo tra Lara, primogenita dotata di cui della
sua giovinezza si era conservato poco, e Louie, nato malato e il cui
unico maggior dettaglio rimasto di lui nel tempo era quella piazza,
costruita in memoria di ragazzi come lui, vite spezzate a causa di un
incidente.
Adrian
Zod e Petra Taylor, fidanzati: lei era morta cadendo dalle scale
prima che potessero sposarsi, sorella maggiore di quella che
conoscevano come Rhea Gand, che lui accusava di averla uccisa.
Pezzi
di storia che galleggiavano per aria senza connessione. Cos'era
avvenuto prima e cosa dopo? In che punto era nata l'organizzazione e
con quale scopo? Come si erano conosciuti i Luthor e i due promessi
sposi?
Era
Lena quella ad avere la testa per aria insieme a quelle informazioni,
spostandole con la sua mente, trovando agganci, rimuovendole e
gettando qualche supposizione che potesse fare da tramite tra un
punto e un altro. C'erano delle analogie interessanti: il Generale
era convinto di fare del bene per National City, le aveva spiegato
Maggie, di stare dalla parte delle persone bisognose, aveva
assicurato un posto all'asilo per Jamie, Zod stesso le aveva nominato
i disabili e le difficoltà economiche; Louie Luthor era un
disabile
e quando era ragazzo erano morti quelli dell'associazione, disabili
come lui. E se l'associazione avesse avuto bisogno di soldi? Era lei
a inventarsi tutto oppure tra un evento e l'altro c'era una
connessione, seppur labile? L'organizzazione si prendeva ancora cura
di quella piazza, però.
«Dunque
i delta
sono il ceto medio?», domandò Kara, distraendola
dai suoi pensieri.
Morse il suo secondo panino, aggrottando la fronte. «Ribolleganbomi
alla tua betafora bulla bocietà»,
aggiunse, con una mano sulla bocca.
Leslie
annuì, camminando in cerchio dentro il chiosco.
«Vedi che sei
sveglia quando ti applichi, Supergirl»,
la prese in giro e Kara le riservò un'occhiataccia,
ascoltando
quella Indigo lamentarsi che, quando era lei a fare delle battute,
volavano le penne. «Mi ha spiegato che i delta
sono i membri comuni: partecipano alle riunioni se aperte a tutti, da
quel che ho capito, ed è tutto. Infine, gli omega».
«I
soldati», intervenne Lena e loro si voltarono, mentre la
ragazza la
indicava orgogliosa.
«Ecco
la prima della classe», rise. «I più
numerosi, gli omega
sono l'esercito
dell'organizzazione; eseguono gli ordini per un mondo più
pulito.
Potrebbero essere ovunque! Il mio uomo è uno di
loro». Recuperò la
valigetta, sorseggiando dalla sua fiaschetta. «Beh, ora devo
andare,
aggiornate le altre. È stato un piacere, belle, alla
prossima
riunione. Ah…», fermò i passi,
«Se poteste non divulgare queste
informazioni, ve ne sarei grata: gli ho promesso di non dirle a
nessuno. Ops!»,
estrasse un sorriso a trentadue denti. «Beh, diamo almeno
questa
idea prima che possa scriverci su un articolo, no?».
Uscì
e Lena e Kara si scambiarono uno sguardo, mettendosi di fretta in
piedi. «Leslie, aspetta», Lena si
affacciò, «Devo andare
anch'io».
Quegli
occhioni verdi non l'avrebbero ingannata, ma tanto valeva togliersi
il dente e scoprire cosa voleva. «Mi dai un passaggio,
Luthor?».
«Certo».
Tornando un passo indietro, colse il volto di Kara con il palmo delle
mani e scambiò con lei un bacio, sotto lo sguardo
imbarazzato di
Indigo e quello infastidito di Leslie dall'altra parte, che la
incitò
a darsi una mossa. «Ci vediamo questa sera?». Kara
le disse
qualcosa a un orecchio e, dopo uno sguardo, si baciarono ancora,
spazientendo una e facendosi richiamare dall'altra. Leslie
schizzò
le braccia verso l'alto quando Lena si staccò, ma non troppo
in
fretta, continuarono a fissarsi, occhi grandi e sospiri. «Non
uccidetevi voi due, mi raccomando! Oh, Kara! Il cestino». Lo
aveva
dimenticato.
«Lo
prendo io! Lo riporto a casa… da-da
te,
quando accompagno Indigo». Si sorrisero e Leslie
tirò via Lena.
«Sul
serio, ma ci date dentro abbastanza?», le domandò
Leslie con
schiettezza, camminando verso le strisce pedonali. «Temevo
che a un
certo punto, a furia di fecondarvi con gli occhi, una delle due
avrebbe iniziato ad ansimare».
Lena
trattenne un sorriso imbarazzato, aprendo la portiera del guidatore e
limitandosi a dirle di salire. Chiusero e allora prese fiato, nel
silenzio. «Posso chiederti-».
«Eccola…
Neanche il tempo di mettere in moto».
«Cosa
hai evitato di dire a Maggie Sawyer?», si voltò
verso di lei. «Ti
conosco da troppi anni, Willis, per per non capire che hai
volutamente omesso dei particolari dal tuo resoconto».
Lei
perse lentamente il sorriso, scuotendo la testa. «Larry se lo
è
lasciato sfuggire… non era voluto». Sentiva lo
sguardo pesante
dell'altra addosso e normalmente lo avrebbe ignorato, ma non
riusciva. Forse era una banalità, o forse… No.
Dalla faccia di
Larry, non poteva essere una banalità.
Erano
a letto e lui si era avvicinato per tenerla stretta a sé,
dopo aver
lamentato di sentire i brividi. «Non vorrei proprio ma devo
andare,
mia principessa dai capelli d'argento», le aveva lasciato un
bacio
sulla base del collo, continuando con le mani a massaggiarle la
schiena. «Il dovere mi chiama».
Leslie
Willis aveva emesso un verso contrariato. «Non puoi
trattenerti
altri dieci minuti? Sei caldo».
«Non
ho dieci minuti, picci, mi stanno aspettando».
«Gli
altri omega?».
«No,
oggi…», si era fermato, sollevando il lenzuolo,
comprendendo dal
tono della sua voce scocciato che non era una spiegazione
ciò che
voleva da lui. «Io sono contento che tu mi abbia dato una
seconda
possibilità dopo aver saputo dell'organizzazione, e ti ho
detto ciò
che volevi affinché tu la vedessi in altro modo
perché… beh,
perché mi piaci davvero e non voglio rovinare… ma
ho come
l'impressione che tu non accetti lo stesso ciò che faccio
con loro».
«Un'impressione,
eh?», aveva rimarcato con tono sdegnato, alzandosi dal suo
lato e
rivestendosi. Lui era rimasto in silenzio per un po' e Leslie,
dandogli le spalle, aveva chiaramente sentito come un fastidio non
indifferente al centro del petto, che l'aveva forzata a dire qualcosa
subito: «Oh, ascolta…», si era voltata,
«Non posso nascondere il
mio astio per-».
«Quello
che rappresento?». Il giovane le aveva forzato un sorriso e,
sedendo
di nuovo sul materasso, si era infilato le scarpe. «Non sono
arrabbiato», si era riavvicinato a lei, infilando la camicia
sotto i
pantaloni. «Vorrei tanto dirti e mostrarti di più
perché tu possa
capire, dolce cuore mio, ma non mi è permesso… Mi
sono, sì, mi
sono già sbottonato abbastanza», aveva scosso la
testa e
ridacchiato, «mi metterei nei guai. Ma presto ci
sarà un gran
cambiamento se Sawyer verrà inserita come erede del Generale
e-»,
aveva spalancato gli occhi e Leslie altrettanto, fissandolo con
sconcerto. «Oh, io…», si era tirato
indietro e aveva sbattuto
contro il letto, un ginocchio aveva ceduto e aveva rotolato da
lì
fino ad accovacciarsi sul pavimento con le mani, rialzandosi svelto.
«Tu questo… Non la conosci, vero?»,
aveva chiesto con panico e
Leslie aveva alzato un sopracciglio. «Devo andare! Ti prego,
non…»,
aveva aperto la bocca e infine richiusa con scatto, correndo da lei
per darle un bacio e uscire di casa.
Le
due si erano scambiate uno sguardo pensieroso e Leslie Willis,
così,
aveva scrollato le spalle. «Cercavo di capire da che parte
stesse,
chiaro? Perché non so esattamente che diavolo significhi per
l'organizzazione, Luthor, ma la parola erede
non si piega a interpretazioni».
«Dobbiamo
dirlo a Maggie».
«No-»,
si zittì di scatto e poco dopo, senza che le dicesse nulla,
si gettò
sul sedile e allargò le gambe con resa.
«Sì… Sì, nel senso, se
lo ritieni…».
Lena
la scrutò con curiosità e, pian piano, sorrise.
«Riguardo
quell'articolo, Leslie…».
«So
dove vuoi arrivare», sbottò allora, voltandosi,
«Ma è il mio
lavoro e lui dovrebbe aspettarselo».
«Ci
sono cose più importanti».
«Oooh,
non parlarmi dell'amore, ti prego! Non sono innamorata di lui, okay?
E metti in moto: ho la pasticceria di fronte che mi sta facendo la
corte».
Brontolò
e Lena rise, infilando le chiavi nel quadro.
Nel
frattempo, all'Angel
Children's Memorial,
il chiosco dove avevano deciso di sistemarsi le ragazze era ormai
coperto dall'ombra e gli uccellini, nell'albero più vicino,
sembravano avere molto più da dire di loro. La piazza si
stava
riempendo di gente e molti locali nelle vie limitrofe stavano aprendo
preparandosi per la sera. Affacciata, Kara si sforzava per
raggiungere a vista la scultura al centro, raffigurante i piccoli
angeli su sedie a rotelle. Si immaginava come doveva essersi sentito
quel Louie Luthor, a sedici anni, dopo aver saputo dell'incidente
dove erano morti tutti i suoi amici. E come dopo aver fatto costruire
quella piazza per tenerli nel cuore di National City. Si era sentito
in colpa? Lui non era con loro. Proprio come lei, non era con la sua
famiglia quando erano morti. Si doveva essere sentito in colpa per
essere stato ancora vivo?
«Non
molto in più di ciò che avevo trovato in una
precedente ricerca per
Lena su Rhea Gand».
Indigo
interruppe il flusso dei suoi pensieri e si fregò gli occhi,
sedendo
vicino a lei.
«Forse
con un'attrezzatura più adatta, magari… Petra
Taylor, nata nel
millenovecentocinquantacinque a National City, ha
frequentato…
aspetta, mi è sfuggito qualcosa». Sentiva Kara
Danvers che la
fissava, quasi più concentrata in quello che a
ciò che stava
facendo. Che fastidio, la deconcentrava. Era decisamente irritante.
«L'avevo già visto, ma non lo ritenevo importante.
È così che si
sono conosciuti», le indicò qualcosa sullo schermo
del laptop di
Lena e Kara si avvicinò per leggere.
«Petra
e Zod nella stessa università…»,
mormorò, continuando a
sfogliare e- oh,
vide una foto e fece segno a Indigo di zoomare. «La
didascalia della
foto dice che…».
«Già».
«Quello
è Levi Luthor».
In
completo con tanto di cravatta e in mezzo agli studenti, tra cui i
giovani Adrian Zod e Petra Taylor, Levi Luthor sembrava a suo agio,
lì in università per sostenere una lezione sul
progresso
scientifico. Tre dei fondatori certi dell'organizzazione in un'unica
foto.
«Fai
lo screen», le ordinò Kara in un primo momento,
per poi spingerla
di lato e farlo lei, con fretta. «Invio un messaggio a Lena
per
dirle che abbiamo trovato qualcosa. Non so a che ora ci rivedremo
questa sera, sono da mia zia».
Indigo
deglutì, spegnendo il laptop. «Non… Non
hai intenzione di…»,
si fermò non trovando le parole e Kara la guardò,
accigliata, «Con
tua zia, intendo».
«No»,
si spostò un ciuffo dagli occhi, «Credo?
Se ho capito di cosa parli. Mia zia fa parte dell'organizzazione,
è
una beta,
andare da lei e parlarle è la cosa più logica che
mi venga in
mente, ma questo non significa che io la perdoni o… cose del
genere. Parleremo. Vedrò di capire se… se
è sì, beh, se c'è
ancora un po' della zia che ricordo».
Continuò
a digitare un messaggio e Indigo strinse un pugno. Anche lei aveva
dei ricordi di quella notte che al contrario non avrebbe condiviso.
Dopo l'arrivo di Astra Inze. Dopo la discussione con Lillian
Luthor-Danvers e l'intromissione di Kara. Dopo aver mangiato il primo
piatto della cena quasi sforzandosi, sentendo la bocca dello stomaco
chiudersi. Dopo. Dopo era andata in bagno, più per scappare
da loro
che per lavarsi le mani. Aveva sentito dei passi ed era rimasta in
allerta, sbirciando
attraverso la porta spinta a metà, davanti allo specchio
sopra il
lavabo.
«Occupato?»,
la donna aveva messo una mano sulla porta e l'aveva aperta.
«Posso
permettermi? Speravo proprio di poter scambiare due parole con
te…
Linda».
Indigo
si era stretta nelle spalle. «Vuoi che ti ringrazi per non
aver
detto nulla? Puoi sognartelo, Inze: se pensi che mi sentirò
in
debito, ti sbagli di grosso».
«Oh
no, non sono stata zitta sulla tua identità per te, non mi
devi
nulla». L'aveva spinta all'interno del bagno per farsi
spazio,
socchiudendo di nuovo la porta e aprendo il rubinetto per
risciacquarsi le mani. «Ma la tua presenza qui con loro mi
dà
parecchio da pensare. Sapevo che eri fuori grazie a un garante e a un
lavoro misterioso. Chi non ama i misteri…? Allora, quanto di
quel
lavoro
c'è nella tua presenza qui?».
Lei
aveva forzato una risata, mettendo le braccia a conserte.
«Puoi
chiederlo direttamente al tuo capo. L'organizzazione non sa sempre
tutto?».
«Ma
io lo sto chiedendo a te», aveva chiuso e, con le dita che
gocciolavano, si era girata per squadrarla. «Puoi essere
così
gentile da informare una vecchia amica di prigione?».
«Non
sei mai stata amica mia. Ma non preoccuparti, non è Kara a
interessargli», le aveva risposto e Astra aveva annuito,
asciugandosi le mani.
«Che
sia. Non vorreste averci contro».
«Come
se avessi paura di te. Di voi. Non me ne importa niente». Le
era
passata alle spalle per uscire, sorridendo ancora una volta. Aveva
bloccato i suoi passi a un palmo dalla porta solo quando aveva
sentito una mano fredda adagiarsi sulla spalla destra.
«Cosa
ne pensi, andiamo?»: Kara le sorrise, alzandosi.
«Ci mangiamo un
gelato mentre andiamo in villa?». Recuperarono le proprie
cose e si
scambiarono uno sguardo: il gelato sarebbe andato bene. Kara
incastrò
il cestino da pic-nic sottobraccio e lasciò che Indigo
tenesse il
laptop, guardandola ancora, si rendeva conto, con una certa
insistenza. «Lui ne fa parte?».
«Chi?».
«Il
tuo garante. Fa parte dell'organizzazione?».
Lei
mise su un'espressione scocciata poiché non ne poteva
più di certe
domande e insinuazioni. «Non vuoi proprio credermi quando
dico che
non so chi sia, vero? Non ne hai intenzione?».
Kara
serrò le labbra e, di botto, sospirò.
«Sei molto sveglia, Indigo,
non puoi non saperlo, ti consumeresti nelle ricerche», scosse
la
testa. «Ma non vuoi dircelo. E se non vuoi, avrai le tue
ragioni.
Okay, non dirlo, Lena ed io ci arriveremo da sole, ma almeno rispondi
perché è importante: è membro dei
quell'organizzazione?».
Si
guardarono per qualche secondo, in completo silenzio: si stava
mettendo vento che sbatteva sul corrimano in ferro, intanto gli
uccellini sugli alberi erano sempre più chiassosi, volando
da una
parte all'altra, padroni della piazza.
«No»,
deglutì e la vide ansimare, «Non
più».
Kara
sapeva che non avrebbe ottenuto di più da parte sua.
«Grazie».
Sapere che non faceva parte dell'organizzazione era già
un'informazione preziosa, ancor di più lo era sapere che non
ne
faceva parte al
momento.
Cosa gli era successo nel frattempo?
Scesero
le scalette e Kara non credette ai suoi occhi, alzando le mani e le
braccia per attirare l'attenzione della sua amica Megan che si girava
attorno spaesata, con la yorkshire color miele al guinzaglio. Neanche
a pensarlo, fu la cagnolina ad accorgersi di lei per prima, tirando
per raggiungerla.
«Avete
già finito? Com'è andata?». Si
abbracciarono subito e Kara le
chiese come stesse.
«Hai
avuto difficoltà a uscire con lei?», si
abbassò per coccolare
Nana, che cercava di arrivarle sul viso per leccarla.
«No…
Credo tu avessi ragione: quello ha una cotta per me».
Indigo
le sentì ridere appena e fece qualche passo in avanti,
cercando di
mettere a fuoco delle persone in particolare, tra quelle che giravano
in piazza. Dei volti conosciuti.
«Io
non penso sia vero. Penso che tutta questa maschera del non
me ne importa niente
sia solo un modo per proteggerti piuttosto primitivo, Indigo Brainer.
Pensi davvero sia meglio non provare niente, forse, è dolce
da parte
tua, ma io ricordo come ti nascondevi sotto ai letti per non farti
trovare. Sei stata ferma a farti colpire, ma ti leccavi le ferite in
bagno. Pensavi non ti notassi, cara ragazza? Lionel Luthor mi aveva
parlato di te, credo ti sopravvalutasse», le aveva rivelato
Astra
Inze, accostandosi per parlarle all'orecchio. «Sai cosa?
Avrebbe
voluto averti. Nell'organizzazione. Avrebbe voluto offriti un lavoro
così come ha fatto quel garante per cui ora tanto ti
prodighi. Così
come avrebbe voluto l'FBI. Non te lo hanno detto? Il tuo profilo
psichiatrico lo sconsigliava e la proposta è stata bocciata.
Inaffidabile e instabile. Lui lo saprà, no? Il tuo garante.
Cosa
avrà usato per tenerti al guinzaglio? Quale paura ti
avrà
inculcato?».
Indigo
si immobilizzò e affannò il respiro. Loro
l'avevano vista, si
stavano avvicinando. No, no, non l'avevano vista ora,
sapevano che era lì, erano lì per lei. Non
riusciva ad
allontanarsi. Guardò indietro Kara che, parlando con quella
Megan,
accarezzava la cagnolina. E anche se si fosse allontanata, che senso
avrebbe avuto? L'avrebbero trovata. L'avrebbero trovata sempre.
«Indi»,
Carol si tirò dietro un orecchio i capelli e
l'abbracciò, mentre
lei restava ferma come una tavola di legno. «Quanto tempo,
cara, mi
sei mancata».
Dopo
fu il turno del marito Noah, che la strinse. «Non fare
niente», le
sussurrò lui, «Niente panico».
«Cosa
fate qui?». Non c'era l'ombra dei loro figli, non li avevano
portati: non poteva essere un buon segno.
«Oh,
una passeggiata, cara», le sorrise radiosa.
«E…», guardò Noah,
«un avvertimento, temiamo».
L'uomo
aveva cinto la vita della moglie, facendosi più stretti.
«Si è un
po' risentito per via del piano che hai escogitato da sola e per come
le cose si sono evolute, Indi, ti avevo avvertito. Ma gli
passerà,
non dargli motivo di dubitare della tua fedeltà
e… continua. In
fondo stai ottenendo dei risultati ed è ciò che
conta».
Entrambi
insieme gli avevano sorriso, ma Indigo non riusciva a stare
tranquilla con loro lì. Di peggio, poteva esserci solo che
Kara
Danvers li notasse e li raggiungesse. Oh…
andava male, la guardò. Molto male.
«Piacere»,
Carol allungò la mano verso Kara e dopo Noah.
«Sono un'amica di
vecchia data della mamma di Indigo. Che tragedia, poverina, cosa
è
successo…».
Parlarono
un po': Indigo sentiva che lo facevano, ma si era estraniata, non
riusciva a concentrarsi per capire il significato delle parole. Si
sentiva vuota, e piccola. Dalle facce di Kara, non riusciva neppure a
capire se lei ci credesse o meno a tutte quelle fandonie.
Perché il
suo angelo custode le aveva fatto questo, perché?
«La
parte divertente, Indigo Brainer», Astra l'aveva guardata di
nuovo,
«è che in prigione avevi tutti i motivi per avere
paura, ma nel
mondo qui fuori nessuno potrebbe davvero tenerti al guinzaglio, se
volessi. Se non riesci a comprenderlo è solo
perché è davvero
riuscito in ciò in cui noi e l'FBI non avevamo voglia di
applicarci.
Tanto di cappello a lui, chiunque sia. Credo davvero che Lionel ti
sopravvalutasse, povera ragazza». Era uscita dal bagno prima
di lei
e Indigo aveva stretto i denti fino a farle male la mandibola.
«Posso
dirtelo?», Carol aveva preso una mano di Kara, stringendola.
«Hai
un viso così angelico, sono contenta che Indigo abbia
trovato delle
amiche, finalmente. Tiene a voi, ne sono sicurissima. Per questo
andrà tutto bene». La guardò e Indigo
si paralizzò.
Andrà
tutto bene…
o le avrebbe uccise.
Ouch,
più che un avvertimento, pare proprio una minaccia!
Bentrovate
e bentrovati. Come vi aveva anticipato Leslie Willis, questo
è un
capitolo davvero lungo ma succede molto poco, o quasi.
Quasi
perché alla fine ci sono state fornite un mucchio di
informazioni,
sia ricavate da John Jonzz prima che finisse steso in un letto
d'ospedale, sia dai resoconti delle ragazze.
C'è
una parte che vi ha colpito di più? Vi siete fatti un'idea
di cosa è
successo nel passato, che avrà inevitabilmente influenzato
il
presente?
A
questa domanda darà grande risposta il prossimo capitolo,
uno stand
alone che… no, beh, in realtà i
prossimi,
perché di fatto il prossimo capitolo, che è uno
stand alone,
dicevo, è diventato così lungo e pieno di eventi
che ho dovuto
spezzarlo e dividerlo in sei
minicapitoli!
Alcuni di questi minicapitoli sono lunghi quanto veri e propri
capitoli; non lunghi come questo, ma fanno la loro bella figura.
Scrivendo
questo e il prossimo capitolo, che si dividerà tra parti nel
presente ambientate in questa stessa giornata e parti nel passato, mi
sono resa conto di quanto la storia stia svolgendo i propri nodi, e
come ora ogni cosa è importante per la corsa verso la fine.
Che è
ancora “distante”, in realtà, ma non
più così tanto. Più che
altro perché ci metterò tanto a scriverla XD
Ebbene,
fatemi sapere cosa ne pensate :) Vi do appuntamento a sabato 18
luglio con il minicapitolo 65.1 che si intitola Riscatto:
Perdita.
Sì, Riscatto
è il titolo del capitolo 65 e Perdita
è il titolo del minicapitolo. Qualche idea basata sui
titoli? ~
Buon
pomeriggio! Era forse questa la news che stavate aspettando? Chi lo sa,
considerato che abbiamo una notizia buona e una cattiva...
Partiamo
con la buona: Our home sta per tornare! Quando? Questo sabato: sabato
13 febbraio 2021.
La
notizia cattiva? Sono di nuovo bloccata con la scrittura; è
un periodo di alti e bassi e scrivo quando sono dell'umore giusto, ho
l'ispirazione buona e così via, quindi tornerò in
pausa dopo qualche capitolo. Ma ci ho pensato e magari pubblicare
ciò che ho mi aiuterà a continuare, o magari
farà l'opposto, chi lo sa, lo scopriremo vivendo...
Quindi
nulla, vi lascio alla piccola prefazione e… ci rileggiamo
presto ;)
Ho sempre
sostenuto che, se si comincia a delineare una trama complessa, o se si
scrivono i personaggi in un dato modo, ci dev'essere un
perché, un percome, e un inizio. Non mi piacciono i
personaggi che si comportano in un certo modo perché
sì, né che ci possa essere un'organizzazione
criminale nata dal nulla perché deve fare da sfondo alla
storia d'amore delle protagoniste e metterle in difficoltà.
Poi che ci possa o meno riuscire è un altro paio di maniche,
ma non siamo qui per disquisire su questo u_u Dal momento che sono
partita a scrivere Our home avevo in mente una trama più
complicata e articolata e una più base, e ammetto che
quest'ultima mi avrebbe semplificato il mondo, avrei avuto
più commenti per capitolo lungo il percorso, e me la sarei
sbrigata molto prima, ma ho seguito l'istinto e altre cose, e me la
gioco così. Mi rendo conto che molte persone leggono la mia
fan fiction solo per la supercorp (e ci mancherebbe, ahahah) e potrebbe
non interessare il resto, ma ho un dovere verso questa storia e devo
farlo a discapito di tutto. Questa piccola prefazione è per
preparavi ai capitoli che verranno! Ricordate che il capitolo 65
sarebbe stato uno stand alone? Non sarà uno stand alone
qualsiasi, ma sarà uno stand alone particolare, diviso in
sei “minicapitoli” dove potrete leggere l'inizio,
passo dopo passo: l'inizio dell'organizzazione. Perché per
me non è solo sfondo ma parte integrante di questa fan
fiction, proprio come la storia d'amore delle protagoniste.
Cosa
posso dire di più? Considerato il tempo trascorso, vi
consiglierei di rileggere il capitolo precedente Angel Children's
Memorial perché avrà modo di prepararvi a
ciò che leggerete ora, non solo per questo stand alone
diviso in sei appuntamenti, ma proprio per i capitoli da qui in avanti.
Faremo
la conoscenza di personaggi nuovi e altri li conosceremo sotto una
nuova luce.
Capire
il passato ci aiuta a comprendere e cambiare, chissà, il
presente.
Buona
lettura!
|
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Capitolo 67 *** 65.1 Riscatto: Perdita ***
Buondì!
Questo capitolo sarà allegato da una breve prefazione e una
notizia buona e una cattiva...
Partiamo
con la buona: Our home
è tornato! Come dopotutto vedete da soli XD
La
notizia cattiva? Sono di nuovo bloccata con la scrittura; è
un periodo di alti e bassi e scrivo quando sono dell'umore giusto, ho
l'ispirazione buona e così via, quindi tornerò in
pausa dopo qualche capitolo. Ma ci ho pensato e magari pubblicare
ciò che ho mi aiuterà a continuare, o magari
farà l'opposto, chi lo sa, lo scopriremo vivendo...
Quindi
nulla, vi lascio alla piccola prefazione… !!Avevo
già inserito questa prefazione sotto al capiotolo precedente
con un aggiornamento, ma potrebbe essere sfuggito ai più e
quindi ripropongo!!
Ho sempre
sostenuto che, se si comincia a delineare una trama complessa, o se si
scrivono i personaggi in un dato modo, ci dev'essere un
perché, un percome, e un inizio. Non mi piacciono i
personaggi che si comportano in un certo modo perché
sì, né che ci possa essere un'organizzazione
criminale nata dal nulla perché deve fare da sfondo alla
storia d'amore delle protagoniste e metterle in difficoltà.
Poi che ci possa o meno riuscire è un altro paio di maniche,
ma non siamo qui per disquisire su questo u_u Dal momento che sono
partita a scrivere Our home avevo in mente una trama più
complicata e articolata e una più base, e ammetto che
quest'ultima mi avrebbe semplificato il mondo, avrei avuto
più commenti per capitolo lungo il percorso, e me la sarei
sbrigata molto prima, ma ho seguito l'istinto e altre cose, e me la
gioco così. Mi rendo conto che molte persone leggono la mia
fan fiction solo per la supercorp (e ci mancherebbe, ahahah) e potrebbe
non interessare il resto, ma ho un dovere verso questa storia e devo
farlo a discapito di tutto. Questa piccola prefazione è per
preparavi ai capitoli che verranno! Ricordate che il capitolo 65
sarebbe stato uno stand alone? Non sarà uno stand alone
qualsiasi, ma sarà uno stand alone particolare, diviso in
sei “minicapitoli” dove potrete leggere l'inizio,
passo dopo passo: l'inizio dell'organizzazione. Perché per
me non è solo sfondo ma parte integrante di questa fan
fiction, proprio come la storia d'amore delle protagoniste.
Cosa
posso dire di più? Considerato il tempo trascorso, vi
consiglierei di rileggere il capitolo precedente Angel Children's
Memorial perché avrà modo di
prepararvi a
ciò che leggerete ora, non solo per questo stand alone
diviso in sei appuntamenti, ma proprio per i capitoli da qui in avanti.
Faremo
la conoscenza di personaggi nuovi e altri li conosceremo sotto una
nuova luce.
Capire
il passato ci aiuta a comprendere e cambiare, chissà, il
presente.
Buona
lettura!
1963
Qual
è il frutto di una tragedia?
L'elicottero
sovrastava l'aria sopra la statale, abbassandosi lentamente verso il
precipizio in modo da aiutare i soccorsi a raggiungere il pullman
precipitato. Ottantotto metri. Un catorcio informe di lamiere
appiattito dai continui colpi fino a che si era fermato, tra le
esposte grosse radici di un albero. Le telecamere si erano assicurate
di riprendere ogni particolare della scena dell'incidente: dai segni
lasciati dalle ruote dell'autobus sulla strada al guardrail
interrotto e piegato dall'impatto, dai pezzetti di vetro persi
sull'erba dei finestrini rotti alla scia di rami piegati su cui
inizialmente il pullman sembrava essersi fermato. Louie Luthor
guardava costantemente quelle immagini che passavano in televisione.
Restava piazzato e, ogni volta che ne parlavano, si allungava in modo
da avere il naso davanti allo schermo. Continuare a vederle le
rendeva man mano più distanti dalla sua realtà;
non sembravano
vere, non sembrava qualcosa successo a persone che conosceva, ma i
pezzi di un puzzle che doveva provare a ricomporre. I suoi occhi
chiari analizzavano e, parlando a bassa voce, per sé,
ricostruiva
gli eventi. Appena incastrava un elemento che gli soddisfaceva,
allora sorrideva e un pensiero veloce gli tornava in mente, un volto,
un nome, prima di rendersi conto che quell'elemento era parte
dell'insieme che, quel volto e quel nome, glielo aveva portato via. E
allora le labbra rosa si piegavano, aggrottava la fronte e gridava,
gridava così forte che era l'unico momento in cui sua madre
si
precipitava da lui prima della domestica; lo accoglieva sul suo
petto, ignorando le sfuriate per cui doveva lasciarlo andare, e gli
passava una mano sul volto per pregargli di non farlo. Louie non
poteva gridare, lei glielo diceva sempre e durante quei giorni
più
che mai. Non poteva permettersi di stressare il suo corpo nato
difettoso. Louie Luthor non poteva fare tante delle cose che le altre
persone potevano, che ignoravano quanto fossero fortunate nella loro
indipendenza e sfrontata normalità. Ma mai niente aveva
invidiato
agli altri se non una cosa che lo tormentava: la libertà di
assimilare un lutto come gli veniva meglio. Anche gridando.
Oggi
Con
la testa pesante che sbatteva nella scatola cranica, Megan si
alzò
dalla sedia posta in corridoio e si avvicinò al vetro che
affacciava
alla cuccetta dove riposava John Jonzz. Uh, si grattò le
braccia:
aveva le pieghe sulla pelle lasciate dai braccioli della sedia. Non
si era accorta di essersi riaddormentata, doveva avere un aspetto
orribile. Cercò il cellulare per chiedere a Kara se avesse
dato da
mangiare a Nana e trovò un suo messaggio:
Da
Supergirl a Me
Nana
ha spazzolato la ciotola in un battibaleno! Sto già andando
all'Angel Children's Memorial per la riunione: mi farebbe piacere
averti lì, quando vuoi, per una boccata d'aria. Sei la
benvenuta!
Ripose
il telefono nella tasca destra dei jeans e sospirò: nessuna
novità,
i medici lo controllavano a ogni ora, era tutto sotto controllo.
Forse poteva- Una ragazza le si affiancò davanti al vetro e
Megan le
fece spazio, squadrandola appena: lunghe trecce scure lungo la
schiena, poco più alta di lei magari per i tacchi sugli
stivaletti,
giacchetta in jeans, il fiatone.
«Ho
cercato di essere qui il prima possibile, ma con le bambine e il
resto…», sussurrò a fiato corto; poi la
guardò e riuscì a farle
un sorriso, mostrandole una mano per stringergliela. «Sono
Miriam,
la ex moglie di John. Tu devi essere Megan».
Il
cuore le saltò un battito e le strinse la mano cercando
anche lei di
forzare un sorriso.
«Non
avrei voluto che ci conoscessimo in questa circostanza».
«Già».
Si
fermarono a guardarlo e si persero a parlare un po' delle sue
condizioni e di cos'era successo. Megan non riusciva neppure a capire
cosa provasse perché, se da una parte avrebbe voluto
conoscerla
presto, dall'altra non riusciva a essere a suo agio a farlo in quel
contesto, con il loro John in coma.
«Mi
ha parlato di te».
A
quell'affermazione, Megan sorrise con più gusto, lanciandole
uno
sguardo sarcastico: «Non è vero».
Anche
l'altra rise, portandosi una mano sul viso. «No…
non proprio. Ho
dovuto fargli sputare io qualcosa con la forza, da lui spontaneamente
non esce neanche uno spillo», annuì.
«Scherzi?
Sono cose così… confidenziali».
«L'agente
Jonzz non parla! Scommetto che non ti ha detto di essere stato
sposato». Megan la guardò ancora alzando un
sopracciglio e si
misero a ridere, tanto che Miriam le diede una spallata e furono
prontamente rimproverate da un infermiere che passava di lì.
«Non è
quel tipo di persona».
«Già,
lui… Gliel'ho fatto notare», le confidò
con orgoglio.
«L'ho
fatto spesso anch'io, ma forse a te darà più
retta».
Megan
scrollò le spalle. «Cosa te lo fa
credere?».
«Beh,
non mi ha parlato di te, ma lo faceva in altri modi… Quando
eri tu
a scrivergli lo sapevo perché il suo sguardo cambiava... Non
doveva
dire niente», arricciò il naso. «Tra me
e lui non ha funzionato
perché eravamo persone troppo distanti, con te è
diverso… Lo vedo
che è diverso. Può funzionare».
Megan
restò in silenzio, guardando John attraverso il vetro. Mosse
appena
le labbra, poi le piegò, increspando la fronte:
«Non sono pronta a
perderlo».
Allora
Miriam, come una vecchia amica, la colse per le spalle, offrendole
l'appoggio di cui aveva bisogno. Anche Louie Luthor aveva detto lo
stesso quando per la prima volta gli avevano comunicato del pullman
precipitato. Dopo il momento di incredulità, naturalmente.
Poteva
succedere una cosa come quella? Non poteva essere vero… Non
poteva
perderli. Non era pronto a perdere loro. A perdere lui.
1962
«Lui
è Mark».
All'interno
del salone si erano voltati tutti, lasciando le riviste sul tavolo e
i puzzle che facevano durante le pause per passare il tempo. Louie
aveva spalancato gli occhi: un nuovo membro?
«Ti
troverai bene qui con noi», aveva detto il ragazzo del
volontariato
a quello nuovo, Mark, presentandolo agli altri.
Gli
aveva battuto la spalla sinistra due volte, a un secondo di distanza:
Louie si era incantato, esaminando la scena e selezionandola con lo
sguardo. Mark aveva i capelli di un biondo cenere, opaco, tirati
indietro come uno di quei ragazzi che si potevano vedere solo in
televisione; un piccolo ciuffo gli sfuggiva e finiva sopra l'occhio
sinistro. Indossava una camicia colorata a righe, col colletto
chiuso, e un pantalone color cachi. La sua sedia a rotelle era un
vecchio modello, cigolava. Ma non era il solo ad averla in quello
stato, nessuno lì amava badare a queste cose. Aveva le
guance
arrossate e presto i suoi compagni avrebbero scoperto che le avrebbe
avute per tutto il periodo dell'anno, con il sole o con la pioggia.
Gli occhi color nocciola, grandi, le mani pallide e, avrebbe appreso
Louie, sempre fredde. Come le sue. Louie se le aveva guardate subito
e, quando il ragazzo del volontariato aveva scortato Mark al loro
tavolo per fare amicizia, strisciando quelle ruote cigolanti sulle
pianelle appena lavate, aveva scoperto da vicino che erano
più
grandi rispetto a quelle del nuovo arrivato. Le proprie dita erano
affusolate, lunghe, la pelle più rosata, le unghie corte e
tonde,
quasi bianche. Mark aveva le dita più grosse e corte, le
unghie
rotte ai bordi, marroni sulle punte: doveva trascinarsi spesso da
solo quella sedia. Oh, lo aveva sorpreso a guardarlo e Louie aveva
sorriso, mostrandogli il pezzo del puzzle più vicino.
«Duemila
pezzi, ci stiamo lavorando da ieri», si era scambiato uno
sguardo
fiero con i due ragazzi al loro tavolo, scrollando le sopracciglia,
«Pensi di starci dietro… Mark?». Loro
avevano riso, pregandogli
amichevolmente di lasciar in pace il ragazzo nuovo. Louie amava
stuzzicare gli altri, specie se in qualche modo riuscivano a
incuriosirlo.
Quello
nuovo aveva allargato gli occhi e dato un'occhiata al disegno del
puzzle, un paesaggio, poi di nuovo al ragazzo. «Sono davvero
tanti
pezzi… ma non mi tirerò indietro».
Quando
Mark sorrideva, gli angoli della bocca gli si alzavano in modo
strano, aveva una forma al limite del naturale: così curva
da
apparire disegnata, sembrava un cartone animato e Louie si era
assicurato di farglielo sapere, ovviamente, nei giorni successivi. Si
era assicurato di fargli sapere parecchie cose nei giorni successivi,
veramente: macchie della pelle, lividi, arrossamenti, un curioso
bitorzolo sull'attaccatura dei capelli, un piccolo callo sul palmo
della mano destra, se gli stavano bene i capelli bagnati quando
andavano a fare esercizio in piscina, un graffio sul naso, aveva i
capezzoli diversi, come avrebbe dovuto lasciarsi i capelli al
naturale dopo averli lavati, che aveva i piedi davvero grandi per la
sua altezza, quando aveva invece le orecchie incredibilmente piccole
per la conformità della sua testa, i nei nuovi che scopriva
e, se
non gli piacevano, gli indicava un medico. Il resto dei ragazzi
dell'associazione lo trovavano davvero fastidioso quando ci si
metteva, anche se certo dopo mesi a conoscerlo si erano abituati, ma
Mark prendeva sul serio ogni cosa che gli diceva o si preoccupava
spalancando la bocca disegnata come avrebbe fatto un bambino. Era un
anno più grande di Louie ed eppure particolarmente ingenuo.
Louie
trovava affascinante come Mark riuscisse a sopportarlo.
La
loro amicizia era destinata a cambiare quando, dopo aver fatto una
lunga serie di esercizi di fisioterapia atta a rinforzare i muscoli
delle sue gambe, Louie aveva camminato con le stampelle fino a Mark
che lo aspettava, pronto per dirgli qualcosa che, per la prima e
unica volta, si sarebbe rimangiato fino alla fine dei suoi giorni:
«Cosa
ne dici? Scommetto che ora invidi da morire il fatto che le gambe del
mio corpo difettoso possono ancora camminare e le tue no». Si
era
seduto accanto a lui con fatica, su una panca, stringendo i denti e
attento a non piegarsi troppo per non scivolare. Mark non aveva
risposto. Una volta sistemato, Louie aveva sospirato e tossito,
alzando gli occhi per osservare il suo volto smarrito, immobile, che
lo aveva fatto pentire all'istante di aver aperto anche in quel
momento quella sua boccaccia. Ma non era pronto per sentire quella
risposta:
«Non
lo sono per niente, Louie», lo aveva guardato negli occhi,
finalmente. «Le mie gambe non possono camminare, è
vero, ma godo di
ottima salute. Il tuo corpo è così fragile che
potrebbe spezzarlo
il vento. Se proprio devo dirlo… a me dispiace per
te».
Lo
aveva fatto sentire così in difetto. Non che avesse voluto
ferirlo
con quella battuta da sentire il bisogno di proteggersi, né
di certo
aprire a una discussione più seria, era solo una
stupidaggine, una
battuta infantile rispedita al mittente con violenza: la
verità. Se
lo era meritato. Louie lo aveva guardato in modo differente da quel
giorno. Ed era stato certo che anche Mark doveva essersi pentito
poiché non lo aveva più guardato negli occhi per
alcuni giorni. Per
fortuna non troppi, non ne avrebbero avuti così tanti a
disposizione
e il destino, beffardo, aveva già fatto partire il triste
conto alla
rovescia.
«Dovremmo
andarcene», aveva sospirato Mark un giorno, nel cortile
dell'associazione intenti a prendere il sole. Aveva il volto puntato
verso il cielo e gli occhi chiusi, ma il tono della sua voce
suggeriva che era serio.
«E
dove?», aveva sorriso un ragazzo del gruppo che, sulla
panchina
accanto, non faceva che guardarsi le mani incantato, osservando il
cambio di colore dalla luce all'ombra. «Sei tutto scemo: noi
da soli
non dureremmo nulla, lo sai?».
«Non
è vero», aveva sbottato allora Louie, zittendo gli
altri pronti a
prendere parola. «Non avete capito cosa sta succedendo? Il
Vietnam è
solo l'inizio. Credete che la guerra non ci riguardi?», aveva
cercato di inquadrare i volti dei compagni ma nessuno di loro aveva
ricambiato. «Siamo responsabili anche noi, o pensate che gli
storpi
siano esenti?».
Uno
di loro lo aveva fissato solo allora, aggrottando lo sguardo.
«Io
non la volevo mica quella guerra, non l'ho chiesta», aveva
stretto
un pugno. «Smettila! Noi non siamo nessuno per
decidere».
«Ma
è quello che vogliono farci credere», aveva
ribattuto. «Che siamo
scarti, e inutili. Che non abbiamo idea del mondo che ci circonda! Ci
hanno messo in un angolo e credono che resteremmo lì per
sempre!
Dobbiamo farci sentire, invece. Fuori da qui ci trattano
come… come
se non fossimo persone anche noi», aveva aggrottato lo
sguardo
severo. «Io a quella guerra dico no.
Se anche voi dite no,
dovete farvi sentire».
Un
ragazzo aveva scosso la testa e alzato gli occhi al cielo come se
avesse appena sentito la più grande scemenza della sua vita,
ma
Louie ci credeva davvero a quello che aveva detto e, se anche il
resto del gruppo faticava a prenderlo sul serio, Mark vedeva le
stesse cose che vedeva lui. E ci sperava.
«Hai
sentito di quel movimento?», gli aveva chiesto solo poco
più tardi,
rientrando nell'edificio. «Ripudiano la guerra, criticano il
sistema
corrotto! Se riesco ad andarmene, voglio farlo con loro».
«Gli
hippy! Oh sì», aveva sorriso Louie, «ti
ci vedrei bene un fiore
tra i capelli, per dargli un po' di colore».
Lui
aveva subito riso. «Scemo… Ti prendevo sul
serio». Pensava che la
discussione fosse chiusa, ma…
«Ero
serio. Vengo anche io a fare l'hippy con te. I fiori stanno bene
anche sui miei di capelli, non crederti l'unico fortunello».
Suo
padre era un grande sostenitore della guerra in Vietnam, al
contrario. Dopotutto, essendo proprietario dell'unica fabbrica di
armi di National City, non poteva essere altrimenti. La sfortuna, o
forse fortuna, voleva che non avessero un rapporto che andava al di
là del loro augurarsi la buonanotte o il buongiorno e non
dovevano
discuterci. In ogni caso, era sua madre a sedare le discussioni sul
nascere per non stressarlo. Lei non aveva posizione in merito, non
voleva averla perché suo marito l'aveva per lei. Sua sorella
Lara
non ci pensava; se ne stava chiusa nella sua camera a scrivere
lettere, oppure a ideare qualche piano di vendita per l'azienda che
il loro padre non avrebbe mai letto. E Levi, invece, era troppo
impegnato a fare da scudo al mondo per la creatura che la sua povera
moglie portava in grembo per preoccuparsi del resto del mondo. Dopo
aver perso una gravidanza un anno prima e tanto provarci, non avrebbe
mai dato nulla per scontato.
«Io
sono figlio unico», gli aveva confessato Mark in attesa della
fisioterapia giornaliera. «Com'è avere dei
fratelli?».
«Non
lo so, abbiamo troppi anni di differenza», aveva fatto una
smorfia,
rigettando dietro la fronte un ricciolo dei capelli scuri.
«Non
passiamo insieme molto tempo. Preferisco passarlo con te».
Gli
aveva sorriso e Mark, di scatto, era arrossito, poiché era
la prima
volta che si era messo a dirgli qualcosa di carino.
«I
miei genitori invece sono… genitori»,
si era fermato per tossire. «Minacciano sempre di portarmi
via da
qui perché non vedono miglioramenti, ma loro non cercano
miglioramenti, loro cercano…», aveva abbassato gli
occhi, «il
miracolo. Non esistono i miracoli».
«Io
credo nei miracoli, Louie».
«Non
dire scemenze, scemo», lo aveva prontamente sbeffeggiato: lo
diceva
in quel modo così sicuro che lo avrebbe preso in giro per
l'eternità, se l'eternità glielo avrebbe
permesso.
«No,
ci credo davvero! Quando ho avuto l'incidente pensavo sarei morto, ma
un miracolo mi ha salvato».
«Ti
ha portato via l'uso delle gambe».
«Ma
mi ha salvato».
Lui
aveva scosso la testa, portando le dita lunghe e affusolate in mezzo
ai ricci dei suoi capelli mal pettinati. «E allora che
miracolo c'è
stato con me?», lo aveva guardato, mostrando i suoi occhi
freddi
come mai prima.
Mark
aveva esitato. «Sei vivo… Louie. Sei qui davanti a
me e sei… sei
un bel ragazzo, sei…», aveva sorriso imbarazzato,
giocando con le
dita tozze delle mani, «intelligente, sei… tu il
miracolo, Louie».
Era
stato ad ascoltarlo; sapeva che quelle parole gli sarebbero entrate
dentro con la forza perché non avrebbe voluto perderle nel
tempo. Il
corridoio era deserto, erano in attesa, l'unico rumore nell'aria era
il continuo gocciolare di un secchio lasciato troppo pieno in attesa
di lavare il pavimento. Louie Luthor si era avvicinato al suo volto
con il proprio e lo avrebbe baciato, lo avrebbe fatto, se la signora
delle pulizie non sarebbe apparsa da una porta all'improvviso per
portare il bastone con lo straccio. Louie si era tirato indietro
subito.
Mark
invece non si era mosso e lo aveva guardato di straforo.
«La…»,
aveva ripreso, «La mia fidanzata… è
stata lei a convincermi che i
miracoli esistono».
Louie
aveva spalancato gli occhi di ghiaccio: fidanzata? Mark aveva una
fidanzata? Non sapeva neppure perché, a conti fatti, la cosa
lo
aveva colto di sorpresa così tanto: uno come lui come poteva
non
aver già trovato con chi passare la vita insieme?
«Tu…
Tu non hai ancora una fidanzata, Louie?».
Era
stato facile innamorarsi di Mark, difficile sarebbe stato accettarlo.
D'altronde, quando aveva conosciuto Kristen, la fidanzata di Mark,
comprendeva quanto fosse fortunato. E non voleva di certo portarlo
via da lei, avrebbe voluto solo… non lo sapeva. Forse non lo
aveva
mai saputo.
Si
era fatto aiutare da sua madre a lavare i capelli, si era sistemato i
ricci davanti allo specchio che continuavano a ricaderli sugli occhi,
così ci aveva spruzzato sopra della lacca per tenerli
ordinati e sua
sorella l'aveva prontamente sgridato perché era sua,
prendendo la
sedia a rotelle con lui sopra per schiaffarlo in camera sua. Si era
guardato davanti allo specchio per minuti interi, immobile,
aspettando chissà quale idea brillante. Poi aveva cercato di
pettinarseli, non soddisfatto. Aveva sentito l'alito e aveva
setacciato casa in cerca di una caramella alla menta, facendo
impazzire la domestica. Infine, si era sistemato le pieghe del
maglioncino così tante volte da consumarlo, in attesa,
vicino alla
porta di casa. Mark doveva andare da lui quel giorno, Kristen lo
avrebbe accompagnato. Era in fibrillazione. E aveva aspettato,
aspettato. Sua madre aveva cercato di convincerlo ad andare a
sdraiarsi un po', ma lui aveva continuato ad aspettare piantato
lì.
La pancia gli aveva iniziato a brontolare a un certo punto, ma non si
sarebbe arreso, restando ad aspettare. Poi si era fatto più
stanco e
aveva chiuso gli occhi.
«Storpio!
Ehi, storpio».
Louie
aveva aperto gli occhi piano, inquadrando sua sorella Lara in piedi
davanti a lui.
«È
ora riposare, il tuo amico non verrà».
Tristemente,
aveva dovuto darle ragione. L'indomani non gli aveva rivolto parola,
anche se Mark aveva cercato di chiedergli scusa spesso e
insistentemente, aspettando l'attimo giusto per parlare e venendo
sempre interrotti. Entrare in bagno dopo di lui doveva essergli
sembrata una bella occasione, sgattaiolando con la sua sedia a
rotelle cigolante dai volontari ed educatori impegnati, aspettando
che il ragazzo che aveva accompagnato Louie si fosse allontanato,
eppure quest'ultimo aveva alzato gli occhi al cielo, mettendo su il
broncio appena lo aveva visto davanti alla porta.
«Sto
cercando di chiederti scusa».
«E
io di ignorarti! Stai ostacolando il mio intento, lo sai?».
Mark
lo aveva guardato attentamente mentre si fregava le mani con
insistenza sotto l'acqua calda, tentando di grattare via dalle dita
chissà quale sporco che vedeva solo lui. Allora si asciugava
e si
lavava di nuovo, non soddisfatto. Era costretto a farlo più
e più
volte dai suoi pensieri che lo facevano prigioniero, non gli
lasciavano respiro finché continuava a sentirsi sporco, e
Mark aveva
sospirato: adesso sapeva perché il ragazzo che lo
accompagnava al
bagno lasciava sempre che finisse da solo. «Sono
pulite… Louie».
«No,
non lo so-», aveva stretto i denti, mettendo altro sapone.
«Ti
aspetto».
«No»,
aveva girato il collo verso di lui, «Vai, non stare fermo
lì, mi dà
sui nervi».
«Io
ti do sui nervi».
«Anche
tu, è ovvio. Oh, ci sei arrivato?». Aveva preso
una grossa boccata
d'aria: dannate mani! Non erano mai abbastanza pulite! Continuava ad
appoggiarle sul lavandino, sporcandole di nuovo. Non ce la faceva
più. Doveva stare attento: bagnarle, insaponarle, tenere
d'occhio la
distanza col piano del lavandino, risciacquarle e… Avrebbe
dovuto
usare le mani per girare il pomello e chiudere l'acqua, sporcandole
di nuovo. Era abituato a farlo con le maniche del maglione tirate
fino alle dita, ma avrebbe dovuto farlo una volta asciutte. Si era
voltato, sentendo le ruote cigolanti di Mark avvicinarsi. Aveva
chiuso lui l'acqua. Che vergogna. Ora non avrebbe più avuto
il
coraggio di guardarlo negli occhi. «Non
avevo bisogno che-».
«Eri
in difficoltà, volevo aiutarti».
«Non
ne ho bisogno: posso fare almeno questo, da solo?».
Mark
aveva sospirato. «Possiamo parlare?», gli aveva
chiesto, «Prima
che arrivino a cercarci, ti prego».
«No».
«Louie».
«No»,
aveva digrignato i denti, stando attento a non agitarsi troppo.
«Devi
andartene».
«Perché?
Sei arrabbiato perché i miei genitori non mi hanno fatto
andare a
casa tua ieri o perché ti ho visto lavarti le mani? Cosa me
ne
importa, testa di rapa? Ti fissi, ripeti le cose, a volte sembri
scacciare via pensieri negativi, visualizzi tanto i dettagli come
se…
come se li rigirassi nella testa e… sei
ossessivo», aveva sorriso,
guardandolo abbassare gli occhi infastidito. «È
solo una cosa in
più».
«Cosa
in più?», finalmente era riuscito ad alzare la
testa,
mordicchiandosi un labbro. «Che sono-?».
«Strano?»,
Mark aveva scrollato le spalle. «Te ne vergogni, adesso? Hai
mai
notato che siamo tutti strani, qui dentro? Siamo diversi, strani,
reietti, l'ultimo vagone del treno», aveva sorriso e le sue
guance
rosse dovevano essere sembrate ancor più rosse.
«Lo so che vorresti
dirti che sei il peggiore perché ami metterti in mostra, ma
non ti
darò questa soddisfazione».
Louie
aveva pensato che non sarebbe più riuscito a guardarlo negli
occhi,
ma si sbagliava: lo aveva fissato a lungo e si era alzato dalla sedia
per essergli più vicino, facendosi forza e resistendo al suo
peso
tanto per abbassarsi verso di lui; Mark lo aveva tenuto per non
cadere e Louie si era sorretto sui braccioli della sua sedia a
rotelle cigolanti. I suoi occhi non erano totalmente nocciola:
nell'iride aveva delle chiazze più chiare intorno alle
pupille, e
altre più scure, più piccole. Louie si era
abbassato ancora,
rischiando di perdere forza. Le sue iridi sembravano il mosaico della
vetrata di una chiesa che, al centro, custodiva un buco nero. Erano
bellissimi, ma non poteva restare a fissarli oltre, sentendo la
fredda mano destra di Mark posarsi sul suo volto. Allora gli aveva
guardato le labbra: lisce, rosa; molto diverse dalle sue spaccate.
Così si erano baciati la prima volta.
Non
avrebbero avuto molto tempo, a due mesi dal primo bacio sarebbe
accaduto l'irreparabile. Una piccola gita fuori casa con l'inganno
dei genitori per conoscere un gruppo di hippy si sarebbe rivelata
l'inizio della fine: Louie si era sentito male ed era svenuto;
Kristen, la fidanzata di Mark con loro per accompagnarli, aveva
cercato aiuto; visto l'accaduto e non riscontrando miglioramenti nel
figlio, i signori Luthor avevano deciso di spostarlo in un'altra
struttura, privata, sperando sarebbe stato seguito a dovere. Louie e
Mark avrebbero avuto sempre meno tempo per rivedersi, prima della
fine.
«Ci
hanno tagliato i fondi», gli aveva detto Mark una sera.
Kristen lo
aveva accompagnato a casa Luthor, era riuscita a convincere i
genitori: allora i Luthor erano una famiglia benestante piuttosto
malvista da alcuni, a causa di quella fabbrica di armi.
«Stiamo
raschiando il fondo del barile, ma ce la faremo. Lo sai che non
è da
noi arrenderci».
Louie
avrebbe tanto voluto fare qualcosa per loro, magari con qualche soldo
in più si sarebbero risollevati, ma suo padre non voleva
ascoltarlo.
Aveva chiesto a sua sorella Lara ma lei, impegnata a scrivere
un'altra di quelle lettere, lo aveva sbattuto fuori. Allora si era
rivolto a suo fratello Levi, l'unico che il genitore considerava
veramente, dopotutto, che gli aveva promesso che ci avrebbe parlato.
Felice della cosa, Louie era riuscito a convincere sua madre a
lasciar andare a casa tutti i suoi amici dell'associazione,
purché
se ne sarebbero andati via presto per non causargli stress, e avevano
festeggiato con bibite e dolcetti. Almeno per la maggior parte di
loro.
A
un certo punto, facendo l'occhiolino a Mark, Louie aveva fatto
tintinnare un bicchiere per prendere l'attenzione del gruppo. Sua
madre lo aveva ammonito da lontano e lui aveva cercato di ignorarla.
«Questa è una festa per il futuro. Il nostro
futuro. Dunque,
signori, sognate in grande e confidatemi le vostre sfrenate
ambizioni». Tutti lo avevano fissato e lui aveva sorriso con
fierezza, alzando il mento: «Cosa volete fare da grandi?
Salvare il
mondo? Ditemi». Non avrebbe accettato pessimismi, quella
volta. Ma
nessuno sembrava sapere cosa dire, così era stato Mark a
sciogliere
il ghiaccio:
«Io
sarò un tassista». Tutti a parte Louie si erano
messi a ridere e
Mark era arrossito ancora. «Credete che non potrei riuscirci?
Quando
sarò adulto, la sedia a rotelle non sarà
più un ostacolo e le
macchine saranno facili da guidare. Potrei vedere tanti posti nuovi
solo accompagnando le persone da un posto a un altro e rendendole
felici».
«Magari
le macchine voleranno», aveva suggerito Louie e Mark gli
aveva
sorriso.
I
ragazzi erano stati in silenzio solo altri pochi istanti,
sorridendosi a vicenda.
«I-Io
un giorno sarò u-un maestro», aveva confidato a
quel punto uno di
loro, nascondendo il sorriso imbarazzato dietro una mano ricurva.
«Io
magari il parrucchiere», aveva preso voce un altro,
«Le mie gambe
non vanno, ma le mie mani…».
«Io
ancora non lo so», aveva fatto una smorfia con la bocca un
altro
ragazzo, appiattendosi al tavolo.
«Tu
potresti fare l'artista», gli aveva suggerito Louie,
indicandolo con
orgoglio. «Le tue dita sono storte, ma disegni lo stesso, no?
Lo fai
sempre, hai già trovato cosa fare e i tuoi dipinti sono
bellissimi».
Il
ragazzo aveva sorriso, arrossito, girando le dita per aria e
fissandole.
E
c'era chi avrebbe voluto fare il sub, chi il ballerino, chi avrebbe
voluto lavorare nel piccolo negozietto di famiglia come i fratelli
più grandi, chi avrebbe voluto essere padre. Il desiderio
aveva
aperto la strada ad altre tipo di ambizioni e i ragazzi si erano
scatenati fino a tirare fuori le cose più assurde, come chi
avrebbe
voluto essere un fiocco di neve solo per sapere come ci si sentiva a
volare giù dal cielo. Louie era stanco ma soddisfatto: era
stata la
giornata più bella di tutta la sua vita.
«Voi,
amici miei, cambierete il mondo», aveva detto a testa alta a
festa
finita e le famiglie erano passate a prenderli.
Anche
Kristen era andata a prendere Mark. «Grazie per la bella
serata, da
parte sua», si era fermata per parlargli, davanti alla porta.
Louie
aveva notato come la ragazza si attorcigliasse una ciocca dei capelli
scuri e lisci con le dita: ripeteva all'infinito quel processo ogni
volta che parlava con lui; era imbarazzata.
«Mark
è sempre felice con te e non c'è miglior regalo
che potresti fargli
se non restargli vicino. Ti ringrazio». Si era sistemata la
coroncina gialla e aveva preso a spingere la carrozzina del suo
fidanzato, dopo avergli dato un bacio. I due ragazzi si erano
guardati a lungo, prima che la signora Luthor chiudesse la porta per
far andare a riposare il figlio.
Qualche
giorno dopo, Levi aveva mantenuto la promessa fatta al fratello
minore e aveva parlato a suo padre per aiutare l'associazione, ma
lui, non convinto, lo aveva lasciato andare dicendogli che ci avrebbe
pensato. Sarebbe stato troppo tardi e, una mattina di quelle, una
scarpata avrebbe portato via tutti i loro sogni.
Sono bastate queste poche pagine per farmi shippare Louie e Mark
all'ennesima potenza, mentre scrivevo, ma così
com'è finita è
terribile…
Come
state, people?
Ci
tengo prima di tutto a precisare una cosa: il termine “storpio”
è usato solo ed esclusivamente in questo contesto, e non
esiste
altro modo in cui verrà utilizzato: Louie lo usa su di
sé e gli
altri perché è un po' stronzetto e il sarcasmo e
l'ironia solo la
sua arma per via della sua condizione, e Lara lo usa sul fratello
perché è appunto suo fratello e hanno un rapporto
loro, non lo
farebbe con nessun altro. Non è usato in modo da ferire
qualcuno; se
qualcuno che dovesse leggerlo si infastidisse mi dispiace veramente,
è usato solo ed esclusivamente in questo contesto.
E
ora… rieccoci! Sono stata via a lungo ma, come scritto in
precedenza, tornerò ad assentarmi perché scrivo
in modo discontinuo
e non posso fare altrimenti, mi dispiace! Ma fintanto che ci
sono…
aaah, si
ricomincia con un bel e lungo stand alone! E sì, gli
altri minicapitoli saranno più lunghi…
Lo
so, magari come ritorno vi aspettavate qualcos'altro, me ne rendo
conto, anche se vi avevo preparato con la prefazione, e dopotutto
eravamo arrivati qui e così…
Spero
vi sia piaciuto ugualmente e che abbiate apprezzato questo
nuovo scorcio, il primo passo verso l'inizio di qualcosa di grande, e
che abbiate riletto almeno il capitolo 64 prima di approcciarvi a
questo perché altrimenti potrebbe essere dura ricollegare i
fili, ma
in ogni caso:
Chi
è Louie Luthor? Presentato oggi per la prima volta, lo
abbiamo
già sentito nominare nei capitoli scorsi, sia
perché John Jonzz
aveva iniziato a chiedersi di lui investigando sull'organizzazione,
sia perché l'Angel Children's Memorial, la piazza dove si
sono
incontrate le ragazze, è stata fatta costruire da lui in
memoria dei
ragazzi persi in quell'autobus. Proprio in quell'autobus. È
il padre
di zia Lorna, che abbiamo conosciuto al matrimonio di Lillian e
Lionel. Capelli neri, un po' inacidita; ha aiutato Lillian a
prepararsi al suo matrimonio, è cugina di Lionel, e nel
presente era
anche al matrimonio di Lillian ed Eliza. Ha mandato via John Jonzz
quando lui le ha chiesto del padre e pare, PARE da come ne parlavano
le ragazze in piazza, che riserbi dell'astio per i Luthor. Che
sarà
successo…? Sarà vero? Louie è il
fratello minore nato malato di
Lara Luthor. Vi ricordate la tenera zia Lara sempre al matrimonio di
Lillian e Lionel? Proprio lei, ma molto prima che diventasse la
tenera zia Lara. Avremo
modo di conoscerla. Ed è anche il
fratello minore di Levi Luthor, il figlio di mezzo. Levi lo
conosciamo leggermente meglio, si è visto in alcuni capitoli
ed è
stato nominato diverse volte: è il padre di Lionel, il signor
Luthor che ha
accolto Lillian nella sua famiglia e che voleva
come sua erede, non scordiamocelo, lo ha detto Zod. Qui deve ancora
diventare il signor
Luthor, che
è invece suo padre. Quindi
Levi è il nonno di Lena morto quando suo fratello Lex aveva
nove
anni. Tutto torna, segnatevele queste cose XD Oh, vi avevo scritto,
tempo fa, che questi personaggi sarebbero tornati…
Perché
è importante Louie Luthor? Lo vedremo.
Ah,
un'altra cosa: Louie ha di fatto una malattia mentale, oltre al
suo fisico debilitato. E in realtà, anche questo
c'entra…
Spero
con tutto il mio cuore di non aver trattato male la tematica
disabilità.
Dunque
magari si è capito, ma se non è così
lo dico ora, che
questo capitolo, tutti questi
minicapitoli del macrocapitolo
65, parlando delle parti solo al presente, sono ambientate nella
stessa giornata dello scorso capitolo. Vedremo i pezzi che ci
mancano; ad esempio qui abbiamo la mattina poco prima che Kara
andasse in piazza, lo dice il messaggio a Megan. Ricordiamo che
Maggie è arrivata dopo, che Kara doveva andare da sua zia, e
che
magari lei e Lena si sono ritrovate più tardi, a fine
serata…
Spero
che tutto questo non sia troppo incasinato XD Dai prossimi
minicapitoli le parti al presente saranno più sostanziose e
vedranno
personaggi diversi.
E
nulla, spero vi sia piaciuto anche se si va a esplorare un passato
non così passato ;)
Ci
rileggiamo con il minicapitolo 65.2
Riscatto: La nuova società
sabato 20! Non mancate! (Sì, i minicapitoli, a meno di
variazioni
dell'ultimo minuto, saranno pubblicati uno a settimana!)
|
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Capitolo 68 *** 65.2 Riscatto: La nuova società ***
Oggi
I
telefoni sulle scrivanie non facevano che squillare. Un ragazzo che
era stato fermato da una loro volante per rissa era ammanettato a
fianco di una scrivania e non faceva che sbottare e ricercare
attenzioni. Un gruppo di novellini, nonostante il lavoro da fare, se
ne stava in cerchio a bere caffè e a chiacchierare e Maggie
assottigliò gli occhi, fissandoli: erano alcuni di quelli
che
sarebbero stati ammessi nell'organizzazione? Gonfiò le
guance,
tornando alle sue scartoffie. Aveva ancora chiare nella mente le
immagini della sua sfuriata a Charlie Kweskill la notte che si erano
precipitati in ospedale per John Jonzz e non sapeva neppure come
avrebbe fatto a guardarlo di nuovo negli occhi, adesso; si era
pentita di aver detto quello che le passava per la testa. Doveva
continuare la sua indagine, non poteva lasciarsi sopraffare.
Accidenti, quanto avrebbe voluto restare un po' più a casa,
sotto le
coperte. Stava scrivendo qualcosa che una pila di fogli pinzati le
coprì la visuale e Maggie alzò gli occhi,
trovando un Charlie
particolarmente contento che ne teneva stretta un'altra per
sé.
Allungò lo sguardo sulla pila mentre il ragazzo si andava a
sedere
alla scrivania di fronte. Un caso di persona scomparsa…
Strinse i
fogli, indicandoglieli con lo sguardo.
«Che
ne dici? Credevo fosse quello che volevi. Se lo vuoi ancora, verremmo
assegnati al caso con il detective Prisco»,
scrollò le spalle e
glielo indicò dall'altra parte delle scrivanie,
così la ragazza
sospirò.
Quello
che voleva… «Sì… lo
era». Di certo avrebbe voluto diventare
detective, un giorno, e fare gavetta col detective Prisco sarebbe
stato l'ideale, ma… Lo sarebbe stato in un giorno normale in
una
centrale normale sapendo che, se il test fosse andato bene o male,
non avrebbe dovuto sospettare di essere stato truccato da
un'organizzazione che stava sopra la burocrazia e avrebbe deciso il
suo esito. Il sergente li richiamò appena prima che la
situazione
potesse diventare imbarazzante e nascose la pila in un cassetto,
pronta per andare di pattuglia.
«Scusa»,
la guardò lui di straforo, girando il volante davanti a un
incrocio,
«avrei dovuto chiedertelo, prima». Le
lanciò un'altra occhiata, ma
Maggie fissava fuori dal finestrino e, dopo qualche secondo di
completo silenzio, appoggiò il gomito contro la portiera e
così la
testa tra le dita. «So che pensi che
dovremmo…», deglutì,
«essere nemici, ma non è vera questa
cosa», forzò un sorriso. «Se
lo fosse, allora non sarebbe successo perché non avrei
lasciato che
accadesse, no?». Altro silenzio e il ragazzo
deglutì di nuovo,
facendosi nervoso: «Dimmi qualcosa,
però… perché… preferirei
che fossi arrabbiata con me e almeno proverei ad aggiustare le cose,
ma ignorarmi è… è qualcosa a cui non
so approcciarmi. Puoi
urlarmi contro di nuovo, se pensi che… è
okay», sventolò la mano
destra, riprendendo poi il volante, «ma non-».
«Non
è per quello che ti ho detto l'altra sera».
Lui
fece una smorfia, annuendo. «Bene… è un
primo passo. Allora
cosa…?».
«Sai
da quanto tempo desidero diventare detective?», si
voltò e sospirò,
tirando giù il gomito dalla portiera. «Mio padre
riusciva ancora a
prendermi in braccio», sorrise amaramente. «E
adesso non posso
pensare di affidare il mio sogno nelle mani di un uomo che
può
decidere se avverarlo o no in base a come potrei tornargli
utile».
Lo guardò e non si aspettava affatto che si mettesse a
sogghignare
di gusto.
«No,
no, aspetta, c'è stato un malinteso»,
sventolò di nuovo la mano
destra. «Se è quello che ti preoccupa, puoi fare
sonni tranquilli:
hai inquadrato il Generale, non lasciarti prendere da supposizioni
fini a loro stesse solo perché è il presidente
dell'organizzazione,
Mags! Non posso credere che tu-», si fermò,
ricominciando a ridere,
«E
il detective Prisco non è…?».
«Cosa?
Credo abbia origini italiane…».
«Nell'organizzazione?!».
«Ti
prendevo in giro, avevo capito, ma no. Non ogni persona che ci
circonda è nell'organizzazione»,
ridacchiò. «Questa cosa è
divertente! Il Generale non ci avvantaggerà in alcun
modo»,
sogghignò ancora, facendo una smorfia.
«Anzi», tornò serio di
colpo e deglutì, «ho paura che se non dovessi
passare, quando sarà,
se la legherà al dito. Ha molte aspettative, sai…
non si scherza
su queste cose», sventolò di nuovo la mano e
Maggie rise un poco,
fissandolo e mettendo la testa di lato. «Ma è
carino che tu lo
abbia pensato… credo»,
concluse il ragazzo.
«Posso
chiederti…?».
«Cosa?».
«Ho
come una strana… sensazione», scrutò il
suo sguardo, parlando
piano, «come se… è una cosa stupida,
ma-».
«No,
no, continua», si fece curioso e batté le dita sul
volante,
guardando verso il marciapiede.
Lei
sorrise. «Come aveste una specie di rapporto padre e
figlio». Lui
si voltò subito e Maggie non si lasciò scappare
la sua reazione
sorpresa. «Forse mi sbaglio?».
Gli
angoli della bocca di Charlie si sollevarono un poco, poi si
schiarì
la gola, girando il volante per una curva. «No,
emh… Ti ho mai
parlato», prese fiato, «di mio padre?».
La inquadrò con la coda
dell'occhio, intenta a scuotere la testa. «Avevo sedici anni
quando…
quando mio padre», si fece nervoso, trattenendo il fiato,
«pensò
di sbattermi fuori di casa».
«Cosa?»,
lei spalancò gli occhi e qualcosa le si
attorcigliò dentro,
ricordando quando anche suo padre si era deciso a chiudere tutto con
lei. Inutile chiedergli il perché, era ovvio.
«Mia
madre non si oppose», deglutì. «Mia
sorella, Chloe, era morta solo
quattro anni prima ed era devastata, non voleva perdermi, ma non fece
niente. Non ho altre sorelle o fratelli,
perciò…», fece
spallucce. Guardò attentamente verso il marciapiede, diede
un'occhiata all'ora impressa sulla radio e poi di nuovo
batté le
dita sul volante. «Allora mi sono rivolto a un'associazione,
non
avevano posto, ho vissuto in strada per un periodo».
«Mi
dispiace molto, Charlie».
Lui
scrollò le spalle, serio. «Non ero solo. Ti
sorprenderesti a sapere
quanti minorenni vivono in mezzo a una strada. Quando ho conosciuto
il Generale Zod ero ospite di un rifugio, ci stavo da qualche
giorno…
Lo so che pensi», sorrise, lanciandole un'occhiata,
«che
l'organizzazione sia il male puro e chissà che altro, ma se
non
fosse stato per lui, per quelle persone, io non sarei qui ora. Hanno
aiutato tanti di quei ragazzi, hanno aiutato me…»,
s'indicò e
riguardò l'ora, di sfuggita. «Il Generale mi ha
permesso di seguire
un'istruzione, ho fatto tanti di quei lavori per cercare di
ripagarlo», abbozzò un altro sorriso. «E
puoi pensare che mi abbia
costretto a unirmi a loro ma non è così. Io mi
sono unito
all'organizzazione per fare quello che lui ha fatto con me con altri
ragazzi che avevano bisogno di aiuto. E se pensi che tra noi sembra
esserci un rapporto padre e figlio… beh»,
scrollò le spalle
ancora, «ne sono contento. Perché lui è
proprio come avrei voluto
averlo, un padre», annuì orgoglioso e Maggie si
lasciò scappare un
sorriso malinconico.
Se
metteva a confronto suo padre e il Generale comprendeva
perché
Charlie Kweskill lo considerasse tale. Anche suo padre aveva deciso
di volerle meno bene perché omosessuale e non importava
quanto si
sforzasse ora per tenere allacciati i rapporti, qualcosa si era rotto
e non sarebbero mai tornati come quelli di un tempo. La bambina che
accoglieva suo padre a braccia aperte e sognava di essere come lui
era cresciuta e, disillusa, forse aveva anche lei trovato in quel
capitano severo, che si occupava della centrale e di ognuno di loro
come una famiglia, ciò che le mancava.
«Sono
davvero felice che mi abbia concesso di mostrarti ciò che
l'organizzazione fa per National City», riprese lui,
entusiasta.
«Voglio dire, non tutto, non sarebbe possibile in qualche
ora, ma-»,
si interruppe quando ricevettero una segnalazione dalla centrale e
Maggie rispose, così calcò l'acceleratore,
accendendo la sirena.
Rapina
a mano armata. Due uomini a volto coperto e in pieno giorno in un
piccolo market. Il cassiere aveva fatto partire la chiamata al nove
uno uno
e, quando arrivarono con la volante, i due erano
già in fuga
e si misero a rincorrerli per le stradine posteriori, saltando secchi
rovesciati di spazzatura puzzolente. Una mattina come altre, Maggie
Sawyer non poteva immaginare cosa avrebbe atteso lei e Charlie
Kweskill seguendo quei due che li avevano appena separati.
Maggie
si fermò davanti al portone posteriore di un esercizio
commerciale
chiuso. L'uomo, con una cuffietta nera in testa e una kefiah a
coprirgli metà del viso, le dava le spalle. Aveva ancora la
pistola
stretta in una mano e lei gli ordinò di metterla a terra.
Non sapeva
dov'era andato il suo partner, non lo sentiva. Non sentiva
nient'altro, in realtà: la colpirono di spalle e cadde
sull'asfalto.
Qualcuno calciò la sua pistola e qualcun altro
calciò lei sullo
stomaco. Altri due spuntati dal nulla, non capiva cosa stesse
succedendo ma trovò la forza di rialzarsi lo stesso e, poco
prima
che le arrivasse un altro calcio, fermò il piede e lo
tirò a terra,
facendo cadere il sospettato e così voltandosi appena in
tempo per
non essere colpita da uno degli altri due, rotolando fino alla sua
pistola. L'uomo del market le schiacciò la mano e gli altri
due la
sollevarono fino a spingerla allo steccato dall'altra parte.
«Sequenza
di identificazione?», le domandò l'uomo del
market, puntandole la
pistola alla tempia mentre i complici la tenevano bloccata.
Maggie
era confusa, aveva il fiato corto e cercava di capire come uscire da
quella situazione e in fretta.
«Ho
detto… sequenza di identificazione omega?! Parla!».
«Omega…?»,
sibilò. Conosceva quella parola. L'uomo davanti a lei
scambiò uno
sguardo con gli altri due: Maggie riusciva a vedere, dai suoi occhi
rossi, una certa incertezza. Allora lui le si avvicinò e ne
sentì
il sudore, e l'agitazione.
«Stanne
fuori, sbirro… questo non ti riguarda».
La
lasciarono. Le puntarono le armi addosso solo pochi altri istanti e
scapparono. Maggie poteva restare ferma a reggersi un fianco
dolorante o rincorrerli prima che le sfuggissero.
«Kweskill?»,
provò a chiamarlo e afferrò la radio,
massaggiandosi la zona
colpita solo un attimo, mettendosi a correre e chiamando i soccorsi.
Cercò di seguire i tre ma erano scomparsi, si fece dare
indicazioni
e continuò a correre. Li perse e provò ancora a
chiamare lui.
Omega…
Credevano fosse un'omega dell'organizzazione? Cosa avrebbero fatto a
Charlie? Era un'imboscata? Poi lo sentì. La sua voce stanca,
probabilmente dalla corsa, elencava i diritti al sospettato.
Svoltò
una curva e lo vide ammanettare il secondo uomo del market spinto
contro una serranda abbassata. Ma non erano soli: Maggie
spalancò
gli occhi quando altri
tre sospettati che
prima erano coperti
uscirono
dai loro nascondigli. Ognuno di loro era armato. Solo quando li vide
alzare le braccia in direzione della testa del suo partner
capì che,
a lui, non avrebbero chiesto alcuna sequenza di identificazione.
«Mani in alto! Polizia», si mostrò a
tutti e
Charlie, sorpreso e spaventato, si abbassò appena in tempo
per
evitare il proiettile di uno dei tre. E a quel punto che
scoppiò il
caos: l'uomo ammanettato lo fece cadere e gli altri spararono in
direzione di Maggie che si coprì svoltando dall'altra parte.
La
ragazza insisté con l'arrivo dei rinforzi alla radio e
chiamò il
suo partner, ma non poteva rispondere: Charlie colpì con un
pugno il
sospettato ammanettato e prese la pistola in tempo per per farsi da
scudo e andare a ripararsi dietro un bidone dell'immondizia. Non era
la prima volta che Maggie Sawyer finiva in mezzo a una sparatoria, ma
non aveva mai sentito tanto la tensione come in quel momento.
Riuscì
sparare in direzione dei sospettati, aiutata da Charlie, per avere
la copertura necessaria per avvicinarsi e ripararsi dietro un
pilastro. «Kweskill? Tutto intero?».
«Grazie
a te».
Riuscirono
a sparare il tanto per metterli in difficoltà e, con uno di
loro che
non poteva essere d'aiuto perché ammanettato e un altro che
accusava
dolori, decisero di fuggire. Maggie e Charlie li rincorsero e si
scambiarono uno sguardo rassegnato quando capirono che li avevano
persi.
«Conoscono
queste strade come le loro tasche, maledizione», Maggie
strinse i
denti, guardandosi attorno e passando il dorso di una mano sulla
fronte sudata.
Charlie,
ansimando, afferrò la radio. «Faremo setacciare
questo posto», le
indicò schizzi di sangue su un marciapiede, «Ne
abbiamo colpito
uno, non andrà lontano».
Maggie
annuì, guardando gli schizzi a terra e dopo Charlie. Dietro
Charlie.
Riconosceva quella kefiah. Accadde tutto in un attimo e, nell'esatto
istante in cui l'uomo del market alzò la pistola per
sparargli alle
spalle, lei alzò la sua dall'altra parte. Gli occhi di
Charlie si
spalancarono; non sarebbe riuscito a spostarsi in tempo. Era un
membro dell'organizzazione, avrebbero dovuto essere nemici, la sua
indagine le imponeva di entrare in quell'organizzazione e non di
essergli amica, non di affezionarsi a lui, o a Zod, John Jonzz era in
un letto d'ospedale e potevano essere stati loro a ridurlo in quello
stato. Cosa le avevano fatto? Avevano delle cose in comune, avevano
fatto in modo che si fidasse di loro. Avevano fatto in modo che, in
quella situazione, l'unico impulso suscitato fosse quello di
proteggere il suo amico. Sparò per prima e l'uomo del market
balzò
all'indietro, lasciando la presa sulla pistola e sorreggendo la
spalla insanguinata. Maggie cercò di raggiungerlo ma i suoi
amici lo
scortarono via in un attimo, caricandolo su una macchina e, svelti,
se ne andarono. Riuscì a leggere soli due numeri della
targa,
accidenti, questa non se la sarebbe perdonata.
Charlie
Kweskill era paonazzo e non riuscì a dirle una parola,
girandosi e
rigirandosi.
«Ehi…
tutto bene?», si avvicinò a lui, toccandosi il
fianco dove, sapeva,
avrebbe ricominciato a farle male non appena l'adrenalina sarebbe
tornata a livelli normali. Non lo aveva mai visto così
scosso, ed
eppure altre volte si erano trovati in una situazione di pericolo e
aveva sempre mantenuto il sangue freddo, era un abile
tiratore… Si
erano ritrovati in una trappola confezionata apposta per lui e lo
aveva appena capito.
«No…
Cioè, sì… Sì»,
assorto, si portò entrambe le mani sui capelli.
«Ti
devo parlare».
Avevano
cercato di ucciderlo. Di ucciderlo di proposito. Erano appostati per
ammazzarlo, quei maledetti… Una volta in centrale pretese
subito di
poter parlare da solo col capitano e Zod acconsentì,
lasciandogli
chiudere la porta.
«Non
è andata come previsto, suppongo», disse il
Generale Zod,
appoggiando alla sua scrivania.
Lui
prese fiato e si passò di nuovo le mani fra i capelli.
«Siamo… in
guerra. Siamo in guerra, Generale. La missione è
andata a puttane,
se mi permette l'esclamazione», cercò di tenere
calmo il tono della
voce, stringendo un pugno. «Hanno cercato di ammazzarmi per
il ruolo
che ricopro», si indicò, «si sono
rivoltati contro
l'organizzazione. Anche Sawyer… ha detto che le hanno
parlato, e
se
solo
avesse capito cosa le chiedevano le avrebbero sparato».
Zod
sospirò, abbassando lo sguardo. «Li hai
riconosciuti?».
«No,
erano coperti… Ma stanerò quei topi di fogna
ovunque siano. Due di
loro almeno sono feriti».
«Temo
sia un effetto collaterale dei permessi rilasciati ad Astra
Inze»,
sussurrò il Generale Zod e Charlie lo fissò.
«Sta smuovendo le
acque per trovare i responsabili dell'assassinio di Lionel Luthor,
dovevamo aspettarci che qualche banda non avrebbe apprezzato»
«Con
permesso, ero contrario a dare piena libertà a una donna
appena
uscita di prigione con traumi irrisolti».
«Come
tutti, anche lei ha il suo ruolo, Charlie».
Il
ragazzo annuì pacato. Non concordava, ma non aveva voce in
capitolo
e doveva rispettare la scelta del suo superiore. «So che
vorrebbe
che se ne occupi Inze, ma… assegni a me e Sawyer l'ordine di
trovarli, Generale. Come poliziotti. Due di loro almeno sono
feriti»,
ripeté come se potesse in qualche modo aiutare a
convincerlo.
Lui
lo guardò. «Sawyer ne ha ferito uno?».
«Mi
ha salvato, Generale».
Lui
socchiuse gli occhi ed emise un piccolo sorriso, breve.
«Dopotutto,
la missione ha dato comunque esito positivo»,
incrociò le dita
delle mani tra loro, poggiandole su un ginocchio. «Come
poliziotti»,
rispose e Charlie esultò senza fiatare. «Hanno
fallito l'agguato,
sapranno che li stiamo alle costole».
«Non
avranno luogo dove nascondersi da noi, lo sanno».
Il
Generale sapeva che, lasciarli in mano ad Astra Inze, avrebbe
significato farli sparire invece di averli sottomano per
interrogarli. «Formate una squadra, trovateli e portateli
qui.
Parlerò anche con Sawyer e per il resto, Charlie»,
lo fissò e il
giovane attese, «procediamo come da programma».
Charlie
Kweskill uscì e il Generale Zod pensò di aver
preso la scelta
giusta: accelerare i tempi lo era, mostrare empatia lo era, avere a
cuore la centrale come National City lo era, volere Sawyer come sua
erede lo era.
1963
Lionel
Luthor faceva le bolle con la saliva e si sbavava sul piccolo mento
rosa, pronunciato come un'albicocca. La sua mamma lo teneva in
braccio e, di tanto in tanto, dondolava per assicurarsi che stesse
calmo. Quei grandi occhi chiari, come uno specchio, riflettevano il
mondo che lo circondava e Louie pensava, incantato a osservarlo, a
come sarebbe stato il suo avvenire. Lionel:
un bel nome. Orgoglio, coraggio, forza, rettitudine,
nobiltà. Forse
era un nome fin troppo altisonante per la loro famiglia al momento,
ma donava a quel bambino gli auspici per un futuro migliore. Suo
nipote Lionel poteva diventare il cambiamento nel mondo che sperava
Louie, se non ci fosse riuscito lui per primo.
«Louie?».
Quella
voce femminile lo aveva distratto dal suo immaginare di affidare quel
prezioso compito al piccolo, ridisegnando con lo sguardo il suo naso
a patata e qualche bolla di saliva.
Kristen
lo aveva affiancato, poggiando una mano sulla sedia a rotelle.
Stavano poco lontano dai lavori, Louie non voleva perdersi ogni
processo sulla costruzione di quella piazza in memoria dei suoi
amici. Aveva assottigliato gli occhi, poi, inquadrando suo fratello
Levi che parlava coi muratori. Anche sua moglie con il bimbo in
braccio non lo perdeva d'occhio, aspettandolo. E così ogni
giorno.
Sapeva che aveva avuto una complicanza durante il parto, non amavano
parlarne. La paura di perdere il suo bambino o di perdere entrambi
morendo lei, doveva aver cambiato qualcosa, in quella donna. Louie
poteva capirla.
«La
signora… emh, tua madre», Kristen aveva attirato
la sua
attenzione, «mi ha mandato a prenderti. Vuole che torni a
casa
perché è tardi».
«Non
è tardi».
«È
tardi… Louie. Devi prendere le tue medicine».
Il
ragazzo l'aveva guardata e si era morso il labbro inferiore,
già
spaccato. «Le avrei prese qui. Potevi portarmele».
Lei
aveva scosso debolmente la testa, alzando gli occhi al cielo.
«Tua
madre vuole che torni-».
«Chi
se ne importa di cosa vuole mia madre», si era trattenuto dal
non
urlare e aveva tossito, così Kristen, abbassando gli occhi,
aveva
allontanato la mano dalla sedia. Si era accorto che delle persone si
erano voltate, compresa sua cognata. Aveva esagerato, accidenti, e si
morse di nuovo il labbro. Mark gli avrebbe dato della testa di rapa.
«Pe… Perdonami, ti prego. Sono-», si era
passato una mano sulla
fronte.
«Stanco»,
aveva risposto lei.
«Non
sto dormendo…».
«Louie…
fai una pausa», lei si era abbassata sulle ginocchia,
piegando la
gonna, in modo da vederlo negli occhi. «Mark non vorrebbe
saperti in
questo stato».
Il
ragazzo avrebbe voluto replicare ma gli occhi castani di Kristen,
seppure molto diversi, gli ricordavano proprio quelli del suo defunto
fidanzato. Lui doveva averli guardati spesso così da vicino.
«Mark
è morto».
«E
tu non lo sei», gli aveva sussurrato, «Non
è colpa tua».
E
di chi era la colpa? Di chi era la colpa se dei ragazzi disabili e
poveri erano morti prematuramente? Gli ultimi del mondo, messi in un
angolo e dimenticati, non considerati al pari degli altri, inutili e
da buttare… Louie non avrebbe permesso che il mondo li
dimenticasse
anche da morti. Quella piazza doveva essere immensa, maestosa, con
un'imponente scultura per rappresentarli. Chiunque passeggiando
là
doveva sentirsi in pace, in memoria di alcuni angeli ancora troppo
bambini che il futuro meritava e non avrebbe avuto.
Kristen
lo aveva aiutato a tornare a casa e Louie, sempre più
distante,
aveva ricercato il volto di suo nipote Lionel. «Mia madre
è
arrabbiata?».
«Preoccupata».
Il
ragazzo aveva deglutito. «Era contraria a usare i fondi per i
miei
studi». Sapeva che i suoi genitori stavano aggiungendo denaro
per
quella piazza per cui erano stati contrari, ma non glielo avevano mai
confessato apertamente e avevano incaricato Levi di seguire i lavori.
«Non so neppure se arriverò a completarli, quegli
studi».
«Non
dirlo», lei lo aveva subito rimproverato. «Non
dirlo mai!
Completerai gli studi e diventerai un uomo rispettabile».
Louie
aveva sorriso, scuotendo la testa. «E se mi accontentassi di
essere
un ragazzo rispettabile?».
Lei
aveva cambiato espressione, accigliandosi, lasciandogli un buffetto
su una spalla. «Louie Benjamin Luthor, tu diventerai un
grande uomo
rispettabile! Ti starò vicino per assicurarmi che
sarà così».
Lui
ne era felice. Più tempo passava in compagnia di Kristen e
più
capiva perché Mark la amasse più di quanto
avrebbe mai amato lui:
positiva, capiva subito le persone ed era paziente, molto paziente
per stare accanto a uno come lui, malato in più modi, e
tormentato
ancor di più. Ed era seriamente l'unica complice di vita che
gli era
rimasta, cercando di curarsi a vicenda dopo ciò che era
successo
alla persona più importante e che avevano in comune. Era dal
funerale di Mark e degli altri ragazzi che si erano avvicinati, tanto
che sua madre, appena aveva saputo che il suo secondo nome era Laura,
aveva iniziato a dire che si sarebbero sposati. Ma per quanto a Louie
poteva piacere Kristen, restava la fidanzata di Mark ai suoi occhi.
«So
chi sono i colpevoli», le aveva rivelato giorni
più tardi, fermi ad
assistere i lavori sulla piazza. «Hai detto che non era colpa
mia se
Mark è morto, se loro sono morti, ma un responsabile
c'è e so di
chi è». Kristen si era voltata e lui aveva
tossito, per poi
continuare: «La disparità sociale».
«Anche
io vorrei prendermela con qualcuno», aveva abbassato gli
occhi,
«ma…».
«Ma
è così», l'aveva corretta lui,
indicando i lavoratori. «Guarda
come pendono dalle labbra di Levi».
«Lavorano
per lui».
«Esatto.
Ma sono io che ho commissionato la piazza», si era voltato,
fissandola. «Lavorano per me ma scelgono inconsapevolmente
lui,
scelgono sempre lui. Io metto a disagio».
«Tu
metti a disagio le altre persone quando parli, non per come
sei».
Non era la prima volta che Kristen lo sentiva parlare in quel modo.
«E credi che Mark e gli altri siano morti perché
le persone
preferiscono tuo fratello a te?».
Lui
aveva aggrottato la fronte. «Sono morti perché
l'associazione che
si occupava di loro non aveva soldi, Kristen. E utilizzavano
attrezzature scadenti e autobus vecchi. Come mio padre, come i
lavoratori, tutti hanno voltato le spalle a quella che ritengono la
classe sociale degli ultimi, che non dà garanzie. Sai cosa
comincio
a pensare?», si era di nuovo morso il labbro, «Che
dovrebbe
esistere un'altra società all'interno della nostra
società, in modo
da cambiarla dall'interno». Aveva sorriso di colpo e Kristen
non
aveva potuto fare a meno di sorridere anche lei, vedendo come l'idea
lo risollevasse d'animo.
«E
come pensi che reggerebbe?», gli aveva domandato il giorno
dopo,
ancora lì ad assistere ai lavori.
«Soldi»,
aveva risposto di getto. «Sono il motore di quasi ogni
cosa».
«E
questa nuova società si occuperebbe delle
persone… come te? Come
Mark?», aveva ripreso parola il terzo giorno, cominciando a
essere
genuinamente curiosa.
Louie
aveva annuito e, rapido, aveva dato uno sguardo al suo nipotino
Lionel, ancora stretto tra le braccia della mamma mentre aspettavano
il suo papà per tornare a casa. «La mia
società ideale si
occuperebbe di tutti, tutti quelli che hanno bisogno di aiuto e lo
chiedono! Chi ha fame avrebbe cibo, chi non ha una casa verrebbe
aiutato ad ottenerla, chi ha le gambe che non
funzionano…»,
l'aveva guardata e lei aveva sorriso con un accenno di malinconia
negli occhi che gli ricordavano Mark, «verrebbe aiutato a
credere di
essere importante, e utile. Come gli altri».
Il
quarto giorno, sua sorella Lara era andata a controllare i lavori
anche lei e l'avevano vista discutere con Levi. Doveva aver litigato
con il loro padre, Louie ne era sicuro. «Sai cosa serve per
fondare
quella società?». Kristen aveva scosso la testa e
il ragazzo aveva
ripreso a fissare sua sorella. «Complici. Per quanto siamo
fantastici noi due», aveva sogghignato, «perché
nasconderlo, lo siamo»,
l'aveva sentita ridere, soddisfatto, «siamo pochi. E per
costruire
una società da zero, come questa piazza, abbiamo bisogno di
altre
teste e di mani, tanti
mani
e braccia».
«L'idea
mi piace», gli aveva confidato Kristen il quinto giorno.
«Ma una
società ha bisogno di regole da seguire o sarebbe il
caos… Ha
bisogno di classi sociali».
Lui
aveva spento il sorriso di colpo, deglutendo. «Sono le classi
sociali il problema di base, Kristen».
«Sei
in errore, Louie», lei aveva portato le braccia a conserte,
fingendo
una faccia seriosa. «Sono le disparità il problema
di base, lo dici
sempre».
Lui
aveva riso e, dopo aver tossito, sollevato le spalle. «Ma
sono le
classi sociali stesse a creare le disparità».
«Le
classi sociali creano le regole su cui tutto può stare in
piedi,
zuccone», lo aveva picchiettato sulla fronte ed era
arrossito,
cercando di sistemarsi i riccioli selvaggi. «Senza come pensi
che si
sorregga una società? Come pensi di guidare le mani e le
braccia per
costruirla? Ci sarebbero disparità, sicuramente, ma se studi
un modo
per cui è possibile passare da una classe sociale
all'altra… come…
come i punti del latte».
Louie
aveva riso di gusto di nuovo, prendendola in giro: «I punti
del
latte?».
«Sì»,
Kristen si era imbronciata, avvampando. «Mia mamma raccoglie
i punti
e li porta al negozio, in questo modo ottiene un set di tazzine
nuovo. So… Non
prendermi in giro»,
lo aveva colpito a un braccio e lui si era scansato, trattenendo le
risate.
«Sono
difettoso e malaticcio, potresti farmi male».
«Solo
quando ti è più comodo ti ricordi di essere
malaticcio», aveva
rimbeccato svelta. «Sostituisci i
punti del latte
con buona
condotta
e le
tazzine
con la
classe sociale
e capisci cosa intendo. È un esempio».
«Ho
capito cosa intendevi».
«E
allora dillo subito, zuccone».
«Avevi
ragione», le aveva detto Louie il sesto giorno, davanti ai
lavori in
corso. «Senza regole diventerebbe una situazione
insostenibile prima
ancora di partire». Gli era piaciuto come Kristen aveva fatto
una
smorfia compiaciuta muovendo di lato la bocca. «Una
società ha
bisogno di classi sociali, è inevitabile: l'importante
è che tutti
si sostengano e si prendano cura a vicenda o non avrebbe alcun senso,
tutto questo. Dunque ci sarebbe una specie di presidente-».
«Come
il presidente alla Casa Bianca?».
«Come
lui, senza Casa Bianca», aveva annuito, gesticolando.
«Che ha il
compito più importante di tutti: quello di non lasciare
indietro
nessuno».
Kristen
aveva sorriso. «Ora funziona».
«Ora
funziona», aveva ripetuto Louie.
I
due ragazzi avevano continuato a pensarci per tutta la durata della
costruzione della piazza. Passavano lì i loro pomeriggi,
fantasticando su quella nuova società che avrebbe
raddrizzato quella
attuale verso il mondo migliore che sognava, dove il suo nipotino
Lionel e le persone come i suoi amici avrebbero potuto avere le
stesse possibilità. La sua idea stava tanto prendendo forma
e
diventando ricca di particolari che, dopo essere tornato a casa dalla
piazza, Louie aveva approfittato di un momento in cui i suoi fratelli
erano con lui per coinvolgerli in quell'utopica visione per il
futuro. Louie sapeva che aveva bisogno di loro per realizzarla ma, di
certo, anche se non si aspettava un supporto immediato, non si
aspettava nemmeno quella reazione: Levi si era messo a ridere a
più
riprese e Louie si era imbronciato, dopo aver notato come anche Lara,
in modo diverso, non sembrava convinta.
«È
la cosa più sciocca e ridicola che abbia mai
sentito», Levi aveva
continuato a ridere, scuotendo la testa. «Quindi ti servono
soldi e
manodopera… che pagheresti con questi stessi
soldi?».
«Non
ho ancora raffinato i dettagli».
«E
questa manodopera a cosa servirebbe, con più
precisione?», aveva
continuato a dire sarcasticamente. «Gli omini che andranno in
giro a
picchiare quelli che saranno cattivi con te?».
«No»,
Louie aveva stretto i denti, «Non servono a questo! Devono
far
rispettare l'ordine».
«Oooh,
l'ordine», aveva sogghignato, adocchiando Lara che era ancora
in
silenzio, accanto a una finestra.
«Gli
omega
non saranno mai degli specie di bulli come li descrivi tu! Devi
sempre rovinare tutto».
Levi
allora aveva riso con maggiore enfasi, applaudendo. «Omega…
Hai sentito?», aveva di nuovo cercato l'approvazione della
sorella.
«Omega…».
Louie
aveva abbassato lo sguardo. Cosa c'era da ridere? A Kristen era
piaciuta l'idea di chiamarli in quel modo.
«Avevi
davvero così tanto tempo libero da spendere in bambinate
mentre io
là fuori lavoravo anche per te?», aveva guardato
lui e Lara.
«Atterra nel mondo reale, perché è qui
che dovrai cominciare a
vivere. Ci siamo capiti? Non sei più un bambino, hai sedici
anni»,
si era fatto più serio di colpo ma Louie aveva preferito non
rispondere. «Allora? Ci siamo capiti, storpio?».
Il
tempo di dire quella parola che Lara, veloce, gli aveva servito un
sonoro schiaffo e Levi era rimasto in silenzio, di pietra, stringendo
le labbra fini. Louie l'aveva guardata sorpreso: era la prima a
chiamarlo in quel modo, lui stesso usava quella parola, ma il tono
della voce del loro fratello era…
La
giovane si era limitata a scambiare con lui uno sguardo freddo e dopo
si era avvicinata al tavolo di cucina che divideva loro dal
più
piccolo, lasciando le braccia a conserte. «Capisci anche tu
che quel
che ci stai chiedendo è più un'illusione che
qualcosa che si può
mettere in pratica, sì?».
Louie
aveva stretto i pugni. «È complicato?
Sì. È un sogno a occhi
aperti? Può darsi. Ne abbiamo bisogno?
Assolutamente», aveva
indurito il suo sguardo, inquadrando lei e poi lui. «Guerre,
fame,
povertà, ingiustizie: ne saremo sempre tutti complici se non
faremo
qualcosa… almeno nel nostro piccolo».
Levi
si era fatto avanti di nuovo, sospirando. «E vuoi essere tu
il
salvatore dell'umanità che decide cosa è giusto e
cosa sbagliato?
Ci saranno sempre le ingiustizie, da che mondo è
mondo».
«È
facile parlare, per te», aveva gridato e Lara si era
precipitata a
portargli un bicchiere d'acqua, vedendo che iniziava a tossire.
«Sano, ricco… maschio»,
aveva guardato sua sorella dopo
aver bevuto, ma lei si era voltata. «Ti piace il tuo mondo
reale,
Levi? È fatto apposta per te! Cosa vuole saperne uno come te
di cosa
significa essere ultimo. Lara!», l'aveva chiamata, bevendo
ancora,
«Tu sai di cosa parlo».
«No»,
lei aveva mosso la bocca appena, lanciandogli uno sguardo di
ghiaccio, «Di cosa parli?».
«Sai
cosa significa essere scartata», aveva risposto Louie con
sicurezza.
«Non puoi fingere per sempre che vada tutto bene»,
si era mosso,
portando la sedia a rotelle davanti a lei. «Le manifestazioni
in
favore delle donne combattono anche per te».
«Quelle
donne si rendono solo ridicole», aveva ribattuto con scherno,
ma
Louie non le aveva creduto: Lara voleva così disperatamente
emergere
e farsi apprezzare da uomini come suo padre da finire di prendere le
loro idee come proprie. Come la loro madre. «Vogliono farsi
rispettare dagli uomini? Che stiano a casa invece di dare spettacolo
per le strade».
«Sbagli
e lo sai! Non importa quanto tu sia geniale; e lo sei, sorellina. Sei
forse la più intelligente in questa casa. Nostro padre non
ti
prenderà mai in considerazione per quanto riguarda la
fabbrica solo
perché sei femmina e lo sai! Impossibile che tu non lo abbia
ancora
compreso… Lascerà tutto a Levi. Niente a te, o a
me. E-», aveva
indugiato all'inizio, ma non era riuscito a fermarsi: «perdi
tempo!
Passi le tue intere giornate a scrivere e inviare lettere che il
destinatario non leggerà mai. Doug ha annullato il
matrimonio perché
considera il tuo non poter avere dei figli un difetto al pari del
mio… Si è risposato, non fingere di non saperlo!
Ha due figli,
oramai». Lara si era portata una mano sul volto e
così aveva preso
un gran respiro, battendo le palpebre tanto spesso, Louie lo sapeva,
solo per trattenere le lacrime. «Sono questo le donne,
Lara… Se
non puoi avere figli gli uomini non vogliono sposarti e in ambito
lavorativo non ti considerano neanche! Sei uno scarto esattamente
quanto lo sono io, con la differenza che io l'ho accettato».
La
giovane aveva deglutito e se ne era andata senza dire nient'altro.
Levi aveva cercato di fermarla ma lei aveva scacciato con violenza la
sua mano, allontanandosi di fretta, così aveva lanciato
un'occhiataccia al minore. «Si può sapere che cosa
ti prende, uh?
Siamo stati pazienti perché i tuoi amici sono passati a
miglior
vita, ma ora stai davvero esagerando».
«Esagerando?
No-».
«Pensi
solo a te stesso», gli aveva gridato Levi, sventolando una
mano.
«Tratti male chiunque, calpesti i sentimenti altrui, non
apprezzi le
cure di nostra madre e sai bene quale inferno ha passato, non
può
seppellire un altro figlio. Ma tu no», aveva aggrottato la
fronte,
«continui a fare di testa tua! Non ti riposi, salti le
medicine,
spendi il tuo fondo studi per costruire una piazza e ti bruci il
futuro, ma non bastano e in questo modo nostro padre, per far
contenta nostra madre che accontenta te, deve metterne di tasca sua e
sai qual è la parte migliore di questa faccenda? Siamo in
perdita».
Louie
aveva indugiato e tossito. «I… In perdita?
Vendiamo armi, Levi,
cosa-».
Il
giovane si era portato indietro le orecchie i lisci capelli scuri,
mettendo dritta la schiena e le mani in tasca. «Eri
preoccupato che
nostro padre lascerà tutto a me? A breve non ci
sarà più nulla da
lasciare a nessuno. I debiti ci stanno strozzando, non dureremo che
altri pochi mesi e dopo… il dopo è incerto. Non
avremo di che
mangiare, ma ci sarà una grande piazza», aveva
alzato le braccia e
la testa, accompagnata da un finto sorriso, abbassando il tono della
voce, «e il piano puerile di un bambino che non si sa
adattare».
Lo
aveva lasciato anche lui e Louie Luthor, solo in cucina, si era
sentito sprofondare.
Aveva
sbagliato tutto? Era davvero così insensibile ed egoista
come lo
aveva dipinto suo fratello? Forse, per com'era attento e analizzava
tutto, aveva finito per avere un pensiero troppo critico e si era
distanziato dalla sua realtà? Pensava di conoscere sua
sorella e suo
fratello, ma aveva perso di vista cosa succedeva intorno a loro.
Amava Mark e gli era sopravvissuto. Amava Kristen e al solo pensiero
gli si rivoltava lo stomaco. Aveva mancato di rispetto a sua madre.
Forse, aveva pensato Louie, doveva aver ragione Levi.
Bentornati!
Questo
minicapitolo è più sostanzioso dello
scorso, oh sì…
Nel
presente abbiamo seguito Maggie e Charlie, amo la loro bizzarra
amicizia. Bizzarra
perché, come pensa la stessa Maggie,
dovrebbero essere nemici e invece bom!, gli ha
pure salvato la
vita. Anzi… da come Charlie guardava spesso l'ora e dalle
parole di
Zod, sembra proprio che stessero organizzando qualcosa proprio per
capire se Maggie sarebbe stata dalla parte del ragazzo, e il piano,
nonostante il pericolo a quanto pare reale, ha funzionato. Non per
niente… abbiamo scoperto che cosa vuole Zod da Maggie: che
diventi
la sua erede. U-Ops.
Nel
passato invece abbiamo continuato a seguire Louie Luthor che dopo
la prematura scomparsa di Mark e dei loro amici a seguito di
quell'incidente con l'autobus ha commissionato la famosa piazza,
l'Angel Children's Memorial. Passa il suo tempo con Kristen, quella
che era la fidanzata di Mark cui lui capisce di provare qualcosa e lo
tormenta il fatto di vederla ancora come la fidanzata di Mark, e
dopotutto amava anche lui. Sarebbe stato un bel triangolo in diverse
circostanze, suppongo… o una threesome vera e propria, in
altre. Ma
Mark è morto, non pensiamo a queste cose! E abbiamo potuto
leggere
com'è nata l'idea di base che ha dato vita
all'organizzazione! E
woah, Levi, che sappiamo essere stato il presidente
dell'organizzazione, all'inizio non ne voleva proprio sapere e aveva
preso in giro il suo fratellino. Come sarà andata poi? Lo
leggeremo
nei prossimi minicapitoli…
Interessante
discussione quella tra i tre fratelli! Louie secondo
Levi pensa solo a se stesso, ha ferito la sorella maggiore Lara e
quasi certamente la loro madre che, per farlo contento, aveva
convinto il loro padre a contribuire con i costi della piazza, quando
la fabbrica non naviga più in buone acque. Da quanto sembra,
hanno
perso un altro fratello e questo spiega come la madre sia molto
suscettibile ai malori di Louie, e Lara, che già sapevamo da
uno
scorso capitolo non poteva avere figli →
“
«Lara
Luthor non poteva avere figli», disse, mantenendo gli
occhi ben chiusi. «Rhea era per lei come la figlia che non
aveva mai
avuto».
”
Zod,
capitolo 51. L'erede (un
capitolo che vi consiglio di
leggiucchiare di nuovo perché, lo noterete, è
correlato a questi)
Dicevo,
sapevamo che Lara non poteva avere figli, ma non sapevamo che
le lettere che scrive erano per l'uomo che amava e da cui è
stata
lasciata per questo “difetto”, che adesso a quanto
pare è
risposato e ha due figli. Un duro colpo per Lara, che già
cerca in
tutti i modi di farsi notare dal loro padre, inutilmente.
E
non dimentichiamo, nel presente, di come Charlie sia stato
abbandonato dalla famiglia e come abbia trovato il supporto e
ciò
che gli mancava nell'organizzazione e in Zod. Beh, forse qualcosa del
piano originale di Louie per “quella
società”, ovvero ciò che
poi è diventato l'organizzazione, sul prendersi cura di chi
aveva
bisogno, è rimasta nel tempo…
Cosa
ne pensate?
Piccola
parentesi! Our home
è diventato parte di una serie.
Al momento ne fa parte solo un'altra fan fiction, una one-shot
scritta per San Valentino, ma nel futuro ne potrebbero arrivare
altre. Le idee ci sono, se poi riuscirò a scriverle
sarà un altro
paio di maniche. Nel caso, vi farò sapere…
Dunque
ci rileggiamo sabato prossimo con il minicapitolo 65.3
Riscatto: Un'azione orribile ~
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Capitolo 69 *** 65.3 Riscatto: Un'azione orribile ***
Oggi
I
capelli scuri raccolti con una pinza sulla nuca, le maniche della
giacchetta verde militare tirate fino ai gomiti, Carina Carvex
abbassò le buste della spesa per aprire un cancello per soli
pedoni
e riprenderle per sorpassare un vialetto con cespugli di rose intorno
al sentiero. Sembrava l'inizio di una bella giornata, ma doveva
ammettere a se stessa che non le piaceva particolarmente quando Alex
Danvers non la seguiva per scoprire i suoi segreti. Doveva aver avuto
un impegno e le seccava non essere lei quell'impegno.
La
sua anziana vicina era china davanti a una delle aiuole intenta a
tagliare i rami in eccesso e la salutò sventolando le
cesoie,
riservandole un grande sorriso. «Come stai,
tesoro?», la signora si
sporse, tirando in su la visiera che la riparava dal sole.
Carina
si fermò, decidendo di ricambiare al sorriso con il proprio.
«Magnificamente».
«Oh, ne sono felice. Volevo sapere da te una cosa»,
arricciò le labbra,
«Quand'è che torna a trovarti quel bel maschietto,
eh? Volevo
chiedergli se mi aiutava, sai?», le indicò un
albero alle sue
spalle e Carina seguì lo sguardo.
«Purtroppo…».
«Non
mi dirai che avete litigato?!». Le scrollò le
spalle e la donna si
mostrò particolarmente contrariata, riprendendo a sventolare
le
cesoie. «Ooh…
ma così non va bene, però! E ora chi mi
aiuterà? Guarda che non ne
trovi altri belli e gentili come lui, eh? È merce rara,
bella mia»,
le puntò contro le cesoie. «Eh eh, ti conviene
fare pace», le
sventolò ancora, «Così magari viene
anche da me ad aiutarmi, no?
Un giovanotto così a modo…», e di
nuovo, destra e sinistra, sopra
e sotto.
Appena
Carina le afferrò velocemente la mano con le cesoie, la
signora
sussultò. Seria, le sorrise di nuovo, sfilandogliele di
mano. «Stia
attenta con queste. Potrebbe farsi male».
«Oh,
sì, hai ragione… Che brutto vizio che
è», rise appena, mentre le
poggiava le cesoie sull'erba. «Ma tu pensaci per quel bel
maschietto, tesoro».
Carina
la salutò con un sorriso e la sorpassò verso il
portone, tornando
seria di colpo, dandole le spalle. Salì le scale per il
secondo
piano e, aperta la porta, lasciò le buste della spesa sul
primo
tavolino a vista, dando uno sguardo in giro: una valigetta aperta,
pile di documenti, cravatte sulla spalliera di una sedia…
alcuni di
quel documenti sparsi per un tappeto, una cravatta era finita quasi
sotto un mobiletto, e c'era una grande orma contornata da polvere
lasciata da un tappeto che aveva tolto di recente. Gonfiò le
guance,
per poi sbuffare. Aveva ragione la sua vicina, probabilmente: doveva
pensare al suo giovanotto a modo e ripulire un po', non poteva
trascurare la sua casa, doveva mettere in uno scatolone tutte le sue
cose. Specie se un giorno Alex Danvers avrebbe accettato di andare da
lei: quale figura ci avrebbe fatto a lasciare quel porcile a vista?!
Giorni di lavoro pieni che non aveva avuto tempo per nient'altro. Ma
intanto pensò di sbarazzare la spesa, che era più
urgente. E
controllò subito il telefono, infastidendosi appena nel
leggere un
messaggio. Lasciò un vasetto di passato sul tavolo vicino a
una
delle buste e si allontanò per fare una telefonata.
«Cosa
significa revocato?
Mi stavo occupando io del loro territorio, Inze si è presa
un'altra
fetta?», fece una pausa aggrottando la fronte, ascoltando il
suo
interlocutore. «Dico solo che da quando Inze è
fuori mi state
sconvolgendo continuamente i piani… So che deve setacciare
National
City, ma continuando in questo modo avrò troppo tempo libero
e sono
stata appena lasciata, non saprò cosa fare», si
imbronciò. Poi, di
lampo, il suo sguardo si accese: «Oh, non Inze…
Voglio parlare con
Kweskill, allora. Non mi interessa se è impegnato, voglio
parlare
con lui». All'ennesimo no,
Carina roteò gli occhi. «E va bene, quindi ne
parlerò direttamente
col Generale. È impegnato anche lui? Deve ricevermi o
farò una
capatina in centrale. Bene»,
sorrise, «Di pomeriggio sarò fuori per lavoro,
voglio parlare con
lui prima di pranzo. Sia. Buongiorno anche a te».
Riattaccò e il
sorriso svanì. «Gamma
rompiballe…»,
bofonchiò, dando uno sguardo all'orologio sul polso e
andando a
finire di sbarazzare la spesa prima di lavarsi per uscire.
Era
il duemilasei quando fu arrestata per aver provato ad accoltellare
con un taglierino il suo insegnante di matematica. Aveva quindici
anni ed era la terza volta volta che finiva davanti alla scrivania di
un poliziotto. Certo, non erano a conoscenza di altre volte in cui
probabilmente ci sarebbe dovuta finire. A sua madre bastava sbattere
le ciglia ed era libera di andare, «è
una ragazza problematica»,
diceva, ma quella volta andò diversamente: lì
conobbe Adrian Zod.
Lui l'aveva guardata a lungo prima di parlare: come muoveva gli occhi
annoiata, la bocca e se la mordeva, come si sistemava sulla sedia
scendendo il sedere e accavallando le gambe. Non l'avrebbero trovata
a disagio, o sofferente, si stava solo perdendo la sua serie
preferita in televisione e nulla di più.
«Comoda?».
«Abbastanza.
Se si può avere una cioccolata calda…».
Un
altro poliziotto pronto a farle la predica, a minacciarla, a
chiederle il perché delle sue azioni cattive… no,
quell'uomo il
perché glielo aveva chiesto, ma si era anche permesso di
aggiungere
delle domande come se le piaceva e come la faceva sentire. Quel
poliziotto aveva provato a comprenderla, era una cosa singolare.
Prima di lui ci aveva provato uno psicologo, ma lo aveva fatto per
lavoro e non era per davvero interessato, era un nome da spuntare in
agenda, ma non quel poliziotto; il suo interessamento nei suoi
confronti aveva interessato lei. Si erano rivisti fuori nei giorni
successivi, avevano parlato, era riuscito a convincerla a pensare e a
contare prima di stringere un taglierino, a provare a comportarsi
normalmente per vivere con gli altri e a relazionarsi, facendole
conoscere altri ragazzi della sua età con cui parlare,
alcuni dei
quali problematici
come lei. Secondo sua madre, Dru Zod l'aveva salvata. Forse era vero,
riconosceva Carina: sarebbe finita in prigione prima di diventare
maggiorenne, ci avrebbe scommesso, ma sua madre non sapeva cosa
faceva come secondo lavoro, a distanza di anni, proprio per la
persona che l'aveva salvata.
Dru
Zod sbuffò, dando una nuova occhiata all'orologio al polso.
Rimise
dritte le gambe che aveva intrecciato in attesa e si alzò
dal cofano
della sua macchina dal quale si era appoggiato, nel parcheggio
interno di un supermercato. Stava per prendere in mano il cellulare
che sentì dei passi. «Sei in ritardo».
Carina
Carvex fece mezzo inchino, mostrandogli un sorriso orgoglioso.
«Chiedo perdono, Generale, ho dovuto fare il giro largo per
seminare
un'agente del D.A.O. che mi fa da ombra».
«Alex
Danvers è all'Angel
Children's Memorial,
in questo momento. Non provare… a mentirmi», disse
secco e lei
puntò altrove lo sguardo.
«Mi
sta tenendo d'occhio?», domandò con tono quasi
ferito. «O tiene
d'occhio lei?».
«Carvex,
mi stai facendo perdere tempo», guardò di nuovo
l'ora. «Per il
momento ti è stato revocato l'incarico, non
parlerò oltre di
questo, con te».
Lei
sospirò seccata. «E per quale motivo ha accettato
di vedermi,
allora?».
A
quella domanda, l'uomo si avvicinò, scrutando il suo
sguardo. «Per
ricordarti quali sono gli ordini impartiti e qual è il tuo
posto».
Alzò una mano, appoggiandogliela pesantemente su una spalla.
Lei
era immobile e lo guardava a sua volta, proprio come allora, a suo
agio e quasi annoiata. «Gli ordini? Non dicevano forse di
controllare fino a che punto sono al D.A.O. con le indagini contro
l'organizzazione? Ho tutto sotto control…». Si
fermò non appena
le dita dell'uomo la strinsero e si guardarono negli occhi.
«Gli
ordini includevano il non
importunare
Alexandra Danvers», la riprese. «Ti stai facendo
seguire, ti sei
messa in luce, sospetta di te», continuò premendo
più forte, ma da
lei neanche un brusio. «Anni spesi per entrare nel D.A.O. a
rischio
perché ti piace giocare con le persone, Carvex. La stai
marcando.
Dimmi cosa provi».
«Lei
è interessante, Generale. Ha qualcosa».
«Cosa
provi», ripeté, non soddisfatto.
Lei
girò lo sguardo. «Mi piace. Provo… calore?
Vuole davvero che le descriva cosa provo? Diciamo che
vorrei…
vederla sotto un'altra prospettiva».
«Stai
mentendo di nuovo».
«No.
Vorrei davvero vederla sotto una nuova luce, ha così
potenziale…».
«Permesso
negato», la lasciò andare e Carvex
sbuffò.
«Non
vuole che giochi con lei solo perché è la
compagna della sua
beniamina», vide Zod tornare sui suoi passi,
«Oppure perché…
gira una certa voce».
«Tutti
hanno un ruolo, Carvex. E io non devo ripetere il tuo. Ci
sarà un
grande cambiamento, presto. Il programma potrebbe velocizzarsi e gli
ordini subire variazioni».
«Sì,
Generale».
Lui
le diede due pacche, accostandosi il tanto per parlarle a un
orecchio: «Non permetterti mai più di parlarmi in
questo modo né
di minacciarmi: non devi mettere piede in centrale, non devi vederla
neppure dall'altra parte della strada e, soprattutto, non devi
preoccuparti delle voci che girano. Sono stato chiaro?». La
vide
annuire ma non gli bastava: «Sono stato chiaro?».
«Sì,
Generale».
«Ottimo.
Sei una mina vagante. Non farmi pentire di non aver dato ascolto a
pareri che mi consigliavano di sbatterti fuori», la
guardò e annuì,
convincendo lei a fare lo stesso. Le passò un'altra pacca e
camminò
fino a raggiungere lo sportello del guidatore della sua auto.
«Hai
visto un certo Colin Chavez, di recente?», aprì lo
sportello. «So
che usciva con te».
Lei
strinse i denti. «L'ho lasciato da poco,
veramente… se n'è
andato. Conserverò bei ricordi».
L'uomo
la guardò a lungo, serio, prima di proferire qualcosa.
«Attieniti
al tuo lavoro, Carvex. Non vorresti vedermi arrabbiato. Non sono
ammesse sorprese», la ammonì e lei
delineò un sorriso.
Appena
il presidente dell'organizzazione lasciò il parcheggio con
la sua
automobile, Carina Carvex lanciò un pugno contro una parete
e perse
il sorriso. «Phillings…»,
sussurrò. Quel maledetto, lo scienziato, parlava spesso con
lui ed
era l'unico che poteva raccontare al Generale di lei e Alex Danvers.
Mai avrebbe pensato che i due parlassero ancora tra loro, dopo essere
stato cacciato dall'organizzazione per qualcosa di grave. A che gioco
stava giocando quel vecchio? Era stato lui ad aver consigliato al
Generale di allontanarla? Si morse un labbro tanto forte da
tagliarsi, stringendo i pugni di rabbia.
Carina
Carvex sorrise con gaudio appena sbatté il portone del
vecchio
palazzo, per aprirlo. Piede di porco in mano, salì due a due
gli
scalini scricchiolanti di quella scalinata spingendo i condomini che
intralciavano il suo passaggio, andando di fretta. Non appena la vide
con quello in mano, un ragazzo tentò di fermarla e lei lo
ignorò,
continuando spedita verso un appartamento al quarto piano. Il giovane
non poté fare nulla per impedirle di aprire una porta con il
piede
di porco, infine spingendola a calci, entrando di peso.
«Vecchio!
Devo parlare di una cosa con te». Passò il
corridoio deserto e
prese a calci la porta della camera adiacente, ma restò di
sasso
quando vide che era vuota. Dovevano esserci tavoli polverosi, in
fondo una scrivania con tre schermi sopra, le provette, dei
posacenere colmi di puzzolenti sigarette spente. Era rimasto il
puzzo, le finestre chiuse come al solito. Un camice sporco e
macchiato era gettato in un angolo, tra cenere e mozziconi che
riempivano il pavimento. «Che cosa… diavolo
è successo qui?», si
voltò di scatto al ragazzo dietro di lei, che
alzò le mani per
ripararsi. «Dov'è il vecchio? Phillings!
Dov'è andato?».
«Se…
Se si fosse fermata, agente, sarei riuscito a dirglielo
poc'anzi»,
la guardò aprendo un occhio solo, temendo il piede di porco.
Era un
agente del D.A.O., ma non era la prima volta che l'aveva vista di
pessimo umore quando andava a trovare il suo amico ed era meglio non
farla arrabbiare. «Mi ha restituito le chiavi
dell'appartamento due
mattine fa, si è… trasferito, vede, da che so ha
finalmente
ricevuto i soldi che aspettava», concluse con una vocina
bassa e
acuta da sembrare uno squittio.
«Soldi?»,
sbottò, portandosi l'altra mano sulla fronte. «E
dov'è andato?
Cosa ha detto?».
«Che-Che
sarebbe riuscito a portare avanti i suoi esperimenti. Ne era felice.
Le ha lasciato questo». Frugò una tasca dopo
l'altra dei suoi
jeans, facendola spazientire. «No, no, è che
devo-devo averlo
messo… Eccolo». Glielo porse e lei lo
strappò di mano, lasciando
cadere sul pavimento il piede di porco.
Spiegò
in fretta il foglietto:
Sapevo
che saresti tornata presto e che non avresti avuto buone intenzioni.
Ma io sono più saggio e me ne sono andato. Sono arrivati i
fondi che
tanto mi servivano per andare avanti col mio progetto, anche se non
come mi ero immaginato. Che sorpresa la vita! Sono certo
sarà capace
di sorprendermi ancora. Intanto, ti auguro buona fortuna con la tue
turpe mentali, ragazzina. Non sarò più qui ad
ascoltarti.
Addio,
Phil.
Accartocciò
il foglietto e lo gettò a terra. Riprese il piede di porco e
non
degnò il custode di occhiata, decidendo di andarsene. Se
Phillings
credeva davvero di svignarsela si sbagliava di grosso,
pensò. Prima
o poi avrebbe scoperto dove si era rintanato e avrebbero tenuto
quella discussione che, ora, le stava molto a cuore.
1963
Piccoli
angeli su sedie a rotelle: adatte per rappresentare i loro handicap,
anche se non tutti ne facevano uso. Louie Luthor seguiva con lo
sguardo ogni delicata curva nei loro volti di pietra sulla scultura
nella piazza, concentrato. Riusciva a captarne la morbidezza: era un
effetto ottico, ma era così meravigliosa anche solo la
sensazione da
sembrargli veri.
Kristen
si era accostata lentamente, guardando la scultura e il volto assorto
del ragazzo: batteva i denti e muoveva impercettibilmente la testa
seguendo linee immaginarie, collegato al picchiettio con due dita che
faceva contro la sedia a rotelle. Non voleva disturbarlo ed era
rimasta ferma e in silenzio fino a quando lui, soddisfatto in
ciò
che vedeva, si era voltato.
Gli
operai stavano ancora lavorando agli ultimi ritocchi e la piazza non
era aperta al pubblico: Louie era lì a controllarli
più di prima,
dal momento che Levi aveva abbandonato il timone dopo la loro
discussione.
Lei
si era lisciata la gonna, il maglioncino e i capelli, sistemando la
coroncina, solo allora lo aveva affiancato. «Mi chiedevo una
cosa»,
lo aveva guardato di straforo, nascondendo un sorriso. Lui l'aveva
guardata appena. «Cosa succede se un membro di quella
società,
quella che stiamo immaginando, compie un'azione orribile? Se tutti si
proteggono a vicenda, non potrebbero denunciarlo e farlo
arrestare»,
si era fatta dubbiosa. «Come si comporterebbero con lui? Lui
potrebbe ripagarli con la stessa moneta, o che so io, diventare
pericoloso per tutti, quelli fuori e dentro la
società», lo aveva
guardato, «Louie?».
Il
ragazzo aveva girato la sedia a rotelle, dando le spalle alla
scultura. «Lascia stare».
«Come?».
«Lascia
stare, chi se ne importa! Era una bambinata senza senso».
«Perché
adesso dici così?», si era rattristita, cercando
di captare dal suo
volto duro cosa c'era che non andava. «Cosa
succede?».
«Vedi
Levi, da queste parti?».
Lei
si era girata, allungando lo sguardo. Poi aveva dovuto scuotere la
testa. «No, forse non è ancora arriva-».
«Non
verrà», era stato lapidale. «Non
verrà perché ho parlato a lui e
a Lara della nostra idea e si è arrabbiato», aveva
così
confessato, mordendosi il labbro inferiore. «Magari sono
stato
avventato».
«Tu
hai…». Lei ne era rimasta sorpresa, naturalmente:
parlava con
Louie di quella società perché riusciva a
distrarre entrambi, non
che avesse voluto crearla davvero, un giorno. «Credevo
che-», aveva
forzato un sorriso e, all'ultimo, scosso la testa, ripensando a cosa
dire. «E-Era… Tu volevi realizzarla
veramente?».
Lui
non si era mosso, zitto, aveva dato una nuova occhiata alla scultura.
Cosa ne avrebbe pensato Mark? Lo avrebbe preso in giro anche lui, o
lo avrebbe appoggiato? Voleva fare il tassista e vedere posti
nuovi…
Le automobili sarebbero state più facili da guidare, anche
per chi
non muoveva le gambe. La fabbrica in perdita, le armi, i
debiti… Il
suo cervello continuava a macinare un pensiero dopo l'altro, intanto
che Kristen aspettava. Infine l'aveva guardata. «Un'azione
orribile
di che tipo?», le aveva chiesto, assottigliando gli occhi e
tossendo. «Perché una persona giusta, selezionata
per entrare nella
nostra nuova società, dovrebbe compiere un'azione
orribile?».
Kristen
aveva sollevato le spalle. «Perché è
una persona
prima che giusta.
E succede che le persone si scoprano orribili che fanno azioni
orribili. Potrebbe capitare».
Louie
aveva annuito, poi aveva formato un sorriso. «Verrebbe
allontanata»,
aveva riso e così tossito di nuovo, «Perderebbe
ogni privilegio e
diritto, non sarebbe più parte dell'insieme, né
verrebbe protetta».
«Volevi
realizzarla veramente?».
Lui
si era morso le labbra spaccate, battendo le dita sulla sedia e
fissando Kristen. Aveva la mascella pronunciata e gliel'aveva
delineata con lo sguardo. I capelli scuri lisci, a parte le punte.
Aveva delineato anche quelle. Il labbro inferiore aveva un solco al
centro e Louie aveva assottigliato gli occhi per delineare anche
quello, più piccolo, cercando di vederlo meglio. Se
sbagliava a
visualizzarle i dettagli e non gli veniva bene nella sua lavagna
mentale, doveva ricominciare.
«Louie?».
«Sì»,
aveva chiuso gli occhi con forza e alzato la voce, voltandosi e
spostando la sedia. «Ti ho sentita». Le sue
fissazioni e i disegni
mentali erano aumentati dalla morte di Mark, la lite con Lara e Levi
non aveva fatto altro che peggiorare le cose. Aveva preso un bel
respiro e riaperto gli occhi, quel
solco incredibilmente vicino,
quando aveva sentito la ragazza accostarsi; Kristen si era abbassata.
«Sai
perché sono rimasta con te da quando
Mark…?». Aveva aspettato la
sua reazione per continuare: «Perché stare con
te… era come un
po' stare con lui. Vi volevate bene, Louie. So come… E ora
che ti
conosco meglio… Per qualunque cosa, qualsiasi, che ti
tormenta,
parlamene. Sono venuta da te per Mark, ma rimarrò per te.
Perché
non mi hai detto che volevi realizzarla veramente?».
«Non
lo so… Era una bambinata, qualcosa che non
porterà da nessuna
parte. Se non posso fare nulla per proteggere le classi sociali
più
deboli, le minoranze, allora realizzerò il desiderio di
Mark».
«Il
suo desiderio?».
«Mark
non potrà mai fare il tassista, ma qualcun altro per lui
sì».
Lei
aveva subito sorriso, rialzandosi. «E come pensi di
partire?».
«Da
Lara e Levi».
Non
aveva mai avuto un grande rapporto con suo fratello e sua sorella
più
grandi, mai fino a quel momento della sua vita. Lara spendeva quasi
tutto il suo tempo libero a disegnare bozzetti per qualche progetto,
aveva solo bisogno che qualcuno direzionasse il suo genio. Levi
doveva salvare la fabbrica di famiglia e aveva bisogno di idee
fresche e veloci. La soluzione era sempre stata davanti a loro, se
solo si fossero scoperti una squadra, una famiglia, molto prima. E
così, mentre Levi Luthor scendeva in campo ed ereditava la
fabbrica
dal loro padre che si stava ammalando, Lara e Louie la cambiavano
dall'interno con innovazioni che, durante gli anni successivi,
avrebbero preso sempre più spazio, sottraendoli alla
costruzione di
armi. Levi parlava al personale e alle conferenze con discorsi
scritti da Louie di progetti che ideava Lara. La fabbrica era
riuscita a saldare i suoi debiti col tempo, e cresceva. Il loro padre
era venuto a mancare in quel periodo e i suoi figli avevano dedicato
a lui la nuova azienda nata dalle ceneri della vecchia fabbrica.
Aprirono a nuovi posti di lavoro, si spostarono su costruzioni
più
spaziose, il loro patrimonio aumentava e riuscirono ad aiutare i
più
deboli negli anni a venire, aprendo nuove scuole in paesi meno
fortunati e case rifugio per senzatetto. Ognuno di loro aveva un
ruolo e tutto sembrava bilanciarsi; i giornali parlavano di come Levi
Luthor stesse costruendo un impero e di come la loro famiglia si
stesse riservando un posto tra quelle più influenti
d'America.
Era
il millenovecentosessantasette quando Louie Luthor era riuscito a
testare la prima automobile possibile da guidare senza fare uso delle
gambe; quando nacque Lorna, la figlia sua e di Kristen diventata
Laura Luthor col matrimonio; quando aveva capito, finalmente, che
Mark aveva ragione e i miracoli esistevano davvero.
I miracoli, ognuno ha il suo ruolo, mine vaganti e persone orribili
che compiono azioni orribili, per non parlare di certe voci che
girano e di una Carina Carvex particolarmente interessata ad Alex. A
proposito di Carina, ora sappiamo un po' di più sul suo
conto. E
quel Phillings? Ve lo ricordavate? Era lo scienziato che lei era
andata a trovare in uno degli scorsi capitoli: fumo di sigaretta,
voleva vendere il suo progetto al generale Lane ma Max Lord lo aveva
battuto sul tempo e lui non aveva i fondi per continuare il suo
lavoro, ma a quanto pare per quello ha appena risolto.
Chissà come e
cosa sarà successo… E ora sappiamo che era stato
per certo
cacciato dall'organizzazione, nonostante parli ancora con il
Presidente, il Generale Zod. Chissà per quale azione
orribile era
stato cacciato… O forse il titolo non si riferisce (solo) a
questo?
È vero, questo minicapitolo è più
corto, li ho tagliati per
argomento, sorry.
Inoltre, nel passato abbiamo potuto trovare un Louie disilluso dopo
aver parlato con il fratello e la sorella maggiori, e per fortuna ha
trovato altro su cui concentrarsi: non solo realizzare il sogno di
Mark, ma crearsi una famiglia, e proprio con Kristen, la ragazza che
era fidanzata del defunto Mark, passata al nome Laura, il suo secondo
nome, quando è andata in sposa a lui, che è un
Luthor. Benvenuta in
famiglia, eh! È lei la madre di zia Lorna.
I tre fratelli hanno trovato il modo di collaborare e salvare il
futuro della famiglia. Il genio della sorella maggiore Lara viene
così sfruttato, il cuore di Louie diffuso e, allo stesso
tempo, ecco
che chi ci mette la faccia è il fratello di mezzo, Levi,
quello che
tutti volevano. Avevano vinto tutti, o almeno per ora.
E dire che John Jonzz c'era proprio vicino quando indagava sulla
famiglia…
E con questa chiudo, al prossimo minicapitolo che si intitola
Riscatto: La famiglia è la cosa più
importante di tutte…
Chissà chi seguiremo, tra presente e passato…
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Capitolo 70 *** 65.4 Riscatto: La famiglia è la cosa più importante di tutte ***
Oggi
Ancora
in abiti civili, Alex Danvers assicurò la pistola sulla
fondina e
uscì dall'ascensore per entrare alla base del D.A.O.. Un
agente la
informò che Carvex non era ancora arrivata e lei lo
congedò,
entrando nella grande sala dove ad attenderla, al centro e intento a
dare direttive ad alcuni operatori, il nuovo comandante ad interim
che avrebbe preso il posto di John Jonzz. Si avvicinò per
poi andare
più spedita appena capì di conoscerlo.
«Agente
Danvers», lui le sorrise da orecchio a orecchio quando si
accorse di
lei e Alex evitò di abbracciarlo davanti a tutti,
allungandogli una
mano, orgogliosa.
«Perché
non mi hai detto che saresti subentrato tu?».
Jeremiah
Danvers dispose le braccia contro i fianchi, sospirando.
«Perché
non lo sapevo fino a ieri pomeriggio, è stata una decisione
veloce».
Si accorsero che qualcuno li guardava, ma non ci diedero peso,
continuando a studiarsi con lo sguardo: non si vedevano da mesi,
senza contare che padre e figlia non avevano mai lavorato fianco a
fianco. «Tu come stai? Tutto bene con… Maggie?»,
si assicurò di non sbagliare il suo nome, facendo una
smorfia e poi
ridere, «La bambina?».
Suo
padre doveva essere a conoscenza dell'infiltrazione di Maggie
nell'organizzazione, ma non le andava affatto di parlarne davanti a
tutti. «Sì, tutto bene. Poco fa ha preso per i
capelli
un'amichetta, ma… a parte questo…».
L'uomo
dapprima rise, poi lasciò degli ordini veloci ad alcuni
agenti
impegnati davanti agli schermi, che annuirono, e colse la figlia con
un braccio dietro le spalle, camminando al suo fianco. «So
che sei
stata incaricata di seguire il caso sull'agente Jonzz e che andrai a
Marsington», le disse a bassa voce. «È
un caso molto importante…»,
si guardò attorno un poco, fermandosi all'ingresso della
sala. «Il
fatto è che non sappiamo di chi ci possiamo fidare,
ora», la guardò
negli occhi, «possiamo aspettarci di tutto. Devi
stare-».
«Papà»,
lo interruppe, alzando gli occhi al cielo.
«No,
lasciami finire», la strinse per le spalle, «Sono
un agente del
D.A.O. ma sono e sarò sempre per prima cosa tuo padre;
l'ordine è
partito dall'alto e non voglio oppormi, sarebbe stupido, sei in gamba
e so che te la caverai, ma non sappiamo con chi abbiamo a che
fare…
Ad aver sparato a Jonzz potrebbe essere stato chiunque e ti chiedo
solo di essere pronta a tutto. Sempre-».
«Con
un occhio alle spalle», finì per lui e
annuì trattenendo un
sorriso, sciogliendo la sua presa. «So cosa devo
fare».
«Lo
so che lo sai», la scrutò di nuovo, a lungo, prima
che irruppero
dei passi. «Agente Carvex», strinse una mano alla
ragazza appena
arrivata, presentata anche lei in abiti civili e un curioso foulard
verde acqua intorno al collo. «Partirete tra poco, tenetevi
pronte.
La squadra si sta già preparando».
La
nuova arrivata fece cenno di aver capito e lanciò uno
sguardo a
entrambi, prima di allontanarsi di nuovo. Alex la tenne d'occhio.
«Papà… cosa ne sai di agenti corrotti
all'interno del D.A.O.?».
Lui
non sembrò stupirsi e ci mise un po' a rispondere.
«Pensiamo
possano essercene anche a Metropolis».
«Metropolis?».
«Non
sappiamo fin dove Zod e l'organizzazione hanno le mani in pasta,
Alex, e non mi sorprenderebbe sapere che siamo circondati»,
si
raddrizzò con la schiena, gonfiando il petto e
così sospirare. «Un
occhio sempre alle spalle», ripeté.
Lei
si guardò attorno e sospirò a sua volta, facendo
mezzo passo.
«Prima di tutto mio padre… ma non quando porto il
distintivo.
Okay? So fare il mio lavoro e sto andando a Marsington, signore»,
rialzò la voce, «Avrà il mio rapporto
sulla scrivania entro domani
mattina».
Lo
lasciò e Jeremiah Danvers sorrise.
A
Metropolis… Alex non faceva che pensarci, in macchina. Se
questo
fosse vero, allora la situazione era di gran lunga peggiore di come
la immaginavano lei e John, e seguire Carina Carvex e scoprire se era
corrotta diventava una cosa quasi insignificante di fronte al resto.
A parte il potersi o no fidare di lei. A quel punto, sarebbe ancora
stato possibile vincere? Se Maggie fosse riuscita nell'intento,
sarebbe servito a qualcosa? Contro chi stavano combattendo, contro
quali e quante persone? I gamma,
i beta,
e
lui, l'alpha…
Zod. Alex strinse le labbra, ripensando alle parole di Leslie Willis
all'Angel Children's Memorial quella mattina.
Vide
Carvex tornare dall'autogrill con un vassoio di bibite insieme a un
collega e tolse la faccia del vetro del finestrino, aprendole la
portiera dopo averla vista distribuire agli altri le loro tazze da
viaggio, restando con due. La sentì ringraziarla e gliene
prese una,
lasciando che si accomodasse al posto di guida.
«È
bollente», rise Carina, dopo averne assaggiato un sorso. Poi
le
riservò un'occhiata. «Va tutto bene? È
tuo padre, vero? Il
comandante ad interim arrivato da Metropolis».
Alex
sorrise con forza, bevendo anche lei un sors- oh,
era davvero troppo
bollente. Lasciò subito la tazza sul portabevande e lo
stesso fece
Carina appena il furgoncino della squadra davanti a loro mise in
moto, riprendendo a seguire la strada.
«L'ho
capito da come ti guardava. Sembrate uniti»,
proseguì, rilassando
il collo per concentrarsi sulla guida. «Avevo letto il nome Danvers…
era intuibile una parentela», ridacchiò.
«Non
hai caldo con…», si toccò al collo e
Carina si voltò un attimo,
«il foulard?».
«No»,
le lanciò uno sguardo, «è il trenta
giugno, mi stanno sudando le
ascelle e ho i jeans appiccicati alle pieghe delle ginocchia, tu cosa
ne pensi, partner? Certo che ho caldo», scoppiò a
ridere. «Potresti
aiutarmi a…?».
«Oh,
sì, certo». Alex si sbilanciò,
sfilandoglielo. Il livido era più
piccolo di come lo ricordava, stava svanendo ma era ancora parecchio
visibile. Erano segni lasciati da dita?
«Hai
le mani… sudate»:
Carina interruppe i suoi pensieri e Alex se le fregò contro
i
pantaloni, tornando al suo posto. «Non volevo che qualcuno
facesse
domande, ma tu lo hai già visto…»,
confessò subito dopo, tirando
su con il naso. «Penso che me lo rimetterò appena
ci fermiamo,
anche se fa caldo». Siccome Alex era ancora in silenzio,
Carina
pensò di guardarla ancora una volta, curiosa.
«Andiamo, so che vuoi
chiedermelo. Volevi che ne parlassi io? Beh»,
ingigantì gli occhi e
Alex la fissò, «ti ho detto che io e il mio
assicuratore ci siamo
lasciati, giusto? Ho ancora impresso il suo ricordo»,
scherzò, ma
l'altra non rise.
«Mi
dispiace molto, Carina. Cos'è successo? Perché
non hai chiamato la
polizia?».
«Perché
sono io la polizia», deglutì, aggrottando lo
sguardo. «Me la sono
vista da sola. E non lo aveva mai fatto prima, era stato… un
colpo
di testa», la guardò, appena fermate davanti a un
semaforo. «Non
volevo scocciature. Poi gli ho chiesto di andarsene… e lo ha
fatto,
se n'è andato», sorrise.
«Potevi
parlarmene».
«No…
No, tu sei gentile, partner, ma no… Era comunque tutto
finito in un
momento. Ma basta parlare di me», pigiò
sull'acceleratore, seguendo
il furgoncino. «Hai seguito le orme di tuo padre? Conosco un
sacco
di agenti che sono entrati nelle forze dell'ordine perché
è il
mestiere del loro padre. Per molti è una cosa che passa da
generazione a generazione, la famiglia è importante, cose di
questo
genere».
Alex
si girò verso il finestrino, trovando l'orizzonte del mare:
stavano
per arrivare in paese. Trovava curiosa la domanda di Carina
poiché
non aveva mai riflettuto su quel fenomeno, prima.
«E
anche la tua ragazza, Maggie… E suo padre non è
poliziotto anche
lui, forse?», proseguì l'altra.
Alex
prese la tazza e provò a bere, se la macchina non sbandava
troppo.
«Sono entrata al D.A.O. per proteggere mia sorella, non avevo
mai
pensato… che sarei diventata un'agente per mio
padre».
Carina
fece una smorfia con le labbra, soddisfatta della risposta.
«Proteggerla dall'organizzazione?».
Alex
non rispose, voltandosi e bevendo un altro sorso. «Anche tuo
padre
era un agente? Il fenomeno ha colpito anche te?».
«Oh
no, lui era un artista di strada», rise. «Andava e
tornava, fino a
quando non è tornato più».
Arrivarono
a breve e l'odore salmastro portato dal venticello fu la prima cosa a
colpirle appena uscite dall'auto, insieme alla folla che si era
creata attorno alla zona recintata tra strada e marciapiede, tenuta
indietro dagli agenti di polizia. Carvex le chiese se sapeva se la
scientifica era già passata e, a risposta affermativa,
entrambe si
avvicinarono con la squadra scesa dal furgoncino, ascoltando i
chiacchiericci frenetici degli abitanti, tra chi si domandava come
mai indagasse il D.A.O., chi se il giovane Jonzz fosse morto, qualcun
altro urlava terrorizzato se pensavano fosse un attacco terroristico
e se presto ce ne sarebbero stati degli altri, un uomo domandava
verso di loro se era stato un Verde
a sparare, producendo altri chiacchiericci nervosi e arrabbiati, chi
invece, con insistenza, domandava se avessero già trovato il
colpevole e infine una donna che auspicava a tutti di darsi una mossa
poiché doveva aprire il negozio che affacciava proprio in
quel punto
e che aveva aspettato già abbastanza.
«Guardali»,
Carina trattenne una risata. «Probabilmente è la
cosa più
eccitante mai accaduta in questo posto. Adorabili».
Mentre
lei si fermò a parlare con gli uomini dello sceriffo, Alex
pensò di
calmare gli animi, alzando i palmi delle mani e la voce: «Per
favore, tornate nelle vostre case. Non ci sono prove che evidenzino
un attacco terroristico e che ce ne saranno degli altri, l'unico
motivo per cui a indagare è il D.A.O. è
perché a essere stato
ferito è un agente che sta seguendo una delicata
indagine». La
gente si placò un momento, quello dato a tutti di pensare e
tornare
a parlare più forte di prima, domandandosi stupefatta se
Jonzz fosse
davvero un agente del D.A.O.. «Per favore, fate spazio e
lasciate
lavorare chi di dovere». Rispose ad alcune domande per
tranquillizzarli e così farli disperdere, meritandosi i
complimenti
del poliziotto al suo fianco. Per tutta risposta, lei pensò
di
lanciargli un'occhiataccia: doveva essere compito loro disperderli,
non certo suo, così tornò dalla collega.
«Qui
era parcheggiata la macchina di Jonzz», Carina le fece cenno
di
seguirla. «Lui era in questo punto e parlava al telefono, lo
hanno
trovato qui»,
le mostrò un punto segnato da un cartellino,
«Dev'essergli
scivolato».
«Lo
ha colto di sorpresa», sospirò Alex.
«Sappiamo con chi parlava?».
«Uno
degli agenti ha detto che hanno ancora loro le sue cose, compreso il
cellulare. Ci facciamo una capatina?».
«Sì»,
sospirò Alex, «Il caso è nostro,
ricordiamoglielo come siamo di
passaggio per andare a parlare con chi lo ha visto. C'è una
persona
in particolare che non vedo l'ora di ascoltare»,
confessò pensando
ad Armek, l'ex ragazzo di Megan. Kara le aveva parlato di lui e, se
non ci fosse di mezzo l'indagine con l'organizzazione, ammetteva che
sarebbe stato lui il suo primo pensiero: un ragazzo violento e
geloso, praticamente da manuale.
1972
Caro
Douglas,
Felicitazioni!
Ho saputo stamane che il tuo primogenito ha avuto una bambina
Lara
Luthor si era fermata, rileggendo la riga che aveva scritto e dopo,
non convinta, aveva accartocciato il foglio, ricominciando su quello
sotto.
Caro
Douglas,
Congratulazioni
per la nascita della tua prima nipote
No,
non le piaceva nemmeno quell'inizio e aveva accartocciato di nuovo.
Quella lettera non voleva proprio essere scritta, fermandosi per
pensarci ancora, sopra l'ennesimo foglio bianco. Basta, doveva
distrarsi: aveva spostato quella pila di fogli e recuperato tutto il
materiale sottostante, da fogli di disegno di varie dimensioni a
squadre e compassi, ricominciando a esaminare numeri ed equazioni,
segnando a matita i risultati e borbottando per sé. Quando
si era
accorta che un calcolo aveva rispettato le aspettative, si era
spostata i capelli mossi alle spalle dietro un orecchio d'istinto e,
sorridendo con soddisfazione, si era subito allungata per arrivare a
sollevare la cornetta di un telefono, componendo rapidamente un
numero. «Ralphy, sono Lara. Prepara il laboratorio undici,
per
cortesia, arrivo tra… dammi quaranta minuti»,
aveva detto quasi
d'un fiato. «No, Levi… Te lo sto ordinando io, non
abbiamo bisogno
del permesso di Levi!», aveva aggrottato la fronte,
«Fai come… E
va bene, dunque, ti farò prima avere il permesso da
Levi». Aveva
staccato la telefonata con aria ferita, raggrinzendo le labbra fini.
Levi era il capo, ma certo. Doveva prima dirlo a lui.
Una
gang locale aveva stuprato una donna la scorsa settimana e i
colpevoli, tutti riconosciuti, erano ancora in attesa di processo e
liberi, protetti dalle famiglie e dalla comunità che
colpevolizzavano la vittima. In una scuola, un ragazzino down di
dodici anni era stato picchiato da un coetaneo e i docenti avevano
coperto l'accaduto per mesi. Due mattine fa era stata riconosciuta la
piena innocenza a un uomo condannato a passare quarant'anni di
prigione per un errore giudiziario, ne aveva già scontati
ventisette. Al contrario, l'anno passato era stato scarcerato un uomo
per buona condotta, arrestato nuovamente pochi giorni fa per aver
ucciso un ragazzo, lo stesso crimine per cui era stato dentro.
Il
sistema era sballato, corrotto, fallace. Le persone perbene e le
vittime non venivano protette; era tutto sbagliato, non funzionava.
Come poteva la gente ritenersi al sicuro? Più notizie di
quello
stampo Louie Luthor leggeva sui giornali, e più pensava che
avrebbe
dovuto fare qualcosa, ma cosa? Non poteva non venirgli di nuovo in
mente quella nuova società da infiltrare nella
società per
cambiarla dall'interno ideata quasi dieci anni prima. Gli sarebbe
bastato sognare di aver fatto qualcosa, invece di aver iniziato a
farlo veramente?
«Louie?
Stai bene?».
Seduto
sulla sedia a rotelle, l'uomo aveva alzato la testa per inquadrare
sua moglie e stretto il giornale tra le dita, appoggiato sulle gambe.
«Laura… ricordi…», aveva
deglutito, fissando il suo sguardo a
un orologio a cucù dietro di lei: il pendolo in legno lo
ipnotizzava
e si era perso fra i suoi pensieri: lei era contraria a quella
società, non avrebbe dovuto rinominargliela, ma tenerla per
sé.
L'aveva
guardata di nuovo, incorniciando il suo volto pieno con
l'immaginazione, una mano invisibile nella sua testa che toccava e
sfiorava il suo naso lungo, la bocca rosa accennata di rossetto color
pesca e la mascella pronunciata, «l'azione
orribile», aveva
sibilato e lei aggrottato lo sguardo, non capendo. «Ricordi
quando
mi chiesi se un membro di quella società avrebbe compiuto
un'azione
orribile cosa gli altri avrebbero dovuto fare? Mi chiedo ora se
valesse la pena temere questa azione orribile e non fare niente, a
discapito delle persone che in quel modo si sarebbero potute aiutare
e proteggere».
Laura
aveva sospirato pesantemente e si era sistemata dietro l'orecchio dei
capelli sfuggiti alle forcine, mettendo così le braccia a
conserte.
«Louie… perché adesso? Di cosa
parli?».
«Avremo
potuto proteggerli con delle persone infiltrate a vegliare sulla
giustizia», aveva sbattuto il dito indice destro sulla prima
pagina
del giornale che aveva con sé, fermandosi per tossire.
«È come se
avessimo lasciato che accadesse tutto questo».
«Ma,
amore, ascoltati», si era abbassata e aveva preso il giornale
dalle
sue gambe, leggendo di sfuggita. «Pensi che avresti potuto
risparmiare il carcere a quell'uomo innocente? O che avresti evitato
che quest'altro uscisse, in modo da salvare la vita di quel giovane?
Di cosa parli? Capisci quanto sia pericoloso che dei singoli abbiano
il potere di decidere sulla vita degli altri?».
«Non
è già così?».
«No»,
gli aveva circondato il volto con le mani, scuotendo lentamente la
testa. «C'è un sistema-».
«Sbagliato».
«Fa
degli errori, certo… Ma quello che intendi tu, se fa degli
errori,
potrebbero essere di gran lunga peggiori a dispetto dei benefici.
Sarebbe una catastrofe, Louie».
«Lo
so…», si era morso le labbra e aveva abbassato gli
occhi, tristi.
«Gli aspetti negativi sono evidenti e pericolosi, non vorrei
mai che
possa essere usata per fare del male invece che del bene, e per
questo ci vorrebbero delle regole rigide, e una scelta accurata di
chi entrerebbe a farne parte». L'aveva vista scuotere la
testa e
Louie aveva stretto i denti, «È un progetto troppo
instabile, ma
con le dovute accortezze-».
«Non
esistono le dovute accortezze».
«Ma
sarebbe come non fare niente».
«Abbiamo
le mense per i poveri, aiutiamo i ragazzi e le famiglie con le borse
di studio, e i senzatetto sanno dove andare a passare la notte grazie
a te, perché pensi di non stare facendo niente? Il
resto… non è
una tua responsabilità. Non ti puoi occupare tu di
tutto».
«Devo…»,
aveva deglutito, sussurrando e continuando a fissare il movimento di
quel pendolo di legno dell'orologio a cucù,
«arrendermi?». Così
si era distratto dal dialogo avuto con lei nella sua immaginazione,
uscendo dal tunnel dei suoi pensieri, rispondendo da solo ai suoi
dubbi.
In
piedi, Laura si era voltata per guardare l'orologio a cucù e
ci
aveva sventolato una mano davanti. «Ti sei incantato,
amore», aveva
sorriso. «Allora, stai bene?».
«Papino»:
La
vocina di una bimba aveva distratto entrambi e Louie aveva abbassato
il giornale, lasciandolo su un mobile adiacente, attendendo l'arrivo
della piccola. Due codine nere tanto piccole da sembrare funghetti,
naso tondo e guance rosse, Lorna Luthor indossava una gonnellina con
bretelle e una camicetta bianca; aveva saltato direttamente sulle
ginocchia del padre, arrampicandosi sulla sua sedia a rotelle mentre
lui le tendeva un abbraccio. Laura aveva accolto in sala la maestra,
passando tra loro per accompagnarla alla porta invece della
domestica, che era si era tirata indietro a un suo cenno.
«Papino,
lo sai quante sillabe ci sono in maestra?».
Lui
si era fintamente fatto dubbioso. «No, mi sfugge.
Quante?».
«Tre»,
gli aveva mostrato tre dita e Louie aveva sorriso.
«Davvero?
Sei sicura?».
«Sì».
«Ma
sicura sicurissima?».
«Sì».
«Oh,
ma io non so chi…», si era girato, cercando con
gli occhi la
moglie appena rientrata nel salotto, «Non so chi sei, io non
conosco
questa bambina».
Lei
si era messa a ridere, diventando ancora più rossa.
«Sono io».
«Io
chi?».
«Papino».
«Non
sei mio padre», l'aveva fatta ridere più forte.
«Laura», l'aveva
chiamata e tossito, «aiutami a riconoscere questa bambina,
è troppo
brava per-», aveva tossito di nuovo, «non so
chi-».
Anche
lei aveva riso e, vedendo che Louie aveva tossito ancora, si era
avvicinata per riprendere la figlia con la scusa di lasciarlo
riposare. La piccola aveva appena fatto in tempo a dirgli che gli
voleva bene che Louie aveva preso a tossire più forte, la
domestica
era intervenuta e Laura le aveva gridato di portare via Lorna, che si
era messa a gridare. Louie aveva iniziato a tossire sangue e, dopo
poco, aveva perso conoscenza.
Caro
Douglas,
colgo
l'occasione per congratularmi della nascita della tua nipotina,
per
dirti che questa sarà l'ultima lettera che riceverai da
parte mia.
Ci
ho riflettuto a lungo e sono arrivata alla conclusione che non
è
giusto continuare
a
tediare la tua anima con qualcosa di sgradito.
Nessuno
dovrebbe esser molestato a tal punto.
Levi
Luthor aveva spalancato le braccia alla vista della piccola Lorna,
pronto per accoglierla in braccio. Dietro di lei, Louie li
raggiungeva trascinando la sedia a rotelle. Erano all'interno della
fabbrica, in un settore privato, ed erano passati solo pochi mesi da
quell'ultimo crollo del giovane.
«Ehi,
piccolina. Cosa ne pensi di andare a giocare con Lionel, va
bene?».
Levi l'aveva lasciata e chiamato un dipendente che la scortasse allo
spiazzo d'erba dove il figlio giocava a pallone, così aveva
riguardato suo fratello con apprensione, accostandosi con le mani
all'interno delle tasche dei pantaloni. «Cosa fai
già in giro? Non
dovresti riposare?».
Louie
aveva sospirato con pesantezza e si era avvicinato a una finestra,
abbastanza grande e bassa da poter anche lui vedere Lorna parlare con
Lionel, fuori. «Sono stato confinato a letto abbastanza,
Levi,
risparmia le prediche».
Il
maggiore aveva sorriso, abbassando il capo. «Vieni, ti faccio
vedere
il tuo ufficio. L'ho fatto modernizzare quando eri via».
Per
anni sono stata ossessionata dalla tua assenza,
svuotata
da ciò che pensavo di avere,
e
da ciò che, in primo luogo, pensavo avrei avuto.
La
vita è stata ingiusta con me, ma ha risparmiato te.
Levi
aveva aperto le finestre, facendo entrare la luce. Louie si era
guardato intorno, riconoscendo i libri, toccando con mano una nuova e
grandissima scrivania bianca. L'aveva battuta con un dito tre volte,
cercando di accontentare il tormento che ancora abitava all'interno
della sua testa; ma le cose nuove gli piacevano, aiutavano a
calmarlo. C'era odore di chiuso, ma non gli dispiaceva.
«È bello».
Era
sincero, ma il tono della sua voce non aveva convinto Levi.
«Cosa ti
prende? Non vuoi tornare a lavorare qui?».
Louie
si era voltato e, spostando un ricciolo selvaggio dalla fronte, lo
aveva guardato con occhi grandi, serio. «Sto
morendo».
Il
maggiore era rimasto fermo un istante, poi aveva abbozzato un sorriso
incredulo. «Sciocchezze! Tu non stai morendo».
«Sto
morendo, Levi», aveva ribadito e il fratello aveva potuto
notare i
suoi occhi carichi di lacrime. «Non prendiamoci in giro, ho
sempre
saputo di avere un'aspettativa di vita inferiore alla vostra. Non ho
paura di lasciarvi, dunque ti prego di risparmiarmi qualunque
manfrina sull'Aldilà che possa venirti in mente».
Levi
si era passato una mano sulla fronte e aveva inspirato pesantemente.
«Se non hai paura, perché sembri sul punto di
crollare?».
Louie
aveva deglutito. «Ho accettato molto tempo fa l'idea di non
poter
vedere Lorna crescere, ma-», si era fermato quando avevano
entrambi
sentito i passi di qualcuno e un piccolo Lionel Luthor, sguardo
scocciato e capelli arruffati, in calzoncini corti, era entrato dalla
porta semiaperta e suo padre lo aveva sgridato per non aver bussato.
«Vieni qui, saluta lo zio», Louie si era girato e
il bambino lo
aveva abbracciato, pur mantenendo la sua sua faccia imbronciata.
«Cosa ti succede?».
«Lorna
non vuole lasciarmi giocare col pallone, vuole che cerchiamo le
foglie gialle».
«È
piccola, abbi un po' di pazienza», suo padre era stato
diretto e il
bambino aveva scrollato gli occhi. «Esci, tuo zio ed io
stiamo
parlando. E non lasciarla sola».
Il
bambino non aveva parlato oltre e Louie lo aveva fissato, prima che
chiudesse la porta. Riconosceva in lui i tratti somatici famigliari,
da adulto avrebbe avuto il naso come il loro padre, suo nonno; non
sarebbe vissuto a lungo per vederlo, almeno lo aveva potuto
immaginare. «Non potrò vederla crescere, non
potrò vedere Lionel
crescere», aveva continuato, «ma non posso
sopportare di lasciare
entrambi in un mondo che fa spavento», si era fermato per
tossire e
aveva notato Levi, con la coda dell'occhio, che si era passato di
nuovo una mano sulla fronte.
Hai
avuto la famiglia che meritavi,
sono
sinceramente felice.
Non
avrò dei discendenti diretti a cui pensare,
ma
confido di poter trovare altrove il mio scopo.
Sono
una donna ricca e posso avere tutto ciò che desidero.
Il
buon Dio aveva altri piani per me.
«Ti
prego, non ricominciare», lo sguardo di Levi si era indurito.
«Non
esistono supereroi in questo mondo, Louie, dobbiamo tenercelo
così
come è».
«Arrendersi
non è abbastanza».
«Abbasta-»,
aveva abbozzato una risata e dopo si era inumidito le labbra, girando
lo sguardo, seccato. «Non è questione di abbastanza,
è questione che abbiamo dei limiti-».
Louie
lo aveva interrotto: «Dei limiti imposti», aveva
gridato,
fermandosi e spalancando gli occhi, in un attimo di
lucidità. Cosa
stava dicendo? Dove voleva arrivare? Solo in quel momento, Louie si
era accorto di quel che Laura temeva, lo aveva riconosciuto in se
stesso. Fare del bene, in quel modo, lo avrebbe potuto trascinare
dalla parte del torto e diventare lui stesso il male? Perché
quell'impulso così forte di voler primeggiare? Quanto era
pericoloso
ciò che stava suggerendo di fare?
«Fammi
dire che Lionel e Lorna si rimboccheranno le maniche e avranno un
futuro migliore del nostro, ne sono certo. Mi assicurerò che
sarà
così», aveva continuato Levi, approfittando del
suo silenzio.
Il
minore lo aveva fissato senza dire una parola, serio e sconfitto,
fino a che… «Devi promettermi una cosa».
L'altro aveva atteso e
Louie si era passato una mano sul mento rasato, respirando con
pesantezza. «Devi prenderti cura di nostra
sorella».
«Cosa?».
«Un
giorno mi avevi rinfacciato di essere egoista, ora ti chiedo di non
fare lo stesso. Lara non ha ciò che abbiamo noi,
è sola», aveva
deglutito. «Io morirò sapendo di aver vissuto
appieno, di aver
amato ed essere stato amato, di aver lasciato una bambina fantastica
in dono al mondo, ma Lara…», aveva scosso la
testa, «Lara soffre
di non aver avuto tutto questo».
Levi
si era portato entrambe le mani sul viso, appoggiandosi a una delle
finestre. «Sciocchezze», aveva soffiato
contrariato.
Ti
perdono per aver annullato il nostro matrimonio. Dovevo fartelo
sapere.
Se
non lo avessi annullato, non sarei la donna di oggi.
Ho
sempre sperato, in cuor mio,
che
se avessi avuto i figli che tanto volevi saresti poi tornato da me,
mi
sbagliavo e mi odio per averlo fatto.
Sono
orgogliosa della me di oggi e non mi cambierei.
Tieni
stretta la famiglia, Doug,
perché
la famiglia è la cosa più importante di tutte.
Buona
vita,
sinceramente
tua
Lara
Luthor
«Si
cura di nostra madre, non ha voluto conoscere altri uomini dopo Doug,
ha il cuore spezzato dalla vita», aveva continuato Louie, ma
Levi si
era messo a guardare fuori, fino a quando non aveva rimesso le mani
in tasca e si era avvicinato a lui e alla sua sedia a rotelle.
«Hai
detto bene: non ha voluto», aveva sottolineato, irrigidendo
il
volto. «Lara si è rassegnata nella sua condizione
e ha preferito
scaricare la colpa sugli altri, perché è
più facile. Si cura di
nostra madre? Si cura di lei per essere compatita».
«Nostra
madre è sola quanto lei e allora-».
«No,
no, non vederla in questo modo», aveva scosso la testa.
«Lara è
opportunista, ed egoista. Credimi se ti dico che, se ne avesse
l'opportunità, comanderebbe tutti a bacchetta».
«Stai
parlando di te, Levi».
«Oh,
non rigirarmi il discorso», aveva scosso la testa lui e,
sorridendo,
aveva alzato il mento. «Cosa pensi che faccia Lara quando
è qui,
eh? Mette bocca su tutto».
«Sono
i suoi progetti».
«Se
non faccio come dice lei minaccia di smettere di lavorare».
«Il
lavoro è l'unica cosa che le resta, ci tiene che venga
perfetto».
Levi
scosse la testa ancora all'ennesima giustificazione. «Non
capisci,
Louie: mi tratta come se fossi il suo burattino».
«E
non è così?», aveva sbottato a quel
punto, per poi tossire. «Non
era così che avevamo stabilito? Dobbiamo tenerci questo
mondo così
come è, giusto? E il mondo non vuole Lara né me,
tu sei il solo che
puoi mostrarti ed essere preso sul serio. E allora vai là
fuori con
le nostre idee e parole. I suoi progetti che sono i tuoi a occhi
esterni! Sii il nostro corpo», aveva stretto un pugno.
«Lascia che
Lara sia il cervello. Lascia che io sia…», aveva
deglutito, «una
coscienza. La coscienza di un uomo morente».
Levi
era stato zitto, ma più ascoltava e più la sua
contrarierà
accresceva. «Anche tu vuoi essere compatito? Lascia che ti
dica una
cosa, Louie: stiamo tutti morendo. Ci hai pensato? Tutti abbiamo una
scadenza, ma a te piace particolarmente usare la tua, più
vicina,
per avere ciò che vuoi».
Lo
aveva lasciato solo e il giovane Luthor si era di nuovo pettinato un
ricciolo caduto sulla fronte, abbassando la testa e sospirando
afflitto.
Oggi
Erano
state alla centrale dello sceriffo per prendere le cose di John
Jonzz, rischiando di litigare con lui riguardo la giurisdizione del
caso, avevano interrogato il vicino di casa dell'agente e di nuovo
suo padre, si erano spostate su alcuni paesani che potevano esser
stati testimoni di qualcosa e le donne della chiesa le avevano
fermate per parlare di cos'era successo secondo loro e di come fosse
un complotto di certi Bianchi
per liberarsi di loro che erano Verdi,
allora Alex Danvers e Carina Carvex, ancora armate di una buona dose
di pazienza, stavano per dirigersi dove avevano parcheggiato l'auto
che, proprio sulla strada, ai pressi di uno spiazzo verde sotto delle
case, un gruppo di ragazzini guardava in loro direzione e pensarono
di sentire anche la loro versione dei fatti. Appena le videro
avvicinarsi due di loro se ne andarono subito e un altro spinse
l'amico rimasto verso di loro. Forse sapeva qualcosa, ma non sembrava
pronto a parlarne:
«I-Io
non ho visto niente». Si lisciò la frangia e
guardò alle sue
spalle verso l'amico, ma lui non c'era più.
«E
cosa hai sentito, invece?», provò a chiedergli
Alex.
Lui
guardò una e l'altra a bocca aperta. Sapevano che si stava
trattenendo, si capiva da come iperventilava e guardava di lato come
per cercare di fuggire da quella situazione senza scappare veramente
perché, a quel punto, lo avrebbero rincorso e sarebbe stato
nei
guai.
«Nulla».
Ci
mise troppo tempo a rispondere e le due si scambiarono uno sguardo.
«Dai, è chiaro che lui non c'entra
niente», disse Carina, passando
una mano sulla spalla del ragazzo che, a quelle parole,
abbozzò un
sorriso incerto. «Si vede che è un tipo in gamba
che aiuterebbe
subito la polizia, se sapesse qualcosa».
«Non
lo so», Alex fece una smorfia, mettendo le braccia a
conserte.
«Sembra nascondere qualcosa, ma forse hai ragione
tu», scrollò le
spalle, continuando a seguire la reazione del giovane,
«dopotutto,
chi mentirebbe sapendo della ricompensa?».
Il
ragazzo spalancò gli occhi e le due presero ad allontanarsi
lentamente. «Sai che c'è? La ricompensa me la
prendo io», scherzò
Carina.
«O-Okay».
Loro continuarono a camminare e lui sbuffò.
«O-Okay, ho
detto,
ho sentito qualcosa». Loro sorrisero appena, tornando
indietro.
«Abito sopra il panificio Joy, okay? E quella notte ho
sentito lo
sparo», passò lo sguardo da una all'altra, mentre
gli tremava il
labbro inferiore. «Il panificio Joy è-è
davanti, quasi davanti, a
dove è stato sparato il poliziotto Verde».
«L'agente
Jonzz del D.A.O.», lo corresse Alex e lui annuì,
mantenendo la
bocca aperta.
«E
quindi mi sono affacciato e l'ho visto andar via».
«Quindi
hai visto chi è stato?», gli domandò
Carina, assottigliando gli
occhi.
«Sì»,
rispose di getto, per poi subito scuotere la testa, «No,
e-era buio.
E-E c'è un albero a fianco del pani-».
«Panificio
Joy»,
esclamarono insieme le due, mentre il ragazzo annuiva di nuovo.
«Ho
visto un tipo andare via e la mattina dopo-».
«Non
hai chiamato la polizia? Lo hai visto a terra e non hai fatto
niente?». Alex si trattenne, sentendo addosso lo sguardo
della
collega.
«Sì,
ma no, cioè, i-io avrei chiamato, ma la signora è
passata e ha
chiamato lei, si è riempito di poliziotti! La signora del
panifi-».
«Panificio
Joy»,
ribatterono di nuovo entrambe, seccate.
«Sì.
Va a sistemare ogni sera e per fortuna c'era lei», sorrise,
«Io non
avrei saputo cosa dire». Il sorriso gli si spense quando
notò che
le due rimasero serie, aspettando. «Co-Comunque, la mattina
dopo,
dicevo, la mattina dopo ho visto il mio amico Martin, giochiamo
insieme ogni-».
«Non
ci interessa», lo interruppe Alex, di nuovo con le braccia a
conserte.
«Sì,
ho detto a Martin dello sparo e lui mi ha detto che suo cugino Jacob
ha sentito i ragazzi del basket che ne parlavano al campetto. Il
campetto dei Verdi si trova-».
«Non
ci interessa», lo bloccò ancora e Carina le
sorrise con scherno.
«O-Okay,
era per- Non importa! Quindi, i ragazzi del basket, dicevo…
I
ragazzi del basket dei Verdi non parlano con quelli del basket dei
Bianchi, okay? Ci siete?». Le vide guardarsi, sembravano
spazientirsi. «Ma uno di loro, Owen, si vede con una tipa dei
Bianchi, okay? Non ditelo in giro, se i Verdi e i Bianchi lo
scoprono-».
«Non
ci interessa», ribadì Alex, alzando gli occhi al
cielo.
«Okay,
okay… Quindi, dicevo che Owen si vede con questa tipa, non
conosco
il suo nome, ma ha una sorella che è fidanzata da tipo una
vita con
un ragazzo di quelli del basket dei Bianchi; loro sono dei Bianchi,
okay?», si morse il labbro inferiore sempre penzoloni.
«Questo
tizio dei Bianchi, Jack, che gioca a basket, ha sentito dire dagli
amici suoi dei Bianchi che giocano a basket che uno di loro ha
rivisto la sua ex il giorno dello sparo». Le due si
illuminarono:
finalmente una cosa interessante. «La ex è una che
ora va in
università fuori Marsington, okay? È dei Bianchi
ma un po' anche
dei Verdi, non so come sta messa».
«Non
ci interessa», si mise a dire veloce un'altra volta e Carina
precedette il suo secondo intervento:
«Stringi,
per l'amor del cielo», stralunò gli occhi,
«Ha rivisto la sua ex,
e quindi?».
Il
labbro del giovane tremò.
«Sì… E-E okay, ha rivisto la sua ex ma
lei si scopava un altro e aveva confidato a uno di loro, ai ragazzi
Bianchi del basket, che lo aveva sistemato».
«Beccato»,
Alex strinse un pugno.
«E
lui diceva che era uno dei Verdi e ho pe-pensato… ehi»,
le richiamò vedendo che si allontanavo per tornare in
macchina, «Non
volete sapere il nome? E cosa devo fare con la mia
ricompensa?».
Le
due si scambiarono uno sguardo e Carina prese qualcosa da una tasca
dei pantaloni, lanciandoglielo accompagnando un grazie.
Per fortuna non usciva senza qualcuna delle sue amate caramelle
all'ananas.
«Andiamo
a prendere quel pezzo di merda; se questo ricomincia a parlare mi
verrà voglia di buttarmi in mare», Alex fu
categorica, mettendo in
moto.
«Io
passo dal retro», Carina Carvex fece cenno ad Alex e lei
annuì,
prendendo la pistola dalla fondina intanto che si avvicinava con la
squadra del D.A.O., che si divideva tra le due, all'ingresso della
casa, lì nel territorio di quelli che chiamavano Bianchi.
Contarono e aprirono la porta insieme, Alex Danvers dall'ingresso e
Carina Carvex dal retro, facendo entrare gli agenti. In salotto, una
donna schizzò dal divano dallo spavento appena li
sentì e una
ciabatta le volò contro una porta.
«Dov'è
suo figlio Armek?».
Lei
si guardò intorno e sigillò le labbra,
così un agente pensò di
scortarla fuori dalla casa e si dimenò come un animale,
iniziando ad
urlare il nome del figlio. Loro si scambiarono uno sguardo complice e
cominciarono a salire le scale per il piano superiore, trattenuti da
un uomo uscito da una camera, allarmato dalle urla della moglie:
«Cosa
fate in casa mia? Chi vi ha fatto entrare?», li
minacciò con un
pugno per aria e un altro agente spinse lui indietro,
identificandosi. «Non potete fare quello che volete! Questa
è casa
mia».
La
squadra si fermò davanti alla porta del giovane e al tre
la aprirono di soprassalto. Armek si tolse le cuffie da davanti al
computer, spalancando gli occhi e saltando dalla sedia.
«Ehi,
cosa succede?», portò le mani in alto e
guardò il padre che fuori
in corridoio ancora gridava. «Cosa volete? Cosa state
facendo?».
Alex
gli prese i polsi per ammanettarlo e lui si slanciò per
fuggire,
così lo spinse sulla spalliera della sua sedia girevole,
lasciando
che si lamentasse. «Lo so, non sei abituato a essere
sopraffatto da
una ragazza».
Lui
strinse i denti, aggiungendo una parolaccia. «Solitamente mi
piace
sbatterle, non il contrario. Vuoi provare?».
«Non
pensare di rivolgerti a un'agente federale in questo modo»,
Carvex
la difese prima che potesse dire qualcosa.
«Dov'è
la pistola?», intimò a quel punto Alex.
«Quale
pistola?».
«Quale
pistola», Carvex sorrise, intanto che gli agenti mettevano a
soqquadro la stanza, svuotando i cassetti e rivoltando il materasso,
facendo gridare anche il ragazzo, sotto le urla del padre che veniva
fatto uscire. Un'agente li fermò e, indossando un guanto,
tolse una
pistola da un cestino nella cabina armadio, sepolta da panni sporchi.
Armek sbuffò, ma neanche quello fu sufficiente a fargli
sparire un
sorrisetto sfrontato. «Ecco quale pistola»,
esordì Carina,
indossando i guanti e sistemandola all'interno di una busta di
plastica tesa da uno degli agenti con loro.
«Quella
non è mia, bella».
Alex
rise sarcasticamente. «Questo lo vedremo. Ci sarà
da divertirsi
quando la scientifica analizzerà tutto,
dongiovanni». Lo spinse
fuori dalla porta, intanto che dava ordini alla squadra di non
tralasciare nulla, continuando a perquisire ogni angolo.
Scortarono
figlio e padre in stazione, dopo aver pensato bene di colpire uno
degli agenti che portava via il ragazzo, e una volta lì
avevano
sistemato entrambi dietro le sbarre in attesa di poterli interrogare.
Con l'arresto, Marsington parve svegliarsi di colpo e un numero
sempre più ingente di persone, capeggiate dalla madre di
Armek,
circondò la stazione di polizia. Ma non erano gli unici a
vedere
quell'arresto come un affronto alla comunità e lo sceriffo
si tolse
il capello quando si accorse di stare sudando, scaldandosi un po'
troppo.
«Vi
abbiamo ospitato, pensavamo che ci avreste liberato da un assassino
infiltrato qui, e invece arrestate due nostri compaesani, di buona
famiglia, brave persone», tossì quando si accorse
di stare
rimanendo senza voce.
«Quella
brava persona nascondeva una nove millimetri tra i calzini»,
Alex
non si sarebbe lasciata intimidire. «Fateci fare il nostro
lavoro».
Lo guardò a lungo intanto che si allontanava, supportato
dagli altri
poliziotti.
«Ehi!
Tu, rossa!».
Alex
si voltò verso le sbarre, inquadrando il genitore di Armek
che
cercava di attirare l'attenzione. Il figlio era sdraiato sulla branda
neanche fosse in villeggiatura e Alex non poté fare a meno
di
pensare che se non altro si sarebbe ambientato presto. «Come,
scusi?».
«Ma
sì, tu», continuò l'uomo, gridando.
«Quella pistola trovata… è
mia, ho il porto d'armi. Dovete lasciare andare mio figlio».
«Non
se ne parla», sollevò le spalle. «Se
è sua, perché suo figlio la
teneva nascosta nell'armadio?».
«Gliel'avevo
prestata… Giocava col tiro al bersaglio».
«Col
tiro a bersaglio su uomini impegnati in una relazione con la sua
ex?».
A
quella risposta, Armek si tirò su dalla branda, riservandole
un'occhiataccia schifata. «Loro non stavano insieme! Megs ha
avuto
una sbandata, lo sa, ed è tutto».
«Oh,
ti è tornata la voce? Spero tu possa trattenere
quest'entusiasmo per
l'interrogatorio», lo indicò, lasciandoli perdere.
Non capiva
proprio: se lei avesse fatto una cosa del genere, mai i suoi genitori
l'avrebbero protetta così strenuamente come stavano facendo
loro con
quel ragazzo. Era tutto assurdo, dallo sceriffo alla folla
là fuori
che aveva iniziato a protestare. Almeno la metà di quella
gente
sapeva cosa stava facendo e che tipo di persona era davvero quel
Armek?
«Vi
denuncerò per abuso di potere»,
continuò l'uomo dietro le sbarre e
Alex lo ignorò. «Siete dell'antiterrorismo, ma non
c'è terrorismo
qui! Voi fate terrorismo nei nostri confronti».
Il
padre di Armek che gridava, lo sceriffo arrabbiato e gli agenti in
tensione, mezzo paese in protesta, dove diamine era finita Carvex?
Non poteva lasciarla sola proprio ora. La cercò nella sala
tra le
scrivanie e non c'era, fuori non c'era, in bagno neppure, si
accostò
all'ufficio dello sceriffo e finalmente sentì la sua voce,
stava
parlando…
«Lo
abbiamo trovato». La voce severa, sicura di sé.
Alex
chiuse le labbra, seria, appoggiandosi al muro adiacente.
«Sarà
fatto». Staccò la chiamata e uscì dalla
porta appena socchiusa;
quando la vide, Carvex le riservò subito un grande sorriso.
«Mi
cercavi, partner?».
«Con
chi parlavi?».
«Col
nostro comandante. Danvers, tuo padre. L'ho giusto
aggiornato», non
perse il sorriso ma Alex non ricambiò. «Cosa
c'è? Non ti fidi di
me, forse?».
«Pensi
che Armek possa aver sparato a John per conto
dell'organizzazione?».
La fissò, ma Carina non sembrò tradirsi, rimase
ferma e rilassata.
«Intendi
che ne faccia parte?».
«No…
No, quel ragazzo è un idiota e conoscendo Zod e altri membri
dell'organizzazione è troppo diverso da loro, non
può far parte del
pacchetto, ma potrebbe essere stato agganciato da qualcuno di loro
per sparargli. Poterebbero averlo pagato», la
guardò di straforo e
Carvex scosse le spalle.
«Potrebbe.
Chi può dirlo, magari all'interrogatorio salterà
fuori», ricambiò
lo sguardo. «Credi possa essere andata
così?».
Charlie
Kweskill e Astra Inze erano davvero sorpresi quando scoprirono di
John, e lo stesso Zod, seppure più imperturbabile, non
sembrò
saperne niente. Potevano mentire, ma le loro espressioni e certi
atteggiamenti non avevano dato da pensare di nascondere qualcosa.
Carina Carvex, invece, non si sbottonava, rimandava al mittente ogni
domanda e impressione. «Con sincerità? No. Armek
era geloso di John
e sparargli con la pistola del padre doveva essere stata un'idea del
momento. Se vogliono far sparire una persona, Zod e l'organizzazione
hanno dimostrato di avere mezzi più puliti ed efficaci per
farlo».
Carina
Carvex sorrise da orecchio a orecchio. «Ma sentiti, ne sembri
un'esperta».
Lei
si rimise dritta con la schiena, superandola per tornare verso le
scrivanie. «Non credo di essere io l'esperta, qui».
La lasciò a
pensarci, prendendo il cellulare da una tasca e digitando velocemente
un messaggio a suo padre. Ma la risposta la sorprese:
Sì,
ha parlato con me. Lo porterete qui?
Alex
si morse un labbro. Non aveva senso: se davvero parlava con lui,
perché andarsi a nascondere per farlo?
Un
minicapitolo, più lungo degli altri, che parla di
famiglia…
Quella
Luthor nel passato, dove troviamo un Levi conscio che dovrà
assicurare un buon futuro al figlio e alla nipotina Lorna che
potrebbe perdere il padre da un momento all'altro, e proprio lui,
Louie, che pensa a sua sorella Lara e alla famiglia che lei non ha
potuto avere. Dopotutto, decide di scrivere l'ultima lettera a Doug,
l'uomo che avrebbe dovuto sposare, lasciata perché non
poteva dargli
dei figli: lui ha una famiglia e lei ha deciso dopo tanto tempo che
doveva finalmente lasciarlo andare. Lei non ha una famiglia sua, ma
è
ricca e pensa di poter trovare il suo scopo nella vita anche da sola.
Intanto, questa preoccupazione nei riguardi di sua sorella è
scattata in Louie dopo aver intuito qualcosa di se stesso, il
desiderio di primeggiare, il voler costruire quella società
nella
società dato da un determinato sentimento…
Nel
presente invece scopriamo che il nuovo comandante ad interim della
base del D.A.O. a National City è Jeremiah Danvers, il padre
di
Alex. Lei e Carina riflettono sul fenomeno che porta i figli a voler
prendere la strada dei genitori, in questo caso nelle forze
dell'ordine, e parlano un po', lei ha ancora i lividi nel collo,
chissà se davvero glieli avrà fatti il ragazzo
con cui stava e che
ora se n'è andato, e sono andate a Marsington dove hanno
fermato
Armek, quel simpaticone dell'ex di Megan, reo di aver sparato a John
Jonzz. Uh, un'ultima cosa! Carina parlava al telefono con qualcuno
distante da orecchie indiscrete come quelle di Alex, di cui
già non
si fida al 100% di lei… Parlava davvero con Jeremiah? E
allora
perché si è andata a nascondere per farlo?
Jeremiah ha confermato…
Al
prossimo minicapitolo sabato prossimo, people, che si intitola
Riscatto: Un modello da seguire. Chissà
con chi e dove ci
porterà…
|
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Capitolo 71 *** 65.5 Riscatto: Un modello da seguire ***
1974
Il
giovane Adrian Zod aveva riso di gusto, sedendo sul bancone dell'aula
universitaria. «Sei completamente fuori di testa».
Indossava un
paio di jeans a zampa d'elefante, era magro, alto, con i capelli lisci,
lunghi alle spalle e spettinati, tirati dietro le orecchie.
La
ragazza davanti aveva riso con lui: Petra Taylor, allora
diciannovenne, si teneva la pancia fasciata dalla camicetta colorata,
infilata sotto la gonna grigia lunga alle ginocchia. «Ha
ragione
lui, Margot: sei uscita di senno». Si era stretta la coda di
cavallo, guardando insistentemente l'amica al suo fianco, seduta
davanti al banco.
Lei
aveva fatto una smorfia, non badando alla coppia. «Ero certa
che lo
avresti appoggiato, è il tuo ragazzo non per niente. In
altre
occasioni, avresti dato ragione a me: Levi Luthor è proprio
un
fustacchione, non si discute», le aveva mostrato di nuovo la
foto
che lo ritraeva nella rivista che aveva tra le mani, accanto a
un'intervista che aveva rilasciato. Continuava a battere l'indice
destro sulla foto, poi aveva avvicinato la pagina alla bocca e ci
aveva lasciato il segno del rossetto con un bacio, continuando a far
ridere i due amici e tirandosi sul naso gli occhiali da vista.
«Devo
darti una spiacevole notizia, Margot», aveva ripreso il
ragazzo.
«Levi Luthor è sposato e ha un figlio! Suo figlio
è perfino più
grande della sorellina di Petra».
Lei
aveva scrollato le sopracciglia, prendendo lo specchietto da un
piccolo beauty case per ripassarsi il rossetto. «Ah, a me sta
bene»,
aveva sorriso di fronte allo specchio, boccheggiando. «Non
voglio
mica sposarlo: l'amore ha molteplici forme; vorrei solo parlare con
lui a quattrocchi, non so se mi spiego».
Petra
aveva scambiato uno sguardo con Dru, prima di rivolgersi di nuovo a
lei: «Sei irrecuperabile».
Tutti
e tre erano scoppiati a ridere che il momento tanto atteso dagli
studenti era arrivato e un ragazzo aveva corso defilato dentro per
avvertire tutti, che avevano iniziato a sistemarsi. Dru Zod era sceso
dal banco con un balzo e si era andato a sedere a fianco a Petra, ma
non prima di lanciare una scommessa all'amica Margot, dall'altro
lato, se avesse avuto il coraggio di chiedere direttamente
all'interessato se volesse passare del tempo con lei. Difatti, Levi
Luthor era entrato in quella grande aula solo pochi secondi
più
tardi e molti là dentro avevano trattenuto il fiato. Sguardo
magnetico, autoritario e severo, il signor Luthor aveva baffi e barba
corti, i capelli lisci pettinati all'indietro; elegante nel vestire
come nel muoversi, per prima aveva incantato la professoressa che lo
accompagnava, restando dietro di lui come avesse avuto gli spilli ai
piedi, non riuscendo a star ferma. Per la prima volta, la loro
università aveva potuto ospitare un uomo importante per
sostenere
una lezione e tutti, nessuno escluso, erano rimasti attenti. Il
progresso scientifico non era mai stato tanto interessante. Si era
tolto la giacca e, dopo essersi tirato le maniche aprendo i polsini,
allentato la cravatta; di tanto in tanto, Petra sentiva Margot
sospirare, ma doveva essere onesta con se stessa, anche lei trovava
quell'uomo incredibilmente affascinante. Dopo quasi trenta minuti a
parlare da solo e spiegare, il signor Luthor si era seduto sulla
scrivania e aveva cominciato a fare domande legate all'argomento agli
studenti, sia per vedere quanto erano stati attenti, sia per
conoscere le loro impressioni in merito. Erano nate discussioni e
perché no dei dibattiti, anche per quanto riguardava un
altro
aspetto del progresso scientifico strettamente collegato al lavoro di
Levi Luthor e alla sua fabbrica in continua espansione: la
costruzione e vendita di armi. La professoressa aveva cercato di
troncare l'argomento, ma il signor Luthor si era spostato dalla
scrivania e aveva riacceso la discussione, aprendola a tutta la
classe.
«Non
è la vendita di armi in sé a essere sbagliata, ma
l'uso che se ne
fa delle armi stesse», aveva esordito il giovane Zod,
alzandosi in
piedi per rispondere a un altro ragazzo che aveva parlato prima di
lui.
«Non
è così», Petra lo aveva guardato
spalancando gli occhi e,
essendosi resa conto che il suo intervento era stato sentito da
tutti, si era alzata anche lei, più timidamente. Levi Luthor
l'aveva
fissata e si era sentita a disagio. «Fino a quando ce ne
sarà
vendita, le armi non finiranno di cadere in mani sbagliate».
Un
altro studente stava per risponderle che Zod era stato più
veloce,
zittendolo: «Senza vendita, senza armi, come pensi si possa
proteggere il prossimo dal nemico?».
«Il
nemico è una creazione delle armi, signore», lei
aveva battibeccato
subito, «e delle persone che le vendono. Non potrebbero
lucrarci
sopra senza qualcuno da additare come nemico. Senza offesa»,
si era voltata verso Levi Luthor e lui aveva sollevato le spalle per
tutta risposta, sorridendo.
«No,
è una… lettura originale della
questione», aveva risposto,
passando una mano sul mento. «Lei pensa che non esisterebbero
le
guerre senza vendita di armi, signorina…?».
«Taylor».
Aveva sentito qualcuno ridacchiare, ma aveva provato a ignorarli.
«No, le guerre sono parte dell'uomo, uomo essere
umano,
ma senza armi molti meno innocenti finirebbero per passarci di
mezzo».
«Quindi
le guerre esisterebbero lo stesso, e così anche i
nemici», aveva
approvato, rendendola nervosa. «E chi sono gli innocenti,
signorina
Taylor?».
«Beh,
i bambini, per cominciare. Quanti bambini…», non
aveva finito,
deglutendo, rendendosi conto che gli occhi di Levi Luthor la
trapassavano, anche se distanti.
Zod
ne aveva approfittato per riprendere parola, guardando lei e il
signor Luthor. «Prima delle armi da fuoco, l'uomo usava arco
e
frecce. Il punto è che le armi sono e restano dei mezzi,
strumenti
come altri, pericolosi, ma sempre strumenti. Sta a noi scegliere come
farne uso: per cacciare e sfamare, oppure per uccidere il cavernicolo
che ti guarda male al di là del tuo territorio».
Altri avevano
ridacchiato e la professoressa si era schiarita la gola.
Petra
si era infastidita, spalancando le narici, mentre Levi Luthor si
gustava la discussione. «Ma le armi da fuoco non sono proprio
come
arco e frecce! E non viviamo neppure in un tempo dove è
necessario
un fucile per avere il tacchino a tavola».
Zod
aveva sorriso, ma in quel momento non aveva fatto in tempo a
controbattere che il signor Luthor si era deciso a intervenire:
«Un
piccolo quesito per lei, signorina Taylor. E perché no
esteso alla
classe. Perché ha ragione quando parla di guerra e di
innocenti, ma
spostiamoci in un contesto più vicino a noi, che non siamo
in guerra
così come non siamo più in un tempo dove bisogna
procacciarsi il
cibo da soli», si era messo a camminare, sistemandosi
esattamente
sotto di loro. «Dove lei ha famiglia e si trova con loro
nella sua
casa. Pensa di essere al sicuro, così dovrebbe. Ma un gruppo
di
malintenzionati decide di fare irruzione e minaccia lei e la sua
famiglia. Guarda caso, uno di loro lascia accanto a lei un'arma da
fuoco, incustodita, e qui volevo arrivare, signorina Taylor: lei che
è contraria alle armi e alla loro vendita, tenendo conto
che, se
anche la vendita cessasse ora, le armi precedentemente fabbricate non
smetterebbero di circolare e essere modificate e migliorate per
essere usate ancora e ancora, cosa farebbe? Cercherebbe di parlare
con i malintenzionati di come le armi abbiano creato dei nemici,
oppure prenderebbe quell'arma e proverebbe a proteggere la sua vita e
quella delle persone che ama?».
A
quel punto, nell'aula tutti erano dapprima rimasti bloccati in un
tombale silenzio, in attesa. Ma Petra Taylor era rimasta a pensarci
così a lungo che nel frattempo altri avevano alzato la mano
per
provare a rispondere.
«Io
avrei sparato», aveva risposto un ragazzo, dopo avergli dato
il
permesso di farlo.
«Anche
io avrei sparato, signore», aveva detto una ragazza,
«Non so come
si spara, ma in un'occasione come quella…».
«Credo
che prendere e sparare sia l'unica cosa sensata da fare»,
aveva
scrollato le spalle un altro ragazzo.
Il
signor Luthor li ascoltava senza aggiungere parola, camminando in
tondo e indicando a turno quelli che alzavano la mano in modo che
potessero rispondere.
«Anch'io
avrei sparato», si era alzata Margot, imbarazzata.
«Non è che ci
sia molta scelta, giusto? Se toccano i nostri cari, diventiamo dei
leoni. Diventiamo capaci di fare qualunque cosa». Gli aveva
sorriso,
ma ancora una volta non aveva risposto.
Anche
Zod aveva alzato la mano per provare a dire la sua e Petra lo aveva
guardato di straforo. «Io non sarei stato così
avventato».
Levi
Luthor si era accigliato, fermandosi sotto di lui. «Si
spieghi».
«Lei
ci ha dato due scelte, sparare o parlare con loro, ma non sono le
uniche strade percorribili. Se non ho mai toccato un'arma in vita
mia, provare a sparare senza aver prima escogitato un piano mi
porterebbe alla morte. E condannerei le persone che amo. O questo
è
ciò che penso, signor Luthor». Tutti si erano
voltati a guardarlo,
ma l'uomo era rimasto fermo e Dru Zod non aveva capito se avrebbe
dovuto continuare o meno, e aveva tentato. «Come dicevo
prima, le
armi sono mezzi, dipende da come se ne fa uso e, in quel momento,
scelgo di non farne. Se mi mostro con quella in mano, mi sparerebbero
ancor prima di aver capito come funziona. Sparare alla cieca, invece,
potrebbe rivelarsi scelta ancor peggiore: potrei ferire chi amo e i
malintenzionati, che sanno usarla meglio di me, mi colpirebbero per
primi di nuovo».
«Dunque
cosa suggerisce? Cosa avrebbe fatto, signor…?».
Finalmente
gli aveva rivolto la parola e Dru aveva gonfiato il petto,
mostrandosi orgoglioso. «Zod. Avrei atteso, signore. In
momenti così
delicati non ci si può permettere di sbagliare né
di perdere tempo,
bisognerebbe restare lucidi e provare a chiamare il nove
uno uno.
La tentazione di prendere l'arma e sparare è forte, ma
avventata»,
aveva stretto le labbra. «O io la penso
così».
Levi
Luthor ne era sembrato soddisfatto, dopotutto, non si aspettava una
risposta alternativa al suo quesito. «E lei, signorina
Taylor? È
d'accordo con quanto detto dal signor Zod?».
Lei
aveva deglutito e Dru Zod aveva provato a risparmiarglielo:
«Oh, lei
sarebbe con me in quella casa: è la mia ragazza».
Levi
aveva sorriso, annuendo. Aveva deciso di lasciarla stare, andando a
riprendere il gessetto per continuare la sua lezione. Quando parlava,
Levi Luthor era capace di rapire chiunque. A dispetto di come la si
potesse pensare sulle armi, la loro costruzione e vendita, quell'uomo
era un modello da seguire, sia dal lato imprenditoriale che da quello
scientifico. Petra stava ancora pensando al quesito a cui aveva
mancato di rispondere, ma non poteva fare a meno di notare quanto
quell'uomo fosse trascinante, nei suoi discorsi. A fine lezione,
tutti gli studenti e studentesse avevano sciolto posizione per andare
a stringergli la mano prima che se ne andasse, a scattargli foto per
chi aveva la macchina con sé e a scambiarsi due chiacchiere
veloci.
La professoressa aveva scattato dalla lavagna una foto con la maggior
parte della classe rimasta e Levi Luthor nel mezzo, che si era
rimesso la giacca e sistemato la cravatta apposta per apparire sui
giornali.
Margot
gli si era avvicinata più di tutti sfruttando la stretta di
mano,
con la rivista contro il petto. Si era limitata ai complimenti,
però,
non trovando il coraggio. «Ha un buon profumo»,
aveva sibilato
estasiata, allontanandosi con i due amici.
«Scusi,
signorina?».
Si
erano fermati e Margot si era fintamente scusata, tornando indietro
per recuperare la rivista che aveva fatto cadere ai suoi piedi. La
pagina con la foto e il segno del bacio col rossetto erano in bella
mostra, ma Levi Luthor non aveva mosso ciglio. «Errore
mio». Si era
morsa il labbro inferiore, intanto che altri ridevano.
«Aspettate».
Margot
si era accesa come un albero di Natale, voltandosi, ma si era spenta
a breve quando si era accorta che il signor Luthor non parlava con
lei. «Signor Zod, signorina Taylor, posso scambiare due
parole con
voi?».
Loro
si erano avvicinati, lasciando l'amica a mugugnare di gelosia. Che
cosa voleva da loro? I loro colleghi uscivano e la coppia restava. Le
voleva parlare del perché era rimasta zitta al quesito? E
Dru cosa
c'entrava?
Anche
la professoressa era uscita. Erano rimasti solo loro e avevano
iniziato a sentirsi a disagio, soprattutto dal momento che Levi
Luthor aveva preso a fissarli.
«Vuole
sapere perché non ho risposto al quesito, signor
Luthor?», non era
riuscita a non porgli la domanda, perché in fondo
ciò che aveva da
dire premeva contro il petto per uscire.
«Perché,
ora ha una risposta per me?», si era messo le mani nelle
tasche dei
pantaloni, irrigidendo la schiena. «Non sa prendere una
decisione o
confida per caso nel suo ragazzo, che decide di attendere, per
salvarsi?», lo aveva guardato e Dru Zod si era messo a ridere
per
sé, pur imbarazzato.
Petra
aveva sospirato. «In realtà avevo una risposta, ma
non ero pronta
ad ascoltare me stessa: prenderei quell'arma, signor Luthor»,
lo
aveva guardato negli occhi e Zod si era accigliato.
«Chiederei ai
miei cari di abbassarsi e… non ci ha fornito il numero di
queste
persone nel suo esempio, ma proverei prima a parlare con loro
e… e
so sparare, non mi coglierebbero impreparata».
Zod
l'aveva fissata, spalancando la bocca, e il signor Luthor si era
messo a sorridere, entrambi sorpresi.
«Non
volevo dirlo di fronte alla classe... Le armi creano i nemici, ne
sono fermamente convinta, e crea mostri in mani sbagliate, ma ha
ragione lei: in quella circostanza, probabilmente sparerei.
È
incoerenza? Può darsi».
«Sciocchezze»,
aveva risposto lui, sorridendo. «È
necessità, signorina Taylor.
Necessità. E così sa sparare... piena di
sorprese», aveva fatto
l'occhiolino al ragazzo, ancora fermo e zitto. «Grazie per la
risposta, ma non vi avevo fermato per questo: voglio offrire a
entrambi un lavoro; se ne cercate uno, naturalmente», aveva
sorriso
di nuovo, di fronte ai loro volti esterrefatti. «Mi sono
piaciuti i
vostri interventi e la fabbrica si sta espandendo, ci occupiamo di
più settori ora e vorremmo aprirne degli altri».
«Ci…
Come?»,
Zod aveva
sussultato.
«Ha
capito bene, signor Zod: vi sto proponendo un lavoro».
«Ci
stiamo», avevano detto in coro e Levi si era stato zitto,
portando
una ciocca di capelli lisci dietro un orecchio.
«Oh...
Non sapete neppure di cosa si tratta».
«Accettiamo»,
si erano guardati, sorridendosi. Quasi non avevano creduto alle loro
orecchie, dopotutto, un'occasione come quella poteva capitare una
sola volta nella vita.
Mano
nella mano, Dru e Petra si stavano allontanando dall'istituto
universitario a piedi, parlando della grande opportunità che
si
stava spiegando davanti a loro, ancora increduli ed eccitati. Di
sicuro, mai si sarebbero aspettati un colloquio di lavoro per il
personaggio più di spicco dell'ultimo decennio. Non vedevano
l'ora
di parlarne alle proprie famiglie, cominciando ad immaginare al
futuro roseo che li avrebbe attesi, anche riguardo alla loro vita
insieme che, di quel passo, poteva realizzarsi presto. Però
c'era
qualcosa che entrambi non potevano riuscire a togliere dalle loro
menti, quando il pensiero di andare a lavorare per Levi Luthor si
faceva da parte. Ed entrambi sapevano che l'altro stava pensando alla
stessa cosa.
«Petra-».
«Dru-».
Si
erano fermati, mettendosi a ridere. «Parla tu»,
Petra aveva
rafforzato la stretta tra loro, sapendo che non amava essere
interrotto.
«Tu
sai sparare?», le aveva chiesto subito, senza esitazioni.
«Quando è
successo, perché non me ne hai mai parlato?».
Lei
aveva chiuso gli occhi per un attimo, prendendo fiato. «Ho
avuto
quindici anni anch'io, Dru. Non sono sempre stata così...
Passavo
molto tempo con mio cugino, allora, e lui aveva una pistola»,
lo
aveva riguardato, sorridendogli. «Lo so cosa stai
pensando… Ma
sembrava così da grandi mettersi a sparare, nasconderla, ci
faceva
sentire molto furbi. La mia sorellina aveva sei anni e una mattina mi
ha seguito», si era fatta più seria, «un
proiettile l'ha
sfiorata». Si erano fermati in mezzo al marciapiede e il
giovane era
rimasto senza parole. «Era un gioco. Tu dici che dipende
dall'uso
che se ne fa, che sono solo mezzi, strumenti», aveva scosso
la
testa, arricciando il naso, «ma le armi sono quei tipo di
strumenti
che arrivano ovunque, anche in mano ai ragazzini, Dru. Se solo il
proiettile fosse stato un po' più a destra… Ho
chiuso con le armi
dal momento che ho quasi ucciso mia sorella», aveva ripreso a
camminare e lui con lei. «Temevo che Rhea non si sarebbe mai
più
fidata a stare con me».
«Mi
dispiace, Petra», Dru Zod aveva sospirato, «Se lo
avessi saputo,
non avrei detto quelle cose. Ma lascia perdere il quesito di Levi
Luthor, lui voleva solo sentirsi dare ragione».
Lei
aveva sorriso. «Lo so».
«E
se vogliamo lavorare per lui, dovremo imparare a dargli ragione
spesso».
Lei
aveva ingigantito gli occhi, paralizzando un sorriso. «Lo
so… In
fin dei conti, hai fatto bene a dire quelle cose».
Si
erano sorrisi e scambiati un veloce bacio a stampo, riprendendo a
camminare.
Oggi
Charlie
Kweskill sorrise di nuovo, battendo le dita sul volante dell'auto con
eccitazione. Sembrava un bambino a Natale e la sua allegria, a suo
modo, stava finendo per contagiare Maggie che, fino a un attimo
prima, si stava lasciando divorare dall'ansia di ciò che
l'avrebbe
attesa. Finalmente l'avrebbe portata a capire meglio cosa faceva
l'organizzazione, forse a scoprire cosa nascondevano…
L'avrebbe
scortata in una base segreta? A conoscere qualche pezzo grosso che
avrebbe provato a convincerla che sono i buoni?
Aveva
lasciato l'Angel Children's Memorial con la paura di scoprire che lui
e l'organizzazione stavano dalla giusta parte, se una giusta parte ci
sarebbe stata a quel punto, aveva riaccompagnato sua figlia Jamie
dalla babysitter e Charlie era passato a prenderla. Neanche lui
indossava la divisa, non erano in servizio, guidava la sua automobile
e, se possibile, questo riusciva a renderla ancora più
nervosa
perché era la prima volta che uscivano insieme fuori
dall'orario di
lavoro. E se le tornavano in mente le foto trovate da quella Indigo
nell'account account Facebook del
ragazzo… Non sapeva
davvero cosa aspettarsi, ma… La macchina si fermò
e Charlie
sorrise da orecchio a orecchio, guardandola.
«Un
supermercato?»,
Maggie spalancò gli occhi. «Andiamo a fare
spesa?».
«Sì»,
uscì, chiudendo lo sportello. «Cosa ti aspettavi,
che andassimo a
sfamare i coccodrilli che nuotano nel fiume intorno alla sede
dell'organizzazione, bella? Abbiamo bisogno di spesa», la
prese in
giro e la ragazza gli diede un colpetto.
Davvero
tanta spesa. Riempirono diverse buste e le caricarono in macchina,
mentre Maggie si chiedeva se normalmente facesse tutto questo da
solo. Era stata attenta a ciò che mettevano nel carrello in
modo da
farsi un'idea, ma era solo normalissima spesa: prodotti freschi,
scatolame, caramelle alla frutta. Forse proprio le caramelle era
stata la cosa a darle più da riflettere, accontentata non
appena lo
vide aprire una di quelle bustine davanti a due bambini esaltati che
tendevano le mani verso di lui. Lasciato il supermercato, infatti,
avevano parcheggiato l'auto di fronte a un palazzo in periferia,
salendo per l'ascensore con due di quelle buste piene; si erano
fermati al secondo piano e Charlie la portò davanti a una
porta,
suonando il campanello e mettendosi in attesa. Le prime cose a
sentirsi furono le grida di bambini e, quando uno di loro
aprì, urlò
subito verso l'interno per far sapere alla genitrice che il signor
Charlie
era arrivato. Maggie gli lanciò uno sguardo stranito e lui
allargò
le spalle, grato.
«Cosa
c'è? Sono un
signore».
Entrarono
e una donna, in leggins corti e maglia larga indosso, corse subito ad
abbracciarlo. «Signor Charlie, che bello rivederti! Sono
contenta
che sei tornato tu». Gli occhi le sorridevano ma, squadrando
la
ragazza, si stranì, mentre i due bambini restavano indietro,
davanti
ad alcuni giochi buttati su un tappeto.
«Oh,
Vanessa, lei è Maggie, una collega».
«Una
collega? Ma certo», le porse subito la mano, sorridendo
ancora.
«Anche lei verrà qui?», la
indicò subito dopo e i due si
guardarono, così Charlie scrollò le spalle.
«Se
mi vuole», Maggie rispose prontamente e i tre risero.
Subito
dopo Charlie ricercò il pacchetto di caramelle in una delle
buste e
la mostrò ai bambini, che corsero subito in sua direzione.
La donna
si limitò a dire che Charlie li viziava sempre, intanto che
Maggie
si guardava attorno, vagamente confusa: quella casa era un disastro,
i mobili cadenti, c'era disordine ovunque, la zona dove abitavano non
era una delle migliori, sembravano portarle la spesa spesso e, da che
aveva capito, non sempre era Charlie Kweskill a farlo. Cosa cercava
di dirle l'organizzazione,
portandola
lì? Che aiutava le persone in difficoltà? Ottima
strategia,
si disse, ci aveva già provato il capitano Zod, una volta.
«Vanessa,
puoi farmi un favore?». Charlie riprese la loro attenzione,
chiudendo la bustina con una linguetta adesiva. «Maggie
è nuova,
puoi raccontarle cosa facciamo qui?».
La
donna si fregò le mani una sull'altra, fissò lui
e dopo lei e,
così, come avesse preso la scossa, sorrise di nuovo verso
Maggie e
si sistemò i capelli dietro le orecchie e una fascetta,
annuendo.
«Dunque…
potremo aiutare le persone che hanno bisogno, giusto?
Che
hanno davvero
bisogno?», Petra Taylor aveva sorriso al suo ragazzo, Dru Zod,
al
suo fianco sul divano. Lui aveva ricambiato, anche se per poco.
Allora
si era scambiato uno sguardo con Levi Luthor, che era in piedi,
di
fronte a una finestra.
Lara
Luthor era indietro, seduta su una vecchia poltrona distante da
tutto;
si
teneva il viso tra le mani, pensierosa. E triste.
La
donna fece accomodare Maggie nel piccolo cucinino, mettendo a fare il
tè. Indugiò un certo punto, con le mani sul viso.
«Non
è costretta a raccontare, se non vuole», Maggie
inclinò il volto e
le sorrise, ma lei si portò i pollici contro gli occhi,
scuotendo la
testa.
«Non
è facile», borbottò, lasciando che un
altro attimo di silenzio tra
loro e il poco traffico di sotto facesse emergere le risate dei
bambini che giocavano con Charlie in salotto. «Non fosse
stato per
il signor Charlie, e l'organizzazione, io non sarei qui». Le
versò
il tè e Maggie la ringraziò, soffiando la sua
tazza e poggiandola
sul tavolo. «Mi hanno salvato la vita».
Levi
aveva fissato un punto vuoto, scrollandosi e irrigidendo le labbra.
«Avremo
bisogno di soldi. E di persone fidate per costruire una rete di
contatti che ci sostenga».
Dru
Zod aveva scrollato le spalle appena, mettendo le braccia a conserte.
«Ah…
So chi potrebbe tornarci utile, ho dei contatti in famiglia»,
aveva
detto, «Qualcosa si può fare».
«Mio
marito era diventato violento, ma non voleva lasciarmi»,
confessò
la donna, Vanessa, con occhi lucidi. Stringeva la tazza da
tè e
posava lì il suo sguardo, persa in immagini che solo lei
poteva
vedere. «Non toccava i bambini, lui non lo avrebbe mai fatto,
ma…»,
aprì la bocca lentamente, «toccava me, davanti a
loro». Non vide
Maggie che chiuse gli occhi nel sentire la sua storia, immersa in
quel passato ancora fresco. «Sono scappata… una
notte. Ho preso i
bambini e non mi sono più guardata indietro, ma non avevo
nulla, e
lui mi cercava».
«Senti…
conosci Dru Zod?».
La
donna annuì. «Sì», rispose
con occhi lucidi, «Lui ha fatto
arrestare mio marito».
Gli
arresti erano incrementati da quando Zod era diventato capitano, non
lo aveva dimenticato. Rendeva più sicure le strade, come
aveva
sempre sostenuto. Lo aveva difeso usando questi argomenti quando Alex
e Kara lo accusavano di far parte dell'organizzazione. Erano
ciò che
lo rendeva un buon capitano, ai suoi occhi. Un uomo giusto e pulito.
E ora sapeva che loro non sbagliavano, che lui non ne faceva
semplicemente parte ma che ne era il presidente, ma anche che
ciò
che lo rendeva giusto e pulito ai suoi occhi era comunque vero,
perché ora lo avrebbero reso meno giusto e pulito?
Vanessa
continuava a parlare, ma Maggie faticava a restare concentrata,
allungando lo sguardo al salotto verso Charlie. Sapeva cosa stava
facendo, ma non l'avrebbe avuta vinta.
Petra
aveva smesso di battere le dita sul braccio a conserte, mordendo un
labbro.
«Conosco
persone disposte a fare di tutto, se è la manovalanza quella
che
serve». Aveva
sollevato
le sopracciglia, guardando Zod: «La comitiva di mio cugino.
Sono
certa che anche loro conosceranno qualcun altro».
Levi
si era passato una mano sulla barba, assottigliando gli occhi.
«Disposti
a fare tutto… che tipo di tutto?».
«Tutto»,
aveva spalancato una mano, sollevando il palmo.
Quando
Lena Luthor lasciò l'Angel Children's Memorial, dopo aver
dato un
passaggio a Leslie Willis, si ritrovò alla Luthor Corp in
silenzio,
chiusa nel suo ufficio, per leggere e provare a selezionare alcune
delle storie che avrebbe approvato per la mostra. Erano arrivate
davvero tantissime testimonianze e doveva provare a tenere alta la
concentrazione e portarsi un po' avanti col lavoro senza che quella
piazza, Louie Luthor e i fondatori dell'organizzazione continuassero
a venirle in mente. E ciò che le aveva confidato Willis in
macchina,
su Maggie Sawyer. Non lo aveva riferito ancora a nessuno, e sapeva
che lei al momento era con quel Charlie Kweskill, doveva attendere.
Doveva solo concentrarsi, ora. Concentrarsi.
Prese
a sfogliare una ad una le anteprime delle foto che avevano
presentato, leggiucchiando le storie allegate, spesso drammatiche.
Molti sorrisi, porti, panorami dall'alto. In bianco e nero, a colori,
seppia. Un bimbo seduto a terra con un ginocchio sbucciato, un
palloncino che sfidava le nuvole, le lacrime di un anziano.
Quest'ultima in particolare catturò il suo interesse,
leggendo con
più attenzione la sua storia, finché Lena non
lasciò il testo
sulla scrivania, allontanando lo sguardo. Mise la foto e la storia da
una parte e sfogliò quelle già lette,
sistemandone alcune con
quella. Allora le mise vicine, una a fianco dell'altra, lungo il
banco. Poi fece una telefonata e Winslow Schott Jr. si
precipitò
appena poté. Lena arcuò un sopracciglio quando lo
vide e lui,
impacciato, tentò di allungarsi le maniche della camicia per
nascondere il segno dell'abbronzatura.
«Il
bello di una proposta come la nostra, è che è
troppo ghiotta
perché
qualcuno pensi di rinunciare. Chi non vorrebbe saltare le file
perché
ha le conoscenze ai piani alti, potendo?», Levi aveva stretto
le
spalle,
con
il volto rivolto alla finestra. «Io le ho. E loro ne hanno
delle
altre.
È
così che funziona», aveva continuato, serio.
«Una mano lava
l'altra, si dice. Ed è vero.
E
chi è particolarmente utile al gruppo, è giusto
che abbia un
riconoscimento».
«Se
posso…», Dru Zod si era fatto avanti e Levi si era
voltato.
«Se
gli omega
dovrebbero essere i nostri manovali, allora chi è al comando
è un
alpha,
mi
sbaglio?». Aveva atteso l'approvazione del signor Luthor, per
continuare:
«Questo
fa di loro dei… beta?».
«Beta»,
Levi aveva sorriso, ripetendo quella parola. «Suppongo che
sia
così».
Maggie
Sawyer strinse la mano di una ragazza che le raccontò di
essere
passata nel giro della prostituzione e della droga. Scosse la testa
scioccata alla storia di un ragazzo scappato dal padre che voleva
ucciderlo. Portarono le altre buste della spesa rimaste a una
famiglia il cui padre era allettato, a un'anziana sola e a una madre
con figlio invalido che, senza l'organizzazione, a suo dire non
avrebbe saputo cosa fare. Chi senza soldi, chi senza un lavoro, chi
non poteva vivere senza aiuti e sarebbe finito per la strada, chi era
arrivato da un altro paese e che, senza di loro, non avrebbe subito
ottenuto il permesso di soggiorno che serviva. Maggie Sawyer
conosceva la situazione attuale in cui era versato il suo paese,
conosceva le storie di chi cercava aiuto e perché, aveva lei
stessa,
come poliziotta, affrontato piccole emergenze, ma quello…
Era come
se Zod, Charlie Kweskill e l'organizzazione volessero farle credere
che, senza di loro, tutti erano perduti. Ma era il loro punto di
vista, Maggie voleva credere che quelle persone avrebbero ricevuto
l'aiuto necessario anche senza il loro intervento. Un po'
più tardi,
forse, ma… e quelle persone potevano aspettare, dopotutto?
Winn
si prese la briga di catalogare quelle testimonianze per anno,
intanto che Lena scandagliava le altre in cerca di similitudini,
passandogliele. Una volta concluso il lavoro su quelle che avevano,
le studiarono, visionandole attentamente.
«La
prima è questa», il ragazzo la segnò
con un fermacarte, scambiando
uno sguardo con Lena. «Emh… Risale al
millenovecentoottantadue».
«Millenovecentoottantadue»,
ripeté Lena. «I miei genitori non erano ancora
sposati; mio nonno
Levi doveva essere l'alpha, il presidente».
«Ero
stato rapito, ferito, e quando finalmente sono scappato e sono
arrivato in questo paese, ho scoperto che non ero il benvenuto»,
lesse Winn, abbassando il testo. «Siamo sicuri che c'entri
l'organizzazione?».
«Normalmente
non ci avrei fatto caso, ma-», prese il foglio e raccolse il
fiato,
seria. «Avevo
le porte chiuse in faccia e non mi restava che la strada o tornare
indietro in mano ai miei carnefici, se non fosse stato per delle
persone buone che mi hanno trovato una sistemazione e un lavoro».
«Potrebbe
parlare di qualcun altro?!», domandò lui,
sollevando le spalle.
«Non
farò nomi, non importa il loro nome, sono un sopravvissuto e
amo
questo paese per loro che hanno creduto in me. Oggi ho un locale e
ogni tanto mi capita di servire e salutare i loro eredi, grato
perché
vegliano su di me, su tutti noi»,
lo guardò. «Parla sempre al plurale, il fatto di
vegliare su di lui
e su tutti li alza di qualche gradino, come se non fossero persone
comuni, resta vago e allo stesso tempo usa una parola molto specifica
che potrebbe passare inosservata, come una metafora, ma non lo
è»,
sussurrò, «e la usa perché loro la
possano leggere e capire».
Eredi:
la sottolineò con lo sguardo e assottigliò gli
occhi verdi. «È
l'organizzazione, ne sono sicura. Ha aiutato lui e tutti
loro»,
lanciò lo sguardo agli altri testi con l'anteprima allegata
alle
foto. «E lo hanno fatto
perché…?», si chiese, deglutendo.
«Se
tutti sono beta,
rischiamo di non avere un passaggio di classe-».
«Classe?»,
Petra aveva interrotto Levi con un pensiero ad alta voce, porgendogli
le sue scuse.
«Classe»,
aveva ripetuto senza esitazioni. «Mi sembra il termine
più adatto.
Pensavo
che avremo necessariamente bisogno di un cambio di classe
come
premio per chi si ritrova a essere più utile per la
collettività,
anche Louie…»,
aveva
deglutito, abbassando gli occhi, «anche Louie lo disse. Era
parte
dell'idea di base. I beta
avranno
maggiori vantaggi sociali e voce in capitolo sulle decisioni del
gruppo,
e
i membri comuni…», aveva scrollato gli occhi,
«il resto. Possono
offrire ciò che hanno,
devono
rendersi utili e provare ad avanzare», li aveva guardati.
«Cosa
ne pensate?».
Il
giovane Dru Zod si era allentato la cravatta nera sopra la camicia,
fissandolo.
«Mi
sembra un giusto punto». Aveva posato lo sguardo sui
bicchieri vuoti
sopra il tavolino.
«Si
sta parlando di quante persone…?», aveva domandato
una titubante
Petra.
«Un'organizzazione
come questa finirebbe per contare parecchi membri, mi pare
di
capire, e una sola persona, come il presidente, non riuscirebbe
a
gestire tutto», aveva guardato il suo ragazzo e dopo Levi,
«Senza
offesa, signor Luthor».
«No,
è un'ottima osservazione», l'aveva indicata lui.
«Levi. Chiamami
Levi».
«Beta,
membri comuni, omega…
si pensa
tanti omega»,
aveva preso parola Zod,
«dovremo
selezionare qualcuno che faccia da tramite tra loro e noi. E il
presidente».
«Millenovecentoottantadue?»,
Kara sibilò, per telefono. Aveva appena lasciato Indigo in
villa e
stava per tornare in centro quando Lena la chiamò.
«Quindi
l'organizzazione era già operativa negli anni ottanta? A
parte
quella foto sul giornale che ritrae Levi Luthor in
università dove
c'erano anche Zod e la sorella di Rhea Gand, è la cosa
più datata
che abbiamo, forse è in quel periodo che hanno
cominciato»,
mormorò, pensierosa. «Ti mando un messaggio come
mi sono liberata
da mia zia. Dobbiamo parlare». La sentì sospirare,
sapeva che già
si aspettava su cosa.
Zia
Astra le aveva tenuto la porta aperta intanto che saliva le scale.
Kara non voleva badare troppo a come si sentisse restringere
dall'interno per il solo pensiero di vederla, e parlare con lei,
stare da sola con lei, vedere dove aveva deciso di sistemarsi, fare
finta che… dodici anni non le abbiano tenute distanti e che
i suoi
genitori non erano morti, voleva solamente provare a distaccarsi, a
essere professionale e parlare con lei come se fosse lavoro e quella
un'intervista. Era il suo modo per proteggersi, pensò. Era
dalla
cena e dall'ospedale per John Jonzz che non si vedevano e, non appena
i suoi occhi dinanzi la porta di casa trovarono i propri,
capì di
essere a punto e a capo, che non importava la preparazione e che le
avrebbe sempre fatto effetto.
«Kara».
Astra l'abbracciò e la ragazza rimase ferma, di pietra,
facendo un
verso con la gola e sistemandosi gli occhiali sul naso non appena
l'ebbe lasciata. «Ti piace qui? Sono contenta che tu abbia
deciso di
venirmi a trovare. Lascia pure lo zainetto dove… dove vuoi,
non ho
ancora sistemato l'ingresso, come vedi». Si guardò
attorno e notò
la nipote decidere di portarselo dietro. Sarebbe stato difficile
rompere il ghiaccio, poteva capirla: per Kara, lei faceva parte del
gruppo delle persone che le aveva portato via i genitori, era la
persona che quella mattina aveva provato a farla uscire da scuola
fingendo di essere sua madre; chissà come doveva aver letto
quegli
avvenimenti mentre cresceva e ricordava, quali connessioni doveva
aver fatto, quali idee in testa le avevano messo le altre persone sul
suo conto, mentre lei non poteva dare la sua versione, ignorata nelle
lettere che ogni giorno le scriveva. Come sarebbe riuscita a farle
capire che non era lei la nemica? Come a farla stare dalla sua parte?
I
pianti improvvisi della loro madre, in un'altra stanza non distante,
avevano
interrotto le loro voci e lo scorrere dei loro pensieri.
Levi
era rimasto fermo, a bocca aperta.
Zod
aveva scambiato uno sguardo con Petra e lei stava per alzarsi che
aveva visto farlo
Lara
Luthor, veloce, senza dire una parola. Aveva superato il divano su
cui erano seduti
e
l'avevano sentita parlare con la donna che ancora piangeva, a
singhiozzi.
«Avremo
bisogno di un luogo di ritrovo, ma non è un
problema», Levi aveva
ripreso e
Zod
e Petra erano sobbalzati, concentrati sui pianti della signora
Luthor.
«Su
quello… abbiamo l'imbarazzo della scelta», aveva
toccato il vetro
freddo della finestra,
ghiacciandosi
i polpastrelli. «Come cofondatori, vi sembra tutto?
Stiamo
tralasciando qualcosa?».
«I
dettagli possiamo sistemarli in corso d'opera», aveva
precisato Dru
Zod,
distraendosi
al sentire ancora quelle urla strazianti. «Ci saranno
sicuramente
delle cose
a
cui non abbiamo pensato o che dovremo precisare. O modificare.
Ora
è presto, possiamo solo gettare le basi e immaginare come
sarà, se
andrà in porto».
«Sì»,
gli aveva dato ragione Petra. «Passeranno comunque degli anni
prima
di iniziare. Ci vorrà del tempo per costruire tutto
ciò di cui
avremo bisogno».
Lara
Luthor era tornata e, spedita, si era rimessa a sedere sulla sua
poltrona, in silenzio.
La
loro madre aveva smesso di gridare.
Kara
rimase più in silenzio di quanto si aspettasse. Ogni volta
succedeva
ma se ne stupiva, come se non riuscisse a superare un blocco.
«Vuoi
passare qui la notte?», Astra le passò davanti,
sistemando la
cucina. «O… no, è presto, vero?
Scusami, mi sto lasciando
prendere la mano. Sono davvero grata che tu sia qui e-».
«Perché?».
La
donna si era bloccata con una mano mezz'aria verso un pensile,
voltandosi. «Perché… cosa?
Tutto quello che vuoi sapere». Si avvicinò,
andando a sedersi e
poggiando i gomiti, dall'altra parte del tavolo.
Kara
abbassò gli occhi e sistemò gli occhiali, decisa
a non lasciarsi
prendere dalla tristezza. «Quando ero piccola eri la mia
eroina.
Volevo diventare come te, un giorno. Eri bella con la divisa addosso,
sembravi uscire da un fumetto».
«Non
me lo avevi mai detto». Provò ad allungare una
mano verso di lei,
ma Kara preferì tenerle entrambe sulle proprie cosce.
«Volevo
stare con te ogni volta che potevo, mi sentivo capita e… eri
il mio
esempio», strinse i pugni, per poi rialzare gli occhi.
«Non
rispondermi come hai fatto quando sono andata a trovarti in prigione.
Perché sei entrata nell'organizzazione? Perché se
facevate cose
buone, allora non me ne avevi mai parlato?».
Astra
si rimise dritta con la schiena, fissando sua nipote negli occhi.
«L'ho fatto».
«Non
parlo delle tue lettere», scosse la testa. «Le ho
lette; ho letto
le cose buone di cui parlavi, ma non basta! È morta della
gente,
sono morti i miei genitori… non basta».
«È
stata Rhea Ga-».
«Non
si tratta di Rhea Gand!», alzò la voce, stringendo
gli occhi. «Si
tratta di te e di me, della nostra famiglia! Si tratta di me che
guardavo te con rispetto e di te che tradivi tutto ciò in
cui
credevamo».
«L'ho
fatto», ripeté Astra, con gli occhi lucidi e le
labbra tirate, in
una smorfia di dolore. «Prima di andarmene, ti dicevo sempre
cosa
avrei fatto. Proteggere-».
«National
City! Pensavo intendessi come poliziotta».
Astra
la fissò ancora, scuotendo brevemente la testa. «E
cosa cambia?
L'ho fatto da poliziotta e l'ho fatto come parte dell'organizzazione.
Sono sempre stata fedele ai miei principi, solo che cominciavo a
capire che, come poliziotta, avrei avuto molte più volte le
mani
legate. L'organizzazione può rendersi utile prima che il
sistema
capisca di dover fare qualcosa. È imperfetta, cosa non lo
è, non
giustifico gli errori commessi-».
«Errori?»,
si accigliò.
«Non
distorcere ciò che cerco di dirti, sai cosa
intendo», sussurrò,
allungandosi di nuovo. «Ma la si può migliorare,
è un continuo
evolversi… Con l'organizzazione capivo che avrei potuto fare
molto
di più per National City. Per davvero. Non parole, ma fatti.
E
costruire una città migliore in cui vivere; per
te».
Kara
lottò con tutte le sue forze per non alzarsi da quella sedia
e
andarsene. «Mio padre e mio zio, Jor
El…», chiuse gli occhi un
momento, «loro lavoravano a un progetto, mi hai scritto in
una di
quelle lettere. Un tuo caro amico teneva a lavorare con loro. Chi
era?».
Astra
sorrise mestamente. «Adrian Zod. Li conosceva dalla scuola,
erano
suoi allievi al liceo. Ha parlato con tuo zio ma lui aveva
rifiutato». Le mostrò il palmo della mano per
stringergliela, ma
Kara la guardava senza muoversi. «Se avessero
accettato… Non lo
so, Kara, poteva cambiare tutto. Lavoravamo dalla stessa parte, in
fondo. Su due linee diverse verso lo stesso obiettivo. Come
adesso»,
provò a sorriderle ancora. «Siamo su due linee
diverse ma guardiamo
nella stessa direzione, mia bellissima nipote: crediamo ancora nelle
stesse cose».
«È
un progetto ambizioso». Dopo minuti che sembravano ore di
interminabile silenzio,
il
cui solo rumore era il russare della signora Luthor e del vento che
picchiava
i rami grondanti di pioggia di un albero sui vetri delle finestre,
Petra Taylor aveva ripreso
a
pensare a voce alta. «Se dovessimo fallire, finiremmo
tutti-», si
era fermata,
ma
loro sapevano dove sarebbe andata a concludere.
Levi
si era girato e, raccogliendo fiato,
aveva
alzato il mento in un sorriso. «Stiamo guardando l'arma
lasciata
incustodita,
signorina Taylor. Petra», si era avvicinato, passandosi le
mani sul
viso
per
finire sui capelli. «Mio fratello Louie diceva sempre che non
stavamo facendo abbastanza,
che
ci voltavamo dall'altra parte. Che avevamo le possibilità e
non le
sfruttavamo.
Era
vero. Da anni avevamo quell'arma incustodita davanti al naso»,
si
era andato a sedere su una di quelle vecchie poltrone del salone,
davanti al divano,
«ma
eravamo troppo ciechi. O codardi. Ora ci interroghiamo se prendere
quell'arma,
prendere
il potere e far sentire la nostra voce, provare realmente a cambiare
le cose,
oppure
lasciare che tutto resti com'è, in balia a decisioni altrui,
del
mondo quasi senza guida.
Perché
quelle attuali non sono sufficienti. Ora», aveva inquadrato
Zod,
«sappiamo
come la pensa Dru, ma voglio sapere se tu hai cambiato idea:
vuoi
ancora prendere quell'arma?».
Lei
aveva sospirato. «Sì».
«Sapendo
che un giorno potresti incorrere al rischio di sparare e diventare un
mostro?».
Petra
aveva esitato per un momento e Zod l'aveva fissata.
«Sì».
Lui
aveva sorriso soddisfatto, brevemente.
«Abbiamo
tutto. Abbiamo i mezzi, i soldi, le connessioni, le conoscenze
giuste.
Se
non da soli, noi insieme siamo tutto ciò che serve per
partire»,
aveva
rialzato lo sguardo,
«Ci
completiamo», aveva guardato Zod e Petra, che si erano
scambiati uno
sguardo,
e
infine sua sorella Lara, lontana.
Lei
non lo aveva guardato neppure per un istante.
«Possiamo
cominciare».
Maggie
e Charlie si erano seduti sul muretto ai pressi di un locale,
consumando un sandwich. Il cielo diveniva via via più buio e
la
ragazza, stanca della giornata, controllò il cellulare, ma
di Alex
ancora nessuna chiamata o messaggio; immaginava che sarebbe tornata
tardi, sperava solo che andasse tutto bene. «Posso
trattenermi
ancora poco, devo andare a prendere Jamie dalla babysitter»,
esordì,
rendendosi conto che lui non ascoltava. Sorrise, seguendo il suo
sguardo fino a un gruppo di ragazzi e ragazze, all'ingresso del
locale, che ridevano e parlavano tra loro. Charlie ne era rapito e si
distrasse solo quando capì che stava per mordere la carta
del
panino. «Vai, fatti dare il numero», lo
incoraggiò, inclinando la
testa da un lato.
«Nah,
non ho bisogno di una nuova relazione, adesso»,
masticò.
«Non
puoi saperlo».
Lui
fece una smorfia, lanciando ancora un'occhiata al gruppo.
«D'accordo,
cupido, parla tu: cosa ne pensi di oggi? Di dove siamo stati,
dell'organizzazione o…?», scrollò le
spalle larghe, illuminate da
un'auto che si fermava a parcheggiare dietro di loro.
Maggie
abbassò le braccia e prese fiato, osservando oltre i
lampioni, ai
palazzi che si accendevano come stelle. «Sembra
tutto… bello». La
portiera dell'auto si aprì, ma non ci badarono.
«Direi troppo»,
guardò il ragazzo con sincerità.
«È come se aveste pulito tutto
prima del mio arrivo, lasciando le briciole sotto al tappeto. Non
è
così?».
Charlie
la fissò, ma non fece in tempo a rispondere che una voce
alle loro
spalle li fece sobbalzare, dandole ragione. Dru Zod passò
dall'altra
parte del muretto seguendo il sentiero, fermandosi davanti ai due.
«Kweskill, lasciaci soli».
Il
ragazzo annuì e lanciò uno sguardo a Maggie,
mostrandole i pollici
in alto, accostandosi al gruppo.
Il
Generale si sedette e lei ingurgitò saliva, la tachicardia
stava
tornando, trovando il coraggio di guardarlo negli occhi. «Non
potevo
permettermi che scappasti prima di averti mostrato per cosa
è nata
l'organizzazione».
«È
nata per aiutare?».
Lui
fissò un punto lontano, vacuo. Pensava a come presentarle le
idee
che affollavano la sua mente e si infastidì nel sentire il
chiacchiericcio di Charlie Kweskill che sghignazzava acuto con quel
gruppo di ragazzi, cambiando espressione e passandosi una mano sul
viso. «Ti devo le mie scuse. Non volevo farti passare per
ingenua,
sapevo che non ti saresti accontentata del bicchiere mezzo pieno.
Pensavo che iniziare col mostrarti il bene, avrebbe fatto apparire il
male come quello che, spesso, non è che il
necessario».
«Come
la morte di Faora Hui, signore?», incalzò, ma lui
non provò
neppure un sussulto.
«Sì…
probabilmente è così. L'organizzazione
è un'arma, Maggie Sawyer»,
si girò verso di lei. «Uno strumento nato per fare
del bene, che a
volte si sente la necessità di impugnare e sparare per
proteggere
ciò che ci è più
caro…», bisbigliò.
Guardava
in sua direzione, ma Maggie vedeva che i suoi occhi si focalizzavano
su qualcosa che solo lui poteva vedere, che andava oltre.
Si
schiarì la gola, tornando in sé. «Per
preservare lo status delle
cose».
«Anche
Petra la pensava così, capitano?», non
riuscì a trattenersi,
scrutando la sua espressione.
«Sì»,
annuì. «Ma lei non ha fatto in tempo a
sparare».
«Signore,
posso essere diretta e chiederle perché io?»,
socchiuse gli occhi,
irrigidendo le labbra. «Cosa vuole da me? Se non mi vuole far
passare per ingenua, allora parli chiaro. Pensavo vi foste avvicinati
a me perché la mia compagna sta lavorando a un'indagine
contro
l'organizzazione, ma siamo ben oltre da questo». Zod si
alzò in
piedi e lei seguì il suo sguardo, perché non si
sarebbe smossa
dall'ottenere la verità.
«Hai
ragione, è così», confessò,
voltando lo sguardo un'altra volta
nel sentire Charlie Kweskill ridere sboccato. «Ci siamo
avvicinati a
te per arrivare ad Alex Danvers. I piani sono cambiati in corso
d'opera, come spesso accade quando si organizza un progetto di lunga
durata. Non avevamo più bisogno di te»,
l'adocchiò deglutire, ma
non perse la sfrontatezza nel suo sguardo, «Ma ti ho scelta
per
qualcosa di più grande, Sawyer. Ti ho scelta per
sostituirmi, un
giorno».
Lei
spalancò gli occhi. «Come, prego?».
«A
volte l'organizzazione sente la necessità di sparare: non ti
piace?
Potresti cambiarlo. Avrai la possibilità di trasformare,
sotto la
tua guida, l'organizzazione. Di migliorarla seguendo le sue regole.
Si è evoluta nel corso degli anni; è questo che
l'organizzazione
fa, e con ogni presidente prende una strada diversa, decisioni
diverse», le spiegò rapidamente, alzando la mano
destra e
gesticolando. «Le armi sono strumenti, Sawyer, sta a noi
scegliere
come sfruttarle. Ma l'organizzazione è complessa, non lo
nascondo: è
composta da molti ingranaggi, e per farla funzionare, devono girare
tutti per la stessa direzione. Il presidente ha potere ma non basta,
deve convincere il resto degli ingranaggi che ciò che
sostiene è la
cosa migliore, o non seguiranno. È uno strumento instabile,
pericoloso se in mani sbagliate, come ogni arma, ma in grado di fare
grandi cose», abbassò la mano destra, fissando la
ragazza,
illuminata dai lampioni e dalle insegne intorno. «Ti
spiegherò ogni
dettaglio, sarò con te passo dopo passo, se deciderai di
seguirmi».
Incredula,
Maggie avrebbe faticato a non crederlo uno scherzo, se non sapesse
che il suo capitano non scherzava. Mai. «Posso…
Posso pensarci?».
«Non
è ovvio? Devi. Nessuno può prendere una decisione
come questa in
quattro e quattr'otto. La scelta è tua, mi
limiterò ad accettarla».
Si
allontanò e salutò Charlie Kweskill, tornando
nella sua auto.
Maggie abbassò il volto, le mani le tremavano e la gola si
era fatta
secca. Si spaventò quando Charlie le arrivò
vicino che quasi
saltellava.
«Ho
il numero, ho il numero», baciò il foglietto.
«Non che sia pronto
per una relazione, maaaa
un aperitivo o due, da soli, al chiaro di luna», lo
baciò di nuovo,
«Non posso sapere cosa mi riserverà il destino,
giusto, cupido?
Ehi»,
si sedette al suo fianco e Maggie gli sorrise.
«Sono
felice per te».
«Sei
preoccupata perché ti ha scelto come erede?», le
chiese senza mezzi
termini; Maggie non si stupì affatto che lui lo sapesse. Il
segretario. «Senti, tutto è un
compromesso, nella vita.
Nascondevamo le briciole sotto al tappeto, con la differenza che non
sono briciole: l'organizzazione ha ucciso delle persone, ha costretto
altre a fare cose che non volevano, si è preso il potere
della città
pian piano, sfruttando i punti deboli della gente e del sistema e,
quando siamo tornati, lo abbiamo rifatto ancora e meglio, con il
Generale, sfruttando in parte il golpe di Rhea Gand. Ma senza persone
come te, siamo perduti. Se pensi che l'organizzazione un giorno
sparirà, ti sbagli di grosso, Maggie», scosse la
testa. «Se pensi
che l'indagine del D.A.O. possa cancellare ciò che
l'organizzazione
è, nel suo profondo, ti sbagli. È nata per
riscatto, scorre nelle
vene degli abitanti di National City, nelle vene dei Luthor»,
sottolineò e Maggie strinse le labbra, inspirando,
«e se qualcuno
cade, altri si alzeranno. Resta», la guardò negli
occhi. «E se
proprio l'organizzazione non ti convince, potrai andartene o, chi lo
sa, se è vero che qualcuno cade e altri si rialzano
prendendo il
loro posto, è anche vero che nessuno ha provato a eliminarla
dall'interno. Se non saremo dalla giusta parte, potresti essere la
prima a fregarci tutti», sorrise, sfacciato.
«No?».
1975
Lara
Luthor aveva passato interminabili ore davanti allo specchio nella
sua stanza da letto, fin dalle prime luci dell'alba. Pennelli,
matite, fard, un rossetto vistoso sulle labbra, boccheggiando
più
volte davanti allo specchio tondo della toeletta. Si era lasciata i
capelli scuri sciolti, vaporosi e ondeggianti, lungo le spalle
strette. Aveva indossato un abito lungo e bianco a veli, con cordone
dorato in vita. Soddisfatta, aveva così lasciato lo sgabello
ed era
uscita dalla camera, scendendo le scale e affacciandosi all'interno
di una stanza aprendo appena la porta. Il giovane uomo a letto si era
subito accorto della sua presenza e Lara era entrata, chiudendo alle
sue spalle.
«Come
sei… elegante», le aveva detto Louie, tentando un
sorriso. Avrebbe
voluto sistemarsi meglio, più in alto sul cuscino, se ne
avesse
avuto le forze, ma l'ago al braccio tirava ogni volta che si spostava
e non voleva rischiare di strappare la flebo. «Oggi
è il pranzo…
descritto da Levi?».
Lei
aveva annuito, accostandosi alla pediera del letto. «Saranno
presenti molti volti nuovi che lavoreranno all'apertura dei nuovi
settori. Per esempio ci sarà uno scienziato molto
promettente»,
aveva esclamato eccitata, sedendo sul copriletto. «A soli
venticinque anni è già riuscito a far parlare di
sé. Ho letto la
sua ricerca sul genoma umano e l'ho trovata particolarmente
interessante. Un po' didascalica, ma posso perdonarglielo. Un certo
Phills…
Philling,
forse. Non sono mai stata brava con i nomi».
«Come
stai?».
Lei
lo aveva fissato e il suo sguardo, per un momento, era tornato serio.
«Non dovresti preoccuparti per me. Sei tu quello a letto da
settimane».
«Che
gran peccato», aveva riso e dopo tossito di colpo, coprendosi
con la
mano del braccio libero, «Mancherò a un pranzo che
si prospetta
divertente».
Lara
era corsa per passargli un fazzoletto, sentendo dietro di lei che la
porta della stanza si stava aprendo. La piccola Lorna si era
affacciata e, vedendo che il padre era sveglio, si era messa a
correre verso di lui. Neppure il tempo di chiamarlo che la donna la
prese per un braccio, tirandola indietro intanto che il padre tossiva
di nuovo. «Non puoi stare qui», l'aveva presa e
trascinata fino
alla porta, mentre lei aveva cercato di raggiungere il letto.
«Esci,
lo fai agitare». Aveva riguardato il fratello minore
un'ultima
volta, uscendo con la bambina per poi chiudere la porta dietro di
lei.
«Lo
dico alla mamma», Lorna si era imbronciata, ma Lara era stata
categorica e le aveva fatto cenno di andarsene. Aveva sentito in quel
momento il campanello che suonava e aveva preso un bel respiro,
pronta per iniziare la serata.
Levi
aveva accolto tutti gli invitati, aprendo lui stesso il portone della
villetta al posto del domestico, stringendo mani e ridendo a battute
di dubbio gusto. La signora Luthor, la loro madre, li attendeva non
distante; anche lei elegante, faceva sfoggio della sua grande collana
impreziosita da dettagli in oro bianco e smeraldi. Incantava tutti.
Lara li aveva raggiunti solo pochi istanti più tardi. Aveva
salutato
un giovanotto che si chiamava Adrian Zod, uno dei prediletti di suo
fratello Levi, e si era intrattenuta a parlare con una donna cui il
marito, per andare a chiacchierare con gli altri uomini, l'aveva
lasciata sola. Un classico. Bambini, animali, cura del marito. Non
aveva altri argomenti se non forse la cucina, come tante prima di
lei, ma Lara fingeva di capire, di interessarsi, sapendo che quello
era il suo posto. La donna l'aveva lasciata solo quando il marito
l'aveva richiamata a sé e Lara li aveva seguiti con lo
sguardo
mentre lasciavano il salone, facendo una smorfia. Allora si era
distratta, dopo aver sentito ancora il campanello che suonava.
«Mi
dispiace di averla dovuta portare», Petra Taylor aveva scosso
brevemente la testa, infastidita. «Non sapevo come fare. I
miei sono
dovuti uscire e mi hanno incastrata».
«Sciocchezze,
non porti il problema», Levi le aveva stretto un braccio come
per
rassicurarla. «E poi sei quasi di famiglia». Si era
inchinato al
suo fianco, guardando la bambina negli occhi. «Sei contenta
di
essere qui con tua sorella? Ti porto dove puoi giocare». Le
aveva
allungato una mano, ma Lara si era intromessa, salutando
distrattamente Petra.
«Faccio
io», si era messa al suo fianco. «Tu devi
intrattenere i nostri
ospiti». Quello era il suo posto, non lo avrebbe preso nessun
altro; da donna, solo lei poteva pensare a una bambina.
L'aveva
presa per mano e Petra l'aveva tenuta d'occhio finché aveva
potuto.
La
bambina aveva alzato lo sguardo e l'aveva fissata pochi istanti.
«Sei
davvero molto bella».
Lara
Luthor aveva sorriso, inquadrandola con la coda dell'occhio.
«Oh,
grazie. Come ti chiami?».
«Rhea».
Si era tolta una ciocca lunga di capelli dalla bocca.
«Anche
tu sei molto bella, Rhea».
La
bambina aveva sorriso, stringendo più forte la mano con lei.
Oh
oh oh, tutto comincia a prendere forma!
Quindi…
l'organizzazione è nata per fare del bene!? Charlie Kweskill
ha
mantenuto la parola data e ha portato Maggie a vedere cosa fa
l'organizzazione, anche Lena ha trovato delle testimonianze che
ricollegano l'organizzazione a opere di bene nelle storie allegate
alle foto che sta scegliendo per la mostra, e Kara, dal canto suo, ha
potuto ascoltare la versione di sua zia Astra che, dopotutto, sembra
coerente con il resto: il sistema non fa abbastanza e non abbastanza
in fretta, con l'organizzazione invece ci si può muovere in
fretta e
aiutare chi ha bisogno subito! E dopotutto era ciò che
voleva Louie
Luthor.
Mentre
leggevate quella parte nel presente si è intersecata
un'altra parte,
a destra, che appartiene al passato, certo, la discussione di base
che ha dato l'origine, eppure nel passato che state leggendo quella
parte non è ancora arrivata. Ci manca poco, ci manca poco,
perché
il prossimo minicapitolo sarà l'ultimo!
Infatti,
nel passato abbiamo potuto leggere l'incontro descritto dalla foto
che Indigo e Kara avevano trovato, scoprendo che era stata la
professoressa a scattarla! È così che Levi Luthor
ha conosciuto
Adrian Zod e Petra Taylor, senza dimenticare il quesito sul prendere
o meno quell'arma che Zod ha conservato e riproposto a Maggie per
convincerla ad abbracciare la sua causa. Tutto torna… Anche
una
Rhea Gand bambina che fa la conoscenza di Lara Luthor, la donna che,
secondo Zod capitoli più addietro, la considerava come una
figlia,
non potendone avere di suoi. Oh, non scordiamoci di Margot!
Cosa
ne pensate?
Non
credo di avere note da segnalare neanche stavolta, dunque a sabato
prossimo con l'ultimo minicapitolo di questo maxicapitolo di origini
che si intitola Riscatto: Repressione.
Chissà come tutto si
evolverà se avremo più chiara una
cosa…
|
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Capitolo 72 *** 65.6 Riscatto: Repressione ***
Ho
sbagliato. Quasi alla fine del mio viaggio, mi sono reso conto di
aver fallito nei miei obiettivi. Non ne saresti contento, Mark. Mi
avresti corretto e dato della testa di rapa.
1975
Aveva
sentito suo fratello Levi ridere e invitare altri ospiti a entrare in
casa. Era bravo, Lara si era stupita a stupirsene: Levi era nato per
quello. Uomo d'affari, il volto dei Luthor, il portavoce; sapeva
cavarsela in qualunque circostanza gli si paventasse davanti. Era lui
che tutti volevano, ed era lui che tutti avrebbero avuto. Per mano
alla bambina, Lara aveva superato la portafinestra per il giardino,
camminando ai pressi delle vigne. L'aveva guardata con la coda
dell'occhio, intenta a intrecciarsi con un dito una ciocca dei lunghi
capelli castani. C'era un bel sole cocente, era una mattina di
settembre. «Che giochi ti piace fare, Rhea?».
«Non
lo so».
«Non
hai un gioco preferito?». Aveva intravisto Lionel e Lorna che
lanciavano un frisbee, un po' più lontano.
«Non
lo so… Mi piacciono tutti».
Lara
aveva sollevato le sopracciglia nere. «Che è come
dire che sono
tutti uguali». Si era già stufata di lei, sembrava
che la ragazzina
somigliasse alla sorella in quanto a banalità. Nessuna
sorpresa?
Nulla al di fuori delle righe? Niente di niente?
«Ovvero?».
Rhea aveva alzato lo sguardo, aggrottando la fronte.
«Non
hai un gioco che proponi sempre ai tuoi amici? I questo modo lo
diciamo ai miei nipoti».
Lei
aveva tirato la bocca a destra e sinistra, facendo una smorfia.
«Non
proprio. Decidono sempre loro».
Oh,
questo…
«Questo non va bene».
La
bambina allora aveva sollevato le spalle, non capendo l'insistenza di
quelle domande. «Sì, ma non fa niente, mi diverto
lo stesso».
Questo
no.
Lara si era fermata all'improvviso e la ragazzina aveva lasciato la
mano con lei, fermandosi due passi più avanti.
«Cosa
c'è?», si era voltata e la donna aveva inclinato
la testa,
esaminandola.
Quella
Rhea aveva il volto tondo quasi seccato, ma sembrava non avere il
coraggio di dirle che la stava infastidendo. Scrollava lo sguardo e
fissava un punto distante, vacuo, evitava il confronto. I capelli
erano stati pettinati con forza, crespi e fini, tenuti dietro in
parte da un fermaglio, probabilmente non se li era spazzolati da
sola; finendo di involgersi una ciocca intorno a un dito, aveva
iniziato a lisciarseli convulsamente. Nervosa? No, aveva pensato
Lara, o forse un po', ma… Rhea Taylor stava indubbiamente
trattenendo ciò che provava in favore degli altri. Stava
trattenendo
il fastidio con lei, e chissà quanto fosse abituata a
trattenere
ogni genere di cose, ogni giorno. Magari anche con la sua amata
sorella maggiore. Lara conosceva bene come ci si sentiva a farlo.
Questo era un punto interessante. «Quanti anni
hai?».
«Undici».
«Guarda
negli occhi quando qualcuno ti parla».
Rhea
era scattata e aveva subito trovato gli occhi azzurri della donna
che, severi, avevano continuato a scrutarla, piccoli.
«Come
ti fanno sentire?», si era inchinata sulle ginocchia,
piegando il
vestito. «Non ti chiedono mai a cosa vuoi giocare
perché sanno che
giocherai in qualunque caso?».
Rhea
aveva deglutito, rabbuiandosi. «Forse
sì».
«Forse
sì…»,
aveva ripetuto in un sibilo, osservando le espressioni facciali della
bambina. «Succede che alcune persone siano così
prese da sé da non
vedere nessun altro intorno a loro».
«E
come faccio?», aveva sospirato pesantemente lei.
«Mi trattano già
tutti come se non capissi niente perché sono ancora
piccola»,
aveva sbottato all'improvviso, virgolettando le parole con le dita,
facendo sorridere Lara, «Ma almeno loro sono adulti, per
quelli
della mia età è anche peggio».
«Oh,
no», aveva stretto un solco tra le sopracciglia, «I
bambini sono
piccole
persone, e non troppo diverse da molti adulti, ad ogni modo. Adulti e
ragazzini vogliono le stesse cose, Rhea, cambiano solo le
proporzioni; essere considerati è una di queste. Devi
importi. Anche
tu avrai qualcosa da preferire ad altro, non farti mettere i piedi in
testa da nessuno. Fai sentire la tua voce», l'aveva vista
accigliarsi e Lara le aveva tirato dietro le spalle i capelli,
sistemandole il fermaglio con cura. «Se non ti
capiscono… allora
potrai sempre parlarne con me».
La
bambina aveva sorriso, a quel punto, spento a breve. «Sembra
impossibile».
«Oh
no, puoi farcela. Lo vedo, è tutto dentro di te»,
le aveva indicato
il petto, non mancando di fissarla. «Certo, sei una femmina e
devi
stare al gioco, ma questo non vuol dire lasciare che gli altri
decidano a cosa giocare. Sarai tu a scegliere il gioco».
Laura…
per meglio dire Kristen… Lei aveva cercato di farmelo
capire, ci
aveva visto prima di tutti. Per quello era contraria alla mia idea di
nuova società. Avevo sottovalutato l'animo umano, un
sentimento
nello specifico; me ne sono reso conto parlando con Levi, un giorno,
riguardo ai limiti imposti e perché avessi tanta voglia di
sradicarli. Forse non è mai stato vero che non avessi paura
di
morire, ma tutto questo riguarda me solo in parte, riguarda
più lei,
Mark. Non mi sono accorto di lei. L'ho fatto quando era già
troppo
tardi.
Oggi
Il
viaggio di ritorno da Marsington a National City sembrò
più breve.
Dal momento che l'unico sospettato era Armek, lo avevano portato via
pur contro il parere dello sceriffo. Il padre fece appena in tempo a
essere scarcerato che lo incarcerarono di nuovo per aggressione a
pubblico ufficiale. Alex quanto Carina erano convinte che avrebbero
provato a fare ricorso, ma non importava. E se anche durante
l'interrogatorio non uscì nulla riguardo l'organizzazione,
come
sapevano, era indubbio che era stato Armek a sparare a John Jonzz e,
per il solo desiderio di averlo ancora tra le mani e fargliela pagare
un po', erano disposte a trattenerlo come possibile minaccia
terroristica.
«Era
la scientifica», Carina spense il monitor del cellulare,
adocchiando
Alex che guidava. «La polvere da sparo coincide con quella
sugli
abiti trovati nel suo portabiancheria. Nientepopodimeno, il luminol
ha rilevato tracce ematiche: ha cercato di lavarle»,
ridacchiò.
Alex
si sentì improvvisamente sollevata. «Hanno fatto
presto». Quanto
era accaduto al suo capo era orribile, ma avevano il responsabile,
ora.
«Sì,
beh, avevamo la priorità».
Lo
scortarono bendato alla base del D.A.O. passando per l'entrata sul
retro, osservati dagli agenti lungo il corridoio. Armek non smetteva
di parlare, zompettando, trascinato da un agente per braccio.
«Da
voi si fa sempre così? Non mi dispiace essere ammanettato
ogni
tanto, la benda è un tocco di classe».
«Portatelo
via», esclamò Alex con ribrezzo.
«Vedremo se, senza cena, avrà
ancora voglia di fare lo spiritoso».
«Quel
tipo è disgustoso», Carina Carvex la
affiancò. «Ti va se ci
fermiamo a bere qualcosa, prima di tornare a casa?».
Alex
sospirò, portandosi prima le braccia contro i fianchi e dopo
dando
un'occhiata all'orologio al polso. «Non posso, contavo di
tornare
qui per interrogarlo ancora».
Carina
la squadrò, rapida. «Ma come? Non torni a casa? Ce
l'abbiamo,
partner, non va da nessuna parte», la incitò,
«È il momento di
respirare un po'». Si allontanò tirando fuori un
lungo sorriso e
Alex la tenne d'occhio. «Dopotutto, Maggie
avrà qualcosa da dirti…»,
sussurrò per sé, uscendo dal corridoio.
Alex
diede uno sguardo al suo cellulare, trovando la chiamata persa della
compagna.
«Ehi,
torni a casa?».
Suo
padre la spaventò, non lo sentì arrivare.
«Sì... Sì, penso che
andrò a rilassarmi. Vieni a pranzo uno di questi giorni?
Quanto ti
trattieni?».
«Oh,
certo, mi farebbe piacere», sorrise lui, gonfiando il petto.
«Al
momento non ho una data precisa, aspetterò la candidatura
del
prossimo comandante».
Alex
deglutì. Il prossimo comandante… Dopotutto, anche
al suo
risveglio, quando e in che condizioni John avrebbe potuto seguirli?
«Si sa qualcosa?».
«Del
nome? Oh, delle voci…», abbassò lo
sguardo, facendo una smorfia
con la bocca, «Nulla… Nulla di
confermato», le sorrise, infine.
Sentirono schiamazzare ed entrambi seguirono il corridoio con lo
sguardo. «Ho sentito dire che è un gran
chiacchierone».
«Un
dongiovanni», rispose secca lei. «Un figlio di
papà a cui piace
alzare le mani sulle donne; non ha paura di restare dentro,
è sicuro
che troveranno il modo di rilasciarlo».
«E
tu cosa ne pensi? Lo troveranno?».
Alex
si passò una mano sulla fronte. «È
colpevole, ma non è stata
l'organizzazione. Se avessero voluto John morto non avrebbero mandato
lui e, di sicuro, ora sarebbe morto. Non fanno errori di questo
genere».
«Accidenti»,
passò anche lui la mano sul viso, «Sì,
ho sentito dell'agente NCPD
Faora Hui… Se non sono stati loro, dovremo riportarlo a
Marsington.
Non sarebbe più di nostra competenza».
Alex
sospirò. «Beh, meglio prima esserne sicuri,
no?», scambiò un
sorriso complice. «Ah», adocchiò il suo
cellulare, «il mio è
scarico e devo chiamare Maggie, posso farlo col tuo?».
Lui
abbassò lo sguardo. «Oh, è quello di
lavoro, non è-».
«Ah,
scusa, chiamo col-», si affrettò con un passo e
lui la fermò.
«No,
no, va bene. È solo una telefonata».
Sganciò il cellulare dal
cinturino e glielo passò senza remore. «Vado a
scambiare due parole
col nostro ospite, non trattenerti».
Alex
tenne il sorriso finché suo padre non fu più a
portata d'occhio,
poi sfogliò il registro delle sue chiamate, guardandosi in
giro. Non
c'era. La chiamata di Carina Carvex, da Marsington, non c'era. E non
avrebbe avuto senso cancellarla dal registro. Prese rumorosamente
fiato, dando un'occhiata indietro. Perché suo padre le aveva
mentito?
La
guerra in Vietnam se l'è portata via il mese di aprile. Lo
avrai
saputo, Mark? Sono contento di esserci stato, non so quanto tempo
ancora mi resta. Sono stanco.
È
finita, ma quanto si è perso? E quanto ancora di
ciò che è stato
resterà dentro e sulla pelle delle persone che lo hanno
vissuto e
nella terra, nell'odore del vento e del mare? Le guerre non si
fermano con un battito di ciglia; spesso restano per molto altro
tempo, come un fantasma.
È
vero che ci sono tante cose sbagliate in questo mondo, ma è
anche
vero che io sono una goccia in un oceano, che volevo cambiare il
mondo e dare voce a chi non l'aveva mai avuta, ma sono in grado di
fare molto poco, quando di cose giuste si tratta, e, con la mia
morte, nessuno si ricorderà di me.
Lena
era seduta all'entrata dello stesso chiosco in cui si erano viste
tutte insieme, all'Angel Children's Memorial. Leggeva un libro con
una lucetta apposita agganciata sopra le pagine, assorta, circondata
dalla fioca luce del lampione più vicino. Kara si
avvicinò
lentamente, sperando di non spaventarla. Chissà da quanto
tempo era
già lì. La vide portarsi una ciocca sfuggita alla
pinza dietro un
orecchio e, sganciando la lucetta, girare una pagina. Si era raccolta
i capelli in alto, doveva aver lasciato il cappello alla Luthor Corp.
Non avrebbe mai smesso di stupirsi per quanto fosse semplicemente
bella. Ma schiacciò una foglia, non c'erano più
bambini che
giocavano e gli uccellini erano molto meno propensi alla chiacchiera,
dunque si fece notare. Lena le sorrise, risistemandosi quella ciocca
dietro l'orecchio.
«Mi
aspetti da molto?». Le si sedette accanto e si scambiarono un
bacio.
«Io
ho una macchina, tu eri a piedi, sapevo che avrei aspettato. Non da
molto», si avvicinò ancora e le prese un altro
bacio, più lento,
guardandosi negli occhi come la luce permetteva loro di fare.
D'altronde, era sempre una bella sensazione quella di baciarsi
all'esterno senza la paura di essere riconosciute.
Kara
la vide rimettere in borsa il libro e tirare fuori dei fogli
fotocopiati e pinzati, mostrandole quelle storie di cui le aveva
sbrigatamene accennato. «E ne sei sicura?», chiese,
cominciando a
leggere qualche riga.
«Al
cento per cento. Posso parlare con queste persone, farle venire alla
Luthor Corp per via della mostra, e vedere se riesco a tirare fuori
qualcos'altro».
Kara
annuì, ripassandoglieli. «Ti
devo…», restò a bocca aperta e la
sentì sospirare, rimettendo le fotocopie in borsa e
spegnendo il
cellulare.
«Dunque.
Sa chi è?». La voce era seria, dura.
«Ha
detto che non ne fa più parte. Che il suo garante non fa
più parte
dell'organizzazione».
Lena
congiunse le mani, sospirando e chiudendo gli occhi, se le
passò
davanti al naso in segno di resa. «Avevi ragione: Indigo ci
nasconde
chi è. Ha sempre saputo chi è».
«Lo
sapevi anche tu, Lena, che ce lo nascondeva. Lo sapevi benissimo
quanto me».
«Va
bene», sospirò pesantemente lei, riaprendo gli
occhi. «Passando
oltre… Ne faceva parte? Non più?».
Kara
indugiò. «Credo che Indigo sia stata
minacciata».
Lena
sorrise. «La stai scusando?».
«No,
non la scuso… No!», aggrottò la fronte
e scosse la testa, «O-O…
forse. Credo sia alle strette», la guardò.
«È con noi, ma ha
paura e la paura…».
«Non
crede che potremo proteggerla», Lena abbassò gli
occhi. «Non
sforziamola. È senz'altro vero, non abbiamo il potere di
proteggere
nessuno e tutto questo… è davvero più
grande di noi».
«Non
ti stai arrendendo adesso, vero?», socchiuse gli occhi e
l'altra
abbozzò un sorriso, scuotendo la testa.
«Oh
cielo, no, è l'ultima cosa che voglio. Siamo arrivate fin
qui, Kara,
e lo abbiamo fatto insieme, e ora abbiamo chi ci aiuta… Solo
preferisco non sforzare qualcuno a collaborare, ora come ora, se non
vuole».
Kara
sapeva che Lena non aveva torto. Finora erano state fortunate, ma
della gente era morta e più avanti andavano, più
rischiavano tutto.
E poi, trattandosi di Indigo… «Non ce lo
dirà mai», Kara ne era
abbastanza sicura. «Ma abbiamo questo dettaglio importante,
possiamo
focalizzarci su questo: il garante era nell'organizzazione».
«Ora
non più», finì la frase Lena,
riflettendo. «Perché? Cosa
spingerebbe l'organizzazione a lasciar andare un suo membro?
Divergenze d'opinione?».
«Pensiamoci»,
Kara si era sgranchita le mani, tirando in avanti le braccia.
«Il
presidente decide, e vede tutto grazie ai gamma,
i segretari, come Charlie Kweskill. I beta
sono i membri più importanti dopo di lui, e i delta
sono quelli comuni. Infine gli omega,
quelli che eseguono gli ordini, gli ultimi della catena. Di che
categoria avrebbe potuto far parte? È furbo, e
intelligente».
«E
sa della morte di mio padre. È probabile che lo
conoscesse».
«Minaccia
Indigo e l'ha fatta uscire di prigione».
«Prigione
che è sotto il controllo di Zod, che è l'attuale
presidente»,
contrasse le sopracciglia, fissando un punto vuoto davanti a loro.
«Non ha senso, Kara… Se è stato buttato
fuori, perché
concedergli un favore rilasciando Indigo in modo da lavorare per lui?
Magari in quel periodo il carcere ancora non era sotto il totale
controllo dell'organizzazione, non sappiamo con precisione quando sia
iniziato, ma i tempi sono stretti…».
«No,
hai ragione. Di certo non era un omega…
né un delta.
Un beta
sbattuto fuori, o un vecchio segretario, un gamma,
con una certa importanza, tanto da tenere Zod in pugno?»,
fece una
smorfia, non convinta.
«No,
no», scosse la testa Lena. «Lui non sembra il tipo
da lasciare
qualcosa in sospeso. E ricordi Michaels, il commercialista
ufficialmente»,
scrollò le sopracciglia, «suicidato in carcere la
notte di
Halloween? E se fosse stata una persona scomoda? No, chiunque sia non
lo ricatta, o Zod se ne sarebbe occupato. Insomma»,
gesticolò,
aprendo una mano e contraendo lo sguardo, «lasciarlo andare
aspettando che un giorno possa minacciarti?».
«Sarebbe
andato ai voti per com'era stato per Faora Hui», la
guardò.
«È
stato lasciato andare perché voleva uscire, o è
stato cacciato?».
«Faora
non vedeva l'ora di essere una beta»,
mormorò di nuovo Kara. «Era ciò che
Rhea le aveva promesso se mi
avesse ucciso. In una società segreta in cui tutti sperano
di
scalare la piramide, lui è voluto uscire?».
Lena
annuì. «Era un beta,
è stato allontanato, ma non era e non è una
minaccia per
l'organizzazione. Sono rimasti in buoni rapporti. O quasi. Magari
hanno un qualche tipo di-».
«Accordo»,
aggiunse Kara.
«Sì,
o una specie di rispetto reciproco. E sappiamo che odia la mia
famiglia e che per questo vuole che io scopra una chissà
quale
verità su di loro… E se questa verità
riguardasse proprio
l'organizzazione?», la guardò di nuovo,
sorridendo. «Ci siamo
portate avanti, no?».
La
mia idea di nuova società era nata in un momento di
debolezza,
soffrivo la perdita tua e dei nostri amici, le uniche persone che
veramente stimavo. Sono stato incosciente, deliravo, ero un bambino
con quell'impulso interiore inespresso che mi stava soffocando
l'anima. Eppure, quell'impulso inespresso ha trovato terreno fertile
ed è cresciuto con me, che bambino non ero più.
Volevo tanto si
realizzasse, da non vederne la minaccia. Una manciata di persone come
può decidere sul bene e sul male senza essere ingoiati dal
potere?
Una persona già priva di risentimento verso il mondo ne
troverebbe
la difficoltà. E ciò che temo è l'aver
acceso una miccia in chi di
tempo ne ha tanto, e di rancore ne serba forse di più.
1975
Il
vento sbatteva con prepotenza sul vetro delle finestre. Aveva smesso
di piovere e il pastore aveva deciso di proseguire come da programma.
Lara
Luthor era davanti allo specchio tondo della toeletta nella sua
stanza da letto da un paio d'ore. Pennelli, matite, fard, un rossetto
vistoso sulle labbra, scuro. Si era tirata i capelli scuri in alto,
vaporosi. Una coroncina di pizzo nera le incorniciava la testa,
accordato al lungo abito nero che indossava; bellissimo, gli avrebbe
affidato il suo dolore. Aveva sceso le scale senza fretta, ascoltando
le voci dei presenti in salone. Era
un brav'uomo. Lascia una figlia così piccola. Come stava in
quest'ultimo periodo? Cosa faceva? Cosa raccontava? Riconosceva i
suoi cari? Soffriva?
Ipocriti,
aveva pensato. La metà di quella gente neanche sapeva che
suo
fratello lavorava con loro, che aveva pensato a loro, facendo
aggiungere qualche soldo in più in busta paga ai meritevoli.
Era
ignorato in vita e in quel momento facevano a gara a chi spendeva
più
parole misericordiose. Per lo storpio prima e il malato poi non c'era
che imbarazzo, per il morto solo ovazioni.
«Lara».
Si
era girata, aspettando l'abbraccio di Petra Taylor.
«Le
nostre condoglianze», l'aveva stretta a sé la
ragazza. «Louie era
una perla luminosa, in questo mondo».
Anche
Adrian Zod l'aveva abbracciata, più impacciato.
«Stavamo cercando
Laura e vostra madre, ma non-».
«Sono
con il pastore, adesso. Stanno rivedendo alcuni dettagli per il
funerale», aveva risposto Lara, trattenendo le lacrime.
I
due avevano annuito e pacatamente sorriso, poi si erano allontanati,
trovando Levi.
Lorna,
otto anni e un abitino nero alle ginocchia, era seduta su uno
sgabellino spalle al muro, vicino a Lionel, tredicenne e in completo
nero, che in piedi e sguardo triste si perdeva incantato
nell'osservare la gente che passava loro davanti. Lara li aveva visti
prendersi per mano, a un certo punto, senza guardarsi.
Non
era stata una lunga cerimonia. Il sermone aveva soddisfatto la
famiglia e, tra pianti sommessi e quello disperato della signora
Luthor che avevano dovuto portare via prima che si sentisse male, il
tempo era trascorso in fretta, nell'aria gelida che punzecchiava la
pelle come spilli, in quel nuvoloso pomeriggio di metà
novembre.
«Mio
fratello era come il sole, per noi», Levi aveva preso il
posto del
pastore, spendendo qualche parola. «E ora che è
andato via, guardo
il cielo e sembra che il sole non tornerà mai
più», si era
fermato, deglutendo, gli occhi lucidi. «Chi lo ha conosciuto,
sa
quanto lui abbia fatto per noi e per la famiglia, per l'azienda.
Quanto tenesse alle cause sociali, dedicando anima e corpo a chi ne
aveva più bisogno. Era speciale. Odiava le ingiustizie e
fremeva
sempre per fare di più», aveva scambiato uno
sguardo con Laura, che
teneva abbracciata la figlia Lorna. «Lui… pregava
sempre affinché
tutti facessimo di più».
Ognuno
di loro era passato davanti alla buca e aveva gettato un po' di
terra, dare l'ultimo saluto, e un bacio alla foto che lo ritraeva a
qualche mese prima, in un sorriso. Era stato seppellito accanto al
padre e al loro fratellino perduto a soli sei mesi in un novembre
come quello; Lara e Levi avevano sempre ricordato il giorno in cui il
piccolo era morto come fosse ieri e, con quel lutto stampato a fuoco
in special modo nel cuore della loro madre, la nascita di Louie,
sette anni dopo, era stato il regalo inatteso più bello.
Poco
più tardi si erano ritrovati a villa Luthor per la cerimonia
e,
mentre Levi faceva accomodare Dru Zod e Petra Taylor su un divano,
andava a prendere da bere.
«Perché
hai detto quelle cose?».
Lara
lo aveva sorpreso che prendeva una bottiglia e dei bicchieri,
allontanando il domestico che si era offerto. Lui aveva sospirato.
«Di quali cose parliamo? Senza un contesto al
quale-».
«Non
fare di spirito con me». Lo aveva visto indurire le labbra e
zittirsi. «Sapevi a cosa mi stavo riferendo. Tu non hai
creduto
nella battaglia che portava avanti nostro fratello, mai. Lo hai
sempre osteggiato e davanti a tutti ne hai parlato come se ne fossi
orgoglioso».
«Ne
sono orgoglioso».
«Fandonie»,
aveva sbottato e, rendendosi conto che qualcuno avrebbe potuto
vederla, aveva abbassato la voce, respirando e riprendendo la calma.
«Ciò che voglio dire, è che non hai mai
dimostrato questo orgoglio
di cui parli quando lui era qui con noi. Nostro fratello parlava di
ingiustizie e di un mondo migliore, ma tu non facevi che deriderlo.
Non sei diverso dalle persone presenti», si era guardata
intorno,
abbassando gli occhi. «Hai detto quelle cose solo per
sentirti un
fratello migliore».
Levi
aveva deglutito, lasciato i bicchieri e rimesso la bottiglia nel
secchiello del ghiaccio. Ci aveva pensato a lungo, prima di parlare.
«Tu non hai… fatto le stesse cose,
sorella?».
«Lo
hai detto veramente?», si era tirata indietro, sentendosi
ferita.
«Lo hai fatto? Io gli sono stata vicino in questi momenti
difficili,
quando tu dicevi di non aver tempo».
«Lavoravo».
«Anche
io, Levi. Ogni giorno», lo aveva guardato negli occhi,
passandosi
una mano sulla fronte.
«Cosa
vuoi che faccia?», aveva leggermente sollevato le spalle e
rizzato
le orecchie per ascoltare le voci in sala che, a bassa voce,
parlavano di Louie. «Volevo bene a nostro fratello, Lara. Non
ho mai
saputo…», si era fermato, prendendo fiato,
«dimostrarglielo. Ma
avrei fatto di tutto per lui».
Lei
gli aveva passato una mano sul viso e lui per un attimo aveva chiuso
gli occhi. «Dimostraglielo ora. Avvera il suo sogno, rendi
lui
orgoglioso. Io sarò al tuo fianco», aveva sorriso
mestamente e si
erano guardati negli occhi.
La
sala si era svuotata poco a poco e la signora Luthor era andata a
letto, aiutata da Lara; si era addormentata tra le lacrime,
sconfitta.
Levi
aveva gettato di nuovo da bere nei bicchieri di Adrian Zod e Petra
Taylor, sul tavolino davanti al divano su cui erano seduti, e sia
loro, quanto Lara, distante per riposare la mente, lo avevano
guardato con stupore.
«Veramente
dobbiamo andare», Zod si era scusato. «Abbiamo
lasciato un orario
alla famiglia di Petra e-».
«Devo
farvi una proposta», aveva aggrottato la fronte Levi,
interrompendolo.
Lara
lo aveva fissato; avrebbe voluto dire qualcosa, ma non si sarebbe mai
permessa di fronte a loro: non quando un uomo parlava, in special
modo il capofamiglia, come le avevano insegnato.
«Louie
vedeva un mondo diverso, a volte. Si perdeva in quelle che,
scioccamente, ritenevo fantasie», si era disposto davanti a
una
finestra, intrecciando le dita delle mani dietro la schiena. Il vento
era ancor più forte del pomeriggio e aveva ripreso a
piovere. «Ha
voluto far costruire l'Angel Children's Memorial per non dimenticare
dei ragazzi sfortunati, sfortunati come lui. Era testardo, tra gli
altri pregi. Una volta aveva esposto un'idea che avrebbe cambiato
questa città e tutti noi», si era girato per
guardarli un attimo,
compresa sua sorella, che aveva annuito. «Un'idea che ci
porterebbe
a costruire qualcosa di grande. Per lui vorrei realizzare quell'idea.
In sua memoria vederla fiorire e aiutare quelle persone che, senza il
nostro intervento, sarebbero perdute».
Petra
e Zod si erano scambiati uno sguardo e, dopo aver bevuto, avevano
lasciato i bicchieri sul tavolino.
«Emh,
ma…», la ragazza si era schiarita la gola,
«come, intende con del
volontariato?». Sapeva già che non si stava
riferendo affatto a del
volontariato e il giovane al suo fianco si era fatto avanti:
«In
cosa consisterebbe, con esattezza?», aveva aggrottato la
fronte.
Levi
aveva sospirato. «Una nuova società all'interno
della società
attuale. Nascosta, infiltrata, per cambiare le cose che non
funzionano dal suo interno».
In
qualche modo, quell'attimo era parso sospeso ai presenti,
più lungo,
lento, forse per dare a tutti il tempo di capire meglio a cosa si
riferiva Levi Luthor, dove solo il vento e la pioggia si erano fatti
sentire, rendendo quella villa enorme e vuota, e fredda, come mai
prima.
Zod
aveva preso coraggio, poi, interrompendo il silenzio.
«Sarebbe-».
«Sì»,
aveva risposto prontamente Levi, «contro ogni legge del
nostro
ordinamento. Agiremo fuori della legge, sopra della legge, ci
sostituiremo alla legge. Perché la legge non fa abbastanza e
Louie
lo sapeva, per questo ci aveva pensato prima di tutti», aveva
alzato
appena la voce, chiudendo gli occhi lucidi e passando una mano per
nascondere le lacrime. «Ho pensato a voi perché di
voi mi fido, ma
capirò se non vorrete averci a che fare».
Loro
si erano scambiati un altro sguardo, parlandosi con gli occhi.
«Dunque… potremo aiutare le persone che hanno
bisogno, giusto? Che
hanno davvero
bisogno?». Petra ci aveva creduto fin da subito e, sorridendo
con
speranza al suo ragazzo, aveva contagiato anche lui.
Sono
sempre stato contrario alle armi, Mark, ma sai perché non mi
sono
mai imposto perché la fabbrica smettesse di produrne?
Perché anche
io, creando quella società, sarei caduto nel baratro. Volevo
essere
un hippy e mi sono svegliato un Luthor, un degno figlio di mio padre.
Non mi credo migliore. Quella società è un'arma
che non dovrebbe
vedere la luce, ma la vedrà. La vedrà
perché sono stato un ingenuo
e sarà la mia colpa più grande.
Oggi
Kara
tornò in piazza dall'auto con una giacca tra le braccia,
Lena
l'aveva mandata a prenderla e se la infilò con un sorriso,
fregandosi le braccia infreddolite. «Meglio?».
«Sì,
grazie», annuì, ma il suo sorriso tornò
a spegnersi a breve e
l'altra la affiancò, sul gradino.
Non
avrebbe voluto chiederglielo, ma quello era il momento giusto, non
poteva trascinarselo ancora e-
«Quando
sputerai il rospo?».
Ah,
beccata!
Kara arrossì, colta in flagrante.
«Cosa?».
«C'è
una cosa che vuoi chiedermi da quando ti dissi che avremo dovuto
convincere Indigo che le siamo rimaste solo noi», la
guardò,
forzando un sorriso. «Come se non ti si leggesse in faccia
che vuoi
dirmi qualcosa. Non trattenerti, non ce n'è motivo.
Parla».
«I-Indigo…»,
sussurrò il nome, «a-anche prima… Tu
non ti arrabbi mai con lei».
«Non
è vero che non mi arrabbio con lei».
Kara
deglutì, fregando le mani una con l'altra, si
fermò all'improvviso.
«È perché ti
senti…», scosse piano la testa, non trovando le
parole, guardandola negli occhi, «senti di assomigliarle,
Lena?».
Strinse
le labbra, restando immobile. «Mi ricorda me»,
confessò e sospirò,
«Può darsi che sia più…
indulgente». Abbassò lo sguardo.
«Perché Indigo mi ricorda me. Mi rivedo in lei, a
volte. Dunque…
sì».
«Scusami
se avevo pensato-».
«Cosa?
La verità? Potevi chiederlo e basta invece di trascinartelo
dietro.
Perché avevi paura di farlo?»,
assottigliò gli occhi. «È vero.
Penso di capirla meglio di chiunque altro. Ero sola anch'io, e
cercavo un modo per non crollare. Lei non ha il mio stesso carattere,
ma si chiude e so come ci si sente. Ha perso la madre, il fratello
è
morto, il padre non l'ha cercata quando è uscito di prigione
e… è
terribile», indurì la voce. «Questo non
la esonera dal fare
qualcosa di sbagliato, ma è difficile cambiare abitudini
quando hai
avuto determinati pensieri e comportamenti per tanto tempo come lei.
All'inizio non è stato facile per me aprirmi sulla questione
di mio
padre. Pensavo sarebbe stato meglio fare tutto da sola, e non solo
per sicurezza», contrasse lo sguardo, «Pensavo
davvero che avrei
dovuto portare quel peso sulle mie sole spalle
perché… era così
che doveva andare», si morse un labbro. «So che
dovrei smetterla di
paragonare la sua e la mia esperienza, ma…».
Kara
l'abbracciò e Lena prese fiato, intanto che lei le stampava
un bacio
sui capelli.
«Sei
di nuovo gelosa di lei?».
«Nah,
pff», le lasciò un altro bacio.
«È da un pezzo che ho smesso di
essere gelosa di Indigo».
«Ah,
sì? È perché una volta mi avevi detto
di pensare di capirmi e
invece io mi ritengo più simile a
lei…».
«Non
sono gelosa, ho detto. Tu sei mia». Accennò una
risata quando
scorse l'altra muovere la testa per mettersi a guardarla con un
sopracciglio alzato. «Ho superato di nuovo il limite del
concesso?».
«Era
una linea…».
«Oh,
perdonami, una linea…».
«Linea
del concesso,
esatto. Ti tengo d'occhio, Kara Danvers».
Per
tutta risposta, Kara le mostrò la linguaccia. «Ti
ricordo che mi
devi ancora qualsiasi
cosa
io vorrò. Ho una carta da giocare».
«Ah.
Te lo sei ricordata».
«Pensavi
davvero che me lo sarei…? Pff»,
le fece una smorfia, «Una cosa così importante,
poi…».
«Così
importante…».
«Potrei
anche chiederti di eliminare la linea del concesso. Ecco».
«Sicura
di volerla sprecare così? Hai solo quella carta: ti ho
promesso
qualsiasi cosa vorrai e quando vorrai ma vale una sola volta. Vedi
tu».
Kara
la strinse a sé più forte, sorridendo.
«Non lo dimenticherò», le
sussurrò col fiato caldo sul collo, lasciando che si
abbandonasse su
di lei con la schiena. «Comunque non lo pensavo
perché ero gelosa,
ma perché ero preoccupata per te. Il fatto di sentirti
simile a
lei…».
«Una
volta, ora è diverso, l'ho spiegato. Era prima di conoscere
te»,
bisbigliò e l'altra tirò un breve sospiro di
sollievo.
«Allora
va meglio».
«Io
ho avuto la mia possibilità, vorrei solo che lei avesse la
sua. Oh,
Maggie!»,
si ricordò d'improvviso e per poco non colpì il
mento di Kara
poggiato sulla sua testa, «Dobbiamo avvertire
Maggie». Riguardò
l'orologio al polso, allungandosi per riaccendere il suo cellulare.
Che sciocca, come aveva fatto quasi a scordarsene? «Spero non
sia
ancora impegnata con quel Kweskill».
«Cosa
succede?».
«Zod
la vuole come sua erede nell'organizzazione».
«Lui
vuole cosa?»,
si accigliò.
Strinse
l'apparecchio e, come Maggie Sawyer ascoltava, le disse della
scoperta di Leslie Willis. Certo era che non si aspettava quella
risposta:
«Lo
so».
Voce leggera, quasi un sussurro; la mano di Maggie che teneva il
cellulare tremava un po', come fosse stato pesante. Così
guardò
Alex, vicina. Anche lei pareva avere lo stesso suo sguardo smarrito.
Ringraziò Lena e il cellulare le scivolò,
mettendolo via,
aspettando gli occhi magnetici della compagna che si avvicinavano.
Aprì la bocca e chiusero gli occhi entrambe, cogliendosi in
un bacio
appassionato. Maggie le circondò il collo con le braccia e
Alex la
strinse forte a sé con tanto impeto da farle appoggiare al
muro la
schiena. Inspirarono, senza lasciarsi.
Era
quasi assurdo, probabilmente. La confessione pericolosa di Maggie,
l'ammettere di essere confusa e di volerci pensare, la preoccupazione
di Alex e l'incertezza del futuro, le avevano rese così tese
e incredibilmente vicine che aveva riacceso l'impulso di esserci una
per l'altra come non era mai stato; una forza affinché
permettesse
loro di trovarsi quando tutto il loro mondo sembrava sgretolarsi
davanti ai loro occhi. John in coma, Jeremiah Danvers che aveva
mentito, l'eredità di Zod come presidente, il bene che
poteva fare
l'organizzazione in bilancia col male, l'amicizia con Kweskill, i
membri dell'organizzazione infiltrati nel D.A.O., la sensazione
pesante di una responsabilità a cui non potevano sottrarsi.
Era
quella la loro vita, adesso. E quella situazione non sarebbe cambiata
presto, avrebbero dovuto imparare a respirarci dentro, a conviverci,
ad andare avanti un passo alla volta. Avrebbero imparato a farlo, o
sarebbero cadute a pezzi con ciò che restava.
Non
ho conosciuto una vita al di fuori della mia condizione. Sono nato
malato, sono cresciuto malato e morirò malato. Mi prendevo
in giro,
sopravvivevo così. Vedevo i bambini correre e volevo farlo
anche io,
sono caduto ma, al posto loro, non mi sono mai rialzato senza aiuto.
Non mi sono mai sentito una persona a metà fino a quando non
ho
capito cosa voleva esprimere la gente quando mi guardava. Ho
accettato la mia situazione molto presto, ma cosa altro potevo fare,
Mark? Un incidente ti aveva portato via l'uso delle gambe, conoscevi
lo sbattere del vento addosso quando correvi e io, invece, ho
imparato a immaginarlo. Ricordi, caro Mark, che sono un abile
osservatore? Perché ho imparato a toccare con la vista dove
non
arrivo a farlo con il tatto. Sono cresciuto accorto, lo credevo,
avevo ignorato che quanto più sviluppavo la mia malattia
interna,
quella nella testa di cui mi vergognavo e che mi hai scoperto in
bagno, quel giorno lontano, alimentavo quel sentimento umano di cui
scrivevo righe fa: la repressione.
1979
Levi
Luthor si era grattato la barba ispida che, da tempo a quella parte,
aveva iniziato a ingrigirsi al lati. Stava controllando un registro
con attenzione, seguendo con un dito le varie righe. Ormai erano
pronti, non mancava più nulla e, vicino a un'aiuola
lì all'Angel
Children's Memorial, aveva adocchiato sua sorella che parlottava a
Rhea Taylor. Da parte e da sole, come se nessuno avesse potuto
mettersi in mezzo. Aveva preso un bel respiro e chiuso il registro,
avvertendo un uomo, toccandogli una spalla, che era tutto pronto.
«Dru». Lo aveva cercato e raggiunto subito.
Lui
era sobbalzato, seduto su una panchina. Anche il giovane guardava in
loro direzione, o meglio non toglieva occhio di dosso alla
quindicenne Rhea. «Guardala… così
elegante con quel vestito
buono, nuovo e pulito, la fa sembrare più grande. La fa
sembrare
tranquilla, come se non avesse nulla… da
nascondere», aveva
sibilato a denti stretti, «di cui pentirsi».
Levi
aveva lanciato loro un'occhiata a sua volta, breve. «Non
è stata
lei, Dru».
«L'ha
uccisa».
«Non
è stata lei, devi uscire da questo pensiero vizioso, ti
distrae».
Non era la prima volta che Levi Luthor glielo diceva. La morte di
Petra era stata una tragedia, ma Dru Zod non riusciva a superarla,
né
era sua intenzione volerlo. Erano passati solo due mesi, come
biasimarlo.
«È
stata lei, glielo leggo in faccia».
«No.
No, amico mio, non è così», si era
seduto accanto a lui. «Vorrei
quanto te additare un colpevole per quanto è successo, ma
non sempre
ne abbiamo uno».
Zod
si era passato le mani sul volto, piegandosi in avanti. Era rotto.
Più ci pensava, più gli mancava il fiato.
«E se è stata lei? Se è
stata davvero lei a spingerla e a farla cadere da quelle scale
maledette?», lo aveva guardato, «Se la polizia si
sta sbagliando,
se…?».
«Sono
tanti se».
«Se
riuscirà a farla franca e noi…», la sua
voce si era indurita,
«noi, oggi, la inizieremo nella nostra organizzazione, dove
potrà
essere protetta, è come se la aiutassimo. È
quanto di più
paradossale possa venirmi in mente, in questo momento».
Levi
gli aveva appoggiato una mano sulla spalla destra.
«Perché non
prendi un bel respiro e ti allontani un po', in questi giorni, va
bene? Potrai lavorare all'organizzazione dovunque vorrai. Ti prendi
del tempo per te, ti lasci Rhea alle spalle, cerchi
di…», si era
fermato: neanche lui avrebbe avuto tanto fegato da dirgli che avrebbe
dovuto ricominciare a vivere senza di lei. «Non lo so. Vai
dove ti
va di andare, fai cosa ti va di fare».
Dru
aveva debolmente annuito, passandosi di nuovo le mani sul volto. Poi
si era alzato dalla panchina, andando a camminare un po'.
A
tre quarti d'ora da quella conversazione, nella piazza che era stata
chiusa al pubblico per l'occasione, era nata ufficialmente
l'organizzazione. Si erano stabiliti i vari incarichi, si erano
iniziati i novizi delta e i novizi beta, tra cui un diciassettenne
Lionel e Rhea che prendeva il posto della sorella maggiore scomparsa.
Si era dato il via a un progetto che aveva messo le radici quattro
anni prima, con la morte di Louie. Sia Zod che Levi avevano impresso
nella mente la reazione grata e appagata di Rhea Taylor che cercava
di coinvolgere il suo ragazzo, un certo Gand, novizio delta.
Era
l'inizio. Forse non della loro storia, ma lo era di tanti altri che
sarebbero venuti dopo.
Da
cos'è nata quell'idea di società segreta
all'interno della società?
Da cosa quella voglia di sradicare i limiti imposti ad ogni costo?
Sì, Mark, non era più solo una questione di voler
dare voce a chi
non l'aveva mai avuta, volevo averla io, e volevo averla con la
forza, se necessario: una voglia di rivalsa figlia della repressione
su me stesso.
Ahimè,
sono ancora convinto che io abbia fallito nei miei obiettivi nei
riguardi di me stesso ma solo in parte; l'ho fatto totalmente,
invece, nei suoi.
Oggi
«Megan
è tornata all'ospedale, passerà lì la
notte. Sapevi che ha
conosciuto la ex moglie di John, oggi?», rientrarono in
macchina e
Kara mise via il cellulare. «È passata in piazza
questo pomeriggio
sul tardi e mi ha raccontato qualcosa, aveva portato Nana a
passeggio, ma non ci siamo trattenute molto, io e Indigo ce ne
stavamo già andando».
«Come
sta?». Lena accese l'auto e i display si illuminarono in
simultanea.
«Beh…
bene, se di bene si può parlare. John è fuori
pericolo, aspetta
solo che si risvegli».
Lena
portò le mani sul volante e si fermò,
raccogliendo fiato.
«Ehi…
tutto bene?».
«Sì…
Sì, è che sto pensando. Oggi abbiamo avuto una
giornata
particolarmente piena. E devo ancora metabolizzare il fatto che la
mia famiglia ha fondato l'organizzazione, che mio nonno paterno ha
dato il via a tutto questo».
Kara
la scrutò alzando la mano sinistra per raggiungere la sua
destra,
tenuta sul volante, e accarezzargliela. Capiva come doveva sentirsi
quando pensava a sua zia Astra. Louie Luthor, Levi Luthor, il
capofamiglia… Gli occhi di Kara si spalancarono, ricordando
improvvisamente qualcosa che si era dimenticata di dirle:
«Lena,
ascolta… Hai detto che mia zia ti ha raccontato di quando ha
visto
te e tuo padre e lui voleva riconoscerti, giusto? Il capofamiglia
Luthor voleva che facessi parte della famiglia ma non voleva che ti
riconoscesse». Lei annuì appena, aggrottando lo
sguardo. «Ma hai
detto che tuo nonno è morto quando Lex aveva nove anni! Tu
dovevi
essere appena nata, ma-», aveva scosso la testa e Lena emise
mezzo
sorriso, capendo.
«Non
era lui il capofamiglia… o non più. Avevo due
anni, tua zia disse
che avevo sui due anni, due anni e mezzo. Mio nonno Levi è
morto
nell'anno in cui sono nata, non mi ha mai conosciuto».
«E
non aveva lasciato le redini di famiglia a tuo padre».
Lena
si passò una mano sulla fronte. «Come ho fatto a
non pensarci? Ho
dato per scontato… Chi era, allora, il
capofamiglia?», si
accigliò, guardando Kara.
Nei
suoi, Mark. Sono stato egoista, ho trasmesso a lei e a Levi la mia
voglia di rivalsa, ma se con il secondo è più
difficile che
attecchisca, con lei, che quanto me combatte con la repressione
esercitata dagli altri e da se stessa, è stata come una tela
bianca.
Voglio un bene immenso a mia sorella Lara, ma riconosco in lei degli
aspetti che mi fanno paura, ora: odia le persone, Mark. Dal
più
profondo del suo essere. È disillusa e più si
annienta come le
hanno insegnato ad annientarsi, e più quel sentimento di
rancore
accresce. Non si dà una singola opportunità al di
fuori del suo
spazio sicuro perché l'hanno convinta di non doverne avere,
ma
attacca usando Levi come il suo corpo al di fuori del suo spazio
sicuro. Non riuscivo a vederla, prima. Ho chiesto a Levi di
prendersene cura, ma ho paura stia accadendo il contrario e io non ho
più tempo né la forza.
Cosa
accadrà se anche Levi non sarà più al
suo fianco? Cosa accadrà se
Lara si renderà conto che, in fondo, non ha davvero bisogno
di lui?
Un
urlo straziante risuonò tra le spaziose mura della villa
Luthor in
campagna. Una donna mise in pausa il programma che guardava in
televisione e corse al piano superiore con foga, saltando gli scalini
due a due. Appena mise piede in una larga stanza spalancando la porta
prima solo socchiusa, vide la signora Lara Luthor seduta sul letto e
con una mano stretta sul cuore, spaventata, aveva rovesciato il
copriletto e il plaid quasi completamente ai suoi piedi. «Zia
Lara,
hai fatto un brutto sogno?». Era stata lei a volersi far
chiamare
così, zia,
e dal giorno che l'avevano scelta come sua badante non aveva mai
smesso di usarlo. La signora la guardò con gli occhi azzurri
e
grandi, e spiritati; la bocca fine e rosata le tremava. Corse da lei,
spostando lo sgabellino di quella toeletta antica, sempre in mezzo.
«È
caduta», disse, e la badante la scrutò curiosa,
prendendo a
sistemarle il letto. «Devi andare a guardare, corri,
perché è
caduta, l'ho sentita», le gridò a quel punto.
Stava per mettere un
piede fuori dal letto che l'altra la fermò.
«Chi
è caduta, zia Lara?».
«Corri!
Vai a vedere nelle scale, si è fatta male», il suo
volto rugoso si
increspò maggiormente, disperata. «Devi andare! Mi
dispiace così
tanto».
Lei
sorrise mestamente. «Vado a controllare, zia Lara, okay? Tu
resta a
letto».
La
donna uscì dalla stanza per affacciarsi sulle scale e la
minuta zia
Lara si portò le mani sul volto, tirando in basso gli occhi
pregni
di lacrime. «Mi dispiace così tanto! Mi dispiace
così tanto».
1979
Dru
Zod sarebbe presto passato a prenderla e Petra si era preparata.
«Petra,
ti prego! Non puoi cambiare idea, non puoi farmi questo».
Rhea era
nella sua stanza con lei, frignava, ma non l'avrebbe smossa dalla sua
decisione.
Quando
quattro anni prima lei, Dru e Levi Luthor, con la supervisione di
Lara Luthor, la quarta fondatrice, avevano messo in moto il progetto
che avrebbe dato luce all'organizzazione era stata entusiasta di
ciò
che avrebbe significato per loro e per la città, qualcosa
era
cambiato lentamente però, nel profondo, la stessa che
l'aveva
convinta a lasciare l'incarico in azienda con la scusa che presto
sarebbe andata in moglie a Dru. Non avrebbe lasciato
quell'organizzazione perché avrebbe potuto migliorare
ciò che non
andava solo stando a contatto con loro ma, per il resto, era decisa a
volere una vita privata distante alla famiglia Luthor e da quello che
stavano diventando. Non le piacevano i toni che spesso doveva sentire
e si respiravano con loro, come trattavano le persone, senza contare
quelle che, era sicura, Levi doveva aver minacciato per rendere
più
ampia la rete di contatti. Non avrebbe lasciato che la sua sorellina
di quindici anni ci finisse nel mezzo: era decisa a disintossicarla
da loro e in special modo da quella donna, Lara Luthor.
Era
uscita dalla camera e Rhea e i suoi piagnistei le avevano fatto da
ombra.
«È
stato lui, ammettilo! Dru ti ha fatto cambiare idea sulla mia
iniziazione».
Petra
si era voltata verso la minore, arrivando a sbottare: «Non ci
provare! Non sono io quella che viene manipolata, Rhea».
Lei
aveva stretto le labbra, facendole segno di tacere, di abbassare al
voce.
«Non
mi interessa se si sente», aveva ripreso a camminare per il
corridoio, con l'altra appresso.
«Ti
prego, Petra! Non puoi abbandonarmi così».
«Io
non ti abbandono, Rhea! Vado a vivere con lui, ma tu resti la mia
sorellina», si era avvicinata ma, quando lei era tornata
indietro
con odio, si era bloccata sui suoi passi. «Non puoi fare in
questo
modo, tu credi di conoscere quelle persone, ma non è
così».
Che
giornata infausta. Niente avrebbe potuto prevederlo.
«E
adesso basta: solo io posso iniziarti e non intendo farlo».
Non
era vero. Rhea aveva aggrottato la fronte. «Non solo tu puoi
farlo».
L'aveva
spinta e, in un attimo, Petra aveva perso l'equilibrio. Era successo
tutto molto velocemente. C'era stato un rumore sordo e Rhea era
rimasta immobile. Il tempo aveva smesso di correre, l'aria di
muoversi, il cuore di battere, fino all'urlo di Rhea e la sua corsa
frenetica per le scale.
Al
piano inferiore, la porta a destra delle scale si era aperta e la
donna, con occhi spalancati e fiato corto, aveva camminato con
lentezza fino a Petra sul pavimento. Era caduta. Era caduta.
Era…
morta? Aveva visto Rhea toccarla, in lacrime, come avrebbe toccato un
cucciolo investito in mezzo alla strada, e poi si era guardata le
mani, colpevole. Lei aveva guardato e riguardato quella scena come
una spettatrice per quello che le era sembrato un tempo lunghissimo,
indefinito, senza tempo né spazio, senza uscita. Ma doveva
uscire,
doveva rimboccarsi le maniche e pensare lucidamente al da farsi, al
risolvere quella situazione. Si era portata le mani sui capelli neri
e se li era tirati indietro, cercando di riprendere possesso di
sé,
con una grande boccata d'aria. «Rhea», l'aveva
chiamata. «Rhea»,
ci aveva riprovato ma lei sembrava non sentire. «Rhea! Vieni
qui e
subito. Muoviti».
La
ragazzina aveva spalancato gli occhi pieni di lacrime, alzandosi per
raggiungere la donna, riguardandosi le mani. «Non l'ho fatto
apposta, no-non l'ho fatto apposta, è-è caduta,
i-io volevo solo- È
mo- no!,
i-io- Ti prego, no- Non voglio-».
«Stammi
a sentire e prendi fiato», le aveva stretto le spalle,
assicurandosi
di essere guardata negli occhi. «Lei respira?».
La
ragazzina aveva scosso la testa in modo frenetico, tremava, con la
tachicardia; così stava per dire qualcosa ancora che la
donna
l'aveva fermata con la voce sulla sua:
«Arriverà
la polizia».
«No»,
la quindicenne aveva scosso di nuovo la testa.
«La
chiamerai tu», aveva annuito. «Sei una bambina,
Rhea, non ti
succederà niente».
«Non
sono una bambina, no-non mi crederà nessuno».
«Smettila
di lamentarti e stammi a sentire: crederanno che tu lo sia! Che tu
sia ancora piccola, come se non capissi abbastanza. È
così che
funziona. Sai
che è così che funziona. E sarai scioccata, e
confusa. Non dire mai
di averla spinta, non sai cos'è successo, farnetica,
contraddiciti!
Ti giudicheranno inaffidabile, nessuno ti condannerebbe», le
aveva
accarezzato la tempia. «Petra è caduta da sola,
ragazza mia, lo sai
anche tu. È stato un incidente».
«Un…
Un incidente».
«Un
incidente», Lara aveva ripetuto ancora dopo di lei,
«Un terribile,
terribile incidente».
Che
giornata infausta. Niente avrebbe potuto prevederlo.
Levi
si era tirato i capelli dietro la testa, continuando a camminare in
cerchio da interi minuti. «È morta…
I-Io… È morta…». Non
smetteva di ripeterlo, borbottando. Lara lo aveva guardato da un
angolo del salone, con le braccia a conserte e la testa china.
«E
ora… Ora cosa facciamo? È morta… Non
ci voglio credere, lei…
Lei no… Perché è successo
questo?!». Quasi aveva faticato a
respirare, tenendosi il petto. «Come possiamo andare avanti e
fingere che non sia successo?!».
«Non
possiamo».
«Non
possiamo, no… Ma Dru… Oh mio Dio, stavano per
convolare a nozze»,
aveva stretto i denti. «La nostra organizzazione…
Lei era
fondamentale per-».
«Cominci
ad esagerare», Lara lo aveva interrotto e lui l'aveva fissata
con
occhi lucidi e sgranati. «Abbiamo tutto ciò che ci
serve, Petra non
era fondamentale in nessuno degli aspetti che riguarda
l'organizzazione».
Lui
aveva trattenuto il fiato, osservando lo sguardo della sorella che si
posava continuamente da un'altra parte, stringeva le dita contro la
camicetta, era nervosa, era… «Sei stata
tu…», aveva sibilato e
lei, finalmente, lo aveva fissato. «Petra non voleva iniziare
Rhea,
ma lei è la tua protetta, giusto? Gliel'hai messa contro,
hai fatto
di tutto per-».
«Non
pensare di parlarmi in questo modo», lei si era tirata in
avanti,
aggrottando lo sguardo. «Io non ho toccato quella
ragazza».
«Tu
no, hai lasciato che lo facesse Rhea. Le sei entrata nella testa! Non
è stato un incidente; sono anni, da quando abbiamo
cominciato, che
la riempi di idee affinché entri nell'organizza-».
«Non
ci provare».
«È
una quindicenne, Lara! L'hai spinta a uccidere-», si era
fermato
quando lei gli aveva dato uno schiaffo. L'aveva guardata e deglutito.
«Ti
sei calmato, adesso?», lo aveva scrutato intensamente negli
occhi.
«Non ho spinto Rhea a uccidere la sorella. Dispiace molto
anche a
me. Non avrei mai voluto andasse in questo modo», aveva
detto,
parlando piano. «È stato un incidente. E Rhea non
ha nessuno a
parte me che crede in lei, adesso, dunque ti prego di non
dire… non
dire queste cose brutte», aveva scosso la testa, piegando le
labbra
in una smorfia triste.
«È
la tua erede».
«Come,
scusa?».
«La
tua erede; hai scelto qualcuno per sostituirti, vuoi che salga come
presidente dopo di me», aveva mormorato. «I
fondatori possono
iniziare chiunque… anche Rhea».
«Erede»,
lei aveva sorriso, tamponando un occhio per asciugare una lacrima.
«Non avevamo mai pensato a questo aspetto per
l'organizzazione,
vero? È ciò che manca, per assicurare un futuro.
Rhea sarebbe
perfetta per quell'incarico».
Lui
aveva scosso la testa, tirandosi indietro. «Oh,
Lara… Dopo di me,
Lionel sarà presidente».
La
sorella aveva fatto una smorfia, contrariata. «Tu stesso non
fai che
ripetere come Lionel non sia adatto, non mentirmi. Dici sempre che
troverai una donna che possa sopperire alla sua mancanza».
«E
l'avrà».
«Una
donna…», aveva sussurrato lei, chiudendo gli occhi
e prendendo
fiato, sorridendo. «Non è ironico? È
sempre una donna…».
Ho
sbagliato tutto, Mark. Sto morendo e questo è ciò
che avrò
lasciato al mondo dopo che me ne sarò andato. La mia unica
consolazione a questo punto è rivedere te, ma non so se lo
avrò
meritato.
Ti
amo, Mark. Oggi come ieri. Amo Laura, Kristen, più di me
stesso. E
amo Lorna come non potrei mai amare nessun altro. In conclusione,
penso di essere stato fortunato; il mondo non merita il frutto della
mia repressione.
A
presto,
La
tua testa di rapa, Louie.
U-Ops!
Dunque Lara Luthor ha preso le redini della famiglia dopo che nonno
Levi è morto, come se, in fondo, già prima fosse
del tutto
“innocua”. Solo che, ecco, a quanto pare era lei il
capofamiglia
che voleva Lena in famiglia ma non voleva che Lionel la riconoscesse.
Proprio la tenera zia Lara, chissà quanti scheletri
nell'armadio
avrà nascosto… Già il fatto che fosse
presente alla morte di
Petra e avesse istruito Rhea su cosa dire la dice lunga…
E
poi diciamolo, per una bambina erano anche dei buoni consigli quelli
dati da Lara a inizio capitolo, peccato per come lei sia cresciuta XD
Mah, sì, Rhea ha imparato ECCOME ad imporsi!
Zia
Lara, zia Lara… infine, suo fratello Louie era davvero
preoccupato
per lei che, al contrario di lui che è morto giovane, di
tempo ne
aveva tanto.
Cosa
ne pensate? Ve l'aspettavate?
Intanto,
nel presente, Alex e Maggie si sono riavvicinate quanto mai…
c'è
da dire che non stanno vivendo una situazione facile! Potrebbero
esserci membri dell'organizzazione ovunque, chissà quanti
nel
D.A.O., Jeremiah Danvers ha confermato ad Alex una cosa che non trova
riscontri, Carina Carvex è sempre più sospetta (e
noi sappiamo che
i sospetti hanno senso di esistere perché, oh, è
vero, è una di
loro), Maggie è stata scelta da Zod per diventare sua erede
(e
abbiamo letto in questo capitolo com'è nata questa cosa
degli eredi)
ma, ben peggio, c'è da considerare che la stessa Maggie
è confusa e
sta davvero pensando alla proposta, aaaah, e un'altra cosa! La
divisione del D.A.O. a National City sta per cambiare comandante, ora
che John Jonzz è fuori. Chissà cosa
accadrà. Almeno hanno
arrestato Armek!
E
poi Kara e Lena! Ah, quanto ci erano mancate! Le ragazze hanno capito
che non era nonno Levi il capofamiglia Luthor quando Lena aveva due
anni, essendo lui al tempo già morto, ma molto
più importante hanno
cercato di chiarire quanto più possibile sull'ancora ignoto
profilo
misterioso, il garante di Indigo. Senza dimenticare la toccante
discussione su come Lena voglia dare una possibilità a
Indigo,
possibilità che lei ha avuto conoscendo Kara. Erano carine,
sì,
sono mancante anche a me.
In
quest'ultimo minicapitolo ho da segnalarvi una cosetta, per la
precisione un parallelismo ~
“
«Vieni!»,
[…] «Vieni qui, ho detto! Devi aiutarmi! Hai
capito? Devi
aiutarmi», aveva ripetuto le cose come avrebbe fatto con un
bambino.
«Devi aiutarmi, vieni qui! Presto! Tra poco questo posto si
riempirà
di poliziotti e giornalisti, vieni qui! Muoviti! Dai,
muoviti».
”
[Rhea
divenuta
Gand a Joyce, la domestica di casa, alla morte di Lar Gand, capitolo
37]
“
«Rhea»,
l'aveva chiamata. «Rhea», ci aveva riprovato ma lei
sembrava non
sentire. «Rhea! Vieni qui e subito. Muoviti».
[…] «Stammi a
sentire e prendi fiato», le aveva stretto le spalle,
assicurandosi
di essere guardata negli occhi. […]
«Arriverà la polizia».
”
[Lara
Luthor a Rhea allora
Taylor, alla morte di Petra Taylor, capitolo 65.6]
Nel
primo caso, poi, è morto il marito di Rhea, nel secondo sua
sorella
maggiore. Cambia che se in un caso non lo ha fatto di proposito per
ucciderla, come poteva essere parso negli scorsi capitoli, l'altro
è
stato omicidio volontario. Entrambi i morti avevano il suo cognome.
Ah, Rhea, Rhea…
Spero
di non essermi scordata nulla!
Lo
stand alone è finito, gente! Ci rileggiamo sabato prossimo
con il
capitolo 66 che si intitola L'ombra.
Inutile dirlo, avrete un bel po' da leggere… ~
|
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Capitolo 73 *** 66. L'ombra ***
La
suoneria aumentò sensibilmente volume, suonando di continuo.
Spaparanzato su un grande letto a baldacchino e per metà
coperto da
un lenzuolo grigio, un ragazzo scoperchiò il suo pacchettino
di
stagnola e si infilò il contenuto sulla lingua: una piccola
gemma
rossa. La aiutò scendendola con mezzo bicchiere d'acqua che
aveva
sul comodino accanto, così si alzò, coi soli slip
indosso, per
raggiungere quel telefono lasciato sul comò. La mano di una
donna
glielo sfilò dalle dita, lanciandogli un'occhiata con i suoi
penetranti occhi a mandorla.
«Sì?»,
rispose lei al telefono, massaggiando con la mano libera i lunghi
capelli scuri ancora umidi. «Dammi una decina di
minuti». Staccò
con palese disappunto e il giovane si grattò la nuca, ancora
fermo
sui suoi passi. «Je dois y aller [Devo
andare]».
Lei lasciò il cellulare sul comò e al ragazzo un
veloce bacio a
stampo, alzandosi sulla punta dei piedi, allontanandosi per tornare
in bagno involta nell'asciugamano bianco.
Si
sistemò in fretta per uscire, indossando un paio di
orecchini
davanti allo specchio sopra il comò. Lui la guardava rapito,
socchiudendo solo un attimo gli occhi, poi, quando cominciò
a
sentire il contenuto della pillola fare effetto e ansimò
estasiato.
Cercò di circondarle le spalle per baciarla, ma lei si tolse
in
fretta, raggiungendo la porta della camera d'albergo. La vide aprire
e frugare il cellulare. «Io…»,
mugugnò ragliando con un inglese maccheronico, «ti
amo… Veronica».
Lei lo guardò a stento, sorrise e uscì.
In
tailleur con giacca e gonna scuri, tacchi e capelli raccolti,
Veronica Sinclair si abbandonò a lunghi ansimi per contenere
il
fastidio che provava prima di voltare l'angolo di un marciapiede e
vederlo, seduto su un tavolino esterno del locale scelto per
l'incontro, che beveva un caffè. Lex Luthor emise appena un
sorriso,
alzandosi per farla accomodare. «Non disturbarti, non avevo
intenzione di sedermi».
«Neanche
pochi minuti? Pensavo ti avrei offerto la colazione».
«Lex!».
Gli bastò restare fermo a fissarla che lei fece una smorfia
e gli
prese posto davanti, lasciando che chiamasse il cameriere per
portarle qualcosa.
Lui
le sorrise ancora, sistemandosi. «Sai, è curioso:
ricordo bene che
non saresti scappata da me, Veronica… neanche
volendo»,
le lanciò un'occhiata, riprendendo le sue parole quando, nel
periodo
natalizio, si parlarono per telefono. «Pare infine che tu lo
abbia
voluto».
Lei
ringraziò il cameriere e prese a girare la sua tazzina col
cucchiaino, deglutendo. «Le cose possono cambiare tanto in
qualche
mese». Iniziò a bere, con il fumo del vapore che
le solleticava il
naso.
«Suppongo
sia così. Lord paga bene?».
Lex
Luthor appariva piuttosto rilassato dall'altra parte della strada, ma
lei,
la donna che li stava osservando, sapeva che era una bugia. Ogni
Luthor era un bugiardo.
«Il
giusto», lo guardò Roulette stizzita.
«Ora spiegami come diavolo
hai fatto ad hackerarmi Alexa».
Lui
perse lo sguardo sul suo movimento nel tagliare il pancake col
coltello. Veronica ne prese un pezzo con la forchettina e se lo
portò
alla bocca, mentre Lex restava focalizzato sul piattino.
Era
falso, pensò ancora la donna dall'altra parte della strada.
Conosceva la ragazza, Veronica Sinclair, chiamata Roulette; era stata
partner del Luthor per un periodo di tempo, poi lei lo aveva lasciato
per andare a lavorare per il geniale Maxwell Lord. Ragazza sveglia.
Si era allontanata da un Luthor in tempo, continuava a riflettere;
lui nascondeva la sua voglia di riaverla. L'amore… che
brutta
bestia, signor Luthor.
«Non
ho intenzione di assecondare la tua richiesta».
La
voce fredda di Veronica destò Lex e scrollò lo
sguardo. «Ne sei
certa? È questo che vuoi?».
«Se
avessi voluto tornare fra le tue braccia, sinceramente, lo avrei
fatto», prese un altro morso, lasciando bassi i suoi occhi.
«Soldi
o non soldi. Lord paga bene, non c'è dubbio, ma tu, del
resto… non
mi hai mai fatto mancare nulla».
«Non
si tratta del voler o meno tornare con me, Veronica»,
giocò
distrattamente a toccare la tazzina vuota del caffè, senza
muoverla.
«Ah,
non lo è?».
Quanto
avrebbe desiderato, lei, quella donna che li guardava, poter
ascoltare quella conversazione. Vide Lex Luthor muovere una gamba di
scatto, come se la tensione che cercava di frenare stesse morendo
dalla voglia di venire a galla.
Lui
sorrise con ironia. «Tipico da parte tua pensare di essere
l'unica
desiderabile. No», la guardò negli occhi.
«Sarò sincero nel dire
che il tuo pugnalarmi alle spalle e scappare mi ha fatto ben
rivalutare il tuo ruolo, come tu non sia poi proprio quella compagna
giusta da avere accanto, dopotutto. Eppure, sono stato paziente e ho
continuato a sperare, in cuor mio, che se anche le cose fra noi non
sarebbero mai tornate quelle di un tempo», prese fiato,
«potessi
rinsavire e lavorare di nuovo per me. Darti una sola, unica
possibilità di fare la cosa giusta». La vide
abbozzare una risata.
«Prima che sia tardi».
«Cielo,
prima
che sia tardi, addirittura…
te la sei studiata bene», scosse la testa, appoggiandosi alla
spalliera e accavallando le gambe.
Per
quanto Lex Luthor sapesse fingere superiorità,
pensò la donna,
seduta sulla panchina con le mani tenute sulle gambe, quella Veronica
Sinclair aveva il pugnale dalla parte del manico.
«Sai
perché ti ho rubato quella formula e quella manciata di
pillole?
Temo di non essere mai stata davvero sincera con te, tesoro…
Lord
pagava bene, la somma era considerevole e sai quanto la cosa mi
faccia gola e non riesca a resistere, ma non l'ho fatto per
questo»,
lei alzò una mano, facendo una smorfia con le labbra,
guardandosi
allo specchietto tolto dalla borsetta per sistemarsi il rossetto
sbavato con un'unghia del mignolo. «L'ho fatto
perché non ti
sopportavo più», richiuse lo specchietto.
«Sei pesante, Lex.
Morboso, possessivo, un maniaco del controllo. Non riuscivo
più a
respirare standoti accanto, quanto come collaboratrice che come
amante. Mi avevi offerto qualcosa lontano dalla classica favoletta e
lo era», lui era immobile, ma lei sapeva che lo stava
colpendo nei
punti più sensibili, «nel tempo si stava
trasformando in un incubo.
Dicevi di non saper amare ed è così, è
così, Lex,
ma non ti ha impedito di innamorarti di me. Non volevi lasciarmi,
avevi paura che mi allontanassi e saresti rimasto solo, questo ti
faceva impazzire. Era evidente. E più questa paura cresceva,
più mi
stringevi in una morsa da cui non vedevo uscita. Sono scappata, cosa
pensavi che avrei fatto?», scrollò le spalle.
«Non ti amavo,
dolcezza; non come tu amavi me, comunque. Io sentivo il bisogno di
avere altro dalla vita, tu di soffocare qualcuno con il tuo bisogno
di sentirti considerato e apprezzato». Lo vide abbassare gli
occhi,
finalmente. «E avevo bisogno di soldi, una volta lontano da
te»,
gli scoccò un'occhiata, appagata dal suo silenzio.
«Non è stata
una decisione facile, ci siamo divertiti, noi due… Non
pensarlo. Ma
dovevo darci un taglio netto. Ed è per questo che non posso
permettermi di tradire la fiducia di Maxwell Lord e assecondare la
tua richiesta di vendere a te i suoi progetti. È tardi.
Minacciarmi
non cambierà in alcun modo la mia decisione. Io non sono di
quelle
persone che si legano per sempre a qualcuno, Lex… dovresti
conoscermi».
E
la conosceva. Forse per questo si stava convincendo che non avrebbe
dovuto fargli tanto male. Aprì la bocca lentamente,
mantenendo basso
lo sguardo. Strinse il pugno destro solo per un attimo, fugace, sopra
il tavolino. «Sai una cosa… Veronica?»,
allora rialzò gli occhi,
assicurandosi di essere ascoltato. «Credo di aver sperato che
rifiutassi». Lasciò la sedia e i soldi del conto
sul piattino sotto
la tazzina. «Ora devo proprio andare»,
guardò l'orologio al polso,
sistemandosi dopo la giacca sulla camicia, «ho un
appuntamento.
Stammi bene. Ci rivedremo questa sera alla festa di Lord».
La
donna si alzò dalla panchina appena si alzò Lex
Luthor. Piano,
passando le mani sopra la gonna per evitare pieghe. Lentamente si
allontanò, stringendo una borsetta sottobraccio.
Veronica
lo tenne d'occhio intanto che si allontanava verso un'auto
parcheggiata dall'altro lato della strada. Voltò altrove i
suoi
occhi perché le parve di essere osservata, distratta dalla
macchina,
poi, appena uno degli uomini che lavoravano per Lex gli aprì
lo
sportello posteriore più vicino e mise in moto.
Lex
trattenne la rabbia fino a quando colpì la portiera con un
pugno. Il
suo uomo guardava fuori dal finestrino e lui gli lanciò
un'occhiata.
«Cosa?», domandò inasprito, sistemandosi
il colletto della
camicia.
«Nulla…
signor Luthor. Sembrava che una signora la osservasse, poco
fa».
«Non
ho tempo per le ammiratrici».
«L'accordo
è andato male, signor Luthor?», gli chiese dopo,
preoccupato.
«No»,
prese una grossa boccata d'aria, chiudendo gli occhi,
«è andato
come previsto». O
quasi,
si sarebbe tenuto per sé. «Il mio prossimo
appuntamento?».
«Due
minuti fa, signor Luthor».
«Hai
avvertito Lane?».
«Sì,
signor Luthor, è già arrivata».
«Non
facciamo attendere oltre, allora», fece una pausa,
«e, questa sera,
ci sarà una festa che nessuno
dimenticherà».
L'amore
poteva trasformarsi in maledizione. Quella donna ne era convinta. Lei
che fin da bambina credeva nella potenza dell'amore, sapeva bene che
era capace di essere tante cose anche insieme, come una lama a doppio
taglio. E dopotutto, Lex Luthor era prima di tutto un Luthor e poi un
ragazzo; loro non erano destinati a conoscere l'amore vero. Potevano
toccare il capriccio e l'ostinazione di non riuscire ad accettare se
stessi come completi e di volere con la forza qualcuno accanto che li
aiutasse a colmare il vuoto, ma non l'amore buono, puro e innocente,
quello mai, non lo meritavano. I Luthor non meritavano l'amore che
lei aveva conosciuto. A conti fatti era giusto così, non ne
erano
capaci.
Capelli
tinti di castano che le arrivavano poco sopra le spalle, occhiali da
vista sul naso, a mezzaluna, esile e camminata lenta, la signora
andò
dritta fino a un parcheggio e si accomodò all'interno di una
berlina
scura quando le mostrò gli abbaglianti. La vettura
uscì dal
parcheggio e, prendendo confidenza col traffico, ne sorpassò
una
bianca con i vetri oscuranti. In quest'ultima, Maxwell Lord parlava
al telefono e non badava al traffico. C'era un vetro ad isolamento
acustico e oscurante che divideva anche lui e l'autista che lo
riportava in centro, verso la Lord Technologies.
«L'acconto
è partito ora verso il suo conto bancario, come da
accordo», disse,
guardando distrattamente il quotidiano in mano, «il resto la
attenderà non appena avrà fatto la sua
parte». Ascoltò
attentamente ciò che aveva da dire il suo interlocutore,
contraendo
appena le sopracciglia. «Ah, sì… Lex
Luthor», mormorò. «Lei
non pensa che, se avesse voluto cercare di riprendersi la sua
formula, si sarebbe già mosso in proposito? Le mie fonti
dicono che
è in alto mare, che nulla lo ha convinto-», si
fermò, ascoltando
intanto che assottigliava gli occhi, «No, no… Beh,
non amo stare
all'oscuro e cerco di aggiornarmi come posso. Va da sé che
ho
anticipato la prossima mossa, sarà la ciliegina sulla torta
della
mia festa di questa sera. Se Luthor vorrà riprendersi la
formula
originale, dovrà pagare. Se avrà voglia di
affrontare beghe legali,
si intende». Annuì, restando in ascolto.
«Lei non si preoccupi di
Lex Luthor, la pago per una cosa soltanto e vorrei si concentrasse su
quello; lasci a me il resto. Ho pensato a diverse cose in questi
ultimi tempi, mi sto scoprendo sorprendentemente multitasking.
Sì…
mi aspetto qualcosa, lo chiami sesto senso, ma spero di essere pronto
a sorprenderlo».
L'auto
bianca superò il traffico, svoltando a una curva.
Quella
sarebbe stata una lunga giornata. Non che quella prima non lo sia
stata. Se all'Angel Children's Memorial avevano cercato di fare il
punto della situazione riguardo l'organizzazione, oggi Kara, Lena e
le altre sapevano che le avrebbe attese un'altra gatta da pelare,
magari non così grande o complicata, ma ugualmente
importante: la
festa a casa di Maxwell Lord e l'accordo Lord-Lane per le pillole.
Erano consce di sapere che l'esito di quella faccenda le riguardava
fino a un certo punto, ma farsi da parte non rientrava nei loro
piani. Non per niente, Maxwell Lord le aveva invitate con in testa
l'unico scopo di pavoneggiare la sua vittoria e non volevano
lasciargli quella soddisfazione senza combattere un'ultima battaglia.
Durante
quei mesi non avevano fatto che cercare di fermare quella vendita,
senza successo. Dopo diversi tentativi, la loro miglior opzione
restava ancora Lex, ma lui non era interessato agli effetti
collaterali sui soldati, ma solo al vedere Maxwell Lord sprofondare.
E quella festa era il punto di non ritorno: dopo quella, non
avrebbero avuto altre occasioni. Ognuna di loro aveva un motivo o
più
per fermarle, fosse anche solo per coscienza.
Come
Maggie Sawyer. Maggie era la prima a dire che avevano altro a cui
pensare e come quell'accordo non le riguardasse ma, d'altra parte,
dopo aver scoperto che Adrian Zod la voleva come sua erede
nell'organizzazione, qualcosa era cambiato, come se potesse fare
qualcosa di buono per rendere quel mondo più giusto. Fermare
l'organizzazione le sembrava una cosa così enorme e
difficile che
avrebbe potuto concentrarsi su qualcosa più alla sua
portata. Se
fosse riuscita a fermarlo come poliziotta sarebbe stato l'ideale, ma
non aveva nessuna carta da giocare su quel campo.
Diverso
discorso per Lucy Lane. Figlia del generale che vorrebbe comprarle,
avvocata per scelta di Lex per impedire che avverrà. Non
poteva dire
dov'era stata quella mattina col suo cliente, ma solo che qualcosa,
per la felicità di Kara, si stava muovendo. Kara era stata
l'unica,
fino a quel punto, ad aver creduto che Lex ci avrebbe ripensato, che
fosse per il suo discorso con lui o meno. Però amava pensare
che lo
fosse.
Kara
era quella che, più di tutte, teneva a rompere
quell'accordo. O
forse quasi. C'era qualcun altro che era stato invitato da Maxwell
Lord per la festa come loro e che allo stesso tempo avrebbe voluto
con tutte le sue forze impedire l'inevitabile. Quella stessa mattina
sul tardi, infatti, alcune di loro si trovavano ai pressi di una
stazione di National City per scoprire quanto…
Nell'aria
si respirava un forte odore di benzina: una macchina era passata
sulla strada vicina lasciando una chiara scia dietro di sé,
mentre
Kara in compagnia di Megan e Lucy scendevano le scale sotterranee.
Attesero qualche minuto sedute su una panchina parlando della
giornata precedente e, finalmente, si alzarono per avvicinarsi quando
la sirena le avvertì dell'arrivo della metro partita da
Gotham City.
C'era più gente di quanta si aspettassero, forse giunta per
passare
un week-end al sole. Quello, oggi, era più cocente che mai e
Megan e
Lucy se ne lamentavano di tanto in tanto, complice
l'umidità.
Kara
vide dei volti conosciuti passare attraverso le finestrelle e Selina
Kyle scese per prima, mani nelle tasche dei jeans neri e corti,
facendo un balzo.
«Ehi,
Supergirl», tirò la cinghia dello zainetto in
spalla e andò a
salutarla, stringendo poi la mano alle altre due, che si
presentarono. Guardò con sospetto Lucy, come se in partenza
qualcosa
di lei non le piacesse a intuito. «Oggi è il
giorno fatidico, eh?».
Dietro
di lei, Ivy scese dallo scalino sollevando e scuotendo i lunghi e
mossi capelli rossi; un ragazzo stava scendendo con lei e, girandosi
a guardarla, mise male un piede e inciampò appena sceso,
sbattendo
le ginocchia sulle mattonelle. Lei camminava lentamente pestando i
tacchi dei suoi sandali verdi, trainando un piccolo trolley, e altri
la fissarono, rapiti. Selina mugugnò in disappunto, Kara
arrossì,
Lucy spalancò gli occhi e Megan si sentì
improvvisamente a disagio:
«Aaah…
beh», guardò le ragazze al suo fianco, sorridendo
maliziosa da
orecchio a orecchio. «Sento il bisogno di rivalutare la mia
eterosessualità», biascicò, giusto il
tempo per inquadrare un
giovane passarle accanto e sorridere con gusto: «Okay,
passato»,
ansimò.
Ivy
si voltò alle sue spalle per richiamare Harley e
andò subito ad
abbracciare calorosamente Kara. «Non sapevamo se venire, ma
non me
la sentivo di rifiutare il tuo invito per pranzo». Ivy si
presentò
a Lucy e Megan e le guardò attentamente negli occhi com'era
solita
fare, mettendo ambedue in soggezione.
«Cos'è
successo?».
Selina
sospirò pesantemente. «Stanno pensando a un
omicidio».
«Loro
cosa?»,
gridarono in coro le tre e Ivy si portò le braccia a
conserte.
«Eddai,
come sei melodrammatica», le lanciò un'occhiata.
«È da ore che
non fa che appesantirci con questa storia. Ci sforzeremo
perché
sembri un incidente».
«Scusami,
devo essermi persa la parte dove spieghi che una cosa è
meglio
dell'altra», Lucy non si trattenne, portandosi avanti.
«Parli
seriamente o scherzi?».
«Certo
che scherzo, dolcezza», ridacchiò. «Ma
giusto per essere chiare,
per ipotesi,
la seconda è migliore perché è la
parte dove lui schiatta comunque
e noi non finiamo in prigione. Credimi, ho visto Orange
is the New Black:
non ci starei bene in tutina con gli assorbenti ai piedi», le
fece
l'occhiolino.
Megan
simulò un colpo di tosse: «Per me, faresti passare
per un vestito
d'alta moda un sacco dell'immondizia».
Ivy
la indicò radiosa, sorridendo, inclinando la testa.
«Ho colto il
riferimento».
Sia
Megan che Lucy lanciarono uno sguardo a Kara ma lei sorrise,
sventolando una mano per lasciar correre.
Harley
si affacciò in quel momento dalla porta scorrevole,
accostandosi
allo scalino. Guardò a destra e sinistra, lentamente, in
avanti,
togliendo il lecca lecca dalla bocca e tirando sugli occhi la visiera
del suo buffo e vistoso cappello a forma di fragola.
«Cosa
sta facendo?», domandò Kara, incerta.
«Si
assicura che non ci abbia seguito», rispose Ivy.
«Chi?».
Lei
la guardò negli occhi una volta sola, sfuggendole uno spento
sorriso. «Il suo ex». Gridò ad Harley
che lui non poteva essere
lì, ma l'altra non ne sembrò così
convinta, continuando a
guardarsi in giro, prima di scendere dal mezzo. Poi la vide mettersi
a correre e abbracciare Kara con un balzo e un lamento.
«Supergirl»,
la annusò, «Mi sei mancata, devi proteggermi.
Potremmo parlarne
mentre fermiamo Lord, a quattrocchi». Si sentì
tirare il cappuccio
della t-shirt da Selina, ma non lasciò la presa.
Ingenuamente,
Kara pensava che per le sue amiche di Gotham non sarebbe mai cambiato
niente, forse perché vivevano distanti da lei e non avevano
problemi
con l'organizzazione che non aveva ucciso i loro familiari, non
avevano a che fare con Dru Zod né con una zia appena uscita
di
prigione, ma quando guardò Harley e Ivy tenersi per mano e
cercare
conforto a vicenda, mentre si allontanavano dalla banchina, fu come
svegliarsi e tornare alla realtà, nello sgabuzzino
impolverato di un
teatro dove Pamela Isley le confidava, accanto alla sua metà
appisolata, dell'ex violento di lei e di come lo avrebbe ucciso pur
di non farla cadere di nuovo fra le sue braccia. Allora non aveva
avuto paura delle sue parole, anche se sapeva che erano vere; forse
una parte di lei pensava che non si sarebbe mai ritrovata nella
condizione di doverlo fare seriamente.
«Lo
stavano trasferendo ed è sparito»,
mormorò Selina al suo fianco,
spiegandole cos'era successo.
«Come
sparito?».
«Sparito!
Dicono che l'abbiano fatto evadere».
«Quindi
non-», aggrottò la fronte, guardando le due
davanti, «non lo hanno
visto, non è-».
«No»,
rispose svelta. «Per quanto ne sappiamo, la polizia
può averlo
fatto uccidere. Stanno cercando di ideare un piano per assassinare
una persona che non c'è. Sono convinte che
tornerà per Harley».
«…
e lo farà?», domandò Kara, a bassa
voce.
Megan
si affiancò a lei e Lucy a Selina.
«Vogliono
uccidere l'ex della fragola?», domandò la prima,
indicandola.
«Voglio dire, lo faranno davvero?».
«Può
darsi», bofonchiò Selina con uno sbuffo.
«Stiamo
davvero parlando di omicidio come se parlassimo del meteo?»,
Lucy si
accigliò e Selina scrollò gli occhi.
«Con
quelle due tutto può essere. Ma rilassati, sono innocue. La
maggior
parte delle volte, almeno».
«Se
hanno un problema con lui, perché non si rivolgono alle
figure
professionali di competenza?».
«Non
è così facile uscire da una situazione con
partner violenti»,
scrollò le spalle Megan. Vide Kara riservarle un'occhiata,
ma non
voleva entrare in argomento Armek.
«Lo
capisco, ma farsi giustizia da sole non è la
soluzione», insisté
Lucy, «La polizia se ne occuperà».
Presero
a salire le scale per tornare alla strada e le loro narici andarono
incontro all'afa e la benzina, riparandosi gli occhi dalla luce
accecante del sole.
Dopo,
Selina mosse un sopracciglio e le lanciò un'occhiata,
togliendo e
rimettendo sulla testa, con disinvoltura, la coroncina nera con
piccole orecchie di gatto. «Come si vede che non sei delle
nostre
parti, signorina. Voi fate la bella vita, qui», si
portò le braccia
a conserte. «Dalle nostre parti», Kara le prese il
braccio destro,
«se non ci facciamo giustizia da sole», Kara
l'avvicinò a sé,
«nessuno fa mai niente. Siamo noi che dobbiamo
rimbo-», Kara le
sussurrò qualcosa all'orecchio e Selina sbiancò,
guardando di
straforo Lucy, «Cosa?!»,
tentò di sbottare a bassa voce, muovendo gli occhi da una e
l'altra,
infine deglutì, «rimbo… ccarci le
maniche e
aspettare che il sistema giudiziario faccia il proprio corso, con
pazienza e dedizione»,
forzò un sorriso da orecchio a orecchio. «Ora
scusatemi». Cercò
di fuggire dalle due ragazze davanti affrettando il passo e Kara
scrollò le spalle guardando Lucy, anche lei forzando un
sorriso.
Accidenti!
Avrebbe dovuto parlare prima alle ragazze di Gotham di Lucy: Kara si
fustigò tra un pensiero veloce e l'altro. Lucy Lane, figlia
del
generale Lane, avvocata e tenente dell'esercito… cosa poteva
aspettarsi? Mai la ragazza avrebbe accettato di sentire parlare
Selina Kyle in quel modo di Gotham e delle loro… abitudini?
Le
avrebbe potute chiamare così? Sperava solo che Ivy non si
sarebbe
messa a parlare di avvelenare la gente come aveva fatto quando si
erano conosciute.
«Quanto
può essere grave?», mormorò ancora
Lucy, adocchiando quella Selina
che, voltandosi appena per inquadrarla, bisbigliava parlando
chiaramente di lei alle amiche davanti. Scorse la bionda voltarsi con
un gran sorriso e venire bloccata dalle altre due. Cosa stava
succedendo? «Kara», la chiamò,
avvicinandosi, «Le tue amiche
cosa-».
Kara
non seppe mai di cosa riguardo le sue amiche avrebbe voluto dirle
Lucy in quel momento e il lecca lecca di Harley planò per
aria come
un frisbee: veloce come un treno, la ragazza le investì
trascinando
Ivy e Selina con sé, urlando all'allarme bomba. Caddero
addosso a
loro che quasi scivolarono per le scale, poi Harley si
guardò
attorno, tirando il cappello a forma di fragola all'indietro e
ordinando a tutte di stare in allerta. «È qui!
Vuole uccidermi
facendo saltare tutto in aria?! Gli farò saltare tutti i
denti dalla
bocca».
A
Kara venne da sorridere con appena del nervosismo quando un'altra
occhiata di Lucy la trapassò da parte a parte. Okay, ora era
certa
che avrebbe dovuto dare a Lucy delle spiegazioni. E considerando come
la trapassava invece lo sguardo di Selina, che avrebbe dovuto darne
anche a lei per il verso opposto. Era stata giusta l'idea di farle
incontrare? Ammetteva che un dubbio a quel punto le era venuto, ma
avevano qualcosa in comune, e cioè fermare quell'accordo tra
Lord e
Lane, dovevano solo concentrarsi su quello e non badare al resto. Un
immenso
resto, ma d'altro canto…
Ci
vollero sui dieci minuti per convincere Harley che era stata
un'automobile a lasciare la scia di benzina nell'aria e
perché Ivy e
Selina, che non faceva che picchiettarla in testa, non sentissero
più
dolore al braccio strattonato. Harley era una forza della natura e
per un attimo non buttò a terra un uomo reo di averle
sfiorato un
braccio, fermata da Ivy e Selina quasi ne fossero state pronte. Era
lei la bomba in perenne pericolo d'esplosione. «Che fine ha
fatto il
mio lecca lecca?».
Ivy
le accarezzò la testa per tutta risposta, guardando indietro
con
sconcerto il dolcetto abbandonato su uno scalino, rotto in piccoli
pezzetti.
Ferdinand
l'autista le aspettava a lato della strada, davanti alla monovolume
rossa. Aguzzò lo sguardo quando le vide arrivare, serio e
composto
come sempre, con le mani in avanti una sopra l'altra.
Selina
fu la prima a notarlo, alzando un sopracciglio. «E il gorilla
impomatato chi sarebbe?».
«Ferdinand,
è l'autista che lavora per i Luthor», rispose
prontamente Kara. «Ci
porterà in villa».
«Sei
sorpresa?», Ivy passò loro davanti, con un
sorriso. «Dovrai
abituartici se sposerai Wayne».
Ferdinand
cominciò ad aprire le porte, mentre Selina si lamentava con
l'amica
per averlo nominato.
«Chi
sposerà Wayne?», Megan alzò la voce
mentre, dopo aver
salutato l'uomo, le ragazze entravano in auto una dietro l'altra.
«Bruce Wayne? Quel
Bruce Wayne? Com'è che conoscete tutte queste persone
importanti e
io mi perdo sempre tutto?».
Kara
era pronta a scommettere che, lavorando per i Luthor, a Ferdinand non
era mai successo di sentire tutto quel baccano intento a guidare.
Dietro di lei, Selina le picchiò una spalla, chiedendole
com'era che
avesse per amica un'avvocata e perché non avesse pensato di
dirglielo un po' prima. Assomigliava più a una strigliata, a
onor
del vero. Ivy, che era seduta dalla parte del finestrino dall'altro
lato, pensò bene di ricordarle di nuovo delle sue uscite con
Wayne e
lei si chiuse, pregandole di smetterla perché non voleva
parlarne.
Megan si voltò dietro per domandare ad Harley
perché, se si
nascondeva, indossava un cappello tanto vistoso. Ma l'altra prima la
rimproverò sul fatto che non si stesse affatto nascondendo e
poi
precisò che le fragole piacevano a tutti, andando a
rifugiarsi tra
le braccia sicure di Ivy che le stampò un bacio sui capelli,
spostandole il cappello. Tra lei e Megan, Lucy chiese come avessero
conosciuto Kara e Ivy e Selina si persero in un lungo racconto, degno
di effetti sonori, commentato da Megan e Harley; era quest'ultima
quella che più si impegnava negli effetti sonori, finalmente
distratta a sufficienza.
«Pensi
ancora che lui ci stia dietro?», le domandò Ivy,
accoccolandola a
sé.
Harley
tirò fuori il suo sorriso migliore. «Nah, certo
che no! Non
riuscirebbe a seguire in corsa un'automobile e la sua vecchia moto
è
stata venduta a un'asta, quindi… Guarda che curve ordinate,
questo
Ferdy», indicò il finestrino, «Ne voglio
uno anch'io».
Kara
accennò una risata e inviò un messaggio a Lena
per dirle che
stavano arrivando, così Lucy le picchiettò il
gomito sinistro.
«Com'è
che ho la sensazione che dovrò chiudere un occhio con
loro?». Aveva
uno sghembo sorriso stampato in faccia e, quando vide quello di Kara,
ferma a fissarla, pensò di lasciarsi andare a un breve
sospiro. «Sì,
lo immaginavo. Potevi avvertirmi un po' prima di con chi avremo avuto
a che fare. Mi sarei dovuta preparare, credo…».
Va
bene,
pensò Kara, sospirando. Erano sopravvissute al primo
incontro e
poteva considerarlo una vittoria!
Il
cancello si aprì e la monovolume entrò nel
vialetto, fermandosi non
lontana da un'altra auto parcheggiata. Lena era davanti alla porta
aperta, in attesa. Appena lei e Kara incrociarono i propri sguardi,
si sorrisero con complicità.
«Loro
sono già qui?».
«Alex
e Maggie? Sì, e anche Leslie, sono fuori. Ha parcheggiato
dentro per
lasciare libero il vialetto». Lena stava per avvicinarsi e
baciarla,
ma accorgendosi che Ferdinand poteva vederle cambiò idea,
mordendosi
un labbro. «Da quando è arrivata torchia Indigo;
le ha fatto
cercare qualcosa su internet per testare il tempo che ci avrebbe
impiegato, poi ha perso interesse».
Kara
sorrise, spingendosi verso l'interno con lei. «E quanto ci ha
messo?».
«Indigo?
Meno del tempo che impiegherò io per baciarti».
Coperte dal muro e
da una pianta alta davanti alla finestra, le prese una mano e
l'avvicinò a sé, ma Harley si buttò in
mezzo a loro
all'improvviso, abbracciando Lena per dirle quanto le era mancata.
Ben presto, alla porta si riempì di gente.
«Modesta,
Luthor», Selina si guardò attorno, assottigliando
i suoi occhi
fini. «Davvero modesta».
Anche
le altre spalancarono occhi e bocca, ammirando quanto fosse alto il
soffitto, e quanto ampio fosse quel posto, dall'ingresso al salone.
Ivy non perse tempo per nominare di nuovo Wayne e l'amica
grugnì:
«Piantala».
Megan
sembrò prendere le misure: «Hai mai fatto caso a
quante volte ci
entra la nostra camera al campus qui dentro? Curiosità
spicciola…
A proposito, Nana?».
Lena
le indicò il giardino. «Gioca fuori con Jamie, si
è comportata
bene».
«Sapete
cosa ci starebbe bene qui dentro? Una bella piscina». Harley
aveva
idee diverse, spalancando le braccia e immaginando dove avrebbe
piazzato il trampolino.
Lena
indicò l'esterno per farle accomodare e Kara fece strada;
poco dopo
strinse la mano a Lucy, riferendole che era felice che avesse
accettato l'invito. Entrambe voltarono i loro sguardi, però,
quando
sentirono un rumore:
Selina
afferrò e capovolse un vaso e, sentendosi osservata,
arrossì.
«Guardo solo», lo rimise a posto. «E per
intenderci, non ruberei
ai Luthor nemmeno un soldo di cioccolata», alzò le
mani in segno di
resa e le lasciò un occhiolino, seguendo Kara e Lucy, che
sembrò
oltremodo curiosa verso la ragazza con le orecchie da gatto sulla
testa.
Dopo
Lena congedò Ferdinand, che era rimasto sulla porta,
ringraziandolo.
Gli sorrise con disinvoltura quando notò che sollevava lo
sguardo
verso le ragazze. «Sì, oggi
è… è così. Hai mai sentito
tanto
chiasso qui dentro da quando lavori per noi?».
«No,
signorina Luthor».
Lena
annuì breve. «Ci avrei scommesso. Sono passati
quanti anni, ormai?
Oltre una decina… dodici? Tredici?».
«Tredici»,
confermò l'uomo a voce alta.
Lena
contrasse le sopracciglia, guardandolo di straforo prima di girarsi
in sua direzione: stava per chiedergli qualcosa sui Luthor, dato che
conosceva la sua famiglia da molti anni, ma infine cambiò
idea: non
voleva coinvolgere il loro autista; non adesso, a ogni modo.
«Ti ha
scelto mio padre», sorrise, «Ricordo qualcosa.
Avevamo bisogno di
un nuovo autista e sei apparso a poche ore dalla domanda».
«Signorina
Luthor?».
Lei
contrasse il volto, in attesa. «Ah, per la scena di
prima… le
conosciamo, non devi preoccuparti».
«No,
signorina Luthor, mi chiedevo se potessi usare il bagno. Un attimo,
non glielo chiederei se-».
«No,
certo», gli fece la mano per invitarlo a entrare, pur non
contenendo
la sua espressione sorpresa. «Fai
come…», lasciò la frase a
mezz'aria quando lo vide camminare ligio verso il salotto. Era la
prima volta in quei tredici anni che lo aveva sentito chiedere del
bagno. La villa che si riempiva di amici, Ferdinand che scioglieva la
sua posizione, cos'altro? Ormai era tutto una novità,
qualcosa che
credeva impossibile anche solo un anno prima.
Lena
credeva che il comportamento di Ferdinand fosse dovuto all'aria
serena che si respirava in famiglia, ed era convinta che il
cambiamento positivo avrebbe finito per contagiare anche il resto del
personale che abitualmente frequentava la villa, non poteva certo
immaginare che l'uomo si era esposto tanto, in realtà, non
per soldi
com'era solito fare, ma per amore. Perché l'amore aveva
molti volti
diversi, e quello che muoveva l'autista di famiglia era uno dei
più
terreni e antichi che esistevano.
Durante
il suo tragitto verso il bagno più vicino
continuò ad aguzzare la
vista verso il giardino, al movimento, e alle voci. Quante erano e le
loro facce, memorizzare i nomi che sentiva. Lena Luthor si era
allontanata verso la cucina e lui si era fatto scudo di un muro per
continuare a guardare attraverso le vetrate, con una mano sulla porta
semiaperta del bagno. Non sapeva cosa dovesse fare davvero, ma
doveva: lei
glielo aveva chiesto. E faceva sempre tutto il possibile per lei.
Kara
rientrò dalla portafinestra in cucina quando scorse Lena e
l'abbracciò dalla schiena, facendola sussultare.
«Mi devi un
bacio».
«Ah,
sì?». Fra le sue braccia, si voltò e
riuscì a darle quel bacio
tanto atteso, specchiandosi nei suoi occhi azzurri. «Sta
andando
tutto bene, là fuori?».
«Alex,
Leslie e Lucy si sono messe a parlare di politica con Selina, ma a
parte questo…». Rise appena vide Lena storcere il
naso. «Sì…
rischiano di farsi a fette, ma si distrarranno quando porteremo il
cibo in tavola. Tutto a posto, qui?».
«Sì,
i cuochi erano qui fino a un attimo fa. Non volevo restassero
con…».
«Con
Selina che pensa che tu sia una ricca spocchiosa? Ma no. La villa
già
da sola le avrà fatto cambiare idea».
Lena
ingigantì gli occhi per un attimo, tirando in dentro le
labbra e
pizzicandole una guancia. «Ci occuperemo noi del
resto», chiosò,
fingendo di offendersi. La portò con mano fino alla piastra,
mostrandole padelle e pentole. Kara ci mise subito dentro un dito e
lei glielo picchiettò con un mestolo, mettendosi a ridere
davanti al
suo sguardo ferito.
«Hai
poi dato un'occhiata ai dati che Lex ha rubato a Lord?»,
domandò
con il dito leso in bocca.
Lei
si strinse nelle spalle. «Sì e non capisco cosa
pensi di farci Lex.
Non è nulla che ne valga la pena, e trattano diversi
progetti non
completi. Come se avesse cercato di tutto un po', non ha
logica… Mi
sfugge il suo piano e non è un bene», scosse le
spalle. «Non c'è
nulla che potrebbe usare contro di lui, né per rovinarlo in
qualche
modo».
Lei
brontolò. «Non mi pare che Lex sia qualcuno che fa
le cose per
caso».
«Non
lo è».
«Secondo
Lucy, vuole prendersi la paternità delle pillole».
L'altra
fece una smorfia. «C'ero anch'io quando eri al telefono in
vivavoce
con Lane, stamattina, e non mi pare abbia detto proprio
questo», la
acchiappò in vita.
«Beh,
m-ma non ha nemmeno detto il contrario»,
s'imbronciò, per poi
rubarle velocemente un bacio e guardare verso la portafinestra
aperta, sentendo ridere, notando Jamie correre davanti a Nana. La
bambina si teneva con mano sulla testa la coroncina, un po' grande
per lei, con le orecchie a forma di gatto. «E con
Indigo?».
«Sta
bene, mamma»,
la prese in giro e Kara le fece la linguaccia.
«Non
era proprio una gioia quando Alex ed io siamo uscite questa
mattina»,
gonfiò gli occhi, «Non che lo sia mai».
La inquadrò all'esterno,
distante da tutte e con il suo cellulare perennemente in mano.
«Non
vuole venire».
«Alla
festa di Lord?».
«Dice
che non ha a che fare con lei».
Kara
scrollò le spalle. «Come darle torto».
«Ma
lui l'ha invitata e non mi va di lasciarla qui da sola».
«Adesso
chi è che fa la mamma?». Lena arcuò un
sopracciglio e lei rise.
«Ha chiesto al garante cosa ne pensasse?».
L'altra
si portò le braccia a conserte. «Le ha dato il permesso»,
ironizzò, accentuando quella parola. «Lei avrebbe
preferito che
glielo negasse per avere una scusa e restare».
In
quel momento, Indigo si appoggiò spalle a un albero, dando
uno
sguardo al lungo tavolo sistemato per l'occasione, sotto i gazebo nel
prato, e a quelle chiassose ragazze che avevano portato in villa.
Davvero chiassose. Due erano sedute e le altre ammiravano da fuori la
dependance. A lei non interessava la compagnia.
Da
X a Me
Non
capisco, Indigo. È una festa, potresti cogliere l'occasione
per
divertirti e riprendere mano a quella vita che ti era stata negata,
conoscere qualcuno. Non volevi essere libera?
Lei
strinse il cellulare, irrigidendo i denti e cominciando a digitare:
Sei
uno stron
Cancellò
all'ultimo, spegnendo lo schermo e nascondendo il telefono in una
tasca del suo jeans corto. Si prendeva gioco di lei? Lasciò
l'albero
e, scattante, rientrò da una portafinestra in salotto,
velocizzando
il passo per non incrociare il suo con quello della figlia di Sawyer.
Prima che le chiedesse di nuovo di giocare con lei, magari. Se non
altro, il cane la distraeva. C'era troppa gente, troppo affanno, e
poi quella festa… e lui… lo odiava.
Superò il pianoforte quasi
d'istinto e alzò lo sguardo, non si aspettava di provare
subito un
brivido di terrore: l'autista era lì. Le mancò il
terreno sotto i
piedi. Cosa faceva…?
Ferdinand
guardò verso la cucina e lasciò la porta del
bagno, accostandosi a
Indigo con passi decisi e silenziosi. Lei avrebbe voluto scappare,
glielo leggeva negli occhi, ma non riusciva. Sapeva di non dover
attirare l'attenzione, brava ragazza. «Non devo toccarti.
Puoi
restare».
Glielo
aveva detto anche quella volta, diamine,
dopo l'incidente che aveva fatto creare per farla stare sola con lui.
«E la vecchia?», borbottò improvvisando
sfrontatezza, alzando gli
occhi. «Non ti sei servito della tua complice con la
dentiera,
stavolta?».
«Non
sono qui per te».
Lei
si fermò a pensare. «… per loro? Per
conto suo? Ci sto parlando,
non-».
«No»,
troncò i suoi frenetici pensieri.
«Già…»,
Indigo smorzò un sorriso, «per chi
paga».
«Tutto
bene?», Kara si affacciò dalla sala da pranzo e
dopo poco anche
Lena. Indigo sobbalzò neanche avesse visto uno fantasma, non
se lo
lasciarono sfuggire. Ferdinand invece abbozzò un sorriso, e
anche
quello era una cosa decisamente nuova e inaspettata.
«Mi
aveva chiesto l'ora», si affrettò lui, voltandosi.
«Buon
proseguimento. Signorina Luthor, signorina Danvers». Le
lasciò e
Indigo confermò ciò che disse, aggiungendo
velocemente che avrebbe
voluto restare lì, quella sera.
Ferdinand
chiuse il portone senza fretta e, sempre senza fretta, raggiunse la
monovolume. Uscì dal cancello e guidò con solita
calma lungo la
strada circondata da cancelli, rientrando in centro, fino a fermarsi
ai pressi di un garage, poi, parcheggiando con attenzione e facendo
scattare con un nuovo telecomando un'altra auto vicino, una berlina
scura, sedendo al posto di guida. Non accese il motore e si
limitò
ad appoggiare lo sportello, digitando un numero sul cellulare. Appena
la voce della donna dall'altra parte si fece sentire, lui
iniziò col
resonto: «C'era la reporter, quella della CatCo, Willis.
Quelle tre
che sono andate a prendere da Gotham non le conosco», attese.
«Mi
dispiace. L'amica della Danvers minore si è lasciata
sfuggire che
una delle tre si stava nascondendo. Ma non so da chi. …
sì,
l'amica del campus, c'è anche lei. E l'avvocata di Lex
Luth-»,
Ferdinand prese fiato, ascoltando dall'altra parte,
«Sì, ha
un'avvocata. Scusami, pensavo lo sapessi», si
portò una mano sulla
fronte, assottigliando gli occhi poi, trattenendo il fiato.
«Lo
segue per il caso delle pillole, ma non so molto. Quando mi sono
introdotto nella casa a Metropolis non ho trovato nulla, non ti ho
mentito. Per favore…», sembrò
mortificato. «No, non sono
distratto. C'è quella ragazza, l'hacker, ha paura di me
e… non
riesco a lasciarla perdere, pensavo che, come mi avevi suggerito, se
fossi andato a parlarle della mia presenza in villa si sarebbe
rasserenata sul fatto che non le avrei fatto niente, e
invece… Il
lavoro è lavoro, ma non mi piace come si blocca quando
è in mia
presenza, mi farà scoprire. Mi ha chiesto della mia
complice, la
signora- No», scosse la testa, «No, non sa chi sia,
non avrei mai
messo in pericolo una delle tue pazienti rivelando il suo nome.
È
che dopo tredici anni di duro servizio non voglio che tutto salti
per… Va bene, ne riparlaremo a voce. Passo a
prenderti?», chiuse
lo sportello, sistemandosi sul sedile. «Non mi pesa, sono
libero. Ti
aiuto con la spesa». Mise in moto, tenendo il cellulare
ancora un
attimo prima di staccare la chiamata. «Grazie… mamma».
Quella parola gli scivolò dalle labbra, ma era ancora una
difficile
novità. Ferdinand non si mosse per qualche secondo, con lo
sguardo
perso nel vuoto, per poi decidere di andare.
Harley
quasi non batteva ciglio. Di tanto in tanto, Lena le lanciava
un'occhiata, felice che la stesse osservando decorare i biscotti con
tanto interesse, seduta su uno sgabello e appoggiata al banco.
«Come
stai?».
La
ragazza si lasciò andare a una smorfia seccata con la bocca.
«Finché
lui sarà in vita non potrò tornare a essere la
persona spensierata
di un tempo».
«Oh…
capisco. È un peccato». La guardò di
straforo. «E come pensi di
fare?».
«Lo
ucciderò. Ivy ed io, insieme. Non voglio che ci pensi lei da
sola».
«Ah».
Lena deglutì: la trovava più determinata di come
la ricordava
l'ultima volta che si erano viste. Anche se, in questo caso, la
determinazione verteva su qualcosa di negativo: Kara le aveva
accennato dell'ex di Harley e di come Ivy lo odiasse, e ora sapeva
che anche lei aveva arricchito quel sentimento nei suoi confronti.
«Non pensi possano esserci altri modi?». Arrivare a
ucciderlo…
Anche se forse lei era l'ultima che poteva farle la paternale: se
avesse avuto tra le mani l'assassino di suo padre, cosa avrebbe
fatto?
«Nah.
È scappato di prigione, è furbo, ma noi di
più».
Lena
la guardò ancora, sembrava così tesa. Se non
altro, se una delle
preoccupazioni maggiori di Ivy era quello di perdere Harley che
sarebbe tornata fra le spire di quel ragazzo, ora tutto questo odio
doveva averla tranquillizzata, in quel senso.
«La
glassa sta sbrodolando, sembra un animale ferito».
Oh.
Lena si armò subito di strofinaccio, tentando di rimediare.
Non
stava pensando più ai biscotti.
«Ah!
Hai tamponato la ferita, ma non basta, sudicio animale»,
Harley
improvvisò una vocina, sparando con le dita in direzione del
biscotto. «Prendi questo! E questo! Muori! Bleah».
Lena
sorrise, ma fece di tutto per sistemare il biscotto. «Beh,
cosa te
ne pare?». Soddisfatta, sorrise e Harley la raggiunse con un
balzo.
«Sono
bellissimi».
«Lo
credi?».
«Sì!
Perché farli tutti uguali e simmetrici quando possono essere
così
originali?».
Lena
spense di colpo il suo sorriso. Il suo muso lungo si scontrò
presto
con quello di Alex, rientrata in cucina in cerca di Kara. Si
affacciò
verso la teglia, tentando di restare seria:
«Beh…
è un tentativo. La faccina è carina».
«Quale
faccina?».
«Questa
qui, la riga per il sorriso e gli occhi. Qui».
«È
una rosa».
«Oh…»,
Alex trattenne una risata intanto che Lena le passava tra le mani la
sac a poche, sfilandosi il grembiule. «Beh, vedi il lato
positivo:
tu e Kara avete un'altra cosa in comune».
«Puoi
pensarci tu, cara
sorella», si scansò, cercando con uno sguardo
veloce Indigo in
giardino, senza riuscire a inquadrarla. Dovevano sforzarsi per non
andare d'accordo quando c'era lei, a volte rischiavano di
scordarselo.
«Dopotutto,
i Luthor hanno sempre qualcuno che faccia le cose per loro»,
Alex
sollevò le sopracciglia, controbattendo. «Qui ci
penso io… Ehi,
c'è un buco».
Si rabbuiò e lo sguardo planò verso Harley che,
china contro il
banco, decise di scrollare le spalle, mal nascondendo le guance piene
con le code dei capelli.
Intanto,
al piano superiore, Ivy si dava un'occhiata in giro, sfiorando con un
dito le costole dei libri lungo una mensola. Credeva che Selina si
stesse agitando un po' troppo.
«Dalle
un'occasione! Lucy non è come credi, e fa da avvocata a Lex
proprio
per impedire quella vendita». Il volto di Kara si
increspò, ce la
stava mettendo tutta ma l'amica continuava a essere di un altro
avviso.
«Quella
crede nelle istituzioni».
«Quella
prima di tutto ha un nome ed è mia amica, e-e poi cosa
c'è di male
nel credere nelle istituzioni? Lei rappresenta le istituzioni! Solo
perché tu-».
«Perché
io?». Selina vide Kara stringere le labbra, come se d'un
tratto
avesse deciso di rimangiarsi ciò che stava per dire.
«Dalle mie
parti-».
«Ma
non siamo dalle tue parti», non poté trattenersi
questa volta,
spalancando le braccia. «O-Okay, senti, tu sei abituata in un
modo,
e Gotham potrà anche funzionare in quel modo, ma qui le cose
sono
diverse. Nel resto del mondo le cose sono diverse».
«Ah,
sì? Davvero? E una certa organizzazione che ha mani in pasta
ovunque
qui a National City cosa ne pensa? Sei sicura che non funzioni come a
Gotham?».
Ivy
strinse i denti, voltandosi verso di loro: l'aria si sarebbe
riscaldata presto. Scorse Kara che si ammutoliva raccogliendo fiato,
colta nel vivo. Selina non indugiò:
«E
se è vero che come funziona a Gotham non c'entra niente,
allora
com'è che Maxwell Lord ha aperto il suo locale da noi, uh?
Si è
approfittato dei ragazzi di Gotham, non di quelli di National City.
Maxwell Lord si è messo a giocare con le nostre regole,
questo ci
insegna che non possiamo batterlo con quelle delle
istituzioni».
Kara
non sapeva come replicare. Per una volta, sentiva che Selina Kyle
l'aveva messa spalle al muro. Perché era vero che Lord si
era
approfittato di Gotham e dei suoi ragazzi di strada, così
com'era
vero che, giocando con quelle regole, non avevano fatto progressi. O
almeno finora. Ma Lucy e Lex… In fondo, nemmeno lei e Lena
avevano
giocato secondo le regole delle istituzioni quando si erano
introdotte alla Lord Tech per rubare delle pillole. «B-Beh,
i-o
capisco il mali
estremi, estremi rimedi,
ma non puoi prendertela con Lucy che è qui esattamente per
lo stesso
motivo per cui ci sei tu! E l'organizzazione-».
«Cosa?
Argomento delicato?».
Kara
strinse un pugno. «No, ma-».
«Non
penserai che solo perché a Gotham non abbiamo
l'organizzazione non
possiamo comprenderti. Hai perso mamma e papà, questo non ti
mette
su di un piedistallo».
«Ehi,
non mettermi in bocca parole che non ho detto», Kara si
accigliò,
accostandosi a lei, stringendo entrambi i pugni. «Non
parlavamo di
me, non parlavamo-».
«Tregua,
ragazze, tregua», Ivy camminò lentamente verso di
loro, poggiando
una mano su una spalla di una e dell'altra. «Per quanto non
mi
dispiacerebbe assistere a una catfight, credetemi, sento il dovere di
fermarvi per ragionare. Per cominciare, ho qualche domanda»,
si
voltò verso Kara con gravità.
«È qui che dormi?», veloce, mosse
i suoi occhi verdi lungo la stanza mentre Selina roteava i suoi.
«Ivy!
Puoi tornare seria, per piacere?».
«Guarda
che sono serissima», sbottò indispettita.
«Sai, si possono capire
tante cose su una donna dalla stanza in cui dorme», fece
l'occhiolino all'altra, che arrossì, muovendo altrove i suoi
occhi.
«Seconda domanda: qual è il tuo piano? Te la
prendi tanto con
Supergirl che ha invitato un'alleata, ma tu cos'hai da offrire?
Cos'avevi in mente?», si rivolse a Selina, questa volta, e
anche lei
distolse lo sguardo.
«Non…
Non so ancora precisamente cosa fare. Pensavo di poterlo, che ne so,
ricattare in qualche modo».
Dapprima
Kara ingigantì gli occhi, poi aggrottò la fronte.
«Ricattarlo con
cosa?».
«Non
lo so. Tutti abbiamo almeno uno scheletro nell'armadio e sono certa
di trovare qualcosa, infilandomi in quella casa. Mi ha invitata, no?
Ci sarà un sacco di gente, non baderà a
me».
«Baderà
proprio a te», Ivy la punzecchiò e l'altra si
scansò dalla sua
presa. «A noi. L'ultima volta lo abbiamo derubato, non penso
sia
scemo. Pensa a qualcos'altro, gattina».
«Non
si accorgerà nemmeno di me».
«Ti
sopravvaluti, gattina. Lo fai sempre».
«Non
lo faccio. E prima o poi dovrai smetterla di chiamarmi in quel
modo».
«Uh,
pensavo ti piacesse», si morse un labbro, ferita, e Kara per
un
attimo chiuse gli occhi, prima di sbottare:
«Okay,
okay, facciamo così», le divise aprendo le
braccia. «Non siamo qui
tutte insieme solo per pranzare, abbiamo tutto il pomeriggio per
elaborare una strategia, o-o qualcosa del genere, per parlarne,
almeno. Possiamo partire da lì. Non scartiamo via niente, ne
parliamo tutte insieme e capiremo cosa fare».
Selina
abbozzò una risata. «Con la tua amica Lucy,
l'avvocata?».
«Sì»,
annuì. «Lucy non era obbligata a prendere questo
caso, ma lo ha
fatto».
«È
il suo lavoro».
«Lo
ha deciso quando ha visto gli effetti di quelle pillole sulle
persone, ha voluto scendere in campo. E rischia più di
noi».
«Ah,
sì? E cosa, la faccia? Lo stipendio lo prende lo stesso,
no?».
Ivy
scrollò lo sguardo. «Beh, adesso basta. Non
ricominciamo! Siamo
qui, tanto vale mettere da parte l'ascia di guerra e provare a vedere
cosa ne pensiamo tutte insieme, okay? Come dice Supergirl».
Kara le
annuì, ma per vedere Selina farlo le servì
qualche secondo in più.
«Sei scandalosa, gattina», mugugnò,
«Ultimamente non ti si può
parlare».
«E
non farlo», replicò piccata, non distogliendo lo
sguardo da Kara,
che cercava di sorriderle, amareggiata. «Qualche altra
sorpresa di
cui dobbiamo essere al corrente?».
Lei
deglutì e aprì lentamente la bocca, muovendo le
spalle e alzando lo
sguardo, sistemando gli occhiali sul naso. Non parlò prima
di aver
digrignato i denti, e dopo aver sbottato aria, prendendo tempo. Le
due attendevano, fissandola con concentrazione. Più tempo
impiegava,
più la tensione cresceva. «Beh, vi ho parlato mai
di mia sorella?».
«Quella
che lavora in boutique o quella con cui vai a letto?»,
domandò Ivy,
incassando una gomitata da parte di Selina.
Kara
rise accennando un poco di nervosismo, sistemando di nuovo gli
occhiali. «L-La prima. E-Ed è stata licenziata
dalla boutique, a
proposito… Lei… Le-Lei- Vedete,
lei…».
«Kara».
Uh,
se Selina la chiamava per nome qualcosa non andava di certo.
«E va
bene», raccolse il fiato: «Alex lavora al D.A.O.,
Department of
Anti-Terrorism Operations, come nostro padre, m-ma lui è a
Metropolis, A-Alex», prese a gesticolare in modo frenetico,
«opera
nella base qui a National City, è-è una base
segreta; prima la sua
era una missione sotto copertura e neanche io ne sapevo niente, come
del mio coach. Vi ho mai parlato del mio coach? E-Ex coach,
veramente, e quello di ora è uno… uno…
avete capito, è una
persona spregevole, beh, il mio ex coach è il capo di Alex e
ragazzo
di Megan-».
«Kara»,
biascicò Selina, che aveva cominciato a perdere colore.
«Lui
e Alex hanno in carico il caso sull'organizzazione e ora il mio ex
coach e ragazzo di Megan è in coma, quindi…
me-meglio non parlarne
per via di Megan-».
Il
volto di Ivy si increspò improvvisamente. «Oh,
poverino».
«Sì,
lui… Le indagini sono ancora in corso ma non sembrano essere
stati
loro, quindi-».
«Quindi
nulla»,
Selina alzò la voce, irrigidendosi. «Tua sorella
è nel D.A.O.?».
«Beh…
sì. E la sua ragazza è una poliziotta».
«Cosa?!».
A quel punto si tirò indietro, buttandosi entrambe le mani
in
faccia. Non riuscirono a capire cosa borbottò, intanto che
Ivy le
passava una mano su una spalla per consolarla, ma non dovevano essere
complimenti a giudicare dal tono. «Mi hai portato in una casa
piena
di sbirri? Cosa devo aspettarmi, adesso, la bambina di sotto
è amica
del Detective
Conan?».
Beh,
poteva andare peggio. Lei e Selina non avevano mai discusso in quel
modo, ma d'altra parte non erano mai state amiche fino a quel punto.
Lei aveva imparato a conoscere e capire lei e Ivy e Harley e ci era
riuscita solo perché loro glielo avevano concesso, ora
dovevano solo
concederlo a Lucy, e perché no a sua sorella Alex e Maggie.
Cercò
di spiegare loro di andarci a piccoli passi, e avvertire anche Harley
di stare attenta a cosa dire e… già questo da
solo sarebbe stato
complicato, ma Kara pregò loro di dare una chance a tutte.
Di
provare non solo a lasciarsi conoscere, ma anche a conoscere loro e
non giudicarle solo perché avevano scelto di lavorare nelle
istituzioni. Si sentì così strana anche solo a
pensarlo, accidenti,
come se il mondo si fosse improvvisamente capovolto. Il fatto era che
venivano da due luoghi ed esperienze molto diverse, ma avevano dei
punti d'incontro, Kara lo sapeva. Magari non sarebbero tutte
diventate amiche per la pelle, ma potevano elaborare una strategia
per sabotare i piani di Maxwell Lord. E tanto contava.
Lasciò
che Selina le passasse avanti e fermò con una mano Ivy per
chiederle
dell'ex di Harley. La cosa l'avrebbe preoccupata maggiormente se non
avesse altri pensieri per la testa.
«Ci
penserò io», provò a sorriderle.
«Ti preoccupi per noi,
Supergirl?».
Kara
fece una smorfia con le labbra. «Beh, forse. Se aveste
bisogno di
aiuto, no-non per, beh, non per far del male a qualcuno, ma
per-».
«Proteggerci?
Possiamo sempre contare su di te», arrossì lei,
lasciando che
passasse qualche secondo in completo silenzio, se non fosse per le
voci provenire dal giardino sotto di loro. «Me ne
occuperò io
quando sarà il momento», concluse e Kara strinse
le labbra.
«Non
fare sciocchezze».
«Niente
di cui pentirmi», si morse il labbro inferiore, fissandola.
Stavano
per lasciare la stanza e Kara si voltò un'ultima volta verso
di lei,
con un impeto dentro. «Ah! Dormo in camera con Lena,
veramente.
Tutte
le notti»,
aggiunse soddisfatta, diventando bordeaux. Non ebbe più il
coraggio
di guardarla negli occhi e l'altra annuì, compiaciuta.
Tornarono
al piano di sotto, ascoltando la cagnolina Nana che abbaiava fuori.
Kara scambiò uno sguardo con Selina che, seria, era intenta
a
squadrare Alex alle prese con i biscotti, mentre Harley ne donava uno
di quelli rubati ad Ivy.
«Tutto
a posto?». Alex lanciò uno sguardo alla sorella
minore e poi a
Selina dietro di lei.
Non
era difficile immaginare, per Kara, che Alex dovesse aver fiutato
qualcosa, ma quando sentì Selina prenderla in giro per la
decorazione dei biscotti, e lei difendersi e accusare Lena,
pensò di
attendere dopo il pranzo per fare lo stesso discorso all'inverso ad
Alex e Maggie. Si distrasse solo quando la piccola Jamie
entrò dalla
portafinestra con una manina sul petto:
«La
shignorina Leshlie ha detto… ha detto che she non mangia
entro
pochi minuti lei… lei shmette di crescere e shviene, eh, e
anche
io… anche io lo faccio», schiuse le labbra
sull'orlo di un
lamento, guardando un po' tutte.
C'era
da aspettarselo.
In
fondo, forse pur con qualche scetticismo, il pranzo andò
meglio di
quanto sperato. E, cosa non da poco, nessuna accennò alla
vita a
Gotham e alle regole di strada, permettendo loro di parlare
liberamente. Ognuna di loro esternò la propria opinione su
Maxwell
Lord e quelle pillole e come avrebbero dovuto agire. Non tutte erano
d'accordo con tutte, ma tra un passami
il piatto
e un lo
senti anche tu dolce?
riuscirono a mantenere una certa armonia dove nessuna prevaleva per
forza su un'altra. A parte per il secondo: lì Harley fece
una
scenata accusando Leslie davanti a lei di averle sottratto un
cosciotto. Il che era probabilmente vero, data la sua faccia
soddisfatta e colpevole, e come se la rideva.
Quando
l'argomento di punta cominciò a esaurirsi, le ragazze
passarono ad
altro con naturalezza. Il cinema e da quanto tempo nessuna di loro ci
andasse era stato un argomento buono per un po', fino a quando Leslie
non disse di esserci stata, l'ultima volta, a fare cose poco consone
con un ragazzo proseguite in bagno e, allora, l'unica interessata
davvero sembrava Harley. Questo la riportò alla memoria
delle sue
prime avventure con Ivy e, tra qualche genuina risata e imbarazzi,
Megan curiosa e Selina che smise di mangiare, Alex e Maggie diedero
in coro a Jamie il permesso tanto agognato di alzarsi da tavola per
andare a giocare con la cagnolina. Per fortuna fermarono Leslie dal
riprendere l'argomento, e Megan, a cui Kara tappò la bocca.
Non si
sa come presero a parlare di ex e, quando interpellata da Ivy, Kara
parlò di Mike, le ragazze non si lasciarono scappare la
smorfia
naturale sul volto di Lena, immortalato da Harley col telefono di
Selina. Che si riprese dopo averle fatto inviare lo scatto a quello
di Leslie, che pretese. Lucy nominò James e come, dopo aver
iniziato
a fare palestra, aveva preso non solo più coscienza e
fiducia in se
stesso, ma anche un lato quasi prepotente ed esageratamente vanitoso.
Questo di certo aveva inciso sul loro rapporto. Tra uno scambio di
battute e l'altro, uscì fuori come il ragazzo ci avesse
provato
dapprima con Kara e poi con Lena, facendo ridere un po' tutte per
l'ironia della cosa; non sfuggì il commento di Ivy per cui
nessuno
avrebbe potuto biasimarlo e, quando smise di giocare con un
cellulare, probabilmente sempre quello di Selina, anche Harley le
diede ragione con nonchalance, scrollando le sopracciglia.
Ciò che
sfuggì a tutte meno che allo sguardo vigile di Leslie Willis
fu la
strana smorfia di Lucy Lane a quel commento. Lena si riservò
di non
raccontare del suo ex o qualche fiamma, deludendo Ivy e anche Megan a
cui, poi rivolte a lei, si attenuò il sorriso. Non le andava
di
parlare di John in quel momento e non ne avrebbe avuto su Armek. Alex
acchiappò l'attenzione di tutte prima che lo facesse Kara,
raccontando con espressione saccente dei ragazzi con cui era uscita
prima di scoprirsi gay. A quel punto era Maggie quella a fare
smorfie, divertendo le altre. Harley lanciò uno sguardo a
Megan e,
al suo fianco, Selina Kyle gonfiò gli occhi appena Ivy,
dall'altro
lato, la punzecchiò nuovamente su Bruce Wayne. Non le
avrebbe dato
un attimo di tregua. Quasi tutte si accesero nel sentire quel nome,
volevano sapere, in special modo Megan che riprese possesso di un
sincero sorriso, e Leslie, che non si lasciò scappare
l'occasione
per ricordare a tutte come, secondo i giornali, fosse ancora fresco
di rottura con Lena. Quest'ultima arrossì, coprendo il volto
con una
mano per ridere e scuotere la testa. Non poteva mancare Maxwell Lord
e il suo plateale interesse per Alex; sia lei che Maggie pregarono di
non ricordarlo, considerando che avrebbero dovuto averci a che fare
tra qualche ora.
«E
tu? Non hai storie da raccontarci?», Ivy si portò
un'unghia in
bocca, ammiccante, adocchiando Indigo; se n'era rimasta in disparte
e, a parte il suo nome, non sapeva nulla di quella ragazza.
Lei
sollevò gli occhi dallo schermo del suo cellulare; con
sguardo
impassibile, si stava mordendo le unghie della mano destra e smise di
colpo. In realtà, aveva ascoltato i loro discorsi appena.
«Sì,
Elsa… Avrai avuto un po' di vita tra una palla di neve e una
canzone», aggiunse Leslie.
«Un
po' di vita»,
rimarcò, ingigantendo gli occhi. «Con un
po' di vita
intendete rapporti sessuali, amorosi, cotte, cose di questo
genere?»,
lanciò un veloce sguardo a Lena, «Lo trovo
riduttivo. Pensavo che
la vita riguardasse qualcosa di molto più ampio dai
pettegolezzi,
non mi hanno aggiornato. È di questo che si parla tra
ragazze, di
solito? L'amore e le le sue fregature?».
«Bla,
bla,
bla»,
Harley le fece il verso prima che qualcuna potesse risponderle.
«Hai
qualcosa da raccontare oppure no? Non ci interessano i convenevoli,
tira fuori i nomi».
Indigo
si voltò verso di loro, prendendo una boccata d'aria.
«Sì. Sono
stata con diverse persone, in effetti, prima della prigione».
«Sei
stata in prigione?», Harley si alzò subito dal
posto per andarle
incontro. «Ora sei interessante, ragazza con la treccia.
Parla».
Improvvisamente
aveva catalizzato l'attenzione di quasi tutte parlando svogliata e in
modo generico della sua esperienza a Fort Rozz. Kara
sussurrò
qualcosa a Lena e si alzò da tavola per avvicinarsi
velocemente a
Lucy, anche lei che ascoltava Indigo, e poi si allontanò
dentro,
seguita da Megan con l'intenzione di aiutarla. Entrarono in cucina,
cominciando a sistemare i biscotti e altre prelibatezze sui piatti da
portare fuori. Jamie entrò di filato per rubarne uno e corse
prima
che potessero sgridarla, con Nana sempre dietro. Ora che aveva un
dolcetto più che mai. Megan fece giusto in tempo a gridarle
di non
darle nulla.
«Nana
è contenta», esclamò, con un sorriso.
«Le piacciono i bambini, ma
era da tanto che non correva così; appena si
fermerà crollerà di
sonno, ne sono sicura», rise poi, osservandola dalla
portafinestra
aperta.
«Sono
certa che anche Jamie stia apprezzando la sua compagnia».
«Sì…
Ehi, ragazza, senti», attirò la sua attenzione,
appoggiandosi a un
banco della cucina, «ti volevo ringraziare… per
avermi invitata
oggi». Deglutì, delineando un impacciato sorriso.
«Sono l'unica
che non ha nulla da spartire con Maxwell Lord, devo tornare da John
in ospedale e… grazie, per avermi fatto distrarre un po'. Ci
provo,
perché se mi fermo a pensarci, io…»,
scosse la testa e Kara si
voltò per abbracciarla.
«Non
devi neanche dirlo, Megs». Si strinsero e, senza che si
accorsero di
qualcosa, altre braccia si aggiunsero alle loro e spalancarono gli
occhi, notando da un lato il cappello a forma di fragola. «Harley?».
«Shh.
Posso unirmi anch'io? Amo gli abbracci».
Le
due si guardarono e sorrisero, invitandola a farsi avanti. Strinse
più forte di loro messe insieme e Kara, a bassa voce, le
chiese se
stesse bene. Rispose con un verso di approvazione ma, oramai
conoscendola, era strano che non avesse riempito le due di lunghi
monologhi sul suo ex. Kara era pronta a scommettere che anche Megan
se ne fosse accorta, ma si stette zitta, forse perché, in
fondo, la
cosa l'avrebbe portata inevitabilmente a parlare di Armek e dopo
tutto non ne era ancora pronta. Secondo Alex, quando il ragazzo
sarebbe finito sotto processo per il tentato omicidio di John era
probabile, anzi certo, che la loro relazione e le violenze sarebbero
saltate fuori e lei sarebbe stata chiamata a testimoniare; questo la
rendeva ancora più sensibile all'argomento. Harley mantenne
l'abbraccio più a lungo possibile.
«Mi
stai… annusando i capelli?», chiese Megan in un
brusio.
Si
voltarono alle loro spalle quando sentirono la presenza di qualcuno,
e stavolta non era la piccola Jamie la ladra di biscotti: Leslie si
ripulì di glassa il contorno delle labbra, con
metà del corpo del
delitto ancora in mano. «Scusate, non volevo interrompere
l'atmosfera da Tutti
insieme appassionatamente»,
alzò un indice, per
poi rubarne un altro. «Molto in tema colesterolo,
proseguite pure», disse ancora, prima di uscire mostrando uno
sfacciato sorriso.
Verso
sinistra del tavolo, Maggie aveva iniziato a raccontare ad Ivy e a
Selina di aver vissuto a Gotham e Harley le raggiunse camminando a
passi felpati dietro di loro, facendo schizzare entrambe dallo
spavento quando toccò loro il collo scoperto;
circondò per le spalle la sua ragazza e le lasciò
un bacio,
appoggiandosi alla sedia, ma solo dopo aver scansato un destro
dell'altra con una linguaccia.
Maggie
parlò sbrigativamente dell'accademia e, quando Harley le
disse
ridendo come non odorasse affatto da artista, Selina intervenne con
tono scocciato per precisare come la sua fosse un'accademia di
polizia. A quel punto si ghiacciò, ma solo per poco.
«Beh, l'odore
di sbirro c'è. Allora sei conforme, tutto a
posto», la rassicurò
chiudendo gli occhi e annuendo.
Lucy
le guardava con genuina curiosità, appoggiando il suo
cellulare sul
tavolo per poi parlare al suo fianco con Lena, a bassa voce. Alex
riportava Jamie in braccio e Nana le era vicina, stanca, che si
trascinava verso la ciotola riempita d'acqua che le avevano messo ai
piedi del tavolo, all'ombra. Indigo ne aveva approfittato per
allontanarsi e sedersi su uno sdraio sotto la tenda da sole, con quel
telefono sempre in mano. Leslie invece era poco più lontana
che
discuteva al telefono camminando in cerchio e continuando a
masticare; doveva avercela con Cat Grant, a giudicare dagli improperi
che le sfuggivano. I dolci riportarono tutte sull'attenti e ripresero
posto a tavola.
«Di
cosa parlate?». Kara le adocchiò e Lena e Lucy si
scambiarono uno
sguardo.
«Abbiamo
infranto una regola non scritta: lavoro», rispose la prima,
intanto
che l'altra si riempiva da bere.
«E
un'anteprima di quello che ci aspetterà questa sera da
Lord»,
aggiunse Lucy. «Conoscenti, collaboratori, media, mio
padre».
Maggie
si accostò per baciare Jamie che stava seduta tra le braccia
di Alex
e lei ricambiò; la bambina era stremata, non le andavano
altri dolci
e si rannicchiò contro il petto della ragazza, socchiudendo
gli
occhietti.
«Tuo
padre?», Selina si interessò, alzandosi dalla
sedia per avere un
biscotto. «Adesso capisco perché mi sembrava di
averti già visto…
Il generale Lane è tuo padre?! Sarai apparsa in
tv». Il suo sguardo
non sembrava presagire nulla di buono e Kara la adocchiò
preoccupata.
Erano
riuscite a creare un ambiente sereno, accidenti, non doveva andare
tutto in malora proprio adesso! La sua preoccupazione doveva aver
coinvolto anche Lena, sentì il suo sguardo addosso.
Dopotutto, nella
discussione prima di pranzo, forse avrebbe dovuto aggiungerle che
Lucy era figlia di quell'uomo, oltre che tenente dell'esercito.
Selina non reagiva mai bene a rivelazioni di quel tipo, era molto
prevenuta.
«Calmati.
Non sono come mio padre», ne prese uno anche lei, mordendolo.
«Sono
l'avvocata di Lex per via di questa faccenda»,
proseguì guardandola
negli occhi, ancora immobile. «Fermerò mio
padre».
«E
chi ci dice che non è tutta una messinscena per far scoprire
le
nostre carte?».
Harley
guardò come un fulmine Ivy, socchiudendo gli occhi e
bisbigliando
incerta: «Quali
carte?».
«No!
Perché dovrei?».
«Non
lo so, sei tu l'avvocata il cui padre, generale dell'esercito, vuole
comprare delle pillole per potenziare i soldati. Pillole testate, tra
le altre cose, da ragazzi di Gotham come me».
«Ehi,
fermati».
«Selina»,
provò a richiamarla anche Kara, ma lei la degnò
appena di sguardo.
«No,
sto solo dicendo che non possiamo permetterci di fidarci. Non sono
nemmeno sicura di poterci fidare di Lex Luthor, per
cominciare».
Ivy
si assicurò di passare in rassegna gli sguardi di tutte, dal
sospiro
di Lena allo sguardo contratto di Maggie.
A
quel punto, anche Alex si rabbuiò. «Per prima
cosa, possiamo appena
fidarci di voi tre. Cosa fai nella vita, Kyle? Come professione,
intendo. Scassinatrice di serrande?».
«Come,
prego?», si voltò di scatto e lasciò il
biscotto che aveva preso
di nuovo sul tavolo.
«Alex»,
Kara la richiamò subito, scuotendo la testa. «Non
aiuti».
«Credevi
che non sapessi chi sei?», scrollò le
sopracciglia, continuando,
«Chi siete voi?». Le altre due si guardarono,
mettendosi comode
sulle loro sedie, zitte, masticando biscotti. «Credevi che
non mi
sarei informata sulle persone che frequenta mia sorella?».
Guardò
Maggie in cerca di aiuto, ma lei si grattò dietro un
orecchio,
volgendo altrove il proprio sguardo. «Harleen Frances
Quinzel», le
puntò contro un dito. «Fermata, nel
duemilatredici, per vandalismo
a proprietà privata. È iniziato tutto da
lì. Poi più volte nel
corso dell'anno. L'anno successivo sei stata arrestata per
aggressione, rilasciata nel giro di ore. Le aggressioni non
mancano».
«Ti
combemtri dolo dulle cose butte»,
ribatté l'interessata a bocca piena, scrollando le braccia.
«Sono
stati i tuoi genitori a farti rilasciare ogni volta. Sono certa che
molte cose non siano neppure state segnate. Tenendo presente il tuo
ex, forse ti è andata anche bene».
«Oh,
va bene, il mio ex è un bastardo e io sono una poco di
buono, gne
gne.
Chi se ne frega, prima della classe», brontolò.
«Dimmi qualcosa
che non so», allora si portò le braccia a
conserte, dondolando
sulla sedia. Il suo viso arrabbiato si rilassò a breve,
distraendosi
osservando la forma di una nuvola.
Alex
proseguì. «Pamela Lillian Isley»,
guardò lei, che si arricciava
una ciocca rossa tra le dita. «Con te dovrei prendermi una
giornata.
Nel duemilaundici sei stata arrestata per effrazione di
proprietà
privata».
«Era
un parco».
«Chiuso».
«Non
esistono confini».
«Dillo
al sindaco, poetessa. Anche tu fermata per aggressione e arrestata
per aggressione a pubblico ufficiale».
«Uh!
Uh!»,
Harley alzò una mano, «C'ero anche io».
«Piccoli
furti, vandalismo, hai tentato di avvelenare degli
imprenditori».
«Non
volevano ascoltarmi», aggrottò lo sguardo.
«Odio non essere
ascoltata. E non era niente di letale, comunque… un po' di
diarrea
al massimo», le sorrise ammiccante.
«Hai
aggredito il tuo padrone di casa», rincarò Alex,
«nel
duemilatredici. Non ti hanno incriminata perché eri una
diciassettenne e lui non ha voluto sporgere denuncia».
A
quelle parole, Ivy cambiò totalmente espressione, non
rispose e
Harley, al suo fianco, le strinse una mano, pur allungandosi per
afferrare un biscotto dalla tavola: quello lasciato da Selina era
tanto vicino.
«E
allora?», sbottò proprio quest'ultima, alzando le
spalle e
riprendendo poi il biscotto. «Siamo sotto processo? Per
questo siamo
qui?», si rivolse a Kara, che inevitabilmente
sbuffò.
Ma
Alex non sembrava voler smettere. «E ancora danneggiamento,
furto di
medicinali, furto di animali-».
«Erano
maltrattati», non si trattenne Ivy, più tenue.
«Se
è vero-».
Fu
interrotta: «Se?».
«Se.
Avresti dovuto fare una segnalazione», rimbeccò
veloce e sentirono
Leslie Willis ridere, sdraiata sulla sua sedia, con la testa
appoggiata a una mano retta gol gomito sulla spalliera:
«E
così siete delle cattive ragazze, eh?!».
«Sai
perché non sei mai finita in prigione, no?», le
domandò Alex,
intanto che Maggie le stringeva un polso.
Lei
la adocchiò con la coda dell'occhio.
«Perché il mio caro papà si
è intromesso», mormorò Ivy con voce
lapidale. Quella discussione
stava prendendo una piega che le piaceva sempre meno.
«Perché
hai accettato», Maggie cercò di bloccarla
chiamandola a bassa voce,
ma non c'era verso di fermarla, «di seguire una
terapia». La fissò,
ma quella Pamela Isley non mosse un solo muscolo, cercando di restare
impassibile, occhi nei suoi.
«Smettila!».
Se Ivy né Harley dissero nulla, Selina inveì,
ingoiando un boccone.
«Credi di conoscerci solo perché hai letto la
nostra fedina penale
e qualche postilla? Non sai niente delle nostre vite! Proprio un bel
niente, Danvers».
«Alex…»,
Maggie tentò di richiamarla ancora, ma lei la
pregò di lasciarla
finire, tenendo stretta a sé Jamie che dormiva.
«Sai
cosa c'è scritto nella tua, Kyle?» la
scrutò negli occhi verdi.
«Niente. Sei una ladra e lo sanno tutti, Selina Kyle, ma ti
sei
sempre assicurata di non lasciare prove. O qualcuno le ha fatte
sparire per te».
A
bocca aperta, anche Lucy si prese la briga di vedere quanti
più
volti delle presenti in poco tempo, cercando di capire la situazione
e come si stava mettendo.
Selina
ingoiò un altro boccone. «Vuoi arrestarmi
perché ho la fedina
pulita?», si portò l'ultimo pezzo del biscotto in
bocca, mandandolo
giù velocemente. «Beh, tutto questo sproloquio per
nulla privato
sulle nostre vite per?
Mi sono persa il punto?». Prese un altro biscotto,
sottraendolo alle
dita di Harley, stirate al loro massimo, quasi vicinissime.
La
discussione, seppur contenuta nei toni, aveva incantato tutte;
perfino Indigo, non interessata ai dolcetti, si era avvicinata e
messa a trafficare col cellulare, cercando informazioni su di loro.
«Il
punto è che, nonostante questo, siamo tutte qui. Siamo tutte
qui
insieme per lo stesso motivo», disse intanto che accarezzava
Jamie
che, borbottando nel sonno, girò la testolina ancora un po'
verso il
suo petto. «Non ti fidi di noi? Come possiamo noi fidarci di
voi,
allora? Io sono un'agente del D.A.O., la mia compagna è una
poliziotta, Lucy Lane è avvocata e tenente». Non
si fermò quando
sentì il pure
sussurrato da Selina. «Lo capisco, sarai abituata a
inquadrarci come
nemici, ma giochiamo nella stessa squadra, qui e adesso».
Maggie
deglutì, trovando finalmente modo per parlare: «La
polizia a Gotham
spesso abusa del suo potere». Alex la guardò,
contraendo lo
sguardo. «È un dato di fatto. E la vita
è dura dalle parti dove
sono nate e cresciute Selina e Pamela», forzò un
sorriso, scuotendo
un poco la testa, «Posso capire il perché di tanta
ostilità».
«Ah
sì?», Selina la fissò con scherno.
«Lo hai imparato in
accademia?».
«Non
devi sentirti obbligata a considerarci amiche, ma siamo alleate,
Selina», la fissò inclinando il capo e dopo
inquadrò le altre due,
intanto che Harley si slanciava verso il tavolo non staccando il
sedere dalla sedia. «Posso solo immaginare ciò che
avete passato o
ancora passate… possiamo parlare e cercare di trovare dei
punti
d'incontro; so che ci sono. Siete amiche di Kara»,
l'adocchiò, che
era seria, appoggiata alla spalliera della sua sedia, «e
tanto basta
per considerarvi delle ragazze in gamba. Mi fido di voi
perché lei
si fida».
«Lei
mi piace! Ci sto», Ivy alzò la voce, portandosi
un'unghia in bocca
e riprendendo il suo sorriso, con malizia. «D'altronde, fa
sempre
comodo avere alleate dall'altra parte della barricata. Non ci
vergogniamo di chi siamo», le lanciò un occhiolino
e dopo scrutò
Selina, ancora ferma sui suoi passi, che guardava lei a sua volta.
«No, gattina?».
«Anche
io», eruttò Harley divertita. «Siamo
tutte amiche qui, basta
lagne! E poi hanno i biscotti».
L'altra
ragazza, però, non accennava che un sorriso forzato.
«Nessuno qui
si vergogna di chi è, non mi interessa se si è
messa a controllare…
la nostra vita. È solo che…», scuoteva
brevemente la testa,
stringendo un pugno. «Lasciate perdere, è
meglio». Decisa e con
sguardo duro, poi, pensò di tornare dentro verso la
portafinestra e
Alex vide Kara correrle dietro, scattata subito, mentre Pamela Isley
sorrideva per sé.
«Selina!
Aspetta! Dove vuoi andare?! Sei venuta in macchina,
ricordi?».
L'altra
si fermò che era già in salotto, guardando
velocemente un divano, e
un mobile, e un portafoto antico, e di nuovo il pianoforte, un vaso,
il grande lampadario; quel posto era enorme, tanto che avrebbe potuto
perdersi. Era sicura che, tra la cucina e il salone, ci sarebbe
entrata intera tutta la sua casa. Cosa ci faceva lei in un posto come
quello? Cosa ci faceva con Wayne, per cominciare?! «Ho
capito: siamo
tutte nella stessa squadra», emise dura, voltandosi.
«Perché non
mi hai avvertito subito di chi ci sarebbe stato, eh? Credevo fossi
anche amica mia, Kara».
«Lo
sono», deglutì, pensando di avvicinarsi a lei.
«N-Non era una
trappola, volevo solo passare un pranzo insieme, abbiamo un obiettivo
in comune».
Selina
abbozzò una risata canzonatoria, alzando gli occhi al cielo.
«Credevo fossi diversa… non come loro».
«Loro
chi? Mia sorella?».
«Senti,
ho dato un'occasione e tua sorella e lei…».
«Alex
non- è fatta così, non-», la
guardò abbassare il volto da un lato
e si avvicinò ancora, più cautamente, quasi come
avrebbe fatto con
un animale che, se si fosse spaventato, sarebbe schizzato via.
«Che
cosa ti succede? Hai sempre avuto questo atteggiamento nei confronti
delle cariche di spicco o-o la polizia, ma adesso-».
«Cosa?»,
sbottò infastidita, «Sono io il problema?
È così?».
«No»,
contrasse lo sguardo, «No, ma è come
se-».
Selina
Kyle deglutì, per poi interromperla: «La riprendi
tu la mia
coroncina dalla bambina?».
«Selina»,
la richiamò seria e lei si fermò, spalancando gli
occhi,
calmandosi.
«Qualcuno
lo sa», abbassò gli occhi,
«E… no, niente, è tutto».
«Di
te e Bruce Wayne? Ho notato come eviti l'argomento. Puoi
parlarmene».
«Mi
hanno mandato una lettera a casa. Una lettera, capisci? Me l'hanno
fatta passare sotto la porta», strinse un pugno.
«Vogliono che
smetta di vederlo. Una come me… con uno come lui…
dovevo
aspettarmelo».
Kara
corrugò la fronte. «Ma è
terribile… Sai chi è stato?».
L'abbracciò prima che potesse sottrarsi e la ragazza
ricambiò a
stento, passandole le mani sulla schiena. «Vuoi che ti aiuti
in
qualche modo? Possiamo risalire a-».
«No»,
la fermò subito, mordendo il labbro inferiore.
«Non voglio si
sappia e non voglio aiuti dal reparto piedipiatti là fuori.
Al
momento… sarà una cosa mia».
Selina
Kyle era sempre stata una ragazza d'un pezzo. Anche quando non erano
amiche la rispettava, seppure amasse sfidarla e… okay, forse
un po'
la odiava, ma perché la trovava veramente in gamba ed era
strafottente, il che rendeva Kara determinata a batterla. Era un
gioco. Conoscerla davvero era stato diverso: aveva un carattere duro,
e si fidava davvero di pochissime persone, l'aveva fatta entrare
nella sua cerchia e ora doveva immaginare che si sentisse un po'
tradita, da parte sua. Ma non era poi tanto quello, oggi, a renderla
così suscettibile: qualcuno si era messo in mezzo nella sua
vita
privata. E Bruce Wayne era una personalità di spicco, era
facile
farsi dei nemici. Era già stato tanto aprirsi a una
relazione con
lui per quello che rappresenta, a dire il vero… Kara si
sentì
un'ingenua: le sue amiche di Gotham non avevano a che fare con
l'organizzazione, ma non per questo non avevano anche loro delle
ombre che minacciavano la loro serenità.
«Smettila
di fare quello sguardo».
Kara
si destò. «Quale sguardo?».
«Sembri
un Angry
Birds».
Se
non altro riuscì a convincerla a restare, fosse solo, parole
sue,
per curiosità.
Alex
e Maggie portarono Jamie dentro a dormire e Leslie iniziò a
riempire
Ivy di domande sul veleno che aveva usato, anche se la ragazza non
sembrava ben disposta a condividere i segreti del mestiere.
Considerando che stando col sedere sulla sedia non arrivava
più ai
biscotti, Harley decise sbuffando di alzarsi. E Lena Luthor
portò
via il vassoio, sparecchiando tavola. Si sedette allora a peso morto,
sbuffando più forte, notando con un secondo di ritardo che
Ivy
gliene porse uno davanti al naso.
«Oooh,
ti amo». Lo prese e l'altra scoccò le
sopracciglia.
«Lo
so».
Lo
mandò giù in un sol boccone.
Che
strano sentimento era l'amore. Capace di smuovere mari e montagne
quando a rendere felici e pure quando a rendere tristi. Prima il
grande giubilo, dopo il pesante dolore. Un processo inevitabile, un
tentativo continuo destinato al fallimento. Di qualunque amore si
vada a parlare, valeva sempre la pena soffrire pur di provare
qualcosa. Erano quelle le regole del gioco.
Era
così anche per Ferdinand, che allungava un braccio per
prendere i
pacchi di riso dallo scaffale più alto, al market, e si
ritrovava
ancora a incantarsi a osservare quella donna, sua madre; fine,
vestiva con un golfino anche con quelle temperature, aveva i capelli
castani, tinti, che le arrivavano poco sopra le spalle, il naso che
somigliava proprio al suo, largo ai lati, che teneva in su gli
occhiali da vista a mezzaluna. Non poteva credere che un grosso omone
come lui fosse venuto su da una piccola donna come lei. L'aveva
ritrovata da tredici anni, per quello ricordava bene quanto tempo era
passato da quando lavorava per i Luthor. Era stata lei a trovargli il
lavoro, lei
che teneva quella famiglia sott'occhio da tempo. Le doveva la vita.
Si
pensava che l'amore verso i propri genitori fosse innato; anche
quando questi abbandonano i loro piccoli sentono un senso del dovere
nei loro confronti per il solo fatto di esistere. O almeno
così era
per lui, probabilmente. Non certo per Pamela Isley. Si era ammutolita
da quando lei e Harley entrarono all'interno della camera che Lena
aveva concesso loro per cambiarsi. Di fatto, la sua ragazza parlava
abbastanza per tutte e due. Maggie Sawyer e l'accademia, i biscotti,
Alex Danvers e come avesse spifferato a tutte i fatti loro, la glassa
dei biscotti, poi si era sgranchita le ossa davanti allo specchio,
chiedendosi quante camere da letto avesse quella casa e se potesse un
giorno fungere da albergo. Aprirono il trolley e sistemarono i
vestiti da indossare sulla spalliera di una sedia e Ivy ne
restò
imbambolata, passando le mani sulla stoffa del suo, di un verde scuro
e luminoso. Harley doveva aver iniziato a fissarla dato che smise di
parlare. Sperava di farla distrarre con la sua solita parlantina, lo
sapeva, ma non sempre bastava.
«Ehi,
guardami», allora le colse il volto basso con una mano,
forzandola
ad alzare gli occhi verdi. «Noi non ci vergogniamo di chi
siamo, lo
hai detto tu, ed è vero. E tu non sei loro, non sei lui, sei
fuori
dalla loro casa e dalla loro vita, no?».
Ivy
andò lentamente a rifugiarsi fra le sue braccia, stringendo
le mani
a pugno. Sentiva di aver bisogno più che mai di quel calore.
«Lo
sai che non posso parlartene», Lucy non era troppo distante
dalla
loro porta, fermata da Kara prima che anche lei si andasse a cambiare
per la festa. «Ti ho detto quello che potevo, il resto
è
confidenziale».
«Hai
ragione, ma-», sbuffò un poco, anche lei sapeva
che non c'era
nessun ma.
«Vorrei solo avere qualcosa di meglio in mano,
perché tu mi dai
speranze su Lex m-ma Lena e Selina me le smontano alla prima
occasione».
«Selina?»,
Lucy rise appena, «Quella che ha ammesso senza
difficoltà di essere
una ladra?».
«Non
sai com'è la sua vita… E per Lena che scusa
hai?», la guardò con
un sorriso e Lucy ricambiò, abbassando lo sguardo.
«Va
bene, ascoltami… Siamo andati in uno studio televisivo, Lex
ne era
ospite. Ma hanno registrato a porte chiuse, so che Lex voleva parlare
di Maxwell Lord ma non so altro, purtroppo. Non pensare che lui mi
dica tutto, vuole solo che lo accompagni e che gli dia qualche
consiglio. Non è per niente facile come cliente,
comunque». L'altra
la ringraziò e stava per andarsene che Lucy la
bloccò. «Questa
cosa deve restare tra noi, Kara, non puoi parlarne con
nessuno».
«Dovremo
parlare di questa vendita tutte insieme, l'ho promesso a Selina e-e
anche Alex… Okay»,
deglutì e si scambiarono uno sguardo, finché Lucy
non sospirò
vedendola andar via.
Immaginava
che stesse andando da Lena Luthor. Non che non fosse un'intelligente
e bellissima ragazza, ma non capiva appieno cosa ci trovasse Kara in
lei.
A
volte, sembra che ci si trovi a soffrire per amore prima ancora che
possa esserci una sorta di felicità, come un potenziale
inespresso.
O espresso in breve, passeggero, come una stella cadente destinata a
sparire. Era così che si sentiva Selina Kyle. Sperava di
potersi
concentrare su Maxwell Lord e quella vendita, ma il mondo intero
pareva ricordarle di Bruce Wayne, ancor prima che ci si mettesse di
mezzo Ivy. Lo aveva allontanato dalla sua vita dicendogli di darle
spazio perché aveva da fare, ma lui continuava a scriverle
di
vedersi, e di non ignorarlo. Forse Bruce avrebbe cominciato a credere
di aver sbagliato qualcosa. Erano diversi, in fondo Selina sapeva che
si stava prendendo in giro e che un giorno avrebbe dovuto
dimenticarlo lo stesso.
Faceva
male la verità. Perché quella era la
verità, giusto? Una verità
che per troppo tempo aveva covato dentro Megan Morz, che si era
sempre mostrata sicura della sua relazione con John Jonzz con lui al
suo fianco, impensierita e timorosa nel suo intimo. Un uomo
più
grande, divorziato, con due figlie, ma cosa le era saltato in testa?
E dopo Armek, per giunta. E ora stava lottando tra la vita e la
morte…
Attendeva
seduta fuori, su uno sdraio. Il cellulare in tasca, lo sfilava dai
pantaloni per controllare che non ci fossero novità ogni
pochi
minuti e allora sospirava, dando una carezza a Nana coricata ai suoi
piedi, che provava a prendere sonno. Non riusciva a fare a meno di
pensare come, in fondo, le cose sarebbero potute andare diversamente
in quella giornata a Marsington. Se lei e Kara fossero rimaste, o se
avesse insistito per andare via di lì insieme,
John… Marsington si
stava vendicando. Armek lo aveva fatto. Alzò gli occhi
quando si
accorse che non era sola, squadrando Lucy Lane con indosso un abito
porpora che si sedeva sullo sdraio accanto al suo. Non serviva
chiederle cosa volesse, le fu sufficiente lo sguardo.
«E
tu ne sei uscita, alla fine?».
Non
era così facile uscire da una situazione con partner
violenti,
glielo aveva detto lei. Appoggiò la testa sullo sdraio e
trattenne
il fiato, guardando da un'altra parte. «Non come
vorrei», sussurrò.
«No».
L'amore
poteva lasciare cicatrici profonde. Lo si lascia entrare e questo
finisce per legarsi tanto stretto da far paura, a un certo punto.
Anche quando si pensa che andrà meglio perché si
vuole che vada
meglio e lo si era deciso con la persona che si ama al proprio
fianco. Almeno ci si prova.
Maggie
ricevette una notifica al cellulare appena entrarono in camera per
cambiarsi e fu sollevata che Jamie dormisse ancora, perché
Alex era
nervosa e non voleva litigare. Non in quel momento, non dopo ieri,
non dopo quella notifica. Quella notifica avrebbe potuto cambiare le
loro vite per sempre. Eppure, quando Alex scorse la sua compagna
intenta al telefono invece di parlare con lei, appena le rivolse
parola, si infastidì. Ci mise un po' per guardarla, ne
contò i
secondi.
«Scusa
per prima. Non volevo rubarti la scena». Maggie spense il
monitor
del telefono e camminò verso gli abiti, recuperando quello
rosso di
Alex e il suo, blu notte. «Ancora non ci credo che sei andata
in
boutique a prenderli», sorrise. Un bel coraggio, dopo il
licenziamento.
Alex
prese fiato. «Non mi hai rubato nessuna scena, è
che… potevamo
parlarne prima», allargò le braccia,
«ero spiazzata, mi hai
lasciata senza…».
«Ero
spiazzata anche io quando ti sei messa a parlare di loro davanti a
tutte», inclinò la testa da un lato, voltandosi.
«Capisco perché
lo hai fatto, ma quelle ragazze… Conosco alcuni ambienti di
Gotham
e anche io ho letto di loro, non hanno una situazione
facile».
Lasciò l'abito sul letto quando scorse la compagna
allontanarsi
qualche passo. Sapeva perché era nervosa, dopotutto.
«Tuo padre è
pulito, Alex», sussurrò a quel punto,
avvicinandosi a lei. Era
quello il pensiero che la tormentava. «Avrà usato
un altro
cellulare, vedrai. Da come mi hai parlato di lui, è molto
improbabile che possa far parte dell'organizzazione». Quelle
perlomeno erano le sue speranze, ma perfino Maggie riconosceva che la
cosa non la convinceva, nel profondo. Lo avrebbe scoperto, se fosse
stato. Le mancava poco per essere dentro, poco per
accettare…
Guardò un'ultima volta il suo cellulare lasciato sul letto.
Avrebbe
accettato? Aveva scelta?
Si
prova a fare del proprio meglio quando si tratta delle persone a cui
più si tiene. Forse, l'amore era anche questo: solo provare
e stare
a vedere come andrà a finire.
Kara
baciò Lena tra le spalle dopo averle chiuso il suo lungo
abito nero,
poi le lasciò i capelli, odorandone il forte profumo. A
volte
comprendeva la smania di Harley per odore i capelli delle persone, ma
quasi certamente era solo un tipo di capelli quello a far impazzire
lei.
«Sei
silenziosa», sibilò Lena e Kara fremette una
risata intanto che
l'altra si girava, prendendo a tirarle in su i capelli e vedendo come
le sarebbero stati con il vestito celeste e argentato che indossava.
«Posso prestarti una collana e un fermacapelli argentati.
Vuoi?»,
la guardò negli occhi per cercare conferma e
trovò dell'altro.
«Lane ti ha detto qualcosa su Lex e non puoi dirlo,
vero?».
Kara
gonfiò le guance e infine esplose: «Okay,
forse», gesticolò,
«Fo-Forse posso dirlo se… in fondo non
è…».
«Oh,
no, non vorrei farti infrangere una promessa fatta alla tua migliore
amica», assottigliò gli occhi e andò
spedita verso la cabina
armadio, aprendo le ante.
Lei
fece una smorfia con le labbra, contenendo un sorriso smaliziato.
«Oookay.
Lucy non è la mia migliore amica. E comunque mi siete
sembrate
andare d'accordo. Parecchio… abbastanza
d'accordo, diciamo».
«Ci
si può parlare», sentenziò. Le
mostrò due fermacapelli, alzandoli
per riuscire a immaginarli sulla sua figura. «E la conoscevo
prima
di te. Di vista. Questo»,
ne scelse uno, tornando indietro per rimettere l'altro al suo posto.
«È qualcosa che ci aiuterà?».
Kara
planò il suo sguardo a soffitto.
«Forse».
Indigo
era davanti alla loro porta, appoggiata accanto allo stipite con la
testa, pensierosa. Non si era cambiata d'abito, forse sperava ancora
che le avrebbero permesso di restare. Avrebbe perfino accettato di
fare da babysitter alla piccola Sawyer se necessario, non avrebbe
nemmeno voluto essere pagata. Stringeva il cellulare con la mano
sinistra e si mordeva le unghie della destra. Diamine.
Strinse gli occhi. Davvero potevano obbligarla a partecipare? Era
così soprappensiero che non l'aveva sentita arrivare, con
indosso
uno smoking blu scuro, e appoggiarsi al muro dall'altro lato con
un'insolente sorriso stampato in faccia.
«Allora,
lui ci sarà?».
La
voce di Leslie era fredda e perentoria, tanto che Indigo si
sentì
fremere. «… lui chi?».
«Oh,
sai di chi parlo. Non credere che questi trucchetti funzionino anche
con me come con loro», le sorrise ancora, allargando le
spalle e
portando un biscotto alla bocca. Stava per dire qualcosa che un pezzo
del biscotto le cadde sul tappeto e si ghiacciò, mostrandole
il
palmo della mano per aspettarla, chinandosi e tastando ai suoi piedi.
«Non
ne stai mangiando troppi?».
«Sei
la mia dietologa?», abbaiò, fermandola quando la
vide andarsene.
Nascose il pezzo sotto al tappeto, scambiando uno sguardo
intimidatorio con lei. «Il famoso garante sarà
alla festa?».
«Ci
sarà un sacco di gente alla festa»,
rivelò lapidale, «Odio i
posti affollati». Si allontanò e Leslie
pensò di ricordarle che
sarebbe il caso si andasse a cambiare, era ora e presto avrebbero
discusso della serata.
Non
sbagliò: poco dopo Lena e Kara uscirono dalla camera e si
ritrovarono tutte al piano di sotto, in salone, per parlare di cosa
le avrebbe aspettate di lì a poco. Megan pensò di
fare loro delle
foto, intanto; se non altro spendeva al meglio il suo tempo prima che
la riaccompagnassero in centro.
Selina
Kyle pareva pronta per andare a processo, con uno sguardo funereo.
Neanche riuscì a sedersi, preferendo camminare in tondo
accanto a un
tavolo dove si erano sistemate. Kara portò dei fogli e delle
penne e
Alex si munì di una di loro, sistemandosi al suo fianco.
Maggie si
sedette accanto a Lucy, sul divano, mentre Harley e Ivy dividevano
una grande e soffice poltrona. Leslie si era appoggiata al
pianoforte, sorseggiando un bicchiere di vino che Lena portò
dalla
sala da pranzo, offrendone alle altre. Indigo, invece, scelse di
tenersi distante ancora una volta, seduta sugli scalini che
dividevano il salone dall'ingresso. Aveva indossato un abito corto
appena sotto alle ginocchia, stretto, non si sa come riuscì
a
sedersi, ma non le andava di stare là in mezzo e, di tanto
in tanto,
quando aveva finito di sorvolare sui volti di tutte, si focalizzava a
osservare Lena, come se lei potesse essere il suo punto di arrivo.
«Qualcuna
di voi già lo sa: questa mattina, Alex ed io siamo andate a
trovare
Lord», annunciò Kara, giocando distrattamente con
una penna in
mano. «Volevamo tentare un'ultima volta di dissuaderlo, ma
come
immaginerete non ha funzionato». La penna le
scivolò dalle dita e
la acchiappò al volo mentre la sorella finiva di disegnare
qualcosa,
prendendo poi il comando:
«È
una grande villa circondata da un muro di cinta e un cancello. La
festa si svolgerà al piano terra»,
indicò un punto sul foglio, in
quella che pareva una piantina composta da linee imprecise,
«in un
immenso salone che apre a un grande cortile con piscina. Lo stavano
ripulendo al nostro arrivo. Il salone è circondato da
vetrate tranne
che a nord-est, dove abbiamo un corridoio e delle porte, tra cui un
bagno, la prima, e le scale per passare al piano di sopra. Al piano
di sopra c'è uno spazioso soppalco. Se c'è una
cosa che abbiamo
notato Kara ed io, è che ogni membro del personale di Lord
ha per il
cinto una chiave magnetica, ma non sappiamo cosa apre e non siamo
riuscite a salire di sopra con una scusa-».
«Ah!»,
Kara la la bloccò e Alex chiuse gli occhi d'istinto.
«La scusa per
salire di sopra era a portata di mano, ma Alex non ha
voluto…»,
sogghignò arrossendo e uno sguardo di Maggie le fece perdere
il
sorriso, «e ha fatto bene, emh,
ovvia-ovviamente, s-scherzavo».
«Non
siamo riuscite a salire di sopra», ripeté la
maggiore alzando la
voce.
Lucy
deglutì, osando farsi avanti: «Perché
ce lo state dicendo? Cosa
pensate che faremo?».
Kara
e Alex si guardarono, e dopo anche Lena, che annuì a sua
volta. Fu
la seconda a parlare: «Non lo sappiamo. Ditecelo
voi».
Scandagliarono i volti delle presenti e Leslie rise di gusto,
innalzando il bicchiere.
«Sono
colpita», prese parola Selina, incrociando le braccia al
petto.
«Fuori com'è? Avete notato un capannone, un garage
o…?».
Kara
tentò di disegnare qualcosa, ma era solo il frutto di
qualche riga
scomposta. «Il muro di cinta e gli alberi coprono gran parte
della
proprietà», cerchiò con una penna gli
scarabocchi. «Non siamo
riuscite a vedere molto se non che il complesso è molto
grande.
Entrando dal cancello non si vede niente, c'è il sentiero e
si
arriva al portone».
«Ma»,
riprese parola Alex, «abbiamo notato telecamere
ovunque», aggiunse
guardando Indigo e tutte si voltarono. «Sempre se…
ti interessa
aiutarci».
Lei
per tutta risposta allargò le narici e allungò lo
sguardo a Lena,
che la guardava a sua volta. «Ci devo pensare».
Lucy
nel frattempo guardò Kara e quest'ultima sospirò,
scrollando le
spalle e scuotendo amaramente la testa.
Selina
era convinta che avrebbe potuto fare solo due cose: introdursi nelle
camere e cercare un modo per ricattarlo, o godersi quella serata da
ospite, come le succedeva solo quando aveva Bruce Wayne al suo
fianco. Anche se non aggiunse questo particolare ad alta voce.
Inutile furono i tentativi di Alex di spiegarle come sarebbe stato
impossibile arrivare alle camere senza farsi notare dal numeroso
personale di Lord, ma lei non batté ciglio. Usare qualcosa
per
ricattarlo poteva rivelarsi l'unica scelta possibile, perché
conoscere anche l'intero perimetro di quella villa non sarebbe
servito a nient'altro. Pensavano di trovare nella sua casa la formula
e distruggere quella e tutte le scorte? E il suo locale a Gotham? E
la Lord Technologies? Sarebbe stato così ingenuo da tenere
tutto in
unico punto? Per questo Kara era grata che ne stessero parlando tutte
insieme e non faceva che ricordarlo, ma ognuna aveva un'idea diversa.
Così intervenne Harley per spiegare come la sua idea potesse
essere
la migliore, intenta ad accarezzare Nana accovacciata addosso a lei:
fantasticò su un ipotetico scenario in cui avrebbe distrutto
la sua
casa, cacciato gli ospiti e così costretto Maxwell Lord ad
arrendersi. E magari in lacrime. Ivy era quasi certa che l'unica cosa
che sarebbero riuscite a fare era casino, ma in fondo le piaceva il
piano di Maggie secondo cui sarebbe stato meglio prendere da parte
Maxwell Lord e Lex Luthor e farli confrontare, giusto per capire se
per loro valeva davvero la pena farsi la guerra in quel modo dove ci
sarebbero finite di mezzo altre persone. Leslie non perse occasione
per chiederle come avrebbe agito se avesse avuto a disposizione
l'organizzazione e, con le ragazze di Gotham e Megan perplesse, lei
non rispose e dalle altre si prese solo occhiatacce. A pensarci, e di
certo lo disse anche per cambiare discorso, Lena neppure sapeva come
e quando quei due avevano dato vita a quella rivalità.
Lucy
Lane era più cauta e rimase ad ascoltare le altre e loro
divergenze
senza muovere un muscolo, alzandosi per andare a riempirsi il
bicchiere di vino. Cosa aveva da perdere? Avrebbe già fatto
arrabbiare suo padre che di certo non sarebbe rimasto con le mani in
mano e sarebbe stata punita. Lo sapeva, lo aveva messo in conto ed
era già un gran sacrificio considerando quanto aveva
lavorato per
arrivare dov'era. Ma pensava sarebbe stata coperta come avvocata, che
avrebbe fermato quell'accordo per vie legali. D'altra parte, Lex
Luthor era un rebus e aveva accettato di fargli da avvocata se si
sarebbe preso le sue responsabilità, cosa non mai stata
certa. In
fondo, non sapeva davvero cos'era andato a girare nello studio della
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Channel.
«Scusatemi,
ferme tutte». Megan interruppe il chiacchiericcio e le
presenti si
voltarono verso di lei, seduta sul divano. Lasciò che Alex
passasse
per andare a controllare al piano di sopra che Jamie dormisse ancora
e indurì il suo sguardo. «Di cosa si sta parlando?
Credo che tutte
qui dentro sappiano cosa hanno fatto quelle pillole a Kara, giusto?
Vi sembrerò un'ipocrita perché non devo andare a
questa festa e non
rischio nulla, ma si sta parlando di fermare qualcosa di grosso. Se
fallite nel vostro intento quelle pillole finiranno per fare del male
ad altri. Abbiamo delle persone adulte che non si prendono le proprie
responsabilità o che guardano solo ai propri profitti,
giocando di
fatto col fuoco. Io capisco le titubanze e che ognuna di noi abbia le
proprie convinzioni e i propri limiti, ma ha ragione Kara, non
possiamo permetterci di pensare ognuno per sé e perdere in
questo
modo l'ultima occasione», deglutì, stringendo le
labbra. «Dobbiamo
trovare dei punti d'incontro e rinforzare quelli. Fare gioco di
squadra», adocchiò per un attimo Selina, che
rivolse altrove i suoi
occhi. E poi ad Harley, che scorse con la coda dell'occhio intenta a
legare i peli intorno al viso della cagnolina con degli elastici
colorati. La stava distraendo. «O meglio voi
farete gioco di squadra», aggiunse debolmente, in un sorriso.
«A
mali estremi, estremi rimedi».
Kara
le lanciò uno sguardo colmo d'orgoglio e tutte si fermarono
per
pensarci, in silenzio, e a Lucy Lane sembrò il momento buono
per far
sapere la sua, lasciando il bicchiere sul tavolo.
«Abbiamo
un video», annuì lentamente, finendo di deglutire.
«Mio padre ha
un video; il video della dimostrazione sulla reazione di queste
pillole che lo ha convinto a firmare l'accordo con Lord. Questo video
non evidenzia solo il successo, c'erano stati altri
soggetti»,
incalzò, tenendo per un attimo basso lo sguardo. Nessuno
poteva
capire la vergogna che provava nel dire quello che stava per dire.
«Ci sono state diverse reazioni… Due di questi
soggetti sono
tuttora in cura presso la Lord Technologies. Sono informazioni
riservate dell'esercito», incrociò le braccia al
petto e le guardò
una a una. Lo sguardo di Kara era così sorpreso e deluso che
per un
attimo le fece male. Riprese fiato, facendosi coraggio: «So
dove
possiamo acquisire questo video», concluse. «A mali
estremi,
estremi rimedi».
Ferdinand
finse di sistemare lo specchietto retrovisore interno per poter
ancora una volta osservare sua madre, mentre l'accompagnava in auto.
La donna teneva lo sguardo fisso sul finestrino ma non sembrava
veramente interessata al panorama, quanto più ai pensieri
che
frenetici le vorticavano nella mente. Aveva le labbra fini con un
accenno di rossetto rosa e brillante sigillate, seria e
imperturbabile, gli occhiali bloccati sul piccolo solco sopra la
gobba del naso. Fermò la vettura davanti a spesse e alte
mura di
cinta bianche e la signora aprì la portiera. Ferdinand non
sarebbe
entrato con lei, ma le disse di chiamarlo se avesse avuto bisogno.
Così la donna si tirò in giù le
maniche del golfino e si stirò la
gonna, prima di mostrarsi davanti al cancello nero della villa e di
essere fermata da una delle guardie. Era presto per la festa, ma lei
non era un'invitata.
Maxwell
Lord era agitato. Altre volte si era sentito tanto su di giri, ma era
da tempo che non si buttava in qualcosa di così grosso.
Quella sera
segnava un giorno importante per la sua vita, per la sua carriera e
realizzazione personale. Si sistemò i polsini della camicia,
celeste
fuori e bianca all'interno, che indossava, camminando lungo un
corridoio al piano di sopra, finendo per affacciarsi, con le mani
poggiate sul corrimano, al salone sottostante dove quasi tutto era
ormai pronto e gli addetti ai lavori correvano da una parte
all'altra. Teneva d'occhio l'ora sull'orologio al polso quando una
donna con un lungo e sinuoso abito ramato gli si affiancò
davanti al
corrimano.
«Una
signora al cancello vuole vederti», gli sussurrò
Veronica Sinclair.
Era
strano saperla lì, era da un po' che non si faceva vedere.
Diede
subito l'ordine di farla accomodare. Maxwell aprì la porta
dello
studio e lei era lì, seduta con le gambe chiuse, strette in
una
gonna dai toni caldi, con su le mani poggiate a pugno. Era bello
vederla, ma allo stesso tempo si domandava cosa volesse.
Appena
si accorse di lui la signora si alzò, gli sorrise e
andò ad
abbracciarlo così come avrebbe fatto una vecchia zia,
lasciandogli
un bacio su una guancia mentre lui si chinava. Gli strizzò
poi
entrambe le guance, non mancando di esaminare a lungo il suo volto.
«Non sei cresciuto troppo», rise.
«L'ultima
volta che ci siamo visti era quanto… due anni fa? Cosa ti
porta
qui?».
«Sentivo
il bisogno di vederti, giovanotto», si sedette e lui sulla
sedia al
suo fianco, invece che andare dall'altra parte della scrivania.
«Di
ammirare più da vicino i tuoi successi. Ho sentito di una
certa
festa…».
Maxwell
arrossì un poco, imbarazzato. «Avessi saputo fossi
da queste parti,
ti avrei invitato. Non capita a tutti di avere la babysitter che ti
guardava da bambino accanto che si assicura su chi sei
diventato».
Lei
sorrise e scosse la testa, annuendo e infine prendendogli le mani con
le sue. «Io sarò sempre fiera di chi sei
diventato. L'altro ieri
era l'anniversario della morte di tuo padre», si
intristì, ma il
giovane preferì non guardarla negli occhi, non subito.
«Sono andata
a trovarlo, in cimitero. Gli ho lasciato dei fiori freschi. Da quanto
non vai?».
Maxwell
aprì bocca e sospirò piano, cercando di non
farglielo notare. «Da
tempo. Sono stato occupato».
Lei
scrollò le spalle e si guardò intorno,
meravigliata. «Ci credo che
sei occupato, giovanotto, hai costruito tutto questo… Ma non
vorrei
che dimenticassi», richiuse le labbra e lo fissò
con
concentrazione, dietro le lenti degli occhiali, «Che
dimenticassi
ciò che gli hanno fatto. Ciò che hanno fatto a
tutti».
Il
giovane abbassò per un attimo gli occhi, decidendo
mestamente di
sorriderle. «Non posso dimenticare, Margot. Non
posso».
Qualcuna
aveva detto che le mancavano i miei capitoli lunghi? Capitolo lungo,
corposo, ricco di dettagli e personaggi (non mi ero accorta che
fossero tutte donne quando mi sono messa a scrivere, che coincidenza
XD), e… ehi, ha detto Margot?!
Maxwell Lord ha detto Margot?
Dove l'abbiamo già sentita? Che poi ehi, aveva
già parlato di una
certa babysitter con Alex proprio in vista di questa festa, quando
l'aveva invitata… Quando era? Ma certo, capitolo 55.
Amore e altri drammi.
E sarà poi una coincidenza che anche questo capitolo sia
così
fortemente incentrato sull'amore? (Spoiler: sì, non era
voluto, ma
che figata)
Chissà
poi se le nostre ragazze, nonostante tutte le divergenze, siano
riuscite ad elaborare un piano. Lo scopriremo nel prossimo capitolo!
E
sì, le divergenze sono state tante. Da una parte le ragazze
di
Gotham che sono abituate a una vita molto diversa e per certi versi
più dura, dall'altra ragazze abituate a contare sulle
istituzioni
come la polizia, pronte o quasi ad avvicinarsi all'altro lato della
medaglia ora che la polizia e altre alte cariche sono corrotte, e lo
sanno bene.
Selina
Kyle è stata un po' nel centro della vicenda
perché da sempre
fortemente restia sia a fidarsi in generale, che a fidarsi di persone
come Lucy o come, di fatto, Bruce Wayne, con cui ha iniziato una
relazione. Una relazione combattuta, lei si sente quasi a
metà fra
due mondi.
E
abbiamo conosciuto un altro lato di Ivy e Harley: tese
perché l'ex
ragazzo della seconda non si trova più agli arresti, pronte
a
commettere un omicidio pur di sentirsi libere perché consce
di non
poter fare altrimenti, senza contare come la prima si sia sentita un
po' ferita dal suo passato raccontato da Alex.
Alex,
in ogni caso, non voleva dire quelle cose per ferirle, voleva solo
far capire loro come, in fondo, erano tutte lì insieme dalla
stessa
parte, anche se non sembra essere riuscita in quanto sperato. Fosse
stata un po' meno aggressiva, chi lo sa… Ci ha pensato
Maggie.
Forse Zod l'ha vista lunga sul suo conto, dopotutto… Anche
se ad
Alex ha infastidito che le abbia parlato sopra in quella maniera, lo
abbiamo notato tutti.
Chi
è stata a dare una buona svegliata a tutte è
Megan; l'unica che, di
fatto, non era veramente coinvolta con la festa, l'accordo Lord-Lane
e il resto. È stata tanto decisiva che Lucy si è
fatta avanti,
parlando di quel video. Se Lex non vorrà far qualcosa, ora
hanno una
chance di cambiare tutto.
Come
al solito, Kara cerca di risolvere la situazione e far andare
d'accordo tutte. Mentre Lena, anche se in momenti così
delicati, è
felice perché ora è circondata da amiche. Come
darle torto, fino a
un anno prima, ricordiamo, era sola. Mai tanto chiasso in macchina e
neppure in villa, può confermarlo Ferdinand che…
oh, già, il
nostro autista preferito Ferdinand porta sempre novità: non
solo
lavora per chi paga, come ad esempio il garante di
Indigo, ma
sua madre!! Sua madre è la vecchia babysitter di Maxwell
Lord,
quella che lui aveva citato una volta parlando proprio d'amore,
l'amore che lei provava per suo padre. E nientemeno si chiama Margot,
che abbiamo già sentito da qualche parte…
Un
giorno verrete chiamati a collegare i puntini! Ma no, tranquilli, vi
aiuterò io; sarò lì a collegarli con
voi :D
Chi
sto dimenticando? Veronica Sinclair? Lex Luthor e il loro
appuntamento al bar di mattina presto? Leslie Willis e la sua fame
incontrollata? Indigo che non vuole andare alla festa? Eh no, non ci
vuole proprio andare, ma pare sia costretta.
E
con questa mi dileguo. Spero che il lunghissimo capitolo vi sia
piaciuto perché dovrete aspettare sabato 10 aprile per
leggere il
prossimo: La verità.
Chissà
quanta gente ci sarà alla festa di Maxwell Lord
°°
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Capitolo 74 *** 67. La verità ***
Ogni
volta che si presentava una festa di quel tipo, Lena aveva un solo
pensiero per la testa. E probabilmente era lo stesso di Kara.
Sapevano che Lionel Luthor era stato ucciso da una persona che lo
conosceva; da una persona che, se lo conosceva, frequentava feste di
quel genere. Doveva trovarsi ai ranghi alti della società;
qualcuno
che, magari, conosceva anche loro. Sua madre Lillian considerava un
sospettato, però. E doveva essere legato a doppio filo
all'organizzazione se, nel fare il suo nome, lei avrebbe rischiato di
mettere loro nel mezzo. Qual era la verità, chi era e
perché
l'aveva fatto? Valeva la pena identificarlo e poi metterlo con le
spalle al muro, se rischiavano di far cadere altre teste? Non che
fosse preoccupata per i membri dell'organizzazione, o forse un po'
per il ragazzo di Leslie Willis che tutto pareva tranne che una
cattiva persona, ma sua madre… Sarebbe caduta anche la sua
testa.
La loro famiglia allargata si sarebbe spezzata a metà. Ed
era la
prima volta che sentiva di avere una vera famiglia. Astra Inze era
sulle sue tracce in qualunque caso però e non avrebbe
lasciato che
se ne occupassero tra loro, l'organizzazione non doveva arrivare per
prima. Lena doveva sapere la verità. Almeno la
verità.
Quando
Carina Carvex si presentò da Maxwell Lord, la festa era
già
iniziata. Luci rosse bucavano le finestre di quella grande villetta
bianca a limitare di una strada, appena fuori National City. Due
guardie controllarono il suo invito e le tennero aperto il portone.
C'era molta più gente di quanta si aspettasse e una musica
classica
fastidiosa in sottofondo alle loro pacate risate mentre formavano
branchi e si ingozzavano di manicaretti presi dal buffet.
Accartocciò
l'invito e lo lasciò dentro un bicchiere con bollicine al
tavolo più
vicino, camminando lentamente, spostandosi in mezzo agli invitati,
sperando di inquadrare quante più facce potesse per trovare
quella
di suo interesse. Sapeva che Phillings era lì, Lord non
poteva non
averlo invitato per pavoneggiarsi del suo successo, e lei gli aveva
promesso una chiacchierata a quattrocchi, dopotutto.
Continuò a
guardarsi intorno e non poté non notare i quadri sulle
pareti che,
con quella luce rossa e soffusa che veniva schizzata da più
punti
del pavimento, sembravano muoversi: onde del mare, cascate di lava,
prati fioriti guidati dal vento, ballerine in tulle rossi che
danzavano nel vuoto. Maxwell Lord doveva avere un certo gusto per
l'arte. E per la sicurezza: non era difficile constatare che era
pieno di uomini e donne in divisa che non erano dei semplici
camerieri.
«Carina!».
Si
voltò, ritrovando in fretta il suo sorriso migliore
nell'inquadrare
Alex Danvers venire verso di lei con un meraviglioso abito rosso che
risaltava le sue forme. Era bella. E con quella luce,
accidenti…
Non avrebbe potuto negarlo. «Wow… Ci conosciamo?
Somigli vagamente
a una mia collega, ma di solito non è tanto sexy».
Rossa
sulle gote, si lasciò andare a una risata canzonatoria,
spostandosi
un ciuffo di capelli dietro un orecchio. «Sì, fai
la spiritosa.
Neanche tu solitamente sei tanto…»,
alzò il palmo di una mano,
squadrando da capo a piedi la collega che indossava un tubino corto
senza spalline color zaffiro, stretto sulle gambe lunghe e nude,
«beh, provocante».
«Come
no?», sorrise, «Ero convinta che la divisa
sottolineasse le mie
curve migliori», si passò una veloce mano sulla
coscia destra. «A
te lo fa», disse veloce, sorpresa quando, accanto all'altra,
sbucò
la sua compagna a porgerle una mano, l'agente Sawyer. «Ci sei
anche
tu! Piacere di rivederti».
«Ma
guarda un po'…». Maggie la fissò con un
sorriso, prima della sua
compagna. Era curioso il foulard intorno al collo, in pendant con
l'abito che indossava.
«Se
hai sentito… sto scherzando. Non ci sto provando con
lei».
«Ma
non mi sarebbe mai venuto in mente…».
«Scherza
di continuo», confermò Alex e Maggie le strinse un
braccio, non
lasciando andare il suo sorriso.
«Sarà
uno spasso a lavoro», inchiodò con lo sguardo una
e l'altra.
«Peccato non esserci».
Carina
stava per ribattere che lo vide, finalmente, che camminava solo ad
alcuni invitati da lei. La sua espressione tornò seria di
colpo,
dicendo di dover andare. «Non è per la pessima
figura che ho fatto,
ci terrei a stare qui ad arrampicarmi metaforicamente sugli
specchi»,
sorrise, «ma devo andare a parlare con un vecchio amico, mi
deve dei
soldi, e l'ho giusto intravisto passare…».
Strisciò dietro di
loro, ma lo aveva perso. Dannato Phillings, era più
sfuggente di una
sanguisuga.
«Carina
scherza. Non sarai gelosa?».
Maggie
inclinò la testa da un lato ed estrasse un lungo sorriso.
Troppo
lungo. «Avverti tu le ragazze?».
Capendo
l'antifona, Alex passò oltre ed estrasse il cellulare dalla
borsetta
a tracolla. Oh, aveva una chiamata persa da suo padre, forse voleva
parlarle di Armek. Spense il sorriso, ma non era il caso di lasciarsi
prendere ancora da quel pensiero e aprì il gruppo che
avevano creato
in comune per restare in contatto tutte insieme, scrivendo
rapidamente che la sua collega era arrivata. Stava per spegnere il
monitor che qualcuna le rispose- oh, non erano
loro.
Da
Carvex a Me
Ehi,
partner! Spero di non averti messa a disagio con la tua compagna, non
volevo.
Spense
il monitor, rimettendo il cellulare in borsetta.
«È
dell'organizzazione».
Alex
corrugò la fronte. «Non lo sai per
certo».
«Il
Generale l'ha guardata quando l'ha vista entrare».
Alex
si voltò. Riusciva a inquadrare il Generale Dru Zod che
chiacchierava animatamente non troppo distante da loro ma,
più che
guardare Carvex, pareva si girasse ogni tanto verso di loro.
«No.
Penso tu lo dica solo perché flirta con me».
«Ma
non scherzava?», stralunò lo sguardo, lasciandole
due pacche su una
spalla.
Per
tutta risposta Alex le lanciò un'occhiata canzonatoria e
Maggie ne
approfittò per darle un altro colpetto a un braccio,
riprendendo la
sua mano. Questo aiutò di gran lunga Alex quando scorse
Maxwell Lord
notarle, allontanandosi con lei di fretta. Quando erano arrivate, il
giovane era riuscito appena a salutarle, c'era molta gente che
richiedeva la sua compagnia e se riuscivano a fare a meno di
parlargli ancora, era tanto di guadagnato. Poteva aspettare.
«Okay»,
Kara lesse il messaggio e prese fiato, alzando lo sguardo a Lena e a
Indigo che, appoggiata di spalle contro un muro, sembrava volersi far
ingoiare da questo, appiccicata, guardandosi intorno con occhi
spiritati: pareva cercare di camuffare la tachicardia. «Non
dobbiamo
farti incontrare con questa Carvex», Kara si
riguardò alle spalle,
«Lei sa che sei mia cugina, Maxwell Lord che lavori per il
D.A.O.,
meglio non fare confusione. E-E visto che ci sei, magari stai pure
alla larga da Zod».
Indigo
lo scrutò per un attimo e girò subito lo sguardo.
«Come se volessi
andarci a passare il mio tempo».
«In
qualunque caso, il tuo nome è Linda», le
ricordò Lena. Indigo le
rivolse un'occhiata e lei non perse tempo per portarle i capelli
dietro le spalle, che aveva lasciato sciolti. Sembrava più
pallida
del normale. «Ti senti bene? Se non te la senti, non devi
farlo per
forza».
Era
quasi tentata di dirle che sarebbe tornata a casa. Voleva, voleva
disperatamente tornare a casa, a costo di farsi tutto il tragitto a
piedi con il buio. Non poteva fare ciò che le chiedevano,
non poteva
e lì dentro… troppa gente, troppa gente. E
lui… Doveva cercare
di contenere il panico, doveva essere più forte. Avrebbe
superato
anche quello. Si portò un'unghia della mano destra in bocca,
non
riuscì a farne a meno, poi prese un bel respiro e, chiudendo
per un
attimo gli occhi, decise. «Ci sono. Devo solo prendere un po'
d'aria».
Si
allontanò di corsa verso l'esterno e Kara e Lena si
scambiarono uno
sguardo preoccupato. Ma non erano le sole a interessarsi a Indigo e
Leslie Willis non si perse i suoi frenetici passi per raggiungere il
cortile. La luce rossa rifletteva i suoi capelli d'argento. Avrebbe
tenuto d'occhio Elsa,
o almeno così pensava prima che Cat Grant, in tailleur
bianco e
scarpe alte, la rimproverasse per dirle di tornare al lavoro. La sua
sfortuna era non essere lì perché invitata, ma
perché addetto
stampa.
Da
Me a gruppoMiaoMiao
La
vecchia stronza vuole che mi metta a lavorare. Se incappo in qualcosa
fuori posto vi faccio sapere.
Da
Principessina a gruppoMiaoMiao
@Willis,
tu sei
qui per lavorare.
Lei
emise un leggero ringhio insoddisfatto, spegnendo il monitor e
mettendosi una mano in tasca. Guardò in giro per capire chi
intervistare, inquadrando così Cat Grant che si era fermata
a
parlare con Lord, vecchia volpe. Lo scrisse subito sul gruppo.
Da
Me a Disadattate
Volete
concentrarvi? Selina
scrisse
rapida
e inviò, allungando la bocca in una smorfia.
Selina
Kyle era seduta davanti a un lungo tavolo accanto ad altre persone,
gambe accavallate sul generoso spacco del suo vestito nero e bianco,
e guardò alle sue spalle una volta sola, disinvolta. Una
giovane
donna passò davanti a lei come un treno in corsa, non poteva
sapere
che si trattava della Carvex di cui parlavano prima. Sorrise al
cameriere che le servì da bere e si sistemò un
ricciolo scivolato
sul viso, incantandosi allo specchio disposto sul muro davanti. Si
portò le mani di nuovo sui capelli ma, furtiva, la sua
attenzione
andò dritta alla cinta del cameriere che serviva ora altri
invitati.
La chiave magnetica agganciata sulla cinta sembrava chiamarla e Ivy
si sedette accanto a lei giusto a proposito, veloce, accavallando le
gambe e poggiando un gomito sul tavolo.
«Il
padrone di casa ci ha fermate, prima», confidò,
tirando dietro un
orecchio un ciuffo rosso sfuggito dall'acconciatura alta. «Ci
ha
chiesto come stavamo e ha detto che è felice che abbiamo
accettato
il suo invito. Parlava anche per te, gattina. E non ci crederai
mai»,
a quel puntò ingigantì gli occhi,
«Abbiamo incontrato un vecchio
amico», le indicò e Selina seguì il
dito.
Uno
dei camerieri le fissava in cagnesco a qualche metro da lì,
a
braccia incrociate contro il petto. «E chi diavolo dovrebbe
essere?».
«Ma
come chi?
Non sei fisionomista. È il bel visino che ci aveva fermate
quando
abbiamo fatto irruzione alla Lord Technologies,
naturalmente».
«Ah,
già».
«Sembra
che Lord non glielo abbia dato quel premio e… pare avercela
con
noi». Lo salutò, inviandogli un bacio.
«Se
fa quella faccia anche dopo quella scollatura», bevve un
sorso,
allungando gli occhi al suo generoso seno in bella mostra,
«direi
proprio di sì. Dov'è Harley?».
Ivy
le indicò anche lei, intenta ad odorare dei fiori in un
vaso. «Si
guarda ancora intorno. Non capisco cosa stia annusando, sono tutti
finti».
Selina
bevve fino all'ultimo goccio, posando sonoramente il bicchierino sul
tavolo. «Avete fatto quel che vi ho chiesto?».
Solo
a quella domanda, Ivy tornò più seria.
«Non so se è una buona
idea».
«Lo
avete fatto?», insisté.
L'altra
stralunò lo sguardo e si arrese. «Sei fuori,
quattordici qui in
sala. Non ce la farai mai», le riservò una lunga
occhiata e Selina
indugiò. «Per non parlare delle telecamere: cinque
solo in questo
salone. Una in corridoio. Parlane prima con Supergirl. Anche agendo
nel momento di copertura… Secondo me, dovremo attenerci al
piano.
Sai che adoro quando fai di testa tua, ma adesso è troppo
rischioso».
«Il
piano potrebbe non bastare», rialzò gli occhi,
«e io ne ho sempre
uno d'emergenza». Sentì vibrare il cellulare sul
tavolo e lo prese,
ignorando Ivy che, distratta, di nuovo salutò quel
cameriere,
sventolando le dita di una mano accompagnando un gran sorriso.
Da
IspettoreCapoDanvers a Disadattate
Ragazze,
Sam Lane è arrivato. Tenetevi pronte, soprattutto @Lane e
@Kyle.
Tutte
lessero il messaggio e Selina guardò l'amica: «Si
comincia».
Chiamò il cameriere per avere un altro bicchiere e Ivy,
sorridendo,
le lasciò due pacchette su un braccio prima di andarsene.
Lucy
prese un bel respiro, infondendosi coraggio. Suo padre non era mai
stato un orco come a volte lo aveva definito sua sorella Lois, ma
riconosceva che sapeva essere austero quando voleva, forse
perché,
da loro, aveva sempre cercato di tirare fuori il meglio. E finora non
lo aveva mai deluso, mai, se non quando portava i ragazzi con cui
usciva a casa. Ma a quello avrebbe potuto farci poco. Ora avrebbe
dovuto dargli un dispiacere e non sapeva neppure da dove cominciare.
Ma era meglio essere sincera, a quel punto doveva dirgli di Lex e che
gli faceva da avvocata per fermare il suo accordo con Lord. Anche
perché, e ne era ben conscia, sarebbe stato l'unico modo in
cui
l'uomo si sarebbe inalberato a sufficienza da lasciar agire Selina
Kyle. Proprio pensando a lei, la scorse raggiungere Kara con un
bicchierino pieno in mano, dall'altro lato, e si scambiarono uno
sguardo, così annuì.
Una
parte di lei l'aveva sorpresa, quel pomeriggio, a villa
Luthor-Danvers. Non se l'aspettava e, almeno, aveva capito
perché
fosse amica di Kara, cos'avevano in comune. Aveva appena finito di
parlare loro del video dell'esercito sulle pillole che fu lei la
prima a dire qualcosa:
«E
quindi cosa, divulghiamo quel video?», Selina Kyle aveva
ringhiato,
guardando dapprima Lucy
e dopo Kara. «Soggetti?
Davvero?».
«Non
mi sembra che voi abbiate avuto idee migliori, finora», Lucy
aveva
scollato le spalle.
Ivy
aveva prontamente tappato la bocca ad Harley, che aveva alzato la
mano.
«Che
ne sarebbe della privacy-».
«Cosa?».
«Sì,
della privacy, la privacy dei soggetti,
come li hai chiamati, nel video?! Eh?».
«Davvero
ti importa più della privacy di queste persone che hanno
firmato-»,
aveva avanzato verso di lei due passi e Selina aveva fatto lo stesso,
irrigidendo le braccia.
«Scusami?».
«Hanno
firmato un contratto-», aveva alzato la voce.
«Per
quelle pillole, non per apparire in mondovisione», aveva
contestato
Selina.
«Sapevano
che sarebbero stati filmati», aveva terminato davanti a lei,
corrugando lo sguardo. «Cosa pensi sia più
importante? Fermare
quell'accordo mettendogli contro l'opinione pubblica o-».
«Se
lasci fare a me, avvocata,
l'unico nei guai sarà Maxwell Lord, senza mettere di mezzo
altra
gente».
Non
voleva sentir ragioni, ma anche Ivy doveva pensarla come Lucy e aveva
raschiato con la gola, per attirare l'attenzione. «Andiamo,
gattina,
non è detto che le persone nel video siano ragazzi di
Gotham».
Lucy
aveva guardato una e l'altra, cercando di capire. «Il punto
è
questo? Ti preoccupi per i ragazzi di Gotham? Mi dispiace,
ma-».
«Faresti
bene a dispiacerti», si era allontanata e Kara le era andata
incontro sperando di calmarla, intanto che le altre erano rimaste in
silenzio, pensando al da farsi.
Era
la seconda volta che Selina Kyle aveva nominato quei ragazzi quel
pomeriggio, se ne preoccupava molto. Ma non ci sarebbe stato il tempo
di applicare delle censure, se avessero voluto agire entro la serata.
Lei neppure sapeva se i soggetti erano ragazzi di Gotham oppure no.
Quante cose le erano state tenute all'oscuro da suo padre.
«Non
finiresti nei guai pubblicando quel video?», le aveva chiesto
Selina
solo più tardi, quando stavano per uscire da villa
Luthor-Danvers
per andare alla festa da Maxwell Lord. Lucy aveva annuito con
amarezza e lei l'aveva guardata con un'espressione strana, non
avrebbe saputo spiegarla.
«Solo
in pochi sanno della sua esistenza e dove trovarlo, non ci
vorrà
molto a capire chi sia stato», aveva aggiunto, «Ma
ne varrà la
pena. Non ti preoccuperai per me, adesso, spero?».
Selina
guardò Lucy un'ultima volta e così si
affiancò a Kara, mentre Lena
raggiungeva lei, portandole da bere. Oh, ne avrebbe avuto bisogno. La
vide ringraziarla e buttare giù un sorso.
«Non
avremmo voluto arrivare a questo punto», le
confessò Lena,
mettendosi al suo fianco. Scambiava messaggi con Winn dalla Luthor
Corp e rivedeva con lui dei dati che avrebbero aiutato Indigo a
breve, cercando di non dare nell'occhio. Il ragazzo era sempre fin
troppo eccitato quando si ritrovava a dover fare qualcosa di illegale
e Lena sospirava, cercando di contenere il suo entusiasmo.
«Sei
ancora in tempo per cambiare idea».
Lucy
serrò le labbra mestamente. «Non
cambierò idea. Affronterò le
conseguenze. Mio padre sarà comunque fuori di sé
quando scoprirà
di Lex».
«Inutile
che ti dica quanto questo sarà diverso», la
guardò negli occhi,
«Saresti processabile».
«Lo
so». Le sorrise di nuovo e Lena ricambiò, ancora
convinta che le
cose non sarebbero dovute andare così.
Kara
mandò giù un dolcetto e ne prese altri tre
sottomano, cercando di
capire come reggerli, davanti a uno dei tavoli da buffet. Vicino,
Selina Kyle scolò il contenuto del bicchierino e lo
poggiò sul
tavolo, cercando Sam Lane. Oh, finalmente: parlava con altri due
uomini, ma il generale non sembrava entusiasta. Forse avrebbe dovuto
avvertire Lane che suo padre non sembrava di buon'umore in partenza.
Stava prendendo il telefono dalla borsetta che vide qualcos'altro di
interessante, restando a bocca aperta.
«Supergirl,
hai visto? Alla tua sinistra». Si voltò verso di
lei. «Vuoi
finirla di ingozzarti e ti concentri?». Uno dei camerieri le
sfrecciò davanti togliendole la visuale pochi istanti, poi
riprese a
inquadrare, stringendo gli occhi, Maxwell Lord che, in mezzo alla
sala, parlava animatamente con Cat Grant, la regina dei media.
«Sembra ci stia flirtando», commentò a
bassa voce. «Non ci credo,
guarda lei come se la ride. Sta flirtando con la tua ex datrice di
lavoro, mi hai sentito?».
Lei
continuò a masticare, deglutendo rumorosamente.
«Non so cosa sto
guardando…».
«Sì,
lo penso anch'io. Fa sentire a disagio anche me che non la
conosco».
«Da
quando vanno così d'accordo?», prese un altro
morso. «Boglio
dire», ingoiò, passando la lingua sulle labbra per
togliere le
briciole, «è bello che vadano d'accordo, tengo a
entrambe, quindi
dovrebbe farmi piacere, m-ma è strano»,
annuì. «Forse, sì, ecco,
mi fa sentire strana».
Selina
inarcò un sopracciglio, cercando di mettersi più
accanto a lei per
capire dove andasse la sua visuale, trovando, nella stessa direzione
ma più avanti, a fianco a una portafinestra aperta, Lena
Luthor e
Lucy Lane. Si girò per osservare di nuovo Kara, stringendo
le
labbra. «Siamo qui per questo? Se non riusciamo a fermare
Maxwell
Lord è finita e tu stai pensando a mangiare e a tenere
d'occhio la
tua ragazza».
«Scusa»,
mormorò, finendo l'ultimo dolcetto. Restò zitta
per un po',
guardando Selina di sbieco mentre lei, sentendosi osservata, si
portava due dita sulla tempia, spazientendosi. «M-Ma non
capisco
perché mi faccia sentire strana! A te sembra una cosa strana
che io
mi senta strana?».
«Non
puoi farne a meno, eh?!».
Troppe
voci, troppe persone. Lo spazio era così stretto. Indigo
prese
numerose boccate d'aria, ma sembrava non bastare mai. Fuori non c'era
freddo, il cielo era da poco diventato buio, ma la sensazione di
essere salva durava non altro se non brevi istanti. Lui era
lì da
qualche parte, e questa gente era sempre così vicino,
così in
mezzo, sembravano farlo apposta. La piscina, che era circondata anche
quella da luci rosse, cominciava a sembrarle l'unico posto
tranquillo. Se si concentrava sull'acqua limpida, forse… Una
donna
si avvicinò per chiederle come stesse e Indigo
schizzò via senza
rivolgerle parola, rientrando in sala. Probabilmente troppo veloce,
tanto da non guardare dove andava, scontrandosi con lei.
«Oh,
scusami! Ma tu», Carina Carvex le sorrise e Indigo si
sforzò di
farlo a sua volta, sistemando i finti occhiali da vista sul naso.
«Sei la lontana cugina informatica della mia collega
Alexandra
Danvers».
«Linda»,
si presentò, dandole la mano.
«Stai
bene, Linda? Ti vedo un po' pallida, forse avresti bisogno di
aiuto».
Non
le credeva, pensò. Sapeva benissimo chi era, glielo leggeva
in
faccia, i suoi occhi castani non erano sorpresi. Non c'era alcun
dubbio, su quella Carvex…
«Avresti
bisogno di rilassarti».
Aveva
cercato di avvertire Alex Danvers su di lei per tempo ma non aveva
voluto ascoltarla. Aveva avuto ragione fin dal principio su quella
ragazza.
«Avresti
bisogno di andartene da qui», bisbigliò e Indigo
deglutì.
«Insomma», rialzò la voce di colpo,
estraendo un luminoso sorriso,
«se non ti senti bene dovresti farti riaccompagnare, no? Hai
per
caso visto un anziano, pochi capelli ai lati…? Ha
sicuramente una
sigaretta accesa in bocca…? No? Continuerò a
cercare. Grazie lo
stesso, cugina informatica».
Indigo
la tenne d'occhio infilarsi in un gruppo di persone, facendone
spostare qualcuna pur di trovare chi cercava. Non avrebbe voluto
essere lui quando lo avrebbe trovato, perché quella ragazza
era
pericolosa, glielo aveva letto negli occhi. Era quasi certamente un
membro dell'organizzazione, ma sarebbe stato meglio non dirlo alle
altre, guardò di straforo il cellulare. Non poteva
permettersi di
sbagliare un solo passo con il suo angelo custode, stavolta. Non dopo
che Carol e Noah si erano presentati all'Angel Children's Memorial
per minacciarla. La vibrazione del telefono le gelò il
sangue.
Da
CapelliArgentati a NonDiNuovo
Ho
appena intervistato un tizio con l'alito che gli puzzava di cipolla.
Una di voi sa dove posso trovare stuzzichini alla cipolla?
Indigo
fissò lo schermo sconcertata. Temeva fosse di nuovo lui,
ma…
Da
Lena ✰ a NonDiNuovo
@Willis,
hai di nuovo fame?
Da
RompiballeNevrotica a NonDiNuovo
@Leslie,
vieni da questa parte! Ma sbrigati o finiscono!
Da
CapelliArgentati a NonDiNuovo
@Keira,
lasciamene! Non fare il pozzo senza fondo, arrivo!
Da
RompiballeNevrotica a NonDiNuovo
Finiscono!!
Da
Lena ✰ a NonDiNuovo
Hai
spesso fame, ultimamente. @Willis
Da
DanversMaggiore a NonDiNuovo
Ragazze,
limitiamoci a usare la chat per le urgenze e le comunicazioni o la
intasiamo. Grazie.
Da
LaGatta a NonDiNuovo
Grazie,
@IspettoreCapoDanvers. Su una cosa siamo d'accordo.
Da
CapelliArgentati a NonDiNuovo
Questo
È urgente! Prenditela con il tizio con l'alitosi, bella, non
con me.
@DanversQuellaRossa
Da
CodineRossaEBlu a NonDiNuovo
Qui
li ho finiti!! Ce ne sono al tonno!
Da
CapelliArgentati a NonDiNuovo
Nah,
@DiGothamQuellaBionda. Strafogati.
Ma
con che diavolo di gente era finita…? Indigo spense lo
schermo,
prendendo un bel respiro e scuotendo la testa.
Maxwell
Lord provava un impeto d'orgoglio non indifferente nel girarsi
lentamente attorno e ammirare quanta gente fosse riuscito a portare
per quella festa. Tutti con i volti ombreggiati di rosso come le sue
pillole, in modo che fosse chiaro il tema. La musica giusta, il cibo
e le bottiglie che non potevano mancare, le risate dei suoi invitati
che aiutavano a creare atmosfera. Il personale era equilibrato. Dopo
avrebbe aperto alle danze e infine tenuto un discorso. Tutto stava
procedendo secondo i piani, pensò, ricercando con lo sguardo
qualcuno, oh,
eccola, la ladra, quella Selina Kyle. Era stranamente tranquilla. A
fianco a Kara Danvers. Magari le avrebbe raggiunte per ringraziare
quest'ultima per averlo aiutato nei test. Se la sarebbe presa? Alex
Danvers invece… Curioso, pensò il giovane: da
quando erano
arrivate, lei e la sua compagna restavano intorno all'ingresso del
salone. Cos'avevano in mente? Sorrise, sorseggiando dal bicchiere in
mano. Cominciava a credere che non si sarebbero mosse, ma finalmente.
Un'ultima battaglia, pareva. Approfittò del fatto che Cat
Grant si
fosse messa a parlare con altri invitati che digitò sul
tablet,
scoprendo che qualcosa non funzionava come doveva. Si guardò
di
nuovo in giro, increspando lo sguardo. Nessuno troppo vicino ne
sembrava l'artefice. Schiacciò sul suo auricolare sinistro,
intanto
che digitava e- no, cancellò, sbuffando.
«Sì,
sono io. Qualcuno sta giocando con il nostro sistema, le telecamere
fanno le bizze. Controlla». Da dove stavano cercando di
entrare? Si
domandò, rivedendo alcuni dati. Un cellulare non sarebbe
stato
sufficientemente potente, qualcuno si stava divertendo da remoto.
Schiacciò di nuovo l'auricolare, cambiando destinatario dal
tablet.
Doveva assicurarsi che tutto andasse come programmato.
«Veronica,
avvertimi quando Phillings deciderà di essere dei
nostri» .
La
voce della ragazza non si fece attendere, decisa: «È
già qui».
Lui
aggrottò la fronte, innervosito. «Non pensavi di
dirmelo?». Non
credeva di dover specificare per ogni cosa. E ora dove si era andato
a nascondere quell'uomo?
Indigo
non riusciva più a sopportare quella festa. Col cellulare
stretto in
mano corse senza guardare in faccia nessuno, forse pestando un piede,
ma non le importava. Doveva stare al riparo, lontana da tutti: lui,
loro, quella. Tutti. Sbatté addosso a qualcuno e si
fiondò alla
porta del bagno, aprendo all'improvviso e chiudendosi dentro. Ma non
era sola. Un uomo magro, pochi capelli, occhialetti sbilenchi sul
naso adunco, bianco come un lenzuolo. Quasi quanto lei. L'aveva
fissata per qualche secondo prima di sbottare acido:
«Che
ti dice il cervello? Non si usa più bussare?».
Lei
digrignò i denti. «Non si usa più il
chiavistello?».
«Ragazzetta
sfrontata, vi hanno fatte tutte con lo stampino?»,
aggredì,
stringendo un pugno. Nell'altra mano teneva una sigaretta accesa,
consumata a metà. Gettava la cenere dentro il water aperto e
Indigo
lo squadrò: era lui. Era lui l'uomo che cercava
così disperatamente
quella Carvex.
«Ti
cercano» .
«Come,
scusami?».
«Ma
penso tu già lo sappia».
Se
fosse possibile, diventò ancor più pallido.
Phillings gettò la
sigaretta nel water, tirando lo sciacquone. «Non hai un altro
bagno
dove infilarti, ragazzetta maleducata?».
«No,
ma conosco altri posti dove si può fumare. Magari chiamo
qualcuno
che te li mostri».
Lui
si lanciò contro la porta per fermarla. A quel punto,
l'unica cosa
che gli era rimasta da fare era consegnarle il bagno, pur cercando di
farle notare quanto la cosa gli costasse fatica. A conti fatti,
perfino lui sapeva che non avrebbe potuto passare le sue ore chiuso
in un bagno. Purtroppo doveva rischiare.
Intanto,
Lena sorrise, alzando lo sguardo dal cellulare e cercando Lucy. Winn
ce l'aveva fatta. «Siamo coperte»,
esclamò soddisfatta, «Avverto
le altre. Possiamo cominciare».
Lucy
non se lo fece ripetere due volte e andò incontro a suo
padre, il
generale Lane, tenuta d'occhio a distanza da Selina Kyle. Prese altri
lenti respiri prima di essere con lui faccia a faccia. Quello era
l'inizio della fine, lo sapeva, tutto quello per cui aveva
lavorato…
Ma non c'era altro modo. Semplicemente, non c'era. Quasi non fosse
una sua idea, Sam Lane le si piazzò davanti come un blocco
di
cemento, guardando sua figlia come mai aveva fatto prima. Tanto era
vero che Lucy provò un brivido lungo la schiena.
«Ho
parlato con il giovane Luthor», le fece sapere senza neppure
un
saluto, vedendola trattenere il fiato. «Mi ha detto tutto.
Cosa è
questa storia che sei la sua avvocata, adesso, eh? E che dovrei
temere per il mio accordo con Lord? Voglio pensare che ci sia una
spiegazione sensata, Lucy, dietro a questo comportamento tutt'altro
che responsabile».
Sapeva
tutto. Come aveva potuto Lex dir tutto a suo padre prima di parlarne
con lei? Quando era successo? «Quando? Quando te ne ha
parlato?».
Lui
scrollò le spalle. «Ha importanza?».
«Devo
fare ciò che mi sento di fare. Come tu mi hai sempre
insegnato».
«Non
tentare di usare questo giochetto con me, signorina. Io non ti ho
insegnato ad andare contro al nostro stesso interesse».
Deglutì,
poi, mettendo da parte la rabbia e avvicinandosi ancora a lei,
mostrandole un ghigno. «È una strategia? Puoi
dirla al tuo vecchio.
Sono tutto orecchie».
Lei
per un attimo ci girò lo sguardo. Mentre cercava di trovare
le
parole giuste da usare, Selina non si trovava più al suo
posto e,
cauta, con andatura naturale, passò loro vicino. Il generale
era
distratto, non si era accorto di nulla e la ragazza tentò di
nascondere il cellulare che gli aveva sottratto con le braccia. Lena
si mosse. Toccava a lei.
«Ehi,
ma guarda chi si rivede…?!».
Accidenti,
Roulette. «Cosa vuoi?». In fretta, Lena prese il
cellulare e
scrisse un messaggio.
Da
L❤ a SuperGirlS
Qualcuna
deve aiutare @Kyle al posto mio, sono bloccata.
Kara
lesse il messaggio e accorse subito. Selina sarebbe stata troppo
sospetta, doveva restare alla portata d'occhio, toccava a lei portare
quel cellulare a Indigo.
«Chiacchierare.
Sei ancora arrabbiata con me? Il tuo caro fratello maggiore non
è
ancora arrivato?». Veronica Sinclair si versò da
bere e riempì un
bicchiere anche per lei. «Lex non ti ha detto di avermi
voluta
incontrare, questa mattina?».
«No
e non mi interessa».
Kara
affiancò Selina e quest'ultima le consegnò il
telefono,
allontanandosi mentre prendeva un dolcetto da un vassoio, sorridendo
al cameriere. Era fatta, era nelle sue mani. Ma, ora che erano
coperte, era importante che azionasse il suo piano b.
Roulette
sorrise, bevendo un sorso del suo vino bianco. «Sei
così
irritabile. Dov'è la tua ragazza? Ti ha lasciata sola in
tutto
questo marasma?», si guardò in giro ma non
riusciva a trovarla,
c'era troppa gente.
Kara
si assicurò di non essere seguita, così
aprì la porta del bagno,
infilandosi dentro con foga. Indigo era seduta sulla tavoletta chiusa
del wc e lei le porse il bottino sottratto. «Non hai pensato
a
niente di meglio?», si voltò avanti e indietro. Il
bagno in realtà
era spazioso e lussuoso, ma pur sempre un bagno.
La
ragazza attaccò al cellulare un cavo che collegò
al suo, non
perdendo tempo. Poi alzò lo sguardo. «Devi restare
qui? Come mai
Lena non è potuta venire?».
«Lo
so che preferisci lei, ma ti devi accontentare»,
portò le braccia a
conserte.
Così
come Roulette, continuando a reggere il bicchiere.
«Perché non ha
funzionato tra noi, Lena?». L'altra non rispose e lei
proseguì,
seria, posando altrove i suoi occhi: «Pensavo a noi,
ultimamente…
Non siamo poi così diverse, noi due. Kara Danvers
è così…
particolare,
come lo diresti di un animale da circo. È sempre in prima
fila lì
che vuole salvare la situazione, fare la cosa giusta secondo principi
antiquati, cose di questo genere», bevve un altro sorso.
«Per
carità, è bello che siamo tutti diversi in questo
vasto vecchio
mondo; senza persone afflitte dalla sindrome del supereroe come
faremmo, dopotutto, no?», emise una bassa risata, guardandola
un
momento, «Prima di scoprirsi ipocrita come tutti gli
altri».
Indigo
si fermò di nuovo, intanto che Kara frugava fra gli
asciugamani,
curiosa. Deglutì. «Cosa stai facendo? Credi che
troverai la formula
delle pillole tra la carta igienica?».
«Noo»,
mugugnò senza voltarsi. «Ma è buffo
pensare a Maxwell Lord che,
come tutti gli esseri umani, va al super a scegliere gli asciugamani
per il bagno. Oggi sei proprio irascibile», la
adocchiò, «Più del
solito, almeno». Tirò via la mano ma
calcò il braccio e qualche
asciugamano venne via con lei, tentando di acchiapparli con le
ginocchia incastrandoli
tra lei e il muro, poi
si precipitò a ripiegare tutto e
li lasciò con una pacca, allontanandosi
e
grattandosi, fingendo di nulla.
«Non
sto bene. C'è troppa gente, ve lo avevo detto che odio i
posti
affollati».
«Credevo
fosse una scusa per non venire».
Indigo
non ci vide più: acchiappò dietro di lei, da
sopra la vasca, una
ciotolina piena di potpourri e iniziò a lanciarglieli
addosso. Si
fermò solo per starnutire.
Lena
alzò gli occhi al soffitto, ingoiando un sorso.
«Hai letto i suoi
pezzi per il CatCo Magazine?».
«Alcuni,
sì… Mancavano gli unicorni, i gattini, qualche
glitter arcobaleno
qua e là», Roulette rise di nuovo.
«Parlavo con cognizione di
causa: non è solo una persona positiva, è una che
crede nel bene
superiore. Come mai non scrive da un po'? Oh»,
annuì, «Ma certo, è giusto: Cat Grant
avrà fatto pulizia quando
la voce sulle pillole si è sparsa… Come dicevo:
ipocrita come gli
altri. Come fai a starci assieme non lo capirò mai. A questo
punto,
io mi sarei già stufata da un pezzo. Per noi due era
diverso.
Intendo… mi manchi».
Lena
lasciò il bicchiere vuoto sul tavolo più vicino,
aspettando qualche
attimo prima di rispondere. «Il fatto che tu non riesca a
comprenderlo, Veronica, è il motivo stesso per cui non siamo
per
niente simili, noi due», la guardò, parlando piano
e forzando un
sorriso. «Non sono simile nemmeno a Kara, per questo lei non
ti
direbbe mai ciò che sto per dirti io: sei una persona
abietta,
Veronica. Gretta, piccola, che si fa strada colpendo la gente alle
spalle e approfittando dei loro punti deboli. Come un parassita, ti
servi degli altri e cerchi di creare contrasti e malcontenti
perché
è l'unico modo che conosci per relazionarti e avere
successo». La
guardò negli occhi e Veronica Sinclair strinse le labbra
tanto forte
dal farle male i muscoli del viso, mentre si raddrizzava con la
schiena. «Non capirai mai perché io stia con Kara
e non con una
come te, visti i presupposti. Come non capisco io come abbia fatto a
esserti amica, un tempo… Ma rallegrati», sorrise
ancora, ma con
gusto, «il vasto e vecchio mondo ha bisogno anche di persone
come te
per sostenere la diversità».
«Sei
come tuo fratello».
«Ehi»,
Lucy si parò loro davanti. «Guarda, da quella
parte hanno
rovesciato qualcosa e qualcuno ci ha messo i piedi sopra».
Roulette
si indispettì non poco a quella affermazione: «Non
sono una serva».
«Credevo
gestissi tu il personale di Lord». La vide diventare livida e
darle
una spallata, prima di andarsene. «Uh, se l'è
presa…».
«Com'è
andata?», le domandò Lena e l'altra
sospirò.
«…
andata».
Kara
chiuse la porta alle sue spalle e Indigo lasciò i cellulari
poggiati
sulle gambe, passandosi entrambe le mani in faccia e ricominciando a
mordersi le unghie della mano destra. Cosa poteva fare? Come si era
infilata in quella situazione? Chiuse ciò che aveva iniziato
e lesse
i suoi ultimi messaggi, cercando di pensare. Prima
le dava il
permesso di partecipare a questa stupida festa e dopo…
Perché
doveva metterla tanto in difficoltà?
Da
X a Me
Non
puoi intrometterti, Indigo. Ti proibisco categoricamente di mettere
mano a quel video.
Da
X a Me
Ti
ho lasciato molte libertà, ma questo non ti riguarda.
Da
X a Me
Ti
avverto, se stai pensando di voltarmi le spalle, temo dovrò
prendere
seri provvedimenti.
Fuori,
invece, Kara cercò di guardarsi in giro, in quella sala
immersa nel
colore rosso. Era ancora davanti alla porta del bagno quando
digitò
rapidamente un messaggio sul gruppo per avvertire Ivy ed Harley che
spettava a loro fare da guardia, ma il cellulare le sfuggì
di mano
appena si mosse, dando una spallata a una donna, acchiappandolo al
volo prima che cadesse a terra.
Quella
donna applaudì, risistemandosi gli occhiali sul naso.
«Santo cielo!
Che presa ferrea», le fece i complimenti e Kara
arrossì d'istinto.
«Le
ho fatto male? S-Sono mortificata, non l'ho proprio vista».
Lei
si lisciò le maniche del golfino, scuotendo placidamente la
testa.
«No, signorina. Vai, vai a divertirti».
Kara
si scusò ancora e cercò di passare tra un gruppo
e l'altro, intanto
che Margot la seguiva con lo sguardo e, il suo sorriso raggiante,
perdeva intensità a poco a poco che trascorrevano i secondi.
Maxwell
Lord trascinava Phillings in lungo e in largo come un trofeo; ora che
lo aveva trovato non se lo sarebbe lasciato sfuggire. Ma d'altra
parte Carina Carvex li seguiva come un predatore nella savana,
nell'ombra, pronta ad attaccare al momento buono, quindi era
Phillings quello che non si sarebbe lasciato sfuggire Lord
finché
avrebbe potuto. Era assurdo che un uomo come lui, di scienza e
potere, che nella sua vita era arrivato in alto con rispetto, potesse
temere le ritorsioni di una ragazzina disillusa. E tutto questo era
gran parte colpa di Dru Zod, senza dubbi, perché era lui che
non
aveva voluto seguire il consiglio impartitogli quando doveva, e
abbandonarla per tempo. Quella ragazzina era come un cane sciolto e
ancora non aveva pronto il bastone che l'avrebbe rimessa a cuccia. Se
non ci avesse pensato Zod, lo avrebbe fatto lui.
Maxwell
lo presentò a un gruppo, ad un altro, lo videro parlando con
lui a
quattrocchi sui progetti che aveva in corso, oltre a menzionargli,
fiero, di come le sue pillole avrebbero cambiato per sempre
l'efficienza dei soldati. Phillings lo odiava, dannazione, era
convinto che doveva essere lui a firmare un accordo con il generale
Lane, ma al momento doveva sopportare, e andare avanti in modo da
arrivare a spendere quei soldi per finanziare il suo progetto. E
allora avrebbe riso bene chi avrebbe riso per ultimo.
Da
Me a WonderlandConLeBadass
Ragazze,
state anche voi pensando a quello che sto pensando io?
Iv
dice di no!
Da
Supergirl a WonderlandConLeBadass
Dipende.
Su cosa? @Harley
Da
MisteryDanvers a WonderlandConLeBadass
Ragazze,
la chat è per le comunicazioni!
Da
Me a WonderlandConLeBadass
Io
sto comunicando, infatti!!
Iv
dice che mi faccio i film mentali.
Con
questa luce non sembra anche a voi di essere dentro una piscina di
sangue??
Ma
con i vestiti invece dei costumi da bagno!
Buuh!
Una
piscina di mestruazioni!!
Da
MisteryDanvers a WonderlandConLeBadass
…
Da
Me a WonderlandConLeBadass
Buuh!
Aggiunse
una sequela di emoji con sangue, ombrelli, cacchette che non se ne
aveva mai abbastanza e labbra femminili, stava alle altre capirne il
senso, se il senso c'era. Si stava un po' annoiando, il punto era
quello. Sperava che fare da guardia a Indigo e allontanare le persone
dal bagno sarebbe stato più avvincente, ma nessuno aveva
bisogno dei
sanitari e stava quasi per prendere qualcuno da parte e chiedergli se
gli serviva il wc solo per urlargli poi che era occupato da una
ragazza che aveva mangiato pesante e rimandarlo indietro. Doveva pur
far qualcosa nei tempi morti, dato che Iv non voleva passare il tempo
a limonare contro la porta. Insomma, le bocciava ogni proposta. Se
non altro, Selina parve annoiarsi più di lei… Si
avvicinò alla
sua compagna che la stava già osservando da tempo, notando
come
andasse avanti e indietro per contare e controllare i camerieri. Le
telecamere erano ancora fuori uso, ma loro restavano più
vigili che
mai.
«Pensa
ancora di correre al piano superiore, eh?». Ivy
annuì con un
sospiro e Harley rise, per poi sussurrarle a un orecchio:
«Sai cosa
pensavo? Ho proprio voglia di un bel bagno in piscina».
La
prima candidata nel video era una ragazza, ventisette anni,
universitaria. Dopo diversi giri sul tapis roulant con costante
aumento della velocità, a un'ora, sette minuti e quattro
secondi, si
fermò e si accasciò a terra. Il secondo candidato
nel video era un
ragazzo di ventidue anni, bodybuilder. Sollevò pesi poco
oltre il
doppio dell'obiettivo che credeva avrebbe raggiunto tra un anno, ma a
un certo punto iniziò a scagliarli contro i muri della
saletta dove
era chiuso, vaneggiando, credendo fosse rinchiuso contro la sua
volontà e dando di matto mettendosi a urlare. Indigo era a
bocca
aperta, mettendo pausa. Winn le inviò un messaggio per
chiederle se
ci fosse riuscita poiché presto sarebbero riusciti a
riattivare le
telecamere e dovevano restituire il cellulare al generale Lane prima
che si accorgesse fosse scomparso, ma lei non riusciva a
rispondergli. Non sapeva cosa avrebbe dovuto fare.
Da
Lena ✰ a NonDiNuovo
@Indi,
a che punto sei? Winslow dice che non gli rispondi e che presto il
personale di Lord riuscirà a scavalcarlo e a riattivare le
telecamere. Ti raggiungo?
Lei
spalancò gli occhi. No, no, e no, non avrebbe dovuto
seguirla in
bagno. Doveva liberarsi di quel video.
Da
CapelliRossi a NonDiNuovo
Qualcuna
deve prendere il posto mio e di @Love davanti alla porta del bagno,
siamo fuori e @Love si è buttata in piscina!
Da
DanversMaggiore a NonDiNuovo
Lei
è dove? @Mags❤ ed io prendiamo il vostro posto. Ah,
è appena
arrivato Lex!
Da
CapelliArgentati a NonDiNuovo
Giusto
per avvertirvi che Lane padre sta cercando il suo telefono,
fiorelline.
Da
LaBisbeticaLane a NonDiNuovo
Vado
io!
Indigo
archiviò la chat e, col video davanti, in pausa, si accorse
di
essere davvero in difficoltà, anche se per un motivo
diverso. Se
avesse diffuso il video avrebbe scatenato le ire del suo angelo
custode che avrebbe inviato Carol a vendicarsi per lui, ma se non lo
avesse diffuso, allora, le altre ce l'avrebbero avuta con lei senza
che potesse spiegare loro il motivo per cui non avrebbe potuto farlo.
Come sarebbero cambiate le cose per lei se lo avesse diffuso o meno?
A parte Carol, cosa sarebbe accaduto? Sarebbe valsa la pena
rischiare… la vita?
Harley
abbassò la testa per bagnarsi di nuovo i capelli, divertita,
muovendo le mani sul livello dell'acqua, galleggiando. La luce rossa
creava un gioco di luci sull'incresparsi dell'acqua davvero notevole,
le piaceva un sacco e ci schizzava solo per vedere cosa sarebbe
successo. Non le servì molto per accorgersi che tutti gli
invitati
in giardino la guardassero, constatando che altri stavano uscendo
solo per lo stesso motivo. «Cosa avete da
guardare?». Pensò di
palpeggiarsi sopra il vestito bagnato, perché se tanto le
dava
tanto… «Falso allarme, l'intimo è
ancora qui», rise a squarcia
gola.
Uno
dei camerieri era a un passo dalla piscina e, inchinato, muoveva con
aria inviperita un braccio intimando alla ragazza in acqua di uscire
fuori. Altri tre le imponevano di nuotare verso il loro collega e
uscire, poi furono quattro, cinque, sei.
«È
una piscina come questa che manca nella reggia della nostra amica
Luthor», rise Harley con un sorriso enorme stampato in
faccia. Ivy
affiancava il cameriere, chiedendole di uscire. Si voltò ma
non lei
c'era ancora… no, non era il caso di uscire, non ancora.
«Hai
ragione, cucciola. Adesso però devi uscire, prima che il
nostro
amico qui si arrabbi sul serio e chiami il proprietario. Non
è
vero?», lo guardò e lui le diede ragione,
sembrando sul punto di
diventare rosso come i suoi capelli: il seno di Ivy, inchinata verso
la piscina, era particolarmente… Lei si guardò di
nuovo indietro.
Ma possibile…? Quella gattaccia.
«Ma
mi sto rilassando. A cosa serve la piscina se non posso farci una
nuotata?».
Selina
seguì fuori altri due del personale di Lord e
spalancò gli occhi.
Ci mise un po' a leggere i messaggi in chat e a capire quale fosse il
motivo per cui i camerieri bisbigliassero allarmati in quel modo.
In
quello stesso momento, un signore con un gran bisogno di entrare in
bagno reclamava la postazione che Ivy e Harley avrebbero dovuto
custodire. Maggie lo aveva dirottato chiedendogli che andasse a
controllare se qualcuno non stava davvero frugando fra la roba degli
ospiti come giurò di aver visto, e dopo Alex gli chiese di
portarle
dell'acqua perché a stento riusciva a respirare, ma
riuscirono a
trattenerlo solo per poco, notando come si toccasse la milza.
Pover'uomo, ne aveva seriamente bisogno e loro non erano esattamente
delle campionesse in improvvisazioni come quelle due. Inviarono un
messaggio a Indigo perché uscisse immediatamente da quel
bagno che
una signora si accostò per chiedere quale fosse il problema.
Ci
mancava solo lei.
«Non
state impedendo agli ospiti di poter usare il bagno, non è
vero?».
Il
tono scelto dalla signora e il suo guardarle con rimprovero
attraverso gli occhiali a mezzaluna aveva messo entrambe in
soggezione. Spiegarono che una loro amica era dentro che stava male,
così quando la videro allontanarsi pensarono di poter tirare
un
sospiro di sollievo, non si aspettarono di lì a poco
l'arrivo di un
uomo, e una donna, e altri due invitati, formandosi presto una calca
davanti alla porta. Una di loro era sul punto di chiamare il nove
uno uno
per la poverina
all'interno che si sentiva male.
Accidenti.
«Va
bene, va bene. Esco, esco». Harley si apprestò ad
avvicinarsi al
bordo piscina, fingendo di battere i denti e lasciandosi andare a un
grande sorriso. «Comincia a far freddino».
Tutti
guardavano Harley. Solo Ivy, una volta, si girò per
scambiare con
Selina uno sguardo d'intesa.
«Aspettate!»,
la ragazza si fermò di colpo con un urlo e tutto si
fermò con lei…
«Non c'è poi così freddo,
scherzavo». Tra camerieri e invitati si
alzarono sospiri e imprecazioni, ma anche qualche risata, in fondo.
Il cameriere accanto ad Ivy era sul punto di gettarsi in acqua per
afferrarla, ormai divenuto impaziente, per questo invece di farsi
tirare su, Harley tirò giù lui e anche Ivy,
ridendo a squarcia
gola.
Fu
in quel preciso attimo in cui tutti trattennero il fiato che Selina,
scattante come un felino, sganciò la chiave magnetica da uno
dei
camerieri e se la nascose addosso, rientrando indisturbata nel
salone.
In
acqua, le due ragazze si abbracciarono e Ivy le afferrò il
volto con
le mani per poterla baciare con foga. Harley le chiese se ci fosse
riuscita e Ivy guardò indietro, dove Selina non c'era
più.
Quest'ultima
camminava con passi lenti per non attirare l'attenzione, bevendo da
un bicchiere e lasciandolo su un tavolo, ignorando le altre del
gruppo e Lex Luthor che si aggirava come un ispettore di polizia,
bloccandosi solo davanti alla folla alla soglia del bagno. Maxwell
Lord si era appena avvicinato, scortato da Phillings sempre alle sue
spalle che si guardava di tanto in tanto le sue. Alex sapeva che non
avrebbe potuto evitare Lord per tutta la durata della festa, ma
avrebbe preferito un momento migliore per parlare. Intanto, Maggie
pensò di entrare dentro nonostante gli improperi di Indigo.
«Ma
non c'è nessun bisogno di…», Alex
tentò un sorriso, ma era certa
si notasse quanto risultasse forzato. Si tolse un ciuffo di capelli
dalla bocca e si morse un labbro. No, decisamente non si sentiva
brava in improvvisazioni. Scorse Kara venirle in soccorso, ma neanche
lei avrebbe potuto in un miracolo.
La
porta si aprì. Si aprì e Indigo
impallidì. Si aprì e Selina
scattò dietro l'assembramento, approfittando per salire al
piano di
sopra.
Maxwell
Lord sorrise, battendo le mani una volta sola, inquadrando Indigo e
Maggie. «Beh, tutto a posto, sembra», si rivolse
agli invitati,
«Possiamo sospirare tranquilli, grazie a tutti per esservi
accertati
che non ci fosse un problema». L'uomo che si reggeva ancora
la milza
entro scattante in bagno smuovendo le due e Maxwell
ringraziò
ancora, affabile, e attese che la ressa si sparpagliasse dietro di
lui.
Leslie
Willis era a pochi passi, incuriosita, telefono in mano a mo' di
microfono. Qualche secondo più tardi la affiancarono Lena e
Lucy,
che era riuscita a impedire a suo padre di chiedere al proprietario
di casa far cercare il suo telefono, per ora. Ne aveva disperatamente
bisogno, ma Maxwell Lord era impalato lì e non ci sarebbe
stato modo
di accostarsi a Indigo senza che la vedesse.
A
distanza di sicurezza, perfino Carina Carvex assisteva alla scena,
anche se per un altro motivo: Phillings poteva sentire il suo fiato
sul collo.
«Allora»,
Maxwell Lord mantené ferreo il sorriso, raddrizzando la
schiena e
squadrando le ragazze. «Qualcuna può spiegarmi
cosa sta
succedendo?».
Sospettava
qualcosa, era chiaro che sospettava qualcosa, ma cosa…?!
L'avrebbero scampata? Cosa gli avrebbero raccontato, adesso? Era
tardi per improvvisare?
«Io
la conosco», allungò l'indice verso Indigo, che
deglutì. «È la
collega di Alex Danvers, del D.A.O.». Non poche sentirono di
poter
sospirare a quelle parole. «Sono contento che sia venuta.
Come sta,
adesso? Posso fare qualcosa per lei?».
All'appello
non poteva mancare Lex Luthor, mani delle tasche dei pantaloni, che
chiedeva alla sua avvocata cosa fosse successo. Lucy gli
lanciò uno
sguardo inviperita e lo prese da parte. Lui scrutò
più volte verso
Indigo prima di lasciare il gruppo. «Cosa ti
prende?».
«Cosa
prende a me?», lei si sforzò per non urlare,
davanti a un tavolo
imbandito. «Hai detto a mio padre che sono la tua avvocata
senza
consultarmi prima. Perché lo hai fatto?».
Lex
allargò le spalle. «Si tratta di
questo?», si fermò quando si
sentì osservato, ma nessuno degli ospiti sembrava
interessato a lui.
«Scusami, Lane, devo aver scordato quando mi hai detto fosse
un
segreto. Ti chiedo di fidarti di me».
«Fidarmi?».
«Per
favore, ci terrei a invitare una fanciulla al ballo prima che si
aprano le danze e qualcuno arrivi prima». Cercò di
nuovo Indigo, ma
Maxwell Lord gli oscurava la visuale.
«Possiamo
chiamare i soccorsi o…», proseguì
quest'ultimo, «no, anzi, se
vuole può direttamente stendersi al piano di sopra. Si
figuri, non è
un disturbo». Le allungò una mano cordiale ma
Indigo indietreggiò,
spalancando gli occhi, e sia Alex che Kara le si pararono davanti.
«Ti
ringraziamo, Max»,
ad Alex venne da sorridere, «ma Linda non si sente a suo agio
in
posti che non conosce».
«Ed
è troppo timida per dirlo lei», aggiunse
rapidamente Kara.
«Ma
sta bene, adesso», Maggie scosse una mano, andando a passarle
un
braccio in vita, «no, Linda?».
Lei
aprì la bocca con lentezza, tentando di ritrovare possesso
di sé e
calmarsi. Quella situazione era completamente sfuggita di mano.
«…
s-sì. Sì, sto bene».
Maxwell
annuì, sorridendo ancora. Stava per ribattere quando lo
chiamarono
all'auricolare e contrasse le labbra, annuendo amaramente.
«Arrivo»,
sibilò, non smettendo di guardare in loro direzione.
«È stato un
piacere», esclamò, «spero di poter
parlare di nuovo con voi, più
tardi».
Lo
videro allontanarsi con una certa fretta insieme a quell'uomo magro
che si era portato dietro e le ragazze si guardarono tra loro con
fare stanco. Era diventato un disastro, lo sapevano. Un completo
disastro.
«Cosa
diavolo è successo, qui?», domandò
Leslie Willis, ma qualcosa
diceva anche a lei che ormai era troppo tardi per la discrezione.
Lucy
Lane riportò a suo padre il cellulare dicendo di averlo
trovato,
qualche attimo più tardi, e lui pensò di aver
bevuto un po' troppo
per essere riuscito a smarrirlo. Maxwell Lord accompagnò
Harley e
Ivy a cambiarsi con qualcosa di caldo, al piano di sopra, mentre
Selina li spiava, nascosta. A Phillings non andò male,
dopotutto,
poiché appena Carina Carvex gli rivolse la parola un
invitato la
fermò con una mano sulla spalla come per richiamarla
all'ordine,
facendole notare Dru Zod che la osservava. Certo, lo scienziato
sapeva che non sarebbe bastato così poco per tenerla lontano
da lui,
ma ringraziò seccato, per ora, che finalmente il Generale
avesse
deciso di prendersi le sue responsabilità col suo cane
sciolto. Zod
si avvicinò a lei cautamente una sola volta per ricordarle
che lui
l'avrebbe tenuta d'occhio per tutta la durata della festa. Quanto
concerne a Indigo, lei spiegò con dispiacere che non aveva
potuto
far nulla, che non era riuscita a scaricare il video. Le avevano
creduto, sembrò, o almeno così le davano a
vedere. Era la prima
volta che Indigo falliva in qualcosa, non erano pronte per sentirselo
dire. Non avevano un altro piano, ma Selina sì.
Maxwell
Lord attendeva davanti al corrimano che affacciava alla sala,
mettendo a fuoco diversi volti in basso. Non riusciva a pensare ad
altro che a Maggie Sawyer, la compagna di Alex, e Indigo Brainer che
uscivano dal suo bagno. Le telecamere erano state riattivate, ma era
certo che fosse tardi. Continuava a controllare dal suo tablet se
qualcosa stesse andando storto, ma non era cambiato nulla dall'ultima
volta che aveva guardato. Doveva pensare che non fosse successo
niente, che tutto si era svolto per il meglio e che poteva andare
avanti con la festa come programmato. Non avrebbe lasciato che il
dubbio gli rovinasse la serata e continuò a trafficare col
tablet,
poi annunciò il ballo e la musica in sala cambiò,
mettendo la
maggioranza degli invitati in agitazione, tra sorrisi, battute, e
disparati chiacchiericci. L'atmosfera si rasserenò. Ma lui
non
troppo. «Veronica, dove sei? Che fine hai fatto?»,
domandò
all'auricolare, ma non ricevette risposta.
Dal
piano di sotto, Indigo provò a voltarsi verso l'alto ma,
appena si
accorse che Maxwell Lord poteva girarsi e vederla, scrollò
lo
sguardo. Al suo fianco, Lex Luthor la fissava in modo smanioso.
«Io
non ballo».
«Oh,
ma ti avrei guidato io. Sono un ottimo ballerino».
Scrollò la
manica sinistra per assicurarsi di che ora fosse, comparandola con
quella sul grande orologio a parete di Lord. «Tengo molto a
un ballo
con te». Le sorrise radioso e le porse di nuovo la mano che
lei
guardò a lungo.
«No».
«Oh,
ma andiamo».
Lena
li aveva seguiti con lo sguardo e si ritrovò a sorriderci,
nonostante tutto ciò che era successo. Almeno lei era
riuscita ad
avere il ballo con la sua metà, anche se distratta, e anche
se non
erano pronte ad un coming out di coppia. Ma cosa c'era di male,
dopotutto, in un ballo tra sorellastre? «Stai pensando alla
prossima
mossa?».
«Sì»,
Kara annuì. «Non possiamo darci per vinte, forse
se Indigo avesse
più tempo… Potremo riprovare, magari fuori come
avevamo pensato
fin dall'inizio, dietro a un albero. Non avremo problemi di
fila»,
disse, scrollando gli occhi e facendola ridere.
«Tu
lo sai che ti amo, vero?».
Arrossì
all'improvviso, girando la testa a destra e sinistra. «E se
ci
sentono?», sorrise imbarazzata, «N-Non potevi
trovare momento meno
adatto».
«È
adattissimo, invece», rimbeccò lei.
«Siamo a una festa, stiamo
ballando e- ah».
«Scusa».
«E…
mi hai schiacciato un piede. È tutto perfetto, Kara. Abbiamo
fallito, ma abbiamo fatto del nostro meglio e ci meritiamo questo
ballo. Un solo attimo, un solo attimo per estraniare il resto. Ci
siamo solo noi», le sorrise e, lentamente, chiuse gli occhi,
accostandosi al corpo caldo dell'altra, poggiando la testa sul suo
seno. «Seguimi. Resta con me questo solo attimo».
Kara
deglutì e anche lei chiuse gli occhi, lasciandosi muovere
dalla
musica. I capelli di Lena odoravano ancora di buono. Si
ritrovò ad
annusarla e le si imporporarono le gote, stringendola a sé.
Chissà
se gli altri invitati le stavano osservando… Era la sua
sorellastra, poteva fare questo ballo con lei. Erano solo
sorellastre. Riaprì gli occhi un solo attimo e si
spaventò nel
vedere Cat Grant guardarle. Li richiuse scattante. Era troppo
pericoloso. La gente vedeva solo ciò che voleva vedere,
ripensava a
ciò che le disse Lena una volta, ma a quel punto lei stessa
riconosceva che ballare era avventato. La gente vedeva solo
ciò che
voleva vedere, ed erano in mezzo a una folla di tanti invitai, ma se
era proprio l'amore che voleva vedere…? Avrebbe voluto
lasciarle un
bacio sui capelli, ma decise fermamente di non farlo perché
non
voleva rischiare. Si lasciò di nuovo andare, ascoltando la
musica.
Maxwell
Lord si voltò quando sentì la signora Margot
venire verso di lui,
intenta a pulirsi gli occhiali a mezzaluna con un fazzolettino che
nascose in una tasca della gonna. Anche lei si affacciò dal
corrimano, guardando con occhi speranzosi gli invitati che si
divertivano. Le era sempre piaciuto ballare, le tornavano alla mente
vecchi ricordi.
I
due erano così assorti che non si resero conto che le ospiti
uscirono dalla camera in cui si erano andate a cambiare, dietro di
loro diversi metri, camminando indietro sul corridoio fino a che
Selina Kyle non uscì dall'ombra, con la chiave magnetica in
bella
vista.
«L'ho
provata ovunque, ma non apre niente». Spiegò
Selina, parlando a
bassa voce. «Come siete vestite?»,
inarcò poi un sopracciglio,
osservando la loro tuta grigia con il logo della Lord Technologies.
Era
un po' larga a entrambe, ma in special modo ad Harley piaceva
sentirsi tanto libera, sussurrando che, sapendolo, si sarebbe bagnata
o spogliata molto prima.
«È
più comoda di quel che sembra», precisò
Ivy.
Harley
teneva le mani all'interno della manica giocando a infastidire
Selina, sventolandogliene una sul naso. Si abbassò ad
odorare i
fiori in un vaso quando l'amica le punzecchiò la pelle
tirando fuori
le unghie.
«Ho
cercato ovunque. E dalle finestre non c'è un edificio
staccato a
questo, deve per forza aprire qualcosa qui. Ma cosa?».
«Ti
stai arrendendo?», le domandò Harley, il naso
appiccato a un fiore.
«Questi hanno un buon odore».
«Questi
sono veri», precisò Ivy.
«Non
è resa, ma…», Selina
aggrottò lo sguardo. «Ma devo ammettere
che non è giornata. È come se tutto quello per
cui abbiamo lavorato
non abbia alcun senso», scosse debolmente la testa, pensando
al
messaggio che qualcuna di loro aveva inviato sul gruppo in chat per
far sapere a tutte che non avevano quel video. «Prima il
piano
coordinato con le altre, adesso il mio piano d'emergenza che non sta
funzionando. Non ne posso più, riconosco che sono stanca. In
più,
nelle sue camere personali non c'è nulla che valga la pena
per
ricattarlo. Cosa posso usare, il quadretto con la foto dei
genitori?», sussurrò. «Forse
sto… sto pensando di tornare a
casa. Abbiamo fallito, ragazze».
«Quindi…
ti stai arrendendo», bisbigliò Harley e Selina la
guardò torva.
Ivy
si portò i capelli rossi da un lato, sulla spalla, fissando
l'amica.
«Non possiamo trattenerti se deciderai di andartene, ma sono
certa
che Supergirl proverà ancora».
«Oh,
lo immagino. E non credo di voler essere qui quando il proprietario
di casa la coglierà con le mani nel sacco. C'è un
motivo se non mi
sono mai fatta beccare: so quando è ora di tagliare la
corda». Girò
un angolo, salutandole con un gesto.
Lex
Luthor era riuscito a strappare qualche passo di danza a Indigo, che
era come un pezzo di legno, mentre Alex e Maggie, così come
Kara e
Lena, ce la mettevano tutta per dare sfoggio delle loro
abilità.
Kara riusciva ancora a schiacciarle i piedi, veramente, ma Lena era
paziente e continuava a infonderle fiducia, sicura che sarebbe
migliorata. Erano ormai convinte che non sembrassero troppo intime,
ma a un occhio consapevole la loro chimica difficilmente poteva
sfuggire e Margot si incantò a fissarle, canticchiando la
musica e
seguendola muovendo delicatamente un dito. La gente vedeva solo
ciò
che voleva vedere, e Margot non vedeva altro.
«Si
amano», biascicò e Maxwell Lord
s'incuriosì, cercando di capire a
chi si riferisse. La donna lo vide serrare gli occhi verso Lex Luthor
e quella bionda. «No, giovanotto. Lena… Luthor. La
bambina che i
Luthor hanno adottato, vero?», continuò a
guardarle, lasciando che
il dito danzasse per lei. «Non ho mai capito il
perché la
adottarono. Lei e la figlia minore di Eliza Danvers si amano. Le loro
madri stanno insieme… che buffa coincidenza».
Maxwell
ci mise un po' a formare un sorriso dei suoi. «Mh. Lasciale
stare»,
affermò lapidale e lei riguardò in basso,
parlando per sé:
«Chissà
se la famiglia Luthor ne è a conoscenza. Non sarebbe uno
scandalo?
Il caro Levi Luthor non l'avrebbe approvato. L'amore è
così strano,
complicato e imprevedibile. Con quello che i Luthor hanno fatto alla
famiglia di quella povera ragazza…».
«Margot»,
Maxwell la richiamò, questa volta più serio.
«Lasciale perdere.
Loro non ti riguardano».
«Ma
certo. Lei è adottata…»,
sospirò, per poi formare un largo
sorriso. «Guarda come sono evidenti…».
Avevano
fallito. Kara cominciava a sentire una certa amarezza in questa
consapevolezza, perché aveva dato una svolta alla sua vita
da quando
pensava di aver perso tutto e fallire ancora la faceva sentire in un
modo che le ricordava di non volerci fare l'abitudine. Brindarono
tutte insieme del loro insuccesso poiché in fondo trovarono
del
buono in ciò che avevano fatto, cioè del loro
meglio e imparando a
collaborare, a essere una squadra. Meno Selina. Kara provò a
contattarla, ma lei non si unì a loro e, secondo Ivy e
Harley,
probabilmente se n'era già andata. Senza salutare. Questo si
aggiungeva all'amarezza, sperava che l'esperienza le avesse unite un
po' di più.
Leslie
Willis continuò a riempire i bicchieri quasi avesse
finalmente una
scusa per ubriacarsi, ma mentre tutte cercavano di tirarsi su,
insoddisfatta, Kara pensava a come avrebbero potuto agire se si
fossero comportate diversamente e cosa sarebbe cambiato. Non avevano
fatto i conti con gli imprevisti, con il tempo, e con la sicurezza
online. Il telefono era ormai stato restituito e provare di nuovo a
oscurare le telecamere e a sottrarglielo e ricominciare daccapo
sarebbe stato impensabile, era tardi. Era tardi per qualsiasi altra
mossa. Anche se, in fondo, non voleva davvero mollare e dichiararsi
sconfitta. Scorse Ivy farle un occhiolino quasi avesse potuto
comprendere cosa le passasse per la testa, intanto che Lena le
strinse una mano, coperta dal tavolo e dalle altre con loro,
accarezzandole il dorso con il pollice. Seppur Kara fosse
più nella
sua testa che lì con loro, era Indigo quella che
più di tutte non
riusciva a parlare, estraniandosi e continuando a bere. Aveva
deliberatamente ignorato i messaggi del suo angelo custode che
pretendeva aggiornamenti, mantenendo la testa bassa. Harley
provò a
tirarle su il morale poiché capitava a tutti di sbagliare,
ma lei
non aveva sbagliato, lei lo aveva scaricato quel video, lei lo aveva
visto, lei aveva mentito. E questo era di gran lunga peggiore del
fallimento. E mai avrebbe immaginato di poterlo pensare. Aveva scelto
di proteggerle da Carol, e da lui. Non poteva sapere fin dove si
sarebbe spinto, non era un rischio che poteva permettersi. Lo odiava
ancor di più per averla messo di fronte a quella scelta.
Quasi
Maxwell Lord potesse rendersi conto di cosa avesse appena scampato
che andava in giro zompettante del fatto che, a breve, ci sarebbe
stato il grande annuncio della serata.
«Lex
mi ha chiesto di fidarmi di lui, prima», se ne
uscì Lucy prima
poggiare di nuovo il bicchiere sulle labbra rosse.
«Doveva
muoversi un po' prima», replicò Maggie, seguendo
il suo gesto.
«Vorrei
credere che abbia degli assi nella manica da tirare fuori
all'ultimo», commentò invece Kara.
«Non
troppo a
ultimo,
però», suggerì Lena, scuotendo la
testa. «Mio fratello ha sempre
amato fare le cose in grande stile, ma ormai non so davvero cosa
aspettarmi da parte sua».
«Lena
Luthor». La ragazza si voltò e quell'uomo
magrolino che fino a
pochi attimi fa seguiva Lord come un'ombra le porse una mano, pronto
per stringere la sua. «Finora non abbiamo avuto modo di
scambiare
due parole, ho saputo che ora sarà lei a gestire per conto
della
famiglia la Luthor Corp qui a National City», le sorrise e le
ragazze si allontanarono per privacy, tirando via quelle che erano
rimaste ad ascoltare, Willis e Harley. «Poco fa ho avuto il
piacere
di parlare anche con suo fratello. Non vi vedevo da anni, non potevo
mancare questa occasione per farmi avanti».
«Mh,
mi scusi», assottigliò i suoi occhi,
«Non voglio passare per
maleducata, ma non ricordo chi-».
«Jackson
Ur Phillings», rispose prontamente. Si portò una
mano sulla bocca
per abitudine, riportandola giù quando si accorse di non
avere la
sigaretta. «Non si preoccupi se non ricorda, lavoravo per la
Luthor
Corp più di una decina di anni fa, è normale. Lei
non era che una
bambina… Suo fratello invece… lui mi ha
riconosciuto», abbozzò
una risata. Ebbe modo di voltarsi una sola volta e scorse Carina
Carvex che lo fissava, facendolo sentire a disagio. Quella non
avrebbe mollato l'osso nemmeno con Zod dietro, maledizione.
«Allora,
come si trova a dover mandare avanti un'eredità di queste
proporzioni, eh?».
Kara
li osservò a lungo parlare. Non sapeva bene
perché ma quell'uomo
non le piaceva a pelle, aveva qualcosa che non andava, fosse anche
solo per come tremava a scatti con la mano libera.
«Dipendenza
da nicotina», le sussurrò Lucy, scoprendola
vicinissima. «Non
vedrà l'ora di uscire a fumare».
«Non
mi convince quel tizio… Che cosa vorrà da
lei?».
«Lo
scoprirai a breve», mosse la testa in sua direzione, vedendo
Lena
arrivare.
Fu
in quel momento che la musica si abbassò e Maxwell Lord
afferrò un
microfono, chiedendo a tutti di fare silenzio. Il generale Lane si
piazzò di fianco a lui, un po' rosso in viso per l'alcol ma
soddisfatto, con il petto in fuori. Accanto ancora Roulette, ma lei
staccava l'atmosfera, visibilmente giù di morale.
Lena
scorse suo fratello Lex sistemarsi vicino a Indigo, con un bicchiere
a metà in mano. Sorrideva raggiante. No, decisamente la
serata non
era finita…
«Che
cosa voleva?», le domandò a bassa voce Kara,
mettendo un altro
dolcetto in bocca. Aveva il vassoio proprio dietro di lei e Harley,
alle sue spalle, sembrava volesse entrare in competizione.
Lena
scorse di nuovo Lex, Maxwell e… che strano, si
girò, le sembrò di
essere osservata, forse era ancora quel Phillings. «Un
lavoro». Si
voltò di nuovo, ma nessuno degli invitati sembrava
interessato a
loro. «Ti spiego più tardi». Lena
iniziò a prevederlo. Chiunque
conoscesse tanto bene suo fratello avrebbe iniziato a farlo; forse
Roulette se non avesse avuto altro a cui pensare, mantenendo bassi i
suoi occhi.
Maxwell
Lord annunciò il suo accordo con Lane che, pomposo, ne
parlò anche
lui come di una rivoluzione in campo scientifico e militare, mentre
Phillings, fuori dalle porte a vetri intento a fumare una sigaretta,
stringeva le labbra e le dita dal nervoso, tanto da fargli male le
nocche.
«Avresti
tanto voluto esserci tu al posto di Lord, eh, vecchio?»,
Carina gli
passò davanti per tornare dentro. Non gli disse altro, ma lo
sguardo
con cui lo aveva lasciato prometteva presto una resa dei conti.
Tutti
gli ospiti in sala applaudirono con gran fervore il successo
promesso, entusiasti per lui e per il suo futuro. Non perse neppure
occasione per enunciare, con orgoglio, la ciliegina sulla torta:
aveva comprato i diritti delle pillole. Era fatta, finita, aveva
vinto lui e volle metterlo nero su bianco ma, quando guardò
Lex, non
si aspettò quella faccia impassibile. Se non avesse detto
nulla, per
Lex sarebbe stato lo stesso. Sperava lo avrebbe messo in ginocchio, o
forse che lo avrebbe scosso in qualche modo, almeno una reazione,
anche piccola, qualcosa! Ma no. Neanche un sussulto. Non lo aveva
sentito? Ma non gli avrebbe tolto il sorriso e Maxwell
continuò a
parlarne come se non lo avesse guardato, sperando di trovare su altri
volti il supporto che credeva di meritare. Non per niente, Alex
notò
che Maxwell si era spinto più volte a inquadrare i suoi
occhi
durante il discorso. E anche Maggie doveva essersene resa conto.
Sarebbe stata felice per lui, come amica, davvero, se non avesse
saputo del burrascoso dietro le quinte che non poteva ignorare. Un
farmaco in grado di rinforzare i soldati sarebbe stata sul serio una
rivoluzione… se la polizia non avesse suonato e fosse
entrata con
l'intenzione di spegnere ogni festeggiamento.
Veronica
Sinclair non credette ai propri occhi quando due agenti le misero le
manette ai polsi, scortandola all'esterno ed elencandole i suoi
diritti. Tutti si pietrificarono sbalorditi e Maxwell cercò
di
saperne di più, fermando gli agenti. Non poteva davvero
stare
succedendo ciò che stava succedendo. Stavano rovinando
tutto!
Perfino Maggie riconosceva di non saperne niente, era il suo giorno
libero.
«L'ha
derubata, signor Lord».
«Come?
Derubata? E cosa…?». Maxwell non capiva
più niente e il cuore gli
batteva furioso in petto, gli sembrò di averlo ingoiato. Era
sul
punto di vomitare.
«Abbiamo
le prove di come la signorina Sinclair durante gli ultimi mesi le
abbia sottratto dati sensibili su diversi lavori in corso.
Chissà
che non sperasse di venderli; storia già sentita».
La
stavano trascinando fuori in urla, perse addirittura una scarpa;
Roulette sapeva di essere innocente e le ragazze la guardavano con
stupore. «Non è vero niente, Maxwell, non lo avrei
mai fatto! Mai!
Non crederci, sono stata incastrata!».
Il
sorriso di Lex aveva assunto tutt'un tratto un senso più
ampio e
Lena lo fissò incredula: i dati che aveva sottratto a Lord
non gli
servivano ad incastrare lui, ma lei. Lei che lo aveva tradito e
umiliato. Non poteva passarci sopra, non ci era riuscito, sentiva di
dovergliela far pagare a ogni costo per averlo fatto soffrire. Era
questo che aveva avuto in mente fin dal principio? E aveva aspettato
proprio questa sera non a caso…
La
serata non poteva concludersi con uno scenario peggiore per Maxwell
Lord quando si vide un ispettore entrare e andare da lui spedito con
una lettera chiusa in mano. Dovevano necessariamente consegnargliela
di persona. Gli si gelò il sangue in corpo appena
l'aprì.
La
polizia lasciò la villa portandosi dietro l'armonia che si
era
creata, poiché tutto ciò che aveva fatto, tutto,
era andato in
frantumi in pochi minuti. Non gli bastò aver comprato i
diritti se
Lex Luthor andò in televisione a raccontare di come aveva
creato le
pillole e perché, denunciando apertamente Veronica Sinclair
di
averlo frodato dopo una dolorosa delusione d'amore e di come lei
aveva venduto a Maxwell Lord ciò che aveva potuto, di come
sapesse
che quest'ultimo si fosse messo a crearne di nuove basandosi sulle
sue, e di come, determinato, lo avrebbe portato in tribunale, avrebbe
pagato ogni dollaro necessario pur di riavere la paternità
completa
del suo frutto di gioventù.
Maxwell
strinse la lettera con un pugno, camminando a passo spedito verso il
giovane Luthor. Quello era troppo. Era decisamente troppo.
«Tu
hai…», cercava di contenere la rabbia che gli
imperversava in
corpo, ma le narici spalancate e lo sguardo accigliato lo tradivano.
Prese fiato e strinse le labbra con livore, prima di pensare di
parlargli ancora: «Tu non hai idea di cosa hai
fatto», per poco non
ringhiò.
Il
generale Lane gli passò una mano sulla spalla per stargli
vicino,
non capendo cosa stesse succedendo finché non lesse la prima
parte
della lettera che il compagno d'affari aveva ricevuto.
Controllò
subito il cellulare, accorgendosi che gli era arrivata la stessa
notifica dell'accusa che, in quel preciso istante, arrivò a
gran
parte dei cellulari: alcuni giornali ne parlavano già.
Cat
Grant uscì per parlare al telefono come se all'improvviso le
fosse
mancata l'aria e ordinò a Willis di intervistarli, di
intervistarli
tutti e subito. Anche le ragazze videro dai loro cellulari una parte
dell'intervista rilasciata da Lex andata in onda quella sera, in un
salotto televisivo. Furono molti gli ospiti che, a quel punto,
decisero di lasciare la festa.
Ma
Maxwell Lord non era l'unico fuori di sé e la signora Margot
strinse
con rabbia il corrimano, le nocche diventarono bianche, guardando
dall'alto al basso mentre il generale Lane, che passava da cera
pallida a rosso fuoco sul viso, per poco non si scagliò
contro Lex:
«Stupido
bamboccio arrogante», gli puntò contro il dito
indice destro ma Lex
non si mosse, né così il suo sorriso. Fu Lucy
Lane a mettersi
davanti e a fermarlo, ma questo, per il povero Sam Lane, era ormai
diventato alto tradimento. «Lucy… Lucy»,
borbottò. «Ci saranno delle conseguenze serie per
tutto questo,
Lucy».
«Stai
lontano dal mio cliente. Torna a casa, hai bevuto troppo. Ti
prego»,
lo guardò negli occhi, «Chiamerò per
farti venire a prendere».
«Tu
non chiami proprio nessuno», le puntò contro un
dito con sdegno,
«Non ho bisogno di niente da parte tua».
Lucy
non si era mai sentita così male in vita sua.
Il
generale Lane era tornato indietro per raggiungere la sua giacca e
andarsene senza aggiungere un'altra parola, ma Maxwell Lord era
ancora lì, fermo sui suoi passi, scioccato e al tempo stesso
arrabbiato. Alex tentò di avvicinarsi e passargli una pacca
su una
spalla, in fondo le dispiaceva per come erano andate le cose, ma lui
a stento sentiva la sua presenza e l'unica cosa che riusciva a vedere
era Lex Luthor che sorseggiava da un bicchiere il suo vino
più
pregiato, soddisfatto di aver distrutto la sua vita. «Hai
rovinato
tutto…», sibilò, «Hai
rovinato tutto!», ribadì a voce più
alta, mentre Leslie gli avvicinava il cellulare per registrare
ciò
che aveva da dire.
Dru
Zod recuperò la sua giacca da sera e stava anche lui per
lasciare la
serata, convinto che lo spettacolo non gli interessasse,
finché non
si rese conto come tutti i rimasti che c'era ancora un'altra voce che
aveva qualcosa da dire e che, forse, valeva la pena ascoltare. E
stava ridendo.
Jackson
Ur Phillings rientrò in salone con una ritrovata energia,
ridendo a
squarcia gola e così applaudendo, visibilmente divertito da
ciò a
cui aveva assistito. «Signore e signori»,
esordì indicando a mano
aperta il giovane Lex, «i Luthor», fece una pausa.
«Non ti è
bastato aver pensato a diverse cose insieme, caro mio»,
adocchiò
Maxwell, riprendendo a parlare: «Sapete? Ho speso molti anni
della mia
vita a lavorare per i Luthor e a leccare i loro fondo schiena dorati
prima di essere licenziato in tronco e vedere affossata la mia intera
carriera. Mi erano state sbarrate all'improvviso tutte le porte e mi
sono ritrovato in mezzo a una strada. E pensavo di rifarlo, eh, ci
stavo pensando proprio qui e oggi, perché un lavoro mi serve
e
chissà che sotto la guida di una nuova generazione le cose
potessero
andare diversamente. Ma il signor Lex Luthor qui mi ha fatto appena
capire che no», l'uomo scosse un
dito indice,
osservato dai presenti, «no
no,
loro sono e saranno sempre tutti uguali. Hanno il sangue marcio. Sono
cattivi!», urlò e si prese un'altra pausa. Solo a
quel punto, nel
completo silenzio della sala, capì che era arrivato il
momento di
farlo, di pronunciare quelle parole e prendersi ciò che gli
spettava: «È per questo che ho ucciso Lionel
Luthor».
Eccomi di ritorno con un nuovo capitolo! Un nuovo capitolo bello
lungo, corposo, a volte divertente e a volte… beh, che ne
pensate
del finale? Finale col botto? Abbiamo finalmente il nostro assassino?
Siccome
è già tardino, non farò il solito
recap, perdonatemi, ma
se siete stati attenti allo scorso capitolo avrete abbastanza chiaro
il disegno. Spero si capisca, anche perché quasi all'inizio
c'era
una parte che era un flashback che dovrebbe incastrarsi col capitolo
scorso. Ricordatevi sempre i tempi verbali, in questi casi!
C'è
solo una cosa di cui vi devo assolutamente parlare ed
è… la
chat di gruppo! Come avrete notato, la loro chat era un po'
particolare, ovvero ogni ragazza l'ha chiamata in modo diverso e per
ognuna non appare quindi solo un nome diverso, ma anche diversi sono
i nomi con cui ognuna di loro ha salvato gli altri contatti! Quindi
ad esempio Indigo, che è la chat che vediamo maggiormente,
vedrà:
-
il nome del gruppo chat che lei ha dato
-
il nome con cui lei ha salvato i contatti quando le arrivano i loro
messaggi
-
i tag delle altre con i nomi con cui loro le hanno
salvate
nei contatti
Scriverli
mi ha divertita!
E
ora vi lascio molto in fretta. Grazie della lettura, spero che il
capitolo vi sia piaciuto e noi ci rivediamo… tardino. In
realtà ho
finito proprio ieri di scrivere il capitolo successivo, ma proprio
perché i tempi sono così stretti, invece di dirvi
“ci vediamo
quando ci vediamo”, vi lascio una data, anche se ci
vorrà un po'.
Magari ci metterete comunque un po' a leggere questo, visto che
è
lunghetto.
Ci
rileggiamo sabato 8 maggio con il capitolo 68 che si intitola
Phillings. Lo so,
un mese. Ma vedrete, passerà in un baleno e
intanto spero di scrivere ancora un po' per non lasciarvi troppo
senza :)
Ah,
sì… dopo questo capitolo, in realtà,
ci sarà un breve
pezzetto. Lo lascerò a parte. Lo inserirò stasera
~
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Capitolo 75 *** 67. Extra - Continua...? ***
Selina
Kyle pensava davvero che se ne sarebbe andata di lì a poco.
Le
dispiaceva di non poter restare, o forse almeno un pochino, ma
considerava di non essere poi così adatta al gioco di
squadra, fuori
dal campo di lacrosse. Non si sarebbe lasciata incastrare da Maxwell
Lord, neanche per quelle pillole. Avrebbe aiutato i suoi di Gotham
City in un altro modo, non aveva scelta. Continuava a ripeterselo,
camminando per il corridoio: non aveva scelta.
Sentì
Ivy e Harley scendere al piano di sotto con i loro soliti schiamazzi
e continuò a dare un'occhiata in giro. Lassù non
c'erano telecamere
e, con accortezza, passava un dito su tutto ciò che vedeva.
Non un
po' di polvere, tutto era perfetto e ordinato. C'erano altri quadri,
tanti quadri, fiori in vaso, mobiletti dall'aspetto
antico,
soprammobili di dubbio gusto, toccò. Molto
dubbio gusto,
considerò, sfiorando un cimelio con le gambe. Lei di arte
voleva
capirne il giusto per sapere quanto gliene avrebbero dato al mercato,
del resto le interessava appena se non incontravano i suoi gusti.
Qualcosa da rubare c'era, ma nulla che valesse la pena rischiare la
prigione e niente per ricattarlo e fermare quell'accordo. Le cose di
valore vero doveva tenerle altrove, magari dentro le casseforti. Se
solo avesse capito dove fossero; era sicura di aver guardato ovunque,
anche se in modo sbrigativo. E la chiave magnetica, dopotutto, a che
cosa serviva? Perché quei camerieri che fungevano da
sicurezza ne
avevano una ognuno? Se non c'erano altri edifici, forse un passaggio
nascosto? E perché no sotterraneo? Non le tornava nulla di
quella
faccenda, ecco perché il suo sesto senso continuava a
sussurrarle di
andarsene.
Maxwell
Lord l'aveva invitata in casa sua sapendo che era una ladra…
Ci
stava l'ego, ma aveva ragione Ivy quella mattina, nella villetta dei
ricconi: Maxwell Lord non era uno stupido e doveva sapere che ci
avrebbero provato. E lì non c'erano telecamere. No, non le
tornava
proprio niente.
Ma
quella era casa sua e non poteva arrendersi! Non
era fatta per
arrendersi! Forse Maxwell Lord aveva qualcosa in mente e lei doveva
essere più veloce, semplicemente più veloce e
più furba, prima che
la scoprisse già lì al piano di sopra. Non
esisteva persona al
mondo a non tenere in casa propria qualcosa di valore, e non valore
economico, ma affettivo. Lui non poteva essere diverso, si rifiutava
di crederlo. Cos'era che contava davvero, per quell'uomo? Dov'era il
sentimento, le cose per cui lui avrebbe smosso mari e monti per
riavere? Possibile che quel Maxwell Lord fosse più noioso di
Bruce
Wayne? Perfino lui aveva i suoi punti deboli, le cose legate alla sua
famiglia. La famiglia…
All'ultimo
tornò indietro. Okay, aveva un'ultima carta da giocare! Il
quadretto
con la foto dei genitori dove…? Nella sua camera personale.
La
famiglia, punti deboli, forse qualcosa lì dentro…
Non si era
soffermata, magari le era sfuggito qualcosa, ma doveva essere veloce.
Entrò
e richiuse la porta accompagnandola, attenta che non facesse rumore.
Doveva essere da sola su quel piano, ma era meglio non rischiare. Era
buio ma ci era abituata, non le serviva accendere la luce.
Andò
spedita verso una scrivania e afferrò il portafoto,
fermandosi a
osservare un uomo e una donna. Doveva essere stata scattata almeno
vent'anni prima, a giudicare dalla patina sbiadita e dai colori
caldi, attraverso la luce delle finestre. Erano in camice e
sorridevano, abbracciati. Aprì il portafoto, ma dietro non
c'era
nulla, neanche qualcosa di scritto. Era un altro buco nell'acqua?
Cosa diamine apriva quella chiave magnetica?
Gonfiò
le guance per sbuffare, pensando. Tutto il personale di Lord aveva la
chiave magnetica, lì non c'erano telecamere…
Perché?
Selina
lasciò la foto sulla scrivania e si guardò in
giro, intanto che la
porta si riapriva senza far rumore così come si era aperta.
A poco
da lì, su una mensolina, quella stessa donna era in
compagnia di un
bambino, in un'altra foto. «Eri anche carino»,
mormorò. Si formò
una grossa ombra, alle sue spalle. Silenziosa, si faceva strada nel
buio, mentre Selina decideva di aprire i cassetti. Ormai era
lì, non
guardarci sarebbe stato un insulto a chi aveva scelto di essere nella
vita. Fogli, fogli, fogli. Maxwell Lord sapeva essere davvero
disordinato, nel suo intimo. Non poteva permettersi un raccoglitore?
Iniziò a sfogliarli, prendendo qualche foglio e piegandolo
contro la
luce delle finestre per leggere. Era certa che anche quello fosse un
altro vicolo cieco e che avrebbe di nuovo gettato la spugna,
finché
non lesse qualcosa che attirò la sua attenzione e
aggrottò lo
sguardo. L'ombra era alle sue spalle. «…
no», biascicò la
ragazza accigliandosi, prendendo un altro foglio. Era qualcosa, ma
qualcosa di ancora meglio del valore affettivo. «Ti ho
beccato,
figlio di-».
L'ombra
alle sue
spalle
si
mosse
e
Selina se ne accorse all'ultimo, balzando in avanti con un piccolo
scatto e finendo a sbattere sulla pediera del letto. L'uomo teneva in
una mano un panno pregno di liquido e tentò di
rimetterglielo in
faccia una seconda volta, prima che lei, con una capriola, gli
sfuggisse via.
Lo
aveva già visto? Selina
era spaventata, non sapeva cosa stesse succedendo; ma
qualunque cosa fosse, lui voleva prenderla e non ci sarebbe riuscito.
Era vicinissima alla porta che lui gliela bloccò con un
calcio,
tentando di afferrarla. Selina
doveva sembrargli
un grillo. Allora la ragazza tentò di aprire la finestra più
vicina,
ma non c'era verso di smuoverla, così tentò di
colpire quell'uomo
lanciando un fermacarte, ma non riuscì a prenderlo. Qualcuno
avrebbe
sentito quel
baccano, no?
L'avrebbero
sentita se si fosse messa a gridare, anche con la musica, no?
Se solo fosse riuscita a farlo: era troppo agitata e se continuava a
muoversi in quel modo non riusciva neppure a emettere un fiato! Non
riusciva neanche a vederlo bene, a capire chi fosse dalla luce
dall'esterno, se non… era davvero grosso. Lo aveva
già visto… il
gorilla impomatato. Ma… lui? Cosa
stava succedendo? Riacchiappò il fermacarte e
pensò di cambiare
strategia e colpirlo non prima che si fosse avvicinato, così
saltare
sul letto e arrivare dritta alla porta. Poteva
funzionare. Doveva
funzionare. E così fece. Lui si accostò, lei lo
colpì a un occhio,
o
forse quasi, e
balzò in avanti. L'aggressore pensò di sbraitare
dal dolore ma si
resse la ferita solo pochi attimi, troppo pochi, voltandosi in tempo
per afferrarle un piede, farla cadere di pancia sul letto e mettersi
sopra di lei, in modo da metterle quel panno in bocca.
La
chiave magnetica… Selina ora
capiva
a cosa era
servita.
L'uomo
la strinse con forza contro il letto fino a quando non smise di
muoversi. Lui l'aveva mandato a prenderla, e
gliel'avrebbe
consegnata senza ritardi.
Continua…?
Aaaaah! Ma allora Selina non se n'era andata! L'hanno rapita
°° O
meglio, il gorilla impomatato, emh, Ferdinand l'ha rapita! L'ha
rapita per consegnarla a lui.
Lui…? Ah.
Voleva
andarsene, avrebbe dovuto dare retta al suo sesto senso. Ma
poveretta, alla fine non voleva davvero arrendersi :( Mentre Kara e
le altre hanno pensato male di lei…
Volevo
pubblicare questo piccolo extra ieri sul tardi, ma è
andata così. “Continua…?”?
Beh, perché in effetti ho un'idea
ma non so se riuscirò a realizzarla, ecco perché
il punto di
domanda. Un'idea per Selina, Harley e Ivy. Chissà. In ogni
caso,
questo è un extra perché, se non dovesse
continuare da qualche
parte, comunque alla trama di Our home non porta
alcun
cambiamento. Selina è stata rapita, ora, sì, ma
tutto procederà da
come da programma, le altre non ne hanno idea e non è detto
che mai
lo sapranno.
Grazie
per la lettura, spero vi sia piaciuto :)
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Capitolo 76 *** 68. Phillings ***
Conosceva
le note a memoria, le dita premevano i tasti del pianoforte senza che
li guardasse e aveva imparato da tempo a chiudere gli occhi per
lasciarsi trasportare dalla musica. Il salone di villa Luthor
ospitava parecchie persone, quella sera, ma restavano in silenzio ad
ascoltare, con i bicchieri in mano e un goccio di liquore appena
tastato sulle labbra. C'era armonia e Lena era orgogliosa che potesse
esibirsi davanti a un pubblico tanto importante come gli amici dei
suoi genitori; non voleva in nessun modo far fare brutta figura a suo
padre e ce la metteva tutta. Si era preparata con giorni di anticipo
senza tregua. Ma poi il campanello aveva suonato, qualcuno
bisbigliato all'orecchio di suo padre e lui si era alzato dalla
poltrona: aveva prima sentito i suoi passi e dopo aveva sbirciato
riaprendo gli occhi, voltandosi l'attimo necessario perché
sua madre
le dicesse di non smettere. Suo padre era uscito lasciando il portone
socchiuso e sua madre lo aveva seguito, restando ferma all'ingresso e
guardando fuori, davanti alla finestra. Lena aveva cercato di far
finta di niente, doveva continuare cosicché suo padre non
avesse
notato nessun calo una volta tornato. Ma quando lui era di nuovo in
salone, era lui quello cambiato, come se non potesse più
compiacersi
della sua musica. Si era distratto. Lena aveva continuato a suonare,
le dita seguivano la memoria, le note la musica. Aveva smesso di
colpo quando tutti si erano alzati, sentendo quel rumore: il portone
si era aperto sbattendo e un uomo, piuttosto esile, era entrato
sbraitando.
«Non
potete chiudermi la porta in faccia!».
In
quel periodo, i suoi genitori erano spesso accompagnati da bodyguard.
E loro erano schizzati immediatamente e avevano afferrato per le
scapole quell'uomo prima che le sue scarpe fangose potessero sfiorare
un tappeto persiano.
«Dopotutto
quello che ho fatto in questi anni è questo il
ringraziamento, eh?
Io merito di meglio e voi lo sapete, Luthor! Lo sapete!»,
aveva
continuato a urlare.
Lena
aveva guardato suo padre che, livido, aveva ordinato di portarlo
fuori. E sua madre, nera di rabbia, che aveva boccheggiato sperando
di calmarsi, per poi girarsi e discuterne con alcuni di quegli amici.
Non aveva badato a come tutti sembrassero conoscerlo. Perfino Lex,
che aveva abbassato lo sguardo.
«Senza
di me sareste ancora a spulciarvi tra voi come delle maledette
scimmie! Voi non potete farmi questo! È oltraggioso, non
potete!».
I
bodyguard avevano portato fuori quell'uomo e suo padre si era girato
in sua direzione. Gli era bastato un solo suo sguardo per farle
capire che avrebbe dovuto riprendere a suonare. Così Lena si
era
piegata il vestitino ceruleo dietro le ginocchia e si era seduta,
pronta a continuare.
«Lo
ricordo, adesso», disse a bassa voce, socchiudendo gli occhi
pregni
di lacrime. «Avevo nove anni, i miei genitori avevano
organizzato un
piccolo ritrovo con alcuni amici… E lui era entrato
e… aveva
cominciato a gridare…», si fermò,
portandosi una mano contro la
bocca. Kara la raggiunse, involgendola con un braccio. «Ha
ucciso
lui mio padre…?».
Non
sapeva come avrebbe dovuto sentirsi. Leggera, sollevata, oppure
rancorosa, o abbattuta. Sapeva solo che faticava a sentirsi ancorata
al pavimento. Aveva l'assassino di suo padre davanti ed eppure il suo
cuore non riusciva a darsi pace, come se non fosse vero niente. Ma lo
era. Lo era.
La
porta della saletta si aprì con uno scatto e Kara
indietreggiò,
mentre Lena abbassò lo sguardo e si asciugò le
lacrime,
distogliendo la sua attenzione dal vetro che affacciava alla saletta
adiacente: Jackson Ur Phillings era chiuso lì, in manette,
seduto
con assurda tranquillità davanti a un tavolo.
«Serene,
sono io», Alex entrò e richiuse dietro di lei.
Scorse sua sorella
riavvicinarsi a Lena e prenderle una mano, intanto che si fermava
dall'altro lato. «Ti è venuto in mente
qualcosa?». Aprì un
fascicolo, sfogliandolo lentamente. «Zod sta arrivando,
preferirei
sapere qualcosa prima che ci sia lui a metterci il naso».
Lena
annuì, mordendosi un labbro. «È stato
lui», guardò lei e dopo
Phillings attraverso il vetro. «Era un membro
dell'organizzazione ma
è stato cacciato», annuì, «ed
è stato licenziato dalla Luthor
Corp, il che lo ha portato a vendicarsi. Ha senso».
«Lena,
sei…?».
«Sicura?»,
si rivolse a Kara. Prese fiato, asciugandosi di nuovo gli occhi.
«Ma
certo. Mia madre aveva fatto intendere che doveva trattarsi di uno di
loro o legato a loro, tanto che temeva che, prendendolo, avrebbe
messo tutti nei guai, lei compresa».
Alex
scambiò uno sguardo con Kara, a quel punto, come potessero
parlarsi
con gli occhi. «Lena, io…».
«Lo
so, devi arrestarli tutti», affermò glaciale.
«Non fartene una
colpa. È per questo che…»,
indugiò, ricordando i loro telefoni
accesi e la loro farsa, «è per questo che ti
dà tanto fastidio che
abbiamo fatto cancellare quei dati. Il lavoro prima di tutto, agente
Danvers». Lasciò la presa di Kara e
avanzò qualche passo,
girandosi un'ultima volta prima di uscire. «Io non so altro,
parlane
con Lex e con lei. Sapranno essere più utili».
Alex
sospirò e Kara girò lo sguardo, osservando quel
Phillings. L'aria
si era fatta molto più tesa.
«Le
parlerò io».
«No,
Kara, le parlerò io. Devo. Non è che io abbia una
particolare
smania nel mettere le manette ai polsi di Lillian: è la
moglie di
mia madre, accidenti».
«Lei
lo sa», scosse la testa. «È convinta che
adesso che lui è stato
preso sia l'inizio della fine per l'organizzazione».
«E
sai una cosa? Vorrei che lo fosse», replicò la
sorella con durezza,
spalancando le sopracciglia. «Ma qualcosa mi dice che se si
è fatto
arrestare in questo modo e non sarà presto morto, questo non
accadrà. Credi che l'organizzazione se ne starà
con le mani in mano
se lui è così importante?».
«E
Zod sta arrivando. Giusto?».
«Giusto»,
annuì. «E ne sembrava sorpreso quanto noi alla
festa…», lasciò
la frase a mezz'aria e si guardarono di nuovo negli occhi,
«Non so a
cosa credere. Ci penseranno le indagini a far luce sulla questione.
Se l'organizzazione non la intralcerà».
Lena
non riusciva a fare a meno che vedersi, nella testa, la scena di
Jackson Ur Phillings che, alla festa di Lord, rideva e ammetteva di
aver ucciso suo padre. E ancora e ancora. A Lex che le diceva che la
loro famiglia era malvagia, quel giorno in ascensore alla Luthor Corp
di Metropolis, quando gli chiese di raccontarle di più. E
Phillings
che lo ribadiva alla festa. E sua zia Lorna che, forse, odiava i
Luthor. Cosa aveva scoperto l'agente Jonzz lo faceva pensare. Era
tutto collegato, tutto connesso, tutto tornava. I Luthor erano
malvagi, e così era nata l'organizzazione, e così
suo padre era
stato ammazzato. E ogni cosa ricadeva in lei, adesso, perché
sangue
del loro sangue. Per tutti era stata adottata, ma Lena sapeva di
essere sangue del loro sangue.
Poteva
una discendenza essere maledetta? La malvagità essere
trasmessa come
una malattia ereditaria?
Lex
era malvagio? Aveva incastrato Roulette e il modo in cui aveva
sorriso, godendo nel distruggere la festa di Maxwell Lord…
Erano
state loro a chiedergli di fermare quella vendita e prendersi la
paternità dalle pillole, ma come lo aveva fatto…
Ricordava ancora
con quanta ferocia colpì quel ragazzo nella sua
università.
Lei
era malvagia? Lo sarebbe diventata? Un giorno avrebbe riso di fronte
a ipotesi del genere, ma quel che disse quel Phillings… E le
aveva
parlato poco prima in cerca di un lavoro. Lui, la persona che aveva
messo fine alla vita di suo padre aveva avuto abbastanza fegato da
parlare a lei di lavoro.
Guardò
il cellulare mentre camminava in corridoio: l'avevano invitata a una
festa che, a giorni, si sarebbe tenuta nella sua università.
L'assassino di suo padre era stato preso, poteva riprendere in mano
la sua vita e andare avanti più serena, adesso?
«Allora?».
Indigo era seduta incrociando le gambe su una delle sedie per
l'attesa, in mano il suo cellulare, squadrando Lena.
«È stato
davvero
lui?».
«Sei
sorpresa? Lo conoscevi?».
«No»,
si tirò gli occhiali finti sul naso, «Era in bagno
alla festa prima
di entrarci io. Tutto qui».
Indigo
conosceva suo padre e, da come ne parlava, sembrava essere stato una
figura importante anche per lei. Lena si sedette al suo fianco e
provò a sorriderle mestamente, rendendosi conto che la
ragazza aveva
allungato al mano sinistra per reggere la sua, in conforto. Indigo
non poteva sapere cosa passasse per la testa di Lena ma qualcosa
doveva pur immaginarla; sapeva abbastanza sulla sua vita e su quella
di suo padre, dopotutto. E doveva saperla anche il suo angelo custode
ma, da quella festa, aveva smesso di parlarle. Non aveva ricevuto
più
alcun messaggio da parte sua, neanche di fronte alle sue domande, era
sparito. Era sparito ma sarebbe stato per poco, lei sapeva che
sarebbe tornato a farsi sentire presto.
Passò
qualche giorno dalla festa e da quella terribile confessione che
portò all'arresto di Jackson Ur Phillings. Conteso tra
polizia e
D.A.O. fu interrogato a lungo da ambo le parti rilasciando
dettagliate confessioni su come aveva commesso il delitto, sempre
coerente con se stesso e senza tentennamenti, tanto che Alex Danvers
cominciò a credere che si fosse studiato tutto e che stesse
recitando come davanti a un pubblico. Lena non ne voleva sapere. Si
era chiusa e, ogni volta che tentavano di mettere in dubbio la
colpevolezza di quell'uomo, se ne andava affermando che perdevano il
loro tempo. Era stato lui, lo avevano preso, era finita. In fin dei
conti, Lillian stessa aveva confermato alle ragazze che poteva
benissimo essere stato lui: il fatto che lei al suo arresto ne fosse
più sollevata che preoccupata era però un chiaro
segnale che non
solo non era lui quello che Lillian credeva essere stato prima della
confessione, ma anche che, per sconforto di Alex, erano ben lontane
dallo sgominare l'organizzazione. E se lo aspettava.
«Adesso
potete cogliere questo momento per smettere di mettere naso in affari
che non vi riguardano e andare avanti», commentò
placidamente
Lillian davanti a Lena, Kara e Alex. «Potete lasciar perdere
l'organizzazione e vivere finalmente appieno la vostra vita di
fanciulle». Adocchiò Lena, seria, poi Kara,
più dubbiosa, e infine
Alex, che aveva il broncio. «O almeno la maggior parte di voi
può
iniziare a farlo; consiglierei all'altra di cambiare
mestiere».
Kara
fermò Alex ad un braccio.
«Datemi
retta», mormorò un'ultima volta la donna,
voltandosi per
allontanarsi, «godetevi questi attimi ora: non
torneranno».
Se
ne andò e Alex prese un lungo respiro, appoggiandosi a un
mobile
della cucina, lì in casa Danvers-Luthor. Lena e Kara erano
lì con
Indigo per passare due giorni di vacanza, e Alex le aveva raggiunte
quel pomeriggio per parlare con loro di Phillings, prima che la donna
le interrompesse. «Bella faccia tosta…»,
commentò acida, «Con
quello che sa sull'organizzazione, sarebbe una miniera d'oro se
confessasse, ci aiuterebbe tantissimo. Ma preferisce fingere di non
saperne niente, che non porta che acqua al loro mulino». Si
sedette
sul mobile e allungò lo sguardo a Lena, che era ancora ferma
sui
suoi passi. «Se decidesse di lavorare con noi, non ci sarebbe
neppure bisogno di arrestarla: siglerebbe un patto ed entrerebbe
nella protezione
testimoni».
Fu
allora che Lena la guardò, voltandosi appena.
«Jonzz in coma in un
letto d'ospedale e pensate di poterla proteggere? Non sapete
proteggere voi stessi».
«Lena»,
balzò dal mobile per andarle incontro e Kara strinse le
labbra,
alzando una mano come per fermarla, lasciandola invece passare.
«Non
credere che mi piaccia tutto questo-».
«Fai
il tuo lavoro».
«Non
è solo questo: la mia compagna rischia grosso infiltrandosi
tra
loro, mentre loro tentano di infiltrarsi nella sua testa»,
lanciò
uno sguardo a lei e a Kara.
«Mi
pare però che Maggie inizi a prenderne atto»,
continuò Lena,
decisa. «Molti altri hanno cercato di porre fine
all'organizzazione
prima di noi e hanno fallito», si fermò solo un
secondo pensando di
aver potuto dire qualcosa di sbagliato davanti a Kara per via dei
suoi genitori, ma lei si limitò ad abbassare lo sguardo:
forse ne
prendeva atto anche lei. «È entrata nella nostra
quotidianità;
sono ovunque, potrebbero essere arrivati a mettere radici anche a
capo del D.A.O. senza che tu te ne possa essere resa conto. Saranno
loro a guidare i fili di ogni cosa, anche di questa indagine. E della
tua su di loro».
«Allora
cosa ci consigli di fare?», domandò stizzita,
«Mollare tutto?».
Lei e Maggie avevano capito di dover convivere con quella indagine in
corso, la loro nuova realtà, ma lo avevano deciso anche per
andare
avanti, non per arrendersi.
Lena
prese fiato. «Se Maggie prenderà un giorno il
posto di Zod possiamo
stare tranquille, no?». Alex la guardò malissimo,
ma non si sarebbe
pentita di averlo detto.
«Cosa
credi che dovremo fare?», le domandò allora Kara e
Lena finalmente
le sorrise, le sorrise con amore, di gusto, come se appena prima non
stesse controbattendo con la sua sorellastra.
«Goderci
questi attimi. Lillian per una volta ha ragione. Goderci noi,
adesso», Lena le prese una mano e la baciò davanti
ad Alex, che
arrossì, distogliendo lo sguardo. «L'assassino di
mio padre è
stato preso, l'assassina dei tuoi genitori è a Fort Rozz.
Abbiamo
vinto, Kara», le carezzò il viso,
circondandoglielo con un palmo.
«Dovremo semplicemente vivere la nostra vita, adesso. Siamo
libere».
Lena
era raggiante, e Kara non se la sentì di smontare il suo
entusiasmo.
Si lasciò trascinare fuori dalla cucina mano nella mano e si
girò
appena prima di uscire per lasciare detto ad Alex, con il solo
movimento delle labbra, di tenerla aggiornata su Phillings.
Kara
accettò la decisione di Lena, pur non concorde. Anche per
lei, come
per Alex, la confessione di Phillings non convinceva fino in fondo e
sapeva che non si sarebbe arresa con l'organizzazione. I suoi
genitori non l'avrebbero fatto.
«L'organizzazione?».
Il giorno dopo, Phillings scrollò le spalle, per poi battere
la mani
sul tavolo dov'era stretto in manette, nella saletta degli
interrogatori. «Quale
organizzazione? Di cosa diavolo andate cianciando, voi
piedipiatti?»,
sorrise sghembo, aumentando il battere delle nocche sul tavolo.
Voleva andare a fumare, maledizione… Quando aveva confessato
quell'omicidio, non aveva pensato affatto che non l'avrebbero
lasciato fumare. E forse, credeva, avrebbero usato quell'espediente
per torturarlo mentalmente o ricattarlo in cambio di informazioni.
Non sapevano con chi avevano a che fare.
Davanti
a lui sul tavolo, Alex era seduta a fianco di Jeremiah Danvers, con
le braccia a conserte. Era la prima volta che seguivano un caso
insieme. Maggie era con altri agenti dietro al vetro nella saletta
accanto, e Alex sapeva che doveva anche esserci Zod, con loro.
«Non
prenderci in giro», Alex lo inchiodò con lo
sguardo. «Sappiamo
benissimo che sai di quale organizzazione parliamo». Sul
tavolo,
davanti a lui, avevano disposto in sequenza delle foto: di Faora Hui,
in vita e quando la trovarono morta nella sua cuccetta d'ospedale,
del commercialista Michaels ufficialmente suicidato in carcere, e
così anche di altri volti noti dell'organizzazione. Anche
Rhea Gand.
Lui non nascose di conoscere qualcuno di loro come il commercialista,
ma solo perché di fatto era il suo commercialista prima che
lo
arrestassero; e Rhea Gand, poiché era un volto molto noto al
pubblico. Fu attento a non tradirsi. «Facciamo
così…», si
guardarono negli occhi e Phillings deglutì,
«confessa e noi, in
cambio, ti offriremo una sigaretta».
Maledizione!
Lo sapeva! Ma lui era un uomo duro, non l'avrebbero piegato…
«Una
sigaretta per ogni informazione. Potrai fumarla qui davanti a noi:
allenteremo le manette».
«…
credete che sia così stupido?».
«Quindi
non se ne fa niente? Sei sicur-».
«Accetto!
Datemi quella sigaretta, maledizione: non vedete che sto
impazzendo?».
Alex
sospirò: non faceva che ripensare alle parole di Lena il
pomeriggio
precedente. Davvero Phillings avrebbe detto qualcosa
sull'organizzazione? Adocchiò suo padre a fianco. Odiava
ammetterlo,
ma al momento non riusciva a fidarsi neppure di lui. Suo padre,
accidenti! Avrebbe dovuto scagionarlo il più in fretta
possibile
perché non poteva arrivare a non fidarsi perfino del proprio
padre.
Intanto, Phillings si stava godendo quella sigaretta con lo sguardo
soave di un bimbo. «Ottimo. Ora che hai la tua sigaretta,
puoi
cominciare a parlare».
«Di
cosa, signorina?».
Alex
Danvers si accigliò. «Agente,
non signorina. Dell'organizzazione». Acc…
lo sapeva.
«Ah,
non ne ho idea», scrollò le spalle, «Ma
avrei detto di tutto per
una sigaretta… signorina».
Erano
buchi nell'acqua. Continui buchi nell'acqua. La prossima sigaretta
gliel'avrebbe fatta sudare.
Aveva
come l'impressione che indagare sull'organizzazione fosse come
nuotare controcorrente.
Per
di più, di lui avevano solo una confessione che non valeva
niente
senza prove, ed erano impossibili da trovare, diceva di aver fatto
sparire tutto e gli credevano. Era meticoloso, lo confermò
Lillian
quanto Lex, da quel che ricordava di lui. Non fosse altro, Lillian
Luthor aveva lasciato detto parecchio di quando lavorava alla Luthor
Corp e di come lo avesse licenziato lei stessa. Il passato dello
scienziato alle sue dipendenze aveva lasciato di ghiaccio tutte,
sempre più convinte che il suo posto sarebbe dovuto essere
la
prigione: in tempi non sospetti, una collega lo aveva denunciato per
aver rapito e seviziato il suo cane. Lo trovarono per strada mesi
dopo la sparizione malconcio e affamato, malato, morì
nell'ambulatorio veterinario senza che capissero cosa gli fosse
accaduto. Non c'erano state delle vere e proprie connessioni con lo
scienziato e tutto finì con un nulla di fatto, fino a quando
non
sparirono altri animali che ritrovarono morti. Messo sotto torchio,
aprirono un'indagine e ne conseguì che non rispettava le
norme ed
era crudele con le cavie. L'ultima volta aveva portato un bambino in
laboratorio. Non era stato denunciato solo poiché la madre
del
piccolo aveva firmato una liberatoria ed era stata adeguatamente
compensata in anticipo. Era in astinenza, avrebbe fatto qualunque
cosa per avere i soldi necessari a una dose ma a lui non sembrava
importargli. Phillings giurò che il bambino sarebbe tornato
a casa
con un cerotto e una caramella. Infine, fu preso di peso dalle
guardie e scortato fuori. Per molte volte successive al licenziamento
tentò di riavvicinarsi al suo vecchio laboratorio per
riprendersi il
suo lavoro e ogni volta fu sbattuto fuori. Si guardarono bene dal
portarlo in tribunale e la polizia, sul resto, non fece nulla. Era
chiaro a tutte che se ne occupò l'organizzazione. Ma anche
da lì,
giurò Lena secondo i suoi ricordi, fu fatto fuori. E poteva
ancora
respirare… anche dopo l'arresto.
La
porta della loro camera in comune in casa Danvers-Luthor era chiusa a
chiave. Il laptop di Lena poggiato sulla scrivania di Kara vicino a
una copia del CatCo Magazine. L'indomani le ragazze sarebbero tornate
a National City e Alex, con Maggie e Jamie, avrebbero preso il loro
posto per passare lì un week-end. La finestra era aperta ma
le
tapparelle erano abbassate e i raggi del sole illuminavano una parte
della stanza, come il letto che una volta apparteneva ad Alex. Lena e
Kara erano sdraiate, godendosi l'aria e- no, più che altro
cercavano
di godersi un momento solo per loro con le loro madri in salotto e
Indigo nella stanzetta accanto. Pur la stringesse a sé e le
baciasse
il collo, Kara non faceva che pensare a Phillings. E in quel momento,
accidenti, era più inopportuno che mai. Era stato licenziato
da
Lillian ma aveva ucciso Lionel. Era stato licenziato ed espulso
dall'organizzazione. Aveva perso il lavoro e, contemporaneamente, i
vantaggi nello stare tra le fila dell'organizzazione. Quell'uomo
doveva essere pieno di rancore e alla festa ne aveva dato prova, ma
durante gli interrogatori, astinenza da nicotina a parte, era
tranquillo. Il suo comportamento continuava a confonderla.
Lena
mise via il cellulare e lo spense, sistemandolo accanto a quello di
Kara, sul cuscino oltre le loro teste. «Quando torno dalla
festa
alla mia università, domani, devo passare da
Willis».
«Che
cos'ha? Sta bene?», le baciò il mento, poi sotto,
salendo dietro
l'orecchio. Lena la bloccò frapponendo una mano e Kara rise:
forse
pensò che si sarebbe vendicata per tutte quelle volte che le
aveva
leccato dentro l'orecchio in quel modo.
«No…
o meglio, non ne è sicura. Mi ha chiesto di andare da lei
per un
problema urgente».
«Se
ti chiede di andare da lei e non di vedervi… in
un bar»,
fece una smorfia con le labbra, «dev'essere davvero
grave».
Lena
spalancò la bocca e scherzosamente anche gli occhi,
stringendola più
forte a sé. «Davvero, Kara Danvers? Era una
cattiveria? Detta da
te… Io non ti riconosco più».
L'altra
rise e prese le labbra con le sue, socchiudendo gli occhi e
trattenendo il fiato, baciandosi più a fondo. Kara le mise
una mano
sotto la camicia e lei gliela guidò fino al suo seno.
Continuarono a
baciarsi finché Kara non si staccò per riprendere
fiato,
guardandola negli occhi chiari. «È la tua
influenza», dichiarò
senza mezzi termini e Lena le pizzicò una guancia, cercando
poi di
sganciarsi dalla sua presa. «Eddai, scherzavo», la
fermò
stringendo la camicia, «non andare, Lena».
«Non
vado da nessuna parte». Le strinse i polsi e si
portò sopra di lei
in un attimo, baciandola a sua volta.
«Basta
che non mi lecchi l'orecchio…»,
bisbigliò e lei alzò un
sopracciglio.
«Voglio
solo punirti».
«…
ah»,
arrossì, guardando il soffitto. Ansimò appena ma,
ancora una volta,
i suoi pensieri andarono a Phillings. Conosceva Lena ed era pronta a
giurare che non fosse affatto convinta che fosse stato lui, sembrava
solo che se ne fosse voluta convincere per chiudere quel caso. Prima
di andare a casa Danvers-Luthor erano passate in cimitero davanti
alla sua tomba ed era rimasta per molto tempo zitta fissando la foto
di suo padre. E c'era anche un'altra cosa che…
«L-Lena…?».
Continuò quando la sentì farle un verso.
«So che no-non è il
momento, ma-», si zittì quando la scorse fermarsi
per guardarla a
sottecchi. «No-Non voglio interrompere la mia giusta
punizione,
e-umh», arrossì ancora, «M-Ma mi
chiedevo cosa ne pensassi… se
quel Phillings… e se fosse anche il garante di
Indigo?».
«Proprio
ora?».
«Pensaci!
Coincide con il profilo che ci siamo fatte: nell'organizzazione,
cacciato via, non è stato fatto uccidere.
E…», proseguì
debolmente, «ce l'ha con la tua famiglia. Torna…
abbastanza».
Deglutì. «E-E poi, lo so, hai detto di aver chiuso
con il caso
della morte di tuo padre, ma il garante voleva che scoprissi
chissà
cosa sulla tua famiglia e-e, Lena, questa cosa non l'abbiamo risolta
e… sì, vorrà risolta». Lena
non si mosse e Kara capì che,
davvero, avrebbe dovuto parlargliene in un altro momento.
Probabilmente era stata indelicata. Perché non riusciva a
pensare
prima di parlare? Stava per dire qualcosa che Lena…
«E
verrà risolta. Non avere fretta. Tuttavia, temo dovremo
cercare un
altro nemico della mia famiglia».
«Indigo
non confermerà in ogni caso», obiettò,
anticipando i suoi
pensieri.
«Sì,
ma lei sa chi è e dice di aver conosciuto lui in bagno,
fumava lì
dentro. È molto nervosa quando parliamo del garante e con
lui non ha
battuto ciglio. Non è lui».
Kara
sbuffò. «Accidenti! Non ci saremmo mai abbastanza
vicine…».
«Ci
arriveremo, te l'ho detto», le sorrise, «Abbiamo
trovato
l'assassina dei tuoi genitori e ora abbiamo quello di mio padre.
Troveremo anche lui, non ho dubbi. Capiremo cosa voglia che
scopra».
Si sorrisero con complicità fino a quando Lena non strinse
più
forte le unghie sulla carne di Kara, sulle braccia che teneva ancora
sotto le sue. «E ora, per avermi interrotto, la punizione
sarà di
gran lunga peggiore».
Lena
sembrò sufficientemente appagata quando Kara si
presentò a cena,
rossa talmente dall'imbarazzo da avere le orecchie in pendant con la
t-shirt che indossava, con una sciarpa di lino intorno al collo. In
realtà, anche lei si imbarazzò un po', sapeva di
aver esagerato, ma
non poteva capire cosa provasse Kara quando Indigo, Eliza e Lillian
capirono perché indossasse la sciarpa. Ancora poco e Lillian
non si
strozzava con il vino.
Invece,
Indigo si godeva quei giorni di relax con un non
troppo:
le veniva da sorridere ma non troppo, dormiva ma non troppo, guardava
un film ma non troppo, era spensierata ma non troppo. Alle altre
poteva sembrare la sé di sempre ma, più tempo
trascorreva senza
notizie da quello che lei, erroneamente, aveva sempre definito angelo
custode,
e più ne aveva paura. Ma aveva fatto ciò che le
aveva chiesto,
aveva eliminato quel video e non si era intromessa, non avrebbe
dovuto arrabbiarsi con lei. Il suo sesto senso, però, non le
dava
pace.
Il
giorno successivo, le ragazze lasciarono casa Danvers-Luthor e
tornarono a National City. John Jonzz uscì dal coma proprio
quella
mattina e andarono a trovarlo in ospedale con il cuore un po'
più
leggero, trovando Megan in sala d'attesa. Molti erano i colleghi del
D.A.O. venuti a vedere come stesse, e stavano arrivando anche vicini
e conoscenti da Marsington. Suo padre arrivò sul tardi ma lo
lasciarono entrare per primo e da solo, poi lasciarono entrare Alex
che permise a Megan di farglielo salutare. Per terzo, fu il turno di
Jeremiah Danvers, prima di pranzo. Dopo di lui dovettero tutti
tornare a casa poiché gli infermieri chiusero alle visite.
John era
stanco e non dovevano fargli fare sforzi, non soprattutto dopo
ciò
che dovette dirgli Jeremiah, che ora prendeva il suo posto come
comandante ad interim: ai piani alti non dovevano aver apprezzato
troppo il suo lavoro in solitaria né come insistesse sul
coinvolgimento del capitano di polizia Adrian Zod, poiché
non
sarebbe stato sostituito solo per un breve periodo, era stato
licenziato. Di certo, un po' tutte pensarono che doveva essere la
piccola vendetta messa in atto da Zod per aver fatto domande a sua
figlia sulla sua vita. Il potere dell'organizzazione era davvero
diventato grande e vasto come sembrava. Considerando ciò che
gli era
successo con Armek, e ciò che l'organizzazione faceva alle
persone
scomode, iniziarono a pensare che, dopotutto, fosse meglio
così, per
la sua incolumità. A pensarlo per prima era Megan, che non
vedeva
l'ora di poterlo portare fuori dall'ospedale.
La
ragazza decise di restare lì nonostante non glielo avrebbero
fatto
vedere e Kara passò a prendere la cagnolina Nana dal campus,
o
l'avrebbero lasciata sola chissà quanto. Da quando
arrivò in villa,
Nana sembrò agitata anche se aveva già conosciuto
e odorato il
posto: non faceva che girarsi e rigirarsi e Lena temette che facesse
pipì da qualche parte, pregando Kara di farla uscire in
cortile.
«I
cani sono molto intelligenti», spiegò
quest'ultima. «Forse Nana
capta le emozioni di Megan, la sua padrona. Sente che John si
è
svegliato».
«Oppure
vuole cacare sotto le scale», la indicò Indigo e
Kara andò subito
a prenderla in braccio, prima che dal naso, sul tappeto, ci passasse
la coda. Ci mancava solo che Lillian, dopo aver visto la sciarpa,
decidesse di chiedere il divorzio da Eliza perché la
figliastra
aveva fatto fare i bisogni a una cagnolina sul suo prezioso tappeto.
Aprì la portafinestra superando il pianoforte e la
lasciò fuori,
richiudendo.
«Mi
preparo ed esco, non voglio far tardi», l'avvertì
Lena e si
scambiarono un bacio.
«Hai
bisogno di me in doccia?».
L'altra
le sorrise compiaciuta, portando i suoi occhi in alto e fingendo di
pensarci a lungo. «Ho sempre
bisogno di te in doccia», le baciò il naso,
«Ma non oggi: non devo
far tardi».
La
lasciò per andare al piano di sopra e Kara
sospirò, Indigo la prese
in giro e allora le fece la linguaccia, girandosi per controllare
Nana: era ancora lì davanti e spingeva con la zampa per
aprire la
portafinestra.
Lena
uscì poco dopo per andare alla festa organizzata nella sua
università e Kara si preparò di fretta per uscire
anche lei. Non ne
aveva fatto parola con Lena e, quando gliele chiese Indigo, le disse
solo che andava a far fare a Nana la consueta passeggiata.
La
ragazza si era raccolta i capelli con la sua iconica treccia e aveva
gettato i finti occhiali da vista su una sedia della sala da pranzo,
mettendosi sul tavolo a trafficare con il laptop di Lena e il suo
cellulare collegati. «Anche quando me lo chiederà
Lena dovrò dirle
così…? Una passeggiata?».
Kara
arrossì, imbronciandosi. Non sapeva come, ma riusciva anche
lei a
cogliere le sue bugie. «N-Non te lo chiederà,
tornerò prima io.
Sicura che posso lasciarti sola, invece? Che stai facendo?».
Indigo
le mostrò uno sguardo scocciato come se in fondo, anche se
glielo
avesse detto, non avrebbe capito. Decise di essere sintetica:
«Lavoro
su una nuova app messaggistica con tracciamento dei cellulari
personalizzata che aveva pensato Lena prima di…»,
sospirò, «prima
di accettare l'idea che quel Phillings avesse ucciso suo padre.
È
per via di Kyle, che se n'era andata dalla festa senza dire niente.
In questo modo, ognuna di noi invierà segnali gps alle altre
anche
quando non avrà voglia di scrivere: le manderà la
app in
automatico».
«È
una bella idea, ma… la privacy? Viola un tan-tinello la
privacy».
Indigo
rise finché non si accorse che era seria. «Ah…
Senti, stiamo agendo contro l'organizzazione e quando facciamo robe
come quella, è importante che nessuna di noi sparisca e
basta per
riapparire sui social due giorni dopo e dire scusate,
non avevo voglia di avvertirvi»,
sbraitò Indigo, «O mi sbaglio?».
Beh,
in effetti si era molto preoccupata per Selina, scoprendo che lei, al
contrario, non se n'era preoccupata affatto. L'aveva sgridata, ma non
cambiava la situazione.
«Senti,
rompiballe: la master del gruppo potrà disabilitare la app
quando
vuole con una password e quella master sarà Lena. Non io. Ti
fa
sentire più tranquilla?».
Kara
alzò le mani in segno di resa, girandosi per andare a
prendere Nana
con il guinzaglio in mano. Stiamo.
Non si lasciò sfuggire quella parola: stiamo.
Indigo si considerava parte del gruppo. «Ehi! Non chiamarmi
così».
«Nascondi
meglio quel succhiotto!».
«T-Tu
non guardarlo!».
Era
l'undici di luglio e il sole particolarmente cocente, neanche l'ombra
di una nuvola. Lena parcheggiò al solito posto nel
parcheggio
sotterraneo dell'università e, con il rumore dei tacchi sul
cemento,
si diresse in ascensore. Aveva indossato un fine completo nero, con
pantaloni larghi, aperto sulla schiena e a fascia sul seno; orecchini
dorati e lunghi, pendenti; rossetto rosso scuro; e i capelli tenuti
legati in una coda alta. Sapeva che alla festa sarebbero stati
presenti tutti i pezzi grossi dell'università: dagli
studenti più
abbienti e meritevoli agli insegnanti di rilievo, fino agli ex
studenti che ora erano adulti in carriera, pezzi grossi della
città.
Sapeva perché si trovava lì: da settembre si
sarebbe conclusa la
successione a Lillian alla Luthor Corp, stava diventando un pezzo
grosso di National City anche lei. Era lì perché
una Luthor.
All'improvviso sentì di dover prendere un respiro
più lungo e fermò
l'ascensore, appoggiandosi allo specchio dietro di lei, tremando. I
Luthor che erano malvagi. Lei sarebbe stata lì per
rappresentarli,
perché parte di loro, perché ora era adulta e
sarebbe diventata una
di loro a tutti gli effetti. Quel pensiero le faceva male dentro, da
qualche parte. E aveva ancora il coraggio di pensare che non avrebbe
voluto che sua madre finisse in prigione? Ne andava della loro
famiglia allargata… Magari pensava più al bene
comune che al bene
di Lillian come singola. Aveva una famiglia allargata meravigliosa e
il suo arresto avrebbe distrutto tutto.
Kara
era felice di camminare sotto al sole con Nana che le tirava al
guinzaglio da quando avevano lasciato la villa. All'inizio la
cagnolina non se ne voleva andare, poi si arrese, seguendo altri
odori. Aveva portato la borraccia per lei per quando si fossero
fermate, procedendo piuttosto svelte. Seguendo quell'andatura,
sarebbe arrivata molto prima dell'appuntamento. O quasi, alla fine si
erano fermate perché Nana era visibilmente stanca e, dopo
averla
fatta bere e aver bevuto anche lei, Kara continuò con la
cagnolina
in braccio, coccolandola un po'. Ormai la piccolina aveva anche una
certa età. Inviò una sua foto a Megan,
dispiacendosi di non poter
essere con lei a farle compagnia in ospedale, e arrivò a
destinazione, davanti al loro chiosco all'Angel Children's Memorial.
C'era poca gente, forse perché il sole era ancora troppo
alto, e
Siobhan Smythe non era ancora arrivata. Beh, Kara era in anticipo di
cinque minuti e, conoscendola, lei sarebbe stata in ritardo di almeno
venti, doveva mettersi l'anima in pace.
In
villa, Indigo stava lavorando a gran ritmo su quel progetto. Non era
la prima volta che creava un'app quasi da zero, ma stavolta era molto
importante che riuscisse e in tempo celere. Dopo aver dovuto fingere
di fallire alla festa di Lord con quel video, non voleva di nuovo
deludere Lena. Non voleva, e non doveva. Oh, le mancava
qualcosa…
Forse il suo quaderno degli appunti poteva tornarle utile. Masticando
la cannuccia del succo di frutta, si alzò e corse con le
sole calze
ai piedi al piano di sopra, raggiungendo la sua camera. Il
quaderno…
Il quaderno… Nel cassetto del comodino, probabilmen- Indigo
si
fermò, e il suo cuore si fermò allo stesso tempo.
Il lemure peluche
sul suo letto… il lemure aveva un coltello piantato in pieno
petto.
Cosa… No.
La ragazza si ghiacciò, tornando indietro di mezzo passo,
spalancando gli occhi. Doveva andarsene… subito.
Si voltò in fretta e un urlo muto le scappò dalle
labbra quando la
donna uscì dall'armadio. Veloce, Indigo svoltò
fuori dalla stanza
in corridoio ma lei la strinse con una morsa tra le braccia e
lasciò
che perse la cannuccia, scivolandole dai denti; la donna chiuse con
un calcio la porta della camera e cercò di bloccarla. Indigo
scalciò, tentò di morderla, e urlò
prima che le tappasse la bocca,
non si sarebbe lasciata uccidere senza lottare, ma Carol la
sollevò
da terra dandosi slancio e infine tentò di farla sedere
sulla sedia
davanti alla scrivania, calciandola per sistemarla davanti a lei.
«Shh…
Shh…
Indi, calmati. Calmati, cara, calmati», la spinse col sedere
sulla
sedia, lasciando che la guardasse negli occhi. Oh, si era messa a
piangere… Carol le passò il pollice destro sul
viso, asciugandole
le lacrime, così tolse lentamente la mano sinistra dalla sua
bocca.
«Piccola… Non sono qui per ucciderti, stai
tranquilla, va tutto
bene».
Tutto
bene…?
Aveva piantato un coltello nel petto del lemure ed era spuntata
dall'armadio vestita di pelle nera. Indigo aveva tra la lingua e i
denti il sapore della plastica dei suoi guanti. Se non per ucciderla,
allora per che cosa si era introdotta lì? E come aveva
fatto? C'era
un ottimo impianto di sicurezza e lei stessa lo aveva testato, per
essere certa che non fossero entrati a far del male alle uniche
persone che aveva. Perché Carol era
lì… se non forse per
spaventarla a morte?
Verosimilmente,
agli altri, tra studenti e professori, la rettrice, ed ex studenti in
carriera, Lena Luthor doveva apparire a suo agio. Conosceva solo
pochi di loro, ma parlava con tutti, rideva e scherzava, brindava.
Lena sapeva di non essere al suo massimo perché non faceva
che
pensare alla sua famiglia e a come questo l'avrebbe influenzata, ma
era stata talmente abituata, fin da bambina, a comportarsi in un
certo modo, che le veniva naturale come respirare. Doveva
già essere
stata influenzata, pensò. Era già stato fatto.
Qualunque cosa
avessero di sbagliato i Luthor, lei era già compromessa: non
solo il
sangue, ma l'educazione, il modo di pensare e di comportarsi, tutto.
Era già
come loro. Per un attimo pensò di avere un attacco di
panico, finché
un ragazzo non si avvicinò a lei con un calice in mano e una
bottiglia dall'altra. Tutto si fermò, prese respiro e
tornò lì,
davanti a lui, in quell'aula e a quella festa. Lui le sorrise e lei
si sforzò per fare altrettanto, accettando che le versasse
da bere.
Era un ragazzo non troppo alto, robusto, con un panciotto elegante e
scarpe laccate, i capelli legati indietro in una piccola coda, bassa.
Lo aveva sentito parlare con altri prima ed era un ex studente, uno
di quelli modello, che aveva lasciato l'università col
massimo dei
voti. Ora che ci pensava, il suo ritratto doveva essere affisso in un
corridoio da qualche parte. Forse anche il suo lo sarebbe stato, ora
che se ne andava.
«Avevo
scommesso con un amico che non saresti venuta».
Con
quanta insolenza, pensò. Neanche lo conoscesse, cos'era
quella
confidenza? Lei gli sorrise e lui indicò l'amico non troppo
distante
da loro, che la salutò innalzando il suo calice.
«Cosa ti dava
questa sicurezza?».
«Dicono
tutti che ormai sei troppo snob per noi… Dopo aver
frequentato per
un periodo il pupillo di Gotham Bruce Wayne, noi dobbiamo apparirti
come delle nullità, dico bene?», rise e bevve un
sorso, poggiando
il bicchiere sul tavolino accanto.
Oh,
lei neanche ricordava di aver finto una relazione con Bruce Wayne, in
quel momento. Era così che appariva agli altri? Una snob? Di
certo,
Lillian sarebbe stata più felice se avesse davvero avuto una
relazione con Wayne. Sarebbe stata più adatta a lei, al nome
dei
Luthor. «Eppure… eccomi qui».
«Eccoti
qui…», ripeté il giovane.
«Sei molto bella stasera, comunque. E
a breve diventerai una delle signorine più potenti di
National City.
Non che tu ora non lo sia praticamente
già…». Il suo sguardo la
squadrò attentamente da capo a piedi, focalizzandosi sul suo
seno,
come se lei non se ne accorgesse. «Come ti fa sentire? I
Luthor
hanno tutto e tu… tu erediterai ogni cosa. E»,
cambiò tono di
voce, «hai già un nuovo compagno, a proposito?
Bruce Wayne non sa
cosa si è perso».
Lei
lo guardò negli occhi, glaciale, riservandogli un
altrettanto freddo
sorriso. «E neanche tu». Gli versò il
contenuto del suo bicchiere
in faccia e si allontanò, sentendo l'amico del suo
spasimante
ridacchiare sotto i baffi. I
Luthor hanno tutto.
I
Luthor hanno tutto.
No, lei poteva avere ancora una scelta. Poteva ancora salvarsi
dall'essere come loro.
Stava
per andarsene che la rettrice e una donna che non conosceva la
fermarono, pregandole di ascoltarle perché avevano qualcosa
da
offrirle. Da offrire a lei?
All'Angel
Children's Memorial, Kara aveva aspettato Siobhan per ben quarantotto
minuti. Il sole stava sparendo per lasciare il posto alla sera e il
parco si era riempito di bambini e famiglie. L'unica cosa che
riuscì
a dirle fu che c'era troppo caldo per uscire di casa. Non ci pensava
neanche a una scusa da darle.
«Ringrazia
che sono uscita solo
per te,
semmai», le lanciò un'occhiata seccata.
«In questi giorni c'è
troppo caldo anche per vivere». Si lamentò ancora
sventolando una
mano e infine le chiese se potesse allontanare il cane che le stava
odorando intorno, quasi temesse per la sua vita.
«Hai
paura dei cani, Siobhan?».
«Non
ho paura delle bestie…»,
fece una smorfia, «è solo che puzzano».
Guardò Nana con orrore,
divincolandosi finché Kara non pensò di prenderla
in braccio.
«Non
è una bestia», brontolò. Le
carezzò la testolina pelosa,
imbronciandosi e coprendole le orecchie per proteggerla dalle sue
parole, inviandole poi un bacio.
Lei
la guardava con sconcerto. «Sì, come ti
pare», sventolò una mano
e guardò solo per un attimo Nana che, a lingua all'infuori,
la
osservava. Quando la abbaiò saltò dallo spavento,
chiedendo
all'altra di farla smettere. «Allora, vuoi sapere cos'ho
scoperto
per
te,
o vuoi continuare a giocare a minacciarmi con quella
bestia?».
«Nana
non è una bestia, e su, dammi qua».
Incredibile,
ma Siobhan Smythe le era stata utile davvero. Conservò i
fogli nel
suo zainetto e la ringraziò.
«E
così è stato lui?», domandò
Siobhan, mettendo le braccia sui
fianchi. «È stato questo Phillings a uccidere
Lionel Luthor? Un
tizio che lavorava per lui! Tipico».
«Non
lo sappiamo ancora», Kara si accigliò.
«Le indagini non stanno
andando da nessuna parte».
«Roma
non è stata costruita in un giorno»,
boccheggiò, fingendo
disinvoltura. «E ora vado a casa, pietà, ho
bisogno di abbracciare
il ventilatore. Credo che, con questo, io mi sia sdebitata
abbastanza. Ora siamo pari, biondina». Le lanciò
un'occhiata al
collo e formò un sorriso sghembo.
Kara
si rabbuiò e Nana l'abbaiò, forse anche lei
perplessa. «Sdebitata
di cosa?».
Davvero
Kara Danvers non ricordava i suoi singhiozzi terrorizzati al telefono
quando Rhea Gand mandò quegli uomini ad ucciderla alla
CatCo? Oh
beh, allora non era il caso di rinfrescarle la memoria, dopotutto.
L'importante era che avesse pareggiato i conti. «Lasciamo
perdere»,
la salutò con un gesto, attenta a non avvicinarsi troppo.
«Ci
vediamo, bestia».
«Non
chiamarla bestia».
«Stavolta
non mi riferivo a lei», sogghignò, toccandosi il
collo e facendola
avvampare. «Sei così innocente che sei tu a farmi
paura». Scosse
la testa e se ne andò.
In
villa, Indigo era ancora seduta sulla sedia nella sua camera.
Tremava, era sudata, non riusciva a respirare normalmente. Carol si
era introdotta lì e l'aveva quasi fatta morire di paura. Se
n'era
andata da poco, e lei non riusciva a calmarsi. E avrebbe dovuto farlo
preso, perché non solo doveva tornare al lavoro al piano di
sotto,
ma presto o tardi una delle due sarebbe tornata a casa e lei doveva
far finta di niente.
«Si
farà sentire presto», le aveva detto Carol
riguardo lui,
che da quella festa era sparito. «Mi aveva solo chiesto di
venirti a
trovare, cara. Era molto deluso per delle informazioni
inesatte».
«N-Non…»,
Indigo aveva deglutito, «I-Io lo avevo aggiornato, lui mi
aveva
ignorata! E avevo fatto come mi aveva chiesto», si era
difesa, «mi
sono fatta da parte». Poi aveva stretto i denti, respirando a
fatica, cercando di essere forte: «Allora deve essere
più chiaro,
quando parla con me».
Carol
aveva scosso la testa. «Non intende per il video».
Dopo aveva
deciso di andarsene, sbadigliando. «Il fuso orario mi sta
uccidendo…
Come si chiama? Jattlog
qualcosa. Ero fuori per lavoro e non sono ancora tornata a casa. Non
vedo l'ora di fare i biscotti con Amber e Adam. Magari te ne metto da
parte un po'. E scusami per questo… ti prego».
Credeva avesse già
qualcosa per cui scusarsi, invece si era avvicinata alla tigre bianca
di peluche, anche quella sul suo letto, e l'aveva decapitata davanti
ai suoi occhi.
Indigo
non poteva descrivere cosa provasse in quel momento e, prima che la
donna uscisse, aveva avuto il coraggio di chiamarla:
«Ca-», aveva
preso fiato a pieni pomoni, «Carol». Per fortuna
lei si era fermata
davvero, pronta ad ascoltarla. «Perché fai questo
per lui…? È
davvero… lavoro?». Le faceva schifo pensare che
alcune persone
facessero certe cose per lavoro. Lei aveva fatto cose orribili prima
che l'arrestassero. Veniva pagata perché era brava e
internet era il
suo regno. Aveva distrutto la vita di tanti, senza toccarne nemmeno
uno di persona. Aveva la coscienza pulita, allora? Era lavoro. Anche
quello che faceva per lui era iniziato come un lavoro. Un lavoro come
un altro. Così si guadagnava da vivere: distruggendo gli
altri. Ora
quel pensiero le faceva schifo. Che quello fosse il karma venuto a
chiederle il conto? L'aveva vista sospirare, prima di decidere di
risponderle.
«No,
non è lavoro, cara», scosse pacatamente la testa,
continuando a
sorriderle. «Lui non è davvero così
come sembra. Nel profondo, è
molto dolce anche lui; ha sofferto tanto e non riesce a mettersi
l'animo in pace. È molto disilluso e hanno cercato di
infondergli un
odio che nemmeno gli apparteneva. Il mio
cuginetto…», aveva
lasciato cadere la frase, abbassando gli occhi prima di guardarla di
nuovo e sorriderle con dolcezza. «Non vuole davvero che
qualcuno si
faccia male, la sua è solo facciata, Indi. Comportati bene.
E non
dovremo rivederci presto. Oh!
E non dirgli che te l'ho detto».
Il
mio cuginetto…
Indigo
si alzò dalla sedia, trascinando le gambe pesanti come
macigni, e
raccolse la testa della tigre bianca. Aveva perso dell'ovatta tra il
tappeto e il letto e, inchinata, pensò di rimettergliela
all'interno, o almeno ci provava. Doveva ripulire tutto prima del
loro ritorno. Abbracciò la testa e trattenne il fiato, con
gli occhi
azzurri pregni di lacrime.
Phillings
e Carina Carvex? Dopo
aver chiuso il cancello ai cavalli della villa insieme a Lena,
più
tardi, Kara ricontrollò i documenti che le aveva passato
Siobhan
Smythe su quell'uomo, all'interno della sua camera. I suoi
informatori avevano scoperto che una donna lo andava a trovare spesso
al suo vecchio indirizzo e, sia ricercando il suo identikit negli
archivi e sia parlando con il ragazzo della portineria del palazzo,
l'avevano identificata come l'agente del D.A.O. Carina Carvex, la
partner di sua sorella Alex. Secondo il portinaio, l'ultima volta
lì
si era precipitata con un piede di porco. E, secondo Indigo, lui alla
festa fumava in bagno… di nascosto? Carvex era alla festa.
Lui
stava appresso a Maxwell Lord, paonazzo. Che avesse usato il padrone
di casa per proteggersi da lei? E perché? Quali erano i loro
rapporti? Inviò un messaggio ad Alex con le foto dei
documenti, non
aveva tempo per telefonarle. Nascose tutto sotto il letto e
uscì,
trovando Nana che odorava in corridoio come un segugio, osservandola
poi masticare qualcosa. Era di nuovo strana da quando
tornarono… La
prese in braccio e la spupazzò, scendendo insieme di sotto.
«Dove
l'hai trovata questa?», le tolse da bocca la cannuccia da
succo di
frutta. Indigo!
Aveva l'abitudine di lasciare sempre tutto in giro!
Quella
notte restò lì e, dopo cena, fuori in cortile e
sedute sugli sdrai,
finalmente Lena vuotò il sacco circa cosa le era capitato
quell'oggi
alla festa dell'università. Indigo si era chiusa nella sua
camera
molto presto e la cagnolina Nana si era coricata ai loro piedi, dopo
aver aspettato che Megan arrivasse, davanti al portone della villa.
Per fortuna, alla ragazza avevano concesso di vedere John, ora che
l'ospedale era più tranquillo. Le permisero di passare
lì la notte
ma, questo, Kara non poteva spiegarlo a Nana.
«Una
cattedra?», lei spalancò gli occhi dalla sorpresa
e la vide
arrossire, sorridendo pacatamente. «Ti hanno proposto di
andare ad
insegnare?».
«Storia
dell'arte», la informò, guardando le stelle.
«Ma…
Ma è meraviglioso, Lena», si portò
dritta con la schiena di colpo,
facendo spaventare Nana, che rizzò le orecchie.
«È-È proprio ciò
che… Tu sei portata per la storia dell'arte! Ti piace! E ti
piace
insegnare! Ah»,
la indicò con un dito quando la vide fare una smorfia con la
bocca,
«Non provare a dirmi che non è vero! Questa
è la tua occasione».
Lena
non aveva avuto il coraggio di rifiutare. Aveva detto loro che ci
avrebbe pensato e avevano continuato a spiegarle in che istituto
sarebbe stata, in che classe, quando poteva iniziare se avesse
accettato, quando avrebbe avuto le ferie e altri mille dettagli. Non
erano neanche sicure che tutto questo sarebbe poi rimasto uguale a
come lo raccontavano. Sembrava… bello. Proprio quando si
stava
mettendo in testa che poteva essere diversa dal resto dei Luthor, le
si era paventata questa possibilità. L'aveva colta
così di
sorpresa… Aveva sempre saputo che sarebbe finita a lavorare
alla
Luthor Corp. Non poteva diventare un'insegnante perché era
una
Luthor. Ma l'idea di esserlo le piaceva da impazzire. «Credi
che io
possa farcela?». Finalmente si voltò, guardandola
negli occhi. «Non
ho mai pensato di avere una scelta».
«Ricordi
cosa mi dissi quando ero decisa a entrare in un corpo di polizia con
Mike?», la fissò con serietà:
«Sei tagliata per questo incarico,
Lena. Hai letteralmente gli occhi che si illuminano quando parli di
arte, qualunque
tipo di arte,
ne sai sempre una in più dei documentari e non vedi l'ora di
rimetterti a lavorare per la mostra! E ami insegnare alle ragazze a
cui facevi da turor. Sapevi che era un impegno e-e le hai guidate
nonostante fossi oberata, portandole a concludere degli esami
importanti. Prova a scegliere per te, lascia da parte il nome della
tua famiglia. Lillian si arrabbierebbe, sì, ma…
voglio dire, non
sarebbe la prima volta che la fai arrabbiare», sorrise,
«con
l'unica differenza che ora si parla di una scelta che ti cambierebbe
tutto. Non precluderti questa possibilità! Non farlo a te
stessa».
Zitta,
gli occhi verdi le si riempirono di lacrime e abbassò il
capo per
asciugarseli, arrossendo e cominciando a ridere e annuire.
«Ci
penserò».
Kara
l'aiutò ad asciugarsi gli occhi, accarezzandole il viso. Si
baciarono, sotto la luce delle lampade.
«Inchiodata!»,
Alex batté un piede, al chiosco nella piazza, pensando a
Carina
Carvex. Era passata una settimana da quando Kara si fece dare quei
documenti da Siobhan Smythe e da quando l'avvertì per
messaggio, ma
leggere per bene le varie dichiarazioni su quei fogli in mano era
più
appagante. «I miei dubbi dall'inizio sono fondati,
è
nell'organizzazione e mi prende in giro da sempre».
Kara
era più perplessa. Non che dubitasse di Carvex e
l'organizzazione,
ma… «Ormai ce ne sono così tanti
ovunque che cominci a chiederti
chi
non è
nell'organizzazione, sorellona, siamo piene all'orlo». Che
avesse
ragione Lena, almeno un po'? «È così
importante smascherare
proprio lei?».
Alex
arrossì appena, distogliendo lo sguardo.
«Sì, lo è». Flirtava
con lei da tempo e le interessava sapere se era per conto loro o
meno. Eccome. Ma, non fosse altro, scagionare suo padre aveva la
priorità e proprio a causa sua e di quella telefonata quando
arrestarono Armek a Marsington non riusciva più a fidarsi.
Intanto,
in televisione, la quasi totalità dei programmi tv come i
talk show
e i telegiornali non facevano che parlare del loro fratellastro Lex
Luthor, di quelle pillole e di Maxwell Lord, e Roulette, che era
stata intervistata a proposito del suo arresto e della sua relazione
con i due giovani da una conduttrice famosa che l'avrebbe mandata in
onda in prima serata a giorni. La ragazza si dichiarava ancora
innocente. Pure Lillian era apparsa in televisione, ripresa a
Metropolis mentre scendeva da una lussuosa macchina pronta a
raggiungere la loro proprietà, dove abitava il figlio.
Sapevano che
lei ed Eliza erano andate a trovarlo, quando scoppiò il
caso. Anche
Eliza apparve per brevi secondi in schermo, lontano, intenta a
scendere dalla vettura. Kara si teneva ancora in contatto con Lucy
Lane che le giurava che le acque si stavano muovendo per vie legali e
che tutto si sarebbe trascinato fino a settembre, senza entrare nei
dettagli.
«Senti,
sorellina», la guardò a sottecchi e Kara si
voltò, appoggiata sul
corrimano in ferro del chiosco. «E se tornassimo a qualche
vecchia
abitudine?», Alex sorrise con fierezza, «Ci serve
il suo telefono».
Lei
fece una smorfia con le labbra. «E come pensi di
fare?».
«Una
festa per l'arresto di Phillings? Al
bowling?»,
Lena alzò un sopracciglio quando glielo proposero, andate in
villa
per riprendere Nana. «Perché proprio al
bowling?».
«N-Non
ci sei mai stata, Lena?», le domandò Kara. Stava
sudando freddo;
non potevano parlargliene o avrebbe dovuto dirle che stava indagando
su Phillings che per lei era un caso chiuso, ma la sua agitazione per
poco non si tagliava con il coltello e Alex le diede una spallata,
simulando un colpo di tosse.
«Il
bowling è divertente, il salone è spazioso. Siamo
giovani»,
commentò lei, «dovremo pur goderci come si deve
questa vittoria».
E
la musica è alta e ci saranno le luci psichedeliche,
aggiunse Kara per sé. Perfetto per un furto.
«Non
ci sono mai stata», Lena abbassò lo sguardo, per
poi annuire con
sempre più convinzione. «Facciamolo. Voglio
provare a giocare».
«Questo
è lo spirito giusto, Luthor», Alex le diede
manforte e Kara
l'abbracciò.
«E
se poi Carvex decidesse di non venire?», bisbigliò
quest'ultima
alla maggiore solo pochi attimi più tardi.
Alex
si accigliò. «Verrà»,
fissò un punto vacuo, «Verrà di
certo».
Jackson
Ur Phillings aveva conosciuto i Luthor nel
millenovecentosettantacinque, iniziando a lavorare per loro quando
aprirono a nuovi settori della loro azienda che un giorno si sarebbe
evoluta nella Luthor Corp attuale. Alex gliene parlò a un
nuovo
interrogatorio, con una foto di Lionel Luthor sul tavolo, leggendo
davanti a lui alcuni passaggi della sua vita. Phillings si era deciso
a fare scena muta fino a quando non gli avessero elargito una nuova
sigaretta, ma non era così che funzionavano le cose e ci
tenevano a
farglielo capire. Aveva lavorato per la famiglia Luthor per gran
parte della sua vita ed era stato licenziato nel duemilasei, dunque
perché uccidere Lionel Luthor nel lontano
duemiladiciassette? Undici
anni di vuoto erano tanti! Com'era che avesse deciso di mettere in
moto la sua vendetta proprio allora e non molto prima? Mancava
qualcosa. Carvex era entrata con lei e fissava insistentemente l'uomo
in manette. Phillings, d'altro canto, da quando c'era lei si
comportava in un modo ancor più strano: la sfidava con lo
sguardo,
quasi in modo arrogante e, se non battesse le mani sul tavolo
dall'astinenza, avrebbe dato una maggiore impressione della sua
sicurezza.
«Ho
ucciso Lionel Luthor perché lo odiavo»,
ribadì quando riuscirono a
farlo parlare, dopo un po'. «E ora datemi quella maledetta
sigaretta, per piacere».
Doveva
essere uno che fumava davvero molto per non riuscire a resistere
qualche ora e Carvex lo sapeva bene; per poco non gli sputò:
«Dovrai
guadagnartela».
Lui
ebbe un sussulto, solo un secondo. «Lo odiavo, cos'altro
c'è da
dire, eh? Lo odiavo così come li odio tutti quegli impiastri
che si
credono i re e regine di questa città! Lionel Luthor si dava
tante
arie e un giorno ho deciso che lo avrei soppresso. È tutto.
Voglio
la mia sigaretta!».
Alex
diede uno sguardo alla collega vicino e lei se ne accorse, poggiando
le mani sul tavolo e piegandosi verso il sospettato.
Inaspettatamente, sorrise. «Magari questa è
l'occasione giusta per
smettere».
Lui
sbiancò e prese a urlare in preda agli spasmi quando le due
agenti
lo chiusero dentro da solo.
«Lo
conosci, Carina?».
«Eh?
Conoscerlo?».
«Sì…
Sembrava lo conoscessi, e che lui conoscesse te».
Lei
le regalò un grande sorriso, aprendo la porta per la saletta
adiacente, collegata dal vetro. «Forse perché
passo le notti a
leggere ciò che abbiamo di lui e mi sembra di conoscerlo. A
te non
succede mai, partner?», entrarono. «Mi disgusta. Ha
fatto cose
veramente orribili, non pensi anche tu?».
Le
aveva mentito in un battito di ciglia, davvero brava. Alex si
domandava quante volte lo avesse fatto, forse anche su come si era
fatta quel livido al collo. Maggie le aspettava e, sapendo che erano
solo loro tre, lei e Alex si lasciarono andare a un veloce bacio,
ignorando la presenza della collega. «È stato lui
senz'altro», le
disse Alex. «Hai sentito poco fa? Quell'uomo è
fuori di testa: li
odia davvero. Ne parlavo giusto ora con Carina».
Maggie
annuì, sorridendo a entrambe. «Almeno Lena
potrà tornare
tranquilla alla sua vita. E la festa? Si è deciso cosa
fare?».
Forse ci stava mettendo troppa enfasi, doveva risultare naturale.
«Oh,
sì», la cinse per i fianchi. «Abbiamo
prenotato al bowling: Lena
non ha mai giocato e sarà divertente». Allora si
voltò verso
Carina, rimasta in disparte. «Che idea! Perché non
vieni anche tu?
Ci saranno degli amici, non puoi mancare. Festeggiamo l'arresto! Un
altro assassino consegnato alla giustizia. Non accetto un no
come risposta… partner». La vide dondolare sul
posto, puntando
altrove lo sguardo e formando un sorriso. Era
sua.
Una
festa per l'arresto del dottor Jackson Ur Phillings. Forse solo Lena
e pochi altri che non conoscevano i retroscena erano convinti che
quell'uomo fosse al cento per cento l'assassino di Lionel Luthor, ma
non importava, a quella festa dovevano crederci tutti o fingere che
fosse così perché funzionasse. Avevano affittato
la pista,
commissionato un buffet, portato da bere e invitato chiunque venisse
loro in mente. Più gente sarebbero riuscite a portare,
più la
confusione sarebbe stata maggiore. Questa volta non ebbe da ridire
nemmeno Indigo, quando la invitarono.
Quando
ancora non erano che solo loro, Kara giocò con Lena quasi
esclusivamente da sole, aiutandola a capire il gioco. Alla prima le
sembrava che la boccia fosse troppo pesante e si fece accompagnare
più volte verso la pista con le braccia di Kara su di
sé,
saltellando quando beccava i birilli.
Alex
si era seduta davanti a loro, con Indigo vicino, silenziosa.
«Secondo
me lo fa apposta», bisbigliò, indicandogliele con
lo sguardo. «Come
si fa spiegare tutte le regole e se l'abbraccia… occhio alle
mani…», si voltò indietro e
riguardò l'orologio, aspettando che
la festa potesse davvero iniziare. «Ormai non hanno
più neppure la
briga di fingere di essere sorellastre e basta». Vide Lena
venire
verso di loro, con un enorme sorriso stampato in faccia.
«Scommetto
che hai capito subito come si gioca, eh?».
Lei
aprì una bottiglia davanti a loro, riguardando la sua
ragazza e
versandosi un bicchiere. «Campionessa per due anni
consecutivi, non
dirlo a Kara», mandò giù d'un sorso e
la raggiunse di nuovo in
pista, chiedendole come funzionasse il tabellone per il punteggio.
Alex
riguardò Indigo, riservandole un'occhiata saccente.
«E tu, invece?
Cos'hai? Da giorni sei più silenziosa del solito e non
istighi più
Kara. Finiremmo per preoccuparci». Le sorrise d'istinto, come
se a
intuito avesse capito che ne aveva bisogno.
«Tutto
normale. Come al solito».
La
sua risposta era così scostante: Alex la tenne d'occhio.
«Se ti
serve qualcosa, puoi parlarcene».
«Non
devo parlare con nessuno, sorella maggiore, hai capito male».
A quel
punto si alzò e sentì lo sguardo di Alex Danvers
seguirla lungo la
pista. Se ne andò verso i bagni, dando una spallata al
palestrato
che entrava in quel momento.
James
Olsen fu il primo ad arrivare, alzando le braccia per farsi notare.
«È qui la festa?».
Le
luci psichedeliche c'erano, l'alcol c'era, gli stuzzichini c'erano,
la compagnia c'era anche quella: Alex e Kara ne rimasero soddisfatte.
Dopo
James che per fortuna lavorava da quelle parti, arrivarono anche
Maggie e Charlie Kweskill dopo il lavoro, Winn li raggiunse qualche
minuto dopo scusandosi perché credeva di essere in ritardo e
Lucy
Lane arrivò appena prima che alzarono la musica, attaccando
la
playlist. Non sapeva ci sarebbe stato anche il suo ex ragazzo, ma per
loro non sembrò un problema, mettendosi subito a giocare.
Quando era
tutto avviato, cominciarono ad arrivare anche alcune delle ragazze
della squadra di lacrosse in cui giocavano Kara e Megan. Kara le
andò
ad abbracciare come se non fosse mai successo nulla tra loro,
ringraziandole. Con sorpresa di quest'ultima, due di loro chiesero
scusa non nascondendo imbarazzo per come si erano evolute le cose in
squadra, sperando potessero farlo anche le altre. Kara era sempre
più
convinta che sarebbe riuscita a riconquistarle. Con loro, qualcuna
aveva portato anche delle amiche e i rispettivi ragazzi e altri
amici, così cominciò a crearsi atmosfera. Appena
Kara le lasciò,
scambiò uno sguardo complice con Alex, lontane, che salutava
con
Maggie tre amiche della classe di yoga che prima frequentavano,
arrivate con i loro compagni e qualche amico. Megan li raggiunse poco
dopo, felice che potesse divertirsi un po' senza l'ansia di sapere
John in coma. Era riuscita a trascinare con sé anche
qualcuno che
frequentava i suoi corsi alla Sunrise, entusiasta che alcune delle
ragazze della squadra fossero venute davvero. Saltò addosso
a due di
loro quando seppe che avevano chiesto scusa. Con meraviglia di Lena,
alla festa si unirono le ragazze a cui aveva fatto da tutor,
nonostante quello non fosse proprio l'ambiente che frequentavano di
solito. Forse per questo quando arrivò Siobhan, che non era
sicura
affatto di volerci essere fino al momento di entrare là
dentro, si
attaccò a loro, o almeno finché non
scoprì che erano più
interessate ai muscoli di Charlie Kweskill e James Olsen che ai suoi
discorsi. Non che quei due quando flettevano i bicipiti…
beh, in
fondo, sembravano interessanti anche a lei.
Carina
Carvex non era ancora arrivata e Alex adocchiò nuovamente
l'ora,
dando anche uno sguardo a Indigo, seduta lontano da tutti. Il
tabellone nella pista davanti a loro segnò un altro strike e
Lena
esultò trionfante, tornando dagli altri giocatori.
Kara
non credeva ai suoi occhi, appoggiata schiena a un tavolino, accanto
alla sorella. «Ha imparato davvero in fretta».
La
videro buttare giù d'un sorso il contenuto di un bicchiere e
sfidare
un ragazzo che prendeva la boccia. Alex inarcò un
sopracciglio.
«Ssì.
Un talento naturale…».
Megan
venne a prendere quest'ultima e lei lasciò detto alla
sorella di
dire a Lena che era con lei quando avesse finito quella partita,
correndo dalle ragazze del lacrosse per fare tutte insieme un
brindisi di pronta guarigione del loro vecchio coach John Jonzz. Non
importava che si fosse scoperto un agente del D.A.O. sotto copertura,
per loro era sempre il coach. Per Megan anche qualcos'altro, ma lo
tenne per sé.
Alex
guardò di nuovo l'ora e cercò con lo sguardo
Maggie, dall'altra
parte, che giocava con Charlie e un altro gruppo, di cui facevano
parte James e Lucy. Carina era in ritardo. Ma sarebbe venuta, lo
sapeva. Forse sarebbe stato il caso di divertirsi e giocare anche
lei, mischiarsi con gli altri, per non destarle sospetti quando si
sarebbe fatta viva. Stava per alzarsi che scorse il valletto, no, il
segretario di Lena, o meglio il suo assistente, Winn, avvicinarsi
cautamente a Indigo che era sola. Alex sapeva che lavoravano insieme.
Forse lui sarebbe riuscito nell'ardua impresa di capirla un po'.
Arrivarono
altre due amiche dello yoga e studenti della Sunrise, e Carina ancora
non si faceva vedere.
Intanto,
quando smise di giocare o per meglio dire di stracciare gli altri,
Lena si prese qualche minuto per parlare alle ragazze a cui aveva
fatto da tutor della cattedra in storia dell'arte che le avevano
proposto; le interessava sapere la loro opinione, potevano aver avuto
un'anteprima di quale professoressa sarebbe potuta essere. Kara la
vide parlare con loro dalla pista, e all'improvviso abbracciarle. Un
po' troppo all'improvviso. Ma almeno doveva essere perché
aveva
ricevuto pareri positivi.
«Quanto
sta bevendo?», Lucy prese una boccia, toccando a lei, e Kara
riguardò Lena. «Aah…
solo quattro giù. Che schifo. Devo aver perso le forze
quando ho
distrutto James».
«Un
pochino più del solito», rispose Kara, guardando
la ragazza dopo di
loro che lanciava. «Ma non voglio dirle niente…
È una festa e
hanno arrestato l'assassino di suo padre, e ha ricevuto una bella
notizia, anche se è incerta sul da farsi,
quindi…».
«Ma
non hai caldo?», si indicò il collo: Kara
indossava una maglia a
collo alto, non era nel suo stile.
Avvampò,
ingigantendo gli occhi. «S-No, no, oggi volevo- stavo bene
con
questa».
Risposta
vaga e imbarazzante. «Quindi è sicura che sia
stato questo
Phillings?». Vide Kara scrollare le spalle mentre la teneva
d'occhio
nell'andare a scambiare due parole con Indigo e Winn. «Il
fatto che
abbia confessato comunque lascia da pensare. Se è stato lui
è un
incosciente», osservò Lucy, «l'aveva
scampata fino ad ora. Se non
è stato lui, invece, perché confessare e darsi
tanto da fare?».
Effettivamente,
Kara non aveva riflettuto di questo lato della faccenda: cosa
potrebbe guadagnarci quell'uomo nel confessare un delitto non
commesso? Continuò a guardare Lena e, quando Lena
guardò lei,
arrossì. Ma l'altra si accigliò e Kara
sussultò. Perché quello
sguardo? Cosa le aveva fatto? Lucy la scrollò con una
stretta:
toccava a lei.
«Otto»,
Lucy le sorrise. «C'eri vicinissima! Peccato».
Poco
più lontano, Maggie e Charlie bevevano seduti davanti a un
tavolino.
Si stavano godendo un piccolo momento di pace. La ragazza quasi si
dispiaceva di aver lasciato Jamie con la babysitter anche quella
sera, ma sentiva il bisogno di staccare, anche se la festa era nata
solo affinché Alex incastrasse la sua collega. Non che
l'idea le
dispiacesse, dopotutto: più aveva a che fare con quella
Carvex, e
meno le piaceva. «Carina Carvex è dei
vostri?». Se lei era
un'infiltrata non le avrebbe risposto, ma d'altra parte…
«Charlie?». Era incantato al gioco davanti a loro.
O forse non
proprio
al gioco. «Ti piace?».
«Eh?».
Lui si voltò scattante in sua direzione.
«Credevo
uscissi già con qualcuno».
Il
ragazzo si grattò la nuca. «Abbiamo preso due
caffè, non ci sto
insieme…».
Maggie
rise, inclinando la testa da un lato. «Allora prova a
buttarti».
«Tu
dici?».
«Perché
no?».
Lui
indugiò, gonfiando le guance e continuando a bere.
«Tu, invece?
Stai ancora fissando la notifica della disponibilità? Non
glielo hai
ancora chiesto?».
Maggie
arrossì, abbassando gli occhi. La notifica sul cellulare,
già. Sì,
si era solo limitata a guardarla. Non vedeva l'ora che l'anello fosse
disponibile e poi non aveva fatto nulla. Ma la vita andava avanti,
doveva
andare avanti, organizzazione o meno. Non avrebbe avuto un momento
giusto,
doveva farlo e basta. «Chiedere a una persona di sposarti non
è
facile come sembra».
«È
facile eccome», bevve lui, avvicinandole una mano per
stringerle un
polso. «Compra l'anello, va' da lei, guardala negli occhi e
fa' la
magia: sii spontanea, ma decisa. Andrai alla grande, Mags».
Lei
sorrise di nuovo. Sembrava così facile davvero. Sarebbe
stato
assurdo chiedergli di essere il suo testimone?
«Beh,
io vado», si alzò di scatto. «Mi butto
come hai detto tu. Fammi
gli auguri! Se va male, me la prenderò con te che mi hai
detto di
farlo, intesi?», accennò una risata.
«Ah,
Charlie?», il ragazzo si fermò subito, ma lei
indugiò: «… ah,
nulla. Solo… Carina Carvex? Ti dice niente?».
«Quella
del D.A.O.?».
Lei
scosse la testa e lui sorrise, tornando in pista. In tutti i sensi.
Kara
vinse per un soffio e alzò le braccia al cielo, mentre le
ragazze
che giocavano con lei e Lucy si complimentavano, convinte che non le
servissero delle pillole per essere la migliore. «Potete
giurarci
che è così», riferì Lucy,
sollevandosi le maniche della maglia
fine che indossava e passandosi una mano sulla fronte sudata.
Cominciava a far caldo là dentro. «Se pensate
davvero che Kara, che
Kara Danvers, abbia assunto delle pillole solo per giocare meglio di
voi, allora non avete capito niente di lei»,
proseguì, «Di come è
fatta, o della sua vita». Kara la pregò di lasciar
perdere e la
tirò a un braccio, ma lei sembrava determinata a
strigliarle: «Loro
sono le tue vecchie compagne di squadra? Ma ti conoscono o no? Kara
si fa in quattro per tutti, anche per voi! E non avete idea di cosa
ha passato per quelle pillole». Sentirono qualcuna di loro
chiedere
scusa e allontanarsi pacatamente, così anche Kara
tirò via lei,
accostandosi a uno dei tavolini. «Scusa, non ci ho visto
più…».
«Ti
senti bene? Come va con tuo padre?».
Lei
tardò a rispondere, prendendo da bere. «Mi ha
messo in panchina, ma
me lo aspettavo. Non ha l'autorità per congedarmi o
l'avrebbe fatto,
quindi mi ha solo rimandato a casa fino a data da
destinarsi».
Kara
si rabbuiò. «Mi dispiace, Lucy».
Lei
sorrise, scuotendo appena la testa. «Non vedo l'ora di
parlarne bene
a quattrocchi con Lois. Sarà felice di sapere che non
è più
ufficialmente la figlia che ha più problemi con nostro
padre».
Paninetto
in bocca, Kara si guardò attorno ma non trovava
più Lena, in
compenso era finalmente arrivata Carina Carvex e per poco non
sputò
tutto. Aveva ragione Alex: non sarebbe mancata. Cercò anche
lei ma
c'era troppa confusione e non la vedeva. Un'arma a doppio
taglio…
Per di più, non rispondeva al cellulare. Ora capiva
l'importanza
dell'app che stava sviluppando Indigo.
«Ehi,
Kara». Lucy attirò di nuovo la sua attenzione.
«Quello non è il
collega di Maggie Sawyer?».
Aguzzò
la vista e, anche se sotto luci blu e verdi, era chiaramente Charlie
Kweskill quello che palpava i bicipiti di James con tanto interesse.
James Olsen forzava il muscolo e ne parlava compiaciuto, vantandosi
degli ultimi allenamenti. Al tempo stesso, guardava e chiedeva dei
pettorali dell'altro. Le due ragazze li guardarono interessate,
annuendo e facendo delle smorfie compiaciute.
«James
lo avrà capito che ci sta provando con lui?».
Kara
scosse la testa. «Non ne sono sicura…». Ah!
Carina Carvex! Si girò subito ma l'aveva persa. Doveva
trovare Alex
e dirglielo. Chiese scusa a Lucy e la lasciò, chiedendo a
due
ragazze dello yoga se l'avevano vista, andando verso un'altra pista
del salone. D'improvviso, due braccia la colsero alle spalle e per
poco non saltò addosso a un ragazzo dallo spavento.
«L-Lena!
Dov'eri finita?». La ragazza aveva le guance imporporate,
aveva
visibilmente bevuto troppo.
«Ho
accompagnato qui fuori Indigo e Winn… Winslow», le
sorrise,
avvicinandosi a lei un po' troppo e con uno strano
sguardo, troppo
strano
considerando quanta gente c'era. Cosa aveva in mente?
«Starà a
dormire da lui, qui si stavano annoiando e avevano un torneo in non
so quale gioco, da concludere», ci pensò,
«Forse qualcosa sulle
macchine, non mi ricordo». L'abbracciò ma Kara si
divincolò da lei
pian piano, anche se non sembrava prenderla bene.
«B-Beh,
sorellastra
mia»,
precisò a voce alta. «Mi aiuteresti, p-per favore,
a ritrovare
l'altra
tua sorellastra
cioè mia
sorella maggiore?
È importante».
«Certo»,
le sorrise passandole avanti e Kara sospirò. «Cosa
avete in mente,
voi due? Avete sempre qualcosa in mente, voi due. Da quando vi
conosco. Non riesco a starvi dietro».
«Ma
no, pff»,
ridacchiò nervosa, «niente». Carina
Carvex: eccola, aveva appena
fatto strike a un tabellone. Il suo cellulare…? Forse poteva
pensarci lei. Chiese a Lena di seguirla e insieme si avvicinarono al
tavolino correlato, fingendo disinvoltura, scorgendo la borsetta
incustodita. Una coppia si stava baciando sul divanetto davanti, se
faceva abbastanza in fretta non l'avrebbero vista infilarci una mano.
«Kara».
«Ah!»,
saltò di nuovo dallo spavento, togliendo la mano dalla
borsetta e
nascondendola alle sue spalle.
«Si
sente la mancanza di Willis, non è vero?», Lena si
avvicinò di
nuovo pericolosamente a lei, allungando la mano sinistra alla schiena
dell'altra, sfiorandole la mano. «Scusa», la
lasciò andare
all'ultimo, vedendo che aveva le orecchie rosse dall'imbarazzo,
nonostante le luci blu e verdi. «È che sono un po'
su di giri».
Kara
si guardò into- oh,
la coppia le fissava. Per fortuna non li conosceva. E c'erano le luci
psichedeliche. Beh, tanto non stavano facendo nulla di sconveniente,
nulla!
Ridacchiò di nuovo, sempre più nervosa, e si
allontanò di poco,
appoggiandosi di spalle al tavolino vicino, vuoto. «Leslie
sta
ancora male?», le provò a chiedere, sperando di
farle cambiare
argomento.
Lena
allungò un sorriso, contenta che glielo avesse chiesto.
«Lo sarà
per nove mesi». Rise quando vide Kara spalancare gli occhi.
«Ricordi
quando sono andata da lei? Non aveva il coraggio di affrontare un
test di gravidanza da sola, così l'ho accompagnata per
comperarlo e
ho aspettato fuori dal bagno», raccontò.
Leslie
era uscita strepitante di gioia, girando alla vittoria!
«È
negativo! Diventerò credente e andrò a pregare
ogni giorno! L'ho
scampata per poco», le aveva mostrato il test, davanti alla
porta.
«Andrò dal medico sul ritardo, magari da ora
comincio a prendere la
pillola, ma tutto risolto, tanta ansia per nulla».
«Leslie,
è positivo».
«No».
«Sì».
«No».
«Ti
dico di sì». Si era avvicinata, mostrandole la
legenda sul
significato delle due lineette e Leslie Willis si era congelata in
espressione funerea.
«Cazzo».
A
Kara venne da sorridere e a Lena con lei. «Nessuno ancora lo
sa…
Doveva restare un segreto, veramente», allora rise e Kara
arrossì.
Era
bellissima. Aveva bevuto un po' troppo, ma era così pura e
naturale
che, per un attimo, avrebbe voluto mandare al diavolo la loro
relazione segreta e baciarla davanti a tutti. Se ne sarebbero
preoccupate il giorno dopo. Oh!
La
coppia le guardava ancora. Ma non avevano di meglio da fare, come
controllarsi le tonsille a vicenda come stavano facendo fino a un
secondo prima, magari? Si distrasse il momento in cui udirono una
ragazza urlare su quanto amasse una canzone che prese per mano Lena,
decidendo di riprendere la sua ricerca di Alex. «Vieni, sorellastra
mia»,
alzò la voce, «A-Andiamo a cercare l'altra
tua sorellastra,
cioè mia
sorella».
Beh, dopotutto era meglio rimandare.
Neanche
il tempo impiegato a cercarla o a cercare di prendere quel cellulare,
che lo aveva già lei e la ritrovarono in bagno, dopo aver
chiesto a
Maggie, intenta a scoprire la password. C'era da aspettarselo.
«Sicure
che non si sblocchi con l'orma del pollice?»,
suggerì Lena.
Alex
aveva scritto a matita su un tovagliolo tutte le possibili varianti,
ma aveva due soli tentativi rimasti.
«Potremo
prenderle il pollice e portarlo qui con un sacchetto del
ghiaccio».
Kara
e Alex la guardarono allibite. «Ma quanto ha
bevuto?», domandò la
seconda, incerta. Mancarono le parole a entrambe le Danvers quando
un'amica dello yoga uscì da uno degli scomparti, le
salutò e finse
di non aver sentito, mentre cercava di lavarsi in fretta per uscire
dai bagni il prima possibile.
«Accidenti!
Ho un'altra sola possibilità», Alex
tentò, ma era un salto nel
vuoto. Non avevano neppure un indizio, solo cose che Alex credeva di
sapere di lei.
Non
c'era Indigo ad aiutarle e alla fine decisero di non rischiare di
bloccarlo, uscendo sperando che controllare nella sua borsetta le
avrebbe portate alla soluzione ma, quando poggiarono il cellulare,
questo non c'era già più. Era stato un attimo e
Carina stava ancora
giocando, non poteva essere stata lei a riprenderlo.
Avevano… perso
la loro occasione.
«Se
vi fa sentire meglio… la festa è un
successo». Almeno Lena
imbevuta d'alcol trovava il lato positivo in ogni cosa. O quasi ogni
cosa. Bastò che Lucy tornasse a rivolgere la parola a Kara
perché
quest'ultima capisse subito il perché di quello
sguardo
quando stava giocando con lei. Normalmente Lena manteneva la propria
gelosia a livelli accettabili; era abituata, da Luthor, a saper
fronteggiare le cose a sangue freddo, ma se la quantità
d'alcol
giusta arrivasse a toglierle certe inibizioni… «Mi
sono stufata di
vederti con la cresta sempre alzata quando sei appresso alla mia
ragazza».
«Sorellastra!»,
Kara le urlò sopra, censurando la parola. Tentò
di bloccarla, ma
Lena la scansò.
«Cos'era
che dicesti a casa mia?», domandò lei a denti
stretti. Lucy guardò
Kara e Kara guardò lei, ma Lena era partita in quarta.
«Ah, già,
lo ricordo: sei una grande sostenitrice della nostra relazione».
«Amicizia!».
«Sai
invece cosa penso io?», proseguì Lena, puntandole
contro un dito e
facendola indietreggiare fino ad appoggiare la schiena a un tavolino.
«Che sei gelosa. Che sai che Kara ama
me-».
«Amaramente!».
«E
la cosa ti fa stare malissimo», Lena strinse un pugno e Lucy
le
labbra, deglutendo; smise di guardare Kara. D'altra parte, lei
iniziò
a guardarla sotto una nuova luce. «Hai ancora una cotta per
lei,
vero? È così. Schifosamente. Evidente».
A
quel punto, Alex e Maggie richiamarono tutti quelli distratti alla
festa e ai tabelloni segnapunti, in modo che avessero qualche
spettatore in meno. Quella storia di certo non riguardava nessuno di
loro. Anche Carina Carvex smise di ascoltare, mettendosi alla ricerca
del suo cellulare con un sorriso.
«È…
vero, Lucy?», Kara arrossì. Non se n'era accorta.
Lei e Lucy
avevano avuto un flirt e, ammetteva, con lei c'era sempre un non
so che
di fondo che sapeva non sarebbe mai stato di più, ma forse
quel
non so che,
per Lucy, aveva dimensioni maggiori.
Lei
aprì la bocca lentamente, distanziandosi dal tavolino e
vergognandosi abbastanza per non riuscire a sollevare lo sguardo. Non
all'inizio, se non altro. «È… vero. Mi
piaci ancora», sorrise e
Lena sospirò.
«Va
bene, quantomeno lo hai ammesso», sentenziò lei,
smettendo di
attaccarla. «Meno occhi dolci da adesso in avanti, Lane. Lei
è la
mia
ragazza».
Kara
arrossì talmente che non si accorse che avrebbe dovuto
censurare la
parola.
«Ed
è anche la mia,
di ragazza», Alex tentò di metterci sopra una
toppa e sentì alcuni
sguardi addosso, così ridacchiò anche lei. Il
nervosismo era
contagioso. «La nostra…
sorellina».
La
festa al bowling era stata… un successo. Va bene, non erano
riuscite a sbloccare quel cellulare e ad immergersi nella tela di
segreti di Carina Carvex né a scagionare Jeremiah, ma si
erano
divertite e, se Kara e Lena erano fortunate, forse nessuno degli
invitati avrebbe parlato fuori di lì di ciò a cui
avevano
assistito. Sperare che non avessero capito era un insulto alla loro
intelligenza.
Non
seppero che era stato Charlie Kweskill a sottrarre il cellulare
rubato di Carina e a restituirglielo fuori dal complesso.
«Carvex»,
gli era spuntato alle spalle e lei lo aveva aspettato davanti alla
sua auto, così le aveva mostrato il maltolto. «Hai
perso la testa.
Occhio a dove lasci le tue cose».
Come
lui non poteva sapere che lei lo aveva lasciato incustodito di
proposito.
Appena
se n'era andato, aveva controllato che il cellulare fosse integro,
notando che avevano tentato di accedere senza successo. «La
password, cara Alex, è facile». P-a-r-t-n-e-r
digitò veloce, sbloccandolo. L'aveva messa apposta per lei,
sperava
ci sarebbe arrivata.
Non
seppero che Charlie aveva visto Alex Danvers pendere quel telefono
dalla borsa, ma che, di lì a poco, sarebbe stato impegnato,
e non
aveva potuto fermarla.
Chiusi
nel bagno degli uomini, Charlie gli aveva circondato il volto con le
mani e gli aveva accarezzato i lineamenti, poi si era avvicinato.
James era rimasto immobile, con gli occhi aperti, aspettando che lo
baciasse.
Non
seppero neppure che, nel momento in cui loro attiravano gran parte
dell'attenzione degli invitati, Siobhan Smythe aveva suggellato una
nuova amicizia con le ragazze a cui Lena aveva fatto da tutor,
facendo un selfie insieme e scambiandosi i numeri del cellulare. Ma
dopotutto, a nessuna di loro importava saperlo.
Prima
ancora che la festa finisse, Kara decise di portare via Lena in modo
che si riprendesse. Qualcuno si offrì di accompagnarle, Lena
non
poteva certo guidare, ma infine quest'ultima telefonò
direttamente a
Ferdinand l'autista che le venisse a prendere. Vecchie abitudini. Si
sdraiò sui sedili posteriori e appoggiò la testa
sulle cosce di
Kara, calde, chiudendo gli occhi. La sentì accarezzarle i
capelli.
«Grazie
per la disponibilità», Kara spezzò il
silenzio. Fuori dal
finestrino, National City era luminosa e chiassosa, piena di vita. Le
notti d'estate erano le sue preferite. «E ci scusi
se… l'abbiamo
disturbata a quest'ora».
Lui
le guardò appena attraverso lo specchio retrovisore
dell'auto,
impassibile. «È il mio lavoro».
A
volte Kara si domandava se fosse un uomo o un robot.
Le
lasciò in villa che questa notte sarebbe stata completamente
loro e
Lena mise a fare la tisana sul fuoco, dopo essersi lavate e cambiate.
Non se ne erano accorte prima, ma in fondo erano stanche e
continuavano a pensare e a ripensare a quella giornata e a quelle
precedenti. A Phillings, ai Luthor, alla cattedra in storia dell'arte
e, naturalmente, alla gelosia di Lena. Molte delle attenzioni di
entrambe andarono a quest'ultimo punto. Kara si appoggiò al
bancone
della cucina e Lena la guardò di straforo. Nel silenzio
della villa,
si ritrovarono a sorridersi.
«Perdonami…»,
Lena si avvicinò a lei pian piano, camminando con le sole
calze
corte ai piedi. «Ero un po' brilla. Non dovevo scattare in
quel modo
con Lane, ho combinato un pasticcio». Senza tacchi ancora si
meravigliava quanto diventasse bassa davanti a Kara, anche lei con le
sole calze. La vide fare una smorfia con le labbra, puntare lo
sguardo al cielo e, in un attimo, scoppiare a ridere, rossa sulle
gote.
«Mmh…
F-Forse qualcuno avrà capito che io
sono la tua ragazza», disse, continuando a guardare da
un'altra
parte. Lena si lasciò andare a un brusio con la gola e,
abbassando
il capo, lo appoggiò sul suo petto.
«Ho
combinato un pasticcio…», ribadì in un
lamento.
«Beh»,
deglutì, «Probabilmente. M-Ma un giorno lo
sarebbero venuti a
sapere comunque. E… devo ammettere che-», si
interruppe quando
scorse Lena rialzare la testa, appoggiandosi a lei con il suo corpo,
«che… non mi è dispiaciuto affatto come
tu abbia messo in chiaro
che io sia… la tua ragazza», trovò il
coraggio di guardarla negli
occhi. «Non mi è… dispiaciuto che ne
fossi gelosa».
Lena
ansimò e con il ginocchio destro riuscì a
mettersi in mezzo alle
sue cosce. La circondò con le mani e le insinuò
sotto la sua
maglietta, sulla pelle calda, e morbida. Non indossava il reggiseno.
Alzò la testa il tanto per guardarle le labbra con desiderio
e
portargliele via in un bacio, socchiudendo entrambe gli occhi.
Schiuse le labbra piano e sentì le braccia di Kara
stringerla a sé.
«Lo avevo già messo in chiaro quando ti ho fatto
questo», le leccò
il succhiotto sul collo e la sentì sospirare. Si baciarono
di nuovo,
più forte e più a fondo. «Kara, andiamo
di sopra», le sussurrò
e, neanche il tempo di aggiungere un'altra parola, che lei la
sollevò
portandosela in braccio, facendola spaventare. «No, Kara, no!
Non
così, dai!,
ho paura»,
le uscì la voce stridula e la costrinse con un colpo a
tornare
indietro per spegnere il fuoco sulla tisana. «Mettimi
giù».
«Ma
sono la tua
ragazza».
«Che
obiezione è? Ti prendo a calci, così».
Kara
passò metà rampa di scale a prendersi calci di
paura e l'altra
metà, una volta messa Lena a terra, a prendersi pizzicotti e
buffetti per non averla messa a terra prima. Al sentire la
mia ragazza
rivolta Lucy, a Kara era sembrato diverso. Non avrebbe saputo
spiegarlo. Poteva essere sembrato un nulla di che, ma invece era
tanto. Stringerla e fare l'amore, toccarla con i polpastrelli e con
le labbra, con la lingua, quella notte, le era sembrato un
suggellamento di quelle parole, un metterci la firma. Era la sua
ragazza.
Non
riuscirono a prendere sonno, dopo. Lena la stringeva a sé e
giocava
con i suoi capelli, poggiata accanto al suo seno scoperto. Forse
tutte e due avevano ancora molto a cui pensare, anche se erano
stanche.
«Kara»,
la chiamò e lei attese. «Quell'uomo non ha ucciso
mio padre».
Neppure
Indigo poteva dormire. Non che riuscisse sempre a dormire a lungo
durante la notte, ma da quando Carol le fece visita e
decapitò la
sua tigre bianca era diventato molto difficile lasciarsi andare e
coccolare da Morfeo. Aveva giocato con Winn come promesso e, dopo
averle di nuovo chiesto come stesse, il ragazzo le aveva lasciato la
sua camera e se n'era andato a dormire sul divano nel salottino. Se
anche uno come lui aveva intuito che qualcosa non andava, significava
che doveva riprendersi in fretta. Non poteva permettersi che le
facessero domande a cui avrebbe dovuto mentire. E poi, come un
fulmine a ciel sereno, neanche immaginasse che era ancora sveglia,
quello che aveva deciso di chiamare angelo
custode
si era fatto risentire dopo giorni di chiassoso silenzio:
Dovevo
capire come mi sarei dovuto approcciare di nuovo a te, Indigo. Mi hai
deluso, ma non capiterà più.
Lei
si passò le mani sul viso e, facendosi forza, gli rispose:
Mi
hai punito per qualcosa di cui non avevo colpe.
Ci
aveva impiegato più di quanto si aspettasse a risponderle:
Me
ne rendo conto. Perdonami, se puoi. Non interpretarlo come un segno
di debolezza, ho semplicemente capito di aver preteso troppo da parte
tua.
Da
Me a X
Jackson
Ur Phillings ha ucciso Lionel Luthor?
Da
X a Me
Lena
Luthor voleva un colpevole e gliel'ho dato. Sono solito a mantenere
la parola data.
Indigo
strinse i denti e il telefono sotto le dita, cominciando a sentire la
pressione salire e il suo corpo, così umano, a sudare. Così
umano.
Da
Me a X
Voglio
chiederti un favore: voglio tornare in prigione.
Da
X a Me
In
prigione? Non dovrai tornare in prigione, quando finirai con questo
incarico.
Da
Me a X
Mi
sono sopravvalutata, questo incarico non è adatto a me e
alle mie
competenze. La prigione è dove merito di stare.
Il
cellulare si bagnò di lacrime. Tutto quello che era stato,
che era
successo… Non poteva essere dalla parte di Lena neanche
volendo, lo
aveva capito tardi. Era così, dopotutto, che Carol era
entrata in
villa Luthor-Danvers: lei aveva controllato il loro impianto di
sicurezza, e loro controllavano lei. Senza saperlo, era stata lei a
farla entrare. Poteva schermarsi e sbatterli fuori dai suoi dati e
accessi, certo, ma avevano loro il coltello dalla parte del manico; e
la tigre bianca poteva diventare qualcun altro. Ogni mossa che faceva
non era libera. Non l'avrebbe mai lasciata libera…
Da
X a Me
Desolat*,
non posso. È a causa mia? Ti ho fatto paura? Devi fare per
me ancora
un'altra cosa. Quest'altra cosa e dopo avremo chiuso, Indigo. Se
andrà secondo i piani, non avrò motivo di tenerti
ancora sotto le
mie dipendenze.
Lei
spalancò gli occhi azzurri, intanto che le dita che
stringevano il
cellulare avevano iniziato a tremare.
Da
oggi potrai mettere in pratica la seconda parte del piano. Come
preferisci, quando vuoi tu. Non abbiamo troppa fretta, fai che sia
naturale.
Non
voleva… Indigo strinse gli occhi bagnati, asciugandoseli con
il
lenzuolo.
Da
Me a X
Ti
vuoi vendicare dei Luthor per tuo padre? Howard? O di Lex Luthor e
vuoi distruggere la loro famiglia?
Trattenne
il respiro nell'aspettare la risposta a quelle domande. Forse aveva
osato troppo. E aveva paura. Il suo cuore batteva impazzito, per poco
rischiava di ingoiarlo. Non avrebbe dovuto fargli quelle domande, era
stata una stupida. Una stupida. E non poteva cancellarle, ormai lui
aveva visualizzato. E stava scrivendo…
Da
X a Me
Sei
arrivata fino a questo punto? La tua è solo
curiosità o ti sei
davvero innamorata di lei? Tutto questo non ti riguarda, Indigo: io
erogo gli incarichi, tu li esegui. Sei cambiata da quando stai con
loro. Sono genuinamente felice per te, ma ti prego, non farmi
arrabbiare anche tu. Completa il piano con la seconda parte.
Buonanotte, Indigo.
Lei
strinse i denti. Non era innamorata di lei! Era solo che…
Era solo
che lei, loro… erano…
Da
Me a X
La
mia è solo curiosità. Non sono cambiata.
La
sua famiglia. Loro erano la sua famiglia.
Da
Me a X
Phillings
odiava i Luthor, ma se non è stato lui, allora chi
è stato? Anche
tu odi quella famiglia e hai sempre detto di sapere chi è
stato.
Da
X a Me
Sei
curiosa fino a questo punto? La curiosità ti ha reso chi
sei, non è
vero? E va bene.
X
sta scrivendo…
Da
X a Me
Sono
stato io.
Capitolo
in ritardo
di una settimana, scusatemi, ma la settimana scorsa non ho potuto.
Vi
è piaciuto? Sono
successe un bel po' di cose… alcune interessanti, e
altre…
Beh,
possiamo
cominciare da Phillings! Ha o non ha ucciso Lionel Luthor? Lena si
era decisa a credere che fosse colpevole, voleva l'assassino e voleva
chiudere il caso, ma troppe cose non tornavano e ora è
arrivata alla
conclusione che non sia stato lui. Ma perché confessare un
delitto
non commesso? Specialmente quando hai una dipendenza da nicotina come
quella… A quanto pare il garante di Indigo ci ha messo lo
zampino.
Lo aveva detto, in un capitolo scorso, che avrebbe dato a Lena
l'assassino che tanto voleva trovare. Peccato che, ops, a Indigo
abbia appena confessato di essere stato lui D: Il garante ha ucciso
Lionel Luthor!
Abbiamo
avuto anche
dei piccoli indizi su di lui, però, da Carol e da Indigo.
E
a proposito di
Carol e Indigo… Rip tigre bianca peluche. Regalata da Lex a
Indigo,
hai avuto una vita breve, ma intensa. Beh, anche il lemure peluche si
è beccato una coltellata.
È
bello perché
Nana la cagnolina sentiva che c'era qualcun altro in villa, ne
sentiva l'odore, e ha perfino trovato la cannuccia che aveva Indigo
in bocca quando era stata presa da Carol in corridoio… ah,
se solo
i cani potessero parlare!
E
poi, e poi, Carina
Carvex! Ora le ragazze hanno le prove che Carina è una
bugiarda
patologica, o quasi. In fondo non hanno sbloccato il suo telefono e
non hanno potuto scagionare Jeremiah Danvers. Almeno la festa al
bowling è stata una bella festa e Charlie ha flirtato con
James, che
si è lasciato andare °° Il potere dei
bicipiti! E abbiamo fatto
luce sulla notifica sul cellulare di Maggie! Vuole chiedere ad Alex
di sposarla, anche se non pensa sia una cosa facile da fare. Infine,
Lena ha sentito il bisogno di mettere i puntini sulle i a Lucy
riguardo Kara. Ops.
Cosa?
Leslie è
incinta?
E
ora spendo qualche
parola riguardo il futuro di Our home:
è di nuovo in pausa.
Non sono riuscita ancora a finire il prossimo capitolo, mi dispiace,
ma devo anche ammettere che mi viene davvero difficile scrivere
questa storia, ultimamente. Lo so, di nuovo, ma non posso farci
nulla. Anche se ho le idee ben chiare e so cosa scrivere e dove
andare a parare, il modo in cui lo faccio non mi piace, non mi
convince, e anche questo capitolo mi pare sia venuto su con la forza,
che non abbia sentimento. Magari a voi non darà le stesse
sensazioni, ma a me sa di compitino senza pretese, senza anima. E non
è così che voglio concludere questa fan fiction
per me molto
importante. Quindi nulla, sono costretta alla pausa ma va bene
così,
sono distratta e non giova a questa storia.
Ringrazio
chi mi ha
sempre sostenuto e… tornerò. Non so quando, ma
spero solo con dei
capitolo scritti con l'anima dentro, e non compitini.
Alla
prossima!
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