Alakin

di Andrea_Vitali
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Olivier Galand, Colpevole ***
Capitolo 2: *** Alakin e Morte ***



Capitolo 1
*** Olivier Galand, Colpevole ***


“... E, come il Vostro Onore e la giuria tutta ha potuto assistere poc'anzi, le testimonianze della signorina Buveaut e dell'illustre e amato Cavaliere Nascimant collocano esattamente il signor Olivier Galand sulla scena del crimine più tenebroso e orribile mai perpetrato in tutta la storia di Levoillette!”

La gola cadente dell'avvocato Saliman tremava ed ondeggiava a ogni parola. Il furore del suo discorso era scandito dai lenti e continui movimenti della sua pappagorgia.

Era consapevole che i segni del tempo avevano ormai segnato in modo indelebile il suo corpo paffuto, ma era altresì consapevole che l'immagine grottesca che aveva assunto la sua fisicità avrebbe avuto dei risvolti positivi nel lavoro da lui svolto. Quando varcava le soglie del tribunale si sentiva imponente, autoritario, invincibile. In verità non tutto era un dolce calice: la moglie, Sarah, aveva diminuito la propria generosità notturna in maniera inversamente proporzionale al lievitare del ventre di lui. Girava voce ad Levoillette che, infatti, l'avvocato Saliman fosse diventato così spietato e irriducibile per colpa dell'indisponibilità della moglie di concedersi al proprio marito durante i convenevoli riti notturni. Il popolo mormorava e sghignazzava, ma stavano ben attenti a non farsi scoprire dall'avvocato; l'ultimo mese aveva mandato trenta uomini e un cane (reo di aver strappato a morsi i drappi esposti sulle mura della casa del giudice Carada) alla forca. Uno strano e singolare primato.

Iniziò a guardare uno ad uno i membri della corte, infiammando lo sguardo e soffermandosi qualche secondo in più sui componenti più malleabili. Infine si girò verso la corte, dalla quale carpì dei rassicuranti e piacevoli segnali di approvazione.

“Vostro Onore, in qualità di avvocato dell'accusa, e a nome di tutte le persone per bene che ogni giorno permettono ad Levoillette di progredire e prosperare, chiedo, anzi, invoco la pena capitale per l'imputato Olivier Galand.”. La chiusura perfetta di un'arringa perfetta.

Il giudice Carada era, quel giorno, capo e voce della giuria. Era un uomo molto anziano, con la palpebra calante e un broncio onnipresente sul volto asimmetrico. In alcuni momenti era persino difficile capire se fosse sveglio (o addirittura vivo) o no.

Un colpo di tosse tolse questo dubbio a buona parte dei presenti.

“Avvocato Saliman, a nome mio e di tutta la giuria, la ringraziamo per averci portato a conoscenza di fatti – coff! - che ahimè sarebbero stati nascosti e avrebbero permesso al colpevole di evadere la giusta punizione. Tuttavia non possiamo accogliere in questo preciso momento, per ovvi motivi, la sua richiesta. La grandezza di Levoillette risiede nella nostra più totale neutralità ed oggettività. Ci ritireremo brevemente a deliberare, ma le assicuro, caro avvocato, che Olivier Galand riceverà la punizione più consona al suo reato”.

Lentamente, molto lentamente, il giudice Carada si alzò, seguito dagli altri membri della giuria. Il piccolo gruppo di ottuagenari si spostò senza fretta nel piccolo salottino affianco al banco degli imputati. Il ritmo rallentato dei loro passi striscianti sembrava quasi una danza rituale di qualche tribù d'oltremare; probabilmente il tempo stesso si sarebbe stancato di tutta questa lentezza e sarebbe sceso in terra a spingere singolarmente ogni singolo giudice. Il tutto aveva assunto un certo nonché di macabro e goliardico.

Saliman ritornò al proprio tavolo e si girò a guardare Olivier Galand incatenato e stranamente... tranquillo! Come poteva essere tranquillo? Quasi sicuramente l'avrebbero appeso dal campanile e lasciato penzolare per una settimana intera sotto la pioggia! Sarebbe diventato mangime per i corvi, avrebbe esalato l'ultimo respiro consapevole della sua mediocre esistenza, ma lui, colpevole, era tranquillo!

Questi pensieri mandavano in ebollizione il sangue nelle vene dell'avvocato, manifestandosi attraverso una macchia rossa purpurea dalla forma bizzarra sul suo doppio mento.

Olivier guardava avanti a se, non nascondendo una piccola smorfia che lasciava trasparire sicurezza e, appunto, tranquillità.

I pensieri di morte ed epurazione dell'avvocato furono interrotti dal ritorno in aula della giuria. Un lungo, lento, inesorabile, pigro ritorno in aula.

Il giudice Carada prese parola, indossando degli occhiali vetusti quanto il campanile della piazza centrale, si schiarì la voce e, sibilando sinistramente, iniziò a leggere la sentenza.

“La corte qui riunita si è – coff!- ritirata per esprimere il proprio giudizio sulla causa “Levoillette contro Galand”. Alla luce dei fatti che ci sono stati resi noti da membri affidabili ed essenziali della nostra società, e in virtù – coff! - della carica da me assunta e della responsabilità ancestrale che mi ha investito, proclamo l'imputato colpevole!”

“Colpevole! Colpevole! Ora non ridi più, lurido rifiuto?!” pensò Saliman, voltandosi per cogliere ogni singola lacrima di Olivier. Con somma sorpresa, però, non notò differenze rispetto al volto precedente; anzi, riusciva quasi a cogliere una maggiore sicurezza nel suo dannato sguardo impavido e nella sua velenosa bocca sogghignante.

“La giuria ordina che l'imputato venga portato seduta stante presso la forca della piazza centrale, e li venga posta fine alla sua vita. L'imputato – coff! - ha qualcosa da dichiarare prima che venga eseguita la sentenza?”

Tutti gli sguardi si spostarono su Olivier. Ogni singolo occhio di Levoillette fissava quel giovane uomo incatenato al muro dell'aula.

Olivier sorrise e prese parola.

“Vostro Onore, conseguentemente alla vostra condanna che trovo, in verità, un poco eccessiva, non posso che rassegnarmi ed accettare quanto da lei detto. Tuttavia dei dubbi mi colgono i pensieri e desidererei rendere partecipe lei e tutta la corte di una lieve congettura che ha attraversato la mia mente”.

L'aula tornò a mormorare, mentre i giudici sui banchi iniziarono a cercare comprensione negli sguardi dei vicini. L'avvocato Saliman fissava a bocca aperta la sfrontatezza del giovane Galand.

“Sì, certo, ovviamente. Ci illumini, signor Galand”.

Olivier riprese a parlare, sogghignando sempre più.

“È invero che la giustizia sia cieca quanto essenziale, a volte commette errori, ma questi sono soffocati dalla necessità estrema di portare rettitudine nelle nostre anime, e possa cadermi la lingua se affermassi il contrario; tuttavia questo piccolo impasse giudiziario ci pone di fronte a un problema piuttosto singolare. Ovvero, io non sono Olivier Galand”.

Il giudice Carada venne colpito da un attacco di tosse senza precedenti.

“Co-come dice, prego?”

“Io dico solo ciò che è vero e che, tra breve, potrete tutti verificare. Io non sono Olivier Galand, sebbene non le nascondo che mi trovo esattamente, in modo maniacalmente preciso, nell'esatto luogo dove voglio essere e nessun rimpianto flagella la mia anima”.

Lo sguardo del giudice era attonito.

“Io... Lei... È conosciuto in tutto il paese da anni. Come... come...E chi sarebbe, di grazia?”

“Io sono la morte.”

Nell'aula calò il silenzio, tanto che il silenzio stesso diventò rumore. Poi esplose in un'unica, fragorosa e intrattenibile risata.

Tutti gli uomini, le donne, i bambini e gli anziani di Levoillette ridevano a crepapelle.

Il suono della risata era talmente assordante da essere percepibile con dolore anche dalla piazza centrale, a qualche decina di metri dall'aula di tribunale.

La gente rise, rise. Poi, lentamente, le risate diminuirono, lasciando palco al rumore del vento che sferzava dalle montagne vicine.

La porta del tribunale che si affacciava sulla piazza si aprì, trasudando un lezzo putrescente e, saltellando e fischiettando, fece capolino il giovane uomo.

“Ah, il mio lavoro riesce sempre a compiacere le mie voluttà! Ordunque, temo che sia già ora che io torni a...”

“Morte!”

L'uomo si voltò e trovò davanti a se una donna possente e con un lungo vestito di un biancore quasi stridente. Dei lunghi capelli biondi le facevano da cornice e pure il sole, forse curioso di questa bizzarra presenza, si affacciò tra le nubi, illuminando dolcemente la donna con un sottile contorno dorato.

Morte inclinò il volto; la guardò e cercò di capire dove l'avesse già vista. Era sicuro che si erano già conosciuti.

“Buongiorno, donna in bianco, il destino ci ha concesso il delizioso piacere di incontrarci in passato?”

La donna estrasse una lunga spada lucente dai propri abiti, la alzò al cielo, riflettendo la luce del sole sugli occhi di Morte.

“Io? Sono Alakin, e sono tornata per riportarti alla tua prigione, cavaliere”.

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Capitolo 2
*** Alakin e Morte ***


“Alakin... Alakin...”

Morte guardò dubbioso l'aitante donna che si ergeva dinnanzi a lui. Il dubbio si insinuava serpentino tra i pensieri. Un'immagine sfocata, una voce in lontananza; quella donna apparteneva ad un passato lontano e ovattato dalle pieghe del tempo.

“Mi duole doverlo ammettere, ma credo di non avere una vostra traccia nitida nei miei ricordi. Tuttavia la vostra spada mi suggerisce che non siete venuta per rendere omaggio al sole con una piacevole danza di coppia. Chiedo umilmente perdono, ma, se non vi dispiace, ho un impellente bisogno di proseguire nei miei intenti.”

Il tono di voce di Morte iniziò a diventare sempre più gutturale, sempre più profondo.

Alakin puntò la spada verso l'uomo. Il vento ritmava tra i capelli e le vesti, rimettendo allo spettatore un'immagine che sfiorava l'etereo.

“Morte! Devo riportarti a Leyline. Non hai più il controllo di te stesso! Ti prego, non opporre resistenza. Non voglio farti del male.”

L'uomo sorrise, come solo gli animi sadici sanno sorridere.

“Vorrei tanto venire con voi, piacente fanciulla, tuttavia...”

Morte smise improvvisamente di parlare, ma dal suo sguardo era perfettamente deducibile cosa sarebbe accaduto da lì a poco; le mani del giovane uomo iniziarono ad emanare una pulsante aura nera, palpitando al ritmo crescente del suo respiro. L'ansimare fece spazio velocemente a un profondo e ranesco vibrato, culminante in una risata figlia delle viscere della terra. Gli occhi iniziarono a sbattere, a tremare, a roteare, contraendosi in sincronia con gli spasmi corporei. Una danza macabra accompagnata dal suono di mille ossa spezzate e dai violini del vento che, in quel momento, aprì il suo concerto di archi nel teatro della piazza di Levoillette.

Alakin non si mosse: i suoi occhi vigilavano gli orrendi movimenti dell'uomo, studiando l'orizzonte degli eventi, aspettando, temporeggiando.

Morte si bloccò di colpo, ruotando la testa verso destra in modo innaturale. Il sorriso che gli si disegnò sul volto fece fuoriuscire un rivolo di bava nera e nauseante. Poi, lentamente, iniziò a parlare.

“... non ho alcuna intenzione di SEGUIRVI, Alaaakiiin! Eh eh...”

Si udivano chiaramente due voci distinte, una acuta e inaspettatamente dolce, l'altra bassa, innaturale, demoniaca.

Morte fece un breve scatto in avanti, mimando, forse involontariamente, le movenze di una marionetta.

“Eh eh... Voooi... Non potete fare nulla! NULLA!!”

Alakin continuò a rimanere ferma sulle gambe muscolose, spada in avanti e occhi fissi sull'insolito quanto raccapricciante bersaglio.

Morte fece un altro passo.

“Dall'alba dei tempi, dal sole primordiale che iniziò a scaldare queste terre di perenne maggese, io sono re e regina della fine, arbitro e giudice del traguardo finale, piacente e lascivo signore del tempo! Pregherai, oh, pregherai mia giovane Alakin, pregherai che io abbia pietà di te! Io sono il mietitore, io sono l'ombra nelle notti tempestose! Male? VOI NON POTETE FARMI ALCUN MALE, O MISERA CREATURA! NESSUNO! Ricordatevi queste parole, guerriera! IO SONO LA MORTE!”

Vomitando queste ultime minacce, Morte si lanciò in una folle corsa verso Alakin.

L'azione fu rapida, netta, istantanea.

Una goccia stava cadendo dalla cima della fontana della piazza e, ben prima di toccare l'acqua della vasca, Morte era già proteso verso la giovane guerriera.

I due sguardi si trovarono a meno di cinquanta centimetri per un eterno secondo; Alakin poteva percepire la grondante malvagità di quell'essere, la sentiva respirare con lui, riusciva perfino a sentirne il sapore amaro sulla lingua. Immaginò di perdersi nel vuoto degli occhi di lui, di essere strappata alla vita come uno zelante contadino strappa le erbacce del proprio campo. Pensò alla sua missione, alla congrega, a Leyline, a tutto.

Poi, un urlo squarciò il cielo.

 

Riverso sul terreno umido, contorcendosi come un verme nel sole d'estate, Morte sbraitava e scalciava: in contrasto con quell'immagine, c'era il suo braccio sinistro, che stava riposando qualche metro più avanti. Sotto ad esso, il manto erboso stava lentamente perdendo colore.

Dalla spalla una cascata di pece e fumo bagnava e sporcava le vesti dell'essere, che garriva senza sosta.

Alakin abbassò la spada e raggiunse Morte; l'eleganza non la abbandonò nemmeno in quel momento.

“Morte, ti prego.”

Le sue parole erano di pietà, ma al contempo decise. La missione era chiara: Morte doveva essere fermato e doveva tornare con lei.

Stringendosi l'arto monco, Morte fissò Alakin; il volto, come in una danza cangiante, cambiava rapidamente i propri connotati, trasformandosi ora in uomo, ora in donna, ora in un miscuglio grottesco di entrambi i sessi.

Inciampando sui propri respiri, l'entità si inginocchiò di fronte alla figura quasi divina della donna armata.

“Io... Io vi seguirò... ma...”

Il volto di Morte subì un ultimo, inquietante mutamento: lentamente, molto lentamente, prese le sembianze di Alakin.

“... non farò altro che farvi la gentilezza di accompagnarvi attraverso il vostro viaggio negli inferi!!”

Alakin sentì una vampata di calore a sinistra del viso e, senza capire come, si trovò a terra, ferita e disarmata.

Morte, con un rapido movimento degno delle più pericolose serpi del deserto, colpì nuovamente Alakin.

La giovane donna subì nuovamente l'ira di Morte, tentando invano di ritrovare la sua preziosa arma.

Morte la colpì ancora.

Ancora.

Ancora.

Finché, rinvenendo momentaneamente dal suo guizzo di follia, si ricompose. Forse si ricordò che era la Morte, colei a cui nulla sopravvive; forse l'immagine della guerriera riversa esanime sul terreno lo tranquillizzava. Probabilmente erano entrambe le cose.

“Ebbene, chiedo umilmente venia se vi parlai mendace, mia cara Alakin. Ammetto che siete stata una valida avversaria ma, ahimé, ben più dell'onore avreste dovuto seguire l'istinto.”

Morte si guardò il braccio mancante, sorridendo: un odore marcescente scaturì dalla ferita e, accompagnata dal suono di brandelli di carne che si ricompongono, vide il proprio braccio riprendere forma.

Gongolante e compiaciuto, si sistemò gli abiti.

“Ora che abbiamo ristabilito il normale scorrere degli eventi, è meglio tornare a lavoro. Droudh, accorri al tuo padrone!”

Si girò, fece un fischio e alzò lo sguardo al cielo: attraverso le nubi si iniziò ad intravedere dapprima un'ombra, una leggera macchia, una figura nera che, rapidamente, solcava gli accumuli di vapore. Un cavallo corvino dai muscoli scavati fece capolino tra i cumuli inferiori e proseguì celermente il percorso verso il proprio padrone.

Morte accarezzò il pelo lucido dell'animale, il quale non mancò di manifestare un segno d'affetto attraverso la dolce melodia di una serie sputi incandescenti sul selciato.

“Addio mia cara.”

E salì sul suo demoniaco destriero.

Ma proprio mentre era in procinto di partire per il suo nuovo incarico, sentì una spiacevole sensazione sul proprio petto: un peso angosciante lo tratteneva, gli impediva di partire. Dispiacere? Rimorso?

No, quelle erano sensazioni d'appannaggio mortale. Tutto questo gli riportò alla mente un passato lontano, un passato oscuro, un passato già vissuto.

L'oppressione mutò presto in dolore e solo allora si accorse che una punta d'arpione dorata gli sbucava dallo sterno, riversando liquame stagnante sul dorso del cavallo.

Basito di quella nuova situazione, notò che il proprio animale stava lentamente e inesorabilmente svanendo da sotto di lui; ben presto rimase solo una piccola nube cinerea.

Cadde sulle proprie ginocchia senza alcun rumore e si girò a guardare chi o cosa l'avesse trafitto con così tanto ammirabile inganno.

Alakin si era rialzata e, da sotto le vesti, spuntava una catena color del sole che conduceva direttamente alla punta conficcata nel torso di Morte. Ella ansimava, ma sul suo volto non era presente alcun segno di sofferenza.

“Ti avevo avvisato, cavaliere.”

Il passato ritornò impetuoso nella mente dell'essere: già una volta fu prigioniero, già una volta fu ridotto in schiavitù in questo modo, già una volta sentì quelle esatte parole. Proprio in quel momento il ricordo di Alakin prese forma! Tra le tenebre dei suoi ricordi riapparve la figura imponente dalla donna. Una donna temibile, violenta, implacabile!

“A-alakin. N-on può esser...”

E fu il buio.

 

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