Oltre l'inganno

di shilyss
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** L'ombra che è rimasta di te ***
Capitolo 2: *** Se solo riuscissi a pregare ***
Capitolo 3: *** Promesse infrante ***
Capitolo 4: *** Vie di fuga ***
Capitolo 5: *** Sotto la superficie ***
Capitolo 6: *** Castelli di carta ***
Capitolo 7: *** L'oscurità dentro di noi ***
Capitolo 8: *** Ultimi sospiri ***
Capitolo 9: *** Vali ***
Capitolo 10: *** Forse era scritto nel destino - parte 1 ***
Capitolo 11: *** Forse era scritto nel destino parte 2 - La penna nera ***
Capitolo 12: *** Forse era scritto nel destino - parte 3 Il messaggio ***
Capitolo 13: *** Legarsi ***
Capitolo 14: *** Il palazzo ***



Capitolo 1
*** L'ombra che è rimasta di te ***


Avvertenze:

Questa shot è la prima di una raccolta e fa parte dell’universo che ho creato nella long-fic “Tutte le tue bugie.” In particolare, approfondisce alcuni argomenti accennati nella stessa. Nonostante alcuni riferimenti alla long fic, puoi leggere la storia anche considerandola come un testo scollegato dalla storia madre.

Vanheim, il suo ordinamento politico e culturale, Vili, Sigyn e tutti i personaggi presenti nella fiction oltre a Loki, Odino e Thor così come sono descritti, sono una mia elaborazione. Lo stesso dicasi per gli accenni alla gioventù di Loki e Thor. Per quanto concerne il canone del film, pur utilizzando aspetti, considerazioni e sviluppi provenienti di tutta la trilogia e della saga di Avengers ho rimaneggiato questo universo considerando solamente la fine di Thor: The Dark World. Buona lettura!

 

 

L’ombra che è rimasta di te

 

 

L’ombra che è rimasta di te, fa male solo a guardarla. Fu questo il pensiero che gli attraversò ingiustamente la mente quando la porta si richiuse alle sue spalle. Tentò di mascherare il disagio di quell’ultima, straziante visita sgridando per un nonnulla uno dei domestici di Asgard, colpevole soltanto di non avergli portato abbastanza rapidamente il vino. In un’altra occasione, in un tempo diverso, anzi, il servitore avrebbe risposto con un inchino rigido e risentito al suo sfogo crudele. Invece abbassò il capo e gli porse le sue scuse. No, bugia: disse “mi dispiace,” e il dio degli inganni capì immediatamente che si riferiva non alla richiesta esaudita male, ma al suo, di compito. Quello rinchiuso oltre le pesanti porte di quercia lavorate con un disegno che raffigurava l’Yggdrasill, il frassino sacro, e di cui nessuno, su Godhaimer, poteva parlare. Come spiegare a un popolo di guerrieri feroci e audaci che il loro fiero e capace Re cantava ninnenanne e si era perso in mezzo ai brandelli di un tempo passato, dimenticato?

 

Afferrò bruscamente il corno che il domestico gli offriva regalandogli uno sguardo carico di odio per quell’intromissione inopportuna, scortese; pretendeva di capire come stesse, immaginava gli importasse di quel vecchio avido, bugiardo e crudele che aveva combattuto con tutta la forza e ogni mezzo e, infine, era riuscito a sconfiggere nel peggiore e più doloroso dei modi: spezzandolo dentro. Quando aveva intravisto la mano tremante del padre firmare l’accordo tra Asgard e Vanheim, non era riuscito ad associare l’incertezza del gesto con i primi segni della malattia che lo avrebbe ridotto all’ombra sbiadita e sfilacciata del severo sovrano che era stato. Aveva attribuito all’ira e alla vergogna per la disfatta subita lo spasmo che aveva reso incerta la scrittura di Odino. Un segno di debolezza di fronte cui Loki Laufeyson aveva esultato. Ricordava con assoluta precisione quel momento. Aveva sorriso soddisfatto mentre parlava della necessità che Vanheim e Asgard trattassero da pari, in pace, nascondendo sotto le sue parole brillanti e ponderate la gioia nervosa che la ratifica del trattato tra i due paesi gli provocava: Asgard costretta a venire a patti, ad accordarsi con lui, a causa sua. Sulla carta, i due stati avevano cessato le ostilità di comune accordo, ma il messaggio che era passato nei Nove Regni tutti era stato un altro: gli Asi avevano trovato pane per i loro denti e, per una volta, erano stati costretti ad abbassare le armi e ascoltare.

 

Odino lo aveva visto, quel suo il sorriso laterale e breve. Tra le dita stringeva ancora la lunga penna intinta di inchiostro. Fissandolo, gli aveva detto una delle ultime cose sensate che avrebbe pronunciato in vita. “Sei stato bravo, figlio mio. Davvero bravo. Ma ora toglimi una curiosità: sei soddisfatto?”

Maledetto Odino. Maledetto vecchio crudele, scorretto, bugiardo. Non era nella sua natura la soddisfazione, non lo sarebbe stata mai. La vittoria di un giorno non poteva cancellare l’ingiustizia che credeva di aver subito per una vita intera, né il riconoscimento sporadico della sua abilità era in grado di offuscare le numerose volte in cui l’ombra troppo grande di Thor avevano annichilito le sue imprese. Gli rispose come avrebbe dovuto, sfoggiando il suo tono più indisponente e arrogante, sventolandogli davanti il corno colmo di idromele con cui brindava a quel giorno glorioso.

“Immensamente” mentì, e poi rise fingendo che il liquore sapesse meno di fiele.

Se ne era andato masticando un’amarezza che mal si accordava con la vittoria, irritato con Odino per le sue parole concilianti, per il tentativo sospeso di recuperare un rapporto infranto, lacerato: aveva revocato ufficialmente il bando troppo tardi, lo aveva chiamato di nuovo figlio forse presto. Sì, con tutta probabilità era sempre stato quello il problema, tra loro: non riuscivano a trovare il momento giusto per confrontarsi e scontrarsi, come se le Norne li avessero condannati a una perenne mancanza di tempismo che avrebbe esacerbato sempre di più tensioni e contrasti, esasperando il non detto e travisando il resto. Eppure le loro conversazioni erano sempre state brillanti, vivaci. Dispute affascinanti che si combattevano sul filo dell’astuzia, della retorica e della coerenza, messe in atto da due fuoriclasse: lo scaltro Re dotato di un’astuzia lupesca e il suo furbo e intelligente figlio che da lui aveva assorbito ogni gesto, frase, modo di pensare. Sì, Loki e Odino si assomigliavano come e più che se fossero stati davvero legati da un vincolo di sangue, e il motivo non era da imputare solamente alla brillante capacità del dio degli inganni di imitare alla perfezione il genitore adottivo, ma a qualcosa di diverso, più profondo. Condividevano il modo di ragionare e formulare i pensieri, cui univano la sottile sagacia che sfoggiavano quando manipolavano e irretivano il loro prossimo per ottenere un tornaconto personale. Forse era stata questa estrema somiglianza a far nascere la frattura. Ognuno dei due vedeva nell’altro i propri difetti amplificati, esasperati, ingigantiti, ed era pronto a giudicare azioni e pensieri dell’altro con una precisione spietata e crudele.

Poi c’era la mancanza di tempismo, certo. Quell’errore causato con godimento dalle Norne beffarde e annoiate, che avevano fatto cadere Odino nel suo Sonno proprio mentre cercava di spiegare a Loki come le peggiori intenzioni potessero tradire chi le immaginava e trasformarsi inevitabilmente in qualcos’altro – una lezione che anche il dio degli inganni avrebbe appreso, suo malgrado, ma questa è un’altra storia.

La maledizione si era rinnovata quando Thor lo aveva condotto in catene di fronte al trono: c’era stato un momento, prima che Loki si prendesse gioco di tutta la situazione presentandosi come un ragazzino arrogante di fronte al Padre di Tutto, battendo i tacchi degli stivali e imitando con malcelato spregio l’attenti dei soldati, in cui forse il cuore del dio delle forche avrebbe potuto ammansirsi. Se Loki fosse stato meno sarcastico, se nei suoi occhi chiari Odino avesse riconosciuto l’ombra di un sincero pentimento, le cose sarebbero potute andare diversamente. Ma Lingua d’Argento era stato sprezzante e tronfio e si era presentato ammantato di tutta la sua feroce eleganza di fronte al padre adottivo che non lo aveva chiamato figlio, ma prigioniero. Un altro imperdonabile errore dovuto non alla mancanza di discernimento di Odino, ma all’amara constatazione di come Loki, il suo brillante cadetto, non fosse poi così acuto come pensava e sembrava. Come poteva aver bisogno di sentirsi appellare figlio? Non lo era forse stato? Come osava sputare sopra il progetto di una vita intera schiacciando mondi, con quale faccia arrogante si azzardava a svelare di fronte a tutti le necessarie brutalità compiute per realizzare l’idea che si era concretizzata sopra il sangue e le ossa dei soldati morti in battaglia nella formazione dei Nove Regni? Se Loki fosse stato astuto come spesso dimostrava di essere, forse Padre Tutto non lo avrebbe fatto rinchiudere nelle prigioni sotterranee di Asgard. Solo che il dio degli inganni, prima di perdersi in un abisso senza fondo e lasciarsi cadere in un nefasto oblio, gli aveva confessato, sul ponte del Bifrost distrutto e spezzato, di aver tradito e tramato per Asgard, per lui. Le Norne erano state incerte su quale risposta Odino avrebbe dovuto dare al figlio penzolante oltre il ponte ormai a pezzi. L’interminabile e incessante filare si era interrotto un istante. Quale svolta dare al destino di entrambi, dei Mondi? La scelta era ricaduta su un errore, di nuovo. La frase era giusta, ma il momento sbagliato. Odino avrebbe dovuto salvare Loki e metterlo al sicuro da se stesso e dalle sue ombre e poi, solo poi, spiegargli il suo imperdonabile errore. Così non era stato, e Lingua d’Argento si era affrancato da Asgard per diventare il fiero e feroce principe perduto degli Asi, alleato o avversario a seconda del caso.

 

Ora il tempo era finito, cessato: non ci sarebbero più stati fraintendimenti perché era impossibile ci fosse un dialogo vero. La mente di Odino vagava senza riuscire a collegare tra loro volti e ricordi. L’improvvisa chiarezza di un momento si trasformava in un tunnel di oscura confusione un istante dopo.

 

Loki Laufeyson bevve fino all’ultima goccia di idromele, poi gettò con stizza il corno a terra. Lo vide sbattere sul pavimento lucido e rotolare fino alla punta degli stivali di Thor, che lo attendeva a braccia conserte e con un sorriso mesto sul viso stanco.

“Chi eri stavolta?”

Loki piegò le labbra in una smorfia infastidita. “Ha importanza?”

“Non posso parlarne che con te,” gli ricordò il dio del tuono sfoggiando una sincerità assoluta, perfetta, inattaccabile, vera. Un’ammissione che nemmeno lui poteva ignorare o aggirare.

Lo sguardo di Lingua d’Argento si puntò in quello del fratello. “Mi ha riconosciuto all’inizio, per quello che vale.”

“Sei uno dei pochi fortunati. Io sono il suo barbiere, il domestico, il palafreniere, un fastidioso mendicante, persino,” elencò il tonante nel tentativo di rendere meno pesante l’aria che si respirava in quel corridoio invaso dalla penombra.

“Chissà che belle chiacchierate, che vi fate.” Loki rispose con un certo divertito distacco, ma era evidente come avesse apprezzato il tentativo conciliante di suo fratello e le lusinghe con cui voleva renderlo parte di qualcosa da cui lui, invece, era fuggito.

Ogni volta che attraversava il Bifrost per tornare a Vanheim, dove il suo nome veniva pronunciato con un misto di soddisfazione e dispetto insieme, si riprometteva che quella sarebbe stata l’ultima visita che faceva alla figura sempre più emaciata e smunta di suo padre, perché quel vecchio debole e malato non era più Odino. I loro discorsi non erano che la replica sbiadita di altri già fatti o l’ipotesi amara di un passato inesistente. Ascoltare ciò che rimaneva di Padre Tutto era una straziante perdita di tempo capace solo di ricordargli, una volta di più, le ironiche contraddizioni della sua esistenza. Certamente non esclusive – Loki era troppo intelligente per credersi l’unica vittima di un destino avverso e sapeva perfettamente che ogni essere vivente è costretto a sopportare le sue personali tragedie –, ma non per questo meno dolorose.

“Ieri mi voleva cacciare via con un bastone. Ha chiamato le guardie, diceva che volevo rubargli l’idromele,” raccontò il maggiore dei due.

L’ingannatore abbassò il volto per nascondere il riso divertito che gli era salito inevitabilmente alle labbra immaginando la buffa scena, perché nonostante tutto faceva ridere l’idea che Odino avesse scambiato il suo erede designato per un furfante ubriacone e si fosse messo in testa di chiamare le guardie. Un’ilarità che capitava maledettamente a sproposito, a dire il vero, perché Loki non era ancora disposto a perdonare Asgard o suo padre o Thor e, forse, non lo sarebbe stato mai.

“Deve essere stato spassoso,” confessò nonostante tutto.

“Come no, spassosissimo,” si lamentò Thor indicandogli un livido che gli deturpava la fronte. “Lo vedi, questo? Me lo ha fatto lui. Con te è più tranquillo,” aggiunse.

Il sorriso divertito svanì dalle labbra perennemente ironiche di Lingua d’Argento. “Sono venuto fin troppo spesso qui. I miei affari sono altrove.”

“È nostro padre.”

“Era mio padre quando mi ha rinchiuso e poi bandito?”

“Ti ha perdonato. Dovresti farlo anche tu, viste le sue condizioni.” Com’era cambiato suo fratello! Non era il dio del tuono irruente e guerrafondaio con cui era cresciuto, quell’uomo deciso di fronte a lui che gli parlava del potere liberatorio della clemenza. Aveva un atteggiamento più posato, riflessivo, maturo. Di Re. Loki lo guardò dall’alto in basso e gli rispose con un ghigno tetro, amaro.

“Quanta parte hai avuto in quella decisione?”

“Non ha importanza,” sospirò l’altro. “Ritorna. Fallo per te o per me, se non per lui.”

Il dio degli inganni aveva masticato un’imprecazione tra i denti e si era allontanato per le volte immense e buie di Asgard senza voltarsi.

 

All’inizio Odino lo aveva riconosciuto, era vero. Loki era entrato senza farsi annunciare e lo aveva trovato intento a leggere un poema antico. Con l’indice seguiva le rune che si susseguivano le une alle altre sulla carta e muoveva le labbra senza far uscire alcun suono, come se volesse assaporare meglio il senso di quella lettura.

Il dio degli inganni aveva riconosciuto immediatamente il libro dalla copertina e si era stupito, perché non credeva fosse il genere di suo padre. Si era domandato se lo avesse scelto a causa della malattia che tirava fuori la sua natura senza inibizioni né controlli, o se fosse un’altra delle cose scollegate e senza senso che sempre più spesso gli capitava di osservare. Gli chiese perché lo stesse leggendo e cosa pensasse della storia e dove era arrivato.

Padre Tutto alzò lo sguardo un tempo vivo e acuto su di lui. “Loki, sei tornato. La tua traduzione era così appassionata che volevo controllare l’originale.”

Il dio degli inganni si irrigidì. Non aveva la benché minima idea di cosa stesse dicendo suo padre. Non leggeva quel poema da anni e non ricordava di averlo mai tradotto. Forse, rifletté, la mente di Odino era rimasta impigliata in qualche punto indefinito della sua adolescenza. Sì, forse in effetti poteva aver fatto una traduzione di qualche passo dell’opera quando ancora andava a scuola.

“Non dico che non sia ben fatta, Loki. È solo un po’ libera. Avvicinati,” lo incalzò con un gesto. Loki si accostò cauto alla poltrona dove era seduto il genitore. “Vedi qui? Qui dove il Poeta usa questo verbo? Tu hai tradotto usando dispiacere, ma avresti potuto scegliere un termine differente. Nostalgia o rimpianto sarebbe andato meglio.”

Loki lesse le righe incriminate e cercò di difendere un lavoro che non ricordava di avere svolto, ma dovette ammettere a se stesso che le note di Odino erano esatte. Se avesse dovuto tradurre in quel preciso istante il brano nella lingua degli Asi, avrebbe usato la parola rimpianto, senz’altro. Ma la versione che gli veniva attribuita era comunque corretta e assecondarlo faceva parte del piano, della strategia che lui stesso aveva suggerito con riluttanza a Thor. Sarebbe stato inutile cercare di discutere con un vecchio demente. Meglio compiacerlo, nei rari momenti di serenità come quello.

“Capisco la tua scelta, ma dovresti essere più preciso e letterale. Ogni parola ha un senso preciso, una sfumatura particolare e tu devi scegliere quella giusta, tutto qui,” insistette l’anziano Re sottolineando la frase con un gesto delle sue mani un tempo grandi e forti. Loki non poté fare a meno di chiedersi se quella brillante considerazione gli avesse attraversato la mente quando lo aveva chiamato prigioniero, anziché figlio.

 “Il fatto,” concluse Odino con una punta di improvvisa dolcezza, “è che sei giovane, Loki, sei solo un ragazzino e non sai ancora cos’è il rimpianto, per fortuna.”

Quello non era suo padre. Era la sua ombra sbiadita e scollegata. Il signore di Asgard non aveva tempo per interessarsi dei suoi compiti. Non si era mai speso nello spiegare così approfonditamente qualcosa. L’Odino che conosceva gli avrebbe detto che il suo lavoro era imperfetto, manchevole, inesatto. Voleva sapere perché? Studiasse meglio, allora. Non si aspettava certo che se un giorno avesse avuto un trono sotto le terga qualcuno gli sarebbe venuto a dire dove sbagliava, vero?

Certo, era un padre più vigoroso, giovane e sanguigno di adesso, quello di quando lui era adolescente. Non sembrava nell’aspetto un vecchio pallido e fragile, ma era un uomo vigoroso e nel pieno delle sue forze. A tradire una certa stanchezza ci pensavano la testa già bianca e le molte rughe che gli solcavano la fronte, ma per il resto l’Odino di quel tempo era stato un sovrano dotato di un pugno di ferro. All’epoca in cui Loki si spaccava la testa sulle traduzioni delle Rune, suo padre schiacciava senza pietà popoli ribelli ai confini dei Nove Regni.

No, al tempo in cui quello stesso volume che ora il vecchio sovrano stringeva tra le dita era posato sulle sue ginocchia, Loki non conosceva il rimpianto, ma era già affondato fino all’orlo degli stivali nel sangue e nel fango dei campi di battaglia di Asgard. Aveva provato la paura di morire che tiene svegli la notte e sentito in bocca il sapore metallico del sangue. Si era portato il poema – di questo si trattava, in una campagna militare particolarmente feroce e quella sua traduzione libera l’aveva fatta di sera, mentre accanto a lui Thor dormiva, anzi russava. Lui, con una luce fioca e un foglio trovato per caso, aveva aperto il libro, scelto un passo di media difficoltà e aveva cercato di trovare le parole giuste che sapessero restituire, nella lingua degli Asi, il senso del brano. Era un ragazzino con il moccio al naso, allora, e le aveva appena prese. Non riusciva a dormire perché nella foga della battaglia era stato colpito, e sul suo torace non ancora sviluppato spiccavano i segni bluastri di un grosso livido. Vanno in guerra molto presto i figli degli Asi, e questo è il prezzo da pagare affinché diventino guerrieri feroci e abili.

Il ricordo non riaffiorò immediatamente nella mente di Loki Laufeyson. Lo fece piano, con lentezza, piuttosto, risalendo quando Odino aveva ormai smesso di riconoscerlo e parlargli come se fosse adolescente e si era messo a discorrere scambiandolo per qualcun altro, o forse no. In fondo, anche Padre Tutto parlava con un’ombra, solo che non ne aveva la consapevolezza. Credeva di spiegare un verso straniero al suo giovanissimo figlio dallo sguardo offeso e con un elmo vistoso che gli calzava troppo grande sul capo, e invece quel Loki non c’era più, non esisteva che nella sua testa. Al suo posto c’era un altro, un uomo nel pieno delle sue forze cui non occorreva che nessuno chiarisse niente, tantomeno cosa fosse il rimpianto. Odino continuò il suo chiosare e poi gli raccontò come avesse sempre amato quel testo perché trovava che dicesse cose vere e belle, e aggiunse che il suo autore doveva aver avuto un animo davvero molto sensibile perché sapeva guardare con attenzione dentro al cuore degli uomini.

“Come quel… come quel” s’incartò, sfiorando tra loro i polpastrelli dell’indice e del pollice. Il nome che gli era salito alle labbra e stava per pronunciare davanti a quell’adorabile insolente di suo figlio improvvisamente svanì, sfumò. Non era più di fronte a un ragazzo brillante che andava educato, ma a un viso ben noto e combattuto, di cui non poteva non riconoscere lo sguardo grifagno e fiero.

“Cosa sei venuto a fare, qui?” disse quasi tremando.

Loki non rispose immediatamente. Vide l’occhio vacuo e azzurro di Odino fissarlo in modo cattivo, riconobbe la paura nella sua voce, ma non fu in grado di capire dove volesse andare a parare il genitore, così attese nuovi indizi, pronto a cogliere qualsiasi mutamento nell’aspetto e nelle parole dell’altro.

“Torna da dove sei venuto. Torna in mezzo ai ghiacci,” gridò il vecchio alzandosi all’improvviso dalla poltrona.

Non fu solo il riferimento alla bianca e inospitale Jotunheim, a colpirlo. Fu il corpo di suo padre. Nell’atto di alzarsi la coperta che gli copriva le gambe cadde rivelando la figura emaciata e avvizzita di un vecchio. Dov’era il sovrano prestante che, quando batteva col suo pugno sui braccioli dell’Hlidskjalf, faceva tremare l’intera sala?

Il terribile Re che non si era commosso neanche vedendolo in ceppi dopo averlo creduto morto era svanito, perso. L’ultima volta che Loki lo aveva visto era stato quando, con una punta di esitazione, aveva firmato quel fottuto trattato. “Tu hai permesso la mia presenza,” gli ricordò.

Una mano scivolò rapida sull’elsa del pugnale che teneva sempre al fianco e le dita ne accarezzarono il metallo freddo. Non ce ne sarebbe stato bisogno, eppure era una precauzione che non poteva fare a meno di adottare. Una misura spiacevole che gli scatti improvvisi di Odino rendevano inevitabile.

“Non ti appartiene,” esplose il vecchio. “Non ne hai alcun diritto. Non puoi tornare e ripensarci. Non è una cosa tua, non è un oggetto.”

Le vene sulla fronte di Odino si gonfiarono e la sua voce tornò a essere improvvisamente quella del dio delle forche* spietato e inclemente. Una guaritrice, sentendo le urla, entrò e gli disse che forse era il caso che andasse via per non agitare ulteriormente suo padre e Loki uscì dalla stanza senza ribattere né replicare. Di nuovo, il tempo era loro nemico. A cosa, anzi a chi si stava riferendo? Quale antico avversario gli aveva messo davanti la sua mente sfilacciata? Il dio degli inganni era troppo intelligente per non aver pensato a un nome in particolare e rifletté su quanto fossero state infinitamente meno penose, le volte in cui lo aveva scambiato per il suo guaritore, un lontano parente di Frigga o un commilitone conosciuto quando era ragazzo. La voce di Odino, gonfia d’ira, attraversò la soglia ancora aperta e lo investì per l’ultima volta.

“Un picco di ghiaccio. L’ho trovato su un picco di ghiaccio. Tu cosa ne vuoi fare, adesso? Un’arma contro di me?”

 

 

Era stato allora che Loki aveva ordinato al servitore più vicino di portargli in fretta un corno di idromele, mentre l’urlo sguaiato di suo padre ancora gli rimbombava nelle orecchie e un pensiero lo coglieva: dal fondo del tunnel dove era precipitato, Odino non solo riviveva brandelli di ciò che era stato, ma anche di ciò che avrebbe potuto essere, smarrendosi in un reticolo dove il passato si confondeva con ipotesi, incubi e desideri. Il sovrano di un tempo, temuto e rispettato da tutti i Nove Regni, ora era schiavo delle sue parole e delle sue speranze, in una giostra senza fine da cui non sarebbe sceso mai più. Odino non aveva mai avuto modo di apostrofare in quel modo Laufey, il signore di Jotunheim, ma molto spesso, nel cuore della notte, gli era capitato di immaginarsi quel dialogo. Avveniva quando si affacciava nella camera dei bambini e osservava i suoi figli finalmente addormentati, due pesti fin troppo vivaci che riposavano scomposti in un letto con le coperte aggrovigliate e l’aria serena e beata. Non erano ancora il dio del tuono e quello dell’inganno, ma gli indifesi eredi del suo retaggio. Mentre loro sognavano di essere già grandi, Padre Tutto avrebbe voluto fermare il tempo e lasciare che rimanessero per sempre bambini rumorosi e felici, quasi che una parte di lui avesse sempre saputo, fin da allora – e come avrebbe potuto non essere così, del resto? – che un giorno la verità da cui cercava di proteggere la sua famiglia sarebbe venuta fuori, e la ragione di stato avrebbe fatto i conti con gli affetti.

Loki tutto questo non lo avrebbe saputo mai, né avrebbe potuto immaginare quanto il suo lancinante pensiero si fosse drammaticamente avvicinato al vero. Si maledisse mentalmente per essersi imposto una volta ancora di incontrare quell’uomo anziano e malato che chiamava padre, e gli parve di risentire la sua voce tristemente ironica, mentre tornava a rinchiudersi nel suo esilio volontario su Vanheim. Quella che aveva quando era ancora il sovrano degli Asi e la sua mente non se n’era andata. Le parole dell’ultima frase che gli aveva rivolto mentre siglava con la sua firma il trattato di pace tra Asgard e i Vanir gli risuonarono dentro in tutta la loro profonda semplicità. Toglimi una curiosità: sei soddisfatto?

 

***

 

A Vanheim il freddo era forse meno pungente, ma tirava comunque un vento fastidioso e insolente capace di infilarsi sotto i vestiti e gelare la pelle e le ossa. Loki Laufeyson scelse di entrare da una porta secondaria e, sgrullandosi il mantello dalla neve, si incamminò rapido e deciso verso un luogo neutro, silenzioso e solitario dove avrebbe potuto calmare i propri nervi esasperati: la biblioteca, il posto perfetto dove rinchiudersi se era troppo presto per dormire e non era dell’umore adatto per cercare compagnia. Il vecchio Njord** non era un lettore accanito né un uomo particolarmente colto, ma amava collezionare testi rari e fare sfoggio della propria ricchezza. Nel corso del suo lunghissimo regno, aveva accumulato una quantità enorme di volumi, tanto che le sale che costituivano la biblioteca avevano dovuto essere ampliate per ben due volte. A usufruire dell’impressionante raccolta era quasi esclusivamente Loki, motivo per cui aveva sempre con sé una copia delle chiavi delle ampie stanze ed era solito entrare e uscire nelle ore più disparate. Fu questo il motivo per cui vi si rifugiò senza nemmeno prendere in considerazione l’idea che avrebbe potuto non essere solo.

Le sue aspettative vennero immediatamente disattese dalla penombra calda che regnava nella biblioteca e dall’odore sottile e amarognolo di brace. Il gigantesco camino che scaldava le stanze era acceso e un fuoco flebile e tremante, ormai vicino a spegnersi, gettava una luce rossastra sugli scaffali ordinati ricolmi di libri, sui pesanti tavoli di quercia dalle zampe intarsiate e sulle poltrone rivestite di pelle. Su una di queste dormiva, rannicchiata sotto a una coperta leggera, l’intrusa che aveva osato violare il suo spazio. Sigyn.

Al dio degli inganni non poteva interessare di meno del perché la nipote di Njord fosse lì nel cuore della notte. Gli sarebbe importato molto di più sapere il motivo per cui la ragazzina aveva scelto proprio la sua poltrona per addormentarsi. Lanciò appena uno sguardo sbieco e rapido ai libri posati sul tappeto, ma poi i suoi occhi finirono inevitabilmente per salire con lentezza sulla lana in cui era avvolta la Vanir, sulla figura snella che intuiva sotto lo strato spesso di stoffa, sulle ciocche bionde sparpagliate sul bracciolo e sulle labbra leggermente schiuse. La coperta penzolava da un lato scoprendole appena la dolce linea del collo e il principio della scollatura rotonda del vestito. Indovinò che indossava un abito semplice e femminile, capace di esaltarle le forme senza accentuarle e si sposava fin troppo bene con la sua carnagione chiara. Loki si stravaccò sulla poltrona gemella, sistemata di fronte a quella dove dormiva Sigyn.

Non avrebbe cambiato posto perché lì c’era lei. Aprì un testo zeppo di rune e formule, appuntandosi su una pergamena brevi sunti dei punti più salienti. Ciò che i Vanir non capivano, quello che non riuscivano a interiorizzare e a far proprio, era che non bastava accumulare libri od ottenere una vittoria, per poter dire di essere potenti. Occorrevano costanza, determinazione e fermezza per mantenere i punti fermi acquisiti e accaparrarsene di nuovi. Se ora Njord poteva trattare da pari con gli Asi era perché lui, Loki Laufeyson, si era preso l’onere di guidare le sue armate e decidere le tattiche militari migliori e continuava a lavorare per non perdere terreno e prestigio. Era anche per questo che tutti gli dovevano qualcosa, a Vanheim. Alzò la testa per sgranchire il collo contratto, e il suo sguardo pungente e accigliato si posò di nuovo su Sigyn addormentata. Oltre l’orlo del corsetto che le fasciava il busto sporgeva la dolce curva del seno che si alzava e abbassava con placida lentezza. Una visione disturbante, piacevole, rubata e per questo più intrigante, soprattutto in quell’ora della notte in cui ogni rumore o pensiero veniva ingigantito dal buio. Una scena simile sarebbe capitata in un altro luogo, in un tempo diverso, ma identico sarebbe stato il desiderio.

“Sigyn.” La svegliò lui? Pronunciò veramente il suo nome? La ragazza stesa davanti a lui sospirò stirandosi appena sotto la coperta di lana e poi batté lentamente le palpebre, aprì gli occhi assonnati e gonfi, sussultando nel ritrovarsi il suo sguardo verde addosso a quell’ora, nella penombra della biblioteca deserta.

Era bella e non lo sapeva. Si sollevò rapidamente dalla poltrona, senza accorgersi del disordine in cui versava, spettinata com’era. Loki Laufeyson ne approfittò per guardarla ancora e di nuovo, crogiolandosi nel suo disorientamento perché amava ammirare il caos, quando se lo trovava di fronte.

“Dove sei stato?” Una domanda insolente detta con voce impastata, ma non priva di una nota di estranea dolcezza e di una familiarità che non avrebbe dovuto esserci.

Sigyn lo disapprovava apertamente eppure, alle volte, lo guardava negli occhi e gli faceva quelle domande assurde, perché nella sua realtà fatta di libri e grandi ideali l’ipocrisia dei Vanir era un’offesa e la gentilezza andava elargita a tutti, persino al dio degli inganni con cui litigava ai banchetti. A Vanheim, Loki era un cortigiano indispensabile e scomodo allo stesso tempo che non faceva parte di nulla, di niente. Lei conosceva ciò che si diceva su di lui, aveva cognizione di chi fosse e cosa avesse fatto, eppure talvolta si permetteva di bacchettarlo, apostrofarlo, litigare, perché l’Ase avrebbe potuto scegliere di essere dalla sua parte nelle varie conversazioni che si tenevano a cena e forse sotto sotto lo era, ma preferiva lasciare che si arrangiasse e assecondava Njord per mero comodo. Lei questo lo sapeva e con quei suoi begli occhi grigi non glielo perdonava, ma talvolta ugualmente gli riservava la dolcezza che l’aveva resa cara a Njord e a molti altri. Era stata premurosa, ecco. Loki arricciò le labbra in una smorfia di disappunto, perché gli affondi della sua lingua affilata e crudele erano meno potenti, se venivano contrapposti alla gentilezza e alla cortesia.

 “Ti stai interessando dei miei spostamenti.” Più che una domanda retorica era un’annotazione, un appunto che sottendeva quanto fosse stata inappropriata la sua battuta.

Sigyn inclinò leggermente il capo da un lato e si passò una mano tra i capelli in un altro dei suoi gesti sensuali e irresistibili che faceva con infinita grazia e totale inconsapevolezza. Se non fosse stata la nipote di Njord, Loki avrebbe ghignato di fronte alla sua bellezza e avrebbe cercato un modo per avvicinarsi di più a quel corpo snello e invitante. Solo che toccare Sigyn o anche guardarla troppo intensamente era più di un reato: se solo l’avesse sfiorata, gli sarebbe pesata immediatamente sul capo un’accusa di alto tradimento, perché nelle vene che spiccavano sotto i polsi chiari della ragazza scorreva il sangue della stirpe che aveva governato Vanheim da sempre. Loki strinse leggermente le palpebre affaticate e scosse il capo come se volesse scacciare un pensiero fastidioso; l’ora tarda e la stanchezza gli avevano fatto guardare per un attimo la bionda Sigyn in una maniera sbagliata, diversa.

 

“Stasera a cena mi sono mancate le tue battute. Tutto qui,” sospirò lei lanciandogli un sorriso d’intesa.

“Da quando le mie battute ti mancano, principessa? Non ricordo una cosa su cui siamo mai stati d’accordo.” Il titolo servì a ristabilire gerarchie e lontananze, a rammentare all’Ase quanto fosse impossibile ottenere la ragazza di fronte a lui. Deliziosamente impossibile.

“No.” Sigyn guardò in basso, verso il tappeto finemente intrecciato con fili blu, verdi, bianchi e dorati che la scarsa luce notturna rendeva un’unica macchia indistinta. “Noi su alcune cose la pensiamo allo stesso modo, solo che a te non conviene dirlo. Non lo ritieni utile.”

Loki si protese verso di lei e rise, freddamente divertito per la compita serietà di Sigyn che si fissava la punta degli stivaletti scuri.

“Sarei ipocrita?”

La ragazza scosse la testa e lo guardò con aria affranta. La puntuale perifrasi dell’Ase era stata scarna e pungente, ma non esatta. C’era troppa crudeltà nella definizione che aveva dato. “Ti chiamano dio dell’inganno”, spiegò. “Esibisci atteggiamenti che non ti appartengono. Solo che questo modo di fare tu non lo mascheri né te ne vergogni. Non te ne penti. Sei tu e basta.” Si alzò tirandosi appresso la coperta di lana che ancora tratteneva il calore del suo corpo.

“Sembrerebbe un’amara constatazione,” fu la laconica risposta.

“Non è amara. Davvero. Tu valuti se appoggiare un punto di vista rispetto a un altro, ma non pretendi di essere ciò che non sei. Ti fai chiamare dio degli inganni: chiunque scelga di parlare con te sa già cosa rischia,” puntualizzò Sigyn. “Discutevano del Solstizio, stasera,” proseguì, “mancano ancora tre mesi e già si preoccupavano di quanto dovessero essere grandi e sontuosi gli addobbi e i festoni.”

“Una conversazione irrinunciabile.”

“Appunto. Me l’avresti resa più tollerabile.”

“Proprio tu dici questo? È la tua festa preferita,” ricordò l’Ase giocando con le pagine del volume che aveva scelto di consultare quella notte.

“Lo è perché vivo dentro queste mura. Se fossi povera o senza una famiglia non lo penserei, ti pare?” Sigyn si morse le labbra. Non riusciva mai a dire la cosa giusta, quando parlava con Loki. Discorrere con lui era qualcosa di esaltante e terribile. La viva intelligenza di Lingua d’Argento la irritava, la spronava, la lusingava e la conquistava allo stesso tempo, provocandole un miscuglio di sensazioni che nessun altro interlocutore era capace di farle provare.

“Godi di quello che hai, allora.”

Sigyn aggrottò le sopracciglia, si strinse di più nella coperta. La frecciata era stata involontaria, e questo l’Ase senz’altro lo aveva capito o forse non gli interessava, anche se la piega nostalgica delle sue labbra ironiche suggeriva altro e contrastava con la durezza del suo sguardo. La ragazza pensò anche a cosa avesse e cosa, invece, le mancasse, e scoprì che le assenze avevano un retrogusto amaro, come la festività sontuosa e inevitabilmente tragica che si avvicinava. No, gli occhi di Loki non erano severi e protervi, tutt’altro. In loro c’era un rimpianto oscuro che lei non poteva conoscere né toccare.

“Le Norne non hanno filato per noi un destino eterno, Sigyn. Tutto quello che abbiamo, che odiamo, che desideriamo finirà, prima o poi.” Glielo disse senza guardarla, continuando a sfogliare distrattamente le pagine scritte fitte del volume, ma alla ragazza sembrò che il dio degli inganni stesse cercando non di convincere lei di quanto fossero provvisori e fugaci i mondi retti dall’Yggdrasill, ma se stesso. Se ci fosse stata una maggiore confidenza tra lei e l’Ase, forse Sigyn si sarebbe arrischiata a domandargli il motivo per cui parlava come se avesse diverse migliaia di anni sulle spalle, ma lei e Loki non condividevano nulla se non l’ironia con la quale alle volte osservavano quanto fosse ipocrita il mondo e un certo interesse per i libri, così tacque.

Addentrarsi in una conversazione sulla caducità dell’esistenza sarebbe stato affascinante, ma la notte era troppo profonda e dietro il sorriso laterale e breve di Lingua d’Argento c’era un’inquietudine che la ragazza riconobbe come pericolosa, in qualche modo.

“Credo che mi preparò una tisana, per dormire,” annunciò. “Potrei farla anche a te.”

Il dio degli inganni le puntò addosso il suo sguardo trasparente e aguzzo, come se volesse valutare le sue reali intenzioni. “Non c’è bisogno,” si affrettò a rispondere ripristinando all’istante posti e ruoli.

Sigyn sospirò allontanandosi “Potrei farne troppa comunque e lasciarla nelle cucine,” concesse esitando, e sparì nell’ombra assieme al suo profumo.

 

***

 

Loki tornò ad Asgard quando mancava appena un mese al Solstizio. Lo fece sfruttando sentieri noti a lui solo, con il favore delle tenebre. Thor gli aveva detto che Odino era peggiorato, e anche se si era ripetuto mille volte che ogni sua curiosità era stata soddisfatta e non voleva più vedere il disfacimento fisico e mentale dell’uomo che aveva chiamato padre, si era ritrovato suo malgrado a calpestare di nuovo la terra brulla degli Asi già ricoperta di soffice neve. Non si tolse il mantello, al cospetto di quello che era stato il sovrano di Asgard. Si lasciò cadere sulla poltrona più vicina osservando la figura indaffarata dell’uomo che gli aveva insegnato a trattare e a mentire e che, nascondendo sotto un’espressione indecifrabile l’ammirazione, si era accorto per primo del suo talento con le Rune***. Se solo glielo avesse detto.

Odino rovistava nei cassetti e negli armadi e sembrava non prestargli alcuna attenzione. Di tanto in tanto, alzava il suo unico occhio su di lui per esortarlo a cercare delle pinze, un po’ di colla o a prestargli uno dei pugnali che gli scintillavano al fianco e che il vecchio intravedeva sotto il mantello.

“Sei pigro, sei pigro. Vivere lontano da Asgard anziché fortificarti ti ha reso debole,” sentenziò con voce stentorea.

Loki attese prima di rispondere, chiedendosi una volta di più come facesse, la mente scollegata di Odino, a cogliere e a riconoscere in maniera sorprendente alcuni dettagli e ignorarne completamente altri. Forse aveva registrato il pesante mantello di lana e aveva notato i fiocchi di neve che erano rimasti aggrappati sulle sue spalle, ragionò, ma questa spiegazione, per quanto fosse plausibile, non bastò a placare la sua inquietudine.

“Per cosa?” domandò inclinando il capo.

Padre Tutto lo fissò come avesse due teste o fosse ubriaco. “Lo hai sentito prima, no? Non riesco a sopportare che stia così e che mi guardi a quel modo. Devo fare qualcosa, e ci riuscirei, se solo trovassi le mie pinze.”

Se Thor era stato più volte preso a bastonate da Odino e scambiato per un ladro, il motivo era da imputarsi solo e soltanto alla sua scarsa, anzi inesistente capacità di adattarsi alle circostanze, rifletté Loki. Di fronte alle domande e alle azioni del fratello il vecchio genitore si innervosiva, perdendo ancora di più il filo dei suoi ragionamenti labili. Con lui, in effetti, generalmente era più calmo perché lo assecondava adattando risposte e reazioni al momento.

Batté le palpebre, espirò con forza. “Certo. Hai provato in quel cassetto?”

Aveva indicato uno spazio qualunque della stanza, ben consapevole di ritrovarsi all’interno di una recita senza sapere il ruolo che gli era stato assegnato. L’attimo di disorientamento, l’istante in cui Lingua d’Argento osservava suo padre chiedendosi cosa l’altro vedesse al suo posto, rappresentavano non solo per Thor, ma anche per lui un momento di puro, incalcolabile panico.

Odino seguì il suo sguardo, si accarezzò la barba bianchissima. “Può darsi, in effetti.”

“Potresti aspettare domani,” lo interruppe Loki. “Non credo se la prenderà. Ormai è sera: beviamo un po’ di idromele e raccontiamoci qualche vecchia battaglia,” propose.

Odino aggrottò la fronte e, per un attimo, il suo occhio azzurro recuperò la severa durezza dei passati fasti.

“Tu non hai figli e non sai che vuol dire vederli tristi.”

Lingua d’Argento si mosse nervosamente sulla poltrona. “Li vizierai.”

“Ma figurati!” rise Odino. “Saranno Asi. Cresceranno forti e sani e guideranno le mie armate,” preconizzò con una voce traboccante orgoglio. Strano, perché lui e Thor avevano comandato innumerevoli volte le truppe scelte di Asgard, e raramente il sovrano era sembrato soddisfatto del lavoro svolto. Quando il dio degli inganni non era che un ragazzo, capitò che rimanesse ferito durante un assalto. Aveva perso i sensi ed era svenuto in mezzo al sangue e ai cadaveri degli altri soldati. Fortunatamente, Thor era riuscito a trovarlo e a trarlo in salvo, caricandoselo letteralmente sulle sue forti spalle. Odino lo aveva raggiunto quando ancora era ricoverato nell’infermeria del campo e, fissandolo dall’alto in basso senza soffermarsi con troppa attenzione sulle bende ben visibili che si incrociavano sul suo torace, gli aveva rivolto parole dure e secche. “Sei tu che devi mettere in salvo le Armate che ti affido, e non viceversa.” La soddisfazione non era nella sua natura, ma nemmeno in quella del suo vecchio padre, rifletté. Fu colto da un’idea crudele.

“Tutti saranno Asi, Odino? Che ne sarà del figlio del gigante?” insinuò.

Un tremito. L’anziano sovrano interruppe la sua ricerca e aggrottò le sopracciglia bianche. “È mio figlio.”

Loki si alzò e gli girò attorno incurante, per una volta, delle reazioni che avrebbe potuto avere quell’uomo stanco e malato di fronte alle sue parole. “No, e lo sai. Un giorno scoprirà la verità e sarà peggio.”

“Definisci peggio.”

“Potrebbe rivoltare le sue armi contro di te.”

Odino illividì e gli puntò il dito contro. “Cosa dici, Vili? Hai forse smesso di bere al solo scopo di diventare insopportabile? Che ne sai tu, di Loki? Hai forse parlato con le Norne?”

Lo aveva apostrofato con il suo tono più duro e tagliente, non privo di un certo crudele sarcasmo. Il dio dell’inganno si ritrasse appena, sorpreso per la reazione caustica del genitore. Ecco chi era, nella mente svagata di Odino: Vili****, il fratello che aveva scelto di vivere abbarbicato sui monti perennemente ricoperti di neve posti molto a nord di Asgard. Un guerriero dal fare spiccio e dai modi decisamente discutibili, non particolarmente buon visto a corte; un eremita solitario che Padre Tutto non era mai riuscito completamente a gestire e di cui disapprovava apertamente abitudini e pensieri, legato alla più pura tradizione degli Asi. Vili era un predone che aveva scelto di rifiutare la politica pacifista che Odino aveva abbracciato a un certo punto del suo regno, quando Thor era nato. Le divergenze sorte erano state tali che il fratello del re aveva deciso di vivere per conto proprio, palesandosi solo di rado ad Asgard. In un’altra occasione, Loki avrebbe trovato un filo offensivo il paragone, ma non quella notte.

 

 “Prevedo solo l’ovvio risultato di un tuo comportamento,” precisò con voce cattiva allargando le braccia. Non gli interessava imitare Vili, né rispondergli in modo coerente con il personaggio. Le Norne avevano filato che non potesse esserci alcun chiarimento, tra lui e suo padre, ma sembrava si divertissero a tormentarlo con quelle recite fini a se stesse, dove Loki poteva parlare, sì, ma con l’ombra sbiadita di Odino, nient’altro. Sfidando la prudenza gli si avvicinò fin troppo, tanto da vedere il rancore e l’odio nell’unico occhio azzurro dell’altro.

“È mio figlio,” ripeté il vecchio quasi tremando, avendo cura di scandire ogni sillaba con precisione.

“Non l’hai portato qui con buone intenzioni, e lo sai.”

“L’ho cullato quando piangeva, consolato quando era malato e accudito dal primo istante in cui l’ho trovato su quel picco di ghiaccio,” ricordò Odino. “Tu c’eri! Tu hai visto dove lo avevano abbandonato a morire, da solo,” tuonò, incapace di contenere l’ira per l’accusa che lo aveva tormentato per una vita intera.

“Se non fosse stato il figlio di Laufey, lo avresti fatto?” Era crudele, il dio degli inganni, come solo un Asi o uno Jotunn, nei Nove Mondi, poteva essere. Provava un piacere tutto suo nel rimirare gli avversari sconfitti: persino quando era stato rinchiuso nelle celle sotterranee di Asgard, non aveva resistito dal cercare con lo sguardo i prigionieri che scontavano lì la loro pena a causa sua, per il solo gusto di compiacersi della loro disperazione.

“È un piano che mi è sfuggito di mano, d’accordo,” ammise Odino tremando. “Non lo avrei accolto nella mia casa, se non fosse stato il figlio di Laufey, ma poi, poi, è diventato mio figlio, Vili. Quando ha mosso i primi passi e iniziato a parlare, era già mio. E adesso passami almeno della colla per riparare questo giocattolo,” insistette.

Gli occhi di Loki assunsero una trasparenza quasi liquida. “Se lo sono conteso?” sussurrò.

“Come sempre, come tutto,” scosse il capo il vecchio re, “ma Loki adora questo drakkar e voglio ripararglielo.”

“Non lo farai mai. Non ricordo tu l’abbia mai fatto.”

La voce di Lingua d’Argento era bassa e roca e piena di un rimpianto incolmabile, insuperabile. Quella non era la realtà né la replica di qualcosa accaduto anni prima. Si trattava dell’esternazione di un antico rammarico di suo padre per un momento che non si era verificato, un gesto che non aveva avuto il tempo di compiere. Qualunque cosa fosse, faceva male a entrambi e basta, perché non leniva le ferite del passato né poteva risanare gli strappi in vista del futuro.

“Potrebbe essere su quella mensola, è sempre tutto in disordine qui.” Odino cercava ancora gli strumenti per riparare quel giocattolo fantasma che era stato distrutto da tempo e il dio degli inganni nemmeno ricordava.

“Avresti potuto dirlo quando Thor mi riportò in catene, dopo Midgard. Invece mi condannasti.”

Incurante di aver gettato la maschera, osservò l’anziano genitore continuare ad arrovellarsi nella sua ricerca vana, consapevole di non stare parlando più con suo padre, ma con l’ombra sempre più inconsistente che era rimasta di lui, fatta di brandelli di ricordi, volontà e desideri, incapace di riconoscerlo o di avere qualsiasi tipo di conversazione. Odino era morto quando una notte si era sentito soffocare e il suo cervello era rimasto isolato un momento di troppo. Ciò che rimaneva, era un guscio vuoto che talvolta sembrava ascoltarlo e comprenderlo, impossibile da ascoltare.

“… Ma dov’è la barca, Vili? Non la trovo.”

 

Non tornò più ad Asgard fin quando Odino visse.

 

***

 

Le Norne sono beffarde, ironiche, crudeli. Giocano con il tempo in maniera imprevedibile, caotica, quasi. Per questo Loki Laufeyson ne ammirava spesso l’operato fantasioso; il modo becero in cui talvolta intrecciavano tra loro i destini e gli eventi era divertente agli occhi di chi, come lui, fingeva di non provare rimorsi per nessuna azione. Un pomeriggio nevoso anche il suo filo vibrò, e non importò alle tre filatrici che la loro vittima stavolta fosse proprio il dio dell’inganno in persona. Del resto, il fiero Ase avrebbe finito per accettare con principesca grazia l’ennesima sarcastica trovata delle tre creature. Il punto è che il tempo scorre anche nei Nove Mondi legati tra loro dall’Yggdrasill, il frassino sacro, ma talvolta si arrotola e pare ripetersi in un circuito senza fine né cognizione.

Per Loki il cerchio si chiuse quando erano passati ormai diversi anni dalla sera grigia e triste in cui aveva lasciato senza voltarsi la stanza di Odino. Si ritrovò tra le mani un giocattolo rotto, il modellino di un drakkar. Rigirandoselo tra le dita ne osservò l’albero irrimediabilmente spezzato. Riconobbe la manifattura propria degli Asi e ipotizzò che dovesse trattarsi di un regalo di Thor.

Sua figlia era entrata nello studio come un tornado, arrampicandosi con proterva indifferenza sulle sue gambe per mostrargli il terribile danno. “Non adesso, Sonje*****,” le aveva risposto con voce severa.

Doveva scrivere almeno una decina di lettera, prima di potersi alzare da quella sedia. Missive urgenti che giacevano già da troppo tempo sulla bella scrivania di frassino dalle zampe intarsiate. Poi però vide gli occhi disperati della bimba già in lacrime, grigi, rotondi e dolci come quelli di lei, e disse che gli serviva un taglierino e della colla e, dopo aver pronunciato quella frase, si bloccò un momento, perché così aveva detto Odino durante il loro ultimo incontro. Di fronte al destino che si replicava con straziante e impietosa puntualità, non poté far altro che mascherare sotto un sorriso storto e mesto e una carezza distratta ai ricci neri della figlia, l’acuta nostalgia per quel vecchio crudele e spietato, bugiardo più di tutti, che lo aveva ingannato e solo nella pazzia gli aveva mostrato un pizzico di dolcezza. Troppo tardi, si ripeté per l’ennesima volta.

Sonje alzò lo sguardo umido e supplichevole verso l’Ase. “Non si può riparare papà? È rotta per sempre?”

Già le lacrime le bagnavano le ciglia lunghe e nere. Il dio degli inganni si chinò verso di lei. “No, questa no. La aggiustiamo. Serve della colla,” ripeté e mentre la bimba gli buttava le braccia al collo, si mise a cercare l’indispensabile armamentario che la mente persa del vecchio Odino, una sera lontana, non aveva potuto trovare. Per la prima volta dopo molto tempo, gli parve di provare una sorta di nostalgica pietà per quel sovrano spietato che lo aveva tirato via da un picco di ghiaccio e gli aveva mentito per tutta la vita. Riparò l’albero del drakkar spezzato e, mentre lo faceva, Sonje rimase a fissarlo riempiendolo di mille domande, perché Loki Laufeyson si era messo a raccontarle le storie ormai lontane del regno che era stato di Odino e di come il Re degli Asi avesse combattuto persino nella terra dei ghiacci perenni, Jotunheim.

“Il re degli Asi è zio Thor,” notò la piccola a un tratto assottigliando gli occhi grigi.

“Odino era suo padre.” Una pausa, una smorfia impercettibile increspò le labbra concentrate di Lingua d’Argento. “Nostro padre,” si corresse.

Sonje non fu l’unica ad ascoltare quelle storie. Anche Sigyn le udì, oltre la porta socchiusa. Sporgendosi appena nello studio del marito, colse l’immagine del dio degli inganni che consegnava il giocattolo aggiustato nelle mani della loro saltellante ed entusiasta bimba, e le si strinse suo malgrado il cuore nel vedere la figura alta e nervosa dell’Ase chinarsi per ricevere dalla piccola un sentito abbraccio e un sonoro bacio sulla guancia. Poi Sonje si girò verso la porta e le corse incontro per mostrarle il prodigio di quella riparazione esemplare e perfetta. La principessa dei Vanir sorrise al dio dell’inganno che tornò ad occuparsi delle sue molte scartoffie.

“Sto preparando una tisana. Te ne porto una tazza?” domandò prendendo per mano la figlia.

Loki le puntò addosso il suo sguardo trasparente e aguzzo, come se volesse valutare le sue reali intenzioni e capire quanto avesse ascoltato delle storie appena raccontate. “Non mi dispiacerebbe,” rispose abbassando gli occhi verso la lettera che stava scrivendo.

 

 

 

 

Caro Lettore,

La neve che ha imbiancato le città i questi giorni ha fatto slittare – nota il gioco di parole, ti prego, la pubblicazione di questa storia che si inserisce nell’universo di “Tutte le tue bugie”. Ti aspettano altre storie legate a quella long fic, oltre a un seguito più corposo, quindi… tieni gli occhi aperti! Ma veniamo a noi. Finalmente ti ho svelato Sonje: ebbene sì, la nostra coraggiosa Sigyn era incinta di una bimba. Che dire? Come al solito ti ringrazio del tuo tempo e di essere giunto fino a qui. Se te la senti, fammi sapere cosa ne pensi lasciandomi un feedback, lanciandomi una ciabatta virtuale, scrivendomi una riga, o che so io. A presto.

*Uno dei nomi dati ad Odino dai norreni è quello di “dio delle forche,” perché fu impiccato all’albero dell’Yggdrasill, ma questa è un’altra storia.

**In questa storia, Njord è l’anziano re di Vanheim, nonno di Sigyn e padre di Freyr e Freya. La mitologia norrena è stata stiracchiata all’occorrenza, dato anche lì Njord è padre di Freyr e Freya ma non c’è alcun legame con Sigyn.

***Nella vulgata dei film di Thor, è Frigga, la moglie di Odino, la maga della situazione. In verità anche Padre Tutto utilizza incantesimi.

****Vili nella mitologia norrena è veramente il fratello di Odino, ma il suo carattere me lo sono inventato.

*****Nel mito, Loki e Sigyn sono una coppia con due figli maschi. Nell’universo che ho creato hanno una figlia femmina, Sonje. Il nome dovrebbe significare qualcosa come saggezza, stando a una rapida consultazione di Google.

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Capitolo 2
*** Se solo riuscissi a pregare ***


Se solo riuscissi a pregare
 

La lama affondò nella carne con incredibile vigore e Loki rise per la precisione con cui il colpo era andato a segno. Thor gli rivolse un’occhiata laterale breve e fugace: conosceva suo fratello e non si aspettava da lui niente di meno che quella crudele violenza, ma non resistette al desiderio di farglielo notare.
“Sfoga le tue repressioni più rapidamente e su un numero maggiore di nemici,” suggerì caustico.
Il dio degli inganni estrasse con un gesto rapido del braccio il lungo pugnale. “Sono qui per farti un favore, fratello. Lo hai dimenticato?”
I capelli neri e scarmigliati contribuivano ad accentuare l’aria feroce dell’Ase assieme al ghigno perennemente obliquo, compiaciuto e tronfio che definiva le sue labbra ironiche e sottili e allo sguardo brillante. Tracce di polvere, terra e sangue non suo gli macchiavano uno zigomo violaceo e gli abiti scuri.

“Sei qui per fare un favore a te stesso. Da quant’era che non combattevi?” Loki sorrise scoprendo i bei denti bianchi perché suo fratello aveva ragione, non gli capitava di affondare gli stivali nel fango e tra i cadaveri dei suoi nemici da mesi e lui era un guerriero Asi: scontrarsi con avversari potenti era un piacere, un bisogno, qualcosa che lo faceva sentire vivo.
“Dietro di te,” gridò e si tolse rapido l’elmo cornuto per usarlo come arma impropria su uno degli uomini che si stava avventando contro di loro. Anche questa volta il colpo andò tragicamente a segno.

“Vedi?” notò Thor roteando il martello, “tu infierisci.”
“I miei non si rialzano,” puntualizzò il dio degli inganni.

Combattevano schiena contro schiena, replicando uno schema perfetto che avevano messo a punto un’infinità di volte, sfoggiando un affiatamento che avrebbe reso solamente più sconvolgente e assurda l’idea che un tempo i due guerrieri si fossero scontrati in una guerra quasi mortale. La forza bruta di Thor si mescolava ai fendenti rapidi ed efficaci di Loki, dando vita a una danza mortale che non risparmiava nessuno di quelli che si azzardavano ad avvicinarsi a loro. Il fatto era che si conoscevano da una vita intera e avevano condiviso ogni cosa per un periodo così lungo di tempo, da poter indovinare l’uno le mosse dell’altro prima ancora di vederle in atto.

Qualcuno aveva tremato, nei Nove Regni, quando era corsa la voce che le divergenze tra i due figli di Odino si erano momentaneamente appianate. Se quando erano ancora ragazzi scapestrati e fin troppo vivaci avevano sconvolto mondi con le loro bravate, ora che erano uomini fatti e finiti cosa sarebbe successo? Il dio degli inganni lanciò un incantesimo atroce congelando i suoi avversari per permettere al fratello di colpirli definitivamente con il Mjollnir in un tripudio di scintille, dolore e ghiaccio. Erano vere macchine da guerra, gli Asi, e in mezzo a loro Thor e Loki rappresentavano le punte di diamante. Il desiderio di Odino di vedere i suoi figli primeggiare sui campi di battaglia si era realizzato con assoluta precisione.

Il sole tramontò sul campo di battaglia sancendo una prima importante vittoria per i soldati di Asgard; si festeggiò con canti, balli e idromele versato a fiumi. Anche i due principi degli Asi brindarono alla buona sorte e risero e scherzarono, ma si ritirarono dopo poco in un’ampia tenda allestita a quartier generale. Somigliava, nell’aspetto, a quelle dove Odino vestito con la sua armatura scintillante pianificava attacchi e sortite. Loki osservava con aria severa la mappa spiegata della zona. Piccoli punti indicavano dove erano stanziate le truppe avversarie rispetto alle loro, e tutta la sua figura agile e nervosa era protesa verso il tavolo. Le dita di mago ancora portavano i segni degli scontri recenti.
“Aggirandoli non è detto che li sorprenderemo.” Fissò Thor negli occhi. La penombra della tenda gli restituì un’immagine del dio del tuono più solenne di quanto non fosse realmente.

“Oggi abbiamo vinto,” notò il primo figlio di Odino.
“Non è un buon motivo per cullarci dietro a questo risultato.” Il dio degli inganni girò attorno al tavolo ingombro di mappe, con la fronte aggrottata e le mani incrociate dietro la schiena. L’istinto del cacciatore che albergava dentro di lui gli diceva che stavano sottovalutando qualcosa, un dettaglio importante che forse una buona dormita e del riposo gli avrebbero reso più facile afferrare, ma che ora, dopo ore passate a combattere sul campo di battaglia, era più difficile individuare. Il rumore flebile della tenda che si sollevava attirò immediatamente l’attenzione di entrambi i comandanti su un messaggero incerto e dall’aria agitata.

“Un messaggio per Sua Altezza. Da Vanheim,” disse porgendo a Loki un foglio spiegazzato. L’ingannatore lo congedò con un cenno distratto del capo e ruppe il sigillo. Non era una lettera di Sigyn. Lei usava una carta di colore diverso e quando leggeva le sue righe l’Ase piegava involontariamente un angolo della bocca in un mezzo sorriso. Il mittente era differente e la notizia non certo buona. Thor vide suo fratello scorrere più volte con gli occhi sulle frasi vergate con cura e notò come avesse serrato la mascella affilata.

“Che è successo?”
Una pausa. Loki accartocciò il foglio, lo tenne stretto nel palmo. “È iniziato il travaglio,” spiegò con una voce innaturalmente incolore.
“Non è presto? Non doveva finire il tempo tra un paio di settimane? Voi due siete degli sprovveduti,” lo redarguì Thor. “Non sapete quando lo avete concepito, non sapete quando nascerà. Avevate dubbi persino su come è potuto accadere,” ricordò esasperato.
La risposta del dio degli inganni tardò ad arrivare perché gli sembrò che la lingua altrimenti svelta si fosse incollata improvvisamente al suo palato. Deglutì, non riuscendo nemmeno a offendersi per le frasi del fratello che trovò nella loro rudezza consolanti. “Non ci siamo sbagliati sul tempo. Sta nascendo prima e basta.”

Il Re degli Asi non si perse d’animo. “Vai. Heimdall, apri il Bifrost!” gridò. Il portale si aprì immediatamente in un fascio di luce biancastra, lasciando a terra un reticolo di rune potenti, antiche.

“Siamo nel mezzo di una battaglia,” Loki non era così indifferente alla notizia da non voler andare, tutt’altro, ma lasciare il fronte in quel momento era rischioso. Vincere una battaglia non significava affatto uscire trionfanti da una guerra, e per quanto lui e il dio del tuono fossero tornati a essere l’imbattibile squadra di un tempo, la rigida educazione di guerriero degli Asi lo frenava. E poi c’era il resto, quello che non aveva detto a suo fratello e che aveva intuito nella frase spiccia e accorata di Freya.

“Cos’è questo attacco di improvvisa responsabilità? Non me ne faccio niente di te, se stai con la testa altrove!” Il tono di Thor era severo, perentorio, inflessibile. Parlava con la stessa assertività di Padre Tutto per non avendone ereditato la malizia retorica. Il suo tono era quello di un Re e di un fratello maggiore. “Vai a Vanheim, bacia tua moglie e tuo figlio e torna qui. Non vinceremo né domani né dopodomani!”

Il dio degli inganni annuì e si lanciò nel portale scintillante e luminoso. Non appena fu sparito all’interno della colonna di luce, Thor chiamò di nuovo Heimdall. “Che cazzo gli hanno detto?” Sentita la risposta, si passò una mano sulla fronte. “Fottute Norne,” sospirò.
 
***
 
Fottute Norne. A Vanheim pioveva perché l’estate era finita e, sebbene ormai fosse quasi l’alba, il cielo continuava ad essere gonfio di pioggia, tetro, nero. Loki aveva le nocche sanguinanti ed escoriate e sedeva sull’unica poltrona non ancora distrutta dal seidr. La sua figura altrimenti altera e fiera era protesa in avanti senza tentare di mascherare l’ansia che l’attesa straziante gli provocava. Teneva gli avambracci posati sulle gambe e gli occhi fissi sulla porta chiusa a chiave di fronte a lui e con la suola degli stivali ancora inzaccherati di fango, tamburellava nervosamente il pavimento di legno.

Avrebbe potuto invocare Skuld e pregarla di risparmiarle, ma scoprì di non avere voce per quella richiesta. Cosa avrebbe detto alla bambina terribile che fila il destino degli dei e degli uomini e, implacabile, decide il loro futuro? Per quale stramaledetta ragione lui doveva essere così fortunato ed essere risparmiato da una sorte infausta? Era Loki di Asgard, il dio degli inganni, e una profezia antica, la Voluspa, diceva che un giorno avrebbe svegliato Surtur e distrutto il mondo così com’era e lui lo sapeva e così Thor, Odino, Frigga persino.

Sua madre, con una voce cantilenante e dolce che raramente ricordava, gli aveva detto per consolarlo che le veggenti spesso non sono in grado di scorgere con estrema chiarezza quello che hanno filato le Norne impietose, e che rivelando i loro sogni spesso fanno avverare la premonizione. Conoscere il futuro non era altro che una maledizione ingiusta, ma a rendere tutta la questione decisamente più crudele, era l’interpretazione che occorreva dare alle parole ambigue delle veggenti. Cosa significava, gli aveva suggerito la brillante Frigga accarezzandogli i capelli scuri, che voleva dire distruggere il mondo?
“Che non sarò un buon Re o non sarò affatto un Re. I miei antenati sono ricordati per le loro imprese eroiche e brindano nel Valhalla, mentre io…”

La voce di Loki, non ancora mutata, si era incrinata di fronte alla spaventosa tragedia che le parole di una vecchia pazza avevano mostrato. La sua fervida immaginazione di ragazzino era corsa a disegnare gli infiniti e disperati scenari possibili in cui un se stesso diverso, adulto e pieno di altezzoso sdegno, condannava Asgard a bruciare nel fuoco di Muspellheim. Ma che ne sarebbe stato di Thor, in tutto questo? Avrebbe impugnato lui il Mjollnir, la spettacolare reliquia degli Asi? Assieme a suo fratello si erano sempre raccontati un futuro diverso, luminoso, brillante, in cui avrebbero vendicato una volta di più i morti che li guardavano dal Valhalla affrontando e sconfiggendo Laufey e i suoi Jotunn dallo sguardo di fuoco, come aveva fatto Padre Tutto. Solo che ora il futuro era diverso e aveva i colori e i toni di un universo al contrario, dove lui e Thor non erano alleati.

“Il fuoco non distrugge solamente, Loki. Purifica. Permette la rinascita. Non guardare ogni cosa dal lato sbagliato,” lo ammonì con dolcezza. Il giovanissimo Ase dovette fare uno sforzo tremendo per cacciare indietro le lacrime e il magone che già gli stringevano la gola. La Regina degli Asi forse se ne accorse, perché continuò a tranquillizzarlo parlandogli del Caos che lui governava come di qualcosa di non necessariamente infausto. Era il mutamento, piuttosto, il disordine che dava vita al genio e poneva le basi per l’ordine, la giustizia, le regole. Tutti elementi di fondamentale importanza che ogni tanto dovevano mutare e rinnovarsi per permettere il cambiamento.

“Ma io porto il Caos e non posso beneficiare dell’Ordine.  Ci hai sempre detto che non può esserci luce senza che ci sia anche l’ombra, che non esiste la felicità se non c’è stata prima la tristezza, ma in questo perfetto equilibrio io sono il Caos e non posso fuggire dalla mia natura.” Queste parole non gliele disse mai con la voce che ancora tratteneva in sé le tracce dell’infanzia, ma con quella sardonica dell’età adulta, resa leggermente più roca dall’umidità dei sotterranei dove lo aveva rinchiuso Odino. Camminando avanti e indietro entro i pochi metri quadrati della cella, le aveva gettato contro quella verità scomoda che solo chi, come lui, era un maestro nel mentire, sapeva riconoscere come inutilmente cruda.

Il Caos è una promessa di libertà, è l’ebrezza che si prova prima di un lancio di dadi, la disperazione di un campo di battaglia e la furia cieca che fa roteare più rapidamente le spade e le mazze dei soldati. Spaventoso e magnifico allo stesso tempo, vive anche nel disordine dei capelli biondi di Sigyn al mattino e nella serie di spasmi voluttuosi e nervosi che la colgono quando fa l’amore con lui. Per questo non poteva pregare le Norne sorde e spietate, perché Loki conosceva le regole del gioco e le apprezzava. Contestarle ora che ne aveva bisogno sarebbe stato vile. Avrebbe potuto minacciarle, però. Estorcere loro la promessa che sarebbero sopravvissute a quella notte, far cessare le grida che gli laceravano i nervi e fare sì che quell’attesa tremenda finisse, finalmente.

Sospirando si passò una mano tra i capelli scuri. Aveva distrutto la stanza in un impeto d’ira, spaccandosi le nocche contro la porta chiusa di fronte a lui, giurando sull’Yggdrasill che avrebbe punito con la morte qualsiasi errore o mancanza perché non poteva rimanere ad ascoltare le grida di dolore di Sigyn senza poter fare niente. Soffriva, e con lei la bambina e lui era lì, seduto su una poltrona, inutilmente vicino e disperatamente lontano.

Niente era mai stato davvero impossibile, per Loki di Asgard: c’era sempre un modo per manipolare a proprio piacimento gli eventi e far accadere ciò che desiderava: impedire a Thor di essere Re non era stato facile, ma senz’altro si era rivelato divertente, anche se il prezzo da pagare era stato altissimo. Tornare nei Nove Regni aveva avuto il suo prezzo e non sarebbe stato privo di ripercussioni – ma questo Loki non poteva ancora saperlo. Persino accarezzare il trono di Asgard, sedervi e governare anche se sotto mentite spoglie, per quanto assurdo e folle potesse sembrare, aveva trovato un posto nelle personali gesta di Loki Laufeyson. Ma salvare sua moglie e sua figlia no, non poteva farlo.

Se Njord non gli avesse concesso la mano di sua nipote, Loki non si sarebbe arreso né perso d’animo, anzi. Il rifiuto avrebbe inorgoglito il suo petto e lo avrebbe spinto a fare ogni cosa lecita e illecita, pur di avere Sigyn. Radere al suolo Vanheim e gettare sopra le sue rovine il sale, assaltare la nave che l’avrebbe portata al Tempio, mettere contro i Vanir i restanti Otto Regni, erano stati tutti piani che l’Ase aveva valutato e calcolato nella sua testa e avrebbe realizzato senz’altro, se gli fosse servito. Eppure, nonostante tutto, piegare un re e distruggere un regno intero era più fattibile che salvare una giovane donna al suo primo parto.

Il dio degli inganni contrasse la mascella affilata. Non era una giovane donna, quella: era Sigyn, la sua Sigyn. Desiderio vago, amante proibita poi perduta e ritrovata, infine moglie. Quando lui non c’era rovistava nel suo armadio e si infilava una sua tunica sulla pelle nuda, per addormentarsi con il suo odore addosso e a lui poi toccava svegliarla e spogliarla o addormentarsi accanto a lei conscio del fatto che, verso l’alba, si sarebbe destata quel tanto che bastava per cercarlo con una mano e assicurarsi che fosse tornato e rimanesse lì, accanto a lei. Le rimproverava di impiegare troppo tempo a prepararsi e la prendeva in giro perché la loro stanza da bagno era invasa da boccette di oli, creme, unguenti e cosmetici; lei, da parte sua, riteneva insopportabile che lui dovesse poggiare i lunghi pugnali sul comodino prima di addormentarsi – lo trovava inquietante, diceva, ma passavano le serate a ridere e a baciarsi e lui accettava di buon grado che lo viziasse massaggiandogli sui muscoli contratti e stanchi i suoi intrugli Vanir, perché adorava essere adorato.
Oltre la porta Sigyn gridava e Loki rabbrividendo rivide la sua fronte imperlata di sudore e i capelli sciolti, sentì nuovamente la stretta disperata della sua mano affranta. Una porta laterale si aprì, un paio di pesanti stivali si avvicinarono, ma l’Ase non alzò il capo verso il nuovo venuto. Non ce n’era bisogno: aveva riconosciuto il passo deciso del dio del tuono, avvertito senz’altro da Heimdall della gravità della situazione.

“Non vinceremo né domani né dopodomani né mai, se nessuno comanda l’esercito,” fu il suo solo commento.

Thor osservò la stanza distrutta, le mani insanguinate del fratello e gli si sedette di fianco. “Asgard vinceva le sue guerre prima di me e te,” rispose stappando il fiasco di idromele e porgendoglielo. Il dio degli inganni storse le labbra sottili in una smorfia e rifiutò con un cenno della testa l’alcool.
“All’epoca aveva Odino, Vili, Bor.”

La secca battuta non scalfì affatto il giovane re degli Asi. Gli passò una pezza umida imbevuta d’acqua e bevve un lungo sorso di alcool contenuto nel fiasco prima di offrirglielo nuovamente.
“Bevi, piaga. Bevi e datti una pulita. Fai davvero schifo, li spaventerai.” Il suo era stato un tono, allo stesso tempo, severo e bonario, detto con voce profonda e accompagnato da una sonora pacca sulla spalla che per poco non sbilanciò Loki.

“Le.”
“Cosa?”
“Le. È femmina,” confessò l’ingannatore.
“Da quanto lo sapevi?” si risentì l’altro. “L’unica volta che quella tua boccaccia malefica doveva parlare, te ne sei stato zitto.”

In una circostanza diversa, l’affermazione del dio del tuono avrebbe senz’altro scatenato una mezza tragedia. Lingua d’Argento si sarebbe infuriato e lo avrebbe zittito con qualcuna delle sue battute sardoniche e affilate, perché non avrebbe dovuto dare alcuna spiegazione su quello che decideva di condividere o meno della sua vita privata. Invece si limitò ad annuire senza nemmeno guardarlo, e così i due Asi rimasero in silenzio nella stanza distrutta per un tempo che parve interminabile a entrambi. Erano abituati ai mutismi reciproci: avevano vissuto insieme per anni, decenni, e si conoscevano loro malgrado in una maniera profonda e inevitabile. Lentamente e senza dare nessuna importanza al gesto, Loki iniziò togliersi il sangue che gli macchiava il dorso delle mani e le nocche spellate, concentrando tutta l’attenzione di questo mondo sul fazzoletto che stringeva e sulla sua pelle ora pulita.

La severa gravità del profilo dell’ingannatore aveva qualcosa di antico e familiare. A Thor ricordò Padre Tutto che non era più quando si alzava dal suo trono d’oro durante le cerimonie solenni e parlava agli Asi del Valhalla. Suo fratello teneva serrate le labbra nello stesso identico modo, imitando senza accorgersene movenze e gesti e sguardi. Persino il modo in cui arricciava le labbra quando era sovrappensiero, assomigliava a quello del genitore con cui non si era mai compreso.
“E adesso bevi o ti infilo di peso dentro una botte e ti ci affogo, nell’idromele.”

Thor sapeva essere insistente e petulante e, idiota com’era, avrebbe potuto tranquillamente rendere reali le sue minacce perché era un uomo senza fantasia e quando pensava qualcosa era inevitabile che la mettesse in atto. Così Loki afferrò con una maledizione il fiasco e bevve un lungo sorso di quello che credeva fosse idromele.

“È grappa di Jotunheim” disse fiero il Re degli Asi osservandolo tossire e sputare, “e sarebbe capace di stordire un drago.”

“Non ne dubito,” fu la sarcastica risposta. Non aveva bisogno di chiedergli perché fosse lì, anche se disapprovava il motivo per cui lo aveva fatto. Thor aveva sempre avuto nei suoi confronti l’indulgente comprensione dei fratelli maggiori, e certo Heimdall doveva averlo avvertito che Sigyn e la bambina rischiavano la vita. Forse era colpa sua: se fosse rimasto con lei, se il desiderio di sfoderare le armi e combattere contro un avversario tenace non gli avesse avvelenato lo spirito, avrebbe potuto fare qualcosa per aiutarla. Sarebbe stato accanto a lei nel momento in cui si era accorta che qualcosa non andava e una macchia rossa le aveva imbrattato il vestito. Invece non c’era: mentre sua moglie impallidiva dal terrore, lui godeva nell’ammazzare i suoi avversari per il gusto becero di far vedere loro quanto erano forti e invincibili gli Asi in generale, lui in particolare. Non lo avrebbe ammesso mai con lei, ovviamente, e nemmeno con Thor perché Sigyn non lo avrebbe mai incolpato ad alta voce per la crudeltà del loro destino e il fratello, dal canto suo, lo avrebbe capito troppo a fondo perché anche lui era intriso di orgoglio e non avrebbe rinunciato per nulla al mondo a combattere. Il giudice più severo, come sempre, aveva occhi verdi e un sorriso obliquo e lo guardava da dietro uno specchio, pronto a rivelargli tutte le incongruità e le bassezze della sua esistenza.

Sai perché non puoi pregare le Norne di risparmiare tua moglie e tua figlia, Loki? Perché non puoi pretendere la pietà, se non l’hai mai elargita. Thor sì, lui potrebbe nella sua infinita grandezza, ma tu non ne hai il diritto, e lo sai.

Per raggiungere i tuoi scopi non ti sei fatto scrupoli di nessun genere, per inseguire una vendetta che credevi giusta hai seminato distruzione e morte nei Nove Regni, e non solo. Hai agito valutando con spiccia grazia pro e contro, senza farti scalfire da dubbi morali e incongruenze, schiacciando sotto la suola dei tuoi stivali qualsiasi interesse che non fosse il tuo. Anche quando hai deciso che volevi lei non era per amore che l’hai corteggiata, ma per vendetta, sfida, interesse. Poi l’hai desiderata davvero, i lacci del tuo stesso piano ti hanno avvolto nelle loro maglie e ti hanno inevitabilmente incastrato, ma tu lo sai che l’hai baciata con le peggiori intenzioni. E adesso Loki Laufeyson, figlio di un gigante che ti ha abbandonato come una cosa rotta e di un uomo che ti ha mentito per tutta la vita, pretendi che le Norne non ti restituiscano ciò che hai seminato. Se ti fossi pentito per le tue azioni, forse potresti pregarle di non tagliare il filo troppo breve di Sigyn e della creatura che sta cercando di dare alla luce, ma tu non provi pentimento. Rifaresti ogni cosa nella stessa identica maniera, anzi. Correggeresti il tiro degli errori che hai compiuto affinché i tuoi piani possano, stavolta, essere ancora più efficaci.


Sigyn gli aveva chiesto di non andare. Si era accarezzata la pancia tonda e lo aveva guardato da sotto le ciglia nere con un fremito di agitazione. “Davvero è indispensabile la tua presenza?”
“Hai sposato un guerriero Asi, Sigyn. Cosa dovrei fare, rimanere qui a guardare gli altri che combattono per me, al posto mio? E poi magari ringraziarli per averci salvato?” Ogni parola gli era uscita dalla gola intrisa di un feroce orgoglio guerresco e con una decisione tale, che lei aveva capito immediatamente di non avere frecce al suo arco capaci di frenare il suo desiderio di andarsene. Si era allontanata offesa rannicchiandosi nel letto senza cercarlo. Quella dell’Ase era stata una bordata carica di un doppio senso velenoso e intrisa di una gelosia che, in un altro momento, l’avrebbe assolutamente divertita, ma non quella sera. C’era una critica velata a Theoric, nelle parole di Loki, che risentiva probabilmente del periodo di tempo non abbastanza breve in cui lei era stata la sua fidanzata. Nonostante il dio degli inganni fosse riuscito a strappargliela via e avesse affrontato a viso aperto le conseguenze delle sue azioni, gli era rimasto addosso il disprezzo per quell’uomo che non aveva avuto il coraggio di combattere contro di lui e si era fatto difendere da un campione. Forse, in un passato ancora troppo recente, Loki aveva dovuto nascondere il fastidio che gli provocava il solo vederli insieme sotto una coltre di imperturbabilità e disinteresse che ora finalmente poteva lacerare.

Si erano sposati in fretta, quando la figura sottile di Sigyn non suggeriva ancora che fosse incinta, sebbene si trattasse di una cosa nota a tutti, e Loki aveva ancora addosso i segni del combattimento cui si era cimentato per lei, come se sapessero entrambi, in qualche angolo recondito delle loro teste, che il tempo a loro disposizione avrebbe potuto essere scarso e volessero godere il più possibile l’uno della compagnia dell’altra.

Le nozze rapide e riparatrici non avevano avuto solo un’ovvia connotazione romantica; erano state una scelta precisa e deliberata del sagace ingannatore per non consentire a Njord o altri nobili Vanir inopportuni ripensamenti, e sancire definitivamente che chi toccava Sigyn, comunque rea di aver avuto una relazione al di fuori del matrimonio, colpiva Loki di Asgard e gli Asi ufficialmente.
Sposare il figlio di Odino aveva avuto il suo prezzo, ovviamente, un costo che la giovane donna stava iniziando a valutare e a comprendere giorno dopo giorno e che l’avrebbe portata, se avesse avuto un futuro, ad essere qualcosa di più che una semplice moglie o una compagna: sarebbe diventata la sua consorte, colei che per scelta avrebbe condiviso gioie e dolori, fortune e sventure, malattie e salute. Il requisito indispensabile per ottenere la devozione dello scostante Ase era quello di accettarne la natura volubile, pur non approvando molte delle sue azioni passate, presenti e future.

Sigyn sapeva chi era Loki e cosa aveva fatto, ma intuiva anche ciò di cui aveva bisogno. Soffocando le lacrime sulla federa candida del cuscino, ricordò quello che si era ripetuta allo specchio lisciandosi le pieghe del suo elegante ed etereo abito di sposa: non ci si può legare a un feroce e astuto guerriero signore del caos e dell’inganno e pretendere che, una volta stretto il vincolo nuziale, cambi improvvisamente il suo carattere e si trasformi in qualcos’altro. La giovane Vanir sapeva che Loki provava qualcosa per lei e che gli era cara, ma capiva allo stesso tempo che stare con lui avrebbe voluto dire inghiottire lontananze e convivere con scelte folli e feroci.
Non c’erano gare di forza o equilibri da difendere, ma l’ovvia considerazione che non si può chiedere a un guerriero di smettere di essere tale, neanche per amore, non nella vita reale almeno. Si era svegliata quando il dio degli inganni aveva lasciato il letto per andarsi ad allenare e, per una volta, non si era riaddormentata in attesa che lui all’alba tornasse per spazzolare via la ricca colazione che gli spettava. Lo aveva aspettato nella sala da pranzo invece, e lui nel coglierla lì aveva aggrottato con fare guardingo la fronte. Aveva ancora i capelli umidi per il bagno finito da pochi minuti e la casacca verde slacciata lasciava intravedere la muscolatura asciutta, tonica e perfetta, ancora tesa a causa degli sforzi compiuti poco prima.

Sigyn era arrossita di fronte alla sfacciata arroganza con cui sfoggiava il suo corpo agile e scolpito. Erano stati amanti appassionati, prima di diventare marito e moglie, e un brivido la colse nel vedere la virile perfezione della striscia degli addominali e il petto ampio e ben sviluppato oltre la casacca aperta. Era suo eppure non lo era; si addormentava abbracciandolo, respirando il suo odore, affondando il naso nel suo collo, o con una guancia poggiata su una delle sue forti spalle, gli si stringeva contro, eppure Loki non le apparteneva completamente, nonostante il legame che li univa. Lo avrebbe amato per sempre perché il desiderio nasce nell’assenza, si alimenta con lo sguardo, viene amplificato dalla lontananza, e si chiese come tutte le volte che questa consapevolezza l’attanagliava, come sarebbe riuscita a resistere alla disperazione il giorno in cui lui se ne sarebbe andato e lei non avrebbe avuto la forza di trattenerlo.

 Si versò del latte caldo in una tazza, sbocconcellò un biscotto sotto lo sguardo attento dell’Ase.
“Ho fatto entrare in casa un lupo. Ora non posso pretendere che si comporti come una lepre o un gattino.”
Il dio dell’inganno la squadrò da capo a piedi, soffermandosi sulla camicia da notte candida, sulla pancia rotonda che lei accarezzava distrattamente, sulla vestaglia di lana che la proteggeva dal freddo mattutino.
“Non c’era bisogno che ti alzassi così presto per dirmelo,” commentò sedendosi. “Ti piacciono i lupi?” ghignò, fingendo di ignorare il riferimento.
Un sospiro. “Sono animali bellissimi e pericolosi,” concesse, “anche se a volte fanno i loro bisogni sul tappeto.”

L’Ase buttò il capo all’indietro e rise, compiaciuto per quel paragone lusinghiero e la battuta salace. “Sono stato così indisponente? Ti sei così tanto infuriata?”

 Una parte di Sigyn quel mattino pregò le Norne che, di fronte al suo cedimento, lui scegliesse comunque di restare, rendendosi conto che aveva bisogno di lui e della sua presenza. Ma queste prove si risolvono positivamente solamente nei poemi d’amore e nei libri in cui la giovane donna affondava il naso. Nella realtà, lei aprì la porta di casa e il suo bel lupo dal manto nero, pur amandola per la libertà che gli stava riconoscendo, scappò via per andare incontro al suo destino. Baciò lei, si chinò per posare le labbra sottili e quasi sempre beffarde sulla pancia rotonda sempre più vicina al parto e andò a combattere, perché questo facevano gli Asi, erano gli Asi: guerrieri abili e potenti che anelavano sopra ogni cosa dimostrare la loro forza e Loki, sebbene usasse il seidr e facesse sfoggio delle molte arti con cui irretiva il suo prossimo, era e rimaneva a dispetto di tutto un figlio di Asgard fino alla punta dei capelli.

Questo era successo: la dolcezza racchiusa nel bacio con cui l’aveva salutata, l’orgoglioso affetto che era trapelato dalla carezza e dalle attenzioni al figlio ancora non nato, non rinnegavano il resto né potevano essere indice di un reale cambiamento della sua natura. Le ombre di Loki Laufeyson non si sarebbero diradate perché al suo fianco c’era Sigyn, ma avrebbero assunto, nel tempo, un peso più sopportabile. Tenere a lei e al figlio che avrebbero avuto – alla figlia, anzi, non voleva dire che le mire e le astuzie tipiche del sagace ingannatore si sarebbero annacquate in un brodo di buone intenzioni e sentimenti positivi. Lingua d’Argento aveva una natura volubile, orgogliosa, egoista, ma era sempre stato capace di sentimenti ed emozioni sconvolgenti. La freddezza di certe sue scelte passate, la cupa determinazione con cui aveva messo a segno tanti progetti di discutibile morale, non erano che una parte del suo spirito. Aveva odiato Odino e Thor e Asgard tutta tanto da arrivare a combatterli con ogni fibra del suo essere e con tutta l’abilità di cui era stato capace, ma il contrario dell’amore è l’indifferenza e in questo basilare concetto era racchiuso il motivo per cui anche l’irrisolto rapporto con il padre adottivo era un’ombra scura nel petto dell’Ase.
Così Loki aveva seguito Thor nonostante Sigyn gli avesse chiesto di restare, e il prezzo per quella scelta necessaria e azzardata era che ora doveva solo aspettare una notizia qualunque proveniente dalla porta sbarrata davanti a lui. Il forte sapore della grappa gli aveva allappato ancora di più la bocca.
 

La mano di Thor si posò sulla sua spalla chiudendosi in una stretta ferrea e dolorosa, ma consolante.
“Andrà tutto bene.”

Le labbra dell’Ase si piegarono in una smorfia nervosa, un sorriso beffardo e disperato insieme.
“Dall’alto di cosa giungi a questa conclusione?” Loki non desiderava parlare, eppure non poté fare a meno di insistere, ribattere, spiegare, perché non aveva un piano né una via di fuga sottomano. Era solo contro un destino che le sue conoscenze e abilità, per quanto riconosciute da tutti, non gli consentivano di mutare né migliorare. E allora a che serviva essere un maestro nell’uso del seidr e poter indovinare i pensieri della gente solo guardandoli con più attenzione, se poi era come tutti in balia degli eventi? Nell’attesa straziante parlò in fretta e con voce rapida.

Disse che Sigyn e la bambina stavano soffrendo ed erano in grave pericolo e raccontò come fosse riuscito a vedere sua moglie, appena arrivato a Vanheim. Le aveva preso una mano tra le sue, le aveva accarezzato i bei capelli biondi umidi e appiccicati al viso e le aveva promesso che tutto sarebbe andato bene, mentendole ovviamente. Non aveva idea, come non la potevano avere i guaritori e le levatrici che la assistevano, di come sarebbe andata a finire quell’infinita giornata. Lei gli aveva domandato se la guerra fosse definitivamente finita e anche lì Loki aveva mentito, confermando una vittoria che ancora non c’era stata. Poi lo avevano mandato via perché non si può pensare di far nulla sotto gli occhi vigili, giudicanti e vendicativi del dio dell’inganno che ti fissa con odio.

Gli avevano consigliato di andare a casa e di levarsi di dosso il fango, la polvere e gli altri segni della battaglia: Loki aveva spaccato il naso all’incauto suggeritore e aveva distrutto la stanza in un impeto d’ira. Non esisteva, una casa. C’era l’elegante dimora in cui avevano deciso di trasferirsi poco dopo le nozze per essere signori e padroni delle loro stanze: un palazzo non eccessivamente grande e con una vista incantevole, dove gli oggetti di Sigyn erano ovunque, persino negli spazi che avrebbero dovuto essere i suoi: uno scialle di lana rosa era senz’altro stato abbandonato sopra il suo mantello bordato di pelo, i poemi d’amore e le poesie avevano trovato posto accanto alle cronache storiche e ai libri di magia, nello studio troneggiava la poltrona sontuosa che lei gli aveva regalato, nell’anticamera si era impuntata per scegliere il colore delle tende: ogni cosa, in quelle stanza, raccontava di lei e delle abitudini che avevano instaurato nella manciata di mesi in cui avevano vissuto insieme. Non tornò per non dover vedere la stanzetta allestita per la nascitura che aveva definito come inutilmente leziosa, per non incappare, mentre cercava dell’idromele con cui stordirsi, nelle sue tisane alle erbe.

Ma questo non lo disse a Thor: si fermò prima, a lui che prendeva a calci mobili e sedie per sfogare la tensione accumulata ascoltando per dieci minuti le farneticazioni di quell’incapace di guaritore e alla levatrice rimbambita e non fracassare la loro testa. Finalmente la porta si aprì lasciando passare un’aiutante giovane e pallida, visibilmente spaventata. Loki la squadrò con palese dispetto, e quella balbettò in fretta che doveva entrare perché era necessario far nascere la bambina in quel momento e il parto non sarebbe avvenuto in maniera naturale. Non c’era altra scelta, spiegò.
Thor trattenne il respiro, Loki invece si alzò con naturalezza e seguì la giovane donna fin nella sala adiacente a quella dove era Sigyn: ascoltò le parole del guaritore con una tranquillità esasperante, annuendo distrattamente alle spiegazioni tecniche che ovviamente capiva, ma che non gli impedivano di pensare alla lunga sequela di difficoltà che aveva circondato quella storia. Lei era rimasta incinta e la sua gravidanza era stata scoperta nel peggiore dei modi e quasi era stata condannata a morte per aver disonorato i Vanir tutti, lui l’aveva salvata trattando e combattendo. La voce di Sigyn oltrepassava i muri – le sue urla, anzi. Ecco quanto costa, sposare il dio degli inganni.
“Non siamo in grado di garantire a Vostra Altezza che andrà tutto per il meglio,” esitò il guaritore, “è una situazione delicata e vostra moglie è giovane, ma noi faremo tutto quello che possiamo.”

“Lo farete, sì.” Loki Laufeyson non lo disse con un tono di voce severo o cupo, ma con una sicurezza spiazzante, come se fosse assolutamente certo che il gruppo di levatrici e guaritori davvero si sarebbe adoperato per il meglio affinché sua moglie e sua figlia sopravvivessero. Aveva ragione: non gli servivano le minacce per far capire all’uomo quanto feroce sarebbe stata la sua vendetta se. Per un istante troppo lungo, pensò che avrebbe fatto meglio a scalzare Njord quando poteva farlo senza posare mai i suoi occhi sulla figura snella e sottile di Sigyn: il potere sarebbe stato nelle sue mani e quella sensazione di sgomento non gli avrebbe scalfito il cuore, perché è sempre pericoloso circondarsi di punti deboli e Sigyn era diventato il suo, nonostante tutto. Entrò nella stanza per rincuorarla, salutarla, accomiatarsi da lei per un tempo che sarebbe stato dolorosamente breve o lungo fino alla fine dei tempi, regalandole la sua capacità di mutare il destino, sconvolgere le carte, deformare il presente. Lei gli prese la mano e gli disse che lo amava e che qualsiasi cosa fosse successa o avrebbero deciso le Norne, il suo primo pensiero doveva essere rivolto alla bambina di cui non avevano ancora deciso il nome e di cui conoscevano il sesso grazie al seidr dell’Ase e alle capacità divinatorie di un’anziana Vanir parente di Sigyn. Loki rise e scosse la testa e prese in giro la gravità delle sue frasi e con il tono più rilassato e sicuro del mondo, le promise sorridendo quello che nessuno avrebbe potuto garantirle, forse neanche le stesse Norne: una vita piena, lunga, felice; altri figli oltre a quella che sarebbe nata quel giorno.

“Aprirai gli occhi e la vedrai, te la ritroverai tra le braccia” le assicurò accarezzandole i capelli mentre l’addormentavano per procedere all’operazione, “e rideremo di queste tue frasi esagerate.”

Poi, mentre lei perdeva lentamente conoscenza e gli teneva ancora la mano, le ricordò quella sera disastrosa in cui, per colpa di un contrattempo, si erano ritrovati soli in casa e senza cuoca e l’Ase, preoccupato dalle scarsissime doti culinarie della neo-sposa, le aveva dimostrato come un vero guerriero di Asgard sapeva fare praticamente tutto, anche mettere su una cena commestibile: le aveva raccontato una serie di aneddoti buffi della sua giovinezza con Thor, spiegandole finalmente il senso di “Chiamate aiuto,” quella battuta che il dio del tuono ripeteva spesso, e si erano ritrovati sdraiati davanti al camino con degli spiedini improvvisati a ridere fino alle lacrime.
Sigyn chiuse gli occhi e il dio degli inganni, osservando critico i sensi che finalmente l’abbandonavano, si chiese se l’avesse convinta e fosse riuscito davvero a renderle più lieve quel sonno indotto. Non riuscì a trattenere oltre la maschera, né volle. Lanciò ai guaritori attorno a lui un’occhiata colma di gelida ira e se ne andò dalla stanza. Era il giusto compenso delle Norne per le sue azioni di cui non si sarebbe mai pentito, ma di cui riconosceva la gravità.
 

Passò troppo tempo e non fu solo Thor a pensarlo. Certamente il medesimo ragionamento si conficcò nella testa di Loki, che provava a celare lo strazio di quell’attesa battendo con inesorabile lentezza la suola dello stivale sul pavimento di marmo. Ad Asgard sarebbe stato di legno, e tra gli Asi forse lei avrebbe avuto meno difficoltà. Il recipiente che conteneva la grappa era stato interamente scolato, ma l’unico risultato evidente era stata l’ondata di caldo che aveva costretto Loki a levarsi il mantello e a slacciare il primo fermo della casacca e il dio del tuono a fare altrettanto.

“Non vuol dire che non stia andando bene,” si azzardò a ipotizzare il giovane re.
Loki si inumidì le labbra sottili e sarcastiche. “Dicono che io sia uno dei maestri di magia più potenti dell’Universo intero.”
“E anche un rompipalle di prima categoria,” gli fece eco il fratello.
L’ingannatore poggiò la schiena sulla poltrona. “Non c’è incantesimo che non mi riesca, né runa che non abbia studiato. Ho convinto popoli a trattare per la pace, altri a muoversi per la guerra. Mi basta sfiorare qualcuno per leggere i suoi pensieri e manipolarne le mente. Dicono che la mia voce sia incantata perché convinco, tratto, inganno. Imperi interi sono caduti sotto i miei attacchi, e persino Midgard ha beneficiato dei miei interventi, in passato. Ho stretto tra le mani il Tesseract e le Gemme…”

“Tutte belle cose,” commentò Thor. “Aggiungi che sei modesto, ti prego.”

“Sono un principe di Asgard, un grande guerriero,” lo ignorò Loki proseguendo, “ma queste mie abilità, conoscenze, capacità, intuizioni e poteri non mi servono assolutamente a niente, adesso. Non posso fare altro che aspettare inerte che quella porta si apra e dicano che non c’è stato niente da fare. Ecco il mio retaggio, fratello: il caos, la distruzione, la morte. Aveva ragione nostro padre e tu non avresti dovuto liberarmi.”

“Loki, non dipende da te. È il caso, sono le Norne.”
“Le Norne,” ripeté il dio dell’inganno, “sono tre esseri invidiosi che si divertono a tessere trame e destini per poi disfarli senza dar loro un senso.”

“Le Norne non hanno previsto per te un destino nefasto, ma hanno filato che ti prenderò a pugni se non la pianti!” si esasperò Thor.

La porta si aprì prima che il dio degli inganni potesse continuare a dare la sua versione cinica e disincantata dell’esistenza. Una delle donne che assistevano la levatrice aprì la porta concitata, e non fece in tempo a parlare che i due Asi erano balzati in piedi, in attesa. “Stanno bene,” disse in fretta, “stanno bene tutte e due.”

Loki Laufeyson non fece in tempo a rilassare la muscolatura tesa e contratta. Nel giro di pochi secondi entrò un’altra levatrice che gli affidò complimentandosi un fagotto avvolto in una copertina di lino e in una, più spessa, di lana, e l’Ase si rese immediatamente conto che quella cosina leggera e minuscola non sapeva neanche tenerla in braccio. L’aveva sentita scalciare decine di volte e si era messo in testa che sarebbe nata e avrebbe avuto il suo nome dal momento in cui Freya gli aveva detto che Sigyn era incinta, ma fu solo in quel momento, quando la vide per la prima volta, che capì di aver avuto una figlia. Il fragile esserino lo guardava da sotto le palpebre con quei suoi occhi dal colore indefinito che si sarebbero rivelati grigi come quelli della madre, e sulla testa spiccava un ciuffo nero. Aveva emesso un gemito quando dalla guaritrice era passata tra le sue braccia, un piccolo segno di protesta che già indicava come l’esserino avesse una sua personalità e una serie di bisogni che andavano soddisfatti e ascoltati. Gli afferrò un dito, e Loki Laufeyson si meravigliò di quanto minuscole e perfette fossero le manine e morbide le sue guance. Pensò che fosse bellissima. Il contrasto di quella giornata assurda si manifestò nella sua mente come un pensiero rapido ed evanescente, ma non per questo meno vero: all’alba era Loki di Asgard, il guerriero Asi astuto come nessuno e ora era quello di prima e qualcosa di diverso. Aveva rischiato di perderla, di non sapere mai come sarebbe stato il suo viso e invece ora era lì, tra le sue braccia, piccolissima e tenera e indifesa. Quella cosina avvolta nella lana e nel lino era loro: era l’imprevisto che aveva sconvolto la sua vita costringendolo a variare in maniera inesorabile la sua vita sregolata in cui piani e alleanze valevano il tempo di un effimero beneficio.

Aveva accarezzato l’idea di sottrarre un trono a un vecchio bilioso e malato e si era ritrovato a chiamare casa la terra dei Vanir. Non avrebbe smesso di essere ciò che era, il guerriero degli Asi abile nel padroneggiare il seidr come nessuno, ma la sua mente perennemente alla ricerca di uno scopo o di un vantaggio avrebbe mantenuto invariabilmente uno spazio per quella creatura che teneva tra le braccia.

“Sonje,” le disse, “tu sei Sonje Lokadottir,” e pronunciò la frase nel dialetto stretto degli Asi, perché voleva che le prime parole che si scambiavano in questo mondo fossero nella lingua che aveva imparato per prima, e lei rispose con un vocalizzo indefinito come se approvasse il nome scelto e amasse già la sua voce. Sarebbero diventate vere entrambe le cose: Sonje avrebbe sempre esibito con fierezza il suo nome Asi e nei momenti di infantile disperazione si sarebbe addormentata solo ascoltando le ninne nanne o le storie di Loki.
 “Non ti assomiglia per niente, fratello. Lei è davvero bella,” decise Thor. Poi i due grandi guerrieri si resero conto di non avere la più pallida idea di come gestire una neonata che piangeva, e tutte le abilità apprese in anni di studi e combattimenti e guerre e viaggi si rivelarono nulle.

 
***
 
“Sonje, Sonje” mormorò Sigyn sistemandosi la camicia da notte e cullando dolcemente la neonata, “quello che vedi lì mezzo svenuto è tuo padre. Non sa ancora cambiarti né prenderti in braccio, ma imparerà, è un uomo pieno di risorse” affermò decisa. “Ora noi non piangeremo e lui forse riposerà ancora mezz’ora,” promise.

Stravaccato sulla poltrona e con le gambe poggiate sul letto, gli stivali gettati a terra ma la bandoliera ancora addosso, Loki Laufeyson dormiva con la testa leggermente inclinata sulla spalliera e le labbra schiuse. Si era seduto circa un’ora prima, dopo aver osservato con circospetta attenzione i gesti fluidi con cui le levatrici e Sigyn stessa si occupavano della bambina. Poi era crollato, sfinito per l’attesa, il tormento, la battaglia e la pianificazione della stessa, tutti eventi che lo avevano visto attore protagonista. La donna si soffermò sul profilo affilato e deciso, la fronte alta con i capelli nerissimi tenuti all’indietro, la figura agile e asciutta che pure nel sonno manteneva un’innata eleganza fiera e poi guardò i teneri lineamenti della bimba che teneva in braccio, riconoscendo nel broncio che entrambi avevano mentre dormivano il segno inequivocabile del loro legame.
 
Fine
 
 
Carissimo Lettore, eccoci alla fine del secondo capitolo di questa raccolta di shot. Se la storia ti è piaciuta e ti ha suscitato qualcosa – qualsiasi cosa – prendi il coraggio a due mani e lasciami una riga, una frase, un presente, lanciami una ciabatta, che ne so. I feedback aumentano la creatività e fanno sorridere gli Autori! Non credo servano note specifiche a questo capitolo: le Norne sono 3 nella mitologia norrena (Urd, Verdandi e Skuld), la Voluspa è la profezia che annuncia il Ragnarok (la fine degli dei) e Sonje è una mia invenzione. Occhio che settimana prossima farete conoscenza di Vili Borson, al secolo il fratello del caro Odino.
Un grazie di cuore a quanti di voi hanno inserito la storia tra le preferite/ricordate/seguite.
S.

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Capitolo 3
*** Promesse infrante ***


Avvertenze: questa shot non è autoconclusiva. Il regno dei Vanir e la loro cultura, il Tempio e Sonje sono mie personali invenzioni. Buona lettura!

Promesse infrante
 
Heimdall attese prima di emettere il verdetto, non per il gusto malsano di vedere le labbra sottili di Loki incresparsi in un ghigno di malcelata ira, ma per ammirare una cosa che raramente aveva scorto guardandogli nel cuore. Il figlio cadetto del compianto Odino era stato a lungo il suo personale cruccio: troppo ambiguo, intelligente e astuto per essere compreso e scovato immediatamente, plasmava i propri piani con una tale rapidità da rendergli la vita difficile fin da quando era poco più di un bambino. La sua capacità di mutare forma aveva fatto tirare giù infinite imprecazioni non soltanto all’altrimenti austero Odino, ma anche a lui, guardiano sempre impassibile. 

Loki, chiaramente, non gli diede eccessiva soddisfazione nemmeno in quell’occasione: non cercava una risposta da lui, ma una constatazione, la conferma di qualcosa che ovviamente aveva già intuito. Il dio dell’inganno puntò il suo sguardo nell’immensità dell’Universo di cui comprendeva i misteri esattamente come lui. Se il suo spirito non fosse stato l’intricata ragnatela di ambizione, orgoglio e fiero individualismo che era, avrebbero avuto molto a che spartire, ma così non era stato. Nessuno dei due se ne faceva un particolare cruccio: i loro rapporti erano ai limiti dell’urbana cortesia e pareva che ciò stesse bene ad entrambi.

“Non è più la ragazzina che hai sposato,” commentò con un sospiro.
Loki aggrottò le sopracciglia in silenzio, stringendo la balaustra che si affacciava sulle galassie fino a farsi sbiancare le nocche. Heimdall proseguì serafico. “Ma in fondo, quando si ostinò nel coprirti di fronte a Re Njord avresti già dovuto intuire che tipo di donna fosse, la tua Vanir.”
“Non ho mai avuto bisogno della sua protezione.”

“Lei però avrà bisogno della tua, adesso. Non le è ancora capitato nulla di davvero sgradevole, ma non andrei impreparato se fossi in te.” Heimdall era perfettamente a conoscenza di quanto fosse difficile sorprendere Loki Laufeyson. Il suo istinto lupesco lo rendeva guardingo e astuto come i fieri predatori che abitavano i boschi sopra Asgard, e altrettanto pericoloso. Pensò che c’era qualcosa di affascinante e fiabesco, nel fatto che l’irrequieto e tormentato Lingua d’Argento fosse finito per farsi avvinghiare dalla bionda ed esile principessa di Vanheim.
“Incauta e imprudente,” fu il commento gelido e irritato del principe Asi, “questo è stata.”
“Le sue motivazioni sono nobilissime.”

“La sua fretta ci causerà guai.” L’ingannatore si voltò con lentezza, scrutando il guardiano con regale sufficienza. Sigyn gli aveva disobbedito in maniera aperta, plateale, irriverente quasi. Avevano litigato come raramente gli era capitato di fare, da quando erano sposati. Del resto, la convivenza non è l’idilliaca unione di due anime innamorate, come certa pessima letteratura pareva suggerire: si trattava piuttosto del delicato compromesso parzialmente messo per iscritto la sera in cui, feriti e provati, avevano deciso che valeva la pena tentare di vivere insieme. Non si assomigliavano né per indole né per carattere, e avevano gusti e abitudini parzialmente differenti, ma erano stati a loro modo felici in maniera imprevista e totale; solo che alle volte le diversità che li contraddistinguevano e generalmente contribuivano a creare un equilibrio sottile, ma perfetto, provocavano incrinature pericolose perché Loki era e sarebbe rimasto sempre il feroce guerriero Asi capace di incantesimi terribili, e lei l’idealista Vanir fedele a se stessa e con il cuore gonfio di speranza. Sigyn cercava di rendere questo mondo un posto migliore, il dio degli inganni si accontentava di strappargli ciò che più gli era conveniente.

“Niente che tu non possa risolvere, Loki Lingua d’Argento,” gli ricordò Heimdall. Sgridava il dio degli inganni da quando era un ragazzino col broncio che non sapeva ancora leggere le rune e non lo aveva temuto mai, nemmeno quando quel disgraziato aveva deciso, in un delirio di onnipotenza, di allestire una messinscena per proporsi come colui che avrebbe liberato Asgard dall’ombra di Laufey e di Jotunheim.

L’ingannatore si concesse una risata breve e sarcastica. Il primo istinto che gli suggeriva la sua natura altezzosa e scostante, era di lasciare che la sua bionda e sprovveduta moglie si arrangiasse da sé. Che imparasse una buona volta cosa voleva dire, agire con il cuore e non usare la testa; poi però iniziò a ragionare lui stesso, e gli toccò ammettere tra i denti che doveva farsi trasportare direttamente al Tempio senza alcun indugio. L’idea non gli piacque, perché già una volta aveva accarezzato il progetto di irrompere nell’enorme tenuta, e una serie di considerazioni lo avevano convinto della difficoltà dell’impresa. Anzi, della sua infattibilità.

“Non provare a giustificare il suo comportamento irresponsabile, Heimdall: non ci si lancia nella mischia di una battaglia senza armi sperando che qualcuno ci verrà a salvare,” s’innervosì. Strinse le palpebre assottigliando gli occhi e puntò il dito contro il guardiano del Bifrost. “Hai detto che ancora non le è stato fatto del male, ma dimmi sinceramente: cosa sarebbe successo a lei e a Sonje se fossi tornato stanotte o domani?”

Era impossibile vincere una battaglia retorica con Loki, né il dio protettore del passaggio tra i mondi ne aveva l’intenzione. “Si fida di te. Ha fiducia nelle tue abilità e nel fatto che saresti corso da lei. Non ti lusinga, questo?”

Occhi al cielo, una smorfia disgustata sulle labbra sottili e, in altre occasioni. ironiche. “Apri il Bifrost,” ordinò secco.
Heimdall sorrise appena, negli occhi gialli gli brillò una luce divertita. “Per dove, Altezza?” lo canzonò.
“Quella cloaca putrida del Tempio, naturalmente” specificò con un filo di esasperazione il dio degli inganni.
“Porta i miei omaggi alla tua principessa.”
“Fottiti, Heimdall,” fu la gentile risposta di Loki prima di attraversare con passo deciso il portale.
 
 
Vanheim non era solo una terra fertile e verde, resa più mite dalle correnti calde del mare e dal clima piacevole, né rappresentava semplicemente lo specchio di una cultura sofisticata, ricca e leggermente in declino. Prima che gli Asi, a bordo delle loro navi dalle prue snelle e decorate con draghi marini e sirene, imponessero la loro egemonia sui Nove Regni, i superbi Vanir stabilivano e discutevano l’andamento dei Mondi che si reggevano sull’Yggdrasill. Poi, gli antenati di Bor avevano predato e conquistato le terre limitrofe, imponendo leggi selvagge e usi barbari, e i mondi erano cambiati, adattandosi ai nuovi dominatori.

Una delle poche vestigia ancora intatte di quelle ere lontane, era il Tempio: una zona franca dove il potere di Njord non poteva entrare. Loki Laufeyson calpestò la terra brulla e l’erba alta del prato che si estendeva davanti al pesante portone ricoperto di rune con la stessa arroganza con cui i primi Asi erano sbarcati su quelle terre. Si diresse verso Freyr e Njord, in attesa assieme a un corpo di soldati scelti nelle loro armature luccicanti.
Il vecchio Re e il suo inetto primogenito lo aspettavano sotto a una tenda montata per difendersi dal sole e dal vento. Si rilassarono appena nel vedere la figura alta e nervosa del dio degli inganni avanzare verso di loro, anche se credevano che nemmeno la protervia dell’Ase avrebbe potuto scalfire i millenni di dominio incontrastato dell’ordine monastico: nessuno aveva mai espugnato il castello dove le fredde incaricate celebravano i loro ignoti rituali. Il giorno prima, Njord aveva usato tutta la sua capacità persuasiva per chiedere alla Sacerdotessa Sublime che gli fosse restituita l’incauta nipote. Gli era stato risposto che lei non era lì. Si trattava di una menzogna patetica, resa ancora più offensiva dal fatto che la ragazza di cui Sigyn aveva preso il posto, piangendo e strappandosi i capelli era intervenuta spiegando come la principessa dei Vanir l’avesse sostituita per permetterle di scappare.
La Sacerdotessa Sublime, sorridendo in un modo che era parso a molti un po’ troppo compiaciuto, aveva risposto che se Sigyn era entrata nel Tempio allora non era più Sigyn e quindi nessuna Sigyn era presente. 
 

“Così ha detto?” Loki Laufeyson fissò le imponenti porte di bronzo istoriate di rune, le mura alte e robuste. Con i polpastrelli sfiorò i simboli sacri, avvertendone il potere remoto nel calore che sprigionavano al suo tocco.
“Non ti ascolterà e le difese della fortezza sono inviolabili. È persa,” si lamentò Freyr.
L’ingannatore si voltò e, per un istante, parve non riconoscere affatto il Vanir. Batté le palpebre più volte, come per riprendersi, poi si concentrò un momento. “Ricordi il mio messaggio? Raduna i nobili che ancora appoggiano questo posto. Quando aprirò le porte li farai entrare. Dovranno guardare, ricorda”
Freyr tremò. Loki Laufeyson non gli era piaciuto mai, nemmeno un giorno, neppure le innumerevoli volte in cui lo aveva tirato su ubriaco dalle panche di una taverna saldando i suoi debiti, e il motivo gli fu chiaro e lampante quel momento come in altre occasioni: erano gli occhi. Chiari e quasi trasparenti, mortalmente espressivi e per questo perennemente carichi di un’ombra scura.

“E Sigyn?”

Loki serrò la mascella affilata, scrutò con attenzione le finestre buie della fortezza. “A lei penserò io,” tagliò corto. Poi pronunciò delle rune e posò il palmo della mano sul metallo spesso di cui era fatto il portone e, al contatto con la pelle dell’Ase, il bronzo vibrò e tremò come se la terra stesse sussultando.
“Sono Loki di Asgard e chiedo udienza,” annunciò sicuro. I pesanti stipiti non si aprirono ovviamente, ma l’Ase non si aspettava niente di differente. Guardò in alto, piuttosto, e vide oltre le grate il viso pallido e bianco della Sacerdotessa Sublime. Il suo era un volto senza tempo, un insieme di lineamenti estremamente puri e forse persino belli, che impedivano però nel loro complesso stabilire che età avesse la donna. Un dettaglio strabiliante che forse aveva preoccupato Njord, Freyr e gli altri soldati, ma che parve non impensierire affatto l’arrogante principe degli Asi.
 

Se solo Sigyn non fosse andata ad aiutare i guaritori nell’ospedale messo a disposizione per la povera gente come faceva ogni settimana da quando ne aveva memoria, se solo le Norne avessero indirizzato l’anziana donna zoppa e con una profonda ferita al palmo della mano in una stanza diversa da quella dove era, forse Loki non avrebbe varcato la soglia del Tempio scortato dalle guardie della sacerdotessa, né si sarebbe incupito fissando in maniera torva il pavimento lustro e lucido nel cui riflesso intravedeva qualcosa di indefinibile, eppure tetro.

Ma le tre filatrici beffarde si erano messe d’accordo per creare un intreccio irripetibile di conseguenze, e così la donna si era adagiata a fatica sulla sedia mostrando la mano ferita al guaritore e a Sigyn. Mentre quest’ultima puliva la ferita, l’aveva osservata a lungo, in silenzio, senza emettere nemmeno il più piccolo gemito.

“Siete gentile e bella, principessa. A mia figlia piacevate molto,” disse infine.
Lei aveva alzato il capo ringraziandola per le parole gentili e quella aveva continuato. “Era rimasta colpita dalla vostra storia e non si stancava mai di ascoltarla. Forse per questo le Norne sono state crudeli: hanno filato per lei un destino simile al vostro, ma noi povera gente non abbiamo la stessa fortuna di voi nobili.”

“Che le è successo?” i movimenti delle mani di Sigyn si erano fatti più lenti e accorti.
“Si è innamorata del figlio di un mercante. Quando vennero scoperti, lei fu mandata al Tempio, lui spedito lontano a seguire gli affari di famiglia” scosse il capo l’anziana, fissando sconsolata il tessuto scolorito della sua gonna di lana.

Un brivido aveva attraversato la schiena di Sigyn. Il pensiero del Tempio non l’aveva mai abbandonata del tutto e le era rimasto appiccicato addosso il terrore per il pericolo che aveva fortunosamente scampato. C’era stato un lungo e lento lavorio da parte sua affinché l’orribile istituzione fosse chiusa e, in quegli anni, diverse volte Loki aveva provato a sollevare la questione della sua abolizione, ma nessuna decisione era stata ancora presa in merito. Mentre loro si affannavano a cancellare l’antica pratica, ogni giorno delle ragazze vi venivano condannate senza che potessero scampare in alcun modo al loro destino, e il perché le fu chiaro una volta di più nelle parole amare e nostalgiche dell’anziana donna che stava medicando.

“Lui l’amava, ma era giovane e certo non un guerriero. Non ha avuto i mezzi per salvarla. Non tutti gli uomini sono fieri principi degli Asi, dico bene? Sapeste, principessa, quante volte le avrò detto che la vostra storia era come una fiaba e non andava presa a monito. In fondo, è la legge.”

“Vorrei cancellarla. Abolirla, farla sparire per sempre. È una pratica ingiusta.” Sigyn lo disse tremando, con il corpo sottile scosso dallo stupore, dall’ira, dalla vergogna persino: lei si era salvata perché era nobile e, soprattutto, fortunata. Aveva peccato esattamente come la nipote dell’anziana ferita, innamorandosi di un uomo con cui non era stato sancito alcun legame né contratto: la sua unica fortuna era che l’uomo in questione si chiamasse Loki Laufeyson ed era fiero e terribile: ma la cosa peggiore di tutte, che faceva male come una spina infilata nel petto, era che Sigyn si sentì direttamente responsabile non solo della disgraziata ragazza di cui aveva sentito la storia, ma di tutte quelle passate, presenti e future. Peggio di un destino ingiusto c’è solo una speranza disattesa e lei questo aveva fornito alla sua gente: l’illusione che il mondo offrisse opportunità inesistenti.

Qualcosa era cambiato, certo: il contratto che lei e il furbo dio dell’inganno avevano stipulato era stato preso ad esempio e copiato da diverse ragazze di differente ceto sociale. Cosa c’era di più affascinante e patriotticamente succoso di una giovanissima principessa Vanir che si impuntava affinché il marito, un orgoglioso guerriero Asi, la trattasse con considerazione e rispetto e promettesse di ascoltarne la voce e la volontà ogni giorno?

Si trattava di concessioni e progressi che, ad ogni modo, avevano influito solamente su quelle famiglie dove era presente un intento modernizzante. Nelle campagne e tra la povera gente, quella di Sigyn e Loki continuava ad essere una favola conturbante, nulla più. La principessa veniva giustificata solo e soltanto perché il dio dell’inganno ne aveva fatto la sua sposa. E poi, l’Ase apparteneva a una stirpe barbara dove anche le donne erano guerriere. La rigida morale dei Vanir non gli apparteneva. Una scelta anticonvenzionale, di questo si trattava.

Per tutte queste ragioni, Vanheim aveva finito per perdonare Lingua d’Argento e la nipote di Njord, ma la stessa condiscendenza non poteva valere per le persone normali. Quella sera, Sigyn aveva atteso che Loki tornasse dal palazzo reale camminando avanti e indietro per l’elegante camera da letto, torcendosi le mani sottili. Sonje dormiva già nel suo lettino, con la bocca schiusa e i bei boccoli neri sparpagliati sul cuscino.


Il dio dell’inganno era stanco e irritato per oscure ragioni che non desiderava condividere con la sua giovane moglie. Perché sì, Sigyn non solo aveva diversi anni meno di lui, ma anche un bagaglio di esperienze decisamente differenti. Smontò da cavallo con un gesto fluido ed elegante, varcando con decisione la soglia del suo palazzo. Le stanze erano buie e silenziose, ma nell’aria permaneva ancora il calore del camino che era stato acceso fino a pochi minuti prima.

L’Ase attraversò soggiorni e anticamere fino a raggiungere il suo studio: caotico, disordinato, ingombro di libri e reliquie. Interdetto, ma solo teoricamente, all’ingresso di una bimbetta di quattro anni e qualcosa, che si ostinava a eleggere quel luogo come sua personale dimora. Aggrottò le sopracciglia scure di fronte ai giocattoli di Sonje sparsi qua e là, ai disegni mezzo stracciati posati di fronte alla poltrona affinché lui li vedesse. Posò le carte, i documenti, un paio di ampolle contenenti pozioni che si premunì di chiudere a chiave dentro a una credenza posta abbastanza in alto da non poter essere raggiunta da sua figlia, e poi si allontanò sfilandosi i guanti di pelle dalle belle mani di mago. Entrò in camera da letto e capì immediatamente che c’era qualcosa che non andava.

Loki aveva un istinto di lupo per i pericoli e i guai. Rimase sulla soglia con un sorriso accennato sulle labbra ironiche, fissando la moglie visibilmente tesa di fronte a lui.

“Deve essere successo qualcosa di veramente spiacevole, se sei ancora in piedi,” notò con voce tranquilla. La guardava con attenzione, in attesa di un gesto o una parola da interpretare, valutare, sviscerare. Se fosse stata una serata normale, l’avrebbe trovata in tenuta notturna, avvolta in una nuvola di pizzo, con i capelli già sciolti sulle spalle sottili. Invece indossava ancora gli abiti che portava durante il giorno e si era tolta solo i gioielli, ad eccezione dell’anello che sanciva il loro legame. Oreficeria dei Nani che le brillava al dito in un reticolo di oro, diamanti e smeraldi a forma di fiori e foglie.

Sigyn si irrigidì tendendo la schiena. “Oggi, in infermeria è venuta una donna.”

Sentendola, l’Ase parve rilassarsi appena. Oltrepassò l’arco della porta, poggiò con noncuranza i guanti di pelle sull’elegante consolle di legno elfico intagliato, sfilò dalla cintura la coppia di lunghi pugnali che portava sempre con sé e li posò accanto a un portagioie di madreperla e argento che aveva regalato il Solstizio prima a Sigyn.

“Mi ha raccontato che sua figlia è finita nel Tempio e non l’ha più vista. Ha avuto una storia simile alla mia, alla nostra,” puntualizzò la donna scegliendo con cura le parole. “Quel posto deve chiudere, Loki,” si affrettò a dire seguendolo passo passo.

“E lo farà,” promise il dio degli inganni. “Al momento giusto ce ne libereremo.”

Lei scosse la testa. “No, non al momento giusto. Adesso. Oggi. Quella ragazza si è illusa che a Vanheim certe regole siano cambiate e si è ritrovata rinchiusa in quella specie di prigione. Con suo figlio. Il bambino dove sarà, adesso? Che ne hanno fatto?” insistette.

Stringeva i pugni e la sua voce aveva assunto una nota acuta e nervosa che, generalmente, non le apparteneva. La donna anziana con la mano ferita si era limitata a stringersi nelle spalle e a confessarle che l’unica cosa di cui si dispiaceva era di non aver potuto adottare suo nipote o sua nipote, chissà cosa avevano filato le Norne. Quel dettaglio aveva spezzato ancora di più il cuore di Sigyn, perché non solo il destino della ragazza assomigliava tragicamente al suo, ma la sorte oscura che era toccato al figlio che la sfortunata aspettava avrebbe potuto essere quella di Sonje, della sua Sonje che odorava di zucchero e biscotti e aveva i capelli morbidi come piume, e ora dormiva serena nel lettino posto nella stanza accanto, abbracciando la sua bambola preferita.
Loki alzò le spalle. “Ci sono comunque troppe resistenze, in seno al Consiglio dei nobili,” spiegò slacciandosi la bandoliera di pelle che indossava ad armacollo.

“Da quando il dio dell’inganno rifiuta di tramare, convincere, manipolare?” Sigyn tremava. Aveva utilizzato lo stesso tono pungente di quando voleva attirare la sua attenzione ai banchetti, molto prima di essere sua moglie. Anche l’Ase la guardò allo stesso modo di allora. Le lanciò un’occhiata attenta, puntuta, brevissima: se così non fosse stata, Njord e Freyr si sarebbero potuti accorgere del momento preciso in cui il dio degli inganni aveva capito di ritrovarsi di fronte non a una ragazzina, ma a una donna.

“Da quando il rapporto tra costo e beneficio è decisamente negativo,” la stroncò immediatamente, slacciandosi le placche dell’armatura che gli coprivano le spalle e le braccia. “Che ti aspetti che faccia, sentiamo? Che assalti quello schifo di posto perché tre contadine hanno voluto spassarsela?!”
Sigyn avvampò. “È la stessa cosa che abbiamo fatto io e te, mi pare.”

Conosceva Loki, capiva quale fosse la logica cinica e stringente che si celava dietro i suoi ragionamenti: una serie di valutazioni follemente precise, puntuali, pungenti, esatte come un taglio chirurgico, che lasciavano spesso fuori qualsiasi scampolo di misericordia o comprensione: i soli interessi dell’Ase erano se stesso, Asgard, il potere che si nascondeva dietro le rune, Sonje, Thor e lei, in qualche modo.

La verità, per il dio dell’inganno, non era che l’illusione di un branco di idioti incapaci di scorgere la parzialità che naturalmente caratterizzava ogni pensiero, confessione, genuina opinione. Oppure, era il punto di vista prepotente e inevitabile del vincitore sul vinto, che riscriveva la storia e le battaglie a suo uso e consumo, non necessariamente in maniera negativa. Loki era il dio del caos perché volutamente sceglieva di non abbracciare nessuna fazione né ideale. La sua volontà pendeva di volta in volta tra la luce e la tenebra con tragica casualità, in virtù di benefici effimeri come il vento o resistenti più del granito. Sigyn lo sapeva: se lo era detto quando tra loro non c’era niente e si allontanava infuriata dai banchetti dopo aver litigato tutta la sera con lui, e non aveva smesso di ripeterselo quando, anni dopo, si infilava sotto le coperte confusa e tradita dal suo stesso corpo, con le labbra gonfie per i baci che si erano scambiati in fretta e di nascosto e il cuore che le batteva forsennato nel petto. Aveva ripetuto come una litania quelle parole nel momento in cui, piegata in due a causa delle nausee mattutine, si era accorta di aspettare da lui un figlio e non lo dimenticò nemmeno in quel momento, nel silenzio della casa che condividevano, mentre la loro bambina sognava beata nel letto.

“E per te lo avrei raso al suolo, il Tempio,” ammise Loki con fierezza. “Ma tu e Sonje siete qui, adesso, e io ho altro da fare.” Si girò dandole le spalle per riempirsi un corno di idromele, perfetto per fargli rilassare i muscoli tesi e levargli il mal di testa che lo affliggeva.

Non si diede affatto per vinta. “Fammi parlare al Consiglio e dammi il tuo appoggio,” lo incalzò.

Suo marito aveva ragione, erano stati fatti dei timidi tentativi per cancellare l’ingiusta legge. Alcuni esponenti delle famiglie più influenti di Vanheim avevano cambiato finalmente idea sulla necessità di tenere in piedi un’istituzione antica e inquietante come il Tempio, ma ancora non c’era nessuna maggioranza. Loki le aveva spiegato che alcune rivoluzioni hanno bisogno di tempo per essere efficaci, e si era impegnato nel prometterle che quel luogo orrendo avrebbe chiuso i battenti o sarebbe stato posto sotto il diretto controllo della Corona dei Vanir, ma non poteva garantirle che tutto questo sarebbe avvenuto in tempi brevi, né aveva voglia di intervenire in maniera invasiva e massiccia.

L’ingannatore vuotò il suo corno. “È una perdita di tempo e a nessuno potrebbe interessare di meno,” tagliò corto.

“Vanheim è un regno vasto e molto popolato. Storie simile alla nostra e a quella della nipote di quella donna capitano ogni giorno. Io non posso più tollerare che ad altre ragazze e ai loro figli capiti quello che, per poco, non è capitato a me. Quindi andrò davanti al Consiglio anche tutti i giorni, se sarà necessario.”
Il dio degli inganni la fissò a lungo, prima di rispondere. Un orologio batté la mezzanotte, il corno gli penzolava ancora tra le dita di mago belle ed eleganti. “Qual è la vera ragione?” domandò avvicinandosi.

Le accarezzò una guancia, fissò i suoi occhi grigi carichi di decisione. Loki aveva un modo di estorcere la verità dalla bocca di chi si azzardava a discorrere con lui che aveva qualcosa di inquietante. Con alcuni era crudele, severo, con altri accondiscendete e amichevole. Sigyn lo aveva visto all’opera innumerevoli volte, tanto da essere riuscita a sviluppare, negli anni, una sorta di meccanismo di difesa nei confronti dell’ingannatore. Non sarebbe stata in grado di liberarsi da una delle sue trappole, se ci fosse caduta dentro, ma sapeva dove guardare per non finirci in mezzo. Evitare che la tenaglia le si chiudesse attorno, questo era il segreto.

Sposarlo aveva significato scegliere di condividere con lui la parte restante della sua vita, dormirgli di fianco, svegliarsi tra le sue braccia, essere odiata o compatita dai suoi nemici, comprendere la sua natura mutevole e scostante, furba e sagace, inesorabile e perfida, ma una parte dell’ingannatore le sarebbe sfuggita sempre. Erano diversi, e nel reciproco rispetto delle loro differenze stava il segreto della loro unione, per il momento, perché nessuna cosa dura per sempre, nemmeno tra gli Asi e tra i Vanir, Loki glielo aveva detto infinite volte; per questo occorreva vivere il presente come se non ci fosse nient’altro d’importante.

Sposarlo aveva e avrebbe avuto un alto prezzo, perché non si può decidere di unire la propria esistenza a quella del fiero Ase che aveva tradito Asgard e stretto patti con creature oscure e potenti, e credere di essere completamente al riparo dalle conseguenze, ma questa è un’altra storia*.
Sigyn si scostò appena, affinché l’Ase avesse una misura precisa della sua irritazione. La rete di Loki era ormai pronta: desiderava approfondire il discorso, aveva assottigliato le palpebre come per fissarla meglio e la nota seccata della sua voce si era addolcita notevolmente. E lei, voleva cadere nella trappola dell’Ase?

Si tormentò il dito inanellato. “Te l’ho detto. È passato troppo tempo e il racconto di quella donna, oggi, mi ha turbata.”
“Questo lo capisco. La mia domanda, però, si riferiva ad altro. Alla vera ragione che tu nascondi. Mettiti la camicia da notte e vieni a dormire, se non sei disposta a parlare chiaro. Non mi interessa estorcerti la verità.”

“Come sei magnanimo,” ironizzò la donna accennando un sorriso. “Avevamo un accordo, Loki. Anche riguardo il Tempio.”
L’Ase piegò le labbra con condiscendenza. Il contratto regolava la loro unione. Era stato scritto e sancito con una lunga serie di baci quando lui, ammaccato e con un braccio completamente fuori uso, era riuscito a strapparle il sì che li aveva visti, poche settimane dopo, unirsi in matrimonio. Le leggi degli Asi e dei Vanir si erano fuse assieme, stemperate e corrette dal buonsenso di Sigyn e dallo spirito fiero di Loki. Quella notte lei era rimasta nelle sue stanze, consolandolo per le ferite che aveva riportato nel più dolce dei modi**, prendendo l’iniziativa in una maniera che l’Ase aveva trovato semplicemente irresistibile. Gli era salita sopra, si era spogliata con studiata lentezza per farsi guardare e aveva diretto la loro unione fino a che lui non aveva gridato il suo nome. Così era iniziata la loro convivenza, ma il contratto presentava anche degli ovvi limiti.

“Nulla ti impedisce di andare al Consiglio, domani, e chiedere che venga abolito e proporre una votazione o chissà cosa. Vai, fallo,” le disse, “hai la mia approvazione, il mio appoggio, come lo hai sempre avuto. Perorerò la tua causa, se è questo quello che vuoi. Ma non farò niente di più, adesso. I tempi non sono maturi, affrettarli è uno sbaglio.”

Loki aveva iniziato a spogliarsi. Si liberò delle placche metalliche che componevano la sua armatura, slacciò con un gesto secco la corazza di pelle intrecciata, robusta e flessibile, capace di proteggere il suo corpo nervoso dagli attacchi degli avversari e di consentirgli, allo stesso tempo, di essere agile, veloce, letale.

Dei giganti di ghiaccio aveva ereditato la spietatezza, decise Sigyn. La fredda analiticità della sua mente acuta la irritò anche se era un aspetto di lui che aveva sempre finito con l’ammirare. Forse Loki aveva ragione, i tempi non erano ancora maturi per intervenire, ma non si può sempre ragionare in base ai vantaggi e alle opportunità: alle volte occorre lanciarsi in operazioni folli anche se non è il momento adatto semplicemente perché è giusto farlo. In questo, Sigyn era simile a Thor: non sarebbe più riuscita a dormire la notte o a sorridere vedendo sua figlia giocare, con la consapevolezza che il Tempio esisteva e continuava a inglobare nel suo misterioso ventre ragazze e bambini. Ma l’Ase detestava perdere, ed era solito lanciarsi in qualche impresa solo se c’erano delle ragionevoli possibilità di ottenere un successo: altrimenti, era meglio restare nell’ombra e aspettare condizioni più favorevoli, propizie. Solo che Sigyn non poteva non sentirsi in colpa per aver regalato alle donne di Vanheim un’illusione, l’effimera speranza di un cambiamento che non c’era, resa ancora più amara dalla constatazione che il mondo è oscenamente ingiusto perché privilegia pochi a discapito di molti: per questo insistette nel portare avanti le sue ragioni: sentiva di aver ingannato la sua gente.

“Non c’è più tempo, Loki,” insistette, vergognandosi nell’ammettere la sua colpa persino con lui. “Abbiamo aspettato abbastanza. Tergiversare in questo modo per me è insostenibile, non dopo oggi, almeno. Ho bisogno che tu intervenga,” mormorò. “Non mi ascolteranno. Tutti devono qualcosa al dio dell’inganno. Lascia che mi unisca anche io alla lista dei tuoi debitori.”

Sciolse la treccia che teneva acconciati i suoi capelli, si accarezzò le punte leggermente ondulate e bionde, in un gesto che l’Ase notò e apprezzò, come il tono tornato improvvisamente dolce e le ciglia nere e lunghe che si abbassavano, ventilando la promessa suadente di un delizioso dopo. La mano delicata della donna sfiorò la guancia affilata e sbarbata dell’ingannatore, scese sul suo petto ampio e sviluppato e sul torace scolpito, sfiorò l’orlo dei pantaloni ancora allacciati.

“Sto trattando affinché Vanheim abbia l’acciaio dei Nani,” sibilò tetro l’Ase, “sto lavorando giorno e notte per questo. Per te e per i Vanir. Non ho tempo né voglia di dedicarmi a una questione sociale e il nostro contratto non ti dà il potere di decidere delle mie giornate.”
“Non lo sapevo,” ammise la donna, “ma questo non toglie che noi abbiamo dei doveri verso quella gente.”

Il dio degli inganni, visibilmente scocciato, piegò le labbra in una smorfia tirata. “Affrettare i tempi è tagliarsi le gambe,” troncò il discorso.
Si allontanò dalla stanza, lasciandola sola per darle il tempo di addormentarsi e punire la sua insistenza, ma quando il fastidio per quella situazione svanì e decise finalmente di infilarsi nel letto accanto a lei, si accorse che nonostante fosse passato molto tempo lei ancora era sveglia, e non poté fare a meno di ritornare sulla questione per un’infinità di motivi. Anzitutto, detestava vederla imbronciata. Era una vera rottura di palle tornare a casa e trovare la propria moglie di pessimo umore o in vena di recriminazioni estemporanee. Il Tempio esisteva da prima di loro, la legge cretina che stabiliva come ogni donna che non avesse una morale più che irreprensibile ci finisse dentro non l’aveva emanata certo lui, smantellare un’istituzione del genere in pochi anni era semplicemente folle.

Sigyn era raggomitolata su un fianco e aveva tirato le coperte fin sul naso. Non disse niente sentendolo avvicinarsi, ma sussultò quando la mano fredda del marito le cinse un fianco per trarla a sé.

“Sei gelido,” sbuffò sentendo la stoffa della sua camicia da notte venire a contatto con la pelle tonica dell’uomo. Si sistemò all’interno del suo abbraccio, ma senza voltarsi. Era ancora offesa ma, allo stesso tempo, si sentiva lusingata per essere stata cercata. Forse Loki per sbollire l’irritazione aveva fatto il giro della casa e delle scuderie – ecco perché era così fredda, la sua pelle –, ed era andato a controllare Sonje. Una rapida sbirciata alla sua piccola erede non l’avrebbe convinto a lanciarsi in una battaglia senza speranze di vittoria, ma probabilmente poteva contribuire a renderlo un pizzico più indulgente nei confronti della sua bionda moglie piena di buoni propositi.

“Mi hai innervosito,” le soffiò all’orecchio. “Non ti ho mai detto no, ma non ora.” La voce di Loki era ferma, decisa, tagliente. “Domani fallirai,” preconizzò crudele.
Sigyn tentò di scostarsi. “Falliremo. Lingua d’Argento, come sei incoraggiante!”

Il dio degli inganni adorava sentirsi chiamare in quel modo da lei. Sua moglie pronunciava quelle due parole con un misto irresistibile di ammirazione e dispetto. La costrinse a voltarsi e la baciò sulle labbra, memore della carezza lenta con cui Sigyn era arrivata a sfiorargli l’orlo dei pantaloni, deciso a consumare la sua vendetta in maniera dolce. Il prezzo da pagare per quella loro momentanea tregua, era che lei, dopo, avrebbe insistito ancora con la questione del Tempio, ma Loki era un Ase e gli Asi non temevano nulla, mai. Non era vero, ovviamente. I tracotanti e fieri figli di Asgard conoscevano molto bene la paura, e quel bugiardo del loro principe cadetto lo sapeva perché l’aveva provata lui stesso, sulla sua pelle. E presto, il terrore sarebbe tornato a fargli visita.
 

Continua…

Chiacchiericcio dell’Autrice:
Che dite, Loki e Sigyn sono una coppia assolutamente normale?
Come al solito, colgo l’occasione per ringraziare con affetto tutti quelli che leggono, commentano, seguono inseriscono tra le preferite o le ricordate questa storia. Grazie, grazie e ancora mille grazie. Se vi va di condividere un pensiero anche semplice sull’andamento della raccolta, i personaggi o le situazioni, fatelo senza paura. Mi fareste molto felice perché è bello per un Autore ricevere un feedback dal Lettore.
Detto questo, ho in corso ben tre storie (e mercoledì ne vedrete una quarta): il mio intento è, nell’ordine, di aggiornare una settimana una e una settimana l’altra.
Un carissimo saluto!

*Come leggerete/state leggendo in “Giochi Pericolosi” che è il seguito di questa storia ambientato x anni dopo.
**Come in “Tutte le tue bugie.”


 

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Capitolo 4
*** Vie di fuga ***


LEGGIMI!
 
Caro Lettore, finalmente sono tornata ad aggiornare questa storia. Dato il tema delicato, ti chiedo di arrivare fino alla fine del testo e, soprattutto, leggere le note fino in fondo. Questo capitolo è la prosecuzione del precedente. Buona lettura!

Vie di fuga

 
 
Il Concilio era composto da un gruppo piuttosto eterogeneo di vecchi arcigni, giovani imbolsiti, molli nobili di toga(1) dai lineamenti marcati e la bocca piegata perennemente in una smorfia carica di disgusto. Rappresentavano degnamente una classe sociale e politica stantia, che viveva di privilegi acquisiti inamovibili, almeno all’apparenza. Tutti i presenti dovevano qualcosa al dio dell’inganno. Loki Laufeyson si era insinuato nelle loro vite e negli affari che gestivano da generazioni con una serie di abili colpi di mano che avrebbero, probabilmente, fatto di lui il signore di Vanheim anche a prescindere dal suo matrimonio con Sigyn. Ma degli Asi e degli Jotunn si diceva che fossero inclini ad assecondare i loro bassi istinti, ed ecco spiegato perché la nipote di Njord sfoggiava alta oreficeria dei Nani come fede. Quando Lingua d’Argento entrò assieme alla moglie, gli occhi di tutti i presenti si posarono con una certa curiosità sulla giovane donna. Che ci faceva Sigyn, in quel luogo?

Da un lato, la principessa suscitava nei membri del Consiglio un certo patriottico orgoglio: lo scostante e inafferrabile Loki l’aveva sposata e persino portata con sé durante alcuni suoi viaggi, per mostrarle le meraviglie dei Nove Regni. In pubblico la teneva sempre in gran considerazione, ma senza essere eccessivamente manierato. Dall’altro, lei aveva sposato uno straniero e alcuni non l’avrebbero mai perdonata per questo.

Ad ogni modo, Njord aprì la discussione del giorno e Loki prese la parola. Spiegò agli illustri Vanir i numerosi e strabilianti progressi ottenuti durante le trattative per l’acciaio dei Nani (2), sorprendentemente a buon punto, promettendo allo stesso tempo un futuro di prosperità e ricchezza. La sua voce era eloquente, vibrante, decisa e chiara. Incantò i presenti allettandoli con possibilità reali, intense, vere, succulente. In molti erano pronti a giurare che l’Ase fosse in grado di leggere nell’altrui pensiero. Raccontavano come necessitasse solo di posare le sue dita eleganti sulla pelle della sua vittima, per leggerne i pensieri anche più conturbanti e nascosti (3). Altri sostenevano, invece, che Loki non avesse bisogno di alcun contatto, per sviscerare dai suoi interlocutori ciò che gli serviva.

Sigyn rispondeva sempre con imbarazzo, a chi osava domandarle qualcosa del seidr in generale e di quell’abilità in particolare. Diceva di non comprendere la magia né di essere intenzionata a farlo. Era una caratteristica di suo marito, qualcosa che lo definiva e faceva parte del suo essere da prima ancora che iniziasse a parlare, da quando aveva mutato il colore della sua pelle di fronte a un sorpreso Odino. L’inganno perfetto per farsi accettare da un vecchio re spietato. Sigyn accarezzava i boccoli neri di sua figlia e, sorridendo appena, sosteneva che se Loki le avesse letto davvero nella mente, non si sarebbe messo a chiederle ogni volta dove tenesse le tuniche pulite e avrebbe saputo con esattezza cosa non dire per farla arrabbiare. Le si velava lo sguardo di un’inquietudine strana, quando capitava che facesse questi discorsi.

Durante l’udienza, Sigyn avvertì una strana sensazione di malessere. Un violento capogiro poco prima di entrare, l’aveva spinta a chiedere al marito di perorare la causa al posto suo. Ora sedeva poco distante da Njord, e il suo sguardo correva inquieto dalle labbra arricciate di suo nonno alle espressioni rapite degli astanti, fino a fermarsi su suo marito. Spigliato, affascinante, dotato dell’arte di convincere e incantare, Loki aveva messo su uno spettacolo da cui era difficile distrarsi.

Stava promettendo, anzi vendendo, l’ipotesi di un futuro felice, glorioso, magnifico. Garantiva la grandezza che i Vanir anelavano, ritenevano spettasse loro di diritto e si erano sentiti portare via, millenni addietro, dagli Asi sprezzanti. E ora, il figlio adottivo di quella massa di pirati dalle barbe bionde e fulve e gli occhi freddi come i laghi invernali, si impegnava a restituire a Vanheim ciò che le era stato rubato. Solo che Loki era un furfante travestito da principe, un cantastorie come nemmeno nelle piazze più oscure della città se ne trovava uno uguale. Assicurava la felicità, nascondendo abilmente l’ombra spaventata che Sigyn, talvolta, rintracciava nel suo sguardo chiaro.

Non avevano parlato mai di quel velo scuro che incupiva lo sguardo del dio dell’inganno, tranne una volta, non troppo tempo prima. Sonje dormiva nel suo lettino, con la bocca schiusa e i boccoli neri sparpagliati sul cuscino. Si era addormentata tra le braccia di Sigyn, durante un noioso ricevimento, e lei e Loki ne avevano approfittato per defilarsi e tornare a casa. Avevano messo la bimba sotto le coperte e, nel vederla riposare serena, Sigyn gli aveva confessato di essere felice e di averne paura. Le Norne sono crudeli, si era affrettata ad aggiungere, per divertirsi spesso ci tolgono quello che abbiamo di più caro. Loki inizialmente non le aveva risposto. Si era limitato a rivolgerle un’occhiata assorta, lunga, venata di qualcosa di indefinibile. Poi una mano era scivolata sul suo fianco.

“La felicità è fatta di attimi, istanti, brevi momenti. Non evocarla.”

Lo aveva detto col tono, lieve solo all’apparenza, con cui era solito consigliare e suggerire dalla sua posizione privilegiata accanto al trono Njord. Sigyn, rabbrividendo, comprese che la frase del marito era vera, ma incompleta. Fu tentata, più tardi, nel letto in cui non riusciva a dormire, dal chiedergli il conto della sua affermazione. Gli cinse la vita, affondò il naso sul suo collo, respirò il profumo piacevole e virile che emanava, crogiolandosi in quella vicinanza, ma le mancò il coraggio di domandargli quali fossero le sue paure, perché il cuore di Loki Laufeyson era nero e conteneva cose che sarebbe stato meglio non risvegliare.
 

Nell’affollata sala delle udienze, Sigyn aveva caldo, troppo. Agitandosi sulla poltrona, osservò Loki veicolare la discussione, finalmente, sull’unico punto che adesso avesse qualche rilevanza: il Tempio che doveva chiudere i battenti. Il dio degli inganni esordì in maniera meno cruda, ovviamente. Desiderava sottoporre una questione stringente, essenziale, vitale ai signori nobili, così disse.

L’Ase li detestava dal primo all’ultimo: reputava i vassalli di Njord un branco di incapaci, imputando la loro inettitudine all’ereditarietà delle cariche. Gli Asi erano un grande popolo non solo per la velocità dei loro drakkar e l’abilità dimostrata dai guerrieri durante le battaglie, ma anche perché le funzioni più importanti dello Stato venivano affidate alle personalità che maggiormente si erano distinte negli assalti. In caso di ingiusta assegnazione, uno scontro nella pubblica piazza risolveva liti e pretese di superiorità. Sorrise con amarezza, a quel pensiero.

Avrebbe dovuto sfidare Thor, un tempo, e scalzare la volontà di Odino. Gridare di fronte a tutta Asgard che Padre Tutto si era sbagliato, il suo unico occhio acuto si era offuscato. Aveva preferito qualcosa di più scenico e crudele, ma che avrebbe salvato il giudizio di suo padre, introducendo di nascosto gli Jotnar nel palazzo reale il giorno stesso dell’incoronazione del fratello. Scacciò il pensiero con un gesto nervoso della mano, catturando l’attenzione di Sigyn, che lo guardò perplessa.

Tutti gli dovevano qualcosa, in quella sala, persino lei. Introdusse la questione del Tempio ricordando all’immobile e incartapecorita sala come il santuario possedesse molta terra fertile e fosse un luogo senza controllo, dove la giurisdizione dei Vanir non contava nulla: era un affronto, un problema politico, una vecchia spina nel fianco che andava risolta. Insinuò dubbi sulla condotta scandalosa che le guardie fedeli alla Sacerdotessa Sublime – non a Njord né alla corona, ma a quella donna – tenevano nei confronti delle ragazze lì segregate. Alluse ad abusi, dipinse il Tempio come un bordello mascherato da tutt’altro, elencando ad alta voce le dicerie che, da sempre, circondavano il luogo. “Pettegolezzi”, sostenne qualcuno interrompendo Loki Laufeyson.

L’Ase incrociò le braccia dietro la schiena, inclinò il capo. “Dici?” sibilò perfido. “Girano voci strane da troppo tempo, perché siano solo menzogne. Fidati di me: nelle bugie c’è sempre un fondo di verità.”

Non tutte le battaglie sono destinate a essere vinte. Non lo fu nemmeno quella. Loki Laufeyson osservò con una punta di fastidio la votazione che, per un soffio, non fu favorevole alla sua proposta. Lanciò a Sigyn un’occhiata irritata: glielo aveva detto, che sarebbero stati sconfitti. I tempi non erano maturi. L’ingannatore detestava perdere, ma non poté far null’altro che tenersi a mente i nomi dei tre fottuti stronzi che avevano reso vane le sue parole brillanti. Theoric, suo padre e suo fratello erano i grandi elettori che avevano rifiutato di appoggiare Loki. Mentre scendevano dagli scranni per tornare alle loro case, l’ex fidanzato di sua moglie gli rivolse la parola (4).

“Non avrai mai né il mio voto né quello del mio clan.”

Gli tremavano le labbra e a stento sosteneva il suo sguardo, e aveva trovato il coraggio di parlargli solo perché tutta la nobiltà di Vanheim era presente. Loki era più alto di lui e, sebbene non indossasse che un’armatura leggera sulle spalle e sulle braccia, senz’altro teneva con sé delle armi. Se avesse voluto, sarebbe stato capacissimo di infilargli un pugnale in qualche punto vitale e ucciderlo lì, seduta stante, lasciandolo annegare nel proprio sangue. Questo era il dio dell’inganno. Solo che l’ultima guerra era terminata quattro anni prima e, da allora, Vanheim, Asgard e gli altri Regni vivevano in pace e serenità. Loki non aveva più indossato le sue insegne color oro, né l’elmo dalle grandi corna ricurve che, si diceva, spesso utilizzasse come arma impropria. Faceva il ministro, adesso, il consigliere di Njord: si occupava di economia, cultura, sicurezza a volte; la sua natura barbara sembrava sopita, domata. Un tempo aveva sfidato Asgard e Odino, si era alleato con Thanos e aveva portato guerra e morte persino su Midgard. La felice Vanheim sembrava aver domato l’orgogliosa fiera selvaggia.

l’Ase rivolse a Theoric un ghigno feroce. “Scommettiamo?”

“Finché sarò vivo io…” iniziò il Vanir, ma l’ingannatore lo interruppe con una risata bassa e beffarda.

“Appunto. Finché.”

Era una minaccia aperta, inequivocabile, oscura, che tutti avevano sentito. Theoric avvampò d’ira, perché apparteneva a una delle Casate nobiliari più importanti di Vanheim e sarebbe dovuto diventare re, ma Loki Laufeyson gli aveva fatto un torto antico, terribile: si era preso Sigyn. Aveva pagato per l’affronto secondo la legge dei Vanir, questo era vero, ma l’onore della Casa di Theoric era rimasto comunque macchiato e la gente non avrebbe dimenticato mai che quel bastardo straniero, figlio di un mostro, stregone e guerriero, allevato da un popolo di barbari insolenti, lo aveva umiliato e beffato come uomo e come nobile.

Commise un errore, Theoric, un errore terribile. Pensò che fosse giunto il momento di vendicarsi del dio degli inganni e rovinare la noiosa vita che si era creato. Lo volle punire per le volte in cui lo aveva visto baciarsi con Sigyn e per quella bambina dai capelli neri e gli occhi grigi che era inequivocabilmente figlia sua. Per essere stato costretto a guardare come si era trasformata la donna che avrebbe dovuto sposare: affaticata da una gravidanza, col ventre gonfio e tondo. Per averli dovuti immaginare insieme, anche.

Rabbrividendo, Theoric parlò. “Te la sei scopata, ma ha concesso qualcosa anche a me. Chiedile di quando vennero gli Elfi.”

Lo disse con voce svelta e cattiva, incurante del cuore che gli batteva nel petto, del sudore che gli macchiava le ascelle, l’inguine, il labbro superiore, persino. Loki era armato, ovviamente. Sarebbe stato da veri idioti pensare che non lo fosse, così come era sciocco credere che si facesse scrupoli nell’ammazzarlo lì, davanti a Njord malfermo sulle gambe e costretto a tenersi a Sigyn ancora ignara di tutto, ai nobili che, comunque, erano in debito con lui.

Il dio degli inganni reagì immediatamente: era un Ase. Lo afferrò per i capelli e, con un gesto repentino, gli fu dietro minando il suo equilibrio e lo costrinse in ginocchio, premendogli il pugnale sulla carotide. Lo avrebbe ucciso, stava per farlo. Njord lo supplicò di non versare sangue in quella sala, gli ricordò come avesse avuto, nella sua vita, avversari ben più degni. Loki rispose di aver tagliato la gola a guerrieri e disgraziati: uno in più non avrebbe fatto differenza.

Principe Loki di Asgard, è disarmato.” La voce di Njord risuonò grave. Si aggrappava alla nipote e lei a lui, sconvolta dalla scena inaspettata. Il dio degli inganni stirò le labbra in una smorfia sarcastica, tetra. Il re dei Vanir si appellava al suo orgoglio di figlio di re, chiedeva che avesse giudizio, come Odino. E Sigyn, la sua devota e fedele moglie, lo fissava inconsapevole e spaventata.

Lasciò andare Theoric non senza avergli impresso un segno lungo e leggero lì dove la lama affilatissima lo aveva toccato, poi lo colpì con un calcio violento sulle costole, incrinandogliele. Andò via masticando la seconda sconfitta della giornata, senza voltarsi indietro. Non gli sarebbe sfuggito una terza volta. Lei rimase lì.
 

Sigyn. Tutta colpa di Sigyn. Che aveva quella donna? Quale potere si nascondeva, sotto le sue ciglia scure? Si era ritrovato in una posizione scomoda, con il fianco scoperto, e quel fottuto Theoric ne aveva approfittato. Era stato intelligente, dovette ammetterlo. Si era tenuto quel segreto dentro per anni, perché se lo avesse rivelato allora, quando Sigyn era incinta e lui stesso aveva provato a salvarle la vita, la confessione avrebbe avuto meno effetto. Invece, aveva atteso che lei fosse più di un mezzo per ottenere un trono o di un’amante desiderata con urgenza e intensità. Glielo aveva detto quando Sigyn era, da tempo, la sua compagna. Che colpo geniale. Non rientrò a casa che a notte fonda. Attraversò il cortile con passo marziale, varcò la soglia di casa con dispetto. Tutto era immerso nella penombra, ma lei era sveglia, lo attendeva nello studio. E sapeva.

I capelli biondi erano acconciati in una treccia bassa e molle, il viso era pallido e gli occhi cerchiati di scuro. Da qualche giorno non stava bene, e quello che era successo di fronte al Consiglio certo non aveva migliorato le cose, anzi. All’Ase non importò. Le rivolse un’occhiata breve, torva, irata. Attese.

“Capisco cosa provi, ma non ne hai il diritto.” Sigyn tremava offesa. Qualcuno le aveva riferito la battuta dell’ex fidanzato.
Loki non rispose. Un pessimo segno. Sfilò i pugnali che teneva nella bandoliera e iniziò a pulire quello ancora incrostato del sangue di Theoric. Avrebbe dovuto premere più a fondo, porre fine alla sua inutile vita. Guardò sua moglie dall’alto in basso, assottigliando gli occhi.

“La mia devozione nei tuoi confronti, la mia fedeltà,” gli si avvicinò Sigyn, “non è mai venuta meno. Non puoi fare questo adesso. Non hai il diritto di rimproverarmelo.”


Il dio degli inganni scoppiò in una risata fredda, tetra, spaventosa. E la principessa dei Vanir fece istintivamente un passo indietro. “Il mio diritto,” sibilò, “su questa terra, adesso, secondo le leggi di tuo nonno sarebbe quello di ripudiarti e pretendere dalla tua famiglia un risarcimento per il disonore subito,” le ricordò.

La donna arrossì. “Credevo che gli Asi e gli Jotnar dimostrassero il loro onore in battaglia, contro i loro nemici, e non nelle loro case,” gli ricordò fiera (5).

Loki annuì a metà strada tra il divertito e l’ammirato: adorava le battute argute e intelligenti e gli piaceva il coraggio di Sigyn. “Nella mia casa è successa una cosa strana. La tua fedeltà, Sigyn, presenta una crepa. Perché pensi che debba rimproverarti qualcosa? Una scusa non richiesta puzza di autoaccusa,” sorrise.

Le girò attorno e Sigyn si sentì in trappola, incastrata dal dio degli inganni. “Dove vuoi arrivare?” tremò. Non lo temeva, non lo aveva fatto mai, eppure in quel momento captò un pericolo. L’equilibrio perfetto e sottile della loro unione aveva subito una scossa tale che sarebbe bastata una sillaba sbagliata, per mandare in frantumi tutto. E lei, in fondo, lo voleva, comprese. Perché Loki era geloso e furente, ma voleva manipolare con lei la realtà per farla sentire colpevole di qualcosa che non aveva commesso, o meglio, non aveva importanza. Non doveva. Non più. Almeno così credeva.

“Ti senti in colpa, Sigyn. Altrimenti faresti l’offesa e rideresti della mia gelosia. Invece hai paura, ti sei messa sulla difensiva. Ma perché una donna come te dovrebbe sentirsi in colpa?” si domandò l’Ase retorico. Finse di pensarci su, poi si interruppe e le afferrò le spalle sottili. Lei sobbalzò. “Ma certo. Provi vergogna. Fammi indovinare… Ti è piaciuto.”

Sigyn provò a liberarsi della stretta, fece per dargli uno schiaffo, ma Loki ghignando la fermò.

“Come ti permetti? Non ti azzardare! Cosa ti ha detto? Cosa credi di aver capito?” esplose la donna. “Tu dov’eri, che facevi, quella notte?”
Loki la ricordava. Ci aveva dovuto pensare tutto il giorno, ma alla fine era riuscito a ripescare il ricordo lontano. C’era una delegazione degli Elfi, fu indetto un ballo. Lui e Sigyn erano già stati ad Asgard e, in quel periodo, non si frequentavano. Si lanciavano decine di sguardi, però, e le battute che si rivolgevano erano pungenti, sferzanti come lame. Lei era fidanzata con Theoric, allora, e l’uomo le aveva chiesto di ballare. Sigyn aveva rivolto uno sguardo fiero all’ingannatore, poi aveva accettato. Loki, ingollando idromele, si era domandato se la piccola Vanir si aspettasse ancora un suo gesto plateale e privo di senso: cosa doveva fare, fermare l’orchestra e strapparla via dalle mani di quell’idiota? Forse sì. Avevano ballato a lungo e, per un po’, lui li aveva osservati. Con il chiaro intento di farlo ingelosire, quando la danza li aveva portati vicino a lui, Sigyn aveva poggiato il capo sulla spalla del fidanzato. Loki gliela aveva fatta pagare, ovviamente.

C’era un’Elfa dai capelli corvini e il fisico slanciato, che conosceva di vista. Aveva occhi neri e ammiccanti. Un quarto d’ora di discorsi brillanti dopo e la stava baciando, mezz’ora e avevano lasciato la sala mano nella mano, sotto lo sguardo torvo di Njord, che mal sopportava quei costumi liberi nella sua casa.

Ecco dov’era Loki. Era sdraiato supino su un letto, mentre un’Elfa dai capelli nerissimi e le gambe toniche si muoveva sopra di lui. Quando, sudata e stanca, era scivolata accanto al suo corpo, gli aveva chiesto se fosse riuscito a dimenticare l’altra e l’Ase aveva aggrottato la fronte indispettito.

“Che farnetichi?”
La bruna aveva iniziato a rivestirsi. “Dio dell’inganno, non eri con me.”
 
 
Sigyn avrebbe voluto piangere di rabbia, gridare, lanciargli qualche oggetto, persino. Lo aveva visto baciarsi in maniera sfacciata con quella donna bella, bellissima. Si era accorta del ghigno soddisfatto con cui Loki l’aveva presa per mano e condotta via, aveva compreso il motivo della loro assenza. Si era seduta. L’idromele era in una caraffa accanto a lei e così aveva bevuto. Mezzo corno e le girava la testa (6). Theoric le aveva proposto di ballare ancora, e Sigyn si era immaginata Loki che spogliava l’Elfa affascinante e gli aveva offerto la mano. Dopo qualche piroetta, si era accorta di avere mal di testa, di non sentirsi affatto bene. Non sapeva come erano finiti sul divanetto di chissà che anticamera, ma aveva importanza, adesso, dopo quattro anni? Si morse le labbra e venne invasa dal ricordo offuscato del dopo.

 
“Ti ho visto andare via con quella donna,” soffiò. “Ero disperata, infelice, mi sentivo tradita, mi hai tradita (7). Ho bevuto troppo. Di questo mi sento in colpa.”

Gli occhi di Loki vagarono inquieti sulla stanza per posarsi, infine, sulle labbra serrate e il viso pallido di Sigyn. Qualcosa ha concesso anche a me. La vide disorientata, confusa, che tentava debolmente di allontanare da sé Theoric: un uomo tarchiato e basso, ma che pesava almeno venti chili più di lei, ragazzina debole e indifesa. Non uno del suo clan sarebbe rimasto vivo, decise. Fu tentato di scrutare quello che era stato: sarebbe bastato mormorare un paio di rune, stringerle più forte il polso sottile che ancora serrava tra le dita e avrebbe letto nella sua testa. Lo aveva già fatto, ma sul bastardo, e il risultato era stata una visione fugace, terribile, incompleta. Che gli aveva insinuato dubbi indegni di lui e del suo nome.

“Non lo hai mai detto,” disse.

Sigyn abbassò lo sguardo. Le tremavano le labbra. “Ho permesso che accadesse,” spiegò.

“Che dici?” esplose il dio dell’inganno. “Bere non dà automaticamente il diritto al primo cazzone che passa di metterti le mani addosso! Quand’è che avresti espresso il tuo consenso? Sentiamo!”

Loki aveva urlato. Vide sua moglie sobbalzare, spaventata per quel tono che non usava mai con lei, e che apparteneva, invece, alla furia distruttiva che lo animava sui campi di battaglia. Detestava quel modo di pensare ridicolo, assurdo, che ad Asgard sarebbe stato accolto con una grassa risata. Anziché punire il colpevole, si additava la vittima, in un meccanismo perverso. Sigyn teneva gli occhi bassi, si mordeva le labbra, ragionava come una preda, di più: credeva di aver meritato le disgustose attenzioni di Theoric perché aveva bevuto ed era pur sempre una Vanir e alle Vanir questo veniva insegnato. Così, la vittima finiva per dichiararsi colpevole giustificando il suo carnefice, fornendogli un alibi per i suoi gesti e atti sgraditi. Gliel’ho permesso. Che immensa idiozia. Provava la stessa rabbia feroce che gli aveva infiammato le vene quando aveva scoperto l’inganno di Odino, la verità sulle sue origini. Non sono nient’altro che un’altra reliquia rubata. Afferrando Theoric non aveva potuto fare a meno di vedere, scavare nei suoi ricordi, accertarsi che l’illazione non fosse una menzogna: era bastato soffiare fuori due rune, e aveva visto.

Il divanetto di un’anticamera non lontana dalla sala dei banchetti, Sigyn con la testa reclinata che lamentava di aver male alla testa e provava a scacciarlo, Theoric in ginocchio che cercava di sciogliere le sue resistenze in quella maniera, lei che si divincolava, per fortuna si liberava. Senza il dettaglio del vino, il contesto gli era parso un altro – stralci di lei che si abbandonava al desiderio con quel maledetto – ma adesso era diverso. E Sigyn era sincera, non aveva bisogno del seidr per accertarsene. Le lasciò libero il polso.

Mille volte, durante quel fidanzamento cretino, Loki aveva evitato che Theoric avesse l’occasione di rimanere solo con Sigyn. Era abbastanza scaltro e sveglio da intuire le situazioni potenzialmente pericolose e farle sfumare. Bastava coinvolgere, per via traverse, quell’idiota in una discussione da cui non sarebbe riuscito a liberarsi facilmente, o trovare il modo di circondare lei di dame solerti e dalla chiacchiera facile. Un paio di volte l’aveva persino provocata ad arte per iniziare un litigio mortalmente lungo, inutile e tedioso. Non era bastato.

“Avrei dovuto essere cauta.” Sigyn scosse la testa, si voltò per nascondere il viso. La sua voce non era null’altro che un sibilo sommesso, un sospiro strozzato.

L’Ase serrò i pugni. “Lui non doveva… stupida Vanir.”
 
 

“Mamma?” La voce incerta e squillante di Sonje, carica di una nota allarmata, catturò l’attenzione dei due. “Papà?” proseguì la bambina.
Li aveva sentiti gridare e si era svegliata di soprassalto. Intrepida com’era, aveva preso dal letto il grosso animale di pezza che doveva somigliare a un gatto e si era avventurata per il palazzo avvolto nell’ombra. Aveva cercato i genitori in camera da letto e, non trovandoli, si era decisa a raggiungere lo studio di Loki, nonostante temesse le ombre scure del lungo corridoio che doveva attraversare nella sua interezza. Non aveva mai sentito suo padre gridare, e non lo aveva riconosciuto immediatamente. C’era qualcosa di graffiante, in quella voce, di cattivo, eppure, allo stesso tempo, era riuscita a rintracciare una nota familiare nel tono sostenuto. Sonje aveva quasi quattro anni, e non era in grado di capire le dinamiche degli adulti. Con l’istinto proprio dei bambini, però, intuì che c’era qualcosa che non andava e si spaventò per questo. Suo padre era arrabbiato, teso, nervoso; sua madre, vedendola, si era asciugata in fretta gli occhi lucidi.
“Mamma piangi? Perché piangi?” domandò.

Sigyn si precipitò ad abbracciare la figlia. La strinse contro il petto, la prese in braccio e affondò il naso nei suoi capelli neri e ricciuti. “Papà ti ha fatto arrabbiare?” Sonje lanciò un’occhiata intensa e profonda all’Ase, che fissava la scena immobile e rigido. “È perché hai fatto tardi che mamma si è arrabbiata, papà?”

Loki era andato per la prima volta in battaglia quando ancora non gli era spuntata nemmeno la barba. Aveva combattuto centinaia di battaglie, visto mondi lontani, esplorato galassie remote, tramato e ingannato. Persino di fronte al Titano aveva sfoggiato il suo ghigno sicuro e beffardo. A Sonje rivolse un sorriso diverso, però. Era impallidito vedendola sbucare nella stanza, perché non sapeva da quanto tempo la figlia origliasse e non la vedeva da tutto il giorno. Assomigliava a entrambi in maniera perfetta. Gli occhi della bambina, ad esempio, erano innegabilmente dello stesso punto di grigio di quelli di Sigyn, ma il modo di guardare e quello in cui aggrottava la fronte, insieme al broncio che metteva su quando qualcosa la contrariava, erano assolutamente i suoi. Le vide abbracciate, indifese, sole e si maledisse mille volte.

“Sì, è per questo. Torna a dormire, tesoro.” Le sorrise, concedendole una carezza sulla testa bruna, sfiorando i ricci neri e morbidi. Gli tornarono in mente, per un istante, il gelo che lo aveva bloccato il giorno in cui Freya lo aveva atteso sulla soglia del palazzo, tormentandosi le dita inanellate, e l’immagine di Sigyn con il labbro spaccato al cospetto di Njord. Lo aveva guardato senza aspettarsi niente, nulla, consapevole che la ragione e il sentimento per lui non potevano legarsi assieme, certa che desiderasse più il trono di un re vecchio e dispotico, che lei. Gli vennero in mente i piani che non aveva rivelato, ma che erano rimasti al sicuro nella sua testa.
Sonje insistette per passare dalle braccia della madre a quelle del padre, e appoggiò la testolina arruffata sullo spallaccio di Loki.

“Non essere arrabbiato. Mamma ti perdona, ti perdona sempre,” sentenziò.

Con una mano reggeva ancora il grosso gatto di pezza senza cui non riusciva ad addormentarsi. Era rosso e aveva due bottoni blu al posto degli occhi. Si trattava di un regalo di Thor e la bambina, in onore dell’adorato zio, lo aveva chiamato proprio Gatto di Thor. La forma originale si era contratta in un buffo Gatto Thoor.

Non ci fu verso di mettere di nuovo Sonje a letto e farla addormentare. Ormai era sveglissima, ma soprattutto era animata dall’ansia di vedere i genitori insieme e di restare con loro. Non era abituata a sentirli litigare, e scorgere sui loro volti tirati l’ira e il risentimento l’aveva turbata. Sigyn era mortalmente stanca: il peso di una giornata infelice e pesante le gravava sugli occhi e la testa e, di fronte alle suppliche accorate della figlia che non voleva addormentarsi da sola nel lettino, fu quasi disposta a cedere alle sue suppliche rimanendo con lei nella stanzetta. Ma la piccola subodorò l’inganno e tirò fuori lo spirito guerresco paterno. Dagli Asi, Sonje aveva senz’altro ereditato la testardaggine e l’insolenza.
 

Si aggrappò al mantello del genitore, fissandolo disperata. “Nella stanza ci sono i mostri. Si sono nascosti nell’armadio. Papà, devi restare con noi.”

In una serata diversa, quella richiesta avrebbe dato vita a un vero spettacolo. L’Ase si sarebbe messo a ispezionare, con la serietà che avrebbe sfoggiato di fronte a Odino in persona, la camera della bambina raccontandole storie spaventose e buffe insieme, capaci di far ridere fino alle lacrime sia Sigyn che Sonje. Lo spettacolo teatrale, tuttavia, necessitava di tempo e di un equilibrio che, in quel momento, non c’era e la piccola se ne accorse e iniziò a frignare. Sapeva benissimo che Loki disapprovava che dormisse, sia pure sporadicamente, nell’ampio letto matrimoniale con lui e sua madre. Non era una cosa da Asi. I bambini di Asgard erano coraggiosi e rimanevano nelle proprie stanzette, senza intrufolarsi in quelle altrui. Lingua d’Argento evitava, ovviamente, di raccontare come anche lui, nell’infanzia, avesse chiesto spesso asilo al fratello, soprattutto quando c’erano spaventose bufere di neve o nei casi in cui le battaglie, ancora solo immaginate o lette nei libri, popolavano con troppa intensità la sua immaginazione fervida e febbricitante.

L’Ase finì per accontentarla, ospitando suo malgrado persino il grosso gatto di pezza, assicurandole che quella sarebbe stata l’ultima volta che le avrebbe concesso un simile privilegio. Sonje annuì, saltando allegra sopra le coperte ben tirate.

“È una richiesta da bambini piccoli la tua, Sonje.”

Lei gli rivolse il principio di un sorriso laterale, esatta copia del suo. “Io sono una bambina piccola, papà,” gli ricordò compita. Si infilò con Thoor sotto le coperte e prese a osservarlo con una serietà improvvisamente grave, solenne, spostando i begli occhi grigi da lui a Sigyn, che le diede un bacio sulla guancia e si mise accanto a lei.

“È davvero tardi, Sonje, e adesso devi dormire,” le sussurrò.

La piccola annuì, le si strinse contro. Aveva effettivamente sonno e voleva chiaramente essere coccolata dalla madre, ma mancava ancora qualcosa, secondo il suo punto di vista, affinché la nottata potesse proseguire. “Ora dormiamo. Ma papà deve darci il bacio della buonanotte, mammina.”

Loki sentì la richiesta fatta dalla vocetta acuta di sua figlia. Si stava togliendo l’armatura leggera di fronte all’ampio specchio del bagno padronale, comunicante con la camera da letto. Cercò di non guardare la propria immagine riflessa, concentrandosi sui lacci che stringevano la sua tunica intrecciata, sulle fasce che proteggevano la pelle dal cuoio dell’armatura. Cos’avrebbe fatto, se sua figlia non fosse entrata all’improvviso? Se ne sarebbe andato via imprecando, corroso dalla gelosia e dall’ira? Oppure avrebbe stretto Sigyn a sé, baciandola e trascinandola su quello stesso letto per cancellare l’orrenda lite? Il ricordo offuscato strappato dalla mente di Theoric lo aveva mandato fuori strada, oppure era stato lui a voler piegare la realtà interpretando male le immagini sconnesse di una memoria ghermita? Voleva vendetta: quel maledetto gli era sfuggito due volte. Non ce ne sarebbe stata una terza, lo giurò sul suo sangue di Re. Eppure, far pagare a quel viscido le sue azioni non lo avrebbe rappacificato con il mondo né avrebbe cancellato il passato. Theoric non era l’unico colpevole. Dov’era Loki, mentre Sigyn con il cuore spezzato si lasciava confondere la testa da un sorso di troppo di idromele?

A letto con un’altra e lei li aveva visti andare via. Se fosse rimasto nella sala, l’avrebbe osservata senz’altro bere dal corno, vacillare incerta. Si sarebbe accertato che quel fottuto idiota non le torcesse un capello. Ma così non era andata, e il giorno dopo lei era rimasta in silenzio, vergognandosi per quello che era successo quando avrebbe dovuto vendicarsi, gridare, dirlo a lui. Indossò i pantaloni di lino leggero che utilizzava per dormire e incontrò lo sguardo assonnato, ma tenace, di Sonje che cercava con il suo acume infantile di mettere le cose a posto.

Sigyn, invece, fuggiva i suoi occhi, e gli concesse le labbra solo per calmare la figlia. Si addormentarono abbracciate, loro, mentre l’Ase rimase sveglio a lungo e, quando riuscì a prendere sonno, venne quasi soffocato dall’insopportabile e necessario animale di pezza della figlia. Non chiarì con Sigyn, al mattino. Partì per Asgard, invece, sollevato dalla possibilità di allontanarsi da Vanheim, almeno per qualche giorno. Thor gli aveva scritto, un paio di giorni prima, chiedendogli aiuto per una questione di confini, attribuzioni, diritti arcaici. Il dio dell’inganno, inizialmente, gli aveva risposto con un laconico “arrangiati, idiota”, ma poi la situazione era peggiorata. Chiamò Heimdall prima che sorgesse l’alba: stava fuggendo, e questa era una cosa indegna di lui e del suo rango, ma aveva bisogno di trovare le parole giuste da dire e venire a patti con se stesso e gli errori commessi.
 

Non poteva immaginare che non ci sarebbe stato alcun confronto, né si aspettava che sua moglie fosse così disperata da tentare una mossa tanto pericolosa per minare dalle fondamenta l’istituzione del Tempio. Eppure, attraversando il colonnato antico e imponente che collegava tra loro gli antichi edifici della tetra congrega, rifletté come, al suo posto, non si sarebbe comportato diversamente. Sigyn aveva colto l’occasione di portare Vanheim tutta dalla sua parte. Si era fidata di lui, che certo non sarebbe rimasto a braccia conserte sapendola dentro l’inviolabile cinta muraria, e della sua gente. Incauta ragazzina. Aveva avuto ragione, per ora, ma a che prezzo?
 

C’era qualcosa di maligno, sotto il pavimento lastricato del portico che Loki stava attraversando a passo deciso. Lo avvertiva, lo sentiva, ne poteva percepire l’odore nauseabondo, persino. Fu introdotto in una costruzione antica, scura, buia. Contò i passi e prese nota di corridoi, stanze, guardie armate. Non si stupì nel non vedere né le donne né i bambini che lì erano rinchiusi. Dovevano trovarsi certamente in qualche corte interna, come Sigyn. Deglutì al pensiero che lei fosse dentro quello schifo di posto da un giorno intero.

Fu introdotto in una sala spoglia, sobria, tutto sommato elegante. La Sacerdotessa Sublime gli sorrise. Aveva i capelli coperti e un abito scurissimo, su cui spiccava il viso bianco ed etereo, ma non così bello, decise l’Ase.

“Loki Laufeyson, dio dell’inganno, principe di Asgard, erede di Jotunheim. Che onore,” sospirò la donna.
Lingua d’Argento le rispose con un cenno breve del capo. “Mia signora, vi ringrazio per l’onore che mi avete concesso,” replicò. “Non speravo in così tanta benevolenza.”

La donna rise. “La vostra fama vi precede. Il mio compito è garantire la sicurezza di questo luogo. Se non vi avessi fatto entrare, ditemi: cosa avreste fatto?”

Gli fece cenno di accomodarsi su una poltrona e Loki acconsentì e si sedette, sfiorando con le dita la stoffa pregiata della tappezzeria. Era a suo agio persino lì. “Credo che sarei entrato dal passaggio segreto che si trova sul lato est della cinta muraria,” ammise con un ghigno. “E poi avremmo parlato come adesso, ma voi avreste avuto uno dei miei pugnali all’altezza della pancia.”
“Non credevo foste così schietto.”

L’Ase appoggiò la testa sulla spalliera della sedia. “Io direi divertente.”
La Sacerdotessa, con un cenno, fece avvicinare un’ancella dal viso triste che reggeva una brocca e dei bicchieri.
“Bevete,” lo invitò. “Siete mio ospite. Credo di indovinare perché siete qui. Una delle mie figlie si chiamava Sigyn.”
Loki afferrò il bicchiere, ne osservò il contenuto. “Adesso come la chiamate?” domandò distante.
“Non ha nome,” fu la gelida replica.
“Scomodo.”
La Sacerdotessa Sublime inclinò il capo di lato, come per osservarlo meglio. “Fate dell’ironia. È curioso.”
“Sigyn…” Loki ne pronunciò il nome gustandone la musicalità cristallina. “Mia moglie è un problema e mi ha profondamente scontentato,” confessò. “Mi ha disobbedito di fronte ai Nove Regni tutti.”
“Imperdonabile. Cos’ha fatto?” La Sublime si sporse verso di lui, come se dovesse raccogliere un qualche segreto.
“Tanto per cominciare, è venuta qui. Un atto sconsiderato, non trovate?”
La donna s’irrigidì. “No. Vengono qui le donne che vogliono pentirsi.”

“Di cosa dovrebbe pentirsi, mia moglie?” Ora era Loki, a protendersi sulla sedia, verso di lei. La Sacerdotessa strinse le palpebre come se dovesse metterlo a fuoco.

“Siete il dio dell’inganno, ma c’è qualcosa che lei ha fatto, che vi ha ferito. Vedo dentro di voi, Loki: nel profondo del vostro cuore, voi siete… felice che lei sia qui. Non è più degna. Qualcosa si è spezzato e non si ricostruirà più.”

Loki si mosse sulla sedia, innervosito dall’affermazione della donna. “Non sai quello che dici.” La sua voce era stata fredda, severa.
“È per l’uomo che…”

“Basta. Il mio scopo non è portarla via da qui,” ammise Loki fissando senza bere il bicchiere che gli era stato porto. “Ma riprendermi qualcosa che le ho lasciato.”

La Sublime parve sorpresa. “Ah sì?” sorrise. “E le Armate dietro le mie mura, cosa sono?”

Il dio dell’inganno bevve il contenuto del bicchiere fino all’orlo e si alzò in piedi. “Un trucco. Un diversivo. L’illusione che ho creato. Sono Loki di Asgard. Non posso avere punti deboli. Lei lo è. Mi ha dato un’erede, ora non mi serve più.” Un sorriso feroce gli attraversò le labbra. “Devo solo sapere dove ha nascosto ciò che cerco.”

La donna rise sommessamente. “Oh. L’hai usata. Parli davvero bene e non una delle parole che ti sono uscite dalla bocca mi ha offeso. Sembra quasi che tu nutra davvero del rispetto per questo luogo.”

Loki rise gettando il capo all’indietro come se davvero trovasse l’arguzia della sacerdotessa sommamente divertente.
 

Continua…




Angolo dell’Autrice - leggimi, è DAVVERO importante!
Caro Lettore,
Certi avvertimenti e rating non sono casuali, e nemmeno talune scelte. In questo capitolo, è presente una scena scomoda e fastidiosa, sebbene NON gratuita. Non ho avuto dubbi, mentre la scrivevo: è funzionale al contesto e adesso ti spiegherò il perché. Quando si affrontano certe tematiche delicate, è importante farlo con consapevolezza. E realismo.

Se ciò che succede a Sigyn fosse stato meno invasivo e disgustoso, la vergogna della ragazza, ma soprattutto l’ira che dilania Loki anche a quattro anni di distanza, sarebbero state assolutamente fuori contesto ed eccessive: in Tutte le tue bugie, la nostra pianta un casino incredibile pur di non fidanzarsi con Theoric e cerca aiuto in Loki. Il dio dell’inganno non è un idiota né uno sprovveduto: sa benissimo che Theoric è un uomo esattamente come lui, con pulsioni e desideri. Se si fidanzerà con Sigyn, giocoforza farà qualcosa con lei, prima o poi. Nonostante questa considerazione, non la salva. Lei è solo una che gli piace, o almeno questo è quello che si racconta. Con che faccia, a quattro anni di distanza, si infuria con Theoric, unico colpevole, come ci tiene a sottolineare? Come potrebbe esplodere in quella maniera per un bacio rubato o un palpeggiamento, per quanto fastidioso? Sarebbe da ipocriti. Poteva pensarci prima. E Sigyn, che dopo quattro anni ha difficoltà a parlarne con suo marito e si sente addirittura colpevole? La scena è funzionale anche perché Loki esprime un punto di vista decisamente moderno e importante, che in questo caso ho attribuito alla fiera cultura Asi: l’importanza del consenso in qualsiasi situazione. Perché quel gran verme di Theoric se ne stava approfittando.

Poiché si tratta di un cenno molto lieve e non descrittivo, e non c'è alcuna "consumazione" effettiva, il rating è stato mantenuto arancione. Grazie per essere arrivati fin qui!
  1. Nobiltà di toga e nobiltà di spada sono due concetti piuttosto complessi. In questo universo, ho mutuato e semplificato mortalmente alcuni elementi propri del feudalesimo e dell’età moderna piegandoli alle mie necessità di trama. Loki (oltre ad essere un principe), appartiene alla nobiltà di spada, perché gli Asi ottengono privilegi e terre dal re (Odino, poi Thor) che concede feudi a fronte di un impegno sul campo di battaglia e nella difesa di un territorio. Theoric acquista con moneta sonante il titolo nobiliare e le cariche.
  2. Rinnovare l’accordo per ottenere l’acciaio dei Nani è ciò che fa Sigyn in “Giochi Pericolosi.”
  3. Come con Valchiria in Thor: Ragnarok.
  4. Theoric (il nome, perlomeno) è l’unico elemento Marvel che ho ripreso nella storia tra Loki e Sigyn. Per i dettagli, leggiti “Tutte le tue bugie”!
  5. Questa frase è una citazione di me medesima: non la trovi qui su Efp, però…
  6. Ho deciso che un corno di idromele fa ubriacare un Vanir medio. Gli Asi come Loki, svezzati con questa simpatica bevanda, ne reggono di più. Sigyn, che è una ragazza esile, non regge la quantità, ovviamente.
  7. Tra Loki e Sigyn, in “Tutte le Tue Bugie”, la relazione era già a un determinato punto. Quale? Mica posso spoilerare.
 
La Fatina dell’Ispirazione ha bisogno di te! Lasciale un messaggio! La tua opinione conta e le sue alucce luccicanti faranno nascere nuove storie nella testa dell’Autrice! E non odiarmi per questa fine. Non troppo. Sento già gli accidenti che mi stai mandando.


S.

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Capitolo 5
*** Sotto la superficie ***


Sotto la superficie

 

 

Le ossa di vecchio di Njord tremavano per il freddo e la paura. Un vento impietoso e gelido aveva trasportato fin lì nuvole scure cariche di pioggia e si insinuava sotto gli abiti graffiando la pelle. Era passata almeno un’ora da quando il dio degli inganni aveva oltrepassato svelto e sicuro la pesante porta del Tempio; più i minuti passavano, più le speranza che uscisse con Sigyn si assottigliavano fino a diventare un filo sottile e impalpabile. Gli tornarono alla mente le immagini della nipote quand’era una bambina silenziosa e assorta, ripensò alla ragazzina serena che era stata quando lui credeva di essere quasi il padrone del mondo e persino il figlio reietto di Odino aveva scelto di inchinarsi suo cospetto. Desiderò con disperazione andare indietro nel tempo, a quei giorni lontani in cui non c’erano ombre sulla sua Casa e, per settimane, non succedevano che piccole cose di nessun conto – Loki che metteva sottosopra il palazzo per cercare una penna, ad esempio, ma questa è un’altra storia (1).

Un tuono squarciò il cielo riscuotendo il sovrano dai suoi rimpianti e, subito dopo, una pioggia di lampi illuminò l’aria grigia e fredda, la terra si coprì di strani simboli e il Bifrost si aprì in tutta la sua magnificenza. I nobili e i soldati riuniti tirarono un sospiro di sollievo e gridarono estasiati battendo le armi contro gli scudi, perché Thor figlio di Odino in persona era venuto a salvare il fratello insolente.

Che i piani del tonante in realtà fossero leggermente diversi da quanto presupposto, lo dovette suggerire la presenza della piccola e compita ospite che aveva accompagnato il prodigo eroe. Sonje reggeva con un braccio il fedele gatto di pezza e si guardava attorno curiosa, osservando ogni cosa con la stessa acutezza del padre. Quando vide Njord, sorrise sventolando la mano felice.

Il vecchio re boccheggiò sgomento e fissò il tonante disperato. “Perché l’hai portata qui? Non è un luogo adatto a una bambina, questo!”

“Scherzi? Non c’è posto più adatto,” sorrise Thor. Si chinò verso la nipote e le indicò le torri austere del Tempio. “La tua mamma e il tuo papà sono lì e presto usciranno,” spiegò sicuro. “E sarà uno spettacolo divertentissimo.”

Sonje saltellò dalla gioia. “Ci saranno i fuochi?”

“Grandissimi.”

“E poi si baceranno?”

Sonje lo chiese con l’infantile cupidigia con cui attendeva il finale di una fiaba, quando l’eroe sconfigge il drago e libera la principessa: dall’alto dei suoi quattro anni, si era convinta che i suoi genitori fossero i protagonisti dei racconti fantastici che le leggevano per farla addormentare e voleva che si comportassero come tali. L’idea le era venuta sentendo una domestica distratta che non si era accorta della sua presenza e aveva paragonato Loki non all’eroe, ma al drago. A detta della donna, Sigyn era e sarebbe rimasta per sempre prigioniera del dio degli inganni.

 “Certo che si baceranno,” promise il Re degli Asi accarezzandole con dolcezza i ricci neri. Njord non attese oltre per pararglisi davanti.

“Che ti è saltato in testa?”

“Voglio che veda suo padre uscire trionfante da quel portone, mi pare ovvio. Tutti i bimbi Asi vengono portati ad assistere alle parate vittoriose e al rientro dei genitori dalle battaglie.”

“Questo è il Tempio! Non ne avverti il potere nero, pesante, insondabile? Non usciranno mai da quelle mura, forse saranno già morti. Dovevi arrivare prima, li avresti salvati.” (2)

Thor prese in braccio la nipote, se la mise sulle spalle e scrutò con attenzione il vecchio sovrano preoccupato. “Per le Norne, tu sei serio,” si rese conto mentre la coda del gatto di pezza gli offuscava parzialmente la vista. “Pensi davvero che Loki non sappia uscire da un castello abitato da vecchie megere? Lascia che ti dica una cosa: se non ci riuscisse da solo, non berrei più con lui.” (3)

“Tu non hai idea di cosa sia il Tempio e quali insidie nasconda: non esiste nemmeno una mappa precisa delle sue stanze. Dicono che sia un labirinto capace di mutare aspetto e orientamento per far impazzire chi lo attraversi e nessuno è mai riuscito a uscirne vivo.” Njord era pallido in volto e si pentì della frase appena pronunciata non appena capì che Sonje aveva ascoltato ogni parola. Quanto poteva aver compreso del lugubre discorso? Dagli Asi, Sonje aveva senz’altro ereditato la testardaggine e l’insolenza, ma anche l’intelligenza viva e acuta e l’indomita fierezza. Lo guardò con attenzione, strinse con maggior forza i capelli biondi dello zio ma rimase muta.

“Mio fratello è diventato un maestro di magia quando nemmeno si faceva la barba. Ha più vite di un gatto e una fibra fottutamente robusta; se pensi che non sappia uscire, beh, mi deludi Njord. Nessun Vanir è mai uscito, ma certamente nessun Asi è entrato,” ribatté con una nota di risentito orgoglio.

“Vai a salvarli,” supplicò nonostante tutto il re. “Sonje è così piccola.”

“Scordatelo,” fu la convinta risposta. “Non rovinerò la festa a mio fratello.”

 

 

 

Due guardie davanti e due dietro più una per ogni lato. Loki valutò con attenzione la corporatura robusta degli uomini e le armature spesse che li coprivano da capo a piedi. La Sublime avanzava come un’ombra nera davanti al piccolo drappello in un frusciare di seta nera. Il dio degli inganni accarezzò per l’ennesima volta l’idea di fermarsi in mezzo al corridoio, liberarsi una volta per tutte delle guardie e tagliare la gola a quella puttana, ma dovette frenare il desiderio. Prima era necessario trovare lei.

 

Giunsero davanti a una porta blindata. La Sacerdotessa sfilò dalla cintura un mazzo di pesanti chiavi e aprì la serratura sotto lo sguardo vigile dell’Ase. Nella stanza c’erano un numero incredibile di telai e donne smunte e dall’aria infelice che tessevano, controllate a vista dalle adepte del Tempio. Il dio degli inganni cercò Sigyn tra la folla di disgraziate, ma non la vide. Notò con orrore che alle donne erano stati tagliati i capelli e pensò alla magnifica chioma di sua moglie e a un torto antico che lui stesso aveva compiuto nei confronti di Sif, ma di cui non si era mai pentito. (4) La Sublime riconobbe immediatamente il suo ultimo acquisto e si diresse a passo sicuro verso un angolo dell’enorme sala. Uno dei telai si fermò e, dal mare grigio di donne chine, spuntò un’irriconoscibile Sigyn. Loki avrebbe voluto stupirsi per l’immagine della moglie, ma non ci riuscì; nella sua vita aveva subito la tortura e la prigionia e aveva perso il conto della battaglie che aveva combattuto. Decine di volte i suoi stivali erano affondati nel fango e nel sangue, centinaia era sceso nei sotterranei di Asgard da trionfante vincitore per osservare i nemici sconfitti. Per questo non gli riuscì di sorprendersi, vedendo gli occhi spaventati di Sigyn, osservando l’aria spaurita di bambina che il taglio corto che le aveva regalato (5). Non la vedeva che da pochi giorni, eppure in quel lasso brevissimo di tempo il suo viso si era trasfigurato. Riconoscendolo, lei si morse le labbra e non riuscì a trattenere un singhiozzo. Provò a corrergli incontro, ma fu bloccata dalle guardie e Loki non mosse un muscolo. Anche questo aveva imparato comandando per secoli le armate di Odino.

 “Ora supplichi il mio aiuto? Potevi pensarci quando ti sei opposta ai miei avvertimenti,” le disse invece con sprezzo evidente. Sigyn sgranò gli occhi, colpita da quella frase e dalla rigidità dell’Ase. Era una messinscena, ovviamente. La mascella contratta, la smorfia sulle sue labbra, la compostezza della sua postura non erano che una maschera, una recita cui aveva assistito infinite volte. Solo che.

La Sacerdotessa la sorpassò soddisfatta e lei fu presa per le braccia e condotta in una lugubre stanza priva di finestre. Alle pareti erano appese fruste e catene.

“Puoi interrogarla qui,” soffiò la Sublime congiungendo le mani serafica.

“Dove cazzo è l’anello?” La porta non si era nemmeno chiusa che il dio dell’inganno aveva afferrato Sigyn per le spalle, scuotendola con forza. Di fronte al suo sbigottito silenzio, insistette. “L’anello, la fede. Non era un regalino d’amore per te, ma una nascondiglio per qualcosa che ho rubato,” disse tra i denti.

“Non sei qui per salvarmi?” La sua voce era insolitamente calma, piatta. Le tornò alla mente l’immagine che le si era presentata davanti solo poche settimane prima – Loki addormentato in camera di Sonje, le lunghe gambe stese sul tavolinetto basso dove la piccola organizzava i suoi tè con le bambole, un libro di fiabe tra le mani e l’indice a tenere il segno delle pagine. Lo aveva svegliato scuotendolo per una spalla e lui, incredibilmente, non era saltato in piedi come suo solito grazie ai sensi sempre all’erta, ma aveva bofonchiato un lamento leggero continuando a dormire.

La porta dietro di loro venne chiusa a chiave e si accorse che, in una mano, l’Ase stringeva qualcosa di cuoio: una frusta. “Ti ci sei ficcata tu in questa situazione, piccola stupida. Io te l’avevo detto. Ho sopportato abbastanza la presenza tua e di quel vecchio idiota di tuo nonno. Adesso che ho il campo libero, non mi servite più.”

Aveva usato un tono compiaciuto, cattivo come il sorriso che gli tagliava le labbra, abbastanza alto perché fosse udito al di là del muro. La frusta schioccò con un colpo secco facendola gridare, ma non si abbatté su di lei. Fendette l’aria che si trovava nella direzione opposta e la giovane donna si ritrovò a fissare il marito appiattita contro la parete umida. “Che farsa è questa? Fammi uscire!”

 

 

“Nessuna farsa, ti sbagli.” Le si avvicinò e Sigyn poté riconoscere l’odore di pelle e cuoio che le era così familiare, in cui si rifugiava quando lui era via e lei affondava il naso negli abiti riposti nell’armadio. Esplose in un pianto nervoso, disperato, convulso. Loki la afferrò per la vita e la strinse a sé.

“Ti detesto davvero, profondamente. Mi hai ingannato costringendomi a venire qui, hai ignorato i nostri accordi e non indossi l’anello. Contiene davvero incantesimi e rune,” sibilò caustico. “E ora, fammi il piacere: urla come se ti stessi colpendo davvero, avanti.”

“Portami via, portami da Sonje.” Sigyn scosse la testa che aveva adagiato sul suo petto, cercando le parole giuste per spiegare il suo folle gesto. Non fu certa di averle trovate, ma iniziò lo stesso il discorso. “Nessun’altra deve entrare qui dentro. Questo posto è un abominio. Io dovevo sapere e vedere per raccontare al mondo di fuori cosa succede qui. La famiglia di Theoric prima o poi dovrà adeguarsi alle decisioni degli altri nobili o verrà isolata, tagliata fuori.”

Il nome dell’uomo fece irrigidire l’Ase. “Questo è il discorsetto che ti sei preparata per tuo nonno. Schioccò la frusta e quella si infranse contro la porta con un sibilo violento. Sigyn cacciò un urlo sincero, come le indicò il sopracciglio alzato del marito. “La ragione vera è che ti sei sostituita all’ultima derelitta che doveva finire qui dentro perché ti ha fatto pena e per espiare tu stessa.” Il potere delle parole di Loki stava nel dolore lancinante che sapevano instillare.

Sigyn guardò a terra. “Non perdere tempo con questa recita, fammi uscire.”

“Ti sei sentita una piccola privilegiata e ti è dispiaciuto.” Le diede un bacio rancoroso, disperato, che le ricordò con vivida precisione quelli che si scambiavano negli angoli nascosti del palazzo di Vanheim, quando giocavano a detestarsi; solo che non finì lì. Sigyn soffocò un grido artigliandogli i capelli. Loki delimitava il territorio usurpato. Che altro aspettarsi, dal figlio di pirati e guerrieri, dal gigante di ghiaccio cresciuto dai feroci Asi? Le stava chiedendo perdono in maniera barbara e arrogante, dimostrandole inequivocabilmente, con le sue labbra beffarde, quanto Theoric non significasse niente e non esistesse alcuna macchia, su di lei.

Poggiò la nuca contro la parete. “La porta potrebbe aprirsi,” supplicò.

Nemmeno i baci del dio degli inganni potevano cancellare del tutto ciò che aveva visto in due giorni di permanenza in quel luogo, specie se erano conditi di astio come quelli che le aveva appena scoccato. Era stata picchiata, spogliata dei suoi abiti, offesa. Aveva visto le sue lunghe ciocche bionde di cui era orgogliosa cadere sul pavimento, si era addormentata su un giaciglio di paglia stretta in una tunica ruvida. Tutte cose che non le erano capitate per caso, ma perché, di sua spontanea volontà, aveva deciso di prendere il posto di un’altra ragazza nel folle tentativo di attirare lì Loki. E poi?

“Che succeda. Sono qui per radere al suolo questa cloaca.”

Sigyn aveva chiuso gli occhi, ma poté intuire che l’ingannatore sorrideva feroce, mentre lo diceva, ed ebbe paura. Lo aveva costretto a intervenire; qualsiasi cosa gli fosse capitata, sarebbe stata colpa sua.

“Prima però, tu andrai via da qui. Prenderai il mio aspetto e io il tuo e uscirai dalla porta principale,” spiegò l’Ase spiccio.

“Con la magia? Non posso!”

“Non sei una guerriera, non posso combattere e pensare anche a te!”

 

“Mi hanno visitato! Sono incinta! Non puoi usare la magia!” Sigyn lo disse tutto d’un fiato, con il cuore che le galoppava nel petto. Una mano scese istintivamente a proteggere il ventre piatto. Gli occhi quasi trasparenti di Loki seguirono il gesto. C’era una punta di azzurro, nel suo sguardo. A volte, il verde lasciava spazio a quell’esigua traccia celeste che lasciava intravedere qualcosa della sua anima inquieta, nervosa.

“Tu hai un tempismo orrendo!” Era impallidito perché il dio del caos, per contrappasso, doveva avere ogni cosa sotto controllo, sempre. Di fronte al suo piano che si infrangeva, esplose. “Sarebbe andato tutto perfettamente! Perché lo devo sempre venire a sapere quando rischiamo il collo?” (6)

Lo vide deglutire, capì che stava ragionando sulla possibilità di un simile evento e su come avrebbe potuto gestire la notizia. Strana cosa che era, il seiðr. Una forza letale e perfetta che traeva la sua forza dalle rune e che, alle volte, si ingarbugliava o falliva. Una donna incinta, nelle prime settimane, non avrebbe dovuto subire incantesimi; il feto avrebbe potuto soffrirne, ma Sigyn non avrebbe dovuto essere in quello stato perché i loro incontri erano protetti. Loki si passò una mano tra i capelli per scacciare la tensione. Incontri. Che brutta parola aveva usato. Così avrebbe dovuto chiamarci il sesso consumato in fretta e di nascosto con Sif quand’era ragazzo o la breve relazione intessuta per noia qualche ancella di Frigga. (7)

“E adesso, che facciamo?” domandò Sigyn aggrappandosi al suo braccio.

Loki Laufeyson emise un profondo sospiro. “I miei piani variano di momento in momento. Purtroppo.” Lentamente la porta della stanza iniziò ad aprirsi.

 

 

“Zio Thor, io mi annoio. Facciamo un gioco? Giochiamo al tè delle signore? Io preparo il tè per te e Gatto Thoor e poi chiacchieriamo.” Sonje lo disse tirando il mantello del prode dio del tuono e fissandolo con quei suoi occhioni grigi. Il suo broncio afflitto era la copia identica e sputata di quello che suo fratello, da bambino, sfoggiava di fronte a Odino e a Frigga subito dopo aver compiuto qualche tremenda malefatta. Prima di prendere dimestichezza con bugie e fottuti giochetti retorici, l’arma di Loki era rappresentata proprio dalla sua aria fintamente innocente e dalle guance paffute.

“Sonje, non preferiresti qualcosa di più divertente? Che ne so, potremmo giocare al tiro con l’arco o dei coltelli. Il tuo papà mi ha detto che sei molto brava.” L’attenzione della piccola era stata catturata dalla proposta bellica, ma il riferimento al genitore le provocò un pianto improvviso e straziante. La bambina iniziò a singhiozzare disperata di punto in bianco, perché non vedeva Loki da quattro giorni e si sentiva abbandonata; come se non bastasse, anche la sua mamma era sparita e questa consapevolezza la dilaniava. Il re degli Asi, che si guardava bene dall’accasarsi e dall’avere figli propri, non era abituato alle improvvise tempeste emotive dei bambini: si chinò cercando di calmarla e promettendole le cose più fantasiose finché Freya non si avvicinò scoccandogli uno sguardo infuocato.

“Vieni qui pulcino, adesso zia ti dà un biscotto e gioca con te al tè delle signore,” disse prendendo Sonje dolcemente per mano. La bimba annuì, ancora sconvolta dalle lacrime. La donna si rivolse a Thor. “Non credi che tuo fratello ci stia mettendo decisamente troppo tempo?”

Il dio del tuono lanciò un’occhiata critica agli imponenti torrioni del Tempio. “Se la caverà. Se la cava sempre,” mormorò, ma dentro di sé si diede una scadenza: se entro il tramonto quello stupido idiota non fosse uscito dal portone principale di quel fottuto Tempio, decise, avrebbe spaccato con Mjollnir ogni singolo muro della lugubre costruzione.

 

 

Sigyn incinta. Loki non riusciva a capacitarsene. Quando era successo, come? Una guardia armata gli si lanciò contro, ma l’Ase scartò di lato, riuscì a immobilizzarla e la tramortì con l’elsa del pugnale che aveva dimenticato di consegnare alla Sacerdotessa. Erano riusciti a uscire dalla stanza in cui erano rinchiusi grazie a uno stratagemma semplice, ma d’effetto. Il vecchio Odino soleva dire che i piani lineari erano in assoluto quelli più efficaci: pochi, rapidi passaggi avevano molte maggiori possibilità di riuscita rispetto ad arzigogolate quanto inutili trappole. Loki, che pure del doppiogioco e dell’inganno era il signore, si era sempre trovato d’accordo con questo principio. Nessuna illusione, dunque, sarebbe stato troppo banale. La porta della stanza dove erano rinchiusi si era aperta, e la Sacerdotessa sospettosa si era trovata di fronte la scena di Loki che strattonava Sigyn e le chiedeva il punto preciso dove aveva nascosto l’anello. La scena doveva esserle parsa davvero realistica: la principessa era pallida, spaventata e con gli occhi rossi di pianto, il viso dell’Ase era trasfigurato da un’ira incontenibile che alterava i suoi lineamenti affilati.

“Non hai qualche strumento più sofisticato per farle sputare la verità?”

La Sublime piegò il capo da un lato. “Che intendi?”

Non si fidava del dio dell’inganno, era evidente, ma l’urgenza con cui chiedeva del gioiello, unitamente al fatto che non le avesse tirato alcuno scherzo, le aveva fatto supporre che davvero le sue intenzioni fossero quelle confessate. Leggermente titubante aveva voltato le spalle alla coppia, certa comunque che le guardie che li accompagnavano l’avrebbero protetta. Loki aveva scelto di attaccare alla fine del corridoio.

Aveva sorpreso gli uomini armati in un momento in cui quelli credevano che non avrebbe fatto più nulla. Sigyn si era appiattita lesta contro la parete, mentre Loki sfoderava da uno stivale il pugnale che aveva tenuto con sé. Sei a uno non è buon rapporto, nemmeno se si è un Ase, soprattutto se si deve proteggere anche la propria donna. Far fuori il primo fu un gioco da ragazzi, l’uomo nemmeno se ne accorse, ma con gli altri l’ingannatore mise in atto una vera e propria danza mortale. Era rapido, sfuggente, letale e per nulla intimorito dal fatto che le guardie che difendevano la Sublime fossero armate con lance, spade e asce.

Vedere Loki combattere era uno spettacolo magnifico, terribile, spaventoso. Il corpo di uno degli avversari del marito cadde vicino ai piedi di Sigyn e la donna, rapida, gli tolse dalle mani la spada che stringeva ancora tra le dita, ma nel farlo sentì qualcuno che la afferrava per i capelli biondi ormai corti e le puntava contro la schiena una lama: era la Sublime. La principessa dei Vanir avrebbe voluto graffiarla, colpirla con la spada o fuggire, ma se si fosse mossa la sacerdotessa l’avrebbe trafitta senz’altro.

Sentì la bocca della donna che si avvicinava al suo orecchio. “Userò uno dei pugnali di tuo marito, per uccidervi. Getta la spada.”

Sigyn deglutendo obbedì e il rumore dell’arma che cadeva sul pavimento catturò l’attenzione del dio degli inganni, ma la brevissima distrazione gli fu fatale. I due uomini superstiti gli si gettarono contro, uno lo colpì al fianco, l’altro riuscì a disarmarlo. Loki indietreggiò barcollando, cadde a terra mentre Sigyn gridava. Un calcio sferrato con violenza sulla schiena gli strappò un grido, ma ebbe anche l’effetto di far sì che le sue dita arrivassero a sfiorare l’impugnatura della spada che sua moglie aveva buttato a terra. Sorrise inghiottendo il dolore e, con un gesto repentino, afferrò la lama e la infilò nel corpo di uno dei suoi avversari, tra le giunture dell’armatura.

“Fermo!” La Sacerdotessa Sublime gridò con tutto il fiato che aveva in gola. Ora che i suoi piani sembravano, se non andati letteralmente in fumo, almeno deviati, il suo viso all’apparenza senza età e contratto dall’ira iniziava a mostrare rughe evidenti. “È incinta di tuo figlio. Sarà un maschio,” predisse leccandosi le labbra.

Loki rimase in silenzio. Era ancora a terra e la guardia superstite gli puntava alla gola una lancia.

“Li ucciderò se muoverai anche solo un muscolo. Con uno dei pugnali che tu mi hai consegnato,” minacciò.

 

 

Il dio degli inganni piegò le labbra in una smorfia beffarda, alzò le mani in segno di resa. “Se tu li avessi voluti uccidere, lo avresti già fatto,” osservò. “Invece ti servono vivi, entrambi. Come è evidente hai bisogno della mia presenza. Cos’è, ti servono per ricattare Njord? Oppure c’è qualcosa, qui sotto, nelle fondamenta di questo posto osceno, che tiene prigioniera anche te?”

La Sacerdotessa strinse le labbra come se le parole di Loki avessero davvero colpito nel segno svelando le sue intenzioni.

“Fai attenzione, Sublime Stronza,” proseguì l’Ase. “Non credere di avermi messo con le spalle al muro.”

“Se muoverai un solo un muscolo, se pronuncerai un solo incantesimo,” lo minacciò la donna stringendo i capelli di Sigyn e strappandole un lamento soffocato, “sfregerò per sempre il viso della tua bella sposa.”

 

 

Si raccontavano molte cose, del dio dell’inganno. Strane voci si rincorrevano, da sempre, sulle sue abilità e sulle molte astuzie che aveva architettato per rovesciare imperi, sottomettere popoli, recuperare reliquie che si credevano perdute. Le sue gesta venivano cantate ai banchetti da anni; alcune storie erano divertenti e scanzonate e parlavano delle avventure che aveva vissuto con Thor, l’alleato di una vita, il nemico più amato, l’avversario più temuto. Altre, più oscure, venivano sussurrate di notte, davanti ai falò, quando i bambini già dormivano. Parlavano del seiðr e di certe imprese che non venivano messe in versi dai poeti e su cui nessuno osava ridere. Alcune di quelle storie stavano scivolando nell’oblio perché i Nove Regni, da tempo, erano in pace e il crudele ingannatore sembrava avesse voltato pagina; non si dedicava più a missioni tetre e spaventose, ma aveva sposato una principessa, governava alla luce del sole e aveva messo al mondo una bambina. Solo che il presente non cancella il passato, mai. Lo nasconde, lo occulta, lo dimentica, non di più.

Un risata crudele riempì il corridoio. “Li ho già recitati. Ho evocato rune da quando ci siamo visti,” spiegò Loki Laufeyson.

 

 

Continua…



L’angolo di Shilyss

Ebbene sì, è domenica e ho aggiornato il Ponicorno: suonate, campane! Questa storia doveva essere una raccolta di shot: sta diventando qualcos’altro e, non appena avrò capito cosa, provvederò ad aggiornare gli avvertimenti. Grazie per essere arrivate/i fino a questo punto e avermi dedicato il vostro tempo. Prometto che non farò passare ere bibliche per il prossimo capitolo! Come sempre voglio ringraziare coloro che nello scorso capitolo hanno voluto recensire e tutti i silenti che seguendo, ricordando e preferendo mi hanno testimoniato la loro presenza. Grazie di cuore, davvero. Scrivo per voi.

La Fatina dell’Ispirazione attende fiduciosa di conoscere la vostra opinione e svolazza spargendo glitter sulla mia tastiera già provata dal continuo digitare. Non deludetela o mi toccherà tossire pagliuzze colorate per settimane!

Buona domenica e a martedì/domenica prossima per le nostre prossime, mirabolanti, storie!

Shilyss

La Sublime Str… Sacerdotessa è chiaramente ispirata alla Septa Unella di Games of Thrones. Il “Solo che” a fine frase è una citazione a me stessa in Sposami, Sigyn, mia fic. A proposito di altre mie fic, ho postato recentemente un paio di shot. Le avete già lette?! I miei piani variano di momento in momento è una battuta presa da Thor: Ragnarok.

1 Trattasi di un’anticipazione dei prossimi capitoli.

2 “Kronk, non ne avverti il nero potere?” Ovviamente è una citazione da “Le follie dell’imperatore.”

3 Bere insieme, anche nella Lokasenna (dall’Edda Poetica il testo fondante della mitologia norrena), è indice di comunione per gli Asi.

4 Nel mito, Loki taglia a Sif i capelli dopo essere stato a letto con lei. Successivamente, sarà obbligato a recarsi nella terra dei Nani e degli Elfi per farsi fare una parrucca d’oro.

5 Come quelli di Isabeau in LadyHawke.

6 Come nella mia fic Tutte le tue bugie, che anticipa questa. Ma come, non l’hai ancora letta e/o non mi hai fatto sapere che ne pensi?

7 Le interazioni seiðr/gravidanza sono un’idea mia che non ha alcun appiglio altrove se non in Tutte le tue bugie.


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Capitolo 6
*** Castelli di carta ***


 

 

Castelli di carta

 

 

La Sublime impallidì. Sentì uno strano formicolio al braccio e, quando si risolse ad abbassare lo sguardo, le mancò la voce per gridare. La sua mano si era fusa con il pugnale che, a sua volta, aveva cambiato forma, tramutandosi in altro – un insieme di carne e ossa informe e molle. Osservò con orrore il moncherino che sembrava un fiore marcito, accompagnata dalle grida inarticolate della guardia superstite; anche l’uomo stava subendo la stessa, tremenda sorte.

Loki, invece, ammirava soddisfatto il risultato della sua stregoneria. “Trucchi, inganni, illusioni? Credevi davvero che il mio seiðr si limitasse a questo?”

Mentre la Sublime boccheggiava fissando l’arto scempiato, Sigyn ne approfittò per fuggire al sicuro, tra le braccia dell’Ase. Gli si strinse contro nascondendo il viso nella corazza intrecciata: la commozione stava vincendola. Aveva avuto paura di perdere la vita o che potesse capitare qualcosa al bambino, al maschio che avrebbe dato a Loki, al fratellino che presto avrebbe mostrato a Sonje, la sua bellissima bambina dai boccoli neri. L’ingannatore le sfiorò la nuca esposta in un gesto consolatorio rapido e troppo breve, e Sigyn non poté fare a meno di pensare che lo aveva appena visto evocare un incantesimo orrendo e sembrava crogiolarsi nel dolore inflitto. Si aggrappò con le unghie alla pelle della corazza, respirò il suo odore intenso e virile, di guerriero. Quanti racconti che per protagonista avevano suo marito si era ritrovata ad ascoltare, negli anni? Aveva forse dimenticato il ghigno ammiccante che il narratore di turno sfoggiava quando parlava di Loki e delle sue magie? Alcune erano illusioni più o meno divertenti, trasformazioni sceniche e stupefacenti, ma altre erano maledizioni orrende, oscure, letali. Torture, in taluni casi, e lei aveva appena assistito a una di queste. Fatta ai danni di una donna folle e crudele e di un esaltato che certo non si era fatto alcuno scrupolo, nello sfruttare le disgraziate lì rinchiuse tappando loro la bocca dopo essersi slacciato i pantaloni. Allora perché era turbata, da cosa?

 

“Non posso lasciarla andare via,” spiegò la sacerdotessa inghiottendo il dolore, “non posso, davvero. Attendevo da tempo che venisse qui la principessa incinta del figlio di un re straniero. Lo dice la profezia. Ti scatenerò contro ogni guardia, Loki Laufeyson.”

Il dio degli inganni non s’impressionò affatto, anzi. Roteò gli occhi al cielo perché detestava i vaticini, non li aveva mai tollerati. Era vissuto col peso della Voluspa addosso, accarezzando l’ombra di una distruzione che Frigga gli suggeriva essere un rinnovamento e proprio da lui si sarebbe generata, quindi non aveva alcuna voglia di stare a sentire le cazzate di quella donna. Era in questi particolari frangenti che la somiglianza con Thor si faceva più manifesta. Nel modo spiccio con cui certe questioni gravi venivano gestite con un’imprecazione e un’alzata di spalle. Spinse Sigyn verso l’uscita del corridoio, ignorando bellamente l’oscura allusione della Sublime, ma quella lo apostrofò inchiodandolo dov’era.

“C’è una creatura che dorme sotto le fondamenta del Tempio. Per cosa sei venuto fin qui, Loki di Asgard? Per il capriccio della tua mogliettina o per porre fine a un’aberrazione? Non vuoi liberare le altre recluse?”

Era livida in volto e si teneva con il braccio sano quello, ormai inutilizzabile, fuso con l’arma e marcito. L’Ase scoccò un’occhiata gelida a Sigyn e alla sacerdotessa. “Per il capriccio della mia mogliettina. Me ne frego di quello che ci sta nelle fogne di questo posto,” tagliò corto, e s’incamminò nuovamente verso l’uscita.

“Avevi detto che avresti raso al suolo questa cloaca!” Sigyn lo prese per il braccio, costringendolo a voltarsi. Doveva dare un senso all’orrore che aveva visto e subìto negli ultimi giorni, pulire la propria coscienza dal senso di colpa che da anni l’attanagliava per essere scampata dalla prigionia nel Tempio, salvare le donne dalle occhiaie profonde e lo sguardo vuoto che vagavano, come fossero già morte, dentro le mura livide di quella prigione, giustificare i modi da guerriero di Loki, persino. Che era venuto per salvare lei, non le altre. Il figlio di Laufey non era un eroe nel senso stretto del termine; non avrebbe sacrificato la propria vita per un ideale né per un’ipotetica massa senza volto con cui non aveva alcun legame e questo Sigyn lo sapeva bene, ma pure decise di impuntarsi perché Loki possedeva alcuni tratti dell’eroe. Era oscuro, tetro, capriccioso, ma anche fiero, audace, indomabile.

L’Ase sgranò gli occhi, colpito dalla totale mancanza di discernimento di sua moglie.

“Lo avevi promesso.”

 

Sigyn era giovane, troppo. Il taglio corto con cui era stata mortificata la sua bellezza (1) la faceva apparire ancora più simile alla ragazzina che ancora era, quella con le trecce che lo guardava di sottecchi mentre lui studiava in biblioteca. Alle volte, quando la vedeva giocare con Sonje, aveva l’impressione dolorosa di avere di fronte due sorelle, e non una madre con una figlia. L’insolenza del suo sguardo liquido e grigio lo colpì come spesso era accaduto ai banchetti di Njord, ma stavolta non gli strappò un ghigno divertito. La fissò con glaciale severità perché avevano una bambina e nel suo ventre cresceva un’altra vita e Loki non era generoso e altruista, non era Thor. Non gli interessavano le donne spaurite e indifese, ridotte in schiavitù, rinchiuse in quella fortezza spacciata per Tempio. Un leggero terremoto gli fece intuire che le parole della Sublime riguardo alle fondamenta dell’edificio erano vere, almeno in parte. Qualcosa di oscuro gli si agitò dentro, un piacere sottile gli fece tendere i muscoli, increspare le labbra in un ghigno. “E tu credi alle mie parole?”

Lei alzò il mento fiera. “Credo nel tuo valore, dio degli inganni.”

Che mossa sleale, scorretta. Degna della moglie del Fabbricante di Bugie in persona (2). Desiderò baciarla, ma non c’era tempo. Alzò il braccio, invece. Lo levò in alto e mormorò un incantesimo o forse due – bisbigli di parole quasi impercettibili – che, però, ebbero il potere di scuotere fin nelle fondamenta il Tempio. Ho evocato rune da quando ci siamo visti, aveva detto, e non mentiva.

 

 

Il cielo era arancione e Sonje si era di nuovo imbronciata. Abbracciò sconsolata l’animale di pezza grande quasi quanto lei e pensò che, anche quella notte, sarebbe stata messa a letto da sua zia Freya. Cercò con lo sguardo Thor e lo vide avvicinarsi guardingo alle pesanti porte di quel castello nero dove dicevano che ci fossero i suoi genitori. Aggrottò la fronte e a malapena riuscì a inghiottire un singhiozzo, al pensiero che la sua mamma e il suo papà fossero lì dentro. Le mancavano in maniera totale, assoluta, disperata. Il solo pensiero di non averli accanto le faceva salire le lacrime agli occhi. Ma lei era una bimba metà Ase e Jotunn e non poteva mettersi a piangere come una mocciosa qualsiasi; affogando i singhiozzi nel morbido tessuto dell’animale, non riuscì a far altro che credere ciecamente a ciò che le aveva assicurato lo zio Thor fino a pochi minuti prima. Il suo papà e la sua mamma stavano vivendo insieme un’avventura bellissima di cui le avrebbero raccontato ogni dettaglio quella sera stessa quando – meraviglia! – avrebbero dormito tutti insieme in una delle tende che già campeggiavano in mezzo al prato che lambiva il castello. Dall’altro dei suoi quattro anni, Sonje non aveva potuto che credergli, perché zio Thor con lei era sempre sincero e buono e gentile. Suo padre non aveva, del resto, sconfitto più e più volte il mostro che si nascondeva nell’armadio? Non l’aveva consolata – e recuperata – quando si era persa nella Fucina dei Nani? Non aveva mai visto sua madre così arrabbiata con lei come quel giorno. In mezzo a quella foresta di spade, lance e strani oggetti mai visti né conosciuti, il suo fantastico papà era riuscito a scovarla e le aveva proposto un gioco per uscire da quel groviglio luccicante e freddo in cui era finita senza accorgersene e volerlo davvero, per poi prenderla in braccio e avvolgerla nel suo mantello giusto una manciata di istanti prima che la magnifica capanna d’acciaio si disgregasse in un milione di pezzi. Un giorno, Sonje avrebbe ricordato in maniera diversa quell’episodio. Con un brivido si sarebbe resa conto di certi dettagli cui, da bambina, non aveva fatto caso. Il tono di voce troppo calmo di suo padre, ad esempio, che contrastava con i lineamenti del viso tirati e con i muscoli tesi, il gesto rapido con cui l’aveva attirata a sé non appena aveva potuto, il balzo che aveva fatto stringendosela contro per evitare che una delle lame la sfiorasse. Si era salvata per fortuna e per magia, ma questa è un’altra storia.

 

Il Tempio tremò violentemente, sussultando e crepandosi all’improvviso. Il boato fu tremendo. Un’onda d’urto che sconquassò la terra e il cielo proveniente direttamente dal centro della costruzione nera e solitaria. Il segnale di Loki. Sonje gridò stringendo a sé il gatto di pezza, spaventata dal rumore improvviso. Alla prima, violenta esplosione, iniziarono a sommarsene altre più o meno intense e ugualmente terrificanti. Una delle torri del solenne edificio collassò e cadde in un tripudio di detriti, grida e morte. Attorno alla bambina, i nobili Vanir iniziarono ad agitarsi e a urlare invocando le Norne. Sonje fu raggiunta da Freya, che la prese in braccio e corse verso il Re degli Asi. In mezzo al frastuono, il dio del tuono stringeva Mjollnir con l’accenno di un sorriso sulle labbra. Quanto amava mettersi in mostra, suo fratello! Si voltò e, vedendo le due, abbassò il martello.

 “Vedi piccolina? È stato il tuo papà a creare questo caos,” spiegò accarezzando i ricci neri della nipote.

Prima che Sonje potesse ribattere, Freya apostrofò Thor inclinando leggermente il capo. “Che sta facendo?”

Il biondo Ase alzò le spalle. “Fa iniziare lo spettacolo,” ribatté compiaciuto, “e ci invita a seguirlo.”

Thor aveva ragione, perché il portone del Tempio iniziò a disgregarsi, come se il metallo di cui era fatto fosse stato corroso dall’interno o mangiato, liquefacendosi sotto gli occhi esterrefatti della corte di Vanheim tutta e di Njord, di Freyr, di Freya. Sonje, dalla sua posizione privilegiata in braccio alla zia, osservò la grandiosa forza del seiðr di suo padre senza comprenderla davvero. L’estasiava il metallo che cadeva in pezzi e si arricciava su se stesso, prendendo la stessa consistenza di certe zuppe dense che la sua mamma si sforzava di farle mangiare, ma non capì perché quello spettacolo ispirasse il terrore in chi la circondava. Era spaventata dalle grida e dalla polvere che il crollo della torre aveva provocato, dall’ansia che Freya le trasmetteva involontariamente stringendola a sé, ma l’immagine del seiðr che mangiava il metallo le si stampò in mente in maniera nitida e indelebile e fu qualcosa di grandioso. Sarebbe rimasto per sempre uno dei primissimi ricordi della sua infanzia e un giorno, molti anni dopo, avrebbe raccontato la meraviglia che quella visione tremenda le aveva lasciato addosso. Vali avrebbe ascoltato dubbioso, annuendo senza riuscire a immaginare, ma anche questa è un’altra storia.

Quello che Sonje dimenticò subito e ovviamente non comprese, sebbene vi assistette, furono le parole perentorie di Njord. Si avvicinò a Thor, che stava già varcando l’arco ormai vuoto che segnava l’ingresso del Tempio, dicendogli seccamente che non avrebbe tollerato che gli Asi liberassero da soli i Vanir.

“I miei nobili ti accompagneranno, Re degli Asi. Devono vedere. Tuo fratello l’ha chiesto. E ha bisogno del suo esercito.” 

Il dio del tuono scrutò l’anziano alleato soffermandosi sui suoi occhi ardenti, sulle labbra piegate in una smorfia orgogliosa eppure tragica.

“Nessuno dica,” proseguì l’altero sovrano ad alta voce, “che i Vanir non obbediscono agli ordini e non seguono il loro generale in battaglia.”

Thor non poteva conoscere nei dettagli le vicissitudini politiche di Vanheim perché Lingua d’Argento era, riguardo ai suoi affari, mortalmente laconico e avaro di notizie. Sapeva vagamente che Sigyn si batteva da anni per far chiudere il Tempio, che qualche famiglia ancora si opponeva alla tradizione e immaginava che, ormai, buona parte delle incombenze del regno passassero direttamente nelle mani di Loki. Fu preso da un moto d’orgoglio, sentendo le parole del vecchio re. Riconobbe l’eco della soddisfazione che l’arrogante Njord aveva sfoggiato quando Loki lo aveva accompagnato ad Asgard per ridefinire alcuni dettagli dei loro accordi internazionali e, ancora prima, il giorno lontanissimo in cui Odino era stato costretto a firmare una pace. Suo fratello aveva finalmente il ruolo di comando che gli spettava, e la sua voce arrochita e incantata non serviva solo per irretire e confondere, ma per guidare un popolo intero (3).

“Allora aiuterò i tuoi vassalli a ritrovare il loro comandante,” sorrise. Fu così che varcò l’entrata ormai priva di difese del Tempio. Oltre le mura nere, continuavano a ergersi le grida straziate delle sacerdotesse e delle guardie in cerca di un riparo, cui si mescolavano anche quelle delle donne lì rinchiuse. I numerosi crolli avevano spinto alcuni membri della milizia privata della Sublime a fuggire verso l’uscita, e così stavano facendo anche le altre religiose. I tortuosi cunicoli dell’edificio rendevano più lenta e difficile la fuga. Ma le prigioniere? Qualche viso smunto iniziò ad apparire di fronte alla nobiltà di Vanheim armata di tutto punto e al re degli Asi: figure scalze, denutrite, con i capelli tagliati corti che incespicavano mentre si trascinavano dietro bambini piagnucolanti con il moccio al naso. Erano le fortunate che si trovavano nelle cucine e nell’orto, non troppo distanti dalle esplosioni; alcune di loro erano gravide, segno inequivocabile che la squallida diceria riguardante la milizia del Tempio era vera, altre mostravano evidenti segni di percosse. Lo sgomento collettivo, quando varcarono la soglia nel disordine generale, fu enorme. Nella confusione del momento, il dio del tuono non notò affatto che tra i nobili spinti da Njord a varcare la soglia distrutta c’era anche Theoric. Del resto, la furia dell’eroe benigno lo aveva investito in pieno: ordinava, sorreggeva, bloccava. Aiutato da Freyr, che si occupò assieme ad altri di fermare e interrogare i miliziani e le sacerdotesse, prestò qualche primissimo soccorso alle smunte derelitte in fuga e poi si lanciò, seguito da un manipolo ben armato, oltre le mura del Tempio.

 

Loki Laufeyson sfoggiava spesso la maschera del salvatore di popoli. Regale e sicuro di sé, provava sempre un sottile piacere nel ricordare alla gente le sue imprese brillanti, la natura spesso subdola, ma senz’altro efficace, delle sue trovate perfide. Assieme a Thor, aveva rovesciato regni e sconfitto popoli interi, liberato ostaggi e messo a ferro e fuoco quartieri generali, città, palazzi: perché stavolta, con il Tempio, avrebbe dovuto essere diverso? Perché lei non sapeva neanche tenere in mano un pugnale, per le Norne.

Il piano dell’Ase aveva subìto un brusco cambio di rotta, ma non per questo tutto doveva essere gettato alle ortiche. Dio dell’inganno, lo chiamavano. Nessuno ricordava più il giorno in cui Odino, a fior di labbra, aveva dato quel nome pesante e tremendo al figlio adottivo; c’è chi dice che avvenne quando Loki, ancora ragazzino, riuscì a sventare una congiura degli Elfi Neri volta a uccidere Padre Tutto in persona, chi sosteneva che il piccolo principino meritò quel nome per aver convinto un drago a cedere agli Asi il suo tesoro. Una notte d’inverno, Sigyn lo aveva abbracciato e, mentre avvinghiava le gambe sottili contro quelle del guerriero per scaldarsi, gli aveva chiesto proprio quello: da dove venisse l’appellativo che lo contraddistingueva. Loki aveva preso a carezzarle distrattamente la schiena nuda e i bei capelli d’oro, ma non le aveva risposto.

La verità è che Lingua d’Argento aveva preso il suo nome dopo aver deglutito e sfiorato con dita incerte la morte. Privo di ogni difesa, aveva fissato gli occhi bianchi del suo nemico e si era deciso a raccontargli una storia, sciorinando un indovinello che nascondeva al suo interno un inganno. Un sudore gelido aveva preso a scorrergli sulla spina dorsale, e mentre la bestia si confondeva appresso ai suoi ragionamenti, Loki era diventato il dio delle beffe e degli inganni. Di quella notte lontana, il figlio di Laufey e di Odino non conservava che un pugnale dalla lama ritorta con l’elsa finemente intarsiata; un pegno sottratto da un tesoro maledetto (4).

La gola della Sublime era esposta, pulsante. “Devo solo premere più forte,” le ricordò l’Ase con voce cupa, tetra, stringendo quell’arma che teneva con sé ormai da una vita.

Il viso della donna si piegò in una smorfia di compiaciuto dolore. Gettò uno sguardo oltre la spalla di Loki fissando Sigyn. Attorno a loro, l’ennesima scossa seguita da grida sottolineava con sempre più forza il potere dell’Ase. “Allora fallo, Loki, avanti. Non temo la morte che mi darai. Se ti lasciassi andare, me ne toccherebbe una senz’altro peggiore. Quella che avrai tu.”

La risposta fiera non piacque particolarmente al dio dell’inganno. “Non mi servi, Sublime Stronza,” le soffiò contro. Lasciò che l’acciaio si tingesse di rosso, che affondasse nella carne. La sacerdotessa boccheggiò e cadde scossa da un tremito, fissandolo con i suoi occhi ormai velati.

Loki non le rivolse che un’occhiata breve e veloce, poi si rivolse a Sigyn, che fissava agghiacciata la scena. Aveva detestato quella donna con tutte le sue forze dal primo momento in cui aveva incrociato il suo sguardo, ma vederla spirare in maniera tanto repentina fu sconvolgente. Davanti a lei, Loki aveva già ucciso, ma si era trattato di soldati, uomini armati pronti ad attaccarlo. A sorprenderla non era stato il gesto in sé, ma la rapidità con cui il dio degli inganni aveva deciso che la Sublime dovesse essere morire: una valutazione breve che nemmeno le parole sibilline e oscure dell’altra aveva potuto scalfire.

 

L’ingannatore si passò il dorso della mano sulla fronte per pulirsi da uno schizzo di sangue che gli macchiava la pelle, le labbra arricciate in una smorfia di disappunto. Le scoccò un’occhiata rapida e severa, una di quelle che era solito lanciarle quand’era ancora una ragazzina e faceva qualcosa di sbagliato, e poi la prese per mano e, semplicemente, se la tirò dietro in quel reticolo di cunicoli dove lui si orientava senza alcuno sforzo. Merito del seiðr che gli scivolava nelle vene assieme al sangue e del potere che sprigionava pronunciando le rune. Si incunearono nuovamente dentro i sentieri di pietra del Tempio, scendendo verso il cuore pulsante di quella costruzione fuori dal tempo e dagli schemi: chi l’aveva eretta? Quale popolazione era stata così folle da tirare su un castello fortificato che dentro era nient’altro che un labirinto dove rinchiudere le povere donne che avevano violato, per scelta o perché costrette, la rigidissima morale di Vanheim? Nei suoi due giorni scarsi di permanenza, la principessa aveva avuto modo di vedere solo pochissime sale: la cella dove l’avevano spogliata per poi tagliarle i capelli, il refettorio, il lugubre dormitorio, la sala dei telai. Tutto il resto era un insieme immenso di svolte e scale e angoli ciechi di cui non aveva contezza. L’Ase la guidò senza interrompere il loro contatto: una presa ferma e decisa che le punse il cuore. Riconobbe la forza di quella stretta e la sentì, la amò con un’intensità schiacciante. Si sentì al sicuro. Si fermarono di nuovo di fronte alla sala dov’erano i telai. La porta era stata lasciata aperta dalle guardie in fuga, ma alcune donne erano rimaste a terra, sconvolte dalle esplosioni. Le aiutarono a sollevarsi, scuotendole dal torpore che l’esplosione e la successiva fuga avevano causato. Quelle li guardarono con i loro occhi da animali spauriti e li seguirono piangendo. Sigyn deglutì. Se Loki non l’avesse liberata, anche lei si sarebbe trasformata in una creatura rassegnata e mesta? Non ebbe tempo di domandarselo. Alcune guardie più zelanti delle altre, o forse solo più disperate, si lanciarono contro lei e Loki. Alle loro spalle, il clangore delle armi li avvertì che ogni via di fuga era appena stata tagliata.

Vedere Loki Laufeyson combattere era sempre uno spettacolo terribile e affascinante. C’era qualcosa di feroce e bellissimo, nella sua scelta di utilizzare, anziché una spada a due mani o una lancia, dei semplici pugnali. Armi del genere erano buone per tagliare la gola e necessitavano di avvicinarsi al proprio avversario fino a sentirne il respiro, il battito del cuore. Non erano di foggia nanica, quelli che ora faceva roteare rapidamente tra le dita svelte; li aveva sottratti alle guardie della Sublime che ormai giaceva riversa in un lago di sangue. Cinque contro uno non è un buon rapporto, nemmeno se si è un Ase, ma Loki non era semplicemente un guerriero addestrato ad Asgard: era un capo, un comandante, un principe. La sua non era una lotta, ma una danza. Una coreografia letale e precisa che non lasciava scampo alle sue vittime.  Si lanciò contro il soldato più vicino, armato di una grossa spada, e scartò abilmente il fendente già lanciato nella sua direzione per avvicinarsi fin troppo all’uomo e colpirlo due volte, al petto e al cuore; e mentre quello boccheggiava agonizzando, Loki si era già lanciato sul secondo mirando alla gola, che recise con un colpo pulito, preciso, essenziale: violento. Ecco cosa c’era, in lui. Una furia feroce e implacabile, unita a una velocità spiazzante che disorientava l’avversario. Si fece scudo col corpo ormai inerte della guardia giusto il tempo necessario per sfruttare una leva favorevole e gettarsi sugli altri due miliziani rimasti. Sigyn fissò la scena in apnea, con la stessa ansia con cui, anni prima, aveva osservato quello che sarebbe stato suo marito combattere in un’arena allestita per l’occasione (5). Non aveva paura di morire né di essere colpito, Loki: questo era il punto. Afferrò la guardia per la spalla, la disarmò con un colpo schivando la sua lama, la costrinse a roteare su se stessa in un gesto che alla principessa di Vanheim ricordò una delle piroette che l’Ase le faceva fare quando la guidava durante un ballo e, quando ebbe la gola dell’avversario a portata di mano, ci passò sopra l’acciaio del pugnale. L’ultimo miliziano della Sublime tentò di scappare, ma Loki ghignò fissandolo con quei suoi occhi dalla trasparenza verdastra, color dell’acqua, e lo raggiunse con un balzo, lo afferrò per i capelli e gli piantò l’arma nella schiena e infierì, spingendo.

“Avanti, presto!” afferrò di nuovo Sigyn e si affacciò a una delle strette finestrelle protette da grate. Giù, nella corte interna del Tempio, si affollavano insieme le recluse e le sacerdotesse, le guardie della Sublime e quelle di Vanheim. L’ingannatore vide suo fratello e assottigliò le palpebre, ma non disse nulla.

Imboccarono le scale, e fu alla fine della rampa che incontrarono il tonante e gli altri. Le prigioniere sciamavano ancora nell’ampio atrio, incespicando nei loro stessi passi, mentre alcune sacerdotesse tentavano di gridare ordini ormai privi di senso e invocavano il nome della Sublime lanciando maledizioni e scongiuri. I soldati che erano entrati al seguito di Thor erano stati addestrati da Loki, ma avevano avuto poche occasioni per dimostrare il loro valore; l’ultima guerra si era tenuta quattro anni prima (6). Si guardavano attorno nervose, cercando di evacuare il Tempio e, allo stesso tempo, fare bella figura di fronte al loro generale che, da solo, era riuscito a violare una fortezza ritenuta impenetrabile.

“Controllate il secondo piano e l’ala est del primo,” ordinò l’ingannatore. “Io scendo nei sotterranei e tu,” disse riferendosi a Sigyn, “fammi un favore: esci fuori di qui con Thor senza voltarti indietro.”

“Vuoi divertirti da solo?” Sigyn aveva pronunciato la frase per sdrammatizzare, ma era ben conscia dell’allusione che la Sublime aveva fatto prima di morire. Per tutta risposta, l’Ase ghignò e lanciò uno sguardo d’intesa al fratello, perché lei aveva colto nel segno, ma questo non avrebbe certo cambiato la sua decisione. Sentiva sotto le suole degli stivali la terra fremere non per la serie di rune pronunciate, ma per quella cosa nascosta sotto il pavimento che doveva andare a stanare. Si allontanò verso le scale buie che conducevano dabbasso, accompagnato dalle urla e dalle imprecazioni delle sacerdotesse rimaste.

 

I nobili Vanir osservavano la scena che gli si parava davanti in un misto di sdegno, sgomento, stupore, incredulità e ammirazione, persino. I più affezionati sostenitori di Njord guardavano con malcelata soddisfazione l’atrio del Tempio che si svuotava: era la fine di un’epoca buia e di una tradizione che ormai si stava percependo sempre più come ingiusta. Loki, inoltre, aveva la stoffa del re e del conquistatore, del capo. La sua lingua spesso tacciata d’essere bugiarda non lo era stata quando aveva promesso che si sarebbe occupato di Sigyn. Lei era lì, pallida e vestita di stracci, offesa dal taglio corto che le era stato inflitto, ma viva.

 

 

Lei era lì e l’aveva scampata ancora una volta grazie a quel bastardo figlio d’uno Jotunn. Il pensiero attraversò Theoric come un lampo, insinuandoglisi nella testa. La sua famiglia, strenua sostenitrice del Tempio, aveva appena perso l’appoggio dei pochissimi clan che, fino a quel momento, avevano professato la necessità di tenere in piedi l’istituzione religiosa (7). Non occorreva essere un abile stratega come quel maledetto di Loki, per capirlo: bastava osservare le labbra arricciate in una smorfia di disappunto che gli alleati e gli amici con cui erano soliti banchettare lui e suo padre sfoggiavano fissando i bambini, troppi, che sostavano incerti nell’atrio del Tempio. Forse il dio dell’inganno aveva ragione quando, sorridendo quel tanto che bastava per mostrare i denti bianchi, sosteneva che i Vanir erano un popolo di bigotti (8). Loki. Un guerriero alto, ben fatto, slanciato, dotato di un fascino tale da conquistare non solo Sigyn, ma anche Njord e la Corte tutta. Eppure, senza di lei, l’Ase sarebbe rimasto il consigliere all’ombra di Njord, lo straniero da guardare con un filo di sospetto e a cui non credere mai fino in fondo. Non certo un comandante e futuro re. Il dio degli inganni godeva di fama e prestigio perché Sigyn aveva aperto le gambe, sì. Dalla sua posizione defilata, l’uomo vide Thor procedere verso i piani superiori del Tempio in cerca di altre persone da tirare fuori, Loki sparire in un cunicolo sulla destra. C’era chi, come i figli di Odino, spiccava ovunque si trovasse e chi, invece, rimaneva nell’ombra, confondendosi con il grigio delle pareti. Theoric non era certo che i due Asi lo avessero notato. L’ingannatore certamente no, era troppo impegnato a muovere le fila del suo sontuoso spettacolo, e gli occhi del re degli Asi si erano posati troppo frettolosamente su di lui perché potessero riconoscerlo. Nel tramestio generale, Sigyn gli sfilò davanti.

 

Bastò strattonarla per un braccio e tapparle la bocca. Lo poté fare perché era nei pressi di una porta che conduceva alle cucine, o forse alle stalle e, nella confusione, nessuno notò la scena. Lei scalciò, graffiò, si divincolò, ma era rimasta la ragazza sottile e minuta di sempre e fu facile, dopotutto, trascinarla in quella che era, effettivamente, la cucina del Tempio.

“Tu non uscirai viva da qui,” le promise all’orecchio. “Penseranno a un tragico incidente.”

 

Il primo pensiero di Sigyn fu per l’erede di Loki che non aveva più di qualche settimana di vita e per Sonje e i suoi morbidissimi ricci neri. Poi venne suo marito che, nei sotterranei sotto di lei, affrontava chissà quale pericolo e la credeva ormai in salvo. Fu spinta contro uno stipite e si ritrovò schiacciata tra la porta e Theoric. Era agitato più di lei: Sigyn lo dedusse dall’odore acre che emanava, dal fiato cattivo, dai gesti nervosi, dalle gocce di sudore che gli imperlavano il labbro superiore e la fronte. Era nervoso perché aveva poco tempo e non sapeva che cosa doveva fare, e come. Anche questo spaventò Sigyn. L’idea che l’avrebbe fatta soffrire inutilmente. Theoric le disse che nessuno l’avrebbe sentita gridare e che sarebbe morta in quella stanza: la giusta fine di una puttana come lei, che si faceva sbattere da un Ase, uno straniero.

“Mi hai tradito,” le ricordò all’orecchio. La afferrò per i fianchi e Sigyn fu scossa da un brivido di repulsione e di odio. “Non ti interessiamo noi Vanir, vero principessa? Preferisci gli Asi. Gli Jotunn, anzi. Eppure…”

Supplicarlo di lasciarla andare in nome della vita che le cresceva dentro sarebbe stato inutile, anzi, controproducente. L’ex fidanzato non aveva dimostrato alcuna pietà quando lei era rimasta incinta di Sonje e certo non si sarebbe smentito quel giorno. Cos’avrebbe fatto Loki, al suo posto? Theoric era meno alto e forte del dio degli inganni, ma era pur sempre un uomo dalla stazza robusta; annullò la distanza che c’era tra loro e Sigyn avvertì il ventre abbondante di lui che spingeva contro il suo corpo, la bocca dell’uomo che premeva sulle sue labbra tentando di aprirsi un varco. Si divincolò, ma non ottenne altro risultato che rafforzare la presa del Vanir su di lei. Chiuse gli occhi tentando di affogare la repulsione per il contatto indesiderato, e le vennero in mente le battute e i racconti cui l’Ase si abbandonava alle volte, dopo un banchetto. Cosa avrebbe fatto, al posto suo? La voce del dio degli inganni, ironica e beffarda come sempre, le risuonò nella testa. Ne approfitterei. Fu per questo che morse con tutta la forza.

 

Theoric gridò premendosi la bocca e si allontanò non prima di averle dato un manrovescio che la fece cadere a terra. Per un istante, Sigyn non vide nulla, la vista annebbiata dal colpo; poi arrancò, si mise in ginocchio, incespicò e infine si rimise in piedi in mezzo alle vettovaglie e ai detriti causati dall’esplosione e tentò di correre, scappare, allontanarsi dalla cucina. Dietro di lei, Theoric aveva preso un mattone o forse un coltello; con il cuore in gola, si accorse che l’atrio era deserto e l’uscita troppo lontana. Sarebbe stata raggiunta prima di poter uscire definitivamente dal Tempio. Ricordò vagamente quella diceria lontana su come l’assetto delle stanze, all’interno dell’edificio, sembrasse mutare, e scelse di infilarsi in quello che le pareva essere proprio il buio cunicolo sulla destra che conduceva nei sotterranei dov’era sparito Loki. Vi si gettò. Theoric le andò dietro.

 

Continua…

 

 

L’angolo di Shilyss

Cari Lettori che siete arrivati fin qua,

Ecco finalmente il nuovo capitolo di questa raccolta! Voglio ringraziare tutti coloro che hanno recensito, preferito, ricordato e seguito questa storia ♥. Grazie davvero, ogni riga è per voi ♥

Vi informo che ho revisionato il capitolo 1 di questa raccolta.

La Fatina dell’Ispirazione promette che non passeranno i secoli prima di un nuovo aggiornamento e vi ricorda che per info, date, scemenze, curiosità e domande c’è la mia pagina facebook ♥ https://www.facebook.com/Shilyss/

Ricordo che Jotunheim e Vanheim così come sono intese e descritte, con questo ordinamento sociale, politico e culturale sono una mia idea, così come il personaggio di Sonje: vi pregherei di non utilizzarle o, se proprio vi sentite ispirati, di inserire un disclaimer apposito in cui dichiarate i credits . Anche il personaggio di Sigyn, tolto quello che trovate alla voce “Sigyn” su Wikipedia, è una mia personale interpretazione/reinterpretazione.

Passando alle note tecniche, fatemi sapere se il rating arancione è congruo agli eventi narrati oppure no. In caso, provvederò a modificarlo. Questo è stato un capitolo difficile, non ve lo nego, soprattutto nella sua parte finale. Volevo che ci fossero una serie di cose senza, per questo, scadere nel banale o nel gratuito.

1 Come ricorderete nello scorso capitolo.

2 Appellativo che viene dato da Loki nell’Edda. Chissà perché.

3 Per ulteriori dettagli, leggete la mia fanfiction “Tutte le tue bugie.”

4 Sono eventi completamente inventati da me, quindi giù le mani!

5 Come raccontato in “Tutte le tue bugie.”

6 In occasione della nascita di Sonje.

7 Come nel capitolo 3 di questa raccolta.

8 Questi elementi, così come i Vanir intesi in questa maniera, sono un’idea mia.

 

Un caro saluto e grazie per aver letto fin qui! A martedì :)

Shilyss

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Capitolo 7
*** L'oscurità dentro di noi ***


L’oscurità dentro di noi

 

 

Non aveva mai avuto così paura, in vita sua. Correva e tremava mentre il dolore alla guancia si faceva pulsante e un sapore metallico le invadeva la bocca. Il cunicolo buio dava accesso a una scala ripida, dagli antichi gradini di pietra. Sigyn incespicò incontrando il dislivello; solo per un caso riuscì a parare la caduta poggiando una mano sulla pietra ruvida della parete, ma la superficie di quest’ultima non era liscia e l’attrito dovette provocarle un’abrasione dolorosa sul palmo della mano. Continuò a scendere, consapevole che la gonna lunga le intralciava i movimenti e di avere Theoric alle calcagna. A mano a mano che s’inoltrava nel corridoio, avvertì sempre più distintamente un rumore di sottofondo basso e martellante, che le ricordò quello che si sentiva nelle fucine dei Nani. Gridare sarebbe servito? Se Loki fosse stato davvero in fondo a quel cunicolo, sarebbe riuscito a sentirla? La terra sotto di lei sussultò e Sigyn perse inevitabilmente l’equilibrio. Urlando, Theoric nel buio avrebbe capito esattamente dove lei fosse, se già non le era tragicamente dietro, mentre il marito, probabilmente, non l’avrebbe udita.

I Nani. Sonje era andata con loro, durante quell’ambasceria[1]; adorava viaggiare con loro e i buffi e imbronciati fabbri le mettevano addosso una curiosità esagerata. L’avevano persa di vista per non più che una manciata d’istanti e la bambina, trascinandosi dietro quell’enorme animale di pezza a forma di gatto, si era intrufolata nell’armeria, dimostrando tutta la cattiva influenza che avevano su di lei le gesta del padre e dello zio. Loki era impallidito, quando finalmente l’aveva scovata nella piccola e precaria tana in cui Sonje si era nascosta senza rimediare nemmeno un graffio. Tirarla fuori di lì senza che si ferisse, prima che il fragile castello fatto di armi affilatissime le precipitasse contro, era stata una sfida che il dio dell’inganno aveva vinto solo grazie al sangue freddo che Sigyn non possedeva. Ricordò che Thor l’aveva allontanata intimandole di non mostrarsi spaventata, di lasciar fare a Loki, che se Sonje si fosse mossa, allora tutte quelle armi avrebbero potuto crollarle addosso. Sonje. Sonje e il bambino che sarebbe nato, da un rapido calcolo, nel cuore dell’inverno.

 

Theoric la strattonò per un braccio tappandole la bocca, interrompendo il grido strozzato e disperato che le era uscito dalle labbra. “Non ti troverà. Non ti sentirà.”

Di nuovo il suo fiato acre sul collo, il corpo gonfio premuto sul suo, una mano a ghermirle la vita. Aveva paura anche lui. Lo capì dal bisogno che aveva di zittirla, dalla necessità di convincerla che sarebbe morta lì, in quel corridoio, presumibilmente a pochi passi da Loki. Non sapeva che doveva fare con lei – di lei, e Sigyn ripensò al gesto rapidissimo e deciso con cui suo marito aveva tagliato la gola alla Sacerdotessa Sublime. Lei era soffocata nel suo sangue nel giro di pochi secondi, senza rendersi nemmeno conto di cosa, realmente, le stesse succedendo. Il pensiero che la sua morte non sarebbe stata altrettanto rapida e clemente le si insinuò nella testa. Theoric l’avrebbe fatta soffrire, perché non sapeva nemmeno dove infilare il coltello per ucciderla. Ucciderli. Le salirono le lacrime agli occhi e non riuscì a fermarle. Erano calde e scivolarono sulle gote sfiorando la mano larga e robusta di Theoric.

“Piangi, piccola principessa?”

La costrinse con il viso contro la parete e la pietra ruvida le provocò un bruciore sulla guancia. Nel buio, avvertì che la presa sulla sua vita s’allentava e lo sentì armeggiare con la fibbia dei pantaloni. Tentò di divincolarsi, di graffiare, di mordere e Theoric la agguantò di nuovo per sollevarle la gonna. Era impacciato e goffo e sudato e voleva vendicarsi, ma qualcosa s’era inceppato, nel suo piano. Allentò la presa sulla sua bocca mentre tentava di risolvere l’incresciosa situazione, spostandola più in basso: cercò di infilarle una mano sotto la scollatura del vestito, le ghermì un seno. Armeggiò nel tentativo di ottenere il vigore necessario per proseguire e Sigyn ebbe un conato, al pensiero di quello che Theoric stava facendo. Di nuovo, si sforzò di richiamare alla memoria i ricordi delle imprese di Lingua d’Argento, del suo affascinante e pericoloso marito forse a pochi metri da lei che la credeva al sicuro e non sarebbe corso a salvarla.

“Se mi uccidi, Loki lo capirà, lo scoprirà e si vendicherà. Lasciami andare: non dirò niente, te lo giuro. Non hai ancora fatto niente. Non è troppo tardi.” Aveva parlato con calma, cercando di frenare l’impulso di gridare ed esasperarlo, ma le tremavano le labbra. Cos’avrebbe fatto il dio degli inganni, al posto suo?

 

 

Loki Laufeyson era davvero a pochi passi da lei. Alla fine del cunicolo, si apriva un’enorme grotta sotterranea dove, come nelle migliori e più scontate delle tradizioni, dimorava un mostro. Avrebbe scommesso qualsiasi somma sulla presenza di un grosso drago, ma quando aveva fatto il suo ingresso sotto la volta di pietra, era rimasto piacevolmente stupito e sorpreso. Una creatura di ben altra natura, lo attendeva immersa in un lago sotterraneo.

“Avanti, mostrami il tuo vero aspetto,” la blandì. In una mano stringeva uno dei pugnali con cui aveva ucciso le guardie del Tempio, nell’altra una spada rimediata quando i nobili Vanir erano entrati al seguito di Thor. La cosa mostrò i denti aguzzi e la terra vibrò, l’acqua in cui era immersa ribollì creando una spuma quasi luminosa.

Era una donna o, perlomeno, ne aveva parzialmente l’aspetto. C’era, in lei, qualcosa di mostruoso e diverso. I denti aguzzi e le labbra incredibilmente vermiglie, per esempio, come la pelle d’un biancore inumano e spettrale, svelata e nuda. Quasi riluceva nella luce fioca della caverna.

“Mago, moriresti se ti svelassi il mio vero volto,” ghignò.

Loki assottigliò le palpebre, feroce. “Mettimi alla prova,” l’incalzò. “Potrei stupirti.”

Si avvicinò alla spuma ribollente che agitava la riva con un sorriso perfido sulle labbra, indugiando con lo sguardo sul corpo assolutamente statuario e perfetto dell’essere dalle forme femminee. Su un altro uomo, con tutta probabilità, la figura avrebbe sortito un qualche tipo di fascinazione, ma l’ingannatore riusciva a intuire e quasi a vedere la natura abilmente mascherata della creatura. Era lei che mangiava le povere recluse del Tempio; era per saziare il suo ventre, solo all’apparenza piatto, che le mura robuste della sua tana erano rimaste intatte per secoli. Era lì che sarebbe finita Sigyn se, quasi cinque anni prima, Loki non avesse deciso di raccontare una lunga storia a Njord[2]. La ricordò com’era allora, con lo sguardo fiero e il labbro spaccato da uno schiaffo di Freyr, decisa a non rivelare il nome dell’uomo che l’aveva messa incinta – il suo – per ribadire il concetto fondamentale che lei era l’unica padrona del proprio corpo. Piccola, coraggiosa, indisponente Sigyn.

 

L’essere lo scrutò quasi offeso con le sue pupille biancastre, colpito dalla studiata arroganza del principe degli Asi. Lo vide avanzare nell’acqua bassa, immergere gli stivali di pelle nell’acqua, sollevare appena le lame. Buttò teatralmente il capo indietro e rise, stupito da quel mago armato di tutto punto che non dimostrava di temerlo. Ma così erano gli Jotnar e gli Asi: il mostro li ricordava dall’alba dei tempi o, forse, la sua conoscenza delle cose e del mondo traeva origine dal brodo primordiale in cui era immerso, una sorgente forse collegata persino con la fonte di Mimir.

“Tu sei pazzo, mago.”

Un ghigno. “Possibile, probabile. Mostrami la tua vera faccia, non costringermi ad avvicinarmi ancora. Sono il re straniero che attendevi, quello della profezia che vai blaterando.”

Fu allora che la terra iniziò a tremare, a sussultare. L’essere femmineo lanciò un grido acuto e mutò pelle e sembianze, tramutandosi in una creatura che non era né un drago né un grifone né nulla di conosciuto. Somigliava, piuttosto, a un enorme insetto, uno di quelli che Loki e Thor catturavano da bambini quando giocavano nella radura adiacente al bosco, colorati e terribili. Il dio degli inganni sorrise di fronte al disgustoso cambiamento e pensò al palese disappunto che avrebbe tentato invano di mascherare Thor, quando gli avrebbe raccontato come aveva ucciso l’orrendo mostro.

“A mio fratello saresti piaciuta moltissimo,” confessò leccandosi le labbra. “Invidierà il nostro appuntamento per almeno un secolo.”

La cosa rimase interdetta per una frazione di secondo, stupita dall’atteggiamento irriverente e sfrontato di quel guerriero che pareva non temerla. Lo smarrimento, tuttavia, durò meno d’un attimo. Si lanciò contro Loki decisa a farlo a pezzi, a cibarsene e a uscire incontro al destino che le era stato profetizzato prima che esistessero il Tempo e lo Spazio, forse.

Il corpo, divenuto ormai d’una orrenda grandezza, si protese nel tentativo di afferrare il dio dell’inganno e ci sarebbe riuscito, se solo l’Ase fosse stato davvero lì. Uno degli artigli affilati della creatura si abbatté con violenza sulla superficie del lago, smuovendola e creando onde e spruzzi che subito si congelarono, imprigionandola irrimediabilmente.

Loki ghignò. La sua illusione aveva decisamente funzionato. Era decisamente più spostato sulla destra rispetto a dove avrebbe dovuto essere. “Sorpresa, cara? Credevi forse che sarei rimasto a fissarti immobile mentre mi attaccavi?”

 

Cosa avrebbe fatto il dio degli inganni, al posto suo?

Sigyn non ne aveva idea ed era troppo spaventata per fermarsi a ragionare, ma pensò a una cosa che, una volta, Thor aveva detto sul fratello durante l’indimenticabile ambasceria ad Asgard[3]. “Oh, ma il suo essere insopportabilmente pedante è una strategia, mio buon Njord. Provoca i nemici per distrarli e approfittarne”. Lo aveva detto fissando Loki negli occhi e l’Ase si era limitato ad accennare un ghigno soddisfatto.

Il suo aguzzino era nervoso, incapace e il coltello non era l’unica arma che non sapeva usare, a quanto pareva. Deglutì e parlò con una voce falsamente ironica e sicura.

“Ti spavento così tanto? Non riesci nemmeno a essere uomo, Theoric? A Loki faresti una gran pena.”

“Sta’ zitta! Zitta!” La voce dell’uomo suonò esasperata. Era in una situazione incresciosa e svilente. L’ansia di doverla uccidere, lì e ora, paralizzava il resto, inibendolo, e il fatto che Sigyn scalciasse e si divincolasse, graffiasse e tentasse continuamente di liberarsi, non gli rendeva certo il compito più facile. Era a braghe calate, in un cunicolo da cui in ogni momento poteva uscire fuori qualsiasi cosa e anche toccandole il seno piccolo e morbido o i fianchi che aveva sempre considerato invitanti, non riusciva a eccitarsi al punto di riuscire a possederla. Troppa ansia, troppo rumore – quello che proveniva dal fondo lontano dello stretto corridoio e la voce di lei, che, mentre si divincolava e blaterava inutilità, lo distraeva con quel fottuto, spaventoso nome: Loki.

Insistette, ma in testa presero a risuonargli le parole aspre di suo padre, che lo accusava di essersi lasciato sfuggire il trono di Vanheim per un soffio, consegnandolo a uno straniero.

Si distrasse per quello e per il sussulto improvviso della terra sotto di loro e mollò ulteriormente la presa; Sigyn ne approfittò per assestargli una gomitata e sgusciò via, incespicando nel buio e sui gradini scoscesi, invocando aiuto. Theoric tentò di afferrarla per i capelli e per poco non riuscì a ghermirla, ma il taglio corto si rivelò provvidenziale per la donna e, impedito com’era dagli abiti in disordine, non poté inseguirla, regalandole così preziosi, ma flebili, secondi di vantaggio. Era riuscita a sfuggirgli ben due volte, ma non sarebbe sopravvissuta a una terza. Non dopo averlo provocato a quel modo. Desiderava punirla e ucciderla e, presto, ci sarebbe riuscito. Gridò ancora, nella vana speranza che Loki o qualcun altro degli Asi o dei Vanir a lei fedeli, potesse udirla.

 

 

Il dio degli inganni camminò lentamente nell’acqua bassa e spumosa, ammirando soddisfatto la statua di ghiaccio e carne che aveva creato. In pochi minuti il mostro si sarebbe liberato, riversandogli contro tutto il suo rancore folle: doveva agire in fretta. Lanciò in aria il lungo pugnale affilato riprendendo al volo: lo avrebbe colpito a un occhio, facendo ben attenzione a non rimanere ferito lui stesso a seguito degli spasmi incontrollati dell’essere. Nel mezzo di questo ragionamento, lo sorprese il grido, non troppo distante, d’una donna, forse. L’eco attutita di una violenza o di un incidente di cui l’Ase non poteva certo occuparsi, perché c’erano cose più urgenti, da risolvere. Aveva fatto, per le donne rinchiuse nel Tempio, più di quanto fosse nei suoi progetti fare: salvarle tutte non era possibile e l’unica di cui gli importasse qualcosa ormai era al sicuro, all’accampamento con Freya e Njord. Valutò scientemente che quel grido non poteva distrarlo e scagliò il pugnale, che andò a segno. Il resto, lo aveva previsto fin troppo bene: il ghiaccio si frantumò, spezzato dal dolore e dal rancore del mostro. Subito dopo, l’intero sotterraneo tremò e vibrò orrendamente. Il dio degli inganni evitò i colpi ciechi e furiosi del mostro e si diresse, rapido, sotto la sua pancia esposta, dove il carapace lucente mostrava qualche punto debole. Era da lungo tempo che non gli capitava d’affrontare un simile abominio e fu contento di non avere sempre quella piaga dell’inopportuno fratello alle calcagna. Avrebbero litigato su chi dei due avesse il merito dell’uccisione del mostro per decenni, almeno. Infilò la spada tra una delle zampe della creatura e il corpo, intuendo che il colpo avrebbe potuto debilitarla: una strategia assolutamente perfetta, solo che[4].

 

Solo che il grido lontano si fece improvvisamente vicino e aumentò in intensità e volume assumendo una nota conosciuta, familiare. Le zampe del mostro mulinavano rabbiose nel tentativo d’infilzarlo e Loki trafiggeva, parava, scansava, mormorava rune, ma non poté fare a meno spendere una frazione di secondo per voltarsi e vedere chi cazzo aveva deciso di venire a crepare in quel sotterraneo.

La terra sussultava, l’acqua ribolliva, il mostro lo cercava, accecato dalla lama del pugnale e dal rancore. Il dio degli inganni vide Sigyn incespicare sugli ultimi gradini crepati e parzialmente distrutti che congiungevano il cunicolo alla dimora della creatura, venire afferrata da uno stravolto Theoric, rotolare assieme a lui. Lo fulminò il pensiero che una simile caduta le avrebbe fatto perdere il figlio maschio che aspettava, a cui lui non aveva fatto nemmeno in tempo ad abituarsi.

Allora era lei, che gridava. Lei.

Fu raggiunto da una delle zampe del mostro che non riuscì a parare né a evitare – aveva commesso l’errore di perdere la concentrazione – e si ritrovò in acqua, quasi senza respiro. L’arto dell’abominevole creatura ruppe le protezioni robuste dell’armatura d’Ase di Loki, perforando il metallo e incuneandosi, sebbene di poco, nella carne. Tentò di sollevarsi, ma la zampa dell’essere continuava a bloccarlo in quei pochi centimetri d’acqua che gli arrivavano alle ginocchia. Affogare così era svilente, ma certo non impossibile, se non fosse riuscito a rialzarsi in fretta. E poi c’era lei, per le Norne, lei. Loro, forse.

 

“Loki!” Il grido di Sigyn fu qualcosa di terribile, straziante.

Non poteva averlo visto davvero. Doveva trattarsi di un incubo o un’allucinazione. Il dio degli inganni era un Ase addestrato da Asi – anzi, uno Jotunn. Gente fiera, forte, abile e potente, tanto da essere considerata quasi invincibile. Invece Lingua d’Argento s’era voltato giusto il tempo per riconoscerla e poi era caduto sotto il fendente, implacabile, del mostro inferocito. L’acqua si tinse di rosso. Sigyn, ancora a terra, tentò di strisciare verso il bordo dell’acqua e di liberarsi del peso di Theoric. Anche l’uomo era sconvolto. Improvvisamente, la sua vendetta nei confronti della principessa dei Vanir aveva perso parte della sua attrattiva. Urlò, cercando di fuggire nuovamente verso il cunicolo, ma l’ultimo movimento tellurico aveva parzialmente coperto l’imbocco del cunicolo. Si rese conto con orrore che era intrappolato; l’unica sua fortuna era che, con tutta probabilità, il dio degli inganni sarebbe morto.

 

 

 

Continua…

 

 

L’angolo di Shilyss

Cari Lettori che siete arrivati fin qua,

Non mi ammazzate. Ho aggiornato questa storia dopo mesi e ho fatto finire il capitolo in maniera crudelissima, lo so, ma il prossimo episodio è già mezzo scritto e a stretto giro saprete come andrà a finire la storia. Il capitolo presenta numerose scene di violenza, me ne rendo conto, ma poiché non vi è alcuna descrizione né c’è niente di gratuito, ho lasciato il rating arancione. Se lo riterrete opportuno, provvederò ad alzare il rating a rosso.

Perdonatemi per questa botta di realismo che ho voluto regalarvi col personaggio di Theoric, che è negativo (voi direte: c’è bisogno della specifica? Purtroppo, non sapete quanto). Rappresenta la banalità del male, l’uomo della porta accanto che di fronte ai nostri “no” cerca vendette, che attribuisce l’infelicità del suo destino al fatto che Sigyn ha scelto Loki. Sigyn fu, in Tutte le tue bugie, sempre estremamente chiara nei confronti di Theoric, confessandogli immediatamente di amare un’altra persona.

Voglio ringraziare tutti coloro che hanno recensito, preferito, ricordato e seguito questa storia dal primo capitolo a… ora. Grazie davvero, ogni riga è per voi. Mi commuovo ♥. Parafrasando l’infinita Melania G. Mazzucco, posso dire che “solo chi crea conosce la gioia di sapere che la freccia scoccata verso il cielo non è caduta ai nostri piedi, ma ha colpito il cuore di qualcuno.”

Se la storia vi ha colpito, utilizzate le liste: farete felice un’Autrice ♥ (Fa anche rima). La Fatina dell’Ispirazione necessita sempre delle vostre cure per poter spandere i suoi glitter! Per ulteriori info e un po’ di divertimento… c’è la mia pagina facebook ♥ https://www.facebook.com/Shilyss/

Ricordo che Vanheim, con questo ordinamento sociale, politico e culturale è una mia idea e il Tempio eccetera è una mia idea: vi pregherei di non utilizzarla o, se proprio vi sentite ispirati, di inserire un disclaimer apposito in cui dichiarate i credits . Anche il personaggio di Sigyn, tolto quello che trovate alla voce “Sigyn” su Wikipedia, è una mia personale interpretazione/reinterpretazione/riscrittura.

A prestissimo,

Shilyss



[1] Come ricorderete negli scorsi capitoli. È l’episodio delle lame visto dal PoV di Sigyn.

[2] È la storia di Tutte le tue bugie, la prima long, come sempre.

[3] Sempre in Tutte le tue bugie, Sigyn finisce per accompagnare Loki e Njord in un’ambasceria ad Asgard.

[4] Ogni volta che incontrate l’uso ridondante di Solo che/Solo che riferito a Loki e a Sigyn il pensiero va alla minilong in 2 capitoli che ha fatto di questo espediente narrativo la sua forza: è la mia “Sposami, Sigyn.”

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Capitolo 8
*** Ultimi sospiri ***


Ultimi sospiri

 

 

Il dio degli inganni sarebbe morto, sì. Annaspava senza riuscire a liberarsi nel lago sotterraneo tinto di rosso, imprigionato nell’acqua bassa, ma ugualmente letale. Il mostro gridava di soddisfazione e dolore. Il sangue nero colava dall’occhio ormai perso attraverso il muso, scivolava sul naso e sulle fauci spalancate, si raggrumava sul corpo troppo simile a quello di un insetto. Theoric era sul punto di rigettare tutto quello che aveva nello stomaco. I Nove Regni ospitavano un numero impressionante di creature mostruose, molte delle quali calpestavano da sempre il suolo fertile e verde di Vanheim, ma nella capitale tali bestie non si erano mai viste. In passato, era capitato che qualche eroe in cerca di gloria s’inerpicasse nelle zone più isolate del territorio nel tentativo di portare a Njord un trofeo, ma da quando Loki Odinson si era installato alla corte del vecchio re, questi omaggi erano apparsi ai più come il vano dono d’un bambino a un adulto. E come poteva essere altrimenti, del resto? Nelle sale di rappresentanza dei sovrani dei Vanir, spiccavano i resti imbalsamati di un drago marino dalle fattezze gigantesche. Loki lo aveva ucciso e offerto a Njord quando il tentativo di infiltrarsi nella sua famiglia era ben lungi dal realizzarsi – ancora non si sbatteva Sigyn – e lui non era che uno zelante rifugiato in cerca di un tetto.

Theoric se lo ricordava ancora, il ghigno soddisfatto e sornione che aveva attraversato il viso affilato di quell’Ase furbo e astuto che si comportava come un principe anche nella terra degli altri. Il re era rimasto incantato dall’eccezionale omaggio, e i pochi nobili che erano soliti andare a caccia di mostruosità per offrirgliele, incapaci di competere con Loki, da quel giorno avevano smesso di praticare ogni attività venatoria che avesse per oggetto una qualche creatura d’incubo. Nessuno, a Vanheim, aveva mai ucciso un drago marino. Sigyn era quasi svenuta di fronte all’immagine del cadavere della bestia, lo sapevano tutti. Portava ancora le trecce e non era che una ragazzina, certo, ma a nessuno era sfuggito lo sguardo spaventato che aveva rivolto al dio degli inganni. E invece, adesso, arrancava in direzione del mostro impazzito che lui non riusciva neanche a guardare. Le afferrò un lembo della gonna per impedirle di scappare anche se farlo avrebbe significato finire tra le fauci del mostro, non per salvarla, ma per lavare una volta per tutte l’onta di cui lo aveva fatto oggetto rifiutandolo due volte: la prima, quando l’aveva chiesta in moglie e lei aveva nettamente rifiutato, la seconda, quando si era fatta mettere incinta dal dio degli inganni. Doveva essere lui a farlo, lui. Estrasse dalla cintura la daga che gli aveva dato suo padre per l’occasione, ma lei, scalciando, riuscì a rimettersi in piedi e a correre verso il lago sotterraneo e insidioso.

 

 

Il dio degli inganni stava annegando. Theoric la tirava per la gonna, la terra tremava, l’acqua era rossa. Sigyn iniziò a correre verso lo stagno sotterraneo, torbido e mortifero. Gridò il nome di suo marito attirando su di sé l’attenzione della creatura, che la guardò col suo unico occhio furente.

Dalle fauci uscì una voce metallica, aliena. “La principessa incinta di un re straniero,” cantilenò la bestia. “Ti aspettavo da tanto, tanto tempo.”

La donna scosse i capelli biondi, ora corti. Il terrore le ghiacciava le vene, le paralizzava i muscoli. Loki era sottacqua e si dibatteva senza riuscire a emergere, Theoric era alle sue spalle e, non fosse stato per il ribrezzo e l’orrore causato dall’immonda creatura con le sue forme imprecise e sconclusionate, l’avrebbe afferrata per ucciderla, ma intanto gridava all’essere di prendersi ciò che gli spettava, lei.

Quanti pensieri possono affastellarsi nella mente in pochi, tragici, istanti?

 

Il tempo si dilatò, per Sigyn. Assistette alla scena della sconfitta dell’Ase senza guardarla davvero. Loki sarebbe morto. Una delle zampe del mostro l’aveva infilzato e bloccato sott’acqua. Lui, il principe di Asgard dal sorriso furbo e affascinante che raccontava le sue imprese come fossero fiabe, tessendosi addosso l’immagine del condottiero invincibile, del mago sagace, del guerriero letale. Perché Loki era inafferrabile, sfuggente, imprevedibile. Lo specchio d’acqua divenne improvvisamente placido e calmo, segno che la lotta furiosa di Lingua d’Argento si era tragicamente compiuta. Sigyn cadde in ginocchio, gridò ancora. Pensò che voleva gettarsi in acqua, che Sonje non avrebbe visto più suo padre e doveva avere al suo fianco almeno lei. Col fiato corto, si premette la pancia, conscia della vita che le cresceva dentro.

Doveva proteggere la piccola cosa inconsapevole di tutto insediatasi in lei una notte in cui Loki, rientrato stanco e ammaccato da una spedizione assieme all’immancabile fratello, l’aveva cercata con più urgenza del solito e Sigyn, accarezzandogli i capelli umidi, cingendogli con le cosce i fianchi asciutti, gli aveva fatto una domanda terribile cui l’Ase non aveva risposto. Che hai fatto, Loki? Cosa stai cercando di dimenticare?

 

Ghignante, la creatura sollevò l’arto col chiaro intento di mostrare il cadavere dell’arrogante mago che l’aveva sfidata, ma qualcosa non andò esattamente come aveva previsto. Il corpo del dio degli inganni, che fino a poco prima aveva sentito dibattersi sotto il peso della sua zampa, non era infilzato: c’era solo lo spallaccio scheggiato e fracassato dal colpo. L’essere roteò su stesso, cercando la preda che credeva sconfitta, ma si paralizzò, perché l’arto che aveva immobilizzato l’Ase si era gonfiato e pulsava. Di più, la struttura ossea che lo ricopriva si sfaldava e così avvenne pure a un'altra estremità, come se le zampe ossee fossero venute a contatto con qualche terribile veleno.

“Non è così facile uccidermi, temo.” La voce ironica di Lingua d’Argento risuonò per la grotta carica di una sottile nota di divertimento, ma l’eco presente nella caverna rendeva difficile individuare il punto esatto da dove era giunta la frase, o forse anche quello era un incanto del mago. Sigyn si coprì la bocca con le mani e si voltò di scatto, credendo che le parole del marito provenissero da dietro le sue spalle. Così, in effetti, era. Loki era fradicio e ferito, ma vivo. Accanto a lei.

Le rivolse uno sguardo breve e attento e poi puntò lo sguardo oltre la sua testa, su Theoric, che si era faticosamente tirato su. Socchiuse le palpebre, come se volesse metterlo meglio a fuoco e quello, istintivamente, indietreggiò, mentre la giovane donna si alzava per assicurarsi che fosse vivo e accertarsi che la ferita alla spalla non fosse troppo grave.

“Tu! Tu sei qui!” boccheggiò, sollevata e sconvolta assieme.

 

Loki non rispose, limitandosi a frapporsi tra lei e tutto il resto, proteggendola, allo stesso tempo, da Theoric e dal mostro.

“Ne dubitavi, mia signora?”

I suoi piani variavano di minuto in minuto. Doveva mettere di nuovo e in via definitiva Sigyn al sicuro, spaccare la faccia a quel gran figlio d’un cane di Theoric – non gli era affatto sfuggito il disordine dell’abito di sua moglie e il corsetto slabbrato – porre fine alla miserabile esistenza del disgustoso mostro, persino.

“Cosa dice la tua bella profezia, mostro? Raccontacela, sono proprio curioso,” domandò a voce alta.

La bestia, furibonda e sofferente, gridò e si diresse verso l’Ase nel tentativo d’ucciderlo, spingendosi con tutto il suo peso verso l’angolo dove si stagliava la figura pallida e furente del suo avversario, esasperata dal continuo sparire e riapparire di quel mago beffardo e arrogante dalla lingua decisamente troppo lunga. Il dio degli inganni sorrise soddisfatto di fronte a quella scena spaventosa; debilitare il suo nemico deconcentrandolo, esasperandolo e facendogli smarrire la ragione faceva parte del suo astuto progetto.

“Scappa, Sigyn!” ordinò, lo sguardo fisso sull’ammasso di carne e sangue e artigli della creatura. “Tu no, fottuto bastardo: se ti muovi di un altro passo, ti aprirò dalla gola alle palle,” esordì, riferendosi a Theoric e puntandogli addosso, per un solo momento, i suoi occhi acuti e verdissimi.

 

“Che mi hai fatto? Che mi hai fatto?”

Il mostro si trascinò urlando verso la riva, sollevando acqua e sangue, assecondando inconsapevolmente la volontà del dio degli inganni, ma gli altri due presenti parevano non aver capito una parola di quanto il principe di Asgard aveva detto loro. Theoric si era avvicinato all’apertura della grotta, Sigyn non si era mossa di un passo ed era palese che non avrebbe lasciato il suo fianco.

Il dio degli inganni era furibondo. Doveva agire in fretta e il dolore alla spalla trafitta gli toglieva lucidità e forza, minando la sua fibra robusta. Non era certo la prima volta che veniva ferito in battaglia, tutt’altro, ma gli era capitato di rado che i suoi ordini non venissero prontamente eseguiti. Con un movimento rapido della mano, si preoccupò di creare uno scudo che bloccasse per qualche istante gli artigli ancora efficaci del mostro, quindi si rivolse al Vanir in fuga.

“Ma come, già ci lasci?”

Fece cadere a terra Theoric e lo bloccò, congelandogli le estremità per impedirgli di muoversi.

“Tu creperai qui,” gli spiegò crudele, ferendolo sulla guancia con l’ennesima delle sue lame nascoste, sottile e affilatissima. “Verrai sbranato da quell’essere.”

 L’uomo gridò d’orrore e di dolore e lo maledisse con sommo disinteresse del mago, che già aveva preso a concentrarsi sull’unica creatura che considerasse sua avversaria.

 

La bestia immonda distava solo pochi passi, ma non era ancora abbastanza vicina – Sigyn, invece, lo era troppo.

“Tu! Maledetto Jotunn travestito da Ase! Che mi hai fatto, che?”

“Esistono rune oscure che disfano il corpo: le ho usate su di te,” spiegò Loki serafico, sorridente, mentre nel palmo della sua bella mano di mago si andava formando qualcosa di tremendo, oscuro. L’acqua ormai rosata del lago iniziò a bollire, la terra sotto gli stivali del dio degli inganni vibrava sollevando polvere e piccoli detriti.

“Qual è la profezia, mostro? Cosa ti hanno promesso le Norne, dimmi. Perché ci aspettavi?”

Pallida in volto, Sigyn si accorse di quanto stava accadendo. Avrebbe dovuto – voluto – fuggire, ma l’idea di allontanarsi nuovamente da Loki la paralizzava. Stava cedendo a un panico irrazionale, che sopraggiungeva dopo giorni di tensione, un inseguimento, Theoric intrappolato che gridava insulti.

 

Avvenne tutto troppo velocemente perché la principessa dei Vanir potesse capire. Sentì pronunciare le rune, le ascoltò e pensò che fossero terribili, ma la loro memoria svanì dalla sua testa nel giro di un battito di ciglia. Il dio degli inganni era un mago potentissimo: lei lo aveva saputo da sempre, da quando, ancora bambina, lui aveva mutato il suo aspetto solo per il gusto di terrorizzarla[1]. Così era iniziata la loro conoscenza. Anche adesso la stava spaventando. Il sollievo si unì al terrore che le ispirava una simile propagazione d’energia che traeva le sue origini da qualcosa di antico come il mondo intero, se non di più.

Loki aprì il palmo della mano e, al suo centro, iniziò a formarsi qualcosa di così luminoso che Sigyn dovette chiudere gli occhi per non rimanerne abbagliata[2]. Quello che avvenne dopo, non lo seppe mai descrivere né comprendere a fondo. Sentì freddo: un gelo glaciale l’avvolse strettamente, quasi mozzandole il respiro.

Dopo, ci fu il terremoto. Loki la strinse a sé cingendole con un braccio la vita sottile: così facendo, la sostenne – di nuovo, la protesse alla sua maniera silenziosa e fiera, ma efficace, senza concederle null’altro se non quella stretta virile e decisa, eppure, allo stesso tempo, concedendole tutto. Seguirono una serie di sussulti che parevano provenire dal centro della terra stessa e anticiparono di pochi istanti un boato tremendo. Allora vennero le urla disarticolate e sentì la presa di Loki farsi più forte, le sembrò di udire la sua voce che cercava di tranquillizzarla. Batté le palpebre e i suoi occhi si abituarono con difficoltà alla luce, ma l’immagine che le si parò davanti, sconvolgente, per poco non la fece rimettere lì, nei sotterranei del Tempio.

La forza scaturita dalle belle dita di Loki non traeva la sua origine dalle viscere del sottosuolo, né dal cielo. Nasceva dal cuore impetuoso di quell’Ase bugiardo dal cuore fatto di ghiaccio, il cui battito, lento e regolare, Sigyn aveva imparato a riconoscere e ad amare. E quello che il dio degli inganni era capace di fare grazie alle sue oscure conoscenze era spaventoso. La bestia immonda gridava in preda a un dolore infinito, perché la sua carne era stata tagliata in più punti dall’affilato incantesimo del mago. Il corpo, ferito e martoriato, si corrodeva, si squagliava per effetto del primo attacco di Loki e del secondo.

 

 Solo che la maledizione lanciata era costata molto anche all’astuto e infuriato principe di Asgard, costretto a pagare un prezzo che  avrebbe tenuto nascosto fin quando le forze glielo avessero concesso.

“Morirai così, dissanguata, soffrendo,” annunciò tra i denti rivolgendosi alla creatura, mentre la testa gli girava e un preoccupante ronzio alle orecchie gli succhiava via la lucidità. “Tuttavia, visto che sono un dio misericordioso,” ironizzò, “posso rendere la tua morte più rapida e veloce,” promise – mentì. “Dimmi della profezia. Dimmi che ti aspettavi succedesse.”

La bestia si avvicinò ancora, trascinandosi nell’acqua sempre più bassa. Se non fosse stata ferita da Loki, da quella distanza con una delle sue zampe adunche avrebbe potuto ghermire lui o Sigyn o persino Theoric.

Il dio degli inganni era un guerriero spietato e fissava senza battere ciglio la scena orrifica, nonostante la bestia incespicasse rabbiosa nel tentativo di ucciderlo e vendicarsi di lui.

“Dimmelo,” l’incalzò e mosse le belle mani eleganti, ancora, per rendere ancora più atroce il tormento del suo incantesimo.

“Se usi tutto questo seiðr adesso,” boccheggiò la creatura, “come farai a salvare tua moglie e tuo figlio dopo?”

Raccogliendo improvvisamente le ultime forze, l’essere alzò la coda nel tentativo di abbatterla sul mago e su Sigyn.

“Se uso tutto questo seiðr è perché posso permettermelo!”

Loki sollevò il braccio e l’acqua del lago si piegò al suo comando creando uno scudo scintillante, magnifico, ricoperto di punte aguzze, che parò il colpo infliggendo nuove ferite al mostro e rompendone in alcuni punti il carapace. Migliaia di schegge di ghiaccio volarono nella sala.

Il dio degli inganni piegò le labbra in una smorfia di dispetto: avrebbe potuto uccidere l’orrendo essere: ne aveva ancora l’occasione e la forza, ma, se l’avesse fatto in quel preciso istante, non avrebbe mai saputo nulla dello strano presagio. La conoscenza in cambio di una salvezza certa. Se non ci fosse stata Sigyn, lì con lui, forse il dio degli inganni avrebbe tergiversato ancora, stuzzicando l’essere, spingendolo a confessarsi.

 

 

“Thor, dove sono Loki e Sigyn?”

Il re degli Aesir si guardò attorno, cercando di individuare la corta chioma bionda della cognata nella confusione causata dalle guardie Vanir e dalle povere donne finalmente liberate. Da qualche minuto la terra aveva preso a vibrare persino lì, nello spiazzo erboso che circondava la struttura ormai violata del Tempio.

“Lei non c’è,” insistette Freya, “non la vedo da nessuna parte.” Per mano teneva Sonje, incuriosita e, allo stesso tempo, impaziente di rivedere i genitori. Si era aspettata di vederli uscire trionfanti dal portone del tetro palazzo e invece, con sua somma delusione, non era ancora accaduto nulla di tutto ciò.

“Mio fratello sta usando il seiðr,” riconobbe il dio del tuono individuando l’origine delle scosse telluriche, ma evitò di dire alla donna che Sigyn avrebbe dovuto essere lì, con loro, finalmente libera. “Tua nipote sta bene. È con Loki,” la rassicurò. Il crollo improvviso di una buona parte dell’arco d’ingresso fece impallidire Freya e preoccupò il tonante.

“Zio Thor,” domandò la bambina tirando il guerriero per il mantello, “dove sono mamma e papà?”

Sono a uccidere chissà che mostro e ci stanno mettendo troppo tempo, pensò il giovane re.

“Si stanno divertendo senza di me,” sospirò. Diede una carezza leggera ai ricci neri della nipote e alla testa del gatto di pezza che la piccola portava sempre con sé e si diresse a passo svelto verso la tetra porta del Tempio. Vedendolo, quell’idiota di Loki si sarebbe senz’altro infuriato, ne era certo.

 

 

“Consegnami la principessa. Questo vostro figlio sarà la tua condanna, dio degli inganni.”

La conoscenza aveva un prezzo, sempre. Così si era pronunciato una volta Odino, quando lui e Thor non erano bambini. Forse, qualcosa di simile il vecchio sovrano l’aveva detto anche nelle giornate lugubri in cui la malattia gli corrodeva la ragione, ma a questo Loki non riuscì a pensare. Nei suoi ricordi, la voce di Padre Tutto era carica di una amarezza che sapeva di fiele e l’Ase si accorse di avere improvvisamente la gola e la bocca secche.

“Se nascerà, una catena indistruttibile ti condannerà a un supplizio eterno,” insistette il mostro.

Dopo che la protezione fatta di ghiaccio si era infranta sotto le zampate della creatura, il dio degli inganni aveva deciso che la profezia non gli interessava – non gli doveva interessare – e, così, aveva inflitto all’abominio il colpo letale, quello che avrebbe posto fine alla sua orrenda esistenza e sfiancato lui: un compromesso che gli era parso decisamente adeguato. Il seiðr si era liberato fluendo via dal suo sangue, dalla sua carne, dalla sua anima, persino, scatenando un terremoto che, nel giro di pochi minuti, avrebbe fatto crollare l’intera volta della grotta sotterranea e inghiottito per sempre il Tempio.

Grazie al sortilegio invocato dall’Ase, le ferite già inferte all’essere immondo avevano iniziato a peggiorare, la carne attorno a marcire sempre più rapidamente; il mostro, furibondo, era impazzito dal dolore e aveva tentato di avventarsi ancora una volta su di loro. Loki era riuscito a proteggere Sigyn e se stesso, a guadagnare l’imbocco del tunnel che conduceva verso l’uscita, persino. Qui, Theoric, ancora bloccato nel ghiaccio, lo aveva afferrato per una manica.

“Non puoi lasciarmi qui!”

“Non posso?” Loki si era voltato e aveva sorriso, furibondo. Approfittando del momento, il mostro morente aveva tirato fuori la sua ultima possibilità di vincere svelando il segreto che custodiva da millenni. Ma la sua voce, spaventosa e melliflua insieme, aveva tolto colore al viso di Sigyn e impietrito lui, Lingua d’Argento.

“Consegnami la principessa. Questo vostro figlio sarà la tua condanna, dio degli inganni. Ecco quello che volevi. Nel suo grembo c’è il lupo che divorerà tutti voi.”

 

La conoscenza ha un prezzo, sempre.

Sigyn si volse verso l’unico occhio del mostro, per poi spostare lentamente lo sguardo sul marito e osservarlo. Tremando, scrutò il suo profilo affilato e si accorse che l’ingannatore giudicava vera la frase del mostro agonizzante, per via di quel suo potere in grado di separare la realtà dalla menzogna. Lo vide serrare la mascella, battere le palpebre e, infine, scuotere appena la testa, per poi riprendersi e rispondere immediatamente a tono.

“E io scatenerò il Ragnarok: così dice la Voluspa.” La voce di Lingua d’Argento era asciutta, incolore. “È solo una profezia,” decise noncurante, ricordando Frigga che vedeva il futuro e, quand’era bambino, la sera gli carezzava i capelli scuri spiegandogli che le predizioni spesso erano ambigue e nascondevano nelle loro frasi oscure più sensi, infiniti significati[3].

 

 

Continua…

 

 

L’angolo di Shilyss

Cari Lettori che siete arrivati fin qua,

Quando ho iniziato a scrivere “Oltre l’inganno” desideravo che fosse una raccolta di shot che coprissero i missing moments esistenti tra Tutte le tue bugie e Giochi Pericolosi, nonché la comica Altro che il Ragnarok. Il risultato è stato questa storia ibrida che, tuttavia, ha una sua coerenza interna. Il prossimo capitolo sarà l’ultimo della vicenda del Tempio e, credo, della raccolta. Piccole precisazioni: non sono una fan sfegatata del fantasy, quindi il mio modo di intendere la magia potrebbe farvi storcere il naso, ma a me fanno storcere il naso gli incantesimi in generale, quindi… boh XD.

Theoric, è un personaggio negativo (voi direte: c’è bisogno della specifica? Purtroppo, non sapete quanto). Rappresenta la banalità del male, l’uomo della porta accanto che di fronte ai nostri “no” cerca vendette, che attribuisce l’infelicità del suo destino al fatto che Sigyn ha scelto Loki. Sigyn fu, in Tutte le tue bugie, sempre estremamente chiara nei confronti di Theoric, confessandogli immediatamente di amare un’altra persona. Più chiara di così.

Voglio ringraziare tutti coloro che hanno recensito, preferito, ricordato e seguito questa storia dal primo capitolo a… ora. Grazie davvero, ogni riga è per voi. Mi commuovo ♥. Parafrasando l’infinita Melania G. Mazzucco, posso dire che “solo chi crea conosce la gioia di sapere che la freccia scoccata verso il cielo non è caduta ai nostri piedi, ma ha colpito il cuore di qualcuno.”

Se la storia vi ha colpito, utilizzate le liste: farete felice un’Autrice ♥ (Fa anche rima). La Fatina dell’Ispirazione necessita sempre delle vostre cure per poter spandere i suoi glitter! Per ulteriori info e un po’ di divertimento… c’è la mia pagina facebook ♥ https://www.facebook.com/Shilyss/

Ricordo che Vanheim, con questo ordinamento sociale, politico e culturale è una mia idea e il Tempio eccetera è una mia idea: vi pregherei di non utilizzarla o, se proprio vi sentite ispirati, di inserire un disclaimer apposito in cui dichiarate i credits . Anche il personaggio di Sigyn, tolto quello che trovate alla voce “Sigyn” su Wikipedia, è una mia personale interpretazione/reinterpretazione/riscrittura.

A prestissimo,

Shilyss



[1] Come raccontato nel capitolo 2 di “Giochi Pericolosi.”

[2] Cari Lettori, io ve lo dico: non amo particolarmente le saghe fantasy e non le leggo abitualmente, quindi non conosco le “regole” della stregoneria in tal senso e ho proposto una mia visione della magia, che ha un costo in termini di utilizzo e che appare… così. Non ho idea se la cosa vi stonerà o meno, ma spero di non avervi delusi!

[3] Come raccontato nel capitolo 2 di questa minilong.

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Capitolo 9
*** Vali ***


Capitolo 9

Vali

 

“Consegnami la principessa. Questo vostro figlio sarà la tua condanna, dio degli inganni. Ecco quello che volevi. Nel suo grembo c’è il lupo che divorerà tutti voi.”

“E io scatenerò il Ragnarok: così dice la Voluspa. È solo una profezia,” ribatté Loki. Si liberò con un gesto secco e infastidito di Theoric, che ancora osava trattenerlo per la manica e sfidò il vaticinio del mostro morente con la protervia ereditata suo malgrado da Odino, ma aveva visto. La visione gli era penetrata nella mente incuneandosi come una freccia e lasciandogli addosso la gelida sensazione di un destino ineluttabile, di una sofferenza che prometteva di essere lunga e atroce. Per un momento aveva sentito davvero il veleno scorrergli sulla pelle già martoriata, aprendo ferite vecchie e nuove. Raddrizzò ulteriormente le spalle già altere e promise morte e distruzione all’essere di fronte a lui – pronunciò nuove rune a costo di sfidare la sorte, per punire quell’essere orbo che osava predire una fine oscura non solo a lui, che ne era senz’altro degno, ma al figlio che la sua giovane moglie portava ancora nel grembo. Sarebbe morto meno in fretta, decise, ma con più dolore.

“Ha usato un altro incantesimo, mostro! Ti vuole distrarre!” proruppe Theoric troppo tardi perché la creatura potesse fare qualcosa, con la voce lamentosa e infinitamente bassa di chi sa di aver perso.

L’incubo emise un urlo inarticolato, perché la carne putrescente aveva preso a bruciare e quelle grida terribili, atroci, si accompagnarono a una scossa violenta, a una luce abbacinante che ferì l’occhio ancora sano della bestia sorprendendo sia Theoric che la principessa dei Vanir. Loki si spostò di lato per proteggere col proprio corpo la moglie e mosse il braccio sano per sfiorarla – la profezia riguardava anche lei, loro, e Sigyn ignorava che conoscere il futuro non regalava alcuna certezza. I profeti parlavano per enigmi, metafore e le loro parole avevano senso solamente quando ormai appartenevano al passato. Prima erano un’incomprensibile maledizione, nient’altro.

Gli antichi tunnel scavati nella terra tremarono per l’onda d’urto provocata dal seiðr e dai colpi ciechi che la bestia, resa pazza dal dolore, dava senza cognizione alcuna nel disperato tentativo di ucciderli. Desiderava portarli con sé nell’oltretomba, ma se non ci fosse riuscita lei, ci avrebbero pensato senz’altro i corridoi sotterranei del Tempio, tragicamente sul punto di collassare. Uno degli artigli scarnificati colpì il soffitto dello stretto passaggio e poi graffiò la parete più vicina a dov’erano loro, nel solo e unico tentativo che gli restava per ghermirli.

“Dobbiamo allontanarci,” sibilò Loki. La tracotanza che gli era propria venne seppellita dalla puntuale consapevolezza che stavano correndo il serio rischio di morire lì sotto, intrappolati come topi, tra le fiamme.

L’estremità ossea e sanguinolenta grattò ancora il muro e, ritraendosi, scheggiò e ruppe la trappola di ghiaccio in cui era imprigionato Theoric. Il Vanir, terrorizzato, afferrò il mantello nero di Loki e prese a gridare nuovamente con tutto il fiato che aveva in gola, tra le schegge trasparenti. “Non puoi lasciarmi morire! Andrò dai Nani, dagli Elfi, lascerò Vanheim! Mio padre…” boccheggiò, ma l’ingannatore lo afferrò per la gola e strinse, sentendo la carotide pulsare sotto le sue dita. Sulla pelle l’uomo aveva ancora il segno rosato lasciato dal pugnale dell’ingannatore nella sala del consiglio[1]. Avrebbe dovuto solamente premere con più forza le dita.

“Tuo padre saprà che sei crepato accidentalmente qui sotto,” ghignò l’Ase, “e che io ho tentato con tutte le mie forze di salvarti. Che sfortuna!” sorrise, e lo spinse via, verso l’imboccatura, in direzione dell’artiglio cieco e rabbioso che, ancora, cercava le loro carni. Lo aveva condannato a qualcosa di peggiore che morire per mano sua; uno spettacolo cui avrebbe voluto assistere, che attendeva da tempo – dal giorno in cui, nella sala del trono, aveva osato intervenire per vendicarsi della libera scelta di Sigyn o forse da prima, dal momento in cui aveva preteso che lei si fidanzasse con lui, ma avrebbe dovuto rinunciare a un simile piacere e scappare, percorrere i tunnel prima e uscire di lì, mettersi in salvo[2]. Theoric incespicò, cadde; il mostro, avvolto dalle fiamme e animato da una qualche forza millenaria e oscura, gli si avventò contro. Tentò di rialzarsi e fuggire tra le urla, ma subì la stessa infelice sorte di Loki: la sua carne venne perforata dallo scheletrico artiglio[3].

“Andiamo, presto!” L’ingannatore spinse Sigyn verso l’uscita; non c’era niente da vedere, ma lei fece resistenza e gli si appese al braccio. “Così suo padre penserà che è morto da eroe.”

“Lo so, ma non abbiamo tempo, è spacciato,” replicò stizzito. In un altro momento, avrebbe senz’altro apprezzato l’arguta e analitica valutazione di sua moglie; le avrebbe detto con una punta di soddisfazione che era così che parlava una regina, ignaro del fatto che, nel giro di pochissimi mesi, Sigyn avrebbe davvero sfoggiato la corona dei Vanir sul proprio capo[4].  Sì, senz’altro si sarebbe messo a lodarla per le sue considerazioni razionali e brillanti, ma non l’avrebbe ascoltata perché Theoric doveva pagare per ogni volta che aveva posato le labbra sulla sua pelle, per ogni occasione in cui si era illuso che gli appartenesse. La tirò via ripetendole che era troppo tardi e dovevano mettersi in salvo; non poteva più usare incantesimi perché era sfinito e i cunicoli stavano diventando insicuri. Non riuscirono a fare nemmeno un paio di passi: una scossa improvvisa fece crollare il soffitto e Loki dovette fare un balzo indietro per impedire di venire colpito dai sassi e dai detriti. Dietro di loro, Theoric urlava. Erano rimasti intrappolati.

 

 

Thor non raggiunse mai la grotta sotterranea col suo lago, non vide il mostro morto dopo aver infilzato con un artiglio l’ultima delle sue vittime. Osservò con orrore il tunnel crollato, però, chiedendosi se Loki e sua moglie fossero ancora vivi o meno. Il re degli Æsir aveva già pianto la morte di suo fratello in almeno due occasioni: con un brivido rammentò la fitta di dolore provata quando l’altro s’era lasciato cadere nell’abisso oltre il Bifrost, la disperazione assoluta che gli aveva stretto il cuore nel vederlo esalare l’ultimo respiro nella terra degli Elfi Neri. Morire sotto una frana non gli si addiceva, non era possibile: Loki era troppo scaltro e pieno di sé per accontentarsi di una fine del genere – eppure c’era una qualche grandezza nel rimanere sepolti vivi sotto un Tempio vecchio quanto l’Yggdrasill dopo averlo distrutto. Pensò a Sonje e all’occhiata supplichevole che gli aveva rivolto vedendolo andare via, al suo broncio così simile a quello dell’unica persona capace di capirlo con uno sguardo, in grado di ricordare il tempo in cui Odino e Frigga erano i sovrani di Asgard e i Nove Regni erano diversi. Se suo fratello fosse morto, una parte di Thor – la giovinezza – sarebbe svanita con lui per sempre. Alzò Mjollnir, limitandone l’intensità in maniera tale da evitare nuovi crolli e pregando intimamente le Norne che il muro di detriti di fronte a lui non fosse la tomba di Loki e di Sigyn, che il suo intervento non peggiorasse le cose. La potenza dell’antica reliquia scaturì in tutta la sua violenza, incanalata da una forza che non dimorava unicamente nel braccio poderoso del dio del tuono, ma risiedeva nella sua anima volitiva di re guerriero. I detriti si fecero polvere e Thor davanti a sé non vide né udì nulla. Poi, lo raggiunse un fascio di luce che anticipava qualcosa di potente, vibrante, vivo e conosciuto, un’onda di potere che si scontrò con quella del proprio martello: il seiðr di quell’impiastro di Loki.

A causa della fitta nube generata dai detriti, Thor iniziò a tossire. Lo raggiunse un rantolo sofferente e pensò che suo fratello fosse ferito. Lo chiamò, muovendosi alla cieca.

“Ah, finalmente. Muoviti, aiutami a togliere questi massi; non ci passiamo.” La voce di Loki era carica di un velo di dolore che il tonante riconobbe subito.

“Sei ferito!?”

“Un graffio,” fu la risposta laconica e vagamente scocciata dell’Ase, che ancora non era altro se non una voce seminascosta dalle pietre

“Ha una spalla ferita!” Lo corresse Sigyn e, nella nota ansiosa che colse nella voce di lei, Thor capì che le condizioni di suo fratello erano peggiori di quanto lui non volesse ammettere.

“La stessa che gli ho rotto?” s’informò con sospiro avanzando nel cunicolo liberato e spostando i vari massi[5]. Si riferiva all’ultimo scontro avuto col fratello, quando Loki aveva chiesto la mano di Sigyn. “Sì,” sospirò la donna.

“Allora gli farà male. Arrivo.”

Spostò un enorme macigno che ostruiva il passaggio e, finalmente, se li ritrovò davanti, scarmigliati e impolverati. Lo colpì immediatamente l’aspetto sofferente di suo fratello. Parte dell’armatura era stata spazzata via ed entrambi gli spallacci erano andati distrutti. L’ingannatore era pallido, segno evidente di come avesse usato troppa magia e perso un’eccessiva quantità di sangue. Si teneva in piedi più per la propria determinata insolenza che per altro, decise.

“Ti sei perso il meglio,” l’informò Lingua d’Argento con uno scintillio divertito negli occhi, ma faceva fatica a parlare. “C’era un mostro. All’inizio pareva una noiosa ninfa, ma poi… oh, avresti dovuto vederla: aveva degli artigli spaventosi,” raccontò stirando le labbra in un sorriso sofferente. La difficoltà nell’articolare le frasi non nascondeva l’entusiasmo per aver ucciso da solo un mostro tanto orribile, ed era lo stesso di quand’erano ragazzi e ogni creatura affrontata e abbattuta era una meraviglia da condividere.

Il re di Asgard si sporse per cercare di vedere i resti dell’essere, ma un altro crollo aveva chiuso definitivamente la sua tomba. Sospirò scocciato. “Lo vedo dall’armatura che è stato un incontro interessante. Vi siete abbracciati? Hai un aspetto orribile Spero ti sia preso almeno una reliquia.”

“Troppo seiðr.” Loki s’inumidì le labbra accostandosi a suo fratello. “Lei… lei è incinta,” spiegò, “devo portarla subito via di qui. Tu…” Raccolse le parole, aggrottò la fronte. Era stremato.

“Tu occupati di Theoric, Thor. Non vogliamo che muoia come un eroe, qui sotto,” concluse per lui Sigyn.

“Ma meriterebbe di crepare,” sibilò l’ingannatore gettando un’occhiata al corpo che giaceva poco distante da loro.

Il giovane re seguì lo sguardo di suo fratello e vide Theoric riverso a terra. Un pezzo d’osso – l’immenso artiglio del mostro – era conficcato nella sua carne, vicino alla schiena. Sigyn fissava il ferito a labbra strette; aveva gli occhi accesi da un furore inaspettato e il re di Asgard pensò che il tono secco usato da sua cognata tradiva una storia che non gli era stata ancora raccontata, ma di cui erano intuibili diversi dettagli.

“Ecco dov’è la tua reliquia,” commentò con un filo d’ironia rivolgendosi all’ingannatore.

“Incantevole, non trovi?”

La risposta di suo fratello era stata ironica e caustica e Thor lo fissò negli occhi. “Non guarirà mai del tutto. Farlo sopravvivere potrebbe essere una crudeltà.”

Loki stirò le labbra mostrandogli i denti bianchi e regolari, sfoggiando un sorriso feroce, senza gioia. “Tutti devono qualcosa al dio degli inganni. Riportagli suo figlio,” concluse.

Il tonante spostò lo sguardo su Sigyn e, vedendola appoggiare silenziosamente il marito, annuì.

 

 

Sonje sollevò il grosso gatto di pezza e fissò i suoi occhi fatti con due bottoni. “Mamma e papà torneranno presto, Tooh. E anche zio. Tu non devi piangere,” spiegò con aria grave. Era quasi ora di cena e Freya le carezzò la testolina bruna sperando che la smettesse di fare capricci e mangiasse qualcosa. Consolava l’animale per tranquillizzare se stessa, ma c’era una scintilla di fierezza, in lei, che le fece pensare a Loki.

La piccola si girò verso la prozia scuotendo la testa, trattando. “Cinque minuti, ancora cinque minuti!” supplicò preparando delle lacrime strazianti.

Sigyn, ricordò la donna, era stata una bambina più tranquilla, mite, silenziosa. Bastava darle un libro e si metteva a leggere per delle ore, addormentandosi col volume tra le dita. Freya all’epoca aveva lodato il carattere obbediente della nipotina, ma si era chiesta che destino l’attendesse e quale uomo avrebbe potuto farle da marito. Aveva creduto che un nobiluomo cortese e gentile riuscisse a farla felice e non si era opposta affatto quando Theoric aveva chiesto di fidanzarsi con lei. Chi altri avrebbe potuto invaghirsi di una ragazzina troppo seria com’era lei?

Il più improbabile e meno indicato di tutti: Loki. Il feroce Ase che si era trasformato nel padre di una bimbetta a cui persino la figlia di Njord trovava difficile dire di no, specie se entrambe non desideravano altro se non vedere le ombre di Sigyn e dei due Æsir spuntare dalle macerie del Tempio.

“Sonje, non puoi restare qui, andiamo,” mormorò con un filo di voce prendendole la mano. La bambina obbedì trascinandosi dietro l’inseparabile animale di pezza e mettendo svogliatamente un piede davanti all’altro, ma prima di arrivare alla tenda della donna si voltò un’ultima volta e proruppe in un grido estasiato.

Erano tornati. 

La bambina corse incontro ai genitori e puntò senza esitazione alcuna l’adorato padre. La penosa risalita aveva messo a dura prova Loki; il pallore che rendeva ancora più affilati i suoi tratti era evidente e non riusciva più a nascondere gli effetti del colpo inferto dal mostro, ma questo non impedì a Sonje di avvicinarglisi e buttargli le braccia al collo scoccandogli un sonoro bacio sulla guancia, felice che fosse tornato. Fu Thor a venire in soccorso del dio degli inganni; prese in braccio la bambina, mentre, con l’altro, sostenne appena il fratello e imboccò la direzione che conduceva alla tenda dei guaritori, seguito dappresso da Sigyn. Vedendo la madre con i capelli corti Sonje scoppiò in un pianto rapido e breve – amava toccare le lunghe ciocche bionde e s’incantava nel vedere come fossero simili all’oro delle collane, identica, anche in questo, a suo padre.

“Ricresceranno,” la consolò Thor, gettando un’occhiata divertita alla smorfia dipinta sul volto affilato suo fratello, anche lui profondamente indispettito per la drammatica perdita dell’incantevole capigliatura d’oro della principessa dei Vanir.

 

 

Era scesa la notte, ormai. Sigyn trasse un lungo, lento respiro: l’incubo era finito. Stava bene. Era stata visitata e le sue condizioni, salvo un paio di graffi e di lividi che le erano stati prontamente medicati, erano più che buone. Nonostante il terrore provato e la caduta, anche il bambino stava bene. Era opportuno che trascorresse per precauzione qualche giorno a letto, tutto qui. E Loki era già in piedi, ovviamente. Aveva preso a girare per l’accampamento con un braccio appeso al collo, come se niente fosse. Di fronte alle sue perplessità circa la mancanza di riposo cui si costringeva il marito, Thor si era stretto nelle spalle. “È un Ase e un guerriero valoroso,” aveva commentato laconico.

A Sigyn si era stretto lo stomaco. Non aveva mai visto suo marito nelle oscure vesti di mago. Le era capitato diverse volte di vedere il dio degli inganni tornare da una battaglia e, in un paio di occasioni, il principe era stato ferito in maniera anche abbastanza seria, ma non lo aveva mai osservato mentre usava il seiðr per offendere né uccidere i propri nemici. Si era sentita male quando, tronfio e pieno di sé come al solito, aveva offerto in dono a Njord nientemeno che un serpente marino e lui l’aveva canzonata bonariamente, ma questo accadeva molti anni prima, quando ancora lei e quello che sarebbe diventato suo marito neanche litigavano ai banchetti.

“Piccola principessa, adesso non ti può fare niente. Dovevi vederlo prima,” le aveva detto sfoggiando il suo sorriso di lupo.

 

Un lupo. Al ricordo, il suo cuore perse un battito: presa com’era dal desiderio di mettersi in salvo assieme alla propria famiglia, Sigyn aveva relegato in un angolo della mente la profezia fatta dal mostro prima di morire. Si toccò la pancia dove cresceva suo figlio: davvero avrebbe dato alla luce colui che sarebbe stato in grado di distruggere Loki? Sentì il palato farsi secco, la bocca amara. Per un momento la creatura dentro di lei le apparve estranea – il figlio maschio del dio dell’inganno, un uomo che, a sua volta, si era macchiato della colpa di aver ucciso il proprio padre naturale e combattuto contro quello adottivo. La scia di sangue che legava tra loro Odino, Laufey e Loki si sarebbe allungata coinvolgendo anche lei, loro, Sonje, il piccolo senza nome? Erano maledetti, costretti a ripetere i loro errori?

Si sedette lentamente sul morbido giaciglio della tenda, chiedendosi quanto dolore le avrebbe riservato il futuro, se l’amore potesse frenare una catena inevitabile di eventi, cosa Loki pensasse davvero del vaticinio cui aveva risposto con tanta leggerezza e perché il mostro voleva lei. Cosa avevano interrotto distruggendo il Tempio retto dalla Sacerdotessa Sublime, la cui morte era ancora impressa nella sua mente?

Il flusso di pensieri e ricordi venne bloccato dall’entrata nella tenda del dio degli inganni in persona, seguito a ruota da Sonje, che gli saltellava attorno entusiasta e lo tirava per la lunga giacca.

“Ho parlato con i guaritori,” annunciò diretto.

Lei annuì, pronta ad accogliere tra le sue braccia la bambina, in cerca di un bacio e un abbraccio. La strinse a sé respirando il suo profumo dolce, di biscotti e infanzia. La profezia era sempre lì, in un angolo del suo cuore, spaventosa.

“Mamma, tu e papà avete fatto pace, dovete baciarvi,” ordinò la bimba, “l’ha detto zio Thor.”

Sigyn lanciò un’occhiata interrogativa al marito e l’Ase, sospirando, si avvicinò alla branda dove lei era seduta.

“Da quando obbedisci alle richieste di tuo fratello?” domandò lei inarcando un sopracciglio.

“Tua figlia non mi lascia in pace,” spiegò il dio degli inganni tra i denti, “ed è una proposta che non trovo poi così sgradevole,” ammise. Le mise una mano sulla nuca scoperta e l’attirò a sé, baciandola, finalmente, sulle labbra, ghermendole un sospiro. Si guardarono negli occhi e l’Ase vide un’ombra scura negli occhi di sua moglie. Sigyn abbassò il capo e Loki si rivolse alla figlia col tono grave che usava quando voleva spiegarle qualcosa d’importante o desiderava che le obbedisse.

“Adesso vai da tuo zio, ho bisogno di parlare da solo con la mamma.”

Sonje sarebbe voluta rimanere con i genitori, ma annuì con una certa riluttanza e, dopo aver riempito Sigyn di baci, si decise a imboccare l’uscita della tenda.

L’ingannatore seguì con lo sguardo la bambina finché non vide che Thor l’intercettava. “Si chiamerà Vali,” esordì guardando sua moglie negli occhi. “Avrà i tuoi colori.”

Lei si accarezzò il ventre piatto. Voleva chiedergli cosa avrebbe preso da lui, invece. “Ti farà del male?”

Loki non rispose immediatamente. Socchiuse gli occhi e si concesse un lungo sospiro. “Le profezie sono oscure e vanno interpretate. Ce ne sono di orribili su di me. In effetti, alcune si sono rivelate esatte,” proseguì osservandola, in attesa di una reazione.

Sigyn si guardò le mani piccole e bianche, prive della bella fede fatta dai Nani. Poi volse il capo verso di lui. “Cos’hai visto?”

“Scene senza importanza e altre che sembravano fondamentali. Ma sono frammenti di futuro. Allontanate dal loro insieme sono incomprensibili, ingannevoli.” Nei suoi occhi verdi scintillò una luce feroce e Sigyn si chiese con un brivido se Vali avrebbe ereditato quello sguardo. “Dimmi quello di cui hai paura,” l’incalzò lui.

“Tu hai ucciso Laufey. Tu hai combattuto Odino. Lui combatterà te? Che voleva dire?”

Loki s’inumidì le labbra, in cerca di un modo semplice per spiegarle un concetto ostico su cui lui aveva riflettuto per anni senza giungere a una reale soluzione. Infine, trovò l’esempio calzante.

“Per Sonje sei quasi morta. Se ti avessero fatto una profezia su di lei, sarebbe venuto fuori che tua figlia ti avrebbe quasi uccisa due volte. Sono solo parole,” concluse sfiorandole le dita e intrecciandole con le sue.

Al ricordo del parto e dello scampato processo, gli occhi di Sigyn si fecero lucidi. “E sarei morta, per lei. La amo più di me stessa,” gli confessò. Fece una pausa e poggiò la testa sulla spalla sana del marito. Lui la lasciò fare.

“Perché mi aspettava? La principessa incinta di un re straniero,” ripeté.

“Le era stato promesso che, se ti avesse incontrata, sarebbe stata libera. In effetti è così, non è più prigioniera.”

Sigyn sospirò accigliandosi. “Non è la verità. Non tutta, almeno.”

“Non eri tu. È Vali. È lui che temevano. Non volevano che nascesse.” Loki sciolse l’intreccio delle loro dita e le sfiorò il ventre snello. Sentì la nuova vita che cresceva in lei e aveva già visto.

“Perché?” l’incalzò la dea della fedeltà.

“Perché per difenderlo avremmo distrutto il loro ordine. Perché lui è legato a Vanheim in un modo che noi non comprendiamo ancora e che a loro non piaceva.”

“Prima dicevi che le profezie sono solo parole,” mormorò Sigyn alzando appena la testa dorata per guardarlo negli occhi.

“Dicono che nostro figlio sia il lupo della profezia,” ammise Loki, “quello che distruggerà il mondo così come lo conosciamo. La Sacerdotessa e quelle prima di lei desideravano mantenere l’ordine e difenderlo dal caos. È il prezzo da pagare per avermi sposato, temo. Un destino avvelenato. In fondo, io scatenerò il Ragnarok, Sigyn. Ma che significa, davvero? Nostro figlio non può essere da meno. Non fidarti delle profezie: se ci crederai, si risolveranno nel peggiore dei modi.”

“Tu menti e vuoi solo consolarmi.”

“Tu hai sposato il dio degli inganni e hai scelto di essere la madre dei suoi figli. Sei coraggiosa, piccola Vanir.”

 

 

 

“Un’altra volta! Raccontamela un’altra volta!”

Nonostante l’ora tarda, Sonje era ancora sveglissima. Gli occhi verdi e vispi scintillavano d’ammirazione per la storia magnifica che Thor le aveva raccontato già tre volte, facendo ben attenzione a usare sempre le medesime parole. La bambina stringeva tra le braccia il grosso gatto di pezza e non riusciva a stare ferma con i piedi. Colpa della comparsa scenica dei suoi genitori e della notizia magnifica che l’aveva riempita d’orgoglio.

“Com’è avere un fratello, zio Thor?”

Una gran seccatura, una che non t’immagini neanche, avrebbe voluto rispondere il re di Asgard. Invece, l’Ase si limitò a scompigliare i ricci neri della nipote.

“Vi divertirete un sacco, insieme,” predisse fiducioso, lanciando un’occhiata alla tenda semiaperta dove si intravedeva la testa bruna del dio degli inganni e parte della sua spalla fasciata. Rannicchiata accanto a lui, con la testa posata sul braccio sano, dormiva Sigyn. Thor sapeva benissimo che suo fratello stava astutamente fingendo di dormire. Gli tornò alla mente una conversazione antica, avuta in una fredda alba, ad Asgard.

“Come tu e papà?”

“Ma certo, piccolina,” la rassicurò e, con stoica pazienza, prese a raccontare per la quarta volta e forse non ultima volta di come l’astuto dio degli inganni fosse riuscito, da solo, a espugnare il Tempio e a salvare la sua sposa prigioniera e tutte le altre donne lì rinchiuse, arrivando persino a uccidere un orrendo mostro.

Loki, poco distante, socchiuse appena un occhio e valutò che suo fratello era un pessimo narratore e che il motivo del suo fascino era racchiuso nel suo ristretto pubblico: una bambina che non aveva ancora sviluppato il buon gusto e mostrava per il tonante una dubbia predilezione e un gatto di pezza che, per sua fortuna, di stoffa aveva anche le orecchie. Quasi senza accorgersene, lasciò scivolare una mano sulla pancia piatta e tesa di Sigyn e così s’addormentò.

 

Continua?

 

L’angolo di Shilyss

Care Lettrici e cari Lettori,

Anzitutto, grazie e scusate. Scusate per aver aggiornato dopo un anno esatto dall’ultimo capitolo, grazie per aver avuto fiducia nel fatto che finissi questa storia.

Significa tanto ♥, soprattutto in questi giorni. Scrivendola ho scoperto di amare immensamente quest’universo che ho creato e Sonje e Vali, tanto che ho deciso di proseguire “Giochi pericolosi,” che è il diretto seguito di questa storia. Avendo tante long in ballo non sarà semplicissimo, ma… ho fiducia. E spero di sentire il vostro sostegno ♥♥ è importante, davvero.

Per questo capitolo il merito va al pungolamento di Ciop ♥: con insistenza, pazienza e intelligenza mi ha convinta a mettere la parola fine alla storia del tempio.

 

Come avrete notato, non ho chiuso la raccolta. Questo perché sono previste altre due shot (nel progetto originario erano plottate) quindi… può darsi che le troverete, ecco.

Sul finale: Loki doveva salvare Sigyn e l’ha salvata, ma Theoric non è morto. So che lo volevate vedere stecchito, ma Loki gli ha riservato una fine peggiore. Gli ha salvato la vita e lui non guarirà mai del tutto dalle sue ferite. In questo modo non sarà mai un eroe. Sul tempio: Sigyn e suo figlio dovevano essere divorati dal mostro perché su Vali pesa una maledizione, un presagio. È un qualcosa che viene accennato appena e troverà spiegazione in Giochi pericolosi. Vi ho dato un bello spoiler, sappiatelo.

 

 

Per ulteriori info, tante foto di Loki, di Sigyn e di Tom e un po’ di divertimento… c’è la mia pagina facebook   https://www.facebook.com/Shilyss/ . Sbirciate pure nel mio profilo per leggere altre storie: vi consiglio la madre di questa saga, “Tutte le tue bugie” l’ultima Scintille nel buio , ormai ufficialmente una long! ♥ ^^. Tra l’altro anche questa storia parla di Sigyn e di un ordine religioso, ma in verità questo è un mio kink e le due storie non hanno niente in comune. ^^

 

Ricordo che Vanheim, il Tempio, così come sono intesi e descritti, con questo ordinamento sociale, politico e culturale sono una mia idea: vi pregherei di non utilizzarla ♥. Anche il personaggio di Sigyn, tolto quello che trovate alla voce “Sigyn” su Wikipedia, è una mia personale interpretazione/reinterpretazione/riscrittura. Questo è un enorme “What if.”

Il personaggio di Sonje è un mio OC, il personaggio di Vali no, ma ciò che vale per Sigyn vale anche per lui.

A presto e grazie per tutto l’affetto/sostegno/cose – e continuate a sostenermi, non m’abbandonate in una valle di lacrime XD,

 

Shilyss



[1] Come succede nei capitoli 3 o 4 della storia ^^.

[2] Come viene raccontato in Tutte le tue bugie e nei primi capitoli di questa storia.

[3] Negli scorsi capitoli Loki è rimasto ferito a una spalla e ha gli spallaci rotti.

[4] Come verrà raccontato in “Giochi pericolosi.”

[5] Ricordate Tutte le tue bugie?

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Capitolo 10
*** Forse era scritto nel destino - parte 1 ***


Forse era scritto nel destino

Via del Campo, c'è una bambina

Con le labbra color rugiada

Gli occhi grigi come la strada

Nascon fiori dove cammina

(Via del Campo, Fabrizio De Andrè)

 

Parte 1

 

Sonje sapeva essere furtiva quasi quanto il suo splendido papà. Certo, non possedeva ancora la cautela e la grazia del genitore, né tanto meno il suo passo felpato, ma quando voleva riusciva già a passare inosservata. Ad aiutarla inconsapevolmente nell’impresa ci pensava Vali, su cui, nelle ultime settimane, si erano concentrate quasi tutte le attenzioni della casa. Era un bimbo adorabile, ma quando stringeva i pugnetti e iniziava a piangere disperato – o, per essere più precisi, a strillare come un’aquila venuta giù da Helheim per fracassarci i timpani, come sibilava Loki tra i denti, la casa tremava. E lei, trotterellando col suo fedele gatto di pezza tra le braccia[1], ne approfittava per riflettere su tutto quello che gli adulti non le dicevano e per scivolare, non vista, lungo i corridoi arredati con gusto dello splendido palazzo circondato dai giardini che Loki aveva scelto per vivere con Sigyn. Sonje avrebbe scoperto solamente da adulta certi dettagli circa il modo in cui i suoi genitori si erano sposati e ci sarebbero voluti ancora molti anni, affinché capisse che alcune scelte architettoniche richieste esplicitamente dal dio dell’inganno avevano il preciso scopo di ricreare il gusto sobrio e barbaro e splendido della magnifica Asgard.

 

Quel pomeriggio, la bambina scelse come meta della sua missione un luogo che generalmente non le era affatto precluso, anzi: era uno dei posti che preferiva di tutto il palazzo, dove si infilava appena poteva, ma che manteneva un suo fascino particolare, perché, pur essendole familiare, era pieno di dettagli e di oggetti che non capiva o, al contrario, che desiderava toccare: la camera da letto dei suoi genitori. C’era quel profumo, innanzi tutto. Quello di sua madre Sigyn, della sua pelle, che proveniva dalle boccette di cristallo ordinate con cura davanti alla allo specchio della toletta. E poi c’erano le coperte morbide, le pellicce candide dal pelo soffice disposte alla fine dell’elegante baldacchino. Sonje avanzò nella stanza calpestando il tappeto intrecciato a mano dagli Elfi chiari con le loro dita pazienti, mostrando a Gatto Tooh, che con i suoi occhi a bottone e il suo sorriso indecifrabile pareva registrare ogni cosa, la bellezza delle tappezzerie scelte da Sigyn, sfiorando con le sue manine di bambina gli intarsi raffinati dei mobili che abbellivano le ampie pareti. C’erano anche gli effetti personali del dio dell’inganno, ovviamente. Non i più pericolosi e gli artefatti magici, ovviamente – quelli l’Ase li teneva sottochiave, nel suo studio privato, ma alcuni mantelli pregiati, le numerose tuniche verdi ricamate con un bordo dorato, le corazze di pelle nera intrecciata, gli stivali di cuoio alto, le bandoliere all’apparenza vuote, ma dove, se avesse frugato, avrebbe senz’altro trovato qualcosa.

 

Il dio dell’inganno e la principessa sua moglie erano al piano inferiore, nel salone che usavano per ricevere gli ospiti. Sapevano Sonje in compagnia della bambinaia ed erano impegnati a ricevere certi ambasciatori elfici venuti a vedere il figlio maschio di Loki Odinson. Un frugoletto piangente che sembrava assomigliare ora alla madre ora al padre, col merito manifesto di aver tolto un po’ del fascinoso contegno all’ingannatore. Le notti in bianco avevano reso sia lui che Sigyn più stanchi e scarmigliati del solito, anche perché la coppia non si era ancora decisa ad affidare Vali a una balia. E mentre rispondevano alle cortesi domande degli illustri ed eleganti ospiti, non potevano sospettare che la loro adorabile e pestifera primogenita fosse intenta a sfoggiare, del tutto inconsapevolmente, l’indole piratesca degli Æsir. C’era qualcosa di più attraente delle giubbe di suo padre, nella camera da letto dei suoi genitori. I cofanetti in cui Sigyn teneva i propri gioielli. Qualche volta Sonje aveva avuto modo di sbirciare al loro interno. Quando la sua bella mamma dai capelli d’oro doveva prepararsi per andare a qualche festa o per accogliere il suo papà che tornava da qualche avventura, si sedeva di fronte allo specchio della toletta e si provava a una a una le sue gioie splendenti, molte delle quali le erano state regalate da Loki in persona. Sonje adorava osservarla mentre si vestiva e ingioiellava: desiderava essere già grande per potersi abbellire con gli stessi monili, con gli abiti dalle stoffe soffici e preziose. Qualche volta, ridendo, Sigyn, che era ancora poco più di una ragazzina, le infilava qualche collana delicata o le spolverava un po’ di cipria sul naso, ma le aveva vietato severamente di aprire i cofanetti da sola o di frugare. Ma in quel momento Sigyn non c’era e Sonje si ritrovò a ringraziare quel piccolo diversivo che era Vali, perché le avrebbe permesso di aprire i portagioie indisturbata.

 

Non sapeva ancora se il fratellino le piacesse o meno. Da quando era nato l’avevano riempita di regali, coccole e attenzioni, ma Vali piangeva troppo e troppo spesso e la sua dolce mamma era sempre stanca. Si chiedeva come avesse fatto a uscire dalla sua pancia rotonda e che intendesse lo zio Thor, quando diceva che il suo papà aveva l’aria stravolta. Fece spallucce e si avvolse nella vestaglia di finissima seta di Sigyn. Poi posò il suo fedele alleato di pezza con gli occhi fatti a bottone sulla toletta e aprì il cofanetto più grande e lontano, rivelando le meraviglie dell’oreficeria che Sigyn vi custodiva dentro. Per prima tirò fuori una splendida collana di perle impreziosita con opali e smeraldi; poi fu il turno di un diadema tempestato di diamanti e zaffiri blu, bianchi e gialli. Infine esaminò i bracciali in cui si alternavano ametiste, smeraldi e diamanti scintillanti e degli anelli le cui fogge ricordavano spesso gli intrecci dei rami carichi di fiori e di frutti. Sigyn era una donna minuta e sottile, non particolarmente alta. I preziosi che preferiva indossare erano piccoli capolavori d’oreficeria, leggeri ed eleganti. E Loki, che, come tutti gli Æsir, adorava le gemme e aveva un gusto spiccato per i gioielli, provava una profonda soddisfazione nel regalarle le pietre più pure e belle e nel farle dono di preziosi che commissionava e disegnava lui stesso, quando non li forgiava di persona[2]. Sonje s’infilò tre collane una sull’altra e storse la bocca in una smorfia pericolosamente somigliante a quella del genitore, quando si rese conto che gli anelli stupendi di Sigyn erano ancora troppo grandi per essere indossati. Però quella cascata di oro, perle e gemme luccicanti che faceva risaltare i suoi riccioli neri la riempì di orgoglio. Desiderosa di trovare altre meraviglie da indossare tirò fuori spille, orecchini, diademi e decine di altri monili, ignara del caos che stava gettando nel cofanetto. Dopo che l’ebbe completamente svuotato, si dedicò con perizia a uno più piccolo, di semplice legno intarsiato, dove Sigyn teneva i gioielli che indossava abitualmente. Era quasi vuoto e Sonje s’imbronciò, ma poi la sua attenzione fu catturata da un piccolo cassettino in fondo allo scrigno. Lo aprì e inarcò un sopracciglio, imitando, di nuovo, l’affascinante dio dell’inganno. C’era una penna per scrivere, dentro. Nient’altro. La prese in mano, soppesandola. Era bella. Diversa da tutto il resto – strana – decise, aggrottando le sopracciglia. La piuma era nera, abbellita con delle pietre scure alla base. Come se non bastasse, c’erano delle rune incise sopra. Si trovava di fronte a un oggetto fatto a mano dai giganti di ghiaccio, con una sua ricca storia, ma non lo sapeva né era in grado di riconoscerla. L’intrinseca diversità di quell’oggetto era l’unica cosa che risultasse chiara ai suoi occhi di bambina. Se fosse stata più grande, avrebbe ravvisato che in quella penna preziosa e un po’ pesante dal deciso gusto barbaro non sembrava una cosa scelta da sua madre, ma mentre era ancora intenta a valutarla, la voce di Sigyn la riportò alla realtà.

“Sonje! Che cosa stai facendo?!” Sobbalzando, la bimba fece cadere a terra la penna.

 

 

“La conservi ancora.” Non era una domanda, ma una constatazione. Sigyn sollevò le ciglia scure sul riflesso dello specchio, da dove l’immagine di Loki Odinson sfoggiava un sorriso tronfio. Era ancora vestito di tutto punto dopo aver fatto finta di sgridare la loro primogenita e trovato un modo efficace per far addormentare Vali.

Sigyn inarcò la schiena coperta appena da una vestaglia di seta leggera. La ricca chioma dorata era a malapena fermata da un nastro di raso chiaro e tra le dita teneva le perle che Sonje aveva indossato e intrecciato tra loro. Ma ciò a cui si riferiva il dio dell’inganno non erano i gioielli di squisita fattura o le gemme non ancora incastonate che splendevano davanti a lei, no. Era la penna finemente intarsiata dalla lunga piuma nera.

“Scrive molto bene.”

“Credo sia la stessa scusa di allora.” Prima che lei potesse rispondere, si avvicinò alle sue spalle e si sporse appena. Due grosse gemme color dell’acqua sfioravano dei quarzi violacei, creando un contrasto interessante. Nel caos, a volte, era possibile rintracciare disegni perfetti, trovare la bellezza. “Disegnerò qualcosa per queste pietre,” aggiunse, soffiandole sul collo esposto e reattivo, come se l’argomento appena evocato potesse svanire, essere riposto nel cofanetto dove Sigyn l’aveva nascosto con cura. La principessa Vanir annuì. Loki investiva in gioielli, oro e terre per accrescere il proprio potere: per disporre di qualcosa da rivendere all’occorrenza, per creare proprietà terriere allodiali. Molto prima di sposarla – al tempo in cui seguiva suo nonno Njord con quella medesima penna scura tra le dita per appuntarsi le disposizioni del vecchio sovrano e non dimenticare nulla, possedeva già mezza Vanheim per averla acquistata dai membri della vecchia nobiltà caduti in disgrazia, dai mercanti poco accorti, da chiunque non riuscisse a resistere al fascino delle sue trattative. Sonje e Vali, nonostante la giovanissima età, possedevano già molte di quelle terre e forzieri zeppi d’oro. I piani del dio dell’inganno variavano di minuto in minuto, ma certe mosse prevedevano una pianificazione lunga e oculatissima.

“Dormono tutti e due,” le sibilò all’orecchio, facendo scorrere le dita sulla seta che le copriva le spalle. La vestaglia scivolò rivelando la pelle nuda e Sigyn fremette – fremeva sempre, quando Loki le si avvicinava, fin da allora. Solo, non lo voleva ammettere.

Socchiuse gli occhi, mentre le labbra ironiche del dio dell’inganno le sfioravano la pelle sensibile e reattiva del collo e le mani scendevano lungo la camicia da notte di seta, accarezzando i seni rotondi, ghermendoli e sfiorandone le punte reattive sotto la stoffa. La voleva. Sigyn strinse le gambe, sciogliendosi a quel tocco, volgendosi verso di lui per sfiorargli la bocca con un bacio leggero e insolente, carico di promesse come lo sguardo velato di desiderio che gli lanciò – era impaziente come lui. E avevano poco tempo a disposizione, come nei primi tempi della loro burrascosa relazione, quando si davano appuntamenti segreti e litigavano in pubblico per non essere scoperti. La penna dalla lunga piuma nera c’era già, allora – c’era da molto prima, da quando, per lei, Loki era solo un fremito basso e indefinito, che nascondeva accuratamente, senza nemmeno rendersene conto, sotto uno strato di fredda indifferenza. Ma poi quell’involucro si era crepato – il dio dell’inganno girò la sedia della toletta per averla davanti a sé e s’inginocchiò sul morbido tappeto tessuto a mano dagli Elfi, scostandole le ginocchia già frementi, affondando la testa tra le sue gambe, sorprendendola con le sue carezze sfacciate e improvvise, a cui era impossibile resistere. Non attesero di raggiungere il grande letto, ma consumarono l’amore lì, ai piedi della toletta, con la furia e l’urgenza degli amanti, soffocando i sospiri che avrebbero potuto tradirli – come allora.

Dopo, raggiunto il baldacchino, l’Ase ne approfittò per far scorrere la morbida piuma nera sulle curve sinuose di Sigyn, accarezzandola dalla base del collo al seno, scendendo fino ai fianchi rotondi e alle gambe scoperte e strappandole un ansito divertito.

“Smetti di usare la mia penna. Me l’hai regalata.”

“No, tu l’hai sottratta con l’inganno e io te l’ho ceduta in uno slancio di generosità,” puntualizzò lui. “Non ricordi?”

 

 

Era una ragazzina sgraziata, allora. Insicura, impacciata, preoccupata del poco seno stretto dal corsetto, dei capelli folti e crespi, degli abiti inadatti che Freya si ostinava a farle indossare per farla sembrare ancora una bambina quando lei già si sentiva una ragazza. Non era vero e, col senno di poi, Sigyn sapeva che la sua scaltra zia aveva tentato di proteggerla dalle rigide regole di Vanheim il più a lungo possibile – le donne della sua terra non erano libere come quelle di Asgard.

Loki aveva chiesto asilo a Njord offrendo in cambio i suoi servigi e infilandosi nel letto di Freya già da alcuni anni ed era in guerra con Odino e Thor: avrebbe trionfato, costringendoli a patteggiare e a firmare un trattato di pace in cui si sarebbe manifestata la prima avvisaglia della malattia degenerativa che avrebbe condotto Padre Tutto alla morte[3]. L’ingannatore lavorava con un’energia e una determinazione ammirevoli, contentandosi solamente di trascorrere qualche sera in totale solitudine, con un calice di buon vino e un bagno caldo e rigeneratore. Sembrava che ogni cosa dovesse passare o riguardasse lui, che sommava incarichi su incarichi. Attirava su di sé l’invidia e l’odio della vecchia aristocrazia sclerotizzata, delle famiglie nobili più giovani e scalpitanti, ma finché otteneva dei risultati nessuno poteva lamentarsi di lui presso il re dei Vanir. E, chi lo faceva, temeva le sue vendette spietate e repentine.

Sigyn sentiva continuamente storie e racconti terribili su quel giovane uomo dal sorriso indecifrabile che spesso incrociava in biblioteca. Quand’era più piccola, Loki l’aveva deliberatamente spaventata più di una volta, mutando aspetto all’improvviso per il solo gusto di leggere il terrore nei suoi occhi[4], ma per il resto non la riteneva interessante e, apparentemente, si accorgeva a stento di lei. Non era del tutto vero, di questo Sigyn avrebbe avuto contezza solo una manciata di anni dopo. In quanto nipote del re dei Vanir era un membro della famiglia importante da tenere d’occhio con discrezione, esattamente come tutti gli altri.

Sigyn era mattiniera, soprattutto in estate. Un giorno commise l’imperdonabile errore di scendere in biblioteca in camicia da notte e vestaglia, prima che le sue cameriere personali le avessero acconciato i capelli. L’alba aveva appena tinto di rosa il cielo, la servitù assonnata non aveva ancora iniziato le proprie faccende. Era assolutamente certa che non avrebbe incontrato nessuno. La porta non cigolò quando l’aprì e le sue scarpine di mussola attutirono il rumore dei suoi passi. Gli scaffali colmi di libri le nascosero l’angolo dove erano posizionate le scrivanie finché non si trovò davanti quella meglio disposta, occupata da una pila di libri, scartoffie, pergamene e mappe srotolate bloccate da dei pesanti fermi in ferro.

Loki Odinson alzò gli occhi verdissimi, cerchiati di scuro e arrossati per via del lungo studio, su di lei. In mano stringeva la lunga penna dalla piuma nera. Sul viso affilato e stanco comparve una smorfia di dispetto e un momentaneo stupore. Non l’aveva riconosciuta immediatamente, con quella massa dorata che le ricadeva sulle spalle. Lo aveva interrotto mentre lavorava – e lavorava da tutta la notte, senza dubbio. Sentì il suo sguardo affilato che la scrutava da capo a piedi e poi, a fatica, si distoglieva da lei per tornare sulle righe scritte fittamente.

Aveva trascorso la notte in bianco. Gli impegni della giornata, numerosi e complicati, che dipendevano unicamente da lui, sebbene fosse Njord a sfoggiare la corona e a sedere sul trono, si affastellavano nella sua mente insieme alla presenza fastidiosa di quella ragazzina. Dell’unica erede di Vanheim. Un pensiero maligno gli attraversò la mente svelta, uno che aveva già fatto, ma che ora, vedendola nella luce soffusa dell’alba, si fece concreto. Solo che Njord non gliel’avrebbe mai lasciato fare ed era una bassezza.

“Pensavo non ci fosse nessuno,” boccheggiò lei, a disagio. Poteva intuire quanto fosse tesa, sentire il suo respiro corto. Se qualcuno fosse entrato in quel momento, cosa avrebbe pensato, supposto, raccontato? Si mosse a disagio sulla sedia, immaginando tutti i risvolti che il suo spirito carico di malizia poteva contemplare e che Sigyn, educata come tutte le Vanir, non avrebbe colto[5].

“Una valutazione errata, principessina. Dove sono le vostre dame, le cameriere?”

“Non lo so, dormono ancora, credo,” rispose Sigyn, cauta. Si mosse verso di lui, in direzione di uno scaffale. Prese un paio di libri, li strinse contro il seno piccolo e morbido. Presto avrebbe avuto dei pretendenti, valutò Loki. Nel giro di un paio d’anni al massimo, quella ragazzina guardinga si sarebbe fidanzata. “Perché vi importa? E perché vi infastidisce che io sia nella mia biblioteca, Lingua d’Argento?” Lo disse fremendo, sputando quell’appellativo come fosse un insulto. Come aveva visto e sentito fare da tutti, i suoi zii compresi.

 

Loki s’inumidì le labbra, posò la penna. Sigyn era pericolosa. Se una cameriera distratta fosse entrata nella biblioteca e li avesse trovati insieme, cosa sarebbe successo? Uno stupido incontro casuale avrebbe potuto trasformarsi in una chiacchiera, in un pettegolezzo difficile da arginare, che avrebbe potuto mettere a repentaglio il lavoro di anni nel momento più delicato di tutti. Quello del trattato con Asgard che ridefiniva accordi commerciali, ristabiliva confini, segnava una nuova epoca. Lo aveva visto accadere altre volte – aveva fatto in modo che alcuni suoi nemici venissero travolti da scandali simili. La voce iniziava con loro due nella biblioteca e, passando di bocca in bocca, certi dettagli innocenti si ingigantivano. Lei in tenuta da notte, all’alba, con lui. A quante inquietanti distorsioni si prestava una scena simile? Come ne avrebbero approfittato i suoi molti nemici?

“Non è adeguato farvi trovare in tale abbigliamento.”

L’unica erede di Vanheim sgranò gli occhi. Non possedeva la malizia di Loki e non aveva pensato a quanto il loro incontro casuale potesse essere fraintendibile. E poi, Sigyn era assolutamente certa di non essere bella.

L’Ase raccolse i suoi appunti in fretta, chiuse con un paio di gesti secchi i volumi ancora aperti, arrotolò le pergamene, pronto ad andarsene. Se la nipotina di Freya non lo capiva da sola, non sarebbe stato lui a spiegarle di dover tenere di più a sé stessa e al proprio ruolo di nipote del re. E poi, non desiderava suggerirle – instillare – nella sua mente, che sapeva già fervida, l’immagine che lui fosse un possibile pretendente. Sarebbe bastata una chiacchiera fatta scioccamente con una dama di compagnia, una parola fuori posto sfuggita con Freya e lui si sarebbe ritrovato con un’accusa per alto tradimento e una scure tra capo e collo. Forse non si accorse di aver lasciato lì la penna che soleva utilizzare per scrivere. Sigyn, però, vedendola abbandonata sul tavolo, la prese e se la rigirò tra le dita, incuriosita, valutandone il peso, sfiorando la morbida piuma scura, osservando da vicino, finalmente, gli intarsi, scoprendone la delicata lavorazione, le pietre incastonate – agata verde, spinello, zaffiri gialli. La penna di un principe dal gusto sofisticato e aristocratico. La penna con cui il consigliere di suo nonno, il terribile mago che aveva gettato nel caos tutti i Nove Regni, utilizzava per scrivere le sue lettere, per correggere le bozze delle leggi che sarebbero state approvate da Vanheim, per tessere intrighi. Doveva essere intrisa di seiðr. Fu colta alla sprovvista da un rumore improvviso: ripensando alle parole del dio dell’inganno, si chiese cosa sarebbe successo se qualcuno, entrando, l’avesse vista in camicia da notte con qualcosa che apparteneva a Loki tra le dita. Così, senza pensare, la nascose nella vestaglia, rapida.

 

L’aveva rubata. A conti i fatti il suo gesto poteva leggersi unicamente così. Loki sarebbe potuto tornare indietro e cercare l’elegante penna e non l’avrebbe trovata più. Una volta tornata in camera, non poté fare altro che sfilarla dalla tasca e chiuderla in un cassetto della sua toletta, come se scottasse. Perché lo aveva fatto? Per paura, per curiosità, per necessità. Non lo sapeva con precisione, ma nei giorni seguenti, mentre era sovrappensiero, le tornò in mente l’immagine di lui seduto alla scrivania, con i capelli tirati all’indietro scarmigliati e gli occhi stanchi, che la metteva a fuoco con malcelata sorpresa. Lo rivedeva mentre tracciava appunti su appunti con mano rapida e sicura, completamente padrone di sé e delle circostanze. Le sue dame di compagnia e le cameriere bisbigliavano tra loro che era bello, suo zio Freyr malediceva il suo nome ogni giorno, ma si infuriava se non riusciva a parlare con lui perché impegnato altrove. E suo nonno, quando discorreva fittamente con lui, aveva dato ordine che non fosse assolutamente disturbato, mai.

Avrebbe dovuto restituirgliela. In fondo, era come se l’avesse presa per sbaglio, per cancellare ogni traccia di un incontro che lui, Loki, aveva giudicato inopportuno. Lo era? Si chiese se e quanto fosse trasparente la camicia da notte che indossava sotto la vestaglia, se lui avesse indovinato le sue forme ancora acerbe. Come la vedeva l’ingannatore, come la percepivano le guardie, i notabili, la servitù? Cos’era, lei? Chi? Domande che si faceva già da diverso tempo, a cui non riusciva a trovare una risposta. Comprese che i suoi gesti non erano più neutrali, ma avevano un peso, una conseguenza. Poteva scegliere chi essere e come farlo – Loki, in lei, aveva scorto, se non la ragazza, la donna che si apprestava a divenire. Soffocò le domande a cui non riusciva a dare una risposta esaustiva nella lettura, nello studio che, da sempre, considerava un rifugio.

 

Il dio dell’inganno non fu l’unico ad accorgersi che Sigyn stava diventando una ragazza: mentre la penna dalla bella piuma nera giaceva nascosta dentro un cassetto, occultata ma non dimenticata, la giovane principessa ottenne il permesso di intrecciare meno fittamente i capelli, di indossare abiti di foggia e colore più adatti alla sua età. Fu in quelle settimane che Freya decise di farla partecipare al suo primo ballo. Non fu un trionfo, nient’affatto: si appartò in un angolo senza sapere cosa fare finché il re suo nonno, indispettito, non ordinò a Loki di farla danzare. Sigyn pensò che fosse una scelta infausta, soprattutto perché a nessuno era sfuggita la mancanza di spontaneità nascosta in quell’invito[6]. Decise di dirgli che aveva raccolto lei la penna e che gliel’avrebbe ridata, ma il ballo fu breve, non colse il momento e cercarlo dopo sarebbe stato strano. Attorno alla sua persona si affastellavano continuamente questuanti in cerca di delucidazioni, risposte, promesse, favori. Di lui non bisognava fidarsi: manipolava, irretiva, confondeva e usava chiunque gli capitava a tiro. Si muoveva con grazia e la sua guida era sicura e decisa – ripensò alle dita agili che impugnavano la penna, che sfioravano la stoffa del suo abito, immaginò la sua calligrafia appuntita e precisa, come il suo ghigno. Le girava la testa.

Quella sera, dopo aver ballato con il dio dell’inganno, Sigyn si sedette di fronte alla toletta e prese, per la prima volta, la bella penna elegante. La usò per rispondere al messaggio di un’amica. L’impugnatura era perfettamente bilanciata, il tratto preciso e fluido. Alla prima occasione, decise, gliel’avrebbe restituita – forse, si convinse, l’aveva presa unicamente perché era bella e temeva che qualcun altro la sottraesse.

 

 

L’angolo di Shilyss

Care Lettrici e cari Lettori del mio cuore ♥ ♥!

Avevo detto che avrei ripreso in mano anche i vecchi lavori ed eccomi qui, infatti, con questa storia in 2 capitoli (il secondo è praticamente solo da ultimare e penso che lo metterò a strettissimo giro) con protagonisti Loki e Sigyn nella versione di Tutte le mie bugie, la mia prima long (la trovate a pagina 3 del profilo).

Non è necessario averla letta, ma tenete presente che la Sigyn che vedete per buona parte del racconto è molto giovane, alle prese con i primi turbamenti instillati da un giovane uomo affascinante come Loki, ma anche con quella fragilità propria di chi si trova in quella fase in cui si è adulti per certe cose e per certe cose no. Poi crescerà, perché si andrà a raccordare con quella di Tutte le bugie, ma ‘sto capitolo stava diventando troppo lungo (poi mi dite che non mi regolo).

Rispetto ad altre storie (Accordo, Scintille) tenete presente che il divario d’età è maggiore, sebbene nei limiti della legalità.

 

Ringrazio con tutto il cuore chi listerà, recensirà o semplicemente leggerà questa storia: a parte gli scherzi (lokini) siete importanti e sappiate che leggo tutti i vostri commenti e non vi mangio. Spesso non rispondo pubblicamente, ma se vi palesate lo faccio e sono molto alla mano, ecco. Per gli aggiornamenti, come dicevo entro la settimana arriverà la conclusione di questa storia e poi Ciò che resta delle tenebre.

 

Ricordo che il personaggio di Sigyn, tolto quello che trovate alla voce “Sigyn” su Wikipedia, è una mia personale interpretazione/reinterpretazione/riscrittura. Loki e Sigyn nel mito hanno dei figli insieme, Vali e Narvi. Vali me lo sono tenuto, Narvi l’ho sostituito con Sonje, personaggio di mia invenzione. Nel mito Sigyn non eredita proprio niente, quindi anche qui è una mia idea. Non vi autorizzo a ispirarvi o peggio a questa versione o alle altre storie da me postate né qui né altrove (peggio mi sento con le fiabe) e lo stesso vale per gli headcanon su Vanheim, su Loki o su Asgard stessa. Lo stesso vale per il ruolo di Loki presso Njord, per le cariche che Loki ricopre in questa Vanheim. Creare un mondo con usi e costumi non è uno scherzo.

Comprendetemi per queste precisazioni, ma scrivo su questo fandom dal 2017 e ne ho viste di tutti i colori.

A presto e grazie per tutto l’affetto/sostegno/cose, vi si lovva (e spero voi lovviate me).

Vostra,

Shilyss



[1] Loki e Sigyn nel mito hanno due maschi. Sonje è pertanto una mia invenzione. L’animale di pezza è il “celebre” Gatto di zio Thor, che la bimba contrae in Gatto Tooh.

[2] Loki fabbro, come in “Di fuoco e di desiderio,” una mia vecchia shot <3.

[3] Come nel primo capitolo di questa raccolta.

[4] Scena raccontata nella serie Tutte le tue bugie.

[5] È un mio headcanon che l’educazione e la cultura di Vanheim siano di stampo più oppressivo e conservatore nei confronti delle donne e non solo, rispetto alla più libera Asgard. Sigyn, coerentemente con il mondo in cui vive, è stata educata in un modo più rigido e bacchettone. Questo headcanon lo trovate anche in “Solo un accordo.”

[6] Questa scena è presente nella mia long (che presto riprenderò in mano) Giochi pericolosi.

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Capitolo 11
*** Forse era scritto nel destino parte 2 - La penna nera ***


La penna nera

If you're lost, you can look and you will find me

Time after time

If you fall, I will catch you, I'll be waiting

Time after time

(Time after time, Cindy Lauper)

 

Parte 2

 

A pochi giorni dalla firma del trattato tra Vanheim e Asgard, la notizia era stata confermata in tutti i Nove Regni: Thor aveva assunto il ruolo di reggente e sedeva sull’Hliðskjálf. Il trionfo bellico di Loki aveva avuto, come diretta e immediata conseguenza, che il detestato fratello e rivale occupasse finalmente il ruolo per cui era nato, dimostrandosi la guida di cui gli Æsir avevano bisogno. In uno slancio di feroce lucidità, il dio dell’inganno si era reso conto di non aver fatto altro che accelerare il processo che si era sforzato di ostacolare per una vita. Thor governava il loro popolo, lui era il consigliere di un re che non si dimenticava mai di ricordargli il suo posto. Sarebbe potuto tornare ad Asgard. Fissare Odino negli occhi – dicevano che, nel giro di pochi giorni, fosse diventato irriconoscibile, la sua mente acutissima e brillante ridotta a una scatola dove ogni informazione, emozione e ricordo era confusa l’una con l’altra. A Sigyn capitò di ascoltare sua zia chiedere al resto della famiglia cosa avrebbero fatto, se l’imprevedibile Loki fosse andato via da un momento all’altro. La sua voce recava traccia di un freddo timore e così il suo viso dall’ovale perfetto: i Vanir avevano dato troppo potere al dio dell’inganno. Con la sua ipotetica partenza, loro avrebbero perso, rapidamente come l’avevano ottenuto, il prestigio acquisito presso i Nove Regni.

 

Ma Loki non se ne andò. Disse che preferiva il clima di Vanheim, più mite e generoso di quello di Asgard, aggiungendo che non aveva ragioni per tornare tra i fiordi. E siccome spiegare come mai Sigyn avesse preso la penna sarebbe stato strano e mentire al fabbricante di bugie era fuori discussione – i suoi occhi ironici e taglienti l’avrebbero smascherata immediatamente e lui l’avrebbe trafitta con le sue battute perfide e salaci, continuò a tenerla nel cassetto della toletta, come se si trattasse di un qualche artefatto magico. Forse fu per questo motivo, perché era la prima a dare un significato differente alla particolarissima penna dalla piuma nera, che Sigyn iniziò ad attribuirle dei poteri particolari. La usava per tradurre i passi più difficili dei suoi poemi preferiti o quando doveva studiare qualcosa di particolarmente ostico, come se l’intelligenza vibrante del suo primo possessore fosse stata assorbita dall’elegante oggetto. Quando una delle sue amiche o qualche dama di compagnia alludeva alla circostanza in cui aveva ballato con Loki, lei alzava le spalle, serrava le labbra. Com’era stato danzare con un uomo giovane, forte e bello? Niente di speciale, tanto più che Lingua d’Argento si era limitato a obbedire al volere di suo nonno. Non gliene faceva una colpa: lei non si sentiva affatto bella e cambiare gli abiti e l’acconciatura non era servito a convincerla del contrario.

 

Loki aveva il passo svelto ed elastico di chi ha troppe cose da fare in troppe poche ore. Il calpestio dei suoi stivali di cuoio, alti e ben lucidati, risuonava tetro lungo i corridoi rivestiti in marmo del palazzo di Njord. Se pure una parte di lui avrebbe preferito il familiare scricchiolio del legno ben curato di Asgard, non lo dava a vedere. Gli capitò davanti una scena che gli fece storcere il naso: Sigyn, la giovane nipotina di Njord, che passeggiava a braccetto con un’amica e veniva intercettata dallo sguardo troppo lungo di una guardia.

Lei aveva i capelli scarmigliati e rideva per qualcosa che doveva averle detto l’altra ragazza; con la mano libera, reggeva le ingombranti gonne da donna che Freya le imponeva di indossare, incurante dell’attenzione che catturava.

L’Ase raggiunse il soldato e gli si fermò davanti, incrociando le braccia dietro la schiena. “C’è chi è finito nelle segrete per molto meno,” sibilò infastidito. L’uomo impallidì e batté i tacchi, mettendosi in riga, come se la postura rigida ed eretta potesse cancellare il fastidio dallo sguardo del maledetto ingannatore che aveva le mani in pasta ovunque.

Sigyn e l’amica si girarono come fossero una cosa sola, incuriosite. Lei lo sfidò con lo sguardo, schiuse le labbra come se dovesse iniziare a parlare, ma poi si voltò di scatto e tirò via la compagna. Accadeva sempre più spesso.

 

Ho preso io la tua penna. Volevo restituirla prima, ma non ne ho avuta l’occasione. Sigyn si era preparata con cura il discorso da fare. I primi raggi del sole facevano splendere le altissime vetrate della biblioteca. Alcune casse di libri, acquistati su consiglio di Loki per accrescere il prestigio della collezione di re Njord, giacevano in un angolo, ancora imballate, pronte per essere aperte, i volumi catalogati[1]. Sigyn aprì nervosamente uno dei suoi volumi preferiti di poesie e srotolò una pergamena intonsa davanti a sé. Visto che doveva aspettarlo, tanto valeva occupare il tempo in maniera proficua, studiando. Si concentrò sulle rime, sulle figure retoriche, sulla bellezza dei versi, cercando di trovare il corrispettivo migliore nella sua lingua, ma era inquieta, nervosa. S’immaginò il sorriso sornione che Loki le avrebbe rivolto – davvero non ne aveva avuta mai l’occasione? Cos’è, le ripeteva la voce immaginaria del dio dell’inganno nella sua testa, avevi paura di avvicinarti a me o ti faceva piacere avere nella tua camera da letto un mio trofeo?

È che sei crudele, spietato, bugiardo. Di te non ci si può fidare.  Potevi lasciarla in biblioteca mesi fa, allora, anziché usarla per scrivere lettere e appunti. È bella, bellissima. L’ho desiderata per me e temevo la vostra reazione, si giustificava lei nel suo discorso immaginario.

La porta si aprì e Sigyn si alzò di scatto. “Ti aspettavo,” disse rapida.

L’ingannatore, un fascio di pergamene e missive sotto il braccio e una smorfia annoiata sulle labbra sottili, la fissò inarcando un sopracciglio, raggiungendo la sua scrivania senza rallentare né diminuire l’andatura. C’era una proposta di matrimonio, tra le lettere che si era portato dietro. Un buon accordo commerciale che riguardava lei, la cui graziosa e sottile mano veniva chiesta da un nobile della marca orientale[2].  

“A che devo il piacere?” s’interessò, sistemando la corrispondenza e le carte sul ripiano davanti a sé. Non si era preoccupato di mascherare il suo sarcasmo.

“La tua penna. L’avevo io. Mi dispiace[3],” soffiò, porgendogli rapida l’oggetto.

Loki la squadrò da capo a piedi, esaminando la sua figura sottile e graziosa nella tenue luce dell’alba. Erano trascorsi una manciata di mesi da quando aveva visto la piuma nera per l’ultima volta, più o meno dalla sera in cui lei aveva fatto il suo timido ingresso nel mondo degli adulti partecipando a un ballo. Era più sicura e bella di allora – nelle segrete c’era sempre posto, per chi la guardava così. Apprezzò il modo diretto con cui era andata dritta al punto, ma volle sapere come mai aveva atteso tanto.

“L’hai usata?”

Sigyn sbatté le palpebre, interdetta: non si aspettava quella domanda. “Sì,” concesse infine. Negarlo sarebbe stato sciocco – e poi, gli occhi chiarissimi del dio dell’inganno riconoscevano immediatamente le bugie.

Le dita rapide del dio dell’inganno sistemarono la corrispondenza. “Avresti potuto lasciarla qui o ridarmela in qualsiasi altro momento. Perché l’hai fatto solo ora?”

“C’è sempre troppa gente, attorno a te. E, se l’avessi lasciata qui, qualcuno avrebbe potuto prenderla al posto tuo e non volevo.” Sigyn si tormentava le dita sottili, libere da qualsiasi gioiello. “Non riuscivo a trovare il momento adatto. È così bella,” concluse infine.

“Ti piace,” constatò Loki. “Non vorresti separartene, ma non riesci a dormire la notte al pensiero di avermi fatto un torto.” Osservò la ragazza impallidire e giudicò di aver indovinato i suoi pensieri. Così insistette, avvicinandosi al tavolo dove c’erano le carte di lei. “A voi Vanir piace che gli altri vi definiscano pii e nobili, ma siete esattamente come tutti noi. La soddisfazione non è nella vostra natura e volete di più, sempre di più.”

La ragazza arretrò di fronte a quella frase tagliente. Loki, si rese conto, non era grato a Njord per averlo accolto. Riteneva che quello che dava a Vanheim fosse più di ciò che riceveva in cambio e accusava i suoi abitanti di essere ipocriti. Era un pensiero che anche Sigyn, nonostante la giovane età, si era ritrovata a fare di fronte a certi comportamenti ingiusti e fiacchi o alle numerose leggi vecchie e obsolete che suo nonno si rifiutava di modificare per non inimicarsi l’aristocrazia. Sempre più spesso si scontrava con la facciata splendente che la sua famiglia tentava di sfoggiare per nascondere il vuoto che lei intuiva esserci sotto. E Loki Odinson, con la sua voce roca e beffarda e un sorriso divertito sulle labbra, non aveva fatto altro che dirle le stesse identiche cose confermando i suoi risentimenti. Solo che se era il dio dell’inganno a svelare le bassezze altrui, queste parevano ancora più ignobili e intollerabili.

“Sto cercando di ridartela. Non rendere le cose più difficili di così,” lo pregò. La luce trionfante che vide nel suo sguardo la convinse a non commettere mai più, per nessun motivo, un simile errore.

“Io la usavo per scrivere leggi, lettere, ordini e incantesimi, tu per scrivere poesie d’amore,” osservò Loki girandole attorno col solo scopo di vederla mentre lo seguiva con gli occhi. Raggiunse il tavolo dove c’erano i fogli di lei, lasciando scorrere le dita di mago sulla pergamena porosa. “Ti è venuta bene, questa traduzione. Tieni la penna, forse vorrebbe essere usata per argomenti più lieti.”

Lei s’irrigidì. “Non voglio essere in debito con te.”

“Perché?” s’interessò, guardandola in viso – naso deliziosamente a punta, labbra morbide, sguardo chiaro contornato dalle ciglia lunghe e nere, pelle che si arrossava quando l’emozione la tradiva. Avrebbe stracciato e gettato nel fuoco la proposta che la voleva già sposa e lontana. Meglio che rimanesse a Vanheim, ad arrossire alle sue battute, a tradurre versi d’amore e di guerra.

“Tutti ti devono qualcosa, qui a Vanheim.”

“È una diceria che nasconde un fondo di verità, lo ammetto,” si compiacque. “Ma è solo una penna, Sigyn.”

“Potrebbe essere sconveniente, per te, offrirmela.” Glielo disse senza guardarlo – nel giro di un paio di primavere lo avrebbe fatto fissandolo negli occhi, bellissima e sfrontata. Ma questo, Loki, ancora non poteva saperlo.

“E per te riceverla, principessina. Tienila come hai fatto finora e usala per studiare,” suggerì.

Scrivere appunti e pensieri tracciando le frasi con quella lunga piuma nera le sarebbe piaciuto, si rese conto Sigyn. Desiderò fortemente accettare, perché amava guardare la propria mano sottile impugnare quell’oggetto incantevole. Ma Loki, con il suo passo elastico e felino, col quel suo ghigno perenne disegnato sulle labbra sottili, con la sua voce roca e beffarda, la spaventava. Qual era il prezzo del trofeo del dio dell’inganno che avrebbe stretto tra le dita? Suo nonno diceva che Loki figlio di Odino sapeva usare ogni cosa come arma – anche i favori e i sorrisi.

Lasciò la piuma nera sul tavolo e se ne andò senza nemmeno recuperare le sue cose, raccogliendosi le gonne per camminare più velocemente. Nel farlo, scoprì la caviglia sottile e ben modellata, in un gesto involontario che l’Ase seguì, suo malgrado, con troppa attenzione.

 

 

 

Col passare dei mesi, Sigyn acquisì una grazia e una sicurezza tali da poter partecipare ai banchetti indetti da Njord e intervenire nelle varie discussioni, commentando, con i suoi modi delicati e le sue frasi pungenti, le notizie che provenivano dagli altri paesi e i fatti interni. Sempre più spesso si scontrava con Loki Odinson – o Laufeyson, come il più delle volte preferiva farsi chiamare, che trovava sommamente divertente contraddirla e fare sfoggio delle sue spiccate capacità retoriche. Lei usciva da quelle liti immancabilmente sconfitta, senza sapere quanto quell’allenamento sfiancante le sarebbe stato utile, un giorno. Quello che intuì quasi subito, invece, fu che Loki mentiva. Se pure era d’accordo con lei su un qualsivoglia argomento, sosteneva proditoriamente la tesi opposta, forse per compiacere Njord oppure, semplicemente, per stizzirla e rovinarle la serata.

Per lui, probabilmente, farla infuriare equivaleva a rendere meno tediosa una cena. Apprezzava le occhiate furenti che gli lanciava, il suo contegno, la passione che metteva nel sostenere le cause in cui credeva, l’amore per i libri che la spingeva a varcare le soglie della biblioteca nonostante ci fosse lui. Sapeva anche che, ultimamente, aveva espresso l’assurdo desiderio di poter assistere alle riunioni tra suo nonno e i nobili. Njord non voleva deluderla, ma trovava assurdo l’assecondarla. Non ci voleva chissà che immaginazione per ipotizzare che, nel giro di qualche settimana, il vecchio re lo avrebbe fatto chiamare per gravarlo dell’incombenza di trovare un posto a sedere per la sua irriverente nipotina. Si sarebbe messo a giocare con i numerosi anelli che sfoggiava sulle dita adunche e ritorte, sfidandolo affinché trovasse una soluzione ragionevole. Fu esattamente così che avvenne.

 

Sigyn poteva ascoltare e prendere appunti, ma se avesse alzato la mano per intervenire, nessuno l’avrebbe ascoltata. Dalla corte questo favore era stato inteso come il capriccio di una ragazzina esaudito da un re magnanimo. A lei, che studiava con slancio, fece orrore la leggerezza di certi lord imbolsiti che sedevano stancamente attorno al trono e commentavano sfoggiando la loro ignoranza. Per assistere alla riunione accanto a Njord aveva scelto l’abito più serio e scuro di tutto il suo guardaroba. Non voleva confermare il pregiudizio che la voleva una ragazzina svagata che esaudiva un capriccio, ma dimostrare di essere una principessa colta e interessata al benessere della sua gente. Al consiglio c’era anche Loki, ovviamente, immancabile braccio destro di suo nonno, per le cui belle mani di mago passavano tutti gli affari di Vanheim. Si erano incontrati in biblioteca, qualche sera prima.

Sigyn si era addormentata su una poltrona e, risvegliandosi, lo aveva trovato sfacciatamente seduto a poca distanza da lei, con le labbra strette in una smorfia e un’ombra cupa negli occhi. Tornava da una straziante visita ad Asgard, una delle poche che si era concesso da quando Thor era diventato reggente; le aveva parlato più del solito, tanto che lei si era offerta di lasciargli una tisana per quando avesse deciso di andare a riposare. Un semplice atto di gentilezza, nulla di più, su cui aveva scelto di non indagare. Che Loki avesse bevuto la tisana o meno non aveva importanza, in fondo[4].

L’ingannatore si alzò in piedi e fece ciò che gli riusciva meglio – incantare il suo pubblico, convincerlo, trascinarlo con sé lungo le strade ora tortuose ora lineari dei suoi ragionamenti. Sigyn non perse una parola del suo discorso preciso e brillante. Lo ascoltò senza accorgersi del cuore che batteva più forte, ammirando la precisione delle sue deduzioni, la rapida sicurezza con cui rispondeva alle obiezioni. Quando litigavano ai banchetti, lui la canzonava e la provocava, ma non tentava mai di convincerla a passare dalla sua parte. Sotto le molte paia d’occhi del consiglio di Vanheim, invece, sfoggiava la sua arguzia avvolgendo i nobili del regno nelle spire delle sue teorie mirabilmente esposte, convincendoli. La sua figura altera e slanciata sembrava essere stata plasmata perché fosse lì, in quel preciso istante, a convincere un mucchio di anziani aristocratici e un re compiacente a promulgare una legge. Se solo fosse stato un uomo diverso, pensò Sigyn. Se solo quel ghigno sardonico non gli avesse increspato le labbra, ricordando, a chi riusciva a resistere al suo incanto, del pericolo che voleva dire seguirlo. A parole Loki stava rendendo grande Vanheim, ma fino a quando e a quale prezzo?

La riunione finì nel modo che tutti si aspettavano – col trionfo di Loki, il volere di Njord esaudito. Sigyn guardò il dio dell’inganno e riconobbe qualcosa di noto e conosciuto, sul suo volto affilato. L’Ase osservava il suo trionfo come se si trovasse a un’incredibile distanza dal consiglio, dal vecchio re, da ogni cosa. Nonostante il ruolo che aveva giocato nell’approvazione della legge, era e rimaneva un elemento estraneo, uno strumento. La vittoria che stringeva tra le dita non era sua e non gli apparteneva – sapeva di fiele.

Sigyn, spettatrice muta di un dibattito in cui non avrebbe mai potuto prendere la parola, sentì sulla propria pelle quel medesimo disagio e se ne spaventò. In Loki – nel suo sguardo acuto – c’era un abisso di oscurità e di rancore che la spaventava, che lui indossava con fiero disprezzo, come se si trattasse di un’insegna o di un’armatura.

“Divertita?” Le domandò passandole accanto con un fascio di pergamene arrotolate sotto il braccio.

“Illuminata,” ribatté. “Delusa,” aggiunse aggrottando le sopracciglia. Camminavano l’uno di fianco all’altra, a passo svelto, sotto le volte a tutto sesto del ricco palazzo di Njord.

Loki sghignazzò. “Avevi delle aspettative troppo alte, principessina.” Non le disse quanta parte avesse nella decisione di ammetterla: sarebbe stata una mossa troppo meschina persino per lui.

“Li manipoli.”

“Si chiama governare, credo.”

“Mio nonno governa,” puntualizzò rapida, provando a sfoggiare lo stesso disprezzo di suo zio Freyr e degli altri cortigiani. Se ne pentì immediatamente, e Loki colse il suo imbarazzo.

“Peccato che, per farlo, mi debba coinvolgere così spesso.”

“Sono stata ingiusta. Ti reputa importante,” ammise. “Pensi che stia perdendo il mio tempo?”

Loki la squadrò da capo a piedi. Prima lo insultava, poi chiedeva il suo parere.

“Se fossi in te, non mi farei scappare nessuna occasione di arricchirmi. Mentalmente, intendo,” la provocò, ben sapendo che lei avrebbe pensato a tutt’altro – alle voci, assolutamente vere, circa la mole dei suoi possedimenti.

“Ascoltarli è un vantaggio. Capire come ragionano, anche. Che ti sottovalutino, un bene,” concluse con sottile perfidia, lui che era cresciuto nella lontana e feroce Asgard, dove nascere maschio o femmina non precludeva alcuna possibilità.

Sigyn non rispose, ma continuò ad assistere alle riunioni – e fu così che la bella piuma scura finemente lavorata tornò tra le sue dita.

 

 

Avvenne tempo dopo, in quelle settimane in cui prestavano una particolare attenzione al non sfiorarsi, in cui, quando la vicinanza si faceva eccessiva, tentavano di smettere persino di respirare, come se persino quello potesse tradirli. Sigyn prendeva appunti seduta accanto a Njord, concentrata sull’ennesima discussione gestita da Loki. Le parole del brillante Ase risuonavano sicure e convincenti lungo le pareti dell’imponente sala, ma incontravano la resistenza dell’aristocrazia Vanir. Njord, accanto a lei, si accarezzava meditabondo la lunga barba candida. I nobili rinfacciavano al re che avrebbe dovuto stringere, molti mesi addietro, un accordo con uno dei più potenti vassalli dell’est, al confine con la terra dei Nani. Se accettato, avrebbe garantito alla capitale di Vanheim un approvvigionamento costante di metalli lungo strade sicure. Ma questo, per qualche inspiegabile ragione che tutti conoscevano tranne lei, non era successo. Di più: Njord, per bocca di Loki, aveva ribadito di non volerne sapere, di riflettere ulteriormente sulla proposta fatta e declinata più volte. Sigyn inarcò un sopracciglio, sorpresa da tanta rigidità, e forse fu per distrazione o perché s’interrogò sulla motivazione nascosta dietro a quel rifiuto, che premette troppo la piuma con cui scriveva rompendone la punta.

Loki vide tutta la scena e s’interruppe, fissandola un momento. “Permettimi di offrirti la mia,” disse. Prima che lei potesse rispondere, fece comparire la penna scura e intarsiata e gliela porse.

“È bellissima,” boccheggiò Njord, che aveva avuto modo di ammirare l’artefatto già molte volte. “Manifattura di Jotunheim?” s’interessò.

“Hanno artigiani interessanti anche lì, sì,” confermò l’ingannatore.

Sigyn allungò le dita mormorando un grazie, stando attenta a non sfiorare quelle dell’Ase. Perché solo la notte prima, al termine dell’ennesimo banchetto, quelle stesse dita agili e veloci le avevano slacciato completamente il corsetto liberandole i seni, saggiandone la morbidezza, sfiorandone le punte frementi. E lei, anziché porre fine a quella follia, aveva sospirato, nell’oscurità del loro nascondiglio precario, mentre gli accarezzava i capelli scuri e leggermente arruffati, cercandogli le labbra beffarde per lambirle con le sue, per sfiorarle e accarezzarle fino a perdere il conto dei baci che si sarebbero scambiati. Gli aveva concesso – no, bugia, aveva desiderato ardentemente – che osasse posare la sua bocca irriverente sulla pelle calda e tesa dei suoi seni piccoli e sodi, si era morsa le labbra, senza nemmeno tentare di fermarlo, quando le mani dell’Ase avevano percorso i suoi fianchi rotondi e sollevato la stoffa del vestito leggero che indossava quella sera. Un abito incantevole a detta di tutti, tranne che di Loki – l’unico a non concederle un solo complimento, il solo a scoccarle un’occhiata di fuoco e a mormorarle con voce roca che il viola chiaro della stoffa si sposava benissimo con il gioiello dei Nani che avrebbe voluto le scendesse fino ai seni[5].

 

Il consiglio riprese tra il borbottio scocciato di un paio di vecchi conti seduti dall’altra parte dell’ampia sala, infastiditi dal fatto che la nipotina di Njord avesse interrotto il dibattito gestito dall’ingannatore. La mano di Sigyn scorreva rapida sulla pergamena, tracciando, grazie al perfetto bilanciamento della penna del dio dell’inganno, lettere chiare e precise e aggraziate. Come quando, ancora ragazzina, la tirava fuori dalla toletta col cuore che le batteva nel petto ogni volta che doveva studiare qualcosa di particolarmente ostico o affascinante, a seconda dei casi. Le aveva sempre attribuito una qualche sorta di potere o di malia e anche quel giorno, mentre i raggi del sole si posavano sulle trecce che aveva appuntato sul capo, sulle ciocche che le ricadevano lungo il semplice vestito grigio scelto per l’occasione, pensò che, forse, lo stupendo strumento potesse proteggerla dalla sensazione che tutti sapessero cosa faceva di notte con Loki, dal rossore che, forse, le invadeva il collo e le guance.

 

Era iniziata per sbaglio e, qualunque cosa fosse, non aveva futuro, ma nonostante questa nitida consapevolezza non riusciva a rinunciare a lui, a loro, ai minuti rubati nascondendosi dentro una nicchia, alle mani impazienti e nervose che frugavano sotto gli abiti, ai baci disperati e insolenti che non avrebbero mai dovuto scambiarsi. Non erano ancora amanti, anche se ogni notte pareva a entrambi di esserlo più di quella precedente. Le labbra insinuanti e beffarde del dio dell’inganno avevano esaudito il suo desiderio segreto sfiorando le sue, per poi scendere sul collo reattivo, sulle scapole abbellite da una finissima collana d’oro, sul seno esposto, sulle punte tremanti e sensibili, pronte a ricevere quelle carezze sfacciate. Si era inarcata nell’oscurità, mordendosi le labbra per non sospirare, finalmente persa tra le sue braccia, supplicandolo mentalmente di osare per entrambi – ma non conveniva a nessuno dei due varcare il confine tacitamente segnato e rendere quei loro incontri probiti una relazione. Poteva lasciare che la toccasse e la baciasse, che percorresse con le dita o le labbra ogni parte di lei, persino, ma non che l’avesse. Eppure, Sigyn voleva sciogliere quel patto mai pronunciato e fare l’amore con lui. Lo desiderava durante i loro convegni clandestini così come si ritrovava a desiderarlo di giorno, quando le passava accanto fingendo di ignorarla e lei lo fissava dall’alto in basso. Negarlo sarebbe stato sciocco – eppure ci aveva provato, con tutte le sue forze. E Loki? Per quanto ancora sarebbe riuscito a resistere al fascino di cui solo i divieti sono ammantati? La voleva come Sigyn desiderava – sognava, sperava – o la considerava un’alternativa alla noia, la spietata vendetta che si prendeva dall’arrogante e ipocrita famiglia reale di Vanheim?

Si morse le labbra sotto lo sguardo attento e indagatore del dio dell’inganno, perfettamente a suo agio in ogni situazione, anche in quel momento, di fronte a lei. Tentò di concentrarsi sul dibattito, di seguirne il filo e coglierne l’essenziale, mascherando il più possibile i propri ragionamenti, tentando di scacciare via la sensazione che lui potesse leggerle dentro e scrutare nei suoi pensieri più profondi così come, ogni notte, la spogliava lentamente di ognuno degli indumenti che indossava, slacciando e sfilando con la consumata abilità di chi ha avuto troppe amanti e ogni tipo di esperienze. Mani ammaliatrici, che sapevano farla sciogliere.

Il consiglio terminò senza aver raggiunto alcuna decisione, ma né Njord né l’ingannatore parevano preoccupati da questo esito, anzi. Si appartarono rapidamente per consultarsi fittamente. Sigyn raccolse le pergamene e si avvolse una sciarpa di seta sul collo – quello che lui aveva baciato – raggiungendolo. Il dio dell’inganno ascoltava il sovrano con pacata tranquillità, ma nei suoi occhi brillava una luce inquieta, feroce, pericolosa. S’intromise appena possibile, porgendogli la penna, ringraziandolo con la fredda cortesia che gli tributava sempre.

L’Ase guardò lei e la piuma nera. Manifattura Jotunn. Era un regalo di un tempo passato, fatto da Frigga, così intelligente e accorta da cercare di rendergli meno estraneo e odioso il popolo dei giganti di ghiaccio. Anche gli Jotnar erano abili maghi. Anche loro possedevano il senso del bello e, nelle notti invernali tanto lunghe da far temere che il sole non sarebbe sorto mai più, scolpivano, creavano, lavoravano.

“Puoi tenerla, Sigyn. Ne sarei onorato,” disse, accennando un breve inchino col collo e con le spalle.  

“Un regalo generoso,” commentò Njord soddisfatto, troppo sicuro di sé per cogliere i sottili segnali che il bel viso di sua nipote lasciava intravedere.

Sigyn avvampò di imbarazzo. Se suo nonno non fosse stato presente, avrebbe restituito la piuma e rifiutato il dono non per una, ma per mille ragioni, tutte ottime. Ma Vanheim distava troppo dalla terra dei giganti perché il vecchio re non desiderasse per la nipotina quel piccolo, delicato tesoro.

“Non dovevi, Loki,” lo rimproverò a bassa voce.

 

“Non dovevi, Loki.” I capelli di Sigyn erano sciolti sulle spalle e si aprivano a ventaglio sul mantello nero dell’Ase, steso sotto di lei. Lo sguardo liquido e grigio della ragazza era rivolto al cielo trapunto di stelle.

“La desideravi da anni. Impara a prenderti quello che vuoi, dalla vita,” la rimproverò l’ingannatore puntellandosi su un gomito. Erano sdraiati sul tetto di un’ala abbandonata del palazzo di Njord: uno dei luoghi che l’ingannatore scovava con cura per incontrarsi con lei – le rispettive stanze erano troppo pericolose e le sere piacevolmente fresche di Vanheim invogliavano a trascorrere qualche ora a fissare la luna e le stelle.

Lei volse il capo per guardarlo. “Come fai tu?”

 

Il buio non celò il sorriso scaltro e audace del mago. Si chinò verso di lei saggiandole le labbra piene e morbidi, dolci da baciare, per poi ghermirle il fianco con una mano, sollevando la stoffa impalpabile e sottile della sua gonna – l’altro vantaggio del clima mite della terra dei Vanir era che le temperature consentivano alle donne di indossare abiti leggeri, con fluttuanti gonne di seta e scollature generose. La sentì tendersi, quando le accarezzò le gambe snelle, ma non scostarsi o tentare di fermarlo. Valutò che potesse osare di più e, di nuovo, le cercò le labbra, baciandola con perfida attenzione, approfittandone per insinuarsi fino a risalire le cosce, carezzando con le dita l’inguine proteso, la carne morbida e fremente, pronta per essere sfiorata. Dalle labbra di Sigyn sfuggì un sospiro sorpreso, che lui raccolse con le sue. Non stavano facendo niente di irreparabile, ma entrambi erano disposti a perdere il controllo – e presto, nonostante tutto, sarebbe accaduto.

Andare a letto con Sigyn, nipote di Njord, era alto tradimento. Baciarla tutta la notte, sotto le stelle, accarezzandola e stringendola a sé, desiderandola per mille ragioni, immaginando di farla sua ogni volta che lei, con i suoi abiti chiari e finissimi, col suo profumo di miele e fiori, col suo sguardo grigio e profondo, gli passava accanto o si sedeva vicino a lui ai banchetti, era il modo migliore per finire con la testa su un ceppo, in attesa che il boia gli concedesse una morte rapida in linea col suo rango.

Non stavano facendo ancora niente d’irreparabile, in quella notte accompagnata dal frinire incessante delle cicale. Dopo, l’avrebbe riaccompagnata fino al punto in cui il corridoio mostrava la porta della sua stanza, per assicurarsi che rientrasse non vista – che fosse al sicuro, anzi, che fossero, si corresse. Smise di accarezzarla e Sigyn gli lanciò un’occhiata interrogativa e guardinga, ma non disse nulla. Il modo in cui si scioglieva quando lui la toccava o la teneva tra le braccia, la frenesia dei loro baci, la facilità con cui consentiva al dio dell’inganno di spogliare, cercare e sfiorare, unita alla certezza di stare violando ogni regola di Vanheim, la spaventava, facendola sentire colpevole. Si corresse. Era colpevole. E viva. Il desiderio pulsante che le avevano lasciato le attenzioni di Loki ne era la prova schiacciante.

E cosa succedeva alle ragazze che, come lei, sceglievano di assecondare passioni e sogni? Espiavano i loro comportamenti nel Tempio[6].

Si sollevò a sedere, stringendo le ginocchia che prima aveva volutamente scostato. “Perché hai insistito per rifiutare l’accordo di cui si discuteva al consiglio? Era vantaggioso. E generoso, anche.”

Cominciava ad avere freddo sulle braccia e sul seno dal corsetto appena slacciato, che lasciava intravedere le curve invitanti dei seni. Iniziò a riannodare i nastri sciolti, ma Loki la interruppe, cingendole la vita con un braccio. Non volle fermarlo – aveva la pelle d’oca e l’Ase l’attirò a sé, per il piacere di sentire il corpo sodo e snello di lei contro il proprio.

“Non ho nessuna voglia di dargli ciò che chiede,” ammise con voce roca.

“Perché?” domandò Sigyn.

“Tu lo conosci?”

“Forse l’ho visto una volta, un paio d’anni fa.” La ragazza recuperò dalla memoria l’immagine di un vecchio dalla barba fulva striata di bianco, appesantito da un ventre prominente, che si muoveva per la sala trascinando con difficoltà una gamba gonfia e malata e facendo sfoggio di un gran numero di gioielli. Dicevano che soffrisse per una vecchia ferita capitatagli cadendo da cavallo più di dieci anni prima. “Aveva un aspetto imponente e spaventoso.”

Loki stirò le labbra in un ghigno perfido. Non aveva dimenticato i giri di parole con cui l’uomo chiedeva la mano delicata di Sigyn. “Cerca una moglie che abbia la metà dei suoi anni,” le confidò. “Crede che con questa, che sarebbe la terza o la quarta, ho perso il conto, riuscirebbe ad avere il figlio maschio che cerca.” Trovandosi improvvisamente la gola secca deglutì, pensando all’enorme errore in cui stava impaludandosi, ma da cui non si risolveva a liberarsi. Avrebbe dovuto smettere di corteggiare di nascosto Sigyn, interrompere quei convegni pericolosi e interessanti e dimenticarla nell’unico modo possibile. Portandosela a letto una volta per tutte, strappandole via il mistero e l’attrazione che possiedono le donne intoccabili come lei.

“Pensava a te.”

La frase la colpì come avrebbe fatto un pugnale. Se il cielo non fosse stato un drappo scuro illuminato dai bagliori argentei delle stelle, Loki avrebbe visto le gote di Sigyn scolorire, le labbra tremare, gli occhi sgranarsi per la sorpresa, prima ancora della paura. Lei non aveva mai pensato al matrimonio e l’unica proposta che aveva ricevuto veniva da un suo affezionato amico d’infanzia, l’inetto rampollo di un’importante famiglia di Vanheim, Theoric che non sapeva nemmeno andare a cavallo. E lei gli aveva rifilato una risata da ragazzina, come risposta – presto avrebbe dovuto pagare per quell’insolente rifiuto, ma questo, Sigyn, ancora non lo sapeva. Ma che si discutesse del suo futuro nel consiglio presieduto dal re suo nonno, che si valutasse l’idea che potesse dare dei figli a un vecchio dispotico reso più crudele dalla malattia con cui non aveva niente da dire, le mostrò la misura della sua prigionia – la prigionia di tutte le ragazze aristocratiche di Vanheim. Altri avrebbero scelto il suo destino per lei, usandola come una pedina in un gioco politico. Prima o poi sarebbe arrivata una proposta che Sigyn non avrebbe potuto rifiutare, e, sebbene sapesse da tutta la vita che questo era il suo destino, trovarselo davanti all’improvviso la turbò. Credeva di avere più tempo, era certa che la sua famiglia l’avrebbe interpellata. Ora non ne era più così sicura – certo, non c’era motivo per agitarla rendendole nota una proposta di matrimonio inadatta, ma nulla le garantiva che in futuro sarebbe stata chiesta la sua opinione. E quel futuro era comunque più vicino di quanto Sigyn volesse.

“Non l’avrei mai permesso,” concluse Loki con secco orgoglio, ricordando a entrambi come avesse tra le mani il potere di convincere Njord a darla in sposa a un uomo tanto più vecchio e gretto.

Sigyn rabbrividì, ma non per il freddo. “Perché?” scelse di chiedergli. Non parlavano mai di loro. Del perché ogni sera si incontravano, di cosa li spingesse a litigare ai banchetti, ignorarsi durante il giorno e cercarsi con disperazione la notte, per baciarsi e accarezzarsi finché il desiderio inappagato o l’ora tarda non li costringeva a separarsi, protetti dalle tenebre e osservati dalle stelle.

Non parlavano nemmeno del futuro, perché non c’era, non ne avevano nessuno. L’unica cosa che Loki si era premurato di dirle al riguardo, concerneva l’eventualità che venissero scoperti. Avrebbe dovuto negare qualsiasi coinvolgimento, in ogni caso.

L’Ase aveva la risposta ferma in gola. Troppo giovane. Troppo bella. Non ancora mia – ma se fosse stata un’altra, una che non fosse Sigyn dai capelli d’oro, Sigyn dallo sguardo di metallo fuso, gli avrebbe fatto comodo che diventasse la devota moglie di un nobile distratto e imbolsito. Incastrata in un matrimonio infelice, avrebbe acconsentito con più slancio a vivere un rapporto clandestino e a tenerlo ben nascosto, senza pretendere niente in cambio. Ma accanto a sé, su quel tetto accarezzato dalla brezza notturna, c’era lei.

La prima volta che aveva suggerito a Njord di ignorare quella proposta, era ancora una ragazzina acerba e un pizzico insolente: era stata la pietà a fermarlo – ad Asgard fidanzamenti e matrimoni si celebravano più tardi. Ma dopo, quando Sigyn era cresciuta e l’età era, effettivamente, quella giusta, aveva sentito lo stomaco accartocciarsi all’idea che quella ragazza che una notte aveva osato entrare nelle sue stanze per curargli una ferita, facendo scorrere le sue dita delicate sulla sua pelle e lasciando che respirasse il suo profumo, diventasse la moglie di qualcun altro.

Sigyn era intoccabile – prima o poi avrebbe dovuto rinunciare a lei, stancarsi di lei, ma non ancora. Quella consapevolezza, così lucida e spiazzante, gli si conficcò nella testa, suggerendogli perfida di aver lasciato scoperto il fianco.

“Perché?” insistette Sigyn a voce più bassa, condendogli le labbra, assaggiando le sue con lentezza, come se avessero tutta la notte davanti e un letto sicuro dove amarsi. Lasciò che intrecciasse le braccia sottili dietro al suo collo, premendo il corpo sottile e sinuoso contro il suo.

L’unica risposta che aveva senso darle era continuare a baciarla. Tutto il resto erano parole vuote e pericolose, o menzogne che lei non meritava.

 

Continua, perché i miei piani sono come quelli di Loki, che variano di minuto in minuto

 

 

 

L’angolo di Shilyss

Care Lettrici e cari Lettori del mio cuore ♥ ♥!

Rieccoci qua con i Loki e Sigyn nella versione di Tutte le mie bugie, la mia prima long (la trovate a pagina 3 del profilo).

Non è necessario averla letta, ma tenete presente che la Sigyn che vedete per buona parte del racconto è molto giovane, alle prese con i primi turbamenti instillati da un giovane uomo affascinante come Loki, ma anche con quella fragilità propria di chi si trova in quella fase in cui si è adulti per certe cose e per certe cose no. Poi crescerà, perché si andrà a raccordare con quella di Tutte le bugie, ma ‘sto capitolo stava diventando troppo lungo (poi mi dite che non mi regolo).

Rispetto ad altre storie (Accordo, Scintille) tenete presente che il divario d’età è maggiore, sebbene nei limiti della legalità.

 

Ringrazio con tutto il cuore i vecchi lettori, i nuovi lettori e tutti coloro che listeranno, recensiranno o semplicemente leggeranno questa storia: a parte gli scherzi (lokini) siete importanti e sappiate che leggo tutti i vostri commenti e non vi mangio. Spesso non rispondo pubblicamente, ma se vi palesate lo faccio e sono molto alla mano, ecco. Pensavo di concludere in due capitoli, ma purtroppo le cose si sono ampliate e dirottate. Spero in un agosto abbastanza sereno e tranquillo che mi consenta di sistemare le ultime storie e gli aggiornamenti – di questa, di confessioni, di Accordo, di Scintille, di Ciò che resta delle tenebre, PERDONATEMI.

Seguitemi sulla pagina fb (o scrivetemi anche lì) per info, curiosità, aggiornamenti (trovate il link in bio) e…

 

Ricordo che il personaggio di Sigyn, tolto quello che trovate alla voce “Sigyn” su Wikipedia, è una mia personale interpretazione/reinterpretazione/riscrittura. Loki e Sigyn nel mito hanno dei figli insieme, Vali e Narvi. Vali me lo sono tenuto, Narvi l’ho sostituito con Sonje, personaggio di mia invenzione. Nel mito Sigyn non eredita proprio niente, quindi anche qui è una mia idea. Non vi autorizzo a ispirarvi o peggio a questa versione o alle altre storie da me postate né qui né altrove (peggio mi sento con le fiabe) e lo stesso vale per gli headcanon su Vanheim, su Loki o su Asgard stessa. Lo stesso vale per il ruolo di Loki presso Njord, per le cariche che Loki ricopre in questa Vanheim. Creare un mondo con usi e costumi non è uno scherzo.

Comprendetemi per queste precisazioni, ma scrivo su questo fandom dal 2017 e ne ho viste di tutti i colori.

A presto e grazie per tutto l’affetto/sostegno/cose, vi si lovva (e spero voi lovviate me).

Vostra,

Shilyss



[1] Molte scene di questo capitolo fanno riferimento al capitolo 1 di questa raccolta – L’ombra che è rimasta di te.

[2] La marca è il confine di un regno. Chi lo gestisce è un marchese.

[3] Sigyn e Loki si danno del tu in tutti i capitoli di questa saga tranne nello scorso capitolo, che correggerò appena metto online questo. :P

[4] Di nuovo, scena presente nel capitolo 1.

[5] Quello di Tutte le bugie.

[6] E il Tempio con la Sublime Stro**za lo conosciamo molto, molto bene, vero??

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Capitolo 12
*** Forse era scritto nel destino - parte 3 Il messaggio ***


Il messaggio

We don't bleed when we don't fight

Go ahead, go ahead, throw your arms in the air tonight

We don't bleed when we don't fight

Go ahead, go ahead, lose our shirts in the fire tonight

(The National, Runaway)

 

Parte 3

 

L’accordo era di non scriversi, mai. Per nessuna ragione. Qualsiasi traccia avrebbe potuto tradirli, e Loki, che pure era il signore del caos, non amava che fossero altri a demolire i suoi piani. Strinse nel pugno il lungo biglietto di lei e lo infilò nella giubba, consapevole che avrebbe dovuto distruggerlo immediatamente e che anche tenerlo addosso equivaleva a voler mettere la testa su un ceppo, in attesa che il boia calasse la sua ascia affilata. Sperando per loro che fosse ben affilata, ragionò, piegando le labbra in un ghigno crudele e feroce, pregustando il piacere che avrebbe provato nel prendersi ciò che gli spettava. Un giorno avrebbe insegnato ai Vanir l’ultima delle lezioni che restava loro da imparare: quanto fosse rischioso riporre troppa fiducia nei lupi. Diede un paio di ordini secchi e precisi, senza immaginare che Sigyn aveva scritto quella lettera usando proprio la penna dalla piuma nera che lui le aveva donato, custodita nel doppiofondo di un cofanetto ricolmo di gioielli.

A Freyr, accanto a lui, non era sfuggita la lettera e il disappunto che aveva provocato. “Guai per Lingua d’Argento?” gracchiò, senza mascherare un malcelato piacere all’idea che qualcuno dei suoi mirabili progetti andasse in malora.

“Fastidi, più che altro,” rispose Loki tra i denti. “Risolvibili, per tua fortuna,” aggiunse tetro, scoccandogli un’occhiata indefinibile, carica di un feroce divertimento che mise a disagio l’altro. Freyr si difese provando a drizzare la schiena e si passò una mano sulla barba ispida e disordinata che gli copriva le guance pallide. Era raro vedere Loki così contrariato e lui aveva bisogno del suo aiuto – dell’ennesimo prestito per coprire i debiti che non riusciva a sostenere, della menzogna giusta da rifilare al proprio padre per precipitare ancora più in basso nella rete di finzione e disperazione in cui era caduto per non aver potuto né voluto fuggire da una società sclerotizzata e asfissiante, per nulla disposta a tollerare nessuna deviazione dal cammino prestabilito.

Seguì Loki – passo elastico, spalle diritte e portamento da principe – lungo i corridoi del palazzo, chiedendosi rabbiosamente quanto oro possedesse nei suoi forzieri, quali terre fertili e rigogliose avesse strappato alle grandi famiglie di Vanheim. Tutte quelle che hanno potuto vendermi, gli aveva detto una volta l’Ase con voce allegra e una luce ferina negli occhi. Chi sollevava – e ciò avveniva piuttosto spesso – il dubbio che il dio dell’inganno avesse acconsentito ad aiutare i Vanir solo perché puntava al loro trono, dimenticava che c’erano tanti modi per avere in pugno un regno. Prestare denaro alla famiglia del sovrano era uno di quelli. Loki Laufeyson era il signore di numerosi feudi situati in zone strategiche e puntava all’acquisto di un sontuoso palazzo che, una volta ristrutturato, gli avrebbe garantito una maggiore autonomia e la possibilità di fare sfoggio di tutta quella ricchezza che si vociferava possedesse, perché tutti, a Vanheim, in un modo o nell’altro, gli dovevano qualcosa.

Loki scelse la biblioteca per compilare il foglio che avrebbe concesso a Freyr un po’ di credito; un modo per unire l’utile al dilettevole – per rintracciarla e fare in modo che il loro appuntamento non saltasse anche quella sera. Ma Sigyn non c’era, le ampie sale tappezzate di libri erano vuote.

“Perché qui?” chiese Freyr, a disagio, guardandosi attorno.

L’ingannatore scriveva rapido, inghiottendo il disappunto, celandolo con cura nel petto. “Non era una richiesta urgente, la tua?” ribatté con voce secca. La sua firma graffiò il primo strato di pergamena, tracciando un solco netto e deciso. Gli tese il foglio senza aggiungere altro, compiacendosi per le labbra serrate e lo sguardo basso di Freyr, che calpestava con rabbia ciò che rimaneva del suo orgoglio continuando a chiedere favori all’unica persona da cui avrebbe dovuto guardarsi – ma la sola che non lo giudicasse. E questo non perché Loki amasse il prossimo, ma per via della massima che aveva fatto propria: chiunque poteva essere e fare ciò che voleva. Le scelte altrui non lo riguardavano a meno che non lo coinvolgessero direttamente.

Il figlio di Njord afferrò il foglio come se volesse strapparglielo dalle mani. Era l’ennesima prova di come fosse bravo a deludere suo padre e a infangare il suo rango, perché quello che più gli bruciava era che, se avesse saputo resistere al fascino dell’idromele e del vino, se fosse stato sagace e sfrontato la metà di Loki, il suo posto gli sarebbe appartenuto. Invece era il primo a essere indebitato con lui e a dovergli oro, terre, favori. Aveva permesso all’ingannatore di scoprire tutte le sue debolezze e se Loki non gliele ritorceva contro era solo perché non gli conveniva ancora farlo. Una mera questione di tempo e di opportunità. E la cosa peggiore, la più miserabile, era che se anche Freyr avesse immaginato in quali altri modi il dio dell’inganno stava esautorando lui e la sua casa, non avrebbe potuto fare assolutamente niente per fermarlo. Mesi dopo, la sua ira si sarebbe abbattuta su Sigyn, colpevole di aver accolto nel suo letto, tra le sue gambe, proprio il feroce e spietato dio dell’inganno, vincolandolo a sé, consegnandosi a lui, al mago straniero ricusato dalla sua gente. Entrambi sarebbero rimasti intrappolati in un legame che li avrebbe lasciati esposti. O forse lo erano già, ma non avevano la lucidità per rendersene conto.

Il dio dell’inganno attese in piedi che Freyr se ne andasse, ascoltandolo masticare tra i denti una maledizione che non avrebbe mai osato rivolgergli a viso aperto. Quando fu finalmente solo, si concesse il lusso di sedersi su una delle belle sedie rivestite in pelle, di accarezzarne con dita distratte il bracciolo, di poggiare le spalle altere e la testa sullo schienale accogliente. Le sciagure che quel fallito gli augurava gli strapparono un mezzo sorriso. C’era qualcosa di crudelmente divertente nel vedere un principe umiliarsi al punto di chinare il capo e mendicare aiuto – lui non era venuto a Vanheim pregando che gli venisse dato asilo, ma aveva offerto a Njord onore e gloria e ricchezza. Promesse che aveva mantenuto, ottenendo persino più di quanto inizialmente pattuito. Il sorriso si trasformò in una smorfia. La biblioteca, senza di lei, gli sembrò innaturalmente silenziosa e presto qualcuno sarebbe comunque venuto a chiamarlo. Non c’era decisione, scelta, festa, pettegolezzo, matrimonio, adulterio, transazione che non passasse per le sue mani svelte. Njord era un re vecchio e svagato, che si limitava a firmare decreti scritti da lui senza neanche leggerli, perché farlo gli avrebbe portato via del tempo prezioso da dedicare ai suoi passatempi. Era lui, Loki, a governare di fatto, a lavorare fino a notte fonda affinché Vanheim diventasse sempre più prospera e ricca. Questo era l’accordo mai pronunciato tra lui e l’anziano sovrano: era libero di agire come meglio gli pareva finché tutto andava bene – ma cosa succede ai cortigiani, ai consiglieri, quando chi possiede la corona si stanca di loro? Ogni servizio reso si sgretola, diventa polvere. La gratitudine ostentata e il favore in cui si è vissuto si tramutano velocemente in odio. E allora bisogna agire in maniera rapida e silenziosa, strappando ciò che si è costruito, mostrando lo spirito indomito e fiero dei popoli del nord a cui Loki apparteneva – agli Æsir, pirati feroci, e agli Jotnar, che vivevano in quelle montagne nate dal mare di un biancore spettrale e abbacinante. Fece schioccare la lingua nel palato, avvertendo il peso immaginario del biglietto di lei ripiegato con cura. Prima di sera voleva incontrarla, e ci sarebbe riuscito. Il caso – il caos – poteva essere manipolato, plasmato, allestito come se si trattasse di uno spettacolo. Si alzò sfoggiando un sorriso sghembo, lasciando a passo svelto le fresche stanze della biblioteca per l’afosa e tranquilla calura estiva offerta dalla fertile Vanheim ricoperta di fiori e di verde, ammirando la placida bellezza dei suoi pomeriggi pigri che facevano da palco al concerto offerto dalle cicale. Che ne sarebbe stato di Sigyn, della graziosa Sigyn dai capelli d’oro, se lui avesse detronizzato Njord?

Non è questione di “se”, Loki, ma quando.  

 

Sigyn aveva chiacchierato, sorriso e spiegato tutto il giorno ed era stanca, terribilmente stanca. La madre e la sorella di Theoric, un suo vecchio amico d’infanzia[1], erano venute a farle visita e l’avevano riempita di domande e di racconti. All’inizio lei aveva risposto con piacere alle loro curiosità, ma col passare del tempo si era sentita braccata dalla presenza delle due donne, tanto da desiderare ardentemente un momento di tranquillità e di silenzio. Di solitudine, anche, indispensabile per smettere un momento la maschera della brava e diligente nipote del sovrano ed essere sé stessa – Sigyn che giocherellava con la collana d’oro con l’ametista che Loki aveva desiderato vederle addosso, sul seno; Sigyn che carezzava la pelle tesa del dio dell’inganno per curargli una ferita e lasciava che le sue dita scorressero dove non c’era bisogno di alcun medicamento; Sigyn che lasciava che la baciasse e la spogliasse negli angoli più inaccessibili del palazzo dei Vanir e, fingendo di non essere la nipote del re e che le proprie azioni non avessero conseguenze, decideva di diventare la sua amante. Il dio dell’inganno non aveva avuto nemmeno bisogno di ingannarla, per averla nel suo letto – anzi, forse, se lo avesse fatto, lei per prima avrebbe raccolto le gonne voltandogli per sempre le spalle.

Le sue ospiti stavano parlandole di Theoric – di quanto fosse generoso e amabile – quando la principessa Vanir era stata interrotta da una delle sue ancelle. Poteva recarsi un momento nella sua serra e raccogliere una delle erbe medicamentose che coltivava? Senza, l’infuso che sua zia Freya beveva per farsi passare le emicranie non avrebbe avuto lo stesso effetto. La ragazza non si chiese come mai l’ingrediente fosse terminato all’improvviso e colse l’occasione per lasciare le due. Raggiunse i giardini lussureggianti, tenuti con cura e attenzione, respirando l’odore di foglie e di fiori. Davanti a lei si stagliava la serra: un rifugio nient’affatto neutrale, legato, una volta di più, al dio dell’inganno. Era stato lui a sistemarla e a curarla, pochi mesi dopo il suo arrivo a Vanheim. Molte di quelle piante gli servivano per le sue oscure attività di mago – per creare incantesimi e veleni non servivano solamente le rune, ma anche ciò che cresceva sulla terra nera e fertile dei Vanir. Incuriosita dal progetto e interessata ad aiutare i guaritori di Vanheim a curare la povera gente, ancora ragazzina aveva chiesto e ottenuto da Njord che una parte dell’ampia serra le fosse donata[2]. L’Ase non aveva apprezzato la richiesta di quella ragazzina acerba e petulante che portava le trecce. Scoccandole un’occhiata torva, aveva rammentato al sovrano che lui non usava la serra per il piacere di vedere una pianta crescere, ma per distillare veleni e pozioni. C’era il rischio di incorrere in incidenti e fastidi, dividendo lo spazio con una bambina o poco più. Njord era riuscito ad accontentare entrambi, ordinando che l’ambiente fosse diviso in maniera netta e che venisse costruita un’altra entrata indipendente. Ma a Loki non era bastato. L’aveva ammonita personalmente dall’invadere i suoi spazi per curiosare in maniera inopportuna.

Non era mai accaduto che si incontrassero lì, in nessuna occasione, neanche di sfuggita. Sigyn aveva coltivato fiori e creato i suoi unguenti con dedizione e amore, visitando quasi quotidianamente la serra e portando spesso amici e parenti a visitare i frutti del suo lavoro, ma, nonostante questo, non le era mai capitato di incrociare neanche per un momento Loki. Più di una volta, quando ancora non c’era nulla tra loro, aveva tentato di sbirciare oltre il vetro che separava le due ali della serra per capire se l’Ase avesse abbandonato o meno le sue strane colture; da quel poco che era riuscita a scorgere, aveva dedotto che l’ingannatore non amava mettere a punto le proprie stregonerie in compagnia e che si adoperasse per agire nell’ombra.

Così, entrò in quell’ambiente ovattato e protetto senza aspettarsi di incontrare nessuno, a passo svelto, controllando sovrappensiero i fiori e le erbe che servivano per i suoi unguenti, mordendosi le labbra al pensiero di quello che, mesi prima, aveva spalmato sulla spalla di lui[3] – quanto sarebbe stato più semplice seguire i ragionamenti delle sue ciarliere ospiti e assecondarle, innamorandosi di un ragazzo come Theoric? Uno che l’avrebbe invitata a ballare di fronte a tutti, corteggiandola come si usava a Vanheim, un po’ alla luce del sole e un po’ mandando avanti fratelli, genitori, cugini. Che non avrebbe avuto alcun problema a chiedere la sua mano a Njord, il cui passato non era pieno di sangue, vendette e battaglie. Invece, fremeva per un principe maledetto, reietto, spietato, che nutriva nei confronti di tutti loro un nero disprezzo e tramava per rubare il trono di suo nonno. Intelligente e acuto fino alla crudeltà, diceva di non amarla, ma la cercava – facendola sentire viva come non era mai stata.

Arrivò nel punto in cui custodiva le erbe già sminuzzate e spezzate, pronte per essere messe in un sacchettino e utilizzate per creare la tisana di Freya. Immaginò di accontentarsi dei discorsi scialbi di Theoric, di accettare la sua visione del mondo, di vivere come la brava ragazza che non era più – che non era mai stata, forse. Pensò agli insignificanti e tediosi dialoghi con Theoric, fatti di niente, alle volte in cui si era annoiata nello starlo ad ascoltare, al sollievo provato quando aveva avuto l’occasione di abbandonare la sorella e la madre di lui.

“Scrivermi è pericoloso, Sigyn.” La voce roca e beffarda del principe di Asgard la raggiunse mentre le sue dita sottili chiudevano con un nastrino sottile il sacchetto, facendola sussultare – un brivido la sciolse, uno che dalla nuca scendeva lungo la schiena.

“Non volevo che mi aspettassi invano,” mormorò, voltandosi lentamente. Erano amanti da mesi, ma nonostante ciò, ogni volta che lo incontrava le sue gambe diventavano molli e il cuore le batteva più velocemente nel petto, come durante il loro primo appuntamento. Il suo corpo era attirato da quello di lui – se fossero stati più vicini, avrebbe cercato un contatto qualsiasi, fosse pure uno sfioramento leggero. Loki la aspettava seduto su una panca di pietra, le lunghe gambe accavallate con malagrazia, un ghigno sbieco disegnato sulle labbra sottili; si alzò con un movimento fluido e scattante. Aveva escogitato un modo per attirarla lì senza chiamarla direttamente, facendo sì che Freya sentisse il bisogno di prendere una tisana e che, per prepararla, mancasse un ingrediente e fosse dunque necessario chiederlo a lei, Sigyn. Questa consapevolezza la fece sentire desiderata, cercata, sciocca, forse – ma viva come non si era mai sentita, se non tra le sue braccia, felicemente intrappolata nella tela tessuta da lui, signore degli inganni e del caos.

“Ci vedremo comunque stanotte,” le promise – la informò.

Sigyn finse che quelle parole non la facessero sussultare, non la sciogliessero. “E la tua riunione con Njord e i nobili dei confini?”

“La farò finire prima. Ho ottenuto la restituzione del tuo ritratto,” aggiunse. Si riferiva a un piccolo quadro che il suo primo pretendente, di molti anni più vecchio di lei[4], era riuscito a ottenere per chissà che vie traverse. Quando Loki, che aveva suggerito a Njord di rifiutare senza alcuna remora la pur allettante proposta – lei era troppo giovane e bella, lo aveva scoperto, si era speso affinché il dipinto fosse restituito e tutte le copie esistenti distrutte, anche quelle nascoste. Vedendo la determinazione e l’energia profuse dall’Ase in una questione in fondo piuttosto marginale rispetto ai problemi di Vanheim, Sigyn non aveva potuto fare a meno di chiedersi se lo zelo impiegato dal dio dell’inganno in quella vicenda venisse applicato senza distinzione alcuna in ogni questione, fosse il frutto di una gelosia celata ad arte o, addirittura, facesse parte di un grande scherzo. Certo, suo nonno aveva sempre lodato l’ingannatore per l’efficacia dei suoi interventi, ma cosa c’era di più intrigante, per Loki, che farsi restituire il ritratto in nome dell’onore di una principessa che tutti ritenevano vergine e che, invece, ogni notte ansimava a ogni sua spinta, inarcandosi contro di lui?

“Dato che il nostro ultimo nascondiglio è attualmente occupato, ho pensato a qualcosa di leggermente più rischioso, ma decisamente appagante,” riprese l’Ase con tono faceto, avvicinandosi fino a varcare la necessaria distanza che tenevano in pubblico. Le porte della serra erano aperte e accessibili: chiunque sarebbe potuto entrare e vederli uno di fronte all’altra, intuendo la loro relazione dal modo in cui l’ingannatore la fissava ghignando mentre le cingeva la vita sottile con un braccio, attirandola a sé con sfrontata audacia. La pregiatissima seta della gonna e del corsetto aderente di Sigyn sfiorò gli abiti sobri e marziali di Loki, fatti apposta per esaltare il suo fisico alto e slanciato, di guerriero. Corpo di cui lei conosceva cicatrici e muscoli, contro cui amava stringersi nei brevi momenti di dolcezza che si ritagliavano prima di rivestirsi, col respiro ancora corto. Lo desiderava.

Sigyn sollevò un sopracciglio, allacciando le braccia attorno al suo collo. “Rischioso?”

L’ingannatore rise e osò ghermirle un bacio lambendole appena le labbra, compiacendosi della schiena di lei, che si tendeva al suo tocco.

 

Avrebbe dovuto stancarsi di quella ragazza già da mesi, ma non era successo, anzi: più andavano a letto insieme più separarsi diventava difficile, l’intesa tra loro, quell’alchimia profonda e ineluttabile che li portava a cercarsi e a desiderarsi, profonda. Ogni notte, Sigyn, anziché perdere il fascino della scoperta, lo attirava inconsapevolmente a sé sostituendo l’ingenuità con la curiosità, trasformandosi al suo tocco dall’irriverente principessa di Vanheim in una donna capace di affidarglisi e di tentarlo – lei aveva scritto un biglietto compromettente, spingendolo a una reazione, impugnando tra le sue dita delicate la penna dalla piuma nera di cui lui aveva riconosciuto il tratto deciso ed elegante.

“Mai come il tuo messaggio. Le mie stanze,” le sussurrò sulla bocca, gustandone la morbidezza. A renderlo meno cauto era qualche calcolo che Sigyn non poteva intuire e, forse, il bisogno scaturito dall’assenza, dalla mancanza. Prima di lasciarla, le insegnò le rune che le avrebbero permesso di entrare nei suoi appartamenti.

Quell’intesa, che li portava a cercarsi e a non saziarsi mai l’uno dell’altra, li avrebbe rovinati, preconizzò. E allora una domanda, insolente come lei, gli si insinuò nella mente, come facevano le mani di Sigyn quando lo accarezzavano, incerte e meravigliosamente sfrontate a un tempo: se avesse strappato la corona a Njord, l’avrebbe voluta accanto a sé? Sapeva con esattezza dove avrebbe spedito Freyr, in che modo si sarebbe liberato dei nobili che più gli si opponevano, in quale dimora avrebbe ritenuto più appropriato che Freya si recasse per sempre, ma di Sigyn, che ne sarebbe stato?

 

 

Spalle nude, perle e coralli rosa tra i capelli d’oro, un velo di bistro sulle palpebre. Sigyn era bella – di più, incantevole. Sulla generosa scollatura che esaltava il seno piccolo e sodo non si posavano solamente i suoi sguardi rapidi e fugaci, ma anche molte altre occhiate. La stoffa, di un tenue color albicocca, si sposava alla perfezione con la sua carnagione. Non era più la ragazzina del ritratto né quella che aveva rubato la sua penna per poi restituirgliela tra mille imbarazzi. Era una donna. Una che gli lasciava graffi sulla schiena e gli cingeva i fianchi con le gambe. La vide puntellarsi sui gomiti, sfiorarsi il mento con la mano e ridere di una battuta un po’ fiacca, accettando subito dopo un invito per un ballo. Alzandosi, gli lanciò da sotto le ciglia scure uno sguardo lungo, audace, brillante.

Che ballasse con chiunque. Lui l’avrebbe avuta dopo, nel suo letto, per tutta la notte.

Njord e i membri dell’aristocrazia con cui si era dato convegno non riuscirono a catturare completamente la sua attenzione, quella sera. Non del tutto, almeno. E questo fu motivo di profondo fastidio, per Loki. Concentrarsi, studiare, riflettere, erano attività che erano congeniali alla sua natura astuta e manipolatoria, ma la musica ovattata che proveniva dalla sala accanto, dove Sigyn, bellissima e con le guance rosse, ballava e rideva, lo distraeva. Non al punto di rendere meno efficaci e pungenti i suoi ragionamenti, era ovvio, ma abbastanza da indispettirlo, da svegliare un’insoddisfazione oscura nel suo petto. L’immaginazione lo tradiva, ricostruendo con ferocia lo scenario che si svolgeva poco distante da lui – lei tra le braccia di un altro, chissà fino a che punto innocue. Inezie che non dovevano interessargli, ma che, nonostante tutto, lo infastidivano. Perché? Forse era a causa dello sguardo grigio di Sigyn, che lo rimproverava in silenzio di non aver voluto chiedere la sua mano, preferendo quella relazione illecita e pericolosa? Accantonò l’idea con una scrollata di spalle, perché il vecchio Njord, sentendosi offeso da un re vicino, desiderava scatenare una guerra, incurante del fatto che per simili imprese, sempre e comunque incerte, occorre una quantità di oro capace di gettare in ginocchio sovrani come il fu Odino. Ma il re dei Vanir, che era stato cauto e parsimonioso per tutta la sua vita, ora, grazie a Loki, nutriva sogni di gloria. Voleva vivere gli ultimi anni che gli restavano – frase che ripeteva da almeno un decennio, da molto prima che Loki gli chiedesse asilo, in una corte splendida e temuta com’era Asgard. Quindi, per una volta, all’ingannatore toccava lo sgradevole compito di dissuadere l’anziano e capriccioso sovrano dall’idea malsana che fosse opportuno muovere guerra, facile ottenere una schiacciante vittoria. Freyr non c’era, era scappato nel quartiere dei bordelli a trovare consolazione tra le braccia del suo amore proibito e a sperperare nel vino il denaro che gli aveva prestato. A caldeggiare la volontà del vecchio re c’era, in particolare, un ricco nobile, padre di un pusillanime che l’Ase aveva sorpreso mentre era intento a fissare Sigyn col suo vestito di seta color tramonto.

“Come mai Lingua d’Argento si rifiuta così ostinatamente di assecondare il re che lo ha così tanto favorito?” disse a un certo punto l’uomo.

Loki s’inumidì le labbra sottili, inghiottendo il rancore che quella frase volutamente arrogante causava. Lui era un principe di Asgard, il legittimo erede di Jotunheim. Nelle sue vene ribolliva il sangue di condottieri e sovrani, non di oscuri cortigiani saliti alle vette del consiglio per aver pagato il proprio posto[5]. “Perché ho comandato le armate di Asgard mentre voi cardavate la lana e sceglievate il colore con cui tingerla,” sibilò. L’altro impallidì e l’Ase ne approfittò per riservargli la stoccata finale. “Io ho perso il conto delle battaglie a cui ho partecipato – delle vittorie ottenute. E voi?”

Il Vanir non ebbe il tempo di rispondere. Sigyn, che aveva smesso di ballare, fece il suo ingresso ufficialmente per augurare la buonanotte a suo nonno, ufficiosamente per far sapere a lui, Loki, che si sarebbe recata nelle sue stanze. Aveva le guance rosse e le ciocche dorate erano a malapena trattenute dai fermagli che le imprigionavano da inizio serata. Loki l’osservò chinarsi verso il vecchio, ammirò la rapidità con cui il suo sguardo si posò su di lui senza far emergere nulla. Ancora una mezz’ora di discussione, utile affinché nessuno sospettasse nulla, e poi l’avrebbe raggiunta, vendicandosi per la bella risata di lei, per la linea flessuosa del suo corpo snello e attraente. Sciorinò numeri, stime, considerazioni anche accese, mentre le dita nodose di Njord cercavano di placare gli animi. Il re dei Vanir gli avrebbe dato ascolto, alla fine, perché pur cercando la gloria non era uno sciocco e sapeva che il suo ministro più sagace non amava giocare partite in cui non era certo di poter ottenere il massimo risultato. Ma era poi vero? Quando, molto più tardi di quanto avesse inizialmente pronosticato, riuscì a incamminarsi verso i suoi appartamenti, non riuscì a stupirsi completamente della situazione in cui si trovava, governata sempre più dal caos che dalla pianificazione. Aveva un evidente vantaggio tra le mani, ma preferiva sfiorare con le dita le fiamme, sentirne il calore sui polpastrelli, che agire.

Lei lo attendeva con l’abito con cui aveva ballato per tutta la sera ancora indosso, ma aveva liberato i capelli dorati dal giogo dei fermagli. Così, ora, la chioma ricca e scarmigliata, illuminata dalla luce calda delle lingue di fuoco che si rincorrevano nel camino, le ricadeva sulle spalle nude, sulla schiena diritta.

“Njord è diventato un guerrafondaio,” spiegò, tralasciando di rimproverarla per le perle e i coralli che aveva posato su un grande tavolo di quercia dove avrebbero potuto perdersi, confondersi, tradirli.

Sigyn gli rivolse un sorriso triste e chiuse il libro che stava sfogliando. “Siamo più ambiziosi di quanto meritiamo.”

“Il potere inebria. Corrode. Chiede un prezzo sempre più alto,” le rispose, scoprendosi con la gola secca. Sotto lo sguardo liquido e attento di lei, si versò una coppa d’idromele e gliene offrì una, ma la ragazza scosse il capo con lentezza, perché i gesti di lui e quelli di lei erano la replica esatta di altri, vissuti mesi prima, quando erano ancora liberi dall’incanto che li aveva avvolti.

Se Sigyn non gli avesse scritto, forse Loki avrebbe continuato a discutere con Njord, senza preoccuparsi di far terminare il consiglio. Senza quel pericoloso biglietto che doveva diventare cenere il prima possibile, ma che, per qualche immotivata ragione, l’Ase teneva ancora nella giubba di fine pelle di Asgard, lui si sarebbe gettato nell’ampio e sontuoso letto a baldacchino da solo, senza trascinarci lei, che aveva desiderato per tutto il pomeriggio e la sera. Sigyn gli aveva teso una dolcissima trappola e lui aveva scelto di abboccarvi.

 

Accarezzò la seta calda che le cingeva la schiena, scostò la massa dorata dei suoi capelli per liberarle la zona sensibile della nuca e le spalle scoperte, leggermente infreddolite – i suoi appartamenti erano posti nella parte posta più a nord di tutto il palazzo, le finestre si affacciavano verso il confine con Asgard dai fiordi di ghiaccio, invisibile all’occhio nudo, ma presente laggiù, oltre la linea dell’orizzonte. Il regno di Padre Tutto e di Thor, il suo regno, quello che aveva difeso e combattuto a viso aperto nonostante i tradimenti e gli inganni. Le dita dell’Ase ghermirono il seno di Sigyn protetto dal corsetto di seta, scivolarono verso la gonna vaporosa che celava i fianchi sodi e rotondi, così squisitamente femminili. Chi catturava chi, in quel loro gioco iniziato per colpa di una gentilezza inopportuna – una porzione di biscotti al miele, ma tessuta dalle Norne invidiose senz’altro prima[6]? Sigyn sospirava al tocco delle sue dita – si scioglieva, piegava il collo per assaggiargli le labbra e ottenere un bacio lungo, capace di annullare il tempo, di far sparire gli eleganti appartamenti del dio dell’inganno, sempre ingombri di artefatti magici, libri, pergamene arrotolate e armi luccicanti.

Erano perduti.

 

 

 

 

L’angolo di Shilyss

Care Lettrici e cari Lettori del mio cuore ♥ ♥!

Rieccoci qua con i Loki e Sigyn nella versione di Tutte le mie bugie, la mia prima long (la trovate a pagina 3 del profilo). La storia si è ampliata, loro mi impongono di continuare a raccontare e io obbedisco senza fiatare, barcamenandomi con la real life e lo scarso tempo a mia disposizione. Poi ci si sono messe pure un paio di idee niente male, quindi, si continua. ^^

Per quanto concerne “Tutte le tue bugie” non è necessario averla letta, ma tenete presente che la Sigyn che vedete per buona parte del racconto è molto giovane, però ve la consiglio perché è una storia che secondo me merita – se avessi tempo la revisionerei per bene, ma anche così credo sia fruibile. Nel prossimo capitolo torneranno Sonje e Vali; in questo ho voluto mostrarvi il periodo più roseo della relazione tra Loki e Sigyn, quello dopo Asgard, ma prima che Theoric si facesse avanti. Spero sia cosa gradita. Da domani, mi metto sotto con la fine di Ciò che resta delle tenebre ♥.

 

Ringrazio con tutto il cuore i vecchi lettori, i nuovi lettori e tutti coloro che listeranno, recensiranno o semplicemente leggeranno questa storia: a parte gli scherzi (lokini) siete importanti e sappiate che leggo tutti i vostri commenti e non vi mangio. Spesso non rispondo pubblicamente, ma se vi palesate lo faccio e sono molto alla mano, ecco.

Seguitemi sulla pagina fb (o scrivetemi anche lì) per info, curiosità, aggiornamenti (trovate il link in bio) e…

 

Ricordo che il personaggio di Sigyn, tolto quello che trovate alla voce “Sigyn” su Wikipedia, è una mia personale interpretazione/reinterpretazione/riscrittura. Loki e Sigyn nel mito hanno dei figli insieme, Vali e Narvi. Vali me lo sono tenuto, Narvi l’ho sostituito con Sonje, personaggio di mia invenzione. Nel mito Sigyn non eredita proprio niente, quindi anche qui è una mia idea. Non vi autorizzo a ispirarvi o peggio a questa versione o alle altre storie da me postate né qui né altrove (peggio mi sento con le fiabe) e lo stesso vale per gli headcanon su Vanheim, su Loki o su Asgard stessa. Lo stesso vale per il ruolo di Loki presso Njord, per le cariche che Loki ricopre in questa Vanheim. Creare un mondo con usi e costumi non è uno scherzo.

Comprendetemi per queste precisazioni, ma scrivo su questo fandom dal 2017 e ne ho viste di tutti i colori.

A presto e grazie per tutto l’affetto/sostegno/cose, vi si lovva (e spero voi lovviate me).

Vostra,

Shilyss



[1] Theoschifo prima di Tutte le tue bugie e i primi capitoli di questa raccolta è una persona a cui Sigyn è affezionata. I sentimenti verso di lui cambieranno quando lui la obbligherà a fidanzarsi con lui e nel modo in cui si comporterà a seguito della gravidanza di Sigyn.

[2] In Tutte le tue bugie e in diverse altre mie storie Sigyn fa la guaritrice o, comunque, coerentemente col suo rango, si occupa di assistere e medicare.

[3] Episodio presente nei capitoli centrali di “Tutte le tue bugie”.

[4] Quello dello scorso capitolo.

[5] Come nei primi capitoli di questa raccolta.

[6] Come in Tutte le tue bugie, dove viene citato più volte anche il concetto del vincitore vinto.

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Capitolo 13
*** Legarsi ***


Legarsi

I fell in to a burning ring of fire

I went down, down, down

And the flames went higher

And it burns, burns, burns

The ring of fire, the ring of fire

(Ring of fire, June Carter, cantata da Johnny Cash)

 

 

 

Vali Lokason era vispo come sua sorella Sonje e aveva la testolina ricoperta di ciuffi soffici e chiarissimi, che facevano presagire come avesse ereditato i capelli d’oro di sua madre. Lo sguardo, per diverso tempo, era stato di un colore incerto, ma poi si era attestato sulla medesima sfumatura brillante di suo padre, quel verde intenso che però, in lui, avrebbe assunto una sfumatura più dolce, meno spietata. Guardando suo figlio, Loki avrebbe sempre riconosciuto quest’immensa differenza, tra loro. L’anima di Vali, pure se corrosa da ombre cupe quasi quanto quelle del dio dell’inganno, avrebbe sempre posseduto una luce in più. Qualcosa di scintillante ereditato da lei – una fiducia nelle persone e nelle cose che lo scaltro mago non aveva mai posseduto. Ma soprattutto, era il primo maschio a nascere nella schiatta reale di Vanheim da lunghissimo tempo. Era sano, forte e bello e tutti volevano rendergli omaggio, per vedere da vicino quella famiglia così strana di cui si era tanto parlato. Di Sonje si sarebbe sempre detto che era stata lo strumento con cui Loki si era insinuato nella famiglia di Njord, ma Vali era la prova che quell’unione su cui nessuno avrebbe mai scommesso reggeva. Sigyn sfoggiava la radiosa stanchezza di una madre felice, ma dietro allo sguardo innamorato che riservava ai suoi bambini e al marito c’era un velo di preoccupazione che non sapeva spiegarsi né spiegare.

Era come un’onda che l’avvolgeva, sommergendola, nei momenti più disparati, un senso di pericolo impossibile da scacciare. Aveva sentito della profezia fatta dal mostro sotto il tempio. Vali, che s’addormentava tra le sue braccia o in quelle di suo padre, era stato chiamato lupo. Su di lui pesava un destino incerto, ma già filato. E se Loki, nella sua regala tracotanza, ignorava e anzi sfidava quelle parole oscure e cariche di presagi, lei non riusciva a farlo.

Le sembrava che la felicità che le scaldava il petto anche il quel momento fosse fatta di cristallo: davanti a lei Loki, fiero ed elegante come suo solito, cullava il loro secondogenito col piglio sicuro di chi sa esattamente cosa sta facendo, mentre Sonje seduta sulle sue ginocchia, si impegnava in un disegno. Un simile momento così tenero e raro doveva essere protetto e custodito con cura: non meritava di essere sprecato preoccupandosi inseguendo problemi futuri e lontani, incontrollabili. Alcune minacce potevano essere sventate e contrastate, ma altre no, andavano affrontate solo quando e se si fossero presentate. Questo le diceva Loki con la sua voce ammaliatrice e sicura – questo si ripeté sperando di convincersi e dando un bacio ai ricci neri della sua bambina.

“Mamma, perché tieni una penna in mezzo ai gioielli?” domandò di punto in bianco Sonje, voltandosi verso di lei e fissandola con quei suoi occhi indagatori.

Sigyn sorrise, scostandole una ciocca ribelle dal visino. “In qualche modo lo è. Me l’ha regalata il tuo papà,” spiegò.

La bimba assottigliò le palpebre in un modo che le ricordò terribilmente Loki: la spiegazione che le aveva dato non la convinceva del tutto, dedusse.

“Perché non la usi mai per scrivere, allora?”

“L’ultima volta che l’ho usata è stato al nostro matrimonio.”

Quell’affermazione fece scintillare d’interesse lo sguardo grigio di Sonje. Amava le storie che le raccontava zio Thor su suo padre e moriva dalla curiosità di sapere come i suoi genitori si fossero conosciuti e innamorati. Non era un racconto che potesse ascoltare una bambina, ma, per fortuna di Sigyn, la curiosità della figlia si concentrò sulla cerimonia. Lasciò stare il disegno, afferrò per la coda il coraggioso Gatto Too, fedele animale di pezza che si portava dietro ovunque e, con la vocina più supplichevole di cui era capace, chiese a sua madre di raccontarle tutto, ogni cosa.

 

***

 

Erano state nozze sontuose ed elaborate, organizzate in poco meno di due cicli lunari. Njord aveva posto come condizione che il popolo non individuasse nessuna rotondità capace di ricordargli le circostanze in cui quell’unione si celebrava. Loki aveva acconsentito: quando stringeva degli accordi o stipulava dei contratti, amava che le firme dei contraenti fossero apposte il prima possibile, per evitare scomodi ripensamenti e sugellare il prima possibile quanto deciso. Sigyn portava in grembo un figlio loro – una figlia, per l’esattezza[1]. L’ingannatore non poteva assolutamente tollerare che Njord, spinto da Freyr, da qualche famiglia nobile fintamente offesa come il casato di Theoric o vittima, come Odino, di una turba mentale di quelle che prendono in vecchiaia, osasse sfidare apertamente lui e Asgard dopo quanto era stato detto e fatto in sua presenza. L’ombra scura del Tempio non era stata ancora del tutto cancellata e non lo sarebbe stata finché Sigyn non fosse diventata ufficialmente sua moglie.

Prima si celebravano quelle nozze e con più facilità i rapporti tra lui e il vecchio re si sarebbero ristabiliti.

 

Sigyn non ebbe nulla da obiettare, al riguardo. Comprendeva e condivideva le loro ragioni. In quanto nipote del re, aveva sempre saputo che il suo matrimonio sarebbe stato più fastoso di quanto lei stessa avrebbe desiderato. Se avesse sposato un nobile di Vanheim, però, il rituale sarebbe stato più semplice, la cerimonia, per quanto sfarzosa, molto più contenuta e meno d’impatto. Ma lei, contro ogni sua previsione, sarebbe diventata la sposa del dio dell’inganno, del principe perduto di Asgard, dell’erede al trono di Jotunheim, del grande mago e condottiero il cui nome era noto a tutti, nei Nove Regni. Tra le cose messe in chiaro da Loki, su cui l’Ase non intendeva trattare, c’era che la loro unione mescolasse i riti dei tre grandi regni di Asgard, Jotunheim e Vanheim. Una serie di passaggi e di formule che lo scaltro ingannatore avrebbe memorizzato e sfoggiato con la consueta eleganza spigliata, ma su cui lei, che pure era una principessa dei Vanir, avrebbe potuto inciampare.

E poi, c’era l’altro grande interrogativo, quello messo su pergamena la notte in cui aveva accettato la sua proposta, prima di fare l’amore con lui – la prima come coppia ufficiale, mentre Loki sfoggiava ancora i segni della battaglia contro il fratello e aveva il braccio immobilizzato e steccato. Un contratto sottoscritto da entrambi, che conferiva a Sigyn la libertà che aveva sempre sognato e un matrimonio in cui non fosse schiava di suo marito, ma la fiera compagna. Parole che l’inorgoglivano, che sperava potessero cambiare le cose nel suo paese, ma che si augurava non rimanessero lettera morta. Per far sì che questo accadesse, l’unione con Loki avrebbe dovuto funzionare, ma i sentimenti e le relazioni hanno evoluzioni impreviste, sono soggette alle tempeste della vita. Non c’era nulla che le garantisse che sarebbe stata felice con lui, che l’amore che le scioglieva il cuore, capace di farle fare follie, l’avrebbe protetta dalla sofferenza. Loki era mutevole, ambizioso, volitivo, audace ed egoista. Si sarebbe stancato di lei e del figlio che aspettava? Oppure sarebbe venuto il giorno in cui lei stessa, Sigyn, non sarebbe stata in grado di sopportare quelle ombre che gli avvelenavano il cuore, così dense da essere quasi tangibili?

Nel corso della loro relazione burrascosa non aveva mai immaginato un futuro con Loki.

 Anche solo osare sognarlo le era sempre parso un desiderio bambinesco, a cui era folle abbandonarsi. Per un momento aveva osato sperare, ma quel suo sogno era stato brutalmente soffocato dal dio dell’inganno stesso. Ma ora che tutto era diventato reale e possibile, ora che le migliori sarte di Vanheim si erano già messe al lavoro per confezionare il più bell’abito della loro vita mostrandole le sete più pregiate e i pizzi più preziosi, temeva che qualsiasi cosa ci fosse tra lei e il dio dell’inganno potesse infrangersi contro i flutti dell’esistenza.

Le sembrava di osservare la vita di un’altra Sigyn – non poteva essere lei, quella ragazza in piedi, fasciata dalla seta più candida, futura moglie dell’uomo di cui era innamorata, futura madre di un figlio che già cresceva dentro di lei. Solo dieci giorni prima la sua vita era completamente differente – si era trasformata in incubo da cui non sapeva come svegliarsi.

 

“Sorridi, Sigyn. Sarai bellissima.”

Freya guardava, insieme a lei, il suo riflesso nello specchio. Ma mentre l’esperta zia pareva soddisfatta dalla sua immagine riflessa, lei continuava a non riconoscersi. La struttura imbastita e appena abbozzata della gonna e del corsetto la fasciava con delicata grazia, i capelli erano acconciati in modo da caderle graziosamente su una spalla lasciandole, però, scoperto il viso. Ecco i primi tentativi di trasformarla nella moglie del dio degli inganni. Era la Sigyn di sempre, quella che la fissava nella cornice? Lo sguardo preoccupato, le labbra serrate ancora offese dallo schiaffo di Freyr, le guance pallide che risentivano delle nausee mattutine? Si aggiustò la stoffa all’altezza del seno.

“Ho troppe cose da tenere a mente, per questo matrimonio,” iniziò, accennando un sorriso debole, tirato. Dentro di lei c’era un bambino. Questa consapevolezza ancora la meravigliava. Il terrore di perderlo e l’ostinata volontà di nascondere la sua relazione con Loki non le avevano concesso di riflettere su ciò che le sarebbe capitato, sulla trasfigurazione della sua esistenza il cui primo segno era la donna, identica a lei eppure differente, che la fissava con curiosità attraverso lo specchio.

Freya le cinse le spalle. “Sei stata educata come una principessa per questo, Sigyn. Te la caverai, lo so. E poi, se anche l’emozione dovesse vincerti, vederti commossa piacerà al popolo. Ti adoreranno.”

“Anche se ho contravvenuto alle nostre leggi?”

“Lo hai fatto per amore e rimedierai nel più consono dei modi. Come in una fiaba,” sentenziò la donna senza alcuna incertezza nella voce cristallina. Si alzò per prendere delle stoffe e avvicinargliele al viso, scartandone immediatamente uno. “Non essere severa con te stessa, non pensare più a ciò che è stato. Avrete un bambino – che sarà l’erede di Vanheim e di molte altre cose. Pensa solo a questo.”

“Mi spaventa, questo. Non so se sarò adatta,” confessò Sigyn rapida, lisciandosi la gonna. “Non so se sarò pronta. Non so se sarò una brava madre. E non so se sarò una brava moglie.” Sospirò. “E se a Loki, questo, basterà.”

“È normale che tu sia preoccupata, che tu abbia dei dubbi e sia piena di interrogativi,” sorrise Freya dopo averla ascoltata, accarezzandole le spalle nude. “Ti sono successe troppe cose impreviste in troppo poco tempo, bambina mia. Se tu fossi certa di essere una buona moglie e un’ottima madre, sono sincera, mi preoccuperei. Ma nella vita certe cose si imparano vivendole e basta, giorno dopo giorno, domandandoci sempre se stiamo facendo la cosa giusta per coloro che amiamo. Non c’è un altro modo, Sigyn. E non c’è modo di sapere, oggi, se Loki si accontenterà di questa vita o vorrà dell’altro – non lo sa neanche lui. Lo conosco da più tempo di te, però, e posso dirti che per quanto sia imprevedibile e inafferrabile, le sue scelte sono sempre ponderate. Non ti avrebbe chiesto di sposarlo, mai, se non fosse stato assolutamente certo di volerlo. Ora, però, pensiamo al tuo vestito. Potremmo rendere la gonna più ampia e vaporosa, così, e mostrare un po’ le spalle. Che ne dici?”

Sigyn si guardò critica allo specchio. “C’è ancora qualcosa che non mi convince, zia.”

“Dell’abito, spero.”

La ragazza esitò. “Dell’abito, sì.”

“Sii sincera.”

Sigyn si voltò verso Freya. “Le discussioni non sono terminate, zia. Ogni particolare della cerimonia, ogni dettaglio, è approvato solo dopo trattative sfiancanti. Di alcuni non mi preoccupo, ma di altri sì,” si sfogò, tormentandosi con le dita la splendida collana d’ametista forgiata dai Nani. “Immagino lo avrai saputo. Loki vuole che abbandoni del tutto le mie stanze e mi trasferisca qui. Non gli interessa lo scandalo che nasce dal vivere insieme. Il nonno è furioso: temo una sua reazione sconsiderata. Queste nozze potrebbero saltare da un momento all’altro, insieme alla pace, per un dettaglio così insignificante?”

Freya annuì. “Njord deve essere infuriato. Ne va del suo ruolo. Ma non muoverà mai guerra contro Loki e Thor insieme.” Sospirò, prima di concludere. “La decisione di Loki è la più saggia – è la migliore per te.”

Sigyn inarcò un sopracciglio. “Lo dici come se sapessi qualcosa che non so.”

Per favore. Pensiamo al tuo vestito, alla tua acconciatura, ai fiori più belli con cui decorare il palazzo, agli arredi della tua nuova casa – il castello di Loki, dove vi trasferirete, è quasi pronto. So che ti ha chiesto di scegliere gli arredi e di controllare che tutto sia di tuo gradimento. In questi giorni, ti prego, dedicati al meglio che questa situazione può offrire.”

“Njord mi ha chiesto di essere ragionevole e di lasciare queste stanze. Di convincere Loki a cedere su un punto così offensivo, per lui. A rinunciare a qualche notte insieme per Vanheim.”

“Rinunceresti a qualcosa che prima cercavi nonostante fosse rischioso?” Freya le girò attorno, appuntandole un lungo pezzo di stoffa ricamato sulla gonna. “Dai retta a Loki, Sigyn. Contraddirlo ai banchetti, come facevi, sarà stato un modo involontario per attirare la sua attenzione, ma non è utile, adesso.”

“Vorrei passare ogni minuto con lui, zia. Ma conosco i miei doveri verso Vanheim.”

“Sarai una principessa responsabile, ma dovresti smetterla di sentirti così colpevole e fare quello che ti ho detto: dargli retta. Tutti, a Vanheim, lo abbiamo sempre fatto e finora non ce ne siamo mai pentiti.” Stavolta nel tono della figlia di Njord c’era una nota severa, che non sfuggì alla ragazza. Era vero, si sentiva in colpa. Di più, una parte di lei riteneva di essere in debito col proprio destino – un giorno, questo sentimento si sarebbe tramutato in un peso insostenibile, che l’avrebbe spinto fino alle soglie di quel Tempio che l’aspettava, accogliendo tante ragazze come lei, ma più sfortunate.

“Mi nascondi qualcosa?” domandò abbassando le lunghe ciglia scure.

“Vuole che tu rimanga qui per tenerti al sicuro, Sigyn,” sospirò stancamente la donna. “C’è chi protesta e non desidera affatto questo matrimonio, tanto da preferire una guerra. Chi ti vuole vedere marcire al Tempio e non esiterebbe a tentare un colpo di mano, con la scusa che Njord vuole consegnare il suo regno a Loki figlio di Odino. Ma il tuo promesso sposo, lo sai bene, è un uomo molto furbo e accorto. Per gli Æsir vivere insieme è, di fatto, per sé stessa, un’unione regolamentata e valida. Qui Loki può proteggerti e reclamare il suo diritto. Vivendo insieme e portando in grembo un mezzo Ase, siamo abbastanza certi che non ti succederà niente.”

Sigyn sentì il cuore accelerare i battiti. Le dita smisero di tormentare la bella collana e scesero sul ventre ancora piatto. “Sarà sempre così, non è vero?”

“Fino al giorno delle nozze, sì. Dopo, nessuno oserà toccarti, Sigyn.”

 

C’era un’altra buona ragione che aveva spinto Loki Laufeyson a volere nei suoi appartamenti la giovane principessa di Vanheim: una che Sigyn intuiva – la stessa che l’aveva spinta a considerare la proposta del vecchio Njord. Loki cercava lo scandalo. Desiderava che tutti li sapessero una coppia. Sfoggiare in questo modo il loro legame era un attacco non solo alla rigidissima morale di Vanheim, ma rappresentava anche una tutela per la proposta estorta a Njord. Il vecchio re avrebbe incontrato non poche difficoltà nel tentare di stringere un altro accordo matrimoniale per Sigyn, se nessuno avesse dubitato che fosse stata la sua amante.

L’ingannatore fece schioccare la lingua contro il palato: presto avrebbe dovuto dare un nome diverso al legame che aveva con lei. Entrò nei suoi appartamenti che era notte fonda, grato di non trovarli ancora invasi dalle stoffe preziose che Sigyn stava scegliendo, come era accaduto nelle ultime sere. Forse quella piccola Vanir insolente aveva, finalmente, scelto, dedusse piegando le labbra in un ghigno breve e soddisfatto. Il braccio che Thor gli aveva rotto nel loro ultimo, fatale, scontro, gli faceva ancora un male dannato, ma Loki era un guerriero di Asgard, abituato a ingoiare la sofferenza e a preferirla al potere stordente di intrugli e medicine, di cui era bene non abusare. In quei giorni concitati doveva occuparsi di troppe questioni e i suoi compiti, che già lo vedevano perennemente in movimento, si erano amplificati. Si sfilò la bandoliera con un sospiro di dispetto, avanzando a passi decisi verso la camera da letto. Lì, al tenue bagliore di un fuoco ormai semispento, Sigyn, avvolta in una delle sue tuniche, con i capelli sciolti sulle spalle, scriveva con la bella penna dalla piuma nera che le aveva regalato. Sentendolo avvicinarsi si voltò nella sua direzione, stropicciandosi col dorso della mano gli occhi assonnati.

“Ho trovato un modo per riuscire a dotare almeno altre dieci ragazze,” gli spiegò. Aveva le dita macchiate di inchiostro e uno sbaffo scuro le aveva sporcato la guancia.

L’ingannatore arcuò le labbra in una smorfia divertita. Sigyn, fedele alla sua indole, stava cercando di trasformare le loro nozze in un’occasione per agire in prima persona contro le storture di una società chiusa, per molti aspetti meno libera della selvaggia Asgard, temuta e invidiata, ma anche guardata con un misto di curiosità e di interesse.

Era un costume di Vanheim, ma non solo, che il popolo beneficiasse di unioni principesche come le loro. La consuetudine voleva che gli sposi offrissero in dono a delle ragazze – generalmente una decina – una buona dote e pagassero anche ogni spesa relativa alla loro cerimonia. Nella consolidata usanza, Sigyn aveva scorto la possibilità e il dovere di aiutare più giovani donne possibili, perché il suo spirito irrequieto le aveva fatto scoprire già da tempo la povertà in cui versava buona parte della sua gente.   

“Dovresti essere a letto. A riposare.”

“I giorni scorrono velocissimi e certe questioni non possono attendere.” Si alzò per abbracciarlo e poggiare la testa contro il suo petto ampio e largo, in un gesto d’affetto che le era sempre stato negato. L’Ase rispose all’abbraccio dopo un momento di esitazione, cingendola per le spalle sottili, sfiorandole le ciocche sciolte.

Sigyn socchiuse gli occhi. “E poi, ti stavo aspettando,” gli confessò.

Non aveva idea di cosa sarebbe diventata Vanheim, se un Loki sconfitto e traboccante di orgoglio ferito non avesse bussato alla porta di Njord, promettendo onori e gloria in cambio di ospitalità. Il suo futuro marito era stato bravo anche in questo, nell’individuare certe correnti sottese in un popolo stanco e nel porvi, lentamente e inesorabilmente, rimedio. Prima del suo intervento, Njord, Freyr e Freya generavano malcontento per la loro lontananza dai problemi della gente affamata e stanca, per la strascicante mancanza di decisioni, per lo sperpero dovuto al mantenimento di una corte troppo fastosa. Loki era riuscito nell’impresa di rendere nuovamente grande Vanheim, trasformandola in un regno potente tanto da tenere testa alla ricca Asgard di Odino, premendo affinché importanti riforme e razionalizzazioni diventassero realtà. In un certo senso, era riuscito a usare anche Sigyn per i suoi scopi. Sfruttando la sua inclinazione nel voler aiutare il prossimo e approfittando delle discussioni in cui lo coinvolgeva nei banchetti – liti esasperanti per lei, divertentissime per lui – le aveva suggerito, in maniera più o meno velata, di esporsi come poteva per raddrizzare almeno un po’ tutte quelle situazioni che la indignavano. Njord era anziano e stanco, Freyr aveva problemi con l’alcool e sperperava tutte le sue energie nei bordelli, Freya passava le sue giornate a occuparsi di stregonerie e a farsi corteggiare dai suoi numerosi spasimanti, ma la piccola Sigyn, che nelle sue pur rare apparizioni pubbliche ascoltava con partecipazione le lamentele della gente, contribuiva a ridare un pizzico di fiducia in una casa regnante altrimenti avvertita come disinteressata e lontana.

Ora lei si era abbandonata contro il suo petto, in cerca di una protezione che aveva fieramente ricusato quando era stata accusata di fronte a tutta la corte di aver avuto un amante, di aspettarne il figlio. Loki sospirò e s’inumidì le labbra. Il braccio gli doleva sempre di più e desiderava sopra ogni altra cosa bere un corno di idromele per attutire almeno un po’ quelle fitte persistenti, ma era troppo acuto e intelligente per ignorare che Sigyn stava affrontando le loro importanti, improvvise e sontuose nozze nel modo sbagliato – lasciandosi vincere da un passato che non aveva ancora lasciato andare, cercando di accontentare chi non doveva essere accontentato, tacendo su questioni che, invece, sarebbe stato meglio affrontare.

“Ritengo sia più che normale, nella tua posizione, avere paura, sentirsi incapace di gestire tutti questi cambiamenti inattesi, avvertire il peso di tante incombenze, troppe novità,” iniziò l’ingannatore. “Sposare me è più complicato che sposare quell’idiota di Theoric – e poi, con lui avresti aspettato almeno un altro anno. Quant’è passato da quando sono tornato e ti ho trovata in piedi di fronte a tuo nonno, col segreto di cui non mi avevi graziosamente messo a parte svelato? Sette giorni,” le sibilò. “Solo sette giorni fa non eravamo niente, tu eri fidanzata con un altro, tra noi era tutto finito.”

Sigyn annuì e si scostò. “Avrei dovuto dirtelo prima che partissi, anche se non avevo la completa certezza di essere incinta. Ho cercato di farlo in biblioteca, ma non mi è riuscito. Che mi abbiano scoperta è stato un sollievo.”

“Avevo intuito che fosse stato quello il motivo della tua improvvisa dolcezza nei miei riguardi,” ghignò Loki, pensando alla sera strana in cui lei lo aveva cercato. Era di pessimo umore e non perché l’alba successiva sarebbe dovuto partire per un’importante ambasceria – gestire gli imprevisti era un qualcosa che gli riusciva benissimo e che si adattava alla sua natura incredibilmente duttile, ma per il fatto di aver dovuto insistere più del dovuto con Njord affinché il vecchio re comprendesse l’importanza di quel viaggio. Non si aspettava di incontrare Sigyn, così come lei non credeva che le sarebbe mancata la voce per raccontargli della spaventosa scoperta che aveva appena fatto e non sapeva come gestire. Lui era stato troppo tagliente e perfido.

Si erano amati e cercati in segreto per molti mesi, prima del fidanzamento di lei. Poi Theoric, pusillanime amico d’infanzia, erede di una discreta fortuna, aveva chiesto e ottenuto la sua mano recandosi da Njord in persona, nonostante il netto rifiuto della ragazza. Sigyn si era rivolta a Loki chiedendogli di esporsi, di dichiararsi al re dei Vanir. Lui aveva rifiutato, determinando la fine della loro relazione. Una scelta di cui non si era pentito, che aveva ponderato con molta attenzione, ma che, nonostante questo, gli era costata – ma di questo se ne era reso conto col tempo, osservando la coppia male assortita, scontrandosi con la freddezza scaturita dal cuore offeso di lei. Certi eventi, uniti a una passione feroce, li avevano momentaneamente riuniti, ma Sigyn non poteva tollerare di vivere una doppia vita o d’ingannare un uomo verso cui pure non provava niente. L’aveva avuta tra le sue braccia per un paio di sere, non di più.

La biblioteca era avvolta da una luce irreale e lei gli era andata incontro, sussurrandogli di dovergli parlare di una questione urgente, fatale. Loki era stato scostante e maligno – lei gli invadeva già troppo spesso i pensieri, mutando i suoi piani, rendendo amare le sue vittorie. Quali questioni urgenti poteva mai avere, per rubargli tempo e intrappolarlo in un incontro in un luogo tanto malsicuro?

Se non avesse scoperto solo da poche ore di aspettare un bambino certamente suo, Sigyn gli avrebbe risposto a tono, ma era troppo spaventata e sconvolta dalla notizia per essere abbastanza lucida da affrontarlo e iniziare una delle loro schermaglie. Si era difesa con nostalgico rancore, cedendo a un’emotività che stupì e infastidì Loki.

Per zittirla e consolarla la strinse a sé e la baciò, anziché domandarle che le fosse preso. Se lo avesse fatto, temeva di dover stare a sentire l’ennesimo problema riguardante il fidanzamento con Theoric, che gliela avrebbe fatta desiderare ancora di più, perché vogliamo disperatamente solo ciò che non possiamo avere, che abbiamo perduto. Sigyn rispose al suo bacio, ai suoi baci. Era arrendevole come non capitava da mesi. La consolazione che cercava da lui passava anche da quello – dal bisogno che la stringesse, la proteggesse, le ghermisse le labbra, facendola sentire amata. Lo lasciò fare quando le labbra dell’Ase scesero sul collo e sul seno, gli concesse di slacciare il corsetto, sollevare la gonna, per poi consumare l’amore in fretta, sul pavimento, tra le colonne piene di libri della biblioteca deserta. Loki avrebbe desiderato spogliarla completamente, per percorrere con la bocca ogni sua curva, dal collo delicato ai seni piccoli e sodi, fino alla dolce linea dei fianchi protesi, del ventre piatto, dalla pelle morbida. Ma non c’era tempo, mancava l’occasione. Poteva scostare e maledire la seta pregiata che la ricopriva, spostandole con un gesto secco e urgente la stoffa ricamata dei suoi indumenti intimi per non perdere tempo prezioso. Sigyn non lo fermò, ma lo cinse tra le braccia in preda al medesimo desiderio, grande quanto la consapevolezza di stare commettendo un errore – ma come dire a Loki che aspettava un figlio? Come l’avrebbe guardata, poi, lui? Prima di entrare in lei, l’ingannatore avrebbe potuto interrogarsi sull’opportunità di unirsi a lei in quel modo, sulle strane circostanze che li avevano condotti lì e sul pallore sospetto di Sigyn, sul suo sguardo da cerva braccata. Non lo fece – la desiderava e basta, e quando il caos li avvolse, improvviso e violento, dovette chiuderle la bocca con una mano e mordere la propria, affinché i loro sospiri rotti dal piacere non li tradissero.

Dopo, si sistemarono in fretta per rendersi presentabili. Loki disse, con voce maligna, che non avevano più tempo, nessuno dei due, per discutere di alcunché. Sigyn, avvampando, si rese conto che era vero – era in ritardo per l’ennesima, sfiancante e inutile festa.

E quella sera, quando si era seduta accanto a Theoric e lui l’aveva baciata sulle labbra, lei si era sentita la peggiore delle donne di Vanheim, perché aveva addosso il profumo di Loki e il ricordo delle sue mani di mago che percorrevano il suo corpo, perché aveva ansimato amandolo con l’intensità di sempre e perché aveva in grembo suo figlio, ma il suo destino era di sposare un altro. Uno che stava ingannando suo malgrado, che non avrebbe mai saputo né potuto amare.

 

Da quella notte erano passati solo dieci giorni. “Vorrei dirti cosa avrei fatto, se quella sera avessi potuto dirtelo o se non mi avessero scoperta prima,” sospirò Sigyn, a disagio.

 

 

L’angolo di Shilyss

Care Lettrici e cari Lettori del mio cuore ♥ ♥!

Rieccoci qua con i Loki e Sigyn nella versione di Tutte le mie bugie, la mia prima long (la trovate a pagina 3 del profilo). Non è necessario averla letta, ma tenete presente che la Sigyn che vedete per buona parte del racconto è molto giovane e vi si fanno parecchio riferimenti, però ve la consiglio perché è una storia che secondo me merita – se avessi tempo la revisionerei per bene, ma anche così è più che fruibile e ne sono abbastanza fiera. Mi sono resa conto che non ho mai scritto nel dettaglio del matrimonio di Loki e Sigyn: in Accordo è accennato, qui viene saltato a piè pari: non posso spoilerare, ma è presente in una long breve e in una shot molto vecchia e a me molto cara, In direzione ostinata e contraria ♥.  

Ma torniamo a Sigyn: qui siamo a sette giorni dalla fine di Tutte le tue bugie: la vita di Sigyn ha subito uno scossone enorme, la sua normalità è stata spazzata via e al suo posto c’è qualcosa che nemmeno osava sperare. Inoltre, sa da pochissimo di aspettare Sonje (vi ricordo che Loki sa, grazie alle rune, che avranno una bimba, ma lei no). Gli ultimi anni ci hanno insegnato che basta un giorno a cambiare le nostre esistenze in maniera indelebile, quindi sono fiduciosa che capirete questo scoramento di una ragazza che pur amando infinitamente Loki ha paura.  

 

Ringrazio con tutto il cuore i vecchi lettori, i nuovi lettori e tutti coloro che listeranno, recensiranno o semplicemente leggeranno questa storia: a parte gli scherzi (lokini) siete importanti e sappiate che leggo tutti i vostri commenti e non vi mangio. Spesso non rispondo pubblicamente, ma se vi palesate lo faccio e sono molto alla mano, ecco.

Seguitemi sulla pagina fb (o scrivetemi anche lì) per info, curiosità, aggiornamenti (trovate il link in bio) e…

 

Ricordo che il personaggio di Sigyn, tolto quello che trovate alla voce “Sigyn” su Wikipedia, è una mia personale interpretazione/reinterpretazione/riscrittura. Loki e Sigyn nel mito hanno dei figli insieme, Vali e Narvi. Vali me lo sono tenuto, Narvi l’ho sostituito con Sonje, personaggio di mia invenzione. Nel mito Sigyn non eredita proprio niente, quindi anche qui è una mia idea. Non vi autorizzo a ispirarvi o peggio a questa versione o alle altre storie da me postate né qui né altrove (peggio mi sento con le fiabe) e lo stesso vale per gli headcanon su Vanheim, su Loki o su Asgard stessa. Lo stesso vale per il ruolo di Loki presso Njord, per le cariche che Loki ricopre in questa Vanheim. Creare un mondo con usi e costumi non è uno scherzo.

Comprendetemi per queste precisazioni, ma scrivo su questo fandom dal 2017 e ne ho viste di tutti i colori.

A presto e grazie per tutto l’affetto/sostegno/cose, vi si lovva (e spero voi lovviate me).

Vostra,

Shilyss



[1] Tutto questo è narrato in Tutte le mie bugie, la mia prima long. Alla fine di questa, Loki scopre che lui e Sigyn avranno una bambina, ma cela alla ragazza questa sua scoperta.

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Capitolo 14
*** Il palazzo ***


Il palazzo

If you, if you could get by

Trying not to lie

Things wouldn't be so confused

And I wouldn't feel so used

But you always really knew

I just want to be with you

(Linger, The Cranberries)

 

 

Loki riprese a spogliarsi, liberandosi del mantello di un verde talmente cupo da sembrare nero, slacciando la bella corazza di pelle intrecciata, ma senza smettere di guardarla. “Ha davvero importanza, piccola Vanir? Ogni nostra singola azione genera una serie infinita di futuri possibili, soggetti a un’incalcolabile quantità di nostre varianti,” chiosò sfoggiando un mezzo sorriso furbo e ammaliatore. “Ha davvero senso immaginare ciò che presumi sarebbe accaduto se, ignorando la quantità di variabili che ci circondano?”

“Per me lo ha, Loki. Per favore.”

L’Ase rifletté sulle sue parole, scrutando la figura sottile ed eterea della principessa che sarebbe diventata sua moglie. Si sedette sul letto e con un gesto della mano la invitò a sfogarsi, ad aprirgli la sua mente.

Sigyn abbassò lo sguardo. Era ancora in piedi di fronte a lui, ma valutò che fosse più opportuno sistemarsi accanto al mago. Il segreto della sua gravidanza, disse, era emerso a causa di uno svenimento improvviso. Visitandola, i guaritori avevano scoperto la verità che lei celava solo da pochi giorni, di cui era abbastanza sicura, ma non certa, avvertendo immediatamente Njord e Theoric.

“Sono tutte cose che so,” osservò Loki.

“Se Theoric non avesse subito negato di avermi toccata, avrei comunque dichiarato che non aspettavo alcun figlio da lui. Non sarei mai stata capace di fingere.”

“Ma farlo ti avrebbe evitato un considerevole numero di problemi,” osservò il mago, pungente. “Se si fosse dimostrato comprensivo, se avesse deciso di aiutarti nonostante tu l’avessi ferito, davvero avresti rinunciato alla soluzione più comoda, che ti avrebbe salvata dal Tempio, che avrebbe protetto anche ciò che cresce dentro di te?”

Lei annuì con forza, scattando in piedi e sfiorandosi il ventre ancora piatto. “Certi inganni non mi appartengono, Loki di Asgard. Theoric si è dimostrato un uomo meschino imponendomi un fidanzamento e attenzioni che non desideravo. Non lo avrei mai reso padre. Se non fossi svenuta, avrei chiesto il tuo aiuto,” dichiarò in fretta. Le sue guance erano rosse dall’emozione, la lingua si fece improvvisamente muta. “Ma tu, tu che tipo di aiuto mi avresti dato?”

Era una domanda dolorosa, che non aveva avuto il coraggio di porgli quando erano in attesa della sentenza di Njord. L’aveva temuta quella sera in biblioteca, vicina e lontana al tempo stesso, così come ne aveva paura ora che Loki sarebbe diventato suo marito. Si rendeva conto che la loro relazione era ancora fragile, sottile come la serie di clausole e di trattati che avrebbero determinato la loro unione. Sapeva anche che, giunti a quel punto, se la risposta dell’ingannatore fosse stata troppo crudele o spietata, lei non avrebbe avuto la possibilità di annullare le nozze. Facendolo, avrebbe perso quella piccola cosa che già amava disperatamente e cresceva dentro di lei.

Ma Loki, sempre così svelto nel ribattere, tanto sicuro delle sue idee, stavolta pareva dover ragionare a lungo sulla questione, come se non se la fosse mai posta prima d’ora. Era un’illusione, naturalmente. Ci aveva pensato, sciorinandone ogni singolo dettaglio.

“Perché esiti, Lingua d’Argento?” gli sorrise Sigyn debolmente.

L’Ase s’inumidì le labbra. “Ti avrei chiesto cosa volevi fare. Sarebbe stato un tuo diritto, scegliere. Ad Asgard è così che funziona, in questo io credo. Ma tu sei la principessa dei Vanir. Questo bambino sarà l’erede al trono di Vanheim, di Jotunheim e di Asgard stessa. Non so se lo avrei reclamato subito come mio figlio, però. Probabilmente, avrei suggerito un tuo viaggio ad Asgard, per trascorrere lì gli ultimi mesi di gravidanza. Dopo la sua nascita, lo avrei consegnato a qualcuno di fidato. Tu saresti tornata qui.”

“No, Loki: non sarei mai tornata.”

“Questo avrebbe provocato una situazione simile a quella che abbiamo vissuto, presumo.” Si alzò anche lui e Sigyn, guardando il volto di lui affilato e segnato dalla stanchezza, si rese conto di quanto fosse esausto. Immaginò gli dolesse il braccio e si sentì terribilmente sciocca ed egoista, perché anziché limitarsi a essere felice per le sue nozze imminenti col padre del suo bambino, che amava, doveva rovinare quella preziosa serata insieme con recriminazioni, dubbi e ipotesi che non avevano alcun senso, cui Loki rispondeva di malavoglia. Avrebbe desiderato essere più serena, più felice. Accoglierlo come meritava, col sorriso – sarebbe stata una sorta di promessa, un assaggio delle notti che dovevano venire dopo, ma invece non sapeva sciogliere quel groppo che le prendeva alla gola impedendole ogni felicità. E questo non perché non provasse dei sentimenti intensi e veri per il dio dell’inganno, né perché non credesse di pronta ad affrontare la cerimonia lunga e complessa che li attendeva. Si sentiva prigioniera di una fragilità senza nome, profonda e oscura, a cui non era abituata, che non riusciva a razionalizzare o a contenere.

 

Loki le aveva detto più di quanto avrebbe sperato di sentirsi dire, questo era un fatto, e se anche fosse stato meno loquace ed esplicito ci avrebbero pensato le sue azioni a rendere palese il suo volere. Fino a quel momento si era sempre valsa di questo ragionamento per provare a capire, a interpretare il volere di un uomo che non si abbandonava alle emozioni o ai sentimenti, abilissimo nel mistificare le proprie reali intenzioni e a mutarle per meglio favorire i propri scopi. Ma ora che alcune di quelle volontà si erano fatte palesi, Sigyn cercava in esse l’inganno. Nel momento in cui avrebbe dovuto fidarsi di più di Loki, la sua razionalità veniva meno, i dubbi aumentavano, la sua fedeltà si piegava su sé stessa.

Le disse che avrebbe gradito immensamente sorseggiare un goccio di idromele e stendersi nel letto – e forse, aggiunse, avrebbe fatto meglio a farlo anche lei. Non si dissero altro, per quella sera. L’ingannatore si addormentò sul fianco sano, dandole le spalle. Il suo era il sonno rapido e leggero dei comandanti e dei guerrieri, abituati a cogliere ogni momento di pausa per ritemprarsi da ogni fatica, ma sensibile a qualsiasi mutamento esterno. Vicino al letto, abbastanza da poter essere afferrata in caso di un repentino bisogno, scintillava l’elsa di un pugnale infilato nella sua fodera. Sigyn, accanto a lui, registrò il suo respiro farsi più profondo, lento e regolare, e solo allora osò abbracciarlo, cingendogli il fianco, pensando a tutte le volte in cui, sola nel suo letto, aveva provato una nostalgia cocente e inopportuna per quel semplice gesto – dormire insieme, respirare ognuno l’odore della pelle dell’altro. Doveva scacciare ogni inquietudine, qualsiasi timore e pensare all’incantevole abito che le sarte già stavano iniziando a preparare, alla profusione di fiori che avrebbero abbellito Vanheim, ai gioielli che Freya le avrebbe donato. L’ultimo pensiero, però, lo rivolse a quella vita che cresceva dentro di lei.

 

Loki era nato per essere re. Nelle sue vene scorreva l’aristocraticissimo sangue di Laufey ed era stato educato alla corte di Odino, credendo di essere suo figlio. In ogni sua azione c’era un che di energico e assertivo e trascinante, capace di ammaliare chi aveva la fortuna di osservarlo più del suo aspetto innegabilmente bello o della sua voce roca e convincente. Sigyn, con gli occhi ancora gonfi di sonno, lo sentì alzarsi quando il cielo aveva appena iniziato a schiarire. Si raggomitolò nelle coperte che trattenevano ancora un po’ del calore dell’ingannatore, certa del fatto che anche quella mattina, come la precedente, non sarebbe riuscita a mandare giù nemmeno un biscotto al miele. La nausea l’avrebbe travolta, ma quel malessere era uno dei tanti segni del figlio che aspettava, ancora così infinitamente piccolo.

“Oggi penso che andrò a vedere il palazzo,” annunciò puntellandosi su un gomito.

L’Ase si voltò appena. La giudicava una mossa sensata, le disse infilandosi i pantaloni nonostante le difficoltà. Il braccio steccato, pur limitandogli i movimenti non gli avrebbe impedito né di occuparsi dei compiti giornalieri, né di cimentarsi nel suo consueto e immancabile allenamento, indispensabile affinché il suo fisico asciutto continuasse a mantenere la forza e l’agilità che lo contraddistinguevano. L’immobilità non rientrava nei piani sempre mutevoli di Loki neppure se bende e stecche tentavano di porvi un freno e forse era questo che preoccupava Sigyn: l’ambizione sfrenata del dio dell’inganno lo avrebbe portato ad allontanarsi da lei – da loro? Quel trono accarezzato a lungo, desiderato con risentimento e ferocia e che ora, grazie alla loro unione, gli sarebbe spettato di diritto, avrebbe spento quel fuoco che lo corrodeva? E lei, desiderava questo – imprigionare uno spirito inquieto e affascinante, che aveva amato e ammirato per la sua spietata coerenza, così com’era?

Loki era mutevole nelle alleanze e nelle modalità con cui perpetuava i propri obiettivi, ma questi ultimi erano fissati con pervicacia e seguiti con puntualità. Quando aveva deciso di umiliare Asgard sul campo militare, per esempio, aveva escogitato molte astutissime trappole, ideato un numero incredibile di manovre geniali e ispirate, allo scopo di contrastare un esercito che conosceva come le proprie tasche per averlo comandato, ma alla fine si era accontentato di stipulare una pace particolarmente vantaggiosa per Vanheim. Alcuni sostenevano che sconfiggere completamente Odino era una cosa che Loki non sarebbe stato comunque in grado di fare e che inchiodare il vecchio re al tavolo per trattare da pari era il massimo cui l’ingannatore e i Vanir potessero aspirare. Altri ritenevano, però, che Loki non aveva mai voluto sconfiggere completamente gli Æsir: secondo questi ultimi, la parità e il rispetto erano esattamente quello che l’ingannatore andava cercando, perché erodere il prestigio di Asgard non voleva dire sconfiggerla e Loki, pur odiando Odino, amava troppo quel regno immerso nei fiordi per causarne volontariamente la distruzione.

 

Il palazzo dove l’ingannatore aveva deciso di dimorare insieme a Sigyn era uno dei più belli e sontuosi di tutta Vanheim: lo aveva acquistato anni prima da una famiglia caduta in disgrazia per una somma ridicola, tale da far nascere la diceria che i vecchi proprietari, andandosene, lo avessero maledetto. Loki aveva riso di cuore, quando gli avevano riferito per la prima volta quello che aveva bollato come uno sciocco pettegolezzo. Sigyn, che era ancora solo una ragazzina, non era riuscita a nascondere il proprio stupore.

Possibile che un mago potente come Lingua d’Argento si facesse beffe di una maledizione? Davvero non temeva nulla, né in cielo né in terra?

Più volte si era ritrovata ad ammirare la bellezza sfiorita di quell’enorme costruzione abbandonata a sé stessa: l’architettura snella e svettante catturava il suo sguardo, il giardino incolto cresceva traboccando di piante infestanti che si arrampicavano sui muri, le finestre, alte e a sesto acuto, fissavano cieche il mondo sotto di loro: tutto, nel castello, suggeriva l’incuria – un’incuria che era avvenuta ben prima che Loki trasformasse un affare vantaggioso in un misericordioso salvataggio. La famiglia che lo possedeva non era in grado di mantenerlo e aveva smesso persino di lottare contro il tempo che rodeva ogni pietra, il giardino che avanzava ogni giorno di più. L’idea che il palazzo avrebbe cambiato proprietario, forse salvandosi dall’inevitabile oblio, era sembrata alla piccola Sigyn qualcosa di sbagliato, come se il riparare il tetto e tinteggiare le pareti corrispondesse a togliere alla casa quella che, in qualche modo, era la sua anima. Nelle sue passeggiate casuali solo all’apparenza, in cui troppo spesso costeggiava il castello, si era ritrovata spesso a pensare che sì, quella costruzione era meglio se rimanesse inviolata e abbandonata al suo destino – essere divorata dal tempo e dai rampicanti nonostante la sua incontestabile bellezza, spezzandole il cuore.

 

Ma Loki aveva un’opinione del tutto diversa riguardo al futuro del castello che aveva appena acquistato. Nelle pareti crepate e nelle rovine da ritirare su, nel tetto sfondato e nel patio avvolto dalla vegetazione, vedeva la bellezza perduta di quel luogo che, effettivamente, sembrava stregato. Sigyn non poteva saperlo, ma l’ingannatore non era del tutto immune dal fascino trasandato del palazzo: tuttavia, ne scorgeva anche le potenzialità, con lo stesso acume che gli consentiva di individuare in una città assediata o in un campo di battaglia cosparso di cadaveri il principio di una ricostruzione grandiosa.

Il palazzo era antico e malmesso, ma comunque ancora splendido: per restaurarlo ci sarebbero voluti anni interi, ma l’ingannatore non sembrava dare peso al tempo: gli interessava il risultato e aveva supervisionato personalmente il progetto nonostante i suoi molti impegni, quasi si trattasse di un passatempo con cui liberare la propria mente.

Una sera, però, durante un banchetto, Sigyn aveva sollevato la questione di quel castello. Era il tempo dei loro battibecchi furiosi, delle infinite e quotidiane liti che irritavano la principessa e divertivano il mago. Si concludevano quasi sempre nello stesso, identico modo, con lei che si alzava da tavola furiosa, sollevando le gonne fruscianti di seta e andandosene senza nemmeno guardarlo, ma la sera successiva lo spettacolo si sarebbe svolto di nuovo; in un modo o nell’altro avrebbe coinvolto di nuovo Loki, come se le fosse impossibile resistere allo scabroso piacere di sentire la sua opinione, di stuzzicare la sua lingua affilata.

Il restauro del castello era iniziato da qualche settimana e Sigyn aveva chiesto all’Ase se intendeva mantenere lo stile puramente Vanir della sua struttura o preferisse conferirgli un aspetto più nordico. Loki aveva stirato le labbra in un sorriso compiaciuto, non privo di un piacevole stupore, perché sebbene fosse bravissimo nel mascherare ogni emozione, aveva un volto espressivo e ogni suo gesto o movenza conteneva un’infinità di sottintesi e sfumature. La sua risposta fu esaustiva e cortese. Apprezzava la struttura originaria del palazzo e l’avrebbe mantenuta soprattutto per quanto riguardava l’esterno, ma nell’assetto interno ci sarebbero state delle modifiche, necessarie affinché potesse considerare confortevole la sua nuova dimora.

Sigyn non poté che ritenere impeccabili le parole di Loki – e lo erano quasi sempre, in effetti, perché anche quando i suoi ragionamenti prendevano una piega moralmente distorta o crudele, l’ingannatore non abbandonava mai la sua logica affilata e stringente. La domanda seguente era stata più insinuante: non credeva alle dicerie che circolavano sul castello? E se non fosse stato Loki a raggirare i precedenti proprietari, ma loro a ingannare lui, facendosi pagare per lasciare una dimora bellissima, ma invivibile e maledetta? Non credeva forse nei sortilegi, il potente Loki, maestro del seiðr?

Sigyn non poteva saperlo, ma in quel momento l’Ase l’aveva fissata come si guarda una donna desiderabile – desiderata, e non come la nipotina di Njord che alla fine si era fatta proprio graziosa. Si era trattato solo di un momento, nient’altro che un’occhiata indecifrabile e fugace, che la ragazza aveva completamente frainteso, immaginando che Loki la guardasse in quel modo perché infastidito dalla sua insolenza. Non sapeva quanto il principe degli Æsir fosse bravo a celare i propri pensieri, né quali dettagli avesse raccolto di lei, dalla collana di perle bianche, rosa e dorate che le arricchivano la scollatura al punto di rosa vivace dell’abito, che si sposava così bene con la sua carnagione, fasciandola tanto da sottolineare con grazia squisita le curve che lei, al contrario di Freya, non sapeva esibire.

“Cara Sigyn,” esordì, sorseggiando l’Ase senza fretta il vino rosso e corposo di Vanheim, che a lei faceva girare la testa non appena vi accostava le labbra. “Credo nelle maledizioni e nei sortilegi, ma temo solo quelli scagliati da chi è più potente di me.” Le sue labbra sottili, che sapevano certamente di vino, si stirarono in un ghigno sardonico e arrogante. “Ma senza dubbio hai ragione: sono stato generoso, avrei potuto chiedere molto di meno per quel palazzo.”

Sarebbero diventati amanti solo qualche mese dopo, cedendo a una tensione che già allora iniziava a infiammare i loro spiriti, a far convergere verso un unico punto i loro pensieri. Il restauro del palazzo era proseguito senza intoppi e talvolta alcune delle sue stanze erano servite per qualche breve e concitato convegno, ma Loki riteneva – e Sigyn con lui – che fosse scontato e pericoloso incontrarsi in una delle proprietà dell’ingannatore. Meglio scegliere qualche angolo nascosto e neutrale del palazzo reale di Njord. Così, la giovane principessa di Vanheim non aveva mai avuto modo di visitare approfonditamente quell’elegante castello che aveva acceso la sua fantasia fin da quando era bambina: poteva farlo ora che sapeva di doverla chiamare presto casa, adesso che nel suo ventre ancora piatto sapeva esserci il figlio o la figlia del dio dell’inganno in persona. Njord e Freya avevano accolto con grande favore la scelta dell’Ase di accelerare gli ultimi ritocchi della sua imponente dimora. La ritenevano degna di una principessa di Vanheim e credevano così di potersi in qualche modo rimpossessare di un castello che avevano sempre desiderato possedere, ma che non erano riusciti ad acquistare.

Sigyn raggiunse il palazzo nel pomeriggio e chiese di poterlo visitare da sola, ma fin dal momento in cui ne varcò il cancello non poté fare a meno di trattenere il respiro, di sfiorare la bellissima collana d’ametista dei Nani che teneva sempre al collo fin da quando Loki non gliela aveva descritta. Ricordò di aver detto all’ingannatore che amava l’aria romantica di quel vecchio palazzo, di adorarne lo spirito, ma non credeva che Loki avrebbe potuto o voluto preservare l’originaria bellezza di quel luogo. Il giardino non era più una selva incolta, ma manteneva la sua traboccante opulenza. Le facciate erano state ristrutturate e rese più vicine al gusto sobrio dell’Ase, ma senza perdere l’eleganza e la leggerezza dei palazzi Vanir. Anche entrando Sigyn ritrovò applicato lo stesso principio, sebbene, come promesso, il castello all’interno ricordasse molto di più la bella Asgard: regnava sovrano il legno nelle sue calde sfumature rossastre, accostati ad affreschi di indubbio gusto, a particolari scelti con cura nel corso dei continui e numerosi viaggi di Loki in lungo e in largo nei Nove Regni.

 

La solitaria perlustrazione di Sigyn procedeva incurante del tempo: oltre le finestre nuove e scintillanti la luce si faceva più soffusa e aranciata, regalandole lo spettacolo di un tramonto pieno di colori diversi. Mentre sfiorava alcuni degli arredi già sistemati in quello che sarebbe stato lo studio del dio dell’inganno, la ragazza si chiese se in quel palazzo sarebbe stata felice – sarebbero stati felici, perché iniziare a pensare a loro due come a una coppia vera, reale, le sembrava strano, incredibile. Era qualcosa a cui non avrebbe mai potuto abituarsi del tutto: ci sarebbero sempre state giornate in cui, alzandosi dal letto, si sarebbe chiesta se quella era veramente la sua vita – svegliarsi ogni mattina accanto a Loki, figlio di Odino.

“Spero che quello che hai visto fin qui sia di tuo gradimento,” la sorprese la voce sempre velatamente ironica dell’ingannatore.

Era nel vano della porta, diritto e altero come sempre, con le braccia incrociate dietro la schiena e un ghigno beffardo dipinto sulle labbra. Vedendola sorpresa non poté fare a meno di ridere brevemente. “Ti ho spaventata? Eppure si diceva che qui abitassero i fantasmi.”

“Non ti ho sentito entrare,” rispose lei. “È bellissima, Loki. Hai fatto un lavoro magnifico.”

L’Ase sorvolò con eleganza sul complimento. “Hai qualche idea per rendere ancora più accogliente questo posto?” s’interessò.

Lei gli andò incontro: sì, replicò, aveva mille progetti, che sperava fossero realizzabili in tempo per le loro nozze e si augurava gli piacessero: cominciò a parlare di arredi, di tendaggi e di soluzioni architettoniche con un entusiasmo che divertì senza dubbio Loki, ma quando la distanza tra loro si fece quasi nulla, l’ingannatore aggrottò la fronte e Sigyn, sfiorandogli il braccio, si accorse di stare parlando non col suo futuro marito in carne e ossa, ma con una sua illusione. Ritrasse la mano, rapida.

“Dove sei?” soffiò.

“Lontano. Per qualche giorno ti lascerò sola, Sigyn,” ammise l’ombra, avvicinando due dita al suo volto, come se volesse accarezzarle la guancia. “Ho chiesto a Thor di tenere d’occhio Njord e te, naturalmente,” concluse. Nel modo in cui serrava la mascella diritta e ben definita, Sigyn indovinò più di quanto l’ingannatore avrebbe ammesso ad alta voce: che, probabilmente, erano entrambi in pericolo.

 

 

L’angolo di Shilyss

Ok, qualche precisazione prima di ringraziarvi <3

Il matrimonio di Loki e Sigyn in “Tutte le tue bugie” viene celebrato in tempi brevissimi non appena Njord accetta di dare la mano della nipote al dio dell’inganno. Mentre lui sa che avranno una figlia, Sonje, lei ancora non lo sa. L’episodio della biblioteca si situa, come detto nello scorso capitolo, circa una settimana prima degli svolgimenti di “Tutte le tue bugie.” La pena per le ragazze che rimangono incinte al di fuori del matrimonio in questo mio personale universo (bigotto) è di essere rinchiuse in un orribile tempio, come detto nei primi capitoli di questa storia che è una raccolta di shot un po’ sui generis ^^. Il prossimo dovrebbe essere l’ultimo capitolo dedicato a questa raccolta, perché poi sarà ora di continuare “Altro che il Ragnarok” e, soprattutto, Giochi pericolosi, che è ferma da 4 anni e di questo me ne vergogno profondamente. Vi anticipo che probabilmente cambierà nome.

Allora, grazie, grazie, grazie per essere giunti fin qua e per la pazienza che avete con i miei aggiornamenti caotici e discontinui.

Ringrazio con tutto il cuore chi listerà, recensirà o semplicemente leggerà questa storia: sono piccole cose, ne convengo, ma danno più di quanto crediate e so’ pure gratis XD. A parte gli scherzi (lokini) siete importanti e sappiate che leggo tutti i vostri commenti e non vi mangio. Spesso non rispondo pubblicamente, ma se vi palesate lo faccio e sono molto alla mano, ecco.

Ricordo che il personaggio di Sigyn, tolto quello che trovate alla voce “Sigyn” su Wikipedia, è una mia personale interpretazione/reinterpretazione/riscrittura. Non vi autorizzo a ispirarvi o peggio a questa versione o alle altre storie da me postate né qui né altrove (peggio mi sento con le fiabe, come questa) e lo stesso vale per gli headcanon su Vanheim, su Loki o su Asgard stessa. Creare un mondo con usi e costumi non è uno scherzo.

A presto e grazie per tutto l’affetto/sostegno/cose, vi si lovva (e spero voi lovviate me).

 

Shilyss

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