Purity di Padme Undomiel (/viewuser.php?uid=45195)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** 1. Futuro oscuro, futuro incerto ***
Capitolo 3: *** 2. Famiglia ***
Capitolo 4: *** La ragazza scomparsa ***
Capitolo 5: *** Dimenticare ***
Capitolo 6: *** Incontri Inaspettati ***
Capitolo 7: *** Casa di fantasmi ***
Capitolo 8: *** Takaishi Takeru ***
Capitolo 9: *** Impossibile ***
Capitolo 10: *** You Are Not Alone ***
Capitolo 11: *** Frammenti di passato ***
Capitolo 12: *** Istinto ***
Capitolo 13: *** Stupida ***
Capitolo 14: *** Sconosciuto ***
Capitolo 15: *** Inquietudine ***
Capitolo 16: *** Barlume di luce ***
Capitolo 17: *** I più vicini estranei ***
Capitolo 18: *** Senza respiro ***
Capitolo 19: *** Le mura stanno crollando ***
Capitolo 20: *** Petali di ciliegio ***
Capitolo 21: *** Purezza ***
Capitolo 22: *** Confronto ***
Capitolo 23: *** Coraggio ***
Capitolo 24: *** Carte in tavola ***
Capitolo 25: *** Speranza ***
Capitolo 26: *** Resa ***
Capitolo 27: *** Attori E Spettatori ***
Capitolo 28: *** Le cose sono cambiate ***
Capitolo 1 *** Prologo ***
Purity prologo
Prologo
Batteva i denti per
il freddo.
Stringeva quel
piccolo fagotto tra le braccia, senza lasciarlo mai andare.
Correva. I suoi
piedi non erano mai stati così veloci, così restii a fermarsi.
Le lacrime le
scendevano copiose sulle guance pallide.
Quella grande
villa, famosa in tutta la città, era ancora lontana, nonostante i suoi sforzi.
E tuttavia, una parte di sé la pregava di rallentare, di cambiare la sua
decisione.
La pregava di non
rinunciare a ciò che aveva di più prezioso.
Un singhiozzo
sfuggì dalle sue labbra, unica prova del suo cuore che sembrava lacerarsi.
Come poteva essere
ragionevole, sapendo quanto avrebbe sofferto?
Come poteva cercare
di fingersi forte, senza nessuno al suo fianco a dirle cosa fare?
Strinse più forte
al petto il fagotto immobile, coperto perché non dovesse essere scoperto.
Pregava con tutta sé stessa che le sue aspettative riuscissero ad essere
appagate: almeno lui doveva
sorridere.
Anche senza di lei.
Probabilmente per sempre.
Perché il suo cuore
era ancora intatto, mentre si aspettava che scoppiasse da un momento all’altro?
Sempre più vicina,
sempre più vicina.
Non riusciva a
fermarsi. La sua parte razionale stava vincendo su quella dei sentimenti. Non
riusciva a smettere di correre a perdifiato, con il respiro corto, l’ansia
visibile in ogni tratto del suo viso bianco come un cadavere, il dolore
straziante nei suoi occhi scuri.
Si accasciò solo
quando giunse davanti al portone, inginocchiandosi, incurante, sul duro e nero
asfalto di quella strada tanto frequentata di Tokyo. Serrò gli occhi, cercando
di trovare gioia e speranza nel pensiero della buona riuscita di quell’impresa.
Non sentì altro che
una sofferenza inumana.
Non sapeva per
quanto tempo fosse rimasta lì, immobile, rifiutandosi di affrontare la
freddezza e l’indifferenza di quella notte scura, immobile e distaccata come
sempre. Ma un movimento riuscì a distrarla, facendola sobbalzare violentemente.
Scostò piano una
coperta dal suo fagotto, sentendo un groppo in gola impedirle persino di
sfogare il suo dolore, alla vista di ciò che lo conteneva.
Dormiva.
Il suo piccolo
corpo, protetto accuratamente dal freddo invernale, si alzava e si abbassava
seguendo il normale ritmo della respirazione. I suoi occhi scuri erano chiusi,
nella calma placida del sonno. I suoi capelli viola, corti e scomposti,
coronavano dolcemente quel piccolo viso di bimbo che subito l’aveva colpita,
fin dall’inizio.
Non seppe come, ma
le sue labbra si piegarono in un sorriso straziato.
Accarezzò con un
bacio una guancia paffuta della sua creatura, attenta a non svegliarlo. Non
avrebbe potuto aspettare un istante di più.
“La tua mamma deve
lasciarti qui, piccolo” bisbigliò, con voce rotta da numerosi singhiozzi senza
lacrime. “Starai bene. Ti tratteranno bene. Ho sentito che si prendono cura dei
bambini belli come te. Vivrai senza la tua mamma…”
Non era giusto.
Era l’unica cosa
per cui fosse valsa la pena sbagliare tanto.
E il destino glielo
portava via, senza darle possibilità di scelta.
“Crudele… cosa ti
ho fatto? Cosa ti ho fatto?”
Cullò dolcemente il
suo bambino, opponendosi tenacemente alla sua razionalità, che le imponeva di
fare ciò per cui era venuta.
Piccolo mio… Piccolo mio…
Era tutta colpa
sua. Aveva sbagliato tutto, e ora sarebbe stato lui a pagarne le conseguenze.
Lui, che non
c’entrava nulla, che si era affacciato alla vita da soli due mesi.
Lui, che le aveva
illuminato le giornate per il tempo che lei aveva potuto amarlo e accudirlo.
Lui, che dormiva,
senza sapere cosa gli sarebbe accaduto.
Quale sarebbe stato
il suo destino? Avrebbe vissuto ancora? Avrebbe giocato come tutti i normali
bambini? Avrebbe sentito la mancanza della sua mamma, di un papà?
Avrebbe pianto,
nelle notti di temporale?
Sarebbe cresciuto
splendido e forte, come lo immaginava lei?
Lo avrebbe rivisto?
Si costrinse ad
alzarsi, piantando le unghie nella carne del braccio fino a farle sanguinare. Doveva
essere forte per lui, per garantirgli un futuro.
Era l’unico atto da
mamma che una ragazza stupida e egoista qual era poteva offrirgli.
Guardò per l’ultima
volta quel viso sereno, dicendogli addio con la morte nel cuore. Era la cosa
migliore. Era l’unica soluzione che aveva per le condizioni di vita in cui
aveva costretto a far vivere suo figlio.
Doveva lasciarlo
lì.
Doveva affidarlo ad
altri, che avrebbero badato a lui meglio di quanto avrebbe potuto fare lei.
Meglio, e con molta più esperienza.
Fu la forza della
disperazione a spingerla ad adagiare dolcemente il piccolo che aveva la tra le
braccia. Con lui, un breve messaggio, una breve richiesta d’aiuto.
Gli posò solamente
un ultimo bacio sulla fronte.
“La tua mamma ti
vuole bene. Ricordalo, se puoi.”
Agì in fretta.
Bussò al campanello
insistentemente, correndo poi più veloce che poté.
Si nascose dietro
un grande albero del giardino, trattenendo i singhiozzi per non farsi sentire,
pregando che qualcuno rispondesse, prima che lei potesse ripensarci.
Aprite quella dannata porta… Vi supplico,
apritela…
La porta si aprì,
diffondendo nell’aria il suono di mille chiacchiere serene.
Una ragazza della
sua età si affacciò, incuriosita. Era mediamente alta, magra e aveva i capelli castano scuro, corti e lisci.
Era vestita in maniera semplice, probabilmente non aspettandosi di ricevere
nessuno, e niente in lei sembrava far pensare che fosse qualcuno di non
raccomandabile.
Dai suoi occhi
scesero altre lacrime di speranza. Avrebbe badato lei a suo figlio.
Vide la giovane
sobbalzare, nel momento in cui scorse quella piccola testolina viola spuntare
da quel mucchio di coperte malandate. La vide sporgersi verso di lui e
prenderlo in braccio, sorpresa.
E un urlo muto
risuonò dentro la sua testa.
Ha preso con sé mio figlio!
Ma non poteva fare
altro che restare immobile, a versare tutte le sue lacrime.
“Un altro piccolo
abbandonato” la sentì mormorare, intenerita. La sua voce era dolce: non l’avrebbe
mai dimenticata. “E questa cos’è?”
La ragazza dai
capelli scuri prese la lettera, e lesse il suo contenuto.
Lei si chiese
stupidamente se il messaggio fosse leggibile, scritto con la mano tremante di
chi preferirebbe morire piuttosto che fare una cosa del genere. Ricordava
quanto le era costato scrivere quelle brevi, orribili frasi che le avevano
straziato il cuore.
“E’ nelle vostre mani, adesso.
So che accudite molti senzatetto, e mio figlio non è da meno. Ve lo affido
perché possa crescere e vivere, come non ha potuto fare con me.”
Non aveva firmato.
Da quel momento, il
suo nome doveva essere dimenticato. Era finita.
Ma la sua supplica
non poteva essere ignorata.
La giovane non lo
fece. Sorrise dolcemente al bambino che dormiva, e richiuse la porta dietro di
sé.
La fama di quella
villa aveva un motivo, allora.
Si allontanò a
passo malfermo, non riuscendo più a restare a guardare la sua perdita.
Non aveva più
forze.
Non aveva più
lacrime da versare.
Non aveva più un
cuore.
Nemmeno
un’identità, mentre pensava a ciò che le restava da fare, a ciò che sarebbe
stata lontana dai suoi cari e da tutto ciò che aveva.
Guardò il suo
riflesso su una vetrina spenta.
E mai, mai il suo
viso smagrito, i suoi occhi arrossati dietro un paio di occhiali, la linea
sottile della sua bocca le erano sembrati così vuoti.
Diciotto anni erano
troppo pochi per ciò che le era successo.
Ma sembravano
essere abbastanza per fuggire via e costruirsi un nuovo avvenire. Corse, mentre
il vento gelido di una notte bigia di dicembre le sferzava violentemente i
lunghi capelli viola lasciati scomposti sulle spalle.
Ecco
una nuova idea di long-fic che avevo in mente da qualche tempo. Dopo un
periodo di riposo durato alcuni mesi, sono di nuovo pronta per
dedicarmi ad un'altra delle mie storie... che sono certa sarà
più lunga e impegnativa della prima. E sarà anche molto
diversa dalla precedente.
Gli ingredienti di questa storia sono mistero, azione, e, soprattutto,
il bisogno di ritrovare se stessi quando ci si crede perduti, e
l'importanza che l'incontro casuale con persone importanti e speciali
ha nel destino delle persone. E, naturalmente, amore. Quello vero,
incondizionato.
Spero davvero che l'idea possa piacervi: ci tengo molto a conoscere le
vostre opinioni a riguardo. Ogni commento, qualunque sia, sarà
sicuramente benaccetto!
Padme Undomiel
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Capitolo 2 *** 1. Futuro oscuro, futuro incerto ***
Purity cap 1
1.
Futuro oscuro, futuro
incerto
“Chiudi gli occhi e sta’ in
ascolto, ora.”
“In ascolto? Di cosa?”
“Di tutto. Senti il rumore del
vento tra le foglie.
Scaldati alla luce del sole.
Sfiora con una mano la
delicatezza di una foglia appena nata.
Ascolta la vita, e trovale un
senso.”
Tutt’intorno a lui, la vita
appariva sempre più ricca, sempre più immensa e grandiosa.
Come poteva spiegare a parole
l’insieme di sensazioni che avvertiva?
“Tutto ha un senso, anche le
cose più piccole, anche quelle che sembrano insignificanti”
Fu la risposta, nel buio dei
suoi occhi chiusi.
“Senza uno di questi elementi,
non sarebbe mai la stessa cosa.
Saremmo privati di un dono
inestimabile, proprio perché ogni elemento, in natura, ha uno scopo.
Perfino questa foglia tenera
sarà utile a suo tempo, per tutto il tempo che durerà.”
All’improvviso, un grande
senso di angoscia.
Una strana tristezza si
impadronì all’istante del suo cuore.
L’altro, in ascolto, lo capì.
“Se resti qui, quale sarà il
tuo scopo? Per chi sarai indispensabile?”
Silenzio, più eloquente di
mille parole.
Non lo sapeva.
Non lo sapeva affatto.
Era immobile sulla
porta, le valigie in mano, il buio delle finestre chiuse che lo accoglieva.
Non riusciva quasi
a credere di essere tornato lì. Da solo.
Ogni singolo istante
di silenzio sembrò gravare su di lui, più del peso delle sue valigie,
abbandonate bruscamente sul ciglio della porta.
Gli parve tutto
così privo di senso da gettarlo in uno stato di sconforto incommensurabile.
Richiuse la porta
d’ingresso del suo appartamento, con lentezza, quasi con solennità, sapendo che
questa svolta, nella sua vita, sarebbe stata decisiva per il suo futuro.
Entrò piano,
ascoltando il rumore dei suoi passi incerti, e la frescura data da tutto il
tempo in cui quel luogo era stato privato dalla luce del sole, in totale
contrasto con il clima piacevole di quella bella giornata di primavera.
Spalancò le
finestre e aprì le serrande, sentendo un impellente bisogno di luce, così
calda, così rassicurante in quel momento.
Si affacciò,
osservando il panorama consueto della città di Tokyo.
E, finalmente, si
concesse un sorriso, rassicurato.
Takaishi Takeru era
davvero affezionato al luogo dov’era cresciuto: ogni alto edificio, sobrio e
avanzato, ogni soffio di vento che tanto sapeva di ritorno a casa, ogni rumore
di clacson, nel caos del traffico giornaliero, ogni corsa di passanti per
arrivare in tempo al lavoro, ogni immagine di frenesia nei volti di chi
passava, riusciva a donargli un senso di benessere temporaneo, che sembrava
essere scomparso da qualche tempo.
La frustrazione,
che lo affliggeva da mesi, gli lasciò appena un attimo di tregua.
Era tornato. Era
finalmente a casa.
Era così strano,
tuttavia, pensare che, da quel momento, non avrebbe più dovuto occuparsi di
nessuno, che ora tutto ciò che poteva fare era riprendere i suoi studi e
pensare solo a condurre una vita tranquilla, come ogni normale ragazzo
ventitreenne dovrebbe fare.
Forse, però, lui
non voleva condurre una vita in
maniera tanto ordinaria.
Forse, il suo modo
di trascorrere ogni giorno di qualche mese fa lo rendeva più appagato, sebbene
fosse decisamente più duro e pieno di rimpianti per ciò di cui lo aveva
privato.
Sospirò, fissando
lo sguardo su alcune macchine in movimento, per la strada.
Non era certo la
solitudine a spaventarlo: aveva imparato fin da bambino a cavarsela da solo,
senza mostrare esitazione nell’affrontare difficoltà e momenti di tristezza.
Avrebbe affrontato
senza pensieri ogni cosa, se non fosse stato per un problema.
Il problema era
l’inutilità della sua vita attuale: lo spaventava, e lo lasciava senza punti di
appiglio a cui aggrapparsi.
Più ci pensava, più
non riusciva a capire cosa ci fosse che non andava in quello che faceva.
L’università, che aveva cominciato a frequentare dalla fine delle scuole superiori,
gli aveva sempre riconosciuto meriti molto elevati, che riuscivano a soddisfare
il suo grande impegno nello studio; la sua famiglia, pur se separata da tanti
anni, era sempre stata per lui un punto fermo, appoggiandolo e aiutandolo
quando ne aveva bisogno; gli amici non gli erano mai mancati, a volte sinceri e
indispensabili che frequentava ancora, o che aveva frequentato fino a pochi
mesi prima.
Aveva tante
attitudini, coltivati durante gli anni dell’adolescenza e della sua crescita,
tra cui la pallacanestro, alla quale si dedicava durante il tempo libero, per
distrarsi dai più tristi pensieri.
Eppure, qualunque
cosa facesse, la sua esistenza sembrava solamente di contorno, di scarsa
importanza.
Era come se
qualcuno, crudelmente, avesse coperto con vernice bianca ogni mattonella di un
edificio colorato da tinte vivaci e che evocavano sentimenti profondi: tutto
ciò che restava era una struttura uguale alle altre, anonima e svuotata da
tutto l’impegno di chi l’aveva costruita con passione e grande applicazione,
senza alcun dettaglio, anche insignificante, che riuscisse a differenziarla
dalle altre.
Così vedeva tutte
le sue azioni, Takeru: come spreco di impegno e di energie, soffocate da un
senso di frustrazione che rendeva ogni sua voglia di rendersi utile senza
senso.
Era un edificio
anonimo, formato da mattonelle immacolate di scarsa importanza.
Da quando aveva
preso totalmente consapevolezza di sé e delle sue aspirazioni, aveva sempre
desiderato di rendersi utile per qualcuno, di agire in maniera tale che il suo
impegno risultasse indispensabile per gli uomini, che fosse ricordato per
qualcosa di bello, di appagante, di rasserenante.
Aveva tentato tante
volte, in questi ventitrè anni, senza sosta, senza darsi pace.
Tentato.
Si era maledetto
varie e varie volte, senza mai porre fine alla sua frustrazione.
Nessuna delle
strade che sembravano tracciarsi chiare davanti ai suoi occhi riuscivano a
concretizzarsi, svanendo e perdendo d’importanza nel momento in cui Takeru
decideva di intraprenderle. A cosa servivano i suoi studi, se la sua passione
non riusciva mai a dargli un frutto concreto, piacevole, soddisfacente? A cosa
serviva la pallacanestro, dato che sapeva che non sarebbe mai diventato un
giocatore di fama internazionale per sua scelta?
A cosa serviva la
famiglia, se, nel momento in cui lui decideva di aiutarli a risolvere qualche
problema, appariva chiaro che quello non era il suo destino, che doveva
staccarsi da loro il più possibile?
Sorrise mestamente,
mentre passava una mano tra i suoi capelli corti colore del grano.
Si era impegnato a
fondo, l’ultima volta, e anche allora credeva di aver trovato qualcosa di
giusto a cui applicarsi. Evidentemente, però, suo fratello Yamato non era dello
stesso avviso.
“A qualcuno servirò, lo so che
servirò.”
“Non ne sei sicuro, Takeru.
Perché cerchi di illuderti?”
“Hai bisogno di aiuto, e io
intendo darti i mezzi necessari per farti riavere tutti quegli strumenti che ti
hanno rubato. Da solo non riuscirai mai a…”
“Non reggerai tutto questo
stress. Ti stai spegnendo, e nemmeno te ne accorgi.
E’ la mia vita che cerchi di
salvare, ma non credere che ti darà soddisfazione:
risolverò il problema, presto
o tardi, e allora tu cosa farai?”
“Voglio rendermi utile adesso,
voglio aiutare mio fratello, i miei amici…”
“E dopo? Aspetterai che io sia
di nuovo nei guai per sentirti bene?”
“Non capisco… Cosa stai
dicendo?”
“Vai via da qui, Takeru.”
“… Cosa?”
“Torna a Tokyo, riprendi la
tua vita e lasciami qui.”
“Mi stai… scacciando? Perché?
Io…”
“Lo hai detto tu stesso: ogni
essere vivente trova il suo scopo, nella vita.
E credimi, se ti dico che
questo non è il tuo.
Non è me, che devi aiutare:
sei solo tu, ma non te ne vuoi rendere conto.
Credi davvero che quella
pianta che hai sfiorato con le dita sarebbe viva, se non avesse trovato il
terreno giusto?
Se ti lasci morire dentro,
difficilmente guarirai.”
“Yamato, ma…”
“E’ necessario che tu mi dia
retta.”
Takeru sospirò,
allontanandosi dalla finestra e cominciando a disfare le valigie, con l’unico
intento di trovare qualcosa da fare per allontanare le sue preoccupazioni dalla
mente.
Quel ricordo non
voleva lasciarlo andare, a quanto pareva.
La verità era che
quelle parole lo avevano ferito profondamente: Yamato non aveva l’abitudine di
parlare molto, ma le sue frasi erano sempre cariche di significato, come quella
volta. Non si era preoccupato di smorzare i termini, costringendolo ad aprire
gli occhi sulla realtà e sulla vita insensata a cui si stava condannando.
Per un momento,
aveva creduto sul serio che aiutare suo fratello maggiore e la sua band a
recuperare gli strumenti che qualcuno aveva rubato loro senza riguardi e senza
contegno e freno, lo avrebbe fatto sentire realizzato, impegnato a fare
qualcosa di utile.
Quel discorso lo
aveva fatto risvegliare da quell’apparente stato idilliaco di soddisfazione in
cui era caduto: aveva avuto il potere di farlo tornare nel suo piccolo
appartamento a Tokyo, dopo aver vissuto per un paio di mesi a Osaka dove era
Yamato, di fargli riprendere i suoi studi universitari e la sua ricerca disperata
di uno scopo.
Ma non era felice.
Aveva solo voglia
che tutto si concludesse in qualche maniera.
Nell’estrarre un
block notes di colore nero si fermò di colpo, come se avesse ricevuto un colpo
all’altezza dello stomaco.
Quante volte aveva
desiderato di strapparli, quei fogli senza senso?
Quante volte aveva
pensato di terminare anche questa sua grande passione, visti gli scarsi
risultati che aveva il suo assiduo lavoro?
Takeru non ebbe la
forza di aprirlo, di sfogliare quelle pagine piene di cancellature, di frasi
senza senso, di “x” che cancellavano, alle volte, righi interi occupati dalla
sua scrittura stretta e ordinata.
Erano le storie che
aveva scritto negli ultimi mesi.
Erano le storie
prive di sentimento, piene di freddezza e di incompletezza, che avevano
solamente contribuito a demoralizzarlo.
Erano il parto
malriuscito di tante idee chiare e perfette nella sua mente.
Erano il fallimento
del suo esperimento che andava avanti da anni.
Si sedette sulla
poltrona più vicina, posando il suo sguardo colore del cielo sulla trama della
copertina. Scrivere aveva rappresentato la sua grande passione fin da piccolo,
quando aveva dedicato una poesia a sua madre, all’età di otto anni: ricordava
che lei ne era rimasta davvero impressionata, e aveva deciso di continuare per
questa strada, con maggiore impegno e sempre più grande passione per
quest’attività.
Con il passare
degli anni, però, i suoi lavori avevano cominciato a divenire senza alcun
senso, privi di qualsiasi emozione e di caratterizzazione di personaggi. Era
rimasto sconvolto, inizialmente, per poi reagire correggendo, rileggendo,
lambiccandosi il cervello per ore e strappando innumerevoli volte le pagine che
non andavano, che rovinavano l’effetto che voleva che suscitasse.
Solo ultimamente,
però, aveva capito.
Non erano solo
pagine, che non andavano: erano tutte le storie, senza possibilità di fare
alcunché per risolvere il problema.
Si era rassegnato a
malincuore, pensando di non avere scelta.
Dentro di sé, però,
un senso di sconforto profondo era riuscito a peggiorare la sua situazione di
tristezza e insoddisfazione. Continuava a chiedersi se, un giorno, ogni sua
domanda avrebbe avuto una risposta, ma sentiva che, probabilmente, quel giorno
non sarebbe mai arrivato.
Cosa intendeva
Yamato, quando parlava di terreno giusto?
Aveva qualcosa in mente, o aveva parlato in maniera generica?
Così sconfortante,
il sapersi solo ad affrontare i suoi timori…
Un improvviso
vociare, proveniente dalla finestra aperta, lo fece sobbalzare, sorpreso.
Sembrava un insieme
di voci infantili, che ridevano e strillavano allegramente, come solo i bambini
spensierati sanno fare.
Takeru si alzò in
piedi, incuriosito. Il dolce chiasso che entrava nell’appartamento era davvero
troppo forte, per appartenere a pochi piccoli che giocano insieme: possibile
che ci fosse un qualche asilo, nei paraggi?
Poteva darsi che
fosse rimasto fuori città per troppo tempo, dopotutto.
Si affacciò
nuovamente alla finestra, scrutando se, nei dintorni, ci fosse la fonte di
tante risate serene e un po’ birichine. Osservò palazzi, cercò tra i soliti
passanti frettolosi, scrutò, un po’ perplesso, tra le file di auto parcheggiate
e tra le strade accanto alle case abitate, senza, però, arrivare a capo di
questa stranezza.
Solo quando ebbe
fissato lo sguardo su una villetta circondata da un giardino verde –cosa
abbastanza rara, in una città molto priva di spazi verdi qual era Tokyo – poco
distante da dove si trovava lui, sgranò gli occhi, sinceramente sorpreso.
Un grande gruppo di
bambini, di età diversa e di ogni tipo e carattere, si rincorreva e giocava
dando calci ad un pallone, come se fosse il massimo divertimento che un essere
umano possa mai sperare di ottenere. Altri, invece, erano seduti sull’erba,
soprattutto bambine, da quello che Takeru riusciva a notare, e avevano in
braccio alcuni giocattoli: immaginò che fossero bambole, che le piccole di
quell’età immaginano siano le loro figlie.
Ma la cosa che
colpì più di tutti il giovane che osservava la scena, non credendo ai suoi
occhi, era il clima di tranquilla complicità che regnava in quella villetta.
Da quanto tempo non
sorrideva più in quella maniera tanto ingenua e spontanea?
Da quanto tempo
aveva dimenticato come si faceva ad essere davvero felice?
Anche i bambini
sapevano vivere meglio di lui, a quanto sembrava.
Un lieve sorriso
increspò le sue labbra, spesso rigide in un’espressione seria.
Era davvero strano,
pensare che anche lui era stato un bambino, un tempo.
Troppo tempo fa, in
effetti. Prima che la sua crescita lo lasciasse a brancolare nel buio, senza
una sola candela a indicargli la strada.
Vide, con rinnovato
stupore e senza che riuscisse a spiegarsi la cosa, parecchi ragazzi non molto
più grandi di lui, a quanto sembrava, prendere parte ai giochi dei bambini.
C’era un giovane dai capelli scuri, grintoso e veloce, che prendeva
improvvisamente possesso della palla, ridendo e correndo piano abbastanza per
farsi rincorrere agevolmente dai piccoli che giocavano, urlando, probabilmente,
incoraggiamenti a fare di meglio; una ragazza, più in là, dai corti capelli
rossi, che posizionava un piccolo spuntino su una tovaglia appoggiata sul
prato, con una cura e pazienza che dava dell’incredibile; un’altra, forse più
giovane della prima, dai lunghi capelli castani, aiutava un gruppo di bambine a
vestire e pettinare le bambole, parlando allegramente di chissà cosa con loro,
come se si stessero consultando su ciò che poteva essere meglio per le loro figlie; un ragazzo dai capelli scuri e
dagli occhiali, invece, assisteva, con aria decisamente apprensiva e timorosa,
ai giochi pericolosi tipici di alcuni piccoli bambini, intenti a lottare con
due rami usati a mo’ di spade; infine, una giovane, forse la più piccola di
tutti i ragazzi, con i capelli scuri corti fino alle spalle circa, abbracciava
dolcemente e accarezzava i capelli a una bambina in lacrime, tentando di
consolarla, probabilmente, di qualche dispetto che aveva subito da uno dei suoi
piccoli amici.
Sembrava che tutti
avessero qualcosa da fare, e che se ne occupassero con gioia.
Takeru non riusciva
a capire. Non poteva essere una famiglia, perché erano decisamente in troppi
per essere tutti fratelli e sorelle; inoltre, non c’era traccia di una figura
paterna o di una materna: i più grandi potevano, al massimo, essere fratelli
maggiori.
Una scuola, forse?
Ma no, era
impossibile: sembrava una villa dove le famiglie agiate passano la vita, non
una sede di studi.
Aggrottò le
sopracciglia, decisamente confuso.
Poteva darsi che
fosse un orfanotrofio?
Non sapeva darsi
una risposta, mentre ascoltava il richiamo quasi materno della ragazza dai
capelli rossi a fare merenda. Quello che sapeva, però, era che voleva saperne
di più, riguardo a quella villa piena di sentimenti positivi, visibili anche
dalla finestra di un appartamento troppo grande per un solo ragazzo.
Come potevano avere
tutti uno scopo tanto preciso?
Come potevano
apparire così determinati ad accudire quei bambini?
Cosa li spingeva a
donarsi completamente a loro e ai loro giochi?
Un senso di invidia
lo colpì all’improvviso, senza che lui potesse farci nulla. Avrebbe voluto
essere altrettanto sicuro e fermo, in quello che faceva, avrebbe voluto aiutare
qualcuno come quella ragazza dall’aspetto dolce che prendeva per mano e
accompagnava verso il piccolo buffet un bambino dai capelli viola, più restio
ad unirsi alla folla.
Strinse i pugni,
prendendo una decisione improvvisa.
Afferrò il cappotto
abbandonato sul divano, infilandolo, e aprì la porta del suo appartamento,
uscendo e chiudendolo a chiave.
Mentre scendeva le
scale, troppo impaziente e ancora con gli occhi pieni di quella visione dolce
che lo aveva fatto sentire così inutile, sorrise lievemente, divertito dalla
sua pazzia momentanea.
Forse non avrebbe
risolto nulla, cercare di capire cosa stessero facendo tutti quei ragazzi in
mezzo a quei bambini. Forse sarebbe tornato a casa con un senso di nuova
sconfitta e frustrazione, ma al momento non gli interessava.
Quello che voleva,
in realtà, era solo osservare da vicino quella sorta di paradiso in terra.
Voleva solo bearsi
di un po’ di serenità, dato che la cercava da tanti, lunghissimi anni.
Ciao
a tutti! Ecco il mio primo capitolo pubblicato! Si tratta,
effettivamente, solo di un capitolo di presentazione, ma indispensabile
per cominciare la storia! Takeru avrà un ruolo fondamentale
nella vicenda, e ci tenevo a presentarlo accuratamente tramite un
intero capitolo! :)
In ogni caso... Vorrei davvero ringraziarvi per le recensioni che mi avete lasciato, che mi hanno fatto veramente sentire bene!
Un sentito grazie a Shine,
come sempre pronta a recensirmi! Se penso a quanto tempo hai aspettato
per tornare a recensirmi... So che hai aspettato tanto tempo prima di
vederla pubblicata (sei stata la prima a leggerla, comunque :)), ma
adesso è qui, e spero che continuerai ad apprezzarla! Mi fa
piacere sapere che il mio prologo ti abbia convinto, pur con quella
frase che non ti è chiara... Mi impegno a soddisfarti sempre e
comunque, e aspetto sempre un tuo commento e parere! Grazie ancora per
tutti i complimenti che mi fai, ti voglio un mondo di bene! :D
A HikariKanna un
ringraziamento per aver letto, apprezzato... e per essere venuta di
persona a riferirmelo! ** Che dire, sono felice che ti sia piaciuto il
prologo, e mi dispiace per il mal di testa che ti ho causato! XD E
neanche in questo capitolo posso darti informazioni
sull'identità delle due donne (anche se, forse, un accenno a una
delle due l'ho lasciato!) Beh, il tempo per scrivere l'ho trovato,
malgrado il classico e i suoi impegni... e spero tanto che continuerai
a seguirmi! Un bacio!
Mystery Anakin dovrebbe
essere fiera di quello che fa per me, continuando a leggere le mie
storie anche qui! :D Chissà, forse un giorno ti verrà
curiosità e ti informerai... Veroo? ^^ Grazie per i complimenti:
sono felice di averti interessata! Per l'identità della madre
che abbandona suo figlio, mi dispiace dirti che non posso rivelarlo
subito: se leggerai anche i prossimi aggiornamenti lo saprai, promesso!
Sono curiosa di sapere un tuo parere su questo capitolo! Tvtb!
Sono felice di aver ritrovato anche Suzuna,
dopo tanto tempo! Mi mancavano le tue recensioni, e sinceramente
speravo anche in un tuo commento positivo... Davvero ti piace? ** Sono
contenta, e spero di non deludere le tue aspettative! In ogni caso, ce
la metterò tutta, promesso! :) Mi fai sapere anche su questo? Ti
ringrazio tantissimo! Alla prossima!
Per Siorachan mi
sento un po' in colpa: mi dispiace di aver scelto le coppie che ti
piacciono di meno, se hai capito quali saranno! :( Deve essere un po'
scomodo leggere, con questo presupposto... In ogni caso, mille grazie
per i complimenti: sono davvero molto graditi! Se avrai ancora voglia
di seguirmi, sono curiosa di conoscere anche la tua opinione riguardo
questo capitolo! Un saluto!
Oltre ai ringraziamenti, sono felice che Roe abbia
indovinato l'identità delle due donne del prologo! :) Che dire,
sono onorata di averti incuriosita, visto che è da un po' che
non leggi molto su Digimon, e proprio per questo sono felice e grata
del tuo interesse! Aspetta e vedrai: per Ken ho in mente qualcosa che,
immagino, non potrai capire prima del tempo... ^^ Spero che il tuo
interesse rimanga acceso anche dopo questo cap, e comunque sono aperta
a sentire la tua opinione! Fammi sapere, e grazie! Un abbraccio!
Ci vediamo alla prossima, appena possibile!
Padme Undomiel
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Capitolo 3 *** 2. Famiglia ***
Purity cap 2
2.
Famiglia
Quella mattina, i
bambini erano davvero irrequieti.
Strilla indignate e
spintoni sembravano essere permessi, mentre un gran numero di piccoli si
accalcava sulla tavola imbandita per poter afferrare qualcosa da mettere sotto
i denti.
“Non è giusto!
Quello era mio!”
“Non è vero, l’ho
visto prima io, trova qualcos’altro.”
“Ma le altre cose
non mi piacciono! Voglio quella merendina!”
“Ehi, ne voglio
anche io, spostati!”
“Sei cattivo, mi
hai fatto male…”
Yagami Hikari
osservava la scena da lontano, ridendo intenerita. Qualcosa le diceva che i
bambini erano davvero affamati: stavano litigando parecchio tra loro, anche più
del solito… Il che dava da pensare.
Poteva darsi che
fosse perché, in una bella giornata di sole come quella, avessero deciso
all’unanimità di divertirsi il più possibile, cancellando completamente dalla
loro mente l’eventualità di un po’ di tranquillità senza mettersi a litigare
sulla quantità di cibo che spettasse ciascuno.
Più li osservava,
più la giovane si rendeva conto di quanto la spontaneità dei bambini fosse un
balsamo per gli animi disillusi degli adulti. Avevano quella strana capacità di
essere sempre sinceri e spontanei, qualunque cosa facessero: dimostravano il
loro affetto con gesti semplici ma pieni di sentimento, anche nelle piccole
cose; la loro risata poteva scaturire dal volo leggero di una farfalla
variopinta, o dai colori suggestivi dell’arcobaleno che apparivano nel cielo
dopo un acquazzone; le loro lacrime erano in grado di smuovere persino l’animo
più freddo e cinico, senza possibilità di scelta; persino quando litigavano
erano spontanei, perché non erano capaci di un sentimento tanto privo di
scrupoli qual era l’odio, tipico degli adulti, ma rivelavano chiaramente gli
eventuali problemi e li aiutava a relazionarsi meglio.
E, anche se non
apparteneva totalmente alla categoria degli uomini troppo cresciuti per poter
sognare un po’, sentiva che aveva tanto bisogno della presenza di quelle
piccole pesti quanto loro ne avevano di lei.
La cambiavano un
po’ ogni giorno, senza che lei potesse o volesse farci nulla.
Osservò, con un
moto di apprensione, la quantità di cibo posta sulla tavola, chiedendosi se
sarebbe stata sufficiente per tutti, in modo da non creare scompiglio.
“Speriamo non si
facciano male” disse, rivolta alla ragazza più grande che stava in piedi al suo
fianco.
L’altra sorrise,
lanciandole quell’ occhiata rassicurante che tanto la contraddistingueva. “Non
preoccuparti, Hikari-chan: sono bambini maturi, vedrai che faranno presto pace”
rispose semplicemente, ma a Hikari non sfuggì l’occhiata lievemente preoccupata
che aveva lanciato al resto dei ragazzi, che dovevano occuparsi della
distribuzione della merenda. “E poi, si presume che tuo fratello Taichi e Mimi-chan
sappiano come risolvere la situazione.”
Lei ridacchiò.
Takenouchi Sora era
sua amica da tanto tempo, da quando Taichi, suo fratello maggiore, l’aveva
conosciuta sul campo da calcio, ma in tutti quegli anni non era mai cambiata
del tutto. Era sempre sua grande caratteristica, quella di essere un punto di
riferimento saldo per chi la conosceva bene: era per questo che Hikari era
sempre andata molto d’accordo con lei.
Era la sua confidente,
colei che riusciva sempre a trovare un rimedio pratico ai problemi che si
affacciavano, e una ragazza determinata, orgogliosa e indipendente che non si
lasciava sottomettere da nessuno.
Non aveva esitato
un solo istante a coinvolgerla nel progetto di sua madre… Anche se, tutto
sommato, Taichi aveva insistito molto più di lei per prendere questa decisione.
“E’ bello sapere
che, almeno loro, non hanno preoccupazione alcuna” aggiunse Hikari, non senza
nascondere una punta di malinconia nel tono di voce. Osservò, con aria assente,
i tentativi degli altri ragazzi che lavoravano con lei e Sora di calmare gli
spiriti ribelli dei bambini, mentre il suo pensiero andava all’impegno che si
erano presi, a tutti i sacrifici ai quali si erano sottoposti per mandare
avanti quel progetto così impegnativo, e a come tutto sarebbe potuto svanire da
un momento all’altro a causa delle complicazioni che avevano trovato sulla
strada.
Di certo, se sua
madre fosse stata ancora viva, non avrebbe approvato tutto quel disinteresse.
Sora le cinse le
spalle con un braccio, comprensiva. “Dai, non ti abbattere: troveremo il modo
di garantire sempre la serenità a questi bambini. Fidati” le disse, con un
sorriso gentile. “Ce l’abbiamo fatta fino ad adesso, non è proprio possibile
che tutto vada a rotoli proprio quando sembra che il progetto stia andando
meglio.”
“Sora-san, rispondi
sinceramente” ribatté Hikari, a testa bassa. “A quante persone importa di una
casa di accoglienza per bambini orfani? Quanti di loro si impegnerebbero nell’aiutare
queste povere anime abbandonate?”
Questa volta, la
ragazza maggiore rimase in silenzio, che gravò come una dura conferma nel cuore
della giovane dai corti capelli castani.
Certe volte, un
senso di profonda tristezza la opprimeva, mentre ritornava con la mente a quei
giorni lontani, quando sua madre, Yagami Yuuko, aveva cominciato a rendersi
conto della quantità di abbandoni di bambini ogni giorno, a causa del
disinteresse di alcune mamme nei confronti dei loro figli.
“Come si può pensare di rinunciare alla
parte più pura della società di oggi?E’ un vero e proprio delitto” era solita dire alla sua famiglia, con il
suo tono indignato e pieno di dolore per la sofferenza di quei piccoli senza
l’affetto di un padre e di una madre. “Si
dovrebbe fare qualcosa, e al più presto, prima che si distrugga completamente
la loro possibile felicità.”
Qualcosa, alla
fine, l’aveva fatta lei, ricordò, con un moto di nostalgia verso quella donna
straordinaria qual era sua madre.
Era senza parole, ferma sulla
soglia della porta.
“Mamma… Che cos’hai in
grembo?” Domandò Taichi, perplesso.
La donna rimase in silenzio,
con un sorriso triste sulle labbra.
Si tolse il cappotto,
dirigendosi verso la camera da letto.
“C’è una sorpresa, da oggi in
poi.” Disse.
Hikari vide il mucchio di
stracci muoversi tra le sue braccia.
Capì, e sussultò: non poteva
crederci.
“Davvero? Di che tipo?” Chiese
invece suo fratello, seguendola.
“E’ un… bambino, quello che
hai in braccio?”
Vide gli occhi del maggiore
tra i due spalancarsi, sbigottiti.
Quelli della mamma, invece,
erano sereni.
Posò il piccolo –no, era una
bambina- sul letto, ed estrasse dalla busta della spesa alcuni pannolini.
Pareva che avesse pensato a
tutto.
“Esatto. Da oggi in poi,
penseremo noi alla piccola Arika: farà parte della famiglia, e voi la
tratterete come tale.”
Osservò sua madre coccolare la
bambina in lacrime, e si sentì toccata dal candore di quella scena.
“Dove l’hai trovata? Come mai
è qui?” Chiese, mentre un sorriso le si dipingeva sulle labbra.
“Ricordi quella famiglia che
vado a trovare da qualche tempo? Quella che abita in periferia?”
Sua madre gliene parlava
spesso, e non senza un moto di dolore: erano in tanti, e molto poveri.
Annuì, ansiosa di sapere il
resto.
“I figli minori si sono
ammalati, e la signora si sta davvero facendo in quattro per curarli.”
Fu la spiegazione, mentre
vestiva Arika con una tutina gialla.
“Mi sono offerta di crescere
questa bambina per qualche tempo, finché i suoi fratelli non saranno totalmente
guariti. Con sette figli, non è mica facile, la loro vita.”
La signora Yagami alzò lo
sguardo, cercando quello scuro dei suoi figli.
Hikari vide una punta di
preoccupazione nello sguardo della donna, e ne rimase sorpresa.
Sembrava avesse paura di
sconvolgere la loro vita di ogni giorno.
Si volse a guardare Taichi, e
fu felice di notare un’aria di approvazione nella sua espressione.
“Non ti serve chiedere una
risposta: una piccola peste in più non ci farà male.” Affermò Taichi,
sorridendo. “E poi, sembra abbastanza vivace: sarà un bel cambiamento.
Hikari non si è mai divertita,
quando era alla sua età!”
Hikari rise in risposta,
sedendosi accanto alla bambina, sul letto.
“Sarà come una sorella in
questi giorni, mamma. Promesso.”
Yuuko sorrise, abbracciandola
forte.
“Grazie. Lo sapevo che avreste
capito.”
Arika era rimasta
con loro per un mese, accudita e coccolata da ogni membro della
famiglia. Ricordava la tristezza che li aveva colti, quando erano venuti a
sapere che la famiglia era pronta a ricevere nuovamente la piccola: per loro,
accudirla era stato un balsamo per la stanchezza e la tristezza che li prendeva
durante le giornate più dure.
Ed era da
quell’episodio, che avevano capito una cosa importante: accudire i bambini era
in grado di dare loro una delle gioie più grandi in tutta la vita.
E allora, sua madre
aveva deciso.
Un orfanotrofio.
Un orfanotrofio
gestito dall’intera famiglia Yagami.
Un luogo che
avrebbe accolto ogni bambino senzatetto, senza alcuna distinzione o
discriminazione. Un luogo sicuro, caloroso, ricco dei migliori sentimenti e del
più grande amore verso quei piccoli, grandi ometti che sarebbero cresciuti
senza dei punti fermi, senza delle certezze.
E Yagami Yuuko ci
aveva davvero creduto, in questo progetto.
Avevano venduto la
loro casa, optando per una villa più grande, più spaziosa, con un giardino
progettato per far giocare i loro piccoli ospiti. Una villa, non più la dimora
semplice che era prima: una dimora messa in comune, senza chiedere nulla in
cambio.
Tanti gli scettici,
inizialmente. Hikari li ricordava bene, i commenti bisbigliati dei passanti, le
critiche rivolte a sua madre, che tentava l’impossibile, che era troppo
sognatrice, che sperava di cambiare il Giappone liberandolo di ogni problema di
abbandono.
Lei si era sentita
ferita da questo modo di vedere quello che facevano. Non riusciva proprio a
capire come mai ogni tentativo volto a un miglioramento della società dovesse
essere giudicato come un atto da folli, tanto più che si trattava di aiutare
dei bambini.
Ma sua madre…
Sua madre sorrideva
e scuoteva la testa, determinata. Sua madre non si lasciava mai abbattere, ed
era la loro ancora rassicurante. Sua madre le accarezzava i capelli, e le
diceva di non curarsi di quegli uomini, che non volevano riporre la loro
fiducia in un cambiamento.
Sua madre
ringraziava, commossa, ogni persona di buon cuore che li aiutava
economicamente, anche se si trattava di un assegno piuttosto misero. Sua madre
si faceva bastare quello che aveva, ed era madre, sorella e migliore amica di
tutti i bambini che trovava o che le affidavano. Sua madre chiedeva solo di
fare come lei.
Un moto di tristezza
rischiò di distruggere la barriera che le permetteva di non piangere, mentre
ripensava alla rapidità con la quale se n’ era andata, lasciandoli soli a
portare avanti un progetto tanto impegnativo.
Un tumore fu in
grado di farla volare via, e nell’orfanotrofio calò un silenzio pieno di
dolore. Sei anni prima, improvvisamente, senza motivo alcuno.
Hikari era
distrutta dal dolore, Taichi sembrava aver perso ogni voglia di combattere la
solitudine e il senso di sconfitta che minacciava di spegnerlo, suo padre non
riuscì a reagire mai, e si allontanò dalla loro villa, aiutandoli a distanza
solo via assegno.
Ma i bambini erano
ancora lì, e si erano aggrappati con forza a loro, cercando una via di fuga
dalla tristezza. E solo grazie a loro, i due fratelli si erano guardati negli
occhi, ricordando ogni insegnamento di Yagami Yuuko, e ogni suo sogno che
rischiava di svanire insieme a lei.
Ricordando, e
decidendo di continuare quel progetto.
Da quel giorno, gli
aiuti non erano più solo economici: alcuni ragazzi, ispirati dal modello che
sua madre era stata, avevano chiesto di contribuire alla crescita di quei
piccoli orfani, donandosi, come loro, unicamente a questo obiettivo.
Takenouchi Sora, Tachikawa
Mimi, Kido Jyou e Izumi Koushiro erano, così, entrati nella loro vita,
diventando i migliori amici e compagni di giochi che dei piccoli potessero mai
desiderare. E tutti quanti si erano ben inseriti in questo sogno, senza
demoralizzarsi, senza mollare mai.
Chissà se la comune
indifferenza sarebbe mai riuscita a vederli, tutti questi scenari nascosti che
avevano preceduto la decisione di aprire l’orfanotrofio. Chissà se la sorte di
quei bambini avrebbe interessato mai altre persone, invece di lasciarli in quella
situazione precaria di crisi, nella quale tutti si erano impegnati fino allo
stremo delle loro forze.
Scosse la testa,
asciugando in fretta i suoi occhi castani velati dalle lacrime. Non era il caso
di abbattersi: sua madre non lo avrebbe mai fatto. In qualche modo, avrebbero
trovato i mezzi necessari per continuare a far vivere la speranza.
“Hikari-chan! Sora-chan!
Abbiamo bisogno di aiuto: rischiamo un litigio grosso, oggi!”
Si riscosse in
fretta, volgendo lo sguardo verso la ragazza dagli ondulati capelli castani che
li stava richiamando, agitando una mano.
Sembrava che Mimi
fosse sul punto di avere una crisi di nervi.
Rise, mentre
avanzava in fretta verso il gruppo di bambini che litigavano senza controllarsi
minimamente. “Sarà meglio se andiamo a dare un’occhiata alla situazione, prima
che sia troppo tardi.”
Sora sospirò,
raggiungendola. “Nemmeno un momento di respiro…” commentò, sorridendo
intenerita.
“Avanti: cosa vi
costa fare i bravi bambini? Un po’ per ciascuno, e siete tutti contenti, no?”
Il povero Jyou
sembrava disperato: era chiaro che non sapeva più che pesci pigliare.
Probabilmente, si stava anche facendo prendere dal panico, come suo solito:
continuava a mettersi le mani tra i capelli e a gemere, depresso.
“Vi prego… Vi
prego! Non fatevi male!”
Mimi, dal canto
suo, appena le vide arrivare sollevò gli occhi al cielo, e le raggiunse,
prendendole per mano e tirandole verso la rissa. “Meglio tardi che mai. Se
avete una qualche maniera per calmare i loro spiriti ribelli, questo è il
momento giusto per dircelo.”
“Arriviamo,
arriviamo. Ma cosa succede?” domandò Sora, liberandosi della presa della sua
migliore amica con una certa difficoltà.
L’altra sbuffò.
“Sono buoni e cari tutto il giorno, ma certe volte sono davvero
incontrollabili!” ribatté, scuotendo la testa. “Speriamo solo che finisca
presto…”
Hikari aveva sempre
ammirato Mimi, da quando era entrata a far parte del gruppo: era una ragazza
apparentemente frivola, che amava vestirsi bene e curarsi molto. Tutti,
all’orfanotrofio, sapevano perfettamente che non ci sarebbe mai stato un giorno
in cui i suoi lunghi capelli castani sarebbero stati in disordine, o i suoi
vestiti fuori moda; eppure, era ugualmente nota la sua capacità di essere
sempre se stessa, e il suo cuore puro e nobile. Aveva deciso lei di entrare
nell’orfanotrofio, e ripeteva sempre che mai, mai avrebbe abbandonato quei
bambini che la consideravano un punto fermo per crescere.
In effetti, aveva
una predilezione particolare per le bambine, che potevano essere educate da lei
per vestire o curare le bambole che si premurava sempre di comprare per loro.
Bambole dotate
sempre di trucchi, logicamente.
Era una cara amica,
e nessuno ne avrebbe mai fatto a meno.
“Sta’ tranquilla”
le disse, posandole una mano su una spalla. “Ora cerchiamo di calmarli.”
Sora, senza
aggiungere altro, si era già diretta verso i bambini, con le mani sui fianchi e
un’aria autoritaria che assumeva solo alcune volte, quando il suo lato fermo e
deciso usciva allo scoperto.
“E allora? Cosa sta
succedendo?” chiese ad alta voce.
Naoko, in lacrime
come accadeva spesso, con i suoi lunghi capelli biondo scuro attaccati alle
guance bagnate e gli occhi color caramello decisamente rossi, corse ad
abbracciare Hikari, parlando tra i singhiozzi. “Shinji-kun è cattivo!” rispose a
Sora, nascondendo il suo piccolo volto sulla maglia della più giovane delle
ragazze. “Ha preso tutte le mie merendine, e ha lasciato quelle che non mi
piacciono! E mi ha dato uno spintone!”
“Non è vero, non
l’ho spinta!” Si difese Shinji, incrociando le braccia sul petto e mettendo un
broncio. “E’ una bugiarda! E poi, le merendine sono anche mie!”
“Insomma, non è la
prima volta che succede! Che bisogno avete di litigare in continuazione?”
domandò Mimi, alla sua destra, con aria severa.
“Comunque è vero, Shinji-kun
ha mangiato tutte le merendine, e le ha fatto male.” Si intromise il piccolo
Junichi, sempre pronto a difendere le ingiustizie nel suo piccolo gruppo. “E ha
detto che le ragazze devono aspettare il loro turno, per mangiare.”
“Spione! Non ci
gioco più, con te!” si offese Shinji, sempre più irritato.
Hikari accarezzò i
capelli di Naoko, cercando di calmare il suo pianto e ascoltando il coro dei
bambini che difendeva o accusava il più pestifero e dispettoso
dell’orfanotrofio. Era davvero triste che Shinji dovesse ricorrere alla
prepotenza, per rispondere alla sua insicurezza innata, ma non era mettendolo
in punizione che qualcosa sarebbe cambiata. Era uno dei tanti problemi
rappresentato dall’accudire quei teneri, piccoli bambini, l’uno diverso dall’altro.
“Adesso basta! Ma
dico, cosa risolvete comportandovi così?”
Hikari sorrise, nel
voltarsi verso il ragazzo che aveva sbottato all’improvviso.
Folti capelli
castani, che non volevano mai saperne di stare in ordine, erano il primo tratto
distintivo che lo rappresentavano; un’aria giocherellona e intraprendente era
ciò che i suoi occhi scuri, così simili ai suoi, esprimevano a un primo
sguardo; il suo sorriso era capace di risollevare il morale in un solo istante,
contagioso com’era.
Aveva sempre
contato su di lui. Su Yagami Taichi era praticamente impossibile non contare,
anche se a chiedere il suo aiuto non era sua sorella, come nel suo caso, ma un
perfetto sconosciuto. Erano queste caratteristiche, a renderlo tanto amato dai
bambini.
“State litigando per
chi deve ottenere un determinato tipo di merendina?” chiese, con aria
falsamente seria e da rimprovero: Hikari notò, divertita, tutti i piccoli
ascoltatori ammutolire, sorpresi e umiliati, di fronte a questo apparente
cambio di umore di Taichi.
Poi il suo viso si
aprì in un sorriso allegro. “Facciamo che ce la giochiamo in una partita di
calcio: i vincitori avranno in premio quel regalo! Che ne dite?”
Le strilla
entusiaste dei bambini furono una risposta sufficiente. Solo Asami, sospirando
delusa, rimase lievemente indietro, lamentandosi dicendo: “Allora non la
mangerò mai: sono troppo grassa per essere veloce!”
“Su, raggiungi i
tuoi amici, Naoko-chan” la spronò la giovane, dandole un ultimo bacio sulla
testa. Lei annuì, e corse via, con la tipica velocità spericolata dei bambini
della sua età.
Sentì Taichi
rivolgersi a Sora, prima di andare a prendere il pallone abbandonato in un
angolo. “Bastava solo prendere la questione con un po’ di sana competizione,
cara mia” le disse, sorridendo in maniera birichina. “Avreste risolto un sacco
di problemi.”
“Se lo sapevi da
tanto, perché non ce lo hai suggerito prima, scusa?” sospirò la ragazza dai
capelli rossi, guardandolo storto. “Tentiamo di calmarli da minuti, ormai…”
“Presto o tardi non
conta. Allora, vieni a giocare? Ti sfido.”
Hikari rise una
volta di più. I due ragazzi si conoscevano da tanto tempo, ormai, ma certe
volte amavano continuare a scherzare come se fossero ancora degli studenti
delle elementari. D’altronde, nessuno avrebbe mai messo in discussione che si
volessero molto bene: semplicemente, ridere tra loro era un’esperienza che li
spingeva'cando di scorgere sul suo viso
il futuro che lo attendeva. se valutando ogni parola con attenzione. ole erano
vere, in fondo a tornare bambini,
e per essere sempre in sintonia con i piccoli che crescevano.
Ora, non avrebbero
più avuto bisogno di aiuto: la lite si era placata.
“Hikari! Hikari!”
Lei si voltò,
sorpresa: Jyou si avvicinava, correndo, al luogo dove si trovava, con aria
trafelata. Si fermò, ansimando, solo quando fu sicuro che la giovane potesse
sentire quello che aveva da dire, e che, evidentemente, lo preoccupava.
“Cosa c’è, Jyou-san?”
gli chiese, perplessa.
Lui si aggiustò gli
occhiali, per evitare che cadessero dal suo naso. “E’ solo Keiji, Hikari” le
disse, con una nota di apprensione nella voce. “E’ salito ancora su
quell’albero, e non vuole scendere per nessun motivo! Potrebbe farsi male, e
quindi sono venuto ad avvisarti: almeno, a te ascolta!”
Sgranò gli occhi,
prima di ridere tra sé. Pareva che non si smentisse mai: era da qualche giorno
che non faceva che rifugiarsi lì sopra, e il più delle volte si rifiutava di
scendere.
“Dov’è, questa
volta?” domandò, guardandosi intorno e sperando di individuarlo.
Jyou indicò davanti
a sé, focalizzando l’attenzione su un albero non lontano da lì. “Chissà come ha
fatto, a imparare ad arrampicarsi…” aggiunse poi, aggrottando le sopracciglia.
Lei alzò gli occhi
al cielo. “Taichi…” disse solo, prima di correre via.
***
Anche da lassù, era
perfettamente riconoscibile a chi lo guardava.
Era abbastanza
alto, per avere sette anni. Aveva una gamba a penzoloni, mentre si teneva
stretto ad un ramo robusto con una mano e con l’altra mangiava qualcosa,
probabilmente una barretta di cioccolata. Osservava, con i suoi occhi castano
chiaro, ogni cosa che gli capitava a tiro, mentre il vento primaverile gli
scuoteva dolcemente quei corti capelli viola che nessun altro bambino aveva, a
suo avviso.
Da quando lo
conosceva, Keiji non era mai cambiato.
“Ehi! Ancora a fare
la piccola scimmia, eh?” chiese a voce alta, attirando la sua attenzione.
Lui le fece un
sorriso spontaneo, uno di quelli che dedicava solo a lei: a Hikari si
scioglieva il cuore, ogni volta che lo scorgeva sul suo volto.
“Ciao, Hikari!”
Urlò in risposta lui. “Che succede?”
Lei scosse la
testa, sorridendo. “Volevo vedere cosa stessi facendo. Non ti senti solo, a
stare su quell’albero? Di là ci sono gli altri che giocano a calcio, non vuoi
seguirli?”
Lui scosse la testa
vigorosamente. “No, non ho voglia” rispose. “Sto bene qui.”
Keiji non
rappresentava il tipo di bambino comune. Non era un tipo solitario, ma certe
volte amava starsene per conto suo, a coltivare i suoi interessi un po’
eccentrici, come fingere di essere una scimmia e di cercare banane. Era davvero
spontaneo, ma solo con le persone che gli andavano a genio: con Jyou, ad
esempio, non riusciva ad essere se stesso, zittendosi senza dare ascolto ai
suoi numerosi consigli per non farsi male. Aveva una fervida immaginazione, ma
spesso preferiva tenerla per sé, e non condividerla con gli altri suoi
coetanei. Era evidentemente alla ricerca di affetto, ma non riusciva ad
esprimere a parole questo suo bisogno,
affidandosi solo, alle volte, ad abbracci silenziosi.
Hikari, queste
cose, le sapeva bene. Gli era stata vicina da quella notte di sette anni prima,
quando, sentendo suonare selvaggiamente al campanello, lo aveva trovato sulla
porta ancora in fasce, insieme ad un biglietto che la pregava di prendersene
cura e che le riferiva il nome del bambino. A quel tempo, sua madre era ancora
viva: era stata proprio lei, ad affidarglielo spiritualmente.
“Lo hai letto tu, quel biglietto: è bene che
sia specialmente tu ad accudire quel bambino” le aveva detto, sorridendole incoraggiante. “Lo so che sarai una buona madre, per lui.”
Era stato un anno
prima che si ammalasse di tumore: forse era proprio per questo che la giovane
aveva preso il compito tanto sul serio. Le sembrava di rivedere sua madre,
quando lo accudiva, lo ascoltava e lo aiutava. Aveva imparato a volergli bene proprio
per le sue bizzarre abitudini e per il suo buon cuore, puro e aperto per lei.
“Ho visto il
disegno che mi hai mandato per via di Sora-san, stamattina” gli disse ancora.
“Era davvero stupendo, dico davvero. Ma perché ci hai disegnati mentre voliamo,
Keiji-chan?”
Lui si strinse
nelle spalle. “Perché da lassù si vede tutto il mondo” affermò, sorridendo. “E
io voglio volare in alto, tanto in alto. Però solo con te, Hikari.”
I suoi occhi
divennero lucidi per la commozione a quella manifestazione d’affetto. Era
davvero un tesoro, quando pensava o diceva quelle cose tanto intense. “Ti
ringrazio tanto, piccolo” gli disse, tentando di sorridere normalmente.
“Anche
da qui si vede tanto: è per questo che mi piace salire sull’albero” aggiunse
Keiji. Poi parve ricordarsi di una cosa importante: si sporse dall’albero,
facendo spaventare Hikari, che corse in avanti tentando di prenderlo in caso di
caduta. “Hikari?”
“Keiji-chan,
non ti sporgere: ti fai male” lo pregò lei, terrorizzata.
Lui
la ignorò. “C’era un ragazzo biondo che ci guardava, un po’ di minuti fa” disse
invece, preoccupato. “Uno biondo, alto e strano. Aveva gli occhi azzurri,
credo. Lo conosci?”
Hikari
rimase di stucco, non credendo alle sue orecchie. Questa, poi, era davvero una
stranezza; d’altronde, era difficile che il bambino dai capelli viola si
sbagliasse, ottimo osservatore com’era. Ma cosa poteva volere un ragazzo biondo
da loro?
“Non
credo, non lo so” disse in risposta, corrugando le sopracciglia. “Per quanto
tempo è stato qui?”
Keiji
si strinse ancora nelle spalle. “Che ne so, non mi interessava. Però è strano!”
disse.
Di
sicuro lo era. La giovane non sapeva davvero cosa pensare.
Sospirò,
rassegnata. In ogni caso, se avesse voluto qualcosa sarebbe ripassato, e
avrebbero chiarito quel mistero.
“Non
ti preoccupare, piccolo: risolveremo la faccenda” lo rassicurò. Poi tese le
braccia. “Ora, però, vieni giù: sei sporco di terra, è meglio se ci diamo una
ripulita.”
“Uffa.”
Sbuffò il bambino, ma non discusse le parole di Hikari: con un salto –che spaventò
ulteriormente la ragazza- scese tra le sue braccia, stringendola in un
abbraccio per un momento. “Non sono sporco.”
Hikari
rise, dandogli un bacio su una guancia. “Non me la dai a bere, questa volta.”
Era
così che andava, ogni giorno: tra scherzi, litigi, pianti, riappacificazioni e
risate, gesti affettuosi e parole e consigli gentili. Era così che doveva
essere: una famiglia in tutto e per tutto, malgrado ogni difficoltà, nel
massimo rispetto di ognuno.
Ci
credeva davvero, e sapeva che sarebbe andato avanti, quel progetto.
Malgrado
ogni tipo di preoccupazione e problema.
Salve!
Eccomi tornata con l'aggiornamento, a distanza di due settimane esatte
dal precedente! :) Non so per quanto tempo potrò continuare ad
essere così regolare e precisa, ma per il momento conto di
mantenere questo ritmo, ovvero due settimane di intervallo per
organizzare il seguito!
Come il precedente, anche questo è un capitolo di presentazione
di uno dei protagonisti. Adesso credo che non ci siano più
incertezze sull'identità di una delle due ragazze, no? ;) In
questa long-fic ho deciso di coinvolgere tutti i digiprescelti in
qualche modo, ed è per questo che Hikari è affiancata da
alcuni di loro nella sua occupazione. Per i restanti, credo proprio che
si debba aspettare ancora un po'!
Rispondendo alla domanda di HikariKanna...
Sì, questo progetto sarà abbastanza lungo, anche se non
so con esattezza quanto! :) Diciamo che posso dire con sicurezza che si
aggirerà intorno ai trenta capitoli, ma non so se, continuando a
scrivere, aggiungerò o toglierò qualcosa... Per intanto,
spero che continuerai a seguirmi! Sono io a ringraziare te, davvero: mi
fa piacere sapere quello che pensi di questa storia, ne sono davvero
felice! ** Spero solo di non dover deludere le tue aspettative! Un
bacio, alla prossima!
Shine, ti pare che
potrei mai essere così stupida da provocare la tua ira? Non ci
tengo a fare una brutta fine! U_U Sono sorpresa e felice che, malgrado
quello che io pensi su quel capitolo, ti sia piaciuto molto...
Però la cosa mi lascia ben sperare, e lo sai! :) Ce la metto
tutta per rendere i lettori partecipi degli stati d'animo dei
personaggi che tratto, e m auguro di non fare cilecca... Aspetta di
continuare a leggere, e solo allora potrai avere tutte le risposte che
vuoi (o quasi... Cosa c'entra l'autore del furto degli strumenti
musicali? O_O)! Infinite grazie per l'entusiasmo che dimostri per
questa ff: credo che non ne avrei mai abbastanza di ringraziarti! XD
Tvttb!
Lo stesso discorso vale anche per Roe,
a cui chiedo un po' di pazienza in più: vedrai che tutto ti
sarà più chiaro, tra un po' di capitoli! :) Che dire,
ripensando a come tu ti sia messa d'impegno per recensirmi mi fa
sentire davvero onorata: grazie, grazie e ancora grazie, sul serio! :D
Ci tengo molto a questa ff, e sapere che ti piaccia è un gran
risultato per me! Spero che ti sia più chiara la faccenda dopo
questo cap, che Keiji ti abbia convinto e che l'aggiornamento ti sia
piaciuto come lo scorso! Ci risentiamo appena possibile, cara! Un bacio!
Infine, Mystery Anakin
dovrebbe smetterla di scusarsi per il ritardo: potrei mai arrabbiarmi,
visto che continui a leggere e continua a piacerti? :) Felice che ti
sia piaciuta l'introspezione di Takeru, dato che è uno dei
protagonisti della vicenda (come sempre... XD)! Adesso che ho anche
introdotto il personaggio di Keiji, credo che tu debba per forza essere
sicura sulla sua identità, no? :) E comunque, spero che ti
piaccia! Così come spero che troverai il tempo per dedicarti
alla "cultura" (capisci cosa intendo)... ma non ti metto fretta,
tranquilla! Grazie mille per i complimenti, cercherò di esserne
sempre all'altezza! Un bacio, tvttb! ... E non coalizzarti con Shine,
per favore! Ho paura! XDXD
E un saluto a tutti quelli che leggono la mia storia in generale! Ci vediamo presto! :)
Padme Undomiel
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Capitolo 4 *** La ragazza scomparsa ***
Purity cap 3
3.
La ragazza scomparsa
“Inoue Miyako.”
Il ragazzo alzò lo
sguardo dalle sue mani intrecciate, con aria interrogativa. “Come?”
L’altro si limitò a
prendere un altro sorso di caffé dalla sua tazzina, con aria stanca. Pareva che
volesse prendere tempo per iniziare davvero a parlargli di quella questione.
Ichijouji Ken lo
osservò in silenzio, con le sopracciglia corrugate. Pareva quasi che quel nome,
pronunciato appena qualche secondo prima dal ragazzo più grande che gli sedeva
di fronte, dietro ad un tavolino bianco posto esternamente ad un piccolo bar,
fosse sufficiente a spiegare molte cose, anche se apparentemente non era di
nessuna rilevanza.
Era anche vero che
erano settimane, ormai, che non aveva più modo di parlare con suo fratello.
Ichijouji Osamu appariva
pallido, più del solito, e molto stressato. Le occhiaie appena accennate che si
intravedevano sotto i suoi occhi straordinariamente azzurri –davvero simili ai
suoi-, erano abilmente nascoste dalla montatura sobria e semplice che donava al
suo sguardo un’interessante aura di intelligenza e di serietà. I capelli scuri,
ribelli, in netto contrasto con la sua pettinatura sempre composta e uniforme,
erano appena più lunghi dell’ultima volta che lo aveva visto.
Era difficile che
suo fratello maggiore assumesse un’espressione serena, ma Ken era sicuro che
quel momento era più che mai propizio per interessarsi del suo duro lavoro.
Sorrise lievemente,
perplesso. “Non credo di sapere di cosa stai parlando” disse all’altro,
cercando di capirne di più e di non essere troppo precipitoso nel conoscere la
verità.
Osamu gli lanciò
un’aria sorpresa. “Davvero non ne sai nulla?” domandò, come se fosse una
notizia sconvolgente. Al cenno di diniego di Ken, fece un gran sospiro, posando
la tazzina sul tavolo.
“E’ uno di quei
casi che sembrano conclusi e archiviati, ma proprio quando stai per abbandonare
il tutto si ripresentano, più intricati che mai” rispose, con la sua tipica
aria cupa e misteriosa. “Si tratta di una ragazza che sparì otto anni fa, senza
più lasciare traccia o indizi di dove fosse finita.”
Il ragazzo più
giovane lo scrutò, non credendo alle sue orecchie. Quando aveva domandato a
Osamu il motivo del suo evidente bisogno di riposo dal suo lavoro in polizia,
di certo non si aspettava che lui avesse intenzione di parlargli di un caso
avvenuto sette anni prima, che sembrava essere causato dal solito, insensato
omicidio con occultamento del cadavere.
“Perché avete
riaperto questo caso? Avete trovato delle prove che vi possono aiutare a
risolverlo?” volle sapere, interessato. Sentì, dentro di sé, quella passione
che si accendeva sempre quando cercava di aiutare suo fratello a svolgere il
suo lavoro da investigatore privato, e seppe, una volta di più, che era felice
che il suo destino fosse tracciato da qualche anno, ormai.
Osamu si portò una
mano sulle tempie, sospirando. “Non è così semplice: le prove che ci permettono
di ricostruire la vicenda scarseggiano, ma altre volte ci appaiono indizi così
lampanti che non fanno altro che confonderci ulteriormente le idee.” Fu la
risposta, che incuriosì maggiormente Ken. “Ma forse è il caso che ti metta al
corrente di tutte le informazioni di cui sono in possesso.”
“Certamente”
rispose l’altro, sporgendosi verso suo fratello maggiore per ascoltare meglio.
Lui annuì,
apparentemente soddisfatto per qualcosa. Certe volte, era davvero impossibile
interpretare la sua occhiata sempre calcolatrice.
“Questa ragazza si
chiama Inoue Miyako, e otto anni fa, quando è scomparsa, aveva diciassette
anni. Viveva in una famiglia semplice, che portava avanti un supermercato nel
quartiere di Odaiba, in attività ancora oggi. Aveva due sorelle e un fratello:
lei è nata per terza. Pare che fosse una studentessa modello, competente
soprattutto nel settore dell’informatica. Sappiamo anche” aggiunse, guardandolo
negli occhi una volta di più “che aveva un carattere molto ribelle e
indipendente, e spesso amava fare di testa sua e non ascoltare i consigli di
chicchessia.”
Ken rimase in
ascolto, concentrato ad assimilare la descrizione di quella ragazza. Doveva
avere venticinque anni, se era diciassettenne nel momento in cui era sparita.
Un anno in più di lui. “Qual è il suo aspetto fisico?” domandò a Osamu.
“Alta, magra,
capelli lisci di un inusuale colore viola, al tempo lunghi. Occhi castano
chiaro, con qualche grado di miopia che la costringevano a portare un paio di
occhiali: i suoi erano molto grandi, stando alla descrizione della famiglia.”
Descrisse l’altro, velocemente, come se ormai quelle informazioni fossero state
ripetute un milione di volte. Lui annuì, costruendosi un immagine mentale del
possibile aspetto fisico di Inoue Miyako. Se doveva aiutarlo con le indagini,
doveva avere ogni tipo di informazione, anche quelle che sembravano
insignificanti. “Che tipo di rapporto
aveva con gli altri membri della famiglia?”
Il maggiore si
strinse nelle spalle. “A quanto ne sappiamo, non c’è mai stato qualche
contrasto tale da provocare la sparizione di Miyako. Naturalmente, non possiamo
pretendere che una giovane ragazza non difenda con gli artigli le proprie idee
o convinzioni, e non tutti i diciassettenni svaniscono nel nulla.”
“Hai indagato sugli
Inoue? Li hai interrogati?” domandò ancora Ken, prendendo alcuni appunti sul
suo block-notes. Cominciò a tracciare alcuni schemi, per avere la situazione
sotto controllo e riflettere bene su ogni elemento.
“Un paio di anni fa
li abbiamo interrogati di nuovo, ma i risultati sono sempre del tutto assenti:
non si sono mai ripresi da questo duro colpo, e sono spesso soggetti a sbalzi
d’umore tali che non ci permettono di avere a disposizione più notizie utili.”
Rispose Osamu, chiudendo gli occhi in un vano tentativo di placare quel mal di
testa che aveva accusato dall’inizio del loro incontro a quel bar. Lui lo
scrutò preoccupato, pensando, con maggiore convinzione, che suo fratello si
stava affaticando troppo per dedicarsi al suo lavoro.
La testimonianza
della famiglia Inoue non era stata fruttuosa come l’investigatore aveva
sperato, dopotutto: aggrottò le sopracciglia, sottolineando con un segno
distintivo gli appunti relativi ai parenti di Miyako, perché ci pensasse in
maniera più approfondita in seguito.
Tuttavia, i
genitori e i fratelli non potevano essere gli unici indiziati.
“Aveva… amicizie
particolari? Legami affettivi? Relazioni?” Fu la domanda successiva.
Il silenzio di suo
fratello gli fece aggrottare le sopracciglia.
“Osamu?” lo
richiamò, perplesso.
Osamu aveva le
labbra strette a formare una linea sottile: spesso, era segno di frustrazione
riguardo a una situazione di cui non si conosce la soluzione, anche se si tenta
in tutte le maniere possibili. Suo fratello non tollerava l’idea che la verità
giocasse a rimpiattino con lui.
“C’è troppa
confusione, Ken” rispose a bassa voce, tetro. “Ha un sacco di amici più o meno
stretti, o, se non altro, conoscenti dalla scuola, ma le versioni sono
molteplici, e nessuno po’ scagionarsi o scagionare qualcun altro con alcuna
alibi plausibile. Chi si sente accusato perché si ritiene colpevole di averla
fatta fuggire, chi accusa altri di aver fatto del male a Miyako per svariati
motivi, chi si rifiuta di rispondere alle domande… Chi lo sa qual è la
soluzione, chi lo sa.”
Ken lo vide vuotare
in un solo movimento il fondo di caffé rimasto.
“Sappiamo, però,
che aveva un amico con il quale si confidava senza problemi” aggiunse poi, e il
giovane dai capelli scuri si affrettò a segnare anche questo nel suo schema.
“Il suo vicino di casa, più piccolo di lei di almeno due anni abbondanti. Si
chiama Hida Iori: pare che si conoscano da una vita, e che lei andasse a
trovare sempre la famiglia, nel periodo in cui era ancora a casa.
Abbiamo interrogato anche lui, e la sua versione è che… Non c’è stato alcun
omicidio. Miyako è semplicemente lontana da casa e dalla sua famiglia, ancora
viva. Sfortunatamente, dice di non saperne più di così.”
Ken aggrottò le
sopracciglia, pensieroso. Qualcosa non lo convinceva, di tutta quella faccenda:
se Miyako e tale Hida Iori erano così in confidenza, poteva essere plausibile
che fosse all’oscuro di tutto? Davvero questa ragazza era ancora viva, o il
tentativo di Hida era solo quello di sviare le indagini? “E tu ci credi?”
domandò.
Osamu scosse la
testa. “Non posso affermare di crederci, né di non crederci: devo avere più
prove, per poter tracciare la situazione.” Rispose, nel suo tono di voce un
rimprovero secco per aver posto una domanda tanto assurda.
Ken arrossì, e
tacque, imbarazzato.
“Poi, un’altra
conoscenza particolare. Un certo Royama Hideki, otto anni fa ventunenne, con il
quale sembra che si vedesse abbastanza frequentemente. Pare che sia diventando
famoso grazie a un famoso software da lui inventato.”
Lui sobbalzò,
ricordando all’istante dove aveva già sentito quel nome. Era sul giornale,
qualche giorno prima, per un’intervista per questa sua fantastica invenzione
tanto decantata da quotidiani e notiziari. Gli aveva dato l’impressione di
essere un uomo non abituato a farsi vedere in pubblico, sempre con
un’espressione intimorita che sembra chiedere solamente di non farsi più vedere
pubblicamente.
“Ne ho sentito
parlare l’altro giorno” spiegò a Osamu. “Qual era la natura del loro rapporto?”
“I genitori di
Miyako affermano di non averlo mai visto frequentare la figlia, e nemmeno i
vari conoscenti hanno mai approfondito la faccenda” fu la risposta, insieme a
un sospiro. “Non so davvero cosa dirti, questa volta.”
Ken rimase un
momento in silenzio, lasciando che tutte le informazioni si disponessero in
maniera ordinata nel suo cervello. Osamu aveva ragione, dopotutto: sembrava un
caso molto intricato, e a prima vista c’erano troppi elementi da considerare.
Tuttavia, c’era ancora qualcosa che non gli tornava.
“Hai detto che non
hai potuto archiviare il caso” obiettò, guardando l’altro con aria
interrogativa. “Perché? Cosa te lo ha impedito? Sono passati…”
“… Otto anni. Lo
so.” Terminò per lui suo fratello, anticipandolo e zittendolo improvvisamente.
Forse era meglio che anche lui si spiegasse, prima di aiutarlo nelle indagini.
“Il problema è che ogni anno prendo questa decisione, e ogni anno… Sembra che
qualcosa me lo impedisca. Circa verso febbraio, alcuni abitanti nel quartiere
di Odaiba affermano con sicurezza di aver visto, per le strade della città, una
ragazza che corrisponde esattamente alla descrizione di Inoue Miyako. Succede
tutti gli anni, sempre in circostanze, modi e luoghi diversi, ma non siamo mai
riusciti a sfruttare questo fattore a nostro vantaggio.”
Osamu tacque,
osservandolo come se lo stesse sfidando a trovare un senso a tutta quella
situazione. Raramente l’investigatore gli chiedeva di partecipare attivamente
al suo lavoro e di occuparsi dei suoi casi: solitamente, preferiva risolverli
in totale autonomia, senza l’aiuto di nessuno. Se questa volta lo aveva fatto,
era solo perché, volente o nolente, doveva rendersi conto che da solo non
avrebbe risolto nulla: otto anni erano troppi, per Ichijouji Osamu.
Ma Ken era
esterrefatto, e non riusciva a fornire una spiegazione plausibile a quel
mistero. Più ci pensava, scarabocchiando, assente, i lati del suo block notes,
più gli indizi raccolti fino a quel momento gli sembravano contraddittori tra
loro, senza significato, contorti. “Avete fatto ispezionare ogni luogo dove Inoue
Miyako sarebbe apparsa? Controllato tra le famiglie del quartiere? Qualunque
cosa?” tentò ancora, aggrappandosi, con decisione, ad ogni singolo brandello di
lucidità, sperando di fornire una nuova traccia alla polizia.
Osamu annuì ancora,
in fretta. “Tutto già fatto, Ken” rispose. “Niente da fare.”
“Ma com’è possibile
che si faccia viva ogni anno, sparendo poi dalla circolazione subito dopo?”
domandò Ken, confuso più che mai. “Non è un comportamento ragionevole.”
Un sospiro in
risposta. “Questa informazione, più di tutte le altre, ci ha confusi, e non ci
permette di archiviare il caso. Credimi se ti dico che stiamo facendo il
possibile.”
Ken non ricordava
di aver visto il viso del fratello maggiore tanto pallido e tetro, e ogni cosa
nel suo tono di voce, persino la luce spenta dei suoi occhi azzurro scuro,
faceva pensare a una resa. Era così frustrato, così scoraggiato dalla
malriuscita di quell’indagine, da dare l’impressione di aver gettato la spugna.
Non riusciva a
credere che Osamu, uno dei migliori investigatori del Giappone, non avesse più
forza per continuare a credere in una svolta positiva nella sua ricerca: un
senso di oppressione gli attanagliava il petto, e sembrava non avere più
intenzione di lasciarlo stare.
Doveva fare
qualcosa, senza indugiare ancora.
Si alzò in piedi,
stringendo i pugni e guardando l’altro con aria determinata. “La verità è
ancora nascosta, dopo otto anni” iniziò, con voce ferma. “Ma forse c’è ancora
qualcosa che si può fare. Non è il primo caso di difficile soluzione che
affronti, in tutta la tua carriera, e molti di questi hanno avuto buon esito:
non arrenderti, e mantieni la calma. E’ l’unico consiglio che posso darti,
perché neanche io so ricostruire la vicenda. Ma ti posso assicurare…”
Notò, con la coda
dell’occhio, un sorriso quasi impercettibile apparire sulle labbra di Osamu, e
si bloccò per un momento: un suo sorriso era davvero raro, spesso nascosto da
una coltre di calma razionalità che lo faceva quasi apparire insensibile, certe
volte. Prese un respiro profondo, cercando di continuare il discorso senza
esitare.
“Ti posso
assicurare che ti aiuterò, se desideri questo. Ti aiuterò, e Inoue Miyako
tornerà alla sua famiglia e alla sua vita.” Terminò, a bassa voce.
Un silenzio seguì
questo discorso, e Ken si chiese quale sarebbe stata la conseguenza delle sue
parole sul ragazzo che sedeva davanti a lui. Osservandolo, si rese conto che
Osamu sembrava assorto in pensieri sconosciuti, così pieno delle sue
riflessioni da non rendersi conto del discorso interrotto tra i due fratelli.
Spesso, quando assumeva quell’espressione, era in procinto di prendere una
decisione importante: sapeva da quando era bambino che, durante quegli istanti,
era sconsigliabile interromperlo.
Infine, lo sguardo
del maggiore tornò a focalizzarsi su di lui, con un’intensità nuova. “Tu non
chiedi altro che lasciarti indagare insieme a me” disse calmo, in un tono più
da affermazione che di domanda. Ken lo fissò, sorpreso. “Pensi che
quest’indagine possa aiutarti a testare le tue capacità, per stabilire se il
tuo destino sarà davvero quello di seguirmi nel mio lavoro.”
Non parlava in tono
d’accusa, anche se un ascoltatore passeggero avrebbe potuto ribadirlo: voleva
una risposta chiara, decisa, senza esitazioni o bugie. E lui sapeva bene che,
malgrado il bisogno di venire incontro a Osamu dopo tanta stanchezza, quelle
parole erano vere, in fondo al suo cuore.
Chinò il capo e
annuì, a disagio. Sembrava essere la confessione di un colpevole.
Sentì suo fratello
inspirare profondamente, prima che tornasse a parlare. “Ti entusiasma risolvere
i misteri. Hai un intuito e una logica notevoli. Sei con i piedi per terra, e
ponderi ogni cosa con calma e con attenzione minuziosa. Lo capisco da molte
cose, che vorresti seguire le mie orme, una volta finita l’università: è il tuo
sogno.”
Ken alzò
timidamente lo sguardo, chiedendosi quanto Osamu fosse d’accordo con questo. Non
avrebbe potuto negare ciò che appariva così evidente.
“Forse potresti anche
riuscirci” commentò ancora suo fratello, sempre scrutandolo come se stesse
cercando di scorgere sul suo viso il futuro che lo attendeva. “Hai le buone
qualità per farlo, e sei determinato a portare avanti il tuo sogno a tal punto da
differenziarti completamente da chi lo fa senza passione. Magari, aiutandomi in
questo caso, mi dimostrerai se sei davvero idoneo a lavorare in questo campo,
come me.”
Lo stava
incoraggiando. Aveva deciso di affidare anche a lui il compito di trovare Inoue
Miyako, senza sentirsi scavalcato da lui –che era ciò che Ken aveva temuto
dall’inizio, informandosi per avere gli indizi necessari. Pensava che il suo
più grande sogno potesse avverarsi solo con la perseveranza e con l’impegno.
Eppure, il suo
volto si manteneva impassibile, come se gli avesse parlato di qualcosa di
scarsa importanza.
Gli sorrise.
“Grazie, Osamu. Conta molto per me.” Disse, rasserenato.
Non fu stupito di
scorgere quel gesto di noncuranza con il quale respingeva ogni ringraziamento:
mostrare i suoi sentimenti, così irrazionali, davvero non era da lui. “Non mi
ringraziare” intimò, schivo. “Non ti dico quello che penso per avere
gratificazioni. Piuttosto, fammi sapere se scopri qualcosa sul caso Inoue,
d’accordo?”
Ken si affrettò ad
annuire, cercando di nascondere il sorriso. “Certo, contaci.”
La conversazione
doveva essere conclusa, perché Osamu si era alzato in piedi, guardando il suo
orologio da polso con aria preoccupata. “Sarà meglio che vada, adesso. Fatti
sentire al più presto” gli disse, mettendo sul tavolo alcune monete, che
dovevano essere il conto del suo caffé. Poi gli fece un cenno di saluto, e andò
via, silenzioso e assorto com’era venuto, verso nuovi luoghi dove far viaggiare
quella sua mente sempre in attività.
Ken sospirò,
sentendosi gravato di una responsabilità nuova. Ma quell’incontro al bar vicino
alla stazione aveva fatto davvero bene a entrambi: probabilmente, non era il
solo a desiderare di scambiare quattro chiacchiere con suo fratello.
Si decise a pagare
il conto e a lasciare quel tavolino solitario. Estrasse il necessario dal suo
portafogli, appoggiando il tutto sul piano dove avevano bevuto il loro caffé.
E solo allora si
accorse che Osamu aveva lasciato troppo,
per una sola tazzina.
C’erano i soldi
necessari per pagarle entrambe.
Scosse la testa,
riponendo le sue monete nel portafogli. Osamu aveva evidentemente deciso di offrirgli
lo spuntino: la sua fuga immediata era motivata da qualcosa, allora.
***
Passeggiava tra i
vari scaffali colmi di libri di ogni genere, senza, in realtà, vederli.
Aveva la mente
troppo occupata da pensieri per dedicarsi alla scelta di un nuovo volume da
acquistare nella libreria della quale era cliente abituale: avrebbe fatto
meglio ad uscire da quel luogo, per riflettere in tutta tranquillità girando
per le strade della città. Nonostante questo, però, amava restare lì, nascosto
e protetto dalla grandezza e dal clima tranquillo che si respirava lì.
Lo aiutava a
concentrarsi e a rilassarsi.
Ken sospirò,
osservando distrattamente un libro dalla copertina variopinta.
Non ricordava, in
tutti gli anni in cui Osamu aveva lavorato in polizia, di un’altra occasione in
cui suo fratello aveva avuto bisogno immediato delle sue inesperte capacità deduttive
per risolvere un caso: era la prima volta che poteva tentare di rendersi utile
nel campo che più lo entusiasmava.
La prima volta. Ma
non era affatto un indagine che si affidava solitamente ai principianti: un
esperto detective come Osamu non era riuscito a trovare la soluzione.
Posò nuovamente il
volume, con l’ennesimo sospiro.
Aveva sempre
sognato di seguire le orme di suo fratello, da quando aveva cominciato ad
appassionarsi ai misteri e agli intrighi. Aveva sempre sognato di poter
risolvere quei casi che sembravano, all’apparenza, senza una soluzione, e di
riportare la giustizia dove era venuta ingiustamente a mancare. E aveva sempre
domandato a Osamu qualche informazione relativa al suo lavoro, tenendosi in
allenamento per prepararsi a rendersi autonomo in futuro.
Anni di attesa,
impiegati a studiare con attenzione e impegno nella facoltà di giurisprudenza,
e a tentare di aiutare, con pochi mezzi e scarsa esperienza, suo fratello
maggiore, spesso restio a lasciare che qualcuno risolvesse i suoi casi.
Anni di attesa, che
lo avevano condotto, infine, ad essere incaricato di trovare una ragazza
scomparsa da otto anni, che persino Ichijouji Osamu aveva ormai dato per
perduta.
Quando si era preso
questa responsabilità, tutto quello a cui aveva pensato era stata la sua grande
passione per le indagini e per i misteri, e la voglia di mettersi alla prova e
di risolvere un caso in completa autonomia, solo con le sue forze; aveva
pensato che avrebbe giovato a lui, a Osamu, alla polizia, a Inoue Miyako, alla
sua famiglia e a tutti i suoi amici. Non aveva esitato, e si era sentito orgoglioso
della fiducia che suo fratello aveva riposto in lui.
Ma in quel momento, considerava anche diversi altri fattori.
Come poteva lui, Ichijouji
Ken, riuscire in un’impresa che sembrava essere al di là delle sue capacità da
principiante? Come poteva superare suo fratello, che era sempre stato più bravo
di lui in tutto, che non perdeva mai la calma e considerava ogni singolo
particolare?
Come poteva
ricostruire una vicenda avvenuta otto anni prima, e fare chiarezza in quella
faccenda così intricata?
Forse era stato
troppo precipitoso, e arrogante. Forse avrebbe fatto meglio a non proporsi a
Osamu per dargli una mano, e per collaborare con lui. Forse il suo desiderio di
provare era stato così forte, così pressante da cancellare ogni tipo di preoccupazione
e di dubbio, facendolo ragionare sul serio solamente a cose fatte.
Davanti allo
scaffale colmo di libri gialli si fermò, sorridendo ironico.
Per un romanzo c’era
sempre la soluzione del caso, anche se sembrava impossibile, anche se si
nascondeva dietro false certezze e alibi di ferro, anche se chi indagava non era
un investigatore né un agente di polizia. Per un romanzo l’autore inventava
sempre un finale, perché i lettori meritavano di conoscere la verità, dopo aver
ottenuto indizi e aver meditato sulla conclusione.
Ma Ken sapeva bene
che nella vita reale non avveniva sempre così.
Come nel caso
Inoue, al quale ci si era interessati per otto lunghi anni, senza arrivarne a
capo.
Inoue Miyako poteva
essere morta da anni, e nessuno avrebbe saputo incolpare il colpevole, trovare
il corpo e individuare l’arma del delitto e il movente.
Più ci pensava,
meno comprendeva. Osamu gli aveva fornito molti dati e informazioni, ma alcuni
erano contraddittori, e non gli riusciva di indovinare quale fosse la chiave per
risolvere il mistero. Ricordava quanto detto sul suo vicino di casa, Hida Iori,
e si chiedeva se aveva detto il vero, se sapeva per certo che la sua amica
fosse ancora viva, o se stesse solo cercando di portarli sulla pista sbagliata.
Si soffermava sulla stranezza delle apparizioni improvvise di Miyako nei vari
quartieri diversi della città di Tokyo, ma non riusciva a trovare una
spiegazione plausibile a questi avvenimenti particolari. Rimuginava sulla lista
dei nomi dei vari conoscenti della ragazza che Osamu gli aveva affidato, e
sulle loro discordanti versioni dei fatti che non portavano a nessun
miglioramento della condizione della polizia a riguardo.
Non capiva.
Ma, per quanto la
soluzione sembrava essere del tutto lontana da lui o da altri sulle tracce
della ragazza scomparsa, Ken sapeva che non si sarebbe arreso per nessun
motivo.
Forse era stato
avventato, forse arrogante, forse troppo speranzoso, ma c’era troppo in gioco
dal buon esito di questa indagine: la serenità di una famiglia che aveva sofferto
per troppo tempo, la buona salute di una ragazza ora venticinquenne, un caso in
meno da archiviare, e la possibilità di dimostrare a Osamu che poteva seguirlo
nel suo lavoro.
C’era il futuro di
molte persone che attendeva di essere scoperto. E se questo significava
impegnare anima e corpo per un risultato soddisfacente, Ken avrebbe accettato
di tentare.
Tentare non poteva
portare a nulla di male, per chi era rimasto anni in silenzio a esercitarsi da
solo senza palesare o sfruttare mai appieno la propria passione smisurata.
Ciao
a tutti! Dopo un periodo più lungo di quello previsto, ecco a
voi l'aggiornamento di questa long-fic! :) In questo aggiornamento,
d'altra parte, mi sono presa una libertà in più: Osamu
qui non è affatto morto, anzi. E' un personaggio fondamentale
per avviare la vicenda, ed è per questo motivo che ho deciso di
inserirlo. Naturalmente, non posso conoscere granché delle sue
caratteristiche specifiche (se non qualcosina dalla puntata 23 ^^): ho
deciso di interpretarlo a modo mio, immaginando i suoi comportamenti
verso gli altri e verso Ken, soprattutto. Quel che è fatto
è fatto: giudicate voi, insomma! XD
Mi ha fatto molto piacere leggere i tuoi commenti, cara Shine:
è bello sapere che lo scorso capitolo ti abbia colpito e
coinvolto a tal punto! ** Per ideare l'orfanotrofio era davvero
necessario ricreare un clima di serenità e allegria, e ti
assicuro che spesso non è nemmeno facile... Certe volte ho
davvero paura di sbagliare e deluderti! -.- Mi fa anche piacere che tu
condivida le idee di Hikari e il suo modo di vedere la vita: significa
che ti sembra credibile come l'ho resa? Mille grazie, davvero! Anche
per il mio Keiji, ovvio! ^^ Lo sai che ruolo ha nella vicenda, no?
Spero di ricevere presto pareri anche su questo cap, che ti dedico in
pieno per il suo protagonista! Immagini perché? XDXD Ti voglio
bene!
Salve, Mystery Anakin:
che piacere trovarti tra le recensioni! ** Non sai quanto io sia
contenta che il capitolo precedente ti sia piaciuto! Davvero hai
trovato teneri i bambini? Non sai che fatica gestirne così
tanti, e non è certo finita qui! xD Essendo tutti quanti
personaggi di mia invenzione, sono sempre preoccupata di renderli come
vorrei... Soprattutto se si tratta di Keiji, che avrà un ruolo
importante (come avrai capito). Ho sempre avuto un debole per i
fratelli Yagami, e sapere che siano piaciuti anche a te mi rende
davvero contenta! :) Cosa ne dici di questo capitolo? Non so se un
genere lievemente più poliziesco potrebbe mai piacerti (anche se
sono alle prime armi... -.-), e per questo aspetto di sapere cosa ne
pensi! Un bacione grande, ci sentiamo appena possibile! Tvttb!
Roe, ti ringrazio
tanto per aver letto, e sono davvero felice che ti sia piaciuto,
credimi... Ma... Perché non mi dici esattamente cosa ti è
piaciuto? Il punto è che ci tengo molto a conoscere il parere di
chi legge, e, per quanto possa essere bello sentirsi dire che il
capitolo sia riuscito, io sono rimasta con alcuni dubbi... Posso
chiederti questo favore? Grazie mille! :) In ogni caso, ci sentiamo
presto!
Un grazie anche a tutti quelli che leggono senza commentare! Posso
sperare, però, di avere anche da loro delle recensioni?
D'altronde, leggere pareri altrui è l'unico modo per sapere se
devo migliorare qualcosa oppure no... Io aspetto fiduciosa! :)
Padme Undomiel
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Capitolo 5 *** Dimenticare ***
Purity cap 4
4.
Dimenticare
Era davanti ai suoi
occhi, ed era stupenda.
Era assolutamente
certa di non sbagliarsi: probabilmente, era una delle più graziose del mondo, e
tutti parevano notarlo.
Un sorriso
spontaneo spuntò sulle sue labbra, mentre non poteva impedirsi di assistere
alla scena, troppo rapita per distogliere lo sguardo.
“Dai, mamma! Me lo
compri, per favore? Ti prego!”
La piccola bambina
dai capelli corti e con quel grazioso vestito rosa a fiori stringeva tra le
mani un libro che aveva evidentemente preso da uno degli scaffali del suo
negozio, e guardava, con i suoi grandi occhi scuri, una donna minuta intenta
ad osservare la sezione dedicata ai romanzi storici, che sembrava avere la
chiara intenzione di ignorare la piccola.
Era crudele. Come
si faceva a rimanere impassibili quando una bambina così splendida chiedeva un
favore a colei che l’aveva generata? Cercò di reprimere il suo impulso ad
allontanarsi dalla cassa e a dirne quattro a quella donna, che, nonostante
avesse almeno il doppio dei suoi anni, si comportava in maniera davvero
crudele.
“Mamma, ti prego!
Solo questo libro!”
“Ti ho detto di no,
Ikuyo-chan. Te ne ho comprato uno la settimana scorsa: non posso prendertene
uno ogni settimana, lo sai.”
“Ma mi piace! E
l’altro libro non era così bello!”
Era così dolce,
mentre tirava la manica della mamma per cercare di attirarne l’attenzione. Era
così spontanea, come solo i bambini sapevano essere. Sentiva una sensazione di
calore nel petto, che non sapeva e non voleva allontanare. Tutto quello che
sapeva era che non voleva che quella bambina andasse via dal suo negozio.
Non si sarebbe mai
stancata di guardare.
“Ora basta. Lo sai
che non te lo comprerò, quindi non insistere!”
Vide Ikuyo
cominciare a piangere, indispettita, e il suo cuore si strinse. Strinse con
forza i pugni, sentendo il suo autocontrollo sul punto di cedere: non
sopportava le lacrime dei bambini. Erano una cosa troppo dolorosa, e i piccoli
di quella età non meritavano affatto di soffrire.
Era qualcosa che
doveva essere solo degli adulti, come lei.
Miyazawa Rumiko
sospirò, cercando, una volta di più, di non lasciarsi trasportare troppo dai
suoi pensieri. Era sempre stato difficile, rimanere in silenzio a tentare di
essere distaccata dai clienti del negozio: i suoi ricordi tornavano a tormentarla,
e lei voleva solamente distrarsi quel tanto che bastava da non crollare proprio
quando era sotto gli occhi di tutti. Aveva imparato a tenere a bada i suoi
sentimenti, a non lasciar trasparire sul suo viso nulla delle sue sensazioni
provvisorie, ma rimanere impassibile ad osservare ciò che più la appagava e più
la faceva soffrire era impossibile.
Non era mai stata
costretta a diventare una statua di marmo, e ritrovarsi in quella situazione
era più che mai difficile. I sentimenti sapevano sempre travolgerla proprio
quando cercava di liberare la mente.
“Vorrei comprare
questo, signorina.”
La voce improvvisa
della signora che prima parlava con sua figlia la fece sussultare bruscamente,
mentre si rendeva conto di essersi persa nuovamente nelle sue riflessioni. Vide
la piccola Ikuyo, con gli occhi rossi e un broncio più che comprensibile,
accanto a lei: nel momento in cui incontrò il suo sguardo, un moto di tenerezza
e di serena commozione la sopraffece. Le sorrise dolcemente, ottenendo un dolce
rossore sulle guance da parte della bambina.
“Questa bella
signorina è sua figlia?” domandò Rumiko, prendendo il libro che la donna le
porgeva e controllando il prezzo.
L’altra annuì,
sorridendo cortesemente. “Sì, è così.”
Improvvisamente,
davanti ai suoi occhi, il bisticcio di poco prima avvenuto tra mamma e figlia
sembrava essere dimenticato, e la donna sembrava solo completamente innamorata
di sua figlia. Un senso di oppressione tornò a impedirle una buona
respirazione: l’aveva visto tante volte, quell’espressione di affetto materno,
e ancora non riusciva a sopportare di scorgerlo.
Si rivolse alla
bambina, per cercare di distrarsi. Non riusciva a impedire ai suoi occhi di
brillare. “E dimmi, ce l’hai un nome, piccola?” le chiese, mentre sentiva il
suo spirito risollevarsi solo alla vista della timidezza della giovane
interlocutrice davanti a sé.
Lei si nascose
ancora di più. “Ikuyo” rispose solo, un piccolo bisbiglio che fece ridere
Rumiko e sua madre.
“E’ molto timida
con le persone che non conosce, ma quando è nel suo ambiente…” commentò la
donna, accarezzando la testa della bambina. “E’ vivace solo con chi conosce
bene.”
“E’ davvero
stupenda” commentò rapita Rumiko, porgendo lo scontrino e ponendo il libro
acquistato in una bustina di plastica. “Quanti anni ha?”
“Ne compie quattro
la settimana prossima” fu la risposta, mentre la sua cliente prendeva la busta
e lo scontrino.
Quattro anni. Solo
quattro anni ed era così bella. La giovane cassiera non riusciva a
immaginarsela quando avrebbe compiuto i suoi anni: sarebbe stata sicuramente
molto ambita da ragazzi di ogni genere.
“Siete davvero
fortunata” si lasciò sfuggire, mentre i suoi occhi non perdevano mai di vista
quella meraviglia. Sapeva che la tristezza l’avrebbe colta in breve tempo:
cercava di imporsi la calma, ma il rimpianto per ciò che non era stato e il suo
desiderio irrealizzabile continuavano a trattenerla tra le loro spire,
soffocandola e lasciandola senza via di fuga.
Era semplicemente
troppo da sopportare.
“Grazie. E’ davvero
molto gentile. Arrivederci!” rispose la madre di Ikuyo, prendendola per mano e
portandola verso la porta di ingresso e di uscita.
E Rumiko osservò,
impotente, ogni passo che portava via quella piccola da lei, dalla sua vista,
dalla sua vita. Ogni passo che la allontanava era sempre più doloroso, sempre
più difficile da accettare, sempre più ingiusto.
Era un’altra
felicità negata, come quelle che le avevano distrutto la vita.
Sentì il suo cuore
andare in pezzi all’uscita definitiva della coppia. Sentì il passato
precipitarle addosso, mentre rivedeva l’ingiustizia del destino rivoltarsi
contro di lei.
Mai nulla era
andato come avrebbe dovuto.
Mai nessuno era
rimasto al suo fianco.
E quella donna le
aveva portato via l’unica, minuscola ancora di salvezza alla quale si era
momentaneamente aggrappata. Senza motivo, senza pietà, senza riguardo alcuno.
La bambina chiamata
Ikuyo non avrebbe mai compreso il suo bisogno impellente di osservare i suoi
occhi, la sua voglia di stringerla a sé, il dolore che la portava a fissare,
distrutta, il posto vuoto dove prima era rimasta, e dove ora non c’era più.
Chiuse gli occhi e
scosse fermamente la testa, sentendola pulsare. Era arrivato il momento di
tornare a calmarsi: forse una notte di riposo l’avrebbe liberata da quel senso
di oppressione che non voleva lasciarla andare.
“Anche questa
giornata è finita, finalmente.”
La voce improvvisa
e conosciuta della signora Sato la riscosse dai suoi pensieri. Si girò,
osservando i capelli ingrigiti e il sorriso gentile della donna robusta e
determinata che le aveva sempre voluto bene e l’aveva capita come nessun altro
mai.
Le sorrise, stanca.
“Credo che dormirò per una settimana, dopo oggi” ironizzò, cominciando a
chiudere il negozio. “Sono a pezzi: questa libreria fa così tanti affari che è
impossibile sostenere lo stress di ogni giorno.”
La signora Sato rise,
mettendole una mano sulla spalla con fare affettuoso. “Hai
intenzione di
lasciare tutto il lavoro per me, se dormi per una settimana?”
domandò, e Rumiko
rise in risposta, felice di sentire, per una volta, che con qualcuno
non era
costretta a fingere. Era una delle uniche occasioni in cui potesse
essere serena, uno dei pochi punti fermi che sentiva di avere: lei
conosceva il suo dolore, lo
rispettava, ma cercava di esserle vicina e di fingere che nulla fosse
cambiato
dalla ragazza spensierata che era stata una volta.
Le voleva bene in
maniera incondizionata, e sapeva che il suo affetto era ricambiato. E per
Rumiko tanto bastava, in quel momento di grande solitudine.
“Sai che verrei
anche con la febbre: non mi terrai lontana dal negozio!” ribatté la giovane,
con un sorriso. “Almeno tu non ti libererai facilmente di me.”
“Mi fa piacere
sapere che ci tieni così tanto: vuol dire che hai intenzione di non restare
tanto da sola. E’ un bene, soprattutto per te.”
Quelle parole
gelarono il sorriso sulle sue labbra, incupendo il suo spirito. Restare da sola
era diventato necessario, per cambiare completamente vita. Ma mai come in
quegli anni aveva sentito forte il disprezzo per la sua solitudine, e quella
voglia disperata di tornare ai tempi in cui non doveva necessariamente essere
così, in cui era qualcuno.
La testa pulsò
ancora; si portò una mano alle tempie, sospirando. “Sarà davvero meglio che
torni alla mia solitudine, Sato-san” disse, cercando il suo sguardo e non
riuscendo ad impedire al suo tono di farsi triste, quasi spento. “Sono stanca.”
Lei capì, e, come
sempre, non commentò le sue scelte. Si limitò a lanciarle un’aria comprensiva,
e a dire: “A casa ti aspettiamo, lo sai. Appena ti andrà, saremo lì.”
La cara, vecchia
confidente di quegli anni. Come si poteva non volerle bene?
La abbracciò forte,
cercando di impedirsi di commuoversi. “Non mi perderò uno dei suoi deliziosi
manicaretti, è una promessa.” Le disse solamente. “Le farò sapere.”
Poi si allontanò, e
corse veloce, lottando contro l’oscurità della sera che cominciava a calare. Le
piaceva correre: le dava un senso di libertà, la illudeva che la parte
spensierata e totalmente allegra di sé potesse prendere ancora il sopravvento.
Rumiko si odiava
quando pensava a quanto era stata costretta a cambiare. Si sentiva
maledettamente fragile e vulnerabile, e i suoi errori e le sue colpe la
colpivano come ripetute pugnalate al cuore. Non era stupida: sapeva benissimo
che non avrebbe mai potuto rimediare, e che le sarebbe sempre mancato quel
periodo breve in cui aveva tenuto stretta la sua felicità senza mai lasciarla.
Era per questo che
correva, imponendosi di liberarsi dal dolore che sempre l’accompagnava,
fingendo di essere chi non era e non sarebbe mai stata.
Voleva un momento
di oblio. Nient’altro.
***
Rumiko infilò le
chiavi nella serratura, aprendo il portone del suo appartamento.
Entrò cautamente,
affrontando a testa alta il rumoroso silenzio che l’assordava al suo ingresso.
Da quanto era che
non si preoccupava di tentare di riordinare quella casa? Sembrava che lei non
fosse l’unica abitante, e che migliaia di persone avessero deciso di ignorare
il loro compito di riporre al proprio posto gli oggetti che avevano utilizzato.
Se fosse andata
diversamente, a quell’ora ci sarebbe stato un motivo più che valido e
giustificabile per tutto quel disordine. Se fosse andata diversamente, avrebbe
riso del naturale scompiglio che ci sarebbe stato nel suo appartamento, perché
certamente non avrebbe dato la colpa a lui.
Il ricordo fu così
dolorosamente vivido che le mani iniziarono a tremarle, e la testa divenne
pesante come un’incudine. Si appoggiò al muro, chiudendo gli occhi per un
istante.
Era solo quel
maledetto silenzio. Era solo la solitudine che si divertiva a prendersi gioco
di lei. Ma non poteva lasciare che il pensiero della sua immensa gioia di altri
tempi le rovinasse il riposo che sentiva di meritare: dopotutto, a cosa sarebbe
servito?
Lui non lo avrebbe rivisto mai più. Era andato via.
Lottando contro le
lacrime, la giovane cominciò a cantare addosso al silenzio, per evitare di
essere sopraffatta. Si separò dal muro, intonando quella nenia che le faceva
ritornare alla mente la voce dolce di sua madre quando gliel’aveva insegnata,
anni e anni prima.
Si diresse verso la
cucina, aprendo il frigorifero e cominciando a preparare la sua cena solitaria.
Forse era meglio preparare una cena più sostanziosa: la giornata alla libreria
dove lavorava da alcuni anni era stata molto impegnativa, e inoltre rischiava
di portare il suo umore già perennemente disperato a livelli ulteriormente
abbattuti.
Doveva liberare la
mente, in qualche maniera. Almeno per qualche ora.
Afferrò una
pentola, pronta ad accendere i fornelli. Sul punto di farlo, però, si fermò,
sorpresa e immobile.
Osservava la sua
immagine sulle pareti acciaio della pentola.
Era abituata a
osservare i suoi occhi spenti: erano anni che non riuscivano ad esprimere
quell’antica gioia che sempre l’aveva caratterizzata, fin dall’infanzia. Ma la
sua carnagione pallida e il suo volto magro creavano uno strano contrasto con i
lunghi capelli neri che lasciava sciolti sulle spalle. Rise, senza un vero
motivo: forse era divertente osservare
quanto la sua prostrazione interiore fosse visibile anche a un occhio esterno.
“Non potrai mai cambiarti
del tutto, sai?” disse al suo riflesso, con un sorriso amaro. “Tenta pure:
rimarrai sempre la solita sciocca. Fortuna che nessuno che conosci sul serio ti
vede, Rumiko.”
Scosse la testa,
cominciando a preparare il necessario per saziare il suo appetito.
Proprio mentre
iniziava a disporre gli ingredienti, il campanello suonò, facendola trasalire
bruscamente. Diede una veloce occhiata all’orologio affisso alla parete: erano
le 20:15. Strano orario, per dei visitatori. Tanto più che non aspettava nessuno.
Corse alla porta,
con un timore naturale con il quale aveva ormai fatto l’abitudine, mentre si
chiedeva chi mai potesse voler bussare alla sua porta. Magari era solamente la
sua vicina, con qualche ingrediente che le mancava per cucinare, tentò di rassicurarsi,
sentendo il cuore battere a velocità impensabile. Proprio non poteva esserci
posto per l’ansia: non ora che stava meglio, non ora!
Sistemò velocemente
la chioma scura, facendo attenzione che fosse a posto. Dopo aver sospirato
profondamente e aver imposto alla sua mano di non tremare, abbassò la maniglia
e spalancò la porta d’ingresso.
E sgranò gli occhi,
mentre si sentiva mancare.
Un uomo alto e
serio era davanti a lei, nell’espressione una strana immobilità. Aveva i
capelli scuri, tagliati corti, e gli occhi di uno straordinario colore verde,
intensi e carichi di sentimenti. Era magro, vestito in maniera semplice ma
sobria, ed era immobile a fissarla.
Il respiro le si
mozzò in gola, mentre gli occhi le si inumidivano e non poteva farci nulla.
“Sei proprio tu…”
sussurrò l’uomo, osservandola con aria sorpresa e commossa.
E Rumiko non resse
un istante in più. Gli si gettò al collo, singhiozzando e piangendo lacrime di
gratitudine e gioia, ben sapendo che erano anni che aveva aspettato e sperato
senza mai vedere esauditi i suoi desideri.
“Ho aspettato così
tanto…” balbettò, la vista totalmente velata dal suo pianto incontrollabile.
“Sei venuto a cercarmi… Oh, Iori-kun…”
***
Non ricordava molto
di come fosse successo, ma qualche istante dopo Hida Iori era seduto sul divano
del suo piccolo salotto, mentre Rumiko si affannava a preparargli qualcosa da
mangiare. Una gioia improvvisa, incontenibile, irrazionale, aveva preso il suo
cuore, e le lacrime che scendevano lungo le sue guance ogni tanto erano dolci
quanto la risata che squassava il suo corpo scorgendolo a casa sua.
Iori era venuto a
cercarla, nonostante tutto.
Iori era ricomparso
dopo anni e anni di assenza.
E a nulla contavano
i dissapori passati, le accuse rivolte dai suoi occhi verdi, la disapprovazione
per come aveva deciso di condurre la sua vita e gli anni di silenzio che
l’avevano fatta impazzire.
Il suo migliore
amico non si era dimenticato di lei, nemmeno disapprovando le sue scelte.
“Dai, ti offro la
cena, così puoi spiegarmi tutto!” gli disse raggiante, portandogli un vassoio
pieno della sua porzione. La fame sembrava essere scomparsa: al diavolo, se si
trattava di parlare con un amico di vecchia data qual era il suo ospite. “Devi
dirmi tutto nei minimi dettagli! Come hai fatto a trovarmi? Come sta tuo nonno,
e tua madre, e tutti quanti? Oh, non stare lì in silenzio! Non sei venuto per
stare con me, Iori-kun?”
Iori chinò il capo
in segno di gratitudine alla vista del vassoio. “Ti ringrazio molto per la
cena, anche se non ce n’era bisogno” rispose, e Rumiko dovette asciugare
frettolosamente un’altra lacrima spuntata dai suoi occhi alla vista del solito
fare educato che mai lo avrebbe abbandonato. “E mi scuso per essermi presentato
a quest’orario.”
“Non ci pensare
nemmeno: figuriamoci se comincio a rimproverarti per questo, dopo che sono
sette anni che non ci vediamo più!” rispose la giovane, ridendo come non faceva
più da una vita e sedendosi accanto a lui. “Ma guarda come sei cresciuto! Prima
non eri così alto, e non avevi nemmeno quell’aria da uomo che ti ritrovi… Solo
nel carattere non sei cambiato affatto, e non sai quanto ne sia contenta.”
Il ragazzo sorrise,
osservandola a sua volta. “Sembra strano che neanche tu sia cambiata così
tanto… tranne che nell’aspetto” disse a voce bassa, e Rumiko abbassò lo
sguardo, vergognandosi, irrazionalmente, di mostrare i cambiamenti
nell’immagine che dava di sé. Iori non aveva mai dovuto guardarla dietro una
maschera, come invece stava succedendo in quel momento.
“E’ stato
necessario, lo sai meglio di me” tagliò corto, tenendo gli occhi bassi. Aveva
paura di incontrare lo sguardo di biasimo che l’aveva accusata l’ultima volta,
se solo lo avesse alzato. “Ora dimmi di te: com’è andata la tua vita da quando
sono stata via?”
Calò un istante di
silenzio, mentre Iori prendeva un boccone dalla cena che Rumiko gli aveva
preparato e lo masticava lentamente. “Ho proseguito i miei studi, nonostante
tutto” rispose infine. “Ho terminato le scuole superiori, e adesso studio
legge: non ho intenzione di rinunciare al mio sogno di diventare avvocato.”
Lei sorrise. Era
così rassicurante rivederlo con le stesse passioni di quando aveva quindici
anni. “Chi meglio di te può farlo, d’altronde?” disse, e Iori la ringraziò con
un piccolo cenno della testa e un’occhiata serena. Solo allora, Rumiko ricordò
un particolare, e aggrottò le sopracciglia, allarmata. “Ma cosa significa nonostante tutto?”
L’espressione
improvvisamente indurita del suo vecchio migliore amico la fece fermare, con un
brutto presentimento che sembrava volerle bloccare il respiro in petto. Era
sicura che tutto il buonumore di Iori era appena scemato a seguito di qualche
ricordo poco piacevole che il loro discorso doveva avergli evocato.
Le lanciò uno
sguardo pieno di frustrazione, e Rumiko non poté fare altro che fissarlo in
silenzio. “Sai che la polizia è ancora sulle tracce di Inoue Miyako?” chiese, a
voce bassa, e il cuore della giovane mancò un battito. Il panico tornò ad
attanagliarla, mentre osservava la serietà che aveva assunto l’espressione del
ragazzo: era possibile che ancora non si fossero rassegnati e arresi
all’evidenza che Inoue Miyako non sarebbe mai più tornata?
“Non dovresti
esserne sorpresa: ero sicuro che lo sapessi bene” continuò l’altro,
assottigliando gli occhi profondi mentre coglieva la sua espressione sconvolta.
“Sono tra gli indiziati, e indagano ancora sul mio conto. Lo sai che la polizia
non ha mai abbandonato il caso, e di certo quelle strane apparizioni nei quartieri più frequentati di Tokyo non aiuta
ad archiviarlo.”
Rumiko arrossì, e distolse
lo sguardo bruscamente. Iori non era lì per caso, né solamente per scambiare
quattro chiacchiere in tutta tranquillità: aveva compreso fin troppo bene che
il suo scopo era solo quello di chiarire i misteri, di avere una risposta
soddisfacente.
Ma come poteva
darne? Come? Era più difficile che affrontare il suo sguardo.
“Dimmi perché sei
venuto qui, Iori-kun” riuscì a dire, con voce improvvisamente bassa. In quel
momento avvertiva la voragine dei ricordi tentare di riportarla indietro, ad
annaspare nel loro oceano senza fine e senza via d’uscita: aveva paura di
affrontare tutto. Aveva paura di sapere cosa volesse il ragazzo dagli occhi
verdi dalla sua maschera, e dal suo vero essere. Ma sapeva che non avrebbe
potuto scacciarlo: aveva bisogno di rivederlo, di non sentirsi più abbandonata.
“Sembra che non sia una visita di piacere.”
Qualcosa sul viso
di Iori cambiò, addolcendo per un istante quel viso tanto pronto a condannare
ogni cosa che andasse contro i suoi principi. “Volevo sapere com’è diventata la
tua vita, da quando sei andata via” spiegò. “E’ questo che mi ha spinto a
venire da te questa sera. Ma… mi serve sapere quanto le tue idee sono cambiate
da allora, e per quanto hai intenzione di nasconderti senza porre rimedio alla
tua situazione.”
E sprofondò
nell’abisso, senza possibilità di scelta. Tutte le sue decisioni, tutte le sue
colpe, tutto quello che aveva omesso o dichiarato a voce alta, tutti gli anni
di segretezza e di solitudine, e la sconfinata, struggente, immensa mancanza di
ciò che aveva di più prezioso e che aveva perduto a causa della sua codardia
esplosero nella sua mente.
Scattò in piedi,
piena di un dolore e di una rabbia non possibilmente misurabili. “Vuoi sapere
se sono tornata in me, se ho deciso di fare la cosa giusta, per una volta?”
urlò, sentendo il petto scoppiare per lo sforzo, che pure non la liberava dalla
sofferenza che sentiva dentro. “Vuoi che ti dica che hai avuto ragione tu, che
sono stata irresponsabile, che avrei dovuto pensare alle conseguenze o agli
insegnamenti che mi avevano dato? A quanto pare, Hida Iori è sempre stato più
intelligente di me, anche con quasi tre anni di differenza, anche se avrei
dovuto essere responsabile come e più di te! A quanto pare, l’unica cosa a cui
io possa mai pensare è quella di nascondermi, spaventata dalla mia stessa
ombra, terrorizzata all’idea che possano scoprirmi, e senza più forza per
continuare! Cosa mai potrei fare? Dimmelo, se lo sai!”
Iori aveva gli
occhi sgranati, e tutto quello che poté fare fu fissarla, turbato. La sua
intenzione non era quella di farla sentire in colpa o di farla stare male, ma
Rumiko non riusciva a smettere di gridare. Qualcosa si era spezzato in lei: la
maschera era stata violentemente frantumata, e sotto gli occhi del suo amico la
sua vera identità era messa a nudo senza che lei potesse farci nulla.
Corse via dalla
stanza, precipitandosi in bagno. Con una furia che credeva sopita da tempo, si
mise davanti allo specchio, togliendo con dita tremanti le lenti a contatto che
si era costretta ad indossare, per poi frugare, mentre le lacrime cominciavano
a scendere copiose dai suoi occhi, nel cassetto dove aveva nascosto il suo
segreto.
Quando estrasse il
suo paio di occhiali, i singhiozzi la squassarono.
Li infilò, senza
trovare il coraggio di guardarsi allo specchio.
Portò le mani alla
testa, prendendo tra le dita la sua chioma scura. Chiudendo gli occhi, sentendo
il suo cuore lacerarsi, tirò con forza.
Cadde via, mentre
sentiva ciocche e ciocche sfuggire dalla rigida posizione nella quale
costringeva i suoi veri capelli ogni giorno. La parrucca non le sarebbe
servita.
Aprì, tremante, i
suoi occhi miopi, e scorse la sua figura.
Occhi castani,
dietro spesse lenti. Capelli viola lunghi, spettinati e lisci.
Capelli viola. Come
quelli di lui.
Scappò dal suo specchio,
tornando ad affrontare Iori.
Quando lui scorse
la sua immagine, così familiare a lui, sobbalzò, e si alzò in piedi. Ma lei
piangeva, e non riusciva a fermarsi.
“Guarda!” pianse,
osservandolo come poté attraverso i suoi occhi velati di lacrime. “Questo è il
volto di chi ha sbagliato tanto, di chi è scappato perché credeva di fare del
bene, e invece condannava altri! Questo è il volto di… una madre… che ha
abbandonato suo figlio… E’ il volto di un mostro, che deve restare da solo!
Credi che io abbia altra scelta, che possa aver cambiato idea? Con quale
criterio?”
Cadde in ginocchio,
troppo distrutta per reagire altrimenti, singhiozzante. Avrebbe voluto
cancellare il suo passato. Avrebbe voluto riabbracciare i suoi genitori, i suoi
amici.
Avrebbe voluto
crescere suo figlio. Lo stesso figlio che aveva amato con tutte le sue forze,
che il destino aveva voluto allontanare per sempre dalla sua vita. Lo stesso
figlio che aveva visto dormire, mentre lei lo abbandonava per sempre.
Per sempre. Non
l’avrebbe visto mai più.
“Miyako-san…”
Sussultò,
sentendosi chiamata così. Alzò lo sguardo, troppo incredula a risentire quel
nome. Il suo vero nome.
La mano di Iori era
sulla sua, e per la prima volta la giovane scorse un sorriso di affetto, così
raro in lui, comparire sul suo volto. Lo guardò, non sapendo come avrebbe
risposto, se l’avrebbe biasimata o consolata.
“Non sono qui per
biasimarti per il passato, Miyako-san, e non volevo farti piangere. Mi dispiace
molto.” Disse, nella voce una partecipazione rispettosa del dolore che sapeva
bene essere insanabile per lei. “La mia rabbia per quello che era successo mi
ha spinto a prendere la decisione di incontrarti di nuovo in ritardo. So di
essere stato carente come amico, e non sai quanto me ne vergogni: se non avessi
parlato con Satsu, probabilmente non mi sarei mai convinto. Ti chiedo perdono.”
Miyako strinse le
sue mani, grata per questo gesto. Il suo rancore le aveva fatto troppo male:
se, sette anni prima, non avesse trovato conforto nella famiglia di Sato Satsu,
una delle migliori amiche che avesse mai avuto, non avrebbe saputo andare
avanti. “E’ grazie a lei che mi hai trovata?” balbettò, ancora scossa dai
singhiozzi.
Iori annuì, grave.
“Mi ha fatto capire molte cose.”
“E allora qual è il
tuo intento, Iori-kun?” domandò ancora lei, guardandolo con angoscia. “Hai
deciso che non puoi più proteggermi, che hai diritto a vivere la tua vita senza
che le indagini su di me la rovinino?”
Lui scosse il capo,
donandole un po’ di speranza. “Ichijouji Osamu non è ingenuo: continuerà a
ritenermi… sospettato in eterno” ribatté, a denti stretti mentre pronunciava
l’ultima parte. E solo lei sapeva quanto essere considerato un criminale
mortificasse e riempisse di rabbia il suo migliore amico. “Ma non è per questo
che sono qui. Ti chiedo di tornare alla tua vecchia vita, di tornare dai tuoi
genitori e da chi ti vuole vedere.”
Miyako sgranò gli
occhi, sentendo il suo cuore accelerare. Non poteva dire sul serio: erano otto
anni che era sparita dalla sua casa senza dare spiegazioni! Le cose non
avrebbero mai potuto sistemarsi, e di certo non avrebbe cambiato il passato.
Come faceva a proporre una soluzione del genere?
“Tornare? Come
posso?” sussurrò, ripensando al loro volto contratto dalla rabbia e dal
disgusto. Scosse violentemente la testa. “No, non potrei. La mia vita con loro
è finita, me lo hanno detto chiaramente. Credevo che tu fossi una persona con i
piedi per terra.”
“La lontananza
perdona tante cose. Soffrono molto: non sono più gli stessi, senza di te.”
Replicò Iori, pacato. “Tu devi tornare, perché puoi ancora rimediare.”
Il desiderio di
rivederli ancora fu così forte da farle male: un senso di repulsione verso se
stessa la costrinse a non illudersi. Le lacrime scesero ancora lungo le sue
guance, mentre sapeva perfettamente come ribattere al suo ascoltatore.
“Ho abbandonato una
creatura innocente” disse, tremando al pensiero della bellezza del suo piccolo
viso, al calore rassicurante del suo corpo tra le sue braccia. Il suo bambino.
Il suo piccolo, finito chissà dove, chissà con chi. “Non posso tornare. Loro
non mi avrebbero mai accettato in altri tempi, e anche se loro potessero farlo,
io non mi perdonerei, perché non potrò mai farlo. No, Iori-kun: non puoi dirmi
di dimenticare, perché tu stesso non ci riesci del tutto.”
Iori si irrigidì,
rimanendo in silenzio, e Miyako seppe di aver vinto. Pianse lacrime amare,
nella mente ancora l’immagine di suo figlio. Il suo piccolo Keiji.
Sette anni, e il
dolore ancora la struggeva. Sette anni, e la sua voglia di dimenticare
diventava sempre più utopica. Aveva rinunciato a vivere, abbandonandolo, e
forse lo aveva condannato ad un destino atroce. Sciocca, stupida, crudele. Ecco
cos’era stata.
“Allora perché ti
fai ancora vedere, ogni febbraio?” chiese poi Iori, scrutandola confuso. “E’ un
gesto sconsiderato. Non dovresti sottovalutare Ichijouji, lo sai.”
Lei sorrise
amaramente. Era così strano spiegarne il motivo a qualcun altro che non fosse
se stessa: forse era rimasta da sola per troppo tempo, dopotutto. “Chiamami
come vuoi, ma… ho bisogno di farmi vedere per come sono. Lo faccio per i miei
cari, in modo che capiscano che sto bene e sono viva… e lo faccio per me. Lo
sai cosa significa impersonare Miyazawa Rumiko per sette, lunghi anni? Non è
facile, né piacevole.”
“Giochi con il
fuoco, Miyako-san” replicò l’altro, preoccupato. “Dovresti smetterla.”
Miyako scosse la
testa. Era bello trovare qualcuno che ancora si interessasse a lei. Era bello
ritrovare le apprensioni sicure del suo migliore amico di sempre. Lo abbracciò
forte.
“Sai che non ti
ascolterò, ma… Ti voglio bene, Iori-kun, e ti sono grata per tutto” disse
piano, piangendo silenziosamente sulla sua spalla.
Iori ricambiò la
stretta. “Sarò costretto a non farmi vedere troppo, ma voglio che tu sappia che
non ti abbandonerò più: se avrai bisogno, basta riferirlo a Satsu. Mi
avviserà.”
“Puoi restare con
me ancora per un po’? Ti prego.” La giovane lo strinse più forte. Aveva paura
di essere lasciata nuovamente da sola, aveva paura di affrontare i suoi
ricordi. “Permettimi di dimenticare ancora per un po’. Solo qualche minuto.”
Il suo cuore esultò
quando lo sentì dire: “Va bene.”
Rimase in silenzio,
chiudendo gli occhi, mentre sentiva la testa dolerle e le mani tremarle. Sapeva
a cosa aveva rinunciato, quando aveva abbandonato suo figlio e quando si era
nascosta alla sua famiglia. Lo sapeva, ne soffriva, ma non poteva fate altro
che cercare di proseguire la sua vita solitaria.
Se le cose non potevano
migliorare nella sua vita, doveva essere felice delle poche cose che ancora le
restavano. E la visita di Iori era stata così dolce da farle pensare, per un
solo istante, che la sua ferita fosse stata rimarginata.
Tra qualche tempo
avrebbe ripensato a tutto, avrebbe sofferto come sempre.
Ma Inoue Miyako non
voleva ancora svegliarsi dal sogno idilliaco.
Non ancora.
Nuovo aggiornamento
pronto per voi! :) Accidenti, questo capitolo è stato più difficile del
solito da mettere per iscritto, ma ora che è pubblicato posso essere
fiera di annunciare che questo è stato l'ultimo capitolo di
presentazione! Dopo di questo, posso dedicarmi a mandare avanti la vicenda, senza indugiare oltre!
E' finalmente rivelata qui l'identità della mamma di Keiji ^^ ma
credo che ormai non sia più una sorpresa, dato che lo avete
indovinato abbastanza presto! In ogni caso, Miyako meritava una sua
analisi, dato che tutto ruota intorno a lei (e anche perché
l'adoro :) ), e credetemi se vi dico che ce l'ho messa tutta per
rendere al meglio i suoi pensieri e le sue emozioni!
Ma lascio a voi la parola! Sarei proprio curiosa di sapere le vostre versioni dei fatti!
Per intanto, mi sembra più che giusto ringraziarti, HikariKanna,
per essere tornata a recensirmi ** e anche per aver commentato insieme
due capitoli! Mi ha fatto piacere pensare che tu la pensi come me,
riguardo Hikari: ho deciso di rimanere il più possibile fedele
all'anime, e dato che lei diventava insegnante delle elementari... ^^
Lo stesso discorso vale anche per Ken, comunque legato in qualche modo
alla polizia, e per Takeru che ama scrivere! Per Osamu invece ho potuto
solo inventare, per ovvi motivi (ç_ç)... Non
preoccuparti, Takeru e Hikari si incontreranno ben presto: non li
lascio certo così, no? ;) E per la mamma del bambino e il
nascondiglio di Miyako... Beh, questo capitolo dovrebbe bastare come
risposta! Grazie ancora, un bacione!
Mystery Anakin, grazie
per l'entusiasmo: e chi se lo aspettava? *_* Non credevo che il caso ti
sarebbe interessato tanto, e devo dire di aver temuto un tuo parere, ad
essere sinceri! Anche perché lo sai che è la prima volta
che mi cimento in una storia tanto ricca di generi... Solo un appunto:
non puoi aspettarti che ti riveli già l'identità del
padre, sarebbe troppo facile! Per quello ci vorrà un po',
immagino... ;) I due fratellini Ichijouji ti sono piaciuti, quindi?
Buono a sapersi :) considerando che saranno davvero importanti nella
vicenda... E puoi scommettere che sentirai ancora parlare di loro, cara
mia! xD Beh, che dire, sono felice e commossa del tuo interessamento, e
spero di non deluderti con questo capitolo! Mi fai sapere appena puoi?
Ti aspetto con impazienza! Ti voglio un mondo di bene!
Ehi, gelato sciolto... sei ancora in grado di leggere la risposta alla tua recensione? xDxD Sto scherzando, Shine,
ovvio! E' solo che mi ha fatto ridere vedere tutti quegli smile... Ma
cambierai mai? ^^ E cosa potevi aspettarti da una tipa come me? Non
potevo certo lasciare Osamu nel dimenticatoio, o il caso Inoue
irrisolto! Il maggiore degli Ichijouji doveva essere vivo, e Miyako
dovrà pur essere trovata da qualcuno... ;) Quindi, sono
semplicemente felice che le due cose non ti dispiacciano! Sai anche che
mi piace provare diversi generi, e sapendo che i gialli ti piacciono,
mi sento più motivata a continuare, sul serio! E aspettati una
presenza costante del rapporto tra Osamu e Ken, sapendo che non li
abbandonerei di certo al loro destino... Io cercherò, come
sempre, di non deluderti! Mi dici che ne pensi di questo? Ti piace,
anche se non c'è un certo ragazzo dagli occhi azzurri che
conosci? xD Non sai quanto ti voglio bene, spero di sentirti presto!
Ciao, Roe: che piacere
sapere che hai già provato a dare una tua interpretazione della
vicenda! La tua era una recensione critica, e ne sono molto contenta
(per di più fatta anche ad orari impensabili... xD Non volevo
tenerti sveglia fino a quell'ora!) Sono d'accordo con te, nessuno
analizza mai il povero Osamu... ed è proprio per questo che in
questa ff è ancora vivo! Ma, come vedi, Miyako non è
svanita nel nulla: almeno adesso sai dov'è, alla faccia degli
Ichijouji! ^^ Terrò presenti le tue teorie, anche se, come sai,
non posso dirti nulla... Ti toccherà aspettare! Grazie per
l'attenzione, i commenti e i complimenti, sul serio: cosa mi dici di
questo? Ci sentiamo, un bacione!
Ancora una volta, vi invito a farmi sapere cosa ne pensate. Sarò
ben felice di leggere le vostre impressioni, davvero! :)
Alla prossima,
Padme Undomiel
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Capitolo 6 *** Incontri Inaspettati ***
Purity cap 5
5.
Incontri inaspettati
“E allora mi dice:
«Motomiya, mi aspetto di trovarti preparato per il prossimo esame.» Dopo tutto
l’impegno che ci ho messo, capisci?”
Takeru sospirò,
alzando gli occhi al cielo. Erano diversi minuti che il suo amico, Motomiya
Daisuke, continuava a lamentarsi, scontento per l’esito di quell’esame
disastroso che aveva tenuto quel giorno.
Era sempre più
convinto che lui avesse fatto un errore a iscriversi a quel corso
universitario: i professori richiedevano sempre un livello molto maggiore
rispetto a quello che Daisuke poteva offrire. Lui non era mai stato un tipo
studioso. Mai.
“La verità è che
esiste gente crudele, giuro. Insomma, dovrebbero tenere in considerazione che
non tutti sono secchioni come te, Takeru!” stava continuando, lanciandogli uno
sguardo offeso come se lo stesse incolpando di qualcosa. “Se mi avessero lasciato
diventare calciatore come volevo, tutto questo non sarebbe successo! Oh, i miei
mi ammazzerebbero, se lo venissero a sapere…”
“Qualcosa mi dice
che non dirai loro niente come al solito, no, Daisuke-kun?” rise Takeru, per
nulla sorpreso da questa risoluzione.
Daisuke parve
decisamente irritato, questa volta. “Ma quando mai? Io non mi nascondo dai miei
parenti, garantito!” ribatté, accelerando il passo e rischiando di superarlo.
Il giovane dai capelli biondi si affrettò a seguirlo, cercando di non ridere
delle stranezze del suo amico. “Sono loro a non volerne sapere di conoscere i
miei risultati negativi, così hanno rinunciato a chiedere!”
“Va bene, va bene:
stavo solo scherzando. Non volevo offenderti” si affrettò a dire Takeru,
sentendo che l’umore dell’altro stava rapidamente abbattendosi. Conosceva
Daisuke da molto tempo, e sapeva che viveva con molta frustrazione l’essere
stato costretto a rinunciare alle sue aspirazioni per dedicarsi a qualcosa che
gli dava solo delusioni, che lui riteneva umiliazioni.
Doveva cercare di
aiutarlo, invece che ridere di lui.
“Andiamo, non tutto
è perduto, no?” gli disse, tagliandogli la strada e posizionandosi esattamente
di fronte a lui per cercare di fermarlo. “Vorrà dire che ti darò una mano per
la prossima volta. Studieremo insieme, ti va? Tanto, non ho nulla da fare.”
Forse il suo ruolo,
lì a Tokyo, era quello di aiutare il suo amico di vecchia data ad essere meno
deluso da se stesso. Probabilmente, poteva anche riuscire a sentirsi meno in
colpa per aver abbandonato suo fratello Yamato nel momento del bisogno, e a non
pensare alla sua condizione di grande disagio e frustrazione.
Il ragazzo dai
capelli scuri ribelli sbuffò, osservandolo scettico. “Come se tu avessi tempo
da sprecare a cercare di farmi imparare a studiare!” ribatté, poco convinto.
“Ultimamente, sei sparito dalla circolazione: se oggi non avessi tenuto
quell’esame, chissà quando ti saresti fatto vivo!”
Takeru rimase di
sasso, mentre sentiva quanto quell’affermazione corrispondesse alla verità.
Erano davvero molti giorni che si dedicava solo a quell’attività, e trascurava tutti i suoi compagni universitari.
“Cosa dici? Mi sono
offerto di aiutarti, quindi il tempo ce l’ho. Ti sentirai mica trascurato,
Daisuke-kun?” tentò di scherzare, per non sentirsi così egoista.
“Non si tratta di
questo: mi piacerebbe solo sapere cosa fai dalla mattina alla sera, tutto qui!”
disse il suo amico, improvvisamente incuriosito. “Io e i ragazzi siamo usciti,
ieri. Ti ho avvertito via messaggio, ma non hai risposto. Cosa avevi di più
importante da fare?”
Un messaggio. La
sera prima non aveva preso per nulla il cellulare: era stato tutto il tempo sul
balcone, ad osservare. Takeru sapeva di star facendo preoccupare i suoi amici,
ma aveva bisogno di staccare dal solito girare per la città e cercare di
mostrarsi interessante agli occhi delle ragazze più carine. Gli mancava
svagarsi con il suo gruppo, ma sentiva che non si sarebbe divertito affatto,
sentendosi di troppo o emarginato inconsciamente.
Proprio come la
serata in discoteca che Daisuke gli aveva organizzato la sera in cui era
tornato a Tokyo: aveva parlato a stento, troppo preso da altri pensieri.
“Beh, io…” Iniziò,
non sapendo come scusarsi per questa sua assenza. Come poteva spiegargli come
impiegava il suo tempo, da qualche giorno? “Non credo che capiresti.”
“Ma cosa dici, sei
impazzito? Non fare il misterioso e spiegami tutto!” esclamò Daisuke, più
impaziente che mai.
Takeru esitò,
considerando la possibilità di dirgli la verità. Avrebbe soddisfatto la
curiosità del ragazzo con cui stava parlando in quel momento, scusato la sua
assenza in qualsiasi altra uscita serale che il suo gruppo pianificava, e si
sarebbe sbarazzato del peso insopportabile dei suoi problemi esistenziali.
Eppure, Daisuke non era tipo da restare in silenzio a rimuginare per conto suo:
in breve tempo, la voce si sarebbe sparsa.
E Takaishi Takeru
sarebbe stato considerato da tutti un ragazzo mentalmente disturbato, senza
possibilità di scelta. D’altronde, lui stesso era convinto di apparire strano
in questi ultimi anni: non avrebbe potuto biasimare i ragazzi per questo.
Non poteva rivelare
nulla.
“Mi dispiace,
Daisuke-kun” si scusò, a testa bassa. “Credo sia meglio che tu non lo sappia,
almeno per qualche tempo. Ma sta’ tranquillo: non ho davvero nulla di preoccupante.”
“Andiamo, significa
che non puoi parlarne? Perché?” insistette Daisuke, non contento. “C’è di mezzo
qualche ragazza? Qualcuna che conosco?”
Takeru sbuffò. Se
aveva un problema, doveva sempre esserci di mezzo qualche ragazza, secondo il
suo amico. Forse era perché lui ne aveva sempre.
“No, le ragazze non
c’entrano… riguarda soltanto me.” Rispose.
“Beh, non riesco
davvero a capire, amico” ribatté l’altro, più confuso che mai. “Cosa spiegherò
ai ragazzi, allora?”
Già, cosa spiegare?
Forse che Takaishi Takeru non riusciva più a comprendere quale fosse il suo
posto in quella vita? Forse che a volte le pazzie dei suoi amici gli apparivano
prive di senso, mosse solo dalla voglia di uscire dagli schemi? Forse che lui
era cambiato irrimediabilmente, senza che potesse fare nulla per tornare
indietro?
Gettò uno sguardo
alla volta del cielo pomeridiano, non osando incrociare gli occhi scuri troppo
impazienti e curiosi di Daisuke.
“Dì loro che… sto
passando un periodo difficile, e che ho bisogno di trovare delle risposte al
più presto. Dì che mi dispiace tantissimo di isolarmi: appena possibile
tornerò… e potrete sottopormi a qualsiasi tipo di tortura. Promesso.”
Sorrise in maniera
apologetica, decidendosi ad abbassare lo sguardo.
Il ragazzo dai
capelli scuri annuì, sospirando. “Come vuoi tu, Takeru, anche se non approvo”
disse, calciando con il piede un sassolino trovato per la strada. Amava farlo
quando qualcosa non gli tornava: lo faceva ripensare a quando desiderava
giocare nella squadra nazionale, e a quanto lo faceva sentire bene quel sogno.
Lo aveva confidato a Takeru tempo prima. “I problemi vanno affrontati insieme,
non scappando come ladri.”
“Lo farei, se fossi
in altre situazioni” sospirò il ragazzo biondo, pensando a ciò che lo aspettava
quel giorno. Avrebbe tentato ancora di sentirsi più sereno servendosi di altri
mezzi. “Sul serio, mi dispiace.”
“Cerca di
riprenderti al più presto, però, o ti verrò a cercare personalmente” lo
inchiodò con lo sguardo Daisuke. “E non sarà piacevole.”
Takeru rise, dandogli
una pacca sulla schiena. “Al più presto, promesso. E salutami tutti.”
“Certo che sì:
siamo noiosi, senza di te” rispose il suo compagno, sorridendo, “Fatti
sentire.”
“Contaci. Ciao, ci
vediamo.”
Takeru si diresse a
passi lenti verso la sua abitazione, prendendo la strada opposta a quella di
Daisuke. Aveva tutta l’intenzione di prendersela comoda: non c’era nessuno ad
aspettarlo nel suo piccolo appartamento, e la sua frustrazione si nascondeva
dietro i mobili o sotto il letto, insieme ai suoi quaderni di scritte senza
senso e ai suoi poster della sua squadra di basket preferita: era sempre in
agguato, impaziente di aggredirlo.
Era una bella
giornata, e voleva godersela fino in fondo.
Sorrise tra sé,
continuando a camminare.
***
C’era un innaturale
silenzio tutt’intorno: se ne accorse subito, avvicinandosi a passi lenti al
cancello grigio che separava la villetta dalla strada. Sembrava che la vitalità
e il clima sereno che, da qualche giorno, era abituato a sentire appartenessero
a un’altra vita.
Aggrottò le
sopracciglia, perplesso. Era molto strano: non era un orario in cui solitamente
ci si riposava, eppure le risate infantili erano totalmente scomparse.
Takeru diede
un’occhiata all’interno, attento a non farsi vedere da nessuno.
Non c’era traccia
dei piccoli bambini di pochi anni che giocavano solitamente in quel gran
giardino: sembravano scomparsi.
Un senso di
tristezza e delusione lo colse all’improvviso, mentre si rendeva conto che quel
giorno non avrebbe potuto trovare pace ai suoi soliti tormenti: aveva aspettato
tutta la mattina di passare di lì per osservare silenziosamente, ma proprio
quando era arrivato davanti a quel cancello, i bambini e i ragazzi che si
occupavano di loro non erano lì.
Avrebbe dovuto fare
a meno di sentirsi rasserenato, per quel pomeriggio.
Avanzò cautamente,
tentando di scorgere qualsiasi segno di vita. Gli sarebbe bastato anche solo un
lieve rumore, o una piccola parola pronunciata da chiunque. Sembrava che il
silenzio che si portava dentro riecheggiasse tra le mura di quella villa bianca
che si distingueva dalle altre in maniera così evidente. La cosa lo faceva
stare male, e molto.
Non voleva che
anche quel luogo diventasse senza senso, come lui.
Finalmente, colse
un movimento dietro una grande finestra.
Aguzzò lo sguardo,
sperando di riconoscere in quell’immagine il volto di uno di quei ragazzi che
tanto si davano da fare per quei bambini. Aveva bisogno di vedere il loro
piacevole lavoro, e di rubare un po’ di serenità dalle risate loro e dei
bambini senza farsi vedere.
Era una delle
ragazze, notò, sollevato. Quella dai lunghi capelli castani, che Takeru aveva
sentito spesso chiamare col nome di Mimi. Sembrava parlasse con qualcuno
all’interno dell’abitazione, mentre cullava dolcemente un piccolo fagotto di
coperte.
Sembrava un
bambino. Un neonato.
Il ragazzo era
sorpreso. Non sapeva che in quella villa ospitassero anche orfani così piccoli:
aveva sempre pensato, forse anche scioccamente, che ci fossero solamente
bambini più grandi. Evidentemente, quei giovani erano davvero pieni di risorse
e di forza d’animo.
Ebbe un’improvvisa
consapevolezza amara, mentre osservava la ragazza essere raggiunta da un
giovane dai capelli rossi. Loro sapevano cosa fare della loro vita e dei loro
successi.
Lui no.
Lui era ancora lì,
a spiare la scena senza avere il coraggio di farsi vedere, di chiedere
informazioni, di conoscere il segreto della loro sicurezza e del loro destino
che sapevano tracciarsi con le proprie mani.
Si sentì, ancora
una volta, un vero intruso. Come ogni giorno, ogni pomeriggio, ogni sera, ogni
notte quando ci ripensava prima di dormire.
Era solo uno
spettatore della gioia altrui. Niente di più.
Sospirò,
proseguendo per la strada. Quel pomeriggio non era indicato per osservare
quell’orfanotrofio: forse era solo la strana assenza di tutta la vitalità che
era abituato a sentire, ad abbattere ulteriormente il suo spirito.
Quando si era
accorto per la prima volta di quello che succedeva in quella villetta,
affacciandosi alla finestra del suo appartamento, non c’era quel clima di stanchezza.
Aveva visto persone attive e piene di allegria, che sapevano divertirsi e far
divertire dei bambini come se fosse una dote innata. Aveva sentito risate
spensierate, e aveva capito una realtà fondamentale.
Quelle persone
avevano qualcosa che lui non aveva.
Aveva cominciato a
spiarli, pur sapendo che non era giusto, né corretto. Aveva scoperto di non
poter andare avanti senza imprimere negli occhi un’immagine nitida di quei
bambini.
E aveva passato
tutti i giorni da quella scoperta affacciato alla finestra o nascosto dietro
quel cancello grigio, sperando di non farsi vedere, ma d’altra parte anche di
essere visto.
Non sapeva nulla di
loro, in fondo.
Sapeva che i
ragazzi che si occupavano dei bambini vivevano lì, e che non uscivano da quella
villa se non per motivi legati alla salute dei loro piccoli ospiti. Conosceva i
loro nomi, avendoli ascoltati per giorni mentre si chiamavano tra loro. Ma non
aveva alcuna idea di quale fosse la loro storia, o cosa li avesse spinti a
intraprendere quella via non certo semplice. Non sapeva cosa ne ricavassero da
tutto ciò, né per quanto tempo avessero intenzione di continuare.
Si vedeva come un
osservatore senza pace e senza diritto di osservare, che cercava risposte
nascondendosi dietro una facciata da bravo ragazzo.
Sospirò tra sé,
allontanandosi dalla strada che portava al suo appartamento e proseguendo verso
destra.
Era un bene che né
Daisuke né i ragazzi sapessero di questa bizzarra abitudine, dopotutto. Lui
stesso si vergognava di comportarsi in maniera tanto disonesta: non avrebbe
sopportato di esporre le sue colpe e i suoi tormenti a voce alta.
Che non gli
dispiacesse di essere così distante, però, era qualcosa di assolutamente falso.
Takeru sapeva perfettamente che poteva contare sui suoi amici: il breve periodo
passato fuori città per aiutare suo fratello non aveva raffreddato i rapporti,
ed era sicuro che nient’altro sarebbe riuscito nell’impresa. Ma la sua chiusura
non era stata causata da una mancanza da parte loro: se fosse stato così, tutto
sarebbe stato più semplice.
Era lui il
problema.
Sapeva di essere
cambiato in qualche modo, e forse questo cambiamento era in negativo. Sapeva di
star dando loro un dolore, tenendoli all’oscuro di tutto, ma non poteva farci
nulla. Il problema era soprattutto Daisuke. Takeru lo conosceva da tantissimo
tempo, ormai: sapeva quanto un’ennesima delusione nel campo dell’amicizia lo
avrebbe abbattuto, soprattutto se causata da lui. E non poteva certo
biasimarlo, se temeva che non si facesse più sentire per confidarsi.
Chissà per quanto
altro tempo sarebbe durato questo tormento.
Il ricordo di
Yamato lo colse quasi impreparato, facendolo fermare davanti a una strada a due
corsie.
Yamato. Non si era
più fatto sentire da quando era tornato a Tokyo, a cercare di trovare il modo di
impiegare la sua vita. Aveva guardato il cellulare in maniera ansiosa in tutti
quei giorni, nella vana speranza di saperne qualcosa in più di come stava
procedendo la soluzione al problema del furto degli strumenti musicali. Pareva
che suo fratello maggiore fosse così impegnato a cercare di salvarsi
dall’improvvisa povertà da dimenticarsi di contattarlo.
Takeru era
preoccupato, e in ansia. Rimpiangeva in ogni maniera di non essersi imposto, di
non aver deciso di restare con lui e la band senza dare retta ai propri bisogni
–ancora insoddisfatti, peraltro. Si sentiva tagliato fuori dalla vita di
Yamato, e ne soffriva profondamente.
Ma anche se avesse
chiamato, cosa avrebbe risolto? Si sarebbe sentito anche peggio ad ascoltare i
problemi del giovane cantante, e lui non avrebbe potuto informarlo di alcun
miglioramento, semplicemente perché non c’era stato.
Non sapeva davvero
cosa volesse. Non era mai stato così confuso.
Scosse la testa,
tentando di non pensare più a lungo alle sue preoccupazioni. Forse era solo la
spossatezza dell’intera giornata appena trascorsa: era molto stanco, e tendeva
a vedere le cose da un punto di vista anche più sconsolato del solito.
Individuò una
panchina, con l’intento di riposarsi per qualche istante, fermandosi appena si
rese conto che era già occupata da qualcuno.
Era una bambina di
cinque anni circa, con lunghi capelli biondo scuro che le scendevano a ciocche
sul viso, nascondendo allo sguardo di Takeru i suoi occhi infantili. Aveva il
vestito bianco sporco di nero sulla schiena, come anche i suoi piccoli pugni
stretti.
Quando si avvicinò
ancora, per curiosità o per qualche altro motivo sconosciuto, notò che le sue
spalle sussultavano, e che dalle sue labbra uscivano dei singhiozzi disperati.
Stava piangendo.
Il ragazzo rimase
immobile per un istante, mentre una consapevolezza si faceva strada nella sua
mente: quella bambina aveva sicuramente bisogno di lui. Non sapeva perché
quella piccola figura gli risultasse così familiare, e perché fosse ferma su
quella panchina tutta sola senza i suoi parenti, ma era fermamente convinto di
poterle dare un po’ di conforto, anche se temporaneo.
Forse le sarebbe
stato utile. In ogni caso, lei lo sarebbe stata a lui.
Le si sedette
accanto, lentamente, pensando all’approccio migliore e più indicato per
trattare con una bambina di quell’età.
“Ehi, è successo
qualcosa? Perché piangi?” chiese alla fine, osservandola, impaziente di
conoscere il motivo delle sue lacrime.
Lei alzò la testa,
spaventata, e Takeru poté osservare i suoi piccoli occhi color caramello
arrossati dal pianto, il suo naso all’insù, le sue labbra sottili contratte e
le sue guance paffute. Era sempre più strano che una bambina così piccola fosse
da sola in giro per la grande città.
Forse per l’innata
fiducia dei bambini, forse per la disperazione, forse perché era troppo piccola
per capire la malizia degli sconosciuti malviventi, non esitò un istante a
rispondergli.
“Mi… mi sono persa”
disse singhiozzando. “Ero con la mia famiglia, e stavamo facendo una
passeggiata. Ma sono spariti tutti: non li trovo più!”
Ecco spiegato il
motivo: una delle solite distrazioni da bambini. Sebbene Takeru fosse felice di
potersi rendere utile aiutando la piccola disperata, non riusciva a credere che
una famiglia potesse perdere di vista un suo componente. Pensò che lei vivesse
con più fratelli, e che fosse difficile sorvegliarli tutti.
Mise goffamente una
mano su quella della bambina dal viso familiare, tentando di confortarla. “Dai,
non fare così” le sorrise, sperando di riuscire a calmarla. “Dovevate andare da
qualche parte in particolare… ehm… come ti chiami?”
“Naoko” rispose
lei, tirando su col naso e guardandolo supplichevole.
Il ragazzo rimase
immobile per un attimo, cercando di ricordare dove avesse visto quella bambina.
Anche il nome gli sembrava familiare: se solo fosse riuscito a capire dove lo
avesse sentito…
Ma l’occhiata
impaurita di Naoko lo fece desistere dal continuare a stare in silenzio. Non
poteva aiutare qualcuno se si zittiva per riflettere sulle sue stranezze.
“Bene, Naoko-chan…
Sai se tu e la tua famiglia dovevate andare da qualche parte? Ti posso
accompagnare, se me lo dici.”
Naoko sgranò gli
occhi, e rimase a pensare per qualche istante.
“Io… io credo al
parco…” disse, esitante. “Qualche volta andiamo lì, nel pomeriggio. E
Junichi-kun ha insistito tanto, prima.”
Ancora un altro
nome conosciuto. Takeru era stanco di tutte queste incognite. “Junichi è tuo
fratello?”
Lei annuì con foga.
“Sì, uno di loro” rispose.
“Uno di loro?
Quanti fratelli hai?” chiese ancora lui, sentendo che qualcosa non gli tornava.
Da come ne parlava la bambina, sembrava che la sua fosse una famiglia anche
troppo numerosa.
Con grande stupore
di Takeru, Naoko ci pensò su per qualche tempo, prima di sbuffare sconfitta.
“Tanti. Ma con alcuni litigo sempre, come con Shinji-kun.”
Osservò il broncio
della piccola in totale silenzio, con gli occhi sgranati e una grande
confusione in testa. Chissà a quale famiglia apparteneva. Così numerosa, poi.
Sospirò e si alzò
in piedi, tendendole una mano. “Beh, se devi andare al parco, posso
accompagnarti: è qui vicino.”
Naoko sorrise,
asciugandosi le lacrime con la manica. Prese la mano che lui le tendeva, e
scese dalla panchina con un piccolo salto. “Sì! Grazie!”
Improvvisamente, un
senso di calore e gioia lo invase, mentre un sorriso spontaneo affiorava sulle
sue labbra. Quel ringraziamento valeva più di ogni altra cosa, per Takeru: era
la prova concreta che a qualcuno era stato utile.
Era da tanto che
non si sentiva così bene.
La guardò grato.
“Sono Takaishi Takeru, comunque.”
***
“Dimmi un po’,
dov’è che abiti?”
Proseguivano verso
il parco con una certa velocità, vista l’impazienza di Naoko di raggiungere la
sua famiglia. Continuava a tenerle la mano, per tentare di darle più sicurezza.
Ma ancora non gli
riusciva di capire dove avesse visto il volto di quella bambina: sperava che,
sapendo dove lei abitava, gli sarebbe tornato in mente.
“Lontano da qui:
vivo nell’orfanotrofio della famiglia Yagami” rispose Naoko, che da quando
aveva smesso di piangere sembrava più intimidita: non lo guardava più negli
occhi.
Takeru si fermò
all’improvviso, con il cuore in gola.
Aveva nominato
l’orfanotrofio. Poteva essere una di quei bambini?
Non sapeva perché,
ma l’idea di aver parlato con una sua ospite lo turbava.
“Orfanotrofio?
Intendi…” riuscì ad articolare, ansioso di avere conferma.
La bambina alzò lo
sguardo, un po’ sorpresa. “Lo conosci? E’ una grande villa bianca, con un
giardino bellissimo! Ci sono tanti altri bambini come me.”
La villa bianca.
Ora capiva dove aveva già visto Naoko, o sentito nominare Junichi e Shinji. Era
una dei bambini che vivevano grazie al lavoro e all’affetto di quei ragazzi.
Gli sembrava che
l’aspetto della sua piccola interlocutrice fosse cambiato improvvisamente:
sembrava un’altra persona.
E Takeru seppe che
avrebbe potuto saperne di più su quel luogo.
“Vivo lì vicino”
disse infine, ritrovando la calma. “Sei lì da tanto tempo? Ti hanno cresciuto
loro?”
Lei annuì. “Non mi
ricordo, ma mi hanno trovata quando avevo due anni!” dichiarò entusiasta. “E
ora ne ho sei.”
“E chi sono le
persone che ti hanno cresciuto, Naoko-chan?”
Attese, trepidante,
la risposta di Naoko, sentendo l’impazienza raggiungere livelli troppo alti da
sopportare. Il mistero di quel luogo e di quelle persone sarebbe stato svelato,
infine: non aveva aspettato altro in tutti quei giorni di osservazione
silenziosa. Forse era stato il destino a far smarrire quella bambina, e a farla
trovare proprio da lui.
Ma proprio nel
momento in cui Naoko apriva la bocca per parlare, una voce piena di apprensione
la zittì improvvisamente.
“Naoko-chan!
Naoko-chan, dove sei?”
Takeru trasalì,
preso alla sprovvista mentre era totalmente concentrato nella conversazione con
la bambina. Conosceva anche quella voce, e non poteva sbagliarsi: se c’era
qualcuno che cercava Naoko, doveva per forza trattarsi di una ragazza che
accudiva i bambini all’orfanotrofio.
Il cuore ricominciò
ad accelerare i battiti. Provava una strana sensazione, che non riusciva a
spiegarsi. Era come sconvolto dalla possibilità di vedere una di loro, e non sapeva
se questo fosse un sentimento positivo o meno.
Naoko, invece,
sembrava raggiante. Si voltò, esclamando: “Hikari!”
E lui ebbe la
conferma di aver avuto ragione.
Era la ragazza più
giovane, quella dall’aspetto più dolce.
L’aveva vista solo
in lontananza, ma solo in quel momento riuscì a cogliere i particolari del suo
volto. Mentre lei si avvicinava correndo, Takeru notò i suoi corti capelli
castani tenuti in ordine con un fermaglio, che le incorniciavano un viso
piccolo e proporzionato. I suoi occhi castani erano ora pieni di sollievo,
mentre osservava la piccola accanto a lui; le sue labbra sottili erano piegate
in un piccolo sorriso rasserenato.
Era il volto di chi
si era preoccupato fino a quel momento, di una ragazza piena di amore verso
qualcuno a cui teneva. Era un volto che lui non sentiva suo da anni, ormai.
Quando la giovane
si avvicinò per stringere Naoko in un abbraccio, il senso d’angoscia ancora lo
opprimeva.
“Ti abbiamo cercata
dappertutto, sai?” disse la ragazza, con lo stesso tono dolce che Takeru aveva
ascoltato in tutti quei giorni. “Non avevamo idea di dove tu fossi…”
“Vi avevo persi”
ammise Naoko, con il viso nascosto nell’abbraccio di lei. “Ma mi ha trovato
quel ragazzo, e mi stava portando da voi al parco!”
Sentendosi
nominato, Takeru avvertì uno strano impulso a scappare, a non farsi vedere, ma
non seppe farlo: era come inchiodato sul posto, mentre osservava quella scena
piena di serena certezza d’affetto.
Rimase in silenzio
quando gli occhi castani della ragazza chiamata Hikari si sollevarono e lo
guardarono incuriositi; rimase in silenzio quando gli sorrise con educata
gratitudine.
“E’ stato un gesto
davvero gentile: grazie davvero” gli disse gentilmente, stringendo la mano di
Naoko. “Con tutti quei bambini, è facile che qualcuno resti indietro.”
Era un’aria di
scusa quella che gli stava mostrando, e non poteva essere lasciata nel
silenzio. Quasi meccanicamente, si ritrovò a sorridere a sua volta.
“Non c’è problema:
passavo di qui, e non stavo facendo nulla.” Rispose, e prima che potesse fermarsi,
aggiunse: “Mi chiamo Takaishi Takeru.”
Un secondo dopo, si
chiese come gli fosse saltata in mente un’idea del genere. Perché mai aveva
sentito così tanto bisogno di esibirsi ad una persona tanto diversa da lui? Era
forse il desiderio di uscire dalle sue preoccupazioni che lo spingeva a tentare
di conversare con uno degli angeli dell’orfanotrofio?
In ogni caso, la
ragazza non mostrò segni di fastidio. Dopo un’espressione sorpresa, il suo
volto tornò a rasserenarsi.
“Yagami Hikari,
piacere. E grazie ancora.”
Poi si volse verso
Naoko, e la spronò dolcemente. “Allora, andiamo? Sono tutti preoccupati per
te.”
Lei annuì. Cercò lo
sguardo di Takeru, con le guance rosse per la timidezza, e sorrise.
“Ciao, Takeru-san.”
Takeru non riuscì a
dire nulla. Si limitò a salutare con la mano, mentre sentiva che un senso di
abbandono e frustrazione lo soffocava nuovamente, osservando la coppia
allontanarsi. Aveva avuto modo di parlare, sebbene per poco, con due membri del
nido di sicurezza che a lui tanto mancava, e ora stavano per sparire nuovamente
dalla sua vita.
Aveva visto negli
occhi di Yagami Hikari quella certezza incrollabile che la spingeva ogni giorno
a farsi in quattro per i suoi bambini, e sapeva che quel senso di sicurezza
sarebbe svanito non appena i suoi occhi colore del cielo avessero perso di
vista la sua figura.
Non era giusto che
andasse così. Non conosceva il loro segreto, e pareva che il destino gli avesse
negato la possibilità di farlo.
Spinto da chissà
quale forza, Takeru cominciò a correre, sperando di raggiungere il luogo dove
la giovane era scomparsa.
Il destino non gli
avrebbe sottratto la possibilità di saperne di più.
Ciao
a tutti, e ben trovati in questo nuovo capitolo! ^^ Era da un po' che
non trattavo più la situazione di Takeru, ma con questo
aggiornamento ho avuto modo di farlo! E quale maniera migliore per
trattarlo di un sano incontro (sebbene fugace) con Hikari e una
presentazione di Daisuke? Oh, dovevo pur introdurlo, prima o poi! :) E
con questo, ogni digiprescelto ha un proprio ruolo nella storia.
Shine, mi dispiace di
farti aspettare tanto ogni volta, ma che ci vuoi fare? I tempi liberi
di cui dispongo sono scarsissimi! :( Comunque, grazie per la tua
recensione: è un piacere sapere che sono riuscita a comunicarti
qualcosa nella prima scena con la bambina e in quella di Iori! ** Non
sai che fatica a scriverle... Ero preoccupata soprattutto per la
seconda parte (Iori si diverte ad essere così complicato -.-),
ma spero tu non sia rimasta delusa dal tutto! Ma lo sai che mi lusinghi
troppo con i complimenti? Non esagerare, dai! u//u In ogni caso, grazie
della tua fedeltà e costanza, ti voglio bene!
Sto ancora preparandoti il milione di euro da darti in premio per aver indovinato, cara Roe:
non ti sfugge nulla, è così? xD Mi fa piacere sapere che
ti interessi tanto della soluzione del mistero... e che la tua teoria
su Rumiko/Miyako si sia rivelata corretta! Chissà se continuerai
a capire tutto in anticipo... xD Sono felice di averti convinta
riguardo i sentimenti di Miyako, e spero di non deluderti in questo
capitolo! Mi faresti sapere cosa ne pensi? Grazie in anticipo, a
prestissimo! ^^ Un bacio!
Ah, Mystery Anakin, le
prime impressioni sono quelle che contano, vero? Mai farsi ingannare
dall'autrice che cerca di depistarti riguardo all'identità di
Rumiko! ;) Va beh, comunque ci sei arrivata, e quindi complimenti!
Anche a te è piaciuta la scena con la bambina? Non mi aspettavo
tutti questi consensi ** E anche se su Iori ancora non puoi esprimerti,
spero che su Miyako tu ti sia fatta un'idea più precisa, e che
ti piaccia! Grazie mille per i complimenti, fammi sapere anche su
questo, per favore! :) Alla prossima, un bacio!
Vi invito ancora a lasciarmi un parere, se ne avete voglia: man mano
che si va avanti con la storia, diventa sempre più importante
questo aiuto da parte vostra. Ve ne sarei grata *_*
E chissà se Takeru raggiungerà Hikari... Resta
l'incognita per il momento: nel frattempo un'indagine particolare deve
assolutamente iniziare... :)
Padme Undomiel
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Capitolo 7 *** Casa di fantasmi ***
Purity cap 6
6.
Casa di fantasmi
Lo squillare
improvviso del suo cellulare lo fece fermare all’istante, mentre si avviava
verso la cassa della libreria.
Appoggiò
provvisoriamente il libro che aveva intenzione di comprare, estraendo,
perplesso, il suo telefono dalla tasca della giacca. Non aspettava alcuna
chiamata, quel pomeriggio: doveva essere qualcosa di importante.
Ne ebbe la certezza
quando lesse sul display il nome di Osamu: suo fratello non chiamava mai quando
lavorava, a meno che non ci fosse assoluto bisogno di parlare con lui.
Ichijouji Ken
sospirò, rispondendo alla telefonata e accostando l’apparecchio elettronico
all’orecchio.
“Pronto?”
“Sono io. Allora?”
La voce di
Ichijouji Osamu era ferma come sempre, dall’altro capo del telefono. Non aveva
mai amato i convenevoli: era arrivato subito al dunque, presupponendo che Ken
sapesse esattamente di cosa voleva parlare con lui.
E il giovane lo
sapeva, e bene. Non ebbe alcuna esitazione nel rispondere.
“Ho fissato per
oggi, Osamu. Le indagini cominciano oggi, per me.”
Un momento di
silenzio. “Da dove comincerai?”
Ken sorrise tra sé,
per nulla stupito. Ancora una volta, nessun commento sulle sue decisioni, né
alcun commento su come indagare sul caso della scomparsa di Inoue Miyako: si
limitava a informarsi su come avesse intenzione di agire.
Aveva tutta l’aria
di essere una sfida tra fratelli, ma a lui non dispiaceva. Tutto ciò che voleva
era dimostrare al giovane investigatore che il suo mestiere lo appassionava
come nient’altro al mondo, e che era in grado di aiutarlo nelle sue indagini.
Non voleva essere
da meno di Osamu. Per questo sapeva che non doveva chiedere aiuto: nel momento
in cui il maggiore lo aveva incaricato di quella responsabilità, le sue
capacità dovevano essere le uniche cose su cui contare.
“Ho pensato… di far
visita alla famiglia Inoue: in fondo, loro dovrebbero saperne di più di ciò che
è successo a Miyako, no?”
Eppure, nonostante
tutto, si sentiva a disagio a esporre le sue idee a un professionista delle
indagini: il carattere solitamente distaccato di Osamu riusciva sempre a farlo
sentire inferiore a lui, anche se suo fratello non lo voleva, probabilmente. In
quel momento più che mai, anche se sapeva che non avrebbe avuto consigli, Ken
sperò di aver colto una buona pista da seguire.
Anche questa volta,
Osamu non fece una piega. “Capisco. Sai già come fare? Come parlare loro, e
come ottenere le informazioni che cerchi?”
Il ragazzo sussultò
lievemente, sentendosi ancora più vulnerabile. Era riuscito a centrare la sua
più grande preoccupazione in pochi istanti: Ken non aveva alcuna idea di quale
fosse la maniera più giusta per rivolgersi a una famiglia distrutta dal dolore.
La sua inesperienza cominciava a farsi sentire prima ancora di iniziare il suo
lavoro.
Fissò lo sguardo
sulla fila di clienti che avevano preso rapidamente il suo posto davanti alla
cassiera, per tornare a ragionare con tutta la calma di cui disponeva.
“So già quali
domande rivolgere, ma non so precisamente come parlare loro” ammise a
malincuore. Solo allora notò tutta la differenza tra lui e Osamu: suo fratello
maggiore sapeva sempre cosa fare. A lui toccava solo una sorte di continua
ricerca di questo modo di comportarsi.
Si vergognò e
rimproverò per questa sua debolezza. Chissà se sarebbe mai riuscito ad essere
come lui.
“Dovrai trovare un
modo: ricorda che devi tentare di riportare a galla una storia risalente ad
alcuni anni fa” fu la risposta severa dell’altro. “Osserva il tuo interlocutore
e regolati di conseguenza. Di più non posso dirti.”
Ken annuì in
fretta, per un momento dimentico del fatto che suo fratello non poteva vederlo.
Sapeva che i rimproveri che riceveva da lui erano preziosi: forse solo così
avrebbe raggiunto l’obiettivo. “Farò del mio meglio, lo prometto.”
“Chiamami quando
hai finito” gli disse poi Osamu. “Chissà che non riusciamo a saperne di più.”
Per un attimo, la
fiducia che gli stava dando lo riempì di senso di colpa. Molto dipendeva dal
buon esito di quell’impresa, ma lui si sentiva ancora un ragazzino ingenuo e
sognatore che non sapeva essere utile a suo fratello.
Si sforzò di
scacciare quel sentimento mentre rispondeva. “Ti richiamo. A dopo.”
Chiuse la
comunicazione, riponendo il cellulare al suo posto. Diede un’occhiata al suo
orologio da polso, controllando l’ora: erano le 17:00. Aveva ancora un po’ di
tempo, prima di recarsi all’indirizzo fornitogli da Osamu due giorni prima.
Avrebbe fatto
meglio a rimettersi in fila, prima che altri clienti si aggiungessero al numero
già presente.
Riprese il libro
che aveva scelto, avviandosi verso la cassa e sospirando tra sé. Ancora una
volta aveva avuto bisogno di rifugiarsi in quella libreria, prima di occuparsi
dei suoi incarichi.
Pensare che avrebbe
dovuto indagare di persona lo aveva improvvisamente reso consapevole che
avrebbe anche potuto inseguire una pista sbagliata credendo di essere nel
giusto. Era per questo motivo che aveva aspettato due giorni prima di prendere
una decisione definitiva: aveva letto e riletto i suoi schemi per ore, valutato
i possibili testimoni, e, alla fine, optato per la decisione che riteneva
migliore.
Avrebbe indagato in
casa di Inoue Miyako, prima di informarsi su amici e conoscenti. Magari avrebbe
anche potuto farsi un’idea di che tipo fosse stata, o di quali fossero la sua
vita o le sue abitudini prima della scomparsa di otto anni prima.
Gli era sembrato un
buon punto di partenza. Sperava solo di non lasciarsi sfuggire particolari
importanti, però.
C’era un motivo per
cui si era recato lì, prima di andare a casa Inoue : sapeva che un buon
investigatore doveva sempre avere la mente lucida, e tenere la situazione sotto
controllo in ogni momento. Quando era sceso di casa, non aveva la mente lucida.
I libri rappresentavano l’unica via di fuga dalle sue preoccupazioni.
Meccanicamente, si
rese conto che era il suo turno, e tese il libro che aveva scelto alla
cassiera. Pensava di essere abbastanza razionale, ora che aveva placato le sue
ansie: adesso si sentiva pronto ad affrontare quell’indagine. Un passo alla
volta, e forse sarebbe riuscito a trovare Miyako, e a riportarla alla sua
famiglia, anche se non aveva alcuna idea di dove fosse.
Non si sarebbe
arreso senza aver tentato. E forse Osamu sarebbe stato fiero di lui, e lo
avrebbe aiutato a seguire le sue orme.
“Un altro, eh?”
Ken batté le
palpebre, ritornando alla realtà con aria spaesata. Si accorse dell’occhiata
divertita della ragazza dai capelli lisci scuri davanti a lui, con il libro che
le aveva porto distrattamente.
Si chiese,
confusamente, di cosa stesse parlando. “Come?”
La cassiera allargò
il sorriso, controllando il prezzo del libro. “Anche ieri ne hai comprato uno,
e della stessa categoria, se non mi sbaglio. Non ti bastava quello?”
Ken si strinse
nelle spalle, non sapendo come ribattere: come poteva spiegare a una persona
che non conosceva quel suo bisogno di immedesimarsi negli investigatori dei
libri che leggeva?
“Quando vedo libri
che mi interessano, li compro. Ma non è detto che li legga tutti in un giorno:
li tengo da parte” rispose infine, pagando il necessario per acquistare il
volume.
“E perché sempre
libri gialli?”
Il ragazzo alzò
nuovamente lo sguardo, stupito. Non riusciva a comprendere la curiosità che
leggeva negli occhi scuri della sua interlocutrice, né la voglia di parlare con
un perfetto sconosciuto dei vari gusti in campo letterario.
Forse era solo una
ragazza molto chiacchierona.
“Perché mi
piacciono più degli altri” disse, chiedendosi se quella fosse la risposta
giusta alla domanda della giovane.
“E’ il tuo genere
preferito, quindi.” Concluse la cassiera, ma lui colse un’espressione
contrariata sul suo volto.
Era forse la
conversazione più strana a cui aveva preso parte.
“A te non piace?”
chiese educatamente.
Lei scosse, decisa,
la testa. “No, affatto.” Affermò, con tono diverso da quello che aveva usato
fino a quel momento.
Prima che Ken
potesse dire altro, si vide porgere il libro dentro una busta, e vide un
sorriso di scusa sul volto della ragazza.
“Ma sono gusti,
ovviamente: non volevo insultare” gli disse. “Ecco il libro.”
Ricambiò il
sorriso, incredulo. Sembrava che avesse cambiato umore di colpo. Non riusciva
davvero a capire. “Nessun insulto, davvero. Grazie” aggiunse poi, prendendo la
busta e allontanandosi per uscire dalla libreria.
“Meglio così. Buona
serata.” Fu il saluto della cassiera.
Ken la salutò con
un cenno della testa, prima di imboccare l’uscita.
Era strano trovarsi
a parlare con certe persone bizzarre. Ma quel dialogo, se non altro, aveva
avuto il potere di rilassarlo. Con il libro stretto in mano e con una sicurezza
nuova e al contempo solenne, Ichijouji Ken si preparò a iniziare le sue indagini.
Casa Inoue lo stava
aspettando.
***
Spense il motore della sua auto, aprendo lo sportello e
scendendo sul marciapiede.
Il recapito che aveva ricevuto da suo fratello Osamu lo aveva
portato davanti a un grande edificio a più piani, molto semplice in struttura
ma piacevole alla vista.
La serenità che ispirava la zona sembrava contrastare
completamente con la storia misteriosa di uno degli abitanti di quel palazzo.
Con un senso di inquietudine che non sapeva spiegarsi
razionalmente, Ken richiuse lo sportello della sua macchina nera, intascando le
chiavi.
In tutti quei quindici minuti di tragitto, si era chiesto
incessantemente, forse anche stupidamente, cosa avrebbe trovato al suo arrivo:
era curioso di sapere se qualche segno di quella disgrazia avvenuta fosse
visibile anche dall’esterno. Un luogo pressoché disabitato avrebbe dato più
avvisaglie della tristezza di quella famiglia.
E invece no. Mentre camminava lentamente, dirigendosi verso il
portone dell’edificio, vedeva gente passeggiare tranquillamente, e sentiva un
rumore di clacson incessante per la strada. Sui balconi e alle finestre le
donne stendevano i panni o si godevano il fresco di quel pomeriggio; al quinto
piano c’era un uomo seduto su una sedia bianca, intento a leggere il giornale.
La vita era andata avanti senza Inoue Miyako.
Si chiese quale fosse il modo di condurre le giornate di quella
famiglia, dopo che la loro figlia era scomparsa. Per quanto potesse immaginare
il senso di perdita che doveva aver colto ognuno di loro, non gli riusciva di
capire esattamente cosa avessero provato, né poteva comprendere appieno quali
sarebbero state le loro sensazioni quando lui si sarebbe presentato alla loro
porta per indagare e riaprire vecchie ferite del passato.
Sospirò, scuotendo la testa e cercando il cognome interessato
nella lista degli abitanti. Non c’era tempo da perdere in inutili
elucubrazioni: il tempo stringeva. Se doveva tentare di dare una svolta alle
indagini, doveva mettersi d’impegno, e non avere alcuna esitazione.
Individuò il cognome Inoue, e citofonò, sperando che
qualcuno fosse in casa. Attese per alcuni secondi, con il cuore in gola per
qualche motivo sconosciuto, con l’orecchio attento a captare ogni genere di
suono in risposta.
Un silenzio eloquente fu tutto ciò che sentì.
Aggrottando le sopracciglia, Ken ritentò, allontanando
volontariamente dalla mente il sospetto che nessuno gli avrebbe mai risposto.
Aveva preso una decisione dopo tanta incertezza: non poteva mandare tutto
all’aria, era semplicemente impossibile. Gli impegni universitari lo avrebbero
tenuto troppo impegnato negli altri giorni, e le indagini sarebbero state
accantonate per troppo tempo.
Aveva promesso a Osamu che avrebbe impegnato anima e corpo in
quel caso. Non poteva permettersi di impiegare tutto questo tempo nell’attesa
di …
“Chi è?”
Sussultò, sorridendo sollevato. Una voce femminile, stanca,
flebile e quasi monocorde aveva risposto al citofono. E anche se non prometteva
niente di piacevole quel tono così distrutto, il solo fatto che ci fosse
qualcuno in casa aveva acceso in lui nuovamente la speranza di riuscire ad
ottenere un miglioramento della situazione.
Con una strana emozione che gli attanagliava lo stomaco, si
decise a manifestare la sua presenza.
“Sono Ichijouji Ken. Io …” provò a esplicare, ma un’esclamazione
di puro stupore da parte della donna lo interruppe, confuso.
“Salga, salga pure!”
Il portone si aprì. Ken lo fissò, incapace di capacitarsi di
cosa fosse successo alla sua interlocutrice. Pareva che a quella donna, che
probabilmente era la madre di Miyako, fosse bastato conoscere il suo nome per
farlo entrare, anche se non lo aveva mai visto in vita sua.
Era incredulo, ma decise di soprassedere, approfittando del
fatto che non aveva dovuto spiegare via citofono i suoi intenti e i motivi
della visita. Avrebbe avuto tutto il tempo per farlo, una volta che fosse
entrato in quella casa.
Si incamminò, incerto sulla maniera più giusta di comportarsi.
Osamu gli aveva consigliato di osservare attentamente chi aveva di fronte,
prima di decidere quale fosse il comportamento da adottare: era per questo che
si sentiva così insicuro. La donna che gli aveva risposto gli aveva ispirato
inizialmente dolore profondo, poi una gioia così improvvisa e completa che lo
aveva lasciato di stucco.
Aveva cambiato umore alla velocità della luce. Come avrebbe
fatto a capire quale tipo di persona fosse, e quale fosse la maniera giusta per
parlarle di ciò che stava facendo?
Si convinse che quella era, probabilmente, la cosa più
improvvisata che lui avesse mai tentato di fare.
L’appartamento degli Inoue era al secondo piano; Ken lo
raggiunse in fretta, sapendo di essere atteso, probabilmente, con impazienza.
Non poteva attardarsi troppo.
Bussò al campanello, aspettando per qualche secondo.
E la porta si aprì di scatto, mostrando una donna con aria
gioiosa sulla soglia.
Aveva i capelli completamente grigi, legati in una coda. Non
era eccessivamente alta, ma era molto magra, forse troppo per il suo fisico:
gli abiti semplici e di colori fondamentalmente scuri erano troppo larghi, come
se cadessero dal suo corpo. Non era certo giovane, ma il giovane ebbe il
presentimento che le rughe sul suo viso non fossero dovute all’età. I suoi
occhi, dietro a un paio di spesse lenti da vista, sembravano pieni di un
sentimento incontenibile, quasi che non riuscissero ad esprimere con esattezza
tutto ciò che la donna poteva provare; la bocca era piegata in uno strano
sorriso, così largo e pieno di sentimento da risultare quasi estraneo sul suo
volto.
Lo scrutò un momento, in completo silenzio, e Ken si sentì a
disagio, vedendosi osservato da un’espressione tanto inusuale quanto
inquietante.
“Buonasera, sono Ichijouji Ken. Spero di non disturbare” tentò,
con voce incerta.
A sorpresa, facendolo trasalire bruscamente, lei lo strinse in
un abbraccio debole quanto lei. Si rese conto in un momento che quella doveva
essere la sua presa più forte, e si sentì improvvisamente angosciato.
“Finalmente arriva, Ichijouji! Quanto ho aspettato, quanto ho
aspettato non lo sa nessuno!” aveva cominciato lei, in tono rotto. “Allora?
Dov’è? L’avete trovata? E dov’era? Ha chiesto di me? La mia Miyako-chan! La mia
bambina!”
Qualcosa non tornava. Ken era rimasto immobile, sentendo,
scioccato, le parole apparentemente senza senso della signora Inoue. Non
riusciva a capire cosa fosse successo.
“Come?” chiese a bassa voce, certo di essersi lasciato sfuggire
qualcosa di fondamentale.
“Sapevo di poter contare sulla polizia! E sapevo anche di
potermi fidare del suo operato: lei è un grande investigatore! Un grande …”
E solo allora il giovane comprese. Il solito, comprensibile
malinteso. Si scostò dolcemente dall’abbraccio, e le frasi sconnesse della
donna si interruppero improvvisamente. Il suo sguardo era sorpreso.
“Inoue-san, io non sono Ichijouji Osamu, l’investigatore”
iniziò, sentendo l’imbarazzo inondarlo. Lui non era nessuno per gli altri, né
per quella famiglia, né per quel caso. “Sono suo fratello. Credo che lei si sia
confusa, mi dispiace.”
La signora Inoue lo fissò, come se fosse confusa. “Suo
fratello?” domandò, con tono malfermo.
Lui annuì. “E’ così.”
Rimase zitta per alcuni minuti, per così tanto tempo che Ken si
chiese cosa stesse succedendo nella mente della donna. Sembrava cercare in lui
una qualche risposta, senza però ardire di domandare.
“Sei qui per dirmi dov’è Miyako-chan?” chiese poi, e una nota
di puro affetto trapelò dal suo tono di voce, nel pronunciare quello di sua
figlia scomparsa. “Sei qui perché ti ha mandato tuo fratello? L’avete trovata,
no? L’avete trovata …”
Lo fissava con gli occhi lucidi e con un’espressione di
supplica tale da far sentire nel petto di Ken una morsa che lo attanagliava.
C’era disperazione nelle sue parole, nel suo stato d’animo. C’era disperazione
nella sua mente, ma si era aggrappata con tutte le sue forze alla speranza di
poter trovare sua figlia.
Le mani gli tremarono. Perché doveva farle questo? Perché?
“No, Inoue-san. Noi non … l’abbiamo ancora trovata.” Sussurrò,
non trovando la forza per aggiungere altro. Avrebbe potuto spiegare che era
sulle sue tracce, che Osamu non aveva ancora abbandonato il caso, che avrebbe
ritrovato Miyako e l’avrebbe riportata a casa, ma le parole gli morirono in
gola quando vide ogni emozione abbandonare il viso della signora Inoue.
L’espressione di supplica era sparita, e il suo sguardo era
diventato immobile, fisso sui suoi occhi. Sembrava lontana, troppo lontana dal
mondo reale: appariva quasi un fantasma.
Ken ebbe l’orrenda sensazione di averla uccisa una seconda
volta.
Sembrava un corpo umano senz’anima.
Rabbrividì, chiedendosi cosa mai avesse fatto a quella donna
già distrutta dal dolore.
“Inoue-san …” tentò ancora, mettendole, impacciato, una mano su
una spalla. Era davvero il momento di spiegare il motivo della sua visita:
magari, tentando di darle qualche speranza, si sarebbe ripresa da quello stato
di immobilità muta.
Ma lei lo interruppe, con espressione strana. “Perché non
vieni a sederti accanto a me? Vieni qui,
non restare sulla porta. Come hai detto che ti chiami? Ti offro del tè. Vuoi
del tè?”
Si scostò dalla sua mano, camminando come un automa verso
l’interno della casa.
Ken era congelato dall’orrore. La signora Inoue si comportava
come se un istante prima non avesse avuto la speranza di rivedere sua figlia
scomparsa: aveva parlato con lo stesso tono di quando aveva risposto al
citofono, parlando improvvisamente come se la sua fosse una visita di piacere
di qualche parente. Improvvisamente quella casa gli parve piena di un antico
dolore a tal punto da sembrargli ostile, carica di un silenzio insopportabile
in cui la madre di Miyako si era consumata.
Seguì la donna come in trance, osservando l’ordine immobile
della casa. Non sembrava abitata: nessun rumore nelle stanze chiuse, nessuna
voce di altri membri della famiglia, nient’altro tranne i passi malfermi della
donna e i suoi, troppo rumorosi per appartenere a quel luogo.
Sentì l’oppressione delle mura di quell’appartamento per
intero, e ne rimase sconvolto.
“Sono sola, sai? Sono sempre sola …” stava dicendo la signora
Inoue, entrando in un grazioso salotto arredato in stile classico e sedendosi
lentamente sul divano. Aveva ancora quell’aria vacua negli occhi. “Mio marito
lavora sempre. Lavora al negozio, sempre. I miei figli … Guarda le foto, caro.
I miei figli sono quelli. Sono bellissimi, vero? Stupendi. Ma mi lasciano da
sola. Sono sempre via. Sempre …”
Lo spettacolo sconvolgente di quella donna abbandonata sul
divano, troppo debole per legare una frase all’altra, era quasi ipnotico per la
sua tristezza, ma Ken si costrinse a distogliere lo sguardo.
Posò lo sguardo sul tavolino che era davanti a lui, e scorse
diverse cornici di vari colori. Migliaia di volti sereni lo fissavano,
immobili, da foto contenute da esse. Con mani tremanti, ne prese una: per
qualche motivo sentiva di essere un intruso nell’osservare scene di una
famiglia così irrimediabilmente distrutta.
“Guarda, guarda: i miei figli …” continuava a cantilenare la
donna.
E Ken si decise a osservare la foto.
C’erano quattro ragazzi seduti su un giardino fiorito,
sorridenti. Avevano un’età variabile, ma la più piccola, con i capelli castani
corti, gli occhiali e un’aria vispa sul viso, sembrava avere dieci anni, e la
più grande, dal viso più maturo, con lisci capelli castani tenuti fermi da due
fermagli rosa, almeno diciassette. C’era un ragazzo dai capelli biondo scuro,
con gli occhiali e con un sorriso furbo, che cingeva con la mano le tre ragazze
che sedevano lì.
Quanto alla ragazza al centro, non poteva sbagliare.
Inoue Miyako sorrideva spensierata all’obbiettivo, con i lunghi
capelli viola al vento, gli occhi castano chiaro, un paio di occhiali a rendere
il suo viso ancora più birichino, un sorriso solare e sincero a piegare le sue
labbra. Era ancora una bambina, probabilmente di dodici anni.
Non aveva mai visto in fotografia chi stava cercando. Aveva un
senso di gelo all’altezza dello stomaco, mentre osservava ogni suo tratto. In
quel momento, nessuno di loro avrebbe mai sospettato che qualcosa le sarebbe
successo.
E lei sorrideva, insieme ai suoi fratelli. Sorrideva.
“Sono bravi, sai” aggiunse la signora Inoue, e un sorriso perso
nel passato comparve sul suo viso. “E belli. Peccato che non sono in casa.
Sembri avere l’età della mia Miyako-chan. Se torni la prossima volta te la
faccio conoscere. Adesso è fuori … ma torna presto. E’ bella, vero?”
Ken batté le palpebre, non credendo a quello che vedeva. Pareva
che ci credesse davvero, a quello che stava dicendo. Pareva convinta che Miyako
sarebbe tornata presto a casa, come se fosse solo andata a fare compere.
Fu tentato di obiettare, di non illuderla nuovamente, ma le
parole di Osamu lo fermarono.
“Osserva il tuo interlocutore e regolati di conseguenza.”
La signora Inoue era persa nel suo mondo, e non c’era verso di
farle cambiare idea. Ma se sapeva assecondarla, avrebbe potuto avere
informazioni per risolvere il caso.
Eppure, un senso di disgusto lo colse quando si sentì dire
tranquillamente: “Sì, è bella. E immagino che non le dia nemmeno problemi in
famiglia, Inoue-san.”
Lei lo fissò, assente. “No. E’ una brava bambina. Non ha mai
dato problemi. E’ una brava bambina.”
Ken alzò lo sguardo, scrutando la donna con le sopracciglia
corrugate. L’aveva chiamata bambina, nonostante, in quel momento, avesse
venticinque anni. Possibile che fosse persa nel suo passato a tal punto? Quando
era sparita, aveva diciassette anni: non era affatto una bambina.
Non riusciva a capire.
“Questi sono i suoi fratelli, invece?” chiese ancora,
avvicinandosi alla sua interlocutrice e indicandoli con il dito. “Sembrano
molto affiatati, da questa foto.”
Lei rimase un istante in silenzio, a rimirare il volto dei suoi
figli. Ken si odiò per quanto stava facendo: sperò che almeno servisse a
qualcosa tutto questo. “A volte litigano. Però si vogliono bene, sai. Tanto
bene. Anche io voglio loro bene, caro.”
Sentì il bisogno di confortarla: le prese la mano, esitando. La
fragilità di quella donna era semplicemente troppo profonda per poter essere
compresa. “Si vede quanto volete loro bene: loro lo sanno meglio di me,
comunque.”
Gli occhi della signora Inoue brillarono all’improvviso: Ken
sussultò, chiedendosi cosa avesse combinato, ora. “No … Non lo sanno … Credono
… Altrimenti sarebbero qui.”
“E dove sono, allora?” chiese ancora lui, in un sussurro. Non
c’era alcuna traccia nemmeno dei fratelli di Miyako: pareva che fossero spariti
nel nulla anche loro. Come quella ragazza dai capelli viola che era stata tanto
felice in altri tempi.
Fu un momento. La donna lo guardò ancora, e il suo sguardo si
fece vacuo. “Sei un bel ragazzo. Resta per la cena: torneranno tutti, e saranno
felici di conoscerti. Momoe-chan è tanto intelligente, tanto buona …
Mantarou-kun è così allegro. Ride sempre, insieme a Chizuru-chan … E
Miyako-chan … Mi saluterà con un bacio, e mi abbraccerà forte, quando tornerà.”
Un moto di grande pietà lo sconvolse: non aveva mai visto una
donna tanto sola. Pareva che fosse stata abbandonata a sé stessa per tanti,
lunghissimi anni: era invecchiata di colpo, senza l’affetto e i figli, di cui
sembrava profondamente bisognosa.
Non voleva arrendersi all’evidenza che tutto fosse cambiato.
Viveva in un’altra dimensione, in una in cui i fantasmi dei componenti della
sua famiglia le dimostravano affetto e le rimanevano accanto.
Ken sentì paura per lo stato mentale della donna, ma non sapeva
cosa fare per lei.
“Inoue-san, non si preoccupi. Se vuole, posso venire a trovarla
più spesso quando è sola.” Propose di getto, esprimendo ad alta voce ciò che
sentiva più giusto che fosse fatto.
Lei sgranò gli occhi per un istante, come se non avesse
compreso appieno.
“Con me?” disse a fatica, afferrandogli il braccio.
Ken trasalì, per la presa improvvisamente forte della donna.
Sembrava troppo fragile per poterlo afferrare così prontamente. “Certo. Le do
la mia parola: ogni volta che potrò.”
Ascoltò, attento, il silenzio della sua interlocutrice,
osservando il colorito sempre più bianco del suo viso. Il suo volto stava
cambiando ancora: adesso assomigliava sempre di più ad una maschera di pura
sofferenza. La presa sul suo braccio era sempre più forte, come se avesse paura
che andasse via.
Poi si alzò di scatto in piedi, tremando come una foglia. Ken
la sorresse prontamente, temendo che cadesse sul pavimento.
“Devi … devi venire con me. Tu devi … vedere. C’è un diario. Un
diario di Miyako-chan. Devi vederlo. Vieni. Ma è strappato. Vieni con me.”
Balbettò, con le labbra che tremavano e lo sguardo supplichevole.
E il ragazzo sgranò gli occhi, improvvisamente consapevole che
la signora Inoue aveva recuperato bruscamente un po’ di lucidità, per qualche
motivo misterioso.
Un diario. Un diario appartenente a Miyako. Strappato, ma pur
sempre un ottimo indizio da cui partire, ne era sicuro. Doveva pur raccontare
qualcosa della ragazza scomparsa. E lui aveva il dovere di vederlo.
Assentì con la testa, e lei cominciò a tirarlo fuori dal
salotto, portandolo ad attraversare un corridoio pieno di porte chiuse.
Mormorava sempre “Vieni …”, e sembrava fermamente convinta di avergli fornito
un dato importantissimo. Eppure, Ken era dubbioso. Se avesse rappresentato una
prova fondamentale, certo Osamu e la polizia avrebbero saputo rintracciare
Miyako.
E la signora Inoue aveva parlato di un diario strappato. Perché
mai era stato danneggiato, e da chi? Dalla giovane stessa? Ma non aveva alcun
senso: apparteneva a lei, dopotutto. Che motivo avrebbe avuto per distruggere
qualcosa di così personale?
Prima che potesse riflettere oltre, lei si arrestò, proprio
davanti all’ultima porta della casa.
La stanza di Inoue Miyako.
Scacciando un senso di inquietudine e di smarrimento, Ken posò
una mano sulla maniglia, e, traendo un respiro profondo, la abbassò di colpo.
Era tutto immobile, come sospeso nel nulla.
Una normale stanza ordinata, con un letto accanto alla
finestra. C’era una libreria sulla destra, e una scrivania con un computer in
bella mostra. Un armadio era accanto alla scrivania. Nessun poster alle pareti,
né foto incorniciate. Niente che riuscisse a distinguere quella stanza dal
resto della casa.
E un tempo, una giovane diciassettenne la abitava.
Rabbrividì, sentendo quasi la sua presenza intenta a scrutare
ogni suo movimento, in attesa che abbandonasse quel luogo che non gli
apparteneva, che gli era completamente estraneo. Era il regno di una ragazza,
che sembrava non aver mai abbandonato del tutto quella stanza.
Si avvicinò, titubante, alla scrivania, osservando tutto senza
sfiorare nulla.
C’erano un paio di foto incorniciate, che ritraevano entrambe
la stessa bambina dai capelli viola che aveva visto in quella del salotto.
Erano scene di vita quotidiana, ma Ken aggrottò le sopracciglia, confuso: in
tutta la casa aveva visto solamente una Miyako bambina, mai una Miyako ragazza,
magari nell’anno in cui era sparita. Mai un accenno al suo essere cresciuta.
Era sospetto, e strano. Davvero strano.
Posò una mano sulla tastiera del computer, ricordando quello
che Osamu gli aveva detto riguardo alle doti di Miyako nell’informatica. Doveva
essere per quello che quell’oggetto era in camera sua.
Ritrasse in fretta la mano, quasi come se quella tastiera fosse
una reliquia da salvaguardare.
“Apri il cassetto. Devi aprirlo, perché è lì.”
La voce della signora Inoue lo fece trasalire: si era quasi
dimenticato della sua presenza, preso com’era dalla strana atmosfera che
regnava sovrana in quella stanza. Abbassò lo sguardo sul cassetto della
scrivania, e lo aprì lentamente.
C’erano penne e matite di diverso tipo, alcune spezzate o senza
inchiostro. Alcuni quaderni, che si rivelarono essere solo quaderni di
matematica appartenenti al periodo in cui frequentava la scuola, erano posti al
di sotto, e in mezzo a questi Ken trovò un’agenda viola consumata.
Seppe di averlo trovato. Il diario personale di Inoue Miyako.
Con uno strano tremore alle mani, il ragazzo lo prese tra le
mani, ma sgranò gli occhi un secondo dopo, sconvolto.
Sembrava quasi vuoto: visto in laterale, appariva molto
sottile, come se la rilegatura di quel diario fosse eccessiva per la quantità
di fogli che conteneva.
Si voltò verso la donna, che si era totalmente appoggiata alla
porta, come senza più forze. “Ha detto che è stato strappato? Da chi?” le
domandò, più diretto possibile. Aveva bisogno di sapere, a tutti i costi: sperò
di avere qualche risposta, ora che la signora Inoue non era schiava dei suoi
fantasmi.
Lei sgranò gli occhi, scuotendo la testa e cominciando a
tremare convulsamente. “No … strappato … non può essere aggiustato … Era di
Miyako-chan … la mia bambina … dov’è?”
Ken temette che il peso dei suoi ricordi l’avesse
improvvisamente sopraffatta: si rese conto, all’improvviso, che quel giorno non
avrebbe potuto chiedere di più. Oltre alla compassione, aveva compreso che le
sue visite non potevano essere solo di compagnia: doveva procedere un passo
alla volta, se voleva che la donna non avesse delle crisi.
Le si avvicinò ancora, cingendole le spalle fragili con un
braccio e tentando di calmarla. “Si calmi, Inoue-san: va tutto bene. Tutto
bene. E’ stata molto gentile a mostrarmi il diario di sua figlia, davvero.”
Attese che il tremito si calmasse, prima di prendere un respiro
profondo e formulare la domanda che gli premeva di porle. “Potrei … portarlo
via, per leggerlo? Lo riporterò presto, promesso.”
Lei sussultò, per lanciargli un’aria smarrita. “Portarlo via?
Perché?”
La mente di Ken corse, rapida, alla ricerca di una spiegazione
da darle. Come poteva pretendere che comprendesse quello che stava facendo?
Come poteva far sì che lei accettasse questa intrusione nel mondo di Miyako?
E la risposta arrivò subito, prima che potesse rendersene conto
lui stesso.
“Vorrei conoscere sua figlia. Immagino che sia fantastica come
la descrive lei, e vorrei farmene un’idea io stesso. Posso?” Disse infine, il
più sincero possibile. Non avrebbe saputo come altro fare: si chiese se Osamu
avrebbe mai adottato una scusa del genere. Non gli sembrava da lui.
Ad ogni modo, gli occhi dietro agli occhiali della signora
Inoue tornarono vacui, e un sorriso perso piegò tristemente le sue labbra. “Sì
… Va bene. Te la farò conoscere di persona quando tornerà a casa. Tornerà
presto, sai? Caro ragazzo …”
Aveva ottenuto quello che gli serviva: qualche tempo per
studiare quel diario. Cercò il sollievo che aspettava di provare, inutilmente.
“Grazie. Grazie davvero.” Le disse. Accettò una carezza dalla
donna, che lo guardava come se fosse uno dei suoi figli, e si sentì stringere
il cuore dal dolore incommensurabile di quella donna.
Ma sapeva che doveva andare via. Non poteva restare lì per
sempre.
Sospirò. “Inoue-san” chiamò a bassa voce, riluttante. “Tornerò
presto, quando potrò. Ma ora devo andare.”
“No, resta. Resta qui, resta con me …” rispose lei, ancora
assente. “Resta …”
Si odiò profondamente, ma sapeva di non avere scelta. Si separò
dolcemente da lei, guardandola negli occhi per farle capire che non l’avrebbe
lasciata sola, che sarebbe tornato. “E’ tardi. Verrò un’altra volta. Non deve
preoccuparsi.”
Lei non disse nulla: si limitò a fissarlo.
Ken seppe che non avrebbe aggiunto altro. Le sorrise, e si
voltò verso l’uscita, il diario stretto nella mano destra, il passo grave, il
cuore che sembrava aver accelerato i battiti da troppo tempo.
“Non saluti i miei figli?”
Quell’eco inquietante giunse alle sue orecchie quando ormai era
sulla porta. Si sentì gelare.
E i fantasmi di quella famiglia parvero incombere alle sue
spalle.
Non riuscì a girarsi, ma la signora Inoue voleva che salutasse
i suoi bambini.
“Arrivederci, Momoe, Mantarou, Chizuru … Miyako.” Sussurrò, con
un peso nel petto.
Quando lasciò quella casa, gli parve che occhi invisibili
continuassero a scrutarlo, incitati da quelli assenti di una donna troppo sola
e infelice.
***
“Perché non mi hai detto che il problema era così serio?”
La busta contenente il libro acquistato precedentemente stretta
nella mano, camminava in strada, dopo aver parcheggiato alla sua auto. Era
ancora inquieto: la maniera quasi spasmodica in cui stringeva il suo cellulare
dimostrava quell’angoscia che tentava disperatamente di scacciare da diversi
minuti.
La voce dall’altra parte del telefono sembrava impassibile come
sempre: Ken ne rimase sconvolto, ripensando a quello che aveva visto in quella
casa. Non poteva credere che suo fratello fosse così tranquillo, dopo aver
interrogato più volte quella donna.
“Te l’ho detto, invece” rispose. “Ma dirlo a parole non rende
affatto l’idea di ciò che ha comportato la sparizione di quella ragazza nella
mente dei suoi genitori. Com’è andata, piuttosto? Hai scoperto qualcosa?”
Malgrado il volto della signora Inoue fosse ancora impresso nei
suoi occhi, Ken si sentì improvvisamente orgoglioso: gli parve che il diario
che aveva nascosto nella busta che stringeva, come se fosse qualcosa di
incredibilmente compromettente, facesse sentire maggiormente il suo peso.
Fissò lo sguardo, distrattamente, su un gruppo di bambini che
giocavano a calcio su un marciapiede non lontano, mentre si decideva a
rispondere a suo fratello. Non sapeva che effetto avrebbe avuto rivelargli il
suo primo successo.
“Diciamo di sì.” Dichiarò, sentendo, dopo troppo tempo di
angoscia dovuta alla sua recente visita, un piccolo sorriso affiorare sul suo
viso. “La signora Inoue mi ha mostrato il diario di Miyako: l’ho preso per
esaminarlo. Ne sapevi niente?”
Mentre aspettava che il silenzio di Osamu divenisse un commento,
vide il pallone dei bambini venir calciato troppo forte, e allontanarsi verso
la strada. Aggrottò le sopracciglia, preoccupato per la brutta piega che poteva
prendere il fatto, ma non ebbe il tempo di fare nulla.
“Un diario? Un diario personale?”
Sentì un tono di sorpresa al ricevitore, e il suo senso di
orgoglio si fece sentire più forte. Poteva sentirsi fiero di come lo aveva
aiutato?
“Sì. Se vuoi, possiamo esaminarlo insieme, quando sarai
libero.” Rispose, mentre si avvicinava al marciapiede dove uno dei bambini si
stava dirigendo verso la direzione del pallone che aveva perso. “Piuttosto, sai
dirmi per caso che fine abbiano fatto i fratelli di Miyako? La loro madre
diceva che …”
Ma si interruppe di colpo.
Una macchina si stava dirigendo a velocità impressionante verso
il bambino in strada, distratto a prendere il pallone.
Sgranò gli occhi, terrificato. Lo avrebbe preso sicuramente:
seppe che avrebbe potuto morire.
Corse, nel disperato tentativo di salvarlo. Era troppo lontano:
non poteva fare in tempo.
La macchina si avvicinava; il piccolo alzò lo sguardo, la sua
espressione si trasformò in una maschera di paura, urlò, impotente.
Ma Ken vide qualcuno muoversi all’improvviso.
Arrestandosi improvvisamente, col fiatone, la camicia scomposta
e la sorpresa nei suoi occhi, seguì il passaggio della macchina, che era stata
incapace di fermarsi, ma il bambino era scomparso dalla strada. Era stato
spostato con un movimento repentino.
Corse per la strada, oltre l’auto che si era finalmente
arrestata, oltre i curiosi e i bambini spaventati. Non riusciva a capire cosa
fosse successo, come avesse fatto quel piccolo a salvarsi. Doveva sapere.
E poi capì.
Vicino al marciapiede opposto, accasciati sulla strada, stavano
il bambino in lacrime, spaventato ma illeso, e una ragazza che lo stringeva
forte, con un piede in una posa innaturale. Aveva una presa spasmodica:
probabilmente era una sua parente, accorsa appena in tempo per salvarlo.
Doveva essere così, perché aveva rischiato seriamente di
perdere la vita per lui.
Si avvicinò ancora, decidendo di soccorrerli entrambi, ma vide
gli amici del piccolo circondarli, e chiedere ansiosamente come stesse. Cercò
di farsi largo: sapeva che la ragazza doveva essersi fatta del male, e che in
questo modo non sarebbe mai stata portata in un ospedale.
Ma lei si alzò a fatica, sorreggendosi per non cadere.
E solo allora Ken la riconobbe.
Era la commessa della libreria.
I suoi capelli lunghi cadevano scomposti sul suo viso
sofferente, e i suoi occhi scuri, per un momento, lo scorsero, mentre lui non
poteva fare altro che fissarla, attonito.
Scorse un grande dolore nel suo sguardo, come se questo
riuscisse a incatenarlo a lui.
Fu un attimo. Si voltò, zoppicando e cercando di correre via, e
si allontanò.
“Aspetta …” tentò di fermarla lui, sconvolto. Ma la folla si
era ormai accalcata sulla strada, e gli impedirono di passare.
La giovane era sparita.
Rimase solo, in mezzo a una strada dove si era quasi consumata
una tragedia, il cellulare ancora stretto in mano, tra i rumori, i pianti e le
esclamazioni di sollievo dei passanti.
E la voce di Osamu che ancora lo chiamava, preoccupato.
“Ken? Ken, mi senti? Pronto?”
Un
gran saluto a chi sta leggendo! :) E' davvero un piacere trovarvi qui,
parlo sul serio. Constatare che ci sono alcuni lettori appassionati che
mi danno un sacco di soddisfazioni non può che commuovermi **
grazie davvero! E come previsto, ecco un nuovo aggiornamento, con
l'inizio delle indagini a casa Inoue. Cominciamo con le novità,
come avrete capito: cosa ci sarà scritto in quel diario? Chi lo
avrà strappato? Mistero... Ma se avete una qualsiasi ipotesi,
sentitevi liberi di farmelo presente: sono curiosa! ^^
Mystery Anakin, la tua
costanza mi rende sempre felice! Che sorpresa sapere che Takeru ti
piace in tutta la sua introspezione ** Come avrai capito, è un
tantino complicato in questa storia, quindi è doppiamente
soddisfacente ricevere i tuoi complimenti a riguardo. Concordo su
quanto detto riguardo alla fortuna dell'incontro di Naoko con Takeru
(povera piccola XD) e riguardo Hikari... Non preoccuparti, avrà
tempo per approfondire la conoscenza! ^^ Spero che questo capitolo di
Ken ti sia piaciuto! Hai qualche idea? Se sì... Aspetto di
sentirla! Ciao, tvb!
Ma che bel parere che hai della storia, Shine!
Come posso non ringraziarti? ** Non pensavo che quel capitolo con
Takeru ti fosse piaciuto, davvero! In ogni caso, è una sorpresa
più che gradita :) L'intento della scena con Naoko, in effetti,
era anche quello: hai centrato in pieno! Takeru non è poi
così depresso, andiamo XD Dunque, la puntualità
c'è, l'aggiornamento anche... Spero solo di non averti deluso
per quanto riguarda lo stile! E chissà se ti ricordi dove e in
che contesto ho terminato questo cap... ^^ Con tutti gli annessi e
connessi! Fammi sapere, un bacio! Tvb!
Non pensare che io ce l'abbia con te perché non leggi spesso storie in questa categoria, Roe:
sai che ti ringrazio per aver letto e recensito! ^^ La riflessione su
Daisuke e sulla stranezza dell'amicizia con Takeru mi sembra sensata,
ma che ci vuoi fare? Io vedo più possibilmente affiatati loro
due, che Daisuke e Ken! u.u E in ogni caso, volevo provare a cambiare.
Takeru non è molto fortunato per il momento, ma aspetta il
prossimo capitolo e saprai i nuovi sviluppi! Chissà se questo
aggiornamento potrà piacerti... Appena puoi, passa di qui, per
favore! ** Grazie di tutto, a presto!
Che dire, anche per oggi è tutto! Che ne pensate, mi lasciate un commento? Grazie in anticipo! ^^
Padme Undomiel
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Capitolo 8 *** Takaishi Takeru ***
Purity cap 7
7.
Takaishi Takeru
“Sei sempre la
solita stupida, Naoko. Perché non stai attenta?”
“Non sono stupida!
Sei tu che non mi hai aspettato: perché non vuoi mai stare con me?”
“Perché sei una
femmina, no?”
Stavano ancora
bisticciando tra loro. Appena aveva riportato Naoko al parco, tutti i suoi
compagni di giochi le si erano avvicinati preoccupati. Ma Shinji non avrebbe
mai ammesso di essersi spaventato per l’improvvisa sparizione della piccola:
arrabbiarsi con lei era l’unico modo di nascondere l’apprensione che lo aveva
sopraffatto in sua assenza.
Il problema era che
Naoko questo non riusciva a capirlo: i suoi occhi cominciavano a riempirsi di
nuove lacrime. Era meglio intervenire subito.
“Dai, adesso basta,
Shinji-chan” disse Yagami Hikari al bambino dai capelli castano chiaro,
mettendogli una mano sulla spalla per zittirlo. “L’importante è che non è
successo nulla di male a Naoko-chan. Possiamo evitare di litigare, adesso?
Perché non giocate insieme?”
Gli sorrise,
incoraggiante. Era davvero difficile far sparire quel broncio dal viso del
bambino: spesso nessuno ci riusciva, nemmeno Taichi, che era la persona con cui
andava più d’accordo. Eppure, sperava davvero che la sua mancanza di attenzione
rivolta a Naoko qualche tempo prima non scatenasse altre lacrime o altra voglia
di farsi i dispetti.
Il volto di Shinji
si fece ancora più scuro. “Ha fatto preoccupare tutti! E’ colpa sua!” si
difese, imbronciato più che mai. “Non ho fatto niente, io!”
“Io non mi sono
preoccupata!”
L’improvviso
intervento di Asami fece zittire tutti quanti: Hikari osservò, divertita,
l’aria di rimprovero, di sorpresa e di sgomento che ogni bambino aveva assunto.
Persino Shinji era a corto di parole.
Eppure, la piccola
con i capelli neri corti fino al mento appariva tranquilla, come se avesse
detto qualcosa di scontato. E la giovane sapeva che il suo intento non era
malvagio: ci doveva essere una spiegazione logica a un comportamento
all’apparenza tanto scorretto.
“Sei cattiva a dire
così, Asami-chan!” la riprese Junichi, che quando non si scatenava negli sport
adorava mettere fine alle discordie del gruppo usando il suo ruolo da maggiore:
per lui, otto anni erano abbastanza per essere grande. “Si è spaventata tanto,
non vedi?”
Asami sgranò i suoi
grandi occhi scuri, sorpresa. “Lo so! Ma perché sono cattiva?” domandò.
“Pensavo che Sora l’avesse portata a comprare quel gelato che voleva, quindi
non mi sono preoccupata!”
Hikari rise. Non
sarebbe mai cambiata, di questo era sicura. “E non hai visto che Sora era con
noi?” le chiese, cercando di non dare l’impressione che stesse ridendo per
prenderla in giro: non voleva ferire i suoi sentimenti.
Asami scosse la
testa. “No… quando è sparita eravamo vicino alla pasticceria, e stavo guardando
i dolci dalla vetrina!” rispose tranquillamente.
“Tu pensi sempre
solo ai dolci!”
I piccoli
ascoltatori avevano cominciato a sbuffare e a scuotere la testa, commentando la
grande passione di Asami con aria scettica. Quando cominciavano a discutere tra
loro in quella maniera, l’unica cosa che andava fatta era lasciarli divertire
da soli.
Hikari si allontanò
dal gruppetto, osservando suo fratello Taichi e Sora mentre spingevano
sull’altalena alcuni bambini, che ridevano e strillavano divertiti. Sorrise tra
sé, beandosi di quella scena di grande serenità. Quell’uscita pomeridiana era
stata davvero un colpo di genio: c’era un sole splendido, e in quel parco verde
pieno di bambini dell’orfanotrofio si respirava un clima di gioia e
spensieratezza.
Proprio quello che
ci voleva loro dopo l’ansia della ricerca di poco prima.
“Sei triste?”
Sobbalzò, presa
alla sprovvista da quella voce così conosciuta e così sincera. Non si era
accorta della presenza di qualcuno accanto a sé, tanto era stato silenzioso ad
arrivare.
Keiji la osservava
con i suoi occhi castani sempre attenti, i capelli viola –come sempre-
scompigliati e una lattina di aranciata in mano. L’espressione di viva
curiosità era ben visibile sul suo volto.
Gli sorrise. “Mi
hai spaventata” ammise, e un sorrisetto birichino piegò le labbra del bambino.
“Ti spavento sempre”
disse con semplicità. “Mi sembri triste: sei tutta sola.”
Aveva sempre una
maniera tutta sua per interessarsi agli umori degli altri: alle volte, Hikari
aveva quasi la sensazione che la limpidezza del suo animo non venisse mai
intaccato dalla negatività della gente. Più tempo passava, più sentiva di voler
bene a quel bambino.
Scosse la testa,
aggiustandogli i capelli scompigliati. “No, non ti preoccupare, Keiji-chan:
stavo solo riflettendo, tutto qui” gli rispose. “E tu dov’eri? Hai visto che
abbiamo ritrovato Naoko-chan?”
Keiji annuì,
osservando il gruppo di bambini che le si era radunato attorno con aria seria.
Pareva che non ci fosse modo per sorprenderlo, si ritrovò a pensare la ragazza
divertita.
“Sì, però non
voglio andare lì.” Disse soltanto. “Litigano.”
“E allora resta un
po’ con me, ti va?” gli chiese dolcemente. Solo lei era a conoscenza dell’odio
di Keiji per le discussioni dei suoi amici: aveva un carattere molto
tranquillo, e i pianti, gli spintoni e i dispetti lo infastidivano e lo portavano
a isolarsi inconsapevolmente.
Lui le lanciò
un’occhiata curiosa. “Cosa facciamo?”
“Vediamo:
potremmo…”
“Aspetta! Ti prego,
voglio parlarti!”
L’urlo inaspettato,
proveniente dall’entrata al parco, la fece fermare, sorpresa. Malgrado il tono
fosse totalmente nuovo, essendo pieno di una supplica quasi disperata e di
affanno, Hikari era sicura di averlo già sentito in precedenza.
Si girò
automaticamente, per scoprire se aveva avuto ragione.
E sgranò gli occhi,
totalmente presa alla sprovvista.
Correva verso di
lei, con il fiato corto, un cappello bianco sui capelli biondi e un’aria
determinata a raggiungere il suo obiettivo ben visibile nei suoi occhi azzurro
chiaro.
Era il ragazzo che
aveva cercato di aiutare Naoko in sua assenza.
E non aveva dubbi
sul fatto che stesse cercando lei: il suo sguardo era fermo sulla sua figura da
quando si era voltata verso di lui.
“Ci ha seguiti fin
qui?” disse tra sé, non riuscendo a capire. “Deve aver dimenticato di dirmi
qualcosa…”
“Cosa vuole da te?”
chiese Keiji. La ragazza si stupì nel constatare che il bambino era rigido, e
che il suo sguardo penetrante non perdeva un singolo movimento del ragazzo dai
capelli biondi in avvicinamento.
“Keiji-chan, cosa
c’è?” gli domandò, preoccupata.
Ma Keiji non ebbe
il tempo di rispondere. Il giovane sembrava avere molta fretta di raggiungerla:
in pochi istanti era accanto a loro, ansimante, mentre la osservava con uno
sguardo che non le riuscì di interpretare. Le parve quasi che stesse cercando
in lei qualcosa che gli serviva in quel preciso istante.
“Scusa… scusa se ti
ho seguita… fin qui” riuscì a dire il ragazzo chiamato Takaishi Takeru, non
appena ebbe recuperato un po’ di fiato. “Mi serviva solo un’informazione, se
posso… E’ che vorrei tanto… conoscere la risposta alla mia domanda.”
Un’informazione da
lei? Hikari era davvero perplessa. Avrebbe potuto chiedere a chiunque: perché
mai si era scomodato di correre sulle sue tracce?
In ogni caso, gli
sorrise, stupita. “Certo. Come posso aiutarti?”
Takeru esitò,
probabilmente cercando la maniera più giusta per esprimersi. “Hai detto di
chiamarti… Yagami, vero? Come il nome della famiglia che gestisce
l’orfanotrofio. Io… mi chiedevo se tu fossi un componente di quella famiglia.”
Ora era sorpresa.
Era curioso che avesse fatto subito il collegamento: non si sarebbe mai
aspettata che la domanda del giovane avrebbe riguardato l’orfanotrofio e la sua
famiglia.
“Sono una delle
figlie di Yagami Yuuko, la fondatrice” rispose al ragazzo biondo, osservandolo
con curiosità. “Posso chiederti come fai a conoscere il nome della mia
famiglia? Conosci per caso mio padre, o… hai conosciuto mia madre?”
Il pensiero la
riempì improvvisamente di uno strano sentimento. Si scoprì a desiderare che
fosse vero: mai come in quelle circostanze aveva bisogno di sentire che sua
madre le era vicina, e sapere che un suo conoscente aveva deciso di incontrarla
era stranamente rassicurante. Sembrava quasi che il suo spirito avesse deciso
di assisterli in quelle difficoltà, e dire loro che non dovevano arrendersi per
nessun motivo.
Ma la risposta
interdetta di Takeru fece morire rapidamente quella speranza.
“Che? No” si
affrettò a dire, comprendendo che c’era stato un malinteso. “Non li ho mai
conosciuti.”
Hikari si
rimproverò per quel senso di delusione bruciante che aveva attanagliato il suo
cuore. Non poteva dare la colpa al suo interlocutore, che se ne stava in totale
silenzio in attesa di trovare le parole giuste per dare voce ai suoi pensieri: non
poteva biasimare qualcun altro solo perché lei era così tanto alla ricerca di un
aiuto indiretto da parte di sua madre defunta.
“E allora perché
conoscevi il mio nome?” chiese infine, tentando di non far trasparire
ulteriormente la sua tristezza dal suo tono di voce.
Il giovane sembrò
imbarazzato per qualche motivo sconosciuto: lei lo osservò in attesa di una
risposta, non capendo cosa gli stesse succedendo. “Io… io vivo accanto a voi,
così mi sono informato. Ecco tutto” fu la sua risposta, dopo che ebbe abbassato
improvvisamente lo sguardo sulle mani che si tormentava. “E… beh, so che vi
fate in quattro per gli ospiti del vostro orfanotrofio.”
Hikari sorrise
imbarazzata, non sapendo bene come rispondere. “Siamo felici di renderci utili”
commentò con tono incerto.
Qualcosa cambiò in
Takeru quando lei finì di parlare: le parve che all’improvviso i suoi occhi
azzurri, sollevati nuovamente a guardarla, si fossero riempiti di pura angoscia
e sofferenza. Non riusciva a capire cosa avesse detto per rendere il suo
sguardo così tormentato, e fu quasi spaventata da quello che vide.
“Ho detto qualcosa
che non… “provò a dire, ma lui la precedette.
“Come fate?”
Rimase così
attonita dal tono dell’altro da zittirsi di colpo. “Eh?”
Non lesse alcuna
traccia di esitazione sul volto del giovane, mentre rispondeva. Sembrava che
avesse finalmente formulato la domanda che lo aveva spinto a seguirla.
“Non dev’essere
certo facile quello che fate, eppure continuate a occuparvi di tutti quei
bambini come se fosse un gioco da ragazzi. Ci vuole tanta, troppa attenzione
per fare in modo che ogni ospite del vostro orfanotrofio non stia male, eppure
non demordete. Siete solo dei ragazzi, ma sapete trovare la soluzione ad ogni
problema senza alcuno sforzo. Dovete avere per forza una carica in più, e
vorrei sapere qual è, per capire cosa vi spinge ad essere così sicuri di quello
che fate.”
Il silenzio che
seguì sembrò protrarsi per un tempo illimitato.
Hikari era
immobile, con lo sguardo fisso su quello di Takeru, improvvisamente a corto di
parole. Era pietrificata dal tormento che leggeva negli occhi del suo interlocutore,
e sapeva che lui si aspettava da lei la risposta a questa spinosa questione.
Non riusciva a capire cosa lo portasse a quasi supplicare una cosa del genere,
ma sapeva che non sarebbe mai andato via senza aver ottenuto quello che voleva.
Ma la giovane non
sapeva cosa rispondere. Lei conduceva la sua vita nella maniera che riteneva
più giusta, sempre alla ricerca della soluzione migliore per la salute dei suoi
cari e cercando di non lamentarsi mai per le cose che andavano in maniera
diversa da quella che aveva immaginato, ma sapeva di non essere infallibile,
sovrannaturale, o speciale in alcuna maniera.
Pareva, invece, che
Takaishi Takeru volesse parlare con un’eroina.
“Non abbiamo
nessuna carica in più, te lo posso assicurare” cercò di spiegare, con voce
insicura. Si vide costretta ad abbassare lo sguardo, non riuscendo a sostenere
per troppo tempo l’insistenza disperata sul volto del giovane. “L’unica cosa
che ci spinge è la nostra fede in quello che facciamo, e l’affetto per i
bambini. Nient’altro…”
“Non posso
crederci.”
Sembrava non
volesse comprendere. Era fermamente convinto che ci fosse dell’altro.
Quando Hikari lo
vide fare un involontario passo in avanti, sussultò, presa alla sprovvista. La
sofferenza incisa sul volto di lui era così intensa da essere addirittura
spaventosa.
“Davanti alle
difficoltà pensate alla fede in quello che fate? Rimanete saldi ad affrontare
di tutto senza scoraggiarvi? Io non riesco a capire come facciate a non
demordere! Mi sembrate in grado di evitare ogni disgrazia, e credo ci sia
dell’altro. Vorrei davvero saperlo.”
“Mi dispiace, ma
non so davvero come rispondere…” disse piano Hikari, ritraendosi leggermente.
Perché tutte quelle domande? E perché la verità sembrava essere così insita
nelle sue azioni da non volersi rivelare nemmeno a lei stessa?
“Non avete
problemi? Problemi di mantenimento, organizzazione, povertà, studio… Qualunque
cosa? Come li risolvete?” insistette Takeru, testardo.
L’affermazione la
colpì come un pugno in pieno stomaco.
Le parve più vivida
che mai la paura di fallire, la paura di perdere ogni bene, di non poter
continuare ad accudire i bambini dell’orfanotrofio. La mancanza di fondi che
preoccupava tutti da qualche tempo le sembrò un ostacolo insormontabile, e
rimase senza respiro.
Ne avevano eccome di
problemi.
Ma non sapevano
risolverli. Non sapeva risolverli.
Sentì i suoi occhi
farsi lucidi, ma si sforzò di non versare nemmeno una lacrima.
Affrontò, invece,
lo sguardo di Takeru, accettando la verità.
“Non lo so. Certe
volte non si riesce a trovare subito la risposta. Siamo esseri umani, come te:
sbagliamo tante volte, ci abbattiamo, ma non demordiamo semplicemente per il
motivo di cui ti parlavo prima. Mi dispiace di non poterti aiutare.”
Ci fu altro
silenzio. Takeru apriva e chiudeva la bocca senza riuscire a dire nulla, ma
Hikari lesse una delusione cocente sul suo viso. Lo vide abbassare la testa, e
osservare i fili d’erba del parco, preso da chissà quale pensiero, e il suo
cuore si riempì di pietà per lui.
Sembrava un’anima
tormentata, che non riusciva a trovare pace.
“Mi dispiace
davvero” gli disse poi in maniera più dolce. “Ma perché ti interessava tanto?”
“Io…” fece per
rispondere Takeru, ma una voce lo interruppe.
“Qualche problema,
Hikari?”
Si voltò, presa
alla sprovvista, e solo in quel momento si rese conto che Keiji era sparito da
qualche tempo. Al suo posto c’era Taichi, che fissava ora lei ora Takeru con le
sopracciglia corrugate. Sembrava perplesso, e anche preoccupato.
Capì solo in quel
momento di quanto la scena dovesse apparire strana.
Si sforzò di
sorridere, un azione che le risultò quasi fuori luogo. “No, nessuno,
tranquillo” rispose, allontanandosi di un passo da Takeru. “Lui è il ragazzo
che ha trovato Naoko-chan prima: era qui per…”
Si fermò,
imbarazzata, non sapendo come continuare.
Ma Taichi la tolse
d’impaccio. Pur perplesso, gli sorrise cordiale. “Beh, ti ringrazio per quello
che hai fatto, ma non ti sentire in debito, d’accordo? Va tutto bene.”
Hikari notò che
Takeru si torceva le mani, alzando lo sguardo solo raramente. Avrebbe tanto
voluto sapere a cosa stesse pensando.
“Felice… di essere
stato utile.” Disse, con uno strano sorriso amaro. Poi lo guardò, facendogli un
cenno di saluto. “Ora devo andare.”
Prima di voltarsi e
dirigersi verso destinazioni ignote, però, il ragazzo si voltò a fissarla. Quel
sorriso non era ancora scomparso dal suo viso.
“Scusa per il
disturbo.”
Hikari avrebbe
voluto rispondergli che non ce n’era stato alcuno, che anzi avrebbe voluto
essergli d’aiuto, ma lui non le diede il tempo di fare nulla: un istante dopo
era già andato via, perso nei suoi pensieri.
Rimase in silenzio,
non sapendo come reagire a quello che aveva visto. Cosa avrebbe voluto sapere
da lei? E quanto era rimasto deluso dalle risposte che lei gli aveva fornito?
Era inutile
pensarci, dopotutto: non lo avrebbe scoperto mai. Ma non riusciva a togliersi
dalla mente quegli occhi azzurri così pieni di dolore che non le riusciva di
comprendere.
“Ma cosa voleva da
te quel ragazzo?” fece ad un tratto Taichi, osservandola con curiosità mista a
uno strano sospetto. “E’ venuto a chiamarmi Keiji prima, e credo di non averlo
mai visto con un’aria così allarmata. E’ successo qualcosa, sorellina?”
Hikari sorrise tra
sé. Ecco spiegato il motivo della presenza di suo fratello accanto a lei: non
avrebbe potuto accorgersi da solo di quello che le stava accadendo, dato che
era impegnato con i bambini insieme a Sora. Per qualche strano motivo, Keiji
doveva essere più teso del solito: se ne chiese la ragione per un istante, non
trovando risposta.
Guardò ancora verso
la direzione dove Takaishi Takeru era sparito, sospirando.
“Non voleva nulla
di importante: voleva sapere se ero una dei ragazzi che lavorano
all’orfanotrofio, dato che ha fatto il collegamento col mio nome.” Rispose.
Per qualche motivo,
non riuscì a dirgli tutto: sentiva che ciò che era successo era ancora troppo
personale per essere rivelato agli altri, persino a suo fratello. Glielo
avrebbe detto in un altro momento, decise.
Taichi scrollò le
spalle. “Allora mi sono preoccupato per niente? Meglio così” le disse,
sorridendo e cingendole le spalle con un braccio. “Dai, andiamo di là, o Sora
minaccerà di prendermi a calci: sta lavorando da sola…”
Hikari ridacchiò.
“Allora facciamo in fretta.”
Si sentiva protetta
nell’abbraccio di suo fratello maggiore. Il calore che sentiva fisicamente
riusciva a allontanare momentaneamente il ricordo di Takeru dalla sua mente, e
sapeva di averne bisogno per non rattristare i bambini.
Era importante che
il suo stato d’animo non fosse mai turbato, quando era con loro.
***
“Occorre fare il
punto della situazione, ragazzi.”
Izumi Koushiro era
un ragazzo che raramente appariva preoccupato per qualcosa: chi lo conosceva
sapeva bene che il suo carattere sempre alla ricerca di qualsiasi soluzione gli
impediva di scoraggiarsi facilmente, o di cedere alla sua preoccupazione.
Ma quella sera, gli
occhi castani del ragazzo dai capelli rossi esprimevano tutta l’enormità del
problema che voleva esporre.
Hikari non riusciva
a sopportare il clima di quella riunione. Erano tutti tesi: persino suo
fratello Taichi aveva la fronte corrugata, segno che non era assolutamente
tempo di scherzare. L’aria di Mimi esprimeva tutta l’angoscia per il discorso
che stavano per affrontare, e la giovane non poteva assolutamente biasimarla;
Sora aveva lo sguardo basso, fisso sul pavimento, probabilmente preparandosi
psicologicamente a qualsiasi cosa avesse detto Koushiro; e non aveva mai visto
Jyou così allarmato, sebbene fosse il suo atteggiamento naturale verso chiunque
a cui teneva.
Hikari sentiva le
sue mani tremarle, ma non poteva sottrarsi a quella riunione. Era suo dovere
essere informata sulla reale portata dei problemi che si erano presentati
tutt’a un tratto: era giusto prendere in mano la situazione.
Eppure, si sentiva
stranamente distrutta, quasi distante dal resto del gruppo. Era come se fosse
presente ma assente allo stesso tempo, e non sapeva spiegarsi questo miscuglio
di emozioni.
“Quest’orfanotrofio
rischia davvero di non avere più fondi per continuare ad essere mantenuto,
nonostante il lavoro provvisorio di cui mi sto occupando” continuò Koushiro,
osservandoli uno ad uno con aria insolitamente seria. “Le donazioni giornaliere
che riceviamo non sono sufficienti a raggiungere quell’agiatezza che ci serve.
Di questo passo, metteremo a rischio la vita di tutti i bambini.”
“Non possiamo!”
esclamò Mimi, con aria piena di orrore. “Che fine farebbero tutti quanti? E
abbiamo anche ospiti di pochi mesi! Non possiamo metterli sulla strada di
nuovo, Koushiro-kun!”
“Purtroppo non
dipende da me” rispose lui, con tono grave. “Non so davvero come potremmo
portare avanti il progetto.”
Hikari pensò al
volto di ogni bambino, ai loro giochi e all’affetto che provava per loro e che
sapeva essere corrisposto, e con una fitta al cuore si rese conto di non sapere
cosa fare per evitare la disgrazia. Li avrebbe lasciati a morire di fame, senza
trovare rimedio?
Se solo fossi ancora viva, mamma, sapresti
cosa fare, pensò,
disperata, senza riuscire ad aprire bocca.
“Calmiamoci,
adesso” disse all’improvviso Taichi, con la solita fermezza e determinazione
che sempre lo aveva contraddistinto. Seppe di non essere l’unica a volgersi
verso di lui come all’unica persona che poteva trovare una via d’uscita: da
sempre, suo fratello aveva dimostrato di avere lo spirito del capo, e tutti
sapevano che avrebbe cercato una soluzione fino all’ultimo, senza arrendersi
mai. “Non siamo sul lastrico: stiamo solo attraversando un brutto periodo,
tutto qui. Ma nessuno di noi ha intenzione di rinunciare, vero? E allora
ragioniamo, senza perdere altro tempo.”
Hikari sorrise
leggermente. Caro, vecchio Taichi: era grazie a lui che lo spirito del gruppo
era sempre alto. Senza di lui non sarebbero stati nulla, e sapeva di non essere
l’unica a pensarlo.
“Taichi-kun ha
ragione” intervenne Sora, sollevando, infine, lo sguardo. “Se non riusciamo a
farci bastare quello che guadagna Koushiro-kun con il suo lavoro informatico,
allora anche alcuni di noi dovrebbero trovarsi un piccolo lavoretto: forse,
racimolando il tutto, potremo ottenere risultati migliori.”
“Sì, ma c’è un
problema” rispose Jyou, preoccupato. “Abbiamo tanti bambini da accudire, e noi
siamo già in pochi per tutti quanti. Chi baderà a loro, se alcuni di noi
saranno impegnati?”
“Era proprio per
questo che non l’ho proposto” aggiunse Koushiro, con tono abbattuto. “Non
abbiamo nessuno che ci aiuti in questa situazione.”
Come sembrava
vivido, in quel momento.
Il volto di
Takaishi Takeru, incredulo, davanti a lei. Gli occhi penetranti, fissi sui
suoi.
Le sue parole.
“Non avete problemi? Come li risolvete?”
Era scioccato,
determinato a credere che lei volesse nasconderglielo.
Si sbagliava.
Erano solo un
gruppo di ragazzi che sognavano un futuro migliore, ma senza i mezzi per farlo.
Stavano mettendo in pericolo la vita di tanti bambini, senza colpa, senza
nessun diritto di essere allontanati dopo aver trovato, infine, un rifugio per
loro.
Era tremendo.
Avevano deciso loro di prendersi cura di loro fin da quando Yagami Yuuko era
ancora viva, e adesso, per il disinteresse generale, stavano per fallire.
Era logico che
Takeru fosse incredulo. Solo dopo aver parlato con lui aveva scoperto che la
situazione in cui si trovavano era davvero abominevole.
Era loro dovere
prendersi cura dei loro piccoli. E non riuscivano a farlo.
Avrebbe pianto, se
non si fosse sentita così distrutta.
“Potremmo cercare
lavori che non occupino tutta la settimana, in modo tale da renderci più
disponibili possibile” intervenne Taichi, sospirando. “E’ tutto quello che
posso proporre.”
“Ma basterà?”
chiese ansiosa Mimi, afferrandogli il braccio con aria supplichevole.
“Dovrà bastare. Non
c’è altra soluzione.” Fu la risposta.
“In ogni caso, la
situazione non può che migliorare, seppur di poco” aggiunse Koushiro,
leggermente più rinfrancato. “Qualsiasi aiuto ci porterà sulla buona strada.
Senza contare che non ho intenzione di smettere di lavorare.”
Sora annuì, Jyou
esclamò un “Sono d’accordo”, Mimi lasciò il braccio di Taichi con un sospiro.
Hikari non riuscì ancora a dire una sola parola. Nonostante il piccolo conforto
dato dalla soluzione momentanea di Taichi, sapeva che il problema non era stato
risolto.
Sapeva che si
sarebbero nuovamente riuniti nello studio di Koushiro tra qualche tempo, alla
ricerca di un sistema più duraturo e soddisfacente.
“Bene, direi che la
seduta è sciolta” affermò suo fratello maggiore, alzandosi in piedi. “Quando
qualcuno di noi avrà trovato un lavoro che possa fare al caso nostro, lo dirà,
siamo intesi?”
“Intesi, capo!”
rispose Jyou, con una strana irruenza che solitamente non aveva.
“Hikari-chan, tutto
bene?”
Hikari si riscosse
dai suoi pensieri, sorpresa. Si volse verso Sora, al suo fianco, e la vide
preoccupata, come se temesse per la sua salute. Erano tutti molto buoni con
lei, come al solito.
“Sì…” disse
esitante. “Sono solo… preoccupata. Stiamo facendo la cosa giusta? Se mia madre
fosse qui… farebbe le stesse scelte?”
Si accorse solo
dopo aver finito di parlare che la voce le tremava.
Sora le sorrise, un
sorriso triste e comprensivo, prima di abbracciarla stretta.
“Siamo tutti
preoccupati” le disse piano. “Non possiamo sapere cosa avrebbe fatto tua madre
se fosse stata qui adesso, ma possiamo cercare di immaginarlo, e tirare avanti.
Sta’ solo tranquilla, capito? Non lasceremo che le ultime volontà della signora
Yagami cadano nell’oblio. Resteremo saldi tutti insieme, perché so quanto tu e
tuo fratello ci teniate.”
Hikari, sorpresa,
commossa e grata per le parole che la sua amica le stava rivolgendo, ricambiò
l’abbraccio. Sapeva di avere un disperato bisogno di tutti loro per andare
avanti, e non solo per dirigere l’orfanotrofio.
Suo fratello, i
suoi amici e i bambini che accudiva erano il dono più prezioso che le era stato
fatto nella vita, e non ne sarebbe mai stata grata abbastanza.
“Grazie, Sora-san”
rispose, staccandosi da lei e sorridendole. “Sono così felice che tu e gli
altri abbiate deciso di starci accanto.”
“Figurati.” Rispose
la maggiore, con un sorriso altrettanto largo.
“Sora-chan, non
vieni?” giunse la voce di Mimi, che si sbracciava sulla porta per attirare
l’attenzione della ragazza dai capelli ramati. “Ho promesso a Ryoko che questa
volta anche tu avresti vestito le sue bambole insieme a noi! Sei attesa, lo
sai?”
Hikari ridacchiò,
osservando l’espressione esasperata sul viso di Sora. “Te l’avrò detto mille
volte, Mimi-chan: io non me ne intendo di moda!” disse in risposta.
Mimi non si
scoraggiò: le sue labbra si incurvarono in un sorriso malizioso. “Molto, molto
male: bisogna rimediare, sai? E’ la tua occasione, non puoi perderla!”
Quando la giovane
dai lunghi capelli castani si intestardiva su qualcosa, era quasi impossibile
farle cambiare idea. Ed era una vita che cercava di convincere Sora a
rinunciare al suo abbigliamento semplice e decidersi ad essere più femminile.
E nemmeno lei
poteva spegnere questo spirito intraprendente.
“Arrivo” si arrese
alla fine, raggiungendo Mimi e sorridendo sconfitta.
“Vedrai che te lo
farò piacere!”
Era bello sapere
che l’angoscia di poco tempo prima sembrava essere momentaneamente messa da
parte: forse era questa l’unica cosa che li faceva essere così determinati.
Sospirò,
affacciandosi alla finestra. Vide i bambini riuniti in cerchio, intenti ad
ascoltare, con vivo interesse, le piccole recite abitudinarie che Taro amava
mettere in scena.
Erano sempre così
spensierati, così semplici: sembrava che i problemi non appartenessero loro, in
nessun momento della giornata.
Non potevano sapere
che il loro destino era così precario. Non lo avrebbero saputo.
Hikari sapeva che
avrebbe dovuto essere forte: avrebbe lavorato fino allo stremo delle sue forze,
si sarebbe impegnata affinché i sogni di sua madre non andassero perduti, non
si sarebbe arresa, come le aveva spesso sconsigliato suo fratello Taichi nei
momenti di sconforto.
Solo…
Sorrise tra sé,
scuotendo la testa.
Era davvero un
pensiero sciocco, ma sapeva quanto desiderasse che fosse vero.
Avrebbe voluto
essere davvero infallibile come Takeru aveva creduto, quel pomeriggio.
Sarebbe stato di
grande conforto, sapere che la possibilità di mettere sulla strada tutti quei
bambini per cui avrebbe dato tutto non fosse lontanamente immaginabile.
Doveva essere
rassicurante essere un’eroina: non pensare mai di essere una limitata umana, il
cui destino dipendeva dalla quantità di fondi guadagnata…
Avere il potere di
non far piangere o soffrire i suoi piccoli…
Proteggerli come
solo una vera mamma poteva fare…
Salve
a tutti! A Natale trascorso, sono davvero felice di proporvi
l'aggiornamento di questa storia, che va avanti grazie anche agli
incoraggiamenti a continuare che ricevo dai miei lettori! ** Ora stiamo
entrando nel pieno dell'azione: riprendendo il punto lasciato dal
capitolo 5, ecco l'incontro bloccato precedentemente tra Takeru e
Hikari! Che spero vi sia piaciuto, naturalmente.
Ringrazio Shine,
sempre la prima a recensire quando si tratta di un certo personaggio
xD! Allora, che posso dirti? Ricordo perfettamente ogni annesso e
connesso, ma allora non sapevo che il capitolo ti fosse piaciuto tanto:
per questo è stata una bella sorpresa leggere i tuoi commenti.
:) La scena in libreria aveva proprio l'intento di creare quella
situazione paradossale: persino io mi sono divertita a scriverla! Per
quanto riguarda la scena a casa Inoue, sono felice che ti abbia colpito
tanto -così come la richiesta finale! Ricordi? ^^ Ma la cosa che
mi ha fatto più piacere è sapere che sei stata attenta ad
osservare anche Osamu, che in questo capitolo ha un ruolo marginale...
Grazie per l'attenzione! ** E per i complimenti, e per la costanza!
Aspetto tuoi commenti appena potrai, intanto ti saluto con un bacione!
Ti voglio bene!
Per Mystery Anakin io
spero che l'attesa non sia stata troppo lunga! Mi dispiace di metterci
tanto ad aggiornare questa storia... ^//^ Mi fa piacere che tu abbia
trovato lo scorso capitolo avvincente: credimi, è una grande
soddisfazione, considerando tutto il tempo che ci ho messo per rendere
quelle scene al meglio! ** E sì, mi piace molto troncare i
capitoli in stile film a puntate: fa più effetto! :) Se
continuerai a seguirmi, forse avrai le risposte che cerchi! Per intanto
non posso che ringraziarti per quello che fai per me - e credimi,
è tanto! Aspetto di sentirti, ti voglio bene!
Da quello che ho potuto capire dalla recensione, Roe,
ho notato che tu sia dubbiosa su alcune questioni! Sbaglio? ;)
Proverò a dirti qualcosa con discrezione. Non penso che il
nascondiglio di Miyako sia così incomprensibile, perciò
non credo sia uno spoiler rivelarlo ai lettori u.u davvero eri
così sorpresa nel vederla lì? E per quanto riguarda la
signora Inoue, data la sua instabilità è normale che tu
non abbia ancora capito che fine hanno fatto i fratelli di Miyako. Lo
vedrai più in là :) Per il diario strappato non posso
dirti nulla, mi dispiace! Infine, per l'incidente... Beh, ti basti
sapere che personalmente non mi piace scrivere di particolari privi di
senso -quindi non lo è-, che in realtà è un
bambino e non una bambina, e che sì, era Miyako la salvatrice!
In ogni caso, ti ringrazio per aver letto e gradito il cap! ^^ Spero di
trovare altre tue recensioni, a presto! Tvb :)
Vi aspetto al prossimo capitolo, a presto!
Padme Undomiel
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Capitolo 9 *** Impossibile ***
Purity cap 8
8.
Impossibile
“Vieni qui, piccolo!
Dai, vieni da me!”
Rideva spensierata,
mentre inseguiva scherzosamente quel piccolo gattino grigio che era diventato,
da qualche anno, uno dei suoi più grandi amici. Cercava di stringerlo tra le
sue braccia, per regalargli qualche carezza e giocare un po’ con lui.
Sato Satsu sembrava
davvero un’altra persona, quando passava del tempo con lui. Riusciva a vedere
il suo volto illuminarsi e le sue labbra aprirsi ad un sorriso spensierato e
sereno, mentre gli occhi castano scuro non perdevano nemmeno per un attimo un
qualsiasi movimento di Haku.
Non era la prima
volta che faceva da spettatrice ai giochi della sua migliore amica, ma ogni
volta ne era più felice. Le sembrava quasi di rivederla a diciassette anni,
quando ancora faceva parte del suo gruppo, e poteva frequentarla liberamente,
senza sospetti, senza indagini.
Senza quell’ombra
scura che si era abbattuta su tutti loro.
Solo in questa
situazione riusciva a non pensare a quello che era successo per colpa della sua
stupidità, e quasi a credere che non fosse successo nulla di tutto ciò, che
fosse stato solo un brutto incubo.
Era per questo
motivo che non si lamentava mai del diminuire delle attenzioni nei suoi
confronti quando nella stanza entrava il gattino.
Inoue Miyako
sorrideva, rifugiata, seppur per poco, nella casa di Satsu. Cercava in quel
luogo quel po’ di serenità sufficiente ad affrontare il suo consueto esilio, il
suo consueto dolore e vuoto interiore. Era seduta sul letto dell’amica, con il
piede ancora a riposo e fasciato accuratamente dalla signora Sato, sempre
troppo premurosa nei suoi confronti, e osservava tutto, attraverso la finzione
delle sue lenti a contatto che nascondevano a occhi esterni la sua miopia.
Ridacchiò,
rivolgendosi alla ragazza dai capelli castani inginocchiata sul pavimento.
“Credo che tu lo
adori più di quanto lui adori te: guarda come fugge” scherzò, osservando i
movimenti del piccolo Haku sui cuscini caduti dal letto per via dei loro
giochi.
Satsu alzò lo
sguardo, scostandosi la frangia dagli occhi e imbronciandosi. “Non è vero:
guarda che mi vuole bene, sta solo giocando. Non è vero, Haku?”
Il gattino miagolò
piano, guardandola con i suoi grandi occhi verdi come per chiederle perché mai
si fosse fermata.
La giovane parve
soddisfatta da quella che riteneva una risposta affermativa. Lo accarezzò sulla
testa, un’espressione che era un misto tra il trionfante e l’intenerito.
“Visto?”
Miyako scosse la
testa, sprofondando nella morbidezza del materasso. “Troppo facile, lo sai che
non ti ha detto niente” ribatté, prendendola in giro come se il tempo non fosse
passato. Era davvero stupida a far finta di nulla: sapeva che il passato
sarebbe tornato a tormentarla con più violenza di prima quando sarebbe tornata
a casa sua, ma il sollievo momentaneo che ricavava da queste visite riusciva,
per qualche ora, a lenire la sofferenza immane della solitudine che un
carattere socievole come il suo non riusciva a rendere più sopportabile.
C’era una parte
decisamente irragionevole in lei, che la incitava a trovare un po’ di gioia,
appena un momento di tregua dai suoi ricordi.
“Mi ha detto di sì,
invece, donna di poca fede” ribatté ancora Satsu, sicura della sua ipotesi. “Io
capisco quello che mi dice: vive con me.”
Era una frase
assurda, pronunciata con una sorta di orgoglio che riservava per parlare del
suo animale da compagnia. E la cosa più buffa era probabilmente la certezza con
la quale si convinceva di alcune cose strampalate che appartenevano solo al suo
mondo.
Cominciò a ridere,
e non ne seppe nemmeno il motivo preciso. Rideva tanto, come non rideva più da
troppo tempo. Come faceva ad essere ancora viva? Come faceva a non morire ogni
giorno, soffocata da un destino che si era cercata, stupidamente, da sola?
“Oh, Satsu-chan, lo
sai che sono profondamente invidiosa?” le uscì di getto, mentre sentiva i suoi
occhi velarsi di lacrime per le risate eccessive e, forse, anche eccessivamente
amare. “Vorrei tornare a dire assurdità come fai tu abitualmente, e non posso.”
Quando la risata si
spense, si sentì quasi svuotata, quasi troppo stanca per provare alcunché.
Distolse lo sguardo da Satsu, lasciando che una ciocca di capelli neri le
coprisse il viso. Non toglieva quasi mai quella stupida parrucca: la paura di
riconoscersi allo specchio, di scorgere le sfumature particolari di viola che i
suoi capelli naturali le donavano, di associarle a quella persona sciocca e
infantile che aveva distrutto la sua vita con le sue mani le impediva di
togliere ogni maschera dal suo viso.
Solo con Iori era
stata costretta a mostrarsi. E esaminarsi di nuovo le aveva spezzato il cuore.
Buffo che dovesse
provare tanto orrore per il suo aspetto, proprio lei che un tempo sosteneva che
l’immagine allo specchio l’avrebbe sempre soddisfatta perché era la sua, e
quindi inimitabile.
Sentì il materasso
accogliere un altro peso, e sorrise. Satsu non l’avrebbe lasciata sola nemmeno
in quel momento: le avrebbe permesso di essere se stessa ancora per qualche
tempo. Le avrebbe concesso il lusso di parlare di sé, di tirar fuori tutta
l’angoscia e il dolore che si portava dentro.
“Per esempio,
potresti dirmi come hai fatto a farti male alla caviglia: è un miracolo che non
ti abbiamo portato al pronto soccorso” disse con serietà. “Cosa è successo?”
Il ricordo del
pomeriggio passato portò con sé il rumore della macchina in avvicinamento, le
urla terrorizzate dei bambini, la fragilità del piccolo impaurito tra le sue
braccia, il dolore, la paura. Sembrava essere successo tanto in pochi istanti.
Sospirò, guardando
l’amica negli occhi. “Forse non sono cambiata completamente, sai” ribatté,
sorridendo tristemente. “Resto la solita pazza. C’era un bambino… Un bambino
che, per raccogliere la palla finita in strada, stava per essere investito da
una macchina. L’ho salvato per un soffio, ma nel farlo… Sono caduta a terra, e…
beh, lo sai.”
Gettò uno sguardo
al suo piede fasciato. Se n’era accorta solo in seguito di quanto facesse male,
troppo presa dal turbinio tumultuoso delle sue emozioni per badarci. Aveva
passato un intera serata a cercare di capire come fare a medicarla, rinunciando
all’impresa solo dopo aver scoperto che si faceva più male che altro. Ne aveva
avuto abbastanza, e aveva lasciato perdere.
Ma la signora Sato non aveva lasciato perdere.
Miyako era arrivata
a lavoro zoppicando, troppo spaventata dal silenzio della propria casa per
prendersi un giorno di riposo, ma la madre di Satsu era stata irremovibile.
L’aveva condotta a casa, incurante delle sue accanite proteste, e le aveva
fasciato la caviglia.
“Ringrazia solo che l’osso sia intatto: hai
preso un bel colpo” aveva
detto, scuotendo la testa.
Avrebbe tanto
voluto essere arrabbiata con lei: se ne sarebbe pentita, di tutta quella
allegra compagnia. Avrebbe sofferto il doppio.
Ma aveva dovuto
cedere: in fondo, quel maledetto piede faceva davvero male. E aveva un
disperato bisogno di parlare con Satsu.
Non ebbe bisogno di
guardarla per sapere che aveva compreso perfettamente le sue motivazioni.
“Io… non ce la
faccio più” ammise, con un filo di voce. “Vedo in ogni bambino il mio Keiji, e
credo di star impazzendo. Ho pensato… Ho pensato: se lui fosse al posto di quel
piccolo che sta per essere investito, non lo salveresti? Ho creduto di salvare lui, Satsu-chan, capisci?”
Aveva cominciato a
tremare, mordendosi le labbra per non far cadere quelle gocce di lacrime dagli
occhi. Le pareva che tutto il dolore che aveva provato il pomeriggio prima
stesse ritornando con più violenza di un’onda dell’oceano, determinato a
soffocarla.
“L’ho portato via,
e… non ho provato alcuna gioia. Ho solo pensato che mio figlio non… lo rivedrò
mai più, che i figli di altri saranno gli unici… a cui potrò badare…”
“Oh, Miyako-chan”.
Satsu, senza dire altro, l’aveva stretta in un abbraccio confortante, senza
dubbio nel tentativo di farle capire che le era vicina, che comprendeva e soffriva
con lei. Miyako chiuse gli occhi, tentando di alleviare il suo dolore
servendosi dell’affetto sincero che l’amica le stava dimostrando, e due lacrime
caddero prepotenti dai suoi occhi, rigandole le guance.
“Mi dispiace
davvero tanto…”
Miyako abbozzò un
sorriso, asciugandosi le lacrime. “Dispiace a me, di non sapermi controllare
per nulla” tentò di sdrammatizzare, allontanando con tutte le sue forze il
ricordo di suo figlio. Sapeva bene che, richiamato alla memoria, il dolore non
avrebbe fatto altro che peggiorare, e difficilmente ne sarebbe uscita. “Guarda:
non faccio altro che piangere.”
“Ma tu devi
sfogarti! Io sono qui per questo, no?” Ribatté Satsu, staccandosi da lei quanto
bastava perché potesse essere visibile il sorriso incoraggiante ma al contempo
pieno di consapevolezza della sofferenza interiore dell’altra.
Non si era
sbagliata: era davvero l’amica migliore che potesse mai esistere. Almeno,
nell’amicizia era stata più che fortunata: lei e Iori non l’avevano
abbandonata, standole accanto anche da lontano. Erano l’unico conforto che le
fosse rimasto.
“Dimmi di te,
piuttosto” cambiò argomento Miyako, decisa a non pensare ai propri problemi.
Ricordava quello che Iori le aveva detto qualche giorno prima riguardo alle
indagini sul loro conto, e si sentiva in colpa: e se la sua scomparsa avesse
rovinato il futuro dei suoi cari amici d’infanzia? “Iori-kun è venuto a
trovarmi l’altro giorno, e mi ha detto che l’investigatore incaricato di
trovarmi vi sta alle calcagna. E’ vero?”
“Ah, si è deciso,
finalmente” rispose invece la ragazza dai capelli castani, con aria esasperata.
“E’ un sacco di tempo che cerco di convincerlo ad andare da te, ma è sempre
stato testardo fino a limiti estremi…”
Stava cambiando
argomento? La giovane aggrottò le sopracciglia, non convinta.
“Lascia stare
Iori-kun, io sto parlando di te” ribatté, scrutandola inquisitoria. “Stai
evitando la domanda o mi sbaglio?”
“Non sto evitando
proprio niente!” tentò di difendersi Satsu, con l’aria più innocente che le
riuscì. E bisognava ammettere che si era impegnata molto.
Miyako sbuffò.
“Sato Satsu, questo sarebbe un buon momento per dirmi la verità: sono già
abbastanza preoccupata per voi.”
Sorrise, osservando
l’aria di sconfitta sul volto dell’amica.
“Cosa vuoi che ti
dica? E’ sempre la solita routine, non è cambiata di una virgola.” La guardava
fisso negli occhi, per farle capire che non stava mentendo, che quella era
tutta la verità. “Pare che io e Iori-kun siamo gli indiziati numero uno… anzi,
credo che lui sia messo peggio di me, per via della vostra amicizia iniziata
prima della nostra. Ma, per quanto sagace, pare che questo investigatore non
sappia trovare la verità… né te, ad ogni modo.”
Il tono soddisfatto
di Satsu riuscì solo a farla stare maggiormente in ansia. Non le piaceva
affatto l’idea che i due fossero esposti a tal punto per proteggere lei:
avrebbe voluto che si fossero messi in salvo, che la signora Sato non l’avesse
accolta nel suo negozio, che Iori non avesse deciso di starle accanto dopo
tanto tempo, che Satsu l’avesse abbandonata.
“State rischiando
troppo, Satsu-chan” esclamò, angosciata. “Iori-kun mi ha avvertito che con
quest’uomo non si scherza, e io sono perfettamente d’accordo: non ha
abbandonato il caso dopo otto anni! Io non voglio che per colpa mia veniate
accusati di…”
“Perché sei sempre
così catastrofica? Guarda che stiamo molto attenti!” Satsu le strinse una mano,
e la sua espressione non era mai stata tanto sicura. “Io e te non ci vediamo
quasi mai, così come tu e Iori-kun. E poi, lo sai com’è fatto lui: neanche noi
due ci vediamo spesso, per non insospettire troppo Ichijouji. Dai, stai
tranquilla: finché sono qui, non mi può succedere nulla.”
Miyako non riusciva
a stare tranquilla: il battito accelerato del suo cuore sembrava volerle
mozzare il respiro in gola. Perché non potevano lasciarli in pace? Perché non
poteva cercare di trovare un po’ di serenità anche dopo aver visto i suoi sogni
sgretolarsi? Perché non poteva smetterla di compromettere la felicità dei suoi
amici?
Era tutto così
maledettamente ingiusto.
“Scommetto che, nel
tentativo di proteggere me, tu abbia anche rinunciato a una vita sentimentale,
non è così?” le domandò, tristemente consapevole di conoscerne già la risposta.
Inaspettatamente,
Satsu scoppiò a ridere, scuotendo la testa. “Ho rinunciato tanti anni fa,
ricordi? Anche se volessi, nessuno farebbe al caso mio, né io al suo. Vivrò
sola con il mio Haku, e starò benissimo così.”
Non c’era amarezza
nel suo tono di voce: la sua era una calma rassegnazione, che non mostrava
assolutamente il suo desiderio di vivere una storia d’amore vero, che credeva
non esistesse nel mondo reale.
Era appena
successo. La sua presenza in quella casa era improvvisamente diventata di
troppo: era come se qualcuno dovesse irrompere all’improvviso in quella camera
e scoprirla, riconoscerla. Doveva andarsene, e subito, senza aspettare oltre.
Non poteva
continuare a giocare tanto con il destino.
Si alzò, a fatica,
in piedi, appoggiandosi al muro per non cadere. Dannata caviglia.
“Devo andare: lo
sai che ho un tempo di scadenza” affermò, tentando, inutilmente, di non far
trasparire il dolore che sentiva nel suo tono di voce. “Sarà meglio che torni a
casa.”
“Aspetta… Non
vorrai mica tornare a piedi!” esclamò Satsu, scattando in piedi allarmata. “E’
troppo lungo il tragitto, e tu hai…”
“Non dire altro,
per favore” la zittì Miyako, sorridendole. “Voglio fare una passeggiata. E poi,
dove andrà a finire la prudenza che tanto hai elogiato se mi accompagnerai in
macchina? Dai, ce la faccio, non sono zoppa.”
“Ma…” tentò ancora
di protestare l’altra.
Era in quelle
situazioni che non si scopriva poi tanto cambiata. In alcuni momenti, l’unica
cosa che riusciva sempre a fargliela avere vinta era la sua grinta e la sua
testardaggine, e nessuno sembrava riuscire a fermarla quando si comportava in
quel modo.
“Basta, il discorso
è chiuso: decido io, e tu dovrai rompermi anche l’altra gamba per fermarmi.
Intesi?” le fece, con aria decisa. “Una stupida caviglia non mi può abbattere,
e lo sai meglio di me; quindi, perché perdersi una giornata del genere?”
Satsu la osservò
per un momento, stupita e vagamente malinconica.
“Quando fai così,
mi sembra quasi che tu stia per esclamare «Bingo!»,
come ai vecchi tempi” le disse, con un piccolo sorriso.
Con un tuffo al
cuore, Miyako si rese conto di quanto fosse vero. Stentava a trovare quella
parte spensierata di sé: sembrava essere nascosta per bene nel suo animo.
Non aveva mai
provato vero dolore, in quei giorni così lontani.
Fece il sorriso più
largo che poté. “Bingo!” esclamò poi, un’eco del tono spensierato di un tempo. Forse
cercava di far capire a Satsu che la vecchia Miyako non era scomparsa.
Forse cercava di
fermare il tempo.
Si allontanò,
zoppicando, dirigendosi verso la porta. “Ci vediamo appena possibile. Grazie di
tutto, Satsu-chan.”
Il saluto di
risposta riuscì a sentirlo solo da lontano, perché era già andata via.
***
Era un supplizio.
Stringeva i denti
ad ogni passo, per non manifestare a voce alta il dolore fisico che provava. La
strada davanti a sé sembrava decisamente troppo lunga per poter essere percorsa
quel giorno: si chiedeva incessantemente come avrebbe fatto a resistere ancora
a lungo.
Non aveva mai
zoppicato tanto. Il suo camminare era irregolare, lento e accompagnato, di
tanto in tanto, da un piccolo gemito di dolore. Si appoggiava, ogni volta che
poteva, a qualsiasi sostegno le capitava a tiro.
Quel giorno,
Miyazawa Rumiko appariva ancora più ridicola del solito.
Si era abituata da
tempo a portare quella parrucca, in modo da coprire i suoi capelli fin troppo
riconoscibili; aveva persino accettato di buon grado l’utilizzo perenne delle
lenti a contatto, sebbene sembrasse totalmente un’altra persona senza i suoi
occhiali.
Evidentemente,
però, la maschera giornaliera che la nascondeva e al contempo la faceva sentire
dannatamente esposta allo sguardo altrui non bastava a farla sentire ridicola.
Adesso doveva
sopportare anche questo.
Ne aveva abbastanza
di soffrire: pensava che i suoi ricordi fossero l’unica causa del suo dolore,
ma non aveva messo in conto che la sua perenne solitudine l’avrebbe portata ad
attraversare le vie di Tokyo con una caviglia danneggiata.
Pareva che non ci
fosse tregua per lei.
Miyako sbuffò,
stanca. Le sembrava di aver camminato per ore, mentre invece non era poi così
lontana da casa di Satsu. Se solo non si fosse così isolata dal mondo, avrebbe
potuto prendere un taxi, o un mezzo pubblico, ma sapeva di non riuscire a stare
bene in luoghi del genere.
Era da qualche
tempo che si sentiva un fantasma. Più tentava di essere naturale al solito caos
della capitale del Giappone, più sentiva di estraniarsi da esso: era una
ragazza che si nascondeva, che doveva passare inosservata, e ogni volta che
osservava quella vitalità che lei aveva represso dentro di sé, sentiva di
diventare inconsistente, un essere vestito di bianco costretto a guardare,
rimpiangere e soffrire.
Scosse la testa,
decisa a non pensarci. Non aveva voglia di aggravare il suo sconforto anche con
quei pensieri: la giornata era iniziata già abbastanza male.
Si appoggiò contro
il muro di un edificio sulla sua sinistra, chiudendo gli occhi e cercando di
trovare un po’ di riposo prima di continuare a camminare. Fino a che punto
l’impulsività del pomeriggio precedente l’avrebbe costretta in casa? Fino a che
punto la signora Sato avrebbe deciso di non farla lavorare, per il suo bene?
Per quanto tempo
avrebbe dovuto sopportare il silenzio opprimente della sua casa?
La caviglia non
dava segni di miglioramento: sembrava, anzi, peggiorare ad ogni passo. Questo
non era di certo un buon segnale.
Il pensiero del
vuoto delle camere non utilizzate nel suo appartamento la fece rabbrividire,
angosciata. Non avrebbe potuto reggere per così tanto tempo il confronto con se
stessa.
Doveva star meglio
a tutti i costi, decise. Si sarebbe abituata al dolore, ma non si sarebbe
rinchiusa tra quelle mura senza fare nulla per distrarsi.
Riaprì gli occhi,
riprendendo a zoppicare con decisione, malgrado la sua caviglia non fosse
affatto d’accordo con i suoi tentativi. Un sorriso affiorò sulle sue labbra,
mentre ricordava una canzone che aveva sempre adorato e cominciava a cantarla,
escludendo gli altri passanti, le macchine e i vari rumori cittadini dal suo
campo d’interesse.
C’erano solo i
ricordi richiamati alla memoria grazie a quelle note.
E un’eco troppo
lontana di voci giovanili, di scherzi e risate.
“Sei proprio pazza. Perché
adesso stai cantando in mezzo alla strada?”
“Perché mi aiuta a non
pensare, no? Se sono concentrata sulla mia canzone preferita, i miei problemi
passano in secondo piano! E’ un ottimo mezzo di svago, se vuoi saperlo.”
“Solo una matta come te poteva
dire un’idiozia del genere, credimi.”
Con uno strillo, si
accorse di aver messo il piede in una fossa. Cadde, appoggiandosi ad un
cartello di segnaletica stradale, mentre stringeva convulsamente gli occhi.
Quando si sarebbero decisi a rendere le strade più sicure? , si chiese,
maledicendo quella stupida fossa che aveva interrotto il suo tentativo di
sopportare coraggiosamente un tragitto fin troppo lungo per i suoi gusti.
“Che male…”
“Serve aiuto?”
Miyako sussultò,
alzando lo sguardo stupita.
E i suoi occhi
incontrarono la figura familiare di un ragazzo che aveva visto diverse altre
volte.
Era il giovane dai
capelli scuri che veniva spesso in libreria per comprare libri gialli.
Non c’era dubbio
che si stesse rivolgendo a lei e non a qualcun altro: era a pochi metri di
distanza, sul volto dalla pelle chiara un’educata preoccupazione che la giovane
sapeva essere per la strana presa convulsa con la quale si era aggrappata al
suo sostegno, e la osservava con espressione curiosa.
Le bastò solo un
attimo. Incrociò lo sguardo azzurro di lui per un solo istante, e il suo cuore
parve fermarsi.
Era lo stesso
sguardo che aveva scorto in mezzo alla strada il pomeriggio prima, dopo il
mancato incidente. Era lo stesso sguardo profondo che sembrava volesse fare suo
quel momento di debolezza, quel momento in cui il ricordo di Keiji l’aveva
quasi annientata.
Aveva capito di
aver condiviso quell’istante doloroso con quel ragazzo, che lei l’avesse voluto
o no. Aveva capito che lui aveva visto una parte di sé che lei voleva tenere
nascosta.
Persino in quel
momento, lontana da tutta l’ansia tumultuosa del giorno prima, Miyako ebbe la
fastidiosa sensazione che quegli occhi così apparentemente intelligenti e
intensi potessero leggerle dentro, che potessero capire la verità solo
guardandola.
Arrossì,
distogliendo lo sguardo. Fece un sorriso lievemente ironico, considerando la
scena che doveva offrirsi allo sguardo dell’accanito lettore di gialli. “No,
figurati: sto solamente prendendo una pausa” rispose, staccandosi infine dal
cartello. “Il problema è che non è molto facile camminare, con questa caviglia
che non si decide a collaborare.”
Quando lo osservò
di sottecchi, vide che il giovane aveva automaticamente abbassato lo sguardo
sul suo piede destro. Come prevedibile, non fece alcuna domanda: sapeva
perfettamente come era andata la vicenda.
La guardò ancora, e
questa volta aveva le sopracciglia aggrottate. “Sei a piedi?”
Doveva essere
davvero perplesso, come se non riuscisse a capire.
Miyako dovette
trattenersi dal ridere. Sapeva di quanto dovesse essere strano, parlare con
qualcuno con il piede danneggiato che, nonostante tutto, si aggirava da sola
per le vie di Tokyo senza usare altri mezzi. Il ragazzo dai capelli scuri
poteva tranquillamente pensare di lei che la sua salute mentale era andata a
farsi benedire.
“Sì che sono a
piedi. Sembra così strano?” rispose, con l’ennesimo sorriso. Si scoprì ad
evitare di guardarlo direttamente, chiedendosi perché mai un ragazzo che vedeva
quasi ogni giorno al negozio ora le apparisse così diverso. Forse era solo
suggestione del giorno prima.
“Abbastanza” ammise
lui, con un mezzo sorriso di risposta. “E’ solo… sembra che tu non stia bene.”
Aveva un’espressione particolare sul viso, come se fosse incerto su come
continuare. “Posso chiamarti un taxi, se vuoi: credo sia più consigliabile,
visto quello che…”
Tacque, abbassando
lo sguardo, imbarazzato.
E lei sgranò gli
occhi, più stupita che mai.
C’era qualcosa nel
suo interlocutore, qualcosa che non aveva notato dietro alla cassa della
libreria dove lavorava. Le sembrava di scoprirlo solo in quel momento, e che
avrebbe dovuto farlo dal primo momento.
Aveva una
gentilezza innata. Quanti altri si sarebbero fermati ad aiutare una perfetta
sconosciuta, addirittura offrendosi di trovarle un passaggio? Lui non ne
avrebbe ricavato nulla, eppure sembrava aver ritenuto giusto fermarsi e
parlarle.
Parlarle
gentilmente.
E tanti, che
l’avevano conosciuta, non avevano fatto quello che uno sconosciuto aveva
ritenuto più giusto fare.
Un’inspiegabile
gratitudine la colse all’improvviso, osservando anche la discrezione con la
quale lui si era rivolto a lei. Sapeva bene a cosa avesse fatto allusione prima
di bloccarsi: lui doveva aver compreso che lei non voleva ripensare
all’incidente d’auto che aveva evitato, e rispettava la sua volontà con un
silenzio tipico di qualcuno che non ama farsi gli affari degli altri.
Che sciocca, si
disse, scuotendo la testa. Commuoversi per una cosa del genere. Si vedeva che
non era giornata, e anche le sciocchezze riuscivano a farla sentire meglio.
Stupendo perfino se
stessa per la rinnovata grinta che dimostrava, Miyako cominciò a camminare nei
pressi del cartello, cercando di non fargli capire quanto fosse difficile
farlo.
“Guarda: ci riesco
benissimo, posso proseguire tranquillamente a piedi” affermò. “Non ho bisogno
mica di un taxi.”
Il ragazzo la
osservava, dubbioso. “Sicura?” le chiese. Non sembrava affatto convinto.
“Ovvio che sì, non
preoccup…”
Non fece nemmeno in
tempo a finire la frase che il terreno le mancò da sotto i piedi.
Per un istante
pensò che sarebbe caduta, che avrebbe peggiorato la sua situazione, mentre
vedeva il terreno avvicinarsi sempre di più…
E poi,
inaspettatamente, si aggrappò a qualcosa, che frenò la sua caduta.
Si rese conto solo
in un secondo momento che si trattava del braccio del ragazzo, che doveva
essere accorso per non farla cadere.
Quando sollevò la
testa, vide, proprio davanti ai suoi occhi, il sorriso divertito di lui. Anche
i suoi occhi sembravano essere illuminati quando sorrideva, notò, sorpresa.
“Ovvio che no”
disse tranquillamente. “Non dovresti sottovalutare il tuo dolore.”
C’era troppa
vicinanza, in quel momento. Miyako si staccò in fretta, con il cuore che
sembrava voler andare a mille.
Doveva stare più
attenta, dannazione. Cosa le prendeva?
“Davvero, non ne ho
bisogno: preferisco di gran lunga tornare a casa sulle mie gambe” dichiarò,
ostinata, anche se non era per questione di preferenza, la sua decisione di
soffrire per tutto il tragitto senza farsi dare un passaggio. “Senti, non
preoccuparti, va bene? E’ tutto a posto.”
L’azzurro dei suoi
occhi ancora non voleva lasciarla stare. Si sentì, ancora una volta, avvampare.
“Ho detto che è meglio così! Sul serio!” disse in fretta, decisamente a
disagio.
Il ragazzo sospirò.
“Se preferisci, non insito” rispose. Per qualche strano motivo, sembrava più
imbarazzato che mai. “Non volevo essere invadente, mi dispiace.”
Questo, poi, era
davvero il colmo. Dopo quello che aveva fatto per lei si scusava anche? Era
assolutamente inammissibile.
Gli sorrise,
rassicurante. “Non devi mica scusarti, sai? Anzi, ti ringrazio molto per la tua
gentilezza: nel tempo in cui siamo, dubito che altri avrebbero fatto lo
stesso.” Gli disse, e credeva ad ogni parola che stava pronunciando. “Sembra
solo strano che noi due ci incontriamo anche fuori dalla libreria, no?”
Lo vide abbassare
lo sguardo, con un sorriso imbarazzato. “E’ curioso, sì” rispose. “Ma non ho
fatto davvero nulla.”
Miyako si ritrovò a
ridere per la semplicità delle risposte dell’altro. Era strano: si sentiva
tranquilla, priva per qualche istante del peso dei suoi tormentosi ricordi. E
doveva tutto a questo inaspettato incontro. Forse la giornata non era andata
poi così male.
“Non mi hai ancora
detto il tuo nome” gli fece notare ad un certo punto, stupendosi lei stessa per
non essersi informata. Era la prima cosa che si chiedeva quando si faceva
conoscenza, eppure erano diverse volte che i due si parlavano senza pensarci.
Ma voleva
rimediare, dato che ce n’era l’occasione.
Lui sgranò gli
occhi per un istante, sorpreso, poi ridacchiò. “Hai ragione.” Disse, con un
sorriso educato sul volto. “Mi chiamo Ichijouji Ken.”
Le sembrò che il
gelo le fosse penetrato nelle vene, pietrificandola sul posto.
Il mondo attorno a
lei parve sgretolarsi, mentre osservava il sorriso del ragazzo davanti a sé.
Lo osservava, senza
essere capace di fare altro.
No. Non poteva
essere.
Era impossibile.
Ichijouji…
Si chiamava
Ichijouji…
“Non dovresti sottovalutare
Ichijouji, lo sai.”
“Neanche noi due ci vediamo
spesso, per non insospettire troppo Ichijouji.”
Era impossibile.
Non riusciva a crederci.
Era impossibile.
Si accorse del suo
tremore, si accorse di essere impallidita.
Si accorse di
essere spaventata.
Come poteva essere
lui? Come poteva aver incontrato l’uomo che la stava cercando? Era stata tutta
una farsa, per avvicinarla e scoprirla?
No. No, no.
“Ichijouji…
l’investigatore?” chiese, con voce stranamente bassa. Non riusciva a
distogliere lo sguardo da lui, anche se avrebbe voluto scappare via. Che sciocca
che era stata.
Che sciocca.
Lui la fissò un
momento, stupito, ma poi vide il suo volto diventare una maschera di delusione,
per qualche motivo a lei sconosciuto. Lo vide sospirare, sempre non capendo
cosa stesse succedendo.
“No” rispose lui.
“Mio fratello Osamu è l’investigatore.”
Si accorse solo in
quel momento, quando sentì il bisogno di prendere aria per il sollievo, di
essere rimasta quasi in apnea per alcuni, orrendi istanti.
Si era sbagliata.
Non era lui l’investigatore che minacciava la sua segretezza. Il ragazzo che le
era davanti non era Ichijouji Osamu, colui al quale doveva stare alla lontana.
Era suo fratello.
Ichijouji Ken.
Ma sapeva che
avrebbe fatto meglio a stare alla larga anche da lui.
Si costrinse a
sorridere. “Mi… mi dispiace, credevo…” iniziò, non sapendo come continuare.
Ken sorrise, ma
sembrava un sorriso amareggiato. “Un errore comprensibile, non preoccuparti.”
Rispose solamente. “Il tuo nome, invece?”
Il suo cuore batté
ancora più forte, lasciandola quasi senza fiato. Si sforzò di non apparire così
agitata.
“Miyazawa Rumiko,
piacere di conoscerti” gli disse. Si sentì, ad un tratto, lievemente più
rassicurata: gli aveva detto un nome falso. Non avrebbe potuto riconoscerla.
Eppure, non si era
mai sentita così maledettamente vulnerabile.
Lo seppe, nel
momento in cui Ken le sorrise ancora, educato, con un semplice “Piacere mio.”
Lo seppe appena scorse la bellezza e la profondità dello sguardo del ragazzo
per l’ennesima volta.
Seppe che doveva
andarsene, e alla svelta.
“Sarà meglio che
vada: si è fatto veramente tardi. Grazie di tutto, ciao!”
Non gli diede
nemmeno il tempo di rispondere: ignorando volutamente il dolore alla caviglia
Miyako aveva accelerato il passo, desiderando scappare da quella situazione
orribile.
Ripensava al viso
di Ken, e non riusciva a capacitarsi del suo destino.
Ripensava alle
numerose volte che le loro strade si erano incrociate, alle loro casuali
conversazioni dietro alla cassa della libreria, all’incidente dove lo aveva
scorto, immobile e preoccupato, al loro incontro di quel giorno, e pensava
fosse tutto un brutto incubo.
Ancora non riusciva
a crederci.
Era stata a
contatto con il fratello di Ichijouji Osamu, e non sapeva quanto fosse grave.
Ken conosceva il
suo nome, sapeva che suo fratello la stava cercando?
Aveva paura. Era
stanca. Era dolorante.
Ma c’era anche una
profonda tristezza inspiegabile dentro di sé.
Si sforzò di
scacciare il ricordo della piacevole conversazione avvenuta poco tempo prima,
del suo sorriso gentile, dei suoi modi educati, di quegli occhi troppo
intelligenti.
Perché tutto quello
che riusciva a darle un po’ di gioia doveva tramutarsi in delusione?
Perché non poteva
vivere serena, per un solo, stupido istante?
Ma Miyako non era
stupida.
Per quanto fosse
ingiusto, per quanto la sensazione di serenità che aveva provato fosse chiara e
quasi tangibile nella sua mente, sapeva quello che doveva fare.
Avrebbe tenuto
lontano Ichijouji Ken dalla sua vita.
Perché, considerò
con un sorriso amaro, era impossibile per lei vivere una vita serena.
Continuò a
camminare, in quella strada troppo lunga, con passo irregolare e troppo lento,
in quella città che, improvvisamente, sentiva come ostile, popolata da gente
che seguiva con sguardi inquisitori quel suo incedere affannato.
Buon
pomeriggio! E così è pronto l'ennesimo capitolo! :) E
anche questa volta ho deciso di impiegarlo in un punto di vista
femminile, con l'introspezione di Miyako. E -perché no?- di un
incontro tra lei e Ken! Da adesso le cose cominceranno a farsi
più complicate ^^
Il personaggio di Satsu è originale, inoltre. Spero che vi sia
piaciuta, perché avrà una sua certa importanza!
Roe, ti ringrazio
tanto per il buon parere, e sono felice di averti emozionato! **
Sì, Takeru sta decisamente cercando di arrampicarsi sugli
specchi, ma che ci vuoi fare? Quando si è disperati... u.u
Tranquilla e fidati di me, che una soluzione a tutto questo la si
trova! ;) fammi sapere cosa ne pensi dell'aggioramento, un bacione!
Arrivare in ritardo non significa non leggere, Shine:
figurati se me la prendo per questa sottigliezza! Grazie tante,
piuttosto, per essere arrivata in tempo per recensire! Davvero ti sono
piaciuti i bambini? Keiji e Asami sono quelli che preferisco di gran
lunga, ad essere sincera... ^^ Concordo su quello che hai detto a
riguardo, hai centrato davvero il motivo per il quale Hikari ama tanto
i bambini, complimenti! E sì, Taichi e Sora sono i più
attivi e decisi dell'orfanotrofio! xD Aspetta per Takeru, e vedrai come
te lo combino! Attendo tuoi pareri per questo cap, un bacione!
Grazie, Mystery Anakin,
di essere arrivata in tempo per recensire! Mi fa piacere sapere che ti
sta piacendo come procede la vicenda! ** Più che spaventata,
Hikari non sapeva come comportarsi con un ragazzo così
stranamente desideroso di risposte... Keiji è sempre attento
allo stato d'animo delle persone a cui vuole bene, e Hikari rientra in
questa categoria. Che dire, spero che questo capitolo ti sia piaciuto
ugualmente! :) Fammi sapere, un bacione!
Per oggi è tutto, vi aspetto con il nuovo capitolo! ^^
Padme Undomiel
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Capitolo 10 *** You Are Not Alone ***
Purity cap 9
9.
You Are Not
Alone
Sfregava con decisione il pastello sul foglio ancora bianco,
osservando come questo si colorava improvvisamente di azzurro.
Osservò, critico, il suo lavoro in corso, chiedendosi se il
cielo fosse davvero di quella sfumatura così chiara e quasi impercettibile.
Alzò lo sguardo verso la finestra, lasciando che il delicato castano chiaro dei
suoi occhi si perdesse ad ammirare la volta del cielo, così rassicurante, così
grande e così lontana.
Scosse, deciso, la testa, confrontando quel celeste spento con
il colore che aveva appena osservato.
Il cielo era più bello di quello che aveva disegnato lui.
Sfregò con maggiore intensità il suo pastello, ricalcando gli
spazi colorati in maniera sbagliata.
E, infine, sorrise.
Così era molto più simile.
Lasciò sul pavimento il pastello azzurro, cambiandolo con
quello giallo. Giallo come il sole.
E un cerchio luminoso comparve presto in mezzo al suo cielo,
presto circondato da piccoli raggi che avrebbero reso visibile il paesaggio di
montagna che voleva disegnare.
Keiji si sentiva felice quando disegnava. Certe volte si
soffermava a pensare a quanto avrebbe voluto volare in alto, sempre più in
alto, per sentirsi libero e ridere in mezzo alle nuvole, ma spesso i suoi
compagni non riuscivano a capire questo suo desiderio. Così lui cercava di far
vedere loro come doveva essere bello avere le ali, o vivere nei campi verdi che
amava immaginare.
Gli piaceva conservarli, i suoi lavori. Li portava con sé
quando saliva sul suo albero, desiderando che tutti quegli edifici, grattacieli
e negozi sparissero per permettergli di vedere meglio gli uccelli che volavano
verso il sole e le nuvole che coprivano le stelle durante le notti invernali.
Certe volte, invece, li donava alle persone alle quali voleva
più bene.
Hikari ne aveva tantissimi. Ogni volta che gliene faceva avere
uno, lei gli sorrideva in maniera dolce, gli dava un bacio sulla guancia e gli
diceva che era l’artista più bravo del mondo, e Keiji, in quei momenti, si
sentiva orgoglioso di aver generato lui quel sorriso tanto spontaneo e
rassicurante.
Ne aveva fatto uno anche per Taichi, dopo che lui gli aveva
insegnato a salire sugli alberi senza rischiare di cadere. Lo aveva disegnato
sul prato, accanto a lui sotto le foglie di un grande albero, e sperava che gli
fosse piaciuto, anche se il giovane aveva riso dopo averlo visto, e non ne
sapeva il motivo.
Disegnò qualche uccello nero vicino al sole, mentre si
concentrava sui suoni accanto a lui.
“Mimi mi ha comprato una bambola nuova! Guardate che bella!”
Ryoko era appena arrivata nella grande sala giochi, agitando una bambola con un
vestitino verde e lunghi capelli biondi legati in due codini. Ogni mese ne
riceveva una, e ne metteva da parte un’altra.
Non riusciva davvero a capire tutta quella esaltazione solo per
una nuova bambola. Keiji non aveva mai attribuito la sua felicità a giocattoli
o a vestiti nuovi: i suoi giochi li creava dal nulla, e si divertiva molto di
più. Ma questo nessuno dei suoi amici riusciva a condividerlo.
“Uffa! Sto giocando adesso: non posso darti retta” sbuffò Haru,
stufo. Era chiaro che voleva far finta di essere impegnato nel suo gioco dei
soldatini, perché l’alternativa sarebbe stata prendere il tè con Ryoko e la sua
bambola, nella stanza delle bambine.
Ogni scusa era buona, considerò il piccolo dai capelli viola
con un sorriso, tornando alle sue nuvole.
“Ma è nuova! Dobbiamo accoglierla!” si lamentò Ryoko, correndo
da Haru e afferrandolo per un braccio. Ai lamenti del suo compagno dai capelli
neri corti, si rese conto che la bambina aveva iniziato a strattonarlo con
forza. “Tu sei il papà! E il papà deve sempre stare con la mamma!”
Il pastello bianco si arrestò improvvisamente sul disegno.
Keiji si sollevò dalla sua posizione distesa, osservando, con
rinnovato stupore, la piccola Ryoko, che sembrava sul punto di fare di nuovo i
capricci.
Aveva detto mamma?
“Ma io non sono il papà
di quelle bambole orrende! Lasciami, Ryoko!” ribatté l’altro, tentando di
liberarsi. “Solo la mamma va benissimo, non ti servo io!”
Era curioso che l’avesse detto. Forse anche Haru credeva che la
mamma fosse la persona più amorevole e fantastica del mondo, altrimenti perché
essere così convinti nel rifiutare la proposta della piccola di tre anni?
“Ma tu devi vedere come cresco le mie figlie!” insistette lei,
ancora strattonandolo. “Dai, vieni!”
“Io lo voglio sapere”.
Keiji si accorse di aver parlato a voce troppo alta quando vide
gli occhi dei presenti posarsi su di lui, con quella sorpresa che mostravano
sempre quando lui parlava. Era confuso: cosa c’era che non andava nella sua
domanda? In fondo, era normale che lui ne volesse sapere di più su come la
pensavano gli altri riguardo alle mamme.
Voleva solo una risposta, perché se lo chiedeva da tanto tempo,
e nessuno sapeva rispondergli.
“Che cosa?” domandò Ryoko palesemente stupita, accorgendosi che
gli occhi di lui erano fissi su di lei.
Keiji si mise seduto, allontanando momentaneamente da sé i suoi
colori. Era contento che la piccola gli avesse risposto: non lo faceva sentire
a disagio nel porre quella domanda. “Come fai la mamma.”
Sbatté le palpebre, perplesso dall’improvviso silenzio che era
calato nella stanza.
Succedeva sempre così quando cercava di parlarne: nominava la
mamma, e tutti si zittivano, come se non avessero più voglia di dire nulla.
Perché nessuno voleva mai discuterne? Possibile che fosse il solo a chiedersi
come doveva essere vivere sotto lo stesso tetto della persona che ti aveva
fatto nascere?
Non poteva essere.
“Allora?” insistette, impaziente.
“Le abbraccio e le coccolo, canto le ninnananne, compro vestiti
carini, racconto le favole … Così si fa la mamma” rispose infine Ryoko, alzando
il mento con aria di chi è esperto in materia. “Non lo sai, Keiji-kun?”
Era tutto lì?, si chiese Keiji, deluso. Qual era la
caratteristica propria dell’essere madre, allora? La sua idea di mamma era
davvero diversa. Non corrispondeva a quella infantile della piccola.
“Quello che hai detto è poco.” Rispose, rimettendosi al lavoro.
Non ebbe esitazione nell’afferrare il pastello rosa: il volto delle persone è
sempre di quel colore, in fondo. “La mamma dev’essere un angelo, perché vuole
bene ai suoi figli così tanto da fare tutto per loro. La mamma non si lamenta
delle fatiche, e sorride sempre, e consola quando i figli piangono.”
Il rosso arrivò subito dopo, per disegnare sul volto piccolo e
tanto bello quel sorriso di cui aveva parlato.
“La mamma è speciale: è la migliore, perché è tua mamma.”
Si bloccò,
interdetto, scoprendo che non sapeva dare un colore agli occhi e ai capelli di
sua madre. Non sapeva come fosse fisicamente: non l’aveva mai vista.
E non somigliava a
una mamma, con solo un viso e un sorriso. Sembrava un pupazzo senza vita.
Una smorfia di
tristezza apparve sul suo viso infantile. Voleva disegnarla, e non poteva
farlo. Voleva immaginarla in qualche modo, e non poteva. Quel volto bianco era
troppo diverso da come poteva essere uno umano.
Aveva voglia di
piangere, e non sapeva perché.
“Che cosa disegni,
Keiji-kun?”
La voce curiosa di
Asami, intenta a giocare con il suo videogioco fino a poco tempo prima, lo
distolse dalla contemplazione di quel sorriso anonimo. Si voltò verso la
bambina dal caschetto nero, guardandola con amarezza.
“Perché non riesco
a ricordarmi la mia mamma?”
Voleva una
risposta, non un abbraccio di conforto. Eppure, fu proprio quello che ricevette
dalla sua amica, come sempre. Una strana rabbia lo colse all’improvviso,
facendogli desiderare di ritornare alla solitudine del suo disegno e dei suoi
colori.
“Perché ti ha
abbandonato qui, come la mia” gli rispose la bambina, con tono triste. Ma
pareva sicura di quello che diceva, in quella maniera crudele con la quale si
constata qualcosa di certo distruggendo i sogni degli altri. “Perché non ti
voleva con sé.”
Aveva appena
scoperto che c’era qualcosa di peggiore, di soffrire ogni giorno perché si
sentiva così solo.
C’erano le malvagie
bugie, la disillusione degli altri bambini, il pensiero di essere l’unico a
pensarla così, di essere l’unico a sperare una cosa tanto grande e bella.
Asami non capiva.
Nessuno capiva. Non sentivano quanto facesse male? Non sentivano la menzogna
nella loro disperata rassegnazione?
Era l’unico a
volere una mamma amorevole?
Si staccò di
scatto, guardandola con rabbia. Aveva gli occhi velati di lacrime, e non
riusciva a vedere bene: se li asciugò con la manica della sua maglia, prima di
alzarsi in piedi.
“Non è vero. Non è
vero niente” singhiozzò furente, osservando come appariva ferita Asami da quel
suo scatto. Ma non gli importava. Era semplicemente troppo da sopportare.
Si voltò verso gli
altri, in silenzio ad osservare la scena, cercando comprensione, certezze, e
quel sentimento di speranza che minacciavano continuamente, che lui si sforzava
di mantenere vivo.
Ma vide che erano
tutti d’accordo con lei. Ryoko era a braccia incrociate, offesa perché lui le
aveva detto che non era una brava mamma; Haru era semplicemente scettico, e lo
guardava quasi con compassione. Asami era in silenzio accanto a lui, con gli
occhi bassi.
La tristezza lo
strinse in una morsa serrata, impedendogli di frenare oltre le lacrime.
Raccolse il suo
foglio, i suoi colori, e scappò via dalla sala.
Come potevano gli
altri non capire?
Come potevano gli
altri vivere con questa delusione profonda?
Non avrebbero mai
compreso quello che pensava, si convinse infine Keiji, continuando a
singhiozzare, con il foglio stretto in mano.
Era da solo. Come
sempre.
***
Another day has gone
I’m still all alone
How could this be?
You’re not here with me
You never said goodbye
Someone tell me why
Did you have to go
And leave my world so cold
Non ebbe alcuna difficoltà
nel salire su quel tronco, arrampicarsi tenendosi aggrappato ai rami del suo
albero preferito, per poi individuare il suo rifugio sicuro in mezzo alle
foglie, in alto, sotto le stelle.
Era un percorso che
faceva tutto il giorno, in salita e in discesa quando Hikari veniva a chiamarlo
per il pranzo, la cena o qualche attività collettiva. E non aveva mai avuto
paura di cadere, perché sapeva perfettamente che ce l’avrebbe fatta senza farsi
male.
Le piccole scimmie
non cadono dagli alberi: sanno tenersi su in ogni momento. Proprio come lui.
Si sedette sul suo
ramo robusto, reggendosi forte e osservando la città di Tokyo dall’alto, sotto
la luce così brillante delle stelle e di quella luna parzialmente coperta dalle
nuvole.
Keiji amava quel
silenzio, quel rifugio, quel nido. Poteva pensare in santa pace lì, senza
nessun solito bisticcio di Naoko e Shinji, o spettacolo teatrale improvvisato
da Taro, o partita a calcio proposta da Junichi.
Lì nessuno poteva
ridere o scuotere la testa delle sue idee.
Lì il suo mondo
prendeva vita.
Aveva portato con
sé il suo disegno, tenendolo stretto al petto durante tutta la salita. Gli era
parso che sua mamma fosse più vicina, attraverso quella carta.
Chiunque lei fosse,
o ovunque fosse.
Aveva freddo sulle
guance, perché il vento stava soffiando proprio sul suo viso, ancora rigato di
lacrime. I capelli viola si agitavano scomposti sui suoi occhi, a tratti
nascondendo al suo sguardo le luci di Tokyo che cominciavano ad accendersi.
Era una città
troppo grande, piena di troppe persone.
Persone troppo
diverse tra loro.
E non sapeva quale
volto appartenesse a sua madre.
Si era sempre
chiesto quali caratteristiche avesse preso da sua madre, a chi appartenessero
quei capelli viola, quegli occhi castano chiaro, quel suo naso dritto, quelle
labbra sottili. Aveva risolto che i capelli dovevano essere di suo padre, ma
gli occhi di sua madre. E che probabilmente aveva altri lati simili a sua
mamma, che non conosceva.
Ma che importava,
dopotutto?, si chiese con rabbia, mentre altre lacrime scendevano sulle sue
guance. Non poteva saperlo. Lei si era separata da lui, per qualche motivo che
non conosceva.
Una mamma doveva
sempre stare con il proprio figlio, lo sapeva. Lo aveva visto in molte famiglie
che passavano sotto la villetta, mentre le osservava di nascosto sull’albero.
Invece, la sua era andata via, lasciandolo lì.
Gli sarebbe bastato
un saluto veloce, una visita momentanea. Solo il tempo di essere abbracciato
come Hikari faceva, il tempo di ricevere un bacio sulla fronte e uno sguardo
d’amore, il tempo di conoscere il volto dell’angelo che l’aveva fatto nascere.
Perché, anche se
Hikari era la persona più cara che Keiji avesse, non era sua mamma.
Sua mamma era via,
chissà dove.
Chissà chi.
E nessuno sapeva
dargli una risposta, nonostante la cercasse continuamente nei suoi amici e nei ragazzi
che lo accudivano, i suoi amici più stretti. Sua mamma non era riuscita a
dargliela.
Non era giusto,
pensò, tirando su col naso. Non era giusto.
Everyday I sit and ask myself how did love slip away
Something whispers in my ear and says
Certe volte, prima
di andare a dormire, Keiji si immaginava nei panni di un bambino normale, in
mezzo alla sua famiglia, con l’amore che gli sarebbe spettato di diritto. Si
vedeva cullato nel sonno dalla voce pura e dolce di sua madre, che intonava la
musica più bella del mondo.
Immaginava che ci
fosse sua mamma seduta sul bordo del suo letto, a rimboccargli gentilmente le
coperte nel momento in cui si fosse esposto al freddo delle notti invernali, a
osservare, sorridendo, i numerosi disegni che lui, sicuramente, le avrebbe
donato.
Solo allora,
sorridendo serenamente, i suoi occhi sempre attenti si arrendevano al sonno.
Solo allora gli incubi si allontanavano definitivamente dalla sua piccola
stanza, che condivideva con i suoi coetanei.
E si rilassava per
tutte le ore notturne, cullandosi nella prospettiva di risentire quella pace
anche al suo risveglio.
Non era mai
avvenuto questo. La mattina, quando apriva gli occhi, l’ingiustizia della
mancanza della sua mamma lo colpiva duramente, spesso portandolo alle lacrime
silenziose. Si accorgeva di non essere normale, che proprio a lui era toccata
quella separazione, senza alcuna giustizia.
Eppure, non sapeva
rinunciare alla dolcezza che sentiva prima di dormire.
Tanto grande era il
suo desiderio di averla accanto, che riusciva a sentire il suo peso sul suo
materasso. Sentiva il suo bacio della buonanotte, e poteva immaginare la sua
voce.
Una voce nel suo
orecchio, che lo rassicurava, che lo tranquillizzava.
La voce di sua madre
così lontana.
“You are not alone
I am here with you
Though you’re far away
I am here to stay
You are not alone
I am here with you
Though we’re far apart
You’re always in my heart
You are not alone”
Era un’eco lontana,
un suono femminile quasi impercettibile, ma Keiji voleva sentirlo.
Keiji voleva che
fosse quella la verità, che sua madre davvero volesse dirgli che non lo aveva
dimenticato. Non avrebbe mai risolto che quella fosse solo una sua fantasia,
come gli dicevano gli altri.
Voleva sperare che
sua mamma volesse essergli accanto, e non lasciarlo per sempre solo.
Perché lui non la
ricordava, ma sapeva di volerle bene.
Troppo bene, come
solo un figlio sa fare.
Aveva bisogno di
lei, per non piangere più. Le mancava lei, e tutto il mondo sarebbe stato
perfetto, pieno di tutto ciò che potesse desiderare.
Aveva bisogno di
credere in lei. E sapeva che anche Hikari voleva questo.
Se ne accorgeva, di
quando i suoi pensieri erano altrove. E gli sfiorava il viso, delicatamente,
con quella strana espressione tenera e commossa.
“Non perdere mai la
capacità di sognare, Keiji-chan: è l’unica cosa che ti darà quello che vuoi,
nella vita. Credici, e non arrenderti mai.” Gli diceva sempre.
E il piccolo si
perdeva nel suo abbraccio, piangendo in silenzio, trovando conforto nell’unica
persona che sapeva capirlo, e chiedendosi se il profumo di sua mamma fosse
stato altrettanto buono, altrettanto rassicurante.
Su quell’albero,
nel silenzio della sera, Keiji tentava ancora di sentire la sua voce.
Tentava ancora di
trovare la sua serenità da figlio.
Cercava ancora sua
mamma nel vento.
***
Just the other night
I thought I heard you cry
Asking me to come
And hold you in my arms
I can hear your prayers
Your burdens I will bear
But first I need your hand
Then forever can begin
Era un qualcosa che
non avrebbe mai potuto dimenticare. Mai.
Forse perché troppo
prezioso, forse perché le era venuto a mancare così bruscamente. Non poteva
saperlo, ma era perfettamente a conoscenza che quel suono così caro e dolce
alle sue orecchie non sarebbe mai svanito dalla sua memoria.
Sembrava passato
così tanto tempo da quando l’aveva ascoltato l’ultima volta.
Era il pianto di un
bambino. Lo strillo di richiamo di un bambino stupendo, che l’avvisava che era
sveglio, che aveva bisogno di lei, che da solo non sarebbe mai potuto restare.
Era il suono
esigente di un essere troppo piccolo per potersela cavare senza la sua mamma.
Il vento fresco
della sera, sul balcone del suo appartamento, le agitava in maniera scomposta i
tanto falsi capelli neri, mentre il suo sguardo si perdeva nei ricordi passati
che riuscivano a farle rivivere quella gioia straziante che aveva provato
troppo tempo prima.
Un sorriso dolente
piegò le sue labbra, mentre sentiva ogni fibra del suo essere far male.
Miyako non poteva
dimenticare il periodo in cui era stata madre, o si era sentita tale. Le
sembrava che quei due mesi, tanto brevi ma tanto intensi, fossero incisi nella
sua mente e nel suo animo.
E, malgrado
sentisse il disperato, irrazionale bisogno di mettere da parte quei pensieri
per smetterla di soffrire così tremendamente, non sarebbe riuscita a bandire
quei ricordi a lungo.
Chiuse gli occhi,
arrendendosi al flusso di emozioni che attendeva solo un passaggio per poterla
inondare.
Ricordò come
accorreva in fretta nella camera da letto dove riposava il suo bambino,
intenerita e commossa dal suono così infantile della sua voce, e dalla felice
idea che il suo piccolo Keiji le volesse già bene, che la stesse chiamando
perché aveva un disperato bisogno della presenza di sua madre. Proprio come lei
ne aveva di stare con lui, in quei momenti così difficili, così dolorosi, così
ingiusti.
Ricordò come lo
stringeva al petto, cullandolo e sussurrandogli parole senza senso solo per
osservare come i suoi occhi- color castano chiaro, come quelli di lei- si
soffermavano sul suo volto, ascoltandola senza, ovviamente, capire. Ricordò la
gioia e l’orgoglio che la inondavano, nell’osservare la bellezza, la salute e
la tranquillità di Keiji mentre lo sfiorava, lo ricopriva di teneri e leggeri
baci, mentre gli cantava dolci melodie per farlo, infine, dormire.
Ricordò le sue
lacrime di felicità mista ad amarezza, quando si rendeva conto che lui era
l’unica persona che le era rimasta, un bambino da accudire, un confidente
ignaro del suo dolore, suo figlio. Il
bambino più bello che avesse mai visto.
Ma era tutto
finito. Keiji non viveva con lei, e Miyako non lo vedeva da sette, lunghissimi
anni.
Aprì gli occhi,
stringendosi le braccia al petto per colmare quel senso di vuoto che
l’avvolgeva. La visione si infranse, lasciando il posto all’immagine di una
dannata città di Tokyo illuminata, gioiosa, serena. Serena anche con la sua
perdita incolmabile.
Era da troppo tempo
che aveva perso la possibilità di vedere il suo Keiji crescere assieme a lei.
Non aveva potuto sentire le sue prime parole, né avrebbe potuto compiacersi del
suo carattere, dei suoi successi. Non avrebbe visto il suo volto farsi più
bello.
Non l’avrebbe mai
sentito chiamarla mamma.
Un senso di
straziante consapevolezza la colse impreparata.
Chi sarebbe stato
ad ascoltare le sue confidenze, quando ne avrebbe avuto bisogno? Chi avrebbe
curato le ferite dovute alle prime, piccole delusioni con gli amici?
Chi avrebbe
chiamato Keiji, piangendo, perché lo aiutasse?
Non certo lei. Non
certo la madre che lo aveva abbandonato.
Ma lo avrebbe
voluto, con tutta se stessa. Avrebbe voluto correre all’orfanotrofio,
stringerlo in un abbraccio, e promettergli che non l’avrebbe lasciato più, che
avrebbero condiviso ogni cosa. Avrebbe voluto chiedergli se lui aveva ancora
bisogno di lei.
“Sono qui con te, se lo vuoi” gli avrebbe detto, sorridendogli.
Se solo avesse
potuto farlo.
Everyday I sit and ask myself how did love slip away
Something whispers in my ear and says
Ogni persona deve
scontare le sue colpe, presto o tardi. Era qualcosa di fin troppo chiaro, per
lei.
Ma il destino era
riuscito a punirla nella maniera peggiore al mondo. Strappando via da lei la
possibilità di passare il resto della sua vita con suo figlio, dopo averla
privata di qualsiasi altro bene, qualsiasi altro affetto.
Era una ferita che
non si sarebbe mai rimarginata, che avrebbe continuato a sanguinare, in assenza
di bende che potessero impedirle di morire ogni giorno di più.
E lei si opponeva
con tutte le forze rimaste in lei. Non poteva essere così, continuava a
ripetersi, senza risultato, senza cambiamenti. La vita non poteva privarla del
suo bene più prezioso: non poteva, non poteva affatto. Semplicemente perché
sentiva ancora tremendamente forte il dolore del distacco da Keiji,
semplicemente perché avrebbe sfidato qualsiasi altra donna madre a separarsi
dalla propria ragione di vita.
Ma non poteva farci
nulla. Le loro strade avevano dovuto separarsi, per il bene di lui.
Miyako poteva solo
stare a guardare la sua vita che andava avanti, senza sapere quale fosse la sua
meta, perché mai dovesse continuare a vivere da sola.
E poteva sperare
scioccamente. Sperare che lui non la odiasse. Sperare che Keiji pensasse a lei,
ogni tanto, che riuscisse a esserle accanto anche se non poteva ricordarsi di
lei.
Sperava che le
volesse bene, anche se sapeva che questo non sarebbe mai potuto essere.
“You are not alone
I am here with you
Though you’re far away
I am here to stay
You are not alone
I am here with you
Though we’re far apart
You’re always in my heart
You are not alone”
E nei momenti in
cui si sentiva sprofondare, riusciva solo a immaginare il suo bambino accanto a
lei, cresciuto, intelligente, buono, prenderle la mano e assicurarle che non
l’avrebbe mai lasciata, che doveva essere forte e andare avanti, perché era lui
il bambino, e non viceversa. Immaginava la sua voce infantile, illudendosi che
fosse davvero quella perché aveva imparato ad amarla nella sua fantasia, e
capiva che anche lei, la persona che doveva essere forte, che avrebbe dovuto
proteggere suo figlio dalla crudeltà del mondo, aveva bisogno di lui, o sarebbe
morta.
Era solo questa
inutile, sciocca speranza che non le permetteva di rinunciare a vivere
attivamente, che non le permetteva di abbandonarsi a stupidi atteggiamenti
insensati per dimenticare quello che aveva fatto, o perso.
Era solo l’immagine
invisibile del figlio che aveva figurato nella sua mente, del suo angelo di
sette anni che non avrebbe mai visto, a farla respirare, contrariamente alla
sua fragilità o al suo passato.
E, in mancanza
della vera gioia, Miyako era costretta ad essere illusa, pur di non cedere.
In mancanza di
Keiji, la sua vita, Miyako immaginava un’eco lontana di quello che avrebbe
dovuto essere.
E continuava a
condurre la vita di ogni giorno.
***
Whisper three words and I’ll come running
And girl, you know that I’ll be there
I’ll be there…
Un sospiro triste
uscì dalle sue labbra, mentre osservava ancora, dal suo ramo robusto, lo
scenario troppo vasto della città dove viveva.
Non era grande
abbastanza, nonostante avesse già compiuto sette anni. Era ancora troppo
piccolo per andare in giro per le strade di Tokyo da solo, troppo piccolo per
cercare lei.
Non poteva vagare
da solo alla ricerca di sua mamma.
Nonostante il suo
bisogno di vederla, non poteva trovarla.
Ma Keiji non si era
arreso. Non sarebbe rimasto ad aspettare per sempre: un bel giorno avrebbe
cominciato a cercarla, senza fermarsi, senza chiedere il parere dei suoi amici,
senza che qualcuno gli impedisse di vedere il volto di sua madre.
Ancora pochi anni,
e sarebbe corso da lei.
Gli bastava solo un
segnale, qualsiasi cosa, che gli facesse capire quale luce che vedeva appartenesse
alla casa del suo angelo. Gli bastava un qualsiasi segno che sua madre voleva
farsi trovare.
E Keiji non avrebbe
aspettato oltre. Sapeva che lo voleva: lo voleva troppo.
Aveva bisogno di
lei.
Non voleva più
piangere, su quell’albero.
“You are not alone
I am here with you
Though you’re far away
I am here to stay
You are not alone
I am here with you
Though we’re far apart
You’re always in my heart”
Keiji afferrò con
forza il ramo sopra di sé, mettendosi in piedi e sentendo il vento soffiare più
forte. Osservava la luna seminascosta dalle nuvole, e quelle due stelle
visibili al di là del cattivo tempo.
Non aveva paura
dell’altezza, né del vento.
Perché un giorno avrebbe
spiccato il volo, come un uccellino inesperto che imparava appena a volare, e a
avrebbe lanciato il suo verso nel cielo, e sua mamma avrebbe ascoltato, avrebbe
capito.
Lo avrebbe
raggiunto tra le nuvole, sotto la luce del sole, e gli avrebbe insegnato la
maniera più corretta per volare. Lo avrebbe portato in un nido comodo,
proteggendolo dal freddo con le sue grandi ali sicure e forti, e Keiji non si
sarebbe mai separato da lei.
Non avrebbe più
pensato a quando era triste e orfano.
Perché ci sarebbe
stata sua mamma con lui, ad abbracciarlo forte e a scacciare i suoi incubi.
Sarebbe stato un
bambino normale.
E avrebbe ascoltato
la voce melodiosa di sua madre.
Senza avere paura
che lei lo odiasse, che lei fosse lontana perché non lo voleva.
Un giorno, avrebbe
saputo qual era il suo posto nella vita.
E Keiji voleva
crederci. Voleva crederci.
“Sono qui, mamma… Vieni a prendermi.”
***
“You are not alone
I am here with you
Though you’re far away
I am here to stay
Though we’re far apart
You’re always in my heart
You are not alone”
Avrebbe parlato al
vento, se avesse avuto la certezza che Keiji fosse in ascolto. Avrebbe affidato
il suo amore a quei soffi impetuosi che le agitavano i capelli sulle spalle.
Avrebbe urlato,
solo per annullare le distanze che li separavano.
Miyako avrebbe
tanto voluto avere un momento per parlare a suo figlio, per fargli capire tante
cose.
Che la distanza non
importava: lei lo amava con tutto l’affetto che una madre –sebbene una madre
indegna- poteva mai provare, e questo non si era affievolito nemmeno per un
istante, nemmeno non avendo più la possibilità di vederlo.
Che gli chiedeva
perdono. Che non era mai riuscita a perdonarsi di averlo messo nelle condizioni
di dover essere abbandonato in un orfanotrofio, per salvargli la vita.
Che gli mancava
ogni giorno, che ogni lacrima che versava era per lui, solamente perché non
riusciva a non volergli un mondo di bene perché era la sua creatura, il suo
bambino, il piccolo che aveva portato dentro di sé per nove mesi e che aveva
nutrito e protetto per due.
Che non lo aveva
dimenticato, lasciato solo, anche se sembrava fosse quella la verità.
Che lei non era più
nulla, senza di lui.
Ma il vento era
crudele, e non avrebbe potuto portare fino a lui quei messaggi.
Il vento non era un
messaggero.
Le sue frasi
rimanevano sulle sue labbra, bloccate da una voce troppo debole per essere
udita dal suo piccolo Keiji.
Ma i suoi pensieri
erano concentrati su di lui. E sperava che lui lo avvertisse.
L’unico desiderio
che poteva concedersi.
E mentre la vita proseguiva,
la notte trascorreva, placida e silenziosa, un sorriso pieno di doloroso amore
piegò le labbra della giovane, dall’alto di un balcone affacciato su Tokyo.
“Comunque sia andata, Keiji-chan… Non
dimenticarti di me. Cresci sano e forte. E io sarò accanto a te, e non ti
lascerò mai andare.
Ti voglio bene…”
Ebbene
sì. Questa volta ho deciso di proporvi un capitolo diverso dagli
altri, puramente introspettivo, e ispirato da una canzone. E' che,
ascoltando "You are not alone" di Michael Jackson, non ho potuto fare a
meno di pensare a Keiji, e così... Ecco il risultato. Questo
vuol essere anche un piccolo tributo all'artista, che adoro sul serio.
Ringrazio, come sempre, chi ha letto, commentato e apprezzato lo scorso capitolo: siete davvero fantastiche!
Roe, non posso che
essere felice che ti piaccia il personaggio di Satsu: ho sempre pensato
che solo una personalità forte come la sua avrebbe potuto stare
accanto a Miyako, e così ho pensato di inserirla in questa
storia. Per la questione dei mezzi pubblici... Diciamo che lei
preferisce sempre non prenderli, non tanto per motivi esterni, quanto
psicologici... Il problema è che si sente separata dal mondo
esterno, e questa sensazione non riesce a sopportarla. Spero di essere
stata chiara! :) Ti ringrazio per tutto, e sono curiosa di sapere cosa
ne penserai di questo!
Sai, Shine, il
realismo è uno dei miei più grandi obiettivi, quindi
capirai bene quanto il tuo commento positivo riguardo l'introspezione
di Miyako mi abbia fatto piacere! Satsu è un bel personaggio?
Beh, grazie ^//^ Considerando il ruolo che avrà, è
proprio un bel risultato! Non ti sbagli riguardo Ken e Miyako: la loro
non è certo una situazione facile u.u e andando avanti il loro
rapporto non potrà che diventare sempre più problematico!
In ogni caso, non so dirti quanto mi fa piacere che ti abbia colpito la
scena, perché a loro ci tengo molto, come ben sai ** E' stato
davvero bello leggere il tuo parere, spero di non deluderti mai!
Grazie per la recensione, Mystery Anakin:
sono molto contenta che ti piacciano maggiormente i capitoli di Miyako
e Ken. Devo ammettere che sono i punti di vista più complessi
(xD), ma ci dedico anima e corpo, come puoi ben immaginare! In effetti,
Satsu e Iori hanno fatto la stessa scelta di sacrificio per Miyako, con
l'unica differenza che lei non ha mai vacillato in questa decisione,
come invece ha fatto Iori per la sua etica. Sono felice che ti sia
simpatica! :) Il rapporto tra Miyako e Ken non potrà che
continuare ad evolversi, tranquilla, e spero che i nuovi sviluppi ti
piacciano! Mi fai sapere che ne pensi di questo? Sono molto curiosa! ^^
Ci ritroviamo al prossimo aggiornamento!
Padme Undomiel
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Capitolo 11 *** Frammenti di passato ***
Purity cap 10
10.
Frammenti di passato
18 ottobre
Scrivere
un diario. Strana idea. Eppure, una volta sfogliate le pagine di questo
quaderno –rigorosamente viola, ovvio- l’ho trovato così spoglio che ho pensato
che fosse mio dovere riempirlo con qualcosa. Quindi, ho deciso di iniziare.
Anche
perché potrei dire qualunque cosa mi passi per la testa qui, no?
Ieri
sono riuscita a convincere Iori-kun a uscire con noi: impresa titanica, dico
sul serio, ma almeno ne è valsa la pena! Quel ragazzo è troppo riservato,
glielo dico sempre, e quando ammetterà che siamo un gruppo stupendo mi
ringrazierà di averlo quasi trascinato di peso!
Gli
serve sorridere un po’, poco ma sicuro. E poi, ci tenevo che si divertisse con
noi e che conoscesse i miei amici, dato che lo stordisco ogni giorno con tutte
le mie chiacchiere su di loro!
Credo
sia stato bene, ha parlato con gli elementi più tranquilli del gruppo. Non si è
avvicinato minimamente a Naganori, per esempio –parola mia, è troppo
intelligente per commettere un errore simile…-, e nemmeno con il nostro Caro Simpaticone, ma ha conosciuto
Satsu-chan, e credo sia già qualcosa.
Io,
invece, ieri non ho potuto fare a meno di essere pazza. Era da un po’ di tempo
che avevo notato che c’era qualcosa che
23 dicembre
E
adesso che faccio? Sono nel pallone più totale, ed è tutta colpa di questa
dannata situazione che non ci voleva sul serio!
Sono
confusa. Cosa dovrei fare? Io lo so che vorrei tentare di
…
Ma
c’è un’alternativa spiacevole, che non vorrei mai. Ho pensato ieri che
27 dicembre
Rabbia,
rabbia, rabbia, rabbia, rabbia.
Perché?
31 dicembre
Vorrei
solo un po’ di comprensione, nulla di più. Sono distanti in ogni momento della
giornata, ma proprio quando ho bisogno della loro approvazione, amano mettere
in discussione tutto quello che decido o penso. Sto piangendo e ho chiuso la
porta a chiave: meglio che mi sentano, magari provano un po’ di senso di colpa
per il pessimo comportamento che hanno nei miei confronti.
Li
odio, come loro odiano me.
Cosa
ho fatto di male? Cercavo di essere felice, felice come non lo sono stata mai.
Ma
loro non capiscono che quello che
29 gennaio
E’
solo questione di tempo, ormai.
Devo
resistere, e continuare a pensare a quanto io sia felice.
Non
m’importa di nient’altro, e il resto del mondo lo capirà, un giorno.
Voglio
solo che questo insieme di assurdità termini.
***
Era
appoggiato con la schiena contro un alto edificio, lo sguardo basso, la fronte
corrugata, il grigiore di quella giornata come riflesso nel suo animo.
Era
totalmente immobile, come se non sapesse con esattezza cosa ci facesse lì.
Ma lui lo
sapeva perfettamente.
E, sebbene
allo sguardo altrui apparisse così inutile la sua postura rigida e immobile, per lui non c’era nulla di
anormale.
La sua
mente correva veloce, in attesa di arrivare alla risposta esatta alle sue
domande.
Ichijouji
Ken cercava di scacciare la sensazione di inquietudine dal suo animo. Cercava
un senso a quello che aveva appena visto, in quell’appartamento accogliente e
sobrio che era tanto abituato a considerare quasi inaccessibile, data la
segretezza con la quale lui lavorava
lì.
Non
riusciva a capire. Aveva visto qualcosa di particolare sul volto di suo
fratello, oltre alla normale apprensione riguardo il caso Inoue. Osamu era
strano, troppo strano, e un pensiero sgradevole si era fatto strada nella mente
del giovane.
Cosa stava
succedendo loro?
Ma
soprattutto, c’era qualcosa che Osamu non riusciva a tollerare, in quella
situazione?
Non
riusciva a non ripensare alla sua espressione, quando si era recato a casa sua,
deciso a riprendersi il diario che gli aveva lasciato perché lui lo esaminasse.
Doveva aver
sbagliato qualcosa, anche se non riusciva ad arrivare alla risposta esatta.
Tutto l'ambiente circostante dava
l’impressione di essere qualcosa come un rifugio, per suo fratello. Ken aveva
la strana, curiosa e inspiegabile sensazione di aver violato uno spazio privato
senza volerlo, mentre osservava distrattamente il semplice divano nero dietro
di sé, il grande schermo televisivo alla sua destra, e la quantità incredibile
di giornali, fogli e appunti ordinati su un piccolo tavolino davanti al divano.
Quello era il vero regno di
Ichijouji Osamu, forse persino più importante del suo ufficio. Aveva la
sensazione che suo fratello maggiore avesse le sue intuizioni geniali proprio
nel buio del suo salotto, che lì la sua mente geniale riuscisse a mostrare le
proprie doti senza limiti.
Era come se le straordinarie abilità
di suo fratello fossero avvertibili nella stessa aria che respirava.
E Ken sentiva di non poter reggere
il confronto, mentre osservava in viso il suo interlocutore.
La luce soffusa delle lampade
appoggiate sulla scrivania creava strani effetti di ombre sul viso accigliato
di Osamu, seduto ad una sedia comoda ma professionale. Pareva che si trovasse a
suo agio nel buio della sala, come se la luce del sole non sapesse aiutarlo a
occuparsi dei suoi casi, come se fosse completamente discostante dal suo modo
di pensare o dal suo carattere cupo.
Lo scrutava, con le sopracciglia
corrugate, in totale silenzio dopo un’accoglienza stranamente preoccupata. Lo
scrutava, come se cercasse qualcosa, come se non fosse totalmente convinto di
qualcosa.
E il minore dei due non riusciva a
non ricambiare l’occhiata, chiedendosi, in questo scambio silenzioso di
sguardi, in che maniera avrebbero spezzato quel silenzio meditabondo che li
avvolgeva entrambi.
Alla fine, Osamu sospirò,
afferrando, alla sua destra, quel quaderno fin troppo sottile dalla copertina
viola che Ken gli aveva affidato dopo averlo letto diverse volte, e
sollevandolo perché fosse ben visibile.
“Sai per certo che è per questo che ti ho chiamato” iniziò, a voce bassa, come se temesse di
disturbare il tranquillo suono del silenzio.
Ken annuì, per nulla sorpreso. “Lo
hai letto, allora. Cosa ne pensi?”
“Non così in fretta, Ken” ribatté l’altro,
e per un istante gli parve quasi irritato. Lui batté le palpebre, sorpreso: non
si aspettava che suo fratello avrebbe adottato un tono del genere, e non ne
capiva il motivo, ad ogni modo. “Prima devi spiegarmi come hai fatto a trovare
questo diario personale, visto che l’altro giorno non ce n’è stato tempo. Il
tuo passatempo momentaneo è cercare di farti investire dalle macchine in
strada?”
Ci volle qualche istante di
silenzio, in cui gli occhi penetranti e stretti a fessure di Osamu lo
scrutarono in maniera inquisitoria, perché capisse a cosa stava alludendo.
L’incidente. Ma certo. Era al
telefono con lui quando un bambino in strada aveva sfiorato la morte, e Ken era
stato troppo impegnato a cercare di salvare quel bambino e di controllare le
condizioni di salute di quella ragazza, per ricordarsi di avvisare Osamu che
non gli era successo nulla.
“Io… no, non è un passatempo. E non
ero io a rischiare un sopralluogo urgente all’ospedale” rispose cautamente,
incuriosito dall’evidente irritazione di suo fratello maggiore. Non mostrava
così spesso le sue emozioni: doveva esserci qualcos’altro, oltre
quell’espressione dura. “Mi dispiace di averti fatto preoccupare.”
Osamu fece un gesto infastidito con
la mano, e Ken dovette sforzarsi di non sorridere, distogliendo lo sguardo. “Lo
sai che non posso stare attento a quante volte ti metti nei guai. Quindi, la
prossima volta, vedi di stare in guardia, o, se non altro, di rispondere al
cellulare quando ti chiamo.”
Aveva uno strano modo di
dimostrargli che era stato in pensiero: il suo orgoglio spesso gli impediva di
mostrarsi incline alla preoccupazione e alle manifestazioni d’affetto. E non
solo con lui.
Ma Ken gli era grato, e si sentiva
in colpa per averlo lasciato a corto di notizie per qualche ora.
“Starò più attento, la prossima
volta. Scusami.”
“Non ha importanza: non siamo qui
per parlare di incidenti, dico bene?”
Sollevò nuovamente lo sguardo, per
verificare se l’espressione dell’altro si fosse ammorbidita, ma con suo grande
stupore notò che le sopracciglia dell’investigatore erano ancora più
aggrottate.
Non riuscì ad interpretare la sua
occhiata, né il motivo per cui lui sembrava tanto adirato.
“No” disse Ken, incerto. “Volevi
sapere come ho fatto a trovarlo, è così?”
Osamu annuì soltanto, senza aprire
bocca.
Sul punto di dare la risposta, però,
il giovane si interruppe, confuso.
Si rese conto di non sapere cosa
dire. Cosa aveva detto, come aveva fatto ad ottenere quella prova indubbiamente
importante, sebbene strappata nei punti più interessanti? Come aveva indotto la
signora Inoue a mostrargli quel diario, che senz’altro conservava con tutte le
attenzioni di una madre distrutta che desiderava solamente rivedere la sua
Miyako?
Non lo sapeva. Ma era sicuro di non
averle detto nulla di particolare, nulla riguardo al suo compito di ritrovare
sua figlia scomparsa.
Si sforzò di ricordare esattamente
come fossero andate le cose, capendo che la pazienza di Osamu aveva un limite,
ed era consigliabile non violarlo, quando era di cattivo umore.
In un istante, il volto sofferente
della povera donna riempì la sua mente, riportando con sé l’angoscia che Ken
aveva provato in quel momento. Ricordò che le aveva fatto diverse domande,
senza mai ottenere una risposta soddisfacente. Ricordò che l’aveva assecondata,
che aveva visto le foto, e poi… e poi…
All’improvviso lei era tornata in
sé, e gli aveva chiesto di vedere il diario di Inoue Miyako.
Sembrava illogico. Era stato
completamente dovuto al caso.
Scosse la testa, decidendosi,
infine, a parlare. “Non lo so, Osamu. Dico davvero. E’ stato in uno dei momenti
di lucidità della signora Inoue: mi ha portato in camera di sua figlia, e me lo
ha mostrato di sua spontanea volontà. Non l’ho trovato io… e non conosco il
motivo per cui lei avrebbe dovuto mostrarmelo, visto che non le ho nemmeno
parlato del mio compito.”
Vide l’incredulità sul viso di suo
fratello, e si sentì avvampare per la vergogna. Si rendeva perfettamente conto
di quanto insensata apparisse la sua spiegazione, ma non poteva farci nulla.
Ken non era un investigatore,
dopotutto, e si trattava del primo caso di cui si occupava. Osamu non poteva
certo aspettarsi grandi tecniche per conoscere la verità o una furbizia dovuta
all’esperienza che non poteva appartenergli di sicuro.
“Mi prendi in giro?” ribatté suo
fratello, con un insolito tono tagliente. “Hai trovato un’importante prova che
ci può aiutare a risolvere il caso Inoue… e non sai come puoi
esserci riuscito?”
L’imbarazzo crebbe ancora. Ken non
riusciva a capire: le parole di Osamu lo disorientavano. Se aveva trovato una
prova importante, perché sembrava così contrariato? E come poteva spiegargli
quello che era successo, quando nemmeno lui capiva?
“Perché dovrei prenderti in giro? Ti
ho detto la verità, non vedo il motivo per cui dovrei tenerti nascosto un
particolare del genere. Lavoriamo insieme, in fondo.” Fu la sua risposta
sincera, mentre tentava di comprendere i pensieri di Osamu. “La signora Inoue
non è… La sua salute mentale dev’essere stata compromessa dagli avvenimenti che
l’hanno sconvolta otto anni fa, per questo alterna momenti di lucidità ad altri
in cui si nasconde in un mondo immaginario dove i suoi figli sono ancora in
quella casa, ancora con lei.”
Si sforzò di allontanare dai suoi
ricordi l’inquietudine che aveva provato alcuni giorni prima, e di restare
lucido per essere compreso alla perfezione da Osamu.
“Non so, forse non aveva intenzione
di mostrarmelo… Forse non riesce a ragionare in maniera coeren…”
“Com’è possibile che tu l’abbia
trovato in quella casa dove per
anni abbiamo fatto diverse perquisizioni?”
sbottò all’improvviso suo fratello, e Ken sussultò, preso alla sprovvista. La
sua non era stata una domanda curiosa, lo aveva capito: voleva conoscere il
motivo per cui quel diario era riuscito a restare nascosto malgrado il suo
duro, scrupoloso lavoro.
Ken capì che il suo orgoglio era
stato gravemente ferito, e si sentì nuovamente in colpa per il suo colpo di
fortuna.
“Io non ho lasciato nulla in
sospeso, nulla! Eppure, pare che io abbia fallito in qualche maniera! Come
poteva essere in quella stanza, se ci ho passato mesi… anni per perquisirla per
intero?”
“Osamu, io… Non è colpa mia” tentò
di dirgli Ken, turbato. Conosceva la passione di Osamu per il suo lavoro e le
sue indagini, ma non pensava che una sconfitta del genere gli avrebbe fatto così
male. “Vorrei saperti rispondere, ma giuro che non so come sia potuta succedere
una cosa del genere. Sono stato fortunato in qualche maniera, non c’è altra
spiegazione. Se fossi ritornato tu in quella casa e avessi fatto una nuova
perquisizione, lo avresti trovato tu, finalmente.”
Si sentì quasi raggelato
dall’occhiata penetrante che l’investigatore gli lanciò, dopo essere tornato in
silenzio. Era strano: gli pareva che suo fratello ce l’avesse con lui per
qualche motivo sconosciuto.
Ma non poteva avere senso. Possibile
che fosse solo una sua impressione?
“No, certo non si può parlare di
colpa, Ken. Hai trovato un documento importante.” Disse piano Osamu, sempre con
quel tono strano, sempre con gli occhi fissi nei suoi.
Perché sembrava un’accusa, invece di
un riconoscimento?
Quell’orgoglio che aveva tanto
sperato di cogliere nella voce dell’altro, alla menzione del suo successo,
sembrava essere un’utopia. Ma non riusciva a comprendere cosa fosse successo
tra loro, mentre un nuovo, pesante silenzio li assordava entrambi.
“Tornando a questo diario” continuò
poi il maggiore, e Ken non poté fare a meno di sentirsi sollevato dal nuovo
chiacchierare. “L’ho letto con molta attenzione, e ho fatto le mie dovute
considerazioni. Tuttavia, ho intenzione di chiedere il tuo parere.”
Ancora non riusciva a credere che le
sue idee potessero essere valide quanto quelle di Osamu. E gli parve così
strano che lui gli chiedesse una cosa del genere dopo quello sfogo di qualche
minuto prima, che fu tentato dal chiedergli perché mai adesso aveva deciso di
voler discutere serenamente con lui.
Nonostante ciò, non osò formulare la
domanda. Si limitò ad assentire, in attesa.
“Va bene.”
Osamu abbassò lo sguardo sul diario,
aprendolo con cautela per via delle pagine strappate e estremamente facili alla
rottura. La scrittura larga e disordinata di Miyako apparve subito tra le poche
pagine lasciate intatte, e Ken non poté fare a meno di fissarla, chiedendosi
come fosse possibile che la stessa ragazza che aveva lasciato un segno di sé
negli anni fosse scomparsa, forse morta.
Si sforzò di non rabbrividire.
“Cominciamo dalla questione delle
pagine strappate” disse l’altro, con tono serio e professionale. Non riuscì a
guardarlo in volto, gli occhi ancora fermi sul diario. “Chi può aver compiuto
un gesto del genere, e perché?”
Non ebbe alcuna esitazione, mentre
rispondeva. “Se tutto il diario contenesse informazioni così utili, di sicuro
non ne sarebbe rimasta nemmeno una pagina. Pare, invece, che ci sia stata una
selezione di argomenti trattati nei vari giorni: alcune frasi sono interrotte
bruscamente, proprio dove sembra più evidente che Miyako sia sul punto di
rivelare un suo segreto importante. Per poter fare qualche congettura, dovremmo
considerare due diverse ipotesi: se prendiamo in considerazione quella secondo
la quale lei sia scappata di sua spontanea volontà, sarebbe molto plausibile
che lei stessa abbia fatto questa selezione, liberandosi di indizi che
l’avrebbero certamente smascherata. Ma se non fosse stata una sua scelta…
Potrebbe essere stato il responsabile della sua sparizione, per non fare in
modo che le indagini si concentrassero su di lui.”
“E’ giusto.”
Ken si sentì fiero di aver dato la
risposta giusta, ma il mezzo sorriso che mostrava Osamu in quel momento lo fece
fermare. Sembrava che la risposta dell’altro non fosse finita lì.
“E’ giusto, ma non credi che sarebbe
stato più semplice e veloce disfarsi completamente del diario, dati importanti
o meno?” continuò Osamu dopo un istante di silenzio. “Se Miyako davvero avesse
deciso di scappare e di non lasciare tracce dietro di sé, non avrebbe fatto
prima a portarlo con sé o a disfarsene? Se il responsabile della sua sparizione
avesse trovato un documento del genere e di tale importanza, credi davvero che
si sarebbe fermato a fare una selezione, come hai supposto tu? L’ansia di
essere scoperti gioca brutti scherzi su tutti,su Miyako o su chicchessia.”
Ken rimase di stucco, dandosi
dell’ingenuo. Non ci aveva pensato: aveva subito dato per scontato che quella
fosse l’unica soluzione possibile. Doveva ancora imparare a considerare ogni
singola eventualità, prima di fornire una sua ipotesi.
“Forse è stata una mossa calcolata”
azzardò poi. “Forse lasciare il diario è stata una maniera per depistarci, per
fare in modo che ci concentrassimo sulle pagine lasciate intatte –senza,
magari, trovare nulla di costruttivo- e di abbassare la guardia.”
Questa volta, sperò vivamente di non
aver detto nulla di sciocco.
“Questo avvalorerebbe la tua tesi,
quindi?” domandò Osamu, pensieroso. “Un modo per depistarci… Ci avevo pensato
anche io. Chissà, magari può essere questa la risposta.”
“Cosa ti fa pensare che non sia
così?” ribatté Ken, curioso. Era la prima volta che osservava il famoso
investigatore Ichijouji Osamu mentre rifletteva riguardo un suo caso, e sapeva
che non era una fortuna di molti.
Ichijouji Osamu lavorava da solo.
“Lo sai che non è possibile dare
nulla per scontato, finché non riusciremo a saperne di più” fu la sua risposta,
così tipica di suo fratello. Il minore sorrise lievemente. “Abbiamo ancora
troppo poco.”
“Capisco.”
Lo vide sospirare brevemente, prima
che si decidesse a formulare la domanda successiva.
Che non tardò ad arrivare, precisa e
diretta come sempre.
“Parliamo di questo 18 ottobre. Qui
Miyako parla di alcuni elementi del suo gruppo, prima della solita parte
strappata via. Cosa ne pensi?”
Cosa pensare? Rimase, per un
istante, a fissarlo confuso, chiedendosi cosa mai avrebbe dovuto dire.
Scorse con lo sguardo le brevi frasi
allegre scritte così tanto tempo prima, per ricordare meglio e poter sapere
perfettamente di cosa parlare.
“Sono piccoli appunti della sua
giornata, con il pensiero rivolto completamente verso il suo gruppo.” Rispose,
con le sopracciglia aggrottate per la concentrazione. “Queste persone di cui
parla… Ho controllato la lista di conoscenti che mi hai fornito, e credo che si
riferisca a Hida Iori, Deguchi Naganori e Sato Satsu. Usa un tono spensierato e
semplice, prima di arrivare alla fine dove, stranamente, il tono cambia e si fa
più serio.”
“Come ti sembrano i rapporti tra
loro?” chiese ancora Osamu, sempre impassibile.
“Tra Miyako e Iori sembra ci sia un
buon rapporto, considerando che lei ha insistito perché lui entrasse nel
gruppo. Questo Naganori… Sembra che non lo stimi poi molto, chiamando Iori
intelligente perché non gli si è avvicinato. E…” Ken si fermò, ricordandosi di
un particolare bizzarro. “Ad un certo punto parla di questo Caro Simpaticone, in tono chiaramente ironico, ma non fa il suo nome. Forse lo
considera allo stesso livello di Deguchi. Non saprei.”
Cercò lo sguardo dell’altro per
chiedere conferma, e fu rassicurato nel notare che aveva ancora quello sguardo
impassibile, ma non contrario alla sua idea.
“Poi c’è Sato Satsu: credo che
Miyako la considerasse una persona per bene. Di più non so dirti.”
“D’accordo. Passiamo al 23
dicembre.”
Non espresse le sue idee a riguardo,
sfogliando alcune pagine strappate per trovare il frammento risalente a quella
data. Ken si chiese, perplesso, se le loro idee corrispondessero o se Osamu
semplicemente non volesse renderlo partecipe delle sue considerazioni
personali.
Si concentrò sulle poche righe
rimaste, scritte in pagine diverse alternate da strappi evidenti, in maniera
frettolosa e, probabilmente, angosciata da Miyako, in quel lontano 23 dicembre.
“Dev’essere successo qualcosa di
particolarmente importante nella sua vita, perché il tono è cambiato in maniera
considerevole. Cosa dici di queste pagine?”
“Che dev’essere successo qualcosa di
fondamentale per noi per capire di più del passato di Miyako.”Rispose prontamente
Ken, conoscendo la risposta perché ci aveva pensato per molto tempo, senza,
ovviamente, arrivare a capo di nulla.
“Precisamente” confermò Osamu cupo.
“Un giorno in cui Miyako è confusa riguardo due scelte, che sembrano entrambe
spiacevoli sotto un certo aspetto. Un dato scomodo per chiunque l’abbia
strappato. Un dato che non avremo mai.”
La fatalità di quella perdita lo
lasciò attonito per un secondo. Aveva ragione, lo sapeva. Il 23 dicembre era
successo qualcosa di troppo importante, nella vita di Inoue Miyako, la ragazza
scomparsa senza lasciare traccia alcuna. E loro non avevano la parte mancante.
Così frustrante, e spaventosamente
assurdo. Erano così vicini…
“E lo stesso vale per il 27
dicembre, l’unico giorno che non è stato strappato via.” La voce di Osamu
sembrava provenire direttamente dal buio del salotto, tanto che era bassa e
tetra.
“Cosa può essere accaduto che la
rendesse così piena di rabbia da non permetterle nemmeno di sfogarsi?” domandò
Ken, spremendosi le meningi più che poté per cercare di capire.
“Chi può dirlo? Forse solo Inoue
Miyako in persona, semmai la troveremo” fu la secca risposta.
Sentiva che Osamu doveva essere di
nuovo irritato, e si affrettò a voltare pagina del diario, per tornare a
lavorare con tutta la calma e la freddezza che serviva loro. Scorse la pagina
che portava ancora i segni di essere stata bagnata con dell’acqua,
riconoscendola come la penultima pagina scritta.
La sfiorò con il dito, sentendosi
nuovamente inquieto. Era stata bagnata di lacrime, senza dubbio.
“Può essere plausibile che il 31
dicembre Miyako fosse arrabbiata con i suoi familiari?” chiese, cercando di
riportare suo fratello su un piano ragionevole. Non serviva arrabbiarsi tanto:
occorreva rimanere saldi e sempre in piedi. “Nel diario sostiene che si è
chiusa a chiave, probabilmente in camera sua, e se vuole farsi sentire da
qualcuno perché si sentano in colpa, questo qualcuno non può che essere la sua
famiglia. Dico bene?”
Osservò il viso di Osamu con
impazienza, aspettando di vederlo tornare in sé, ma quello che vide fu solo uno
sguardo privo di alcun sentimento. Lo fissava come se non lo avesse mai visto
prima d’ora.
Ken si impose di non interrompersi.
“Pare che non fossero d’accordo con
una sua decisione, e che abbiano litigato per questo” continuò, determinato a
combattere quello strano silenzio. Poi un nuovo pensiero si affacciò nella sua
mente. “Ma che fine hanno fatto i fratelli di Miyako? Perché la signora Inoue
sosteneva di essere sola, di non vederli mai?”
Voleva che la smettesse di fissarlo
in quella maniera distante e accigliata: aveva lo strano, irrazionale sospetto
che quell’occhiata non volesse dire nulla di buono.
“Hanno intrapreso strade diverse, e
pare che abbiano una propria famiglia, adesso. In ogni caso, vanno a trovare la
signora Inoue, alle volte. Ma non sempre: preferiscono mantenere le distanze, a
quanto ne so.” Rispose infine Osamu. “Anche il loro interrogatorio è stato
infruttuoso: non possono rispondere a quasi nulla.”
Ken ripensò alla signora Inoue, e si
sentì sollevato al pensiero che non fosse stata lasciata completamente sola.
Quella donna non meritava di essere abbandonata al suo destino, men che mai dai
suoi familiari.
“Devono essere stati sconvolti anche
loro…” disse tra sé, osservando l’ultima pagina scritta di quel diario così
rovinato.
“Oppure no. Oppure è colpa loro.”
La freddezza di quella constatazione
lo fece fermare, attonito.
C’era così tanto pessimismo in un
investigatore famoso come lui? Oppure Osamu aveva qualcosa che non andava?
“Osamu, cosa c’è? Ti vedo davvero
strano.” Tentò a bassa voce, come se temesse di essere inopportuno.
Bastò scrutare gli occhi del
fratello, così simili ai suoi, per essere sicuro che qualcosa doveva essere
andata storta.
Lo vide alzarsi, con un sospiro
tetro, e, ad occhi spalancati, lo vide afferrare nuovamente il diario di
Miyako.
“Forse non conosci la portata di
quello che stai facendo, Ken.” Gli disse serio.
Ken lo fissò, attonito, non
riuscendo a comprendere. “Certo. Certo che sì, io…”
“No. Non hai nemmeno idea della strada
che abbiamo preso oggi, dico bene? Di cosa significhi il fatto che tu, non io,
abbia trovato il diario.”
La frase sussurrata ebbe il potere
di creare una voragine tra loro. All’improvviso, le ombre che si addensavano
sul viso di Osamu gli parvero spaventose, impenetrabili.
“Spiegamelo tu.” Si rese conto solo
quando ebbe finito di parlare che il suo tono di voce era quasi soffocato, e
non ne comprese il motivo.
Suo fratello lo congelò con
un’occhiata.
“Il diario è stata una tua vittoria,
Ken. Non la mia.”
Non comprese subito il significato
di quella frase, eppure l’espressione dura sul volto dell’altro fu sufficiente
a fargli capire che tutto stava cambiando, senza che potesse farci nulla.
Era sconvolto.
“Vittoria?” ripeté. “Credevo che
stessimo lavorando insieme. Il nostro è un obiettivo comune.”
Uno sbuffo impaziente uscì dalle
labbra di Osamu. “Ma sei stato tu ad arrivare a un indizio che io avevo
mancato, per qualche motivo sconosciuto. E non è stata fortuna” aggiunse
subito, notando il suo tentativo di spiegargli, ancora una volta, che non aveva
fatto proprio nulla. “So quello che dico. E non importa che lavoriamo entrambi
per lo stesso fine: d’ora in avanti, vorrei che considerassi tue vittorie le
prove che riesci ad ottenere tu, mie quelle che riesco ad ottenere io. Intesi?”
Ken non capiva. Scuoteva la testa,
confuso. C’era qualcosa che era sfuggito al suo controllo, ma non sapeva come
rimediare, come aggiustare tutto. Sembrava che suo fratello volesse una sfida
seria.
“Perché?” riuscì solo a chiedere,
smarrito.
“Perché un giorno dovrai lavorare da
solo. Ti sarà utile.”
Sembrava non aver espresso tutti i
motivi, ma rimase immobile come una statua, in attesa della sua risposta.
Era distante, troppo distante. E
insensato, per la prima volta della sua vita. Ken non aveva mai chiesto una
cosa del genere: pensava che suo fratello si sarebbe limitato a metterlo alla
prova. Non pensava certo che Ichijouji Osamu gli avrebbe chiesto di ingaggiare
una specie di gara di velocità e di arguzia.
Il giovane era contrario,
estremamente contrario. Ma cos’altro avrebbe potuto fare?
Abbassò lo sguardo e annuì,
impotente.
“Come vuoi.”
C’era uno
strano viavai di gente, quella fresca mattina di primavera che ancora non
riusciva ad abbandonare del tutto il vento invernale.
A Ken
sembrava tutto così confuso. Osservava i passanti senza riuscire a trattenere
un’immagine di loro nella mente, senza avere un motivo preciso per farlo.
Era venuto
lì con uno scopo preciso, ma ora che era arrivato a destinazione sentiva che
gli avvenimenti stavano precipitando, e che non riusciva a farci nulla.
Non poteva
stare tranquillo senza essersi fermato un momento a pensare.
Non era
sciocco. Sapeva bene che tra lui e Osamu c’era sempre stato un confine
invalicabile, che entrambi avevano bisogno dei loro spazi e dei momenti in cui
potessero cavarsela completamente da soli, ma c’era qualcosa di dannatamente
sbagliato nella decisione di suo fratello riguardo il caso Inoue.
La cosa più
strana era che non gli aveva chiesto di indagare da solo: avrebbero continuato
a collaborare, ma sotto la pressione psicologica di una competizione tra
fratelli.
Doveva
trattarsi di un’ennesima questione di orgoglio, come sempre.
Sospirò
ancora, osservando distrattamente un uomo basso e accigliato uscire in fretta
dal negozio, sempre senza riuscire a muoversi.
Orgoglio.
Perché aveva avuto bisogno di allungare la distanza tra loro? Non erano mai
stati fratelli affettuosi, e a Ken stava bene così, ma trovava assurdo
paragonare il suo colpo di fortuna alle straordinarie doti del famoso
investigatore.
Non aveva
idea di come quel diario fosse capitato nelle sue mani, invece di quelle di
Osamu.
Ed essere
allontanato per un motivo che non capiva fino in fondo gli sembrava ingiusto.
Ma sapeva
che non c’erano alternative. L’unica sarebbe stata scegliere di rinunciare al
caso, lasciargli campo libero e riprendere il suo compito di spettatore
silenzioso del lavoro che avrebbe tanto voluto compiere.
Leggere
quelle pagine di diario strappate crudelmente aveva cambiato qualcosa dentro di
sé, lo aveva avvertito chiaramente. Miyako non era più soltanto il mezzo per
essere qualcuno, per arrivare al livello di Osamu: era una persona con
sentimenti, paure e emozioni come chiunque altro. Come lui.
E non
poteva lasciare che la sua vita fosse abbandonata al caso.
Aveva
rinunciato ad un rapporto più confidenziale con Osamu per ciò che riteneva più
giusto. Suo fratello non aveva bisogno di sentirsi così in sintonia con lui;
Miyako, i suoi amici e parenti avevano un disperato bisogno di lui, invece.
E Ken non
avrebbe ceduto per nessun motivo.
Qualcuno lo
urtò all’improvviso, sbilanciandolo e facendogli quasi perdere l’equilibrio.
Sorpreso,
alzò lo sguardo, per incontrare quello di scusa di un passante con pesanti
buste in mano.
L’uomo
borbottò un “Mi scusi”, e Ken scosse la testa, facendogli capire che non si era
fatto male. Lo fissò allontanarsi, con aria persa nei suoi pensieri.
Era rimasto
immobile per troppo tempo: era facile che qualcuno potesse urtarlo. Doveva
decidersi a fare qualcosa, o sarebbe stato d’intralcio.
Con passo
incerto, prese a camminare verso la vetrina di quella libreria che ormai era il
suo rifugio, ma, la mano sulla porta d’ingresso sul punto di spingere per
entrare, si bloccò, trattenendo il respiro bruscamente.
L’aria stanca
ma cortese, dietro la cassa del negozio, chiacchierava serenamente con i
clienti, come aveva fatto precedentemente con lui, controllando prezzi,
restituendo il resto e porgendo buste, allontanando i capelli neri dagli occhi
e sorridendo.
Pareva che
Miyazawa Rumiko lavorasse molto spesso, all’interno di quel negozio.
Seguiva
ogni suo movimento impercettibile con gli occhi, senza conoscerne il motivo.
Sembrava un
mistero. Un mistero in perenne cambiamento.
Si chiese
come stesse la sua caviglia, non riuscendo a scorgere il suo piede fasciato al
di là di quella vetrina. Si chiese se zoppicava ancora per le vie di Tokyo,
senza ricorrere a mezzi pubblici per motivi sconosciuti.
Si chiese
perché apparisse così mutevole e sfuggente, mentre la osservava sospirare impercettibilmente
e voltarsi verso una signora più anziana, che ordinava i libri.
L’aveva
vista diverse volte, e in ogni occasione l’aveva osservata, incuriosito, senza
arrivare a comprenderla. Chiacchierona in negozio, gli aveva parlato
cordialmente, ma con quella punta di curiosità spontanea che l’aveva stupito.
Pronta a tutto per salvare un bambino, era apparsa sofferente, quasi straziata:
i suoi occhi castano chiaro erano quelli di una donna ferita nell’anima, e
impossibilitata a curarsi.
Non capiva
nemmeno perché l’avesse fatto: non poteva essere una parente del bambino,
perché subito dopo l’incidente era svanita, senza parlare con nessuno, senza
controllare che il piccolo stesse bene.
Aveva
rischiato la vita, ma era stata determinata, sicura, sebbene fragile.
Vide Rumiko
muoversi dal suo posto, e notò come stringeva leggermente gli occhi, mentre le
sue labbra si piegavano in una smorfia di dolore silenzioso. E ripensò alla sua
voce mentre cantava per le vie della città, che l’aveva fatto voltare mentre
era di ritorno da una visita alla signora Inoue, e l’aveva fatto fermare.
Ripensò alla curiosità che lo aveva colto, osservando il volto sereno e
perso nei ricordi della giovane, pur sopportando il dolore dovuto a quella
caviglia così compromessa.
L’aveva
seguita, spinto dall’interesse, non riuscendo a spiegarsi come potesse trovare
gioia in un canto, come apparisse tanto lontana eppure vicina, come potesse
essere così vicina a cadere e non farlo mai. E ricordò il suo accorrere veloce,
quando l’aveva vista inciampare.
L’interesse
non sembrava essere svanito, notò Ken, ancora immobile a guardare quella
ragazza così particolare. Come poteva cambiare tanto spesso espressione, in
quegli occhi tanto caldi quanto prudenti?
Come poteva
lui far chiarezza nel mistero?
Un istante,
e il suo cuore mancò un battito, per motivi sconosciuti.
Rumiko si
era voltata nella sua direzione, distrattamente e con la mente altrove, e lo
aveva scorto, con un piccolo sussulto attutito dallo spesso vetro che li
divideva.
Lo guardava,
con aria sorpresa, e lui non riuscì a distogliere lo sguardo.
Vide una
sua mano correre a sfiorarsi i capelli, in maniera quasi ansiosa, e capì che
doveva essere una sorta di abitudine, come per scacciare il nervosismo.
Vide le sue
labbra stringersi, e i suoi occhi sfuggirono alla sua occhiata, in maniera
repentina.
Ken rimase
immobile, per un momento sentendosi svuotato di qualsiasi sentimento che non
fosse una strana, insensata delusione. Aveva ancora la mano sulla porta, e non
aveva la forza per spostarla.
Aveva avuto
la sensazione che non fosse poi così felice nel vederlo.
E lui non
voleva questo. Non voleva che si sentisse ansiosa come lo era lui da qualche
tempo, dopo la visita a Osamu, e non riusciva nemmeno a comprendere il motivo
di quella paura che aveva scorto nello sguardo di lei.
Non ne
combinava una giusta, quel giorno. Cosa stava facendo?
Sospirò,
allontanando la mano dalla porta. Forse avrebbe fatto meglio a tornare a casa.
Un’ultima
occhiata, quasi inconscia, e decise di andare via.
Ma proprio
mentre stava per allontanarsi, successe qualcosa di strano.
Rumiko alzò
lo sguardo verso di lui, con aria incerta ma non più timorosa.
E Ken non
seppe perché, ma le sorrise, lieto che avesse capito che non aveva cattive
intenzioni, che sarebbe andato via presto e non l’avrebbe più disturbata sul
lavoro.
Sgranò gli
occhi, quando la vide rispondere al sorriso, in maniera quasi impacciata ma
luminosa in qualche modo.
E si
accorse, stupito, che il senso di oppressione che l’aveva colto durante la
faccenda di Osamu aveva deciso di svanire momentaneamente, lasciando il posto a
una rinnovata serenità che dava dell’incredibile.
C’era
qualcosa di stranamente lieto, nel suono del vento che soffiava in quel
momento.
Qualcosa di
lieto che non aveva colto prima, troppo pieno della sua delusione, troppo pieno
di quella negatività che lo aveva reso cieco e sordo senza che se ne
accorgesse.
Qualcosa
che, forse, avrebbe fatto meglio a notare fin dal suo arrivo.
Perché,
anche se non aveva un nome, era l’unico barlume di serenità a cui Ichijouji Ken
riusciva ad aggrapparsi.
Aggiornamento
un po' strano, lo riconosco. Nessuna risoluzione definitiva, nessuna
azione vista dal vivo: persino le indagini sono raccontate mediante
l'uso di un flashback. Ma, insomma, volevo provare a strutturare un
capitolo in questa maniera. A voi giudicare il risultato, come sempre ^^
La parte iniziale, come avrete capito, è tutto ciò che resta del diario di Miyako ritrovato da Ken.
Roe, ho sempre voluto
analizzare i pensieri di Keiji: diciamo che la canzone di Michael
Jackson mi ha dato il modo di farlo! Sono proprio contenta che ti sia
piaciuto! :) Ma non essere eccessivamente triste: in fondo, l'autrice
non è sadica come vuole far credere, e farà in modo che
tutto si risolva -prima o poi xD-! Abbi solo pazienza e fammi sapere
cosa ne pensi di questo capitolo: ti ringrazio tanto per i tuoi pareri
positivi, che mi spronano a continuare! A presto, un bacio!
Shine, è stato
davvero interessante leggere tutte le tue impressioni -che recensione
lunga!- e credimi, non sapevo di averti comunicato tanto. Ovvio che ne
sono felice ** se Keiji continua a credere nella possibilità di
poter conoscere la sua mamma è semplicemente perché
qualcosa della testardaggine e della forza d'animo di Miyako l'ha
ereditata! ;) Ero preoccupata di non riuscire a rendere bene quello che
il piccolo prova per Hikari, ma mi fa piacere sapere di essere riuscita
nell'intento... E anche che la parte aggiunta di Miyako ti sia
piaciuta! Dai, continua a sperare che si incontreranno... :) Come sai,
non ti rivelo nulla, però! Insomma, grazie, come sempre, di
seguire con entusiasmo la mia storia. Spero che giudicherai bene anche
questo cap con Ken xD un bacio!
Mystery Anakin, che
bello sapere che ti è piaciuta l'idea del cap introspettivo!
Sìì, quel lato sognatore del carattere di Keiji è
un lato che noi conosciamo bene, è così? ;) Temo che il
momento del ricontro tra madre e figlio sia ancora lontano...
Però, passetto dopo passetto, mi avvicino sempre di più!
xD Spero che continuerai a seguirmi malgrado gli impegni e tutto, e ti
ringrazio tanto! Baci!
Aspetto pareri impazientemente! ^^ Alla prossima!
Padme Undomiel
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Capitolo 12 *** Istinto ***
Purity cap 11
11.
Istinto
Un sole
caldo illuminava il grande giardino, donando sfumature diverse alle foglie
verdi degli alberi bagnati dalla pioggia della notte precedente e facendo
brillare le gocce d’acqua che erano rimaste tra le fronde.
Tutto
sembrava prendere vita, dopo un temporale.
Sorrideva
serena, sfogliando le pagine di quel libro ormai consumato, avvertendo accanto
a sé il movimento degli altri ragazzi, intenti a svolgere i propri compiti con
dedizione e grande forza di volontà. Tutt’intorno, le risate, le urla e i
lamenti dovuti a litigi dei bambini, finalmente liberi di uscire dopo una
serata di pioggia, allietavano l’atmosfera.
Era felice
che potessero svagarsi: avevano trascorso un intero inverno rinchiusi dentro le
loro camere senza poter uscire, attendendo la primavera e l’estate con
quell’impazienza e irruenza tipica dei bambini. Finalmente il loro desiderio di
giocare poteva essere appagato.
E Yagami
Hikari si sentiva irrazionalmente in pace, tra quei suoni così gioiosi che
sapevano di famiglia, di quella famiglia che lei mai avrebbe abbandonato.
Scosse la
testa, alzando, finalmente, lo sguardo sulla piccola figura china ad osservare
la sua attività di ricerca. Sulle sue labbra apparve un sorriso di scusa. “Mi
dispiace tanto, Naoko-chan: nemmeno qui c’è qualcosa di nuovo.” Le disse.
La bambina
dai capelli biondo scuro si rattristò, guardandola con occhi supplichevoli.
“Nemmeno una storia nuova? Anche piccola!” implorò.
Hikari
sospirò, cingendo la bambina in un abbraccio. “Dai, non preoccuparti: ci sono
ancora altri libri che non sono riuscita a controllare. Vedrai che qualcosa la
troveremo.” La rassicurò, dandole un bacio sul capo.
Ogni sera
la giovane si fermava nella stanza dei bambini, per raccontare loro alcune
fiabe per farli addormentare. Era il momento per loro di lasciar correre la
fantasia, di immaginarsi al posto di quei personaggi di cui parlavano le storie
nei libri, di essere allegri e sognatori, di continuare a sperare in un futuro
radioso: nessuno di loro avrebbe mai rinunciato a questo momento di svago, chi
per un motivo, chi per un altro.
Nemmeno
Hikari. Lei era convinta che quei bambini avessero un gran bisogno di non
perdere le speranze, e voleva donare quel pizzico di magia che serviva loro per
condurre un’esistenza serena quanto possibile, per non fare in modo che si
sentissero soli e abbandonati. Ne aveva ogni giorno la conferma osservando
Keiji, che più di tutti voleva ribellarsi alle ingiustizie che credeva gli
fossero toccate.
Il problema
consisteva nel fatto che l’appuntamento era giornaliero, e ben presto le storie
finivano. I bambini amavano stupirsi delle novità: storie ripetute più volte
non sarebbero state speciali come quelle che loro si aspettavano. E Hikari non
voleva deluderli: sapeva quanto ci tenessero.
Era per
questo che stava trascorrendo la mattinata sfogliando libri, ma era al quarto
volume e non era cambiato nulla.
“Allora
stasera ce ne racconti un’altra?” domandò Naoko, con la speranza negli occhi
color caramello.
Hikari
rise, guardandola negli occhi come a farle capire che non voleva prenderla in
giro. “Promesso. Fidati: non ti mentirei mai.”
Naoko
sorrise, abbracciandola forte. Era sempre stata una bambina molto affettuosa.
“Grazie, Hikari!” esclamò, contenta. Poi il suo viso si fece imbronciato. “Lo
dici tu a Shinji-kun che le tue storie non sono da piccoli, e sono belle?”
“Ti prende
ancora in giro?” le chiese in risposta Hikari, scuotendo la testa con aria
rassegnata. Naoko e Shinji, i due gemelli, non sarebbero mai andati d’accordo,
a quanto sembrava: sebbene fossero stati trovati insieme quando sua madre era
ancora in vita, lui era un bambino molto insicuro, che non riusciva a tirar
fuori i suoi sentimenti, mostrandosi sempre superiore a tutto e a tutti. E
Naoko spesso piangeva per questo.
Quanto
avrebbe dato la giovane per vederli andare d’accordo, perché sapeva
perfettamente che i due dovevano volersi molto bene.
Vide la
piccola annuire con una sorta di solennità, e un moto di affetto per lei la
colse.
Le
accarezzò dolcemente il viso, con un sorriso. “Glielo dirò, ma cercate di non
litigare, d’accordo? E’ più bello se giocate insieme.”
“Va bene!”
Naoko corse
via, probabilmente per raggiungere il gruppo di bambini che la stava
aspettando, e Hikari rimase seduta sotto quell’albero nel giardino, sopra un
telo per non bagnarsi, il libro ancora aperto tra le mani e un sorriso
affettuoso sul viso.
Non si
sarebbe mai abituata alla semplicità del bambini, neanche trascorrendo una vita
intera a contatto con loro.
Si guardò
intorno, respirando il profumo del giardino bagnato dalla pioggia e
riempiendosi i polmoni della freschezza dell’aria. Pareva che lei non fosse
l’unica a godere di quella pace e tranquillità: tutti, nessuno escluso, erano
usciti in giardino, e ognuno di loro aveva qualcosa da fare.
Poco
distante, circondato da tanti bambini e da Mimi, che sedeva con loro, c’era
Taro, intento a inscenare un altro spettacolo tipico di lui trascinando con
decisione e spirito pratico un riluttante Shinji, evidentemente contrario a
partecipare a “cose stupide”, mentre Ichiro, concentrato e serio, imitava i
suoni di una batteria o canticchiava motivetti di accompagnamento che aveva
sentito alla tv.
Sora, poco
distante, era intenta a stendere i numerosi panni appena lavati dei bambini,
che avevano questa particolare tendenza ad abbandonarsi a giochi pericolosi e
decisamente a rischio di sporcarsi senza preoccuparsi minimamente delle
conseguenze. Rimproverava dolcemente suo fratello Taichi, poco distante: Hikari
intuì che, come al solito, Sora desiderasse da lui un aiuto nel suo lavoro, e
sapeva che Taichi non doveva essere particolarmente felice, vista l’aria
supplichevole che aveva assunto parlando con lei.
La giovane
non poté fare a meno di sorridere, osservando la ritrosia del maggiore dei due
Yagami. Avrebbe fatto di tutto per salvare le sorti dell’orfanotrofio, sarebbe
stato pronto ad affrontare ogni genere di imprevisto, ma dedicarsi alla pulizia
–di qualunque tipo si trattasse- sicuramente non era il suo forte. Ma non
poteva farci nulla, contro Sora.
Taichi
aveva qualche limite, dopotutto.
Spostando
lo sguardo verso destra, Hikari scorse il gruppo di bambini più grandi
–accompagnati, come sempre, da Asami, che non voleva essere esclusa nonostante
avesse solo otto anni a discapito dei loro dieci- che ascoltavano attentamente
le spiegazioni in campo informatico fornite loro da Koushiro, e notò con
piacere che sembravano tutti interessati, e che domandavano chiarimenti al
ragazzo dai capelli rossi con una vivacità incuriosita che la inteneriva.
Accanto a loro c’era anche Jyou, e persino lui, pur non facendo parte del
pubblico infantile di cui Koushiro si era circondato, annuiva alla fine di ogni
sua frase, con aria concentrata e gli occhi fissi sullo schermo del computer.
Non
bisognava mai fermarsi, considerò, chiudendo il libro di favole che teneva in
mano. C’era sempre qualcosa da fare, e l’importante era dedicarsi alle proprie
attività con serenità, gioia e quel pizzico di spensieratezza che avrebbe
permesso ai bambini di non sentirsi estranei a loro.
Anche
quando non erano solo loro a tenersi impegnati in un’attività.
“E allora,
Keiji-chan, hai deciso di lasciar perdere?” domandò divertita, alzando lo
sguardo sui rami dell’albero sotto il quale si stava riposando.
Conosceva
la risposta ancora prima che venisse pronunciata, ma il suo tono di voce mentre
lo diceva era così buffo da farle venire sempre voglia di domandarglielo
ancora.
Uno sbuffo.
“No: non è ancora arrivato. Io non scendo finché non lo vedo.”
Hikari
sorrise, osservando la sua piccola figura aggrappata al ramo e con gli occhi
castani fissi in un’altra direzione. Sapeva che Keiji sarebbe potuto rimanere
tra le fronde degli alberi per giorni interi, ma non aveva senso che si
preoccupasse tanto per un problema che non c’era e non ci sarebbe mai stato.
Le sembrava
semplicemente troppo sull’attenti, e se ne chiedeva il motivo.
“Dai, non
fare il testardo: lo sai che non verrà” ribatté, cercando di farlo ragionare.
“Non avrebbe nessun motivo per farlo… e in ogni caso, se qualcuno sapesse di
essere sgradito a tal punto, non si farebbe mai vivo. E tu non vuoi che venga,
giusto?”
Un rumore
di foglie smosse, e il viso di Keiji apparve alla luce, osservandola
imbronciato.
“Non lo
voglio qui” affermò, indignato. “Ci spia, lo so.”
“Keiji-chan,
stai attento, per favore!” Hikari scattò in piedi, allarmata dalla posizione
apparentemente instabile del bambino dai capelli viola. Capiva come si sentiva
Jyou quando si preoccupava per lui: il pensiero del pericolo che correva era
troppo vivido, e Keiji era spericolato abbastanza da fare mosse avventate.
Un sorriso
birichino apparve sul suo viso da bambino. Non era affatto preoccupato. “A te
non piace questo, Hikari: a me non piace quel
biondo. Se io mi siedo di nuovo, tu lo mandi via?”
Hikari
rimase senza parole per un secondo, sorpresa. Poi scoppiò a ridere, osservando
gli occhi fin troppo seri del piccolo. Non avrebbe mai smesso di stupirla:
sembrava capace di contrattare la sua voglia di fare pazzie con la promessa di
scacciare qualcuno che non credeva sarebbe più tornato.
Scosse la
testa, cercando di calmarsi. “Puoi spiegarmi perché ce l’hai tanto con lui?”
“Perché
viene ogni giorno, e ci spia.” Replicò Keiji, tornando a scrutare il cancello
grigio come se si aspettasse di veder sbucare qualcuno all’improvviso. “Tu non
lo vedi, ma io sì: che vuole da noi?”
La notizia
la sorprese: per riflesso seguì lo sguardo del bambino, scoprendo che nessuno
era lì. Era probabile che Keiji stesse esagerando? Era possibile che quel
ragazzo chiamato Takaishi Takeru li guardasse ogni giorno, o era solo quella
strana antipatia che il piccolo provava per lui a renderlo apprensivo e quindi
ad esagerare?
Considerò
per un attimo l’idea di riuscire a scorgere quei capelli biondi tra i cespugli
accanto al cancello, con il cuore in gola, per poi scuotere la testa e tornare
a guardare la figura sull’albero.
“Tutti i
giorni, dici?” domandò, aggrottando le sopracciglia.
“Sì, tutti.
Credo che sia un ladro.” Rispose Keiji, offeso e sicuro della sua ipotesi.
Hikari rise
ancora, incredula. Per quanto quel ragazzo si fosse comportato in maniera che
non riusciva a capire, essere paragonato ad un ladro le pareva una grossa
esagerazione.
“Keiji-chan!
Non è bello dire queste cose, lo sai?” lo rimproverò dolcemente, sentendolo
sbuffare subito dopo. “Ricordati che ha aiutato Naoko-chan a tornare da noi
quando mi sono distratta… E poi non si sarebbe mai avvicinato per parlarmi, se
avesse avuto cattive intenzioni.”
No, non
poteva essere un malintenzionato, considerò la giovane, assorta per un momento
nei suoi pensieri. Takaishi Takeru l’aveva turbata con il suo tormento e le sue
domande inusuali, ma Hikari sapeva che lo sguardo sofferente del giovane che le
si era presentato era autentico, sincero.
Oltretutto,
cosa avrebbe potuto volere da un umile orfanotrofio come il loro?
“Ti stai
preoccupando troppo, te lo assicuro.”
Keiji non
replicò, continuando a tenere il broncio e a puntare lo sguardo fisso sul luogo
dove fu abbandonato, sette anni prima.
Hikari alzò
le spalle, tornando a sedersi sull’erba con un sorriso. “Va bene, non ti
rimprovero più. Puoi restare lì, se preferisci. Contento?” domandò.
Non era da
Keiji rimanere in silenzio per così tanto tempo. La giovane aggrottò le
sopracciglia, sollevando ancora lo sguardo. Possibile che fosse così offeso da
decidere di non risponderle? Forse c’era qualcosa che lui non le aveva detto,
per qualche motivo.
Non le era
del tutto chiara la diffidenza del piccolo verso Takeru.
“Keiji-chan,
ti prego: vorrei saperlo, se c’è qualcosa che non va.” Gli disse, preoccupata.
“Lo sai che puoi dirmi tutto: non riderò di te, né farò commenti. Voglio solo
sapere cosa…”
“Mandalo
via, per piacere.”
“Eh?” La
domanda supplichevole lo spiazzò: tradiva un’impazienza che non sembrava da
lui, e Hikari non riusciva a spiegarsene il motivo. Anche perché quella
richiesta poteva essere attuata solo se…
“E’ qui, e
ci spia di nuovo. Mandalo via, Hikari!”
Hikari
sussultò, volgendo nuovamente lo sguardo verso il cancello.
Non impiegò
molto tempo per scorgere una figura seminascosta dai cespugli, di cui erano
chiaramente visibili solo i capelli biondi. Era immobile, rivolto verso di
loro: probabilmente stava davvero osservando loro, come aveva detto Keiji.
Una strana
sensazione si impossessò di lei, senza che potesse far nulla per evitarla.
Aveva
riflettuto molto sulle parole che Takaishi Takeru le aveva rivolto qualche
pomeriggio prima, sempre consapevole della tristezza e del senso di impotenza
che l’aveva colta dopo il loro discorso. Si era domandata più volte quale
potesse essere il motivo di tanto intestardirsi, di tanto cercare di parlare
con qualcuno privo di problemi, o che sa come risolverli. Era arrivata persino
a chiedersi, rattristata, perché la sua voglia di conoscere la risposta avesse
dovuto porla davanti alla sua fragilità, a quella dell’orfanotrofio, a quella
di tutti loro senza Yagami Yuuko.
Ma poi
aveva capito, rimproverandosi per non esserci arrivata prima.
Era logico
che volesse trovare una sorta d’eroina: nel momento in cui si è scoraggiati, ci
si crede senza via d’uscita, il primo istinto è quello di trovare qualcuno che
possa sopportare il carico di disperazione che si porta sulle spalle.
Takaishi
Takeru doveva essere davvero triste. E aveva visto in lei, in tutti loro
ragazzi che si occupavano dei bambini, il qualcuno che cercava.
Hikari
aveva ricordato con un sorriso quante volte aveva fatto lo stesso con Taichi,
quando era piccola, e a quante volte era successo anche poco tempo prima. Era
strano pensare, però, che Takeru avesse visto in lei il suo Taichi.
Sospirò,
alzandosi in piedi con lentezza. Keiji voleva che lo scacciasse, perché era
spaventato. Ma lei non riusciva a provare timore per lui.
Nemmeno
sapendo che li aveva spiati, che li spiava e che avrebbe, con tutte le
probabilità, continuato a spiarli.
Piuttosto,
sentiva un grande senso di compassione per lui, perché aveva intuito il suo
dolore, ma non sapeva da cosa fosse stato causato.
E Hikari
sapeva che non poteva scacciarlo senza aver conosciuto il motivo di queste
osservazioni silenziose e misteriose. Takeru avrebbe continuato a fermarsi
dietro ai cespugli, in attesa di risposte che non avrebbe mai avuto, se
qualcuno non fosse intervenuto.
Lei sapeva
di essere fragile, di avere dei limiti, di avere paura, a volte. E, essendo
anche lei umana in questo senso, avrebbe fatto luce sul mistero.
Con un rumore
attutito, sentì Keiji scendere dall’albero. Le prese la mano. “Stai andando
lì?” chiese, con tono quasi speranzoso.
Hikari
annuì, sfiorando una guancia del suo fin troppo serio interlocutore. Keiji
distolse lo sguardo, a disagio. “Non ti preoccupare: vedrò di risolvere questa
faccenda, una volta per tutte.”
Quando lo
vide sorridere di nuovo, chiaramente soddisfatto, ebbe la conferma che il
giovane dai capelli biondi doveva averlo spaventato a morte, per indurlo a
supplicare Hikari che lo mandasse via. Si sforzò di non ridere solo per non
ferirlo.
Gli lasciò
la mano, puntando lo sguardo verso la figura ancora immobile che li osservava e
chiedendosi cosa avrebbe scoperto durante quella conversazione.
Quello che
sapeva per certo, però, era che voleva parlargli da sola. Senza Taichi, Sora o
chiunque altro.
Perché
sapeva che, alla presenza di chiunque altro, non sarebbe riuscita a parlare in
tutta sincerità del suo desiderio di conoscere il tormento di quello
sconosciuto. Avrebbero anche potuto convincerla a cambiare idea, e lei voleva
approfittare dell’occasione senza altri indugi.
No, si
disse, scuotendo la testa. Era una faccenda che doveva risolvere lei, e se ne
sarebbe presa la totale responsabilità.
***
Non si era
nemmeno accorto della sua presenza, a pochi metri di distanza.
Aveva la
mano destra protesa verso il fogliame ancora umido dopo pioggia della sera
prima, e scostava delicatamente i cespugli per poter osservare meglio.
Portava lo
stesso cappello grigio che gli aveva visto sul capo qualche giorno prima, come
se fosse una sorta di tratto costante nel suo aspetto fisico. Era chiaramente
attento a non far rumore: era in posizione rigida, ferma, ma stabile per non
cadere e, quindi, far rumore.
I suoi
occhi azzurri erano completamente presi da una qualche scena che doveva aver
attirato la sua attenzione, anche se lei non riusciva a scegliere tra le tante
che erano sotto i suoi occhi scuri ogni giorno.
Hikari
ricordava il viso di chi le aveva rivolto la parola senza un senso apparente,
ma fu sorpresa di notare un sorriso sereno sulle sue labbra.
L’ultima
volta che aveva chiacchierato con lui, il suo volto era serio, fin troppo,
forse. Quanto era diverso, adesso, notare che Takaishi Takeru poteva gioire
delle cose più semplici e pure.
La sua
determinazione a parlargli crebbe. Nessun ladro avrebbe sorriso a quel modo
semplice e appagato, osservando la villa che avrebbe dovuto rapinare.
Doveva
essere solo un ragazzo come altri. Come lei.
Si avvicinò
timidamente, sempre attenta a non far rumore. Sebbene fosse ormai certa di
quella scelta improvvisa, si sentiva in imbarazzo a distoglierlo dai suoi
pensieri, anche se quello che Takeru stava facendo non era certo legale.
Non poté
far nulla per impedire alle sue guance di infiammarsi.
“Takaishi-san?”
tentò a bassa voce, con le mani strette tra loro.
E il
giovane sussultò bruscamente, come fa ogni bambino colto di sorpresa dalla
mamma mentre commette qualche azione che non dovrebbe.
Vide lo
sguardo di lui saettare verso il suo viso, per poi sgranare gli occhi, imbarazzato,
e fissarla come se fosse atterrito da lei.
Era normale
che si comportasse così, in fondo: se li stava spiando da giorni, come
sosteneva Keiji, trovarsi a guardare negli occhi la proprietaria
dell’orfanotrofio non poteva essere di certo piacevole.
L’imbarazzo
gli impedì di dire alcunché.
Ora o mai più, si disse Hikari, a disagio anche
lei.
“Mi fa
piacere rivederti” continuò, con un sorriso incerto. Gli occhi di Takeru si
spalancarono maggiormente: forse si aspettava delle grida indignate. “Ti serve
qualcosa?”
Seppe di
averlo sorpreso osservando la sua espressione attonita.
Hikari
rimase ad aspettare una sua risposta, esitando sul da farsi. Non sapeva come
fargli capire che non lo avrebbe denunciato per il suo osservare.
I secondi
passarono, ma le parole sembravano congelate sulle labbra del giovane.
Era ormai
chiaro che lui non sarebbe riuscito a discolparsi in nessun modo: decise di
riprovare con un altro approccio, tentando di alleggerire l’atmosfera.
Fece un
piccolo cenno con la testa verso la villetta bianca, ben attenta a mantenere il
suo sorriso ben fermo sul suo volto. “Naoko-chan ti è molto grata per quello
che hai fatto qualche giorno fa” riprese, sempre più consapevole dell’imbarazzo
del giovane. “Ha un bel ricordo di te: ti ha nominato l’altro giorno, mentre
parlavamo di ragazzi gentili che aiutano le persone.”
Finalmente,
con grande sollievo di Hikari, l’altro parve rendersi conto che doveva dire
qualcosa.
“Yagami-san…
Mi dispiace molto, io non ero qui per… Non volevo spiarvi, ecco” disse Takeru,
e lei colse un certo imbarazzo e biasimo per se stesso nel suo tono colpevole. Esitò,
prima di continuare, con una breve risata: “Immagino cosa dovrai aver pensato,
vedendomi qui dietro al vostro cespuglio. Posso assicurarti che, almeno, non ho
cattive intenzioni. Lo giuro. Ho… ho sentito i bambini ridere e giocare a voce
alta, ed ero solo curioso. Volevo vedere con i miei occhi…”
Si
interruppe, il viso in fiamme, e parve trovare molto interessanti alcuni
passanti che chiacchieravano tranquillamente sul marciapiede opposto.
Hikari lo
osservò, curiosa, e non poté fare a meno di sorridere, rassicurata. Ancora una
volta, aveva avuto una conferma della mancanza di doppi fini in quel ragazzo:
uno sguardo del genere non poteva essere frainteso.
“Io credo
che tu non abbia nulla di cui vergognarti” rispose serenamente, tentando di
rassicurarlo. Sembrava che Takeru volesse sparire dalla faccia della Terra
seduta stante. “E’ bello sapere che qualcuno riesce ancora a fermarsi al suono
di una risata di bambino. Credo sia uno dei suoni più dolci e innocenti del
mondo, e può fare miracoli.”
Takeru
incontrò i suoi occhi per un istante ancora, e Hikari riuscì a scorgervi tante
domande senza risposta, e un’enorme, intollerabile confusione che non gli
riusciva di nascondere. Di nuovo, la voglia di conoscere il motivo di tanta
insicurezza la colse.
Takeru
annuì piano. “Sento spesso le loro risate” ammise, con un lieve sorriso ad
incurvargli le labbra. “Sono tanti bambini, e si fanno sentire. E poi, io abito
qui vicino.”
“E’ per
questo che ti sei interessato a questo orfanotrofio?” domandò Hikari
cautamente, cercando di non essere invadente. Era felice di star parlando con
lui senza quell’amarezza che aveva colto la volta precedente, e non era
intenzionata a rompere quella quiete.
Ancora un
momento di silenzio. Takeru parve rifletterci per un istante, aggrottando
leggermente le sopracciglia, come se non ne fosse sicuro nemmeno lui; il suo
sguardo si perse lontano, come a cercare la risposta dentro di sé.
Poi sollevò
nuovamente gli occhi su di lei, con aria triste. “Credo di sì” rispose
lentamente, soppesando le parole. “Non so. Forse quelle risate infantili avrei
dovuto ascoltarle molto tempo fa: mi avrebbero fatto capire molte cose.”
Il sorriso
sul volto di Hikari si spense.
Aveva
sentito chiaramente la voce del giovane dai capelli biondi tremare, mentre
pronunciava quell’ultima frase. Aveva scorto quella smorfia dolente che aveva
attraversato il suo viso, e l’amarezza che quell’affermazione aveva portato con
sé si era solidificata nell’aria, rendendogliela quasi percepibile al tatto.
Era un dolore reale, nascosto da un volto falsamente rassegnato.
Forse
Takeru non aveva mai incontrato qualcuno che potesse essere come suo fratello
Taichi: forse non c’era mai stato nessuno pronto ad aiutarlo, nel momento del
bisogno. Probabilmente era per questo, che appariva così smarrito.
“Non
capisco” ammise semplicemente, osservandolo con aria di scusa.
Takeru
sospirò profondamente, ricambiando la sua occhiata.
“Ti è mai
capitato di mettere in discussione tutto quello che fai, Yagami-san?”
La giovane
rimase a fissarlo, con aria di sorpresa, inizialmente spiazzata. Non sapeva
come reagire ad una frase del genere. Avrebbe avuto la risposta pronta in un
istante, ma non aprì bocca, lasciando che lui continuasse a spiegarsi.
“Quello che
intendo è un continuo arrampicarsi sugli specchi. E’ un tentare di fare di
tutto, continuando ad essere incerti e dubbiosi, senza poi ottenere nulla. Mi
capita spesso di trovare un motivo momentaneo di gioia, una meta provvisoria,
ma poi questa diventa insignificante nel momento in cui sono vicino al
raggiungimento dell’obiettivo. E’ terribilmente frustrante notare come potrei
rendermi utile in tanti modi, ma non sapere assolutamente quale sia quello
giusto e vero per me. Tu hai mai provato sensazioni del genere?”
Il suo
volto era di nuovo grave. Con quei capelli dorati e occhi azzurri, alla luce
del sole, sembrava un angelo. Un angelo sofferente, che ha perso le ali.
E Hikari si
sentì triste per lui. Come poteva non esserlo, dato che conosceva quei momenti
di sconforto?
“Qualcosa
del genere sì, qualche volta” ammise sinceramente, e puro stupore si manifestò
sul viso del suo interlocutore. Lei sorrise alla sua occhiata. “Ne abbiamo
parlato la scorsa volta: gestire un orfanotrofio non è una scelta facile, e non
sempre abbiamo la risposta giusta o sappiamo quale sia la strada giusta per
noi. Credo di capire in qualche modo, Takaishi-san.”
Sembrava
sconcertato dall’aver trovato qualcuno che riuscisse a comprendere quello di
cui stava parlando, e fu il suo turno di ammutolire. Forse cercava domande più
specifiche da rivolgerle.
“Però non
ci riesco fino in fondo” continuò Hikari, aggrottando le sopracciglia. “Quando
si è sconfortati e ci si sente persi, ci si aggrappa sempre a qualcosa che sia
fonte di speranza. Possibile che tu non ne abbia nemmeno una? Un tuo sogno
speciale, un amico, un parente, un fratello o una sorella? Nulla?”
Sperò di
non essersi spinta troppo oltre, mentre notava i pugni di lui stringersi e le
sue labbra assottigliarsi fino a formare una linea sottile. Forse aveva
esagerato, era stata invadente. Ma Takeru aveva ogni diritto di non rispondere,
d’altra parte, se lo avesse ritenuto necessario.
Per un
motivo o per un altro, però, la risposta arrivò.
“No, nulla
di così grandioso. Il problema è che niente riesce a farmi sentire fiero di me
stesso, al momento: non so davvero più cosa fare. Vorrei rendermi utile in
qualche modo, ma la maniera per farlo è sempre più sfuggente.”
Hikari ebbe
l’impressione di cominciare a vederlo meglio, dopo quest’ultima affermazione.
“Vuoi renderti utile? Utile per chi?” Volle sapere, spronandolo a chiarire.
Rimase
interdetta osservando l’incertezza sul volto del suo interlocutore. Cosa c’era
di così strano nella sua domanda?
“Cosa
penseresti di me, se ti dicessi che non lo so?” rispose con un sorriso
imbarazzato lui, lasciandola sbigottita. “So che devo rendermi utile, ma non so
dove, come, né quando. Comincio a pensare che ci sia qualcosa che non va, nella
mia testa.”
Le risate dei
bambini dentro il giardino fu l’unico rumore udibile in quel momento.
Hikari
sbatté le palpebre più volte, non sapendo come reagire ad una frase tanto
incredibile. Pensò, in un primo momento, che il giovane stesse scherzando, ma
dovette ricredersi quando vide la sua occhiata diretta e seria, che non
lasciava ombra di dubbio.
Era questo,
allora, il suo tormento? Era per questo che le sembrava così abbattuto, così
disilluso, così smarrito?
“Forse non
dovresti affrettare i tempi” gli suggerì, tentando di essergli d’aiuto. “Forse
stai attraversando un momento difficile, e hai solo bisogno di schiarirti le
idee….”
Un sospiro
rassegnato in risposta la fece zittire improvvisamente. “Sono anni che va
avanti, Yagami-san. Ogni giorno che passa mi sento sempre più inutile, come se
qualcuno avesse portato via il mio futuro senza intenzione di restituirmelo.
Sinceramente, non credo sia un periodo, se capisci cosa intendo.”
Takeru le
sembrava scoraggiato più che mai, mentre tornava a guardarsi le mani.
Poi, un
sorriso di scusa. “E’ per questo che vi osservo: vedo in voi quella
determinazione che mi manca da tanto tempo, e riesco a scordare i miei problemi
per qualche istante. Ma dopo avervi osservati, è solo peggio. Ancora non riesco
a capire come abbiate deciso di prendervi questa grande responsabilità senza
paura di non esserne in grado, di cambiare idea.”
Hikari non
seppe come, ma all’improvviso la scena davanti ai suoi occhi si fece più
nitida, più chiara e comprensibile. Non c’erano più dubbi, tristezza per Takeru
o per la sua situazione: solo una grande sorpresa per la risposta che sentiva
nascere spontanea dalle sue labbra.
Aveva la
soluzione.
Era
irrazionale, forse insensata, forse inutile, ma era forte e sicura nella sua
mente.
In fondo,
qual era il segreto del successo di tutti loro con i bambini che accudivano?
Solo uno.
Ma sapeva
quanto fosse efficace.
Lo guardò
dritto negli occhi, sorridendo della sua apparentemente insensata decisione.
“Takaishi…
Takeru-san, se tu guardassi ogni giorno gli occhi dei bambini non avresti il
coraggio di essere incerto, o dubbioso.” Si stupì della serenità delle sue
parole, rendendosi conto di non aver mai preso un’iniziativa del genere senza
interpellare gli altri. “La loro semplicità è sufficiente per farti superare
momenti di crisi, per farti crescere più responsabile e protettivo e, al
contempo, per farti tornare alla loro innocenza. Riesci a capire perché non
possiamo arrenderci, con loro da proteggere?”
Aspettò,
immobile, che le sue parole fossero ben assimilate dal ragazzo, senza dire
altro.
Takeru
aggrottò le sopracciglia, sorpreso. “Vuoi dire… I bambini sono la vostra
maniera per andare avanti?” chiese, e nel suo tono di voce c’era tutta
l’incredulità possibile.
Hikari
annuì semplicemente.
“Ma i
problemi restano” obiettò ancora il giovane, non convinto. “Davanti ai bambini
si può solo mascherare l’incertezza, per non allarmarli o rattristarli. Dov’è
la guarigione, allora?”
Non ebbe
bisogno di pensarci nemmeno per un momento, prima di parlare.
“Vieni con
me in giardino dai bambini, Takeru-san.”
“… Che
cosa?”
Ora era
semplicemente sconvolto, come se avesse assistito ad un fenomeno paranormale.
Hikari
sorrise ancora, sicura. “Non riesco a spiegarti a parole tutte le qualità dei
bambini, per cui è meglio che tu venga a parlarci di persona. Credo che li
troveresti adorabili, e che capiresti cosa intendo, quando dico che loro sono
l’unica cosa che ci fa restare in piedi nonostante tutto.”
C’erano
buone probabilità che questa strana idea potesse aiutare il giovane. Doveva
aver perso la fiducia in se stesso, la speranza nel futuro, ogni certezza:
forse era soltanto cresciuto troppo, e nella maniera sbagliata.
Non era
troppo tardi per ricominciare a sorridere.
E poi, lui
le aveva detto che voleva rendersi utile. Chissà: forse avrebbe potuto unirsi a
loro, se l’avesse voluto. Sora, Mimi, Koushiro e Jyou avevano iniziato quasi
allo stesso modo.
Sentiva che
poteva tentare, anche se non aveva domandato il parere a nessuno.
Takeru
sembrava titubante. “Non… Io non credo di potere…” Balbettò, osservando con
aria strana i giochi dei bambini dietro i cespugli.
Gli si
avvicinò di un passo, lentamente. Lo vide accorgersi del movimento, per poi
voltarsi nuovamente a guardarla. Nei suoi occhi c’erano tante domande.
“Se il
problema è il nostro consenso, te l’ho appena dato” gli rispose. “Coraggio: si
tratta solo di parlare loro per un momento.”
“Vi ho
spiati” obiettò Takeru, cercando di essere ragionevole.
Hikari
scoppiò a ridere. Come poteva pensare ad una cosa del genere quando non aveva
fatto nulla di male?
“Va tutto
bene, sul serio. Se ti va di venire con me, ti assicuro che non sarai giudicato
da nessuno.” Rispose, divertita. “Andavi di fretta?”
Lo guardò
ancora, piena di aspettative, chiedendosi quale sarebbe stata la risposta
definitiva. Chissà se sarebbero cambiate alcune cose, a seconda dell’esito di
quel discorso.
Infine,
Takeru sospirò, con un sorriso. “No, non avevo nulla da fare. Grazie tante per
l’invito, Hikari-san.”
Suonava
tanto come un sì.
Lei si
illuminò. “Naoko-chan sarà tanto felice di vederti di nuovo.” Disse,
rallegrata.
Sperò
vivamente di aver trovato la giusta soluzione, mentre faceva a Takeru segno di
seguirla e apriva nuovamente il cancello grigio, per poi entrare nel giardino.
Sperò che
quello strano istinto a fidarsi di quel giovane solo e triste non fosse da
biasimare, mentre con lo sguardo scorgeva le tanto familiari figure dei suoi
amici e di suo fratello, ignari dell’ospite inaspettato che si guardava
intorno, a disagio.
Sperò di
non aver sbagliato tutto, mentre Naoko, al suono del cancello aperto, si
voltava incuriosita, per poi riconoscere il suo accompagnatore silenzioso, e
quindi sorridere felice.
“Takeru-san!”
esclamò, scattando in piedi e allontanandosi dal cerchio di Taro e del suo
piccolo teatro.
E mentre
tutti i presenti si voltavano nella loro direzione, e i loro occhi si
spalancarono per la sorpresa, Hikari si morse il labbro inferiore, cercando di
prevedere quale sarebbe stato l’esito della sua decisione.
Era
impossibile immaginarlo.
Ma sperava
con tutto il cuore che Taichi e gli altri ne avrebbero capito il motivo, mentre
rimaneva a osservare quel momento di silenzio attonito che pareva inglobarli
tutti in una dimensione senza alcun suono.
Nemmeno
quello dei loro respiri.
Buon
pomeriggio a tutti voi! Proprio non ce l'ho fatta a non lasciare in
sospeso gli avvenimenti, come ho già fatto precedentemente: il
capitolo sarebbe diventato troppo lungo, e preferisco trattare tutto in
maniera accurata. Perciò, non me ne vogliate! ^^ E spero che
quest'ulteriore -ma più importante- incontro tra Hikari e Takeru
riesca a soddisfarvi. Posso solo dirvi che è stato compiuto un
grande passo avanti... Per il seguito degli avvenimenti, però,
vi invito ad aspettare ulteriori aggiornamenti.
Grazie, Mystery Anakin,
per esserti impegnata a recensire appena possibile: mi commuove tutto
questo interesse! ** E' molto interessante ascoltare le tue opinioni
riguardo al diario di Miyako, pur dovendo restare assolutamente
neutra... E sono felice che la parte del flash-back di Osamu e Ken si
sia letta tanto facilmente! Che vuoi che ti dica... Osamu non si
aspettava certo che un inesperto fratello minore riuscisse laddove lui
aveva fallito per otto anni! Per un investigatore come lui è un
grave colpo... u.u Oh, vuoi vedere che ti sto facendo appassionare alle
Kenyako? xD Spero che gli ulteriori sviluppi tra loro ti piacciano come
nel cap precedente! Per intanto, aspetto tuoi pareri appena possibile!
Alla prossima, e grazie!
Shine, ti confesso che
mi piace tantissimo leggere le emozioni che i miei aggiornamenti ti
evocano, e perciò ti ringrazio di essere così accurata!
:) Lo sai che mi piace sperimentare tipi di capitoli diversi, per
questo sono contenta che la trovata del diario all'inizio ti sia
piaciuta! Ho sempre voluto scrivere una storia dove fosse trattato il
confronto tra i due fratelli Ichijouji... Insomma, cerco di renderli al
meglio! ^^ Temo che al momento tra i due le cose non siano messe bene,
ma non disperare, che tutto può cambiare in meglio! E se sono
riuscita a emozionarti alla scena finale tra Ken e Miyako, posso dirmi
davvero felice! xD Grazie di tutto, aspetto tuoi pareri al più
presto!
Sono davvero contenta di aver letto la tua recensione, NanahoBerlitz:
fa sempre piacere leggere pareri di nuovi lettori, soprattutto se
così positivi! Sono lusingata, sul serio! :) Davvero il tuo
personaggio preferito è Miyako? Ammetto che è anche il
mio! ^^ E ti ringrazio per i complimenti sul capitolo introspettivo,
così come quelli sulla storia in generale! Spero di leggere tuoi
commenti anche per i capitoli a venire, e che la storia continui a
piacerti tanto... Io ce la metterò tutta per non deluderti!
Grazie ancora!
Roe, non sai che
sollievo scoprire che la mia storia non ti sembri un plagio -sempre non
voluto, come sai- : d'altronde, quando ho scritto questo cap non avevo
ancora letto la tua storia! xD Sono contenta che questo aggiornamento
ti sia piaciuto, piuttosto. L'idea di una sorta di competizione tra
Osamu e Ken, in effetti, mi affascinava: diciamo che avevo voglia di
recuperare qualche altro elemento dall'anime! Anche lì il
maggiore si mostra freddo con Ken, in fondo ;) I fratelli di Miyako non
hanno abbandonato la madre, semplicemente non le fanno visita
così spesso... E non è nel carattere di Miyako essere
fredda, soprattutto se si tratta di Ken! Quindi, tranquilla :) E spero
che questo cap ti piaccia! Grazie per i tuoi commenti, le tue
impressioni e tuoi complimenti, aspetto pareri! ^^
Come al solito, opinioni, consigli e critiche saranno benaccetti! ^^ Al prossimo aggiornamento!
Padme Undomiel
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Capitolo 13 *** Stupida ***
12
12.
Stupida
Era
terrorizzata.
Sentiva le
mani tremarle, il cuore battere ad una velocità impressionante e anormale, e
una fastidiosa sensazione di essere esposta, di essere visibile agli occhi di
tutti.
Avrebbe
preferito di gran lunga correre via all’istante, senza dover per forza
mantenere intatte le apparenze e continuare la farsa.
E invece
no. Era ancora lì, ancora in pericolo, ancora esposta.
Avrebbe
maledetto la sua cattiva sorte, se avesse potuto. Avrebbe gridato contro tutto
e tutti, anche contro quella anziana signora che sfogliava un libro di ricette
culinarie a pochi metri di distanza, solo perché non riusciva a capacitarsi di
tutte quelle ingiustizie.
Avrebbe
solo voluto trascorrere una vita in maniera normale, senza problemi. Avrebbe
voluto non sentirsi sempre sull’orlo del baratro tutte le volte che qualcosa di
nuovo cercava di penetrare a forza la sua barriera.
Ma cosa
avrebbe potuto farci, se il destino sembrava odiarla tanto?
Per questo,
tesa come una corda di violino e fragile come una margherita, non poteva che
aggiustarsi quelle ciocche di capelli neri che non le appartenevano con una
sorta di mania ossessiva, pregando che non fosse visibile ad occhi esterni il
fatto che si trattasse solo di una parrucca.
Per questo
rimaneva immobile – l’unica cosa che la tradiva pareva essere il suo tremore,
ma si sforzava di mimetizzarlo- dietro la cassa del negozio dove lavorava,
sulla difensiva, attenta a non incontrare mai direttamente lo sguardo di
nessuno.
Per questo
Inoue Miyako era convinta che quello fosse uno di quei giorni in cui la
credibilità di Miyazawa Rumiko doveva essere più evidente.
Con il
respiro accelerato e il cuore impazzito, però, riusciva ancora a trovare il
modo di ridere, osservando, quasi studiando di nascosto il suo interlocutore,
per paura che un qualsiasi suo movimento non tenuto sotto controllo potesse
portarlo alla verità.
Chissà
come, la sua farsa ancora reggeva.
“Non ti
sembra il momento di darsi una calmata? Finirai sommerso dai libri, se continuerai
così!” esclamò, tentando di non dare un tono isterico alla sua risata e
concedendosi per un breve momento di osservare il suo viso.
Ichijouji
Ken era ancora davanti a lei, come
tanti, troppi giorni di seguito. I suoi capelli neri perfettamente ordinati
come sempre, la sua carnagione solitamente chiara leggermente più rosea quel
giorno –probabilmente per l’imbarazzo-, un sorriso divertito per metà e a
disagio per l’altra, le mani strette a reggere l’ennesimo libro preso da uno
degli scaffali.
Sembrava
essere stato preso alla sprovvista: si era immobilizzato sul punto di avanzare
ancora verso di lei e la cassa, dopo che Miyako aveva riso di ciò che aveva
preso con sé.
“Non sono
qui per comprarlo” obiettò corrugando lievemente le sopracciglia, ma sulle sue
labbra era ancora presente quel sorriso di scusa. “Non questa volta.”
La sorpresa
fu così grande da lasciarla di stucco; lo fissò sbigottita, non credendo alle
sue orecchie. “Non ci posso credere! Hai avuto una crisi, o qualcosa del
genere?”
Sentì Ken
ridacchiare, divertito. I suoi occhi azzurri erano di nuovo fissi nei suoi, e
parevano quasi innaturali, per l’intensità che aveva il suo sguardo. “Nessuna
crisi: volevo un’informazione, tutto qui.”
Non riuscì
ad affrontare il suo sguardo per più di un paio di secondi: in un attimo quel
senso di vulnerabilità che la coglieva ogni volta che si ritrovava a parlare
con lui la inondò, lasciandola senza fiato. Le sembrava quasi che i suoi veri
capelli fossero visibili anche nascosti dalla parrucca, e che un paio di spesse
lenti da vista mostrassero chiaramente la sua miopia.
Le sembrava
che lui la stesse osservando oltre Rumiko.
Sfuggì a
quell’interrogatorio silenzioso abbassando lo sguardo, con decisione, sul libro
che il giovane stringeva tra le mani, per cercare di calmarsi.
Quel giorno,
sarebbe toccato a uno degli articoli messi in vendita dalla signora Sato essere
la scusa per non guardarlo mai negli occhi. Era sicura che lui avrebbe potuto
rovinare la parodia di vita che si era faticosamente costruita, che era
l’unica, misera cosa che le restava, e che pure le sembrava così fragile.
Provava
rancore verso quel giovane lettore di gialli. Era comparso dal nulla, facendo
da spettatore ad uno dei momenti più segreti di Miyako senza che lei lo avesse
voluto, e sembrava essere sempre sulla sua strada, parlandole e mettendola in
pericolo.
Era il
fratello dell’investigatore che la stava cercando. Ichijouji Osamu.
Forse era
per questa parentela che lui la faceva soffrire: suo fratello la perseguitava,
continuando a cercarla strenuamente coinvolgendo anche i suoi amici più cari, e
lui, Ken, le ricordava ogni giorno che il pericolo di essere scoperta era
vicino, forse anche troppo.
Era quasi
ogni giorno in quella libreria, non lasciandole tregua e scambiando qualche
frase cortese con lei. E continuava a fissarla, probabilmente deciso a
terrorizzarla.
Aveva
deciso che lo avrebbe tenuto lontano dalla sua vita, ma ogni volta che se ne
convinceva completamente, malgrado il senso di ingiustizia che minacciava di
sopraffarla, lui tornava a tormentarla con i suoi discorsi gentili.
Ma forse
era proprio quello il problema, considerò con un sorriso cupo, prendendo il
volume che Ken le porgeva, attenta a non sfiorare nemmeno per un istante le
dita di lui come se fosse possibile riconoscerla solo dalle mani. Era gentile.
E lei
sapeva che dalla gentilezza non si poteva scappare facilmente. Era la trappola
meglio riuscita per l’animo umano: la gentilezza fa sorridere, rasserena,
dispone positivamente a parlare con chi la possiede come qualità innata. La
gentilezza genera assuefazione per chi non l’ha conosciuta per anni, forse per
una vita intera.
La
gentilezza permette alla paura di non prendere il sopravvento, e crea opinioni
contrastanti difficili da far tacere.
Proprio per
questo Miyako era in trappola.
Perché la
gentilezza di lui alimentava quella parte ribelle che mai l’avrebbe
abbandonata, quella parte che urlava, frustrata, che era suo diritto parlare
con chi voleva, anche solo per poco, rimandando il momento dell’allontanamento
ad un altro giorno.
Giorno che
avrebbe continuato a rimandare, considerò sarcasticamente, desiderando che
Ichijouji Ken la smettesse di presentarsi prepotentemente nel suo negozio.
“Cosa ti
serve sapere?” domandò infine, dopo aver osservato con attenzione il romanzo
che aveva tra le mani e aver realizzato che sembrava esattamente il tipo di
libro che il giovane avrebbe comprato a priori. Manteneva il tono più neutro
possibile, e non si azzardava ad alzare lo sguardo, che sicuramente l’avrebbe
tradita irrimediabilmente.
“L’ho
sfogliato prima, e ho notato che ci dev’essere stato un errore di stampa:
l’ultima pagina è bianca. Manca la fine” rispose Ken, indicando il volume che
lei aveva tra le mani. “Mi chiedevo solo se ci fosse un’altra copia senza
questo problema.”
Lo stupore
minacciò di farle cadere di schianto ciò che aveva in mano. Il suo sguardo
saettò sul viso interrogativo dell’altro, che ancora aspettava una risposta, e
colse l’aria tranquilla e rilassata della sua espressione facciale.
Sembrava
che per lui fosse normale concentrarsi sui piccoli particolari. Lei, al suo
posto, non lo avrebbe mai notato.
Sembrava
avere un istinto da investigatore. Come suo fratello.
Fu scossa
da un brivido, mentre tornava a controllare con le dita lo stato della sua
parrucca.
E si
costrinse a sorridere, come se non si fosse accorta di nulla. “Posso chiederti
come mai sei arrivato fino all’ultima pagina per verificare? Non posso credere
che tu sia uno di quei matti che leggono dalla fine fino all’inizio, o
sbaglio?” riuscì a domandare, con un tono divertito.
Ken si fece
sorpreso in un attimo, prima di sorridere e scuotere il capo. “No, niente di
tutto questo” disse, e nel suo tono c’era una lieve risata. “E’ solo che so che
può succedere di acquistare romanzi con difetti vari, per questo mi
intestardisco nel verificare minuziosamente che sia tutto a posto. Tutto qui.”
Quanto
appariva normale la spiegazione che lui aveva dato, mediante la sua voce pacata
e tranquilla. Chiunque, ascoltandolo, si sarebbe convinto che questo tipo di
abitudine fosse normale, che non farlo sarebbe da totali idioti.
Eppure
Miyako sapeva quanto fosse anomala una cosa del genere.
Ma non
riusciva a capire se la sua spiegazione così semplice fosse veritiera, o solo
un patetico modo per trarla in inganno e non farla insospettire. Per continuare
a tenerla d’occhio.
Trovò
abbastanza coraggio per non distogliere lo sguardo dal suo viso, alla
sospettosa ricerca di un qualsiasi segno che lo avrebbe smascherato nel suo
eventuale intento di spionaggio. Cercò di scrutare fino in fondo la sua
espressione, non arrendendosi al pensiero irrazionale di lasciar perdere tutte
le precauzioni e le preoccupazioni. Insistette su ogni particolare, con
testardaggine decisa e ferma.
E vide solo
il volto confuso di chi attende una risposta, in Ken. Vide solo una curiosità
perplessa mista ad una sorta di desiderio di conoscere la risposta alla sua
richiesta, per sapere se avrebbe potuto acquistare anche quel romanzo
poliziesco.
Un’espressione
così strana e particolare che Miyako ne rimase interdetta.
Era buffa.
Davvero buffa.
Si scoprì a
trattenere una risata, contro ogni logica. Le sue labbra erano state costrette
ad aprirsi in un sorriso, forse per una reazione isterica dovuta al nervosismo.
Era strano
scoprirlo così assurdamente buffo un istante dopo aver pensato a lui come un
attento osservatore del mondo.
“Sembra che
tu ci tenga davvero tanto alle tue letture, è così?” gli chiese, non riuscendo
a mascherare il sorriso che si trovava davvero a suo agio sulle sue labbra. “Se
arrivi addirittura al punto di controllare se sia stampato bene, credo che tu
sia un caso senza speranza. Si tratta di deformazione professionale dovuta al
mestiere di tuo fratello?”
Solo quando
ebbe finito di parlare, si rese conto di ciò che aveva chiesto, e desiderò
mordersi la lingua con tutta la forza che aveva. Un senso di orrore si
impadronì di lei, gravando come un macigno nel petto nell’eterno istante di
silenzio che regnò tra loro.
Lei non
poteva sapere. Non voleva!, si disse angosciata, rendendosi conto che la sua
tranquillità momentanea avrebbe potuto sgretolarsi con la risposta positiva di
Ken.
Perché
avrebbe confermato il fatto che il suo interlocutore aveva contatti con il
lavoro di Ichijouji Osamu, e che quindi loro due non avrebbero mai dovuto
incontrarsi, perché questo l’avrebbe messa in pericolo.
E Miyako
non voleva sentirsi di nuovo la preda, come era successo in tutti quei giorni e
come aveva smesso di fare per un istante mentre rideva dell’espressione del
giovane davanti a lei. Voleva fingere, per l’ultima volta, di essere normale,
di non doversi nascondere da tutti.
Aveva
appena riportato tutto in un discorso troppo reale, troppo angosciante.
Le mani
avevano ripreso a tremarle.
“Mio
fratello?” Ripeté Ken, aggrottando le sopracciglia con aria incuriosita e
sorpresa insieme. Sembrava non essersi aspettato una domanda del genere.
E la
giovane ringraziò il cielo che lui le avesse dato la possibilità di non avere
una risposta subito. Scosse fermamente la testa, sorridendo con aria noncurante
all’apparenza e sollevata nella realtà, prima di ribattere: “Oh, nulla, non
preoccuparti. Dicevo, questa è l’unica copia che hai trovato nello scaffale?
Perché, se è così, temo che non ce ne siano altre copie senza errori di stampa…
Mi sa che dovrai ripassare tra qualche tempo, quando avremo risolto il problema
e saranno arrivate altre copie. Mi dispiace davvero, ma non posso farci
granché…”
Aveva
cominciato a parlare a raffica quasi senza accorgersene, tanto il sollievo.
All’improvviso,
Ken aveva preso a fissarla, con aria decisamente incuriosita. Sembrava perso
nei suoi pensieri, anche se non riusciva a cogliere altri particolari.
Ma Miyako
voleva che la smettesse. Non aveva idea del motivo di quello strano
comportamento, ma si sentiva di nuovo a disagio, essendo esposta a diretto
contatto con quei fin troppo profondi occhi azzurri.
Miyako
sentiva di nuovo le sue guance accaldarsi, per la fastidiosa sensazione di
essere letta dentro senza che lei avesse concesso ad alcuno questo diritto.
“Beh? Cosa
c’è?” sbottò alla fine, agitata.
Lui inclinò
leggermente la testa di lato, mentre continuava ad osservarla. “Volevi sapere
se sono minuzioso nell’osservare le cose perché abituato a mio fratello?”
chiese, senza traccia di fastidio o di incredulità nella sua voce.
Non era
possibile. Era riuscito a ritornare in argomento. Perché non poteva
semplicemente lasciar perdere?
“Ma no, io…
Non sono affari miei, non preoccuparti. E’ davvero scortese, e… Ho parlato
senza pensarci” si affrettò a spiegare, terrorizzata alla prospettiva di avere
una risposta. L’ultima frase suonava un po’ troppo indispettita, però: chissà
se lui se n’era accorto.
Ken, però,
le sorrise, più gentile che mai. “Non sei stata scortese, davvero. E non ho
problemi a risponderti, Rumiko-san.”
Non seppe
come né perché, ma il sentire dalle sue labbra quel nome le fece mancare un
battito. E fu tanta la sorpresa per quello strano sentimento sgradevole che non
riuscì ad interromperlo mentre le dava una risposta.
“Sono
abituato ad adottare questo atteggiamento da sempre, ma non so quanto il lavoro
di mio fratello Osamu abbia influito sul mio comportamento. Anche quando era
piccolo era molto attento ai particolari, e così bisognava che tutti si
abituassero.”
Ecco, ne
era sicura. Non ascoltarlo sarebbe stato meglio. Miyako si scoprì a desiderare
che chiunque, un qualsiasi tipo di cliente, richiamasse la sua attenzione, per
trovare una scusa per sfuggire a quella situazione tanto pericolosa.
Non erano
belle notizie. Se era abituato ad ascoltare giornalmente l’investigatore, di
sicuro avrebbe potuto scoprirla in men che non si dica.
Seppe di
star rischiando troppo, ma ormai poteva solo continuare quello che aveva
iniziato: forse avrebbe potuto conoscere meglio il suo nemico. E stare più
tranquilla.
“Dev’essere
stata dura” scherzò, guardandolo di sottecchi mentre giocherellava con il libro
che aveva tra le mani. “Insomma, se lui è… è diventato il famoso investigatore
che tutti conosciamo, vuol dire che anche da piccolo deve avere avuto delle
doti eccellenti. Si può sapere come hai fatto ad adeguarti?”
Lo vide
alzare le spalle, sempre con quel sorriso pacato. “Non saprei. Forse
l’abitudine” rispose semplicemente, ma improvvisamente le apparve assorto in
chissà quali considerazioni.
Abitudine?
Non le
piaceva come termine. Voleva dire che erano in buoni rapporti. Ancora una
volta, il destino sembrava non volerla affatto favorire.
“Quindi
siete in buoni rapporti, mi sembra di capire” si azzardò a dire, non sapendo
quanto si stesse spingendo oltre. Voleva solo che lui smentisse, perché il suo
cuore sembrava volerle esplodere in petto. Basta
con l’ansia, basta.
E Ken la
guardò, e i suoi occhi le parvero pieni di emozioni incomprensibili. Rimase
pietrificata, non sapendo cosa fosse successo, né cosa lui stesse pensando.
E il
sorriso di lui era diventato una pura cortesia: tutto lasciava intendere che
fosse pregno di significati nascosti che lei non poteva conoscere. “Così pare”
rispose cauto.
E il
discorso parve chiuso.
Miyako era
interdetta. Fino a quel momento aveva creduto di essere l’unica a nascondere
qualcosa, ma ora pareva che anche Ken avesse capito che lei era una perfetta
sconosciuta.
C’era una
sensazione di amarezza, in lei. Forse questo sanciva la fine dei loro
frammentari discorsi quasi quotidiani. Sarebbe andato via, e lei non avrebbe
più potuto far finta di essere una ragazza normale.
Solo dopo
qualche istante si rese conto di quanto bisogno avesse di parlare con qualcuno.
Si chiese, attonita e spaventata, se la sua fosse una specie di malattia
mentale: davvero era così disperata, così bisognosa di normalità?
All’improvviso,
si sentì stupida. Così stupida da rischiare, conversando col fratello del suo
nemico. Così stupida da intromettersi negli affari privati del fratello del suo
nemico, con tutti i possibili atteggiamenti equivoci che poteva assumere il suo
viso mentre lo guardava.
Così
stupida da non interrompere quella conversazione.
Lo guardò,
e sorrise del fatto che lui ignorava completamente quello che lei stava
pensando. Se solo avesse saputo… “Ci risiamo: mi dispiace. Questa volta non
erano davvero affari miei: non sei mica tenuto a rispondermi, capisco da sola.
Eri venuto qui per un’informazione, e io ne ho chiesta una a te…”
Detto
questo, sperò vivamente che lui capisse che non dovevano dirsi altro.
“Non c’è
problema, davvero. Anzi, ti chiedo scusa per averti fatto perdere tempo sul
lavoro: non era mia intenzione.”
Miyako alzò
lo sguardo, pronta a ribattere sull’assurdità di quelle scuse, ma si fermò
bruscamente.
Ken le
aveva preso delicatamente il libro dalle mani, e nel farlo, quasi
impercettibilmente, le aveva sfiorato le dita.
Il suo
cuore prese a martellare furiosamente, mentre lei abbassava di colpo le mani e
lui pareva non essersi accorto di nulla. Lo fissò, scioccata, e comprese che
lui non doveva averlo fatto intenzionalmente.
Sorrideva
educato, sollevando leggermente il libro. “Lo rimetto a posto. Grazie per
l’informazione.”
Dopodichè,
si voltò e camminò via, sparendo ben presto dietro uno scaffale.
Miyako
rimase immobile, le mani abbandonate sulla cassa, il cuore impazzito.
Era
sconvolta. Non riusciva nemmeno a rendersi conto del tutto del pericolo che
correva.
E, come
ogni giorno che Ichijouji Ken veniva prepotentemente nel suo negozio, si sentì
una totale idiota.
Con l’unica
differenza che quel giorno la sensazione era aumentata di intensità.
***
Entrava una
brezza fresca, dalla finestra semiaperta davanti ai suoi occhi.
Aveva lo
sguardo puntato sul cielo, scrutandone, assente, le varie sfumature di viola
che, in lontananza, aveva assunto, e che creavano un effetto suggestivo sul blu
che la sovrastava e che indicava il sopraggiungere della notte.
Era
sdraiata sul divano, in una delle posizioni strane in cui si rilassava
solitamente, scomposta e immobile, e respirava.
Respirava
soltanto, con la mente priva di angoscia lasciata a riposo in un’irreale
confusione disordinata di pensieri che si districava solo occasionalmente e
senza un filo logico.
Aveva una
mano posata sul morbido supporto sotto di lei, e l’altra sulla sua pancia,
lasciata lievemente scoperta da quando si era accasciata sul divano, minuti
prima, e non aveva più trovato la forza né la voglia di muoversi.
Doveva
liberare la mente. Doveva farlo, o sarebbe impazzita completamente.
Rabbrividì,
quando un soffio d’aria più fredda arrivò fino a lei. Inconsciamente, rafforzò
la presa sulla sua pancia, quasi a volersi difendere dal freddo.
E in quel
momento un’immagine riempì i suoi ricordi, lasciando che lei ne fosse travolta.
Non c’erano
freni inibitori: non poteva evitare di ricordare.
Lasciò che
le immagini le scorressero davanti agli occhi, ancora puntati sulla volta del
cielo immobile e straordinariamente bello.
Una mano a sfiorarsi
il ventre, si osservava allo specchio, con occhi brillanti di commozione.
Era strano. Era
davvero strano sentirsi così cambiata.
Era strano sapere cosa
stava crescendo dentro di lei.
Era strano che già lo
amasse con tutte le sue forze.
Ma non poteva darsi
una risposta razionale.
In fondo, era normale.
Ed era l’unico motivo per cui era felice, per un istante incurante delle sue
sofferenze inumane.
Per un momento, Miyako
stava ammirando suo figlio dentro di sé.
Sospirò, mentre un
sorriso assente si formava sulle sue labbra.
“Sei sfortunato, sai?”
mormorò, sapendo che lui o lei doveva starla ascoltando.
“Siamo sfortunati. Tua
mamma non riesce a trovare pace, piccolo mio. Non ci riesce.
Ma è solo questione di
abitudine, sai? Io lo so… Lo so che si abituerà, e tutto andrà bene…”
Anche il piccolo era
triste come lei, si disse, mentre il sorriso si incrinava. Doveva esserlo.
Come era possibile che
gli fosse fatta una cosa del genere?
“Te lo dice la mamma.
Solo… abitudine… capirà…”
Non fu stupita di
vedere le lacrime nel suo riflesso, insieme a quell’espressione rabbiosa e
ferita.
“Chissà quando, e se
capirà…” ammise infine, continuando a sfiorare suo figlio attraverso la sua
pelle.
“Tua madre è una
dannata sognatrice, amore mio…”
Era così
piatta, adesso che non accoglieva nessuno. Rispetto al suo ricordo, era
cambiato tutto.
Era così
sola, adesso.
Miyako si
mise seduta, con un sospiro stanco. Si alzò in piedi, camminò per la stanza in
fretta e chiuse la finestra, rabbrividendo e stringendosi le braccia al petto.
Cominciava
a far freddo: se avesse continuato così, si sarebbe sicuramente ammalata, e non
poteva permettersi di rimanere sola per tutto il tempo che le sarebbe occorso
per guarire, oppressa dal silenzio irreale che regnava in quel luogo.
Come quello
che era appena calato attorno a lei, che la opprimeva e la lasciava senza
fiato.
Odiava
quella casa, che la distruggeva ogni giorno. Odiava quella situazione.
Odiava
dover essere costretta a rimanere lì per colpa del suo passato, e di chi ancora
si ostinava a cercarla e a renderle la vita ancora più difficile.
“E adesso
sono ancora più nei guai…” disse ad alta voce, preferendo di gran lunga parlare
da sola che rimanere assordata dal rumore del silenzio.
Cominciò a
ridacchiare, trovando ridicolo la sua situazione e le sue reazioni. Era davvero
assurdo: pareva che avesse una bravura eccezionale nel cacciarsi nei guai di
sua spontanea volontà, nonostante ci fosse una via d’uscita, nonostante non
dovesse far altro che evitare di essere impulsiva.
“Ma per me
è facile non esserlo come non bere lo è per un alcolizzato, d’altra parte.”
Tornò a
sedersi, sbuffando e abbandonando il capo sul cuscino del divano, e chiuse gli
occhi.
Doveva
essere quel continuo nascondersi da tutti: l’avrebbe fatta impazzire, un giorno
o l’altro. La situazione peggiorava continuamente, ed era per questo che non
riusciva a rinunciare a quelle piccole conversazioni quasi giornaliere: ne era
dipendente.
Dipendeva
dalle attenzioni disinteressate.
Ma di tutti
i ragazzi che esistevano in Giappone, era riuscita ad essere intrappolata dalla
persona meno indicata, ad eccezione, ovviamente, di Ichijouji Osamu.
L’ansia la
colse in tutta la sua interezza, quasi a volersi vendicare dei minuti passati a
cercare di non pensarci.
Non sapeva
assolutamente cosa fare. Ichijouji Ken era un assiduo frequentatore della
libreria dove lavorava: trovava impossibile l’idea di un suo repentino cambio
di abitudini, nonché l’abbandono dei suoi amati libri. Sembrava non riuscisse
proprio a farne a meno.
D’altra
parte, lei non poteva certo smettere di lavorare lì. Miyako si immaginò senza
il suo lavoro dietro alla cassa, come ai tempi in cui aiutava i suoi genitori
nel negozio di alimentari, senza la presenza rassicurante della signora Sato,
una delle poche a conoscere la sua identità al di là di Miyazawa Rumiko, senza
potersi nascondere in quel luogo tranquillo e rassicurante, e l’orrore per
questa decisione le fecero scacciare in fretta quel pensiero dalla mente.
No, non
poteva andarsene.
Oltretutto,
cosa avrebbe detto alla signora Sato, a Satsu? Che se ne andava perché il
fratello del detective incaricato di trovarla aveva deciso di aver voglia di
conversare con lei?
Oltre ad
essere ridicolo, era anche preoccupante. Satsu avrebbe di certo parlato con
Iori della questione, e entrambi avrebbero preso a proteggerla in maniera più
apprensiva.
Ci mancava
solamente un po’ di rischio in più per i suoi migliori amici. Miyako non voleva
rischiare assolutamente che la loro vita fosse rovinata a causa della sua
idiozia.
Ma allora
qual era la strada giusta? Si prese la testa fra le mani, spaventata e
disperata. Davvero non aveva scelta? Davvero avrebbe dovuto essere così tanto
esposta, vulnerabile?
Ripensò a
Ken, a quel suo modo pacato e gentile di parlarle ogni giorno, alle sue educate
domande sullo stato della sua caviglia –fortunatamente stava molto meglio-, a
quel suo essere discreto e rispettoso del suo silenzio, e la sua mente si
riempì di confusione.
Perché
tutto quello? Che motivo aveva di parlare con lei, di interessarsi tanto a lei?
Poteva
darsi che fosse stata scoperta, che fosse solo una tattica?
Non poteva
crederci. L’angoscia era troppa. Non poteva crederci.
Ma allora… cosa?
“Cosa
diavolo vuoi da me, Ichijouji Ken?”
Non aveva
una risposta. Era in totale balia degli eventi. Si sentì un’incapace,
totalmente inerme di fronte ad un problema serio. Era suo dovere risolverlo, ma
non trovava una soluzione.
Se solo non
fosse stata così sola, ci sarebbe stato qualcuno a consigliarla, considerò,
sentendo il silenzio più crudele che mai. Se solo avesse avuto qualcuno su cui
contare senza aver paura di metterlo in pericolo, si sarebbe sfogata senza pensarci,
e avrebbe avuto una qualche risposta.
Aprì gli
occhi, notando come la stanza era ormai calata nel buio quasi totale. Il suo
sguardo si posò quasi involontariamente sul telefono, e all’improvviso un
bisogno impellente fu risvegliato da quella visione.
Chiamare
qualcuno. Anche solo per non essere sola. Anche solo per sentirsi rassicurata
in qualche maniera. Non importava se avesse taciuto il problema: una voce amica
sarebbe bastata, per il momento.
Si alzò di
nuovo, afferrando la cornetta del telefono e componendo un numero che conosceva
a memoria dai tempi delle scuole elementari.
Si portò la
cornetta all’orecchio, con il cuore in gola. Sperava che rispondesse: doveva
sentire la sua voce, e cercare di stare meglio. Era indispensabile.
Ma avrebbe
risposto? Ci sarebbe stato conforto per lei, quella sera?
Prima che
le domande si affollassero ulteriormente nella sua mente, una voce risuonò
dalla cornetta, familiare e più che mai gradita.
“Pronto?”
Un sorriso
grato e felice illuminò il suo volto. “Iori-kun?” chiamò, con uno strano
slancio.
Un istante
di silenzio. “Rumiko-san!” fece poi la voce, sorpresa e preoccupata insieme.
“Stai bene?”
Le fece
male sentirsi chiamare così da chi considerava quasi un fratello minore: le
sembrava di aver perso completamente la sua vera identità. Il sorriso morì
sulle sue labbra, mentre desiderava ardentemente che lui non dovesse fingere,
che tutti quelli che avrebbero potuto ascoltare la conversazione sparissero
all’improvviso, per non dover creare barriere con Iori. Non lo sopportava.
“Più o
meno” rispose esitante, giocherellando con il filo del telefono, e dall’altra
parte sentì un piccolo sussulto eloquente. Si affrettò a spiegare, per non
farlo preoccupare eccessivamente. “E’ che ho voglia di parlare, Iori-kun: chiamala
un po’ di depressione, un po’ di malinconia… O forse mi mancano solo le nostre
chiacchierate. Hai un po’ di tempo o sei impegnato? Altrimenti chiamo
Satsu-chan, e…”
“No, ho
tempo.” Rispose lui, interrompendola. “Se hai bisogno di parlare, lo sai che
puoi sempre contare su di me: voglio rimediare al tempo perso. Non ho
intenzione di abbandonarti ancora.”
Fu tanta la
determinazione in quelle parole che Miyako non poté ignorare un’ondata di
affetto per il suo migliore amico. Non le importava più nulla degli anni
trascorsi lontani da lui e dal suo perdono: quello che contava era che lui non
l’avrebbe abbandonata più, che avrebbe fatto e che faceva di tutto per
proteggerla, e che poteva fidarsi completamente di lui.
Si asciugò
in fretta le lacrime che si erano fermate tra le sue ciglia, per poter parlare
senza avere una voce tremante.
“Grazie,
grazie, Iori-kun! Lo sai che ti voglio bene, vero?” esclamò, felice.
Il tono di
Iori, nel rispondere, era pieno del suo sorriso altruista, ne era sicura.
“Certo che lo so, ma non devi ringraziarmi: non posso lasciarti sola nel
bisogno.”
Poi si fece
serio, e preoccupato. “Ti è successo qualcosa, Rumiko-san?”
Per un
istante, la tentazione di rivelargli tutto, di sfogarsi, di dirgli tutto quello
che temeva e che voleva evitare si fece forte, troppo forte. Per un istante,
scoprì che voleva che altri la consolassero per quella serata: più a rischio di
così non potevano essere, dopotutto, cercava di spiegare una voce egoista nella
sua testa. Iori era lì per lei…
“Ecco, io …”
Ma poi si
bloccò, piena d’ansia. Si rese conto di tutto quello che sarebbe successo se
solo avesse osato rivelargli una cosa del genere.
Attenzioni
più pressanti di Iori e Satsu, tanto per cominciare. Rischi maggiori per i suoi
unici amici fedeli. I rimproveri di Iori, che più volte le raccomandava di
essere cauta e non mettersi nei guai. Limitazione spropositata delle piccole
libertà che sapeva di potersi concedere in virtù della propria –sebbene
limitata- prudenza. Angosce personali riguardo il suo stato precario.
E Ken…
Sospirò.
“Non so come spiegartelo: mi sento osservata, sul punto di essere scoperta,
anche se è più che altro una paura irrazionale. Non lo so, mi sembra davvero di
essere sospesa in un baratro… Penso che Ichijouji stia architettando qualcosa,
ma non riesco proprio a capire cosa. E non so come evitarlo.” Disse lentamente,
tremando, cercando di dar voce alle sue paure senza svelare degli incontri
fuggevoli con Ken.
Appena finì
di parlare, però, un gran senso di colpa cominciò a tormentarla. Da quando
aveva cominciato a mentire a Iori per salvaguardarlo dai pericoli e –cosa
ancora più grave- per cercare di non sentirsi obbligata a fingere?
Doveva
essere davvero stupida. Non riusciva nemmeno a capire del tutto la sua logica.
Pensò tutto
questo, mentre Iori rimaneva in silenzio, evidentemente sconvolto.
“Come fai a
pensare che… Ichijouji stia
architettando qualcosa?” disse infine il giovane, trattenendo a stento un tono
ostile mentre pronunciava il nome del detective. Sembrava confuso da quella sua
affermazione.
E Miyako si
ritrovò senza niente da dire per un istante, sentendosi messa nel sacco.
Già, come
faceva a sospettare una cosa del genere? In fondo, suo fratello intratteneva
conversazioni amabili con lei per qualche strano motivo, ma era roba di tutti i
giorni…
Quasi le
scappò una risata isterica, ma chissà come riuscì a trattenersi appena in
tempo.
“Iori-kun,
io non lo so: mi sento in trappola, ed è questo quello che conta. Sto
cominciando ad avere paura di uscire… Ho paura che un detective bravo come lui
riuscirebbe a escogitare qualcosa per trovarmi, qualsiasi cosa, e… mi fa
impazzire. Io non so proprio cosa fare, non lo so…”
Si accorse
di star tremando convulsamente: si raggomitolò sul divano, cercando di calmarsi
e ascoltando il nuovo silenzio di Iori.
“Rumiko-san?”
chiamò dopo qualche istante lui, con tono comprensivo. Miyako si chiese quale
conclusione avrebbe tratto da quelle sue frasi sconclusionate. “Forse è solo un
brutto periodo, e hai bisogno di parlare con qualcuno. Contatterò Satsu e le
chiederò di starti accanto… E cercherò di venirti a trovare anche io, appena
possibile. Dev’essere solo stress: non aver paura. Non permetterò… Non
permetteremo che lui ti trovi.”
“Ma secondo
te Ichijouji ha in mente qualcosa? So che non ha ancora archiviato il caso”
chiese disperatamente Miyako, aggrappandosi alla cornetta del telefono come ad
un’ancora di salvezza. Aveva bisogno del parere di Iori, doveva sapere cosa ne
pensava, e se si stava agitando troppo oppure la sua era una reazione normale.
Un sospiro,
che non prometteva nulla di positivo. “Io credo che stia architettando
qualcosa, ma che sia lontano dall’arrivare a te in questo momento. In ogni
caso, stai attenta, e non abbassare mai la guardia: ricorda che non possiamo
permetterci nemmeno il minimo errore. Sii prudente, per favore.”
Lei
trasalì, colta sul vivo, e calde lacrime scivolarono lungo le sue guance.
Le stava
chiedendo di essere prudente. E lei non riusciva ad esserlo, rischiando di
mandare tutto all’aria perché non le riusciva di scacciare quel ragazzo dal suo
negozio.
Le stava
chiedendo di non abbassare la guardia, ma ogni secondo che passava lei si
sentiva sempre più stanca, sempre più debole.
Ma Iori si
fidava di lei. E lei non riusciva a rivelargli le sue colpe.
E non
poteva trovare conforto ai suoi tormenti. Era un qualcosa che aveva intrapreso
lei, e lei avrebbe dovuto trovare il modo di uscirne.
Da sola.
E mentre
abbassava il capo, rispondendo con un flebile: “Va bene, Iori-kun. Grazie”, si
vide come realmente era, e provò ribrezzo per quello che vedeva.
Mai vista
una donna più stupida.
Nonostante
avesse passato venticinque anni a chiamare stupide persone mille volte più
sagge di lei.
Forse
poteva essere l’unico merito che le spettava, in tanti anni di vita. Perché
essere così stupidamente impotenti era ciò che le riusciva senz’altro meglio.
Chiuse la
comunicazione, ascoltando nuovamente il silenzio del suo appartamento.
Con un
sospiro, Miyako si preparò psicologicamente ad affrontare se stessa e il
proprio rimorso per tutta la parte restante della sera, convincendosi che,
magari, solo conoscendosi meglio avrebbe potuto trovare rimedio alla sua
mancanza di razionalità.
Salve
a tutti! Ecco il nuovo capitolo di questa storia! :) So che avrei
dovuto portare avanti la situazione interrotta dello scorso capitolo, ma ho preferito
concentrarmi su Miyako ancora per un po'. Se siete curiosi
riguardo gli avvenimenti su Takeru e Hikari, non vi resta che aspettare
il prossimo cap -garantisco io, continuerò quel discorso senza
altre digressioni! ^^-. Per intanto, mi piacerebbe sapere cosa ne
pensate di questo!
E... oh, quante recensioni stavolta! ** Sono davvero commossa!
Erica_8, ti ringrazio tanto per i complimenti: spero che continuerai a seguirmi anche nei prossimi aggiornamenti! :)
Cara Roe, non mi
aspettavo che il cap scorso ti piacesse tanto: sono molto sorpresa, ma
ti ringrazio! ** Dato che non vuoi rivelarmi le tue supposizioni si
Keiji, però, mi sa che dovrai aspettare un po'! Non si
spiegerà subito... Takeru è indubbiamente desideroso di
un po' di serenità, e dato che i bambini ne hanno tanta...
Sì, in cuor suo vorrebbe avvicinarsi a loro, anche se non sa
come e crede di non esserne capace! Ma aspetta il seguito e lo saprai
meglio ;) spero che questo cap ti piaccia... Fammi sapere quando puoi!
^^
NanahoBerlitz, non
c'è gioia più grande del capire di aver trasmesso quello
che volevi ai tuoi lettori... Per questo sono più che felice che
tu abbia compreso i tormenti di Takeru! ^^ Per fortuna che almeno
Hikari cerca di aiutarlo, altrimenti davvero non si riprenderebbe... xD
Grazie, come sempre, dei complimenti, che mi sono di grande aiuto! Che
posso dirti, un capitolo con Miyako e Ken c'è! Spero solo che ti
piaccia! ;) ed è stato un piacere leggere la tua one-shot,
davvero: non ringraziarmi per questo!
Contratti le date di aggiornamento con le recensioni, eh Shine?
Affare fatto! Il capitolo c'è, ora vedi di muoverti! xD Scherzo,
ovvio! Grazie tante per il bel parere, piuttosto! Mi fa piacere che tu
ti sia immersa completamente nei pensieri di Hikari e nel clima di
serenità che lei prova portando avanti l'orfanotrofio :)
Sì, Keiji ha un po' questo atteggiamento protettivo verso Hikari
e i suoi coetanei: considera che è tutto ciò che ha...
Spero che in futuro continuerà a piacerti! ** Per Takeru e
Hikari non è che l'inizio: ho taaante cose in serbo per loro ^^
Che dire, aspetto impaziente i tuoi commenti su questo capitolo! Grazie
ancora!
DenaDena, mi hai fatto
così tanti complimenti che non so davvero cosa dirti... Grazie!
^^ In effetti mi interessa molto analizzare accuratamente i diversi
stati d'animo dei protagonisti: il difficile è renderli
verosimili, il più delle volte! xD Da questo punto di vista
Takeru è abbastanza controverso: il conflitto interiore che hai
citato nella recensione è assolutamente vero, ma con la proposta
di Hikari le cose potrebbero cambiare per il meglio. :) Per la
questione di Keiji ti invito a continuare a leggere, perché il
motivo della sua paura verrà spiegato più tardi! A questo
punto non posso che sperare che la tua opinione di questa storia
continui ad essere positiva... E mille grazie per averla aggiunta ai
preferiti! **
Mystery Anakin, mi
è piaciuta molto l'interpretazione che hai dato dello scorso
capitolo: in effetti, io credo molto in quello che hai detto... E non
potevo non trattare di un argomento del genere nella mia storia! :) Che
bello che le Kenyako ti piacciono ** sì, credo che andremo
moolto d'accordo, se le cose stanno così xD A proposito di
questo... Che ne dici di questo cap? Aspetto tuoi pareri, e grazie
tantissime per la recensione!
Con questa vi saluto, al prossimo aggiornamento!
Padme Undomiel
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Capitolo 14 *** Sconosciuto ***
Purity 13
13.
Sconosciuto
Migliaia di
occhi lo scrutavano, in un misto di stupore, curiosità e perplessità.
Poteva
scorgere chiaramente i ragazzi addetti a occuparsi di quell’orfanotrofio, ora
che si trovava all’interno di quel grande giardino verde che circondava la
villa bianca. Era strano farlo senza essere riparato da uno dei cespugli dietro
ai quali si nascondeva per osservare il loro lavoro.
Sentiva
perfettamente i mormorii spaesati dei bambini che sedevano in cerchio, e sapeva
che si stavano chiedendo chi lui fosse.
Takaishi
Takeru trovava la situazione in cui si trovava così paradossale da rasentare il
ridicolo, e probabilmente, se non si fosse sentito così spaesato e a disagio,
la sua risata sarebbe uscita spontanea.
Come aveva
fatto a lasciarsi convincere?
Un
abbraccio timido ma entusiasta lo fece sussultare, preso alla sprovvista.
Abbassò lo sguardo, sorpreso nel constatare che una nota bambina dai capelli
castani lisci lo stava accogliendo nella maniera più particolare e inaspettata
di tutte.
“Takeru-san,
sono contenta di rivederti” disse Naoko, con il viso nascosto nella sua maglia.
E Takeru
rimase spiazzato, totalmente in imbarazzo. Come avrebbe dovuto comportarsi in
quel momento? L’ultima volta c’erano state le lacrime, che gli avevano dato la
spinta a cercare di aiutarla, di parlarle. L’ultima volta non era un completo
estraneo in mezzo a tanti visi curiosi che lo osservavano.
In quel
momento non sapeva cosa fare.
Alzò gli
occhi su Hikari, spaesato, in una muta richiesta di aiuto. La vide sorridergli
incoraggiante, con un’espressione così intenerita da lasciarlo basito. Si rese
conto che si aspettava che dicesse qualcosa.
Il suo
imbarazzo crebbe.
Si ritrovò
a metterle, impacciato, una mano dietro la schiena, in un abbozzo di abbraccio.
Non sapeva proprio come comportarsi. “Sono… felice anche io, Naoko-chan…”
tentò, con voce così incerta che risultò essere poco credibile anche a se
stesso.
Ma sperò di
suonare convincente almeno alle orecchie della bambina, che, sciogliendo
l’abbraccio, lo stava guardando con un sorriso di timido entusiasmo, così
tipico delle piccole della sua età.
“Sei venuto
per giocare con noi?” chiese Naoko, evidentemente speranzosa.
L’ennesima
domanda che richiedeva una risposta difficile. Tornò a voltarsi verso Hikari,
chiedendosi cosa la piccola volesse sentirsi dire, o magari come mai si
sentisse così a disagio da non riuscire a smettere di balbettare, ma sgranò gli
occhi quando notò che la giovane dai capelli scuri si era diretta verso il
piccolo gruppo di ragazzi che fissavano la scena perplessi e diffidenti. La
vide cominciare a discutere con loro, con un sorriso di scusa, ma per quanto si
sforzasse di capire cosa stesse dicendo e cosa gli altri stessero rispondendo, era
troppo lontano perché questo fosse possibile.
Si rese conto
all’improvviso che dovevano star parlando di lui, del motivo per cui si era
presentato senza alcun diritto né invito alla loro porta. Il senso di disagio
gli fece distogliere bruscamente lo sguardo, quasi come se osservare i loro
discorsi e le loro espressioni da lontano rappresentasse un crimine. Cosa si
poteva dire di quello che era successo quel giorno, d’altronde? Come si poteva
cercare di renderlo un motivo facilmente spiegabile?
Certo era
che anche quella mattina, tornando a casa dopo aver aiutato per un paio d’ore
Daisuke a studiare per il suo prossimo esame, si era soffermato ad ascoltare lo
spensierato vociare di quei piccoli orfani accuditi tanto amorevolmente dalla
famiglia Yagami e dai loro aiutanti, e non aveva resistito alla tentazione di
posizionarsi per l’ennesima volta dietro uno dei cespugli che decoravano
dolcemente il cancello grigio della villa.
E certo era
anche che il senso di subitanea serenità non si era fatto molto attendere, non
appena aveva posato lo sguardo sul piccolo teatrino che il bambino più grande
al centro del cerchio aveva organizzato e sull’eccitazione degli spettatori.
Nonostante i loro piccoli spettacoli non fossero che un insieme di discorsi
comici disorganizzati e infantili, gli avevano donato a sorpresa una delle emozioni
più calde che avesse mai provato.
Era calda
perché era così estranea a lui; in caso contrario, la sua incertezza e le sue
angosce avrebbero tinto di colori tristi e opachi anche quello scenario così
soleggiato e armonioso.
Ma
all’improvviso, la sua contemplazione era stata interrotta bruscamente nella
maniera che più avrebbe voluto evitare.
Yagami
Hikari, proprietaria di quell’orfanotrofio, quella giovane dal viso gentile e
dal sorriso luminoso che tanto sembrava diversa da lui in ogni senso, lo aveva
scoperto.
Avrebbe
tanto voluto sparire, correre via, o cambiare gli avvenimenti appena accaduti,
ma nulla di tutto quello era stato realizzabile.
Si era
ritrovato, invece, contro ogni logica, a parlare con lei, nel tentativo di
farle capire come mai continuava a rubare sensazioni e sentimenti dal loro
angolo di serenità, o magari nel tentativo impossibile di mettere completamente
a nudo il suo cuore senza sentirsi sciocco, degno di compassione, troppo solo.
Com’era
finita lo poteva constatare di persona.
Adesso era
lì, ad attendere che Hikari desse una spiegazione plausibile –che avrebbe tanto
voluto avere anche lui, in effetti- sotto gli occhi color caramello di una
bambina troppo innocente e troppo felice di rivederlo, circondato da volti
curiosi e vociare perplesso, cercando di ricordarsi come avesse fatto quella
ragazza dagli occhi così dolci che non potevano certamente essere umani a
convincerlo che anche lui avrebbe potuto sentirsi meglio se avesse parlato con
i bambini.
Lui non era
mai stato a contatto con interlocutori così piccoli. Cosa gli era venuto in
mente?
“Takeru-san?”
Si riscosse
dai suoi pensieri al suono di quella voce leggermente imbronciata. Tornò ad
abbassare lo sguardo, cercando di capire cosa Naoko stesse cercando di dirgli.
“Come? Credo
di non aver sentito, scusami…” le disse, sperando che lei non se la prendesse
per la sua goffaggine.
“Sei venuto
per giocare con noi, allora?” ripeté la bambina, indicando con il dito il
gruppo di suoi coetanei con un sorriso. “Shinji-kun non voleva credermi: diceva
che io mi ero inventata tutto su di te, che non esistevi! Se vieni di là gli
faccio vedere che avevo ragione!”
Difficile
dire a quale bambino si riferisse, in mezzo a quel caos. Takeru prese tempo
osservandoli uno per uno, cercando, nel frattempo, la maniera migliore per
farle capire che, nel loro giardino o no, restava comunque un estraneo.
Chissà se
Naoko poteva capire un concetto del genere, gratitudine o no.
“Non lo so,
Naoko-chan, io…” tentò, cercando di non far suonare la sua risposta come un
netto rifiuto. “Io stavo aspettando… ehm… Hikari-san: dovevo chiederle delle
cose, e…”
Si
interruppe, impacciato. Parlare con un bambino sembrava più difficile del
previsto.
“Ma ci
metterà troppo tempo, Takeru-san!” replicò la bambina, con aria supplichevole.
“Vieni adesso, per piacere!”
Ma prima che potesse anche solo pensare di
dover replicare qualcosa, Naoko cominciò a tirarlo per la mano, con una forza
che Takeru non le avrebbe mai attribuito, prima di averla provata. Fin troppo
sconvolto, protestando soltanto con dei flebili “Ehi, aspetta …” che non furono
ascoltati, si ritrovò ben presto confuso dalle voci dei bambini, che avevano
deciso di lasciar perdere il nuovo arrivato e di tornare a giocare in cerchio.
Cercò
disperatamente di non urtare alcuni bambini seduti sull’erba, mentre veniva
trascinato dalla piccola che si guardava intorno con aria perplessa. Aveva il
terrore di far loro del male solo perché non sapeva come opporsi a Naoko: erano
tutti quanti ammassati in uno stesso posto, dopotutto.
“Non trovo
Shinji-kun” disse lei con aria pensierosa. “Tu sai com’è, Takeru-san?”
“Io non so nemmeno
di chi stiamo parlando” replicò Takeru in risposta, a metà tra l’esasperato e
il disperato, dopo aver accidentalmente urtato un bambino con un berretto sugli
occhi, avergli chiesto scusa ed essere stato fissato sorpreso per qualche
minuto. Era a disagio, non sapeva che fine avesse fatto Hikari, o chiunque
altro, e quella bambina continuava a portarlo in giro come un burattino. “Dove
mi stai portando, Naoko-chan? Io non credo di avere il permesso di vagare per
questo giardino, quindi credo che …”
Ma
un’esclamazione di sorpresa interruppe il suo discorso ancora una volta.
“Eccolo, è lì al centro! Lo raggiungiamo? Così ti conosce!”
Aveva un
gran sorriso sulle labbra, che le metteva in mostra una piccola finestrella al
posto di un incisivo. Sembrava felice, al settimo cielo, e anche impaziente.
In quanto a
Takeru, non si era mai sentito tanto smarrito. Era questo che facevano ogni
giorno i ragazzi addetti alla cura di quell’orfanotrofio? Correre di qua e di
là dietro a dei bambini troppo vivaci e senza la minima voglia di fermarsi un
secondo ad ascoltare chi era ben più grande di loro?
Ora
sembrava ancora più assurda la felicità che aveva visto negli occhi scuri di
Hikari, considerando i grandi sacrifici e lo stress che la grande moltitudine
di bambini doveva comportare. Era decisamente strano scegliere volontariamente
di votarsi a questa vita.
Oltretutto,
si sentiva osservato, anche se non riusciva ad individuare chi fosse a farlo.
Che diritto aveva di andare in giro indisturbato per l’orfanotrofio? Hikari e
gli altri ragazzi sembravano spariti, e nessuno era a conoscenza della strana
situazione in cui si era cacciato.
Sospirò,
chiedendosi quale fosse il tono più giusto per parlare ad una bambina di più di
sei anni. “Senti, capisco che tu … ci tenga a farmi conoscere al tuo
fratellino” disse, diplomatico e ragionevole. Naoko lo guardava sorpresa. “Ma
io non dovrei nemmeno essere qui, figuriamoci se posso comportarmi come i
ragazzi che vi fanno crescere, e giocare, e farvi divertire. Mi dispiace, dico
sul serio, piccola, ma devo assolutamente trovare Hikari-san per chiederle
delle cose. Se poi vengo con te non faccio in tempo, capisci?”
Si mosse, a
disagio, sul posto, sentendosi ancora una volta inchiodato con lo sguardo da
qualcuno. Si guardò intorno, alla ricerca di quegli occhi inquisitori, o forse
anche per sfuggire momentaneamente all’aria delusa sul visino di Naoko.
“Perché non
puoi giocare con noi?”
Takeru
sussultò, sentendo la voce della piccola davanti a sé tremare, come sul punto
di piangere. Allarmato, in colpa e con uno strano peso al petto, vide i suoi
occhi color caramello riempirsi di lacrime, e seppe, con un nuovo moto di
biasimo verso se stesso, che aveva sbagliato di nuovo. Ora riusciva anche a far
soffrire una bambina: ottimo.
“Hikari e
gli altri lo fanno!” insistette lei, con il naso arrossato per via delle
lacrime che ora scendevano sulle sue guance. “Non mi vuoi bene? Io volevo
giocare con te!”
“No, per
favore …” La voce di Takeru, ora piena di urgenza, supplica e senso di colpa,
uscì tanto rapidamente che quasi non si accorse di aver palesato quel pensiero.
“Scusami. Scusami davvero, Naoko-chan. Non piangere. Sono stato cattivo con
te.”
Goffamente,
le accarezzò la testa, nel disperato tentativo di calmarla. Ora capiva perché
quei ragazzi avevano trovato subito il loro scopo nella vita e lui era ancora
perso nella sua oscurità personale: loro trovavano estremamente facile aiutare
gli altri.
Lui, nel
bisogno più totale di rendersi utile, trovava estremamente facile ferire. Come
faceva con Yamato, preoccupandolo continuamente, o con Daisuke e il resto dei
suoi amici, evitandoli con scuse e impegni inesistenti.
Era forse
un tentativo di renderli partecipi del suo dolore, forse?
Era davvero
così egoista?
Ma
desiderava fortemente rimediare, fare felice la sua piccola interlocutrice,
smettere di farla soffrire. Rendersi utile, giacché era lì. In quel momento,
l’unica scelta possibile non gli pesò affatto.
Parlò di
getto, mettendo da parte la sua scarsa voglia di mettersi a giocare con dei
bambini così vivaci. “Dov’è tuo fratello, allora? Lo vogliamo raggiungere?”
E vedendo
il sorriso di gioia di Naoko, qualcosa si scaldò nel suo animo. Forse aveva rimediato.
“Allora
vieni con me, Takeru-san?” chiese, raggiante. “Shinji-kun è nel cerchio, a
recitare con Taro-kun!”
Takeru
annuì, sorridendole e amando la sensazione di essere stato utile in qualche
modo. Sentiva che avrebbe fatto di tutto pur di avvertirla nuovamente: forse
era a questo che Hikari alludeva, quando gli aveva proposto di parlare con
loro. Sapeva che avrebbe potuto stare meglio in quel senso.
E sentì un
moto di gratitudine per lei, mentre veniva preso di nuovo per mano e portato in
mezzo al cerchio. Si disse che avrebbe dovuto ringraziarla di persona appena
fosse tornata.
Il piccolo
spettacolo si interruppe nuovamente nel momento in cui Naoko corse da uno dei tre
bambini che erano al centro. Takeru non poté non notare la straordinaria
somiglianza che c’era tra i due piccoli: sorpreso, considerò che probabilmente
erano fratelli sul serio. La cosa, per qualche strano motivo, gli parve
particolarmente singolare.
“Oh, no: partecipi anche tu a questa stupida
recita? Anche le femmine non le voglio!” sbuffò quello che doveva essere, senza
alcun dubbio, Shinji. Poi si voltò ancora, e il suo viso si accigliò ancora di
più. “E chi è quello?”
Takeru
finse di non sentirsi un po’ umiliato dal tono che il bambino aveva usato, o
dal suo indicarlo. Si disse che doveva tenere duro, che forse si sarebbe
sentito meno offeso se avesse provato sulla sua pelle la sensazione di avere un
intruso nel proprio territorio.
“Lui è
Takeru-san!” disse vivacemente Naoko, evidentemente abituata ai toni un po’
bruschi di suo fratello. “Ti avevo detto che esisteva! Hai visto?”
Shinji
sgranò gli occhi, e non seppe come ribattere sapendo di aver avuto torto.
Intorno a lui, un nuovo mormorio, più sorpreso e interessato rispetto a quando
si era presentato nel loro giardino pochi minuti prima.
“Allora sei
tu Takeru!” disse una bambina pienotta con corti capelli neri, osservandolo con
curiosità. “Finalmente sei venuto a farti conoscere!”
Gli
sorrise, la bocca sporca di crema.
Takeru,
sorpreso e un po’ insicuro, sorrise a sua volta, impacciato. Si sentiva un po’
stupido. “Ehm, ciao …” tentò. “Sei … una sorellina di Naoko-chan?”
“Sono
Asami!” rispose quella, ridendo. “Perché ti vergogni?”
Era strano
sentirsi dire una cosa del genere da una bambina. Takeru si sentì di nuovo
avvampare, sconcertato. “No” replicò, vergognandosi per la figura che ci stava
facendo. “Perché dovrei? Io …”
“Hai una
faccia simpatica” disse Asami tranquilla, continuando a mangiare un biscotto
alla crema. “Se resti qui, per me va bene.”
Pazzesco.
Aveva il permesso di un’orfanella. La voglia di ridere si fece più forte.
All’improvviso,
molti piccoli entusiasti avevano iniziato a presentarsi, ad alzarsi per vederlo
meglio, a chiedergli se fosse lì per giocare con loro. Takeru si guardò
intorno, smarrito, non sapendo a chi rivolgersi.
“Quanti
anni hai?”
“Sei amico
di Hikari e Taichi?”
“Ti piace
giocare con i soldatini?”
“Ora starai
con noi come Taichi e gli altri?”
“State
rovinando il mio spettacolo!” Fu questa esclamazione, pronunciata da un bambino
più grande, con ricci scuri e occhi verdi e con la tipica aria da regista
irritato,- Naoko lo aveva chiamato Taro- a far decidere a Takeru che era
davvero venuto il momento di smetterla.
Mostrò i
palmi aperti, per far vedere loro che veniva in pace. Con sgomento notò che
erano tutti ammutoliti, gli occhi accesi di curiosità. “Non volevo disturbarvi
in nessuna maniera. Volevo solo vedere lo spettacolo. Tutto qui.”
Notando lo
stupore dei piccoli, si sentì di nuovo a disagio. Sorrise, incerto. “Posso?”
E dopo un
solo gioco di sguardi tra loro, qualche alzata di spalle indifferente e qualche
sorriso qua e là, si allontanarono un poco per fargli posto. Non senza litigare
su chi doveva spostarsi e chi no.
Takeru
sospirò, dicendosi che il peggio doveva essere passato. Si diresse verso la
bambina pienotta con l’aria simpatica, dato che la sua era stata la reazione
più tranquilla di tutte.
“Bene,
ricominciamo con lo spettacolo! Ichiro, la musica!” Stava dicendo Taro, con
aria solenne e al tempo stesso fiera del suo lavoro.
E mentre un
bambino mingherlino con i capelli spettinati cantava ad alta voce un motivetto
che il giovane non aveva mai sentito, lo spettacolo riprese, con i piccoli
attori, i piccoli giochi e le piccole ovazioni eccitate del piccolo pubblico.
Takeru si
sedette, esitando. Si sarebbe sporcato il pantalone, stando ad osservare
sull’erba. Eppure, se fosse stato ancora bambino, si disse, sorpreso, non
gliene sarebbe importato davvero nulla.
Era strano
essere circondato da tanti bambini felici e spensierati senza alcuna ombra nella
mente. Era strano sedere in mezzo a loro quando tutto quello che voleva era una
risposta che Hikari, andando chissà dove, non gli aveva ancora dato.
Ed era
strano che lui avesse accettato pressoché tranquillamente.
Quando si
sentì chiamare da qualcuno che gli picchiettava continuamente sulla spalla,
perso com’era nei suoi pensieri, sussultò. Si voltò, pronto ad osservare gli
occhi castani di Hikari, che doveva essere venuta a cercarlo.
Ma furono
altri occhi castani a ricambiare lo sguardo.
Occhi
castani nel viso corrucciato di un bambino alto dai corti capelli viola.
Lo
guardava, con l’espressione più matura che Takeru avesse mai visto su un viso
infantile. Lo guardava, e sembrava che fosse arrabbiato con lui.
Il giovane
non riusciva davvero a capire come mai quell’occhiata fosse indirizzata proprio
a lui: non ricordava di averlo visto spesso nemmeno nelle sue osservazioni
nascoste, quindi non era mai entrato in alcun contatto con lui. Come poteva
avergli fatto qualcosa di male?
Ma
l’espressione del suo viso sembrava essere forte e decisa così tanto da
raggelarlo.
Mettendo da
parte quel pensiero sciocco, Takeru aprì bocca per parlare, per chiedergli, a
disagio, che cosa gli avesse dato fastidio di preciso, ma il bambino lo
precedette.
Gli porse
un foglio, con aria seria e di grande rimprovero, e aspettò in silenzio che lui
lo prendesse.
Takeru
rimase di sasso, osservando ora il foglio, ora il piccolo. Cosa significava,
adesso? Come doveva comportarsi con quel bambino così strano?
“E’ per
me?” chiese, e la sua domanda non poteva essere posta in tono più incredulo.
L’altro
annuì deciso. “Sì. Prendilo.” Disse, e la sua voce era l’unica cosa infantile
nella sua figura. Si disse, sgomento, che non poteva avere più di otto anni.
“Va bene”
assentì lentamente, prendendo il foglio e guardandolo.
Era un
disegno. Un disegno a tinte molto accese, probabilmente realizzato con i
pastelli a cera. C’era un albero alto, con sopra quello che sembrava … il bambino dai capelli viola. C’era la
figura stereotipata di lui, seduto –inverosimilmente- su un ramo. Stava per
domandargli il motivo di quella strana postazione, ma poi vide la figura che si
nascondeva dietro un cespuglio e che aveva un orrendo ghigno perfido sul viso
mentre spiava, e le parole gli morirono in gola.
Era lui,
quella persona.
Aveva il
cappello calato sulla testa, e i capelli biondi. Era anche vestito come lui
quel giorno.
Fu così
scioccato da quell’immagine da non avere la forza di dire nulla.
Come mai
sembrava così malvagia la sua azione?
“Guarda che
ti vedo, da lassù” disse il bambino, con aria seria. “E vieni sempre a spiare.
Se sei qui per far male a Hikari o ai miei amici, vattene adesso. Non ti
permetto di farci soffrire.”
C’era
accusa in ogni parola, e in ogni tratto del suo viso nel disegno.
Un senso di
calore insopportabile arrivò alle sue guance, sentendosi più colpevole che mai.
Lo aveva visto. Lo aveva visto in tutte quelle volte che aveva avuto disperato
bisogno di sentire e vedere qualcuno che riusciva ad essere felice e ad aiutare
gli altri. Lo aveva visto mentre li spiava e bramava ardentemente di essere
come quei ragazzi tanto solidali.
E ora gli
stava rinfacciando quell’atto ingiusto. Aveva assunto il ruolo della sua
coscienza nel momento in cui, tornando a casa, allontanandosi in qualunque maniera
da quella villa, gli gridava che era solo un inutile parassita incapace di
trovare la sua strada da solo.
E sentirlo
dire con così tanto risentimento gli fece male. Anche perché non voleva fare
male a nessuno, e quel bambino così attento era arrivato a pensarlo.
Un senso di
ingiustizia si fece largo nel suo cuore, quando alzò gli occhi per incontrare
quelli del suo piccolo interlocutore.
“Io non
voglio far del male a nessuno, te lo posso giurare” disse, sperando di non
suonare così supplichevole come si sentiva lui. “Io stavo solo guardando. Mi
dispiace di …”
“Ma anche
gli sconosciuti dicono questa cosa” ribatté lui, socchiudendo gli occhi. “Se
sei un amico, perché Hikari non è con te e non ci presenta?”
Questa era
davvero una bella domanda. Takeru ammutolì, senza parole.
E il
piccolo incrociò le braccia e si allontanò senza dire altro.
E il
giovane rimase sconvolto, con gli occhi rivolti verso il luogo dove si era
allontanato, e quel foglio che tanto denunciava le ingiustizie e tanto era
fedele alla realtà.
Quel bimbo
dai capelli viola aveva dannatamente ragione, in fondo.
***
“Beh, è
stato molto inusuale come incontro, ma non importa. Sono Yagami Taichi,
fratello di Hikari e proprietario di questa villa. Benvenuto qui … Takaishi
Takeru, giusto?”
Era particolare
la disinvoltura con la quale il ragazzo dai folti e indomabili capelli scuri era
arrivato alle sue spalle, si era seduto accanto a lui sull’erba e aveva
cominciato a presentarsi a bassa voce, per non disturbare lo spettacolo
improvvisato di Taro e dei suoi piccoli compagni. Era anche particolare il
sorriso divertito che aveva sulle labbra, e quel lampo di spensieratezza che in
Hikari non aveva affatto scorto, e quel modo rilassato di sedersi, privo della
compostezza di lei.
Più lo
guardava, più Takeru capiva che i due fratelli dovevano essere diversissimi.
Fu felice
di aver nascosto quel disegno nella tasca appena qualche minuto prima: non
avrebbe mai voluto che la sua prima impressione a Taichi fosse quella di un
perfido approfittatore della gioia altrui. Sarebbe stato semplicemente troppo.
Ma essere
presentato al proprietario dell’orfanotrofio gli sembrò così strano che si
chiese ancora una volta se tutto quello stesse accadendo sul serio.
In ogni
caso sorrise, in risposta all’occhiata curiosa dell’altro. Ormai era rassegnato
a sentirsi costantemente in osservazione perché fuori posto. “Giusto. Piacere
di conoscerti, Yagami-san. Penso di dovere a tutti delle scuse perché sono
piombato qui senza preavviso, ma non c’era davvero nulla di premeditato nelle
mie azioni.”
Era stato
tutto successivo ai consigli di Hikari, in effetti. L’espressione di lei
sarebbe stata capace di convincere chiunque, si disse, ancora una volta
sorpreso della sua arrendevolezza.
“Hikari mi
ha detto tutto: non preoccuparti” rispose Taichi, quel lampo di curiosità
ancora nei suoi occhi scuri. “Resta pure qui per un po’, se ti va. E’ tutto
gratis.”
Ridacchiò, volgendo
lo sguardo verso i suoi protetti.
E Takeru lo
fissò per alcuni lunghi istanti, pieno di dubbi. A vedere Yagami Taichi, con
quell’aria sicura e allegra, il loro compito sembrava una sciocchezza. Eppure,
non lo era affatto, e lui lo aveva sperimentato da poco: era estremamente
difficile e faticoso cercare di piacere ai bambini e stare loro dietro. Non
aveva idea di come Taichi avesse fatto, né del perché avesse deciso di non
tirarsi indietro nonostante le palesi difficoltà del suo compito.
Più lo
guardava, più il senso di frustrazione aumentava. Come mai non riusciva a
capire come essere migliore, essere d’aiuto a qualcuno? E come mai, nel momento
in cui tentava di essere d’aiuto, questo non riusciva mai a soddisfarlo?
Guardò
Hikari, seduta alla sua destra, e seppe che lei poteva essere l’unica a dargli
una risposta concreta. Forse perché il suo volto era tanto simile ad un angelo,
e sentiva che solo gli angeli potessero mostrare la giusta via.
Lei stava
osservando lo spettacolo, ridendo intenerita di ogni cosa che vedeva sulla scena, ma appena sentì il suo sguardo su
di lei si voltò, sgranò gli occhi confusa, poi sorrise.
“Tutto
bene?” gli chiese, forse notando la sua grande confusione.
Lui alzò le
spalle. “Non lo so” ammise sinceramente, sorridendo imbarazzato. Lo metteva a
disagio sapere che qualcun altro che non fosse Yamato conosceva, sebbene in
parte, i suoi tormenti senza nome. “C’è qualcosa di tutto questo che ancora non
mi è chiara. Voglio dire, capisco che i bambini siano … beh … belli e dolci per
natura, ma ancora non riesco a capire come mai loro siano stati capaci di farvi
assumere questa grande responsabilità e di accettare i vari sacrifici che
questa comporta. Oltretutto, alcuni di loro non sono davvero affabili.”
Ripensò a
Shinji, con i suoi modi bruschi e prepotenti, a Taro, con la sua arroganza da
artista, a quel bambino dai capelli viola troppo intelligente e dai modi quasi
adulti e sulla difensiva.
Scosse la
testa, mentre il sorriso di Hikari si spegneva e lasciava il posto ad un’aria
seria e triste. “E’ una cosa giustissima prendersi cura di loro, non mi
fraintendere” aggiunse in fretta, rendendosi conto di come suonassero crudeli
le sue frasi. “Hanno bisogno di voi. Solo … come avete fatto a convincervi che
questa fosse la vostra strada, la vostra vocazione? Perché questa e non altre?
Come fa a darvi totale soddisfazione, pur sapendo che sottrae tanto alle vostre
vite, sapendo che magari un giorno non avranno più bisogno di voi? Sono molto
confuso. Non riesco a spiegarmelo nemmeno ora, pur avendo parlato con loro.”
Concluse il
discorso con un sospiro frustrato, mentre intorno a lui gli applausi entusiasti
e gli strilli di insoddisfazione dei bambini annunciavano la fine dello
spettacolo.
Takeru
abbassò lo sguardo, e un pensiero lo colse all’improvviso. Estrasse dalla tasca
del suo pantalone il disegno inquietante che aveva ricevuto qualche tempo
prima, lo spiegò e lo mostrò a Hikari. Lei lo prese in mano, e il suo volto
divenne una maschera di sorpresa.
Lui sorrise
amaramente. “Me lo ha dato un bambino dai capelli viola, che sostiene di …
salire sugli alberi?” Rise, incredulo. “Non lo so. In ogni caso, mi ha visto
come un estraneo. E forse lo sono, dato che non riesco a capirli del tutto. O a
capire voi.”
Il silenzio
fu riempito solo dal vociare e dai giochi dei bambini. Takeru abbassò lo
sguardo, non avendo il coraggio di guardarla ancora dopo tutto quel discorso.
Sentiva di
aver fallito ancora una volta.
“Takeru-san,
non devi affrettare i tempi.” La voce di lei era dolce e comprensiva, come mai
nessun’altra lo era stata. “Sei venuto qui solo una volta: non puoi pretendere
che tutto ti sia chiaro in un secondo. E’ un qualcosa che si costruisce con il tempo.”
Alzò gli
occhi, alla ricerca di un appiglio. Vide dal suo viso che era sincera, e seppe,
con un sussulto, che forse lei poteva trovare una soluzione anche a quel
problema.
“Sei uno
sconosciuto per loro” continuò Hikari con un piccolo sorriso, indicando con un
cenno del capo un gruppetto di bambini lì vicino. “E loro lo sono per te. Come
lo siamo anche noi per te. Finché non vorrai essere altro per loro e per noi,
sarà sempre così, e la situazione non cambierà mai.”
Il sorriso
si allargò, incoraggiante, ma Takeru vide una traccia di speranza nei suoi
occhi castani. Si rese conto, sconvolto, cosa lei volesse da lui.
E tacque,
distogliendo lo sguardo da lei, e posandolo su tutto, su tutti.
Sui
bambini, diversissimi tra loro, e diversissimi da lui.
Su Taichi,
che si era alzato improvvisamente ed era corso a complimentarsi con i piccoli
attori, ridendo e dando pacche sulle spalle ad alcuni di loro.
Su quelle
due ragazze che stendevano dei panni bagnati, con attenzione e cura degne di
quelle di una madre.
Su quei due
ragazzi in lontananza, che assistevano un gruppo di bambini alle prese con
giochi elettronici, che avevano un’aria così tanto interessata e serena.
Erano tutti
troppo in là. Troppo superiori a lui.
Come poteva
accettare di buon grado di venire altre volte, di confrontarsi con i bambini
sapendo di non poterli capire come gli altri ragazzi che si occupavano di loro?
Scorse
Naoko, con le guance rosse mentre applaudiva e si voltava a guardarlo,
raggiante.
E ripensò
al senso di calore che aveva provato quando lei era stata felice per lui. E
seppe di non sapere a cosa fosse dovuto tutto quell’affetto per lui.
E ripensò
al disegno del bambino troppo serio, e seppe di apparire come un ladro. E capì
di non sapere se lui avesse ragione o no.
C’erano
troppe cose ignote in quella situazione, troppe impressioni contrastanti tra
loro.
C’erano
troppe domande senza risposta.
E Hikari
sosteneva che fosse normale, che si potesse uscire da quella situazione.
Il battito
cardiaco accelerò.
Si ritrovò
a pensare che solo lui poteva avere risposte, ma doveva provarci per ottenerle.
Doveva fare il possibile per trovarle.
Doveva
mettersi alla prova.
Doveva … voler essere altro per loro.
Strinse i
pugni, convincendosi che nessuno lo obbligava. Nemmeno Hikari. Perché se avesse
cambiato idea avrebbe semplicemente rinunciato senza dover rendere conto a
nessuno delle sue azioni.
D’altronde,
non c’era scelta. E non aveva nulla da perdere.
Tutt’intorno,
un rumore indistinto di corse, strilli, pianti e risate, ma lui non vi fece
caso.
In cuor
suo, Takeru aveva preso una decisione, per quanto assurda e forse insensata e
inutile.
Ora sapeva
che avrebbe provato.
Avrebbe
provato a fare come Hikari gli consigliava.
Sperando,
questa volta, di porre fine al suo tormento in qualche modo.
Ben
trovati con l'aggiornamento! ^^ Sono parecchio in ritardo con la
tabella di marcia, in effetti... Mi dispiace! E' che ultimamente ci
sono davvero troppe cose da fare, e spesso gli impegni si accavallano
tutti insieme... Comunque, sperando che vi piaccia, ecco qui il nuovo
capitolo! :)
Shine, il piacere è stato mio di trovare la tua
recensione! Grazie davvero ^^ Il flashback che hai notato
è solo uno dei tanti che troverai nei prossimi capitoli di
Miyako... e diciamo che è una mia sperimentazione. Sono contenta
che tu l'abbia trovato toccante :) eh... Più che prudenza, io la
chiamerei paura di scoprire quanto può essere avventata! xD
Considera che ci sono moltissime cose da prendere in considerazione e
da risolvere: non sarà facile trovare un lieto fine a tutta
questa faccenda! Ma spero che continuerai a seguirmi ;) un bacio
grande, aspetto tuoi pareri!
Al più presto,
Padme Undomiel
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Capitolo 15 *** Inquietudine ***
p14
14.
Inquietudine
“Posso portarle qualcosa?”
Due
occhi verdi si posarono sulla figura alta e snella della cameriera di
quel piccolo bar affollato, distogliendo per un istante
l’attenzione dalla porta d’ingresso del locale.
Lei sorrideva, il menu in mano, pronta a scrivere un’ordinazione.
Lui annuì piano. “Solo un cappuccino, grazie mille.”
“Sicuro
che non vuole altro? Può controllare il menu, se vuole. Sono qui
per accontentarla.” La giovane dai capelli rossicci sorrise
ancora, mostrando una fila di denti bianchissimi e curati. Si mise
ancora più dritta davanti al giovane, e solo allora lui si rese
conto di quanto fosse corto e poco coprente quel vestito.
I
suoi occhi si assottigliarono, e distolse lo sguardo. Era davvero
assurdo notare come quella ragazza dovesse volersi così poco
bene: che motivo aveva per esporsi in quella maniera così poco
decorosa?
Ma la cosa forse peggiore era che a molta gente questo atteggiamento faceva comodo.
Scuotendo
la testa, Hida Iori sospirò, dando ancora una veloce occhiata
alla porta, ancora una volta senza scorgere nessuno. “Davvero, va
benissimo così. Se avrò bisogno d’altro le
farò sapere.”
“D’accordo. Il cappuccino arriva subito.”
Forse
la cameriera non era poi così felice dopo quella conversazione
così asettica, ma Iori non ci badò. Aveva decisamente
altro per la testa, e ad ogni modo non poteva cambiare il modo di
pensare di molte persone che gli erano accanto. Sarebbe stato di certo
impossibile.
No, c’erano cose più urgenti a cui pensare.
Per esempio, il misterioso ritardo di lei. Il misterioso e insolito ritardo di lei.
Cercò
di reprimere la preoccupazione dentro di sé, mentre appoggiava
la testa su una mano. No, doveva stare tranquillo: lei sapeva come
comportarsi, non poteva esserle successo nulla. Non era una sprovveduta.
Eppure,
l’apprensione non voleva lasciarlo stare. E faceva sentire la sua
morsa in tutta la sua interezza, amplificata dalla sua apparente
indifferenza e tranquillità, che gli impediva di mostrare
apertamente quello che sentiva.
E
un solo nome risuonava nella sua testa, sempre più forte, sempre
più rabbioso, sempre più colmo d’odio.
Ichijouji Osamu.
Ichijouji
Osamu, che rovinava la vita a Miyako, angosciandola e tormentando
ulteriormente la sua povera famiglia, promettendo loro che lei sarebbe
stata trovata, o a lui, accusandolo contro ogni giustizia di essere un
sequestratore, forse un assassino – e faceva rabbia, una rabbia
indicibile, considerando che era messo alla stessa stregua dei
criminali che uccisero tanti anni prima suo padre sul lavoro, mentre
scortava un personaggio importante. Ichijouji Osamu, che poteva, con
ogni probabilità, scoprire lei, accusarla, distruggerle la vita
e il futuro.
E portarla via da lui.
No,
non l’avrebbe mai permesso, decise, convincendosi ancora una
volta che avrebbe avuto presto una spiegazione per quel ritardo
eccessivo. Doveva essere per forza così: non c’era altra
soluzione. Non voleva pensare ad altra soluzione.
Poi, quel rumore di campanelle sulla porta, che annunciava l’arrivo di un nuovo cliente.
E
Iori alzò la testa, e sul suo viso apparve un’espressione
di puro sollievo che non gli riuscì di nascondere.
Grazie al cielo.
Avvolta
in una giacca beige che metteva dolcemente in risalto la sua figura, i
capelli lisci castani con una frangia a incorniciarle il viso e gli
occhi scuri e sereni, si guardava intorno, cercando di individuarlo.
La
stretta allo stomaco non tardò molto a farsi sentire, mentre
Iori si drizzava maggiormente e cercava di cogliere il suo sguardo.
Eppure, forse quella sensazione era persino amplificata: da quanto
tempo non la vedeva più?
Infine, lo scorse, e sorrise lievemente, mentre si affrettava ad avvicinarsi al suo tavolo.
Il
ragazzo fu felice di notare che i suoi movimenti si mantenevano casuali
e non frettolosi, come la loro situazione e la gravità del
problema di cui dovevano parlare avrebbe richiesto: quelle piccole
accortezze servivano loro per continuare a non dare nell’occhio
più del dovuto. Dovevano apparire solo conoscenti incontratisi
per caso, con la semplice, disinteressata voglia di parlare di tutto e
di niente.
Quelle piccole accortezze facevano sì che il loro aiuto silenzioso restasse in incognito agli occhi di Ichijouji.
Quando
Sato Satsu scostò la sedia di fronte alla sua e si sedette,
tuttavia, Iori temette che quell’abile mascherata fosse destinata
al fallimento: il suo volto non era ancora riuscito a riprendere la
calma naturale.
“E’ successo qualcosa? Sei in ritardo” le disse, con le sopracciglia aggrottate.
Satsu
scosse la testa, per poi alzare le spalle con un sorriso. “Tutto
tranquillo come sempre” rispose, e Iori tirò un
impercettibile sospiro di sollievo. “E’ che mia mamma mi ha
fermata prima di scendere: voleva parlarmi di Rumiko-chan.
Dall’espressione che aveva, mi è sembrato più
giusto starla a sentire un attimo. Ma quando sono uscita ho anche
trovato traffico: non hai idea di che coda ci sia, qui fuori
…”
“Mi
ero preoccupato.” Ammise Iori, e il suo sguardo serio si
soffermò sul viso di lei. Vide Satsu sgranare lievemente gli
occhi, e solo allora si rese conto di quanto potessero rivelare le sue
parole. Arrossì, puntando lo sguardo sul tavolo. “Con la
situazione che abbiamo –e che peggiora di giorno in giorno- non
si può mai stare tranquilli.”
L’arrivo
della cameriera con il cappuccino sospese momentaneamente il discorso.
Con un cenno del capo, il giovane la ringraziò cortesemente, e
attese che lei se ne andasse, prima di porgere la tazza alla sua
interlocutrice.
All’occhiata sconvolta di lei, accennò un sorriso. “Non ho fame, non preoccuparti.”
“Vuoi farmi bere un cappuccino da sola?” replicò lei, evidentemente contraria all’idea.
“Ti assicuro che non importa. Non siamo qui per prendere qualcosa da mangiare o bere.”
Il silenzio che seguì fu capace di imbarazzarlo. Distolse lo sguardo, consapevole che avrebbe potuto rivelare troppo.
“Beh … grazie, Iori-kun. Ma dovresti smetterla di fare così tanto il gentiluomo.”
Ma Iori avvertì benissimo il tono di disagio nella voce di Satsu, e un senso di vuoto gli attanagliò il cuore.
Sospirò,
cercando di riportare il discorso su un piano razionale. “Cosa
dice tua madre a proposito di Rumiko-san?” le chiese, mentre lei
zuccherava il cappuccino.
Satsu
alzò lo sguardo, e nei suoi occhi scuri scorse una ben evidente
confusione. “Dice che si comporta in maniera davvero strana
ultimamente” rispose, aggrottando graziosamente le sopracciglia.
“Ha detto che la vede pallida e stressata più del solito,
che ha sempre occhiaie marcate e l’aria … impaurita, dice.
Mi ha chiesto se io ne sapessi qualcosa.”
“E
tu ne sai qualcosa?” chiese Iori, amaramente consapevole che
quello che aveva avvertito l’ultima volta con Miyako fosse ben
visibile anche agli altri. Non era un episodio passeggero, allora.
Satsu
rifletté per un istante, forse cercando di afferrare un qualche
ricordo. Lui attese, in silenzio. “A mia madre ho risposto di no,
ma forse c’è qualcosa che ho notato. E’ stato tre
giorni fa, se non sbaglio: era a casa mia, e ad un certo punto ha
abbracciato Haku stretto. Non ho sentito bene, ma credo gli abbia
bisbigliato qualcosa come Vorrei riuscire a nascondermi bene come te, piccolino. Le ho chiesto spiegazioni, ma lei non ha voluto darmene, chissà perché.”
I due si guardarono, nel viso la stessa angoscia.
“Cosa le sta succedendo, Iori-kun?” chiese Satsu in un sussurro.
“Ha
paura” rispose il giovane, toccandole la tazza di cappuccino per
ricordarle di non dare nell’occhio. Lei capì e
cominciò a sorseggiarne il contenuto. “Mi ha chiamato ieri
sera, spaventata come poche altre volte lo è stata, e mi ha
detto che temeva di essere sul punto di essere scoperta da Ichijouji.
Le ho chiesto come mai pensasse una cosa del genere, ma non ha saputo
dirmelo: ha detto solo che era una forte sensazione.”
Pura
sorpresa si dipinse sul viso di Satsu, e Iori non poté
biasimarla: anche lui non riusciva a capire. “Ma se lui non
l’ha trovata, e lei non ha segnali per affermare che lui è
vicino, come fa a sentirsi braccata?” domandò, perplessa.
Lui
alzò le spalle, frustrato. “Non ne ho idea. Ma Rumiko-san
non è una visionaria: potrebbe darsi che non sia un periodo
roseo per lei. Magari soffre per tutto quello che le è successo,
e il suo stato di angoscia l’ha portata a sentirsi scoperta.
Oppure … oppure Ichijouji le ha fatto capire, in qualche modo
che lei non vuole spiegarci, che l’ha trovata.”
Il
suo tono si fece cupo, mentre il pensiero della sua migliore amica in
pericolo gli faceva stringere i pugni, pieno di rabbia. Doveva sapere
se Ichijouji la stava minacciando: lui e Satsu erano lì per
aiutarla, e quella sciocca di Miyako non voleva farsi aiutare.
“Iori-kun,
Ichijouji brancola nel buio da anni, ormai!” ribatté Satsu
convinta, cercando di rassicurarlo. “Non ha la minima prova per
inchiodarla: siamo stati attenti a tutto, non è concepibile che
…”
“Questo
è il punto, Satsu-san” la interruppe lui con fermezza, per
una volta dimentico delle buone maniere. Non c’era assolutamente
tempo. “Siamo stati attenti a tutto. Ma a quanto pare qualcosa
può esserci sfuggita, e Rumiko-san non vuole aiutarci a trovarla
e a proteggerla meglio. Non so cosa fare.”
Il
silenzio fu pieno del rumore della tazzina posata sul piattino, del
chiacchierare degli altri clienti incuranti, dell’acqua lasciata
scorrere dal cameriere per lavare alcuni bicchieri, dei loro sguardi
carichi di gravità che appesantivano l’atmosfera rilassata
tutt’intorno.
Infine,
Satsu sospirò, come se avesse pensato a sufficienza.
“L’unica cosa che possiamo fare è cercare di starle
vicini il più possibile” disse, e la sua voce vibrava di
determinazione. “Magari potremmo aiutarla indirettamente, e nello
stesso tempo renderci conto con i nostri occhi delle eventuali mosse di
Ichijouji, in modo tale da metterlo nel sacco come al solito.”
Iori
per un momento non rispose, continuando ad osservare il tavolo. Ancora
una volta, stava pensando all’assurda e insensata situazione che
tutti loro stavano vivendo. Stava pensando a quante cose non erano
andate al loro posto. Stava domandandosi il perché di tutto
quello.
Non trovando alcuna risposta, la rabbia si rinnovò in lui.
“Rumiko-san
dovrebbe smetterla di cercare il male” sussurrò, e
sentì Satsu irrigidirsi improvvisamente. “Perché si
è rovinata la vita, e l’ha rovinata anche a chi le stava
accanto.”
“Iori-kun …”
Ma
Iori non ebbe alcuna intenzione di fermarsi. Alzò lo sguardo,
tremendamente serio, e la fissò. “Basta con gli errori.
Potrebbe mettere fine quando vuole a tutto questo dolore. Ma non ha mai
voluto … e ora si ritrova in questa situazione. E per chi, poi? E’ imperdonabile dipendere tanto da un simile uomo!”
“Iori-kun, per favore, smettila di essere così rigido …”
“Rigido? Vuoi forse dire che lui la meritava in qualche modo? Che meritava tanti sacrifici e dolori? Che …”
“Era innamorata,
Iori-kun.” Il viso di Satsu era pieno di triste rimprovero, e
Iori sgranò gli occhi, ammutolito. “Ha fatto tanti errori,
su questo ti do ragione. Ma non ha mai voluto far del male, mai.
Pensava davvero che per lui valesse la pena di far tutto.”
Fosse stato così, in quel momento lui non avrebbe avuto alcun motivo di soffrire, pensò, con un sorrisetto amaro.
“Credi
che l’amore possa rendere lecito tutto? Purtroppo non è
così, Satsu-san. Non è così. Rumiko-san poteva
anche credere di fare del bene, ma non l’ha fatto, né ai
suoi genitori, né a suo figlio, né ai suoi amici. Nessuno
è autorizzato a fare quello che vuole solo perché ama
troppo. Altrimenti io …”
Si interruppe bruscamente, mentre un senso di dolore scaturiva dalle sue parole mancate.
Altrimenti
io mi farei imprigionare per liberarti dalle accuse. Altrimenti ti
ricorderei che Haku te l’ho regalato io, e ti costringerei ad
amarmi. Altrimenti dimenticherei che non mi ami, e ti bacerei, e ti
porterei lontano. Altrimenti non m’importerebbe di quel rifiuto
avvenuto tanti anni fa.
Troppo,
troppo dolore. Credeva di star soffocando, mentre voleva scappare via e
non dover guardare ciò che sapeva di non poter mai avere in
maniera diversa dall’amicizia.
Eppure, non poté fare a meno di guardarla di sottecchi, straziato.
E
vide gli occhi di lei lucidi, e l’espressione piena di doloroso
senso di colpa. Seppe che aveva colto l’allusione: nessuno dei
due aveva mai scordato quel lontano discorso avvenuto poco prima della
sparizione di Miyako. Si limitavano ad ignorarlo.
“Io
… mi dispiace tanto, non volevo ...” bisbigliò,
mortificata. Satsu non si era mai perdonata per la sua
incapacità di ricambiarlo.
Ma
Iori si maledisse per aver detto troppo: che senso aveva farla sentire
in colpa? Serrò gli occhi, tentando di moderare il suo tono di
voce. “No, scusami tu, Satsu-san. Avevo promesso di non dirti
più nulla del genere.”
“Per favore, non scusarti tu per qualcosa che ho fatto io a te.”
Il
dolore si acuiva ogni secondo che passava: non poteva continuare
così. Scosse la testa, e quando riaprì gli occhi verdi la
sua espressione era nuovamente seria.
“Non
ha importanza, adesso.” Rispose. “Quello che so è
che non abbandonerò Rumiko-san come ho già fatto
stupidamente anni fa: non sarò mai d’accordo, né
giustificherò mai quello che ha fatto, ma le voglio bene.
Troppo, per lasciarla sola con il suo dolore e la sua perdita. Ogni
volta che avrà bisogno di me, io ci sarò: è per
questo che tollero ancora di essere considerato alla stregua di un
criminale. Non scapperò più.”
Satsu lo guardò per alcuni secondi, poi sorrise. Un sorriso incantevole, eppure per lui così irraggiungibile.
“Sai,
Iori-kun” gli disse dolcemente. “E’ per questo che
per Rumiko-chan sei così importante: sei davvero l’amico
perfetto per lei. Nel momento in cui hai deciso di dare questa svolta
alla tua vita, sei maturato tanto. E per lei è tanto importante
avere una persona accanto che abbia saggezza e capacità di
discernimento, perché alle volte, quando si lascia trasportare
dai sentimenti, queste qualità le mancano.”
Poi la sua espressione si fece nuovamente determinata. “Nemmeno io ho intenzione di lasciarla sola.”
E Iori sorrise.
Nonostante tutto quello che era successo nelle loro vite, Satsu non lo aveva abbandonato.
E sapere che lottavano insieme lo riempì di determinazione una volta di più.
Non avrebbe permesso a nessuno di togliergli la voglia di essere sempre pronto a difendere chi amava. A nessuno.
***
Lo trovò
disteso a pancia in giù sull’erba, le gambe
all’aria, i colori a cera sparsi dappertutto, circondato da mille
fogli bianchi o già pieni dei suoi paesaggi variopinti, intento
a disegnare sfregando con vigore un pastello sulla carta.
Scosse la testa
rassegnata, avvicinandosi a lui con aria a metà tra una di
rimprovero e una divertita, e si preparò a sentire una delle sue
stravaganze.
“Keiji-chan?”
lo chiamò piano, cercando di adottare un tono di voce serio
abbastanza per fargli capire che cose del genere non si dovevano fare.
E Keiji
alzò lo sguardo dal suo disegno, e, stupendola per la sua
estrema monelleria, le sorrise allegramente. “Ciao, Hikari!”
Hikari non poteva crederci. Si stava comportando come se non fosse successo nulla.
Sospirò,
mettendosi le mani sui fianchi: ricordava che quando sua mamma sgridava
Taichi, dopo una delle sue, faceva quell’esatto movimento, e il
ricordo le portò per un istante una malinconica sensazione di
dolcezza. “Sei sicuro di non avere nulla da dirmi,
Keiji-chan?”
Lui batté
gli occhi castano chiaro, sorpreso per un momento, poi il suo viso si
illuminò di orgoglio, come se avesse appena ricevuto un premio.
“Ho mandato via lo spione, Hikari!” disse semplicemente,
mostrandogli un ulteriore disegno che rappresentava Takeru intento a
scappare via spaventato, mentre Keiji lo additava con aria seria.
Sgranò gli occhi, incredula. “Ma no! Che disegno è? Ti sembra una cosa carina?”
“Sì. E’ una persona cattiva, e io l’ho mandato via.”
Il visetto offeso
del bambino tornò a concentrarsi sul cielo che imbruniva
rapidamente. “Qualcuno doveva scacciarlo, visto che tu non lo
fai.” Aggiunse poi.
Hikari lo
fissò, non riuscendo davvero a capire. Da quando la faccenda di
Takeru era cominciata, sembrava che Keiji volesse a tutti i costi
difendere le persone che abitavano in quell’orfanotrofio, come se
qualcuno stesse cercando di minacciarlo in qualche maniera.
Si
accovacciò accanto a lui, accarezzandogli i capelli viola per
attirare di nuovo la sua attenzione. “Keiji-chan, mi ascolti per
un secondo?” gli chiese, questa volta dolcemente. Lui la
guardò di nuovo, e solo allora Hikari continuò.
“Vorrei che mi dicessi per quale motivo ce l’hai tanto con
Takeru-san. E’ da qualche tempo che temi che possa farti del
male, e non riesco davvero a capire perché. Non sarebbe meglio
che tu me lo spiegassi, così non litighiamo? A me sembra una
brava persona.”
Hikari era
sincera. Aveva parlato poco con Takaishi Takeru, ma quello che aveva
avvertito nelle sue parole, nel suo dolore, nelle sue frustrazioni,
doveva corrispondere al vero. Non era possibile trasmettere tante cose
così diverse dalla sua personalità.
Sentiva che aveva buoni sentimenti.
Sentiva che,
anche se aveva spiato il loro lavoro per tanto tempo, questo non fosse
indice di cattive intenzioni, come invece Keiji aveva messo in luce nel
disegno che aveva dato a Takeru.
Keiji si
imbronciò maggiormente. “Io lo detesto. Voleva essere come
te, e si è seduto in mezzo a noi. Ma nessuno lo voleva.”
Hikari scosse la
testa. Keiji si comportava in maniera davvero testarda, alle volte:
quando si metteva in testa qualcosa, era difficile che cambiasse idea.
Era per questo che certe volte le loro idee erano così
differenti.
Lo prese in braccio, nonostante il suo tentativo di divincolarsi per fare l’offeso.
“Sai che
impressione ha fatto a me, invece?” rispose, sorridendogli e
cercando di essere convincente. “Mi è sembrata una persona
molto triste che aveva un disperato bisogno di stare con voi. E
perché no, anche in mezzo a voi. Mi sorprende, anzi, che tu
l’abbia presa tanto male: quando Koushiro-san è venuto a
fare la vostra conoscenza lo avete trattato bene, mi ricordo. E tu sei
stato molto bravo, allora. Perché con Takeru è
diverso?”
All’improvviso, il bambino si era irrigidito tra le sue braccia. Hikari lo guardò, perplessa.
“Viene a vivere con noi come Koushiro?” chiese, nel viso orrore e delusione.
La giovane non
poté che sentirsi tristemente sorpresa per la reazione
assolutamente contraria di Keiji. Non vedeva davvero cosa potesse
esserci di così brutto in una decisione del genere: quando ci
aveva pensato, aveva trovato che tutto sarebbe filato liscio.
Parlandone con suo fratello e i suoi amici, poi, aveva trovato
approvazioni, seppur dubbiose e incerte.
Con il bambino che proteggeva in special modo, però, sembravano esserci problemi.
Sospirò,
lasciando che il suo sorriso scemasse. “Adesso è davvero
presto per dirlo, ma non me la sento di escludere a priori la
possibilità” disse, e sentì Keiji calmarsi. La cosa
la ferì. “Ma davvero, Keiji-chan, io penso che sia solo
questione di abitudine. Devi solo conoscerlo meglio, e lui deve
necessariamente conoscere voi. Magari sei più sulla difensiva
perché non ha mostrato subito di voler giocare con voi, e se
è così devi dargli tempo: credo stia passando un momento
difficile, anche se non riesco pienamente a capire perché.
Però so che andreste d’accordo.”
Keiji la
guardò diffidente, con i suoi occhi castano chiaro troppo
intelligenti per un bambino della sua età. Eppure, era ancora un
bambino, perché non era grande a sufficienza per comprendere che
non tutti i ragazzi avevano lo stesso carattere e necessitavano degli
stessi tempi per capire se stessi.
“Non ti
fidi di me, Keiji-chan?” gli chiese, con un’aria scherzosa.
“Cos’ho fatto per meritarmi questo?”
“Ti avevo
detto di cacciarlo, e tu lo hai fatto venire dentro.” Rispose
lui, e nelle sue parole c’era delusione. Era davvero triste
sentirlo parlare così. “Sembra che ti sia simpatico, ma
secondo me è un ladro. Perché credi che sia buono?”
Hikari distolse
lo sguardo per un istante, posandolo sull’ingresso della villa
adesso deserto. Era lì che Takeru aveva parlato l’ultima
volta con lei, ringraziandola per la disponibilità e la
comprensione, per poi tornare serio e chiederle, esitante, se poteva
tornare a far loro visita anche una seconda volta.
E i suoi occhi avevano brillato di forza d’animo, sebbene permeata di tanta confusione.
Come avrebbe
potuto rifiutare una richiesta così sentita? Sua mamma aveva
sempre dato una seconda possibilità a tutti, anche a chi, a
detta di lei e di Taichi, non avrebbe potuto meritare una cosa del
genere, e il più delle volte le era andata molto bene.
“Sapete chi si accosta a quest’orfanotrofio?” aveva detto una volta, strizzando l’occhio a entrambi i fratelli. “Chi
ha bisogno di maturare e crescere, ma è abbastanza maturo per
capire che ne ha bisogno. E i bambini sono sempre la migliore cura al
mondo, perché, una volta che sei con loro, cambi in
meglio.”
Scosse la testa,
sorridendo rasserenata. Se sua madre aveva avuto ragione, Takeru era la
persona più indicata per entrare a far parte del piccolo ma
variopinto mondo dei bambini.
Quando il suo sguardo si posò su Keiji, era di nuovo sicura di quello che diceva.
“Takeru-san
potrebbe essere il tuo migliore amico: ne sono convinta. Ha in
sé tutta la voglia di aiutarvi, ma, ne sono sicura, anche di
essere aiutata da te e dagli altri.”
“Ma lui non
lo sa nemmeno, come fai a dirlo?” ribatté il bambino dai
capelli viola, sorpreso e decisamente contrario all’idea dei
migliori amici.
Hikari rise, scompigliandogli i capelli. Ci sarebbe stato tempo anche per lui di capire: nessuno aveva alcuna fretta.
“Sei impossibile! Come devo fare con te?”
Eppure, il suo
sguardo si fece triste, al ricordo della sofferenza di Takeru, alla sua
incapacità di comprendere la purezza dei bambini, alla sua
incapacità di trovare se stesso. Doveva essere davvero una
persona molto sola, se non riusciva a capire quello che voleva.
Sospirò.
“Sono sicura di quello che dico. Ma lui non sa ancora quanto
potrebbe dare e ricevere dalla vita …”
***
“Rumiko-chan? Rumiko-chan! Per l’amor del cielo, mi senti?”
Un paio di occhi
azzurri si alzarono improvvisamente dalle pagine di un libro che
fingeva di leggere mentre rifletteva. Distolto dai suoi pensieri, non
tardò molto a trovare la donna sulla cinquantina che stava
ripetutamente cercando di attirare l’attenzione di un’ormai
ben nota giovane cassiera.
Ichijouji Ken
sgranò gli occhi, sorpreso e incuriosito, non appena si rese
conto che lei non sembrava stare ascoltando la donna in alcun modo.
L’aria
distante e persa nel vuoto, gli occhi scuri rivolti verso la vetrina
della libreria, Miyazawa Rumiko appariva in un altro mondo, quasi in
una dimensione irraggiungibile. I lunghi capelli neri le coprivano
parzialmente il volto, ma Ken giurò di averla vista sospirare
piano, come faceva qualche volta, quando nessun cliente si avvicinava
alla cassa.
Lui non aveva mai
capito il perché. Ma non aveva mai smesso di guardarla, cercando
di capire cosa si celasse dietro quel volto e dietro i suoi attimi di
estraniamento dal mondo.
“Rumiko-chan!”
Alla fine, la
donna le aveva messo una mano sulla spalla, l’espressione piena
di una strana preoccupazione che al giovane spettatore silenzioso non
sfuggì. E vide Rumiko sussultare violentemente, voltarsi di
scatto, gli occhi riempirsi di paura inspiegabile, per poi focalizzare
la donna e rilassarsi impercettibilmente.
“Cosa? Che c’è?” chiese.
Era successo di
nuovo, si disse Ken, sorridendo incredulo. In meno di un secondo, era
riuscita a confonderlo con i suoi atteggiamenti particolarmente
insoliti. Quella paura che qualche volta scorgeva nei suoi lineamenti
sembrava essere una sorta di reazione naturale a qualcosa che non
poteva sapere.
Forse non avrebbe
mai scoperto quale segreto fosse Rumiko. Avrebbe dovuto dedicarsi a
qualcosa di più serio, come le sue indagini e quel diario
ritrovato da poco.
Ma, puntualmente, per qualche motivo sconosciuto, non ci riusciva. Era inutile provarci.
Sospirò,
alzandosi dalla poltroncina della libreria e riponendo il libro che
aveva in mano in uno scaffale. Rassegnandosi a quella curiosità
e a quell’interesse incomprensibile, si avvicinò piano per
poter osservare meglio.
“Mi serve
una mano per mettere a posto quello scatolone di libri laggiù:
oggi non posso salire sulla scala, ho un mal di schiena tremendo. Ti do
io il cambio dietro la cassa, ti dispiace?” Stava intanto dicendo
la donna dai capelli grigi e l’aria gentile, indicando
l’oggetto della conversazione. Con un moto di sorpresa, Ken si
rese conto che era appoggiato poco distante dal luogo dov’era lui.
Rumiko scosse
vigorosamente la testa, allontanandosi di fretta dalla cassa. “Mi
metto subito al lavoro, non si preoccupi” rispose, a voce alta,
nel tipico tono di chi è stato scoperto a fare qualcosa che non
doveva e vuole cercare di rabbonire chi l’ha scoperto.
Sembrava quasi che l’essersi persa nel suo mondo fosse stata una colpa.
La giovane
guardò ancora l’entrata per un istante, l’aria
inquieta, per poi scuotere la testa e camminare spedita verso la scala,
prenderla e dirigersi verso lo scaffale poco distante.
Ken la stava
ancora osservando, non comprendendone il motivo. Era immobile dietro di
lei, intento a seguire minuziosamente ogni suo movimento, e sentiva
dentro di sé uno strano senso di oppressione, come se dovesse
assolutamente fare qualcosa e non sapesse cosa. Non capiva a cosa fosse
dovuto, né perché quel suo restare immobile gli fosse
quasi insopportabile.
Solo quando la
vide spostarsi le ciocche di capelli scuri che le coprivano gli occhi
mentre saliva e scendeva per prendere i libri per poi metterli a posto,
capì.
Si chiese, sgomento, cosa gli stesse succedendo.
Ma prima di
potersi rendere conto di quanto fosse sciocca e invadente una cosa del
genere, si ritrovò a camminare piano verso di lei, quasi contro
la sua volontà, eppure sapeva che sarebbe stato inutile opporsi.
Proprio come le altre volte in cui aveva sentito il bisogno di
avvicinarsi, di cercare di capirla.
Rumiko era sulla
scala, anche in punta di piedi per arrivare allo scaffale più
alto, e non lo aveva visto, concentrata com’era sul suo lavoro.
Ken distolse lo
sguardo da lei, esaminando il genere di libri che c’era in quello
scaffale. Erano romanzi storici. Così erano quelli che doveva
prendere dallo scatolone.
Ne individuò uno di quel genere in mezzo al mucchio, e lo prese senza pensarci.
Quando Rumiko scese di qualche gradino per prendere un altro libro, tutto quello che lui fece fu porgerglielo, esitante.
E allora lei sussultò, voltandosi.
E i loro sguardi si incontrarono.
La prima cosa che
Ken notò nel suo viso fu il pallore inusuale, così come
l’aria stanca e le occhiaie marcate. Per seconda venne la
consapevolezza che lo stupore della giovane nel vederlo era decisamente
eccessiva: sconcerto e paura balenarono rapidamente nel suo sguardo.
Infine, un piccolo strillo di sorpresa uscì dalle sue labbra.
“Scusami”
disse in fretta lui, vedendola portarsi una mano alla bocca per
calmarsi e appoggiarsi allo scaffale colmo di libri. “Non era mia
intenzione spaventarti, davvero.”
Rumiko chiuse gli
occhi per un istante, limitandosi a respirare. “No, è che
… non è nulla.” Disse a bassa voce, ancora scossa.
Ken si disse che era un idiota. “Si può sapere da dove
spunti?”
Ken si
sentì arrossire. “Ti ho vista qui sulla scala, e ho
pensato … Beh … Hai bisogno di aiuto?” Propose alla
fine, in tutta sincerità. “Posso passarti i libri, se
vuoi.”
Rumiko riaprì gli occhi, guardandolo con un’espressione capace di farlo fermare.
C’era
stupore, uno stupore che non sapeva contenere in alcun modo, e che a
lui risultava inspiegabile. C’era qualcosa che accendeva i suoi
occhi castani, qualcosa che lui interpretò come gratitudine
assolutamente non necessaria. Eppure, quel dolore che spegneva i suoi
occhi e che traspariva in tutta la sua interezza dalla sua espressione
lo lasciò interdetto.
Seppe che il suo sguardo aveva lasciato trapelare più di quanto lei avesse voluto, ancora una volta.
Poi lei distolse
lo sguardo, battendo più volte gli occhi come per calmarsi. La
vide sorridere, uno dei sorrisi strani e belli che gli rivolgeva
qualche volta. “Come mai sei sempre così servizievole?
Dovresti occuparti di assistenza ai malati, credimi.”
Scherzò, e Ken sorrise, incredulo. Poi Rumiko prese il libro che
le porgeva, con attenzione: sembrava che avesse paura che cadesse.
Doveva aver accettato l’aiuto, si disse.
“Cercavi di
aiutarmi anche quando avevo il piede quasi zoppo, se non ricordo
male” aggiunse poi la giovane, risalendo sulla scala e
posizionando il libro che lui le aveva porto.
Lui
ridacchiò, sentendosi stranamente in imbarazzo. “Eri
caduta” si giustificò. “Ti serviva davvero
aiuto.”
“Su, non esageriamo adesso. Mi passi un libro?”
Ken trasalì, chinandosi all’istante per prenderlo. Gli era completamente passato di mente.
Quando Rumiko si
voltò e tese la mano per averlo, però, il giovane si
soffermò ancora sull’aria provata che aveva il suo viso.
Aggrottò le sopracciglia.
“Sembri stanca” osservò, guardandola ancora negli occhi.
La vide arrossire
violentemente, per poi afferrare il libro dalle sue mani e sfuggire il
suo sguardo. Rispose solo quando fu in cima alla scala.
“Non è nulla. Non ti è mai capitato di essere sempre stanco, per quanto tu possa dormire?”
Ancora una volta,
non riuscì a comprendere questa sua voglia di rifuggire il suo
sguardo: sembrava voler custodire a fondo i suoi segreti, e volersi
trincerare dietro un muro.
“Qualche
volta sì” rispose, e ancora non riusciva a distogliere lo
sguardo da lei. “Quando mi affatico troppo e non mi concedo un
attimo di tregua. Magari dovresti prenderti un periodo di ferie dal
lavoro.”
Rumiko lo
guardò dall’alto, sulle labbra una smorfia di disappunto.
“No, davvero” rispose, e nella sua voce ci fu un improvviso
tono secco. “Voglio continuare a lavorare, non è un
problema per me.”
Ken, interdetto,
non poté che ammutolire per un secondo alla brusca risposta di
lei. Non sapeva davvero cosa le avesse detto di così offensivo:
per quanto ci pensasse, non arrivò da nessuna parte. Forse
rientrava nel gruppo dei suoi comportamenti criptici.
Abbassò lo sguardo, imponendosi di essere più gentile e meno invadente.
“Mi
dispiace” si scusò, non sapendo di cosa. “Credevo
che un periodo di riposo avrebbe potuto farti bene.” Poi
un’idea gli balenò in mente. “Magari potrebbe essere
solo un giorno, un giorno di riposo” propose, guardandola di
sottecchi. “Passato, magari, con persone care, come amici, per
esempio.”
Lei scese, sul
volto un’espressione disillusa, negli occhi una strana luce. Tese
la mano, prese un altro libro, risalì. “Credo che non sia
possibile. Diciamo … che sono tutti impegnati diversamente, in
questo periodo.”
Per quanto si
fosse sforzata di nasconderlo, Ken aveva colto perfettamente la nota
dolente nel suo tono di voce. Sembrava, ancora una volta, che soffrisse.
Che fosse stata ferita, delusa.
La scoperta di
questa verità lo lasciò, per un istante, attonito. Quanto
si nascondeva dietro il sorriso apparentemente solare di Rumiko? Quanto
doveva soffrire una ragazza giovane come lui? Quanto doveva reprimere
ogni giorno, per motivi sconosciuti?
Ken non ne aveva idea. Non poteva averla. Non sapeva nemmeno chi fosse Miyazawa Rumiko.
Era totalmente all’oscuro di tutto.
Ma c’era un
sentimento nuovo, ora. Un istinto che non poteva reprimere. Una voglia
di sapere, di conoscere, di aiutare, di avvicinarsi a quella creatura
così apparentemente forte e fragile insieme.
Le parole sgorgarono dalle sue labbra senza che lui potesse controllarle, in un sussurro.
“Allora passalo con me, Rumiko-san.”
Rumiko si immobilizzò sulla scala, sussultando, sgranando gli occhi.
E solo allora lui
si rese conto di quanto fosse ardita quella proposta. Di quanto poco si
conoscessero, del fatto che lei poteva benissimo non aver bisogno di
lui. Di quanto avrebbe fatto, forse, meglio a tacere, a non
intromettersi.
Ma, per quanto un
senso di imbarazzo intenso lo avesse colto, cercò invano il
pentimento per aver formulato una simile proposta.
“Cosa?”
disse piano lei, come se la voce le fosse venuta a mancare. Una traccia
di timore era comparsa nuovamente nel suo tono. Non lo guardava ancora.
Lui
sospirò, cercando nuovamente la forza per essere sicuro di
quello che diceva. “Se non hai nessuno con cui passare un
pomeriggio, passalo con me. Io … sono disponibile, se vuoi. E
semmai ne avrai bisogno.”
Il battito furioso del suo cuore impedì alla sua mente di formulare altre frasi di senso compiuto.
Ma il silenzio che seguì si protrasse per troppo tempo.
Ken cercò
il suo sguardo, ma la vide ancora su quella scala, il libro stretto tra
le braccia, la testa bassa, i capelli che coprivano il suo volto.
Smarrito, la vide tremare.
Non sapeva cosa stesse succedendo, o cosa avrebbe risposto. Non capiva.
Infine, un sussurro.
“No. Mi dispiace, io … io non posso prendermi momenti di pausa.”
Il cuore di Ken mancò un battito.
Vide Rumiko
voltarsi, negli occhi paura, paura e solo paura. Paura che lo
ferì, e un’inspiegabile delusione scaturì da quella
ferita come olio bollente.
Perché vide che aveva paura di lui.
“Servo qui,
e devo lavorare e … non posso. Ti giuro che non posso. Sono
troppo impegnata qui, al momento.” La voce di lei era spezzata
come quella di una preda braccata, come una persona sofferente che
vuole salvarsi a tutti i costi. “Scusami, ma no.”
Un lunghissimo
istante in cui si fissarono, incapaci di dire nulla, incapaci di
distogliere lo sguardo l’uno dall’altra. In cui Ken
cercò la conferma nel suo sguardo di quanto aveva sentito.
Trovandola, abbassò la testa.
“Va bene.
Non c’è problema, non preoccuparti.” E il suo tono
rassegnato, sconfitto e dolente fu capace di stupire persino se stesso.
Sapeva che era legittima la paura di lei. Sapeva di aver tentato troppo.
Sapeva di essere una presenza inutile lì. Sapeva che doveva andarsene via.
Sospirò piano, posando il libro che aveva in mano su uno scatolone.
“Devo andare, Rumiko-san. Ti auguro una buona serata.”
Si voltò in fretta, perché la sua delusione non fosse visibile anche a lei.
Eppure, il peso
che sentiva nel petto sembrava voler rallentare la sua andatura, mentre
si dirigeva verso l’uscita della libreria.
Che sciocco era stato. Cosa pretendeva? Si era forse convinto di essere utile anche a lei?
Non la conosceva nemmeno bene. Non sapeva nulla della sua inquietudine.
Eppure …
Scosse la testa, accelerando il passo.
Eppure non aveva mai voluto farle del male.
Sentiva di volerle stare accanto, malgrado quel sentimento fosse inspiegabile anche per se stesso.
Ma era andata in quel modo. Avrebbe dovuto smetterla di ignorare i suoi doveri per rincorrere desideri strani e incomprensibili.
“Aspetta, ti prego!”
La mano sulla porta, Ken si arrestò di botto.
Sulla vetrina era riflessa la figura di Rumiko.
E la voce di Rumiko era piena di una supplica e un’ansia inspiegabile.
Ken non riuscì a voltarsi. Ma attese, il cuore in gola.
“Non
sarò … impegnata per sempre, ecco.” Vide il suo
riflesso mordersi il labbro inferiore, attorcigliarsi tra le dita una
ciocca di capelli, i suoi occhi alzarsi e abbassarsi, inquieti, su di
lui. “Gli impegni finiranno, prima o poi.”
E tanto fu il suo
stupore, che per un attimo non sentì la sua gioia. Per un attimo
non vide come tutta la sua delusione stava scemando rapidamente dal suo
animo, come tutti i tristi pensieri stavano correndo via rapidamente.
E nel suo animo ci fu solo sorpresa, incredula gioia.
Sorrise al vetro, piano.
“Ci conto, allora.” Disse, prima di aprire la porta e uscire fuori dalla libreria.
Con una promessa che entrambi lasciarono sospesa a mezz’aria.
Una promessa ancora inconsistente, ma, Ken lo sentiva, che avrebbe cambiato qualcosa per entrambi.
Buon
pomeriggio! Eccomi di nuovo con un altro capitolo sperimentale...
diciamo che sarà uno di passaggio, ma importante per continuare
la storia :) Questa volta ho deciso di dividerlo in tre parti, proprio
per poter analizzare meglio i nuovi sviluppi... E ho deciso di inserire
anche Iori. Non ho mai trattato del suo punto di vista, povero xD mi
sembrava giusto lasciargli un po' di spazio. Lo stesso vale per la
parte con Hikari e Keiji: mi ero resa conto di non aver trattato bene
del loro rapporto da qualche tempo... e ne ho sentito la mancanza ;) La
terza parte, beh... C'è bisogno che specifichi altro? xD Scherzi
a parte, ecco qui la svolta al loro rapporto che aspettavo di scrivere
da un po'. Da qui in poi ne vedrete delle belle...
marghepepe, io non ho
davvero parole... Grazie, grazie mille per la recensione accurata, gli
splendidi complimenti, gli incoraggiamenti più che graditi! **
Sono felicissima che tu abbia deciso di recensire, ne avevo davvero
bisogno! Mi è piaciuta molto la riflessione che hai fatto su
Miyako... Effettivamente è proprio così! Mi fa piacere
che quelle sensazioni siano arrivate anche a te, e la stessa cosa vale
per il rapporto tra lei e Iori :) Ti dirò, sono sorpresa che tu
senta vicino il personaggio di Takeru: con lui ho sempre paura di
sbagliare, di renderlo poco credibile ... ma sono felice di questo,
davvero felice. Ma pensavi davvero che Takeru fosse il padre di Keiji?
O.O Di più non posso svelarti, purtroppo, riguardo il suo futuro
e le sue scelte... E per quanto riguarda le coppie, forse più avanti
vedrai qualche altro sviluppo ;) per il momento sono in fase di
progettazione! Proposte? xD In conclusione, io spero che continuerai a seguirmi...
Lo spero davvero! ^^
Shine, credi che mi
importi dei tempi impiegati? Io per prima non sono puntuale ;) e
comunque, se aspettare significa avere recensioni positive come le tue,
sarebbe da ingrati lamentarsi... Grazie mille della tua interpretazione
del capitolo, è sempre molto bello farsi un'idea dei sentimenti
suscitati ^^ Non sai come mi sia divertita a mettere il povero Takeru
in quella situazione di smarrimento xD Keiji non è molto
affabile con Takeru in questa parte della storia, in effetti -come
avrai anche notato dopo questo ultimo aggiornamento-... e diciamo che
il metodo più eloquente per dimostrare agli altri i suoi
sentimenti è proprio il disegnare! Ma aspetta e vedrai ;) e
quando puoi fammi sapere, che aspetto impaziente i tuoi pareri! :)
Mystery Anakin,
bentrovata! E' sempre bello sapere che passi di qui ^^ Sì,
offrire a Takeru una via di salvezza dal tormento era proprio l'intento
del capitolo... Il punto è vedere se deciderà di
percorrere questa strada o no! Ma di sicuro Hikari avrà un ruolo
importante, come puoi immaginare ;) Che dire, grazie del buon parere e
della tua lettura costante, sono curiosa di sapere come giudicherai
questo!
Bene, è tutto :) se avete voglia/tempo, un parere mi farebbe davvero comodo! xD Alla prossima!
Padme Undomiel
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Capitolo 16 *** Barlume di luce ***
Purity 16
16.
Barlume di luce
“Esattamente cosa vuoi che faccia?”
“Non capisco. Cosa dovresti fare?”
“Ascolta,
Hikari-san, io … non è facile per me capire. Tutto questo
è così nuovo, così estraneo a me, che non so
proprio da dove cominciare per apprendere da voi. Dimmi cosa devo
fare.”
Lo
aveva guardato, sorpresa. “Io non voglio che tu pensi questo di
me, Takeru-san: nemmeno io ho finito di apprendere, e forse non lo
farò mai. Non so dirti esattamente cosa potresti fare.”
“Però … però potresti mostrarmi come vivete qui.”
“Eh?”
Lo
sguardo di lui era deciso, e pieno di una sincerità disarmante.
Lei non aveva potuto fare a meno di restarne interdetta.
“Prendimi
come uno … studente che vuole apprendere, sì. Che vuole
apprendere, ma che non conosce nulla di ciò che lo circonda e di
ciò che ha dentro. Ti chiedo solo di spiegarmi come funziona
qui. Cosa fate voi, come sono i bambini, come li fate ridere, da cosa
traete conforto.
Vorrei che mi spiegassi semplicemente come vivete, passo per passo.
E io cercherò di capire con tutte le mie forze.”
“Vuoi capire noi e i bambini per poter capire meglio te stesso, quindi?”
“Sì, esatto. Non vedo altra via.”
Lei aveva esitato, sorridendo spiazzata.
“Quanto
ti aspetti da me, allora?” E il suo viso era semplice imbarazzo.
“Ti giuro che farò tutto ciò che posso per aiutarti
a capire questo orfanotrofio, ma non vorrei che fossi deluso da
ciò che posso offrirti.”
“Non vedo perché dovrei. Tu ami questo posto.”
Le aveva sorriso.
“E solo chi ama davvero la strada che ha intrapreso può aiutarmi adesso, credimi.”
“Ecco, entra pure.”
Si
scostò dalla porta d’ingresso il necessario perché
lui potesse passare, e si voltò a guardarlo ancora una volta,
curiosa di scorgere sul suo viso i diversi tipi di emozioni che doveva
star provando.
In
quel momento, i suoi occhi azzurri erano ancora esitanti, mentre si
posavano a tratti su di lei e a tratti sulla grande stanza davanti a
loro. Sembrava che considerasse la sua voglia di sapere quasi invadente.
Ancora non era riuscito ad abituarsi a quello che stava facendo.
Sospirò,
con un sorriso, mentre lo spingeva dolcemente verso l’entrata.
“Avanti, Takeru-san: non ti succede nulla se dai
un’occhiata!”
“Va
bene, va bene. Allora io entro, d’accordo?” sorrise
Takaishi Takeru, e un guizzo di divertimento balenò nel suo
sguardo.
Yagami
Hikari osservò i suoi passi incerti verso il centro della
stanza, il suo cauto interesse verso ogni particolare della camera, il
suo tentativo di calarsi completamente in quello che gli stava
accadendo, e un senso di gioia non poté non farsi strada nel suo
cuore.
Aveva
fatto un grande progresso, senza alcun dubbio. Decidere di voler
apprendere da loro e dai bambini era indice di una grande forza
d’animo, di una persona che conosce le proprie debolezze e vuole
cercare di rimediare.
E
Hikari sperava davvero che l’orfanotrofio avrebbe potuto aiutarlo
come aveva pensato. In ogni caso, le premesse erano buone: sorrideva
più del solito, nonostante la sua confusione e la sua tristezza.
Forse qualcosa avrebbe davvero potuto cambiare in meglio.
Takeru
si era fermato accanto a un lettino, e ora aveva raccolto un soldatino
che era rimasto per terra. Lo vide osservarlo in silenzio per qualche
tempo, per poi sollevare lo sguardo e fissarlo su di lei.
“E’ la cameretta dei bambini?” chiese.
Hikari
annuì, avvicinandosi a lui. “Una delle tante” gli
spiegò serenamente, mentre lui subito si faceva attento.
Sembrava davvero uno scolaro, quando assumeva quell’espressione.
“Sai, in quest’orfanotrofio ci sono tanti bambini, e non
possono entrarci tutti in una stanza. Di solito li dividiamo in gruppi
di dieci, come vedi qui.”
Indicò i letti con un gesto della mano, e vide Takeru contarli velocemente.
Poi,
con ancora il soldatino in mano, tornò a guardarla. “Con
che criterio smistate i bambini nelle stanze, di solito?”
Hikari
alzò le spalle, ancora una volta sentendosi a disagio per
l’occhiata di lui. La guardava come se lei avesse la
verità, come se fosse più saggia di quanto, purtroppo,
era. “Dipende … Certe volte ci regoliamo in base
all’età, altre volte in base a legami particolari o in
base alla loro assenza. Quasi sempre, però, dividiamo i bambini
dalle bambine. L’unico caso particolare” aggiunse poi,
quando vide Takeru assentire in segno di comprensione “è
Naoko, che non riuscirebbe mai a dormire senza Shinji. E’ come se
non si sentisse al sicuro senza.”
“Aspetta”
la interruppe Takeru ad un tratto, concentrandosi e aggrottando le
sopracciglia. “Shinji è … quel bambino dai capelli
ramati che gioca sempre a calcio? Quello che la difende quando gli
altri sono ingiusti con lei?”
Hikari
spalancò gli occhi, sentendosi tremendamente a disagio. Era un
peccato dirgli che aveva confuso i nomi ancora una volta: sapeva che,
ogni qualvolta ne sbagliava uno, lui si sentiva sempre più un
estraneo da quel luogo e quella gioia.
“Ehm …”
Ma
prima che avesse il tempo di dire alcunché, Takeru parve capire.
Rise, imbarazzato. “… Ho sbagliato bambino, è
così?” chiese, con un divertito tono di scusa.
“Sembra
di sì ...” Rispose lei, ma si affrettò a
continuare. “Però non hai sbagliato di molto. Il bambino
che hai nominato è un suo grande amico, e si chiama Junichi.
Shinji, invece, è suo fratello gemello.”
Lo
guardò per qualche secondo, sperando di non averlo scoraggiato.
Si rendeva conto di quanto fosse difficile imparare i nomi di tutti
quegli orfani in così poco tempo: non poteva di certo pretendere
miracoli da parte del giovane.
Takeru
sospirò, sorridendo esasperato e guardandosi le mani.
“Dovrai avere pazienza con me …” commentò,
con quello che sembrava un rimprovero verso se stesso.
Pareva che si fosse scoraggiato di nuovo. Hikari si morse il labbro inferiore, per un istante indecisa sul da farsi.
Poi
gli mise una mano sulla spalla, esitando come se non fosse sicura che
quel gesto potesse significare qualcosa. Come se non sapesse
precisamente cosa avesse intenzione di ottenere.
E Takeru la guardò, sorpreso, e improvvisamente Hikari credette di scorgere in lui l’animo smarrito di un bambino.
E la visione le scaldò il cuore.
Gli
sorrise dolcemente. “Takeru-kun, sei tu che dovresti avere
pazienza con te stesso. Io non ho fretta, e nemmeno mio fratello e gli
altri.” Gli disse, cercando di risollevargli il morale.
E
dopo un istante di attesa, infine un sorriso grato ma perplesso
tornò sulle sue labbra. “Non credo capirò mai
questa inclinazione ad aspettare e ad avere fiducia.”
Hikari
rise in imbarazzo, all’improvviso avvertendo una strana
sensazione di disagio nel contatto della sua mano sulla spalla di lui:
ora che lui l’aveva vista, si sentì invadente. E
arrossì, allontanandosi lievemente. “Non è
un’inclinazione: non avrebbe senso pretendere da te cose
impossibili. Sarebbe anche controproducente.”
Takeru
alzò le spalle, con aria non del tutto convinta.
“Sarà …” disse semplicemente. Poi lo vide
guardarsi le mani, e sussultare. “Oh, dimenticavo …”
Le
porse il soldatino che aveva stretto tra le dita per tutto quel tempo.
“Era per terra. E non so dove metterlo …”
“Non preoccuparti, hai ragione. Haru-chan deve averlo lasciato in giro dopo aver giocato stamattina.”
Hikari allungò la mano per prenderlo, ma si fermò all’improvviso, sorpresa più che mai.
Takeru sembrava così strano con quel giocattolo in mano. Così diverso.
Perché,
malgrado sembrasse quasi desideroso di restituire l’oggetto che
certamente non gli apparteneva, aveva gettato più di
un’occhiata attenta a quel soldatino.
Come se cercasse di ricordare qualcosa che, col tempo, era andata sbiadendosi.
“… Hikari-san?”
Con
un sussulto, la giovane ritornò alla realtà. E
affrontò lo sguardo interrogativo di un Takeru ancora immobile
con le mani tese verso di lei.
Con
un sorriso di scusa, Hikari scosse la testa. Prese il giocattolo del
bambino che tanto lo adorava dalle mani del giovane, e si voltò
per rimetterlo nel cesto dei giochi.
Eppure, sentiva le domande premere nella sua testa, impazienti di essere formulate.
Osservò
di sottecchi il ragazzo davanti a lei, che ancora osservava curioso
ogni dettaglio della stanza, e si chiese se il domandare sarebbe stato
invadente.
D’altra parte, era sicura di volerne sapere di più sul conto di Takaishi Takeru.
Sospirò, mentre si raddrizzava e richiudeva il cesto.
“Come giocavi quando eri piccolo, Takeru-kun?” chiese, questa volta osservandolo apertamente.
“Eh?”
Hikari
arrossì, sentendosi più che mai a disagio. Takeru
sembrava semplicemente sconvolto, come se non credesse alle sue
orecchie. “Mi chiedevo …” continuò, questa
volta più esitante. “Mi chiedevo come ti divertissi quando
eri un bambino come Haru-chan.”
Doveva
averlo sorpreso sul serio, perché lui sembrava dubitare
seriamente della sua salute mentale. Lo vide aggrottare le sopracciglia
e scrutarla, sospettoso. “Perché me lo chiedi?”
Ed
era una domanda interessante, perché nemmeno lei sentiva di
avere una risposta precisa. Aveva semplicemente sentito il bisogno di
chiederlo, come se questo avesse potuto aiutarla a comprendere meglio
la sua sofferenza nascosta, o semplicemente a capire lui.
Ridacchiò
di questa apparente insensatezza, alzando le spalle. “Non lo
so”, ammise sinceramente. “Sono solo curiosa, credo.”
Sorrise, attendendo una risposta pazientemente.
Takeru
era ancora dubbioso, ma non insistette oltre: doveva aver capito che
sarebbe stato inutile chiedere per più informazioni. Una
scintilla di curiosità balenò nei suoi occhi azzurri,
prima che li sollevasse sul soffitto nel tentativo di ricordare.
Alcuni
istanti di silenzio, durante i quali Hikari scorse sul suo viso
emozioni di ogni genere affiorare rapidamente sul suo volto:
confusione, stupore, imbarazzo, divertimento, dolcezza, e qualcosa di
davvero simile alla nostalgia. La giovane si chiese, sorpresa, che
genere di ricordi stesse rivivendo il suo interlocutore.
Alla
fine, Takeru parve ritornare al presente. La osservò per un
lungo istante, come per selezionare le parole giuste da dire.
“Sai,
non è che ricordi con esattezza: è passato tantissimo
tempo”, disse infine, a mo’ di scusa. “Ho solo
qualche ricordo vago, nulla di particolare. Credo …” Rise,
imbarazzato. “Credo che prediligessi le costruzioni. Ne avevo un
bel po’, se non ricordo male. Per qualche motivo mi piaceva
l’idea di costruire, smontare il tutto e ricostruire.”
“Effettivamente
sembra un bel passatempo”, convenne lei, interessata più
che mai alla sua risposta. “E quali erano le alternative?”
Takeru
esitò, incerto. Corrugò la fronte, probabilmente cercando
di ricordare meglio. “Non … non ricordo, mi spiace. Non
credo ci sia nient’altro di particolare.”
Hikari
rimase spiazzata. Possibile che, in tanti anni di infanzia,
l’unica cosa che ricordasse fosse un solo modo per divertirsi?
“Sicuro di non ricordare altro?” chiese piano, cercando di non essere invadente.
“E’
così strano?”, ribatté Takeru, osservandola con
aria incerta. “E’ passato molto tempo, dopotutto. Ero solo
un bambino.”
Non
seppe perché, ma in quell’istante una silenziosa tristezza
cominciò a farsi largo nel suo cuore. Forse era solo strano
sapere che restava così poco di uno dei periodi più
importanti della vita dell’uomo nella mente del giovane.
“Potrei
dirti soltanto che passavo davvero molto tempo con mio fratello
maggiore, Yamato” stava intanto continuando il ragazzo, e ogni
fibra del suo essere era concentrato nel rifar suoi quei momenti. I
suoi occhi erano assenti, socchiusi, fissi sul muro. “Ho sempre
visto in lui l’unica persona che potesse capirmi appieno, anche
quando ero molto piccolo. Di questo sono assolutamente sicuro.”
Hikari lo vide sorridere distrattamente.
“E
ora che ci penso … sì, probabilmente Yamato mi faceva
compagnia anche quando giocavo con le costruzioni. Era sempre con me
… o forse dovrei dire che io ero sempre con lui.
All’inizio non avrei mai pensato di separarmi neppure un secondo
da lui.”
Hikari
colse chiaramente la nota d’affetto nel tono di voce di lui, e
capì che poteva comprendere molto bene quello che sentiva.
Ricordava tanto quello che aveva provato quand’era più
piccola per suo fratello Taichi. Gli rivolse un largo sorriso.
“Credo di capire cosa vuoi dire, Takeru-kun: anche io sono una
sorella minore. E mio fratello aveva una grande tendenza a proteggermi,
ad ogni modo.”
“Sul serio?” chiese lui, e parve ritornato da un lungo viaggio. La sua espressione era ora curiosa.
Lei
annuì. “Credo sia un istinto naturale dei fratelli
maggiori, comunque: non credo abbia smesso del tutto nemmeno
adesso.”
Takeru
ridacchiò, e Hikari si fermò ancora, sorpresa da quanto
fosse semplice e dolce quella sua risata. Era fin troppo diverse da
quelle amare risate che sentiva uscire dalle sue labbra quando pensava
alla sua tristezza e frustrazione: non c’era davvero dubbio su
quale preferisse.
Avrebbe dovuto ridere più spesso in quel modo, considerò.
Poi
lui tacque, pensieroso. Sembrava stesse facendo delle considerazioni
alle quali non era mai arrivato. “E’ strano, perché
… non ricordo di aver più giocato sul serio dopo che sono
andato via da casa, a vivere con mia mamma in un altro quartiere.
Dovevo aver perso interesse in queste cose, non so.”
Le
sorrise piano, mentre ogni cosa che il suo discorso implicava sembrava
chiara, agli occhi sgranati di Hikari. “Forse ero così
legato a Yamato da non aver più voglia di giocare in sua
assenza. Ma credo che questo non potrò mai saperlo.”
Quando era cambiata l’immagine che Hikari credeva di avere di lui?
Quando quel viso era improvvisamente diventato così chiaro?
Non
lo sapeva, ma in quel momento non riuscì a guardarlo negli
occhi, abbassando lo sguardo. Non voleva che lui pensasse di lei che la
sua tristezza fosse in realtà commiserazione.
Era tutt’altro.
Le
sembrava di aver capito come mai Takeru avesse rimosso quasi ogni
particolare della sua infanzia. Come mai non riuscisse a capire i
bambini. Come mai non riuscisse a capire i ragazzi
dell’orfanotrofio, che vivevano a contatto con i bambini.
Forse, Takeru non era mai stato completamente un bambino.
“Hikari-san … Va tutto bene?”
Hikari
annuì in fretta, e alzò lo sguardo. Takeru sembrava
confuso, e preoccupato, anche. Forse aveva trovato insolito il suo
cambiamento d’umore.
“Mi
dispiace”, fu tutto ciò che riuscì a dire, e
sperò con tutto il cuore che le sue parole fossero sincere come
il sentimento che avvertiva dentro di sé.
Takeru
sgranò gli occhi per un istante, stupito; poi lo vide sorridere.
“Lascia stare, Hikari-san: è accaduto tanto tempo fa, non
c’è nulla di cui dispiacersi.”
E il suo sorriso era così rassicurante e dolce che Hikari non poté non ricambiarlo timidamente.
Osservò
Takeru voltarsi ancora verso la camera per esaminarla, e le parve di
farlo con occhi nuovi. Ed era bastata una sola conversazione. Una
conversazione iniziata per caso. Una conversazione nella quale il
giovane si era inconsciamente aperto a lei, in maniera del tutto
inaspettata.
Ma era bello aver scoperto qualcos’altro di lui, anche se si trattava di eventi così tristi.
Si
avvicinò lentamente a lui, notando che il giovane era totalmente
preso dall’osservare una foto sul comodino dei bambini.
“Chi è questa donna?” domandò lui, mostrandole la cornice con aria interrogativa.
E
nel momento in cui gli occhi di Hikari si posarono su quel viso
sorridente, circondato da mille bambini che si spintonavano per poter
comparire nella foto accanto a lei, il suo cuore si fermò per un
istante.
Aveva quasi dimenticato quanto fosse dolce il viso di lei, la luce intensa nello sguardo di lei.
“E’
mia madre” disse a bassa voce a Takeru, quasi avesse paura di
disturbare, con il suo chiacchierare, quel sereno quadro estivo. Forse
era da troppo tempo che non si soffermava più a osservare
quell’immagine: tutto quanto le appariva nuovo, quasi come se lo
avesse visto per la prima volta.
Quasi come se lei fosse ancora viva, in quella cornice.
Si
voltò a guardare Takeru, chiedendosi quanto il suo sorriso
potesse celare malinconia. “Ogni camera da letto ha una foto del
genere, sai. E’ un po’ come l’angelo di questo
orfanotrofio … d’altronde, è stata lei a fondarlo.
A lei si deve tutto questo.”
Indicò
con il dito i bambini accanto a Yagami Yuuko, lasciando che lui potesse
scorgerli bene, grandi e piccoli che fossero. Il loro sorriso era
ugualmente luminoso, non importava l’età. “Molti di
questi bambini sono ancora qui, altri erano grandi già allora,
quando la foto fu scattata, e quindi sono andati via per le loro
strade. Ma guarda, Takeru-kun: riesci a vedere il legame che
c’era tra mia madre e tutti loro? Riesci a scorgere il clima di
complicità che mia madre aveva con quei bambini?”
Takeru
annuì, e il suo viso era incredula ammirazione. “E’
per questo che ho notato subito questa foto” ammise. Poi
esitò, come se stesse decidendo tra sé se domandare
ancora o tacere. Hikari attese, curiosa.
“Cosa
… Voglio dire, come ha fatto a stabilire questo rapporto con
loro?” domandò infine, guardando ora lei, ora sua madre
nella foto. E Hikari era sicura che Takeru, ancora una volta, stesse
cercando di capire cosa gli altri avessero compreso in più di
lui.
Cercava
ancora di imparare. Nei suoi occhi c’era nuovamente quel
desiderio di non restare indietro, di mettersi al passo con chi aveva
capito cosa fare della propria vita.
Chissà
se sua mamma avrebbe potuto dargli il punto di partenza che cercava.
Lei, Hikari, ci avrebbe provato ugualmente, perché non conosceva
un modello migliore da seguire.
Sospirò
piano, guardando un’ultima volta sua madre sorriderle dalla foto
per trovare le parole giuste per il giovane.
“Il
suo segreto era una grande semplicità.” Disse infine,
affrontando con intensità lo sguardo di lui. “Sapeva
mettersi alla pari con i bambini: anche quando doveva sgridarli per
qualcosa trovava sempre il modo di non umiliarli, ma di insegnare loro
ad essere migliori. Amava maggiormente le cose piccole, come un gioco,
un disegno, uno scherzo, una filastrocca: le trovava la fonte della
vera felicità, a dispetto delle grandi cose irraggiungibili e
inutili. E non affrontava i problemi enumerando ciò che aveva
sbagliato, ma solo ciò che avrebbe potuto fare, e da lì
ripartiva. E’ per questo che era amata dai piccoli.”
E
allora il viso di lui si riempì di imbarazzo, e distolse lo
sguardo, con aria colpevole. E le parole parvero improvvisamente essere
sigillate sulle sue labbra, troppo intime e segrete per poter essere
rivelate a lei.
E Hikari seppe che ci aveva visto giusto.
Takeru sembrava aver perso quella semplicità infantile che aveva provato troppo tempo prima.
Era
per questo che ogni sua aspirazione era sempre più grande,
sempre più eclatante rispetto alle sue possibilità. Le
piccole cose che aveva non riuscivano mai a soddisfarlo, perché
troppo insignificanti.
Era
per questo che la giovane sperava ardentemente che il modello di vita
di Yagami Yuuko potesse spingerlo a ritrovare la serenità: non
aveva senso continuare a tormentarsi per nulla. Takeru avrebbe potuto
fare tanto nel suo piccolo, anche se lui ancora non lo sapeva. Anche se
lui non ci credeva.
“Era?” disse a un tratto Takeru, e Hikari sussultò.
Qualche
istante di silenzio, in cui lei ripensò a ciò che era
venuto a mancare a tutti. A quanto quell’orfanotrofio era
più triste, senza di lei. A quanto sua madre le mancava.
Era strano che fossero ancora tutti lì, anche senza di lei. Era strano che tutto andasse avanti ugualmente.
“Sì, Takeru-kun. Era.”
Rispose a bassa voce, guardandolo con un sorriso triste. “E
così lei non può che essere l’angelo di questo
orfanotrofio.”
Takeru
alzò lo sguardo, turbato. C’era una muta domanda nei suoi
occhi, ora. Una muta domanda che trovò la sua muta risposta
nell’espressione di lei.
E
Hikari fu colpita dal senso di partecipazione alla sua tristezza che
scorse nei lineamenti di lui. Sembrava quasi che lui riuscisse ad
avvertire le sue sensazioni, e a condividerle.
Takeru aprì la bocca, intenzionato a parlare, ma si fermò prima di aver formulato qualunque frase.
“Cosa sta succedendo?” chiese, confuso.
Hikari
batté le palpebre, perplessa. “Succedendo dove?” Si
guardò intorno, chiedendosi cosa le fosse sfuggito.
E
solo allora sentì del vociare nell’altra stanza, e dei
pianti infantili. E sussultò, preoccupata, comprendendo infine
quello che Takeru stava cercando di dirle.
“Sarà successo qualcosa ai bambini?” domandò lui, accigliato.
Hikari
scosse la testa. “Non ne ho idea …” Rispose. Ma
sapeva che doveva andare a vedere quanto prima: quando litigavano, i
bambini sapevano essere davvero aggressivi.
Si
avviò verso la porta, con passi rapidi. “Aspettami qui,
non ci metterò molto.” Gli disse, prima di uscire per i
lunghi corridoi.
“Posso venire anche io … voglio dire, se vuoi.”
Hikari si fermò, sorpresa, e si voltò indietro.
E
si ritrovò ad osservare il sorriso di scusa di Takeru. Sorriso
che esprimeva alla perfezione il suo desiderio di essere reso
partecipe, di capire.
Si illuminò. “E allora cosa stai aspettando, Takeru-kun?” chiese. “Vieni.”
E il suo sorriso si allargò quando Takeru, imbarazzato, la raggiunse per seguirla.
Sapeva che avrebbe fatto progressi, di questo passo.
“Shinji-chan, dammi subito quei fogli: hai fatto il dispettoso abbastanza!”
Mimi,
con cipiglio severo e con Ryoko, in lacrime, aggrappata alla sua
maglia, era davanti a Shinji, e gli tendeva una mano, evidentemente
perché il bambino imbronciato e dagli occhi bassi le restituisse
qualcosa che le serviva.
Tutt’intorno
a loro, c’erano i bambini, che ascoltavano, attenti, infuriati,
delusi, sconsolati o annoiati, ciò che Mimi diceva loro. Hikari
individuò Asami, seduta a gambe incrociate, osservare con aria
interessata un libro di fiabe aperto con una grande illustrazione
colorata che occupava quasi tutta la pagina.
C’era
un gran chiasso, tra pianti, lamentele, litigi e spintoni, e Junichi
sembrava fosse l’unico a cercare, con aria esasperata, di calmare
le acque. Accanto a lui, un Keiji vagamente sconvolto ascoltava ogni
parola che il bambino dai vivaci occhi scuri diceva.
Hikari
era appena arrivata, ma intuì subito che la situazione fosse
davvero seria. Diede un’occhiata a Takeru, accanto a lei, e non
fu sorpresa di vederlo così sgomento.
“Sono
sempre così quando litigano?” le chiese, e nel suo tono
c’era qualcosa che assomigliava molto alla paura. E in quel
momento non si poteva biasimarlo, in effetti.
“Non
sempre … ma quando litigano così, è meglio correre
ai ripari.” Rispose lei, cercando con gli occhi suo fratello per
avere spiegazioni. Lo individuò accanto a Mimi, con le
sopracciglia aggrottate e chiaramente pronto a intervenire se ce ne
fosse stato bisogno.
“Forse Taichi può dirci cos’è successo. Dai, cerchiamo di farci largo.”
Camminare
in mezzo ai bambini non fu affatto facile: con tutti i loro spostamenti
rapidi da una parte e dall’altra, con la loro agitazione e le
accese discussioni, con il loro spingersi per poter vedere meglio e le
esclamazioni irritate che queste comportavano, Hikari si trovò
spesso urtata dai piccoli distratti, e più di una volta perse di
vista Takeru, che appariva sempre più sconvolto. Si chiese se
questo litigio avrebbe spaventato abbastanza il giovane da farlo
desistere dal venire nell’orfanotrofio, ma mise da parte il
pensiero, considerando che aveva un problema più immediato, al
momento.
Quando i due raggiunsero Taichi, Ryoko era ormai in preda ai capricci.
“Sorellina,
mancavi solo tu: qui si è scatenato il putiferio!”
esclamò Taichi scorgendola. Sembrava anche abbastanza sollevato.
“In certi casi la mano maschile non serve più di tanto,
sai … Non so davvero come comportarmi!”
“Ma
che sta succedendo? Cosa ha fatto Shinji-chan stavolta?” chiese
Hikari a suo fratello, tentando ancora di osservare la discussione
allungando la testa. “Pensavo che Mimi-san stesse leggendo loro
la fiaba pomeridiana.”
In
effetti, era davvero strano che i bambini non fossero tutti presi dai
commenti sulla fiaba appena ascoltata: solitamente amavano discutere
del finale, dei personaggi, o giocare a interpretarne i ruoli con la
loro personale fantasia. Hikari aggrottò le sopracciglia,
confusa.
“Ci
ha provato”, rise esasperato Taichi. “Ma c’è
stato un piccolo intoppo. Mimi aveva quasi finito di leggere quella
storia, quando si è resa conto che le ultime due pagine che
contenevano la fine erano strappate. Che fortuna, eh?”
“Che
cosa?” Hikari si voltò di scatto verso Mimi e Shinji, con
gli occhi sgranati. I libri di fiabe erano tenuti al sicuro quasi come
oggetti di grande valore, considerando l’importanza che loro
ragazzi credevano avesse far lavorare di fantasia i bambini. Era strano
che fosse successa una cosa del genere. “Com’è
possibile?”
“Credo …. Ehm … sia stata anche colpa mia, in effetti.”
Il
tono improvvisamente colpevole di Taichi la fece immobilizzare. Con un
brutto presentimento, Hikari posò di nuovo lo sguardo su di lui,
temendo il resto della frase.
Taichi
sembrava davvero imbarazzato, in quel momento. “Stavo insegnando
ai bambini a fare aereoplanini e barchette di carta, e così ho
detto loro di, beh, munirsi di fogli, e di strapparne dal mucchio di
vecchi libri che erano nello studio. E’ che ho …
dimenticato di riordinare i libri, e così …”
“…
tra quelli è rimasto anche il libro di fiabe che leggiamo ai
bambini. E Shinji non è interessato in queste cose, così
non ci ha fatto caso.” Terminò per lui Hikari, mentre non
sapeva più se ridere o piangere. Taichi era un grande capo, ma
non si poteva contare proprio sul suo senso dell’ordine. Si
batté la mano con la fronte, esasperata. “Grandioso.
Sora-san ti ucciderà, non appena avrà finito con i
neonati.”
Questa
volta, Taichi sembrò davvero allarmato. Hikari non riuscì
a trattenere un sorriso.“Ma tu, che ci tieni a me, non dirai
nulla a Sora, vero?”, fece lui all’istante, con aria
preoccupata. “Dai, c’è bisogno anche di me
qui!”
Anche
Takeru, al suo fianco, ridacchiò divertito, non appena il
giovane dai folti capelli castani terminò la frase.
Hikari
scosse la testa, rinunciandoci. Tanto, non sarebbe mai cambiato.
“D’accordo, vedi se riesci a tenerlo nascosto il più
possibile”, gli rispose, ridendo dei mille ringraziamenti
sollevati che ricevette in risposta.
“Shinji-chan,
per favore, fai l’uomo e consola Ryoko-chan, che piange per
te” stava intanto esclamando un’esasperata Mimi, tendendo
ancora la mano. “Dammi quei fogli.”
Shinji, un broncio adorabile sul viso e gli occhi bassi, mugugnò un: “No.”
All’ennesimo
rifiuto, Mimi cambiò tattica. “Per favore, Shinji-chan! I
tuoi compagni vogliono conoscere la fine di quella fiaba!”,
esclamò, nel più supplichevole e commovente dei toni.
Hikari rise piano: quella era l’espressione che usava più
spesso per incastrare chi non si comportava come lei voleva. Il
più delle volte era Jyou il suo obiettivo … e riusciva
nel suo intento praticamente sempre.
Con
grande stupore, vide Shinji arrossire, sempre con quell’aria
scontrosa. “Tanto non potranno più saperla, perché
li ho buttati via, quegli stupidi fogli!” sbottò, e la
sala si zittì all’istante. Tutti i bambini trasalirono,
fissando la scena con occhi sgranati.
“Beh,
in questo non c’entro nulla” si giustificò subito
Taichi, non appena si sentì osservato dalla sorella.
Poi, scoppiò il caos.
Ryoko
cominciò a strillare: “Io voglio la storia!”, con
quanto fiato avesse in gola. Molte bambine scoppiarono in un pianto,
Naoko picchiò Shinji, ottenendo solo di essere spinta via
violentemente, Junichi scattò in piedi sconvolto, parlando
animatamente con Ichiro, seduto accanto a lui, Keiji prese Asami per
mano, e, dopo essersi affrettato a prendere tutti i suoi fogli e i
colori, corse quanto più velocemente possibile verso Hikari.
La guardò con i suoi grandi occhi castano chiaro sgranati. “Sono impazziti!” esclamò.
La
giovane si mordicchiò il labbro inferiore, preoccupata. Non
sapeva assolutamente come fare per calmare i piccoli, fuori di
sé dalla rabbia o dalla tristezza. Proporre loro qualcosa di
altrettanto interessante e avvincente era difficile, se non quasi
impossibile: il momento delle fiabe era fondamentale per loro, lo era
sempre stato. La bravata di Shinji davvero non ci voleva.
Accarezzò distrattamente i capelli del piccolo, cercando di
pensare rapidamente.
Quasi leggendole nel pensiero, Takeru fece: “E adesso come risolvete la questione?”
Scosse la testa, impotente. “Non lo so, Takeru-kun. Ci vorrebbe un miracolo.”
“Peccato,
perché la fiaba era carina!”, intervenne
all’improvviso Asami, con un’alzata di spalle.
“Keiji-kun ha fatto anche tanti disegni molto belli!”
Hikari
si illuminò, interessata. Quando posò il suo sguardo su
Keiji, lo vide arrossire di orgoglio. “Disegni che rappresentano
la fiaba? Dai, fammi vedere!”
Era
bellissimo osservare i suoi lavori: lei li trovava interessanti. Erano
così variopinti, alle volte così fantasiosi, altre
così realistici, ma in ogni caso Hikari non si sarebbe mai
stancata di guardarli. Le sembrava che fossero la maniera migliore in
cui lo spirito creativo di Keiji decideva di uscire allo scoperto.
Keiji glieli tese, con un sorriso di aspettativa. “Sono solo quattro! Ma te li regalo, se vuoi!”
Hikari li prese. “Grazie mille, Keiji-chan”, gli disse, e lo vide illuminarsi.
Diede
una rapida occhiata ai quattro fogli d’album che il piccolo le
aveva donato: in nessuno di loro c’era un singolo spazio bianco.
Keiji sembrava aver voluto dare il meglio di sé.
Ed
erano belli e variopinti come sempre, notò ammirata, osservando
il disegno di un bambino ben vestito con una corona sulla testa e
un’aria tranquilla sul viso. Accanto a lui c’era persino un
trono dorato e tante altre persone sorridenti che non riuscì ad
identificare.
“Quello
è il principino di un regno molto lontano, e molto bello. I suoi
genitori sono morti quando era ancora un neonato: suo padre mentre
combatteva, sua madre per una malattia gravissima. Così lui
è diventato il re.” Keiji, tutto animato, indicò
gli uomini che lo attorniavano, cercando di rendere Hikari il
più partecipe possibile alla fiaba che aveva ascoltato da poco.
“Vedi questi signori? Sono i consiglieri reali. Sono vecchi
perché erano i consiglieri del re suo padre, e sono loro che
proteggono il principino e lo aiutano a governare il paese. Lui
è molto piccolo, ma è tanto saggio, e il popolo gli vuole
bene come a un adulto.”
Vide
gli occhi castani di Keiji brillare di eccitazione, e non poté
fare a meno di osservare quella sua strana reazione. Pareva che fosse
molto affezionato a quel personaggio, per qualche motivo a lei ancora
sconosciuto.
“Il
principino faceva un sacco di feste, dove si cantava, si ballava e si
suonava. E si mangiavano tante cose buonissime!” Intervenne
Asami, indicando il tavolo imbandito alla sinistra del bambino con la
corona troppo piccola. Poi sbuffò, imbronciata. “Uffa.
Vorrei essere anche io una principessa, per mangiare tutte quelle
cose!”
Aveva
un tono così serio che Hikari non poté impedirsi di
ridere e di abbracciarla per un istante. Asami sarebbe rimasta sempre
la solita golosona: se questa caratteristica fosse cambiata in qualche
maniera, probabilmente non l’avrebbe più riconosciuta.
“Facciamo così”, aggiunse poi, strizzandole
l’occhio. “Se ti fidi della nostra cucina, ti prometto che
ti prepareremo un pranzo degno di una principessa, un giorno o
l’altro. Che ne dici?”
Asami si illuminò tutta, come se la notizia fosse la più esaltante del mondo. “Certo!”
All’improvviso
Hikari si accorse di essere osservata con attenzione. Lanciò
un’occhiata di sottecchi alla sua destra, cogliendo
l’espressione curiosa di Takeru.
La
fissava mentre parlava con Asami, e non apriva bocca, quasi avesse
paura di disturbare. Ma il suo sguardo era intenso e pieno di
serietà, tanto da rasentare l’incredibile.
La
giovane si sentì arrossire, e distolse lo sguardo, a disagio.
Incerta su come comportarsi, gli passò il disegno di Keiji che
aveva appena finito di osservare, prendendone il secondo.
I
disegni variopinti erano scomparsi: ora le tonalità cupe
regnavano sovrane. Così come la grande figura in nero con un
sorriso sadico che gli deformava il volto, al centro del disegno, tra
figure deformi e gente urlante che fuggiva da una parte e
dall’altra.
“Quello
è il mago cattivo, fratello della mamma del principino. La mamma
era tanto buona, ed era amata da tutti, e aveva poteri magici che usava
solo perché nel suo regno regnasse sempre la pace.” E
Hikari non poté non notare la luce strana negli occhi del
piccolo, con un groppo in gola improvviso. Conosceva il pensiero di
Keiji sulle madri, forse fin troppo bene. “Ma suo fratello voleva
governare sul suo regno. Così attaccò il castello, e
conquistò il potere con la sua magia perfida. Il regno
diventò scuro, nero e senza più prati né
sole.”
La
crudeltà del mago e il terrore sul viso del popolo erano ben
visibili sul foglio d’album: Hikari ne rimase spiazzata, ancora
senza parole per l’abilità acerba di Keiji. Sentiva
davvero le emozioni dei suoi personaggi, in maniera quasi inspiegabile,
per un bambino di soli otto anni. Un senso d’orgoglio la colse
all’improvviso, al pensiero di quanto i progressi del piccolo
fossero così evidenti.
“Il
consigliere che più di tutti voleva bene al principino,
però, lo fece scappare in segreto dal castello.”
Continuò Asami infervorata, tanto che il suo tono si fece
più alto, come succedeva spesso quando immaginava avventure,
guerre e fiabe. “La mamma del principino, prima di morire, lo
aveva avvertito che suo fratello era cattivo e voleva impossessarsi del
regno, e così gli aveva detto una cosa importante: Quando
accadrà, porta il principino fino ai limiti della Cascata
Lucente, e fa’ che colga il fiore della Purezza. Solo con questo
potrà sconfiggere suo zio. E così il
consigliere disse tutto al principino, e gli chiese se si sentiva
pronto per quest’impresa. Lui rispose subito di sì.”
“Si
stanno radunando tutti qui”, disse all’improvviso Takeru, e
Hikari alzò lo sguardo dal disegno, disorientata.
Effettivamente,
era proprio così. I bambini che piangevano, che litigavano, che
strillavano, che facevano i capricci, attirati nuovamente dal racconto
e probabilmente desiderosi di sapere cosa Hikari ne pensasse del finale
mancato, pian piano si erano accalcati attorno a loro, e adesso
fissavano il gruppetto con i fogli in mano con aria seria.
Sorrise, incredula. “Quando sono arrivati tutti qui?”
Takeru
alzò le spalle, e sembrava stupito quanto lei. “Adorano
proprio tanto il momento delle fiabe, eh? Questa reazione ha
dell’incredibile …”
Hikari lo fissò per qualche istante, cercando di indovinarne i pensieri. Sembrava assorto. Ma ancora non aveva capito.
“Adorano
giocare con la fantasia, Takeru-kun. Qui possono essere e sognare
ciò che vogliono, senza limiti. Perché ti sembra
così strano?”
Takeru apparve spiazzato, e rimase muto a osservarla senza aggiungere altro.
E
intanto il racconto procedeva, incalzante. Con Keiji improvvisato
cantastorie e un pubblico che proprio non voleva saperne di abbandonare
quel mondo fantastico.
“Il
principino iniziò a viaggiare con il consigliere verso la
Cascata Lucente. In fretta, perché suo zio stava distruggendo il
suo popolo, e lui non voleva questo.” Il disegno successivo aveva
come ambientazione una notte blu elettrico, e Hikari scorse tra le mani
del consigliere una specie di spada sguainata. Davanti a lui, un enorme
drago spaventoso sputava fuoco dalle fauci poderose. Forse dietro al
drago c’era anche una cascata molto piccola, in lontananza.
“Ma quando arrivarono alla Cascata, apparve un drago feroce, che
sorvegliava il fiore della Purezza e non lasciava passare nessuno per
non farlo rubare. Il consigliere prese la spada e disse al principino
di andare a cercare il fiore mentre lui teneva impegnato il drago: lui
non voleva lasciarlo solo, ma alla fine scappò via,
perché tanta gente sarebbe morta se lui si fosse fermato
lì.”
E
l’ultimo disegno raffigurava il principino, spaventato e
sorpreso, davanti alla cascata. Quando Hikari porse il disegno a Takeru
perché lo osservasse, lo vide trattenere un moto di sorpresa. E
non si poteva biasimarlo: l’espressione sul viso del piccino era
quasi reale. L’affetto di Keiji verso quel personaggio era
quasi palpabile, in quei lineamenti abbozzati.
In
fondo, era un eroe. Un eroe bambino. Un eroe bambino orfano che
prendeva in mano la sua vita e la impiegava nel salvare la vita altrui.
Ma anche un bambino che sentiva forte la lontananza da sua madre.
Un
moto di commozione rischiò di far vacillare la sua calma, e
Hikari si ritrovò a guardare con occhi pieni di affetto Keiji,
che la fissava serio e pieno di intensa partecipazione alla storia.
Certe volte era così strano pensare alla sofferenza che quel
bambino tanto sensibile doveva provare ogni giorno: le sembrava che
quei desideri irrealizzati avrebbero potuto, col tempo, distruggere
quel corpicino da bambino così piccolo e così innocente.
Le
sembrava, alle volte, di rivederlo avvolto nelle coperte, davanti alla
porta di casa sua, con quel visetto che da poco si era affacciato alla
vita, quando qualcuno aveva deciso per lui che avrebbe vissuto una vita
diversa dai suoi coetanei.
“Così
il principino arrivò alla cascata, e si guardò intorno,
cercando il fiore. Fu allora che vide …” Il tono solenne e
carico di emozione di Asami si spense, mentre aggrottava le
sopracciglia confusa. “Beh … poi Shinji-kun ha strappato
le pagine finali. Non sappiamo come va a finire.”
E i bambini ricominciarono a vociare, delusi.
Hikari sospirò. Sarebbe bello poter avere la tua capacità di improvvisare sempre, mamma, pensò con rimpianto. Cosa avresti fatto tu per risollevare il morale?
“E se …”
Curioso
come, alla frase spezzata e pensierosa di Takeru, che ancora osservava
il disegno di Keiji, fosse calato un improvviso silenzio. I bambini lo
fissarono, un po’ diffidenti, un po’ speranzosi, forse
curiosi di conoscere la soluzione al loro problema, ma ancora incerti
su cosa pensare riguardo il giovane.
Hikari,
sorpresa e curiosa, lo fissò a sua volta, cercando di
interpretare i suoi pensieri. Cosa aveva in mente, tanto particolare da
indurlo a parlare in pubblico dopo la sua esitazione sempre presente?
E
Takeru alzò gli occhi, disorientato da tanto silenzio.
“Pensavo che, magari, si poteva … immaginare la
conclusione, ecco. Se è tanto piaciuta la fiaba …”,
esordì, incerto. “Non dovrebbe essere poi così
difficile.”
E
lo stupore fu così grande che la cosa più difficile, per
Hikari, fu credere che una frase del genere fosse stata davvero
pronunciata. Era tutto così permeato di irrealtà che
sembrava di star vivendo un momento fuggevole quanto inesistente.
Quella
era una trovata che non era venuta in mente a nessuno di loro, che da
tanti anni vivevano con i bambini. Era una trovata che aveva avuto
Takaishi Takeru, che tanto dubitava di sé, ma che aveva
dimostrato, forse per la prima volta, di aver capito la regola
fondamentale dei piccoli.
Giocare.
Ma
probabilmente non si sarebbe mai decisa a parlare, se non
l’avesse scorta. Quella luce negli occhi azzurri quasi nascosta,
di cui forse Takeru anche si vergognava. Ma si era accesa appena aveva
finito di parlare, e non ne voleva sapere di andarsene.
Sorrise. “Prova, Takeru-kun. Immaginiamo un finale.”
“Eh? Io?”
E
lo smarrimento nell’espressione di lui balenò
all’improvviso, mentre si schermiva. “Non credo di esserne
capace. Potreste provarci voi, e …”
“Ti
prego, Takeru-san! Raccontaci la fine della storia!” Intervenne
Naoko con tono supplichevole, e Hikari vide con rinnovato piacere che,
pian piano, gli altri bambini avevano cominciato a fare eco delle sue
parole.
“Per favore, dai!”
E rise, quando Takeru la guardò con un’aria a metà tra l’imbarazzato e il tradito. “Davvero, davvero non lo so fare, Hikari-san. Perché mi hai messo in questo pasticcio?”
“Hai
fatto tutto da solo, sai? L’idea è stata tua”,
replicò lei, ricambiando l’occhiata serenamente.
“Devi solo provare. Se la trovata è stata tua, avrai
immaginato qualcosa, no?”
Takeru sembrava ancora dubbioso. “Ma davvero, non …”
“Fidati. Potresti imparare qualcosa, e non sto mentendo.”
Era vero. Hikari non credeva si potesse trovare qualcosa di più ricco di insegnamenti.
E
lasciò che le sue labbra si piegassero in un ulteriore sorriso,
quando il giovane si arrese. “D’accordo.” Disse
piano, per poi guardare i bambini e sospirare di nuovo.
“D’accordo! Lo farò!”, esclamò a voce
più alta.
E
il silenzio improvviso durò giusto il tempo che occorse ai
bambini per rendersi conto di quello che era successo; poi esplosero in
urla di gioia, e fecero a gara a chi conquistava i luoghi più
vicini al nuovo narratore, per poter sentire meglio.
Ormai
tutti gli occhi erano puntati su Takeru, compresi quelli di Hikari. Lei
cercava di leggere nella sua espressione quella storia che poteva quasi
vedere formarsi nella sua testa.
E
Takeru fissò a lungo il principino nel disegno, quasi volesse
far suoi quegli occhi, quel carattere, quei lineamenti. E non li
staccò da quel foglio nemmeno quando iniziò a parlare,
incerto e concentrato.
“Fu
allora che il principino vide, alla sua destra, un enorme prato, con
una distesa immensa di fiori coloratissimi e di tutte le forme. Era
davvero uno spettacolo meraviglioso: ognuno di loro brillava al suo
interno, come se ci fossero migliaia di lucciole in ogni corolla. Il
bambino, incuriosito, fece per avvicinarsi ad un fiore azzurrino,
quando all’improvviso apparve accanto a lui una donna bellissima,
incoronata di fiori, e circondata di luce. Lei disse al principino che
era la guardiana di quel giardino: il suo compito era quello di
impedire ai malvagi di cogliere quei fiori, e di usarli per conquistare
il potere. Il bambino le chiese dove avrebbe potuto trovare il fiore
della Purezza, e la donna sorrise. Cammina davanti a te, guarda bene e lo troverai in mezzo agli altri. Solo così potrai portarlo con te, gli disse, e poi sparì.
“Allora
lui fece come gli era stato detto. Camminò e camminò,
guardandosi intorno: c’erano tantissimi fiori, tutti bellissimi,
ma non sapeva quale fosse il fiore che sua mamma gli aveva chiesto di
cercare. E camminò finché non sentì un profumo
buonissimo, che nessun fiore aveva mai emanato. Si alzò in
piedi, e seguì quel profumo, curioso di sapere da dove
provenisse, finché non si ritrovò davanti ad una piccola
aiuola, all’interno della quale c’erano solo tre fiori, di
grandi dimensioni.
“Uno
era rosso fuoco, con petali grandi e delicati, e sembrava che brillasse
più degli altri: era alto, con uno stelo sottile e leggermente
ripiegato su se stesso; l’altro era blu notte, misterioso e
attraente, più basso del primo, ma dritto e imponente;
l’ultimo, era l’esatto opposto, con i suoi petali
grigiastri e appassiti, lo stelo afflosciato, le foglie appassite: era
così brutto che il principino lo guardò solo per un
momento, e si concentrò sugli altri due. Forse uno dei due può essere il fiore della Purezza,
pensava. Ma era indeciso su quale dei due scegliere, perché
erano entrambi i fiori più belli che avesse mai visto.
“Il
principino decise di cogliere il primo fiore, e si chinò per
raccoglierlo. Ma quando stava per staccarne lo stelo si accorse di un
particolare: l’odore emanato da quel fiore luminoso era
sgradevole, non era quello che aveva sentito. Allora andò verso
il fiore blu, ma l’odore era ancora più sgradevole del
primo. Accanto a sé non c’erano altri fiori, solo quello
grigio e rinsecchito: si avvicinò a quel fiore, non sapendo cosa
fare, ma rimase sorpreso: era proprio quel fiore così brutto ad
emanare quel profumo così buono.”
Un
moto di stupore seguì l’ultima parte della fiaba: nessuno
dei piccoli, fino a quel momento, si era aspettato un simile
capovolgimento di eventi.
E Hikari non riusciva più a nascondere un sorriso luminoso, ormai.
Takeru
era venuto lì con tutta l’intenzione di imparare da loro,
da lei. Ma probabilmente non si era accorto che ad apprendere qualcosa
di lui sarebbero stati loro.
Quella fiaba parlava di Takeru molto di più dei suoi stessi discorsi.
“E
il principino, deciso, colse quel fiore grigio, per via di quello che
poteva sentire e non vedere. E improvvisamente il fiore si
illuminò di una luce abbagliante, e quando il piccolo
aprì nuovamente gli occhi, si ritrovò di nuovo accanto
alla cascata. Ma il fiore che aveva tra le mani non era più
morto: era bianco, immacolato, e bellissimo. Era davvero il fiore della
Purezza che sua madre gli aveva detto di cogliere.”
“E
poi?”, incalzò ad un tratto Junichi, interessato.
“Andò a salvare il suo popolo e il consigliere con il
drago?”
Vide
Takeru alzare lo sguardo, e fissare il bambino come se non credesse ai
suoi occhi, come se il senso di meraviglia per quello che vedeva lo
stesse sopraffacendo. Poi annuì. “Certo. Corse dal suo
consigliere ferito, e allora il fiore si illuminò, e fece
scappar via il drago, e guarì le ferite dell’uomo. E
bastò desiderare di tornare subito a casa perché il fiore
ubbidisse al suo comando.
“Il
regno era diventato un luogo nero e triste, e l’usurpatore si
arricchiva dei beni che sottraeva al popolo. Il principino andò
al castello, ma non volle combatterlo: desiderò che suo zio
perdesse ogni potere, e così fu. Il mago cattivo venne chiuso in
prigione, e il regno tornò ad essere prospero e bello per
sempre.
“Il
principino regnò per tutta la vita con saggezza e bontà,
sempre accompagnato dal suo fido consigliere. Ma non dimenticò
mai il fiore che aveva raccolto: lo tenne con sé, nel suo
giardino più bello, e lo osservò ogni giorno,
perché sapeva che un buon re deve essere sempre puro di cuore,
per potersi prendere cura del suo popolo.”
Lo sguardo di Takeru divenne timido, quando infine tacque.
“Cosa ne dite?”
“E’
una storia meravigliosa!” strillò Ryoko, finalmente
asciugandosi le lacrime e saltellando per la gioia, e presto commenti
simili si levarono da ogni dove.
“Caspita:
chi lo immaginava che avessi tanta inventiva?”, commentò
Mimi, felicemente stupita, e gli sorrise con aria ammiccante.
Asami si alzò in piedi, dichiarando allegramente: “Sarebbe bellissimo avere un fiore magico!”
Keiji
fissava Takeru con tanto d’occhi, la bocca spalancata fino a
formare una buffa O. E per una volta non ebbe il coraggio di commentare
nulla contro di lui.
E
nello stupore generale, Takeru si aprì in un sorriso entusiasta.
Guardava i bambini come se lo spettacolo fosse il più bello che
avesse mai visto, e i suoi occhi brillavano di una gioia difficilmente
spiegabile a parole.
Ma
mentre lui era preso dal suo pubblico, Hikari osservava il giovane come
se fosse lui lo spettacolo più bello che avesse mai visto.
Non
aveva mai visto comparire sul suo viso un sorriso tanto bello. Forse
non si era mai nemmeno accorta di quel lato semplice e dolce del suo
carattere, che inquietudine e solitudine avevano tentato in tutti i
modi di soffocare e nascondere.
Ma ora li vedeva in tutta la loro chiarezza.
E
sentì il suo cuore accelerare inspiegabilmente i battiti, mentre
continuava a guardarlo. Perché il suo viso era davvero bello,
ora che una luce timida, ma più forte di quella del fiore della
Purezza di cui aveva parlato, cominciava a porre, pian piano, le basi
per un piccolo castello di sogni e speranza nei suoi sorpresi occhi
azzurri.
Bene,
molto bene. Un capitolo più chilometrico non poteva uscirmi xD
Ma pazienza... Dopotutto c'erano da analizzare diverse cose, e ho
preferito non dimezzarlo. Per me aveva più senso lasciarlo
così com'è u.u
Comunque sia, bentrovati :) andando avanti con le pubblicazioni mi
rendo conto che questa storia è qui da quasi un anno... E
dovrebbe essere un anno preciso da quando l'ho ideata per la prima
volta. Per me è davvero un bel traguardo, considerando quanto
impegno richieda scrivere una storia del genere... E mi sento lusingata
una volta di più dai vostri commenti fantastici. Sul serio: sono
commossa ** ripagate un anno di fatiche, e non potrò mai
ringraziarvi abbastanza!
marghepepe, mi
fa piacere aver risolto l'equivoco con Satsu: avevo davvero pensato al
peggio, scusami ^//^ piuttosto, mi hai lasciato una recensione
interessante da diversi punti di vista, e per questo ti ringrazio.
Prima di tutto, per la questione di Ken e Osamu, che dici di non aver
mai sentito vicini come Yamato e Takeru, o come Taichi. Ti
dirò... anche a me è occorso più tempo per
comprenderli del tutto, perché io trovo che il loro rapporto sia
molto più complicato di quello tra le altre due coppie di
fratelli. La mia passione per loro è iniziata quando ero grande
abbastanza per capirli ^^ e ad ogni modo li trovo molto interessanti da
analizzare. Poi ... la questione Takeru. Dici che la Rai ne ha
travisato il personaggio? Mmm ... non sono totalmente d'accordo, a
dirla tutta. Ho visto tutta la serie in giapponese, e ti do ragione
sulla questione della censura delle parolacce, ma a me sembra che il
Takeru italiano soffra esattamente come quello giapponese. Non so ...
sarà questione di opinioni xD Infine, ti ringrazio anche per
aver tentato di indovinare l'identità del padre di Keiji :) ma
preferisco non rivelarti nulla per questione di suspence xD e mille
grazie anche per i complimenti! Aspetto pareri **
Shine,
ogni volta che leggo una tua recensione mi sembra sempre che tu abbia
capito appieno ciò che volevo dire di ogni protagonista di cui
tratto ... e l'analisi che fai delle sensazioni e delle vicende che
riguardano Ken sono, lo ammetto, le mie preferite. Forse perché
si vede che lo adori ^^ Mi fa tantissimo piacere leggere, ogni volta,
l'interpretazione che dai ai miei aggiornamenti: è in questi
momenti che penso davvero che il mio lavoro serva pure a qualcosa xD E
i complimenti sui fratelli di Miyako sono davvero preziosi: credo che
tu sola possa sapere quanto mi è stato difficile renderli
così sofferenti -dopo tutto il retroscena che tu sai-, e quanto,
soprattutto, è difficile differenziare le reazioni tra loro.
Grazie, grazie per ogni parola che spendi per questa storia ^^ e
ovviamente per la lunghezza dei pareri, per i dettagli ... li adoro
sinceramente **
Un grazie e un bacione grande anche a Mystery Anakin,
che purtroppo stavolta non ha potuto lasciarmi una recensione causa
esami ... non credere che anche soltanto leggere e apprezzare non sia
una gran cosa, per me ;) e terrò ben presente i tuoi sospetti
riguardo il padre di Keiji!
Ancora una volta un grazie a chi legge e segue in silenzio :) al prossimo capitolo!
Padme Undomiel
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Capitolo 17 *** I più vicini estranei ***
Purity 15
15.
I più vicini estranei
Il ticchettio di un
orologio nella sala, la luce di una piccola lampada da scrivania che
rendeva visibile qualche piccolo dettaglio del suo studio.
Vorrei solo un po’ di comprensione, nulla di più.
Qualche rumore che
risuonava giù in strada e che si rendeva più udibile
grazie alla finestra aperta, una fresca brezza tipica della notte che
gli soffiava sul viso.
Sono
distanti in ogni momento della giornata, ma proprio quando ho bisogno
della loro approvazione, amano mettere in discussione tutto quello che
decido o penso.
Una penna che
picchiettava ritmicamente e distrattamente sulle pagine irrigiditesi di
quel diario viola, aperto sulle stesse pagine. Un paio di occhi azzurri
stanchi ma concentrati sulle stesse frasi, sulle stesse parole. Sulla
stessa grafia frettolosa e quasi illeggibile di una ragazza.
Sto
piangendo ed ho chiuso la porta a chiave: meglio che mi sentano, magari
provano un po’ di senso di colpa per il pessimo comportamento che
hanno nei miei confronti.
Un giovane dai lisci
capelli scuri dalle sopracciglia aggrottate, e una mente che lavorava
frenetica persino a quella tarda ora della notte.
Li odio, come loro odiano me.
Ichijouji Ken
sospirò per l’ennesima volta, determinato a non farsi
sopraffare dalla stanchezza evidente che sentiva pesare sui suoi occhi
come un macigno. Erano due giorni che esaminava quel diario alla
ricerca di una pista nuova da seguire, ma solo quella sera aveva
ricordato un particolare importante.
Era arrivato ad una conclusione, l’ultima volta con Osamu.
Non ci aveva dato il giusto peso. O forse, non aveva semplicemente voluto.
Quella pagina del 31 dicembre diceva molto più di quello che sembrava.
A chi altri poteva
riferirsi, se non alla sua famiglia? Parlava di chiudersi in camera, di
farsi sentire da loro … Non poteva essere altrimenti.
E un improvviso pensiero lo colpì, mentre lasciava cadere la penna sulla scrivania.
La signora Inoue e il
suo dolore sfociato in quanto di più simile alla pazzia
esistesse. Il signor Inoue, che tanto poco si era dimostrato incline a
parlare con lui, quando era andato a trovarlo in negozio l’ultima
volta.
Tutte quelle reazioni potevano essere dovute ad una relazione poco felice con la figlia minore?
Ken si abbandonò
stancamente sulla sedia, sospirando. Non doveva affrettare le sue
conclusioni: era un punto sul quale Osamu era stato ben chiaro. Era
anche vero che poteva trattarsi di un episodio sporadico, senza
conseguenze particolari nella vicenda. Poteva darsi che la sua voglia
di risolvere il caso lo stesse portando a fidarsi troppo di un diario
che non era certamente nato per essere una prova, quanto uno sfogo.
Eppure …
Eppure tutto sembrava quadrare, in qualche maniera.
Rabbia, rabbia, rabbia, rabbia.
No. Una qualche
situazione difficile doveva essere accaduta. E l’unica pista che
gli restava da percorrere era quella della sua famiglia.
Aveva molte probabilità di trovare un indizio. Un altro.
Ma i signori Inoue non
potevano dargli risposte: lei si era alienata dalla crudele
realtà, lui era semplicemente così stanco di tutto da
reagire con la rabbia al suo tentativo di capirne di più.
Non restava che un modo.
Afferrò il
cellulare, sollevando lo sguardo solo per un istante sull’ora. Le
2:30 del mattino. Era molto tardi, in effetti. Troppo, per una
telefonata: rischiava soltanto di svegliarlo, e non aveva davvero
voglia di infastidirlo ulteriormente.
Lo aveva già fatto abbastanza, anche se non ne comprendeva bene il motivo.
Scosse la testa, scrivendo, incerto, un messaggio. Lui
avrebbe risposto quando avesse voluto, e al contempo era sicuro che lo
avrebbe aiutato ad avere quell’informazione fondamentale che
cercava.
Premette il tasto di
invio, e rimase a fissare la schermata del suo cellulare, sentendosi
inspiegabilmente nel torto a farsi sentire per quelle indagini.
C’era qualcosa che cambiava rapidamente nel suo rapporto con lui, e non riusciva ancora a capire il motivo di quell’improvviso raffreddarsi del suo comportamento.
O forse, quella freddezza, lui, l’aveva sempre nascosta.
Come nascondeva il resto, come nascondeva i suoi sentimenti e le sue impressioni.
Forse, era stato solo lui l’illuso e lo sciocco. Non aveva capito sul serio.
Con mal di testa
crescente e un senso di sconforto a tormentarlo, Ken abbandonò
il cellulare sulla scrivania, questa volta determinato a rimandare i
suoi ragionamenti ad un momento più consono.
Supponeva che quella
notte non avrebbe ricevuto altre informazioni: le sue intuizioni
avrebbero avuto un seguito solamente l’indomani.
E ci fu solo il
ticchettio di un orologio, la luce di una piccola lampada da scrivania,
una sedia appena abbandonata e un cellulare posato, in maniera
rassegnata, sul piano rigido, in quello studio.
Finché la vibrazione di un messaggio non lo fece sobbalzare, e fermare mentre andava via.
E il giovane tornò indietro, gli occhi sgranati, confuso.
Afferrò il cellulare, vide un messaggio, lo lesse, sorpreso.
Un indirizzo. Esattamente quello che aveva chiesto.
E un paio di frasi in
aggiunta, così fredde nel loro carattere di cellulare ma
così inconfondibili riguardo al mittente.
“Vivono tutti e tre in questa grande villa. Li troverai tutti qui. Fai quello che sai e puoi fare.”
Aveva scoperto che lui e suo fratello non erano poi tanto dissimili, in fondo.
Anzi, forse erano troppo simili.
Entrambi appassionati
di indagini e misteri, entrambi determinati a risolvere ogni caso che
si presentava loro, a tal punto da non riuscire a dormire senza prima
aver impiegato ogni forza nel cercare di dare una svolta alle indagini.
Entrambi così distanti.
Eppure, Ken si
ritrovò a sperare scioccamente di non essere l’unico a
volersi riavvicinare a Osamu, mentre cercava di scacciare dalla mente
quel dannato senso di colpa.
Sospirò, spense il cellulare, e poi la luce.
Il buio sembrò
accompagnarlo, comprensivo, quando Ken chiuse la porta e lasciò
che il silenzio regnasse, ancora una volta, sovrano.
Non era passato da
Osamu, quella mattina: il giovane detective era molto impegnato in un
caso al quale stava lavorando da qualche tempo, e gli aveva chiaramente
detto che non poteva staccarsi dal lavoro.
Ma Ken non era nemmeno sicuro che si sarebbe presentato di sua spontanea volontà, ad essere sinceri.
Non riusciva a compiere
quei piccoli gesti quotidiani ai quali era abituato. Non era nemmeno
passato in libreria, nel primo pomeriggio.
L’eccitazione per
una possibile svolta nelle indagini, il desiderio di saperne di
più, la voglia di trovare la verità e di conoscere
ciò che era successo a Inoue Miyako avevano preso il sopravvento
su tutto il resto. Aveva perso tempo troppo a lungo: aveva delle
responsabilità molto grandi, dopotutto.
Troppe cose dipendevano dalle sue azioni. Davvero troppe.
E Ken non intendeva darsi per vinto per nulla al mondo.
Camminava per le
strade, per una volta preferendo andare a piedi piuttosto che prendere
la macchina, e pensava, sorpreso, a quanto questo caso avesse avviato
qualcosa di nuovo che ancora non sapeva spiegarsi. Ora provava in prima
persona quello che suo fratello viveva ogni giorno sul lavoro:
l’emozione dell’indagine, il mettere alla prova le proprie
abilità, lo scoprire verità nascoste.
E sapeva che aveva
intrapreso una strada dalla quale molto difficilmente si sarebbe
allontanato, semmai avesse terminato quell’indagine insieme a suo
fratello.
E man mano che
rifletteva sulla sparizione di Miyako, era sempre più
intraprendente: prima di andare a trovare la signora Inoue era incerto,
dubbioso, e aveva quasi avuto bisogno di chiedere un parere a Osamu.
Questa volta, si era limitato a comunicarlo a lui, senza chiedergli nulla.
Osamu sarebbe stato
felice della cosa, considerò, con un sorriso ironico. Era stato
lui, d’altronde, a dirgli che essere indipendente gli sarebbe
stato utile in futuro.
Lui non sapeva se
esserne felice o meno: la paura di sbagliare era sempre lì,
sotto il suo amore per quello che faceva, eppure ora più che mai
doveva farcela. Non poteva fermarsi.
Scorse in lontananza la struttura che stava cercando, e affrettò il passo, avvicinandosi.
Sperava di aver scelto
l’orario giusto per far loro visita: aveva pensato che alle sei
del pomeriggio avrebbe avuto più probabilità di trovarli
tutti e tre a casa. Se avesse avuto fortuna, non avrebbe dovuto
rimandare ancora a lungo la conversazione con loro.
Era curiosa come scelta
di abitazione: doveva essere press’a poco una villa bifamiliare.
Forse i fratelli di Miyako avevano semplicemente deciso di non
separarsi vivendo in luoghi differenti, per qualche motivo che poteva
essere paura di distruggere ulteriormente la propria famiglia o
volontà di nascondere delle prove importanti nel peggiore dei
casi.
Peggiore dei casi al
quale Ken non voleva pensare, per il momento. Il pensiero di tanta
sofferenza arrecata ai loro genitori e a Miyako stessa da parte di
membri della sua famiglia era anche troppo terribile da concepire.
No, doveva aspettare. Aspettare e calmarsi.
Davanti all’edificio si bloccò, osservando, attento, la zona nella quale era ubicato.
C’erano pochi
passanti nei dintorni, e nel complesso il quartiere era molto
silenzioso. Un tipo di silenzio nettamente diverso da quello
avvertibile nelle fredde camere di casa Inoue: questa volta era quasi
un silenzio raccolto, come se la vita al di fuori della villa non
riuscisse a penetrare la porta d’ingresso, o le finestre.
Era un silenzio che sembrava racchiudere l’abitazione in una bolla protettiva.
Il giovane rimase per un attimo ad ascoltarlo attentamente, attonito.
Era un’abitazione
perfetta, se si cercava un’utopica via di fuga dalle sofferenze.
Il senso di ribellione al dolore, questa volta, non si era creato
all’interno della mente, come nel caso della signora Inoue, ma
all’esterno.
Scosse la testa, come
per scacciare quelle sensazioni dalla mente. A grandi passi, con il
diario e tutti i documenti che aveva raccolto fino a quel momento ben
chiusi nella cartellina che portava tra le mani, la determinazione nei
suoi occhi.
E in breve tempo, era
già davanti alla porta d’ingresso, un silenzio innaturale
rotto solo dal suo respiro, e dal battito accelerato del suo cuore.
Chiuse gli occhi, e
inspirò profondamente. Quando espirò piano, la calma era
già tornata a dominarlo completamente. E quando li aprì
nuovamente, non aveva più incertezze.
Alzò una mano, e suonò il campanello dell’abitazione.
Lo sentì
risuonare dall’interno, e rimase in attesa di un qualche tipo di
suono, lo sguardo concentrato e fermo, la mano stretta sulla cartellina.
Finché, un rumore di passi leggeri e di voci tranquille in avvicinamento.
E la porta si
aprì, mentre Ken si preparava a spiegare la sua presenza
lì come non aveva potuto fare con la signora Inoue.
Ma si fermò, interdetto.
Sulla soglia
c’era una donna, come si aspettava parzialmente di trovare. Ma il
suo viso non assomigliava a nessuna delle sorelle di Miyako che aveva
potuto osservare nella foto.
Aveva lunghi capelli
neri, raccolti per poter essere più libera, probabilmente, e
aveva profondi occhi neri che non avevano nulla del delicato color
castano degli occhi della famiglia Inoue. Il suo viso era lievemente
più tondo, e le labbra più carnose, ed era più
minuta di quello che si aspettava.
Ken rimase spaesato a
fissarla, e a ricambiare l’espressione di pura sorpresa sul viso
di lei. Possibile che si trattasse di una delle sorelle di Miyako?
Possibile che fosse tanto diversa?
“Posso fare qualcosa per lei?” chiese, con tono squillante.
Non poteva essere
nessun membro della famiglia Inoue, decise il giovane, sempre
più confuso. Esitò, prima di cominciare a parlare.
“Buon pomeriggio,
sono Ichijouji Ken. Io … cercavo Inoue Momoe, Mantarou e
Chizuru. Volevo sapere se sono in casa, dovrei parlare loro di
questioni importanti. Può dirmi cortesemente se …?”
“Mamma, chi è alla porta?”
Improvvisamente, una
piccola testa ricciuta aveva fatto capolino da dietro la porta,
interrompendo il debole tentativo di Ken di chiedere informazioni e
sbirciando con aria vispa. La donna si voltò di scatto, e il suo
cipiglio si fece severo.
“Tomoyo-chan, ti
avevo detto di restare con papà! Vuoi ammalarti di nuovo? Fa
freddo!” la rimproverò, spingendola verso l’interno
della casa.
“Ma io voglio sapere … zia ha detto che potevo sapere!”
“Non ci credo. Da quant’è che dici bugie alla tua mamma?”
Ken aveva sgranato gli
occhi, mentre un pensiero improvviso gli aveva attraversato la mente.
Era sicuro di aver già visto quei lineamenti, quei tratti
caratteristici sul viso della bambina. E il padre di chi si stava
parlando, allora, poteva essere …
E poi, una risata
femminile in avvicinamento. “La riporto dentro io, Reiko-chan. Lo
avrei fatto prima, ma mi è sfuggita …”
Finché
un’altra donna, con occhiali e capelli castani tenuti fermi da
dei fermagli colorati non comparve, sorridendo serena, per poi
osservarlo con curiosità.
Ken sussultò, scorgendo la sua figura.
“Buon pomeriggio” salutò cortesemente, seppur confusa, Inoue Momoe.
E il giovane riuscì solo a guardarla in silenzio, cercando un qualunque segnale del cambiamento sul suo viso.
Non era cambiata poi
tanto, dopotutto. La sua espressione era solo più matura, i suoi
occhi più saggi, il suo sorriso più dolce. Era più
alta, e la maniera con la quale aveva posato la mano sulla spalla della
piccola Tomoyo era decisamente materna. Doveva essere sulla trentina, o
poco più. Avvertì un senso di sollievo alleviare il peso
che aveva nel petto: solo in quel momento si rendeva conto di quanto
avesse avuto paura di trovare un viso spento e un’aria
abbandonata nel suo aspetto, proprio come era avvenuto con la signora
Inoue. Fortunatamente Momoe non aveva dovuto sopportare anche questo.
La donna chiamata Reiko
si voltò verso Momoe, parlando a bassa voce. “Ha detto di
chiamarsi Ichijouji Ken. Stava cercando te e i tuoi fratelli.”
Solo allora il sorriso
scomparve dalle labbra della sorella maggiore della famiglia, e i suoi
occhi, pieni di dolore confuso, di sorpresa, di intensità, si
fissarono nei suoi come a chiedere conferma.
Poi abbassò la
testa per un secondo, e Ken riuscì a scorgere sul suo viso
un’espressione stanca e rassegnata, prima che rialzasse lo
sguardo su Reiko e le chiedesse a mezza voce: “Chiama tuo marito
e Chizuru-chan. Dì loro di aspettarci nel salotto, e riferisci
loro il nome del nostro visitatore, per favore.”
L’altra annuì in fretta, e andò via, portando con sé quella che doveva essere sua figlia.
Rimasero in silenzio
per alcuni istanti. Il giovane non si era mai sentito così fuori
luogo: ancora una volta, sentiva di star violando il dolore altrui, ma
non sapeva cos’altro avrebbe potuto fare.
Forse era proprio quella la differenza tra lui e Osamu: lui non era mai sicuro di nulla.
Sospirò piano.
“Mi dispiace di aver disturbato” si scusò, non
sapendo come altro comportarsi. “Ma è sempre stato mio
fratello Osamu a occuparsi delle indagini, e avevo bisogno di
accertarmi io stesso di determinati avvenimenti. Lavoro con lui al
caso, in questo momento.”
Momoe annuì, e Ken fu stupito di vederla sorridergli gentilmente.
“Hai avuto la
fortuna di trovarci tutti qui, Ichijouji-san” rispose, e si
scostò dalla porta per lasciarlo entrare. “Se si parla
delle indagini relative a Miyako-chan, non è mai un disturbo. Io
e i miei fratelli saremo ben felici di aiutarti.”
Era una casa molto grande, scoprì Ken quando ebbe varcato la soglia. Grande abbastanza per ospitare più famiglie.
Ed era una casa molto
accogliente, che prediligeva i colori caldi e abbastanza intensi
alle tonalità tenui e fredde.
Persino in quel gran
salotto, con finestre ariose, tende sull’arancione, poltroncine
all’apparenza così comode, quel clima di apparente
serenità e allegria sembrava permeare ogni cosa.
Tutto, tutto quanto sembrava contrastare con l’espressione dei suoi abitanti.
Mamoru era un uomo alto
e dalle spalle possenti, con una corta barba scura e capelli ricci
dello stesso colore. Sembrava turbato, mentre Momoe gli spiegava in
breve che avevano bisogno di parlare con lui.
“Si tratta ancora delle indagini, Momoe-chan?” lo sentì dire, con aria apprensiva.
Vide Momoe annuire
gravemente. “Resta nella camera per un po’ insieme a Reiko
e Tomoyo-chan: quando avremo finito vi chiameremo.” Poi gli prese
le mani, con un piccolo sorriso rassicurante. “Starò bene,
amore. Non preoccuparti per me.”
La fede dorata brillò sul suo anulare, e Ken ebbe conferma di ciò che aveva intuito.
“Ma perché non posso restare, papà? Io voglio sentire quello che dite voi grandi!”
Ken si voltò
verso la destra, spostando l’attenzione sull’uomo seduto su
una delle poltrone, che teneva in braccio la bambina in pigiama che
doveva essere sua figlia.
Si permise di osservare la scena, osservando in volto Inoue Mantarou, ora padre di una figlia e sposato.
Lo vide sospirare,
scuro in volto. “Tomoyo, smettila immediatamente di fare i
capricci, va bene? Non è proprio il momento!”
“Ma papà …”
“Reiko-chan, portala via. Non è il caso che stia qui mentre parliamo di Miyako.”
Neanche lui era
cambiato poi tanto rispetto a come Ken ricordava di averlo visto in
fotografia: aveva lo stesso taglio di capelli e più o meno la
stessa altezza, anche se si era irrobustito. Ma gli occhiali davanti
agli occhi non mettevano più in risalto uno sguardo spensierato,
bensì uno profondamente stanco, profondamente segnato. E le sue
labbra non erano più piegate in un sorriso malizioso, ma erano
contratte in una smorfia di supplica velata mentre guardava Reiko.
E vide lei ricambiare
l’occhiata intensa, mentre prendeva in braccio la bambina intenta
a protestare. “Mantarou-kun, sta’ tranquillo, per favore.
Lo sai che non ti serve a nulla farti ancora più male
prendendotela con la polizia …”
E lo sentì
sbuffare, sarcastico. “Ho scelta?” Ma poi parve notare lo
sguardo della moglie. “D’accordo, ti giuro che farò
il possibile.”
Ken non riusciva a
sopportare quel senso di inadeguatezza. Era come se fosse arrivato fin
lì solamente per distruggere la loro tanto sudata
serenità: dai piccoli gesti, dagli intensi sguardi che si erano
scambiati, era come se Ken avesse riaperto un cassetto che preferivano
tenere chiuso.
Si trovò
costretto ad abbassare lo sguardo, cercando la forza per portare avanti
il suo compito, mentre Mamoru, Reiko e Tomoyo lasciavano la stanza e
Inoue Chizuru entrava nel salotto con un vassoio in mano, per poi
posarlo sul tavolino.
“Il tè
è servito, Ichijouji-san” disse con serietà, come
se si trattasse di un dettaglio di grande importanza.
Il giovane la
guardò, sorpreso e interdetto, per poi rendersi conto che gli
stavano dedicando un’accoglienza degna di quel nome. Sorrise
lievemente, chinando la testa in un piccolo inchino.
“Non era necessario, ma grazie davvero.”
Chizuru, la corporatura
minuta, i capelli più lunghi di come li ricordava, gli occhiali
sempre uguali, l’espressione di curiosità permeata da una
grande tristezza che a Ken parve così intensa da farlo fermare,
sconvolto, scosse la testa, come a dirgli che non era nulla, e poi
andò a sedersi sul divano, accanto a Momoe.
“Puoi sederti su
quella poltrona, Ichijouji-san” gli disse cordiale la maggiore
dei fratelli Inoue, con un sorriso gentile. Ken assentì, e si
accomodò davanti a Mantarou, la cartellina ancora stretta in
mano.
Per un istante
sorseggiò il suo tè, cercando di pensare a come iniziare
il suo discorso; poi li guardò, non riuscendo a nascondere un
senso di tristezza per quello che stava per fare. “Mi dispiace
davvero di essere venuto qui senza alcun tipo di preavviso” si
scusò. “Non volevo disturbare. Immagino che non debba
essere bello parlare di certi avvenimenti.”
“Avete trovato
Miyako-chan?” domandò a bruciapelo Chizuru, sporgendosi
improvvisamente verso di lui con aria supplichevole. Quasi
impercettibilmente, anche gli altri due fratelli fissarono lo sguardo
nel suo, pregando per una risposta positiva.
Che non poteva arrivare.
Sospirò, distogliendo lo sguardo. “Ancora no.”
E Chizuru, con gli
occhi lucidi, voltò la testa, tentando di trattenere le lacrime.
Momoe chinò il capo, e tutto di lei sembrava trasmettere
sconfitta. Mantarou emise un sospiro frustrato, portandosi una mano
sugli occhi e bisbigliando, a mezza voce: “Dannazione
…”
Ken chiuse gli occhi
per un istante, appellandosi a tutta la forza d’animo che
possedeva. Infine, il suo sguardo si fece fermo e deciso, mentre
tornava a guardarli. “Ancora no” ripeté, e
l’attenzione fu ancora su di lui. “Ma io sono qui per
cercare di trovarla, e nemmeno mio fratello ha rinunciato a trovare
vostra sorella. Sono qui per chiedere il vostro aiuto, perché
non possiamo permetterci di dare qualcosa per scontato, neanche il
minimo dettaglio. So che è difficile, ma possiamo farcela, con
il vostro contributo.”
Mantarou lo
guardò, scettico e disilluso. “Aspetta, fammi capire,
Ichijouji” gli disse. “Cosa potrebbe cambiare se ad
interrogarci fossi tu e non tuo fratello? Noi non abbiamo davvero idea
di dove sia Miyako, e non abbiamo avuto nessun’altra informazione
utile per le vostre tanto lunghe indagini.”
L’accusa non fu
poi tanto velata, e si guadagnò un’occhiata di rimprovero
da parte di Momoe. Ma Ken non si scompose. Come poteva pretendere che
non fosse furibondo, considerato quanto dovevano soffrire, e quanto
fosse frustrante trascorrere otto anni senza sapere nulla di Miyako? Si
era aspettato una reazione del genere, e non lo biasimò per
questo.
“Può
cambiare semplicemente perché abbiamo un elemento in più
rispetto a tempo fa” gli rispose, e vide lo stupore sul suo viso.
Aprì la cartellina ed estrasse quel rovinato quadernetto viola
che aveva funto da diario segreto di Miyako, per poi mostrarlo ai tre
fratelli, con aria seria.
“Sapete nulla del diario di vostra sorella Miyako?”
Il silenzio attonito durò per appena un istante. Poi, successe tutto fulmineamente.
Mantarou scattò
in piedi, turbato; Chizuru si avvicinò in fretta, prendendo il
diario dalle sue mani e sfogliandone le pagine, come se volesse cercare
una traccia di sua sorella tra quelle righe; Momoe si sporse in avanti,
come chi cerca di leggere ma non trova la forza nelle gambe per alzarsi.
Ken li guardò,
mentre, infine, la minore dei tre tornava a sedersi e leggeva insieme
agli altri due, affollati accanto a lei. Vide nel loro viso alternarsi
stupore, dolore, confusione, rimpianto, senso di colpa, e poi ancora
dolore incommensurabile.
Infine Momoe alzò lo sguardo su di lui, mortalmente pallida. “Dove l’avete trovato?” sussurrò.
“A casa dei
vostri genitori. E’ stata vostra madre a mostrarmelo, ed era
già in quelle condizioni.” Rispose lui con le sopracciglia
aggrottate, alludendo alle pagine strappate e ai pezzi mancanti.
“Ne conoscevate l’esistenza?”
“No, diamine, no” mormorò Mantarou, profondamente turbato. Le sue mani strette a pugni tremavano.
Chizuru, il capo ancora chino sulle pagine di quel diario, singhiozzò piano.
Ken sospirò
ancora, chiedendosi quale strazio stessero provando i tre fratelli.
“Qualunque cosa sappiate, per favore, ditemela. Ho bisogno di
ogni tipo di informazione possibile.”
Ancora una volta, silenzio.
“Vi prego” insistette lui.
“Forse possiamo
sapere qualcosa sulla pagina del 31 dicembre” disse con voce
tremante Chizuru, e Ken sussultò, sentendo nominare proprio la
pagina che lo aveva portato ad indagare sul loro conto. “Ma io
non … non pensavo che Miyako-chan potesse averne sofferto tanto
…”
Si interruppe,
osservando con gli occhi lucidi i suoi fratelli. “Può
davvero trattarsi di quei litigi tra lei e i nostri genitori?”
Aveva fatto centro,
allora. Era tutto come aveva supposto, si disse, assottigliando lo
sguardo. Questo poteva spiegare molte cose: sapeva bene che gli
adolescenti erano spesso in contrasto con i genitori, e che spesso
tendevano ad esagerare le loro reazioni a causa della loro altissima
emotività e insicurezza. L’unica cosa che restava da
verificare era il motivo per il quale i fratelli di Miyako avessero
deciso di tacere questi avvenimenti.
“Miyako e i
vostri genitori avevano un rapporto conflittuale?” volle sapere
subito, osservando il viso di Mantarou scurirsi e quello di Momoe
riempirsi di struggente senso di colpa. “Per quale motivo?”
“Non lo sappiamo” ammise a bassa voce la maggiore.
E Ken la guardò,
sconvolto. “Come?” domandò, spiazzato. “Non
sapete come mai i vostri genitori e Miyako potessero avere
…”
“Proprio
così! Non sappiamo quasi nulla di cosa possa essere successo, va
bene?” urlò esasperato Mantarou, e il giovane si
interruppe di colpo. “Solo informazioni pressoché inutili,
perché non ci siamo mai interessati completamente alla faccenda!
Ora capisci perché, diario o no, non possiamo fare
granché per aiutarti a trovare mia sorella?”
“Mantarou-kun”.
Lo riprese Momoe, con tono fermo, e lui si zittì, guardando Ken
con un’espressione così piena di confusi tormenti e rabbia
sopita che lui non poté fare a meno di guardarlo, ammutolito.
“Scusaci tanto,
Ichijouji-san” continuò poi la donna, con tono di voce
appena udibile. “La verità è che alle volte non ci
accorgiamo di quanto abbiamo … lo facciamo solo quando è
tardi. Quando abbiamo perso tutto, e non si può più
tornare indietro.”
Ken la guardò, e
vide uno spirito saldo nei suoi occhi. C’era un grande,
incommensurabile dolore in lei, ma nonostante ciò era ancora in
piedi, dritta davanti a lui, con lo sguardo fermo e nessuna lacrima a
premere per uscire. Era davvero diversa dai suoi fratelli, l’uno
che mascherava il suo dolore con una rabbia incontrollabile,
l’altra che cercava in ogni modo di non piangere; ma
l’irruenza dei due fratelli minori era sostituita dalla sua forza
interiore, che pareva imporsi sulla sofferenza che evidentemente
provava.
“Miyako e i
nostri genitori iniziarono a litigare verso i suoi diciassette anni,
credo” cominciò a raccontare, mentre Ken la ascoltava,
attento. “A quel tempo, non eravamo affatto uniti tra noi come ci
vedi adesso: ognuno di noi viveva, sostanzialmente, la sua vita, e i
troppi impegni spesso ci allontanavano l’uno dall’altro. Io
studiavo per l’università, e il poco tempo libero che
avevo lo trascorrevo fuori da casa. Mantarou-kun cercava un lavoro
stabile per avere una sua indipendenza. Chizuru-chan …”
“… me ne
disinteressavo, punto e basta.” Terminò con autocondanna
Chizuru, a testa bassa. “Non serve che tu mi difenda.”
“Semmai fosse
stato così, saremmo da biasimare tutti, non solo tu” la
consolò dolcemente Momoe, per poi sospirare e riprendere.
“Non le siamo mai stati così vicini come ci si sarebbe
aspettato da persone come noi. E’ per questo che non sappiamo con
esattezza come sia andata.”
Uno strano senso di
oppressione colse Ken, alla menzione del loro rapporto fraterno mai
approfondito. E si ritrovò a pensare ad Osamu, a tutte le cose
non dette, alla sua ostilità e freddezza, a quella scarsa
comprensione che c’era tra loro.
Si accorse, amaramente sconvolto, che immaginava come ci si potesse sentire.
“All’inizio
non demmo peso a questi litigi, avendoli ascoltati solo sporadiche
volte quando eravamo a casa” prese la parola Mantarou, forse
tentando di non apparire sofferente. “Pensavamo si trattasse del
solito caratterino di Miyako, che tendeva sempre a far sentire la sua.
Ma poi, i litigi divennero sempre più violenti: molte volte mia
sorella si chiudeva in camera in lacrime, molte altre usciva e tornava
solo a mezzanotte, o qualcosa del genere. Papà era semplicemente
furibondo, e le poche volte in cui ci rivolgeva la parola era solo per
dirci di tenerla d’occhio, perché diceva che avrebbe preso
una brutta strada. Mamma, invece, era disperata, perché la
nostra famiglia era diventata un luogo invivibile. Noi” ,qui
rise, sarcastico e amaro: il suono aspro colpì violentemente il
giovane dai capelli scuri, “Noi fummo solo capaci di sostenere
che stavano tutti esagerando, che ogni genitore teme che i propri figli
prendano una brutta strada. Grandi fratelli, eh?”
“Non avete mai
provato a chiederlo direttamente a lei?” chiese Ken, stupendosi
quando si rese conto di quanto fosse bassa la sua voce. Sapeva solo che
nella mente aveva riflesso lo sguardo spento della signora Inoue, la
rabbia esplosa del volto del signor Inoue. E quelle sensazioni, quelle
drammatiche sensazioni che lo colpivano duramente. Gli sembrava di
sentire le anime dei tre fratelli urlare, straziate, ferite a morte, e
di non poter scoprire quale coltello le stesse tormentando.
“Ricordati che ci
siamo interessati alla faccenda quando ormai era tardi,
Ichijouji-san” ribatté Chizuru, decidendo infine di
prendere la parola. “Miyako-chan non si fidava più nemmeno
di noi, così ci rispose che non potevamo saperlo, perché
non l’avremmo capita. Diceva … diceva che mamma e
papà cercavano di toglierle ogni sua certezza e felicità.
Quella è stata l’ultima volta in cui si è confidata
con noi, sai. Poi … è diventata quasi apatica: non ci
diceva più nulla, e noi non capivamo, e mamma piangeva, e
papà non voleva più parlarle ... E poi è
scomparsa.”
Chizuru si interruppe, perché aveva cominciato a piangere.
Un’ondata di
compassione colse Ken impreparato, mentre osservava quelle lacrime,
quel dolore. E non riusciva a non pensare a loro, che avrebbero portato
con sé l’immenso carico dei loro sensi di colpa forse per
tutta la vita, se Osamu non fosse riuscito a trovare la loro sorella
scomparsa chissà dove. E non riusciva a non pensare a Miyako, a
ciò che poteva averla spinta a perdere totalmente la stima e la
fiducia nei suoi cari.
Chizuru parlava di sottrarle ogni certezza e felicità … Certezza e felicità …
L’illuminazione arrivò inaspettata, mentre sgranava gli occhi e sussultava.
Lo aveva letto. Conosceva quelle parole quasi a memoria: come aveva fatto a non pensarci?
Ci
tenevo che si divertisse con noi e che conoscesse i miei amici, dato
che lo stordisco ogni giorno con tutte le mie chiacchiere su di loro!
Ma certo.
“Sapete qualcosa
del gruppo di amici che frequentava Miyako?” domandò a
voce alta, e i tre fratelli si fermarono e lo guardarono, sorpresi. Il
cuore di Ken aveva preso a battere rapidamente, preso
dall’entusiasmo di essere arrivato a qualche supposizione.
“Il gruppo di Miyako?” ripeté Mantarou, confuso.
“Sì”
confermò Ken. “Il probabile motivo di litigio di Miyako
con i vostri genitori. Non potrebbe rappresentare le sue certezze? Cosa
sapete a riguardo?”
Momoe esitò.
“Non molto” ammise a malincuore. “So che alcuni suoi
amici di infanzia ne facevano parte, ma credo che il gruppo fosse molto
più vasto. In ogni caso, negli ultimi tempi non ci ha più
detto nulla sulle nuove conoscenze. E credo proprio ce ne siano state:
Miyako-chan era davvero molto aperta e solare, non amava isolarsi con
pochi amici.”
Ken annuì,
serio, ma con una strana impazienza a scorrergli nelle vene.
Aprì nuovamente la cartellina, per estrarre delicatamente la
lista dei conoscenti della giovane scomparsa.
Poi li guardò ancora, pieno di aspettativa. “Ricordate qualche nome?”
Momoe annuì, e
lui concentrò la sua attenzione su di lei. “Hida Iori era
il suo migliore amico fin da quando lei aveva sei anni”
ricordò con un nostalgico sorriso. “Era il nostro vicino
di casa. Nostra sorella andava molto d’accordo con lui,
nonostante il loro carattere fosse opposto e diversissimo. Anche dopo
il trasferimento della sua famiglia a seguito della morte di suo padre
i due hanno continuato a frequentarsi.”
Ken annuì,
trovando conferma di quello che Osamu gli aveva riferito la prima volta
che gli aveva parlato del caso Inoue. Sicuramente era su di lui che
doveva concentrare l’attenzione, la prossima volta che si sarebbe
dedicato a quelle indagini di persona. “Oltre a Hida Iori
potreste segnalarmi qualche amicizia particolare?”
Notando
l’incertezza e la confusione sui loro volti, il giovane si
alzò in piedi, porgendo loro la lista dei conoscenti di Miyako.
“Qui ci sono alcuni nomi: vorrei sapere se sapete qualcosa in
più su alcuni di loro.”
Chizuru si sporse a
leggere, e Ken la vide sussultare, come se si fosse ricordata di un
particolare fino a quel momento sopito. “Io mi ricordo di lui! Ci
fu un periodo in cui Miyako-chan lo nominava spesso perché
bisticciavano continuamente!”
Aveva indicato un nome: Motomiya Daisuke.
Lui appuntò quel
nome sul suo block-notes, sotto Hida. “Bisticciavano?”
chiese, confuso. “Se non andavano d’accordo, perché
si frequentavano?” Non sembrava aver senso.
“Credo lo sapesse
solo lei. Però io ricordo anche Deguchi Naganori, era amico di
Daisuke” intervenne Mantarou, con le sopracciglia aggrottate nel
tentativo di ricordare. “Lo aveva citato anche nel diario, per
questo mi è tornato alla memoria.”
Ken alzò lo
sguardo di colpo. Sembrava che l’incontro di quel pomeriggio
stesse fornendo informazioni in più proprio sui punti sui quali
lui e Osamu si erano soffermati l’ultima volta. “Miyako non
aveva stima di Deguchi Naganori, mi sembra di capire da quelle
pagine” commentò, domandando implicitamente se tale
affermazione fosse vera.
“Questo non lo so. Pare di sì, ma non ricordo di aver sentito nulla di preciso da lei.”
Ken si disse che non
doveva esserne deluso. Avrebbe controllato accuratamente anche tutto
quello che riguardava Deguchi, ma ora doveva tentare di svelare i
misteri di quel diario, per quanto possibile. “E il Caro Simpaticone nominato nella pagina del 18 ottobre non potrebbe essere …?”
Mantarou annuì,
improvvisamente animato.“Per quanto ne so, potrebbe trattarsi di
Motomiya Daisuke. Questi aggettivi sono ironici, no?”
Lo guardò, e nei suoi occhi scuri Ken scorse la speranza di avergli fornito un dato utile.
E lo era, sicuramente.
Si affrettò ad appuntarlo, e mentre scriveva il suo pensiero
corse a Osamu, a quanto, in altri momenti, si sarebbe sentito
orgoglioso di mostrare i suoi successi a lui. Ora, però, aveva
la sensazione che vedere quei dati non gli avrebbe dato alcuna gioia.
“Io non ho lasciato nulla in sospeso, nulla! Eppure, pare che io abbia fallito in qualche maniera!”
Con un senso di sconforto, Ken si costrinse a tornare alla realtà.
“Se è per
questo, a me non è nuovo il nome di questa ragazza, Yamanaka
Harumi” stava dicendo Momoe, discutendo con i suoi fratelli.
“Era una compagna di classe delle medie, se non ricordo male
…”
“Io invece
ricordo questa qui, Nakajima Eriko. Era una sua compagna del corso di
informatica che frequentava, no?” rispose Chizuru, pensierosa.
Ken prendeva appunti, in totale silenzio e il più accuratamente possibile.
“Cosa ci fa
Royama Hideki nell’elenco dei conoscenti di Miyako? Parliamo
dello stesso Royama Hideki?” fece ad un tratto Mantarou,
incredulo. “L’inventore di software?”
Lui alzò lo
sguardo, all’improvviso dubbioso. Possibile che non ne sapessero
nulla?, si chiese, perplesso. “Non … sapete se Miyako
abbia mai conosciuto Royama Hideki?”
“Io non ricordo
di averlo mai sentito” ribatté Chizuru sconvolta.
“Come mai è scritto qui?”
Ken rimase basito,
senza sapere cosa dire. Osamu aveva detto che i genitori e gli amici di
Miyako non avevano riconosciuto quel nome, ma gli era parso molto
sicuro di considerarlo un suo conoscente. Com’era possibile? E
come mai non gli era venuto in mente di chiederlo a lui?
“Mio fratello ha
fatto la lista. Temo di non saper nulla.” Si scusò, in
imbarazzo. Poi ricordò un particolare che poteva essere
rilevante, e si affrettò a chiedere: “Che mi dite di Sato
Satsu, la ragazza citata da Miyako che aveva fatto la conoscenza di
Hida?”
L’entusiasmo scemò, quando vide le occhiate confuse che i tre si scambiavano.
“Non sapete chi
sia” concluse Ken, sospirando lievemente, e la sua era più
un’affermazione che una domanda.
E il silenzio eloquente dei fratelli fu una risposta sufficiente.
“Gli altri nomi
non mi dicono nulla.” Mantarou, alzandosi in piedi, gli si
avvicinò portandogli la lista. Lo sguardo era duro, ma nei suoi
occhi ardeva di nuovo quella fiamma di frustrazione e tormento.
“Se questo è tutto, credo proprio che nessuno di noi
potrà mai dare altre informazioni né a te ne a tuo
fratello, Ichijouji. Ti sei rivolto alle persone sbagliate per ricevere
aiuti e indizi.”
Ken, turbato, prese la
lista. “Non è vero, Mantarou-san” obiettò,
tentando di dare loro almeno un po’ di conforto. “Mi avete
fornito dei dati comunque importanti, anche se non accurati. E
qualunque cosa può darci una mano. Vi ringrazio davvero per
…”
“Piantala!”
ringhiò Mantarou, e Ken ammutolì, preso alla sprovvista.
“Non ringraziarci, perché non siamo mai stati in grado di
capire nulla! Ed è una cosa che ci tormenterà sempre, e
non ci lascerà mai andare! Ti rendi conto che avremmo potuto
cambiare le cose, aiutare nostra sorella, starle vicini …
Impedirle di sparire? Ti rendi conto che noi, dai quali ci si aspetta
sempre tanto, siamo stati per lei quasi estranei? Come diavolo puoi
ringraziarci? Ma certo, tu non puoi capire … Non credo che tu
abbia mai vissuto qualcosa del genere!”
“Mantarou-kun!”
esclamò Momoe sconvolta. Ma Ken la sentì appena, preso
dalle parole dell’altro, nelle orecchie l’eco di una bugia
che faceva male.
Perché lui viveva qualcosa del genere.
Solo che se n’era reso conto troppo tardi, non appena le sue illusioni erano cadute.
Ma, per quanto facesse male, la differenza c’era, tra la famiglia Inoue e quella Ichijouji.
I fratelli di Miyako non la consideravano un ostacolo.
Si alzò in piedi
anche lui, e Momoe e Chizuru trasalirono. Forse avevano creduto che lui
volesse rispondere a tono a Mantarou, o usare la violenza contro di lui.
Ma Ken non ne aveva alcuna intenzione.
Guardò Mantarou,
e poi le sue sorelle. “Immagino cosa voi stiate vivendo.
Credetemi, è così. E non era mia intenzione ferirvi. Ma
io vi giuro, fosse l’ultima cosa che faccio …”
Per un attimo la voce gli venne a mancare. La recuperò in fretta, imponendosi il controllo.
“… vi
giuro che Miyako tornerà a casa, così che possa capire
quanto intensamente le volete bene. Quanto conta per voi. Quanto
avreste voluto esserle più vicini. Perché, per quanto voi
vi siate sentiti estranei per vostra sorella, siete suoi
fratelli.”
Abbassò lo sguardo, perché i suoi sentimenti non fossero visibili.
“Ed è tanto.” Terminò a voce bassa.
Poi seguì il
silenzio. Ken sollevò nuovamente lo sguardo, e fu sorpreso di
vederli trattenere le lacrime. Persino Mantarou doveva essere turbato,
perché si era affrettato a voltarsi e a nascondere il viso.
“Sei diverso da
tuo fratello” disse Chizuru all’improvviso, e lui
sussultò, sgranando gli occhi sorpreso.
“Come?”
La minore dei fratelli
sorrise, mentre le lacrime le rigavano le guance. “Lui sembra
più professionale, razionale e calcolatore, e decisamente meno
impacciato. Tu, invece, non hai tanto l’aria penetrante dei
soliti detective. Sembri … più vicino alle persone. Come
se volessi condividerne il dolore.”
Ken la fissò, non sapendo cosa dire.
Lui non aveva mai pensato ad una cosa del genere.
“Chizuru-chan ha
ragione” intervenne Momoe con un sorriso, malgrado gli occhi
lucidi. “Ora capisco perché Ichijouji Osamu-san ha deciso
di coinvolgerti nelle indagini: insieme, compensate le vostre mancanze.
E collaborare è una trovata molto saggia.”
Un senso di colpa bruciante lo investì, ma Ken non ebbe cuore di smentirla, malgrado quel collaborare diventasse sempre più utopico ogni giorno che passava.
Annuì, decidendo
che era arrivato il momento di andarsene. Li aveva disturbati
abbastanza. “Grazie di tutto. Vi auguro davvero di poter vivere
serenamente con i vostri cari.” Poi guardò Mantarou,
incerto. “Sarai fiero della tua famiglia, Mantarou-san: tua
moglie e tua figlia sono splendide. Dico davvero.”
Mantarou si
voltò, e Ken gli sorrise, impacciato. E qualcosa negli occhi
dell’altro sembrò illuminarsi: sembrava orgoglio, e
gratitudine.
“Certo che sono
fiero. Sono la cosa più bella che ho” disse, e poi, un
po’ a disagio, rispose al sorriso.
Poi Ken guardò Momoe, e stava per aprire la bocca per parlare, quando si fermò.
Non si era reso conto prima di quel rigonfiamento sul ventre della donna.
Momoe si accorse
dell’occhiata, e si portò una mano sulla pancia,
sorridendo mite. Negli occhi brillava una luce nuova. “Quattro
mesi, e io e Mamoru-kun non saremo più soli. Non so come sia
crescere una bambina, ma sono fiduciosa che imparerò sul
campo.”
Ken annuì
lievemente, a disagio. Gli sembrava di star entrando in un ambito
troppo privato. “Sono … felice per te.”
“Ho pensato di
chiamarla Miyako” aggiunse all’improvviso la donna, e lui
sgranò gli occhi, preso alla sprovvista. Notando la sua
espressione, Momoe sorrise ancora, un sorriso triste ma fermo.
“Glielo devo, visto quello che non ho fatto per lei. Mi piace
pensare che con mia figlia potrò rimediare agli errori passati,
anche se è impensabile.”
Quelle parole furono così cariche di sentimento da farlo fermare.
Ken si disse che
nessuno, nessuno avrebbe mai compreso fino in fondo il dolore di quella
famiglia distrutta. Immaginarlo non era abbastanza.
Perché era vero che Osamu non provava affetto per lui. Ma almeno nessuno di loro era scomparso.
Nessuno di loro doveva sopportare una lontananza fisica, oltre a quella psicologica.
Momoe doveva essere davvero forte, per continuare a mantenere saldi gli animi di tutti.
Le sorrise piano,
tentando di farle capire con lo sguardo quanto la rispettasse.
“Io credo che non sarà poi così difficile. Sarai
una brava madre.”
Il sorriso grato di Momoe fu una risposta più che sufficiente.
Lo accompagnarono
all’uscita, chiedendogli ancora una volta di fare il possibile
per ritrovare Miyako. Ken si scusò nuovamente con loro, e
giurò che lui e Osamu avrebbero fatto il possibile per
ritrovarla.
Ma quando la porta si fu chiusa, e Ken rimase da solo davanti alla villa, uno strano senso di vuoto oppresse il suo animo.
Gli sembrava che, una
volta liberatosi di lui, l’intruso, l’edificio fosse
tornato a racchiudere la famiglia Inoue in un involucro.
Ma ora sapeva cosa c’era, al di là di quella bolla.
Dolore, tormento, frustrazione, insoddisfazione.
Colpe. Freddezze. Errori e indifferenze passate.
Ed era qualcosa che Ichijouji Ken aveva scoperto di conoscere fin troppo bene.
Quanto poteva essere simile o dissimile la situazione dei fratelli Inoue da quella sua e di Osamu?
La domanda rimase
sospesa in quel quartiere silenzioso, incapace di trovare una risposta,
anche quando il giovane si voltò, allontanandosi con un peso sul
cuore.
Ben
trovati ^^ ecco pronto per voi -in tremendo ritardo xD- un nuovo capitolo di indagini, questa
volta stringendo il cerchio e analizzando i fratelli di Miyako. A dir
la verità, avevo pochissime informazioni su di loro: compaiono
al massimo due volte nell'anime, e i loro caratteri non si delineano
molto bene... Come con Osamu, ho provato a immaginarli in maniera
più completa, ed ecco il risultato :) E il mistero si infittisce
ancora... Cosa può essere successo in casa Inoue otto anni
prima? Se avete qualche idea in proposito, sarei ben felice di sentirla ;) anche
solo per curiosità!
A marghepepe ancora un
enorme grazie per la recensione dettagliata -immagino il tempo che ci
avrai impiegato xD-, e per avermi, ancora una volta, reso partecipe
delle sensazioni che il cap suscitava! Sono felice che Satsu e l'idea
che Iori ne sia innamorato ti piaccia: anche io ho pensato che ci
volesse una ragazza per lui... anche se la situazione non è
affatto felice per loro! Ma una cosa non mi è chiara: dici che
la apprezzi perché rimane marginale nella storia? Se non fosse
così non andrebbe più bene? o.o Per quanto riguarda
Yamato, ho intenzione di farlo comparire di persona, ma più
avanti... Ho un progetto ben preciso per lui ^^ Davvero ti hanno
colpito quelle frasi? Non me lo aspettavo, grazie per i complimenti -e
che complimenti ^//^- e per l'apprezzamento! Sono davvero cose che mi
spronano a fare sempre meglio! Allora aspetto un tuo parere... E mi
dispiace tantissimo per il ritardo! La prossima volta sarò
puntuale ^^
Shine, lascia solo che
ti dica quanto è stato bello leggere la tua recensione
kilometrica! Come posso ringraziarti per quello che fai per me? ** E'
incredibile quello che sei riuscita a percepire solo da un capitolo di
passaggio, e come hai rielaborato il tutto! Dire che sono lusingata
è ben poco xD Mi piace l'interpretazione che hai dato di Iori:
la penso esattamente come te, in praticamente tutto! E pensare che l'ho
rivalutato recentemente... :) Addirittura tiri in ballo la filosofia?
Non esageriamo, dai ^//^ piuttosto sono felice che la frase che hai
citato ti sia piaciuta tanto! E l'interpretazione che hai dato
dell'ultima scena mi ha colpito molto: è per questo che è
fantastico sentire i commenti dei lettori! Ti sembra di vedere tutto
sotto diverse ottiche :) insomma, suppongo che un enorme grazie per
l'impegno sia l'unica cosa che posso dirti, in mancanza di altre
parole! Ti aspetto con i prossimi pareri ^^
Roe, che piacere
trovare di nuovo una tua recensione ** mi mancavano! Anzi, mi dispiace
molto che tu ti sia trovata indietro con i capitoli, e che tu sia
costretta adesso a recuperarli! In ogni caso... grazie per aver
recensito anche uno dei capitoli scorsi, ho apprezzato molto :) ed
è inutile dirti quanto io sia contenta che ti piaccia ancora la
mia storia, vero? Spero che troverai il tempo per seguirmi, malgrado
gli impegni!
Mystery Anakin, che
bello che ce l'hai fatta a recensire! So che il periodo che stai
vivendo adesso è molto pieno di impegni, e figurati se me la
prendo con te! Piuttosto, sono sollevata di essere riuscita a farti
apprezzare di più Iori! All'inizio i pareri non erano molto
positivi, vero? ;) per Iori e Satsu ho già in mente più o
meno cosa fare, quindi resta solo da aspettare e vedere che succede!
Per Ken e Miyako... Ehm... Ti dirò, tra un paio di capitoli
avrai uno sviluppo in più! xD Grazie ancora per avermi seguita
in questo cap, aspetto tuoi pareri come sempre :)
E con questo, vi do appuntamento al prossimo capitolo :) grazie anche a chi legge o segue soltanto!
Padme Undomiel
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Capitolo 18 *** Senza respiro ***
17
17.
Senza respiro
Calore sul viso, nella pelle, tra le coperte.
Calore umido, pesante, insopportabile.
E la ricerca
insofferente e lenta di un po’ di frescura, mentre il calore
invade la fronte, penetra ovunque, toglie il respiro.
Calore …
Quel calore. Quel
calore di inizio giugno. Che costringeva a legarsi i capelli, a
sbuffare, ad agitare una mano per un po’ di vento sul viso.
Si
agita la mano davanti al viso, insofferente, e sbuffa rumorosamente.
“Davvero, non ne posso più di questa maledetta scuola.
Hanno intenzione di massacrarci anche a giugno?”
“Sempre
e comunque, e non è una novità. Ma sai che
c’è di nuovo?” Lui mette sempre le mani in tasca,
quando vuol dire qualcosa di ovvio. Fa … male. Sì, fa
male, fino a limiti impossibili. E’ doloroso vedere quel gesto, e
lei lo guarda con rimpianto inspiegabile. Smettila, smettila, stupido. “Io, da domani, mi ritiro, e tanti saluti! Quando dovrebbero iniziare le vacanze, altrimenti?”
E sorride, mentre lei alza gli occhi al cielo e sente il bisogno di colpirlo.
“Ahi! La vuoi smettere di farmi male, razza di pazzoide?”
“Sei
sempre il solito, Daisuke!” E poi ride, perché la sua
espressione è tanto buffa. E’ così assurdamente
infantile, e non si può non ridere. “Tu non hai mai
nemmeno iniziato, figurati se puoi parlare di ritirarti! La scelta
dovrebbe essere mia, più che altro: devo progettare cosa fare
quest’estate.”
Estate.
E’ probabile che la sua famiglia scelga di andare davvero dai
suoi cugini, quest’anno. Non li vede più da tanto …
Le sembra un secolo che non li vede più.
Come se fossero passati otto anni, mentre era rinchiusa in una casa solitaria e spaventosa …
“Guarda
che anche io ho il diritto di scelta! Anche se io, a differenza di te,
già lo so come passerò quest’estate: nel campetto
di calcio, ad allenarmi per la prossima partita!”
Si
illumina, quando parla di calcio. E i suoi occhi castani brillano di
entusiasmo e grinta, come se Daisuke vivesse solo del suo sogno di fare
il calciatore.
“Stupendo,
passerai l’estate a sudare come un matto sotto questo opprimente
caldo estivo! Come mai la parola «mare» non ti dice
nulla?” Alza gli occhi al cielo, e si raccoglie i capelli con un
elastico colorato.
I capelli sono viola?
Sono … così terribilmente dolorosi a vedersi. Fanno anche più male della presenza di Daisuke.
Anche se sono così belli, reali e vivi. Lei li adora. Lei li ama lunghi, morbidi. Naturali.
Ci
sono ragazzi dappertutto, che ridono, scherzano, si spintonano
allegramente, mangiano, confabulano. I corridoi di quella scuola sono
vivi, pieni di allegria. Lei si sente parte integrante di quel mucchio,
perché finalmente è ricreazione. Finalmente può
svagarsi.
“Bada
a come parli, ragazza da spiaggia! Quando sarò un grande
calciatore ti farò mangiare la polvere, sai?” e Daisuke fa
l’offeso e l’orgoglioso, come un bambino di tre anni.
E poi il suo viso si fa serio. Ed è strano, perché Daisuke non è mai serio.
E’ serio come quella volta, in quella stanza. Serio come le parole che le aveva rivolto …
Non è quel momento, non è quel momento.
“E adesso che c’è? Ti sei sgonfiato?”
E’ preoccupata, e angosciata. Lo guarda, e aspetta che parli.
“Macché”,
borbotta, e si vede che è preoccupato anche lui. “E’
per Deguchi. Sai che i suoi genitori mi hanno di nuovo chiamato a casa,
ieri sera? Mi sento una specie di testimone interrogato più
volte dalla polizia …”
La polizia no. Non vuole sentire parlare di indagini!
“Piantala!” strilla lei, con uno scatto.
Daisuke
sembra non darle retta. “Ieri mi hanno chiesto perché
è tornato a casa con un occhio nero, il naso sanguinante, i
vestiti sporchi di terra e i libri strappati. E che potevo dire io?
«Mi scusi, signora, suo figlio si è messo nei guai con un
bullo prepotente e la sua banda e ora non lo lasciano più in
pace?»”
Sì,
è un bullo prepotente. E una persona da poco, davvero da poco.
Una persona alla quale si è sempre data troppa importanza
…
C’è
rabbia bruciante, adesso. Non riesce a controllarla, perché non
sa controllarla. Non è mai stata brava a mentire, non potrebbe
mai farlo per tanto tempo. Finirebbe per impazzire e perdere il
controllo, e per comportarsi come una stupida.
E
tutti gli studenti la guardano con aria sospettosa, la osservano mentre
il suo volto si contrae per l’irritazione, e mentre desidera
picchiare quell’individuo.
“Lo hanno ancora pestato? Ma chi diamine si crede di essere, quel … quel …”
Insensibile è la parola giusta, pensa.
Se avesse avuto sentimento non si sarebbe comportato in maniera tanto ignobile.
“Gorilla!
Sì, è un orrendo, stupido, infantile gorilla! Roba
che andresti volentieri da lui e gli chiederesti come ha fatto a
scappare dalla gabbia dello zoo! Perché nessuno ci ha
pensato?”
Daisuke la guarda, vagamente preoccupato. “Sai, fai paura quando ti arrabbi.”
Lei
ride, sadica. “Lo so, ma lui non ancora mi conosce. Altrimenti
Deguchi Naganori non avrebbe proprio nulla da temere, e al mio
confronto quel gorilla sarebbe solo una massa informe di
gelatina!”
Daisuke
sbuffa, aggiustandosi gli occhialetti tra i capelli disordinati.
“Se solo fosse così!”, esclama. “Ma quando
prendono di mira Deguchi, trema come un agnellino, e si fa pestare per
bene. Eh, se mi ascoltasse di tanto in tanto, quel presuntuoso avrebbe
la sua lezione e un orecchio in meno …”
“Per carità! Finirebbe per continuare queste inutili risse, e non si finirebbe più!”
Lei
solleva una mano, e comincia a contare. “Questo mese il gorilla
ha attaccato briga con … almeno dieci ragazzi deboli, e
continuerà a farlo, se verrà bocciato anche
quest’anno. Cosa molto probabile, comunque, vista la sua
intelligenza. Non credi sia il caso di evitare altre risse?”
“Assolutamente no! Se fossi in Deguchi, un bel pugno non glielo toglierebbe nessuno!”
Daisuke
ha la mano pesante. Quando litiga con i suoi amici, picchia, e picchia
bene. Lei sa che non scherza, e certe volte lei è
d’accordo.
Ma stavolta è stufa.
Anche se, inconsciamente, sa che dovrebbe lasciar perdere.
Eppure non capisce. Perché lasciar perdere, se quel bullo è così odioso?
“Ma
perché se la prende con il tuo compagno di classe? Si può
sapere che gli ha fatto?” Lei vuole sapere, perché non ne
può più di quelle urla nei corridoi.
Perché urlano sempre, quando sono picchiati. E chi li picchia ride sempre.
Ride gioioso …
All’improvviso
si sente seguita. Si ferma, e ha paura. Il corridoio è
così vuoto, ora. Non c’è più nessuno. E chi
la sta guardando? Perché sente degli occhi addosso che la
scrutano?
Dov’è Daisuke?
“Dove siete andati tutti? Non lasciatemi qui!” E strilla, perché tanto nessuno la sente.
Nessuno c’è.
Corre in avanti. Sa che deve andare, sa che cambierebbe tutto se restasse lì, impaurita.
E
alla fine vede Daisuke, cammina davanti a lei, non si volta. Lo
raggiunge, la gente è tornata, e ride come sempre. Come se non
fosse mai sparita.
“Perché mi hai lasciata indietro?” Lo ferma per un braccio. Lui la fissa, ed è stranamente furente.
“Sei tu che sei andata via! Io non volevo lasciarti stare, mi ci hai costretto.”
Lei
ha una gran voglia di piangere, ma non ne conosce il motivo. Sa solo
che quello che lui dice è vero. E questo causa le sue lacrime,
dietro a quegli occhiali.
“Scusami, Daisuke. Non voglio più andare via così.”
E
poi il ragazzo torna a parlare, ed è come se niente fosse. Come
se nessuno dei due avesse mai interrotto il discorso precedente. E va
bene così, perché lei non vuole parlare di
quell’argomento. “E chi lo sa? Ogni scusa è buona
per attaccare briga. E Deguchi è la tipica preda facile, per
quello lì. Ma se provi a chiedere il motivo alla nostra vittima,
trema e distoglie lo sguardo. Come se dovesse essere ucciso se ci dice
qualcosa in più, capisci?”
“No che non capisco. E’ un uomo si o no? So difendermi meglio io!”
E
le voci nel corridoio si fanno improvvisamente concitate, e i ragazzi
corrono tutti verso una direzione. Urlano, e c’è chi parla
di chiamare il preside.
Daisuke
la guarda, sembra di nuovo arrabbiato. Ma non deve assumere
quest’espressione: non è quella l’espressione
giusta. C’è qualcosa che non va.
Lei
non riesce a sostenere il suo sguardo, non deve guardarlo. Ma guarda in
avanti: c’è una folla, ci sono grida, risate di scherno.
E quella risata.
La riconosce, perché la sente ancora nelle orecchie. La riconosce perché l’ha odiata con tutte le sue forze.
“E’ il gorilla! Se la sta prendendo con un ragazzino, di nuovo!”
Ora il calore estivo lo sente nel petto, brucia. Che ci fa dentro di sé, chi lo ha provocato?
Eppure,
è destino che lei vada lì. Lo sente come destino,
perché lei non è destinata a stare a guardare.
E
quando torna a guardare Daisuke, sa che il suo viso è rabbioso
come quello del suo compagno. “Io vado a fermarlo. Al diavolo
ogni regola di autocontrollo e ogni bisogno di farsi gli affari
propri!”
“Ma che combini? Fermati!”
Ma lei già corre.
Corre, veloce, rabbiosa, determinata. Pazza, incosciente, stupida.
“Smettila! Basta così, mi hai sentito, imbecille? Non lo permetto più!”
Corre …
Un brivido improvviso, movimenti agitati.
Nessuna quiete, nessuna pace. Solo un lieve gemito dalle sue labbra, e poi il silenzio.
Silenzio ovattato, surreale. Silenzio da neve.
Sembra quasi che la neve abbia soffocato i rumori della città …
Sembra
quasi che la neve abbia soffocato i rumori della città, come se
alla sua comparsa tutta Tokyo, come una grande bambina, fosse rimasta
ad osservare muta e sorpresa il suo candore.
C’è neve ai lati delle strade, e c’è gente con sciarpe variopinte e cappelli buffi.
C’è gente gioiosa, che canta ancora vecchie canzoni accanto ai negozi.
Lei corre. Conosce la sua direzione, ma quasi non la vede. Pensa al peso che ha nel petto, pensa alla sua tristezza.
Da quanto è radicata nel suo cuore? E quanto ci metterà ad andare via?
Non lo sa. E corre, e rischia di cadere, e urta spalle sconosciute, ma non si fa male. Corre.
Poi
si ferma, e quel negozio di giocattoli è illuminato a festa.
Ansima, senza fiato e senza forze, e il respiro si condensa
nell’aria. Accanto a lei, un piccolo pupazzo di Babbo Natale
canta Jingle Bells agitandosi sul posto, interminabile, triste, quasi
inquietante.
Lei ha paura. Lui non c’è ancora. Ma le aveva promesso che ci sarebbe stato, e lei ci crede.
Ma quel peso sul petto persiste. E l’atmosfera natalizia non fa che angosciarla ancora di più.
E poi lo vede arrivare.
Corre anche lui, i cortissimi capelli castani sempre ordinati. E sembra preoccupato anche a quella distanza.
Lui è sempre preoccupato per lei. Lui c’è sempre quando lei ha bisogno di lui.
Solo
una volta non c’era … Ora lei ha paura che sparisca, che
la odi, come quella volta. I suoi occhi erano così pieni di
indignazione e rabbia che … Ma non è questo il momento,
no.
“Scusa
il ritardo.” Dice, e lei sorride stentatamente. Non l’ha
lasciata sola, non lui. “Come stai?”
Lei
lo abbraccia forte, un groppo in gola. Non vuole piangere di nuovo: lo
ha fatto per tutto il giorno. “Oh, Iori-kun! Sono così
felice che tu sia potuto venire … Ho davvero bisogno di
te!”
Vorrebbe
essere abbracciata così molto più spesso: si sente
rassicurata, si sente in famiglia. Sente che Iori è
l’unica traccia di famiglia che le è rimasta.
Non come i suoi genitori …
Smarrita, prova dolore, oltre alla rabbia. Non può contenerlo, non più. E’ troppo fragile, scoppierà.
Singhiozza piano, e Iori la stringe a sé. “Sono qui con te, tranquilla. Dimmi cosa è successo.”
Può
ancora parlare? Sente la gola gonfia di dolore, stenta a far uscire
suoni. Ma vorrebbe urlare, e non smettere più, perché ora
c’è qualcuno che la ascolta …
Respira, e respira, e per qualche secondo non parla. Il Babbo Natale canta e balla, malinconico.
Poi
alza gli occhi, piena di dolorosa e distruttiva rabbia. Scoppia.
“Ancora! Strillano ancora, mi feriscono ancora, e ancora, e
ancora! Devono detestarmi con tutte le loro forze, perché non
è normale non fidarsi affatto di me, e di ciò che provo!
Perché le mie emozioni sono sbagliate? Perché quello che
voglio deve essere per forza perverso? Perché nessuno si sforza
nemmeno di vedere quello che vedo io? Mi hanno abbandonato tutti,
tutti!”
Non riesce a trattenere i singhiozzi, violenti e dolorosi. Non vede più nulla. Sente solo dolore.
“Mi hanno strappato l’anima, Iori-kun … Oggi mi hanno strappato …”
“Ssh. Ti prego, non fare così. Cerca di calmarti.”
Le
accarezza i capelli, e lei tenta di calmare i singulti. Rimane
immobile, ad occhi chiusi, ma sa che Iori è ancora lì.
Non sparisce.
“Sei di nuovo uscita di casa senza permesso?”
Lei lo guarda.
E il suo sguardo è freddo, scostante. E’ quello sguardo. Quello di quando l’aveva allontanata …
Sussulta,
si allontana di un passo. Un gelo improvviso dentro di sé. Ha
paura. Non vuole sentirsi di nuovo così, non vuole che quegli
occhi verdi la giudichino di nuovo.
“Che
potevo fare? Non potevo chiedere a loro, non sai quanto erano furenti!
Iori-kun, per favore, non potevo fare altrimenti! E tornerò a
casa … Tornerò! Lo giuro!” Strilla, spaventata.
Sembra che la odi, come quella volta. Non adesso. Non adesso!
Chiude gli occhi di scatto, li riapre.
E Iori non ha più quell’espressione. Ora è comprensivo, sembra esserlo sempre stato.
Lei non capisce. Lui le parla come ha fatto fino a quel momento, e le sembra che qualcosa non vada, in quella scena.
“Ascoltami.
Credi davvero che ne valga la pena? Stai lottando strenuamente, e
soffri. E tutti noi siamo preoccupati per te, anche i tuoi. Anche io.
Sei davvero sicura di quello che fai?”
Lei deve aver dimenticato una battuta. Rimane silenziosa, cerca invano quelle parole.
Che sentimento doveva provare? Che sentimento ha dimenticato?
Si
sente rispondere, ma è come spettatrice. Non agente.
“Certo che sì! Se penso a quello che ottengo in cambio,
tutto questo sparisce.” E si vede sorridere, ed è
così luminoso e bello il suo sorriso che fa male. Male, male.
“E se ho il suo amore con me, non ho bisogno di
nient’altro. Niente sarà mai come lui, e io intendo andare
avanti. Lui mi sostiene, lui …”
Si distrae. La carola di Babbo Natale sembra distorta, se la ascolta. E’ pauroso, è insopportabile.
“Lui mi ama come io amo lui. Per questo vado avanti. E sarò pronta a far tutto.”
Iori
sospira. “Non so. Davvero non so che dirti. Spero solo che tu
trovi la felicità … Ma non fare cose sciocche. E
sta’ attenta, Rumiko-san.”
Eh?
Il gelo la paralizza. Fiocchi di neve passano davanti ai suoi occhi, e lei si sente sprofondare.
Perché l’ha chiamata così …?
Smarrita, lo fissa. E sgrana gli occhi, atterrita.
Lui
è più grande, adesso. Deve avere ventidue anni. E’
più elegante, più uomo, più serio …
Più determinato, deciso. La preoccupazione negli occhi verdi
è più contenuta adesso, come se volesse tenerla a bada.
Non capisce. Indietreggia. Lo spettacolo la getta nel panico, vuole una via d’uscita.
Si volta verso il Babbo Natale, accorgendosi che tace.
E il cuore le si ferma in gola.
Accanto al pupazzo, lui è lì.
Appoggiato al muro, immobile, come congelato.
I capelli neri composti, gli occhi azzurri e intensi fissi nei suoi, le labbra lievemente contratte.
Lui. Lui. Lui.
Ichijouji Ken.
E
la fissa, mentre le gambe di lei tremano. E vuole con tutta se stessa
distogliere lo sguardo, ma è come incatenato a lui. Ora lui la
osserva, la scruta dentro, e lei fa lo stesso.
Quell’intensità nello sguardo …
Lui avanza, a passi misurati, attenti, Così serio. Così bello. Così … pericoloso.
Lei non capisce. Ma le sue gambe non si muovono. Resta ad osservarlo mentre si avvicina.
Davanti a lei, si ferma.
E il suo viso si contrae. Ora è malinconico, triste, come affranto.
Ma una luce anima i suoi occhi così profondi. Una luce che attrae, che le toglie il respiro.
Lui allunga una mano, le cinge la nuca, si ferma.
E un brivido la scuote, e sa solo che non lo fermerà. Non può farlo. Non può nemmeno osare.
Può solo chiudere gli occhi, mentre le labbra di lui, come una carezza, sfiorano le sue.
Mentre un lieve bacio appena percettibile fa sussultare il suo cuore.
Ma le labbra di Ken hanno il sapore delle labbra di … lui.
E qualcosa dentro di sé urla. C’è qualcosa di sbagliato. Qualcosa di stonato, terribile.
Lei si ritrae, tremando. Ma lui è ancora lì, e ancora la fissa.
E poi le sue labbra si schiudono per parlare.
“Sta’ attenta …”
Le sfiora una ciocca di capelli.
“… Miyako.”
E la ciocca di capelli è viola.
Strilla, serrando gli occhi. Strilla, con quanto fiato in gola le rimane.
Strilla.
Ansimava, gli occhi sbarrati, il fiato corto, il cuore impazzito.
L’urlo di
poco prima ancora le risuonava nelle orecchie, la coperta era
completamente avvolta attorno al suo corpo sudato. Non riusciva nemmeno
a deglutire.
Era ancora buio.
Un buio terribilmente opprimente, che custodiva in sé
l’orrore e il terrore per il sogno dal quale si era appena
liberata.
Era tutto finito. Era tutto finito.
Si portò
le mani tremanti ai capelli che, lasciati sciolti per dormire, le
ricadevano scomposti sul viso, e un dolore selvaggio le invase il cuore.
Perché
Inoue Miyako sapeva che nemmeno la notte più scura avrebbe
potuto colorare di nero i suoi capelli così inevitabilmente
viola, suo tormento e sua condanna.
E nascose il viso
tra le ginocchia, tremando convulsamente, desiderando poter svanire nel
vento per non dover più soffrire in quel modo.
“Possiamo parlare un secondo, Rumiko-chan?”
Miyako si immobilizzò nell’atto di mettere a posto gli incassi dell’ultimo cliente.
Ne era sicura. Da
quando si era presentata al lavoro, quel giorno, lei non aveva fatto
altro che lanciarle occhiate di sottecchi, negando di avere qualche
problema ogni volta che, spazientita e preoccupata, le aveva chiesto
spiegazioni. Era anche ora che si decidesse a vuotare il sacco,
perché quel senso di attesa non faceva altro che stancarla di
più.
Ma quando si
voltò, desiderosa di scoprire cosa stesse succedendo nella mente
della donna, quasi le scappò un gemito di esasperazione.
La signora Sato aveva un’espressione fin troppo preoccupata e accorata.
Magnifico, pensò disperata. Ancora preoccupazione. Solo questa mi mancava.
Si guardò
intorno, cercando una scusa plausibile per potersi sottrarre a quella
nuova occasione di dover mentire. “Adesso? Dovrei lavorare,
guardi quanta gente che c’è oggi! Magari più tardi,
quando avremo meno clienti …”
La sua protesta si spense nel suono della porta che si apriva.
Miyako si
voltò di scatto, incapace di calmare la sua improvvisa
agitazione, tentando disperatamente di ritornare a respirare.
Rapidamente osservò la fisionomia del nuovo cliente, mentre una
mano correva all’istante ai capelli …
Ma era un ometto di bassa statura, con l’aria accigliata e lo sguardo nervoso.
Ma quando
recuperò il respiro, un senso di vuoto nel suo cuore la
sconvolse una volta di più. Non era sollievo: solo un sentimento
invisibile e infido che le artigliava il petto.
Rimase a fissare
la porta, chiedendosi freneticamente perché ogni volta quel
sentimento peggiorasse, invece di migliorare.
“Nessuno ti dice di non lavorare. Ma ho davvero bisogno di parlarti adesso, ti dispiace?”
Era frustrazione,
ne era quasi sicura. E rabbia. Sì, doveva essere una lenta,
implacabile, irruenta rabbia che, secondo dopo secondo, minuto dopo
minuto, le stava avvelenando le giornate lavorative.
“Lo vedi? Sei di nuovo assente, Rumiko-chan!”
Sentendosi chiamare, Miyako sussultò, voltandosi con aria vacua. “Eh?”
E
l’espressione di rimprovero della signora Sato la affrontò
senza più esitazione. La stava scrutando, diretta, e preoccupata
come non mai: probabilmente era da troppo tempo che desiderava dirle
quello che pensava. Se si era trattenuta, era stato solo per
discrezione.
“Quando
arrivi a lavoro sei sempre distrutta, hai le occhiaie marcate, sei
assente e persa nei tuoi pensieri. Quasi non ti accorgi che stai
lavorando, ti comporti come un automa. Finché non
c’è qualcosa che cattura la tua attenzione, e allora
sembri agitata, fin troppo presente. Come se volessi scappare. Che cosa
ti succede, si può sapere?”
Si sentì,
tutt’a un tratto, così vulnerabile che desiderò con
tutta se stessa potersi nascondere dietro ad un muro. Perché
sapeva che era vero. Sapeva che aveva un aspetto terribile quel giorno,
perché non aveva quasi chiuso occhio. Così come sapeva di
essere sempre assente, sempre così immersa nelle sue sensazioni
contrastanti da ignorare il resto.
Il resto che non fosse un certo qualcuno.
E il subbuglio
che quel pensiero le causò, tale da stringerle la gola in una
morsa, fu così intenso che temette sul serio di star perdendo la
ragione. Non aveva senso che si sentisse in continuazione così
agitata.
Perché, poi? Qual era il vero problema? Perché diamine non riusciva a capirlo?
Guardò con
aria fin troppo fragile la donna davanti a sé, che da qualche
anno era l’unica figura materna che avesse, e desiderò
seriamente avere una risposta alla sua domanda. “Sato-san,
mettiamola così: sono spaventata quanto lei, e quanto
Satsu-chan.” Rispose, torcendosi le mani per impedirsi di
esplodere e comportarsi come una stupida bambina spaventata dalla sua
ombra. E, se si conosceva bene, avrebbe potuto davvero rivelarle
troppo, cominciando a sfogarsi. “C’è qualcosa di
tremendamente sbagliato nella mia testa, che sta cercando di farmi
impazzire in tutti i modi. Non so a cosa sia dovuto …”
Bugiarda.
Mentre parlava aveva in mente il suo volto, negli occhi il suo sorriso educato e gentile.
Come sempre, da
qualche settimana a quella parte. Ovunque andasse, qualunque cosa
facesse. C’era sempre, la seguiva anche quando non c’era.
E lui non c’era, in quel momento.
E non era lì nemmeno il giorno prima.
Nemmeno quello prima ancora. E nemmeno quello prima ancora …
E provò ancora quella dannata stretta al cuore, più serrata, più implacabile.
Non sapeva a cosa
fosse dovuta. Forse non voleva nemmeno saperlo. Ma si ostinò a
fissare quella porta, pregando che si aprisse.
“Ma non si
preoccupi: distruggermi la vita è la mia occupazione preferita,
ma alla fine mi riprendo, bene o male. Me lo ha detto Iori-kun una
volta, e forse ha ragione.” Rise, stupendosi del suo tono
lievemente isterico. Doveva essere davvero matta. “Per favore,
non mi guardi più come se dovessi cadere a terra morta, o
qualcosa del genere … Andrà tutto alla grande, basta solo
aspettare. Andrà tutto benissimo.”
Sembrava
autoconvinzione: se ne rese conto appena si sentì ripeterlo come
una cantilena interminabile. Sospirò, furente con se stessa.
Come aveva potuto diventare così patetica? Non aveva più
nemmeno la certezza che tutto si sarebbe sistemato, nella sua testa.
D’altronde, non poteva più pensarlo. Non dopo quella notte.
Non dopo quel …
“Rumiko-chan, posso concederti un periodo di pausa dal lavoro, se vuoi.”
L’affermazione
calda e pacata la colpì come uno schiaffo. Miyako
sussultò, e in un attimo ripensò al buio, al silenzio del
suo appartamento così grande e spaventoso. Il gelo la invase.
Afferrò le
mani della signora Sato, in preda al panico. “No! Per favore,
Sato-san, non voglio una pausa! Voglio venire qui, lei sa quanto ne ho
bisogno! La prego … starò bene, lo giuro, farò di
tutto per star bene! Ma non mi mandi via …”
Perché
tremava sempre come una foglia, perché aveva sempre i nervi a
fuor di pelle? Forse aveva cominciato a temere le sue stesse reazioni.
Era assurdo.
La donna sembrava
improvvisamente attonita: forse non si aspettava una reazione del
genere. Erano in due a pensarlo, allora. “Non ti sto mandando
via: è solo un periodo di pausa per stare meglio, non
sarà lungo.”
“Magari potrebbe essere solo un giorno, un giorno di riposo.”
La testa aveva preso a pulsarle terribilmente, con fitte acute alle tempie.
Non era pronta a riascoltare un discorso del genere. Non dopo quello che era successo con lui. Non dopo quelle parole, quel dolore, quel … desiderio di accettare così sbagliato …
Lasciò
bruscamente le mani della signora Sato, lasciando cadere le braccia
lungo i suoi fianchi. Abbassò lo sguardo e il capo, temendo che
la donna potesse leggerle negli occhi ciò che sentiva
così forte dentro di sé.
Lui, così accorato e preoccupato, non era lì da ben sei giorni.
“Io non
voglio una pausa. Non mi serve nemmeno un giorno. Detesto le
pause.” Sussurrò, sforzandosi in ogni maniera di crederci.
E rimase in
silenzio, non osando guardare la sua interlocutrice, mentre si sentiva
soffocare da quei sentimenti che non riconosceva.
O forse che non voleva riconoscere, perché facevano troppo male.
Una mano calda si
posò sulla sua spalla. Miyako si aggrappò a quel
rassicurante senso di essere amata da qualcuno, malgrado tutto quello
che aveva fatto.
“Io voglio
solo che tu stia bene”, le disse piano, un affetto profondo che
trapelava da ogni sua parola. “Mi va bene se preferisci lavorare
qui, se ti fa sentire meglio non sarà questa anziana seccatrice
ad allontanarti. Ma … Se ti serve qualcosa, qualsiasi cosa,
fidati di me e chiedila senza problemi. Ti verrò incontro.”
Cara, affezionata
signora Sato. Non sapeva se meritava tanto, ma sapeva che non avrebbe
resistito nemmeno un istante in negozio se non ci fosse stata lei a
sostenerla.
Anche in quel momento sapeva che Satsu aveva preso il suo carattere d’oro da sua madre.
La guardò,
mentre un sorriso di gratitudine incommensurabile affiorava sulle sue
labbra. Come avrebbe fatto senza di lei? “Le voglio davvero bene,
Sato-san. E … se volessi ringraziarla sul serio di tutto quello
che fa per me, dovrei dirle grazie per otto anni consecutivi!”
La donna rise,
scuotendo la testa, e Miyako non poté non unirsi a quella risata
più tranquilla: adorò quel senso di improvvisa leggerezza
che si era instaurato tra loro. Era bello poter dimenticare il vuoto
che sentiva crescere sempre di più dentro di lei, era bello
poter trovare, per qualche istante, conforto, quando erano sei giorni
che la sua ansia andava peggiorando.
Fu un attimo.
Improvvisamente
un senso di oppressione le congelò il sorriso sulle labbra, e
lei si irrigidì. Era una strana sensazione, come
l’irrazionale sentore di …
Essere osservata.
Miyako si voltò di scatto, conficcandosi le dita nel palmo delle mani quando le strinse spasmodicamente.
C’era una
nuova cliente che si avvicinava verso di lei, con corti capelli
rossicci e un’aria timida. Reggeva almeno sei volumi tra le mani,
ed era uno degli spettacoli più particolari e stravaganti che le
fosse capitato di osservare quel giorno dietro alla cassa. Avrebbe
attirato l’attenzione di chiunque.
Eppure, lo vide ugualmente.
Un attimo prima
che sparisse dietro scaffali e scaffali pieni di libri, lo vide
camminare spedito, il viso rivolto altrove, i corti capelli neri che
avrebbe riconosciuto ovunque.
Annaspò,
in cerca d’aria, ma il suo corpo non le diede il tempo di
ragionare, come se rispondesse di impulsi totalmente opposti a quelli
dettati dal suo cervello.
Ma non le importò più di tanto.
Si
allontanò rapidamente dalla cassa, quasi correndo, gli occhi
fissi su quello scaffale; a malapena sentì la signora Sato
protestare sulla sua improvvisa fuga, ma non trovò la forza
né un motivo plausibile per spiegarle questa follia.
Doveva
essere lui. Non c’era altra spiegazione, pensò
freneticamente, rischiando di urtare clienti, inciampare su un bambino
di pochi anni e far cadere una pila precaria di libri.
E si
ritrovò nel reparto di libri gialli prima di averlo realizzato,
e più tardi di quello che le sue gambe avrebbero voluto. Si
accorse di ansimare, ma non era per la corsa. Doveva essere per
l’ansia.
Si guardò
intorno, con una frenesia che le sarebbe parsa folle ed eccessiva, se
avesse avuto tempo per pensare. Cercava, osservando ogni cliente con
rapida insistenza, incalzata dal battito furioso e impaziente del suo
cuore.
E quando lo
individuò, lì sul divanetto per la lettura, l’aria
assorta e un libro che girava e rigirava tra le mani senza mai aprirlo
né sfogliarlo, ebbe la spaventosa sensazione che le sue gambe
avrebbero ceduto senza un senso apparente, incapaci di affrontare
l’ondata di sensazioni che si susseguivano senza un ordine dentro
di lei.
Si
appoggiò allo scaffale più vicino, mentre si avvicinava
cautamente, accertandosi sempre di non essere osservata dai suoi troppo
attenti occhi azzurri: forse non avrebbe retto anche
quell’ulteriore colpo. Non così all’improvviso,
confusa e spossata da sentimenti che non capiva appieno.
Era tornato. Ichijouji Ken era tornato.
E ora era fermo
lì, tanto immobile e pensieroso che si sarebbe quasi detto una
statua. Tanto perso nel suo mondo interiore da non accorgersi della
giovane avventata che ancora non era riuscita a distogliere lo sguardo
da lui, e che era di fronte a lui a pochi passi di distanza.
E teneva gli
occhi bassi, fissi sul libro con cui giocherellava. Tanto bassi che non
riusciva a vederne il colore, così intenso da mozzarle il
respiro in gola.
Miyako si
sorprese a respirare di nuovo, profondamente, quasi come se non avesse
più respirato da ore, forse giorni. E fu in questo momento di
maggiore razionalità che si rese conto di un particolare che
aveva praticamente ignorato in tutto quel tempo, presa dallo stupore e
dall’incredulità.
Ken leggeva
spesso, seduto su quel divanetto. Ma quel giorno, non lo aveva nemmeno
sfogliato, quel grande volume che teneva tra le mani.
E quel movimento delle mani aveva un che di nervoso.
Come se avesse un
qualche tipo di problema, che rendeva assente la sua espressione, che
aveva fatto in modo che neanche la salutasse all’entrata, che si
rifugiasse lì silenzioso come il calare della notte, senza dire
altro.
Senza una parola, una sola parola di spiegazione.
Un senso
bruciante di frustrazione sommerse i suoi pensieri. Così come la
sua prudenza, difesa con tutta la determinazione di una ragazza
sprovvista di questa caratteristica.
“Ciao.”
Si sentì dire, e solo per un attimo la parola appena pronunciata
le parve così innaturale che un terribile senso di aver
sbagliato tutto le urlò nella testa che doveva andar via, che si
era di nuovo esposta troppo e nella maniera più sbagliata.
Perché lei non avrebbe dovuto farsi vedere: avrebbe dovuto
tornare alla cassa, sollevata all’idea di non essere stata
osservata, all’idea di non dover fingere con puro istinto di
sopravvivenza di essere Miyazawa Rumiko, e di esserlo sempre stata.
Ma fu solo un attimo.
Ken parve
rianimarsi all’improvviso, alzando di scatto la testa per
focalizzare da dove fosse provenuta la voce inaspettata. E poi
sgranò gli occhi, e scattò in piedi, come se fosse stato
colto in fragrante durante una rapina. Tutto quello che riuscì a
fare fu fissarla, quasi incredulo, sicuramente spaesato, come se non
sapesse cosa fare. Tentò di parlare, aprendo la bocca per un
istante, ma all’improvviso la sua espressione trasmetteva
disagio. La richiuse senza emettere alcun suono.
E Miyako si
ritrovò a fissare quelle labbra, improvvisamente impotente di
fronte al subbuglio interiore che aveva cercato di nascondere anche a
se stessa, provocato da quel sogno. Quel dannatissimo sogno.
Quel sogno privo di senso.
Perché lei non avrebbe dovuto sognare una cosa del genere, tanta
vicinanza, tanta arrendevolezza. O quelle labbra tanto perfette, dal
sapore sconosciuto, mentre …
Il cuore
accelerò così tanto e così rapidamente i suoi
battiti che Miyako si chiese semplicemente perché ancora non
scoppiava. Poteva quasi avvertirne lo sforzo.
E ancora una
volta agì d’istinto, incurante di tutto. Non poteva
ragionare, non così. “Sei tornato, allora: era da un
po’ che non ti si vedeva”, si ritrovò a dire, ancora
braccata dagli occhi sempre più sgranati di lui. Non riusciva a
distoglierne lo sguardo, qualunque cosa provasse a fare. “Pensavo
che questo reparto avesse perso ogni attrattiva per te, ma a quanto
pare mi sbagliavo!”
Si chiese,
disperatamente, perché lui si limitava a fissarla senza dire
altro. Il disagio e l’imbarazzo crebbero a tal punto che Miyako
si ritrovò ad arrossire furiosamente, maledicendosi per la sua
voglia irrefrenabile di parlare con chi doveva evitare con tutte le sue
forze, senza eccezioni.
Infine, lui fece
un incerto cenno con il capo. “Rumiko-san”, disse poi, a
mo’ di saluto. Esitò, e per la prima volta Miyako lo vide
distogliere lo sguardo, puntandolo invece sullo scaffale al quale lei
era appoggiato. Le mani di lui strinsero con più forza la
copertina del libro che reggeva ancora tra le dita.
Era strano: non
lo aveva mai visto comportarsi così. E tra i suoi incoerenti
pensieri confusi, lei sapeva che la sensazione di essersi persa
qualcosa sul conto di lui era la più insostenibile. Si sentiva
ancora più vulnerabile al pensiero di non avere nemmeno una
minima idea su quali sarebbero state le sue prossime mosse.
“Ti senti
bene? Hai un’aria abbastanza sconvolta”, insistette,
ostinata a comprendere quello che lui si divertiva a nasconderle.
“Come se avessi visto un fantasma.”
“No, sto
bene.” Ken scosse la testa, deciso. Poi la guardò ancora,
e la sua espressione era uno strano miscuglio di imbarazzo e
curiosità. “Solo … non mi aspettavo di vederti qui.
Di solito sei alla cassa …”
L’affermazione
pacata ma perplessa ebbe il potere di farla sentire ancora più
esposta, e ancora più stupida. Era vero: era quasi
irriconoscibile, con quel desiderio spasmodico di non stare a guardare,
di reagire in qualche maniera. Ma più lui lo metteva in risalto,
con quello sguardo così disarmante, più qualcosa dentro
di lei protestava.
Era totalmente colpa sua.
Incrociò le braccia, guardandolo con aria di sfida. “E tu,
di solito, sei nel mio negozio ogni giorno, eppure è quasi una
settimana che non ti presenti. Mi sono incuriosita e sono venuta a dare
un’occhiata, tutto qui.”
Incuriosita.
Magari fosse
stato solo quello. Miyako aveva avvertito una sensazione di …
paura. Una paura glaciale, che le aveva invaso corpo e anima. In
qualche modo aveva sentito che doveva sapere cosa fosse successo a
quell’assiduo frequentatore di quella libreria, perché
sapere che poteva star macchinando qualcosa con Ichijouji Osamu, che
poteva averla scoperta, la gettava in un’angoscia mai sentita
prima.
Doveva essere così.
Scosse la testa,
tentando di smettere di pensare, e sentì il bisogno di
osservarlo di nuovo. E si ritrovò quasi a studiarlo, nel
tentativo incomprensibile di leggere le sue sensazioni sul
suo viso spiazzato.
Non le importava nulla, nulla, di avergli detto qualcosa di troppo rivelatore. Sentiva che al momento era un problema secondario.
Voleva solo una
spiegazione plausibile per averla tormentata con la sua assenza, ancora
di più rispetto all’angoscia giornaliera dovuta alla sua
presenza.
Non aveva
aspettato altro per tutta la settimana. Meritava una dannata
spiegazione, dato che era diventata la sua ossessione, che fosse
presente o assente, nel sogno o nella realtà.
Parla, per favore. Non posso reggere.
“E’
che …” Ken sembrava non sapere proprio come comportarsi, e
Miyako non riuscì ad interpretare la sua espressione. Attese,
trepidante. “Non ho potuto trovare nemmeno un momento a
disposizione, questa settimana.”
E poi tacque, gettandole solo un’unica occhiata di sottecchi, prima di distogliere lo sguardo.
Miyako lo
guardò, incredula, totalmente sconvolta. Allora era questa la
spiegazione? Poco tempo libero giustificava una delle settimane
più tormentate degli ultimi periodi? Poco tempo libero, che
prima gestiva così bene, adesso lo portava ad allontanarsi dalla
libreria?
La mascella stretta con forza per non urlare le faceva male.
“Sei un
maniaco della lettura davvero strambo, Ichijouji Ken”,
considerò infine, distogliendo prontamente lo sguardo quando
quello di lui aveva improvvisamente provato a scavare a fondo dentro di
lei. “Avrei giurato che senza libri ti mancasse quasi
l’ossigeno, visto il tempo e l’attenzione che dedichi loro
quando sei qui. Eppure, degli impegni sono davvero riusciti a portarti
via di qui: sono davvero sorpresa, non me lo aspettavo.”
Ken
ridacchiò all’improvviso, col suo tono di voce pacato e,
per un istante, sereno, a discapito di quelle mani che ancora
stringevano spasmodicamente quel gran volume.
Era qualcosa di
strano, la sua risata. Non era rumorosa, o solare, o eccessivamente
coinvolgente: era sempre educata, ma piena di semplice e contenuto
divertimento tranquillo. Qualche volta lei lo faceva ridere, e la cosa
la stupiva, perché non capiva proprio cosa lo divertisse tanto
del suo comportamento, né se avrebbe dovuto sentirsi offesa da
questa reazione.
Ma sapeva che, in qualche maniera, ascoltarla la tranquillizzava. Sembrava sciogliere qualche nodo, dentro di sé.
Un’altra delle sue reazioni che non voleva davvero spiegarsi.
“Non sono
un maniaco di gialli, Rumiko-san”, obiettò, sulle labbra
un breve sorriso. “Leggere è un passatempo che coltivo
appena possibile, ma non sempre ho modo di farlo.”
“O forse ti
sei finalmente trovato sommerso da una valanga di libri, e hai deciso
l’astinenza dalla libreria per una settimana. Chi può
dirlo?”
E quando aveva
cominciato a sorridergli? Quando le sue labbra si erano incurvate in
quel sorriso divertito, incuranti della paura, della stanchezza, della
delusione e del dolore?
Sconvolta,
sentì il cuore in gola, e il sorriso scemare, e arretrò
impercettibilmente di un passo. Erano emozioni fuori controllo,
emozioni che era suo dovere tenere a bada, e temere, come fossero le
sue più grandi nemiche.
Doveva
allontanarsi all’istante. Aveva la sensazione che un nulla
avrebbe potuto smascherarla, vulnerabile e fragile come si sentiva in
quel momento.
“Comunque,
dovrei tornare a lavoro, non posso restare qui a parlare. Anche
perché tu stavi … leggendo?” Le scuse a raffica che
aveva cominciato a enumerare si erano interrotte sulla fine della
frase, perché Ken aveva improvvisamente sussultato e il suo viso
era arrossito lievemente. “Ho lasciato la cassa da un bel
po’, e dato che ci sono molti clienti, non posso davvero restare.
Scusa se scappo così, ma non posso trattenermi qui.”
Confusa, e immensamente turbata, lo vide ancora distogliere lo sguardo da lei, e concentrarlo altrove.
Come se fosse un qualcosa che era preferibile non guardare, quasi se ne potesse rimanere scottati dopo un solo istante.
L’aveva
guardata appena, quel giorno. Troppo assente per tormentarla con
domande scomode, troppo evasivo per metterla a disagio con occhiate
troppo attente.
Troppo
disinteressato per reagire in qualche maniera alla sua decisione di
andare via, e sicuramente desideroso di tornare ai suoi pensieri
solitari.
Elusivo come le
sue risposte. Come le sue occhiate di sfuggita. Come
quell’accanita decisione di rimanere immobile a fissare quel
dannato libro, dopo sei giorni di totale assenza.
Lottò
contro la nausea crescente che quasi le impediva di parlare,
ripetendosi ancora una volta che avrebbe dovuto riposare di più,
quella notte. Era debilitata, ecco qual era la verità. “Mi
trovi lì, se hai intenzione di comprare quel libro. Sbaglio o ti
interessa particolarmente? Quando avrai finito di sfogliarlo …
ti aspetto lì, allora.”
Parlava a raffica, e si ritrovò a cercare scioccamente il suo sguardo.
Ma quando lui
esaudì la sua preghiera inespressa, un’esitante aria di
scusa si era già fatta largo sul suo viso, ancora colorato di
rosso. Trasse un respiro profondo, a malapena sufficiente a rendere le
sue frasi udibili.
“Non posso trattenermi. Devo … Devo andar via subito, mi dispiace.”
Miyako batté le palpebre, come colpita da uno schiaffo.
Sentiva di non
aver nemmeno recepito a dovere il messaggio. Un opprimente gelo le
aveva invaso i sensi: lo sentiva, forte e prepotente, fuori e dentro di
sé. Come una minaccia invisibile, che aveva preso
all’istante le fattezze di Ken, immobile e a disagio.
Anche il respiro le si era congelato: era cristallizzato in gola, rendendo impossibile deglutire.
“Eh?”
Chissà come, solo il suo cuore era attivo, palpitava
convulsamente, come inseguito da un nemico invisibile. “Vai
… adesso?”
Ken non rispose. Annuì soltanto, gli occhi ancora fissi su quel dannato libro.
Scosse la testa,
cercando di annientare quel senso crescente di panico che stava
cercando di soffocarla con le sue spire. “Io davvero non ti
capisco. Non sei arrivato da poco? Non hai nemmeno osservato i libri
arrivati due giorni fa! Non ha senso venire qui dentro solo per star
seduti per cinque minuti e poi scappare come … come
…”
La voce le si
spense. “Io non capisco”, sussurrò, e le parve che
le forze la stessero abbandonando completamente. Si appoggiò con
la schiena a quello scaffale, ma le parve che traballasse anche quello.
Ken esitò,
per poi avanzare di un passo verso di lei. Lei si irrigidì, e
per reazione istintiva si portò una mano alla falsa chioma nera.
Tese il braccio
verso di lei, e per un istante, uno sciocco istante, Miyako
serrò gli occhi, incassando la testa tra le spalle.
Attese, non osando fare alcun rumore.
Ma non successe nulla.
Aprì gli occhi, sorpresa e perplessa, e sussultò, presa alla sprovvista.
Ken le stava
porgendo il libro, immobile, serio, quasi imbarazzato per qualche
motivo. E la forza del suo sguardo la colpì.
Perché era
fermo, intenso, tremendamente bello. Sembrava che i suoi occhi fossero
accesi di un sentimento incomprensibile, ma nel tumulto delle
sensazioni suscitatele Miyako credette di scorgere la supplica nel suo
volto.
Parlò, con
voce instabile. “Forse verrò in un altro momento a
prendere questo … libro. Adesso mi è davvero impossibile
decidere. Ma … aspetterò.”
E la sua voce
aveva stranamente indugiato su quel termine, con tutta la forza di
un’emozione che sembrava una scusa. Una scusa accorata per quello
che stava facendo.
Miyako, confusa,
scombussolata, non riusciva più a comprendere. Prese quel libro,
con mani tremanti, desiderando con tutte le sue forze di non sfiorare
quelle di lui.
Come avrebbe reagito anche a quello?
A pensarci, come stava reagendo? Cosa c’era di così insopportabilmente soffocante dentro il suo petto?
Non dava
più senso a nulla. Né al fatto che quel volume mai aperto
ora era tra le sue mani, né all’impercettibile
–forse anche immaginario- sussulto di Ken, che
all’improvviso sembrava volersi riprendere il libro. Nemmeno alle
sue continue occhiate ansiose.
Aveva gli occhi puntati su di lui, ma non era a lui che stava pensando. Pensava a se stessa. Pensava al suo gelo interiore.
Perché? Perché, perché, perché?
E poi Ken sospirò, allontanandosi. “Buona giornata, Rumiko-san.”
Si allontanò con la stessa velocità con la quale era venuto, senza voltarsi mai indietro.
Portandosi via la sua inutile barriera, la sua inutile maschera priva di credibilità.
E lasciando indietro tutto il resto.
La testa le
scoppiava: non le riusciva più di stare in piedi. Credeva di non
avere nemmeno la forza di pensare. Non aveva alcun residuo di
resistenza a quello che provava.
Si lasciò cadere sul divanetto dove aveva scorto il ragazzo quando lo aveva seguito.
Cosa avevo in mente? Cosa volevo … cosa voglio da lui?
E
all’improvviso, ogni spiegazione logica che aveva provato a dare
fino a quel momento venne meno, accartocciandosi su se stessa,
impotente, e mostrando la vera risposta.
La vera spiegazione.
E il dolore
dovuto alla caduta di ogni barriera fu così intenso da
trasformarsi in lacrime trattenute tra le ciglia, nel tentativo
categorico di non lasciarsi andare ad un pianto liberatorio.
Si sentiva così piccola. Così sciocca. Così sola … Così colpevole.
La sua
colpevolezza l’aveva condannata, isolandola per sempre dai suoi
cari, costringendola a fingere per anni ed anni fino a straziarsi il
cuore con sorrisi troppo ampi e tranquille risate troppo false.
La sua
colpevolezza l’aveva portata a temere in ogni maniera
l’insistente presenza di Ichijouji Ken, ad allontanarla con tutte
le sue forze, fino a perdere la ragione, la determinazione, perfino il
sonno.
Difendersi.
Scacciare. Cercare la propria sicurezza. Ecco le conseguenze della sua
colpevolezza. Un’orrenda responsabilità, decisa a
strapparle via anche l’anima e i sentimenti.
Forse c’era
riuscita. Lo aveva desiderato tanto, e forse era riuscita nel suo
intento, facendo in modo che Ken non capisse mai di avere di fronte a
sé la stessa ragazza che Osamu cercava con tutte le sue forze.
Forse la sua incostanza, l’impossibilità di aprirsi con
lui lo avevano, infine, allontanato. Forse non era nemmeno più
interessato a parlarle, forse il rifiuto istintivo che aveva seguito la
proposta del giovane di vedersi fuori dalla libreria lo aveva
semplicemente stancato.
In fondo, che senso aveva? Lei non poteva aprirsi. Lui non poteva farci nulla.
Ma era questo a farle più male.
Lei c’era
riuscita. E qualcosa di profondamente stupido, dentro di sé,
strillava il suo dolore, perché in tutto quel tempo non aveva
mai desiderato altro che capirlo, capirlo e farsi capire da lui.
Aveva desiderato
le sue attenzioni disinteressate, la sua proposta esitante ma sincera,
la totale mancanza di malizia nei suoi disarmanti occhi azzurri.
Aveva desiderato
i suoi discorsi, e le sue risate, e la sua educata costanza e
insistenza, e la sua preoccupazione appena accennata quando il pallore
della sua pelle era sempre più evidente.
Aveva desiderato
sentirsi sorridere spontaneamente, e poter scordare, di fronte a lui,
la ragazza che nascondeva dietro parrucca e lenti da vista. Aveva
desiderato la semplicità delle sue reazioni istintive quando lui
la sorprendeva.
Ma c’era riuscita. E lo aveva allontanato, stancato. Era diventata inutile per lui.
E ora cosa avrebbe dovuto fare?
Raccogliere i cocci, andare avanti come se niente fosse? Ancora abbandonata, ancora dimenticata?
Ancora sola con se stessa, con Inoue Miyako e i suoi fallimenti?
Non le era
rimasto altro. Forse Ken sarebbe tornato ancora, ma non sarebbe
più stata la stessa cosa. Sarebbe tornato solo per essere un
cliente come tanti, solo concentrato nella lettura di libri enormi e
impegnativi …
Come quello che le aveva dato.
Lo guardò,
sfocato attraverso le lacrime. Non aveva nemmeno usato la sua solita
cortesia, riponendolo al suo posto di sua iniziativa. Lo aveva dato a
lei, come se questo potesse lasciarle una minima traccia di ciò
che aveva aspettato per giorni e che era sparito di nuovo in un battito
di ciglia.
Lo aveva osservato per tanto tempo, preferendo la sua vista a quella di lei.
Un libro come
tanti. Eppure non aveva nemmeno voluto comprarlo, e glielo aveva
restituito così com’era, con quella copertina rigida, quel
titolo a caratteri bianchi, con quel … foglio di carta che
sporgeva leggermente dalle pagine chiuse.
Miyako si immobilizzò.
Si asciugò le lacrime dagli occhi, osservò meglio.
Sporgeva,
lievemente obliquo, perfettamente reale. Sporgeva, e sembrava
annunciare spavaldamente che non era quello il suo posto, perché
non era un libro di biblioteca: non poteva essere stato usato da
nessuno.
Ma era stato maneggiato per così tanto tempo …
Mani tremanti per
l’agitazione e la fretta sottrassero bruscamente il foglio dalle
pagine immacolate del volume. Mani piene di determinazione spiegarono
il biglietto, mentre gli occhi castani brucianti per le lacrime
trattenute scorrevano rapidamente il suo contenuto.
Se avessi desiderato conoscere la tua risposta, avrei sicuramente chiesto di persona cosa ne pensassi.
Non
voglio saperla. So che i tuoi impegni in negozio ti tengono molto
occupata, e che difficilmente puoi trovare una sosta. So che lavorare
ti piace.
Non voglio costringerti ad accettare. Solo proporre.
C’è
un piccolo parco tranquillo proprio dietro la libreria, a pochi metri
da qui. Molte volte è l’ideale per rilassarsi se si
accumula stress, almeno per me. Domani pomeriggio sarò lì
dalle 18.
Se riuscirai a liberarti, se avrai voglia di accettare la mia proposta, mi ritroverai davanti alla fontana centrale.
Sentiti
libera di non venire, se lo desideri: non avrò nemmeno bisogno
di sentirlo dire da te, e non voglio davvero che tu ti scusi. Capirei.
Ti aspetterò in ogni caso, qualunque cosa tu decida.
Quante volte rilesse quelle parole, sempre più incredula, sempre più sconvolta, non lo seppe mai.
Ma seppe di essere stata una stupida a non capire, a non comprendere i suoi atteggiamenti.
Corse, la lettera
tra le mani, senza più respiro. Lo cercò, affannandosi
anche più di quanto avesse fatto tempo prima.
E c’era solo la sua assenza in libreria.
Corse fuori, spalancando la porta e fermandosi, ansimando, sul marciapiede.
Ma, tra milioni di persone, uomini, donne, bambini, non riuscì ad individuarlo.
Era già
andato via, silenzioso e rapido, sfuggendo una risposta e lasciando
indietro domande e dubbi, in quel sole caldo, in quel vento leggero.
Eccomi
qui con un nuovo aggiornamento :) l'ultimo che pubblico nel periodo
estivo. Sarò al mare per quasi tutto il restante periodo estivo,
così non so quando e se avrò tempo per aggiornare ... ne
ho approfittato ora, che è più sicuro :) colgo
l'occasione per augurare un buon proseguimento di vacanza a tutti ... e
ovviamente per ringraziarvi. E' grazie a voi e al vostro sostegno che
questa storia va avanti ^^
E ora si accettano scommesse ... Miyako accetterà o no di presentarsi all'appuntamento? :P
Per Shine,
che ha pensato erroneamente che la recensione avrebbe potuto non
piacermi come le altre ... non è davvero così! L'ho
trovata molto interessante, soprattutto perché hai saputo
cogliere alcuni lati di Takeru che sono un po' complicati. E' davvero
la capacità di giocare che aveva scordato di avere ... ed
è per questo che non riusciva più a scrivere. Sono
contenta che tu l'abbia capito :) mentre leggevi hai pensato a Michael
Jackson? Beh ... onorata ** non c'è complimento migliore che
potresti farmi! Mi ispiro soprattutto a lui quando parlo dei bambini ;)
E per quanto riguarda la Taiora, posso solo dirti: aspetta e vedrai,
come sempre! Sempre meglio lasciare la suspence! Sperando di risentirti
presto, ti mando un bacione e un grazie!
li_l, i tuoi commenti
non mi hanno offesa, anzi. Sono contenta che tu abbia deciso di dirmi
la tua, e per carità, se un autore non sapesse ricevere critiche
... :) Ti dirò, avevo già pensato a problemi di questo
genere, ma ho scelto questo tipo di struttura intenzionalmente.
All'inizio, le due diverse vicende devono essere necessariamente
separate, e quindi non c'è tutto questo bisogno di
consequenzialità. Quando le due vicende si intrecceranno -e
succederà in seguito-, ci sarà molta più
corrispondenza di tempo nelle vicende. Oltretutto, di solito organizzo
gli avvenimenti in modo da far passare circa lo stesso tempo da una
parte e dall'altra, proprio per non creare troppo caos. :) Per quanto
riguarda il consiglio di spezzare i capitoli in diversi punti di vista:
di solito preferisco analizzare un solo personaggio a capitolo per
andare a fondo nella sua introspezione, ma posso dirti che non
mancheranno capitoli a punti di vista multipli. Se pensi al capitolo
15, già l'ho messo in atto! In seguito saranno più
frequenti. Infine, il problema Hikari ... Mi rendo conto quale sia il
rischio che corre, e ho capito qual è il tuo punto di vista. Ma
io cerco di attenermi il più possibile all'anime, e lì
non rappresenta forse un personaggio fondamentalmente statico? Non dico
che non abbia il suo spessore, i suoi problemi e i suoi complessi, ma
di solito tende ad essere un po' il punto fermo del gruppo. Sappi,
comunque, che non ho intenzione di stereotiparla: sotto l'ottica di
Takeru lei è, al momento, un po' "divinizzata", ma ti assicuro
che non è così. Non resterà immutata, e
avrà un bel po' di problemi a cui pensare ... oltre ai dubbi e
alla confusione. Solo una cosa non mi è chiara: come mai
paragoni Takeru a Renzo? Non ci assomigliano granché, dopotutto
...
Dopo tutta questa spiegazione, spero che non te la prenderai se, per
ora, il progetto resterà immutato in quanto a struttura. Se
avrai ancora piacere di seguirmi, sarò la prima ad essere
contenta :) grazie molto per i consigli comunque!
Mystery Anakin,
bentornata tra noi :) Sì, purtroppo la storia di Miyako non
è delle più felici ... e probabilmente le cose sarebbero
cambiate, se i suoi fratelli si fossero interessati della sua
"questione" -non ti svelo nulla comunque, è inutile che speri
:P-. Purtroppo è andata com'è andata, e non possono che
subirne le conseguenze. Ma il problema è stato solo minimizzare
quello che lei provava, perché in realtà le hanno sempre
voluto bene... Io mi appunto i sospetti sul padre di Keiji senza
rivelarti nulla! ^^ Comunque, sono contenta che la storia inventata da
Takeru ti sia piaciuta! Anche se è stata totalmente
improvvisata, un po' come fossi io Takeru ... è uscita da sola,
giuro o.o per questo sono doppiamente felice ti piaccia! Fammi sapere
se questo ti piace allo stesso modo, un bacione ;)
Che dire, gente ... a risentirci! :)
Padme Undomiel
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Capitolo 19 *** Le mura stanno crollando ***
Purity 18
18.
Le mura stanno crollando
“Non risponde.”
Uno sbuffo
frustrato si levò dalle sue labbra, quando pigiò con
veemenza il pulsante di chiusura di chiamata sul suo cellulare, per poi
intascarlo nuovamente.
Tutto completamente inutile, di nuovo.
Guardò la
figura davanti a sé, appoggiata con disinvoltura allo schienale
di una panchina, e scosse la testa, infastidito. “Sembra sparito
dalla circolazione. Sono già quattro volte che lo chiamo, e
quante volte credi mi abbia risposto?”
Deguchi Naganori
non si scompose più di tanto, limitandosi ad accigliarsi
maggiormente al di sotto delle sue folte sopracciglia nere e a tirare
un’altra boccata dalla sua sigaretta accesa.
“Prevedibilmente nessuna, visto il tuo desiderio di distruggere
il cellulare.” Disse pragmatico. “Rassegnati, Daisuke:
Takeru ha intenzione di farsi desiderare una volta di più.
E’ inutile insistere.”
“Come posso lasciar perdere?”
Motomiya Daisuke
detestava non essere preso sul serio. Erano giorni –settimane-
che quella storia andava avanti, che Takeru diventava sempre più
sfuggente ed elusivo nelle sue risposte, che quasi non si degnava
più di farsi vedere. Ed era un sacco di tempo che si ostinava ad
evitare i loro incontri, con scuse assurde che non avevano alcun senso,
tali da rendere più che chiaro che il suo amico non aveva
più voglia di incontrarli.
Ma, malgrado la
sua frustrazione, la sua preoccupazione e la sua delusione, Naganori
era ancora lì, impassibile, come se l’assenza del giovane
dai capelli biondi fosse non solo scontata, ma anche sperata in qualche
maniera.
Provò
l’ardente desiderio di prenderlo a pugni, solo per cancellargli
quell’espressione indifferente dal viso, dagli occhi.
Incrociò
le braccia, guardandolo furente. “Anche se è un idiota,
Takeru è mio amico”, esclamò, impaziente di mettere
in chiaro le cose una volta per tutte. “Che mi ignori pure! Io lo
chiamerò e lo tormenterò finché non oserà
dirmelo in faccia, che vuole essere lasciato in pace!”
Ostinato, prese
nuovamente in mano il cellulare, digitando quel numero ancora una
volta. Ne aveva davvero abbastanza. Voleva un motivo per questo
continuo giocare a nascondino: lui e i ragazzi lo avevano sempre
trattato come uno di loro, da quando Daisuke l’aveva conosciuto,
da quando Takeru aveva deciso di sua spontanea volontà di
accompagnarli in ogni genere di assurda impresa. Perché non era
più felice di passare del tempo con loro? Aveva improvvisamente
deciso che nessuno di loro era alla sua altezza, che desiderava altro,
oltre alle ragazze di ogni sera, alle risate, alle bevute, alle feste?
“Daisuke. La vuoi piantare o no? Stai diventando patetico.”
L’indifferenza
del suo tono di voce aveva lasciato spazio ad uno terribilmente
annoiato. Naganori si era avvicinato a lui, la sigaretta ancora tra i
denti, e gli porgeva la mano con aria intransigente. “Takeru ci
sta evitando, e questo è quanto. Dovresti smetterla di
rincorrere persone che non vogliono affatto vederti: sembri un bambino
capriccioso. E ora dammi quel cellulare, prima che diventi una
questione di stato.”
Le parole dell’altro lo colpirono come un pugno nello stomaco.
Con quale diritto si permetteva di parlargli così?
Reagì
d’impulso. Lo afferrò per il collo della camicia,
strattonandolo bruscamente. “Non provare a darmi del
bambino!”, ringhiò, e se si trattenne in qualche maniera
dallo spegnergli la sigaretta sulla fronte fu per puro miracolo. La
rabbia lo aveva completamente invaso; gli era difficile persino parlare
. “Non dirmi … Io non rincorro nessuno! Chiaro? E Takeru
… Se io non lo rincorressi, lui si allontanerebbe ancora di più! Non posso permetterlo, capisci?”
Con suo sommo
sconcerto, le labbra sottili del giovane dai capelli neri si piegarono
in un sorrisetto ironico. “Ah”, commentò, falsamente
sorpreso. “Perché l’ultima volta, cercando in tutti i modi di rincorrerla, sei proprio riuscito a fare in modo che non si allontanasse da te, vero?”
“Brutto …”
Il dolore e la
rabbia si mescolarono insieme, in un confuso insieme di ricordi,
sensazioni, rimorsi, rimpianti. E la furia, scatenata da una ferita mai
rimarginata che con così poco tatto l’amico aveva
riaperto, mosse il suo braccio.
Ma il pugno che Daisuke aveva indirizzato a Naganori non colpì mai il suo viso.
Ansimando, ancora
troppo sopraffatto per rendersi conto della situazione, guardò
senza capire il palmo della mano di Naganori che aveva fermato il suo
pugno, l’espressione gelida, il lampo d’ira negli occhi
neri l’unico elemento ad animare la sua figura immobile.
“Cosa
credevi di fare, Daisuke?” E anche la sua voce era piena di ira,
ora. “E’ finito il tempo in cui un pugno era sufficiente
per zittirmi, e credevo che lo sapessi, dato che tutto questo lo devo a te.”
A malincuore, la
consapevolezza di aver sbagliato, di essersela presa con la persona
sbagliata nel modo sbagliato, lo costrinse a mollare la presa
sull’amico, ad allontanarsi di un passo. Rimase a testa bassa,
con i pugni contratti e le spalle rigide.
“Ho
già sbagliato una volta”, replicò, tentando di
mascherare il dolore dietro una debole facciata di determinazione.
“Non sbaglierò anche con Takeru. Non permetterò che
vada via, non dopo …”
E quel nome non espresso ad alta voce fece più male di qualsiasi stilettata.
Perché, perché era ancora tutto così vivido nella sua memoria?
E perché continuava a succedere a lui, a tutte le persone a cui teneva di più?
Un sospiro
stanco. “Sai cosa stai facendo? Cercando di non ripetere
l’errore, rischi di ottenere proprio l’effetto contrario.
So che Takeru non ha lo stesso carattere di Miyako …”
“Piantala
di nominarla!” ruggì all’istante Daisuke. Non poteva
ancora sopportarlo. Non voleva più pensarci, sopportare quei
ricordi.
Tutto per lei. Tutto per un’egoista, sciocca ragazza.
Miyako …
“Fa lo
stesso.” Alzò invece le spalle Naganori, tornando a fumare
con disinvoltura sulla panchina. “Non nominarla non ti
servirà a cancellare completamente il suo ricordo, e lo
sai.”
E il suo tono intransigente mise fine ad ogni tentativo di protesta da parte di Daisuke, che ammutolì.
Sapeva che aveva
ragione. Sapeva che non poteva cancellarla del tutto. Sapeva quello che
lei aveva significato per tutti, per Naganori, per lui.
E nel silenzio
pesante venutosi a creare, il giovane seppe per certo che la presenza
di lei era ancora nell’aria, invisibile ma reale, pronta a farsi
sentire su entrambi nei momenti meno indicati, nonostante gli strenui
tentativi di entrambi di sfuggire il suo ricordo doloroso.
Il giovane
guardò Naganori, e seppe che un silenzioso accordo tra i due
imponeva loro di tornare a parlare di Takeru. Non faceva forse meno
male?
Fu per questo che non si oppose, quando l’altro riprese.
“Dicevo, so
perfettamente che Takeru ha tutt’altro carattere, ma se
preferisce non sopportarci, stesse pure lontano per un po’. Ti
rendi conto che mettergli pressione potrebbe solo aggravare la
situazione? Lascialo stare, e vedrai che tornerà da noi.”
Daisuke lo
guardò con occhi sgranati. Certe volte, la sua sicurezza lo
spaventava, oltre a sembrargli senza senso. “E se dovesse
decidere di non tornare da noi, eh? Come la mettiamo se si convince che
sta meglio senza di noi?”, sbottò, affatto convinto.
“Costringerlo a divertirsi non cambierebbe la situazione.”
“Ma potrebbe ripensarci! Potremmo aiutarlo, dannazione!”
Daisuke si era
infervorato, e non riusciva davvero a smettere di alzare la voce. Gli
sembrava di essere il solo a preoccuparsi dello stato particolare di
Takeru, e la situazione era frustrante fino a limiti impensabili. Era
loro dovere aiutare gli amici in difficoltà oppure no?
Daisuke non
sapeva nemmeno che cosa avesse Takeru di preciso, a cosa fosse dovuta
quella strana depressione che gli leggeva spesso negli occhi. Ma era
sicuro che avrebbe fatto di tutto per trovare la soluzione. Non si
arrendeva così facilmente.
Ma gli altri membri del gruppo …
Naganori gli gettò un’occhiata in tralice. “Tu credi che a me piaccia la situazione.”
Precisamente
quello che Daisuke pensava. Lo fissò con aria di sfida.
“Certo! Altrimenti non te ne staresti lì, senza battere
ciglio.”
“Idiota.”
Commentò esasperato l’altro, per poi estrarre dal
pacchetto che aveva in tasca una sigaretta. Gliela porse, evidentemente
aspettandosi che lui la prendesse.
Nel suo
linguaggio particolare, porgere una sigaretta ad un amico era come una
proposta di tregua. E di solito Naganori non dava mai una seconda
possibilità di riconciliazione.
Non aveva scelta.
Controvoglia,
Daisuke mise da parte il risentimento. Si sedette accanto a lui, e
afferrò ciò che gli porgeva senza dire una parola.
“La
situazione mi dà fastidio, e mi sento molto indignato.”
Continuò poi Naganori, prestandogli l’accendino. “Ma
penso che sia ancora più stupido costringerlo a farsi aiutare.
Dammi retta, e lascialo perdere.”
Daisuke
aspirò profondamente dalla sigaretta accesa, accigliandosi.
“Bene. Tu fa’ pure come ti pare, e aspettalo. Io non ho
alcuna intenzione di darmi per vinto, e cercherò in tutti i modi
di farlo ritornare in sé prima che sia troppo tardi,
intesi?”
Il rischio era
davvero troppo alto. Oltretutto, come avrebbe fatto ad aspettare con le
mani in mano, se ogni giorno che passava l’assenza di Takeru si
faceva sempre più sentire?
No. Daisuke non sapeva e non voleva aspettare. Doveva agire.
Perché nemmeno Takeru poteva permettersi di trattarlo così, dopo tutto quello che aveva fatto per lui negli anni.
“Come vuoi,
zucca vuota. Io, però, eviterei di chiamarlo dieci volte nel
giro di un’ora, che dici? Potrebbe denunciarti per persecuzione,
e non credo che la situazione ti piacerebbe.”
E il giovane dai
capelli perennemente disordinati arrossì come il mozzicone di
sigaretta che Naganori aveva buttato tranquillamente a terra, capendo
che, in fondo, aveva esagerato.
Ripose il cellulare nella tasca con stizza, e nel suo sbuffo si levò una grande nuvola di fumo.
“Spero che
Takeru abbia avuto un motivo più che valido per non rispondere a
nessuna delle mie chiamate …”, borbottò tra
sé.
***
“Ti interessa davvero saperlo?”
Malgrado lo
scorrere continuo dell’acqua dal rubinetto aperto, la nota di
stupore nella voce di Izumi Koushiro fu più che udibile. Lo
guardò per un istante, gli occhi neri sgranati e un interesse
mal celato a fondo della sua espressione.
Takaishi Takeru
annuì, prendendo un altro piatto bagnato dalle mani del giovane
dai capelli rossi e asciugandolo con il panno che aveva tra le mani.
“Certo. Pare che qui di lavoro ce ne sia a non finire … e,
ad ogni modo, non è una decisione facile da prendere. Se non
conoscevi Taichi-san o sua madre, come mai hai scelto questa
vita?”
Doveva averlo
davvero sorpreso. Riflettendoci su, la situazione era davvero
particolare: lo stesso Takeru non riusciva a credere alla piega che
stavano prendendo gli eventi.
Erano passati
solo tre giorni da quell’episodio della fiaba. Tre giorni, e il
giovane confuso aveva sentito crescere dentro di sé uno strano
desiderio di essere sempre in attività, e uno strano senso di
realizzazione. Aveva scoperto, incredulo, che più tempo passava
lì, più un disarmante senso di completezza riempiva il
vuoto e la tristezza che per mesi non gli avevano lasciato tregua.
Ed era tutto
dovuto a quei bambini, alla loro gioia. E a Hikari, con la sua dolce
semplicità, e alle sue strane, ma così giuste, proposte.
Tre giorni, e la
fiamma e la gioia che aveva sentito quel pomeriggio non aveva accennato
a spegnersi, rafforzandosi invece minuto dopo minuto, ora dopo ora,
giorno dopo giorno.
Scoprire cosa
fosse successo, durante il racconto di quell’improvvisata fiaba,
era quasi impensabile. Come poteva sapere cosa lo avesse spinto ad
esporsi tanto, a trovare una soluzione tanto istintiva e forse
impulsiva?
Ma sapeva cosa quell’episodio avesse instillato nel suo cuore stanco di false speranze.
Fiducia.
Brillava
debolmente, continuamente repressa dalla sua disillusione, ma sentiva
che c’era. E sapeva che non la provava da tantissimo tempo.
Fiducia per il
sorriso che si era impresso sulle sue labbra per qualche ora, fiducia
per essere riuscito, per una volta, a dare gioia ad altri che ne
avevano bisogno, fiducia per aver saputo ideare, dopo tantissimo tempo
e frustrazione, una storia che poteva piacere.
Come quando scriveva poesie per sua mamma, a otto anni, e vedeva l’orgoglio nei suoi occhi azzurri.
Da quanto tempo non trasmetteva più nulla, nelle sue semplici storie?
Eppure …
Eppure un pubblico di bambini aveva apprezzato, e tanto, i suoi goffi
tentativi di interessarli, di divertirli. Forse questo valeva anche
più di qualsiasi complimento che aveva ricevuto a suo tempo, e
non solo perché avveniva dopo prove innumerevoli e senza
successo: i bambini sono un destinatario impegnativo, perché
loro più di tutti hanno bisogno di un perfetto miscuglio di
buoni insegnamenti, divertimento, semplicità e temi accessibili.
E aveva creduto di non essere mai stato in grado di riuscirci.
Fino a quel momento.
E ora era
lì, ancora più impaziente di conoscere l’ordine di
quell’orfanotrofio. Ma anche il suo desiderio di apprendere era
mutato, lo sentiva: se prima i ragazzi dell’orfanotrofio erano
motivo di interesse solo in contrapposizione con il suo vuoto
interiore, omologati tra loro quasi come fossero un solo individuo
–da questa analisi aveva sempre escluso Hikari: fin dal primo
incontro aveva compreso subito che era profondamente diversa da tutti
loro, anche se in maniera che non gli riusciva di comprendere-, adesso
sentiva, in qualche modo, di comprenderli maggiormente, e di ammirarli
come mai aveva fatto con nessun altro.
Ora erano motivo di interesse non solo perché erano diversi da lui, ma anche per scoprire chi fossero in realtà.
Osservò
Koushiro di sottecchi, notando che aveva di nuovo preso a lavare le
stoviglie con perizia. Era straordinario che nessuno, nemmeno i
ragazzi, si lamentasse dei lavori manuali: sembrava che il rispetto per
gli altri che dimostravano nella cura dei bambini vigesse anche tra
loro. Erano organizzati, e sapevano dividersi i compiti senza
protestare.
Anche se questo
fosse consistito nell’aiutare la ben funzionante lavastoviglie a
smaltire i piatti sporchi del pranzo, comunque troppo numerosi per
liberarsene facilmente.
“Sai,
ancora oggi me lo chiedo, Takaishi-kun, ma posso solo darti delle
supposizioni.” Rispose infine Koushiro, facendolo tornare alla
realtà. Lo guardò di sfuggita, prima di tornare a
strofinare la spugna su una padella. “Credo sia stato
perché ero curioso.”
“Curioso?”
Takeru
aggrottò le sopracciglia, preso alla sprovvista. Poteva soltanto
la curiosità portare a tanta devozione, a tanti sacrifici?
Quando lo
fissò, nel tentativo di scoprire se fosse tutto uno scherzo, fu
solo maggiormente sorpreso di vedere uno strano lampo di
vitalità animare i suoi occhi neri, e uno strano sorriso piegare
le sue labbra.
“Già”,
confermò, annuendo. “Vedi, ho un’ammirazione
straordinaria per tutto ciò che c’è da scoprire, e
questo comprende, più o meno, diverse categorie: le materie
scientifiche e informatiche sono quelle che prediligo, e credo te ne
sia anche accorto. Ho sempre un computer a portata di mano.”
A Takeru non ci
volle molto per ricordare il piccolo gruppo di novelli informatici che
spesso vedeva radunarsi accanto a Koushiro, durante le sue spiegazioni
in giardino. Sorrise, incredulo. “L’ho notato, sì.
Ma come può questo aver influenzato la tua scelta?”
“L’informatica
non è il mio unico interesse. In teoria, mi piace apprendere, e
più una cosa è particolare o innovativa, più ne
sono attratto.” Fu la risposta tranquilla, mentre la padella
bagnata veniva presa prontamente da un Takeru attento.
“All’inizio, quando questo orfanotrofio fu fondato,
c’erano davvero poche speranze che il progetto riuscisse a
resistere per tanto tempo … e ti dirò, gli scettici erano
molto più numerosi dei fiduciosi. Pare che, prima di essere
fondato, la signora Yagami abbia dovuto lottare molto e fare molti
sacrifici per trasformare la sua abitazione nella grande villa spaziosa
che vedi.”
Takeru si
fermò per un istante nell’atto di asciugare
l’ennesima stoviglia. Pareva che quella donna, Yagami Yuuko,
avesse sempre dovuto affrontare dure battaglie.
Eppure, in quella foto, il suo viso era così sereno, così dolce …
Doveva essere stata una donna straordinaria. Ricordava le informazioni che aveva ricevuto tre giorni fa da Hikari.
Ricordava il viso
di lei, così dolce, così malinconico, così pieno
di triste affetto e ammirazione, e i suoi occhi castani brillanti
mentre ne parlava …
“Ne sentii
parlare, ovviamente, poco dopo la sua definitiva inaugurazione, e ne
fui da subito incuriosito. Era pur sempre un progetto ambizioso, e
difficilmente realizzabile … Oltretutto, quale sarebbe stato lo
stile di vita della famiglia Yagami, e dei bambini ospitati al suo
interno?”
Vide Koushiro stringersi nelle spalle tranquillamente, mentre si prendeva una pausa dal racconto.
“E
così, eccomi qui.” Concluse, con un mezzo sorriso.
“Quando mi sono unito a loro era già passato del tempo:
è stato più o meno due anni fa. A quel tempo la signora
Yagami era ancora viva, e di noi più giovani c’erano solo
Sora e Mimi. Oh, e alcuni bambini che ospitiamo adesso non
c’erano.”
Takeru
ripensò distrattamente ai visi dei bambini che aveva potuto
osservare in quei giorni, chiedendosi quale di loro mancasse, e quale
invece vivesse da più tempo nell’orfanotrofio. Fu una
strana sensazione, come se avesse vissuto anni senza rendersi conto che
qualcosa di tanto grande come l’orfanotrofio stava già
mettendo radici.
“Quindi Kido-san è arrivato dopo di te”, dedusse, e Koushiro annuì.
“Jyou-san arrivò qualche mese dopo di me, non ricordo precisamente quanti. Probabilmente cinque, o sei.”
Calò un
istante di silenzio, come se il giovane dai capelli rossi stesse
cercando di rievocare nella sua mente immagini passate. Aveva una
strana serenità sul volto.
Era così strano osservare qualcuno che avesse solo piacere di ricordare il passato …
“Non mi hai
ancora detto cosa ti spinse ad unirti a loro”, insistette dopo
qualche istante Takeru, chiedendosi se, dopotutto, poteva esserci una
risposta razionale alla sua domanda. Sembrava che quella decisione
avesse con sé milioni di sfaccettature, e che fosse difficile
fornirne una spiegazione logica.
Ma quando Koushiro si riscosse dalle sue riflessioni, non rispose immediatamente come Takeru si era aspettato.
Cominciò a ridacchiare.
Lo guardò scioccato. “Cosa ho detto?”, chiese, totalmente preso alla sprovvista.
L’altro
scosse il capo, guardandolo con un interesse rinnovato e una sorta di
divertito stupore. “Scusa, Takaishi-kun”, gli disse dopo un
attimo di silenzio. “E’ che, in qualche modo, mi hai
ricordato me la prima volta che sono venuto in questo
orfanotrofio.”
Takeru, se possibile, era ancora più stupefatto. “Sul serio?”
Koushiro gli
sorrise. “Proprio così. Mi sembra che tu voglia scoprire
esattamente come funziona qui, addirittura scoprire il processo mentale
che ha portato ognuno di noi a dedicare la nostra vita alla cura dei
bambini abbandonati. Ricordo che tempestai la signora Yagami di ogni
possibile domanda, nel tentativo di conoscere tutto ciò che
c’era da sapere.”
“Ah.”
Inspiegabilmente, un senso di delusione aveva colto Takeru. Cosa si
aspettava? Un’altra anima incompleta e tormentata come lui? Era
chiaro ormai da tempo che i suoi problemi fossero qualcosa che
riguardava solo lui, e nessun altro.
Asciugò il
piatto che aveva tra le mani con decisione, sentendo il bisogno di
sottolineare la differenza tra loro. “Ma tu volevi apprendere per
amore della conoscenza. Io non conosco esattamente nemmeno me stesso, e
sento che solo venendo qui troverò la risposta.”
Si sentì
osservato per qualche istante dagli occhi scuri di Koushiro, ma non
ebbe il coraggio di alzare lo sguardo. In fondo, ancora non poteva dare
risposte su se stesso: i dati che aveva raccolto erano ancora troppo
pochi. Doveva ancora osservare, capire.
Infine, Koushiro tornò a raccontare, probabilmente consapevole del disagio dell’altro.
“Ti
confesso che trovai risposta solo alle domande tecniche, nonché
le prime che posi. Ebbi molte informazioni dettagliate, e più
sapevo, più volevo sapere. Così, quando si arrivò
a domande più personali, più di natura interiore …
la signora Yagami semplicemente stette zitta, osservandomi con una
strana aria divertita. Non sapevo perché lo facesse, ma non
riuscii ad avere risposte, qualunque cosa facessi.
“Finché … Oh, credo tu conosca Taichi-san.”
Takeru aggrottò le sopracciglia, interessato più che mai al racconto.
Yagami Taichi. Lo
aveva osservato abbastanza spesso quando non era con Hikari, e mai una
volta aveva saputo spiegare cosa, esattamente, colpisse tanto di quel
giovane. La grinta, aveva pensato una volta; ma non era abbastanza.
L’allegria, forse; ma nemmeno quello calzava alla perfezione.
Forse la spensieratezza, i modi infantili; ma poteva davvero definirlo
infantile, quando il termine stesso sembrava togliergli pregi, invece
che aggiungerne?
C’era
qualcosa in più in lui. Non sapeva cosa fosse: sapeva solo che
era un qualcosa che faceva in modo che tutto l’orfanotrofio
gravitasse intorno a lui, con la stessa intensità di Hikari ma
in maniera completamente diversa da sua sorella.
“Non bene come vorrei, a dirla tutta”, disse con un sorriso di scusa.
Perché di
una scusa si trattava. Aveva notato l’ammirazione e
l’affetto nel modo in cui Koushiro aveva pronunciato quel nome, e
una volta di più aveva avuto conferma che quelle sulla grandezza
d’animo di Taichi non erano soltanto supposizioni, ma
verità. Ma, dopotutto, non era nemmeno lontanamente intimo al
maggiore dei fratelli Yagami.
“Per quello
c’è tempo. Ma quel giorno per me fu uno shock.”
Ridacchiò ancora, immergendosi in chissà quale ricordo
piacevole. Takeru non si perdeva nemmeno un battito di ciglia del suo
interlocutore, impaziente com’era di saperne di più su
Koushiro, su Taichi, sull’orfanotrofio che Hikari tanto amava.
“Venne da me all’improvviso, mentre ancora pregavo sua
madre di spiegarmi ogni cosa, e aggrottò le sopracciglia, in
totale disapprovazione. Me ne accorsi soltanto quando mi batté
una mano sulla spalla, costringendomi a guardarlo.
“Dovresti
rilassarti, amico. Non lo sai che la vita non è solo un concetto
teorico? Persone come me sarebbero tipo amebe, se fosse così!, mi disse, ghignando. E quando vide il mio stupore commentò ancora, scrollando le spalle: Certe
volte, seguire l’istinto è più facile. Comprendi
molte cose che la razionalità vuole mettere da parte.
Scommettiamo che capirai tutto da solo, affidandoti solo a ciò
che ti viene più istintivo?”
Takeru si arrestò di botto.
Erano parole del passato. Solo parole che un giovane uomo aveva pronunciato per Koushiro anni prima.
Ma erano ancora vive, presenti, attuali. Ma non più per Koushiro.
Per lui.
Il cuore aveva
preso a battergli in maniera strana, quasi come zoppicante.
Perché la vergogna per se stesso aveva ripreso a farsi sentire,
riconoscendo i suoi atteggiamenti e le loro conseguenze su di lui.
Non era forse vero che, in mancanza di felicità, aveva preso a studiarne quella altrui in maniera razionale?
Domande su
domande, del tutto inutili, perché la felicità e la
passione per qualcosa non possono essere contenute in rigidi schemi, in
parole vuote.
Occorre sentirle sul serio.
Se solo avesse saputo come non ricorrere a felicità effimere, razionali e studiate teoricamente …
Guardò
Koushiro, il suo sorriso sicuro, i suoi occhi incoraggianti, e seppe
che aveva capito i suoi tormenti, e che aveva pensato che quelle parole
avrebbero potuto aiutarlo.
Così come lo aveva pensato Hikari, tre giorni prima, nel riferirgli lo stile di vita di Yagami Yuuko.
Sapevano tutti. E volevano aiutarlo.
“Fidarsi
dell’istinto ti è servito, Izumi-san?” gli chiese
esitante. Ma in fondo, conosceva già la risposta.
Era davanti ai suoi occhi, nella sicurezza dell’altro.
E Koushiro
annuì, e il suo sorriso si fece più ampio. “Ragione
e istinto devono necessariamente coesistere. Non si può vivere
senza uno di questi aspetti: persino un maniaco dell’informatica
deve saperlo.”
In che modo si
fosse fidato dell’istinto, e cosa questo gli avesse fatto capire,
Koushiro non lo specificò, e Takeru non lo chiese. Era qualcosa
di personale, qualcosa di solo suo, e il giovane dai capelli biondi non
intendeva violare i suoi spazi, né pretendere di sapere qualcosa
che non lo avrebbe affatto aiutato.
Il suo istinto, così come il suo carattere, era diverso da quello di Koushiro, sebbene ancora non lo conoscesse appieno.
Ma una sensazione di gratitudine lo colse all’improvviso.
Ricambiò
il suo sorriso, felicemente stupito dell’inaspettato aiuto
dell’altro. “Lo terrò ben presente. Grazie.”
Lo vide scuotere
il capo, mentre finalmente chiudeva il rubinetto lasciato aperto.
“Ringrazio io te, Takaishi-kun. Non c’era bisogno di
aiutarmi a lavare i piatti.”
“Direi che
è il minimo, visto quello che voi fate per me”, rispose
lui sinceramente, finalmente posando lo straccio bagnato che aveva
usato fino a quel momento. Sospirò, scoprendosi stanco dopo quel
lavoro: non se n’era quasi accorto, preso com’era dalle sue
riflessioni. In fondo, era contento che fosse finito.
“Attenzione … non mettetevi sulla porta, potrei combinare un danno irreparabile!”
Quell’urlo
apprensivo, insieme con quel rumore di stoviglie sfregate l’una
con l’altra, distolsero i due giovani dalla loro conversazione.
Takeru si voltò di scatto, e per un istante ringraziò il
cielo di non essere accanto all’entrata della cucina.
Dalla porta, con
un’espressione preoccupata, gli occhiali storti sul naso e una
pila pericolante di piatti sporchi tra le mani, Kido Jyou aveva appena
fatto il suo ingresso, e ogni cosa nel suo incedere faceva presagire
una caduta fragorosa.
Temendo il
peggio, Takeru scattò in avanti per dargli una mano, proprio
quando Jyou sembrò perdere definitivamente il precario
equilibrio che aveva acquisito fino a quel momento.
I piatti
tintinnarono pericolosamente tra le sue mani, quando afferrò
prontamente dalle mani di Jyou quelli che sicuramente avrebbero fatto
una brutta fine e li sorreggeva.
Appena in tempo.
Jyou gli sorrise,
grato, poggiando la pila dimezzata sul lavello. “Oh. Grazie!
Forse avrei dovuto fare due viaggi, invece di liberarmene tutto
d’un colpo …”
E mentre Koushiro
rideva, dicendo al giovane dai capelli scuri: “Jyou-san! Abbiamo
rischiato di ritrovarci senza piatti per stasera!”, Takeru fece
un rapido conto del numero di stoviglie sporche che c’erano
ancora da lavare.
Una pila intera appena portata da Jyou. Senza contare quella che lui aveva salvato dal disastro …
Pareva che il momento di pausa e meritato riposo dovesse aspettare ancora un po’.
Sospirò,
alzando le spalle rassegnato. “Pare che ci sia ancora da
rimboccarci le maniche, Izumi-san …”
***
Era esausto.
Non aveva fatto
altro che lavare e asciugare, quel pomeriggio. Nel tentativo di essere
di qualche aiuto per quei giovani così oberati di lavoro, aveva
messo da parte ogni sua esigenza personale.
E dire che
capitava di rado che lavasse i piatti, nel suo appartamento. Era da
solo: spesso e volentieri utilizzava piatti di carta. Senza contare
tutte le volte che Daisuke lo aveva quasi costretto a pranzare con lui
e i ragazzi nel bar vicino all’università
–chissà quanto tempo fa: da quant’era che non li
vedeva e sentiva più? Credeva di aver persino dimenticato il
cellulare nel suo appartamento, unico mezzo con il quale si
contattavano ultimamente-.
Non aveva poi tanta esperienza, in quel campo.
Invece ora si ritrovava con mani ruvide e secche e con una terribile voglia di sedersi da qualche parte.
Il suo bisogno di
rendersi utile e di capire quello che lo circondava doveva essere
davvero forte e totalizzante, se lo portava ad osare anche in cose di
cui non era molto pratico.
La cosa
più assurda era che, nonostante l’ora e mezza impiegata in
cucina, Koushiro e Jyou avevano ancora diverse faccende da sbrigare.
Come passare l’aspirapolvere, lavare i vetri, stendere i panni,
riordinare alcune camere, e numerosi altri compiti che avevano fatto
quasi boccheggiare il ragazzo quando li aveva sentiti enumerare dai due
improvvisati addetti alla pulizia.
Forse era stato
anche per la sua istintiva reazione scioccata che Jyou aveva rifiutato
ogni nuova proposta di aiuto da parte sua.
“Se non te la senti, è inutile che ci aiuti. Approfittane per riposarti, dai”,
gli aveva detto. E poi gli aveva consigliato di cercare Sora o Hikari,
che, insieme a lui e a Koushiro, erano le uniche persone ad essere
all’orfanotrofio. Taichi e Mimi, a quanto sembrava, erano a
lavoro, quindi momentaneamente non disponibili.
Eppure, Takeru camminava in un orfanotrofio stranamente svuotato.
Il corridoio ampio e lungo rimbombava dei suoi passi man mano che, esitante, avanzava.
Nessuna traccia di Sora, né di Hikari. Tantomeno della onnipresente folla di bambini.
Solo il rumore lontano dell’aspirapolvere.
Era strano.
Solitamente non era mai stato lasciato da solo a vagare per
l’orfanotrofio: Hikari lo accompagnava in ogni sua visita, senza
lasciarlo mai e rispondendo con infinita pazienza ad ogni sua domanda.
Quel pomeriggio, Hikari non era con lui.
E ora lui si
sentiva un pesce fuor d’acqua. Quasi come fosse tornato al tempo
in cui si limitava a spiare, troppo vigliacco per dire a tutti quanta
voglia avesse di comprendere e vedere con i suoi occhi. Quasi come se,
scopertolo a vagare per quei corridoi, avessero potuto sbatterlo fuori
senza altre parole di spiegazione.
Non sapeva come comportarsi.
Sbirciava, senza
sapere cos’altro fare, nelle camere da letto che trovava sulla
strada, trovandole sempre stranamente vuote.
Fu costretto a
smettere solamente quando, in una di queste, trovò un gruppo di
bambine, impegnate a parlare concitatamente di chissà quale
piccolo segreto, di cui loro erano le uniche ad essere al corrente. Le
chiacchiere si interruppero quando lo videro arrivare; una di loro, con
capelli neri legati da una piccola treccia, alzò la testa di
scatto, e strillò un “Ehi!” così indignato
che Takeru si sentì immediatamente in dovere di sparire.
Non senza una scusa frettolosa, e un rossore inspiegabile sulle guance.
Mai una volta che riuscisse a sapere esattamente come comportarsi, con loro.
Da quel momento in poi, decise che sbirciare non era una buona idea.
Sospirò,
appoggiandosi pigramente al muro di fronte a lui. Una finestra che dava
sul cortile diffondeva per tutto il corridoio la luce di un sole che,
con il sopraggiungere della primavera, spuntava sempre più
spesso tra le nuvole.
Si affacciò a quella finestra, sentendo il bisogno di fare qualcosa, qualsiasi cosa.
E solo allora capì che fine avevano fatto tutti quanti.
Lo scorcio di
giardino visibile al di là del vetro mostrava chiaramente la
maggior parte dei bambini, che non gli era riuscito di trovare da
nessuna parte, intenti a divertirsi in ogni maniera possibile,
probabilmente approfittando del nuovo clima mite che si stava
lentamente preparando a diventare abituale.
E con loro Sora, seduta in mezzo al prato mentre parlava con un piccolo infortunato e medicava il suo ginocchio sbucciato.
Takeru li osservò con aria assorta, mentre vagava con lo sguardo da un bambino all’altro.
Eccoli lì. Nella loro bolla di certezze, protetti dalle angosce del mondo.
Erano ancora lì, dopo anni, dopo che anche la fondatrice di quel nido di sicurezza li aveva lasciati.
Non avevano mai smesso di essere lì.
E ora che
conosceva un aspetto del passato di quel luogo, osservare la perfezione
di quell’orfanotrofio, e il suo ordine, e la sua grandezza, era
diventato ancora più particolare.
“All’inizio,
quando questo orfanotrofio fu fondato, c’erano davvero poche
speranze che il progetto riuscisse a resistere per tanto tempo …
e ti dirò, gli scettici erano molto più numerosi dei
fiduciosi.”
Dopo aver avuto
una breve panoramica di quale fosse stata la situazione
all’inizio, appariva davvero curioso vedere che tutto, ora, aveva
senso.
Prima era solo un progetto.
Un sogno, di una donna soltanto. Yagami Yuuko.
L’unica, probabilmente, che aveva visto così lontano. Che aveva osato tanto.
Che aveva osato
rinunciare a tutto per un sogno, un sogno che così facilmente
avrebbe potuto rivelarsi un completo fallimento.
“Pare
che, prima di essere fondato, la signora Yagami abbia dovuto lottare
molto e fare molti sacrifici per trasformare la sua abitazione nella
grande villa spaziosa che vedi.”
Aveva già
previsto che i suoi figli sarebbero diventati suoi degni eredi,
altrettanto sognatori, altrettanto decisi a rischiare il tutto per
tutto?
Sapeva che altri
quattro ragazzi avrebbero seguito più tardi le orme dei fratelli
Yagami, mandando avanti il progetto e sacrificandosi in ogni modo?
Forse lo aveva
capito grazie all’istinto? Quell’istinto di cui gli aveva
parlato Koushiro quel giorno? Quell’istinto che lui,
probabilmente, non sapeva ancora sfruttare?
“Scommettiamo che capirai tutto da solo, affidandoti solo a ciò che ti viene più istintivo?”
Se solo avesse saputo come fare.
Sorrise
lievemente, considerando l’enormità di quello che era
sempre stato sotto i suoi occhi, e che mai aveva considerato.
Tutto per dei bambini di pochi anni.
Tutto per un sogno grande quanto quella villa, e verde come quel giardino.
Scosse la testa, appoggiando una mano sulla parete accanto alla finestra. Quasi a volerne sentire la consistenza, il calore.
Gli sembrava che quelle mura gli parlassero in maniera diversa, ora che, infine, capiva.
Quelle mura
nascondevano un segreto. Un passato così importante da rendere
soldato ognuno dei giovani che si occupavano di quei bambini.
Un segreto che lui voleva scoprire, pur non conoscendone il motivo.
In fondo, come mai era così attratto da quell’orfanotrofio, da quel calore?
Lui, nei sogni, non ci credeva più.
Non ricordava nemmeno come ci si sentisse ad essere bambini.
E allora perché?
Il mal di testa
tornò a farsi sentire più forte che mai, e Takeru fu
costretto a rinunciare. Forse non era il caso di pensarci oltre, per
quella sera. Avrebbe fatto meglio a correre a casa, magari a cercare di
studiare. Aveva trascurato persino l’università, in quel
periodo.
Si
allontanò dalla finestra, decidendosi ad andar via a grandi
passi. Avrebbe trovato Hikari in giardino, probabilmente, e le avrebbe
fatto sapere che sarebbe tornato al più presto.
E avrebbe visto
di nuovo quel suo strano sorriso luminoso e dolce apparire sulle sue
labbra, si disse. Ogni volta che le prometteva di tornare aveva sempre
quell’espressione …
Gli sembrava
sempre che lei vedesse in lui qualcosa che lui stesso non aveva mai
capito di sé, chissà per quale motivo.
Avrebbe tanto voluto sapere a cosa pensava ogni volta che …
Un canto gentile
e sommesso, proveniente dalla stanza da letto proprio davanti a
sé, interruppe bruscamente il suo incedere e i suoi ragionamenti.
Non si aspettava che ci fosse qualcuno.
Cautamente, avanzò, deciso a scoprire la fonte di quella melodia.
Era dolce, quasi
sussurrata. Armoniosa, come la voce delicata che sentiva a stento, ma
che gli parve così piena di affetto da risultare quasi
sconvolgente.
E il motivo sembrava una ninnananna.
Aggrottò
le sopracciglia, colto di sorpresa. E affrettò il passo,
decidendo di risolvere al più presto il mistero.
Si fermò sulla porta, osservando con discrezione all’interno.
Le serrande erano
quasi completamente abbassate: la luce filtrava dalle fessure
educatamente, quasi con esitazione, come se non volesse disturbare il
clima di placida serenità in quella stanza.
Di fronte a
sé, un paio di culle nascondevano due visetti paffuti
addormentati, tenuti caldi da copertine il cui colore era
indistinguibile, in quel buio quasi totale.
E la melodia
proveniva da una minuta figura femminile in piedi, che stringeva tra le
mani un fagottino –era un maschietto o una femminuccia?- mentre,
di spalle alla porta, ondeggiava sul posto.
Hikari.
Rimase paralizzato sulla porta, in preda ad una curiosa sensazione.
Lei sembrava così dolce. Così materna. Così affettuosa.
E ogni secondo di
ascolto di quella dolce nenia gli causava una strana stretta allo
stomaco. Come se la voce di Hikari riuscisse a scalfire la barriera di
solitudine che intrappolava la sua sofferenza dentro di sé,
gentile ma ferma, luminosa ma cortese, come la giovane a cui essa
apparteneva.
Come la sua figura, che tanto sembrava scaldargli l’animo.
Pareva …
Un angelo.
Quasi non osava respirare, per paura di farsi scorgere.
Non osava disturbare quella quiete quasi irreale con la sua presenza.
Non voleva che quel canto si fermasse.
E un sorriso si
fece largo sulle sue labbra mentre stava immobile ad ascoltare,
dimentico di tutto, desiderando soltanto di poter trovare rifugio in
quelle note, in quella voce, in quella presenza che tanto sapeva
sconvolgerlo ogni volta che l’avvertiva accanto a sé.
Finché un lieve singulto soffocato non interruppe il canto, e Hikari non si zittì.
Il sorriso morì sulle labbra di Takeru, quando avvertì un cambiamento nell’aria.
E lo sentì ancora.
Un altro
singhiozzo quasi inudibile mentre la giovane dai capelli scuri
–aveva ancora il viso rivolto altrove, non riusciva a scorgerne
l’espressione- posava il piccolo in una terza culla.
E ancora un altro, mentre si sedeva sul letto, e si portava una mano alla bocca per non far rumore, e le sue spalle tremavano.
Una sensazione di
gelo invase Takeru all’istante, e forse fu quella la causa del
suo improvviso irrigidimento in tutto il corpo.
Hikari stava piangendo.
Senza un motivo apparente. Così, all’improvviso.
Come se un dolore senza fine le avesse appena afferrato il cuore, e soffocato in gola la sua melodia.
Piangeva in silenzio per non svegliare i piccoli che aveva appena fatto addormentare.
E ogni suo singhiozzo sembrava spezzare la serenità di quella stanza.
E ogni singhiozzo sembrava stringere una morsa di angoscia dentro di lui.
Turbato, la fissava piangere, sentendosi soffocare da una profonda tristezza.
Tristezza causata da incapacità di essere d’aiuto. Da frustrazione per non poter consolare. Che era …
No.
Non era il suo solito bisogno di donare conforto in qualche maniera.
Era incapacità di essere d’aiuto a Hikari.
Il suo sorriso
era una sua costante: ogni volta che l’aveva vista in volto era
sempre il suo sorriso la prima cosa che notava di lei. La prima cosa
che lo scaldava, ancor prima delle sue parole di conforto.
Ed ora, che proprio il sorriso le veniva a mancare …
Vuoto. E quasi dolore.
Incomprensibile dolore.
Come potevano le lacrime solcare quel viso così bello?
Non seppe quando
si mosse, quando il pensiero si trasformò in azione e quando i
suoi occhi si rifiutarono di osservare oltre quello spettacolo.
Seppe solo che si avvicinava cautamente a quel lettino.
Che le si sedeva
accanto. Che, esitante, le metteva una mano sulla spalla, e con
l’altra le cingeva le spalle minute e tremanti.
E che la sua voce quasi sussurrata tentava solo di frenare quelle lacrime.
“Hikari-chan”,
disse piano. Ogni formalità sembrava inutile in quel momento,
nonostante quel sussulto di sorpresa della giovane. Non si aspettava
quel cambiamento, tantomeno la sua presenza apparentemente immotivata.
“Cos’è successo?”
Hikari
alzò il capo, e i suoi occhi lievemente arrossati
–sembrava arrossato anche il suo viso, ma non poteva esserne
sicuro, con quella penombra- parlarono della sua sofferenza ben
più del sorriso di scusa che piegò le sue labbra. Si
asciugò in fretta gli occhi. “S-scusami, Takeru-kun. Sto
bene, davvero. Non so cosa mi sia preso …”
“Perché non provi a fidarti di me, stavolta?”
Parlò d’impulso, accorato e ancora a bassa voce per non farsi sentire.
Hikari si zittì di colpo. “Eh?”, chiese confusa.
Takeru rimase per
un istante silenzioso: osservava le sue mani posate sulle spalle della
giovane. Senza volerlo, ora che aveva acquisito confidenza con quella
pelle sconosciuta, si era ritrovato a stringere la presa. Probabilmente
per darle più calore, conforto.
Eppure era strano. Il calore doveva donarlo, non sentirlo crescere sempre più forte dentro di sé.
Era come se avesse bisogno anche lui di quel contatto.
“Io mi fido
di te. Se non lo facessi, non sarei qui, dato che la maggior parte
delle cose qui ancora mi sfuggono. E mi sono sempre rivolto a te quando
le mie confusioni si facevano insostenibili, lo sai. Adesso
…” La guardò negli occhi ancora lucidi, leggendo
nella sua espressione tanta sorpresa. Non se lo aspettava.
“Adesso fidati di me, per favore. E dimmi cosa c’è,
e cosa posso fare per te.”
Non osò esplicare a voce alta anche la muta promessa che i suoi occhi fecero: lui avrebbe fatto qualsiasi cosa –qualsiasi- per asciugare davvero quelle lacrime e quel dolore.
In quel momento, lo capirono entrambi.
Vide Hikari
abbassare nuovamente il capo, e posare lo sguardo sul copriletto. Una
ciocca di capelli le cadde davanti agli occhi e rimase lì, quasi
a ricordare a Takeru quanta voglia avrebbe avuto di spostargliela
dolcemente dal viso.
Ma non osò muoversi, turbato dallo strano silenzio della giovane.
“Ho guardato quei neonati negli occhi.”
Assomigliava a un
sussurro spezzato, la voce di Hikari. Era libera dai singhiozzi
prepotenti del pianto, ma in qualche maniera sembrava ancora più
disperata di prima.
“E ho
pensato … a cosa ne sarà di loro. Quale sarà il
loro futuro. Se cresceranno bene, se saranno forti … se staranno bene.”
Takeru, per un istante, credette di aver capito male. La fissò, scioccata.
Era tutto lì il problema? Era per quello che piangeva?
“Hikari-chan, è normale
che staranno bene”, tentò, cercando di suonare più
incoraggiante che perplesso. Incredibile che i ruoli si fossero
invertiti, tra loro. Per un motivo così strano, poi.
“Siete delle persone così amorevoli e attente che è
praticamente impossibile che possano star male.”
Ma attese invano una qualsiasi reazione da parte di lei.
Aggrottò
le sopracciglia, ancora più perplesso. Forse aveva di nuovo
fatto cilecca, e non aveva rassicurato proprio nessuno, come suo solito.
Avrebbe dovuto ritentare? Come poteva aiutarla?
“Senti, te
lo posso assicurare. Ti ho vista, vi ho visti. Siete straordinari. Non
ti sembra una preoccupazione un po’ infondata? Non hai niente da
temere. Finché quest’orfanotrofio sarà in piedi, i
bambini staranno benissimo. Dico davvero: da quello che ho sentito, tua
mamma ha organizzato tutto alla perfezione. Aveva capito i bambini,
sapeva come trattarli, farli giocare, e …”
“Takeru-kun.”
Non fu
l’essere stato interrotto durante il suo discorso sconclusionato,
né l’avere di nuovo i suoi grandi occhi castani su di
sé.
Fu il tono con cui disse il suo nome a zittirlo. Con serietà, senso di colpa e dolore.
Cosa sta succedendo?
Hikari prese un respiro tremante. “Finché l’orfanotrofio sarà in piedi.” Ripeté.
Takeru non capiva. La fissò ancora, tentando di afferrare il senso di quelle parole.
L’occhiata sul viso di lei non gli piaceva.
Cosa diavolo sta succedendo?
E mentre le
labbra di Hikari tremavano, e grosse gocce di dolore brillavano
stranamente nella penombra, il giovane vide l’ombra incombente di
un segreto in quella villa, e un peso insopportabile gravare sulle
esili spalle di lei.
“Avrei dovuto dirtelo prima, Takeru-kun. Mi dispiace. Ma credo che tu debba sapere, ora che … ora …”
Un singhiozzo, poi un respiro profondo.
Il dolore
sembrava penetrargli nelle ossa, senza conoscerne il motivo. Strisciava
insinuante proprio come quell’orrendo presentimento.
Forse avrebbe fatto meglio a non sapere.
Infine, la frase che pose fine all’impazienza. E a ogni dubbio.
“Rischiamo
di chiudere l’orfanotrofio per mancanza di soldi. E se dovesse
accadere davvero … migliaia di vite saranno perdute, così
come il sogno di mia mamma.”
Le mura di quella villa crollarono su Takeru in quell’istante.
Eccomi
di ritorno dopo il periodo di pausa! Finalmente ho modo di aggiornare
questa long-fic ^^ e quello che vi propongo oggi è il capitolo
che dà inizio alla parte centrale della storia. Da adesso in poi
gli sviluppi saranno sempre più notevoli ... a cominciare dal
nostro Takeru :) a questo proposito, vi avviso che la scena non
è interrotta: è stata solo sospesa momentaneamente. Tra
un paio di capitoli saprete anche il perché ;)
E ora, come sempre, i ringraziamenti dovuti ai miei lettori!
li_l, leggere dei tuoi
commenti si rivela sempre molto utile: mi aiuta a capire se abbiamo dei
punti di vista diversi riguardo alcuni atteggiamenti dei personaggi che
sto trattando in questa storia. L'idea che hai di Hikari è
davvero molto vicina alla mia, e per questo posso assicurarti una volta
di più che non ho alcuna intenzione di banalizzare questo
personaggio così bello :) farò il possibile per renderle
giustizia! E prenderò in considerazione l'idea di un confronto
serio tra Hikari e Ken, perché l'idea alletta anche me. Anche se
sarà più in là sicuramente xD ora come ora
è troppo presto ... Se ti interessa la decisione di Miyako
riguardo l'appuntamento, ti aspetto al prossimo capitolo, dove lo
svelerò sicuramente! Grazie per la tua decisione di continuare a
seguirmi :)
Shine, ci tenevo
ad avere le tue solite impressioni dettagliate riguardo al sogno di
Miyako. Descrivere un sogno, soprattutto uno agitato, può
rivelarsi molto difficile da diversi punti di vista ... non è
stato facilissimo per me trattare una cosa del genere. Ma questa storia
mi sta dando la possibilità di sperimentare molti generi e
trovate stilistiche diverse :) Per quanto mi riguarda, ho sempre voluto
un approccio diretto con l'inconscio di un mio personaggio, in modo da
trattare anche i sentimenti più nascosti ... e in questo caso
volevo creare la contrapposizione tra una Miyako più giovane e
spensierata e una Miyako più matura e ferita, piena di nuovi
timori e vecchi rimpianti. Ti ringrazio di aver apprezzato questo
tentativo ^^e anche per i tuoi commenti, sempre preziosi per me!
Mi rassicuri un sacco **
Con questo, vi saluto fino al prossimo aggiornamento! Grazie per la fiducia :)
Padme Undomiel
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Capitolo 20 *** Petali di ciliegio ***
Purity 19
19.
Petali di ciliegio
Sembrava passato un secolo da quando si era fermato lì l’ultima volta.
Allora,
l’autunno era appena iniziato. Foglie rossastre volteggiavano in
maniera scomposta ai suoi piedi, agitate dal vento fresco che le faceva
scricchiolare e rompere, data la loro fragilità. Ogni
occasionale schizzo della fontana –sul quale bordo si era seduto
anche l’ultima volta, se ben ricordava- lo aveva portato a
rabbrividire in maniera poco piacevole. Persino il cielo era coperto,
immobile, quasi come se volesse nascondere con tutte le sue forze
quell’azzurro intenso che si celava al di là di quel
bianco.
E proprio lì Ichijouji Ken aveva scoperto in maniera definitiva la sua inclinazione all’indagine e al mistero.
In quel
tranquillo parco piccolo quanto silenzioso Ken aveva osservato senza
vederle quelle foglie secche sull’asfalto, la sua mente rivolta a
quel caso a cui suo fratello Osamu stava lavorando da qualche tempo, e
che sembrava dargli problemi. Si era informato, come suo solito, su
ogni dettaglio, nel tentativo di capire come mai proprio un detective
in gamba come suo fratello non riuscisse a fare ulteriori passi verso
la verità. E aveva dovuto riconoscere che le complicazioni
c’erano, eccome se c’erano.
Non sapeva
spiegarsi quale fosse la soluzione. Non l’aveva detto a Osamu, ma
aveva iniziato a pensarci anche lui in maniera seria, pronto a
verificare se anche lui fosse dotato di un qualche spirito intuitivo
nella realtà, oltre che nei romanzi. Ed era finito lì a
riflettere, a fargli compagnia solo quel frusciare delle foglie.
Quando, infine, aveva avuto l’illuminazione, quasi non credeva ai suoi occhi.
Poteva esserci una pista che entrambi non avevano considerato. E poteva avere un senso.
Ricordava di
essere stato colto da una strana euforia, mentre si dirigeva, svelto,
verso l’ufficio di suo fratello, e gli forniva
quell’indizio.
Ricordava
l’espressione di puro stupore sul viso di Osamu, perché
quella era la prima volta che si rendeva conto che indagare sui misteri
era anche la sua, di passione.
Ricordava il
senso disarmante di orgoglio quando, grazie a quell’indizio,
Osamu aveva dedotto tutta la verità. Così come ricordava
i suoi occhi impenetrabili mentre, di sottecchi, lo scrutavano nei
giorni successivi.
Forse, da quell’istante in poi, aveva compreso che Ken poteva essergli utile, semmai ne avesse avuto bisogno.
Doveva molto a
quel piccolo angolo di tranquillità, così raro da trovare
in una città come Tokyo. In qualche modo, sentiva che quel
giorno la sua vita era cambiata completamente.
Senza
quell’episodio, dubitava che il caso di Inoue Miyako gli sarebbe
stato affidato, o che Osamu si sarebbe fidato tanto di lui da rischiare
e metterlo al corrente.
Ed erano
già passati otto mesi da quando era stato in quel parco
l’ultima volta. Ora la fioritura dei ciliegi aveva colorato di un
tenue rosa il piccolo viale davanti a sé.
E ora, ai piedi
degli alberi, quelli che volteggiavano pigramente al vento erano solo
leggeri petali che si intrecciavano tra loro in una curiosa danza.
Era un peccato essere mancato per tanto tempo, vedere così tante novità tutte d’un colpo.
I nuovi impegni
non gli avevano concesso quasi un attimo di tregua, e fermarsi
lì solo per respirare aria fresca, per una volta, era stato
impensabile.
Ma quel pomeriggio, di tempo da passare lì ne aveva eccome.
Un mezzo sorriso disilluso passò sulle sue labbra, mentre considerava seriamente l’idea di essere uscito di senno.
Non era difficile
comprendere come mai il suo istinto gli avesse suggerito quel parco,
quando aveva cercato un posto tranquillo abbastanza per ciò che
aveva in mente.
In fondo, quel
luogo rappresentava una parte importante di sé. Una parte di cui
avrebbe voluto rendere partecipe per farsi conoscere.
Che sciocco.
Erano le 18:30, e non c’era proprio nessuno a cui mostrare quella piccola bellezza a lui tanto cara.
Dopotutto era
prevedibile. Non si aspettava davvero che lei avrebbe preso sul serio
un giovane tanto esigente, o tanto illuso. Non sapeva nemmeno, in
effetti, se lei aveva trovato quel patetico foglio di carta conservato
nelle pagine di quel libro, che aveva avuto il compito di sostituire
una proposta a parole che lui era stato così incapace di
pronunciare.
Ma teoricamente
non doveva essere deluso. Non doveva provare quella sensazione
angosciante di aver sbagliato tutto, e definitivamente. Non doveva
sentirsi così abbattuto, e così solo, al centro di quel
parco.
Teoricamente.
Doppiamente sciocco.
Si guardò
intorno un’altra volta, cercando in tutti i modi di individuare
chi aspettava, e chi stava uccidendo la sua razionalità giorno
per giorno.
Forse, aspettando ancora, qualcosa sarebbe …
“Quante volte ancora credi che mi tocchi ripeterti la stessa domanda, Ken?”
La voce
improvvisamente infastidita proveniente dal cellulare che reggeva
meccanicamente all’orecchio fu capace di riportarlo bruscamente
con i piedi per terra.
E non poté
impedirsi di sobbalzare, come se il suo interlocutore potesse averlo
visto mentre si comportava in maniera tanto irragionevole.
Si
ricordò, d’un tratto, della conversazione telefonica che
era ancora in corso, e che aveva momentaneamente scordato.
“Scusami,
Osamu. Non ero attento”, si giustificò in fretta, pregando
che il suono del vento riuscisse a nascondere l’imbarazzo nel suo
tono di voce.
Il silenzio
dall’altra parte della cornetta fu breve, ma eloquente. “Il
che è strano”, concluse il maggiore tra i due, riuscendo
persino a peggiorare la sensazione di disagio in Ken. “Non
è da te essere tanto distratto, considerando che è la
quarta volta che ti chiedo se ci sono novità.”
La quarta volta? Possibile?
Scosse la testa, questa volta seriamente preoccupato per la sua salute mentale. Tutto questo non gli faceva bene.
“Mi
dispiace sul serio. Sono … un po’ tra le nuvole,
oggi.” Rispose, più evasivo che mai. E ringraziò il
cielo –quel giorno di un azzurro intenso- che l’occhio
vigile di Osamu non potesse scorgere il suo viso in quel momento.
Decise di cambiare presto argomento, per non fornirgli ulteriori prove
della decisione che aveva preso per quel pomeriggio. “Volevi
sapere se avevo novità sul caso Inoue?”
Il sospiro di
Osamu fu più che eloquente riguardo al suo livello attuale di
pazienza. “Non è il motivo per cui ti chiamo ultimamente?
Credo si capisca benissimo. A meno che …” Una nuova pausa;
poi il suo tono si fece insinuante. “A meno che la tua
distrazione di oggi non sia diventata un’abitudine che ti
impedisce di interessarti del caso a dovere.”
E Ken si irrigidì all’istante, colto sul vivo.
Lo aveva improvvisamente accusato di non svolgere bene il suo lavoro.
Ed era un tasto
dolente. Non solo perché rappresentava ormai una delle abituali
frecciate che Osamu gli lanciava, sempre capaci di farlo sentire
umiliato.
Questa volta, aveva anche dato voce a una delle sue più recondite preoccupazioni.
Il senso di colpa
tornò a tormentarlo: questo, insieme alla necessità di
rispondere a quella provocazione, lo spinse a giustificarsi.
“Se sono
distratto momentaneamente non significa che io stia prendendo alla
leggera il caso, Osamu”, replicò, e fu stupito di sentire
una nota di indignazione nel suo tono altrimenti serio. “Io ci
tengo, e mi sto impegnando al massimo per ritrovare quella ragazza.
Dovresti saperlo bene.”
Era difficile
capire se lo avesse sorpreso o meno. Forse lui era l’unico, come
sempre, ad essere toccato in qualche modo dalle parole dell’altro.
“Perfetto.
Allora non dovresti avere nessun problema a riferirmi le
novità.” E il tono di Osamu era di nuovo impassibile,
volutamente imperscrutabile. “Sei andato a trovare i fratelli di
Miyako?”
Lo sguardo di Ken cadde sul suo orologio da polso. 18:35. E di lei nessuna traccia.
Cercò
disperatamente di contenere la delusione osservando meccanicamente ogni
secondo che passava, imponendosi di parlare di argomenti più
seri. Aveva un dovere preciso, e non sarebbero state le sue sciocche
illusioni a distoglierlo dall’indagine.
“Non mi
hanno detto molto, veramente”. Fu quasi soddisfatto del suo tono
razionale e misurato: non lasciava trapelare nulla. “Pare che ci
siano stati diversi litigi tra Miyako e i suoi genitori, e che i suoi
fratelli non ne abbiano mai compreso il motivo. Ma penso che sia
qualcosa che riguardava il suo gruppo di amici: mi hanno detto che lei
riferì loro che i suoi genitori volevano toglierle la sua
più grande felicità, e nel suo diario dimostra quanto
realmente ci tenesse a loro.”
“Già.
Tutte informazioni che avevo ottenuto anche io”, ribatté
Osamu. E sulle prime Ken fu troppo impegnato a osservare il tempo che
volava via e che distruggeva ogni cosa per accorgersi della lieve nota
di soddisfazione nella sua voce. “Saputo altro?”
“Beh …”
La sua mente
lavorò frenetica, nel tentativo di ricordare con chiarezza ogni
dato che poteva essere utile per le indagini e scordare le lancette di
quell’orologio.
“Hanno confermato alcune conoscenze di Miyako. Come Hida Iori, che pare fosse stato anche …”
“…
il suo vicino di casa.” Completò l’altro. E Ken si
zittì per un istante, sorpreso dell’interruzione.
“Sì.
Proprio il suo vicino di casa.” Ripeté lentamente,
cercando di capire cosa stesse succedendo a suo fratello. “Ma di
Sato Satsu, associata al nome di Hida nel diario, non hanno alcuna
informazione. Pare che non la conoscano.”
“E poi ti avranno fatto anche altri nomi”, intervenne subito Osamu, come se la sapesse lunga.
Ken
aggrottò le sopracciglia. A che gioco stava giocando? Lo
sapevano entrambi che il maggiore tra i due aveva già condotto
più volte le indagini sul caso Inoue, e che quindi aveva
già ottenuto molte informazioni. Che bisogno c’era di
rimarcarlo a tutti i costi?
“Altri
quattro, per l’esattezza. Due ragazze, Yamanaka Harumi
–compagna di classe delle medie- e Nakajima Eriko
–conosciuta al corso di informatica che frequentava anche Miyako
-, e due ragazzi, Deguchi Naganori e Motomiya Daisuke, amici tra loro e
entrambi in rapporto conflittuale con lei.” Ken fece una
smorfia, interpretando il silenzio dell’altro. “Ma sono
tutte cose che, senz’altro, saprai già.”
“Infatti”,
confermò l’altro, e Ken riuscì quasi a immaginarsi
il suo lieve sorrisetto compiaciuto, che mai si estendeva agli occhi.
Sembrava quasi fosse soddisfatto della mancanza di progressi da parte
di suo fratello minore.
Dalla mancanza di sue vittorie, come le aveva chiamate lui.
La nausea si mescolò ad un senso di abbattimento inspiegabile. Così come un bruciante senso di inadeguatezza.
“E saprai anche a chi potrebbe riferirsi il Caro Simpaticone,
suppongo.” Disse poi, e si rese conto con stupore che desiderava
poter essere lui a spiegargli qualcosa. Desiderava che Osamu non ci
avesse ancora pensato.
Ancora una volta, le cose non andarono come Ken sperava. Doveva essere la giornata meno indicata per simili speranze.
18:41.
“Ho fatto
un rapido calcolo”, rispose subito il detective. “Stiamo
ancora parlando di un ragazzo con il quale non andava molto
d’accordo, giusto? Dalle poche informazioni che abbiamo, dobbiamo
dedurre che sia o Deguchi o Motomiya. Ma Deguchi è nominato poco
prima, quindi chi altro potrebbe essere se non Motomiya?”
Ken
sospirò. Era stanco. Stanco di quei giochetti, di quella sfida,
di quella malcelata rivalità. Non aveva nemmeno più
voglia di rispondergli a tono: voleva solo andare a casa.
Era già troppo tardi per aspettare ancora, si disse.
“Bene. Lo
hai pensato anche tu. Allora siamo d’accordo.” Si arrese. E
stava per alzarsi, per andar via da quel parco, quando si
ricordò di un particolare importante.
“Royama
Hideki.” Disse poi. L’orgoglio poteva essere messo da
parte, in circostanze come quelle. “Come mai lo hai aggiunto alla
lista dei sospettati? Hai detto tu stesso che nessuno ne ha
riconosciuto il nome, e i fratelli di Miyako erano perplessi quando lo
hanno letto. Con che criterio …?”
“Ken.”
Si zittì, quando il tono secco del fratello risuonò dal telefono. Attese.
Un sospiro, quasi esasperato. “Qual è il compito di un investigatore?”
Ma che domanda era?
Perplesso, rispose: “Ricercare la verità.”
“Appunto. Ricercare.”
Sottolineò, e finalmente Ken capì le implicazioni di
quell’affermazione. “Io ho dei motivi per sospettare di
lui. Ma, come ti ho già spiegato, l’indagine la stai
conducendo tu: io posso solo seguire la tua pista. Se sarai
d’accordo ben venga per le indagini, altrimenti ognuno
seguirà i propri sospetti.”
Avrebbe dovuto
aspettarselo. Era tipico di Osamu, tenere per sé le proprie
deduzioni. Eppure, quella volta fece più male, per qualche
motivo.
Quando
parlò, ascoltando distrattamente il suono confuso di una corsa
sull’asfalto che si avvicinava sempre più, la sua voce era
amara proprio come il suo umore. “Mi sembra che sia quello che
cerchi di ottenere da un bel po’, Osamu. Da quando hai deciso
questa sfida senza senso tra noi. Comincio a credere che, per te, sia
persino più importante di trovare Miyako.”
Il rumore di passi affrettati era sempre più vicino. Ma la risposta di suo fratello lo distrasse ancora una volta.
“Non
insultare la mia intelligenza e il mio senso del dovere.” Era
diventato di nuovo freddo. Quasi glaciale. Ricordava quasi il tono che
aveva usato l’ultima volta che si erano visti di persona, nel suo
studio, a dividerli un diario e una barriera spessa. “Ciò
che conta di più è trovare Miyako, per me e per noi. Ma
forse quest’esperienza ci permetterà di capire quanto
realmente valiamo … e chi di noi si avvicinerà di
più alla verità.”
Quanto realmente ti infastidisce che io lavori con te, Osamu?
Ma non riuscì a formulare la domanda: non ebbe il coraggio di dar voce ai suoi pensieri.
E non ne ebbe il tempo.
I passi si arrestarono bruscamente accanto a sé, facendolo sussultare.
Alzò lo
sguardo dall’orologio che aveva continuato ad osservare,
voltandosi verso la figura che era appena arrivata.
E il suo cuore mancò un battito.
Ansimava
lievemente, i lunghi capelli neri al vento tenuti fermi solo da un
fermaglio a un lato del viso, le labbra rosee lievemente socchiuse per
respirare meglio, le guance arrossate per la corsa.
E i suoi occhi
castano chiaro erano fissi su di lui, e lo guardavano, un misto di
emozioni contrastanti e così intense che Ken non riuscì
ad interpretarle.
Sapeva solo che una strana sensazione di completezza si era impadronita di lui.
Perché
Miyazawa Rumiko si era presentata lo stesso all’appuntamento,
sebbene fossero le 18:49, sebbene ogni cosa lasciasse intendere che le
cose sarebbero andate diversamente.
Sebbene lui stesso avesse creduto che le sue aspettative sarebbero state vane.
Miyazawa Rumiko era venuta lo stesso. Da lui.
Nonostante il rifiuto ricevuto la prima volta che lo aveva proposto.
Ed era di fronte
a lui, e sembrava guardarlo con stupore come lui guardava lei. Sembrava
che neanche lei sapesse cosa ci faceva lì, cosa l’aveva
spinta ad accettare.
Per un istante non fecero altro che guardarsi negli occhi, senza sapere cos’altro fare.
Finché una voce troppo lontana al suo orecchio non gli ricordò che era ancora al telefono.
“Ken? Ci sei ancora?”
E fu solo allora
che Rumiko distolse lo sguardo da lui, scorgendo il cellulare che lui
reggeva tra le mani, e il suo viso si animò di
un’improvvisa comprensione. Si mise a guardare altrove,
mantenendo una certa distanza come a dirgli di continuare la sua
conversazione, che avrebbe aspettato.
E Ken la fissò ancora, mentre lei osservava il parco con aria fin troppo noncurante.
“Sì, ci sono”, rispose. Come suonava diversa la sua voce, ora. “Dovevi dirmi altro?”
Osamu parve
improvvisamente sorpreso. “Volevo chiederti quale sarà la
tua prossima mossa. Inizierai ad indagare sui nuovi nomi che hai,
immagino.”
E fu con sgomento
che Ken si rese conto che più osservava Rumiko –ora
intenta ad aggiustarsi i capelli- più la sua lucidità in
merito alle indagini andava perdendosi.
Aveva il cuore a mille, e non riusciva a capire come fare per calmarsi.
Finì per
rinunciarci. “Non … sono ancora riuscito a pianificare le
prossime mosse, Osamu. Credo dovrei pensarci ancora un
po’.” E se suo fratello avesse immaginato che il motivo
della sua distrazione era l’improvviso quanto inspiegabile
sussulto che Rumiko aveva appena avuto, di sicuro non ne sarebbe stato
felice. Dovette trattenere un sorrisetto imbarazzato.
Avrebbe fatto meglio a rinunciare a capirsi.
“Ora
scusami, ma devo proprio andare. Ti faccio sapere appena ho
novità”, concluse, e a stento sentì il saluto
perplesso di Osamu prima di chiudere la chiamata.
E il parco calò di nuovo nel silenzio pigro e tranquillo di poco prima.
Lei si
voltò, dandogli un’ulteriore conferma del fatto che doveva
aver sentito tutto ciò che aveva detto a suo fratello da quando
era arrivata. Si avvicinò, incerta, ma sembrava non avere
nessuna intenzione di sfuggire il suo sguardo. Non stavolta.
Quando fu di
fronte a lui ancora una volta, si strinse nella sua giacca bianca, e,
malgrado tutto, il suo sembrava un gesto nervoso.
Ken non sapeva
cosa dire. La presenza di Rumiko lì sembrava irreale.
Inconsistente quanto quel vento che continuava, imperterrito, a
soffiare.
L’aveva
invitata lui. Ma non aveva alcuna idea di come ci si dovesse comportare
in situazioni del genere, né come potesse dirle quanto aveva
temuto che lei non si presentasse, quanto aveva avuto bisogno di
vederla, di sentirla parlare, di ascoltare il suo respiro.
Ma prima che avesse il tempo di formulare una qualsiasi frase, fu la voce piena di disagio di Rumiko a precederlo.
“Sì,
lo so, sono in un ritardo spaventoso. L’appuntamento era alle 18,
e so che eri già qui ad aspettarmi, ma … Beh, non abito
proprio qui vicino, e ho fatto tardi: non ero nemmeno sicura che avrei
fatto in tempo per le 19.” Parlava a raffica, una mano a
giocherellare nervosamente con una ciocca nera, gli occhi che
osservavano ora lui, ora il parco. “Mi dispiace tantissimo,
è quasi un’ora che …”
“Pensavo non saresti venuta.”
Pareva che le
parole avessero deciso di uscire da sole, incontrollate. Rimpianse di
aver dato voce al suo timore infondato appena la frase fu terminata, ma
ormai era tardi: lei si era interrotta bruscamente, sul viso
un’espressione sorpresa.
Il vento le aveva
arrossato lievemente le guance, donandole un aspetto più
tranquillo e meno tormentato, malgrado le occhiaie sempre presenti che
aveva ormai imparato a conoscere da qualche tempo.
Era così
bella, lì in piedi di fronte a lui, che non poteva guardarla
senza provare un tuffo al cuore. Così bella, e così in
armonia con il paesaggio che la circondava.
Forse era per quel motivo che non riusciva a distogliere lo sguardo da lei.
Poi Rumiko
sorrise, e parve quasi esasperata per qualche ragione. La vide
rovistare nella sua borsetta, chiaramente cercando qualcosa con
impazienza. Ken attese in silenzio, chiedendosi cosa stesse facendo.
Infine, gli porse
un piccolo foglio di carta, con aria eloquente. “Avresti saputo
la mia risposta, se non fossi fuggito via dopo avermi lasciato questo in un libro. Forse così non ti saresti preoccupato inutilmente.”
E solo allora Ken
riconobbe in quel foglio la sua scrittura, e la sua impacciata proposta
per un appuntamento. Non poté impedirsi di arrossire, mentre si
acuiva sempre più la sensazione di essere un totale idiota.
Tentò
disperatamente di trovare qualcosa da dire. “Credo non volessi
ripetere l’esperienza di un paio di settimane fa in libreria,
Rumiko-san”, si giustificò. “Allora non mi sembravi
molto felice di passare del tempo … beh, fuori dalla
libreria.”
Con me.
Ma neanche stavolta osò specificare.
Era già
abbastanza insensata la giustificazione che aveva appena dato. Valeva a
dire che era stato troppo vigliacco per prendersi la
responsabilità delle sue azioni.
Rumiko sbatté gli occhi più volte, confusa. “Avevi paura che ti dicessi di no?”
La domanda
schietta di lei non fece altro che imbarazzarlo maggiormente.
Improvvisamente trovò indispensabile osservare un ciliegio di
fronte a sé, pur di non affrontare l’espressione attenta e
sorpresa della giovane. E quando rispose, lo fece evitando la domanda
diretta. “Non volevo costringerti ad accettare solo per farmi un
favore.”
Fu strano
sentirla ridere, all’improvviso. E ascoltarla in silenzio,
totalmente immobile, fu tutto ciò che gli riuscì di fare.
Poteva una risata così solare appartenere alla stessa persona
impaurita e misteriosa che vedeva sempre in libreria?
Quando le
lanciò un’occhiata di sottecchi –poteva quella
risata estendersi anche agli occhi, illuminarle il viso?- vide che il
suo sorriso era davvero ampio e sincero come e più di quello che
si era aspettato. Era molto più simile a quello che aveva scorto
la prima volta, dopo il mancato incidente e la sua storta alla
caviglia. E creava una strana stretta allo stomaco.
Rumiko scosse la
testa, ma nei suoi occhi non c’era derisione. Un’ incredula
meraviglia, semmai. E, di nuovo, una delle tante emozioni tumultuose
che sempre riempivano di vita il suo sguardo. Ken non ne era sicuro, ma
sembrava che lei lo stesse osservando con occhi nuovi. “Scusa se
te lo dico, ma sei stato davvero uno sciocco. Se ti sei preoccupato di
così tante cose –che potessi prendermela, che potessi
accettare solo per farti un favore-, avresti fatto davvero meglio a
chiedermi una risposta subito.”
“E tu mi avresti risposto davvero?”
La domanda cauta
di lui la spiazzò. La vide irrigidirsi, arrossire, abbassare lo
sguardo a terra. Con i denti si tormentava lievemente il labbro
inferiore.
Ken seppe di averci visto giusto. Non avrebbe saputo dargli una risposta.
Sospirò,
osservando il suo disagio, e rendendosi sempre più conto di come
quel rossore contrastasse con il suo sorriso, con il suo sguardo
diretto.
Perché, se
gli ultimi due sembravano aspetti spontanei di lei, il primo sembrava
più indice di una reazione indotta da cause esterne. Sembrava
non rispecchiare il suo essere.
Non era
timidezza, la sua. Ne era sicuro. Era un continuo custodire segreti, in
modo tale che occhi esterni non potessero leggerle l’anima.
Forse non avrebbe
mai saputo il perché di questo comportamento, anche se
desiderava far luce sul mistero con tutto se stesso.
“Rumiko-san”,
disse infine, chiedendosi se fosse stato lui il motivo del nuovo
disagio di lei. “Non volevo forzarti in alcun modo. E’ solo
per questo che sono fuggito via in quel modo, ieri. Mi …
dispiace davvero se ti sono parso scortese.”
Doveva essere di
nuovo avvampato. Perché non sapeva assolutamente come
comportarsi, con lei? Perché, attualmente, anche solo osservare
la sua figura riusciva a sconvolgerlo tanto?
Ma fu proprio
quando Ken si chiese se l’avesse offesa con le sue domande
indiscrete che Rumiko si sedette accanto a lui, sul bordo della
fontana. E per un istante lui non poté fare a meno di accorgersi
della minima distanza che c’era tra loro, e del calore
insopportabile che lo aveva invaso quando lei gli aveva sfiorato
impercettibilmente il braccio con il suo.
Si chiese se
anche lei avesse avvertito qualcosa quando gli occhi sgranati di Rumiko
lo fissarono, per un istante soltanto. Ma non si spostò,
limitandosi solo a voltarsi rapidamente.
Sembrava diversa, quel pomeriggio.
Gli occhi fissi
sul ciliegio di fronte a loro, Rumiko sorrise, distante. “Non sei
stato affatto scortese. Era la prima volta che una persona faceva
così tanto per me, lo sai? E dire che nemmeno mi conosci bene.
Ero … no, sono sconvolta. Ed è anche per questo che ti ho quasi scacciato dal mio negozio, quando mi hai proposto di vederci.”
La sua breve
risata nervosa era imbarazzata, quasi si sentisse in colpa, ma Ken non
riuscì a scorgere la sua espressione. Rumiko era ostinatamente
concentrata sui petali rosa che fluttuavano nell’aria.
“Credo di doverti delle scuse. Chissà che avrai pensato di
me … Non è che io non abbia apprezzato, anzi. Sei stato
molto carino a preoccuparti per me.”
“Ti prego,
Rumiko-san, non è necessario …” tentò Ken,
turbato più che mai dalla confusione scatenata dal suo
complimento. Avrebbe voluto aggiungere che non aveva fatto nulla, che
anzi non gli riusciva di comprendere come mai nessuno si era mai
preoccupato tanto per lei. Ma la giovane sembrava desiderasse in tutti
i modi parlare, e spiegarsi.
“E’
solo che non è facile. Con tutti gli impegni che ho, è
difficile che io … Ecco …” Si torceva le mani, in
difficoltà. “Non sempre posso dedicarmi ad altro,
perché …”
Ken si
accigliò, perplesso. Si vedeva chiaramente che non avrebbe
saputo dargli una risposta, eppure Rumiko si intestardiva. Sembrava
stesse lottando contro la sua abituale riservatezza sul suo conto.
“Non devi
spiegarti per forza. Ho capito”, la zittì lui. Lei si
immobilizzò, sussultando. E Ken lottò contro il desiderio
crescente di sciogliere quelle dita nervosamente intrecciate tra loro,
di dirle che andava tutto bene. Respirò a fondo, tentando di
calmarsi. “Non è necessario che tu mi spieghi ogni cosa,
se non vuoi. Te l’ho detto, non voglio forzarti.”
Per qualche
istante nessuno dei due parlò. Giusto il tempo che occorse a
Rumiko per voltare lievemente il viso, per guardarlo –i suoi
occhi sembravano brillare più che mai: chissà se di
stupore, gratitudine o dolore, questa volta-, per esitare. Aprì
la bocca, l’aria accorata, come desiderasse dirgli altro. Poi la
richiuse, sospirando, e sembrava aver rinunciato al suo intento.
Eppure, fu con
semplicità ed estrema naturalezza che un sorriso luminoso e
grato lo colpì all’improvviso. “Grazie”,
disse. Persino la sua voce tremava lievemente, traboccante di un
sentimento che lui non poteva cogliere.
Il suo cuore
accelerò i battiti nel momento in cui la stretta allo stomaco si
intensificava. “Non ho fatto nulla, Rumiko-san. Davvero.”
Lei non replicò, e la sua affermazione cadde in un nuovo silenzio impacciato.
Ken osservava di
sottecchi la giovane accanto a sé, senza il coraggio necessario
per chiederle di parlare di sé, di dirgli qualsiasi cosa che
potesse riguardarla, solo per ascoltare ancora la sua voce, solo per
sentire del suo passato e del suo presente. Ma non osava neppure
muoversi, sentendo che un minimo spostamento avrebbe potuto portare a
un nuovo contatto fisico, sebbene minimo, con lei.
Rumiko si
guardava intorno con occhi interessati, le guance arrossate per una
strana gioia, le labbra lievemente piegate in un sorriso di
apprezzamento. Aveva una mano tra i capelli, e sembrava lottare contro
il vento che voleva scompigliarglieli.
“Caspita”,
disse poi, e il sorriso divenne più largo. “Non avevo mai
visto questo parco, ma è bellissimo. Hai fatto bene a scegliere
proprio questo posto per incontrarci.”
L’apprezzamento
di lei gli infuse uno strano senso di esultanza. Ricambiò il suo
sorriso, tentando in ogni modo di controllarsi per non lasciar
trapelare troppo dei suoi veri sentimenti. “Davvero …
davvero ti piace?”
Lei annuì
energicamente. “Sul serio. E poi, quei ciliegi lì
…” Li indicò con un dito, per poi stringersi nelle
spalle semplicemente. “So che può apparire scontato
–chi non li ama, dopotutto?-, ma mi mettono una grande gioia
dentro ogni volta che li guardo. Sai, i ciliegi mi ricordano sempre un
sacco di cose …”
La voce si perse
in un sussurro assente, ma il sorriso non lasciò mai le sue
labbra. Ken notò che, per una volta, sembrava davvero rilassata,
senza alcun problema ad affliggerla.
Possibile che fosse avvenuto sul serio quello che aveva sperato? Solo grazie alla sua istintiva proposta?
Avrebbe dato tanto perché fosse così.
“Ora
capisco perché dici di riuscire a rilassarti qui”,
osservò Rumiko nel frattempo, e la curiosità brillava nei
suoi occhi, fissi in quelli di lui. “Sembra che ci sia una pace
totale qui. Anche se da soli forse non farebbe lo stesso effetto. Mi
sbaglio? Il silenzio sarebbe quasi opprimente, e dovresti avere come
minimo qualcosa da fare ogni volta, giusto per non sentire troppa
solitudine.”
Ken era
spiazzato. Forse non l’aveva mai sentita parlare tanto. E la cosa
più strana era che parlava per conoscere lui, per saperne di
più.
Quasi sentisse
anche lei il bisogno di conoscere l’altro, più forte di
qualunque strano timore che l’aveva costretta a zittirsi e ad
arrossire le altre volte.
“Davvero, cosa fai qui ogni volta?”
E ora lo sguardo
di Rumiko era strano, determinato più che mai a conoscere la
risposta. Come se lui avesse potuto fornirle un’informazione di
vitale importanza.
Ken alzò
le spalle, perplesso. “Non lo so, dipende”, rispose
esitando. “Per lo più penso. Questo sembra il posto ideale
per farlo, dato che è così silenzioso e tranquillo.”
“E poi è l’ideale anche per pianificare le prossime mosse, giusto?”
“Eh?”
Ken si
fermò, confuso, sulle prime non comprendendo di cosa lei stesse
parlando. Sapeva solo che il tono di lei era cambiato, che il suo
sorriso era diventato quasi tirato, che i suoi occhi erano inquieti e
diretti allo stesso tempo, che il suo viso era teso nello sforzo di
essere immobile.
E infine comprese. Sgranò gli occhi. “Hai sentito la mia conversazione telefonica, vero?”
Rumiko
annuì, e sembrava impaziente per qualche motivo. “Solo la
fine … è perché ero molto vicina a te. Figurati se
origlio”, si scusò in fretta. Poi rise, nervosamente.
“Si può sapere che … cosa dovessi pianificare?
Sembri una specie di agente segreto in incognito!”
Non sembrava davvero divertita. Semmai spaventata. Ken si accigliò.
“Non sono
un agente segreto”, rispose, esaminando i segni visibili
dell’inquietudine di lei. “Stavo solo parlando con mio
fratello Osamu.”
Non riusciva a
trovare il nesso con il discorso che stavano facendo in precedenza.
Come poteva lei aver pensato a una cosa del genere?
Rumiko
sembrò irrigidirsi. “Tuo fratello …”,
ripeté. E poi si strinse nella giacca bianca. “Posso
capire se a dire una cosa del genere fosse stato tuo fratello, dato che
è … un detective.” Il vento tirò più
forte, e lei rabbrividì. “Ma sei stato tu. Come mai? Che
mosse devi pianificare?”
E Ken
esitò, improvvisamente senza sapere come comportarsi. Non poteva
rivelarle dei dettagli dell’indagine: sapeva che non era
prettamente affar suo. Si parlava del lavoro di suo fratello, lavoro al
quale lui stava lavorando da ben otto anni. E non conosceva abbastanza
Rumiko da poterle rivelare una cosa del genere.
“E’ …”, tentò, senza parole. “E’ lungo da spiegare, Rumiko-san.”
Il viso di lei
sembrò animarsi di una nuova forza. “Non ho fretta,
sai?” Gli sorrise piano, incoraggiante. “Dai, ti
ascolto.”
Fu il suo sorriso
a far vacillare la sua certezza. Fu il suo sorriso a farlo esitare
ancora. Più lo guardava, più si chiedeva perché
mai dovesse mantenere il segreto con lei.
Era assurdo. Ma sapeva di potersi fidare di lei, contro ogni logica e avvertimento.
Dopotutto, il caso non era più solo di Osamu. Era anche suo. Riguardava lui.
Non voleva forse farsi conoscere da lei, quel pomeriggio?
E d’altronde, molte notizie erano anche uscite sul giornale, a detta di suo fratello. Solo le più importanti.
Decise che le avrebbe spiegato solo i dati generali, niente di più.
Sospirò,
arrendendosi. “Il fatto è che sto aiutando mio fratello in
un caso difficile. Siccome lavoriamo in maniera indipendente, ognuno
indaga per conto suo, per poi … tenerci aggiornati.” Forse
avrebbe dovuto dire che era solo lui ad aggiornare l’altro, e non
il contrario. Ma non commentò, limitandosi ad incupirsi.
Ma lei non si
concentrò su questo suo cambiamento d’umore. Sembrò
pietrificarsi all’improvviso, invece. “Svolgi …
indagini anche tu?”
Lui annuì.
“Una sola, per il momento, ed è una specie di …
prova, mettiamola così. Per vedere se me la cavo bene.”
Era così strano ricordare quanto, la prima volta che Osamu
gliene aveva parlato, si era sentito pronto a tutto pur di dimostrargli
quanto valeva. Ora non capiva nemmeno esattamente come potesse essere
cambiata la situazione. Sorrise tra sé, intrecciando le mani tra
loro. “So che è assurdo parlare in questi termini di
un’indagine, ma Osamu preferisce vedere con i suoi occhi i miei
progressi, e stabilire di persona se sono uno sciocco o meno.”
La voce di Rumiko
era quasi un sussurro. Sentiva il suo sguardo addosso, ma per qualche
motivo non riuscì a incrociarlo. “Un’indagine
difficile come primo caso? Cosa devi fare?”
A cosa serviva tenere ancora il segreto, dopotutto?
Ken si
ritrovò improvvisamente desideroso di parlare, di spiegare, di
farsi capire. Non gli era mai successo, prima d’ora.
“Più che altro un’indagine lunga: dura da otto
anni”, le rispose, lanciandole un’occhiata in tralice.
“Si tratta di ritrovare una ragazza scomparsa di nome Inoue Miyako.”
Si aspettava,
senza alcun motivo apparente, che quel nome non le avrebbe detto nulla,
come era successo a lui la prima volta che Osamu aveva nominato la
ragazza scomparsa.
Fu per questo che rimase sorpreso dallo scatto che Rumiko fece sul posto non appena ebbe terminato la frase.
E non poté
mascherare la sorpresa, quando si voltò verso di lei ancora una
volta. “La conosci?”, le chiese, accigliandosi.
“No!”
La voce di lei era insolitamente acuta. E sembrava esser diventata
bianca come un lenzuolo tutto d’un tratto. Quel cambiamento lo
impensierì, ma non riuscì a spiegarselo. “E’
che so … Ho letto i giornali, e sapevo che tuo fratello la
stesse cercando da qualche tempo. E’ solo che non pensavo che
anche tu …”
“Rumiko-san, stai bene?”
Lo sguardo di Ken
si era posato sulle mani che stringevano le maniche della giacca, e si
era accorto che tremavano. E anche quel pallore improvviso era
preoccupante.
Ho detto qualcosa che non va?
Lei annuì in fretta. “Sì. Sì che sto bene.”
Ma aveva anche le labbra livide. Ken le guardò, impotente, per qualche istante.
Era così diverso dal colore rosato che avevano tutte le volte che il suo sguardo si soffermava su di loro …
Si riscosse all’improvviso, arrossendo furiosamente. Non era davvero il momento. Sembrava che Rumiko stesse male.
Fece per alzarsi. “Vado a prenderti qualcosa da bere. Aspettami qui, non ci metterò molto.”
“No, resta-“
Fu impulsivo. Lei
tese una mano, sembrò volerlo trattenere per un braccio. Si
fermò solo a un centimetro da lui, incerta, come se non sapesse
cosa fare.
Ken trattenne il fiato, immobilizzandosi.
Infine, lei
abbassò il braccio. E sebbene apparisse così debole,
così pallida, la supplica nei suoi occhi fu così forte
che arrivò a lui in maniera quasi dolorosa. “Ti prego,
resta. Non andare via. Dev’essere solo un po’ di bassa
pressione, non mi succederà nulla.”
Rimase muto,
incapace di comprendere cosa avesse scatenato quella sofferenza, quella
richiesta, quel tentato contatto istintivo. Non sapeva cosa fare per
lei, come potesse aiutarla.
Ma ancora una
volta aveva avuto l’impressione che lei avesse bisogno di lui.
Come il giorno prima in libreria, quando lui le aveva detto che sarebbe
andato via subito, e lei aveva assunto quello sguardo smarrito, quasi
ferito. Così improvvisamente fragile.
Il pensiero
sembrò scaldargli il cuore ancora una volta, per quanto fosse
improbabile. La sua espressione si ammorbidì. “Dimmi solo
cosa posso fare per te.” Le disse infine.
Lei esitò.
“Se non sbaglio …” Un pallido sorriso piegò
le sue labbra. “Mi stavi raccontando di quest’indagine.
Puoi sempre riprendere il discorso.”
Ken era sorpreso.
Si sarebbe aspettato di tutto, ma non quello. “Come mai vuoi che
parli della mia indagine?” Era uno strano argomento di
conversazione. “Pensavo non ti piacessero cose di questo
genere.”
“Lo so, infatti non mi piacciono. Ma è perché … parla di te, no?”
La schiettezza
con cui Rumiko parlò aveva dell’incredibile. Come se, per
una volta, non avesse alcun problema a dirgli quello che pensava.
“Voglio
sapere cosa ci sia dietro. Chi sia Ichijouji Ken, quali siano le sue
aspirazioni e i suoi sogni.” Sospirò, e per un istante
chiuse gli occhi. Probabilmente cercava di reagire al suo
scombussolamento fisico in questo modo. “E come mai abbia deciso
di cercare … Inoue Miyako, anche se questo compito non lo
compete.”
Anche quando riaprì gli occhi, evitò il suo sguardo, facendogli però intendere che lo ascoltava.
Ken la
guardò, incerto, non sapendo da che punto iniziare. Non si era
mai raccontato a qualcuno, e ora che aveva l’opportunità
di farlo era a disagio. Cosa mai avrebbe potuto dirle?
Si
appigliò con tutte le sue forze alla certezza che lei voleva
sapere, che non l’avrebbe annoiata, che era ciò che voleva
anche lui.
E infine trasse
un respiro profondo. “Lo so che non mi compete”,
iniziò, esitante. “Ma se c’è una cosa che so
è che è ciò che io ritengo giusto fare.
Investigare …” Perché era così difficile
spiegarsi a lei? Perché non poteva essere spontaneo come avrebbe
voluto? “E’ la mia passione. Ho sempre seguito mio
fratello, ed è stato grazie a lui, indirettamente, che ho
scoperto quest’importante parte di me. I romanzi gialli sono
stati il mio punto di partenza: Osamu è stato il mio punto di
riferimento, sempre. E … prima ancora che potessi accorgermene
io stesso … ci ero già dentro fino al collo.”
“E perché ti esalta così tanto analizzare crimini o sparizioni? Cosa c’è di bello?”
Non era solo la
domanda ad essere più complicata: avere i suoi seri occhi
castani puntati su di lui lo metteva ulteriormente in
difficoltà. Si sforzò di mantenersi lucido. “Non
è esattamente qualcosa di … bello.
E’ proprio perché i crimini sono intollerabili che si
cerca in ogni modo di svelarne e fermarne i criminali. E’
proprio perché le sparizioni sono ingiuste che si fa di tutto
per ritrovare chi manca. Capisci, ciò che è bello non
è tanto sentirti fiero di essere arrivato alla soluzione giusta:
è capire che ti sei impegnato al massimo per rendere giustizia,
e che il tuo proposito è riuscito. E anche … sapere che i
crimini non si fermeranno, ma che tu sarai sempre lì per fare il
possibile, che non mollerai.”
Incrociò
il suo sguardo, perdendosi per un istante negli occhi sgranati di lei.
Sembravano così luminosi, alla luce morente del sole
pomeridiano. Ed era così semplice continuare a parlare, ora che
aveva iniziato. “Inoue Miyako è sparita da otto anni,
Rumiko-san. Ho visto cose …” Il viso della signora Inoue,
di suo marito, dei suoi figli passò davanti ai suoi occhi: il
ricordo causò la smorfia sulle sue labbra. “Dolore.
Strazio, sensi di colpa. Non riesco a pensare che non ci sia
un’alternativa … e non riesco a stare con le mani in mano.
Ho davvero poca esperienza, scarso spirito deduttivo e pochi risultati
dalla mia, e di sicuro non valgo quanto Osamu. Ma se posso fare
qualcosa –qualsiasi cosa- per ritrovare quella ragazza, allora lo
farò. Non voglio darmi per vinto.”
Rumiko lo fissava, muta, le labbra strette. Non disse nulla, ma non ruppe il contatto visivo.
Dal canto suo, a
Ken sembrava di liberarsi di un gran peso. Non si era mai sentito
così, ma non voleva che quella sensazione svanisse. Si
ritrovò a parlare automaticamente, ormai ogni disagio sparito.
“Osamu mi ha proposto di aiutarlo poco tempo fa, dato che non
vuole ancora darsi per vinto, nonostante siano passati anni. Mio
fratello è orgoglioso, ma sa quali siano le priorità: ha
anteposto Inoue Miyako alla sua dignità. Mi ha detto che
è la mia occasione … che potevo tentare. Tentare di
essere come lui.”
Fu lui a guardare
altrove, stavolta. Non voleva che lei gli leggesse negli occhi
quell’amarezza che lo aveva colto da qualche settimana.
“Ma
qualcosa non dev’essere andato come voleva … Come volevamo
entrambi”, si corresse subito, con un sorriso ironico. “Lui
si è pentito della sua scelta, perché questo ha messo in
discussione le sue abilità e i suoi successi. Credo si sia
sentito scavalcato da me.”
“Perché?”
Se gli riuscì di sentire il sussurro di Rumiko, fu solo per la
vicinanza che c’era tra loro: quasi era soffocato dal rumore
della fontana alle loro spalle.
Lui alzò
le spalle. “Ho trovato una prova interessante, che per qualche
motivo a lui era sfuggita per tutto questo tempo. E’ stata
fortuna, ma lui non l’ha vista così. E’ da allora
che mi considera un rivale. Credo che il suo orgoglio sia stato
fortemente intaccato da questo, e che voglia riaffermare in ogni modo
la sua superiorità in campo investigativo.”
La conversazione
telefonica avvenuta diversi minuti prima gli tornò
improvvisamente alla memoria. E Ken si sentì molto sciocco,
molto infantile ad aver frainteso ogni cosa. Strinse i pugni.
“Lo sai,
Rumiko-san”, riprese a bassa voce, una controllata rassegnazione
che trapelava da ogni sua parola. “C’è sempre stato
un motivo più egoista che mi ha spinto ad accettare di aiutare
mio fratello nell’indagine. Mi fa davvero poco onore, ma è
così. Tra me e Osamu non c’è mai stato un bel
rapporto: siamo entrambi schivi, solitari, ben poco affettuosi. Ma
credimi, ho sempre voluto che lui potesse fidarsi di me … e ora
che considero le cose come stanno, posso assicurarti che lui non si
è mai fidato di me. Ora sono un ostacolo per lui. Ma se ho
accettato …” Si sentì invadere
dall’imbarazzo, una sensazione sgradevole e insopportabile. Ma
non si tirò indietro. Non poteva non rivelarle anche quella
verità. “E’ stato anche perché volevo
dimostrargli che potevo essergli d’aiuto. Che insieme ce
l’avremmo fatta. Se avessi ritrovato Inoue Miyako con lui
… magari qualcosa sarebbe cambiata, mi dicevo.”
Rise piano. Fu la risata più strana e distaccata che mai avesse sentito uscire dalle sue labbra.
“Ma sono uno sciocco sentimentale. Ho solo peggiorato le cose.”
E poi successe tutto così in fretta che a stento la sua mente riuscì a stare al passo con le azioni.
Fu il calore
sulla sua mano a farlo fermare. Un calore gentile, fermo, posatosi
improvvisamente sul dorso della sua mano sinistra.
E fu solo un movimento del capo, degli occhi, a rivelargli la verità.
Le dita strette
intorno alle sue nocche contratte, la mano di Rumiko stringeva
fermamente ma dolcemente la sua pelle, infondendogli calore. Malgrado
il lieve tremore che avvertiva a stento, malgrado il vento fresco che
agitava gli alberi e la sua chioma nera.
Quel contatto bastò per rendere incontrollabili i battiti del suo cuore.
Bastò per costringerlo a guardarla di nuovo, per scoprire ciò che davvero aveva scatenato quella reazione.
Gli occhi di Rumiko brillavano, e tra le ciglia sembrava trattenere le lacrime. Ed erano intensi, partecipi, tristi, belli, così belli. Belli come il suo viso, come le sue labbra, come il sentimento che sembrava sconvolgerla a tal punto.
Belli come la sua
voce. “Non sei uno sciocco, sei umano. Gli vuoi bene … Si
vede quanto. Io … mi dispiace. Mi dispiace tantissimo, Ken-kun.”
Belli come il suo tono spezzato, e il suo indugiare sul suo nome.
Belli come
quell’eco scatenata dal ricordo, che ripeteva quella parola come
fosse una scoperta. Belli come il suono che aveva il suo nome
pronunciato da lei.
Ken-kun. Ken-kun. Ken-kun.
Come il calore della sua pelle, e delle sue dita lunghe e sottili.
Come il calore che cresceva, incontrollato, dentro di sé …
Non conosceva
più nulla che non fosse Rumiko. O quel bisogno che sentì
diventare sempre più forte, bisogno che non poté
più controllare.
Poteva essere sbagliato. Poteva essere affrettato.
Ma la sua mano
destra si posò sulla pelle calda della sua mano, e, esitante, le
sfiorò la sua. Le sue dita, le sue nocche, il dorso, fino a
passare il pollice sulla parte superiore del polso, solo per scoprire
se la sua pelle era davvero così morbida, così delicata
come sembrava.
Quando si
fermò, la sentì rabbrividire lievemente. E poi
posò ancora il suo sguardo sul suo volto, solo per perdere il
respiro una volta di più.
Chissà
come sarebbe stato, sfiorare la pelle del suo viso. O quelle labbra,
ora leggermente dischiuse. Avvicinarsi solo un attimo, per sentire su
di sé la consistenza vellutata di petali di ciliegio, come
quelli che il vento trasportava ancora nell’aria.
Per poter saggiare la dolcezza di quelle labbra …
Ma gli occhi di
lei, spalancati, lo fissavano muti, in silenzio domandandogli cosa
avesse intenzione di fare. E solo allora Ken ritrovò la
cognizione del tempo, e seppe ciò che aveva rischiato.
Il turbamento che ne conseguì lo sconvolse fin nelle ossa. Si sentiva fuori controllo.
Sospirò, e
malgrado tutto, fu con riluttanza che lasciò la sua mano. Gli
era persino impossibile regolarizzare il respiro.
Rumiko fece
lo stesso dopo appena alcuni secondi di tremante esitazione: si
voltò, lasciando che più ciocche di capelli neri
celassero il suo viso allo sguardo di lui.
Fu con esitazione
che lui parlò ancora, accuratamente evitando di guardarla per
non farsi sopraffare da quegli strani bisogni che lo avevano quasi
colto impreparato. Si sentiva molto sciocco e impacciato, ma sapeva con
tutto se stesso che avrebbe dovuto dirle qualcosa.
“Grazie.”
Lei sussultò quasi impercettibilmente, ma lui lo notò con la coda dell’occhio. “Di cosa?”
Eppure, qualunque
parola non sarebbe bastata per spiegarle ciò che sentiva.
Avrebbe solo reso più banale il tutto, e niente avrebbe
più avuto lo stesso significato. Scosse la testa, nuovamente a
disagio. “Grazie e basta, Rumiko-san.”
Un istante di silenzio; poi lei ridacchiò piano, una strana risata tremante e incerta.
“E’ inutile. Non capisco le tue stranezze.”
“Forse non c’è nulla da capire, dopotutto.”
Rumiko colse a
sorpresa il suo sguardo di sottecchi: prima che Ken potesse decidersi a
distoglierlo, il sorriso di lei lo fermò.
Amaro, pieno di strana tristezza … ma era solo per lui.
Non poté fare a meno di ricambiarlo.
E solo per lui,
nella sua testa, le parole mancanti che non le aveva rivolto
risuonarono più forti che mai, segrete e impenetrabili, ma mai
tanto sentite come in quel momento.
Grazie per essere qui con me ora.
Neanche
a farlo
apposta aggiorno a un mese esatto dallo scorso capitolo xD quando si
dice il caso ... Bene, che dire, ecco il nuovo capitolo di questa
long-fic :) probabilmente è uscito fin troppo lungo, ma che
potevo
farci? Sto diventando sempre più logorroica ^^' soprattutto
quando
tratto di questi due. Ci tenevo a soffermarmi un po' su questo
appuntamento, dal momento che è di grande importanza per
l'evoluzione
del loro -difficile- rapporto. A proposito, perdonatemi il
cliché dei ciliegi in fiore, ma non ho resistito alla tentazione
^//^ considerando poi che era già in progetto che fossimo in
questo periodo dell'anno, non ho potuto non sfruttare la cosa. E ...
sì, Miyako si è presentata alla
fine ^^ figuriamoci se avrei lasciato quel poverino ad aspettarla
da
solo in quel parco! Su ciò che succederà ora che lui le
ha
rivelato di star aiutando suo fratello, vi rimando al prossimo capitolo
:) e vi annuncio subito che sarà diverso dai miei soliti
standard:
tratterò di Hikari e Takeru e Miyako e Ken contemporaneamente, e
tratterò di tutto ciò che ho lasciato indietro negli
ultimi due
capitoli!
Ringrazio Shine,
come sempre, anche per essere riuscita ad apprezzare Daisuke per una
volta xD onorata, so che non ti è molto simpatico solitamente: è un
gran risultato :) immagino che ti abbia sconvolta la faccenda di
Deguchi, ma porta pazienza: da qui in poi le scoperte sul passato
saranno più frequenti, te lo garantisco :)
Non so quando tornerò con
l'aggiornamento causa inizio della scuola, ma spero di farlo il prima
possibile! Intanto grazie per continuare a leggere la mia storia ^^
Padme Undomiel
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Capitolo 21 *** Purezza ***
Purity 20
20.
Purezza
Il soffio del vento nelle orecchie era l’unico suono che
interrompeva il silenzio, in quell’angolo di giardino non
frequentato dai bambini.
E Takeru sedeva
immobile, lo sguardo perso nei raggi rosati del sole che, lentamente ma
inesorabilmente, tramontava al di là di quegli alti edifici. Li
fissava, ma senza vederli.
I suoi pensieri
incoerenti catturavano la sua attenzione senza che ci fosse
possibilità di scelta. Gli sembrava quasi che il tempo si fosse
fermato da quell’istante di qualche minuto prima –o erano
ore?-, perché la sua mente non faceva che ripetere ogni singolo
momento di quella scoperta sconvolgente. Di quell’ennesima
dimostrazione che tutto era fin troppo fragile, instabile.
Persino quel luogo.
L’angoscia, il
rancore e un grande senso di abbattimento si agitarono in maniera
scomposta nel suo animo, tormentandolo in ogni modo.
Era già tutto sul punto di finire, di crollare?
“Rischiamo di chiudere l’orfanotrofio per mancanza di soldi.”
Non si era accorto di
nulla. Dell’instabilità di quella villa poderosa, della
disperazione dei ragazzi che se n’erano presi cura da tanto,
della precarietà della condizione dei bambini.
Tutto ciò che aveva visto, che aveva voluto vedere, era solo una menzogna.
E improvvisamente un
senso di profonda delusione lo sconvolse, mentre sentiva più
concreta che mai la presenza muta di Hikari seduta al suo fianco
sull’erba, malinconica e assente.
Lei lo aveva portato
fuori da quella stanza in penombra, promettendogli che gli avrebbe
svelato ogni cosa. Ma, pur essendo arrivati da qualche tempo, nessuno
dei due aveva ancora aperto bocca. Takeru era come pietrificato.
Non riusciva a credere
che persino lei gli avesse fatto una cosa del genere. Cosa aveva
cercato di fare? Voleva forse donargli un’illusione passeggera,
per poi mandarlo via una volta che quell’orfanotrofio fosse
caduto in disgrazia?
Le era parso così degno di compassione?
“Da quanto tempo si è creata questa situazione?”
Parlò
automaticamente, prima ancora di rendersi conto che il silenzio
artefatto di quel pomeriggio era stato spezzato. Hikari sembrò
irrigidirsi, distolta dalla contemplazione silenziosa del cielo che li
sovrastava.
“Non molto tempo.
Direi … qualche mese.” E la sua voce non tremava
più come era successo in quella stanza, e i suoi occhi non erano
più bagnati di lacrime. Se non l’avesse vista perdere il
controllo in quel modo, Takeru avrebbe giurato che la malinconia di
Hikari fosse del tutto normale, e non quel tormento contenuto che
l’aveva quasi spezzata poco prima.
Ma la risposta bruciò come acido dentro di lui.
Si girò verso di
lei, gli occhi stretti a fessura. E quando parlò, non fu
sorpreso di sentire una nota di rancore nella sua voce. “Qualche
mese … E’ meno recente del mio arrivo qui, allora. Posso
sapere perché me lo avete tenuto nascosto per così tanto
tempo?”
Si accorse
improvvisamente che l’espressione di Hikari era ferita, ma non
riuscì a preoccuparsene in quel momento. Era troppo pieno della
sua angoscia e tristezza per poter pensare di moderare il tono e i
termini. Voleva solo una risposta soddisfacente.
“Lo so che sei
arrabbiato, Takeru-kun. Mi dispiace davvero”, replicò dopo
un istante di silenzio. E nei suoi occhi c’era la supplica, ora.
“Avrei dovuto parlartene a suo tempo, ma non ce l’ho
fatta.”
“Certo. E adesso
mi ritrovo con l’ennesima certezza che i sogni sono solo castelli
di carta, che un vento impetuoso può spazzar via in un
attimo.” Era scattato, incapace di controllarsi. Man mano che
Hikari parlava, sentiva un senso di amarezza e disillusione crescere
dentro di sé: era una delle sensazioni più insopportabili
che conosceva. “La cosa peggiore, però, è che in
questo grande progetto io ci avevo creduto, per qualche sciocco motivo.
Forse perché tu hai fatto di tutto per convincermi che i sogni
fossero realizzabili grazie alla semplicità …”
“Io credo davvero
a quello che ti ho detto! Ti ho solo mostrato la fiducia incrollabile
di mia madre, non ti ho mai nascosto che avessimo delle
difficoltà anche noi …”
“E allora perché mi hai tenuto nascosto una cosa del genere? Che motivo c’era di illudermi?”
“Perché ero io a volermi illudere che tutto questo non stesse succedendo!”
Takeru si fermò
di botto, come se avesse ricevuto uno schiaffo. Gli occhi arrossati di
Hikari erano fissi nei suoi, e il sentimento di tristezza che vi lesse
al loro interno fu così straziante che in un istante ogni rabbia
e rancore svanì com’era venuto.
Sembrava che le avesse fatto del male.
E il senso di colpa per
come l’aveva trattata, dopo tutto ciò che lei aveva fatto
per lui sempre, riuscì a spazzar via quella coltre di nebbia che
aveva annebbiato la sua percezione della realtà.
Era stato davvero così egoista da concentrarsi solo su se stesso, senza domandarsi quanto lei stesse soffrendo?
La vergogna per
ciò che aveva fatto lo costrinse a distogliere lo sguardo da
lei. “Scusami, Hikari-chan.” Sussurrò. “Non ho
alcuna idea di come ti senta tu, dopo una notizia del genere. Ti ho
attaccata senza cercare di comprendere le tue ragioni.”
Per un istante fu solo il vento a rumoreggiare tra loro, incurante di ogni cosa.
Infine, Hikari
parlò, e nella sua voce non c’era nessuna traccia di
rabbia. “No, tu hai ragione: è stato sciocco da parte mia
voler chiudere gli occhi di fronte alla realtà.”
Takeru la guardò
di sottecchi, e la vide di nuovo assente, gli occhi castani fissi di
fronte a sé. Sembrava essere totalmente in un’altra
dimensione. La visione fu capace di riempirlo di un’angoscia
inspiegabile. “E’ umano comportarsi così”,
tentò, incerto.
Hikari scosse la testa,
rilasciando un lungo sospiro. “Ma non avrei dovuto”,
concluse, con tono definitivo. “E’ solo che fa male
… più di quanto si possa immaginare. Sto venendo meno a
tante promesse che ho fatto …”
L’ultima affermazione lo sorprese. Takeru aggrottò le sopracciglia, confuso. “Promesse?”
La vide annuire, e
attese ulteriori spiegazioni in silenzio. “Quando intraprendi
un’iniziativa seria a tal punto è difficile che tutto vada
per il verso giusto. Ma io avevo giurato che avrei fatto il possibile
per crescere quei bambini, e che ci sarei riuscita. Fallendo nel mio
proposito deluderei troppe persone alle quali ho fatto questa promessa
…”
La voce di lei si spense.
Ma Takeru non aveva
intenzione di darsi per vinto. Era la prima volta che lei si apriva
tanto con lui, che fosse lui a consolare qualcun altro, e non il
contrario: aveva un desiderio incontrollabile di conoscerla meglio, di
aiutarla come poteva.
“Posso chiederti
a chi hai fatto questa promessa?”, continuò, mantenendosi
però discreto per quanto possibile. Un’illuminazione
improvvisa lo fece immobilizzare. “A tua madre, giusto?”
Era più un’affermazione che una domanda, ma Takeru attese ugualmente la risposta.
Come previsto, il viso
di Hikari si rattristò ulteriormente. Annuì.
“Sì. Non potevo non giurarlo a lei, dal momento che
è grazie a lei che esiste tutto questo. Ma l’ho promesso
anche a Taichi, a Sora, a Mimi, a Koushiro, a Jyou, che portano avanti
con me questo progetto tanto difficoltoso …”
Giusto. Non ci aveva
pensato. Sospirò, serio. “Ma anche loro sono sulla stessa
barca, e saranno sconfortati come te. Non credo tu debba loro
qualcosa.”
Hikari lo fissò
all’improvviso, e Takeru sussultò. Quell’aria spenta
non aveva mai ingrigito il suo viso, in tutti i giorni in cui aveva
parlato con lei: sembrava innaturale, ingiusto. “Ma non
l’ho promesso solo a loro”, commentò semplicemente,
senza aggiungere altro.
Per quanto si
sforzasse, non gli riuscì di comprendere a chi lei si stesse
riferendo. Batté le palpebre. “E a chi altro?”
Per un momento lei non
fece altro che tacere, i capelli scomposti per via del vento impetuoso,
il viso serio e intenso. Poi si alzò, e i suoi occhi scuri erano
animati di una strana luce, che lui non comprese.
“A qualcuno che
più di tutti meritava una promessa del genere”, disse
infine. Poi sospirò. “Potresti aspettarmi un attimo qui?
Voglio mostrarti una cosa.”
“Eh?”
Takeru era spiazzato. Non riusciva davvero a capirla, né sapeva
se fosse saggio lasciarla andare da sola chissà dove. Sembrava
molto sconvolta. “Cosa devi mostrarmi?”
La vide alzare le
spalle. “Qualcosa che sempre mi ha spinto a impegnarmi con tutta
me stessa in quello che faccio, anche se risale a sette anni fa”,
disse soltanto.
E a Takeru non rimase
che restare seduto lì, confuso e perplesso, mentre Hikari si
allontanava rapidamente e temporaneamente da lui.
***
La decisione di camminare un po’ sotto ai ciliegi che
ondeggiavano al vento era stata sua. Era saltata su
all’improvviso, annunciando che sarebbe stato un peccato rimanere
seduti senza osservare da vicino quella meraviglia, e lui l’aveva
accontentata, sorpreso ancora una volta dai suoi continui cambiamenti
d’umore.
Anche in quel momento
Ken non poteva fare a meno di restare leggermente indietro ad
osservarla, mentre lei camminava tranquillamente osservando ciò
che tanto l’aveva colpita quando era arrivata
all’appuntamento.
Forse
l’appuntamento non era un granché, forse lui avrebbe
dovuto essere una persona più socievole. Ma sembrava che Rumiko
amasse quel luogo.
La vedeva voltarsi
più volte da una parte e dall’altra, intenzionata a
osservare tutto ciò che aveva davanti agli occhi, e il suo passo
era tranquillo, appagato. Con una mano sfiorava i rami più
vicini, come a voler saggiare la delicatezza dei suoi fiori, e non
sembrava lamentarsi nemmeno quando alcuni petali dispettosi si
staccavano dagli alberi e, mossi dal vento impetuoso, si intrecciavano
ai suoi capelli neri.
Forse non si sarebbe
mai stancato di guardarla. Sembrava più spontanea, quel
pomeriggio, insieme a lui. Sembrava naturale, semplice, più
affascinante che mai.
E non l’aveva mai notato fino a quel momento, ma c’era un particolare nuovo nel suo incedere tranquillo.
Si affrettò a raggiungerla. “Rumiko-san?”
Lei si voltò, continuando però a camminare piano. “Dimmi.”
“Mi chiedevo
…” Ken esitò, non sapendo come porre la domanda
senza apparire indiscreto. “La tua caviglia va meglio? Vedo che
non zoppichi più, neanche un po’.”
E fu ben chiaro che
l’aveva colta alla sprovvista. La vide sgranare gli occhi,
abbassarli repentinamente sulla sua caviglia, per poi risollevarli per
posarsi su di lui. All’improvviso, i suoi occhi castani avevano
una strana luce divertita. “Sai che ho anche corso per venire
qui, Ken-kun?”, scherzò, con un sorriso. “Direi che
sta più che bene. Non mi fa nessun male.”
Non ci aveva fatto
caso, preso com’era stato dalla gioia di vederla presentarsi
all’appuntamento. Sorrise in risposta, imbarazzato. “Hai
ragione, scusa”, disse in fretta. Poi guardò altrove, ben
deciso a dirle qualsiasi cosa. “Sono … mi fa piacere che
stia meglio.”
Avrebbe dato chissà cosa perché non gli fosse così difficile dirle quello che pensava.
Rumiko alzò le
spalle, con aria tranquilla. “Almeno adesso non dovrai
preoccuparti che possa farmi male per strada, come l’ultima
volta”, gli ricordò, prendendolo bonariamente in giro.
“Sembravi davvero intenzionato a chiamarmi un taxi, pur di non
farmi camminare. Te lo hanno mai detto che sei troppo apprensivo?”
Era assurdo che
sminuisse così tanto la portata della sua storta alla caviglia.
Ken si accigliò. “Non sono troppo apprensivo: sarebbe
stato davvero meglio che non ti fossi sforzata”, si difese.
Lei sospirò,
esasperata. “Andiamo, era una cosa da nulla. E poi camminare
è molto più salutare che prendere un mezzo pubblico, ti
sembra?”
Parlò come se
fosse a conoscenza di un dato di fatto inattaccabile, e per un momento
fu capace di zittirlo, sorpreso. Pareva che di faccia tosta ne avesse
da vendere.
“Rumiko-san,
camminare è salutare per chi non ha una caviglia
dolorante”, insistette. “E non sembrava una cosa da nulla,
vista la portata dell’urto che hai preso quel pomeriggio in
strada.”
All’improvviso
Rumiko parve irrigidirsi, come se il semplice accenno a quel mancato
incidente fosse capace di incupirla. Lo guardò, e nei suoi occhi
Ken lesse improvvisamente il tormento che lei cercava in ogni modo di
reprimere, mai riuscendoci del tutto. “Ti preoccupi per nulla.
Era una storta come un’altra, tutto qui. Ero perfettamente in
grado di camminare da sola. Davvero, grazie per l’interesse, ma
non ce n’è bisogno.”
E prima che lui potesse
replicare alcunché, sorpreso e attonito com’era, lei
accelerò lievemente il passo, sorpassandolo.
Probabilmente aveva
esagerato con l’invadenza, si disse, maledicendosi. Probabilmente
lei non aveva alcuna voglia di ripensare a quell’avvenimento. Che
cosa gli era preso?
Allungò il passo
quel tanto che bastava per raggiungerla, deciso a rimediare al suo
errore. Rumiko camminava accanto a lui, il viso rivolto altrove, e non
sembrava nemmeno più interessata ai ciliegi.
Ken sospirò. Di
tutti i momenti meno indicati per mettersi a parlare, lui aveva scelto
il peggiore. “Ti sei offesa? Non ne parliamo più, se vuoi.
Mi dispiace”, disse, guardandola esitante e sperando che lei si
decidesse a voltarsi.
Ma non si aspettava
davvero che si fermasse bruscamente, e che lo guardasse di nuovo. E la
sua espressione era di nuovo cambiata, notò. Era un misto di
tristezza e confusione, e forse anche frustrazione.
“No, non sono
offesa”, si arrese con un sospiro. “E’ solo che non
capisco. Non capisco nulla. Perché sei così preoccupato
per la mia salute? Lo sei sempre stato, da quell’incidente
mancato fino ad oggi. Ho pensato fosse solo gentilezza per troppo
tempo: adesso tutto questo non mi quadra più.
Perché?”
E la domanda si fece più insistente tramite i suoi occhi castano chiaro, intensi e tormentati.
Domanda alla quale Ken
scoprì, attonito, di non avere una risposta. Aveva agito
istintivamente da quei giorni, ogni volta che si trattava di Rumiko.
Non si era mai chiesto perché fosse così attento a tutto
ciò che la riguardava.
E ora non sapeva che risposta darle.
Per il dolore che le
aveva letto sul viso dopo che, zoppicante, si era mescolata alla folla?
Per la forza d’animo che aveva scoperto il pomeriggio seguente,
quando l’aveva vista zoppicare cantando, come se nulla fosse?
Per questo suo continuo
passare da un’emozione all’altra, tanto facilmente quanto
visibilmente, in una maniera che aveva dell’incredibile?
Perché rappresentava un mistero in tutto e per tutto? Per il bisogno che lei sembrava avere di lui?
Per l’attrazione inspiegabile che sentiva per lei?
Fu per questa sua
improvvisa incertezza, e per l’imbarazzo profondo che sentiva a
esporsi tanto, che si risolse a risponderle in maniera più
neutra possibile. “Hai rischiato la vita per salvare un bambino
che non conoscevi nemmeno, quel giorno, Rumiko-san”, disse
infine, serio. Lei si irrigidì. “Avrebbe potuto andarti
molto peggio, e lo sapevi anche tu. Eppure non hai esitato a mettere a
repentaglio la tua vita in maniera tanto istintiva e inconsapevole. E
non solo: il giorno dopo eri perfettamente tranquilla, come se non
fosse successo nulla. E’ difficile capire quando soffri o
no … E credo che chiunque si preoccuperebbe.”
Si zittì,
affrontando lo sguardo sconvolto di lei per qualche istante. Forse non
avrebbe dovuto chiederglielo, ma non poté nulla contro il
desiderio che aveva di comprenderla meglio. “Ma io …
vorrei conoscere il motivo di tutto questo, se per te non è un
problema”, concluse, con maggiore prudenza.
Rumiko chinò il
capo, sfuggendo al suo sguardo. Sembrava fosse di nuovo interessata dai
petali rosa che il vento portava con sé, come se solo quella
visione potesse dirle se sarebbe stato più saggio parlare o
tacere.
Il rumore assordante del silenzio e dell’ansia nelle orecchie, Ken aspettava, muto e immobile.
Ma fu proprio quando
cominciava a perdere la speranza di avere una qualsiasi risposta che un
sussurro quasi inudibile lo fermò.
“Per la libertà che lui ha … e per quella che nessuno di noi ha, invece.”
***
Era poco più di un foglio spiegazzato, rovinato e probabilmente
non troppo recente, ma Hikari lo aveva portato a lui come fosse una
reliquia. L’aveva tenuto stretto al petto finché non
glielo aveva porto, con aria significativa, aspettando che lui ne
leggesse il contenuto.
E Takeru aveva obbedito, curioso, dispiegando il foglio e osservandone l’interno.
Non c’erano che
due frasi scarabocchiate con grafia pressoché illeggibile, e
gocce d’acqua che avevano sbavato l’inchiostro qua e
là, e irrigidito la carta. Eppure, il messaggio lo colpì
all’istante, facendogli sgranare gli occhi.
E’ nelle vostre
mani, adesso. So che accudite molti senzatetto, e mio figlio non
è da meno. Ve lo affido perché possa crescere e vivere,
come non ha potuto fare con me.
Stava per chiedere ulteriori spiegazioni a Hikari, confuso, quando
lesse un piccolo nome in alto a sinistra, che non aveva nulla a che
vedere con la firma del mittente. Un nome che conosceva molto bene.
Sussultò,
alzando il capo. “Ma questo è …” La voce si
spense, non sapendo come esprimere il suo turbamento.
E Hikari, pallida e
seria, annuì piano. “E’ un messaggio lasciato qui
dalla mamma di Keiji-chan la notte in cui lo trovai davanti alla porta
dell’orfanotrofio, sette anni fa”, completò, dando
conferma ai suoi sospetti. “L’unica traccia rimastaci di
quella donna sconosciuta.”
Takeru osservò
per un altro istante quelle parole, e quelle gocce. Solo ora
comprendeva che avrebbero potuto essere lacrime.
Ripiegò il
foglio, incapace di guardarlo ancora. Ogni singola parola di quel
messaggio trasudava disperazione, e supplica, ed era quasi
insopportabile. “Lo hai conservato per tutto questo tempo”,
disse infine, confuso. “Perché? Speravi di rintracciare la
madre di Keiji in questo modo?” Si accigliò, vedendola
sussultare impercettibilmente, apparentemente senza motivo. “Sai
che non è possibile. Non c’è nemmeno una firma
…”
“No … non
l’ho fatto per rintracciare nessuno.” Era strano. Adesso
Hikari sembrava incupita, come se un’ombra improvvisa le avesse
avvolto l’anima. Avrebbe dato chissà cosa per conoscerne
il motivo. “Ce lo hanno affidato: sarebbe stato sciocco cercare
di trovare chi lo aveva abbandonato e non poteva crescerlo. Se lei
venisse di sua spontanea volontà … non lo impedirei di
certo. Ma se non vuole averlo, non farò domande e lo
terrò qui con me.”
Takeru poté
giurare di aver visto un’angoscia profonda straziarla,
all’improvviso. Si sentiva impotente: non sapeva come fare per
aiutarla. E continuava a non capire.
“E allora perché?”, insistette. “E perché lo hai mostrato a me, Hikari-chan?”
Quel silenzio
malinconico era davvero troppo da sopportare, per lui. Se solo avesse
saputo cosa la tormentava realmente …
Hikari trasse un lungo
sospiro, e l’ombra scura sembrò svanire dai suoi occhi.
Tutto ciò che rimase fu una profonda tristezza. “Per la
mia promessa”, fu la risposta, e Takeru sgranò gli occhi.
“Hai letto la preghiera di quel messaggio, il desiderio accorato
di quella donna sventurata.”
Ve lo affido perché possa crescere e vivere, come non ha potuto fare con me.
E improvvisamente
comprese. Tutto sembrava quadrare, ora. “Lo hai promesso anche a
lei”, tentò, guardandola per avere conferma. “Hai
giurato che ti saresti presa cura di Keiji come lei non può
più fare.”
Dal lampo che vide nel
suo sguardo, Takeru intuì la risposta prima ancora di sentirla
pronunciare. “E’ così”, sussurrò lei in
risposta. Poi si torse le mani, gli occhi bassi.
“Vedi,
Takeru-kun, io non sono mai stata madre … ma posso capire cosa
si prova.” Continuò poi, e sembrava che improvvisamente
lei non avesse più problemi ad aprirsi con lui. Takeru
ascoltava, attento e sorpreso. Non l’aveva mai vista in quello
stato. “Ho passato una vita qui, mi sono presa cura di loro
… so quanto amore si possa provare per un bambino che stai
vedendo crescere. Io ho cresciuto Keiji per tutto il tempo in cui
è stato qui, e posso dirti chiaramente quanto lo ami. Come
… come fosse un figlio mio.” La sua voce tremò.
E Takeru ebbe
un’ulteriore conferma di ciò che aveva solo supposto. Si
era accorto da tanto del legame che c’era tra Hikari e quello
strano bambino dai capelli viola, ma ora che lo sentiva dalla voce di
lei sembrava fosse ancora più stretto. Così stretto e
profondo che lui non poteva comprenderlo appieno.
“Ma portarlo in
grembo per nove mesi? E’ tutt’altra cosa. Se lo abbandoni,
abbandoni una parte di te, dopo che è stato tutto per te per
quasi un anno.” Scosse piano la testa, il viso costantemente
chino. “Non posso credere che sua madre abbia abbandonato
Keiji-chan perché era stanca di lui. Deve averlo fatto per
necessità. E si è affidata a noi per la crescita del suo
bambino.”
Infine lo
guardò. Sembrava aver vissuto molti anni in più di quelli
che aveva, tanto grave era la sua espressione. “Ho promesso a
lei, come a tutte le madri sconosciute e anonime di ogni bambino che
abbiamo trovato, che ce l’avrei messa tutta. Che non avrei tolto
anche la vita, oltre che la felicità, a quelle anime
abbandonate. La mamma di Keiji-chan e il suo messaggio mi hanno fatto
da monito per la mia promessa fino ad oggi.”
Non lo
specificò, ma la sua espressione disperata urlò per lei
il dolore che sentiva per star venendo lentamente meno alla sua
promessa. Dava l’impressione di essere molto sola, e molto
fragile.
E Takeru non
poté più sopportarlo. Le prese la mano, stringendola con
calore. “Ascoltami un secondo, Hikari-chan. La tua promessa
è stata pienamente rispettata, non hai nulla da
rimproverarti.” Parlava con impeto, e quando se ne accorse ne
rimase momentaneamente scioccato. Davvero gli importava fino a quel
punto? “Io non ho mai visto dei bambini tanto felici, o tanto
legati a te. Soprattutto Keiji. Sembra che io non gli vada a genio
perché crede che ti stia minacciando, lo sai?”
La mano di Hikari era
fredda, ma ricambiò la stretta, in quella che sembrava una muta
richiesta di aiuto. Sembrava traesse conforto dal suo debole tentativo
di esserle accanto.
Eppure, ora che quel
contatto nuovo si era instaurato tra loro, Takeru poteva anche
avvertirne i cambiamenti. Era come se ora potesse sentire in prima
persona la sua paura, la sua sensibilità, il suo amore infinito
per quei bambini, il fervore delle sue idee, la sua incredibile
bontà e semplicità.
E fu più semplice parlare, ora che gli sembrava di aver sfiorato la sua anima.
“C’è
qualcosa in quei bambini che non riesco a comprendere. Hanno una luce,
una gioia di vivere che altrimenti non avrebbero mai avuto, con la
sorte che è stata destinata loro. Tu hai creato un nido sicuro
pieno di affetto, e credo che mai avrebbero sorriso altrimenti. Dico
sul serio.”
Sorpresa, Hikari
sollevò il capo, fissandolo. Poi scosse la testa, e un sorriso
più mite piegò le sue labbra. “Oh, no. Non sono
stata io, Takeru-kun. E’ tutto merito dei bambini se hanno un
animo tanto immacolato e gioioso.”
L’affermazione fu
così assurda da farlo immobilizzare, stupito. Possibile che
avesse così tanta umiltà da non riconoscere nemmeno i
suoi meriti?
Lei intuì
ciò che lui stava pensando, e rise piano. “Non guardarmi
così: è la verità. Né io né chiunque
altro in questo orfanotrofio avremmo potuto donare loro
un’attitudine così fondamentalmente spensierata: ce
l’hanno innata. Io e gli altri possiamo soltanto incoraggiare
questo lato straordinario del loro carattere.”
“E allora i
vostri valori, le vostre certezze? Non contano nulla nella loro
crescita?”, insistette Takeru, non arrendendosi. “E’
impossibile.”
“E se fossero stati loro ad insegnarci quelli che tu chiami nostri valori e nostre certezze?”
Takeru, scioccato,
pensò ad uno scherzo. “Come … non può
… Come sarebbe a dire?”, riuscì a balbettare
infine, più confuso che mai. “Come possono dei bambini
insegnare a degli adulti dei valori tanto grandi?”
E ora gli occhi ancora
gonfi di Hikari brillavano di un’emozione nuova, spontanea e
intensa. “I bambini hanno una caratteristica che gli adulti, alle
volte, perdono: riescono a mantenere viva la luce nel cuore, qualunque
cosa facciano e qualunque cosa succeda. Riescono a vedere tra due
alberi un passaggio per un mondo incantato, e a vedere in un oggetto
privo di valore un gioiello. Hanno sogni, sogni in cui credono
ardentemente, sogni che condividono l’uno con l’altro senza
vergogna … saresti stupito di vedere quanto un sogno per noi
privo di valore per loro è un’ancora di salvezza. E sai
qual è la cosa stupenda? Che passano dalle lacrime al sorriso
con un niente, solo sapendo che c’è qualcuno accanto a
loro che crede nella luce che hanno dentro.”
Takeru, muto, osservava
il riflesso rosato del sole sul viso di lei, e credette di scorgere nei
suoi lineamenti una nuova fiamma, calda e viva, che arrossava le sue
guance e illuminava i suoi occhi. Non aveva mai visto uno spettacolo
tanto affascinante.
“La speranza
nasce dalla luce, Takeru-kun. E i bambini ne hanno da vendere, te lo
posso assicurare. Avranno sempre un motivo per sorridere e giocare, non
importa quanto la crudeltà che c’è nel mondo
tenterà di spegnerli. Finché la loro fiamma
arderà, non ci sarà nessun’oscurità che
possa distruggerli. Non ne saranno mai intaccati. E’ questa la
loro forza.”
Gli sorrise, mentre lui
ancora la ascoltava, turbato e sorpreso. “Non credi che la
purezza sia questa, Takeru-kun? Avere tanta luce nel cuore, ed essere
così generosi da donarla agli altri con un solo sorriso
spontaneo?”
E il viso di Hikari in
quel momento gli parve così bello da fargli credere di non
averlo mai visto davvero prima d’ora.
Dolce, sincera,
profondamente innamorata della vita, gli regalava un po’ della
sua luce con quel sorriso, quanto di più simile a ciò di
cui lei stava parlando.
Sentiva come uno strano groppo in gola.
Infine lei distolse lo
sguardo, osservando assente le fronde che ondeggiavano al vento.
“Quello che tu vedi in noi è ciò che i bambini ci
hanno donato in tutti questi anni. Hanno ricambiato l’affetto
donato loro con una scintilla di luce per tutti.”
Il sorriso
scemò. Takeru vide affiorare sul suo viso una nuova espressione
determinata, nuovamente salda. Con nuovo stupore si rese conto che fino
ad ora non aveva compreso quale fosse la forza di Hikari: aveva sempre
visto in lei un’eroina, un essere sovrannaturale.
Ora comprendeva che la
sua forza risiedeva nel sapersi risollevare dallo sconforto.
Perché cadeva nella polvere, ma poi sapeva rialzarsi, e far
brillare più intensamente la sua luce.
Un’anima pura.
Lei parlò
ancora, seria. “Di momenti di sconforto come questi ne ho molti
… sono momenti terribili, perché mi sembra che sia tutto
perduto. Che stia rincorrendo un’illusione. Ma in cuor mio so
già che non mi arrenderò … che non ci arrenderemo
fino alla fine, che continueremo a lottare per questo sogno. Che, in
ogni modo possibile, non verrò meno alla promessa. Non posso
lasciarli morire di stenti agli angoli delle strade.”
Sospirò, riprendendo in mano il messaggio della mamma di Keiji e
stringendolo al petto. “Per mia mamma, mio fratello, i miei
amici, i bambini, e per le loro madri sconosciute.”
“Se tu non fossi
fondamentalmente pura, Hikari-chan, dubito che troveresti tanta forza
per andare avanti. I bambini possono averti cambiata quanto vuoi: non
tutti potrebbero reggere tanti sacrifici.”
Non avrebbe voluto
dirglielo, ma il sussurro era uscito di sua spontanea volontà
dalle sue labbra. Non aveva potuto bloccarlo.
Ma sentiva
un’ammirazione più profonda e più matura per quella
giovane, ora che l’aveva conosciuta. Sentiva che non aveva mai
incontrato persona migliore di lei.
Sentiva che il paragone
tra loro era impensabile, in quel momento. Lui non aveva nemmeno la
metà delle sue convinzioni, non più.
Lei notò il suo
stato d’animo, e la presa sulla sua mano si fece più
salda, mentre il calore nei suoi occhi lo raggiungeva, lo confortava,
lo risollevava.
“Io invece
credo”, disse lentamente, “che chiunque sarebbe stato in
grado di fare lo stesso: ciò che serve è solo abbattere
le barriere e i limiti che ci costruiamo da soli e guardarci più
a fondo. Se solo volessimo non saremmo poi tanto diversi dai bambini:
forse nemmeno lo sappiamo, ma crescendo abbiamo comunque conservato un
po’ di luce dentro di noi. Molto spesso neghiamo persino di
averla, la dimentichiamo, o ancora la offuschiamo crudelmente, con ogni
mezzo possibile, ma il massimo che possiamo ottenere è solo
mascherarla. Non c’è nessuno che non sia fondamentalmente
puro, anche inconsciamente, in questo mondo.”
Avrebbe voluto ribattere che lui non era puro, che non lo era mai stato, probabilmente.
Avrebbe voluto dirle che tutto crollava ancora inesorabilmente sotto i suoi piedi.
Eppure, non poté
nulla contro il suono rassicurante delle sue parole, e contro
l’innegabile sollievo che, nonostante tutto, si andava annidando
dentro di lui.
Le sorrise. “Grazie.”
***
“La libertà?”
Dal mezzo sorriso che
comparve sul suo viso, comprese che Rumiko si aspettava lo stupore e la
confusione che aveva avvertito nel tono di voce di lui. Non si
scompose, limitandosi ad annuire.
Ken si accigliò, sforzandosi di cogliere quel collegamento che l’aveva portata a pronunciare quella parola –libertà-
con tanta naturalezza. Sembrava pregna di significati, ma sembravano
sfuggirgli uno per uno. “Scusami, non capisco”, si arrese
infine. “Di quale libertà parli?”
Lei si strinse le
braccia al petto, in un tentativo di trovare riparo dal vento. Aveva lo
sguardo rivolto altrove, ma per quanto si sforzasse di nasconderlo, Ken
si accorse delle continue occhiate di sottecchi che lo studiavano. Si
chiese cosa mai stesse cercando nella sua espressione. “Di ogni
tipo di libertà possibile. Ti sei mai reso conto che tutto, in
questo mondo, si basa sul concetto di libertà? Prova a
pensarci.”
Inaspettatamente,
Rumiko sollevò il capo, affrontandolo direttamente con uno
sguardo. Non gli diede tempo per dire alcunché: si
avvicinò di un passo, sufficientemente perché il giovane
potesse scorgere il nuovo lampo che aveva negli occhi.
Sembrava volesse dirgli quanto quel discorso fosse importante per lei.
“L’uomo ha
bisogno della libertà come necessita di aria: è un dato
di fatto. Pretende la libertà di vita, di culto, di religione,
di disporre della propria vita come desidera … di qualunque
tipo. Le costrizioni lo soffocano, la schiavitù lo mortifica e
lo umilia. L’uomo è intelligente, sai: proprio per questo
non deve sottostare a nessuno. Se l’uomo è intelligente,
ha le proprie idee; se l’uomo ha le proprie idee, è
indipendente. E l’indipendenza può essere scambiata per
libertà tanto spesso, Ken-kun. Troppo spesso.”
Lo fissava, la mascella
contratta, il viso infervorato. Probabilmente si aspettava che lui
parlasse, che commentasse, che le desse ragione.
Eppure Ken rimase in
silenzio, perché ogni parola, ogni frase sbagliata avrebbe
potuto interrompere quell’istante in cui Rumiko sembrava voler
parlare di sé. Forse non sarebbe mai più capitato.
E poi lei
continuò. “L’uomo aspira alla libertà, ma
spesso non sa cosa sia. Crede che la libertà sia solo un
diritto, e nella sua ricerca si fa arrogante. Pretende, pretende e
crede di sapere tutto della libertà. Abbiamo la libertà di essere indipendenti. Perché, allora, ascoltare ciò che gli altri ci dicono?, si finisce per pensare. Se
siamo indipendenti non abbiamo bisogno di loro. Se siamo liberi
possiamo infischiarcene di tutto e di tutti. Altrimenti che
libertà sarebbe?”
La voce di Rumiko
tremò, e sul suo viso per un istante passò un dolore
indicibile, che sembrò quasi annientarla. Ken sussultò,
confuso, e comprese che in quel discorso doveva esserci qualcosa di
tremendamente personale che la torturava. E comprese che lei non gliene
avrebbe parlato.
Lui era del tutto impotente.
Eppure, così
com’era arrivato, quel dolore fu accantonato, e con un respiro
profondo Rumiko riprese il controllo di sé. Fu in quel momento
che Ken si rese conto che episodi del genere non succedevano di rado,
vista la rapidità della ripresa.
Il pensiero creò un profondo senso di vuoto, dentro di lui. Un vuoto doloroso.
“Ed è
proprio così, vedi, che si arriva ad essere tremendamente
egoisti. E il concetto di libertà finisce per essere un concetto
di supremazia sugli altri. Se l’uomo ha la libertà di
pensarla e comportarsi come vuole è autorizzato a fare qualsiasi
cosa, no? E se si sentisse libero di rubare, per le sue convinzioni?
Libero di uccidere? Libero di ferire in ogni senso, libero di …
abbandonare, o mortificare, o umiliare? Chi potrebbe dirgli
alcunché? Lui era solo libero di fare le proprie scelte! Che male c’era?”
E le sue labbra si
piegarono in un’inequivocabile smorfia amara, mentre la voce
diventava sempre più alta man mano che le domande divenivano
sempre più incalzanti. Un rossore andava colorando sempre
più le sue guance, mentre il pallore che lo aveva impensierito
poco prima sembrava appartenere ad un’immagine completamente
diversa di Rumiko.
Una strana emozione si
era impadronita di Ken, e cresceva assieme al discorso di lei, come
fosse strettamente legato alle sue parole. Non avrebbe saputo spiegarla
in alcun modo: tutto ciò che sapeva era che quel discorso era
più importante di quello che aveva immaginato erroneamente
chissà quanto prima.
Rumiko scosse la testa,
e trasse un sospiro. “L’uomo si crede intelligente, ma
è stupido. La libertà è tutt’altro che
questo.”
“E allora cos’è?”
Non intendeva zittirla,
con quel sussurro. Non intendeva nemmeno creare quel momento pieno di
tensione che li avvolse entrambi. Eppure Rumiko sembrò aver
perso momentaneamente la voce, come se avesse trovato negli occhi di
lui qualcosa di inaspettato, di sconvolgente. Sembrava quasi presa da
lui come lui lo era da lei.
Si riscosse in fretta, turbato come non lo era stato da molto tempo.
“Cos’è
per te la libertà, Rumiko-san?”, chiese ancora, e ancora
una volta la sua voce fu poco più di un bisbiglio.
E ora perché i
suoi occhi castani brillavano tanto? Perché il suo viso era
contratto in un’espressione di decisione improvvisa quanto salda?
“Vuoi sapere
cos’è la libertà, Ken-kun? Quella vera?”,
replicò, e non un tremito alterò la sua voce.
“E’ tutto qui: non essere schiavi di se stessi.”
Rumiko prese a
giocherellare con un piccolo fiore di ciliegio ben visibile da quel
ramo basso accanto a loro, ma era chiaro che non lo stava osservando
sul serio. “La schiavitù fisica non è il nostro
caso: sono estremamente convinta che siano le nostre passioni a
renderci schiavi. Quelle, e il nostro egoismo. Credendo di essere gli
unici ad aver diritto di scelta, siamo schiavi. Chi uccide sarà
schiavo dell’arroganza, perché ritiene che la sua vittima
non sia libera di vivere. Chi ruba sarà schiavo della cupidigia,
perché ritiene di essere libero di vivere a discapito degli
altri. Chi ferisce sarà schiavo della propria rabbia, o
sofferenza, o voglia di essere chi non si è …
perché non comprende che ad ognuno è stata data la
libertà di essere sereno, di amare e sorridere.”
Chissà cosa ne
avrebbe pensato Osamu, se avesse ascoltato quel discorso, si
ritrovò a pensare Ken distrattamente. Chissà se anche lui
avrebbe attribuito le cause del male del mondo alla schiavitù di
se stessi, lui che era così abituato ad occuparsi della parte
più torbida della vita umana.
Chissà se anche
lui avrebbe colto l’intensità e l’ardore delle
parole della giovane che le era accanto, o se ne sarebbe stato
altrettanto affascinato.
Dal canto suo, Ken era sicuro di non aver mai sentito tanto fervore nelle parole di qualcuno.
“Salvo casi
estremi, probabilmente tutti siamo schiavi di qualcosa,
Rumiko-san”, intervenne cauto. “Come si può essere
liberi, allora?”
Ken credette di vedere
le dita di Rumiko, che stringevano delicatamente un petalo del fiore,
tremare impercettibilmente. “Non tutti possono”, rispose
riluttante, come se la confessione la turbasse. “In effetti, solo
pochissimi riescono a conservare la libertà anche da adulti.”
Non capendo, non
poté altro che fissarla. Lei lo notò, e sorrise
lievemente, nascondendo per qualche istante alla sua vista il suo
tormento.
“Andiamo,
Ken-kun, ci puoi arrivare”, gli disse, guardandolo
insistentemente. “Gli unici davvero liberi da se stessi, gli
unici che sognano di volare, ma non di farlo tarpando le ali agli altri
... sai dirmi chi sono?”
L’illuminazione
arrivò ripensando al contesto dal quale tutto quel discorso era
partito, e la risposta arrivò spontanea alle sue labbra.
“I bambini.”
E non ebbe bisogno di conferma, non dopo aver visto l’espressione sul volto di lei, per sapere che aveva indovinato.
“Precisamente. I
bambini”, confermò lei, uno strano calore nella voce
mentre pronunciava quella parola. “Quale egoismo può
esserci in loro? Di cosa possono essere schiavi? Conoscono
l’amicizia per interesse? Conoscono l’invidia, quella vera?
Sanno cosa voglia dire ferire? Proprio loro, che quando litigano
corrono a fare pace, incuranti dell’orgoglio, dimentichi delle
aspre parole che hanno sentito pronunciare dall’altro? Proprio
loro, che quando vogliono bene a qualcuno si fanno in quattro per lui
… che non sottraggono libertà, ma anzi vogliono donarne?
Non sono forse loro, nessuno escluso, le persone più libere di
questo mondo?”
Il calore della sua
voce si era esteso al suo viso, e ora tutto di lei sembrava gridare
quanto intenso fosse il suo amore per i bambini, per quanto particolare
fosse questo lato di Rumiko. Come se improvvisamente lei fosse
diventata lo stesso calore che sentiva, tanto impetuosamente sembrava
vivere quel sentimento.
“E non credi che
la purezza sia questa, Ken-kun? Avere l’animo così
leggero, così libero non solo da volare, ma anche da danzare nel
cielo?”
I lunghi capelli neri
ondeggiavano inermi al vento, passandole davanti al viso e nascondendo,
a tratti, i suoi occhi sfavillanti, la dolce linea delle sue labbra e
le sue guance arrossate. E Ken non riusciva a distogliere lo sguardo da
quella figura, troppo turbato per fare altro.
Sembrava comunicare tutto e niente, come mai era successo prima di allora.
Immobile e vibrante,
schietta e ritrosa, tormentata e piena di sogni, determinata e
abbattuta, lo fissava, e nel vento la sua visione appariva strana.
Brillava di un’esaltazione selvaggia che la faceva sembrare forte
e fragile insieme.
Non aveva mai visto niente di più bello. O niente di più libero.
Sentiva persino il respiro fermarsi per osservare quella giovane dalle mille sfaccettature.
“Te lo immagini,
Ken-kun? Se tutti fossimo liberi da noi stessi come i bambini, non
sarebbe più facile, più bello, più …?”
Si interruppe, come se
avesse ricevuto uno schiaffo. Il suo viso impallidì di colpo,
mentre abbassava lo sguardo. Ken non capì cosa fosse successo,
cosa l’avesse turbata tanto, finché non posò gli
occhi sulle mani di lei.
Allora comprese, e sgranò gli occhi.
Rumiko sembrava
osservare con aria scioccata quel piccolo fiore di ciliegio che per
sbaglio doveva aver strappato via da quel ramo, lo stesso fiore con il
quale stava giocherellando poco tempo prima.
Lo stesso fiore che ora era tra le sue dita.
Era solo un fiore.
Eppure lei non disse più nulla, mentre quella visione la
riempiva pian piano di una tristezza che lui non comprendeva.
Non riusciva a
comprenderla, ma la preoccupazione per quel viso sempre più
pallido lo costrinse a parlare. “Rumiko-san …”,
tentò.
“Sarebbe
più facile”, sussurrò invece lei, gli occhi bassi.
“Eppure crescendo si perde la libertà infantile. Si
diventa schiavi di aspirazioni e idolatrie sbagliate. E si diventa
egoisti. E sai qual è il massimo dell’egoismo? Togliere la
libertà di vivere ai bambini. Succede tanto spesso da far venire
la nausea, per quanto orribile sia questo gesto, e molto spesso nemmeno
ce ne accorgiamo. Ed è per questo che non ho potuto
permettere quell’incidente.”
Nella pausa momentanea
che si venne a creare, infine Ken capì ciò che lei aveva
cercato di dirgli fin dall’inizio.
“Se posso
proteggere la libertà di un bambino, dopo essere sempre stata
così egoista, forse qualcosa di buono sarò riuscita a
farla, no? Se un essere puro può essere salvato anche da una
persona come me, allora che sia: sarà una delle poche azioni
delle quali potrò andare fiera. Lasciarlo morire per
l’egoismo di un qualunque autista sarebbe troppo persino per me.
Non ho diritto di scegliere per lui … non l’ho mai avuto,
per nessuno.”
Sul punto di rottura, Rumiko preferì voltarsi, stringendo al petto quel piccolo fiore e chinando il capo.
Con stupore, Ken si
rese conto che solo ora comprendeva quale fosse la sua debolezza,
capace perfino di lottare strenuamente contro la forza incredibile che
la sorreggeva.
Era il senso di colpa
che la tormentava. Un senso di colpa che la stava facendo impazzire,
segno di un passato e di errori che voleva racchiudere in sé
senza farne parola con nessuno.
Un senso di colpa ben
deciso ad offuscare la vera natura di Miyazawa Rumiko, che ogni suo
discorso aveva invece messo in luce con tanta chiarezza.
Un’anima pura, che credeva con tutta se stessa di non esserlo.
Prima che potesse rendersene conto, Ken aveva avanzato un passo verso di lei.
Avrebbe voluto
abbracciarla. Stringerla a sé, e dirle che andava tutto bene,
che lui si sentiva ormai legato a lei, che non l’avrebbe lasciata
sola, che avrebbe portato il peso del suo dolore assieme a lei.
Avrebbe voluto.
Ma non fece nulla.
Una semplice e incerta
mano sulla sua spalla fu tutto ciò che poté fare, e fu
tutto ciò che causò quel sussulto e quella tensione in
lei. E sentì così intensamente la barriera che lei si
costringeva a portare che le parole decisero di uscire di loro
spontanea volontà, senza che lui potesse fare nulla per fermarle.
“Un errore non può cambiare l’anima di una persona, Rumiko-san. Non è troppo tardi.”
Fu solo silenzio per
alcuni, interminabili secondi. Persino il vento sembrava essersi
placato, nel momento in cui Ken si domandava se lei avesse anche solo
sentito ciò che le aveva detto.
Rumiko non poteva
guardarlo, forse perché sapeva meglio di lui che i suoi occhi
avrebbero rivelato troppo della sua anima.
Eppure, cercò ugualmente un contatto con lui.
Allungò una
mano, raggiunse quella di lui posata sulla sua spalla, intrecciò
le sue dita con quelle di lui, come fosse un gesto naturale, come se
fosse ciò che sentiva fosse più giusto fare.
Come se cercasse di sentirlo vicino in quel momento, malgrado i suoi segreti.
Ken strinse quelle dita con calore, comprendendo che quello era tutto l’aiuto che potesse offrirle.
E poi la sentì
ridacchiare, amara. “Se tu sapessi chi hai davanti, Ken-kun, non
la penseresti così. Io mi auguro che tu non lo capisca mai
…”, disse, con voce spezzata. “Per me è
tardi. Ho strappato via la libertà a troppe persone che amavo,
come ho strappato quel fiore. Il passato non si può cambiare.
E’ per questo che io non sarò mai, mai pura.”
Hello
there :) E' la prima volta che decido di trattare nello stesso capitolo
le due storie parallele principali, ma alla fine doveva succedere. E
oggi vi ho proposto un capitolo un po' speciale, che possa spiegare
fino in fondo il significato del titolo della storia. Era anche ora,
dopo 21 capitoli xD meglio tardi che mai. E da questo momento in poi
aspettatevi di entrare nel vivo dell'azione: ormai non è davvero
più tempo di indugiare ^^ conto di iniziare già dal
prossimo ad affiancare più punti di vista insieme, perché
i punti da analizzare sono davvero fin troppi o.o
Ma intanto rispondo alle recensioni che mi avete lasciato :)
Iniziando con Shine:
poi dovrai spiegarmi dove hai visto Leonardo e i suoi quadri nel mio
capitolo^^' sono sempre convinta che tu abbia un'opinione troppo alta
del mio lavoro, ma puoi immaginare quanto io sia contenta dei tuoi
soliti apprezzamenti ;) diciamo che alla scena iniziale ci tenevo in
maniera particolare: è una delle poche volte in cui mi decido a
descrivere un paesaggio :P insomma, sai meglio di me quanto mi riesca
difficile ... Per quanto riguarda le contraddizioni di Miyako, aspetta
e vedrai, la situazione diventerà sempre più complicata!
Dopo questo capitolo avrai già capito che per entrambi è
tardi per tornare indietro. Osamu tornerà nel prossimo
aggiornamento in maniera del tutto inaspettata, te lo assicuro ;)
intanto, grazie per la costanza e la "fedeltà" ^^ a presto!
Una nuova lettrice, eh? paperella96,
sono davvero contenta che tu ti sia interessata alla mia storia e che
l'abbia apprezzata tanto ^//^ i tuoi complimenti mi hanno lusingata sul
serio, e spero di non deluderti adesso che la storia prosegue in
maniera più serrata :) Riguardo alle relazioni amorose, ti sarai
fatta un'idea più chiara delle mie inclinazioni di coppia,
immagino ;) Anche io sono tendenzialmente più Taiora, di solito,
ma chissà? Devo ancora prendere una decisione definitiva a
riguardo xD non dovrai aspettare tanto, però. Per quanto
riguarda Daisuke, porta pazienza e si svelerà anche la natura
del loro rapporto! Che dire, ti ringrazio ancora, e spero continuerai a
seguirmi e a darmi tuoi pareri!
Ecco, credo sia tutto adesso! Per domande, commenti, riflessioni o dubbi, fatevi sentire, mi fa sempre piacere ;)
Padme Undomiel
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Capitolo 22 *** Confronto ***
Purity 21
21.
Confronto
Era da un po’ che aveva notato quel giovane, su quella poltroncina.
Sedeva
perfettamente composto, accanto a sé alcune riviste che
sfogliava con attenzione, senza mai staccare gli occhi da quelle
pagine.
C’era qualcosa di strano in lui, lo aveva notato subito.
Socchiuse gli occhi, scrutandolo dalla sua postazione dietro allo scaffale dei romanzi d’azione.
Probabilmente era
dovuto alla sua postura così rigida, o al fatto che stesse
leggendo con così tanta serietà quella che doveva essere
solo una rivista sull’informatica. O ancora al fatto che sembrava
non accorgersi in alcuna maniera del resto dei clienti della libreria
che gli passava accanto, o del suo sguardo insistente.
Ma non poteva essere solo quello.
Hida Iori era assolutamente sicuro di aver già visto da qualche parte quella persona.
Ma dove, e in che occasione poteva essere stato?
Si
concentrò, cercando di ricordare. Era sicuro che un incontro del
genere lo avrebbe colpito in maniera particolare: eppure, non aveva
alcuna idea del motivo per cui quel giovane dai capelli lisci scuri, la
pelle chiara, l’abbigliamento quasi formale e quella strana aura
che lo circondava riusciva a incuriosirlo tanto.
O, per esempio, del motivo per cui non riusciva a distogliere lo sguardo, diffidente.
Aveva la strana sensazione che non dovesse abbassare la guardia, pure se non ne conosceva il motivo.
Finse ancora di
leggere, mentre lo osservava prendere appunti su un’agendina e,
nello stesso tempo, ascoltava ciò che stava succedendo alla
cassa.
“Vuoi che
ti dia una mano con il lavoro, mamma? Mi sembri un po’
stanca”, sentì dire con tono convincentemente preoccupato,
e sorrise tra sé. Lei era davvero brava a non farsi scoprire,
quando ci si metteva.
“Oh no, non
preoccuparti, Satsu-chan”, fu la risposta della donna alla cassa,
ma nel suo tono c’era forse fin troppa naturalezza. Iori comprese
che stava cercando di farle capire qualcosa. Drizzò le orecchie,
e, riluttante, distolse lo sguardo dal giovane misterioso per osservare
la scena di persona.
Sato Satsu era
accuratamente voltata di schiena, decisa a non incontrare il suo
sguardo –esattamente come avevano stabilito all’entrata
della libreria. Non poteva guardarla in viso, ma sapeva perfettamente
cosa poteva trovare negli occhi scuri di lei, quel giorno.
Probabilmente
stava ancora osservando la postazione insolita di sua mamma, che di
solito si occupava di mettere a posto i libri negli scaffali e che
invece ora occupava un posto che non era il suo.
La signora Sato
non aveva bisogno di occupare il posto dietro alla cassa: c’era
sempre qualcuno che lo faceva al suo posto.
Lo stesso qualcuno che Iori e Satsu volevano vedere quel giorno.
Lo stesso qualcuno che quel giorno mancava.
Iori si
accigliò maggiormente, reprimendo a stento la preoccupazione che
sentiva crescere dentro di sé. Pregava fra sé che Satsu
riuscisse a saperne di più senza dare troppo nell’occhio,
ma per il momento non poteva fare nulla di più.
“Si fa quel che si può anche se non c’è tutto il personale”,
stava intanto aggiungendo la signora Sato, guardandola con aria
penetrante e allusiva. “Non posso sempre chiedere aiuto ad altri,
questo è il mio lavoro.”
Ne era sicuro ormai. Sapeva qualcosa in più.
Il lettore
silenzioso era ancora concentrato nella lettura: sembrava non
accorgersi della sua espressione troppo concentrata su Satsu e sua
madre.
Questo
bastò a tranquillizzarlo, e a fargli dimenticare che la sua
copertura richiedeva di fingere di leggere quel libro che reggeva
meccanicamente nelle mani.
“Ora che ci penso … Quella commessa giovane che lavora da te non è venuta oggi?”
La presa di Iori su quelle pagine si fece più serrata.
“Oh … parli di Rumiko-chan?”
E fu a quel punto
che notò un movimento quasi impercettibile alla sua destra,
proprio su quella poltroncina piena di riviste di informatica. Il
giovane dai capelli scuri aveva avuto uno scatto impercettibile del
capo, e aveva sollevato lo sguardo, la penna a mezz’aria e una
rivista aperta sulle sue ginocchia.
Cosa lo avesse
smosso, dopo minuti passati quasi nella totale immobilità, non
lo sapeva affatto. Eppure, anche lui ora osservava le due donne. E
anche se non riusciva a coglierne l’espressione, era ben chiaro
che fosse teso nello sforzo di cogliere ogni parola.
Come stava facendo anche Iori.
Si
accigliò. Doveva avere un motivo ben valido per permettersi di
origliare una conversazione che non aveva nulla a che fare con lui.
Eppure prima ne era completamente disinteressato. Si era animato
solamente quando era stato fatto il nome di …
“Mi ha
chiamato stamattina, ha detto che purtroppo non se la sentiva di venire
a lavoro oggi. Pare che abbia un po’ di febbre … Niente di
eccessivo, ma era molto debilitata, lo si capiva anche dalla voce che
aveva.” Rispose la donna, tentando invano di mascherare il lieve
tremito della sua voce. “Mi ha detto che vedrà di guarire
presto, tempo massimo un paio di giorni e sarà come nuova. Per
intanto, lavoreremo anche senza di lei.”
Non se la sentiva di venire?
Il concetto era così strano che, per quanto se lo ripetesse continuamente, non gli riusciva di afferrarlo. Non se la sentiva di venire. Miyako detestava rimanere a casa da sola, Satsu gliel’aveva raccontato tante volte. Non se la sentiva di venire.
Aveva persino tentato di andare in libreria con un piede dolorante,
nonostante avesse rischiato di romperselo in un incidente stradale. Non se la sentiva di venire.
E non c’era stato anche quel giorno, quando lei si era
intestardita per lavorare nonostante quel brutto raffreddore che aveva
preso?
Quel giorno, per un po’ di febbre, non se la sentiva di venire.
C’era
qualcosa di assolutamente sbagliato in quella faccenda, nella sua
assenza, nella sua chiamata alla signora Sato. A quanto pare, la
situazione stava peggiorando, proprio come lui e Satsu avevano temuto.
Ma il motivo, il vero motivo, qual era?
Frustrato e
agitato, voltò la testa di scatto. E incrociò
improvvisamente lo sguardo del giovane sulla poltroncina.
Fu allora che sgranò gli occhi, sconvolto.
Ichijouji Osamu?
No, si disse in
fretta, sentendo i battiti cardiaci accelerare improvvisamente. Non era
lui. Ma il colore e la forma dei suoi occhi, i tratti del suo viso, la
serietà nell’espressione erano davvero molto simili.
Persino il colore dei suoi capelli, anche se quelli del detective tanto
odiato erano sicuramente più ribelli.
Era così
simile a lui che, se non l’avesse guardato bene, avrebbe
semplicemente affermato che fossero due gemelli con pettinature diverse.
Eppure, in tutti
i suoi incontri con Ichijouji non era mai riuscito a leggere fino
in fondo le sue emozioni in quegli impenetrabili occhi azzurri.
Quelli del
giovane erano diversi. Si aveva quasi la sensazione che un turbamento
confuso stesse cercando di prendere il sopravvento su di lui, a
dispetto della serietà del suo viso.
Lo vide
distogliere lo sguardo quasi all’istante, e abbassare il capo, ma
non certo sulla rivista. Piuttosto sul pavimento. E ora aveva le labbra
strette in una linea sottile.
Sembrava confuso, turbato, preoccupato. Proprio come lo era lui.
Ed era
impossibile non pensare che aveva assunto quelle strane espressioni
proprio dopo che la signora Sato aveva accennato alla malattia di
Miyako. Che aveva avuto quello scatto improvviso dopo aver sentito il
nome fittizio di Miyako.
Satsu e sua madre
avevano ricominciato a parlare tra loro, probabilmente di argomenti
più leggeri, ma Iori non riusciva a concentrarsi su quel
chiacchierare sommesso: sentiva solo il continuo battere sordo del suo
cuore nelle orecchie, mentre una consapevolezza faceva rapidamente
strada dentro di sé.
Quella persona,
che somigliava in maniera terrificante a Ichijouji Osamu, aveva a che
fare con Miyako per qualche motivo. E la cosa lo impensieriva
più del previsto.
Miyako se ne sarà accorta? Ma c’è qualcosa di cui accorgersi, dopotutto? Cosa dovrei fare?
Era ancora preso
dai suoi pensieri agitati quando lo vide irrigidirsi di nuovo, cercare
nella tasca della sua giacca qualcosa, estrarre infine un cellulare e
portarselo all’orecchio dopo aver avviato la chiamata.
“Pronto.”
Parlava con tono
sommesso, neutro, ma Iori si concentrò quasi senza accorgersene
su ciò che diceva. Per la prima volta il pensiero che fosse
totalmente sbagliato immischiarsi nella privacy altrui lo sfiorò
appena: sentiva che doveva ascoltare, che era importante seguire i
movimenti di quel giovane. Era per Miyako, doveva saperne di più.
“Sono in libreria.”
Ascoltò la
pausa di silenzio con la stessa espressione concentrata che aveva
l’altro in quel momento. “Sì, certo. Stavo dando
un’occhiata a …” Si interruppe, sgranando gli occhi.
“Eh? Davvero? Cosa è successo?”
Questa volta la
pausa fu più lunga, e man mano che passavano i secondi il viso
dello sconosciuto si faceva sempre più attonito. Iori non poteva
avere idea di ciò che stava succedendo dall’altro capo del
telefono. “… Capisco. Arrivo subito.”
Chiuse in fretta
la chiamata, mise da parte la rivista e raccolse in una pila le altre
che aveva posato sulla poltroncina, poi si diresse svelto verso il
reparto riviste, e le mise al loro posto. Poi si allontanò a
grandi passi, dirigendosi verso l’uscita e chiudendosi la porta a
vetro alle spalle.
Come se non fosse
mai venuto. Era persino impossibile risalire alle riviste che aveva
sfogliato fino a quel momento, tanto accuratamente le aveva nascoste
tra le altre.
Avrebbe voluto
parlare con Miyako lì, subito, sapere se sapeva se lo
conoscesse, se le avesse mai parlato, se fosse implicato con Ichijouji.
O avrebbe voluto sapere cosa fare per nascondere ancora più
accuratamente la sua amica, sottrarla a tutti quegli sguardi sempre
più insistenti, avrebbe voluto non avere le mani legate come
accadeva sempre.
Non aveva mai avuto tanto potere, per quanto si sforzasse.
“Oh, sei qui, Iori-kun.”
E mentre alzava lo sguardo, tetro, quel senso di impotenza non fece che intensificarsi.
Non aveva nemmeno
il potere di proteggere Satsu, lì di fronte a lui, né di
cancellare quell’ombra scura che incupiva i suoi occhi sempre
acuti e vivaci. Per quanto il pensiero di quell’enorme peso che
portava anche lei faticosamente ogni giorno lo lacerasse, portandolo,
alle volte, ad una frustrazione cieca e deleteria, non poteva nulla
contro le preoccupazioni e i sacrifici di ogni giorno; nulla contro le
privazioni alle quali anche lei si stava sottoponendo.
Satsu colse la
sua espressione, e, se possibile, la sua fronte si aggrottò
maggiormente, e la smorfia sulle sue labbra si accentuò.
“Sentito, vero?”, fece, mentre, con un sospiro, si volgeva
verso lo scaffale più vicino e fingeva di essere impegnata
nell’osservazione dei libri. Le solite coperture necessarie per potersi parlare in pubblico. “Se volevi una conferma che stesse succedendo qualcosa di grosso, eccola qui. Malata. E io che pensavo che fosse in lotta aperta con il malessere fisico.”
Iori chiuse il
volume che teneva tra le mani con un rumore secco. “Sai
quand’è stata l’ultima volta che l’ho vista
così fragile, Satsu-san? Sette anni fa, sulla soglia di casa
mia.” Ricacciò indietro quel ricordo, quello sguardo
disperato, quel pallore e tremore, mentre stringeva quel fagotto tra le
braccia. Non era in grado di sopportare il senso di colpa. “Ma
allora aveva solo diciotto anni … credevo si sarebbe ripresa, ma
pare che, invece di migliorare, stia peggiorando.”
“Oh, no,
non dire così!” Satsu replicò, sorpresa.
“Ecco, mettiamola in questo modo: in questo momento è come
… come una batteria sovraccarica. E’ andata in tilt per
qualche motivo che ancora non conosciamo, ma si riprenderà dopo
un periodo di riposo, e starà meglio di prima.”
Di solito lei
riusciva, con quelle similitudini fantasiose, a rasserenarlo, qualsiasi
cosa fosse successa: ma quel giorno l’ansia era troppa. Era tutto
troppo labile, fragile, sul punto di rottura, e ovunque c’erano
minacce contro Miyako … e, per esteso, contro di loro.
“Dai, Iori-kun.”
Non se
n’era accorto, ma Satsu aveva fatto un passo verso di lui,
posandogli una mano sul braccio nel tentativo di confortarlo. E tutto
esplose di nuovo dentro di lui, mentre gli occhi troppo grandi e belli
di lei lo guardavano con tutta l’apprensione del mondo.
Per un istante,
avvertendo il calore della sua mano sul braccio, un’ immagine
passò davanti ai suoi occhi, sfocando la realtà. Vide gli
occhi di Satsu pieni di un affetto diverso –amore-, la sua
piccola mano sfiorargli il viso, con quella semplicità tipica di
chi ama e sa di essere amato a sua volta, e sentì che non
avrebbe avuto bisogno d’altro, che tutto sarebbe stato più
semplice, se solo lei gli fosse stata accanto non per forza di cose, ma
perché realmente disposta a vivere anche la preoccupazione con il suo ragazzo.
Sentì che
sarebbe stato molto più semplice, se solo avesse potuto averla
per sé, esternare i suoi sentimenti che sentiva così
vivi, che si erano solo accentuati con gli anni.
E poi l’immagine svanì, e davanti a sé c’era Satsu –che non lo amava, non lo amava-, e poi c’era lui, che avrebbe fatto di tutto solo per sfiorarle le labbra per un istante …
Chiuse gli occhi
di scatto, per non guardarla oltre. “Satsu-san, allontanati, per
favore”, si costrinse a dire, un sussurro sofferente, ignorando i
suoi sentimenti.
E la mano sparì all’istante, e Iori la rimpianse dolorosamente dopo appena un secondo.
“Oh … mi dispiace, non … scusami.”
E quando
riaprì gli occhi, incerto, non poté fare a meno di notare
quel rossore intenso sul viso di lei, ora rigorosamente girata
dall’altra parte. Impossibile che non avesse letto nel suo
sguardo cosa era sul punto di fare.
Anche Iori
arrossì, guardando a terra. Si sentiva stanco, una stanchezza
morale, e più vecchio che mai, nonostante avesse solo ventidue
anni.
Poi Satsu si
schiarì la voce, a disagio. “Una soluzione
c’è sempre”, fece, una traccia di forzata
serenità più che avvertibile. “Se vuoi ne ho una,
ma devi fidarti di me.”
Iori
sospirò, guardandola appena. Imperativo inutile, non c’era
bisogno di specificare. “Basta che sai quello che fai,
Satsu-san”, replicò, con un mezzo sorriso. “Hai
campo libero. Se puoi fare qualcosa per Rumiko-san, ben venga.”
“Sai che devi aiutarmi anche tu, vero? Non posso fare tutto io, ha bisogno anche di te.”
E, come se niente
fosse, adesso era tutto tornato alla normalità. Era spontaneo
quel guizzo di ilarità nel suo sguardo, e il sollievo lo invase.
Avevano superato anche quella.
“Io devo
indagare su alcune cose: sarà questo il mio modo di
aiutarla”, disse poi, gettando uno sguardo sulla porta
d’ingresso della libreria, tremendamente serio. Indagare su Ichijouji, sulle sue mosse, su quello strano ragazzo. “Ti spiegherò appena possibile, ma non qui, per favore.”
Satsu
annuì, incuriosita e perplessa, ma non fece altri commenti:
tacque, chinando il capo su un ingombrante dizionario di russo e
lasciandogli il tempo per riflettere.
Se conosceva bene
Miyako, sapeva che ciò che la mandava in crisi non era tanto
l’avere un problema, ma il non potere, per qualche motivo,
parlarne agli altri. Ma se lei si ostinava tanto a non aprirsi a loro,
lui e Satsu avrebbero agito di conseguenza. Era imperdonabile restare
con le mani in mano a guardare mentre pian piano la situazione
peggiorava invece di …
“Ah, un’altra cosa. Iori-kun, ultimamente sei stato a Praga?”
Iori sussultò, doppiamente preso alla sprovvista. “Eh? Praga? No”, rispose, perplesso.
Satsu
annuì tra sé, ancora voltata di spalle. “Quindi,
non essendoci stato, non potevi nemmeno inviarmi cartoline provenienti
da lì.”
Più il
giovane ascoltava il tono apparentemente casuale con cui lei parlava,
meno ci capiva. Aggrottò le sopracciglia. “Cosa
c’entrano le cartoline? Chi te l’ha-”
“E non hai
ancora controllato la tua posta stamattina, vero?” Disse Satsu
voltandosi, e il suo tono contrastava completamente con
l’occhiata seria che aveva.
Al limite della sopportazione, Iori sospirò pesantemente. “Satsu-san, di che stai parlando?” Scandì, cercando nel suo sguardo la risposta.
Ancora una volta,
quel giorno, il senso di inquietudine accelerò bruscamente i
suoi battiti cardiaci, in maniera inequivocabile. Qualcosa stava
andando storto, di nuovo.
Satsu si
portò distrattamente una ciocca di capelli dietro
l’orecchio, guardandosi intorno per un momento.
“Credo”, rispose sibillina, “che ci convenga parlarne
a casa, Iori-kun. Le cose si complicano ancora.”
***
Ken salì le scale
correndo, tenendosi ben stretto al corrimano per non scivolare.
Scansò in fretta due uomini vestiti elegantemente, ed ebbe
appena il tempo di scusarsi frettolosamente che era già arrivato
dove voleva. La porta in cima alle scale era socchiusa, e, come sempre,
nessun rumore tradiva la presenza del padrone di quello studio.
Sospirò,
cercando di calmare il respiro per la corsa che aveva dovuto fare, e
infine bussò, due colpi decisi e brevi.
“Avanti”, rispose lui dall’interno, apparentemente tranquillo. E Ken seppe che non avrebbe potuto indugiare oltre. Aprì.
E Osamu sembrava
aspettarlo dietro quella scrivania in legno di mogano, il capo
appoggiato sul palmo della mano destra, gli occhi chini su alcuni
documenti che teneva aperti di fronte a sé. La stanza,
solitamente scura, era ora illuminata dal sole primaverile.
Per ricevere i clienti era disposto anche a questo, si disse, osservandolo.
“Chiudi la porta, Ken”, disse poi Osamu, alzando lo sguardo verso di lui.
Ken
obbedì, ancora senza dire una parola. Ascoltò, per un
istante, i rumori dell’esterno, il lieve chiacchierare, prima di
chiudere la porta e creare un silenzio raccolto.
Il silenzio che piaceva così tanto a Ichijouji Osamu, detective.
Si
avvicinò incerto alla scrivania, e prese posto sulla sedia di
fronte a lui. Era impaziente, e preoccupato, e non riusciva a calmarsi
da quando aveva ricevuto quella chiamata a sorpresa mentre era in
libreria. Desiderava soltanto saperne di più, finalmente.
“Scusami se
ho fatto tardi”, fece, chinando brevemente il capo. “La
libreria è abbastanza lontana da qui.”
Vide Osamu fare
una smorfia. “Vorrei avere anche io tutto il tempo libero che hai
tu”, disse, e i suoi occhi seri lo scrutavano attentamente, come
valutandolo. “Ma pare che il mio lavoro non conceda pace,
mai.”
Rumiko avrebbe detto che non era certo il lavoro, una schiavitù fisica, a renderlo schiavo.
Ormai Ken era
così abituato alle insinuazioni contro le sue indagini che
nemmeno si scompose, limitandosi a stringere la mascella per non
sbottare. Quel giorno era iniziato tanto male da essere il meno
indicato per una lite puerile tra fratelli. “Mi dispiace. In
effetti ti vedo sempre più stanco”, osservò
semplicemente. “Comunque non si può chiamare davvero tempo
libero, anche se può sembrarlo” aggiunse, con tono carico
di sottintesi. “Stavo cercando informazioni su Royama Hideki. In
quella libreria vendono anche riviste di informatica, sai.”
“Ah sì?”
E fu con stupore
che Ken vide non ostilità nei suoi occhi penetranti, ma un lampo
divertito, rapido ma inconfondibile, che scomparve non appena lui fece
per domandargli cosa ci fosse di tanto buffo. Attonito, rimase in
silenzio, aspettando che Osamu riprendesse a parlare. “Trovato
nulla di interessante a riguardo?”
Più si sforzava di capirlo, meno ci riusciva. Ken sospirò, rassegnato. Forse
Osamu era schiavo del suo essere sempre così controllato e
imperscrutabile, che sembrava, a volte, isolarlo dal resto del mondo.
“Solo qualche intervista senza alcun valore”, rispose
brevemente, cercando di arrivare presto al motivo della chiamata
urgente del fratello. “Ma ho potuto controllare ben poco, visto
che si è presentata questa … novità. Farò
del mio meglio per rimediare, appena avrò tempo.”
“Senza
alcun valore”, ripeté Osamu incolore, e c’era
qualcosa nel suo tono di voce che costrinse Ken a sentirsi in profondo
imbarazzo e ad avvampare, impotente. “Buffo che tu definisca un
dato così possibilmente importante senza alcun valore.
Proprio ora, che mi hai dimostrato di avere potenzialità
interessanti, non puoi permetterti cadute di stile di questo
tipo.”
Ken distolse lo
sguardo, sentendosi un totale incapace. Aveva letto attentamente le
interviste, era sicuro di averlo fatto. Era possibile che gli fosse
sfuggito qualcosa? Ma cosa poteva esserci di così importante
nelle informazioni riguardo il nuovo software che aveva inventato?
Ed era successo
di nuovo. Al minimo rimprovero di Osamu, si sentiva come se avesse
fallito miseramente in entrambi i propositi che aveva deciso di
intraprendere. Probabilmente Rumiko
avrebbe riso, perché aveva parlato di schiavitù e
libertà con un giovane schiavo dell’idea che suo fratello
aveva di lui.
Scioccato dalla
consapevolezza, strinse i pugni, costringendosi ad essere impassibile.
“Mi stai dando un indizio o mi sbaglio?” Gli chiese,
corrugando la fronte.
Osamu
sospirò, alzando gli occhi al cielo. “Fa’ un
po’ tu”. Poi indicò con un dito il telefono che
teneva al lato della scrivania. “E ora, alla chiamata che ho
ricevuto oggi. Ricordi chi è Yamanaka Harumi, giusto?”
Non ebbe bisogno
di pensarci troppo: aveva ripassato così tanto i dati che aveva
alla mano che li conosceva a memoria, ormai. “Sì, la
compagna di classe delle medie di Inoue Miyako”, disse,
interessato. “Perché ti ha contattato? Che è
successo?”
“Come ti ho
già accennato, pare che si sia verificato un imprevisto”,
gli spiegò Osamu, riponendo nel cassetto di fronte a lui i
documenti che aveva sulla scrivania. “Ha ricevuto una cartolina
particolare stamattina, proveniente da Liverpool e con mittente
anonimo.”
Ken lo
fissò, perplesso, mentre Osamu sembrava tutto preso dal chiudere
il cassetto. Possibile fosse solo quella la grande novità?
“Ma può immaginare chi sia il mittente, giusto?”
Obiettò, cercando di non suonare così scettico.
“Basta pensare a chi, dei suoi conoscenti, possa essere andato a
Liverpool, o cercare di capirlo dal messaggio scritto sul retro della
cartolina …”
“E se ti dicessi che è proprio il messaggio sul retro ad essere il reale problema?”
Osamu fece un
sorrisetto obliquo, probabilmente divertito dalla smorfia incredula che
si era dipinta sul suo viso. “E se ti dicessi che il messaggio
sul retro, per quanto impossibile, sembra essere stato scritto proprio
da Inoue Miyako?”
E per un momento non ci fu che confusione, nella mente di Ken.
Un indizio.
Poteva essere uno degli indizi più importanti che avessero mai
avuto in otto anni: voleva dire che Miyako era viva, che voleva mandare
un messaggio, forse in codice, alla sua amica, che forse voleva farsi
trovare …
Farsi trovare?
La sua mente si
raffreddò all’improvviso, e la confusione scomparve nel
momento in cui Ken si ricordò della razionalità, e della
riflessione. Dopo otto anni di totale silenzio vuole farsi trovare?
Strinse gli
occhi, osservando lo strano sorriso che increspava le labbra di suo
fratello. “Ti chiederei qual è il contenuto del messaggio.
E anche … il tipo di rapporto che c’era tra Miyako e
Yamanaka Harumi.” Rispose. “Ci sarà un motivo per
cui la cartolina apparentemente
di Miyako sia indirizzata a lei, no? E poi dovremmo anche controllare
che non siano arrivate cartoline sospette anche agli altri indiziati,
suppongo. Non si sa mai.”
Pur concentrato
sulla sua controllata impazienza, non poté ignorare il lampo
negli occhi azzurri di Osamu, né evitare di sentirsene turbato.
Aveva l’impressione che si stesse divertendo, come coinvolto in
un gioco particolarmente allettante, e non era sicuro fosse un bene.
“Precisamente quello che mi sono chiesto io”, sembrò
approvare, ma era difficile dirlo con certezza. “Il contenuto del
messaggio è piuttosto singolare: stando a quello che mi ha detto
Yamanaka Harumi per telefono, parrebbe quasi un … frammento di diario personale.”
Ken
sussultò, e Osamu parve cogliere la sua reazione: il sorriso
scomparve dalle sue labbra, rapido com’era affiorato. “Pare
che questo diario segreto si stia manifestando solo adesso. E’
buffo …” Ma non c’era alcuna nota divertita nella
sua voce. “Quanto al rapporto con Miyako … bisognerebbe
accertarsene di persona, non credi? Anche perché avevo
già assicurato che una visita a casa sua sarebbe stata
d’obbligo, per mandare avanti le indagini.”
Al di là
della confusione e dell’impazienza, Ken ricordò che era
compito suo occuparsene, e che ancora una volta era chiamato ad essere
sottoposto a quell’ennesima prova: annuì, sentendosi
più pronto che mai. Non poteva tirarsi indietro, non ora che la
passione per l’indagine e la voglia di ritrovare quella ragazza
si facevano sentire più forti che mai. “Hai ragione, posso
occuparmene subito, se vuoi”, disse, la voce carica di nuovo
impeto. “Ho lezioni nel pomeriggio, stamattina non
…” Esitò, e per un istante ricordò i
programmi che aveva per quella mattina, e il motivo per cui erano
andati in fumo. Era sempre
più difficile vedere Rumiko, sempre più difficile sapere
perché stesse male, praticamente impossibile accertarsi delle
sue condizioni fisiche ora che era malata. Strinse i denti, ricacciando il pensiero al sicuro dentro di sé. “Non ho impegni di nessun tipo.”
Eppure, da
qualche parte, trincerate dalla sua barriera di
imperscrutabilità, l’amarezza e la preoccupazione
incontrollabile rimasero intatte.
Osamu parve non
accorgersi dei suoi occhi bassi, né del suo stato d’animo
incupito. Si limitò ad alzarsi, invece, con una semplice
scrollata di spalle. “Meglio così: risparmiare tempo
è sempre la cosa migliore”, ribatté tranquillo.
“E non guasta nemmeno che l’appartamento non sia molto
distante dal mio studio: ci si può arrivare in pochi
minuti.”
Ken si
alzò a sua volta, comprendendo che quello doveva essere il
momento di congedarsi. Ancora Osamu, come sempre, a dettare le regole
di quel gioco che lui non capiva. “D’accordo”, disse,
neutro. “E l’indirizzo qual è?”
“Te lo farò vedere appena ci arriveremo, Ken. Non serve che te lo dica.”
Sulle prime, Ken
credette di aver capito male. Lo fissò, aspettandosi un sorriso,
una risata di scherno, qualsiasi cosa che gli mostrasse che non parlava
sul serio, perché era impossibile che parlasse sul serio.
Lo fissò, e Osamu ricambiò l’occhiata, con un sopracciglio inarcato.
Quello, e il fatto che aveva messo mano alla sua giacca, resero palese il fatto che doveva essere serio.
“Come … vieni anche tu?” Balbettò, guardando ora lui, ora la sua giacca. “Con me?”
Osamu sorrise ancora. “E’ il mio
caso, sai”, ribadì, sottolineando l’aggettivo
possessivo. “Naturale che sia anche compito tuo, visto che ti ho
coinvolto, ma è pur sempre un caso sottoposto a Ichijouji Osamu:
posso decidere di farne quello che voglio. Finora mi sono limitato ad
osservare il tuo lavoro su dati che avevo quasi interamente, ma ora si
è presentata una pista nuova. Vuoi che non mi ci dedichi?”
Ammutolito, Ken
lo vide infilarsi la giacca con gesto tranquillo. “Impara questo,
Ken: io non faccio il detective, io sono un detective. Per questo non
posso pensare di essere libero dal lavoro, mai.”
“Scusa, non ci avevo pensato.”
Tutto questo era
privo di senso, si disse Ken, imitando il fratello in silenzio.
Totalmente privo di senso. Iniziava a considerare il caso come un
qualcosa di suo, e solo suo, e non era un bene. Come poteva essere
diventato così egoista?
Schiavo,
schiavo anche lui come Osamu. Schiavo di quella competizione, e di quel
sentirsi sempre in allerta, a disagio … inferiore.
“Allora, vieni o no?”
Osamu lo
aspettava sulla porta, e ancora lo osservava, cercando di capirlo con
un solo sguardo. Era impari, quel confronto: Ken non lo capiva, non
più. O forse non l’aveva mai fatto.
“Posso
… farti una domanda?” Fece, incerto, e non sapeva cosa lo
stesse spingendo a parlare in quel momento. “Cosa pensi che sia
la schiavitù, Osamu?”
E, per la prima volta dopo chissà quanto tempo, lo vide genuinamente colto di sorpresa.
La visione lo
riempì di un sollievo inimmaginato, e solo allora comprese.
Voleva solo vedere del sentimento al di là di quella barriera,
nient’altro. Solo rendersi conto che suo fratello non era
così schiavo del cinismo come temeva.
Perché,
effettivamente, non era la risposta in sé ad interessarlo: la
indovinò nel momento in cui lo vide aprire la bocca per parlare.
“Allora
è questo che fai nel tempo libero? Pensare a domande filosofiche
che non ti portano da nessuna parte?” Fece, scettico, per poi
scuotere la testa e voltarsi. “Non è interrogandoti su
sentimenti e passioni umane che diventerai un perfetto investigatore,
Ken. Cose del genere ti portano solo alla deriva.”
Lo precedette,
uscendo dallo studio, e nel breve momento in cui rimase solo Ken
lasciò che quelle parole risuonassero nella sua mente.
Cose del genere ti portano solo alla deriva.
Risposta perfettamente degna di Ichijouji Osamu, solitario e deciso, razionale e irremovibile sulle sue convinzioni.
Ma lui?
“Non sei uno sciocco, sei umano. Gli vuoi bene … Si vede quanto.”
Qualcosa dentro
di lui si contrasse dolorosamente, e Ken scosse la testa, disposto,
nonostante tutto, a seguire Osamu come aveva sempre fatto.
Davvero non è da sciocchi lasciarsi coinvolgere dai sentimenti, Rumiko-san?
***
“E dove hai detto che è andato? A Kyoto?”
“No, a Osaka. Suo fratello vive lì, sai.”
C’era un
gran frastuono per le strade, un frastuono che lei era abituata ad
ascoltare solo nel tragitto per andare a lavoro e tornare
all’orfanotrofio. Era sempre così legata al suo piccolo
ambiente raccolto che tutto quel viavai di persone e mezzi la
scombussolava.
Dato indicativo
per quanto riguardava il tempo libero che aveva a disposizione da
quando sua madre si era ammalata: praticamente pari a zero.
Hikari
sospirò di nuovo, rassettandosi i capelli scompigliati dal vento
lieve di quel giorno. Non sapeva cosa le prendesse, quella mattina:
aveva la testa fra le nuvole, si sentiva malinconica, di umore incerto.
E aveva sperato di riuscire a star meglio prendendo un po’
d’aria fresca, ma evidentemente si sbagliava.
Avrebbe tanto voluto sapere cosa avesse, ma non sapeva da che parte iniziare a cercare la risposta dentro di sé.
Taichi, al suo
fianco, la osservò con espressione attenta. “Ma
tornerà presto, giusto? Voglio dire …” Si
interruppe, incerto, passandosi una mano tra i capelli perennemente
scompigliati. Poi sospirò, come arrendendosi. “Voglio dire
che non mi riesce di capire fino in fondo Takaishi-kun. Certo, è
logico che abbia dei problemi con se stesso e con quello che davvero
vuole dalla vita, ma si comporta in maniera imprevedibile.”
“Come mai
lo pensi?” Fece Hikari, inconsciamente irrigidendosi. Non aveva
più sentito Taichi parlare di Takeru davanti a lei dopo il primo
giorno in cui lei lo aveva fatto entrare nell’orfanotrofio: era
curioso che lui decidesse di introdurre l’argomento proprio in
quel momento, proprio quella mattina, quando il pensiero e la
lontananza di lui avevano avuto un effetto tanto strano sul suo umore.
Taichi sembrava
esitante, e continuava a lanciarle occhiate di sottecchi, come
preoccupato per la sua reazione. “Non voglio dire che sia un
cattivo ragazzo, tutt’altro!” si affrettò ad
anticipare, alzando le mani. “Ho visto che ha molta voglia di
mettersi in gioco, e una capacità non indifferente di inventare
fiabe stimolanti per i bambini quando io contribuisco alla perdita di
una di queste proprio nell’ora di lettura. E d’altra parte,
tutti quanti abbiamo passato un momento di dubbi e incertezza riguardo
l’orfanotrofio, quindi sarebbe comprensibile il suo
atteggiamento.”
“Ma?”
Insistette lei, se possibile ancora più inquieta. Preamboli,
troppi preamboli: parlando di Taichi, che di solito non si faceva alcun
problema nell’esprimere le proprie considerazioni in maniera
spontanea, era davvero preoccupante.
Lo vide perdere
la pazienza, probabilmente stufo anche lui di quei preamboli inutili.
“Ma mi chiedo se riuscirà mai a liberarsi di quel tormento
che porta negli occhi come un fardello! Insomma, non è
preoccupante? E poi”, aggiunse, mentre lei lo fissava, pallida e
muta. “Mi chiedo se non si sia andato lì a Osaka per restarci, come se volesse dirci che non possiamo contare su una sua possibile presenza fissa da noi.”
Hikari fu colta
da un’ondata di gelo, e non poté far altro che riprendere
a camminare, turbata. Ora capiva perché Taichi era stato
così incerto se parlarle o no. Ora capiva persino perché
lui le avesse chiesto di camminare un po’: aveva già
deciso di voler sapere informazioni su Takeru. La fiducia di suo
fratello iniziava a vacillare, per quanto fosse triste pensarci.
Era la sola? La
sola ad aspettarlo per tutto il tempo necessario, la sola a guardare il
lampo di serenità e non quello di tristezza nei suoi occhi
così azzurri? La sola a sapere che sarebbe tornato?
Perché sarebbe tornato, giusto?
Sussultò,
presa alla sprovvista dai suoi stessi pensieri, i suoi stessi timori
repressi. Che cosa le prendeva, tutt’a un tratto?
“Takeru-kun voleva semplicemente parlare con suo fratello, non ha
alcuna intenzione lasciare definitivamente Tokyo. E io credo che, per
liberarsi di quel tormento che dici, sia necessario che lo incontri e
parli con lui.”
Aveva di nuovo il
cuore pesante, sembrava battere pigramente e rumorosamente contro la
sua gabbia toracica. Sembrava braccato dalla sua malinconia, dalla sua
paura, causata da quell’irrazionale volgersi a destra e sinistra
cercando quei capelli biondi, quegli occhi azzurri, e non trovarli mai.
C’era
qualcosa di tremendamente sbagliato nel suo continuo rimuginare sulle
parole che aveva ascoltato il pomeriggio prima, subito dopo il discorso
riguardo la precarietà dell’orfanotrofio, quando Takeru,
lo sguardo assente, le aveva annunciato che voleva andare a parlare con
Ishida Yamato, suo fratello.
Probabilmente era
sbagliato anche il fatto che ricordasse ogni sua espressione, ogni sua
parola, con una minuzia che dava dell’incredibile.
“Lui
mi ha detto delle cose prima che io tornassi a Tokyo: ha cercato di
farmi capire cosa dovrei fare della mia vita.” Aveva
giocherellato con un filo d’erba, pensieroso, e probabilmente
desideroso di farle capire esattamente il motivo di quella decisione.
“E io vorrei discuterne con lui. Tutte queste novità
…”
Si era interrotto, a corto di parole, limitandosi a scuotere la testa, sconfitto.
Hikari
aveva lasciato che la morsa del senso di colpa la tormentasse ancora un
po’. “Non volevo confonderti tanto, Takeru-kun. Mi dispiace
…”
“E’
tutto a posto, tranquilla.” Sembrava davvero fosse così,
dopo quel sorriso. “Non hai fatto niente, sono io il problema.
Devo sapere come reagire a questa novità sconvolgente, devo
sapere cosa fare. Se posso esservi utile dovrei capire in che modo, no?
E se sono solo un peso per voi dovrei capire come allontanarmi
totalmente da voi e dai bambini: non avrebbe alcun senso questa sorta
di tirocinio, a questo punto.”
Aveva provato a protestare, scandalizzata. “Peso? Ma cosa …”
“Ti
prego, Hikari-chan. Non aggiungere altro.” Il tormento era
riaffiorato sul suo viso all’istante, e Hikari si era zittita,
pur non approvando in nessun modo. “Non voglio più crearvi
tutti questi problemi, non lo sopporto. Sono stato peggio di un bambino
capriccioso ed egoista per tutto il tempo, pretendendo che quella che
io credevo fosse la vostra perfetta felicità dovesse essere
insegnata anche a me. Me ne vergogno profondamente, Hikari-chan, e se
davvero so solamente a complicarvi la vita preferisco lasciarvi in
pace.”
Aveva
avuto paura, all’improvviso, perché lui sembrava
determinato, sincero, profondamente deciso. Non c’era più
alcuna esitazione nei suoi occhi.
Lui
l’aveva guardata, fermo e vibrante di emozione, e le aveva
sfiorato una guancia in maniera così delicata che Hikari si era
sentita arrossire, pur incapace di distogliere lo sguardo da lui.
“Ma
preferisco chiarire il dubbio da subito. Conoscersi meglio potrebbe
essere dannoso, se tutto … insomma … andasse nel peggiore
dei casi.”
Lui
esitò, e lei sembrò rendersi conto solo in quel momento
che Takeru era lì, che la guardava, che le parlava e sorrideva
in quel modo, e che lo faceva solo in sua presenza.
Era
curioso: il fatto che fosse accanto a lei sembrava più concreto
proprio nel momento in cui si affacciava il rischio di doversi
allontanare l’uno dall’altra.
Cadere nell’angoscia fu facile quanto respirare.
“Avrò contato
almeno un centinaio di sospiri, Hikari: mi stai preoccupando. Cosa
c’è che non va?”
La voce
apprensiva e seria di Taichi la riportò con i piedi per terra.
Si riscosse, alzando lo sguardo smarrita. “Come? Non ho niente
che non va.”
Se possibile,
Taichi si accigliò ancora di più. Si fermò di
botto, le mise le mani sulle spalle e la costrinse a guardarla,
preoccupato. “E’ da quando eri piccola che provi a negare
di avere problemi: sai che per fortuna me ne accorgo, sorellina”,
le disse con calore. “Non farmi stare in pensiero, lo odio. Dimmi
cosa c’è che ti preoccupa, così te ne liberi e non
ne parliamo più, d’accordo?”
Era preoccupato
per lei, voleva aiutarla ad ogni costo. E ancora una volta lui era
lì, pronto a darle il suo affetto, la sua grinta, la sua voglia
di sistemare i problemi, come quando erano più piccoli.
E non sapeva
quanto fosse stata condizionata da quella visione, ma Hikari si
sentì gli occhi bruciare, prima che la sua vista fosse offuscata
dalle lacrime.
“Oh, no
… che fai? Sono stato io?” Fece Taichi, con puro terrore,
ma Hikari non aveva una risposta da dargli. Spaventata da se stessa e
dalle sue reazioni, non poté far altro che scuotere la testa e
nascondersi il viso tra le mani, impotente.
Si sentì
abbracciare forte, e accarezzare i capelli, e un momento dopo Taichi
sembrò comprendere esattamente quali fossero i suoi pensieri.
“E’ per lui? Per Takeru?”
Non aveva la
risposta a quella domanda, ma c’era una cosa che le premeva di
dirgli assolutamente, ora che era riuscita a trattenersi dal piangere
scioccamente. “Taichi, devi aver fiducia in Takeru”, gli
disse, con voce soffocata, ma ci credeva davvero. “Non so
… non so se ci aiuterà con l’orfanotrofio, se
sceglierà di seguirci in questo progetto, ma comunque vada io so
che troverà la sua strada e la sua gioia. Lo so … io lo so.”
Lo sentì
irrigidirsi leggermente, sorpreso, prima che si rilassasse ancora, con
un sospiro colpevole. “Accidenti … sono stato davvero
io.” Commentò, a disagio. “Scusami. Non avrei dovuto
dire certe cose sul conto di quel ragazzo: anche Koushiro e Jyou
avevano qualche dubbio prima, e ora guarda dove sono finiti! Che
stupido. Perdonami, sorellina: è che è un brutto periodo,
lo sai … no?”
Non sapeva se
Taichi stesse solo cercando di consolarla o se se ne fosse convinto
davvero: sapeva solo che lui le era accanto, che cercava di aiutarla,
che le voleva bene. Hikari lo strinse forte, annuendo, e cercò
conforto nelle sue braccia.
Oh, certo che
sapeva era un brutto periodo. Era così brutto che l’aveva
costretta a piangere davanti a Takeru, stretta da Takeru, confortata da
Takeru.
E ora, le pareva quasi di sentire ancora il suo profumo nelle narici, per quanto Taichi ne avesse uno totalmente diverso.
Quello non poteva
essere un bene. Aveva paura, paura di quei segnali, perché le
sembrava di essere coinvolta in un processo irreversibile.
E proprio nel momento più sbagliato del mondo.
Respirò
profondamente per calmarsi, per poi sciogliere l’abbraccio.
Taichi la guardava, preoccupato e in colpa, probabilmente cercando di
capire goffamente se il problema fosse passato, se l’avesse
perdonato del suo misfatto.
Come ai vecchi
tempi. Anche se questa volta non era colpa sua, e il problema non
poteva essere risolto con una semplice richiesta di pace.
Eppure, la visione era così tenera che la costrinse a sorridere. Non poteva non farlo.
Takeru non era
lì, forse non ci sarebbe più stato, con il suo sorriso,
la sua amarezza, la sua dolcezza. Ma suo fratello era con lei, e
non se ne sarebbe mai andato, fornendole aiuto ogni volta lei avesse
avuto paura di dare un nome a quel bisogno di Takeru, come in quel
momento. “Sto bene adesso, tranquillo”, gli disse, e gli
strinse le mani. “Grazie. Non so cosa farei se non ci fossi
tu.”
Lui le sorrise in
risposta, in modo solo un po’ più luminoso e sereno di
lei. “Prego! E’ un piacere per me essere considerato
indispensabile da almeno una ragazza. Dovresti convincere Sora di
questo: ultimamente è sempre suscettibile quando è con
me.”
Hikari
annuì distrattamente, e forse avrebbe anche fatto cadere il
discorso, troppo spossata per interessarsene a dovere, se non avesse
sentito il tono di lui incupirsi in modo strano. Incuriosita, si
soffermò a studiarlo.“Magari è solo un brutto
periodo anche per lei”, suggerì .
“Non ne
sono convinto.” Commentò suo fratello con una scrollata di
spalle. E probabilmente avrebbe aggiunto altro, se non si fosse voltato
sulla destra e non avesse scorto qualcosa di nuovo. Si illuminò.
“Ehi, ho appena avuto un’idea! E se lavorassi in una
gelateria? Comincio a stufarmi di puzzare di fritto ogni volta che
ritorno dal ristorante.”
Forse era ancora
confusa da ciò che temeva e ciò che aveva scorto nel suo
animo, ma i cambiamenti di discorsi di Taichi la confondevano.
“Credevo ti piacesse il ristorante”, fece lentamente.
“E che il titolare ti avesse preso in simpatia. Che motivo hai
per cambiare mestiere?”
Taichi fece una
smorfia, grattandosi la nuca ed evitando di guardarla. “Te
l’ho detto, puzzo di fritto. Credo di essere repellente.”
Era abituata da
ventiquattro anni alle sue stranezze, ma quella volta capire di cosa
stesse parlando andava ben oltre le sue capacità intuitive.
Perplessa, aggrottò la fronte. “Non sei affatto
repellente. E da quando in qua questo ti preoccupa?”
“Beh, dimmi
se ti sembra normale. Ultimamente provo ad avvicinarmi a Sora
–non so: un abbraccio, un buffetto sulla fronte, qualsiasi cosa-
e lei mi spinge via, e trova sempre una scusa per allontanarsi da
me.” Taichi si infervorò, indignato, ma quello strano
rossore che aveva colorato il suo viso quando aveva accennato ai
tentativi di avvicinamento a Sora non le erano sfuggiti. Hikari
sgranò gli occhi, intuendo che c’era qualcosa di nuovo che
si agitava in suo fratello, chissà da quanto. “Una volta
l’ho seguita dappertutto per costringerla a spiegarmi, ed ero
così distrutto che sono arrivata a supporre, ironicamente, che
dovevo puzzare davvero troppo di oli e fritti perché si
avvicinasse a me. E lei cosa mi dice? Può darsi.
Che è una risposta che non vuol dire niente, giusto? Ma come
pretende che io possa capire cos'ha che non va se non me ne parla
chiaramente? Va bene, mettiamo il caso che io sia davvero
insopportabile quando esco dal ristorante, ma in nome della nostra
amicizia può fare uno strappo alla regola, no? E invece scappa
sempre ogni volta che le vengo vicino, rifiutandosi di guardarmi!”
Nel momento in
cui Taichi finì di parlare, Hikari comprese che c’era
qualcosa che non andava anche in Sora. I due non avevano mai avuto
problemi ad avere contatti: erano migliori amici da sempre, non era mai
stato un problema. E allora perché allontanarlo adesso?
Perché dargli corda e inventare certe scuse pur di non dirgli la
verità, essere così suscettibile, evitarlo?
E ora che ci pensava, Sora si era mai rifiutata di guardarlo? Solitamente succedeva soltanto quando era in imbarazzo …
In imbarazzo per un abbraccio di Taichi?
Prima che potesse
accorgersene lei stessa, scoppiò a ridere, tenendosi la pancia.
Rise, e rise, e rise, perché il racconto e ciò che aveva
intuito era così buffo da rendere impossibile crogiolarsi nella
malinconia, nella paura, nella tristezza, nei confusi ricordi di
abbracci e profumi.
Rise
finché non ebbe le lacrime agli occhi, e non sentì Taichi
protestare: “Cosa c’è da ridere, adesso?” E
allora si zittì, e si rese conto con quanto sollievo sentiva le
labbra tirare per aver ripreso a sorridere tutt’a un tratto.
Si rese conto che
Taichi aveva cercato fin dall’inizio di portarla a questo, che
aveva fatto di tutto per ridarle quella luce che la scoperta di quanto
avesse bisogno di avere Takeru accanto a sé aveva spento nei
suoi occhi. Si rese conto che non poteva più permettersi di
vivere quell’attesa sempre sul punto di scoppiare in lacrime.
E forse, non aveva mai voluto tanto bene a suo fratello, mai.
Gli mise una mano
sulla spalla, scuotendo piano la testa. “Non sei costretto a
cambiare lavoro: non puzzi di fritto. Parlane meglio con Sora, cerca di
capire, ma non dare niente per scontato. Le cose possono cambiare, se lo volete.”
Tutto poteva cambiare, in effetti. Tutto quanto.
Ascoltò
distrattamente le richieste di spiegazione del suo compagno, persa a
guardare il cielo terso di quella mattina. Da qualche parte, un aereo
stava volando sopra le loro teste, lo stesso aereo che trasportava un
ragazzo dalle mille potenzialità e dal destino incerto verso un
confronto con se stesso che avrebbe, probabilmente, stravolto tutto.
Lo stesso che trasportava le sue speranze, e le sottraeva certezze, mettendole in discussione.
Il suo sorriso si
smorzò, mentre riprendeva a camminare, Taichi al suo fianco e il
frastuono del traffico e dei passanti come attutito nelle sue orecchie.
Non era una
sciocca: in cuor suo aveva intuito da qualche tempo che qualcosa le
stava accadendo, che qualche speranza riguardante Takeru si andava
creando, e che quelle stesse speranze erano così fragili da
essere sul punto di infrangersi miseramente.
Lo sapeva: doveva essere forte, e serena, così che potesse aspettarlo il tempo necessario.
Eppure, sarebbe stata davvero pronta se Takeru avesse deciso di cedere ai suoi tormenti interiori, e dire loro addio?
Sarebbe davvero stata pronta a lasciarlo andare?
Ben
trovati :) avrete notato la novità, giusto? Da adesso in poi
userò sempre -o quasi- più punti di vista in un solo
capitolo! Ho fatto un piccolo ragionamento: ci sono un sacco di cose da
trattare ancora, il ritmo deve essere abbastanza celere perché
qui siamo nella parte più importante della storia... Come altro
avrei potuto fare per trattare così tante situazioni? E
così, mi sono decisa ^^' spero che questo nuovo ordine non vi
dispiaccia! Da parte mia la novità mi ha un po' scombussolata,
per questo ci ho messo tanto a finire il capitolo. xD Ma naturalmente
sta a voi giudicare ;)
Che Iori si accorgesse del
possibile pericolo costituito da Ken è un passo fondamentale per
proseguire le vicende u.u da adesso in poi un indagato inizierà
ad indagare su chi lo indaga xD è abbastanza ingarbugliata la
faccenda, me ne rendo conto! Resta da sapere cosa ne pensa Miyako della
decisione di Iori ... resta anche da sapere che fine ha fatto Miyako,
in effetti, e cosa ha pianificato Satsu a riguardo! Ma per questo, vi
rimando al prossimo capitolo :)
L'idea delle cartoline
è un'improvvisata, lo ammetto xD avevo intenzione di complicare
le cose, ma non sapevo esattamente il mezzo migliore per farlo ...
fortuna che ci sono le amiche che te le spediscono ;) se avete qualche
supposizione in merito alle due ricevute finora, dite pure, vi ascolto
volentieri :D
E... sì, alla fine ho optato per il Taiora :P è inutile, mi riesce molto più facilmente!
Non rispondo qui alle
recensioni, perché da adesso in poi utilizzerò la nuova
opzione di questo sito, che permette di rispondere direttamente sulla
pagina delle recensioni. Mi impegno a mandarvi una risposta alle
prossime recensioni al più presto :)
Grazie a chi segue e a chi commenterà, è sempre un piacere sentirvi dire la vostra ^^
Padme Undomiel
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Capitolo 23 *** Coraggio ***
Purity 22
22.
Coraggio
“Vieni qui, Iori-kun, guarda che bello!”
Una
bambina, coi capelli viola al vento, che volteggia e corre, la gonna
rossa che si solleva lievemente per il vento. Sorride, raggiante, e si
solleva sulle punte dei piedi per prendere un fiore rosa pallido e
mostrarlo al bambino più piccolo, dai corti capelli castani e
due grandi occhi verdi.
“Fiori
di ciliegio!” Dice, e cerca di metterlo tra i capelli come
ornamento, senza riuscirci. Si imbroncia. “Uffa. Vorrei una
coroncina di fiori di ciliegio, sembrerei una principessa!”
“Perché vuoi sembrare una principessa?” Chiede Iori, senza capire, e Miyako alza le spalle.
“Perché
il mio fidanzato deve trovarmi bella”, afferma semplicemente, e
poi si siede sotto il ciliegio più grande. “Il periodo
dell’Hanami è così romantico! Il mio fidanzato deve
portarmi qui, quando vuole chiedermi di sposarlo.”
Iori la guarda, ancora più sorpreso, e poi sospira. “Miyako-san corre troppo, come sempre”, commenta.
Ma
lei è troppo piena delle sue fantasie per prendersela. Gli
prende le mani, raggiante. “Saremo circondati da petali di fiori,
come tanti coriandoli. E lui mi guarderà negli occhi, e mi
dirà: Sei bellissima, come un fiore. E poi mi farà la
proposta … E io, ovviamente dirò di sì, e ci
scambieremo un bacio! Come vorrei che fosse vero!”
“E
se al tuo fidanzato non piace l’Hanami?” Chiede ancora lui.
“E se trova brutti i fiori di ciliegio?”
Miyako
si mette il fiore dietro l’orecchio, sentendosi bella ed
importante anche solo per i due soli secondi in cui quella postazione
regge; il fiore le cade in grembo. “Allora ne troverò un
altro! Il mio fidanzato deve essere romantico, altrimenti non lo
sposerò mai.”
E
poi ride, guardandolo con un ghignetto. “E tu non la baceresti la
tua fidanzata, sotto questi ciliegi? Come dovrà essere la tua
principessa?”
Iori
scuote la testa, tranquillo. “Non so. Non so nemmeno se mi
sposerò. Ma adesso non mi va di pensarci. E poi sono troppo
piccolo!”
“E
allora? L’amore viene ad ogni età, Iori-kun! Potresti
innamorarti anche adesso! E’ per questo che devi sempre stare
attento a quando verrà a farti battere il cuore.”
.
Sollevò il
capo dal cuscino, sentendo gli occhi bruciare, e la prima cosa che
notò fu il buio pressoché totale della sua camera da
letto.
Miyako si
puntellò su un gomito, strofinandosi gli occhi gonfi
–doveva essere la sua malattia, perché non ricordava
affatto di aver pianto-. Le persiane erano semichiuse. Non ricordava di
averle mai sollevate da quando era tornata a casa la sera prima.
Poteva darsi che fosse semplicemente caduta a peso morto su quel letto, senza fare, pensare ad altro?
Si sforzò
di ricordare, mettendosi seduta e lottando contro il senso di nausea.
C’era un calore insopportabile sulla fronte, un peso
insostenibile nella fronte e nel petto, e le mani che le tremavano. E
poi … e poi …
Doveva essere
stata semi incosciente per tutta la notte. Finché non
c’era stata quella telefonata alla signora Sato … quanto
tempo fa?
La testa le
scoppiava. Doveva essere quel maledetto buio, che le lasciava solo
intravedere quei flebili raggi di sole attraverso le persiane abbassate.
Miyako prese un
gran respiro, per poi aggrapparsi spasmodicamente al materasso e
drizzarsi in piedi. Le forze quasi le vennero meno: il mondo le
vorticò attorno per un attimo troppo lungo, e lei ricadde con
forza a sedere, le mani premute sugli occhi.
Da quanto tempo non mi alzo più da questo maledetto letto? Sono diventata un vegetale?
Non si diede per
vinta. Riprovò ancora, la presa sul letto tremante ma decisa, e
infine mosse qualche passo barcollante verso la finestra chiusa. E
allora la aprì di scatto, e altrettanto rapidamente
cominciò ad alzare le persiane, lasciando che la luce la
invadesse sempre più, e si diffondesse in tutta la sua camera.
Una folata di
aria fresca la fece rabbrividire violentemente, ma sul momento non se
ne interessò minimamente. Si affacciò, mentre uno strano,
incredulo sorriso le affiorava sul viso.
Aveva mai visto Tokyo come le appariva quel giorno? Così luminosa, così piena di vita, così perfetta?
La luce brillava
sulle finestre dei palazzi davanti a sé, creando strani giochi
di riflessi dalla quale la giovane si vide incantata. Il cielo sembrava
quasi puro, terso, con solo qualche nuvola a renderlo meno perfetto e
irraggiungibile. E quel viavai di gente lì sotto, davanti a quel
bar che si trovava di fronte a casa sua … Lavoratori che si
prendevano una pausa prima di tornare alle proprie occupazioni, uomini
col giornale, donne al telefono.
Vita. Tokyo sprizzava vita da ogni luogo, quel giorno.
E poi scorse
quella coppia di ragazzi, sempre lì davanti a quel cancello, che
ogni giorno erano sempre nella stessa posizione e alla stessa
vicinanza, e che non facevano che parlarsi l’un l’altro
incessantemente e a bassa voce. Come se il loro amore fosse così
speciale da essere perfetto solo se esso li isolava dagli altri.
Fu quella visione a rompere qualcosa, nel suo strano equilibrio interiore. Il sorriso le morì sulle labbra.
Quel ragazzo
stringeva e sfiorava incessantemente la sua ragazza, come se fosse un
gesto vitale, indispensabile. E il respiro le si mozzò in gola,
mentre sentiva una sgradevole sensazione di amarezza avvelenarle la
serenità.
Perdersi tra le
braccia dell’uomo che amava non le era stato mai concesso,
dopotutto. Ma questa consapevolezza non le faceva più male da
anni …
E poi un soffio
di vento la schiaffeggiò con una realtà che aveva
momentaneamente scordato. Una ciocca di capelli viola le passò
davanti al viso, e Miyako impallidì.
La parrucca. Lei si era tolta la parrucca, chissà quando, chissà perché.
La finestra. Mi vedranno!
Miyako
strillò brevemente, il terrore a deformarle il viso, e
guardò per un istante i passanti sotto di lei, la vita frenetica
dalla quale lei si era estraniata da troppo tempo, e vide che tutto
continuava ad andare avanti senza di lei. Vide che nessuno aveva scorto
Inoue Miyako nascondersi nell’appartamento di Miyazawa Rumiko.
E chiuse di
scatto la finestra, tirò selvaggiamente le tende, le mani che
tremavano convulsamente, e la nausea fu tanto forte da costringerla ad
accasciarsi a terra, a raggomitolarsi su se stessa e a nascondere il
capo tra le mani.
Avventata, e
stupida. Come aveva potuto dimenticare un dettaglio tanto fondamentale?
Perché, proprio ora che il pericolo era raddoppiato, triplicato
…
Li sentì
ancora. Quell’insopportabile angoscia, quel peso insostenibile
all’altezza del petto, e quella voglia di gridare, di distruggere
qualcosa, qualsiasi cosa, pur di placare quella sofferenza, e
ricordò quando le aveva provate.
Era stata la sera prima.
Quando aveva
scagliato lontano quella parrucca, detestandola come mai nella sua
vita, per la prima volta considerandola una prigione e non una
salvezza. E il motivo, il motivo …
“Lui non mi ha vista davvero … Lui non mi ha mai vista coi capelli viola, con gli occhiali …”
Non aveva fatto
altro che ripeterlo, come impazzita, il dolore che la costringeva a
buttarsi sul letto, e a cadere nell’incoscienza per non pensare
più.
Con gli occhi
gonfi e brucianti era molto più semplice lasciar scorrere le
lacrime, si rese conto Miyako, tremando per il freddo che sentiva tutto
intorno a lei e rannicchiandosi come una bambina indifesa.
Pianse
disperatamente, troppo stanca perfino per arrabbiarsi con se stessa,
con il suo destino, con il suo esilio volontario dalla vita e dagli
altri.
Cosa fare, ora
che era al capolinea? Ora che persino il suo corpo si ribellava, stanco
di vessazioni, di finzioni, di bugie, di dolori?
Cosa fare, ora
che nemmeno l’incoscienza poteva aiutarla a cancellare il ricordo
dell’appuntamento della sera prima?
Si era arresa. Colpa di quegli occhi, che avevano confuso, stravolto tutto.
Erano stati gli occhi di Ken –di Ichijouji
Ken - , lì ad aspettarla con impazienza e desiderio di vederla,
sotto quegli alberi di ciliegio nel periodo dell’Hanami.
Sembrava una
beffa. La storia più importante della sua vita fino a quel
momento non aveva mai avuto come sfondo i ciliegi: l’altro
non l’aveva mai portata lì, sebbene fosse uno dei suoi
più grandi sogni romantici. E lei era stata cieca, e aveva
rinunciato alla sua vena sentimentale per venirgli incontro, credendo
scioccamente di non star prescindendo dalla propria personalità.
Ma perché
quello, perché? Perché proprio lui, proprio lì?
Perché lei aveva accettato, perché Ken l’aveva
guardata in quel modo, perché le sue dita erano state
così delicate nello sfiorarla, perché aveva desiderato
che non si fermasse? Perché il suo dannato, dannatissimo amore
per l’indagine lo aveva reso così speciale e allo stesso
tempo così temibile ai suoi occhi? Perché si era sentita
morire quando le aveva detto di starla cercando anche lui, ma aveva
sentito vibrarle il cuore al pensiero di come il cuore di lui avesse
accelerato i battiti nel parlare della sua smisurata passione?
Ken aveva detto a
Rumiko di star cercando Inoue Miyako. Le aveva raccontato della
sofferenza dei suoi cari, che ancora non si rassegnavano a cercarla, le
aveva spiegato di non sopportare tutto quel dolore; e poi le aveva
parlato di suo fratello, di come sperava che, trovando Miyako, le cose
tra loro si sarebbero aggiustate.
Ma Rumiko non è mai esistita. Hai rivelato di star cercando Miyako a Miyako stessa, Ken-kun.
Non sapeva che
Miyako non poteva ricomparire, ed aggiustare tutto. Non poteva fare
niente per Ken. E lui era stato stupido a dirle tutte quelle cose.
Perché loro erano nemici, in qualche modo.
Per quanto fosse
orribile, per quanto i sensi di colpa la stessero distruggendo
dall’interno, non poteva essere altrimenti.
Miyako stava ancora piangendo tutte le sue lacrime, quando il campanello di casa suonò.
I suoi singhiozzi
cessarono, e lei rimase immobile, chiedendosi se non fosse il caso di
fingere di non esserci. D’altronde, il suo corpo era
pesantissimo: dubitava che avrebbe potuto anche solo sollevare il capo.
Ma poi il campanello suonò un’altra volta, e un’altra ancora.
E allora Miyako
sollevò il capo, le lacrime che si asciugavano fastidiosamente
lungo le sue guance. Strisciò verso il suo letto, e fu lì
accanto, per terra, che trovò la sua parrucca, scomposta,
disordinata, odiata, eppure l’unica sua difesa, in quel momento.
Non pensò
a nulla indossandola, non ne ebbe il tempo. Il campanello aveva suonato
un’altra volta, e Miyako si affannò per coprirsi con una
vestaglia, mentre si avviava barcollante verso la porta
d’ingresso.
La aprì,
aggrappandosi alla maniglia e preparandosi ad una folata di vento
freddo, la cosa meno indicata per la sua pelle accaldata.
E chiunque, chiunque si sarebbe aspettata su quella porta fuorché lei.
Satsu sorrideva
semplicemente, il dito ancora sul campanello come in procinto di
suonare di nuovo. “Scusa la scampanellata insistente. Pensavo che
stessi dormendo, e avevo paura che non mi avessi sentito. Non che
sia un male, ovvio: con la febbre è sempre meglio
riposare.”
C’era
qualcosa di incredibilmente sbagliato nel suo essere tanto sorpresa di
non sentirsi sola: non era affatto normale, né sano. Eppure, il
sollievo di vedere Satsu la sopraffece a tal punto che si sentì
mancare le forze, e fu costretta ad appoggiarsi contro il muro.
“Rumiko-chan?
Ti senti male?” Satsu le si era avvicinata d’un tratto,
chiudendo la porta d’ingresso con un rumore forse troppo forte.
Miyako vide la sua espressione preoccupata, e seppe che la sua
sofferenza solitaria era finita.
“Aiutami”, riuscì a dirle a fatica, prima di chiudere gli occhi.
***
“Certo che qui a Osaka ve la passate proprio bene, eh?”
Yamato lo osservò con uno strano sguardo, le bacchette strette nella mano. “Che intendi?”
Takeru si strinse
nelle spalle, prendendo un altro boccone dalla sua ciotola prima di
rispondergli. “Beh”, disse lentamente, mentre un sorriso
affiorava sul suo viso. “Non so se ricordi, ma gli udon di Tokyo hanno un sapore completamente diverso da questi.”
Dal modo in cui
le spalle di Yamato si rilassarono dopo la spiegazione, Takeru comprese
che suo fratello si aspettava, con tutte le probabilità, un
altro tipo di commento da parte sua. Forse si aspettava che questa
fosse la premessa per supplicarlo –ancora- di tenerlo con
sé a Osaka, per aiutarli.
Il ricordo lo
fece scuotere la testa, e dedicarsi di nuovo al suo pranzo. Sembrava
passata un’eternità da quando si era sentito così
sperduto.
“Credi che
non ricordi più la cucina di Tokyo? Non è tanto tempo che
vivo qui”, obiettò Yamato tranquillo, prendendo un sorso
d’acqua.
Il minore dei due
ghignò. “Dipende da quante volte i ragazzi della band ti
hanno lasciato ai fornelli, Yamato”, rispose, e trattenne a
stento una risata mentre parlava. “Se l’hanno fatto spesso,
e se tu hai … sperimentato
altre vecchie ricette della nonna, mi sembra logico che la conseguenza
sia stata venire più spesso ai ristoranti di Osaka, e quindi
dimenticarti dei sapori di Tokyo.”
“La tua scarsa fiducia nelle mie abilità culinarie mi ferisce, Takeru.”
Yamato
ridacchiò, e Takeru lo osservò con la coda
nell’occhio, curioso di vederlo così rilassato. Se lo
ricordava cupo, un po’ pallido, magro e stressato: lo ricordava
bene, perché in quel momento ogni tratto del suo viso gli aveva
suggerito che avesse bisogno d’aiuto. Ma adesso sembrava non
esserci più nulla del genere in lui.
C’era stato un dubbio che si era annidato come un tarlo nel suo cervello, durante tutto il viaggio da Tokyo a Osaka. Se
Yamato dovesse aver trovato una soluzione al suo problema, che effetto
mi farà? Se dovessi capire che non ha più bisogno di
nessuno, perderò interesse a vederlo?
Non era stato
così. Lo vedeva più sereno, e in cuor suo ne era felice.
Forse era cambiato davvero, forse non sarebbe successo nemmeno due mesi
prima, ma la sostanza restava quella: non godeva della sofferenza
altrui. Di quella di Yamato in primis.
Non c’era nulla che avrebbe potuto renderlo più felice. O quasi.
“Ho come
l’impressione che sia cambiato tutto, in questi due mesi in cui
sono stato a Tokyo”, gli rivelò semplicemente. Yamato
sembrò tornare all’istante serio, mentre per qualche
motivo i suoi occhi azzurri, dissimili dai suoi solo per la forma,
sembravano essere diventati più penetranti che mai.
“Guardati: l’ultima volta che ti ho visto ancora non eri
riuscito a rimediare, neanche in parte, all’improvvisa perdita
degli strumenti musicali. E adesso? Hai un basso di seconda mano, stai
per acquistare una chitarra e chissà quanto presto potrai
tornare a fare il mestiere che ti piace, invece di lavorare part-time
con i ragazzi.”
Poggiò le
bacchette sulla sua ciotola ormai vuota, sorridendogli. “E’
bello che tu ce la stia facendo anche senza l’aiuto di nessuno,
Yamato.”
“La stessa cosa potrei dire io di te.”
Takeru si irrigidì, sorpreso. “Perché?”
Gli sembrò
all’improvviso che suo fratello maggiore stesse rivelando i
pensieri che aveva avuto da quando aveva saputo della sua prossima
visita a Osaka: non esitò nemmeno un istante, prima di parlargli
schiettamente. “Sei diverso. E non è solo il fatto che tu
sia qui a ridere e scherzare come non facevi più da un sacco
… è che sembri assente, come troppo preso da un qualche
tipo di pensiero. E l’ultima volta che ti ho visto eri
così terrorizzato dalla tua mancanza di scopi che non osavi
nemmeno perderti nei tuoi pensieri. Cos’è cambiato?”
E a Takeru non
restò che chiedersi se fosse lui troppo chiaro in ciò che
pensava, Yamato troppo arguto o la sua situazione troppo speciale per
essere nascosta.
Eppure, era tutta lì la questione. Anche lui si sentiva diverso, forse troppo.
Forse non si era mai sentito così diverso.
Si fece serio, e annuì piano. “Credo di essere io”, rispose.
La preoccupazione
di Yamato non era mai troppo palese, eppure socchiudeva lievemente gli
occhi quando succedeva. Come accadde in quel momento. “Di cosa
vuoi parlarmi, Takeru?”
Non poteva
biasimarlo, se la sua chiamata lo aveva messo sull’attenti. Visto
il suo atteggiamento passivo degli ultimi tempi, cosa ci si poteva
aspettare dall’irrequieto, frustrato Takaishi Takeru, che aveva
visto da sé di essersi perduto e non aveva fatto nulla per
cambiare le cose?
Sorrise,
perché non si trattava più soltanto dei capricci di un
bambino egocentrico. C’era molto di più in ballo.
Prese un respiro
profondo, per farsi forza. “L’orfanotrofio Yagami”,
dichiarò in fretta, sentendosi inspiegabilmente avvinto dalla
sua stessa emozione. “Ne hai mai sentito parlare?”
E mai aveva
sorpreso Yamato più di quel momento. Spiazzato, rimase a
fissarlo a bocca semiaperta, come volesse comprendere dove voleva
arrivare. “Yagami, dici?”, fece dubbioso, preferendo
seguire il filo del discorso per lasciare che fosse lui a spiegargli
tutto in seguito. “Non era quella famiglia che si sottopose a
maldicenze di ogni genere pur di aprire quell’orfanotrofio quasi
fuori città?”
Maldicenze di ogni genere.
Quel pensiero gli
fece abbassare il capo, imbarazzato. Aveva passato gli ultimi anni a
cercare qualcosa che non esisteva né sarebbe mai esistito,
mentre Hikari e la sua famiglia venivano tacciati di moralismo,
talvolta accusati di empietà irripetibili, talvolta
semplicemente ignorati.
Quanto poteva
essere impari il paragone tra loro? Quale ingiustizia aveva dato tanto
a lui, e poco a loro, quando lui non aveva saputo vedere ciò che
aveva e loro avrebbero dato chissà quanto per ricevere tutto
ciò in dono?
“Allora lo
conosci”, disse, giocherellando con il suo tovagliolo, e lo
sguardo di Yamato ancora cercava di sondare le sue emozioni. “Io
non ne sapevo niente, invece. Ed è buffo, davvero buffo, dato
che adesso non riesco a pensare ad altro.”
“Davvero?”
Interdetto, e
confuso, Yamato sembrava aver perso l’uso della parola, che
già lui usava abbastanza raramente. Appariva come una scena
comica, ad occhio esterno.
I dubbi che lo
stavano assillando resero impetuoso il suo parlare, spingendolo a
condividere la sua incertezza con la persona che più gli era
stato vicino in tutti quegli anni. “E’ che ho conosciuto la
figlia minore della famiglia, che sta mandando avanti il progetto con
poche altre persone … Yagami Hikari. E’ una mia coetanea,
sai? Ci si aspetterebbe che studi, o almeno che lavori, invece vive in
totale funzione dei suoi orfani.
E’ assolutamente instancabile, ed è assurdo, ma il suo
sorriso è davvero capace di … scuoterti dentro, ecco. Non
credo ci sia nessuna capace di fare una cosa del genere.”
Probabilmente
avrebbe continuato ancora a sproloquiare senza nesso logico, se Yamato
non lo avesse interrotto. “E come mai è importante che tu
l’abbia conosciuta?”
E quella singola frase fu capace di mandarlo in confusione per un istante.
Già, perché?
Restò
smarrito a fissare gli occhi di suo fratello, immobile, finché
lo stupore non fu passato, e la piena consapevolezza di cosa sentisse
da qualche giorno non lo spinse a parlare di nuovo.
Si passò una mano tra i capelli, incapace di reggere lo sguardo dell’altro in quel momento.
“Che tu ci
creda o no, il suo sorriso mi ha davvero … scosso. E, non so
come, sono così scosso che da solo non riesco a capire come
comportarmi adesso.”
***
“Sei la
solita esibizionista, Rumiko-chan. Svenire in corridoio è stato
davvero un tocco di genio, devo riconoscerlo.”
Infagottata nelle
le coperte, dietro la schiena due cuscini a sorreggerla, Miyako si
accigliò, pur troppo stremata per sollevarsi almeno un
po’e riconoscere ciò che Satsu le aveva appena portato
dalla cucina. “Non sono affatto svenuta. Ho avuto solo un momento
di vertigine, tutto qui!”
“Una vertigine esibizionista, allora.”
Satsu rise,
prendendo una sedia e accomodandosi accanto al letto. Tra le mani
reggeva una ciotola fumante, che aveva tutta l’aria di essere una
porzione di riso. “Avanti, malatina. Ti fa bene mangiare
qualcosa, no? Sei a stomaco vuoto da un giorno intero.”
Miyako
osservò il riso –era davvero tutto per lei?-, e un moto di
nausea la scosse. Voltò la testa, intestardendosi. “Non ne
ho voglia, Satsu-chan. Mangio più tardi, ok?”
Satsu la
osservò pazientemente. “Sapevo che lo avresti
detto”, puntualizzò con un sorrisetto. “Ma sappi che
continuerò a porgerti questo boccone finché non deciderai
di mangiarlo.”
“Quindi, fino a domani mattina”, la provocò Miyako, osservandola con aria di sfida.
E Satsu
alzò le spalle, prendendo un po’ di riso con le bacchette
e porgendoglielo. “Splendido. Ma se mi cadrà il riso sul
copriletto, qui ci dormi tu, sai?”
Questo era un ricatto bello e buono.
In altri tempi,
probabilmente Miyako avrebbe protestato, si sarebbe alzata barcollando
dal letto sostenendo che avrebbe dormito sul tappeto piuttosto che
sottostare alla sua tirannia.
Eppure, non aveva la forza per opporsi, non stavolta.
Sbuffò,
rassegnandosi, e aprì la bocca. Satsu la imboccò,
soddisfatta, e Miyako dovette lottare contro la ribellione del suo
stomaco, prendendo a masticare piano.
Non le era mai
piaciuto il riso in bianco: non aveva alcun sapore. E siccome non le
piaceva, ed era costretta a mangiarne quando non stava bene, quel
piatto le aveva sempre ricordato la quantità di cose che non
avrebbe potuto fare perché costretta a letto.
Strano come le cose fossero cambiate. Ora alcune cose le erano precluse anche quando era sana come un pesce.
Eppure ora riusciva a vedere con maggiore chiarezza quanto gli altri facessero per lei.
Mentre Satsu continuava silenziosamente ad imboccarla –come una bambina, come quel bambino che avrebbe voluto imboccare lei-,
Miyako si concentrava su quanto le sembrasse più buono, quel
riso in bianco, perché significava cura, e attenzione, e il
fatto che non era sola. Era sorpresa di sentirsi fortunata, in momenti
come quello.
Ingoiando un
boccone tiepido, Miyako sorrise, tremendamente grata. “Sei un
tesoro, Satsu-chan”, le disse, cogliendo il suo sguardo
perplesso. “Non fossi una ragazza e la mia migliore amica, ti
sposerei seduta stante.”
“Oh. Beh, onorata, ma mi dispiace deluderti: sono una ragazza e sono
la tua migliore amica”, fece lei, alzando gli occhi al cielo con
espressione serena. “E ho già un futuro come single che
alleva gatti … ovvero Haku e i suoi futuri cuccioli, se mai ce
ne saranno.”
Sul punto di prendere, controvoglia, un altro boccone, Miyako si fermò, colta di nuovo dalla stranezza della sua vicenda.
Possibile che non
avesse mai analizzato la sua vita sotto quell’ottica, che
l’aveva illuminata e gettata nello sconforto più nero
all’improvviso?
Osservò
Satsu, lucida abbastanza dalla febbre per fare un discorso più o
meno logico. “Satsu-chan, se avessi voluto anche io un futuro
come single che alleva gattini, sarebbe stato mille volte migliore, la
mia vita. E anche quella degli altri.”
E, tanto per cambiare, lei non la prese sul serio.
“Deliri?
Eppure non mi sembrava che avessi tanta febbre!”, esclamò
con le sopracciglia aggrottate, tastandole la fronte. “Infatti,
non scotti molto …”
Miyako
sospirò, disperata, allontanando la mano di Satsu. “Sono
seria! Giuro!” Dovette fissare negli occhi scettici della sua
amica per qualche minuto buono, prima di riuscire a convincerla.
“Guarda, mi sono sempre messa nei guai, ogni volta che sono stata
innamorata. Cosa credi sarebbe successo se lo avessi rifiutato
perché non interessata? Non sarei stata madre ed egoista, tanto
per cominciare. E non avrei avuto un figlio che mi manca a tal punto
che a volte mi sembra di sentire il suo pianto nelle orecchie
…”
Il ricordo la fece ammutolire per qualche istante, senza fiato. Keiji-chan. Mio Keiji-chan …
“E
Keiji-chan non sarebbe stato abbandonato dalla sottoscritta!”
Riprese, fuori di sé. “E non dimentichiamoci che avrei la
mia famiglia, i miei amici … la mia vita ancora qui. E tu e
Iori-kun non sareste costretti a sacrificarvi fino al limite imposto
dalla legge. Lo vedi, Satsu-chan? E’ uno strazio. Sono uno strazio. E io credo di essere malata d’amore.”
Si
appoggiò pesantemente contro i cuscini, con una smorfia di
dolore per la sua testa, che lamentava l’impatto. “E ci
voleva proprio anche la malattia fisica. Dannazione! Non ne posso
più, davvero non ne posso più.”
“Frena, frena”, la interruppe Satsu, interdetta. “Che intendi per malata d’amore?”
L’amore, la mia rovina.
“Credo
sia questo: m’innamoro sempre nel modo sbagliato, nel momento
sbagliato, della persona sbagliata.” Esclamò Miyako,
gesticolando per la frustrazione. “E le conseguenze sono sempre sbagliate.
Ma sai qual è la cosa più triste? Che non riesco mai ad
uscirne del tutto. Sto ancora vivendo le conseguenze della mia fuga
sconsiderata con quel ragazzo indegno, e chissà quali
conseguenze ci saranno adesso se …”
Si interruppe, e
come un lampo rivide quegli occhi azzurri così strani nella
mente. Il senso di colpa quasi esplose dentro di lei.
“Non è necessario che tu mi spieghi ogni cosa, se non vuoi. Te l’ho detto, non voglio forzarti.”
Non sei tu a forzarmi. Sono io a farlo, per impedirmi di dirti di sì ogni volta.
Abbassò il capo, come sconfitta, e ascoltò il ticchettio dell’orologio affisso alla parete.
“Mi dispiace tantissimo, Ken-kun.”
“Grazie e basta, Rumiko-san.”
Che incontro impari, il nostro.
Finché
Satsu non le prese la mano gelida, e non la strinse. “Ha un nome,
il motivo del tuo turbamento?” Le chiese, sorridendole
ammiccante. “Deve essere davvero un genio, se, dopo la tua scorsa
esperienza, è riuscito di nuovo a scombussolarti tanto.”
E Miyako vide,
sorpresa, che Satsu non vedeva quest’angoscia come un sintomo di
una malattia. Ne era quasi sollevata, sembrava appoggiarla.
Forse era la prima volta che accadeva una cosa del genere. Con lui, nessuno aveva mai approvato la sua scelta. Nessuno, tranne lui stesso, e lei.
Miyako sentì un groppo in gola quasi soffocarla, e sentì che qualcosa si era sbloccato.
Sentì che si fidava di lei.
“Ken”, disse, a voce malferma. “Si chiama Ken.”
***
Yamato non lo interruppe mai, mentre ascoltava il suo racconto.
Nemmeno quando, a
disagio, gli parlò dei primi giorni in cui li spiava come un
parassita, desiderando di essere come loro. Nemmeno quando, in
imbarazzo profondo, balbettava del primo incontro con Hikari, del fatto
che l’avesse subito fatto sentire a suo agio, quasi a casa.
Nemmeno quando
Takeru fu costretto a tacere, dopo qualche frammentario tentativo di
spiegargli cosa sentisse per quella ragazza, cos’avesse provato
quando l’aveva vista piangere in quella stanza buia, cosa quando
gli aveva raccontato dell’orfanotrofio. Nemmeno quando ammise che
non sapeva cosa lo avesse spinto, in quel momento e dopo quel discorso,
a parlare con Yamato.
“Credo sia
questione di … ricambiare quello che hanno fatto per me”,
tentò, passandosi una mano tra i capelli. “Non ho mai
fatto nulla per loro, mentre loro mi vogliono bene, e mi sembra
inammissibile. Credo sia questo.”
Solo allora,
alzando le sopracciglia, Yamato si decise a parlare. “Se fosse
così, la situazione non sarebbe diversa da quella di
quest’inverno, Takeru”, replicò, appoggiando il peso
della testa sulla mano. “Sarebbe solo un’altra fuga dalla
tua insoddisfazione.”
Takeru
sgranò gli occhi, stupefatto. Quella spiegazione lo aveva
accompagnato per tutto il giorno, e gli era sembrata sensata,
assolutamente priva di pecche. Non era logico cercare di ricambiare il
favore, visto che ogni volta che pensava all’orfanotrofio e ai
suoi abitanti provava un enorme senso di gratitudine?
Eppure,
effettivamente non aveva senso. Messa così sembrava ciò
che lo spingeva a seguire Daisuke nelle sue bravate: quella era una
cosa che faceva solo per gratitudine nei suoi confronti, perché
gli voleva bene.
Ma non poteva
paragonare l’orfanotrofio, Hikari, a Daisuke. Non sarebbe tornato
a Osaka se fosse stato così, non con tanto bisogno di decidere
della sua vita.
Aggrottò
le sopracciglia, cercando di spiegarsi. “No, non è
così. E’ … “ Ripensò ai visi dei
bambini, agli abbracci di Naoko ogni volta che lo vedeva, agli occhi
brillanti di Hikari mentre lo osservava parlare con loro.
“E’ che mi sento sempre pieno di calore, ogni volta che
vado lì. Sembra quasi sul punto di scoppiare dentro di me, ad un
certo punto, ma … non scoppia, resta come bloccato lì
senza trovare vie di fuga. Loro non ricevono calore da me, e sarebbe
bellissimo che lo facessero. Perché tutti lì mi vogliono
bene … Perché voglio bene loro anche io.
Sto bene con loro a prescindere della mia insoddisfazione. E vorrei che
io e Hikari-chan fossimo alla pari, vorrei … donarle calore.
Come lei ne dona a me.”
Tacque,
agitandosi a disagio sulla sedia. Era strano, davvero strano parlare di
Hikari davanti a Yamato, sentirsi così esposto nel rivelargli
quei sentimenti confusi.
E attese, trepidante, un commento a ciò che sentiva mettere radici sempre più dentro di lui, ogni ora che passava.
“Beh, questo è inaspettato.” Disse infine Yamato.
Takeru sollevò il capo, cogliendo il sorrisetto di suo fratello. “Inaspettato … cosa?”
Lui alzò le spalle, mentre il sorriso si allargava. “Sei in imbarazzo.”
L’averlo
messo in risalto non fece che incrementare l’imbarazzo. Takeru
sbuffò, rifuggendo il suo sguardo per non mostrargli il rossore.
“Piantala di prendermi in giro, lo so anch’io che è
una situazione strana.”
Yamato
ridacchiò, osservandolo con aria curiosa. “Io credo di
aver svelato il mistero, invece.” Fece, ma non gli lasciò
il tempo di chiedergli, provocatoriamente, di cosa si trattasse:
alzò una mano, chiedendogli di aspettare. “Ti sei mai
chiesto cosa sarebbe successo se non l’avessi vista piangere? Se
non avessi saputo della crisi dell’orfanotrofio? Ti saresti
interessato così tanto alla loro situazione?”
Takeru annuì, serio. Si aspettava la domanda, era stata la prima cosa a cui aveva pensato.
“Me lo sono
chiesto. E mi sono risposto, anche. Esattamente non lo so:
probabilmente avrei sperperato il dono che mi era stato fatto, non
avrei dato importanza a Hikari-chan e agli altri. Chissà, magari
non avrei aperto gli occhi su quanto mi abbiano cambiato. Eppure
… quelle lacrime mi hanno mostrato una realtà tremenda:
loro rischiano di chiudere tutto e di abbandonare i bambini. Chi
reggerebbe un peso simile?”
E quando ebbe
fissato Yamato negli occhi, pieno di forza, si rese conto di star
rivelando quelle cose prima a se stesso, come se le ascoltasse per la
prima volta. “Io, stanco di tutto com’ero, non ce
l’avrei fatta di certo. Loro
sì. E sai perché? Perché hanno scoperto la
bellezza dell’amare, dell’aiutare, della vita stessa.
Vedono speranza in ogni cosa che li circonda, e confidano nelle loro
forze. Hanno il coraggio di osare credendo nella luce dei bambini. Non
è l’invidia a farmi parlare, quando penso e dico che io
avrei ceduto, perché io ho vissuto da codardo fino ad ora. Ho
passato questi anni a guardare con pessimismo ciò che avevo
davanti agli occhi. E ho rischiato di non vedere mai la bellezza di
queste persone.”
“Il loro
coraggio ti ha scosso, quindi.” Commentò l’altro, e
gli sembrò che lo osservasse con occhi nuovi, pieni di
consapevolezza. Gli sembrò che fosse soddisfatto.
“Sì.
Mi è parso, ad un tratto, di risvegliarmi da un sogno. La mia
malinconia ha rischiato di portarmi alla deriva, il mio egoismo mi ha
stressato abbastanza. Voglio vivere davvero, e voglio lottare per un
sogno con loro … con lei. Stare loro accanto è tutto
ciò che voglio.”
Yamato gli mise
una mano sulla spalla, stringendogliela pieno di calore. “Sai da
quanto non desideri più qualcosa, Takeru?” Gli chiese, e
il lampo d’affetto nei suoi occhi fu così contagioso che
Takeru ricambiò il sorriso.
“Merito di
Hikari-chan”, rispose semplicemente. Poi fece una smorfia, con
aria colpevole. “Scusa per essere stato un idiota fino ad
ora.”
Yamato scosse la
testa, e, con suo stupore, vide il suo viso incupirsi. “Sono io a
dovermi scusare con te”, ammise. “Avrei dovuto essere
più presente, avrei dovuto farmi sentire più spesso.
Avrei dovuto essere più chiaro nei miei consigli. Ma volevo che
tu capissi da solo che strada prendere, perché se ti avessi
guidato io forse non avresti trovato qualcosa in cui credere
davvero.”
E, ancora
più sorpreso, Takeru comprese di averlo perdonato da tanto,
perché in fondo aveva sempre saputo che le cose non avrebbero
potuto essere altrimenti. “Ehi, va tutto bene. Davvero.”
E gli sorrise, rassicurante, finché Yamato, incerto, non ricambiò.
“Piuttosto,
cos’hai intenzione di fare con l’orfanotrofio?”
Chiese infine il maggiore, versandosi ancora un po’ d’acqua
nel bicchiere e sorseggiandola. “Come vuoi lottare?”
Takeru
sbuffò, mettendo da parte il tovagliolo di carta. “Qui sta
il punto. Non ne ho la minima idea. Certo, Hikari-chan e gli altri
lavorano a turno, anche duramente, ma non basta. I bambini aumentano
sempre più, le risorse diminuiscono … se mi mettessi a
lavorare anche io la situazione non cambierebbe poi di molto.”
Yamato
annuì, pensieroso. “Effettivamente non hai nemmeno una
laurea … i lavori a cui potresti aspirare renderebbero
poco.”
Eppure dev’esserci un modo.
Si massaggiò le tempie, tentando disperatamente di riflettere.
Era pronto a scommettere che ormai le avessero provate tutte: ragazzi
come loro non si sarebbero lasciati abbattere da una sciocchezza, il
problema doveva essere davvero serio. Come si poteva dare un contributo
cospicuo, e al contempo crescere i bambini al meglio?
Stava ancora
riflettendo disperatamente, quando il cameriere arrivò e
portò via le ciotole vuote, che Takeru stava osservando con aria
vacua da un po’. Distolta l’attenzione dai suoi pensieri,
non fu piacevole scoprire che non era arrivato a nessuna soluzione.
“Ci
vorrebbe un miracolo, Yamato. Davvero, non so che proporre.” Si
arrese, alzando le spalle rassegnato. “Ci dovrò riflettere
con calma. Magari nel viaggio di ritorno, o …”
“… O magari dovresti discuterne prima con Hikari e gli altri.”
Takeru lo
guardò con aria vacua. “Che potrei dire loro? Non ho
alcuna soluzione. Contavo di parlare con loro se avessi avuto qualcosa
da suggerire, qualcosa di utile.”
Yamato stette in
silenzio per qualche istante, e il minore ebbe la sensazione che
chiamare ancora il cameriere e chiedere il conto fosse solo un pretesto
per riflettere bene su ciò che desiderava dirgli. Fremette, in
attesa.
Infine, Yamato si
rilassò sulla sedia, guardandolo di sfuggita. Un sorriso storto
comparve sulle sue labbra. “Non ti capisco, Takeru. Mi hai detto
fino a questo momento in che modo ti senti cambiato, e ciò che
potresti dire loro, con una precisione quasi totale … tranne
quando parlavi di Hikari.” Disse, incurante dell’occhiata
quasi stralunata del suo interlocutore. “Credi davvero di aver
bisogno che io ti suggerisca il copione, quando lo conosci meglio di
me?”
Fece uno strano
effetto, afferrare il senso delle parole del maggiore. Come se non si
fosse mai osservato a fondo, come se avesse sempre cercato le risposte
altrove senza provare a leggere il suo animo, cosa vi si nascondeva
all’interno.
Perché era
andato a Osaka? Credeva davvero avrebbe seguito ciecamente le parole di
Yamato? Credeva davvero che, per prendere una decisione, fosse
necessario l’appoggio di qualcuno?
Lui, le risposte,
ce le aveva già. Non c’era niente e nessuno che potesse
impedirgli di seguire la strada che voleva.
Nessuno, nemmeno
Yamato, avrebbe potuto dirgli cosa fare. Se anche Yamato gli avesse
consigliato di abbandonare l’orfanotrofio – di non vedere più Hikari-, lui ci sarebbe tornato ugualmente. Doveva. Lo voleva.
Era solo lui a decidere, e se l’era dimenticato.
“Lo
credevo”, ammise, turbato dalla coscienza di sé che aveva
appena avuto. “E l’ho creduto per tanto tempo … non
ricordo nemmeno da quanto.”
Un sollievo immenso lo invase, così, senza motivo. Si sentiva più libero. Si sentiva bene.
Rise. “Se
non me l’avessi detto tu, chissà quanto ci avrei messo a
capire. Ma hai ragione … loro si meritano sincerità, non
battute prestabilite. E …”
Si interruppe, ma non per osservare il viso di Yamato. Per ripetere tra sé, come un mantra, la fine della frase.
“E coraggio. Coraggio di trarre più bene possibile da se stessi.”
Yamato ridacchiò. “Bentornato tra noi, vecchio Takeru.”
Vecchio Takeru.
Che strano. Eppure si sentiva anche un Nuovo Takeru.
“Grazie”, fece lui, e probabilmente la sua occhiata lo ringraziava mille volte di più.
Pagarono il
conto, accompagnati dalla sua emozione, da un improvviso accesso di
adrenalina che rendeva irrequieti i suoi movimenti. Andarono via dal
ristorante, e Takeru seppe che doveva andar via da Osaka: doveva
tornare, e subito, perché doveva sistemare le cose.
Tornare da loro, dai sorrisi, da lei, da se stesso.
“Bentornato tra noi.”
Camminavano ancora, persi nei propri pensieri, finché Yamato non parlò ancora.
“Non m’illudo che resterai ancora qui”, fece, e si fermò. “Quando partirai?”
Era straordinario quanto per gli altri fosse semplice comprenderlo. Lui, e Hikari, ci riuscivano in un istante.
“Al
più presto. Domani mattina, credo.” Sorrise, con aria di
scusa, ma Yamato non sembrava arrabbiato. Tutt’altro: anche lui
era tornato ad essere quel Yamato che conosceva, tutto d’un
colpo. “Torna tu a Tokyo appena puoi, magari. Mi piacerebbe
presentarti a tutti.”
Yamato gli scompigliò i capelli, e solo quando Takeru si ritrasse con un Ehi! di protesta, in imbarazzo, si ricordò che era da quando era piccolo che non vedeva più certi gesti. Troppo tempo che non siamo più bambini. “Naturale. Ci tengo a vedere quanto coraggio avrai, e quanto bene da te stesso tirerai fuori.”
Un modo come un altro, quello, per mostrargli che approvava.
Rise, alzando gli
occhi al cielo, e distrattamente ne osservò l’azzurro
intenso, e le nuvole che lo attraversavano. La sicurezza e la gioia
rendevano tutto più speciale, più bello.
“Non per
rovinarti la sorpresa, Yamato, ma posso anticiparti una cosa”,
replicò. “Darò niente di più di ciò
che ho. Tutto ciò che ho.”
***
“Allora, vediamo se ho capito.”
Miyako era
tornata a seppellirsi quasi completamente sotto le coperte, stremata
dal racconto quasi sconnesso che aveva appena finito di sciorinare. Si
era sentita meglio dopo aver condiviso quel flusso confuso di pensieri
e timori con la sua amica, ma adesso non era sicura di aver totalmente
abbandonato la preoccupazione, non con Satsu ancora accanto al
tavolino, e ancora intenta a rigirarsi tra le mani quel post-it.
“C’è
un certo Ken –di cui non vuoi dirmi il cognome- che ti stressa,
che pare vivere in libreria e per il quale hai sviluppato una sorta di
sentimento di attrazione-repulsione”, iniziò ad enunciare
la giovane dai capelli castani, con un sorriso furbo che non faceva che
allargarsi mentre parlava. Miyako fece una smorfia. Disgraziata, ridi pure delle mie sofferenze.
“Eppure i suoi modi ti piacciono. Ti piacciono così tanto
che hai accettato di uscire con lui, cosa che, se ben ricordo, non era
successa con quell’altro ragazzo … Come si chiamava?”
“Oh
… Hiroyuki”, rispose Miyako sorpresa, rendendosi conto di
aver quasi dimenticato quell’episodio della sua vita, presa
com’era da altro. Poi sbuffò. “Ma non c’entra nulla, Satsu-chan. Lui aveva uno sguardo che non mi piaceva, sembrava fosse sicuro che lo avrei amato alla follia.”
Satsu scosse la
testa, in totale disapprovazione. “Ora sei ingiusta. Aveva solo
lo sguardo di chi è cotto di te e spera di essere ricambiato da
una sciocca che si ritiene malata d’amore.”
“Io non mi ritengo malata, io lo sono.
Ne ho le prove!” Replicò Miyako testarda, ma non
poté contestare le parole dell’amica: in cuor suo sapeva
che aveva ragione.
Se lo ricordava,
Hiroyuki. Era uno studente universitario dall’aria spontanea che
veniva spesso a comprare volumi nella sua libreria. E ricordava anche i
suoi impacciati approcci sentimentali nei suoi confronti. Parlare con
lui era piacevole, anche molto, ma Miyako non aveva mai sentito
–né voluto sentire- il bisogno di approfondire il loro
rapporto.
Glielo aveva detto dopo qualche tempo, il più diretta possibile: non aveva mai sopportato i luoghi comuni. Mi
dispiace, e credimi, mi dispiace davvero –non mi va di impegnarmi
sentimentalmente. So che dovrei darti una spiegazione plausibile, ma
non ne ho … e non riesco a trovarne. Ho solo bisogno di
tranquillità, adesso. E aveva persino reclinato
l’offerta di provarci: da quel punto di vista era sempre stata
categorica. Per lei contava tantissimo il primo approccio con la
persona, e se non accadeva niente allora, il rapporto era solo
d’amicizia. Non le andava di confondere la passione con il
rispetto e il timore di ferire, non faceva per lei.
Da allora,
Hiroyuki si era cercato un’altra libreria. E Miyako non lo aveva
mai biasimato per questa scelta: lo avrebbe fatto anche lei al suo
posto.
Satsu rise, esasperata. “D’accordo,
come preferisci. Dicevo, hai accettato di uscire con questo Ken,
cercando fino all’ultimo di reprimere il tuo desiderio di
incontrarlo … Ma tu che reprimi qualcosa è
un’utopia. Comunque, lui è stato carino con te, non ha
preteso troppo da te, ti ha raccontato qualcosa di sé come se
non aspettasse altro, e tu, tuo malgrado, ti sei resa conto di essere
più aperta con lui. Mi sbaglio?”
Miyako
annuì vigorosamente, mentre un’espressione sconsolata
tornava ad affiorare sul suo viso. Suo malgrado. Tutto quello succedeva
suo malgrado, e lei non poteva evitarlo.
“Quindi ti
ha riaccompagnata a casa –solo più tardi ti saresti
pentita angosciosamente di avergli mostrato dove abiti-, e prima di
andare, impacciato, ti ha dato questo bigliettino ...” Satsu lo
sollevò, chiaramente dimenticandosi che a quella distanza le era
impossibile scorgere la grafia di Ken senza lenti, già di per
sé stretta e incomprensibile. “… dove
c’è il suo numero di cellulare. Ti ha invitato a
chiamarlo, se avevi bisogno, per qualsiasi motivo. E ha aggiunto che
non voleva avere il tuo, perché sapeva che non glielo avresti
dato, e in ogni caso voleva ancora darti la possibilità di
scegliere se buttare il foglio o usarlo. Tutto questo lo ha detto balbettando adorabilmente.”
Miyako
sussultò, finendo per tossire selvaggiamente, e arrossì
di colpo. “Ehi, non lo conosci nemmeno: come fai a dire che
è adorabile?” La riprese, fulminandola con lo sguardo.
Lei, da parte
sua, fece spallucce. “Non ti sei accorta di aver commentato
così la scena?” Disse candidamente. Miyako sgranò
gli occhi, mordendosi l’interno guancia.
“…
Mi sa che hai ragione”, disse, sconvolta. Tanto presa dal suo
sproloquio che nemmeno se n’era accorta, eppure lo pensava sul
serio. Lo pensava ogni volta che lo vedeva imbarazzato, che era
adorabile. Si seppellì sotto le coperte, con aria disperata.
“Voglio morire, Satsu-chan. Perché parlo senza
accorgermene?”
“Perché la Rumiko-chan che conosco lo faceva sempre. E adesso vuole dimenticarlo.”
Miyako emerse
dalla coperta, interdetta. Il tono di Satsu si era fatto serio
all’improvviso, inspiegabilmente: era come se in quella frase
fosse racchiuso un significato più profondo.
“Dici la Rumiko-chan che conosco”
ripeté lentamente, aggrottando le sopracciglia. “Come se
adesso non mi conoscessi più. Io sono sempre io, lo sai.
Perché-”
“Certe volte stento a riconoscerti.”
Lo aveva detto
tutto d’un fiato, osservandola negli occhi quasi con
solennità. A Miyako mancò il fiato, per un istante.
“C-cosa?” Balbettò, incredula.
Satsu
sospirò, prendendo ad attorcigliarsi una ciocca di capelli
castani intorno al dito. “Non so come spiegartelo. Se fosse solo
un travestimento esterno –parrucca, nome diverso, lenti e tutto
il resto-, potrebbe anche starmi bene, perché è quello
che vuoi. Ma tu ti nascondi anche a te stessa, Rumiko-chan, e se tu non
ti riconosci più non posso certo farlo io, che non sono nella
tua testa.”
Le fece male,
ascoltare quelle parole. Era una persona diversa, quella che vedevano
Satsu, o Iori? Era da tempo che lei sospettava di essere cambiata,
forse anche troppo, ma non aveva idea che la cosa fosse certa, e
visibile. D’altronde, se poteva, preferiva evitare di esaminarsi.
Finiva solo per andare in confusione.
Profondamente
amareggiata, si voltò verso la finestra, e sospirò.
“Non l’ho mai voluto”, mormorò. “Non lo
voglio neanche ora. Eppure … mi sto perdendo davvero?”
Aveva paura, paura di non sapere cosa fare. Paura di cadere nel panico, come poco prima.
“Io credo che tu ti stia ritrovando, invece.”
Smarrita, Miyako
si voltò di scatto verso Satsu, e vide che sorrideva ancora.
“Come sarebbe? Se poco fa hai detto il contrario …”,
obiettò.
Satsu si
avvicinò al suo letto, sedendosi sul materasso ai piedi del
letto. “Lo so, ma questo avveniva prima di conoscere questo
Ken”, fece semplicemente, e la spiazzò. “Guarda: da
quando lo conosci hai ripreso ad agire d’istinto, hai accettato
un appuntamento, non riesci a reprimere questo sentimento con quella
razionalità che ti sei imposta di avere quando hai indossato la
parrucca nera di Rumiko. A me sembra che la mia amica stia cercando
disperatamente di protestare, lì dietro.”
Ansia e
turbamento si agitarono violentemente dentro di lei, e la nausea la
sopraffece. “Non è un bene, riprendere ad agire
d’istinto”, protestò rabbiosamente, il capo chino
sul copriletto e la voce incrinata. Era una bambina sciocca: se Keiji
fosse stata lì con lei, in quel momento, avrebbe riso di lei.
Non era matura, non era nemmeno una mamma. “Ho perso tutto,
agendo d’istinto. Sono andata contro tutti per amore, e
l’amore è istinto. Io non posso, io – non posso.”
“Rumiko-chan,
guardami.” La costrinse a sollevare il capo, e guardarla, mentre
lei tratteneva le lacrime. “Puoi convincerti di poter sopprimere
alcuni lati del tuo carattere, ma non puoi. Nessuno può: tu sei
quella persona, e non puoi essere nessun’altra. Non vuoi
esserlo.”
“Ma l’ultima volta, io …” Tentò Miyako, tremando, ma Satsu sbuffò.
“L’ultima
volta, per istinto, hai rinunciato a te stessa. Stavolta sta accadendo
il contrario. Non puoi prevedere come andrà a finire, ma temere
il tuo istinto è inutile, e ti ucciderà. Se provi
così intensamente questo sentimento, allora vivilo: ti sfido a
impedire al tuo cuore di accelerare così tanto i battiti, ma so
già come finirà.”
L’amore
viene ad ogni età, Iori-kun! Potresti innamorarti anche adesso!
E’ per questo che devi sempre stare attento a quando verrà
a farti battere il cuore.
Miyako la
guardò, straziata. Ascoltarla, crederci, sarebbe stato
bellissimo … ma solo lei sapeva. Sapeva che il suo cuore batteva
all’impazzata, e che non poteva farci nulla. Sapeva che lei si
nascondeva, che lui la cercava, e sapeva che Rumiko non era mai
esistita: conosceva il suo nome, quello vero. Sapeva che non poteva
credere a quelle parole.
E Satsu,
all’improvviso, le prese le mani, le tolse la coperta, e
cominciò a tirarla piano. “Cerca di alzarti, per favore.
Ti tengo io.”
Miyako
obbedì, troppo sconvolta per poter protestare, la parrucca nera
che, scomposta, le cadeva sugli occhi da ogni parte. Si appoggiò
all’amica mentre la conduceva verso l’estremità
opposta della stanza, e la vide aprire l’armadio, e porla davanti
allo specchio.
E mentre Miyako
stentava ancora a capire cosa fosse successo, osservando la sua
immagine provata nello specchio, vide la sua parrucca venir sfilata via
di colpo.
Una cascata di capelli viola le cadde sulle spalle, prepotente, e lei si ritrasse immediatamente, voltandosi verso Satsu.
“Cosa fai?
La mia parrucca …” Esclamò, tentando di riprenderla
dalle sue mani. Ma Satsu la lanciò sul letto, lontana da lei, e
la guardò negli occhi.
“Non puoi specchiarti con quella, Rumiko-chan.” Fece.
La rabbia la
invase all’istante. “Io non voglio specchiarmi senza
quella!” Strillò, e il dolore alla gola fu così
intenso che tossì fino a lacrimare. Sorretta da Satsu, piegata
in due, Miyako si ritrovò scossa da nuovi singhiozzi. “Non
voglio guardarmi …”
Satsu la
abbracciò forte. “E’ per questo che quella copertura
ti sta facendo male, lo vedi? Ti scordi di avere un dovere morale verso
quella ragazza dai capelli viola che tu stai soffocando. Ma guardala
negli occhi, per una volta.”
“Non voglio.”
“Ti prego, provaci. Ti prego.”
Continuò a
pregarla, ignorò il fatto che continuasse a scuotere la testa, e
a piangere, finché Miyako non fu costretta ad accontentarla.
Tremò ancora, sollevò il busto, il capo, e tentò
di fissare lo sguardo sulla sua figura.
Terribilmente
colpevole, gli occhi rossi e gonfi, il pigiama troppo largo, i capelli
viola spettinati e pieni di nodi, questa era l’immagine che la
faceva avvampare, che le dava dolore. Era questa la Miyako che non
voleva vedere: dilaniata da un passato che avrebbe voluto cambiare e un
presente che non riusciva a dominare.
Pianse silenziosamente, provando pietà per quella visione.
“Ti fai del
male, Miyako-chan”, le sussurrò Satsu, e Miyako
sussultò, non abituata a sentirsi chiamare per nome. “Ti
nascondi come una ladra, e ti fai del male. Ignori i tuoi bisogni, e ti
fai del male. E quest’immagine non vuoi mai vederla,
perché ti vuoi illudere di star bene così, lasciando che
Rumiko prenda il sopravvento. Ma se Ken è riuscito a scuotere
Miyako, allora lascia che ti veda. Abbi il coraggio di difendere Inoue
Miyako.”
Miyako smise di
piangere, contemplando il suo viso arrossato e sorpreso. “Non
vorrai che smetta i panni di Rumiko davanti a Ken-kun”, fece.
Satsu fece un
sorriso. “Non ti nascondo che lo vorrei. Ma … No, se vuoi
continuare a nasconderti”, rispose, schietta. “Voglio solo
che tu faccia ciò che la più vera parte di te vorrebbe.
Assecondala, quando sei con Ken. E poi decidi se hai voglia di tornare
ad essere Miyako in tutto e per tutto.”
Non può dire sul serio.
“Satsu-chan, no. Non posso … non voglio. Non potrei mai pensarci.”
“Che motivo hai di nasconderti, comunque?”
La domanda la
colpì violentemente, e la sua immagine riflessa sembrava
boccheggiare. Perché lo faceva? Per gli altri, per Ken, per se
stessa …?
Se gli Ichijouji
l’avessero trovata, lei non sarebbe stata incarcerata: non aveva
ucciso nessuno. Non era del carcere che aveva paura. Aveva paura di se
stessa, del dolore che aveva inflitto agli altri, di non avere
più un posto per lei, lontana da tutti, sola col suo passato e
senza un futuro, senza un figlio.
Non ne aveva il coraggio.
Eppure …
Satsu le strinse
le spalle, con affetto. “Pensaci, ok? E lasciati andare.”
Poi la lasciò, e per qualche miracolo Miyako trovò la
forza di reggersi in piedi. “Vado un attimo in cucina, ti aiuto a
mettere a posto il pranzo e tutto il resto.”
E in un attimo, c’era solo lei nello specchio. Lei e il suo sguardo diffidente.
Aveva mentito a Satsu: ci aveva pensato eccome, al presentarsi a Ken così com’era.
Sarebbe stato
bello sapere se i suoi occhi azzurri avrebbero trovato qualcosa di
bello in Inoue Miyako, e non solo in Miyazawa Rumiko. Sarebbe stato
bello non doversi sempre fermare la parrucca coi ferretti, per far
sì che nemmeno il vento più impetuoso potesse rivelare
ciocche viola. Sarebbe stato bello se la sua immagine, le sue azioni,
fossero state altrettanto sincere, altrettanto spontanee,
com’erano l’immagine e le azioni di Ken.
Se l’avesse fatto … Se solo avesse potuto …
Miyako si
voltò, sfuggendo infine al riflesso nello specchio. Barcollando,
si diresse verso la scrivania, verso quel post-it. Lo prese tra le
mani, lesse e rilesse quelle cifre.
“Non
farti nessun tipo di problema, se vorrai … beh, se deciderai di
chiamarmi. Qualunque ora andrà bene.” Così le aveva detto, inchiodandola con l’intensità della sua richiesta.
Abbi il coraggio di difendere Inoue Miyako.
Miyako
afferrò il telefono, digitò quel numero, attese. Uno
squillo, due squilli. E non aveva indossato la parrucca: i suoi capelli
viola erano ancora in bella vista. Dominò il panico.
“Che motivo hai di nasconderti, comunque?”
Non voleva più nascondersi. Voleva donargli Miyako, voleva essere Miyako: aveva deciso, e non sarebbe più …
“Pronto?”
Trasalì, e
la sua mano tremò. La voce di Ken appariva neutra, stanca, forse
anche un po’ seccata. Il suo cuore prese a battere furiosamente,
e la voce le sparì.
Si voltò
verso lo specchio, vide la sua espressione spaventata, la sua
fragilità, quei dannati capelli viola, e tutto sembrò
svanire di colpo.
Non posso.
Corse a prendere
la parrucca, la indossò rapidamente, respirando il più
piano che poté, mentre Ken, perplesso, ripeteva: “Pronto?
Chi parla?”
E quando infine
si guardò allo specchio e vide Rumiko, seppe che avrebbe fatto
bene a chiudere la chiamata, se le fosse importato di essere Rumiko.
Lei tendeva a rinunciare ai ragazzi, come aveva fatto con quel Hiroyuki
…
Rumiko avrebbe rinunciato a Ken.
Ma Miyako non chiuse.
Abbi il coraggio di difendere Inoue Miyako.
L’avrebbe difesa indirettamente, ma non aveva intenzione di rinunciarvi.
Prese un respiro profondo e parlò.
.
Ehm. E' praticamente un secolo che non aggiorno ._.
Mi
dispiace un sacco di essere mancata per così tanto tempo ^^'
purtroppo, questo capitolo ha avuto una gestazione praticamente
immensa, sia per il tempo che mi manca sempre di più -dannata
scuola-, sia perché alcune tematiche di questa parte della
storia mi riuscivano abbastanza difficili da trattare. Forse
perché in questi Takeru e Miyako mi ci sono ritrovata anche fin
troppo, e come loro ho avuto bisogno di crescere un po' anche io.
Piuttosto,
se non fosse ben chiaro, si tratta dello stesso giorno in cui vi ho
lasciati lo scorso aggiornamento -secoli fa xD-, e il prossimo ne
vedrà la conclusione :) cosa ne pensate di questi nuovi
rivolgimenti?
Spero di poter finire presto il prossimo capitolo :) nell'attesa, un grande saluto a tutti!
Padme Undomiel
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Capitolo 24 *** Carte in tavola ***
Purity 23
23.
Carte in tavola
“Sei troppo teso, Ken. Non pensavo che la mia decisione di venire con te ti avrebbe spiazzato tanto.”
Non aveva fatto
altro che sorridere, con quella specie di ghigno storto che sembrava
sempre prendersi gioco di lui. Ken si rabbuiò, sentendosi
nuovamente scoperto. Pareva non mostrarlo con altri che non fosse suo
fratello minore.
“Lo sapevi
benissimo, invece”, ribatté, lanciandogli uno sguardo in
tralice e cercando di rilassare i muscoli delle spalle. “E non
vedevi l’ora di osservarmi mentre metabolizzavo la tua trovata
teatrale, Osamu.”
Osamu, in tutta
risposta, allargò il ghigno, continuando a salire per la
scalinata senza guardarlo, apparentemente incurante
dell’irritazione di Ken. Detestava non sapere mai che pesci
pigliare con lui, o come smettere di essere il suo giullare preferito.
Detestava sentirsi sempre sotto esame, perché era una delle
poche cose al mondo che più lo innervosivano.
Ma la cosa che
più detestava, in quel momento, era sapere per certo che suo
fratello ci aveva preso, come al solito. Era teso come una corda di
violino.
Non che non lo
fosse almeno un po’ ogni volta che si presentava a casa di
qualche conoscente di Inoue Miyako, certo; ma le altre volte, almeno,
non si sentiva sotto esame. Sotto lo sguardo attento e critico del
detective Ichijouji –suo modello da seguire in campo
investigativo, da sempre-, le cose si complicavano. E Ken non era
sicuro che la sua calma avrebbe retto per molto.
Arrivato al quarto piano dell’alto condominio, Osamu si arrestò. “Quelle che tu chiami trovate teatrali
forniscono dei dati che nemmeno t’immagini”,
commentò, osservandolo mentre lo raggiungeva sul pianerottolo.
“Dalle reazioni dell’altro capisci molte cose, vedi.”
Di nuovo quel
tono. Come se fosse sempre in grado di prevedere le sue mosse. Ken
alzò un sopracciglio, scettico. “Mi studi?”
Osamu alzò gli occhi al cielo, come esasperato. “Si capisce.
Ricorda che questo caso è la tua occasione per testare le tue
abilità, e che io ho bisogno di vedere quanta sicurezza hai nel
muoverti nell’indagine.”
Ken si
sentì avvampare. La sua reazione smarrita davanti alla decisione
dell’altro di accompagnarlo nell’indagine di quella mattina
era stata indice di ben altro che sicurezza. Eppure si ricompose in
fretta: con Osamu non bisognava mai mostrarsi troppo deboli.
“O forse
vuoi studiare meglio il tuo rivale”, insinuò, e vide la
sua espressione diventare marmorea, impenetrabile, tutto d’un
colpo. Come pensavo. “Questi tuoi giochetti psicologici sono sleali, Osamu.”
“Sleali, ma efficaci”, rispose Osamu, imperturbabile.
Faceva sul serio:
pareva non lo stesse solo provocando. L’espressione tranquilla
dei suoi occhi non era una delle solite coperture. Incredulo, Ken
scosse la testa, e lo superò, diretto verso la porta
d’ingresso dell’appartamento che si trovava di fronte a
loro. “Penso che tu stia prendendo questa faccenda troppo sul
personale”, sospirò, leggendo il cognome Inori sotto il campanello.
“Io invece penso che nulla ti vieti di fare lo stesso. Di studiare me, intendo.”
Ken si
irrigidì, sul punto di suonare il campanello. Era sconcertante
la tranquillità con cui proponeva soluzioni del genere: da come
ne parlava, sembrava la cosa più normale del mondo.
Si voltò,
trovandolo ancora fermo accanto alla scalinata, le braccia incrociate,
lo sguardo fisso su di lui. E gli fece un sorriso, più ironico
di quanto non volesse. “Ti ringrazio della proposta, ma non credo
sia il caso. Io preferisco essere chiaro in quello che faccio.”
E preferiva non giocare con suo fratello solo per avere dati
dalla sua. Preferiva non iniziare affatto quella rivalità, che a
suo parere non faceva che esasperare la loro situazione e allungare i
tempi di indagine. Preferiva essere ancora un fratello, prima ancora
che un detective.
Ma tutto questo non lo aggiunse, non ne valeva neppure la pena. Lui non avrebbe capito, comunque; non avrebbe voluto capire.
Osamu tacque,
sembrava meditabondo. Uno di quei suoi momenti di riflessione che non
andava mai interrotto, se non si voleva irritarlo. Ken attese, immobile.
Infine, lo vide
avvicinarsi a lui, ed emettere un lungo, tranquillo sospiro.
Allungò una mano verso il campanello, si voltò verso di
lui, lo fissò negli occhi, serio. “Come pensavo. Non sai
sfruttare le situazioni a tuo vantaggio.”
Un’altra frecciatina. “Di quali situazioni …?”
Ma non
riuscì a completare la frase: Osamu premette il campanello, e a
quella breve distanza il suono all’interno
dell’appartamento si sentì chiaramente, così come
il vivace “Arrivo, arrivo!” femminile e i passi frettolosi
che si avvicinavano.
Questo poneva
fine alla conversazione, come sempre con più punti interrogativi
di quando avevano iniziato a parlare. Poteva davvero dirsi di essere
sorpreso, in fondo?
Non pensarci. Recupera la calma. Sii rilassato ma attento.
Diede uno sguardo
di sottecchi a Osamu, osservandone il cipiglio sicuro e
l’assoluta padronanza di sé che mostrava. Quasi
involontariamente, Ken cercò di imitarlo.
La porta si aprì di colpo, rivelando una figura sorridente sulla soglia.
“Oh, il detective Ichijouji! Ti aspetto da un po’, sai?”
Ci fu un momento,
quando la giovane donna si scostò una ciocca di ricci rossi dal
viso, che erano sfuggiti dalla coda di cavallo nella corsa per
arrivare alla porta, in cui Ken non poté fare a meno di fissare
incredulo quella figura, senza nemmeno comprenderne il motivo. Fu solo
quando i suoi occhi castani si fissarono, curiosi, su di lui, che
capì.
Brillavano di
gioia, entusiasmo. Sembravano essere loro la fonte dalla quale si
irradiava il sorriso largo che le si apriva sul viso, spruzzato di
efelidi.
Nessun conoscente di Inoue Miyako era mai stato così vitale, così sereno.
Questa ragazza è davvero atterrita dalla cartolina che ha appena ricevuto?
Si voltò
verso Osamu, incerto, ma si accorse ben presto che lui non ne sembrava
sorpreso. Era anche fin troppo naturale, in effetti.
Sfoggiava un
sorriso affabile, nonostante gli occhi rimanessero, penetranti, fissi
in quelli della donna. Un sorriso tanto affabile che non sembrava il
suo. “Sono imperdonabile, Harumi-san. Non riesco mai ad essere
puntuale come vuole lei.”
Fu solo grazie al
suo ferreo autocontrollo che si limitò a fissarlo con gli occhi
sgranati, impedendosi di spalancare anche la bocca. Conosceva Osamu da
ventiquattro anni, e mai l’aveva visto comportarsi in quel modo.
Come se sapesse esattamente come affascinare la sua interlocutrice, e
lo stesse dimostrando.
Yamanaka Harumi
in Inori sorrise maliziosa, appoggiandosi a braccia incrociate allo
stipite della porta, portando con totale disinvoltura
l’attenzione alle sue gambe, coperte solo da un paio di shorts
molto corti. “Perdonato. Era da un sacco che non venivi a
trovarmi, detective. E il tuo accompagnatore chi è?”
“Mio
fratello, Ken”, rispose Osamu, e infine si voltò a
guardarlo. La sua espressione sembrava tentare ancora di studiare le
sue reazioni. “E’ qui per indagare insieme a me.”
Ken fece un breve
inchino, preferendo evitare lo sguardo fin troppo curioso della donna.
Il suo atteggiamento lo metteva a disagio. “Piacere di
conoscerla, Inori-san.”
Quando fu
costretto a sollevare lo sguardo, Harumi stava ridendo tra sé.
“Siete tutti così, in famiglia? Anche tuo fratello
è carino, detective.”
E mentre Ken
avvampava, incapace di comprendere come questo dettaglio potesse avere
un senso per l’indagine, lei si tirava indietro, tornando a
rivolgersi a suo fratello. “Ma nessuno ti batte. Sai che
preferisco sempre te.” La vide fargli un occhiolino, per poi
voltargli le spalle e prendere a camminare verso l’interno.
“Forza, entrate!”
Era sicuramente
una persona sicura di sé. Non riteneva necessario nemmeno fare
gli onori di casa. Si chiese se si comportasse sempre in quel modo
informale o solamente in presenza di suo fratello. Come se si trattasse
di una vecchia conoscenza, non di un detective incaricato di sospettare
anche di lei stessa, se necessario.
Si voltò
verso Osamu, lo sguardo confuso, pronto a chiedergli spiegazioni nei
pochi secondi nei quali potevano ancora indugiare sulla soglia, ma
ancora una volta fu deluso: l’altro sorrise, tranquillo.
“Che ti prende, Ken? Ci hai ripensato? Posso entrare solo io, se
vuoi.”
L’aveva di
nuovo incastrato, e di nuovo sfidato. Oltraggiato, Ken si voltò
verso la porta, ed entrò nell’appartamento a testa alta.
Cosa gli
importava, dopotutto, che ci fosse quella strana atmosfera tra i due?
Aveva del lavoro da fare, e doveva pensare solo a quello.
Non mi mostrerò debole davanti a te.
Osamu lo
seguì dopo appena qualche istante, e chiuse da porta dietro di
sé. Lo raggiunse a passi misurati, mentre Ken osservava attento
il disordine che regnava in quella casa.
C’erano
block notes dappertutto, pieni di schizzi e di disegni a carboncino,
tutti raffiguranti modelli di abiti da sposa di ogni genere e curati
nel minimo dettaglio. Alcuni pizzi e merletti erano caduti a terra dal
piano di lavoro in legno, arrotolandosi scompostamente accanto ai piedi
dei due detective. Una scatola piena di aghi, fili e spilloni era
abbandonata sul divano bianco sulla loro destra, e alcuni busti
ospitavano lunghi abiti bianchi ancora in lavorazione.
“E’ una stilista?” Domandò Ken a mezza voce, più a se stesso che al suo compagno.
Ma lui decise di
rispondergli lo stesso. “Sì, specializzata in abiti da
sposa. Lavora in un atelier abbastanza rinomato, a trenta minuti circa
da qui.”
Ken sospirò, esausto. “Quest’informazione potevo saperla, allora”, lo punzecchiò, ironico.
“Non come il resto delle cose che preferisci tacermi.”
L’arrivo
repentino di Harumi interruppe la replica di Osamu. “Allora, cosa
ci fate lì in piedi? Non preferite sedervi un po’?”
Disse loro, guardando solo ed unicamente Osamu con un sorriso largo,
che metteva in mostra due file di denti piccoli e bianchi.
“Potrei offrirvi del sakè, se avete sete.”
Osamu si sedette
con nonchalance sul divano, sollevando educatamente una mano.
“Preferisco non bere, Harumi-san: rischierei di perdere completamente il filo del discorso, ed è meglio che io rimanga quanto più possibile
concentrato sul mio lavoro”, disse, e il suo tono fu così
allusivo che Ken se ne sentì imbarazzato. Distolse lo sguardo da
lui, perplesso e vagamente disgustato, e fu con stupore che vide le
guance della donna colorarsi all’improvviso, mentre sorrideva
lusingata giocherellando con la fede che portava all’anulare
sinistro.
L’illuminazione gli arrivò in un istante, proprio osservando la sua reazione.
Inori-san ha una simpatia per mio fratello, nonostante sia sposata.
E mio fratello se ne approfitta per indagare meglio.
Si trattenne a
stento dall’alzarsi in piedi ed allontanarsi da quella scena
inammissibile, nauseato, e se ci riuscì fu solo per Inoue
Miyako, e per il suo orgoglio. Ma non poté non scoccare uno
sguardo di pura disapprovazione a Osamu.
Era o non era il
più grande detective in Giappone? Come poteva abbassarsi a certi
livelli, pur di avere le informazioni che cercava? Era assurdo che non
ci fossero altri sistemi, non avrebbe voluto nemmeno pensarci. Gli
pareva immorale.
Osamu colse il
suo sguardo, e lo osservò in risposta, impassibile. Non una
punta di imbarazzo balenò sul suo viso. Ken se ne sentì
ancora più oltraggiato, e si voltò nuovamente.
Harumi rise,
sedendosi accanto a lui e spostando la scatola con gli spilli. A Ken
non rimase che stare in piedi, dal momento che nessuno aveva provveduto
a procurare una sedia anche per lui. Sospirò.
“Allora, se
sei così ligio al dovere, ti mostrerò subito la cartolina
che ho ricevuto stamattina”, disse, sporgendosi verso il tavolino
di vetro e afferrandola con le unghie lunghe laccate di rosso. La porse
a Osamu, ammiccando, perché lui la leggesse. “Sono sicura
che mi darai una spiegazione soddisfacente: io ero così confusa
quando l’ho letta …”
Ken
allungò il collo per osservare la reazione di suo fratello,
mentre, accigliato e immobile, scorreva le parole scritte dietro quella
cartolina di Liverpool. Gli parve che un lampo nei suoi occhi gli
stesse rivelando in anticipo che c’era qualcosa di molto
interessante in quella nuova prova.
Si
avvicinò a lui a passi rapidi, proprio nel momento in cui Osamu,
voltandosi, gli passava la cartolina, lo sguardo serio e la fronte
corrugata. Ken la afferrò, impaziente.
La prima cosa che
notò, osservandone il retro, fu il colorito ingiallito della
cartolina. Meccanicamente lesse la data di produzione in basso, in
cerca di spiegazioni: 1972. Come
può essere tanto antica se è arrivata solo adesso?
Possibile che cartoline del genere siano ancora in commercio?
Il contenuto era
scritto con la calligrafia tondeggiante di Inoue Miyako. Sembrava non
esserci errore. L’aveva letta e studiata per così tante
volte che avrebbe potuto riconoscerla tra mille, ormai.
Ha detto che non mi
rivolgerà mai più la parola se lo incontrerò di
nuovo. Gli ho detto che esagerava, che si stava comportando come un
bambino, ma Daisuke-kun è sempre stato un bambino: non ha voluto
capire. E io non ce l’ho fatta più. Gli ho urlato contro
che non mi importava, perché ormai la sua amicizia era una
farsa. Soffro anche adesso solo a scriverne … ma lui non si
è girato indietro, mentre usciva dalla mia stanza. Proprio come
uno stupido.
Il cuore di Ken
aveva ripreso ad accelerare i battiti nel momento in cui aveva iniziato
la lettura. Era appena un frammento, selezionato da una pagina di
diario per qualche criterio a lui totalmente sconosciuto, ma ciò
che era scritto era interessante. Daisuke-kun
… Doveva trattarsi di Motomiya Daisuke. I dati coincidevano: lui
e Miyako litigavano spesso, prima della scomparsa di lei. Ma questo
litigio, tutto in funzione di un rapporto di Miyako con un ragazzo di
cui non si faceva il nome …
“Harumi-san,
diceva che non ha mai ricevuto altre lettere del genere, prima
d’ora. Corretto?” Osamu ruppe il silenzio
all’improvviso, sistemandosi meglio sul divano per poter
fronteggiare meglio la donna.
“Certo! Era
la prima volta davvero”, rispose Harumi, con un tono così
spaventato e affranto da risultare palesemente falso. Ken alzò
gli occhi al cielo, seccato. Quando l’avrebbero smessa con quella
farsa? “E non riesco a capire perché sia arrivata proprio
a me, e dopo tanto tempo … voglio dire, perché Miyako
avrebbe dovuto scrivermi un racconto della sua giovinezza prima di
sparire?”
“E’
quello che stiamo cercando di scoprire”, fece Osamu, con tono
caldo e rassicurante. Ma ancora la trapassava con lo sguardo, cercando
di analizzarla. “E’ probabile che stiano cercando di
incastrarla in qualche modo, inviandole per posta prove compromettenti
che lei non sa spiegarsi. Anche la grafia della cartolina può
non essere quella di Inoue Miyako: non sarebbe il primo caso in cui mi
trovo a che fare con falsificatori abilissimi di grafie altrui. Non
rappresenta un problema per chi è esperto di giochetti del
genere, le pare?”
Vide Harumi
sgranare gli occhi, e pendere completamente dalle sue labbra.
“L’ho pensato anche io, detective”, sussurrò,
chiaramente esagerando l’apprensione che, ad ogni modo, balenava
sul suo viso. “Ma lo sai, non vedo più Miyako da un sacco
di tempo prima della sua sparizione, non c’entro nulla, io!
Vorrei solo essere lasciata in pace …”
“Motivo in
più per dirci tutto ciò che sa, Harumi-san. Se lei
è innocente, le sue parole potranno solo aiutarla, perché
ci permetteranno di arrivare al colpevole.”
Il tono basso e
sicuro di Osamu parve avere un grande effetto sulla donna, che tacque,
osservandolo come se si fidasse ciecamente di lui. E nel cogliere
quell’impercettibile cambiamento, la posa disinvolta di suo
fratello, l’espressione estremamente credibile nei suoi
lineamenti, Ken non poté che provare un’improvvisa
ammirazione per lui. Sa quello che vuole, e lo ottiene. Sfrutta davvero le situazioni al meglio.
Metodo discutibile o no, Ichijouji Osamu era un osso duro.
“Ecco tutto
ciò che so”, riprese lei, animandosi con un sorriso
vagamente cospiratorio. “Non so cosa sia successo in
quell’episodio in particolare, ma so che Miyako e Daisuke avevano
preso a trattarsi freddamente da quando lei aveva iniziato a
frequentare una specie di bullo della sua scuola … per
carità, un gran bel ragazzo, alto, con ricci scuri e occhi
grigi, ma aveva un’espressione terrificante, certe volte.
Comunque, lei stravedeva per lui, e Daisuke lo odiava con tutte le sue
forze. Non so … gelosia? L’ho sempre pensato,
comunque.” Rise, con tono leggero. “E la cartolina me lo
conferma, ho ragione? Pare che stiano litigando per lui …”
Ken stesso non se
n’era accorto, ma si era avvicinato maggiormente ai due mentre
ascoltava, per poter cogliere ogni particolare. C’era un ragazzo
di mezzo, avrebbe dovuto immaginarlo. Un ragazzo del quale Miyako
adolescente si era perdutamente innamorata. Un ragazzo che - ma certo. Che i genitori non vedevano di buon occhio. Perché era una specie di bullo.
Che c’entrasse lui con la sparizione di Miyako?
“Come si
chiamava la persona che ha causato questo litigio, Inori-san? Lo
sa?” Intervenne Ken, incurante del fatto che la donna lo stesse
osservando come se fosse appena apparso nella stanza. Non aveva tempo
per i corteggiamenti. E Osamu sembrava non volergli rivelare i dettagli
che conosceva: doveva cercare di ottenerli da sé.
“Beh, ma certo”, rispose lei, senza fare una piega. “Si chiamava Ono. Ono Satoshi.”
Ono Satoshi.
Ken annotò il nome nel suo block notes, promettendosi di fare
delle ricerche anche sul suo conto. Magari il prossimo indiziato da
interrogare sarebbe stato proprio lui.
“Quindi non
sa se dopo questo litigio Inoue Miyako e Motomiya Daisuke si siano
più parlati”, tornò a parlare Osamu, e Harumi fu
ben felice di tornare a dargli tutta l’attenzione.
Lei scosse il
capo. “Quei due avevano caratteri molto instabili, poteva darsi
che si giurassero di non vedersi più un attimo prima e un attimo
dopo tornassero a becchettarsi come se nulla fosse accaduto; potrebbe
anche darsi che questo litigio non sia stato così determinante.
Ma”, e qui sorrise di nuovo, maliziosa, “c’è
quello che alcuni chiamano sesto senso femminile,
che non sbaglia mai. In virtù di questo ti dico, detective, che
quando c’è di mezzo l’amore, e la gelosia, le
amicizie più salde si sfaldano. E io sono quasi sicura che si
tratti di entrambi.”
Più che
sesto senso, sembrava trattarsi di un’inclinazione naturale al
pettegolezzo. Comprenderlo, e metabolizzarlo, gli diede una strana
sensazione. Se fosse stato Osamu, non avrebbe avuto problemi ad usarlo
a suo favore. Ma lui poteva mai esserne in grado, senza sentirsi in
colpa?
No. Non in questo modo subdolo, pur se efficace.
“In un
gruppo, l’amore può risultare davvero un problema,
soprattutto se non corrisposto”, sospirò ad un tratto
Osamu, come riflettendo tra sé. Ma aveva lo sguardo sveglio,
come se stesse attendendo.
“Oh,
sì. E ti dirò di più: per me d’amore, in
quel gruppo, ce n’era anche troppo. Hida Iori te lo ricordi? Ho
sempre pensato che anche lui fosse innamorato di lei. Era sempre troppo
protettivo, troppo attaccato a lei … Cosa mai vorrà dire
questo? Non ho mai creduto nell’amicizia tra uomo o donna, si
finisce sempre per essere coinvolti sentimentalmente. Non vorrei
sbagliarmi, ma secondo me con questa sparizione possono essere
coinvolte due persone: Motomiya Daisuke e Hida Iori. Per amore si
farebbero pazzie, sai.”
E quando
l’ombra di un compiacimento passò sul viso di Osamu, Ken
comprese che si aspettava proprio che lei parlasse a ruota libera delle
sue supposizioni. Come poteva prevedere così bene le sue
reazioni? Scosse la testa, continuando a prendere appunti.
Osamu si
alzò, sorridendo. “Sempre utilissima, Harumi-san”,
commentò, scatenandole un altro rossore compiaciuto. “Le
prometto che ci vedremo chiaro, in questa storia. Per intanto,
prenderemo la cartolina con noi. Per cercare di capirci di
più.”
Lei si
imbronciò. “Non dirmi che vai già via! Mio marito
tornerà solo stasera, non mi va di stare da sola …”
Si lamentò, avvicinandosi ancora a lui.
Per un istante,
uno soltanto, Ken temette che Osamu potesse cedere, sacrificando la sua
moralità per le indagini, per fare il falso amante di Yamanaka
Harumi in Inori. Quando si rimproverò per quel pensiero,
scandalizzato, Osamu si era già allontanato di un passo, con un
sorriso di scusa. “La prossima volta, Harumi-san. Può
sempre contattarmi se ha altre notizie da darmi.”
“Oh, lo
farò di certo, detective”, si illuminò lei,
estasiata. “Già mi mancano le nostre conversazioni.”
Osamu le fece un
breve inchino col capo, per poi lanciare a lui un’occhiata che
sembrava dirgli che era ora di andare, ed allontanarsi verso la porta
principale.
Ken fece per
seguirlo, lanciando un ultimo sguardo alla donna che seguiva con gli
occhi il passo di suo fratello, ma si fermò di colpo, non appena
un pensiero attraversò la sua mente.
“Secondo me con questa sparizione possono essere coinvolte due persone …”
Si voltò,
accigliato. “Che ne è stato di Ono Satoshi?” Chiese.
“Perché lei lo escluderebbe dai sospetti, se frequentava
Miyako?”
Harumi lo
guardò con stupore, e poi con sospetto. “Mi prendi in
giro?” Fece, scettica, ricambiando la sua occhiata interdetta.
“Ono Satoshi è morto sette anni fa!”
***
Osamu gli aveva
spiegato, una volta usciti da quel condominio, che la morte di Ono
Satoshi rappresentava uno dei maggiori misteri della vicenda di Inoue
Miyako.
“Naturalmente
non te ne ho parlato per lo stesso motivo per cui non ti do tutte le
informazioni di cui avresti bisogno: voglio vedere come ti muovi nelle
indagini.” Gli rivelò, continuando a camminare mentre gli
gettava uno sguardo di sottecchi. “E nemmeno ora ho intenzione di
dirti di più. Tuttavia, se avrai bisogno di documentazioni,
fotografie e quant’altro riguardo Ono e la sua morte, chiedi.
E’ a disposizione tutto quello che chiederai specificatamente,
capisci?”
Ken non aveva
detto una parola da quando aveva lasciato l’appartamento di
Harumi. Aveva continuato a camminare al suo fianco, a testa bassa,
silenzioso, mentre ascoltava suo fratello spiegargli ciò che non
aveva nemmeno tentato di chiedergli. Non che avesse bisogno di
ascoltare le sue giustificazioni: lo aveva immaginato, d’altronde.
Era tipico di Osamu.
Annuì.
“Ti chiederò tutto il necessario sicuramente, e a
breve”, rispose. “Pare che le piste si siano moltiplicate,
dopo questa cartolina.”
“Cos’hai intenzione di fare adesso?”
Sollevò lo
sguardo, totalmente privo di esitazioni. Si aspettava la domanda, e
aveva già una risposta pronta. “Prima di tutto, è
necessario verificare se altri conoscenti di Miyako hanno ricevuto una
cartolina sospetta. Poi bisogna considerare le informazioni che ci ha
fornito Inori Harumi, verificarle, quindi porre molta più
attenzione a Motomiya Daisuke e a Hida Iori. Nel frattempo, la
cartolina va analizzata, e studiata … e dovrò iniziare a
documentarmi su Ono Satoshi e Royama Hideki.”
“Perché anche Royama?” Chiese ancora Osamu, interessato.
Ken alzò le spalle. “Perché ancora non capisco come mai tu l’abbia inserito tra i sospettati.”
Suo fratello gli parve, d’un tratto, compiaciuto. “Avrai un bel daffare, allora.”
Ken non rispose:
lasciò che un momentaneo silenzio facesse da sottofondo ai loro
passi. Non conosceva il motivo per cui non riusciva a parlargli
chiaramente, sebbene avesse tante domande che quasi premevano sulle sue
labbra per poter uscire: probabilmente sapeva già in anticipo
che non ne sarebbe valsa la pena, che sarebbe stato deluso ancora.
E in fondo, non
sapeva nemmeno più se potesse permettersi di essere franco con
suo fratello, se ancora ci fosse un legame di intimità tale da
farlo.
Fu così
che si decise a parlare solo per i fini dell’indagine.
“Credevi davvero in quello che dicevi a Inori-san, prima?”
Domandò.
Osamu alzò un sopracciglio. “A cosa ti riferisci?”
Esitò. A tutto. A tutta quella farsa che hai messo in scena.
“Quando le hai detto … Che può non essere stata
Inoue Miyako a scrivere quella cartolina, che si tratta del lavoro di
qualcuno abile nel falsificare la scrittura.”
Non parve
sorpreso dalla domanda. “Certo che sì”, rispose
tranquillo. “Tu stesso, nel mio ufficio, ti sei mostrato scettico
all’idea che Miyako avesse deciso di mandarci un indizio sul suo
passato dopo otto anni di silenzio. Comunque, credi che io menta quando
faccio il mio lavoro?“
Ken si
fermò di colpo. Aveva anche il coraggio di chiederglielo, di
fare lo gnorri quando lo aveva costretto ad assistere alle sue false
avances. “Oh, no, Osamu. Io non lo credo, ne sono sicuro. Non
esserlo dopo le prove che mi hai fornito oggi sarebbe davvero
sconcertante.”
Si era detto che
non avrebbe parlato, che avrebbe taciuto per il bene di una
cooperazione pacifica; ma aveva fallito di nuovo. Non riusciva davvero
a tenere le distanze.
Osamu si
voltò, fermandosi a sua volta, e nei suoi occhi svegli
balenò un lampo di divertimento. Ridacchiò tra sé,
senza scomporsi. “Sai? Sapevo che avresti tirato fuori un
discorso del genere. Sei abbastanza prevedibile.”
Ken
arrossì, indignato per essere stato sottoposto ad un altro gioco
psicologico, e infuriato con se stesso per esserci cascato di nuovo.
“Potresti, per favore, smetterla di prenderti gioco di me, e in
generale di chi ti circonda?” Sbottò infine, incapace di
trattenersi oltre. “Volevi che ti studiassi? Ebbene, l’ho
fatto. E non mi piace quello che ho visto. Parlavi di questo, quando
sostenevi che nelle indagini bisognasse sfruttare le situazioni a
proprio vantaggio? E sfrutti davvero le situazioni? A me sembra che tu
stia sfruttando le persone a tuo vantaggio, Osamu. E lo trovo meschino, soprattutto se si tratta di te.”
Osamu fece una
smorfia. Ancora una volta, non sembrava sorpreso, come se stesse
aspettando dal primo momento in cui erano entrati in casa Inori che suo
fratello gli avrebbe detto quello che pensava. “Credi che quella
donna avrebbe sul serio parlato apertamente, se non si fosse infatuata
della mia figura?” Chiese retoricamente. “Lo sai anche tu
che non l’avrebbe fatto. Lo sai, perché lo hai visto tu
stesso, non è vero? Tu ti sei comportato in maniera del tutto
pulita, e lei era restia a parlarti, ad aprirsi con te.”
Ken si
irrigidì, momentaneamente senza parole. Lo aveva notato, lo
aveva fatto dal primo momento, ma non aveva voluto accettarlo.
Perché non poteva essere così. Scosse la testa, risoluto.
“Non c’è altro modo, allora? Nemmeno per Ichijouji
Osamu, il più affidabile detective del Giappone,
c’è altro modo per indagare? Non posso credere che questo
sia l’unico sistema …”
“Ken, io
non le ho fatto nulla.” Sospirò Osamu, vagamente
esasperato. “Le ho solo ispirato fiducia, le ho sorriso, ho
giocato in modo pulito. Lei è una donna adulta, si presuppone
che sia responsabile delle sue libere scelte. E poi, non mi sembra che
voglia davvero una storia con me: vuole solo una compagnia interessante
per sfuggire alla sua costante solitudine. Vuole giocare anche lei, e
se la cosa conviene ad entrambi, non vedo dove sia il problema.”
Ad ogni parola
che sentiva, l’indignazione di Ken aumentava. “Il
problema”, replicò, “è che Inori Harumi non
è solo un’indiziata, è una donna. Con sentimenti,
paure e desideri come tutti. Magari biasimabili, certo, ma sono sempre
sensazioni umane, e non riesco a capire come tu possa passarci sopra in
vista dell’utile.”
“Tu credi
che io mi diverta a comportarmi così”, fu la risposta di
Osamu, mentre un sorriso disincantato compariva sulle sue labbra. Ken
ammutolì, colpito da quella breve confessione, che pareva essere
la cosa più vicina all’espressione dei sentimenti del
fratello. “Ti sbagli. Sono passati tanti anni da quando ho
iniziato il mio lavoro, e mi è ormai chiaro che la tua
correttezza, Ken, non ha riscontro nella realtà: l’uomo
non è pulito e retto come tu vorresti. Con certe persone non ho
scelta.”
Disillusione,
rassegnazione, freddezza. Era questo, allora, che aveva reso suo
fratello quello che era? Era per questo che Osamu aveva trincerato i
suoi sentimenti dietro quel muro impenetrabile?
Ken provò
repulsione di quella realtà, e si allontanò
inconsciamente di un passo. “Se essere investigatori significa
perdere la fiducia nei valori, non è questa la mia
strada”, fece, serio. E desiderò, per una volta, che lo
ascoltasse davvero, che mettesse da parte quella sicurezza che mostrava
per sottoporre le sue disillusioni al dubbio. “Credevo che un
investigatore dovesse conoscere più di ogni altro i sentimenti
umani, e non parlo solo di quelli disdicevoli. Se hai perso fiducia
nelle passioni umane più nobili, perché troppo nascoste
da quelle più vili, come fai a sopportare il peso del crimine e
del dolore di chi perde qualcuno a lui caro? Riesci a farcela sul
serio?”
Si aspettò
che replicasse, di essere contestato, di essere deriso. Ma Osamu non
fece nulla di tutto ciò. Rimase immobile, imperscrutabile, a
fissarlo in silenzio, come se stesse valutando l’emozione
trattenuta negli occhi di Ken, come se volesse analizzarla fino in
fondo.
Ken non aveva
idea di come l’avesse presa. Probabilmente non lo aveva nemmeno
ascoltato fino in fondo. Eppure non ruppe il contatto visivo, né
il silenzio.
Finché la suoneria del suo cellulare non risuonò all’improvviso, facendoli sussultare entrambi.
Si
affrettò ad afferrare l’apparecchio, confuso, leggendo sul
display un numero sconosciuto. “Ma che …?” Fece,
tentando di riconoscere, dalle cifre, il mittente.
“Oh. La tua
avventura?” Sentì dire a Osamu con tono vagamente
irrisorio. Ken sollevò di scatto la testa.
“Eh?” Fece, sull’attenti.
Osamu si
aggiustò gli occhiali sul naso, sorridendo. “Non credere
che non me ne sia accorto, Ken: è da qualche tempo che ti
comporti in maniera strana, assente, e non penso di sbagliarmi quando
penso che si tratti di una donna. Hai una relazione?”
Fu un attimo:
sorpresa per essere stato scoperto e imbarazzo più vivo per
essere stato scoperto riguardo al suo rapporto con Rumiko lo
costrinsero ad arrossire violentemente, a tirarsi ancora indietro e a
balbettare qualcosa di indistinto. “Non … non è
come … Non sono affari tuoi.”
Il cellulare, tra le sue mani, continuava a suonare, imperterrito.
Osamu si strinse
nelle spalle, noncurante. “Difesa interessante, ma
inutile”, disse, voltandogli le spalle e alzando una mano in
saluto. “Torno a lavoro. E tu rispondi.”
Decisamente,
detestava quel suo modo di fare saccente, si disse Ken, nella
confusione più profonda. Sbuffò, avviando meccanicamente
la chiamata.
“Pronto?” Fece, il più neutrale possibile, per mettere da parte la sua irritazione.
E intanto seguiva
ancora con lo sguardo Osamu, mentre si allontanava verso il suo
ufficio. Logico, si era sentito attaccato e aveva pensato bene di
metterlo a disagio, ecco com’era andata. Possibile che non
riuscissero mai ad avere una conversazione tranquilla?
Stupido, si rimproverò poi, voltando le spalle a quella visione. Sei tu che dai alla cosa troppo peso.
Improvvisamente,
si rese conto che dall’altra parte della cornetta non provenivano
che strani rumori in sottofondo: nessuno aveva ancora parlato.
Aggrottò le sopracciglia.
“Pronto?
Chi parla?” Fece ancora, perplesso. Al nuovo silenzio che
seguì, Ken si disse che doveva trattarsi di uno scherzo
telefonico. Fece per mettere giù, quando una voce, infine, si
decise a parlare.
“Uhm, pare che non sia un buon momento, vero?”
Qualcosa, dentro di lui, fece un buffo sobbalzo.
“Rumiko-san!” Fece, incredulo, e ancora si aspettava che non fosse reale. Non poteva esserlo.
“Già.
Buongiorno, Ken-kun”, fece la voce attraverso
l’apparecchio, vagamente incerta. E pure nella sua incertezza,
Ken si sentì sollevato nel sentirla, terribilmente sollevato.
“Contavo di parlare un po’, ma dalla voce terribile con cui
mi hai risposto deduco che dovrei lasciar stare, forse?”
Ken si maledisse,
e maledisse Osamu per essere stato complice della sua voce seccata.
“No, davvero non è così”, fece con impeto,
arrossendo. “E’ che mi hai colto di sorpresa … non
pensavo avresti chiamato sul serio, Rumiko-san. Pensavo …”
“…
che avrei davvero buttato il post-it?” Completò Rumiko per
lui, e rise. “Sai, Ken-kun, mi sembra che tu pensi troppo,
riguardo a me. Finisci sempre per pensare in negativo.”
Ken rise con lei,
impacciato. Solo in quel momento si rese davvero conto che la
rassegnazione con la quale aveva immaginato quel post-it gettato in un
cestino era persino peggio dei pensieri negativi. Non aveva voluto
nemmeno credere che l’avrebbe chiamato. “Hai ragione.
E’ già la seconda volta che sbaglio pronostici”,
rispose. Poi, all’improvviso, ricordò il motivo per cui
dovevano sentirsi solo telefonicamente, quel giorno. “Sono
passato in libreria stamattina, e ho sentito che non te la sentivi di
lavorare oggi. Stai bene, Rumiko-san?”
“Sei
passato in libreria?” Il tono di Rumiko ebbe uno strano tremito,
come di piacere. Sembrava che fosse felice di saperlo, e qualcosa
dentro Ken tremò assieme alla voce di lei nel sentirlo. Ma non
aveva senso. Lei non sembrava mai troppo felice di vederlo. “Mi
… ecco, mi dispiace di non averti salutato oggi. Di solito
preferisco soprassedere su malesseri di ogni genere –può
sembrare strano, ma preferisco lavorare, il più delle volte,
anche perché non è un lavoro impegnativo, dato che puoi
parlare con i clienti, e poi vado molto d’accordo con
…”
“Ehi, Rumiko-san, calmati” fece Ken, perplesso dall’improvvisa parlantina della giovane. Ma cosa sta succedendo, oggi?,
si chiese, sgomento. “Non c’è bisogno che ti
giustifichi se non stai bene, non sono il tuo datore di lavoro.”
“D’accordo,
dammi un secondo e vedo di esprimermi in maniera comprensibile,
così non va!” Di secondi ne passarono cinque, riempiti dai
profondi respiri di lei. Lui attese, e per la prima volta nella sua
mente un aggettivo come buffa
sembrò descrivere alla perfezione Miyazawa Rumiko. Ebbe il tempo
emettere uno sbuffo divertito, prima che lei riprendesse a parlare.
“Ci sono. Lo so che non sei il mio datore di lavoro, ma credo ci
sia bisogno di dirtelo. Voglio
dirtelo, più che altro. Puoi starmi a sentire? Non ci
metterò molto”, disse Rumiko, e la sua voce esprimeva
ansia, pur essendo vagamente arrochita. “Ti prego.”
Che bisogno aveva
di pregarlo? Lui non aspettava altro che un segnale, da parte sua, che
gli facesse capire che anche lei aveva bisogno di sentirlo più
vicino. Come poteva essere un problema, se voleva dirgli qualcosa?
Fremette, in
aspettativa, prendendo a camminare per non lasciare che questo
sentimento lo sopraffacesse. “Certo. Ti ascolto.”
La sentì
trarre un respiro profondo, come a voler trovare la calma necessaria.
“E’ che mi dispiace di non averti detto nulla, riguardo al
fatto che non sarei venuta … sono stata male stamattina, non
potevo muovermi dal letto. Ho solo chiamato il mio datore di lavoro per
avvertire, ma tu sei sempre lì a rivolgermi parole gentili, e
non posso che sentirmi in colpa per non averlo detto anche a te. Sono
davvero felice quando vieni in libreria. Oh, lo so che non ci credi
perché non te lo dimostro … ma lo sono, Ken-kun. E’
davvero bello vederti lì.”
Schietta,
diretta, senza imbarazzo. Fu così che glielo disse, e sembrava
sorpresa lei stessa di quelle parole, come se lei stessa avesse
compreso quella verità nel parlare con lui, in quel momento. E
Ken si sentì strano, e assaporò per un istante la
sensazione di essere pieno di gioia, e di esserlo inaspettatamente.
E di sorridere involontariamente, e troppo. “Non devi esagerare solo per essere gentile.”
“Ma
è vero! Lo sapevo, ti ho fatto capire tutt’altro
…” Esclamò, per poi cambiare tono improvvisamente.
“Ma tu non devi pensare male, devi starmi a sentire,
Ken-kun!”
“Scusami”,
fece lui, e non smise di sorridere. Non sapeva cosa le fosse successo,
non sapeva cosa stesse cercando di dirgli di preciso, né il
motivo per cui Rumiko sembrasse tanto diversa, ora, più
spontanea e meno frenata dai suoi stessi scrupoli; riusciva solo a
focalizzarsi su un sollievo che ancora non riusciva a spiegarsi.
“Bene.”
Rumiko trasse un altro sospiro. “Mi sono accorta solo ultimamente
che … hai fatto tanto per me, senza chiedermi nulla in cambio. E
io mi sono comportata come una stupida, e ti avrei allontanato, se tu
non ti fossi intestardito tanto ad essere buono con me. Ti devo
chiedere scusa, Ken-kun: la verità è che avevo
paura.” Si interruppe, confusa, e non riuscì a continuare.
A Ken parve che si stesse rivelando per la Rumiko che era davvero per
la prima volta.
“Di me?” Osò chiedere, tentando di capire.
“No
… O meglio, non del tutto. Avevo paura di stringere un rapporto
… confidenziale con qualcuno, e di restarne troppo coinvolta.
Non posso spiegartene il motivo, quindi ti prego, non me lo
chiedere.” La supplica nella voce fu così sentita e
accorata che lo turbò. Aveva avuto la sensazione che spogliarla
dei suoi segreti avrebbe potuto rappresentare una ferita vera e propria
per lei. La mano che stringeva il cellulare si serrò
maggiormente.
“Ci
mancherebbe altro, Rumiko-san”, si sentì di rassicurarla,
pur non comprendendo. “Nessuno ti costringerà a parlare,
se non vuoi.”
Ma se solo avesse voluto …
“Grazie”,
la sentì sospirare di sollievo, e il suo tono riprese colore.
“Il punto è che … non voglio più
allontanarti. Se tu ancora vuoi, vorrei passare altro tempo con te,
senza più fuggire da te come una ladra. Sai che non posso
parlarti apertamente di tutto, e questa è l’unica
condizione che ti pongo … ma mi permetterai di iniziare col
piede giusto, questa volta?”
Aveva forse
ripensato all’appuntamento del giorno prima, e sentito
quell’emozione che aveva sentito anche lui? Aveva forse pensato
anche lei che, stando così le cose, quello sarebbe stato il loro
primo e ultimo appuntamento fuori dalla libreria?
E il pensiero le
aveva forse causato la stessa fitta di perdita che aveva sentito lui il
pomeriggio precedente, la stessa che quasi l’aveva costretto a
lasciarle il numero di telefono, nella speranza che la partita non
fosse chiusa?
Era stato tutto questo a farle desiderare di ricominciare tutto daccapo?
Se lo chiese, non
trovò risposta e mise da parte il problema. Non contava niente,
niente, pensarci: contava solo che non era finita. Contava avere la
possibilità di stare con lei.
Cercò di
frenare la sua emozione con la razionalità, ancora.
“Domani ti pentirai di avermi parlato così,
Rumiko-san”, fece, cercando di recuperare il controllo.
Uno sbuffo
dall’altra parte, che ruppe tutta la tensione. “Ancora non
mi credi? Non sarai quel tipo di persona che se non ha le prove non
prova nemmeno a crederci?” Fece, scandalizzata.
Ken pensò
ad Osamu, alla faccia che avrebbe fatto se l’avesse sentito
parlare di prove in campo decisamente diverso da quello lavorativo, e
ridacchiò. “Temo di sì”, ammise. “Ma
dubito che tu possa davvero provarmelo ade-“
“E invece lo farò! Ti va di uscire domani?”
Le parole gli morirono in gola. “C-che?”
No, questa volta no. Non era assolutamente considerabile l’idea di aver sentito bene.
“Sì,
domani. Domani sera, magari, così non dovremo cambiare
granché dei nostri programmi giornalieri, dopotutto io ho il
lavoro, tu studi e aiuti tuo fratello …”
Era partita in
quarta, adesso stava persino pianificando l’orario e tenendo
conto degli impegni. Interdetto, Ken cercò di dire qualcosa di
coerente, senza risultato. “Rumiko-san, ma la tua malattia
…”
“Cosa da
poco, mi passerà entro domani! Tranquillo. Magari possiamo
andare a vedere qualcosa in particolare, che so … - oh, questi
cosa sono?- Ho due biglietti per un concerto di un pianista che si
terrà domani alle nove al … Eh?”
Questo nuovo cambiamento inspiegabile lo fece sussultare. “Cosa succede?” Chiese, confuso.
Rumiko
esitò per qualche istante. “Ehm … aspetta un
attimo, Ken-kun. La mia amica qui si comporta in maniera
inspiegabile.” Fece, in fretta, e la sentì allontanare la
cornetta dalla bocca, per poter parlare con l’anonima amica che
era accanto a lei. Lui arrossì, chiedendosi da quanto tempo lei
stesse ascoltando la loro conversazione.
“Perché hai dato quei biglietti a me? A te non servono? Pensavo ti piacesse il piano …”
La sentì dire a bassa voce, accorata. E solo allora capì
che quei due biglietti le erano stati dati in quello stesso istante,
per qualche motivo.
Ken si
sforzò di ascoltare la risposta dell’altra, ma dalla
cornetta non arrivò che un mormorio indecifrabile. Si
accigliò.
“D’accordo, ma potevi usarli anche tu per svagarti un po’! Potevi anche andarci con …” Rumiko disse un nome, ma lui non riuscì a sentirlo. Doveva aver abbassato la voce.
Ancora una risposta a mezza voce, un “Come sarebbe, capirà? Aspetta, te ne vai così?”, poi un sospiro, e un rumore di porta sbattuta. Infine, la voce di lei si fece più chiara alla cornetta.
“Bene, la
mia amica mi ha appena regalato due biglietti per un concerto di
domani”, gli disse. “E non ha voluto sentire ragioni,
tant’è vero che se n’è andata per evitare che
glieli nascondessi nella giacca. Spero ti piaccia la musica classica,
Ken-kun.”
Era incredula
anche lei come lui, come se qualcosa di più grande avesse fatto
sì che avessero un appuntamento, e una meta precisa, per
incontrarsi. Per ricominciare.
Annuì,
ricordandosi in seguito che lei non poteva vederlo. “Mi piace
molto”, si affrettò ad aggiungere. “Ma non
sarà un problema per la tua amica?” E mentre lo diceva,
sperava davvero che non ce ne fossero. Lo sperava con tutto il cuore.
Rumiko rise.
“Macché. E poi dice che io sono matta …”
commentò, ma si sentiva che era felice. “Allora, verresti
con me?”
Ken si
fermò, e per un istante, rapido, si disse che era di nuovo
cambiato tutto, quando ormai credeva di sapere come lei si comportava
di solito. Fu lieto di essersi sbagliato. “Mi farebbe davvero
piacere, Rumiko-san. Davvero”Arrossì come uno sciocco, ma
si sentì sollevato nell’averglielo detto. Voleva dirglielo
davvero.
Lei rimase in
silenzio per un momento. “Allora è tutto a posto?”
Chiese, e c’era un sorriso in ogni parola, erano le parole
più vive che avesse mai sentito. Lui si fermò di colpo.
“Non ho mai
avuto problemi con te. Temevo solo che tu ne avessi con me.” Le
disse, come a scacciare un brutto pensiero per non doverci fare
più i conti. “Ti passo a prendere con la macchina a casa,
se vuoi.”
“No, io …” Esclamò subito Rumiko, agitata, ma si interruppe.
Ken si accigliò, chiedendosi quale fosse il problema. “Non va bene?”
Un altro
silenzio, questa volta più lungo. “No, no. Va
benissimo.” Rise piano, incerta. “Scusami, non so cosa mi
sia preso. Allora a domani.”
Ken non capiva,
ma non le chiese altro a riguardo. Sentiva che non era il caso di
forzarla, perché era la sua condizione. “A domani.”
Fece per chiudere, ma si fermò, colto da un pensiero e da una
speranza. “Ehm, Rumiko-san?”
“Cosa?” Fece lei, curiosa.
Per
l’ennesima volta, si sentì uno sciocco. “Il numero
da cui mi stai chiamando”, tentò, impacciato. “Posso
… posso salvarlo?”
E il silenzio che seguì gli fece desiderare di aver chiuso la chiamata prima di dire quella sciocchezza. Perché, perché devo sempre strafare?
Poi Rumiko rise,
e rise a lungo, finché non si interruppe per un attacco di
tosse. Ma l’aveva sentita divertita, non canzonatoria. Il
pensiero lo rassicurò. “Se non lo salvi, domani non potrai
rintracciarmi”, gli disse, dolce. “Buona serata,
Ken-kun.”
Riattaccò,
prima che lui avesse il tempo di risponderle. E Ken stette a sentire
per un po’ il suono acustico del telefono. Chiuse la chiamata
lentamente, cercando di pensare lucidamente.
Gli sembrava tutto irreale. Tutto dannatamente illusorio, come se fosse avvenuto solo nella sua testa.
Fu per questo che
si affrettò a salvare il suo numero, e nel momento in cui
terminò di digitare quel nome –Rumiko- e di salvarlo sulla
memoria, seppe che era successo davvero.
Un ampio, largo
sorriso gli si aprì sulle labbra, e lì rimase, incapace
di andar via nemmeno quando riprese il cammino verso casa.
Sono
tornata dopo tempi d'attesa interminabili -santo cielo, sono davvero
quattro mesi che non aggiorno? ^^' in realtà avevo il capitolo
pronto da un po', ma vuoi le vacanze estive, vuoi la mancanza di una
connessione internet... Spero di non avervi stancato troppo con
l'attesa!
Ma
parliamo del capitolo. Come avrete notato, le indagini si fanno
più serrate, e Ken e Osamu avranno un bel po' da fare, da
adesso in poi ... vale a dire che le piste si fanno sempre più
interessanti e che li troveremo ad indagare insieme più spesso!
E forse adesso sarà più facile iniziare a intuire cosa
sia successo, dopo avervi torturato per ventidue capitoli xD abbiate
ancora un po' di pazienza e saprete tutto! Compreso quello che
succederà a Osamu e Ken, e al loro difficile rapporto :)
L'appuntamento
di Ken e Miyako lo tratterò a breve -è un piacere
riprendere il personaggio di Miyako con i suoi tratti caratteristici,
mi mancava ^^
Al prossimo capitolo, che vedrà il ritorno di Takeru e una proposta che potrebbe cambiare tante cose...
Padme Undomiel
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Capitolo 25 *** Speranza ***
Purity 24
24.
Speranza
“No, hai frainteso tutto, stavolta.”
Hikari alzò le sopracciglia, scettica. “Davvero?”
“Certo. Ti posso assicurare che non è affatto così.”
Sora era sempre stata una
lavoratrice instancabile: aveva un fisico scattante, temprato da anni e
anni di calcetto assieme a Taichi, e uno spirito tenace e forte. Si
dava un sacco da fare per l’orfanotrofio –da sempre, da
quando aveva accettato di aiutare la famiglia Yagami nell’impresa
onerosa di mantenere in vita questo sogno-, e si lamentava così
di rado delle responsabilità che si prendeva sulle spalle che
spesso ci si rendeva conto di quanto realmente facesse per i bambini e
per loro solo quando doveva assentarsi per il suo turno per uno dei
suoi part-time.
Ma Hikari sapeva troppo bene
che Sora dava davvero il meglio di sé nelle faccende domestiche
solo quando voleva evitare qualche domanda scomoda.
Come in quel momento.
Era fin troppo attenta nel far prendere aria ai futon per risultare credibile.
Si portò una ciocca di
capelli ribelle dietro un orecchio, sospirando. “E’ che non
lo capisco. Con tutto il lavoro che c’è da fare
ultimamente, perché comportarsi in quel modo? E’ come se
fosse diventato ad un tratto più affettuoso … stranamente
affettuoso”, disse poi, e ancora si ostinava a non guardarla
negli occhi. “Dovrebbe dedicarsi a qualcosa di più
serio.”
Hikari non batté ciglio
nel replicare. “Ma Taichi non ha mai avuto problemi ad essere
affettuoso con te, Sora-san. Non dovrebbe essere una novità,
giusto?” Sorrise, un po’ maliziosa. “A meno che la
novità non sia la percezione che hai di lui.”
“Cioè?” Scattò, un po’ troppo prontamente per non destare sospetto.
Rise, scuotendo il capo. “Non c’è niente di male, sai, se ti p-”
“No.”
“… Se ti piace mio fratello”, concluse la minore, imperterrita.
“Una cosa del genere non esiste.”
Ma aveva le guance rosse,
notò Hikari, intenerita. Rossissime. Anche se tentava di non
sollevare il capo neanche per sogno.
“Negarlo ti fa stare
così bene?” Finì per chiederle, chinandosi alla sua
altezza e cercando di cogliere il suo sguardo.
La risposta di Sora fu incassare ancora maggiormente la testa nelle spalle, e smettere di occuparsi di quei futon.
Hikari lo prese per un no –l’ennesimo-.
Si sporse a prenderle le mani, e gliele strinse forte; Sora
sollevò gli occhi, e mai prima d’ora le erano sembrati
così smarriti e insicuri.
“E’ Taichi!” Fu tutto quello che riuscì a dirle, imporporandosi ancora di più.
Lei, dal canto suo,
annuì. “Ti assicuro che la cosa fa più strano a me
che a te, dal momento che stiamo parlando di mio fratello,
e credo ci metterò un bel po’ per realizzare una
situazione così strana. Ma per il resto non vedo davvero cosa ci
sia di sbagliato …”
“Hikari-chan, tu
non capisci!” La interruppe Sora, la voce strozzata per
l’imbarazzo e la frustrazione. “Stiamo parlando di Taichi,
hai presente? L’amico d’infanzia Taichi? Il compagno di
squadra di calcetto Taichi? Il migliore amico Taichi? Per lui sono
totalmente asessuata, capisci? Sono … Sora e basta, e Sora non
può fare questi pensieri quando Taichi si avvicina per
abbracciarla come fa da anni a questa parte! Non so come sia potuto succedere, e non so come uscire da questo pasticcio!”
Quando mai Takenouchi Sora era stata così fragile?
La abbracciò, non
potendo fare a meno di pensare che, di solito, i ruoli tra loro erano
invertiti: la maggiore a consolare, la minore ad essere consolata. Era
solo contenta di poter fare lo stesso per lei, in quel momento.
“Voglio riformulare la tua affermazione, Sora-san, e a tuo
vantaggio: Stiamo parlando di Taichi, hai presente?”
Si staccò per guardarla in viso, e le sorrise, rassicurante.
“Si accorgerà di te, se non lo ha già fatto. Lo sai
che non te lo direi nemmeno, se non ne fossi sicura.”
Dal basso del suo sconforto, Sora riuscì a guardarla comunque con scetticismo. “Tu dici?”
Hikari annuì, solenne.
“Sta seriamente pensando di cambiare lavoro perché pensa
che il problema sia la puzza di fritto di cui i suoi abiti sarebbero
impregnati”, dichiarò, sforzandosi di essere seria.
L’espressione in
successione confusa, sconcertata, imbarazzata e divertita
dell’altra, uniti al suo portarsi una mano sulla fronte e al
mormorare tra sé “Non ci posso credere”rese vano ogni tentativo. Rise nuovamente.
“Dovresti dirglielo, che
non ce l’hai con lui. E’ parecchio abbattuto”, le
suggerì, osservando il nervoso mordicchiarsi il labbro inferiore
da parte di Sora.
“Già, per poi
dirgli cosa? Che scappo da lui perché … Perché ho
paura delle mie sensazioni in sua presenza?”
“Non hai intenzione di dirglielo?”
Sora sospirò per un
lungo istante, prima di scuotere piano il capo. “Non ora,
Hikari-chan. C’è tanto lavoro da sbrigare qui, e gli
orfani, e … Non posso preoccuparmi di questo, adesso. Sto solo
perdendo tempo, e non sono affatto produttiva.”
La verità era che non era pronta ad accettare le conseguenze dei suoi desideri individuali.
Hikari non aveva alcun diritto
di decidere per lei, naturalmente. Lo sapeva com’era, restare
sospesi nell’aspettativa della felicità, dipendere dalla
decisione, dai sentimenti della persona nelle cui mani si era affidato
tutto …
Lei non poteva più fare
marcia indietro, impiegare ogni istante della giornata a trovare
qualcosa che la tenesse occupata corpo e mente, impedirsi di pensare:
era arrivata a un punto in cui aveva semplicemente accettato che le
cose stavano così, e puntava tutto su quell’attesa
dolorosa. Ma se Sora ancora poteva difendersi dietro quella corazza, se
ancora quel sentimento era giovane, aspettare tempi migliori era
così malvagio?
La strinse ancora a sé,
brevemente. “Promettimi solo che non getterai la spugna prima
ancora di aver tentato”, le disse, questa volta seria per
davvero. “Che, se non ora, presto o tardi cercherai di occuparti
di questo.”
Sora annuì, e le
sorrise, grata. “Non dovresti davvero starmi a sentire,
Hikari-chan. Non ho mai detto tante sciocchezze come in questo
periodo.”
“Non sono sciocchezze e
non è mai un problema ascoltarti, lo sai”, replicò,
sollevandosi di nuovo per riprendere a lavorare.
E poi alzò il capo, e si bloccò.
“Meno male che almeno
uno dei due Yagami è così facile da gestire”, stava
intanto continuando Sora, con uno sbuffo, ancora intenta nella sua
occupazione. E la sua voce sembrava così distante, adesso.
Cercò di parlare, ma
dalla sua bocca non uscì alcun suono, gli occhi fissi sul
cancello di entrata dell’orfanotrofio.
“Hikari-chan?” E
Sora dovette accorgersi dell’innaturale immobilità
dell’altra, perché si alzò anche lei, anche se
Hikari non aveva affatto la forza –né la voglia- di
voltarsi a guardare la sua espressione.
E forse seguì il suo
sguardo, e vide ciò che lei aveva visto e che non riusciva a
smettere di guardare, perché sussultò.
“Takaishi-kun?”
Non le rispose. Non commentò. Non pensò a nulla di coerente.
Semplicemente corse come
poté –perché le gambe sembravano tremare troppo per
una corsa decente- verso il cancello, il cuore a mille, verso di lui.
Lui che l’aspettava, gli
occhi azzurri fissi nei suoi, l’impazienza e una strana luce a
rendere il suo viso così diverso, così nuovo.
Eppure era ancora lui.
Maneggiò col cancello,
non riuscì a ricavarne nulla di buono per qualche secondo
– e allora le mani di lui la aiutarono, dall’altra parte,
con gesti rapidi e secchi, e lei lasciò che lui finisse il
lavoro, perché le aveva sfiorato le mani, ed erano le sue.
Si gettò tra le sue
braccia aperte prima ancora che il cancello si aprisse del tutto, e per
un istante ci fu solo la sensazione del suo calore, del suo profumo,
delle sue braccia attorno alla sua vita.
Chiuse gli occhi, e qualcosa nel suo petto si sciolse.
Quando li riaprì, aveva la vista appannata, ma sorrise, come mai in vita sua. “Takeru-kun”, disse soltanto.
E si rese conto, in un
istante, che Takeru la stringeva anche più forte di quanto lei
stesse facendo. Sembrava avesse paura di perderla solo lasciandola
andare.
“Scusami. Mi dispiace
tanto, sono un maledetto idiota. Pensavo … Non sapevo …
Io voglio essere qui, voglio stare con voi. Voglio stare con te.”
Hikari scoppiò in lacrime.
Tutta l’attesa, la
paura, la tristezza e la solitudine si infransero, dolorose al punto
che quasi non respirava. Ma era tutto finito. Tutto finito.
Nascose il suo sorriso nel petto di lui, e lo strinse maggiormente. “Bentornato.”
***
“Bisogna fare piano, altrimenti non si farà vedere. I rumori lo spaventeranno.”
“Stiamo andando pianissimo!”
“Basta che non cadi di nuovo, Asami-chan.”
“Guarda che Suou-kun cade in continuazione, e a lui non dici niente!”
“Perché Suou-kun è carino.”
Keiji sbuffò,
scocciato, riuscendo senza problemi a stare al passo senza farsi
sentire –perché era agile, c’era abituato da sempre.
“E dai, smettetela. Così ci facciamo scoprire.”
Asami, rimasta un po’ indietro, era imbronciata. “Non è colpa mia se Rei-kun è antipatico.”
Se Rei fu turbato da quelle
parole, non lo diede a vedere: continuò a guardarsi intorno,
interessato, cercando ciò che gli era sfuggito in ogni angolo
del corridoio. E quando parlò, era solo per il bambino dai
capelli neri davanti a lui, che non sembrava essersi accorto affatto
del bisticcio. “Secondo me si è nascosto in camera nostra,
Suou-kun. Gli ho lasciato un po’ del mio pranzo.”
Suou si voltò, gli occhi verdi spalancati dietro la frangia liscissima. “Tu pensi che gli piacerà?”
“Ai gatti piace il pesce. L’ho letto in un libro sugli animali.”
“Lo vedi? Si sta di
nuovo vantando”, gli sussurrò Asami all’orecchio,
irritata. Keiji alzò le spalle, continuando a sbirciare nelle
camere davanti alle quali passavano. “Io so anche che i gattini
piccoli bevono latte, non mangiano pesce. Me l’ha detto Koushiro.” Aggiunse poi ad alta voce, e sottolineò accuratamente quel nome.
Rei la guardò, aggiustandosi gli occhiali sul naso con le mani. “Che ne sai che è così piccolo?” Le disse senza arrabbiarsi, ma si vedeva che voleva avere ragione.
“Non lo so, ma tu che ne
sai che è grande abbastanza per mangiare pesce?”
Scattò la bambina, ancora più indispettita, e alzò
la voce.
Keiji, dal canto suo, alzò gli occhi al cielo. Ma non la finivano mai di discutere?
“M-magari
…” Intervenne timido Suou, le guance rosse per imbarazzo.
Tutti e tre si girarono a guardarlo, sorpresi. “Magari quando lo
troviamo gli diamo anche il latte. Così mangia e beve
tutto.” E poi li guardò, e sembrava chiedere loro –a
Rei soprattutto- di smettere di litigare.
Faceva sempre così, le
poche volte che parlava anche agli altri bambini: cercava di
accontentare tutti quanti. Meno male che aveva deciso di parlare anche
stavolta.
Alla fine Rei fece un sorriso,
quel suo strano sorriso che appariva pochissime volte. “Certo.
Prima però troviamolo, d’accordo?”
Suou si illuminò.
“Sì!” E seguì rapidamente l’altro,
correndo un po’ perché Rei l’aveva superato.
Asami approfittò di
quel momento per restare un po’ indietro, e parlare solo con lui.
“Suou-kun dovrebbe smetterla di stare sempre con Rei-kun.
E’ troppo carino per lui”, gli disse, la bocca arricciata.
“E poi se lo tiene sempre solo per sé, non è mica
giusto.”
Quel bambino non le era mai
stato simpatico. Forse era perché non aveva quasi mai giocato
con nessuno di loro, forse perché aveva sempre preferito
starsene per conto suo e fissare tutti con quegli strani occhi dorati
… finché all’orfanotrofio non era arrivato Suou, e
allora le cose erano cambiate. Quel piccolo così timido, sempre
con gli occhi bassi, chissà perché era l’unico
amico che aveva voluto avere. E da allora faceva di tutto per seguirlo
in ogni secondo, per fare il maggiore dei due e guidarlo. Aveva
iniziato anche ad allontanare chiunque volesse avvicinarsi a loro.
Per questo quei due stavano sempre da soli. Anche più soli di Keiji: lui, se voleva, con gli altri ci parlava benissimo.
Ma visto che Asami voleva
tanto conoscere meglio Suou, e Rei glielo impediva sempre, lei non lo
sopportava. Di solito gli stava lontano per non litigare, ma quella
volta lei e Keiji non avevano avuto altra scelta: Keiji voleva vedere
il gattino, e Rei era l’unico a sapere dove fosse. Più o
meno.
E non importava che Rei avesse riservato lo spettacolo solo per il piccolo Suou.
“Senti, lasciali stare.
Fanno sempre così”, rispose, tenendo stretti sotto braccio
album e colori, che ad ogni passo rischiavano di cadere. Doveva essere
pronto a disegnare, non aveva tempo di tornare indietro a prendere le
sue cose vicino al suo albero: se scappava di nuovo era un problema.
Perché doveva
disegnarlo in fretta: sarebbe stato il suo più bel disegno.
Anche più di quelli sulla storia che il biondo aveva raccontato, e di cui era stato tanto orgoglioso fino a un po’ di giorni prima.
E lo avrebbe dato a Hikari,
così lei avrebbe smesso di essere triste perché quel
biondo odioso se n’era andato e non tornava più.
Così avrebbe sorriso,
l’avrebbe ringraziato, abbracciato e baciato, e Keiji sarebbe di
nuovo stato la persona più importante per lei.
Voleva che lo sapesse, che lui non l’avrebbe mai fatta piangere, e ci sarebbe stato sempre.
Per questo doveva muoversi a
trovare quella piccola palletta di pelo che aveva solo intravisto, e
che non si faceva più vedere.
“Rei-san, guarda! E’ lì sotto, guarda!”
L’esclamazione
entusiasta di Suou fece bloccare tutti. Erano davanti ad una porta
aperta: in quella stanza Keiji non c’entrava mai, non c’era
niente che lo interessasse. Solo una grande scrivania e tanti fogli con
caratteri che non riusciva a leggere.
Ma quel giorno, lì sotto, piccolo e bianco e del tutto tranquillo, c’era il micino.
La sorpresa di Rei sembrava
riuscita: Suou era felicissimo, mentre lo prendeva per la manica,
invitandolo a entrare con lui. Ma Keiji pensava solo a prendere un
foglio pulito, in fretta e in piedi com’era, reggendo i colori
tra petto e mento, la lingua tra i denti per la concentrazione. Era la
sua occasione.
Poi afferrò Asami per
la mano, tirandola impaziente, ed entusiasta. “Dai, corri, o lo
terranno in braccio solo loro!”
“Nooo!”
Keiji si fermò, al
grido disperato dell’amica. “Che c’è
ade-” Poi si accorse della barretta di cioccolata caduta a terra,
e dello sguardo sconsolato della bambina.
Per un momento cadde il silenzio.
Poi Asami lo guardò, speranzosa. “Senti … ci soffio sopra e la mangio lo stesso!”
Era davvero convinta di quello che diceva.
Keiji scoppiò a ridere, e riprese a tirarla. “Dopo ti do la mia barretta, scema. Adesso però muoviti!”
***
Da quel momento, c’era
solo stata un sacco di confusione, e lui era sicuro di essersi perso
qualche passaggio vivendo quella sensazione, infine, di gran
completezza.
Taichi si era materializzato
all’improvviso, raggiante e sollevato, rifilandogli una pacca
sulla spalla fin troppo forte, che lo aveva lasciato senza fiato per un
attimo.
E poi c’era stata Sora,
con un futon abbandonato poco distante, le sue mani che gentilmente e
calorosamente stringevano quelle di lui.
E ancora i richiami entusiasti
del maggiore degli Yagami, che quasi avevano tirato di peso gli altri
ragazzi dell’orfanotrofio, confusi e perplessi, portandoglieli
davanti e spiegando loro la situazione –quella nuova, quella che
riguardava lui quanto loro.
E poi la stretta di mano
serena di Koushiro e quella più irruenta di Jyou, e i baci sulla
guancia improvvisi di Mimi. E poi parole, parole, che sul momento aveva
compreso, a cui sul momento aveva risposto, ma che ora non riusciva
più a ricordare.
Però aveva sorriso per
tutto il tempo, e dietro la schiena aveva continuato a stringere quelle
dita piccole e calde, quasi aggrappate alle sue, perché non
aveva alcuna voglia di rompere quel contatto.
E ogni tanto l’aveva
guardata, le guance ancora rosse, gli occhi ancora lucidi –ma
così diversa da quando l’aveva vista piangere di dolore
… così tanto diversa, ora-, sempre al suo fianco, e aveva
condiviso con Hikari il reale significato di quello che era successo,
di quello che lei aveva riferito a Taichi dopo aver sciolto il loro
abbraccio.
“Takeru-kun ha deciso di stare con noi.”
Lei gli aveva sorriso,
così bella che per un istante gli aveva tolto il fiato, ed era
stato quel sorriso a rendere tutto vero, tutto concreto.
Takeru aveva deciso.
E neanche ora che si trovava
in quello studio, seduto su quella sedia, con accanto Hikari e Taichi,
e di fronte a sé Koushiro che maneggiava documenti, riusciva a
sentirsi in qualche modo forzato ad essere felice, falso nella sua
determinazione, disperato nella sua ricerca di un senso per quello che
faceva.
Aveva deciso sul serio. Ed era
stato facile, automatico, una volta che aveva capito cosa voleva.
Così facile ed automatico che sembrava una beffa a tutte le
complicazioni a cui lui stesso si era sottoposto per mesi, anni. Ma non
aveva più importanza.
“Ci sono da sbrigare
alcune formalità, Takaishi-kun, ma non ci vorrà
molto”, stava dicendo Koushiro, un sorriso gentile sul viso.
Takeru non poté fare a
meno di ridere, leggero. “Ho aspettato un sacco di tempo prima di
decidermi”, commentò. “Non credo di poter essere
nella condizione più giusta per lamentarmi per qualche firma da
apporre.”
“E noi non potremmo
essere più felici che tu abbia deciso di unirti alla famiglia
Yagami!” Esordì Taichi a voce alta, solenne.
Unirti alla famiglia?
Takeru ebbe un sussulto, e si
voltò di scatto verso di lui. “Eh?” Balbettò,
e sentì il suo viso farsi più caldo. Il suo sguardo
volò automaticamente verso Hikari, e fu con ancora maggiore
sorpresa che vide le sue guance totalmente rosse.
“Taichi vuole dire che
qui siamo come una grande famiglia!” Si affrettò a
specificare lei, la voce più acuta, evitando il suo sguardo.
L’imbarazzo di Takeru scemò. Avrebbe voluto dire lo stesso
per quello strano gonfiore che sentiva all’altezza del petto,
però.
La sensazione, ad ogni modo, svanì quando Taichi gli rifilò uno scappellotto.
Alla sua espressione attonita,
lo vide rispondere con un ghigno. “Non ci allarghiamo troppo,
adesso, eh”, fece, e qualcosa nel suo tono sapeva di minaccioso.
Takeru deglutì, sperando vivamente di aver male interpretato le
sue intenzioni. Che cosa aveva fatto poi di male?
“Taichi, così lo
farai scappare”, fece Koushiro, alzando gli occhi al cielo e
porgendo documenti e penne a Takeru. “Ecco qui. E
ignoralo”, soggiunse a bassa voce, ammiccando con lo sguardo
verso il fratello di Hikari.
Takeru sorrise, incerto,
chinandosi a firmare dove indicato. Con l’abitudine avrebbe
imparato bene come reagire a certi atteggiamenti, pensò.
“C’è
qualcosa di specifico che dovrò fare, una volta qui?”
Chiese poi, gli occhi ancora fissi su carta e penna.
Fu Hikari a rispondergli.
“Gli incarichi li assegniamo volta per volta, così come i
turni di lavoro. Tutto quello che dovrai fare sarà darci la tua
disponibilità giornaliera negli orari che più ti saranno
comodi. Vorrei poterti dire che si tratta di un lavoro come un altro,
ma …” Takeru sollevò lo sguardo, e la vide mordersi
il labbro inferiore, in colpa. “Conosci la situazione. Questo
è più un volontariato che un lavoro.” Sorrise,
malinconica, come a chiedergli scusa.
Come se quello fosse un
problema. “Non è la retribuzione in denaro che
cerco”, chiarì, sicuro. “Anzi. Ho intenzione di
contribuire io stesso al mantenimento di questo orfanotrofio. Con ogni
mezzo. Cercherò un lavoretto part-time, che sia adattabile con i
miei turni qui.”
Hikari sgranò gli occhi, piena di sconcerto. “Non devi! E i tuoi studi?” Fece, con veemenza.
Gli studi, già. Un moto di senso di colpa –le aspettative di sua madre, Daisuke, i suoi amici, tutta la sua vita finora-
lo prese all’improvviso, e lo costrinse a tacere. Ma fu solo un
attimo: non c’era più modo di tornare indietro, ormai.
“Gli studi dovranno aspettare”, disse lentamente, e non
smise di guardare Hikari negli occhi. Voleva che capisse che era serio.
“Ho altre priorità, adesso. E voglio rendermi utile.”
La ragazza, turbata, tacque,
una luce dolente nello sguardo. Sembrava chiedersi se lui non stesse
affrettando troppo i tempi, se non se ne sarebbe pentito. Sembrava
porsi le stesse domande che si era posto Yamato, se non stava
aggrappandosi a quel progetto solo per liberarsi della sua frustrazione
senza fine. Si sentì ferito da quell’esitazione.
Eppure, in cuor suo poteva davvero biasimarla? Non era forse vero che una persona così disperata ispira poca sicurezza?
Le avrebbe dimostrato che non
era un capriccio, decise. Le avrebbe dimostrato che sarebbe andato fino
in fondo. Che non li avrebbe abbandonati.
“Qui nessuno ti chiede
di rinunciare alla tua vita”, intervenne Taichi, insolitamente
cauto. “Noi non ti imponiamo certo di sacrificarti per la causa.
Inoltre, molte spese della villa sono a carico mio e di Hikari: siamo
noi i proprietari, e Yagami Yuuko era nostra madre. Le spese aggiuntive
per contribuire al benessere dei bambini sono per chi vuole e
può contribuire, quindi del tutto facoltative. Noi non te lo
chiediamo, lo sai.”
Takeru annuì. “Lo
so. Sono io a chiedervi di permettermi di contribuire”,
replicò semplicemente, chiedendo silenziosamente di poter fare
di testa sua. “Sentite. Hikari-chan mi ha spiegato la situazione:
so tutto quello che succede qui. Vi servono fondi, vi serve una mano.
Avete difficoltà ad occuparvi di tutti i bambini, della
manutenzione della villa, e tutto il resto. E so che, se la cosa
dovesse protrarsi per troppo tempo, sarete costretti a chiudere
l’orfanotrofio.”
L’accenno alla loro
precarietà sembrò incupire il viso di Taichi e Koushiro,
tutt’a un tratto, eppure non replicarono. Hikari stava immobile,
pallida e silenziosa.
Gli era parso di sentire un
sussulto, a dirla tutta. Ma pareva non fosse stato nessuno di loro,
verosimilmente doveva averlo immaginato.
Riprese. “Certo, il mio
contributo potrebbe non essere così decisivo, e sicuramente non
ho nemmeno un briciolo della vostra esperienza in materia, ma …
Se posso fare qualcosa in più per non permettere che tutti quei
piccoli perdano casa e famiglia, lo farò.”
Probabilmente sarebbe ancora
andato avanti, e avrebbe perlomeno cercato di spiegare loro quanto,
effettivamente, sembrassero sani e felici, quei bambini, in loro
presenza, e che non meritavano di perdere persone straordinarie come
loro dopo aver perso anche la loro famiglia biologica, ma non gliene
diedero il tempo. Taichi gli mise una mano sulla spalla, e sorrideva
nuovamente.
“Sarebbe davvero da
idioti impedirti di procedere, allora”, disse, e c’era del
rispetto in fondo a quegli occhi scuri. “A nome
dell’orfanotrofio e di tutti i bambini … grazie.
Veramente.”
Takeru lo intuì quando ascoltò quelle parole, prima ancora di comprenderne il senso. Era quello, il grazie che aveva sempre cercato. Era quello.
Perché era vero.
Perché era realmente sentito. Perché legittimava la sua
appartenenza a quel luogo, a quel contesto. Era suo.
Scosse la testa, emozionato.
“Non dovreste essere voi – Sono io che vi sono grato, in un
modo che nemmeno io avrei mai creduto possibile.” Pensò a
Yamato, al suo sorriso quando gli aveva parlato di loro – di lei.
“Se non fosse stato per voi, ora sarei ancora in giro a sprecare
tempo ed energie in atti sconclusionati.”
“Lascia stare. Taichi
passa tuttora il tempo in atti sconclusionati, malgrado si diverta a
fare l’eroe”, intervenne Koushiro, probabilmente nel
tentativo di smorzare la tensione.
“Ehi!” Esclamò l’altro, giustamente offeso, e Takeru rise.
“Ho sentito un miagolio,
da qualche parte”, disse all’improvviso Hikari, e tutti e
tre si zittirono. La ragazza si guardava intorno, attenta e un
po’ perplessa. “Voi no?”
Takeru batté le
palpebre. Era proprio vero che non si finiva mai di imparare, in quel
luogo. “Avete degli animali domestici?” Domandò,
frugando nella memoria alla ricerca di un qualsiasi segnale della loro
esistenza. Possibile che gli fosse sfuggito?
Hikari scosse la testa, confusa. “No, che io sappia non-”, iniziò, ma nessuno seppe mai cosa volesse dire.
Qualcosa di bianco e peloso
saltò fuori da sotto la scrivania, quasi materializzandosi dal
nulla. Takeru saltò su dalla sedia all’improvviso, colto
alla sprovvista, e solo dopo un istante si rese conto che si trattava
di un gattino. Un piccolo gattino bianco con la coda tigrata.
Un solo sguardo alle
espressioni costernate di Hikari e Taichi bastò a confermargli
che la situazione era strampalata anche per loro.
E lo divenne ancora di
più, quando Koushiro allontanò la sedia dalla scrivania,
si chinò, si immobilizzò per un istante, prima di dire a
voce alta: “Dai, uscite fuori.”
Un lungo istante di silenzio,
quasi cristallizzato: e Takeru capì d’un tratto ciò
che era successo. Sgranò gli occhi.
Sbucò fuori, esitando,
un bambino minuscolo dagli occhi verdi e il viso turbato, che lui non
aveva mai visto prima d’ora e che non vide in quel momento
guardare nessuno se non il gattino, appollaiato ai piedi di Hikari. Un
bambino più grande con gli occhiali lo raggiunse subito, e
fissò loro, invece, immobile.
Poi una massa spettinata di capelli viola emerse di colpo da sotto la scrivania, e Hikari ebbe un sussulto strozzato.
Keiji non aveva occhi che per
lei, incurante della bambina dagli occhi lucidi che gli stringeva il
braccio – Asami -, incurante di tutti gli altri.
La sua espressione stravolta parlò per il suo silenzio, e nella stanza cadde il gelo.
***
Era stato facile, talvolta, immaginare che sua madre fosse Hikari.
Sarebbe stata perfetta, lei.
Lei aveva la dolcezza giusta, le attenzioni giuste. Lei non si agitava
troppo come Jyou, ma sapeva preoccuparsi per lui come nessun altro
–nel modo giusto; era lei che gli era accanto quando non riusciva
a dormire, lei che gli baciava la fronte e accarezzava i capelli quando
si svegliava in preda agli incubi. Lei era bella come una mamma, e lo
sapeva anche senza avercela, una mamma.
Aveva sempre pensato –sperato- che sua madre fosse Hikari.
Ora la guardava, e non vedeva altro che un viso pallido, sconvolto, fragile.
Keiji si sentiva così
male che non riusciva né a gridare né a piangere: poteva
solo stare lì, a respirare rumorosamente, a tremare, e a
guardare Hikari.
Non era sua madre.
Non poteva più tenerli con sé, forse li avrebbe dati via a qualcun altro.
E non aveva detto niente. Non gli aveva parlato.
Non le importava nulla di loro, di lui? Non poteva impegnarsi di più per tenerli con sé?
Non era sua madre. Perché le madri non si comportano così …
O forse tutte le madri davano via i loro figli, come la sua vera madre?
“Keiji-chan”,
sussurrò Hikari, e continuò a fissarlo con dolore. Non
pianse, non distolse lo sguardo. Lo fissò e basta, come lui
fissava lei.
“Ci manderai via?”
Lei sussultò. “Ma
no”, disse subito, e si avvicinò a lui piano, le braccia
aperte per accoglierlo. “Non vi manderemo via, Keiji-chan, non
pensarci …”
Keiji si scansò, quasi
scottato. “Ci manderai via, vero?” Ripeté a voce
più alta. L’urlo che non gli usciva rimase incastrato in
gola, e faceva un sacco male.
Hikari si fermò di
colpo, e abbassò le braccia. Keiji non l’aveva mai vista
così in colpa, così triste, ma quell’espressione,
se possibile, aumentò la sua voglia di urlare.
Asami gli stava stritolando il braccio, e singhiozzava piano.
“Keiji, ascolta. Anzi,
ascoltatemi tutti.” Intervenne Taichi, sicuro. Ma non osò
avvicinarsi. “Non dovete preoccuparvi per alcun motivo!
D’accordo, avete sentito che abbiamo qualche problema, ma non
è niente di così serio! Ce la faremo anche stav-”
E fu a quella bugia sorridente che Keiji esplose.
“Lui
l’ha detto!”Gridò, indicando con il dito il biondo,
che sussultò. “Ha detto che non avete soldi per tenerci,
che chiuderete l’orfanotrofio! E noi … E noi
…”
Se avesse parlato ancora,
sarebbe scoppiato in lacrime. Gli occhi appannati, il bambino si
zittì, e il suo sguardo cadde sui colori sparsi sul pavimento,
da sotto la scrivania.
Si liberò da Asami, si
chinò, raccolse i suoi colori, i suoi disegni. Quel gattino
scarabocchiato che aveva disegnato prima che Hikari e gli altri
entrassero nello studio.
Quello che voleva regalare a Hikari …
“Vendete i miei
disegni!” Esclamò, guardando le loro espressioni
mortificate. “Vendeteli tutti! Pagate l’orfanotrofio con i
miei disegni! Non mi importa, io non voglio andarmene!”
I ragazzi stettero zitti, e non sembravano felici come dovevano essere.
“Non vi piacciono? Dite
sempre che sono belli, allora qualcuno li comprerà!”
Insistette a voce più alta, non comprendendo. Che cosa
succedeva? Aveva trovato una soluzione! “E io disegnerò
tutto il tempo, e così guadagnerete …”
“Anche io voglio fare
qualcosa!” Intervenne Asami, asciugandosi le lacrime con la
manica, prendendo coraggio dalle parole di Keiji. “Io non so fare
tante cose, e sono imbranata, però mi impegnerò. Posso
vendere i miei giocattoli vecchi, e qualcosa che non uso
più!”
“Vi prego, state tranquilli. Voi non dovete-” iniziò Hikari, la voce rotta, ma fu interrotta.
“Pensa a quanti
giocattoli Ichiro-kun non usa mai, Keiji-kun!” Stava continuando
Asami, voltata verso di lui con la sua stessa aria seria. “Usa
solo i suoi giocattoli musicali, il resto lo si può vendere! O
Taro-kun, che gioca solo con i suoi soldatini …”
“Taro e Ichiro sono
bravi a recitare e cantare!” Esclamò ad un tratto Keiji,
prendendo l’amica per un braccio. “Possono fare degli
spettacoli, e piaceranno a tutti, e ci daranno soldi!”
“E io? Io che faccio?” Intervenne timido Suou, alzando coraggiosamente la voce.
Keiji e Asami si voltarono, sorpresi. Quasi si erano scordati di lui.
“Beh … Tu ci
aiuti”, decise Asami, annuendo tra sé. Rei si
incupì, e la bambina sbuffò. “Tu e Rei-kun ci aiutate, va bene?”
“Si può fare”, annuì Rei.
“Bambini, adesso
basta!” L’esclamazione angosciata di Hikari li zittì
tutti, di nuovo. “Non dite così, per piacere. Non
succederà niente, io ve lo prometto, ve lo giuro. Non vi
manderemo via, perciò non dovete fare assolutamente nulla.”
“Hikari-chan, aspetta.”
Naturalmente il biondo doveva
sempre dire la sua, e Hikari doveva sempre starlo a sentire. Keiji lo
guardò con ostilità, ma vide che guardava lui con una
strana espressione, e allora non disse niente. Ricambiò lo
sguardo, confuso.
E anche Taichi, Koushiro e Hikari fecero lo stesso.
Il biondo rimase in silenzio
per un po’, a pensare, serio. Poi annuì, e i suoi occhi
brillavano. “I bambini ci hanno trovato un’ottima
idea”, scandì lentamente.
Keiji spalancò la bocca, incredulo.
Era davvero d’accordo con loro? Lui?
In risposta alla sua espressione sconvolta, lui sorrise.
Invece, dalla parte dei grandi, si scatenò una strana reazione.
“Come sarebbe a dire?
Sono solo dei bambini!” Intervenne Koushiro, le sopracciglia
aggrottate. “Non è giusto!”
“Koushiro-san ha
ragione, Takeru-kun. Non capisco cosa tu abbia in mente” gli
diede ragione Hikari, e per una volta non sembrava d’accordo con
il biondo. Per la volta sbagliata.
“Calmatevi, non ho
intenzione di sfruttare i bambini per denaro!” Alzò le
mani in alto, in segno di pace. “Chiederò il loro aiuto
solamente se se la sentiranno, se ne avranno voglia. Ma l’idea di
una bella mostra di beneficienza, in generale, non mi sembra
un’idea malvagia.”
“Spiegati meglio”, fece Taichi, serio.
Il biondo continuava a
sorridere, sicuro, e a guardarli con aspettativa. “Quello che vi
serve è un po’ di notorietà –concedetemi il
termine. Se molta più gente fosse sensibilizzata alla causa, se
noi gliene dessimo l’occasione, le donazioni aumenterebbero,
giusto? E molti bambini più piccoli potrebbero essere affidati
ad altre famiglie. Più piccoli, più piccoli!” Si
affrettò a ripetere, all’espressione indignata di Keiji.
“Inoltre, potremmo mettere del nostro per qualche bancarella, che
so, di oggetti che effettivamente non usiamo più. Ci ricaveremmo
comunque qualcosa.”
“Vuoi trasformare questa villa in una fiera?” Fece Koushiro, scettico.
Takeru annuì. “E
non solo. Contatterò mio fratello, gli chiederò di
suonare con la sua band. Attirerebbe più gente.” Si fece
pensieroso di nuovo, riflettendo. “E poi … si potrebbe
pensare ad altre aggiunte … Qualsiasi cosa che infarcisca
l’evento. Ma il succo del discorso è questo.”
Calò il silenzio. Lui si voltò verso gli altri, immobili. “Allora? Che ne dite?”
“Non cambierai la
situazione con una manifestazione di beneficienza, Takaishi-kun”,
fece Koushiro, scuotendo la testa.
Il biondo si strinse nelle
spalle. “Lo so. Ma conto di migliorarla, anche solo di un
po’. Ora come ora possiamo solo migliorare, non credete?”
Keiji si sorprese,
perché per la prima volta –no: la seconda. C’era
stato l’episodio della storia, e quella era stata la prima volta-
Takeru gli ispirò fiducia. Aveva anche smesso di fare quella
faccia depressa che aveva sempre, quella per cui Hikari aveva deciso di
aiutarlo. Quella che a lui dava tantissimo fastidio.
Adesso aveva la sua stessa
decisione, solo che era più felice di lui, per motivi che non
conosceva. E sorrideva un sacco. A guardarlo, veniva da credere che ce
l’avrebbero fatta.
Keiji scoprì che si fidava, con la convinzione di chi ha paura di andarsene, di perdere tutto.
Guardò gli adulti,
impaziente, e li vide scambiarsi degli sguardi. Quando Hikari si
accorse della sua occhiata guardò verso di lui; Keiji
abbassò la testa, gli occhi ancora lucidi per il pianto sfiorato
di poco prima.
Non riusciva a guardarla. Non poteva.
Non gliel’aveva detto.
“Taichi, chiediamo ai
bambini”, venne la voce di Hikari, e Keiji si immobilizzò.
“Sono loro i diretti interessati. A noi non costa nulla, ma loro
… meritano di poter decidere, per una volta.”
Il groppo in gola del bambino
si fece più spesso, e avvertì un terribile bisogno di
piangere, di correrle incontro, di abbracciarla. Ma non riusciva a
farlo.
“Taichi, ragiona. Cosa possiamo mai aspettarci da-” intervenne Koushiro, scettico.
“No, ha ragione mia sorella. Loro ci aiuteranno a prendere una decisione.”
Taichi si avvicinò, chinandosi alla loro altezza. Keiji sollevò, esitante, lo sguardo.
Il ragazzo sembrava serio,
come non lo aveva mai visto. “Cosa ne pensate di
quest’idea? Sareste disposti a darci una mano? Non è
necessario che partecipiate attivamente, soltanto che
quest’evento non sia un problema per voi.”
Si sentiva tutti gli sguardi
addosso, e per qualche strano motivo persino gli altri bambini
guardavano solo lui. Aspettavano una sua decisione. Cercò di
ignorarli, a disagio; ma aveva già preso una decisione.
“Voglio partecipare”, disse a voce alta. “Se farete qualcosa voglio partecipare.”
Koushiro scosse la testa,
disapprovando. Takeru lo fissò, e non disse nulla. Il viso di
Hikari si fece pieno di una specie di affetto tristissimo,
un’espressione che faceva tanto spesso quando parlava con lui.
“Non dire voglio!
Ci sono anche io, Keiji-kun!” Si lamentò Asami ad alta
voce, avvicinandosi a Taichi. “E Suou-kun e Rei-kun! E
anche gli altri bambini, se chiediamo!”
Questa volta fu Keiji a
guardare gli altri bambini. Nessuno esitò, nessuno aveva
cambiato idea. Provavano tutti lo stesso suo sentimento di paura, la
stessa voglia di restare, di fare qualcosa.
Sembravano una squadra. Una famiglia unita.
E Keiji si sentì ancora più forte, e disposto a tutto. Non aveva più tanta paura.
“Siete disposti a fare delle rinunce per questo progetto?” Chiese ancora Taichi.
Annuirono solennemente, come per un giuramento.
“E dare via cose che avete in più, o contribuire in altro modo?”
Annuirono di nuovo.
“E allora non
c’è più niente da dire.” Taichi si
sollevò, e si voltò verso gli altri. Sorrise, grintoso
come quando giocava a calcio insieme a loro -come quando li faceva
vincere- e diede una pacca a Takeru. “Proviamo a mettere alla
prova la tua idea. Vedremo sul campo come andrà!”
Ho passato un
sacco di tempo chiedendomi se avrei più aggiornato questa
storia, e per tanto tempo la mia risposta è stata no. Non
riuscivo più a continuarla, non trovavo più lo spirito
giusto... E' per questo che l'aggiornamento arriva dopo così
tanto tempo. Per chi è ancora qui a leggere... scusatemi davvero
:( non avevo voglia di rovinare quello che avevo fatto finora giusto
per dare un finale, non mi sembrava corretto! Però, nonostante
tutto, ho tutte le intenzioni di terminarla :) Magari i miei
aggiornamenti saranno lentissimi, ma voglio provarci, perché ci
tengo. E intanto che reimposto i capitoli che verranno, ecco qui una
svolta importante che dà inizio a quello che da sempre ho
immaginato dovesse essere il ruolo di Takeru -dopo miliardi di
tribolazioni, mi rendo conto. xD Ma meglio tardi che mai, no?
Ah, per chi è ancora qui... Grazie <3
Padme Undomiel
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Capitolo 26 *** Resa ***
Purity 25
25.
Resa
Non fu affatto sorpresa quando sentì la vibrazione del cellulare
che annunciava una chiamata in arrivo. Puntuale come un orologio
svizzero come sempre, e ancora una volta senza essersi messi
minimamente d’accordo.
Scoppiò a ridere,
incontrando gli occhi verdi del suo gatto e scuotendo la testa.
“Pare che neanche oggi saremo smentiti, Haku. Il tuo precedente
padrone sta proprio andando fuori di testa.”
Continuando ad accarezzare
Haku, appollaiato tra le sue braccia, Satsu si sporse sulla poltrona e
afferrò il cellulare dal tavolino, avviando la chiamata. Non
aveva neanche bisogno di osservare il display per sapere chi fosse il
mittente.
“Eccoti qui,
Iori-kun”, lo salutò allegramente. “Stavo aspettando
con impazienza la successiva puntata di Ossessionati da un ragazzo dagli occhi di ghiaccio,
dopo due giorni che non senti parlare d’altro finisci per
appassionarti. Ti rendi conto, sì, che sembri innamorato
pazzamente di lui?”
C’era una cosa, in tanti
anni di conoscenza, che non era mai cambiato in Hida Iori: potevi
dirgli qualsiasi cosa, cercarlo quando avevi bisogno, contare sulla sua
lealtà se eri suo amico, ma il senso dell’umorismo davvero
non era il suo forte. Riusciva sempre a lasciarlo un po’
spiazzato, quasi guardingo; alle volte si offendeva, persino.
Quella volta, appunto, si
offese. Tantissimo. “Non sono affatto innamorato di lui!”
Protestò. Conoscendolo, poteva essere arrossito fino alla punta
dei capelli.“A parte il fatto che stiamo parlando di un uomo, santo cielo, come fai a pensare …”
“Tanto non sono omofoba.
Sto scherzando, sto scherzando!” Dovette affrettarsi a
specificare, perché il silenzio dall’altro capo era
davvero un segnale preoccupante. Ma non poté impedirsi di
sbuffare, rassegnata, passandosi una mano sugli occhi. “Iori-kun,
dovresti davvero imparare a prenderti meno sul serio.”
“Mi sforzo di farlo! Ma
puoi biasimarmi se adesso sono così nervoso? Sono preoccupato,
non riesco a riderci su.”
Il suo tono era un po’
mortificato, e Satsu si morse le labbra, sorpresa una volta di
più – ma non doveva esserci abituata, ormai? Dopo tutti
quegli anni, dopo tutto quel tempo passato a parlare insieme?- della
forte influenza che le sue parole avevano sul suo amico. Era sempre
stato così, che lei lo volesse o no, che cercasse di non
pensarci o, scioccamente, di cambiare le cose: un suo commento leggero
avrebbe potuto ferirlo con facilità. Che gli esseri umani
avessero certi poteri sugli altri era spaventoso, pensava spesso. Che
poi lo avesse lei, che in fondo era ancora la stessa ragazzina
innamorata di romanzi drammaticamente sentimentali e tragiche vicende
amorose che nella realtà non si verificano quasi mai, che in
fondo restava incapace di una storia decente con qualcuno di concreto,
vivo e vero, era del tutto ingiusto. E più passava il tempo
più sembrava incredibile che un tipo come Iori perseverasse
nell’essere così fedele ad una persona sentimentalmente
immatura come lei. Più passava il tempo, più Satsu era
confusa, e turbata, e commossa – segretamente spaventata.
Ammorbidì il tono,
perciò, e sorrise. “Dai, aggiornami. Sei riuscito a
scoprire come si chiama? Se anche lui frequenta i corsi di legge come
hai scoperto ieri ci sarà sicuramente qualcuno che sa chi
è e a cui puoi chiedere-”
“Ichijouji Ken.”
Satsu rimase a bocca aperta, come se qualcuno avesse semplicemente premuto il fermo immagine.
E Iori ripeté,
scandendo accuratamente ogni sillaba. “Ichijouji Ken. E’
così che si chiama, è per questo che somiglia così
tanto a Ichijouji Osamu. Perché è suo fratello minore.”
Lentamente, incapace di
articolare un qualsiasi suono di senso compiuto, Satsu richiuse la
bocca e tacque. Un tremendo sospetto le affiorò alla mente.
“Non è finita. Ho provato a digitare Ichijouji Ken nel motore di ricerca stamattina, e guarda un po’ cosa ho trovato: Caso
Hamada, nipote colpevole: è il fratello di Ichijouji a
smascherarlo. Si interessa al caso per curiosità, decide
di collaborare con il fratello. Così Ichijouji Ken porta a galla
la soluzione. Ecco, ti risparmio l’articolo per intero,
non è altro che un delitto a porta chiusa apparentemente
irrisolvibile … Ma capisci il punto? Ichijouji si è fatto
aiutare da suo fratello. Vuol dire che Ken ha buone capacità
investigative, e che suo fratello lo sa. Vuol dire che potrebbe averlo
contattato ora per la scomparsa di Inoue Miyako, che potrebbe essere
sulle sue tracce! E se lui era in libreria, e mostra interesse verso
Rumiko-san …”
“Tu dici che sa?” Riuscì infine ad articolare lei in un sussurro.
“Io dico che qualcosa si
sta muovendo. E che la cosa non mi piace affatto.” Fu la replica
cupa. “Pensaci. Rumiko-san mi ha detto tempo fa che non si sente
sicura, che si sente spiata. Nello stesso momento compare Ichijouji
Ken. E non è adesso che si sta presentando quest’assurda
storia delle cartoline? Noi due non siamo i soli ad averne ricevuta
una, a proposito. Prova a indovinare chi mi ha contattato oggi!”
“Qualcuno dal passato, dici? Non sarà …” Satsu sussultò. “Motomiya Daisuke?”
“Hai capito al volo.
Vuole parlare con me, e dalla sua agitazione e dal poco che mi ha fatto
capire al telefono credo proprio di sapere quale sarà
l’oggetto della conversazione. Dobbiamo stare attenti,
Satsu-san”, aggiunse Iori, serio come poche volte l’aveva
sentito. “Qualsiasi passo falso potrebbe tradirci, e capovolgere
la nostra situazione a nostro svantaggio.”
Non sai quant’è vero,
pensò Satsu tra sé, e si trattenne a stento dallo
scoppiare a ridere istericamente. “Perciò, cosa, uhm,
pensavi di fare? A parte continuare a pedinare Ichijouji Ken,
intendo”, aggiunse, e questa volta Iori riuscì a ridere un
pochino. “Rumiko-chan dovrebbe conoscere i nostri sospetti o
facciamo di nuovo gli agenti segreti?”
L’altro rimase
silenzioso per un po’. “Non diciamole nulla”, decise
alla fine. “Personalmente non credo affatto nelle coincidenze, in
questo caso, ma lei è già abbastanza spaventata di suo.
Oltretutto sta anche male ultimamente … Vediamocela noi, e se la
situazione si farà critica gliene parleremo.”
Satsu aveva la netta
sensazione che la situazione fosse già critica oltre misura, a
dirla tutta. Bastava pensare a dove fosse Miyako quella sera. Bastava
pensare a dove l’aveva mandata lei quella sera. Deglutì.
“Come vuoi …”
“A proposito, sei riuscita a vederla? Le hai parlato?”
Un miagolio infastidito di
Haku le fece capire che stava stringendo il suo povero gatto troppo
forte. Aprì le braccia, e lasciò che saltasse giù,
stizzito. Quanto a lei, non poté che ridere nervosamente, e
sperare di suonare naturale. “Ah, sì. E credo …
Credo stia decisamente molto meglio adesso.”
Fin troppo, si disse, e prese nota che avrebbe dovuto parlarci ancora, con quell’incosciente.
Iori, del tutto ignaro, decise
di peggiorare le cose. “Grazie. E’ così bello che
Rumiko-san possa sempre contare su un’amica come te, sai sempre
cosa dirle per aiutarla.” Le disse, un tono così dolce che
Satsu avvampò, terribilmente in colpa. Miyako l’avrebbe sicuramente sentita. “Non voglio sapere nulla, basta che lei stia meglio. In fondo sono discorsi tra donne.”
“Già, discorsi
tra donne”, borbottò, per poi sospirare. “Allora ci
risentiamo quando avrai parlato con Daisuke, d’accordo?”
“Naturale. Buona serata, Satsu-san.”
Iori chiuse la comunicazione,
e per qualche istante Satsu rimase con il telefono incollato
all’orecchio, il segnale acustico intermittente a ricordarle che
avrebbe dovuto muoversi a chiudere anche lei.
“Ken. Si chiama Ken.”
“C’è
un certo Ken – di cui non vuoi dirmi il cognome- che ti stressa,
che pare vivere in libreria e per il quale hai sviluppato una sorta di
sentimento di attrazione-repulsione.”
“Che motivo hai di nasconderti, comunque?”
Con un gemito esasperato,
Satsu chiuse il telefono e quasi lo lanciò sul tavolino,
prendendosi la testa tra le mani. Non si poteva mai stare tranquilli
con quella ragazza, neanche quando si trattava di un semplice
appuntamento galante: si poteva essere certi che si sarebbe messa nei
guai, ed eccone la dimostrazione.
Ichijouji Ken. Con tutti i ragazzi che poteva avere, lei si faceva incantare dal fratello di Ichijouji Osamu.
Non era sicura di pentirsi del
tutto del consiglio che le aveva dato il giorno prima – non
avrebbe capito mai perché Miyako si nascondeva come una ladra,
come se avesse commesso lei
le vere azioni deplorevoli-, ma magari sarebbe stato meglio conoscere
la situazione, prima di spingerla tra le braccia del Seduttore
Ichijouji quella sera.
Haku le si strusciò sulle gambe, e Satsu gli lanciò una lunga occhiata.
“Ah, io spero sul serio che Rumiko-chan sappia quello che fa, Haku.”
***
“Tu. Non hai idea. Dell’effetto. Che fai. Sulle donne.”
“Dai, non ti sembra di esagerare adesso? E’ solo una macchina.”
“Solo
una macchina?! Mi vieni a prendere sotto casa come un perfetto
galantuomo, mi apri lo sportello, mi tratti di lusso, e come se non
bastasse mi porti in giro con una signora macchina che sembra una
limousine. Quante donne hai costretto alla morte per sincope senza
neanche accorgertene, Ichijouji Ken?”
Miyako aveva dovuto cambiare idea sulla storia l’amore è istinto,
e molto in fretta, nell’arco di quella giornata. Si era resa
conto che si trattava di una delle sue sciocche convinzioni romantiche
da adolescente, di quelle che andavano bene per rovinarsi la vita, fare
un figlio e abbandonarlo ad un orfanotrofio. Grande guadagno davvero.
No, l’amore non era
istinto, o se non altro non solo. Se lo fosse stato, Miyako avrebbe
disdetto l’appuntamento il momento stesso in cui aveva chiuso la
telefonata con lui, il pomeriggio prima, piena di sensi di colpa, di
ansia e di voglia di nascondersi una volta di più; o poche ore
prima, intenta a guardarsi allo specchio e a prepararsi, pensando che
non avrebbe potuto, dovuto fare una cosa tanto rischiosa; o nel momento
in cui lui era arrivato a prenderla sotto casa sua, pieno di agitazione
e aspettativa, e lei aveva scorto la gioia nei suoi occhi.
Lei invece non aveva disdetto.
Aveva una paura da matti, ce l’aveva anche ora, ma non aveva
disdetto e non voleva andare a casa.
Perciò, era una delle
due cose: l’amore non era istinto, o lei non provava niente del
genere per Ichijouji Ken, ed era solo impazzita.
Ma forse era meglio smetterla
di pensare a cose istintive o meno. Avesse dato ascolto a quello,
osservando Ken dritto davanti a lei, elegantissimo, il viso illuminato
di leggero imbarazzo e gli occhi socchiusi mentre rideva di cuore, e
considerando quanto era maledettamente bello, si sarebbe sporta verso
di lui e lo avrebbe baciato all’istante.
“Lo dirò a Osamu
quando lo vedrò, allora. La macchina è sua, sai.”
Ken le porse il braccio, timido, come se si aspettasse di essere
azzannato. Spalancava gli occhi quando era insicuro, iniziava a notare
Miyako man mano che passava il tempo con lui; lo stava facendo anche
ora.
Gli prese il braccio
allegramente, stringendoglielo un po’ rassicurante. “Il
signor detective fa grandi affari?” Si costrinse a dire, un
sorriso tirato sulle labbra. Aveva fatto le prove a casa, davanti allo
specchio. Aveva detto mille volte il suo nome, cercando di non battere
ciglio: Ichijouji Osamu. Ichijouji Osamu. Ichijouji Osamu.
Il trucco era immaginare di non essere Inoue Miyako, di essere solo
Miyazawa Rumiko, legittimamente curiosa sul fratello del ragazzo del
suo appuntamento. Per uscire con Ken, doveva considerare anche Osamu
nel pacchetto, era inevitabile.
Ken ridacchiò di nuovo,
conducendola su per le scale che li avrebbero portati all’interno
del teatro. “Detta così sembra che si tratti di un
plurimiliardario”, commentò. “La verità
è che ha risolto casi importanti per famiglie importanti. La
macchina è stata un regalo di una famiglia di ricchi ereditieri
dopo che mio fratello li aiutò a recuperare alcuni cimeli di
famiglia rubati. Osamu di solito non ama accettare regali, ma quella
volta mi disse che non gli avevano permesso di rifiutare. E siccome lui
non la usa, beh …”
“… Te l’ha regalata. Però. Che fratello premuroso.” La recita non le stava uscendo tanto male.
Ken fece spallucce,
imbarazzato. “Non … la uso troppo neanche io, a dire il
vero. Stasera è un po’ un’eccezione.”
Arrossì, guardandola di sottecchi. “Volevo fare bella
figura.”
La scalinata era piena di
gente elegante, tacchi alti e lunghi vestiti, smoking scuri e guanti
bianchi, pellicce e borse firmate. Eppure, sotto lo sguardo intenso di
Ken, fu lei, nel suo semplice abito corto scuro e la parrucca
acconciata, a sentirsi la più bella di tutti in quel momento. Fu
come tornare ad essere una ragazzina sciocca – una persona felice.
Varcarono l’ingresso, e
si fermarono davanti ad una maschera in giacca e cravatta, elegante e
professionale. Indicò loro la strada dove avrebbero trovato i
loro posti, augurando loro una buona serata.
“Io volevo fare una figura eccellente,
invece, così mi avresti perdonato eventuali gaffe nel corso
della serata”, ammise con un sorriso birichino. “Non
conosco l’etichetta per concerti di musica classica, sai. Guarda
quanta bella gente! Ma è sempre così?”
“Non sei mai stata ad un
concerto di musica classica?” Le chiese Ken sorpreso, mentre
avanzavano all’interno del teatro. Non era molto grande ma era
decisamente raffinato, un ambiente a due piani con file e file di
poltroncine rosse che scendevano in obliquo verso il centro della sala,
un ampio palco in legno chiuso da spesse tende rosse e orlate
d’oro, che fungeva da sipario. Le luci un po’ soffuse
guidavano gli ospiti della serata mentre, parlando con voce sommessa,
cercavano il posto assegnato loro e si scambiavano strette di mano.
Miyako scosse la testa, e
rise. “No, nel modo più assoluto. Anni fa mi annoiava
terribilmente, non ne ho mai fatto mistero con nessuno, in effetti. Musica è energia, e l’energia non si trova nelle ninnananne,
dicevo.” La nostalgia incrinò un po’ il suo sorriso.
“Ero più tipa da roba techno-pop. Nel tempo libero mi
divertivo a sintetizzare musica elettronica, e il mio sogno più
grande era metter su una band coi miei amici. L’avrò
proposto un sacco di volte, ma niente! Impegni, difficoltà, poco
interesse, che razza di musica ascolti?, bla bla bla … Non se n’è fatto più nulla. Avrò tenuto loro il broncio per settimane.”
Il sollievo fu improvviso,
totalizzante. Erano anni che pensava senza sosta a quei visi un tempo
così familiari; anni che, come in un nastro danneggiato, non
faceva che proiettare scene e dialoghi a ripetizione, spettatrice di
una vita che non le apparteneva più. Ma non aveva mai potuto
parlarne con nessuno, e alla lunga quei volti avevano finito per
diventare fantasmi.
Parlandone con Ken, tornarono
ad avere contorni netti. E sebbene ridar loro vita fosse il minimo che
potesse fare per loro, la sensazione le scaldò il cuore.
Ken si bloccò. “Ninnananne?”
Un’espressione che era un misto tra senso di colpa e rimprovero
apparve sul suo viso. “Ma perché mi hai proposto di venire
qui, se non ti piace? Potevamo andare da qualche altra parte …
Che senso ha annoiarti?”
Lo aveva messo in crisi, e rattristato sul serio, a quanto sembrava.
Miyako lo guardò dritto
negli occhi, e gli sorrise. “Non mi annoio perché non
m’importa nulla della musica classica, né
dell’occasione in sé. Avresti potuto portarmi a
raccogliere fagioli, e io ci sarei stata. Ci tenevo a vedere te.”
Arrossì, lui.
Arrossì come un peperone. “Oh. Ma … ”
Balbettò, come se fosse veramente sconcertato dalla cosa, come
se lui non valesse tanto. “Oh.”
E qualcosa in fondo ai suoi
occhi brillava, in modo intenso – insopportabile. Il cuore di
Miyako prese a martellargli nel petto, doloroso. Un altro frammento delle sue resistenze andò in pezzi.
“E poi”, si
affrettò a smorzare la tensione mentre prendevano finalmente
posto sulle poltroncine rosse, “a te piace, quindi ho deciso di
darle una possibilità. Al massimo me la prenderò con te
per non avermi proposto altro.”
Ken tacque, e le lanciò
uno sguardo di sottecchi. Si schiarì la voce. “A tal
proposito … credo di doverti confessare una cosa, a questo
punto. Credevo non l’avrei rivelato, ma vista la situazione
…” Sembrava imbarazzatissimo, come se dovesse tirar fuori
un importante segreto di stato. Poi si decise, solenne. “Non ho
mai ascoltato musica classica prima di ieri. Cioè. Quello che
intendo è che non ascolto musica, di solito. Mi capita ogni
tanto, ma ammetto la mia totale ignoranza a riguardo.”
Miyako lo fissò a bocca aperta.
“Pensavo che a te
piacesse, così quando sono tornato a casa ieri sera ho cercato
di farmi una cultura almeno su questo pianista. Ho letto la sua
biografia, e ascoltato quante più esibizioni possibile.”
Silenzio.
“Mi sembra …
bravo? Beh, spero che lo sia, insomma. A me non dispiace”,
concluse Ken tutto d’un fiato, e aveva l’espressione
più colpevole di questo mondo.
Miyako scoppiò a ridere forte.
“Allora si può
sapere a chi interessava davvero questo concerto?” Esclamò
tra le risate, e si guadagnò delle occhiate scandalizzate e
offese dagli spettatori impellicciati. Li ignorò completamente.
“Ma scusa, ieri mi hai detto che la musica classica ti piaceva
molto!”
“E’ che mi
vergognavo … Ah, sono uno stupido. Puoi ridere quanto
vuoi.” E rideva anche lui, timido, senza mostrare minimamente di
sentirsi offeso dalle risate di lei. Pareva che fosse autoironico, e
umile.
Le risate di Miyako si
spensero pian piano. “Sì.” Confermò. E la sua
mano si mosse da sola, nella penombra della sala, e strinse quella di
lui. Ken sgranò gli occhi, e smise di ridere anche lui, colto di
sorpresa.
“Sì, sei uno stupido. Lo siamo entrambi.” Gli disse a bassa voce. E non poté smettere di guardarlo.
Lui lesse sicuramente qualcosa
sul suo volto, Miyako non riusciva a nascondere le sue emozioni –
sembrava non avesse più controllo di sé nel modo
più assoluto. Il suo viso cambiò.
Dopo un istante di esitazione,
ricambiò la stretta, gentile. La sua mano era calda. La sua voce
lo fu molto di più.
“Grazie per essere qui stasera, Rumiko-san.” Le disse dolcemente. E le sorrise.
Iniziò a parlarle,
sereno come non lo aveva mai visto, lo sguardo che spesso finiva sulle
loro mani intrecciate, molto più spesso sul suo viso. Le
parlò del pianista, naturalmente –“Dal momento che ne so così tanto”-,
e risero ancora come due sciocchi nel fingere di essere davvero
interessati alle sue tournée in giro per il Giappone, nel
fingersi grandi esperti sulle sue modalità di esecuzione, nel
citare opere a caso che inventavano lì per lì. Miyako
cercò di ricordarsi in ogni momento che avrebbe dovuto sentirsi
a disagio, in allerta, spaventata, ma tutto passava in secondo piano,
tutto tranne il calore che sentiva diffondersi nel petto. Le persone
entravano e uscivano, prendevano posto accanto a loro, ma nessuno dei
due vi fece troppo caso.
Chissà come, saltando
di palo in frasca, finirono anche a parlare delle indagini – e la
mano di Ken le fornì il sostegno necessario per tollerare
l’improvviso battito accelerato. Fu lei a spronarlo a proseguire
il discorso, anche se avrebbe voluto evitarlo, da un lato: si era
accorta con sorpresa che non era solo l’apprensione a spingerla,
che era anche e soprattutto perché aveva notato, dalla sua
espressione improvvisamente incupitasi, che c’era qualcosa che lo
rattristava di quella faccenda. Così si armò di coraggio,
e stette ad ascoltarlo.
Scoprì che non dormiva
più di qualche ora a notte, informandosi quanto poteva sui
trascorsi dei suoi indiziati. Quelle due notti, poi, specialmente. Il
giorno prima dell’appuntamento aveva parlato con Harumi, e lei
gli aveva rivelato della morte di Satoshi. Così lui aveva
cercato di sapere le esatte dinamiche della faccenda.
“Per dirla tutta, il
corpo non fu mai trovato”, le spiegò, raccontando
l’esito degli studi sulla documentazione offertagli da Osamu.
“La casa era a soqquadro, e molti effetti personali, soprattutto
quelli di valore, erano scomparsi, per cui fu pensato ad una rapina.
Ono Satoshi era ricco, abitava in un villino quasi fuori Tokyo, per cui
la cosa sarebbe plausibile … Ma nessun corpo. Sangue sul tappeto
e sulla maniglia della porta, a quanto pare di Ono stesso, ma nessun
corpo. Strana come rapina, non credi? Osamu ha ipotizzato anche un
mercato nero di cadaveri, sai, per la vendita sottobanco di organi. Ma
le ricerche da lui condotte non hanno potuto risalire a quel
ragazzo.”
“Mercato di organi?” Quasi strillò Miyako, schifata. “Che orrore è mai questo?”
Ken le sorrise, amaro. “Lo penso anche io.”
Le spiegò che Satoshi
viveva solo con un maggiordomo, un fidato sottoposto di famiglia, che
si era occupato di crescere il ragazzo quando i genitori erano morti in
un incidente d’auto. Scomparso anche lui. La sua assenza aveva
fatto pensare alla stampa, e all’immaginario collettivo, che
fosse lui l’assassino. Tanto più che la fortuna degli Ono
era sparita con lui, le carte di credito estinte.
“L’ultimo
movimento di cui sappiamo qualcosa è una curiosamente ingente
donazione a favore dell’orfanotrofio Yagami. Poi il vuoto.”
Così adesso le sue
indagini vertevano su più fronti: risalire alla storia
d’amore tra Inoue Miyako e Ono Satoshi, capire il collegamento
Ono- orfanotrofio, e spiegarsi il significato nascosto dietro la
cartolina ricevuta da Harumi. Ma probabilmente la cartolina sarebbe
stato affare prettamente di Osamu, al momento, visto che era una
novità nella sua indagine.
E poi, il tono che abbandonava
la neutralità e si faceva risentito, iniziò a parlare di
Osamu, del suo comportamento “deplorevole”, dello sconcerto
che aveva provato a casa Inori il giorno prima. Si sfogò con lei
su qualsiasi cosa, proprio come aveva fatto nel parco coi ciliegi,
durante loro primo appuntamento, e le sue guance si accesero per la
foga.
“E’ che non lo
capisco proprio, ma se le cose stanno così non so se ci tengo a
capirlo. Non credevo che mio fratello fosse tanto meschino”,
concluse amareggiato.
Miyako non poté trattenersi, e ridacchiò.
Ken la fissò confuso. “Cosa?”
“Oh, scusa, Ken-kun, ma sei buffo.” Si giustificò Miyako, stringendosi nelle spalle.
Questo sembrò farlo imbronciare. “Come, buffo?”
Sembrava un bambino incompreso, e Miyako si ritrovò a sorridergli intenerita.
“Buffo perché ne
stai facendo una tragedia, quando magari non è così
terribile come la vedi tu.” Gli disse schiettamente. “Tuo
fratello ha flirtato un pochino, ma certo la cosa non si è mai
spinta oltre, no? Ichijouji-san non mi sembra proprio il tipo.”
“Vuoi dire che a te non sembra una cosa moralmente scorretta?” Fece incredulo lui.
“Ma non te la
prendere!” Rise Miyako. “Una cosa furba, questo sì.
Tuo fratello ci sa fare.” Cercò di controllare
l’ansia rintracciabile nel suo tono, e si impose di proseguire.
“Lo sai che cosa penso? Penso che tu ci sia rimasto così
male perché ti sei reso conto che non lo conosci quanto
vorresti, e hai paura di sapere che sia una brutta persona,
dopotutto.”
Ken distolse lo sguardo.
“Più che altro non capisco perché manipoli le
persone … come manipola anche me. E non capisco perché io
glielo lasci fare.”
“Perché è
la prima volta che lavorate insieme, no? Me lo hai detto tu
stesso.” Miyako gli strinse più forte la mano,
rassicurante. “Quello che non capisco io, invece, è come speriate di risolvere casi se non sapete nemmeno dirvi che vi stimate a vicenda.”
“Osamu non mi stima affatto”, sorrise Ken disilluso.
“Lo vedi? Non hai capito
un accidente.” Lei sospirò, frustrata. “E secondo te
perché ti mette alla prova continuamente? Vuole vedere come ci
arrivi, perché sa che ci arriverai. Ti stima. E secondo me ti
vuole anche bene quanto tu ne vuoi a lui.”
Sembrò sorprenderlo fortemente.
“Oh, questo proprio
no.” Fece, a disagio. “Sai, io e lui non … Non
abbiamo mai avuto questo gran rapporto. Da bambini forse sì,
però …”
“Anche distanti, i
fratelli sono sempre fratelli.” Lo interruppe lei con passione, e
si accorse troppo tardi che la voce le era tremata. “Per piacere,
parlagli e risolvi al più presto. La fai come se fosse una
condizione definitiva, la vostra mancata comprensione reciproca, ma non
è come se tu non avessi più un fratello. Prima che la
situazione degeneri, parla chiaramente a Osamu e non avere paura.
Promettimelo.”
“Rumiko-san …” Ken sembrava strabiliato. “Che cos’hai?”
E come poteva lei spiegargli
che stava pensando a Momoe, Chizuru e Mantarou con rinnovata nostalgia
e dolore? Che aveva ripensato a quanto avrebbe voluto correre da loro,
sapere che persone erano diventate, far sapere loro il perché di
tutto quello che aveva fatto e quanto era cambiata, chiedere loro
scusa, senza poterlo fare? Scosse la testa, decisa, cercando di non
fargli vedere la sua espressione, ora fin troppo scoperta. “Promettimelo, Ken-kun.”
Un momento di silenzio, quel tanto che bastò perché Miyako recuperasse il controllo di sé.
“Te lo prometto, Rumiko-san”, disse infine Ken.
Miyako tirò un respiro profondo, chiudendo gli occhi per tornare alla normalità. “Bene.”
Poi sentì le dita di
lui sfiorarle il viso, così piano e in modo così esitante
che quasi ebbe la sensazione di esserselo immaginato. Sussultò,
e riaprì gli occhi.
Ken ritirò pronto la
mano, imbarazzato, ma nei suoi occhi non c’era altro che
un’espressione profondamente dispiaciuta.
“Ti chiedo scusa”, le disse. “Ti ho turbata in qualche modo. Non volevo.”
Questo la sconvolse.
Restò a guardarlo, incredula. “Dovrei essere io a
scusarmi, perché sono un disastro e ho reazioni spropositate di
cui non provo neanche a darti spiegazioni”, obiettò, e fu
tentata dal mordersi la lingua subito dopo. Accentuare la stranezza
delle proprie reazioni: la cosa più indicata da fare, senza
dubbio. Stupida, stupida Miyako.
“Non
m’importa”, disse Ken in un sussurro. I suoi occhi avevano
una nota intensa, e Miyako perse il respiro. “Non m’importa
se non vuoi spiegarmi niente, se non puoi persino. Te l’ho
promesso: non farò domande se non vorrai. Era questo il nostro
patto di ieri, ricordi? Ma io …”
Esitò, la sua mano ancora sollevata a mezz’aria. Silenzioso, le chiese il permesso.
Miyako stava zitta. Tremava.
E le dita di Ken le sfiorarono
di nuovo la guancia, più sicure, più dolci. “Ma io
non posso impedirmi di sperare – oso troppo, forse …
chiamami pure arrogante, se vuoi-, che un giorno vorrai parlarmene
… che potrò conoscerti come vorrei. Che potrò
aiutarti come posso. Che me lo concederai.”
Era gentile, capì
Miyako. Era semplice. Era sincero. Era onesto e buono, come lei non
avrebbe mai potuto essere. E nonostante tutto, nonostante gli
innumerevoli impedimenti e paletti che lei poneva in continuazione, lui
sembrava volerla lo stesso. La aspettava e rispettava.
E le chiedeva il permesso per qualcosa che, ora se ne accorgeva, gli aveva accordato da due giorni almeno, ormai.
Lo sentì nuovamente, chiaramente, più forte che mai. Crac. Ogni brandello di resistenza sparì.
Rimasero solo loro due, a
fissarsi turbati come due anime appena incontratesi, senza sapere bene
cosa fare con quel dono improvviso e quasi spaventoso.
Finché le luci non si spensero di colpo, e gli applausi non riempirono la sala.
Ripensandoci più in
là non seppe mai chi dei due fu il primo ad avvicinarsi, chi
iniziò e chi concluse. Nel buio, le loro labbra si cercarono,
cieche al pianista appena salito sul palco, sorde ai primi tasti
accarezzati, incuranti di trovarsi in un luogo così affollato.
Si cercarono, si parlarono, si
dissero tutto quello che non avevano potuto dire a parole: il
significato dietro tutte quelle ore a cercarsi in biblioteca, ad
aspettarsi e non trovarsi, a sfiorarsi e poi scappare, a tornare
indietro nonostante tutto. Per un breve istante, un folle momento, si
persero.
Quando riaprirono gli occhi
nel buio, la musica invase improvvisamente i loro sensi, e seppero
dov’erano finiti. Si guardarono.
Miyako, gli occhi lucidi e le labbra tremanti, disse: “Pare che sia bravo sul serio, questo pianista”.
Ken per un momento
sembrò non sapere di cosa lei stesse parlando. Poi capì:
sorrise, improvvisamente timido. “Sì, lo è.”
I suoi occhi brillavano ancora.
La risata di Miyako
somigliò più a un singhiozzo che ad altro. “Siamo
un pubblico maleducato, non trovi?”
Non poté impedirselo:
posò pian piano il capo sulla spalla di Ken, sentendolo
irrigidirsi appena per la sorpresa, e notando con sollievo che
l’altro non mostrava la minima intenzione di spostarla. Se lo
guardava con attenzione, poteva notare perfino il rossore sul suo viso,
quello che neanche in una situazione del genere voleva saperne di andar
via.
E proprio come poco prima, con le labbra di Ken sulle sue, successe di nuovo.
Lì, nel buio, col cuore
gonfio che batteva quasi dolorosamente contro il suo petto, con
l’odore di Ken ben impresso nelle narici e il contatto
rassicurante della sua spalla contro la guancia, per la prima volta
Miyako si sentì libera dal peso che portava dentro di sé
da anni. E la commozione quasi la stroncò.
Chiuse gli occhi, sorridendo, e rimase ad ascoltare.
***
Takeru non si arrampicava più da una vita, ormai.
Aveva le mani graffiate, gli
abiti pieni di foglie e rametti, ed era lentissimo mentre cercava un
appiglio. Il fatto che fosse sera, poi, assolutamente non aiutava la
sua visibilità. Strizzò gli occhi, fermandosi un momento
per guardare la sua destinazione.
C’era quasi, finalmente. Un altro piccolo sforzo.
Tirò un respiro profondo, facendosi forza. Non tirava neanche troppo vento, nessun ramo si sarebbe mosso troppo.
Poi ricominciò la sua scalata.
Il bambino lo aveva visto da
un secolo, supponeva. Si era girato un attimo, il tempo di sussultare
per l’intrusione, e poi si era voltato nuovamente. Un chiaro
segnale che non aveva alcuna voglia di parlare con lui. Ma Takeru aveva
continuato a salire, stringendo i denti, e così lo aveva
costretto a voltarsi una, due, tre volte, prima infastidito, poi
guardingo, infine semplicemente stupefatto.
Ora lo fissava, seduto su un
ramo più in alto, e i suoi movimenti incerti sul posto
sembravano rivelare fin troppo sul suo stato d’animo. Non sapeva
cosa fare con lui.
All’improvviso,
però, Takeru rischiò di cadere, e si aggrappò
goffamente al ramo che stava cercando di usare come appoggio. Il cuore
prese a battergli rumorosamente, mentre manteneva lo sguardo fisso
davanti a sé, gli occhi sgranati, rifiutandosi categoricamente
di guardare in basso e scoprire quanto fosse salito in alto.
“Non si fa mica così!”, esclamò Keiji, mettendosi in piedi con uno scatto.
Takeru rise, una nota
terrorizzata nella voce. “Un tempo ero … più bravo
a salire sugli alberi. Mi sa che sono troppo vecchio.”
“Un pochino.”
Keiji lo studiò attentamente in tutta la sua lunghezza.
“E’ che sei troppo lungo. E pesante.”
“Nessun problema,
basterà … far piano. Ecco. Tutto a posto.” Si
rimise dritto come poteva, le gambe un po’ tremanti per lo
spavento. Si immaginò visto dall’esterno, e quasi
scoppiò a ridere di nuovo: che magra figura da fare davanti a un
bambino di sette anni. Ma come aveva fatto, alla sua età? Non lo
ricordava un compito così arduo.
Senza perdersi d’animo, si rimise a studiare la fisionomia dei rami, cercando i più sicuri.
“Quello
lì.” Disse all’improvviso Keiji, indicando un ramo
sulla sua destra. Takeru sbatté le palpebre, sorpreso. Il
bambino non lo guardava, sembrava imbarazzato. “Quello ti regge,
secondo me.”
“Ti ringrazio”,
disse Takeru. E aveva ragione: era un ottimo appiglio. Ci si
arrampicò senza troppi problemi, afferrando la corteccia con
tutte le sue forze. Fortunatamente non gli ci volle molto per
raggiungere il bambino: si mise a sedere, tirando un gran sospiro di
sollievo.
Sorrise, con aria di scusa nei
confronti del visino corrucciato di Keiji. “Beh, meno male che
qualcuno che ne capisce di arrampicate c’è, tra
noi”, scherzò.
“Se avevi paura potevi
anche non salire”, rispose l’altro un po’ brusco. Ma
lo studiava, lanciandogli sguardi con la coda dell’occhio.
“Non avevo paura, prima di salire.”
“Ma se tremavi come una foglia!”
“Ma quello è stato dopo.”
Keiji lo fissò. Takeru sorrise di nuovo. “L’importante è essere arrivati, no?”
E ora che ci faceva caso,
finalmente non più appeso a penzoloni su un ramo pericolante,
riusciva a capire il perché della predilezione per quel rifugio.
La vista da lassù era molto bella: si scorgevano le luci dei
grattacieli oltre il cancello dell’orfanotrofio, naturalmente, ma
anche le luci delle finestre dell’orfanotrofio stesso, dalle
quali si intravedeva a volte passare qualcuno, nel continuo viavai che
la gestione dei bambini e della villa richiedeva. Le file ordinate di
alberi del giardino, poi, dalle fronde verdi e ben curate. E i passanti
oltre il cancello, le espressioni stanche degli impiegati che tornavano
a casa dopo il lavoro. Il buio della volta celeste, che celava la vista
delle stelle perché troppo ebbra di luce artificiale.
E c’era silenzio, di quelli un po’ ovattati, di quelli che non mettono mai a disagio.
Takeru si appoggiò contro il tronco, osservando il cielo.
“Lo sai, io ho una nonna
che abita fuori città”, fece di punto in bianco, decidendo
di soprassedere momentaneamente sul fatto che Keiji non avesse voglia
di parlare con lui. “Le notti in campagna, lì, sono
diverse. Ti è mai capitato di vederle? Il cielo è
strapieno di stelle. Io e mio fratello uscivamo spesso di nascosto,
quando era tempo di dormire, e le guardavamo, sdraiati sull’erba.
Cercavamo di contarle con il dito: ci dividevamo le zone, lui contava a
destra, io a sinistra. Ma era difficile: eravamo così
sopraffatti dalla loro numerosità che le nostre dita finivano
per scontrarsi nel mentre, e litigavamo su chi dovesse avere la
precedenza ad annoverare la stella oggetto di discordia nel suo
conteggio.”
Il sorriso di Takeru si fece
un po’ malinconico. Quei giochi avevano perso d’importanza
quando i loro genitori si erano separati. Yamato aveva cominciato a
dirgli che faceva freddo, lì fuori a quell’ora, a
preoccuparsi che lui prendesse un raffreddore; a trovarla una cattiva
idea. Quanto a Takeru, gli mancava così tanto suo fratello che
non avrebbe mai voluto contrariarlo. Si risolse a non fare il bambino
capriccioso, per dimostrargli che era maturo e forte. Smise di
proporglielo.
“Di’, Keiji-chan, hai mai visto una notte così piena di stelle da non poterle contare?”
Keiji rimase zitto per qualche tempo, evidentemente ancora indeciso se parlargli o meno. Infine, scosse la testa.
“E’ un peccato”, rispose Takeru. “Dovremmo rimediare. Un giorno mi piacerebbe farti vedere.”
“Vorrei saper volare.
Così arriverei in alto, molto più in alto di così.
E le vedrei anche io. Le vedrei anche senza andare in campagna.”
Non fu che un mormorio sommesso, affranto, ma lui lo sentì lo stesso. Il suo sorriso scemò.
Non lo aveva mai capito, quel
bambino dai curiosi capelli viola, forse perché non se
n’era mai concessa la possibilità. Non era stato solo il
rifiuto ben evidente di Keiji, suggellato da quel disegno che gli aveva
presentato la prima volta che lo aveva conosciuto, quello che lo
denotava inevitabilmente come Estraneo: era stato anche, e soprattutto,
per la sua stessa codardia. Forse, in definitiva, aveva avuto paura di
essere giudicato da quegli occhi troppo onesti, di sentirsi un ladro e
un parassita come Keiji lo aveva dipinto. E poi, in un certo senso, non
aveva voluto mettere il naso nel rapporto speciale che legava Hikari a
lui, gli era parso quasi indelicato. Si era sentito così tanto
in soggezione che aveva finito per scordarsi che si parlava pur sempre
di un bambino di sette anni, e niente più di quello.
Un bambino di sette anni che
si sforzava di fronteggiare eventi che non capiva, che lo facevano
soffrire, che non desiderava ma che non poteva fermare.
E vederlo così
smarrito, così solo, così impotente, gli toccò
qualche corda dentro di sé, qualcosa che assomigliava fin troppo
a quello che aveva provato quando aveva deciso di scalare
quell’albero per cercarlo.
“Volare in alto sembra
tanto bello, chi non lo desidererebbe? Ma, Keiji-chan,”, fece
delicatamente, attento a non offenderlo. “Io guarderei anche in
basso, oggi, se fossi in te.”
“Cosa c’è in basso?” Keiji si voltò a guardarlo, la fronte aggrottata.
Takeru glielo indicò col dito.
Seminascosta nel buio, poco
più che un’ombra seduta contro il tronco
dell’albero, la sua figura immobile sembrava remota, quasi
impalpabile. Eppure era ancora ferma lì, stringendosi in una
giacca improvvisata, e aspettava.
Sorrise dolcemente, mentre il bambino seguiva la direzione del suo dito, e si immobilizzava.
“Hikari-chan non si
è mossa di lì da quando sei salito su
quest’albero”, gli spiegò. “E non se ne
andrà finché non andrai da lei. Vuole parlarti.”
Lo vide turbato, profondamente.
“E se io non scendessi mai?”
Takeru scrollò le spalle. “Non se ne andrà mai.”
“Ma deve andare a dormire!”
“Anche tu, d’altronde.”
Keiji lo guardò. Fece per replicare qualcosa, forse un’altra risposta provocatoria del tipo Non ho sonno,
ma poi sembrò ripensarci. Tornò ad abbassare lo sguardo:
al ragazzo parve di non averlo mai visto tanto combattuto, e tanto
abbattuto.
Sembrava essere profondamente affezionato a Hikari, almeno quanto Hikari lo era a lui.
Gli mise una mano sulla
spalla, rischiando di essere scacciato. Ma Keiji non si mosse,
così lui gliela strinse un po’, cercando di consolarlo.
“Non pensi che dovresti parlarle? Almeno sapere cosa vuole dirti.” Disse piano.
Keiji si adombrò ancora di più. “Non lo so.”
“Non sai se vuoi parlarle?” Insistette Takeru.
Keiji stette zitto.
“Non ti piace
l’idea della manifestazione di beneficienza?” Tentò
allora. “Perché se non sei d’accordo si può
pensare a qualcos’altro. Taichi-san e Hikari-chan sono stati
chiari a riguardo: dipende da voi …”
“Non è
questo!” Keiji sollevò di scatto la testa,
un’espressione decisa sul volto. “Io voglio farlo.
Farò qualunque cosa, ma non voglio andare via. Voglio restare
qui.” Il bambino gettò uno sguardo alla luna dietro di
lui, tremendamente serio. “E’ qui che la mia mamma mi
verrà a cercare.”
La sua mamma.
Ve lo affido perché possa crescere e vivere, come non ha potuto fare con me.
“E poi qui ci sono
i miei amici. E …” Keiji si interruppe, e di nuovo il suo
sguardo si posò sulla figura immobile di Hikari. Socchiuse gli
occhi, e sembrò disperato. “Non voglio andare via.”
Era un bambino maturo, si
accorse Takeru. Sensibile, ma forte. E il suo dolore lo colpì in
modo singolare, tanto che per qualche istante non seppe cosa dire.
Un’espressione del genere non si addice a un bambino, fu tutto ciò che pensò.
Come, forse, non si addiceva a
quella di Takeru stesso, quando non aveva che sette anni anche lui, e
osservava suo padre e suo fratello andar via di casa con la morte nel
cuore …
Solo allora si accorse di
avere le parole giuste, e quelle parole quasi non aspettarono di
diventare consce prima di lasciare le sue labbra.
“Diglielo”, disse
con passione. Keiji lo guardò: aveva gli occhi sgranati,
smarriti, lucidi. “Dille che vuoi restare qui, che non vuoi
lasciarla. Raccontale cosa significa per te stare in mezzo agli altri,
in mezzo ai ragazzi, e in compagnia di Hikari-chan. E fatti rassicurare
da lei, perché lei ha il potere di impedire tutto questo, se lo
vuoi così disperatamente. Tu non sei impotente: quello che vuoi
conta, e verrà ascoltato. Te lo giuro, Keiji-chan. Verrai
ascoltato.”
E a chi lo stava dicendo davvero? A Keiji? A se stesso?
Aveva poi importanza,
dopotutto? Takeru non temeva più di guardare in faccia se
stesso, e il suo passato. Accettò il dolore di quel bimbo biondo
con gli occhi tristi, e quel dolore era un tutt’uno col dolore
del bimbo seduto di fronte a lui.
Takeru sorrise, e qualcosa
dentro di lui si sciolse, ancora. “Tu non capisci, non è
così? E’ successo tutto così in fretta, quando ti
sembrava che fosse tutto come al solito. E ora sei confuso. Ma guarda,
Hikari-chan ti aspetta. Vuole spiegarti tutto, lo vuole davvero.
E’ più facile se ti dice che succede, non credi?
Così non fa più paura.”
Keiji stava zitto, e sembrava trattenere il pianto.
“Cosa ne dici? Non vuoi parlare con Hikari-chan?” Insistette gentilmente.
“Sì”, sussurrò il piccolo, guardandosi le mani.
“E allora vieni giù. Ti farà stare meglio.”
Calò il silenzio,
mentre una lieve brezza scuoteva dolcemente le fronde del loro albero.
Takeru vide la figura di Hikari, lì in basso, stringersi
maggiormente nella giacca, rabbrividendo.
La stava ancora osservando distratto, quando Keiji si sporse verso di lui, nascondendo il viso contro il suo petto.
Sussultò, colto alla
sprovvista, e si voltò a guardarlo, attento a non fare movimenti
eccessivi per non rischiare di cadere di sotto. Il viso del bambino era
ricoperto di capelli viola che finivano ovunque, scomposti, sui suoi
occhi.
Takeru si rese conto, con stupore e tenerezza, che era stato accettato.
“Mi ci porti a vedere le
stelle, una notte?” Lo sentì dire piano. Sembrava una
supplica, più che una richiesta.
Incredulo, immobile, felice
come non credeva si sarebbe sentito, Takeru annuì.
“E’ una promessa solenne”, rispose. E, cercato il suo
sguardo, gli fece l’occhiolino. “Tra me e te.”
Keiji sorrise. Era la prima volta che gli sorrideva. Gli evidenziava due fossette sulle guance, appena distinguibili.
“E io ti insegno a scalare gli alberi, così non cadi più.”
Takeru rise, imbarazzato. “Mi sa tanto che mi tocca accettare quest’offerta.”
Quando ridiscesero, lo fecero
in silenzio, come custodi di un patto segreto solo loro,
l’espressione solenne come se avessero attraversato fiumi di lava
e draghi sputa fuoco. Keiji fu più rapido di lui, ma ogni tanto
si voltava indietro, accertandosi che il ben più goffo ragazzo
più grande mettesse i piedi al posto giusto.
E quando toccarono terra, Hikari era già in piedi.
Per un momento, non appena i
suoi occhi si posarono su di lei, Takeru provò una stretta al
cuore: così seria, così triste, così ferma, le
parve improvvisamente distante mille miglia, come un’apparizione,
bella in modo doloroso perché intoccabile. Ma poi lei vide
Keiji, e il suo viso riprese vita.
“Keiji-chan”, sussurrò. Un sorriso sollevato e luminoso passò sulle sue labbra.
Keiji non aspettò
altro: si slanciò verso di lei e la strinse forte, come se non
dovesse lasciarla andare mai più.
“Ti voglio bene”,
arrivò la sua voce, soffocata in quell’abbraccio.
“Ti voglio tanto bene, Hikari.”
Le braccia di Hikari
circondarono il suo corpicino, stringendolo a sé con una
dolcezza e una commozione infinita. La vide chiudere gli occhi, e
sorridere, mentre posava un bacio sul capo di Keiji.
“Te ne voglio tanto anche io, Keiji-chan. Non sai quanto.”
E poi Hikari sollevò lo sguardo, solo per un attimo, e incontrò gli occhi di Takeru.
E fu straordinario quanto i suoi occhi color nocciola brillassero, in quel momento. Grazie, sembrarono dirgli.
Ricambiò il sorriso, incapace di parlare, e si riempì gli occhi di quell’immagine.
Lo seppe allora, una certezza
che quasi gli arrivò dall’alto, quasi un imperativo
morale: avrebbe fatto qualsiasi cosa – qualsiasi-, per far
sì che quell’abbraccio non dovesse mai sciogliersi. Mai
per davvero.
Li avrebbe protetti con tutte le sue energie, ci fosse anche voluta una vita intera per farlo.
Riuscire
ad aggiornare questa storia è sempre una grande soddisfazione
:,) Innanzitutto, ben ritrovati! Un anno e passa dopo, ecco il nuovo
capitolo pronto per voi. Non mi sorprenderebbe se a questo punto non vi
ricordaste più neanche la trama xD Avete tutto il diritto di
mandarmi al diavolo, sono un'autrice pessima, ma vi assicuro che la
stesura procede, e questa storia VEDRA' una fine, presto o tardi che
sia.
Angolo curiosità: è vera la storia di Ken che non ascolta
musica. Lo rivela lui stesso nella seconda serie xD questi rewatch
delle puntate sono sempre un toccasana, che devo dirvi ...
Grazie di cuore a chi è arrivato a leggere queste parole, come sempre ^^ al prossimo capitolo!
Padme Undomiel
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Capitolo 27 *** Attori E Spettatori ***
Purity 26
26.
Attori e Spettatori
Il giovane cameriere non vedeva l’ora che quella ragazza se ne andasse.
Sospirò nervosamente,
stringendo tra le mani il conto e dirigendosi con passo quanto
più sicuro possibile verso il tavolino accanto alla finestra.
Gli avevano detto di non mettersi a giudicare la gente che veniva a
mangiare in quel caffè, che il suo compito era servire i clienti
in modo efficiente e farli sentire a loro agio. Gli avevano detto che
non aveva importanza che fossero alti, bassi, belli, brutti, arcigni,
felici, cordiali, riservati: il suo atteggiamento verso i clienti
doveva essere sempre uguale, che li trovasse gradevoli o meno.
Beh … chiaramente non avevano presente lei, quando lo avevano addestrato in quel modo.
Da quando era entrata non
aveva fatto altro che osservare fuori dalla finestra, e tamburellare le
dita sul tavolo in un gesto meccanico. Era rimasta per una ventina di
minuti perfettamente immobile, finché lui non si era avvicinato
per chiederle se aveva intenzione di ordinare. E allora lei, voltandosi
tutta sorpresa –come se fosse una domanda strana, poi: erano in
un caffè!-, aveva risposto: Scegli tu. Scegli un tramezzino qualsiasi, quello che ordineresti tu se avessi fame e poco tempo per mangiare.
E poi si era rimessa a
guardare fuori dalla finestra, e aveva ripreso a tamburellare le dita
sul tavolo. Non si era mai slacciata il cappotto bianco, nonostante il
clima tiepido della mattinata. Non si era mai tolta il cappellino blu
col fiore ornamentale sulla falda, che le nascondeva i capelli,
probabilmente raccolti in qualche modo.
A tramezzino arrivato lo aveva
appena mordicchiato, per poi usarlo come antistress, probabilmente,
visto che aveva preso a sbriciolare la mollica senza un perché
–onestamente, perché fargli spendere tutto quel tempo per
decidere al suo posto, se quello era stato il risultato?-. Di acqua,
invece, ne beveva tantissima, come se fosse reduce da una camminata nel
deserto.
Forse era un po’ matta,
tutto qui. Sperava vivamente non avesse cattive intenzioni piuttosto,
che non nascondesse una pistola in qualche tasca interna del cappotto.
In fin dei conti, quello che voleva sul serio era evitare problemi. E
il conto che teneva tra le mani poteva essere la soluzione alla sua
inquietudine non indifferente.
Perciò, stringendo i
denti, si impose di resistere ancora un pochino. Solo il tempo
necessario per mandarla via con garbo. Magari ottenendo anche una
mancia significativa.
“Prego”, le fece, porgendole il foglietto ripiegato.
La ragazza col cappello blu si
voltò. I suoi occhi castano chiaro sorrisero prima delle sue
labbra, come se lui rappresentasse all’improvviso la persona che
più si vorrebbe incontrare in tutto il mondo.
“Grazie mille! E’
già passato tutto questo tempo, eh? Non me ne sono
accorta”, gli disse leggera, osservando distrattamente
l’orologio al polso.
Per la verità era stato
il cameriere a voler essere più rapido e solerte del solito. Ma
ci teneva a non perdere quel lavoro, per cui tacque, sorridendo
cordialmente e facendo per allontanarsi rispettosamente.
Non gli fu permesso.
“Sarebbe bello restare
qui ancora un po’ ”, commentò ancora la sua cliente,
il sorriso che si faceva un po’ amaro, mentre posava nuovamente
le mani sul tavolo. Se non altro aveva smesso di fare disastri con la
mollica del pane. “Le pause nei caffè sono rassicuranti,
non credi? E’ un po’ come smettere i panni
dell’attore, e guardare un film senza prendervi parte. Sai, per
vedere come sta procedendo. Come procederebbe se tu non avessi alcun
ruolo da giocare.”
Poi lo fissò insistentemente. “Ti capita mai di volerti chiamare fuori dal tuo film?”
E ora perché mettersi a parlare con lui? Sembrava volesse conversare con qualcuno, chiunque, con tutta se stessa.
Il cameriere deglutì, senza sapere cosa dire. “Qualche volta, può darsi …” tergiversò.
“A me non capita spesso.
Solo quando ho paura di interpretare il ruolo principale dopo aver
fatto la comparsa ogni tanto.” Continuò la ragazza a bassa
voce, come se niente fosse.
Ne fu sicuro: quella lì
aveva qualcosa di losco in mente. Il cameriere iniziò a
guardarsi nervosamente attorno, senza farsi notare, alla ricerca di man
forte. Ma i suoi colleghi sembravano tutti impegnati …
“Ma non ci si può
far niente, non è così? In fondo potevo sempre rifiutare
la parte. E invece ho accettato. Perciò è colpa mia se
ora sono agitata.” La ragazza dal cappellino blu rise, tirando
fuori le banconote e ponendole sul tavolo accanto al conto. Poi si
alzò in piedi, un sorriso largo sulle labbra, e afferrò
la sacca che aveva posato sulla sedia di fronte alla sua. “Bene,
arrivederci, e grazie della chiacchierata!”
Chiacchierata? Chi mai aveva parlato, a parte lei?
La guardò voltarsi, la
guardò avviarsi verso la porta, e questo significava solo che
lui avrebbe potuto smettere di essere sull’attenti, finalmente;
che avrebbe potuto occuparsi di clienti più trasparenti, o
perlomeno che si facevano i fatti loro se volevano essere strani. Tanto
non l’avrebbe rivista mai più …
“Non si è neanche tolta il cappellino.”
E invece parlò, senza
volerlo, senza neanche essere discreto abbastanza da dirlo a bassa
voce. Difatti la ragazza lo sentì, e si voltò, sorpresa.
Il cameriere arrossì furiosamente, e desiderò essersi morso la lingua. Se ne stava andando! Perché non l’ho lasciata andare?
La ragazza rise, incerta.
“Già. Non l’ho fatto.” Disse. Nei suoi occhi
passò un lampo di paura, gli parve all’improvviso: ma non
poteva essere così, che motivo aveva per avere paura?
La vide tirare un sospiro,
sorridere, portarsi le mani alla falda del cappello. Con un movimento
deciso, tirò verso l’alto.
Aveva i capelli lunghi,
dopotutto, ed erano davvero tenuti fermi da un fermaglio: lei
armeggiò un po’ per toglierlo, ma non le ci vollero che
pochi istanti. I capelli, liberi, le ricaddero sulle spalle, e furono
una cascata di lisci capelli viola.
La ragazza se li
riassettò, le mani un po’ tremanti, e fece spallucce.
“Così direi che va meglio. No?”
Non attese risposta.
Stringendo le mani a pugno, si voltò di nuovo e uscì. Il
vento le schiaffeggiò il viso non appena mise piede fuori dal
caffè, e i capelli le volarono dappertutto, scomposti. Non si
guardò indietro nel richiudere la porta.
Il cameriere rimase immobile al centro della sala, come istupidito.
Ne era sicuro. Si era perso qualche passaggio, durante quella conversazione.
Quella ragazza l’aveva
guardato come se rivelargli i suoi capelli fosse stato un gesto di
chissà quale importanza. Come se le fosse costato fatica.
E lui aveva la spiacevole
sensazione di dover ricordare qualcosa, qualcosa che avrebbe dovuto
sapere molto bene magari, senza riuscire a farlo, nonostante ci si
stesse impegnando con tutte le sue forze. Ed era qualcosa che
c’entrava sicuramente con la figura quasi evanescente della
ragazza dal cappellino blu …
Ma era poi importante? Il cameriere scosse il capo, dandosi dello stupido e chinandosi a raccogliere il conto.
Alla fine ebbe a rallegrarsi della sua strana presenza: se non altro gli aveva lasciato una lauta mancia.
***
“Pragmaticamente
parlando è un po’ assurdo definire tutto questo come il
miracolo che stavamo aspettando, credo tu lo sappia.”
Se ne stavano seduti sul
gradino di fronte alla porta d’entrata della villa, osservando
distrattamente Hikari e Takeru, in piedi di fronte ad un gran numero di
bambini a bocca aperta, mentre spiegavano al loro pubblico quello che
avrebbero dovuto fare.
“Vedete questa cassetta
di legno? Serve a raccogliere le vostre idee sulla manifestazione di
beneficienza”, stava dicendo Hikari allegramente. “Prendete
un foglio di carta e scrivete quello che vorreste fare. Qualsiasi cosa.
Teatrini, giochi, disegni, canzoni, bancarelle … poi noi
leggeremo i vostri bigliettini e vedremo di accontentarvi tutti!”
“Oh, solo un secondo.
Quanti di voi sanno scrivere?” Intervenne Takeru colto da
un’illuminazione. Alla vista di diverse mani rimaste abbassate,
si mise una mano dietro il collo, pensieroso. “Bene, allora
abbiamo fatto bene a parlarne … Facciamo così. Chiunque
non sappia scrivere, si faccia aiutare da chi sa farlo. Anche da noi,
se vi va!”
“Mmm, pare che il numero
di bambini con età adatta per leggere e scrivere stia crescendo.
Dovremmo aggiungerne un altro po’ alle nostre sessioni di
studio”, commentò Taichi, cominciando a fare mentalmente
il calcolo per il numero esatto da considerare in quel gruppetto.
Koushiro, seduto alla sua
sinistra, si voltò a guardarlo, sorpreso di essere stato
interrotto con un discorso totalmente diverso da quello che aveva
iniziato. “Lascia stare l’istruzione, per il
momento”, esclamò. “Abbiamo cose più urgenti
a cui pensare.”
“Ma sì, ma
sì.” Taichi sorrise. “Lo so benissimo che non sei
tanto d’accordo con l’idea di Takeru.”
“Non è più
idea solo di Takaishi-kun ormai, dal momento che l’abbiamo
accettata tutti”, intervenne Sora, seduta alla sua destra. Lo
guardò appena, con un mezzo sorriso sulle labbra. “Tu,
poi, soprattutto.”
“Che volete farci? Penso sia buona.” Taichi si strinse nelle spalle. “Sicuramente innovativa.”
“Naturalmente, ma
considerando accuratamente la situazione non è tutto rose e
fiori.” Koushiro sospirò, serio. “Dall’ultima
riunione che abbiamo avuto in merito abbiamo sicuramente aumentato gli
introiti, e su questo non c’è dubbio. I nostri lavoretti
part-time stanno fruttando qualcosa, sebbene ci costringano a ritmi
nettamente più serrati. Ma penso sarete entrambi d’accordo
sul fatto che non ci rendono certo ricchi. Riceviamo donazioni,
naturalmente, ma come saprete non fanno la differenza come vorremmo.
Già così, rischiamo di chiudere in ogni momento.
Consideriamo adesso i costi aggiuntivi della manifestazione di
beneficenza.” Li contò con la mano, sollevandola per bene
perché sia Taichi che Sora potessero vederla. “Numero uno:
la pubblicità. Avremo bisogno di una qualche sorta di
volantinaggio, perché altrimenti alla manifestazione non
verrà proprio nessuno. Numero due: l’allestimento in
sé. Anche se sarà quanto più possibile semplice,
dobbiamo garantire un bell’evento, e questo richiede strutture
funzionanti, cibo e bevande, e quanto occorrerà per gli
intrattenimenti che decideremo di metter su. Numero tre, il più
importante: se non verrà nessuno, o quasi, perderemo tutto senza
neanche guadagnarci …”
“Pensavo avresti tirato
fuori anche la storia dello sfruttamento di minori”,
ghignò Taichi dandogli una piccola spintarella bonaria.
Koushiro sorrise, imbarazzato.
“Ammetterai che il modo in cui Takaishi-kun aveva posto la
questione lasciasse adito a molti dubbi”, si giustificò.
“E comunque no, su questo sono tranquillo. Altrimenti avrei
bocciato il progetto su due piedi.”
“Però non
capisco. Se non sei d’accordo perché hai accettato,
Koushiro-kun?” Gli chiese Sora, osservandolo curiosa. “Ti
sei sempre espresso liberamente, non vedo perché stavolta non
avremmo dovuto ascoltarti.”
Koushiro rimase silenzioso per qualche momento, riflettendo tra sé.
“Io non sono
contrario”, sentenziò alla fine. “E’ solo che
penso che i nostri vantaggi siano limitati anche così. Forse
qualcosa si potrà ottenere, ma quanto davvero ci
guadagnerà l’orfanotrofio da quest’impresa?”
Poi guardò Taichi, le sopracciglia aggrottate. “In
realtà vorrei conoscere il tuo parere, Taichi-san, visto che sei
stato tu, a parte Hikari-san e naturalmente Takaishi-kun, ad appoggiare
la cosa con più entusiasmo di tutti.”
Lo fissava attentamente, ed era di nuovo quell’espressione,
quella che tendevano a fare un po’ tutti quando si trattava di
prendere una decisione. Taichi si fece improvvisamente serio.
Non aveva mai capito per quale
motivo, ma sembrava che la sua opinione avesse un potere decisivo nel
chiudere le discussioni. Sembravano dargli tutti retta, decisamente
troppo per quello che valeva.
Taichi se n’era sentito imbarazzato, le prime volte. “Ma sono uno squinternato! Come fate a fidarvi delle decisioni di uno squinternato?”
“E’ che lo squinternato finisce per risolvere i problemi, che tutti ci crediamo o no”, era stata la risposta sorridente di qualcuno. Poteva essere stata Sora.
Sora lo guardava anche ora, a
dirla tutta, seria e pensierosa, il mento poggiato sulle ginocchia
ripiegate. Taichi incrociò il suo sguardo, e seppe che anche lei
aspettava una risposta.
Si era ormai abituato alla
fiducia che i ragazzi riponevano in lui, anzi: aveva finito per
sentirsene orgoglioso. Così era solo naturale fare il possibile
perché quella fiducia non crollasse mai.
Tornò ad osservare i
bambini discutere concitatamente nel prato, mentre Hikari e Takeru un
po’ in disparte si scambiavano un sorriso complice.
“Ebbene, il sistema
è difettoso e da qualche parte bisognerà pure
intervenire”, disse infine. “Altri volontari al momento non
ne abbiamo, guadagni neanche a parlarne. L’unica che ci resta
è la pubblicità. Se interveniamo su quella, magari
volontari e guadagni seguiranno con facilità. Senza contare che
ho ancora un padre che ci aiuta come può: del volantinaggio si
è offerto di occuparsene lui.”
“Gentile da parte sua”, rispose Koushiro sorpreso, e sollevato.
Taichi gli sorrise ancora. “I tuoi ingranaggi hanno smesso di lavorare senza posa adesso, Koushiro?”
“No.” Rispose
sereno l’altro, mettendosi in piedi e battendogli una mano sulla
spalla a mo’ di saluto. “Però ognuno di loro spera
con tutto il cuore che tu abbia ragione.”
Si allontanò, avvicinandosi invece a Hikari e Takeru e discutendo con loro di chissà cosa.
Rimase solo Sora con lui, ed
entrambi stettero in silenzio per qualche secondo, godendosi la brezza
primaverile che delicatamente accarezzava il loro viso.
“E il tuo parere,
Sora?” Esordì infine Taichi. “Credi che stiamo
facendo una sciocchezza? Non ti sei espressa chiaramente da quando
abbiamo avviato il progetto.”
“Perché non so
neanche io cosa pensare con esattezza.” Rispose Sora, lo sguardo
ancora fisso sui ragazzi più giovani. Era difficile decifrare le
emozioni sul suo viso. “Ci avete colti alla sprovvista, ieri. Un
attimo prima Hikari-chan ci comunica che Takaishi-kun si unirà a
noi nella gestione dell’orfanotrofio, un attimo dopo uscite fuori
dallo studio dichiarando che, cito testualmente,: Abbiamo trovato un’idea per salvare questo posto! Hai quasi fatto uscire Mimi-chan dai gangheri, dice che siete troppo teatrali per i suoi gusti.”
Taichi scoppiò a ridere. “Lei dà a noi dei teatrali?!”
“Beh, lo sai che non le
piace quando viene estromessa dalle decisioni importanti.” Sora
ridacchiò a sua volta, ma la risata fu breve. “Però
non posso dire di non capirla. In fondo siamo rimasti tutti un
po’ spiazzati.”
L’improvvisa
serietà di Sora lo allarmò. “Ehi … ti sei
offesa? Mi dispiace”, si affrettò a dire, lanciandole
un’occhiata preoccupata. “Non era nostra intenzione farvi
sentire esclusi. E’ solo che l’idea ci è venuta sul
momento, e c’eravamo solo noi in studio.”
Sora si voltò,
sorpresa. “Non sono arrabbiata”, gli rispose. Poi sorrise.
“Ormai sono abituata alla tua mancanza di preavviso. Se dovessi
arrabbiarmi tutte le volte, non la finiremmo mai di discutere.”
“Le volte in cui ti
arrabbi sono perfettamente sufficienti, grazie per il tuo
autocontrollo”, scherzò il ragazzo.
Sora alzò gli occhi al cielo, scuotendo il capo, ma sembrava divertita.
“E poi guarda
com’è felice Hikari-chan. Lei non aspettava altro che
Takaishi-kun le desse prova di quanto valesse”, continuò
poi, indicandogliela con un cenno del capo. “Figurarsi ora che sa
che si prenderà cura dei bambini anche lui.”
Lo sguardo di Taichi
volò al viso illuminato della sorella, un sorriso dolce mentre
parlava sottovoce a Takeru, rivelandogli chissà quale segreto.
Sembravano affiatati. Anche troppo affiatati, in effetti.
Fece un gran sospiro, un po’ insofferente. “Tu dici che a mia sorella piace Takeru? Dico, in quel senso?”
Sora sollevò entrambe
le sopracciglia in un'espressione eloquente. “Dico che non hai
bisogno che io ti risponda nulla.”
Per l’appunto. Non che
ci volesse chissà quale osservatore per rendersene conto. Taichi
si ricordava bene l’espressione di Hikari quando Takeru era
partito per andare a incontrare suo fratello a Osaka, i suoi silenzi
assorti e le sue lacrime improvvise. Ricordava quanto gli era parsa
fragile, quando aveva pensato che lui sarebbe andato via da lei. E ora
solo uno sciocco poteva ignorare l’espressione che gli lanciava
ogni volta che lui non la guardava: era come se lui fosse diventato il
suo centro gravitazionale.
Per non parlare delle
espressioni che le lanciava Takeru, e della mano che tanto spesso
stringeva quella di lei, e di quei sorrisi rapiti …
“Taichi. Non fare quella faccia.”
“Quale faccia?” Rispose Taichi troppo in fretta, continuando ad osservare i ragazzi.
“La faccia da fratellone
geloso.” Lo prese in giro Sora. “Guarda che Hikari-chan
è grande abbastanza per pensare a queste cose. Anzi, a dirla
tutta ha aspettato anche troppo.”
Ed ecco la voce della
verità. Peccato che, in fondo in fondo, lui non riuscisse ancora
a digerirla come voleva. Fece un altro sospirone, scompigliandosi i
capelli già sufficientemente arruffati.
“E’ più
forte di me! Continuo a vedere Hikari come la mia sorellina piccola, ed
è difficilissimo non continuare a proteggerla anche in campo
sentimentale”, si lamentò sincero. “Non gli lascerei
campo libero, comunque, se non mi ispirasse simpatia. Mi sembra un
bravo ragazzo. Spero solo non faccia nulla per dimostrarmi il
contrario.”
“Ora sei passato alle
minacce?” Sora ridacchiò. “Stai tranquillo, lo sai
che tua sorella è una tipa con la testa a posto. E’
più matura di tutti noi messi insieme, probabilmente.”
Taichi osservò Hikari
ridere di cuore, il viso arrossato e una mano sulla bocca, e sorrise.
“Su questo non ho mai avuto dubbi.”
Era tanto tempo che non la
vedeva ridere così, ora che ci pensava. Da prima ancora che
Takeru partisse per Osaka. Da prima ancora che lei lo conoscesse.
Erano mesi, ormai, che non rideva più.
“L’ho fatto anche
per lei, sai”, confessò all’improvviso, quasi senza
volerlo. Sora si voltò a guardarlo. “Ma non solo per lei,
in effetti. Per tutti noi. Mi ci ha fatto pensare guardare
l’espressione di Keiji ieri, quando ha capito che questo posto
rischia di chiudere: aveva voglia di piangere, ma non ha pianto. Invece
voleva battersi per fare la differenza, per cambiare le cose. Ha detto Non m’importa niente, ma non voglio andarmene. Ecco … ho solo pensato che, questa frase, ci siamo un po’ disabituati a dirla, non credi?”
Taichi percorse con lo sguardo
il pallore stanco di Sora, le sue mani piene di calli da lavoro, la sua
sempre più accentuata magrezza, e le sorrise. “Abbiamo
solo bisogno di scommetterci un po’ di più. Di crederci,
un po’ di più. Dovremmo fare come ha fatto Keiji ieri,
come hanno fatto gli altri bambini ieri. Ce la possiamo fare, Sora.
Forse quest’iniziativa, anche se non porterà a nessun
miracolo, ci renderà più uniti, più fiduciosi e
più battaglieri. E questo potrebbe fare la differenza, no?”
E in fondo si implicava anche
lui in quel discorso, e non era solo Sora che cercava di convincere.
Perché aveva aperto gli occhi all’improvviso, e si era
reso conto che si stavano trasformando in tanti automi. Tutti loro.
Lavoravano costantemente,
senza concedersi tregua, e tanto spesso Taichi stesso crollava
addormentato sulla sedia senza avere neanche la forza di cambiarsi per
la notte: ogni giorno le fratture nel sistema si facevano più
profonde, più accentuate, più angoscianti. E qualche
volta Taichi dubitava, lontano dagli sguardi dei ragazzi e dei bambini
che non voleva deludere, e si chiedeva quanto ancora avrebbero retto,
quanto ancora avrebbero tenuto a bada il pensiero scomodo della fine
imminente di quell’orfanotrofio. Qualche volta Taichi si recava
di nascosto al cimitero, a chiedere scusa a sua madre perché non
stavano facendo abbastanza. Qualche volta Taichi, che era il primo a
rasserenare gli animi quando si accorgeva di un sospiro di troppo,
avrebbe dato chissà cosa perché qualcuno rassicurasse
lui, anche se non se lo sarebbe mai perdonato.
Prima che potesse rendersene
conto, il loro era diventato nient’altro che un compulsivo
affannarsi per non restare con le mani in mano.
Avevano smesso di credere nel
sogno di Yagami Yuuko, in fin dei conti. Proprio quello che avevano
giurato non sarebbe mai successo, qualunque cosa fosse accaduta.
Se Takaishi Takeru era
riuscito a interrompere quel loop infinito destinato al disastro, a che
pro non approfittarne per rimediare, ora, quando erano ancora in tempo?
Forse c’era bisogno proprio di un occhio esterno per far
capire loro quanto avevano rischiato, quanto stavano rischiando ancora
adesso.
Yagami Taichi aveva deciso di
combattere, come prima, più forte di prima. E di smettere di
abituarsi alla visione dei suoi amici, di sua sorella, distrutti dalle
fatiche e dalla disperazione: era sicuro che non avrebbe retto
quell’immagine un secondo di più.
Tutte queste riflessioni,
comunque, persero d’importanza in un attimo, perché Sora
gli diede un bacio su una guancia.
Taichi sussultò, colto alla sprovvista, e si voltò di colpo.
Sora aveva il viso rosso, gli
occhi bassi, ma sorrideva tanto –troppo-, in un modo che non
ricordava le avesse mai visto fare in tutti quegli anni di amicizia.
“E’ bello che tu sia ancora qui a ricordarcelo.”
Disse soltanto.
Taichi si rese conto
all’improvviso che erano stati soli tutto quel tempo, che avevano
avuto una conversazione normale, che Sora non sembrava arrabbiata
–Sora non aveva cercato di fuggire, in effetti: era rimasta
accanto a lui ... molto vicina a lui.
Questi pensieri si mescolarono
confusamente al ricordo del sorriso di Sora, e Taichi fu sommerso da
un’ondata di imbarazzo che non seppe spiegarsi, ma che gli
azzerò la capacità di parlare.
Nel mentre, del tutto ignara,
Sora si stava mettendo in piedi, togliendosi la polvere dai pantaloni e
stiracchiandosi un po’. “Sarà meglio che vada, Jyou
ha bisogno di una mano a raccogliere i giocattoli rotti. Se ci sono
novità sul progetto-manifestazione di beneficienza, fammi sapere
quanto prima. Passi una volta, ma non voglio altre sorprese,
intesi?”
Taichi tentò invano di
dire qualcosa, aprendo e chiudendo la bocca come un pesce rosso. Sora
gli lanciò un’occhiata, perplessa, ma poi sembrò
accontentarsi della certezza che lui avesse colto il messaggio. Lo
salutò con la mano e si voltò per andarsene.
Ma perché non ci aveva
pensato prima?, si chiedeva Taichi freneticamente, osservandola
allontanarsi. Avrebbe potuto parlarle, come gli aveva consigliato
Hikari! Avrebbe potuto chiederle se ce l’aveva con lui per
qualche motivo … Non poteva aver sprecato così
quell’occasione, vero?
Non poteva recuperare ora?
Prese coraggio, un gran respiro, e chiuse gli occhi. “Sora!” La richiamò a voce alta.
Lei si voltò. “Che c’è?”
Si sentiva determinato, poco
prima che lei si girasse. Si sentiva pronto a mettere le cose in
chiaro, di qualunque cosa si trattasse, poi. Non aveva messo in conto
che tutta la sua sicurezza sarebbe svanita in un attimo, soltanto
incontrando gli occhi perplessi di Sora.
“Ecco …”
Terribilmente impacciato, probabilmente anche rosso in viso, Taichi si
risolse a dire la prima cosa che gli passò per la testa.
“Quindi oggi non puzzo?”
Sora batté le palpebre.
Taichi passò cinque secondi a pensare al metodo più efficace per far finta di non aver parlato.
Finché Sora non
scoppiò a ridere, una strana espressione di imbarazzo e
tenerezza che le addolcì il viso. “Scemo”, fu tutto
quello che disse. E si allontanò.
Rimasto solo, Taichi non poté che concordare con quell’appellativo.
Era proprio scemo, decise.
***
“E’ un posto bizzarro dove incontrarsi.”
“Ehi, preferivi forse casa tua? Non ti ricordavo così ingrato.”
“Non è questo. E’ che non ti ricordavo in possesso di un garage.”
Si guardava intorno, le
braccia rigide lungo i fianchi, vagamente a disagio nel notare il
disordine sul pavimento, negli scaffali, dietro la moto lì
parcheggiata. Sicuramente casa sua continuava ad essere pulita e
ordinata come lui la ricordava da sempre, ma anche in mezzo a quel caos
infinito non fece commenti, non si lamentò di nulla.
Non era cambiato affatto.
Motomiya Daisuke aveva
trascorso tutta la mattinata pensando di essere preparato per
quell’incontro, se n’era sentito impaziente persino. Solo
ora si rendeva conto che non era preparato, neanche un po’.
Rivedere Hida Iori dopo tutti
quegli anni lo turbava più di quanto volesse ammettere. Gli
ricordava troppe cose – e lui non voleva ricordare.
“Il garage non è
mio”, gli spiegò. “Un mio amico me l’ha messo
a disposizione, dice che possiamo farci quello che vogliamo a patto che
glielo lasciamo esattamente come lo abbiamo trovato …”
“Ti puoi fidare di
questo amico?” Iori gli lanciò un’occhiata
penetrante, improvvisamente guardingo, e Daisuke si irrigidì.
Anche il suo sguardo era rimasto lo stesso: era ancora capace di farlo sentire il più stupido essere al mondo.
Sbuffò, contrariato,
appoggiandosi contro il muro con le braccia conserte. “Ci
mancherebbe altro. Con chi credi di stare a parlare, Iori?” Gli
disse, sfidandolo. “Non sa nulla dei nostri contatti, dubito che
sappia persino del mio coinvolgimento nella storia di Miyako. Siamo a
prova di spia, sei contento?”
“… Non volevo offenderti, ti chiedo scusa. Temo di essere troppo in allerta, da qualche anno a questa parte.”
Daisuke si zittì, colto
di sorpresa. Si era così abituato all’idea di un Iori
iperserio e giudicante che il vederlo ora così mortificato,
sentirlo chiedere scusa –a lui!-, aveva un che di paradossale.
Forse, dopotutto, un po’
era cambiato. Come era cambiato anche Daisuke. Otto anni avevano
lasciato il loro segno, visibile o no che fosse a occhio esterno.
Tirò un gran sospiro,
costringendosi a calmarsi. “Non dirlo a me … sono nervoso
anche io.” Si scusò anche lui indirettamente, studiandolo
di sottecchi. “Diciamo che le circostanze sono sempre più
incasinate, come se non bastasse il fatto che non ci vediamo da un
sacco di tempo.”
“Non hai tutti i torti.” Iori gli sorrise, pacato. “Come stai, Daisuke-san?”
Erano due giorni che
riguardava quella stupida cartolina, due giorni che aveva una voglia
incredibile di prendere a pugni qualcuno –chiunque. Due giorni
che non faceva che ripensare al passato, a lei, a tutto quello che era
andato storto, alla sua vita disastrata da quel momento in poi. Due
giorni che fumava una sigaretta dopo l’altra, che beveva come se
non ci fosse un domani, che si risvegliava coi postumi, per poi
riprendere quella cartolina e ricominciare tutto daccapo.
La risposta giusta alla domanda di Iori era: Uno schifo. Era uno schifo già soltanto se si parlava degli ultimi due giorni, figurarsi degli ultimi otto anni.
Ma Daisuke non voleva lamentarsi. Voleva risposte.
Così preferì
soprassedere, frugandosi invece nelle tasche per tirare fuori
quell’oggetto incriminato che lo stava tormentando da giorni. Lo
porse al ragazzo più giovane.
“Come qualcuno che non ci capisce niente. Ecco la mia cartolina. Viene da Vienna.”
Il sorriso dalle labbra di
Iori sparì nel momento in cui posò lo sguardo sulla
cartolina. Terribilmente serio, tese una mano e la prese, abbassando in
fretta gli occhi per scoprirne il suo contenuto.
Daisuke lo fissò per tutto il tempo che ci volle perché le parole scritte con quella
grafia, quella che non avrebbe mai confuso con nessun’altra,
fossero recepite dal suo silenzioso interlocutore. Stava cercando una
traccia, una qualsiasi, di sconcerto o turbamento, che potesse essere
simile alla sua reazione quando l’aveva ricevuta –simile al
tumulto confuso nel riconoscere la voce adolescenziale della sua amica
in quelle parole, simile alla rabbia intensa che lo aveva quasi indotto
a strappare la cartolina in mille pezzi, e in mille pezzi ancora i
mille pezzi rimasti, simile al cupo senso di impotenza che lo aveva
gettato nuovamente nello sconforto. Ma non lesse nulla di tutto questo
nel viso immobile di Iori.
Cercò di dire a se
stesso che, d’altra parte, non c’era da stupirsene: Iori
era sempre stato così trattenuto, così controllato,
così … padrone di sé al punto da essere
stranamente rigido persino da ragazzo. Era una di quelle cose che
Daisuke gli aveva sempre rimproverato, sempre. Era uno di quei motivi
per cui loro due non si erano mai capiti del tutto …
Ma poi Iori annuì tra
sé, incupendosi, come se possedesse la chiave di tutto quel
mistero. E Daisuke ebbe l’improvvisa certezza che i suoi sospetti
erano sempre stati fondati, fin dall’inizio.
Il sangue gli andò alla
testa. “Così tu sai tutto, vero?” Scattò.
“Come fai a saperlo? Miyako ti ha contattato? Da quanto vi
parlate? Perché io non so niente?”
“Daisuke-san, abbassa la
voce, e calmati.” Fu tutto ciò che Iori ebbe il coraggio
di rispondere, guardandosi intorno allarmato.
“No che non mi
calmo!” La voce di Daisuke crebbe di intensità,
incontrollata. Fece un passo avanti senza volerlo. “Sono
arcistufo di questi complotti! Ma cosa significa? Solo perché
l’hai conosciuta prima di me sei più degno di sapere che
combina, cosa vuole? Se sta bene?
Non avrò anche io il diritto di essere messo al corrente, dal
momento che in qualche modo sono comunque messo in mezzo?”
“Daisuke-san …”
“Che poi, perché
Vienna? Che ci fa Miyako a Vienna? E perché scrivermi cose che
non sembrano nemmeno indirizzate a me? Sembra un passo del suo stupido
diario segreto! E io che me ne faccio? Vuole forse accertarsi di essere
ancora sulla bocca di tutti? Vuole … vuole torturarci ancora per molto?”
“Vuoi starmi a sentire oppure no?” Esplose Iori alla fine, perdendo le staffe.
Daisuke, il fiato corto per lo sfogo di poco prima e l’animo di nuovo in subbuglio per colpa di quella maledetta egoista, si interruppe. Fissò Iori, lo sguardo torvo, mentre l’altro si ricomponeva tirando un gran sospiro.
“Non ti è venuto in mente che a scrivere potesse non essere Miyako-san?” Gli disse infine.
Daisuke rimase di sasso. “Che vuoi dire?”
“Guarda. Credo che tu
non abbia fatto caso alla data di produzione di questa cartolina.
Recita 1988.” Gliela mostrò, fissandolo eloquente,
finché Daisuke, il cuore martellante in petto, non si
avvicinò per dare un’occhiata. “Miyako-san non ha
mai collezionato cartoline d’epoca, tanto meno le verrebbe in
mente di diffondere il suo diario segreto in giro per tutti i suoi
vecchi contatti.”
Daisuke si sentiva la lingua incollata al palato. “Ma la grafia … Questa è la sua grafia …”
“Miyako-san non vuole farsi trovare. Tu questo certamente lo immagini.”
Si sentì stupido,
tanto, troppo. Non tanto per il non essersi accorto della data di
produzione –quella solo un tipo pignolo come Iori poteva notarla,
andiamo- , e nemmeno per aver tratto conclusioni affrettate prima di
averci riflettuto su un attimo.
Si sentì stupido
perché, malgrado la rabbia e l’impotenza, aveva sperato
con tutto il cuore che Miyako stesse cercando di mettersi in contatto
con loro –lui.
Il sapore della delusione superò persino lo schifo degli ultimi due giorni.
“Ora ti spiego quello
che so”, continuò Iori a bassa voce, incurante del suo
umore. “Io e Satsu-san almeno, oltre a te, abbiamo ricevuto una
cartolina simile. Quella di Satsu-san veniva da Praga, ed era datata
1951. La mia veniva da Bruxelles, datata 1966. Non so chi altro
l’abbia ricevuta, io e Satsu-san stiamo cercando il modo di
indagare e scoprirlo. E forse ne abbiamo ideato uno.”
Perciò lui e Satsu
erano ancora in contatto. Visto quanto Iori le moriva dietro anni
prima, probabilmente erano anche finiti a convivere. La cosa non
l’avrebbe sorpreso più di tanto.
“Sia la mia che la sua
riportavano, come la tua, una parte di diario personale. E, esattamente
come la tua, nessuna delle nostre cartoline parlava del destinatario.
Eccole qui, puoi confrontarle se vuoi.”
Daisuke non se lo fece
ripetere due volte. Afferrò le cartoline che Iori gli porgeva,
stavolta ben deciso a non farsi sfuggire nulla, a non farsi considerare
uno sprovveduto per nulla al mondo.
Erano scritte con la stessa
grafia, la stessa maledetta grafia che non poteva non essere di Miyako
… eppure pareva non fosse lei. E toccava fidarsi di Iori.
Quella di Praga recitava così:
Iori-kun non
approverà mai il fatto che io abbia deciso di scappare, lo so.
Ma che posso farci? Devo andar via comunque, non c’è
scelta. A costo di mettermi contro il mio migliore amico. Spero solo
che non cerchi di fermarmi, perché io non posso farlo. Forse
perderò la sua stima … forse non mi perdonerà mai.
Quella di Bruxelles invece riportava le seguenti parole:
Satsu-chan qualche volta
mi fa ridere. Confidarmi con lei è facilissimo nonostante ci
conosciamo da poco, però mi ripete spesso che corro troppo. Che
dovrei avere più i “piedi per terra”. Ma parla
proprio lei che non chiede di meglio che vivere una storia da romanzo?
Sono sicura che mi capirebbe, se fosse innamorata quanto me.
Non erano poi così
diverse dalla sua di Vienna, effettivamente. Daisuke conosceva quelle
parole a memoria, ormai, ma non poté impedirsi di tornare ad
osservarle.
Non riesco a far capire a
Naganori-kun che lui è cambiato, che non gli farebbe più
del male. Mi guarda come se lo avessi tradito all’improvviso. Non
mi piace questa situazione, così ogni giorno cerco di farli
interagire, di farli andare d’accordo. Però se
Naganori-kun non riesce a rendersi conto di che bella persona sia il
mio amore, non è l’amico intelligente che credevo fosse.
“Le mie sono solo
supposizioni”, riprese Iori. “Non ho la certezza assoluta
di chi sia il mittente, ma credo di sapere di chi si tratti. Chi
può essere in possesso del diario di Miyako-san?”
Le tempie di Daisuke pulsavano dolorosamente.
“Non … lui di nuovo, vero?” Ringhiò a bassa voce.
Guardò in viso Iori, e
per una volta le sue emozioni rispecchiavano quelle del ragazzo
più giovane. Vide nei lineamenti contratti,
nell’espressione accigliata, negli occhi socchiusi la stessa
rabbia che Daisuke a stento controllava. E quella visione lo
confortò in qualche modo.
“Per quanto ne so,
avrebbe ogni mezzo per permettersi una collezione ampia di cartoline
d’epoca”. La sua voce tranquilla contrastava col lampo
d’odio nei suoi occhi verdi. “E, credo, potrebbe
permettersi un falsificatore di grafie molto facilmente. Mi viene da
pensare che il mittente sia lo stesso anche per un altro motivo: la
scelta accurata del materiale da inviare ad ognuno di noi. Sembra che
stia cercando di creare confusione, di indurre l’uno ad incolpare
l’altro della sparizione di Miyako-san. Riporta solo momenti in
cui noi eravamo in disaccordo con lei …”
“Vigliacco.” Daisuke tremava. “Ma che vuole? Perché farsi sentire solo adesso?”
“Questa è un’ottima domanda.”
Si fissarono, in silenzio, ugualmente frustrati.
Infine Iori sospirò, di
nuovo. “Qualunque sia il motivo, io non ho intenzione di darmi
per vinto. Verrò a capo di questa storia, prima che quella
persona ci metta tutti nei guai senza che ce lo meritiamo. E’
imperdonabile permettergli di giocare così con le nostre
vite.” Poi gli sorrise. “Non devi preoccuparti, se
succederà qualcos'altro ci metteremo d’accordo come ora e
ne discuteremo insieme-”
“Iori, voglio la verità. Tu sai dov’è Miyako.”
Il sussurro lasciò le
sue labbra prima ancora che potesse decidere di dirgli una cosa del
genere. Ma Daisuke non riuscì a pentirsi che lo avesse fatto:
doveva sapere.
Iori, zittitosi, si irrigidì, fissandolo perfettamente immobile.
“Lo so che lo
sai”, continuò lui. “Non ho mai creduto il
contrario, in tutti questi anni. Non credi che dovresti almeno dirmi se
è così o no?”
“Non è così.” Disse Iori secco.
Daisuke rise, senza gioia. “Da quand’è che dici bugie? Credevo fosse contro la tua etica.”
“Non è così.” Ripeté l’altro, meccanico.
Sapeva che mentiva, se lo
sentiva. Non poteva farci nulla nemmeno volendo essere credibile con
tutte le sue forze: i suoi pugni stretti lungo i fianchi parlavano per
lui. Iori aveva sempre detestato mentire, diceva sempre che suo nonno
gli aveva insegnato che si dovesse dire solo la verità, sempre.
Se ora mentiva, era solo per Miyako. Perché il loro rapporto era
sempre stato speciale.
Eppure … non era giusto. Iori non era il solo a tenerci a lei. Non poteva tollerarlo.
Si passò una mano sulla
fronte. “Dannazione, Iori! Non hai forse subìto quanto me
la sua pazzia di scappare con quell’individuo inquietante? Non
hai forse provato anche tu cosa significhi, non essere stato
considerato abbastanza meritevole di sapere cosa stesse succedendo
nella testa di Miyako? Non hai forse sentito la sua mancanza, malgrado
tutto, ogni maledetto giorno in cui è stata assente? Non lo sai
come mi sento adesso?”
Vide lo sguardo di Iori farsi dolente, ma ancora taceva.
Daisuke non ci credeva, di
stargli rivelando tutto questo. Non lo diceva neanche a Naganori. Non
lo confessava neanche a Takeru. Ma non riusciva a fermarsi.
“Io detesto l’idea
di non poter fare nulla. Di dover solo stare a guardare mentre gli
altri agiscono.” Fece, e distolse lo sguardo. “Permettimi
di fare qualcosa. Dimmi dov’è. Dimmi almeno se sta
bene.”
Tacque, imbarazzato, disperato, e l’aria attorno a loro si fece pesante. Non osava sollevare il capo.
E poi Iori parlò.
“Sì, lo so come ti senti adesso.”
Gli mise una mano sulla spalla, la strinse confortante. Daisuke, esitando, incontrò il suo sguardo.
Ricordò tutte le volte
che lo aveva preso in giro, chiamandolo frigido. Ricordò tutte
le volte che lo aveva considerato un robot, ritenendolo incapace di
avere debolezze, come qualunque essere umano.
Sembrava assurdo rendersi conto, ora, che non c’era nessuno come Iori che potesse capirlo.
“Cercala, Daisuke-san. Se vuoi fare qualcosa per lei, cercala.” Sussurrò.
Daisuke sgranò gli occhi.
“Cercarla?” Ripeté, incredulo.
“E’ il solo modo per poter fare qualcosa per lei. Ma io non so dove sia,
Daisuke-san.” Scandì Iori, significativo, guardandosi
intorno ancora una volta. Guardingo fino all’ultimo, anche quando
nessuno poteva sentirli. Anche quando Daisuke voleva
quell’informazione con tutte le sue forze. Tentò di
protestare, ma Iori scosse deciso la testa. “Non metterci nei
guai, e non mettere nei guai neanche Miyako-san. Se non sei sicuro di
poter essere discreto, lascia perdere e fidati di me. Ma se sei stufo
di essere un passivo spettatore … ecco qui. Sai cosa fare.”
La faceva facile, lui: Daisuke non sapeva nemmeno da dove iniziare la ricerca, né come fare ad essere discreto.
Non sapeva nemmeno se Miyako sarebbe stata poi felice di rivederlo.
Non sapeva nemmeno se lo sarebbe stato lui. Dopo tutti quegli anni, tutto quel dolore …
Lo avrebbe detto, a Iori.
Avrebbe detto tutto, preteso maggiori dettagli, assicurazioni …
ma Iori si congedò con un inchino educato, e gli voltò le
spalle, e, sordo a qualsiasi ulteriore richiamo, uscì dal
garage, allontanandosi di nuovo dalla sua vita.
A Daisuke non rimase che una cartolina tra le mani.
E un cuore in subbuglio.
Voi
non ci crederete, ma è passato solo un mese e torno con
l'aggiornamento. Che devo dirvi, qualche volta l'impossibile accade!
Benvenuti ufficialmente nella seconda metà di questa long. Molte
cose cambieranno da adesso in poi, prima fra tutte l'aggiunta di nuovi
punti di vista (Taichi ne è stato il primo esempio) e
l'incremento di qualche altro che nella prima metà non ha avuto
troppo spazio. Gli attori di questa vicenda aumentano...
Un pensierino per TheCorpseBride che oggi compie gli anni: la dedica di
questo capitolo è per te! E' poca cosa, ma spero ti piaccia ^^
E con questa vi saluto! A presto, spero!
Padme Undomiel
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Capitolo 28 *** Le cose sono cambiate ***
Purity 27
27.
Le cose sono cambiate
Non gli lasciò neanche il tempo di dire Pronto.
“Siamo ad aprile. Ti sembra normale?” Esordì, quasi
sbottando. “Aprile, non febbraio. E d’altronde
l’apparizione di febbraio si è verificata regolarmente.
Due apparizioni in un anno, mi sta prendendo in giro?”
Un sospiro sommesso, dall’altra parte del telefono, fu il
commento che ricevette. “Allora hai sentito anche tu”,
rispose Ken, a voce insolitamente bassa.
Ichijouji Osamu sbuffò, picchiettando nervosamente le dita sulla
scrivania. “E come potrei non averlo sentito? E’ notizia da
prima pagina. Tutti i giornali locali ne parlano, i mass media sembrano
impazziti. Inoue Miyako è faccenda da opinionisti e pettegoli da
anni, ormai, ma dopo questa ho l’impressione che torneremo ai
deliri collettivi di otto anni fa.”
Le riviste che aveva consultato erano ancora sparse dappertutto sulla
scrivania, aperte alle pagine che gli interessavano, tutte strapiene
della stessa foto, dello stesso nome. Che ci fosse tanto disordine sul
suo piano di lavoro era insolito.
Era la prima cosa che faceva al mattino, da qualche anno, consultare i
quotidiani appena arrivato in ufficio. Gli serviva per rilassarsi, per
schiarirsi le idee, per tenersi aggiornato – chissà,
poteva sempre venir fuori qualche caso interessante di cui avrebbe
potuto occuparsi in prima persona. Aveva chiesto al suo assistente di
fargli trovare una pila di giornali pronta sulla scrivania del suo
ufficio ogni giorno – insieme ad una bella tazza di caffè
fumante, naturalmente. E, in tre anni che lo aveva avuto con sé,
non lo aveva mai visto svolgere quella mansione: era sua personale
premura occuparsene dieci minuti prima del suo arrivo. Una
regolarità che a Osamu piaceva: lui detestava le cose fuori
posto.
Per questo avrebbe dovuto subodorare che quella sarebbe stata una
giornata storta, davvero, quando aveva trovato Koichi fermo sulla porta
ad aspettarlo, quella mattina.
Non che passasse inosservato, bastava che si mettesse sulla porta
perché fosse difficile entrarvi. Era abbastanza alto, per essere
un giapponese, pur essendo mingherlino di costituzione.
Osamu, particolarmente sorpreso, aveva inarcato le sopracciglia. “Hai dimenticato i giornali”, aveva ipotizzato.
Koichi lo aveva fissato di rimando. “No.”
“Allora hai versato il caffè sui giornali.”
Questa volta sul viso dell’assistente si era aperto un sorriso.
“Se versassi il caffè, sui giornali per giunta, sarei
licenziato sul colpo.”
“Non dubitarne.” La perplessità si era accentuata.
“Allora. Cosa c’è di diverso stamattina,
Koichi?”
Il ragazzo più giovane lo aveva studiato per qualche secondo,
gli occhi castano chiaro semicoperti dalla lunga frangia liscia dello
stesso colore, l’unico elemento perennemente disordinato nel suo
outfit impeccabile. “Volevo solo accertarmi che lei stesse bene,
signore.”
Quell’improvvisa premura lo aveva spiazzato. E, inutile dirlo,
insospettito. “Cos’è, vuoi un aumento?”
“Nossignore.” Era stata la replica serena. “Ma se il
suo umore è già a terra, temo che la giornata di oggi
sarà poco piacevole a maggior ragione.”
“Il mio umore sarà a terra fintantoché ti ostinerai a non farmi passare, tanto per cominciare.”
Koichi si era fatto da parte. Sentendo una strana sensazione di
inquietudine, Osamu aveva fatto finalmente ingresso nel suo studio.
I soliti giornali, il solito caffè, le solite cartelle dei casi
perfettamente ordinati sugli scaffali, il solito computer. Sembrava che
il suo studio non fosse stato saccheggiato, o chissà che.
Perciò, la fonte dei guai doveva essere un’altra …
I suoi occhi si erano posati sui giornali.
Si era seduto, aveva bevuto un sorso del suo caffè, aveva afferrato il primo quotidiano della pila.
E per poco il caffè non gli era andato di traverso.
Koichi aveva riso, rispettosamente irriverente come suo solito –
davvero, perché continuava a dargli un lavoro? “Cerchi di
non prendersela troppo, signore. Se ha bisogno di me, sa dove
trovarmi.”
E si era congedato, lasciandolo a leggere allibito le testate
giornalistiche che rivelavano che Inoue Miyako aveva deciso di farsi
una bella passeggiata per Odaiba. Di nuovo.
Contro ogni logica.
“Immagino che adesso sarai assediato dai giornalisti”,
arrivò la voce di Ken, un po’ in imbarazzo. Sapeva cosa
Osamu pensasse dei giornalisti.
“Della stampa se ne occuperà Koichi.” Fece il
maggiore, definitivo. Dato che il suo assistente lo trovava così
divertente, che si godesse lui la folla inferocita di sciacalli. Quanto
a Osamu, se ne sarebbe lavato le mani. “Ma parliamo di cose
serie. Ti ho mandato la documentazione riguardo le precedenti
apparizioni di Inoue Miyako, non è vero? Sembrerebbe
corrispondere, non è il solito burlone che cerca di alimentare
storie superstiziose sui fantasmi. Di nuovo la sacca bianca -che
probabilmente contiene abiti di ricambio per potersi mescolare alla
folla una volta finita la sua esibizione-, di nuovo un cappello con un
fiore sulla falda, di nuovo quella ninna nanna cantata a mezza voce, di
nuovo senza rivolgere una parola a chi cercava di fermarla.
C’è solo un elemento insolitamente diverso: la doppia
apparizione in un anno. E in più …”
“… Il fatto che sia la seconda volta che ritorna a Odaiba.” Terminò per lui Ken.
Osamu si adombrò. “Precisamente. E’ chiaro che
Odaiba rappresenti un quartiere d’elezione per lei, dal momento
che è lì che si trova la sua vecchia casa. Ma non ha mai
mostrato di essere così tanto abitudinaria da tornarci due volte
di seguito. Tra l’altro, il caffè dove si è
aggirata è molto vicino all’appartamento dove abitava otto
anni fa, ho fatto un controllo. E’ fin troppo imprudente da parte
sua comportarsi così. Cosa può essere cambiato
dall’ultima volta per spingerla ad agire in questo modo?”
Ken tacque per qualche istante, riflettendo. “Magari …
è solo che è passato molto tempo, ed è questo ad
essere cambiato.” Azzardò.
Osamu aggrottò le sopracciglia. “Spiegati meglio.”
“Potrebbe non essere stato un atto pianificato fino in
fondo. Da quel che sappiamo di Miyako, non è mai stata una
persona molto razionale, no? Probabilmente era solo nostalgia, tutto
qui. Probabilmente non ha nemmeno pensato alle conseguenze.
Probabilmente l’assenza le ha fatto solo più male del
solito …”
Ed ecco lì una perfetta risposta alla Ken. Così tipico di
lui, non sospettare doppi fini nelle azioni delle persone a meno che
non vi fosse costretto. Osamu sorrise.
Ingenuo, si ritrovò a pensare. Tu non sai … Non lo sai.
“Ken. Io non ho dubbi sul fatto che le sue apparizioni siano
qualcosa di pianificato, e questa non fa eccezione.” Rispose.
“Se era solamente nostalgica, perché non presentarsi
lì di nascosto? Perché attirare attenzione, rendersi
riconoscibile, ripetere quei gesti che la contraddistinguono? In fondo
mi sfugge da anni, vorrà pur dire che sa come passare
inosservata. No, ha cercato di mandare un messaggio preciso stavolta. E
io ancora non so di quale messaggio si tratti.”
L’irritazione e la frustrazione intensa che si accrescevano anno
dopo anno, in sordina e quasi sottopelle, al punto che lui stesso se
n’era accorto solo da qualche tempo a questa parte, tornarono ad
infastidirlo di colpo. Non aveva mai tenuto un caso aperto così
a lungo, mai le sue capacità deduttive lo avevano tradito fino a
questo punto: pareva che, non importa quanti sforzi impiegasse, quanto
tempo, quanto impegno, quanta assoluta dedizione al suo lavoro, Inoue
Miyako l’avesse sempre vinta, sempre. Gli sfuggiva –oh, non
parlava solamente dell’incapacità di trovarla: era
soprattutto l’incapacità di capirla, di prevedere le sue
mosse, a disorientarlo. Sembrava che lei calcolasse tutto nei minimi
dettagli, ma allo stesso tempo commetteva azioni sciocche che lo
disarmavano e basta, perché sembrava non avessero alcun senso.
Non capiva, e si sentiva vulnerabile, in un modo insopportabile,
intollerabile. Non sapeva da quando l’eccitazione di sentirsi
sfidato, all’inizio della presa in carico di quel caso, si era
trasformata in quella tremenda messa in discussione del suo lavoro, del
suo modo di fare, della sua vita intera. Osamu non aveva mai avuto
altro che non fosse lo studio, e il lavoro.
Poteva forse darsi che avesse investito tutto su qualcosa nel quale non riusciva più ad eccellere, allora?
“Sai cosa si dice di me? Che sono stato ingannato da una
ragazzina. Non intendo tollerarlo oltre.” Concluse, duro.
“Scoprirò cosa avrà voluto dirmi, svelerò il
segreto di questa sfida sfacciata. Se Inoue Miyako crede di potermi
prendere in giro, mandandomi segnali incomprensibili, si sbaglia.”
“E se il messaggio non fosse rivolto a te?”
Osamu si fermò. “Che vuoi dire?”
Ken esitò, prima di continuare. “Non hai mai pensato che
queste apparizioni potessero essere tentativi di comunicare con
qualcuno, invece che messaggi di sfida? Non prenderla come una
certezza, è solo … solo una cosa che ho pensato.”
Solo una cosa che ho pensato.
“Comunicare con chi, allora?” Incalzò, la cornetta premuta contro l’orecchio.
“Non lo so.” Rispose Ken. Il suo tono era triste.
Ma un’idea ce l’hai eccome, solo che non vuoi parlarne.
Osamu strinse le labbra, e stette in silenzio, ad ascoltare il silenzio di suo fratello.
Finché Ken non parve riscuotersi, o sfuggire
all’interrogatorio senza parole del maggiore. “Andrai a
Odaiba ad interrogare i testimoni?”
“Certo, al più presto. Devo verificare come sono andati i
fatti, il percorso che ha seguito, dove potrebbe essersi mimetizzata
tra la folla. Tu vieni con me?”
“Vuoi davvero che venga con te?”
E cos’era ora quella sorpresa? Inarcò le sopracciglia.
“Naturale.” Non pensava forse che ce l’avesse con lui
per la discussione avvenuta tre sere prima, fuori
dall’appartamento di Inori Harumi? Non avevano tempo per pensare
a certe cose da bambini.
“E’ che … non posso, mi spiace. Sono a casa Inoue.”
Osamu batté le palpebre, colto alla sprovvista. “Casa Inoue?”
Per qualche motivo, Ken si sentì in dovere di partire sulla
difensiva. “Non è un’idea così inutile, in
fondo è già successo altre volte che la signora Inoue si
rivelasse in possesso di informazioni rilevanti, no? Come con il diario
di Miyako. Magari ora, con la notizia dell’apparizione di sua
figlia, avrà qualcosa di utile da dirci …”
All’improvviso Osamu capì. Era lampante, tanto per cambiare. Ken era prevedibile, e non se ne accorgeva nemmeno.
Tirò un lungo sospiro. “Naturalmente. Ma ora dimmi la vera motivazione per cui sei lì.”
Immaginò suo fratello minore irrigidirsi dall’altra parte del telefono, e seppe che ci aveva preso.
Sorrise tra sé. “Volevi consolarla. E’
così?” Gli domandò, senza realmente domandarglielo.
Lo sapeva che era così. “Non riesci a dimenticare il suo
stato di prostrazione di quando l’hai incontrata la prima volta,
e ora pensi che stia peggio, perché è venuta a sapere
della doppia apparizione di sua figlia.”
“Non è solo una supposizione. Sta male sul serio.”
Il tono di Ken era stanco. “Senti, Osamu. So benissimo che non
approvi, che mi ritieni uno sciocco, e forse lo sono. Ma non riesco a
sentirmi distaccato dalla vicenda come te: ho promesso alla signora
Inoue che le avrei fatto compagnia, tempo fa, e non intendo rimangiarmi
la parola. Magari è stata lei a far sparire Miyako in qualche
modo, bene: se è così non mancherò di assicurarla
alla giustizia. Ma finora vedo solo una madre sola e disperata. Non
posso farci nulla … e tu non puoi far nulla per farmi desistere.
Sto seguendo una mia pista, come volevi tu, d’altronde.”
Si era stancato di stargli dietro, dopotutto. Non sembrava neanche
più desideroso di lavorare con lui, come quando lo aveva
coinvolto per la prima volta nel caso Inoue.
“Non voglio farti desistere. Procedi pure come preferisci.”
Gli rispose. “E poi la signora Inoue sotto stress tende davvero a
fornire più informazioni del solito. Quando ti ha dato il diario
era scossa, no?”
“Sì … suppongo di sì.”
“E allora nulla da dire. Torna al tuo lavoro, e io tornerò
al mio.” Guardò l’orologio, e decise che aveva
indugiato troppo al telefono. “Sperando che questa giornata
finisca per essere fruttuosa per entrambi.”
“… Osamu?”
Sul punto di congedarlo, Osamu si fermò. “Cosa c’è?”
“Ecco … ti ringrazio per avermi chiamato. Non lo capisco
bene, dato che avevi detto che dobbiamo lavorare in modo indipendente,
però … beh, grazie. E’ stato gentile da parte
tua.”
Osamu si pietrificò, così interdetto che non trovò proprio nulla da dire.
E Ken non gliene lasciò neanche il tempo. Probabilmente
imbarazzato, gli augurò in fretta una buona giornata, e chiuse
la chiamata.
A lui non restò che riporre la cornetta al suo posto, battendo le palpebre sconcertato.
La verità era che non aveva pensato affatto alla sfida tra loro
due, né aveva pianificato di parlarne con lui per qualche
ragione nascosta. L’irritazione lo aveva reso irrazionale, e
aveva finito per chiamare Ken. Per quale motivo, poi, non lo sapeva.
Quando Koichi rientrò nello studio, lo trovò a ridere tra
sé, la fronte appoggiata contro la mano, una marea di giornali
aperti sulla scrivania. Lo fissò per qualche istante, inclinando
la testa come per guardarlo da una diversa angolatura.
“Si è ripreso in fretta”, commentò incredulo.
Osamu si aggiustò gli occhiali sul naso, riprendendo lentamente
il controllo di sé. “Koichi, quand’è che
bisogna smettere di considerare una persona ingenua e si deve passare
alla categoria di stupida?”
“Domande filosofiche? Allora forse non si è ripreso molto bene, signore”, sorrise Koichi.
“Forse no.” Osamu lo guardò, pensieroso. “Mi
chiedo se sia solo il caso Inoue, a sfuggire alla mia
comprensione.”
“Sta parlando di suo fratello?”
“Lo butto giù continuamente, non gli do uno straccio di
aiuto, gli sto rovinando l’idea di fratello maggiore perfetto che
probabilmente ha da una vita. E nonostante tutto … mi ringrazia.
Come se gli avessi donato una miniera d’oro. Te lo giuro, ogni
volta sono convinto che sia come un libro aperto per me, e tutte le
volte … non lo so. Ragiona in modo assurdo. Secondo me è
un po’ matto.”
“Beh”, Koichi si strinse nelle spalle, e i suoi occhi
brillarono di una strana luce. “Forse è per questo che le
piace. A lei piacciono solo i matti, signore.”
Osamu si sentì sorridere.
“Va’ a chiamarmi un taxi. Le indagini non aspettano certo i miei comodi.”
***
“Io … non faccio che
aspettare. Mi sai dire tu perché? E’ inutile. Però
non faccio che aspettare.”
Ken si riassettò nervosamente i capelli, combattendo contro il
vento che non aveva smesso di imperversare da due giorni a quella
parte. Si sentiva un po’ come le foglie strenuamente attaccate ai
rami degli alberi del giardino davanti a quella villetta, separata
dalla strada dal cancello grigio davanti al quale Ken si era fermato:
se aveva i piedi ben ancorati al cemento era per pura forza di
volontà.
Ultimamente il vento soffiava in modo strano, e imprevedibile.
“Però non faccio che aspettare.”
Osamu si sbagliava, si ritrovò a pensare per l’ennesima
volta, inseguendo il corso dei suoi pensieri. Osamu si sbagliava,
perché se avesse sentito parlare la signora Inoue come
l’aveva sentita Ken solo poco tempo prima, sicuramente non
avrebbe pensato che Inoue Miyako stesse sfidando il detective
consapevolmente.
Non gli era mai parsa lucida come quel giorno. Era come se si fosse risvegliata improvvisamente da un sogno troppo vivido.
Gli occhi rossi, il viso stanco, la signora Inoue era rimasta tutto il
tempo accanto alla finestra, sperando rassegnata di veder spuntare la
fisionomia familiare di sua figlia sul viale di casa. Si era voltata a
sorridergli, qualche volta, come a condividere con lui, solo per un
breve istante, la miserabile condizione di essere una madre senza sua
figlia, un essere incompleto.
Non sembrava credere che dietro quelle apparizioni ci fosse un
impostore. Non si poneva neppure il problema dell’irritazione
frustrata di Osamu. Trattava quell’apparizione come se fosse un
messaggio di sua figlia per lei, qualcosa che nessun altro doveva
ricevere, decodificare, analizzare. Era l’ultimo filo che la
legava sottilmente a Miyako.
“Cosa sta cercando di dirmi Miyako-chan? Cosa vuole che io faccia?”
“Le altre volte cosa le diceva?” Le aveva chiesto lui.
“Che era viva.”
“E ora non le sta dicendo questo?”
“No. Ora mi sta dicendo che le
cose sono cambiate. Ma non mi dice come. Così io aspetto
… e spero che me lo farà capire.”
Ken non poteva prendere quelle parole, quella sicurezza, alla leggera.
Soprattutto perché non avevano fatto che confermare un suo
precedente sospetto.
Se quella era davvero Inoue Miyako e non qualcuno che si spacciava per
lei, non era stata sequestrata, e non era prigioniera di nessuno. Solo
di se stessa.
Quale rapitore le avrebbe consentito di apparire e scomparire a suo
piacimento? Si poteva supporre che Miyako non si fosse mai allontanata
troppo da Tokyo, così da poter agilmente portare a termine
queste apparizioni da fantasma.
Seguendo questo ragionamento, l’intento non era forse comunicare ai suoi cari Sono viva, ma non ho intenzione di farmi trovare?
E perché apparire due volte, allora?
“Mi sta dicendo che le cose sono cambiate.”
In che modo lo erano? Voleva forse dire che non avrebbe più
fatto apparizioni per il prossimo febbraio? Voleva semplicemente che
fossero più frequenti?
O stava cercando di farsi trovare senza avere modo di farlo lei stessa?
Dovevano stare più attenti, pensò Ken con fermezza. Lui e Osamu. Non dovevano lasciarsi prendere dalla fretta.
Aveva l’impressione che né lui né Osamu stessero
vedendo le cose in modo lucido. Anche per questo era un bene che
agissero su due fronti separati: almeno non si trasmettevano l’un
l’altro le rispettive irrazionalità.
Era stato strano sentire Osamu così fuori di sé,
così … umano. Da quanto tempo non lo vedeva più in
quello stato? Forse da quando erano bambini, da quando ancora erano
migliori amici e si capivano con un solo sguardo.
Ken scosse la testa, accorgendosi di essersi di nuovo perso nei suoi
pensieri. Avrebbe avuto tutto il tempo di fare congetture una volta nel
suo appartamento, ma ora c’era ben altro di cui occuparsi.
Come entrare nell’orfanotrofio Yagami, tanto per cominciare.
Il giardino era vuoto, sembrava che il vento di quel giorno non
invogliasse a giocare all’aperto. Sbirciò in direzione
delle finestre, sperando di scorgere del movimento: non si era
annunciato, per cui non sapeva se nella villa ci fosse qualcuno. E
sperava sul serio di sì: aveva rinunciato a seguire Osamu, che
almeno la sua rinuncia avesse un senso, no?
“Sai, c’è un citofono proprio dietro quel ramo.”
Sobbalzando violentemente, Ken si voltò di scatto, solo per
urtare il gomito contro uno scatolone di cartone. Scatolone che,
naturalmente, cadde a terra, riversando sul cemento tutto il suo
contenuto.
“Accidenti, mi dispiace.” Il viso in fiamme, Ken non ebbe
il coraggio di sollevare lo sguardo sul proprietario della scatola: si
chinò in tutta fretta, deciso a rimediare al danno prima che la
persona di fronte a lui – di cui scorgeva solo un paio di jeans
scuri e scarpe grigie- dovesse pensarci al suo posto.
L’altra persona rise, una risata da ragazzo. “Sta’
tranquillo. Non c’era niente di fragile dentro.” E si
chinò anche lui. “Come puoi vedere sono per la maggior
parte mattoncini per costruzioni. Sono fatti per essere sparpagliati
ovunque, no?”
Gliene portò uno rosso davanti agli occhi, con un sorriso sereno.
Doveva avere all’incirca la sua età, considerò Ken
osservandolo. Aveva corti capelli biondi – l’unico motivo
per cui non dovevano essersi spettinati per via del vento doveva essere
il berretto verde che portava sul capo- e cordiali occhi celesti.
E ciò che Ken aveva fatto cadere era, in effetti, un mucchio di
giocattoli: mattoncini, un paio di palle di gomma, soldatini e
dinosauri. Aveva un tirannosauro con le fauci spalancate poggiato
contro il suo piede destro.
“Mi dispiace davvero.” Ripeté, in imbarazzo.
“Dai, lascia perdere. Se mi dai una mano mi fai un favore,
però. Me li passi?” Il ragazzo indicò con la mano i
giochi accanto a Ken, e lui si affrettò ad ubbidire, mentre il
suo interlocutore li riponeva nella scatola di cartone. “Starai
pensando che è strano che io vada in giro con dei giocattoli,
immagino.”
Ken gli lanciò un’occhiata. “Beh, non proprio: sei
davanti ad un orfanotrofio …” gli fece notare.
Il ragazzo rise di nuovo. “Touché.” Finito di
raccogliere tutti gli oggetti, prese la scatola e si issò in
piedi; Ken fece lo stesso. “E’ che ho finalmente trovato un
impiego utile per i miei vecchi giocattoli, ho riempito almeno due
scatole come queste con tutto quello che avevo nella mia casa
d’infanzia. Saranno certamente più utili qui.”
E guardò verso il cancello, con un mezzo sorriso pensieroso. Sembrò, per un istante, essersi dimenticato di lui.
Ken lo fissava, in imbarazzo e un po’ confuso. Dalle sue parole e
dal contenuto di quella scatola era logico supporre che fosse un
volontario dell’orfanotrofio. Ma non era troppo giovane per una
cosa simile?
Il pensiero che al posto di quel ragazzo avrebbe potuto esserci lui lo spiazzava.
“Ah. Volevi entrare? Non ho ancora le chiavi del cancello, ma
puoi venirmi dietro, tanto sto entrando anche io”, si riscosse
l’altro a un tratto, e, scostando il ramo che lo nascondeva alla
vista, rivelò la postazione del citofono. Senza aspettare
risposta, suonò con decisione.
Non ho ancora le chiavi. Doveva essere entrato nell’orfanotrofio da poco, ne dedusse.
“Ti ringrazio”, rispose Ken, e si affrettò a tenere
aperto il cancello per il ragazzo dalle mani occupate, lasciandolo
entrare per primo: gli doveva almeno una cosa del genere, dopo la
figuraccia con la scatola.
Il ragazzo gli sorrise brevemente al di sopra della spalla, prima di
incamminarsi lungo il cortile. “Sono Takaishi Takeru. Mi
presenterei come si deve, ma come puoi immaginare non posso fare
granché con questi giocattoli tra le mani”, disse,
leggero. “Chi stavi cercando? Dubito di poterti aiutare io,
faccio ancora poco qui dentro.”
“Non saprei”, tentò Ken, andandogli dietro. “Non ho preso appuntamenti con nessuno.”
“Mh?” Takaishi Takeru si voltò, osservandolo perplesso.
Ken ricambiò l’occhiata per un momento, chiedendosi quanto
valesse la pena rivelare dettagli dell’indagine a un ragazzo
appena entrato nel team dell’orfanotrofio. Ma non mettere le
carte in tavola gli sembrava un po’ sgarbato – per non dire
imbarazzante.
“Mi chiamo Ichijouji Ken”, si presentò infine.
“Sto indagando sulla scomparsa di Inoue Miyako. Sarebbe possibile
parlare con chi si occupa delle donazioni all’orfanotrofio?”
***
“Ed è qui”, concluse lentamente Osamu, fermandosi, “che se ne perdono le tracce.”
Erano esattamente al centro di un grande incrocio, affollato e
rumoroso. Alle prime ore del mattino, con gli impiegati che in tutta
fretta si riversavano in strada per raggiungere il posto di lavoro,
doveva essere un vero inferno. Ora, invece, il massimo che poteva
succedere era venire spintonato dai gruppi compatti di persone che
attraversavano la strada.
Koichi si guardò intorno, una ruga di perplessità in
mezzo alla fronte. “Il presunto percorso di Inoue Miyako non
prevede vicoletti”, obiettò. “Dove ha potuto
cambiarsi d’abito?”
“I vicoletti sono troppo individuabili. In che modo è
più facile passare inosservati, in una metropoli?” Osamu
fece un cenno col capo all’incrocio affollato, allusivo. “E
non credo si sia cambiata,
credo abbia giusto nascosto i dettagli più riconoscibili.
E’ facile cambiare un cappotto, o togliere un cappello.”
“Non è forse più difficile nascondere il colore di capelli?” Sorrise Koichi.
“Dev’essere una parrucca”, concluse velocemente
Osamu. “E’ la conclusione più ovvia. Credo si sia
tinta i capelli veri, e che per queste passeggiate ne indossi una del
suo vecchio colore. Finita l’esibizione la mette via.”
“Mah.” Koichi fece spallucce. “Se nascondermi
richiedesse tanta fatica, io preferirei farmi trovare,
probabilmente.”
Osamu non rispose. Guardava distrattamente gli enormi cartelloni
pubblicitari che troneggiavano sui grattacieli, come se avesse potuto
scorgervi all’interno il viso di Inoue Miyako. Come se avesse
potuto studiarlo in ogni molecola, e finalmente comprenderlo.
“Quindi crede che abbia inviato un messaggio a sua madre,
signore?” Chiese ancora il suo assistente, distogliendolo dai
suoi pensieri.
“Secondo i testimoni, Miyako è passata chiaramente sotto
la finestra della camera da letto della signora Inoue”, rispose.
“Non ha lasciato nessun segno della sua presenza, nessuna
scritta, nessun biglietto, niente di lontanamente simile ad un
messaggio. Non è stata vista sollevare lo sguardo verso la
finestra. A meno che non abbia trovato un diverso metodo di
comunicazione che noi ancora non abbiamo individuato, dobbiamo credere
che il messaggio consistesse semplicemente nel farsi vedere. Un puro e
semplice Guardami.”
Si accigliò. “Non so se effettivamente il messaggio fosse
rivolto a lei, o se lei non sia piuttosto una pedina necessaria a
portare avanti un gioco più grande. Quello che so”, fece,
“è che Ken sembra convinto della prima ipotesi. E questa
ipotesi è plausibile.”
Riconoscerlo a voce alta portò con sé una sgradevole
ondata di imbarazzo, ma la ricacciò indietro, seccato. Era stufo
di lasciarsi prendere dalle sue emozioni infantili, totalmente stufo di
sentirsi completamente in balìa degli eventi. Occorreva restare
lucidi, e accettare di essere stati in torto nel voler vedere
un’unica soluzione per spiegare fatti così ambigui.
Restare lucidi significava riconoscere che Ken era stato bravo, davvero bravo, questa volta.
“Voglio che tu sorvegli la signora Inoue per un po’,
Koichi”, disse infine, voltandosi a guardarlo.
“Discretamente, non avrei neanche bisogno di specificartelo.
Voglio sapere se esce di casa, se qualcuno viene a trovarla, e
soprattutto se Inoue Miyako si rifarà vedere in zona – ne
dubito, ma d’altronde ci troviamo di fronte ad una situazione
nuova e potenzialmente di allarme, per cui mi aspetto qualsiasi
cosa.”
Il viso di Koichi si aprì in un largo sorriso. “Per cui non devo più …?”
“Certo che devi occuparti della stampa. Mi limitavo a darti
istruzioni per il dopo.” Nascondendo accuratamente il suo
sorrisetto, Osamu si voltò indietro per andarsene, lasciando al
suo assistente il tempo di sospirare sconfitto prima di seguirlo.
***
Quando Yagami Taichi aveva sceso le scale per raggiungerlo, aveva un bambino di pochi mesi in braccio.
“Ok, senti, capisco che sia poco professionale, il punto è
che non posso metterlo giù”, aveva detto anticipatamente,
probabilmente notando gli occhi sgranati di Ken posarsi su quel fagotto
di guance morbide e piedini agitati. “Siamo un po’ a corto
di personale qui, sono quasi tutti a lavoro, Takeru si sta già
occupando di quella mandria inferocita di là, e il piccolo Yukio
ha mal di pancia da stanotte, e sta calmo solo se preso in
braccio.”
“Non c’è problema”, aveva balbettato Ken,
costringendosi a guardare negli occhi uno dei proprietari di casa
Yagami, e non il bimbo pallido dagli occhi stretti che lo fissava un
po’ imbronciato. Si schiarì la voce. “Mi dispiace se
è un brutto momento. Non credo ci vorrà molto.”
Yagami lo invitò a entrare in quello che sembrava essere uno
studio, faticosamente destreggiandosi tra la maniglia della porta e il
bimbo agitato in braccio. Il suono delle risate e delle strilla dei
bambini, nell’altra stanza, si affievolì e tacque quando
la porta si richiuse alle loro spalle.
“Allora”, disse Yagami, accomodandosi dietro la scrivania,
mentre Ken prendeva posto sulla sedia di fronte. “Ichijouji,
giusto? Sarai mica il famoso detective che-”
“Sono suo fratello”, lo anticipò sul tempo Ken, in
automatico. “Gli sto dando una mano. Grazie per aver accettato di
aiutarci con le indagini, a proposito.”
Yagami si portò la mano libera tra i capelli, arruffandoseli
distrattamente. “Devo dirti la verità … Ken,
posso?” Gli lanciò un’occhiata veloce, e al suo
cenno d’assenso proseguì. “Mi sento un po’ a
disagio ad essere interrogato per un’indagine. Non è che
per caso credete che nascondiamo Inoue Miyako qui dentro, vero?”
“No, no! Ci mancherebbe, Yagami-san.” Si affrettò a
rassicurarlo Ken, e Yagami fece un plateale sospiro di sollievo.
Comunicare con gli altri doveva essere molto facile, per lui. “E
poi è già successo che le indagini su Inoue Miyako
portassero a questo orfanotrofio. Osamu deve aver parlato con …
tua madre, credo, diversi anni fa. Non ne sapevi nulla?”
Yagami si accigliò. “Mia madre?”
“Dev’essere stato poco dopo la scomparsa di Miyako”, insistette Ken. “Sette anni fa.”
“Mmm.” Il bambino cominciò ad agitarsi e a fare dei
versi scontenti, così Yagami cominciò a cullarlo
distrattamente. “No, non ne avevo idea. Cosa volevate sapere da
lei esattamente?”
“Più o meno la stessa cosa che voglio sapere io da te
oggi. Mi interessa sapere qualcosa su una persona che, circa sette anni
fa, ha fatto un’ingente donazione a questo orfanotrofio. Ono
Satoshi.”
Non ci fu nessun lampo di riconoscimento alla menzione di quel nome,
negli occhi di Yagami. Ken ne prese mentalmente nota mentre frugava
nella sua cartella alla ricerca di un documento. Dopo averlo estratto,
lo fece passare sul tavolo, ponendolo all’attenzione
dell’altro.
“Lì c’è l’intero piano dei movimenti
della carta di credito di Ono nell’ultimo anno prima della sua
scomparsa, e quindi dell’estinzione del conto”,
spiegò, non appena Yagami prese la fotocopia e se la
portò davanti agli occhi per esaminarla. “Vedi il
versamento cerchiato in rosso? E’ la donazione di cui parlavo
prima. L’ultimo movimento di quella carta. E’ per questo
che ci siamo incuriositi.”
“Questo Ono è un indiziato?” Volle sapere Yagami.
“Era il ragazzo di Miyako. C’è chi lo crede morto, ma abbiamo motivo di dubitarne.”
Il cipiglio di Yagami si accentuò. “Cosa avete scoperto?”
“Non molto. Sappiamo che non ci sono stati altri versamenti a suo
nome, almeno fino a qualche mese dopo la sua scomparsa”, disse
Ken. “Abbiamo chiesto a tua madre di controllare nei registri
delle donazioni … anche se, stando a mio fratello,
l’operazione non è stata esattamente immediata?”
Lo guardò, in cerca di una conferma. Yagami fece una smorfia,
pensieroso, osservando ancora il documento che Ken gli aveva dato poco
prima.
“Non ho idea di come sia andata la faccenda tra tuo fratello e
mia madre. Quello che so è che, da quando abbiamo avviato questo
progetto, non ci siamo mai troppo preoccupati di sapere da quale conto
in banca provenissero le donazioni che riceviamo”, gli
spiegò. “Ne riceviamo un bel po’, sai. Non tante
quante ci occorrerebbero, d’accordo, ma sono comunque un bel
po’. E se devo essere sincero, non ci è chissà
quanto utile schedare i nostri benefattori.”
Ken fece una smorfia. “Capisco.”
“Però, dai tempi di mamma, una cosa è cambiata:
abbiamo con noi un collaboratore che risale alle informazioni utili
più rapidamente di quanto respiri.” Yagami sollevò
lo sguardo, e un ghigno preoccupante gli passò sul viso.
“Koushiro al momento non è qui, ma se ci dai qualche tempo
avrai tutte le informazioni che cerchi.”
Chissà se Yagami si rendeva conto di star dipingendo il suo
collaboratore come una potenziale minaccia per la legge. Ken
deglutì, un po’ a disagio, e assentì rapidamente.
“Sì, certamente. Allora mi affido alla vostra efficienza.”
“Perciò, quello che vuoi sapere è se questo tizio
di nome Ono ci ha fatto donazioni attraverso altri conti a lui
intestati, in questi sette anni?” Domandò Yagami come
ulteriore conferma, stappando una penna con i denti e prendendo a
scrivere su un foglio di carta bianco nome, cognome, e un molto
eloquente ‘COSA DEVE CERCARE KOUSHIRO’ seguito da due punti. Ken si sforzò di non guardare quel nome troppo a lungo, ancora inquieto.
“Esatto. Vi lascio un recapito telefonico”, aggiunse, e
attese che Yagami finisse di scrivere gli appunti per il suo
collaboratore, prima di iniziare a dettargli una serie di cifre
numeriche.
“E’ il mio numero di cellulare”, gli spiegò.
“Non appena avrete informazioni fatemi sapere.”
Yagami gli lanciò un’espressione bizzarra, quando si
alzò in piedi e si diresse ad aprire la porta dello studio, il
suono dei bambini che chiacchieravano a gran voce che tornava a
investire le loro orecchie.
“Pensavo ci avresti lasciato il recapito del detective”,
dichiarò schiettamente, e sentendosi osservato Ken si
fermò a guardarlo, un po’ sulla difensiva. Ma non stava
cercando di valutarlo, di giudicarlo o schernirlo: stava solamente
cercando di capire che tipo fosse. Era uno sguardo curioso, e
nient’altro. “E invece pare che sia lo stesso, chiamare te
o lui. Chissà perché mi ero convinto che fossi
semplicemente un aiutante per reperire i dati, ma ho il sospetto che
anche tu sia bravo a fare indagini. Sei un detective anche tu? Lavori
per Osamu, no?”
Ken rise, scuotendo piano la testa.
“E’ un po’ più complicato di così”, disse solamente.
***
Spero di rivederti presto.
Ken rimase a fissare la bozza di messaggio con aria distratta,
giocherellando col tasto Invio senza osare premere. Era tutto il giorno
che sperava di avere un secondo per sé, così da inviare
quel messaggio che lo assillava da ore.
Da due giorni, in effetti.
Ma forse, considerò, leggendo e rileggendo quelle parole che,
sulla schermata, apparivano improvvisamente stupide, fin troppo banali
paragonate a quel che sentiva, non era tanto il tempo a mancargli,
bensì il coraggio.
Il pensiero di Rumiko e delle sue labbra tremanti lo aveva accompagnato
come un calore sottopelle fin dalla sera dell’appuntamento,
così che anche quando stava facendo altro gli pareva di averla
al suo fianco, di sentire i suoi capelli sulla spalla, di stringere le
sue dita. Era una bella sensazione.
Voleva sentirla ancora. Era proprio per questo che esitava.
Forse Rumiko si era svegliata come se nulla fosse successo, il giorno
dopo? Forse era andata a lavoro, ieri, oggi, e il suo universo
misterioso si era chiuso attorno a lei, tagliando fuori lui?
Forse vederlo o non vederlo faceva lo stesso, per lei?
Eppure mi ha baciato.
Ken cancellò il messaggio, sospirando e ricacciandosi il
cellulare in tasca. Il vento sembrava essersi placato, nel giardino
dell’orfanotrofio: il fruscio delle foglie era solo un rumore
piacevole, ora.
Da quel punto del giardino riusciva ancora a sentire le voci dei bambini nella stanza dove parevano tutti riuniti.
Sembravano molto eccitati, qualunque cosa stessero facendo.
Ken riafferrò il cellulare, e scrisse d’impulso: Sono stato all’orfanotrofio oggi. Non ho mai visto tanti bambini tutti in una volta. Ti piacerebbe, qui.
E cliccò Invio.
Poi nascose il cellulare in tasca come un ladro con un portafogli
rubato, e quando se ne rese conto alzò gli occhi al cielo.
E da quando si comportava come un ragazzino alla prima cotta?
“Ci sarà una mostra di beneficienza.”
Ken si sorprese così tanto che per poco non inciampò sui
suoi piedi. Voltandosi di scatto, si trovò di fronte allo
sguardo solenne di un bambino di circa dieci anni con un berretto da
pescatore grigio calato sul capo.
“Come, scusa?” Chiese stupidamente.
“Una mostra”, ripeté il bambino senza scomporsi. “Vendiamo cose e facciamo spettacoli.”
E sembrò aspettarsi una risposta.
“Mi sembra una bella idea”, tentò Ken.
“Vienici”, disse il bambino.
Ken si guardò intorno, in palese ricerca di aiuto, ma nel
giardino dell’orfanotrofio non sembrava esserci anima viva,
tantomeno la presenza di un qualsivoglia adulto.
“Ehm”, disse Ken. Il bambino lo fissava con grandi occhi castani. “Quando?”
Solo questo sembrò farlo esitare.
“Beh, non lo so”, si imbronciò. “Hikari dice presto, però. Perciò stai attento!”
Ignorando completamente chi fosse Hikari, nonché il minaccioso
dito puntato nella sua direzione, Ken si affrettò a rassicurarlo.
“Certamente. Mi, uhm, mi terrò informato.”
“Ecco dov’eri finito!” Il ragazzo di nome Takeru si
affacciò all’entrata dell’orfanotrofio, e li
raggiunse di corsa: Ken notò distrattamente che non aveva
più il berretto sul capo. “E ora mi spiego anche chi ha
rubato il mio vecchio cappello. Di’, ti sembrano cose da fare,
Keiji-chan?”
Sul viso del piccolo si aprì un sorriso furbo affatto pentito.
“Non l’ho rubato. Sei tu lo scemo che lo lascia in
giro!”
“Non l’ho lasciato in giro, l’ho lasciato in fondo
alla scatola che ho portato stamattina. Il che significa che tu lo hai
rubato.” Takeru gli si parò davanti, guardandolo negli
occhi con aria inquisitoria. “Invece il mio berretto era sulla
sedia, e guarda un po’ è sparito anche lui.”
“Non so dov’è”, mentì spudoratamente Keiji, arrossendo un po’.
Takeru lo fissò ancora un momento, immobile, finché con
una rapida mossa non gli sollevò il cappello grigio dalla testa.
Il tempo di intravedere qualche ciocca di capelli chiari e un oggetto
colorato sul capo e il bambino, con un urlo di protesta, aveva
già riafferrato il cappello grigio e lo aveva ricalato
giù, con tanta forza da coprirgli anche la fronte. Ma il danno
era fatto.
“Come pensavo. E’ lì sotto.” Disse Takeru,
indicando con un ghigno vittorioso il berretto con la visiera girata
che Keiji nascondeva sotto il cappello da pescatore. “Come me la
spieghi, eh?”
Keiji, decisamente rosso in viso per essere stato scoperto, incrociò comunque le braccia al petto.
“Questo però lo avevi lasciato in giro!”
Takeru rimase interdetto.
Ken fece un grande sforzo per non scoppiare a ridere, e si voltò
dall’altra parte per nascondere la sua espressione.
“Vai”, Takeru diede una spintarella al bambino. “Ho
capito il messaggio: continuerai a rubarmi cappelli finché non
ti farò provare il mio vecchio skateboard. Vallo a prendere e ti
insegno ad andarci.”
“Evvai!” Senza pensarci due volte, il bambino corse dentro la villa, assolutamente raggiante.
Takeru lo fissò con un sorriso incredulo per un istante ancora,
prima di sospirare e indossare il berretto. “Scusami. Ti stava
per caso cacciando via? Perché in quel caso -”
“Ma no, assolutamente!” Rispose Ken in fretta.
“- sarebbe normale. Oh.” Takeru tacque, decisamente
sgomento, e Ken si rese conto che probabilmente il ragazzo davanti a
lui doveva essere stato scacciato da un bambino a stento decenne.
Sembrava una storia imbarazzante, così si rifiutò
categoricamente di indagare.
“Se ho capito bene, state organizzando una specie di evento”, cercò di cambiare argomento.
“Ah, Keiji-chan te lo ha detto?” Takeru tornò a
sorridere, una strana gioia negli occhi. “Sì, è
così. Serve ad aiutare l’orfanotrofio, sai. Metteremo su
un mercatino di beneficienza, e abbiamo pensato di invitare anche una
band per l’intrattenimento. Conosci i Knife of Day?”
“Ah … credo di averli sentiti nominare.”
“Il frontman è mio fratello. A suonare dovrebbero essere loro – anche se Yamato ancora non lo sa.”
Aveva un sorriso strano, Takeru. Sorrideva come un morto resuscitato
per miracolo, aggrappato alla vita con tutto se stesso, col timore
costante che le ombre tornassero a ghermirlo.
“Avevo preso tutti quei giocattoli per metterli in vendita al
mercatino, ma i bambini hanno deciso che alcuni li vogliono
tenere”, continuò Takeru, facendo spallucce. “Vai a
capire perché. I loro sono più nuovi, perché
vendere quelli?”
Il cellulare vibrò di colpo nella sua tasca, e Ken si irrigidì completamente.
“Perché tu hai uno skateboard”, rispose d’istinto. “Vuoi scusarmi un attimo?”
“Ma certo.” Takeru batté le palpebre, e poi sorrise,
mettendo le mani in tasca e voltandosi verso l’entrata della
villa. Una serie di bambini sovraeccitati stava trasportando goffamente
un dondolo in legno a forma di cavallo e un aquilone stropicciato, con
tutta l’intenzione di inaugurare i nuovi giochi nonostante il
vento poco invitante di quel pomeriggio.
Ken si assicurò che lo sguardo del ragazzo fosse puntato altrove, prima di girarsi di scatto e afferrare il cellulare.
Il messaggio era di Rumiko.
Lo sai che se guardi troppo i bambini
passi per un poco di buono? Non sta bene, Ichijouji. Qualunque cosa
succeda, NON offrire loro caramelle.
Perché, invece che ai bambini,
non dedichi attenzione ad attraenti libraie? E’ un consiglio
spassionato, NATURALMENTE. Per niente interessato.
P.S. Se non si fosse capito … non vedo l’ora di rivederti.
Ken tornò a respirare.
“Ehi, voi! Attenti con quell’aquilone!” Takeru, di
colpo allarmato, si avviò a grandi passi verso un gruppetto di
bambini urlanti, e lo lasciò piantato lì, gli occhi
stupidamente fissi su quel messaggio che rimetteva il mondo a posto,
ancorava gli alberi a terra, rendeva il vento più mite.
Ken non fu mai più felice di scoprirsi uno sciocco, ad essere stato tanto in apprensione.
Non ho bisogno di caramelle per spaventarli, digitò in fretta. La mia faccia è già brutta a sufficienza.
Pensi che le attraenti libraie non ne
avranno timore? E’ l’unico pensiero che mi frena dal
tentare questa nuova attività.
Ken lanciò uno sguardo a Takeru, ora incastrato nel filo
dell’aquilone, intento a cercare di districarsi, circondato dalle
risate dei bambini. Poteva essere un buon momento per congedarsi,
pensò. Magari poteva invitare Rumiko a cena. Magari lei avrebbe
accettato, anche senza troppo preavviso, anche con un intero giorno
passato senza sentirsi …
Il cellulare vibrò nuovamente.
Brutta?! E’ palese che non hai senso estetico. O occhi, per quel che mi riguarda! Eretico.
Delle altre libraie non so, ma ce
n’è una in particolare che ha timore solo di una cosa: di
te che pensi. NON pensare. E vienimi a trovare.
D’accordo, doveva invitare Rumiko a cena. Senza magari.
Si ricacciò il cellulare in tasca, una ridicola esultanza a
rendere il suo passo baldanzoso, deciso ad allontanarsi il più
in fretta possibile da lì per andare da lei, senza pensare.
Pensare era diventato inutile, in quel momento.
Fu proprio allora che successe.
“Brutto stronzo!”
Il giardino intero trattenne il respiro.
Un ragazzo dai folti capelli rossicci era premuto contro il cancello
grigio, le nocche strette, il viso paonazzo. Sembrava fuori di
sé, e per un momento Ken si convinse che ce l’avesse con
lui per qualche motivo.
Poi si rese conto che il ragazzo infuriato non stava guardando nella sua direzione.
“Sono settimane che cerco di chiamarti – settimane! –
e ti fai trovare a giocare con dei mocciosi come se niente fosse?! Sei
impazzito?” Continuò a sbraitare, incurante dei bambini,
incurante di Ken. Aveva solo occhi per il ragazzo incastrato nel filo
dell’aquilone. “Che cazzo hai per la testa, Takeru?”
“Ha detto una parolaccia”, si mise a ridere un bambino sottovoce, e una sua compagna gli diede uno spintone.
“Daisuke-kun”, sussurrò invece Takeru, e poi nulla.
Ma Ken sussultò di colpo, e lanciò uno sguardo più attento al ragazzo contro il cancello.
E si ricordò di averlo già visto. In una fotografia,
accanto a una serie di altri volti, nei file dell’indagine che
Osamu gli aveva passato quando lo aveva contattato per la prima volta
in cerca di aiuto.
Motomiya Daisuke.
L’amico storico di Inoue Miyako.
Amico, a quanto sembrava, anche di Takaishi Takeru, il ragazzo dell’orfanotrofio.
Takeru non si era mosso, immobile al centro del gruppetto di bambini
chiassosi. Era pallido, le braccia molli contro i fianchi, gli occhi
puntati su Motomiya Daisuke, l’espressione di chi ha appena visto
un fantasma.
E Ken seppe che, infine, le ombre erano tornate a reclamare il loro tributo.
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