Purity

di Padme Undomiel
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** 1. Futuro oscuro, futuro incerto ***
Capitolo 3: *** 2. Famiglia ***
Capitolo 4: *** La ragazza scomparsa ***
Capitolo 5: *** Dimenticare ***
Capitolo 6: *** Incontri Inaspettati ***
Capitolo 7: *** Casa di fantasmi ***
Capitolo 8: *** Takaishi Takeru ***
Capitolo 9: *** Impossibile ***
Capitolo 10: *** You Are Not Alone ***
Capitolo 11: *** Frammenti di passato ***
Capitolo 12: *** Istinto ***
Capitolo 13: *** Stupida ***
Capitolo 14: *** Sconosciuto ***
Capitolo 15: *** Inquietudine ***
Capitolo 16: *** Barlume di luce ***
Capitolo 17: *** I più vicini estranei ***
Capitolo 18: *** Senza respiro ***
Capitolo 19: *** Le mura stanno crollando ***
Capitolo 20: *** Petali di ciliegio ***
Capitolo 21: *** Purezza ***
Capitolo 22: *** Confronto ***
Capitolo 23: *** Coraggio ***
Capitolo 24: *** Carte in tavola ***
Capitolo 25: *** Speranza ***
Capitolo 26: *** Resa ***
Capitolo 27: *** Attori E Spettatori ***
Capitolo 28: *** Le cose sono cambiate ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Purity prologo

Prologo

 

 

Batteva i denti per il freddo.

Stringeva quel piccolo fagotto tra le braccia, senza lasciarlo mai andare.

Correva. I suoi piedi non erano mai stati così veloci, così restii a fermarsi.

Le lacrime le scendevano copiose sulle guance pallide.

Quella grande villa, famosa in tutta la città, era ancora lontana, nonostante i suoi sforzi. E tuttavia, una parte di sé la pregava di rallentare, di cambiare la sua decisione.

La pregava di non rinunciare a ciò che aveva di più prezioso.

Un singhiozzo sfuggì dalle sue labbra, unica prova del suo cuore che sembrava lacerarsi.

Come poteva essere ragionevole, sapendo quanto avrebbe sofferto?

Come poteva cercare di fingersi forte, senza nessuno al suo fianco a dirle cosa fare?

Strinse più forte al petto il fagotto immobile, coperto perché non dovesse essere scoperto. Pregava con tutta sé stessa che le sue aspettative riuscissero ad essere appagate: almeno lui doveva sorridere.

Anche senza di lei. Probabilmente per sempre.

Perché il suo cuore era ancora intatto, mentre si aspettava che scoppiasse da un momento all’altro?

Sempre più vicina, sempre più vicina.

Non riusciva a fermarsi. La sua parte razionale stava vincendo su quella dei sentimenti. Non riusciva a smettere di correre a perdifiato, con il respiro corto, l’ansia visibile in ogni tratto del suo viso bianco come un cadavere, il dolore straziante nei suoi occhi scuri.

Si accasciò solo quando giunse davanti al portone, inginocchiandosi, incurante, sul duro e nero asfalto di quella strada tanto frequentata di Tokyo. Serrò gli occhi, cercando di trovare gioia e speranza nel pensiero della buona riuscita di quell’impresa.

Non sentì altro che una sofferenza inumana.

Non sapeva per quanto tempo fosse rimasta lì, immobile, rifiutandosi di affrontare la freddezza e l’indifferenza di quella notte scura, immobile e distaccata come sempre. Ma un movimento riuscì a distrarla, facendola sobbalzare violentemente.

Scostò piano una coperta dal suo fagotto, sentendo un groppo in gola impedirle persino di sfogare il suo dolore, alla vista di ciò che lo conteneva.

Dormiva.

Il suo piccolo corpo, protetto accuratamente dal freddo invernale, si alzava e si abbassava seguendo il normale ritmo della respirazione. I suoi occhi scuri erano chiusi, nella calma placida del sonno. I suoi capelli viola, corti e scomposti, coronavano dolcemente quel piccolo viso di bimbo che subito l’aveva colpita, fin dall’inizio.

Non seppe come, ma le sue labbra si piegarono in un sorriso straziato.

Accarezzò con un bacio una guancia paffuta della sua creatura, attenta a non svegliarlo. Non avrebbe potuto aspettare un istante di più.

“La tua mamma deve lasciarti qui, piccolo” bisbigliò, con voce rotta da numerosi singhiozzi senza lacrime. “Starai bene. Ti tratteranno bene. Ho sentito che si prendono cura dei bambini belli come te. Vivrai senza la tua mamma…”

Non era giusto.

Era l’unica cosa per cui fosse valsa la pena sbagliare tanto.

E il destino glielo portava via, senza darle possibilità di scelta.

“Crudele… cosa ti ho fatto? Cosa ti ho fatto?”

Cullò dolcemente il suo bambino, opponendosi tenacemente alla sua razionalità, che le imponeva di fare ciò per cui era venuta.

Piccolo mio… Piccolo mio…

Era tutta colpa sua. Aveva sbagliato tutto, e ora sarebbe stato lui a pagarne le conseguenze.

Lui, che non c’entrava nulla, che si era affacciato alla vita da soli due mesi.

Lui, che le aveva illuminato le giornate per il tempo che lei aveva potuto amarlo e accudirlo.

Lui, che dormiva, senza sapere cosa gli sarebbe accaduto.

Quale sarebbe stato il suo destino? Avrebbe vissuto ancora? Avrebbe giocato come tutti i normali bambini? Avrebbe sentito la mancanza della sua mamma, di un papà?

Avrebbe pianto, nelle notti di temporale?

Sarebbe cresciuto splendido e forte, come lo immaginava lei?

Lo avrebbe rivisto?

Si costrinse ad alzarsi, piantando le unghie nella carne del braccio fino a farle sanguinare. Doveva essere forte per lui, per garantirgli un futuro.

Era l’unico atto da mamma che una ragazza stupida e egoista qual era poteva offrirgli.

Guardò per l’ultima volta quel viso sereno, dicendogli addio con la morte nel cuore. Era la cosa migliore. Era l’unica soluzione che aveva per le condizioni di vita in cui aveva costretto a far vivere suo figlio.

Doveva lasciarlo lì.

Doveva affidarlo ad altri, che avrebbero badato a lui meglio di quanto avrebbe potuto fare lei. Meglio, e con molta più esperienza.

Fu la forza della disperazione a spingerla ad adagiare dolcemente il piccolo che aveva la tra le braccia. Con lui, un breve messaggio, una breve richiesta d’aiuto.

Gli posò solamente un ultimo bacio sulla fronte.

“La tua mamma ti vuole bene. Ricordalo, se puoi.”

Agì in fretta.

Bussò al campanello insistentemente, correndo poi più veloce che poté.

Si nascose dietro un grande albero del giardino, trattenendo i singhiozzi per non farsi sentire, pregando che qualcuno rispondesse, prima che lei potesse ripensarci.

Aprite quella dannata porta… Vi supplico, apritela…

La porta si aprì, diffondendo nell’aria il suono di mille chiacchiere serene.

Una ragazza della sua età si affacciò, incuriosita. Era mediamente alta, magra e  aveva i capelli castano scuro, corti e lisci. Era vestita in maniera semplice, probabilmente non aspettandosi di ricevere nessuno, e niente in lei sembrava far pensare che fosse qualcuno di non raccomandabile.

Dai suoi occhi scesero altre lacrime di speranza. Avrebbe badato lei a suo figlio.

Vide la giovane sobbalzare, nel momento in cui scorse quella piccola testolina viola spuntare da quel mucchio di coperte malandate. La vide sporgersi verso di lui e prenderlo in braccio, sorpresa.

E un urlo muto risuonò dentro la sua testa.

Ha preso con sé mio figlio!

Ma non poteva fare altro che restare immobile, a versare tutte le sue lacrime.

“Un altro piccolo abbandonato” la sentì mormorare, intenerita. La sua voce era dolce: non l’avrebbe mai dimenticata. “E questa cos’è?”

La ragazza dai capelli scuri prese la lettera, e lesse il suo contenuto.

Lei si chiese stupidamente se il messaggio fosse leggibile, scritto con la mano tremante di chi preferirebbe morire piuttosto che fare una cosa del genere. Ricordava quanto le era costato scrivere quelle brevi, orribili frasi che le avevano straziato il cuore.

“E’ nelle vostre mani, adesso. So che accudite molti senzatetto, e mio figlio non è da meno. Ve lo affido perché possa crescere e vivere, come non ha potuto fare con me.”

Non aveva firmato.

Da quel momento, il suo nome doveva essere dimenticato. Era finita.

Ma la sua supplica non poteva essere ignorata.

La giovane non lo fece. Sorrise dolcemente al bambino che dormiva, e richiuse la porta dietro di sé.

La fama di quella villa aveva un motivo, allora.

Si allontanò a passo malfermo, non riuscendo più a restare a guardare la sua perdita.

Non aveva più forze.

Non aveva più lacrime da versare.

Non aveva più un cuore.

Nemmeno un’identità, mentre pensava a ciò che le restava da fare, a ciò che sarebbe stata lontana dai suoi cari e da tutto ciò che aveva.

Guardò il suo riflesso su una vetrina spenta.

E mai, mai il suo viso smagrito, i suoi occhi arrossati dietro un paio di occhiali, la linea sottile della sua bocca le erano sembrati così vuoti.

Diciotto anni erano troppo pochi per ciò che le era successo.

Ma sembravano essere abbastanza per fuggire via e costruirsi un nuovo avvenire. Corse, mentre il vento gelido di una notte bigia di dicembre le sferzava violentemente i lunghi capelli viola lasciati scomposti sulle spalle.

Ecco una nuova idea di long-fic che avevo in mente da qualche tempo. Dopo un periodo di riposo durato alcuni mesi, sono di nuovo pronta per dedicarmi ad un'altra delle mie storie... che sono certa sarà più lunga e impegnativa della prima. E sarà anche molto diversa dalla precedente.
Gli ingredienti di questa storia sono mistero, azione, e, soprattutto, il bisogno di ritrovare se stessi quando ci si crede perduti, e l'importanza che l'incontro casuale con persone importanti e speciali ha nel destino delle persone. E, naturalmente, amore. Quello vero, incondizionato.
Spero davvero che l'idea possa piacervi: ci tengo molto a conoscere le vostre opinioni a riguardo. Ogni commento, qualunque sia, sarà sicuramente benaccetto!
Padme Undomiel

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Capitolo 2
*** 1. Futuro oscuro, futuro incerto ***


Purity cap 1

1.

 

Futuro oscuro, futuro incerto

 

 

“Chiudi gli occhi e sta’ in ascolto, ora.”

“In ascolto? Di cosa?”

“Di tutto. Senti il rumore del vento tra le foglie.

Scaldati alla luce del sole.

Sfiora con una mano la delicatezza di una foglia appena nata.

Ascolta la vita, e trovale un senso.”

Tutt’intorno a lui, la vita appariva sempre più ricca, sempre più immensa e grandiosa.

Come poteva spiegare a parole l’insieme di sensazioni che avvertiva?

“Tutto ha un senso, anche le cose più piccole, anche quelle che sembrano insignificanti”

Fu la risposta, nel buio dei suoi occhi chiusi.

“Senza uno di questi elementi, non sarebbe mai la stessa cosa.

Saremmo privati di un dono inestimabile, proprio perché ogni elemento, in natura, ha uno scopo.

Perfino questa foglia tenera sarà utile a suo tempo, per tutto il tempo che durerà.”

All’improvviso, un grande senso di angoscia.

Una strana tristezza si impadronì all’istante del suo cuore.

L’altro, in ascolto, lo capì.

“Se resti qui, quale sarà il tuo scopo? Per chi sarai indispensabile?”

Silenzio, più eloquente di mille parole.

Non lo sapeva.

Non lo sapeva affatto.

 

Era immobile sulla porta, le valigie in mano, il buio delle finestre chiuse che lo accoglieva.

Non riusciva quasi a credere di essere tornato lì. Da solo.

Ogni singolo istante di silenzio sembrò gravare su di lui, più del peso delle sue valigie, abbandonate bruscamente sul ciglio della porta.

Gli parve tutto così privo di senso da gettarlo in uno stato di sconforto incommensurabile.

Richiuse la porta d’ingresso del suo appartamento, con lentezza, quasi con solennità, sapendo che questa svolta, nella sua vita, sarebbe stata decisiva per il suo futuro.

Entrò piano, ascoltando il rumore dei suoi passi incerti, e la frescura data da tutto il tempo in cui quel luogo era stato privato dalla luce del sole, in totale contrasto con il clima piacevole di quella bella giornata di primavera.

Spalancò le finestre e aprì le serrande, sentendo un impellente bisogno di luce, così calda, così rassicurante in quel momento.

Si affacciò, osservando il panorama consueto della città di Tokyo.

E, finalmente, si concesse un sorriso, rassicurato.

Takaishi Takeru era davvero affezionato al luogo dov’era cresciuto: ogni alto edificio, sobrio e avanzato, ogni soffio di vento che tanto sapeva di ritorno a casa, ogni rumore di clacson, nel caos del traffico giornaliero, ogni corsa di passanti per arrivare in tempo al lavoro, ogni immagine di frenesia nei volti di chi passava, riusciva a donargli un senso di benessere temporaneo, che sembrava essere scomparso da qualche tempo.  

La frustrazione, che lo affliggeva da mesi, gli lasciò appena un attimo di tregua.

Era tornato. Era finalmente a casa.

Era così strano, tuttavia, pensare che, da quel momento, non avrebbe più dovuto occuparsi di nessuno, che ora tutto ciò che poteva fare era riprendere i suoi studi e pensare solo a condurre una vita tranquilla, come ogni normale ragazzo ventitreenne dovrebbe fare.

Forse, però, lui non voleva condurre una vita in maniera tanto ordinaria.

Forse, il suo modo di trascorrere ogni giorno di qualche mese fa lo rendeva più appagato, sebbene fosse decisamente più duro e pieno di rimpianti per ciò di cui lo aveva privato.

Sospirò, fissando lo sguardo su alcune macchine in movimento, per la strada.

Non era certo la solitudine a spaventarlo: aveva imparato fin da bambino a cavarsela da solo, senza mostrare esitazione nell’affrontare difficoltà e momenti di tristezza.

Avrebbe affrontato senza pensieri ogni cosa, se non fosse stato per un problema.

Il problema era l’inutilità della sua vita attuale: lo spaventava, e lo lasciava senza punti di appiglio a cui aggrapparsi.

Più ci pensava, più non riusciva a capire cosa ci fosse che non andava in quello che faceva. L’università, che aveva cominciato a frequentare dalla fine delle scuole superiori, gli aveva sempre riconosciuto meriti molto elevati, che riuscivano a soddisfare il suo grande impegno nello studio; la sua famiglia, pur se separata da tanti anni, era sempre stata per lui un punto fermo, appoggiandolo e aiutandolo quando ne aveva bisogno; gli amici non gli erano mai mancati, a volte sinceri e indispensabili che frequentava ancora, o che aveva frequentato fino a pochi mesi prima.

Aveva tante attitudini, coltivati durante gli anni dell’adolescenza e della sua crescita, tra cui la pallacanestro, alla quale si dedicava durante il tempo libero, per distrarsi dai più tristi pensieri.

Eppure, qualunque cosa facesse, la sua esistenza sembrava solamente di contorno, di scarsa importanza.

Era come se qualcuno, crudelmente, avesse coperto con vernice bianca ogni mattonella di un edificio colorato da tinte vivaci e che evocavano sentimenti profondi: tutto ciò che restava era una struttura uguale alle altre, anonima e svuotata da tutto l’impegno di chi l’aveva costruita con passione e grande applicazione, senza alcun dettaglio, anche insignificante, che riuscisse a differenziarla dalle altre.

Così vedeva tutte le sue azioni, Takeru: come spreco di impegno e di energie, soffocate da un senso di frustrazione che rendeva ogni sua voglia di rendersi utile senza senso.

Era un edificio anonimo, formato da mattonelle immacolate di scarsa importanza.

Da quando aveva preso totalmente consapevolezza di sé e delle sue aspirazioni, aveva sempre desiderato di rendersi utile per qualcuno, di agire in maniera tale che il suo impegno risultasse indispensabile per gli uomini, che fosse ricordato per qualcosa di bello, di appagante, di rasserenante.

Aveva tentato tante volte, in questi ventitrè anni, senza sosta, senza darsi pace.

Tentato.

Si era maledetto varie e varie volte, senza mai porre fine alla sua frustrazione.

Nessuna delle strade che sembravano tracciarsi chiare davanti ai suoi occhi riuscivano a concretizzarsi, svanendo e perdendo d’importanza nel momento in cui Takeru decideva di intraprenderle. A cosa servivano i suoi studi, se la sua passione non riusciva mai a dargli un frutto concreto, piacevole, soddisfacente? A cosa serviva la pallacanestro, dato che sapeva che non sarebbe mai diventato un giocatore di fama internazionale per sua scelta?

A cosa serviva la famiglia, se, nel momento in cui lui decideva di aiutarli a risolvere qualche problema, appariva chiaro che quello non era il suo destino, che doveva staccarsi da loro il più possibile?

Sorrise mestamente, mentre passava una mano tra i suoi capelli corti colore del grano.

Si era impegnato a fondo, l’ultima volta, e anche allora credeva di aver trovato qualcosa di giusto a cui applicarsi. Evidentemente, però, suo fratello Yamato non era dello stesso avviso.

 

“A qualcuno servirò, lo so che servirò.”

“Non ne sei sicuro, Takeru. Perché cerchi di illuderti?”

“Hai bisogno di aiuto, e io intendo darti i mezzi necessari per farti riavere tutti quegli strumenti che ti hanno rubato. Da solo non riuscirai mai a…”

“Non reggerai tutto questo stress. Ti stai spegnendo, e nemmeno te ne accorgi.

E’ la mia vita che cerchi di salvare, ma non credere che ti darà soddisfazione:

risolverò il problema, presto o tardi, e allora tu cosa farai?”

“Voglio rendermi utile adesso, voglio aiutare mio fratello, i miei amici…”

“E dopo? Aspetterai che io sia di nuovo nei guai per sentirti bene?”

“Non capisco… Cosa stai dicendo?”

“Vai via da qui, Takeru.”

“… Cosa?”

“Torna a Tokyo, riprendi la tua vita e lasciami qui.”

“Mi stai… scacciando? Perché? Io…”

“Lo hai detto tu stesso: ogni essere vivente trova il suo scopo, nella vita.

E credimi, se ti dico che questo non è il tuo.

Non è me, che devi aiutare: sei solo tu, ma non te ne vuoi rendere conto.

Credi davvero che quella pianta che hai sfiorato con le dita sarebbe viva, se non avesse trovato il terreno giusto?

Se ti lasci morire dentro, difficilmente guarirai.”

“Yamato, ma…”

“E’ necessario che tu mi dia retta.”

 

Takeru sospirò, allontanandosi dalla finestra e cominciando a disfare le valigie, con l’unico intento di trovare qualcosa da fare per allontanare le sue preoccupazioni dalla mente.

Quel ricordo non voleva lasciarlo andare, a quanto pareva.

La verità era che quelle parole lo avevano ferito profondamente: Yamato non aveva l’abitudine di parlare molto, ma le sue frasi erano sempre cariche di significato, come quella volta. Non si era preoccupato di smorzare i termini, costringendolo ad aprire gli occhi sulla realtà e sulla vita insensata a cui si stava condannando.

Per un momento, aveva creduto sul serio che aiutare suo fratello maggiore e la sua band a recuperare gli strumenti che qualcuno aveva rubato loro senza riguardi e senza contegno e freno, lo avrebbe fatto sentire realizzato, impegnato a fare qualcosa di utile.

Quel discorso lo aveva fatto risvegliare da quell’apparente stato idilliaco di soddisfazione in cui era caduto: aveva avuto il potere di farlo tornare nel suo piccolo appartamento a Tokyo, dopo aver vissuto per un paio di mesi a Osaka dove era Yamato, di fargli riprendere i suoi studi universitari e la sua ricerca disperata di uno scopo.

Ma non era felice.

Aveva solo voglia che tutto si concludesse in qualche maniera.

Nell’estrarre un block notes di colore nero si fermò di colpo, come se avesse ricevuto un colpo all’altezza dello stomaco.

Quante volte aveva desiderato di strapparli, quei fogli senza senso?

Quante volte aveva pensato di terminare anche questa sua grande passione, visti gli scarsi risultati che aveva il suo assiduo lavoro?

Takeru non ebbe la forza di aprirlo, di sfogliare quelle pagine piene di cancellature, di frasi senza senso, di “x” che cancellavano, alle volte, righi interi occupati dalla sua scrittura stretta e ordinata.

Erano le storie che aveva scritto negli ultimi mesi.

Erano le storie prive di sentimento, piene di freddezza e di incompletezza, che avevano solamente contribuito a demoralizzarlo.

Erano il parto malriuscito di tante idee chiare e perfette nella sua mente.

Erano il fallimento del suo esperimento che andava avanti da anni.

Si sedette sulla poltrona più vicina, posando il suo sguardo colore del cielo sulla trama della copertina. Scrivere aveva rappresentato la sua grande passione fin da piccolo, quando aveva dedicato una poesia a sua madre, all’età di otto anni: ricordava che lei ne era rimasta davvero impressionata, e aveva deciso di continuare per questa strada, con maggiore impegno e sempre più grande passione per quest’attività.

Con il passare degli anni, però, i suoi lavori avevano cominciato a divenire senza alcun senso, privi di qualsiasi emozione e di caratterizzazione di personaggi. Era rimasto sconvolto, inizialmente, per poi reagire correggendo, rileggendo, lambiccandosi il cervello per ore e strappando innumerevoli volte le pagine che non andavano, che rovinavano l’effetto che voleva che suscitasse.

Solo ultimamente, però, aveva capito.

Non erano solo pagine, che non andavano: erano tutte le storie, senza possibilità di fare alcunché per risolvere il problema.

Si era rassegnato a malincuore, pensando di non avere scelta.

Dentro di sé, però, un senso di sconforto profondo era riuscito a peggiorare la sua situazione di tristezza e insoddisfazione. Continuava a chiedersi se, un giorno, ogni sua domanda avrebbe avuto una risposta, ma sentiva che, probabilmente, quel giorno non sarebbe mai arrivato.

Cosa intendeva Yamato, quando parlava di terreno giusto? Aveva qualcosa in mente, o aveva parlato in maniera generica?

Così sconfortante, il sapersi solo ad affrontare i suoi timori…

Un improvviso vociare, proveniente dalla finestra aperta, lo fece sobbalzare, sorpreso.

Sembrava un insieme di voci infantili, che ridevano e strillavano allegramente, come solo i bambini spensierati sanno fare.

Takeru si alzò in piedi, incuriosito. Il dolce chiasso che entrava nell’appartamento era davvero troppo forte, per appartenere a pochi piccoli che giocano insieme: possibile che ci fosse un qualche asilo, nei paraggi?

Poteva darsi che fosse rimasto fuori città per troppo tempo, dopotutto.

Si affacciò nuovamente alla finestra, scrutando se, nei dintorni, ci fosse la fonte di tante risate serene e un po’ birichine. Osservò palazzi, cercò tra i soliti passanti frettolosi, scrutò, un po’ perplesso, tra le file di auto parcheggiate e tra le strade accanto alle case abitate, senza, però, arrivare a capo di questa stranezza.

Solo quando ebbe fissato lo sguardo su una villetta circondata da un giardino verde –cosa abbastanza rara, in una città molto priva di spazi verdi qual era Tokyo – poco distante da dove si trovava lui, sgranò gli occhi, sinceramente sorpreso.

Un grande gruppo di bambini, di età diversa e di ogni tipo e carattere, si rincorreva e giocava dando calci ad un pallone, come se fosse il massimo divertimento che un essere umano possa mai sperare di ottenere. Altri, invece, erano seduti sull’erba, soprattutto bambine, da quello che Takeru riusciva a notare, e avevano in braccio alcuni giocattoli: immaginò che fossero bambole, che le piccole di quell’età immaginano siano le loro figlie.

Ma la cosa che colpì più di tutti il giovane che osservava la scena, non credendo ai suoi occhi, era il clima di tranquilla complicità che regnava in quella villetta.

Da quanto tempo non sorrideva più in quella maniera tanto ingenua e spontanea?

Da quanto tempo aveva dimenticato come si faceva ad essere davvero felice?

Anche i bambini sapevano vivere meglio di lui, a quanto sembrava.

Un lieve sorriso increspò le sue labbra, spesso rigide in un’espressione seria.

Era davvero strano, pensare che anche lui era stato un bambino, un tempo.

Troppo tempo fa, in effetti. Prima che la sua crescita lo lasciasse a brancolare nel buio, senza una sola candela a indicargli la strada.

Vide, con rinnovato stupore e senza che riuscisse a spiegarsi la cosa, parecchi ragazzi non molto più grandi di lui, a quanto sembrava, prendere parte ai giochi dei bambini. C’era un giovane dai capelli scuri, grintoso e veloce, che prendeva improvvisamente possesso della palla, ridendo e correndo piano abbastanza per farsi rincorrere agevolmente dai piccoli che giocavano, urlando, probabilmente, incoraggiamenti a fare di meglio; una ragazza, più in là, dai corti capelli rossi, che posizionava un piccolo spuntino su una tovaglia appoggiata sul prato, con una cura e pazienza che dava dell’incredibile; un’altra, forse più giovane della prima, dai lunghi capelli castani, aiutava un gruppo di bambine a vestire e pettinare le bambole, parlando allegramente di chissà cosa con loro, come se si stessero consultando su ciò che poteva essere meglio per le loro figlie; un ragazzo dai capelli scuri e dagli occhiali, invece, assisteva, con aria decisamente apprensiva e timorosa, ai giochi pericolosi tipici di alcuni piccoli bambini, intenti a lottare con due rami usati a mo’ di spade; infine, una giovane, forse la più piccola di tutti i ragazzi, con i capelli scuri corti fino alle spalle circa, abbracciava dolcemente e accarezzava i capelli a una bambina in lacrime, tentando di consolarla, probabilmente, di qualche dispetto che aveva subito da uno dei suoi piccoli amici.

Sembrava che tutti avessero qualcosa da fare, e che se ne occupassero con gioia.

Takeru non riusciva a capire. Non poteva essere una famiglia, perché erano decisamente in troppi per essere tutti fratelli e sorelle; inoltre, non c’era traccia di una figura paterna o di una materna: i più grandi potevano, al massimo, essere fratelli maggiori.

Una scuola, forse?

Ma no, era impossibile: sembrava una villa dove le famiglie agiate passano la vita, non una sede di studi.

Aggrottò le sopracciglia, decisamente confuso.

Poteva darsi che fosse un orfanotrofio?

Non sapeva darsi una risposta, mentre ascoltava il richiamo quasi materno della ragazza dai capelli rossi a fare merenda. Quello che sapeva, però, era che voleva saperne di più, riguardo a quella villa piena di sentimenti positivi, visibili anche dalla finestra di un appartamento troppo grande per un solo ragazzo.

Come potevano avere tutti uno scopo tanto preciso?

Come potevano apparire così determinati ad accudire quei bambini?

Cosa li spingeva a donarsi completamente a loro e ai loro giochi?

Un senso di invidia lo colpì all’improvviso, senza che lui potesse farci nulla. Avrebbe voluto essere altrettanto sicuro e fermo, in quello che faceva, avrebbe voluto aiutare qualcuno come quella ragazza dall’aspetto dolce che prendeva per mano e accompagnava verso il piccolo buffet un bambino dai capelli viola, più restio ad unirsi alla folla.

Strinse i pugni, prendendo una decisione improvvisa.

Afferrò il cappotto abbandonato sul divano, infilandolo, e aprì la porta del suo appartamento, uscendo e chiudendolo a chiave.

Mentre scendeva le scale, troppo impaziente e ancora con gli occhi pieni di quella visione dolce che lo aveva fatto sentire così inutile, sorrise lievemente, divertito dalla sua pazzia momentanea.

Forse non avrebbe risolto nulla, cercare di capire cosa stessero facendo tutti quei ragazzi in mezzo a quei bambini. Forse sarebbe tornato a casa con un senso di nuova sconfitta e frustrazione, ma al momento non gli interessava.

Quello che voleva, in realtà, era solo osservare da vicino quella sorta di paradiso in terra.

Voleva solo bearsi di un po’ di serenità, dato che la cercava da tanti, lunghissimi anni.



Ciao a tutti! Ecco il mio primo capitolo pubblicato! Si tratta, effettivamente, solo di un capitolo di presentazione, ma indispensabile per cominciare la storia! Takeru avrà un ruolo fondamentale nella vicenda, e ci tenevo a presentarlo accuratamente tramite un intero capitolo! :)
In ogni caso... Vorrei davvero ringraziarvi per le recensioni che mi avete lasciato, che mi hanno fatto veramente sentire bene!
Un sentito grazie a Shine, come sempre pronta a recensirmi! Se penso a quanto tempo hai aspettato per tornare a recensirmi... So che hai aspettato tanto tempo prima di vederla pubblicata (sei stata la prima a leggerla, comunque :)), ma adesso è qui, e spero che continuerai ad apprezzarla! Mi fa piacere sapere che il mio prologo ti abbia convinto, pur con quella frase che non ti è chiara... Mi impegno a soddisfarti sempre e comunque, e aspetto sempre un tuo commento e parere! Grazie ancora per tutti i complimenti che mi fai, ti voglio un mondo di bene! :D
A HikariKanna un ringraziamento per aver letto, apprezzato... e per essere venuta di persona a riferirmelo! ** Che dire, sono felice che ti sia piaciuto il prologo, e mi dispiace per il mal di testa che ti ho causato! XD E neanche in questo capitolo posso darti informazioni sull'identità delle due donne (anche se, forse, un accenno a una delle due l'ho lasciato!) Beh, il tempo per scrivere l'ho trovato, malgrado il classico e i suoi impegni... e spero tanto che continuerai a seguirmi! Un bacio!
Mystery Anakin dovrebbe essere fiera di quello che fa per me, continuando a leggere le mie storie anche qui! :D Chissà, forse un giorno ti verrà curiosità e ti informerai... Veroo? ^^ Grazie per i complimenti: sono felice di averti interessata! Per l'identità della madre che abbandona suo figlio, mi dispiace dirti che non posso rivelarlo subito: se leggerai anche i prossimi aggiornamenti lo saprai, promesso! Sono curiosa di sapere un tuo parere su questo capitolo! Tvtb!
Sono felice di aver ritrovato anche Suzuna, dopo tanto tempo! Mi mancavano le tue recensioni, e sinceramente speravo anche in un tuo commento positivo... Davvero ti piace? ** Sono contenta, e spero di non deludere le tue aspettative! In ogni caso, ce la metterò tutta, promesso! :) Mi fai sapere anche su questo? Ti ringrazio tantissimo! Alla prossima!
Per Siorachan mi sento un po' in colpa: mi dispiace di aver scelto le coppie che ti piacciono di meno, se hai capito quali saranno! :( Deve essere un po' scomodo leggere, con questo presupposto... In ogni caso, mille grazie per i complimenti: sono davvero molto graditi! Se avrai ancora voglia di seguirmi, sono curiosa di conoscere anche la tua opinione riguardo questo capitolo! Un saluto!
Oltre ai ringraziamenti, sono felice che Roe abbia indovinato l'identità delle due donne del prologo! :) Che dire, sono onorata di averti incuriosita, visto che è da un po' che non leggi molto su Digimon, e proprio per questo sono felice e grata del tuo interesse! Aspetta e vedrai: per Ken ho in mente qualcosa che, immagino, non potrai capire prima del tempo... ^^ Spero che il tuo interesse rimanga acceso anche dopo questo cap, e comunque sono aperta a sentire la tua opinione! Fammi sapere, e grazie! Un abbraccio!
Ci vediamo alla prossima, appena possibile!
Padme Undomiel


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Capitolo 3
*** 2. Famiglia ***


Purity cap 2

2.

 

Famiglia

 

 

Quella mattina, i bambini erano davvero irrequieti.

Strilla indignate e spintoni sembravano essere permessi, mentre un gran numero di piccoli si accalcava sulla tavola imbandita per poter afferrare qualcosa da mettere sotto i denti.

“Non è giusto! Quello era mio!”

“Non è vero, l’ho visto prima io, trova qualcos’altro.”

“Ma le altre cose non mi piacciono! Voglio quella merendina!”

“Ehi, ne voglio anche io, spostati!”

“Sei cattivo, mi hai fatto male…”

Yagami Hikari osservava la scena da lontano, ridendo intenerita. Qualcosa le diceva che i bambini erano davvero affamati: stavano litigando parecchio tra loro, anche più del solito… Il che dava da pensare.

Poteva darsi che fosse perché, in una bella giornata di sole come quella, avessero deciso all’unanimità di divertirsi il più possibile, cancellando completamente dalla loro mente l’eventualità di un po’ di tranquillità senza mettersi a litigare sulla quantità di cibo che spettasse ciascuno.

Più li osservava, più la giovane si rendeva conto di quanto la spontaneità dei bambini fosse un balsamo per gli animi disillusi degli adulti. Avevano quella strana capacità di essere sempre sinceri e spontanei, qualunque cosa facessero: dimostravano il loro affetto con gesti semplici ma pieni di sentimento, anche nelle piccole cose; la loro risata poteva scaturire dal volo leggero di una farfalla variopinta, o dai colori suggestivi dell’arcobaleno che apparivano nel cielo dopo un acquazzone; le loro lacrime erano in grado di smuovere persino l’animo più freddo e cinico, senza possibilità di scelta; persino quando litigavano erano spontanei, perché non erano capaci di un sentimento tanto privo di scrupoli qual era l’odio, tipico degli adulti, ma rivelavano chiaramente gli eventuali problemi e li aiutava a relazionarsi meglio.

E, anche se non apparteneva totalmente alla categoria degli uomini troppo cresciuti per poter sognare un po’, sentiva che aveva tanto bisogno della presenza di quelle piccole pesti quanto loro ne avevano di lei.

La cambiavano un po’ ogni giorno, senza che lei potesse o volesse farci nulla.

Osservò, con un moto di apprensione, la quantità di cibo posta sulla tavola, chiedendosi se sarebbe stata sufficiente per tutti, in modo da non creare scompiglio.

“Speriamo non si facciano male” disse, rivolta alla ragazza più grande che stava in piedi al suo fianco.

L’altra sorrise, lanciandole quell’ occhiata rassicurante che tanto la contraddistingueva. “Non preoccuparti, Hikari-chan: sono bambini maturi, vedrai che faranno presto pace” rispose semplicemente, ma a Hikari non sfuggì l’occhiata lievemente preoccupata che aveva lanciato al resto dei ragazzi, che dovevano occuparsi della distribuzione della merenda. “E poi, si presume che tuo fratello Taichi e Mimi-chan sappiano come risolvere la situazione.”

Lei ridacchiò.

Takenouchi Sora era sua amica da tanto tempo, da quando Taichi, suo fratello maggiore, l’aveva conosciuta sul campo da calcio, ma in tutti quegli anni non era mai cambiata del tutto. Era sempre sua grande caratteristica, quella di essere un punto di riferimento saldo per chi la conosceva bene: era per questo che Hikari era sempre andata molto d’accordo con lei.   

Era la sua confidente, colei che riusciva sempre a trovare un rimedio pratico ai problemi che si affacciavano, e una ragazza determinata, orgogliosa e indipendente che non si lasciava sottomettere da nessuno.

Non aveva esitato un solo istante a coinvolgerla nel progetto di sua madre… Anche se, tutto sommato, Taichi aveva insistito molto più di lei per prendere questa decisione.

“E’ bello sapere che, almeno loro, non hanno preoccupazione alcuna” aggiunse Hikari, non senza nascondere una punta di malinconia nel tono di voce. Osservò, con aria assente, i tentativi degli altri ragazzi che lavoravano con lei e Sora di calmare gli spiriti ribelli dei bambini, mentre il suo pensiero andava all’impegno che si erano presi, a tutti i sacrifici ai quali si erano sottoposti per mandare avanti quel progetto così impegnativo, e a come tutto sarebbe potuto svanire da un momento all’altro a causa delle complicazioni che avevano trovato sulla strada.

Di certo, se sua madre fosse stata ancora viva, non avrebbe approvato tutto quel disinteresse.

Sora le cinse le spalle con un braccio, comprensiva. “Dai, non ti abbattere: troveremo il modo di garantire sempre la serenità a questi bambini. Fidati” le disse, con un sorriso gentile. “Ce l’abbiamo fatta fino ad adesso, non è proprio possibile che tutto vada a rotoli proprio quando sembra che il progetto stia andando meglio.”

“Sora-san, rispondi sinceramente” ribatté Hikari, a testa bassa. “A quante persone importa di una casa di accoglienza per bambini orfani? Quanti di loro si impegnerebbero nell’aiutare queste povere anime abbandonate?”

Questa volta, la ragazza maggiore rimase in silenzio, che gravò come una dura conferma nel cuore della giovane dai corti capelli castani.

Certe volte, un senso di profonda tristezza la opprimeva, mentre ritornava con la mente a quei giorni lontani, quando sua madre, Yagami Yuuko, aveva cominciato a rendersi conto della quantità di abbandoni di bambini ogni giorno, a causa del disinteresse di alcune mamme nei confronti dei loro figli.

“Come si può pensare di rinunciare alla parte più pura della società di oggi?E’ un vero e proprio delitto” era solita dire alla sua famiglia, con il suo tono indignato e pieno di dolore per la sofferenza di quei piccoli senza l’affetto di un padre e di una madre. “Si dovrebbe fare qualcosa, e al più presto, prima che si distrugga completamente la loro possibile felicità.”

Qualcosa, alla fine, l’aveva fatta lei, ricordò, con un moto di nostalgia verso quella donna straordinaria qual era sua madre. 

 

Era senza parole, ferma sulla soglia della porta.

“Mamma… Che cos’hai in grembo?” Domandò Taichi, perplesso. 

La donna rimase in silenzio, con un sorriso triste sulle labbra.

Si tolse il cappotto, dirigendosi verso la camera da letto.

“C’è una sorpresa, da oggi in poi.” Disse.

Hikari vide il mucchio di stracci muoversi tra le sue braccia.

Capì, e sussultò: non poteva crederci.

“Davvero? Di che tipo?” Chiese invece suo fratello, seguendola.

“E’ un… bambino, quello che hai in braccio?”

Vide gli occhi del maggiore tra i due spalancarsi, sbigottiti.

Quelli della mamma, invece, erano sereni.

Posò il piccolo –no, era una bambina- sul letto, ed estrasse dalla busta della spesa alcuni pannolini.

Pareva che avesse pensato a tutto.

“Esatto. Da oggi in poi, penseremo noi alla piccola Arika: farà parte della famiglia, e voi la tratterete come tale.”

Osservò sua madre coccolare la bambina in lacrime, e si sentì toccata dal candore di quella scena.

“Dove l’hai trovata? Come mai è qui?” Chiese, mentre un sorriso le si dipingeva sulle labbra.

“Ricordi quella famiglia che vado a trovare da qualche tempo? Quella che abita in periferia?”

Sua madre gliene parlava spesso, e non senza un moto di dolore: erano in tanti, e molto poveri.

Annuì, ansiosa di sapere il resto.

“I figli minori si sono ammalati, e la signora si sta davvero facendo in quattro per curarli.”

Fu la spiegazione, mentre vestiva Arika con una tutina gialla.

“Mi sono offerta di crescere questa bambina per qualche tempo, finché i suoi fratelli non saranno totalmente guariti. Con sette figli, non è mica facile, la loro vita.”

La signora Yagami alzò lo sguardo, cercando quello scuro dei suoi figli.

Hikari vide una punta di preoccupazione nello sguardo della donna, e ne rimase sorpresa.

Sembrava avesse paura di sconvolgere la loro vita di ogni giorno.

Si volse a guardare Taichi, e fu felice di notare un’aria di approvazione nella sua espressione.

“Non ti serve chiedere una risposta: una piccola peste in più non ci farà male.” Affermò Taichi, sorridendo. “E poi, sembra abbastanza vivace: sarà un bel cambiamento.

Hikari non si è mai divertita, quando era alla sua età!”

Hikari rise in risposta, sedendosi accanto alla bambina, sul letto.

“Sarà come una sorella in questi giorni, mamma. Promesso.”

Yuuko sorrise, abbracciandola forte.

“Grazie. Lo sapevo che avreste capito.”

 

Arika era rimasta con loro per un mese,  accudita e coccolata da ogni membro della famiglia. Ricordava la tristezza che li aveva colti, quando erano venuti a sapere che la famiglia era pronta a ricevere nuovamente la piccola: per loro, accudirla era stato un balsamo per la stanchezza e la tristezza che li prendeva durante le giornate più dure.

Ed era da quell’episodio, che avevano capito una cosa importante: accudire i bambini era in grado di dare loro una delle gioie più grandi in tutta la vita.

E allora, sua madre aveva deciso.

Un orfanotrofio.

Un orfanotrofio gestito dall’intera famiglia Yagami.

Un luogo che avrebbe accolto ogni bambino senzatetto, senza alcuna distinzione o discriminazione. Un luogo sicuro, caloroso, ricco dei migliori sentimenti e del più grande amore verso quei piccoli, grandi ometti che sarebbero cresciuti senza dei punti fermi, senza delle certezze.

E Yagami Yuuko ci aveva davvero creduto, in questo progetto.

Avevano venduto la loro casa, optando per una villa più grande, più spaziosa, con un giardino progettato per far giocare i loro piccoli ospiti. Una villa, non più la dimora semplice che era prima: una dimora messa in comune, senza chiedere nulla in cambio.

Tanti gli scettici, inizialmente. Hikari li ricordava bene, i commenti bisbigliati dei passanti, le critiche rivolte a sua madre, che tentava l’impossibile, che era troppo sognatrice, che sperava di cambiare il Giappone liberandolo di ogni problema di abbandono.

Lei si era sentita ferita da questo modo di vedere quello che facevano. Non riusciva proprio a capire come mai ogni tentativo volto a un miglioramento della società dovesse essere giudicato come un atto da folli, tanto più che si trattava di aiutare dei bambini.

Ma sua madre…

Sua madre sorrideva e scuoteva la testa, determinata. Sua madre non si lasciava mai abbattere, ed era la loro ancora rassicurante. Sua madre le accarezzava i capelli, e le diceva di non curarsi di quegli uomini, che non volevano riporre la loro fiducia in un cambiamento.

Sua madre ringraziava, commossa, ogni persona di buon cuore che li aiutava economicamente, anche se si trattava di un assegno piuttosto misero. Sua madre si faceva bastare quello che aveva, ed era madre, sorella e migliore amica di tutti i bambini che trovava o che le affidavano. Sua madre chiedeva solo di fare come lei.

Un moto di tristezza rischiò di distruggere la barriera che le permetteva di non piangere, mentre ripensava alla rapidità con la quale se n’ era andata, lasciandoli soli a portare avanti un progetto tanto impegnativo.

Un tumore fu in grado di farla volare via, e nell’orfanotrofio calò un silenzio pieno di dolore. Sei anni prima, improvvisamente, senza motivo alcuno.

Hikari era distrutta dal dolore, Taichi sembrava aver perso ogni voglia di combattere la solitudine e il senso di sconfitta che minacciava di spegnerlo, suo padre non riuscì a reagire mai, e si allontanò dalla loro villa, aiutandoli a distanza solo via assegno.

Ma i bambini erano ancora lì, e si erano aggrappati con forza a loro, cercando una via di fuga dalla tristezza. E solo grazie a loro, i due fratelli si erano guardati negli occhi, ricordando ogni insegnamento di Yagami Yuuko, e ogni suo sogno che rischiava di svanire insieme a lei.

Ricordando, e decidendo di continuare quel progetto.

Da quel giorno, gli aiuti non erano più solo economici: alcuni ragazzi, ispirati dal modello che sua madre era stata, avevano chiesto di contribuire alla crescita di quei piccoli orfani, donandosi, come loro, unicamente a questo obiettivo.

Takenouchi Sora, Tachikawa Mimi, Kido Jyou e Izumi Koushiro erano, così, entrati nella loro vita, diventando i migliori amici e compagni di giochi che dei piccoli potessero mai desiderare. E tutti quanti si erano ben inseriti in questo sogno, senza demoralizzarsi, senza mollare mai.

Chissà se la comune indifferenza sarebbe mai riuscita a vederli, tutti questi scenari nascosti che avevano preceduto la decisione di aprire l’orfanotrofio. Chissà se la sorte di quei bambini avrebbe interessato mai altre persone, invece di lasciarli in quella situazione precaria di crisi, nella quale tutti si erano impegnati fino allo stremo delle loro forze.

Scosse la testa, asciugando in fretta i suoi occhi castani velati dalle lacrime. Non era il caso di abbattersi: sua madre non lo avrebbe mai fatto. In qualche modo, avrebbero trovato i mezzi necessari per continuare a far vivere la speranza.

“Hikari-chan! Sora-chan! Abbiamo bisogno di aiuto: rischiamo un litigio grosso, oggi!”

Si riscosse in fretta, volgendo lo sguardo verso la ragazza dagli ondulati capelli castani che li stava richiamando, agitando una mano.

Sembrava che Mimi fosse sul punto di avere una crisi di nervi.

Rise, mentre avanzava in fretta verso il gruppo di bambini che litigavano senza controllarsi minimamente. “Sarà meglio se andiamo a dare un’occhiata alla situazione, prima che sia troppo tardi.”

Sora sospirò, raggiungendola. “Nemmeno un momento di respiro…” commentò, sorridendo intenerita.

“Avanti: cosa vi costa fare i bravi bambini? Un po’ per ciascuno, e siete tutti contenti, no?”

Il povero Jyou sembrava disperato: era chiaro che non sapeva più che pesci pigliare. Probabilmente, si stava anche facendo prendere dal panico, come suo solito: continuava a mettersi le mani tra i capelli e a gemere, depresso.

“Vi prego… Vi prego! Non fatevi male!”

Mimi, dal canto suo, appena le vide arrivare sollevò gli occhi al cielo, e le raggiunse, prendendole per mano e tirandole verso la rissa. “Meglio tardi che mai. Se avete una qualche maniera per calmare i loro spiriti ribelli, questo è il momento giusto per dircelo.”

“Arriviamo, arriviamo. Ma cosa succede?” domandò Sora, liberandosi della presa della sua migliore amica con una certa difficoltà.

L’altra sbuffò. “Sono buoni e cari tutto il giorno, ma certe volte sono davvero incontrollabili!” ribatté, scuotendo la testa. “Speriamo solo che finisca presto…”

Hikari aveva sempre ammirato Mimi, da quando era entrata a far parte del gruppo: era una ragazza apparentemente frivola, che amava vestirsi bene e curarsi molto. Tutti, all’orfanotrofio, sapevano perfettamente che non ci sarebbe mai stato un giorno in cui i suoi lunghi capelli castani sarebbero stati in disordine, o i suoi vestiti fuori moda; eppure, era ugualmente nota la sua capacità di essere sempre se stessa, e il suo cuore puro e nobile. Aveva deciso lei di entrare nell’orfanotrofio, e ripeteva sempre che mai, mai avrebbe abbandonato quei bambini che la consideravano un punto fermo per crescere.

In effetti, aveva una predilezione particolare per le bambine, che potevano essere educate da lei per vestire o curare le bambole che si premurava sempre di comprare per loro.

Bambole dotate sempre di trucchi, logicamente.

Era una cara amica, e nessuno ne avrebbe mai fatto a meno.

“Sta’ tranquilla” le disse, posandole una mano su una spalla. “Ora cerchiamo di calmarli.”

Sora, senza aggiungere altro, si era già diretta verso i bambini, con le mani sui fianchi e un’aria autoritaria che assumeva solo alcune volte, quando il suo lato fermo e deciso usciva allo scoperto.

“E allora? Cosa sta succedendo?” chiese ad alta voce.

Naoko, in lacrime come accadeva spesso, con i suoi lunghi capelli biondo scuro attaccati alle guance bagnate e gli occhi color caramello decisamente rossi, corse ad abbracciare Hikari, parlando tra i singhiozzi. “Shinji-kun è cattivo!” rispose a Sora, nascondendo il suo piccolo volto sulla maglia della più giovane delle ragazze. “Ha preso tutte le mie merendine, e ha lasciato quelle che non mi piacciono! E mi ha dato uno spintone!”

“Non è vero, non l’ho spinta!” Si difese Shinji, incrociando le braccia sul petto e mettendo un broncio. “E’ una bugiarda! E poi, le merendine sono anche mie!”

“Insomma, non è la prima volta che succede! Che bisogno avete di litigare in continuazione?” domandò Mimi, alla sua destra, con aria severa.

“Comunque è vero, Shinji-kun ha mangiato tutte le merendine, e le ha fatto male.” Si intromise il piccolo Junichi, sempre pronto a difendere le ingiustizie nel suo piccolo gruppo. “E ha detto che le ragazze devono aspettare il loro turno, per mangiare.”

“Spione! Non ci gioco più, con te!” si offese Shinji, sempre più irritato.

Hikari accarezzò i capelli di Naoko, cercando di calmare il suo pianto e ascoltando il coro dei bambini che difendeva o accusava il più pestifero e dispettoso dell’orfanotrofio. Era davvero triste che Shinji dovesse ricorrere alla prepotenza, per rispondere alla sua insicurezza innata, ma non era mettendolo in punizione che qualcosa sarebbe cambiata. Era uno dei tanti problemi rappresentato dall’accudire quei teneri, piccoli bambini, l’uno diverso dall’altro.

“Adesso basta! Ma dico, cosa risolvete comportandovi così?”

Hikari sorrise, nel voltarsi verso il ragazzo che aveva sbottato all’improvviso.

Folti capelli castani, che non volevano mai saperne di stare in ordine, erano il primo tratto distintivo che lo rappresentavano; un’aria giocherellona e intraprendente era ciò che i suoi occhi scuri, così simili ai suoi, esprimevano a un primo sguardo; il suo sorriso era capace di risollevare il morale in un solo istante, contagioso com’era.

Aveva sempre contato su di lui. Su Yagami Taichi era praticamente impossibile non contare, anche se a chiedere il suo aiuto non era sua sorella, come nel suo caso, ma un perfetto sconosciuto. Erano queste caratteristiche, a renderlo tanto amato dai bambini.

“State litigando per chi deve ottenere un determinato tipo di merendina?” chiese, con aria falsamente seria e da rimprovero: Hikari notò, divertita, tutti i piccoli ascoltatori ammutolire, sorpresi e umiliati, di fronte a questo apparente cambio di umore di Taichi.

Poi il suo viso si aprì in un sorriso allegro. “Facciamo che ce la giochiamo in una partita di calcio: i vincitori avranno in premio quel regalo! Che ne dite?”

Le strilla entusiaste dei bambini furono una risposta sufficiente. Solo Asami, sospirando delusa, rimase lievemente indietro, lamentandosi dicendo: “Allora non la mangerò mai: sono troppo grassa per essere veloce!”

“Su, raggiungi i tuoi amici, Naoko-chan” la spronò la giovane, dandole un ultimo bacio sulla testa. Lei annuì, e corse via, con la tipica velocità spericolata dei bambini della sua età.

Sentì Taichi rivolgersi a Sora, prima di andare a prendere il pallone abbandonato in un angolo. “Bastava solo prendere la questione con un po’ di sana competizione, cara mia” le disse, sorridendo in maniera birichina. “Avreste risolto un sacco di problemi.”

“Se lo sapevi da tanto, perché non ce lo hai suggerito prima, scusa?” sospirò la ragazza dai capelli rossi, guardandolo storto. “Tentiamo di calmarli da minuti, ormai…”

“Presto o tardi non conta. Allora, vieni a giocare? Ti sfido.”

Hikari rise una volta di più. I due ragazzi si conoscevano da tanto tempo, ormai, ma certe volte amavano continuare a scherzare come se fossero ancora degli studenti delle elementari. D’altronde, nessuno avrebbe mai messo in discussione che si volessero molto bene: semplicemente, ridere tra loro era un’esperienza che li spingeva'cando di scorgere sul suo viso il futuro che lo attendeva. se valutando ogni parola con attenzione. ole erano vere, in fondo  a tornare bambini, e per essere sempre in sintonia con i piccoli che crescevano.

Ora, non avrebbero più avuto bisogno di aiuto: la lite si era placata.

“Hikari! Hikari!”

Lei si voltò, sorpresa: Jyou si avvicinava, correndo, al luogo dove si trovava, con aria trafelata. Si fermò, ansimando, solo quando fu sicuro che la giovane potesse sentire quello che aveva da dire, e che, evidentemente, lo preoccupava.

“Cosa c’è, Jyou-san?” gli chiese, perplessa.

Lui si aggiustò gli occhiali, per evitare che cadessero dal suo naso. “E’ solo Keiji, Hikari” le disse, con una nota di apprensione nella voce. “E’ salito ancora su quell’albero, e non vuole scendere per nessun motivo! Potrebbe farsi male, e quindi sono venuto ad avvisarti: almeno, a te ascolta!”

Sgranò gli occhi, prima di ridere tra sé. Pareva che non si smentisse mai: era da qualche giorno che non faceva che rifugiarsi lì sopra, e il più delle volte si rifiutava di scendere.

“Dov’è, questa volta?” domandò, guardandosi intorno e sperando di individuarlo.

Jyou indicò davanti a sé, focalizzando l’attenzione su un albero non lontano da lì. “Chissà come ha fatto, a imparare ad arrampicarsi…” aggiunse poi, aggrottando le sopracciglia.

Lei alzò gli occhi al cielo. “Taichi…” disse solo, prima di correre via.

 

***

Anche da lassù, era perfettamente riconoscibile a chi lo guardava.

Era abbastanza alto, per avere sette anni. Aveva una gamba a penzoloni, mentre si teneva stretto ad un ramo robusto con una mano e con l’altra mangiava qualcosa, probabilmente una barretta di cioccolata. Osservava, con i suoi occhi castano chiaro, ogni cosa che gli capitava a tiro, mentre il vento primaverile gli scuoteva dolcemente quei corti capelli viola che nessun altro bambino aveva, a suo avviso.

Da quando lo conosceva, Keiji non era mai cambiato.

“Ehi! Ancora a fare la piccola scimmia, eh?” chiese a voce alta, attirando la sua attenzione.

Lui le fece un sorriso spontaneo, uno di quelli che dedicava solo a lei: a Hikari si scioglieva il cuore, ogni volta che lo scorgeva sul suo volto.

“Ciao, Hikari!” Urlò in risposta lui. “Che succede?”

Lei scosse la testa, sorridendo. “Volevo vedere cosa stessi facendo. Non ti senti solo, a stare su quell’albero? Di là ci sono gli altri che giocano a calcio, non vuoi seguirli?”

Lui scosse la testa vigorosamente. “No, non ho voglia” rispose. “Sto bene qui.”

Keiji non rappresentava il tipo di bambino comune. Non era un tipo solitario, ma certe volte amava starsene per conto suo, a coltivare i suoi interessi un po’ eccentrici, come fingere di essere una scimmia e di cercare banane. Era davvero spontaneo, ma solo con le persone che gli andavano a genio: con Jyou, ad esempio, non riusciva ad essere se stesso, zittendosi senza dare ascolto ai suoi numerosi consigli per non farsi male. Aveva una fervida immaginazione, ma spesso preferiva tenerla per sé, e non condividerla con gli altri suoi coetanei. Era evidentemente alla ricerca di affetto, ma non riusciva ad esprimere  a parole questo suo bisogno, affidandosi solo, alle volte, ad abbracci silenziosi.

Hikari, queste cose, le sapeva bene. Gli era stata vicina da quella notte di sette anni prima, quando, sentendo suonare selvaggiamente al campanello, lo aveva trovato sulla porta ancora in fasce, insieme ad un biglietto che la pregava di prendersene cura e che le riferiva il nome del bambino. A quel tempo, sua madre era ancora viva: era stata proprio lei, ad affidarglielo spiritualmente.

“Lo hai letto tu, quel biglietto: è bene che sia specialmente tu ad accudire quel bambino” le aveva detto, sorridendole incoraggiante. “Lo so che sarai una buona madre, per lui.”

Era stato un anno prima che si ammalasse di tumore: forse era proprio per questo che la giovane aveva preso il compito tanto sul serio. Le sembrava di rivedere sua madre, quando lo accudiva, lo ascoltava e lo aiutava. Aveva imparato a volergli bene proprio per le sue bizzarre abitudini e per il suo buon cuore, puro e aperto per lei.

“Ho visto il disegno che mi hai mandato per via di Sora-san, stamattina” gli disse ancora. “Era davvero stupendo, dico davvero. Ma perché ci hai disegnati mentre voliamo, Keiji-chan?”

Lui si strinse nelle spalle. “Perché da lassù si vede tutto il mondo” affermò, sorridendo. “E io voglio volare in alto, tanto in alto. Però solo con te, Hikari.”

I suoi occhi divennero lucidi per la commozione a quella manifestazione d’affetto. Era davvero un tesoro, quando pensava o diceva quelle cose tanto intense. “Ti ringrazio tanto, piccolo” gli disse, tentando di sorridere normalmente.

“Anche da qui si vede tanto: è per questo che mi piace salire sull’albero” aggiunse Keiji. Poi parve ricordarsi di una cosa importante: si sporse dall’albero, facendo spaventare Hikari, che corse in avanti tentando di prenderlo in caso di caduta. “Hikari?”

“Keiji-chan, non ti sporgere: ti fai male” lo pregò lei, terrorizzata.

Lui la ignorò. “C’era un ragazzo biondo che ci guardava, un po’ di minuti fa” disse invece, preoccupato. “Uno biondo, alto e strano. Aveva gli occhi azzurri, credo. Lo conosci?”

Hikari rimase di stucco, non credendo alle sue orecchie. Questa, poi, era davvero una stranezza; d’altronde, era difficile che il bambino dai capelli viola si sbagliasse, ottimo osservatore com’era. Ma cosa poteva volere un ragazzo biondo da loro?

“Non credo, non lo so” disse in risposta, corrugando le sopracciglia. “Per quanto tempo è stato qui?”

Keiji si strinse ancora nelle spalle. “Che ne so, non mi interessava. Però è strano!” disse.

Di sicuro lo era. La giovane non sapeva davvero cosa pensare.

Sospirò, rassegnata. In ogni caso, se avesse voluto qualcosa sarebbe ripassato, e avrebbero chiarito quel mistero.

“Non ti preoccupare, piccolo: risolveremo la faccenda” lo rassicurò. Poi tese le braccia. “Ora, però, vieni giù: sei sporco di terra, è meglio se ci diamo una ripulita.”

“Uffa.” Sbuffò il bambino, ma non discusse le parole di Hikari: con un salto –che spaventò ulteriormente la ragazza- scese tra le sue braccia, stringendola in un abbraccio per un momento. “Non sono sporco.”

Hikari rise, dandogli un bacio su una guancia. “Non me la dai a bere, questa volta.”

Era così che andava, ogni giorno: tra scherzi, litigi, pianti, riappacificazioni e risate, gesti affettuosi e parole e consigli gentili. Era così che doveva essere: una famiglia in tutto e per tutto, malgrado ogni difficoltà, nel massimo rispetto di ognuno.

Ci credeva davvero, e sapeva che sarebbe andato avanti, quel progetto.

Malgrado ogni tipo di preoccupazione e problema.

Salve! Eccomi tornata con l'aggiornamento, a distanza di due settimane esatte dal precedente! :) Non so per quanto tempo potrò continuare ad essere così regolare e precisa, ma per il momento conto di mantenere questo ritmo, ovvero due settimane di intervallo per organizzare il seguito!
Come il precedente, anche questo è un capitolo di presentazione di uno dei protagonisti. Adesso credo che non ci siano più incertezze sull'identità di una delle due ragazze, no? ;) In questa long-fic ho deciso di coinvolgere tutti i digiprescelti in qualche modo, ed è per questo che Hikari è affiancata da alcuni di loro nella sua occupazione. Per i restanti, credo proprio che si debba aspettare ancora un po'!
Rispondendo alla domanda di HikariKanna... Sì, questo progetto sarà abbastanza lungo, anche se non so con esattezza quanto! :) Diciamo che posso dire con sicurezza che si aggirerà intorno ai trenta capitoli, ma non so se, continuando a scrivere, aggiungerò o toglierò qualcosa... Per intanto, spero che continuerai a seguirmi! Sono io a ringraziare te, davvero: mi fa piacere sapere quello che pensi di questa storia, ne sono davvero felice! ** Spero solo di non dover deludere le tue aspettative! Un bacio, alla prossima!
Shine, ti pare che potrei mai essere così stupida da provocare la tua ira? Non ci tengo a fare una brutta fine! U_U Sono sorpresa e felice che, malgrado quello che io pensi su quel capitolo, ti sia piaciuto molto... Però la cosa mi lascia ben sperare, e lo sai! :) Ce la metto tutta per rendere i lettori partecipi degli stati d'animo dei personaggi che tratto, e m auguro di non fare cilecca... Aspetta di continuare a leggere, e solo allora potrai avere tutte le risposte che vuoi (o quasi... Cosa c'entra l'autore del furto degli strumenti musicali? O_O)! Infinite grazie per l'entusiasmo che dimostri per questa ff: credo che non ne avrei mai abbastanza di ringraziarti! XD Tvttb!
Lo stesso discorso vale anche per Roe, a cui chiedo un po' di pazienza in più: vedrai che tutto ti sarà più chiaro, tra un po' di capitoli! :) Che dire, ripensando a come tu ti sia messa d'impegno per recensirmi mi fa sentire davvero onorata: grazie, grazie e ancora grazie, sul serio! :D Ci tengo molto a questa ff, e sapere che ti piaccia è un gran risultato per me! Spero che ti sia più chiara la faccenda dopo questo cap, che Keiji ti abbia convinto e che l'aggiornamento ti sia piaciuto come lo scorso! Ci risentiamo appena possibile, cara! Un bacio!
Infine, Mystery Anakin dovrebbe smetterla di scusarsi per il ritardo: potrei mai arrabbiarmi, visto che continui a leggere e continua a piacerti? :) Felice che ti sia piaciuta l'introspezione di Takeru, dato che è uno dei protagonisti della vicenda (come sempre... XD)! Adesso che ho anche introdotto il personaggio di Keiji, credo che tu debba per forza essere sicura sulla sua identità, no? :) E comunque, spero che ti piaccia! Così come spero che troverai il tempo per dedicarti alla "cultura" (capisci cosa intendo)... ma non ti metto fretta, tranquilla! Grazie mille per i complimenti, cercherò di esserne sempre all'altezza! Un bacio, tvttb! ... E non coalizzarti con Shine, per favore! Ho paura! XDXD
E un saluto a tutti quelli che leggono la mia storia in generale! Ci vediamo presto! :)
Padme Undomiel

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Capitolo 4
*** La ragazza scomparsa ***


Purity cap 3

3.

 

La ragazza scomparsa

 

 

“Inoue Miyako.”

Il ragazzo alzò lo sguardo dalle sue mani intrecciate, con aria interrogativa. “Come?”

L’altro si limitò a prendere un altro sorso di caffé dalla sua tazzina, con aria stanca. Pareva che volesse prendere tempo per iniziare davvero a parlargli di quella questione.

Ichijouji Ken lo osservò in silenzio, con le sopracciglia corrugate. Pareva quasi che quel nome, pronunciato appena qualche secondo prima dal ragazzo più grande che gli sedeva di fronte, dietro ad un tavolino bianco posto esternamente ad un piccolo bar, fosse sufficiente a spiegare molte cose, anche se apparentemente non era di nessuna rilevanza.

Era anche vero che erano settimane, ormai, che non aveva più modo di parlare con suo fratello.

Ichijouji Osamu appariva pallido, più del solito, e molto stressato. Le occhiaie appena accennate che si intravedevano sotto i suoi occhi straordinariamente azzurri –davvero simili ai suoi-, erano abilmente nascoste dalla montatura sobria e semplice che donava al suo sguardo un’interessante aura di intelligenza e di serietà. I capelli scuri, ribelli, in netto contrasto con la sua pettinatura sempre composta e uniforme, erano appena più lunghi dell’ultima volta che lo aveva visto.

Era difficile che suo fratello maggiore assumesse un’espressione serena, ma Ken era sicuro che quel momento era più che mai propizio per interessarsi del suo duro lavoro.

Sorrise lievemente, perplesso. “Non credo di sapere di cosa stai parlando” disse all’altro, cercando di capirne di più e di non essere troppo precipitoso nel conoscere la verità.

Osamu gli lanciò un’aria sorpresa. “Davvero non ne sai nulla?” domandò, come se fosse una notizia sconvolgente. Al cenno di diniego di Ken, fece un gran sospiro, posando la tazzina sul tavolo.

“E’ uno di quei casi che sembrano conclusi e archiviati, ma proprio quando stai per abbandonare il tutto si ripresentano, più intricati che mai” rispose, con la sua tipica aria cupa e misteriosa. “Si tratta di una ragazza che sparì otto anni fa, senza più lasciare traccia o indizi di dove fosse finita.”

Il ragazzo più giovane lo scrutò, non credendo alle sue orecchie. Quando aveva domandato a Osamu il motivo del suo evidente bisogno di riposo dal suo lavoro in polizia, di certo non si aspettava che lui avesse intenzione di parlargli di un caso avvenuto sette anni prima, che sembrava essere causato dal solito, insensato omicidio con occultamento del cadavere.

“Perché avete riaperto questo caso? Avete trovato delle prove che vi possono aiutare a risolverlo?” volle sapere, interessato. Sentì, dentro di sé, quella passione che si accendeva sempre quando cercava di aiutare suo fratello a svolgere il suo lavoro da investigatore privato, e seppe, una volta di più, che era felice che il suo destino fosse tracciato da qualche anno, ormai.

Osamu si portò una mano sulle tempie, sospirando. “Non è così semplice: le prove che ci permettono di ricostruire la vicenda scarseggiano, ma altre volte ci appaiono indizi così lampanti che non fanno altro che confonderci ulteriormente le idee.” Fu la risposta, che incuriosì maggiormente Ken. “Ma forse è il caso che ti metta al corrente di tutte le informazioni di cui sono in possesso.”

“Certamente” rispose l’altro, sporgendosi verso suo fratello maggiore per ascoltare meglio.

Lui annuì, apparentemente soddisfatto per qualcosa. Certe volte, era davvero impossibile interpretare la sua occhiata sempre calcolatrice.

“Questa ragazza si chiama Inoue Miyako, e otto anni fa, quando è scomparsa, aveva diciassette anni. Viveva in una famiglia semplice, che portava avanti un supermercato nel quartiere di Odaiba, in attività ancora oggi. Aveva due sorelle e un fratello: lei è nata per terza. Pare che fosse una studentessa modello, competente soprattutto nel settore dell’informatica. Sappiamo anche” aggiunse, guardandolo negli occhi una volta di più “che aveva un carattere molto ribelle e indipendente, e spesso amava fare di testa sua e non ascoltare i consigli di chicchessia.”

Ken rimase in ascolto, concentrato ad assimilare la descrizione di quella ragazza. Doveva avere venticinque anni, se era diciassettenne nel momento in cui era sparita. Un anno in più di lui. “Qual è il suo aspetto fisico?” domandò a Osamu.

“Alta, magra, capelli lisci di un inusuale colore viola, al tempo lunghi. Occhi castano chiaro, con qualche grado di miopia che la costringevano a portare un paio di occhiali: i suoi erano molto grandi, stando alla descrizione della famiglia.” Descrisse l’altro, velocemente, come se ormai quelle informazioni fossero state ripetute un milione di volte. Lui annuì, costruendosi un immagine mentale del possibile aspetto fisico di Inoue Miyako. Se doveva aiutarlo con le indagini, doveva avere ogni tipo di informazione, anche quelle che sembravano insignificanti.  “Che tipo di rapporto aveva con gli altri membri della famiglia?”

Il maggiore si strinse nelle spalle. “A quanto ne sappiamo, non c’è mai stato qualche contrasto tale da provocare la sparizione di Miyako. Naturalmente, non possiamo pretendere che una giovane ragazza non difenda con gli artigli le proprie idee o convinzioni, e non tutti i diciassettenni svaniscono nel nulla.”

“Hai indagato sugli Inoue? Li hai interrogati?” domandò ancora Ken, prendendo alcuni appunti sul suo block-notes. Cominciò a tracciare alcuni schemi, per avere la situazione sotto controllo e riflettere bene su ogni elemento.

“Un paio di anni fa li abbiamo interrogati di nuovo, ma i risultati sono sempre del tutto assenti: non si sono mai ripresi da questo duro colpo, e sono spesso soggetti a sbalzi d’umore tali che non ci permettono di avere a disposizione più notizie utili.” Rispose Osamu, chiudendo gli occhi in un vano tentativo di placare quel mal di testa che aveva accusato dall’inizio del loro incontro a quel bar. Lui lo scrutò preoccupato, pensando, con maggiore convinzione, che suo fratello si stava affaticando troppo per dedicarsi al suo lavoro.

La testimonianza della famiglia Inoue non era stata fruttuosa come l’investigatore aveva sperato, dopotutto: aggrottò le sopracciglia, sottolineando con un segno distintivo gli appunti relativi ai parenti di Miyako, perché ci pensasse in maniera più approfondita in seguito.

Tuttavia, i genitori e i fratelli non potevano essere gli unici indiziati.

“Aveva… amicizie particolari? Legami affettivi? Relazioni?” Fu la domanda successiva.

Il silenzio di suo fratello gli fece aggrottare le sopracciglia.

“Osamu?” lo richiamò, perplesso.

Osamu aveva le labbra strette a formare una linea sottile: spesso, era segno di frustrazione riguardo a una situazione di cui non si conosce la soluzione, anche se si tenta in tutte le maniere possibili. Suo fratello non tollerava l’idea che la verità giocasse a rimpiattino con lui.

“C’è troppa confusione, Ken” rispose a bassa voce, tetro. “Ha un sacco di amici più o meno stretti, o, se non altro, conoscenti dalla scuola, ma le versioni sono molteplici, e nessuno po’ scagionarsi o scagionare qualcun altro con alcuna alibi plausibile. Chi si sente accusato perché si ritiene colpevole di averla fatta fuggire, chi accusa altri di aver fatto del male a Miyako per svariati motivi, chi si rifiuta di rispondere alle domande… Chi lo sa qual è la soluzione, chi lo sa.”

Ken lo vide vuotare in un solo movimento il fondo di caffé rimasto.

“Sappiamo, però, che aveva un amico con il quale si confidava senza problemi” aggiunse poi, e il giovane dai capelli scuri si affrettò a segnare anche questo nel suo schema. “Il suo vicino di casa, più piccolo di lei di almeno due anni abbondanti. Si chiama Hida Iori: pare che si conoscano da una vita, e che lei andasse a trovare sempre la famiglia, nel periodo in cui era ancora a casa. Abbiamo interrogato anche lui, e la sua versione è che… Non c’è stato alcun omicidio. Miyako è semplicemente lontana da casa e dalla sua famiglia, ancora viva. Sfortunatamente, dice di non saperne più di così.”

Ken aggrottò le sopracciglia, pensieroso. Qualcosa non lo convinceva, di tutta quella faccenda: se Miyako e tale Hida Iori erano così in confidenza, poteva essere plausibile che fosse all’oscuro di tutto? Davvero questa ragazza era ancora viva, o il tentativo di Hida era solo quello di sviare le indagini? “E tu ci credi?” domandò.

Osamu scosse la testa. “Non posso affermare di crederci, né di non crederci: devo avere più prove, per poter tracciare la situazione.” Rispose, nel suo tono di voce un rimprovero secco per aver posto una domanda tanto assurda.

Ken arrossì, e tacque, imbarazzato.

“Poi, un’altra conoscenza particolare. Un certo Royama Hideki, otto anni fa ventunenne, con il quale sembra che si vedesse abbastanza frequentemente. Pare che sia diventando famoso grazie a un famoso software da lui inventato.”

Lui sobbalzò, ricordando all’istante dove aveva già sentito quel nome. Era sul giornale, qualche giorno prima, per un’intervista per questa sua fantastica invenzione tanto decantata da quotidiani e notiziari. Gli aveva dato l’impressione di essere un uomo non abituato a farsi vedere in pubblico, sempre con un’espressione intimorita che sembra chiedere solamente di non farsi più vedere pubblicamente.

“Ne ho sentito parlare l’altro giorno” spiegò a Osamu. “Qual era la natura del loro rapporto?”

“I genitori di Miyako affermano di non averlo mai visto frequentare la figlia, e nemmeno i vari conoscenti hanno mai approfondito la faccenda” fu la risposta, insieme a un sospiro. “Non so davvero cosa dirti, questa volta.”

Ken rimase un momento in silenzio, lasciando che tutte le informazioni si disponessero in maniera ordinata nel suo cervello. Osamu aveva ragione, dopotutto: sembrava un caso molto intricato, e a prima vista c’erano troppi elementi da considerare. Tuttavia, c’era ancora qualcosa che non gli tornava.

“Hai detto che non hai potuto archiviare il caso” obiettò, guardando l’altro con aria interrogativa. “Perché? Cosa te lo ha impedito? Sono passati…”

“… Otto anni. Lo so.” Terminò per lui suo fratello, anticipandolo e zittendolo improvvisamente. Forse era meglio che anche lui si spiegasse, prima di aiutarlo nelle indagini. “Il problema è che ogni anno prendo questa decisione, e ogni anno… Sembra che qualcosa me lo impedisca. Circa verso febbraio, alcuni abitanti nel quartiere di Odaiba affermano con sicurezza di aver visto, per le strade della città, una ragazza che corrisponde esattamente alla descrizione di Inoue Miyako. Succede tutti gli anni, sempre in circostanze, modi e luoghi diversi, ma non siamo mai riusciti a sfruttare questo fattore a nostro vantaggio.”

Osamu tacque, osservandolo come se lo stesse sfidando a trovare un senso a tutta quella situazione. Raramente l’investigatore gli chiedeva di partecipare attivamente al suo lavoro e di occuparsi dei suoi casi: solitamente, preferiva risolverli in totale autonomia, senza l’aiuto di nessuno. Se questa volta lo aveva fatto, era solo perché, volente o nolente, doveva rendersi conto che da solo non avrebbe risolto nulla: otto anni erano troppi, per Ichijouji Osamu.  

Ma Ken era esterrefatto, e non riusciva a fornire una spiegazione plausibile a quel mistero. Più ci pensava, scarabocchiando, assente, i lati del suo block notes, più gli indizi raccolti fino a quel momento gli sembravano contraddittori tra loro, senza significato, contorti. “Avete fatto ispezionare ogni luogo dove Inoue Miyako sarebbe apparsa? Controllato tra le famiglie del quartiere? Qualunque cosa?” tentò ancora, aggrappandosi, con decisione, ad ogni singolo brandello di lucidità, sperando di fornire una nuova traccia alla polizia.

Osamu annuì ancora, in fretta. “Tutto già fatto, Ken” rispose. “Niente da fare.”

“Ma com’è possibile che si faccia viva ogni anno, sparendo poi dalla circolazione subito dopo?” domandò Ken, confuso più che mai. “Non è un comportamento ragionevole.”

Un sospiro in risposta. “Questa informazione, più di tutte le altre, ci ha confusi, e non ci permette di archiviare il caso. Credimi se ti dico che stiamo facendo il possibile.”

Ken non ricordava di aver visto il viso del fratello maggiore tanto pallido e tetro, e ogni cosa nel suo tono di voce, persino la luce spenta dei suoi occhi azzurro scuro, faceva pensare a una resa. Era così frustrato, così scoraggiato dalla malriuscita di quell’indagine, da dare l’impressione di aver gettato la spugna.

Non riusciva a credere che Osamu, uno dei migliori investigatori del Giappone, non avesse più forza per continuare a credere in una svolta positiva nella sua ricerca: un senso di oppressione gli attanagliava il petto, e sembrava non avere più intenzione di lasciarlo stare.

Doveva fare qualcosa, senza indugiare ancora.

Si alzò in piedi, stringendo i pugni e guardando l’altro con aria determinata. “La verità è ancora nascosta, dopo otto anni” iniziò, con voce ferma. “Ma forse c’è ancora qualcosa che si può fare. Non è il primo caso di difficile soluzione che affronti, in tutta la tua carriera, e molti di questi hanno avuto buon esito: non arrenderti, e mantieni la calma. E’ l’unico consiglio che posso darti, perché neanche io so ricostruire la vicenda. Ma ti posso assicurare…”

Notò, con la coda dell’occhio, un sorriso quasi impercettibile apparire sulle labbra di Osamu, e si bloccò per un momento: un suo sorriso era davvero raro, spesso nascosto da una coltre di calma razionalità che lo faceva quasi apparire insensibile, certe volte. Prese un respiro profondo, cercando di continuare il discorso senza esitare.

“Ti posso assicurare che ti aiuterò, se desideri questo. Ti aiuterò, e Inoue Miyako tornerà alla sua famiglia e alla sua vita.” Terminò, a bassa voce.

Un silenzio seguì questo discorso, e Ken si chiese quale sarebbe stata la conseguenza delle sue parole sul ragazzo che sedeva davanti a lui. Osservandolo, si rese conto che Osamu sembrava assorto in pensieri sconosciuti, così pieno delle sue riflessioni da non rendersi conto del discorso interrotto tra i due fratelli. Spesso, quando assumeva quell’espressione, era in procinto di prendere una decisione importante: sapeva da quando era bambino che, durante quegli istanti, era sconsigliabile interromperlo.

Infine, lo sguardo del maggiore tornò a focalizzarsi su di lui, con un’intensità nuova. “Tu non chiedi altro che lasciarti indagare insieme a me” disse calmo, in un tono più da affermazione che di domanda. Ken lo fissò, sorpreso. “Pensi che quest’indagine possa aiutarti a testare le tue capacità, per stabilire se il tuo destino sarà davvero quello di seguirmi nel mio lavoro.”

Non parlava in tono d’accusa, anche se un ascoltatore passeggero avrebbe potuto ribadirlo: voleva una risposta chiara, decisa, senza esitazioni o bugie. E lui sapeva bene che, malgrado il bisogno di venire incontro a Osamu dopo tanta stanchezza, quelle parole erano vere, in fondo al suo cuore.

Chinò il capo e annuì, a disagio. Sembrava essere la confessione di un colpevole.

Sentì suo fratello inspirare profondamente, prima che tornasse a parlare. “Ti entusiasma risolvere i misteri. Hai un intuito e una logica notevoli. Sei con i piedi per terra, e ponderi ogni cosa con calma e con attenzione minuziosa. Lo capisco da molte cose, che vorresti seguire le mie orme, una volta finita l’università: è il tuo sogno.”

Ken alzò timidamente lo sguardo, chiedendosi quanto Osamu fosse d’accordo con questo. Non avrebbe potuto negare ciò che appariva così evidente.

“Forse potresti anche riuscirci” commentò ancora suo fratello, sempre scrutandolo come se stesse cercando di scorgere sul suo viso il futuro che lo attendeva. “Hai le buone qualità per farlo, e sei determinato a portare avanti il tuo sogno a tal punto da differenziarti completamente da chi lo fa senza passione. Magari, aiutandomi in questo caso, mi dimostrerai se sei davvero idoneo a lavorare in questo campo, come me.”

Lo stava incoraggiando. Aveva deciso di affidare anche a lui il compito di trovare Inoue Miyako, senza sentirsi scavalcato da lui –che era ciò che Ken aveva temuto dall’inizio, informandosi per avere gli indizi necessari. Pensava che il suo più grande sogno potesse avverarsi solo con la perseveranza e con l’impegno.

Eppure, il suo volto si manteneva impassibile, come se gli avesse parlato di qualcosa di scarsa importanza.  

Gli sorrise. “Grazie, Osamu. Conta molto per me.” Disse, rasserenato.

Non fu stupito di scorgere quel gesto di noncuranza con il quale respingeva ogni ringraziamento: mostrare i suoi sentimenti, così irrazionali, davvero non era da lui. “Non mi ringraziare” intimò, schivo. “Non ti dico quello che penso per avere gratificazioni. Piuttosto, fammi sapere se scopri qualcosa sul caso Inoue, d’accordo?”

Ken si affrettò ad annuire, cercando di nascondere il sorriso. “Certo, contaci.”

La conversazione doveva essere conclusa, perché Osamu si era alzato in piedi, guardando il suo orologio da polso con aria preoccupata. “Sarà meglio che vada, adesso. Fatti sentire al più presto” gli disse, mettendo sul tavolo alcune monete, che dovevano essere il conto del suo caffé. Poi gli fece un cenno di saluto, e andò via, silenzioso e assorto com’era venuto, verso nuovi luoghi dove far viaggiare quella sua mente sempre in attività.

Ken sospirò, sentendosi gravato di una responsabilità nuova. Ma quell’incontro al bar vicino alla stazione aveva fatto davvero bene a entrambi: probabilmente, non era il solo a desiderare di scambiare quattro chiacchiere con suo fratello.

Si decise a pagare il conto e a lasciare quel tavolino solitario. Estrasse il necessario dal suo portafogli, appoggiando il tutto sul piano dove avevano bevuto il loro caffé.

E solo allora si accorse che Osamu aveva lasciato troppo, per una sola tazzina.

C’erano i soldi necessari per pagarle entrambe.

Scosse la testa, riponendo le sue monete nel portafogli. Osamu aveva evidentemente deciso di offrirgli lo spuntino: la sua fuga immediata era motivata da qualcosa, allora.

 

***

 

Passeggiava tra i vari scaffali colmi di libri di ogni genere, senza, in realtà, vederli.

Aveva la mente troppo occupata da pensieri per dedicarsi alla scelta di un nuovo volume da acquistare nella libreria della quale era cliente abituale: avrebbe fatto meglio ad uscire da quel luogo, per riflettere in tutta tranquillità girando per le strade della città. Nonostante questo, però, amava restare lì, nascosto e protetto dalla grandezza e dal clima tranquillo che si respirava lì.

Lo aiutava a concentrarsi e a rilassarsi.

Ken sospirò, osservando distrattamente un libro dalla copertina variopinta.

Non ricordava, in tutti gli anni in cui Osamu aveva lavorato in polizia, di un’altra occasione in cui suo fratello aveva avuto bisogno immediato delle sue inesperte capacità deduttive per risolvere un caso: era la prima volta che poteva tentare di rendersi utile nel campo che più lo entusiasmava.

La prima volta. Ma non era affatto un indagine che si affidava solitamente ai principianti: un esperto detective come Osamu non era riuscito a trovare la soluzione.

Posò nuovamente il volume, con l’ennesimo sospiro.

Aveva sempre sognato di seguire le orme di suo fratello, da quando aveva cominciato ad appassionarsi ai misteri e agli intrighi. Aveva sempre sognato di poter risolvere quei casi che sembravano, all’apparenza, senza una soluzione, e di riportare la giustizia dove era venuta ingiustamente a mancare. E aveva sempre domandato a Osamu qualche informazione relativa al suo lavoro, tenendosi in allenamento per prepararsi a rendersi autonomo in futuro.

Anni di attesa, impiegati a studiare con attenzione e impegno nella facoltà di giurisprudenza, e a tentare di aiutare, con pochi mezzi e scarsa esperienza, suo fratello maggiore, spesso restio a lasciare che qualcuno risolvesse i suoi casi.

Anni di attesa, che lo avevano condotto, infine, ad essere incaricato di trovare una ragazza scomparsa da otto anni, che persino Ichijouji Osamu aveva ormai dato per perduta.

Quando si era preso questa responsabilità, tutto quello a cui aveva pensato era stata la sua grande passione per le indagini e per i misteri, e la voglia di mettersi alla prova e di risolvere un caso in completa autonomia, solo con le sue forze; aveva pensato che avrebbe giovato a lui, a Osamu, alla polizia, a Inoue Miyako, alla sua famiglia e a tutti i suoi amici. Non aveva esitato, e si era sentito orgoglioso della fiducia che suo fratello aveva riposto in lui.

Ma in quel momento, considerava anche diversi altri fattori.

Come poteva lui, Ichijouji Ken, riuscire in un’impresa che sembrava essere al di là delle sue capacità da principiante? Come poteva superare suo fratello, che era sempre stato più bravo di lui in tutto, che non perdeva mai la calma e considerava ogni singolo particolare?

Come poteva ricostruire una vicenda avvenuta otto anni prima, e fare chiarezza in quella faccenda così intricata?

Forse era stato troppo precipitoso, e arrogante. Forse avrebbe fatto meglio a non proporsi a Osamu per dargli una mano, e per collaborare con lui. Forse il suo desiderio di provare era stato così forte, così pressante da cancellare ogni tipo di preoccupazione e di dubbio, facendolo ragionare sul serio solamente a cose fatte.

Davanti allo scaffale colmo di libri gialli si fermò, sorridendo ironico.

Per un romanzo c’era sempre la soluzione del caso, anche se sembrava impossibile, anche se si nascondeva dietro false certezze e alibi di ferro, anche se chi indagava non era un investigatore né un agente di polizia. Per un romanzo l’autore inventava sempre un finale, perché i lettori meritavano di conoscere la verità, dopo aver ottenuto indizi e aver meditato sulla conclusione.

Ma Ken sapeva bene che nella vita reale non avveniva sempre così.

Come nel caso Inoue, al quale ci si era interessati per otto lunghi anni, senza arrivarne a capo.

Inoue Miyako poteva essere morta da anni, e nessuno avrebbe saputo incolpare il colpevole, trovare il corpo e individuare l’arma del delitto e il movente.

Più ci pensava, meno comprendeva. Osamu gli aveva fornito molti dati e informazioni, ma alcuni erano contraddittori, e non gli riusciva di indovinare quale fosse la chiave per risolvere il mistero. Ricordava quanto detto sul suo vicino di casa, Hida Iori, e si chiedeva se aveva detto il vero, se sapeva per certo che la sua amica fosse ancora viva, o se stesse solo cercando di portarli sulla pista sbagliata. Si soffermava sulla stranezza delle apparizioni improvvise di Miyako nei vari quartieri diversi della città di Tokyo, ma non riusciva a trovare una spiegazione plausibile a questi avvenimenti particolari. Rimuginava sulla lista dei nomi dei vari conoscenti della ragazza che Osamu gli aveva affidato, e sulle loro discordanti versioni dei fatti che non portavano a nessun miglioramento della condizione della polizia a riguardo.

Non capiva.

Ma, per quanto la soluzione sembrava essere del tutto lontana da lui o da altri sulle tracce della ragazza scomparsa, Ken sapeva che non si sarebbe arreso per nessun motivo.

Forse era stato avventato, forse arrogante, forse troppo speranzoso, ma c’era troppo in gioco dal buon esito di questa indagine: la serenità di una famiglia che aveva sofferto per troppo tempo, la buona salute di una ragazza ora venticinquenne, un caso in meno da archiviare, e la possibilità di dimostrare a Osamu che poteva seguirlo nel suo lavoro.

C’era il futuro di molte persone che attendeva di essere scoperto. E se questo significava impegnare anima e corpo per un risultato soddisfacente, Ken avrebbe accettato di tentare.

Tentare non poteva portare a nulla di male, per chi era rimasto anni in silenzio a esercitarsi da solo senza palesare o sfruttare mai appieno la propria passione smisurata.

Ciao a tutti! Dopo un periodo più lungo di quello previsto, ecco a voi l'aggiornamento di questa long-fic! :) In questo aggiornamento, d'altra parte, mi sono presa una libertà in più: Osamu qui non è affatto morto, anzi. E' un personaggio fondamentale per avviare la vicenda, ed è per questo motivo che ho deciso di inserirlo. Naturalmente, non posso conoscere granché delle sue caratteristiche specifiche (se non qualcosina dalla puntata 23 ^^): ho deciso di interpretarlo a modo mio, immaginando i suoi comportamenti verso gli altri e verso Ken, soprattutto. Quel che è fatto è fatto: giudicate voi, insomma! XD
Mi ha fatto molto piacere leggere i tuoi commenti, cara Shine: è bello sapere che lo scorso capitolo ti abbia colpito e coinvolto a tal punto! ** Per ideare l'orfanotrofio era davvero necessario ricreare un clima di serenità e allegria, e ti assicuro che spesso non è nemmeno facile... Certe volte ho davvero paura di sbagliare e deluderti! -.- Mi fa anche piacere che tu condivida le idee di Hikari e il suo modo di vedere la vita: significa che ti sembra credibile come l'ho resa? Mille grazie, davvero! Anche per il mio Keiji, ovvio! ^^ Lo sai che ruolo ha nella vicenda, no? Spero di ricevere presto pareri anche su questo cap, che ti dedico in pieno per il suo protagonista! Immagini perché? XDXD Ti voglio bene!
Salve, Mystery Anakin: che piacere trovarti tra le recensioni! ** Non sai quanto io sia contenta che il capitolo precedente ti sia piaciuto! Davvero hai trovato teneri i bambini? Non sai che fatica gestirne così tanti, e non è certo finita qui! xD Essendo tutti quanti personaggi di mia invenzione, sono sempre preoccupata di renderli come vorrei... Soprattutto se si tratta di Keiji, che avrà un ruolo importante (come avrai capito). Ho sempre avuto un debole per i fratelli Yagami, e sapere che siano piaciuti anche a te mi rende davvero contenta! :) Cosa ne dici di questo capitolo? Non so se un genere lievemente più poliziesco potrebbe mai piacerti (anche se sono alle prime armi... -.-), e per questo aspetto di sapere cosa ne pensi! Un bacione grande, ci sentiamo appena possibile! Tvttb!
Roe, ti ringrazio tanto per aver letto, e sono davvero felice che ti sia piaciuto, credimi... Ma... Perché non mi dici esattamente cosa ti è piaciuto? Il punto è che ci tengo molto a conoscere il parere di chi legge, e, per quanto possa essere bello sentirsi dire che il capitolo sia riuscito, io sono rimasta con alcuni dubbi... Posso chiederti questo favore? Grazie mille! :) In ogni caso, ci sentiamo presto!
Un grazie anche a tutti quelli che leggono senza commentare! Posso sperare, però, di avere anche da loro delle recensioni? D'altronde, leggere pareri altrui è l'unico modo per sapere se devo migliorare qualcosa oppure no... Io aspetto fiduciosa! :)
Padme Undomiel

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Capitolo 5
*** Dimenticare ***


Purity cap 4

4.

 

Dimenticare

 

 

Era davanti ai suoi occhi, ed era stupenda.

Era assolutamente certa di non sbagliarsi: probabilmente, era una delle più graziose del mondo, e tutti parevano notarlo.

Un sorriso spontaneo spuntò sulle sue labbra, mentre non poteva impedirsi di assistere alla scena, troppo rapita per distogliere lo sguardo.

“Dai, mamma! Me lo compri, per favore? Ti prego!”

La piccola bambina dai capelli corti e con quel grazioso vestito rosa a fiori stringeva tra le mani un libro che aveva evidentemente preso da uno degli scaffali del suo negozio, e guardava, con i suoi grandi occhi scuri, una donna minuta intenta ad osservare la sezione dedicata ai romanzi storici, che sembrava avere la chiara intenzione di ignorare la piccola.

Era crudele. Come si faceva a rimanere impassibili quando una bambina così splendida chiedeva un favore a colei che l’aveva generata? Cercò di reprimere il suo impulso ad allontanarsi dalla cassa e a dirne quattro a quella donna, che, nonostante avesse almeno il doppio dei suoi anni, si comportava in maniera davvero crudele.

“Mamma, ti prego! Solo questo libro!”

“Ti ho detto di no, Ikuyo-chan. Te ne ho comprato uno la settimana scorsa: non posso prendertene uno ogni settimana, lo sai.”

“Ma mi piace! E l’altro libro non era così bello!”

Era così dolce, mentre tirava la manica della mamma per cercare di attirarne l’attenzione. Era così spontanea, come solo i bambini sapevano essere. Sentiva una sensazione di calore nel petto, che non sapeva e non voleva allontanare. Tutto quello che sapeva era che non voleva che quella bambina andasse via dal suo negozio.

Non si sarebbe mai stancata di guardare.

“Ora basta. Lo sai che non te lo comprerò, quindi non insistere!”

Vide Ikuyo cominciare a piangere, indispettita, e il suo cuore si strinse. Strinse con forza i pugni, sentendo il suo autocontrollo sul punto di cedere: non sopportava le lacrime dei bambini. Erano una cosa troppo dolorosa, e i piccoli di quella età non meritavano affatto di soffrire.

Era qualcosa che doveva essere solo degli adulti, come lei.

Miyazawa Rumiko sospirò, cercando, una volta di più, di non lasciarsi trasportare troppo dai suoi pensieri. Era sempre stato difficile, rimanere in silenzio a tentare di essere distaccata dai clienti del negozio: i suoi ricordi tornavano a tormentarla, e lei voleva solamente distrarsi quel tanto che bastava da non crollare proprio quando era sotto gli occhi di tutti. Aveva imparato a tenere a bada i suoi sentimenti, a non lasciar trasparire sul suo viso nulla delle sue sensazioni provvisorie, ma rimanere impassibile ad osservare ciò che più la appagava e più la faceva soffrire era impossibile.

Non era mai stata costretta a diventare una statua di marmo, e ritrovarsi in quella situazione era più che mai difficile. I sentimenti sapevano sempre travolgerla proprio quando cercava di liberare la mente.

“Vorrei comprare questo, signorina.”

La voce improvvisa della signora che prima parlava con sua figlia la fece sussultare bruscamente, mentre si rendeva conto di essersi persa nuovamente nelle sue riflessioni. Vide la piccola Ikuyo, con gli occhi rossi e un broncio più che comprensibile, accanto a lei: nel momento in cui incontrò il suo sguardo, un moto di tenerezza e di serena commozione la sopraffece. Le sorrise dolcemente, ottenendo un dolce rossore sulle guance da parte della bambina.

“Questa bella signorina è sua figlia?” domandò Rumiko, prendendo il libro che la donna le porgeva e controllando il prezzo.

L’altra annuì, sorridendo cortesemente. “Sì, è così.”

Improvvisamente, davanti ai suoi occhi, il bisticcio di poco prima avvenuto tra mamma e figlia sembrava essere dimenticato, e la donna sembrava solo completamente innamorata di sua figlia. Un senso di oppressione tornò a impedirle una buona respirazione: l’aveva visto tante volte, quell’espressione di affetto materno, e ancora non riusciva a sopportare di scorgerlo.

Si rivolse alla bambina, per cercare di distrarsi. Non riusciva a impedire ai suoi occhi di brillare. “E dimmi, ce l’hai un nome, piccola?” le chiese, mentre sentiva il suo spirito risollevarsi solo alla vista della timidezza della giovane interlocutrice davanti a sé.

Lei si nascose ancora di più. “Ikuyo” rispose solo, un piccolo bisbiglio che fece ridere Rumiko e sua madre.

“E’ molto timida con le persone che non conosce, ma quando è nel suo ambiente…” commentò la donna, accarezzando la testa della bambina. “E’ vivace solo con chi conosce bene.”

“E’ davvero stupenda” commentò rapita Rumiko, porgendo lo scontrino e ponendo il libro acquistato in una bustina di plastica. “Quanti anni ha?”

“Ne compie quattro la settimana prossima” fu la risposta, mentre la sua cliente prendeva la busta e lo scontrino.

Quattro anni. Solo quattro anni ed era così bella. La giovane cassiera non riusciva a immaginarsela quando avrebbe compiuto i suoi anni: sarebbe stata sicuramente molto ambita da ragazzi di ogni genere.

“Siete davvero fortunata” si lasciò sfuggire, mentre i suoi occhi non perdevano mai di vista quella meraviglia. Sapeva che la tristezza l’avrebbe colta in breve tempo: cercava di imporsi la calma, ma il rimpianto per ciò che non era stato e il suo desiderio irrealizzabile continuavano a trattenerla tra le loro spire, soffocandola e lasciandola senza via di fuga.

Era semplicemente troppo da sopportare.

“Grazie. E’ davvero molto gentile. Arrivederci!” rispose la madre di Ikuyo, prendendola per mano e portandola verso la porta di ingresso e di uscita.

E Rumiko osservò, impotente, ogni passo che portava via quella piccola da lei, dalla sua vista, dalla sua vita. Ogni passo che la allontanava era sempre più doloroso, sempre più difficile da accettare, sempre più ingiusto.

Era un’altra felicità negata, come quelle che le avevano distrutto la vita.

Sentì il suo cuore andare in pezzi all’uscita definitiva della coppia. Sentì il passato precipitarle addosso, mentre rivedeva l’ingiustizia del destino rivoltarsi contro di lei.

Mai nulla era andato come avrebbe dovuto.

Mai nessuno era rimasto al suo fianco.

E quella donna le aveva portato via l’unica, minuscola ancora di salvezza alla quale si era momentaneamente aggrappata. Senza motivo, senza pietà, senza riguardo alcuno.

La bambina chiamata Ikuyo non avrebbe mai compreso il suo bisogno impellente di osservare i suoi occhi, la sua voglia di stringerla a sé, il dolore che la portava a fissare, distrutta, il posto vuoto dove prima era rimasta, e dove ora non c’era più.

Chiuse gli occhi e scosse fermamente la testa, sentendola pulsare. Era arrivato il momento di tornare a calmarsi: forse una notte di riposo l’avrebbe liberata da quel senso di oppressione che non voleva lasciarla andare.

“Anche questa giornata è finita, finalmente.”

La voce improvvisa e conosciuta della signora Sato la riscosse dai suoi pensieri. Si girò, osservando i capelli ingrigiti e il sorriso gentile della donna robusta e determinata che le aveva sempre voluto bene e l’aveva capita come nessun altro mai.

Le sorrise, stanca. “Credo che dormirò per una settimana, dopo oggi” ironizzò, cominciando a chiudere il negozio. “Sono a pezzi: questa libreria fa così tanti affari che è impossibile sostenere lo stress di ogni giorno.”

La signora Sato rise, mettendole una mano sulla spalla con fare affettuoso. “Hai intenzione di lasciare tutto il lavoro per me, se dormi per una settimana?” domandò, e Rumiko rise in risposta, felice di sentire, per una volta, che con qualcuno non era costretta a fingere. Era una delle uniche occasioni in cui potesse essere serena, uno dei pochi punti fermi che sentiva di avere: lei conosceva il suo dolore, lo rispettava, ma cercava di esserle vicina e di fingere che nulla fosse cambiato dalla ragazza spensierata che era stata una volta.

Le voleva bene in maniera incondizionata, e sapeva che il suo affetto era ricambiato. E per Rumiko tanto bastava, in quel momento di grande solitudine.

“Sai che verrei anche con la febbre: non mi terrai lontana dal negozio!” ribatté la giovane, con un sorriso. “Almeno tu non ti libererai facilmente di me.”

“Mi fa piacere sapere che ci tieni così tanto: vuol dire che hai intenzione di non restare tanto da sola. E’ un bene, soprattutto per te.”

Quelle parole gelarono il sorriso sulle sue labbra, incupendo il suo spirito. Restare da sola era diventato necessario, per cambiare completamente vita. Ma mai come in quegli anni aveva sentito forte il disprezzo per la sua solitudine, e quella voglia disperata di tornare ai tempi in cui non doveva necessariamente essere così, in cui era qualcuno.

La testa pulsò ancora; si portò una mano alle tempie, sospirando. “Sarà davvero meglio che torni alla mia solitudine, Sato-san” disse, cercando il suo sguardo e non riuscendo ad impedire al suo tono di farsi triste, quasi spento. “Sono stanca.”

Lei capì, e, come sempre, non commentò le sue scelte. Si limitò a lanciarle un’aria comprensiva, e a dire: “A casa ti aspettiamo, lo sai. Appena ti andrà, saremo lì.”

La cara, vecchia confidente di quegli anni. Come si poteva non volerle bene?

La abbracciò forte, cercando di impedirsi di commuoversi. “Non mi perderò uno dei suoi deliziosi manicaretti, è una promessa.” Le disse solamente. “Le farò sapere.”

Poi si allontanò, e corse veloce, lottando contro l’oscurità della sera che cominciava a calare. Le piaceva correre: le dava un senso di libertà, la illudeva che la parte spensierata e totalmente allegra di sé potesse prendere ancora il sopravvento.

Rumiko si odiava quando pensava a quanto era stata costretta a cambiare. Si sentiva maledettamente fragile e vulnerabile, e i suoi errori e le sue colpe la colpivano come ripetute pugnalate al cuore. Non era stupida: sapeva benissimo che non avrebbe mai potuto rimediare, e che le sarebbe sempre mancato quel periodo breve in cui aveva tenuto stretta la sua felicità senza mai lasciarla.

Era per questo che correva, imponendosi di liberarsi dal dolore che sempre l’accompagnava, fingendo di essere chi non era e non sarebbe mai stata.

Voleva un momento di oblio. Nient’altro.

 

***

Rumiko infilò le chiavi nella serratura, aprendo il portone del suo appartamento.

Entrò cautamente, affrontando a testa alta il rumoroso silenzio che l’assordava al suo ingresso.

Da quanto era che non si preoccupava di tentare di riordinare quella casa? Sembrava che lei non fosse l’unica abitante, e che migliaia di persone avessero deciso di ignorare il loro compito di riporre al proprio posto gli oggetti che avevano utilizzato.

Se fosse andata diversamente, a quell’ora ci sarebbe stato un motivo più che valido e giustificabile per tutto quel disordine. Se fosse andata diversamente, avrebbe riso del naturale scompiglio che ci sarebbe stato nel suo appartamento, perché certamente non avrebbe dato la colpa a lui.

Il ricordo fu così dolorosamente vivido che le mani iniziarono a tremarle, e la testa divenne pesante come un’incudine. Si appoggiò al muro, chiudendo gli occhi per un istante.

Era solo quel maledetto silenzio. Era solo la solitudine che si divertiva a prendersi gioco di lei. Ma non poteva lasciare che il pensiero della sua immensa gioia di altri tempi le rovinasse il riposo che sentiva di meritare: dopotutto, a cosa sarebbe servito?

Lui non lo avrebbe rivisto mai più. Era andato via.

Lottando contro le lacrime, la giovane cominciò a cantare addosso al silenzio, per evitare di essere sopraffatta. Si separò dal muro, intonando quella nenia che le faceva ritornare alla mente la voce dolce di sua madre quando gliel’aveva insegnata, anni e anni prima.

Si diresse verso la cucina, aprendo il frigorifero e cominciando a preparare la sua cena solitaria. Forse era meglio preparare una cena più sostanziosa: la giornata alla libreria dove lavorava da alcuni anni era stata molto impegnativa, e inoltre rischiava di portare il suo umore già perennemente disperato a livelli ulteriormente abbattuti.

Doveva liberare la mente, in qualche maniera. Almeno per qualche ora.

Afferrò una pentola, pronta ad accendere i fornelli. Sul punto di farlo, però, si fermò, sorpresa e immobile.

Osservava la sua immagine sulle pareti acciaio della pentola.

Era abituata a osservare i suoi occhi spenti: erano anni che non riuscivano ad esprimere quell’antica gioia che sempre l’aveva caratterizzata, fin dall’infanzia. Ma la sua carnagione pallida e il suo volto magro creavano uno strano contrasto con i lunghi capelli neri che lasciava sciolti sulle spalle. Rise, senza un vero motivo:  forse era divertente osservare quanto la sua prostrazione interiore fosse visibile anche a un occhio esterno.

“Non potrai mai cambiarti del tutto, sai?” disse al suo riflesso, con un sorriso amaro. “Tenta pure: rimarrai sempre la solita sciocca. Fortuna che nessuno che conosci sul serio ti vede, Rumiko.”

Scosse la testa, cominciando a preparare il necessario per saziare il suo appetito.

Proprio mentre iniziava a disporre gli ingredienti, il campanello suonò, facendola trasalire bruscamente. Diede una veloce occhiata all’orologio affisso alla parete: erano le 20:15. Strano orario, per dei visitatori. Tanto più che non aspettava nessuno.

Corse alla porta, con un timore naturale con il quale aveva ormai fatto l’abitudine, mentre si chiedeva chi mai potesse voler bussare alla sua porta. Magari era solamente la sua vicina, con qualche ingrediente che le mancava per cucinare, tentò di rassicurarsi, sentendo il cuore battere a velocità impensabile. Proprio non poteva esserci posto per l’ansia: non ora che stava meglio, non ora!

Sistemò velocemente la chioma scura, facendo attenzione che fosse a posto. Dopo aver sospirato profondamente e aver imposto alla sua mano di non tremare, abbassò la maniglia e spalancò la porta d’ingresso.

E sgranò gli occhi, mentre si sentiva mancare.

Un uomo alto e serio era davanti a lei, nell’espressione una strana immobilità. Aveva i capelli scuri, tagliati corti, e gli occhi di uno straordinario colore verde, intensi e carichi di sentimenti. Era magro, vestito in maniera semplice ma sobria, ed era immobile a fissarla.

Il respiro le si mozzò in gola, mentre gli occhi le si inumidivano e non poteva farci nulla.

“Sei proprio tu…” sussurrò l’uomo, osservandola con aria sorpresa e commossa.

E Rumiko non resse un istante in più. Gli si gettò al collo, singhiozzando e piangendo lacrime di gratitudine e gioia, ben sapendo che erano anni che aveva aspettato e sperato senza mai vedere esauditi i suoi desideri.

“Ho aspettato così tanto…” balbettò, la vista totalmente velata dal suo pianto incontrollabile. “Sei venuto a cercarmi… Oh, Iori-kun…”

 

***

 

Non ricordava molto di come fosse successo, ma qualche istante dopo Hida Iori era seduto sul divano del suo piccolo salotto, mentre Rumiko si affannava a preparargli qualcosa da mangiare. Una gioia improvvisa, incontenibile, irrazionale, aveva preso il suo cuore, e le lacrime che scendevano lungo le sue guance ogni tanto erano dolci quanto la risata che squassava il suo corpo scorgendolo a casa sua.

Iori era venuto a cercarla, nonostante tutto.

Iori era ricomparso dopo anni e anni di assenza.

E a nulla contavano i dissapori passati, le accuse rivolte dai suoi occhi verdi, la disapprovazione per come aveva deciso di condurre la sua vita e gli anni di silenzio che l’avevano fatta impazzire.

Il suo migliore amico non si era dimenticato di lei, nemmeno disapprovando le sue scelte.

“Dai, ti offro la cena, così puoi spiegarmi tutto!” gli disse raggiante, portandogli un vassoio pieno della sua porzione. La fame sembrava essere scomparsa: al diavolo, se si trattava di parlare con un amico di vecchia data qual era il suo ospite. “Devi dirmi tutto nei minimi dettagli! Come hai fatto a trovarmi? Come sta tuo nonno, e tua madre, e tutti quanti? Oh, non stare lì in silenzio! Non sei venuto per stare con me, Iori-kun?”

Iori chinò il capo in segno di gratitudine alla vista del vassoio. “Ti ringrazio molto per la cena, anche se non ce n’era bisogno” rispose, e Rumiko dovette asciugare frettolosamente un’altra lacrima spuntata dai suoi occhi alla vista del solito fare educato che mai lo avrebbe abbandonato. “E mi scuso per essermi presentato a quest’orario.”

“Non ci pensare nemmeno: figuriamoci se comincio a rimproverarti per questo, dopo che sono sette anni che non ci vediamo più!” rispose la giovane, ridendo come non faceva più da una vita e sedendosi accanto a lui. “Ma guarda come sei cresciuto! Prima non eri così alto, e non avevi nemmeno quell’aria da uomo che ti ritrovi… Solo nel carattere non sei cambiato affatto, e non sai quanto ne sia contenta.”

Il ragazzo sorrise, osservandola a sua volta. “Sembra strano che neanche tu sia cambiata così tanto… tranne che nell’aspetto” disse a voce bassa, e Rumiko abbassò lo sguardo, vergognandosi, irrazionalmente, di mostrare i cambiamenti nell’immagine che dava di sé. Iori non aveva mai dovuto guardarla dietro una maschera, come invece stava succedendo in quel momento.

“E’ stato necessario, lo sai meglio di me” tagliò corto, tenendo gli occhi bassi. Aveva paura di incontrare lo sguardo di biasimo che l’aveva accusata l’ultima volta, se solo lo avesse alzato. “Ora dimmi di te: com’è andata la tua vita da quando sono stata via?”

Calò un istante di silenzio, mentre Iori prendeva un boccone dalla cena che Rumiko gli aveva preparato e lo masticava lentamente. “Ho proseguito i miei studi, nonostante tutto” rispose infine. “Ho terminato le scuole superiori, e adesso studio legge: non ho intenzione di rinunciare al mio sogno di diventare avvocato.”

Lei sorrise. Era così rassicurante rivederlo con le stesse passioni di quando aveva quindici anni. “Chi meglio di te può farlo, d’altronde?” disse, e Iori la ringraziò con un piccolo cenno della testa e un’occhiata serena. Solo allora, Rumiko ricordò un particolare, e aggrottò le sopracciglia, allarmata. “Ma cosa significa nonostante tutto?”

L’espressione improvvisamente indurita del suo vecchio migliore amico la fece fermare, con un brutto presentimento che sembrava volerle bloccare il respiro in petto. Era sicura che tutto il buonumore di Iori era appena scemato a seguito di qualche ricordo poco piacevole che il loro discorso doveva avergli evocato.

Le lanciò uno sguardo pieno di frustrazione, e Rumiko non poté fare altro che fissarlo in silenzio. “Sai che la polizia è ancora sulle tracce di Inoue Miyako?” chiese, a voce bassa, e il cuore della giovane mancò un battito. Il panico tornò ad attanagliarla, mentre osservava la serietà che aveva assunto l’espressione del ragazzo: era possibile che ancora non si fossero rassegnati e arresi all’evidenza che Inoue Miyako non sarebbe mai più tornata?

“Non dovresti esserne sorpresa: ero sicuro che lo sapessi bene” continuò l’altro, assottigliando gli occhi profondi mentre coglieva la sua espressione sconvolta. “Sono tra gli indiziati, e indagano ancora sul mio conto. Lo sai che la polizia non ha mai abbandonato il caso, e di certo quelle strane apparizioni nei quartieri più frequentati di Tokyo non aiuta ad archiviarlo.”

Rumiko arrossì, e distolse lo sguardo bruscamente. Iori non era lì per caso, né solamente per scambiare quattro chiacchiere in tutta tranquillità: aveva compreso fin troppo bene che il suo scopo era solo quello di chiarire i misteri, di avere una risposta soddisfacente.

Ma come poteva darne? Come? Era più difficile che affrontare il suo sguardo.

“Dimmi perché sei venuto qui, Iori-kun” riuscì a dire, con voce improvvisamente bassa. In quel momento avvertiva la voragine dei ricordi tentare di riportarla indietro, ad annaspare nel loro oceano senza fine e senza via d’uscita: aveva paura di affrontare tutto. Aveva paura di sapere cosa volesse il ragazzo dagli occhi verdi dalla sua maschera, e dal suo vero essere. Ma sapeva che non avrebbe potuto scacciarlo: aveva bisogno di rivederlo, di non sentirsi più abbandonata. “Sembra che non sia una visita di piacere.”

Qualcosa sul viso di Iori cambiò, addolcendo per un istante quel viso tanto pronto a condannare ogni cosa che andasse contro i suoi principi. “Volevo sapere com’è diventata la tua vita, da quando sei andata via” spiegò. “E’ questo che mi ha spinto a venire da te questa sera. Ma… mi serve sapere quanto le tue idee sono cambiate da allora, e per quanto hai intenzione di nasconderti senza porre rimedio alla tua situazione.”

E sprofondò nell’abisso, senza possibilità di scelta. Tutte le sue decisioni, tutte le sue colpe, tutto quello che aveva omesso o dichiarato a voce alta, tutti gli anni di segretezza e di solitudine, e la sconfinata, struggente, immensa mancanza di ciò che aveva di più prezioso e che aveva perduto a causa della sua codardia esplosero nella sua mente.

Scattò in piedi, piena di un dolore e di una rabbia non possibilmente misurabili. “Vuoi sapere se sono tornata in me, se ho deciso di fare la cosa giusta, per una volta?” urlò, sentendo il petto scoppiare per lo sforzo, che pure non la liberava dalla sofferenza che sentiva dentro. “Vuoi che ti dica che hai avuto ragione tu, che sono stata irresponsabile, che avrei dovuto pensare alle conseguenze o agli insegnamenti che mi avevano dato? A quanto pare, Hida Iori è sempre stato più intelligente di me, anche con quasi tre anni di differenza, anche se avrei dovuto essere responsabile come e più di te! A quanto pare, l’unica cosa a cui io possa mai pensare è quella di nascondermi, spaventata dalla mia stessa ombra, terrorizzata all’idea che possano scoprirmi, e senza più forza per continuare! Cosa mai potrei fare? Dimmelo, se lo sai!”

Iori aveva gli occhi sgranati, e tutto quello che poté fare fu fissarla, turbato. La sua intenzione non era quella di farla sentire in colpa o di farla stare male, ma Rumiko non riusciva a smettere di gridare. Qualcosa si era spezzato in lei: la maschera era stata violentemente frantumata, e sotto gli occhi del suo amico la sua vera identità era messa a nudo senza che lei potesse farci nulla.

Corse via dalla stanza, precipitandosi in bagno. Con una furia che credeva sopita da tempo, si mise davanti allo specchio, togliendo con dita tremanti le lenti a contatto che si era costretta ad indossare, per poi frugare, mentre le lacrime cominciavano a scendere copiose dai suoi occhi, nel cassetto dove aveva nascosto il suo segreto.

Quando estrasse il suo paio di occhiali, i singhiozzi la squassarono.

Li infilò, senza trovare il coraggio di guardarsi allo specchio.

Portò le mani alla testa, prendendo tra le dita la sua chioma scura. Chiudendo gli occhi, sentendo il suo cuore lacerarsi, tirò con forza.

Cadde via, mentre sentiva ciocche e ciocche sfuggire dalla rigida posizione nella quale costringeva i suoi veri capelli ogni giorno. La parrucca non le sarebbe servita.

Aprì, tremante, i suoi occhi miopi, e scorse la sua figura.

Occhi castani, dietro spesse lenti. Capelli viola lunghi, spettinati e lisci.

Capelli viola. Come quelli di lui.

Scappò dal suo specchio, tornando ad affrontare Iori.

Quando lui scorse la sua immagine, così familiare a lui, sobbalzò, e si alzò in piedi. Ma lei piangeva, e non riusciva a fermarsi.

“Guarda!” pianse, osservandolo come poté attraverso i suoi occhi velati di lacrime. “Questo è il volto di chi ha sbagliato tanto, di chi è scappato perché credeva di fare del bene, e invece condannava altri! Questo è il volto di… una madre… che ha abbandonato suo figlio… E’ il volto di un mostro, che deve restare da solo! Credi che io abbia altra scelta, che possa aver cambiato idea? Con quale criterio?”

Cadde in ginocchio, troppo distrutta per reagire altrimenti, singhiozzante. Avrebbe voluto cancellare il suo passato. Avrebbe voluto riabbracciare i suoi genitori, i suoi amici.

Avrebbe voluto crescere suo figlio. Lo stesso figlio che aveva amato con tutte le sue forze, che il destino aveva voluto allontanare per sempre dalla sua vita. Lo stesso figlio che aveva visto dormire, mentre lei lo abbandonava per sempre.

Per sempre. Non l’avrebbe visto mai più.

“Miyako-san…”

Sussultò, sentendosi chiamata così. Alzò lo sguardo, troppo incredula a risentire quel nome. Il suo vero nome.

La mano di Iori era sulla sua, e per la prima volta la giovane scorse un sorriso di affetto, così raro in lui, comparire sul suo volto. Lo guardò, non sapendo come avrebbe risposto, se l’avrebbe biasimata o consolata.

“Non sono qui per biasimarti per il passato, Miyako-san, e non volevo farti piangere. Mi dispiace molto.” Disse, nella voce una partecipazione rispettosa del dolore che sapeva bene essere insanabile per lei. “La mia rabbia per quello che era successo mi ha spinto a prendere la decisione di incontrarti di nuovo in ritardo. So di essere stato carente come amico, e non sai quanto me ne vergogni: se non avessi parlato con Satsu, probabilmente non mi sarei mai convinto. Ti chiedo perdono.”

Miyako strinse le sue mani, grata per questo gesto. Il suo rancore le aveva fatto troppo male: se, sette anni prima, non avesse trovato conforto nella famiglia di Sato Satsu, una delle migliori amiche che avesse mai avuto, non avrebbe saputo andare avanti. “E’ grazie a lei che mi hai trovata?” balbettò, ancora scossa dai singhiozzi.

Iori annuì, grave. “Mi ha fatto capire molte cose.”

“E allora qual è il tuo intento, Iori-kun?” domandò ancora lei, guardandolo con angoscia. “Hai deciso che non puoi più proteggermi, che hai diritto a vivere la tua vita senza che le indagini su di me la rovinino?”

Lui scosse il capo, donandole un po’ di speranza. “Ichijouji Osamu non è ingenuo: continuerà a ritenermi… sospettato in eterno” ribatté, a denti stretti mentre pronunciava l’ultima parte. E solo lei sapeva quanto essere considerato un criminale mortificasse e riempisse di rabbia il suo migliore amico. “Ma non è per questo che sono qui. Ti chiedo di tornare alla tua vecchia vita, di tornare dai tuoi genitori e da chi ti vuole vedere.”

Miyako sgranò gli occhi, sentendo il suo cuore accelerare. Non poteva dire sul serio: erano otto anni che era sparita dalla sua casa senza dare spiegazioni! Le cose non avrebbero mai potuto sistemarsi, e di certo non avrebbe cambiato il passato. Come faceva a proporre una soluzione del genere?

“Tornare? Come posso?” sussurrò, ripensando al loro volto contratto dalla rabbia e dal disgusto. Scosse violentemente la testa. “No, non potrei. La mia vita con loro è finita, me lo hanno detto chiaramente. Credevo che tu fossi una persona con i piedi per terra.”

“La lontananza perdona tante cose. Soffrono molto: non sono più gli stessi, senza di te.” Replicò Iori, pacato. “Tu devi tornare, perché puoi ancora rimediare.”

Il desiderio di rivederli ancora fu così forte da farle male: un senso di repulsione verso se stessa la costrinse a non illudersi. Le lacrime scesero ancora lungo le sue guance, mentre sapeva perfettamente come ribattere al suo ascoltatore.

“Ho abbandonato una creatura innocente” disse, tremando al pensiero della bellezza del suo piccolo viso, al calore rassicurante del suo corpo tra le sue braccia. Il suo bambino. Il suo piccolo, finito chissà dove, chissà con chi. “Non posso tornare. Loro non mi avrebbero mai accettato in altri tempi, e anche se loro potessero farlo, io non mi perdonerei, perché non potrò mai farlo. No, Iori-kun: non puoi dirmi di dimenticare, perché tu stesso non ci riesci del tutto.”

Iori si irrigidì, rimanendo in silenzio, e Miyako seppe di aver vinto. Pianse lacrime amare, nella mente ancora l’immagine di suo figlio. Il suo piccolo Keiji.

Sette anni, e il dolore ancora la struggeva. Sette anni, e la sua voglia di dimenticare diventava sempre più utopica. Aveva rinunciato a vivere, abbandonandolo, e forse lo aveva condannato ad un destino atroce. Sciocca, stupida, crudele. Ecco cos’era stata.

“Allora perché ti fai ancora vedere, ogni febbraio?” chiese poi Iori, scrutandola confuso. “E’ un gesto sconsiderato. Non dovresti sottovalutare Ichijouji, lo sai.”

Lei sorrise amaramente. Era così strano spiegarne il motivo a qualcun altro che non fosse se stessa: forse era rimasta da sola per troppo tempo, dopotutto. “Chiamami come vuoi, ma… ho bisogno di farmi vedere per come sono. Lo faccio per i miei cari, in modo che capiscano che sto bene e sono viva… e lo faccio per me. Lo sai cosa significa impersonare Miyazawa Rumiko per sette, lunghi anni? Non è facile, né piacevole.”

“Giochi con il fuoco, Miyako-san” replicò l’altro, preoccupato. “Dovresti smetterla.”

Miyako scosse la testa. Era bello trovare qualcuno che ancora si interessasse a lei. Era bello ritrovare le apprensioni sicure del suo migliore amico di sempre. Lo abbracciò forte.

“Sai che non ti ascolterò, ma… Ti voglio bene, Iori-kun, e ti sono grata per tutto” disse piano, piangendo silenziosamente sulla sua spalla.

Iori ricambiò la stretta. “Sarò costretto a non farmi vedere troppo, ma voglio che tu sappia che non ti abbandonerò più: se avrai bisogno, basta riferirlo a Satsu. Mi avviserà.”

“Puoi restare con me ancora per un po’? Ti prego.” La giovane lo strinse più forte. Aveva paura di essere lasciata nuovamente da sola, aveva paura di affrontare i suoi ricordi. “Permettimi di dimenticare ancora per un po’. Solo qualche minuto.”

Il suo cuore esultò quando lo sentì dire: “Va bene.”

Rimase in silenzio, chiudendo gli occhi, mentre sentiva la testa dolerle e le mani tremarle. Sapeva a cosa aveva rinunciato, quando aveva abbandonato suo figlio e quando si era nascosta alla sua famiglia. Lo sapeva, ne soffriva, ma non poteva fate altro che cercare di proseguire la sua vita solitaria.

Se le cose non potevano migliorare nella sua vita, doveva essere felice delle poche cose che ancora le restavano. E la visita di Iori era stata così dolce da farle pensare, per un solo istante, che la sua ferita fosse stata rimarginata.

Tra qualche tempo avrebbe ripensato a tutto, avrebbe sofferto come sempre.

Ma Inoue Miyako non voleva ancora svegliarsi dal sogno idilliaco.

Non ancora.

Nuovo aggiornamento pronto per voi! :) Accidenti, questo capitolo è stato più difficile del solito da mettere per iscritto, ma ora che è pubblicato posso essere fiera di annunciare che questo è stato l'ultimo capitolo di presentazione! Dopo di questo, posso dedicarmi a mandare avanti la vicenda, senza indugiare oltre!
E' finalmente rivelata qui l'identità della mamma di Keiji ^^ ma credo che ormai non sia più una sorpresa, dato che lo avete indovinato abbastanza presto! In ogni caso, Miyako meritava una sua analisi, dato che tutto ruota intorno a lei (e anche perché l'adoro :) ), e credetemi se vi dico che ce l'ho messa tutta per rendere al meglio i suoi pensieri e le sue emozioni!
Ma lascio a voi la parola! Sarei proprio curiosa di sapere le vostre versioni dei fatti!
Per intanto, mi sembra più che giusto ringraziarti, HikariKanna, per essere tornata a recensirmi ** e anche per aver commentato insieme due capitoli! Mi ha fatto piacere pensare che tu la pensi come me, riguardo Hikari: ho deciso di rimanere il più possibile fedele all'anime, e dato che lei diventava insegnante delle elementari... ^^ Lo stesso discorso vale anche per Ken, comunque legato in qualche modo alla polizia, e per Takeru che ama scrivere! Per Osamu invece ho potuto solo inventare, per ovvi motivi (ç_ç)... Non preoccuparti, Takeru e Hikari si incontreranno ben presto: non li lascio certo così, no? ;) E per la mamma del bambino e il nascondiglio di Miyako... Beh, questo capitolo dovrebbe bastare come risposta! Grazie ancora, un bacione!
Mystery Anakin, grazie per l'entusiasmo: e chi se lo aspettava? *_* Non credevo che il caso ti sarebbe interessato tanto, e devo dire di aver temuto un tuo parere, ad essere sinceri! Anche perché lo sai che è la prima volta che mi cimento in una storia tanto ricca di generi... Solo un appunto: non puoi aspettarti che ti riveli già l'identità del padre, sarebbe troppo facile! Per quello ci vorrà un po', immagino... ;) I due fratellini Ichijouji ti sono piaciuti, quindi? Buono a sapersi :) considerando che saranno davvero importanti nella vicenda... E puoi scommettere che sentirai ancora parlare di loro, cara mia! xD Beh, che dire, sono felice e commossa del tuo interessamento, e spero di non deluderti con questo capitolo! Mi fai sapere appena puoi? Ti aspetto con impazienza! Ti voglio un mondo di bene!
Ehi, gelato sciolto... sei ancora in grado di leggere la risposta alla tua recensione? xDxD Sto scherzando, Shine, ovvio! E' solo che mi ha fatto ridere vedere tutti quegli smile... Ma cambierai mai? ^^ E cosa potevi aspettarti da una tipa come me? Non potevo certo lasciare Osamu nel dimenticatoio, o il caso Inoue irrisolto! Il maggiore degli Ichijouji doveva essere vivo, e Miyako dovrà pur essere trovata da qualcuno... ;) Quindi, sono semplicemente felice che le due cose non ti dispiacciano! Sai anche che mi piace provare diversi generi, e sapendo che i gialli ti piacciono, mi sento più motivata a continuare, sul serio! E aspettati una presenza costante del rapporto tra Osamu e Ken, sapendo che non li abbandonerei di certo al loro destino... Io cercherò, come sempre, di non deluderti! Mi dici che ne pensi di questo? Ti piace, anche se non c'è un certo ragazzo dagli occhi azzurri che conosci? xD Non sai quanto ti voglio bene, spero di sentirti presto!
Ciao, Roe: che piacere sapere che hai già provato a dare una tua interpretazione della vicenda! La tua era una recensione critica, e ne sono molto contenta (per di più fatta anche ad orari impensabili... xD Non volevo tenerti sveglia fino a quell'ora!) Sono d'accordo con te, nessuno analizza mai il povero Osamu... ed è proprio per questo che in questa ff è ancora vivo! Ma, come vedi, Miyako non è svanita nel nulla: almeno adesso sai dov'è, alla faccia degli Ichijouji! ^^ Terrò presenti le tue teorie, anche se, come sai, non posso dirti nulla... Ti toccherà aspettare! Grazie per l'attenzione, i commenti e i complimenti, sul serio: cosa mi dici di questo? Ci sentiamo, un bacione! 
Ancora una volta, vi invito a farmi sapere cosa ne pensate. Sarò ben felice di leggere le vostre impressioni, davvero! :)
Alla prossima,
Padme Undomiel

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Capitolo 6
*** Incontri Inaspettati ***


Purity cap 5

5.

 

Incontri inaspettati

 

“E allora mi dice: «Motomiya, mi aspetto di trovarti preparato per il prossimo esame.» Dopo tutto l’impegno che ci ho messo, capisci?”

Takeru sospirò, alzando gli occhi al cielo. Erano diversi minuti che il suo amico, Motomiya Daisuke, continuava a lamentarsi, scontento per l’esito di quell’esame disastroso che aveva tenuto quel giorno.

Era sempre più convinto che lui avesse fatto un errore a iscriversi a quel corso universitario: i professori richiedevano sempre un livello molto maggiore rispetto a quello che Daisuke poteva offrire. Lui non era mai stato un tipo studioso. Mai.

“La verità è che esiste gente crudele, giuro. Insomma, dovrebbero tenere in considerazione che non tutti sono secchioni come te, Takeru!” stava continuando, lanciandogli uno sguardo offeso come se lo stesse incolpando di qualcosa. “Se mi avessero lasciato diventare calciatore come volevo, tutto questo non sarebbe successo! Oh, i miei mi ammazzerebbero, se lo venissero a sapere…”

“Qualcosa mi dice che non dirai loro niente come al solito, no, Daisuke-kun?” rise Takeru, per nulla sorpreso da questa risoluzione.

Daisuke parve decisamente irritato, questa volta. “Ma quando mai? Io non mi nascondo dai miei parenti, garantito!” ribatté, accelerando il passo e rischiando di superarlo. Il giovane dai capelli biondi si affrettò a seguirlo, cercando di non ridere delle stranezze del suo amico. “Sono loro a non volerne sapere di conoscere i miei risultati negativi, così hanno rinunciato a chiedere!”

“Va bene, va bene: stavo solo scherzando. Non volevo offenderti” si affrettò a dire Takeru, sentendo che l’umore dell’altro stava rapidamente abbattendosi. Conosceva Daisuke da molto tempo, e sapeva che viveva con molta frustrazione l’essere stato costretto a rinunciare alle sue aspirazioni per dedicarsi a qualcosa che gli dava solo delusioni, che lui riteneva umiliazioni.

Doveva cercare di aiutarlo, invece che ridere di lui.

“Andiamo, non tutto è perduto, no?” gli disse, tagliandogli la strada e posizionandosi esattamente di fronte a lui per cercare di fermarlo. “Vorrà dire che ti darò una mano per la prossima volta. Studieremo insieme, ti va? Tanto, non ho nulla da fare.”

Forse il suo ruolo, lì a Tokyo, era quello di aiutare il suo amico di vecchia data ad essere meno deluso da se stesso. Probabilmente, poteva anche riuscire a sentirsi meno in colpa per aver abbandonato suo fratello Yamato nel momento del bisogno, e a non pensare alla sua condizione di grande disagio e frustrazione.

Il ragazzo dai capelli scuri ribelli sbuffò, osservandolo scettico. “Come se tu avessi tempo da sprecare a cercare di farmi imparare a studiare!” ribatté, poco convinto. “Ultimamente, sei sparito dalla circolazione: se oggi non avessi tenuto quell’esame, chissà quando ti saresti fatto vivo!”

Takeru rimase di sasso, mentre sentiva quanto quell’affermazione corrispondesse alla verità. Erano davvero molti giorni che si dedicava solo a quell’attività, e trascurava tutti i suoi compagni universitari.

“Cosa dici? Mi sono offerto di aiutarti, quindi il tempo ce l’ho. Ti sentirai mica trascurato, Daisuke-kun?” tentò di scherzare, per non sentirsi così egoista.

“Non si tratta di questo: mi piacerebbe solo sapere cosa fai dalla mattina alla sera, tutto qui!” disse il suo amico, improvvisamente incuriosito. “Io e i ragazzi siamo usciti, ieri. Ti ho avvertito via messaggio, ma non hai risposto. Cosa avevi di più importante da fare?”

Un messaggio. La sera prima non aveva preso per nulla il cellulare: era stato tutto il tempo sul balcone, ad osservare. Takeru sapeva di star facendo preoccupare i suoi amici, ma aveva bisogno di staccare dal solito girare per la città e cercare di mostrarsi interessante agli occhi delle ragazze più carine. Gli mancava svagarsi con il suo gruppo, ma sentiva che non si sarebbe divertito affatto, sentendosi di troppo o emarginato inconsciamente.

Proprio come la serata in discoteca che Daisuke gli aveva organizzato la sera in cui era tornato a Tokyo: aveva parlato a stento, troppo preso da altri pensieri.

“Beh, io…” Iniziò, non sapendo come scusarsi per questa sua assenza. Come poteva spiegargli come impiegava il suo tempo, da qualche giorno? “Non credo che capiresti.”

“Ma cosa dici, sei impazzito? Non fare il misterioso e spiegami tutto!” esclamò Daisuke, più impaziente che mai.

Takeru esitò, considerando la possibilità di dirgli la verità. Avrebbe soddisfatto la curiosità del ragazzo con cui stava parlando in quel momento, scusato la sua assenza in qualsiasi altra uscita serale che il suo gruppo pianificava, e si sarebbe sbarazzato del peso insopportabile dei suoi problemi esistenziali. Eppure, Daisuke non era tipo da restare in silenzio a rimuginare per conto suo: in breve tempo, la voce si sarebbe sparsa.

E Takaishi Takeru sarebbe stato considerato da tutti un ragazzo mentalmente disturbato, senza possibilità di scelta. D’altronde, lui stesso era convinto di apparire strano in questi ultimi anni: non avrebbe potuto biasimare i ragazzi per questo.

Non poteva rivelare nulla.

“Mi dispiace, Daisuke-kun” si scusò, a testa bassa. “Credo sia meglio che tu non lo sappia, almeno per qualche tempo. Ma sta’ tranquillo: non ho davvero nulla di preoccupante.”

“Andiamo, significa che non puoi parlarne? Perché?” insistette Daisuke, non contento. “C’è di mezzo qualche ragazza? Qualcuna che conosco?”

Takeru sbuffò. Se aveva un problema, doveva sempre esserci di mezzo qualche ragazza, secondo il suo amico. Forse era perché lui ne aveva sempre.

“No, le ragazze non c’entrano… riguarda soltanto me.” Rispose.

“Beh, non riesco davvero a capire, amico” ribatté l’altro, più confuso che mai. “Cosa spiegherò ai ragazzi, allora?”

Già, cosa spiegare? Forse che Takaishi Takeru non riusciva più a comprendere quale fosse il suo posto in quella vita? Forse che a volte le pazzie dei suoi amici gli apparivano prive di senso, mosse solo dalla voglia di uscire dagli schemi? Forse che lui era cambiato irrimediabilmente, senza che potesse fare nulla per tornare indietro?

Gettò uno sguardo alla volta del cielo pomeridiano, non osando incrociare gli occhi scuri troppo impazienti e curiosi di Daisuke.

“Dì loro che… sto passando un periodo difficile, e che ho bisogno di trovare delle risposte al più presto. Dì che mi dispiace tantissimo di isolarmi: appena possibile tornerò… e potrete sottopormi a qualsiasi tipo di tortura. Promesso.”

Sorrise in maniera apologetica, decidendosi ad abbassare lo sguardo.

Il ragazzo dai capelli scuri annuì, sospirando. “Come vuoi tu, Takeru, anche se non approvo” disse, calciando con il piede un sassolino trovato per la strada. Amava farlo quando qualcosa non gli tornava: lo faceva ripensare a quando desiderava giocare nella squadra nazionale, e a quanto lo faceva sentire bene quel sogno. Lo aveva confidato a Takeru tempo prima. “I problemi vanno affrontati insieme, non scappando come ladri.”

“Lo farei, se fossi in altre situazioni” sospirò il ragazzo biondo, pensando a ciò che lo aspettava quel giorno. Avrebbe tentato ancora di sentirsi più sereno servendosi di altri mezzi. “Sul serio, mi dispiace.”

“Cerca di riprenderti al più presto, però, o ti verrò a cercare personalmente” lo inchiodò con lo sguardo Daisuke. “E non sarà piacevole.”

Takeru rise, dandogli una pacca sulla schiena. “Al più presto, promesso. E salutami tutti.”

“Certo che sì: siamo noiosi, senza di te” rispose il suo compagno, sorridendo, “Fatti sentire.”

“Contaci. Ciao, ci vediamo.”

Takeru si diresse a passi lenti verso la sua abitazione, prendendo la strada opposta a quella di Daisuke. Aveva tutta l’intenzione di prendersela comoda: non c’era nessuno ad aspettarlo nel suo piccolo appartamento, e la sua frustrazione si nascondeva dietro i mobili o sotto il letto, insieme ai suoi quaderni di scritte senza senso e ai suoi poster della sua squadra di basket preferita: era sempre in agguato, impaziente di aggredirlo.

Era una bella giornata, e voleva godersela fino in fondo.

Sorrise tra sé, continuando a camminare.

 

***

 

C’era un innaturale silenzio tutt’intorno: se ne accorse subito, avvicinandosi a passi lenti al cancello grigio che separava la villetta dalla strada. Sembrava che la vitalità e il clima sereno che, da qualche giorno, era abituato a sentire appartenessero a un’altra vita.

Aggrottò le sopracciglia, perplesso. Era molto strano: non era un orario in cui solitamente ci si riposava, eppure le risate infantili erano totalmente scomparse.

Takeru diede un’occhiata all’interno, attento a non farsi vedere da nessuno.

Non c’era traccia dei piccoli bambini di pochi anni che giocavano solitamente in quel gran giardino: sembravano scomparsi.

Un senso di tristezza e delusione lo colse all’improvviso, mentre si rendeva conto che quel giorno non avrebbe potuto trovare pace ai suoi soliti tormenti: aveva aspettato tutta la mattina di passare di lì per osservare silenziosamente, ma proprio quando era arrivato davanti a quel cancello, i bambini e i ragazzi che si occupavano di loro non erano lì.

Avrebbe dovuto fare a meno di sentirsi rasserenato, per quel pomeriggio.

Avanzò cautamente, tentando di scorgere qualsiasi segno di vita. Gli sarebbe bastato anche solo un lieve rumore, o una piccola parola pronunciata da chiunque. Sembrava che il silenzio che si portava dentro riecheggiasse tra le mura di quella villa bianca che si distingueva dalle altre in maniera così evidente. La cosa lo faceva stare male, e molto.

Non voleva che anche quel luogo diventasse senza senso, come lui.

Finalmente, colse un movimento dietro una grande finestra.

Aguzzò lo sguardo, sperando di riconoscere in quell’immagine il volto di uno di quei ragazzi che tanto si davano da fare per quei bambini. Aveva bisogno di vedere il loro piacevole lavoro, e di rubare un po’ di serenità dalle risate loro e dei bambini senza farsi vedere.

Era una delle ragazze, notò, sollevato. Quella dai lunghi capelli castani, che Takeru aveva sentito spesso chiamare col nome di Mimi. Sembrava parlasse con qualcuno all’interno dell’abitazione, mentre cullava dolcemente un piccolo fagotto di coperte.

Sembrava un bambino. Un neonato.

Il ragazzo era sorpreso. Non sapeva che in quella villa ospitassero anche orfani così piccoli: aveva sempre pensato, forse anche scioccamente, che ci fossero solamente bambini più grandi. Evidentemente, quei giovani erano davvero pieni di risorse e di forza d’animo.

Ebbe un’improvvisa consapevolezza amara, mentre osservava la ragazza essere raggiunta da un giovane dai capelli rossi. Loro sapevano cosa fare della loro vita e dei loro successi.

Lui no.

Lui era ancora lì, a spiare la scena senza avere il coraggio di farsi vedere, di chiedere informazioni, di conoscere il segreto della loro sicurezza e del loro destino che sapevano tracciarsi con le proprie mani.

Si sentì, ancora una volta, un vero intruso. Come ogni giorno, ogni pomeriggio, ogni sera, ogni notte quando ci ripensava prima di dormire.

Era solo uno spettatore della gioia altrui. Niente di più.

Sospirò, proseguendo per la strada. Quel pomeriggio non era indicato per osservare quell’orfanotrofio: forse era solo la strana assenza di tutta la vitalità che era abituato a sentire, ad abbattere ulteriormente il suo spirito.

Quando si era accorto per la prima volta di quello che succedeva in quella villetta, affacciandosi alla finestra del suo appartamento, non c’era quel clima di stanchezza. Aveva visto persone attive e piene di allegria, che sapevano divertirsi e far divertire dei bambini come se fosse una dote innata. Aveva sentito risate spensierate, e aveva capito una realtà fondamentale.

Quelle persone avevano qualcosa che lui non aveva.

Aveva cominciato a spiarli, pur sapendo che non era giusto, né corretto. Aveva scoperto di non poter andare avanti senza imprimere negli occhi un’immagine nitida di quei bambini.

E aveva passato tutti i giorni da quella scoperta affacciato alla finestra o nascosto dietro quel cancello grigio, sperando di non farsi vedere, ma d’altra parte anche di essere visto.

Non sapeva nulla di loro, in fondo.

Sapeva che i ragazzi che si occupavano dei bambini vivevano lì, e che non uscivano da quella villa se non per motivi legati alla salute dei loro piccoli ospiti. Conosceva i loro nomi, avendoli ascoltati per giorni mentre si chiamavano tra loro. Ma non aveva alcuna idea di quale fosse la loro storia, o cosa li avesse spinti a intraprendere quella via non certo semplice. Non sapeva cosa ne ricavassero da tutto ciò, né per quanto tempo avessero intenzione di continuare.

Si vedeva come un osservatore senza pace e senza diritto di osservare, che cercava risposte nascondendosi dietro una facciata da bravo ragazzo.

Sospirò tra sé, allontanandosi dalla strada che portava al suo appartamento e proseguendo verso destra.

Era un bene che né Daisuke né i ragazzi sapessero di questa bizzarra abitudine, dopotutto. Lui stesso si vergognava di comportarsi in maniera tanto disonesta: non avrebbe sopportato di esporre le sue colpe e i suoi tormenti a voce alta.

Che non gli dispiacesse di essere così distante, però, era qualcosa di assolutamente falso. Takeru sapeva perfettamente che poteva contare sui suoi amici: il breve periodo passato fuori città per aiutare suo fratello non aveva raffreddato i rapporti, ed era sicuro che nient’altro sarebbe riuscito nell’impresa. Ma la sua chiusura non era stata causata da una mancanza da parte loro: se fosse stato così, tutto sarebbe stato più semplice.

Era lui il problema.

Sapeva di essere cambiato in qualche modo, e forse questo cambiamento era in negativo. Sapeva di star dando loro un dolore, tenendoli all’oscuro di tutto, ma non poteva farci nulla. Il problema era soprattutto Daisuke. Takeru lo conosceva da tantissimo tempo, ormai: sapeva quanto un’ennesima delusione nel campo dell’amicizia lo avrebbe abbattuto, soprattutto se causata da lui. E non poteva certo biasimarlo, se temeva che non si facesse più sentire per confidarsi.

Chissà per quanto altro tempo sarebbe durato questo tormento.

Il ricordo di Yamato lo colse quasi impreparato, facendolo fermare davanti a una strada a due corsie.

Yamato. Non si era più fatto sentire da quando era tornato a Tokyo, a cercare di trovare il modo di impiegare la sua vita. Aveva guardato il cellulare in maniera ansiosa in tutti quei giorni, nella vana speranza di saperne qualcosa in più di come stava procedendo la soluzione al problema del furto degli strumenti musicali. Pareva che suo fratello maggiore fosse così impegnato a cercare di salvarsi dall’improvvisa povertà da dimenticarsi di contattarlo.

Takeru era preoccupato, e in ansia. Rimpiangeva in ogni maniera di non essersi imposto, di non aver deciso di restare con lui e la band senza dare retta ai propri bisogni –ancora insoddisfatti, peraltro. Si sentiva tagliato fuori dalla vita di Yamato, e ne soffriva profondamente.

Ma anche se avesse chiamato, cosa avrebbe risolto? Si sarebbe sentito anche peggio ad ascoltare i problemi del giovane cantante, e lui non avrebbe potuto informarlo di alcun miglioramento, semplicemente perché non c’era stato.

Non sapeva davvero cosa volesse. Non era mai stato così confuso.

Scosse la testa, tentando di non pensare più a lungo alle sue preoccupazioni. Forse era solo la spossatezza dell’intera giornata appena trascorsa: era molto stanco, e tendeva a vedere le cose da un punto di vista anche più sconsolato del solito.

Individuò una panchina, con l’intento di riposarsi per qualche istante, fermandosi appena si rese conto che era già occupata da qualcuno.

Era una bambina di cinque anni circa, con lunghi capelli biondo scuro che le scendevano a ciocche sul viso, nascondendo allo sguardo di Takeru i suoi occhi infantili. Aveva il vestito bianco sporco di nero sulla schiena, come anche i suoi piccoli pugni stretti.

Quando si avvicinò ancora, per curiosità o per qualche altro motivo sconosciuto, notò che le sue spalle sussultavano, e che dalle sue labbra uscivano dei singhiozzi disperati.

Stava piangendo.

Il ragazzo rimase immobile per un istante, mentre una consapevolezza si faceva strada nella sua mente: quella bambina aveva sicuramente bisogno di lui. Non sapeva perché quella piccola figura gli risultasse così familiare, e perché fosse ferma su quella panchina tutta sola senza i suoi parenti, ma era fermamente convinto di poterle dare un po’ di conforto, anche se temporaneo.

Forse le sarebbe stato utile. In ogni caso, lei lo sarebbe stata a lui.

Le si sedette accanto, lentamente, pensando all’approccio migliore e più indicato per trattare con una bambina di quell’età.

“Ehi, è successo qualcosa? Perché piangi?” chiese alla fine, osservandola, impaziente di conoscere il motivo delle sue lacrime.

Lei alzò la testa, spaventata, e Takeru poté osservare i suoi piccoli occhi color caramello arrossati dal pianto, il suo naso all’insù, le sue labbra sottili contratte e le sue guance paffute. Era sempre più strano che una bambina così piccola fosse da sola in giro per la grande città.

Forse per l’innata fiducia dei bambini, forse per la disperazione, forse perché era troppo piccola per capire la malizia degli sconosciuti malviventi, non esitò un istante a rispondergli.

“Mi… mi sono persa” disse singhiozzando. “Ero con la mia famiglia, e stavamo facendo una passeggiata. Ma sono spariti tutti: non li trovo più!”

Ecco spiegato il motivo: una delle solite distrazioni da bambini. Sebbene Takeru fosse felice di potersi rendere utile aiutando la piccola disperata, non riusciva a credere che una famiglia potesse perdere di vista un suo componente. Pensò che lei vivesse con più fratelli, e che fosse difficile sorvegliarli tutti.

Mise goffamente una mano su quella della bambina dal viso familiare, tentando di confortarla. “Dai, non fare così” le sorrise, sperando di riuscire a calmarla. “Dovevate andare da qualche parte in particolare… ehm… come ti chiami?”

“Naoko” rispose lei, tirando su col naso e guardandolo supplichevole.

Il ragazzo rimase immobile per un attimo, cercando di ricordare dove avesse visto quella bambina. Anche il nome gli sembrava familiare: se solo fosse riuscito a capire dove lo avesse sentito…

Ma l’occhiata impaurita di Naoko lo fece desistere dal continuare a stare in silenzio. Non poteva aiutare qualcuno se si zittiva per riflettere sulle sue stranezze.

“Bene, Naoko-chan… Sai se tu e la tua famiglia dovevate andare da qualche parte? Ti posso accompagnare, se me lo dici.”

Naoko sgranò gli occhi, e rimase a pensare per qualche istante.

“Io… io credo al parco…” disse, esitante. “Qualche volta andiamo lì, nel pomeriggio. E Junichi-kun ha insistito tanto, prima.”

Ancora un altro nome conosciuto. Takeru era stanco di tutte queste incognite. “Junichi è tuo fratello?”

Lei annuì con foga. “Sì, uno di loro” rispose.

“Uno di loro? Quanti fratelli hai?” chiese ancora lui, sentendo che qualcosa non gli tornava. Da come ne parlava la bambina, sembrava che la sua fosse una famiglia anche troppo numerosa.

Con grande stupore di Takeru, Naoko ci pensò su per qualche tempo, prima di sbuffare sconfitta. “Tanti. Ma con alcuni litigo sempre, come con Shinji-kun.”

Osservò il broncio della piccola in totale silenzio, con gli occhi sgranati e una grande confusione in testa. Chissà a quale famiglia apparteneva. Così numerosa, poi.

Sospirò e si alzò in piedi, tendendole una mano. “Beh, se devi andare al parco, posso accompagnarti: è qui vicino.”

Naoko sorrise, asciugandosi le lacrime con la manica. Prese la mano che lui le tendeva, e scese dalla panchina con un piccolo salto. “Sì! Grazie!”

Improvvisamente, un senso di calore e gioia lo invase, mentre un sorriso spontaneo affiorava sulle sue labbra. Quel ringraziamento valeva più di ogni altra cosa, per Takeru: era la prova concreta che a qualcuno era stato utile.

Era da tanto che non si sentiva così bene.

La guardò grato. “Sono Takaishi Takeru, comunque.”

 

***

 

“Dimmi un po’, dov’è che abiti?”

Proseguivano verso il parco con una certa velocità, vista l’impazienza di Naoko di raggiungere la sua famiglia. Continuava a tenerle la mano, per tentare di darle più sicurezza.

Ma ancora non gli riusciva di capire dove avesse visto il volto di quella bambina: sperava che, sapendo dove lei abitava, gli sarebbe tornato in mente.

“Lontano da qui: vivo nell’orfanotrofio della famiglia Yagami” rispose Naoko, che da quando aveva smesso di piangere sembrava più intimidita: non lo guardava più negli occhi.

Takeru si fermò all’improvviso, con il cuore in gola.

Aveva nominato l’orfanotrofio. Poteva essere una di quei bambini?

Non sapeva perché, ma l’idea di aver parlato con una sua ospite lo turbava.

“Orfanotrofio? Intendi…” riuscì ad articolare, ansioso di avere conferma.

La bambina alzò lo sguardo, un po’ sorpresa. “Lo conosci? E’ una grande villa bianca, con un giardino bellissimo! Ci sono tanti altri bambini come me.”

La villa bianca. Ora capiva dove aveva già visto Naoko, o sentito nominare Junichi e Shinji. Era una dei bambini che vivevano grazie al lavoro e all’affetto di quei ragazzi.

Gli sembrava che l’aspetto della sua piccola interlocutrice fosse cambiato improvvisamente: sembrava un’altra persona.

E Takeru seppe che avrebbe potuto saperne di più su quel luogo.

“Vivo lì vicino” disse infine, ritrovando la calma. “Sei lì da tanto tempo? Ti hanno cresciuto loro?”

Lei annuì. “Non mi ricordo, ma mi hanno trovata quando avevo due anni!” dichiarò entusiasta. “E ora ne ho sei.”

“E chi sono le persone che ti hanno cresciuto, Naoko-chan?”

Attese, trepidante, la risposta di Naoko, sentendo l’impazienza raggiungere livelli troppo alti da sopportare. Il mistero di quel luogo e di quelle persone sarebbe stato svelato, infine: non aveva aspettato altro in tutti quei giorni di osservazione silenziosa. Forse era stato il destino a far smarrire quella bambina, e a farla trovare proprio da lui.

Ma proprio nel momento in cui Naoko apriva la bocca per parlare, una voce piena di apprensione la zittì improvvisamente.

“Naoko-chan! Naoko-chan, dove sei?”

Takeru trasalì, preso alla sprovvista mentre era totalmente concentrato nella conversazione con la bambina. Conosceva anche quella voce, e non poteva sbagliarsi: se c’era qualcuno che cercava Naoko, doveva per forza trattarsi di una ragazza che accudiva i bambini all’orfanotrofio.

Il cuore ricominciò ad accelerare i battiti. Provava una strana sensazione, che non riusciva a spiegarsi. Era come sconvolto dalla possibilità di vedere una di loro, e non sapeva se questo fosse un sentimento positivo o meno.

Naoko, invece, sembrava raggiante. Si voltò, esclamando: “Hikari!”

E lui ebbe la conferma di aver avuto ragione.

Era la ragazza più giovane, quella dall’aspetto più dolce.

L’aveva vista solo in lontananza, ma solo in quel momento riuscì a cogliere i particolari del suo volto. Mentre lei si avvicinava correndo, Takeru notò i suoi corti capelli castani tenuti in ordine con un fermaglio, che le incorniciavano un viso piccolo e proporzionato. I suoi occhi castani erano ora pieni di sollievo, mentre osservava la piccola accanto a lui; le sue labbra sottili erano piegate in un piccolo sorriso rasserenato.

Era il volto di chi si era preoccupato fino a quel momento, di una ragazza piena di amore verso qualcuno a cui teneva. Era un volto che lui non sentiva suo da anni, ormai.

Quando la giovane si avvicinò per stringere Naoko in un abbraccio, il senso d’angoscia ancora lo opprimeva.

“Ti abbiamo cercata dappertutto, sai?” disse la ragazza, con lo stesso tono dolce che Takeru aveva ascoltato in tutti quei giorni. “Non avevamo idea di dove tu fossi…”

“Vi avevo persi” ammise Naoko, con il viso nascosto nell’abbraccio di lei. “Ma mi ha trovato quel ragazzo, e mi stava portando da voi al parco!”

Sentendosi nominato, Takeru avvertì uno strano impulso a scappare, a non farsi vedere, ma non seppe farlo: era come inchiodato sul posto, mentre osservava quella scena piena di serena certezza d’affetto.

Rimase in silenzio quando gli occhi castani della ragazza chiamata Hikari si sollevarono e lo guardarono incuriositi; rimase in silenzio quando gli sorrise con educata gratitudine.

“E’ stato un gesto davvero gentile: grazie davvero” gli disse gentilmente, stringendo la mano di Naoko. “Con tutti quei bambini, è facile che qualcuno resti indietro.”

Era un’aria di scusa quella che gli stava mostrando, e non poteva essere lasciata nel silenzio. Quasi meccanicamente, si ritrovò a sorridere a sua volta.

“Non c’è problema: passavo di qui, e non stavo facendo nulla.” Rispose, e prima che potesse fermarsi, aggiunse: “Mi chiamo Takaishi Takeru.”

Un secondo dopo, si chiese come gli fosse saltata in mente un’idea del genere. Perché mai aveva sentito così tanto bisogno di esibirsi ad una persona tanto diversa da lui? Era forse il desiderio di uscire dalle sue preoccupazioni che lo spingeva a tentare di conversare con uno degli angeli dell’orfanotrofio?

In ogni caso, la ragazza non mostrò segni di fastidio. Dopo un’espressione sorpresa, il suo volto tornò a rasserenarsi.

“Yagami Hikari, piacere. E grazie ancora.”

Poi si volse verso Naoko, e la spronò dolcemente. “Allora, andiamo? Sono tutti preoccupati per te.”

Lei annuì. Cercò lo sguardo di Takeru, con le guance rosse per la timidezza, e sorrise.

“Ciao, Takeru-san.”

Takeru non riuscì a dire nulla. Si limitò a salutare con la mano, mentre sentiva che un senso di abbandono e frustrazione lo soffocava nuovamente, osservando la coppia allontanarsi. Aveva avuto modo di parlare, sebbene per poco, con due membri del nido di sicurezza che a lui tanto mancava, e ora stavano per sparire nuovamente dalla sua vita.

Aveva visto negli occhi di Yagami Hikari quella certezza incrollabile che la spingeva ogni giorno a farsi in quattro per i suoi bambini, e sapeva che quel senso di sicurezza sarebbe svanito non appena i suoi occhi colore del cielo avessero perso di vista la sua figura.

Non era giusto che andasse così. Non conosceva il loro segreto, e pareva che il destino gli avesse negato la possibilità di farlo.

Spinto da chissà quale forza, Takeru cominciò a correre, sperando di raggiungere il luogo dove la giovane era scomparsa.

Il destino non gli avrebbe sottratto la possibilità di saperne di più.

Ciao a tutti, e ben trovati in questo nuovo capitolo! ^^ Era da un po' che non trattavo più la situazione di Takeru, ma con questo aggiornamento ho avuto modo di farlo! E quale maniera migliore per trattarlo di un sano incontro (sebbene fugace) con Hikari e una presentazione di Daisuke? Oh, dovevo pur introdurlo, prima o poi! :) E con questo, ogni digiprescelto ha un proprio ruolo nella storia.
Shine, mi dispiace di farti aspettare tanto ogni volta, ma che ci vuoi fare? I tempi liberi di cui dispongo sono scarsissimi! :( Comunque, grazie per la tua recensione: è un piacere sapere che sono riuscita a comunicarti qualcosa nella prima scena con la bambina e in quella di Iori! ** Non sai che fatica a scriverle... Ero preoccupata soprattutto per la seconda parte (Iori si diverte ad essere così complicato -.-), ma spero tu non sia rimasta delusa dal tutto! Ma lo sai che mi lusinghi troppo con i complimenti? Non esagerare, dai! u//u In ogni caso, grazie della tua fedeltà e costanza, ti voglio bene!
Sto ancora preparandoti il milione di euro da darti in premio per aver indovinato, cara Roe: non ti sfugge nulla, è così? xD Mi fa piacere sapere che ti interessi tanto della soluzione del mistero... e che la tua teoria su Rumiko/Miyako si sia rivelata corretta! Chissà se continuerai a capire tutto in anticipo... xD Sono felice di averti convinta riguardo i sentimenti di Miyako, e spero di non deluderti in questo capitolo! Mi faresti sapere cosa ne pensi? Grazie in anticipo, a prestissimo! ^^ Un bacio!
Ah, Mystery Anakin, le prime impressioni sono quelle che contano, vero? Mai farsi ingannare dall'autrice che cerca di depistarti riguardo all'identità di Rumiko! ;) Va beh, comunque ci sei arrivata, e quindi complimenti! Anche a te è piaciuta la scena con la bambina? Non mi aspettavo tutti questi consensi ** E anche se su Iori ancora non puoi esprimerti, spero che su Miyako tu ti sia fatta un'idea più precisa, e che ti piaccia! Grazie mille per i complimenti, fammi sapere anche su questo, per favore! :) Alla prossima, un bacio!
Vi invito ancora a lasciarmi un parere, se ne avete voglia: man mano che si va avanti con la storia, diventa sempre più importante questo aiuto da parte vostra. Ve ne sarei grata *_*
E chissà se Takeru raggiungerà Hikari... Resta l'incognita per il momento: nel frattempo un'indagine particolare deve assolutamente iniziare... :)
Padme Undomiel

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Capitolo 7
*** Casa di fantasmi ***


Purity cap 6

6.

 

Casa di fantasmi

 

Lo squillare improvviso del suo cellulare lo fece fermare all’istante, mentre si avviava verso la cassa della libreria.

Appoggiò provvisoriamente il libro che aveva intenzione di comprare, estraendo, perplesso, il suo telefono dalla tasca della giacca. Non aspettava alcuna chiamata, quel pomeriggio: doveva essere qualcosa di importante.

Ne ebbe la certezza quando lesse sul display il nome di Osamu: suo fratello non chiamava mai quando lavorava, a meno che non ci fosse assoluto bisogno di parlare con lui.

Ichijouji Ken sospirò, rispondendo alla telefonata e accostando l’apparecchio elettronico all’orecchio.

“Pronto?”

“Sono io. Allora?”

La voce di Ichijouji Osamu era ferma come sempre, dall’altro capo del telefono. Non aveva mai amato i convenevoli: era arrivato subito al dunque, presupponendo che Ken sapesse esattamente di cosa voleva parlare con lui.

E il giovane lo sapeva, e bene. Non ebbe alcuna esitazione nel rispondere.

“Ho fissato per oggi, Osamu. Le indagini cominciano oggi, per me.”

Un momento di silenzio. “Da dove comincerai?”

Ken sorrise tra sé, per nulla stupito. Ancora una volta, nessun commento sulle sue decisioni, né alcun commento su come indagare sul caso della scomparsa di Inoue Miyako: si limitava a informarsi su come avesse intenzione di agire.

Aveva tutta l’aria di essere una sfida tra fratelli, ma a lui non dispiaceva. Tutto ciò che voleva era dimostrare al giovane investigatore che il suo mestiere lo appassionava come nient’altro al mondo, e che era in grado di aiutarlo nelle sue indagini.

Non voleva essere da meno di Osamu. Per questo sapeva che non doveva chiedere aiuto: nel momento in cui il maggiore lo aveva incaricato di quella responsabilità, le sue capacità dovevano essere le uniche cose su cui contare.

“Ho pensato… di far visita alla famiglia Inoue: in fondo, loro dovrebbero saperne di più di ciò che è successo a Miyako, no?”

Eppure, nonostante tutto, si sentiva a disagio a esporre le sue idee a un professionista delle indagini: il carattere solitamente distaccato di Osamu riusciva sempre a farlo sentire inferiore a lui, anche se suo fratello non lo voleva, probabilmente. In quel momento più che mai, anche se sapeva che non avrebbe avuto consigli, Ken sperò di aver colto una buona pista da seguire.

Anche questa volta, Osamu non fece una piega. “Capisco. Sai già come fare? Come parlare loro, e come ottenere le informazioni che cerchi?”

Il ragazzo sussultò lievemente, sentendosi ancora più vulnerabile. Era riuscito a centrare la sua più grande preoccupazione in pochi istanti: Ken non aveva alcuna idea di quale fosse la maniera più giusta per rivolgersi a una famiglia distrutta dal dolore. La sua inesperienza cominciava a farsi sentire prima ancora di iniziare il suo lavoro.

Fissò lo sguardo sulla fila di clienti che avevano preso rapidamente il suo posto davanti alla cassiera, per tornare a ragionare con tutta la calma di cui disponeva.

“So già quali domande rivolgere, ma non so precisamente come parlare loro” ammise a malincuore. Solo allora notò tutta la differenza tra lui e Osamu: suo fratello maggiore sapeva sempre cosa fare. A lui toccava solo una sorte di continua ricerca di questo modo di comportarsi.

Si vergognò e rimproverò per questa sua debolezza. Chissà se sarebbe mai riuscito ad essere come lui.

“Dovrai trovare un modo: ricorda che devi tentare di riportare a galla una storia risalente ad alcuni anni fa” fu la risposta severa dell’altro. “Osserva il tuo interlocutore e regolati di conseguenza. Di più non posso dirti.”

Ken annuì in fretta, per un momento dimentico del fatto che suo fratello non poteva vederlo. Sapeva che i rimproveri che riceveva da lui erano preziosi: forse solo così avrebbe raggiunto l’obiettivo. “Farò del mio meglio, lo prometto.”

“Chiamami quando hai finito” gli disse poi Osamu. “Chissà che non riusciamo a saperne di più.”

Per un attimo, la fiducia che gli stava dando lo riempì di senso di colpa. Molto dipendeva dal buon esito di quell’impresa, ma lui si sentiva ancora un ragazzino ingenuo e sognatore che non sapeva essere utile a suo fratello.

Si sforzò di scacciare quel sentimento mentre rispondeva. “Ti richiamo. A dopo.”

Chiuse la comunicazione, riponendo il cellulare al suo posto. Diede un’occhiata al suo orologio da polso, controllando l’ora: erano le 17:00. Aveva ancora un po’ di tempo, prima di recarsi all’indirizzo fornitogli da Osamu due giorni prima.

Avrebbe fatto meglio a rimettersi in fila, prima che altri clienti si aggiungessero al numero già presente.

Riprese il libro che aveva scelto, avviandosi verso la cassa e sospirando tra sé. Ancora una volta aveva avuto bisogno di rifugiarsi in quella libreria, prima di occuparsi dei suoi incarichi.

Pensare che avrebbe dovuto indagare di persona lo aveva improvvisamente reso consapevole che avrebbe anche potuto inseguire una pista sbagliata credendo di essere nel giusto. Era per questo motivo che aveva aspettato due giorni prima di prendere una decisione definitiva: aveva letto e riletto i suoi schemi per ore, valutato i possibili testimoni, e, alla fine, optato per la decisione che riteneva migliore.

Avrebbe indagato in casa di Inoue Miyako, prima di informarsi su amici e conoscenti. Magari avrebbe anche potuto farsi un’idea di che tipo fosse stata, o di quali fossero la sua vita o le sue abitudini prima della scomparsa di otto anni prima.

Gli era sembrato un buon punto di partenza. Sperava solo di non lasciarsi sfuggire particolari importanti, però.

C’era un motivo per cui si era recato lì, prima di andare a casa Inoue : sapeva che un buon investigatore doveva sempre avere la mente lucida, e tenere la situazione sotto controllo in ogni momento. Quando era sceso di casa, non aveva la mente lucida. I libri rappresentavano l’unica via di fuga dalle sue preoccupazioni.

Meccanicamente, si rese conto che era il suo turno, e tese il libro che aveva scelto alla cassiera. Pensava di essere abbastanza razionale, ora che aveva placato le sue ansie: adesso si sentiva pronto ad affrontare quell’indagine. Un passo alla volta, e forse sarebbe riuscito a trovare Miyako, e a riportarla alla sua famiglia, anche se non aveva alcuna idea di dove fosse.

Non si sarebbe arreso senza aver tentato. E forse Osamu sarebbe stato fiero di lui, e lo avrebbe aiutato a seguire le sue orme.

“Un altro, eh?”

Ken batté le palpebre, ritornando alla realtà con aria spaesata. Si accorse dell’occhiata divertita della ragazza dai capelli lisci scuri davanti a lui, con il libro che le aveva porto distrattamente.

Si chiese, confusamente, di cosa stesse parlando. “Come?”

La cassiera allargò il sorriso, controllando il prezzo del libro. “Anche ieri ne hai comprato uno, e della stessa categoria, se non mi sbaglio. Non ti bastava quello?”

Ken si strinse nelle spalle, non sapendo come ribattere: come poteva spiegare a una persona che non conosceva quel suo bisogno di immedesimarsi negli investigatori dei libri che leggeva?

“Quando vedo libri che mi interessano, li compro. Ma non è detto che li legga tutti in un giorno: li tengo da parte” rispose infine, pagando il necessario per acquistare il volume.

“E perché sempre libri gialli?”

Il ragazzo alzò nuovamente lo sguardo, stupito. Non riusciva a comprendere la curiosità che leggeva negli occhi scuri della sua interlocutrice, né la voglia di parlare con un perfetto sconosciuto dei vari gusti in campo letterario.

Forse era solo una ragazza molto chiacchierona.

“Perché mi piacciono più degli altri” disse, chiedendosi se quella fosse la risposta giusta alla domanda della giovane.

“E’ il tuo genere preferito, quindi.” Concluse la cassiera, ma lui colse un’espressione contrariata sul suo volto.

Era forse la conversazione più strana a cui aveva preso parte.

“A te non piace?” chiese educatamente.

Lei scosse, decisa, la testa. “No, affatto.” Affermò, con tono diverso da quello che aveva usato fino a quel momento.

Prima che Ken potesse dire altro, si vide porgere il libro dentro una busta, e vide un sorriso di scusa sul volto della ragazza.

“Ma sono gusti, ovviamente: non volevo insultare” gli disse. “Ecco il libro.”

Ricambiò il sorriso, incredulo. Sembrava che avesse cambiato umore di colpo. Non riusciva davvero a capire. “Nessun insulto, davvero. Grazie” aggiunse poi, prendendo la busta e allontanandosi per uscire dalla libreria.

“Meglio così. Buona serata.” Fu il saluto della cassiera.

Ken la salutò con un cenno della testa, prima di imboccare l’uscita.

Era strano trovarsi a parlare con certe persone bizzarre. Ma quel dialogo, se non altro, aveva avuto il potere di rilassarlo. Con il libro stretto in mano e con una sicurezza nuova e al contempo solenne, Ichijouji Ken si preparò a iniziare le sue indagini.

Casa Inoue lo stava aspettando.

 

***

Spense il motore della sua auto, aprendo lo sportello e scendendo sul marciapiede.

Il recapito che aveva ricevuto da suo fratello Osamu lo aveva portato davanti a un grande edificio a più piani, molto semplice in struttura ma piacevole alla vista.

La serenità che ispirava la zona sembrava contrastare completamente con la storia misteriosa di uno degli abitanti di quel palazzo.

Con un senso di inquietudine che non sapeva spiegarsi razionalmente, Ken richiuse lo sportello della sua macchina nera, intascando le chiavi.

In tutti quei quindici minuti di tragitto, si era chiesto incessantemente, forse anche stupidamente, cosa avrebbe trovato al suo arrivo: era curioso di sapere se qualche segno di quella disgrazia avvenuta fosse visibile anche dall’esterno. Un luogo pressoché disabitato avrebbe dato più avvisaglie della tristezza di quella famiglia.

E invece no. Mentre camminava lentamente, dirigendosi verso il portone dell’edificio, vedeva gente passeggiare tranquillamente, e sentiva un rumore di clacson incessante per la strada. Sui balconi e alle finestre le donne stendevano i panni o si godevano il fresco di quel pomeriggio; al quinto piano c’era un uomo seduto su una sedia bianca, intento a leggere il giornale.

La vita era andata avanti senza Inoue Miyako.

Si chiese quale fosse il modo di condurre le giornate di quella famiglia, dopo che la loro figlia era scomparsa. Per quanto potesse immaginare il senso di perdita che doveva aver colto ognuno di loro, non gli riusciva di capire esattamente cosa avessero provato, né poteva comprendere appieno quali sarebbero state le loro sensazioni quando lui si sarebbe presentato alla loro porta per indagare e riaprire vecchie ferite del passato.

Sospirò, scuotendo la testa e cercando il cognome interessato nella lista degli abitanti. Non c’era tempo da perdere in inutili elucubrazioni: il tempo stringeva. Se doveva tentare di dare una svolta alle indagini, doveva mettersi d’impegno, e non avere alcuna esitazione.

Individuò il cognome Inoue, e citofonò, sperando che qualcuno fosse in casa. Attese per alcuni secondi, con il cuore in gola per qualche motivo sconosciuto, con l’orecchio attento a captare ogni genere di suono in risposta.

Un silenzio eloquente fu tutto ciò che sentì.

Aggrottando le sopracciglia, Ken ritentò, allontanando volontariamente dalla mente il sospetto che nessuno gli avrebbe mai risposto. Aveva preso una decisione dopo tanta incertezza: non poteva mandare tutto all’aria, era semplicemente impossibile. Gli impegni universitari lo avrebbero tenuto troppo impegnato negli altri giorni, e le indagini sarebbero state accantonate per troppo tempo.

Aveva promesso a Osamu che avrebbe impegnato anima e corpo in quel caso. Non poteva permettersi di impiegare tutto questo tempo nell’attesa di …

“Chi è?”

Sussultò, sorridendo sollevato. Una voce femminile, stanca, flebile e quasi monocorde aveva risposto al citofono. E anche se non prometteva niente di piacevole quel tono così distrutto, il solo fatto che ci fosse qualcuno in casa aveva acceso in lui nuovamente la speranza di riuscire ad ottenere un miglioramento della situazione.

Con una strana emozione che gli attanagliava lo stomaco, si decise a manifestare la sua presenza.

“Sono Ichijouji Ken. Io …” provò a esplicare, ma un’esclamazione di puro stupore da parte della donna lo interruppe, confuso.

“Salga, salga pure!”

Il portone si aprì. Ken lo fissò, incapace di capacitarsi di cosa fosse successo alla sua interlocutrice. Pareva che a quella donna, che probabilmente era la madre di Miyako, fosse bastato conoscere il suo nome per farlo entrare, anche se non lo aveva mai visto in vita sua.

Era incredulo, ma decise di soprassedere, approfittando del fatto che non aveva dovuto spiegare via citofono i suoi intenti e i motivi della visita. Avrebbe avuto tutto il tempo per farlo, una volta che fosse entrato in quella casa.

Si incamminò, incerto sulla maniera più giusta di comportarsi. Osamu gli aveva consigliato di osservare attentamente chi aveva di fronte, prima di decidere quale fosse il comportamento da adottare: era per questo che si sentiva così insicuro. La donna che gli aveva risposto gli aveva ispirato inizialmente dolore profondo, poi una gioia così improvvisa e completa che lo aveva lasciato di stucco.

Aveva cambiato umore alla velocità della luce. Come avrebbe fatto a capire quale tipo di persona fosse, e quale fosse la maniera giusta per parlarle di ciò che stava facendo?

Si convinse che quella era, probabilmente, la cosa più improvvisata che lui avesse mai tentato di fare.

L’appartamento degli Inoue era al secondo piano; Ken lo raggiunse in fretta, sapendo di essere atteso, probabilmente, con impazienza. Non poteva attardarsi troppo.

Bussò al campanello, aspettando per qualche secondo.

E la porta si aprì di scatto, mostrando una donna con aria gioiosa sulla soglia.

Aveva i capelli completamente grigi, legati in una coda. Non era eccessivamente alta, ma era molto magra, forse troppo per il suo fisico: gli abiti semplici e di colori fondamentalmente scuri erano troppo larghi, come se cadessero dal suo corpo. Non era certo giovane, ma il giovane ebbe il presentimento che le rughe sul suo viso non fossero dovute all’età. I suoi occhi, dietro a un paio di spesse lenti da vista, sembravano pieni di un sentimento incontenibile, quasi che non riuscissero ad esprimere con esattezza tutto ciò che la donna poteva provare; la bocca era piegata in uno strano sorriso, così largo e pieno di sentimento da risultare quasi estraneo sul suo volto.

Lo scrutò un momento, in completo silenzio, e Ken si sentì a disagio, vedendosi osservato da un’espressione tanto inusuale quanto inquietante.

“Buonasera, sono Ichijouji Ken. Spero di non disturbare” tentò, con voce incerta.

A sorpresa, facendolo trasalire bruscamente, lei lo strinse in un abbraccio debole quanto lei. Si rese conto in un momento che quella doveva essere la sua presa più forte, e si sentì improvvisamente angosciato.

“Finalmente arriva, Ichijouji! Quanto ho aspettato, quanto ho aspettato non lo sa nessuno!” aveva cominciato lei, in tono rotto. “Allora? Dov’è? L’avete trovata? E dov’era? Ha chiesto di me? La mia Miyako-chan! La mia bambina!”

Qualcosa non tornava. Ken era rimasto immobile, sentendo, scioccato, le parole apparentemente senza senso della signora Inoue. Non riusciva a capire cosa fosse successo.

“Come?” chiese a bassa voce, certo di essersi lasciato sfuggire qualcosa di fondamentale.

“Sapevo di poter contare sulla polizia! E sapevo anche di potermi fidare del suo operato: lei è un grande investigatore! Un grande …”

E solo allora il giovane comprese. Il solito, comprensibile malinteso. Si scostò dolcemente dall’abbraccio, e le frasi sconnesse della donna si interruppero improvvisamente. Il suo sguardo era sorpreso.

“Inoue-san, io non sono Ichijouji Osamu, l’investigatore” iniziò, sentendo l’imbarazzo inondarlo. Lui non era nessuno per gli altri, né per quella famiglia, né per quel caso. “Sono suo fratello. Credo che lei si sia confusa, mi dispiace.”

La signora Inoue lo fissò, come se fosse confusa. “Suo fratello?” domandò, con tono malfermo.

Lui annuì. “E’ così.”

Rimase zitta per alcuni minuti, per così tanto tempo che Ken si chiese cosa stesse succedendo nella mente della donna. Sembrava cercare in lui una qualche risposta, senza però ardire di domandare.

“Sei qui per dirmi dov’è Miyako-chan?” chiese poi, e una nota di puro affetto trapelò dal suo tono di voce, nel pronunciare quello di sua figlia scomparsa. “Sei qui perché ti ha mandato tuo fratello? L’avete trovata, no? L’avete trovata …”

Lo fissava con gli occhi lucidi e con un’espressione di supplica tale da far sentire nel petto di Ken una morsa che lo attanagliava. C’era disperazione nelle sue parole, nel suo stato d’animo. C’era disperazione nella sua mente, ma si era aggrappata con tutte le sue forze alla speranza di poter trovare sua figlia.

Le mani gli tremarono. Perché doveva farle questo? Perché?

“No, Inoue-san. Noi non … l’abbiamo ancora trovata.” Sussurrò, non trovando la forza per aggiungere altro. Avrebbe potuto spiegare che era sulle sue tracce, che Osamu non aveva ancora abbandonato il caso, che avrebbe ritrovato Miyako e l’avrebbe riportata a casa, ma le parole gli morirono in gola quando vide ogni emozione abbandonare il viso della signora Inoue.

L’espressione di supplica era sparita, e il suo sguardo era diventato immobile, fisso sui suoi occhi. Sembrava lontana, troppo lontana dal mondo reale: appariva quasi un fantasma.

Ken ebbe l’orrenda sensazione di averla uccisa una seconda volta.

Sembrava un corpo umano senz’anima.

Rabbrividì, chiedendosi cosa mai avesse fatto a quella donna già distrutta dal dolore.

“Inoue-san …” tentò ancora, mettendole, impacciato, una mano su una spalla. Era davvero il momento di spiegare il motivo della sua visita: magari, tentando di darle qualche speranza, si sarebbe ripresa da quello stato di immobilità muta.

Ma lei lo interruppe, con espressione strana. “Perché non vieni  a sederti accanto a me? Vieni qui, non restare sulla porta. Come hai detto che ti chiami? Ti offro del tè. Vuoi del tè?”

Si scostò dalla sua mano, camminando come un automa verso l’interno della casa.

Ken era congelato dall’orrore. La signora Inoue si comportava come se un istante prima non avesse avuto la speranza di rivedere sua figlia scomparsa: aveva parlato con lo stesso tono di quando aveva risposto al citofono, parlando improvvisamente come se la sua fosse una visita di piacere di qualche parente. Improvvisamente quella casa gli parve piena di un antico dolore a tal punto da sembrargli ostile, carica di un silenzio insopportabile in cui la madre di Miyako si era consumata.

Seguì la donna come in trance, osservando l’ordine immobile della casa. Non sembrava abitata: nessun rumore nelle stanze chiuse, nessuna voce di altri membri della famiglia, nient’altro tranne i passi malfermi della donna e i suoi, troppo rumorosi per appartenere a quel luogo.

Sentì l’oppressione delle mura di quell’appartamento per intero, e ne rimase sconvolto.

“Sono sola, sai? Sono sempre sola …” stava dicendo la signora Inoue, entrando in un grazioso salotto arredato in stile classico e sedendosi lentamente sul divano. Aveva ancora quell’aria vacua negli occhi. “Mio marito lavora sempre. Lavora al negozio, sempre. I miei figli … Guarda le foto, caro. I miei figli sono quelli. Sono bellissimi, vero? Stupendi. Ma mi lasciano da sola. Sono sempre via. Sempre …”

Lo spettacolo sconvolgente di quella donna abbandonata sul divano, troppo debole per legare una frase all’altra, era quasi ipnotico per la sua tristezza, ma Ken si costrinse a distogliere lo sguardo.

Posò lo sguardo sul tavolino che era davanti a lui, e scorse diverse cornici di vari colori. Migliaia di volti sereni lo fissavano, immobili, da foto contenute da esse. Con mani tremanti, ne prese una: per qualche motivo sentiva di essere un intruso nell’osservare scene di una famiglia così irrimediabilmente distrutta.

“Guarda, guarda: i miei figli …” continuava a cantilenare la donna.

E Ken si decise a osservare la foto.

C’erano quattro ragazzi seduti su un giardino fiorito, sorridenti. Avevano un’età variabile, ma la più piccola, con i capelli castani corti, gli occhiali e un’aria vispa sul viso, sembrava avere dieci anni, e la più grande, dal viso più maturo, con lisci capelli castani tenuti fermi da due fermagli rosa, almeno diciassette. C’era un ragazzo dai capelli biondo scuro, con gli occhiali e con un sorriso furbo, che cingeva con la mano le tre ragazze che sedevano lì.

Quanto alla ragazza al centro, non poteva sbagliare.

Inoue Miyako sorrideva spensierata all’obbiettivo, con i lunghi capelli viola al vento, gli occhi castano chiaro, un paio di occhiali a rendere il suo viso ancora più birichino, un sorriso solare e sincero a piegare le sue labbra. Era ancora una bambina, probabilmente di dodici anni.

Non aveva mai visto in fotografia chi stava cercando. Aveva un senso di gelo all’altezza dello stomaco, mentre osservava ogni suo tratto. In quel momento, nessuno di loro avrebbe mai sospettato che qualcosa le sarebbe successo.

E lei sorrideva, insieme ai suoi fratelli. Sorrideva.

“Sono bravi, sai” aggiunse la signora Inoue, e un sorriso perso nel passato comparve sul suo viso. “E belli. Peccato che non sono in casa. Sembri avere l’età della mia Miyako-chan. Se torni la prossima volta te la faccio conoscere. Adesso è fuori … ma torna presto. E’ bella, vero?”

Ken batté le palpebre, non credendo a quello che vedeva. Pareva che ci credesse davvero, a quello che stava dicendo. Pareva convinta che Miyako sarebbe tornata presto a casa, come se fosse solo andata a fare compere.

Fu tentato di obiettare, di non illuderla nuovamente, ma le parole di Osamu lo fermarono.

“Osserva il tuo interlocutore e regolati di conseguenza.”

La signora Inoue era persa nel suo mondo, e non c’era verso di farle cambiare idea. Ma se sapeva assecondarla, avrebbe potuto avere informazioni per risolvere il caso.

Eppure, un senso di disgusto lo colse quando si sentì dire tranquillamente: “Sì, è bella. E immagino che non le dia nemmeno problemi in famiglia, Inoue-san.”

Lei lo fissò, assente. “No. E’ una brava bambina. Non ha mai dato problemi. E’ una brava bambina.”

Ken alzò lo sguardo, scrutando la donna con le sopracciglia corrugate. L’aveva chiamata bambina, nonostante, in quel momento, avesse venticinque anni. Possibile che fosse persa nel suo passato a tal punto? Quando era sparita, aveva diciassette anni: non era affatto una bambina.

Non riusciva a capire.

“Questi sono i suoi fratelli, invece?” chiese ancora, avvicinandosi alla sua interlocutrice e indicandoli con il dito. “Sembrano molto affiatati, da questa foto.”

Lei rimase un istante in silenzio, a rimirare il volto dei suoi figli. Ken si odiò per quanto stava facendo: sperò che almeno servisse a qualcosa tutto questo. “A volte litigano. Però si vogliono bene, sai. Tanto bene. Anche io voglio loro bene, caro.”

Sentì il bisogno di confortarla: le prese la mano, esitando. La fragilità di quella donna era semplicemente troppo profonda per poter essere compresa. “Si vede quanto volete loro bene: loro lo sanno meglio di me, comunque.”

Gli occhi della signora Inoue brillarono all’improvviso: Ken sussultò, chiedendosi cosa avesse combinato, ora. “No … Non lo sanno … Credono … Altrimenti sarebbero qui.”

“E dove sono, allora?” chiese ancora lui, in un sussurro. Non c’era alcuna traccia nemmeno dei fratelli di Miyako: pareva che fossero spariti nel nulla anche loro. Come quella ragazza dai capelli viola che era stata tanto felice in altri tempi.

Fu un momento. La donna lo guardò ancora, e il suo sguardo si fece vacuo. “Sei un bel ragazzo. Resta per la cena: torneranno tutti, e saranno felici di conoscerti. Momoe-chan è tanto intelligente, tanto buona … Mantarou-kun è così allegro. Ride sempre, insieme a Chizuru-chan … E Miyako-chan … Mi saluterà con un bacio, e mi abbraccerà forte, quando tornerà.”

Un moto di grande pietà lo sconvolse: non aveva mai visto una donna tanto sola. Pareva che fosse stata abbandonata a sé stessa per tanti, lunghissimi anni: era invecchiata di colpo, senza l’affetto e i figli, di cui sembrava profondamente bisognosa.

Non voleva arrendersi all’evidenza che tutto fosse cambiato. Viveva in un’altra dimensione, in una in cui i fantasmi dei componenti della sua famiglia le dimostravano affetto e le rimanevano accanto.

Ken sentì paura per lo stato mentale della donna, ma non sapeva cosa fare per lei.

“Inoue-san, non si preoccupi. Se vuole, posso venire a trovarla più spesso quando è sola.” Propose di getto, esprimendo ad alta voce ciò che sentiva più giusto che fosse fatto.

Lei sgranò gli occhi per un istante, come se non avesse compreso appieno.

“Con me?” disse a fatica, afferrandogli il braccio.

Ken trasalì, per la presa improvvisamente forte della donna. Sembrava troppo fragile per poterlo afferrare così prontamente. “Certo. Le do la mia parola: ogni volta che potrò.”

Ascoltò, attento, il silenzio della sua interlocutrice, osservando il colorito sempre più bianco del suo viso. Il suo volto stava cambiando ancora: adesso assomigliava sempre di più ad una maschera di pura sofferenza. La presa sul suo braccio era sempre più forte, come se avesse paura che andasse via.

Poi si alzò di scatto in piedi, tremando come una foglia. Ken la sorresse prontamente, temendo che cadesse sul pavimento.

“Devi … devi venire con me. Tu devi … vedere. C’è un diario. Un diario di Miyako-chan. Devi vederlo. Vieni. Ma è strappato. Vieni con me.” Balbettò, con le labbra che tremavano e lo sguardo supplichevole.

E il ragazzo sgranò gli occhi, improvvisamente consapevole che la signora Inoue aveva recuperato bruscamente un po’ di lucidità, per qualche motivo misterioso.

Un diario. Un diario appartenente a Miyako. Strappato, ma pur sempre un ottimo indizio da cui partire, ne era sicuro. Doveva pur raccontare qualcosa della ragazza scomparsa. E lui aveva il dovere di vederlo.

Assentì con la testa, e lei cominciò a tirarlo fuori dal salotto, portandolo ad attraversare un corridoio pieno di porte chiuse. Mormorava sempre “Vieni …”, e sembrava fermamente convinta di avergli fornito un dato importantissimo. Eppure, Ken era dubbioso. Se avesse rappresentato una prova fondamentale, certo Osamu e la polizia avrebbero saputo rintracciare Miyako.

E la signora Inoue aveva parlato di un diario strappato. Perché mai era stato danneggiato, e da chi? Dalla giovane stessa? Ma non aveva alcun senso: apparteneva a lei, dopotutto. Che motivo avrebbe avuto per distruggere qualcosa di così personale?

Prima che potesse riflettere oltre, lei si arrestò, proprio davanti all’ultima porta della casa.

La stanza di Inoue Miyako.

Scacciando un senso di inquietudine e di smarrimento, Ken posò una mano sulla maniglia, e, traendo un respiro profondo, la abbassò di colpo.

Era tutto immobile, come sospeso nel nulla.

Una normale stanza ordinata, con un letto accanto alla finestra. C’era una libreria sulla destra, e una scrivania con un computer in bella mostra. Un armadio era accanto alla scrivania. Nessun poster alle pareti, né foto incorniciate. Niente che riuscisse a distinguere quella stanza dal resto della casa.

E un tempo, una giovane diciassettenne la abitava.

Rabbrividì, sentendo quasi la sua presenza intenta a scrutare ogni suo movimento, in attesa che abbandonasse quel luogo che non gli apparteneva, che gli era completamente estraneo. Era il regno di una ragazza, che sembrava non aver mai abbandonato del tutto quella stanza.

Si avvicinò, titubante, alla scrivania, osservando tutto senza sfiorare nulla. 

C’erano un paio di foto incorniciate, che ritraevano entrambe la stessa bambina dai capelli viola che aveva visto in quella del salotto. Erano scene di vita quotidiana, ma Ken aggrottò le sopracciglia, confuso: in tutta la casa aveva visto solamente una Miyako bambina, mai una Miyako ragazza, magari nell’anno in cui era sparita. Mai un accenno al suo essere cresciuta.

Era sospetto, e strano. Davvero strano.

Posò una mano sulla tastiera del computer, ricordando quello che Osamu gli aveva detto riguardo alle doti di Miyako nell’informatica. Doveva essere per quello che quell’oggetto era in camera sua.

Ritrasse in fretta la mano, quasi come se quella tastiera fosse una reliquia da salvaguardare.

“Apri il cassetto. Devi aprirlo, perché è lì.”

La voce della signora Inoue lo fece trasalire: si era quasi dimenticato della sua presenza, preso com’era dalla strana atmosfera che regnava sovrana in quella stanza. Abbassò lo sguardo sul cassetto della scrivania, e lo aprì lentamente.

C’erano penne e matite di diverso tipo, alcune spezzate o senza inchiostro. Alcuni quaderni, che si rivelarono essere solo quaderni di matematica appartenenti al periodo in cui frequentava la scuola, erano posti al di sotto, e in mezzo a questi Ken trovò un’agenda viola consumata.

Seppe di averlo trovato. Il diario personale di Inoue Miyako.

Con uno strano tremore alle mani, il ragazzo lo prese tra le mani, ma sgranò gli occhi un secondo dopo, sconvolto.

Sembrava quasi vuoto: visto in laterale, appariva molto sottile, come se la rilegatura di quel diario fosse eccessiva per la quantità di fogli che conteneva.

Si voltò verso la donna, che si era totalmente appoggiata alla porta, come senza più forze. “Ha detto che è stato strappato? Da chi?” le domandò, più diretto possibile. Aveva bisogno di sapere, a tutti i costi: sperò di avere qualche risposta, ora che la signora Inoue non era schiava dei suoi fantasmi.

Lei sgranò gli occhi, scuotendo la testa e cominciando a tremare convulsamente. “No … strappato … non può essere aggiustato … Era di Miyako-chan … la mia bambina … dov’è?”

Ken temette che il peso dei suoi ricordi l’avesse improvvisamente sopraffatta: si rese conto, all’improvviso, che quel giorno non avrebbe potuto chiedere di più. Oltre alla compassione, aveva compreso che le sue visite non potevano essere solo di compagnia: doveva procedere un passo alla volta, se voleva che la donna non avesse delle crisi.

Le si avvicinò ancora, cingendole le spalle fragili con un braccio e tentando di calmarla. “Si calmi, Inoue-san: va tutto bene. Tutto bene. E’ stata molto gentile a mostrarmi il diario di sua figlia, davvero.”

Attese che il tremito si calmasse, prima di prendere un respiro profondo e formulare la domanda che gli premeva di porle. “Potrei … portarlo via, per leggerlo? Lo riporterò presto, promesso.”

Lei sussultò, per lanciargli un’aria smarrita. “Portarlo via? Perché?”

La mente di Ken corse, rapida, alla ricerca di una spiegazione da darle. Come poteva pretendere che comprendesse quello che stava facendo? Come poteva far sì che lei accettasse questa intrusione nel mondo di Miyako?

E la risposta arrivò subito, prima che potesse rendersene conto lui stesso.

“Vorrei conoscere sua figlia. Immagino che sia fantastica come la descrive lei, e vorrei farmene un’idea io stesso. Posso?” Disse infine, il più sincero possibile. Non avrebbe saputo come altro fare: si chiese se Osamu avrebbe mai adottato una scusa del genere. Non gli sembrava da lui.

Ad ogni modo, gli occhi dietro agli occhiali della signora Inoue tornarono vacui, e un sorriso perso piegò tristemente le sue labbra. “Sì … Va bene. Te la farò conoscere di persona quando tornerà a casa. Tornerà presto, sai? Caro ragazzo …”

Aveva ottenuto quello che gli serviva: qualche tempo per studiare quel diario. Cercò il sollievo che aspettava di provare, inutilmente.

“Grazie. Grazie davvero.” Le disse. Accettò una carezza dalla donna, che lo guardava come se fosse uno dei suoi figli, e si sentì stringere il cuore dal dolore incommensurabile di quella donna.

Ma sapeva che doveva andare via. Non poteva restare lì per sempre.

Sospirò. “Inoue-san” chiamò a bassa voce, riluttante. “Tornerò presto, quando potrò. Ma ora devo andare.”

“No, resta. Resta qui, resta con me …” rispose lei, ancora assente. “Resta …”

Si odiò profondamente, ma sapeva di non avere scelta. Si separò dolcemente da lei, guardandola negli occhi per farle capire che non l’avrebbe lasciata sola, che sarebbe tornato. “E’ tardi. Verrò un’altra volta. Non deve preoccuparsi.”

Lei non disse nulla: si limitò a fissarlo.

Ken seppe che non avrebbe aggiunto altro. Le sorrise, e si voltò verso l’uscita, il diario stretto nella mano destra, il passo grave, il cuore che sembrava aver accelerato i battiti da troppo tempo.

“Non saluti i miei figli?”

Quell’eco inquietante giunse alle sue orecchie quando ormai era sulla porta. Si sentì gelare.

E i fantasmi di quella famiglia parvero incombere alle sue spalle.

Non riuscì a girarsi, ma la signora Inoue voleva che salutasse i suoi bambini.

“Arrivederci, Momoe, Mantarou, Chizuru … Miyako.” Sussurrò, con un peso nel petto.

Quando lasciò quella casa, gli parve che occhi invisibili continuassero a scrutarlo, incitati da quelli assenti di una donna troppo sola e infelice.

 

***

“Perché non mi hai detto che il problema era così serio?”

La busta contenente il libro acquistato precedentemente stretta nella mano, camminava in strada, dopo aver parcheggiato alla sua auto. Era ancora inquieto: la maniera quasi spasmodica in cui stringeva il suo cellulare dimostrava quell’angoscia che tentava disperatamente di scacciare da diversi minuti.

La voce dall’altra parte del telefono sembrava impassibile come sempre: Ken ne rimase sconvolto, ripensando a quello che aveva visto in quella casa. Non poteva credere che suo fratello fosse così tranquillo, dopo aver interrogato più volte quella donna.

“Te l’ho detto, invece” rispose. “Ma dirlo a parole non rende affatto l’idea di ciò che ha comportato la sparizione di quella ragazza nella mente dei suoi genitori. Com’è andata, piuttosto? Hai scoperto qualcosa?”

Malgrado il volto della signora Inoue fosse ancora impresso nei suoi occhi, Ken si sentì improvvisamente orgoglioso: gli parve che il diario che aveva nascosto nella busta che stringeva, come se fosse qualcosa di incredibilmente compromettente, facesse sentire maggiormente il suo peso.

Fissò lo sguardo, distrattamente, su un gruppo di bambini che giocavano a calcio su un marciapiede non lontano, mentre si decideva a rispondere a suo fratello. Non sapeva che effetto avrebbe avuto rivelargli il suo primo successo.

“Diciamo di sì.” Dichiarò, sentendo, dopo troppo tempo di angoscia dovuta alla sua recente visita, un piccolo sorriso affiorare sul suo viso. “La signora Inoue mi ha mostrato il diario di Miyako: l’ho preso per esaminarlo. Ne sapevi niente?”

Mentre aspettava che il silenzio di Osamu divenisse un commento, vide il pallone dei bambini venir calciato troppo forte, e allontanarsi verso la strada. Aggrottò le sopracciglia, preoccupato per la brutta piega che poteva prendere il fatto, ma non ebbe il tempo di fare nulla.

“Un diario? Un diario personale?”

Sentì un tono di sorpresa al ricevitore, e il suo senso di orgoglio si fece sentire più forte. Poteva sentirsi fiero di come lo aveva aiutato?

“Sì. Se vuoi, possiamo esaminarlo insieme, quando sarai libero.” Rispose, mentre si avvicinava al marciapiede dove uno dei bambini si stava dirigendo verso la direzione del pallone che aveva perso. “Piuttosto, sai dirmi per caso che fine abbiano fatto i fratelli di Miyako? La loro madre diceva che …”

Ma si interruppe di colpo.

Una macchina si stava dirigendo a velocità impressionante verso il bambino in strada, distratto a prendere il pallone.

Sgranò gli occhi, terrificato. Lo avrebbe preso sicuramente: seppe che avrebbe potuto morire.

Corse, nel disperato tentativo di salvarlo. Era troppo lontano: non poteva fare in tempo.

La macchina si avvicinava; il piccolo alzò lo sguardo, la sua espressione si trasformò in una maschera di paura, urlò, impotente.

Ma Ken vide qualcuno muoversi all’improvviso.

Arrestandosi improvvisamente, col fiatone, la camicia scomposta e la sorpresa nei suoi occhi, seguì il passaggio della macchina, che era stata incapace di fermarsi, ma il bambino era scomparso dalla strada. Era stato spostato con un movimento repentino.

Corse per la strada, oltre l’auto che si era finalmente arrestata, oltre i curiosi e i bambini spaventati. Non riusciva a capire cosa fosse successo, come avesse fatto quel piccolo a salvarsi. Doveva sapere.

E poi capì.

Vicino al marciapiede opposto, accasciati sulla strada, stavano il bambino in lacrime, spaventato ma illeso, e una ragazza che lo stringeva forte, con un piede in una posa innaturale. Aveva una presa spasmodica: probabilmente era una sua parente, accorsa appena in tempo per salvarlo.

Doveva essere così, perché aveva rischiato seriamente di perdere la vita per lui.

Si avvicinò ancora, decidendo di soccorrerli entrambi, ma vide gli amici del piccolo circondarli, e chiedere ansiosamente come stesse. Cercò di farsi largo: sapeva che la ragazza doveva essersi fatta del male, e che in questo modo non sarebbe mai stata portata in un ospedale.

Ma lei si alzò a fatica, sorreggendosi per non cadere.

E solo allora Ken la riconobbe.

Era la commessa della libreria.

I suoi capelli lunghi cadevano scomposti sul suo viso sofferente, e i suoi occhi scuri, per un momento, lo scorsero, mentre lui non poteva fare altro che fissarla, attonito.

Scorse un grande dolore nel suo sguardo, come se questo riuscisse a incatenarlo a lui.

Fu un attimo. Si voltò, zoppicando e cercando di correre via, e si allontanò.

“Aspetta …” tentò di fermarla lui, sconvolto. Ma la folla si era ormai accalcata sulla strada, e gli impedirono di passare.

La giovane era sparita.

Rimase solo, in mezzo a una strada dove si era quasi consumata una tragedia, il cellulare ancora stretto in mano, tra i rumori, i pianti e le esclamazioni di sollievo dei passanti.

E la voce di Osamu che ancora lo chiamava, preoccupato.

“Ken? Ken, mi senti? Pronto?”


Un gran saluto a chi sta leggendo! :) E' davvero un piacere trovarvi qui, parlo sul serio. Constatare che ci sono alcuni lettori appassionati che mi danno un sacco di soddisfazioni non può che commuovermi ** grazie davvero! E come previsto, ecco un nuovo aggiornamento, con l'inizio delle indagini a casa Inoue. Cominciamo con le novità, come avrete capito: cosa ci sarà scritto in quel diario? Chi lo avrà strappato? Mistero... Ma se avete una qualsiasi ipotesi, sentitevi liberi di farmelo presente: sono curiosa! ^^
Mystery Anakin, la tua costanza mi rende sempre felice! Che sorpresa sapere che Takeru ti piace in tutta la sua introspezione ** Come avrai capito, è un tantino complicato in questa storia, quindi è doppiamente soddisfacente ricevere i tuoi complimenti a riguardo. Concordo su quanto detto riguardo alla fortuna dell'incontro di Naoko con Takeru (povera piccola XD) e riguardo Hikari... Non preoccuparti, avrà tempo per approfondire la conoscenza! ^^ Spero che questo capitolo di Ken ti sia piaciuto! Hai qualche idea? Se sì... Aspetto di sentirla! Ciao, tvb!
Ma che bel parere che hai della storia, Shine! Come posso non ringraziarti? ** Non pensavo che quel capitolo con Takeru ti fosse piaciuto, davvero! In ogni caso, è una sorpresa più che gradita :) L'intento della scena con Naoko, in effetti, era anche quello: hai centrato in pieno! Takeru non è poi così depresso, andiamo XD Dunque, la puntualità c'è, l'aggiornamento anche... Spero solo di non averti deluso per quanto riguarda lo stile! E chissà se ti ricordi dove e in che contesto ho terminato questo cap... ^^ Con tutti gli annessi e connessi! Fammi sapere, un bacio! Tvb!
Non pensare che io ce l'abbia con te perché non leggi spesso storie in questa categoria, Roe: sai che ti ringrazio per aver letto e recensito! ^^ La riflessione su Daisuke e sulla stranezza dell'amicizia con Takeru mi sembra sensata, ma che ci vuoi fare? Io vedo più possibilmente affiatati loro due, che Daisuke e Ken! u.u E in ogni caso, volevo provare a cambiare. Takeru non è molto fortunato per il momento, ma aspetta il prossimo capitolo e saprai i nuovi sviluppi! Chissà se questo aggiornamento potrà piacerti... Appena puoi, passa di qui, per favore! ** Grazie di tutto, a presto!
Che dire, anche per oggi è tutto! Che ne pensate, mi lasciate un commento? Grazie in anticipo! ^^
Padme Undomiel

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Capitolo 8
*** Takaishi Takeru ***


Purity cap 7

7.

 

Takaishi Takeru

 

 

“Sei sempre la solita stupida, Naoko. Perché non stai attenta?”

“Non sono stupida! Sei tu che non mi hai aspettato: perché non vuoi mai stare con me?”

“Perché sei una femmina, no?”

Stavano ancora bisticciando tra loro. Appena aveva riportato Naoko al parco, tutti i suoi compagni di giochi le si erano avvicinati preoccupati. Ma Shinji non avrebbe mai ammesso di essersi spaventato per l’improvvisa sparizione della piccola: arrabbiarsi con lei era l’unico modo di nascondere l’apprensione che lo aveva sopraffatto in sua assenza.

Il problema era che Naoko questo non riusciva a capirlo: i suoi occhi cominciavano a riempirsi di nuove lacrime. Era meglio intervenire subito.

“Dai, adesso basta, Shinji-chan” disse Yagami Hikari al bambino dai capelli castano chiaro, mettendogli una mano sulla spalla per zittirlo. “L’importante è che non è successo nulla di male a Naoko-chan. Possiamo evitare di litigare, adesso? Perché non giocate insieme?”

Gli sorrise, incoraggiante. Era davvero difficile far sparire quel broncio dal viso del bambino: spesso nessuno ci riusciva, nemmeno Taichi, che era la persona con cui andava più d’accordo. Eppure, sperava davvero che la sua mancanza di attenzione rivolta a Naoko qualche tempo prima non scatenasse altre lacrime o altra voglia di farsi i dispetti.

Il volto di Shinji si fece ancora più scuro. “Ha fatto preoccupare tutti! E’ colpa sua!” si difese, imbronciato più che mai. “Non ho fatto niente, io!”

“Io non mi sono preoccupata!”

L’improvviso intervento di Asami fece zittire tutti quanti: Hikari osservò, divertita, l’aria di rimprovero, di sorpresa e di sgomento che ogni bambino aveva assunto. Persino Shinji era a corto di parole.

Eppure, la piccola con i capelli neri corti fino al mento appariva tranquilla, come se avesse detto qualcosa di scontato. E la giovane sapeva che il suo intento non era malvagio: ci doveva essere una spiegazione logica a un comportamento all’apparenza tanto scorretto.

“Sei cattiva a dire così, Asami-chan!” la riprese Junichi, che quando non si scatenava negli sport adorava mettere fine alle discordie del gruppo usando il suo ruolo da maggiore: per lui, otto anni erano abbastanza per essere grande. “Si è spaventata tanto, non vedi?”

Asami sgranò i suoi grandi occhi scuri, sorpresa. “Lo so! Ma perché sono cattiva?” domandò. “Pensavo che Sora l’avesse portata a comprare quel gelato che voleva, quindi non mi sono preoccupata!”

Hikari rise. Non sarebbe mai cambiata, di questo era sicura. “E non hai visto che Sora era con noi?” le chiese, cercando di non dare l’impressione che stesse ridendo per prenderla in giro: non voleva ferire i suoi sentimenti.

Asami scosse la testa. “No… quando è sparita eravamo vicino alla pasticceria, e stavo guardando i dolci dalla vetrina!” rispose tranquillamente.

“Tu pensi sempre solo ai dolci!”

I piccoli ascoltatori avevano cominciato a sbuffare e a scuotere la testa, commentando la grande passione di Asami con aria scettica. Quando cominciavano a discutere tra loro in quella maniera, l’unica cosa che andava fatta era lasciarli divertire da soli.

Hikari si allontanò dal gruppetto, osservando suo fratello Taichi e Sora mentre spingevano sull’altalena alcuni bambini, che ridevano e strillavano divertiti. Sorrise tra sé, beandosi di quella scena di grande serenità. Quell’uscita pomeridiana era stata davvero un colpo di genio: c’era un sole splendido, e in quel parco verde pieno di bambini dell’orfanotrofio si respirava un clima di gioia e spensieratezza.

Proprio quello che ci voleva loro dopo l’ansia della ricerca di poco prima.

“Sei triste?”

Sobbalzò, presa alla sprovvista da quella voce così conosciuta e così sincera. Non si era accorta della presenza di qualcuno accanto a sé, tanto era stato silenzioso ad arrivare.

Keiji la osservava con i suoi occhi castani sempre attenti, i capelli viola –come sempre- scompigliati e una lattina di aranciata in mano. L’espressione di viva curiosità era ben visibile sul suo volto.

Gli sorrise. “Mi hai spaventata” ammise, e un sorrisetto birichino piegò le labbra del bambino.

“Ti spavento sempre” disse con semplicità. “Mi sembri triste: sei tutta sola.”

Aveva sempre una maniera tutta sua per interessarsi agli umori degli altri: alle volte, Hikari aveva quasi la sensazione che la limpidezza del suo animo non venisse mai intaccato dalla negatività della gente. Più tempo passava, più sentiva di voler bene a quel bambino.

Scosse la testa, aggiustandogli i capelli scompigliati. “No, non ti preoccupare, Keiji-chan: stavo solo riflettendo, tutto qui” gli rispose. “E tu dov’eri? Hai visto che abbiamo ritrovato Naoko-chan?”

Keiji annuì, osservando il gruppo di bambini che le si era radunato attorno con aria seria. Pareva che non ci fosse modo per sorprenderlo, si ritrovò a pensare la ragazza divertita.

“Sì, però non voglio andare lì.” Disse soltanto. “Litigano.”

“E allora resta un po’ con me, ti va?” gli chiese dolcemente. Solo lei era a conoscenza dell’odio di Keiji per le discussioni dei suoi amici: aveva un carattere molto tranquillo, e i pianti, gli spintoni e i dispetti lo infastidivano e lo portavano a isolarsi inconsapevolmente.

Lui le lanciò un’occhiata curiosa. “Cosa facciamo?”

“Vediamo: potremmo…”

“Aspetta! Ti prego, voglio parlarti!”

L’urlo inaspettato, proveniente dall’entrata al parco, la fece fermare, sorpresa. Malgrado il tono fosse totalmente nuovo, essendo pieno di una supplica quasi disperata e di affanno, Hikari era sicura di averlo già sentito in precedenza.

Si girò automaticamente, per scoprire se aveva avuto ragione.

E sgranò gli occhi, totalmente presa alla sprovvista.

Correva verso di lei, con il fiato corto, un cappello bianco sui capelli biondi e un’aria determinata a raggiungere il suo obiettivo ben visibile nei suoi occhi azzurro chiaro.

Era il ragazzo che aveva cercato di aiutare Naoko in sua assenza.

E non aveva dubbi sul fatto che stesse cercando lei: il suo sguardo era fermo sulla sua figura da quando si era voltata verso di lui.

“Ci ha seguiti fin qui?” disse tra sé, non riuscendo a capire. “Deve aver dimenticato di dirmi qualcosa…”

“Cosa vuole da te?” chiese Keiji. La ragazza si stupì nel constatare che il bambino era rigido, e che il suo sguardo penetrante non perdeva un singolo movimento del ragazzo dai capelli biondi in avvicinamento.

“Keiji-chan, cosa c’è?” gli domandò, preoccupata.

Ma Keiji non ebbe il tempo di rispondere. Il giovane sembrava avere molta fretta di raggiungerla: in pochi istanti era accanto a loro, ansimante, mentre la osservava con uno sguardo che non le riuscì di interpretare. Le parve quasi che stesse cercando in lei qualcosa che gli serviva in quel preciso istante.

“Scusa… scusa se ti ho seguita… fin qui” riuscì a dire il ragazzo chiamato Takaishi Takeru, non appena ebbe recuperato un po’ di fiato. “Mi serviva solo un’informazione, se posso… E’ che vorrei tanto… conoscere la risposta alla mia domanda.”

Un’informazione da lei? Hikari era davvero perplessa. Avrebbe potuto chiedere a chiunque: perché mai si era scomodato di correre sulle sue tracce?

In ogni caso, gli sorrise, stupita. “Certo. Come posso aiutarti?”

Takeru esitò, probabilmente cercando la maniera più giusta per esprimersi. “Hai detto di chiamarti… Yagami, vero? Come il nome della famiglia che gestisce l’orfanotrofio. Io… mi chiedevo se tu fossi un componente di quella famiglia.”

Ora era sorpresa. Era curioso che avesse fatto subito il collegamento: non si sarebbe mai aspettata che la domanda del giovane avrebbe riguardato l’orfanotrofio e la sua famiglia.

“Sono una delle figlie di Yagami Yuuko, la fondatrice” rispose al ragazzo biondo, osservandolo con curiosità. “Posso chiederti come fai a conoscere il nome della mia famiglia? Conosci per caso mio padre, o… hai conosciuto mia madre?”

Il pensiero la riempì improvvisamente di uno strano sentimento. Si scoprì a desiderare che fosse vero: mai come in quelle circostanze aveva bisogno di sentire che sua madre le era vicina, e sapere che un suo conoscente aveva deciso di incontrarla era stranamente rassicurante. Sembrava quasi che il suo spirito avesse deciso di assisterli in quelle difficoltà, e dire loro che non dovevano arrendersi per nessun motivo.

Ma la risposta interdetta di Takeru fece morire rapidamente quella speranza.

“Che? No” si affrettò a dire, comprendendo che c’era stato un malinteso. “Non li ho mai conosciuti.”

Hikari si rimproverò per quel senso di delusione bruciante che aveva attanagliato il suo cuore. Non poteva dare la colpa al suo interlocutore, che se ne stava in totale silenzio in attesa di trovare le parole giuste per dare voce ai suoi pensieri: non poteva biasimare qualcun altro solo perché lei era così tanto alla ricerca di un aiuto indiretto da parte di sua madre defunta.

“E allora perché conoscevi il mio nome?” chiese infine, tentando di non far trasparire ulteriormente la sua tristezza dal suo tono di voce.

Il giovane sembrò imbarazzato per qualche motivo sconosciuto: lei lo osservò in attesa di una risposta, non capendo cosa gli stesse succedendo. “Io… io vivo accanto a voi, così mi sono informato. Ecco tutto” fu la sua risposta, dopo che ebbe abbassato improvvisamente lo sguardo sulle mani che si tormentava. “E… beh, so che vi fate in quattro per gli ospiti del vostro orfanotrofio.”

Hikari sorrise imbarazzata, non sapendo bene come rispondere. “Siamo felici di renderci utili” commentò con tono incerto.

Qualcosa cambiò in Takeru quando lei finì di parlare: le parve che all’improvviso i suoi occhi azzurri, sollevati nuovamente a guardarla, si fossero riempiti di pura angoscia e sofferenza. Non riusciva a capire cosa avesse detto per rendere il suo sguardo così tormentato, e fu quasi spaventata da quello che vide.

“Ho detto qualcosa che non… “provò a dire, ma lui la precedette.

“Come fate?”

Rimase così attonita dal tono dell’altro da zittirsi di colpo. “Eh?”

Non lesse alcuna traccia di esitazione sul volto del giovane, mentre rispondeva. Sembrava che avesse finalmente formulato la domanda che lo aveva spinto a seguirla.

“Non dev’essere certo facile quello che fate, eppure continuate a occuparvi di tutti quei bambini come se fosse un gioco da ragazzi. Ci vuole tanta, troppa attenzione per fare in modo che ogni ospite del vostro orfanotrofio non stia male, eppure non demordete. Siete solo dei ragazzi, ma sapete trovare la soluzione ad ogni problema senza alcuno sforzo. Dovete avere per forza una carica in più, e vorrei sapere qual è, per capire cosa vi spinge ad essere così sicuri di quello che fate.”

Il silenzio che seguì sembrò protrarsi per un tempo illimitato.

Hikari era immobile, con lo sguardo fisso su quello di Takeru, improvvisamente a corto di parole. Era pietrificata dal tormento che leggeva negli occhi del suo interlocutore, e sapeva che lui si aspettava da lei la risposta a questa spinosa questione. Non riusciva a capire cosa lo portasse a quasi supplicare una cosa del genere, ma sapeva che non sarebbe mai andato via senza aver ottenuto quello che voleva.

Ma la giovane non sapeva cosa rispondere. Lei conduceva la sua vita nella maniera che riteneva più giusta, sempre alla ricerca della soluzione migliore per la salute dei suoi cari e cercando di non lamentarsi mai per le cose che andavano in maniera diversa da quella che aveva immaginato, ma sapeva di non essere infallibile, sovrannaturale, o speciale in alcuna maniera.

Pareva, invece, che Takaishi Takeru volesse parlare con un’eroina.

“Non abbiamo nessuna carica in più, te lo posso assicurare” cercò di spiegare, con voce insicura. Si vide costretta ad abbassare lo sguardo, non riuscendo a sostenere per troppo tempo l’insistenza disperata sul volto del giovane. “L’unica cosa che ci spinge è la nostra fede in quello che facciamo, e l’affetto per i bambini. Nient’altro…”

“Non posso crederci.”

Sembrava non volesse comprendere. Era fermamente convinto che ci fosse dell’altro.

Quando Hikari lo vide fare un involontario passo in avanti, sussultò, presa alla sprovvista. La sofferenza incisa sul volto di lui era così intensa da essere addirittura spaventosa.

“Davanti alle difficoltà pensate alla fede in quello che fate? Rimanete saldi ad affrontare di tutto senza scoraggiarvi? Io non riesco a capire come facciate a non demordere! Mi sembrate in grado di evitare ogni disgrazia, e credo ci sia dell’altro. Vorrei davvero saperlo.”

“Mi dispiace, ma non so davvero come rispondere…” disse piano Hikari, ritraendosi leggermente. Perché tutte quelle domande? E perché la verità sembrava essere così insita nelle sue azioni da non volersi rivelare nemmeno a lei stessa?

“Non avete problemi? Problemi di mantenimento, organizzazione, povertà, studio… Qualunque cosa? Come li risolvete?” insistette Takeru, testardo.

L’affermazione la colpì come un pugno in pieno stomaco.

Le parve più vivida che mai la paura di fallire, la paura di perdere ogni bene, di non poter continuare ad accudire i bambini dell’orfanotrofio. La mancanza di fondi che preoccupava tutti da qualche tempo le sembrò un ostacolo insormontabile, e rimase senza respiro.

Ne avevano eccome di problemi.

Ma non sapevano risolverli. Non sapeva risolverli.

Sentì i suoi occhi farsi lucidi, ma si sforzò di non versare nemmeno una lacrima.

Affrontò, invece, lo sguardo di Takeru, accettando la verità.

“Non lo so. Certe volte non si riesce a trovare subito la risposta. Siamo esseri umani, come te: sbagliamo tante volte, ci abbattiamo, ma non demordiamo semplicemente per il motivo di cui ti parlavo prima. Mi dispiace di non poterti aiutare.”

Ci fu altro silenzio. Takeru apriva e chiudeva la bocca senza riuscire a dire nulla, ma Hikari lesse una delusione cocente sul suo viso. Lo vide abbassare la testa, e osservare i fili d’erba del parco, preso da chissà quale pensiero, e il suo cuore si riempì di pietà per lui.

Sembrava un’anima tormentata, che non riusciva a trovare pace.

“Mi dispiace davvero” gli disse poi in maniera più dolce. “Ma perché ti interessava tanto?”

“Io…” fece per rispondere Takeru, ma una voce lo interruppe.

“Qualche problema, Hikari?”

Si voltò, presa alla sprovvista, e solo in quel momento si rese conto che Keiji era sparito da qualche tempo. Al suo posto c’era Taichi, che fissava ora lei ora Takeru con le sopracciglia corrugate. Sembrava perplesso, e anche preoccupato.

Capì solo in quel momento di quanto la scena dovesse apparire strana.

Si sforzò di sorridere, un azione che le risultò quasi fuori luogo. “No, nessuno, tranquillo” rispose, allontanandosi di un passo da Takeru. “Lui è il ragazzo che ha trovato Naoko-chan prima: era qui per…”

Si fermò, imbarazzata, non sapendo come continuare.

Ma Taichi la tolse d’impaccio. Pur perplesso, gli sorrise cordiale. “Beh, ti ringrazio per quello che hai fatto, ma non ti sentire in debito, d’accordo? Va tutto bene.”

Hikari notò che Takeru si torceva le mani, alzando lo sguardo solo raramente. Avrebbe tanto voluto sapere a cosa stesse pensando.

“Felice… di essere stato utile.” Disse, con uno strano sorriso amaro. Poi lo guardò, facendogli un cenno di saluto. “Ora devo andare.”

Prima di voltarsi e dirigersi verso destinazioni ignote, però, il ragazzo si voltò a fissarla. Quel sorriso non era ancora scomparso dal suo viso.

“Scusa per il disturbo.”

Hikari avrebbe voluto rispondergli che non ce n’era stato alcuno, che anzi avrebbe voluto essergli d’aiuto, ma lui non le diede il tempo di fare nulla: un istante dopo era già andato via, perso nei suoi pensieri.

Rimase in silenzio, non sapendo come reagire a quello che aveva visto. Cosa avrebbe voluto sapere da lei? E quanto era rimasto deluso dalle risposte che lei gli aveva fornito?

Era inutile pensarci, dopotutto: non lo avrebbe scoperto mai. Ma non riusciva a togliersi dalla mente quegli occhi azzurri così pieni di dolore che non le riusciva di comprendere.

“Ma cosa voleva da te quel ragazzo?” fece ad un tratto Taichi, osservandola con curiosità mista a uno strano sospetto. “E’ venuto a chiamarmi Keiji prima, e credo di non averlo mai visto con un’aria così allarmata. E’ successo qualcosa, sorellina?”

Hikari sorrise tra sé. Ecco spiegato il motivo della presenza di suo fratello accanto a lei: non avrebbe potuto accorgersi da solo di quello che le stava accadendo, dato che era impegnato con i bambini insieme a Sora. Per qualche strano motivo, Keiji doveva essere più teso del solito: se ne chiese la ragione per un istante, non trovando risposta.

Guardò ancora verso la direzione dove Takaishi Takeru era sparito, sospirando.

“Non voleva nulla di importante: voleva sapere se ero una dei ragazzi che lavorano all’orfanotrofio, dato che ha fatto il collegamento col mio nome.” Rispose.

Per qualche motivo, non riuscì a dirgli tutto: sentiva che ciò che era successo era ancora troppo personale per essere rivelato agli altri, persino a suo fratello. Glielo avrebbe detto in un altro momento, decise.

Taichi scrollò le spalle. “Allora mi sono preoccupato per niente? Meglio così” le disse, sorridendo e cingendole le spalle con un braccio. “Dai, andiamo di là, o Sora minaccerà di prendermi a calci: sta lavorando da sola…”

Hikari ridacchiò. “Allora facciamo in fretta.”

Si sentiva protetta nell’abbraccio di suo fratello maggiore. Il calore che sentiva fisicamente riusciva a allontanare momentaneamente il ricordo di Takeru dalla sua mente, e sapeva di averne bisogno per non rattristare i bambini.

Era importante che il suo stato d’animo non fosse mai turbato, quando era con loro.

 

***

 

“Occorre fare il punto della situazione, ragazzi.”

Izumi Koushiro era un ragazzo che raramente appariva preoccupato per qualcosa: chi lo conosceva sapeva bene che il suo carattere sempre alla ricerca di qualsiasi soluzione gli impediva di scoraggiarsi facilmente, o di cedere alla sua preoccupazione.

Ma quella sera, gli occhi castani del ragazzo dai capelli rossi esprimevano tutta l’enormità del problema che voleva esporre.

Hikari non riusciva a sopportare il clima di quella riunione. Erano tutti tesi: persino suo fratello Taichi aveva la fronte corrugata, segno che non era assolutamente tempo di scherzare. L’aria di Mimi esprimeva tutta l’angoscia per il discorso che stavano per affrontare, e la giovane non poteva assolutamente biasimarla; Sora aveva lo sguardo basso, fisso sul pavimento, probabilmente preparandosi psicologicamente a qualsiasi cosa avesse detto Koushiro; e non aveva mai visto Jyou così allarmato, sebbene fosse il suo atteggiamento naturale verso chiunque a cui teneva.

Hikari sentiva le sue mani tremarle, ma non poteva sottrarsi a quella riunione. Era suo dovere essere informata sulla reale portata dei problemi che si erano presentati tutt’a un tratto: era giusto prendere in mano la situazione.

Eppure, si sentiva stranamente distrutta, quasi distante dal resto del gruppo. Era come se fosse presente ma assente allo stesso tempo, e non sapeva spiegarsi questo miscuglio di emozioni.

“Quest’orfanotrofio rischia davvero di non avere più fondi per continuare ad essere mantenuto, nonostante il lavoro provvisorio di cui mi sto occupando” continuò Koushiro, osservandoli uno ad uno con aria insolitamente seria. “Le donazioni giornaliere che riceviamo non sono sufficienti a raggiungere quell’agiatezza che ci serve. Di questo passo, metteremo a rischio la vita di tutti i bambini.”

“Non possiamo!” esclamò Mimi, con aria piena di orrore. “Che fine farebbero tutti quanti? E abbiamo anche ospiti di pochi mesi! Non possiamo metterli sulla strada di nuovo, Koushiro-kun!”

“Purtroppo non dipende da me” rispose lui, con tono grave. “Non so davvero come potremmo portare avanti il progetto.”

Hikari pensò al volto di ogni bambino, ai loro giochi e all’affetto che provava per loro e che sapeva essere corrisposto, e con una fitta al cuore si rese conto di non sapere cosa fare per evitare la disgrazia. Li avrebbe lasciati a morire di fame, senza trovare rimedio?

Se solo fossi ancora viva, mamma, sapresti cosa fare, pensò, disperata, senza riuscire ad aprire bocca.

“Calmiamoci, adesso” disse all’improvviso Taichi, con la solita fermezza e determinazione che sempre lo aveva contraddistinto. Seppe di non essere l’unica a volgersi verso di lui come all’unica persona che poteva trovare una via d’uscita: da sempre, suo fratello aveva dimostrato di avere lo spirito del capo, e tutti sapevano che avrebbe cercato una soluzione fino all’ultimo, senza arrendersi mai. “Non siamo sul lastrico: stiamo solo attraversando un brutto periodo, tutto qui. Ma nessuno di noi ha intenzione di rinunciare, vero? E allora ragioniamo, senza perdere altro tempo.”

Hikari sorrise leggermente. Caro, vecchio Taichi: era grazie a lui che lo spirito del gruppo era sempre alto. Senza di lui non sarebbero stati nulla, e sapeva di non essere l’unica a pensarlo.

“Taichi-kun ha ragione” intervenne Sora, sollevando, infine, lo sguardo. “Se non riusciamo a farci bastare quello che guadagna Koushiro-kun con il suo lavoro informatico, allora anche alcuni di noi dovrebbero trovarsi un piccolo lavoretto: forse, racimolando il tutto, potremo ottenere risultati migliori.”

“Sì, ma c’è un problema” rispose Jyou, preoccupato. “Abbiamo tanti bambini da accudire, e noi siamo già in pochi per tutti quanti. Chi baderà a loro, se alcuni di noi saranno impegnati?”

“Era proprio per questo che non l’ho proposto” aggiunse Koushiro, con tono abbattuto. “Non abbiamo nessuno che ci aiuti in questa situazione.”

Come sembrava vivido, in quel momento.

Il volto di Takaishi Takeru, incredulo, davanti a lei. Gli occhi penetranti, fissi sui suoi.

Le sue parole.

“Non avete problemi? Come li risolvete?”

Era scioccato, determinato a credere che lei volesse nasconderglielo.

Si sbagliava.

Erano solo un gruppo di ragazzi che sognavano un futuro migliore, ma senza i mezzi per farlo. Stavano mettendo in pericolo la vita di tanti bambini, senza colpa, senza nessun diritto di essere allontanati dopo aver trovato, infine, un rifugio per loro.

Era tremendo. Avevano deciso loro di prendersi cura di loro fin da quando Yagami Yuuko era ancora viva, e adesso, per il disinteresse generale, stavano per fallire.

Era logico che Takeru fosse incredulo. Solo dopo aver parlato con lui aveva scoperto che la situazione in cui si trovavano era davvero abominevole.

Era loro dovere prendersi cura dei loro piccoli. E non riuscivano a farlo.

Avrebbe pianto, se non si fosse sentita così distrutta.

“Potremmo cercare lavori che non occupino tutta la settimana, in modo tale da renderci più disponibili possibile” intervenne Taichi, sospirando. “E’ tutto quello che posso proporre.”

“Ma basterà?” chiese ansiosa Mimi, afferrandogli il braccio con aria supplichevole.

“Dovrà bastare. Non c’è altra soluzione.” Fu la risposta.

“In ogni caso, la situazione non può che migliorare, seppur di poco” aggiunse Koushiro, leggermente più rinfrancato. “Qualsiasi aiuto ci porterà sulla buona strada. Senza contare che non ho intenzione di smettere di lavorare.”

Sora annuì, Jyou esclamò un “Sono d’accordo”, Mimi lasciò il braccio di Taichi con un sospiro. Hikari non riuscì ancora a dire una sola parola. Nonostante il piccolo conforto dato dalla soluzione momentanea di Taichi, sapeva che il problema non era stato risolto.

Sapeva che si sarebbero nuovamente riuniti nello studio di Koushiro tra qualche tempo, alla ricerca di un sistema più duraturo e soddisfacente.

“Bene, direi che la seduta è sciolta” affermò suo fratello maggiore, alzandosi in piedi. “Quando qualcuno di noi avrà trovato un lavoro che possa fare al caso nostro, lo dirà, siamo intesi?”

“Intesi, capo!” rispose Jyou, con una strana irruenza che solitamente non aveva.

“Hikari-chan, tutto bene?”

Hikari si riscosse dai suoi pensieri, sorpresa. Si volse verso Sora, al suo fianco, e la vide preoccupata, come se temesse per la sua salute. Erano tutti molto buoni con lei, come al solito.

“Sì…” disse esitante. “Sono solo… preoccupata. Stiamo facendo la cosa giusta? Se mia madre fosse qui… farebbe le stesse scelte?”

Si accorse solo dopo aver finito di parlare che la voce le tremava.

Sora le sorrise, un sorriso triste e comprensivo, prima di abbracciarla stretta.

“Siamo tutti preoccupati” le disse piano. “Non possiamo sapere cosa avrebbe fatto tua madre se fosse stata qui adesso, ma possiamo cercare di immaginarlo, e tirare avanti. Sta’ solo tranquilla, capito? Non lasceremo che le ultime volontà della signora Yagami cadano nell’oblio. Resteremo saldi tutti insieme, perché so quanto tu e tuo fratello ci teniate.”

Hikari, sorpresa, commossa e grata per le parole che la sua amica le stava rivolgendo, ricambiò l’abbraccio. Sapeva di avere un disperato bisogno di tutti loro per andare avanti, e non solo per dirigere l’orfanotrofio.

Suo fratello, i suoi amici e i bambini che accudiva erano il dono più prezioso che le era stato fatto nella vita, e non ne sarebbe mai stata grata abbastanza.

“Grazie, Sora-san” rispose, staccandosi da lei e sorridendole. “Sono così felice che tu e gli altri abbiate deciso di starci accanto.”

“Figurati.” Rispose la maggiore, con un sorriso altrettanto largo.

“Sora-chan, non vieni?” giunse la voce di Mimi, che si sbracciava sulla porta per attirare l’attenzione della ragazza dai capelli ramati. “Ho promesso a Ryoko che questa volta anche tu avresti vestito le sue bambole insieme a noi! Sei attesa, lo sai?”

Hikari ridacchiò, osservando l’espressione esasperata sul viso di Sora. “Te l’avrò detto mille volte, Mimi-chan: io non me ne intendo di moda!” disse in risposta.

Mimi non si scoraggiò: le sue labbra si incurvarono in un sorriso malizioso. “Molto, molto male: bisogna rimediare, sai? E’ la tua occasione, non puoi perderla!”

Quando la giovane dai lunghi capelli castani si intestardiva su qualcosa, era quasi impossibile farle cambiare idea. Ed era una vita che cercava di convincere Sora a rinunciare al suo abbigliamento semplice e decidersi ad essere più femminile.

E nemmeno lei poteva spegnere questo spirito intraprendente.

“Arrivo” si arrese alla fine, raggiungendo Mimi e sorridendo sconfitta.

“Vedrai che te lo farò piacere!”

Era bello sapere che l’angoscia di poco tempo prima sembrava essere momentaneamente messa da parte: forse era questa l’unica cosa che li faceva essere così determinati.

Sospirò, affacciandosi alla finestra. Vide i bambini riuniti in cerchio, intenti ad ascoltare, con vivo interesse, le piccole recite abitudinarie che Taro amava mettere in scena.

Erano sempre così spensierati, così semplici: sembrava che i problemi non appartenessero loro, in nessun momento della giornata.

Non potevano sapere che il loro destino era così precario. Non lo avrebbero saputo.

Hikari sapeva che avrebbe dovuto essere forte: avrebbe lavorato fino allo stremo delle sue forze, si sarebbe impegnata affinché i sogni di sua madre non andassero perduti, non si sarebbe arresa, come le aveva spesso sconsigliato suo fratello Taichi nei momenti di sconforto.

Solo…

Sorrise tra sé, scuotendo la testa.

Era davvero un pensiero sciocco, ma sapeva quanto desiderasse che fosse vero.

Avrebbe voluto essere davvero infallibile come Takeru aveva creduto, quel pomeriggio.

Sarebbe stato di grande conforto, sapere che la possibilità di mettere sulla strada tutti quei bambini per cui avrebbe dato tutto non fosse lontanamente immaginabile.

Doveva essere rassicurante essere un’eroina: non pensare mai di essere una limitata umana, il cui destino dipendeva dalla quantità di fondi guadagnata…

Avere il potere di non far piangere o soffrire i suoi piccoli…

Proteggerli come solo una vera mamma poteva fare…

Salve a tutti! A Natale trascorso, sono davvero felice di proporvi l'aggiornamento di questa storia, che va avanti grazie anche agli incoraggiamenti a continuare che ricevo dai miei lettori! ** Ora stiamo entrando nel pieno dell'azione: riprendendo il punto lasciato dal capitolo 5, ecco l'incontro bloccato precedentemente tra Takeru e Hikari! Che spero vi sia piaciuto, naturalmente.
Ringrazio Shine, sempre la prima a recensire quando si tratta di un certo personaggio xD! Allora, che posso dirti? Ricordo perfettamente ogni annesso e connesso, ma allora non sapevo che il capitolo ti fosse piaciuto tanto: per questo è stata una bella sorpresa leggere i tuoi commenti. :) La scena in libreria aveva proprio l'intento di creare quella situazione paradossale: persino io mi sono divertita a scriverla! Per quanto riguarda la scena a casa Inoue, sono felice che ti abbia colpito tanto -così come la richiesta finale! Ricordi? ^^ Ma la cosa che mi ha fatto più piacere è sapere che sei stata attenta ad osservare anche Osamu, che in questo capitolo ha un ruolo marginale... Grazie per l'attenzione! ** E per i complimenti, e per la costanza! Aspetto tuoi commenti appena potrai, intanto ti saluto con un bacione! Ti voglio bene!
Per Mystery Anakin io spero che l'attesa non sia stata troppo lunga! Mi dispiace di metterci tanto ad aggiornare questa storia... ^//^ Mi fa piacere che tu abbia trovato lo scorso capitolo avvincente: credimi, è una grande soddisfazione, considerando tutto il tempo che ci ho messo per rendere quelle scene al meglio! ** E sì, mi piace molto troncare i capitoli in stile film a puntate: fa più effetto! :) Se continuerai a seguirmi, forse avrai le risposte che cerchi! Per intanto non posso che ringraziarti per quello che fai per me - e credimi, è tanto! Aspetto di sentirti, ti voglio bene!
Da quello che ho potuto capire dalla recensione, Roe, ho notato che tu sia  dubbiosa su alcune questioni! Sbaglio? ;) Proverò a dirti qualcosa con discrezione. Non penso che il nascondiglio di Miyako sia così incomprensibile, perciò non credo sia uno spoiler rivelarlo ai lettori u.u davvero eri così sorpresa nel vederla lì? E per quanto riguarda la signora Inoue, data la sua instabilità è normale che tu non abbia ancora capito che fine hanno fatto i fratelli di Miyako. Lo vedrai più in là :) Per il diario strappato non posso dirti nulla, mi dispiace! Infine, per l'incidente... Beh, ti basti sapere che personalmente non mi piace scrivere di particolari privi di senso -quindi non lo è-, che in realtà è un bambino e non una bambina, e che sì, era Miyako la salvatrice! In ogni caso, ti ringrazio per aver letto e gradito il cap! ^^ Spero di trovare altre tue recensioni, a presto! Tvb :)
Vi aspetto al prossimo capitolo, a presto!
Padme Undomiel 

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Capitolo 9
*** Impossibile ***


Purity cap 8

8.

 

Impossibile

 

 

“Vieni qui, piccolo! Dai, vieni da me!”

Rideva spensierata, mentre inseguiva scherzosamente quel piccolo gattino grigio che era diventato, da qualche anno, uno dei suoi più grandi amici. Cercava di stringerlo tra le sue braccia, per regalargli qualche carezza e giocare un po’ con lui.

Sato Satsu sembrava davvero un’altra persona, quando passava del tempo con lui. Riusciva a vedere il suo volto illuminarsi e le sue labbra aprirsi ad un sorriso spensierato e sereno, mentre gli occhi castano scuro non perdevano nemmeno per un attimo un qualsiasi movimento di Haku.

Non era la prima volta che faceva da spettatrice ai giochi della sua migliore amica, ma ogni volta ne era più felice. Le sembrava quasi di rivederla a diciassette anni, quando ancora faceva parte del suo gruppo, e poteva frequentarla liberamente, senza sospetti, senza indagini.

Senza quell’ombra scura che si era abbattuta su tutti loro.

Solo in questa situazione riusciva a non pensare a quello che era successo per colpa della sua stupidità, e quasi a credere che non fosse successo nulla di tutto ciò, che fosse stato solo un brutto incubo.

Era per questo motivo che non si lamentava mai del diminuire delle attenzioni nei suoi confronti quando nella stanza entrava il gattino.

Inoue Miyako sorrideva, rifugiata, seppur per poco, nella casa di Satsu. Cercava in quel luogo quel po’ di serenità sufficiente ad affrontare il suo consueto esilio, il suo consueto dolore e vuoto interiore. Era seduta sul letto dell’amica, con il piede ancora a riposo e fasciato accuratamente dalla signora Sato, sempre troppo premurosa nei suoi confronti, e osservava tutto, attraverso la finzione delle sue lenti a contatto che nascondevano a occhi esterni la sua miopia.

Ridacchiò, rivolgendosi alla ragazza dai capelli castani inginocchiata sul pavimento.

“Credo che tu lo adori più di quanto lui adori te: guarda come fugge” scherzò, osservando i movimenti del piccolo Haku sui cuscini caduti dal letto per via dei loro giochi.

Satsu alzò lo sguardo, scostandosi la frangia dagli occhi e imbronciandosi. “Non è vero: guarda che mi vuole bene, sta solo giocando. Non è vero, Haku?”

Il gattino miagolò piano, guardandola con i suoi grandi occhi verdi come per chiederle perché mai si fosse fermata.

La giovane parve soddisfatta da quella che riteneva una risposta affermativa. Lo accarezzò sulla testa, un’espressione che era un misto tra il trionfante e l’intenerito. “Visto?”

Miyako scosse la testa, sprofondando nella morbidezza del materasso. “Troppo facile, lo sai che non ti ha detto niente” ribatté, prendendola in giro come se il tempo non fosse passato. Era davvero stupida a far finta di nulla: sapeva che il passato sarebbe tornato a tormentarla con più violenza di prima quando sarebbe tornata a casa sua, ma il sollievo momentaneo che ricavava da queste visite riusciva, per qualche ora, a lenire la sofferenza immane della solitudine che un carattere socievole come il suo non riusciva a rendere più sopportabile.

C’era una parte decisamente irragionevole in lei, che la incitava a trovare un po’ di gioia, appena un momento di tregua dai suoi ricordi.

“Mi ha detto di sì, invece, donna di poca fede” ribatté ancora Satsu, sicura della sua ipotesi. “Io capisco quello che mi dice: vive con me.”

Era una frase assurda, pronunciata con una sorta di orgoglio che riservava per parlare del suo animale da compagnia. E la cosa più buffa era probabilmente la certezza con la quale si convinceva di alcune cose strampalate che appartenevano solo al suo mondo.

Cominciò a ridere, e non ne seppe nemmeno il motivo preciso. Rideva tanto, come non rideva più da troppo tempo. Come faceva ad essere ancora viva? Come faceva a non morire ogni giorno, soffocata da un destino che si era cercata, stupidamente, da sola?

“Oh, Satsu-chan, lo sai che sono profondamente invidiosa?” le uscì di getto, mentre sentiva i suoi occhi velarsi di lacrime per le risate eccessive e, forse, anche eccessivamente amare. “Vorrei tornare a dire assurdità come fai tu abitualmente, e non posso.”

Quando la risata si spense, si sentì quasi svuotata, quasi troppo stanca per provare alcunché. Distolse lo sguardo da Satsu, lasciando che una ciocca di capelli neri le coprisse il viso. Non toglieva quasi mai quella stupida parrucca: la paura di riconoscersi allo specchio, di scorgere le sfumature particolari di viola che i suoi capelli naturali le donavano, di associarle a quella persona sciocca e infantile che aveva distrutto la sua vita con le sue mani le impediva di togliere ogni maschera dal suo viso.

Solo con Iori era stata costretta a mostrarsi. E esaminarsi di nuovo le aveva spezzato il cuore.

Buffo che dovesse provare tanto orrore per il suo aspetto, proprio lei che un tempo sosteneva che l’immagine allo specchio l’avrebbe sempre soddisfatta perché era la sua, e quindi inimitabile.

Sentì il materasso accogliere un altro peso, e sorrise. Satsu non l’avrebbe lasciata sola nemmeno in quel momento: le avrebbe permesso di essere se stessa ancora per qualche tempo. Le avrebbe concesso il lusso di parlare di sé, di tirar fuori tutta l’angoscia e il dolore che si portava dentro.

“Per esempio, potresti dirmi come hai fatto a farti male alla caviglia: è un miracolo che non ti abbiamo portato al pronto soccorso” disse con serietà. “Cosa è successo?”

Il ricordo del pomeriggio passato portò con sé il rumore della macchina in avvicinamento, le urla terrorizzate dei bambini, la fragilità del piccolo impaurito tra le sue braccia, il dolore, la paura. Sembrava essere successo tanto in pochi istanti.

Sospirò, guardando l’amica negli occhi. “Forse non sono cambiata completamente, sai” ribatté, sorridendo tristemente. “Resto la solita pazza. C’era un bambino… Un bambino che, per raccogliere la palla finita in strada, stava per essere investito da una macchina. L’ho salvato per un soffio, ma nel farlo… Sono caduta a terra, e… beh, lo sai.”

Gettò uno sguardo al suo piede fasciato. Se n’era accorta solo in seguito di quanto facesse male, troppo presa dal turbinio tumultuoso delle sue emozioni per badarci. Aveva passato un intera serata a cercare di capire come fare a medicarla, rinunciando all’impresa solo dopo aver scoperto che si faceva più male che altro. Ne aveva avuto abbastanza, e aveva lasciato perdere.

Ma la signora Sato non aveva lasciato perdere.

Miyako era arrivata a lavoro zoppicando, troppo spaventata dal silenzio della propria casa per prendersi un giorno di riposo, ma la madre di Satsu era stata irremovibile. L’aveva condotta a casa, incurante delle sue accanite proteste, e le aveva fasciato la caviglia.

“Ringrazia solo che l’osso sia intatto: hai preso un bel colpo” aveva detto, scuotendo la testa.

Avrebbe tanto voluto essere arrabbiata con lei: se ne sarebbe pentita, di tutta quella allegra compagnia. Avrebbe sofferto il doppio.

Ma aveva dovuto cedere: in fondo, quel maledetto piede faceva davvero male. E aveva un disperato bisogno di parlare con Satsu.

Non ebbe bisogno di guardarla per sapere che aveva compreso perfettamente le sue motivazioni.

“Io… non ce la faccio più” ammise, con un filo di voce. “Vedo in ogni bambino il mio Keiji, e credo di star impazzendo. Ho pensato… Ho pensato: se lui fosse al posto di quel piccolo che sta per essere investito, non lo salveresti? Ho creduto di salvare lui, Satsu-chan, capisci?”

Aveva cominciato a tremare, mordendosi le labbra per non far cadere quelle gocce di lacrime dagli occhi. Le pareva che tutto il dolore che aveva provato il pomeriggio prima stesse ritornando con più violenza di un’onda dell’oceano, determinato a soffocarla.

“L’ho portato via, e… non ho provato alcuna gioia. Ho solo pensato che mio figlio non… lo rivedrò mai più, che i figli di altri saranno gli unici… a cui potrò badare…”

“Oh, Miyako-chan”. Satsu, senza dire altro, l’aveva stretta in un abbraccio confortante, senza dubbio nel tentativo di farle capire che le era vicina, che comprendeva e soffriva con lei. Miyako chiuse gli occhi, tentando di alleviare il suo dolore servendosi dell’affetto sincero che l’amica le stava dimostrando, e due lacrime caddero prepotenti dai suoi occhi, rigandole le guance.

“Mi dispiace davvero tanto…”

Miyako abbozzò un sorriso, asciugandosi le lacrime. “Dispiace a me, di non sapermi controllare per nulla” tentò di sdrammatizzare, allontanando con tutte le sue forze il ricordo di suo figlio. Sapeva bene che, richiamato alla memoria, il dolore non avrebbe fatto altro che peggiorare, e difficilmente ne sarebbe uscita. “Guarda: non faccio altro che piangere.”

“Ma tu devi sfogarti! Io sono qui per questo, no?” Ribatté Satsu, staccandosi da lei quanto bastava perché potesse essere visibile il sorriso incoraggiante ma al contempo pieno di consapevolezza della sofferenza interiore dell’altra.

Non si era sbagliata: era davvero l’amica migliore che potesse mai esistere. Almeno, nell’amicizia era stata più che fortunata: lei e Iori non l’avevano abbandonata, standole accanto anche da lontano. Erano l’unico conforto che le fosse rimasto.

“Dimmi di te, piuttosto” cambiò argomento Miyako, decisa a non pensare ai propri problemi. Ricordava quello che Iori le aveva detto qualche giorno prima riguardo alle indagini sul loro conto, e si sentiva in colpa: e se la sua scomparsa avesse rovinato il futuro dei suoi cari amici d’infanzia? “Iori-kun è venuto a trovarmi l’altro giorno, e mi ha detto che l’investigatore incaricato di trovarmi vi sta alle calcagna. E’ vero?”

“Ah, si è deciso, finalmente” rispose invece la ragazza dai capelli castani, con aria esasperata. “E’ un sacco di tempo che cerco di convincerlo ad andare da te, ma è sempre stato testardo fino a limiti estremi…”

Stava cambiando argomento? La giovane aggrottò le sopracciglia, non convinta.

“Lascia stare Iori-kun, io sto parlando di te” ribatté, scrutandola inquisitoria. “Stai evitando la domanda o mi sbaglio?”

“Non sto evitando proprio niente!” tentò di difendersi Satsu, con l’aria più innocente che le riuscì. E bisognava ammettere che si era impegnata molto.

Miyako sbuffò. “Sato Satsu, questo sarebbe un buon momento per dirmi la verità: sono già abbastanza preoccupata per voi.”

Sorrise, osservando l’aria di sconfitta sul volto dell’amica.

“Cosa vuoi che ti dica? E’ sempre la solita routine, non è cambiata di una virgola.” La guardava fisso negli occhi, per farle capire che non stava mentendo, che quella era tutta la verità. “Pare che io e Iori-kun siamo gli indiziati numero uno… anzi, credo che lui sia messo peggio di me, per via della vostra amicizia iniziata prima della nostra. Ma, per quanto sagace, pare che questo investigatore non sappia trovare la verità… né te, ad ogni modo.”

Il tono soddisfatto di Satsu riuscì solo a farla stare maggiormente in ansia. Non le piaceva affatto l’idea che i due fossero esposti a tal punto per proteggere lei: avrebbe voluto che si fossero messi in salvo, che la signora Sato non l’avesse accolta nel suo negozio, che Iori non avesse deciso di starle accanto dopo tanto tempo, che Satsu l’avesse abbandonata.

“State rischiando troppo, Satsu-chan” esclamò, angosciata. “Iori-kun mi ha avvertito che con quest’uomo non si scherza, e io sono perfettamente d’accordo: non ha abbandonato il caso dopo otto anni! Io non voglio che per colpa mia veniate accusati di…”

“Perché sei sempre così catastrofica? Guarda che stiamo molto attenti!” Satsu le strinse una mano, e la sua espressione non era mai stata tanto sicura. “Io e te non ci vediamo quasi mai, così come tu e Iori-kun. E poi, lo sai com’è fatto lui: neanche noi due ci vediamo spesso, per non insospettire troppo Ichijouji. Dai, stai tranquilla: finché sono qui, non mi può succedere nulla.”

Miyako non riusciva a stare tranquilla: il battito accelerato del suo cuore sembrava volerle mozzare il respiro in gola. Perché non potevano lasciarli in pace? Perché non poteva cercare di trovare un po’ di serenità anche dopo aver visto i suoi sogni sgretolarsi? Perché non poteva smetterla di compromettere la felicità dei suoi amici?

Era tutto così maledettamente ingiusto.

“Scommetto che, nel tentativo di proteggere me, tu abbia anche rinunciato a una vita sentimentale, non è così?” le domandò, tristemente consapevole di conoscerne già la risposta.

Inaspettatamente, Satsu scoppiò a ridere, scuotendo la testa. “Ho rinunciato tanti anni fa, ricordi? Anche se volessi, nessuno farebbe al caso mio, né io al suo. Vivrò sola con il mio Haku, e starò benissimo così.”

Non c’era amarezza nel suo tono di voce: la sua era una calma rassegnazione, che non mostrava assolutamente il suo desiderio di vivere una storia d’amore vero, che credeva non esistesse nel mondo reale.

Era appena successo. La sua presenza in quella casa era improvvisamente diventata di troppo: era come se qualcuno dovesse irrompere all’improvviso in quella camera e scoprirla, riconoscerla. Doveva andarsene, e subito, senza aspettare oltre.

Non poteva continuare a giocare tanto con il destino.

Si alzò, a fatica, in piedi, appoggiandosi al muro per non cadere. Dannata caviglia.

“Devo andare: lo sai che ho un tempo di scadenza” affermò, tentando, inutilmente, di non far trasparire il dolore che sentiva nel suo tono di voce. “Sarà meglio che torni a casa.”

“Aspetta… Non vorrai mica tornare a piedi!” esclamò Satsu, scattando in piedi allarmata. “E’ troppo lungo il tragitto, e tu hai…”

“Non dire altro, per favore” la zittì Miyako, sorridendole. “Voglio fare una passeggiata. E poi, dove andrà a finire la prudenza che tanto hai elogiato se mi accompagnerai in macchina? Dai, ce la faccio, non sono zoppa.”

“Ma…” tentò ancora di protestare l’altra.

Era in quelle situazioni che non si scopriva poi tanto cambiata. In alcuni momenti, l’unica cosa che riusciva sempre a fargliela avere vinta era la sua grinta e la sua testardaggine, e nessuno sembrava riuscire a fermarla quando si comportava in quel modo.

“Basta, il discorso è chiuso: decido io, e tu dovrai rompermi anche l’altra gamba per fermarmi. Intesi?” le fece, con aria decisa. “Una stupida caviglia non mi può abbattere, e lo sai meglio di me; quindi, perché perdersi una giornata del genere?”

Satsu la osservò per un momento, stupita e vagamente malinconica.

“Quando fai così, mi sembra quasi che tu stia per esclamare «Bingo!», come ai vecchi tempi” le disse, con un piccolo sorriso.

Con un tuffo al cuore, Miyako si rese conto di quanto fosse vero. Stentava a trovare quella parte spensierata di sé: sembrava essere nascosta per bene nel suo animo.

Non aveva mai provato vero dolore, in quei giorni così lontani.

Fece il sorriso più largo che poté. “Bingo!” esclamò poi, un’eco del tono spensierato di un tempo. Forse cercava di far capire a Satsu che la vecchia Miyako non era scomparsa.

Forse cercava di fermare il tempo.

Si allontanò, zoppicando, dirigendosi verso la porta. “Ci vediamo appena possibile. Grazie di tutto, Satsu-chan.”

Il saluto di risposta riuscì a sentirlo solo da lontano, perché era già andata via.

 

***

 

Era un supplizio.

Stringeva i denti ad ogni passo, per non manifestare a voce alta il dolore fisico che provava. La strada davanti a sé sembrava decisamente troppo lunga per poter essere percorsa quel giorno: si chiedeva incessantemente come avrebbe fatto a resistere ancora a lungo.

Non aveva mai zoppicato tanto. Il suo camminare era irregolare, lento e accompagnato, di tanto in tanto, da un piccolo gemito di dolore. Si appoggiava, ogni volta che poteva, a qualsiasi sostegno le capitava a tiro.

Quel giorno, Miyazawa Rumiko appariva ancora più ridicola del solito.

Si era abituata da tempo a portare quella parrucca, in modo da coprire i suoi capelli fin troppo riconoscibili; aveva persino accettato di buon grado l’utilizzo perenne delle lenti a contatto, sebbene sembrasse totalmente un’altra persona senza i suoi occhiali.

Evidentemente, però, la maschera giornaliera che la nascondeva e al contempo la faceva sentire dannatamente esposta allo sguardo altrui non bastava a farla sentire ridicola.

Adesso doveva sopportare anche questo.

Ne aveva abbastanza di soffrire: pensava che i suoi ricordi fossero l’unica causa del suo dolore, ma non aveva messo in conto che la sua perenne solitudine l’avrebbe portata ad attraversare le vie di Tokyo con una caviglia danneggiata.

Pareva che non ci fosse tregua per lei.

Miyako sbuffò, stanca. Le sembrava di aver camminato per ore, mentre invece non era poi così lontana da casa di Satsu. Se solo non si fosse così isolata dal mondo, avrebbe potuto prendere un taxi, o un mezzo pubblico, ma sapeva di non riuscire a stare bene in luoghi del genere.

Era da qualche tempo che si sentiva un fantasma. Più tentava di essere naturale al solito caos della capitale del Giappone, più sentiva di estraniarsi da esso: era una ragazza che si nascondeva, che doveva passare inosservata, e ogni volta che osservava quella vitalità che lei aveva represso dentro di sé, sentiva di diventare inconsistente, un essere vestito di bianco costretto a guardare, rimpiangere e soffrire.

Scosse la testa, decisa a non pensarci. Non aveva voglia di aggravare il suo sconforto anche con quei pensieri: la giornata era iniziata già abbastanza male.

Si appoggiò contro il muro di un edificio sulla sua sinistra, chiudendo gli occhi e cercando di trovare un po’ di riposo prima di continuare a camminare. Fino a che punto l’impulsività del pomeriggio precedente l’avrebbe costretta in casa? Fino a che punto la signora Sato avrebbe deciso di non farla lavorare, per il suo bene?

Per quanto tempo avrebbe dovuto sopportare il silenzio opprimente della sua casa?

La caviglia non dava segni di miglioramento: sembrava, anzi, peggiorare ad ogni passo. Questo non era di certo un buon segnale.

Il pensiero del vuoto delle camere non utilizzate nel suo appartamento la fece rabbrividire, angosciata. Non avrebbe potuto reggere per così tanto tempo il confronto con se stessa.

Doveva star meglio a tutti i costi, decise. Si sarebbe abituata al dolore, ma non si sarebbe rinchiusa tra quelle mura senza fare nulla per distrarsi.

Riaprì gli occhi, riprendendo a zoppicare con decisione, malgrado la sua caviglia non fosse affatto d’accordo con i suoi tentativi. Un sorriso affiorò sulle sue labbra, mentre ricordava una canzone che aveva sempre adorato e cominciava a cantarla, escludendo gli altri passanti, le macchine e i vari rumori cittadini dal suo campo d’interesse.

C’erano solo i ricordi richiamati alla memoria grazie a quelle note.

E un’eco troppo lontana di voci giovanili, di scherzi e risate.

 

“Sei proprio pazza. Perché adesso stai cantando in mezzo alla strada?”

“Perché mi aiuta a non pensare, no? Se sono concentrata sulla mia canzone preferita, i miei problemi passano in secondo piano! E’ un ottimo mezzo di svago, se vuoi saperlo.”

“Solo una matta come te poteva dire un’idiozia del genere, credimi.”

 

Con uno strillo, si accorse di aver messo il piede in una fossa. Cadde, appoggiandosi ad un cartello di segnaletica stradale, mentre stringeva convulsamente gli occhi. Quando si sarebbero decisi a rendere le strade più sicure? , si chiese, maledicendo quella stupida fossa che aveva interrotto il suo tentativo di sopportare coraggiosamente un tragitto fin troppo lungo per i suoi gusti.

“Che male…”

“Serve aiuto?”

Miyako sussultò, alzando lo sguardo stupita.

E i suoi occhi incontrarono la figura familiare di un ragazzo che aveva visto diverse altre volte.

Era il giovane dai capelli scuri che veniva spesso in libreria per comprare libri gialli.

Non c’era dubbio che si stesse rivolgendo a lei e non a qualcun altro: era a pochi metri di distanza, sul volto dalla pelle chiara un’educata preoccupazione che la giovane sapeva essere per la strana presa convulsa con la quale si era aggrappata al suo sostegno, e la osservava con espressione curiosa.

Le bastò solo un attimo. Incrociò lo sguardo azzurro di lui per un solo istante, e il suo cuore parve fermarsi.

Era lo stesso sguardo che aveva scorto in mezzo alla strada il pomeriggio prima, dopo il mancato incidente. Era lo stesso sguardo profondo che sembrava volesse fare suo quel momento di debolezza, quel momento in cui il ricordo di Keiji l’aveva quasi annientata.

Aveva capito di aver condiviso quell’istante doloroso con quel ragazzo, che lei l’avesse voluto o no. Aveva capito che lui aveva visto una parte di sé che lei voleva tenere nascosta.

Persino in quel momento, lontana da tutta l’ansia tumultuosa del giorno prima, Miyako ebbe la fastidiosa sensazione che quegli occhi così apparentemente intelligenti e intensi potessero leggerle dentro, che potessero capire la verità solo guardandola.

Arrossì, distogliendo lo sguardo. Fece un sorriso lievemente ironico, considerando la scena che doveva offrirsi allo sguardo dell’accanito lettore di gialli. “No, figurati: sto solamente prendendo una pausa” rispose, staccandosi infine dal cartello. “Il problema è che non è molto facile camminare, con questa caviglia che non si decide a collaborare.”

Quando lo osservò di sottecchi, vide che il giovane aveva automaticamente abbassato lo sguardo sul suo piede destro. Come prevedibile, non fece alcuna domanda: sapeva perfettamente come era andata la vicenda.

La guardò ancora, e questa volta aveva le sopracciglia aggrottate. “Sei a piedi?”

Doveva essere davvero perplesso, come se non riuscisse a capire.

Miyako dovette trattenersi dal ridere. Sapeva di quanto dovesse essere strano, parlare con qualcuno con il piede danneggiato che, nonostante tutto, si aggirava da sola per le vie di Tokyo senza usare altri mezzi. Il ragazzo dai capelli scuri poteva tranquillamente pensare di lei che la sua salute mentale era andata a farsi benedire.

“Sì che sono a piedi. Sembra così strano?” rispose, con l’ennesimo sorriso. Si scoprì ad evitare di guardarlo direttamente, chiedendosi perché mai un ragazzo che vedeva quasi ogni giorno al negozio ora le apparisse così diverso. Forse era solo suggestione del giorno prima.

“Abbastanza” ammise lui, con un mezzo sorriso di risposta. “E’ solo… sembra che tu non stia bene.” Aveva un’espressione particolare sul viso, come se fosse incerto su come continuare. “Posso chiamarti un taxi, se vuoi: credo sia più consigliabile, visto quello che…”

Tacque, abbassando lo sguardo, imbarazzato.

E lei sgranò gli occhi, più stupita che mai.

C’era qualcosa nel suo interlocutore, qualcosa che non aveva notato dietro alla cassa della libreria dove lavorava. Le sembrava di scoprirlo solo in quel momento, e che avrebbe dovuto farlo dal primo momento.

Aveva una gentilezza innata. Quanti altri si sarebbero fermati ad aiutare una perfetta sconosciuta, addirittura offrendosi di trovarle un passaggio? Lui non ne avrebbe ricavato nulla, eppure sembrava aver ritenuto giusto fermarsi e parlarle.

Parlarle gentilmente.

E tanti, che l’avevano conosciuta, non avevano fatto quello che uno sconosciuto aveva ritenuto più giusto fare.

Un’inspiegabile gratitudine la colse all’improvviso, osservando anche la discrezione con la quale lui si era rivolto a lei. Sapeva bene a cosa avesse fatto allusione prima di bloccarsi: lui doveva aver compreso che lei non voleva ripensare all’incidente d’auto che aveva evitato, e rispettava la sua volontà con un silenzio tipico di qualcuno che non ama farsi gli affari degli altri.

Che sciocca, si disse, scuotendo la testa. Commuoversi per una cosa del genere. Si vedeva che non era giornata, e anche le sciocchezze riuscivano a farla sentire meglio.

Stupendo perfino se stessa per la rinnovata grinta che dimostrava, Miyako cominciò a camminare nei pressi del cartello, cercando di non fargli capire quanto fosse difficile farlo.

“Guarda: ci riesco benissimo, posso proseguire tranquillamente a piedi” affermò. “Non ho bisogno mica di un taxi.”

Il ragazzo la osservava, dubbioso. “Sicura?” le chiese. Non sembrava affatto convinto.

“Ovvio che sì, non preoccup…”

Non fece nemmeno in tempo a finire la frase che il terreno le mancò da sotto i piedi.

Per un istante pensò che sarebbe caduta, che avrebbe peggiorato la sua situazione, mentre vedeva il terreno avvicinarsi sempre di più…

E poi, inaspettatamente, si aggrappò a qualcosa, che frenò la sua caduta.

Si rese conto solo in un secondo momento che si trattava del braccio del ragazzo, che doveva essere accorso per non farla cadere.

Quando sollevò la testa, vide, proprio davanti ai suoi occhi, il sorriso divertito di lui. Anche i suoi occhi sembravano essere illuminati quando sorrideva, notò, sorpresa.

“Ovvio che no” disse tranquillamente. “Non dovresti sottovalutare il tuo dolore.”

C’era troppa vicinanza, in quel momento. Miyako si staccò in fretta, con il cuore che sembrava voler andare a mille.

Doveva stare più attenta, dannazione. Cosa le prendeva?

“Davvero, non ne ho bisogno: preferisco di gran lunga tornare a casa sulle mie gambe” dichiarò, ostinata, anche se non era per questione di preferenza, la sua decisione di soffrire per tutto il tragitto senza farsi dare un passaggio. “Senti, non preoccuparti, va bene? E’ tutto a posto.”

L’azzurro dei suoi occhi ancora non voleva lasciarla stare. Si sentì, ancora una volta, avvampare. “Ho detto che è meglio così! Sul serio!” disse in fretta, decisamente a disagio.

Il ragazzo sospirò. “Se preferisci, non insito” rispose. Per qualche strano motivo, sembrava più imbarazzato che mai. “Non volevo essere invadente, mi dispiace.”

Questo, poi, era davvero il colmo. Dopo quello che aveva fatto per lei si scusava anche? Era assolutamente inammissibile.

Gli sorrise, rassicurante. “Non devi mica scusarti, sai? Anzi, ti ringrazio molto per la tua gentilezza: nel tempo in cui siamo, dubito che altri avrebbero fatto lo stesso.” Gli disse, e credeva ad ogni parola che stava pronunciando. “Sembra solo strano che noi due ci incontriamo anche fuori dalla libreria, no?”

Lo vide abbassare lo sguardo, con un sorriso imbarazzato. “E’ curioso, sì” rispose. “Ma non ho fatto davvero nulla.”

Miyako si ritrovò a ridere per la semplicità delle risposte dell’altro. Era strano: si sentiva tranquilla, priva per qualche istante del peso dei suoi tormentosi ricordi. E doveva tutto a questo inaspettato incontro. Forse la giornata non era andata poi così male.

“Non mi hai ancora detto il tuo nome” gli fece notare ad un certo punto, stupendosi lei stessa per non essersi informata. Era la prima cosa che si chiedeva quando si faceva conoscenza, eppure erano diverse volte che i due si parlavano senza pensarci.

Ma voleva rimediare, dato che ce n’era l’occasione.

Lui sgranò gli occhi per un istante, sorpreso, poi ridacchiò. “Hai ragione.” Disse, con un sorriso educato sul volto. “Mi chiamo Ichijouji Ken.”

Le sembrò che il gelo le fosse penetrato nelle vene, pietrificandola sul posto.

Il mondo attorno a lei parve sgretolarsi, mentre osservava il sorriso del ragazzo davanti a sé.

Lo osservava, senza essere capace di fare altro.

No. Non poteva essere.

Era impossibile.

Ichijouji…

Si chiamava Ichijouji…

“Non dovresti sottovalutare Ichijouji, lo sai.”

 

“Neanche noi due ci vediamo spesso, per non insospettire troppo Ichijouji.”

 

Era impossibile. Non riusciva a crederci.

Era impossibile.

Si accorse del suo tremore, si accorse di essere impallidita.

Si accorse di essere spaventata.

Come poteva essere lui? Come poteva aver incontrato l’uomo che la stava cercando? Era stata tutta una farsa, per avvicinarla e scoprirla?

No. No, no.

“Ichijouji… l’investigatore?” chiese, con voce stranamente bassa. Non riusciva a distogliere lo sguardo da lui, anche se avrebbe voluto scappare via. Che sciocca che era stata.

Che sciocca.

Lui la fissò un momento, stupito, ma poi vide il suo volto diventare una maschera di delusione, per qualche motivo a lei sconosciuto. Lo vide sospirare, sempre non capendo cosa stesse succedendo.

“No” rispose lui. “Mio fratello Osamu è l’investigatore.”

Si accorse solo in quel momento, quando sentì il bisogno di prendere aria per il sollievo, di essere rimasta quasi in apnea per alcuni, orrendi istanti.

Si era sbagliata. Non era lui l’investigatore che minacciava la sua segretezza. Il ragazzo che le era davanti non era Ichijouji Osamu, colui al quale doveva stare alla lontana.

Era suo fratello. Ichijouji Ken.

Ma sapeva che avrebbe fatto meglio a stare alla larga anche da lui.

Si costrinse a sorridere. “Mi… mi dispiace, credevo…” iniziò, non sapendo come continuare.

Ken sorrise, ma sembrava un sorriso amareggiato. “Un errore comprensibile, non preoccuparti.” Rispose solamente. “Il tuo nome, invece?”

Il suo cuore batté ancora più forte, lasciandola quasi senza fiato. Si sforzò di non apparire così agitata.

“Miyazawa Rumiko, piacere di conoscerti” gli disse. Si sentì, ad un tratto, lievemente più rassicurata: gli aveva detto un nome falso. Non avrebbe potuto riconoscerla.

Eppure, non si era mai sentita così maledettamente vulnerabile.

Lo seppe, nel momento in cui Ken le sorrise ancora, educato, con un semplice “Piacere mio.” Lo seppe appena scorse la bellezza e la profondità dello sguardo del ragazzo per l’ennesima volta.

Seppe che doveva andarsene, e alla svelta.

“Sarà meglio che vada: si è fatto veramente tardi. Grazie di tutto, ciao!”

Non gli diede nemmeno il tempo di rispondere: ignorando volutamente il dolore alla caviglia Miyako aveva accelerato il passo, desiderando scappare da quella situazione orribile.

Ripensava al viso di Ken, e non riusciva a capacitarsi del suo destino.

Ripensava alle numerose volte che le loro strade si erano incrociate, alle loro casuali conversazioni dietro alla cassa della libreria, all’incidente dove lo aveva scorto, immobile e preoccupato, al loro incontro di quel giorno, e pensava fosse tutto un brutto incubo.

Ancora non riusciva a crederci.

Era stata a contatto con il fratello di Ichijouji Osamu, e non sapeva quanto fosse grave.

Ken conosceva il suo nome, sapeva che suo fratello la stava cercando?

Aveva paura. Era stanca. Era dolorante.

Ma c’era anche una profonda tristezza inspiegabile dentro di sé.

Si sforzò di scacciare il ricordo della piacevole conversazione avvenuta poco tempo prima, del suo sorriso gentile, dei suoi modi educati, di quegli occhi troppo intelligenti.

Perché tutto quello che riusciva a darle un po’ di gioia doveva tramutarsi in delusione?

Perché non poteva vivere serena, per un solo, stupido istante?

Ma Miyako non era stupida.

Per quanto fosse ingiusto, per quanto la sensazione di serenità che aveva provato fosse chiara e quasi tangibile nella sua mente, sapeva quello che doveva fare.

Avrebbe tenuto lontano Ichijouji Ken dalla sua vita.

Perché, considerò con un sorriso amaro, era impossibile per lei vivere una vita serena.

Continuò a camminare, in quella strada troppo lunga, con passo irregolare e troppo lento, in quella città che, improvvisamente, sentiva come ostile, popolata da gente che seguiva con sguardi inquisitori quel suo incedere affannato.

Buon pomeriggio! E così è pronto l'ennesimo capitolo! :) E anche questa volta ho deciso di impiegarlo in un punto di vista femminile, con l'introspezione di Miyako. E -perché no?- di un incontro tra lei e Ken! Da adesso le cose cominceranno a farsi più complicate ^^
Il personaggio di Satsu è originale, inoltre. Spero che vi sia piaciuta, perché avrà una sua certa importanza!
Roe, ti ringrazio tanto per il buon parere, e sono felice di averti emozionato! ** Sì, Takeru sta decisamente cercando di arrampicarsi sugli specchi, ma che ci vuoi fare? Quando si è disperati... u.u Tranquilla e fidati di me, che una soluzione a tutto questo la si trova! ;) fammi sapere cosa ne pensi dell'aggioramento, un bacione!
Arrivare in ritardo non significa non leggere, Shine: figurati se me la prendo per questa sottigliezza! Grazie tante, piuttosto, per essere arrivata in tempo per recensire! Davvero ti sono piaciuti i bambini? Keiji e Asami sono quelli che preferisco di gran lunga, ad essere sincera... ^^ Concordo su quello che hai detto a riguardo, hai centrato davvero il motivo per il quale Hikari ama tanto i bambini, complimenti! E sì, Taichi e Sora sono i più attivi e decisi dell'orfanotrofio! xD Aspetta per Takeru, e vedrai come te lo combino! Attendo tuoi pareri per questo cap, un bacione!
Grazie, Mystery Anakin, di essere arrivata in tempo per recensire! Mi fa piacere sapere che ti sta piacendo come procede la vicenda! ** Più che spaventata, Hikari non sapeva come comportarsi con un ragazzo così stranamente desideroso di risposte... Keiji è sempre attento allo stato d'animo delle persone a cui vuole bene, e Hikari rientra in questa categoria. Che dire, spero che questo capitolo ti sia piaciuto ugualmente! :) Fammi sapere, un bacione!
Per oggi è tutto, vi aspetto con il nuovo capitolo! ^^
Padme Undomiel

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Capitolo 10
*** You Are Not Alone ***


Purity cap 9

9.

 

You Are Not Alone

 

 

 

Sfregava con decisione il pastello sul foglio ancora bianco, osservando come questo si colorava improvvisamente di azzurro.

Osservò, critico, il suo lavoro in corso, chiedendosi se il cielo fosse davvero di quella sfumatura così chiara e quasi impercettibile. Alzò lo sguardo verso la finestra, lasciando che il delicato castano chiaro dei suoi occhi si perdesse ad ammirare la volta del cielo, così rassicurante, così grande e così lontana.

Scosse, deciso, la testa, confrontando quel celeste spento con il colore che aveva appena osservato.

Il cielo era più bello di quello che aveva disegnato lui.

Sfregò con maggiore intensità il suo pastello, ricalcando gli spazi colorati in maniera sbagliata.

E, infine, sorrise.

Così era molto più simile.

Lasciò sul pavimento il pastello azzurro, cambiandolo con quello giallo. Giallo come il sole.

E un cerchio luminoso comparve presto in mezzo al suo cielo, presto circondato da piccoli raggi che avrebbero reso visibile il paesaggio di montagna che voleva disegnare.

Keiji si sentiva felice quando disegnava. Certe volte si soffermava a pensare a quanto avrebbe voluto volare in alto, sempre più in alto, per sentirsi libero e ridere in mezzo alle nuvole, ma spesso i suoi compagni non riuscivano a capire questo suo desiderio. Così lui cercava di far vedere loro come doveva essere bello avere le ali, o vivere nei campi verdi che amava immaginare.

Gli piaceva conservarli, i suoi lavori. Li portava con sé quando saliva sul suo albero, desiderando che tutti quegli edifici, grattacieli e negozi sparissero per permettergli di vedere meglio gli uccelli che volavano verso il sole e le nuvole che coprivano le stelle durante le notti invernali.

Certe volte, invece, li donava alle persone alle quali voleva più bene.

Hikari ne aveva tantissimi. Ogni volta che gliene faceva avere uno, lei gli sorrideva in maniera dolce, gli dava un bacio sulla guancia e gli diceva che era l’artista più bravo del mondo, e Keiji, in quei momenti, si sentiva orgoglioso di aver generato lui quel sorriso tanto spontaneo e rassicurante.

Ne aveva fatto uno anche per Taichi, dopo che lui gli aveva insegnato a salire sugli alberi senza rischiare di cadere. Lo aveva disegnato sul prato, accanto a lui sotto le foglie di un grande albero, e sperava che gli fosse piaciuto, anche se il giovane aveva riso dopo averlo visto, e non ne sapeva il motivo.

Disegnò qualche uccello nero vicino al sole, mentre si concentrava sui suoni accanto a lui.

“Mimi mi ha comprato una bambola nuova! Guardate che bella!” Ryoko era appena arrivata nella grande sala giochi, agitando una bambola con un vestitino verde e lunghi capelli biondi legati in due codini. Ogni mese ne riceveva una, e ne metteva da parte un’altra.

Non riusciva davvero a capire tutta quella esaltazione solo per una nuova bambola. Keiji non aveva mai attribuito la sua felicità a giocattoli o a vestiti nuovi: i suoi giochi li creava dal nulla, e si divertiva molto di più. Ma questo nessuno dei suoi amici riusciva a condividerlo.

“Uffa! Sto giocando adesso: non posso darti retta” sbuffò Haru, stufo. Era chiaro che voleva far finta di essere impegnato nel suo gioco dei soldatini, perché l’alternativa sarebbe stata prendere il tè con Ryoko e la sua bambola, nella stanza delle bambine.

Ogni scusa era buona, considerò il piccolo dai capelli viola con un sorriso, tornando alle sue nuvole.

“Ma è nuova! Dobbiamo accoglierla!” si lamentò Ryoko, correndo da Haru e afferrandolo per un braccio. Ai lamenti del suo compagno dai capelli neri corti, si rese conto che la bambina aveva iniziato a strattonarlo con forza. “Tu sei il papà! E il papà deve sempre stare con la mamma!”

Il pastello bianco si arrestò improvvisamente sul disegno.

Keiji si sollevò dalla sua posizione distesa, osservando, con rinnovato stupore, la piccola Ryoko, che sembrava sul punto di fare di nuovo i capricci.

Aveva detto mamma?

 “Ma io non sono il papà di quelle bambole orrende! Lasciami, Ryoko!” ribatté l’altro, tentando di liberarsi. “Solo la mamma va benissimo, non ti servo io!”

Era curioso che l’avesse detto. Forse anche Haru credeva che la mamma fosse la persona più amorevole e fantastica del mondo, altrimenti perché essere così convinti nel rifiutare la proposta della piccola di tre anni?

“Ma tu devi vedere come cresco le mie figlie!” insistette lei, ancora strattonandolo. “Dai, vieni!”

“Io lo voglio sapere”.

Keiji si accorse di aver parlato a voce troppo alta quando vide gli occhi dei presenti posarsi su di lui, con quella sorpresa che mostravano sempre quando lui parlava. Era confuso: cosa c’era che non andava nella sua domanda? In fondo, era normale che lui ne volesse sapere di più su come la pensavano gli altri riguardo alle mamme.

Voleva solo una risposta, perché se lo chiedeva da tanto tempo, e nessuno sapeva rispondergli.

“Che cosa?” domandò Ryoko palesemente stupita, accorgendosi che gli occhi di lui erano fissi su di lei.

Keiji si mise seduto, allontanando momentaneamente da sé i suoi colori. Era contento che la piccola gli avesse risposto: non lo faceva sentire a disagio nel porre quella domanda. “Come fai la mamma.”

Sbatté le palpebre, perplesso dall’improvviso silenzio che era calato nella stanza.

Succedeva sempre così quando cercava di parlarne: nominava la mamma, e tutti si zittivano, come se non avessero più voglia di dire nulla. Perché nessuno voleva mai discuterne? Possibile che fosse il solo a chiedersi come doveva essere vivere sotto lo stesso tetto della persona che ti aveva fatto nascere?

Non poteva essere.

“Allora?” insistette, impaziente.

“Le abbraccio e le coccolo, canto le ninnananne, compro vestiti carini, racconto le favole … Così si fa la mamma” rispose infine Ryoko, alzando il mento con aria di chi è esperto in materia. “Non lo sai, Keiji-kun?”

Era tutto lì?, si chiese Keiji, deluso. Qual era la caratteristica propria dell’essere madre, allora? La sua idea di mamma era davvero diversa. Non corrispondeva a quella infantile della piccola.

“Quello che hai detto è poco.” Rispose, rimettendosi al lavoro. Non ebbe esitazione nell’afferrare il pastello rosa: il volto delle persone è sempre di quel colore, in fondo. “La mamma dev’essere un angelo, perché vuole bene ai suoi figli così tanto da fare tutto per loro. La mamma non si lamenta delle fatiche, e sorride sempre, e consola quando i figli piangono.”

Il rosso arrivò subito dopo, per disegnare sul volto piccolo e tanto bello quel sorriso di cui aveva parlato.

“La mamma è speciale: è la migliore, perché è tua mamma.”

Si bloccò, interdetto, scoprendo che non sapeva dare un colore agli occhi e ai capelli di sua madre. Non sapeva come fosse fisicamente: non l’aveva mai vista.

E non somigliava a una mamma, con solo un viso e un sorriso. Sembrava un pupazzo senza vita.

Una smorfia di tristezza apparve sul suo viso infantile. Voleva disegnarla, e non poteva farlo. Voleva immaginarla in qualche modo, e non poteva. Quel volto bianco era troppo diverso da come poteva essere uno umano.

Aveva voglia di piangere, e non sapeva perché.

“Che cosa disegni, Keiji-kun?”

La voce curiosa di Asami, intenta a giocare con il suo videogioco fino a poco tempo prima, lo distolse dalla contemplazione di quel sorriso anonimo. Si voltò verso la bambina dal caschetto nero, guardandola con amarezza.

“Perché non riesco a ricordarmi la mia mamma?”

Voleva una risposta, non un abbraccio di conforto. Eppure, fu proprio quello che ricevette dalla sua amica, come sempre. Una strana rabbia lo colse all’improvviso, facendogli desiderare di ritornare alla solitudine del suo disegno e dei suoi colori.

“Perché ti ha abbandonato qui, come la mia” gli rispose la bambina, con tono triste. Ma pareva sicura di quello che diceva, in quella maniera crudele con la quale si constata qualcosa di certo distruggendo i sogni degli altri. “Perché non ti voleva con sé.”

Aveva appena scoperto che c’era qualcosa di peggiore, di soffrire ogni giorno perché si sentiva così solo.

C’erano le malvagie bugie, la disillusione degli altri bambini, il pensiero di essere l’unico a pensarla così, di essere l’unico a sperare una cosa tanto grande e bella.

Asami non capiva. Nessuno capiva. Non sentivano quanto facesse male? Non sentivano la menzogna nella loro disperata rassegnazione?

Era l’unico a volere una mamma amorevole?

Si staccò di scatto, guardandola con rabbia. Aveva gli occhi velati di lacrime, e non riusciva a vedere bene: se li asciugò con la manica della sua maglia, prima di alzarsi in piedi.

“Non è vero. Non è vero niente” singhiozzò furente, osservando come appariva ferita Asami da quel suo scatto. Ma non gli importava. Era semplicemente troppo da sopportare.

Si voltò verso gli altri, in silenzio ad osservare la scena, cercando comprensione, certezze, e quel sentimento di speranza che minacciavano continuamente, che lui si sforzava di mantenere vivo.

Ma vide che erano tutti d’accordo con lei. Ryoko era a braccia incrociate, offesa perché lui le aveva detto che non era una brava mamma; Haru era semplicemente scettico, e lo guardava quasi con compassione. Asami era in silenzio accanto a lui, con gli occhi bassi.

La tristezza lo strinse in una morsa serrata, impedendogli di frenare oltre le lacrime.

Raccolse il suo foglio, i suoi colori, e scappò via dalla sala.

Come potevano gli altri non capire?

Come potevano gli altri vivere con questa delusione profonda?

Non avrebbero mai compreso quello che pensava, si convinse infine Keiji, continuando a singhiozzare, con il foglio stretto in mano.

Era da solo. Come sempre.

 

***

 

Another day has gone

I’m still all alone

How could this be?

You’re not here with me

You never said goodbye

Someone tell me why

Did you have to go

And leave my world so cold

 

Non ebbe alcuna difficoltà nel salire su quel tronco, arrampicarsi tenendosi aggrappato ai rami del suo albero preferito, per poi individuare il suo rifugio sicuro in mezzo alle foglie, in alto, sotto le stelle.

Era un percorso che faceva tutto il giorno, in salita e in discesa quando Hikari veniva a chiamarlo per il pranzo, la cena o qualche attività collettiva. E non aveva mai avuto paura di cadere, perché sapeva perfettamente che ce l’avrebbe fatta senza farsi male.

Le piccole scimmie non cadono dagli alberi: sanno tenersi su in ogni momento. Proprio come lui.

Si sedette sul suo ramo robusto, reggendosi forte e osservando la città di Tokyo dall’alto, sotto la luce così brillante delle stelle e di quella luna parzialmente coperta dalle nuvole.

Keiji amava quel silenzio, quel rifugio, quel nido. Poteva pensare in santa pace lì, senza nessun solito bisticcio di Naoko e Shinji, o spettacolo teatrale improvvisato da Taro, o partita a calcio proposta da Junichi.

Lì nessuno poteva ridere o scuotere la testa delle sue idee.

Lì il suo mondo prendeva vita.

Aveva portato con sé il suo disegno, tenendolo stretto al petto durante tutta la salita. Gli era parso che sua mamma fosse più vicina, attraverso quella carta.

Chiunque lei fosse, o ovunque fosse.

Aveva freddo sulle guance, perché il vento stava soffiando proprio sul suo viso, ancora rigato di lacrime. I capelli viola si agitavano scomposti sui suoi occhi, a tratti nascondendo al suo sguardo le luci di Tokyo che cominciavano ad accendersi.

Era una città troppo grande, piena di troppe persone.

Persone troppo diverse tra loro.

E non sapeva quale volto appartenesse a sua madre.

Si era sempre chiesto quali caratteristiche avesse preso da sua madre, a chi appartenessero quei capelli viola, quegli occhi castano chiaro, quel suo naso dritto, quelle labbra sottili. Aveva risolto che i capelli dovevano essere di suo padre, ma gli occhi di sua madre. E che probabilmente aveva altri lati simili a sua mamma, che non conosceva.

Ma che importava, dopotutto?, si chiese con rabbia, mentre altre lacrime scendevano sulle sue guance. Non poteva saperlo. Lei si era separata da lui, per qualche motivo che non conosceva.

Una mamma doveva sempre stare con il proprio figlio, lo sapeva. Lo aveva visto in molte famiglie che passavano sotto la villetta, mentre le osservava di nascosto sull’albero. Invece, la sua era andata via, lasciandolo lì.

Gli sarebbe bastato un saluto veloce, una visita momentanea. Solo il tempo di essere abbracciato come Hikari faceva, il tempo di ricevere un bacio sulla fronte e uno sguardo d’amore, il tempo di conoscere il volto dell’angelo che l’aveva fatto nascere.

Perché, anche se Hikari era la persona più cara che Keiji avesse, non era sua mamma.

Sua mamma era via, chissà dove.

Chissà chi.

E nessuno sapeva dargli una risposta, nonostante la cercasse continuamente nei suoi amici e nei ragazzi che lo accudivano, i suoi amici più stretti. Sua mamma non era riuscita a dargliela.

Non era giusto, pensò, tirando su col naso. Non era giusto.

 

Everyday I sit and ask myself how did love slip away

Something whispers in my ear and says

 

Certe volte, prima di andare a dormire, Keiji si immaginava nei panni di un bambino normale, in mezzo alla sua famiglia, con l’amore che gli sarebbe spettato di diritto. Si vedeva cullato nel sonno dalla voce pura e dolce di sua madre, che intonava la musica più bella del mondo.

Immaginava che ci fosse sua mamma seduta sul bordo del suo letto, a rimboccargli gentilmente le coperte nel momento in cui si fosse esposto al freddo delle notti invernali, a osservare, sorridendo, i numerosi disegni che lui, sicuramente, le avrebbe donato.

Solo allora, sorridendo serenamente, i suoi occhi sempre attenti si arrendevano al sonno. Solo allora gli incubi si allontanavano definitivamente dalla sua piccola stanza, che condivideva con i suoi coetanei.

E si rilassava per tutte le ore notturne, cullandosi nella prospettiva di risentire quella pace anche al suo risveglio.

Non era mai avvenuto questo. La mattina, quando apriva gli occhi, l’ingiustizia della mancanza della sua mamma lo colpiva duramente, spesso portandolo alle lacrime silenziose. Si accorgeva di non essere normale, che proprio a lui era toccata quella separazione, senza alcuna giustizia.

Eppure, non sapeva rinunciare alla dolcezza che sentiva prima di dormire.

Tanto grande era il suo desiderio di averla accanto, che riusciva a sentire il suo peso sul suo materasso. Sentiva il suo bacio della buonanotte, e poteva immaginare la sua voce.

Una voce nel suo orecchio, che lo rassicurava, che lo tranquillizzava.

La voce di sua madre così lontana.

 

“You are not alone

I am here with you

Though you’re far away

I am here to stay

You are not alone

I am here with you

Though we’re far apart

You’re always in my heart

You are not alone”

 

Era un’eco lontana, un suono femminile quasi impercettibile, ma Keiji voleva sentirlo.

Keiji voleva che fosse quella la verità, che sua madre davvero volesse dirgli che non lo aveva dimenticato. Non avrebbe mai risolto che quella fosse solo una sua fantasia, come gli dicevano gli altri.

Voleva sperare che sua mamma volesse essergli accanto, e non lasciarlo per sempre solo.

Perché lui non la ricordava, ma sapeva di volerle bene.

Troppo bene, come solo un figlio sa fare.

Aveva bisogno di lei, per non piangere più. Le mancava lei, e tutto il mondo sarebbe stato perfetto, pieno di tutto ciò che potesse desiderare.

Aveva bisogno di credere in lei. E sapeva che anche Hikari voleva questo.

Se ne accorgeva, di quando i suoi pensieri erano altrove. E gli sfiorava il viso, delicatamente, con quella strana espressione tenera e commossa.

“Non perdere mai la capacità di sognare, Keiji-chan: è l’unica cosa che ti darà quello che vuoi, nella vita. Credici, e non arrenderti mai.” Gli diceva sempre.

E il piccolo si perdeva nel suo abbraccio, piangendo in silenzio, trovando conforto nell’unica persona che sapeva capirlo, e chiedendosi se il profumo di sua mamma fosse stato altrettanto buono, altrettanto rassicurante.

Su quell’albero, nel silenzio della sera, Keiji tentava ancora di sentire la sua voce.

Tentava ancora di trovare la sua serenità da figlio.

Cercava ancora sua mamma nel vento.

 

***

 

Just the other night

I thought I heard you cry

Asking me to come

And hold you in my arms

I can hear your prayers

Your burdens I will bear

But first I need your hand

Then forever can begin

 

Era un qualcosa che non avrebbe mai potuto dimenticare. Mai.

Forse perché troppo prezioso, forse perché le era venuto a mancare così bruscamente. Non poteva saperlo, ma era perfettamente a conoscenza che quel suono così caro e dolce alle sue orecchie non sarebbe mai svanito dalla sua memoria.

Sembrava passato così tanto tempo da quando l’aveva ascoltato l’ultima volta.

Era il pianto di un bambino. Lo strillo di richiamo di un bambino stupendo, che l’avvisava che era sveglio, che aveva bisogno di lei, che da solo non sarebbe mai potuto restare.

Era il suono esigente di un essere troppo piccolo per potersela cavare senza la sua mamma.

Il vento fresco della sera, sul balcone del suo appartamento, le agitava in maniera scomposta i tanto falsi capelli neri, mentre il suo sguardo si perdeva nei ricordi passati che riuscivano a farle rivivere quella gioia straziante che aveva provato troppo tempo prima.

Un sorriso dolente piegò le sue labbra, mentre sentiva ogni fibra del suo essere far male.

Miyako non poteva dimenticare il periodo in cui era stata madre, o si era sentita tale. Le sembrava che quei due mesi, tanto brevi ma tanto intensi, fossero incisi nella sua mente e nel suo animo.

E, malgrado sentisse il disperato, irrazionale bisogno di mettere da parte quei pensieri per smetterla di soffrire così tremendamente, non sarebbe riuscita a bandire quei ricordi a lungo.

Chiuse gli occhi, arrendendosi al flusso di emozioni che attendeva solo un passaggio per poterla inondare.

Ricordò come accorreva in fretta nella camera da letto dove riposava il suo bambino, intenerita e commossa dal suono così infantile della sua voce, e dalla felice idea che il suo piccolo Keiji le volesse già bene, che la stesse chiamando perché aveva un disperato bisogno della presenza di sua madre. Proprio come lei ne aveva di stare con lui, in quei momenti così difficili, così dolorosi, così ingiusti.

Ricordò come lo stringeva al petto, cullandolo e sussurrandogli parole senza senso solo per osservare come i suoi occhi- color castano chiaro, come quelli di lei- si soffermavano sul suo volto, ascoltandola senza, ovviamente, capire. Ricordò la gioia e l’orgoglio che la inondavano, nell’osservare la bellezza, la salute e la tranquillità di Keiji mentre lo sfiorava, lo ricopriva di teneri e leggeri baci, mentre gli cantava dolci melodie per farlo, infine, dormire.

Ricordò le sue lacrime di felicità mista ad amarezza, quando si rendeva conto che lui era l’unica persona che le era rimasta, un bambino da accudire, un confidente ignaro del suo dolore, suo figlio. Il bambino più bello che avesse mai visto.

Ma era tutto finito. Keiji non viveva con lei, e Miyako non lo vedeva da sette, lunghissimi anni.

Aprì gli occhi, stringendosi le braccia al petto per colmare quel senso di vuoto che l’avvolgeva. La visione si infranse, lasciando il posto all’immagine di una dannata città di Tokyo illuminata, gioiosa, serena. Serena anche con la sua perdita incolmabile.

Era da troppo tempo che aveva perso la possibilità di vedere il suo Keiji crescere assieme a lei. Non aveva potuto sentire le sue prime parole, né avrebbe potuto compiacersi del suo carattere, dei suoi successi. Non avrebbe visto il suo volto farsi più bello.

Non l’avrebbe mai sentito chiamarla mamma.

Un senso di straziante consapevolezza la colse impreparata.

Chi sarebbe stato ad ascoltare le sue confidenze, quando ne avrebbe avuto bisogno? Chi avrebbe curato le ferite dovute alle prime, piccole delusioni con gli amici?

Chi avrebbe chiamato Keiji, piangendo, perché lo aiutasse?

Non certo lei. Non certo la madre che lo aveva abbandonato.

Ma lo avrebbe voluto, con tutta se stessa. Avrebbe voluto correre all’orfanotrofio, stringerlo in un abbraccio, e promettergli che non l’avrebbe lasciato più, che avrebbero condiviso ogni cosa. Avrebbe voluto chiedergli se lui aveva ancora bisogno di lei.

“Sono qui con te, se lo vuoi” gli avrebbe detto, sorridendogli.

Se solo avesse potuto farlo.

 

Everyday I sit and ask myself how did love slip away

Something whispers in my ear and says

 

Ogni persona deve scontare le sue colpe, presto o tardi. Era qualcosa di fin troppo chiaro, per lei.

Ma il destino era riuscito a punirla nella maniera peggiore al mondo. Strappando via da lei la possibilità di passare il resto della sua vita con suo figlio, dopo averla privata di qualsiasi altro bene, qualsiasi altro affetto.

Era una ferita che non si sarebbe mai rimarginata, che avrebbe continuato a sanguinare, in assenza di bende che potessero impedirle di morire ogni giorno di più.

E lei si opponeva con tutte le forze rimaste in lei. Non poteva essere così, continuava a ripetersi, senza risultato, senza cambiamenti. La vita non poteva privarla del suo bene più prezioso: non poteva, non poteva affatto. Semplicemente perché sentiva ancora tremendamente forte il dolore del distacco da Keiji, semplicemente perché avrebbe sfidato qualsiasi altra donna madre a separarsi dalla propria ragione di vita.

Ma non poteva farci nulla. Le loro strade avevano dovuto separarsi, per il bene di lui.

Miyako poteva solo stare a guardare la sua vita che andava avanti, senza sapere quale fosse la sua meta, perché mai dovesse continuare a vivere da sola.

E poteva sperare scioccamente. Sperare che lui non la odiasse. Sperare che Keiji pensasse a lei, ogni tanto, che riuscisse a esserle accanto anche se non poteva ricordarsi di lei.

Sperava che le volesse bene, anche se sapeva che questo non sarebbe mai potuto essere.

 

“You are not alone

I am here with you

Though you’re far away

I am here to stay

You are not alone

I am here with you

Though we’re far apart

You’re always in my heart

You are not alone”

 

E nei momenti in cui si sentiva sprofondare, riusciva solo a immaginare il suo bambino accanto a lei, cresciuto, intelligente, buono, prenderle la mano e assicurarle che non l’avrebbe mai lasciata, che doveva essere forte e andare avanti, perché era lui il bambino, e non viceversa. Immaginava la sua voce infantile, illudendosi che fosse davvero quella perché aveva imparato ad amarla nella sua fantasia, e capiva che anche lei, la persona che doveva essere forte, che avrebbe dovuto proteggere suo figlio dalla crudeltà del mondo, aveva bisogno di lui, o sarebbe morta.

Era solo questa inutile, sciocca speranza che non le permetteva di rinunciare a vivere attivamente, che non le permetteva di abbandonarsi a stupidi atteggiamenti insensati per dimenticare quello che aveva fatto, o perso.

Era solo l’immagine invisibile del figlio che aveva figurato nella sua mente, del suo angelo di sette anni che non avrebbe mai visto, a farla respirare, contrariamente alla sua fragilità o al suo passato.

E, in mancanza della vera gioia, Miyako era costretta ad essere illusa, pur di non cedere.

In mancanza di Keiji, la sua vita, Miyako immaginava un’eco lontana di quello che avrebbe dovuto essere.

E continuava a condurre la vita di ogni giorno.

 

***

Whisper three words and I’ll come running

And girl, you know that I’ll be there

I’ll be there…

 

Un sospiro triste uscì dalle sue labbra, mentre osservava ancora, dal suo ramo robusto, lo scenario troppo vasto della città dove viveva.

Non era grande abbastanza, nonostante avesse già compiuto sette anni. Era ancora troppo piccolo per andare in giro per le strade di Tokyo da solo, troppo piccolo per cercare lei.

Non poteva vagare da solo alla ricerca di sua mamma.

Nonostante il suo bisogno di vederla, non poteva trovarla.

Ma Keiji non si era arreso. Non sarebbe rimasto ad aspettare per sempre: un bel giorno avrebbe cominciato a cercarla, senza fermarsi, senza chiedere il parere dei suoi amici, senza che qualcuno gli impedisse di vedere il volto di sua madre.

Ancora pochi anni, e sarebbe corso da lei.

Gli bastava solo un segnale, qualsiasi cosa, che gli facesse capire quale luce che vedeva appartenesse alla casa del suo angelo. Gli bastava un qualsiasi segno che sua madre voleva farsi trovare.

E Keiji non avrebbe aspettato oltre. Sapeva che lo voleva: lo voleva troppo.

Aveva bisogno di lei.

Non voleva più piangere, su quell’albero.

 

“You are not alone

I am here with you

Though you’re far away

I am here to stay

You are not alone

I am here with you

Though we’re far apart

You’re always in my heart”

 

Keiji afferrò con forza il ramo sopra di sé, mettendosi in piedi e sentendo il vento soffiare più forte. Osservava la luna seminascosta dalle nuvole, e quelle due stelle visibili al di là del cattivo tempo.

Non aveva paura dell’altezza, né del vento.

Perché un giorno avrebbe spiccato il volo, come un uccellino inesperto che imparava appena a volare, e a avrebbe lanciato il suo verso nel cielo, e sua mamma avrebbe ascoltato, avrebbe capito.

Lo avrebbe raggiunto tra le nuvole, sotto la luce del sole, e gli avrebbe insegnato la maniera più corretta per volare. Lo avrebbe portato in un nido comodo, proteggendolo dal freddo con le sue grandi ali sicure e forti, e Keiji non si sarebbe mai separato da lei.

Non avrebbe più pensato a quando era triste e orfano.

Perché ci sarebbe stata sua mamma con lui, ad abbracciarlo forte e a scacciare i suoi incubi.

Sarebbe stato un bambino normale.

E avrebbe ascoltato la voce melodiosa di sua madre.

Senza avere paura che lei lo odiasse, che lei fosse lontana perché non lo voleva.

Un giorno, avrebbe saputo qual era il suo posto nella vita.

E Keiji voleva crederci. Voleva crederci.

“Sono qui, mamma… Vieni a prendermi.”

***

 

“You are not alone

I am here with you

Though you’re far away

I am here to stay

Though we’re far apart

You’re always in my heart

You are not alone”

 

Avrebbe parlato al vento, se avesse avuto la certezza che Keiji fosse in ascolto. Avrebbe affidato il suo amore a quei soffi impetuosi che le agitavano i capelli sulle spalle.

Avrebbe urlato, solo per annullare le distanze che li separavano.

Miyako avrebbe tanto voluto avere un momento per parlare a suo figlio, per fargli capire tante cose.

Che la distanza non importava: lei lo amava con tutto l’affetto che una madre –sebbene una madre indegna- poteva mai provare, e questo non si era affievolito nemmeno per un istante, nemmeno non avendo più la possibilità di vederlo.

Che gli chiedeva perdono. Che non era mai riuscita a perdonarsi di averlo messo nelle condizioni di dover essere abbandonato in un orfanotrofio, per salvargli la vita.

Che gli mancava ogni giorno, che ogni lacrima che versava era per lui, solamente perché non riusciva a non volergli un mondo di bene perché era la sua creatura, il suo bambino, il piccolo che aveva portato dentro di sé per nove mesi e che aveva nutrito e protetto per due.

Che non lo aveva dimenticato, lasciato solo, anche se sembrava fosse quella la verità.

Che lei non era più nulla, senza di lui.

Ma il vento era crudele, e non avrebbe potuto portare fino a lui quei messaggi.

Il vento non era un messaggero.

Le sue frasi rimanevano sulle sue labbra, bloccate da una voce troppo debole per essere udita dal suo piccolo Keiji.

Ma i suoi pensieri erano concentrati su di lui. E sperava che lui lo avvertisse.

L’unico desiderio che poteva concedersi.

E mentre la vita proseguiva, la notte trascorreva, placida e silenziosa, un sorriso pieno di doloroso amore piegò le labbra della giovane, dall’alto di un balcone affacciato su Tokyo.

“Comunque sia andata, Keiji-chan… Non dimenticarti di me. Cresci sano e forte. E io sarò accanto a te, e non ti lascerò mai andare.

Ti voglio bene…”




Ebbene sì. Questa volta ho deciso di proporvi un capitolo diverso dagli altri, puramente introspettivo, e ispirato da una canzone. E' che, ascoltando "You are not alone" di Michael Jackson, non ho potuto fare a meno di pensare a Keiji, e così... Ecco il risultato. Questo vuol essere anche un piccolo tributo all'artista, che adoro sul serio.
Ringrazio, come sempre, chi ha letto, commentato e apprezzato lo scorso capitolo: siete davvero fantastiche!
Roe, non posso che essere felice che ti piaccia il personaggio di Satsu: ho sempre pensato che solo una personalità forte come la sua avrebbe potuto stare accanto a Miyako, e così ho pensato di inserirla in questa storia. Per la questione dei mezzi pubblici... Diciamo che lei preferisce sempre non prenderli, non tanto per motivi esterni, quanto psicologici... Il problema è che si sente separata dal mondo esterno, e questa sensazione non riesce a sopportarla. Spero di essere stata chiara! :) Ti ringrazio per tutto, e sono curiosa di sapere cosa ne penserai di questo!
Sai, Shine, il realismo è uno dei miei più grandi obiettivi, quindi capirai bene quanto il tuo commento positivo riguardo l'introspezione di Miyako mi abbia fatto piacere! Satsu è un bel personaggio? Beh, grazie ^//^ Considerando il ruolo che avrà, è proprio un bel risultato! Non ti sbagli riguardo Ken e Miyako: la loro non è certo una situazione facile u.u e andando avanti il loro rapporto non potrà che diventare sempre più problematico! In ogni caso, non so dirti quanto mi fa piacere che ti abbia colpito la scena, perché a loro ci tengo molto, come ben sai ** E' stato davvero bello leggere il tuo parere, spero di non deluderti mai!
Grazie per la recensione, Mystery Anakin: sono molto contenta che ti piacciano maggiormente i capitoli di Miyako e Ken. Devo ammettere che sono i punti di vista più complessi (xD), ma ci dedico anima e corpo, come puoi ben immaginare! In effetti, Satsu e Iori hanno fatto la stessa scelta di sacrificio per Miyako, con l'unica differenza che lei non ha mai vacillato in questa decisione, come invece ha fatto Iori per la sua etica. Sono felice che ti sia simpatica! :) Il rapporto tra Miyako e Ken non potrà che continuare ad evolversi, tranquilla, e spero che i nuovi sviluppi ti piacciano! Mi fai sapere che ne pensi di questo? Sono molto curiosa! ^^
Ci ritroviamo al prossimo aggiornamento!
Padme Undomiel

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Capitolo 11
*** Frammenti di passato ***


Purity cap 10

10.

 

Frammenti di passato

 

 

18 ottobre

Scrivere un diario. Strana idea. Eppure, una volta sfogliate le pagine di questo quaderno –rigorosamente viola, ovvio- l’ho trovato così spoglio che ho pensato che fosse mio dovere riempirlo con qualcosa. Quindi, ho deciso di iniziare.

Anche perché potrei dire qualunque cosa mi passi per la testa qui, no?

Ieri sono riuscita a convincere Iori-kun a uscire con noi: impresa titanica, dico sul serio, ma almeno ne è valsa la pena! Quel ragazzo è troppo riservato, glielo dico sempre, e quando ammetterà che siamo un gruppo stupendo mi ringrazierà di averlo quasi trascinato di peso!

Gli serve sorridere un po’, poco ma sicuro. E poi, ci tenevo che si divertisse con noi e che conoscesse i miei amici, dato che lo stordisco ogni giorno con tutte le mie chiacchiere su di loro!

Credo sia stato bene, ha parlato con gli elementi più tranquilli del gruppo. Non si è avvicinato minimamente a Naganori, per esempio –parola mia, è troppo intelligente per commettere un errore simile…-, e nemmeno con il nostro Caro Simpaticone, ma ha conosciuto Satsu-chan, e credo sia già qualcosa.

Io, invece, ieri non ho potuto fare a meno di essere pazza. Era da un po’ di tempo che avevo notato che c’era qualcosa che

 

23 dicembre

E adesso che faccio? Sono nel pallone più totale, ed è tutta colpa di questa dannata situazione che non ci voleva sul serio!

Sono confusa. Cosa dovrei fare? Io lo so che vorrei tentare di

Ma c’è un’alternativa spiacevole, che non vorrei mai. Ho pensato ieri che

 

27 dicembre

Rabbia, rabbia, rabbia, rabbia, rabbia.

Perché?

 

31 dicembre

Vorrei solo un po’ di comprensione, nulla di più. Sono distanti in ogni momento della giornata, ma proprio quando ho bisogno della loro approvazione, amano mettere in discussione tutto quello che decido o penso. Sto piangendo e ho chiuso la porta a chiave: meglio che mi sentano, magari provano un po’ di senso di colpa per il pessimo comportamento che hanno nei miei confronti.

Li odio, come loro odiano me.

Cosa ho fatto di male? Cercavo di essere felice, felice come non lo sono stata mai.

Ma loro non capiscono che quello che

 

29 gennaio

E’ solo questione di tempo, ormai.

Devo resistere, e continuare a pensare a quanto io sia felice.

Non m’importa di nient’altro, e il resto del mondo lo capirà, un giorno.

Voglio solo che questo insieme di assurdità termini.

 

***

 

Era appoggiato con la schiena contro un alto edificio, lo sguardo basso, la fronte corrugata, il grigiore di quella giornata come riflesso nel suo animo.

Era totalmente immobile, come se non sapesse con esattezza cosa ci facesse lì.

Ma lui lo sapeva perfettamente.

E, sebbene allo sguardo altrui apparisse così inutile la sua postura rigida e  immobile, per lui non c’era nulla di anormale.

La sua mente correva veloce, in attesa di arrivare alla risposta esatta alle sue domande.

Ichijouji Ken cercava di scacciare la sensazione di inquietudine dal suo animo. Cercava un senso a quello che aveva appena visto, in quell’appartamento accogliente e sobrio che era tanto abituato a considerare quasi inaccessibile, data la segretezza con la quale lui lavorava lì.

Non riusciva a capire. Aveva visto qualcosa di particolare sul volto di suo fratello, oltre alla normale apprensione riguardo il caso Inoue. Osamu era strano, troppo strano, e un pensiero sgradevole si era fatto strada nella mente del giovane.

Cosa stava succedendo loro?

Ma soprattutto, c’era qualcosa che Osamu non riusciva a tollerare, in quella situazione?

Non riusciva a non ripensare alla sua espressione, quando si era recato a casa sua, deciso a riprendersi il diario che gli aveva lasciato perché lui lo esaminasse.

Doveva aver sbagliato qualcosa, anche se non riusciva ad arrivare alla risposta esatta.

 

Tutto l'ambiente circostante dava l’impressione di essere qualcosa come un rifugio, per suo fratello. Ken aveva la strana, curiosa e inspiegabile sensazione di aver violato uno spazio privato senza volerlo, mentre osservava distrattamente il semplice divano nero dietro di sé, il grande schermo televisivo alla sua destra, e la quantità incredibile di giornali, fogli e appunti ordinati su un piccolo tavolino davanti al divano.

Quello era il vero regno di Ichijouji Osamu, forse persino più importante del suo ufficio. Aveva la sensazione che suo fratello maggiore avesse le sue intuizioni geniali proprio nel buio del suo salotto, che lì la sua mente geniale riuscisse a mostrare le proprie doti senza limiti.

Era come se le straordinarie abilità di suo fratello fossero avvertibili nella stessa aria che respirava.

E Ken sentiva di non poter reggere il confronto, mentre osservava in viso il suo interlocutore.

La luce soffusa delle lampade appoggiate sulla scrivania creava strani effetti di ombre sul viso accigliato di Osamu, seduto ad una sedia comoda ma professionale. Pareva che si trovasse a suo agio nel buio della sala, come se la luce del sole non sapesse aiutarlo a occuparsi dei suoi casi, come se fosse completamente discostante dal suo modo di pensare o dal suo carattere cupo.

Lo scrutava, con le sopracciglia corrugate, in totale silenzio dopo un’accoglienza stranamente preoccupata. Lo scrutava, come se cercasse qualcosa, come se non fosse totalmente convinto di qualcosa.

E il minore dei due non riusciva a non ricambiare l’occhiata, chiedendosi, in questo scambio silenzioso di sguardi, in che maniera avrebbero spezzato quel silenzio meditabondo che li avvolgeva entrambi.

Alla fine, Osamu sospirò, afferrando, alla sua destra, quel quaderno fin troppo sottile dalla copertina viola che Ken gli aveva affidato dopo averlo letto diverse volte, e sollevandolo perché fosse ben visibile.

“Sai per certo che è per questo che ti ho chiamato” iniziò, a voce bassa, come se temesse di disturbare il tranquillo suono del silenzio.

Ken annuì, per nulla sorpreso. “Lo hai letto, allora. Cosa ne pensi?”

“Non così in fretta, Ken” ribatté l’altro, e per un istante gli parve quasi irritato. Lui batté le palpebre, sorpreso: non si aspettava che suo fratello avrebbe adottato un tono del genere, e non ne capiva il motivo, ad ogni modo. “Prima devi spiegarmi come hai fatto a trovare questo diario personale, visto che l’altro giorno non ce n’è stato tempo. Il tuo passatempo momentaneo è cercare di farti investire dalle macchine in strada?”

Ci volle qualche istante di silenzio, in cui gli occhi penetranti e stretti a fessure di Osamu lo scrutarono in maniera inquisitoria, perché capisse a cosa stava alludendo.

L’incidente. Ma certo. Era al telefono con lui quando un bambino in strada aveva sfiorato la morte, e Ken era stato troppo impegnato a cercare di salvare quel bambino e di controllare le condizioni di salute di quella ragazza, per ricordarsi di avvisare Osamu che non gli era successo nulla.

“Io… no, non è un passatempo. E non ero io a rischiare un sopralluogo urgente all’ospedale” rispose cautamente, incuriosito dall’evidente irritazione di suo fratello maggiore. Non mostrava così spesso le sue emozioni: doveva esserci qualcos’altro, oltre quell’espressione dura. “Mi dispiace di averti fatto preoccupare.”

Osamu fece un gesto infastidito con la mano, e Ken dovette sforzarsi di non sorridere, distogliendo lo sguardo. “Lo sai che non posso stare attento a quante volte ti metti nei guai. Quindi, la prossima volta, vedi di stare in guardia, o, se non altro, di rispondere al cellulare quando ti chiamo.”

Aveva uno strano modo di dimostrargli che era stato in pensiero: il suo orgoglio spesso gli impediva di mostrarsi incline alla preoccupazione e alle manifestazioni d’affetto. E non solo con lui.

Ma Ken gli era grato, e si sentiva in colpa per averlo lasciato a corto di notizie per qualche ora.

“Starò più attento, la prossima volta. Scusami.”

“Non ha importanza: non siamo qui per parlare di incidenti, dico bene?”

Sollevò nuovamente lo sguardo, per verificare se l’espressione dell’altro si fosse ammorbidita, ma con suo grande stupore notò che le sopracciglia dell’investigatore erano ancora più aggrottate.

Non riuscì ad interpretare la sua occhiata, né il motivo per cui lui sembrava tanto adirato.

“No” disse Ken, incerto. “Volevi sapere come ho fatto a trovarlo, è così?”

Osamu annuì soltanto, senza aprire bocca.

Sul punto di dare la risposta, però, il giovane si interruppe, confuso.

Si rese conto di non sapere cosa dire. Cosa aveva detto, come aveva fatto ad ottenere quella prova indubbiamente importante, sebbene strappata nei punti più interessanti? Come aveva indotto la signora Inoue a mostrargli quel diario, che senz’altro conservava con tutte le attenzioni di una madre distrutta che desiderava solamente rivedere la sua Miyako?

Non lo sapeva. Ma era sicuro di non averle detto nulla di particolare, nulla riguardo al suo compito di ritrovare sua figlia scomparsa.

Si sforzò di ricordare esattamente come fossero andate le cose, capendo che la pazienza di Osamu aveva un limite, ed era consigliabile non violarlo, quando era di cattivo umore.

In un istante, il volto sofferente della povera donna riempì la sua mente, riportando con sé l’angoscia che Ken aveva provato in quel momento. Ricordò che le aveva fatto diverse domande, senza mai ottenere una risposta soddisfacente. Ricordò che l’aveva assecondata, che aveva visto le foto, e poi… e poi…

All’improvviso lei era tornata in sé, e gli aveva chiesto di vedere il diario di Inoue Miyako.

Sembrava illogico. Era stato completamente dovuto al caso.

Scosse la testa, decidendosi, infine, a parlare. “Non lo so, Osamu. Dico davvero. E’ stato in uno dei momenti di lucidità della signora Inoue: mi ha portato in camera di sua figlia, e me lo ha mostrato di sua spontanea volontà. Non l’ho trovato io… e non conosco il motivo per cui lei avrebbe dovuto mostrarmelo, visto che non le ho nemmeno parlato del mio compito.”

Vide l’incredulità sul viso di suo fratello, e si sentì avvampare per la vergogna. Si rendeva perfettamente conto di quanto insensata apparisse la sua spiegazione, ma non poteva farci nulla.

Ken non era un investigatore, dopotutto, e si trattava del primo caso di cui si occupava. Osamu non poteva certo aspettarsi grandi tecniche per conoscere la verità o una furbizia dovuta all’esperienza che non poteva appartenergli di sicuro.

“Mi prendi in giro?” ribatté suo fratello, con un insolito tono tagliente. “Hai trovato un’importante prova che ci può aiutare a risolvere il caso Inoue… e non sai come puoi esserci riuscito?”

L’imbarazzo crebbe ancora. Ken non riusciva a capire: le parole di Osamu lo disorientavano. Se aveva trovato una prova importante, perché sembrava così contrariato? E come poteva spiegargli quello che era successo, quando nemmeno lui capiva?

“Perché dovrei prenderti in giro? Ti ho detto la verità, non vedo il motivo per cui dovrei tenerti nascosto un particolare del genere. Lavoriamo insieme, in fondo.” Fu la sua risposta sincera, mentre tentava di comprendere i pensieri di Osamu. “La signora Inoue non è… La sua salute mentale dev’essere stata compromessa dagli avvenimenti che l’hanno sconvolta otto anni fa, per questo alterna momenti di lucidità ad altri in cui si nasconde in un mondo immaginario dove i suoi figli sono ancora in quella casa, ancora con lei.”

Si sforzò di allontanare dai suoi ricordi l’inquietudine che aveva provato alcuni giorni prima, e di restare lucido per essere compreso alla perfezione da Osamu.

“Non so, forse non aveva intenzione di mostrarmelo… Forse non riesce a ragionare in maniera coeren…”

“Com’è possibile che tu l’abbia trovato in quella casa dove per anni abbiamo fatto diverse perquisizioni?” sbottò all’improvviso suo fratello, e Ken sussultò, preso alla sprovvista. La sua non era stata una domanda curiosa, lo aveva capito: voleva conoscere il motivo per cui quel diario era riuscito a restare nascosto malgrado il suo duro, scrupoloso lavoro.

Ken capì che il suo orgoglio era stato gravemente ferito, e si sentì nuovamente in colpa per il suo colpo di fortuna.

“Io non ho lasciato nulla in sospeso, nulla! Eppure, pare che io abbia fallito in qualche maniera! Come poteva essere in quella stanza, se ci ho passato mesi… anni per perquisirla per intero?”

“Osamu, io… Non è colpa mia” tentò di dirgli Ken, turbato. Conosceva la passione di Osamu per il suo lavoro e le sue indagini, ma non pensava che una sconfitta del genere gli avrebbe fatto così male. “Vorrei saperti rispondere, ma giuro che non so come sia potuta succedere una cosa del genere. Sono stato fortunato in qualche maniera, non c’è altra spiegazione. Se fossi ritornato tu in quella casa e avessi fatto una nuova perquisizione, lo avresti trovato tu, finalmente.”

Si sentì quasi raggelato dall’occhiata penetrante che l’investigatore gli lanciò, dopo essere tornato in silenzio. Era strano: gli pareva che suo fratello ce l’avesse con lui per qualche motivo sconosciuto.

Ma non poteva avere senso. Possibile che fosse solo una sua impressione?

“No, certo non si può parlare di colpa, Ken. Hai trovato un documento importante.” Disse piano Osamu, sempre con quel tono strano, sempre con gli occhi fissi nei suoi.

Perché sembrava un’accusa, invece di un riconoscimento?

Quell’orgoglio che aveva tanto sperato di cogliere nella voce dell’altro, alla menzione del suo successo, sembrava essere un’utopia. Ma non riusciva a comprendere cosa fosse successo tra loro, mentre un nuovo, pesante silenzio li assordava entrambi.

“Tornando a questo diario” continuò poi il maggiore, e Ken non poté fare a meno di sentirsi sollevato dal nuovo chiacchierare. “L’ho letto con molta attenzione, e ho fatto le mie dovute considerazioni. Tuttavia, ho intenzione di chiedere il tuo parere.”

Ancora non riusciva a credere che le sue idee potessero essere valide quanto quelle di Osamu. E gli parve così strano che lui gli chiedesse una cosa del genere dopo quello sfogo di qualche minuto prima, che fu tentato dal chiedergli perché mai adesso aveva deciso di voler discutere serenamente con lui.

Nonostante ciò, non osò formulare la domanda. Si limitò ad assentire, in attesa.

“Va bene.”

Osamu abbassò lo sguardo sul diario, aprendolo con cautela per via delle pagine strappate e estremamente facili alla rottura. La scrittura larga e disordinata di Miyako apparve subito tra le poche pagine lasciate intatte, e Ken non poté fare a meno di fissarla, chiedendosi come fosse possibile che la stessa ragazza che aveva lasciato un segno di sé negli anni fosse scomparsa, forse morta.

Si sforzò di non rabbrividire.

“Cominciamo dalla questione delle pagine strappate” disse l’altro, con tono serio e professionale. Non riuscì a guardarlo in volto, gli occhi ancora fermi sul diario. “Chi può aver compiuto un gesto del genere, e perché?”

Non ebbe alcuna esitazione, mentre rispondeva. “Se tutto il diario contenesse informazioni così utili, di sicuro non ne sarebbe rimasta nemmeno una pagina. Pare, invece, che ci sia stata una selezione di argomenti trattati nei vari giorni: alcune frasi sono interrotte bruscamente, proprio dove sembra più evidente che Miyako sia sul punto di rivelare un suo segreto importante. Per poter fare qualche congettura, dovremmo considerare due diverse ipotesi: se prendiamo in considerazione quella secondo la quale lei sia scappata di sua spontanea volontà, sarebbe molto plausibile che lei stessa abbia fatto questa selezione, liberandosi di indizi che l’avrebbero certamente smascherata. Ma se non fosse stata una sua scelta… Potrebbe essere stato il responsabile della sua sparizione, per non fare in modo che le indagini si concentrassero su di lui.”

“E’ giusto.”

Ken si sentì fiero di aver dato la risposta giusta, ma il mezzo sorriso che mostrava Osamu in quel momento lo fece fermare. Sembrava che la risposta dell’altro non fosse finita lì.

“E’ giusto, ma non credi che sarebbe stato più semplice e veloce disfarsi completamente del diario, dati importanti o meno?” continuò Osamu dopo un istante di silenzio. “Se Miyako davvero avesse deciso di scappare e di non lasciare tracce dietro di sé, non avrebbe fatto prima a portarlo con sé o a disfarsene? Se il responsabile della sua sparizione avesse trovato un documento del genere e di tale importanza, credi davvero che si sarebbe fermato a fare una selezione, come hai supposto tu? L’ansia di essere scoperti gioca brutti scherzi su tutti,su Miyako o su chicchessia.”

Ken rimase di stucco, dandosi dell’ingenuo. Non ci aveva pensato: aveva subito dato per scontato che quella fosse l’unica soluzione possibile. Doveva ancora imparare a considerare ogni singola eventualità, prima di fornire una sua ipotesi.

“Forse è stata una mossa calcolata” azzardò poi. “Forse lasciare il diario è stata una maniera per depistarci, per fare in modo che ci concentrassimo sulle pagine lasciate intatte –senza, magari, trovare nulla di costruttivo- e di abbassare la guardia.”

Questa volta, sperò vivamente di non aver detto nulla di sciocco.

“Questo avvalorerebbe la tua tesi, quindi?” domandò Osamu, pensieroso. “Un modo per depistarci… Ci avevo pensato anche io. Chissà, magari può essere questa la risposta.”

“Cosa ti fa pensare che non sia così?” ribatté Ken, curioso. Era la prima volta che osservava il famoso investigatore Ichijouji Osamu mentre rifletteva riguardo un suo caso, e sapeva che non era una fortuna di molti.

Ichijouji Osamu lavorava da solo.

“Lo sai che non è possibile dare nulla per scontato, finché non riusciremo a saperne di più” fu la sua risposta, così tipica di suo fratello. Il minore sorrise lievemente. “Abbiamo ancora troppo poco.”

“Capisco.”

Lo vide sospirare brevemente, prima che si decidesse a formulare la domanda successiva.

Che non tardò ad arrivare, precisa e diretta come sempre.

“Parliamo di questo 18 ottobre. Qui Miyako parla di alcuni elementi del suo gruppo, prima della solita parte strappata via. Cosa ne pensi?”

Cosa pensare? Rimase, per un istante, a fissarlo confuso, chiedendosi cosa mai avrebbe dovuto dire.

Scorse con lo sguardo le brevi frasi allegre scritte così tanto tempo prima, per ricordare meglio e poter sapere perfettamente di cosa parlare.

“Sono piccoli appunti della sua giornata, con il pensiero rivolto completamente verso il suo gruppo.” Rispose, con le sopracciglia aggrottate per la concentrazione. “Queste persone di cui parla… Ho controllato la lista di conoscenti che mi hai fornito, e credo che si riferisca a Hida Iori, Deguchi Naganori e Sato Satsu. Usa un tono spensierato e semplice, prima di arrivare alla fine dove, stranamente, il tono cambia e si fa più serio.”

“Come ti sembrano i rapporti tra loro?” chiese ancora Osamu, sempre impassibile.

“Tra Miyako e Iori sembra ci sia un buon rapporto, considerando che lei ha insistito perché lui entrasse nel gruppo. Questo Naganori… Sembra che non lo stimi poi molto, chiamando Iori intelligente perché non gli si è avvicinato. E…” Ken si fermò, ricordandosi di un particolare bizzarro. “Ad un certo punto parla di questo Caro Simpaticone, in tono chiaramente ironico, ma non fa il suo nome. Forse lo considera allo stesso livello di Deguchi. Non saprei.”

Cercò lo sguardo dell’altro per chiedere conferma, e fu rassicurato nel notare che aveva ancora quello sguardo impassibile, ma non contrario alla sua idea.

“Poi c’è Sato Satsu: credo che Miyako la considerasse una persona per bene. Di più non so dirti.”

“D’accordo. Passiamo al 23 dicembre.”

Non espresse le sue idee a riguardo, sfogliando alcune pagine strappate per trovare il frammento risalente a quella data. Ken si chiese, perplesso, se le loro idee corrispondessero o se Osamu semplicemente non volesse renderlo partecipe delle sue considerazioni personali.

Si concentrò sulle poche righe rimaste, scritte in pagine diverse alternate da strappi evidenti, in maniera frettolosa e, probabilmente, angosciata da Miyako, in quel lontano 23 dicembre.

“Dev’essere successo qualcosa di particolarmente importante nella sua vita, perché il tono è cambiato in maniera considerevole. Cosa dici di queste pagine?”

“Che dev’essere successo qualcosa di fondamentale per noi per capire di più del passato di Miyako.”Rispose prontamente Ken, conoscendo la risposta perché ci aveva pensato per molto tempo, senza, ovviamente, arrivare a capo di nulla.

“Precisamente” confermò Osamu cupo. “Un giorno in cui Miyako è confusa riguardo due scelte, che sembrano entrambe spiacevoli sotto un certo aspetto. Un dato scomodo per chiunque l’abbia strappato. Un dato che non avremo mai.”

La fatalità di quella perdita lo lasciò attonito per un secondo. Aveva ragione, lo sapeva. Il 23 dicembre era successo qualcosa di troppo importante, nella vita di Inoue Miyako, la ragazza scomparsa senza lasciare traccia alcuna. E loro non avevano la parte mancante.

Così frustrante, e spaventosamente assurdo. Erano così vicini…

“E lo stesso vale per il 27 dicembre, l’unico giorno che non è stato strappato via.” La voce di Osamu sembrava provenire direttamente dal buio del salotto, tanto che era bassa e tetra.

“Cosa può essere accaduto che la rendesse così piena di rabbia da non permetterle nemmeno di sfogarsi?” domandò Ken, spremendosi le meningi più che poté per cercare di capire.

“Chi può dirlo? Forse solo Inoue Miyako in persona, semmai la troveremo” fu la secca risposta.

Sentiva che Osamu doveva essere di nuovo irritato, e si affrettò a voltare pagina del diario, per tornare a lavorare con tutta la calma e la freddezza che serviva loro. Scorse la pagina che portava ancora i segni di essere stata bagnata con dell’acqua, riconoscendola come la penultima pagina scritta.

La sfiorò con il dito, sentendosi nuovamente inquieto. Era stata bagnata di lacrime, senza dubbio.

“Può essere plausibile che il 31 dicembre Miyako fosse arrabbiata con i suoi familiari?” chiese, cercando di riportare suo fratello su un piano ragionevole. Non serviva arrabbiarsi tanto: occorreva rimanere saldi e sempre in piedi. “Nel diario sostiene che si è chiusa a chiave, probabilmente in camera sua, e se vuole farsi sentire da qualcuno perché si sentano in colpa, questo qualcuno non può che essere la sua famiglia. Dico bene?”

Osservò il viso di Osamu con impazienza, aspettando di vederlo tornare in sé, ma quello che vide fu solo uno sguardo privo di alcun sentimento. Lo fissava come se non lo avesse mai visto prima d’ora.

Ken si impose di non interrompersi.

“Pare che non fossero d’accordo con una sua decisione, e che abbiano litigato per questo” continuò, determinato a combattere quello strano silenzio. Poi un nuovo pensiero si affacciò nella sua mente. “Ma che fine hanno fatto i fratelli di Miyako? Perché la signora Inoue sosteneva di essere sola, di non vederli mai?”

Voleva che la smettesse di fissarlo in quella maniera distante e accigliata: aveva lo strano, irrazionale sospetto che quell’occhiata non volesse dire nulla di buono.

“Hanno intrapreso strade diverse, e pare che abbiano una propria famiglia, adesso. In ogni caso, vanno a trovare la signora Inoue, alle volte. Ma non sempre: preferiscono mantenere le distanze, a quanto ne so.” Rispose infine Osamu. “Anche il loro interrogatorio è stato infruttuoso: non possono rispondere a quasi nulla.”

Ken ripensò alla signora Inoue, e si sentì sollevato al pensiero che non fosse stata lasciata completamente sola. Quella donna non meritava di essere abbandonata al suo destino, men che mai dai suoi familiari.

“Devono essere stati sconvolti anche loro…” disse tra sé, osservando l’ultima pagina scritta di quel diario così rovinato.

“Oppure no. Oppure è colpa loro.”

La freddezza di quella constatazione lo fece fermare, attonito.

C’era così tanto pessimismo in un investigatore famoso come lui? Oppure Osamu aveva qualcosa che non andava?

“Osamu, cosa c’è? Ti vedo davvero strano.” Tentò a bassa voce, come se temesse di essere inopportuno.

Bastò scrutare gli occhi del fratello, così simili ai suoi, per essere sicuro che qualcosa doveva essere andata storta.

Lo vide alzarsi, con un sospiro tetro, e, ad occhi spalancati, lo vide afferrare nuovamente il diario di Miyako.

“Forse non conosci la portata di quello che stai facendo, Ken.” Gli disse serio.

Ken lo fissò, attonito, non riuscendo a comprendere. “Certo. Certo che sì, io…”

“No. Non hai nemmeno idea della strada che abbiamo preso oggi, dico bene? Di cosa significhi il fatto che tu, non io, abbia trovato il diario.”

La frase sussurrata ebbe il potere di creare una voragine tra loro. All’improvviso, le ombre che si addensavano sul viso di Osamu gli parvero spaventose, impenetrabili.

“Spiegamelo tu.” Si rese conto solo quando ebbe finito di parlare che il suo tono di voce era quasi soffocato, e non ne comprese il motivo.

Suo fratello lo congelò con un’occhiata.

“Il diario è stata una tua vittoria, Ken. Non la mia.”

Non comprese subito il significato di quella frase, eppure l’espressione dura sul volto dell’altro fu sufficiente a fargli capire che tutto stava cambiando, senza che potesse farci nulla.

Era sconvolto.

“Vittoria?” ripeté. “Credevo che stessimo lavorando insieme. Il nostro è un obiettivo comune.”

Uno sbuffo impaziente uscì dalle labbra di Osamu. “Ma sei stato tu ad arrivare a un indizio che io avevo mancato, per qualche motivo sconosciuto. E non è stata fortuna” aggiunse subito, notando il suo tentativo di spiegargli, ancora una volta, che non aveva fatto proprio nulla. “So quello che dico. E non importa che lavoriamo entrambi per lo stesso fine: d’ora in avanti, vorrei che considerassi tue vittorie le prove che riesci ad ottenere tu, mie quelle che riesco ad ottenere io. Intesi?”

Ken non capiva. Scuoteva la testa, confuso. C’era qualcosa che era sfuggito al suo controllo, ma non sapeva come rimediare, come aggiustare tutto. Sembrava che suo fratello volesse una sfida seria.

“Perché?” riuscì solo a chiedere, smarrito.

“Perché un giorno dovrai lavorare da solo. Ti sarà utile.”

Sembrava non aver espresso tutti i motivi, ma rimase immobile come una statua, in attesa della sua risposta.

Era distante, troppo distante. E insensato, per la prima volta della sua vita. Ken non aveva mai chiesto una cosa del genere: pensava che suo fratello si sarebbe limitato a metterlo alla prova. Non pensava certo che Ichijouji Osamu gli avrebbe chiesto di ingaggiare una specie di gara di velocità e di arguzia.

Il giovane era contrario, estremamente contrario. Ma cos’altro avrebbe potuto fare?

Abbassò lo sguardo e annuì, impotente.

“Come vuoi.”

 

C’era uno strano viavai di gente, quella fresca mattina di primavera che ancora non riusciva ad abbandonare del tutto il vento invernale.

A Ken sembrava tutto così confuso. Osservava i passanti senza riuscire a trattenere un’immagine di loro nella mente, senza avere un motivo preciso per farlo.

Era venuto lì con uno scopo preciso, ma ora che era arrivato a destinazione sentiva che gli avvenimenti stavano precipitando, e che non riusciva a farci nulla.

Non poteva stare tranquillo senza essersi fermato un momento a pensare.

Non era sciocco. Sapeva bene che tra lui e Osamu c’era sempre stato un confine invalicabile, che entrambi avevano bisogno dei loro spazi e dei momenti in cui potessero cavarsela completamente da soli, ma c’era qualcosa di dannatamente sbagliato nella decisione di suo fratello riguardo il caso Inoue.

La cosa più strana era che non gli aveva chiesto di indagare da solo: avrebbero continuato a collaborare, ma sotto la pressione psicologica di una competizione tra fratelli.

Doveva trattarsi di un’ennesima questione di orgoglio, come sempre.

Sospirò ancora, osservando distrattamente un uomo basso e accigliato uscire in fretta dal negozio, sempre senza riuscire a muoversi.

Orgoglio. Perché aveva avuto bisogno di allungare la distanza tra loro? Non erano mai stati fratelli affettuosi, e a Ken stava bene così, ma trovava assurdo paragonare il suo colpo di fortuna alle straordinarie doti del famoso investigatore.

Non aveva idea di come quel diario fosse capitato nelle sue mani, invece di quelle di Osamu.

Ed essere allontanato per un motivo che non capiva fino in fondo gli sembrava ingiusto.

Ma sapeva che non c’erano alternative. L’unica sarebbe stata scegliere di rinunciare al caso, lasciargli campo libero e riprendere il suo compito di spettatore silenzioso del lavoro che avrebbe tanto voluto compiere.

Leggere quelle pagine di diario strappate crudelmente aveva cambiato qualcosa dentro di sé, lo aveva avvertito chiaramente. Miyako non era più soltanto il mezzo per essere qualcuno, per arrivare al livello di Osamu: era una persona con sentimenti, paure e emozioni come chiunque altro. Come lui.

E non poteva lasciare che la sua vita fosse abbandonata al caso.

Aveva rinunciato ad un rapporto più confidenziale con Osamu per ciò che riteneva più giusto. Suo fratello non aveva bisogno di sentirsi così in sintonia con lui; Miyako, i suoi amici e parenti avevano un disperato bisogno di lui, invece.

E Ken non avrebbe ceduto per nessun motivo.

Qualcuno lo urtò all’improvviso, sbilanciandolo e facendogli quasi perdere l’equilibrio.

Sorpreso, alzò lo sguardo, per incontrare quello di scusa di un passante con pesanti buste in mano.

L’uomo borbottò un “Mi scusi”, e Ken scosse la testa, facendogli capire che non si era fatto male. Lo fissò allontanarsi, con aria persa nei suoi pensieri.

Era rimasto immobile per troppo tempo: era facile che qualcuno potesse urtarlo. Doveva decidersi a fare qualcosa, o sarebbe stato d’intralcio.

Con passo incerto, prese a camminare verso la vetrina di quella libreria che ormai era il suo rifugio, ma, la mano sulla porta d’ingresso sul punto di spingere per entrare, si bloccò, trattenendo il respiro bruscamente.

L’aria stanca ma cortese, dietro la cassa del negozio, chiacchierava serenamente con i clienti, come aveva fatto precedentemente con lui, controllando prezzi, restituendo il resto e porgendo buste, allontanando i capelli neri dagli occhi e sorridendo.

Pareva che Miyazawa Rumiko lavorasse molto spesso, all’interno di quel negozio.

Seguiva ogni suo movimento impercettibile con gli occhi, senza conoscerne il motivo.

Sembrava un mistero. Un mistero in perenne cambiamento.

Si chiese come stesse la sua caviglia, non riuscendo a scorgere il suo piede fasciato al di là di quella vetrina. Si chiese se zoppicava ancora per le vie di Tokyo, senza ricorrere a mezzi pubblici per motivi sconosciuti.

Si chiese perché apparisse così mutevole e sfuggente, mentre la osservava sospirare impercettibilmente e voltarsi verso una signora più anziana, che ordinava i libri.

L’aveva vista diverse volte, e in ogni occasione l’aveva osservata, incuriosito, senza arrivare a comprenderla. Chiacchierona in negozio, gli aveva parlato cordialmente, ma con quella punta di curiosità spontanea che l’aveva stupito. Pronta a tutto per salvare un bambino, era apparsa sofferente, quasi straziata: i suoi occhi castano chiaro erano quelli di una donna ferita nell’anima, e impossibilitata a curarsi.

Non capiva nemmeno perché l’avesse fatto: non poteva essere una parente del bambino, perché subito dopo l’incidente era svanita, senza parlare con nessuno, senza controllare che il piccolo stesse bene.

Aveva rischiato la vita, ma era stata determinata, sicura, sebbene fragile.

Vide Rumiko muoversi dal suo posto, e notò come stringeva leggermente gli occhi, mentre le sue labbra si piegavano in una smorfia di dolore silenzioso. E ripensò alla sua voce mentre cantava per le vie della città, che l’aveva fatto voltare mentre era di ritorno da una visita alla signora Inoue, e l’aveva fatto fermare. Ripensò alla curiosità che lo aveva colto, osservando il volto sereno e perso nei ricordi della giovane, pur sopportando il dolore dovuto a quella caviglia così compromessa.

L’aveva seguita, spinto dall’interesse, non riuscendo a spiegarsi come potesse trovare gioia in un canto, come apparisse tanto lontana eppure vicina, come potesse essere così vicina a cadere e non farlo mai. E ricordò il suo accorrere veloce, quando l’aveva vista inciampare.

L’interesse non sembrava essere svanito, notò Ken, ancora immobile a guardare quella ragazza così particolare. Come poteva cambiare tanto spesso espressione, in quegli occhi tanto caldi quanto prudenti?

Come poteva lui far chiarezza nel mistero?

Un istante, e il suo cuore mancò un battito, per motivi sconosciuti.

Rumiko si era voltata nella sua direzione, distrattamente e con la mente altrove, e lo aveva scorto, con un piccolo sussulto attutito dallo spesso vetro che li divideva.

Lo guardava, con aria sorpresa, e lui non riuscì a distogliere lo sguardo.

Vide una sua mano correre a sfiorarsi i capelli, in maniera quasi ansiosa, e capì che doveva essere una sorta di abitudine, come per scacciare il nervosismo.

Vide le sue labbra stringersi, e i suoi occhi sfuggirono alla sua occhiata, in maniera repentina.

Ken rimase immobile, per un momento sentendosi svuotato di qualsiasi sentimento che non fosse una strana, insensata delusione. Aveva ancora la mano sulla porta, e non aveva la forza per spostarla.

Aveva avuto la sensazione che non fosse poi così felice nel vederlo.

E lui non voleva questo. Non voleva che si sentisse ansiosa come lo era lui da qualche tempo, dopo la visita a Osamu, e non riusciva nemmeno a comprendere il motivo di quella paura che aveva scorto nello sguardo di lei.

Non ne combinava una giusta, quel giorno. Cosa stava facendo?

Sospirò, allontanando la mano dalla porta. Forse avrebbe fatto meglio a tornare a casa.

Un’ultima occhiata, quasi inconscia, e decise di andare via.

Ma proprio mentre stava per allontanarsi, successe qualcosa di strano.

Rumiko alzò lo sguardo verso di lui, con aria incerta ma non più timorosa.

E Ken non seppe perché, ma le sorrise, lieto che avesse capito che non aveva cattive intenzioni, che sarebbe andato via presto e non l’avrebbe più disturbata sul lavoro.

Sgranò gli occhi, quando la vide rispondere al sorriso, in maniera quasi impacciata ma luminosa in qualche modo.

E si accorse, stupito, che il senso di oppressione che l’aveva colto durante la faccenda di Osamu aveva deciso di svanire momentaneamente, lasciando il posto a una rinnovata serenità che dava dell’incredibile.

C’era qualcosa di stranamente lieto, nel suono del vento che soffiava in quel momento.

Qualcosa di lieto che non aveva colto prima, troppo pieno della sua delusione, troppo pieno di quella negatività che lo aveva reso cieco e sordo senza che se ne accorgesse.

Qualcosa che, forse, avrebbe fatto meglio a notare fin dal suo arrivo.

Perché, anche se non aveva un nome, era l’unico barlume di serenità a cui Ichijouji Ken riusciva ad aggrapparsi.



Aggiornamento un po' strano, lo riconosco. Nessuna risoluzione definitiva, nessuna azione vista dal vivo: persino le indagini sono raccontate mediante l'uso di un flashback. Ma, insomma, volevo provare a strutturare un capitolo in questa maniera. A voi giudicare il risultato, come sempre ^^
La parte iniziale, come avrete capito, è tutto ciò che resta del diario di Miyako ritrovato da Ken.
Roe, ho sempre voluto analizzare i pensieri di Keiji: diciamo che la canzone di Michael Jackson mi ha dato il modo di farlo! Sono proprio contenta che ti sia piaciuto! :) Ma non essere eccessivamente triste: in fondo, l'autrice non è sadica come vuole far credere, e farà in modo che tutto si risolva -prima o poi xD-! Abbi solo pazienza e fammi sapere cosa ne pensi di questo capitolo: ti ringrazio tanto per i tuoi pareri positivi, che mi spronano a continuare! A presto, un bacio!
Shine, è stato davvero interessante leggere tutte le tue impressioni -che recensione lunga!- e credimi, non sapevo di averti comunicato tanto. Ovvio che ne sono felice ** se Keiji continua a credere nella possibilità di poter conoscere la sua mamma è semplicemente perché qualcosa della testardaggine e della forza d'animo di Miyako l'ha ereditata! ;) Ero preoccupata di non riuscire a rendere bene quello che il piccolo prova per Hikari, ma mi fa piacere sapere di essere riuscita nell'intento... E anche che la parte aggiunta di Miyako ti sia piaciuta! Dai, continua a sperare che si incontreranno... :) Come sai, non ti rivelo nulla, però! Insomma, grazie, come sempre, di seguire con entusiasmo la mia storia. Spero che giudicherai bene anche questo cap con Ken xD un bacio!
Mystery Anakin, che bello sapere che ti è piaciuta l'idea del cap introspettivo! Sìì, quel lato sognatore del carattere di Keiji è un lato che noi conosciamo bene, è così? ;) Temo che il momento del ricontro tra madre e figlio sia ancora lontano... Però, passetto dopo passetto, mi avvicino sempre di più! xD Spero che continuerai a seguirmi malgrado gli impegni e tutto, e ti ringrazio tanto! Baci!
Aspetto pareri impazientemente! ^^ Alla prossima!
Padme Undomiel

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Capitolo 12
*** Istinto ***


Purity cap 11

11.

 

Istinto

 

 

Un sole caldo illuminava il grande giardino, donando sfumature diverse alle foglie verdi degli alberi bagnati dalla pioggia della notte precedente e facendo brillare le gocce d’acqua che erano rimaste tra le fronde.

Tutto sembrava prendere vita, dopo un temporale.

Sorrideva serena, sfogliando le pagine di quel libro ormai consumato, avvertendo accanto a sé il movimento degli altri ragazzi, intenti a svolgere i propri compiti con dedizione e grande forza di volontà. Tutt’intorno, le risate, le urla e i lamenti dovuti a litigi dei bambini, finalmente liberi di uscire dopo una serata di pioggia, allietavano l’atmosfera.

Era felice che potessero svagarsi: avevano trascorso un intero inverno rinchiusi dentro le loro camere senza poter uscire, attendendo la primavera e l’estate con quell’impazienza e irruenza tipica dei bambini. Finalmente il loro desiderio di giocare poteva essere appagato.

E Yagami Hikari si sentiva irrazionalmente in pace, tra quei suoni così gioiosi che sapevano di famiglia, di quella famiglia che lei mai avrebbe abbandonato.

Scosse la testa, alzando, finalmente, lo sguardo sulla piccola figura china ad osservare la sua attività di ricerca. Sulle sue labbra apparve un sorriso di scusa. “Mi dispiace tanto, Naoko-chan: nemmeno qui c’è qualcosa di nuovo.” Le disse.

La bambina dai capelli biondo scuro si rattristò, guardandola con occhi supplichevoli. “Nemmeno una storia nuova? Anche piccola!” implorò.

Hikari sospirò, cingendo la bambina in un abbraccio. “Dai, non preoccuparti: ci sono ancora altri libri che non sono riuscita a controllare. Vedrai che qualcosa la troveremo.” La rassicurò, dandole un bacio sul capo.

Ogni sera la giovane si fermava nella stanza dei bambini, per raccontare loro alcune fiabe per farli addormentare. Era il momento per loro di lasciar correre la fantasia, di immaginarsi al posto di quei personaggi di cui parlavano le storie nei libri, di essere allegri e sognatori, di continuare a sperare in un futuro radioso: nessuno di loro avrebbe mai rinunciato a questo momento di svago, chi per un motivo, chi per un altro.

Nemmeno Hikari. Lei era convinta che quei bambini avessero un gran bisogno di non perdere le speranze, e voleva donare quel pizzico di magia che serviva loro per condurre un’esistenza serena quanto possibile, per non fare in modo che si sentissero soli e abbandonati. Ne aveva ogni giorno la conferma osservando Keiji, che più di tutti voleva ribellarsi alle ingiustizie che credeva gli fossero toccate.

Il problema consisteva nel fatto che l’appuntamento era giornaliero, e ben presto le storie finivano. I bambini amavano stupirsi delle novità: storie ripetute più volte non sarebbero state speciali come quelle che loro si aspettavano. E Hikari non voleva deluderli: sapeva quanto ci tenessero.

Era per questo che stava trascorrendo la mattinata sfogliando libri, ma era al quarto volume e non era cambiato nulla.

“Allora stasera ce ne racconti un’altra?” domandò Naoko, con la speranza negli occhi color caramello.

Hikari rise, guardandola negli occhi come a farle capire che non voleva prenderla in giro. “Promesso. Fidati: non ti mentirei mai.”

Naoko sorrise, abbracciandola forte. Era sempre stata una bambina molto affettuosa. “Grazie, Hikari!” esclamò, contenta. Poi il suo viso si fece imbronciato. “Lo dici tu a Shinji-kun che le tue storie non sono da piccoli, e sono belle?”

“Ti prende ancora in giro?” le chiese in risposta Hikari, scuotendo la testa con aria rassegnata. Naoko e Shinji, i due gemelli, non sarebbero mai andati d’accordo, a quanto sembrava: sebbene fossero stati trovati insieme quando sua madre era ancora in vita, lui era un bambino molto insicuro, che non riusciva a tirar fuori i suoi sentimenti, mostrandosi sempre superiore a tutto e a tutti. E Naoko spesso piangeva per questo.

Quanto avrebbe dato la giovane per vederli andare d’accordo, perché sapeva perfettamente che i due dovevano volersi molto bene.

Vide la piccola annuire con una sorta di solennità, e un moto di affetto per lei la colse.

Le accarezzò dolcemente il viso, con un sorriso. “Glielo dirò, ma cercate di non litigare, d’accordo? E’ più bello se giocate insieme.”

“Va bene!”

Naoko corse via, probabilmente per raggiungere il gruppo di bambini che la stava aspettando, e Hikari rimase seduta sotto quell’albero nel giardino, sopra un telo per non bagnarsi, il libro ancora aperto tra le mani e un sorriso affettuoso sul viso.

Non si sarebbe mai abituata alla semplicità del bambini, neanche trascorrendo una vita intera a contatto con loro.

Si guardò intorno, respirando il profumo del giardino bagnato dalla pioggia e riempiendosi i polmoni della freschezza dell’aria. Pareva che lei non fosse l’unica a godere di quella pace e tranquillità: tutti, nessuno escluso, erano usciti in giardino, e ognuno di loro aveva qualcosa da fare.

Poco distante, circondato da tanti bambini e da Mimi, che sedeva con loro, c’era Taro, intento a inscenare un altro spettacolo tipico di lui trascinando con decisione e spirito pratico un riluttante Shinji, evidentemente contrario a partecipare a “cose stupide”, mentre Ichiro, concentrato e serio, imitava i suoni di una batteria o canticchiava motivetti di accompagnamento che aveva sentito alla tv.

Sora, poco distante, era intenta a stendere i numerosi panni appena lavati dei bambini, che avevano questa particolare tendenza ad abbandonarsi a giochi pericolosi e decisamente a rischio di sporcarsi senza preoccuparsi minimamente delle conseguenze. Rimproverava dolcemente suo fratello Taichi, poco distante: Hikari intuì che, come al solito, Sora desiderasse da lui un aiuto nel suo lavoro, e sapeva che Taichi non doveva essere particolarmente felice, vista l’aria supplichevole che aveva assunto parlando con lei.

La giovane non poté fare a meno di sorridere, osservando la ritrosia del maggiore dei due Yagami. Avrebbe fatto di tutto per salvare le sorti dell’orfanotrofio, sarebbe stato pronto ad affrontare ogni genere di imprevisto, ma dedicarsi alla pulizia –di qualunque tipo si trattasse- sicuramente non era il suo forte. Ma non poteva farci nulla, contro Sora.

Taichi aveva qualche limite, dopotutto.

Spostando lo sguardo verso destra, Hikari scorse il gruppo di bambini più grandi –accompagnati, come sempre, da Asami, che non voleva essere esclusa nonostante avesse solo otto anni a discapito dei loro dieci- che ascoltavano attentamente le spiegazioni in campo informatico fornite loro da Koushiro, e notò con piacere che sembravano tutti interessati, e che domandavano chiarimenti al ragazzo dai capelli rossi con una vivacità incuriosita che la inteneriva. Accanto a loro c’era anche Jyou, e persino lui, pur non facendo parte del pubblico infantile di cui Koushiro si era circondato, annuiva alla fine di ogni sua frase, con aria concentrata e gli occhi fissi sullo schermo del computer.

Non bisognava mai fermarsi, considerò, chiudendo il libro di favole che teneva in mano. C’era sempre qualcosa da fare, e l’importante era dedicarsi alle proprie attività con serenità, gioia e quel pizzico di spensieratezza che avrebbe permesso ai bambini di non sentirsi estranei a loro.

Anche quando non erano solo loro a tenersi impegnati in un’attività.

“E allora, Keiji-chan, hai deciso di lasciar perdere?” domandò divertita, alzando lo sguardo sui rami dell’albero sotto il quale si stava riposando.

Conosceva la risposta ancora prima che venisse pronunciata, ma il suo tono di voce mentre lo diceva era così buffo da farle venire sempre voglia di domandarglielo ancora.

Uno sbuffo. “No: non è ancora arrivato. Io non scendo finché non lo vedo.”

Hikari sorrise, osservando la sua piccola figura aggrappata al ramo e con gli occhi castani fissi in un’altra direzione. Sapeva che Keiji sarebbe potuto rimanere tra le fronde degli alberi per giorni interi, ma non aveva senso che si preoccupasse tanto per un problema che non c’era e non ci sarebbe mai stato.

Le sembrava semplicemente troppo sull’attenti, e se ne chiedeva il motivo.

“Dai, non fare il testardo: lo sai che non verrà” ribatté, cercando di farlo ragionare. “Non avrebbe nessun motivo per farlo… e in ogni caso, se qualcuno sapesse di essere sgradito a tal punto, non si farebbe mai vivo. E tu non vuoi che venga, giusto?”

Un rumore di foglie smosse, e il viso di Keiji apparve alla luce, osservandola imbronciato.

“Non lo voglio qui” affermò, indignato. “Ci spia, lo so.”

“Keiji-chan, stai attento, per favore!” Hikari scattò in piedi, allarmata dalla posizione apparentemente instabile del bambino dai capelli viola. Capiva come si sentiva Jyou quando si preoccupava per lui: il pensiero del pericolo che correva era troppo vivido, e Keiji era spericolato abbastanza da fare mosse avventate.

Un sorriso birichino apparve sul suo viso da bambino. Non era affatto preoccupato. “A te non piace questo, Hikari: a me non piace quel biondo. Se io mi siedo di nuovo, tu lo mandi via?”

Hikari rimase senza parole per un secondo, sorpresa. Poi scoppiò a ridere, osservando gli occhi fin troppo seri del piccolo. Non avrebbe mai smesso di stupirla: sembrava capace di contrattare la sua voglia di fare pazzie con la promessa di scacciare qualcuno che non credeva sarebbe più tornato.

Scosse la testa, cercando di calmarsi. “Puoi spiegarmi perché ce l’hai tanto con lui?”

“Perché viene ogni giorno, e ci spia.” Replicò Keiji, tornando a scrutare il cancello grigio come se si aspettasse di veder sbucare qualcuno all’improvviso. “Tu non lo vedi, ma io sì: che vuole da noi?”

La notizia la sorprese: per riflesso seguì lo sguardo del bambino, scoprendo che nessuno era lì. Era probabile che Keiji stesse esagerando? Era possibile che quel ragazzo chiamato Takaishi Takeru li guardasse ogni giorno, o era solo quella strana antipatia che il piccolo provava per lui a renderlo apprensivo e quindi ad esagerare?

Considerò per un attimo l’idea di riuscire a scorgere quei capelli biondi tra i cespugli accanto al cancello, con il cuore in gola, per poi scuotere la testa e tornare a guardare la figura sull’albero.

“Tutti i giorni, dici?” domandò, aggrottando le sopracciglia.

“Sì, tutti. Credo che sia un ladro.” Rispose Keiji, offeso e sicuro della sua ipotesi.

Hikari rise ancora, incredula. Per quanto quel ragazzo si fosse comportato in maniera che non riusciva a capire, essere paragonato ad un ladro le pareva una grossa esagerazione.

“Keiji-chan! Non è bello dire queste cose, lo sai?” lo rimproverò dolcemente, sentendolo sbuffare subito dopo. “Ricordati che ha aiutato Naoko-chan a tornare da noi quando mi sono distratta… E poi non si sarebbe mai avvicinato per parlarmi, se avesse avuto cattive intenzioni.”

No, non poteva essere un malintenzionato, considerò la giovane, assorta per un momento nei suoi pensieri. Takaishi Takeru l’aveva turbata con il suo tormento e le sue domande inusuali, ma Hikari sapeva che lo sguardo sofferente del giovane che le si era presentato era autentico, sincero.

Oltretutto, cosa avrebbe potuto volere da un umile orfanotrofio come il loro?

“Ti stai preoccupando troppo, te lo assicuro.”

Keiji non replicò, continuando a tenere il broncio e a puntare lo sguardo fisso sul luogo dove fu abbandonato, sette anni prima.

Hikari alzò le spalle, tornando a sedersi sull’erba con un sorriso. “Va bene, non ti rimprovero più. Puoi restare lì, se preferisci. Contento?” domandò.

Non era da Keiji rimanere in silenzio per così tanto tempo. La giovane aggrottò le sopracciglia, sollevando ancora lo sguardo. Possibile che fosse così offeso da decidere di non risponderle? Forse c’era qualcosa che lui non le aveva detto, per qualche motivo.

Non le era del tutto chiara la diffidenza del piccolo verso Takeru.

“Keiji-chan, ti prego: vorrei saperlo, se c’è qualcosa che non va.” Gli disse, preoccupata. “Lo sai che puoi dirmi tutto: non riderò di te, né farò commenti. Voglio solo sapere cosa…”

“Mandalo via, per piacere.”

“Eh?” La domanda supplichevole lo spiazzò: tradiva un’impazienza che non sembrava da lui, e Hikari non riusciva a spiegarsene il motivo. Anche perché quella richiesta poteva essere attuata solo se…

“E’ qui, e ci spia di nuovo. Mandalo via, Hikari!”

Hikari sussultò, volgendo nuovamente lo sguardo verso il cancello.

Non impiegò molto tempo per scorgere una figura seminascosta dai cespugli, di cui erano chiaramente visibili solo i capelli biondi. Era immobile, rivolto verso di loro: probabilmente stava davvero osservando loro, come aveva detto Keiji.

Una strana sensazione si impossessò di lei, senza che potesse far nulla per evitarla.

Aveva riflettuto molto sulle parole che Takaishi Takeru le aveva rivolto qualche pomeriggio prima, sempre consapevole della tristezza e del senso di impotenza che l’aveva colta dopo il loro discorso. Si era domandata più volte quale potesse essere il motivo di tanto intestardirsi, di tanto cercare di parlare con qualcuno privo di problemi, o che sa come risolverli. Era arrivata persino a chiedersi, rattristata, perché la sua voglia di conoscere la risposta avesse dovuto porla davanti alla sua fragilità, a quella dell’orfanotrofio, a quella di tutti loro senza Yagami Yuuko.

Ma poi aveva capito, rimproverandosi per non esserci arrivata prima.

Era logico che volesse trovare una sorta d’eroina: nel momento in cui si è scoraggiati, ci si crede senza via d’uscita, il primo istinto è quello di trovare qualcuno che possa sopportare il carico di disperazione che si porta sulle spalle.

Takaishi Takeru doveva essere davvero triste. E aveva visto in lei, in tutti loro ragazzi che si occupavano dei bambini, il qualcuno che cercava.

Hikari aveva ricordato con un sorriso quante volte aveva fatto lo stesso con Taichi, quando era piccola, e a quante volte era successo anche poco tempo prima. Era strano pensare, però, che Takeru avesse visto in lei il suo Taichi.

Sospirò, alzandosi in piedi con lentezza. Keiji voleva che lo scacciasse, perché era spaventato. Ma lei non riusciva a provare timore per lui.

Nemmeno sapendo che li aveva spiati, che li spiava e che avrebbe, con tutte le probabilità, continuato a spiarli.

Piuttosto, sentiva un grande senso di compassione per lui, perché aveva intuito il suo dolore, ma non sapeva da cosa fosse stato causato.

E Hikari sapeva che non poteva scacciarlo senza aver conosciuto il motivo di queste osservazioni silenziose e misteriose. Takeru avrebbe continuato a fermarsi dietro ai cespugli, in attesa di risposte che non avrebbe mai avuto, se qualcuno non fosse intervenuto.

Lei sapeva di essere fragile, di avere dei limiti, di avere paura, a volte. E, essendo anche lei umana in questo senso, avrebbe fatto luce sul mistero.

Con un rumore attutito, sentì Keiji scendere dall’albero. Le prese la mano. “Stai andando lì?” chiese, con tono quasi speranzoso.

Hikari annuì, sfiorando una guancia del suo fin troppo serio interlocutore. Keiji distolse lo sguardo, a disagio. “Non ti preoccupare: vedrò di risolvere questa faccenda, una volta per tutte.”

Quando lo vide sorridere di nuovo, chiaramente soddisfatto, ebbe la conferma che il giovane dai capelli biondi doveva averlo spaventato a morte, per indurlo a supplicare Hikari che lo mandasse via. Si sforzò di non ridere solo per non ferirlo.

Gli lasciò la mano, puntando lo sguardo verso la figura ancora immobile che li osservava e chiedendosi cosa avrebbe scoperto durante quella conversazione.

Quello che sapeva per certo, però, era che voleva parlargli da sola. Senza Taichi, Sora o chiunque altro.

Perché sapeva che, alla presenza di chiunque altro, non sarebbe riuscita a parlare in tutta sincerità del suo desiderio di conoscere il tormento di quello sconosciuto. Avrebbero anche potuto convincerla a cambiare idea, e lei voleva approfittare dell’occasione senza altri indugi.

No, si disse, scuotendo la testa. Era una faccenda che doveva risolvere lei, e se ne sarebbe presa la totale responsabilità.

 

***

 

Non si era nemmeno accorto della sua presenza, a pochi metri di distanza.

Aveva la mano destra protesa verso il fogliame ancora umido dopo pioggia della sera prima, e scostava delicatamente i cespugli per poter osservare meglio.

Portava lo stesso cappello grigio che gli aveva visto sul capo qualche giorno prima, come se fosse una sorta di tratto costante nel suo aspetto fisico. Era chiaramente attento a non far rumore: era in posizione rigida, ferma, ma stabile per non cadere e, quindi, far rumore.

I suoi occhi azzurri erano completamente presi da una qualche scena che doveva aver attirato la sua attenzione, anche se lei non riusciva a scegliere tra le tante che erano sotto i suoi occhi scuri ogni giorno.

Hikari ricordava il viso di chi le aveva rivolto la parola senza un senso apparente, ma fu sorpresa di notare un sorriso sereno sulle sue labbra.

L’ultima volta che aveva chiacchierato con lui, il suo volto era serio, fin troppo, forse. Quanto era diverso, adesso, notare che Takaishi Takeru poteva gioire delle cose più semplici e pure.

La sua determinazione a parlargli crebbe. Nessun ladro avrebbe sorriso a quel modo semplice e appagato, osservando la villa che avrebbe dovuto rapinare.

Doveva essere solo un ragazzo come altri. Come lei.

Si avvicinò timidamente, sempre attenta a non far rumore. Sebbene fosse ormai certa di quella scelta improvvisa, si sentiva in imbarazzo a distoglierlo dai suoi pensieri, anche se quello che Takeru stava facendo non era certo legale.

Non poté far nulla per impedire alle sue guance di infiammarsi.

“Takaishi-san?” tentò a bassa voce, con le mani strette tra loro.

E il giovane sussultò bruscamente, come fa ogni bambino colto di sorpresa dalla mamma mentre commette qualche azione che non dovrebbe.

Vide lo sguardo di lui saettare verso il suo viso, per poi sgranare gli occhi, imbarazzato, e fissarla come se fosse atterrito da lei.

Era normale che si comportasse così, in fondo: se li stava spiando da giorni, come sosteneva Keiji, trovarsi a guardare negli occhi la proprietaria dell’orfanotrofio non poteva essere di certo piacevole.

L’imbarazzo gli impedì di dire alcunché.

Ora o mai più, si disse Hikari, a disagio anche lei.

“Mi fa piacere rivederti” continuò, con un sorriso incerto. Gli occhi di Takeru si spalancarono maggiormente: forse si aspettava delle grida indignate. “Ti serve qualcosa?”

Seppe di averlo sorpreso osservando la sua espressione attonita.

Hikari rimase ad aspettare una sua risposta, esitando sul da farsi. Non sapeva come fargli capire che non lo avrebbe denunciato per il suo osservare.

I secondi passarono, ma le parole sembravano congelate sulle labbra del giovane.

Era ormai chiaro che lui non sarebbe riuscito a discolparsi in nessun modo: decise di riprovare con un altro approccio, tentando di alleggerire l’atmosfera.

Fece un piccolo cenno con la testa verso la villetta bianca, ben attenta a mantenere il suo sorriso ben fermo sul suo volto. “Naoko-chan ti è molto grata per quello che hai fatto qualche giorno fa” riprese, sempre più consapevole dell’imbarazzo del giovane. “Ha un bel ricordo di te: ti ha nominato l’altro giorno, mentre parlavamo di ragazzi gentili che aiutano le persone.”

Finalmente, con grande sollievo di Hikari, l’altro parve rendersi conto che doveva dire qualcosa.

“Yagami-san… Mi dispiace molto, io non ero qui per… Non volevo spiarvi, ecco” disse Takeru, e lei colse un certo imbarazzo e biasimo per se stesso nel suo tono colpevole. Esitò, prima di continuare, con una breve risata: “Immagino cosa dovrai aver pensato, vedendomi qui dietro al vostro cespuglio. Posso assicurarti che, almeno, non ho cattive intenzioni. Lo giuro. Ho… ho sentito i bambini ridere e giocare a voce alta, ed ero solo curioso. Volevo vedere con i miei occhi…”

Si interruppe, il viso in fiamme, e parve trovare molto interessanti alcuni passanti che chiacchieravano tranquillamente sul marciapiede opposto.

Hikari lo osservò, curiosa, e non poté fare a meno di sorridere, rassicurata. Ancora una volta, aveva avuto una conferma della mancanza di doppi fini in quel ragazzo: uno sguardo del genere non poteva essere frainteso.

“Io credo che tu non abbia nulla di cui vergognarti” rispose serenamente, tentando di rassicurarlo. Sembrava che Takeru volesse sparire dalla faccia della Terra seduta stante. “E’ bello sapere che qualcuno riesce ancora a fermarsi al suono di una risata di bambino. Credo sia uno dei suoni più dolci e innocenti del mondo, e può fare miracoli.”

Takeru incontrò i suoi occhi per un istante ancora, e Hikari riuscì a scorgervi tante domande senza risposta, e un’enorme, intollerabile confusione che non gli riusciva di nascondere. Di nuovo, la voglia di conoscere il motivo di tanta insicurezza la colse.

Takeru annuì piano. “Sento spesso le loro risate” ammise, con un lieve sorriso ad incurvargli le labbra. “Sono tanti bambini, e si fanno sentire. E poi, io abito qui vicino.”

“E’ per questo che ti sei interessato a questo orfanotrofio?” domandò Hikari cautamente, cercando di non essere invadente. Era felice di star parlando con lui senza quell’amarezza che aveva colto la volta precedente, e non era intenzionata a rompere quella quiete.

Ancora un momento di silenzio. Takeru parve rifletterci per un istante, aggrottando leggermente le sopracciglia, come se non ne fosse sicuro nemmeno lui; il suo sguardo si perse lontano, come a cercare la risposta dentro di sé.

Poi sollevò nuovamente gli occhi su di lei, con aria triste. “Credo di sì” rispose lentamente, soppesando le parole. “Non so. Forse quelle risate infantili avrei dovuto ascoltarle molto tempo fa: mi avrebbero fatto capire molte cose.”

Il sorriso sul volto di Hikari si spense.

Aveva sentito chiaramente la voce del giovane dai capelli biondi tremare, mentre pronunciava quell’ultima frase. Aveva scorto quella smorfia dolente che aveva attraversato il suo viso, e l’amarezza che quell’affermazione aveva portato con sé si era solidificata nell’aria, rendendogliela quasi percepibile al tatto. Era un dolore reale, nascosto da un volto falsamente rassegnato.

Forse Takeru non aveva mai incontrato qualcuno che potesse essere come suo fratello Taichi: forse non c’era mai stato nessuno pronto ad aiutarlo, nel momento del bisogno. Probabilmente era per questo, che appariva così smarrito.

“Non capisco” ammise semplicemente, osservandolo con aria di scusa.

Takeru sospirò profondamente, ricambiando la sua occhiata.

“Ti è mai capitato di mettere in discussione tutto quello che fai, Yagami-san?”

La giovane rimase a fissarlo, con aria di sorpresa, inizialmente spiazzata. Non sapeva come reagire ad una frase del genere. Avrebbe avuto la risposta pronta in un istante, ma non aprì bocca, lasciando che lui continuasse a spiegarsi.

“Quello che intendo è un continuo arrampicarsi sugli specchi. E’ un tentare di fare di tutto, continuando ad essere incerti e dubbiosi, senza poi ottenere nulla. Mi capita spesso di trovare un motivo momentaneo di gioia, una meta provvisoria, ma poi questa diventa insignificante nel momento in cui sono vicino al raggiungimento dell’obiettivo. E’ terribilmente frustrante notare come potrei rendermi utile in tanti modi, ma non sapere assolutamente quale sia quello giusto e vero per me. Tu hai mai provato sensazioni del genere?”

Il suo volto era di nuovo grave. Con quei capelli dorati e occhi azzurri, alla luce del sole, sembrava un angelo. Un angelo sofferente, che ha perso le ali.

E Hikari si sentì triste per lui. Come poteva non esserlo, dato che conosceva quei momenti di sconforto?

“Qualcosa del genere sì, qualche volta” ammise sinceramente, e puro stupore si manifestò sul viso del suo interlocutore. Lei sorrise alla sua occhiata. “Ne abbiamo parlato la scorsa volta: gestire un orfanotrofio non è una scelta facile, e non sempre abbiamo la risposta giusta o sappiamo quale sia la strada giusta per noi. Credo di capire in qualche modo, Takaishi-san.”

Sembrava sconcertato dall’aver trovato qualcuno che riuscisse a comprendere quello di cui stava parlando, e fu il suo turno di ammutolire. Forse cercava domande più specifiche da rivolgerle.

“Però non ci riesco fino in fondo” continuò Hikari, aggrottando le sopracciglia. “Quando si è sconfortati e ci si sente persi, ci si aggrappa sempre a qualcosa che sia fonte di speranza. Possibile che tu non ne abbia nemmeno una? Un tuo sogno speciale, un amico, un parente, un fratello o una sorella? Nulla?”

Sperò di non essersi spinta troppo oltre, mentre notava i pugni di lui stringersi e le sue labbra assottigliarsi fino a formare una linea sottile. Forse aveva esagerato, era stata invadente. Ma Takeru aveva ogni diritto di non rispondere, d’altra parte, se lo avesse ritenuto necessario.

Per un motivo o per un altro, però, la risposta arrivò.

“No, nulla di così grandioso. Il problema è che niente riesce a farmi sentire fiero di me stesso, al momento: non so davvero più cosa fare. Vorrei rendermi utile in qualche modo, ma la maniera per farlo è sempre più sfuggente.”

Hikari ebbe l’impressione di cominciare a vederlo meglio, dopo quest’ultima affermazione. “Vuoi renderti utile? Utile per chi?” Volle sapere, spronandolo a chiarire.

Rimase interdetta osservando l’incertezza sul volto del suo interlocutore. Cosa c’era di così strano nella sua domanda?

“Cosa penseresti di me, se ti dicessi che non lo so?” rispose con un sorriso imbarazzato lui, lasciandola sbigottita. “So che devo rendermi utile, ma non so dove, come, né quando. Comincio a pensare che ci sia qualcosa che non va, nella mia testa.”

Le risate dei bambini dentro il giardino fu l’unico rumore udibile in quel momento.

Hikari sbatté le palpebre più volte, non sapendo come reagire ad una frase tanto incredibile. Pensò, in un primo momento, che il giovane stesse scherzando, ma dovette ricredersi quando vide la sua occhiata diretta e seria, che non lasciava ombra di dubbio.

Era questo, allora, il suo tormento? Era per questo che le sembrava così abbattuto, così disilluso, così smarrito?

“Forse non dovresti affrettare i tempi” gli suggerì, tentando di essergli d’aiuto. “Forse stai attraversando un momento difficile, e hai solo bisogno di schiarirti le idee….”

Un sospiro rassegnato in risposta la fece zittire improvvisamente. “Sono anni che va avanti, Yagami-san. Ogni giorno che passa mi sento sempre più inutile, come se qualcuno avesse portato via il mio futuro senza intenzione di restituirmelo. Sinceramente, non credo sia un periodo, se capisci cosa intendo.”

Takeru le sembrava scoraggiato più che mai, mentre tornava a guardarsi le mani.

Poi, un sorriso di scusa. “E’ per questo che vi osservo: vedo in voi quella determinazione che mi manca da tanto tempo, e riesco a scordare i miei problemi per qualche istante. Ma dopo avervi osservati, è solo peggio. Ancora non riesco a capire come abbiate deciso di prendervi questa grande responsabilità senza paura di non esserne in grado, di cambiare idea.”

Hikari non seppe come, ma all’improvviso la scena davanti ai suoi occhi si fece più nitida, più chiara e comprensibile. Non c’erano più dubbi, tristezza per Takeru o per la sua situazione: solo una grande sorpresa per la risposta che sentiva nascere spontanea dalle sue labbra.

Aveva la soluzione.

Era irrazionale, forse insensata, forse inutile, ma era forte e sicura nella sua mente.

In fondo, qual era il segreto del successo di tutti loro con i bambini che accudivano?

Solo uno.

Ma sapeva quanto fosse efficace.

Lo guardò dritto negli occhi, sorridendo della sua apparentemente insensata decisione.

“Takaishi… Takeru-san, se tu guardassi ogni giorno gli occhi dei bambini non avresti il coraggio di essere incerto, o dubbioso.” Si stupì della serenità delle sue parole, rendendosi conto di non aver mai preso un’iniziativa del genere senza interpellare gli altri. “La loro semplicità è sufficiente per farti superare momenti di crisi, per farti crescere più responsabile e protettivo e, al contempo, per farti tornare alla loro innocenza. Riesci a capire perché non possiamo arrenderci, con loro da proteggere?”

Aspettò, immobile, che le sue parole fossero ben assimilate dal ragazzo, senza dire altro.

Takeru aggrottò le sopracciglia, sorpreso. “Vuoi dire… I bambini sono la vostra maniera per andare avanti?” chiese, e nel suo tono di voce c’era tutta l’incredulità possibile.

Hikari annuì semplicemente.

“Ma i problemi restano” obiettò ancora il giovane, non convinto. “Davanti ai bambini si può solo mascherare l’incertezza, per non allarmarli o rattristarli. Dov’è la guarigione, allora?”

Non ebbe bisogno di pensarci nemmeno per un momento, prima di parlare.

“Vieni con me in giardino dai bambini, Takeru-san.”

“… Che cosa?”

Ora era semplicemente sconvolto, come se avesse assistito ad un fenomeno paranormale.

Hikari sorrise ancora, sicura. “Non riesco a spiegarti a parole tutte le qualità dei bambini, per cui è meglio che tu venga a parlarci di persona. Credo che li troveresti adorabili, e che capiresti cosa intendo, quando dico che loro sono l’unica cosa che ci fa restare in piedi nonostante tutto.”

C’erano buone probabilità che questa strana idea potesse aiutare il giovane. Doveva aver perso la fiducia in se stesso, la speranza nel futuro, ogni certezza: forse era soltanto cresciuto troppo, e nella maniera sbagliata.

Non era troppo tardi per ricominciare a sorridere.

E poi, lui le aveva detto che voleva rendersi utile. Chissà: forse avrebbe potuto unirsi a loro, se l’avesse voluto. Sora, Mimi, Koushiro e Jyou avevano iniziato quasi allo stesso modo.

Sentiva che poteva tentare, anche se non aveva domandato il parere a nessuno.

Takeru sembrava titubante. “Non… Io non credo di potere…” Balbettò, osservando con aria strana i giochi dei bambini dietro i cespugli.

Gli si avvicinò di un passo, lentamente. Lo vide accorgersi del movimento, per poi voltarsi nuovamente a guardarla. Nei suoi occhi c’erano tante domande.

“Se il problema è il nostro consenso, te l’ho appena dato” gli rispose. “Coraggio: si tratta solo di parlare loro per un momento.”

“Vi ho spiati” obiettò Takeru, cercando di essere ragionevole.

Hikari scoppiò a ridere. Come poteva pensare ad una cosa del genere quando non aveva fatto nulla di male?

“Va tutto bene, sul serio. Se ti va di venire con me, ti assicuro che non sarai giudicato da nessuno.” Rispose, divertita. “Andavi di fretta?”

Lo guardò ancora, piena di aspettative, chiedendosi quale sarebbe stata la risposta definitiva. Chissà se sarebbero cambiate alcune cose, a seconda dell’esito di quel discorso.

Infine, Takeru sospirò, con un sorriso. “No, non avevo nulla da fare. Grazie tante per l’invito, Hikari-san.”

Suonava tanto come un sì.

Lei si illuminò. “Naoko-chan sarà tanto felice di vederti di nuovo.” Disse, rallegrata.

Sperò vivamente di aver trovato la giusta soluzione, mentre faceva a Takeru segno di seguirla e apriva nuovamente il cancello grigio, per poi entrare nel giardino.

Sperò che quello strano istinto a fidarsi di quel giovane solo e triste non fosse da biasimare, mentre con lo sguardo scorgeva le tanto familiari figure dei suoi amici e di suo fratello, ignari dell’ospite inaspettato che si guardava intorno, a disagio.

Sperò di non aver sbagliato tutto, mentre Naoko, al suono del cancello aperto, si voltava incuriosita, per poi riconoscere il suo accompagnatore silenzioso, e quindi sorridere felice.

“Takeru-san!” esclamò, scattando in piedi e allontanandosi dal cerchio di Taro e del suo piccolo teatro.

E mentre tutti i presenti si voltavano nella loro direzione, e i loro occhi si spalancarono per la sorpresa, Hikari si morse il labbro inferiore, cercando di prevedere quale sarebbe stato l’esito della sua decisione.

Era impossibile immaginarlo.

Ma sperava con tutto il cuore che Taichi e gli altri ne avrebbero capito il motivo, mentre rimaneva a osservare quel momento di silenzio attonito che pareva inglobarli tutti in una dimensione senza alcun suono.

Nemmeno quello dei loro respiri.




Buon pomeriggio a tutti voi! Proprio non ce l'ho fatta a non lasciare in sospeso gli avvenimenti, come ho già fatto precedentemente: il capitolo sarebbe diventato troppo lungo, e preferisco trattare tutto in maniera accurata. Perciò, non me ne vogliate! ^^ E spero che quest'ulteriore -ma più importante- incontro tra Hikari e Takeru riesca a soddisfarvi. Posso solo dirvi che è stato compiuto un grande passo avanti... Per il seguito degli avvenimenti, però, vi invito ad aspettare ulteriori aggiornamenti.
Grazie, Mystery Anakin, per esserti impegnata a recensire appena possibile: mi commuove tutto questo interesse! ** E' molto interessante ascoltare le tue opinioni riguardo al diario di Miyako, pur dovendo restare assolutamente neutra... E sono felice che la parte del flash-back di Osamu e Ken si sia letta tanto facilmente! Che vuoi che ti dica... Osamu non si aspettava certo che un inesperto fratello minore riuscisse laddove lui aveva fallito per otto anni! Per un investigatore come lui è un grave colpo... u.u Oh, vuoi vedere che ti sto facendo appassionare alle Kenyako? xD Spero che gli ulteriori sviluppi tra loro ti piacciano come nel cap precedente! Per intanto, aspetto tuoi pareri appena possibile! Alla prossima, e grazie!
Shine, ti confesso che mi piace tantissimo leggere le emozioni che i miei aggiornamenti ti evocano, e perciò ti ringrazio di essere così accurata! :) Lo sai che mi piace sperimentare tipi di capitoli diversi, per questo sono contenta che la trovata del diario all'inizio ti sia piaciuta! Ho sempre voluto scrivere una storia dove fosse trattato il confronto tra i due fratelli Ichijouji... Insomma, cerco di renderli al meglio! ^^ Temo che al momento tra i due le cose non siano messe bene, ma non disperare, che tutto può cambiare in meglio! E se sono riuscita a emozionarti alla scena finale tra Ken e Miyako, posso dirmi davvero felice! xD Grazie di tutto, aspetto tuoi pareri al più presto!
Sono davvero contenta di aver letto la tua recensione, NanahoBerlitz: fa sempre piacere leggere pareri di nuovi lettori, soprattutto se così positivi! Sono lusingata, sul serio! :) Davvero il tuo personaggio preferito è Miyako? Ammetto che è anche il mio! ^^ E ti ringrazio per i complimenti sul capitolo introspettivo, così come quelli sulla storia in generale! Spero di leggere tuoi commenti anche per i capitoli a venire, e che la storia continui a piacerti tanto... Io ce la metterò tutta per non deluderti! Grazie ancora!
Roe, non sai che sollievo scoprire che la mia storia non ti sembri un plagio -sempre non voluto, come sai- : d'altronde, quando ho scritto questo cap non avevo ancora letto la tua storia! xD Sono contenta che questo aggiornamento ti sia piaciuto, piuttosto. L'idea di una sorta di competizione tra Osamu e Ken, in effetti, mi affascinava: diciamo che avevo voglia di recuperare qualche altro elemento dall'anime! Anche lì il maggiore si mostra freddo con Ken, in fondo ;) I fratelli di Miyako non hanno abbandonato la madre, semplicemente non le fanno visita così spesso... E non è nel carattere di Miyako essere fredda, soprattutto se si tratta di Ken! Quindi, tranquilla :) E spero che questo cap ti piaccia! Grazie per i tuoi commenti, le tue impressioni e tuoi complimenti, aspetto pareri! ^^
Come al solito, opinioni, consigli e critiche saranno benaccetti! ^^ Al prossimo aggiornamento!
Padme Undomiel

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Capitolo 13
*** Stupida ***


12

12.

 

Stupida

 

 

Era terrorizzata.

Sentiva le mani tremarle, il cuore battere ad una velocità impressionante e anormale, e una fastidiosa sensazione di essere esposta, di essere visibile agli occhi di tutti.

Avrebbe preferito di gran lunga correre via all’istante, senza dover per forza mantenere intatte le apparenze e continuare la farsa.

E invece no. Era ancora lì, ancora in pericolo, ancora esposta.

Avrebbe maledetto la sua cattiva sorte, se avesse potuto. Avrebbe gridato contro tutto e tutti, anche contro quella anziana signora che sfogliava un libro di ricette culinarie a pochi metri di distanza, solo perché non riusciva a capacitarsi di tutte quelle ingiustizie.

Avrebbe solo voluto trascorrere una vita in maniera normale, senza problemi. Avrebbe voluto non sentirsi sempre sull’orlo del baratro tutte le volte che qualcosa di nuovo cercava di penetrare a forza la sua barriera.

Ma cosa avrebbe potuto farci, se il destino sembrava odiarla tanto?

Per questo, tesa come una corda di violino e fragile come una margherita, non poteva che aggiustarsi quelle ciocche di capelli neri che non le appartenevano con una sorta di mania ossessiva, pregando che non fosse visibile ad occhi esterni il fatto che si trattasse solo di una parrucca.

Per questo rimaneva immobile – l’unica cosa che la tradiva pareva essere il suo tremore, ma si sforzava di mimetizzarlo- dietro la cassa del negozio dove lavorava, sulla difensiva, attenta a non incontrare mai direttamente lo sguardo di nessuno.

Per questo Inoue Miyako era convinta che quello fosse uno di quei giorni in cui la credibilità di Miyazawa Rumiko doveva essere più evidente.

Con il respiro accelerato e il cuore impazzito, però, riusciva ancora a trovare il modo di ridere, osservando, quasi studiando di nascosto il suo interlocutore, per paura che un qualsiasi suo movimento non tenuto sotto controllo potesse portarlo alla verità.

Chissà come, la sua farsa ancora reggeva.

“Non ti sembra il momento di darsi una calmata? Finirai sommerso dai libri, se continuerai così!” esclamò, tentando di non dare un tono isterico alla sua risata e concedendosi per un breve momento di osservare il suo viso.

Ichijouji Ken era ancora davanti a lei, come tanti, troppi giorni di seguito. I suoi capelli neri perfettamente ordinati come sempre, la sua carnagione solitamente chiara leggermente più rosea quel giorno –probabilmente per l’imbarazzo-, un sorriso divertito per metà e a disagio per l’altra, le mani strette a reggere l’ennesimo libro preso da uno degli scaffali.

Sembrava essere stato preso alla sprovvista: si era immobilizzato sul punto di avanzare ancora verso di lei e la cassa, dopo che Miyako aveva riso di ciò che aveva preso con sé.

“Non sono qui per comprarlo” obiettò corrugando lievemente le sopracciglia, ma sulle sue labbra era ancora presente quel sorriso di scusa. “Non questa volta.”

La sorpresa fu così grande da lasciarla di stucco; lo fissò sbigottita, non credendo alle sue orecchie. “Non ci posso credere! Hai avuto una crisi, o qualcosa del genere?”

Sentì Ken ridacchiare, divertito. I suoi occhi azzurri erano di nuovo fissi nei suoi, e parevano quasi innaturali, per l’intensità che aveva il suo sguardo. “Nessuna crisi: volevo un’informazione, tutto qui.”

Non riuscì ad affrontare il suo sguardo per più di un paio di secondi: in un attimo quel senso di vulnerabilità che la coglieva ogni volta che si ritrovava a parlare con lui la inondò, lasciandola senza fiato. Le sembrava quasi che i suoi veri capelli fossero visibili anche nascosti dalla parrucca, e che un paio di spesse lenti da vista mostrassero chiaramente la sua miopia.

Le sembrava che lui la stesse osservando oltre Rumiko.

Sfuggì a quell’interrogatorio silenzioso abbassando lo sguardo, con decisione, sul libro che il giovane stringeva tra le mani, per cercare di calmarsi.

Quel giorno, sarebbe toccato a uno degli articoli messi in vendita dalla signora Sato essere la scusa per non guardarlo mai negli occhi. Era sicura che lui avrebbe potuto rovinare la parodia di vita che si era faticosamente costruita, che era l’unica, misera cosa che le restava, e che pure le sembrava così fragile.

Provava rancore verso quel giovane lettore di gialli. Era comparso dal nulla, facendo da spettatore ad uno dei momenti più segreti di Miyako senza che lei lo avesse voluto, e sembrava essere sempre sulla sua strada, parlandole e mettendola in pericolo.

Era il fratello dell’investigatore che la stava cercando. Ichijouji Osamu.

Forse era per questa parentela che lui la faceva soffrire: suo fratello la perseguitava, continuando a cercarla strenuamente coinvolgendo anche i suoi amici più cari, e lui, Ken, le ricordava ogni giorno che il pericolo di essere scoperta era vicino, forse anche troppo.

Era quasi ogni giorno in quella libreria, non lasciandole tregua e scambiando qualche frase cortese con lei. E continuava a fissarla, probabilmente deciso a terrorizzarla.

Aveva deciso che lo avrebbe tenuto lontano dalla sua vita, ma ogni volta che se ne convinceva completamente, malgrado il senso di ingiustizia che minacciava di sopraffarla, lui tornava a tormentarla con i suoi discorsi gentili.

Ma forse era proprio quello il problema, considerò con un sorriso cupo, prendendo il volume che Ken le porgeva, attenta a non sfiorare nemmeno per un istante le dita di lui come se fosse possibile riconoscerla solo dalle mani. Era gentile.

E lei sapeva che dalla gentilezza non si poteva scappare facilmente. Era la trappola meglio riuscita per l’animo umano: la gentilezza fa sorridere, rasserena, dispone positivamente a parlare con chi la possiede come qualità innata. La gentilezza genera assuefazione per chi non l’ha conosciuta per anni, forse per una vita intera.

La gentilezza permette alla paura di non prendere il sopravvento, e crea opinioni contrastanti difficili da far tacere.

Proprio per questo Miyako era in trappola.

Perché la gentilezza di lui alimentava quella parte ribelle che mai l’avrebbe abbandonata, quella parte che urlava, frustrata, che era suo diritto parlare con chi voleva, anche solo per poco, rimandando il momento dell’allontanamento ad un altro giorno.

Giorno che avrebbe continuato a rimandare, considerò sarcasticamente, desiderando che Ichijouji Ken la smettesse di presentarsi prepotentemente nel suo negozio.

“Cosa ti serve sapere?” domandò infine, dopo aver osservato con attenzione il romanzo che aveva tra le mani e aver realizzato che sembrava esattamente il tipo di libro che il giovane avrebbe comprato a priori. Manteneva il tono più neutro possibile, e non si azzardava ad alzare lo sguardo, che sicuramente l’avrebbe tradita irrimediabilmente.

“L’ho sfogliato prima, e ho notato che ci dev’essere stato un errore di stampa: l’ultima pagina è bianca. Manca la fine” rispose Ken, indicando il volume che lei aveva tra le mani. “Mi chiedevo solo se ci fosse un’altra copia senza questo problema.”

Lo stupore minacciò di farle cadere di schianto ciò che aveva in mano. Il suo sguardo saettò sul viso interrogativo dell’altro, che ancora aspettava una risposta, e colse l’aria tranquilla e rilassata della sua espressione facciale.

Sembrava che per lui fosse normale concentrarsi sui piccoli particolari. Lei, al suo posto, non lo avrebbe mai notato.

Sembrava avere un istinto da investigatore. Come suo fratello.

Fu scossa da un brivido, mentre tornava a controllare con le dita lo stato della sua parrucca.

E si costrinse a sorridere, come se non si fosse accorta di nulla. “Posso chiederti come mai sei arrivato fino all’ultima pagina per verificare? Non posso credere che tu sia uno di quei matti che leggono dalla fine fino all’inizio, o sbaglio?” riuscì a domandare, con un tono divertito.

Ken si fece sorpreso in un attimo, prima di sorridere e scuotere il capo. “No, niente di tutto questo” disse, e nel suo tono c’era una lieve risata. “E’ solo che so che può succedere di acquistare romanzi con difetti vari, per questo mi intestardisco nel verificare minuziosamente che sia tutto a posto. Tutto qui.”

Quanto appariva normale la spiegazione che lui aveva dato, mediante la sua voce pacata e tranquilla. Chiunque, ascoltandolo, si sarebbe convinto che questo tipo di abitudine fosse normale, che non farlo sarebbe da totali idioti.

Eppure Miyako sapeva quanto fosse anomala una cosa del genere.

Ma non riusciva a capire se la sua spiegazione così semplice fosse veritiera, o solo un patetico modo per trarla in inganno e non farla insospettire. Per continuare a tenerla d’occhio.

Trovò abbastanza coraggio per non distogliere lo sguardo dal suo viso, alla sospettosa ricerca di un qualsiasi segno che lo avrebbe smascherato nel suo eventuale intento di spionaggio. Cercò di scrutare fino in fondo la sua espressione, non arrendendosi al pensiero irrazionale di lasciar perdere tutte le precauzioni e le preoccupazioni. Insistette su ogni particolare, con testardaggine decisa e ferma.

E vide solo il volto confuso di chi attende una risposta, in Ken. Vide solo una curiosità perplessa mista ad una sorta di desiderio di conoscere la risposta alla sua richiesta, per sapere se avrebbe potuto acquistare anche quel romanzo poliziesco.

Un’espressione così strana e particolare che Miyako ne rimase interdetta.

Era buffa. Davvero buffa.

Si scoprì a trattenere una risata, contro ogni logica. Le sue labbra erano state costrette ad aprirsi in un sorriso, forse per una reazione isterica dovuta al nervosismo.

Era strano scoprirlo così assurdamente buffo un istante dopo aver pensato a lui come un attento osservatore del mondo.

“Sembra che tu ci tenga davvero tanto alle tue letture, è così?” gli chiese, non riuscendo a mascherare il sorriso che si trovava davvero a suo agio sulle sue labbra. “Se arrivi addirittura al punto di controllare se sia stampato bene, credo che tu sia un caso senza speranza. Si tratta di deformazione professionale dovuta al mestiere di tuo fratello?”

Solo quando ebbe finito di parlare, si rese conto di ciò che aveva chiesto, e desiderò mordersi la lingua con tutta la forza che aveva. Un senso di orrore si impadronì di lei, gravando come un macigno nel petto nell’eterno istante di silenzio che regnò tra loro.

Lei non poteva sapere. Non voleva!, si disse angosciata, rendendosi conto che la sua tranquillità momentanea avrebbe potuto sgretolarsi con la risposta positiva di Ken.

Perché avrebbe confermato il fatto che il suo interlocutore aveva contatti con il lavoro di Ichijouji Osamu, e che quindi loro due non avrebbero mai dovuto incontrarsi, perché questo l’avrebbe messa in pericolo.

E Miyako non voleva sentirsi di nuovo la preda, come era successo in tutti quei giorni e come aveva smesso di fare per un istante mentre rideva dell’espressione del giovane davanti a lei. Voleva fingere, per l’ultima volta, di essere normale, di non doversi nascondere da tutti.

Aveva appena riportato tutto in un discorso troppo reale, troppo angosciante.

Le mani avevano ripreso a tremarle.

“Mio fratello?” Ripeté Ken, aggrottando le sopracciglia con aria incuriosita e sorpresa insieme. Sembrava non essersi aspettato una domanda del genere.

E la giovane ringraziò il cielo che lui le avesse dato la possibilità di non avere una risposta subito. Scosse fermamente la testa, sorridendo con aria noncurante all’apparenza e sollevata nella realtà, prima di ribattere: “Oh, nulla, non preoccuparti. Dicevo, questa è l’unica copia che hai trovato nello scaffale? Perché, se è così, temo che non ce ne siano altre copie senza errori di stampa… Mi sa che dovrai ripassare tra qualche tempo, quando avremo risolto il problema e saranno arrivate altre copie. Mi dispiace davvero, ma non posso farci granché…”

Aveva cominciato a parlare a raffica quasi senza accorgersene, tanto il sollievo.

All’improvviso, Ken aveva preso a fissarla, con aria decisamente incuriosita. Sembrava perso nei suoi pensieri, anche se non riusciva a cogliere altri particolari.

Ma Miyako voleva che la smettesse. Non aveva idea del motivo di quello strano comportamento, ma si sentiva di nuovo a disagio, essendo esposta a diretto contatto con quei fin troppo profondi occhi azzurri.

Miyako sentiva di nuovo le sue guance accaldarsi, per la fastidiosa sensazione di essere letta dentro senza che lei avesse concesso ad alcuno questo diritto.

“Beh? Cosa c’è?” sbottò alla fine, agitata.

Lui inclinò leggermente la testa di lato, mentre continuava ad osservarla. “Volevi sapere se sono minuzioso nell’osservare le cose perché abituato a mio fratello?” chiese, senza traccia di fastidio o di incredulità nella sua voce.

Non era possibile. Era riuscito a ritornare in argomento. Perché non poteva semplicemente lasciar perdere?

“Ma no, io… Non sono affari miei, non preoccuparti. E’ davvero scortese, e… Ho parlato senza pensarci” si affrettò a spiegare, terrorizzata alla prospettiva di avere una risposta. L’ultima frase suonava un po’ troppo indispettita, però: chissà se lui se n’era accorto.

Ken, però, le sorrise, più gentile che mai. “Non sei stata scortese, davvero. E non ho problemi a risponderti, Rumiko-san.”

Non seppe come né perché, ma il sentire dalle sue labbra quel nome le fece mancare un battito. E fu tanta la sorpresa per quello strano sentimento sgradevole che non riuscì ad interromperlo mentre le dava una risposta.

“Sono abituato ad adottare questo atteggiamento da sempre, ma non so quanto il lavoro di mio fratello Osamu abbia influito sul mio comportamento. Anche quando era piccolo era molto attento ai particolari, e così bisognava che tutti si abituassero.”

Ecco, ne era sicura. Non ascoltarlo sarebbe stato meglio. Miyako si scoprì a desiderare che chiunque, un qualsiasi tipo di cliente, richiamasse la sua attenzione, per trovare una scusa per sfuggire a quella situazione tanto pericolosa.

Non erano belle notizie. Se era abituato ad ascoltare giornalmente l’investigatore, di sicuro avrebbe potuto scoprirla in men che non si dica.

Seppe di star rischiando troppo, ma ormai poteva solo continuare quello che aveva iniziato: forse avrebbe potuto conoscere meglio il suo nemico. E stare più tranquilla.

“Dev’essere stata dura” scherzò, guardandolo di sottecchi mentre giocherellava con il libro che aveva tra le mani. “Insomma, se lui è… è diventato il famoso investigatore che tutti conosciamo, vuol dire che anche da piccolo deve avere avuto delle doti eccellenti. Si può sapere come hai fatto ad adeguarti?”

Lo vide alzare le spalle, sempre con quel sorriso pacato. “Non saprei. Forse l’abitudine” rispose semplicemente, ma improvvisamente le apparve assorto in chissà quali considerazioni.

Abitudine?

Non le piaceva come termine. Voleva dire che erano in buoni rapporti. Ancora una volta, il destino sembrava non volerla affatto favorire.

“Quindi siete in buoni rapporti, mi sembra di capire” si azzardò a dire, non sapendo quanto si stesse spingendo oltre. Voleva solo che lui smentisse, perché il suo cuore sembrava volerle esplodere in petto. Basta con l’ansia, basta.

E Ken la guardò, e i suoi occhi le parvero pieni di emozioni incomprensibili. Rimase pietrificata, non sapendo cosa fosse successo, né cosa lui stesse pensando.

E il sorriso di lui era diventato una pura cortesia: tutto lasciava intendere che fosse pregno di significati nascosti che lei non poteva conoscere. “Così pare” rispose cauto.

E il discorso parve chiuso.

Miyako era interdetta. Fino a quel momento aveva creduto di essere l’unica a nascondere qualcosa, ma ora pareva che anche Ken avesse capito che lei era una perfetta sconosciuta.

C’era una sensazione di amarezza, in lei. Forse questo sanciva la fine dei loro frammentari discorsi quasi quotidiani. Sarebbe andato via, e lei non avrebbe più potuto far finta di essere una ragazza normale.

Solo dopo qualche istante si rese conto di quanto bisogno avesse di parlare con qualcuno. Si chiese, attonita e spaventata, se la sua fosse una specie di malattia mentale: davvero era così disperata, così bisognosa di normalità?

All’improvviso, si sentì stupida. Così stupida da rischiare, conversando col fratello del suo nemico. Così stupida da intromettersi negli affari privati del fratello del suo nemico, con tutti i possibili atteggiamenti equivoci che poteva assumere il suo viso mentre lo guardava.

Così stupida da non interrompere quella conversazione.

Lo guardò, e sorrise del fatto che lui ignorava completamente quello che lei stava pensando. Se solo avesse saputo… “Ci risiamo: mi dispiace. Questa volta non erano davvero affari miei: non sei mica tenuto a rispondermi, capisco da sola. Eri venuto qui per un’informazione, e io ne ho chiesta una a te…”

Detto questo, sperò vivamente che lui capisse che non dovevano dirsi altro.

“Non c’è problema, davvero. Anzi, ti chiedo scusa per averti fatto perdere tempo sul lavoro: non era mia intenzione.”

Miyako alzò lo sguardo, pronta a ribattere sull’assurdità di quelle scuse, ma si fermò bruscamente.

Ken le aveva preso delicatamente il libro dalle mani, e nel farlo, quasi impercettibilmente, le aveva sfiorato le dita.

Il suo cuore prese a martellare furiosamente, mentre lei abbassava di colpo le mani e lui pareva non essersi accorto di nulla. Lo fissò, scioccata, e comprese che lui non doveva averlo fatto intenzionalmente.

Sorrideva educato, sollevando leggermente il libro. “Lo rimetto a posto. Grazie per l’informazione.”

Dopodichè, si voltò e camminò via, sparendo ben presto dietro uno scaffale.

Miyako rimase immobile, le mani abbandonate sulla cassa, il cuore impazzito.

Era sconvolta. Non riusciva nemmeno a rendersi conto del tutto del pericolo che correva.

E, come ogni giorno che Ichijouji Ken veniva prepotentemente nel suo negozio, si sentì una totale idiota.

Con l’unica differenza che quel giorno la sensazione era aumentata di intensità.

 

***

 

Entrava una brezza fresca, dalla finestra semiaperta davanti ai suoi occhi.

Aveva lo sguardo puntato sul cielo, scrutandone, assente, le varie sfumature di viola che, in lontananza, aveva assunto, e che creavano un effetto suggestivo sul blu che la sovrastava e che indicava il sopraggiungere della notte.

Era sdraiata sul divano, in una delle posizioni strane in cui si rilassava solitamente, scomposta e immobile, e respirava.

Respirava soltanto, con la mente priva di angoscia lasciata a riposo in un’irreale confusione disordinata di pensieri che si districava solo occasionalmente e senza un filo logico.

Aveva una mano posata sul morbido supporto sotto di lei, e l’altra sulla sua pancia, lasciata lievemente scoperta da quando si era accasciata sul divano, minuti prima, e non aveva più trovato la forza né la voglia di muoversi.

Doveva liberare la mente. Doveva farlo, o sarebbe impazzita completamente.

Rabbrividì, quando un soffio d’aria più fredda arrivò fino a lei. Inconsciamente, rafforzò la presa sulla sua pancia, quasi a volersi difendere dal freddo.

E in quel momento un’immagine riempì i suoi ricordi, lasciando che lei ne fosse travolta.

Non c’erano freni inibitori: non poteva evitare di ricordare.

Lasciò che le immagini le scorressero davanti agli occhi, ancora puntati sulla volta del cielo immobile e straordinariamente bello.

 

Una mano a sfiorarsi il ventre, si osservava allo specchio, con occhi brillanti di commozione.

Era strano. Era davvero strano sentirsi così cambiata.

Era strano sapere cosa stava crescendo dentro di lei.

Era strano che già lo amasse con tutte le sue forze.

Ma non poteva darsi una risposta razionale.

In fondo, era normale. Ed era l’unico motivo per cui era felice, per un istante incurante delle sue sofferenze inumane.

Per un momento, Miyako stava ammirando suo figlio dentro di sé.

Sospirò, mentre un sorriso assente si formava sulle sue labbra.

“Sei sfortunato, sai?” mormorò, sapendo che lui o lei doveva starla ascoltando.

“Siamo sfortunati. Tua mamma non riesce a trovare pace, piccolo mio. Non ci riesce.

Ma è solo questione di abitudine, sai? Io lo so… Lo so che si abituerà, e tutto andrà bene…”

Anche il piccolo era triste come lei, si disse, mentre il sorriso si incrinava. Doveva esserlo.

Come era possibile che gli fosse fatta una cosa del genere?

“Te lo dice la mamma. Solo… abitudine… capirà…”

Non fu stupita di vedere le lacrime nel suo riflesso, insieme a quell’espressione rabbiosa e ferita.

“Chissà quando, e se capirà…” ammise infine, continuando a sfiorare suo figlio attraverso la sua pelle.

“Tua madre è una dannata sognatrice, amore mio…”

 

Era così piatta, adesso che non accoglieva nessuno. Rispetto al suo ricordo, era cambiato tutto.

Era così sola, adesso.

Miyako si mise seduta, con un sospiro stanco. Si alzò in piedi, camminò per la stanza in fretta e chiuse la finestra, rabbrividendo e stringendosi le braccia al petto.

Cominciava a far freddo: se avesse continuato così, si sarebbe sicuramente ammalata, e non poteva permettersi di rimanere sola per tutto il tempo che le sarebbe occorso per guarire, oppressa dal silenzio irreale che regnava in quel luogo.

Come quello che era appena calato attorno a lei, che la opprimeva e la lasciava senza fiato.

Odiava quella casa, che la distruggeva ogni giorno. Odiava quella situazione.

Odiava dover essere costretta a rimanere lì per colpa del suo passato, e di chi ancora si ostinava a cercarla e a renderle la vita ancora più difficile.

“E adesso sono ancora più nei guai…” disse ad alta voce, preferendo di gran lunga parlare da sola che rimanere assordata dal rumore del silenzio.

Cominciò a ridacchiare, trovando ridicolo la sua situazione e le sue reazioni. Era davvero assurdo: pareva che avesse una bravura eccezionale nel cacciarsi nei guai di sua spontanea volontà, nonostante ci fosse una via d’uscita, nonostante non dovesse far altro che evitare di essere impulsiva.

“Ma per me è facile non esserlo come non bere lo è per un alcolizzato, d’altra parte.”

Tornò a sedersi, sbuffando e abbandonando il capo sul cuscino del divano, e chiuse gli occhi.

Doveva essere quel continuo nascondersi da tutti: l’avrebbe fatta impazzire, un giorno o l’altro. La situazione peggiorava continuamente, ed era per questo che non riusciva a rinunciare a quelle piccole conversazioni quasi giornaliere: ne era dipendente.

Dipendeva dalle attenzioni disinteressate.

Ma di tutti i ragazzi che esistevano in Giappone, era riuscita ad essere intrappolata dalla persona meno indicata, ad eccezione, ovviamente, di Ichijouji Osamu.

L’ansia la colse in tutta la sua interezza, quasi a volersi vendicare dei minuti passati a cercare di non pensarci.

Non sapeva assolutamente cosa fare. Ichijouji Ken era un assiduo frequentatore della libreria dove lavorava: trovava impossibile l’idea di un suo repentino cambio di abitudini, nonché l’abbandono dei suoi amati libri. Sembrava non riuscisse proprio a farne a meno.

D’altra parte, lei non poteva certo smettere di lavorare lì. Miyako si immaginò senza il suo lavoro dietro alla cassa, come ai tempi in cui aiutava i suoi genitori nel negozio di alimentari, senza la presenza rassicurante della signora Sato, una delle poche a conoscere la sua identità al di là di Miyazawa Rumiko, senza potersi nascondere in quel luogo tranquillo e rassicurante, e l’orrore per questa decisione le fecero scacciare in fretta quel pensiero dalla mente.

No, non poteva andarsene.

Oltretutto, cosa avrebbe detto alla signora Sato, a Satsu? Che se ne andava perché il fratello del detective incaricato di trovarla aveva deciso di aver voglia di conversare con lei?

Oltre ad essere ridicolo, era anche preoccupante. Satsu avrebbe di certo parlato con Iori della questione, e entrambi avrebbero preso a proteggerla in maniera più apprensiva.

Ci mancava solamente un po’ di rischio in più per i suoi migliori amici. Miyako non voleva rischiare assolutamente che la loro vita fosse rovinata a causa della sua idiozia.

Ma allora qual era la strada giusta? Si prese la testa fra le mani, spaventata e disperata. Davvero non aveva scelta? Davvero avrebbe dovuto essere così tanto esposta, vulnerabile?

Ripensò a Ken, a quel suo modo pacato e gentile di parlarle ogni giorno, alle sue educate domande sullo stato della sua caviglia –fortunatamente stava molto meglio-, a quel suo essere discreto e rispettoso del suo silenzio, e la sua mente si riempì di confusione.

Perché tutto quello? Che motivo aveva di parlare con lei, di interessarsi tanto a lei?

Poteva darsi che fosse stata scoperta, che fosse solo una tattica?

Non poteva crederci. L’angoscia era troppa. Non poteva crederci.

Ma allora… cosa?

“Cosa diavolo vuoi da me, Ichijouji Ken?”

Non aveva una risposta. Era in totale balia degli eventi. Si sentì un’incapace, totalmente inerme di fronte ad un problema serio. Era suo dovere risolverlo, ma non trovava una soluzione.

Se solo non fosse stata così sola, ci sarebbe stato qualcuno a consigliarla, considerò, sentendo il silenzio più crudele che mai. Se solo avesse avuto qualcuno su cui contare senza aver paura di metterlo in pericolo, si sarebbe sfogata senza pensarci, e avrebbe avuto una qualche risposta.

Aprì gli occhi, notando come la stanza era ormai calata nel buio quasi totale. Il suo sguardo si posò quasi involontariamente sul telefono, e all’improvviso un bisogno impellente fu risvegliato da quella visione.

Chiamare qualcuno. Anche solo per non essere sola. Anche solo per sentirsi rassicurata in qualche maniera. Non importava se avesse taciuto il problema: una voce amica sarebbe bastata, per il momento.

Si alzò di nuovo, afferrando la cornetta del telefono e componendo un numero che conosceva a memoria dai tempi delle scuole elementari.

Si portò la cornetta all’orecchio, con il cuore in gola. Sperava che rispondesse: doveva sentire la sua voce, e cercare di stare meglio. Era indispensabile.

Ma avrebbe risposto? Ci sarebbe stato conforto per lei, quella sera?

Prima che le domande si affollassero ulteriormente nella sua mente, una voce risuonò dalla cornetta, familiare e più che mai gradita.

“Pronto?”

Un sorriso grato e felice illuminò il suo volto. “Iori-kun?” chiamò, con uno strano slancio.

Un istante di silenzio. “Rumiko-san!” fece poi la voce, sorpresa e preoccupata insieme. “Stai bene?”

Le fece male sentirsi chiamare così da chi considerava quasi un fratello minore: le sembrava di aver perso completamente la sua vera identità. Il sorriso morì sulle sue labbra, mentre desiderava ardentemente che lui non dovesse fingere, che tutti quelli che avrebbero potuto ascoltare la conversazione sparissero all’improvviso, per non dover creare barriere con Iori. Non lo sopportava.

“Più o meno” rispose esitante, giocherellando con il filo del telefono, e dall’altra parte sentì un piccolo sussulto eloquente. Si affrettò a spiegare, per non farlo preoccupare eccessivamente. “E’ che ho voglia di parlare, Iori-kun: chiamala un po’ di depressione, un po’ di malinconia… O forse mi mancano solo le nostre chiacchierate. Hai un po’ di tempo o sei impegnato? Altrimenti chiamo Satsu-chan, e…”

“No, ho tempo.” Rispose lui, interrompendola. “Se hai bisogno di parlare, lo sai che puoi sempre contare su di me: voglio rimediare al tempo perso. Non ho intenzione di abbandonarti ancora.”

Fu tanta la determinazione in quelle parole che Miyako non poté ignorare un’ondata di affetto per il suo migliore amico. Non le importava più nulla degli anni trascorsi lontani da lui e dal suo perdono: quello che contava era che lui non l’avrebbe abbandonata più, che avrebbe fatto e che faceva di tutto per proteggerla, e che poteva fidarsi completamente di lui.

Si asciugò in fretta le lacrime che si erano fermate tra le sue ciglia, per poter parlare senza avere una voce tremante.

“Grazie, grazie, Iori-kun! Lo sai che ti voglio bene, vero?” esclamò, felice.

Il tono di Iori, nel rispondere, era pieno del suo sorriso altruista, ne era sicura. “Certo che lo so, ma non devi ringraziarmi: non posso lasciarti sola nel bisogno.”

Poi si fece serio, e preoccupato. “Ti è successo qualcosa, Rumiko-san?”

Per un istante, la tentazione di rivelargli tutto, di sfogarsi, di dirgli tutto quello che temeva e che voleva evitare si fece forte, troppo forte. Per un istante, scoprì che voleva che altri la consolassero per quella serata: più a rischio di così non potevano essere, dopotutto, cercava di spiegare una voce egoista nella sua testa. Iori era lì per lei…

“Ecco, io …”

Ma poi si bloccò, piena d’ansia. Si rese conto di tutto quello che sarebbe successo se solo avesse osato rivelargli una cosa del genere.

Attenzioni più pressanti di Iori e Satsu, tanto per cominciare. Rischi maggiori per i suoi unici amici fedeli. I rimproveri di Iori, che più volte le raccomandava di essere cauta e non mettersi nei guai. Limitazione spropositata delle piccole libertà che sapeva di potersi concedere in virtù della propria –sebbene limitata- prudenza. Angosce personali riguardo il suo stato precario.

E Ken…

Sospirò. “Non so come spiegartelo: mi sento osservata, sul punto di essere scoperta, anche se è più che altro una paura irrazionale. Non lo so, mi sembra davvero di essere sospesa in un baratro… Penso che Ichijouji stia architettando qualcosa, ma non riesco proprio a capire cosa. E non so come evitarlo.” Disse lentamente, tremando, cercando di dar voce alle sue paure senza svelare degli incontri fuggevoli con Ken.

Appena finì di parlare, però, un gran senso di colpa cominciò a tormentarla. Da quando aveva cominciato a mentire a Iori per salvaguardarlo dai pericoli e –cosa ancora più grave- per cercare di non sentirsi obbligata a fingere?

Doveva essere davvero stupida. Non riusciva nemmeno a capire del tutto la sua logica.

Pensò tutto questo, mentre Iori rimaneva in silenzio, evidentemente sconvolto.

“Come fai a pensare che… Ichijouji stia architettando qualcosa?” disse infine il giovane, trattenendo a stento un tono ostile mentre pronunciava il nome del detective. Sembrava confuso da quella sua affermazione.

E Miyako si ritrovò senza niente da dire per un istante, sentendosi messa nel sacco.

Già, come faceva a sospettare una cosa del genere? In fondo, suo fratello intratteneva conversazioni amabili con lei per qualche strano motivo, ma era roba di tutti i giorni…

Quasi le scappò una risata isterica, ma chissà come riuscì a trattenersi appena in tempo.

“Iori-kun, io non lo so: mi sento in trappola, ed è questo quello che conta. Sto cominciando ad avere paura di uscire… Ho paura che un detective bravo come lui riuscirebbe a escogitare qualcosa per trovarmi, qualsiasi cosa, e… mi fa impazzire. Io non so proprio cosa fare, non lo so…”

Si accorse di star tremando convulsamente: si raggomitolò sul divano, cercando di calmarsi e ascoltando il nuovo silenzio di Iori.

“Rumiko-san?” chiamò dopo qualche istante lui, con tono comprensivo. Miyako si chiese quale conclusione avrebbe tratto da quelle sue frasi sconclusionate. “Forse è solo un brutto periodo, e hai bisogno di parlare con qualcuno. Contatterò Satsu e le chiederò di starti accanto… E cercherò di venirti a trovare anche io, appena possibile. Dev’essere solo stress: non aver paura. Non permetterò… Non permetteremo che lui ti trovi.”

“Ma secondo te Ichijouji ha in mente qualcosa? So che non ha ancora archiviato il caso” chiese disperatamente Miyako, aggrappandosi alla cornetta del telefono come ad un’ancora di salvezza. Aveva bisogno del parere di Iori, doveva sapere cosa ne pensava, e se si stava agitando troppo oppure la sua era una reazione normale.

Un sospiro, che non prometteva nulla di positivo. “Io credo che stia architettando qualcosa, ma che sia lontano dall’arrivare a te in questo momento. In ogni caso, stai attenta, e non abbassare mai la guardia: ricorda che non possiamo permetterci nemmeno il minimo errore. Sii prudente, per favore.”

Lei trasalì, colta sul vivo, e calde lacrime scivolarono lungo le sue guance.

Le stava chiedendo di essere prudente. E lei non riusciva ad esserlo, rischiando di mandare tutto all’aria perché non le riusciva di scacciare quel ragazzo dal suo negozio.

Le stava chiedendo di non abbassare la guardia, ma ogni secondo che passava lei si sentiva sempre più stanca, sempre più debole.

Ma Iori si fidava di lei. E lei non riusciva a rivelargli le sue colpe.

E non poteva trovare conforto ai suoi tormenti. Era un qualcosa che aveva intrapreso lei, e lei avrebbe dovuto trovare il modo di uscirne.

Da sola.

E mentre abbassava il capo, rispondendo con un flebile: “Va bene, Iori-kun. Grazie”, si vide come realmente era, e provò ribrezzo per quello che vedeva.

Mai vista una donna più stupida.

Nonostante avesse passato venticinque anni a chiamare stupide persone mille volte più sagge di lei.

Forse poteva essere l’unico merito che le spettava, in tanti anni di vita. Perché essere così stupidamente impotenti era ciò che le riusciva senz’altro meglio.

Chiuse la comunicazione, ascoltando nuovamente il silenzio del suo appartamento.

Con un sospiro, Miyako si preparò psicologicamente ad affrontare se stessa e il proprio rimorso per tutta la parte restante della sera, convincendosi che, magari, solo conoscendosi meglio avrebbe potuto trovare rimedio alla sua mancanza di razionalità.

Salve a tutti! Ecco il nuovo capitolo di questa storia! :) So che avrei dovuto portare avanti la situazione interrotta dello scorso capitolo, ma ho preferito concentrarmi su Miyako ancora per un po'.  Se siete curiosi riguardo gli avvenimenti su Takeru e Hikari, non vi resta che aspettare il prossimo cap -garantisco io, continuerò quel discorso senza altre digressioni! ^^-. Per intanto, mi piacerebbe sapere cosa ne pensate di questo!
E... oh, quante recensioni stavolta! ** Sono davvero commossa!
 Erica_8, ti ringrazio tanto per i  complimenti: spero che continuerai a seguirmi anche nei prossimi aggiornamenti! :)
Cara Roe, non mi aspettavo che il cap scorso ti piacesse tanto: sono molto sorpresa, ma ti ringrazio! ** Dato che non vuoi rivelarmi le tue supposizioni si Keiji, però, mi sa che dovrai aspettare un po'! Non si spiegerà subito... Takeru è indubbiamente desideroso di un po' di serenità, e dato che i bambini ne hanno tanta... Sì, in cuor suo vorrebbe avvicinarsi a loro, anche se non sa come e crede di non esserne capace! Ma aspetta il seguito e lo saprai meglio ;) spero che questo cap ti piaccia... Fammi sapere quando puoi! ^^
NanahoBerlitz, non c'è gioia più grande del capire di aver trasmesso quello che volevi ai tuoi lettori... Per questo sono più che felice che tu abbia compreso i tormenti di Takeru! ^^ Per fortuna che almeno Hikari cerca di aiutarlo, altrimenti davvero non si riprenderebbe... xD Grazie, come sempre, dei complimenti, che mi sono di grande aiuto! Che posso dirti, un capitolo con Miyako e Ken c'è! Spero solo che ti piaccia! ;) ed è stato un piacere leggere la tua one-shot, davvero: non ringraziarmi per questo!
Contratti le date di aggiornamento con le recensioni, eh Shine? Affare fatto! Il capitolo c'è, ora vedi di muoverti! xD Scherzo, ovvio! Grazie tante per il bel parere, piuttosto! Mi fa piacere che tu ti sia immersa completamente nei pensieri di Hikari e nel clima di serenità che lei prova portando avanti l'orfanotrofio :) Sì, Keiji ha un po' questo atteggiamento protettivo verso Hikari e i suoi coetanei: considera che è tutto ciò che ha... Spero che in futuro continuerà a piacerti! ** Per Takeru e Hikari non è che l'inizio: ho taaante cose in serbo per loro ^^ Che dire, aspetto impaziente i tuoi commenti su questo capitolo! Grazie ancora!
DenaDena, mi hai fatto così tanti complimenti che non so davvero cosa dirti... Grazie! ^^ In effetti mi interessa molto analizzare accuratamente i diversi stati d'animo dei protagonisti: il difficile è renderli verosimili, il più delle volte! xD Da questo punto di vista Takeru è abbastanza controverso: il conflitto interiore che hai citato nella recensione è assolutamente vero, ma con la proposta di Hikari le cose potrebbero cambiare per il meglio. :) Per la questione di Keiji ti invito a continuare a leggere, perché il motivo della sua paura verrà spiegato più tardi! A questo punto non posso che sperare che la tua opinione di questa storia continui ad essere positiva... E mille grazie per averla aggiunta ai preferiti! **
Mystery Anakin, mi è piaciuta molto l'interpretazione che hai dato dello scorso capitolo: in effetti, io credo molto in quello che hai detto... E non potevo non trattare di un argomento del genere nella mia storia! :) Che bello che le Kenyako ti piacciono ** sì, credo che andremo moolto d'accordo, se le cose stanno così xD A proposito di questo... Che ne dici di questo cap? Aspetto tuoi pareri, e grazie tantissime per la recensione!
Con questa vi saluto, al prossimo aggiornamento!
Padme Undomiel

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Capitolo 14
*** Sconosciuto ***


Purity 13

13.

 

Sconosciuto

 

 

Migliaia di occhi lo scrutavano, in un misto di stupore, curiosità e perplessità.

Poteva scorgere chiaramente i ragazzi addetti a occuparsi di quell’orfanotrofio, ora che si trovava all’interno di quel grande giardino verde che circondava la villa bianca. Era strano farlo senza essere riparato da uno dei cespugli dietro ai quali si nascondeva per osservare il loro lavoro.

Sentiva perfettamente i mormorii spaesati dei bambini che sedevano in cerchio, e sapeva che si stavano chiedendo chi lui fosse.

Takaishi Takeru trovava la situazione in cui si trovava così paradossale da rasentare il ridicolo, e probabilmente, se non si fosse sentito così spaesato e a disagio, la sua risata sarebbe uscita spontanea.

Come aveva fatto a lasciarsi convincere?

Un abbraccio timido ma entusiasta lo fece sussultare, preso alla sprovvista. Abbassò lo sguardo, sorpreso nel constatare che una nota bambina dai capelli castani lisci lo stava accogliendo nella maniera più particolare e inaspettata di tutte.

“Takeru-san, sono contenta di rivederti” disse Naoko, con il viso nascosto nella sua maglia.

E Takeru rimase spiazzato, totalmente in imbarazzo. Come avrebbe dovuto comportarsi in quel momento? L’ultima volta c’erano state le lacrime, che gli avevano dato la spinta a cercare di aiutarla, di parlarle. L’ultima volta non era un completo estraneo in mezzo a tanti visi curiosi che lo osservavano.

In quel momento non sapeva cosa fare.

Alzò gli occhi su Hikari, spaesato, in una muta richiesta di aiuto. La vide sorridergli incoraggiante, con un’espressione così intenerita da lasciarlo basito. Si rese conto che si aspettava che dicesse qualcosa.

Il suo imbarazzo crebbe.

Si ritrovò a metterle, impacciato, una mano dietro la schiena, in un abbozzo di abbraccio. Non sapeva proprio come comportarsi. “Sono… felice anche io, Naoko-chan…” tentò, con voce così incerta che risultò essere poco credibile anche a se stesso.

Ma sperò di suonare convincente almeno alle orecchie della bambina, che, sciogliendo l’abbraccio, lo stava guardando con un sorriso di timido entusiasmo, così tipico delle piccole della sua età.

“Sei venuto per giocare con noi?” chiese Naoko, evidentemente speranzosa.

L’ennesima domanda che richiedeva una risposta difficile. Tornò a voltarsi verso Hikari, chiedendosi cosa la piccola volesse sentirsi dire, o magari come mai si sentisse così a disagio da non riuscire a smettere di balbettare, ma sgranò gli occhi quando notò che la giovane dai capelli scuri si era diretta verso il piccolo gruppo di ragazzi che fissavano la scena perplessi e diffidenti. La vide cominciare a discutere con loro, con un sorriso di scusa, ma per quanto si sforzasse di capire cosa stesse dicendo e cosa gli altri stessero rispondendo, era troppo lontano perché questo fosse possibile.

Si rese conto all’improvviso che dovevano star parlando di lui, del motivo per cui si era presentato senza alcun diritto né invito alla loro porta. Il senso di disagio gli fece distogliere bruscamente lo sguardo, quasi come se osservare i loro discorsi e le loro espressioni da lontano rappresentasse un crimine. Cosa si poteva dire di quello che era successo quel giorno, d’altronde? Come si poteva cercare di renderlo un motivo facilmente spiegabile?

Certo era che anche quella mattina, tornando a casa dopo aver aiutato per un paio d’ore Daisuke a studiare per il suo prossimo esame, si era soffermato ad ascoltare lo spensierato vociare di quei piccoli orfani accuditi tanto amorevolmente dalla famiglia Yagami e dai loro aiutanti, e non aveva resistito alla tentazione di posizionarsi per l’ennesima volta dietro uno dei cespugli che decoravano dolcemente il cancello grigio della villa.

E certo era anche che il senso di subitanea serenità non si era fatto molto attendere, non appena aveva posato lo sguardo sul piccolo teatrino che il bambino più grande al centro del cerchio aveva organizzato e sull’eccitazione degli spettatori. Nonostante i loro piccoli spettacoli non fossero che un insieme di discorsi comici disorganizzati e infantili, gli avevano donato a sorpresa una delle emozioni più calde che avesse mai provato.

Era calda perché era così estranea a lui; in caso contrario, la sua incertezza e le sue angosce avrebbero tinto di colori tristi e opachi anche quello scenario così soleggiato e armonioso.

Ma all’improvviso, la sua contemplazione era stata interrotta bruscamente nella maniera che più avrebbe voluto evitare.

Yagami Hikari, proprietaria di quell’orfanotrofio, quella giovane dal viso gentile e dal sorriso luminoso che tanto sembrava diversa da lui in ogni senso, lo aveva scoperto.

Avrebbe tanto voluto sparire, correre via, o cambiare gli avvenimenti appena accaduti, ma nulla di tutto quello era stato realizzabile.

Si era ritrovato, invece, contro ogni logica, a parlare con lei, nel tentativo di farle capire come mai continuava a rubare sensazioni e sentimenti dal loro angolo di serenità, o magari nel tentativo impossibile di mettere completamente a nudo il suo cuore senza sentirsi sciocco, degno di compassione, troppo solo.

Com’era finita lo poteva constatare di persona.

Adesso era lì, ad attendere che Hikari desse una spiegazione plausibile –che avrebbe tanto voluto avere anche lui, in effetti- sotto gli occhi color caramello di una bambina troppo innocente e troppo felice di rivederlo, circondato da volti curiosi e vociare perplesso, cercando di ricordarsi come avesse fatto quella ragazza dagli occhi così dolci che non potevano certamente essere umani a convincerlo che anche lui avrebbe potuto sentirsi meglio se avesse parlato con i bambini.

Lui non era mai stato a contatto con interlocutori così piccoli. Cosa gli era venuto in mente?

“Takeru-san?”

Si riscosse dai suoi pensieri al suono di quella voce leggermente imbronciata. Tornò ad abbassare lo sguardo, cercando di capire cosa Naoko stesse cercando di dirgli.

“Come? Credo di non aver sentito, scusami…” le disse, sperando che lei non se la prendesse per la sua goffaggine.

“Sei venuto per giocare con noi, allora?” ripeté la bambina, indicando con il dito il gruppo di suoi coetanei con un sorriso. “Shinji-kun non voleva credermi: diceva che io mi ero inventata tutto su di te, che non esistevi! Se vieni di là gli faccio vedere che avevo ragione!”

Difficile dire a quale bambino si riferisse, in mezzo a quel caos. Takeru prese tempo osservandoli uno per uno, cercando, nel frattempo, la maniera migliore per farle capire che, nel loro giardino o no, restava comunque un estraneo.

Chissà se Naoko poteva capire un concetto del genere, gratitudine o no.

“Non lo so, Naoko-chan, io…” tentò, cercando di non far suonare la sua risposta come un netto rifiuto. “Io stavo aspettando… ehm… Hikari-san: dovevo chiederle delle cose, e…”

Si interruppe, impacciato. Parlare con un bambino sembrava più difficile del previsto.

“Ma ci metterà troppo tempo, Takeru-san!” replicò la bambina, con aria supplichevole. “Vieni adesso, per piacere!”

 Ma prima che potesse anche solo pensare di dover replicare qualcosa, Naoko cominciò a tirarlo per la mano, con una forza che Takeru non le avrebbe mai attribuito, prima di averla provata. Fin troppo sconvolto, protestando soltanto con dei flebili “Ehi, aspetta …” che non furono ascoltati, si ritrovò ben presto confuso dalle voci dei bambini, che avevano deciso di lasciar perdere il nuovo arrivato e di tornare a giocare in cerchio.

Cercò disperatamente di non urtare alcuni bambini seduti sull’erba, mentre veniva trascinato dalla piccola che si guardava intorno con aria perplessa. Aveva il terrore di far loro del male solo perché non sapeva come opporsi a Naoko: erano tutti quanti ammassati in uno stesso posto, dopotutto.

“Non trovo Shinji-kun” disse lei con aria pensierosa. “Tu sai com’è, Takeru-san?”

“Io non so nemmeno di chi stiamo parlando” replicò Takeru in risposta, a metà tra l’esasperato e il disperato, dopo aver accidentalmente urtato un bambino con un berretto sugli occhi, avergli chiesto scusa ed essere stato fissato sorpreso per qualche minuto. Era a disagio, non sapeva che fine avesse fatto Hikari, o chiunque altro, e quella bambina continuava a portarlo in giro come un burattino. “Dove mi stai portando, Naoko-chan? Io non credo di avere il permesso di vagare per questo giardino, quindi credo che …”

Ma un’esclamazione di sorpresa interruppe il suo discorso ancora una volta. “Eccolo, è lì al centro! Lo raggiungiamo? Così ti conosce!”

Aveva un gran sorriso sulle labbra, che le metteva in mostra una piccola finestrella al posto di un incisivo. Sembrava felice, al settimo cielo, e anche impaziente.

In quanto a Takeru, non si era mai sentito tanto smarrito. Era questo che facevano ogni giorno i ragazzi addetti alla cura di quell’orfanotrofio? Correre di qua e di là dietro a dei bambini troppo vivaci e senza la minima voglia di fermarsi un secondo ad ascoltare chi era ben più grande di loro?

Ora sembrava ancora più assurda la felicità che aveva visto negli occhi scuri di Hikari, considerando i grandi sacrifici e lo stress che la grande moltitudine di bambini doveva comportare. Era decisamente strano scegliere volontariamente di votarsi a questa vita.

Oltretutto, si sentiva osservato, anche se non riusciva ad individuare chi fosse a farlo. Che diritto aveva di andare in giro indisturbato per l’orfanotrofio? Hikari e gli altri ragazzi sembravano spariti, e nessuno era a conoscenza della strana situazione in cui si era cacciato.

Sospirò, chiedendosi quale fosse il tono più giusto per parlare ad una bambina di più di sei anni. “Senti, capisco che tu … ci tenga a farmi conoscere al tuo fratellino” disse, diplomatico e ragionevole. Naoko lo guardava sorpresa. “Ma io non dovrei nemmeno essere qui, figuriamoci se posso comportarmi come i ragazzi che vi fanno crescere, e giocare, e farvi divertire. Mi dispiace, dico sul serio, piccola, ma devo assolutamente trovare Hikari-san per chiederle delle cose. Se poi vengo con te non faccio in tempo, capisci?”

Si mosse, a disagio, sul posto, sentendosi ancora una volta inchiodato con lo sguardo da qualcuno. Si guardò intorno, alla ricerca di quegli occhi inquisitori, o forse anche per sfuggire momentaneamente all’aria delusa sul visino di Naoko.

“Perché non puoi giocare con noi?”

Takeru sussultò, sentendo la voce della piccola davanti a sé tremare, come sul punto di piangere. Allarmato, in colpa e con uno strano peso al petto, vide i suoi occhi color caramello riempirsi di lacrime, e seppe, con un nuovo moto di biasimo verso se stesso, che aveva sbagliato di nuovo. Ora riusciva anche a far soffrire una bambina: ottimo.

“Hikari e gli altri lo fanno!” insistette lei, con il naso arrossato per via delle lacrime che ora scendevano sulle sue guance. “Non mi vuoi bene? Io volevo giocare con te!”

“No, per favore …” La voce di Takeru, ora piena di urgenza, supplica e senso di colpa, uscì tanto rapidamente che quasi non si accorse di aver palesato quel pensiero. “Scusami. Scusami davvero, Naoko-chan. Non piangere. Sono stato cattivo con te.”

Goffamente, le accarezzò la testa, nel disperato tentativo di calmarla. Ora capiva perché quei ragazzi avevano trovato subito il loro scopo nella vita e lui era ancora perso nella sua oscurità personale: loro trovavano estremamente facile aiutare gli altri.

Lui, nel bisogno più totale di rendersi utile, trovava estremamente facile ferire. Come faceva con Yamato, preoccupandolo continuamente, o con Daisuke e il resto dei suoi amici, evitandoli con scuse e impegni inesistenti.

Era forse un tentativo di renderli partecipi del suo dolore, forse?

Era davvero così egoista?

Ma desiderava fortemente rimediare, fare felice la sua piccola interlocutrice, smettere di farla soffrire. Rendersi utile, giacché era lì. In quel momento, l’unica scelta possibile non gli pesò affatto.

Parlò di getto, mettendo da parte la sua scarsa voglia di mettersi a giocare con dei bambini così vivaci. “Dov’è tuo fratello, allora? Lo vogliamo raggiungere?”

E vedendo il sorriso di gioia di Naoko, qualcosa si scaldò nel suo animo. Forse aveva rimediato.

“Allora vieni con me, Takeru-san?” chiese, raggiante. “Shinji-kun è nel cerchio, a recitare con Taro-kun!”

Takeru annuì, sorridendole e amando la sensazione di essere stato utile in qualche modo. Sentiva che avrebbe fatto di tutto pur di avvertirla nuovamente: forse era a questo che Hikari alludeva, quando gli aveva proposto di parlare con loro. Sapeva che avrebbe potuto stare meglio in quel senso.

E sentì un moto di gratitudine per lei, mentre veniva preso di nuovo per mano e portato in mezzo al cerchio. Si disse che avrebbe dovuto ringraziarla di persona appena fosse tornata.

Il piccolo spettacolo si interruppe nuovamente nel momento in cui Naoko corse da uno dei tre bambini che erano al centro. Takeru non poté non notare la straordinaria somiglianza che c’era tra i due piccoli: sorpreso, considerò che probabilmente erano fratelli sul serio. La cosa, per qualche strano motivo, gli parve particolarmente singolare.

 “Oh, no: partecipi anche tu a questa stupida recita? Anche le femmine non le voglio!” sbuffò quello che doveva essere, senza alcun dubbio, Shinji. Poi si voltò ancora, e il suo viso si accigliò ancora di più. “E chi è quello?”

Takeru finse di non sentirsi un po’ umiliato dal tono che il bambino aveva usato, o dal suo indicarlo. Si disse che doveva tenere duro, che forse si sarebbe sentito meno offeso se avesse provato sulla sua pelle la sensazione di avere un intruso nel proprio territorio.

“Lui è Takeru-san!” disse vivacemente Naoko, evidentemente abituata ai toni un po’ bruschi di suo fratello. “Ti avevo detto che esisteva! Hai visto?”

Shinji sgranò gli occhi, e non seppe come ribattere sapendo di aver avuto torto. Intorno a lui, un nuovo mormorio, più sorpreso e interessato rispetto a quando si era presentato nel loro giardino pochi minuti prima.

“Allora sei tu Takeru!” disse una bambina pienotta con corti capelli neri, osservandolo con curiosità. “Finalmente sei venuto a farti conoscere!”

Gli sorrise, la bocca sporca di crema.

Takeru, sorpreso e un po’ insicuro, sorrise a sua volta, impacciato. Si sentiva un po’ stupido. “Ehm, ciao …” tentò. “Sei … una sorellina di Naoko-chan?”

“Sono Asami!” rispose quella, ridendo. “Perché ti vergogni?”

Era strano sentirsi dire una cosa del genere da una bambina. Takeru si sentì di nuovo avvampare, sconcertato. “No” replicò, vergognandosi per la figura che ci stava facendo. “Perché dovrei? Io …”

“Hai una faccia simpatica” disse Asami tranquilla, continuando a mangiare un biscotto alla crema. “Se resti qui, per me va bene.”

Pazzesco. Aveva il permesso di un’orfanella. La voglia di ridere si fece più forte.

All’improvviso, molti piccoli entusiasti avevano iniziato a presentarsi, ad alzarsi per vederlo meglio, a chiedergli se fosse lì per giocare con loro. Takeru si guardò intorno, smarrito, non sapendo a chi rivolgersi.

“Quanti anni hai?”

“Sei amico di Hikari e Taichi?”

“Ti piace giocare con i soldatini?”

“Ora starai con noi come Taichi e gli altri?”

“State rovinando il mio spettacolo!” Fu questa esclamazione, pronunciata da un bambino più grande, con ricci scuri e occhi verdi e con la tipica aria da regista irritato,- Naoko lo aveva chiamato Taro- a far decidere a Takeru che era davvero venuto il momento di smetterla.

Mostrò i palmi aperti, per far vedere loro che veniva in pace. Con sgomento notò che erano tutti ammutoliti, gli occhi accesi di curiosità. “Non volevo disturbarvi in nessuna maniera. Volevo solo vedere lo spettacolo. Tutto qui.”

Notando lo stupore dei piccoli, si sentì di nuovo a disagio. Sorrise, incerto. “Posso?”

E dopo un solo gioco di sguardi tra loro, qualche alzata di spalle indifferente e qualche sorriso qua e là, si allontanarono un poco per fargli posto. Non senza litigare su chi doveva spostarsi e chi no.

Takeru sospirò, dicendosi che il peggio doveva essere passato. Si diresse verso la bambina pienotta con l’aria simpatica, dato che la sua era stata la reazione più tranquilla di tutte.

“Bene, ricominciamo con lo spettacolo! Ichiro, la musica!” Stava dicendo Taro, con aria solenne e al tempo stesso fiera del suo lavoro.

E mentre un bambino mingherlino con i capelli spettinati cantava ad alta voce un motivetto che il giovane non aveva mai sentito, lo spettacolo riprese, con i piccoli attori, i piccoli giochi e le piccole ovazioni eccitate del piccolo pubblico.

Takeru si sedette, esitando. Si sarebbe sporcato il pantalone, stando ad osservare sull’erba. Eppure, se fosse stato ancora bambino, si disse, sorpreso, non gliene sarebbe importato davvero nulla.

Era strano essere circondato da tanti bambini felici e spensierati senza alcuna ombra nella mente. Era strano sedere in mezzo a loro quando tutto quello che voleva era una risposta che Hikari, andando chissà dove, non gli aveva ancora dato.

Ed era strano che lui avesse accettato pressoché tranquillamente.

Quando si sentì chiamare da qualcuno che gli picchiettava continuamente sulla spalla, perso com’era nei suoi pensieri, sussultò. Si voltò, pronto ad osservare gli occhi castani di Hikari, che doveva essere venuta a cercarlo.

Ma furono altri occhi castani a ricambiare lo sguardo.

Occhi castani nel viso corrucciato di un bambino alto dai corti capelli viola.

Lo guardava, con l’espressione più matura che Takeru avesse mai visto su un viso infantile. Lo guardava, e sembrava che fosse arrabbiato con lui.

Il giovane non riusciva davvero a capire come mai quell’occhiata fosse indirizzata proprio a lui: non ricordava di averlo visto spesso nemmeno nelle sue osservazioni nascoste, quindi non era mai entrato in alcun contatto con lui. Come poteva avergli fatto qualcosa di male?

Ma l’espressione del suo viso sembrava essere forte e decisa così tanto da raggelarlo.

Mettendo da parte quel pensiero sciocco, Takeru aprì bocca per parlare, per chiedergli, a disagio, che cosa gli avesse dato fastidio di preciso, ma il bambino lo precedette.

Gli porse un foglio, con aria seria e di grande rimprovero, e aspettò in silenzio che lui lo prendesse.

Takeru rimase di sasso, osservando ora il foglio, ora il piccolo. Cosa significava, adesso? Come doveva comportarsi con quel bambino così strano?

“E’ per me?” chiese, e la sua domanda non poteva essere posta in tono più incredulo.

L’altro annuì deciso. “Sì. Prendilo.” Disse, e la sua voce era l’unica cosa infantile nella sua figura. Si disse, sgomento, che non poteva avere più di otto anni.

“Va bene” assentì lentamente, prendendo il foglio e guardandolo.

Era un disegno. Un disegno a tinte molto accese, probabilmente realizzato con i pastelli a cera. C’era un albero alto, con sopra quello che sembrava … il bambino dai capelli viola. C’era la figura stereotipata di lui, seduto –inverosimilmente- su un ramo. Stava per domandargli il motivo di quella strana postazione, ma poi vide la figura che si nascondeva dietro un cespuglio e che aveva un orrendo ghigno perfido sul viso mentre spiava, e le parole gli morirono in gola.

Era lui, quella persona.

Aveva il cappello calato sulla testa, e i capelli biondi. Era anche vestito come lui quel giorno.

Fu così scioccato da quell’immagine da non avere la forza di dire nulla.

Come mai sembrava così malvagia la sua azione?

“Guarda che ti vedo, da lassù” disse il bambino, con aria seria. “E vieni sempre a spiare. Se sei qui per far male a Hikari o ai miei amici, vattene adesso. Non ti permetto di farci soffrire.”

C’era accusa in ogni parola, e in ogni tratto del suo viso nel disegno.

Un senso di calore insopportabile arrivò alle sue guance, sentendosi più colpevole che mai. Lo aveva visto. Lo aveva visto in tutte quelle volte che aveva avuto disperato bisogno di sentire e vedere qualcuno che riusciva ad essere felice e ad aiutare gli altri. Lo aveva visto mentre li spiava e bramava ardentemente di essere come quei ragazzi tanto solidali.

E ora gli stava rinfacciando quell’atto ingiusto. Aveva assunto il ruolo della sua coscienza nel momento in cui, tornando a casa, allontanandosi in qualunque maniera da quella villa, gli gridava che era solo un inutile parassita incapace di trovare la sua strada da solo.

E sentirlo dire con così tanto risentimento gli fece male. Anche perché non voleva fare male a nessuno, e quel bambino così attento era arrivato a pensarlo.

Un senso di ingiustizia si fece largo nel suo cuore, quando alzò gli occhi per incontrare quelli del suo piccolo interlocutore.

“Io non voglio far del male a nessuno, te lo posso giurare” disse, sperando di non suonare così supplichevole come si sentiva lui. “Io stavo solo guardando. Mi dispiace di …”

“Ma anche gli sconosciuti dicono questa cosa” ribatté lui, socchiudendo gli occhi. “Se sei un amico, perché Hikari non è con te e non ci presenta?”

Questa era davvero una bella domanda. Takeru ammutolì, senza parole.

E il piccolo incrociò le braccia e si allontanò senza dire altro.

E il giovane rimase sconvolto, con gli occhi rivolti verso il luogo dove si era allontanato, e quel foglio che tanto denunciava le ingiustizie e tanto era fedele alla realtà.

Quel bimbo dai capelli viola aveva dannatamente ragione, in fondo.

 

***

 

“Beh, è stato molto inusuale come incontro, ma non importa. Sono Yagami Taichi, fratello di Hikari e proprietario di questa villa. Benvenuto qui … Takaishi Takeru, giusto?”

Era particolare la disinvoltura con la quale il ragazzo dai folti e indomabili capelli scuri era arrivato alle sue spalle, si era seduto accanto a lui sull’erba e aveva cominciato a presentarsi a bassa voce, per non disturbare lo spettacolo improvvisato di Taro e dei suoi piccoli compagni. Era anche particolare il sorriso divertito che aveva sulle labbra, e quel lampo di spensieratezza che in Hikari non aveva affatto scorto, e quel modo rilassato di sedersi, privo della compostezza di lei.

Più lo guardava, più Takeru capiva che i due fratelli dovevano essere diversissimi.

Fu felice di aver nascosto quel disegno nella tasca appena qualche minuto prima: non avrebbe mai voluto che la sua prima impressione a Taichi fosse quella di un perfido approfittatore della gioia altrui. Sarebbe stato semplicemente troppo.

Ma essere presentato al proprietario dell’orfanotrofio gli sembrò così strano che si chiese ancora una volta se tutto quello stesse accadendo sul serio.

In ogni caso sorrise, in risposta all’occhiata curiosa dell’altro. Ormai era rassegnato a sentirsi costantemente in osservazione perché fuori posto. “Giusto. Piacere di conoscerti, Yagami-san. Penso di dovere a tutti delle scuse perché sono piombato qui senza preavviso, ma non c’era davvero nulla di premeditato nelle mie azioni.”

Era stato tutto successivo ai consigli di Hikari, in effetti. L’espressione di lei sarebbe stata capace di convincere chiunque, si disse, ancora una volta sorpreso della sua arrendevolezza.

“Hikari mi ha detto tutto: non preoccuparti” rispose Taichi, quel lampo di curiosità ancora nei suoi occhi scuri. “Resta pure qui per un po’, se ti va. E’ tutto gratis.”

Ridacchiò, volgendo lo sguardo verso i suoi protetti.

E Takeru lo fissò per alcuni lunghi istanti, pieno di dubbi. A vedere Yagami Taichi, con quell’aria sicura e allegra, il loro compito sembrava una sciocchezza. Eppure, non lo era affatto, e lui lo aveva sperimentato da poco: era estremamente difficile e faticoso cercare di piacere ai bambini e stare loro dietro. Non aveva idea di come Taichi avesse fatto, né del perché avesse deciso di non tirarsi indietro nonostante le palesi difficoltà del suo compito.

Più lo guardava, più il senso di frustrazione aumentava. Come mai non riusciva a capire come essere migliore, essere d’aiuto a qualcuno? E come mai, nel momento in cui tentava di essere d’aiuto, questo non riusciva mai a soddisfarlo?

Guardò Hikari, seduta alla sua destra, e seppe che lei poteva essere l’unica a dargli una risposta concreta. Forse perché il suo volto era tanto simile ad un angelo, e sentiva che solo gli angeli potessero mostrare la giusta via.

Lei stava osservando lo spettacolo, ridendo intenerita di ogni cosa che vedeva sulla scena, ma appena sentì il suo sguardo su di lei si voltò, sgranò gli occhi confusa, poi sorrise.

“Tutto bene?” gli chiese, forse notando la sua grande confusione.

Lui alzò le spalle. “Non lo so” ammise sinceramente, sorridendo imbarazzato. Lo metteva a disagio sapere che qualcun altro che non fosse Yamato conosceva, sebbene in parte, i suoi tormenti senza nome. “C’è qualcosa di tutto questo che ancora non mi è chiara. Voglio dire, capisco che i bambini siano … beh … belli e dolci per natura, ma ancora non riesco a capire come mai loro siano stati capaci di farvi assumere questa grande responsabilità e di accettare i vari sacrifici che questa comporta. Oltretutto, alcuni di loro non sono davvero affabili.”

Ripensò a Shinji, con i suoi modi bruschi e prepotenti, a Taro, con la sua arroganza da artista, a quel bambino dai capelli viola troppo intelligente e dai modi quasi adulti e sulla difensiva.

Scosse la testa, mentre il sorriso di Hikari si spegneva e lasciava il posto ad un’aria seria e triste. “E’ una cosa giustissima prendersi cura di loro, non mi fraintendere” aggiunse in fretta, rendendosi conto di come suonassero crudeli le sue frasi. “Hanno bisogno di voi. Solo … come avete fatto a convincervi che questa fosse la vostra strada, la vostra vocazione? Perché questa e non altre? Come fa a darvi totale soddisfazione, pur sapendo che sottrae tanto alle vostre vite, sapendo che magari un giorno non avranno più bisogno di voi? Sono molto confuso. Non riesco a spiegarmelo nemmeno ora, pur avendo parlato con loro.”

Concluse il discorso con un sospiro frustrato, mentre intorno a lui gli applausi entusiasti e gli strilli di insoddisfazione dei bambini annunciavano la fine dello spettacolo.

Takeru abbassò lo sguardo, e un pensiero lo colse all’improvviso. Estrasse dalla tasca del suo pantalone il disegno inquietante che aveva ricevuto qualche tempo prima, lo spiegò e lo mostrò a Hikari. Lei lo prese in mano, e il suo volto divenne una maschera di sorpresa.

Lui sorrise amaramente. “Me lo ha dato un bambino dai capelli viola, che sostiene di … salire sugli alberi?” Rise, incredulo. “Non lo so. In ogni caso, mi ha visto come un estraneo. E forse lo sono, dato che non riesco a capirli del tutto. O a capire voi.”

Il silenzio fu riempito solo dal vociare e dai giochi dei bambini. Takeru abbassò lo sguardo, non avendo il coraggio di guardarla ancora dopo tutto quel discorso.

Sentiva di aver fallito ancora una volta.

“Takeru-san, non devi affrettare i tempi.” La voce di lei era dolce e comprensiva, come mai nessun’altra lo era stata. “Sei venuto qui solo una volta: non puoi pretendere che tutto ti sia chiaro in un secondo. E’ un qualcosa  che si costruisce con il tempo.”

Alzò gli occhi, alla ricerca di un appiglio. Vide dal suo viso che era sincera, e seppe, con un sussulto, che forse lei poteva trovare una soluzione anche a quel problema.

“Sei uno sconosciuto per loro” continuò Hikari con un piccolo sorriso, indicando con un cenno del capo un gruppetto di bambini lì vicino. “E loro lo sono per te. Come lo siamo anche noi per te. Finché non vorrai essere altro per loro e per noi, sarà sempre così, e la situazione non cambierà mai.”

Il sorriso si allargò, incoraggiante, ma Takeru vide una traccia di speranza nei suoi occhi castani. Si rese conto, sconvolto, cosa lei volesse da lui.

E tacque, distogliendo lo sguardo da lei, e posandolo su tutto, su tutti.

Sui bambini, diversissimi tra loro, e diversissimi da lui.

Su Taichi, che si era alzato improvvisamente ed era corso a complimentarsi con i piccoli attori, ridendo e dando pacche sulle spalle ad alcuni di loro.

Su quelle due ragazze che stendevano dei panni bagnati, con attenzione e cura degne di quelle di una madre.

Su quei due ragazzi in lontananza, che assistevano un gruppo di bambini alle prese con giochi elettronici, che avevano un’aria così tanto interessata e serena.

Erano tutti troppo in là. Troppo superiori a lui.

Come poteva accettare di buon grado di venire altre volte, di confrontarsi con i bambini sapendo di non poterli capire come gli altri ragazzi che si occupavano di loro?

Scorse Naoko, con le guance rosse mentre applaudiva e si voltava a guardarlo, raggiante.

E ripensò al senso di calore che aveva provato quando lei era stata felice per lui. E seppe di non sapere a cosa fosse dovuto tutto quell’affetto per lui.

E ripensò al disegno del bambino troppo serio, e seppe di apparire come un ladro. E capì di non sapere se lui avesse ragione o no.

C’erano troppe cose ignote in quella situazione, troppe impressioni contrastanti tra loro.

C’erano troppe domande senza risposta.

E Hikari sosteneva che fosse normale, che si potesse uscire da quella situazione.

Il battito cardiaco accelerò.

Si ritrovò a pensare che solo lui poteva avere risposte, ma doveva provarci per ottenerle. Doveva fare il possibile per trovarle.

Doveva mettersi alla prova.

Doveva … voler essere altro per loro.

Strinse i pugni, convincendosi che nessuno lo obbligava. Nemmeno Hikari. Perché se avesse cambiato idea avrebbe semplicemente rinunciato senza dover rendere conto a nessuno delle sue azioni.

D’altronde, non c’era scelta. E non aveva nulla da perdere.

Tutt’intorno, un rumore indistinto di corse, strilli, pianti e risate, ma lui non vi fece caso.

In cuor suo, Takeru aveva preso una decisione, per quanto assurda e forse insensata e inutile.

Ora sapeva che avrebbe provato.

Avrebbe provato a fare come Hikari gli consigliava.

Sperando, questa volta, di porre fine al suo tormento in qualche modo.




Ben trovati con l'aggiornamento! ^^  Sono parecchio in ritardo con la tabella di marcia, in effetti... Mi dispiace! E' che ultimamente ci sono davvero troppe cose da fare, e spesso gli impegni si accavallano tutti insieme... Comunque, sperando che vi piaccia, ecco qui il nuovo capitolo! :)
Shine
, il piacere è stato mio di trovare la tua recensione! Grazie davvero ^^  Il flashback che hai notato è solo uno dei tanti che troverai nei prossimi capitoli di Miyako... e diciamo che è una mia sperimentazione. Sono contenta che tu l'abbia trovato toccante :) eh... Più che prudenza, io la chiamerei paura di scoprire quanto può essere avventata! xD Considera che ci sono moltissime cose da prendere in considerazione e da risolvere: non sarà facile trovare un lieto fine a tutta questa faccenda! Ma spero che continuerai a seguirmi ;) un bacio grande, aspetto tuoi pareri!
Al più presto,
Padme Undomiel

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Capitolo 15
*** Inquietudine ***


p14
14.


Inquietudine


“Posso portarle qualcosa?”

Due occhi verdi si posarono sulla figura alta e snella della cameriera di quel piccolo bar affollato, distogliendo per un istante l’attenzione dalla porta d’ingresso del locale.

Lei sorrideva, il menu in mano, pronta a scrivere un’ordinazione.

Lui annuì piano. “Solo un cappuccino, grazie mille.”

“Sicuro che non vuole altro? Può controllare il menu, se vuole. Sono qui per accontentarla.” La giovane dai capelli rossicci sorrise ancora, mostrando una fila di denti bianchissimi e curati. Si mise ancora più dritta davanti al giovane, e solo allora lui si rese conto di quanto fosse corto e poco coprente quel vestito.

I suoi occhi si assottigliarono, e distolse lo sguardo. Era davvero assurdo notare come quella ragazza dovesse volersi così poco bene: che motivo aveva per esporsi in quella maniera così poco decorosa?

Ma la cosa forse peggiore era che a molta gente questo atteggiamento faceva comodo.

Scuotendo la testa, Hida Iori sospirò, dando ancora una veloce occhiata alla porta, ancora una volta senza scorgere nessuno. “Davvero, va benissimo così. Se avrò bisogno d’altro le farò sapere.”

“D’accordo. Il cappuccino arriva subito.”

Forse la cameriera non era poi così felice dopo quella conversazione così asettica, ma Iori non ci badò. Aveva decisamente altro per la testa, e ad ogni modo non poteva cambiare il modo di pensare di molte persone che gli erano accanto. Sarebbe stato di certo impossibile.

No, c’erano cose più urgenti a cui pensare.

Per esempio, il misterioso ritardo di lei. Il misterioso e insolito ritardo di lei.

Cercò di reprimere la preoccupazione dentro di sé, mentre appoggiava la testa su una mano. No, doveva stare tranquillo: lei sapeva come comportarsi, non poteva esserle successo nulla. Non era una sprovveduta.

Eppure, l’apprensione non voleva lasciarlo stare. E faceva sentire la sua morsa in tutta la sua interezza, amplificata dalla sua apparente indifferenza e tranquillità, che gli impediva di mostrare apertamente quello che sentiva.

E un solo nome risuonava nella sua testa, sempre più forte, sempre più rabbioso, sempre più colmo d’odio.

Ichijouji Osamu.

Ichijouji Osamu, che rovinava la vita a Miyako, angosciandola e tormentando ulteriormente la sua povera famiglia, promettendo loro che lei sarebbe stata trovata, o a lui, accusandolo contro ogni giustizia di essere un sequestratore, forse un assassino – e faceva rabbia, una rabbia indicibile, considerando che era messo alla stessa stregua dei criminali che uccisero tanti anni prima suo padre sul lavoro, mentre scortava un personaggio importante. Ichijouji Osamu, che poteva, con ogni probabilità, scoprire lei, accusarla, distruggerle la vita e il futuro.

E portarla via da lui.

No, non l’avrebbe mai permesso, decise, convincendosi ancora una volta che avrebbe avuto presto una spiegazione per quel ritardo eccessivo. Doveva essere per forza così: non c’era altra soluzione. Non voleva pensare ad altra soluzione.

Poi, quel rumore di campanelle sulla porta, che annunciava l’arrivo di un nuovo cliente.

E Iori alzò la testa, e sul suo viso apparve un’espressione di puro sollievo che non gli riuscì di nascondere.

Grazie al cielo.

Avvolta in una giacca beige che metteva dolcemente in risalto la sua figura, i capelli lisci castani con una frangia a incorniciarle il viso e gli occhi scuri e sereni, si guardava intorno, cercando di individuarlo.

La stretta allo stomaco non tardò molto a farsi sentire, mentre Iori si drizzava maggiormente e cercava di cogliere il suo sguardo. Eppure, forse quella sensazione era persino amplificata: da quanto tempo non la vedeva più?

Infine, lo scorse, e sorrise lievemente, mentre si affrettava ad avvicinarsi al suo tavolo.

Il ragazzo fu felice di notare che i suoi movimenti si mantenevano casuali e non frettolosi, come la loro situazione e la gravità del problema di cui dovevano parlare avrebbe richiesto: quelle piccole accortezze servivano loro per continuare a non dare nell’occhio più del dovuto. Dovevano apparire solo conoscenti incontratisi per caso, con la semplice, disinteressata voglia di parlare di tutto e di niente.

Quelle piccole accortezze facevano sì che il loro aiuto silenzioso restasse in incognito agli occhi di Ichijouji.

Quando Sato Satsu scostò la sedia di fronte alla sua e si sedette, tuttavia, Iori temette che quell’abile mascherata fosse destinata al fallimento: il suo volto non era ancora riuscito a riprendere la calma naturale.

“E’ successo qualcosa? Sei in ritardo” le disse, con le sopracciglia aggrottate.

Satsu scosse la testa, per poi alzare le spalle con un sorriso. “Tutto tranquillo come sempre” rispose, e Iori tirò un impercettibile sospiro di sollievo. “E’ che mia mamma mi ha fermata prima di scendere: voleva parlarmi di Rumiko-chan. Dall’espressione che aveva, mi è sembrato più giusto starla a sentire un attimo. Ma quando sono uscita ho anche trovato traffico: non hai idea di che coda ci sia, qui fuori …”

“Mi ero preoccupato.” Ammise Iori, e il suo sguardo serio si soffermò sul viso di lei. Vide Satsu sgranare lievemente gli occhi, e solo allora si rese conto di quanto potessero rivelare le sue parole. Arrossì, puntando lo sguardo sul tavolo. “Con la situazione che abbiamo –e che peggiora di giorno in giorno- non si può mai stare tranquilli.”

L’arrivo della cameriera con il cappuccino sospese momentaneamente il discorso. Con un cenno del capo, il giovane la ringraziò cortesemente, e attese che lei se ne andasse, prima di porgere la tazza alla sua interlocutrice.

All’occhiata sconvolta di lei, accennò un sorriso. “Non ho fame, non preoccuparti.”

“Vuoi farmi bere un cappuccino da sola?” replicò lei, evidentemente contraria all’idea.

“Ti assicuro che non importa. Non siamo qui per prendere qualcosa da mangiare o bere.”

Il silenzio che seguì fu capace di imbarazzarlo. Distolse lo sguardo, consapevole che avrebbe potuto rivelare troppo.

“Beh … grazie, Iori-kun. Ma dovresti smetterla di fare così tanto il gentiluomo.”

Ma Iori avvertì benissimo il tono di disagio nella voce di Satsu, e un senso di vuoto gli attanagliò il cuore.

Sospirò, cercando di riportare il discorso su un piano razionale. “Cosa dice tua madre a proposito di Rumiko-san?” le chiese, mentre lei zuccherava il cappuccino.

Satsu alzò lo sguardo, e nei suoi occhi scuri scorse una ben evidente confusione. “Dice che si comporta in maniera davvero strana ultimamente” rispose, aggrottando graziosamente le sopracciglia. “Ha detto che la vede pallida e stressata più del solito, che ha sempre occhiaie marcate e l’aria … impaurita, dice. Mi ha chiesto se io ne sapessi qualcosa.”

“E tu ne sai qualcosa?” chiese Iori, amaramente consapevole che quello che aveva avvertito l’ultima volta con Miyako fosse ben visibile anche agli altri. Non era un episodio passeggero, allora.

Satsu rifletté per un istante, forse cercando di afferrare un qualche ricordo. Lui attese, in silenzio. “A mia madre ho risposto di no, ma forse c’è qualcosa che ho notato. E’ stato tre giorni fa, se non sbaglio: era a casa mia, e ad un certo punto ha abbracciato Haku stretto. Non ho sentito bene, ma credo gli abbia bisbigliato qualcosa come Vorrei riuscire a nascondermi bene come te, piccolino. Le ho chiesto spiegazioni, ma lei non ha voluto darmene, chissà perché.”

I due si guardarono, nel viso la stessa angoscia.

“Cosa le sta succedendo, Iori-kun?” chiese Satsu in un sussurro.

“Ha paura” rispose il giovane, toccandole la tazza di cappuccino per ricordarle di non dare nell’occhio. Lei capì e cominciò a sorseggiarne il contenuto. “Mi ha chiamato ieri sera, spaventata come poche altre volte lo è stata, e mi ha detto che temeva di essere sul punto di essere scoperta da Ichijouji. Le ho chiesto come mai pensasse una cosa del genere, ma non ha saputo dirmelo: ha detto solo che era una forte sensazione.”

Pura sorpresa si dipinse sul viso di Satsu, e Iori non poté biasimarla: anche lui non riusciva a capire. “Ma se lui non l’ha trovata, e lei non ha segnali per affermare che lui è vicino, come fa a sentirsi braccata?” domandò, perplessa.

Lui alzò le spalle, frustrato. “Non ne ho idea. Ma Rumiko-san non è una visionaria: potrebbe darsi che non sia un periodo roseo per lei. Magari soffre per tutto quello che le è successo, e il suo stato di angoscia l’ha portata a sentirsi scoperta. Oppure … oppure Ichijouji le ha fatto capire, in qualche modo che lei non vuole spiegarci, che l’ha trovata.”

Il suo tono si fece cupo, mentre il pensiero della sua migliore amica in pericolo gli faceva stringere i pugni, pieno di rabbia. Doveva sapere se Ichijouji la stava minacciando: lui e Satsu erano lì per aiutarla, e quella sciocca di Miyako non voleva farsi aiutare.

“Iori-kun, Ichijouji brancola nel buio da anni, ormai!” ribatté Satsu convinta, cercando di rassicurarlo. “Non ha la minima prova per inchiodarla: siamo stati attenti a tutto, non è concepibile che …”

“Questo è il punto, Satsu-san” la interruppe lui con fermezza, per una volta dimentico delle buone maniere. Non c’era assolutamente tempo. “Siamo stati attenti a tutto. Ma a quanto pare qualcosa può esserci sfuggita, e Rumiko-san non vuole aiutarci a trovarla e a proteggerla meglio. Non so cosa fare.”

Il silenzio fu pieno del rumore della tazzina posata sul piattino, del chiacchierare degli altri clienti incuranti, dell’acqua lasciata scorrere dal cameriere per lavare alcuni bicchieri, dei loro sguardi carichi di gravità che appesantivano l’atmosfera rilassata tutt’intorno.

Infine, Satsu sospirò, come se avesse pensato a sufficienza. “L’unica cosa che possiamo fare è cercare di starle vicini il più possibile” disse, e la sua voce vibrava di determinazione. “Magari potremmo aiutarla indirettamente, e nello stesso tempo renderci conto con i nostri occhi delle eventuali mosse di Ichijouji, in modo tale da metterlo nel sacco come al solito.”

Iori per un momento non rispose, continuando ad osservare il tavolo. Ancora una volta, stava pensando all’assurda e insensata situazione che tutti loro stavano vivendo. Stava pensando a quante cose non erano andate al loro posto. Stava domandandosi il perché di tutto quello.

Non trovando alcuna risposta, la rabbia si rinnovò in lui.

“Rumiko-san dovrebbe smetterla di cercare il male” sussurrò, e sentì Satsu irrigidirsi improvvisamente. “Perché si è rovinata la vita, e l’ha rovinata anche a chi le stava accanto.”

“Iori-kun …”

Ma Iori non ebbe alcuna intenzione di fermarsi. Alzò lo sguardo, tremendamente serio, e la fissò. “Basta con gli errori. Potrebbe mettere fine quando vuole a tutto questo dolore. Ma non ha mai voluto … e ora si ritrova in questa situazione. E per chi, poi? E’ imperdonabile dipendere tanto da un simile uomo!”

“Iori-kun, per favore, smettila di essere così rigido …”

“Rigido? Vuoi forse dire che lui la meritava in qualche modo? Che meritava tanti sacrifici e dolori? Che …”

“Era innamorata, Iori-kun.” Il viso di Satsu era pieno di triste rimprovero, e Iori sgranò gli occhi, ammutolito. “Ha fatto tanti errori, su questo ti do ragione. Ma non ha mai voluto far del male, mai. Pensava davvero che per lui valesse la pena di far tutto.”

Fosse stato così, in quel momento lui non avrebbe avuto alcun motivo di soffrire, pensò, con un sorrisetto amaro.

“Credi che l’amore possa rendere lecito tutto? Purtroppo non è così, Satsu-san. Non è così. Rumiko-san poteva anche credere di fare del bene, ma non l’ha fatto, né ai suoi genitori, né a suo figlio, né ai suoi amici. Nessuno è autorizzato a fare quello che vuole solo perché ama troppo. Altrimenti io …”

Si interruppe bruscamente, mentre un senso di dolore scaturiva dalle sue parole mancate.

Altrimenti io mi farei imprigionare per liberarti dalle accuse. Altrimenti ti ricorderei che Haku te l’ho regalato io, e ti costringerei ad amarmi. Altrimenti dimenticherei che non mi ami, e ti bacerei, e ti porterei lontano. Altrimenti non m’importerebbe di quel rifiuto avvenuto tanti anni fa.

Troppo, troppo dolore. Credeva di star soffocando, mentre voleva scappare via e non dover guardare ciò che sapeva di non poter mai avere in maniera diversa dall’amicizia.

Eppure, non poté fare a meno di guardarla di sottecchi, straziato.

E vide gli occhi di lei lucidi, e l’espressione piena di doloroso senso di colpa. Seppe che aveva colto l’allusione: nessuno dei due aveva mai scordato quel lontano discorso avvenuto poco prima della sparizione di Miyako. Si limitavano ad ignorarlo.

“Io … mi dispiace tanto, non volevo ...” bisbigliò, mortificata. Satsu non si era mai perdonata per la sua incapacità di ricambiarlo.

Ma Iori si maledisse per aver detto troppo: che senso aveva farla sentire in colpa? Serrò gli occhi, tentando di moderare il suo tono di voce. “No, scusami tu, Satsu-san. Avevo promesso di non dirti più nulla del genere.”

“Per favore, non scusarti tu per qualcosa che ho fatto io a te.”

Il dolore si acuiva ogni secondo che passava: non poteva continuare così. Scosse la testa, e quando riaprì gli occhi verdi la sua espressione era nuovamente seria.

“Non ha importanza, adesso.” Rispose. “Quello che so è che non abbandonerò Rumiko-san come ho già fatto stupidamente anni fa: non sarò mai d’accordo, né giustificherò mai quello che ha fatto, ma le voglio bene. Troppo, per lasciarla sola con il suo dolore e la sua perdita. Ogni volta che avrà bisogno di me, io ci sarò: è per questo che tollero ancora di essere considerato alla stregua di un criminale. Non scapperò più.”

Satsu lo guardò per alcuni secondi, poi sorrise. Un sorriso incantevole, eppure per lui così irraggiungibile.

“Sai, Iori-kun” gli disse dolcemente. “E’ per questo che per Rumiko-chan sei così importante: sei davvero l’amico perfetto per lei. Nel momento in cui hai deciso di dare questa svolta alla tua vita, sei maturato tanto. E per lei è tanto importante avere una persona accanto che abbia saggezza e capacità di discernimento, perché alle volte, quando si lascia trasportare dai sentimenti, queste qualità le mancano.”

Poi la sua espressione si fece nuovamente determinata. “Nemmeno io ho intenzione di lasciarla sola.”

E Iori sorrise.

Nonostante tutto quello che era successo nelle loro vite, Satsu non lo aveva abbandonato.

E sapere che lottavano insieme lo riempì di determinazione una volta di più.

Non avrebbe permesso a nessuno di togliergli la voglia di essere sempre pronto a difendere chi amava. A nessuno.

***


Lo trovò disteso a pancia in giù sull’erba, le gambe all’aria, i colori a cera sparsi dappertutto, circondato da mille fogli bianchi o già pieni dei suoi paesaggi variopinti, intento a disegnare sfregando con vigore un pastello sulla carta.

Scosse la testa rassegnata, avvicinandosi a lui con aria a metà tra una di rimprovero e una divertita, e si preparò a sentire una delle sue stravaganze.

“Keiji-chan?” lo chiamò piano, cercando di adottare un tono di voce serio abbastanza per fargli capire che cose del genere non si dovevano fare.

E Keiji alzò lo sguardo dal suo disegno,  e, stupendola per la sua estrema monelleria, le sorrise allegramente. “Ciao, Hikari!”

Hikari non poteva crederci. Si stava comportando come se non fosse successo nulla.

Sospirò, mettendosi le mani sui fianchi: ricordava che quando sua mamma sgridava Taichi, dopo una delle sue, faceva quell’esatto movimento, e il ricordo le portò per un istante una malinconica sensazione di dolcezza. “Sei sicuro di non avere nulla da dirmi, Keiji-chan?”

Lui batté gli occhi castano chiaro, sorpreso per un momento, poi il suo viso si illuminò di orgoglio, come se avesse appena ricevuto un premio. “Ho mandato via lo spione, Hikari!” disse semplicemente, mostrandogli un ulteriore disegno che rappresentava Takeru intento a scappare via spaventato, mentre Keiji lo additava con aria seria.

Sgranò gli occhi, incredula. “Ma no! Che disegno è? Ti sembra una cosa carina?”

“Sì. E’ una persona cattiva, e io l’ho mandato via.”

Il visetto offeso del bambino tornò a concentrarsi sul cielo che imbruniva rapidamente. “Qualcuno doveva scacciarlo, visto che tu non lo fai.” Aggiunse poi.

Hikari lo fissò, non riuscendo davvero a capire. Da quando la faccenda di Takeru era cominciata, sembrava che Keiji volesse a tutti i costi difendere le persone che abitavano in quell’orfanotrofio, come se qualcuno stesse cercando di minacciarlo in qualche maniera.

Si accovacciò accanto a lui, accarezzandogli i capelli viola per attirare di nuovo la sua attenzione. “Keiji-chan, mi ascolti per un secondo?” gli chiese, questa volta dolcemente. Lui la guardò di nuovo, e solo allora Hikari continuò. “Vorrei che mi dicessi per quale motivo ce l’hai tanto con Takeru-san. E’ da qualche tempo che temi che possa farti del male, e non riesco davvero a capire perché. Non sarebbe meglio che tu me lo spiegassi, così non litighiamo? A me sembra una brava persona.”

Hikari era sincera. Aveva parlato poco con Takaishi Takeru, ma quello che aveva avvertito nelle sue parole, nel suo dolore, nelle sue frustrazioni, doveva corrispondere al vero. Non era possibile trasmettere tante cose così diverse dalla sua personalità.

Sentiva che aveva buoni sentimenti.

Sentiva che, anche se aveva spiato il loro lavoro per tanto tempo, questo non fosse indice di cattive intenzioni, come invece Keiji aveva messo in luce nel disegno che aveva dato a Takeru.

Keiji si imbronciò maggiormente. “Io lo detesto. Voleva essere come te, e si è seduto in mezzo a noi. Ma nessuno lo voleva.”

Hikari scosse la testa. Keiji si comportava in maniera davvero testarda, alle volte: quando si metteva in testa qualcosa, era difficile che cambiasse idea. Era per questo che certe volte le loro idee erano così differenti.

Lo prese in braccio, nonostante il suo tentativo di divincolarsi per fare l’offeso.

“Sai che impressione ha fatto a me, invece?” rispose, sorridendogli e cercando di essere convincente. “Mi è sembrata una persona molto triste che aveva un disperato bisogno di stare con voi. E perché no, anche in mezzo a voi. Mi sorprende, anzi, che tu l’abbia presa tanto male: quando Koushiro-san è venuto a fare la vostra conoscenza lo avete trattato bene, mi ricordo. E tu sei stato molto bravo, allora. Perché con Takeru è diverso?”

All’improvviso, il bambino si era irrigidito tra le sue braccia. Hikari lo guardò, perplessa.

“Viene a vivere con noi come Koushiro?” chiese, nel viso orrore e delusione.

La giovane non poté che sentirsi tristemente sorpresa per la reazione assolutamente contraria di Keiji. Non vedeva davvero cosa potesse esserci di così brutto in una decisione del genere: quando ci aveva pensato, aveva trovato che tutto sarebbe filato liscio. Parlandone con suo fratello e i suoi amici, poi, aveva trovato approvazioni, seppur dubbiose e incerte.

Con il bambino che proteggeva in special modo, però, sembravano esserci problemi.

Sospirò, lasciando che il suo sorriso scemasse. “Adesso è davvero presto per dirlo, ma non me la sento di escludere a priori la possibilità” disse, e sentì Keiji calmarsi. La cosa la ferì. “Ma davvero, Keiji-chan, io penso che sia solo questione di abitudine. Devi solo conoscerlo meglio, e lui deve necessariamente conoscere voi. Magari sei più sulla difensiva perché non ha mostrato subito di voler giocare con voi, e se è così devi dargli tempo: credo stia passando un momento difficile, anche se non riesco pienamente a capire perché. Però so che andreste d’accordo.”

Keiji la guardò diffidente, con i suoi occhi castano chiaro troppo intelligenti per un bambino della sua età. Eppure, era ancora un bambino, perché non era grande a sufficienza per comprendere che non tutti i ragazzi avevano lo stesso carattere e necessitavano degli stessi tempi per capire se stessi.

“Non ti fidi di me, Keiji-chan?” gli chiese, con un’aria scherzosa. “Cos’ho fatto per meritarmi questo?”

“Ti avevo detto di cacciarlo, e tu lo hai fatto venire dentro.” Rispose lui, e nelle sue parole c’era delusione. Era davvero triste sentirlo parlare così. “Sembra che ti sia simpatico, ma secondo me è un ladro. Perché credi che sia buono?”

Hikari distolse lo sguardo per un istante, posandolo sull’ingresso della villa adesso deserto. Era lì che Takeru aveva parlato l’ultima volta con lei, ringraziandola per la disponibilità e la comprensione, per poi tornare serio e chiederle, esitante, se poteva tornare a far loro visita anche una seconda volta.

E i suoi occhi avevano brillato di forza d’animo, sebbene permeata di tanta confusione.

Come avrebbe potuto rifiutare una richiesta così sentita? Sua mamma aveva sempre dato una seconda possibilità a tutti, anche a chi, a detta di lei e di Taichi, non avrebbe potuto meritare una cosa del genere, e il più delle volte le era andata molto bene.

“Sapete chi si accosta a quest’orfanotrofio?” aveva detto una volta, strizzando l’occhio a entrambi i fratelli. “Chi ha bisogno di maturare e crescere, ma è abbastanza maturo per capire che ne ha bisogno. E i bambini sono sempre la migliore cura al mondo, perché, una volta che sei con loro, cambi in meglio.”

Scosse la testa, sorridendo rasserenata. Se sua madre aveva avuto ragione, Takeru era la persona più indicata per entrare a far parte del piccolo ma variopinto mondo dei bambini.

Quando il suo sguardo si posò su Keiji, era di nuovo sicura di quello che diceva.

“Takeru-san potrebbe essere il tuo migliore amico: ne sono convinta. Ha in sé tutta la voglia di aiutarvi, ma, ne sono sicura, anche di essere aiutata da te e dagli altri.”

“Ma lui non lo sa nemmeno, come fai a dirlo?” ribatté il bambino dai capelli viola, sorpreso e decisamente contrario all’idea dei migliori amici.

Hikari rise, scompigliandogli i capelli. Ci sarebbe stato tempo anche per lui di capire: nessuno aveva alcuna fretta.

“Sei impossibile! Come devo fare con te?”

Eppure, il suo sguardo si fece triste, al ricordo della sofferenza di Takeru, alla sua incapacità di comprendere la purezza dei bambini, alla sua incapacità di trovare se stesso. Doveva essere davvero una persona molto sola, se non riusciva a capire quello che voleva.

Sospirò. “Sono sicura di quello che dico. Ma lui non sa ancora quanto potrebbe dare e ricevere dalla vita …”


***


“Rumiko-chan? Rumiko-chan! Per l’amor del cielo, mi senti?”

Un paio di occhi azzurri si alzarono improvvisamente dalle pagine di un libro che fingeva di leggere mentre rifletteva. Distolto dai suoi pensieri, non tardò molto a trovare la donna sulla cinquantina che stava ripetutamente cercando di attirare l’attenzione di un’ormai ben nota giovane cassiera.

Ichijouji Ken sgranò gli occhi, sorpreso e incuriosito, non appena si rese conto che lei non sembrava stare ascoltando la donna in alcun modo.

L’aria distante e persa nel vuoto, gli occhi scuri rivolti verso la vetrina della libreria, Miyazawa Rumiko appariva in un altro mondo, quasi in una dimensione irraggiungibile. I lunghi capelli neri le coprivano parzialmente il volto, ma Ken giurò di averla vista sospirare piano, come faceva qualche volta, quando nessun cliente si avvicinava alla cassa.

Lui non aveva mai capito il perché. Ma non aveva mai smesso di guardarla, cercando di capire cosa si celasse dietro quel volto e dietro i suoi attimi di estraniamento dal mondo.

“Rumiko-chan!”

Alla fine, la donna le aveva messo una mano sulla spalla, l’espressione piena di una strana preoccupazione che al giovane spettatore silenzioso non sfuggì. E vide Rumiko sussultare violentemente, voltarsi di scatto, gli occhi riempirsi di paura inspiegabile, per poi focalizzare la donna e rilassarsi impercettibilmente.

“Cosa? Che c’è?” chiese.

Era successo di nuovo, si disse Ken, sorridendo incredulo. In meno di un secondo, era riuscita a confonderlo con i suoi atteggiamenti particolarmente insoliti. Quella paura che qualche volta scorgeva nei suoi lineamenti sembrava essere una sorta di reazione naturale a qualcosa che non poteva sapere.

Forse non avrebbe mai scoperto quale segreto fosse Rumiko. Avrebbe dovuto dedicarsi a qualcosa di più serio, come le sue indagini e quel diario ritrovato da poco.

Ma, puntualmente, per qualche motivo sconosciuto, non ci riusciva. Era inutile provarci.

Sospirò, alzandosi dalla poltroncina della libreria e riponendo il libro che aveva in mano in uno scaffale. Rassegnandosi a quella curiosità e a quell’interesse incomprensibile, si avvicinò piano per poter osservare meglio.

“Mi serve una mano per mettere a posto quello scatolone di libri laggiù: oggi non posso salire sulla scala, ho un mal di schiena tremendo. Ti do io il cambio dietro la cassa, ti dispiace?” Stava intanto dicendo la donna dai capelli grigi e l’aria gentile, indicando l’oggetto della conversazione. Con un moto di sorpresa, Ken si rese conto che era appoggiato poco distante dal luogo dov’era lui.

Rumiko scosse vigorosamente la testa, allontanandosi di fretta dalla cassa. “Mi metto subito al lavoro, non si preoccupi” rispose, a voce alta, nel tipico tono di chi è stato scoperto a fare qualcosa che non doveva e vuole cercare di rabbonire chi l’ha scoperto.

Sembrava quasi che l’essersi persa nel suo mondo fosse stata una colpa.

La giovane guardò ancora l’entrata per un istante, l’aria inquieta, per poi scuotere la testa e camminare spedita verso la scala, prenderla e dirigersi verso lo scaffale poco distante.

Ken la stava ancora osservando, non comprendendone il motivo. Era immobile dietro di lei, intento a seguire minuziosamente ogni suo movimento, e sentiva dentro di sé uno strano senso di oppressione, come se dovesse assolutamente fare qualcosa e non sapesse cosa. Non capiva a cosa fosse dovuto, né perché quel suo restare immobile gli fosse quasi insopportabile.

Solo quando la vide spostarsi le ciocche di capelli scuri che le coprivano gli occhi mentre saliva e scendeva per prendere i libri per poi metterli a posto, capì.

Si chiese, sgomento, cosa gli stesse succedendo.

Ma prima di potersi rendere conto di quanto fosse sciocca e invadente una cosa del genere, si ritrovò a camminare piano verso di lei, quasi contro la sua volontà, eppure sapeva che sarebbe stato inutile opporsi. Proprio come le altre volte in cui aveva sentito il bisogno di avvicinarsi, di cercare di capirla.

Rumiko era sulla scala, anche in punta di piedi per arrivare allo scaffale più alto, e non lo aveva visto, concentrata com’era sul suo lavoro.

Ken distolse lo sguardo da lei, esaminando il genere di libri che c’era in quello scaffale. Erano romanzi storici. Così erano quelli che doveva prendere dallo scatolone.

Ne individuò uno di quel genere in mezzo al mucchio, e lo prese senza pensarci.

Quando Rumiko scese di qualche gradino per prendere un altro libro, tutto quello che lui fece fu porgerglielo, esitante.

E allora lei sussultò, voltandosi.

E i loro sguardi si incontrarono.

La prima cosa che Ken notò nel suo viso fu il pallore inusuale, così come l’aria stanca e le occhiaie marcate. Per seconda venne la consapevolezza che lo stupore della giovane nel vederlo era decisamente eccessiva: sconcerto e paura balenarono rapidamente nel suo sguardo. Infine, un piccolo strillo di sorpresa uscì dalle sue labbra.

“Scusami” disse in fretta lui, vedendola portarsi una mano alla bocca per calmarsi e appoggiarsi allo scaffale colmo di libri. “Non era mia intenzione spaventarti, davvero.”

Rumiko chiuse gli occhi per un istante, limitandosi a respirare. “No, è che … non è nulla.” Disse a bassa voce, ancora scossa. Ken si disse che era un idiota. “Si può sapere da dove spunti?”

Ken si sentì arrossire. “Ti ho vista qui sulla scala, e ho pensato … Beh … Hai bisogno di aiuto?” Propose alla fine, in tutta sincerità. “Posso passarti i libri, se vuoi.”

Rumiko riaprì gli occhi, guardandolo con un’espressione capace di farlo fermare.

C’era stupore, uno stupore che non sapeva contenere in alcun modo, e che a lui risultava inspiegabile. C’era qualcosa che accendeva i suoi occhi castani, qualcosa che lui interpretò come gratitudine assolutamente non necessaria. Eppure, quel dolore che spegneva i suoi occhi e che traspariva in tutta la sua interezza dalla sua espressione lo lasciò interdetto.

Seppe che il suo sguardo aveva lasciato trapelare più di quanto lei avesse voluto, ancora una volta.

Poi lei distolse lo sguardo, battendo più volte gli occhi come per calmarsi. La vide sorridere, uno dei sorrisi strani e belli che gli rivolgeva qualche volta. “Come mai sei sempre così servizievole? Dovresti occuparti di assistenza ai malati, credimi.” Scherzò, e Ken sorrise, incredulo. Poi Rumiko prese il libro che le porgeva, con attenzione: sembrava che avesse paura che cadesse.

Doveva aver accettato l’aiuto, si disse.

“Cercavi di aiutarmi anche quando avevo il piede quasi zoppo, se non ricordo male” aggiunse poi la giovane, risalendo sulla scala e posizionando il libro che lui le aveva porto.

Lui ridacchiò, sentendosi stranamente in imbarazzo. “Eri caduta” si giustificò. “Ti serviva davvero aiuto.”

“Su, non esageriamo adesso. Mi passi un libro?”

Ken trasalì, chinandosi all’istante per prenderlo. Gli era completamente passato di mente.

Quando Rumiko si voltò e tese la mano per averlo, però, il giovane si soffermò ancora sull’aria provata che aveva il suo viso. Aggrottò le sopracciglia.

“Sembri stanca” osservò, guardandola ancora negli occhi.

La vide arrossire violentemente, per poi afferrare il libro dalle sue mani e sfuggire il suo sguardo. Rispose solo quando fu in cima alla scala.

“Non è nulla. Non ti è mai capitato di essere sempre stanco, per quanto tu possa dormire?”

Ancora una volta, non riuscì a comprendere questa sua voglia di rifuggire il suo sguardo: sembrava voler custodire a fondo i suoi segreti, e volersi trincerare dietro un muro.

“Qualche volta sì” rispose, e ancora non riusciva a distogliere lo sguardo da lei. “Quando mi affatico troppo e non mi concedo un attimo di tregua. Magari dovresti prenderti un periodo di ferie dal lavoro.”

Rumiko lo guardò dall’alto, sulle labbra una smorfia di disappunto. “No, davvero” rispose, e nella sua voce ci fu un improvviso tono secco. “Voglio continuare a lavorare, non è un problema per me.”

Ken, interdetto, non poté che ammutolire per un secondo alla brusca risposta di lei. Non sapeva davvero cosa le avesse detto di così offensivo: per quanto ci pensasse, non arrivò da nessuna parte. Forse rientrava nel gruppo dei suoi comportamenti criptici.

Abbassò lo sguardo, imponendosi di essere più gentile e meno invadente.

“Mi dispiace” si scusò, non sapendo di cosa. “Credevo che un periodo di riposo avrebbe potuto farti bene.” Poi un’idea gli balenò in mente. “Magari potrebbe essere solo un giorno, un giorno di riposo” propose, guardandola di sottecchi. “Passato, magari, con persone care, come amici, per esempio.”

Lei scese, sul volto un’espressione disillusa, negli occhi una strana luce. Tese la mano, prese un altro libro, risalì. “Credo che non sia possibile. Diciamo … che sono tutti impegnati diversamente, in questo periodo.”

Per quanto si fosse sforzata di nasconderlo, Ken aveva colto perfettamente la nota dolente nel suo tono di voce. Sembrava, ancora una volta, che soffrisse.

Che fosse stata ferita, delusa.

La scoperta di questa verità lo lasciò, per un istante, attonito. Quanto si nascondeva dietro il sorriso apparentemente solare di Rumiko? Quanto doveva soffrire una ragazza giovane come lui? Quanto doveva reprimere ogni giorno, per motivi sconosciuti?

Ken non ne aveva idea. Non poteva averla. Non sapeva nemmeno chi fosse Miyazawa Rumiko.

Era totalmente all’oscuro di tutto.

Ma c’era un sentimento nuovo, ora. Un istinto che non poteva reprimere. Una voglia di sapere, di conoscere, di aiutare, di avvicinarsi a quella creatura così apparentemente forte e fragile insieme.

Le parole sgorgarono dalle sue labbra senza che lui potesse controllarle, in un sussurro.

“Allora passalo con me, Rumiko-san.”

Rumiko si immobilizzò sulla scala, sussultando, sgranando gli occhi.

E solo allora lui si rese conto di quanto fosse ardita quella proposta. Di quanto poco si conoscessero, del fatto che lei poteva benissimo non aver bisogno di lui. Di quanto avrebbe fatto, forse, meglio a tacere, a non intromettersi.

Ma, per quanto un senso di imbarazzo intenso lo avesse colto, cercò invano il pentimento per aver formulato una simile proposta.

“Cosa?” disse piano lei, come se la voce le fosse venuta a mancare. Una traccia di timore era comparsa nuovamente nel suo tono. Non lo guardava ancora.

Lui sospirò, cercando nuovamente la forza per essere sicuro di quello che diceva. “Se non hai nessuno con cui passare un pomeriggio, passalo con me. Io … sono disponibile, se vuoi. E semmai ne avrai bisogno.”

Il battito furioso del suo cuore impedì alla sua mente di formulare altre frasi di senso compiuto.

Ma il silenzio che seguì si protrasse per troppo tempo.

Ken cercò il suo sguardo, ma la vide ancora su quella scala, il libro stretto tra le braccia, la testa bassa, i capelli che coprivano il suo volto. Smarrito, la vide tremare.

Non sapeva cosa stesse succedendo, o cosa avrebbe risposto. Non capiva.

Infine, un sussurro.

“No. Mi dispiace, io … io non posso prendermi momenti di pausa.”

Il cuore di Ken mancò un battito.

Vide Rumiko voltarsi, negli occhi paura, paura e solo paura. Paura che lo ferì, e un’inspiegabile delusione scaturì da quella ferita come olio bollente.

Perché vide che aveva paura di lui.

“Servo qui, e devo lavorare e … non posso. Ti giuro che non posso. Sono troppo impegnata qui, al momento.” La voce di lei era spezzata come quella di una preda braccata, come una persona sofferente che vuole salvarsi a tutti i costi. “Scusami, ma no.”

Un lunghissimo istante in cui si fissarono, incapaci di dire nulla, incapaci di distogliere lo sguardo l’uno dall’altra. In cui Ken cercò la conferma nel suo sguardo di quanto aveva sentito.

Trovandola, abbassò la testa.

“Va bene. Non c’è problema, non preoccuparti.” E il suo tono rassegnato, sconfitto e dolente fu capace di stupire persino se stesso.

Sapeva che era legittima la paura di lei. Sapeva di aver tentato troppo.

Sapeva di essere una presenza inutile lì. Sapeva che doveva andarsene via.

Sospirò piano, posando il libro che aveva in mano su uno scatolone.

“Devo andare, Rumiko-san. Ti auguro una buona serata.”

Si voltò in fretta, perché la sua delusione non fosse visibile anche a lei.

Eppure, il peso che sentiva nel petto sembrava voler rallentare la sua andatura, mentre si dirigeva verso l’uscita della libreria.

Che sciocco era stato. Cosa pretendeva? Si era forse convinto di essere utile anche a lei?

Non la conosceva nemmeno bene. Non sapeva nulla della sua inquietudine.

Eppure …

Scosse la testa, accelerando il passo.

Eppure non aveva mai voluto farle del male.

Sentiva di volerle stare accanto, malgrado quel sentimento fosse inspiegabile anche per se stesso.

Ma era andata in quel modo. Avrebbe dovuto smetterla di ignorare i suoi doveri per rincorrere desideri strani e incomprensibili.

“Aspetta, ti prego!”

La mano sulla porta, Ken si arrestò di botto.

Sulla vetrina era riflessa la figura di Rumiko.

E la voce di Rumiko era piena di una supplica e un’ansia inspiegabile.

Ken non riuscì a voltarsi. Ma attese, il cuore in gola.

“Non sarò … impegnata per sempre, ecco.” Vide il suo riflesso mordersi il labbro inferiore, attorcigliarsi tra le dita una ciocca di capelli, i suoi occhi alzarsi e abbassarsi, inquieti, su di lui. “Gli impegni finiranno, prima o poi.”

E tanto fu il suo stupore, che per un attimo non sentì la sua gioia. Per un attimo non vide come tutta la sua delusione stava scemando rapidamente dal suo animo, come tutti i tristi pensieri stavano correndo via rapidamente.

E nel suo animo ci fu solo sorpresa, incredula gioia.

Sorrise al vetro, piano.

“Ci conto, allora.” Disse, prima di aprire la porta e uscire fuori dalla libreria.

Con una promessa che entrambi lasciarono sospesa a mezz’aria.

Una promessa ancora inconsistente, ma, Ken lo sentiva, che avrebbe cambiato qualcosa per entrambi.




Buon pomeriggio! Eccomi di nuovo con un altro capitolo sperimentale... diciamo che sarà uno di passaggio, ma importante per continuare la storia :) Questa volta ho deciso di dividerlo in tre parti, proprio per poter analizzare meglio i nuovi sviluppi... E ho deciso di inserire anche Iori. Non ho mai trattato del suo punto di vista, povero xD mi sembrava giusto lasciargli un po' di spazio. Lo stesso vale per la parte con Hikari e Keiji: mi ero resa conto di non aver trattato bene del loro rapporto da qualche tempo... e ne ho sentito la mancanza ;) La terza parte, beh... C'è bisogno che specifichi altro? xD Scherzi a parte, ecco qui la svolta al loro rapporto che aspettavo di scrivere da un po'. Da qui in poi ne vedrete delle belle...
marghepepe, io non ho davvero parole... Grazie, grazie mille per la recensione accurata, gli splendidi complimenti, gli incoraggiamenti più che graditi! ** Sono felicissima che tu abbia deciso di recensire, ne avevo davvero bisogno! Mi è piaciuta molto la riflessione che hai fatto su Miyako... Effettivamente è proprio così! Mi fa piacere che quelle sensazioni siano arrivate anche a te, e la stessa cosa vale per il rapporto tra lei e Iori :) Ti dirò, sono sorpresa che tu senta vicino il personaggio di Takeru: con lui ho sempre paura di sbagliare, di renderlo poco credibile ... ma sono felice di questo, davvero felice. Ma pensavi davvero che Takeru fosse il padre di Keiji? O.O Di più non posso svelarti, purtroppo, riguardo il suo futuro e le sue scelte... E per quanto riguarda le coppie, forse più avanti vedrai qualche altro sviluppo ;) per il momento sono in fase di progettazione! Proposte? xD In conclusione, io spero che continuerai a seguirmi... Lo spero davvero! ^^
Shine, credi che mi importi dei tempi impiegati? Io per prima non sono puntuale ;) e comunque, se aspettare significa avere recensioni positive come le tue, sarebbe da ingrati lamentarsi... Grazie mille della tua interpretazione del capitolo, è sempre molto bello farsi un'idea dei sentimenti suscitati ^^ Non sai come mi sia divertita a mettere il povero Takeru in quella situazione di smarrimento xD Keiji non è molto affabile con Takeru in questa parte della storia, in effetti -come avrai anche notato dopo questo ultimo aggiornamento-... e diciamo che il metodo più eloquente per dimostrare agli altri i suoi sentimenti è proprio il disegnare! Ma aspetta e vedrai ;) e quando puoi fammi sapere, che aspetto impaziente i tuoi pareri! :)
Mystery Anakin, bentrovata! E' sempre bello sapere che passi di qui ^^ Sì, offrire a Takeru una via di salvezza dal tormento era proprio l'intento del capitolo... Il punto è vedere se deciderà di percorrere questa strada o no! Ma di sicuro Hikari avrà un ruolo importante, come puoi immaginare ;) Che dire, grazie del buon parere e della tua lettura costante, sono curiosa di sapere come giudicherai questo!
Bene, è tutto :) se avete voglia/tempo, un parere mi farebbe davvero comodo! xD Alla prossima!
Padme Undomiel

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Capitolo 16
*** Barlume di luce ***


Purity 16

16.


Barlume di luce





“Esattamente cosa vuoi che faccia?”

“Non capisco. Cosa dovresti fare?”

“Ascolta, Hikari-san, io … non è facile per me capire. Tutto questo è così nuovo, così estraneo a me, che non so proprio da dove cominciare per apprendere da voi. Dimmi cosa devo fare.”

Lo aveva guardato, sorpresa. “Io non voglio che tu pensi questo di me, Takeru-san: nemmeno io ho finito di apprendere, e forse non lo farò mai. Non so dirti esattamente cosa potresti fare.”

“Però … però potresti mostrarmi come vivete qui.”

“Eh?”

Lo sguardo di lui era deciso, e pieno di una sincerità disarmante. Lei non aveva potuto fare a meno di restarne interdetta.

“Prendimi come uno … studente che vuole apprendere, sì. Che vuole apprendere, ma che non conosce nulla di ciò che lo circonda e di ciò che ha dentro. Ti chiedo solo di spiegarmi come funziona qui. Cosa fate voi, come sono i bambini, come li fate ridere, da cosa traete conforto.

Vorrei che mi spiegassi semplicemente come vivete, passo per passo.

E io cercherò di capire con tutte le mie forze.”

“Vuoi capire noi e i bambini per poter capire meglio te stesso, quindi?”

“Sì, esatto. Non vedo altra via.”

Lei aveva esitato, sorridendo spiazzata.

“Quanto ti aspetti da me, allora?” E il suo viso era semplice imbarazzo. “Ti giuro che farò tutto ciò che posso per aiutarti a capire questo orfanotrofio, ma non vorrei che fossi deluso da ciò che posso offrirti.”

“Non vedo perché dovrei. Tu ami questo posto.”

Le aveva sorriso.

“E solo chi ama davvero la strada che ha intrapreso può aiutarmi adesso, credimi.”

“Ecco, entra pure.”

Si scostò dalla porta d’ingresso il necessario perché lui potesse passare, e si voltò a guardarlo ancora una volta, curiosa di scorgere sul suo viso i diversi tipi di emozioni che doveva star provando.

In quel momento, i suoi occhi azzurri erano ancora esitanti, mentre si posavano a tratti su di lei e a tratti sulla grande stanza davanti a loro. Sembrava che considerasse la sua voglia di sapere quasi invadente.

Ancora non era riuscito ad abituarsi a quello che stava facendo.

Sospirò, con un sorriso, mentre lo spingeva dolcemente verso l’entrata. “Avanti, Takeru-san: non ti succede nulla se dai un’occhiata!”

“Va bene, va bene. Allora io entro, d’accordo?” sorrise Takaishi Takeru, e un guizzo di divertimento balenò nel suo sguardo.

Yagami Hikari osservò i suoi passi incerti verso il centro della stanza, il suo cauto interesse verso ogni particolare della camera, il suo tentativo di calarsi completamente in quello che gli stava accadendo, e un senso di gioia non poté non farsi strada nel suo cuore.

Aveva fatto un grande progresso, senza alcun dubbio. Decidere di voler apprendere da loro e dai bambini era indice di una grande forza d’animo, di una persona che conosce le proprie debolezze e vuole cercare di rimediare.

E Hikari sperava davvero che l’orfanotrofio avrebbe potuto aiutarlo come aveva pensato. In ogni caso, le premesse erano buone: sorrideva più del solito, nonostante la sua confusione e la sua tristezza. Forse qualcosa avrebbe davvero potuto cambiare in meglio.

Takeru si era fermato accanto a un lettino, e ora aveva raccolto un soldatino che era rimasto per terra. Lo vide osservarlo in silenzio per qualche tempo, per poi sollevare lo sguardo e fissarlo su di lei.

“E’ la cameretta dei bambini?” chiese.

Hikari annuì, avvicinandosi a lui. “Una delle tante” gli spiegò serenamente, mentre lui subito si faceva attento. Sembrava davvero uno scolaro, quando assumeva quell’espressione. “Sai, in quest’orfanotrofio ci sono tanti bambini, e non possono entrarci tutti in una stanza. Di solito li dividiamo in gruppi di dieci, come vedi qui.”

Indicò i letti con un gesto della mano, e vide Takeru contarli velocemente.

Poi, con ancora il soldatino in mano, tornò a guardarla. “Con che criterio smistate i bambini nelle stanze, di solito?”

Hikari alzò le spalle, ancora una volta sentendosi a disagio per l’occhiata di lui. La guardava come se lei avesse la verità, come se fosse più saggia di quanto, purtroppo, era. “Dipende … Certe volte ci regoliamo in base all’età, altre volte in base a legami particolari o in base alla loro assenza. Quasi sempre, però, dividiamo i bambini dalle bambine. L’unico caso particolare” aggiunse poi, quando vide Takeru assentire in segno di comprensione “è Naoko, che non riuscirebbe mai a dormire senza Shinji. E’ come se non si sentisse al sicuro senza.”

“Aspetta” la interruppe Takeru ad un tratto, concentrandosi e aggrottando le sopracciglia. “Shinji è … quel bambino dai capelli ramati che gioca sempre a calcio? Quello che la difende quando gli altri sono ingiusti con lei?”

Hikari spalancò gli occhi, sentendosi tremendamente a disagio. Era un peccato dirgli che aveva confuso i nomi ancora una volta: sapeva che, ogni qualvolta ne sbagliava uno, lui si sentiva sempre più un estraneo da quel luogo e quella gioia.

“Ehm …”

Ma prima che avesse il tempo di dire alcunché, Takeru parve capire. Rise, imbarazzato. “… Ho sbagliato bambino, è così?” chiese, con un divertito tono di scusa.

“Sembra di sì ...” Rispose lei, ma si affrettò a continuare. “Però non hai sbagliato di molto. Il bambino che hai nominato è un suo grande amico, e si chiama Junichi. Shinji, invece, è suo fratello gemello.”

Lo guardò per qualche secondo, sperando di non averlo scoraggiato. Si rendeva conto di quanto fosse difficile imparare i nomi di tutti quegli orfani in così poco tempo: non poteva di certo pretendere miracoli da parte del giovane.

Takeru sospirò, sorridendo esasperato e guardandosi le mani. “Dovrai avere pazienza con me …” commentò, con quello che sembrava un rimprovero verso se stesso.

Pareva che si fosse scoraggiato di nuovo. Hikari si morse il labbro inferiore, per un istante indecisa sul da farsi.

Poi gli mise una mano sulla spalla, esitando come se non fosse sicura che quel gesto potesse significare qualcosa. Come se non sapesse precisamente cosa avesse intenzione di ottenere.

E Takeru la guardò, sorpreso, e improvvisamente Hikari credette di scorgere in lui l’animo smarrito di un bambino.

E la visione le scaldò il cuore.

Gli sorrise dolcemente. “Takeru-kun, sei tu che dovresti avere pazienza con te stesso. Io non ho fretta, e nemmeno mio fratello e gli altri.” Gli disse, cercando di risollevargli il morale.

E dopo un istante di attesa, infine un sorriso grato ma perplesso tornò sulle sue labbra. “Non credo capirò mai questa inclinazione ad aspettare e ad avere fiducia.”

Hikari rise in imbarazzo, all’improvviso avvertendo una strana sensazione di disagio nel contatto della sua mano sulla spalla di lui: ora che lui l’aveva vista, si sentì invadente. E arrossì, allontanandosi lievemente. “Non è un’inclinazione: non avrebbe senso pretendere da te cose impossibili. Sarebbe anche controproducente.”

Takeru alzò le spalle, con aria non del tutto convinta. “Sarà …” disse semplicemente. Poi lo vide guardarsi le mani, e sussultare. “Oh, dimenticavo …”

Le porse il soldatino che aveva stretto tra le dita per tutto quel tempo. “Era per terra. E non so dove metterlo …”

“Non preoccuparti, hai ragione. Haru-chan deve averlo lasciato in giro dopo aver giocato stamattina.”

Hikari allungò la mano per prenderlo,  ma si fermò all’improvviso, sorpresa più che mai.

Takeru sembrava così strano con quel giocattolo in mano. Così diverso.

Perché, malgrado sembrasse quasi desideroso di restituire l’oggetto che certamente non gli apparteneva, aveva gettato più di un’occhiata attenta a quel soldatino.

Come se cercasse di ricordare qualcosa che, col tempo, era andata sbiadendosi.

“… Hikari-san?”

Con un sussulto, la giovane ritornò alla realtà. E affrontò lo sguardo interrogativo di un Takeru ancora immobile con le mani tese verso di lei.

Con un sorriso di scusa, Hikari scosse la testa. Prese il giocattolo del bambino che tanto lo adorava dalle mani del giovane, e si voltò per rimetterlo nel cesto dei giochi.

Eppure, sentiva le domande premere nella sua testa, impazienti di essere formulate.

Osservò di sottecchi il ragazzo davanti a lei, che ancora osservava curioso ogni dettaglio della stanza, e si chiese se il domandare sarebbe stato invadente.

D’altra parte, era sicura di volerne sapere di più sul conto di Takaishi Takeru.

Sospirò, mentre si raddrizzava e richiudeva il cesto.

“Come giocavi quando eri piccolo, Takeru-kun?” chiese, questa volta osservandolo apertamente.

“Eh?”

Hikari arrossì, sentendosi più che mai a disagio. Takeru sembrava semplicemente sconvolto, come se non credesse alle sue orecchie. “Mi chiedevo …” continuò, questa volta più esitante. “Mi chiedevo come ti divertissi quando eri un bambino come Haru-chan.”

Doveva averlo sorpreso sul serio, perché lui sembrava dubitare seriamente della sua salute mentale. Lo vide aggrottare le sopracciglia e scrutarla, sospettoso. “Perché me lo chiedi?”

Ed era una domanda interessante, perché nemmeno lei sentiva di avere una risposta precisa. Aveva semplicemente sentito il bisogno di chiederlo, come se questo avesse potuto aiutarla a comprendere meglio la sua sofferenza nascosta, o semplicemente a capire lui.

Ridacchiò di questa apparente insensatezza, alzando le spalle. “Non lo so”, ammise sinceramente. “Sono solo curiosa, credo.” Sorrise, attendendo una risposta pazientemente.

Takeru era ancora dubbioso, ma non insistette oltre: doveva aver capito che sarebbe stato inutile chiedere per più informazioni. Una scintilla di curiosità balenò nei suoi occhi azzurri, prima che li sollevasse sul soffitto nel tentativo di ricordare.

Alcuni istanti di silenzio, durante i quali Hikari scorse sul suo viso emozioni di ogni genere affiorare rapidamente sul suo volto: confusione, stupore, imbarazzo, divertimento, dolcezza, e qualcosa di davvero simile alla nostalgia. La giovane si chiese, sorpresa, che genere di ricordi stesse rivivendo il suo interlocutore.

Alla fine, Takeru parve ritornare al presente. La osservò per un lungo istante, come per selezionare le parole giuste da dire.

“Sai, non è che ricordi con esattezza: è passato tantissimo tempo”, disse infine, a mo’ di scusa. “Ho solo qualche ricordo vago, nulla di particolare. Credo …” Rise, imbarazzato. “Credo che prediligessi le costruzioni. Ne avevo un bel po’, se non ricordo male. Per qualche motivo mi piaceva l’idea di costruire, smontare il tutto e ricostruire.”

“Effettivamente sembra un bel passatempo”, convenne lei, interessata più che mai alla sua risposta. “E quali erano le alternative?”

Takeru esitò, incerto. Corrugò la fronte, probabilmente cercando di ricordare meglio. “Non … non ricordo, mi spiace. Non credo ci sia nient’altro di particolare.”

Hikari rimase spiazzata. Possibile che, in tanti anni di infanzia, l’unica cosa che ricordasse fosse un solo modo per divertirsi?

“Sicuro di non ricordare altro?” chiese piano, cercando di non essere invadente.

“E’ così strano?”, ribatté Takeru, osservandola con aria incerta. “E’ passato molto tempo, dopotutto. Ero solo un bambino.”

Non seppe perché, ma in quell’istante una silenziosa tristezza cominciò a farsi largo nel suo cuore. Forse era solo strano sapere che restava così poco di uno dei periodi più importanti della vita dell’uomo nella mente del giovane.

“Potrei dirti soltanto che passavo davvero molto tempo con mio fratello maggiore, Yamato” stava intanto continuando il ragazzo, e ogni fibra del suo essere era concentrato nel rifar suoi quei momenti. I suoi occhi erano assenti, socchiusi, fissi sul muro. “Ho sempre visto in lui l’unica persona che potesse capirmi appieno, anche quando ero molto piccolo. Di questo sono assolutamente sicuro.”

Hikari lo vide sorridere distrattamente.

“E ora che ci penso … sì, probabilmente Yamato mi faceva compagnia anche quando giocavo con le costruzioni. Era sempre con me … o forse dovrei dire che io ero sempre con lui. All’inizio non avrei mai pensato di separarmi neppure un secondo da lui.”

Hikari colse chiaramente la nota d’affetto nel tono di voce di lui, e capì che poteva comprendere molto bene quello che sentiva. Ricordava tanto quello che aveva provato quand’era più piccola per suo fratello Taichi. Gli rivolse un largo sorriso. “Credo di capire cosa vuoi dire, Takeru-kun: anche io sono una sorella minore. E mio fratello aveva una grande tendenza a proteggermi, ad ogni modo.”

“Sul serio?” chiese lui, e parve ritornato da un lungo viaggio. La sua espressione era ora curiosa.

Lei annuì. “Credo sia un istinto naturale dei fratelli maggiori, comunque: non credo abbia smesso del tutto nemmeno adesso.”

Takeru ridacchiò, e Hikari si fermò ancora, sorpresa da quanto fosse semplice e dolce quella sua risata. Era fin troppo diverse da quelle amare risate che sentiva uscire dalle sue labbra quando pensava alla sua tristezza e frustrazione: non c’era davvero dubbio su quale preferisse.

Avrebbe dovuto ridere più spesso in quel modo, considerò.

Poi lui tacque, pensieroso. Sembrava stesse facendo delle considerazioni alle quali non era mai arrivato. “E’ strano, perché … non ricordo di aver più giocato sul serio dopo che sono andato via da casa, a vivere con mia mamma in un altro quartiere. Dovevo aver perso interesse in queste cose, non so.”

Le sorrise piano, mentre ogni cosa che il suo discorso implicava sembrava chiara, agli occhi sgranati di Hikari. “Forse ero così legato a Yamato da non aver più voglia di giocare in sua assenza. Ma credo che questo non potrò mai saperlo.”

Quando era cambiata l’immagine che Hikari credeva di avere di lui?

Quando quel viso era improvvisamente diventato così chiaro?

Non lo sapeva, ma in quel momento non riuscì a guardarlo negli occhi, abbassando lo sguardo. Non voleva che lui pensasse di lei che la sua tristezza fosse in realtà commiserazione.

Era tutt’altro.

Le sembrava di aver capito come mai Takeru avesse rimosso quasi ogni particolare della sua infanzia. Come mai non riuscisse a capire i bambini. Come mai non riuscisse a capire i ragazzi dell’orfanotrofio, che vivevano a contatto con i bambini.

Forse, Takeru non era mai stato completamente un bambino.

“Hikari-san … Va tutto bene?”

Hikari annuì in fretta, e alzò lo sguardo. Takeru sembrava confuso, e preoccupato, anche. Forse aveva trovato insolito il suo cambiamento d’umore.

“Mi dispiace”, fu tutto ciò che riuscì a dire, e sperò con tutto il cuore che le sue parole fossero sincere come il sentimento che avvertiva dentro di sé.

Takeru sgranò gli occhi per un istante, stupito; poi lo vide sorridere. “Lascia stare, Hikari-san: è accaduto tanto tempo fa, non c’è nulla di cui dispiacersi.”

E il suo sorriso era così rassicurante e dolce che Hikari non poté non ricambiarlo timidamente.

Osservò Takeru voltarsi ancora verso la camera per esaminarla, e le parve di farlo con occhi nuovi. Ed era bastata una sola conversazione. Una conversazione iniziata per caso. Una conversazione nella quale il giovane si era inconsciamente aperto a lei, in maniera del tutto inaspettata.

Ma era bello aver scoperto qualcos’altro di lui, anche se si trattava di eventi così tristi.

Si avvicinò lentamente a lui, notando che il giovane era totalmente preso dall’osservare una foto sul comodino dei bambini.

“Chi è questa donna?” domandò lui, mostrandole la cornice con aria interrogativa.

E nel momento in cui gli occhi di Hikari si posarono su quel viso sorridente, circondato da mille bambini che si spintonavano per poter comparire nella foto accanto a lei, il suo cuore si fermò per un istante.

Aveva quasi dimenticato quanto fosse dolce il viso di lei, la luce intensa nello sguardo di lei.

“E’ mia madre” disse a bassa voce a Takeru, quasi avesse paura di disturbare, con il suo chiacchierare, quel sereno quadro estivo. Forse era da troppo tempo che non si soffermava più a osservare quell’immagine: tutto quanto le appariva nuovo, quasi come se lo avesse visto per la prima volta.

Quasi come se lei fosse ancora viva, in quella cornice.

Si voltò a guardare Takeru, chiedendosi quanto il suo sorriso potesse celare malinconia. “Ogni camera da letto ha una foto del genere, sai. E’ un po’ come l’angelo di questo orfanotrofio … d’altronde, è stata lei a fondarlo. A lei si deve tutto questo.”

Indicò con il dito i bambini accanto a Yagami Yuuko, lasciando che lui potesse scorgerli bene, grandi e piccoli che fossero. Il loro sorriso era ugualmente luminoso, non importava l’età. “Molti di questi bambini sono ancora qui, altri erano grandi già allora, quando la foto fu scattata, e quindi sono andati via per le loro strade. Ma guarda, Takeru-kun: riesci a vedere il legame che c’era tra mia madre e tutti loro? Riesci a scorgere il clima di complicità che mia madre aveva con quei bambini?”

Takeru annuì, e il suo viso era incredula ammirazione. “E’ per questo che ho notato subito questa foto” ammise. Poi esitò, come se stesse decidendo tra sé se domandare ancora o tacere. Hikari attese, curiosa.

“Cosa … Voglio dire, come ha fatto a stabilire questo rapporto con loro?” domandò infine, guardando ora lei, ora sua madre nella foto. E Hikari era sicura che Takeru, ancora una volta, stesse cercando di capire cosa gli altri avessero compreso in più di lui.

Cercava ancora di imparare. Nei suoi occhi c’era nuovamente quel desiderio di non restare indietro, di mettersi al passo con chi aveva capito cosa fare della propria vita.

Chissà se sua mamma avrebbe potuto dargli il punto di partenza che cercava. Lei, Hikari, ci avrebbe provato ugualmente, perché non conosceva un modello migliore da seguire.

Sospirò piano, guardando un’ultima volta sua madre sorriderle dalla foto per trovare le parole giuste per il giovane.

“Il suo segreto era una grande semplicità.” Disse infine, affrontando con intensità lo sguardo di lui. “Sapeva mettersi alla pari con i bambini: anche quando doveva sgridarli per qualcosa trovava sempre il modo di non umiliarli, ma di insegnare loro ad essere migliori. Amava maggiormente le cose piccole, come un gioco, un disegno, uno scherzo, una filastrocca: le trovava la fonte della vera felicità, a dispetto delle grandi cose irraggiungibili e inutili. E non affrontava i problemi enumerando ciò che aveva sbagliato, ma solo ciò che avrebbe potuto fare, e da lì ripartiva. E’ per questo che era amata dai piccoli.”

E allora il viso di lui si riempì di imbarazzo, e distolse lo sguardo, con aria colpevole. E le parole parvero improvvisamente essere sigillate sulle sue labbra, troppo intime e segrete per poter essere rivelate a lei.

E Hikari seppe che ci aveva visto giusto.

Takeru sembrava aver perso quella semplicità infantile che aveva provato troppo tempo prima.

Era per questo che ogni sua aspirazione era sempre più grande, sempre più eclatante rispetto alle sue possibilità. Le piccole cose che aveva non riuscivano mai a soddisfarlo, perché troppo insignificanti.

Era per questo che la giovane sperava ardentemente che il modello di vita di Yagami Yuuko potesse spingerlo a ritrovare la serenità: non aveva senso continuare a tormentarsi per nulla. Takeru avrebbe potuto fare tanto nel suo piccolo, anche se lui ancora non lo sapeva. Anche se lui non ci credeva.

“Era?” disse a un tratto Takeru, e Hikari sussultò.

Qualche istante di silenzio, in cui lei ripensò a ciò che era venuto a mancare a tutti. A quanto quell’orfanotrofio era più triste, senza di lei. A quanto sua madre le mancava.

Era strano che fossero ancora tutti lì, anche senza di lei. Era strano che tutto andasse avanti ugualmente.

“Sì, Takeru-kun. Era.” Rispose a bassa voce, guardandolo con un sorriso triste. “E così lei non può che essere l’angelo di questo orfanotrofio.”

Takeru alzò lo sguardo, turbato. C’era una muta domanda nei suoi occhi, ora. Una muta domanda che trovò la sua muta risposta nell’espressione di lei.

E Hikari fu colpita dal senso di partecipazione alla sua tristezza che scorse nei lineamenti di lui. Sembrava quasi che lui riuscisse ad avvertire le sue sensazioni, e a condividerle.

Takeru aprì la bocca, intenzionato a parlare, ma si fermò prima di aver formulato qualunque frase.

“Cosa sta succedendo?” chiese, confuso.

Hikari batté le palpebre, perplessa. “Succedendo dove?” Si guardò intorno, chiedendosi cosa le fosse sfuggito.

E solo allora sentì del vociare nell’altra stanza, e dei pianti infantili. E sussultò, preoccupata, comprendendo infine quello che Takeru stava cercando di dirle.

“Sarà successo qualcosa ai bambini?” domandò lui, accigliato.

Hikari scosse la testa. “Non ne ho idea …” Rispose. Ma sapeva che doveva andare a vedere quanto prima: quando litigavano, i bambini sapevano essere davvero aggressivi.

Si avviò verso la porta, con passi rapidi. “Aspettami qui, non ci metterò molto.” Gli disse, prima di uscire per i lunghi corridoi.

“Posso venire anche io … voglio dire, se vuoi.”

Hikari si fermò, sorpresa, e si voltò indietro.

E si ritrovò ad osservare il sorriso di scusa di Takeru. Sorriso che esprimeva alla perfezione il suo desiderio di essere reso partecipe, di capire.

Si illuminò. “E allora cosa stai aspettando, Takeru-kun?” chiese. “Vieni.”

E il suo sorriso si allargò quando Takeru, imbarazzato, la raggiunse per seguirla.

Sapeva che avrebbe fatto progressi, di questo passo.

***

“Shinji-chan, dammi subito quei fogli: hai fatto il dispettoso abbastanza!”

Mimi, con cipiglio severo e con Ryoko, in lacrime, aggrappata alla sua maglia, era davanti a Shinji, e gli tendeva una mano, evidentemente perché il bambino imbronciato e dagli occhi bassi le restituisse qualcosa che le serviva.

Tutt’intorno a loro, c’erano i bambini, che ascoltavano, attenti, infuriati, delusi, sconsolati o annoiati, ciò che Mimi diceva loro. Hikari individuò Asami, seduta a gambe incrociate, osservare con aria interessata un libro di fiabe aperto con una grande illustrazione colorata che occupava quasi tutta la pagina.

C’era un gran chiasso, tra pianti, lamentele, litigi e spintoni, e Junichi sembrava fosse l’unico a cercare, con aria esasperata, di calmare le acque. Accanto a lui, un Keiji vagamente sconvolto ascoltava ogni parola che il bambino dai vivaci occhi scuri diceva.

Hikari era appena arrivata, ma intuì subito che la situazione fosse davvero seria. Diede un’occhiata a Takeru, accanto a lei, e non fu sorpresa di vederlo così sgomento.

“Sono sempre così quando litigano?” le chiese, e nel suo tono c’era qualcosa che assomigliava molto alla paura. E in quel momento non si poteva biasimarlo, in effetti.

“Non sempre … ma quando litigano così, è meglio correre ai ripari.” Rispose lei, cercando con gli occhi suo fratello per avere spiegazioni. Lo individuò accanto a Mimi, con le sopracciglia aggrottate e chiaramente pronto a intervenire se ce ne fosse stato bisogno.

“Forse Taichi può dirci cos’è successo. Dai, cerchiamo di farci largo.”

Camminare in mezzo ai bambini non fu affatto facile: con tutti i loro spostamenti rapidi da una parte e dall’altra, con la loro agitazione e le accese discussioni, con il loro spingersi per poter vedere meglio e le esclamazioni irritate che queste comportavano, Hikari si trovò spesso urtata dai piccoli distratti, e più di una volta perse di vista Takeru, che appariva sempre più sconvolto. Si chiese se questo litigio avrebbe spaventato abbastanza il giovane da farlo desistere dal venire nell’orfanotrofio, ma mise da parte il pensiero, considerando che aveva un problema più immediato, al momento.

Quando i due raggiunsero Taichi, Ryoko era ormai in preda ai capricci.

“Sorellina, mancavi solo tu: qui si è scatenato il putiferio!” esclamò Taichi scorgendola. Sembrava anche abbastanza sollevato. “In certi casi la mano maschile non serve più di tanto, sai … Non so davvero come comportarmi!”

“Ma che sta succedendo? Cosa ha fatto Shinji-chan stavolta?” chiese Hikari a suo fratello, tentando ancora di osservare la discussione allungando la testa. “Pensavo che Mimi-san stesse leggendo loro la fiaba pomeridiana.”

In effetti, era davvero strano che i bambini non fossero tutti presi dai commenti sulla fiaba appena ascoltata: solitamente amavano discutere del finale, dei personaggi, o giocare a interpretarne i ruoli con la loro personale fantasia. Hikari aggrottò le sopracciglia, confusa.

“Ci ha provato”, rise esasperato Taichi. “Ma c’è stato un piccolo intoppo. Mimi aveva quasi finito di leggere quella storia, quando si è resa conto che le ultime due pagine che contenevano la fine erano strappate. Che fortuna, eh?”

“Che cosa?” Hikari si voltò di scatto verso Mimi e Shinji, con gli occhi sgranati. I libri di fiabe erano tenuti al sicuro quasi come oggetti di grande valore, considerando l’importanza che loro ragazzi credevano avesse far lavorare di fantasia i bambini. Era strano che fosse successa una cosa del genere. “Com’è possibile?”

“Credo …. Ehm … sia stata anche colpa mia, in effetti.”

Il tono improvvisamente colpevole di Taichi la fece immobilizzare. Con un brutto presentimento, Hikari posò di nuovo lo sguardo su di lui, temendo il resto della frase.

Taichi sembrava davvero imbarazzato, in quel momento. “Stavo insegnando ai bambini a fare aereoplanini e barchette di carta, e così ho detto loro di, beh, munirsi di fogli, e di strapparne dal mucchio di vecchi libri che erano nello studio. E’ che ho … dimenticato di riordinare i libri, e così …”

“… tra quelli è rimasto anche il libro di fiabe che leggiamo ai bambini. E Shinji non è interessato in queste cose, così non ci ha fatto caso.” Terminò per lui Hikari, mentre non sapeva più se ridere o piangere. Taichi era un grande capo, ma non si poteva contare proprio sul suo senso dell’ordine. Si batté la mano con la fronte, esasperata. “Grandioso. Sora-san ti ucciderà, non appena avrà finito con i neonati.”

Questa volta, Taichi sembrò davvero allarmato. Hikari non riuscì a trattenere un sorriso.“Ma tu, che ci tieni a me, non dirai nulla a Sora, vero?”, fece lui all’istante, con aria preoccupata. “Dai, c’è bisogno anche di me qui!”

Anche Takeru, al suo fianco, ridacchiò divertito, non appena il giovane dai folti capelli castani terminò la frase.

Hikari scosse la testa, rinunciandoci. Tanto, non sarebbe mai cambiato. “D’accordo, vedi se riesci a tenerlo nascosto il più possibile”, gli rispose, ridendo dei mille ringraziamenti sollevati che ricevette in risposta.

“Shinji-chan, per favore, fai l’uomo e consola Ryoko-chan, che piange per te” stava intanto esclamando un’esasperata Mimi, tendendo ancora la mano. “Dammi quei fogli.”

Shinji, un broncio adorabile sul viso e gli occhi bassi, mugugnò un: “No.”

All’ennesimo rifiuto, Mimi cambiò tattica. “Per favore, Shinji-chan! I tuoi compagni vogliono conoscere la fine di quella fiaba!”, esclamò, nel più supplichevole e commovente dei toni. Hikari rise piano: quella era l’espressione che usava più spesso per incastrare chi non si comportava come lei voleva. Il più delle volte era Jyou il suo obiettivo … e riusciva nel suo intento praticamente sempre.

Con grande stupore, vide Shinji arrossire, sempre con quell’aria scontrosa. “Tanto non potranno più saperla, perché li ho buttati via, quegli stupidi fogli!” sbottò, e la sala si zittì all’istante. Tutti i bambini trasalirono, fissando la scena con occhi sgranati.

“Beh, in questo non c’entro nulla” si giustificò subito Taichi, non appena si sentì osservato dalla sorella.

Poi, scoppiò il caos.

Ryoko cominciò a strillare: “Io voglio la storia!”, con quanto fiato avesse in gola. Molte bambine scoppiarono in un pianto, Naoko picchiò Shinji, ottenendo solo di essere spinta via violentemente, Junichi scattò in piedi sconvolto, parlando animatamente con Ichiro, seduto accanto a lui, Keiji prese Asami per mano, e, dopo essersi affrettato a prendere tutti i suoi fogli e i colori, corse quanto più velocemente possibile verso Hikari.

La guardò con i suoi grandi occhi castano chiaro sgranati. “Sono impazziti!” esclamò.

La giovane si mordicchiò il labbro inferiore, preoccupata. Non sapeva assolutamente come fare per calmare i piccoli, fuori di sé dalla rabbia o dalla tristezza. Proporre loro qualcosa di altrettanto interessante e avvincente era difficile, se non quasi impossibile: il momento delle fiabe era fondamentale per loro, lo era sempre stato. La bravata di Shinji davvero non ci voleva. Accarezzò distrattamente i capelli del piccolo, cercando di pensare rapidamente.

Quasi leggendole nel pensiero, Takeru fece: “E adesso come risolvete la questione?”

Scosse la testa, impotente. “Non lo so, Takeru-kun. Ci vorrebbe un miracolo.”

“Peccato, perché la fiaba era carina!”, intervenne all’improvviso Asami, con un’alzata di spalle. “Keiji-kun ha fatto anche tanti disegni molto belli!”

Hikari si illuminò, interessata. Quando posò il suo sguardo su Keiji, lo vide arrossire di orgoglio. “Disegni che rappresentano la fiaba? Dai, fammi vedere!”

Era bellissimo osservare i suoi lavori: lei li trovava interessanti. Erano così variopinti, alle volte così fantasiosi, altre così realistici, ma in ogni caso Hikari non si sarebbe mai stancata di guardarli. Le sembrava che fossero la maniera migliore in cui lo spirito creativo di Keiji decideva di uscire allo scoperto.

Keiji glieli tese, con un sorriso di aspettativa. “Sono solo quattro! Ma te li regalo, se vuoi!”

Hikari li prese. “Grazie mille, Keiji-chan”, gli disse, e lo vide illuminarsi.

Diede una rapida occhiata ai quattro fogli d’album che il piccolo le aveva donato: in nessuno di loro c’era un singolo spazio bianco. Keiji sembrava aver voluto dare il meglio di sé.

Ed erano belli e variopinti come sempre, notò ammirata, osservando il disegno di un bambino ben vestito con una corona sulla testa e un’aria tranquilla sul viso. Accanto a lui c’era persino un trono dorato e tante altre persone sorridenti che non riuscì ad identificare.

“Quello è il principino di un regno molto lontano, e molto bello. I suoi genitori sono morti quando era ancora un neonato: suo padre mentre combatteva, sua madre per una malattia gravissima. Così lui è diventato il re.” Keiji, tutto animato, indicò gli uomini che lo attorniavano, cercando di rendere Hikari il più partecipe possibile alla fiaba che aveva ascoltato da poco. “Vedi questi signori? Sono i consiglieri reali. Sono vecchi perché erano i consiglieri del re suo padre, e sono loro che proteggono il principino e lo aiutano a governare il paese. Lui è molto piccolo, ma è tanto saggio, e il popolo gli vuole bene come a un adulto.”

Vide gli occhi castani di Keiji brillare di eccitazione, e non poté fare a meno di osservare quella sua strana reazione. Pareva che fosse molto affezionato a quel personaggio, per qualche motivo a lei ancora sconosciuto.

“Il principino faceva un sacco di feste, dove si cantava, si ballava e si suonava. E si mangiavano tante cose buonissime!” Intervenne Asami, indicando il tavolo imbandito alla sinistra del bambino con la corona troppo piccola. Poi sbuffò, imbronciata. “Uffa. Vorrei essere anche io una principessa, per mangiare tutte quelle cose!”

Aveva un tono così serio che Hikari non poté impedirsi di ridere e di abbracciarla per un istante. Asami sarebbe rimasta sempre la solita golosona: se questa caratteristica fosse cambiata in qualche maniera, probabilmente non l’avrebbe più riconosciuta. “Facciamo così”, aggiunse poi, strizzandole l’occhio. “Se ti fidi della nostra cucina, ti prometto che ti prepareremo un pranzo degno di una principessa, un giorno o l’altro. Che ne dici?”

Asami si illuminò tutta, come se la notizia fosse la più esaltante del mondo. “Certo!”

All’improvviso Hikari si accorse di essere osservata con attenzione. Lanciò un’occhiata di sottecchi alla sua destra, cogliendo l’espressione curiosa di Takeru.

La fissava mentre parlava con Asami, e non apriva bocca, quasi avesse paura di disturbare. Ma il suo sguardo era intenso e pieno di serietà, tanto da rasentare l’incredibile.

La giovane si sentì arrossire, e distolse lo sguardo, a disagio. Incerta su come comportarsi, gli passò il disegno di Keiji che aveva appena finito di osservare, prendendone il secondo.

I disegni variopinti erano scomparsi: ora le tonalità cupe regnavano sovrane. Così come la grande figura in nero con un sorriso sadico che gli deformava il volto, al centro del disegno, tra figure deformi e gente urlante che fuggiva da una parte e dall’altra.

“Quello è il mago cattivo, fratello della mamma del principino. La mamma era tanto buona, ed era amata da tutti, e aveva poteri magici che usava solo perché nel suo regno regnasse sempre la pace.” E Hikari non poté non notare la luce strana negli occhi del piccolo, con un groppo in gola improvviso. Conosceva il pensiero di Keiji sulle madri, forse fin troppo bene. “Ma suo fratello voleva governare sul suo regno. Così attaccò il castello, e conquistò il potere con la sua magia perfida. Il regno diventò scuro, nero e senza più prati né sole.”

La crudeltà del mago e il terrore sul viso del popolo erano ben visibili sul foglio d’album: Hikari ne rimase spiazzata, ancora senza parole per l’abilità acerba di Keiji. Sentiva davvero le emozioni dei suoi personaggi, in maniera quasi inspiegabile, per un bambino di soli otto anni. Un senso d’orgoglio la colse all’improvviso, al pensiero di quanto i progressi del piccolo fossero così evidenti.

“Il consigliere che più di tutti voleva bene al principino, però, lo fece scappare in segreto dal castello.” Continuò Asami infervorata, tanto che il suo tono si fece più alto, come succedeva spesso quando immaginava avventure, guerre e fiabe. “La mamma del principino, prima di morire, lo aveva avvertito che suo fratello era cattivo e voleva impossessarsi del regno, e così gli aveva detto una cosa importante: Quando accadrà, porta il principino fino ai limiti della Cascata Lucente, e fa’ che colga il fiore della Purezza. Solo con questo potrà  sconfiggere suo zio. E così il consigliere disse tutto al principino, e gli chiese se si sentiva pronto per quest’impresa. Lui rispose subito di sì.”

“Si stanno radunando tutti qui”, disse all’improvviso Takeru, e Hikari alzò lo sguardo dal disegno, disorientata.

Effettivamente, era proprio così. I bambini che piangevano, che litigavano, che strillavano, che facevano i capricci, attirati nuovamente dal racconto e probabilmente desiderosi di sapere cosa Hikari ne pensasse del finale mancato, pian piano si erano accalcati attorno a loro, e adesso fissavano il gruppetto con i fogli in mano con aria seria.

Sorrise, incredula. “Quando sono arrivati tutti qui?”

Takeru alzò le spalle, e sembrava stupito quanto lei. “Adorano proprio tanto il momento delle fiabe, eh? Questa reazione ha dell’incredibile …”

Hikari lo fissò per qualche istante, cercando di indovinarne i pensieri. Sembrava assorto. Ma ancora non aveva capito.

“Adorano giocare con la fantasia, Takeru-kun. Qui possono essere e sognare ciò che vogliono, senza limiti. Perché ti sembra così strano?”

Takeru apparve spiazzato, e rimase muto a osservarla senza aggiungere altro.

E intanto il racconto procedeva, incalzante. Con Keiji improvvisato cantastorie e un pubblico che proprio non voleva saperne di abbandonare quel mondo fantastico.

“Il principino iniziò a viaggiare con il consigliere verso la Cascata Lucente. In fretta, perché suo zio stava distruggendo il suo popolo, e lui non voleva questo.” Il disegno successivo aveva come ambientazione una notte blu elettrico, e Hikari scorse tra le mani del consigliere una specie di spada sguainata. Davanti a lui, un enorme drago spaventoso sputava fuoco dalle fauci poderose. Forse dietro al drago c’era anche una cascata molto piccola, in lontananza. “Ma quando arrivarono alla Cascata, apparve un drago feroce, che sorvegliava il fiore della Purezza e non lasciava passare nessuno per non farlo rubare. Il consigliere prese la spada e disse al principino di andare a cercare il fiore mentre lui teneva impegnato il drago: lui non voleva lasciarlo solo, ma alla fine scappò via, perché tanta gente sarebbe morta se lui si fosse fermato lì.”

E l’ultimo disegno raffigurava il principino, spaventato e sorpreso, davanti alla cascata. Quando Hikari porse il disegno a Takeru perché lo osservasse, lo vide trattenere un moto di sorpresa. E non si poteva biasimarlo: l’espressione sul viso del piccino era quasi reale. L’affetto di Keiji verso quel personaggio era quasi palpabile, in quei lineamenti abbozzati.

In fondo, era un eroe. Un eroe bambino. Un eroe bambino orfano che prendeva in mano la sua vita e la impiegava nel salvare la vita altrui. Ma anche un bambino che sentiva forte la lontananza da sua madre.

Un moto di commozione rischiò di far vacillare la sua calma, e Hikari si ritrovò a guardare con occhi pieni di affetto Keiji, che la fissava serio e pieno di intensa partecipazione alla storia. Certe volte era così strano pensare alla sofferenza che quel bambino tanto sensibile doveva provare ogni giorno: le sembrava che quei desideri irrealizzati avrebbero potuto, col tempo, distruggere quel corpicino da bambino così piccolo e così innocente.

Le sembrava, alle volte, di rivederlo avvolto nelle coperte, davanti alla porta di casa sua, con quel visetto che da poco si era affacciato alla vita, quando qualcuno aveva deciso per lui che avrebbe vissuto una vita diversa dai suoi coetanei.

“Così il principino arrivò alla cascata, e si guardò intorno, cercando il fiore. Fu allora che vide …” Il tono solenne e carico di emozione di Asami si spense, mentre aggrottava le sopracciglia confusa. “Beh … poi Shinji-kun ha strappato le pagine finali. Non sappiamo come va a finire.”

E i bambini ricominciarono a vociare, delusi.

Hikari sospirò. Sarebbe bello poter avere la tua capacità di improvvisare sempre, mamma, pensò con rimpianto. Cosa avresti fatto tu per risollevare il morale?

“E se …”

Curioso come, alla frase spezzata e pensierosa di Takeru, che ancora osservava il disegno di Keiji, fosse calato un improvviso silenzio. I bambini lo fissarono, un po’ diffidenti, un po’ speranzosi, forse curiosi di conoscere la soluzione al loro problema, ma ancora incerti su cosa pensare riguardo il giovane.

Hikari, sorpresa e curiosa, lo fissò a sua volta, cercando di interpretare i suoi pensieri. Cosa aveva in mente, tanto particolare da indurlo a parlare in pubblico dopo la sua esitazione sempre presente?

E Takeru alzò gli occhi, disorientato da tanto silenzio. “Pensavo che, magari, si poteva … immaginare la conclusione, ecco. Se è tanto piaciuta la fiaba …”, esordì, incerto. “Non dovrebbe essere poi così difficile.”

E lo stupore fu così grande che la cosa più difficile, per Hikari, fu credere che una frase del genere fosse stata davvero pronunciata. Era tutto così permeato di irrealtà che sembrava di star vivendo un momento fuggevole quanto inesistente.

Quella era una trovata che non era venuta in mente a nessuno di loro, che da tanti anni vivevano con i bambini. Era una trovata che aveva avuto Takaishi Takeru, che tanto dubitava di sé, ma che aveva dimostrato, forse per la prima volta, di aver capito la regola fondamentale dei piccoli.

Giocare.

Ma probabilmente non si sarebbe mai decisa a parlare, se non l’avesse scorta. Quella luce negli occhi azzurri quasi nascosta, di cui forse Takeru anche si vergognava. Ma si era accesa appena aveva finito di parlare, e non ne voleva sapere di andarsene.

Sorrise. “Prova, Takeru-kun. Immaginiamo un finale.”

“Eh? Io?”

E lo smarrimento nell’espressione di lui balenò all’improvviso, mentre si schermiva. “Non credo di esserne capace. Potreste provarci voi, e …”

“Ti prego, Takeru-san! Raccontaci la fine della storia!” Intervenne Naoko con tono supplichevole, e Hikari vide con rinnovato piacere che, pian piano, gli altri bambini avevano cominciato a fare eco delle sue parole.

“Per favore, dai!”

E rise, quando Takeru la guardò con un’aria a metà tra l’imbarazzato e il tradito. “Davvero, davvero non lo so fare, Hikari-san. Perché mi hai messo in questo pasticcio?”

“Hai fatto tutto da solo, sai? L’idea è stata tua”, replicò lei, ricambiando l’occhiata serenamente. “Devi solo provare. Se la trovata è stata tua, avrai immaginato qualcosa, no?”

Takeru sembrava ancora dubbioso. “Ma davvero, non …”

“Fidati. Potresti imparare qualcosa, e non sto mentendo.”

Era vero. Hikari non credeva si potesse trovare qualcosa di più ricco di insegnamenti.

E lasciò che le sue labbra si piegassero in un ulteriore sorriso, quando il giovane si arrese. “D’accordo.” Disse piano, per poi guardare i bambini e sospirare di nuovo. “D’accordo! Lo farò!”, esclamò a voce più alta.

E il silenzio improvviso durò giusto il tempo che occorse ai bambini per rendersi conto di quello che era successo; poi esplosero in urla di gioia, e fecero a gara a chi conquistava i luoghi più vicini al nuovo narratore, per poter sentire meglio.

Ormai tutti gli occhi erano puntati su Takeru, compresi quelli di Hikari. Lei cercava di leggere nella sua espressione quella storia che poteva quasi vedere formarsi nella sua testa.

E Takeru fissò a lungo il principino nel disegno, quasi volesse far suoi quegli occhi, quel carattere, quei lineamenti. E non li staccò da quel foglio nemmeno quando iniziò a parlare, incerto e concentrato.

“Fu allora che il principino vide, alla sua destra, un enorme prato, con una distesa immensa di fiori coloratissimi e di tutte le forme. Era davvero uno spettacolo meraviglioso: ognuno di loro brillava al suo interno, come se ci fossero migliaia di lucciole in ogni corolla. Il bambino, incuriosito, fece per avvicinarsi ad un fiore azzurrino, quando all’improvviso apparve accanto a lui una donna bellissima, incoronata di fiori, e circondata di luce. Lei disse al principino che era la guardiana di quel giardino: il suo compito era quello di impedire ai malvagi di cogliere quei fiori, e di usarli per conquistare il potere. Il bambino le chiese dove avrebbe potuto trovare il fiore della Purezza, e la donna sorrise. Cammina davanti a te, guarda bene e lo troverai in mezzo agli altri. Solo così potrai portarlo con te, gli disse, e poi sparì.

“Allora lui fece come gli era stato detto. Camminò e camminò, guardandosi intorno: c’erano tantissimi fiori, tutti bellissimi, ma non sapeva quale fosse il fiore che sua mamma gli aveva chiesto di cercare. E camminò finché non sentì un profumo buonissimo, che nessun fiore aveva mai emanato. Si alzò in piedi, e seguì quel profumo, curioso di sapere da dove provenisse, finché non si ritrovò davanti ad una piccola aiuola, all’interno della quale c’erano solo tre fiori, di grandi dimensioni.

“Uno era rosso fuoco, con petali grandi e delicati, e sembrava che brillasse più degli altri: era alto, con uno stelo sottile e leggermente ripiegato su se stesso; l’altro era blu notte, misterioso e attraente, più basso del primo, ma dritto e imponente; l’ultimo, era l’esatto opposto, con i suoi petali grigiastri e appassiti, lo stelo afflosciato, le foglie appassite: era così brutto che il principino lo guardò solo per un momento, e si concentrò sugli altri due. Forse uno dei due può essere il fiore della Purezza, pensava. Ma era indeciso su quale dei due scegliere, perché erano entrambi i fiori più belli che avesse mai visto.

“Il principino decise di cogliere il primo fiore, e si chinò per raccoglierlo. Ma quando stava per staccarne lo stelo si accorse di un particolare: l’odore emanato da quel fiore luminoso era sgradevole, non era quello che aveva sentito. Allora andò verso il fiore blu, ma l’odore era ancora più sgradevole del primo. Accanto a sé non c’erano altri fiori, solo quello grigio e rinsecchito: si avvicinò a quel fiore, non sapendo cosa fare, ma rimase sorpreso: era proprio quel fiore così brutto ad emanare quel profumo così buono.”

Un moto di stupore seguì l’ultima parte della fiaba: nessuno dei piccoli, fino a quel momento, si era aspettato un simile capovolgimento di eventi.

E Hikari non riusciva più a nascondere un sorriso luminoso, ormai.

Takeru era venuto lì con tutta l’intenzione di imparare da loro, da lei. Ma probabilmente non si era accorto che ad apprendere qualcosa di lui sarebbero stati loro.

Quella fiaba parlava di Takeru molto di più dei suoi stessi discorsi.

“E il principino, deciso, colse quel fiore grigio, per via di quello che poteva sentire e non vedere. E improvvisamente il fiore si illuminò di una luce abbagliante, e quando il piccolo aprì nuovamente gli occhi, si ritrovò di nuovo accanto alla cascata. Ma il fiore che aveva tra le mani non era più morto: era bianco, immacolato, e bellissimo. Era davvero il fiore della Purezza che sua madre gli aveva detto di cogliere.”

“E poi?”, incalzò ad un tratto Junichi, interessato. “Andò a salvare il suo popolo e il consigliere con il drago?”

Vide Takeru alzare lo sguardo, e fissare il bambino come se non credesse ai suoi occhi, come se il senso di meraviglia per quello che vedeva lo stesse sopraffacendo. Poi annuì. “Certo. Corse dal suo consigliere ferito, e allora il fiore si illuminò, e fece scappar via il drago, e guarì le ferite dell’uomo. E bastò desiderare di tornare subito a casa perché il fiore ubbidisse al suo comando.

“Il regno era diventato un luogo nero e triste, e l’usurpatore si arricchiva dei beni che sottraeva al popolo. Il principino andò al castello, ma non volle combatterlo: desiderò che suo zio perdesse ogni potere, e così fu. Il mago cattivo venne chiuso in prigione, e il regno tornò ad essere prospero e bello per sempre.

“Il principino regnò per tutta la vita con saggezza e bontà, sempre accompagnato dal suo fido consigliere. Ma non dimenticò mai il fiore che aveva raccolto: lo tenne con sé, nel suo giardino più bello, e lo osservò ogni giorno, perché sapeva che un buon re deve essere sempre puro di cuore, per potersi prendere cura del suo popolo.”

Lo sguardo di Takeru divenne timido, quando infine tacque.

“Cosa ne dite?”

“E’ una storia meravigliosa!” strillò Ryoko, finalmente asciugandosi le lacrime e saltellando per la gioia, e presto commenti simili si levarono da ogni dove.

“Caspita: chi lo immaginava che avessi tanta inventiva?”, commentò Mimi, felicemente stupita, e gli sorrise con aria ammiccante.

Asami si alzò in piedi, dichiarando allegramente: “Sarebbe bellissimo avere un fiore magico!”

Keiji fissava Takeru con tanto d’occhi, la bocca spalancata fino a formare una buffa O. E per una volta non ebbe il coraggio di commentare nulla contro di lui.

E nello stupore generale, Takeru si aprì in un sorriso entusiasta. Guardava i bambini come se lo spettacolo fosse il più bello che avesse mai visto, e i suoi occhi brillavano di una gioia difficilmente spiegabile a parole.

Ma mentre lui era preso dal suo pubblico, Hikari osservava il giovane come se fosse lui lo spettacolo più bello che avesse mai visto.

Non aveva mai visto comparire sul suo viso un sorriso tanto bello. Forse non si era mai nemmeno accorta di quel lato semplice e dolce del suo carattere, che inquietudine e solitudine avevano tentato in tutti i modi di soffocare e nascondere.

Ma ora li vedeva in tutta la loro chiarezza.

E sentì il suo cuore accelerare inspiegabilmente i battiti, mentre continuava a guardarlo. Perché il suo viso era davvero bello, ora che una luce timida, ma più forte di quella del fiore della Purezza di cui aveva parlato, cominciava a porre, pian piano, le basi per un piccolo castello di sogni e speranza nei suoi sorpresi occhi azzurri.



Bene, molto bene. Un capitolo più chilometrico non poteva uscirmi xD Ma pazienza... Dopotutto c'erano da analizzare diverse cose, e ho preferito non dimezzarlo. Per me aveva più senso lasciarlo così com'è u.u
Comunque sia, bentrovati :) andando avanti con le pubblicazioni mi rendo conto che questa storia è qui da quasi un anno... E dovrebbe essere un anno preciso da quando l'ho ideata per la prima volta. Per me è davvero un bel traguardo, considerando quanto impegno richieda scrivere una storia del genere... E mi sento lusingata una volta di più dai vostri commenti fantastici. Sul serio: sono commossa ** ripagate un anno di fatiche, e non potrò mai ringraziarvi abbastanza!
marghepepe, mi fa piacere aver risolto l'equivoco con Satsu: avevo davvero pensato al peggio, scusami ^//^ piuttosto, mi hai lasciato una recensione interessante da diversi punti di vista, e per questo ti ringrazio. Prima di tutto, per la questione di Ken e Osamu, che dici di non aver mai sentito vicini come Yamato e Takeru, o come Taichi. Ti dirò... anche a me è occorso più tempo per comprenderli del tutto, perché io trovo che il loro rapporto sia molto più complicato di quello tra le altre due coppie di fratelli. La mia passione per loro è iniziata quando ero grande abbastanza per capirli ^^ e ad ogni modo li trovo molto interessanti da analizzare. Poi ... la questione Takeru. Dici che la Rai ne ha travisato il personaggio? Mmm ... non sono totalmente d'accordo, a dirla tutta. Ho visto tutta la serie in giapponese, e ti do ragione sulla questione della censura delle parolacce, ma a me sembra che il Takeru italiano soffra esattamente come quello giapponese. Non so ... sarà questione di opinioni xD Infine, ti ringrazio anche per aver tentato di indovinare l'identità del padre di Keiji :) ma preferisco non rivelarti nulla per questione di suspence xD e mille grazie anche per i complimenti! Aspetto pareri  **
Shine, ogni volta che leggo una tua recensione mi sembra sempre che tu abbia capito appieno ciò che volevo dire di ogni protagonista di cui tratto ... e l'analisi che fai delle sensazioni e delle vicende che riguardano Ken sono, lo ammetto, le mie preferite. Forse perché si vede che lo adori ^^ Mi fa tantissimo piacere leggere, ogni volta, l'interpretazione che dai ai miei aggiornamenti: è in questi momenti che penso davvero che il mio lavoro serva pure a qualcosa xD E i complimenti sui fratelli di Miyako sono davvero preziosi: credo che tu sola possa sapere quanto mi è stato difficile renderli così sofferenti -dopo tutto il retroscena che tu sai-, e quanto, soprattutto, è difficile differenziare le reazioni tra loro. Grazie, grazie per ogni parola che spendi per questa storia ^^ e ovviamente per la lunghezza dei pareri, per i dettagli ... li adoro sinceramente **
Un grazie e un bacione grande anche a Mystery Anakin, che purtroppo stavolta non ha potuto lasciarmi una recensione causa esami ... non credere che anche soltanto leggere e apprezzare non sia una gran cosa, per me ;) e terrò ben presente i tuoi sospetti riguardo il padre di Keiji!
Ancora una volta un grazie a chi legge e segue in silenzio :) al prossimo capitolo!
Padme Undomiel

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Capitolo 17
*** I più vicini estranei ***


Purity 15
15.


I più vicini estranei






Il ticchettio di un orologio nella sala, la luce di una piccola lampada da scrivania che rendeva visibile qualche piccolo dettaglio del suo studio.

Vorrei solo un po’ di comprensione, nulla di più.

Qualche rumore che risuonava giù in strada e che si rendeva più udibile grazie alla finestra aperta, una fresca brezza tipica della notte che gli soffiava sul viso.

Sono distanti in ogni momento della giornata, ma proprio quando ho bisogno della loro approvazione, amano mettere in discussione tutto quello che decido o penso.

Una penna che picchiettava ritmicamente e distrattamente sulle pagine irrigiditesi di quel diario viola, aperto sulle stesse pagine. Un paio di occhi azzurri stanchi ma concentrati sulle stesse frasi, sulle stesse parole. Sulla stessa grafia frettolosa e quasi illeggibile di una ragazza.

Sto piangendo ed ho chiuso la porta a chiave: meglio che mi sentano, magari provano un po’ di senso di colpa per il pessimo comportamento che hanno nei miei confronti.

Un giovane dai lisci capelli scuri dalle sopracciglia aggrottate, e una mente che lavorava frenetica persino a quella tarda ora della notte.

Li odio, come loro odiano me.

Ichijouji Ken sospirò per l’ennesima volta, determinato a non farsi sopraffare dalla stanchezza evidente che sentiva pesare sui suoi occhi come un macigno. Erano due giorni che esaminava quel diario alla ricerca di una pista nuova da seguire, ma solo quella sera aveva ricordato un particolare importante.

Era arrivato ad una conclusione, l’ultima volta con Osamu.

Non ci aveva dato il giusto peso. O forse, non aveva semplicemente voluto.

Quella pagina del 31 dicembre diceva molto più di quello che sembrava.

A chi altri poteva riferirsi, se non alla sua famiglia? Parlava di chiudersi in camera, di farsi sentire da loro … Non poteva essere altrimenti.

E un improvviso pensiero lo colpì, mentre lasciava cadere la penna sulla scrivania.

La signora Inoue e il suo dolore sfociato in quanto di più simile alla pazzia esistesse. Il signor Inoue, che tanto poco si era dimostrato incline a parlare con lui, quando era andato a trovarlo in negozio l’ultima volta.

Tutte quelle reazioni potevano essere dovute ad una relazione poco felice con la figlia minore?

Ken si abbandonò stancamente sulla sedia, sospirando. Non doveva affrettare le sue conclusioni: era un punto sul quale Osamu era stato ben chiaro. Era anche vero che poteva trattarsi di un episodio sporadico, senza conseguenze particolari nella vicenda. Poteva darsi che la sua voglia di risolvere il caso lo stesse portando a fidarsi troppo di un diario che non era certamente nato per essere una prova, quanto uno sfogo.

Eppure …

Eppure tutto sembrava quadrare, in qualche maniera.

Rabbia, rabbia, rabbia, rabbia.

No. Una qualche situazione difficile doveva essere accaduta. E l’unica pista che gli restava da percorrere era quella della sua famiglia.

Aveva molte probabilità di trovare un indizio. Un altro.

Ma i signori Inoue non potevano dargli risposte: lei si era alienata dalla crudele realtà, lui era semplicemente così stanco di tutto da reagire con la rabbia al suo tentativo di capirne di più.

Non restava che un modo.

Afferrò il cellulare, sollevando lo sguardo solo per un istante sull’ora. Le 2:30 del mattino. Era molto tardi, in effetti. Troppo, per una telefonata: rischiava soltanto di svegliarlo, e non aveva davvero voglia di infastidirlo ulteriormente.

Lo aveva già fatto abbastanza, anche se non ne comprendeva bene il motivo.

Scosse la testa, scrivendo, incerto, un messaggio. Lui avrebbe risposto quando avesse voluto, e al contempo era sicuro che lo avrebbe aiutato ad avere quell’informazione fondamentale che cercava.

Premette il tasto di invio, e rimase a fissare la schermata del suo cellulare, sentendosi inspiegabilmente nel torto a farsi sentire per quelle indagini. C’era qualcosa che cambiava rapidamente nel suo rapporto con lui, e non riusciva ancora a capire il motivo di quell’improvviso raffreddarsi del suo comportamento.

O forse, quella freddezza, lui, l’aveva sempre nascosta.

Come nascondeva il resto, come nascondeva i suoi sentimenti e le sue impressioni.

Forse, era stato solo lui l’illuso e lo sciocco. Non aveva capito sul serio.

Con mal di testa crescente e un senso di sconforto a tormentarlo, Ken abbandonò il cellulare sulla scrivania, questa volta determinato a rimandare i suoi ragionamenti ad un momento più consono.

Supponeva che quella notte non avrebbe ricevuto altre informazioni: le sue intuizioni avrebbero avuto un seguito solamente l’indomani.

E ci fu solo il ticchettio di un orologio, la luce di una piccola lampada da scrivania, una sedia appena abbandonata e un cellulare posato, in maniera rassegnata, sul piano rigido, in quello studio.

Finché la vibrazione di un messaggio non lo fece sobbalzare, e fermare mentre andava via.

E il giovane tornò indietro, gli occhi sgranati, confuso.

Afferrò il cellulare, vide un messaggio, lo lesse, sorpreso.

Un indirizzo. Esattamente quello che aveva chiesto.

E un paio di frasi in aggiunta, così fredde nel loro carattere di cellulare ma così inconfondibili riguardo al mittente.

“Vivono tutti e tre in questa grande villa. Li troverai tutti qui. Fai quello che sai e puoi fare.”

Aveva scoperto che lui e suo fratello non erano poi tanto dissimili, in fondo.

Anzi, forse erano troppo simili.

Entrambi appassionati di indagini e misteri, entrambi determinati a risolvere ogni caso che si presentava loro, a tal punto da non riuscire a dormire senza prima aver impiegato ogni forza nel cercare di dare una svolta alle indagini.

Entrambi così distanti.

Eppure, Ken si ritrovò a sperare scioccamente di non essere l’unico a volersi riavvicinare a Osamu, mentre cercava di scacciare dalla mente quel dannato senso di colpa.

Sospirò, spense il cellulare, e poi la luce.

Il buio sembrò accompagnarlo, comprensivo, quando Ken chiuse la porta e lasciò che il silenzio regnasse, ancora una volta, sovrano.

***

Non era passato da Osamu, quella mattina: il giovane detective era molto impegnato in un caso al quale stava lavorando da qualche tempo, e gli aveva chiaramente detto che non poteva staccarsi dal lavoro.

Ma Ken non era nemmeno sicuro che si sarebbe presentato di sua spontanea volontà, ad essere sinceri.

Non riusciva a compiere quei piccoli gesti quotidiani ai quali era abituato. Non era nemmeno passato in libreria, nel primo pomeriggio.

L’eccitazione per una possibile svolta nelle indagini, il desiderio di saperne di più, la voglia di trovare la verità e di conoscere ciò che era successo a Inoue Miyako avevano preso il sopravvento su tutto il resto. Aveva perso tempo troppo a lungo: aveva delle responsabilità molto grandi, dopotutto.

Troppe cose dipendevano dalle sue azioni. Davvero troppe.

E Ken non intendeva darsi per vinto per nulla al mondo.

Camminava per le strade, per una volta preferendo andare a piedi piuttosto che prendere la macchina, e pensava, sorpreso, a quanto questo caso avesse avviato qualcosa di nuovo che ancora non sapeva spiegarsi. Ora provava in prima persona quello che suo fratello viveva ogni giorno sul lavoro: l’emozione dell’indagine, il mettere alla prova le proprie abilità, lo scoprire verità nascoste.

E sapeva che aveva intrapreso una strada dalla quale molto difficilmente si sarebbe allontanato, semmai avesse terminato quell’indagine insieme a suo fratello.

E man mano che rifletteva sulla sparizione di Miyako, era sempre più intraprendente: prima di andare a trovare la signora Inoue era incerto, dubbioso, e aveva quasi avuto bisogno di chiedere un parere a Osamu.

Questa volta, si era limitato a comunicarlo a lui, senza chiedergli nulla.

Osamu sarebbe stato felice della cosa, considerò, con un sorriso ironico. Era stato lui, d’altronde, a dirgli che essere indipendente gli sarebbe stato utile in futuro.

Lui non sapeva se esserne felice o meno: la paura di sbagliare era sempre lì, sotto il suo amore per quello che faceva, eppure ora più che mai doveva farcela. Non poteva fermarsi.

Scorse in lontananza la struttura che stava cercando, e affrettò il passo, avvicinandosi.

Sperava di aver scelto l’orario giusto per far loro visita: aveva pensato che alle sei del pomeriggio avrebbe avuto più probabilità di trovarli tutti e tre a casa. Se avesse avuto fortuna, non avrebbe dovuto rimandare ancora a lungo la conversazione con loro.

Era curiosa come scelta di abitazione: doveva essere press’a poco una villa bifamiliare. Forse i fratelli di Miyako avevano semplicemente deciso di non separarsi vivendo in luoghi differenti, per qualche motivo che poteva essere paura di distruggere ulteriormente la propria famiglia o volontà di nascondere delle prove importanti nel peggiore dei casi.

Peggiore dei casi al quale Ken non voleva pensare, per il momento. Il pensiero di tanta sofferenza arrecata ai loro genitori e a Miyako stessa da parte di membri della sua famiglia era anche troppo terribile da concepire.

No, doveva aspettare. Aspettare e calmarsi.

Davanti all’edificio si bloccò, osservando, attento, la zona nella quale era ubicato.

C’erano pochi passanti nei dintorni, e nel complesso il quartiere era molto silenzioso. Un tipo di silenzio nettamente diverso da quello avvertibile nelle fredde camere di casa Inoue: questa volta era quasi un silenzio raccolto, come se la vita al di fuori della villa non riuscisse a penetrare la porta d’ingresso, o le finestre.

Era un silenzio che sembrava racchiudere l’abitazione in una bolla protettiva.

Il giovane rimase per un attimo ad ascoltarlo attentamente, attonito.

Era un’abitazione perfetta, se si cercava un’utopica via di fuga dalle sofferenze. Il senso di ribellione al dolore, questa volta, non si era creato all’interno della mente, come nel caso della signora Inoue, ma all’esterno.

Scosse la testa, come per scacciare quelle sensazioni dalla mente. A grandi passi, con il diario e tutti i documenti che aveva raccolto fino a quel momento ben chiusi nella cartellina che portava tra le mani, la determinazione nei suoi occhi.

E in breve tempo, era già davanti alla porta d’ingresso, un silenzio innaturale rotto solo dal suo respiro, e dal battito accelerato del suo cuore.

Chiuse gli occhi, e inspirò profondamente. Quando espirò piano, la calma era già tornata a dominarlo completamente. E quando li aprì nuovamente, non aveva più incertezze.

Alzò una mano, e suonò il campanello dell’abitazione.

Lo sentì risuonare dall’interno, e rimase in attesa di un qualche tipo di suono, lo sguardo concentrato e fermo, la mano stretta sulla cartellina.

Finché, un rumore di passi leggeri e di voci tranquille in avvicinamento.

E la porta si aprì, mentre Ken si preparava a spiegare la sua presenza lì come non aveva potuto fare con la signora Inoue.

Ma si fermò, interdetto.

Sulla soglia c’era una donna, come si aspettava parzialmente di trovare. Ma il suo viso non assomigliava a nessuna delle sorelle di Miyako che aveva potuto osservare nella foto.

Aveva lunghi capelli neri, raccolti per poter essere più libera, probabilmente, e aveva profondi occhi neri che non avevano nulla del delicato color castano degli occhi della famiglia Inoue. Il suo viso era lievemente più tondo, e le labbra più carnose, ed era più minuta di quello che si aspettava.

Ken rimase spaesato a fissarla, e a ricambiare l’espressione di pura sorpresa sul viso di lei. Possibile che si trattasse di una delle sorelle di Miyako? Possibile che fosse tanto diversa?

“Posso fare qualcosa per lei?” chiese, con tono squillante.

Non poteva essere nessun membro della famiglia Inoue, decise il giovane, sempre più confuso. Esitò, prima di cominciare a parlare.

“Buon pomeriggio, sono Ichijouji Ken. Io … cercavo Inoue Momoe, Mantarou e Chizuru. Volevo sapere se sono in casa, dovrei parlare loro di questioni importanti. Può dirmi cortesemente se …?”

“Mamma, chi è alla porta?”

Improvvisamente, una piccola testa ricciuta aveva fatto capolino da dietro la porta, interrompendo il debole tentativo di Ken di chiedere informazioni e sbirciando con aria vispa. La donna si voltò di scatto, e il suo cipiglio si fece severo.

“Tomoyo-chan, ti avevo detto di restare con papà! Vuoi ammalarti di nuovo? Fa freddo!” la rimproverò, spingendola verso l’interno della casa.

“Ma io voglio sapere … zia ha detto che potevo sapere!”

“Non ci credo. Da quant’è che dici bugie alla tua mamma?”

Ken aveva sgranato gli occhi, mentre un pensiero improvviso gli aveva attraversato la mente. Era sicuro di aver già visto quei lineamenti, quei tratti caratteristici sul viso della bambina. E il padre di chi si stava parlando, allora, poteva essere …

E poi, una risata femminile in avvicinamento. “La riporto dentro io, Reiko-chan. Lo avrei fatto prima, ma mi è sfuggita …”

Finché un’altra donna, con occhiali e capelli castani tenuti fermi da dei fermagli colorati non comparve, sorridendo serena, per poi osservarlo con curiosità.

Ken sussultò, scorgendo la sua figura.

“Buon pomeriggio” salutò cortesemente, seppur confusa, Inoue Momoe.

E il giovane riuscì solo a guardarla in silenzio, cercando un qualunque segnale del cambiamento sul suo viso.

Non era cambiata poi tanto, dopotutto. La sua espressione era solo più matura, i suoi occhi più saggi, il suo sorriso più dolce. Era più alta, e la maniera con la quale aveva posato la mano sulla spalla della piccola Tomoyo era decisamente materna. Doveva essere sulla trentina, o poco più. Avvertì un senso di sollievo alleviare il peso che aveva nel petto: solo in quel momento si rendeva conto di quanto avesse avuto paura di trovare un viso spento e un’aria abbandonata nel suo aspetto, proprio come era avvenuto con la signora Inoue. Fortunatamente Momoe non aveva dovuto sopportare anche questo.

La donna chiamata Reiko si voltò verso Momoe, parlando a bassa voce. “Ha detto di chiamarsi Ichijouji Ken. Stava cercando te e i tuoi fratelli.”

Solo allora il sorriso scomparve dalle labbra della sorella maggiore della famiglia, e i suoi occhi, pieni di dolore confuso, di sorpresa, di intensità, si fissarono nei suoi come a chiedere conferma.

Poi abbassò la testa per un secondo, e Ken riuscì a scorgere sul suo viso un’espressione stanca e rassegnata, prima che rialzasse lo sguardo su Reiko e le chiedesse a mezza voce: “Chiama tuo marito e Chizuru-chan. Dì loro di aspettarci nel salotto, e riferisci loro il nome del nostro visitatore, per favore.”

L’altra annuì in fretta, e andò via, portando con sé quella che doveva essere sua figlia.

Rimasero in silenzio per alcuni istanti. Il giovane non si era mai sentito così fuori luogo: ancora una volta, sentiva di star violando il dolore altrui, ma non sapeva cos’altro avrebbe potuto fare.

Forse era proprio quella la differenza tra lui e Osamu: lui non era mai sicuro di nulla.

Sospirò piano. “Mi dispiace di aver disturbato” si scusò, non sapendo come altro comportarsi. “Ma è sempre stato mio fratello Osamu a occuparsi delle indagini, e avevo bisogno di accertarmi io stesso di determinati avvenimenti. Lavoro con lui al caso, in questo momento.”

Momoe annuì, e Ken fu stupito di vederla sorridergli gentilmente.

“Hai avuto la fortuna di trovarci tutti qui, Ichijouji-san” rispose, e si scostò dalla porta per lasciarlo entrare. “Se si parla delle indagini relative a Miyako-chan, non è mai un disturbo. Io e i miei fratelli saremo ben felici di aiutarti.”

***

Era una casa molto grande, scoprì Ken quando ebbe varcato la soglia. Grande abbastanza per ospitare più famiglie.

Ed era una casa molto accogliente, che prediligeva i colori caldi e abbastanza intensi alle  tonalità tenui e fredde.

Persino in quel gran salotto, con finestre ariose, tende sull’arancione, poltroncine all’apparenza così comode, quel clima di apparente serenità e allegria sembrava permeare ogni cosa.

Tutto, tutto quanto sembrava contrastare con l’espressione dei suoi abitanti.

Mamoru era un uomo alto e dalle spalle possenti, con una corta barba scura e capelli ricci dello stesso colore. Sembrava turbato, mentre Momoe gli spiegava in breve che avevano bisogno di parlare con lui.

“Si tratta ancora delle indagini, Momoe-chan?” lo sentì dire, con aria apprensiva.

Vide Momoe annuire gravemente. “Resta nella camera per un po’ insieme a Reiko e Tomoyo-chan: quando avremo finito vi chiameremo.” Poi gli prese le mani, con un piccolo sorriso rassicurante. “Starò bene, amore. Non preoccuparti per me.”

La fede dorata brillò sul suo anulare, e Ken ebbe conferma di ciò che aveva intuito.

“Ma perché non posso restare, papà? Io voglio sentire quello che dite voi grandi!”

Ken si voltò verso la destra, spostando l’attenzione sull’uomo seduto su una delle poltrone, che teneva in braccio la bambina in pigiama che doveva essere sua figlia.

Si permise di osservare la scena, osservando in volto Inoue Mantarou, ora padre di una figlia e sposato.

Lo vide sospirare, scuro in volto. “Tomoyo, smettila immediatamente di fare i capricci, va bene? Non è proprio il momento!”

“Ma papà …”

“Reiko-chan, portala via. Non è il caso che stia qui mentre parliamo di Miyako.”

Neanche lui era cambiato poi tanto rispetto a come Ken ricordava di averlo visto in fotografia: aveva lo stesso taglio di capelli e più o meno la stessa altezza, anche se si era irrobustito. Ma gli occhiali davanti agli occhi non mettevano più in risalto uno sguardo spensierato, bensì uno profondamente stanco, profondamente segnato. E le sue labbra non erano più piegate in un sorriso malizioso, ma erano contratte in una smorfia di supplica velata mentre guardava Reiko.

E vide lei ricambiare l’occhiata intensa, mentre prendeva in braccio la bambina intenta a protestare. “Mantarou-kun, sta’ tranquillo, per favore. Lo sai che non ti serve a nulla farti ancora più male prendendotela con la polizia …”

E lo sentì sbuffare, sarcastico. “Ho scelta?” Ma poi parve notare lo sguardo della moglie. “D’accordo, ti giuro che farò il possibile.”

Ken non riusciva a sopportare quel senso di inadeguatezza. Era come se fosse arrivato fin lì solamente per distruggere la loro tanto sudata serenità: dai piccoli gesti, dagli intensi sguardi che si erano scambiati, era come se Ken avesse riaperto un cassetto che preferivano tenere chiuso.

Si trovò costretto ad abbassare lo sguardo, cercando la forza per portare avanti il suo compito, mentre Mamoru, Reiko e Tomoyo lasciavano la stanza e Inoue Chizuru entrava nel salotto con un vassoio in mano, per poi posarlo sul tavolino.

“Il tè è servito, Ichijouji-san” disse con serietà, come se si trattasse di un dettaglio di grande importanza.

Il giovane la guardò, sorpreso e interdetto, per poi rendersi conto che gli stavano dedicando un’accoglienza degna di quel nome. Sorrise lievemente, chinando la testa in un piccolo inchino.

“Non era necessario, ma grazie davvero.”

Chizuru, la corporatura minuta, i capelli più lunghi di come li ricordava, gli occhiali sempre uguali, l’espressione di curiosità permeata da una grande tristezza che a Ken parve così intensa da farlo fermare, sconvolto, scosse la testa, come a dirgli che non era nulla, e poi andò a sedersi sul divano, accanto a Momoe.

“Puoi sederti su quella poltrona, Ichijouji-san” gli disse cordiale la maggiore dei fratelli Inoue, con un sorriso gentile. Ken assentì, e si accomodò davanti a Mantarou, la cartellina ancora stretta in mano.

Per un istante sorseggiò il suo tè, cercando di pensare a come iniziare il suo discorso; poi li guardò, non riuscendo a nascondere un senso di tristezza per quello che stava per fare. “Mi dispiace davvero di essere venuto qui senza alcun tipo di preavviso” si scusò. “Non volevo disturbare. Immagino che non debba essere bello parlare di certi avvenimenti.”

“Avete trovato Miyako-chan?” domandò a bruciapelo Chizuru, sporgendosi improvvisamente verso di lui con aria supplichevole. Quasi impercettibilmente, anche gli altri due fratelli fissarono lo sguardo nel suo, pregando per una risposta positiva.

Che non poteva arrivare.

Sospirò, distogliendo lo sguardo. “Ancora no.”

E Chizuru, con gli occhi lucidi, voltò la testa, tentando di trattenere le lacrime. Momoe chinò il capo, e tutto di lei sembrava trasmettere sconfitta. Mantarou emise un sospiro frustrato, portandosi una mano sugli occhi e bisbigliando, a mezza voce: “Dannazione …”

Ken chiuse gli occhi per un istante, appellandosi a tutta la forza d’animo che possedeva. Infine, il suo sguardo si fece fermo e deciso, mentre tornava a guardarli. “Ancora no” ripeté, e l’attenzione fu ancora su di lui. “Ma io sono qui per cercare di trovarla, e nemmeno mio fratello ha rinunciato a trovare vostra sorella. Sono qui per chiedere il vostro aiuto, perché non possiamo permetterci di dare qualcosa per scontato, neanche il minimo dettaglio. So che è difficile, ma possiamo farcela, con il vostro contributo.”

Mantarou lo guardò, scettico e disilluso. “Aspetta, fammi capire, Ichijouji” gli disse. “Cosa potrebbe cambiare se ad interrogarci fossi tu e non tuo fratello? Noi non abbiamo davvero idea di dove sia Miyako, e non abbiamo avuto nessun’altra informazione utile per le vostre tanto lunghe indagini.”

L’accusa non fu poi tanto velata, e si guadagnò un’occhiata di rimprovero da parte di Momoe. Ma Ken non si scompose. Come poteva pretendere che non fosse furibondo, considerato quanto dovevano soffrire, e quanto fosse frustrante trascorrere otto anni senza sapere nulla di Miyako? Si era aspettato una reazione del genere, e non lo biasimò per questo.

“Può cambiare semplicemente perché abbiamo un elemento in più rispetto a tempo fa” gli rispose, e vide lo stupore sul suo viso. Aprì la cartellina ed estrasse quel rovinato quadernetto viola che aveva funto da diario segreto di Miyako, per poi mostrarlo ai tre fratelli, con aria seria.

“Sapete nulla del diario di vostra sorella Miyako?”

Il silenzio attonito durò per appena un istante. Poi, successe tutto fulmineamente.

Mantarou scattò in piedi, turbato; Chizuru si avvicinò in fretta, prendendo il diario dalle sue mani e sfogliandone le pagine, come se volesse cercare una traccia di sua sorella tra quelle righe; Momoe si sporse in avanti, come chi cerca di leggere ma non trova la forza nelle gambe per alzarsi.

Ken li guardò, mentre, infine, la minore dei tre tornava a sedersi e leggeva insieme agli altri due, affollati accanto a lei. Vide nel loro viso alternarsi stupore, dolore, confusione, rimpianto, senso di colpa, e poi ancora dolore incommensurabile.

Infine Momoe alzò lo sguardo su di lui, mortalmente pallida. “Dove l’avete trovato?” sussurrò.

“A casa dei vostri genitori. E’ stata vostra madre a mostrarmelo, ed era già in quelle condizioni.” Rispose lui con le sopracciglia aggrottate, alludendo alle pagine strappate e ai pezzi mancanti. “Ne conoscevate l’esistenza?”

“No, diamine, no” mormorò Mantarou, profondamente turbato. Le sue mani strette a pugni tremavano.

Chizuru, il capo ancora chino sulle pagine di quel diario, singhiozzò piano.

Ken sospirò ancora, chiedendosi quale strazio stessero provando i tre fratelli. “Qualunque cosa sappiate, per favore, ditemela. Ho bisogno di ogni tipo di informazione possibile.”

Ancora una volta, silenzio.

“Vi prego” insistette lui.

“Forse possiamo sapere qualcosa sulla pagina del 31 dicembre” disse con voce tremante Chizuru, e Ken sussultò, sentendo nominare proprio la pagina che lo aveva portato ad indagare sul loro conto. “Ma io non … non pensavo che Miyako-chan potesse averne sofferto tanto …”

Si interruppe, osservando con gli occhi lucidi i suoi fratelli. “Può davvero trattarsi di quei litigi tra lei e i nostri genitori?”

Aveva fatto centro, allora. Era tutto come aveva supposto, si disse, assottigliando lo sguardo. Questo poteva spiegare molte cose: sapeva bene che gli adolescenti erano spesso in contrasto con i genitori, e che spesso tendevano ad esagerare le loro reazioni a causa della loro altissima emotività e insicurezza. L’unica cosa che restava da verificare era il motivo per il quale i fratelli di Miyako avessero deciso di tacere questi avvenimenti.

“Miyako e i vostri genitori avevano un rapporto conflittuale?” volle sapere subito, osservando il viso di Mantarou scurirsi e quello di Momoe riempirsi di struggente senso di colpa. “Per quale motivo?”

“Non lo sappiamo” ammise a bassa voce la maggiore.

E Ken la guardò, sconvolto. “Come?” domandò, spiazzato. “Non sapete come mai i vostri genitori e Miyako potessero avere …”

“Proprio così! Non sappiamo quasi nulla di cosa possa essere successo, va bene?” urlò esasperato Mantarou, e il giovane si interruppe di colpo. “Solo informazioni pressoché inutili, perché non ci siamo mai interessati completamente alla faccenda! Ora capisci perché, diario o no, non possiamo fare granché per aiutarti a trovare mia sorella?”

“Mantarou-kun”. Lo riprese Momoe, con tono fermo, e lui si zittì, guardando Ken con un’espressione così piena di confusi tormenti e rabbia sopita che lui non poté fare a meno di guardarlo, ammutolito.

“Scusaci tanto, Ichijouji-san” continuò poi la donna, con tono di voce appena udibile. “La verità è che alle volte non ci accorgiamo di quanto abbiamo … lo facciamo solo quando è tardi. Quando abbiamo perso tutto, e non si può più tornare indietro.”

Ken la guardò, e vide uno spirito saldo nei suoi occhi. C’era un grande, incommensurabile dolore in lei, ma nonostante ciò era ancora in piedi, dritta davanti a lui, con lo sguardo fermo e nessuna lacrima a premere per uscire. Era davvero diversa dai suoi fratelli, l’uno che mascherava il suo dolore con una rabbia incontrollabile, l’altra che cercava in ogni modo di non piangere; ma l’irruenza dei due fratelli minori era sostituita dalla sua forza interiore, che pareva imporsi sulla sofferenza che evidentemente provava.

“Miyako e i nostri genitori iniziarono a litigare verso i suoi diciassette anni, credo” cominciò a raccontare, mentre Ken la ascoltava, attento. “A quel tempo, non eravamo affatto uniti tra noi come ci vedi adesso: ognuno di noi viveva, sostanzialmente, la sua vita, e i troppi impegni spesso ci allontanavano l’uno dall’altro. Io studiavo per l’università, e il poco tempo libero che avevo lo trascorrevo fuori da casa. Mantarou-kun cercava un lavoro stabile per avere una sua indipendenza. Chizuru-chan …”

“… me ne disinteressavo, punto e basta.” Terminò con autocondanna Chizuru, a testa bassa. “Non serve che tu mi difenda.”

“Semmai fosse stato così, saremmo da biasimare tutti, non solo tu” la consolò dolcemente Momoe, per poi sospirare e riprendere. “Non le siamo mai stati così vicini come ci si sarebbe aspettato da persone come noi. E’ per questo che non sappiamo con esattezza come sia andata.”

Uno strano senso di oppressione colse Ken, alla menzione del loro rapporto fraterno mai approfondito. E si ritrovò a pensare ad Osamu, a tutte le cose non dette, alla sua ostilità e freddezza, a quella scarsa comprensione che c’era tra loro.

Si accorse, amaramente sconvolto, che immaginava come ci si potesse sentire.

“All’inizio non demmo peso a questi litigi, avendoli ascoltati solo sporadiche volte quando eravamo a casa” prese la parola Mantarou, forse tentando di non apparire sofferente. “Pensavamo si trattasse del solito caratterino di Miyako, che tendeva sempre a far sentire la sua. Ma poi, i litigi divennero sempre più violenti: molte volte mia sorella si chiudeva in camera in lacrime, molte altre usciva e tornava solo a mezzanotte, o qualcosa del genere. Papà era semplicemente furibondo, e le poche volte in cui ci rivolgeva la parola era solo per dirci di tenerla d’occhio, perché diceva che avrebbe preso una brutta strada. Mamma, invece, era disperata, perché la nostra famiglia era diventata un luogo invivibile. Noi” ,qui rise, sarcastico e amaro: il suono aspro colpì violentemente il giovane dai capelli scuri, “Noi fummo solo capaci di sostenere che stavano tutti esagerando, che ogni genitore teme che i propri figli prendano una brutta strada. Grandi fratelli, eh?”

“Non avete mai provato a chiederlo direttamente a lei?” chiese Ken, stupendosi quando si rese conto di quanto fosse bassa la sua voce. Sapeva solo che nella mente aveva riflesso lo sguardo spento della signora Inoue, la rabbia esplosa del volto del signor Inoue. E quelle sensazioni, quelle drammatiche sensazioni che lo colpivano duramente. Gli sembrava di sentire le anime dei tre fratelli urlare, straziate, ferite a morte, e di non poter scoprire quale coltello le stesse tormentando.

“Ricordati che ci siamo interessati alla faccenda quando ormai era tardi, Ichijouji-san” ribatté Chizuru, decidendo infine di prendere la parola. “Miyako-chan non si fidava più nemmeno di noi, così ci rispose che non potevamo saperlo, perché non l’avremmo capita. Diceva … diceva che mamma e papà cercavano di toglierle ogni sua certezza e felicità. Quella è stata l’ultima volta in cui si è confidata con noi, sai. Poi … è diventata quasi apatica: non ci diceva più nulla, e noi non capivamo, e mamma piangeva, e papà non voleva più parlarle ... E poi è scomparsa.”

Chizuru si interruppe, perché aveva cominciato a piangere.

Un’ondata di compassione colse Ken impreparato, mentre osservava quelle lacrime, quel dolore. E non riusciva a non pensare a loro, che avrebbero portato con sé l’immenso carico dei loro sensi di colpa forse per tutta la vita, se Osamu non fosse riuscito a trovare la loro sorella scomparsa chissà dove. E non riusciva a non pensare a Miyako, a ciò che poteva averla spinta a perdere totalmente la stima e la fiducia nei suoi cari.

Chizuru parlava di sottrarle ogni certezza e felicità … Certezza e felicità …

L’illuminazione arrivò inaspettata, mentre sgranava gli occhi e sussultava.

Lo aveva letto. Conosceva quelle parole quasi a memoria: come aveva fatto a non pensarci?

Ci tenevo che si divertisse con noi e che conoscesse i miei amici, dato che lo stordisco ogni giorno con tutte le mie chiacchiere su di loro!

Ma certo.

“Sapete qualcosa del gruppo di amici che frequentava Miyako?” domandò a voce alta, e i tre fratelli si fermarono e lo guardarono, sorpresi. Il cuore di Ken aveva preso a battere rapidamente, preso dall’entusiasmo di essere arrivato a qualche supposizione.

“Il gruppo di Miyako?” ripeté Mantarou, confuso.

“Sì” confermò Ken. “Il probabile motivo di litigio di Miyako con i vostri genitori. Non potrebbe rappresentare le sue certezze? Cosa sapete a riguardo?”

Momoe esitò. “Non molto” ammise a malincuore. “So che alcuni suoi amici di infanzia ne facevano parte, ma credo che il gruppo fosse molto più vasto. In ogni caso, negli ultimi tempi non ci ha più detto nulla sulle nuove conoscenze. E credo proprio ce ne siano state: Miyako-chan era davvero molto aperta e solare, non amava isolarsi con pochi amici.”

Ken annuì, serio, ma con una strana impazienza a scorrergli nelle vene. Aprì nuovamente la cartellina, per estrarre delicatamente la lista dei conoscenti della giovane scomparsa.

Poi li guardò ancora, pieno di aspettativa. “Ricordate qualche nome?”

Momoe annuì, e lui concentrò la sua attenzione su di lei. “Hida Iori era il suo migliore amico fin da quando lei aveva sei anni” ricordò con un nostalgico sorriso. “Era il nostro vicino di casa. Nostra sorella andava molto d’accordo con lui, nonostante il loro carattere fosse opposto e diversissimo. Anche dopo il trasferimento della sua famiglia a seguito della morte di suo padre i due hanno continuato a frequentarsi.”

Ken annuì, trovando conferma di quello che Osamu gli aveva riferito la prima volta che gli aveva parlato del caso Inoue. Sicuramente era su di lui che doveva concentrare l’attenzione, la prossima volta che si sarebbe dedicato a quelle indagini di persona. “Oltre a Hida Iori potreste segnalarmi qualche amicizia particolare?”

Notando l’incertezza e la confusione sui loro volti, il giovane si alzò in piedi, porgendo loro la lista dei conoscenti di Miyako. “Qui ci sono alcuni nomi: vorrei sapere se sapete qualcosa in più su alcuni di loro.”

Chizuru si sporse a leggere, e Ken la vide sussultare, come se si fosse ricordata di un particolare fino a quel momento sopito. “Io mi ricordo di lui! Ci fu un periodo in cui Miyako-chan lo nominava spesso perché bisticciavano continuamente!”

Aveva indicato un nome: Motomiya Daisuke.

Lui appuntò quel nome sul suo block-notes, sotto Hida. “Bisticciavano?” chiese, confuso. “Se non andavano d’accordo, perché si frequentavano?” Non sembrava aver senso.

“Credo lo sapesse solo lei. Però io ricordo anche Deguchi Naganori, era amico di Daisuke” intervenne Mantarou, con le sopracciglia aggrottate nel tentativo di ricordare. “Lo aveva citato anche nel diario, per questo mi è tornato alla memoria.”

Ken alzò lo sguardo di colpo. Sembrava che l’incontro di quel pomeriggio stesse fornendo informazioni in più proprio sui punti sui quali lui e Osamu si erano soffermati l’ultima volta. “Miyako non aveva stima di Deguchi Naganori, mi sembra di capire da quelle pagine” commentò, domandando implicitamente se tale affermazione fosse vera.

“Questo non lo so. Pare di sì, ma non ricordo di aver sentito nulla di preciso da lei.”

Ken si disse che non doveva esserne deluso. Avrebbe controllato accuratamente anche tutto quello che riguardava Deguchi, ma ora doveva tentare di svelare i misteri di quel diario, per quanto possibile. “E il Caro Simpaticone nominato nella pagina del 18 ottobre non potrebbe essere …?”

Mantarou annuì, improvvisamente animato.“Per quanto ne so, potrebbe trattarsi di Motomiya Daisuke. Questi aggettivi sono ironici, no?”

Lo guardò, e nei suoi occhi scuri Ken scorse la speranza di avergli fornito un dato utile.

E lo era, sicuramente. Si affrettò ad appuntarlo, e mentre scriveva il suo pensiero corse a Osamu, a quanto, in altri momenti, si sarebbe sentito orgoglioso di mostrare i suoi successi a lui. Ora, però, aveva la sensazione che vedere quei dati non gli avrebbe dato alcuna gioia.

“Io non ho lasciato nulla in sospeso, nulla! Eppure, pare che io abbia fallito in qualche maniera!”

Con un senso di sconforto, Ken si costrinse a tornare alla realtà.

“Se è per questo, a me non è nuovo il nome di questa ragazza, Yamanaka Harumi” stava dicendo Momoe, discutendo con i suoi fratelli. “Era una compagna di classe delle medie, se non ricordo male …”

“Io invece ricordo questa qui, Nakajima Eriko. Era una sua compagna del corso di informatica che frequentava, no?” rispose Chizuru, pensierosa.

Ken prendeva appunti, in totale silenzio e il più accuratamente possibile.

“Cosa ci fa Royama Hideki nell’elenco dei conoscenti di Miyako? Parliamo dello stesso Royama Hideki?” fece ad un tratto Mantarou, incredulo. “L’inventore di software?”

Lui alzò lo sguardo, all’improvviso dubbioso. Possibile che non ne sapessero nulla?, si chiese, perplesso. “Non … sapete se Miyako abbia mai conosciuto Royama Hideki?”

“Io non ricordo di averlo mai sentito” ribatté Chizuru sconvolta. “Come mai è scritto qui?”

Ken rimase basito, senza sapere cosa dire. Osamu aveva detto che i genitori e gli amici di Miyako non avevano riconosciuto quel nome, ma gli era parso molto sicuro di considerarlo un suo conoscente. Com’era possibile? E come mai non gli era venuto in mente di chiederlo a lui?

“Mio fratello ha fatto la lista. Temo di non saper nulla.” Si scusò, in imbarazzo. Poi ricordò un particolare che poteva essere rilevante, e si affrettò a chiedere: “Che mi dite di Sato Satsu, la ragazza citata da Miyako che aveva fatto la conoscenza di Hida?”

L’entusiasmo scemò, quando vide le occhiate confuse che i tre si scambiavano.

“Non sapete chi sia” concluse Ken, sospirando lievemente, e la sua era più un’affermazione che una domanda.

E il silenzio eloquente dei fratelli fu una risposta sufficiente.

“Gli altri nomi non mi dicono nulla.” Mantarou, alzandosi in piedi, gli si avvicinò portandogli la lista. Lo sguardo era duro, ma nei suoi occhi ardeva di nuovo quella fiamma di frustrazione e tormento. “Se questo è tutto, credo proprio che nessuno di noi potrà mai dare altre informazioni né a te ne a tuo fratello, Ichijouji. Ti sei rivolto alle persone sbagliate per ricevere aiuti e indizi.”

Ken, turbato, prese la lista. “Non è vero, Mantarou-san” obiettò, tentando di dare loro almeno un po’ di conforto. “Mi avete fornito dei dati comunque importanti, anche se non accurati. E qualunque cosa può darci una mano. Vi ringrazio davvero per …”

“Piantala!” ringhiò Mantarou, e Ken ammutolì, preso alla sprovvista. “Non ringraziarci, perché non siamo mai stati in grado di capire nulla! Ed è una cosa che ci tormenterà sempre, e non ci lascerà mai andare! Ti rendi conto che avremmo potuto cambiare le cose, aiutare nostra sorella, starle vicini … Impedirle di sparire? Ti rendi conto che noi, dai quali ci si aspetta sempre tanto, siamo stati per lei quasi estranei? Come diavolo puoi ringraziarci? Ma certo, tu non puoi capire … Non credo che tu abbia mai vissuto qualcosa del genere!”

“Mantarou-kun!” esclamò Momoe sconvolta. Ma Ken la sentì appena, preso dalle parole dell’altro, nelle orecchie l’eco di una bugia che faceva male.

Perché lui viveva qualcosa del genere.

Solo che se n’era reso conto troppo tardi, non appena le sue illusioni erano cadute.

Ma, per quanto facesse male, la differenza c’era, tra la famiglia Inoue e quella Ichijouji.

I fratelli di Miyako non la consideravano un ostacolo.

Si alzò in piedi anche lui, e Momoe e Chizuru trasalirono. Forse avevano creduto che lui volesse rispondere a tono a Mantarou, o usare la violenza contro di lui.

Ma Ken non ne aveva alcuna intenzione.

Guardò Mantarou, e poi le sue sorelle. “Immagino cosa voi stiate vivendo. Credetemi, è così. E non era mia intenzione ferirvi. Ma io vi giuro, fosse l’ultima cosa che faccio …”

Per un attimo la voce gli venne a mancare. La recuperò in fretta, imponendosi il controllo.

“… vi giuro che Miyako tornerà a casa, così che possa capire quanto intensamente le volete bene. Quanto conta per voi. Quanto avreste voluto esserle più vicini. Perché, per quanto voi vi siate sentiti estranei per vostra sorella, siete suoi fratelli.”

Abbassò lo sguardo, perché i suoi sentimenti non fossero visibili.

“Ed è tanto.” Terminò a voce bassa.

Poi seguì il silenzio. Ken sollevò nuovamente lo sguardo, e fu sorpreso di vederli trattenere le lacrime. Persino Mantarou doveva essere turbato, perché si era affrettato a voltarsi e a nascondere il viso.

“Sei diverso da tuo fratello” disse Chizuru all’improvviso, e lui sussultò, sgranando gli occhi sorpreso.

“Come?”

La minore dei fratelli sorrise, mentre le lacrime le rigavano le guance. “Lui sembra più professionale, razionale e calcolatore, e decisamente meno impacciato. Tu, invece, non hai tanto l’aria penetrante dei soliti detective. Sembri … più vicino alle persone. Come se volessi condividerne il dolore.”

Ken la fissò, non sapendo cosa dire.

Lui non aveva mai pensato ad una cosa del genere.

“Chizuru-chan ha ragione” intervenne Momoe con un sorriso, malgrado gli occhi lucidi. “Ora capisco perché Ichijouji Osamu-san ha deciso di coinvolgerti nelle indagini: insieme, compensate le vostre mancanze. E collaborare è una trovata molto saggia.”

Un senso di colpa bruciante lo investì, ma Ken non ebbe cuore di smentirla, malgrado quel collaborare diventasse sempre più utopico ogni giorno che passava.

Annuì, decidendo che era arrivato il momento di andarsene. Li aveva disturbati abbastanza. “Grazie di tutto. Vi auguro davvero di poter vivere serenamente con i vostri cari.” Poi guardò Mantarou, incerto. “Sarai fiero della tua famiglia, Mantarou-san: tua moglie e tua figlia sono splendide. Dico davvero.”

Mantarou si voltò, e Ken gli sorrise, impacciato. E qualcosa negli occhi dell’altro sembrò illuminarsi: sembrava orgoglio, e gratitudine.

“Certo che sono fiero. Sono la cosa più bella che ho” disse, e poi, un po’ a disagio, rispose al sorriso.

Poi Ken guardò Momoe, e stava per aprire la bocca per parlare, quando si fermò.

Non si era reso conto prima di quel rigonfiamento sul ventre della donna.

Momoe si accorse dell’occhiata, e si portò una mano sulla pancia, sorridendo mite. Negli occhi brillava una luce nuova. “Quattro mesi, e io e Mamoru-kun non saremo più soli. Non so come sia crescere una bambina, ma sono fiduciosa che imparerò sul campo.”

Ken annuì lievemente, a disagio. Gli sembrava di star entrando in un ambito troppo privato. “Sono … felice per te.”

“Ho pensato di chiamarla Miyako” aggiunse all’improvviso la donna, e lui sgranò gli occhi, preso alla sprovvista. Notando la sua espressione, Momoe sorrise ancora, un sorriso triste ma fermo. “Glielo devo, visto quello che non ho fatto per lei. Mi piace pensare che con mia figlia potrò rimediare agli errori passati, anche se è impensabile.”

Quelle parole furono così cariche di sentimento da farlo fermare.

Ken si disse che nessuno, nessuno avrebbe mai compreso fino in fondo il dolore di quella famiglia distrutta. Immaginarlo non era abbastanza.

Perché era vero che Osamu non provava affetto per lui. Ma almeno nessuno di loro era scomparso.

Nessuno di loro doveva sopportare una lontananza fisica, oltre a quella psicologica.

Momoe doveva essere davvero forte, per continuare a mantenere saldi gli animi di tutti.

Le sorrise piano, tentando di farle capire con lo sguardo quanto la rispettasse. “Io credo che non sarà poi così difficile. Sarai una brava madre.”

Il sorriso grato di Momoe fu una risposta più che sufficiente.

***

Lo accompagnarono all’uscita, chiedendogli ancora una volta di fare il possibile per ritrovare Miyako. Ken si scusò nuovamente con loro, e giurò che lui e Osamu avrebbero fatto il possibile per ritrovarla.

Ma quando la porta si fu chiusa, e Ken rimase da solo davanti alla villa, uno strano senso di vuoto oppresse il suo animo.

Gli sembrava che, una volta liberatosi di lui, l’intruso, l’edificio fosse tornato a racchiudere la famiglia Inoue in un involucro.

Ma ora sapeva cosa c’era, al di là di quella bolla.

Dolore, tormento, frustrazione, insoddisfazione.

Colpe. Freddezze. Errori e indifferenze passate.

Ed era qualcosa che Ichijouji Ken aveva scoperto di conoscere fin troppo bene.

Quanto poteva essere simile o dissimile la situazione dei fratelli Inoue da quella sua e di Osamu?

La domanda rimase sospesa in quel quartiere silenzioso, incapace di trovare una risposta, anche quando il giovane si voltò, allontanandosi con un peso sul cuore.




Ben trovati ^^ ecco pronto per voi -in tremendo ritardo xD- un nuovo capitolo di indagini, questa volta stringendo il cerchio e analizzando i fratelli di Miyako. A dir la verità, avevo pochissime informazioni su di loro: compaiono al massimo due volte nell'anime, e i loro caratteri non si delineano molto bene... Come con Osamu, ho provato a immaginarli in maniera più completa, ed ecco il risultato :) E il mistero si infittisce ancora... Cosa può essere successo in casa Inoue otto anni prima? Se avete qualche idea in proposito, sarei ben felice di sentirla ;) anche solo per curiosità!
A marghepepe ancora un enorme grazie per la recensione dettagliata -immagino il tempo che ci avrai impiegato xD-, e per avermi, ancora una volta, reso partecipe delle sensazioni che il cap suscitava! Sono felice che Satsu e l'idea che Iori ne sia innamorato ti piaccia: anche io ho pensato che ci volesse una ragazza per lui... anche se la situazione non è affatto felice per loro! Ma una cosa non mi è chiara: dici che la apprezzi perché rimane marginale nella storia? Se non fosse così non andrebbe più bene? o.o Per quanto riguarda Yamato, ho intenzione di farlo comparire di persona, ma più avanti... Ho un progetto ben preciso per lui ^^ Davvero ti hanno colpito quelle frasi? Non me lo aspettavo, grazie per i complimenti -e che complimenti ^//^- e per l'apprezzamento! Sono davvero cose che mi spronano a fare sempre meglio! Allora aspetto un tuo parere... E mi dispiace tantissimo per il ritardo! La prossima volta sarò puntuale ^^
Shine, lascia solo che ti dica quanto è stato bello leggere la tua recensione kilometrica! Come posso ringraziarti per quello che fai per me? ** E' incredibile quello che sei riuscita a percepire solo da un capitolo di passaggio, e come hai rielaborato il tutto! Dire che sono lusingata è ben poco xD Mi piace l'interpretazione che hai dato di Iori: la penso esattamente come te, in praticamente tutto! E pensare che l'ho rivalutato recentemente... :) Addirittura tiri in ballo la filosofia? Non esageriamo, dai ^//^ piuttosto sono felice che la frase che hai citato ti sia piaciuta tanto! E l'interpretazione che hai dato dell'ultima scena mi ha colpito molto: è per questo che è fantastico sentire i commenti dei lettori! Ti sembra di vedere tutto sotto diverse ottiche :) insomma, suppongo che un enorme grazie per l'impegno sia l'unica cosa che posso dirti, in mancanza di altre parole! Ti aspetto con i prossimi pareri ^^
Roe, che piacere trovare di nuovo una tua recensione ** mi mancavano! Anzi, mi dispiace molto che tu ti sia trovata indietro con i capitoli, e che tu sia costretta adesso a recuperarli! In ogni caso... grazie per aver recensito anche uno dei capitoli scorsi, ho apprezzato molto :) ed è inutile dirti quanto io sia contenta che ti piaccia ancora la mia storia, vero? Spero che troverai il tempo per seguirmi, malgrado gli impegni!
Mystery Anakin, che bello che ce l'hai  fatta a recensire! So che il periodo che stai vivendo adesso è molto pieno di impegni, e figurati se me la prendo con te! Piuttosto, sono sollevata di essere riuscita a farti apprezzare di più Iori! All'inizio i pareri non erano molto positivi, vero? ;) per Iori e Satsu ho già in mente più o meno cosa fare, quindi resta solo da aspettare e vedere che succede! Per Ken e Miyako... Ehm... Ti dirò, tra un paio di capitoli avrai uno sviluppo in più! xD Grazie ancora per avermi seguita in questo cap, aspetto tuoi pareri come sempre :)
E con questo, vi do appuntamento al prossimo capitolo :) grazie anche a chi legge o segue soltanto!
Padme Undomiel

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Capitolo 18
*** Senza respiro ***


17
17.


Senza respiro



Calore sul viso, nella pelle, tra le coperte.

Calore umido, pesante, insopportabile.

E la ricerca insofferente e lenta di un po’ di frescura, mentre il calore invade la fronte, penetra ovunque, toglie il respiro.

Calore …

Quel calore. Quel calore di inizio giugno. Che costringeva a legarsi i capelli, a sbuffare, ad agitare una mano per un po’ di vento sul viso.

Si agita la mano davanti al viso, insofferente, e sbuffa rumorosamente. “Davvero, non ne posso più di questa maledetta scuola. Hanno intenzione di massacrarci anche a giugno?”

“Sempre e comunque, e non è una novità. Ma sai che c’è di nuovo?” Lui mette sempre le mani in tasca, quando vuol dire qualcosa di ovvio. Fa … male. Sì, fa male, fino a limiti impossibili. E’ doloroso vedere quel gesto, e lei lo guarda con rimpianto inspiegabile. Smettila, smettila, stupido. “Io, da domani, mi ritiro, e tanti saluti! Quando dovrebbero iniziare le vacanze, altrimenti?”

E sorride, mentre lei alza gli occhi al cielo e sente il bisogno di colpirlo.

“Ahi! La vuoi smettere di farmi male, razza di pazzoide?”

“Sei sempre il solito, Daisuke!” E poi ride, perché la sua espressione è tanto buffa. E’ così assurdamente infantile, e non si può non ridere. “Tu non hai mai nemmeno iniziato, figurati se puoi parlare di ritirarti! La scelta dovrebbe essere mia, più che altro: devo progettare cosa fare quest’estate.”

Estate. E’ probabile che la sua famiglia scelga di andare davvero dai suoi cugini, quest’anno. Non li vede più da tanto … Le sembra un secolo che non li vede più.

Come se fossero passati otto anni, mentre era rinchiusa in una casa solitaria e spaventosa …

“Guarda che anche io ho il diritto di scelta! Anche se io, a differenza di te, già lo so come passerò quest’estate: nel campetto di calcio, ad allenarmi per la prossima partita!”

Si illumina, quando parla di calcio. E i suoi occhi castani brillano di entusiasmo e grinta, come se Daisuke vivesse solo del suo sogno di fare il calciatore.

“Stupendo, passerai l’estate a sudare come un matto sotto questo opprimente caldo estivo! Come mai la parola «mare» non ti dice nulla?” Alza gli occhi al cielo, e si raccoglie i capelli con un elastico colorato.

I capelli sono viola?

Sono … così terribilmente dolorosi a vedersi. Fanno anche più male della presenza di Daisuke.

Anche se sono così belli, reali e vivi. Lei li adora. Lei li ama lunghi, morbidi. Naturali.

Ci sono ragazzi dappertutto, che ridono, scherzano, si spintonano allegramente, mangiano, confabulano. I corridoi di quella scuola sono vivi, pieni di allegria. Lei si sente parte integrante di quel mucchio, perché finalmente è ricreazione. Finalmente può svagarsi.

“Bada a come parli, ragazza da spiaggia! Quando sarò un grande calciatore ti farò mangiare la polvere, sai?” e Daisuke fa l’offeso e l’orgoglioso, come un bambino di tre anni.

E poi il suo viso si fa serio. Ed è strano, perché Daisuke non è mai serio.

E’ serio come quella volta, in quella stanza. Serio come le parole che le aveva rivolto …

Non è quel momento, non è quel momento.

“E adesso che c’è? Ti sei sgonfiato?”

E’ preoccupata, e angosciata. Lo guarda, e aspetta che parli.

“Macché”, borbotta, e si vede che è preoccupato anche lui. “E’ per Deguchi. Sai che i suoi genitori mi hanno di nuovo chiamato a casa, ieri sera? Mi sento una specie di testimone interrogato più volte dalla polizia …”

La polizia no. Non vuole sentire parlare di indagini!

“Piantala!” strilla lei, con uno scatto.

Daisuke sembra non darle retta. “Ieri mi hanno chiesto perché è tornato a casa con un occhio nero, il naso sanguinante, i vestiti sporchi di terra e i libri strappati. E che potevo dire io? «Mi scusi, signora, suo figlio si è messo nei guai con un bullo prepotente e la sua banda e ora non lo lasciano più in pace?»”

Sì, è un bullo prepotente. E una persona da poco, davvero da poco. Una persona alla quale si è sempre data troppa importanza …

C’è rabbia bruciante, adesso. Non riesce a controllarla, perché non sa controllarla. Non è mai stata brava a mentire, non potrebbe mai farlo per tanto tempo. Finirebbe per impazzire e perdere il controllo, e per comportarsi come una stupida.

E tutti gli studenti la guardano con aria sospettosa, la osservano mentre il suo volto si contrae per l’irritazione, e mentre desidera picchiare quell’individuo.

“Lo hanno ancora pestato? Ma chi diamine si crede di essere, quel … quel …”

Insensibile è la parola giusta, pensa.

Se avesse avuto sentimento non si sarebbe comportato in maniera tanto ignobile.

“Gorilla! Sì,  è un orrendo, stupido, infantile gorilla! Roba che andresti volentieri da lui e gli chiederesti come ha fatto a scappare dalla gabbia dello zoo! Perché nessuno ci ha pensato?”

Daisuke la guarda, vagamente preoccupato. “Sai, fai paura quando ti arrabbi.”

Lei ride, sadica. “Lo so, ma lui non ancora mi conosce. Altrimenti Deguchi Naganori non avrebbe proprio nulla da temere, e al mio confronto quel gorilla sarebbe solo una massa informe di gelatina!”

Daisuke sbuffa, aggiustandosi gli occhialetti tra i capelli disordinati. “Se solo fosse così!”, esclama. “Ma quando prendono di mira Deguchi, trema come un agnellino, e si fa pestare per bene. Eh, se mi ascoltasse di tanto in tanto, quel presuntuoso avrebbe la sua lezione e un orecchio in meno …”

“Per carità! Finirebbe per continuare queste inutili risse, e non si finirebbe più!”

Lei solleva una mano, e comincia a contare. “Questo mese il gorilla ha attaccato briga con … almeno dieci ragazzi deboli, e continuerà a farlo, se verrà bocciato anche quest’anno. Cosa molto probabile, comunque, vista la sua intelligenza. Non credi sia il caso di evitare altre risse?”

“Assolutamente no! Se fossi in Deguchi, un bel pugno non glielo toglierebbe nessuno!”

Daisuke ha la mano pesante. Quando litiga con i suoi amici, picchia, e picchia bene. Lei sa che non scherza, e certe volte lei è d’accordo.

Ma stavolta è stufa.

Anche se, inconsciamente, sa che dovrebbe lasciar perdere.

Eppure non capisce. Perché lasciar perdere, se quel bullo è così odioso?

“Ma perché se la prende con il tuo compagno di classe? Si può sapere che gli ha fatto?” Lei vuole sapere, perché non ne può più di quelle urla nei corridoi.

Perché urlano sempre, quando sono picchiati. E chi li picchia ride sempre.

Ride gioioso …

All’improvviso si sente seguita. Si ferma, e ha paura. Il corridoio è così vuoto, ora. Non c’è più nessuno. E chi la sta guardando? Perché sente degli occhi addosso che la scrutano?

Dov’è Daisuke?

“Dove siete andati tutti? Non lasciatemi qui!” E strilla, perché tanto nessuno la sente.

Nessuno c’è.

Corre in avanti. Sa che deve andare, sa che cambierebbe tutto se restasse lì, impaurita.

E alla fine vede Daisuke, cammina davanti a lei, non si volta. Lo raggiunge, la gente è tornata, e ride come sempre. Come se non fosse mai sparita.

“Perché mi hai lasciata indietro?” Lo ferma per un braccio. Lui la fissa, ed è stranamente furente.

“Sei tu che sei andata via! Io non volevo lasciarti stare, mi ci hai costretto.”

Lei ha una gran voglia di piangere, ma non ne conosce il motivo. Sa solo che quello che lui dice è vero. E questo causa le sue lacrime, dietro a quegli occhiali.

“Scusami, Daisuke. Non voglio più andare via così.”

E poi il ragazzo torna a parlare, ed è come se niente fosse. Come se nessuno dei due avesse mai interrotto il discorso precedente. E va bene così, perché lei non vuole parlare di quell’argomento. “E chi lo sa? Ogni scusa è buona per attaccare briga. E Deguchi è la tipica preda facile, per quello lì. Ma se provi a chiedere il motivo alla nostra vittima, trema e distoglie lo sguardo. Come se dovesse essere ucciso se ci dice qualcosa in più, capisci?”

“No che non capisco. E’ un uomo si o no? So difendermi meglio io!”

E le voci nel corridoio si fanno improvvisamente concitate, e i ragazzi corrono tutti verso una direzione. Urlano, e c’è chi parla di chiamare il preside.

Daisuke la guarda, sembra di nuovo arrabbiato. Ma non deve assumere quest’espressione: non è quella l’espressione giusta. C’è qualcosa che non va.

Lei non riesce a sostenere il suo sguardo, non deve guardarlo. Ma guarda in avanti: c’è una folla, ci sono grida, risate di scherno.

E quella risata.

La riconosce, perché la sente ancora nelle orecchie. La riconosce perché l’ha odiata con tutte le sue forze.

“E’ il gorilla! Se la sta prendendo con un ragazzino, di nuovo!”

Ora il calore estivo lo sente nel petto, brucia. Che ci fa dentro di sé, chi lo ha provocato?

Eppure, è destino che lei vada lì. Lo sente come destino, perché lei non è destinata a stare a guardare.

E quando torna a guardare Daisuke, sa che il suo viso è rabbioso come quello del suo compagno. “Io vado a fermarlo. Al diavolo ogni regola di autocontrollo e ogni bisogno di farsi gli affari propri!”

“Ma che combini? Fermati!”

Ma lei già corre.

Corre, veloce, rabbiosa, determinata. Pazza, incosciente, stupida.

“Smettila! Basta così, mi hai sentito, imbecille? Non lo permetto più!”

Corre …

Un brivido improvviso, movimenti agitati.

Nessuna quiete, nessuna pace. Solo un lieve gemito dalle sue labbra, e poi il silenzio.

Silenzio ovattato, surreale. Silenzio da neve.

Sembra quasi che la neve abbia soffocato i rumori della città …

Sembra quasi che la neve abbia soffocato i rumori della città, come se alla sua comparsa tutta Tokyo, come una grande bambina, fosse rimasta ad osservare muta e sorpresa il suo candore.

C’è neve ai lati delle strade, e c’è gente con sciarpe variopinte e cappelli buffi.

C’è gente gioiosa, che canta ancora vecchie canzoni accanto ai negozi.

Lei corre. Conosce la sua direzione, ma quasi non la vede. Pensa al peso che ha nel petto, pensa alla sua tristezza.

Da quanto è radicata nel suo cuore? E quanto ci metterà ad andare via?

Non lo sa. E corre, e rischia di cadere, e urta spalle sconosciute, ma non si fa male. Corre.

Poi si ferma, e quel negozio di giocattoli è illuminato a festa. Ansima, senza fiato e senza forze, e il respiro si condensa nell’aria. Accanto a lei, un piccolo pupazzo di Babbo Natale canta Jingle Bells agitandosi sul posto, interminabile, triste, quasi inquietante.

Lei ha paura. Lui non c’è ancora. Ma le aveva promesso che ci sarebbe stato, e lei ci crede.

Ma quel peso sul petto persiste. E l’atmosfera natalizia non fa che angosciarla ancora di più.

E poi lo vede arrivare.

Corre anche lui, i cortissimi capelli castani sempre ordinati. E sembra preoccupato anche a quella distanza.

Lui è sempre preoccupato per lei. Lui c’è sempre quando lei ha bisogno di lui.

Solo una volta non c’era … Ora lei ha paura che sparisca, che la odi, come quella volta. I suoi occhi erano così pieni di indignazione e rabbia che … Ma non è questo il momento, no.

“Scusa il ritardo.” Dice, e lei sorride stentatamente. Non l’ha lasciata sola, non lui. “Come stai?”

Lei lo abbraccia forte, un groppo in gola. Non vuole piangere di nuovo: lo ha fatto per tutto il giorno. “Oh, Iori-kun! Sono così felice che tu sia potuto venire … Ho davvero bisogno di te!”

Vorrebbe essere abbracciata così molto più spesso: si sente rassicurata, si sente in famiglia. Sente che Iori è l’unica traccia di famiglia che le è rimasta.

Non come i suoi genitori …

Smarrita, prova dolore, oltre alla rabbia. Non può contenerlo, non più. E’ troppo fragile, scoppierà.

Singhiozza piano, e Iori la stringe a sé. “Sono qui con te, tranquilla. Dimmi cosa è successo.”

Può ancora parlare? Sente la gola gonfia di dolore, stenta a far uscire suoni. Ma vorrebbe urlare, e non smettere più, perché ora c’è qualcuno che la ascolta …

Respira, e respira, e per qualche secondo non parla. Il Babbo Natale canta e balla, malinconico.

Poi alza gli occhi, piena di dolorosa e distruttiva rabbia. Scoppia. “Ancora! Strillano ancora, mi feriscono ancora, e ancora, e ancora! Devono detestarmi con tutte le loro forze, perché non è normale non fidarsi affatto di me, e di ciò che provo! Perché le mie emozioni sono sbagliate? Perché quello che voglio deve essere per forza perverso? Perché nessuno si sforza nemmeno di vedere quello che vedo io? Mi hanno abbandonato tutti, tutti!”

Non riesce a trattenere i singhiozzi, violenti e dolorosi. Non vede più nulla. Sente solo dolore.

“Mi hanno strappato l’anima, Iori-kun … Oggi mi hanno strappato …”

 “Ssh. Ti prego, non fare così. Cerca di calmarti.”

Le accarezza i capelli, e lei tenta di calmare i singulti. Rimane immobile, ad occhi chiusi, ma sa che Iori è ancora lì. Non sparisce.

“Sei di nuovo uscita di casa senza permesso?”

Lei lo guarda.

E il suo sguardo è freddo, scostante. E’ quello sguardo. Quello di quando l’aveva allontanata …

Sussulta, si allontana di un passo. Un gelo improvviso dentro di sé. Ha paura. Non vuole sentirsi di nuovo così, non vuole che quegli occhi verdi la giudichino di nuovo.

“Che potevo fare? Non potevo chiedere a loro, non sai quanto erano furenti! Iori-kun, per favore, non potevo fare altrimenti! E tornerò a casa … Tornerò! Lo giuro!” Strilla, spaventata. Sembra che la odi, come quella volta. Non adesso. Non adesso!

Chiude gli occhi di scatto, li riapre.

E Iori non ha più quell’espressione. Ora è comprensivo, sembra esserlo sempre stato.

Lei non capisce. Lui le parla come ha fatto fino a quel momento, e le sembra che qualcosa non vada, in quella scena.

“Ascoltami. Credi davvero che ne valga la pena? Stai lottando strenuamente, e soffri. E tutti noi siamo preoccupati per te, anche i tuoi. Anche io. Sei davvero sicura di quello che fai?”

Lei deve aver dimenticato una battuta. Rimane silenziosa, cerca invano quelle parole.

Che sentimento doveva provare? Che sentimento ha dimenticato?

Si sente rispondere, ma è come spettatrice. Non agente. “Certo che sì! Se penso a quello che ottengo in cambio, tutto questo sparisce.” E si vede sorridere, ed è così luminoso e bello il suo sorriso che fa male. Male, male. “E se ho il suo amore con me, non ho bisogno di nient’altro. Niente sarà mai come lui, e io intendo andare avanti. Lui mi sostiene, lui …”

Si distrae. La carola di Babbo Natale sembra distorta, se la ascolta. E’ pauroso, è insopportabile.

“Lui mi ama come io amo lui. Per questo vado avanti. E sarò pronta a far tutto.”

Iori sospira. “Non so. Davvero non so che dirti. Spero solo che tu trovi la felicità … Ma non fare cose sciocche. E sta’ attenta, Rumiko-san.”

Eh?

Il gelo la paralizza. Fiocchi di neve passano davanti ai suoi occhi, e lei si sente sprofondare.

Perché l’ha chiamata così …?

Smarrita, lo fissa. E sgrana gli occhi, atterrita.

Lui è più grande, adesso. Deve avere ventidue anni. E’ più elegante, più uomo, più serio … Più determinato, deciso. La preoccupazione negli occhi verdi è più contenuta adesso, come se volesse tenerla a bada.

Non capisce. Indietreggia. Lo spettacolo la getta nel panico, vuole una via d’uscita.

Si volta verso il Babbo Natale, accorgendosi che tace.

E il cuore le si ferma in gola.

Accanto al pupazzo, lui è lì.

Appoggiato al muro, immobile, come congelato.

I capelli neri composti, gli occhi azzurri e intensi fissi nei suoi, le labbra lievemente contratte.

Lui. Lui. Lui.

Ichijouji Ken.

E la fissa, mentre le gambe di lei tremano. E vuole con tutta se stessa distogliere lo sguardo, ma è come incatenato a lui. Ora lui la osserva, la scruta dentro, e lei fa lo stesso.

Quell’intensità nello sguardo …

Lui avanza, a passi misurati, attenti, Così serio. Così bello. Così … pericoloso.

Lei non capisce. Ma le sue gambe non si muovono. Resta ad osservarlo mentre si avvicina.

Davanti a lei, si ferma.

E il suo viso si contrae. Ora è malinconico, triste, come affranto.

Ma una luce anima i suoi occhi così profondi. Una luce che attrae, che le toglie il respiro.

Lui allunga una mano, le cinge la nuca, si ferma.

E un brivido la scuote, e sa solo che non lo fermerà. Non può farlo. Non può nemmeno osare.

Può solo chiudere gli occhi, mentre le labbra di lui, come una carezza, sfiorano le sue.

Mentre un lieve bacio appena percettibile fa sussultare il suo cuore.

Ma le labbra di Ken hanno il sapore delle labbra di … lui.

E qualcosa dentro di sé urla. C’è qualcosa di sbagliato. Qualcosa di stonato, terribile.

Lei si ritrae, tremando. Ma lui è ancora lì, e ancora la fissa.

E poi le sue labbra si schiudono per parlare.

“Sta’ attenta …”

Le sfiora una ciocca di capelli.

“… Miyako.”

E la ciocca di capelli è viola.

Strilla, serrando gli occhi. Strilla, con quanto fiato in gola le rimane.

Strilla.

Ansimava, gli occhi sbarrati, il fiato corto, il cuore impazzito.

L’urlo di poco prima ancora le risuonava nelle orecchie, la coperta era completamente avvolta attorno al suo corpo sudato. Non riusciva nemmeno a deglutire.

Era ancora buio. Un buio terribilmente opprimente, che custodiva in sé l’orrore e il terrore per il sogno dal quale si era appena liberata.

Era tutto finito. Era tutto finito.

Si portò le mani tremanti ai capelli che, lasciati sciolti per dormire, le ricadevano scomposti sul viso, e un dolore selvaggio le invase il cuore.

Perché Inoue Miyako sapeva che nemmeno la notte più scura avrebbe potuto colorare di nero i suoi capelli così inevitabilmente viola, suo tormento e sua condanna.

E nascose il viso tra le ginocchia, tremando convulsamente, desiderando poter svanire nel vento per non dover più soffrire in quel modo.

***

“Possiamo parlare un secondo, Rumiko-chan?”

Miyako si immobilizzò nell’atto di mettere a posto gli incassi dell’ultimo cliente.

Ne era sicura. Da quando si era presentata al lavoro, quel giorno, lei non aveva fatto altro che lanciarle occhiate di sottecchi, negando di avere qualche problema ogni volta che, spazientita e preoccupata, le aveva chiesto spiegazioni. Era anche ora che si decidesse a vuotare il sacco, perché quel senso di attesa non faceva altro che stancarla di più.

Ma quando si voltò, desiderosa di scoprire cosa stesse succedendo nella mente della donna, quasi le scappò un gemito di esasperazione.

La signora Sato aveva un’espressione fin troppo preoccupata e accorata.

Magnifico, pensò disperata. Ancora preoccupazione. Solo questa mi mancava.

Si guardò intorno, cercando una scusa plausibile per potersi sottrarre a quella nuova occasione di dover mentire. “Adesso? Dovrei lavorare, guardi quanta gente che c’è oggi! Magari più tardi, quando avremo meno clienti …”

La sua protesta si spense nel suono della porta che si apriva.

Miyako si voltò di scatto, incapace di calmare la sua improvvisa agitazione, tentando disperatamente di ritornare a respirare. Rapidamente osservò la fisionomia del nuovo cliente, mentre una mano correva all’istante ai capelli …

Ma era un ometto di bassa statura, con l’aria accigliata e lo sguardo nervoso.

Ma quando recuperò il respiro, un senso di vuoto nel suo cuore la sconvolse una volta di più. Non era sollievo: solo un sentimento invisibile e infido che le artigliava il petto.

Rimase a fissare la porta, chiedendosi freneticamente perché ogni volta quel sentimento peggiorasse, invece di migliorare.

“Nessuno ti dice di non lavorare. Ma ho davvero bisogno di parlarti adesso, ti dispiace?”

Era frustrazione, ne era quasi sicura. E rabbia. Sì, doveva essere una lenta, implacabile, irruenta rabbia che, secondo dopo secondo, minuto dopo minuto, le stava avvelenando le giornate lavorative.

“Lo vedi? Sei di nuovo assente, Rumiko-chan!”

Sentendosi chiamare, Miyako sussultò, voltandosi con aria vacua. “Eh?”

E l’espressione di rimprovero della signora Sato la affrontò senza più esitazione. La stava scrutando, diretta, e preoccupata come non mai: probabilmente era da troppo tempo che desiderava dirle quello che pensava. Se si era trattenuta, era stato solo per discrezione.

“Quando arrivi a lavoro sei sempre distrutta, hai le occhiaie marcate, sei assente e persa nei tuoi pensieri. Quasi non ti accorgi che stai lavorando, ti comporti come un automa. Finché non c’è qualcosa che cattura la tua attenzione, e allora sembri agitata, fin troppo presente. Come se volessi scappare. Che cosa ti succede, si può sapere?”

Si sentì, tutt’a un tratto, così vulnerabile che desiderò con tutta se stessa potersi nascondere dietro ad un muro. Perché sapeva che era vero. Sapeva che aveva un aspetto terribile quel giorno, perché non aveva quasi chiuso occhio. Così come sapeva di essere sempre assente, sempre così immersa nelle sue sensazioni contrastanti da ignorare il resto.

Il resto che non fosse un certo qualcuno.

E il subbuglio che quel pensiero le causò, tale da stringerle la gola in una morsa, fu così intenso che temette sul serio di star perdendo la ragione. Non aveva senso che si sentisse in continuazione così agitata.

Perché, poi? Qual era il vero problema? Perché diamine non riusciva a capirlo?

Guardò con aria fin troppo fragile la donna davanti a sé, che da qualche anno era l’unica figura materna che avesse, e desiderò seriamente avere una risposta alla sua domanda. “Sato-san, mettiamola così: sono spaventata quanto lei, e quanto Satsu-chan.” Rispose, torcendosi le mani per impedirsi di esplodere e comportarsi come una stupida bambina spaventata dalla sua ombra. E, se si conosceva bene, avrebbe potuto davvero rivelarle troppo, cominciando a sfogarsi. “C’è qualcosa di tremendamente sbagliato nella mia testa, che sta cercando di farmi impazzire in tutti i modi. Non so a cosa sia dovuto …”

Bugiarda.

Mentre parlava aveva in mente il suo volto, negli occhi il suo sorriso educato e gentile.

Come sempre, da qualche settimana a quella parte. Ovunque andasse, qualunque cosa facesse. C’era sempre, la seguiva anche quando non c’era.

E lui non c’era, in quel momento.

E non era lì nemmeno il giorno prima.

Nemmeno quello prima ancora. E nemmeno quello prima ancora …

E provò ancora quella dannata stretta al cuore, più serrata, più implacabile.

Non sapeva a cosa fosse dovuta. Forse non voleva nemmeno saperlo. Ma si ostinò a fissare quella porta, pregando che si aprisse.

“Ma non si preoccupi: distruggermi la vita è la mia occupazione preferita, ma alla fine mi riprendo, bene o male. Me lo ha detto Iori-kun una volta, e forse ha ragione.” Rise, stupendosi del suo tono lievemente isterico. Doveva essere davvero matta. “Per favore, non mi guardi più come se dovessi cadere a terra morta, o qualcosa del genere … Andrà tutto alla grande, basta solo aspettare. Andrà tutto benissimo.”

Sembrava autoconvinzione: se ne rese conto appena si sentì ripeterlo come una cantilena interminabile. Sospirò, furente con se stessa. Come aveva potuto diventare così patetica? Non aveva più nemmeno la certezza che tutto si sarebbe sistemato, nella sua testa.

D’altronde, non poteva più pensarlo. Non dopo quella notte.

Non dopo quel …

“Rumiko-chan, posso concederti un periodo di pausa dal lavoro, se vuoi.”

L’affermazione calda e pacata la colpì come uno schiaffo. Miyako sussultò, e in un attimo ripensò al buio, al silenzio del suo appartamento così grande e spaventoso. Il gelo la invase.

Afferrò le mani della signora Sato, in preda al panico. “No! Per favore, Sato-san, non voglio una pausa! Voglio venire qui, lei sa quanto ne ho bisogno! La prego … starò bene, lo giuro, farò di tutto per star bene! Ma non mi mandi via …”

Perché tremava sempre come una foglia, perché aveva sempre i nervi a fuor di pelle? Forse aveva cominciato a temere le sue stesse reazioni. Era assurdo.

La donna sembrava improvvisamente attonita: forse non si aspettava una reazione del genere. Erano in due a pensarlo, allora. “Non ti sto mandando via: è solo un periodo di pausa per stare meglio, non sarà lungo.”

“Magari potrebbe essere solo un giorno, un giorno di riposo.”

La testa aveva preso a pulsarle terribilmente, con fitte acute alle tempie.

Non era pronta a riascoltare un discorso del genere. Non dopo quello che era successo con lui. Non dopo quelle parole, quel dolore, quel … desiderio di accettare così sbagliato …

Lasciò bruscamente le mani della signora Sato, lasciando cadere le braccia lungo i suoi fianchi. Abbassò lo sguardo e il capo, temendo che la donna potesse leggerle negli occhi ciò che sentiva così forte dentro di sé.

Lui, così accorato e preoccupato, non era lì da ben sei giorni.

“Io non voglio una pausa. Non mi serve nemmeno un giorno. Detesto le pause.” Sussurrò, sforzandosi in ogni maniera di crederci.

E rimase in silenzio, non osando guardare la sua interlocutrice, mentre si sentiva soffocare da quei sentimenti che non riconosceva.

O forse che non voleva riconoscere, perché facevano troppo male.

Una mano calda si posò sulla sua spalla. Miyako si aggrappò a quel rassicurante senso di essere amata da qualcuno, malgrado tutto quello che aveva fatto.

“Io voglio solo che tu stia bene”, le disse piano, un affetto profondo che trapelava da ogni sua parola. “Mi va bene se preferisci lavorare qui, se ti fa sentire meglio non sarà questa anziana seccatrice ad allontanarti. Ma … Se ti serve qualcosa, qualsiasi cosa, fidati di me e chiedila senza problemi. Ti verrò incontro.”

Cara, affezionata signora Sato. Non sapeva se meritava tanto, ma sapeva che non avrebbe resistito nemmeno un istante in negozio se non ci fosse stata lei a sostenerla.

Anche in quel momento sapeva che Satsu aveva preso il suo carattere d’oro da sua madre.

La guardò, mentre un sorriso di gratitudine incommensurabile affiorava sulle sue labbra. Come avrebbe fatto senza di lei? “Le voglio davvero bene, Sato-san. E … se volessi ringraziarla sul serio di tutto quello che fa per me, dovrei dirle grazie per otto anni consecutivi!”

La donna rise, scuotendo la testa, e Miyako non poté non unirsi a quella risata più tranquilla: adorò quel senso di improvvisa leggerezza che si era instaurato tra loro. Era bello poter dimenticare il vuoto che sentiva crescere sempre di più dentro di lei, era bello poter trovare, per qualche istante, conforto, quando erano sei giorni che la sua ansia andava peggiorando.

Fu un attimo.

Improvvisamente un senso di oppressione le congelò il sorriso sulle labbra, e lei si irrigidì. Era una strana sensazione, come l’irrazionale sentore di …

Essere osservata.

Miyako si voltò di scatto, conficcandosi le dita nel palmo delle mani quando le strinse spasmodicamente.

C’era una nuova cliente che si avvicinava verso di lei, con corti capelli rossicci e un’aria timida. Reggeva almeno sei volumi tra le mani, ed era uno degli spettacoli più particolari e stravaganti che le fosse capitato di osservare quel giorno dietro alla cassa. Avrebbe attirato l’attenzione di chiunque.

Eppure, lo vide ugualmente.

Un attimo prima che sparisse dietro scaffali e scaffali pieni di libri, lo vide camminare spedito, il viso rivolto altrove, i corti capelli neri che avrebbe riconosciuto ovunque.

Annaspò, in cerca d’aria, ma il suo corpo non le diede il tempo di ragionare, come se rispondesse di impulsi totalmente opposti a quelli dettati dal suo cervello.

Ma non le importò più di tanto.

Si allontanò rapidamente dalla cassa, quasi correndo, gli occhi fissi su quello scaffale; a malapena sentì la signora Sato protestare sulla sua improvvisa fuga, ma non trovò la forza né un motivo plausibile per spiegarle questa follia.

Doveva essere lui. Non c’era altra spiegazione, pensò freneticamente, rischiando di urtare clienti, inciampare su un bambino di pochi anni e far cadere una pila precaria di libri.

E si ritrovò nel reparto di libri gialli prima di averlo realizzato, e più tardi di quello che le sue gambe avrebbero voluto. Si accorse di ansimare, ma non era per la corsa. Doveva essere per l’ansia.

Si guardò intorno, con una frenesia che le sarebbe parsa folle ed eccessiva, se avesse avuto tempo per pensare. Cercava, osservando ogni cliente con rapida insistenza, incalzata dal battito furioso e impaziente del suo cuore.

 E quando lo individuò, lì sul divanetto per la lettura, l’aria assorta e un libro che girava e rigirava tra le mani senza mai aprirlo né sfogliarlo, ebbe la spaventosa sensazione che le sue gambe avrebbero ceduto senza un senso apparente, incapaci di affrontare l’ondata di sensazioni che si susseguivano senza un ordine dentro di lei.

Si appoggiò allo scaffale più vicino, mentre si avvicinava cautamente, accertandosi sempre di non essere osservata dai suoi troppo attenti occhi azzurri: forse non avrebbe retto anche quell’ulteriore colpo. Non così all’improvviso, confusa e spossata da sentimenti che non capiva appieno.

Era tornato. Ichijouji Ken era tornato.

E ora era fermo lì, tanto immobile e pensieroso che si sarebbe quasi detto una statua. Tanto perso nel suo mondo interiore da non accorgersi della giovane avventata che ancora non era riuscita a distogliere lo sguardo da lui, e che era di fronte a lui a pochi passi di distanza.

E teneva gli occhi bassi, fissi sul libro con cui giocherellava. Tanto bassi che non riusciva a vederne il colore, così intenso da mozzarle il respiro in gola.

Miyako si sorprese a respirare di nuovo, profondamente, quasi come se non avesse più respirato da ore, forse giorni. E fu in questo momento di maggiore razionalità che si rese conto di un particolare che aveva praticamente ignorato in tutto quel tempo, presa dallo stupore e dall’incredulità.

Ken leggeva spesso, seduto su quel divanetto. Ma quel giorno, non lo aveva nemmeno sfogliato, quel grande volume che teneva tra le mani.

E quel movimento delle mani aveva un che di nervoso.

Come se avesse un qualche tipo di problema, che rendeva assente la sua espressione, che aveva fatto in modo che neanche la salutasse all’entrata, che si rifugiasse lì silenzioso come il calare della notte, senza dire altro.

Senza una parola, una sola parola di spiegazione.

Un senso bruciante di frustrazione sommerse i suoi pensieri. Così come la sua prudenza, difesa con tutta la determinazione di una ragazza sprovvista di questa caratteristica.

“Ciao.” Si sentì dire, e solo per un attimo la parola appena pronunciata le parve così innaturale che un terribile senso di aver sbagliato tutto le urlò nella testa che doveva andar via, che si era di nuovo esposta troppo e nella maniera più sbagliata. Perché lei non avrebbe dovuto farsi vedere: avrebbe dovuto tornare alla cassa, sollevata all’idea di non essere stata osservata, all’idea di non dover fingere con puro istinto di sopravvivenza di essere Miyazawa Rumiko, e di esserlo sempre stata.

Ma fu solo un attimo.

Ken parve rianimarsi all’improvviso, alzando di scatto la testa per focalizzare da dove fosse provenuta la voce inaspettata. E poi sgranò gli occhi, e scattò in piedi, come se fosse stato colto in fragrante durante una rapina. Tutto quello che riuscì a fare fu fissarla, quasi incredulo, sicuramente spaesato, come se non sapesse cosa fare. Tentò di parlare, aprendo la bocca per un istante, ma all’improvviso la sua espressione trasmetteva disagio. La richiuse senza emettere alcun suono.

E Miyako si ritrovò a fissare quelle labbra, improvvisamente impotente di fronte al subbuglio interiore che aveva cercato di nascondere anche a se stessa, provocato da quel sogno. Quel dannatissimo sogno.

Quel sogno privo di senso. Perché lei non avrebbe dovuto sognare una cosa del genere, tanta vicinanza, tanta arrendevolezza. O quelle labbra tanto perfette, dal sapore sconosciuto, mentre  …

Il cuore accelerò così tanto e così rapidamente i suoi battiti che Miyako si chiese semplicemente perché ancora non scoppiava. Poteva quasi avvertirne lo sforzo.

E ancora una volta agì d’istinto, incurante di tutto. Non poteva ragionare, non così. “Sei tornato, allora: era da un po’ che non ti si vedeva”, si ritrovò a dire, ancora braccata dagli occhi sempre più sgranati di lui. Non riusciva a distoglierne lo sguardo, qualunque cosa provasse a fare. “Pensavo che questo reparto avesse perso ogni attrattiva per te, ma a quanto pare mi sbagliavo!”

Si chiese, disperatamente, perché lui si limitava a fissarla senza dire altro. Il disagio e l’imbarazzo crebbero a tal punto che Miyako si ritrovò ad arrossire furiosamente, maledicendosi per la sua voglia irrefrenabile di parlare con chi doveva evitare con tutte le sue forze, senza eccezioni.

Infine, lui fece un incerto cenno con il capo. “Rumiko-san”, disse poi, a mo’ di saluto. Esitò, e per la prima volta Miyako lo vide distogliere lo sguardo, puntandolo invece sullo scaffale al quale lei era appoggiato. Le mani di lui strinsero con più forza la copertina del libro che reggeva ancora tra le dita.

Era strano: non lo aveva mai visto comportarsi così. E tra i suoi incoerenti pensieri confusi, lei sapeva che la sensazione di essersi persa qualcosa sul conto di lui era la più insostenibile. Si sentiva ancora più vulnerabile al pensiero di non avere nemmeno una minima idea su quali sarebbero state le sue prossime mosse.

“Ti senti bene? Hai un’aria abbastanza sconvolta”, insistette, ostinata a comprendere quello che lui si divertiva a nasconderle. “Come se avessi visto un fantasma.”

“No, sto bene.” Ken scosse la testa, deciso. Poi la guardò ancora, e la sua espressione era uno strano miscuglio di imbarazzo e curiosità. “Solo … non mi aspettavo di vederti qui. Di solito sei alla cassa …”

L’affermazione pacata ma perplessa ebbe il potere di farla sentire ancora più esposta, e ancora più stupida.  Era vero: era quasi irriconoscibile, con quel desiderio spasmodico di non stare a guardare, di reagire in qualche maniera. Ma più lui lo metteva in risalto, con quello sguardo così disarmante, più qualcosa dentro di lei protestava.

Era totalmente colpa sua.

Incrociò le braccia, guardandolo con aria di sfida. “E tu, di solito, sei nel mio negozio ogni giorno, eppure è quasi una settimana che non ti presenti. Mi sono incuriosita e sono venuta a dare un’occhiata, tutto qui.”

Incuriosita.

Magari fosse stato solo quello. Miyako aveva avvertito una sensazione di … paura. Una paura glaciale, che le aveva invaso corpo e anima. In qualche modo aveva sentito che doveva sapere cosa fosse successo a quell’assiduo frequentatore di quella libreria, perché sapere che poteva star macchinando qualcosa con Ichijouji Osamu, che poteva averla scoperta, la gettava in un’angoscia mai sentita prima.

Doveva essere così.

Scosse la testa, tentando di smettere di pensare, e sentì il bisogno di osservarlo di nuovo. E si ritrovò quasi a studiarlo, nel tentativo incomprensibile di leggere le sue sensazioni sul

suo viso spiazzato.

Non le importava nulla, nulla, di avergli detto qualcosa di troppo rivelatore. Sentiva che al momento era un problema secondario.

Voleva solo una spiegazione plausibile per averla tormentata con la sua assenza, ancora di più rispetto all’angoscia giornaliera dovuta alla sua presenza.

Non aveva aspettato altro per tutta la settimana. Meritava una dannata spiegazione, dato che era diventata la sua ossessione, che fosse presente o assente, nel sogno o nella realtà.

Parla, per favore. Non posso reggere.

“E’ che …” Ken sembrava non sapere proprio come comportarsi, e Miyako non riuscì ad interpretare la sua espressione. Attese, trepidante. “Non ho potuto trovare nemmeno un momento a disposizione, questa settimana.”

E poi tacque, gettandole solo un’unica occhiata di sottecchi, prima di distogliere lo sguardo.

Miyako lo guardò, incredula, totalmente sconvolta. Allora era questa la spiegazione? Poco tempo libero giustificava una delle settimane più tormentate degli ultimi periodi? Poco tempo libero, che prima gestiva così bene, adesso lo portava ad allontanarsi dalla libreria?

La mascella stretta con forza per non urlare le faceva male.

“Sei un maniaco della lettura davvero strambo, Ichijouji Ken”, considerò infine, distogliendo prontamente lo sguardo quando quello di lui aveva improvvisamente provato a scavare a fondo dentro di lei. “Avrei giurato che senza libri ti mancasse quasi l’ossigeno, visto il tempo e l’attenzione che dedichi loro quando sei qui. Eppure, degli impegni sono davvero riusciti a portarti via di qui: sono davvero sorpresa, non me lo aspettavo.”

Ken ridacchiò all’improvviso, col suo tono di voce pacato e, per un istante, sereno, a discapito di quelle mani che ancora stringevano spasmodicamente quel gran volume.

Era qualcosa di strano, la sua risata. Non era rumorosa, o solare, o eccessivamente coinvolgente: era sempre educata, ma piena di semplice e contenuto divertimento tranquillo. Qualche volta lei lo faceva ridere, e la cosa la stupiva, perché non capiva proprio cosa lo divertisse tanto del suo comportamento, né se avrebbe dovuto sentirsi offesa da questa reazione.

Ma sapeva che, in qualche maniera, ascoltarla la tranquillizzava. Sembrava sciogliere qualche nodo, dentro di sé.

Un’altra delle sue reazioni che non voleva davvero spiegarsi.

“Non sono un maniaco di gialli, Rumiko-san”, obiettò, sulle labbra un breve sorriso. “Leggere è un passatempo che coltivo appena possibile, ma non sempre ho modo di farlo.”

“O forse ti sei finalmente trovato sommerso da una valanga di libri, e hai deciso l’astinenza dalla libreria per una settimana. Chi può dirlo?”

E quando aveva cominciato a sorridergli? Quando le sue labbra si erano incurvate in quel sorriso divertito, incuranti della paura, della stanchezza, della delusione e del dolore?

Sconvolta, sentì il cuore in gola, e il sorriso scemare, e arretrò impercettibilmente di un passo. Erano emozioni fuori controllo, emozioni che era suo dovere tenere a bada, e temere, come fossero le sue più grandi nemiche.

Doveva allontanarsi all’istante. Aveva la sensazione che un nulla avrebbe potuto smascherarla, vulnerabile e fragile come si sentiva in quel momento.

“Comunque, dovrei tornare a lavoro, non posso restare qui a parlare. Anche perché tu stavi … leggendo?” Le scuse a raffica che aveva cominciato a enumerare si erano interrotte sulla fine della frase, perché Ken aveva improvvisamente sussultato e il suo viso era arrossito lievemente. “Ho lasciato la cassa da un bel po’, e dato che ci sono molti clienti, non posso davvero restare. Scusa se scappo così, ma non posso trattenermi qui.”

 Confusa, e immensamente turbata, lo vide ancora distogliere lo sguardo da lei, e concentrarlo altrove.

Come se fosse un qualcosa che era preferibile non guardare, quasi se ne potesse rimanere scottati dopo un solo istante.

L’aveva guardata appena, quel giorno. Troppo assente per tormentarla con domande scomode, troppo evasivo per metterla a disagio con occhiate troppo attente.

Troppo disinteressato per reagire in qualche maniera alla sua decisione di andare via, e sicuramente desideroso di tornare ai suoi pensieri solitari.

Elusivo come le sue risposte. Come le sue occhiate di sfuggita. Come quell’accanita decisione di rimanere immobile a fissare quel dannato libro, dopo sei giorni di totale assenza.

Lottò contro la nausea crescente che quasi le impediva di parlare, ripetendosi ancora una volta che avrebbe dovuto riposare di più, quella notte. Era debilitata, ecco qual era la verità. “Mi trovi lì, se hai intenzione di comprare quel libro. Sbaglio o ti interessa particolarmente? Quando avrai finito di sfogliarlo … ti aspetto lì, allora.”

Parlava a raffica, e si ritrovò a cercare scioccamente il suo sguardo.

Ma quando lui esaudì la sua preghiera inespressa, un’esitante aria di scusa si era già fatta largo sul suo viso, ancora colorato di rosso. Trasse un respiro profondo, a malapena sufficiente a rendere le sue frasi udibili.

“Non posso trattenermi. Devo … Devo andar via subito, mi dispiace.”

Miyako batté le palpebre, come colpita da uno schiaffo.

Sentiva di non aver nemmeno recepito a dovere il messaggio. Un opprimente gelo le aveva invaso i sensi: lo sentiva, forte e prepotente, fuori e dentro di sé. Come una minaccia invisibile, che aveva preso all’istante le fattezze di Ken, immobile e a disagio.

Anche il respiro le si era congelato: era cristallizzato in gola, rendendo impossibile deglutire.

“Eh?” Chissà come, solo il suo cuore era attivo, palpitava convulsamente, come inseguito da un nemico invisibile. “Vai … adesso?”

Ken non rispose. Annuì soltanto, gli occhi ancora fissi su quel dannato libro.

Scosse la testa, cercando di annientare quel senso crescente di panico che stava cercando di soffocarla con le sue spire. “Io davvero non ti capisco. Non sei arrivato da poco? Non hai nemmeno osservato i libri arrivati due giorni fa! Non ha senso venire qui dentro solo per star seduti per cinque minuti e poi scappare come … come …”

La voce le si spense. “Io non capisco”, sussurrò, e le parve che le forze la stessero abbandonando completamente. Si appoggiò con la schiena a quello scaffale, ma le parve che traballasse anche quello.

Ken esitò, per poi avanzare di un passo verso di lei. Lei si irrigidì, e per reazione istintiva si portò una mano alla falsa chioma nera.

Tese il braccio verso di lei, e per un istante, uno sciocco istante, Miyako serrò gli occhi, incassando la testa tra le spalle.

Attese, non osando fare alcun rumore.

Ma non successe nulla.

Aprì gli occhi, sorpresa e perplessa, e sussultò, presa alla sprovvista.

Ken le stava porgendo il libro, immobile, serio, quasi imbarazzato per qualche motivo. E la forza del suo sguardo la colpì.

Perché era fermo, intenso, tremendamente bello. Sembrava che i suoi occhi fossero accesi di un sentimento incomprensibile, ma nel tumulto delle sensazioni suscitatele Miyako credette di scorgere la supplica nel suo volto.

Parlò, con voce instabile. “Forse verrò in un altro momento a prendere questo … libro. Adesso mi è davvero impossibile decidere. Ma … aspetterò.”

E la sua voce aveva stranamente indugiato su quel termine, con tutta la forza di un’emozione che sembrava una scusa. Una scusa accorata per quello che stava facendo.

Miyako, confusa, scombussolata, non riusciva più a comprendere. Prese quel libro, con mani tremanti, desiderando con tutte le sue forze di non sfiorare quelle di lui.

Come avrebbe reagito anche a quello?

A pensarci, come stava reagendo? Cosa c’era di così insopportabilmente soffocante dentro il suo petto?

Non dava più senso a nulla. Né al fatto che quel volume mai aperto ora era tra le sue mani, né all’impercettibile –forse anche immaginario- sussulto di Ken, che all’improvviso sembrava volersi riprendere il libro. Nemmeno alle sue continue occhiate ansiose.

Aveva gli occhi puntati su di lui, ma non era a lui che stava pensando. Pensava a se stessa. Pensava al suo gelo interiore.

Perché? Perché, perché, perché?

E poi Ken sospirò, allontanandosi. “Buona giornata, Rumiko-san.”

Si allontanò con la stessa velocità con la quale era venuto, senza voltarsi mai indietro.

Portandosi via la sua inutile barriera, la sua inutile maschera priva di credibilità.

E lasciando indietro tutto il resto.

La testa le scoppiava: non le riusciva più di stare in piedi. Credeva di non avere nemmeno la forza di pensare. Non aveva alcun residuo di resistenza a quello che provava.

Si lasciò cadere sul divanetto dove aveva scorto il ragazzo quando lo aveva seguito.

Cosa avevo in mente? Cosa volevo … cosa voglio da lui?

E all’improvviso, ogni spiegazione logica che aveva provato a dare fino a quel momento venne meno, accartocciandosi su se stessa, impotente, e mostrando la vera risposta.

La vera spiegazione.

E il dolore dovuto alla caduta di ogni barriera fu così intenso da trasformarsi in lacrime trattenute tra le ciglia, nel tentativo categorico di non lasciarsi andare ad un pianto liberatorio.

Si sentiva così piccola. Così sciocca. Così sola … Così colpevole.

La sua colpevolezza l’aveva condannata, isolandola per sempre dai suoi cari, costringendola a fingere per anni ed anni fino a straziarsi il cuore con sorrisi troppo ampi e tranquille risate troppo false.

La sua colpevolezza l’aveva portata a temere in ogni maniera l’insistente presenza di Ichijouji Ken, ad allontanarla con tutte le sue forze, fino a perdere la ragione, la determinazione, perfino il sonno.

Difendersi. Scacciare. Cercare la propria sicurezza. Ecco le conseguenze della sua colpevolezza. Un’orrenda responsabilità, decisa a strapparle via anche l’anima e i sentimenti.

Forse c’era riuscita. Lo aveva desiderato tanto, e forse era riuscita nel suo intento, facendo in modo che Ken non capisse mai di avere di fronte a sé la stessa ragazza che Osamu cercava con tutte le sue forze. Forse la sua incostanza, l’impossibilità di aprirsi con lui lo avevano, infine, allontanato. Forse non era nemmeno più interessato a parlarle, forse il rifiuto istintivo che aveva seguito la proposta del giovane di vedersi fuori dalla libreria lo aveva semplicemente stancato.

In fondo, che senso aveva? Lei non poteva aprirsi. Lui non poteva farci nulla.

Ma era questo a farle più male.

Lei c’era riuscita. E qualcosa di profondamente stupido, dentro di sé, strillava il suo dolore, perché in tutto quel tempo non aveva mai desiderato altro che capirlo, capirlo e farsi capire da lui.

Aveva desiderato le sue attenzioni disinteressate, la sua proposta esitante ma sincera, la totale mancanza di malizia nei suoi disarmanti occhi azzurri.

Aveva desiderato i suoi discorsi, e le sue risate, e la sua educata costanza e insistenza, e la sua preoccupazione appena accennata quando il pallore della sua pelle era sempre più evidente.

Aveva desiderato sentirsi sorridere spontaneamente, e poter scordare, di fronte a lui, la ragazza che nascondeva dietro parrucca e lenti da vista. Aveva desiderato la semplicità delle sue reazioni istintive quando lui la sorprendeva.

Ma c’era riuscita. E lo aveva allontanato, stancato. Era diventata inutile per lui.

E ora cosa avrebbe dovuto fare?

Raccogliere i cocci, andare avanti come se niente fosse? Ancora abbandonata, ancora dimenticata?

Ancora sola con se stessa, con Inoue Miyako e i suoi fallimenti?

Non le era rimasto altro. Forse Ken sarebbe tornato ancora, ma non sarebbe più stata la stessa cosa. Sarebbe tornato solo per essere un cliente come tanti, solo concentrato nella lettura di libri enormi e impegnativi …

Come quello che le aveva dato.

Lo guardò, sfocato attraverso le lacrime. Non aveva nemmeno usato la sua solita cortesia, riponendolo al suo posto di sua iniziativa. Lo aveva dato a lei, come se questo potesse lasciarle una minima traccia di ciò che aveva aspettato per giorni e che era sparito di nuovo in un battito di ciglia.

Lo aveva osservato per tanto tempo, preferendo la sua vista a quella di lei.

Un libro come tanti. Eppure non aveva nemmeno voluto comprarlo, e glielo aveva restituito così com’era, con quella copertina rigida, quel titolo a caratteri bianchi, con quel … foglio di carta che sporgeva leggermente dalle pagine chiuse.

Miyako si immobilizzò.

Si asciugò le lacrime dagli occhi, osservò meglio.

Sporgeva, lievemente obliquo, perfettamente reale. Sporgeva, e sembrava annunciare spavaldamente che non era quello il suo posto, perché non era un libro di biblioteca: non poteva essere stato usato da nessuno.

Ma era stato maneggiato per così tanto tempo …

Mani tremanti per l’agitazione e la fretta sottrassero bruscamente il foglio dalle pagine immacolate del volume. Mani piene di determinazione spiegarono il biglietto, mentre gli occhi castani brucianti per le lacrime trattenute scorrevano rapidamente il suo contenuto.

Se avessi desiderato conoscere la tua risposta, avrei sicuramente chiesto di persona cosa ne pensassi.

Non voglio saperla. So che i tuoi impegni in negozio ti tengono molto occupata, e che difficilmente puoi trovare una sosta. So che lavorare ti piace.

Non voglio costringerti ad accettare. Solo proporre.

C’è un piccolo parco tranquillo proprio dietro la libreria, a pochi metri da qui. Molte volte è l’ideale per rilassarsi se si accumula stress, almeno per me. Domani pomeriggio sarò lì dalle 18.

Se riuscirai a liberarti, se avrai voglia di accettare la mia proposta, mi ritroverai davanti alla fontana centrale.

Sentiti libera di non venire, se lo desideri: non avrò nemmeno bisogno di sentirlo dire da te, e non voglio davvero che tu ti scusi. Capirei.

Ti aspetterò in ogni caso, qualunque cosa tu decida.

Ken

Quante volte rilesse quelle parole, sempre più incredula, sempre più sconvolta, non lo seppe mai.

Ma seppe di essere stata una stupida a non capire, a non comprendere i suoi atteggiamenti.

Corse, la lettera tra le mani, senza più respiro. Lo cercò, affannandosi anche più di quanto avesse fatto tempo prima.

E c’era solo la sua assenza in libreria.

Corse fuori, spalancando la porta e fermandosi, ansimando, sul marciapiede.

Ma, tra milioni di persone, uomini, donne, bambini, non riuscì ad individuarlo.

Era già andato via, silenzioso e rapido, sfuggendo una risposta e lasciando indietro domande e dubbi, in quel sole caldo, in quel vento leggero.




Eccomi qui con un nuovo aggiornamento :) l'ultimo che pubblico nel periodo estivo. Sarò al mare per quasi tutto il restante periodo estivo, così non so quando e se avrò tempo per aggiornare ... ne ho approfittato ora, che è più sicuro :) colgo l'occasione per augurare un buon proseguimento di vacanza a tutti ... e ovviamente per ringraziarvi. E' grazie a voi e al vostro sostegno che questa storia va avanti ^^
E ora si accettano scommesse ... Miyako accetterà o no di presentarsi all'appuntamento? :P
Per Shine, che ha pensato erroneamente che la recensione avrebbe potuto non piacermi come le altre ... non è davvero così! L'ho trovata molto interessante, soprattutto perché hai saputo cogliere alcuni lati di Takeru che sono un po' complicati. E' davvero la capacità di giocare che aveva scordato di avere ... ed è per questo che non riusciva più a scrivere. Sono contenta che tu l'abbia capito :) mentre leggevi hai pensato a Michael Jackson? Beh ... onorata ** non c'è complimento migliore che potresti farmi! Mi ispiro soprattutto a lui quando parlo dei bambini ;) E per quanto riguarda la Taiora, posso solo dirti: aspetta e vedrai, come sempre! Sempre meglio lasciare la suspence! Sperando di risentirti presto, ti mando un bacione e un grazie!
li_l, i tuoi commenti non mi hanno offesa, anzi. Sono contenta che tu abbia deciso di dirmi la tua, e per carità, se un autore non sapesse ricevere critiche ... :) Ti dirò, avevo già pensato a problemi di questo genere, ma ho scelto questo tipo di struttura intenzionalmente. All'inizio, le due diverse vicende devono essere necessariamente separate, e quindi non c'è tutto questo bisogno di consequenzialità. Quando le due vicende si intrecceranno -e succederà in seguito-, ci sarà molta più corrispondenza di tempo nelle vicende. Oltretutto, di solito organizzo gli avvenimenti in modo da far passare circa lo stesso tempo da una parte e dall'altra, proprio per non creare troppo caos. :) Per quanto riguarda il consiglio di spezzare i capitoli in diversi punti di vista: di solito preferisco analizzare un solo personaggio a capitolo per andare a fondo nella sua introspezione, ma posso dirti che non mancheranno capitoli a punti di vista multipli. Se pensi al capitolo 15, già l'ho messo in atto! In seguito saranno più frequenti. Infine, il problema Hikari ... Mi rendo conto quale sia il rischio che corre, e ho capito qual è il tuo punto di vista. Ma io cerco di attenermi il più possibile all'anime, e lì non rappresenta forse un personaggio fondamentalmente statico? Non dico che non abbia il suo spessore, i suoi problemi e i suoi complessi, ma di solito tende ad essere un po' il punto fermo del gruppo. Sappi, comunque, che non ho intenzione di stereotiparla: sotto l'ottica di Takeru lei è, al momento, un po' "divinizzata", ma ti assicuro che non è così. Non resterà immutata, e avrà un bel po' di problemi a cui pensare ... oltre ai dubbi e alla confusione. Solo una cosa non mi è chiara: come mai paragoni Takeru a Renzo? Non ci assomigliano granché, dopotutto ...
Dopo tutta questa spiegazione, spero che non te la prenderai se, per ora, il progetto resterà immutato in quanto a struttura. Se avrai ancora piacere di seguirmi, sarò la prima ad essere contenta :) grazie molto per i consigli comunque!
Mystery Anakin, bentornata tra noi :) Sì, purtroppo la storia di Miyako non è delle più felici ... e probabilmente le cose sarebbero cambiate, se i suoi fratelli si fossero interessati della sua "questione" -non ti svelo nulla comunque, è inutile che speri :P-. Purtroppo è andata com'è andata, e non possono che subirne le conseguenze. Ma il problema è stato solo minimizzare quello che lei provava, perché in realtà le hanno sempre voluto bene... Io mi appunto i sospetti sul padre di Keiji senza rivelarti nulla! ^^ Comunque, sono contenta che la storia inventata da Takeru ti sia piaciuta! Anche se è stata totalmente improvvisata, un po' come fossi io Takeru ... è uscita da sola, giuro o.o per questo sono doppiamente felice ti piaccia! Fammi sapere se questo ti piace allo stesso modo, un bacione ;)
Che dire, gente ... a risentirci! :)

Padme Undomiel

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Capitolo 19
*** Le mura stanno crollando ***


Purity 18
18.



Le mura stanno crollando





“Non risponde.”

Uno sbuffo frustrato si levò dalle sue labbra, quando pigiò con veemenza il pulsante di chiusura di chiamata sul suo cellulare, per poi intascarlo nuovamente.

Tutto completamente inutile, di nuovo.

Guardò la figura davanti a sé, appoggiata con disinvoltura allo schienale di una panchina, e scosse la testa, infastidito. “Sembra sparito dalla circolazione. Sono già quattro volte che lo chiamo, e quante volte credi mi abbia risposto?”

Deguchi Naganori non si scompose più di tanto, limitandosi ad accigliarsi maggiormente al di sotto delle sue folte sopracciglia nere e a tirare un’altra boccata dalla sua sigaretta accesa. “Prevedibilmente nessuna, visto il tuo desiderio di distruggere il cellulare.” Disse pragmatico. “Rassegnati, Daisuke: Takeru ha intenzione di farsi desiderare una volta di più. E’ inutile insistere.”

“Come posso lasciar perdere?”

Motomiya Daisuke detestava non essere preso sul serio. Erano giorni –settimane- che quella storia andava avanti, che Takeru diventava sempre più sfuggente ed elusivo nelle sue risposte, che quasi non si degnava più di farsi vedere. Ed era un sacco di tempo che si ostinava ad evitare i loro incontri, con scuse assurde che non avevano alcun senso, tali da rendere più che chiaro che il suo amico non aveva più voglia di incontrarli.

Ma, malgrado la sua frustrazione, la sua preoccupazione e la sua delusione, Naganori era ancora lì, impassibile, come se l’assenza del giovane dai capelli biondi fosse non solo scontata, ma anche sperata in qualche maniera.

Provò l’ardente desiderio di prenderlo a pugni, solo per cancellargli quell’espressione indifferente dal viso, dagli occhi.

Incrociò le braccia, guardandolo furente. “Anche se è un idiota, Takeru è mio amico”, esclamò, impaziente di mettere in chiaro le cose una volta per tutte. “Che mi ignori pure! Io lo chiamerò e lo tormenterò finché non oserà dirmelo in faccia, che vuole essere lasciato in pace!”

Ostinato, prese nuovamente in mano il cellulare, digitando quel numero ancora una volta. Ne aveva davvero abbastanza. Voleva un motivo per questo continuo giocare a nascondino: lui e i ragazzi lo avevano sempre trattato come uno di loro, da quando Daisuke l’aveva conosciuto, da quando Takeru aveva deciso di sua spontanea volontà di accompagnarli in ogni genere di assurda impresa. Perché non era più felice di passare del tempo con loro? Aveva improvvisamente deciso che nessuno di loro era alla sua altezza, che desiderava altro, oltre alle ragazze di ogni sera, alle risate, alle bevute, alle feste?

“Daisuke. La vuoi piantare o no? Stai diventando patetico.”

L’indifferenza del suo tono di voce aveva lasciato spazio ad uno terribilmente annoiato. Naganori si era avvicinato a lui, la sigaretta ancora tra i denti, e gli porgeva la mano con aria intransigente. “Takeru ci sta evitando, e questo è quanto. Dovresti smetterla di rincorrere persone che non vogliono affatto vederti: sembri un bambino capriccioso. E ora dammi quel cellulare, prima che diventi una questione di stato.”

Le parole dell’altro lo colpirono come un pugno nello stomaco.

Con quale diritto si permetteva di parlargli così?

Reagì d’impulso. Lo afferrò per il collo della camicia, strattonandolo bruscamente. “Non provare a darmi del bambino!”, ringhiò, e se si trattenne in qualche maniera dallo spegnergli la sigaretta sulla fronte fu per puro miracolo. La rabbia lo aveva completamente invaso; gli era difficile persino parlare . “Non dirmi … Io non rincorro nessuno! Chiaro? E Takeru … Se io non lo rincorressi, lui si allontanerebbe ancora di più! Non posso permetterlo, capisci?”

Con suo sommo sconcerto, le labbra sottili del giovane dai capelli neri si piegarono in un sorrisetto ironico. “Ah”, commentò, falsamente sorpreso. “Perché l’ultima volta, cercando in tutti i modi di rincorrerla, sei proprio riuscito a fare in modo che non si allontanasse da te, vero?”

“Brutto …”

Il dolore e la rabbia si mescolarono insieme, in un confuso insieme di ricordi, sensazioni, rimorsi, rimpianti. E la furia, scatenata da una ferita mai rimarginata che con così poco tatto l’amico aveva riaperto, mosse il suo braccio.

Ma il pugno che Daisuke aveva indirizzato a Naganori non colpì mai il suo viso.

Ansimando, ancora troppo sopraffatto per rendersi conto della situazione, guardò senza capire il palmo della mano di Naganori che aveva fermato il suo pugno, l’espressione gelida, il lampo d’ira negli occhi neri l’unico elemento ad animare la sua figura immobile.

“Cosa credevi di fare, Daisuke?” E anche la sua voce era piena di ira, ora. “E’ finito il tempo in cui un pugno era sufficiente per zittirmi, e credevo che lo sapessi, dato che tutto questo lo devo a te.”

A malincuore, la consapevolezza di aver sbagliato, di essersela presa con la persona sbagliata nel modo sbagliato, lo costrinse a mollare la presa sull’amico, ad allontanarsi di un passo. Rimase a testa bassa, con i pugni contratti e le spalle rigide.

“Ho già sbagliato una volta”, replicò, tentando di mascherare il dolore dietro una debole facciata di determinazione. “Non sbaglierò anche con Takeru. Non permetterò che vada via, non dopo …”

E quel nome non espresso ad alta voce fece più male di qualsiasi stilettata.

Perché, perché era ancora tutto così vivido nella sua memoria?

E perché continuava a succedere a lui, a tutte le persone a cui teneva di più?

Un sospiro stanco. “Sai cosa stai facendo? Cercando di non ripetere l’errore, rischi di ottenere proprio l’effetto contrario. So che Takeru non ha lo stesso carattere di Miyako …”

“Piantala di nominarla!” ruggì all’istante Daisuke. Non poteva ancora sopportarlo. Non voleva più pensarci, sopportare quei ricordi.

Tutto per lei. Tutto per un’egoista, sciocca ragazza.

Miyako …

“Fa lo stesso.” Alzò invece le spalle Naganori, tornando a fumare con disinvoltura sulla panchina. “Non nominarla non ti servirà a cancellare completamente il suo ricordo, e lo sai.”

E il suo tono intransigente mise fine ad ogni tentativo di protesta da parte di Daisuke, che ammutolì.

Sapeva che aveva ragione. Sapeva che non poteva cancellarla del tutto. Sapeva quello che lei aveva significato per tutti, per Naganori, per lui.

E nel silenzio pesante venutosi a creare, il giovane seppe per certo che la presenza di lei era ancora nell’aria, invisibile ma reale, pronta a farsi sentire su entrambi nei momenti meno indicati, nonostante gli strenui tentativi di entrambi di sfuggire il suo ricordo doloroso.

Il giovane guardò Naganori, e seppe che un silenzioso accordo tra i due imponeva loro di tornare a parlare di Takeru. Non faceva forse meno male?

Fu per questo che non si oppose, quando l’altro riprese.

“Dicevo, so perfettamente che Takeru ha tutt’altro carattere, ma se preferisce non sopportarci, stesse pure lontano per un po’. Ti rendi conto che mettergli pressione potrebbe solo aggravare la situazione? Lascialo stare, e vedrai che tornerà da noi.”

Daisuke lo guardò con occhi sgranati. Certe volte, la sua sicurezza lo spaventava, oltre a sembrargli senza senso. “E se dovesse decidere di non tornare da noi, eh? Come la mettiamo se si convince che sta meglio senza di noi?”, sbottò, affatto convinto.

“Costringerlo a divertirsi non cambierebbe la situazione.”

“Ma potrebbe ripensarci! Potremmo aiutarlo, dannazione!”

Daisuke si era infervorato, e non riusciva davvero a smettere di alzare la voce. Gli sembrava di essere il solo a preoccuparsi dello stato particolare di Takeru, e la situazione era frustrante fino a limiti impensabili. Era loro dovere aiutare gli amici in difficoltà oppure no?

Daisuke non sapeva nemmeno che cosa avesse Takeru di preciso, a cosa fosse dovuta quella strana depressione che gli leggeva spesso negli occhi. Ma era sicuro che avrebbe fatto di tutto per trovare la soluzione. Non si arrendeva così facilmente.

Ma gli altri membri del gruppo …

Naganori gli gettò un’occhiata in tralice. “Tu credi che a me piaccia la situazione.”

Precisamente quello che Daisuke pensava. Lo fissò con aria di sfida. “Certo! Altrimenti non te ne staresti lì, senza battere ciglio.”

“Idiota.” Commentò esasperato l’altro, per poi estrarre dal pacchetto che aveva in tasca una sigaretta. Gliela porse, evidentemente aspettandosi che lui la prendesse.

Nel suo linguaggio particolare, porgere una sigaretta ad un amico era come una proposta di tregua. E di solito Naganori non dava mai una seconda possibilità di riconciliazione.

Non aveva scelta.

Controvoglia, Daisuke mise da parte il risentimento. Si sedette accanto a lui, e afferrò ciò che gli porgeva senza dire una parola.

“La situazione mi dà fastidio, e mi sento molto indignato.” Continuò poi Naganori, prestandogli l’accendino. “Ma penso che sia ancora più stupido costringerlo a farsi aiutare. Dammi retta, e lascialo perdere.”

Daisuke aspirò profondamente dalla sigaretta accesa, accigliandosi. “Bene. Tu fa’ pure come ti pare, e aspettalo. Io non ho alcuna intenzione di darmi per vinto, e cercherò in tutti i modi di farlo ritornare in sé prima che sia troppo tardi, intesi?”

Il rischio era davvero troppo alto. Oltretutto, come avrebbe fatto ad aspettare con le mani in mano, se ogni giorno che passava l’assenza di Takeru si faceva sempre più sentire?

No. Daisuke non sapeva e non voleva aspettare. Doveva agire.

Perché nemmeno Takeru poteva permettersi di trattarlo così, dopo tutto quello che aveva fatto per lui negli anni.

“Come vuoi, zucca vuota. Io, però, eviterei di chiamarlo dieci volte nel giro di un’ora, che dici? Potrebbe denunciarti per persecuzione, e non credo che la situazione ti piacerebbe.”

E il giovane dai capelli perennemente disordinati arrossì come il mozzicone di sigaretta che Naganori aveva buttato tranquillamente a terra, capendo che, in fondo, aveva esagerato.

Ripose il cellulare nella tasca con stizza, e nel suo sbuffo si levò una grande nuvola di fumo.

“Spero che Takeru abbia avuto un motivo più che valido per non rispondere a nessuna delle mie chiamate …”, borbottò tra sé.


***


“Ti interessa davvero saperlo?”

Malgrado lo scorrere continuo dell’acqua dal rubinetto aperto, la nota di stupore nella voce di Izumi Koushiro fu più che udibile. Lo guardò per un istante, gli occhi neri sgranati e un interesse mal celato a fondo della sua espressione.

Takaishi Takeru annuì, prendendo un altro piatto bagnato dalle mani del giovane dai capelli rossi e asciugandolo con il panno che aveva tra le mani. “Certo. Pare che qui di lavoro ce ne sia a non finire … e, ad ogni modo, non è una decisione facile da prendere. Se non conoscevi Taichi-san o sua madre, come mai hai scelto questa vita?”

Doveva averlo davvero sorpreso. Riflettendoci su, la situazione era davvero particolare: lo stesso Takeru non riusciva a credere alla piega che stavano prendendo gli eventi.

Erano passati solo tre giorni da quell’episodio della fiaba. Tre giorni, e il giovane confuso aveva sentito crescere dentro di sé uno strano desiderio di essere sempre in attività, e uno strano senso di realizzazione. Aveva scoperto, incredulo, che più tempo passava lì, più un disarmante senso di completezza riempiva il vuoto e la tristezza che per mesi non gli avevano lasciato tregua.

Ed era tutto dovuto a quei bambini, alla loro gioia. E a Hikari, con la sua dolce semplicità, e alle sue strane, ma così giuste, proposte.

Tre giorni, e la fiamma e la gioia che aveva sentito quel pomeriggio non aveva accennato a spegnersi, rafforzandosi invece minuto dopo minuto, ora dopo ora, giorno dopo giorno.

Scoprire cosa fosse successo, durante il racconto di quell’improvvisata fiaba, era quasi impensabile. Come poteva sapere cosa lo avesse spinto ad esporsi tanto, a trovare una soluzione tanto istintiva e forse impulsiva?

Ma sapeva cosa quell’episodio avesse instillato nel suo cuore stanco di false speranze.

Fiducia.

Brillava debolmente, continuamente repressa dalla sua disillusione, ma sentiva che c’era. E sapeva che non la provava da tantissimo tempo.

Fiducia per il sorriso che si era impresso sulle sue labbra per qualche ora, fiducia per essere riuscito, per una volta, a dare gioia ad altri che ne avevano bisogno, fiducia per aver saputo ideare, dopo tantissimo tempo e frustrazione, una storia che poteva piacere.

Come quando scriveva poesie per sua mamma, a otto anni, e vedeva l’orgoglio nei suoi occhi azzurri.

Da quanto tempo non trasmetteva più nulla, nelle sue semplici storie?

Eppure … Eppure un pubblico di bambini aveva apprezzato, e tanto, i suoi goffi tentativi di interessarli, di divertirli. Forse questo valeva anche più di qualsiasi complimento che aveva ricevuto a suo tempo, e non solo perché avveniva dopo prove innumerevoli e senza successo: i bambini sono un destinatario impegnativo, perché loro più di tutti hanno bisogno di un perfetto miscuglio di buoni insegnamenti, divertimento, semplicità e temi accessibili. E aveva creduto di non essere mai stato in grado di riuscirci.

Fino a quel momento.

E ora era lì, ancora più impaziente di conoscere l’ordine di quell’orfanotrofio. Ma anche il suo desiderio di apprendere era mutato, lo sentiva: se prima i ragazzi dell’orfanotrofio erano motivo di interesse solo in contrapposizione con il suo vuoto interiore, omologati tra loro quasi come fossero un solo individuo –da questa analisi aveva sempre escluso Hikari: fin dal primo incontro aveva compreso subito che era profondamente diversa da tutti loro, anche se in maniera che non gli riusciva di comprendere-, adesso sentiva, in qualche modo, di comprenderli maggiormente, e di ammirarli come mai aveva fatto con nessun altro.

Ora erano motivo di interesse non solo perché erano diversi da lui, ma anche per scoprire chi fossero in realtà.

Osservò Koushiro di sottecchi, notando che aveva di nuovo preso a lavare le stoviglie con perizia. Era straordinario che nessuno, nemmeno i ragazzi, si lamentasse dei lavori manuali: sembrava che il rispetto per gli altri che dimostravano nella cura dei bambini vigesse anche tra loro. Erano organizzati, e sapevano dividersi i compiti senza protestare.

Anche se questo fosse consistito nell’aiutare la ben funzionante lavastoviglie a smaltire i piatti sporchi del pranzo, comunque troppo numerosi per liberarsene facilmente.

“Sai, ancora oggi me lo chiedo, Takaishi-kun, ma posso solo darti delle supposizioni.” Rispose infine Koushiro, facendolo tornare alla realtà. Lo guardò di sfuggita, prima di tornare a strofinare la spugna su una padella. “Credo sia stato perché ero curioso.”

“Curioso?”

Takeru aggrottò le sopracciglia, preso alla sprovvista. Poteva soltanto la curiosità portare a tanta devozione, a tanti sacrifici?

Quando lo fissò, nel tentativo di scoprire se fosse tutto uno scherzo, fu solo maggiormente sorpreso di vedere uno strano lampo di vitalità animare i suoi occhi neri, e uno strano sorriso piegare le sue labbra.

“Già”, confermò, annuendo. “Vedi, ho un’ammirazione straordinaria per tutto ciò che c’è da scoprire, e questo comprende, più o meno, diverse categorie: le materie scientifiche e informatiche sono quelle che prediligo, e credo te ne sia anche accorto. Ho sempre un computer a portata di mano.”

A Takeru non ci volle molto per ricordare il piccolo gruppo di novelli informatici che spesso vedeva radunarsi accanto a Koushiro, durante le sue spiegazioni in giardino. Sorrise, incredulo. “L’ho notato, sì. Ma come può questo aver influenzato la tua scelta?”

“L’informatica non è il mio unico interesse. In teoria, mi piace apprendere, e più una cosa è particolare o innovativa, più ne sono attratto.” Fu la risposta tranquilla, mentre la padella bagnata veniva presa prontamente da un Takeru attento. “All’inizio, quando questo orfanotrofio fu fondato, c’erano davvero poche speranze che il progetto riuscisse a resistere per tanto tempo … e ti dirò, gli scettici erano molto più numerosi dei fiduciosi. Pare che, prima di essere fondato, la signora Yagami abbia dovuto lottare molto e fare molti sacrifici per trasformare la sua abitazione nella grande villa spaziosa che vedi.”

Takeru si fermò per un istante nell’atto di asciugare l’ennesima stoviglia. Pareva che quella donna, Yagami Yuuko, avesse sempre dovuto affrontare dure battaglie.

Eppure, in quella foto, il suo viso era così sereno, così dolce …

Doveva essere stata una donna straordinaria. Ricordava le informazioni che aveva ricevuto tre giorni fa da Hikari.

Ricordava il viso di lei, così dolce, così malinconico, così pieno di triste affetto e ammirazione, e i suoi occhi castani brillanti mentre ne parlava …

“Ne sentii parlare, ovviamente, poco dopo la sua definitiva inaugurazione, e ne fui da subito incuriosito. Era pur sempre un progetto ambizioso, e difficilmente realizzabile … Oltretutto, quale sarebbe stato lo stile di vita della famiglia Yagami, e dei bambini ospitati al suo interno?”

Vide Koushiro stringersi nelle spalle tranquillamente, mentre si prendeva una pausa dal racconto.

“E così, eccomi qui.” Concluse, con un mezzo sorriso. “Quando mi sono unito a loro era già passato del tempo: è stato più o meno due anni fa. A quel tempo la signora Yagami era ancora viva, e di noi più giovani c’erano solo Sora e Mimi. Oh, e alcuni bambini che ospitiamo adesso non c’erano.”

Takeru ripensò distrattamente ai visi dei bambini che aveva potuto osservare in quei giorni, chiedendosi quale di loro mancasse, e quale invece vivesse da più tempo nell’orfanotrofio. Fu una strana sensazione, come se avesse vissuto anni senza rendersi conto che qualcosa di tanto grande come l’orfanotrofio stava già mettendo radici.

“Quindi Kido-san è arrivato dopo di te”, dedusse, e Koushiro annuì.

“Jyou-san arrivò qualche mese dopo di me, non ricordo precisamente quanti. Probabilmente cinque, o sei.”

Calò un istante di silenzio, come se il giovane dai capelli rossi stesse cercando di rievocare nella sua mente immagini passate. Aveva una strana serenità sul volto.

Era così strano osservare qualcuno che avesse solo piacere di ricordare il passato …

“Non mi hai ancora detto cosa ti spinse ad unirti a loro”, insistette dopo qualche istante Takeru, chiedendosi se, dopotutto, poteva esserci una risposta razionale alla sua domanda. Sembrava che quella decisione avesse con sé milioni di sfaccettature, e che fosse difficile fornirne una spiegazione logica.

Ma quando Koushiro si riscosse dalle sue riflessioni, non rispose immediatamente come Takeru si era aspettato.

Cominciò a ridacchiare.

Lo guardò scioccato. “Cosa ho detto?”, chiese, totalmente preso alla sprovvista.

L’altro scosse il capo, guardandolo con un interesse rinnovato e una sorta di divertito stupore. “Scusa, Takaishi-kun”, gli disse dopo un attimo di silenzio. “E’ che, in qualche modo, mi hai ricordato me la prima volta che sono venuto in questo orfanotrofio.”

Takeru, se possibile, era ancora più stupefatto. “Sul serio?”

Koushiro gli sorrise. “Proprio così. Mi sembra che tu voglia scoprire esattamente come funziona qui, addirittura scoprire il processo mentale che ha portato ognuno di noi a dedicare la nostra vita alla cura dei bambini abbandonati. Ricordo che tempestai la signora Yagami di ogni possibile domanda, nel tentativo di conoscere tutto ciò che c’era da sapere.”

“Ah.” Inspiegabilmente, un senso di delusione aveva colto Takeru. Cosa si aspettava? Un’altra anima incompleta e tormentata come lui? Era chiaro ormai da tempo che i suoi problemi fossero qualcosa che riguardava solo lui, e nessun altro.

Asciugò il piatto che aveva tra le mani con decisione, sentendo il bisogno di sottolineare la differenza tra loro. “Ma tu volevi apprendere per amore della conoscenza. Io non conosco esattamente nemmeno me stesso, e sento che solo venendo qui troverò la risposta.”

Si sentì osservato per qualche istante dagli occhi scuri di Koushiro, ma non ebbe il coraggio di alzare lo sguardo. In fondo, ancora non poteva dare risposte su se stesso: i dati che aveva raccolto erano ancora troppo pochi. Doveva ancora osservare, capire.

Infine, Koushiro tornò a raccontare, probabilmente consapevole del disagio dell’altro.

“Ti confesso che trovai risposta solo alle domande tecniche, nonché le prime che posi. Ebbi molte informazioni dettagliate, e più sapevo, più volevo sapere. Così, quando si arrivò a domande più personali, più di natura interiore … la signora Yagami semplicemente stette zitta, osservandomi con una strana aria divertita. Non sapevo perché lo facesse, ma non riuscii ad avere risposte, qualunque cosa facessi.

“Finché … Oh, credo tu conosca Taichi-san.”

Takeru aggrottò le sopracciglia, interessato più che mai al racconto.

Yagami Taichi. Lo aveva osservato abbastanza spesso quando non era con Hikari, e mai una volta aveva saputo spiegare cosa, esattamente, colpisse tanto di quel giovane. La grinta, aveva pensato una volta; ma non era abbastanza. L’allegria, forse; ma nemmeno quello calzava alla perfezione. Forse la spensieratezza, i modi infantili; ma poteva davvero definirlo infantile, quando il termine stesso sembrava togliergli pregi, invece che aggiungerne?

C’era qualcosa in più in lui. Non sapeva cosa fosse: sapeva solo che era un qualcosa che faceva in modo che tutto l’orfanotrofio gravitasse intorno a lui, con la stessa intensità di Hikari ma in maniera completamente diversa da sua sorella.

“Non bene come vorrei, a dirla tutta”, disse con un sorriso di scusa.

Perché di una scusa si trattava. Aveva notato l’ammirazione e l’affetto nel modo in cui Koushiro aveva pronunciato quel nome, e una volta di più aveva avuto conferma che quelle sulla grandezza d’animo di Taichi non erano soltanto supposizioni, ma verità. Ma, dopotutto, non era nemmeno lontanamente intimo al maggiore dei fratelli Yagami.

“Per quello c’è tempo. Ma quel giorno per me fu uno shock.” Ridacchiò ancora, immergendosi in chissà quale ricordo piacevole. Takeru non si perdeva nemmeno un battito di ciglia del suo interlocutore, impaziente com’era di saperne di più su Koushiro, su Taichi, sull’orfanotrofio che Hikari tanto amava. “Venne da me all’improvviso, mentre ancora pregavo sua madre di spiegarmi ogni cosa, e aggrottò le sopracciglia, in totale disapprovazione. Me ne accorsi soltanto quando mi batté una mano sulla spalla, costringendomi a guardarlo.

“Dovresti rilassarti, amico. Non lo sai che la vita non è solo un concetto teorico? Persone come me sarebbero tipo amebe, se fosse così!, mi disse, ghignando. E quando vide il mio stupore commentò ancora, scrollando le spalle: Certe volte, seguire l’istinto è più facile. Comprendi molte cose che la razionalità vuole mettere da parte. Scommettiamo che capirai tutto da solo, affidandoti solo a ciò che ti viene più istintivo?

Takeru si arrestò di botto.

Erano parole del passato. Solo parole che un giovane uomo aveva pronunciato per Koushiro anni prima.

Ma erano ancora vive, presenti, attuali. Ma non più per Koushiro.

Per lui.

Il cuore aveva preso a battergli in maniera strana, quasi come zoppicante. Perché la vergogna per se stesso aveva ripreso a farsi sentire, riconoscendo i suoi atteggiamenti e le loro conseguenze su di lui.

Non era forse vero che, in mancanza di felicità, aveva preso a studiarne quella altrui in maniera razionale?

Domande su domande, del tutto inutili, perché la felicità e la passione per qualcosa non possono essere contenute in rigidi schemi, in parole vuote.

Occorre sentirle sul serio.

Se solo avesse saputo come non ricorrere a felicità effimere, razionali e studiate teoricamente …

Guardò Koushiro, il suo sorriso sicuro, i suoi occhi incoraggianti, e seppe che aveva capito i suoi tormenti, e che aveva pensato che quelle parole avrebbero potuto aiutarlo.

Così come lo aveva pensato Hikari, tre giorni prima, nel riferirgli lo stile di vita di Yagami Yuuko.

Sapevano tutti. E volevano aiutarlo.

“Fidarsi dell’istinto ti è servito, Izumi-san?” gli chiese esitante. Ma in fondo, conosceva già la risposta.

Era davanti ai suoi occhi, nella sicurezza dell’altro.

E Koushiro annuì, e il suo sorriso si fece più ampio. “Ragione e istinto devono necessariamente coesistere. Non si può vivere senza uno di questi aspetti: persino un maniaco dell’informatica deve saperlo.”

In che modo si fosse fidato dell’istinto, e cosa questo gli avesse fatto capire, Koushiro non lo specificò, e Takeru non lo chiese. Era qualcosa di personale, qualcosa di solo suo, e il giovane dai capelli biondi non intendeva violare i suoi spazi, né pretendere di sapere qualcosa che non lo avrebbe affatto aiutato.

Il suo istinto, così come il suo carattere, era diverso da quello di Koushiro, sebbene ancora non lo conoscesse appieno.

Ma una sensazione di gratitudine lo colse all’improvviso.

Ricambiò il suo sorriso, felicemente stupito dell’inaspettato aiuto dell’altro. “Lo terrò ben presente. Grazie.”

Lo vide scuotere il capo, mentre finalmente chiudeva il rubinetto lasciato aperto. “Ringrazio io te, Takaishi-kun. Non c’era bisogno di aiutarmi a lavare i piatti.”

“Direi che è il minimo, visto quello che voi fate per me”, rispose lui sinceramente, finalmente posando lo straccio bagnato che aveva usato fino a quel momento. Sospirò, scoprendosi stanco dopo quel lavoro: non se n’era quasi accorto, preso com’era dalle sue riflessioni. In fondo, era contento che fosse finito.

“Attenzione … non mettetevi sulla porta, potrei combinare un danno irreparabile!”

Quell’urlo apprensivo, insieme con quel rumore di stoviglie sfregate l’una con l’altra, distolsero i due giovani dalla loro conversazione. Takeru si voltò di scatto, e per un istante ringraziò il cielo di non essere accanto all’entrata della cucina.

Dalla porta, con un’espressione preoccupata, gli occhiali storti sul naso e una pila pericolante di piatti sporchi tra le mani, Kido Jyou aveva appena fatto il suo ingresso, e ogni cosa nel suo incedere faceva presagire una caduta fragorosa.

Temendo il peggio, Takeru scattò in avanti per dargli una mano, proprio quando Jyou sembrò perdere definitivamente il precario equilibrio che aveva acquisito fino a quel momento.

I piatti tintinnarono pericolosamente tra le sue mani, quando afferrò prontamente dalle mani di Jyou quelli che sicuramente avrebbero fatto una brutta fine e li sorreggeva.

Appena in tempo.

Jyou gli sorrise, grato, poggiando la pila dimezzata sul lavello. “Oh. Grazie! Forse avrei dovuto fare due viaggi, invece di liberarmene tutto d’un colpo …”

E mentre Koushiro rideva, dicendo al giovane dai capelli scuri: “Jyou-san! Abbiamo rischiato di ritrovarci senza piatti per stasera!”, Takeru fece un rapido conto del numero di stoviglie sporche che c’erano ancora da lavare.

Una pila intera appena portata da Jyou. Senza contare quella che lui aveva salvato dal disastro …

Pareva che il momento di pausa e meritato riposo dovesse aspettare ancora un po’.

Sospirò, alzando le spalle rassegnato. “Pare che ci sia ancora da rimboccarci le maniche, Izumi-san …”


***


Era esausto.

Non aveva fatto altro che lavare e asciugare, quel pomeriggio. Nel tentativo di essere di qualche aiuto per quei giovani così oberati di lavoro, aveva messo da parte ogni sua esigenza personale.

E dire che capitava di rado che lavasse i piatti, nel suo appartamento. Era da solo: spesso e volentieri utilizzava piatti di carta. Senza contare tutte le volte che Daisuke lo aveva quasi costretto a pranzare con lui e i ragazzi nel bar vicino all’università –chissà quanto tempo fa: da quant’era che non li vedeva e sentiva più? Credeva di aver persino dimenticato il cellulare nel suo appartamento, unico mezzo con il quale si contattavano ultimamente-.

Non aveva poi tanta esperienza, in quel campo.

Invece ora si ritrovava con mani ruvide e secche e con una terribile voglia di sedersi da qualche parte.

Il suo bisogno di rendersi utile e di capire quello che lo circondava doveva essere davvero forte e totalizzante, se lo portava ad osare anche in cose di cui non era molto pratico.

La cosa più assurda era che, nonostante l’ora e mezza impiegata in cucina, Koushiro e Jyou avevano ancora diverse faccende da sbrigare. Come passare l’aspirapolvere, lavare i vetri, stendere i panni, riordinare alcune camere, e numerosi altri compiti che avevano fatto quasi boccheggiare il ragazzo quando li aveva sentiti enumerare dai due improvvisati addetti alla pulizia.

Forse era stato anche per la sua istintiva reazione scioccata che Jyou aveva rifiutato ogni nuova proposta di aiuto da parte sua.

“Se non te la senti, è inutile che ci aiuti. Approfittane per riposarti, dai”, gli aveva detto. E poi gli aveva consigliato di cercare Sora o Hikari, che, insieme a lui e a Koushiro, erano le uniche persone ad essere all’orfanotrofio. Taichi e Mimi, a quanto sembrava, erano a lavoro, quindi momentaneamente non disponibili.

Eppure, Takeru camminava in un orfanotrofio stranamente svuotato.

Il corridoio ampio e lungo rimbombava dei suoi passi man mano che, esitante, avanzava.

Nessuna traccia di Sora, né di Hikari. Tantomeno della onnipresente folla di bambini.

Solo il rumore lontano dell’aspirapolvere.

Era strano. Solitamente non era mai stato lasciato da solo a vagare per l’orfanotrofio: Hikari lo accompagnava in ogni sua visita, senza lasciarlo mai e rispondendo con infinita pazienza ad ogni sua domanda.

Quel pomeriggio, Hikari non era con lui.

E ora lui si sentiva un pesce fuor d’acqua. Quasi come fosse tornato al tempo in cui si limitava a spiare, troppo vigliacco per dire a tutti quanta voglia avesse di comprendere e vedere con i suoi occhi. Quasi come se, scopertolo a vagare per quei corridoi, avessero potuto sbatterlo fuori senza altre parole di spiegazione.

Non sapeva come comportarsi.

Sbirciava, senza sapere cos’altro fare, nelle camere da letto che trovava sulla strada, trovandole sempre stranamente vuote.

Fu costretto a smettere solamente quando, in una di queste, trovò un gruppo di bambine, impegnate a parlare concitatamente di chissà quale piccolo segreto, di cui loro erano le uniche ad essere al corrente. Le chiacchiere si interruppero quando lo videro arrivare; una di loro, con capelli neri legati da una piccola treccia, alzò la testa di scatto, e strillò un “Ehi!” così indignato che Takeru si sentì immediatamente in dovere di sparire.

Non senza una scusa frettolosa, e un rossore inspiegabile sulle guance.

Mai una volta che riuscisse a sapere esattamente come comportarsi, con loro.

Da quel momento in poi, decise che sbirciare non era una buona idea.

Sospirò, appoggiandosi pigramente al muro di fronte a lui. Una finestra che dava sul cortile diffondeva per tutto il corridoio la luce di un sole che, con il sopraggiungere della primavera, spuntava sempre più spesso tra le nuvole.

Si affacciò a quella finestra, sentendo il bisogno di fare qualcosa, qualsiasi cosa.

E solo allora capì che fine avevano fatto tutti quanti.

Lo scorcio di giardino visibile al di là del vetro mostrava chiaramente la maggior parte dei bambini, che non gli era riuscito di trovare da nessuna parte, intenti a divertirsi in ogni maniera possibile, probabilmente approfittando del nuovo clima mite che si stava lentamente preparando a diventare abituale.

E con loro  Sora, seduta in mezzo al prato mentre parlava con un piccolo infortunato e medicava il suo ginocchio sbucciato.

Takeru li osservò con aria assorta, mentre vagava con lo sguardo da un bambino all’altro.

Eccoli lì. Nella loro bolla di certezze, protetti dalle angosce del mondo.

Erano ancora lì, dopo anni, dopo che anche la fondatrice di quel nido di sicurezza li aveva lasciati.

Non avevano mai smesso di essere lì.

E ora che conosceva un aspetto del passato di quel luogo, osservare la perfezione di quell’orfanotrofio, e il suo ordine, e la sua grandezza, era diventato ancora più particolare.

“All’inizio, quando questo orfanotrofio fu fondato, c’erano davvero poche speranze che il progetto riuscisse a resistere per tanto tempo … e ti dirò, gli scettici erano molto più numerosi dei fiduciosi.”

Dopo aver avuto una breve panoramica di quale fosse stata la situazione all’inizio, appariva davvero curioso vedere che tutto, ora, aveva senso.

Prima era solo un progetto.

Un sogno, di una donna soltanto. Yagami Yuuko.

L’unica, probabilmente, che aveva visto così lontano. Che aveva osato tanto.

Che aveva osato rinunciare a tutto per un sogno, un sogno che così facilmente avrebbe potuto rivelarsi un completo fallimento.

“Pare che, prima di essere fondato, la signora Yagami abbia dovuto lottare molto e fare molti sacrifici per trasformare la sua abitazione nella grande villa spaziosa che vedi.”

Aveva già previsto che i suoi figli sarebbero diventati suoi degni eredi, altrettanto sognatori, altrettanto decisi a rischiare il tutto per tutto?

Sapeva che altri quattro ragazzi avrebbero seguito più tardi le orme dei fratelli Yagami, mandando avanti il progetto e sacrificandosi in ogni modo?

Forse lo aveva capito grazie all’istinto? Quell’istinto di cui gli aveva parlato Koushiro quel giorno? Quell’istinto che lui, probabilmente, non sapeva ancora sfruttare?

“Scommettiamo che capirai tutto da solo, affidandoti solo a ciò che ti viene più istintivo?”

Se solo avesse saputo come fare.

Sorrise lievemente, considerando l’enormità di quello che era sempre stato sotto i suoi occhi, e che mai aveva considerato.

Tutto per dei bambini di pochi anni.

Tutto per un sogno grande quanto quella villa, e verde come quel giardino.

Scosse la testa, appoggiando una mano sulla parete accanto alla finestra. Quasi a volerne sentire la consistenza, il calore.

Gli sembrava che quelle mura gli parlassero in maniera diversa, ora che, infine, capiva.

Quelle mura nascondevano un segreto. Un passato così importante da rendere soldato ognuno dei giovani che si occupavano di quei bambini.

Un segreto che lui voleva scoprire, pur non conoscendone il motivo.

In fondo, come mai era così attratto da quell’orfanotrofio, da quel calore?

Lui, nei sogni, non ci credeva più.

Non ricordava nemmeno come ci si sentisse ad essere bambini.

E allora perché?

Il mal di testa tornò a farsi sentire più forte che mai, e Takeru fu costretto a rinunciare. Forse non era il caso di pensarci oltre, per quella sera. Avrebbe fatto meglio a correre a casa, magari a cercare di studiare. Aveva trascurato persino l’università, in quel periodo.

Si allontanò dalla finestra, decidendosi ad andar via a grandi passi. Avrebbe trovato Hikari in giardino, probabilmente, e le avrebbe fatto sapere che sarebbe tornato al più presto.

E avrebbe visto di nuovo quel suo strano sorriso luminoso e dolce apparire sulle sue labbra, si disse. Ogni volta che le prometteva di tornare aveva sempre quell’espressione …

Gli sembrava sempre che lei vedesse in lui qualcosa che lui stesso non aveva mai capito di sé, chissà per quale motivo.

Avrebbe tanto voluto sapere a cosa pensava ogni volta che …

Un canto gentile e sommesso, proveniente dalla stanza da letto proprio davanti a sé, interruppe bruscamente il suo incedere e i suoi ragionamenti.

Non si aspettava che ci fosse qualcuno.

Cautamente, avanzò, deciso a scoprire la fonte di quella melodia.

Era dolce, quasi sussurrata. Armoniosa, come la voce delicata che sentiva a stento, ma che gli parve così piena di affetto da risultare quasi sconvolgente.

E il motivo sembrava una ninnananna.

Aggrottò le sopracciglia, colto di sorpresa. E affrettò il passo, decidendo di risolvere al più presto il mistero.

Si fermò sulla porta, osservando con discrezione all’interno.

Le serrande erano quasi completamente abbassate: la luce filtrava dalle fessure educatamente, quasi con esitazione, come se non volesse disturbare il clima di placida serenità in quella stanza.

Di fronte a sé, un paio di culle nascondevano due visetti paffuti addormentati, tenuti caldi da copertine il cui colore era indistinguibile, in quel buio quasi totale.

E la melodia proveniva da una minuta figura femminile in piedi, che stringeva tra le mani un fagottino –era un maschietto o una femminuccia?- mentre, di spalle alla porta, ondeggiava sul posto.

Hikari.

Rimase paralizzato sulla porta, in preda ad una curiosa sensazione.

Lei sembrava così dolce. Così materna. Così affettuosa.

E ogni secondo di ascolto di quella dolce nenia gli causava una strana stretta allo stomaco. Come se la voce di Hikari riuscisse a scalfire la barriera di solitudine che intrappolava la sua sofferenza dentro di sé, gentile ma ferma, luminosa ma cortese, come la giovane a cui essa apparteneva.

Come la sua figura, che tanto sembrava scaldargli l’animo.

Pareva …

Un angelo.

Quasi non osava respirare, per paura di farsi scorgere.

Non osava disturbare quella quiete quasi irreale con la sua presenza.

Non voleva che quel canto si fermasse.

E un sorriso si fece largo sulle sue labbra mentre stava immobile ad ascoltare, dimentico di tutto, desiderando soltanto di poter trovare rifugio in quelle note, in quella voce, in quella presenza che tanto sapeva sconvolgerlo ogni volta che l’avvertiva accanto a sé.

Finché un lieve singulto soffocato non interruppe il canto, e Hikari non si zittì.

Il sorriso morì sulle labbra di Takeru, quando avvertì un cambiamento nell’aria.

E lo sentì ancora.

Un altro singhiozzo quasi inudibile mentre la giovane dai capelli scuri –aveva ancora il viso rivolto altrove, non riusciva a scorgerne l’espressione- posava il piccolo in una terza culla.

E ancora un altro, mentre si sedeva sul letto, e si portava una mano alla bocca per non far rumore, e le sue spalle tremavano.

Una sensazione di gelo invase Takeru all’istante, e forse fu quella la causa del suo improvviso irrigidimento in tutto il corpo.

Hikari stava piangendo.

Senza un motivo apparente. Così, all’improvviso.

Come se un dolore senza fine le avesse appena afferrato il cuore, e soffocato in gola la sua melodia.

Piangeva in silenzio per non svegliare i piccoli che aveva appena fatto addormentare.

E ogni suo singhiozzo sembrava spezzare la serenità di quella stanza.

E ogni singhiozzo sembrava stringere una morsa di angoscia dentro di lui.

Turbato, la fissava piangere, sentendosi soffocare da una profonda tristezza.

Tristezza causata da incapacità di essere d’aiuto. Da frustrazione per non poter consolare. Che era …

No.

Non era il suo solito bisogno di donare conforto in qualche maniera.

Era incapacità di essere d’aiuto a Hikari.

Il suo sorriso era una sua costante: ogni volta che l’aveva vista in volto era sempre il suo sorriso la prima cosa che notava di lei. La prima cosa che lo scaldava, ancor prima delle sue parole di conforto.

Ed ora, che proprio il sorriso le veniva a mancare …

Vuoto. E quasi dolore.

Incomprensibile dolore.

Come potevano le lacrime solcare quel viso così bello?

Non seppe quando si mosse, quando il pensiero si trasformò in azione e quando i suoi occhi si rifiutarono di osservare oltre quello spettacolo.

Seppe solo che si avvicinava cautamente a quel lettino.

Che le si sedeva accanto. Che, esitante, le metteva una mano sulla spalla, e con l’altra le cingeva le spalle minute e tremanti.

E che la sua voce quasi sussurrata tentava solo di frenare quelle lacrime.

“Hikari-chan”, disse piano. Ogni formalità sembrava inutile in quel momento, nonostante quel sussulto di sorpresa della giovane. Non si aspettava quel cambiamento, tantomeno la sua presenza apparentemente immotivata. “Cos’è successo?”

Hikari alzò il capo, e i suoi occhi lievemente arrossati –sembrava arrossato anche il suo viso, ma non poteva esserne sicuro, con quella penombra- parlarono della sua sofferenza ben più del sorriso di scusa che piegò le sue labbra. Si asciugò in fretta gli occhi. “S-scusami, Takeru-kun. Sto bene, davvero. Non so cosa mi sia preso …”

“Perché non provi a fidarti di me, stavolta?”

Parlò d’impulso, accorato e ancora a bassa voce per non farsi sentire.

Hikari si zittì di colpo. “Eh?”, chiese confusa.

Takeru rimase per un istante silenzioso: osservava le sue mani posate sulle spalle della giovane. Senza volerlo, ora che aveva acquisito confidenza con quella pelle sconosciuta, si era ritrovato a stringere la presa. Probabilmente per darle più calore, conforto.

Eppure era strano. Il calore doveva donarlo, non sentirlo crescere sempre più forte dentro di sé.

Era come se avesse bisogno anche lui di quel contatto.

“Io mi fido di te. Se non lo facessi, non sarei qui, dato che la maggior parte delle cose qui ancora mi sfuggono. E mi sono sempre rivolto a te quando le mie confusioni si facevano insostenibili, lo sai. Adesso …” La guardò negli occhi ancora lucidi, leggendo nella sua espressione tanta sorpresa. Non se lo aspettava. “Adesso fidati di me, per favore. E dimmi cosa c’è, e cosa posso fare per te.”

Non osò esplicare a voce alta anche la muta promessa che i suoi occhi fecero: lui avrebbe fatto qualsiasi cosa –qualsiasi- per asciugare davvero quelle lacrime e quel dolore.

In quel momento, lo capirono entrambi.

Vide Hikari abbassare nuovamente il capo, e posare lo sguardo sul copriletto. Una ciocca di capelli le cadde davanti agli occhi e rimase lì, quasi a ricordare a Takeru quanta voglia avrebbe avuto di spostargliela dolcemente dal viso.

Ma non osò muoversi, turbato dallo strano silenzio della giovane.

“Ho guardato quei neonati negli occhi.”

Assomigliava a un sussurro spezzato, la voce di Hikari. Era libera dai singhiozzi prepotenti del pianto, ma in qualche maniera sembrava ancora più disperata di prima.

“E ho pensato … a cosa ne sarà di loro. Quale sarà il loro futuro. Se cresceranno bene, se saranno forti … se staranno bene.”

Takeru, per un istante, credette di aver capito male. La fissò, scioccata.

Era tutto lì il problema? Era per quello che piangeva?

“Hikari-chan, è normale che staranno bene”, tentò, cercando di suonare più incoraggiante che perplesso. Incredibile che i ruoli si fossero invertiti, tra loro. Per un motivo così strano, poi. “Siete delle persone così amorevoli e attente che è praticamente impossibile che possano star male.”

Ma attese invano una qualsiasi reazione da parte di lei.

Aggrottò le sopracciglia, ancora più perplesso. Forse aveva di nuovo fatto cilecca, e non aveva rassicurato proprio nessuno, come suo solito.

Avrebbe dovuto ritentare? Come poteva aiutarla?

“Senti, te lo posso assicurare. Ti ho vista, vi ho visti. Siete straordinari. Non ti sembra una preoccupazione un po’ infondata? Non hai niente da temere. Finché quest’orfanotrofio sarà in piedi, i bambini staranno benissimo. Dico davvero: da quello che ho sentito, tua mamma ha organizzato tutto alla perfezione. Aveva capito i bambini, sapeva come trattarli, farli giocare, e …”

“Takeru-kun.”

Non fu l’essere stato interrotto durante il suo discorso sconclusionato, né l’avere di nuovo i suoi grandi occhi castani su di sé.

Fu il tono con cui disse il suo nome a zittirlo. Con serietà, senso di colpa e dolore.

Cosa sta succedendo?

Hikari prese un respiro tremante. “Finché l’orfanotrofio sarà in piedi.” Ripeté.

Takeru non capiva. La fissò ancora, tentando di afferrare il senso di quelle parole.

L’occhiata sul viso di lei non gli piaceva.

Cosa diavolo sta succedendo?

E mentre le labbra di Hikari tremavano, e grosse gocce di dolore brillavano stranamente nella penombra, il giovane vide l’ombra incombente di un segreto in quella villa, e un peso insopportabile gravare sulle esili spalle di lei.

“Avrei dovuto dirtelo prima, Takeru-kun. Mi dispiace. Ma credo che tu debba sapere, ora che … ora …”

Un singhiozzo, poi un respiro profondo.

Il dolore sembrava penetrargli nelle ossa, senza conoscerne il motivo. Strisciava insinuante proprio come quell’orrendo presentimento.

Forse avrebbe fatto meglio a non sapere.

Infine, la frase che pose fine all’impazienza. E a ogni dubbio.

“Rischiamo di chiudere l’orfanotrofio per mancanza di soldi. E se dovesse accadere davvero … migliaia di vite saranno perdute, così come il sogno di mia mamma.”

Le mura di quella villa crollarono su Takeru in quell’istante.





Eccomi di ritorno dopo il periodo di pausa! Finalmente ho modo di aggiornare questa long-fic ^^ e quello che vi propongo oggi è il capitolo che dà inizio alla parte centrale della storia. Da adesso in poi gli sviluppi saranno sempre più notevoli ... a cominciare dal nostro Takeru :) a questo proposito, vi avviso che la scena non è interrotta: è stata solo sospesa momentaneamente. Tra un paio di capitoli saprete anche il perché ;)
E ora, come sempre, i ringraziamenti dovuti ai miei lettori!
li_l, leggere dei tuoi commenti si rivela sempre molto utile: mi aiuta a capire se abbiamo dei punti di vista diversi riguardo alcuni atteggiamenti dei personaggi che sto trattando in questa storia. L'idea che hai di Hikari è davvero molto vicina alla mia, e per questo posso assicurarti una volta di più che non ho alcuna intenzione di banalizzare questo personaggio così bello :) farò il possibile per renderle giustizia! E prenderò in considerazione l'idea di un confronto serio tra Hikari e Ken, perché l'idea alletta anche me. Anche se sarà più in là sicuramente xD ora come ora è troppo presto ... Se ti interessa la decisione di Miyako riguardo l'appuntamento, ti aspetto al prossimo capitolo, dove lo svelerò sicuramente! Grazie per la tua decisione di continuare a seguirmi :)
Shine, ci tenevo ad avere le tue solite impressioni dettagliate riguardo al sogno di Miyako. Descrivere un sogno, soprattutto uno agitato, può rivelarsi molto difficile da diversi punti di vista ... non è stato facilissimo per me trattare una cosa del genere. Ma questa storia mi sta dando la possibilità di sperimentare molti generi e trovate stilistiche diverse :) Per quanto mi riguarda, ho sempre voluto un approccio diretto con l'inconscio di un mio personaggio, in modo da trattare anche i sentimenti più nascosti ... e in questo caso volevo creare la contrapposizione tra una Miyako più giovane e spensierata e una Miyako più matura e ferita, piena di nuovi timori e vecchi rimpianti.  Ti ringrazio di aver apprezzato questo tentativo ^^e anche per i tuoi commenti,  sempre preziosi per me! Mi rassicuri un sacco **
Con questo, vi saluto fino al prossimo aggiornamento! Grazie per la fiducia :)
Padme Undomiel

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Capitolo 20
*** Petali di ciliegio ***


Purity 19
19.



Petali di ciliegio





Sembrava passato un secolo da quando si era fermato lì l’ultima volta.

Allora, l’autunno era appena iniziato. Foglie rossastre volteggiavano in maniera scomposta ai suoi piedi, agitate dal vento fresco che le faceva scricchiolare e rompere, data la loro fragilità. Ogni occasionale schizzo della fontana –sul quale bordo si era seduto anche l’ultima volta, se ben ricordava- lo aveva portato a rabbrividire in maniera poco piacevole. Persino il cielo era coperto, immobile, quasi come se volesse nascondere con tutte le sue forze quell’azzurro intenso che si celava al di là di quel bianco.

E proprio lì Ichijouji Ken aveva scoperto in maniera definitiva la sua inclinazione all’indagine e al mistero.

In quel tranquillo parco piccolo quanto silenzioso Ken aveva osservato senza vederle quelle foglie secche sull’asfalto, la sua mente rivolta a quel caso a cui suo fratello Osamu stava lavorando da qualche tempo, e che sembrava dargli problemi. Si era informato, come suo solito, su ogni dettaglio, nel tentativo di capire come mai proprio un detective in gamba come suo fratello non riuscisse a fare ulteriori passi verso la verità. E aveva dovuto riconoscere che le complicazioni c’erano, eccome se c’erano.

Non sapeva spiegarsi quale fosse la soluzione. Non l’aveva detto a Osamu, ma aveva iniziato a pensarci anche lui in maniera seria, pronto a verificare se anche lui fosse dotato di un qualche spirito intuitivo nella realtà, oltre che nei romanzi. Ed era finito lì a riflettere, a fargli compagnia solo quel frusciare delle foglie.

Quando, infine, aveva avuto l’illuminazione, quasi non credeva ai suoi occhi.

Poteva esserci una pista che entrambi non avevano considerato. E poteva avere un senso.

Ricordava di essere stato colto da una strana euforia, mentre si dirigeva, svelto, verso l’ufficio di suo fratello, e gli forniva quell’indizio.

Ricordava l’espressione di puro stupore sul viso di Osamu, perché quella era la prima volta che si rendeva conto che indagare sui misteri era anche la sua, di passione.

Ricordava il senso disarmante di orgoglio quando, grazie a quell’indizio, Osamu aveva dedotto tutta la verità. Così come ricordava i suoi occhi impenetrabili mentre, di sottecchi, lo scrutavano nei giorni successivi.

Forse, da quell’istante in poi, aveva compreso che Ken poteva essergli utile, semmai ne avesse avuto bisogno.

Doveva molto a quel piccolo angolo di tranquillità, così raro da trovare in una città come Tokyo. In qualche modo, sentiva che quel giorno la sua vita era cambiata completamente.

Senza quell’episodio, dubitava che il caso di Inoue Miyako gli sarebbe stato affidato, o che Osamu si sarebbe fidato tanto di lui da rischiare e metterlo al corrente.

Ed erano già passati otto mesi da quando era stato in quel parco l’ultima volta. Ora la fioritura dei ciliegi aveva colorato di un tenue rosa il piccolo viale davanti a sé.

E ora, ai piedi degli alberi, quelli che volteggiavano pigramente al vento erano solo leggeri petali che si intrecciavano tra loro in una curiosa danza.

Era un peccato essere mancato per tanto tempo, vedere così tante novità tutte d’un colpo.

I nuovi impegni non gli avevano concesso quasi un attimo di tregua, e fermarsi lì solo per respirare aria fresca, per una volta, era stato impensabile.

Ma quel pomeriggio, di tempo da passare lì ne aveva eccome.

Un mezzo sorriso disilluso passò sulle sue labbra, mentre considerava seriamente l’idea di essere uscito di senno.

Non era difficile comprendere come mai il suo istinto gli avesse suggerito quel parco, quando aveva cercato un posto tranquillo abbastanza per ciò che aveva in mente.

In fondo, quel luogo rappresentava una parte importante di sé. Una parte di cui avrebbe voluto rendere partecipe per farsi conoscere.

Che sciocco.

Erano le 18:30, e non c’era proprio nessuno a cui mostrare quella piccola bellezza a lui tanto cara.

Dopotutto era prevedibile. Non si aspettava davvero che lei avrebbe preso sul serio un giovane tanto esigente, o tanto illuso. Non sapeva nemmeno, in effetti, se lei aveva trovato quel patetico foglio di carta conservato nelle pagine di quel libro, che aveva avuto il compito di sostituire una proposta a parole che lui era stato così incapace di pronunciare.

Ma teoricamente non doveva essere deluso. Non doveva provare quella sensazione angosciante di aver sbagliato tutto, e definitivamente. Non doveva sentirsi così abbattuto, e così solo, al centro di quel parco.

Teoricamente.

Doppiamente sciocco.

Si guardò intorno un’altra volta, cercando in tutti i modi di individuare chi aspettava, e chi stava uccidendo la sua razionalità giorno per giorno.

Forse, aspettando ancora, qualcosa sarebbe …

“Quante volte ancora credi che mi tocchi ripeterti la stessa domanda, Ken?”

La voce improvvisamente infastidita proveniente dal cellulare che reggeva meccanicamente all’orecchio fu capace di riportarlo bruscamente con i piedi per terra.

E non poté impedirsi di sobbalzare, come se il suo interlocutore potesse averlo visto mentre si comportava in maniera tanto irragionevole.

Si ricordò, d’un tratto, della conversazione telefonica che era ancora in corso, e che aveva momentaneamente scordato.

“Scusami, Osamu. Non ero attento”, si giustificò in fretta, pregando che il suono del vento riuscisse a nascondere l’imbarazzo nel suo tono di voce.

Il silenzio dall’altra parte della cornetta fu breve, ma eloquente. “Il che è strano”, concluse il maggiore tra i due, riuscendo persino a peggiorare la sensazione di disagio in Ken. “Non è da te essere tanto distratto, considerando che è la quarta volta che ti chiedo se ci sono novità.”

La quarta volta? Possibile?

Scosse la testa, questa volta seriamente preoccupato per la sua salute mentale. Tutto questo non gli faceva bene.

“Mi dispiace sul serio. Sono … un po’ tra le nuvole, oggi.” Rispose, più evasivo che mai. E ringraziò il cielo –quel giorno di un azzurro intenso- che l’occhio vigile di Osamu non potesse scorgere il suo viso in quel momento. Decise di cambiare presto argomento, per non fornirgli ulteriori prove della decisione che aveva preso per quel pomeriggio. “Volevi sapere se avevo novità sul caso Inoue?”

Il sospiro di Osamu fu più che eloquente riguardo al suo livello attuale di pazienza. “Non è il motivo per cui ti chiamo ultimamente? Credo si capisca benissimo. A meno che …” Una nuova pausa; poi il suo tono si fece insinuante. “A meno che la tua distrazione di oggi non sia diventata un’abitudine che ti impedisce di interessarti del caso a dovere.”

E Ken si irrigidì all’istante, colto sul vivo.

Lo aveva improvvisamente accusato di non svolgere bene il suo lavoro.

Ed era un tasto dolente. Non solo perché rappresentava ormai una delle abituali frecciate che Osamu gli lanciava, sempre capaci di farlo sentire umiliato.

Questa volta, aveva anche dato voce a una delle sue più recondite preoccupazioni.

Il senso di colpa tornò a tormentarlo: questo, insieme alla necessità di rispondere a quella provocazione, lo spinse a giustificarsi.

“Se sono distratto momentaneamente non significa che io stia prendendo alla leggera il caso, Osamu”, replicò, e fu stupito di sentire una nota di indignazione nel suo tono altrimenti serio. “Io ci tengo, e mi sto impegnando al massimo per ritrovare quella ragazza. Dovresti saperlo bene.”

Era difficile capire se lo avesse sorpreso o meno. Forse lui era l’unico, come sempre, ad essere toccato in qualche modo dalle parole dell’altro.

“Perfetto. Allora non dovresti avere nessun problema a riferirmi le novità.” E il tono di Osamu era di nuovo impassibile, volutamente imperscrutabile. “Sei andato a trovare i fratelli di Miyako?”

Lo sguardo di Ken cadde sul suo orologio da polso. 18:35. E di lei nessuna traccia.

Cercò disperatamente di contenere la delusione osservando meccanicamente ogni secondo che passava, imponendosi di parlare di argomenti più seri. Aveva un dovere preciso, e non sarebbero state le sue sciocche illusioni a distoglierlo dall’indagine.

“Non mi hanno detto molto, veramente”. Fu quasi soddisfatto del suo tono razionale e misurato: non lasciava trapelare nulla. “Pare che ci siano stati diversi litigi tra Miyako e i suoi genitori, e che i suoi fratelli non ne abbiano mai compreso il motivo. Ma penso che sia qualcosa che riguardava il suo gruppo di amici: mi hanno detto che lei riferì loro che i suoi genitori volevano toglierle la sua più grande felicità, e nel suo diario dimostra quanto realmente ci tenesse a loro.”

“Già. Tutte informazioni che avevo ottenuto anche io”, ribatté Osamu. E sulle prime Ken fu troppo impegnato a osservare il tempo che volava via e che distruggeva ogni cosa per accorgersi della lieve nota di soddisfazione nella sua voce. “Saputo altro?”

“Beh …”

La sua mente lavorò frenetica, nel tentativo di ricordare con chiarezza ogni dato che poteva essere utile per le indagini e scordare le lancette di quell’orologio.

“Hanno confermato alcune conoscenze di Miyako. Come Hida Iori, che pare fosse stato anche …”

“… il suo vicino di casa.” Completò l’altro. E Ken si zittì per un istante, sorpreso dell’interruzione.

“Sì. Proprio il suo vicino di casa.” Ripeté lentamente, cercando di capire cosa stesse succedendo a suo fratello. “Ma di Sato Satsu, associata al nome di Hida nel diario, non hanno alcuna informazione. Pare che non la conoscano.”

“E poi ti avranno fatto anche altri nomi”, intervenne subito Osamu, come se la sapesse lunga.

Ken aggrottò le sopracciglia. A che gioco stava giocando? Lo sapevano entrambi che il maggiore tra i due aveva già condotto più volte le indagini sul caso Inoue, e che quindi aveva già ottenuto molte informazioni. Che bisogno c’era di rimarcarlo a tutti i costi?

“Altri quattro, per l’esattezza. Due ragazze, Yamanaka Harumi –compagna di classe delle medie- e Nakajima Eriko –conosciuta al corso di informatica che frequentava anche Miyako -, e due ragazzi, Deguchi Naganori e Motomiya Daisuke, amici tra loro e entrambi in rapporto conflittuale con lei.”  Ken fece una smorfia, interpretando il silenzio dell’altro. “Ma sono tutte cose che, senz’altro, saprai già.”

“Infatti”, confermò l’altro, e Ken riuscì quasi a immaginarsi il suo lieve sorrisetto compiaciuto, che mai si estendeva agli occhi. Sembrava quasi fosse soddisfatto della mancanza di progressi da parte di suo fratello minore.

Dalla mancanza di sue vittorie, come le aveva chiamate lui.

La nausea si mescolò ad un senso di abbattimento inspiegabile. Così come un bruciante senso di inadeguatezza.

“E saprai anche a chi potrebbe riferirsi il Caro Simpaticone, suppongo.” Disse poi, e si rese conto con stupore che desiderava poter essere lui a spiegargli qualcosa. Desiderava che Osamu non ci avesse ancora pensato.

Ancora una volta, le cose non andarono come Ken sperava. Doveva essere la giornata meno indicata per simili speranze.

18:41.

“Ho fatto un rapido calcolo”, rispose subito il detective. “Stiamo ancora parlando di un ragazzo con il quale non andava molto d’accordo, giusto? Dalle poche informazioni che abbiamo, dobbiamo dedurre che sia o Deguchi o Motomiya. Ma Deguchi è nominato poco prima, quindi chi altro potrebbe essere se non Motomiya?”

Ken sospirò. Era stanco. Stanco di quei giochetti, di quella sfida, di quella malcelata rivalità. Non aveva nemmeno più voglia di rispondergli a tono: voleva solo andare a casa.

Era già troppo tardi per aspettare ancora, si disse.

“Bene. Lo hai pensato anche tu. Allora siamo d’accordo.” Si arrese. E stava per alzarsi, per andar via da quel parco, quando si ricordò di un particolare importante.

“Royama Hideki.” Disse poi. L’orgoglio poteva essere messo da parte, in circostanze come quelle. “Come mai lo hai aggiunto alla lista dei sospettati? Hai detto tu stesso che nessuno ne ha riconosciuto il nome, e i fratelli di Miyako erano perplessi quando lo hanno letto. Con che criterio …?”

“Ken.”

Si zittì, quando il tono secco del fratello risuonò dal telefono. Attese.

Un sospiro, quasi esasperato. “Qual è il compito di un investigatore?”

Ma che domanda era?

Perplesso, rispose: “Ricercare la verità.”

“Appunto. Ricercare.” Sottolineò, e finalmente Ken capì le implicazioni di quell’affermazione. “Io ho dei motivi per sospettare di lui. Ma, come ti ho già spiegato, l’indagine la stai conducendo tu: io posso solo seguire la tua pista. Se sarai d’accordo ben venga per le indagini, altrimenti ognuno seguirà i propri sospetti.”

Avrebbe dovuto aspettarselo. Era tipico di Osamu, tenere per sé le proprie deduzioni. Eppure, quella volta fece più male, per qualche motivo.

Quando parlò, ascoltando distrattamente il suono confuso di una corsa sull’asfalto che si avvicinava sempre più, la sua voce era amara proprio come il suo umore. “Mi sembra che sia quello che cerchi di ottenere da un bel po’, Osamu. Da quando hai deciso questa sfida senza senso tra noi. Comincio a credere che, per te, sia persino più importante di trovare Miyako.”

Il rumore di passi affrettati era sempre più vicino. Ma la risposta di suo fratello lo distrasse ancora una volta.

“Non insultare la mia intelligenza e il mio senso del dovere.” Era diventato di nuovo freddo. Quasi glaciale. Ricordava quasi il tono che aveva usato l’ultima volta che si erano visti di persona, nel suo studio, a dividerli un diario e una barriera spessa. “Ciò che conta di più è trovare Miyako, per me e per noi. Ma forse quest’esperienza ci permetterà di capire quanto realmente valiamo … e chi di noi si avvicinerà di più alla verità.”

Quanto realmente ti infastidisce che io lavori con te, Osamu?

Ma non riuscì a formulare la domanda: non ebbe il coraggio di dar voce ai suoi pensieri.

E non ne ebbe il tempo.

I passi si arrestarono bruscamente accanto a sé, facendolo sussultare.

Alzò lo sguardo dall’orologio che aveva continuato ad osservare, voltandosi verso la figura che era appena arrivata.

E il suo cuore mancò un battito.

Ansimava lievemente, i lunghi capelli neri al vento tenuti fermi solo da un fermaglio a un lato del viso, le labbra rosee lievemente socchiuse per respirare meglio, le guance arrossate per la corsa.

E i suoi occhi castano chiaro erano fissi su di lui, e lo guardavano, un misto di emozioni contrastanti e così intense che Ken non riuscì ad interpretarle.

Sapeva solo che una strana sensazione di completezza si era impadronita di lui.

Perché Miyazawa Rumiko si era presentata lo stesso all’appuntamento, sebbene fossero le 18:49, sebbene ogni cosa lasciasse intendere che le cose sarebbero andate diversamente.

Sebbene lui stesso avesse creduto che le sue aspettative sarebbero state vane.

Miyazawa Rumiko era venuta lo stesso. Da lui.

Nonostante il rifiuto ricevuto la prima volta che lo aveva proposto.

Ed era di fronte a lui, e sembrava guardarlo con stupore come lui guardava lei. Sembrava che neanche lei sapesse cosa ci faceva lì, cosa l’aveva spinta ad accettare.

Per un istante non fecero altro che guardarsi negli occhi, senza sapere cos’altro fare.

Finché una voce troppo lontana al suo orecchio non gli ricordò che era ancora al telefono.

“Ken? Ci sei ancora?”

E fu solo allora che Rumiko distolse lo sguardo da lui, scorgendo il cellulare che lui reggeva tra le mani, e il suo viso si animò di un’improvvisa comprensione. Si mise a guardare altrove, mantenendo una certa distanza come a dirgli di continuare la sua conversazione, che avrebbe aspettato.

E Ken la fissò ancora, mentre lei osservava il parco con aria fin troppo noncurante.

“Sì, ci sono”, rispose. Come suonava diversa la sua voce, ora. “Dovevi dirmi altro?”

Osamu parve improvvisamente sorpreso. “Volevo chiederti quale sarà la tua prossima mossa. Inizierai ad indagare sui nuovi nomi che hai, immagino.”

E fu con sgomento che Ken si rese conto che più osservava Rumiko –ora intenta ad aggiustarsi i capelli- più la sua lucidità in merito alle indagini andava perdendosi.

Aveva il cuore a mille, e non riusciva a capire come fare per calmarsi.

Finì per rinunciarci. “Non … sono ancora riuscito a pianificare le prossime mosse, Osamu. Credo dovrei pensarci ancora un po’.” E se suo fratello avesse immaginato che il motivo della sua distrazione era l’improvviso quanto inspiegabile sussulto che Rumiko aveva appena avuto, di sicuro non ne sarebbe stato felice. Dovette trattenere un sorrisetto imbarazzato.

Avrebbe fatto meglio a rinunciare a capirsi.

“Ora scusami, ma devo proprio andare. Ti faccio sapere appena ho novità”, concluse, e a stento sentì il saluto perplesso di Osamu prima di chiudere la chiamata.

E il parco calò di nuovo nel silenzio pigro e tranquillo di poco prima.

Lei si voltò, dandogli un’ulteriore conferma del fatto che doveva aver sentito tutto ciò che aveva detto a suo fratello da quando era arrivata. Si avvicinò, incerta, ma sembrava non avere nessuna intenzione di sfuggire il suo sguardo. Non stavolta.

Quando fu di fronte a lui ancora una volta, si strinse nella sua giacca bianca, e, malgrado tutto, il suo sembrava un gesto nervoso.

Ken non sapeva cosa dire. La presenza di Rumiko lì sembrava irreale. Inconsistente quanto quel vento che continuava, imperterrito, a soffiare.

L’aveva invitata lui. Ma non aveva alcuna idea di come ci si dovesse comportare in situazioni del genere, né come potesse dirle quanto aveva temuto che lei non si presentasse, quanto aveva avuto bisogno di vederla, di sentirla parlare, di ascoltare il suo respiro.

Ma prima che avesse il tempo di formulare una qualsiasi frase, fu la voce piena di disagio di Rumiko a precederlo.

“Sì, lo so, sono in un ritardo spaventoso. L’appuntamento era alle 18, e so che eri già qui ad aspettarmi, ma … Beh, non abito proprio qui vicino, e ho fatto tardi: non ero nemmeno sicura che avrei fatto in tempo per le 19.” Parlava a raffica, una mano a giocherellare nervosamente con una ciocca nera, gli occhi che osservavano ora lui, ora il parco. “Mi dispiace tantissimo, è quasi un’ora che …”

“Pensavo non saresti venuta.”

Pareva che le parole avessero deciso di uscire da sole, incontrollate. Rimpianse di aver dato voce al suo timore infondato appena la frase fu terminata, ma ormai era tardi: lei si era interrotta bruscamente, sul viso un’espressione sorpresa.

Il vento le aveva arrossato lievemente le guance, donandole un aspetto più tranquillo e meno tormentato, malgrado le occhiaie sempre presenti che aveva ormai imparato a conoscere da qualche tempo.

Era così bella, lì in piedi di fronte a lui, che non poteva guardarla senza provare un tuffo al cuore. Così bella, e così in armonia con il paesaggio che la circondava.

Forse era per quel motivo che non riusciva a distogliere lo sguardo da lei.

Poi Rumiko sorrise, e parve quasi esasperata per qualche ragione. La vide rovistare nella sua borsetta, chiaramente cercando qualcosa con impazienza. Ken attese in silenzio, chiedendosi cosa stesse facendo.

Infine, gli porse un piccolo foglio di carta, con aria eloquente. “Avresti saputo la mia risposta, se non fossi fuggito via dopo avermi lasciato questo in un libro. Forse così non ti saresti preoccupato inutilmente.”

E solo allora Ken riconobbe in quel foglio la sua scrittura, e la sua impacciata proposta per un appuntamento. Non poté impedirsi di arrossire, mentre si acuiva sempre più la sensazione di essere un totale idiota.

Tentò disperatamente di trovare qualcosa da dire. “Credo non volessi ripetere l’esperienza di un paio di settimane fa in libreria, Rumiko-san”, si giustificò. “Allora non mi sembravi molto felice di passare del tempo … beh, fuori dalla libreria.”

Con me.

Ma neanche stavolta osò specificare.

Era già abbastanza insensata la giustificazione che aveva appena dato. Valeva a dire che era stato troppo vigliacco per prendersi la responsabilità delle sue azioni.

Rumiko sbatté gli occhi più volte, confusa. “Avevi paura che ti dicessi di no?”

La domanda schietta di lei non fece altro che imbarazzarlo maggiormente. Improvvisamente trovò indispensabile osservare un ciliegio di fronte a sé, pur di non affrontare l’espressione attenta e sorpresa della giovane. E quando rispose, lo fece evitando la domanda diretta. “Non volevo costringerti ad accettare solo per farmi un favore.”

Fu strano sentirla ridere, all’improvviso. E ascoltarla in silenzio, totalmente immobile, fu tutto ciò che gli riuscì di fare. Poteva una risata così solare appartenere alla stessa persona impaurita e misteriosa che vedeva sempre in libreria?

Quando le lanciò un’occhiata di sottecchi –poteva quella risata estendersi anche agli occhi, illuminarle il viso?- vide che il suo sorriso era davvero ampio e sincero come e più di quello che si era aspettato. Era molto più simile a quello che aveva scorto la prima volta, dopo il mancato incidente e la sua storta alla caviglia. E creava una strana stretta allo stomaco.

Rumiko scosse la testa, ma nei suoi occhi non c’era derisione. Un’ incredula meraviglia, semmai. E, di nuovo, una delle tante emozioni tumultuose che sempre riempivano di vita il suo sguardo. Ken non ne era sicuro, ma sembrava che lei lo stesse osservando con occhi nuovi. “Scusa se te lo dico, ma sei stato davvero uno sciocco. Se ti sei preoccupato di così tante cose –che potessi prendermela, che potessi accettare solo per farti un favore-, avresti fatto davvero meglio a chiedermi una risposta subito.”

“E tu mi avresti risposto davvero?”

La domanda cauta di lui la spiazzò. La vide irrigidirsi, arrossire, abbassare lo sguardo a terra. Con i denti si tormentava lievemente il labbro inferiore.

Ken seppe di averci visto giusto. Non avrebbe saputo dargli una risposta.

 Sospirò, osservando il suo disagio, e rendendosi sempre più conto di come quel rossore contrastasse con il suo sorriso, con il suo sguardo diretto.

Perché, se gli ultimi due sembravano aspetti spontanei di lei, il primo sembrava più indice di una reazione indotta da cause esterne. Sembrava non rispecchiare il suo essere.

Non era timidezza, la sua. Ne era sicuro. Era un continuo custodire segreti, in modo tale che occhi esterni non potessero leggerle l’anima.

Forse non avrebbe mai saputo il perché di questo comportamento, anche se desiderava far luce sul mistero con tutto se stesso.

“Rumiko-san”, disse infine, chiedendosi se fosse stato lui il motivo del nuovo disagio di lei. “Non volevo forzarti in alcun modo. E’ solo per questo che sono fuggito via in quel modo, ieri. Mi … dispiace davvero se ti sono parso scortese.”

Doveva essere di nuovo avvampato. Perché non sapeva assolutamente come comportarsi, con lei? Perché, attualmente, anche solo osservare la sua figura riusciva a sconvolgerlo tanto?

Ma fu proprio quando Ken si chiese se l’avesse offesa con le sue domande indiscrete che Rumiko si sedette accanto a lui, sul bordo della fontana. E per un istante lui non poté fare a meno di accorgersi della minima distanza che c’era tra loro, e del calore insopportabile che lo aveva invaso quando lei gli aveva sfiorato impercettibilmente il braccio con il suo.

Si chiese se anche lei avesse avvertito qualcosa quando gli occhi sgranati di Rumiko lo fissarono, per un istante soltanto. Ma non si spostò, limitandosi solo a voltarsi rapidamente.

Sembrava diversa, quel pomeriggio.

Gli occhi fissi sul ciliegio di fronte a loro, Rumiko sorrise, distante. “Non sei stato affatto scortese. Era la prima volta che una persona faceva così tanto per me, lo sai? E dire che nemmeno mi conosci bene. Ero … no, sono sconvolta. Ed è anche per questo che ti ho quasi scacciato dal mio negozio, quando mi hai proposto di vederci.”

La sua breve risata nervosa era imbarazzata, quasi si sentisse in colpa, ma Ken non riuscì a scorgere la sua espressione. Rumiko era ostinatamente concentrata sui petali rosa che fluttuavano nell’aria. “Credo di doverti delle scuse. Chissà che avrai pensato di me … Non è che io non abbia apprezzato, anzi. Sei stato molto carino a preoccuparti per me.”

“Ti prego, Rumiko-san, non è necessario …” tentò Ken, turbato più che mai dalla confusione scatenata dal suo complimento. Avrebbe voluto aggiungere che non aveva fatto nulla, che anzi non gli riusciva di comprendere come mai nessuno si era mai preoccupato tanto per lei. Ma la giovane sembrava desiderasse in tutti i modi parlare, e spiegarsi.

“E’ solo che non è facile. Con tutti gli impegni che ho, è difficile che io … Ecco …” Si torceva le mani, in difficoltà. “Non sempre posso dedicarmi ad altro, perché …”

Ken si accigliò, perplesso. Si vedeva chiaramente che non avrebbe saputo dargli una risposta, eppure Rumiko si intestardiva. Sembrava stesse lottando contro la sua abituale riservatezza sul suo conto.

“Non devi spiegarti per forza. Ho capito”, la zittì lui. Lei si immobilizzò, sussultando. E Ken lottò contro il desiderio crescente di sciogliere quelle dita nervosamente intrecciate tra loro, di dirle che andava tutto bene. Respirò a fondo, tentando di calmarsi. “Non è necessario che tu mi spieghi ogni cosa, se non vuoi. Te l’ho detto, non voglio forzarti.”

Per qualche istante nessuno dei due parlò. Giusto il tempo che occorse a Rumiko per voltare lievemente il viso, per guardarlo –i suoi occhi sembravano brillare più che mai: chissà se di stupore, gratitudine o dolore, questa volta-, per esitare. Aprì la bocca, l’aria accorata, come desiderasse dirgli altro. Poi la richiuse, sospirando, e sembrava aver rinunciato al suo intento.

Eppure, fu con semplicità ed estrema naturalezza che un sorriso luminoso e grato lo colpì all’improvviso. “Grazie”, disse. Persino la sua voce tremava lievemente, traboccante di un sentimento che lui non poteva cogliere.

Il suo cuore accelerò i battiti nel momento in cui la stretta allo stomaco si intensificava. “Non ho fatto nulla, Rumiko-san. Davvero.”

Lei non replicò, e la sua affermazione cadde in un nuovo silenzio impacciato.

Ken osservava di sottecchi la giovane accanto a sé, senza il coraggio necessario per chiederle di parlare di sé, di dirgli qualsiasi cosa che potesse riguardarla, solo per ascoltare ancora la sua voce, solo per sentire del suo passato e del suo presente. Ma non osava neppure muoversi, sentendo che un minimo spostamento avrebbe potuto portare a un nuovo contatto fisico, sebbene minimo, con lei.

Rumiko si guardava intorno con occhi interessati, le guance arrossate per una strana gioia, le labbra lievemente piegate in un sorriso di apprezzamento. Aveva una mano tra i capelli, e sembrava lottare contro il vento che voleva scompigliarglieli.

“Caspita”, disse poi, e il sorriso divenne più largo. “Non avevo mai visto questo parco, ma è bellissimo. Hai fatto bene a scegliere proprio questo posto per incontrarci.”

L’apprezzamento di lei gli infuse uno strano senso di esultanza. Ricambiò il suo sorriso, tentando in ogni modo di controllarsi per non lasciar trapelare troppo dei suoi veri sentimenti. “Davvero … davvero ti piace?”

Lei annuì energicamente. “Sul serio. E poi, quei ciliegi lì …” Li indicò con un dito, per poi stringersi nelle spalle semplicemente. “So che può apparire scontato –chi non li ama, dopotutto?-, ma mi mettono una grande gioia dentro ogni volta che li guardo. Sai, i ciliegi mi ricordano sempre un sacco di cose …”

La voce si perse in un sussurro assente, ma il sorriso non lasciò mai le sue labbra. Ken notò che, per una volta, sembrava davvero rilassata, senza alcun problema ad affliggerla.

Possibile che fosse avvenuto sul serio quello che aveva sperato? Solo grazie alla sua istintiva proposta?

Avrebbe dato tanto perché fosse così.

“Ora capisco perché dici di riuscire a rilassarti qui”, osservò Rumiko nel frattempo, e la curiosità brillava nei suoi occhi, fissi in quelli di lui. “Sembra che ci sia una pace totale qui. Anche se da soli forse non farebbe lo stesso effetto. Mi sbaglio? Il silenzio sarebbe quasi opprimente, e dovresti avere come minimo qualcosa da fare ogni volta, giusto per non sentire troppa solitudine.”

Ken era spiazzato. Forse non l’aveva mai sentita parlare tanto. E la cosa più strana era che parlava per conoscere lui, per saperne di più.

Quasi sentisse anche lei il bisogno di conoscere l’altro, più forte di qualunque strano timore che l’aveva costretta a zittirsi e ad arrossire le altre volte.

“Davvero, cosa fai qui ogni volta?”

E ora lo sguardo di Rumiko era strano, determinato più che mai a conoscere la risposta. Come se lui avesse potuto fornirle un’informazione di vitale importanza.

Ken alzò le spalle, perplesso. “Non lo so, dipende”, rispose esitando. “Per lo più penso. Questo sembra il posto ideale per farlo, dato che è così silenzioso e tranquillo.”

“E poi è l’ideale anche per pianificare le prossime mosse, giusto?”

“Eh?”

Ken si fermò, confuso, sulle prime non comprendendo di cosa lei stesse parlando. Sapeva solo che il tono di lei era cambiato, che il suo sorriso era diventato quasi tirato, che i suoi occhi erano inquieti e diretti allo stesso tempo, che il suo viso era teso nello sforzo di essere immobile.

E infine comprese. Sgranò gli occhi. “Hai sentito la mia conversazione telefonica, vero?”

Rumiko annuì, e sembrava impaziente per qualche motivo. “Solo la fine … è perché ero molto vicina a te. Figurati se origlio”, si scusò in fretta. Poi rise, nervosamente. “Si può sapere che … cosa dovessi pianificare? Sembri una specie di agente segreto in incognito!”

Non sembrava davvero divertita. Semmai spaventata. Ken si accigliò.

“Non sono un agente segreto”, rispose, esaminando i segni visibili dell’inquietudine di lei. “Stavo solo parlando con mio fratello Osamu.”

Non riusciva a trovare il nesso con il discorso che stavano facendo in precedenza. Come poteva lei aver pensato a una cosa del genere?

Rumiko sembrò irrigidirsi. “Tuo fratello …”, ripeté. E poi si strinse nella giacca bianca. “Posso capire se a dire una cosa del genere fosse stato tuo fratello, dato che è … un detective.” Il vento tirò più forte, e lei rabbrividì. “Ma sei stato tu. Come mai? Che mosse devi pianificare?”

E Ken esitò, improvvisamente senza sapere come comportarsi. Non poteva rivelarle dei dettagli dell’indagine: sapeva che non era prettamente affar suo. Si parlava del lavoro di suo fratello, lavoro al quale lui stava lavorando da ben otto anni. E non conosceva abbastanza Rumiko da poterle rivelare una cosa del genere.

“E’ …”, tentò, senza parole. “E’ lungo da spiegare, Rumiko-san.”

Il viso di lei sembrò animarsi di una nuova forza. “Non ho fretta, sai?” Gli sorrise piano, incoraggiante. “Dai, ti ascolto.”

Fu il suo sorriso a far vacillare la sua certezza. Fu il suo sorriso a farlo esitare ancora. Più lo guardava, più si chiedeva perché mai dovesse mantenere il segreto con lei.

Era assurdo. Ma sapeva di potersi fidare di lei, contro ogni logica e avvertimento.

Dopotutto, il caso non era più solo di Osamu. Era anche suo. Riguardava lui.

Non voleva forse farsi conoscere da lei, quel pomeriggio?

E d’altronde, molte notizie erano anche uscite sul giornale, a detta di suo fratello. Solo le più importanti.

Decise che le avrebbe spiegato solo i dati generali, niente di più.

Sospirò, arrendendosi. “Il fatto è che sto aiutando mio fratello in un caso difficile. Siccome lavoriamo in maniera indipendente, ognuno indaga per conto suo, per poi … tenerci aggiornati.” Forse avrebbe dovuto dire che era solo lui ad aggiornare l’altro, e non il contrario. Ma non commentò, limitandosi ad incupirsi.

Ma lei non si concentrò su questo suo cambiamento d’umore. Sembrò pietrificarsi all’improvviso, invece. “Svolgi … indagini anche tu?”

Lui annuì. “Una sola, per il momento, ed è una specie di … prova, mettiamola così. Per vedere se me la cavo bene.” Era così strano ricordare quanto, la prima volta che Osamu gliene aveva parlato, si era sentito pronto a tutto pur di dimostrargli quanto valeva. Ora non capiva nemmeno esattamente come potesse essere cambiata la situazione. Sorrise tra sé, intrecciando le mani tra loro. “So che è assurdo parlare in questi termini di un’indagine, ma Osamu preferisce vedere con i suoi occhi i miei progressi, e stabilire di persona se sono uno sciocco o meno.”

La voce di Rumiko era quasi un sussurro. Sentiva il suo sguardo addosso, ma per qualche motivo non riuscì a incrociarlo. “Un’indagine difficile come primo caso? Cosa devi fare?”

A cosa serviva tenere ancora il segreto, dopotutto?

Ken si ritrovò improvvisamente desideroso di parlare, di spiegare, di farsi capire. Non gli era mai successo, prima d’ora. “Più che altro un’indagine lunga: dura da otto anni”, le rispose, lanciandole un’occhiata in tralice. “Si tratta di ritrovare una ragazza scomparsa di nome Inoue Miyako.”

Si aspettava, senza alcun motivo apparente, che quel nome non le avrebbe detto nulla, come era successo a lui la prima volta che Osamu aveva nominato la ragazza scomparsa.

Fu per questo che rimase sorpreso dallo scatto che Rumiko fece sul posto non appena ebbe terminato la frase.

E non poté mascherare la sorpresa, quando si voltò verso di lei ancora una volta. “La conosci?”, le chiese, accigliandosi.

“No!” La voce di lei era insolitamente acuta. E sembrava esser diventata bianca come un lenzuolo tutto d’un tratto. Quel cambiamento lo impensierì, ma non riuscì a spiegarselo. “E’ che so … Ho letto i giornali, e sapevo che tuo fratello la stesse cercando da qualche tempo. E’ solo che non pensavo che anche tu …”

“Rumiko-san, stai bene?”

Lo sguardo di Ken si era posato sulle mani che stringevano le maniche della giacca, e si era accorto che tremavano. E anche quel pallore improvviso era preoccupante.

Ho detto qualcosa che non va?

Lei annuì in fretta. “Sì. Sì che sto bene.”

Ma aveva anche le labbra livide. Ken le guardò, impotente, per qualche istante.

Era così diverso dal colore rosato che avevano tutte le volte che il suo sguardo si soffermava su di loro …

Si riscosse all’improvviso, arrossendo furiosamente. Non era davvero il momento. Sembrava che Rumiko stesse male.

Fece per alzarsi. “Vado a prenderti qualcosa da bere. Aspettami qui, non ci metterò molto.”

“No, resta-“

Fu impulsivo. Lei tese una mano, sembrò volerlo trattenere per un braccio. Si fermò solo a un centimetro da lui, incerta, come se non sapesse cosa fare.

Ken trattenne il fiato, immobilizzandosi.

Infine, lei abbassò il braccio. E sebbene apparisse così debole, così pallida, la supplica nei suoi occhi fu così forte che arrivò a lui in maniera quasi dolorosa. “Ti prego, resta. Non andare via. Dev’essere solo un po’ di bassa pressione, non mi succederà nulla.”

Rimase muto, incapace di comprendere cosa avesse scatenato quella sofferenza, quella richiesta, quel tentato contatto istintivo. Non sapeva cosa fare per lei, come potesse aiutarla.

Ma ancora una volta aveva avuto l’impressione che lei avesse bisogno di lui. Come il giorno prima in libreria, quando lui le aveva detto che sarebbe andato via subito, e lei aveva assunto quello sguardo smarrito, quasi ferito. Così improvvisamente fragile.

Il pensiero sembrò scaldargli il cuore ancora una volta, per quanto fosse improbabile. La sua espressione si ammorbidì. “Dimmi solo cosa posso fare per te.” Le disse infine.

Lei esitò. “Se non sbaglio …” Un pallido sorriso piegò le sue labbra. “Mi stavi raccontando di quest’indagine. Puoi sempre riprendere il discorso.”

Ken era sorpreso. Si sarebbe aspettato di tutto, ma non quello. “Come mai vuoi che parli della mia indagine?” Era uno strano argomento di conversazione. “Pensavo non ti piacessero cose di questo genere.”

“Lo so, infatti non mi piacciono. Ma è perché … parla di te, no?”

La schiettezza con cui Rumiko parlò aveva dell’incredibile. Come se, per una volta, non avesse alcun problema a dirgli quello che pensava.

“Voglio sapere cosa ci sia dietro. Chi sia Ichijouji Ken, quali siano le sue aspirazioni e i suoi sogni.” Sospirò, e per un istante chiuse gli occhi. Probabilmente cercava di reagire al suo scombussolamento fisico in questo modo. “E come mai abbia deciso di cercare … Inoue Miyako, anche se questo compito non lo compete.”

Anche quando riaprì gli occhi, evitò il suo sguardo, facendogli però intendere che lo ascoltava.

Ken la guardò, incerto, non sapendo da che punto iniziare. Non si era mai raccontato a qualcuno, e ora che aveva l’opportunità di farlo era a disagio. Cosa mai avrebbe potuto dirle?

Si appigliò con tutte le sue forze alla certezza che lei voleva sapere, che non l’avrebbe annoiata, che era ciò che voleva anche lui.

E infine trasse un respiro profondo. “Lo so che non mi compete”, iniziò, esitante. “Ma se c’è una cosa che so è che è ciò che io ritengo giusto fare. Investigare …” Perché era così difficile spiegarsi a lei? Perché non poteva essere spontaneo come avrebbe voluto? “E’ la mia passione. Ho sempre seguito mio fratello, ed è stato grazie a lui, indirettamente, che ho scoperto quest’importante parte di me. I romanzi gialli sono stati il mio punto di partenza: Osamu è stato il mio punto di riferimento, sempre. E … prima ancora che potessi accorgermene io stesso … ci ero già dentro fino al collo.”

“E perché ti esalta così tanto analizzare crimini o sparizioni? Cosa c’è di bello?”

Non era solo la domanda ad essere più complicata: avere i suoi seri occhi castani puntati su di lui lo metteva ulteriormente in difficoltà. Si sforzò di mantenersi lucido. “Non è esattamente qualcosa di … bello. E’ proprio perché i crimini sono intollerabili che si cerca in ogni modo di svelarne e  fermarne i criminali. E’ proprio perché le sparizioni sono ingiuste che si fa di tutto per ritrovare chi manca. Capisci, ciò che è bello non è tanto sentirti fiero di essere arrivato alla soluzione giusta: è capire che ti sei impegnato al massimo per rendere giustizia, e che il tuo proposito è riuscito. E anche … sapere che i crimini non si fermeranno, ma che tu sarai sempre lì per fare il possibile, che non mollerai.”

Incrociò il suo sguardo, perdendosi per un istante negli occhi sgranati di lei. Sembravano così luminosi, alla luce morente del sole pomeridiano. Ed era così semplice continuare a parlare, ora che aveva iniziato. “Inoue Miyako è sparita da otto anni, Rumiko-san. Ho visto cose …” Il viso della signora Inoue, di suo marito, dei suoi figli passò davanti ai suoi occhi: il ricordo causò la smorfia sulle sue labbra. “Dolore. Strazio, sensi di colpa. Non riesco a pensare che non ci sia un’alternativa … e non riesco a stare con le mani in mano. Ho davvero poca esperienza, scarso spirito deduttivo e pochi risultati dalla mia, e di sicuro non valgo quanto Osamu. Ma se posso fare qualcosa –qualsiasi cosa- per ritrovare quella ragazza, allora lo farò. Non voglio darmi per vinto.”

Rumiko lo fissava, muta, le labbra strette. Non disse nulla, ma non ruppe il contatto visivo.

Dal canto suo, a Ken sembrava di liberarsi di un gran peso. Non si era mai sentito così, ma non voleva che quella sensazione svanisse. Si ritrovò a parlare automaticamente, ormai ogni disagio sparito. “Osamu mi ha proposto di aiutarlo poco tempo fa, dato che non vuole ancora darsi per vinto, nonostante siano passati anni. Mio fratello è orgoglioso, ma sa quali siano le priorità: ha anteposto Inoue Miyako alla sua dignità. Mi ha detto che è la mia occasione … che potevo tentare. Tentare di essere come lui.”

Fu lui a guardare altrove, stavolta. Non voleva che lei gli leggesse negli occhi quell’amarezza che lo aveva colto da qualche settimana.

“Ma qualcosa non dev’essere andato come voleva … Come volevamo entrambi”, si corresse subito, con un sorriso ironico. “Lui si è pentito della sua scelta, perché questo ha messo in discussione le sue abilità e i suoi successi. Credo si sia sentito scavalcato da me.”

“Perché?” Se gli riuscì di sentire il sussurro di Rumiko, fu solo per la vicinanza che c’era tra loro: quasi era soffocato dal rumore della fontana alle loro spalle.

Lui alzò le spalle. “Ho trovato una prova interessante, che per qualche motivo a lui era sfuggita per tutto questo tempo. E’ stata fortuna, ma lui non l’ha vista così. E’ da allora che mi considera un rivale. Credo che il suo orgoglio sia stato fortemente intaccato da questo, e che voglia riaffermare in ogni modo la sua superiorità in campo investigativo.”

La conversazione telefonica avvenuta diversi minuti prima gli tornò improvvisamente alla memoria. E Ken si sentì molto sciocco, molto infantile ad aver frainteso ogni cosa. Strinse i pugni.

“Lo sai, Rumiko-san”, riprese a bassa voce, una controllata rassegnazione che trapelava da ogni sua parola. “C’è sempre stato un motivo più egoista che mi ha spinto ad accettare di aiutare mio fratello nell’indagine. Mi fa davvero poco onore, ma è così. Tra me e Osamu non c’è mai stato un bel rapporto: siamo entrambi schivi, solitari, ben poco affettuosi. Ma credimi, ho sempre voluto che lui potesse fidarsi di me … e ora che considero le cose come stanno, posso assicurarti che lui non si è mai fidato di me. Ora sono un ostacolo per lui. Ma se ho accettato …” Si sentì invadere dall’imbarazzo, una sensazione sgradevole e insopportabile. Ma non si tirò indietro. Non poteva non rivelarle anche quella verità. “E’ stato anche perché volevo dimostrargli che potevo essergli d’aiuto. Che insieme ce l’avremmo fatta. Se avessi ritrovato Inoue Miyako con lui … magari qualcosa sarebbe cambiata, mi dicevo.”

Rise piano. Fu la risata più strana e distaccata che mai avesse sentito uscire dalle sue labbra.

“Ma sono uno sciocco sentimentale. Ho solo peggiorato le cose.”

E poi successe tutto così in fretta che a stento la sua mente riuscì a stare al passo con le azioni.

Fu il calore sulla sua mano a farlo fermare. Un calore gentile, fermo, posatosi improvvisamente sul dorso della sua mano sinistra.

E fu solo un movimento del capo, degli occhi, a rivelargli la verità.

Le dita strette intorno alle sue nocche contratte, la mano di Rumiko stringeva fermamente ma dolcemente la sua pelle, infondendogli calore. Malgrado il lieve tremore che avvertiva a stento, malgrado il vento fresco che agitava gli alberi e la sua chioma nera.

Quel contatto bastò per rendere incontrollabili i battiti del suo cuore.

Bastò per costringerlo a guardarla di nuovo, per scoprire ciò che davvero aveva scatenato quella reazione.

Gli occhi di Rumiko brillavano, e tra le ciglia sembrava trattenere le lacrime. Ed erano intensi, partecipi, tristi, belli, così belli. Belli come il suo viso, come le sue labbra, come il sentimento che sembrava sconvolgerla a tal punto.

Belli come la sua voce. “Non sei uno sciocco, sei umano. Gli vuoi bene … Si vede quanto. Io … mi dispiace. Mi dispiace tantissimo, Ken-kun.”

Belli come il suo tono spezzato, e il suo indugiare sul suo nome.

Belli come quell’eco scatenata dal ricordo, che ripeteva quella parola come fosse una scoperta. Belli come il suono che aveva il suo nome pronunciato da lei.

Ken-kun. Ken-kun. Ken-kun.

Come il calore della sua pelle, e delle sue dita lunghe e sottili.

Come il calore che cresceva, incontrollato, dentro di sé …

Non conosceva più nulla che non fosse Rumiko. O quel bisogno che sentì diventare sempre più forte, bisogno che non poté più controllare.

Poteva essere sbagliato. Poteva essere affrettato.

Ma la sua mano destra si posò sulla pelle calda della sua mano, e, esitante, le sfiorò la sua. Le sue dita, le sue nocche, il dorso, fino a passare il pollice sulla parte superiore del polso, solo per scoprire se la sua pelle era davvero così morbida, così delicata come sembrava.

Quando si fermò, la sentì rabbrividire lievemente. E poi posò ancora il suo sguardo sul suo volto, solo per perdere il respiro una volta di più.

Chissà come sarebbe stato, sfiorare la pelle del suo viso. O quelle labbra, ora leggermente dischiuse. Avvicinarsi solo un attimo, per sentire su di sé la consistenza vellutata di petali di ciliegio, come quelli che il vento trasportava ancora nell’aria.

Per poter saggiare la dolcezza di quelle labbra …

Ma gli occhi di lei, spalancati, lo fissavano muti, in silenzio domandandogli cosa avesse intenzione di fare. E solo allora Ken ritrovò la cognizione del tempo, e seppe ciò che aveva rischiato.

Il turbamento che ne conseguì lo sconvolse fin nelle ossa. Si sentiva fuori controllo.

Sospirò, e malgrado tutto, fu con riluttanza che lasciò la sua mano. Gli era persino impossibile regolarizzare il respiro.

 Rumiko fece lo stesso dopo appena alcuni secondi di tremante esitazione: si voltò, lasciando che più ciocche di capelli neri celassero il suo viso allo sguardo di lui.

Fu con esitazione che lui parlò ancora, accuratamente evitando di guardarla per non farsi sopraffare da quegli strani bisogni che lo avevano quasi colto impreparato. Si sentiva molto sciocco e impacciato, ma sapeva con tutto se stesso che avrebbe dovuto dirle qualcosa.

“Grazie.”

Lei sussultò quasi impercettibilmente, ma lui lo notò con la coda dell’occhio. “Di cosa?”

Eppure, qualunque parola non sarebbe bastata per spiegarle ciò che sentiva. Avrebbe solo reso più banale il tutto, e niente avrebbe più avuto lo stesso significato. Scosse la testa, nuovamente a disagio. “Grazie e basta, Rumiko-san.”

Un istante di silenzio; poi lei ridacchiò piano, una strana risata tremante e incerta.

“E’ inutile. Non capisco le tue stranezze.”

“Forse non c’è nulla da capire, dopotutto.”

Rumiko colse a sorpresa il suo sguardo di sottecchi: prima che Ken potesse decidersi a distoglierlo, il sorriso di lei lo fermò.

Amaro, pieno di strana tristezza … ma era solo per lui.

Non poté fare a meno di ricambiarlo.

E solo per lui, nella sua testa, le parole mancanti che non le aveva rivolto risuonarono più forti che mai, segrete e impenetrabili, ma mai tanto sentite come in quel momento.

Grazie per essere qui con me ora.

Neanche a farlo apposta aggiorno a un mese esatto dallo scorso capitolo xD quando si dice il caso ... Bene, che dire, ecco il nuovo capitolo di questa long-fic :) probabilmente è uscito fin troppo lungo, ma che potevo farci? Sto diventando sempre più logorroica ^^' soprattutto quando tratto di questi due. Ci tenevo a soffermarmi un po' su questo appuntamento, dal momento che è di grande importanza per l'evoluzione del loro -difficile- rapporto. A proposito, perdonatemi il cliché dei ciliegi in fiore, ma non ho resistito alla tentazione ^//^ considerando poi che era già in progetto che fossimo in questo periodo dell'anno, non ho potuto non sfruttare la cosa. E ... sì, Miyako si è presentata alla fine ^^  figuriamoci se avrei lasciato quel poverino ad aspettarla da solo in quel parco! Su ciò che succederà ora che lui le ha rivelato di star aiutando suo fratello, vi rimando al prossimo capitolo :) e vi annuncio subito che sarà diverso dai miei soliti standard: tratterò di Hikari e Takeru e Miyako e Ken contemporaneamente, e tratterò di tutto ciò che ho lasciato indietro negli ultimi due capitoli!

Ringrazio Shine, come sempre, anche per essere riuscita ad apprezzare Daisuke per una volta xD onorata, so che non ti è molto simpatico solitamente: è un gran risultato :) immagino che ti abbia sconvolta la faccenda di Deguchi, ma porta pazienza: da qui in poi le scoperte sul passato saranno più frequenti, te lo garantisco :)

Non so quando tornerò con l'aggiornamento causa inizio della scuola, ma spero di farlo il prima possibile! Intanto grazie per continuare a leggere la mia storia ^^

Padme Undomiel

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Capitolo 21
*** Purezza ***


Purity 20

20.


Purezza



Il soffio del vento nelle orecchie era l’unico suono che interrompeva il silenzio, in quell’angolo di giardino non frequentato dai bambini.

E Takeru sedeva immobile, lo sguardo perso nei raggi rosati del sole che, lentamente ma inesorabilmente, tramontava al di là di quegli alti edifici. Li fissava, ma senza vederli.

I suoi pensieri incoerenti catturavano la sua attenzione senza che ci fosse possibilità di scelta. Gli sembrava quasi che il tempo si fosse fermato da quell’istante di qualche minuto prima –o erano ore?-, perché la sua mente non faceva che ripetere ogni singolo momento di quella scoperta sconvolgente. Di quell’ennesima dimostrazione che tutto era fin troppo fragile, instabile.

Persino quel luogo.

L’angoscia, il rancore e un grande senso di abbattimento si agitarono in maniera scomposta nel suo animo, tormentandolo in ogni modo.

Era già tutto sul punto di finire, di crollare?

“Rischiamo di chiudere l’orfanotrofio per mancanza di soldi.”

Non si era accorto di nulla. Dell’instabilità di quella villa poderosa, della disperazione dei ragazzi che se n’erano presi cura da tanto, della precarietà della condizione dei bambini.

Tutto ciò che aveva visto, che aveva voluto vedere, era solo una menzogna.

E improvvisamente un senso di profonda delusione lo sconvolse, mentre sentiva più concreta che mai la presenza muta di Hikari seduta al suo fianco sull’erba, malinconica e assente.

Lei lo aveva portato fuori da quella stanza in penombra, promettendogli che gli avrebbe svelato ogni cosa. Ma, pur essendo arrivati da qualche tempo, nessuno dei due aveva ancora aperto bocca. Takeru era come pietrificato.

Non riusciva a credere che persino lei gli avesse fatto una cosa del genere. Cosa aveva cercato di fare? Voleva forse donargli un’illusione passeggera, per poi mandarlo via una volta che quell’orfanotrofio fosse caduto in disgrazia?

Le era parso così degno di compassione?

“Da quanto tempo si è creata questa situazione?”

Parlò automaticamente, prima ancora di rendersi conto che il silenzio artefatto di quel pomeriggio era stato spezzato. Hikari sembrò irrigidirsi, distolta dalla contemplazione silenziosa del cielo che li sovrastava.

“Non molto tempo. Direi … qualche mese.” E la sua voce non tremava più come era successo in quella stanza, e i suoi occhi non erano più bagnati di lacrime. Se non l’avesse vista perdere il controllo in quel modo, Takeru avrebbe giurato che la malinconia di Hikari fosse del tutto normale, e non quel tormento contenuto che l’aveva quasi spezzata poco prima.

Ma la risposta bruciò come acido dentro di lui.

Si girò verso di lei, gli occhi stretti a fessura. E quando parlò, non fu sorpreso di sentire una nota di rancore nella sua voce. “Qualche mese … E’ meno recente del mio arrivo qui, allora. Posso sapere perché me lo avete tenuto nascosto per così tanto tempo?”

Si accorse improvvisamente che l’espressione di Hikari era ferita, ma non riuscì a preoccuparsene in quel momento. Era troppo pieno della sua angoscia e tristezza per poter pensare di moderare il tono e i termini. Voleva solo una risposta soddisfacente.

“Lo so che sei arrabbiato, Takeru-kun. Mi dispiace davvero”, replicò dopo un istante di silenzio. E nei suoi occhi c’era la supplica, ora. “Avrei dovuto parlartene a suo tempo, ma non ce l’ho fatta.”

“Certo. E adesso mi ritrovo con l’ennesima certezza che i sogni sono solo castelli di carta, che un vento impetuoso può spazzar via in un attimo.” Era scattato, incapace di controllarsi. Man mano che Hikari parlava, sentiva un senso di amarezza e disillusione crescere dentro di sé: era una delle sensazioni più insopportabili che conosceva. “La cosa peggiore, però, è che in questo grande progetto io ci avevo creduto, per qualche sciocco motivo. Forse perché tu hai fatto di tutto per convincermi che i sogni fossero realizzabili grazie alla semplicità …”

“Io credo davvero a quello che ti ho detto! Ti ho solo mostrato la fiducia incrollabile di mia madre, non ti ho mai nascosto che avessimo delle difficoltà anche noi …”

“E allora perché mi hai tenuto nascosto una cosa del genere? Che motivo c’era di illudermi?”

“Perché ero io a volermi illudere che tutto questo non stesse succedendo!”

Takeru si fermò di botto, come se avesse ricevuto uno schiaffo. Gli occhi arrossati di Hikari erano fissi nei suoi, e il sentimento di tristezza che vi lesse al loro interno fu così straziante che in un istante ogni rabbia e rancore svanì com’era venuto.

Sembrava che le avesse fatto del male.

E il senso di colpa per come l’aveva trattata, dopo tutto ciò che lei aveva fatto per lui sempre, riuscì a spazzar via quella coltre di nebbia che aveva annebbiato la sua percezione della realtà.

Era stato davvero così egoista da concentrarsi solo su se stesso, senza domandarsi quanto lei stesse soffrendo?

La vergogna per ciò che aveva fatto lo costrinse a distogliere lo sguardo da lei. “Scusami, Hikari-chan.” Sussurrò. “Non ho alcuna idea di come ti senta tu, dopo una notizia del genere. Ti ho attaccata senza cercare di comprendere le tue ragioni.”

Per un istante fu solo il vento a rumoreggiare tra loro, incurante di ogni cosa.

Infine, Hikari parlò, e nella sua voce non c’era nessuna traccia di rabbia. “No, tu hai ragione: è stato sciocco da parte mia voler chiudere gli occhi di fronte alla realtà.”

Takeru la guardò di sottecchi, e la vide di nuovo assente, gli occhi castani fissi di fronte a sé. Sembrava essere totalmente in un’altra dimensione. La visione fu capace di riempirlo di un’angoscia inspiegabile. “E’ umano comportarsi così”, tentò, incerto.

Hikari scosse la testa, rilasciando un lungo sospiro. “Ma non avrei dovuto”, concluse, con tono definitivo. “E’ solo che fa male … più di quanto si possa immaginare. Sto venendo meno a tante promesse che ho fatto …”

L’ultima affermazione lo sorprese. Takeru aggrottò le sopracciglia, confuso. “Promesse?”

La vide annuire, e attese ulteriori spiegazioni in silenzio. “Quando intraprendi un’iniziativa seria a tal punto è difficile che tutto vada per il verso giusto. Ma io avevo giurato che avrei fatto il possibile per crescere quei bambini, e che ci sarei riuscita. Fallendo nel mio proposito deluderei troppe persone alle quali ho fatto questa promessa …”

La voce di lei si spense.  

Ma Takeru non aveva intenzione di darsi per vinto. Era la prima volta che lei si apriva tanto con lui, che fosse lui a consolare qualcun altro, e non il contrario: aveva un desiderio incontrollabile di conoscerla meglio, di aiutarla come poteva.

“Posso chiederti a chi hai fatto questa promessa?”, continuò, mantenendosi però discreto per quanto possibile. Un’illuminazione improvvisa lo fece immobilizzare. “A tua madre, giusto?”

Era più un’affermazione che una domanda, ma Takeru attese ugualmente la risposta.

Come previsto, il viso di Hikari si rattristò ulteriormente. Annuì. “Sì. Non potevo non giurarlo a lei, dal momento che è grazie a lei che esiste tutto questo. Ma l’ho promesso anche a Taichi, a Sora, a Mimi, a Koushiro, a Jyou, che portano avanti con me questo progetto tanto difficoltoso …”

Giusto. Non ci aveva pensato. Sospirò, serio. “Ma anche loro sono sulla stessa barca, e saranno sconfortati come te. Non credo tu debba loro qualcosa.”

Hikari lo fissò all’improvviso, e Takeru sussultò. Quell’aria spenta non aveva mai ingrigito il suo viso, in tutti i giorni in cui aveva parlato con lei: sembrava innaturale, ingiusto. “Ma non l’ho promesso solo a loro”, commentò semplicemente, senza aggiungere altro.

Per quanto si sforzasse, non gli riuscì di comprendere a chi lei si stesse riferendo. Batté le palpebre. “E a chi altro?”

Per un momento lei non fece altro che tacere, i capelli scomposti per via del vento impetuoso, il viso serio e intenso. Poi si alzò, e i suoi occhi scuri erano animati di una strana luce, che lui non comprese.

“A qualcuno che più di tutti meritava una promessa del genere”, disse infine. Poi sospirò. “Potresti aspettarmi un attimo qui? Voglio mostrarti una cosa.”

“Eh?” Takeru era spiazzato. Non riusciva davvero a capirla, né sapeva se fosse saggio lasciarla andare da sola chissà dove. Sembrava molto sconvolta. “Cosa devi mostrarmi?”

La vide alzare le spalle. “Qualcosa che sempre mi ha spinto a impegnarmi con tutta me stessa in quello che faccio, anche se risale a sette anni fa”, disse soltanto.

E a Takeru non rimase che restare seduto lì, confuso e perplesso, mentre Hikari si allontanava rapidamente e temporaneamente da lui.


***


La decisione di camminare un po’ sotto ai ciliegi che ondeggiavano al vento era stata sua. Era saltata su all’improvviso, annunciando che sarebbe stato un peccato rimanere seduti senza osservare da vicino quella meraviglia, e lui l’aveva accontentata, sorpreso ancora una volta dai suoi continui cambiamenti d’umore.

Anche in quel momento Ken non poteva fare a meno di restare leggermente indietro ad osservarla, mentre lei camminava tranquillamente osservando ciò che tanto l’aveva colpita quando era arrivata all’appuntamento.

Forse l’appuntamento non era un granché, forse lui avrebbe dovuto essere una persona più socievole. Ma sembrava che Rumiko amasse quel luogo.

La vedeva voltarsi più volte da una parte e dall’altra, intenzionata a osservare tutto ciò che aveva davanti agli occhi, e il suo passo era tranquillo, appagato. Con una mano sfiorava i rami più vicini, come a voler saggiare la delicatezza dei suoi fiori, e non sembrava lamentarsi nemmeno quando alcuni petali dispettosi si staccavano dagli alberi e, mossi dal vento impetuoso, si intrecciavano ai suoi capelli neri.

Forse non si sarebbe mai stancato di guardarla. Sembrava più spontanea, quel pomeriggio, insieme a lui. Sembrava naturale, semplice, più affascinante che mai.

E non l’aveva mai notato fino a quel momento, ma c’era un particolare nuovo nel suo incedere tranquillo.

Si affrettò a raggiungerla. “Rumiko-san?”

Lei si voltò, continuando però a camminare piano. “Dimmi.”

“Mi chiedevo …” Ken esitò, non sapendo come porre la domanda senza apparire indiscreto. “La tua caviglia va meglio? Vedo che non zoppichi più, neanche un po’.”

E fu ben chiaro che l’aveva colta alla sprovvista. La vide sgranare gli occhi, abbassarli repentinamente sulla sua caviglia, per poi risollevarli per posarsi su di lui. All’improvviso, i suoi occhi castani avevano una strana luce divertita. “Sai che ho anche corso per venire qui, Ken-kun?”, scherzò, con un sorriso. “Direi che sta più che bene. Non mi fa nessun male.”

Non ci aveva fatto caso, preso com’era stato dalla gioia di vederla presentarsi all’appuntamento. Sorrise in risposta, imbarazzato. “Hai ragione, scusa”, disse in fretta. Poi guardò altrove, ben deciso a dirle qualsiasi cosa. “Sono … mi fa piacere che stia meglio.”

Avrebbe dato chissà cosa perché non gli fosse così difficile dirle quello che pensava.

Rumiko alzò le spalle, con aria tranquilla. “Almeno adesso non dovrai preoccuparti che possa farmi male per strada, come l’ultima volta”, gli ricordò, prendendolo bonariamente in giro. “Sembravi davvero intenzionato a chiamarmi un taxi, pur di non farmi camminare. Te lo hanno mai detto che sei troppo apprensivo?”

Era assurdo che sminuisse così tanto la portata della sua storta alla caviglia. Ken si accigliò. “Non sono troppo apprensivo: sarebbe stato davvero meglio che non ti fossi sforzata”, si difese.

Lei sospirò, esasperata. “Andiamo, era una cosa da nulla. E poi camminare è molto più salutare che prendere un mezzo pubblico, ti sembra?”

Parlò come se fosse a conoscenza di un dato di fatto inattaccabile, e per un momento fu capace di zittirlo, sorpreso. Pareva che di faccia tosta ne avesse da vendere.

“Rumiko-san, camminare è salutare per chi non ha una caviglia dolorante”, insistette. “E non sembrava una cosa da nulla, vista la portata dell’urto che hai preso quel pomeriggio in strada.”

All’improvviso Rumiko parve irrigidirsi, come se il semplice accenno a quel mancato incidente fosse capace di incupirla. Lo guardò, e nei suoi occhi Ken lesse improvvisamente il tormento che lei cercava in ogni modo di reprimere, mai riuscendoci del tutto. “Ti preoccupi per nulla. Era una storta come un’altra, tutto qui. Ero perfettamente in grado di camminare da sola. Davvero, grazie per l’interesse, ma non ce n’è bisogno.”

E prima che lui potesse replicare alcunché, sorpreso e attonito com’era, lei accelerò lievemente il passo, sorpassandolo.

Probabilmente aveva esagerato con l’invadenza, si disse, maledicendosi. Probabilmente lei non aveva alcuna voglia di ripensare a quell’avvenimento. Che cosa gli era preso?

Allungò il passo quel tanto che bastava per raggiungerla, deciso a rimediare al suo errore. Rumiko camminava accanto a lui, il viso rivolto altrove, e non sembrava nemmeno più interessata ai ciliegi.

Ken sospirò. Di tutti i momenti meno indicati per mettersi a parlare, lui aveva scelto il peggiore. “Ti sei offesa? Non ne parliamo più, se vuoi. Mi dispiace”, disse, guardandola esitante e sperando che lei si decidesse a voltarsi.

Ma non si aspettava davvero che si fermasse bruscamente, e che lo guardasse di nuovo. E la sua espressione era di nuovo cambiata, notò. Era un misto di tristezza e confusione, e forse anche frustrazione.

“No, non sono offesa”, si arrese con un sospiro. “E’ solo che non capisco. Non capisco nulla. Perché sei così preoccupato per la mia salute? Lo sei sempre stato, da quell’incidente mancato fino ad oggi. Ho pensato fosse solo gentilezza per troppo tempo: adesso tutto questo non mi quadra più. Perché?”

E la domanda si fece più insistente tramite i suoi occhi castano chiaro, intensi e tormentati.

Domanda alla quale Ken scoprì, attonito, di non avere una risposta. Aveva agito istintivamente da quei giorni, ogni volta che si trattava di Rumiko. Non si era mai chiesto perché fosse così attento a tutto ciò che la riguardava.

E ora non sapeva che risposta darle.

Per il dolore che le aveva letto sul viso dopo che, zoppicante, si era mescolata alla folla? Per la forza d’animo che aveva scoperto il pomeriggio seguente, quando l’aveva vista zoppicare cantando, come se nulla fosse?

Per questo suo continuo passare da un’emozione all’altra, tanto facilmente quanto visibilmente, in una maniera che aveva dell’incredibile?

Perché rappresentava un mistero in tutto e per tutto? Per il bisogno che lei sembrava avere di lui?

Per l’attrazione inspiegabile che sentiva per lei?

Fu per questa sua improvvisa incertezza, e per l’imbarazzo profondo che sentiva a esporsi tanto, che si risolse a risponderle in maniera più neutra possibile. “Hai rischiato la vita per salvare un bambino che non conoscevi nemmeno, quel giorno, Rumiko-san”, disse infine, serio. Lei si irrigidì. “Avrebbe potuto andarti molto peggio, e lo sapevi anche tu. Eppure non hai esitato a mettere a repentaglio la tua vita in maniera tanto istintiva e inconsapevole. E non solo: il giorno dopo eri perfettamente tranquilla, come se non fosse successo nulla.  E’ difficile capire quando soffri o no … E credo che chiunque si preoccuperebbe.”

Si zittì, affrontando lo sguardo sconvolto di lei per qualche istante. Forse non avrebbe dovuto chiederglielo, ma non poté nulla contro il desiderio che aveva di comprenderla meglio. “Ma io … vorrei conoscere il motivo di tutto questo, se per te non è un problema”, concluse, con maggiore prudenza.

Rumiko chinò il capo, sfuggendo al suo sguardo. Sembrava fosse di nuovo interessata dai petali rosa che il vento portava con sé, come se solo quella visione potesse dirle se sarebbe stato più saggio parlare o tacere.

Il rumore assordante del silenzio e dell’ansia nelle orecchie, Ken aspettava, muto e immobile.

Ma fu proprio quando cominciava a perdere la speranza di avere una qualsiasi risposta che un sussurro quasi inudibile lo fermò.

“Per la libertà che lui ha … e per quella che nessuno di noi ha, invece.”


***


Era poco più di un foglio spiegazzato, rovinato e probabilmente non troppo recente, ma Hikari lo aveva portato a lui come fosse una reliquia. L’aveva tenuto stretto al petto finché non glielo aveva porto, con aria significativa, aspettando che lui ne leggesse il contenuto.

E Takeru aveva obbedito, curioso, dispiegando il foglio e osservandone l’interno.

Non c’erano che due frasi scarabocchiate con grafia pressoché illeggibile, e gocce d’acqua che avevano sbavato l’inchiostro qua e là, e irrigidito la carta. Eppure, il messaggio lo colpì all’istante, facendogli sgranare gli occhi.


E’ nelle vostre mani, adesso. So che accudite molti senzatetto, e mio figlio non è da meno. Ve lo affido perché possa crescere e vivere, come non ha potuto fare con me.


Stava per chiedere ulteriori spiegazioni a Hikari, confuso, quando lesse un piccolo nome in alto a sinistra, che non aveva nulla a che vedere con la firma del mittente. Un nome che conosceva molto bene.

Sussultò, alzando il capo. “Ma questo è …” La voce si spense, non sapendo come esprimere il suo turbamento.

E Hikari, pallida e seria, annuì piano. “E’ un messaggio lasciato qui dalla mamma di Keiji-chan la notte in cui lo trovai davanti alla porta dell’orfanotrofio, sette anni fa”, completò, dando conferma ai suoi sospetti. “L’unica traccia rimastaci di quella donna sconosciuta.”

Takeru osservò per un altro istante quelle parole, e quelle gocce. Solo ora comprendeva che avrebbero potuto essere lacrime.

Ripiegò il foglio, incapace di guardarlo ancora. Ogni singola parola di quel messaggio trasudava disperazione, e supplica, ed era quasi insopportabile. “Lo hai conservato per tutto questo tempo”, disse infine, confuso. “Perché? Speravi di rintracciare la madre di Keiji in questo modo?” Si accigliò, vedendola sussultare impercettibilmente, apparentemente senza motivo. “Sai che non è possibile. Non c’è nemmeno una firma …”

“No … non l’ho fatto per rintracciare nessuno.” Era strano. Adesso Hikari sembrava incupita, come se un’ombra improvvisa le avesse avvolto l’anima. Avrebbe dato chissà cosa per conoscerne il motivo. “Ce lo hanno affidato: sarebbe stato sciocco cercare di trovare chi lo aveva abbandonato e non poteva crescerlo. Se lei venisse di sua spontanea volontà … non lo impedirei di certo. Ma se non vuole averlo, non farò domande e lo terrò qui con me.”

Takeru poté giurare di aver visto un’angoscia profonda straziarla, all’improvviso. Si sentiva impotente: non sapeva come fare per aiutarla. E continuava a non capire.

“E allora perché?”, insistette. “E perché lo hai mostrato a me, Hikari-chan?”

 Quel silenzio malinconico era davvero troppo da sopportare, per lui. Se solo avesse saputo cosa la tormentava realmente …

Hikari trasse un lungo sospiro, e l’ombra scura sembrò svanire dai suoi occhi. Tutto ciò che rimase fu una profonda tristezza. “Per la mia promessa”, fu la risposta, e Takeru sgranò gli occhi. “Hai letto la preghiera di quel messaggio, il desiderio accorato di quella donna sventurata.”

Ve lo affido perché possa crescere e vivere, come non ha potuto fare con me.

E improvvisamente comprese. Tutto sembrava quadrare, ora. “Lo hai promesso anche a lei”, tentò, guardandola per avere conferma. “Hai giurato che ti saresti presa cura di Keiji come lei non può più fare.”

Dal lampo che vide nel suo sguardo, Takeru intuì la risposta prima ancora di sentirla pronunciare. “E’ così”, sussurrò lei in risposta. Poi si torse le mani, gli occhi bassi.

“Vedi, Takeru-kun, io non sono mai stata madre … ma posso capire cosa si prova.” Continuò poi, e sembrava che improvvisamente lei non avesse più problemi ad aprirsi con lui. Takeru ascoltava, attento e sorpreso. Non l’aveva mai vista in quello stato. “Ho passato una vita qui, mi sono presa cura di loro … so quanto amore si possa provare per un bambino che stai vedendo crescere. Io ho cresciuto Keiji per tutto il tempo in cui è stato qui, e posso dirti chiaramente quanto lo ami. Come … come fosse un figlio mio.” La sua voce tremò.

E Takeru ebbe un’ulteriore conferma di ciò che aveva solo supposto. Si era accorto da tanto del legame che c’era tra Hikari e quello strano bambino dai capelli viola, ma ora che lo sentiva dalla voce di lei sembrava fosse ancora più stretto. Così stretto e profondo che lui non poteva comprenderlo appieno.

“Ma portarlo in grembo per nove mesi? E’ tutt’altra cosa. Se lo abbandoni, abbandoni una parte di te, dopo che è stato tutto per te per quasi un anno.” Scosse piano la testa, il viso costantemente chino. “Non posso credere che sua madre abbia abbandonato Keiji-chan perché era stanca di lui. Deve averlo fatto per necessità. E si è affidata a noi per la crescita del suo bambino.”

Infine lo guardò. Sembrava aver vissuto molti anni in più di quelli che aveva, tanto grave era la sua espressione. “Ho promesso a lei, come a tutte le madri sconosciute e anonime di ogni bambino che abbiamo trovato, che ce l’avrei messa tutta. Che non avrei tolto anche la vita, oltre che la felicità, a quelle anime abbandonate. La mamma di Keiji-chan e il suo messaggio mi hanno fatto da monito per la mia promessa fino ad oggi.”

Non lo specificò, ma la sua espressione disperata urlò per lei il dolore che sentiva per star venendo lentamente meno alla sua promessa. Dava l’impressione di essere molto sola, e molto fragile.

E Takeru non poté più sopportarlo. Le prese la mano, stringendola con calore. “Ascoltami un secondo, Hikari-chan. La tua promessa è stata pienamente rispettata, non hai nulla da rimproverarti.” Parlava con impeto, e quando se ne accorse ne rimase momentaneamente scioccato. Davvero gli importava fino a quel punto? “Io non ho mai visto dei bambini tanto felici, o tanto legati a te. Soprattutto Keiji. Sembra che io non gli vada a genio perché crede che ti stia minacciando, lo sai?”

La mano di Hikari era fredda, ma ricambiò la stretta, in quella che sembrava una muta richiesta di aiuto. Sembrava traesse conforto dal suo debole tentativo di esserle accanto.

Eppure, ora che quel contatto nuovo si era instaurato tra loro, Takeru poteva anche avvertirne i cambiamenti. Era come se ora potesse sentire in prima persona la sua paura, la sua sensibilità, il suo amore infinito per quei bambini, il fervore delle sue idee, la sua incredibile bontà e semplicità.

E fu più semplice parlare, ora che gli sembrava di aver sfiorato la sua anima.

“C’è qualcosa in quei bambini che non riesco a comprendere. Hanno una luce, una gioia di vivere che altrimenti non avrebbero mai avuto, con la sorte che è stata destinata loro. Tu hai creato un nido sicuro pieno di affetto, e credo che mai avrebbero sorriso altrimenti. Dico sul serio.”

Sorpresa, Hikari sollevò il capo, fissandolo. Poi scosse la testa, e un sorriso più mite piegò le sue labbra. “Oh, no. Non sono stata io, Takeru-kun. E’ tutto merito dei bambini se hanno un animo tanto immacolato e gioioso.”

L’affermazione fu così assurda da farlo immobilizzare, stupito. Possibile che avesse così tanta umiltà da non riconoscere nemmeno i suoi meriti?

Lei intuì ciò che lui stava pensando, e rise piano. “Non guardarmi così: è la verità. Né io né chiunque altro in questo orfanotrofio avremmo potuto donare loro un’attitudine  così fondamentalmente spensierata: ce l’hanno innata. Io e gli altri possiamo soltanto incoraggiare questo lato straordinario del loro carattere.”

“E allora i vostri valori, le vostre certezze? Non contano nulla nella loro crescita?”, insistette Takeru, non arrendendosi. “E’ impossibile.”

“E se fossero stati loro ad insegnarci quelli che tu chiami nostri valori e nostre certezze?”

Takeru, scioccato, pensò ad uno scherzo. “Come … non può … Come sarebbe a dire?”, riuscì a balbettare infine, più confuso che mai. “Come possono dei bambini insegnare a degli adulti dei valori tanto grandi?”

E ora gli occhi ancora gonfi di Hikari brillavano di un’emozione nuova, spontanea e intensa. “I bambini hanno una caratteristica che gli adulti, alle volte, perdono: riescono a mantenere viva la luce nel cuore, qualunque cosa facciano e qualunque cosa succeda. Riescono a vedere tra due alberi un passaggio per un mondo incantato, e a vedere in un oggetto privo di valore un gioiello. Hanno sogni, sogni in cui credono ardentemente, sogni che condividono l’uno con l’altro senza vergogna … saresti stupito di vedere quanto un sogno per noi privo di valore per loro è un’ancora di salvezza. E sai qual è la cosa stupenda? Che passano dalle lacrime al sorriso con un niente, solo sapendo che c’è qualcuno accanto a loro che crede nella luce che hanno dentro.”

Takeru, muto, osservava il riflesso rosato del sole sul viso di lei, e credette di scorgere nei suoi lineamenti una nuova fiamma, calda e viva, che arrossava le sue guance e illuminava i suoi occhi. Non aveva mai visto uno spettacolo tanto affascinante.

“La speranza nasce dalla luce, Takeru-kun. E i bambini ne hanno da vendere, te lo posso assicurare. Avranno sempre un motivo per sorridere e giocare, non importa quanto la crudeltà che c’è nel mondo tenterà di spegnerli. Finché la loro fiamma arderà, non ci sarà nessun’oscurità che possa distruggerli. Non ne saranno mai intaccati. E’ questa la loro forza.”

Gli sorrise, mentre lui ancora la ascoltava, turbato e sorpreso. “Non credi che la purezza sia questa, Takeru-kun? Avere tanta luce nel cuore, ed essere così generosi da donarla agli altri con un solo sorriso spontaneo?”

E il viso di Hikari in quel momento gli parve così bello da fargli credere di non averlo mai visto davvero prima d’ora.

Dolce, sincera, profondamente innamorata della vita, gli regalava un po’ della sua luce con quel sorriso, quanto di più simile a ciò di cui lei stava parlando.

Sentiva come uno strano groppo in gola.

Infine lei distolse lo sguardo, osservando assente le fronde che ondeggiavano al vento. “Quello che tu vedi in noi è ciò che i bambini ci hanno donato in tutti questi anni. Hanno ricambiato l’affetto donato loro con una scintilla di luce per tutti.”

Il sorriso scemò. Takeru vide affiorare sul suo viso una nuova espressione determinata, nuovamente salda. Con nuovo stupore si rese conto che fino ad ora non aveva compreso quale fosse la forza di Hikari: aveva sempre visto in lei un’eroina, un essere sovrannaturale.

Ora comprendeva che la sua forza risiedeva nel sapersi risollevare dallo sconforto. Perché cadeva nella polvere, ma poi sapeva rialzarsi, e far brillare più intensamente la sua luce.

Un’anima pura.

Lei parlò ancora, seria. “Di momenti di sconforto come questi ne ho molti … sono momenti terribili, perché mi sembra che sia tutto perduto. Che stia rincorrendo un’illusione. Ma in cuor mio so già che non mi arrenderò … che non ci arrenderemo fino alla fine, che continueremo a lottare per questo sogno. Che, in ogni modo possibile, non verrò meno alla promessa. Non posso lasciarli morire di stenti agli angoli delle strade.” Sospirò, riprendendo in mano il messaggio della mamma di Keiji e stringendolo al petto. “Per mia mamma, mio fratello, i miei amici, i bambini, e per le loro madri sconosciute.”

“Se tu non fossi fondamentalmente pura, Hikari-chan, dubito che troveresti tanta forza per andare avanti. I bambini possono averti cambiata quanto vuoi: non tutti potrebbero reggere tanti sacrifici.”

Non avrebbe voluto dirglielo, ma il sussurro era uscito di sua spontanea volontà dalle sue labbra. Non aveva potuto bloccarlo.

Ma sentiva un’ammirazione più profonda e più matura per quella giovane, ora che l’aveva conosciuta. Sentiva che non aveva mai incontrato persona migliore di lei.

Sentiva che il paragone tra loro era impensabile, in quel momento. Lui non aveva nemmeno la metà delle sue convinzioni, non più.

Lei notò il suo stato d’animo, e la presa sulla sua mano si fece più salda, mentre il calore nei suoi occhi lo raggiungeva, lo confortava, lo risollevava.

“Io invece credo”, disse lentamente, “che chiunque sarebbe stato in grado di fare lo stesso: ciò che serve è solo abbattere le barriere e i limiti che ci costruiamo da soli e guardarci più a fondo. Se solo volessimo non saremmo poi tanto diversi dai bambini: forse nemmeno lo sappiamo, ma crescendo abbiamo comunque conservato un po’ di luce dentro di noi. Molto spesso neghiamo persino di averla, la dimentichiamo, o ancora la offuschiamo crudelmente, con ogni mezzo possibile, ma il massimo che possiamo ottenere è solo mascherarla. Non c’è nessuno che non sia fondamentalmente puro, anche inconsciamente, in questo mondo.”

Avrebbe voluto ribattere che lui non era puro, che non lo era mai stato, probabilmente.

Avrebbe voluto dirle che tutto crollava ancora inesorabilmente sotto i suoi piedi.

Eppure, non poté nulla contro il suono rassicurante delle sue parole, e contro l’innegabile sollievo che, nonostante tutto, si andava annidando dentro di lui.

Le sorrise. “Grazie.”


***


“La libertà?”

Dal mezzo sorriso che comparve sul suo viso, comprese che Rumiko si aspettava lo stupore e la confusione che aveva avvertito nel tono di voce di lui. Non si scompose, limitandosi ad annuire.

Ken si accigliò, sforzandosi di cogliere quel collegamento che l’aveva portata a pronunciare quella parola –libertà- con tanta naturalezza. Sembrava pregna di significati, ma sembravano sfuggirgli uno per uno. “Scusami, non capisco”, si arrese infine. “Di quale libertà parli?”

Lei si strinse le braccia al petto, in un tentativo di trovare riparo dal vento. Aveva lo sguardo rivolto altrove, ma per quanto si sforzasse di nasconderlo, Ken si accorse delle continue occhiate di sottecchi che lo studiavano. Si chiese cosa mai stesse cercando nella sua espressione. “Di ogni tipo di libertà possibile. Ti sei mai reso conto che tutto, in questo mondo, si basa sul concetto di libertà? Prova a pensarci.”

Inaspettatamente, Rumiko sollevò il capo, affrontandolo direttamente con uno sguardo. Non gli diede tempo per dire alcunché: si avvicinò di un passo, sufficientemente perché il giovane potesse scorgere il nuovo lampo che aveva negli occhi.

Sembrava volesse dirgli quanto quel discorso fosse importante per lei.

“L’uomo ha bisogno della libertà come necessita di aria: è un dato di fatto. Pretende la libertà di vita, di culto, di religione, di disporre della propria vita come desidera … di qualunque tipo. Le costrizioni lo soffocano, la schiavitù lo mortifica e lo umilia. L’uomo è intelligente, sai: proprio per questo non deve sottostare a nessuno. Se l’uomo è intelligente, ha le proprie idee; se l’uomo ha le proprie idee, è indipendente. E l’indipendenza può essere scambiata per libertà tanto spesso, Ken-kun. Troppo spesso.”

Lo fissava, la mascella contratta, il viso infervorato. Probabilmente si aspettava che lui parlasse, che commentasse, che le desse ragione.

Eppure Ken rimase in silenzio, perché ogni parola, ogni frase sbagliata avrebbe potuto interrompere quell’istante in cui Rumiko sembrava voler parlare di sé. Forse non sarebbe mai più capitato.

E poi lei continuò. “L’uomo aspira alla libertà, ma spesso non sa cosa sia. Crede che la libertà sia solo un diritto, e nella sua ricerca si fa arrogante. Pretende, pretende e crede di sapere tutto della libertà. Abbiamo la libertà di essere indipendenti. Perché, allora, ascoltare ciò che gli altri ci dicono?, si finisce per pensare. Se siamo indipendenti non abbiamo bisogno di loro. Se siamo liberi possiamo infischiarcene di tutto e di tutti. Altrimenti che libertà sarebbe?

La voce di Rumiko tremò, e sul suo viso per un istante passò un dolore indicibile, che sembrò quasi annientarla. Ken sussultò, confuso, e comprese che in quel discorso doveva esserci qualcosa di tremendamente personale che la torturava. E comprese che lei non gliene avrebbe parlato.

Lui era del tutto impotente.

Eppure, così com’era arrivato, quel dolore fu accantonato, e con un respiro profondo Rumiko riprese il controllo di sé. Fu in quel momento che Ken si rese conto che episodi del genere non succedevano di rado, vista la rapidità della ripresa.

Il pensiero creò un profondo senso di vuoto, dentro di lui. Un vuoto doloroso.

“Ed è proprio così, vedi, che si arriva ad essere tremendamente egoisti. E il concetto di libertà finisce per essere un concetto di supremazia sugli altri. Se l’uomo ha la libertà di pensarla e comportarsi come vuole è autorizzato a fare qualsiasi cosa, no? E se si sentisse libero di rubare, per le sue convinzioni? Libero di uccidere? Libero di ferire in ogni senso, libero di … abbandonare, o mortificare, o umiliare? Chi potrebbe dirgli alcunché? Lui era solo libero di fare le proprie scelte! Che male c’era?”

E le sue labbra si piegarono in un’inequivocabile smorfia amara, mentre la voce diventava sempre più alta man mano che le domande divenivano sempre più incalzanti. Un rossore andava colorando sempre più le sue guance, mentre il pallore che lo aveva impensierito poco prima sembrava appartenere ad un’immagine completamente diversa di Rumiko.

Una strana emozione si era impadronita di Ken, e cresceva assieme al discorso di lei, come fosse strettamente legato alle sue parole. Non avrebbe saputo spiegarla in alcun modo: tutto ciò che sapeva era che quel discorso era più importante di quello che aveva immaginato erroneamente chissà quanto prima.

Rumiko scosse la testa, e trasse un sospiro. “L’uomo si crede intelligente, ma è stupido. La libertà è tutt’altro che questo.”

“E allora cos’è?”

Non intendeva zittirla, con quel sussurro. Non intendeva nemmeno creare quel momento pieno di tensione che li avvolse entrambi. Eppure Rumiko sembrò aver perso momentaneamente la voce, come se avesse trovato negli occhi di lui qualcosa di inaspettato, di sconvolgente. Sembrava quasi presa da lui come lui lo era da lei.

Si riscosse in fretta, turbato come non lo era stato da molto tempo.

“Cos’è per te la libertà, Rumiko-san?”, chiese ancora, e ancora una volta la sua voce fu poco più di un bisbiglio.

E ora perché i suoi occhi castani brillavano tanto? Perché il suo viso era contratto in un’espressione di decisione improvvisa quanto salda?

“Vuoi sapere cos’è la libertà, Ken-kun? Quella vera?”, replicò, e non un tremito alterò la sua voce. “E’ tutto qui: non essere schiavi di se stessi.”

Rumiko prese a giocherellare con un piccolo fiore di ciliegio ben visibile da quel ramo basso accanto a loro, ma era chiaro che non lo stava osservando sul serio. “La schiavitù fisica non è il nostro caso: sono estremamente convinta che siano le nostre passioni a renderci schiavi. Quelle, e il nostro egoismo. Credendo di essere gli unici ad aver diritto di scelta, siamo schiavi. Chi uccide sarà schiavo dell’arroganza, perché ritiene che la sua vittima non sia libera di vivere. Chi ruba sarà schiavo della cupidigia, perché ritiene di essere libero di vivere a discapito degli altri. Chi ferisce sarà schiavo della propria rabbia, o sofferenza, o voglia di essere chi non si è … perché non comprende che ad ognuno è stata data la libertà di essere sereno, di amare e sorridere.”

Chissà cosa ne avrebbe pensato Osamu, se avesse ascoltato quel discorso, si ritrovò a pensare Ken distrattamente. Chissà se anche lui avrebbe attribuito le cause del male del mondo alla schiavitù di se stessi, lui che era così abituato ad occuparsi della parte più torbida della vita umana.

Chissà se anche lui avrebbe colto l’intensità e l’ardore delle parole della giovane che le era accanto, o se ne sarebbe stato altrettanto affascinato.

Dal canto suo, Ken era sicuro di non aver mai sentito tanto fervore nelle parole di qualcuno.

“Salvo casi estremi, probabilmente tutti siamo schiavi di qualcosa, Rumiko-san”, intervenne cauto. “Come si può essere liberi, allora?”

Ken credette di vedere le dita di Rumiko, che stringevano delicatamente un petalo del fiore, tremare impercettibilmente. “Non tutti possono”, rispose riluttante, come se la confessione la turbasse. “In effetti, solo pochissimi riescono a conservare la libertà anche da adulti.”

Non capendo, non poté altro che fissarla. Lei lo notò, e sorrise lievemente, nascondendo per qualche istante alla sua vista il suo tormento.

“Andiamo, Ken-kun, ci puoi arrivare”, gli disse, guardandolo insistentemente. “Gli unici davvero liberi da se stessi, gli unici che sognano di volare, ma non di farlo tarpando le ali agli altri ... sai dirmi chi sono?”

L’illuminazione arrivò ripensando al contesto dal quale tutto quel discorso era partito, e la risposta arrivò spontanea alle sue labbra. “I bambini.”

E non ebbe bisogno di conferma, non dopo aver visto l’espressione sul volto di lei, per sapere che aveva indovinato.

“Precisamente. I bambini”, confermò lei, uno strano calore nella voce mentre pronunciava quella parola. “Quale egoismo può esserci in loro? Di cosa possono essere schiavi? Conoscono l’amicizia per interesse? Conoscono l’invidia, quella vera? Sanno cosa voglia dire ferire? Proprio loro, che quando litigano corrono a fare pace, incuranti dell’orgoglio, dimentichi delle aspre parole che hanno sentito pronunciare dall’altro? Proprio loro, che quando vogliono bene a qualcuno si fanno in quattro per lui … che non sottraggono libertà, ma anzi vogliono donarne? Non sono forse loro, nessuno escluso, le persone più libere di questo mondo?”

Il calore della sua voce si era esteso al suo viso, e ora tutto di lei sembrava gridare quanto intenso fosse il suo amore per i bambini, per quanto particolare fosse questo lato di Rumiko. Come se improvvisamente lei fosse diventata lo stesso calore che sentiva, tanto impetuosamente sembrava vivere quel sentimento.

“E non credi che la purezza sia questa, Ken-kun? Avere l’animo così leggero, così libero non solo da volare, ma anche da danzare nel cielo?”

I lunghi capelli neri ondeggiavano inermi al vento, passandole davanti al viso e nascondendo, a tratti, i suoi occhi sfavillanti, la dolce linea delle sue labbra e le sue guance arrossate. E Ken non riusciva a distogliere lo sguardo da quella figura, troppo turbato per fare altro.

Sembrava comunicare tutto e niente, come mai era successo prima di allora.

Immobile e vibrante, schietta e ritrosa, tormentata e piena di sogni, determinata e abbattuta, lo fissava, e nel vento la sua visione appariva strana. Brillava di un’esaltazione selvaggia che la faceva sembrare forte e fragile insieme.

Non aveva mai visto niente di più bello. O niente di più libero.

Sentiva persino il respiro fermarsi per osservare quella giovane dalle mille sfaccettature.

“Te lo immagini, Ken-kun? Se tutti fossimo liberi da noi stessi come i bambini, non sarebbe più facile, più bello, più …?”

Si interruppe, come se avesse ricevuto uno schiaffo. Il suo viso impallidì di colpo, mentre abbassava lo sguardo. Ken non capì cosa fosse successo, cosa l’avesse turbata tanto, finché non posò gli occhi sulle mani di lei.

Allora comprese, e sgranò gli occhi.

Rumiko sembrava osservare con aria scioccata quel piccolo fiore di ciliegio che per sbaglio doveva aver strappato via da quel ramo, lo stesso fiore con il quale stava giocherellando poco tempo prima.

Lo stesso fiore che ora era tra le sue dita.

Era solo un fiore. Eppure lei non disse più nulla, mentre quella visione la riempiva pian piano di una tristezza che lui non comprendeva.

Non riusciva a comprenderla, ma la preoccupazione per quel viso sempre più pallido lo costrinse a parlare. “Rumiko-san …”, tentò.

“Sarebbe più facile”, sussurrò invece lei, gli occhi bassi. “Eppure crescendo si perde la libertà infantile. Si diventa schiavi di aspirazioni e idolatrie sbagliate. E si diventa egoisti. E sai qual è il massimo dell’egoismo? Togliere la libertà di vivere ai bambini. Succede tanto spesso da far venire la nausea, per quanto orribile sia questo gesto, e molto spesso nemmeno ce ne accorgiamo.  Ed è per questo che non ho potuto permettere quell’incidente.”

Nella pausa momentanea che si venne a creare, infine Ken capì ciò che lei aveva cercato di dirgli fin dall’inizio.

“Se posso proteggere la libertà di un bambino, dopo essere sempre stata così egoista, forse qualcosa di buono sarò riuscita a farla, no? Se un essere puro può essere salvato anche da una persona come me, allora che sia: sarà una delle poche azioni delle quali potrò andare fiera. Lasciarlo morire per l’egoismo di un qualunque autista sarebbe troppo persino per me. Non ho diritto di scegliere per lui … non l’ho mai avuto, per nessuno.”

Sul punto di rottura, Rumiko preferì voltarsi, stringendo al petto quel piccolo fiore e chinando il capo.

Con stupore, Ken si rese conto che solo ora comprendeva quale fosse la sua debolezza, capace perfino di lottare strenuamente contro la forza incredibile che la sorreggeva.

Era il senso di colpa che la tormentava. Un senso di colpa che la stava facendo impazzire, segno di un passato e di errori che voleva racchiudere in sé senza farne parola con nessuno.

Un senso di colpa ben deciso ad offuscare la vera natura di Miyazawa Rumiko, che ogni suo discorso aveva invece messo in luce con tanta chiarezza.

Un’anima pura, che credeva con tutta se stessa di non esserlo.

Prima che potesse rendersene conto, Ken aveva avanzato un passo verso di lei.

Avrebbe voluto abbracciarla. Stringerla a sé, e dirle che andava tutto bene, che lui si sentiva ormai legato a lei, che non l’avrebbe lasciata sola, che avrebbe portato il peso del suo dolore assieme a lei.

Avrebbe voluto.

Ma non fece nulla.

Una semplice e incerta mano sulla sua spalla fu tutto ciò che poté fare, e fu tutto ciò che causò quel sussulto e quella tensione in lei. E sentì così intensamente la barriera che lei si costringeva a portare che le parole decisero di uscire di loro spontanea volontà, senza che lui potesse fare nulla per fermarle.

“Un errore non può cambiare l’anima di una persona, Rumiko-san. Non è troppo tardi.”

Fu solo silenzio per alcuni, interminabili secondi. Persino il vento sembrava essersi placato, nel momento in cui Ken si domandava se lei avesse anche solo sentito ciò che le aveva detto.

Rumiko non poteva guardarlo, forse perché sapeva meglio di lui che i suoi occhi avrebbero rivelato troppo della sua anima.

Eppure, cercò ugualmente un contatto con lui.

Allungò una mano, raggiunse quella di lui posata sulla sua spalla, intrecciò le sue dita con quelle di lui, come fosse un gesto naturale, come se fosse ciò che sentiva fosse più giusto fare.

Come se cercasse di sentirlo vicino in quel momento, malgrado i suoi segreti.

Ken strinse quelle dita con calore, comprendendo che quello era tutto l’aiuto che potesse offrirle.

E poi la sentì ridacchiare, amara. “Se tu sapessi chi hai davanti, Ken-kun, non la penseresti così. Io mi auguro che tu non lo capisca mai …”, disse, con voce spezzata. “Per me è tardi. Ho strappato via la libertà a troppe persone che amavo, come ho strappato quel fiore. Il passato non si può cambiare. E’ per questo che io non sarò mai, mai pura.”

Hello there :) E' la prima volta che decido di trattare nello stesso capitolo le due storie parallele principali, ma alla fine doveva succedere. E oggi vi ho proposto un capitolo un po' speciale, che possa spiegare fino in fondo il significato del titolo della storia. Era anche ora, dopo 21 capitoli xD meglio tardi che mai. E da questo momento in poi aspettatevi di entrare nel vivo dell'azione: ormai non è davvero più tempo di indugiare ^^ conto di iniziare già dal prossimo ad affiancare più punti di vista insieme, perché i punti da analizzare sono davvero fin troppi o.o

Ma intanto rispondo alle recensioni che mi avete lasciato :)

Iniziando con Shine: poi dovrai spiegarmi dove hai visto Leonardo e i suoi quadri nel mio capitolo^^' sono sempre convinta che tu abbia un'opinione troppo alta del mio lavoro, ma puoi immaginare quanto io sia contenta dei tuoi soliti apprezzamenti ;) diciamo che alla scena iniziale ci tenevo in maniera particolare: è una delle poche volte in cui mi decido a descrivere un paesaggio :P insomma, sai meglio di me quanto mi riesca difficile ... Per quanto riguarda le contraddizioni di Miyako, aspetta e vedrai, la situazione diventerà sempre più complicata! Dopo questo capitolo avrai già capito che per entrambi è tardi per tornare indietro. Osamu tornerà nel prossimo aggiornamento in maniera del tutto inaspettata, te lo assicuro ;) intanto, grazie per la costanza e la "fedeltà" ^^ a presto!

Una nuova lettrice, eh? paperella96, sono davvero contenta che tu ti sia interessata alla mia storia e che l'abbia apprezzata tanto ^//^ i tuoi complimenti mi hanno lusingata sul serio, e spero di non deluderti adesso che la storia prosegue in maniera più serrata :) Riguardo alle relazioni amorose, ti sarai fatta un'idea più chiara delle mie inclinazioni di coppia, immagino ;) Anche io sono tendenzialmente più Taiora, di solito, ma chissà? Devo ancora prendere una decisione definitiva a riguardo xD non dovrai aspettare tanto, però. Per quanto riguarda Daisuke, porta pazienza e si svelerà anche la natura del loro rapporto! Che dire, ti ringrazio ancora, e spero continuerai a seguirmi e a darmi tuoi pareri!

Ecco, credo sia tutto adesso! Per domande, commenti, riflessioni o dubbi, fatevi sentire, mi fa sempre piacere ;)

Padme Undomiel

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Capitolo 22
*** Confronto ***


Purity 21
21.


Confronto






Era da un po’ che aveva notato quel giovane, su quella poltroncina.

Sedeva perfettamente composto, accanto a sé alcune riviste che sfogliava con attenzione, senza mai staccare gli occhi da quelle pagine.

C’era qualcosa di strano in lui, lo aveva notato subito.

Socchiuse gli occhi, scrutandolo dalla sua postazione dietro allo scaffale dei romanzi d’azione.

Probabilmente era dovuto alla sua postura così rigida, o al fatto che stesse leggendo con così tanta serietà quella che doveva essere solo una rivista sull’informatica. O ancora al fatto che sembrava non accorgersi in alcuna maniera del resto dei clienti della libreria che gli passava accanto, o del suo sguardo insistente.

Ma non poteva essere solo quello.

Hida Iori era assolutamente sicuro di aver già visto da qualche parte quella persona.

Ma dove, e in che occasione poteva essere stato?

Si concentrò, cercando di ricordare. Era sicuro che un incontro del genere lo avrebbe colpito in maniera particolare: eppure, non aveva alcuna idea del motivo per cui quel giovane dai capelli lisci scuri, la pelle chiara, l’abbigliamento quasi formale e quella strana aura che lo circondava riusciva a incuriosirlo tanto.

O, per esempio, del motivo per cui non riusciva a distogliere lo sguardo, diffidente.

Aveva la strana sensazione che non dovesse abbassare la guardia, pure se non ne conosceva il motivo.

Finse ancora di leggere, mentre lo osservava prendere appunti su un’agendina e, nello stesso tempo, ascoltava ciò che stava succedendo alla cassa.

“Vuoi che ti dia una mano con il lavoro, mamma? Mi sembri un po’ stanca”, sentì dire con tono convincentemente preoccupato, e sorrise tra sé. Lei era davvero brava a non farsi scoprire, quando ci si metteva.

“Oh no, non preoccuparti, Satsu-chan”, fu la risposta della donna alla cassa, ma nel suo tono c’era forse fin troppa naturalezza. Iori comprese che stava cercando di farle capire qualcosa. Drizzò le orecchie, e, riluttante, distolse lo sguardo dal giovane misterioso per osservare la scena di persona.

Sato Satsu era accuratamente voltata di schiena, decisa a non incontrare il suo sguardo –esattamente come avevano stabilito all’entrata della libreria. Non poteva guardarla in viso, ma sapeva perfettamente cosa poteva trovare negli occhi scuri di lei, quel giorno.

Probabilmente stava ancora osservando la postazione insolita di sua mamma, che di solito si occupava di mettere a posto i libri negli scaffali e che invece ora occupava un posto che non era il suo.

La signora Sato non aveva bisogno di occupare il posto dietro alla cassa: c’era sempre qualcuno che lo faceva al suo posto.

Lo stesso qualcuno che Iori e Satsu volevano vedere quel giorno.

Lo stesso qualcuno che quel giorno mancava.

Iori si accigliò maggiormente, reprimendo a stento la preoccupazione che sentiva crescere dentro di sé. Pregava fra sé che Satsu riuscisse a saperne di più senza dare troppo nell’occhio, ma per il momento non poteva fare nulla di più.

“Si fa quel che si può anche se non c’è tutto il personale”, stava intanto aggiungendo la signora Sato, guardandola con aria penetrante e allusiva. “Non posso sempre chiedere aiuto ad altri, questo è il mio lavoro.”

Ne era sicuro ormai. Sapeva qualcosa in più.

Il lettore silenzioso era ancora concentrato nella lettura: sembrava non accorgersi della sua espressione troppo concentrata su Satsu e sua madre.

Questo bastò a tranquillizzarlo, e a fargli dimenticare che la sua copertura richiedeva di fingere di leggere quel libro che reggeva meccanicamente nelle mani.

“Ora che ci penso … Quella commessa giovane che lavora da te non è venuta oggi?”

La presa di Iori su quelle pagine si fece più serrata.

“Oh … parli di Rumiko-chan?”

E fu a quel punto che notò un movimento quasi impercettibile alla sua destra, proprio su quella poltroncina piena di riviste di informatica. Il giovane dai capelli scuri aveva avuto uno scatto impercettibile del capo, e aveva sollevato lo sguardo, la penna a mezz’aria e una rivista aperta sulle sue ginocchia.

Cosa lo avesse smosso, dopo minuti passati quasi nella totale immobilità, non lo sapeva affatto. Eppure, anche lui ora osservava le due donne. E anche se non riusciva a coglierne l’espressione, era ben chiaro che fosse teso nello sforzo di cogliere ogni parola.

Come stava facendo anche Iori.

Si accigliò. Doveva avere un motivo ben valido per permettersi di origliare una conversazione che non aveva nulla a che fare con lui. Eppure prima ne era completamente disinteressato. Si era animato solamente quando era stato fatto il nome di …

“Mi ha chiamato stamattina, ha detto che purtroppo non se la sentiva di venire a lavoro oggi. Pare che abbia un po’ di febbre … Niente di eccessivo, ma era molto debilitata, lo si capiva anche dalla voce che aveva.” Rispose la donna, tentando invano di mascherare il lieve tremito della sua voce. “Mi ha detto che vedrà di guarire presto, tempo massimo un paio di giorni e sarà come nuova. Per intanto, lavoreremo anche senza di lei.”

Non se la sentiva di venire?

Il concetto era così strano che, per quanto se lo ripetesse continuamente, non gli riusciva di afferrarlo. Non se la sentiva di venire. Miyako detestava rimanere a casa da sola, Satsu gliel’aveva raccontato tante volte. Non se la sentiva di venire. Aveva persino tentato di andare in libreria con un piede dolorante, nonostante avesse rischiato di romperselo in un incidente stradale. Non se la sentiva di venire. E non c’era stato anche quel giorno, quando lei si era intestardita per lavorare nonostante quel brutto raffreddore che aveva preso?

Quel giorno, per un po’ di febbre, non se la sentiva di venire.

C’era qualcosa di assolutamente sbagliato in quella faccenda, nella sua assenza, nella sua chiamata alla signora Sato. A quanto pare, la situazione stava peggiorando, proprio come lui e Satsu avevano temuto.

Ma il motivo, il vero motivo, qual era?

Frustrato e agitato, voltò la testa di scatto. E incrociò improvvisamente lo sguardo del giovane sulla poltroncina.

Fu allora che sgranò gli occhi, sconvolto.

Ichijouji Osamu?

No, si disse in fretta, sentendo i battiti cardiaci accelerare improvvisamente. Non era lui. Ma il colore e la forma dei suoi occhi, i tratti del suo viso, la serietà nell’espressione erano davvero molto simili. Persino il colore dei suoi capelli, anche se quelli del detective tanto odiato erano sicuramente più ribelli.

Era così simile a lui che, se non l’avesse guardato bene, avrebbe semplicemente affermato che fossero due gemelli con pettinature diverse.

Eppure, in tutti i suoi incontri con Ichijouji  non era mai riuscito a leggere fino in fondo le sue emozioni in quegli impenetrabili occhi azzurri.

Quelli del giovane erano diversi. Si aveva quasi la sensazione che un turbamento confuso stesse cercando di prendere il sopravvento su di lui, a dispetto della serietà del suo viso.

Lo vide distogliere lo sguardo quasi all’istante, e abbassare il capo, ma non certo sulla rivista. Piuttosto sul pavimento. E ora aveva le labbra strette in una linea sottile.

Sembrava confuso, turbato, preoccupato. Proprio come lo era lui.

Ed era impossibile non pensare che aveva assunto quelle strane espressioni proprio dopo che la signora Sato aveva accennato alla malattia di Miyako. Che aveva avuto quello scatto improvviso dopo aver sentito il nome fittizio di Miyako.

Satsu e sua madre avevano ricominciato a parlare tra loro, probabilmente di argomenti più leggeri, ma Iori non riusciva a concentrarsi su quel chiacchierare sommesso: sentiva solo il continuo battere sordo del suo cuore nelle orecchie, mentre una consapevolezza faceva rapidamente strada dentro di sé.

Quella persona, che somigliava in maniera terrificante a Ichijouji Osamu, aveva a che fare con Miyako per qualche motivo. E la cosa lo impensieriva più del previsto.

Miyako se ne sarà accorta? Ma c’è qualcosa di cui accorgersi, dopotutto? Cosa dovrei fare?

Era ancora preso dai suoi pensieri agitati quando lo vide irrigidirsi di nuovo, cercare nella tasca della sua giacca qualcosa, estrarre infine un cellulare e portarselo all’orecchio dopo aver avviato la chiamata.

“Pronto.”

Parlava con tono sommesso, neutro, ma Iori si concentrò quasi senza accorgersene su ciò che diceva. Per la prima volta il pensiero che fosse totalmente sbagliato immischiarsi nella privacy altrui lo sfiorò appena: sentiva che doveva ascoltare, che era importante seguire i movimenti di quel giovane. Era per Miyako, doveva saperne di più.

“Sono in libreria.”

Ascoltò la pausa di silenzio con la stessa espressione concentrata che aveva l’altro in quel momento. “Sì, certo. Stavo dando un’occhiata a …” Si interruppe, sgranando gli occhi. “Eh? Davvero? Cosa è successo?”

Questa volta la pausa fu più lunga, e man mano che passavano i secondi il viso dello sconosciuto si faceva sempre più attonito. Iori non poteva avere idea di ciò che stava succedendo dall’altro capo del telefono. “… Capisco. Arrivo subito.”

Chiuse in fretta la chiamata, mise da parte la rivista e raccolse in una pila le altre che aveva posato sulla poltroncina, poi si diresse svelto verso il reparto riviste, e le mise al loro posto. Poi si allontanò a grandi passi, dirigendosi verso l’uscita e chiudendosi la porta a vetro alle spalle.

Come se non fosse mai venuto. Era persino impossibile risalire alle riviste che aveva sfogliato fino a quel momento, tanto accuratamente le aveva nascoste tra le altre.

Avrebbe voluto parlare con Miyako lì, subito, sapere se sapeva se lo conoscesse, se le avesse mai parlato, se fosse implicato con Ichijouji. O avrebbe voluto sapere cosa fare per nascondere ancora più accuratamente la sua amica, sottrarla a tutti quegli sguardi sempre più insistenti, avrebbe voluto non avere le mani legate come accadeva sempre.

Non aveva mai avuto tanto potere, per quanto si sforzasse.

“Oh, sei qui, Iori-kun.”

E mentre alzava lo sguardo, tetro, quel senso di impotenza non fece che intensificarsi.

Non aveva nemmeno il potere di proteggere Satsu, lì di fronte a lui, né di cancellare quell’ombra scura che incupiva i suoi occhi sempre acuti e vivaci. Per quanto il pensiero di quell’enorme peso che portava anche lei faticosamente ogni giorno lo lacerasse, portandolo, alle volte, ad una frustrazione cieca e deleteria, non poteva nulla contro le preoccupazioni e i sacrifici di ogni giorno; nulla contro le privazioni alle quali anche lei si stava sottoponendo.

Satsu colse la sua espressione, e, se possibile, la sua fronte si aggrottò maggiormente, e la smorfia sulle sue labbra si accentuò. “Sentito, vero?”, fece, mentre, con un sospiro, si volgeva verso lo scaffale più vicino e fingeva di essere impegnata nell’osservazione dei libri. Le solite coperture necessarie per potersi parlare in pubblico. “Se volevi una conferma che stesse succedendo qualcosa di grosso, eccola qui. Malata. E io che pensavo che fosse in lotta aperta con il malessere fisico.”

Iori chiuse il volume che teneva tra le mani con un rumore secco. “Sai quand’è stata l’ultima volta che l’ho vista così fragile, Satsu-san? Sette anni fa, sulla soglia di casa mia.” Ricacciò indietro quel ricordo, quello sguardo disperato, quel pallore e tremore, mentre stringeva quel fagotto tra le braccia. Non era in grado di sopportare il senso di colpa. “Ma allora aveva solo diciotto anni … credevo si sarebbe ripresa, ma pare che, invece di migliorare, stia peggiorando.”

“Oh, no, non dire così!” Satsu replicò, sorpresa. “Ecco, mettiamola in questo modo: in questo momento è come … come una batteria sovraccarica. E’ andata in tilt per qualche motivo che ancora non conosciamo, ma si riprenderà dopo un periodo di riposo, e starà meglio di prima.”

Di solito lei riusciva, con quelle similitudini fantasiose, a rasserenarlo, qualsiasi cosa fosse successa: ma quel giorno l’ansia era troppa. Era tutto troppo labile, fragile, sul punto di rottura, e ovunque c’erano minacce contro Miyako … e, per esteso, contro di loro.

“Dai, Iori-kun.”

Non se n’era accorto, ma Satsu aveva fatto un passo verso di lui, posandogli una mano sul braccio nel tentativo di confortarlo. E tutto esplose di nuovo dentro di lui, mentre gli occhi troppo grandi e belli di lei lo guardavano con tutta l’apprensione del mondo.

Per un istante, avvertendo il calore della sua mano sul braccio, un’ immagine passò davanti ai suoi occhi, sfocando la realtà. Vide gli occhi di Satsu pieni di un affetto diverso –amore-, la sua piccola mano sfiorargli il viso, con quella semplicità tipica di chi ama e sa di essere amato a sua volta, e sentì che non avrebbe avuto bisogno d’altro, che tutto sarebbe stato più semplice, se solo lei gli fosse stata accanto non per forza di cose, ma perché realmente disposta a vivere anche la preoccupazione con il suo ragazzo.

Sentì che sarebbe stato molto più semplice, se solo avesse potuto averla per sé, esternare i suoi sentimenti che sentiva così vivi, che si erano solo accentuati con gli anni.

E poi l’immagine svanì, e davanti a sé c’era Satsu –che non lo amava, non lo amava-, e poi c’era lui, che avrebbe fatto di tutto solo per sfiorarle le labbra per un istante …

Chiuse gli occhi di scatto, per non guardarla oltre. “Satsu-san, allontanati, per favore”, si costrinse a dire, un sussurro sofferente, ignorando i suoi sentimenti.

E la mano sparì all’istante, e Iori la rimpianse dolorosamente dopo appena un secondo.

“Oh … mi dispiace, non … scusami.”

E quando riaprì gli occhi, incerto, non poté fare a meno di notare quel rossore intenso sul viso di lei, ora rigorosamente girata dall’altra parte. Impossibile che non avesse letto nel suo sguardo cosa era sul punto di fare.

Anche Iori arrossì, guardando a terra. Si sentiva stanco, una stanchezza morale, e più vecchio che mai, nonostante avesse solo ventidue anni.

Poi Satsu si schiarì la voce, a disagio. “Una soluzione c’è sempre”, fece, una traccia di forzata serenità più che avvertibile. “Se vuoi ne ho una, ma devi fidarti di me.”

Iori sospirò, guardandola appena. Imperativo inutile, non c’era bisogno di specificare. “Basta che sai quello che fai, Satsu-san”, replicò, con un mezzo sorriso. “Hai campo libero. Se puoi fare qualcosa per Rumiko-san, ben venga.”

“Sai che devi aiutarmi anche tu, vero? Non posso fare tutto io, ha bisogno anche di te.”

E, come se niente fosse, adesso era tutto tornato alla normalità. Era spontaneo quel guizzo di ilarità nel suo sguardo, e il sollievo lo invase. Avevano superato anche quella.

“Io devo indagare su alcune cose: sarà questo il mio modo di aiutarla”, disse poi, gettando uno sguardo sulla porta d’ingresso della libreria, tremendamente serio. Indagare su Ichijouji, sulle sue mosse, su quello strano ragazzo. “Ti spiegherò appena possibile, ma non qui, per favore.”

Satsu annuì, incuriosita e perplessa, ma non fece altri commenti: tacque, chinando il capo su un ingombrante dizionario di russo e lasciandogli il tempo per riflettere.

Se conosceva bene Miyako, sapeva che ciò che la mandava in crisi non era tanto l’avere un problema, ma il non potere, per qualche motivo, parlarne agli altri. Ma se lei si ostinava tanto a non aprirsi a loro, lui e Satsu avrebbero agito di conseguenza. Era imperdonabile restare con le mani in mano a guardare mentre pian piano la situazione peggiorava invece di …

“Ah, un’altra cosa. Iori-kun, ultimamente sei stato a Praga?”

Iori sussultò, doppiamente preso alla sprovvista. “Eh? Praga? No”, rispose, perplesso.

Satsu annuì tra sé, ancora voltata di spalle. “Quindi, non essendoci stato, non potevi nemmeno inviarmi cartoline provenienti da lì.”

Più il giovane ascoltava il tono apparentemente casuale con cui lei parlava, meno ci capiva. Aggrottò le sopracciglia. “Cosa c’entrano le cartoline? Chi te l’ha-”

“E non hai ancora controllato la tua posta stamattina, vero?” Disse Satsu voltandosi, e il suo tono contrastava completamente con l’occhiata seria che aveva.

Al limite della sopportazione, Iori sospirò pesantemente. “Satsu-san, di che stai parlando?” Scandì, cercando nel suo sguardo la risposta.

Ancora una volta, quel giorno, il senso di inquietudine accelerò bruscamente i suoi battiti cardiaci, in maniera inequivocabile. Qualcosa stava andando storto, di nuovo.

Satsu si portò distrattamente una ciocca di capelli dietro l’orecchio, guardandosi intorno per un momento. “Credo”, rispose sibillina, “che ci convenga parlarne a casa, Iori-kun. Le cose si complicano ancora.”


***


Ken salì le scale correndo, tenendosi ben stretto al corrimano per non scivolare. Scansò in fretta due uomini vestiti elegantemente, ed ebbe appena il tempo di scusarsi frettolosamente che era già arrivato dove voleva. La porta in cima alle scale era socchiusa, e, come sempre, nessun rumore tradiva la presenza del padrone di quello studio.

Sospirò, cercando di calmare il respiro per la corsa che aveva dovuto fare, e infine bussò, due colpi decisi e brevi.

“Avanti”, rispose lui dall’interno, apparentemente tranquillo. E Ken seppe che non avrebbe potuto indugiare oltre. Aprì.

E Osamu sembrava aspettarlo dietro quella scrivania in legno di mogano, il capo appoggiato sul palmo della mano destra, gli occhi chini su alcuni documenti che teneva aperti di fronte a sé. La stanza, solitamente scura, era ora illuminata dal sole primaverile.

Per ricevere i clienti era disposto anche a questo, si disse, osservandolo.

“Chiudi la porta, Ken”, disse poi Osamu, alzando lo sguardo verso di lui.

Ken obbedì, ancora senza dire una parola. Ascoltò, per un istante, i rumori dell’esterno, il lieve chiacchierare, prima di chiudere la porta e creare un silenzio raccolto.

Il silenzio che piaceva così tanto a Ichijouji Osamu, detective.

Si avvicinò incerto alla scrivania, e prese posto sulla sedia di fronte a lui. Era impaziente, e preoccupato, e non riusciva a calmarsi da quando aveva ricevuto quella chiamata a sorpresa mentre era in libreria. Desiderava soltanto saperne di più, finalmente.

“Scusami se ho fatto tardi”, fece, chinando brevemente il capo. “La libreria è abbastanza lontana da qui.”

Vide Osamu fare una smorfia. “Vorrei avere anche io tutto il tempo libero che hai tu”, disse, e i suoi occhi seri lo scrutavano attentamente, come valutandolo. “Ma pare che il mio lavoro non conceda pace, mai.”

Rumiko avrebbe detto che non era certo il lavoro, una schiavitù fisica, a renderlo schiavo.

Ormai Ken era così abituato alle insinuazioni contro le sue indagini che nemmeno si scompose, limitandosi a stringere la mascella per non sbottare. Quel giorno era iniziato tanto male da essere il meno indicato per una lite puerile tra fratelli. “Mi dispiace. In effetti ti vedo sempre più stanco”, osservò semplicemente. “Comunque non si può chiamare davvero tempo libero, anche se può sembrarlo” aggiunse, con tono carico di sottintesi. “Stavo cercando informazioni su Royama Hideki. In quella libreria vendono anche riviste di informatica, sai.”

“Ah sì?”

E fu con stupore che Ken vide non ostilità nei suoi occhi penetranti, ma un lampo divertito, rapido ma inconfondibile, che scomparve non appena lui fece per domandargli cosa ci fosse di tanto buffo. Attonito, rimase in silenzio, aspettando che Osamu riprendesse a parlare. “Trovato nulla di interessante a riguardo?”

Più si sforzava di capirlo, meno ci riusciva. Ken sospirò, rassegnato. Forse Osamu era schiavo del suo essere sempre così controllato e imperscrutabile, che sembrava, a volte, isolarlo dal resto del mondo. “Solo qualche intervista senza alcun valore”, rispose brevemente, cercando di arrivare presto al motivo della chiamata urgente del fratello. “Ma ho potuto controllare ben poco, visto che si è presentata questa … novità. Farò del mio meglio per rimediare, appena avrò tempo.”

“Senza alcun valore”, ripeté Osamu incolore, e c’era qualcosa nel suo tono di voce che costrinse Ken a sentirsi in profondo imbarazzo e ad avvampare, impotente. “Buffo che tu definisca un dato così possibilmente importante senza alcun valore. Proprio ora, che mi hai dimostrato di avere potenzialità interessanti, non puoi permetterti cadute di stile di questo tipo.”

Ken distolse lo sguardo, sentendosi un totale incapace. Aveva letto attentamente le interviste, era sicuro di averlo fatto. Era possibile che gli fosse sfuggito qualcosa? Ma cosa poteva esserci di così importante nelle informazioni riguardo il nuovo software che aveva inventato?

Ed era successo di nuovo. Al minimo rimprovero di Osamu, si sentiva come se avesse fallito miseramente in entrambi i propositi che aveva deciso di intraprendere. Probabilmente Rumiko avrebbe riso, perché aveva parlato di schiavitù e libertà con un giovane schiavo dell’idea che suo fratello aveva di lui.

Scioccato dalla consapevolezza, strinse i pugni, costringendosi ad essere impassibile. “Mi stai dando un indizio o mi sbaglio?” Gli chiese, corrugando la fronte.

Osamu sospirò, alzando gli occhi al cielo. “Fa’ un po’ tu”. Poi indicò con un dito il telefono che teneva al lato della scrivania. “E ora, alla chiamata che ho ricevuto oggi. Ricordi chi è Yamanaka Harumi, giusto?”

Non ebbe bisogno di pensarci troppo: aveva ripassato così tanto i dati che aveva alla mano che li conosceva a memoria, ormai. “Sì, la compagna di classe delle medie di Inoue Miyako”, disse, interessato. “Perché ti ha contattato? Che è successo?”

“Come ti ho già accennato, pare che si sia verificato un imprevisto”, gli spiegò Osamu, riponendo nel cassetto di fronte a lui i documenti che aveva sulla scrivania. “Ha ricevuto una cartolina particolare stamattina, proveniente da Liverpool e con mittente anonimo.”

Ken lo fissò, perplesso, mentre Osamu sembrava tutto preso dal chiudere il cassetto. Possibile fosse solo quella la grande novità? “Ma può immaginare chi sia il mittente, giusto?” Obiettò, cercando di non suonare così scettico. “Basta pensare a chi, dei suoi conoscenti, possa essere andato a Liverpool, o cercare di capirlo dal messaggio scritto sul retro della cartolina …”

“E se ti dicessi che è proprio il messaggio sul retro ad essere il reale problema?”

Osamu fece un sorrisetto obliquo, probabilmente divertito dalla smorfia incredula che si era dipinta sul suo viso. “E se ti dicessi che il messaggio sul retro, per quanto impossibile, sembra essere stato scritto proprio da Inoue Miyako?”

E per un momento non ci fu che confusione, nella mente di Ken.

Un indizio. Poteva essere uno degli indizi più importanti che avessero mai avuto in otto anni: voleva dire che Miyako era viva, che voleva mandare un messaggio, forse in codice, alla sua amica, che forse voleva farsi trovare …

Farsi trovare?

La sua mente si raffreddò all’improvviso, e la confusione scomparve nel momento in cui Ken si ricordò della razionalità, e della riflessione. Dopo otto anni di totale silenzio vuole farsi trovare?

Strinse gli occhi, osservando lo strano sorriso che increspava le labbra di suo fratello. “Ti chiederei qual è il contenuto del messaggio. E anche … il tipo di rapporto che c’era tra Miyako e Yamanaka Harumi.” Rispose. “Ci sarà un motivo per cui la cartolina apparentemente di Miyako sia indirizzata a lei, no? E poi dovremmo anche controllare che non siano arrivate cartoline sospette anche agli altri indiziati, suppongo. Non si sa mai.”

Pur concentrato sulla sua controllata impazienza, non poté ignorare il lampo negli occhi azzurri di Osamu, né evitare di sentirsene turbato. Aveva l’impressione che si stesse divertendo, come coinvolto in un gioco particolarmente allettante, e non era sicuro fosse un bene. “Precisamente quello che mi sono chiesto io”, sembrò approvare, ma era difficile dirlo con certezza. “Il contenuto del messaggio è piuttosto singolare: stando a quello che mi ha detto Yamanaka Harumi per telefono, parrebbe quasi un … frammento di diario personale.”

Ken sussultò, e Osamu parve cogliere la sua reazione: il sorriso scomparve dalle sue labbra, rapido com’era affiorato. “Pare che questo diario segreto si stia manifestando solo adesso. E’ buffo …” Ma non c’era alcuna nota divertita nella sua voce. “Quanto al rapporto con Miyako … bisognerebbe accertarsene di persona, non credi? Anche perché avevo già assicurato che una visita a casa sua sarebbe stata d’obbligo, per mandare avanti le indagini.”

Al di là della confusione e dell’impazienza, Ken ricordò che era compito suo occuparsene, e che ancora una volta era chiamato ad essere sottoposto a quell’ennesima prova: annuì, sentendosi più pronto che mai. Non poteva tirarsi indietro, non ora che la passione per l’indagine e la voglia di ritrovare quella ragazza si facevano sentire più forti che mai. “Hai ragione, posso occuparmene subito, se vuoi”, disse, la voce carica di nuovo impeto. “Ho lezioni nel pomeriggio, stamattina non …” Esitò, e per un istante ricordò i programmi che aveva per quella mattina, e il motivo per cui erano andati in fumo. Era sempre più difficile vedere Rumiko, sempre più difficile sapere perché stesse male, praticamente impossibile accertarsi delle sue condizioni fisiche ora che era malata. Strinse i denti, ricacciando il pensiero al sicuro dentro di sé. “Non ho impegni di nessun tipo.”

Eppure, da qualche parte, trincerate dalla sua barriera di imperscrutabilità, l’amarezza e la preoccupazione incontrollabile rimasero intatte.

Osamu parve non accorgersi dei suoi occhi bassi, né del suo stato d’animo incupito. Si limitò ad alzarsi, invece, con una semplice scrollata di spalle. “Meglio così: risparmiare tempo è sempre la cosa migliore”, ribatté tranquillo. “E non guasta nemmeno che l’appartamento non sia molto distante dal mio studio: ci si può arrivare in pochi minuti.”

Ken si alzò a sua volta, comprendendo che quello doveva essere il momento di congedarsi. Ancora Osamu, come sempre, a dettare le regole di quel gioco che lui non capiva. “D’accordo”, disse, neutro. “E l’indirizzo qual è?”

“Te lo farò vedere appena ci arriveremo, Ken. Non serve che te lo dica.”

Sulle prime, Ken credette di aver capito male. Lo fissò, aspettandosi un sorriso, una risata di scherno, qualsiasi cosa che gli mostrasse che non parlava sul serio, perché era impossibile che parlasse sul serio.

Lo fissò, e Osamu ricambiò l’occhiata, con un sopracciglio inarcato.

Quello, e il fatto che aveva messo mano alla sua giacca, resero palese il fatto che doveva essere serio.

“Come … vieni anche tu?” Balbettò, guardando ora lui, ora la sua giacca. “Con me?”

Osamu sorrise ancora. “E’ il mio caso, sai”, ribadì, sottolineando l’aggettivo possessivo. “Naturale che sia anche compito tuo, visto che ti ho coinvolto, ma è pur sempre un caso sottoposto a Ichijouji Osamu: posso decidere di farne quello che voglio. Finora mi sono limitato ad osservare il tuo lavoro su dati che avevo quasi interamente, ma ora si è presentata una pista nuova. Vuoi che non mi ci dedichi?”

Ammutolito, Ken lo vide infilarsi la giacca con gesto tranquillo. “Impara questo, Ken: io non faccio il detective, io sono un detective. Per questo non posso pensare di essere libero dal lavoro, mai.”

 “Scusa, non ci avevo pensato.”

Tutto questo era privo di senso, si disse Ken, imitando il fratello in silenzio. Totalmente privo di senso. Iniziava a considerare il caso come un qualcosa di suo, e solo suo, e non era un bene. Come poteva essere diventato così egoista?

Schiavo, schiavo anche lui come Osamu. Schiavo di quella competizione, e di quel sentirsi sempre in allerta, a disagio … inferiore.

“Allora, vieni o no?”

Osamu lo aspettava sulla porta, e ancora lo osservava, cercando di capirlo con un solo sguardo. Era impari, quel confronto: Ken non lo capiva, non più. O forse non l’aveva mai fatto.

“Posso … farti una domanda?” Fece, incerto, e non sapeva cosa lo stesse spingendo a parlare in quel momento. “Cosa pensi che sia la schiavitù, Osamu?”

E, per la prima volta dopo chissà quanto tempo, lo vide genuinamente colto di sorpresa.

La visione lo riempì di un sollievo inimmaginato, e solo allora comprese. Voleva solo vedere del sentimento al di là di quella barriera, nient’altro. Solo rendersi conto che suo fratello non era così schiavo del cinismo come temeva.

Perché, effettivamente, non era la risposta in sé ad interessarlo: la indovinò nel momento in cui lo vide aprire la bocca per parlare.

“Allora è questo che fai nel tempo libero? Pensare a domande filosofiche che non ti portano da nessuna parte?” Fece, scettico, per poi scuotere la testa e voltarsi. “Non è interrogandoti su sentimenti e passioni umane che diventerai un perfetto investigatore, Ken. Cose del genere ti portano solo alla deriva.”

Lo precedette, uscendo dallo studio, e nel breve momento in cui rimase solo Ken lasciò che quelle parole risuonassero nella sua mente.

Cose del genere ti portano solo alla deriva.

Risposta perfettamente degna di Ichijouji Osamu, solitario e deciso, razionale e irremovibile sulle sue convinzioni.

Ma lui?

“Non sei uno sciocco, sei umano. Gli vuoi bene … Si vede quanto.”

Qualcosa dentro di lui si contrasse dolorosamente, e Ken scosse la testa, disposto, nonostante tutto, a seguire Osamu come aveva sempre fatto.

Davvero non è da sciocchi lasciarsi coinvolgere dai sentimenti, Rumiko-san?


***


“E dove hai detto che è andato? A Kyoto?”

“No, a Osaka. Suo fratello vive lì, sai.”

C’era un gran frastuono per le strade, un frastuono che lei era abituata ad ascoltare solo nel tragitto per andare a lavoro e tornare all’orfanotrofio. Era sempre così legata al suo piccolo ambiente raccolto che tutto quel viavai di persone e mezzi la scombussolava.

Dato indicativo per quanto riguardava il tempo libero che aveva a disposizione da quando sua madre si era ammalata: praticamente pari a zero.

Hikari sospirò di nuovo, rassettandosi i capelli scompigliati dal vento lieve di quel giorno. Non sapeva cosa le prendesse, quella mattina: aveva la testa fra le nuvole, si sentiva malinconica, di umore incerto. E aveva sperato di riuscire a star meglio prendendo un po’ d’aria fresca, ma evidentemente si sbagliava.

Avrebbe tanto voluto sapere cosa avesse, ma non sapeva da che parte iniziare a cercare la risposta dentro di sé.

Taichi, al suo fianco, la osservò con espressione attenta. “Ma tornerà presto, giusto? Voglio dire …” Si interruppe, incerto, passandosi una mano tra i capelli perennemente scompigliati. Poi sospirò, come arrendendosi. “Voglio dire che non mi riesce di capire fino in fondo Takaishi-kun. Certo, è logico che abbia dei problemi con se stesso e con quello che davvero vuole dalla vita, ma si comporta in maniera imprevedibile.”

“Come mai lo pensi?” Fece Hikari, inconsciamente irrigidendosi. Non aveva più sentito Taichi parlare di Takeru davanti a lei dopo il primo giorno in cui lei lo aveva fatto entrare nell’orfanotrofio: era curioso che lui decidesse di introdurre l’argomento proprio in quel momento, proprio quella mattina, quando il pensiero e la lontananza di lui avevano avuto un effetto tanto strano sul suo umore.

Taichi sembrava esitante, e continuava a lanciarle occhiate di sottecchi, come preoccupato per la sua reazione. “Non voglio dire che sia un cattivo ragazzo, tutt’altro!” si affrettò ad anticipare, alzando le mani. “Ho visto che ha molta voglia di mettersi in gioco, e una capacità non indifferente di inventare fiabe stimolanti per i bambini quando io contribuisco alla perdita di una di queste proprio nell’ora di lettura. E d’altra parte, tutti quanti abbiamo passato un momento di dubbi e incertezza riguardo l’orfanotrofio, quindi sarebbe comprensibile il suo atteggiamento.”

“Ma?” Insistette lei, se possibile ancora più inquieta. Preamboli, troppi preamboli: parlando di Taichi, che di solito non si faceva alcun problema nell’esprimere le proprie considerazioni in maniera spontanea, era davvero preoccupante.

Lo vide perdere la pazienza, probabilmente stufo anche lui di quei preamboli inutili. “Ma mi chiedo se riuscirà mai a liberarsi di quel tormento che porta negli occhi come un fardello! Insomma, non è preoccupante? E poi”, aggiunse, mentre lei lo fissava, pallida e muta. “Mi chiedo se non si sia andato lì a Osaka per restarci, come se volesse dirci che non possiamo contare su una sua possibile presenza fissa da noi.”

Hikari fu colta da un’ondata di gelo, e non poté far altro che riprendere a camminare, turbata. Ora capiva perché Taichi era stato così incerto se parlarle o no. Ora capiva persino perché lui le avesse chiesto di camminare un po’: aveva già deciso di voler sapere informazioni su Takeru. La fiducia di suo fratello iniziava a vacillare, per quanto fosse triste pensarci.

Era la sola? La sola ad aspettarlo per tutto il tempo necessario, la sola a guardare il lampo di serenità e non quello di tristezza nei suoi occhi così azzurri? La sola a sapere che sarebbe tornato?

Perché sarebbe tornato, giusto?

Sussultò, presa alla sprovvista dai suoi stessi pensieri, i suoi stessi timori repressi. Che cosa le prendeva, tutt’a un tratto? “Takeru-kun voleva semplicemente parlare con suo fratello, non ha alcuna intenzione lasciare definitivamente Tokyo. E io credo che, per liberarsi di quel tormento che dici, sia necessario che lo incontri e parli con lui.”

Aveva di nuovo il cuore pesante, sembrava battere pigramente e rumorosamente contro la sua gabbia toracica. Sembrava braccato dalla sua malinconia, dalla sua paura, causata da quell’irrazionale volgersi a destra e sinistra cercando quei capelli biondi, quegli occhi azzurri, e non trovarli mai.

C’era qualcosa di tremendamente sbagliato nel suo continuo rimuginare sulle parole che aveva ascoltato il pomeriggio prima, subito dopo il discorso riguardo la precarietà dell’orfanotrofio, quando Takeru, lo sguardo assente, le aveva annunciato che voleva andare a parlare con Ishida Yamato, suo fratello.

Probabilmente era sbagliato anche il fatto che ricordasse ogni sua espressione, ogni sua parola, con una minuzia che dava dell’incredibile.


“Lui mi ha detto delle cose prima che io tornassi a Tokyo: ha cercato di farmi capire cosa dovrei fare della mia vita.” Aveva giocherellato con un filo d’erba, pensieroso, e probabilmente desideroso di farle capire esattamente il motivo di quella decisione. “E io vorrei discuterne con lui. Tutte queste novità …”

Si era interrotto, a corto di parole, limitandosi a scuotere la testa, sconfitto.

Hikari aveva lasciato che la morsa del senso di colpa la tormentasse ancora un po’. “Non volevo confonderti tanto, Takeru-kun. Mi dispiace …”

“E’ tutto a posto, tranquilla.” Sembrava davvero fosse così, dopo quel sorriso. “Non hai fatto niente, sono io il problema. Devo sapere come reagire a questa novità sconvolgente, devo sapere cosa fare. Se posso esservi utile dovrei capire in che modo, no? E se sono solo un peso per voi dovrei capire come allontanarmi totalmente da voi e dai bambini: non avrebbe alcun senso questa sorta di tirocinio, a questo punto.”

Aveva provato a protestare, scandalizzata. “Peso? Ma cosa …”

“Ti prego, Hikari-chan. Non aggiungere altro.” Il tormento era riaffiorato sul suo viso all’istante, e Hikari si era zittita, pur non approvando in nessun modo. “Non voglio più crearvi tutti questi problemi, non lo sopporto. Sono stato peggio di un bambino capriccioso ed egoista per tutto il tempo, pretendendo che quella che io credevo fosse la vostra perfetta felicità dovesse essere insegnata anche a me. Me ne vergogno profondamente, Hikari-chan, e se davvero so solamente a complicarvi la vita preferisco lasciarvi in pace.”

Aveva avuto paura, all’improvviso, perché lui sembrava determinato, sincero, profondamente deciso. Non c’era più alcuna esitazione nei suoi occhi.

Lui l’aveva guardata, fermo e vibrante di emozione, e le aveva sfiorato una guancia in maniera così delicata che Hikari si era sentita arrossire, pur incapace di distogliere lo sguardo da lui.

“Ma preferisco chiarire il dubbio da subito. Conoscersi meglio potrebbe essere dannoso, se tutto … insomma … andasse nel peggiore dei casi.”

Lui esitò, e lei sembrò rendersi conto solo in quel momento che Takeru era lì, che la guardava, che le parlava e sorrideva in quel modo, e che lo faceva solo in sua presenza.

Era curioso: il fatto che fosse accanto a lei sembrava più concreto proprio nel momento in cui si affacciava il rischio di doversi allontanare l’uno dall’altra.

Cadere nell’angoscia fu facile quanto respirare.


“Avrò contato almeno un centinaio di sospiri, Hikari: mi stai preoccupando. Cosa c’è che non va?”

La voce apprensiva e seria di Taichi la riportò con i piedi per terra. Si riscosse, alzando lo sguardo smarrita. “Come? Non ho niente che non va.”

Se possibile, Taichi si accigliò ancora di più. Si fermò di botto, le mise le mani sulle spalle e la costrinse a guardarla, preoccupato. “E’ da quando eri piccola che provi a negare di avere problemi: sai che per fortuna me ne accorgo, sorellina”, le disse con calore. “Non farmi stare in pensiero, lo odio. Dimmi cosa c’è che ti preoccupa, così te ne liberi e non ne parliamo più, d’accordo?”

Era preoccupato per lei, voleva aiutarla ad ogni costo. E ancora una volta lui era lì, pronto a darle il suo affetto, la sua grinta, la sua voglia di sistemare i problemi, come quando erano più piccoli.

E non sapeva quanto fosse stata condizionata da quella visione, ma Hikari si sentì gli occhi bruciare, prima che la sua vista fosse offuscata dalle lacrime.

“Oh, no … che fai? Sono stato io?” Fece Taichi, con puro terrore, ma Hikari non aveva una risposta da dargli. Spaventata da se stessa e dalle sue reazioni, non poté far altro che scuotere la testa e nascondersi il viso tra le mani, impotente.

Si sentì abbracciare forte, e accarezzare i capelli, e un momento dopo Taichi sembrò comprendere esattamente quali fossero i suoi pensieri. “E’ per lui? Per Takeru?”

Non aveva la risposta a quella domanda, ma c’era una cosa che le premeva di dirgli assolutamente, ora che era riuscita a trattenersi dal piangere scioccamente. “Taichi, devi aver fiducia in Takeru”, gli disse, con voce soffocata, ma ci credeva davvero. “Non so … non so se ci aiuterà con l’orfanotrofio, se sceglierà di seguirci in questo progetto, ma comunque vada io so che troverà la sua strada e la sua gioia. Lo so … io lo so.”

Lo sentì irrigidirsi leggermente, sorpreso, prima che si rilassasse ancora, con un sospiro colpevole. “Accidenti … sono stato davvero io.” Commentò, a disagio. “Scusami. Non avrei dovuto dire certe cose sul conto di quel ragazzo: anche Koushiro e Jyou avevano qualche dubbio prima, e ora guarda dove sono finiti! Che stupido. Perdonami, sorellina: è che è un brutto periodo, lo sai … no?”

Non sapeva se Taichi stesse solo cercando di consolarla o se se ne fosse convinto davvero: sapeva solo che lui le era accanto, che cercava di aiutarla, che le voleva bene. Hikari lo strinse forte, annuendo, e cercò conforto nelle sue braccia.

Oh, certo che sapeva era un brutto periodo. Era così brutto che l’aveva costretta a piangere davanti a Takeru, stretta da Takeru, confortata da Takeru.

E ora, le pareva quasi di sentire ancora il suo profumo nelle narici, per quanto Taichi ne avesse uno totalmente diverso.

Quello non poteva essere un bene. Aveva paura, paura di quei segnali, perché le sembrava di essere coinvolta in un processo irreversibile.

E proprio nel momento più sbagliato del mondo.

Respirò profondamente per calmarsi, per poi sciogliere l’abbraccio. Taichi la guardava, preoccupato e in colpa, probabilmente cercando di capire goffamente se il problema fosse passato, se l’avesse perdonato del suo misfatto.

Come ai vecchi tempi. Anche se questa volta non era colpa sua, e il problema non poteva essere risolto con una semplice richiesta di pace.

Eppure,  la visione era così tenera che la costrinse a sorridere. Non poteva non farlo.

Takeru non era lì, forse non ci sarebbe più stato, con il suo sorriso, la sua amarezza, la sua dolcezza.  Ma suo fratello era con lei, e non se ne sarebbe mai andato, fornendole aiuto ogni volta lei avesse avuto paura di dare un nome a quel bisogno di Takeru, come in quel momento. “Sto bene adesso, tranquillo”, gli disse, e gli strinse le mani. “Grazie. Non so cosa farei se non ci fossi tu.”

Lui le sorrise in risposta, in modo solo un po’ più luminoso e sereno di lei. “Prego! E’ un piacere per me essere considerato indispensabile da almeno una ragazza. Dovresti convincere Sora di questo: ultimamente è sempre suscettibile quando è con me.”

Hikari annuì distrattamente, e forse avrebbe anche fatto cadere il discorso, troppo spossata per interessarsene a dovere, se non avesse sentito il tono di lui incupirsi in modo strano. Incuriosita, si soffermò a studiarlo.“Magari è solo un brutto periodo anche per lei”, suggerì .

“Non ne sono convinto.” Commentò suo fratello con una scrollata di spalle. E probabilmente avrebbe aggiunto altro, se non si fosse voltato sulla destra e non avesse scorto qualcosa di nuovo. Si illuminò. “Ehi, ho appena avuto un’idea! E se lavorassi in una gelateria? Comincio a stufarmi di puzzare di fritto ogni volta che ritorno dal ristorante.”

Forse era ancora confusa da ciò che temeva e ciò che aveva scorto nel suo animo, ma i cambiamenti di discorsi di Taichi la confondevano. “Credevo ti piacesse il ristorante”, fece lentamente. “E che il titolare ti avesse preso in simpatia. Che motivo hai per cambiare mestiere?”

Taichi fece una smorfia, grattandosi la nuca ed evitando di guardarla. “Te l’ho detto, puzzo di fritto. Credo di essere repellente.”

Era abituata da ventiquattro anni alle sue stranezze, ma quella volta capire di cosa stesse parlando andava ben oltre le sue capacità intuitive. Perplessa, aggrottò la fronte. “Non sei affatto repellente. E da quando in qua questo ti preoccupa?”

“Beh, dimmi se ti sembra normale. Ultimamente provo ad avvicinarmi a Sora –non so: un abbraccio, un buffetto sulla fronte, qualsiasi cosa- e lei mi spinge via, e trova sempre una scusa per allontanarsi da me.” Taichi si infervorò, indignato, ma quello strano rossore che aveva colorato il suo viso quando aveva accennato ai tentativi di avvicinamento a Sora non le erano sfuggiti. Hikari sgranò gli occhi, intuendo che c’era qualcosa di nuovo che si agitava in suo fratello, chissà da quanto. “Una volta l’ho seguita dappertutto per costringerla a spiegarmi, ed ero così distrutto che sono arrivata a supporre, ironicamente, che dovevo puzzare davvero troppo di oli e fritti perché si avvicinasse a me. E lei cosa mi dice? Può darsi. Che è una risposta che non vuol dire niente, giusto? Ma come pretende che io possa capire cos'ha che non va se non me ne parla chiaramente? Va bene, mettiamo il caso che io sia davvero insopportabile quando esco dal ristorante, ma in nome della nostra amicizia può fare uno strappo alla regola, no? E invece scappa sempre ogni volta che le vengo vicino, rifiutandosi di guardarmi!”

Nel momento in cui Taichi finì di parlare, Hikari comprese che c’era qualcosa che non andava anche in Sora. I due non avevano mai avuto problemi ad avere contatti: erano migliori amici da sempre, non era mai stato un problema. E allora perché allontanarlo adesso? Perché dargli corda e inventare certe scuse pur di non dirgli la verità, essere così suscettibile, evitarlo?

E ora che ci pensava, Sora si era mai rifiutata di guardarlo? Solitamente succedeva soltanto quando era in imbarazzo …

In imbarazzo per un abbraccio di Taichi?

Prima che potesse accorgersene lei stessa, scoppiò a ridere, tenendosi la pancia. Rise, e rise, e rise, perché il racconto e ciò che aveva intuito era così buffo da rendere impossibile crogiolarsi nella malinconia, nella paura, nella tristezza, nei confusi ricordi di abbracci e profumi.

Rise finché non ebbe le lacrime agli occhi, e non sentì Taichi protestare: “Cosa c’è da ridere, adesso?” E allora si zittì, e si rese conto con quanto sollievo sentiva le labbra tirare per aver ripreso a sorridere tutt’a un tratto.

Si rese conto che Taichi aveva cercato fin dall’inizio di portarla a questo, che aveva fatto di tutto per ridarle quella luce che la scoperta di quanto avesse bisogno di avere Takeru accanto a sé aveva spento nei suoi occhi. Si rese conto che non poteva più permettersi di vivere quell’attesa sempre sul punto di scoppiare in lacrime.

E forse, non aveva mai voluto tanto bene a suo fratello, mai.

Gli mise una mano sulla spalla, scuotendo piano la testa. “Non sei costretto a cambiare lavoro: non puzzi di fritto. Parlane meglio con Sora, cerca di capire, ma non dare niente per scontato. Le cose possono cambiare, se lo volete.”

Tutto poteva cambiare, in effetti. Tutto quanto.

Ascoltò distrattamente le richieste di spiegazione del suo compagno, persa a guardare il cielo terso di quella mattina. Da qualche parte, un aereo stava volando sopra le loro teste, lo stesso aereo che trasportava un ragazzo dalle mille potenzialità e dal destino incerto verso un confronto con se stesso che avrebbe, probabilmente, stravolto tutto.

Lo stesso che trasportava le sue speranze, e le sottraeva certezze, mettendole in discussione.

Il suo sorriso si smorzò, mentre riprendeva a camminare, Taichi al suo fianco e il frastuono del traffico e dei passanti come attutito nelle sue orecchie.

Non era una sciocca: in cuor suo aveva intuito da qualche tempo che qualcosa le stava accadendo, che qualche speranza riguardante Takeru si andava creando, e che quelle stesse speranze erano così fragili da essere sul punto di infrangersi miseramente.

Lo sapeva: doveva essere forte, e serena, così che potesse aspettarlo il tempo necessario.

Eppure, sarebbe stata davvero pronta se Takeru avesse deciso di cedere ai suoi tormenti interiori, e dire loro addio?

Sarebbe davvero stata pronta a lasciarlo andare?






Ben trovati :) avrete notato la novità, giusto? Da adesso in poi userò sempre -o quasi- più punti di vista in un solo capitolo! Ho fatto un piccolo ragionamento: ci sono un sacco di cose da trattare ancora, il ritmo deve essere abbastanza celere perché qui siamo nella parte più importante della storia... Come altro avrei potuto fare per trattare così tante situazioni? E così, mi sono decisa ^^' spero che questo nuovo ordine non vi dispiaccia! Da parte mia la novità mi ha un po' scombussolata, per questo ci ho messo tanto a finire il capitolo. xD Ma naturalmente sta a voi giudicare ;)

Che Iori si accorgesse del possibile pericolo costituito da Ken è un passo fondamentale per proseguire le vicende u.u da adesso in poi un indagato inizierà ad indagare su chi lo indaga xD è abbastanza ingarbugliata la faccenda, me ne rendo conto! Resta da sapere cosa ne pensa Miyako della decisione di Iori ... resta anche da sapere che fine ha fatto Miyako, in effetti, e cosa ha pianificato Satsu a riguardo! Ma per questo, vi rimando al prossimo capitolo :)

L'idea delle cartoline è un'improvvisata, lo ammetto xD avevo intenzione di complicare le cose, ma non sapevo esattamente il mezzo migliore per farlo ... fortuna che ci sono le amiche che te le spediscono ;) se avete qualche supposizione in merito alle due ricevute finora, dite pure, vi ascolto volentieri :D

E... sì, alla fine ho optato per il Taiora :P è inutile, mi riesce molto più facilmente!

Non rispondo qui alle recensioni, perché da adesso in poi utilizzerò la nuova opzione di questo sito, che permette di rispondere direttamente sulla pagina delle recensioni. Mi impegno a mandarvi una risposta alle prossime recensioni al più presto :)

Grazie a chi segue e a chi commenterà, è sempre un piacere sentirvi dire la vostra ^^

Padme Undomiel

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Capitolo 23
*** Coraggio ***


Purity 22
22.


Coraggio






“Vieni qui, Iori-kun, guarda che bello!”

Una bambina, coi capelli viola al vento, che volteggia e corre, la gonna rossa che si solleva lievemente per il vento. Sorride, raggiante, e si solleva sulle punte dei piedi per prendere un fiore rosa pallido e mostrarlo al bambino più piccolo, dai corti capelli castani e due grandi occhi verdi.

“Fiori di ciliegio!” Dice, e cerca di metterlo tra i capelli come ornamento, senza riuscirci. Si imbroncia. “Uffa. Vorrei una coroncina di fiori di ciliegio, sembrerei una principessa!”

“Perché vuoi sembrare una principessa?” Chiede Iori, senza capire, e Miyako alza le spalle.

“Perché il mio fidanzato deve trovarmi bella”, afferma semplicemente, e poi si siede sotto il ciliegio più grande. “Il periodo dell’Hanami è così romantico! Il mio fidanzato deve portarmi qui, quando vuole chiedermi di sposarlo.”

Iori la guarda, ancora più sorpreso, e poi sospira. “Miyako-san corre troppo, come sempre”, commenta.

Ma lei è troppo piena delle sue fantasie per prendersela. Gli prende le mani, raggiante. “Saremo circondati da petali di fiori, come tanti coriandoli. E lui mi guarderà negli occhi, e mi dirà: Sei bellissima, come un fiore. E poi mi farà la proposta … E io, ovviamente dirò di sì, e ci scambieremo un bacio! Come vorrei che fosse vero!”

“E se al tuo fidanzato non piace l’Hanami?” Chiede ancora lui. “E se trova brutti i fiori di ciliegio?”

Miyako si mette il fiore dietro l’orecchio, sentendosi bella ed importante anche solo per i due soli secondi in cui quella postazione regge; il fiore le cade in grembo. “Allora ne troverò un altro! Il mio fidanzato deve essere romantico, altrimenti non lo sposerò mai.”

E poi ride, guardandolo con un ghignetto. “E tu non la baceresti la tua fidanzata, sotto questi ciliegi? Come dovrà essere la tua principessa?”

Iori scuote la testa, tranquillo. “Non so. Non so nemmeno se mi sposerò. Ma adesso non mi va di pensarci. E poi sono troppo piccolo!”

“E allora? L’amore viene ad ogni età, Iori-kun! Potresti innamorarti anche adesso! E’ per questo che devi sempre stare attento a quando verrà a farti battere il cuore.”

.

Sollevò il capo dal cuscino, sentendo gli occhi bruciare, e la prima cosa che notò fu il buio pressoché totale della sua camera da letto.

Miyako si puntellò su un gomito, strofinandosi gli occhi gonfi –doveva essere la sua malattia, perché non ricordava affatto di aver pianto-. Le persiane erano semichiuse. Non ricordava di averle mai sollevate da quando era tornata a casa la sera prima.

Poteva darsi che fosse semplicemente caduta a peso morto su quel letto, senza fare, pensare ad altro?

Si sforzò di ricordare, mettendosi seduta e lottando contro il senso di nausea. C’era un calore insopportabile sulla fronte, un peso insostenibile nella fronte e nel petto, e le mani che le tremavano. E poi … e poi …

Doveva essere stata semi incosciente per tutta la notte. Finché non c’era stata quella telefonata alla signora Sato … quanto tempo fa?

La testa le scoppiava. Doveva essere quel maledetto buio, che le lasciava solo intravedere quei flebili raggi di sole attraverso le persiane abbassate.

Miyako prese un gran respiro, per poi aggrapparsi spasmodicamente al materasso e drizzarsi in piedi. Le forze quasi le vennero meno: il mondo le vorticò attorno per un attimo troppo lungo, e lei ricadde con forza a sedere, le mani premute sugli occhi.

Da quanto tempo non mi alzo più da questo maledetto letto? Sono diventata un vegetale?

Non si diede per vinta. Riprovò ancora, la presa sul letto tremante ma decisa, e infine mosse qualche passo barcollante verso la finestra chiusa. E allora la aprì di scatto, e altrettanto rapidamente cominciò ad alzare le persiane, lasciando che la luce la invadesse sempre più, e si diffondesse in tutta la sua camera.

Una folata di aria fresca la fece rabbrividire violentemente, ma sul momento non se ne interessò minimamente. Si affacciò, mentre uno strano, incredulo sorriso le affiorava sul viso.

Aveva mai visto Tokyo come le appariva quel giorno? Così luminosa, così piena di vita, così perfetta?

La luce brillava sulle finestre dei palazzi davanti a sé, creando strani giochi di riflessi dalla quale la giovane si vide incantata. Il cielo sembrava quasi puro, terso, con solo qualche nuvola a renderlo meno perfetto e irraggiungibile. E quel viavai di gente lì sotto, davanti a quel bar che si trovava di fronte a casa sua … Lavoratori che si prendevano una pausa prima di tornare alle proprie occupazioni, uomini col giornale, donne al telefono.

Vita. Tokyo sprizzava vita da ogni luogo, quel giorno.

E poi scorse quella coppia di ragazzi, sempre lì davanti a quel cancello, che ogni giorno erano sempre nella stessa posizione e alla stessa vicinanza, e che non facevano che parlarsi l’un l’altro incessantemente e a bassa voce. Come se il loro amore fosse così speciale da essere perfetto solo se esso li isolava dagli altri.

Fu quella visione a rompere qualcosa, nel suo strano equilibrio interiore. Il sorriso le morì sulle labbra.

Quel ragazzo stringeva e sfiorava incessantemente la sua ragazza, come se fosse un gesto vitale, indispensabile. E il respiro le si mozzò in gola, mentre sentiva una sgradevole sensazione di amarezza avvelenarle la serenità.

Perdersi tra le braccia dell’uomo che amava non le era stato mai concesso, dopotutto. Ma questa consapevolezza non le faceva più male da anni …

E poi un soffio di vento la schiaffeggiò con una realtà che aveva momentaneamente scordato. Una ciocca di capelli viola le passò davanti al viso, e Miyako impallidì.

La parrucca. Lei si era tolta la parrucca, chissà quando, chissà perché.

La finestra. Mi vedranno!

Miyako strillò brevemente, il terrore a deformarle il viso, e guardò per un istante i passanti sotto di lei, la vita frenetica dalla quale lei si era estraniata da troppo tempo, e vide che tutto continuava ad andare avanti senza di lei. Vide che nessuno aveva scorto Inoue Miyako nascondersi nell’appartamento di Miyazawa Rumiko.

E chiuse di scatto la finestra, tirò selvaggiamente le tende, le mani che tremavano convulsamente, e la nausea fu tanto forte da costringerla ad accasciarsi a terra, a raggomitolarsi su se stessa e a nascondere il capo tra le mani.

Avventata, e stupida. Come aveva potuto dimenticare un dettaglio tanto fondamentale? Perché, proprio ora che il pericolo era raddoppiato, triplicato …

Li sentì ancora. Quell’insopportabile angoscia, quel peso insostenibile all’altezza del petto, e quella voglia di gridare, di distruggere qualcosa, qualsiasi cosa, pur di placare quella sofferenza, e ricordò quando le aveva provate.

Era stata la sera prima.

Quando aveva scagliato lontano quella parrucca, detestandola come mai nella sua vita, per la prima volta considerandola una prigione e non una salvezza. E il motivo, il motivo …

“Lui non mi ha vista davvero … Lui non mi ha mai vista coi capelli viola, con gli occhiali …”

Non aveva fatto altro che ripeterlo, come impazzita, il dolore che la costringeva a buttarsi sul letto, e a cadere nell’incoscienza per non pensare più.

Con gli occhi gonfi e brucianti era molto più semplice lasciar scorrere le lacrime, si rese conto Miyako, tremando per il freddo che sentiva tutto intorno a lei e rannicchiandosi come una bambina indifesa.

Pianse disperatamente, troppo stanca perfino per arrabbiarsi con se stessa, con il suo destino, con il suo esilio volontario dalla vita e dagli altri.

Cosa fare, ora che era al capolinea? Ora che persino il suo corpo si ribellava, stanco di vessazioni, di finzioni, di bugie, di dolori?

Cosa fare, ora che nemmeno l’incoscienza poteva aiutarla a cancellare il ricordo dell’appuntamento della sera prima?

Si era arresa. Colpa di quegli occhi, che avevano confuso, stravolto tutto.

Erano stati gli occhi di Ken –di Ichijouji Ken - , lì ad aspettarla con impazienza e desiderio di vederla, sotto quegli alberi di ciliegio nel periodo dell’Hanami.

Sembrava una beffa. La storia più importante della sua vita fino a quel momento non aveva mai avuto come sfondo i ciliegi: l’altro non l’aveva mai portata lì, sebbene fosse uno dei suoi più grandi sogni romantici. E lei era stata cieca, e aveva rinunciato alla sua vena sentimentale per venirgli incontro, credendo scioccamente di non star prescindendo dalla propria personalità.

Ma perché quello, perché? Perché proprio lui, proprio lì? Perché lei aveva accettato, perché Ken l’aveva guardata in quel modo, perché le sue dita erano state così delicate nello sfiorarla, perché aveva desiderato che non si fermasse? Perché il suo dannato, dannatissimo amore per l’indagine lo aveva reso così speciale e allo stesso tempo così temibile ai suoi occhi? Perché si era sentita morire quando le aveva detto di starla cercando anche lui, ma aveva sentito vibrarle il cuore al pensiero di come il cuore di lui avesse accelerato i battiti nel parlare della sua smisurata passione?

Ken aveva detto a Rumiko di star cercando Inoue Miyako. Le aveva raccontato della sofferenza dei suoi cari, che ancora non si rassegnavano a cercarla, le aveva spiegato di non sopportare tutto quel dolore; e poi le aveva parlato di suo fratello, di come sperava che, trovando Miyako, le cose tra loro si sarebbero aggiustate.

Ma Rumiko non è mai esistita. Hai rivelato di star cercando Miyako a Miyako stessa, Ken-kun.

Non sapeva che Miyako non poteva ricomparire, ed aggiustare tutto. Non poteva fare niente per Ken. E lui era stato stupido a dirle tutte quelle cose.

Perché loro erano nemici, in qualche modo.

Per quanto fosse orribile, per quanto i sensi di colpa la stessero distruggendo dall’interno, non poteva essere altrimenti.

Miyako stava ancora piangendo tutte le sue lacrime, quando il campanello di casa suonò.

I suoi singhiozzi cessarono, e lei rimase immobile, chiedendosi se non fosse il caso di fingere di non esserci. D’altronde, il suo corpo era pesantissimo: dubitava che avrebbe potuto anche solo sollevare il capo.

Ma poi il campanello suonò un’altra volta, e un’altra ancora.

E allora Miyako sollevò il capo, le lacrime che si asciugavano fastidiosamente lungo le sue guance. Strisciò verso il suo letto, e fu lì accanto, per terra, che trovò la sua parrucca, scomposta, disordinata, odiata, eppure l’unica sua difesa, in quel momento.

Non pensò a nulla indossandola, non ne ebbe il tempo. Il campanello aveva suonato un’altra volta, e Miyako si affannò per coprirsi con una vestaglia, mentre si avviava barcollante verso la porta d’ingresso.

La aprì, aggrappandosi alla maniglia e preparandosi ad una folata di vento freddo, la cosa meno indicata per la sua pelle accaldata.

E chiunque, chiunque si sarebbe aspettata su quella porta fuorché lei.

Satsu sorrideva semplicemente, il dito ancora sul campanello come in procinto di suonare di nuovo. “Scusa la scampanellata insistente. Pensavo che stessi dormendo, e avevo paura che  non mi avessi sentito. Non che sia un male, ovvio: con la febbre è sempre meglio riposare.”

C’era qualcosa di incredibilmente sbagliato nel suo essere tanto sorpresa di non sentirsi sola: non era affatto normale, né sano. Eppure, il sollievo di vedere Satsu la sopraffece a tal punto che si sentì mancare le forze, e fu costretta ad appoggiarsi contro il muro.

“Rumiko-chan? Ti senti male?” Satsu le si era avvicinata d’un tratto, chiudendo la porta d’ingresso con un rumore forse troppo forte. Miyako vide la sua espressione preoccupata, e seppe che la sua sofferenza solitaria era finita.

“Aiutami”, riuscì a dirle a fatica, prima di chiudere gli occhi.

***

“Certo che qui a Osaka ve la passate proprio bene, eh?”

Yamato lo osservò con uno strano sguardo, le bacchette strette nella mano. “Che intendi?”

Takeru si strinse nelle spalle, prendendo un altro boccone dalla sua ciotola prima di rispondergli. “Beh”, disse lentamente, mentre un sorriso affiorava sul suo viso. “Non so se ricordi, ma gli udon di Tokyo hanno un sapore completamente diverso da questi.”

Dal modo in cui le spalle di Yamato si rilassarono dopo la spiegazione, Takeru comprese che suo fratello si aspettava, con tutte le probabilità, un altro tipo di commento da parte sua. Forse si aspettava che questa fosse la premessa per supplicarlo –ancora- di tenerlo con sé a Osaka, per aiutarli.

Il ricordo lo fece scuotere la testa, e dedicarsi di nuovo al suo pranzo. Sembrava passata un’eternità da quando si era sentito così sperduto.

“Credi che non ricordi più la cucina di Tokyo? Non è tanto tempo che vivo qui”, obiettò Yamato tranquillo, prendendo un sorso d’acqua.

Il minore dei due ghignò. “Dipende da quante volte i ragazzi della band ti hanno lasciato ai fornelli, Yamato”, rispose, e trattenne a stento una risata mentre parlava. “Se l’hanno fatto spesso, e se tu hai … sperimentato altre vecchie ricette della nonna, mi sembra logico che la conseguenza sia stata venire più spesso ai ristoranti di Osaka, e quindi dimenticarti dei sapori di Tokyo.”

“La tua scarsa fiducia nelle mie abilità culinarie mi ferisce, Takeru.”

Yamato ridacchiò, e Takeru lo osservò con la coda nell’occhio, curioso di vederlo così rilassato. Se lo ricordava cupo, un po’ pallido, magro e stressato: lo ricordava bene, perché in quel momento ogni tratto del suo viso gli aveva suggerito che avesse bisogno d’aiuto. Ma adesso sembrava non esserci più nulla del genere in lui.

C’era stato un dubbio che si era annidato come un tarlo nel suo cervello, durante tutto il viaggio da Tokyo a Osaka. Se Yamato dovesse aver trovato una soluzione al suo problema, che effetto mi farà? Se dovessi capire che non ha più bisogno di nessuno, perderò interesse a vederlo?

Non era stato così. Lo vedeva più sereno, e in cuor suo ne era felice. Forse era cambiato davvero, forse non sarebbe successo nemmeno due mesi prima, ma la sostanza restava quella: non godeva della sofferenza altrui. Di quella di Yamato in primis.

Non c’era nulla che avrebbe potuto renderlo più felice. O quasi.

“Ho come l’impressione che sia cambiato tutto, in questi due mesi in cui sono stato a Tokyo”, gli rivelò semplicemente. Yamato sembrò tornare all’istante serio, mentre per qualche motivo i suoi occhi azzurri, dissimili dai suoi solo per la forma, sembravano essere diventati più penetranti che mai. “Guardati: l’ultima volta che ti ho visto ancora non eri riuscito a rimediare, neanche in parte, all’improvvisa perdita degli strumenti musicali. E adesso? Hai un basso di seconda mano, stai per acquistare una chitarra e chissà quanto presto potrai tornare a fare il mestiere che ti piace, invece di lavorare part-time con i ragazzi.”

Poggiò le bacchette sulla sua ciotola ormai vuota, sorridendogli. “E’ bello che tu ce la stia facendo anche senza l’aiuto di nessuno, Yamato.”

“La stessa cosa potrei dire io di te.”

Takeru si irrigidì, sorpreso. “Perché?”

Gli sembrò all’improvviso che suo fratello maggiore stesse rivelando i pensieri che aveva avuto da quando aveva saputo della sua prossima visita a Osaka: non esitò nemmeno un istante, prima di parlargli schiettamente. “Sei diverso. E non è solo il fatto che tu sia qui a ridere e scherzare come non facevi più da un sacco … è che sembri assente, come troppo preso da un qualche tipo di pensiero. E l’ultima volta che ti ho visto eri così terrorizzato dalla tua mancanza di scopi che non osavi nemmeno perderti nei tuoi pensieri. Cos’è cambiato?”

E a Takeru non restò che chiedersi se fosse lui troppo chiaro in ciò che pensava, Yamato troppo arguto o la sua situazione troppo speciale per essere nascosta.

Eppure, era tutta lì la questione. Anche lui si sentiva diverso, forse troppo.

Forse non si era mai sentito così diverso.

Si fece serio, e annuì piano. “Credo di essere io”, rispose.

La preoccupazione di Yamato non era mai troppo palese, eppure socchiudeva lievemente gli occhi quando succedeva. Come accadde in quel momento. “Di cosa vuoi parlarmi, Takeru?”

Non poteva biasimarlo, se la sua chiamata lo aveva messo sull’attenti. Visto il suo atteggiamento passivo degli ultimi tempi, cosa ci si poteva aspettare dall’irrequieto, frustrato Takaishi Takeru, che aveva visto da sé di essersi perduto e non aveva fatto nulla per cambiare le cose?

Sorrise, perché non si trattava più soltanto dei capricci di un bambino egocentrico. C’era molto di più in ballo.

Prese un respiro profondo, per farsi forza. “L’orfanotrofio Yagami”, dichiarò in fretta, sentendosi inspiegabilmente avvinto dalla sua stessa emozione. “Ne hai mai sentito parlare?”

E mai aveva sorpreso Yamato più di quel momento. Spiazzato, rimase a fissarlo a bocca semiaperta, come volesse comprendere dove voleva arrivare. “Yagami, dici?”, fece dubbioso, preferendo seguire il filo del discorso per lasciare che fosse lui a spiegargli tutto in seguito. “Non era quella famiglia che si sottopose a maldicenze di ogni genere pur di aprire quell’orfanotrofio quasi fuori città?”

Maldicenze di ogni genere.

Quel pensiero gli fece abbassare il capo, imbarazzato. Aveva passato gli ultimi anni a cercare qualcosa che non esisteva né sarebbe mai esistito, mentre Hikari e la sua famiglia venivano tacciati di moralismo, talvolta accusati di empietà irripetibili, talvolta semplicemente ignorati.

Quanto poteva essere impari il paragone tra loro? Quale ingiustizia aveva dato tanto a lui, e poco a loro, quando lui non aveva saputo vedere ciò che aveva e loro avrebbero dato chissà quanto per ricevere tutto ciò in dono?

“Allora lo conosci”, disse, giocherellando con il suo tovagliolo, e lo sguardo di Yamato ancora cercava di sondare le sue emozioni. “Io non ne sapevo niente, invece. Ed è buffo, davvero buffo, dato che adesso non riesco a pensare ad altro.”

“Davvero?”

Interdetto, e confuso, Yamato sembrava aver perso l’uso della parola, che già lui usava abbastanza raramente. Appariva come una scena comica, ad occhio esterno.

I dubbi che lo stavano assillando resero impetuoso il suo parlare, spingendolo a condividere la sua incertezza con la persona che più gli era stato vicino in tutti quegli anni. “E’ che ho conosciuto la figlia minore della famiglia, che sta mandando avanti il progetto con poche altre persone … Yagami Hikari. E’ una mia coetanea, sai? Ci si aspetterebbe che studi, o almeno che lavori, invece vive in totale funzione dei suoi orfani. E’ assolutamente instancabile, ed è assurdo, ma il suo sorriso è davvero capace di … scuoterti dentro, ecco. Non credo ci sia nessuna capace di fare una cosa del genere.”

Probabilmente avrebbe continuato ancora a sproloquiare senza nesso logico, se Yamato non lo avesse interrotto. “E come mai è importante che tu l’abbia conosciuta?”

E quella singola frase fu capace di mandarlo in confusione per un istante.

Già, perché?

Restò smarrito a fissare gli occhi di suo fratello, immobile, finché lo stupore non fu passato, e la piena consapevolezza di cosa sentisse da qualche giorno non lo spinse a parlare di nuovo.

Si passò una mano tra i capelli, incapace di reggere lo sguardo dell’altro in quel momento.

“Che tu ci creda o no, il suo sorriso mi ha davvero … scosso. E, non so come, sono così scosso che da solo non riesco a capire come comportarmi adesso.”

***

“Sei la solita esibizionista, Rumiko-chan. Svenire in corridoio è stato davvero un tocco di genio, devo riconoscerlo.”

Infagottata nelle le coperte, dietro la schiena due cuscini a sorreggerla, Miyako si accigliò, pur troppo stremata per sollevarsi almeno un po’e riconoscere ciò che Satsu le aveva appena portato dalla cucina. “Non sono affatto svenuta. Ho avuto solo un momento di vertigine, tutto qui!”

“Una vertigine esibizionista, allora.”

Satsu rise, prendendo una sedia e accomodandosi accanto al letto. Tra le mani reggeva una ciotola fumante, che aveva tutta l’aria di essere una porzione di riso. “Avanti, malatina. Ti fa bene mangiare qualcosa, no? Sei a stomaco vuoto da un giorno intero.”

Miyako osservò il riso –era davvero tutto per lei?-, e un moto di nausea la scosse. Voltò la testa, intestardendosi. “Non ne ho voglia, Satsu-chan. Mangio più tardi, ok?”

Satsu la osservò pazientemente. “Sapevo che lo avresti detto”, puntualizzò con un sorrisetto. “Ma sappi che continuerò a porgerti questo boccone finché non deciderai di mangiarlo.”

“Quindi, fino a domani mattina”, la provocò Miyako, osservandola con aria di sfida.

E Satsu alzò le spalle, prendendo un po’ di riso con le bacchette e porgendoglielo. “Splendido. Ma se mi cadrà il riso sul copriletto, qui ci dormi tu, sai?”

Questo era un ricatto bello e buono.

In altri tempi, probabilmente Miyako avrebbe protestato, si sarebbe alzata barcollando dal letto sostenendo che avrebbe dormito sul tappeto piuttosto che sottostare alla sua tirannia.

Eppure, non aveva la forza per opporsi, non stavolta.

Sbuffò, rassegnandosi, e aprì la bocca. Satsu la imboccò, soddisfatta, e Miyako dovette lottare contro la ribellione del suo stomaco, prendendo a masticare piano.

Non le era mai piaciuto il riso in bianco: non aveva alcun sapore. E siccome non le piaceva, ed era costretta a mangiarne quando non stava bene, quel piatto le aveva sempre ricordato la quantità di cose che non avrebbe potuto fare perché costretta a letto.

Strano come le cose fossero cambiate. Ora alcune cose le erano precluse anche quando era sana come un pesce.

Eppure ora riusciva a vedere con maggiore chiarezza quanto gli altri facessero per lei.

Mentre Satsu continuava silenziosamente ad imboccarla –come una bambina, come quel bambino che avrebbe voluto imboccare lei-, Miyako si concentrava su quanto le sembrasse più buono, quel riso in bianco, perché significava cura, e attenzione, e il fatto che non era sola. Era sorpresa di sentirsi fortunata, in momenti come quello.

Ingoiando un boccone tiepido, Miyako sorrise, tremendamente grata. “Sei un tesoro, Satsu-chan”, le disse, cogliendo il suo sguardo perplesso. “Non fossi una ragazza e la mia migliore amica, ti sposerei seduta stante.”

“Oh. Beh, onorata, ma mi dispiace deluderti: sono una ragazza e sono la tua migliore amica”, fece lei, alzando gli occhi al cielo con espressione serena. “E ho già un futuro come single che alleva gatti … ovvero Haku e i suoi futuri cuccioli, se mai ce ne saranno.”

Sul punto di prendere, controvoglia, un altro boccone, Miyako si fermò, colta di nuovo dalla stranezza della sua vicenda.

Possibile che non avesse mai analizzato la sua vita sotto quell’ottica, che l’aveva illuminata e gettata nello sconforto più nero all’improvviso?

Osservò Satsu, lucida abbastanza dalla febbre per fare un discorso più o meno logico. “Satsu-chan, se avessi voluto anche io un futuro come single che alleva gattini, sarebbe stato mille volte migliore, la mia vita. E anche quella degli altri.”

E, tanto per cambiare, lei non la prese sul serio.

“Deliri? Eppure non mi sembrava che avessi tanta febbre!”, esclamò con le sopracciglia aggrottate, tastandole la fronte. “Infatti, non scotti molto …”

Miyako sospirò, disperata, allontanando la mano di Satsu. “Sono seria! Giuro!” Dovette fissare negli occhi scettici della sua amica per qualche minuto buono, prima di riuscire a convincerla. “Guarda, mi sono sempre messa nei guai, ogni volta che sono stata innamorata. Cosa credi sarebbe successo se lo avessi rifiutato perché non interessata? Non sarei stata madre ed egoista, tanto per cominciare. E non avrei avuto un figlio che mi manca a tal punto che a volte mi sembra di sentire il suo pianto nelle orecchie …”

Il ricordo la fece ammutolire per qualche istante, senza fiato. Keiji-chan. Mio Keiji-chan …

“E Keiji-chan non sarebbe stato abbandonato dalla sottoscritta!” Riprese, fuori di sé. “E non dimentichiamoci che avrei la mia famiglia, i miei amici … la mia vita ancora qui. E tu e Iori-kun non sareste costretti a sacrificarvi fino al limite imposto dalla legge. Lo vedi, Satsu-chan? E’ uno strazio. Sono uno strazio. E io credo di essere malata d’amore.”

Si appoggiò pesantemente contro i cuscini, con una smorfia di dolore per la sua testa, che lamentava l’impatto. “E ci voleva proprio anche la malattia fisica. Dannazione! Non ne posso più, davvero non ne posso più.”

“Frena, frena”, la interruppe Satsu, interdetta. “Che intendi per malata d’amore?”

L’amore, la mia rovina.

 “Credo sia questo: m’innamoro sempre nel modo sbagliato, nel momento sbagliato, della persona sbagliata.” Esclamò Miyako, gesticolando per la frustrazione. “E le conseguenze sono sempre sbagliate. Ma sai qual è la cosa più triste? Che non riesco mai ad uscirne del tutto. Sto ancora vivendo le conseguenze della mia fuga sconsiderata con quel ragazzo indegno, e chissà quali conseguenze ci saranno adesso se …”

Si interruppe, e come un lampo rivide quegli occhi azzurri così strani nella mente. Il senso di colpa quasi esplose dentro di lei.

“Non è necessario che tu mi spieghi ogni cosa, se non vuoi. Te l’ho detto, non voglio forzarti.”

Non sei tu a forzarmi. Sono io a farlo, per impedirmi di dirti di sì ogni volta.

Abbassò il capo, come sconfitta, e ascoltò il ticchettio dell’orologio affisso alla parete.

“Mi dispiace tantissimo, Ken-kun.”

“Grazie e basta, Rumiko-san.”

Che incontro impari, il nostro.

Finché Satsu non le prese la mano gelida, e non la strinse. “Ha un nome, il motivo del tuo turbamento?” Le chiese, sorridendole ammiccante. “Deve essere davvero un genio, se, dopo la tua scorsa esperienza, è riuscito di nuovo a scombussolarti tanto.”

E Miyako vide, sorpresa, che Satsu non vedeva quest’angoscia come un sintomo di una malattia. Ne era quasi sollevata, sembrava appoggiarla.

Forse era la prima volta che accadeva una cosa del genere. Con lui, nessuno aveva mai approvato la sua scelta. Nessuno, tranne lui stesso, e lei.

Miyako sentì un groppo in gola quasi soffocarla, e sentì che qualcosa si era sbloccato.

Sentì che si fidava di lei.

“Ken”, disse, a voce malferma. “Si chiama Ken.”

***

Yamato non lo interruppe mai, mentre ascoltava il suo racconto.

Nemmeno quando, a disagio, gli parlò dei primi giorni in cui li spiava come un parassita, desiderando di essere come loro. Nemmeno quando, in imbarazzo profondo, balbettava del primo incontro con Hikari, del fatto che l’avesse subito fatto sentire a suo agio, quasi a casa.

Nemmeno quando Takeru fu costretto a tacere, dopo qualche frammentario tentativo di spiegargli cosa sentisse per quella ragazza, cos’avesse provato quando l’aveva vista piangere in quella stanza buia, cosa quando gli aveva raccontato dell’orfanotrofio. Nemmeno quando ammise che non sapeva cosa lo avesse spinto, in quel momento e dopo quel discorso, a parlare con Yamato.

“Credo sia questione di … ricambiare quello che hanno fatto per me”, tentò, passandosi una mano tra i capelli. “Non ho mai fatto nulla per loro, mentre loro mi vogliono bene, e mi sembra inammissibile. Credo sia questo.”

Solo allora, alzando le sopracciglia, Yamato si decise a parlare. “Se fosse così, la situazione non sarebbe diversa da quella di quest’inverno, Takeru”, replicò, appoggiando il peso della testa sulla mano. “Sarebbe solo un’altra fuga dalla tua insoddisfazione.”

Takeru sgranò gli occhi, stupefatto. Quella spiegazione lo aveva accompagnato per tutto il giorno, e gli era sembrata sensata, assolutamente priva di pecche. Non era logico cercare di ricambiare il favore, visto che ogni volta che pensava all’orfanotrofio e ai suoi abitanti provava un enorme senso di gratitudine?

Eppure, effettivamente non aveva senso. Messa così sembrava ciò che lo spingeva a seguire Daisuke nelle sue bravate: quella era una cosa che faceva solo per gratitudine nei suoi confronti, perché gli voleva bene.

Ma non poteva paragonare l’orfanotrofio, Hikari, a Daisuke. Non sarebbe tornato a Osaka se fosse stato così, non con tanto bisogno di decidere della sua vita.

Aggrottò le sopracciglia, cercando di spiegarsi. “No, non è così. E’ … “ Ripensò ai visi dei bambini, agli abbracci di Naoko ogni volta che lo vedeva, agli occhi brillanti di Hikari mentre lo osservava parlare con loro. “E’ che mi sento sempre pieno di calore, ogni volta che vado lì. Sembra quasi sul punto di scoppiare dentro di me, ad un certo punto, ma … non scoppia, resta come bloccato lì senza trovare vie di fuga. Loro non ricevono calore da me, e sarebbe bellissimo che lo facessero. Perché tutti lì mi vogliono bene … Perché voglio bene loro anche io. Sto bene con loro a prescindere della mia insoddisfazione. E vorrei che io e Hikari-chan fossimo alla pari, vorrei … donarle calore. Come lei ne dona a me.”

Tacque, agitandosi a disagio sulla sedia. Era strano, davvero strano parlare di Hikari davanti a Yamato, sentirsi così esposto nel rivelargli quei sentimenti confusi.

E attese, trepidante, un commento a ciò che sentiva mettere radici sempre più dentro di lui, ogni ora che passava.

“Beh, questo è inaspettato.” Disse infine Yamato.

Takeru sollevò il capo, cogliendo il sorrisetto di suo fratello. “Inaspettato … cosa?”

Lui alzò le spalle, mentre il sorriso si allargava. “Sei in imbarazzo.”

L’averlo messo in risalto non fece che incrementare l’imbarazzo. Takeru sbuffò, rifuggendo il suo sguardo per non mostrargli il rossore. “Piantala di prendermi in giro, lo so anch’io che è una situazione strana.”

Yamato ridacchiò, osservandolo con aria curiosa. “Io credo di aver svelato il mistero, invece.” Fece, ma non gli lasciò il tempo di chiedergli, provocatoriamente, di cosa si trattasse: alzò una mano, chiedendogli di aspettare. “Ti sei mai chiesto cosa sarebbe successo se non l’avessi vista piangere? Se non avessi saputo della crisi dell’orfanotrofio? Ti saresti interessato così tanto alla loro situazione?”

Takeru annuì, serio. Si aspettava la domanda, era stata la prima cosa a cui aveva pensato.

“Me lo sono chiesto. E mi sono risposto, anche. Esattamente non lo so: probabilmente avrei sperperato il dono che mi era stato fatto, non avrei dato importanza a Hikari-chan e agli altri. Chissà, magari non avrei aperto gli occhi su quanto mi abbiano cambiato. Eppure … quelle lacrime mi hanno mostrato una realtà tremenda: loro rischiano di chiudere tutto e di abbandonare i bambini. Chi reggerebbe un peso simile?”

E quando ebbe fissato Yamato negli occhi, pieno di forza, si rese conto di star rivelando quelle cose prima a se stesso, come se le ascoltasse per la prima volta. “Io, stanco di tutto com’ero, non ce l’avrei fatta di certo. Loro sì. E sai perché? Perché hanno scoperto la bellezza dell’amare, dell’aiutare, della vita stessa. Vedono speranza in ogni cosa che li circonda, e confidano nelle loro forze. Hanno il coraggio di osare credendo nella luce dei bambini. Non è l’invidia a farmi parlare, quando penso e dico che io avrei ceduto, perché io ho vissuto da codardo fino ad ora. Ho passato questi anni a guardare con pessimismo ciò che avevo davanti agli occhi. E ho rischiato di non vedere mai la bellezza di queste persone.”

“Il loro coraggio ti ha scosso, quindi.” Commentò l’altro, e gli sembrò che lo osservasse con occhi nuovi, pieni di consapevolezza. Gli sembrò che fosse soddisfatto.

“Sì. Mi è parso, ad un tratto, di risvegliarmi da un sogno. La mia malinconia ha rischiato di portarmi alla deriva, il mio egoismo mi ha stressato abbastanza. Voglio vivere davvero, e voglio lottare per un sogno con loro … con lei. Stare loro accanto è tutto ciò che voglio.”

Yamato gli mise una mano sulla spalla, stringendogliela pieno di calore. “Sai da quanto non desideri più qualcosa, Takeru?” Gli chiese, e il lampo d’affetto nei suoi occhi fu così contagioso che Takeru ricambiò il sorriso.

“Merito di Hikari-chan”, rispose semplicemente. Poi fece una smorfia, con aria colpevole. “Scusa per essere stato un idiota fino ad ora.”

Yamato scosse la testa, e, con suo stupore, vide il suo viso incupirsi. “Sono io a dovermi scusare con te”, ammise. “Avrei dovuto essere più presente, avrei dovuto farmi sentire più spesso. Avrei dovuto essere più chiaro nei miei consigli. Ma volevo che tu capissi da solo che strada prendere, perché se ti avessi guidato io forse non avresti trovato qualcosa in cui credere davvero.”

E, ancora più sorpreso, Takeru comprese di averlo perdonato da tanto, perché in fondo aveva sempre saputo che le cose non avrebbero potuto essere altrimenti. “Ehi, va tutto bene. Davvero.”

E gli sorrise, rassicurante, finché Yamato, incerto, non ricambiò.

“Piuttosto, cos’hai intenzione di fare con l’orfanotrofio?” Chiese infine il maggiore, versandosi ancora un po’ d’acqua nel bicchiere e sorseggiandola. “Come vuoi lottare?”

Takeru sbuffò, mettendo da parte il tovagliolo di carta. “Qui sta il punto. Non ne ho la minima idea. Certo, Hikari-chan e gli altri lavorano a turno, anche duramente, ma non basta. I bambini aumentano sempre più, le risorse diminuiscono … se mi mettessi a lavorare anche io la situazione non cambierebbe poi di molto.”

Yamato annuì, pensieroso. “Effettivamente non hai nemmeno una laurea … i lavori a cui potresti aspirare renderebbero poco.”

Eppure dev’esserci un modo. Si massaggiò le tempie, tentando disperatamente di riflettere. Era pronto a scommettere che ormai le avessero provate tutte: ragazzi come loro non si sarebbero lasciati abbattere da una sciocchezza, il problema doveva essere davvero serio. Come si poteva dare un contributo cospicuo, e al contempo crescere i bambini al meglio?

Stava ancora riflettendo disperatamente, quando il cameriere arrivò e portò via le ciotole vuote, che Takeru stava osservando con aria vacua da un po’. Distolta l’attenzione dai suoi pensieri, non fu piacevole scoprire che non era arrivato a nessuna soluzione.

“Ci vorrebbe un miracolo, Yamato. Davvero, non so che proporre.” Si arrese, alzando le spalle rassegnato. “Ci dovrò riflettere con calma. Magari nel viaggio di ritorno, o …”

“… O magari dovresti discuterne prima con Hikari e gli altri.”

Takeru lo guardò con aria vacua. “Che potrei dire loro? Non ho alcuna soluzione. Contavo di parlare con loro se avessi avuto qualcosa da suggerire, qualcosa di utile.”

Yamato stette in silenzio per qualche istante, e il minore ebbe la sensazione che chiamare ancora il cameriere e chiedere il conto fosse solo un pretesto per riflettere bene su ciò che desiderava dirgli. Fremette, in attesa.

Infine, Yamato si rilassò sulla sedia, guardandolo di sfuggita. Un sorriso storto comparve sulle sue labbra. “Non ti capisco, Takeru. Mi hai detto fino a questo momento in che modo ti senti cambiato, e ciò che potresti dire loro, con una precisione quasi totale … tranne quando parlavi di Hikari.” Disse, incurante dell’occhiata quasi stralunata del suo interlocutore. “Credi davvero di aver bisogno che io ti suggerisca il copione, quando lo conosci meglio di me?”

Fece uno strano effetto, afferrare il senso delle parole del maggiore. Come se non si fosse mai osservato a fondo, come se avesse sempre cercato le risposte altrove senza provare a leggere il suo animo, cosa vi si nascondeva all’interno.

Perché era andato a Osaka? Credeva davvero avrebbe seguito ciecamente le parole di Yamato? Credeva davvero che, per prendere una decisione, fosse necessario l’appoggio di qualcuno?

Lui, le risposte, ce le aveva già. Non c’era niente e nessuno che potesse impedirgli di seguire la strada che voleva.

Nessuno, nemmeno Yamato, avrebbe potuto dirgli cosa fare. Se anche Yamato gli avesse consigliato di abbandonare l’orfanotrofio – di non vedere più Hikari-, lui ci sarebbe tornato ugualmente. Doveva. Lo voleva.

Era solo lui a decidere, e se l’era dimenticato.

“Lo credevo”, ammise, turbato dalla coscienza di sé che aveva appena avuto. “E l’ho creduto per tanto tempo … non ricordo nemmeno da quanto.”

Un sollievo immenso lo invase, così, senza motivo. Si sentiva più libero. Si sentiva bene.

Rise. “Se non me l’avessi detto tu, chissà quanto ci avrei messo a capire. Ma hai ragione … loro si meritano sincerità, non battute prestabilite. E …”

Si interruppe, ma non per osservare il  viso di Yamato. Per ripetere tra sé, come un mantra, la fine della frase.

“E coraggio. Coraggio di trarre più bene possibile da se stessi.”

Yamato ridacchiò. “Bentornato tra noi, vecchio Takeru.”

Vecchio Takeru.

Che strano. Eppure si sentiva anche un Nuovo Takeru.

“Grazie”, fece lui, e probabilmente la sua occhiata lo ringraziava mille volte di più.

Pagarono il conto, accompagnati dalla sua emozione, da un improvviso accesso di adrenalina che rendeva irrequieti i suoi movimenti. Andarono via dal ristorante, e Takeru seppe che doveva andar via da Osaka: doveva tornare, e subito, perché doveva sistemare le cose.

Tornare da loro, dai sorrisi, da lei, da se stesso.

“Bentornato tra noi.”

Camminavano ancora, persi nei propri pensieri, finché Yamato non parlò ancora.

“Non m’illudo che resterai ancora qui”, fece, e si fermò. “Quando partirai?”

Era straordinario quanto per gli altri fosse semplice comprenderlo. Lui, e Hikari, ci riuscivano in un istante.

“Al più presto. Domani mattina, credo.” Sorrise, con aria di scusa, ma Yamato non sembrava arrabbiato. Tutt’altro: anche lui era tornato ad essere quel Yamato che conosceva, tutto d’un colpo. “Torna tu a Tokyo appena puoi, magari. Mi piacerebbe presentarti a tutti.”

Yamato gli scompigliò i capelli, e solo quando Takeru si ritrasse con un Ehi! di protesta, in imbarazzo, si ricordò che era da quando era piccolo che non vedeva più certi gesti. Troppo tempo che non siamo più bambini. “Naturale. Ci tengo a vedere quanto coraggio avrai, e quanto bene da te stesso tirerai fuori.”

Un modo come un altro, quello, per mostrargli che approvava.

Rise, alzando gli occhi al cielo, e distrattamente ne osservò l’azzurro intenso, e le nuvole che lo attraversavano. La sicurezza e la gioia rendevano tutto più speciale, più bello.

“Non per rovinarti la sorpresa, Yamato, ma posso anticiparti una cosa”, replicò. “Darò niente di più di ciò che ho. Tutto ciò che ho.”

***

“Allora, vediamo se ho capito.”

Miyako era tornata a seppellirsi quasi completamente sotto le coperte, stremata dal racconto quasi sconnesso che aveva appena finito di sciorinare. Si era sentita meglio dopo aver condiviso quel flusso confuso di pensieri e timori con la sua amica, ma adesso non era sicura di aver totalmente abbandonato la preoccupazione, non con Satsu ancora accanto al tavolino, e ancora intenta a rigirarsi tra le mani quel post-it.

“C’è un certo Ken –di cui non vuoi dirmi il cognome- che ti stressa, che pare vivere in libreria e per il quale hai sviluppato una sorta di sentimento di attrazione-repulsione”, iniziò ad enunciare la giovane dai capelli castani, con un sorriso furbo che non faceva che allargarsi mentre parlava. Miyako fece una smorfia. Disgraziata, ridi pure delle mie sofferenze. “Eppure i suoi modi ti piacciono. Ti piacciono così tanto che hai accettato di uscire con lui, cosa che, se ben ricordo, non era successa con quell’altro ragazzo … Come si chiamava?”

 “Oh … Hiroyuki”, rispose Miyako sorpresa, rendendosi conto di aver quasi dimenticato quell’episodio della sua vita, presa com’era da altro. Poi sbuffò. “Ma non c’entra nulla, Satsu-chan. Lui aveva uno sguardo che non mi piaceva, sembrava fosse sicuro che lo avrei amato alla follia.”

Satsu scosse la testa, in totale disapprovazione. “Ora sei ingiusta. Aveva solo lo sguardo di chi è cotto di te e spera di essere ricambiato da una sciocca che si ritiene malata d’amore.”

 “Io non mi ritengo malata, io lo sono. Ne ho le prove!” Replicò Miyako testarda, ma non poté contestare le parole dell’amica: in cuor suo sapeva che aveva ragione.

Se lo ricordava, Hiroyuki. Era uno studente universitario dall’aria spontanea che veniva spesso a comprare volumi nella sua libreria. E ricordava anche i suoi impacciati approcci sentimentali nei suoi confronti. Parlare con lui era piacevole, anche molto, ma Miyako non aveva mai sentito –né voluto sentire- il bisogno di approfondire il loro rapporto.

Glielo aveva detto dopo qualche tempo, il più diretta possibile: non aveva mai sopportato i luoghi comuni. Mi dispiace, e credimi, mi dispiace davvero –non mi va di impegnarmi sentimentalmente. So che dovrei darti una spiegazione plausibile, ma non ne ho … e non riesco a trovarne. Ho solo bisogno di tranquillità, adesso. E aveva persino reclinato l’offerta di provarci: da quel punto di vista era sempre stata categorica. Per lei contava tantissimo il primo approccio con la persona, e se non accadeva niente allora, il rapporto era solo d’amicizia. Non le andava di confondere la passione con il rispetto e il timore di ferire, non faceva per lei.

Da allora, Hiroyuki si era cercato un’altra libreria. E Miyako non lo aveva mai biasimato per questa scelta: lo avrebbe fatto anche lei al suo posto.

Satsu rise, esasperata. “D’accordo, come preferisci. Dicevo, hai accettato di uscire con questo Ken, cercando fino all’ultimo di reprimere il tuo desiderio di incontrarlo … Ma tu che reprimi qualcosa è un’utopia. Comunque, lui è stato carino con te, non ha preteso troppo da te, ti ha raccontato qualcosa di sé come se non aspettasse altro, e tu, tuo malgrado, ti sei resa conto di essere più aperta con lui. Mi sbaglio?”

Miyako annuì vigorosamente, mentre un’espressione sconsolata tornava ad affiorare sul suo viso. Suo malgrado. Tutto quello succedeva suo malgrado, e lei non poteva evitarlo.

“Quindi ti ha riaccompagnata a casa –solo più tardi ti saresti pentita angosciosamente di avergli mostrato dove abiti-, e prima di andare, impacciato, ti ha dato questo bigliettino ...” Satsu lo sollevò, chiaramente dimenticandosi che a quella distanza le era impossibile scorgere la grafia di Ken senza lenti, già di per sé stretta e incomprensibile. “… dove c’è il suo numero di cellulare. Ti ha invitato a chiamarlo, se avevi bisogno, per qualsiasi motivo. E ha aggiunto che non voleva avere il tuo, perché sapeva che non glielo avresti dato, e in ogni caso voleva ancora darti la possibilità di scegliere se buttare il foglio o usarlo. Tutto questo lo ha detto balbettando adorabilmente.”

Miyako sussultò, finendo per tossire selvaggiamente, e arrossì di colpo. “Ehi, non lo conosci nemmeno: come fai a dire che è adorabile?” La riprese, fulminandola con lo sguardo.

Lei, da parte sua, fece spallucce. “Non ti sei accorta di aver commentato così la scena?” Disse candidamente. Miyako sgranò gli occhi, mordendosi l’interno guancia.

“… Mi sa che hai ragione”, disse, sconvolta. Tanto presa dal suo sproloquio che nemmeno se n’era accorta, eppure lo pensava sul serio. Lo pensava ogni volta che lo vedeva imbarazzato, che era adorabile. Si seppellì sotto le coperte, con aria disperata. “Voglio morire, Satsu-chan. Perché parlo senza accorgermene?”

“Perché la Rumiko-chan che conosco lo faceva sempre. E adesso vuole dimenticarlo.”

Miyako emerse dalla coperta, interdetta. Il tono di Satsu si era fatto serio all’improvviso, inspiegabilmente: era come se in quella frase fosse racchiuso un significato più profondo.

“Dici la Rumiko-chan che conosco” ripeté lentamente, aggrottando le sopracciglia. “Come se adesso non mi conoscessi più. Io sono sempre io, lo sai. Perché-”

“Certe volte stento a riconoscerti.”

Lo aveva detto tutto d’un fiato, osservandola negli occhi quasi con solennità. A Miyako mancò il fiato, per un istante. “C-cosa?” Balbettò, incredula.

Satsu sospirò, prendendo ad attorcigliarsi una ciocca di capelli castani intorno al dito. “Non so come spiegartelo. Se fosse solo un travestimento esterno –parrucca, nome diverso, lenti e tutto il resto-, potrebbe anche starmi bene, perché è quello che vuoi. Ma tu ti nascondi anche a te stessa, Rumiko-chan, e se tu non ti riconosci più non posso certo farlo io, che non sono nella tua testa.”

Le fece male, ascoltare quelle parole. Era una persona diversa, quella che vedevano Satsu, o Iori? Era da tempo che lei sospettava di essere cambiata, forse anche troppo, ma non aveva idea che la cosa fosse certa, e visibile. D’altronde, se poteva, preferiva evitare di esaminarsi. Finiva solo per andare in confusione.

Profondamente amareggiata, si voltò verso la finestra, e sospirò. “Non l’ho mai voluto”, mormorò. “Non lo voglio neanche ora. Eppure … mi sto perdendo davvero?”

Aveva paura, paura di non sapere cosa fare. Paura di cadere nel panico, come poco prima.

“Io credo che tu ti stia ritrovando, invece.”

Smarrita, Miyako si voltò di scatto verso Satsu, e vide che sorrideva ancora. “Come sarebbe? Se poco fa hai detto il contrario …”, obiettò.

Satsu si avvicinò al suo letto, sedendosi sul materasso ai piedi del letto. “Lo so, ma questo avveniva prima di conoscere questo Ken”, fece semplicemente, e la spiazzò. “Guarda: da quando lo conosci hai ripreso ad agire d’istinto, hai accettato un appuntamento, non riesci a reprimere questo sentimento con quella razionalità che ti sei imposta di avere quando hai indossato la parrucca nera di Rumiko. A me sembra che la mia amica stia cercando disperatamente di protestare, lì dietro.”

Ansia e turbamento si agitarono violentemente dentro di lei, e la nausea la sopraffece. “Non è un bene, riprendere ad agire d’istinto”, protestò rabbiosamente, il capo chino sul copriletto e la voce incrinata. Era una bambina sciocca: se Keiji fosse stata lì con lei, in quel momento, avrebbe riso di lei. Non era matura, non era nemmeno una mamma. “Ho perso tutto, agendo d’istinto. Sono andata contro tutti per amore, e l’amore è istinto. Io non posso, io – non posso.”

“Rumiko-chan, guardami.” La costrinse a sollevare il capo, e guardarla, mentre lei tratteneva le lacrime. “Puoi convincerti di poter sopprimere alcuni lati del tuo carattere, ma non puoi. Nessuno può: tu sei quella persona, e non puoi essere nessun’altra. Non vuoi esserlo.”

“Ma l’ultima volta, io …” Tentò Miyako, tremando, ma Satsu sbuffò.

“L’ultima volta, per istinto, hai rinunciato a te stessa. Stavolta sta accadendo il contrario. Non puoi prevedere come andrà a finire, ma temere il tuo istinto è inutile, e ti ucciderà. Se provi così intensamente questo sentimento, allora vivilo: ti sfido a impedire al tuo cuore di accelerare così tanto i battiti, ma so già come finirà.”

L’amore viene ad ogni età, Iori-kun! Potresti innamorarti anche adesso! E’ per questo che devi sempre stare attento a quando verrà a farti battere il cuore.

Miyako la guardò, straziata. Ascoltarla, crederci, sarebbe stato bellissimo … ma solo lei sapeva. Sapeva che il suo cuore batteva all’impazzata, e che non poteva farci nulla. Sapeva che lei si nascondeva, che lui la cercava, e sapeva che Rumiko non era mai esistita: conosceva il suo nome, quello vero. Sapeva che non poteva credere a quelle parole.

E Satsu, all’improvviso, le prese le mani, le tolse la coperta, e cominciò a tirarla piano. “Cerca di alzarti, per favore. Ti tengo io.”

Miyako obbedì, troppo sconvolta per poter protestare, la parrucca nera che, scomposta, le cadeva sugli occhi da ogni parte. Si appoggiò all’amica mentre la conduceva verso l’estremità opposta della stanza, e la vide aprire l’armadio, e porla davanti allo specchio.

E mentre Miyako stentava ancora a capire cosa fosse successo, osservando la sua immagine provata nello specchio, vide la sua parrucca venir sfilata via di colpo.

Una cascata di capelli viola le cadde sulle spalle, prepotente, e lei si ritrasse immediatamente, voltandosi verso Satsu.

“Cosa fai? La mia parrucca …” Esclamò, tentando di riprenderla dalle sue mani. Ma Satsu la lanciò sul letto, lontana da lei, e la guardò negli occhi.

“Non puoi specchiarti con quella, Rumiko-chan.” Fece.

La rabbia la invase all’istante. “Io non voglio specchiarmi senza quella!” Strillò, e il dolore alla gola fu così intenso che tossì fino a lacrimare. Sorretta da Satsu, piegata in due, Miyako si ritrovò scossa da nuovi singhiozzi. “Non voglio guardarmi …”

Satsu la abbracciò forte. “E’ per questo che quella copertura ti sta facendo male, lo vedi? Ti scordi di avere un dovere morale verso quella ragazza dai capelli viola che tu stai soffocando. Ma guardala negli occhi, per una volta.”

“Non voglio.”

“Ti prego, provaci. Ti prego.”

Continuò a pregarla, ignorò il fatto che continuasse a scuotere la testa, e a piangere, finché Miyako non fu costretta ad accontentarla. Tremò ancora, sollevò il busto, il capo, e tentò di fissare lo sguardo sulla sua figura.

Terribilmente colpevole, gli occhi rossi e gonfi, il pigiama troppo largo, i capelli viola spettinati e pieni di nodi, questa era l’immagine che la faceva avvampare, che le dava dolore. Era questa la Miyako che non voleva vedere: dilaniata da un passato che avrebbe voluto cambiare e un presente che non riusciva a dominare.

Pianse silenziosamente, provando pietà per quella visione.

“Ti fai del male, Miyako-chan”, le sussurrò Satsu, e Miyako sussultò, non abituata a sentirsi chiamare per nome. “Ti nascondi come una ladra, e ti fai del male. Ignori i tuoi bisogni, e ti fai del male. E quest’immagine non vuoi mai vederla, perché ti vuoi illudere di star bene così, lasciando che Rumiko prenda il sopravvento. Ma se Ken è riuscito a scuotere Miyako, allora lascia che ti veda. Abbi il coraggio di difendere Inoue Miyako.”

Miyako smise di piangere, contemplando il suo viso arrossato e sorpreso. “Non vorrai che smetta i panni di Rumiko davanti a Ken-kun”, fece.

Satsu fece un sorriso. “Non ti nascondo che lo vorrei. Ma … No, se vuoi continuare a nasconderti”, rispose, schietta. “Voglio solo che tu faccia ciò che la più vera parte di te vorrebbe. Assecondala, quando sei con Ken. E poi decidi se hai voglia di tornare ad essere Miyako in tutto e per tutto.”

Non può dire sul serio.

“Satsu-chan, no. Non posso … non voglio. Non potrei  mai pensarci.”

“Che motivo hai di nasconderti, comunque?”

La domanda la colpì violentemente, e la sua immagine riflessa sembrava boccheggiare. Perché lo faceva? Per gli altri, per Ken, per se stessa …?

Se gli Ichijouji l’avessero trovata, lei non sarebbe stata incarcerata: non aveva ucciso nessuno. Non era del carcere che aveva paura. Aveva paura di se stessa, del dolore che aveva inflitto agli altri, di non avere più un posto per lei, lontana da tutti, sola col suo passato e senza un futuro, senza un figlio.

Non ne aveva il coraggio.

Eppure …

Satsu le strinse le spalle, con affetto. “Pensaci, ok? E lasciati andare.” Poi la lasciò, e per qualche miracolo Miyako trovò la forza di reggersi in piedi. “Vado un attimo in cucina, ti aiuto a mettere a posto il pranzo e tutto il resto.”

E in un attimo, c’era solo lei nello specchio. Lei e il suo sguardo diffidente.

Aveva mentito a Satsu: ci aveva pensato eccome, al presentarsi a Ken così com’era.

Sarebbe stato bello sapere se i suoi occhi azzurri avrebbero trovato qualcosa di bello in Inoue Miyako, e non solo in Miyazawa Rumiko. Sarebbe stato bello non doversi sempre fermare la parrucca coi ferretti, per far sì che nemmeno il vento più impetuoso potesse rivelare ciocche viola. Sarebbe stato bello se la sua immagine, le sue azioni, fossero state altrettanto sincere, altrettanto spontanee, com’erano l’immagine e le azioni di Ken.

Se l’avesse fatto … Se solo avesse potuto …

Miyako si voltò, sfuggendo infine al riflesso nello specchio. Barcollando, si diresse verso la scrivania, verso quel post-it. Lo prese tra le mani, lesse e rilesse quelle cifre.

“Non farti nessun tipo di problema, se vorrai … beh, se deciderai di chiamarmi. Qualunque ora andrà bene.” Così le aveva detto, inchiodandola con l’intensità della sua richiesta.

Abbi il coraggio di difendere Inoue Miyako.

Miyako afferrò il telefono, digitò quel numero, attese. Uno squillo, due squilli. E non aveva indossato la parrucca: i suoi capelli viola erano ancora in bella vista. Dominò il panico.

“Che motivo hai di nasconderti, comunque?”

Non voleva più nascondersi. Voleva donargli Miyako, voleva essere Miyako: aveva deciso, e non sarebbe più …

“Pronto?”

Trasalì, e la sua mano tremò. La voce di Ken appariva neutra, stanca, forse anche un po’ seccata. Il suo cuore prese a battere furiosamente, e la voce le sparì.

Si voltò verso lo specchio, vide la sua espressione spaventata, la sua fragilità, quei dannati capelli viola, e tutto sembrò svanire di colpo.

Non posso.

Corse a prendere la parrucca, la indossò rapidamente, respirando il più piano che poté, mentre Ken, perplesso, ripeteva: “Pronto? Chi parla?”

E quando infine si guardò allo specchio e vide Rumiko, seppe che avrebbe fatto bene a chiudere la chiamata, se le fosse importato di essere Rumiko. Lei tendeva a rinunciare ai ragazzi, come aveva fatto con quel Hiroyuki …

Rumiko avrebbe rinunciato a Ken.

Ma Miyako non chiuse.

Abbi il coraggio di difendere Inoue Miyako.

L’avrebbe difesa indirettamente, ma non aveva intenzione di rinunciarvi.

Prese un respiro profondo e parlò.    

.

Ehm. E' praticamente un secolo che non aggiorno ._.

Mi dispiace un sacco di essere mancata per così tanto tempo ^^' purtroppo, questo capitolo ha avuto una gestazione praticamente immensa, sia per il tempo che mi manca sempre di più -dannata scuola-, sia perché alcune tematiche di questa parte della storia mi riuscivano abbastanza difficili da trattare. Forse perché in questi Takeru e Miyako mi ci sono ritrovata anche fin troppo, e come loro ho avuto bisogno di crescere un po' anche io.

Piuttosto, se non fosse ben chiaro, si tratta dello stesso giorno in cui vi ho lasciati lo scorso aggiornamento -secoli fa xD-, e il prossimo ne vedrà la conclusione :) cosa ne pensate di questi nuovi rivolgimenti?

Spero di poter finire presto il prossimo capitolo :) nell'attesa, un grande saluto a tutti!

Padme Undomiel

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Capitolo 24
*** Carte in tavola ***


Purity 23
23.



Carte in tavola





“Sei troppo teso, Ken. Non pensavo che la mia decisione di venire con te ti avrebbe spiazzato tanto.”

Non aveva fatto altro che sorridere, con quella specie di ghigno storto che sembrava sempre prendersi gioco di lui. Ken si rabbuiò, sentendosi nuovamente scoperto. Pareva non mostrarlo con altri che non fosse suo fratello minore.

“Lo sapevi benissimo, invece”, ribatté, lanciandogli uno sguardo in tralice e cercando di rilassare i muscoli delle spalle. “E non vedevi l’ora di osservarmi mentre metabolizzavo la tua trovata teatrale, Osamu.”

Osamu, in tutta risposta, allargò il ghigno, continuando a salire per la scalinata senza guardarlo, apparentemente incurante dell’irritazione di Ken. Detestava non sapere mai che pesci pigliare con lui, o come smettere di essere il suo giullare preferito. Detestava sentirsi sempre sotto esame, perché era una delle poche cose al mondo che più lo innervosivano.

Ma la cosa che più detestava, in quel momento, era sapere per certo che suo fratello ci aveva preso, come al solito. Era teso come una corda di violino.

Non che non lo fosse almeno un po’ ogni volta che si presentava a casa di qualche conoscente di Inoue Miyako, certo; ma le altre volte, almeno, non si sentiva sotto esame. Sotto lo sguardo attento e critico del detective Ichijouji –suo modello da seguire in campo investigativo, da sempre-, le cose si complicavano. E Ken non era sicuro che la sua calma avrebbe retto per molto.

Arrivato al quarto piano dell’alto condominio, Osamu si arrestò. “Quelle che tu chiami trovate teatrali forniscono dei dati che nemmeno t’immagini”, commentò, osservandolo mentre lo raggiungeva sul pianerottolo. “Dalle reazioni dell’altro capisci molte cose, vedi.”

Di nuovo quel tono. Come se fosse sempre in grado di prevedere le sue mosse. Ken alzò un sopracciglio, scettico. “Mi studi?”

Osamu alzò gli occhi al cielo, come esasperato. “Si capisce. Ricorda che questo caso è la tua occasione per testare le tue abilità, e che io ho bisogno di vedere quanta sicurezza hai nel muoverti nell’indagine.”

Ken si sentì avvampare. La sua reazione smarrita davanti alla decisione dell’altro di accompagnarlo nell’indagine di quella mattina era stata indice di ben altro che sicurezza. Eppure si ricompose in fretta: con Osamu non bisognava mai mostrarsi troppo deboli.

“O forse vuoi studiare meglio il tuo rivale”, insinuò, e vide la sua espressione diventare marmorea, impenetrabile, tutto d’un colpo. Come pensavo. “Questi tuoi giochetti psicologici sono sleali, Osamu.”

“Sleali, ma efficaci”, rispose Osamu, imperturbabile.

Faceva sul serio: pareva non lo stesse solo provocando. L’espressione tranquilla dei suoi occhi non era una delle solite coperture. Incredulo, Ken scosse la testa, e lo superò, diretto verso la porta d’ingresso dell’appartamento che si trovava di fronte a loro. “Penso che tu stia prendendo questa faccenda troppo sul personale”, sospirò, leggendo il cognome Inori sotto il campanello.

“Io invece penso che nulla ti vieti di fare lo stesso. Di studiare me, intendo.”

Ken si irrigidì, sul punto di suonare il campanello. Era sconcertante la tranquillità con cui proponeva soluzioni del genere: da come ne parlava, sembrava la cosa più normale del mondo.

Si voltò, trovandolo ancora fermo accanto alla scalinata, le braccia incrociate, lo sguardo fisso su di lui. E gli fece un sorriso, più ironico di quanto non volesse. “Ti ringrazio della proposta, ma non credo sia il caso. Io preferisco essere chiaro in quello che faccio.”

E preferiva non giocare con suo fratello solo per avere dati dalla sua. Preferiva non iniziare affatto quella rivalità, che a suo parere non faceva che esasperare la loro situazione e allungare i tempi di indagine. Preferiva essere ancora un fratello, prima ancora che un detective.

Ma tutto questo non lo aggiunse, non ne valeva neppure la pena. Lui non avrebbe capito, comunque; non avrebbe voluto capire.

Osamu tacque, sembrava meditabondo. Uno di quei suoi momenti di riflessione che non andava mai interrotto, se non si voleva irritarlo. Ken attese, immobile.

Infine, lo vide avvicinarsi a lui, ed emettere un lungo, tranquillo sospiro. Allungò una mano verso il campanello, si voltò verso di lui, lo fissò negli occhi, serio. “Come pensavo. Non sai sfruttare le situazioni a tuo vantaggio.”

Un’altra frecciatina. “Di quali situazioni …?”

Ma non riuscì a completare la frase: Osamu premette il campanello, e a quella breve distanza il suono all’interno dell’appartamento si sentì chiaramente, così come il vivace “Arrivo, arrivo!” femminile e i passi frettolosi che si avvicinavano.

Questo poneva fine alla conversazione, come sempre con più punti interrogativi di quando avevano iniziato a parlare. Poteva davvero dirsi di essere sorpreso, in fondo?

Non pensarci. Recupera la calma. Sii rilassato ma attento.

Diede uno sguardo di sottecchi a Osamu, osservandone il cipiglio sicuro e l’assoluta padronanza di sé che mostrava. Quasi involontariamente, Ken cercò di imitarlo.

La porta si aprì di colpo, rivelando una figura sorridente sulla soglia.

“Oh, il detective Ichijouji! Ti aspetto da un po’, sai?”

Ci fu un momento, quando la giovane donna si scostò una ciocca di ricci rossi dal viso,  che erano sfuggiti dalla coda di cavallo nella corsa per arrivare alla porta, in cui Ken non poté fare a meno di fissare incredulo quella figura, senza nemmeno comprenderne il motivo. Fu solo quando i suoi occhi castani si fissarono, curiosi, su di lui, che capì.

Brillavano di gioia, entusiasmo. Sembravano essere loro la fonte dalla quale si irradiava il sorriso largo che le si apriva sul viso, spruzzato di efelidi.

Nessun conoscente di Inoue Miyako era mai stato così vitale, così sereno.

Questa ragazza è davvero atterrita dalla cartolina che ha appena ricevuto?

Si voltò verso Osamu, incerto, ma si accorse ben presto che lui non ne sembrava sorpreso. Era anche fin troppo naturale, in effetti.

Sfoggiava un sorriso affabile, nonostante gli occhi rimanessero, penetranti, fissi in quelli della donna. Un sorriso tanto affabile che non sembrava il suo. “Sono imperdonabile, Harumi-san. Non riesco mai ad essere puntuale come vuole lei.”

Fu solo grazie al suo ferreo autocontrollo che si limitò a fissarlo con gli occhi sgranati, impedendosi di spalancare anche la bocca. Conosceva Osamu da ventiquattro anni, e mai l’aveva visto comportarsi in quel modo. Come se sapesse esattamente come affascinare la sua interlocutrice, e lo stesse dimostrando.

Yamanaka Harumi in Inori sorrise maliziosa, appoggiandosi a braccia incrociate allo stipite della porta, portando con totale disinvoltura l’attenzione alle sue gambe, coperte solo da un paio di shorts molto corti. “Perdonato. Era da un sacco che non venivi a trovarmi, detective. E il tuo accompagnatore chi è?”

“Mio fratello, Ken”, rispose Osamu, e infine si voltò a guardarlo. La sua espressione sembrava tentare ancora di studiare le sue reazioni. “E’ qui per indagare insieme a me.”

Ken fece un breve inchino, preferendo evitare lo sguardo fin troppo curioso della donna. Il suo atteggiamento lo metteva a disagio. “Piacere di conoscerla, Inori-san.”

Quando fu costretto a sollevare lo sguardo, Harumi stava ridendo tra sé. “Siete tutti così, in famiglia? Anche tuo fratello è carino, detective.”

E mentre Ken avvampava, incapace di comprendere come questo dettaglio potesse avere un senso per l’indagine, lei si tirava indietro, tornando a rivolgersi a suo fratello. “Ma nessuno ti batte. Sai che preferisco sempre te.” La vide fargli un occhiolino, per poi voltargli le spalle e prendere a camminare verso l’interno. “Forza, entrate!”

Era sicuramente una persona sicura di sé. Non riteneva necessario nemmeno fare gli onori di casa. Si chiese se si comportasse sempre in quel modo informale o solamente in presenza di suo fratello. Come se si trattasse di una vecchia conoscenza, non di un detective incaricato di sospettare anche di lei stessa, se necessario.

Si voltò verso Osamu, lo sguardo confuso, pronto a chiedergli spiegazioni nei pochi secondi nei quali potevano ancora indugiare sulla soglia, ma ancora una volta fu deluso: l’altro sorrise, tranquillo. “Che ti prende, Ken? Ci hai ripensato? Posso entrare solo io, se vuoi.”

L’aveva di nuovo incastrato, e di nuovo sfidato. Oltraggiato, Ken si voltò verso la porta, ed entrò nell’appartamento a testa alta.

Cosa gli importava, dopotutto, che ci fosse quella strana atmosfera tra i due? Aveva del lavoro da fare, e doveva pensare solo a quello.

Non mi mostrerò debole davanti a te.

Osamu lo seguì dopo appena qualche istante, e chiuse da porta dietro di sé. Lo raggiunse a passi misurati, mentre Ken osservava attento il disordine che regnava in quella casa.

C’erano block notes dappertutto, pieni di schizzi e di disegni a carboncino, tutti raffiguranti modelli di abiti da sposa di ogni genere e curati nel minimo dettaglio. Alcuni pizzi e merletti erano caduti a terra dal piano di lavoro in legno, arrotolandosi scompostamente accanto ai piedi dei due detective. Una scatola piena di aghi, fili e spilloni era abbandonata sul divano bianco sulla loro destra, e alcuni busti ospitavano lunghi abiti bianchi ancora in lavorazione.

“E’ una stilista?” Domandò Ken a mezza voce, più a se stesso che al suo compagno.

Ma lui decise di rispondergli lo stesso. “Sì, specializzata in abiti da sposa. Lavora in un atelier abbastanza rinomato, a trenta minuti circa da qui.”

Ken sospirò, esausto. “Quest’informazione potevo saperla, allora”, lo punzecchiò, ironico.

“Non come il resto delle cose che preferisci tacermi.”

L’arrivo repentino di Harumi interruppe la replica di Osamu. “Allora, cosa ci fate lì in piedi? Non preferite sedervi un po’?” Disse loro, guardando solo ed unicamente Osamu con un sorriso largo, che metteva in mostra due file di denti piccoli e bianchi. “Potrei offrirvi del sakè, se avete sete.”

Osamu si sedette con nonchalance sul divano, sollevando educatamente una mano. “Preferisco non bere, Harumi-san: rischierei di perdere completamente il filo del discorso, ed è meglio che io rimanga quanto più possibile concentrato sul mio lavoro”, disse, e il suo tono fu così allusivo che Ken se ne sentì imbarazzato. Distolse lo sguardo da lui, perplesso e vagamente disgustato, e fu con stupore che vide le guance della donna colorarsi all’improvviso, mentre sorrideva lusingata giocherellando con la fede che portava all’anulare sinistro.

L’illuminazione gli arrivò in un istante, proprio osservando la sua reazione.

Inori-san ha una simpatia per mio fratello, nonostante sia sposata.

E mio fratello se ne approfitta per indagare meglio.

Si trattenne a stento dall’alzarsi in piedi ed allontanarsi da quella scena inammissibile, nauseato, e se ci riuscì fu solo per Inoue Miyako, e per il suo orgoglio. Ma non poté non scoccare uno sguardo di pura disapprovazione a Osamu.

Era o non era il più grande detective in Giappone? Come poteva abbassarsi a certi livelli, pur di avere le informazioni che cercava? Era assurdo che non ci fossero altri sistemi, non avrebbe voluto nemmeno pensarci. Gli pareva immorale.

Osamu colse il suo sguardo, e lo osservò in risposta, impassibile. Non una punta di imbarazzo balenò sul suo viso. Ken se ne sentì ancora più oltraggiato, e si voltò nuovamente.

Harumi rise, sedendosi accanto a lui e spostando la scatola con gli spilli. A Ken non rimase che stare in piedi, dal momento che nessuno aveva provveduto a procurare una sedia anche per lui. Sospirò.

“Allora, se sei così ligio al dovere, ti mostrerò subito la cartolina che ho ricevuto stamattina”, disse, sporgendosi verso il tavolino di vetro e afferrandola con le unghie lunghe laccate di rosso. La porse a Osamu, ammiccando, perché lui la leggesse. “Sono sicura che mi darai una spiegazione soddisfacente: io ero così confusa quando l’ho letta …”

Ken allungò il collo per osservare la reazione di suo fratello, mentre, accigliato e immobile, scorreva le parole scritte dietro quella cartolina di Liverpool. Gli parve che un lampo nei suoi occhi gli stesse rivelando in anticipo che c’era qualcosa di molto interessante in quella nuova prova.

Si avvicinò a lui a passi rapidi, proprio nel momento in cui Osamu, voltandosi, gli passava la cartolina, lo sguardo serio e la fronte corrugata. Ken la afferrò, impaziente.

La prima cosa che notò, osservandone il retro, fu il colorito ingiallito della cartolina. Meccanicamente lesse la data di produzione in basso, in cerca di spiegazioni: 1972. Come può essere tanto antica se è arrivata solo adesso? Possibile che cartoline del genere siano ancora in commercio?

Il contenuto era scritto con la calligrafia tondeggiante di Inoue Miyako. Sembrava non esserci errore. L’aveva letta e studiata per così tante volte che avrebbe potuto riconoscerla tra mille, ormai.

Ha detto che non mi rivolgerà mai più la parola se lo incontrerò di nuovo. Gli ho detto che esagerava, che si stava comportando come un bambino, ma Daisuke-kun è sempre stato un bambino: non ha voluto capire. E io non ce l’ho fatta più. Gli ho urlato contro che non mi importava, perché ormai la sua amicizia era una farsa. Soffro anche adesso solo a scriverne … ma lui non si è girato indietro, mentre usciva dalla mia stanza. Proprio come uno stupido.

Il cuore di Ken aveva ripreso ad accelerare i battiti nel momento in cui aveva iniziato la lettura. Era appena un frammento, selezionato da una pagina di diario per qualche criterio a lui totalmente sconosciuto, ma ciò che era scritto era interessante.  Daisuke-kun … Doveva trattarsi di Motomiya Daisuke. I dati coincidevano: lui e Miyako litigavano spesso, prima della scomparsa di lei. Ma questo litigio, tutto in funzione di un rapporto di Miyako con un ragazzo di cui non si faceva il nome …

“Harumi-san, diceva che non ha mai ricevuto altre lettere del genere, prima d’ora. Corretto?” Osamu ruppe il silenzio all’improvviso, sistemandosi meglio sul divano per poter fronteggiare meglio la donna.

“Certo! Era la prima volta davvero”, rispose Harumi, con un tono così spaventato e affranto da risultare palesemente falso. Ken alzò gli occhi al cielo, seccato. Quando l’avrebbero smessa con quella farsa? “E non riesco a capire perché sia arrivata proprio a me, e dopo tanto tempo … voglio dire, perché Miyako avrebbe dovuto scrivermi un racconto della sua giovinezza prima di sparire?”

“E’ quello che stiamo cercando di scoprire”, fece Osamu, con tono caldo e rassicurante. Ma ancora la trapassava con lo sguardo, cercando di analizzarla. “E’ probabile che stiano cercando di incastrarla in qualche modo, inviandole per posta prove compromettenti che lei non sa spiegarsi. Anche la grafia della cartolina può non essere quella di Inoue Miyako: non sarebbe il primo caso in cui mi trovo a che fare con falsificatori abilissimi di grafie altrui. Non rappresenta un problema per chi è esperto di giochetti del genere, le pare?”

Vide Harumi sgranare gli occhi, e pendere completamente dalle sue labbra. “L’ho pensato anche io, detective”, sussurrò, chiaramente esagerando l’apprensione che, ad ogni modo, balenava sul suo viso. “Ma lo sai, non vedo più Miyako da un sacco di tempo prima della sua sparizione, non c’entro nulla, io! Vorrei solo essere lasciata in pace …”

“Motivo in più per dirci tutto ciò che sa, Harumi-san. Se lei è innocente, le sue parole potranno solo aiutarla, perché ci permetteranno di arrivare al colpevole.”

Il tono basso e sicuro di Osamu parve avere un grande effetto sulla donna, che tacque, osservandolo come se si fidasse ciecamente di lui. E nel cogliere quell’impercettibile cambiamento, la posa disinvolta di suo fratello, l’espressione estremamente credibile nei suoi lineamenti, Ken non poté che provare un’improvvisa ammirazione per lui. Sa quello che vuole, e lo ottiene. Sfrutta davvero le situazioni al meglio.

Metodo discutibile o no, Ichijouji Osamu era un osso duro.

“Ecco tutto ciò che so”, riprese lei, animandosi con un sorriso vagamente cospiratorio. “Non so cosa sia successo in quell’episodio in particolare, ma so che Miyako e Daisuke avevano preso a trattarsi freddamente da quando lei aveva iniziato a frequentare una specie di bullo della sua scuola … per carità, un gran bel ragazzo, alto, con ricci scuri e occhi grigi, ma aveva un’espressione terrificante, certe volte. Comunque, lei stravedeva per lui, e Daisuke lo odiava con tutte le sue forze. Non so … gelosia? L’ho sempre pensato, comunque.” Rise, con tono leggero. “E la cartolina me lo conferma, ho ragione? Pare che stiano litigando per lui …”

Ken stesso non se n’era accorto, ma si era avvicinato maggiormente ai due mentre ascoltava, per poter cogliere ogni particolare. C’era un ragazzo di mezzo, avrebbe dovuto immaginarlo. Un ragazzo del quale Miyako adolescente si era perdutamente innamorata. Un ragazzo che - ma certo. Che i genitori non vedevano di buon occhio. Perché era una specie di bullo.

Che c’entrasse lui con la sparizione di Miyako?

“Come si chiamava la persona che ha causato questo litigio, Inori-san? Lo sa?” Intervenne Ken, incurante del fatto che la donna lo stesse osservando come se fosse appena apparso nella stanza. Non aveva tempo per i corteggiamenti. E Osamu sembrava non volergli rivelare i dettagli che conosceva: doveva cercare di ottenerli da sé.

“Beh, ma certo”, rispose lei, senza fare una piega. “Si chiamava Ono. Ono Satoshi.”

Ono Satoshi. Ken annotò il nome nel suo block notes, promettendosi di fare delle ricerche anche sul suo conto. Magari il prossimo indiziato da interrogare sarebbe stato proprio lui.

“Quindi non sa se dopo questo litigio Inoue Miyako e Motomiya Daisuke si siano più parlati”, tornò a parlare Osamu, e Harumi fu ben felice di tornare a dargli tutta l’attenzione.

Lei scosse il capo. “Quei due avevano caratteri molto instabili, poteva darsi che si giurassero di non vedersi più un attimo prima e un attimo dopo tornassero a becchettarsi come se nulla fosse accaduto; potrebbe anche darsi che questo litigio non sia stato così determinante. Ma”, e qui sorrise di nuovo, maliziosa, “c’è quello che alcuni chiamano sesto senso femminile, che non sbaglia mai. In virtù di questo ti dico, detective, che quando c’è di mezzo l’amore, e la gelosia, le amicizie più salde si sfaldano. E io sono quasi sicura che si tratti di entrambi.”

Più che sesto senso, sembrava trattarsi di un’inclinazione naturale al pettegolezzo. Comprenderlo, e metabolizzarlo, gli diede una strana sensazione. Se fosse stato Osamu, non avrebbe avuto problemi ad usarlo a suo favore. Ma lui poteva mai esserne in grado, senza sentirsi in colpa?

No. Non in questo modo subdolo, pur se efficace.

“In un gruppo, l’amore può risultare davvero un problema, soprattutto se non corrisposto”, sospirò ad un tratto Osamu, come riflettendo tra sé. Ma aveva lo sguardo sveglio, come se stesse attendendo.

“Oh, sì. E ti dirò di più: per me d’amore, in quel gruppo, ce n’era anche troppo. Hida Iori te lo ricordi? Ho sempre pensato che anche lui fosse innamorato di lei. Era sempre troppo protettivo, troppo attaccato a lei … Cosa mai vorrà dire questo? Non ho mai creduto nell’amicizia tra uomo o donna, si finisce sempre per essere coinvolti sentimentalmente. Non vorrei sbagliarmi, ma secondo me con questa sparizione possono essere coinvolte due persone: Motomiya Daisuke e Hida Iori. Per amore si farebbero pazzie, sai.”

E quando l’ombra di un compiacimento passò sul viso di Osamu, Ken comprese che si aspettava proprio che lei parlasse a ruota libera delle sue supposizioni. Come poteva prevedere così bene le sue reazioni? Scosse la testa, continuando a prendere appunti.

Osamu si alzò, sorridendo. “Sempre utilissima, Harumi-san”, commentò, scatenandole un altro rossore compiaciuto. “Le prometto che ci vedremo chiaro, in questa storia. Per intanto, prenderemo la cartolina con noi. Per cercare di capirci di più.”

Lei si imbronciò. “Non dirmi che vai già via! Mio marito tornerà solo stasera, non mi va di stare da sola …” Si lamentò, avvicinandosi ancora a lui.

Per un istante, uno soltanto, Ken temette che Osamu potesse cedere, sacrificando la sua moralità per le indagini, per fare il falso amante di Yamanaka Harumi in Inori. Quando si rimproverò per quel pensiero, scandalizzato, Osamu si era già allontanato di un passo, con un sorriso di scusa. “La prossima volta, Harumi-san. Può sempre contattarmi se ha altre notizie da darmi.”

“Oh, lo farò di certo, detective”, si illuminò lei, estasiata. “Già mi mancano le nostre conversazioni.”

Osamu le fece un breve inchino col capo, per poi lanciare a lui un’occhiata che sembrava dirgli che era ora di andare, ed allontanarsi verso la porta principale.

Ken fece per seguirlo, lanciando un ultimo sguardo alla donna che seguiva con gli occhi il passo di suo fratello, ma si fermò di colpo, non appena un pensiero attraversò la sua mente.

“Secondo me con questa sparizione possono essere coinvolte due persone …”

Si voltò, accigliato. “Che ne è stato di Ono Satoshi?” Chiese. “Perché lei lo escluderebbe dai sospetti, se frequentava Miyako?”

Harumi lo guardò con stupore, e poi con sospetto. “Mi prendi in giro?” Fece, scettica, ricambiando la sua occhiata interdetta. “Ono Satoshi è morto sette anni fa!”

***

Osamu gli aveva spiegato, una volta usciti da quel condominio, che la morte di Ono Satoshi rappresentava uno dei maggiori misteri della vicenda di Inoue Miyako.

“Naturalmente non te ne ho parlato per lo stesso motivo per cui non ti do tutte le informazioni di cui avresti bisogno: voglio vedere come ti muovi nelle indagini.” Gli rivelò, continuando a camminare mentre gli gettava uno sguardo di sottecchi. “E nemmeno ora ho intenzione di dirti di più. Tuttavia, se avrai bisogno di documentazioni, fotografie e quant’altro riguardo Ono e la sua morte, chiedi. E’ a disposizione tutto quello che chiederai specificatamente, capisci?”

Ken non aveva detto una parola da quando aveva lasciato l’appartamento di Harumi. Aveva continuato a camminare al suo fianco, a testa bassa, silenzioso, mentre ascoltava suo fratello spiegargli ciò che non aveva nemmeno tentato di chiedergli. Non che avesse bisogno di ascoltare le sue giustificazioni: lo aveva immaginato, d’altronde.

Era tipico di Osamu.

Annuì. “Ti chiederò tutto il necessario sicuramente, e a breve”, rispose. “Pare che le piste si siano moltiplicate, dopo questa cartolina.”

“Cos’hai intenzione di fare adesso?”

Sollevò lo sguardo, totalmente privo di esitazioni. Si aspettava la domanda, e aveva già una risposta pronta. “Prima di tutto, è necessario verificare se altri conoscenti di Miyako hanno ricevuto una cartolina sospetta. Poi bisogna considerare le informazioni che ci ha fornito Inori Harumi, verificarle, quindi porre molta più attenzione a Motomiya Daisuke e a Hida Iori. Nel frattempo, la cartolina va analizzata, e studiata … e dovrò iniziare a documentarmi su Ono Satoshi e Royama Hideki.”

“Perché anche Royama?” Chiese ancora Osamu, interessato.

Ken alzò le spalle. “Perché ancora non capisco come mai tu l’abbia inserito tra i sospettati.”

Suo fratello gli parve, d’un tratto, compiaciuto. “Avrai un bel daffare, allora.”

Ken non rispose: lasciò che un momentaneo silenzio facesse da sottofondo ai loro passi. Non conosceva il motivo per cui non riusciva a parlargli chiaramente, sebbene avesse tante domande che quasi premevano sulle sue labbra per poter uscire: probabilmente sapeva già in anticipo che non ne sarebbe valsa la pena, che sarebbe stato deluso ancora.

E in fondo, non sapeva nemmeno più se potesse permettersi di essere franco con suo fratello, se ancora ci fosse un legame di intimità tale da farlo.

Fu così che si decise a parlare solo per i fini dell’indagine. “Credevi davvero in quello che dicevi a Inori-san, prima?” Domandò.

Osamu alzò un sopracciglio. “A cosa ti riferisci?”

Esitò. A tutto. A tutta quella farsa che hai messo in scena. “Quando le hai detto … Che può non essere stata Inoue Miyako a scrivere quella cartolina, che si tratta del lavoro di qualcuno abile nel falsificare la scrittura.”

Non parve sorpreso dalla domanda. “Certo che sì”, rispose tranquillo. “Tu stesso, nel mio ufficio, ti sei mostrato scettico all’idea che Miyako avesse deciso di mandarci un indizio sul suo passato dopo otto anni di silenzio. Comunque, credi che io menta quando faccio il mio lavoro?“

Ken si fermò di colpo. Aveva anche il coraggio di chiederglielo, di fare lo gnorri quando lo aveva costretto ad assistere alle sue false avances. “Oh, no, Osamu. Io non lo credo, ne sono sicuro. Non esserlo dopo le prove che mi hai fornito oggi sarebbe davvero sconcertante.”

Si era detto che non avrebbe parlato, che avrebbe taciuto per il bene di una cooperazione pacifica; ma aveva fallito di nuovo. Non riusciva davvero a tenere le distanze.

Osamu si voltò, fermandosi a sua volta, e nei suoi occhi svegli balenò un lampo di divertimento. Ridacchiò tra sé, senza scomporsi. “Sai? Sapevo che avresti tirato fuori un discorso del genere. Sei abbastanza prevedibile.”

Ken arrossì, indignato per essere stato sottoposto ad un altro gioco psicologico, e infuriato con se stesso per esserci cascato di nuovo. “Potresti, per favore, smetterla di prenderti gioco di me, e in generale di chi ti circonda?” Sbottò infine, incapace di trattenersi oltre. “Volevi che ti studiassi? Ebbene, l’ho fatto. E non mi piace quello che ho visto. Parlavi di questo, quando sostenevi che nelle indagini bisognasse sfruttare le situazioni a proprio vantaggio? E sfrutti davvero le situazioni? A me sembra che tu stia sfruttando le persone a tuo vantaggio, Osamu. E lo trovo meschino, soprattutto se si tratta di te.”

Osamu fece una smorfia. Ancora una volta, non sembrava sorpreso, come se stesse aspettando dal primo momento in cui erano entrati in casa Inori che suo fratello gli avrebbe detto quello che pensava. “Credi che quella donna avrebbe sul serio parlato apertamente, se non si fosse infatuata della mia figura?” Chiese retoricamente. “Lo sai anche tu che non l’avrebbe fatto. Lo sai, perché lo hai visto tu stesso, non è vero? Tu ti sei comportato in maniera del tutto pulita, e lei era restia a parlarti, ad aprirsi con te.”

Ken si irrigidì, momentaneamente senza parole. Lo aveva notato, lo aveva fatto dal primo momento, ma non aveva voluto accettarlo. Perché non poteva essere così. Scosse la testa, risoluto. “Non c’è altro modo, allora? Nemmeno per Ichijouji Osamu, il più affidabile detective del Giappone, c’è altro modo per indagare? Non posso credere che questo sia l’unico sistema …”

“Ken, io non le ho fatto nulla.” Sospirò Osamu, vagamente esasperato. “Le ho solo ispirato fiducia, le ho sorriso, ho giocato in modo pulito. Lei è una donna adulta, si presuppone che sia responsabile delle sue libere scelte. E poi, non mi sembra che voglia davvero una storia con me: vuole solo una compagnia interessante per sfuggire alla sua costante solitudine. Vuole giocare anche lei, e se la cosa conviene ad entrambi, non vedo dove sia il problema.”

Ad ogni parola che sentiva, l’indignazione di Ken aumentava. “Il problema”, replicò, “è che Inori Harumi non è solo un’indiziata, è una donna. Con sentimenti, paure e desideri come tutti. Magari biasimabili, certo, ma sono sempre sensazioni umane, e non riesco a capire come tu possa passarci sopra in vista dell’utile.”

“Tu credi che io mi diverta a comportarmi così”, fu la risposta di Osamu, mentre un sorriso disincantato compariva sulle sue labbra. Ken ammutolì, colpito da quella breve confessione, che pareva essere la cosa più vicina all’espressione dei sentimenti del fratello. “Ti sbagli. Sono passati tanti anni da quando ho iniziato il mio lavoro, e mi è ormai chiaro che la tua correttezza, Ken, non ha riscontro nella realtà: l’uomo non è pulito e retto come tu vorresti. Con certe persone non ho scelta.”

Disillusione, rassegnazione, freddezza. Era questo, allora, che aveva reso suo fratello quello che era? Era per questo che Osamu aveva trincerato i suoi sentimenti dietro quel muro impenetrabile?

Ken provò repulsione di quella realtà, e si allontanò inconsciamente di un passo. “Se essere investigatori significa perdere la fiducia nei valori, non è questa la mia strada”, fece, serio. E desiderò, per una volta, che lo ascoltasse davvero, che mettesse da parte quella sicurezza che mostrava per sottoporre le sue disillusioni al dubbio. “Credevo che un investigatore dovesse conoscere più di ogni altro i sentimenti umani, e non parlo solo di quelli disdicevoli. Se hai perso fiducia nelle passioni umane più nobili, perché troppo nascoste da quelle più vili, come fai a sopportare il peso del crimine e del dolore di chi perde qualcuno a lui caro? Riesci a farcela sul serio?”

Si aspettò che replicasse, di essere contestato, di essere deriso. Ma Osamu non fece nulla di tutto ciò. Rimase immobile, imperscrutabile, a fissarlo in silenzio, come se stesse valutando l’emozione trattenuta negli occhi di Ken, come se volesse analizzarla fino in fondo.

Ken non aveva idea di come l’avesse presa. Probabilmente non lo aveva nemmeno ascoltato fino in fondo. Eppure non ruppe il contatto visivo, né il silenzio.

Finché la suoneria del suo cellulare non risuonò all’improvviso, facendoli sussultare entrambi.

Si affrettò ad afferrare l’apparecchio, confuso, leggendo sul display un numero sconosciuto. “Ma che …?” Fece, tentando di riconoscere, dalle cifre, il mittente.

“Oh. La tua avventura?” Sentì dire a Osamu con tono vagamente irrisorio. Ken sollevò di scatto la testa.

“Eh?” Fece, sull’attenti.

Osamu si aggiustò gli occhiali sul naso, sorridendo. “Non credere che non me ne sia accorto, Ken: è da qualche tempo che ti comporti in maniera strana, assente, e non penso di sbagliarmi quando penso che si tratti di una donna. Hai una relazione?”

Fu un attimo: sorpresa per essere stato scoperto e imbarazzo più vivo per essere stato scoperto riguardo al suo rapporto con Rumiko lo costrinsero ad arrossire violentemente, a tirarsi ancora indietro e a balbettare qualcosa di indistinto. “Non … non è come … Non sono affari tuoi.”

Il cellulare, tra le sue mani, continuava a suonare, imperterrito.

Osamu si strinse nelle spalle, noncurante. “Difesa interessante, ma inutile”, disse, voltandogli le spalle e alzando una mano in saluto. “Torno a lavoro. E tu rispondi.”

Decisamente, detestava quel suo modo di fare saccente, si disse Ken, nella confusione più profonda. Sbuffò, avviando meccanicamente la chiamata.

“Pronto?” Fece, il più neutrale possibile, per mettere da parte la sua irritazione.

E intanto seguiva ancora con lo sguardo Osamu, mentre si allontanava verso il suo ufficio. Logico, si era sentito attaccato e aveva pensato bene di metterlo a disagio, ecco com’era andata. Possibile che non riuscissero mai ad avere una conversazione tranquilla?

Stupido, si rimproverò poi, voltando le spalle a quella visione. Sei tu che dai alla cosa troppo peso.

Improvvisamente, si rese conto che dall’altra parte della cornetta non provenivano che strani rumori in sottofondo: nessuno aveva ancora parlato. Aggrottò le sopracciglia.

“Pronto? Chi parla?” Fece ancora, perplesso. Al nuovo silenzio che seguì, Ken si disse che doveva trattarsi di uno scherzo telefonico. Fece per mettere giù, quando una voce, infine, si decise a parlare.

“Uhm, pare che non sia un buon momento, vero?”

Qualcosa, dentro di lui, fece un buffo sobbalzo.

“Rumiko-san!” Fece, incredulo, e ancora si aspettava che non fosse reale. Non poteva esserlo.

“Già. Buongiorno, Ken-kun”, fece la voce attraverso l’apparecchio, vagamente incerta. E pure nella sua incertezza, Ken si sentì sollevato nel sentirla, terribilmente sollevato. “Contavo di parlare un po’, ma dalla voce terribile con cui mi hai risposto deduco che dovrei lasciar stare, forse?”

Ken si maledisse, e maledisse Osamu per essere stato complice della sua voce seccata. “No, davvero non è così”, fece con impeto, arrossendo. “E’ che mi hai colto di sorpresa … non pensavo avresti chiamato sul serio, Rumiko-san. Pensavo …”

“… che avrei davvero buttato il post-it?” Completò Rumiko per lui, e rise. “Sai, Ken-kun, mi sembra che tu pensi troppo, riguardo a me. Finisci sempre per pensare in negativo.”

Ken rise con lei, impacciato. Solo in quel momento si rese davvero conto che la rassegnazione con la quale aveva immaginato quel post-it gettato in un cestino era persino peggio dei pensieri negativi. Non aveva voluto nemmeno credere che l’avrebbe chiamato. “Hai ragione. E’ già la seconda volta che sbaglio pronostici”, rispose. Poi, all’improvviso, ricordò il motivo per cui dovevano sentirsi solo telefonicamente, quel giorno. “Sono passato in libreria stamattina, e ho sentito che non te la sentivi di lavorare oggi. Stai bene, Rumiko-san?”

“Sei passato in libreria?” Il tono di Rumiko ebbe uno strano tremito, come di piacere. Sembrava che fosse felice di saperlo, e qualcosa dentro Ken tremò assieme alla voce di lei nel sentirlo. Ma non aveva senso. Lei non sembrava mai troppo felice di vederlo. “Mi … ecco, mi dispiace di non averti salutato oggi. Di solito preferisco soprassedere su malesseri di ogni genere –può sembrare strano, ma preferisco lavorare, il più delle volte, anche perché non è un lavoro impegnativo, dato che puoi parlare con i clienti, e poi vado molto d’accordo con …”

“Ehi, Rumiko-san, calmati”  fece Ken, perplesso dall’improvvisa parlantina della giovane. Ma cosa sta succedendo, oggi?, si chiese, sgomento. “Non c’è bisogno che ti giustifichi se non stai bene, non sono il tuo datore di lavoro.”

“D’accordo, dammi un secondo e vedo di esprimermi in maniera comprensibile, così non va!” Di secondi ne passarono cinque, riempiti dai profondi respiri di lei. Lui attese, e per la prima volta nella sua mente un aggettivo come buffa sembrò descrivere alla perfezione Miyazawa Rumiko. Ebbe il tempo emettere uno sbuffo divertito, prima che lei riprendesse a parlare. “Ci sono. Lo so che non sei il mio datore di lavoro, ma credo ci sia bisogno di dirtelo. Voglio dirtelo, più che altro. Puoi starmi a sentire? Non ci metterò molto”, disse Rumiko, e la sua voce esprimeva ansia, pur essendo vagamente arrochita. “Ti prego.”

Che bisogno aveva di pregarlo? Lui non aspettava altro che un segnale, da parte sua, che gli facesse capire che anche lei aveva bisogno di sentirlo più vicino. Come poteva essere un problema, se voleva dirgli qualcosa?

Fremette, in aspettativa, prendendo a camminare per non lasciare che questo sentimento lo sopraffacesse. “Certo. Ti ascolto.”

La sentì trarre un respiro profondo, come a voler trovare la calma necessaria. “E’ che mi dispiace di non averti detto nulla, riguardo al fatto che non sarei venuta … sono stata male stamattina, non potevo muovermi dal letto. Ho solo chiamato il mio datore di lavoro per avvertire, ma tu sei sempre lì a rivolgermi parole gentili, e non posso che sentirmi in colpa per non averlo detto anche a te. Sono davvero felice quando vieni in libreria. Oh, lo so che non ci credi perché non te lo dimostro … ma lo sono, Ken-kun. E’ davvero bello vederti lì.”

Schietta, diretta, senza imbarazzo. Fu così che glielo disse, e sembrava sorpresa lei stessa di quelle parole, come se lei stessa avesse compreso quella verità nel parlare con lui, in quel momento. E Ken si sentì strano, e assaporò per un istante la sensazione di essere pieno di gioia, e di esserlo inaspettatamente.

E di sorridere involontariamente, e troppo. “Non devi esagerare solo per essere gentile.”

“Ma è vero! Lo sapevo, ti ho fatto capire tutt’altro …” Esclamò, per poi cambiare tono improvvisamente. “Ma tu non devi pensare male, devi starmi a sentire, Ken-kun!”

“Scusami”, fece lui, e non smise di sorridere. Non sapeva cosa le fosse successo, non sapeva cosa stesse cercando di dirgli di preciso, né il motivo per cui Rumiko sembrasse tanto diversa, ora, più spontanea e meno frenata dai suoi stessi scrupoli; riusciva solo a focalizzarsi su un sollievo che ancora non riusciva a spiegarsi.  

“Bene.” Rumiko trasse un altro sospiro. “Mi sono accorta solo ultimamente che … hai fatto tanto per me, senza chiedermi nulla in cambio. E io mi sono comportata come una stupida, e ti avrei allontanato, se tu non ti fossi intestardito tanto ad essere buono con me. Ti devo chiedere scusa, Ken-kun: la verità è che avevo paura.” Si interruppe, confusa, e non riuscì a continuare. A Ken parve che si stesse rivelando per la Rumiko che era davvero per la prima volta.

“Di me?” Osò chiedere, tentando di capire.

“No … O meglio, non del tutto. Avevo paura di stringere un rapporto … confidenziale con qualcuno, e di restarne troppo coinvolta. Non posso spiegartene il motivo, quindi ti prego, non me lo chiedere.” La supplica nella voce fu così sentita e accorata che lo turbò. Aveva avuto la sensazione che spogliarla dei suoi segreti avrebbe potuto rappresentare una ferita vera e propria per lei. La mano che stringeva il cellulare si serrò maggiormente.

“Ci mancherebbe altro, Rumiko-san”, si sentì di rassicurarla, pur non comprendendo. “Nessuno ti costringerà a parlare, se non vuoi.”

Ma se solo avesse voluto …

“Grazie”, la sentì sospirare di sollievo, e il suo tono riprese colore. “Il punto è che … non voglio più allontanarti. Se tu ancora vuoi, vorrei passare altro tempo con te, senza più fuggire da te come una ladra. Sai che non posso parlarti apertamente di tutto, e questa è l’unica condizione che ti pongo … ma mi permetterai di iniziare col piede giusto, questa volta?”

Aveva forse ripensato all’appuntamento del giorno prima, e sentito quell’emozione che aveva sentito anche lui? Aveva forse pensato anche lei che, stando così le cose, quello sarebbe stato il loro primo e ultimo appuntamento fuori dalla libreria?

E il pensiero le aveva forse causato la stessa fitta di perdita che aveva sentito lui il pomeriggio precedente, la stessa che quasi l’aveva costretto a lasciarle il numero di telefono, nella speranza che la partita non fosse chiusa?

Era stato tutto questo a farle desiderare di ricominciare tutto daccapo?

Se lo chiese, non trovò risposta e mise da parte il problema. Non contava niente, niente, pensarci: contava solo che non era finita. Contava avere la possibilità di stare con lei.

Cercò di frenare la sua emozione con la razionalità, ancora. “Domani ti pentirai di avermi parlato così, Rumiko-san”, fece, cercando di recuperare il controllo.

Uno sbuffo dall’altra parte, che ruppe tutta la tensione. “Ancora non mi credi? Non sarai quel tipo di persona che se non ha le prove non prova nemmeno a crederci?” Fece, scandalizzata.

Ken pensò ad Osamu, alla faccia che avrebbe fatto se l’avesse sentito parlare di prove in campo decisamente diverso da quello lavorativo, e ridacchiò. “Temo di sì”, ammise. “Ma dubito che tu possa davvero provarmelo ade-“

“E invece lo farò! Ti va di uscire domani?”

Le parole gli morirono in gola. “C-che?”

No, questa volta no. Non era assolutamente considerabile l’idea di aver sentito bene.

“Sì, domani. Domani sera, magari, così non dovremo cambiare granché dei nostri programmi giornalieri, dopotutto io ho il lavoro, tu studi e aiuti tuo fratello …”

Era partita in quarta, adesso stava persino pianificando l’orario e tenendo conto degli impegni. Interdetto, Ken cercò di dire qualcosa di coerente, senza risultato. “Rumiko-san, ma la tua malattia …”

“Cosa da poco, mi passerà entro domani! Tranquillo. Magari possiamo andare a vedere qualcosa in particolare, che so … - oh, questi cosa sono?- Ho due biglietti per un concerto di un pianista che si terrà domani alle nove al … Eh?

Questo nuovo cambiamento inspiegabile lo fece sussultare. “Cosa succede?” Chiese, confuso.

Rumiko esitò per qualche istante. “Ehm … aspetta un attimo, Ken-kun. La mia amica qui si comporta in maniera inspiegabile.” Fece, in fretta, e la sentì allontanare la cornetta dalla bocca, per poter parlare con l’anonima amica che era accanto a lei. Lui arrossì, chiedendosi da quanto tempo lei stesse ascoltando la loro conversazione.

“Perché hai dato quei biglietti a me? A te non servono? Pensavo ti piacesse il piano …” La sentì dire a bassa voce, accorata. E solo allora capì che quei due biglietti le erano stati dati in quello stesso istante, per qualche motivo.

Ken si sforzò di ascoltare la risposta dell’altra, ma dalla cornetta non arrivò che un mormorio indecifrabile. Si accigliò.

“D’accordo, ma potevi usarli anche tu per svagarti un po’! Potevi anche andarci con …” Rumiko disse un nome, ma lui non riuscì a sentirlo. Doveva aver abbassato la voce.

Ancora una risposta a mezza voce, un “Come sarebbe, capirà? Aspetta, te ne vai così?”, poi un sospiro, e un rumore di porta sbattuta. Infine, la voce di lei si fece più chiara alla cornetta.

“Bene, la mia amica mi ha appena regalato due biglietti per un concerto di domani”, gli disse. “E non ha voluto sentire ragioni, tant’è vero che se n’è andata per evitare che glieli nascondessi nella giacca. Spero ti piaccia la musica classica, Ken-kun.”

Era incredula anche lei come lui, come se qualcosa di più grande avesse fatto sì che avessero un appuntamento, e una meta precisa, per incontrarsi. Per ricominciare.

Annuì, ricordandosi in seguito che lei non poteva vederlo. “Mi piace molto”, si affrettò ad aggiungere. “Ma non sarà un problema per la tua amica?” E mentre lo diceva, sperava davvero che non ce ne fossero. Lo sperava con tutto il cuore.

Rumiko rise. “Macché. E poi dice che io sono matta …” commentò, ma si sentiva che era felice. “Allora, verresti con me?”

Ken si fermò, e per un istante, rapido, si disse che era di nuovo cambiato tutto, quando ormai credeva di sapere come lei si comportava di solito. Fu lieto di essersi sbagliato. “Mi farebbe davvero piacere, Rumiko-san. Davvero”Arrossì come uno sciocco, ma si sentì sollevato nell’averglielo detto. Voleva dirglielo davvero.

Lei rimase in silenzio per un momento. “Allora è tutto a posto?” Chiese, e c’era un sorriso in ogni parola, erano le parole più vive che avesse mai sentito. Lui si fermò di colpo.

“Non ho mai avuto problemi con te. Temevo solo che tu ne avessi con me.” Le disse, come a scacciare un brutto pensiero per non doverci fare più i conti. “Ti passo a prendere con la macchina a casa, se vuoi.”

“No, io …” Esclamò subito Rumiko, agitata, ma si interruppe.

Ken si accigliò, chiedendosi quale fosse il problema. “Non va bene?”

Un altro silenzio, questa volta più lungo. “No, no. Va benissimo.” Rise piano, incerta. “Scusami, non so cosa mi sia preso. Allora a domani.”

Ken non capiva, ma non le chiese altro a riguardo. Sentiva che non era il caso di forzarla, perché era la sua condizione. “A domani.” Fece per chiudere, ma si fermò, colto da un pensiero e da una speranza. “Ehm, Rumiko-san?”

“Cosa?” Fece lei, curiosa.

Per l’ennesima volta, si sentì uno sciocco. “Il numero da cui mi stai chiamando”, tentò, impacciato. “Posso … posso salvarlo?”

E il silenzio che seguì gli fece desiderare di aver chiuso la chiamata prima di dire quella sciocchezza. Perché, perché devo sempre strafare?

Poi Rumiko rise, e rise a lungo, finché non si interruppe per un attacco di tosse. Ma l’aveva sentita divertita, non canzonatoria. Il pensiero lo rassicurò. “Se non lo salvi, domani non potrai rintracciarmi”, gli disse, dolce. “Buona serata, Ken-kun.”

Riattaccò, prima che lui avesse il tempo di risponderle. E Ken stette a sentire per un po’ il suono acustico del telefono. Chiuse la chiamata lentamente, cercando di pensare lucidamente.

Gli sembrava tutto irreale. Tutto dannatamente illusorio, come se fosse avvenuto solo nella sua testa.

Fu per questo che si affrettò a salvare il suo numero, e nel momento in cui terminò di digitare quel nome –Rumiko- e di salvarlo sulla memoria, seppe che era successo davvero.

Un ampio, largo sorriso gli si aprì sulle labbra, e lì rimase, incapace di andar via nemmeno quando riprese il cammino verso casa.

Sono tornata dopo tempi d'attesa interminabili -santo cielo, sono davvero quattro mesi che non aggiorno? ^^' in realtà avevo il capitolo pronto da un po', ma vuoi le vacanze estive, vuoi la mancanza di una connessione internet... Spero di non avervi stancato troppo con l'attesa!

Ma parliamo del capitolo. Come avrete notato, le indagini si fanno più serrate, e Ken e Osamu avranno un bel po' da fare, da adesso in poi ... vale a dire che le piste si fanno sempre più interessanti e che li troveremo ad indagare insieme più spesso! E forse adesso sarà più facile iniziare a intuire cosa sia successo, dopo avervi torturato per ventidue capitoli xD abbiate ancora un po' di pazienza e saprete tutto! Compreso quello che succederà a Osamu e Ken, e al loro difficile rapporto :)

L'appuntamento di Ken e Miyako lo tratterò a breve -è un piacere riprendere il personaggio di Miyako con i suoi tratti caratteristici, mi mancava ^^

Al prossimo capitolo, che vedrà il ritorno di Takeru e una proposta che potrebbe cambiare tante cose...

Padme Undomiel

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Capitolo 25
*** Speranza ***


Purity 24
24.


Speranza





“No, hai frainteso tutto, stavolta.”

Hikari alzò le sopracciglia, scettica. “Davvero?”
“Certo. Ti posso assicurare che non è affatto così.”
Sora era sempre stata una lavoratrice instancabile: aveva un fisico scattante, temprato da anni e anni di calcetto assieme a Taichi, e uno spirito tenace e forte. Si dava un sacco da fare per l’orfanotrofio –da sempre, da quando aveva accettato di aiutare la famiglia Yagami nell’impresa onerosa di mantenere in vita questo sogno-, e si lamentava così di rado delle responsabilità che si prendeva sulle spalle che spesso ci si rendeva conto di quanto realmente facesse per i bambini e per loro solo quando doveva assentarsi per il suo turno per uno dei suoi part-time.
Ma Hikari sapeva troppo bene che Sora dava davvero il meglio di sé nelle faccende domestiche solo quando voleva evitare qualche domanda scomoda.
Come in quel momento.
Era fin troppo attenta nel far prendere aria ai futon per risultare credibile.
Si portò una ciocca di capelli ribelle dietro un orecchio, sospirando. “E’ che non lo capisco. Con tutto il lavoro che c’è da fare ultimamente, perché comportarsi in quel modo? E’ come se fosse diventato ad un tratto più affettuoso … stranamente affettuoso”, disse poi, e ancora si ostinava a non guardarla negli occhi. “Dovrebbe dedicarsi a qualcosa di più serio.”
Hikari non batté ciglio nel replicare. “Ma Taichi non ha mai avuto problemi ad essere affettuoso con te, Sora-san. Non dovrebbe essere una novità, giusto?” Sorrise, un po’ maliziosa. “A meno che la novità non sia la percezione che hai di lui.”
“Cioè?” Scattò, un po’ troppo prontamente per non destare sospetto.
Rise, scuotendo il capo. “Non c’è niente di male, sai, se ti p-”
No.”
“… Se ti piace mio fratello”, concluse la minore, imperterrita.
“Una cosa del genere non esiste.”
Ma aveva le guance rosse, notò Hikari, intenerita. Rossissime. Anche se tentava di non sollevare il capo neanche per sogno.
“Negarlo ti fa stare così bene?” Finì per chiederle, chinandosi alla sua altezza e cercando di cogliere il suo sguardo.
La risposta di Sora fu incassare ancora maggiormente la testa nelle spalle, e smettere di occuparsi di quei futon.
Hikari lo prese per un no –l’ennesimo-. Si sporse a prenderle le mani, e gliele strinse forte; Sora sollevò gli occhi, e mai prima d’ora le erano sembrati così smarriti e insicuri.
“E’ Taichi!” Fu tutto quello che riuscì a dirle, imporporandosi ancora di più.
Lei, dal canto suo, annuì. “Ti assicuro che la cosa fa più strano a me che a te, dal momento che stiamo parlando di mio fratello, e credo ci metterò un bel po’ per realizzare una situazione così strana. Ma per il resto non vedo davvero cosa ci sia di sbagliato …”
 “Hikari-chan, tu non capisci!” La interruppe Sora, la voce strozzata per l’imbarazzo e la frustrazione. “Stiamo parlando di Taichi, hai presente? L’amico d’infanzia Taichi? Il compagno di squadra di calcetto Taichi? Il migliore amico Taichi? Per lui sono totalmente asessuata, capisci? Sono … Sora e basta, e Sora non può fare questi pensieri quando Taichi si avvicina per abbracciarla come fa da anni a questa parte! Non so come sia potuto succedere, e non so come uscire da questo pasticcio!”
Quando mai Takenouchi Sora era stata così fragile?
La abbracciò, non potendo fare a meno di pensare che, di solito, i ruoli tra loro erano invertiti: la maggiore a consolare, la minore ad essere consolata. Era solo contenta di poter fare lo stesso per lei, in quel momento. “Voglio riformulare la tua affermazione, Sora-san, e a tuo vantaggio: Stiamo parlando di Taichi, hai presente?” Si staccò per guardarla in viso, e le sorrise, rassicurante. “Si accorgerà di te, se non lo ha già fatto. Lo sai che non te lo direi nemmeno, se non ne fossi sicura.”
Dal basso del suo sconforto, Sora riuscì a guardarla comunque con scetticismo. “Tu dici?”
Hikari annuì, solenne. “Sta seriamente pensando di cambiare lavoro perché pensa che il problema sia la puzza di fritto di cui i suoi abiti sarebbero impregnati”, dichiarò, sforzandosi di essere seria.
L’espressione in successione confusa, sconcertata, imbarazzata e divertita dell’altra, uniti al suo portarsi una mano sulla fronte e al mormorare tra sé “Non ci posso credere”rese vano ogni tentativo. Rise nuovamente.
“Dovresti dirglielo, che non ce l’hai con lui. E’ parecchio abbattuto”, le suggerì, osservando il nervoso mordicchiarsi il labbro inferiore da parte di Sora.
“Già, per poi dirgli cosa? Che scappo da lui perché … Perché ho paura delle mie sensazioni in sua presenza?”
“Non hai intenzione di dirglielo?”
Sora sospirò per un lungo istante, prima di scuotere piano il capo. “Non ora, Hikari-chan. C’è tanto lavoro da sbrigare qui, e gli orfani, e … Non posso preoccuparmi di questo, adesso. Sto solo perdendo tempo, e non sono affatto produttiva.”
La verità era che non era pronta ad accettare le conseguenze dei suoi desideri individuali.
Hikari non aveva alcun diritto di decidere per lei, naturalmente. Lo sapeva com’era, restare sospesi nell’aspettativa della felicità, dipendere dalla decisione, dai sentimenti della persona nelle cui mani si era affidato tutto …
Lei non poteva più fare marcia indietro, impiegare ogni istante della giornata a trovare qualcosa che la tenesse occupata corpo e mente, impedirsi di pensare: era arrivata a un punto in cui aveva semplicemente accettato che le cose stavano così, e puntava tutto su quell’attesa dolorosa. Ma se Sora ancora poteva difendersi dietro quella corazza, se ancora quel sentimento era giovane, aspettare tempi migliori era così malvagio?
La strinse ancora a sé, brevemente. “Promettimi solo che non getterai la spugna prima ancora di aver tentato”, le disse, questa volta seria per davvero. “Che, se non ora, presto o tardi cercherai di occuparti di questo.”
Sora annuì, e le sorrise, grata. “Non dovresti davvero starmi a sentire, Hikari-chan. Non ho mai detto tante sciocchezze come in questo periodo.”
“Non sono sciocchezze e non è mai un problema ascoltarti, lo sai”, replicò, sollevandosi di nuovo per riprendere a lavorare.
E poi alzò il capo, e si bloccò.
“Meno male che almeno uno dei due Yagami è così facile da gestire”, stava intanto continuando Sora, con uno sbuffo, ancora intenta nella sua occupazione. E la sua voce sembrava così distante, adesso.
Cercò di parlare, ma dalla sua bocca non uscì alcun suono, gli occhi fissi sul cancello di entrata dell’orfanotrofio.
“Hikari-chan?” E Sora dovette accorgersi dell’innaturale immobilità dell’altra, perché si alzò anche lei, anche se Hikari non aveva affatto la forza –né la voglia- di voltarsi a guardare la sua espressione.
E forse seguì il suo sguardo, e vide ciò che lei aveva visto e che non riusciva a smettere di guardare, perché sussultò.
“Takaishi-kun?”
Non le rispose. Non commentò. Non pensò a nulla di coerente.
Semplicemente corse come poté –perché le gambe sembravano tremare troppo per una corsa decente- verso il cancello, il cuore a mille, verso di lui.
Lui che l’aspettava, gli occhi azzurri fissi nei suoi, l’impazienza e una strana luce a rendere il suo viso così diverso, così nuovo.
Eppure era ancora lui.
Maneggiò col cancello, non riuscì a ricavarne nulla di buono per qualche secondo – e allora le mani di lui la aiutarono, dall’altra parte, con gesti rapidi e secchi, e lei lasciò che lui finisse il lavoro, perché le aveva sfiorato le mani, ed erano le sue.
Si gettò tra le sue braccia aperte prima ancora che il cancello si aprisse del tutto, e per un istante ci fu solo la sensazione del suo calore, del suo profumo, delle sue braccia attorno alla sua vita.
Chiuse gli occhi, e qualcosa nel suo petto si sciolse.
Quando li riaprì, aveva la vista appannata, ma sorrise, come mai in vita sua. “Takeru-kun”, disse soltanto.
E si rese conto, in un istante, che Takeru la stringeva anche più forte di quanto lei stesse facendo. Sembrava avesse paura di perderla solo lasciandola andare.
“Scusami. Mi dispiace tanto, sono un maledetto idiota. Pensavo … Non sapevo … Io voglio essere qui, voglio stare con voi. Voglio stare con te.”
Hikari scoppiò in lacrime.
Tutta l’attesa, la paura, la tristezza e la solitudine si infransero, dolorose al punto che quasi non respirava. Ma era tutto finito. Tutto finito.
Nascose il suo sorriso nel petto di lui, e lo strinse maggiormente. “Bentornato.”

***

“Bisogna fare piano, altrimenti non si farà vedere. I rumori lo spaventeranno.”
“Stiamo andando pianissimo!”
“Basta che non cadi di nuovo, Asami-chan.”
“Guarda che Suou-kun cade in continuazione, e a lui non dici niente!”
“Perché Suou-kun è carino.”
Keiji sbuffò, scocciato, riuscendo senza problemi a stare al passo senza farsi sentire –perché era agile, c’era abituato da sempre. “E dai, smettetela. Così ci facciamo scoprire.”
Asami, rimasta un po’ indietro, era imbronciata. “Non è colpa mia se Rei-kun è antipatico.”
Se Rei fu turbato da quelle parole, non lo diede a vedere: continuò a guardarsi intorno, interessato, cercando ciò che gli era sfuggito in ogni angolo del corridoio. E quando parlò, era solo per il bambino dai capelli neri davanti a lui, che non sembrava essersi accorto affatto del bisticcio. “Secondo me si è nascosto in camera nostra, Suou-kun. Gli ho lasciato un po’ del mio pranzo.”
Suou si voltò, gli occhi verdi spalancati dietro la frangia liscissima. “Tu pensi che gli piacerà?”
“Ai gatti piace il pesce. L’ho letto in un libro sugli animali.”
“Lo vedi? Si sta di nuovo vantando”, gli sussurrò Asami all’orecchio, irritata. Keiji alzò le spalle, continuando a sbirciare nelle camere davanti alle quali passavano. “Io so anche che i gattini piccoli bevono latte, non mangiano pesce. Me l’ha detto Koushiro.” Aggiunse poi ad alta voce, e sottolineò accuratamente quel nome.
Rei la guardò, aggiustandosi gli occhiali sul naso con le mani. “Che ne sai che è così piccolo?” Le disse senza arrabbiarsi, ma si vedeva che voleva avere ragione.
“Non lo so, ma tu che ne sai che è grande abbastanza per mangiare pesce?” Scattò la bambina, ancora più indispettita, e alzò la voce.
Keiji, dal canto suo, alzò gli occhi al cielo. Ma non la finivano mai di discutere?
“M-magari …” Intervenne timido Suou, le guance rosse per imbarazzo. Tutti e tre si girarono a guardarlo, sorpresi. “Magari quando lo troviamo gli diamo anche il latte. Così mangia e beve tutto.” E poi li guardò, e sembrava chiedere loro –a Rei soprattutto- di smettere di litigare.
Faceva sempre così, le poche volte che parlava anche agli altri bambini: cercava di accontentare tutti quanti. Meno male che aveva deciso di parlare anche stavolta.
Alla fine Rei fece un sorriso, quel suo strano sorriso che appariva pochissime volte. “Certo. Prima però troviamolo, d’accordo?”
Suou si illuminò. “Sì!” E seguì rapidamente l’altro, correndo un po’ perché Rei l’aveva superato.
Asami approfittò di quel momento per restare un po’ indietro, e parlare solo con lui. “Suou-kun dovrebbe smetterla di stare sempre con Rei-kun. E’ troppo carino per lui”, gli disse, la bocca arricciata. “E poi se lo tiene sempre solo per sé, non è mica giusto.”
Quel bambino non le era mai stato simpatico. Forse era perché non aveva quasi mai giocato con nessuno di loro, forse perché aveva sempre preferito starsene per conto suo e fissare tutti con quegli strani occhi dorati … finché all’orfanotrofio non era arrivato Suou, e allora le cose erano cambiate. Quel piccolo così timido, sempre con gli occhi bassi, chissà perché era l’unico amico che aveva voluto avere. E da allora faceva di tutto per seguirlo in ogni secondo, per fare il maggiore dei due e guidarlo. Aveva iniziato anche ad allontanare chiunque volesse avvicinarsi a loro.
Per questo quei due stavano sempre da soli. Anche più soli di Keiji: lui, se voleva, con gli altri ci parlava benissimo.
Ma visto che Asami voleva tanto conoscere meglio Suou, e Rei glielo impediva sempre, lei non lo sopportava. Di solito gli stava lontano per non litigare, ma quella volta lei e Keiji non avevano avuto altra scelta: Keiji voleva vedere il gattino, e Rei era l’unico a sapere dove fosse. Più o meno.
E non importava che Rei avesse riservato lo spettacolo solo per il piccolo Suou.
“Senti, lasciali stare. Fanno sempre così”, rispose, tenendo stretti sotto braccio album e colori, che ad ogni passo rischiavano di cadere. Doveva essere pronto a disegnare, non aveva tempo di tornare indietro a prendere le sue cose vicino al suo albero: se scappava di nuovo era un problema.
Perché doveva disegnarlo in fretta: sarebbe stato il suo più bel disegno. Anche più di quelli sulla storia che il biondo aveva raccontato, e di cui era stato tanto orgoglioso fino a un po’ di giorni prima.
E lo avrebbe dato a Hikari, così lei avrebbe smesso di essere triste perché quel biondo odioso se n’era andato e non tornava più.
Così avrebbe sorriso, l’avrebbe ringraziato, abbracciato e baciato, e Keiji sarebbe di nuovo stato la persona più importante per lei.
Voleva che lo sapesse, che lui non l’avrebbe mai fatta piangere, e ci sarebbe stato sempre.
Per questo doveva muoversi a trovare quella piccola palletta di pelo che aveva solo intravisto, e che non si faceva più vedere.
“Rei-san, guarda! E’ lì sotto, guarda!”
L’esclamazione entusiasta di Suou fece bloccare tutti. Erano davanti ad una porta aperta: in quella stanza Keiji non c’entrava mai, non c’era niente che lo interessasse. Solo una grande scrivania e tanti fogli con caratteri che non riusciva a leggere.
Ma quel giorno, lì sotto, piccolo e bianco e del tutto tranquillo, c’era il micino.
La sorpresa di Rei sembrava riuscita: Suou era felicissimo, mentre lo prendeva per la manica, invitandolo a entrare con lui. Ma Keiji pensava solo a prendere un foglio pulito, in fretta e in piedi com’era, reggendo i colori tra petto e mento, la lingua tra i denti per la concentrazione. Era la sua occasione.
Poi afferrò Asami per la mano, tirandola impaziente, ed entusiasta. “Dai, corri, o lo terranno in braccio solo loro!”
“Nooo!”
Keiji si fermò, al grido disperato dell’amica. “Che c’è ade-” Poi si accorse della barretta di cioccolata caduta a terra, e dello sguardo sconsolato della bambina.
Per un momento cadde il silenzio.
Poi Asami lo guardò, speranzosa. “Senti … ci soffio sopra e la mangio lo stesso!”
Era davvero convinta di quello che diceva.
Keiji scoppiò a ridere, e riprese a tirarla. “Dopo ti do la mia barretta, scema. Adesso però muoviti!”

***

Da quel momento, c’era solo stata un sacco di confusione, e lui era sicuro di essersi perso qualche passaggio vivendo quella sensazione, infine, di gran completezza.
Taichi si era materializzato all’improvviso, raggiante e sollevato, rifilandogli una pacca sulla spalla fin troppo forte, che lo aveva lasciato senza fiato per un attimo.
E poi c’era stata Sora, con un futon abbandonato poco distante, le sue mani che gentilmente e calorosamente stringevano quelle di lui.
E ancora i richiami entusiasti del maggiore degli Yagami, che quasi avevano tirato di peso gli altri ragazzi dell’orfanotrofio, confusi e perplessi, portandoglieli davanti e spiegando loro la situazione –quella nuova, quella che riguardava lui quanto loro.
E poi la stretta di mano serena di Koushiro e quella più irruenta di Jyou, e i baci sulla guancia improvvisi di Mimi. E poi parole, parole, che sul momento aveva compreso, a cui sul momento aveva risposto, ma che ora non riusciva più a ricordare.
Però aveva sorriso per tutto il tempo, e dietro la schiena aveva continuato a stringere quelle dita piccole e calde, quasi aggrappate alle sue, perché non aveva alcuna voglia di rompere quel contatto.
E ogni tanto l’aveva guardata, le guance ancora rosse, gli occhi ancora lucidi –ma così diversa da quando l’aveva vista piangere di dolore … così tanto diversa, ora-, sempre al suo fianco, e aveva condiviso con Hikari il reale significato di quello che era successo, di quello che lei aveva riferito a Taichi dopo aver sciolto il loro abbraccio.
“Takeru-kun ha deciso di stare con noi.”
Lei gli aveva sorriso, così bella che per un istante gli aveva tolto il fiato, ed era stato quel sorriso a rendere tutto vero, tutto concreto.
Takeru aveva deciso.
E neanche ora che si trovava in quello studio, seduto su quella sedia, con accanto Hikari e Taichi, e di fronte a sé Koushiro che maneggiava documenti, riusciva a sentirsi in qualche modo forzato ad essere felice, falso nella sua determinazione, disperato nella sua ricerca di un senso per quello che faceva.
Aveva deciso sul serio. Ed era stato facile, automatico, una volta che aveva capito cosa voleva. Così facile ed automatico che sembrava una beffa a tutte le complicazioni a cui lui stesso si era sottoposto per mesi, anni. Ma non aveva più importanza.
“Ci sono da sbrigare alcune formalità, Takaishi-kun, ma non ci vorrà molto”, stava dicendo Koushiro, un sorriso gentile sul viso.
Takeru non poté fare a meno di ridere, leggero. “Ho aspettato un sacco di tempo prima di decidermi”, commentò. “Non credo di poter essere nella condizione più giusta per lamentarmi per qualche firma da apporre.”
“E noi non potremmo essere più felici che tu abbia deciso di unirti alla famiglia Yagami!” Esordì Taichi a voce alta, solenne.
Unirti alla famiglia?
Takeru ebbe un sussulto, e si voltò di scatto verso di lui. “Eh?” Balbettò, e sentì il suo viso farsi più caldo. Il suo sguardo volò automaticamente verso Hikari, e fu con ancora maggiore sorpresa che vide le sue guance totalmente rosse.
“Taichi vuole dire che qui siamo come una grande famiglia!” Si affrettò a specificare lei, la voce più acuta, evitando il suo sguardo. L’imbarazzo di Takeru scemò. Avrebbe voluto dire lo stesso per quello strano gonfiore che sentiva all’altezza del petto, però.
La sensazione, ad ogni modo, svanì quando Taichi gli rifilò uno scappellotto.
Alla sua espressione attonita, lo vide rispondere con un ghigno. “Non ci allarghiamo troppo, adesso, eh”, fece, e qualcosa nel suo tono sapeva di minaccioso. Takeru deglutì, sperando vivamente di aver male interpretato le sue intenzioni. Che cosa aveva fatto poi di male?
“Taichi, così lo farai scappare”, fece Koushiro, alzando gli occhi al cielo e porgendo documenti e penne a Takeru. “Ecco qui. E ignoralo”, soggiunse a bassa voce, ammiccando con lo sguardo verso il fratello di Hikari.
Takeru sorrise, incerto, chinandosi a firmare dove indicato. Con l’abitudine avrebbe imparato bene come reagire a certi atteggiamenti, pensò.
“C’è qualcosa di specifico che dovrò fare, una volta qui?” Chiese poi, gli occhi ancora fissi su carta e penna.  
Fu Hikari a rispondergli. “Gli incarichi li assegniamo volta per volta, così come i turni di lavoro. Tutto quello che dovrai fare sarà darci la tua disponibilità giornaliera negli orari che più ti saranno comodi. Vorrei poterti dire che si tratta di un lavoro come un altro, ma …” Takeru sollevò lo sguardo, e la vide mordersi il labbro inferiore, in colpa. “Conosci la situazione. Questo è più un volontariato che un lavoro.” Sorrise, malinconica, come a chiedergli scusa.
Come se quello fosse un problema. “Non è la retribuzione in denaro che cerco”, chiarì, sicuro. “Anzi. Ho intenzione di contribuire io stesso al mantenimento di questo orfanotrofio. Con ogni mezzo. Cercherò un lavoretto part-time, che sia adattabile con i miei turni qui.”
Hikari sgranò gli occhi, piena di sconcerto. “Non devi! E i tuoi studi?” Fece, con veemenza.
Gli studi, già. Un moto di senso di colpa –le aspettative di sua madre, Daisuke, i suoi amici, tutta la sua vita finora- lo prese all’improvviso, e lo costrinse a tacere. Ma fu solo un attimo: non c’era più modo di tornare indietro, ormai. “Gli studi dovranno aspettare”, disse lentamente, e non smise di guardare Hikari negli occhi. Voleva che capisse che era serio. “Ho altre priorità, adesso. E voglio rendermi utile.”
La ragazza, turbata, tacque, una luce dolente nello sguardo. Sembrava chiedersi se lui non stesse affrettando troppo i tempi, se non se ne sarebbe pentito. Sembrava porsi le stesse domande che si era posto Yamato, se non stava aggrappandosi a quel progetto solo per liberarsi della sua frustrazione senza fine. Si sentì ferito da quell’esitazione.
Eppure, in cuor suo poteva davvero biasimarla? Non era forse vero che una persona così disperata ispira poca sicurezza?
Le avrebbe dimostrato che non era un capriccio, decise. Le avrebbe dimostrato che sarebbe andato fino in fondo. Che non li avrebbe abbandonati.
“Qui nessuno ti chiede di rinunciare alla tua vita”, intervenne Taichi, insolitamente cauto. “Noi non ti imponiamo certo di sacrificarti per la causa. Inoltre, molte spese della villa sono a carico mio e di Hikari: siamo noi i proprietari, e Yagami Yuuko era nostra madre. Le spese aggiuntive per contribuire al benessere dei bambini sono per chi vuole e può contribuire, quindi del tutto facoltative. Noi non te lo chiediamo, lo sai.”
Takeru annuì. “Lo so. Sono io a chiedervi di permettermi di contribuire”, replicò semplicemente, chiedendo silenziosamente di poter fare di testa sua. “Sentite. Hikari-chan mi ha spiegato la situazione: so tutto quello che succede qui. Vi servono fondi, vi serve una mano. Avete difficoltà ad occuparvi di tutti i bambini, della manutenzione della villa, e tutto il resto. E so che, se la cosa dovesse protrarsi per troppo tempo, sarete costretti a chiudere l’orfanotrofio.”
L’accenno alla loro precarietà sembrò incupire il viso di Taichi e Koushiro, tutt’a un tratto, eppure non replicarono. Hikari stava immobile, pallida e silenziosa.
Gli era parso di sentire un sussulto, a dirla tutta. Ma pareva non fosse stato nessuno di loro, verosimilmente doveva averlo immaginato.
Riprese. “Certo, il mio contributo potrebbe non essere così decisivo, e sicuramente non ho nemmeno un briciolo della vostra esperienza in materia, ma … Se posso fare qualcosa in più per non permettere che tutti quei piccoli perdano casa e famiglia, lo farò.”
Probabilmente sarebbe ancora andato avanti, e avrebbe perlomeno cercato di spiegare loro quanto, effettivamente, sembrassero sani e felici, quei bambini, in loro presenza, e che non meritavano di perdere persone straordinarie come loro dopo aver perso anche la loro famiglia biologica, ma non gliene diedero il tempo. Taichi gli mise una mano sulla spalla, e sorrideva nuovamente.
“Sarebbe davvero da idioti impedirti di procedere, allora”, disse, e c’era del rispetto in fondo a quegli occhi scuri. “A nome dell’orfanotrofio e di tutti i bambini … grazie. Veramente.”
Takeru lo intuì quando ascoltò quelle parole, prima ancora di comprenderne il senso. Era quello, il grazie che aveva sempre cercato. Era quello.
Perché era vero. Perché era realmente sentito. Perché legittimava la sua appartenenza a quel luogo, a quel contesto. Era suo.
Scosse la testa, emozionato. “Non dovreste essere voi – Sono io che vi sono grato, in un modo che nemmeno io avrei mai creduto possibile.” Pensò a Yamato, al suo sorriso quando gli aveva parlato di loro – di lei. “Se non fosse stato per voi, ora sarei ancora in giro a sprecare tempo ed energie in atti sconclusionati.”
“Lascia stare. Taichi passa tuttora il tempo in atti sconclusionati, malgrado si diverta a fare l’eroe”, intervenne Koushiro, probabilmente nel tentativo di smorzare la tensione.
“Ehi!” Esclamò l’altro, giustamente offeso, e Takeru rise.
“Ho sentito un miagolio, da qualche parte”, disse all’improvviso Hikari, e tutti e tre si zittirono. La ragazza si guardava intorno, attenta e un po’ perplessa. “Voi no?”
Takeru batté le palpebre. Era proprio vero che non si finiva mai di imparare, in quel luogo. “Avete degli animali domestici?” Domandò, frugando nella memoria alla ricerca di un qualsiasi segnale della loro esistenza. Possibile che gli fosse sfuggito?
Hikari scosse la testa, confusa. “No, che io sappia non-”, iniziò, ma nessuno seppe mai cosa volesse dire.
Qualcosa di bianco e peloso saltò fuori da sotto la scrivania, quasi materializzandosi dal nulla. Takeru saltò su dalla sedia all’improvviso, colto alla sprovvista, e solo dopo un istante si rese conto che si trattava di un gattino. Un piccolo gattino bianco con la coda tigrata.
Un solo sguardo alle espressioni costernate di Hikari e Taichi bastò a confermargli che la situazione era strampalata anche per loro.
E lo divenne ancora di più, quando Koushiro allontanò la sedia dalla scrivania, si chinò, si immobilizzò per un istante, prima di dire a voce alta: “Dai, uscite fuori.”
Un lungo istante di silenzio, quasi cristallizzato: e Takeru capì d’un tratto ciò che era successo. Sgranò gli occhi.
Sbucò fuori, esitando, un bambino minuscolo dagli occhi verdi e il viso turbato, che lui non aveva mai visto prima d’ora e che non vide in quel momento guardare nessuno se non il gattino, appollaiato ai piedi di Hikari. Un bambino più grande con gli occhiali lo raggiunse subito, e fissò loro, invece, immobile.
Poi una massa spettinata di capelli viola emerse di colpo da sotto la scrivania, e Hikari ebbe un sussulto strozzato.
Keiji non aveva occhi che per lei, incurante della bambina dagli occhi lucidi che gli stringeva il braccio – Asami -, incurante di tutti gli altri.
La sua espressione stravolta parlò per il suo silenzio, e nella stanza cadde il gelo.

***

Era stato facile, talvolta, immaginare che sua madre fosse Hikari.
Sarebbe stata perfetta, lei. Lei aveva la dolcezza giusta, le attenzioni giuste. Lei non si agitava troppo come Jyou, ma sapeva preoccuparsi per lui come nessun altro –nel modo giusto; era lei che gli era accanto quando non riusciva a dormire, lei che gli baciava la fronte e accarezzava i capelli quando si svegliava in preda agli incubi. Lei era bella come una mamma, e lo sapeva anche senza avercela, una mamma.
Aveva sempre pensato –sperato- che sua madre fosse Hikari.
Ora la guardava, e non vedeva altro che un viso pallido, sconvolto, fragile.
Keiji si sentiva così male che non riusciva né a gridare né a piangere: poteva solo stare lì, a respirare rumorosamente, a tremare, e a guardare Hikari.
Non era sua madre.
Non poteva più tenerli con sé, forse li avrebbe dati via a qualcun altro.
E non aveva detto niente. Non gli aveva parlato.
Non le importava nulla di loro, di lui? Non poteva impegnarsi di più per tenerli con sé?
Non era sua madre. Perché le madri non si comportano così …
O forse tutte le madri davano via i loro figli, come la sua vera madre?
“Keiji-chan”, sussurrò Hikari, e continuò a fissarlo con dolore. Non pianse, non distolse lo sguardo. Lo fissò e basta, come lui fissava lei.
“Ci manderai via?”
Lei sussultò. “Ma no”, disse subito, e si avvicinò a lui piano, le braccia aperte per accoglierlo. “Non vi manderemo via, Keiji-chan, non pensarci …”
Keiji si scansò, quasi scottato. “Ci manderai via, vero?” Ripeté a voce più alta. L’urlo che non gli usciva rimase incastrato in gola, e faceva un sacco male.
Hikari si fermò di colpo, e abbassò le braccia. Keiji non l’aveva mai vista così in colpa, così triste, ma quell’espressione, se possibile, aumentò la sua voglia di urlare.
Asami gli stava stritolando il braccio, e singhiozzava piano.
“Keiji, ascolta. Anzi, ascoltatemi tutti.” Intervenne Taichi, sicuro. Ma non osò avvicinarsi. “Non dovete preoccuparvi per alcun motivo! D’accordo, avete sentito che abbiamo qualche problema, ma non è niente di così serio! Ce la faremo anche stav-”
E fu a quella bugia sorridente che Keiji esplose.
Lui l’ha detto!”Gridò, indicando con il dito il biondo, che sussultò. “Ha detto che non avete soldi per tenerci, che chiuderete l’orfanotrofio! E noi … E noi …”
Se avesse parlato ancora, sarebbe scoppiato in lacrime. Gli occhi appannati, il bambino si zittì, e il suo sguardo cadde sui colori sparsi sul pavimento, da sotto la scrivania.
Si liberò da Asami, si chinò, raccolse i suoi colori, i suoi disegni. Quel gattino scarabocchiato che aveva disegnato prima che Hikari e gli altri entrassero nello studio.
Quello che voleva regalare a Hikari …
“Vendete i miei disegni!” Esclamò, guardando le loro espressioni mortificate. “Vendeteli tutti! Pagate l’orfanotrofio con i miei disegni! Non mi importa, io non voglio andarmene!”
I ragazzi stettero zitti, e non sembravano felici come dovevano essere.
“Non vi piacciono? Dite sempre che sono belli, allora qualcuno li comprerà!” Insistette a voce più alta, non comprendendo. Che cosa succedeva? Aveva trovato una soluzione! “E io disegnerò tutto il tempo, e così guadagnerete …”
“Anche io voglio fare qualcosa!” Intervenne Asami, asciugandosi le lacrime con la manica, prendendo coraggio dalle parole di Keiji. “Io non so fare tante cose, e sono imbranata, però mi impegnerò. Posso vendere i miei giocattoli vecchi, e qualcosa che non uso più!”
“Vi prego, state tranquilli. Voi non dovete-” iniziò Hikari, la voce rotta, ma fu interrotta.
“Pensa a quanti giocattoli Ichiro-kun non usa mai, Keiji-kun!” Stava continuando Asami, voltata verso di lui con la sua stessa aria seria. “Usa solo i suoi giocattoli musicali, il resto lo si può vendere! O Taro-kun, che gioca solo con i suoi soldatini …”
“Taro e Ichiro sono bravi a recitare e cantare!” Esclamò ad un tratto Keiji, prendendo l’amica per un braccio. “Possono fare degli spettacoli, e piaceranno a tutti, e ci daranno soldi!”
“E io? Io che faccio?” Intervenne timido Suou, alzando coraggiosamente la voce.
Keiji e Asami si voltarono, sorpresi. Quasi si erano scordati di lui.
“Beh … Tu ci aiuti”, decise Asami, annuendo tra sé. Rei si incupì, e la bambina sbuffò. “Tu e Rei-kun ci aiutate, va bene?”
“Si può fare”, annuì Rei.
“Bambini, adesso basta!” L’esclamazione angosciata di Hikari li zittì tutti, di nuovo. “Non dite così, per piacere. Non succederà niente, io ve lo prometto, ve lo giuro. Non vi manderemo via, perciò non dovete fare assolutamente nulla.”
“Hikari-chan, aspetta.”
Naturalmente il biondo doveva sempre dire la sua, e Hikari doveva sempre starlo a sentire. Keiji lo guardò con ostilità, ma vide che guardava lui con una strana espressione, e allora non disse niente. Ricambiò lo sguardo, confuso.
E anche Taichi, Koushiro e Hikari fecero lo stesso.
Il biondo rimase in silenzio per un po’, a pensare, serio. Poi annuì, e i suoi occhi brillavano. “I bambini ci hanno trovato un’ottima idea”, scandì lentamente.
Keiji spalancò la bocca, incredulo.
Era davvero d’accordo con loro? Lui?
In risposta alla sua espressione sconvolta, lui sorrise.
Invece, dalla parte dei grandi, si scatenò una strana reazione.
“Come sarebbe a dire? Sono solo dei bambini!” Intervenne Koushiro, le sopracciglia aggrottate. “Non è giusto!”
“Koushiro-san ha ragione, Takeru-kun. Non capisco cosa tu abbia in mente” gli diede ragione Hikari, e per una volta non sembrava d’accordo con il biondo. Per la volta sbagliata.
“Calmatevi, non ho intenzione di sfruttare i bambini per denaro!” Alzò le mani in alto, in segno di pace. “Chiederò il loro aiuto solamente se se la sentiranno, se ne avranno voglia. Ma l’idea di una bella mostra di beneficienza, in generale, non mi sembra un’idea malvagia.”
“Spiegati meglio”, fece Taichi, serio.
Il biondo continuava a sorridere, sicuro, e a guardarli con aspettativa. “Quello che vi serve è un po’ di notorietà –concedetemi il termine. Se molta più gente fosse sensibilizzata alla causa, se noi gliene dessimo l’occasione, le donazioni aumenterebbero, giusto? E molti bambini più piccoli potrebbero essere affidati ad altre famiglie. Più piccoli, più piccoli!” Si affrettò a ripetere, all’espressione indignata di Keiji. “Inoltre, potremmo mettere del nostro per qualche bancarella, che so, di oggetti che effettivamente non usiamo più. Ci ricaveremmo comunque qualcosa.”
“Vuoi trasformare questa villa in una fiera?” Fece Koushiro, scettico.
Takeru annuì. “E non solo. Contatterò mio fratello, gli chiederò di suonare con la sua band. Attirerebbe più gente.” Si fece pensieroso di nuovo, riflettendo. “E poi … si potrebbe pensare ad altre aggiunte … Qualsiasi cosa che infarcisca l’evento. Ma il succo del discorso è questo.”
Calò il silenzio. Lui si voltò verso gli altri, immobili. “Allora? Che ne dite?”
“Non cambierai la situazione con una manifestazione di beneficienza, Takaishi-kun”, fece Koushiro, scuotendo la testa.
Il biondo si strinse nelle spalle. “Lo so. Ma conto di migliorarla, anche solo di un po’. Ora come ora possiamo solo migliorare, non credete?”
Keiji si sorprese, perché per la prima volta –no: la seconda. C’era stato l’episodio della storia, e quella era stata la prima volta- Takeru gli ispirò fiducia. Aveva anche smesso di fare quella faccia depressa che aveva sempre, quella per cui Hikari aveva deciso di aiutarlo. Quella che a lui dava tantissimo fastidio.
Adesso aveva la sua stessa decisione, solo che era più felice di lui, per motivi che non conosceva. E sorrideva un sacco. A guardarlo, veniva da credere che ce l’avrebbero fatta.
Keiji scoprì che si fidava, con la convinzione di chi ha paura di andarsene, di perdere tutto.
Guardò gli adulti, impaziente, e li vide scambiarsi degli sguardi. Quando Hikari si accorse della sua occhiata guardò verso di lui; Keiji abbassò la testa, gli occhi ancora lucidi per il pianto sfiorato di poco prima.
Non riusciva a guardarla. Non poteva.
Non gliel’aveva detto.
“Taichi, chiediamo ai bambini”, venne la voce di Hikari, e Keiji si immobilizzò. “Sono loro i diretti interessati. A noi non costa nulla, ma loro … meritano di poter decidere, per una volta.”
Il groppo in gola del bambino si fece più spesso, e avvertì un terribile bisogno di piangere, di correrle incontro, di abbracciarla. Ma non riusciva a farlo.
“Taichi, ragiona. Cosa possiamo mai aspettarci da-” intervenne Koushiro, scettico.
“No, ha ragione mia sorella. Loro ci aiuteranno a prendere una decisione.”
Taichi si avvicinò, chinandosi alla loro altezza. Keiji sollevò, esitante, lo sguardo.
Il ragazzo sembrava serio, come non lo aveva mai visto. “Cosa ne pensate di quest’idea? Sareste disposti a darci una mano? Non è necessario che partecipiate attivamente, soltanto che quest’evento non sia un problema per voi.”
Si sentiva tutti gli sguardi addosso, e per qualche strano motivo persino gli altri bambini guardavano solo lui. Aspettavano una sua decisione. Cercò di ignorarli, a disagio; ma aveva già preso una decisione.
“Voglio partecipare”, disse a voce alta. “Se farete qualcosa voglio partecipare.”
Koushiro scosse la testa, disapprovando. Takeru lo fissò, e non disse nulla. Il viso di Hikari si fece pieno di una specie di affetto tristissimo, un’espressione che faceva tanto spesso quando parlava con lui.
“Non dire voglio! Ci sono anche io, Keiji-kun!” Si lamentò Asami ad alta voce, avvicinandosi a Taichi.  “E Suou-kun e Rei-kun! E anche gli altri bambini, se chiediamo!”
Questa volta fu Keiji a guardare gli altri bambini. Nessuno esitò, nessuno aveva cambiato idea. Provavano tutti lo stesso suo sentimento di paura, la stessa voglia di restare, di fare qualcosa.
Sembravano una squadra. Una famiglia unita.
E Keiji si sentì ancora più forte, e disposto a tutto. Non aveva più tanta paura.
“Siete disposti a fare delle rinunce per questo progetto?” Chiese ancora Taichi.
Annuirono solennemente, come per un giuramento.
“E dare via cose che avete in più, o contribuire in altro modo?”
Annuirono di nuovo.
“E allora non c’è più niente da dire.” Taichi si sollevò, e si voltò verso gli altri. Sorrise, grintoso come quando giocava a calcio insieme a loro -come quando li faceva vincere- e diede una pacca a Takeru. “Proviamo a mettere alla prova la tua idea. Vedremo sul campo come andrà!”









Ho passato un sacco di tempo chiedendomi se avrei più aggiornato questa storia, e per tanto tempo la mia risposta è stata no. Non riuscivo più a continuarla, non trovavo più lo spirito giusto... E' per questo che l'aggiornamento arriva dopo così tanto tempo. Per chi è ancora qui a leggere... scusatemi davvero :( non avevo voglia di rovinare quello che avevo fatto finora giusto per dare un finale, non mi sembrava corretto! Però, nonostante tutto, ho tutte le intenzioni di terminarla :) Magari i miei aggiornamenti saranno lentissimi, ma voglio provarci, perché ci tengo. E intanto che reimposto i capitoli che verranno, ecco qui una svolta importante che dà inizio a quello che da sempre ho immaginato dovesse essere il ruolo di Takeru -dopo miliardi di tribolazioni, mi rendo conto. xD Ma meglio tardi che mai, no? 

Ah, per chi è ancora qui... Grazie <3

Padme Undomiel

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Capitolo 26
*** Resa ***


Purity 25


25.


Resa





Non fu affatto sorpresa quando sentì la vibrazione del cellulare che annunciava una chiamata in arrivo. Puntuale come un orologio svizzero come sempre, e ancora una volta senza essersi messi minimamente d’accordo.

Scoppiò a ridere, incontrando gli occhi verdi del suo gatto e scuotendo la testa. “Pare che neanche oggi saremo smentiti, Haku. Il tuo precedente padrone sta proprio andando fuori di testa.”
Continuando ad accarezzare Haku, appollaiato tra le sue braccia, Satsu si sporse sulla poltrona e afferrò il cellulare dal tavolino, avviando la chiamata. Non aveva neanche bisogno di osservare il display per sapere chi fosse il mittente.
“Eccoti qui, Iori-kun”, lo salutò allegramente. “Stavo aspettando con impazienza la successiva puntata di Ossessionati da un ragazzo dagli occhi di ghiaccio, dopo due giorni che non senti parlare d’altro finisci per appassionarti. Ti rendi conto, sì, che sembri innamorato pazzamente di lui?”
C’era una cosa, in tanti anni di conoscenza, che non era mai cambiato in Hida Iori: potevi dirgli qualsiasi cosa, cercarlo quando avevi bisogno, contare sulla sua lealtà se eri suo amico, ma il senso dell’umorismo davvero non era il suo forte. Riusciva sempre a lasciarlo un po’ spiazzato, quasi guardingo; alle volte si offendeva, persino.
Quella volta, appunto, si offese. Tantissimo. “Non sono affatto innamorato di lui!” Protestò. Conoscendolo, poteva essere arrossito fino alla punta dei capelli.“A parte il fatto che stiamo parlando di un uomo, santo cielo, come fai a pensare …”
“Tanto non sono omofoba. Sto scherzando, sto scherzando!” Dovette affrettarsi a specificare, perché il silenzio dall’altro capo era davvero un segnale preoccupante. Ma non poté impedirsi di sbuffare, rassegnata, passandosi una mano sugli occhi. “Iori-kun, dovresti davvero imparare a prenderti meno sul serio.”
“Mi sforzo di farlo! Ma puoi biasimarmi se adesso sono così nervoso? Sono preoccupato, non riesco a riderci su.”
Il suo tono era un po’ mortificato, e Satsu si morse le labbra, sorpresa una volta di più – ma non doveva esserci abituata, ormai? Dopo tutti quegli anni, dopo tutto quel tempo passato a parlare insieme?- della forte influenza che le sue parole avevano sul suo amico. Era sempre stato così, che lei lo volesse o no, che cercasse di non pensarci o, scioccamente, di cambiare le cose: un suo commento leggero avrebbe potuto ferirlo con facilità. Che gli esseri umani avessero certi poteri sugli altri era spaventoso, pensava spesso. Che poi lo avesse lei, che in fondo era ancora la stessa ragazzina innamorata di romanzi drammaticamente sentimentali e tragiche vicende amorose che nella realtà non si verificano quasi mai, che in fondo restava incapace di una storia decente con qualcuno di concreto, vivo e vero, era del tutto ingiusto. E più passava il tempo più sembrava incredibile che un tipo come Iori perseverasse nell’essere così fedele ad una persona sentimentalmente immatura come lei. Più passava il tempo, più Satsu era confusa, e turbata, e commossa – segretamente spaventata.
Ammorbidì il tono, perciò, e sorrise. “Dai, aggiornami. Sei riuscito a scoprire come si chiama? Se anche lui frequenta i corsi di legge come hai scoperto ieri ci sarà sicuramente qualcuno che sa chi è e a cui puoi chiedere-”
“Ichijouji Ken.”
Satsu rimase a bocca aperta, come se qualcuno avesse semplicemente premuto il fermo immagine.
E Iori ripeté, scandendo accuratamente ogni sillaba. “Ichijouji Ken. E’ così che si chiama, è per questo che somiglia così tanto a Ichijouji Osamu. Perché è suo fratello minore.”
Lentamente, incapace di articolare un qualsiasi suono di senso compiuto, Satsu richiuse la bocca e tacque. Un tremendo sospetto le affiorò alla mente.
“Non è finita. Ho provato a digitare Ichijouji Ken nel motore di ricerca stamattina, e guarda un po’ cosa ho trovato: Caso Hamada, nipote colpevole: è il fratello di Ichijouji a smascherarlo. Si interessa al  caso per curiosità, decide di collaborare con il fratello. Così Ichijouji Ken porta a galla la soluzione. Ecco, ti risparmio l’articolo per intero, non è altro che un delitto a porta chiusa apparentemente irrisolvibile … Ma capisci il punto? Ichijouji si è fatto aiutare da suo fratello. Vuol dire che Ken ha buone capacità investigative, e che suo fratello lo sa. Vuol dire che potrebbe averlo contattato ora per la scomparsa di Inoue Miyako, che potrebbe essere sulle sue tracce! E se lui era in libreria, e mostra interesse verso Rumiko-san …”
“Tu dici che sa?” Riuscì infine ad articolare lei in un sussurro.
“Io dico che qualcosa si sta muovendo. E che la cosa non mi piace affatto.” Fu la replica cupa. “Pensaci. Rumiko-san mi ha detto tempo fa che non si sente sicura, che si sente spiata. Nello stesso momento compare Ichijouji Ken. E non è adesso che si sta presentando quest’assurda storia delle cartoline? Noi due non siamo i soli ad averne ricevuta una, a proposito. Prova a indovinare chi mi ha contattato oggi!”
“Qualcuno dal passato, dici? Non sarà …” Satsu sussultò. “Motomiya Daisuke?”
“Hai capito al volo. Vuole parlare con me, e dalla sua agitazione e dal poco che mi ha fatto capire al telefono credo proprio di sapere quale sarà l’oggetto della conversazione. Dobbiamo stare attenti, Satsu-san”, aggiunse Iori, serio come poche volte l’aveva sentito. “Qualsiasi passo falso potrebbe tradirci, e capovolgere la nostra situazione a nostro svantaggio.”
Non sai quant’è vero, pensò Satsu tra sé, e si trattenne a stento dallo scoppiare a ridere istericamente. “Perciò, cosa, uhm, pensavi di fare? A parte continuare a pedinare Ichijouji Ken, intendo”, aggiunse, e questa volta Iori riuscì a ridere un pochino. “Rumiko-chan dovrebbe conoscere i nostri sospetti o facciamo di nuovo gli agenti segreti?”
L’altro rimase silenzioso per un po’. “Non diciamole nulla”, decise alla fine. “Personalmente non credo affatto nelle coincidenze, in questo caso, ma lei è già abbastanza spaventata di suo. Oltretutto sta anche male ultimamente … Vediamocela noi, e se la situazione si farà critica gliene parleremo.”
Satsu aveva la netta sensazione che la situazione fosse già critica oltre misura, a dirla tutta. Bastava pensare a dove fosse Miyako quella sera. Bastava pensare a dove l’aveva mandata lei quella sera. Deglutì. “Come vuoi …”
“A proposito, sei riuscita a vederla? Le hai parlato?”
Un miagolio infastidito di Haku le fece capire che stava stringendo il suo povero gatto troppo forte. Aprì le braccia, e lasciò che saltasse giù, stizzito. Quanto a lei, non poté che ridere nervosamente, e sperare di suonare naturale. “Ah, sì. E credo … Credo stia decisamente molto meglio adesso.”
Fin troppo, si disse, e prese nota che avrebbe dovuto parlarci ancora, con quell’incosciente.
Iori, del tutto ignaro, decise di peggiorare le cose. “Grazie. E’ così bello che Rumiko-san possa sempre contare su un’amica come te, sai sempre cosa dirle per aiutarla.” Le disse, un tono così dolce che Satsu avvampò, terribilmente in colpa. Miyako l’avrebbe sicuramente sentita. “Non voglio sapere nulla, basta che lei stia meglio. In fondo sono discorsi tra donne.”
“Già, discorsi tra donne”, borbottò, per poi sospirare. “Allora ci risentiamo quando avrai parlato con Daisuke, d’accordo?”
“Naturale. Buona serata, Satsu-san.”
Iori chiuse la comunicazione, e per qualche istante Satsu rimase con il telefono incollato all’orecchio, il segnale acustico intermittente a ricordarle che avrebbe dovuto muoversi a chiudere anche lei.
“Ken. Si chiama Ken.”
“C’è un certo Ken – di cui non vuoi dirmi il cognome- che ti stressa, che pare vivere in libreria e per il quale hai sviluppato una sorta di sentimento di attrazione-repulsione.”
“Che motivo hai di nasconderti, comunque?”
Con un gemito esasperato, Satsu chiuse il telefono e quasi lo lanciò sul tavolino, prendendosi la testa tra le mani. Non si poteva mai stare tranquilli con quella ragazza, neanche quando si trattava di un semplice appuntamento galante: si poteva essere certi che si sarebbe messa nei guai, ed eccone la dimostrazione.
Ichijouji Ken. Con tutti i ragazzi che poteva avere, lei si faceva incantare dal fratello di Ichijouji Osamu.
Non era sicura di pentirsi del tutto del consiglio che le aveva dato il giorno prima – non avrebbe capito mai perché Miyako si nascondeva come una ladra, come se avesse commesso lei le vere azioni deplorevoli-, ma magari sarebbe stato meglio conoscere la situazione, prima di spingerla tra le braccia del Seduttore Ichijouji quella sera.
Haku le si strusciò sulle gambe, e Satsu gli lanciò una lunga occhiata.
“Ah, io spero sul serio che Rumiko-chan sappia quello che fa, Haku.”

***

Tu. Non hai idea. Dell’effetto. Che fai. Sulle donne.
 “Dai, non ti sembra di esagerare adesso? E’ solo una macchina.”
Solo una macchina?! Mi vieni a prendere sotto casa come un perfetto galantuomo, mi apri lo sportello, mi tratti di lusso, e come se non bastasse mi porti in giro con una signora macchina che sembra una limousine. Quante donne hai costretto alla morte per sincope senza neanche accorgertene, Ichijouji Ken?”
Miyako aveva dovuto cambiare idea sulla storia l’amore è istinto, e molto in fretta, nell’arco di quella giornata. Si era resa conto che si trattava di una delle sue sciocche convinzioni romantiche da adolescente, di quelle che andavano bene per rovinarsi la vita, fare un figlio e abbandonarlo ad un orfanotrofio. Grande guadagno davvero.
No, l’amore non era istinto, o se non altro non solo. Se lo fosse stato, Miyako avrebbe disdetto l’appuntamento il momento stesso in cui aveva chiuso la telefonata con lui, il pomeriggio prima, piena di sensi di colpa, di ansia e di voglia di nascondersi una volta di più; o poche ore prima, intenta a guardarsi allo specchio e a prepararsi, pensando che non avrebbe potuto, dovuto fare una cosa tanto rischiosa; o nel momento in cui lui era arrivato a prenderla sotto casa sua, pieno di agitazione e aspettativa, e lei aveva scorto la gioia nei suoi occhi.
Lei invece non aveva disdetto. Aveva una paura da matti, ce l’aveva anche ora, ma non aveva disdetto e non voleva andare a casa.
Perciò, era una delle due cose: l’amore non era istinto, o lei non provava niente del genere per Ichijouji Ken, ed era solo impazzita.
Ma forse era meglio smetterla di pensare a cose istintive o meno. Avesse dato ascolto a quello, osservando Ken dritto davanti a lei, elegantissimo, il viso illuminato di leggero imbarazzo e gli occhi socchiusi mentre rideva di cuore, e considerando quanto era maledettamente bello, si sarebbe sporta verso di lui e lo avrebbe baciato all’istante.
“Lo dirò a Osamu quando lo vedrò, allora. La macchina è sua, sai.” Ken le porse il braccio, timido, come se si aspettasse di essere azzannato. Spalancava gli occhi quando era insicuro, iniziava a notare Miyako man mano che passava il tempo con lui; lo stava facendo anche ora.
Gli prese il braccio allegramente, stringendoglielo un po’ rassicurante. “Il signor detective fa grandi affari?” Si costrinse a dire, un sorriso tirato sulle labbra. Aveva fatto le prove a casa, davanti allo specchio. Aveva detto mille volte il suo nome, cercando di non battere ciglio: Ichijouji Osamu. Ichijouji Osamu. Ichijouji Osamu. Il trucco era immaginare di non essere Inoue Miyako, di essere solo Miyazawa Rumiko, legittimamente curiosa sul fratello del ragazzo del suo appuntamento. Per uscire con Ken, doveva considerare anche Osamu nel pacchetto, era inevitabile.
Ken ridacchiò di nuovo, conducendola su per le scale che li avrebbero portati all’interno del teatro. “Detta così sembra che si tratti di un plurimiliardario”, commentò. “La verità è che ha risolto casi importanti per famiglie importanti. La macchina è stata un regalo di una famiglia di ricchi ereditieri dopo che mio fratello li aiutò a recuperare alcuni cimeli di famiglia rubati. Osamu di solito non ama accettare regali, ma quella volta mi disse che non gli avevano permesso di rifiutare. E siccome lui non la usa, beh …”
“… Te l’ha regalata. Però. Che fratello premuroso.” La recita non le stava uscendo tanto male.
Ken fece spallucce, imbarazzato. “Non … la uso troppo neanche io, a dire il vero. Stasera è un po’ un’eccezione.” Arrossì, guardandola di sottecchi. “Volevo fare bella figura.”
La scalinata era piena di gente elegante, tacchi alti e lunghi vestiti, smoking scuri e guanti bianchi, pellicce e borse firmate. Eppure, sotto lo sguardo intenso di Ken, fu lei, nel suo semplice abito corto scuro e la parrucca acconciata, a sentirsi la più bella di tutti in quel momento. Fu come tornare ad essere una ragazzina sciocca – una persona felice.
Varcarono l’ingresso, e si fermarono davanti ad una maschera in giacca e cravatta, elegante e professionale. Indicò loro la strada dove avrebbero trovato i loro posti, augurando loro una buona serata.
“Io volevo fare una figura eccellente, invece, così mi avresti perdonato eventuali gaffe nel corso della serata”, ammise con un sorriso birichino. “Non conosco l’etichetta per concerti di musica classica, sai. Guarda quanta bella gente! Ma è sempre così?”
“Non sei mai stata ad un concerto di musica classica?” Le chiese Ken sorpreso, mentre avanzavano all’interno del teatro. Non era molto grande ma era decisamente raffinato, un ambiente a due piani con file e file di poltroncine rosse che scendevano in obliquo verso il centro della sala, un ampio palco in legno chiuso da spesse tende rosse e orlate d’oro, che fungeva da sipario. Le luci un po’ soffuse guidavano gli ospiti della serata mentre, parlando con voce sommessa, cercavano il posto assegnato loro e si scambiavano strette di mano.
Miyako scosse la testa, e rise. “No, nel modo più assoluto. Anni fa mi annoiava terribilmente, non ne ho mai fatto mistero con nessuno, in effetti. Musica è energia, e l’energia non si trova nelle ninnananne, dicevo.” La nostalgia incrinò un po’ il suo sorriso. “Ero più tipa da roba techno-pop. Nel tempo libero mi divertivo a sintetizzare musica elettronica, e il mio sogno più grande era metter su una band coi miei amici. L’avrò proposto un sacco di volte, ma niente! Impegni, difficoltà, poco interesse, che razza di musica ascolti?, bla bla bla … Non se n’è fatto più nulla. Avrò tenuto loro il broncio per settimane.”
Il sollievo fu improvviso, totalizzante. Erano anni che pensava senza sosta a quei visi un tempo così familiari; anni che, come in un nastro danneggiato, non faceva che proiettare scene e dialoghi a ripetizione, spettatrice di una vita che non le apparteneva più. Ma non aveva mai potuto parlarne con nessuno, e alla lunga quei volti avevano finito per diventare fantasmi.
Parlandone con Ken, tornarono ad avere contorni netti. E sebbene ridar loro vita fosse il minimo che potesse fare per loro, la sensazione le scaldò il cuore.
Ken si bloccò. “Ninnananne?” Un’espressione che era un misto tra senso di colpa e rimprovero apparve sul suo viso. “Ma perché mi hai proposto di venire qui, se non ti piace? Potevamo andare da qualche altra parte … Che senso ha annoiarti?”
Lo aveva messo in crisi, e rattristato sul serio, a quanto sembrava.
Miyako lo guardò dritto negli occhi, e gli sorrise. “Non mi annoio perché non m’importa nulla della musica classica, né dell’occasione in sé. Avresti potuto portarmi a raccogliere fagioli, e io ci sarei stata. Ci tenevo a vedere te.”
Arrossì, lui. Arrossì come un peperone. “Oh. Ma … ” Balbettò, come se fosse veramente sconcertato dalla cosa, come se lui non valesse tanto. “Oh.”
E qualcosa in fondo ai suoi occhi brillava, in modo intenso – insopportabile. Il cuore di Miyako prese a martellargli nel petto, doloroso. Un altro frammento delle sue resistenze andò in pezzi.
“E poi”, si affrettò a smorzare la tensione mentre prendevano finalmente posto sulle poltroncine rosse, “a te piace, quindi ho deciso di darle una possibilità. Al massimo me la prenderò con te per non avermi proposto altro.”
Ken tacque, e le lanciò uno sguardo di sottecchi. Si schiarì la voce. “A tal proposito … credo di doverti confessare una cosa, a questo punto. Credevo non l’avrei rivelato, ma vista la situazione …” Sembrava imbarazzatissimo, come se dovesse tirar fuori un importante segreto di stato. Poi si decise, solenne. “Non ho mai ascoltato musica classica prima di ieri. Cioè. Quello che intendo è che non ascolto musica, di solito. Mi capita ogni tanto, ma ammetto la mia totale ignoranza a riguardo.”
Miyako lo fissò a bocca aperta.
“Pensavo che a te piacesse, così quando sono tornato a casa ieri sera ho cercato di farmi una cultura almeno su questo pianista. Ho letto la sua biografia, e ascoltato quante più esibizioni possibile.”
Silenzio.
“Mi sembra … bravo? Beh, spero che lo sia, insomma. A me non dispiace”, concluse Ken tutto d’un fiato, e aveva l’espressione più colpevole di questo mondo.
Miyako scoppiò a ridere forte.
“Allora si può sapere a chi interessava davvero questo concerto?” Esclamò tra le risate, e si guadagnò delle occhiate scandalizzate e offese dagli spettatori impellicciati. Li ignorò completamente. “Ma scusa, ieri mi hai detto che la musica classica ti piaceva molto!”
“E’ che mi vergognavo … Ah, sono uno stupido. Puoi ridere quanto vuoi.” E rideva anche lui, timido, senza mostrare minimamente di sentirsi offeso dalle risate di lei. Pareva che fosse autoironico, e umile.
Le risate di Miyako si spensero pian piano. “Sì.” Confermò. E la sua mano si mosse da sola, nella penombra della sala, e strinse quella di lui. Ken sgranò gli occhi, e smise di ridere anche lui, colto di sorpresa.
“Sì, sei uno stupido. Lo siamo entrambi.” Gli disse a bassa voce. E non poté smettere di guardarlo.
Lui lesse sicuramente qualcosa sul suo volto, Miyako non riusciva a nascondere le sue emozioni – sembrava non avesse più controllo di sé nel modo più assoluto. Il suo viso cambiò.
Dopo un istante di esitazione, ricambiò la stretta, gentile. La sua mano era calda. La sua voce lo fu molto di più.
“Grazie per essere qui stasera, Rumiko-san.” Le disse dolcemente. E le sorrise.
Iniziò a parlarle, sereno come non lo aveva mai visto, lo sguardo che spesso finiva sulle loro mani intrecciate, molto più spesso sul suo viso. Le parlò del pianista, naturalmente –“Dal momento che ne so così tanto”-, e risero ancora come due sciocchi nel fingere di essere davvero interessati alle sue tournée in giro per il Giappone, nel fingersi grandi esperti sulle sue modalità di esecuzione, nel citare opere a caso che inventavano lì per lì. Miyako cercò di ricordarsi in ogni momento che avrebbe dovuto sentirsi a disagio, in allerta, spaventata, ma tutto passava in secondo piano, tutto tranne il calore che sentiva diffondersi nel petto. Le persone entravano e uscivano, prendevano posto accanto a loro, ma nessuno dei due vi fece troppo caso.
Chissà come, saltando di palo in frasca, finirono anche a parlare delle indagini – e la mano di Ken le fornì il sostegno necessario per tollerare l’improvviso battito accelerato. Fu lei a spronarlo a proseguire il discorso, anche se avrebbe voluto evitarlo, da un lato: si era accorta con sorpresa che non era solo l’apprensione a spingerla, che era anche e soprattutto perché aveva notato, dalla sua espressione improvvisamente incupitasi, che c’era qualcosa che lo rattristava di quella faccenda. Così si armò di coraggio, e stette ad ascoltarlo.
Scoprì che non dormiva più di qualche ora a notte, informandosi quanto poteva sui trascorsi dei suoi indiziati. Quelle due notti, poi, specialmente. Il giorno prima dell’appuntamento aveva parlato con Harumi, e lei gli aveva rivelato della morte di Satoshi. Così lui aveva cercato di sapere le esatte dinamiche della faccenda.
“Per dirla tutta, il corpo non fu mai trovato”, le spiegò, raccontando l’esito degli studi sulla documentazione offertagli da Osamu. “La casa era a soqquadro, e molti effetti personali, soprattutto quelli di valore, erano scomparsi, per cui fu pensato ad una rapina. Ono Satoshi era ricco, abitava in un villino quasi fuori Tokyo, per cui la cosa sarebbe plausibile … Ma nessun corpo. Sangue sul tappeto e sulla maniglia della porta, a quanto pare di Ono stesso, ma nessun corpo. Strana come rapina, non credi? Osamu ha ipotizzato anche un mercato nero di cadaveri, sai, per la vendita sottobanco di organi. Ma le ricerche da lui condotte non hanno potuto risalire a quel ragazzo.”
“Mercato di organi?” Quasi strillò Miyako, schifata. “Che orrore è mai questo?”
Ken le sorrise, amaro. “Lo penso anche io.”
Le spiegò che Satoshi viveva solo con un maggiordomo, un fidato sottoposto di famiglia, che si era occupato di crescere il ragazzo quando i genitori erano morti in un incidente d’auto. Scomparso anche lui. La sua assenza aveva fatto pensare alla stampa, e all’immaginario collettivo, che fosse lui l’assassino. Tanto più che la fortuna degli Ono era sparita con lui, le carte di credito estinte.
“L’ultimo movimento di cui sappiamo qualcosa è una curiosamente ingente donazione a favore dell’orfanotrofio Yagami. Poi il vuoto.”
Così adesso le sue indagini vertevano su più fronti: risalire alla storia d’amore tra Inoue Miyako e Ono Satoshi, capire il collegamento Ono- orfanotrofio, e spiegarsi il significato nascosto dietro la cartolina ricevuta da Harumi. Ma probabilmente la cartolina sarebbe stato affare prettamente di Osamu, al momento, visto che era una novità nella sua indagine.
E poi, il tono che abbandonava la neutralità e si faceva risentito, iniziò a parlare di Osamu, del suo comportamento “deplorevole”, dello sconcerto che aveva provato a casa Inori il giorno prima. Si sfogò con lei su qualsiasi cosa, proprio come aveva fatto nel parco coi ciliegi, durante loro primo appuntamento, e le sue guance si accesero per la foga.
“E’ che non lo capisco proprio, ma se le cose stanno così non so se ci tengo a capirlo. Non credevo che mio fratello fosse tanto meschino”, concluse amareggiato.
Miyako non poté trattenersi, e ridacchiò.
Ken la fissò confuso. “Cosa?”
“Oh, scusa, Ken-kun, ma sei buffo.” Si giustificò Miyako, stringendosi nelle spalle.
Questo sembrò farlo imbronciare. “Come, buffo?”
Sembrava un bambino incompreso, e Miyako si ritrovò a sorridergli intenerita.
“Buffo perché ne stai facendo una tragedia, quando magari non è così terribile come la vedi tu.” Gli disse schiettamente. “Tuo fratello ha flirtato un pochino, ma certo la cosa non si è mai spinta oltre, no? Ichijouji-san non mi sembra proprio il tipo.”
“Vuoi dire che a te non sembra una cosa moralmente scorretta?” Fece incredulo lui.
“Ma non te la prendere!” Rise Miyako. “Una cosa furba, questo sì. Tuo fratello ci sa fare.” Cercò di controllare l’ansia rintracciabile nel suo tono, e si impose di proseguire. “Lo sai che cosa penso? Penso che tu ci sia rimasto così male perché ti sei reso conto che non lo conosci quanto vorresti, e hai paura di sapere che sia una brutta persona, dopotutto.”
Ken distolse lo sguardo. “Più che altro non capisco perché manipoli le persone … come manipola anche me. E non capisco perché io glielo lasci fare.”
“Perché è la prima volta che lavorate insieme, no? Me lo hai detto tu stesso.” Miyako gli strinse più forte la mano, rassicurante. “Quello che non capisco io, invece, è come speriate di risolvere casi se non sapete nemmeno dirvi che vi stimate a vicenda.”
“Osamu non mi stima affatto”, sorrise Ken disilluso.
“Lo vedi? Non hai capito un accidente.” Lei sospirò, frustrata. “E secondo te perché ti mette alla prova continuamente? Vuole vedere come ci arrivi, perché sa che ci arriverai. Ti stima. E secondo me ti vuole anche bene quanto tu ne vuoi a lui.”
Sembrò sorprenderlo fortemente.
“Oh, questo proprio no.” Fece, a disagio. “Sai, io e lui non … Non abbiamo mai avuto questo gran rapporto. Da bambini forse sì, però …”
“Anche distanti, i fratelli sono sempre fratelli.” Lo interruppe lei con passione, e si accorse troppo tardi che la voce le era tremata. “Per piacere, parlagli e risolvi al più presto. La fai come se fosse una condizione definitiva, la vostra mancata comprensione reciproca, ma non è come se tu non avessi più un fratello. Prima che la situazione degeneri, parla chiaramente a Osamu e non avere paura. Promettimelo.”
“Rumiko-san …” Ken sembrava strabiliato. “Che cos’hai?”
E come poteva lei spiegargli che stava pensando a Momoe, Chizuru e Mantarou con rinnovata nostalgia e dolore? Che aveva ripensato a quanto avrebbe voluto correre da loro, sapere che persone erano diventate, far sapere loro il perché di tutto quello che aveva fatto e quanto era cambiata, chiedere loro scusa, senza poterlo fare? Scosse la testa, decisa, cercando di non fargli vedere la sua espressione, ora fin troppo scoperta. “Promettimelo, Ken-kun.”
Un momento di silenzio, quel tanto che bastò perché Miyako recuperasse il controllo di sé.
“Te lo prometto, Rumiko-san”, disse infine Ken.
Miyako tirò un respiro profondo, chiudendo gli occhi per tornare alla normalità. “Bene.”
Poi sentì le dita di lui sfiorarle il viso, così piano e in modo così esitante che quasi ebbe la sensazione di esserselo immaginato. Sussultò, e riaprì gli occhi.
Ken ritirò pronto la mano, imbarazzato, ma nei suoi occhi non c’era altro che un’espressione profondamente dispiaciuta.
“Ti chiedo scusa”, le disse. “Ti ho turbata in qualche modo. Non volevo.”
Questo la sconvolse. Restò a guardarlo, incredula. “Dovrei essere io a scusarmi, perché sono un disastro e ho reazioni spropositate di cui non provo neanche a darti spiegazioni”, obiettò, e fu tentata dal mordersi la lingua subito dopo. Accentuare la stranezza delle proprie reazioni: la cosa più indicata da fare, senza dubbio. Stupida, stupida Miyako.
“Non m’importa”, disse Ken in un sussurro. I suoi occhi avevano una nota intensa, e Miyako perse il respiro. “Non m’importa se non vuoi spiegarmi niente, se non puoi persino. Te l’ho promesso: non farò domande se non vorrai. Era questo il nostro patto di ieri, ricordi? Ma io …”
Esitò, la sua mano ancora sollevata a mezz’aria. Silenzioso, le chiese il permesso.
Miyako stava zitta. Tremava.
E le dita di Ken le sfiorarono di nuovo la guancia, più sicure, più dolci. “Ma io non posso impedirmi di sperare – oso troppo, forse … chiamami pure arrogante, se vuoi-, che un giorno vorrai parlarmene … che potrò conoscerti come vorrei. Che potrò aiutarti come posso. Che me lo concederai.”
Era gentile, capì Miyako. Era semplice. Era sincero. Era onesto e buono, come lei non avrebbe mai potuto essere. E nonostante tutto, nonostante gli innumerevoli impedimenti e paletti che lei poneva in continuazione, lui sembrava volerla lo stesso. La aspettava e rispettava.
E le chiedeva il permesso per qualcosa che, ora se ne accorgeva, gli aveva accordato da due giorni almeno, ormai.
Lo sentì nuovamente, chiaramente, più forte che mai. Crac. Ogni brandello di resistenza sparì.
Rimasero solo loro due, a fissarsi turbati come due anime appena incontratesi, senza sapere bene cosa fare con quel dono improvviso e quasi spaventoso.
Finché le luci non si spensero di colpo, e gli applausi non riempirono la sala.
Ripensandoci più in là non seppe mai chi dei due fu il primo ad avvicinarsi, chi iniziò e chi concluse. Nel buio, le loro labbra si cercarono, cieche al pianista appena salito sul palco, sorde ai primi tasti accarezzati, incuranti di trovarsi in un luogo così affollato.
Si cercarono, si parlarono, si dissero tutto quello che non avevano potuto dire a parole: il significato dietro tutte quelle ore a cercarsi in biblioteca, ad aspettarsi e non trovarsi, a sfiorarsi e poi scappare, a tornare indietro nonostante tutto. Per un breve istante, un folle momento, si persero.
Quando riaprirono gli occhi nel buio, la musica invase improvvisamente i loro sensi, e seppero dov’erano finiti. Si guardarono.
Miyako, gli occhi lucidi e le labbra tremanti, disse: “Pare che sia bravo sul serio, questo pianista”.
Ken per un momento sembrò non sapere di cosa lei stesse parlando. Poi capì: sorrise, improvvisamente timido. “Sì, lo è.” I suoi occhi brillavano ancora.
La risata di Miyako somigliò più a un singhiozzo che ad altro. “Siamo un pubblico maleducato, non trovi?”
Non poté impedirselo: posò pian piano il capo sulla spalla di Ken, sentendolo irrigidirsi appena per la sorpresa, e notando con sollievo che l’altro non mostrava la minima intenzione di spostarla. Se lo guardava con attenzione, poteva notare perfino il rossore sul suo viso, quello che neanche in una situazione del genere voleva saperne di andar via.
E proprio come poco prima, con le labbra di Ken sulle sue, successe di nuovo.
Lì, nel buio, col cuore gonfio che batteva quasi dolorosamente contro il suo petto, con l’odore di Ken ben impresso nelle narici e il contatto rassicurante della sua spalla contro la guancia, per la prima volta Miyako si sentì libera dal peso che portava dentro di sé da anni. E la commozione quasi la stroncò.
Chiuse gli occhi, sorridendo, e rimase ad ascoltare.

***

Takeru non si arrampicava più da una vita, ormai.
Aveva le mani graffiate, gli abiti pieni di foglie e rametti, ed era lentissimo mentre cercava un appiglio. Il fatto che fosse sera, poi, assolutamente non aiutava la sua visibilità. Strizzò gli occhi, fermandosi un momento per guardare la sua destinazione.
C’era quasi, finalmente. Un altro piccolo sforzo.
Tirò un respiro profondo, facendosi forza. Non tirava neanche troppo vento, nessun ramo si sarebbe mosso troppo.
Poi ricominciò la sua scalata.
Il bambino lo aveva visto da un secolo, supponeva. Si era girato un attimo, il tempo di sussultare per l’intrusione, e poi si era voltato nuovamente. Un chiaro segnale che non aveva alcuna voglia di parlare con lui. Ma Takeru aveva continuato a salire, stringendo i denti, e così lo aveva costretto a voltarsi una, due, tre volte, prima infastidito, poi guardingo, infine semplicemente stupefatto.
Ora lo fissava, seduto su un ramo più in alto, e i suoi movimenti incerti sul posto sembravano rivelare fin troppo sul suo stato d’animo. Non sapeva cosa fare con lui.
All’improvviso, però, Takeru rischiò di cadere, e si aggrappò goffamente al ramo che stava cercando di usare come appoggio. Il cuore prese a battergli rumorosamente, mentre manteneva lo sguardo fisso davanti a sé, gli occhi sgranati, rifiutandosi categoricamente di guardare in basso e scoprire quanto fosse salito in alto.
“Non si fa mica così!”, esclamò Keiji, mettendosi in piedi con uno scatto.
Takeru rise, una nota terrorizzata nella voce. “Un tempo ero … più bravo a salire sugli alberi. Mi sa che sono troppo vecchio.”
“Un pochino.” Keiji lo studiò attentamente in tutta la sua lunghezza. “E’ che sei troppo lungo. E pesante.”
“Nessun problema, basterà … far piano. Ecco. Tutto a posto.” Si rimise dritto come poteva, le gambe un po’ tremanti per lo spavento. Si immaginò visto dall’esterno, e quasi scoppiò a ridere di nuovo: che magra figura da fare davanti a un bambino di sette anni. Ma come aveva fatto, alla sua età? Non lo ricordava un compito così arduo.
Senza perdersi d’animo, si rimise a studiare la fisionomia dei rami, cercando i più sicuri.
“Quello lì.” Disse all’improvviso Keiji, indicando un ramo sulla sua destra. Takeru sbatté le palpebre, sorpreso. Il bambino non lo guardava, sembrava imbarazzato. “Quello ti regge, secondo me.”
“Ti ringrazio”, disse Takeru. E aveva ragione: era un ottimo appiglio. Ci si arrampicò senza troppi problemi, afferrando la corteccia con tutte le sue forze. Fortunatamente non gli ci volle molto per raggiungere il bambino: si mise a sedere, tirando un gran sospiro di sollievo.
Sorrise, con aria di scusa nei confronti del visino corrucciato di Keiji. “Beh, meno male che qualcuno che ne capisce di arrampicate c’è, tra noi”, scherzò.
“Se avevi paura potevi anche non salire”, rispose l’altro un po’ brusco. Ma lo studiava, lanciandogli sguardi con la coda dell’occhio.
“Non avevo paura, prima di salire.”
“Ma se tremavi come una foglia!”
“Ma quello è stato dopo.”
Keiji lo fissò. Takeru sorrise di nuovo. “L’importante è essere arrivati, no?”
E ora che ci faceva caso, finalmente non più appeso a penzoloni su un ramo pericolante, riusciva a capire il perché della predilezione per quel rifugio. La vista da lassù era molto bella: si scorgevano le luci dei grattacieli oltre il cancello dell’orfanotrofio, naturalmente, ma anche le luci delle finestre dell’orfanotrofio stesso, dalle quali si intravedeva a volte passare qualcuno, nel continuo viavai che la gestione dei bambini e della villa richiedeva. Le file ordinate di alberi del giardino, poi, dalle fronde verdi e ben curate. E i passanti oltre il cancello, le espressioni stanche degli impiegati che tornavano a casa dopo il lavoro. Il buio della volta celeste, che celava la vista delle stelle perché troppo ebbra di luce artificiale.
E c’era silenzio, di quelli un po’ ovattati, di quelli che non mettono mai a disagio.
Takeru si appoggiò contro il tronco, osservando il cielo.
“Lo sai, io ho una nonna che abita fuori città”, fece di punto in bianco, decidendo di soprassedere momentaneamente sul fatto che Keiji non avesse voglia di parlare con lui. “Le notti in campagna, lì, sono diverse. Ti è mai capitato di vederle? Il cielo è strapieno di stelle. Io e mio fratello uscivamo spesso di nascosto, quando era tempo di dormire, e le guardavamo, sdraiati sull’erba. Cercavamo di contarle con il dito: ci dividevamo le zone, lui contava a destra, io a sinistra. Ma era difficile: eravamo così sopraffatti dalla loro numerosità che le nostre dita finivano per scontrarsi nel mentre, e litigavamo su chi dovesse avere la precedenza ad annoverare la stella oggetto di discordia nel suo conteggio.”
Il sorriso di Takeru si fece un po’ malinconico. Quei giochi avevano perso d’importanza quando i loro genitori si erano separati. Yamato aveva cominciato a dirgli che faceva freddo, lì fuori a quell’ora, a preoccuparsi che lui prendesse un raffreddore; a trovarla una cattiva idea. Quanto a Takeru, gli mancava così tanto suo fratello che non avrebbe mai voluto contrariarlo. Si risolse a non fare il bambino capriccioso, per dimostrargli che era maturo e forte. Smise di proporglielo.
“Di’, Keiji-chan, hai mai visto una notte così piena di stelle da non poterle contare?”
Keiji rimase zitto per qualche tempo, evidentemente ancora indeciso se parlargli o meno. Infine, scosse la testa.
“E’ un peccato”, rispose Takeru. “Dovremmo rimediare. Un giorno mi piacerebbe farti vedere.”
“Vorrei saper volare. Così arriverei in alto, molto più in alto di così. E le vedrei anche io. Le vedrei anche senza andare in campagna.”
Non fu che un mormorio sommesso, affranto, ma lui lo sentì lo stesso. Il suo sorriso scemò.
Non lo aveva mai capito, quel bambino dai curiosi capelli viola, forse perché non se n’era mai concessa la possibilità. Non era stato solo il rifiuto ben evidente di Keiji, suggellato da quel disegno che gli aveva presentato la prima volta che lo aveva conosciuto, quello che lo denotava inevitabilmente come Estraneo: era stato anche, e soprattutto, per la sua stessa codardia. Forse, in definitiva, aveva avuto paura di essere giudicato da quegli occhi troppo onesti, di sentirsi un ladro e un parassita come Keiji lo aveva dipinto. E poi, in un certo senso, non aveva voluto mettere il naso nel rapporto speciale che legava Hikari a lui, gli era parso quasi indelicato. Si era sentito così tanto in soggezione che aveva finito per scordarsi che si parlava pur sempre di un bambino di sette anni, e niente più di quello.
Un bambino di sette anni che si sforzava di fronteggiare eventi che non capiva, che lo facevano soffrire, che non desiderava ma che non poteva fermare.
E vederlo così smarrito, così solo, così impotente, gli toccò qualche corda dentro di sé, qualcosa che assomigliava fin troppo a quello che aveva provato quando aveva deciso di scalare quell’albero per cercarlo.
“Volare in alto sembra tanto bello, chi non lo desidererebbe? Ma, Keiji-chan,”, fece delicatamente, attento a non offenderlo. “Io guarderei anche in basso, oggi, se fossi in te.”
“Cosa c’è in basso?” Keiji si voltò a guardarlo, la fronte aggrottata.
Takeru glielo indicò col dito.
Seminascosta nel buio, poco più che un’ombra seduta contro il tronco dell’albero, la sua figura immobile sembrava remota, quasi impalpabile. Eppure era ancora ferma lì, stringendosi in una giacca improvvisata, e aspettava.
Sorrise dolcemente, mentre il bambino seguiva la direzione del suo dito, e si immobilizzava.
“Hikari-chan non si è mossa di lì da quando sei salito su quest’albero”, gli spiegò. “E non se ne andrà finché non andrai da lei. Vuole parlarti.”
Lo vide turbato, profondamente.
“E se io non scendessi mai?”
Takeru scrollò le spalle. “Non se ne andrà mai.”
“Ma deve andare a dormire!”
“Anche tu, d’altronde.”
Keiji lo guardò. Fece per replicare qualcosa, forse un’altra risposta provocatoria del tipo Non ho sonno, ma poi sembrò ripensarci. Tornò ad abbassare lo sguardo: al ragazzo parve di non averlo mai visto tanto combattuto, e tanto abbattuto.
Sembrava essere profondamente affezionato a Hikari, almeno quanto Hikari lo era a lui.
Gli mise una mano sulla spalla, rischiando di essere scacciato. Ma Keiji non si mosse, così lui gliela strinse un po’, cercando di consolarlo.
“Non pensi che dovresti parlarle? Almeno sapere cosa vuole dirti.” Disse piano.
Keiji si adombrò ancora di più. “Non lo so.”
“Non sai se vuoi parlarle?” Insistette Takeru.
Keiji stette zitto.
“Non ti piace l’idea della manifestazione di beneficienza?” Tentò allora. “Perché se non sei d’accordo si può pensare a qualcos’altro. Taichi-san e Hikari-chan sono stati chiari a riguardo: dipende da voi …”
“Non è questo!” Keiji sollevò di scatto la testa, un’espressione decisa sul volto. “Io voglio farlo. Farò qualunque cosa, ma non voglio andare via. Voglio restare qui.” Il bambino gettò uno sguardo alla luna dietro di lui, tremendamente serio. “E’ qui che la mia mamma mi verrà a cercare.”
La sua mamma.
Ve lo affido perché possa crescere e vivere, come non ha potuto fare con me.
 “E poi qui ci sono i miei amici. E …” Keiji si interruppe, e di nuovo il suo sguardo si posò sulla figura immobile di Hikari. Socchiuse gli occhi, e sembrò disperato. “Non voglio andare via.”
Era un bambino maturo, si accorse Takeru. Sensibile, ma forte. E il suo dolore lo colpì in modo singolare, tanto che per qualche istante non seppe cosa dire.
Un’espressione del genere non si addice a un bambino, fu tutto ciò che pensò.
Come, forse, non si addiceva a quella di Takeru stesso, quando non aveva che sette anni anche lui, e osservava suo padre e suo fratello andar via di casa con la morte nel cuore …
Solo allora si accorse di avere le parole giuste, e quelle parole quasi non aspettarono di diventare consce prima di lasciare le sue labbra.
“Diglielo”, disse con passione. Keiji lo guardò: aveva gli occhi sgranati, smarriti, lucidi. “Dille che vuoi restare qui, che non vuoi lasciarla. Raccontale cosa significa per te stare in mezzo agli altri, in mezzo ai ragazzi, e in compagnia di Hikari-chan. E fatti rassicurare da lei, perché lei ha il potere di impedire tutto questo, se lo vuoi così disperatamente. Tu non sei impotente: quello che vuoi conta, e verrà ascoltato. Te lo giuro, Keiji-chan. Verrai ascoltato.”
E a chi lo stava dicendo davvero? A Keiji? A se stesso?
Aveva poi importanza, dopotutto? Takeru non temeva più di guardare in faccia se stesso, e il suo passato. Accettò il dolore di quel bimbo biondo con gli occhi tristi, e quel dolore era un tutt’uno col dolore del bimbo seduto di fronte a lui.
Takeru sorrise, e qualcosa dentro di lui si sciolse, ancora. “Tu non capisci, non è così? E’ successo tutto così in fretta, quando ti sembrava che fosse tutto come al solito. E ora sei confuso. Ma guarda, Hikari-chan ti aspetta. Vuole spiegarti tutto, lo vuole davvero. E’ più facile se ti dice che succede, non credi? Così non fa più paura.”
Keiji stava zitto, e sembrava trattenere il pianto.
“Cosa ne dici? Non vuoi parlare con Hikari-chan?” Insistette gentilmente.
“Sì”, sussurrò il piccolo, guardandosi le mani.
“E allora vieni giù. Ti farà stare meglio.”
Calò il silenzio, mentre una lieve brezza scuoteva dolcemente le fronde del loro albero. Takeru vide la figura di Hikari, lì in basso, stringersi maggiormente nella giacca, rabbrividendo.
La stava ancora osservando distratto, quando Keiji si sporse verso di lui, nascondendo il viso contro il suo petto.
Sussultò, colto alla sprovvista, e si voltò a guardarlo, attento a non fare movimenti eccessivi per non rischiare di cadere di sotto. Il viso del bambino era ricoperto di capelli viola che finivano ovunque, scomposti, sui suoi occhi.
Takeru si rese conto, con stupore e tenerezza, che era stato accettato.
“Mi ci porti a vedere le stelle, una notte?” Lo sentì dire piano. Sembrava una supplica, più che una richiesta.
Incredulo, immobile, felice come non credeva si sarebbe sentito, Takeru annuì. “E’ una promessa solenne”, rispose. E, cercato il suo sguardo, gli fece l’occhiolino. “Tra me e te.”
Keiji sorrise. Era la prima volta che gli sorrideva. Gli evidenziava due fossette sulle guance, appena distinguibili.
“E io ti insegno a scalare gli alberi, così non cadi più.”
Takeru rise, imbarazzato. “Mi sa tanto che mi tocca accettare quest’offerta.”
Quando ridiscesero, lo fecero in silenzio, come custodi di un patto segreto solo loro, l’espressione solenne come se avessero attraversato fiumi di lava e draghi sputa fuoco. Keiji fu più rapido di lui, ma ogni tanto si voltava indietro, accertandosi che il ben più goffo ragazzo più grande mettesse i piedi al posto giusto.
E quando toccarono terra, Hikari era già in piedi.
Per un momento, non appena i suoi occhi si posarono su di lei, Takeru provò una stretta al cuore: così seria, così triste, così ferma, le parve improvvisamente distante mille miglia, come un’apparizione, bella in modo doloroso perché intoccabile. Ma poi lei vide Keiji, e il suo viso riprese vita.
“Keiji-chan”, sussurrò. Un sorriso sollevato e luminoso passò sulle sue labbra.
Keiji non aspettò altro: si slanciò verso di lei e la strinse forte, come se non dovesse lasciarla andare mai più.
“Ti voglio bene”, arrivò la sua voce, soffocata in quell’abbraccio. “Ti voglio tanto bene, Hikari.”
Le braccia di Hikari circondarono il suo corpicino, stringendolo a sé con una dolcezza e una commozione infinita. La vide chiudere gli occhi, e sorridere, mentre posava un bacio sul capo di Keiji.
“Te ne voglio tanto anche io, Keiji-chan. Non sai quanto.”
E poi Hikari sollevò lo sguardo, solo per un attimo, e incontrò gli occhi di Takeru.
E fu straordinario quanto i suoi occhi color nocciola brillassero, in quel momento. Grazie, sembrarono dirgli.
Ricambiò il sorriso, incapace di parlare, e si riempì gli occhi di quell’immagine.
Lo seppe allora, una certezza che quasi gli arrivò dall’alto, quasi un imperativo morale: avrebbe fatto qualsiasi cosa – qualsiasi-, per far sì che quell’abbraccio non dovesse mai sciogliersi. Mai per davvero.
Li avrebbe protetti con tutte le sue energie, ci fosse anche voluta una vita intera per farlo.












Riuscire ad aggiornare questa storia è sempre una grande soddisfazione :,) Innanzitutto, ben ritrovati! Un anno e passa dopo, ecco il nuovo capitolo pronto per voi. Non mi sorprenderebbe se a questo punto non vi ricordaste più neanche la trama xD Avete tutto il diritto di mandarmi al diavolo, sono un'autrice pessima, ma vi assicuro che la stesura procede, e questa storia VEDRA' una fine, presto o tardi che sia.
Angolo curiosità: è vera la storia di Ken che non ascolta musica. Lo rivela lui stesso nella seconda serie xD questi rewatch delle puntate sono sempre un toccasana, che devo dirvi ...
Grazie di cuore a chi è arrivato a leggere queste parole, come sempre ^^ al prossimo capitolo!

Padme Undomiel

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Capitolo 27
*** Attori E Spettatori ***


Purity 26


26.




Attori e Spettatori







Il giovane cameriere non vedeva l’ora che quella ragazza se ne andasse.

Sospirò nervosamente, stringendo tra le mani il conto e dirigendosi con passo quanto più sicuro possibile verso il tavolino accanto alla finestra. Gli avevano detto di non mettersi a giudicare la gente che veniva a mangiare in quel caffè, che il suo compito era servire i clienti in modo efficiente e farli sentire a loro agio. Gli avevano detto che non aveva importanza che fossero alti, bassi, belli, brutti, arcigni, felici, cordiali, riservati: il suo atteggiamento verso i clienti doveva essere sempre uguale, che li trovasse gradevoli o meno.
Beh … chiaramente non avevano presente lei, quando lo avevano addestrato in quel modo.
Da quando era entrata non aveva fatto altro che osservare fuori dalla finestra, e tamburellare le dita sul tavolo in un gesto meccanico. Era rimasta per una ventina di minuti perfettamente immobile, finché lui non si era avvicinato per chiederle se aveva intenzione di ordinare. E allora lei, voltandosi tutta sorpresa –come se fosse una domanda strana, poi: erano in un caffè!-, aveva risposto: Scegli tu. Scegli un tramezzino qualsiasi, quello che ordineresti tu se avessi fame e poco tempo per mangiare.
E poi si era rimessa a guardare fuori dalla finestra, e aveva ripreso a tamburellare le dita sul tavolo. Non si era mai slacciata il cappotto bianco, nonostante il clima tiepido della mattinata. Non si era mai tolta il cappellino blu col fiore ornamentale sulla falda, che le nascondeva i capelli, probabilmente raccolti in qualche modo.
A tramezzino arrivato lo aveva appena mordicchiato, per poi usarlo come antistress, probabilmente, visto che aveva preso a sbriciolare la mollica senza un perché –onestamente, perché fargli spendere tutto quel tempo per decidere al suo posto, se quello era stato il risultato?-. Di acqua, invece, ne beveva tantissima, come se fosse reduce da una camminata nel deserto.
Forse era un po’ matta, tutto qui. Sperava vivamente non avesse cattive intenzioni piuttosto, che non nascondesse una pistola in qualche tasca interna del cappotto. In fin dei conti, quello che voleva sul serio era evitare problemi. E il conto che teneva tra le mani poteva essere la soluzione alla sua inquietudine non indifferente.
Perciò, stringendo i denti, si impose di resistere ancora un pochino. Solo il tempo necessario per mandarla via con garbo. Magari ottenendo anche una mancia significativa.
 “Prego”, le fece, porgendole il foglietto ripiegato.
La ragazza col cappello blu si voltò. I suoi occhi castano chiaro sorrisero prima delle sue labbra, come se lui rappresentasse all’improvviso la persona che più si vorrebbe incontrare in tutto il mondo.
“Grazie mille! E’ già passato tutto questo tempo, eh? Non me ne sono accorta”, gli disse leggera, osservando distrattamente l’orologio al polso.
Per la verità era stato il cameriere a voler essere più rapido e solerte del solito. Ma ci teneva a non perdere quel lavoro, per cui tacque, sorridendo cordialmente e facendo per allontanarsi rispettosamente.
Non gli fu permesso.
“Sarebbe bello restare qui ancora un po’ ”, commentò ancora la sua cliente, il sorriso che si faceva un po’ amaro, mentre posava nuovamente le mani sul tavolo. Se non altro aveva smesso di fare disastri con la mollica del pane. “Le pause nei caffè sono rassicuranti, non credi? E’ un po’ come smettere i panni dell’attore, e guardare un film senza prendervi parte. Sai, per vedere come sta procedendo. Come procederebbe se tu non avessi alcun ruolo da giocare.”
Poi lo fissò insistentemente. “Ti capita mai di volerti chiamare fuori dal tuo film?”
E ora perché mettersi a parlare con lui? Sembrava volesse conversare con qualcuno, chiunque, con tutta se stessa.
Il cameriere deglutì, senza sapere cosa dire. “Qualche volta, può darsi …” tergiversò.
“A me non capita spesso. Solo quando ho paura di interpretare il ruolo principale dopo aver fatto la comparsa ogni tanto.” Continuò la ragazza a bassa voce, come se niente fosse.
Ne fu sicuro: quella lì aveva qualcosa di losco in mente. Il cameriere iniziò a guardarsi nervosamente attorno, senza farsi notare, alla ricerca di man forte. Ma i suoi colleghi sembravano tutti impegnati …
“Ma non ci si può far niente, non è così? In fondo potevo sempre rifiutare la parte. E invece ho accettato. Perciò è colpa mia se ora sono agitata.” La ragazza dal cappellino blu rise, tirando fuori le banconote e ponendole sul tavolo accanto al conto. Poi si alzò in piedi, un sorriso largo sulle labbra, e afferrò la sacca che aveva posato sulla sedia di fronte alla sua. “Bene, arrivederci, e grazie della chiacchierata!”
Chiacchierata? Chi mai aveva parlato, a parte lei?
La guardò voltarsi, la guardò avviarsi verso la porta, e questo significava solo che lui avrebbe potuto smettere di essere sull’attenti, finalmente; che avrebbe potuto occuparsi di clienti più trasparenti, o perlomeno che si facevano i fatti loro se volevano essere strani. Tanto non l’avrebbe rivista mai più …
“Non si è neanche tolta il cappellino.”
E invece parlò, senza volerlo, senza neanche essere discreto abbastanza da dirlo a bassa voce. Difatti la ragazza lo sentì, e si voltò, sorpresa.
Il cameriere arrossì furiosamente, e desiderò essersi morso la lingua. Se ne stava andando! Perché non l’ho lasciata andare?
La ragazza rise, incerta. “Già. Non l’ho fatto.” Disse. Nei suoi occhi passò un lampo di paura, gli parve all’improvviso: ma non poteva essere così, che motivo aveva per avere paura?
La vide tirare un sospiro, sorridere, portarsi le mani alla falda del cappello. Con un movimento deciso, tirò verso l’alto.
Aveva i capelli lunghi, dopotutto, ed erano davvero tenuti fermi da un fermaglio: lei armeggiò un po’ per toglierlo, ma non le ci vollero che pochi istanti. I capelli, liberi, le ricaddero sulle spalle, e furono una cascata di lisci capelli viola.
La ragazza se li riassettò, le mani un po’ tremanti, e fece spallucce. “Così direi che va meglio. No?”
Non attese risposta. Stringendo le mani a pugno, si voltò di nuovo e uscì. Il vento le schiaffeggiò il viso non appena mise piede fuori dal caffè, e i capelli le volarono dappertutto, scomposti. Non si guardò indietro nel richiudere la porta.
Il cameriere rimase immobile al centro della sala, come istupidito.
Ne era sicuro. Si era perso qualche passaggio, durante quella conversazione.
Quella ragazza l’aveva guardato come se rivelargli i suoi capelli fosse stato un gesto di chissà quale importanza. Come se le fosse costato fatica.
E lui aveva la spiacevole sensazione di dover ricordare qualcosa, qualcosa che avrebbe dovuto sapere molto bene magari, senza riuscire a farlo, nonostante ci si stesse impegnando con tutte le sue forze. Ed era qualcosa che c’entrava sicuramente con la figura quasi evanescente della ragazza dal cappellino blu …
Ma era poi importante? Il cameriere scosse il capo, dandosi dello stupido e chinandosi a raccogliere il conto.
Alla fine ebbe a rallegrarsi della sua strana presenza: se non altro gli aveva lasciato una lauta mancia.

***

“Pragmaticamente parlando è un po’ assurdo definire tutto questo come il miracolo che stavamo aspettando, credo tu lo sappia.”
Se ne stavano seduti sul gradino di fronte alla porta d’entrata della villa, osservando distrattamente Hikari e Takeru, in piedi di fronte ad un gran numero di bambini a bocca aperta, mentre spiegavano al loro pubblico quello che avrebbero dovuto fare.
“Vedete questa cassetta di legno? Serve a raccogliere le vostre idee sulla manifestazione di beneficienza”, stava dicendo Hikari allegramente. “Prendete un foglio di carta e scrivete quello che vorreste fare. Qualsiasi cosa. Teatrini, giochi, disegni, canzoni, bancarelle … poi noi leggeremo i vostri bigliettini e vedremo di accontentarvi tutti!”
“Oh, solo un secondo. Quanti di voi sanno scrivere?” Intervenne Takeru colto da un’illuminazione. Alla vista di diverse mani rimaste abbassate, si mise una mano dietro il collo, pensieroso. “Bene, allora abbiamo fatto bene a parlarne … Facciamo così. Chiunque non sappia scrivere, si faccia aiutare da chi sa farlo. Anche da noi, se vi va!”
“Mmm, pare che il numero di bambini con età adatta per leggere e scrivere stia crescendo. Dovremmo aggiungerne un altro po’ alle nostre sessioni di studio”, commentò Taichi, cominciando a fare mentalmente il calcolo per il numero esatto da considerare in quel gruppetto.
Koushiro, seduto alla sua sinistra, si voltò a guardarlo, sorpreso di essere stato interrotto con un discorso totalmente diverso da quello che aveva iniziato. “Lascia stare l’istruzione, per il momento”, esclamò. “Abbiamo cose più urgenti a cui pensare.”
“Ma sì, ma sì.” Taichi sorrise. “Lo so benissimo che non sei tanto d’accordo con l’idea di Takeru.”
“Non è più idea solo di Takaishi-kun ormai, dal momento che l’abbiamo accettata tutti”, intervenne Sora, seduta alla sua destra. Lo guardò appena, con un mezzo sorriso sulle labbra. “Tu, poi, soprattutto.”
“Che volete farci? Penso sia buona.” Taichi si strinse nelle spalle. “Sicuramente innovativa.”
“Naturalmente, ma considerando accuratamente la situazione non è tutto rose e fiori.” Koushiro sospirò, serio. “Dall’ultima riunione che abbiamo avuto in merito abbiamo sicuramente aumentato gli introiti, e su questo non c’è dubbio. I nostri lavoretti part-time stanno fruttando qualcosa, sebbene ci costringano a ritmi nettamente più serrati. Ma penso sarete entrambi d’accordo sul fatto che non ci rendono certo ricchi. Riceviamo donazioni, naturalmente, ma come saprete non fanno la differenza come vorremmo. Già così, rischiamo di chiudere in ogni momento. Consideriamo adesso i costi aggiuntivi della manifestazione di beneficenza.” Li contò con la mano, sollevandola per bene perché sia Taichi che Sora potessero vederla. “Numero uno: la pubblicità. Avremo bisogno di una qualche sorta di volantinaggio, perché altrimenti alla manifestazione non verrà proprio nessuno. Numero due: l’allestimento in sé. Anche se sarà quanto più possibile semplice, dobbiamo garantire un bell’evento, e questo richiede strutture funzionanti, cibo e bevande, e quanto occorrerà per gli intrattenimenti che decideremo di metter su. Numero tre, il più importante: se non verrà nessuno, o quasi, perderemo tutto senza neanche guadagnarci …”
“Pensavo avresti tirato fuori anche la storia dello sfruttamento di minori”, ghignò Taichi dandogli una piccola spintarella bonaria.
Koushiro sorrise, imbarazzato. “Ammetterai che il modo in cui Takaishi-kun aveva posto la questione lasciasse adito a molti dubbi”, si giustificò. “E comunque no, su questo sono tranquillo. Altrimenti avrei bocciato il progetto su due piedi.”
“Però non capisco. Se non sei d’accordo perché hai accettato, Koushiro-kun?” Gli chiese Sora, osservandolo curiosa. “Ti sei sempre espresso liberamente, non vedo perché stavolta non avremmo dovuto ascoltarti.”
Koushiro rimase silenzioso per qualche momento, riflettendo tra sé.
“Io non sono contrario”, sentenziò alla fine. “E’ solo che penso che i nostri vantaggi siano limitati anche così. Forse qualcosa si potrà ottenere, ma quanto davvero ci guadagnerà l’orfanotrofio da quest’impresa?” Poi guardò Taichi, le sopracciglia aggrottate. “In realtà vorrei conoscere il tuo parere, Taichi-san, visto che sei stato tu, a parte Hikari-san e naturalmente Takaishi-kun, ad appoggiare la cosa con più entusiasmo di tutti.”
Lo fissava attentamente, ed era di nuovo quell’espressione, quella che tendevano a fare un po’ tutti quando si trattava di prendere una decisione. Taichi si fece improvvisamente serio.
Non aveva mai capito per quale motivo, ma sembrava che la sua opinione avesse un potere decisivo nel chiudere le discussioni. Sembravano dargli tutti retta, decisamente troppo per quello che valeva.
Taichi se n’era sentito imbarazzato, le prime volte. “Ma sono uno squinternato! Come fate a fidarvi delle decisioni di uno squinternato?”
“E’ che lo squinternato finisce per risolvere i problemi, che tutti ci crediamo o no”, era stata la risposta sorridente di qualcuno. Poteva essere stata Sora.
Sora lo guardava anche ora, a dirla tutta, seria e pensierosa, il mento poggiato sulle ginocchia ripiegate. Taichi incrociò il suo sguardo, e seppe che anche lei aspettava una risposta.
Si era ormai abituato alla fiducia che i ragazzi riponevano in lui, anzi: aveva finito per sentirsene orgoglioso. Così era solo naturale fare il possibile perché quella fiducia non crollasse mai.
Tornò ad osservare i bambini discutere concitatamente nel prato, mentre Hikari e Takeru un po’ in disparte si scambiavano un sorriso complice.
“Ebbene, il sistema è difettoso e da qualche parte bisognerà pure intervenire”, disse infine. “Altri volontari al momento non ne abbiamo, guadagni neanche a parlarne. L’unica che ci resta è la pubblicità. Se interveniamo su quella, magari volontari e guadagni seguiranno con facilità. Senza contare che ho ancora un padre che ci aiuta come può: del volantinaggio si è offerto di occuparsene lui.”
“Gentile da parte sua”, rispose Koushiro sorpreso, e sollevato.
Taichi gli sorrise ancora. “I tuoi ingranaggi hanno smesso di lavorare senza posa adesso, Koushiro?”
“No.” Rispose sereno l’altro, mettendosi in piedi e battendogli una mano sulla spalla a mo’ di saluto. “Però ognuno di loro spera con tutto il cuore che tu abbia ragione.”
Si allontanò, avvicinandosi invece a Hikari e Takeru e discutendo con loro di chissà cosa.
Rimase solo Sora con lui, ed entrambi stettero in silenzio per qualche secondo, godendosi la brezza primaverile che delicatamente accarezzava il loro viso.
“E il tuo parere, Sora?” Esordì infine Taichi. “Credi che stiamo facendo una sciocchezza? Non ti sei espressa chiaramente da quando abbiamo avviato il progetto.”
“Perché non so neanche io cosa pensare con esattezza.” Rispose Sora, lo sguardo ancora fisso sui ragazzi più giovani. Era difficile decifrare le emozioni sul suo viso. “Ci avete colti alla sprovvista, ieri. Un attimo prima Hikari-chan ci comunica che Takaishi-kun si unirà a noi nella gestione dell’orfanotrofio, un attimo dopo uscite fuori dallo studio dichiarando che, cito testualmente,: Abbiamo trovato un’idea per salvare questo posto! Hai quasi fatto uscire Mimi-chan dai gangheri, dice che siete troppo teatrali per i suoi gusti.”
Taichi scoppiò a ridere. “Lei dà a noi dei teatrali?!”
“Beh, lo sai che non le piace quando viene estromessa dalle decisioni importanti.” Sora ridacchiò a sua volta, ma la risata fu breve. “Però non posso dire di non capirla. In fondo siamo rimasti tutti un po’ spiazzati.”
L’improvvisa serietà di Sora lo allarmò. “Ehi … ti sei offesa? Mi dispiace”, si affrettò a dire, lanciandole un’occhiata preoccupata. “Non era nostra intenzione farvi sentire esclusi. E’ solo che l’idea ci è venuta sul momento, e c’eravamo solo noi in studio.”
Sora si voltò, sorpresa. “Non sono arrabbiata”, gli rispose. Poi sorrise. “Ormai sono abituata alla tua mancanza di preavviso. Se dovessi arrabbiarmi tutte le volte, non la finiremmo mai di discutere.”
“Le volte in cui ti arrabbi sono perfettamente sufficienti, grazie per il tuo autocontrollo”, scherzò il ragazzo.
Sora alzò gli occhi al cielo, scuotendo il capo, ma sembrava divertita.
“E poi guarda com’è felice Hikari-chan. Lei non aspettava altro che Takaishi-kun le desse prova di quanto valesse”, continuò poi, indicandogliela con un cenno del capo. “Figurarsi ora che sa che si prenderà cura dei bambini anche lui.”
Lo sguardo di Taichi volò al viso illuminato della sorella, un sorriso dolce mentre parlava sottovoce a Takeru, rivelandogli chissà quale segreto. Sembravano affiatati. Anche troppo affiatati, in effetti.
Fece un gran sospiro, un po’ insofferente. “Tu dici che a mia sorella piace Takeru? Dico, in quel senso?”
Sora sollevò entrambe le sopracciglia in un'espressione eloquente. “Dico che non hai bisogno che io ti risponda nulla.”
Per l’appunto. Non che ci volesse chissà quale osservatore per rendersene conto. Taichi si ricordava bene l’espressione di Hikari quando Takeru era partito per andare a incontrare suo fratello a Osaka, i suoi silenzi assorti e le sue lacrime improvvise. Ricordava quanto gli era parsa fragile, quando aveva pensato che lui sarebbe andato via da lei. E ora solo uno sciocco poteva ignorare l’espressione che gli lanciava ogni volta che lui non la guardava: era come se lui fosse diventato il suo centro gravitazionale.
Per non parlare delle espressioni che le lanciava Takeru, e della mano che tanto spesso stringeva quella di lei, e di quei sorrisi rapiti …
“Taichi. Non fare quella faccia.”
“Quale faccia?” Rispose Taichi troppo in fretta, continuando ad osservare i ragazzi.
“La faccia da fratellone geloso.” Lo prese in giro Sora. “Guarda che Hikari-chan è grande abbastanza per pensare a queste cose. Anzi, a dirla tutta ha aspettato anche troppo.”
Ed ecco la voce della verità. Peccato che, in fondo in fondo, lui non riuscisse ancora a digerirla come voleva. Fece un altro sospirone, scompigliandosi i capelli già sufficientemente arruffati.
“E’ più forte di me! Continuo a vedere Hikari come la mia sorellina piccola, ed è difficilissimo non continuare a proteggerla anche in campo sentimentale”, si lamentò sincero. “Non gli lascerei campo libero, comunque, se non mi ispirasse simpatia. Mi sembra un bravo ragazzo. Spero solo non faccia nulla per dimostrarmi il contrario.”
“Ora sei passato alle minacce?” Sora ridacchiò. “Stai tranquillo, lo sai che tua sorella è una tipa con la testa a posto. E’ più matura di tutti noi messi insieme, probabilmente.”
Taichi osservò Hikari ridere di cuore, il viso arrossato e una mano sulla bocca, e sorrise. “Su questo non ho mai avuto dubbi.”
Era tanto tempo che non la vedeva ridere così, ora che ci pensava. Da prima ancora che Takeru partisse per Osaka. Da prima ancora che lei lo conoscesse.
Erano mesi, ormai, che non rideva più.
“L’ho fatto anche per lei, sai”, confessò all’improvviso, quasi senza volerlo. Sora si voltò a guardarlo. “Ma non solo per lei, in effetti. Per tutti noi. Mi ci ha fatto pensare guardare l’espressione di Keiji ieri, quando ha capito che questo posto rischia di chiudere: aveva voglia di piangere, ma non ha pianto. Invece voleva battersi per fare la differenza, per cambiare le cose. Ha detto Non m’importa niente, ma non voglio andarmene. Ecco … ho solo pensato che, questa frase, ci siamo un po’ disabituati a dirla, non credi?”
Taichi percorse con lo sguardo il pallore stanco di Sora, le sue mani piene di calli da lavoro, la sua sempre più accentuata magrezza, e le sorrise. “Abbiamo solo bisogno di scommetterci un po’ di più. Di crederci, un po’ di più. Dovremmo fare come ha fatto Keiji ieri, come hanno fatto gli altri bambini ieri. Ce la possiamo fare, Sora. Forse quest’iniziativa, anche se non porterà a nessun miracolo, ci renderà più uniti, più fiduciosi e più battaglieri. E questo potrebbe fare la differenza, no?”
E in fondo si implicava anche lui in quel discorso, e non era solo Sora che cercava di convincere. Perché aveva aperto gli occhi all’improvviso, e si era reso conto che si stavano trasformando in tanti automi. Tutti loro.
Lavoravano costantemente, senza concedersi tregua, e tanto spesso Taichi stesso crollava addormentato sulla sedia senza avere neanche la forza di cambiarsi per la notte: ogni giorno le fratture nel sistema si facevano più profonde, più accentuate, più angoscianti. E qualche volta Taichi dubitava, lontano dagli sguardi dei ragazzi e dei bambini che non voleva deludere, e si chiedeva quanto ancora avrebbero retto, quanto ancora avrebbero tenuto a bada il pensiero scomodo della fine imminente di quell’orfanotrofio. Qualche volta Taichi si recava di nascosto al cimitero, a chiedere scusa a sua madre perché non stavano facendo abbastanza. Qualche volta Taichi, che era il primo a rasserenare gli animi quando si accorgeva di un sospiro di troppo, avrebbe dato chissà cosa perché qualcuno rassicurasse lui, anche se non se lo sarebbe mai perdonato.
Prima che potesse rendersene conto, il loro era diventato nient’altro che un compulsivo affannarsi per non restare con le mani in mano.
Avevano smesso di credere nel sogno di Yagami Yuuko, in fin dei conti. Proprio quello che avevano giurato non sarebbe mai successo, qualunque cosa fosse accaduta.
Se Takaishi Takeru era riuscito a interrompere quel loop infinito destinato al disastro, a che pro non approfittarne per rimediare, ora, quando erano ancora in tempo? Forse c’era  bisogno proprio di un occhio esterno per far capire loro quanto avevano rischiato, quanto stavano rischiando ancora adesso.
Yagami Taichi aveva deciso di combattere, come prima, più forte di prima. E di smettere di abituarsi alla visione dei suoi amici, di sua sorella, distrutti dalle fatiche e dalla disperazione: era sicuro che non avrebbe retto quell’immagine un secondo di più.
Tutte queste riflessioni, comunque, persero d’importanza in un attimo, perché Sora gli diede un bacio su una guancia.
Taichi sussultò, colto alla sprovvista, e si voltò di colpo.
Sora aveva il viso rosso, gli occhi bassi, ma sorrideva tanto –troppo-, in un modo che non ricordava le avesse mai visto fare in tutti quegli anni di amicizia. “E’ bello che tu sia ancora qui a ricordarcelo.” Disse soltanto.
Taichi si rese conto all’improvviso che erano stati soli tutto quel tempo, che avevano avuto una conversazione normale, che Sora non sembrava arrabbiata –Sora non aveva cercato di fuggire, in effetti: era rimasta accanto a lui ... molto vicina a lui.
Questi pensieri si mescolarono confusamente al ricordo del sorriso di Sora, e Taichi fu sommerso da un’ondata di imbarazzo che non seppe spiegarsi, ma che gli azzerò la capacità di parlare.
Nel mentre, del tutto ignara, Sora si stava mettendo in piedi, togliendosi la polvere dai pantaloni e stiracchiandosi un po’. “Sarà meglio che vada, Jyou ha bisogno di una mano a raccogliere i giocattoli rotti. Se ci sono novità sul progetto-manifestazione di beneficienza, fammi sapere quanto prima. Passi una volta, ma non voglio altre sorprese, intesi?”
Taichi tentò invano di dire qualcosa, aprendo e chiudendo la bocca come un pesce rosso. Sora gli lanciò un’occhiata, perplessa, ma poi sembrò accontentarsi della certezza che lui avesse colto il messaggio. Lo salutò con la mano e si voltò per andarsene.
Ma perché non ci aveva pensato prima?, si chiedeva Taichi freneticamente, osservandola allontanarsi. Avrebbe potuto parlarle, come gli aveva consigliato Hikari! Avrebbe potuto chiederle se ce l’aveva con lui per qualche motivo … Non poteva aver sprecato così quell’occasione, vero?
Non poteva recuperare ora?
Prese coraggio, un gran respiro, e chiuse gli occhi. “Sora!” La richiamò a voce alta.
Lei si voltò. “Che c’è?”
Si sentiva determinato, poco prima che lei si girasse. Si sentiva pronto a mettere le cose in chiaro, di qualunque cosa si trattasse, poi. Non aveva messo in conto che tutta la sua sicurezza sarebbe svanita in un attimo, soltanto incontrando gli occhi perplessi di Sora.
“Ecco …” Terribilmente impacciato, probabilmente anche rosso in viso, Taichi si risolse a dire la prima cosa che gli passò per la testa. “Quindi oggi non puzzo?”
Sora batté le palpebre.
Taichi passò cinque secondi a pensare al metodo più efficace per far finta di non aver parlato.
Finché Sora non scoppiò a ridere, una strana espressione di imbarazzo e tenerezza che le addolcì il viso. “Scemo”, fu tutto quello che disse. E si allontanò.
Rimasto solo, Taichi non poté che concordare con quell’appellativo.
Era proprio scemo, decise.

***

“E’ un posto bizzarro dove incontrarsi.”

“Ehi, preferivi forse casa tua? Non ti ricordavo così ingrato.”
“Non è questo. E’ che non ti ricordavo in possesso di un garage.”
Si guardava intorno, le braccia rigide lungo i fianchi, vagamente a disagio nel notare il disordine sul pavimento, negli scaffali, dietro la moto lì parcheggiata. Sicuramente casa sua continuava ad essere pulita e ordinata come lui la ricordava da sempre, ma anche in mezzo a quel caos infinito non fece commenti, non si lamentò di nulla.
Non era cambiato affatto.
Motomiya Daisuke aveva trascorso tutta la mattinata pensando di essere preparato per quell’incontro, se n’era sentito impaziente persino. Solo ora si rendeva conto che non era preparato, neanche un po’.
Rivedere Hida Iori dopo tutti quegli anni lo turbava più di quanto volesse ammettere. Gli ricordava troppe cose – e lui non voleva ricordare.
“Il garage non è mio”, gli spiegò. “Un mio amico me l’ha messo a disposizione, dice che possiamo farci quello che vogliamo a patto che glielo lasciamo esattamente come lo abbiamo trovato …”
“Ti puoi fidare di questo amico?” Iori gli lanciò un’occhiata penetrante, improvvisamente guardingo, e Daisuke si irrigidì.
Anche il suo sguardo era rimasto lo stesso: era ancora capace di farlo sentire il più stupido essere al mondo.
Sbuffò, contrariato, appoggiandosi contro il muro con le braccia conserte. “Ci mancherebbe altro. Con chi credi di stare a parlare, Iori?” Gli disse, sfidandolo. “Non sa nulla dei nostri contatti, dubito che sappia persino del mio coinvolgimento nella storia di Miyako. Siamo a prova di spia, sei contento?”
“… Non volevo offenderti, ti chiedo scusa. Temo di essere troppo in allerta, da qualche anno a questa parte.”
Daisuke si zittì, colto di sorpresa. Si era così abituato all’idea di un Iori iperserio e giudicante che il vederlo ora così mortificato, sentirlo chiedere scusa –a lui!-, aveva un che di paradossale.
Forse, dopotutto, un po’ era cambiato. Come era cambiato anche Daisuke. Otto anni avevano lasciato il loro segno, visibile o no che fosse a occhio esterno.
Tirò un gran sospiro, costringendosi a calmarsi. “Non dirlo a me … sono nervoso anche io.” Si scusò anche lui indirettamente, studiandolo di sottecchi. “Diciamo che le circostanze sono sempre più incasinate, come se non bastasse il fatto che non ci vediamo da un sacco di tempo.”
“Non hai tutti i torti.” Iori gli sorrise, pacato. “Come stai, Daisuke-san?”
Erano due giorni che riguardava quella stupida cartolina, due giorni che aveva una voglia incredibile di prendere a pugni qualcuno –chiunque. Due giorni che non faceva che ripensare al passato, a lei, a tutto quello che era andato storto, alla sua vita disastrata da quel momento in poi. Due giorni che fumava una sigaretta dopo l’altra, che beveva come se non ci fosse un domani, che si risvegliava coi postumi, per poi riprendere quella cartolina e ricominciare tutto daccapo.
La risposta giusta alla domanda di Iori era: Uno schifo. Era uno schifo già soltanto se si parlava degli ultimi due giorni, figurarsi degli ultimi otto anni.
Ma Daisuke non voleva lamentarsi. Voleva risposte.
Così preferì soprassedere, frugandosi invece nelle tasche per tirare fuori quell’oggetto incriminato che lo stava tormentando da giorni. Lo porse al ragazzo più giovane.
“Come qualcuno che non ci capisce niente. Ecco la mia cartolina. Viene da Vienna.”
Il sorriso dalle labbra di Iori sparì nel momento in cui posò lo sguardo sulla cartolina. Terribilmente serio, tese una mano e la prese, abbassando in fretta gli occhi per scoprirne il suo contenuto.
Daisuke lo fissò per tutto il tempo che ci volle perché le parole scritte con quella grafia, quella che non avrebbe mai confuso con nessun’altra, fossero recepite dal suo silenzioso interlocutore. Stava cercando una traccia, una qualsiasi, di sconcerto o turbamento, che potesse essere simile alla sua reazione quando l’aveva ricevuta –simile al tumulto confuso nel riconoscere la voce adolescenziale della sua amica in quelle parole, simile alla rabbia intensa che lo aveva quasi indotto a strappare la cartolina in mille pezzi, e in mille pezzi ancora i mille pezzi rimasti, simile al cupo senso di impotenza che lo aveva gettato nuovamente nello sconforto. Ma non lesse nulla di tutto questo nel viso immobile di Iori.
Cercò di dire a se stesso che, d’altra parte, non c’era da stupirsene: Iori era sempre stato così trattenuto, così controllato, così … padrone di sé al punto da essere stranamente rigido persino da ragazzo. Era una di quelle cose che Daisuke gli aveva sempre rimproverato, sempre. Era uno di quei motivi per cui loro due non si erano mai capiti del tutto …
Ma poi Iori annuì tra sé, incupendosi, come se possedesse la chiave di tutto quel mistero. E Daisuke ebbe l’improvvisa certezza che i suoi sospetti erano sempre stati fondati, fin dall’inizio.
Il sangue gli andò alla testa. “Così tu sai tutto, vero?” Scattò. “Come fai a saperlo? Miyako ti ha contattato? Da quanto vi parlate? Perché io non so niente?”
“Daisuke-san, abbassa la voce, e calmati.” Fu tutto ciò che Iori ebbe il coraggio di rispondere, guardandosi intorno allarmato.
“No che non mi calmo!” La voce di Daisuke crebbe di intensità, incontrollata. Fece un passo avanti senza volerlo. “Sono arcistufo di questi complotti! Ma cosa significa? Solo perché l’hai conosciuta prima di me sei più degno di sapere che combina, cosa vuole? Se sta bene? Non avrò anche io il diritto di essere messo al corrente, dal momento che in qualche modo sono comunque messo in mezzo?”
“Daisuke-san …”
“Che poi, perché Vienna? Che ci fa Miyako a Vienna? E perché scrivermi cose che non sembrano nemmeno indirizzate a me? Sembra un passo del suo stupido diario segreto! E io che me ne faccio? Vuole forse accertarsi di essere ancora sulla bocca di tutti? Vuole … vuole torturarci ancora per molto?”
“Vuoi starmi a sentire oppure no?” Esplose Iori alla fine, perdendo le staffe.
Daisuke, il fiato corto per lo sfogo di poco prima e l’animo di nuovo in subbuglio per colpa di quella maledetta egoista, si interruppe. Fissò Iori, lo sguardo torvo, mentre l’altro si ricomponeva tirando un gran sospiro.
“Non ti è venuto in mente che a scrivere potesse non essere Miyako-san?” Gli disse infine.
Daisuke rimase di sasso. “Che vuoi dire?”
“Guarda. Credo che tu non abbia fatto caso alla data di produzione di questa cartolina. Recita 1988.” Gliela mostrò, fissandolo eloquente, finché Daisuke, il cuore martellante in petto, non si avvicinò per dare un’occhiata. “Miyako-san non ha mai collezionato cartoline d’epoca, tanto meno le verrebbe in mente di diffondere il suo diario segreto in giro per tutti i suoi vecchi contatti.”
Daisuke si sentiva la lingua incollata al palato. “Ma la grafia … Questa è la sua grafia …”
“Miyako-san non vuole farsi trovare. Tu questo certamente lo immagini.”
Si sentì stupido, tanto, troppo. Non tanto per il non essersi accorto della data di produzione –quella solo un tipo pignolo come Iori poteva notarla, andiamo- , e nemmeno per aver tratto conclusioni affrettate prima di averci riflettuto su un attimo.
Si sentì stupido perché, malgrado la rabbia e l’impotenza, aveva sperato con tutto il cuore che Miyako stesse cercando di mettersi in contatto con loro –lui.
Il sapore della delusione superò persino lo schifo degli ultimi due giorni.
“Ora ti spiego quello che so”, continuò Iori a bassa voce, incurante del suo umore. “Io e Satsu-san almeno, oltre a te, abbiamo ricevuto una cartolina simile. Quella di Satsu-san veniva da Praga, ed era datata 1951. La mia veniva da Bruxelles, datata 1966. Non so chi altro l’abbia ricevuta, io e Satsu-san stiamo cercando il modo di indagare e scoprirlo. E forse ne abbiamo ideato uno.”
Perciò lui e Satsu erano ancora in contatto. Visto quanto Iori le moriva dietro anni prima, probabilmente erano anche finiti a convivere. La cosa non l’avrebbe sorpreso più di tanto.
“Sia la mia che la sua riportavano, come la tua, una parte di diario personale. E, esattamente come la tua, nessuna delle nostre cartoline parlava del destinatario. Eccole qui, puoi confrontarle se vuoi.”
Daisuke non se lo fece ripetere due volte. Afferrò le cartoline che Iori gli porgeva, stavolta ben deciso a non farsi sfuggire nulla, a non farsi considerare uno sprovveduto per nulla al mondo.
Erano scritte con la stessa grafia, la stessa maledetta grafia che non poteva non essere di Miyako … eppure pareva non fosse lei. E toccava fidarsi di Iori.
Quella di Praga recitava così:

Iori-kun non approverà mai il fatto che io abbia deciso di scappare, lo so. Ma che posso farci? Devo andar via comunque, non c’è scelta. A costo di mettermi contro il mio migliore amico. Spero solo che non cerchi di fermarmi, perché io non posso farlo. Forse perderò la sua stima … forse non mi perdonerà mai.

Quella di Bruxelles invece riportava le seguenti parole:

Satsu-chan qualche volta mi fa ridere. Confidarmi con lei è facilissimo nonostante ci conosciamo da poco, però mi ripete spesso che corro troppo. Che dovrei avere più i “piedi per terra”. Ma parla proprio lei che non chiede di meglio che vivere una storia da romanzo? Sono sicura che mi capirebbe, se fosse innamorata quanto me.

Non erano poi così diverse dalla sua di Vienna, effettivamente. Daisuke conosceva quelle parole a memoria, ormai, ma non poté impedirsi di tornare ad osservarle.

Non riesco a far capire a Naganori-kun che lui è cambiato, che non gli farebbe più del male. Mi guarda come se lo avessi tradito all’improvviso. Non mi piace questa situazione, così ogni giorno cerco di farli interagire, di farli andare d’accordo. Però se Naganori-kun non riesce a rendersi conto di che bella persona sia il mio amore, non è l’amico intelligente che credevo fosse.

“Le mie sono solo supposizioni”, riprese Iori. “Non ho la certezza assoluta di chi sia il mittente, ma credo di sapere di chi si tratti. Chi può essere in possesso del diario di Miyako-san?”
Le tempie di Daisuke pulsavano dolorosamente.
“Non … lui di nuovo, vero?” Ringhiò a bassa voce.
Guardò in viso Iori, e per una volta le sue emozioni rispecchiavano quelle del ragazzo più giovane. Vide nei lineamenti contratti, nell’espressione accigliata, negli occhi socchiusi la stessa rabbia che Daisuke a stento controllava. E quella visione lo confortò in qualche modo.
“Per quanto ne so, avrebbe ogni mezzo per permettersi una collezione ampia di cartoline d’epoca”. La sua voce tranquilla contrastava col lampo d’odio nei suoi occhi verdi. “E, credo, potrebbe permettersi un falsificatore di grafie molto facilmente. Mi viene da pensare che il mittente sia lo stesso anche per un altro motivo: la scelta accurata del materiale da inviare ad ognuno di noi. Sembra che stia cercando di creare confusione, di indurre l’uno ad incolpare l’altro della sparizione di Miyako-san. Riporta solo momenti in cui noi eravamo in disaccordo con lei …”
“Vigliacco.” Daisuke tremava. “Ma che vuole? Perché farsi sentire solo adesso?”
“Questa è un’ottima domanda.”
Si fissarono, in silenzio, ugualmente frustrati.
Infine Iori sospirò, di nuovo. “Qualunque sia il motivo, io non ho intenzione di darmi per vinto. Verrò a capo di questa storia, prima che quella persona ci metta tutti nei guai senza che ce lo meritiamo. E’ imperdonabile permettergli di giocare così con le nostre vite.” Poi gli sorrise. “Non devi preoccuparti, se succederà qualcos'altro ci metteremo d’accordo come ora e ne discuteremo insieme-”
“Iori, voglio la verità. Tu sai dov’è Miyako.”
Il sussurro lasciò le sue labbra prima ancora che potesse decidere di dirgli una cosa del genere. Ma Daisuke non riuscì a pentirsi che lo avesse fatto: doveva sapere.
Iori, zittitosi, si irrigidì, fissandolo perfettamente immobile.
“Lo so che lo sai”, continuò lui. “Non ho mai creduto il contrario, in tutti questi anni. Non credi che dovresti almeno dirmi se è così o no?”
“Non è così.” Disse Iori secco.
Daisuke rise, senza gioia. “Da quand’è che dici bugie? Credevo fosse contro la tua etica.”
“Non è così.” Ripeté l’altro, meccanico.
Sapeva che mentiva, se lo sentiva. Non poteva farci nulla nemmeno volendo essere credibile con tutte le sue forze: i suoi pugni stretti lungo i fianchi parlavano per lui. Iori aveva sempre detestato mentire, diceva sempre che suo nonno gli aveva insegnato che si dovesse dire solo la verità, sempre. Se ora mentiva, era solo per Miyako. Perché il loro rapporto era sempre stato speciale.
Eppure … non era giusto. Iori non era il solo a tenerci a lei. Non poteva tollerarlo.
Si passò una mano sulla fronte. “Dannazione, Iori! Non hai forse subìto quanto me la sua pazzia di scappare con quell’individuo inquietante? Non hai forse provato anche tu cosa significhi, non essere stato considerato abbastanza meritevole di sapere cosa stesse succedendo nella testa di Miyako? Non hai forse sentito la sua mancanza, malgrado tutto, ogni maledetto giorno in cui è stata assente? Non lo sai come mi sento adesso?”
Vide lo sguardo di Iori farsi dolente, ma ancora taceva.
Daisuke non ci credeva, di stargli rivelando tutto questo. Non lo diceva neanche a Naganori. Non lo confessava neanche a Takeru. Ma non riusciva a fermarsi.
“Io detesto l’idea di non poter fare nulla. Di dover solo stare a guardare mentre gli altri agiscono.” Fece, e distolse lo sguardo. “Permettimi di fare qualcosa. Dimmi dov’è. Dimmi almeno se sta bene.”
Tacque, imbarazzato, disperato, e l’aria attorno a loro si fece pesante. Non osava sollevare il capo.
E poi Iori parlò.
“Sì, lo so come ti senti adesso.”
Gli mise una mano sulla spalla, la strinse confortante. Daisuke, esitando, incontrò il suo sguardo.
Ricordò tutte le volte che lo aveva preso in giro, chiamandolo frigido. Ricordò tutte le volte che lo aveva considerato un robot, ritenendolo incapace di avere debolezze, come qualunque essere umano.
Sembrava assurdo rendersi conto, ora, che non c’era nessuno come Iori che potesse capirlo.
“Cercala, Daisuke-san. Se vuoi fare qualcosa per lei, cercala.” Sussurrò.
Daisuke sgranò gli occhi.
Cercarla?” Ripeté, incredulo.
“E’ il solo modo per poter fare qualcosa per lei. Ma io non so dove sia, Daisuke-san.” Scandì Iori, significativo, guardandosi intorno ancora una volta. Guardingo fino all’ultimo, anche quando nessuno poteva sentirli. Anche quando Daisuke voleva quell’informazione con tutte le sue forze. Tentò di protestare, ma Iori scosse deciso la testa. “Non metterci nei guai, e non mettere nei guai neanche Miyako-san. Se non sei sicuro di poter essere discreto, lascia perdere e fidati di me. Ma se sei stufo di essere un passivo spettatore … ecco qui. Sai cosa fare.”
La faceva facile, lui: Daisuke non sapeva nemmeno da dove iniziare la ricerca, né come fare ad essere discreto.
Non sapeva nemmeno se Miyako sarebbe stata poi felice di rivederlo.
Non sapeva nemmeno se lo sarebbe stato lui. Dopo tutti quegli anni, tutto quel dolore …
Lo avrebbe detto, a Iori. Avrebbe detto tutto, preteso maggiori dettagli, assicurazioni … ma Iori si congedò con un inchino educato, e gli voltò le spalle, e, sordo a qualsiasi ulteriore richiamo, uscì dal garage, allontanandosi di nuovo dalla sua vita.
A Daisuke non rimase che una cartolina tra le mani.
E un cuore in subbuglio.














Voi non ci crederete, ma è passato solo un mese e torno con l'aggiornamento. Che devo dirvi, qualche volta l'impossibile accade!
Benvenuti ufficialmente nella seconda metà di questa long. Molte cose cambieranno da adesso in poi, prima fra tutte l'aggiunta di nuovi punti di vista (Taichi ne è stato il primo esempio) e l'incremento di qualche altro che nella prima metà non ha avuto troppo spazio. Gli attori di questa vicenda aumentano...
Un pensierino per TheCorpseBride che oggi compie gli anni: la dedica di questo capitolo è per te! E' poca cosa, ma spero ti piaccia ^^
E con questa vi saluto! A presto, spero!

Padme Undomiel


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Capitolo 28
*** Le cose sono cambiate ***


Purity 27



27.


Le cose sono cambiate









Non gli lasciò neanche il tempo di dire Pronto.
“Siamo ad aprile. Ti sembra normale?” Esordì, quasi sbottando. “Aprile, non febbraio. E d’altronde l’apparizione di febbraio si è verificata regolarmente. Due apparizioni in un anno, mi sta prendendo in giro?”
Un sospiro sommesso, dall’altra parte del telefono, fu il commento che ricevette. “Allora hai sentito anche tu”, rispose Ken, a voce insolitamente bassa.
Ichijouji Osamu sbuffò, picchiettando nervosamente le dita sulla scrivania. “E come potrei non averlo sentito? E’ notizia da prima pagina. Tutti i giornali locali ne parlano, i mass media sembrano impazziti. Inoue Miyako è faccenda da opinionisti e pettegoli da anni, ormai, ma dopo questa ho l’impressione che torneremo ai deliri collettivi di otto anni fa.”
Le riviste che aveva consultato erano ancora sparse dappertutto sulla scrivania, aperte alle pagine che gli interessavano, tutte strapiene della stessa foto, dello stesso nome. Che ci fosse tanto disordine sul suo piano di lavoro era insolito.
Era la prima cosa che faceva al mattino, da qualche anno, consultare i quotidiani appena arrivato in ufficio. Gli serviva per rilassarsi, per schiarirsi le idee, per tenersi aggiornato – chissà, poteva sempre venir fuori qualche caso interessante di cui avrebbe potuto occuparsi in prima persona. Aveva chiesto al suo assistente di fargli trovare una pila di giornali pronta sulla scrivania del suo ufficio ogni giorno – insieme ad una bella tazza di caffè fumante, naturalmente. E, in tre anni che lo aveva avuto con sé, non lo aveva mai visto svolgere quella mansione: era sua personale premura occuparsene dieci minuti prima del suo arrivo. Una regolarità che a Osamu piaceva: lui detestava le cose fuori posto.
Per questo avrebbe dovuto subodorare che quella sarebbe stata una giornata storta, davvero, quando aveva trovato Koichi fermo sulla porta ad aspettarlo, quella mattina.
Non che passasse inosservato, bastava che si mettesse sulla porta perché fosse difficile entrarvi. Era abbastanza alto, per essere un giapponese, pur essendo mingherlino di costituzione.
Osamu, particolarmente sorpreso, aveva inarcato le sopracciglia. “Hai dimenticato i giornali”, aveva ipotizzato.
Koichi lo aveva fissato di rimando. “No.”
“Allora hai versato il caffè sui giornali.”
Questa volta sul viso dell’assistente si era aperto un sorriso. “Se versassi il caffè, sui giornali per giunta, sarei licenziato sul colpo.”
“Non dubitarne.” La perplessità si era accentuata. “Allora. Cosa c’è di diverso stamattina, Koichi?”
Il ragazzo più giovane lo aveva studiato per qualche secondo, gli occhi castano chiaro semicoperti dalla lunga frangia liscia dello stesso colore, l’unico elemento perennemente disordinato nel suo outfit impeccabile. “Volevo solo accertarmi che lei stesse bene, signore.”
Quell’improvvisa premura lo aveva spiazzato. E, inutile dirlo, insospettito. “Cos’è, vuoi un aumento?”
“Nossignore.” Era stata la replica serena. “Ma se il suo umore è già a terra, temo che la giornata di oggi sarà poco piacevole a maggior ragione.”
“Il mio umore sarà a terra fintantoché ti ostinerai a non farmi passare, tanto per cominciare.”
Koichi si era fatto da parte. Sentendo una strana sensazione di inquietudine, Osamu aveva fatto finalmente ingresso nel suo studio.
I soliti giornali, il solito caffè, le solite cartelle dei casi perfettamente ordinati sugli scaffali, il solito computer. Sembrava che il suo studio non fosse stato saccheggiato, o chissà che. Perciò, la fonte dei guai doveva essere un’altra …
I suoi occhi si erano posati sui giornali.
Si era seduto, aveva bevuto un sorso del suo caffè, aveva afferrato il primo quotidiano della pila.
E per poco il caffè non gli era andato di traverso.
Koichi aveva riso, rispettosamente irriverente come suo solito – davvero, perché continuava a dargli un lavoro? “Cerchi di non prendersela troppo, signore. Se ha bisogno di me, sa dove trovarmi.”
E si era congedato, lasciandolo a leggere allibito le testate giornalistiche che rivelavano che Inoue Miyako aveva deciso di farsi una bella passeggiata per Odaiba. Di nuovo.
Contro ogni logica.
“Immagino che adesso sarai assediato dai giornalisti”, arrivò la voce di Ken, un po’ in imbarazzo. Sapeva cosa Osamu pensasse dei giornalisti.
“Della stampa se ne occuperà Koichi.” Fece il maggiore, definitivo. Dato che il suo assistente lo trovava così divertente, che si godesse lui la folla inferocita di sciacalli. Quanto a Osamu, se ne sarebbe lavato le mani. “Ma parliamo di cose serie. Ti ho mandato la documentazione riguardo le precedenti apparizioni di Inoue Miyako, non è vero? Sembrerebbe corrispondere, non è il solito burlone che cerca di alimentare storie superstiziose sui fantasmi. Di nuovo la sacca bianca -che probabilmente contiene abiti di ricambio per potersi mescolare alla folla una volta finita la sua esibizione-, di nuovo un cappello con un fiore sulla falda, di nuovo quella ninna nanna cantata a mezza voce, di nuovo senza rivolgere una parola a chi cercava di fermarla. C’è solo un elemento insolitamente diverso: la doppia apparizione in un anno. E in più …”
“… Il fatto che sia la seconda volta che ritorna a Odaiba.” Terminò per lui Ken.
Osamu si adombrò. “Precisamente. E’ chiaro che Odaiba rappresenti un quartiere d’elezione per lei, dal momento che è lì che si trova la sua vecchia casa. Ma non ha mai mostrato di essere così tanto abitudinaria da tornarci due volte di seguito. Tra l’altro, il caffè dove si è aggirata è molto vicino all’appartamento dove abitava otto anni fa, ho fatto un controllo. E’ fin troppo imprudente da parte sua comportarsi così. Cosa può essere cambiato dall’ultima volta per spingerla ad agire in questo modo?”
Ken tacque per qualche istante, riflettendo. “Magari … è solo che è passato molto tempo, ed è questo ad essere cambiato.” Azzardò.
Osamu aggrottò le sopracciglia. “Spiegati meglio.”
 “Potrebbe non essere stato un atto pianificato fino in fondo. Da quel che sappiamo di Miyako, non è mai stata una persona molto razionale, no? Probabilmente era solo nostalgia, tutto qui. Probabilmente non ha nemmeno pensato alle conseguenze. Probabilmente l’assenza le ha fatto solo più male del solito …”
Ed ecco lì una perfetta risposta alla Ken. Così tipico di lui, non sospettare doppi fini nelle azioni delle persone a meno che non vi fosse costretto. Osamu sorrise.
Ingenuo, si ritrovò a pensare. Tu non sai … Non lo sai.
“Ken. Io non ho dubbi sul fatto che le sue apparizioni siano qualcosa di pianificato, e questa non fa eccezione.” Rispose. “Se era solamente nostalgica, perché non presentarsi lì di nascosto? Perché attirare attenzione, rendersi riconoscibile, ripetere quei gesti che la contraddistinguono? In fondo mi sfugge da anni, vorrà pur dire che sa come passare inosservata. No, ha cercato di mandare un messaggio preciso stavolta. E io ancora non so di quale messaggio si tratti.”
L’irritazione e la frustrazione intensa che si accrescevano anno dopo anno, in sordina e quasi sottopelle, al punto che lui stesso se n’era accorto solo da qualche tempo a questa parte, tornarono ad infastidirlo di colpo. Non aveva mai tenuto un caso aperto così a lungo, mai le sue capacità deduttive lo avevano tradito fino a questo punto: pareva che, non importa quanti sforzi impiegasse, quanto tempo, quanto impegno, quanta assoluta dedizione al suo lavoro, Inoue Miyako l’avesse sempre vinta, sempre. Gli sfuggiva –oh, non parlava solamente dell’incapacità di trovarla: era soprattutto l’incapacità di capirla, di prevedere le sue mosse, a disorientarlo. Sembrava che lei calcolasse tutto nei minimi dettagli, ma allo stesso tempo commetteva azioni sciocche che lo disarmavano e basta, perché sembrava non avessero alcun senso.
Non capiva, e si sentiva vulnerabile, in un modo insopportabile, intollerabile. Non sapeva da quando l’eccitazione di sentirsi sfidato, all’inizio della presa in carico di quel caso, si era trasformata in quella tremenda messa in discussione del suo lavoro, del suo modo di fare, della sua vita intera. Osamu non aveva mai avuto altro che non fosse lo studio, e il lavoro.
Poteva forse darsi che avesse investito tutto su qualcosa nel quale non riusciva più ad eccellere, allora?
“Sai cosa si dice di me? Che sono stato ingannato da una ragazzina. Non intendo tollerarlo oltre.” Concluse, duro. “Scoprirò cosa avrà voluto dirmi, svelerò il segreto di questa sfida sfacciata. Se Inoue Miyako crede di potermi prendere in giro, mandandomi segnali incomprensibili, si sbaglia.”
“E se il messaggio non fosse rivolto a te?”
Osamu si fermò. “Che vuoi dire?”
Ken esitò, prima di continuare. “Non hai mai pensato che queste apparizioni potessero essere tentativi di comunicare con qualcuno, invece che messaggi di sfida? Non prenderla come una certezza, è solo … solo una cosa che ho pensato.”
Solo una cosa che ho pensato.
“Comunicare con chi, allora?” Incalzò, la cornetta premuta contro l’orecchio.
“Non lo so.” Rispose Ken. Il suo tono era triste.
Ma un’idea ce l’hai eccome, solo che non vuoi parlarne.
Osamu strinse le labbra, e stette in silenzio, ad ascoltare il silenzio di suo fratello.
Finché Ken non parve riscuotersi, o sfuggire all’interrogatorio senza parole del maggiore. “Andrai a Odaiba ad interrogare i testimoni?”
“Certo, al più presto. Devo verificare come sono andati i fatti, il percorso che ha seguito, dove potrebbe essersi mimetizzata tra la folla. Tu vieni con me?”
“Vuoi davvero che venga con te?”
E cos’era ora quella sorpresa? Inarcò le sopracciglia. “Naturale.” Non pensava forse che ce l’avesse con lui per la discussione avvenuta tre sere prima, fuori dall’appartamento di Inori Harumi? Non avevano tempo per pensare a certe cose da bambini.
“E’ che … non posso, mi spiace. Sono a casa Inoue.”
Osamu batté le palpebre, colto alla sprovvista. “Casa Inoue?”
Per qualche motivo, Ken si sentì in dovere di partire sulla difensiva. “Non è un’idea così inutile, in fondo è già successo altre volte che la signora Inoue si rivelasse in possesso di informazioni rilevanti, no? Come con il diario di Miyako. Magari ora, con la notizia dell’apparizione di sua figlia, avrà qualcosa di utile da dirci …”
All’improvviso Osamu capì. Era lampante, tanto per cambiare. Ken era prevedibile, e non se ne accorgeva nemmeno.
Tirò un lungo sospiro. “Naturalmente. Ma ora dimmi la vera motivazione per cui sei lì.”
Immaginò suo fratello minore irrigidirsi dall’altra parte del telefono, e seppe che ci aveva preso.
Sorrise tra sé. “Volevi consolarla. E’ così?” Gli domandò, senza realmente domandarglielo. Lo sapeva che era così. “Non riesci a dimenticare il suo stato di prostrazione di quando l’hai incontrata la prima volta, e ora pensi che stia peggio, perché è venuta a sapere della doppia apparizione di sua figlia.”
“Non è solo una supposizione. Sta male sul serio.” Il tono di Ken era stanco. “Senti, Osamu. So benissimo che non approvi, che mi ritieni uno sciocco, e forse lo sono. Ma non riesco a sentirmi distaccato dalla vicenda come te: ho promesso alla signora Inoue che le avrei fatto compagnia, tempo fa, e non intendo rimangiarmi la parola. Magari è stata lei a far sparire Miyako in qualche modo, bene: se è così non mancherò di assicurarla alla giustizia. Ma finora vedo solo una madre sola e disperata. Non posso farci nulla … e tu non puoi far nulla per farmi desistere. Sto seguendo una mia pista, come volevi tu, d’altronde.”
Si era stancato di stargli dietro, dopotutto. Non sembrava neanche più desideroso di lavorare con lui, come quando lo aveva coinvolto per la prima volta nel caso Inoue.
“Non voglio farti desistere. Procedi pure come preferisci.” Gli rispose. “E poi la signora Inoue sotto stress tende davvero a fornire più informazioni del solito. Quando ti ha dato il diario era scossa, no?”
“Sì … suppongo di sì.”
“E allora nulla da dire. Torna al tuo lavoro, e io tornerò al mio.” Guardò l’orologio, e decise che aveva indugiato troppo al telefono. “Sperando che questa giornata finisca per essere fruttuosa per entrambi.”
“… Osamu?”
Sul punto di congedarlo, Osamu si fermò. “Cosa c’è?”
“Ecco … ti ringrazio per avermi chiamato. Non lo capisco bene, dato che avevi detto che dobbiamo lavorare in modo indipendente, però … beh, grazie. E’ stato gentile da parte tua.”
Osamu si pietrificò, così interdetto che non trovò proprio nulla da dire.
E Ken non gliene lasciò neanche il tempo. Probabilmente imbarazzato, gli augurò in fretta una buona giornata, e chiuse la chiamata.
A lui non restò che riporre la cornetta al suo posto, battendo le palpebre sconcertato.
La verità era che non aveva pensato affatto alla sfida tra loro due, né aveva pianificato di parlarne con lui per qualche ragione nascosta. L’irritazione lo aveva reso irrazionale, e aveva finito per chiamare Ken. Per quale motivo, poi, non lo sapeva.
Quando Koichi rientrò nello studio, lo trovò a ridere tra sé, la fronte appoggiata contro la mano, una marea di giornali aperti sulla scrivania. Lo fissò per qualche istante, inclinando la testa come per guardarlo da una diversa angolatura.
“Si è ripreso in fretta”, commentò incredulo.
Osamu si aggiustò gli occhiali sul naso, riprendendo lentamente il controllo di sé. “Koichi, quand’è che bisogna smettere di considerare una persona ingenua e si deve passare alla categoria di stupida?”
“Domande filosofiche? Allora forse non si è ripreso molto bene, signore”, sorrise Koichi.
“Forse no.” Osamu lo guardò, pensieroso. “Mi chiedo se sia solo il caso Inoue, a sfuggire alla mia comprensione.”
“Sta parlando di suo fratello?”
“Lo butto giù continuamente, non gli do uno straccio di aiuto, gli sto rovinando l’idea di fratello maggiore perfetto che probabilmente ha da una vita. E nonostante tutto … mi ringrazia. Come se gli avessi donato una miniera d’oro. Te lo giuro, ogni volta sono convinto che sia come un libro aperto per me, e tutte le volte … non lo so. Ragiona in modo assurdo. Secondo me è un po’ matto.”
“Beh”, Koichi si strinse nelle spalle, e i suoi occhi brillarono di una strana luce. “Forse è per questo che le piace. A lei piacciono solo i matti, signore.”
Osamu si sentì sorridere.
“Va’ a chiamarmi un taxi. Le indagini non aspettano certo i miei comodi.”

***

“Io … non faccio che aspettare. Mi sai dire tu perché? E’ inutile. Però non faccio che aspettare.”
Ken si riassettò nervosamente i capelli, combattendo contro il vento che non aveva smesso di imperversare da due giorni a quella parte. Si sentiva un po’ come le foglie strenuamente attaccate ai rami degli alberi del giardino davanti a quella villetta, separata dalla strada dal cancello grigio davanti al quale Ken si era fermato: se aveva i piedi ben ancorati al cemento era per pura forza di volontà.
Ultimamente il vento soffiava in modo strano, e imprevedibile.
“Però non faccio che aspettare.”
Osamu si sbagliava, si ritrovò a pensare per l’ennesima volta, inseguendo il corso dei suoi pensieri. Osamu si sbagliava, perché se avesse sentito parlare la signora Inoue come l’aveva sentita Ken solo poco tempo prima, sicuramente non avrebbe pensato che Inoue Miyako stesse sfidando il detective consapevolmente.
Non gli era mai parsa lucida come quel giorno. Era come se si fosse risvegliata improvvisamente da un sogno troppo vivido.
Gli occhi rossi, il viso stanco, la signora Inoue era rimasta tutto il tempo accanto alla finestra, sperando rassegnata di veder spuntare la fisionomia familiare di sua figlia sul viale di casa. Si era voltata a sorridergli, qualche volta, come a condividere con lui, solo per un breve istante, la miserabile condizione di essere una madre senza sua figlia, un essere incompleto.
Non sembrava credere che dietro quelle apparizioni ci fosse un impostore. Non si poneva neppure il problema dell’irritazione frustrata di Osamu. Trattava quell’apparizione come se fosse un messaggio di sua figlia per lei, qualcosa che nessun altro doveva ricevere, decodificare, analizzare. Era l’ultimo filo che la legava sottilmente a Miyako.
“Cosa sta cercando di dirmi Miyako-chan? Cosa vuole che io faccia?”
“Le altre volte cosa le diceva?” Le aveva chiesto lui.
“Che era viva.”
“E ora non le sta dicendo questo?”
“No. Ora mi sta dicendo che le cose sono cambiate. Ma non mi dice come. Così io aspetto … e spero che me lo farà capire.”
Ken non poteva prendere quelle parole, quella sicurezza, alla leggera. Soprattutto perché non avevano fatto che confermare un suo precedente sospetto.
Se quella era davvero Inoue Miyako e non qualcuno che si spacciava per lei, non era stata sequestrata, e non era prigioniera di nessuno. Solo di se stessa.
Quale rapitore le avrebbe consentito di apparire e scomparire a suo piacimento? Si poteva supporre che Miyako non si fosse mai allontanata troppo da Tokyo, così da poter agilmente portare a termine queste apparizioni da fantasma.
Seguendo questo ragionamento, l’intento non era forse comunicare ai suoi cari Sono viva, ma non ho intenzione di farmi trovare?
E perché apparire due volte, allora?
“Mi sta dicendo che le cose sono cambiate.”
In che modo lo erano? Voleva forse dire che non avrebbe più fatto apparizioni per il prossimo febbraio? Voleva semplicemente che fossero più frequenti?
O stava cercando di farsi trovare senza avere modo di farlo lei stessa?
Dovevano stare più attenti, pensò Ken con fermezza. Lui e Osamu. Non dovevano lasciarsi prendere dalla fretta.
Aveva l’impressione che né lui né Osamu stessero vedendo le cose in modo lucido. Anche per questo era un bene che agissero su due fronti separati: almeno non si trasmettevano l’un l’altro le rispettive irrazionalità.
Era stato strano sentire Osamu così fuori di sé, così … umano. Da quanto tempo non lo vedeva più in quello stato? Forse da quando erano bambini, da quando ancora erano migliori amici e si capivano con un solo sguardo.
Ken scosse la testa, accorgendosi di essersi di nuovo perso nei suoi pensieri. Avrebbe avuto tutto il tempo di fare congetture una volta nel suo appartamento, ma ora c’era ben altro di cui occuparsi.
Come entrare nell’orfanotrofio Yagami, tanto per cominciare.
Il giardino era vuoto, sembrava che il vento di quel giorno non invogliasse a giocare all’aperto. Sbirciò in direzione delle finestre, sperando di scorgere del movimento: non si era annunciato, per cui non sapeva se nella villa ci fosse qualcuno. E sperava sul serio di sì: aveva rinunciato a seguire Osamu, che almeno la sua rinuncia avesse un senso, no?
“Sai, c’è un citofono proprio dietro quel ramo.”
Sobbalzando violentemente, Ken si voltò di scatto, solo per urtare il gomito contro uno scatolone di cartone. Scatolone che, naturalmente, cadde a terra, riversando sul cemento tutto il suo contenuto.
“Accidenti, mi dispiace.” Il viso in fiamme, Ken non ebbe il coraggio di sollevare lo sguardo sul proprietario della scatola: si chinò in tutta fretta, deciso a rimediare al danno prima che la persona di fronte a lui – di cui scorgeva solo un paio di jeans scuri e scarpe grigie- dovesse pensarci al suo posto.
L’altra persona rise, una risata da ragazzo. “Sta’ tranquillo. Non c’era niente di fragile dentro.” E si chinò anche lui. “Come puoi vedere sono per la maggior parte mattoncini per costruzioni. Sono fatti per essere sparpagliati ovunque, no?”
Gliene portò uno rosso davanti agli occhi, con un sorriso sereno.
Doveva avere all’incirca la sua età, considerò Ken osservandolo. Aveva corti capelli biondi – l’unico motivo per cui non dovevano essersi spettinati per via del vento doveva essere il berretto verde che portava sul capo- e cordiali occhi celesti.
E ciò che Ken aveva fatto cadere era, in effetti, un mucchio di giocattoli: mattoncini, un paio di palle di gomma, soldatini e dinosauri. Aveva un tirannosauro con le fauci spalancate poggiato contro il suo piede destro.
“Mi dispiace davvero.” Ripeté, in imbarazzo.
“Dai, lascia perdere. Se mi dai una mano mi fai un favore, però. Me li passi?” Il ragazzo indicò con la mano i giochi accanto a Ken, e lui si affrettò ad ubbidire, mentre il suo interlocutore li riponeva nella scatola di cartone. “Starai pensando che è strano che io vada in giro con dei giocattoli, immagino.”
Ken gli lanciò un’occhiata. “Beh, non proprio: sei davanti ad un orfanotrofio …” gli fece notare.
Il ragazzo rise di nuovo. “Touché.” Finito di raccogliere tutti gli oggetti, prese la scatola e si issò in piedi; Ken fece lo stesso. “E’ che ho finalmente trovato un impiego utile per i miei vecchi giocattoli, ho riempito almeno due scatole come queste con tutto quello che avevo nella mia casa d’infanzia. Saranno certamente più utili qui.”
E guardò verso il cancello, con un mezzo sorriso pensieroso. Sembrò, per un istante, essersi dimenticato di lui.
Ken lo fissava, in imbarazzo e un po’ confuso. Dalle sue parole e dal contenuto di quella scatola era logico supporre che fosse un volontario dell’orfanotrofio. Ma non era troppo giovane per una cosa simile?
Il pensiero che al posto di quel ragazzo avrebbe potuto esserci lui lo spiazzava.
“Ah. Volevi entrare? Non ho ancora le chiavi del cancello, ma puoi venirmi dietro, tanto sto entrando anche io”, si riscosse l’altro a un tratto, e, scostando il ramo che lo nascondeva alla vista, rivelò la postazione del citofono. Senza aspettare risposta, suonò con decisione.
Non ho ancora le chiavi. Doveva essere entrato nell’orfanotrofio da poco, ne dedusse.
“Ti ringrazio”, rispose Ken, e si affrettò a tenere aperto il cancello per il ragazzo dalle mani occupate, lasciandolo entrare per primo: gli doveva almeno una cosa del genere, dopo la figuraccia con la scatola.
Il ragazzo gli sorrise brevemente al di sopra della spalla, prima di incamminarsi lungo il cortile. “Sono Takaishi Takeru. Mi presenterei come si deve, ma come puoi immaginare non posso fare granché con questi giocattoli tra le mani”, disse, leggero. “Chi stavi cercando? Dubito di poterti aiutare io, faccio ancora poco qui dentro.”
 “Non saprei”, tentò Ken, andandogli dietro. “Non ho preso appuntamenti con nessuno.”
“Mh?” Takaishi Takeru si voltò, osservandolo perplesso.
Ken ricambiò l’occhiata per un momento, chiedendosi quanto valesse la pena rivelare dettagli dell’indagine a un ragazzo appena entrato nel team dell’orfanotrofio. Ma non mettere le carte in tavola gli sembrava un po’ sgarbato – per non dire imbarazzante.
“Mi chiamo Ichijouji Ken”, si presentò infine. “Sto indagando sulla scomparsa di Inoue Miyako. Sarebbe possibile parlare con chi si occupa delle donazioni all’orfanotrofio?”

***

“Ed è qui”, concluse lentamente Osamu, fermandosi, “che se ne perdono le tracce.”
Erano esattamente al centro di un grande incrocio, affollato e rumoroso. Alle prime ore del mattino, con gli impiegati che in tutta fretta si riversavano in strada per raggiungere il posto di lavoro, doveva essere un vero inferno. Ora, invece, il massimo che poteva succedere era venire spintonato dai gruppi compatti di persone che attraversavano la strada.
Koichi si guardò intorno, una ruga di perplessità in mezzo alla fronte. “Il presunto percorso di Inoue Miyako non prevede vicoletti”, obiettò. “Dove ha potuto cambiarsi d’abito?”
“I vicoletti sono troppo individuabili. In che modo è più facile passare inosservati, in una metropoli?” Osamu fece un cenno col capo all’incrocio affollato, allusivo. “E non credo si sia cambiata, credo abbia giusto nascosto i dettagli più riconoscibili. E’ facile cambiare un cappotto, o togliere un cappello.”
“Non è forse più difficile nascondere il colore di capelli?” Sorrise Koichi.
“Dev’essere una parrucca”, concluse velocemente Osamu. “E’ la conclusione più ovvia. Credo si sia tinta i capelli veri, e che per queste passeggiate ne indossi una del suo vecchio colore. Finita l’esibizione la mette via.”
“Mah.” Koichi fece spallucce. “Se nascondermi richiedesse tanta fatica, io preferirei farmi trovare, probabilmente.”
Osamu non rispose. Guardava distrattamente gli enormi cartelloni pubblicitari che troneggiavano sui grattacieli, come se avesse potuto scorgervi all’interno il viso di Inoue Miyako. Come se avesse potuto studiarlo in ogni molecola, e finalmente comprenderlo.
“Quindi crede che abbia inviato un messaggio a sua madre, signore?” Chiese ancora il suo assistente, distogliendolo dai suoi pensieri.
“Secondo i testimoni, Miyako è passata chiaramente sotto la finestra della camera da letto della signora Inoue”, rispose. “Non ha lasciato nessun segno della sua presenza, nessuna scritta, nessun biglietto, niente di lontanamente simile ad un messaggio. Non è stata vista sollevare lo sguardo verso la finestra. A meno che non abbia trovato un diverso metodo di comunicazione che noi ancora non abbiamo individuato, dobbiamo credere che il messaggio consistesse semplicemente nel farsi vedere. Un puro e semplice Guardami.”
Si accigliò. “Non so se effettivamente il messaggio fosse rivolto a lei, o se lei non sia piuttosto una pedina necessaria a portare avanti un gioco più grande. Quello che so”, fece, “è che Ken sembra convinto della prima ipotesi. E questa ipotesi è plausibile.”
Riconoscerlo a voce alta portò con sé una sgradevole ondata di imbarazzo, ma la ricacciò indietro, seccato. Era stufo di lasciarsi prendere dalle sue emozioni infantili, totalmente stufo di sentirsi completamente in balìa degli eventi. Occorreva restare lucidi, e accettare di essere stati in torto nel voler vedere un’unica soluzione per spiegare fatti così ambigui.
Restare lucidi significava riconoscere che Ken era stato bravo, davvero bravo, questa volta.
“Voglio che tu sorvegli la signora Inoue per un po’, Koichi”, disse infine, voltandosi a guardarlo. “Discretamente, non avrei neanche bisogno di specificartelo. Voglio sapere se esce di casa, se qualcuno viene a trovarla, e soprattutto se Inoue Miyako si rifarà vedere in zona – ne dubito, ma d’altronde ci troviamo di fronte ad una situazione nuova e potenzialmente di allarme, per cui mi aspetto qualsiasi cosa.”
Il viso di Koichi si aprì in un largo sorriso. “Per cui non devo più …?”
“Certo che devi occuparti della stampa. Mi limitavo a darti istruzioni per il dopo.” Nascondendo accuratamente il suo sorrisetto, Osamu si voltò indietro per andarsene, lasciando al suo assistente il tempo di sospirare sconfitto prima di seguirlo.

***

Quando Yagami Taichi aveva sceso le scale per raggiungerlo, aveva un bambino di pochi mesi in braccio.
“Ok, senti, capisco che sia poco professionale, il punto è che non posso metterlo giù”, aveva detto anticipatamente, probabilmente notando gli occhi sgranati di Ken posarsi su quel fagotto di guance morbide e piedini agitati. “Siamo un po’ a corto di personale qui, sono quasi tutti a lavoro, Takeru si sta già occupando di quella mandria inferocita di là, e il piccolo Yukio ha mal di pancia da stanotte, e sta calmo solo se preso in braccio.”
“Non c’è problema”, aveva balbettato Ken, costringendosi a guardare negli occhi uno dei proprietari di casa Yagami, e non il bimbo pallido dagli occhi stretti che lo fissava un po’ imbronciato. Si schiarì la voce. “Mi dispiace se è un brutto momento. Non credo ci vorrà molto.”
Yagami lo invitò a entrare in quello che sembrava essere uno studio, faticosamente destreggiandosi tra la maniglia della porta e il bimbo agitato in braccio. Il suono delle risate e delle strilla dei bambini, nell’altra stanza, si affievolì e tacque quando la porta si richiuse alle loro spalle.
“Allora”, disse Yagami, accomodandosi dietro la scrivania, mentre Ken prendeva posto sulla sedia di fronte. “Ichijouji, giusto? Sarai mica il famoso detective che-”
“Sono suo fratello”, lo anticipò sul tempo Ken, in automatico. “Gli sto dando una mano. Grazie per aver accettato di aiutarci con le indagini, a proposito.”
Yagami si portò la mano libera tra i capelli, arruffandoseli distrattamente. “Devo dirti la verità … Ken, posso?” Gli lanciò un’occhiata veloce, e al suo cenno d’assenso proseguì. “Mi sento un po’ a disagio ad essere interrogato per un’indagine. Non è che per caso credete che nascondiamo Inoue Miyako qui dentro, vero?”
“No, no! Ci mancherebbe, Yagami-san.” Si affrettò a rassicurarlo Ken, e Yagami fece un plateale sospiro di sollievo. Comunicare con gli altri doveva essere molto facile, per lui. “E poi è già successo che le indagini su Inoue Miyako portassero a questo orfanotrofio. Osamu deve aver parlato con … tua madre, credo, diversi anni fa. Non ne sapevi nulla?”
Yagami si accigliò. “Mia madre?”
“Dev’essere stato poco dopo la scomparsa di Miyako”, insistette Ken. “Sette anni fa.”
“Mmm.” Il bambino cominciò ad agitarsi e a fare dei versi scontenti, così Yagami cominciò a cullarlo distrattamente. “No, non ne avevo idea. Cosa volevate sapere da lei esattamente?”
“Più o meno la stessa cosa che voglio sapere io da te oggi. Mi interessa sapere qualcosa su una persona che, circa sette anni fa, ha fatto un’ingente donazione a questo orfanotrofio. Ono Satoshi.”
Non ci fu nessun lampo di riconoscimento alla menzione di quel nome, negli occhi di Yagami. Ken ne prese mentalmente nota mentre frugava nella sua cartella alla ricerca di un documento. Dopo averlo estratto, lo fece passare sul tavolo, ponendolo all’attenzione dell’altro.
“Lì c’è l’intero piano dei movimenti della carta di credito di Ono nell’ultimo anno prima della sua scomparsa, e quindi dell’estinzione del conto”, spiegò, non appena Yagami prese la fotocopia e se la portò davanti agli occhi per esaminarla. “Vedi il versamento cerchiato in rosso? E’ la donazione di cui parlavo prima. L’ultimo movimento di quella carta. E’ per questo che ci siamo incuriositi.”
“Questo Ono è un indiziato?” Volle sapere Yagami.
“Era il ragazzo di Miyako. C’è chi lo crede morto, ma abbiamo motivo di dubitarne.”
Il cipiglio di Yagami si accentuò. “Cosa avete scoperto?”
“Non molto. Sappiamo che non ci sono stati altri versamenti a suo nome, almeno fino a qualche mese dopo la sua scomparsa”, disse Ken. “Abbiamo chiesto a tua madre di controllare nei registri delle donazioni … anche se, stando a mio fratello, l’operazione non è stata esattamente immediata?”
Lo guardò, in cerca di una conferma. Yagami fece una smorfia, pensieroso, osservando ancora il documento che Ken gli aveva dato poco prima.
“Non ho idea di come sia andata la faccenda tra tuo fratello e mia madre. Quello che so è che, da quando abbiamo avviato questo progetto, non ci siamo mai troppo preoccupati di sapere da quale conto in banca provenissero le donazioni che riceviamo”, gli spiegò. “Ne riceviamo un bel po’, sai. Non tante quante ci occorrerebbero, d’accordo, ma sono comunque un bel po’. E se devo essere sincero, non ci è chissà quanto utile schedare i nostri benefattori.”
Ken fece una smorfia. “Capisco.”
“Però, dai tempi di mamma, una cosa è cambiata: abbiamo con noi un collaboratore che risale alle informazioni utili più rapidamente di quanto respiri.” Yagami sollevò lo sguardo, e un ghigno preoccupante gli passò sul viso. “Koushiro al momento non è qui, ma se ci dai qualche tempo avrai tutte le informazioni che cerchi.”
Chissà se Yagami si rendeva conto di star dipingendo il suo collaboratore come una potenziale minaccia per la legge. Ken deglutì, un po’ a disagio, e assentì rapidamente.
“Sì, certamente. Allora mi affido alla vostra efficienza.”
“Perciò, quello che vuoi sapere è se questo tizio di nome Ono ci ha fatto donazioni attraverso altri conti a lui intestati, in questi sette anni?” Domandò Yagami come ulteriore conferma, stappando una penna con i denti e prendendo a scrivere su un foglio di carta bianco nome, cognome, e un molto eloquente ‘COSA DEVE CERCARE KOUSHIRO’ seguito da due punti. Ken si sforzò di non guardare quel nome troppo a lungo, ancora inquieto.
“Esatto. Vi lascio un recapito telefonico”, aggiunse, e attese che Yagami finisse di scrivere gli appunti per il suo collaboratore, prima di iniziare a dettargli una serie di cifre numeriche.
“E’ il mio numero di cellulare”, gli spiegò. “Non appena avrete informazioni fatemi sapere.”
Yagami gli lanciò un’espressione bizzarra, quando si alzò in piedi e si diresse ad aprire la porta dello studio, il suono dei bambini che chiacchieravano a gran voce che tornava a investire le loro orecchie.
“Pensavo ci avresti lasciato il recapito del detective”, dichiarò schiettamente, e sentendosi osservato Ken si fermò a guardarlo, un po’ sulla difensiva. Ma non stava cercando di valutarlo, di giudicarlo o schernirlo: stava solamente cercando di capire che tipo fosse. Era uno sguardo curioso, e nient’altro. “E invece pare che sia lo stesso, chiamare te o lui. Chissà perché mi ero convinto che fossi semplicemente un aiutante per reperire i dati, ma ho il sospetto che anche tu sia bravo a fare indagini. Sei un detective anche tu? Lavori per Osamu, no?”
Ken rise, scuotendo piano la testa.
“E’ un po’ più complicato di così”, disse solamente.

***

Spero di rivederti presto.
Ken rimase a fissare la bozza di messaggio con aria distratta, giocherellando col tasto Invio senza osare premere. Era tutto il giorno che sperava di avere un secondo per sé, così da inviare quel messaggio che lo assillava da ore.
Da due giorni, in effetti.
Ma forse, considerò, leggendo e rileggendo quelle parole che, sulla schermata, apparivano improvvisamente stupide, fin troppo banali paragonate a quel che sentiva, non era tanto il tempo a mancargli, bensì il coraggio.
Il pensiero di Rumiko e delle sue labbra tremanti lo aveva accompagnato come un calore sottopelle fin dalla sera dell’appuntamento, così che anche quando stava facendo altro gli pareva di averla al suo fianco, di sentire i suoi capelli sulla spalla, di stringere le sue dita. Era una bella sensazione.
Voleva sentirla ancora. Era proprio per questo che esitava.
Forse Rumiko si era svegliata come se nulla fosse successo, il giorno dopo? Forse era andata a lavoro, ieri, oggi, e il suo universo misterioso si era chiuso attorno a lei, tagliando fuori lui?
Forse vederlo o non vederlo faceva lo stesso, per lei?
Eppure mi ha baciato.
Ken cancellò il messaggio, sospirando e ricacciandosi il cellulare in tasca. Il vento sembrava essersi placato, nel giardino dell’orfanotrofio: il fruscio delle foglie era solo un rumore piacevole, ora.
Da quel punto del giardino riusciva ancora a sentire le voci dei bambini nella stanza dove parevano tutti riuniti.
Sembravano molto eccitati, qualunque cosa stessero facendo.
Ken riafferrò il cellulare, e scrisse d’impulso: Sono stato all’orfanotrofio oggi. Non ho mai visto tanti bambini tutti in una volta. Ti piacerebbe, qui.
E cliccò Invio.
Poi nascose il cellulare in tasca come un ladro con un portafogli rubato, e quando se ne rese conto alzò gli occhi al cielo.
E da quando si comportava come un ragazzino alla prima cotta?
“Ci sarà una mostra di beneficienza.”
Ken si sorprese così tanto che per poco non inciampò sui suoi piedi. Voltandosi di scatto, si trovò di fronte allo sguardo solenne di un bambino di circa dieci anni con un berretto da pescatore grigio calato sul capo.
“Come, scusa?” Chiese stupidamente.
“Una mostra”, ripeté il bambino senza scomporsi. “Vendiamo cose e facciamo spettacoli.”
E sembrò aspettarsi una risposta.
“Mi sembra una bella idea”, tentò Ken.
“Vienici”, disse il bambino.
Ken si guardò intorno, in palese ricerca di aiuto, ma nel giardino dell’orfanotrofio non sembrava esserci anima viva, tantomeno la presenza di un qualsivoglia adulto.
“Ehm”, disse Ken. Il bambino lo fissava con grandi occhi castani. “Quando?”
Solo questo sembrò farlo esitare.
“Beh, non lo so”, si imbronciò. “Hikari dice presto, però. Perciò stai attento!”
Ignorando completamente chi fosse Hikari, nonché il minaccioso dito puntato nella sua direzione, Ken si affrettò a rassicurarlo.
“Certamente. Mi, uhm, mi terrò informato.”
“Ecco dov’eri finito!” Il ragazzo di nome Takeru si affacciò all’entrata dell’orfanotrofio, e li raggiunse di corsa: Ken notò distrattamente che non aveva più il berretto sul capo. “E ora mi spiego anche chi ha rubato il mio vecchio cappello. Di’, ti sembrano cose da fare, Keiji-chan?”
Sul viso del piccolo si aprì un sorriso furbo affatto pentito. “Non l’ho rubato. Sei tu lo scemo che lo lascia in giro!”
“Non l’ho lasciato in giro, l’ho lasciato in fondo alla scatola che ho portato stamattina. Il che significa che tu lo hai rubato.” Takeru gli si parò davanti, guardandolo negli occhi con aria inquisitoria. “Invece il mio berretto era sulla sedia, e guarda un po’ è sparito anche lui.”
“Non so dov’è”, mentì spudoratamente Keiji, arrossendo un po’.
Takeru lo fissò ancora un momento, immobile, finché con una rapida mossa non gli sollevò il cappello grigio dalla testa. Il tempo di intravedere qualche ciocca di capelli chiari e un oggetto colorato sul capo e il bambino, con un urlo di protesta, aveva già riafferrato il cappello grigio e lo aveva ricalato giù, con tanta forza da coprirgli anche la fronte. Ma il danno era fatto.
“Come pensavo. E’ lì sotto.” Disse Takeru, indicando con un ghigno vittorioso il berretto con la visiera girata che Keiji nascondeva sotto il cappello da pescatore. “Come me la spieghi, eh?”
Keiji, decisamente rosso in viso per essere stato scoperto, incrociò comunque le braccia al petto.
“Questo però lo avevi lasciato in giro!”
Takeru rimase interdetto.
Ken fece un grande sforzo per non scoppiare a ridere, e si voltò dall’altra parte per nascondere la sua espressione.
“Vai”, Takeru diede una spintarella al bambino. “Ho capito il messaggio: continuerai a rubarmi cappelli finché non ti farò provare il mio vecchio skateboard. Vallo a prendere e ti insegno ad andarci.”
“Evvai!” Senza pensarci due volte, il bambino corse dentro la villa, assolutamente raggiante.
Takeru lo fissò con un sorriso incredulo per un istante ancora, prima di sospirare e indossare il berretto. “Scusami. Ti stava per caso cacciando via? Perché in quel caso -”
“Ma no, assolutamente!” Rispose Ken in fretta.
“- sarebbe normale. Oh.” Takeru tacque, decisamente sgomento, e Ken si rese conto che probabilmente il ragazzo davanti a lui doveva essere stato scacciato da un bambino a stento decenne. Sembrava una storia imbarazzante, così si rifiutò categoricamente di indagare.
“Se ho capito bene, state organizzando una specie di evento”, cercò di cambiare argomento.
“Ah, Keiji-chan te lo ha detto?” Takeru tornò a sorridere, una strana gioia negli occhi. “Sì, è così. Serve ad aiutare l’orfanotrofio, sai. Metteremo su un mercatino di beneficienza, e abbiamo pensato di invitare anche una band per l’intrattenimento. Conosci i Knife of Day?”
“Ah … credo di averli sentiti nominare.”
“Il frontman è mio fratello. A suonare dovrebbero essere loro – anche se Yamato ancora non lo sa.”
Aveva un sorriso strano, Takeru. Sorrideva come un morto resuscitato per miracolo, aggrappato alla vita con tutto se stesso, col timore costante che le ombre tornassero a ghermirlo.
“Avevo preso tutti quei giocattoli per metterli in vendita al mercatino, ma i bambini hanno deciso che alcuni li vogliono tenere”, continuò Takeru, facendo spallucce. “Vai a capire perché. I loro sono più nuovi, perché vendere quelli?”
Il cellulare vibrò di colpo nella sua tasca, e Ken si irrigidì completamente.
“Perché tu hai uno skateboard”, rispose d’istinto. “Vuoi scusarmi un attimo?”
“Ma certo.” Takeru batté le palpebre, e poi sorrise, mettendo le mani in tasca e voltandosi verso l’entrata della villa. Una serie di bambini sovraeccitati stava trasportando goffamente un dondolo in legno a forma di cavallo e un aquilone stropicciato, con tutta l’intenzione di inaugurare i nuovi giochi nonostante il vento poco invitante di quel pomeriggio.
Ken si assicurò che lo sguardo del ragazzo fosse puntato altrove, prima di girarsi di scatto e afferrare il cellulare.
Il messaggio era di Rumiko.
Lo sai che se guardi troppo i bambini passi per un poco di buono? Non sta bene, Ichijouji. Qualunque cosa succeda, NON offrire loro caramelle.
Perché, invece che ai bambini, non dedichi attenzione ad attraenti libraie? E’ un consiglio spassionato, NATURALMENTE. Per niente interessato.
P.S. Se non si fosse capito … non vedo l’ora di rivederti.
Ken tornò a respirare.
“Ehi, voi! Attenti con quell’aquilone!” Takeru, di colpo allarmato, si avviò a grandi passi verso un gruppetto di bambini urlanti, e lo lasciò piantato lì, gli occhi stupidamente fissi su quel messaggio che rimetteva il mondo a posto, ancorava gli alberi a terra, rendeva il vento più mite.
Ken non fu mai più felice di scoprirsi uno sciocco, ad essere stato tanto in apprensione.
Non ho bisogno di caramelle per spaventarli, digitò in fretta. La mia faccia è già brutta a sufficienza.
Pensi che le attraenti libraie non ne avranno timore? E’ l’unico pensiero che mi frena dal tentare questa nuova attività.
Ken lanciò uno sguardo a Takeru, ora incastrato nel filo dell’aquilone, intento a cercare di districarsi, circondato dalle risate dei bambini. Poteva essere un buon momento per congedarsi, pensò. Magari poteva invitare Rumiko a cena. Magari lei avrebbe accettato, anche senza troppo preavviso, anche con un intero giorno passato senza sentirsi …
Il cellulare vibrò nuovamente.
Brutta?! E’ palese che non hai senso estetico. O occhi, per quel che mi riguarda! Eretico.
Delle altre libraie non so, ma ce n’è una in particolare che ha timore solo di una cosa: di te che pensi. NON pensare. E vienimi a trovare.
D’accordo, doveva invitare Rumiko a cena. Senza magari.
Si ricacciò il cellulare in tasca, una ridicola esultanza a rendere il suo passo baldanzoso, deciso ad allontanarsi il più in fretta possibile da lì per andare da lei, senza pensare. Pensare era diventato inutile, in quel momento.
Fu proprio allora che successe.
“Brutto stronzo!”
Il giardino intero trattenne il respiro.
Un ragazzo dai folti capelli rossicci era premuto contro il cancello grigio, le nocche strette, il viso paonazzo. Sembrava fuori di sé, e per un momento Ken si convinse che ce l’avesse con lui per qualche motivo.
Poi si rese conto che il ragazzo infuriato non stava guardando nella sua direzione.
“Sono settimane che cerco di chiamarti – settimane! – e ti fai trovare a giocare con dei mocciosi come se niente fosse?! Sei impazzito?” Continuò a sbraitare, incurante dei bambini, incurante di Ken. Aveva solo occhi per il ragazzo incastrato nel filo dell’aquilone. “Che cazzo hai per la testa, Takeru?”
“Ha detto una parolaccia”, si mise a ridere un bambino sottovoce, e una sua compagna gli diede uno spintone.
“Daisuke-kun”, sussurrò invece Takeru, e poi nulla.
Ma Ken sussultò di colpo, e lanciò uno sguardo più attento al ragazzo contro il cancello.
E si ricordò di averlo già visto. In una fotografia, accanto a una serie di altri volti, nei file dell’indagine che Osamu gli aveva passato quando lo aveva contattato per la prima volta in cerca di aiuto.
Motomiya Daisuke.
L’amico storico di Inoue Miyako.
Amico, a quanto sembrava, anche di Takaishi Takeru, il ragazzo dell’orfanotrofio.
Takeru non si era mosso, immobile al centro del gruppetto di bambini chiassosi. Era pallido, le braccia molli contro i fianchi, gli occhi puntati su Motomiya Daisuke, l’espressione di chi ha appena visto un fantasma.
E Ken seppe che, infine, le ombre erano tornate a reclamare il loro tributo.











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