La vita quotidiana di Aldo Gorini

di yonoi
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** L'Isola dei Morti ***
Capitolo 2: *** La materia dei sogni ***
Capitolo 3: *** Aver cura di te è amare me stesso ***
Capitolo 4: *** Non chiedermi nulla, se puoi ***
Capitolo 5: *** Se mi sfiori le mani, io dimentico il mondo ***



Capitolo 1
*** L'Isola dei Morti ***


La vita quotidiana di Aldo Gorini

 
Sicuri nelle stanze d’alabastro,
dove l’alba e il meriggio non li sfiorano,
dormono i miti membri della Resurrezione
sotto a  travi di raso, con un tetto di pietra”
(Emily Dickinson, “Safe in their Alabaster Chambers)
      

            1. L’Isola dei Morti

           
Raccolto su uno sperone a picco sul lago, una cinta di mura ombreggiata dai cipressi, il camposanto detto della Rupe o l’Isola dei morti, è un luogo frequentato soprattutto dalle libellule: con i loro voli a scatti si levano dalle onde, risalgono sostando sulle rocce per riposare, poi una volta sul prato patiscono immediatamente la nostalgia dell’acqua. Si affannano allora per ritrovarla nelle pozze colme di umidità e di pioggia, nei vasi degli ultimi fiori offerti ai defunti.
            Da quando è stato edificato il Cimitero Centrale, più grande e periferico, nessuno viene più qui per essere sepolto o per visitare i morti, portare fiori avvolti in carta di giornale, cavare via le erbacce e passeggiare attorno per vedere le tombe nuove.
            Costruito come un’unica colata di calcestruzzo, dotato di crematorio e loculi in file ordinate come un moderno condominio dei morti, nel giro di pochi anni il Centrale ha iniziato a funzionare a pieno regime. Da allora non si vedono più facce nuove alla Rupe, e la nostra solitudine è cresciuta come l’edera indisturbata sui muri.
            Soltanto Aldo Gorini, musicista in pensione, con fedeltà incrollabile e fino al suo ultimo giorno, ha continuato ad arrampicarsi lungo la scala in pietra che dalla riva del lago conduce in cima all’Isola: addirittura, passò da questa vita mentre si trovava tra noi, a contemplare il tramonto dalla sua sedia a dondolo. Era abituato a trascorrere così le sue giornate: sempre accanto alla moglie defunta da molti anni, come se entrambi avessero traslocato dal mondo dei vivi, per continuare a vivere insieme alla Rupe.   
            Quando il peso dell’anima si svincolò dal corpo, la sedia continuò a cullarlo scricchiolando, finché esaurì la spinta e tutto si fece immobile. Terminò il movimento, si tacitò il respiro. Si spense una candela per un colpo di vento. Si liberò l’amore che portava nel cuore.
            Lo trovarono solo il mattino seguente, e il corpo possedeva il quieto abbandono del sonno.
            Alle prime luci dell’alba, mentre era intento ad aprire i grandi cancelli di ferro, il custode - fatto insolito - non aveva trovato Gorini ad attenderlo sotto l’arcata polverosa dell’ingresso. Si era insospettito: neppure la sera prima l’aveva visto uscire quando era stata l’ora di chiudere i battenti, e di lasciare i morti riposare la notte. Il sospetto si era trasformato in inquietudine: alla velocità massima consentita dalle sue gambe, il custode si era affrettato verso il mausoleo dedicato alla memoria di Emily Olsen, moglie compianta e amatissima del Gorini.
            Arrivato sul posto, aveva trovato l’uomo adagiato sopra a una sedia a dondolo: le punte dei piedi toccavano terra, come se fosse stato sul punto di alzarsi per andarsene altrove. Una coperta scendeva ai lati delle ginocchia, le mani ben curate posavano sulla pagina di un libro di poesie: “Noi ora saliremo verso l’Eterno, ci basta raggiungere il cielo e sfiorarlo…” recitava il primo verso.
            Quando, molto più tardi, su di lui si chinarono gli uomini del soccorso, la polizia salita apposta dalla città, non vi era più alcun dubbio: l’uomo era deceduto, e da parecchie ore. Eppure il suo volto non solo era raggiante, ma pareva ringiovanito fino al tempo di una stupefacente adolescenza. Nelle pupille lucide, elastiche malgrado le ore già trascorse, era impresso il volto di una donna immersa in un sonno profondo.
 
******
 
            Agli inquilini della Rupe, la notizia fu data da una delle farfalle che curiosando s’era spinta fin là, nel suo fragile volo a balzi. Scambiandolo per un fiore, s’era fermata sull’anello nuziale di Aldo Gorini: sfiorando la mano inerte del musicista, solcata da vene scure, aveva riscontrato una strana freddezza, un’immobilità simile a quella delle pietre.  
            Colta dal turbamento, la piccola cavolaia aveva spalancato gli occhi neri delle sue ali, ed era rimasta a osservare il trambusto dei tanti che accorrevano indaffarati, dentro e fuori dal mausoleo. Vide Aldo Gorini sollevato di peso dagli uomini del soccorso, disteso a terra sul marmo scabro del pavimento, e sottoposto a inutili tentativi rianimatori.
            La manovra, condotta in modo massiccio e con tutta la forza dei nervi, aveva evocato nel corpo esanime una parvenza di reattività. I due soccorritori, un ragazzo sparuto e un adulto dagli occhi stanchi, erano andati avanti finché un tizio dalla casacca fosforescente con sopra scritto medico non aveva fatto sentire la propria voce, sopra a quella metallica del defibrillatore:
            “Non c’è nessun ritmo. Potete staccare.”
            Un breve cenno rivolto ai due operatori aveva posto fine all’attività e all’ansia. Una calma irreale era allora discesa sulla scena inquadrata dalle colonne alte e severe del mausoleo: era la calma immobile di quando il tempo è cessato e d’ora in poi comincia, lenta, l’eternità.
            Immobili erano rimasti anche gli uomini del soccorso, ai due lati del corpo come figure di veglia: le braccia scese sui fianchi, le ginocchia sul pavimento di marmo e di polvere. Il soccorritore giovane si chinava su Aldo Gorini, spiando con stupore i lineamenti di lui, composti e trasfigurati da un’infinita pace. 
            L’adulto dagli occhi stanchi aveva di fronte a sé un altro volto che emergeva dalla penombra: e neppure questo era vivo, malgrado la stupefacente vivacità dell’espressione. Scolpito sul sarcofago di Emily Olsen, un profilo femminile emergeva da un sudario di pietra, che l’avvolgeva con la serica trasparenza di un velo: la fronte era spaziosa, il collo impreziosito da una treccia in cui i capelli erano modellati uno a uno.
            Si trattava di un’opera unica nel suo genere, sia per i dettagli di perfezione anatomica, sia per la somiglianza: si diceva che neppure le numerose foto scattate a Emily Olsen negli anni della giovinezza, fossero in grado di restituirne l’incanto e la modestia, alla stessa maniera di quell’opera che la ritraeva da morta.
            Tutti, in paese, erano a conoscenza delle voci che correvano circa l’anonimo artefice di quel prodigio scultoreo, che in luogo di evocare il distacco della morte, pareva aver imprigionato nella pietra una scintilla di vita. Si diceva che l’artista trasformasse in sculture i corpi stessi dei defunti, e che tal fine avesse messo a punto un sistema che sfruttava la meccanica del circolo corporeo: iniettando sostanze di dubbia provenienza finché vi era ancora polso, riusciva a pietrificare i corpi nel momento in cui il fluido raggiungeva ogni anfratto, ogni derivazione dell’albero circolatorio. Stando alle dicerie più tetre, per garantire un risultato ottimale l’artista era solito iniziare il trattamento durante l’agonia, col soggetto ancora vivo: ciò rendeva conto del magnifico stato di conservazione, dell’integra freschezza di tutti i lineamenti.
            Di più: si diceva che quella misteriosa miscela fosse in grado di suscitare nel morente sensazioni di estasi. Sicché l’ignoto artefice non soltanto riusciva a catturare l’anima e a fissarla nella pietra: in virtù degli effetti di quell’arcano fluido, poteva conferire ai volti un’espressione quieta, depurata da ogni traccia di sofferenza. 
            Malgrado la loro artificiosa serenità, quei volti impietriti mettevano i brividi. Per questo, molte opere dell’anonimo esperto di mineralizzazione avevano subito un destino travagliato: alcune trafugate e vendute a collezionisti, molte altre distrutte per mera superstizione.
            Solamente il sarcofago di Emily Olsen si era conservato intatto e inviolato nell’Isola dei Morti. Il professor Gorini era molto stimato dalla gente del lago, presso cui era solito recarsi ogni anno in villeggiatura: nei mesi estivi, faceva vita da eremita dedicandosi all’hobby sonnolento della pesca, allo studio e alla composizione di musica per violoncello. Silenziosa e inafferrabile come l’ombra, la moglie, violinista, era sempre al suo fianco. Nell’ora del tramonto li si vedeva spesso su una piccola barca che tracciava una scia sul pelo verde dell’acqua, sfiorando le ninfee e levando una pioggia di libellule argentee.
            Dal centro del lago, l’Isola dei Morti appariva come un torrione poderoso di roccia: sulla sua cima si conficcavano, come frecce scagliate dall’alto, le lapidi e le croci, i cipressi odorosi, le volte bianche delle cappelle famigliari. Aggrappata al torrione, una stretta scala a chiocciola saliva fin lassù. La scala era anche il motivo per cui i morti dell’Isola non venivano più visitati da anni: gli anziani non si azzardavano a mettervi piede per paura di scivolare, i giovani la evitavano perché non si riusciva ad arrivarci con l’auto.  
            Lungo la scalinata, quella mattina gli uomini del soccorso trasportarono il corpo di Aldo Gorini. Una volta esauriti i tentativi di rianimarlo, sulla scena era calata un’insolita calma. Il corpo era stato adagiato sulla lettiga, coperto da un lenzuolo che dapprincipio l’aveva celato fino alle spalle, lasciando libero il volto.
            Da quel volto irradiava una splendida luce.
            Malgrado il tracciato piatto del defibrillatore e l’assenza di polso, di ritmo e di qualsiasi altro segno vitale, Aldo Gorini pareva vivo al di là di ogni ragionevole dubbio: di più, non mai apparso così in salute da quando Emily Olsen l’aveva lasciato, rapita da improvviso e inesorabile male, come recitava l’immaginetta listata a lutto che a suo tempo era stata distribuita alle esequie.
            Da quel giorno ormai remoto, il volto del Gorini aveva cominciato pian piano ad avvizzire, ad assorbire il grigio delle pietre tombali, venato appena d’azzurro. L’espressione del viso aveva finito per diventate la stessa, statica e ultraterrena, impressa sul sarcofago di Emily Olsen.
            Negli ultimi quindici anni, la tomba di Emily aveva rappresentato l’unico posto dove il musicista riusciva a sentirsi in pace, confortato dalla presenza della sua amata. Ora che finalmente l’aveva ritrovata, il suo volto raggiante, i lineamenti ringiovaniti parlavano per lui: sfolgoravano di tutta l’indicibile gioia che il suo spirito stava certo sperimentando, nel ricongiungersi a lei.
            Uscendo dall’atmosfera fredda del mausoleo, il piccolo corteo entrò nell’estate.
            Il trasporto ebbe luogo senza alcuna fatica: il corpo del defunto pareva senza peso, come se tutta la sofferenza che l’aveva gravato per lungo tempo, si fosse dileguata assieme al suo spirito.
            Le mura di vecchio intonaco, salato dalle intemperie, trattenevano il vento che saliva dal lago, lasciando scivolare sulla fronte di lui soltanto la carezza di una morbida brezza. Ai margini del sudario, i suoi capelli candidi si scompigliavano come quando era ragazzo.
            Il volto restò scoperto come quello di un uomo vivo, finché il tizio dalla casacca con sopra scritto medico, con una manata brusca levò il lenzuolo a coprirlo.
            Steso sulla barella e accompagnato dal piccolo corteo funebre, Aldo Gorini attraversò i viali arricciati dal canto delle cicale: al suo passaggio, noi cipressi piegammo il capo e le mani giunte.
            Le Madonne pensose, gli angeli desolati a guardia delle tombe, i grandi crocifissi sulle pareti delle cappelle famigliari, seguivano il corteo con i loro occhi bianchi.
            Con prudenza, la piccola processione si avventurò per i gradini che dalla Rupe scendevano fino al lago. Sulla riva si era radunato un gruppo di curiosi, silenziosi e raccolti attorno all’ambulanza. Nella luce del nuovo giorno, l’acqua era una tavola liscia e abbacinante: all’arrivo della lettiga, dai canneti e da un gruppo di ninfee candide, che formava un bouquet al centro del lago, si levò uno stormo iridescente di libellule.
            All’unisono, presero il volo.
            Ed erano simili, nella gioia, ad anime liberate.
 
******
 
            Mentre il corpo di Aldo Gorini lasciava la Rupe, noi cipressi e gli altri abitanti del camposanto ci ritrovammo un poco più soli. Ormai solo il custode sarebbe passato di qui ogni giorno, per il tempo necessario ad aprire i cancelli e chiuderli al tramonto.
            Avremmo sentito ancora, talvolta, il cigolio della carriola piena di terra, l’odore di frescura smossa e dei vermi ciechi, strappati dalle loro dimore minerali. Ci sarebbe stata la novità di qualche esumazione, peraltro sempre più rare, da quando la Rupe è stata dichiarata cimitero monumentale: avremmo visto il custode, e qualche altro individuo tetro al pari di lui, scardinare una lapide o un loculo a muro, cavar fuori le ossa appartenute a qualche estinto di cui ormai si è perduta la memoria, morto di altri morti, e di cui anche i nostri non si ricordano più.
            In occasione delle sempre più rare esumazioni, Aldo Gorini era l’unico a trattare quelle ossa farraginose, ormai sul punto di dileguarsi in polvere, con l’attenzione che si doveva a spoglie umane. Quando il custode e gli addetti aprivano le casse, in genere spezzandole senza tanti complimenti, lui compariva silenzioso alle loro spalle: si offriva per raccogliere i resti di quella gente dimenticata, e con molta dedizione - perché ai suoi occhi erano tutti familiari della moglie - aiutava a riporli nell’ossario.
            Lo conoscevano tutti alla Rupe, Aldo Gorini: a tutti era nota la sia familiarità con la morte, che lui considerava, molto semplicemente, un altro modo di stare al mondo. Come se i defunti avessero cambiato soltanto l’indirizzo, traslocando dalla città all’Isola, ma restando comunque presenti, recando conforto ai vivi con la pienezza del loro silenzio.  
            Con la stessa naturalezza con cui teneva in ordine il mausoleo della moglie, Gorini si occupava di quelle tombe che non avevano più nessuno che le curasse: aiutava a ripulire dai muschi le lapidi, le figure del pianto, gli angeli di pietra curvi per la vecchiaia. Nel campo dei bambini, rassettava i loro giochi: le bambole e i peluche, le Barbie a cui mancava un braccio o una gamba. Sulle tombe dei maschietti sistemava i camioncini di plastica, i soldatini sparpagliati dal vento dispettoso che saliva dal lago, simile ai ragazzi che buttano giù i castelli di sabbia con un calcio.   
            In autunno, Aldo Gorini amava passeggiare nel silenzio dei nostri viali. Le foglie scricchiolavano sotto ai suoi passi lenti e fuori dal tempo. Si fermava ad ammirare la vite canadese, che in ottobre divampa di rosso scarlatto: con la piega dei pantaloni diritta e ben stirata, le caviglie a bagno nel giallo, avanzava un po’ curvo nei mucchi di foglie fragili, le mani allacciate dietro alla schiena.
            Restava in giro giusto il tempo di sgranchirsi le gambe, e respirare l’aria limpida della Rupe: presto faceva ritorno al mausoleo, come se non riuscisse a stare lontano da lei per troppo tempo.
            Scompariva inghiottito dalla penombra fredda, tesa tra le colonne: dopo un poco, le note del violoncello iniziavano a diffondersi per i campi del cimitero. E i morti si affacciavano dalle loro dimore per ascoltare meglio.
            Sedevano sulle lapidi, facevano capolino dalle tombe di famiglia, dai cancelli filigranati delle cappelle. I mariti e le mogli si tenevano per mano: sedevano sugli usci, oppure passeggiavano assorti per i viali, le donne con le lunghe sottane dell’altro secolo, gli uomini con le scarpe lucide di vernice. Alcune coppie anziane un po’ dure d’orecchi si avvicinavano al mausoleo, sedevano sui muretti tra i festoni di edera, dignitosi e composti come a teatro.    
            Nel campo dei bambini, i piccoli sedevano sui bordi delle fosse, i giocattoli in braccio: molto spesso le mamme erano a loro volta sepolte nell’Isola, e la sera venivano a farli addormentare con qualche canzone. Poiché le loro gonne erano ampie e spaziose e ci si potevano attaccare in tanti, le madri della Rupe prendevano con sé anche i bambini orfani, quelli coi genitori sepolti chissà dove: quando Aldo Gorini suonava, madri e figli si lasciavano trasportare da quella melodia che scendeva lungo i vialetti ordinati, indugiava tra i cespugli dei gelsomini, sfilava davanti a noi cipressi marziali, che eravamo i guardiani dell’antico cimitero.
            Per un attimo, noi cipressi rinunciavamo alla nostra posizione diritta sull’attenti: le nostre lance d’argento erano percorse da una profonda commozione, perché sentivamo l’amore scorrere in quelle note. Nella sera che scendeva, col fresco che increspava il dorso del lago, la musica diventava un’unica cosa con il silenzio: di più, era come se il silenzio si trasformasse in un abbraccio di consolazione.
            Nel campo dei soldati, un tedesco e dieci italiani, sepolti tutti insieme alla fine della guerra per stanchezza e per pena, ci si scambiava mozziconi di sigarette. Anche i soldati ascoltavano: si passavano un braccio attorno alle spalle, scrollavano la polvere dalle uniformi marce e si lasciavano andare ai ricordi.  
            Le note del violoncello, con la loro dolcezza, alleviavano nei morti la nostalgia della vita.
            Ciò era tanto più prezioso, se si pensa che la maggior parte degli abitanti della Rupe non aveva più nessuno: non c’era più tra i vivi qualcuno che si ricordasse ancora di loro, e venisse alla Rupe per fare quattro chiacchiere, recitare un Padre Nostro e un Eterno Riposo, lasciare un fiore in boccio.
            Qualche pettegolezzo sui fatti del quartiere e della famiglia, su chi si era sposato o era appena nato, chi aveva preso una laurea, a chi era capitata tra capo e collo una disgrazia: ai defunti piaceva essere al corrente su ciò che capitava fuori dal tempo fermo, immobile della Rupe.
            Per tutti, ormai, l’unico legame con la terra dei vivi era rappresentato da Aldo Gorini.  
            Si aveva l’impressione che quando Gorini suonava, persino l’erba dei campi crescesse più verde e più alta. Il verde della giovinezza e della rinascita, in quei momenti, era ovunque: nel prato che cresceva secondo l’armonia della musica, nello splendore in lontananza del lago, sulla riva remota che a tutti noi richiamava un’altra riva ultima, quella dell’eternità.
            Ascoltando quelle sonate, si aveva l’impressione che fosse lui stesso a parlarci e che le note fossero parole sussurrate, che ponevano a tutti noi una domanda: cosa si è disposti a fare pur di essere amati, e perché l’amore continui?
 
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Capitolo 2
*** La materia dei sogni ***


L’anima sceglie i suoi compagni
E poi chiude la porta (…)
Sa che da tutto il mondo
Può scegliere uno solo:
chiude le valve, poi, dell’attenzione
come fossero pietra”
(Emily Dickinson, The Soul selects her own Society)
 

            2. La materia dei sogni

 
            Le sonate per violoncello di Aldo Gorini, che alla Rupe facevano il tutto esaurito e che persino noi cipressi ascoltavamo con la resina agli occhi, commossi insieme alle anime, avevano accompagnato la sua vita con Emily, ma ancor prima la stessa esistenza del Gorini: diplomato al conservatorio, insegnante e concertista, al suo sapere aveva dedicato anni di studio, di esercizio perseverante e difficile. Non si trattava di semplice virtuosismo: la musica era qualcosa che Aldo Gorini possedeva nell’anima, per diritto di nascita.
            Quando era appena nato, l’ascolto di un brano era sufficiente a tranquillizzarlo: cessavano i pianti, le colichette intestinali, i dolori di crescita quando i denti da latte iniziavano a spuntare. Da bambino, la musica aveva continuato a cullarlo tra le sue braccia calmando la tristezza, la paura del buio e delle cose strane che cela l’oscurità.
            Il primo incontro con lo strumento destinato a segnarlo per il resto della sua vita, risaliva a un pomeriggio trascorso nella casa di una prozia eccentrica, tra pezzi di antiquariato e oggetti bizzarri ammucchiati un po’ ovunque. Giocando a nascondino in un giorno di pioggia, dietro a un mucchio di cornici ammucchiate in soffitta, il piccolo Aldo Gorini di quattro anni s’era imbattuto nel violoncello della prozia: lì per lì gli era sembrato una gigantesca chitarra, una sorta di cassapanca con le corde. Attratto dall’odore di cera e di buono, che si intuiva anche sotto a un pesante strato di polvere, s’era dimenticato persino di nascondersi.
            Sopraffatto dalla timidezza che si prova di fronte alle cose nuove, e che è l’altra faccia del fascino, aveva dovuto racimolare tutto il suo coraggio per allungare un dito e sfiorare le corde: ne era uscito un suono come di molle, come quando si salta con i piedi sul letto per rimbalzare sempre più in alto: quell’unica nota fu sufficiente a farlo scoprire dai suoi compagni di nascondino, che in breve lo raggiunsero con schiamazzi e spintoni.
            Di seguito, il piccolo Gorini si era completamente estraniato dal gioco, e aveva cominciato a fare domande. La prozia da ragazza era stata una musicista, e non le pareva vero di recuperare dall’oblio quello strumento dalle note struggenti, cariche di ricordi. Era stata lei a insegnare al piccolo Aldo, che all’epoca arrivava a malapena al ricciolo della tastiera, a leggere le note e a tenere l’archetto. A cinque anni, Gorini s’innamorò completamente dello strumento. Fu un amore che possedeva tutte le caratteristiche dell’assoluto. L’intensità della passione lo fece diventare adulto in breve tempo, educandolo alla serietà e alla pazienza. Era disposto a sopportare qualsiasi cosa, pur di imparare a suonare.
            Lunghe ore di solitudine e di esercizio, di studio e ripetizione del medesimo brano, di frustrazione per non riuscire a eseguire un passaggio: tutto ciò era nulla in confronto all’ebbrezza, alla pura emozione di sfiorare le corde nella giusta posizione e con la giusta tensione, per trarne quel suono che vibrava così profondamente con la sua anima. Riuscire a farlo nel modo più esatto, fino alla perfezione: quello era lo scopo della sua vita solitaria, completamente dedita alla sua arte.
            A volte piangeva per lo scoraggiamento: a mortificarlo non erano tanto i rimproveri della prozia, quanto l’umiliazione di non riuscire a far bene. La perfezione era ciò che ricercava, e non aveva ancora dieci anni.
            Nel frattempo, la musica lo formava anche fisicamente: non attese neppure l’adolescenza per levarsi in altezza, in modo da poter dominare lo strumento. Le dita si allungarono, acquistarono una delicatezza straordinaria, sapienza e leggerezza nel destreggiarsi con l’archetto e la tastiera.   
            La strada per il conservatorio cominciava a delinearsi come un orizzonte certo, diritto e senza ostacoli. Eppure fu in quel periodo che iniziarono i contrasti in famiglia: finché si trattava di un passatempo, la musica era senz’altro preferibile all’ozio. Pareva però eccessivo farne una ragione di vita. Per far contenti i suoi e dare lustro a una vecchia tradizione di famiglia, il giovane Gorini fu persuaso a entrare all’Accademia militare: partì con un esiguo bagaglio e col violoncello, e questo diceva già tutto.
            Da allievo ufficiale, avvizzì per due anni sotto il peso di una disciplina di cui non comprendeva né lo scopo né il senso. Lui, che ben conosceva l’inflessibilità e il rigore, e sapeva abbracciarli con tutto se stesso quando si trattava della sua arte, trovava gli stessi principi inutili e irritanti, quando erano applicati alla vita militare.
            Decisamente, non possedeva l’anima del soldato: non riusciva a risolvere i quesiti di strategia, a montare le armi, a decifrare la meccanica della guerra. Per l’allievo ufficiale Gorini, il periodo dell’Accademia si risolse in una serie di punizioni e consegne, rimproveri umilianti e votazioni pessime. Come capita a volte, quando i panni del giorno sono così stressanti da non riuscire a liberarsene neppure di notte, finì per soffrire d’insonnia.
            Nella camerata che fluttuava simile a una risacca, al soffio del respiro ritmico dei cadetti, Aldo Gorini vegliava in preda a quei sogni che il buio rendeva ancora più grandi, inderogabili e pressanti. Lottava contro di essi sempre più debolmente, finché si decideva a levarsi dalla branda: sulla punta dei piedi, più per l’enormità di quel che andava a fare che per il terrore d’essere sorpreso dal piantone, attraversava i corridoi fino a raggiungere uno dei locali più isolati. Da un nascondiglio che nessuno scoprì mai, prendeva il violoncello e un gruppo di spartiti: tirava finalmente un sospiro di sollievo, e suonava fino all’alba.
            Di giorno, recuperava a stento i suoi soliti panni di allievo insofferente, senza infamia e senza lode. La stanchezza accumulata durante quelle sessioni musicali notturne rendeva ancor più difficile per lui restare sveglio durante le lezioni: sicché l’allievo Gorini spesso si addormentava, con buona pace degli insegnanti e di un’infinita serie di punizioni.
            Per consolarsi, nelle ore di libera uscita frequentava i concerti.
            In quel periodo di infelicità assoluta, mentre il suo spirito deperiva, per puro paradosso il fisico di Aldo Gorini si era irrobustito. Si avviava all’età adulta nelle forme di uno strano e affascinante connubio di rigore e di sogno. Del militare aveva l’aspetto longilineo, prestante e allineato. Ma i grandi occhi grigi erano sempre dolci, e sotto ai capelli rasati con la sfumatura alta, l’allievo ufficiale Gorini possedeva l’orecchio assoluto: quella particolare sensibilità musicale che permette di riconoscere una nota dopo averla udita solamente una volta.
            Oltre all’orecchio, Aldo Gorini possedeva in realtà anche un occhio assoluto, capace di cogliere in maniera infallibile la bellezza: nel suo caso, lo sguardo comunicava direttamente col cuore, sicché per Aldo Gorini vedere la bellezza significava innamorarsi, perdutamente e per sempre. Questo fu esattamente quello che accadde quando incontrò per la prima volta, a un concerto, la violinista danese Emily Olsen.
            La serata era dedicata alla musica per archi: si trattava del saggio di fine anno di un gruppo di studenti del conservatorio, che suonavano con molta emozione, tantissimo impegno e con qualche talento.
            Non si trattava di un’esecuzione di particolare pregio. Eppure, quella sera il giovane allievo ufficiale rimase conquistato dall’esile violinista, che tesseva col suono le atmosfere magiche del suo paese dai lunghi inverni: e mentre l’ascoltava, vide scorrere innanzi a sé foreste e pianure che cambiavano colore al passaggio delle nubi, fattorie dai tetti inclinati per fare scivolare la neve d’inverno, cieli di madreperla che scorrevano lenti, specchiandosi nei canali. Si perse in un oceano frastagliato di isole e da banchi di ghiaccio: udì il fragore dei flutti che s’infrangevano sugli scogli, su rocce dello stesso candore della pelle di Emily Olsen.
            Amò da subito la lunga schiena di lei, le lentiggini a gruppi, simili a minuscoli sistemi solari. L’ovale del volto e i lunghi occhi da asiatica, colmi di una malinconia che pareva molto più antica della stessa ragazza: come un’eredità giunta a lei da molte vite. Come un presentimento, forse, di brevità.   
            Terminato il concerto, Aldo Gorini fu colto dal medesimo senso di ineluttabilità che all’età di cinque anni lo aveva spinto a supplicare la prozia d’insegnargli a suonare. A vent’anni e sei mesi si concesse una replica: raggranellò tutto il fegato che ancora gli restava e a testa alta, bello nell’uniforme che per la prima volta gli stava tornando utile, si fece strada dietro alle quinte, fino al camerino di Emily Olsen.
            Ancora non lo sapeva, ma quella sera Emily aveva suonato solamente per lui.
            Durante il concerto, e sebbene la sala fosse gremita dalla presenza di amici e conoscenti, compagni di studi e insegnanti, persino i genitori giunti apposta dalla Danimarca, a un certo punto la ragazza aveva percepito un calore particolare attorno alle spalle, simile a un abbraccio. 
            Si era guardata intorno con la coda dell’occhio, sforzandosi di restare attenta allo spartito e non perdere il filo: aveva intercettato gli occhi lucidi di sua madre, il cipiglio dei professori, i cenni di saluto di un gruppetto di amiche.
            Poi aveva visto lui, taciturno e in disparte. Il volto severo e un po’ triste, eppure permeato da una dolcezza sognante. Da lì, aveva compreso a chi apparteneva quello sguardo posato come una mano sulle sue spalle, a infonderle sicurezza e protezione.
            Al termine del saggio, esauriti gli applausi, le foto di gruppo e i saluti, Emily si era ritrovata sola nel camerino. Priva di quel tepore con cui lo sconosciuto l’aveva abbracciata solo con i suoi occhi, la giovane musicista s’era sentita triste e infreddolita. Dopo aver riflettuto, pur sapendo di venir meno a ogni regola di convenienza, decise di andare a cercarlo tra il pubblico.
            Di fatto non fece in tempo a uscire dal camerino, perché nel momento esatto in cui aprì la porta trovò Aldo Gorini di fronte a lei, sulla soglia. Emily si sentì avvolta dalla presenza di lui: in breve si ritrovò di nuovo tra quelle braccia, che questa volta erano solide e in carne e ossa.
            Si sposarono esattamente sei mesi dopo.
            Poco prima, Aldo Gorini aveva formalizzato il proprio ritiro dall’Accademia, s’era trovato un lavoro qualsiasi, soprattutto si era iscritto al conservatorio. Durante un burrascoso Natale in famiglia, dinanzi allo stato maggiore dei parenti riuniti aveva precisato che l’uniforme gli era servita il tempo necessario per trovar moglie, e adesso era sua intenzione realizzare due cose: diventare musicista e accasarsi quanto prima. Il padre, due zii e sette cugini, tutti ufficiali in carriera o in pensione, all’inizio non l’avevano neppure preso sul serio: poi erano iniziati i soliti discorsi sulla vita militare che forma il carattere, sulla presunta mancanza di spina dorsale di chi invece si dedica a strimpellare il violino, il violoncello e chissà che altro. Infine, notando che il giovane non cedeva, i parenti si erano infuriati sul serio. Il più alto di grado era il marito della prozia, colonnello a riposo:
            “Che razza di bestialità mi tocca sentire… rinunciare al proprio onore per un inutile sogno.”
            Forte della sua scelta, reso ancora più forte dalla disciplina coltivata fin da bambino con lo studio della musica, e in seguito subita come un’angheria in caserma, il giovane Gorini si riteneva ormai temprato a sufficienza contro ogni disprezzo. Lui che la fedeltà, la perseveranza e l’assoluta dedizione le aveva nel sangue, era pronto a dar prova del proprio spirito, poiché ne conosceva la segreta grandezza:
            “Il mio onore sono i miei sogni. Del resto, tutti noi siamo fatti della stessa materia di cui sono fatti i sogni. Spesso la nostra vita non dura neppure più a lungo.”          
 
******
 
            Dal lago, ormai completamente immerso nell’oscurità, la notte cominciava a salire verso la Rupe: la brezza recava l’odore dei canneti, delle ninfee che al tramonto chiudevano le dita per prepararsi al riposo.
            Sul pelo dell’acqua, il volo delle libellule era l’ultima scintilla rimasta dal giorno.
            Seduto su una seggiola fuori dal mausoleo, il volto cancellato dall’ombra e le dita bianche che a malapena spiccavano sulla tastiera, Aldo Gorini eseguiva un assolo per Emily: e nella musica metteva tutto quanto il suo cuore. Senza che lui potesse vederle a causa del buio, e perché in fin dei conti erano puri spiriti, alcune anime si attardavano ad ascoltare, sedute sui gradini freddi del mausoleo e sui prati vicini.
            Nel campo dei bambini, i piccoli già dormivano in braccio alle madri. Le coppie anziane si erano ritirate, prima che l’oscurità fosse troppo profonda per riuscire a vedere la strada senza inciampare.
            Nei pressi del mausoleo due piccole braci tremavano, e solo da vicino le si vedeva appese, ciascuna, a due dita. Solamente accostandosi a quel fragile tremolio, si notavano dietro alle braci due volti giovani, dagli occhi splendenti, che reggevano mozziconi di sigarette.
            Erano due dell’Isola, un uomo e un ragazzo giovane, che fumavano insieme.
            Avevano fatto amicizia da poco. In comune avevano la morte prematura, che a quanto si diceva era avvenuta per suicidio. L’uomo era l’ultimo arrivato alla Rupe, e come tutti coloro che se n’erano andati in maniera improvvisa era ancora turbato, a tratti pieno di rabbia: probabilmente era convinto di essere ancora vivo, e immerso fino al collo in tutti quei problemi che lo avevano spinto, da ultimo, a farla finita. Lo si capiva da come sviava lo sguardo quando qualcuno dell’Isola provava ad avvicinarlo.
            Noi portavamo pazienza, sapendo che la morte è un’abitudine che richiede del tempo: specie quando arriva all’improvviso e prima del previsto.
            Nell’attesa che il nuovo riuscisse ad ambientarsi, gli abitanti della Rupe gli avevano appioppato una sorta di soprannome, di cui l’interessato era tenuto con molto tatto all’oscuro. Pareva tormentato da colpe inconfessabili, da cui non era riuscito a liberarsi neppure con la morte: per questo motivo, alla Rupe lo chiamavamo il Suicida per la vergogna.
            Trentacinque anni, fascinosa presenza, una carriera avviata come attore del cinema: un volto raggiante che pareva fatto apposta per stare sulle copertine delle riviste, sui poster nelle stanze pitturate di rosa e azzurro delle ragazze. All’apice del successo era stato travolto da una serie di accuse, di seguito aggravate da perquisizioni e sequestri, denunce e richieste di danni: come se all’improvviso si fosse aperto un rubinetto inesauribile d’infamia, che buttava senza freno e senza possibilità di riuscire ad arginarlo.
            A rendere più grave tutta la situazione c’erano le prove, numerose e schiaccianti: c’era la verità, che lui conosceva bene e teneva nascosta da qualche parte nel cuore.
            Di questa verità, adesso, gli toccava portare il peso per intero.
            Presto scoprì che quel peso era insopportabile.
            In breve perse il lavoro, la casa e tutto il resto. I produttori della serie che l’aveva portato al successo lo licenziarono in tronco. Il direttore gli venne incontro personalmente, sulla porta degli studi televisivi, di fatto per impedirgli di varcare la soglia.
            Nelle ore successive, tutti i contratti che aveva sottoscritto caddero come tessere di un domino dell’orrore, cancellati uno dopo l’altro in una corsa inarrestabile verso il disastro. Le case produttrici diramavano comunicati per prendere le distanze, e assicurare al pubblico che il futuro Suicida per la vergogna non avrebbe messo più piede, neppure per sbaglio, nei loro set cinematografici, televisivi e pubblicitari: da quel momento in poi, neanche la réclame di un cibo per cani sarebbe stata funestata da quella presenza sepolta nel biasimo, come da una colata indistruttibile di cemento. 
            Un’altra soglia che gli fu impedito di varcare fu quella di casa sua: senza tanti preamboli, trovò le valigie pronte sul vialetto d’ingresso. Gli avvocati che lo attendevano al varco, insieme all’incaricato del Tribunale per i minorenni e a un numero imprecisato di assistenti sociali, gli impedirono di entrare per salutare i suoi figli.
            Nei giorni seguenti, mentre la moglie presentava una domanda di divorzio con addebiti milionari, il futuro Suicida ebbe modo di verificare sulla sua pelle quanto poco contasse l’amicizia nel suo ambiente. Non trovò nessuno disposto a rimetterci la faccia anche soltanto per scambiare due parole, tanto meno qualcuno disponibile a ospitarlo. La scusa era sempre la stessa:
            “Ho figli”, che poi voleva dire “ho una famiglia da mantenere, che faccio se mi annullano tutti quanti i contratti?”. Oppure: “ho dei bambini e voglio che tu stia alla larga. Prima di avvicinarti, devi passare  sul mio cadavere”.
            Gli unici ad accoglierlo furono infine i nonni che l’avevano cresciuto. Il nonno ormai vagava nella quieta indifferenza della demenza senile: e la nonna era troppo occupata ad accudirlo come un neonato vecchio, a cui cambiare il pannolino e impedire di farla dentro a una pentola, per poi metterla in frigo. Complici la demenza, da un lato, e la saggezza, lo accolsero con la semplice serenità di un tempo: ma neppure con loro il futuro Suicida si sentì libero di abbandonarsi alle lacrime, perché avrebbe dovuto spiegare troppe cose. 
            Quel pianto soffocato gli restò dentro, a bruciare. E lo bruciò a tal punto che era già quasi morto la notte in cui uscì dalla casa dei nonni, dopo avere lasciato una carezza sulla fronte diafana e completamente pazza del nonno, sui ricci che la nonna aveva fatto acconciare dal parrucchiere, come andava di moda al tempo della sua giovinezza.
            L’aspirante Suicida vagabondò a lungo nella solitudine di quella notte: era un sabato sera affollato, e in centro si proiettava il suo film più recente. Passò accanto al cinema solo per ritrovare il suo viso ritratto nelle locandine pubblicitarie, e rivederlo al tempo in cui era ancora limpido, con le guance abbronzate, l’espressione trasognata e entusiasta. 
            Non si era trattenuto a lungo, per il timore di essere riconosciuto dalla folla che pure si accalcava dentro e fuori dalla sala. Paradossalmente, gli avvenimenti recenti avevano fatto da cassa di risonanza: al cinema c’era il tutto esaurito, e quel film si avviava a diventare campione d’incassi. Mentre si allontanava, era stato fermato da una ragazza. Aveva l’aria dimessa, il volto consumato dalla fatica di chi lavora molte ore al chiuso, e riposa pochissimo:
            “So chi è lei”, aveva detto la giovane, “è il mio attore preferito e io la seguo da tanto tempo. A quattordici anni sono rimasta incinta, ho dovuto lasciare la scuola e iniziare a lavorare per mantenere mio figlio. C’è stato un periodo in cui ho fatto due lavori, in fabbrica al mattino e le pulizie la sera, in un condominio grandissimo. Poi ritornavo a casa, ed ero talmente stanca da non riuscire a riposare per i dolori alle gambe: davo da mangiare al bambino, lo facevo addormentare, poi guardavo i suoi telefilm. Quello era un momento solamente per me: mi faceva sognare. Lei mi ha fatto compagnia in quei momenti difficili, in tutta quella fatica. Glielo volevo dire. Con tutto quello che sta succedendo, ci tenevo che lo sapesse.”  
            La giovane operaia gli aveva sorriso, e lui non era riuscito a sostenere il suo sguardo. Sentiva le lacrime pungergli gli occhi, ed erano così ardenti da sembrare di sale. Si era allontanato, senza riuscire a risponderle.
            Da quel momento in poi aveva smarrito la nozione del tempo, mentre prendeva forma quella decisione che poco prima l’aveva spinto ad uscire di casa, e a congedarsi dalle uniche persone che per follia o debolezza gli erano rimaste vicine: gli ultimi scrupoli scivolarono dalle sue spalle come inutili pesi, lasciando spazio a una sensazione di meraviglioso sollievo. Era come essere sciolto da cinghie pesanti, che fino a quel momento gli avevano penetrato di dolori la carne: ora che la sua scelta era finalmente compiuta, avvertiva una sensazione di benessere. Di più, non si era mai sentito così vivo.
            La notte era ormai avanzata, quando raggiunse un parco all’estrema periferia, che un ultimo steccato apriva sulla campagna: a un certo punto le aiuole diventavano prati, i viali si mutavano in sentieri e poi in semplici orme nell’erba alta. 
            Di là, si arrivava al lago: a una svolta improvvisa, la vista si apriva su un fazzoletto d’acqua e di ninfee immobili, protetto dal canneto e dalle colline intorno. I voli delle libellule e la curva dei pesci increspavano l’acqua di schegge lucenti. E al centro del lago, rinchiusa nella torre del proprio silenzio, si levava la Rupe.
            Il Suicida per la vergogna si addentrò nel parco.    
            A quell’ora non c’era anima viva: nell’aria già ripulita dai rumori e dalle ultime scorie della città, spiccava l’aroma dei cipressi e dei tigli, che agitavano le loro ombre nel buio.         
            Assaporando quella serenità nuova, ormai a un passo dall’essere tagliato fuori dal mondo, l’uomo sedette su una panchina. Ora doveva solo decidere il modo.   
            Si concesse il lusso di prendersi tutto il tempo del mondo.
            Ad attirare la sua attenzione fu un abete possente, al centro di uno spiazzo pelato dalle corse e dai giochi dei bimbi, che amavano arrampicarsi sui rami solidi e bassi. Poco più in là, era solida e resistente anche la corda che penzolava, rotta, da una delle altalene.
            Il seggiolino si arrotolava su se stesso, con un cigolio simile a un lamento.
            Quando l’uomo si alzò, nella luce lunare a picco sulla ghiaia il suo corpo era senz’ombra: come se avesse già perduto ogni consistenza, e di lui fosse rimasta solo la leggerezza.

 
 ******
 
            Malgrado il sollievo che aveva provato nei suoi ultimi istanti al pensiero di andarsene, il Suicida per la vergogna non era riuscito a trovare consolazione neppure nella morte. Era sua abitudine sedere sul monticello di terra ancora fresca dov’era stato messo a dimora per sempre, poggiando sulle ginocchia la testa e i pensieri: in un gesto che era di afflizione senza rimedio, e al contempo esprimeva la precisa volontà di non rivolgere la parola a nessuno.
            L’unica anima di cui tollerava la presenza era il soldato Ruhe, il tedesco sepolto al sacrario dei caduti insieme agli italiani: morto anche lui suicida in circostanze che non furono mai accertate, e che ormai risalivano a più di settant’anni prima. La loro amicizia era fatta di poche parole e di molti silenzi, di una vicinanza un po’ ruvida, nutrita dell’ascolto della musica di Aldo Gorini.    
            Timido e taciturno, con grandi occhi chiari in cui tremava una scintilla impaurita, anche di Ruhe si sapeva ben poco, sebbene fosse morto da tempo. Alla Rupe girava voce che si fosse tolto la vita perché, a soli sedici anni, aveva già visto tutto e a un certo punto era impazzito. Non si sapeva come gli fossero andate le cose finché era rimasto nella città della sua infanzia, da qualche parte nel cuore di una Germania ormai prossima dalla disfatta: negli ultimi mesi del conflitto, coi boati del fronte che si avvicinavano sempre di più alle strade dove aveva giocato a pallone da bambino, Ruhe aveva prestato servizio nella contraerea, insieme ai suoi coetanei della Gioventù Hitleriana.
            Il cielo di quei giorni era un telo nero di sangue, di polvere e di fragore.
            Una volta disposta la chiamata alle armi per gli anziani e i ragazzi, Ruhe era stato arruolato senza avere neanche il tempo di salutare i suoi, sfollati nelle campagne: sulla porta di casa aveva lasciato un biglietto, Io sto bene - aspettatemi.
            In caserma, gli avevano rasato i capelli ancora più corti, e consegnato un’uniforme di due misure più grande. Una notte, il suo gruppo di adolescenti era stato tirato giù dalle brande, e condotto alla stazione ferroviaria: ancor prima di sapere qual era la destinazione, si era ritrovato su una tradotta cupa, riscaldata soltanto dalla massa dei corpi rannicchiati uno accanto all’altro. Anche Ruhe si era raggomitolato assieme ai suoi compagni, come pulcini impauriti sotto l’ala di nessuno.
            Al suo arrivo in Italia, l’avevano messo a sorvegliare un albero di impiccati. Quell’albero c’è ancora, sulla strada maestra che dal lago conduce al paese: è un abete argentato, dalla corteccia madreperlacea e la sontuosa capigliatura azzurra. Ai suoi piedi, una targa commemora i fatti del tempo di guerra. All’epoca aveva un nome carico di oscure suggestioni, l’albero di Natale dei beati ribelli: questi ultimi ovviamente fungevano da decorazioni, e venivano lasciati pendere come monito finché il tanfo non diventava insopportabile, oppure era necessario liberare qualche posto.
            I ribelli erano i partigiani locali, renitenti alla leva, disertori e civili rimasti presi nelle maglie dell’occupante. I loro corpi erano sfigurati dalle percosse, dalle torture e dal disprezzo. Compito delle guardie era impedire a chiunque di avvicinarsi: senza un’esplicita autorizzazione, i corpi non potevano essere consegnati neppure alle madri.
            Immerso nella natura splendida e indifferente del lago, in un silenzio insolito per lui che era abituato al crepitio incessante della contraerea, il soldato Ruhe faceva la guardia ai morti cercando di guardarsi attorno il meno possibile. Non l’avevano mai spaventato i corpi squarciati dalle esplosioni, ricoperti di polvere al punto da sembrare già sepolti da tempo. Ma i cadaveri dei torturati gli mettevano il panico: le donne con le gambe quasi divelte, i giovani come lui che dovevano esser stati impiccati da morti, tanto era il sangue che facevano da ogni parte, gli suscitavano pensieri perversi, incubi terrificanti. Nelle pause non riusciva a chiudere occhio. Era ossessionato dal fetore che si appiccicava ovunque: da quello stillicidio ininterrotto del sangue che scivolava dalle caviglie degli impiccati, dalle mani congestionate e contorte, legate dietro alla schiena con giri di filo spinato.
            Al termine di una lunga notte di guardia, mentre l’alba strisciava lenta sull’orizzonte, il soldato Ruhe si era allontanato dal suo posto di guardia. Aveva raggiunto un punto, sulla riva del lago, dove sopra di lui non rimaneva altro che il cielo stellato. Quindi aveva estratto la pistola d’ordinanza, se l’era puntata alla testa e dritto sull’attenti s’era fatto saltare il cervello.
            Insieme a Ruhe, quella notte, era di guardia il sergente maggiore Linder: un veterano imponente, con la scorza indurita dalle intemperie della guerra, dalle violenze subite e inferte. Fu lui a riferire che il suo subordinato si era tolto la vita senza alcun motivo apparente, dopo un turno di guardia assolutamente tranquillo. Con ciò, il soldato Ruhe aveva dato piena dimostrazione di non possedere la tempra per reggere un turno di guardia all’albero dei ribelli:
            “Così imparano a mandarci i ragazzini come rincalzi” aveva commentato Linder più tardi, durante una mano di carte con gli altri uomini del plotone. I commilitoni avevano preferito non dire una parola: di più, non avevano osato alzare dal ventaglio di carte neppure un sopracciglio.
            Conoscevano Linder abbastanza per sapere che era meglio non metterselo contro. Era un veterano di tutti i fronti possibili: era stato in Polonia e aveva partecipato all’invasione della Russia, aveva combattuto casa per casa a Stalingrado, e da ognuna di queste campagne aveva riportato intatta la pelle, lasciando indietro qualche brandello di umanità, un frammento di anima.
            Finché era giunto al punto di perdersi del tutto.
            Nei momenti di pausa, si divertiva a raccontare episodi di stupri ed esecuzioni di massa: il soldato Ruhe in quei casi si girava tutto nella coperta, e con la scusa del sonno si tappava le orecchie. Fingeva di dormire e si concentrava sul ricordo di sua madre affaccendata in cucina, dei fratelli più piccoli seduti attorno al tavolo con i libri di scuola.
            Rivedeva l’aula luminosa del suo liceo: il professore di latino passeggiava tra i banchi correggendo il compito in classe, alle sue spalle la lavagna coi gessi candidi e il cancellino felpato.
            Dalla finestra aperta le tende si torcevano in barbagli di luce, minuti scricchiolii di cicale incominciavano l’estate. Il fruscio degli alberi del cortile, gonfi di brezza
            Il soldato Ruhe ascoltava la voce sommessa delle foglie, che tintinnavano come monete argentate. Altre monete argentee dall’edificio di fronte, dov’era la sezione femminile dell’istituto.
            Ragazze alle finestre con le loro risate, una in particolare.  
            Sognava a occhi aperti, il soldato semplice Ruhe: e fu peggio per lui, perché non poté mai accorgersi di come Linder lo fissava in certi momenti. 
 
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Capitolo 3
*** Aver cura di te è amare me stesso ***


“Il presagio è quell’ombra che si allunga sul prato,
Indice di tramonti,
ad avvertire l’erba sbigottita
che su lei presto scenderà la notte”
(Emily Dickinson, Presentiment is that long Shadow)
 

            3. Aver cura di te è amare me stesso
           

            L’Isola era ormai avvolta dalla bruma notturna, interrotta qua e là dagli ultimi stralci di luce del crepuscolo. Con i loro bagliori gelidi e inconsistenti, dal nulla s’accendevano le fiamme dei fuochi fatui, e iniziavano a vagabondare per i campi. La notte cominciava a riempirsi del trapestio dei piccoli animali che dimorano abitualmente tra i rami di noi cipressi: coi loro voli sghembi, come lanciati da invisibili giocolieri, uscivano i pipistrelli; gli allocchi si affacciavano dalle cavità dei tronchi, simili a ciuffi di bambagia col becco, gli occhi ancora appesantiti dal sonno. 
            Sui muri del mausoleo, che iniziavano a cedere la calura del giorno, tremavano evanescenti fiammelle di candele. Le note del violoncello, dopo aver smesso un poco - il tempo di un rapido spuntino del concertista - riprendevano se possibile ancora più intime, delicate e ardenti.
            Aldo Gorini, evidentemente, aveva ottenuto dal custode il permesso di trattenersi dopo l’ora di chiusura. Era solito farlo specialmente d’estate, quando il fresco alla Rupe era più confortante dell’afa della città.
            Suonare, per Aldo Gorini, significava parlare a Emily nella lingua della loro intimità più segreta. Il loro dialogo di musica e di silenzi iniziò da quella prima sera, quando lui riuscì a rintracciarla nel labirinto dei camerini del teatro. Di colpo lei se l’era trovato di fronte, alto e con l’uniforme, i capelli biondi e ordinati con la riga da un lato, un volto classico ma inebriato: la pelle rovente per la timidezza e le note che lei aveva suonato solamente per lui, come se nella sala non vi fosse nessun altro. Entrambi dovettero raccogliere tutto il possibile coraggio per iniziare a parlarsi: erano già innamorati, e a partire da quel momento lo furono per sempre.
            Il giorno del matrimonio, al momento del sì la sposa aveva levato dall’astuccio il violino, l’aveva posato sulla nuvola di veli della sua spalla, e aveva suonato un brano di struggente bellezza. Lui le aveva risposto sedendo al violoncello, e persino le statue dei santi si erano sporte verso il centro della navata per ascoltare meglio.
            Dopo le nozze e gli studi al conservatorio, la fatica, i concorsi, era iniziato il loro sodalizio musicale: erano riusciti entrambi a entrare nell’orchestra del teatro cittadino, lei come primo violino, lui come violoncellista. Insieme a un’altra coppia avevano dato vita ad un quartetto d’archi che aveva acquisito, nel tempo, una certa notorietà: registravano brani di musica da camera, partecipavano a spettacoli di beneficenza, arrivarono a suonare in televisione e alla radio.
            In questa consuetudine fatta di quotidiano esercizio, di concerti e di prove, di sipari calati su un’immensa stanchezza, di lunghi minuti di applausi, Aldo Gorini ed Emily Olsen vissero il loro amore con una gioia che a pochi è dato sperimentare: sia che si esibissero nel teatro gremito, cercandosi con lo sguardo e rimanendo uniti attraverso le note scritte sul pentagramma, o su un palco all’aperto, illuminato da torce e trapunto di stelle, suonavano sempre e solo l’uno per l’altra.
            Quando non potevano sedere vicini, per esigenze di orchestra o di scena, il loro naturale istinto per l’armonia sapeva perfettamente ciò che l’altro stava vivendo. La loro intimità li aiutava a riparare i danni dovuti alla fatica eccessiva, allo scoraggiamento per una nota sbagliata, per un pubblico freddo.
            Vederli suonare insieme era semplicemente gustare l’armonia che esisteva tra loro.
            Fu così per lungo tempo: trent’anni di matrimonio, vissuti intensamente come fossero un giorno. I loro capelli già cominciavano a contare innumerevoli fili bianchi. Sui loro volti il tempo tracciava la storia di una vita di studio, delle grandi emozioni donate dalla musica, della tensione continua verso la perfezione. Ma la schiena di Emily era ancora diritta, e il portamento di Gorini era quello di un ufficiale appena uscito dall’Accademia. Ogni tanto il cuore di lei faceva una capriola, e sopra al comodino iniziarono a comparire fogli di prescrizioni mediche, l’apparecchio per il controllo della pressione, scatole di compresse di tutte le forme e i colori.
            Una sera, durante un’esibizione in teatro, Emily alzò a un tratto il volto dallo strumento: si guardò intorno attonita, sbiancando e poi assumendo un colorito terreo. Un fiume di sudore la bagnò da capo a piedi, impregnandole gli abiti come se il suo corpo fosse fatto di ghiaccio, e si stesse sciogliendo.   
            Gli ultimi rumori che Aldo Gorini udì furono il violino che le sfuggiva di mano, la caduta e il rimbombo di quella cassa armonica perfetta in ogni sua parte, costruita con cura; il fruscio del corpo di Emily che si accasciava silenzioso, piegato da un dolore indicibile e senza ritorno.
            L’orchestra si arrestò a un tratto, ruzzolando sulle ultime note con un rumore disordinato di vetri rotti. Mentre gli orchestrali si affannavano intorno a Emily, e altri addetti giungevano da dietro le quinte, un brusio sempre più alto iniziava a levarsi dal pubblico in sala. Lo spettacolo di balletto in corso sul palcoscenico rimase congelato, i danzatori immobili come le statuine di un carillon senza carica. A spinte Aldo Gorini si fece strada fino a Emily, inciampando negli strumenti e nelle seggiole, nella paura e nello stupore dei musicisti, e facendo volare gli spartiti per ogni dove.
            Quando arrivò a stringerla tra le sue braccia, ne avvertì il peso immobile: d’un tratto fu consapevole che qualcosa stava scivolando via da lei, irrimediabilmente, senza che fosse possibile trattenerlo. Levò lo sguardo, turbato, verso il direttore d’orchestra, verso le facce attonite degli altri musicisti. Gli sembrò d’essere, a un tratto, così lontano.
            Gli uomini del soccorso erano già arrivati: rapidi lo scostarono dal corpo di Emily, dando avvio a quelle manovre che molti anni dopo avrebbero ripetuto sopra di lui, dopo il ritrovamento mattutino nel mausoleo.
            Mentre cercavano di rianimarla e praticare i primi interventi in emergenza, Aldo Gorini percepì una strana sensazione, simile a una folata che gli passava accanto: mentre se ne restava là impalato, incapace di reagire, sentì una mano posarsi sulla sua spalla. In quel preciso istante si accese una scintilla sulla schermata del defibrillatore automatico, e ripartì una traccia dapprima irregolare, poi pian piano più ritmica. Aldo Gorini pensò che la sua vita stessa, insieme a quella di Emily, era appesa a quella sequenza disordinata, ma che pareva acquistare pian piano stabilità.
            Emily fu caricata sulla lettiga dell’ambulanza, condotta via a sirene spiegate nel buio.
            Di nuovo l’impressione di una mano compassionevole sulla sua spalla. Stavolta si trattava di uno dei musicisti:   
            “Aldo, ti accompagno.” Non disse nient’altro.
            Nella sala d’attesa dell’unità di terapia intensiva coronarica, Aldo Gorini perse la nozione del tempo. L’atmosfera era quella di un acquario illuminato da potenti luci al neon. Il pavimento incerato assorbiva il rumore dei passi, le pareti riflettevano un identico candore, sopra a un tavolo erano ammucchiate delle riviste. In un angolo della sala, una pianta da interni seccava senza rimedio, per mancanza di acqua, di sole e di attenzioni. Aldo Gorini attendeva, seduto su una delle sedie allineate contro il muro come si usa nei luoghi che non appartengono a nessuno. Il suo accompagnatore misurava a passi cadenzati la stanza, avanti fino alla macchinetta del caffè, poi indietro fino alla porta che rimaneva ostinatamente chiusa.
            A una cert’ora entrò il medico di guardia: un gigante di un metro e novanta che malgrado le dimensioni era ripiegato su se stesso come un pallone sgonfio, ingobbito dalla fatica e dal peso di quel che aveva da dire. Aldo Gorini cercò di spiare alle sue spalle l’interno della corsia, ma in quel corridoio così bianco da sembrare di pura luce, di Emily non c’era traccia.
            Il medico strisciava lo sguardo per terra come se le parole gli fossero sfuggite, per andare a nascondersi chissà dove. Finalmente si era deciso, e tirando un sospiro per sollevarsi dritto aveva detto Infarto. Poi, a mo’ di spiegazione: qualcosa che trapassa il cuore da parte a parte.
            Aldo Gorini aveva pensato: di qualsiasi cosa si tratti, ha trafitto anche me.
            “Le spiego, l’infarto è dovuto all’occlusione totale di una coronaria, una di quelle arterie che portano il sangue al cuore. Noi stiamo tentando di rimuovere la causa di questa occlusione. Non le nascondo che la situazione è grave.”
            Il medico di guardia camminava in punta di piedi sulle parole. Sudava per l’imbarazzo, il caldo e chissà che altro. Al collo, la cravatta era ridotta a una povera cosa attorcigliata. Non poté sottrarsi all’angoscia di Aldo Gorini, che lo aspettava al varco:
            “Mi dica se riesce a farcela.”
            “Vorrei poterglielo dire.”
            “Mi dica che ce la farà. Anche se non è vero.”
            “Non posso garantirlo.”
            “Anche se non è vero. Ho soltanto bisogno di sentirmelo dire.”
            Più tardi, marito e moglie si incontrarono per l’ultima volta. Il volto di lei spiccava a malapena sopra al cuscino. Il corpo cancellato dalle lenzuola bianche, Emily gli parlava attraverso le pulsazioni sullo schermo del monitor. Accanto al tracciato, altre cifre indicavano gli atti respiratori e il numero dei battiti cardiaci al minuto. Aldo Gorini osservava i numeri sul display, il piccolo cuore stilizzato che pulsava ritmicamente: sapeva che quel palpito inafferrabile e spontaneo era la vita di Emily, e con quello ora lei continuava a parlargli.   
            Lui le rispondeva carezzandole il volto, sistemandole attorno i drappeggi del lenzuolo, stando attento a non toccare, a non muovere niente. E le diceva ti amo Emily, mia Emmy, l’ho detto tante volte eppure ora mi sembra di non avertelo detto mai.
            Di seguito s’era assopito, cullato dall’atmosfera di quel luogo fuori dal tempo, illuminato giorno e notte da un’identica luce e immerso nell’odore amaro dei medicinali. 
            Aldo Gorini dormiva con il capo appoggiato alla sponda del letto quando il ritmo sul display si era ingarbugliato, scatenando una tempesta di allarmi e facendo accorrere il medico e gli infermieri: di nuovo l’avevano ricacciato lontano mentre si affannavano per riprendere Emily, e ora sullo schermo compariva una linea retta, persistente e irreversibile. In quel momento, Aldo Gorini aveva avuto la netta sensazione che Emily lo stesse osservando dall’alto, sopra di lui e già distaccata dal corpo: dove sei, amore mio, non mi lasciare solo, le aveva detto, così disperato da non avere lacrime.
            Nello sguardo di lei c’era la stessa tenerezza del loro primo incontro: come sei bello, amore, anche visto da qui, noi resteremo insieme, sì, resteremo insieme anche nella silenziosa memoria di Dio. Noi saliremo al Cielo come fiamme di luce, questa non è una fine, amore mio, è un inizio, il nostro viaggio insieme è appena cominciato.
            In quel momento, Aldo Gorini ripensò a Emily nella sua giovinezza, come l’aveva vista la sera del primo incontro: una rosa di panno puntata tra i capelli, il volto di lei era un bocciolo che sorgeva dall’acqua, e l’acqua trasparente era tutta la sua pelle, che evocava i ghiacci e le foreste impenetrabili del suo Paese.
            Io ti prometto, gli aveva detto Emily nel giorno delle nozze, di amarti e onorarti per tutti i giorni della mia vita. E anch’io te lo prometto di nuovo e per sempre, le aveva risposto suo marito quel giorno, e in quell’ultimo istante glielo aveva detto di nuovo.
            “Noi ora saliremo verso l’Eterno, ci basta raggiungere il cielo e sfiorarlo”: così recitavano i versi di una poesia che Aldo Gorini aveva letto ai tempi della scuola, di cui non ricordava né l’autore né il seguito. Chissà chi l’aveva scritta. Chissà chi aveva parlato così profondamente e con tanta verità del loro amore, senza saperne niente.  
            “Tu sei me e io sono te, e aver cura di te è amare me stesso.”
            Mentre il corpo di Emily veniva trasportato in camera mortuaria, Aldo Gorini passò insieme a lei da questo mondo. Ancor prima di morire a sua volta, il volto di lui già possedeva quella serenità che nasce dal compimento, e non conosce rimpianto.
 
******
 
            Il soldato Ruhe amava tutto ciò che era dolce, e sopra a ogni cosa trovava una dolcezza senza pari nel violoncello di Aldo Gorini. Ascoltando quel connubio perfetto di tecnica e sentimento che erano le sonate dell’anziano musicista, il piccolo soldato aveva trovato la forza per continuare a vivere nella morte: alla stessa maniera, aveva trovato il coraggio necessario per andare a conoscere il Suicida per la vergogna, ossia l’anima in pena con cui spartiva ogni sera i mozziconi di sigaretta.
            Da quando il nuovo arrivato aveva preso dimora nell’Isola dei morti, Ruhe aveva desiderato avvicinarlo, perché gli ricordava un poco se stesso e gli faceva pena, sempre solo com’era. Anche se sapeva che era lo stesso Suicida a voltare le spalle non appena qualcuno tentava di avvicinarsi, continuava a provare nei suoi confronti una sorta di tenerezza mista a curiosità.
            Una sera in particolare, mentre i morti della Rupe ascoltavano la musica portata dal vento, il Suicida per la vergogna gli era sembrato ancora più solo: e quella solitudine gli aveva fatto venir meno la soggezione che lui provava sempre nei confronti degli adulti.
            Si era avvicinato e gli aveva sorriso:
            “Posso offrirti una sigaretta?” La voce del piccolo Ruhe era un poco sbilenca, a tratti grave e a tratti ancora infantile. L’altro era così assorto nella propria tristezza che ebbe un sussulto. Alzò gli occhi su quell’adolescente dal volto incerto che indossava un’uniforme dell’altro secolo, per giunta di due misure più grande.
            Lo degnò appena di uno sguardo:
            “Molto divertente. State girando un film? A te però, hanno dato una taglia sbagliata. Così non sembri affatto un nazista cattivo, non fai paura a nessuno.”
            “Come dice, signore?” sotto lo sguardo obliquo del Suicida per la vergogna, l’altro perse di colpo tutta la sua disinvoltura, e si trovò improvvisamente accaldato dall’imbarazzo.
            Eppure, quando il Suicida prese di nuovo a guardare dritto davanti a sé, segno che riteneva già chiusa la conversazione, il soldato Ruhe gli si sedette vicino. Strinse le braccia attorno alle ginocchia, posò il visetto magro accanto a quello di lui, per catturarne lo sguardo:
            “Caspita” rise entusiasta. “Tu ci assomigli davvero, a un attore del cinematografo.”
            Il Suicida per la vergogna rise a sua volta: “Cinematografo? Ho sentito mio nonno usare questa parola, più di trent’anni fa. A parte i vecchi, ormai nessuno la adopera più.”
            “Infatti io sono più vecchio di te, almeno nella morte. Prendi una sigaretta.”
            Gli allungò un mozzicone, di quelli che i militari del sacrario ai caduti riesumavano ogni notte per dare un tiro. Dal momento che se li fumavano i defunti, quei mozziconi rimanevano sempre uguali: sull’Isola dei morti, ogni gesto era solo un’imitazione del vivere, che avveniva ormai fuori dal tempo. A girare erano sempre le ultime sigarette rimaste in tasca a Ruhe il giorno in cui s’era ammazzato. Il Suicida girava il mozzicone tra le mani:
            “Persino le sigarette d’epoca… ma di che film si tratta?”
            Il piccolo Ruhe sorrise. “Nessun film” sussurrò “io sono un soldato vero.”
            Il buio ormai li circondava completamente. Restavano nell’aria le note del violoncello, a comporre una danza assieme ai fuochi fatui che s’accendevano azzurri, salendo dal terreno. Quei bagliori fuggevoli e senza calore, adatti al dominio dei morti, tracciavano sui loro volti giochi di luci e ombre.
            Le parole di Ruhe, nella loro misurata tristezza, avevano colpito profondamente il Suicida per la vergogna, che finalmente s’era voltato a guardarlo meglio. Nel tenue chiarore dei fuochi, il volto del ragazzo pareva ancora più tenero:
            “Ma tu non sei un po’ giovane per essere un militare? Quanti anni hai, tredici?”
            Il soldato Ruhe s’era stretto nelle spalle:
            “Sedici anni compiuti. Ma sono morto da tanto, ormai non ha più importanza.”   
            “Ti hanno costretto ad arruolarti a sedici anni?”
            Il sussurro di Ruhe divenne ancora più mesto. “Ti sbagli”, disse. “Nessuno mi ha costretto. Alla fine della guerra, il Fuhrer ha disposto la chiamata alle armi per i giovani e le riserve. Non potevo tirarmi indietro. Io sono un volontario.”
            “Beh certo, un volontario.” Il Suicida per la vergogna scrutava di sottecchi l’uniforme del ragazzo. Lacera in più punti, sporca di sangue e della terra di lunghi anni, era tuttavia ancora riconoscibile. “Ti hanno fatto proprio un bel lavaggio del cervello.”  
            Ruhe abbassò gli occhi. Aveva lunghe ciglia, delicate e chiarissime:
            “Non ha più molta importanza. Immagino che a quest’ora sarei morto comunque.”          
            Di nuovo gli sorrise, poi arrivò dritto al punto:
            “E tu, perché sei qui?”
            Era l’ultima cosa di cui il Suicida per la vergogna avesse voglia di parlare, con un completo sconosciuto che per giunta era un ragazzetto. Non sapendo se il soldato fosse al corrente di qualcosa - le voci giravano in fretta, anche nel mondo dei morti - e poiché non voleva esser brusco con lui, per timore che se ne andasse, preferì cambiare argomento. Si rivolse a Ruhe sorridendo come ai suoi tempi migliori:
            “Lo sai? Non so come hai fatto, ma hai proprio indovinato. Io ho fatto del cinema, o meglio del cinematografo.
            Il soldato Ruhe era entusiasta:
            “Hai visto? Tu mi prendevi in giro, e invece… e dopo, cos’è successo? Ti sei stancato e hai smesso?”
            Riportato di nuovo al punto di partenza dalla grazia innocente del piccolo tedesco, il Suicida per la vergogna non sapeva che pesci pigliare. Decise che una mezza verità era la bugia migliore: 
            “Non mi sono stancato. Per farla breve, non ho potuto più continuare.”
            “Perché?”
            “Perché?” gli fece il verso il Suicida per la vergogna, rendendosi conto che malgrado tutti i tentativi di depistaggio si tornava sempre lì, e cominciando a irritarsi. “Il perché sono affari miei.”
            Gettò via il mozzicone, da qualche parte nel buio. Lo tirò come un sasso. La brace si spense non appena l’ebbe allontanata dalle sue labbra. Il piccolo tedesco ebbe un sussulto nel vedergli compiere quel gesto repentino: non appena vide il braccio del Suicida levarsi, scattò in piedi e si allontanò da lui istintivamente.
            Il Suicida per la vergogna si dispiacque da un lato per averlo turbato, dall’altro si chiedeva come fosse possibile spaventare con un solo gesto della mano un soldato, che per quanto giovane doveva essere abituato a ben altro. Poco più in là, impalato, le braccia strette al torace come per ripararsi da un gelo improvviso, Ruhe pareva un uccellino su un ramo d’inverno. L’altro avvertì una fitta, da qualche parte nell’anima: cercò di ricordare l’ultima volta in cui aveva provato un sentimento per qualcuno, anche soltanto un semplice dispiacere. Non gli tornò in mente niente.
            Guardò Ruhe, che dal suo angolo gli rivolgeva un sorriso incerto. Il Suicida gli fece cenno:
            “Ma torna qua, dai… che non ti faccio niente.”
            Quando il ragazzo ebbe ripreso il suo posto, e furono accesi altri due mozziconi di sigaretta, il Suicida riprese il filo del discorso. Chissà perché, adesso gli andava di parlare:
            “In realtà, a un certo punto mi hanno chiuso le porte in faccia. Ho avuto dei problemi e mi hanno piantato in asso. D’altra parte, nel cinema funziona così, è tutto usa e getta.”
            Ruhe annuì comprensivo. Un paio di fuochi fatui scaturirono accanto a lui, agitando le loro fiamme senza calore nel buio. Di quelle, il giovane soldato non aveva paura. Allungò addirittura la mano come per catturarle, e il fuoco si tirò indietro, come aveva fatto lui poco prima. Nell’oscurità rischiarata da quell’effimera luce, gli occhi di Ruhe splendevano di un celeste chiarissimo:
            “Ti va di parlarne?”
            Malgrado le sue buone intenzioni, l’altro ebbe un nuovo scatto, seppur più controllato:
            “Non sono cose di cui parlare a un ragazzino. Non capiresti niente.”
            In realtà, il Suicida voleva dire: queste son cose che non si possono raccontare a nessuno.
            La vergogna che l’aveva portato a suicidarsi, adesso la provava di nuovo e tutta intera.
            Davanti a quel ragazzo e forse di fronte a tutti i bambini del mondo.
 
******

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Capitolo 4
*** Non chiedermi nulla, se puoi ***


“Come se il mare, aprendosi
Svelasse un altro mare
E questo un altro ancora
E i tre - solo il presagio fossero
D’infiniti altri mari, non toccati da riva
come se il mare a mare fosse riva
questa è l’Eternità
(Emily Dickinson, “As if the Sea should part”)
 

            4. Non chiedermi nulla, se puoi
 

            La morte di Emily aveva inaugurato una nuova consuetudine nella vita quotidiana di Aldo Gorini. Una volta terminati gli impegni con l’orchestra, le prove, i concerti, l’anziano musicista affrontava la lunga salita fino alla Rupe e al campo degli stranieri, l’angolo del cimitero dove era stata seppellita Emily Olsen.
            Doveva trattarsi di una sepoltura provvisoria, nell’attesa che gli anziani genitori di lei ottenessero il trasferimento della salma in Danimarca. Gli Olsen desideravano avere un posto dove andare a trovarla, a magra consolazione della loro vecchiaia e nell’attesa di ricongiungersi all’unica figlia. Era un pio desiderio, eppure destinato a rimanere tale: perché Aldo Gorini, solitamente noto per il suo carattere condiscendente, si oppose con tutte le forze a quella che definiva la seconda dipartita di Emily. Al punto da affermare che questo nuovo abbandono gli risultava ancora più insopportabile del primo, e che avrebbe fatto di tutto per impedirlo.
            Spettava a lui solo ricongiungersi con la sua amata, quando fosse venuta l’ora.
            Nel frattempo, Gorini trascorreva ogni momento libero alla Rupe. All’inizio, si prendeva semplicemente cura del sepolcro: cambiava l’acqua nei vasi, levava ciò che era appassito, secondo la stagione interrava gruppi di primule, roselline selvatiche, e d’inverno rametti di calicantus odorosi. Gli abitanti della Rupe amavano il calicantus e il suo profumo che ricordava il Natale, il calore di casa e il sapore del cioccolato sulle labbra. Spesso Aldo Gorini offriva anche alle tombe più disadorne uno di quei rametti dai piccoli fiori gialli, con un cuore purpureo che, nel loro linguaggio, significava amore e desiderio di protezione. Ne regalò un rametto anche alla vecchia nonna del Suicida per la vergogna, che saliva ogni domenica per curare la tomba, strappare via le erbacce e recitare un rosario per la buonanima del nipote.
            Esaurite le sue incombenze, Aldo Gorini passeggiava lungo i viali di ghiaia bianca, si riposava sulle panchine sotto ai cipressi, nei punti panoramici sostava a contemplare il lago sottostante, simile a una distesa di luce ineffabile.
            Almeno i primi tempi, non si era comportato molto diversamente dagli altri visitatori: le vedove indaffarate, a loro agio come nel giardino di casa, coi guanti da giardiniere per potare le rose, l’edera che si arrampicava instancabile sui muri delle cappelle. Le visite erano ormai sempre più rare all’Isola: ma ancora, il due di novembre, c’erano dei parenti che salivano apposta, e dopo avere salutato i loro morti andavano a passeggio a vedere le tombe nuove, seguiti dai bambini che giocavano a nascondino e riempivano i viali di voci alte e sottili. I bimbi della Rupe avrebbero voluto correre insieme a loro, e sedevano tristi per quella divisione che imponeva la morte.
            Col passare del tempo, Aldo Gorini aveva fatto amicizia con la più assidua frequentatrice del cimitero: la nonna del Suicida per la vergogna era un’anziana curva, così piccina che spariva tra i rovi, i boccioli avvitati e le rose eleganti, di cui curava attentamente la crescita sulla tomba del nipote. Le rose erano tutte di un inviolabile color bianco, che nel linguaggio dei fiori rappresenta l’amore spirituale e l’innocenza. Non era certo innocente, il Suicida per la vergogna: ma agli occhi della nonna, che lo vedeva con la saggezza della vecchiaia e per di più con l’attenuante della morte da giovane, restava comunque esente da ogni condanna.
            Con la nonna del Suicida, Aldo Gorini scambiava consigli di giardinaggio e idee sulla morte, getti di piante da provare a mettere a dimora, pensieri su ciò che attende l’anima nell’aldilà.
            Dopo un poco di tempo, la presenza di Aldo Gorini presso la piccola comunità della Rupe divenne pressoché continua: quando l’inconsolabile coniuge cominciò ad arrampicarsi alla Rupe col violoncello, la tomba di Emily si trasformò in una sorta di saletta auditorium dove Aldo Gorini svolgeva i suoi quotidiani esercizi, imparava nuovi brani per i concerti, si dedicava alla composizione.
            Di lì a poco, il suocero rinunciò al suo desiderio di seppellire Emily nella tomba di famiglia. Malgrado l’età avanzata e la distanza, aveva tuttavia conservato sufficiente lucidità per rendersi conto che i comportamenti di Gorini sfioravano l’ossessione. Da ultimo, aveva ritenuto opportuno ammonirlo:
            “Carissimo, a differenza di me e mia moglie, che siamo molto vecchi, tu sei ancora lontano dal mondo della morte. Non puoi entrarci in anticipo. Non starebbe a me dirlo, ma forse sarebbe meglio se tu privilegiassi la compagnia dei vivi. Dovresti risposarti.”  
            Simili parole agli orecchi di Aldo Gorini suonavano assurde: lui non riusciva semplicemente a immaginarsi la vita senza Emily. In realtà, pur non condividendo con nessuno il suo pensiero, considerava la moglie ancora viva e vegeta, seppur in modo diverso.
            Per prima cosa, procedette all’acquisto di una cappella in rovina, situata nell’area monumentale del cimitero. Per mesi, dovette districarsi tra pratiche burocratiche, autorizzazioni della Soprintendenza alle Belle Arti, cavilli di ogni genere: finché riuscì a ottenere il permesso di restaurare l’immobile e trasferirvi la salma della moglie. Commissionò per Emily quel sarcofago straordinario, realizzato dall’anonimo che si diceva in grado di trasformare gli esseri viventi in sculture di pietra: il che era una leggenda, perché all’interno di quel raffinato contenitore, che di Emily riproduceva le sembianze, il corpo era ordinariamente piombato dentro a una cassa, con i sigilli apposti il giorno del funerale.
            In ogni caso l’opera, realizzata su una serie di vecchie foto sbiadite e neanche bene a fuoco, mostrava un realismo davvero impressionante: persino le ciglia posate sulle guance e il perfetto ovale delle palpebre chiuse, persino l’attaccatura crespa dei capelli di Emily erano riprodotti con la massima precisione. Aldo Gorini trovò del tutto naturale scambiare quella forma per Emily stessa, nelle nuove sembianze assunte dopo la morte. Ogni mattina, entrando nel mausoleo la salutava - anche solo con un cenno, tanto tra loro non erano mai state necessarie troppe parole. Passava la giornata dedicandosi allo studio del violoncello. Di tanto in tanto volgeva uno sguardo alla sua amata, come se lei potesse dargli un parere con un solo movimento dell’aria: il sì di una brezza calda, o una corrente fredda per dire no, non ci siamo, devi provare ancora. Ripeti quel passaggio, attento che qui c’è una pausa.
            Per far fronte alle spese, Aldo Gorini accumulò debiti. Negli anni successivi diede fondo ai risparmi e alla sua sparuta pensione da orchestrale. Si ridusse a sopravvivere con le lezioni di violoncello che impartiva agli allievi del conservatorio, e con i proventi di qualche concerto.
            Arrivò a dover vendere addirittura la casa dove aveva vissuto con Emily, soltanto per finanziare il suo sogno di abitare presso di lei nella morte: pur di restarle accanto, scoprì di essere disposto a rinunciare persino ai ricordi. Capì di quante poche cose ha bisogno un uomo quando l’amata è presente: un tavolo per i pasti, una sedia a dondolo per il riposo, il violoncello e gli spartiti per gli esercizi.  
            Una volta che il mausoleo fu restaurato, e il corpo di Emily poté prendervi posto, Aldo Gorini cominciò a passare le sue giornate alla Rupe. Ogni mattina attendeva l’arrivo del custode che apriva i cancelli, e se ne andava puntuale all’ora di chiusura: solo com’era venuto ritornava in città, alla stanza che era riuscito ad affittare con gli ultimi spiccioli.
            Passò così molti inverni, con l’unico conforto di una stufetta elettrica che, con un sistema elaborato di cavi, riusciva ad allacciarsi all’ufficio del custode. Questi, inizialmente perplesso riguardo alla presenza di Gorini alla Rupe, convenne infine che si trattava di un brav’uomo, innocuo e soprattutto di gusto: l’assortimento di vini ricevuto come ringraziamento per il disturbo, nei giorni della traslazione di Emily Olsen, aveva riscosso la sua piena approvazione.
            Nel frattempo, si diffondeva la fama romantica di Aldo Gorini, della sua dedizione capace di oltrepassare i limiti della morte: sull’argomento, uscì addirittura un articolo sulla cronaca locale. C’era da dire che il Gorini, malgrado l’età avanzata, continuava a serbarsi dritto come un fuscello, unendo la finezza del musicista al portamento austero di un ufficiale: molte si misero in testa di dissuaderlo dal dare ulteriore seguito ai suoi voti matrimoniali, visto che ormai la sposa era morta da un pezzo.  
            La cortesia di Aldo Gorini era proverbiale almeno quanto il suo fascino: non trattò mai nessuna delle aspiranti alla sua mano con sgarbo e impazienza. Semmai, si fece ancora più schivo.
            Cominciò a somigliare a quelle lucertole che d’estate facevano capolino dalle crepe, attratte da un raggio di sole: sostavano un poco crogiolandosi in quel tepore, ma non appena un’ombra abbassava di poco la temperatura, presagio di qualcosa che stava per accadere, correvano a nascondersi nella loro fessura.
            Così era Aldo Gorini: solo desideroso di continuare a vivere accanto alla sua Emily, fino al momento in cui si sarebbero incontrati di nuovo e per sempre.
            Nei momenti di pausa, leggeva poesie da un libro ritrovato per caso durante lo sgombero della sua vecchia casa:
            “Noi ora saliremo verso l’Eterno, ci basta raggiungere il cielo e sfiorarlo
            noi siamo i figli della luce, fiamme dello splendore
            e il nostro viaggio è appena incominciato”.
 
******
 
            A notte fonda persino il violoncello di Aldo Gorini s’era spento con un ultimo, dolcissimo fruscio.
            Tutta l’Isola dormiva. I bambini abbracciati ai loro giocattoli, le anziane coppie di coniugi distesi sulle loro imbottiture di raso, le mani conserte con il rosario intrecciato: così come li avevano deposti coloro che li avevano amati. Soltanto i mozziconi del Suicida per la vergogna e del soldato Ruhe erano ancora accesi, due occhi aperti e vigilanti nel buio.
            Il Suicida per la vergogna non riusciva a capire che cosa ci trovasse Ruhe a stargli vicino. A parte gli interminabili silenzi e il quotidiano cattivo umore, fino a quel momento il piccolo tedesco aveva rimediato soltanto un soprannome, per giunta irritante: Husky, per via degli occhi celesti così limpidi e tersi, che in natura non se n’erano mai visti di uguali. Non s’erano, quegli occhi, schiariti con il tempo trascorso dalla morte: anche da vivo Ruhe aveva posseduto quella trasparenza angelica di tratti e di colori, ed era stato per quello che a un certo punto il sergente maggiore Linder s’era accorto di lui.
            “Cosa vuol dire Husky?” aveva chiesto Ruhe, un poco contrariato, la prima volta che il Suicida per la vergogna gli aveva appioppato quel soprannome. L’altro aveva riso, e per un istante il suo viso da attore del cinematografo era tornato alla spensieratezza di un tempo:
            “L’Husky è una razza di cani da slitta.” Poi, notando che l’altro si risentiva: “Alcuni hanno occhi azzurri molto particolari. Molto simili ai tuoi.” Siccome il ragazzo non pareva convinto gli mise un braccio al collo, e continuando a ridere lo attirò a sé:
            “Esiste il Siberian Husky, e tu sei il mio German Husky.
            Innervosito, Ruhe si era svincolato dall’abbraccio:
            “Non farlo mai più, non voglio”, lo spinse via con furore. “Hai inteso? Non voglio.” 
            Il Suicida, stupito, lo lasciò andare. Tutt’a un tratto si sentì in soggezione, e come intimorito dalla reazione del giovane. Guardò il piccolo Husky che teneva le braccia strette attorno alle gambe, come per proteggersi da qualcosa che vedeva soltanto lui: a un tratto il suo sguardo era fisso nel vuoto, come quello di certe bestiole prese in trappola.
            “Va tutto bene, Husky... Ruhe, va tutto bene.” L’unica cosa che al Suicida venne in mente fu di allungare la mano, per posarla sulla schiena dell’altro. A quel tocco, il ragazzo si voltò verso di lui, pallido e aggressivo:
             “Ti ho detto di non farlo.” Lo respinse con rabbia, e cominciò a tremare. Tutto il suo corpo era in preda a un tremito incontrollabile: tremavano le spalle nell’uniforme troppo grande, la nuca coi capelli rasati così corti eppure strappati in più punti, interrotti da tagli e da lacerazioni. Il Suicida per la vergogna lo fissava stupito, e d’un tratto anche attento: molti segni a cui non aveva mai fatto caso prima d’allora, gli saltavano agli occhi. Messi uno dietro l’altro, cominciavano ad acquistare significati inquietanti.
            Era chiaro che Ruhe era troppo giovane per aver preso parte a lunghi combattimenti, e per essersi logorato l’anima e il corpo, oltre che l’uniforme, nel buco di una trincea. Eppure il suo volto era pieno di ecchimosi, e attorno al collo e ai polsi anneriva l’impronta di lividi brutali: i segni di una mano simile a una tenaglia affondavano letteralmente nella sua carne, come se avesse sostenuto un corpo a corpo. Intuì che la schiena non poteva essere toccata perché tutta strisciata, trascinata a terra e penetrata con forza dai sassi, dal groviglio di arbusti di un luogo riposto, dove probabilmente nessuno era riuscito a sentirlo, né a venirgli in aiuto.    
            Adesso, all’improvviso, comprendeva il perché di quella camminata che pareva sempre dolente, come se dovesse sopportare ogni volta una nuova sofferenza, e una nuova vergogna; il pudore di cui si circondava in ogni situazione, e che lo spingeva a sedersi sempre un poco in disparte, sia dagli altri soldati sia quando era accanto a lui.
            Tutta la sua compostezza gli serviva a proteggere quella grande macchia di sangue che si allargava sotto alla sua cintura, e in fondo alla schiena: una chiazza annerita che lui aveva pensato fosse di putrefazione, e invece era una sciocchezza perché le anime non marciscono come i corpi, tanto meno l’anima limpida del soldato semplice Ruhe.
            E se il Suicida avesse veduto anche le unghiate sulle natiche magre, la carne strappata viva per costringere il ragazzo ad aprirle, allora sì avrebbe capito, avrebbe capito tutto. Ma in realtà non c’era bisogno di altri indizi, perché il Suicida per la vergogna aveva già indovinato quello che era successo, e provò una grande pena. Era la prima volta da chissà quanto tempo che invece di pensare solamente a se stesso, si preoccupava e soffriva per un altro essere umano.
            Lo attirò a sé di nuovo, ma stavolta il suo tocco era pieno di discrezione, dello stesso pudore che affliggeva Ruhe e lo spingeva a stendere, ovunque si sedesse, un vecchio fazzoletto solo per non sporcare. Lo attirò ma anche lo strinse, per impedirgli di andarsene:
            “Va tutto bene, Husky. Ti giuro che andrà bene, fosse l’ultima cosa che giuro in vita mia.”
            “Cos’è, uno dei tuoi film? Non puoi giurare sulla tua vita. Sei morto già da un pezzo, non lo ricordi?”
            “Ma neppure da vivo mi era capitato di tenere così tanto a qualcuno.” 
            “Solamente perché ti faccio fumare a scrocco.”
            In realtà il soldato Ruhe, malgrado la vergogna, la rabbia e tutto il resto non desiderava altro che essere accolto, come un bambino che inciampa e si sbuccia un ginocchio: stanco come se avesse vagato per mille anni, nel tentativo di sfuggire al sergente maggiore Linder, si accovacciò tra le braccia del Suicida per la vergogna.
            A lui, che non sapeva neppure come tenerlo per non fargli del male, per pudore non rivolse neppure uno sguardo, ma solo un breve avviso:
            “Ti prego, non chiedermi niente.”
            “Non lo farò. Ma non chiedermi nulla, se puoi, neppure tu.”
 
******
 
            Anche attorno all’albero di Natale dei beati ribelli fiorivano i fuochi fatui. Alcuni si schiudevano tra i corpi appesi ai rami, e parevano uscire dalle mani dei morti legate dietro alla schiena, e dalle gambe tese a sfiorare la terra. Accanto al piazzale, come una piaga si apriva uno stagno d’acqua nera: altri fuochi sbocciavano sopra alla superficie ricoperta di muco e grovigli d’erbe marce.
            La calura estiva, che di giorno rendeva il cielo una cappa di piombo, di notte ristagnava senza un filo di vento: mescolato all’odore corrotto dello stagno, il fetore dei corpi era tale che Ruhe era costretto a svolgere il turno di sentinella premendosi un fazzoletto sul naso per tutto il tempo. Come di consueto, anche quella sera a montare la guardia erano in due. 
            “Che schifo” aveva commentato l’altro che era con lui “prima o poi bisognerà seppellirli, quei cosi. Non sono rimasti appesi abbastanza a lungo? Ormai, quelli del paese li hanno visti tutti. Cos’è, dobbiamo aspettare che ci cadano addosso i pezzi?”
            Ruhe aveva offerto al compagno una sigaretta. L’altro aveva accettato, senza smettere per un attimo di brontolare:
            “La puzza che fa la morte, non la si dovrebbe mai annusare. Porta scalogna.”
            Andava avanti e indietro, il soldato Santifaller, dondolando sui passi pesanti la stanchezza, la sua stazza da armadio e tutto il suo disappunto. Ruhe lo adorava: accanto a lui si sentiva protetto come da un padre. Leo Santifaller era un austriaco di cinquant’anni, che giudicava il tempo dal cielo e parlava continuamente della moglie e dei figli, dei parti delle vacche, dei lavori da fare secondo le stagioni. Veniva da un paese arrampicato così in alto sulle montagne, che neppure era segnato sulle carte geografiche. Trattava Ruhe come uno dei suoi ragazzi: gli teneva da parte i bocconi migliori, per lui aveva sempre una stecca di cioccolato, un pugno di sigarette, un uovo per crescere.
            “Devi mangiare, sai” gli ripeteva sempre “altrimenti non ti fai grande. Puoi fare anche finta di essere un soldato ma sei una via di mezzo, sei come le rane giovani che hanno ancora la coda.”
            Per questo, Santifaller lo chiamava rospetto, e si accollava al suo posto i turni più sfibranti, gli incarichi più rognosi. Addirittura, non esitava a caricarsi sulle spalle lo zaino del ragazzo:
            “Io vengo dalla montagna” si schermiva con Ruhe “che vuoi che sia, per me. Sono abituato a portare sulle spalle pure i tronchi degli alberi. Se voglio, porto anche te.”
            Era vero fino a un certo punto, e infatti spesse volte Santifaller barcollava, e di sotto a quel carico dava l’idea che prima o poi ci avrebbe lasciato le penne. Ma ogni volta che Ruhe insisteva per aiutarlo, lui lo fissava con i suoi occhi tranquilli, sui quali non si vide mai traccia di impazienza, né ombra di timore, nemmeno nei momenti più difficili e rischiosi: quegli occhi stretti tra le ciglia corte e dure e un ventaglio di rughe erano colmi della sofferenza antica della sua gente, abituata a lottare con le insidie della montagna.
            Sotto allo sguardo vigile del suo commilitone, e al peso della sua mano posata sulla spalla, Ruhe si sentiva protetto. Ce la caveremo, rospetto, gli ripeteva l’austriaco, riusciremo a tirare i piedi fuori da questa fogna. E quando sarà finita verrai a trovarmi al paese, ci faremo una birra e una fetta dello strudel che prepara mia moglie con le mele del nostro frutteto. E se per caso avrai bisogno di lavorare potrai stare da noi, da fare ce n’è per tutti in montagna, non temere.
            Così andavano avanti a parlare per ore, e Ruhe raccontava com’era la sua stanza e i libri che leggeva, e Santifaller parlava del fienile da riparare, che era la prima cosa da fare al suo ritorno; poi d’un tratto rideva e diceva che no, riparare il fienile non era la prima cosa, la prima in assoluto sarà abbracciare mia moglie, non so se mi spiego, rospetto; Ruhe ammetteva che non tutti i suoi libri stavano sullo scaffale, visibili da sua madre quando passava a dare la polvere: ce n’era uno che lui teneva ben nascosto di sotto al materasso, perché leggerlo gli dava delle sensazioni strane. Lo faceva arrossire e gli veniva caldo, e poi… non si può dire. Di cosa parla sto’ libro, ghignava Santifaller, a quest’ora tua madre l’avrà trovato di certo. Lui era sposato da più di trent’anni, sapeva dove il rospetto voleva andare a parare. E rideva vedendo che Ruhe s’imbarazzava, arrossiva come la brace della sua sigaretta. Allora Santifaller frugava nelle tasche e cavava fuori qualcosa, prendi una cioccolata, sembra sterco di vacca però è nutriente - ghignava - proprio come il letame. Prendi un pezzo di pane, bada che se non cresci non si rizzerà mai, rimarrai rospo a vita e con la coda moscia, di questo puoi starne certo. E adesso che ci penso ne mangio pure io un pezzo, che quando torno mia moglie mi aspetterà al varco.
            E ridevano insieme, neppure immaginando che quella sera, al varco, li attendeva il sergente maggiore Linder. Fradicio di una quantità inimmaginabile di alcool, lo sguardo fisso che aveva nei momenti di maggiore esaltazione creativa, i due del turno di guardia se lo trovarono di fronte senza preavviso.
            La luce della luna, stemperata dall’afa in una foschia umida, illuminava lo spiazzo come in pieno giorno. Dal canneto che circondava lo stagno, Linder era da un pezzo che li stava osservando, in attesa del momento di uscire allo scoperto. Adesso procedeva nella loro direzione: sicuro di sé e addestrato ad avvicinarsi al nemico senza farsi sentire, il suo passo flessuoso ricordava quello di un predatore all’attacco. Come loro, era armato: e l’unica differenza, a parte l’ubriachezza, era il modo in cui teneva la mitraglietta spianata contro le due sentinelle, tenendole sotto tiro senza possibilità di equivoci.
            “C’è stato un improvviso cambiamento di programma” annunciò, scivolando uno sguardo vacuo sopra a rospetto Ruhe. Con la canna dell’arma, fece cenno a Santifaller di levarsi dai piedi:
            “Tu puoi tornare in branda. Monterai al prossimo turno, per ora resto io.”
            Poiché era strano il modo e strana la situazione, i due non si mossero. Linder si avvicinava, ed era preceduto da un forte odore di alcool. Ruhe cercò con lo sguardo gli occhi di Santifaller. Istintivamente, avvicinarono le spalle uno all’altro.
            “ Se non avete capito, si tratta di un ordine. Sloggiare, paparino. Stasera tocca a me.”
            Con questo, Linder riteneva di essere stato sufficientemente chiaro: né aveva voglia di spendere altre parole, abituato com’era ad essere obbedito all’istante. Quella volta, però, si aveva l’impressione che sotto l’improvvisa variazione del turno si nascondesse altro: un segreto proposito, qualcosa che ispirava un senso di pericolo.
            Né Ruhe né Santifaller riuscivano a capire dove il superiore volesse andare a parare.
            Ruppe il silenzio il più anziano, come di consueto facendosi avanti:  
            “Signore, chiedo di proseguire il mio turno in sostituzione del soldato semplice Ruhe.”
            E che rospetto Ruhe vada a stendersi in branda, altrimenti non cresce e non gli si rizzerà mai: questo pensò l’austriaco con un sorriso, ma il suo superiore non era di quel parere. 
            “Levati dalle palle, vecchio.” La canna traballante del sergente maggiore Linder si spostò lentamente verso di lui: “obbedisci al mio ordine” -
            Lo sguardo di Linder era fisso, come se fosse preso dalla visione di un altro mondo. Aveva il volto pallido malgrado il pieno di alcool, e la voce tranquilla era quella dei suoi momenti migliori: placida e noncurante, era la stessa con cui ordinava di impiccare i ribelli mentre girava lo zucchero nel primo caffè del mattino.
            I due del turno di guardia, come ipnotizzati, non riuscivano a staccare gli occhi dal sergente maggiore. Sapevano che non c’era niente di peggio di Linder ubriaco, visto che anche da sobrio era un pazzo esaltato. Era risaputo che Linder, ovunque andasse, si tirava dietro la morte come un cane al guinzaglio. 
            Ruhe in particolare, che per la giovane età aveva ancora voglia di farsi delle domande, considerava il suo superiore alla stregua di un enigma: sembrava un individuo colato nell’odio come dentro a uno stampo, eppure era di bell’aspetto e di buone maniere. Capace di una conversazione brillante quando non era sbronzo, e persino spiritoso quando ne aveva voglia. Viennese di origine, la sua famiglia possedeva una casa editrice che pubblicava poesia e studi di letteratura. Il salotto di casa era un vivaio di artisti, studiosi, ricercatori. Colto e attraente, il sergente maggiore Linder aveva tutte le carte in regola per avere successo nella vita e in amore, e nessuna ragione per infierire sul prossimo.
            Non riuscendo a venirne a capo, Ruhe spesso assillava con le sue domande gli altri veterani:
            “Come mai Linder si comporta così? Molto semplice, è pazzo. È fuori di testa.”
            “Troppi anni di guerra.”
            “È stato a Stalingrado, ed è sopravvissuto. Questo ti dice niente?”
            “Non c’entra Stalingrado, Linder era una bestia anche prima.”
            “Tu comunque, ragazzo, vedi di non capitargli a tiro. Bada, io non ti ho detto niente, ma tu stagli lontano. Segui il mio consiglio.”
            Questo era un altro enigma: in realtà, non c’era nessun motivo per cui il sergente maggiore dovesse avercela con lui. Era capriccioso e feroce, ma solo con il nemico. Ruhe non capiva da cosa doveva guardarsi, e cosa doveva temere.
            Eppure, quella sera si trovò a doverlo imparare sulla sua pelle.
            Linder teneva ancora sotto tiro Santifaller, ma questi non si decideva ad andarsene. Le due sentinelle fecero un altro passo per accostarsi una all’altra. Il loro superiore osservò compiaciuto quella patetica mossa di avvicinamento.
            “Sempre a strusciarvi assieme, voi due, che bello spettacolo...” poi, alzando la voce: “torna sotto la tenda, mi hai sentito, vecchio? Stasera tocca a me. A meno che tu non voglia restare a guardare. Magari mi dai una mano, e dopo ti cedo il posto.”
            Ruhe ancora non capiva, sicché non reagì quando Linder lo afferrò per un braccio, tirandolo a sé. L’austriaco invece aveva capito tutto, e approfittando del fatto che l’altro aveva una mano impegnata, gli fu subito addosso per tentare di disarmarlo.
            Fu questione di un attimo: dalla mitragliatrice partì una scarica che a Ruhe sembrò echeggiare per tutta la valle.
            L’effetto di quel colpo fu che Santifaller crollò lungo disteso.
            L’ultima cosa che Ruhe udì distintamente, prima che il terrore lo invadesse completamente, furono le parole del sergente maggiore, soffiate nel suo orecchio mentre quel volto di ghiaccio incombeva su di lui:
            “Un attacco dei ribelli. Hai capito, moccioso? Un attacco in piena regola, per portar via i cadaveri. E il tuo povero babbo si becca la croce di ferro.”  
            La stretta di Linder segnò l’inizio di un dolore intollerabile, che gli strappò le viscere e che fu accompagnata da quelle precise parole, mentre il suo superiore lo trascinava verso il buio di una radura.
 
******

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Capitolo 5
*** Se mi sfiori le mani, io dimentico il mondo ***


“Io canto per riempire l’attesa
finché risuoni vicino il suo passo,
e insieme camminiamo verso il giorno,
l’uno all’altro narrando di come cantammo
per scacciare la tenebra
(Emily Dickinson, “I sing to use the Waiting”)
 

5. Se mi sfiori le mani, io dimentico il mondo

 
 
            Dal giorno in cui il custode, aprendo i cancelli di primo mattino, si era insospettito non trovando Gorini ad attenderlo, sull’Isola dei morti era sceso un silenzio carico di tensione, del genere che prelude a qualcosa di irreparabile.
            All’inizio s’era posato, quel silenzio, come il pulviscolo del primo sole sul piazzale d’ingresso, sulle volute di ferro battuto del cancello, sulle braccia levate di noi cipressi del viale. Di seguito, inoltrandosi sempre di più nell’Isola, s’era posato tra i boccioli di rose bianche, cresciuti sulla tomba del Suicida per la vergogna; sulla corona d’alloro e di polvere del monumento ai caduti, dove i soldati si affacciavano a torso nudo, per godersi un poco di sole. 
            Gli eventi si erano susseguiti rapidamente: il custode si era recato al mausoleo e aveva trovato il corpo del musicista immobile, come fosse là da sempre, insolito compianto sopra alla sedia a dondolo. Era uscito confuso, abbagliato dall’eccesso di luce, e si era affrettato a chiamare i soccorsi: polizia, carabinieri e ambulanza in quest’ordine esatto, forse anche i pompieri. Chiunque andava bene, purché arrivasse presto a cavarlo d’impaccio.   
            Gli ultimi rumori, che avevano messo sull’avviso anche noi abitanti dell’Isola, erano stati il tonfo del libro di poesie che Aldo Gorini teneva sulle ginocchia, quando i soccorritori lo adagiarono a terra nel tentativo di rianimarlo; e la concitazione delle manovre eseguite senza troppa convinzione, perché fu chiaro da subito che l’uomo era deceduto ormai da parecchie ore.
            Gli ordini secchi che i soccorritori si scambiavano tra loro, e la voce suadente del defibrillatore, ci fecero capire cosa stava accadendo entro la mole severa dell’edificio: noi cipressi allungammo in quella direzione le chiome a mo’ di antenne. Molte anime si affacciarono, timide, sulla soglia delle loro cappelle, dei loculi in muratura, delle lapidi a terra.
            Man mano che si spargeva la voce, su quella soglia si creò un vero assembramento di creature silenziose: I primi ad arrivare furono quelli che alloggiavano vicino al mausoleo, e per questo godevano dei posti riservati in occasione dei concerti per violoncello. C’erano poi le rispettabili coppie dell’altro secolo, i lavoratori integerrimi e le spose fedeli. Le madri della Rupe, che grazie alle sonate riuscivano ad addormentare i loro bambini. C’erano i militari del sacrario ai caduti, ancora a torso nudo, e un gruppetto di monache provenienti dalla parte più antica dell’Isola, che in origine era un convento con annesso cimitero.
            Quando Gorini fu caricato sulla barella e condotto lungo la scala, traballando sulle spalle dei due soccorritori fino all’ambulanza, quel corteo invisibile lo seguì fino al limite che ai defunti non era permesso valicare: oltre la scalinata che scendeva fino al lago non era lecito spingersi, perché più in là cominciava il mondo dei vivi.
            Non potendo proseguire, le anime tornarono indietro alla spicciolata: le dame dell’altro secolo sollevavano con due dita le gonne, per non inciampare nel risalire i gradini; gli anziani gentiluomini, impacciati dal rigore dell’abito buono, sbuffavano aggrappandosi ai bastoni da passeggio; i bambini volavano per le scale come scoiattoli, giocavano a rincorrersi come in un’allegra gita fuoriporta. Le madri li seguivano, ogni tanto richiamandoli all’ordine. Tra i militari, qualcuno osservava che quando era salito alla Rupe la prima volta, aveva trovato il tragitto molto meno faticoso: per forza, sghignazzavano gli altri, l’altra volta ti hanno portato nella cassa, con tanto di bandiera e medaglia. Adesso, invece, tocca a te muovere il culo.
            Malgrado la contagiosa allegria dei bambini e i motti dei militari, malgrado l’abitudine alla morte che tutti condividevano, gli abitanti della Rupe erano dispiaciuti per l’improvvisa dipartita di Aldo Gorini. S’erano affezionati al vecchio musicista con quella timidezza grata e senza pretese che era loro tipica: e che li rendeva lieti come i bimbi a Natale quando i vivi si fermavano anche solo un istante, per leggere le date sopra alle loro lapidi, e guardarli negli occhi delle fotografie.  
            Tutti speravano che Aldo Gorini potesse rimanere tra loro: ma sapevano anche che ormai le sepolture si facevano tutte al Cimitero Centrale, nella periferia remota della città. Là dove c’era un crematorio inestinguibile, pronto a ridurre in cenere, violoncello compreso, chiunque non avesse denaro sufficiente per andarsene altrove.
            Da lì scese il silenzio nel cuore di molti e li rattristò a lungo, come se avessero perso una persona cara. Persino noi cipressi soffrivamo di nostalgia: ci mancava la musica, quell’armonia che aiutava persino l’erba a crescere, e che ispirava anche ai più abbandonati la fiducia nel vero amore che vince la morte. Anche a coloro che non avevano più nessuno che venisse a trovarli, la musica di Gorini ricordava che eravamo anime in viaggio, destinate all’Eterno: e come recitava quella poesia che il vecchio aveva tanto amato, noi eravamo i figli della luce spaziosa, fiamme dello splendore. Il nostro viaggio verso l’eterna felicità era appena incominciato.
 
******
 
            Per un lasso di tempo che nessuno poté quantificare - essendo noi della Rupe ormai fuori dal tempo - sull’Isola dei morti regnò solo il silenzio, finché giunse una notte diversa da tutte: in quella quiete immobile, piana come la superficie del lago, dall’antico mausoleo si levarono timide, un poco incerte poi man mano più decise, le note di un violino.
            Era una musica dolce, carica di un infinito struggimento. Noi cipressi cercammo di afferrarla con la punta dei rami, e i nostri occhi di resina iniziarono a pungere per la commozione.
            Sulla soglia del mausoleo, una figura esile chinava il capo su un violino come fosse la spalla di qualcuno che amava: e suonava con una maestria e un tormento che non erano di questo mondo. 
            “Sta suonando per lui”, sussurrò con certezza il soldato Ruhe, “in qualche modo che noi non possiamo comprendere, lei lo sta chiamando. Vuole che venga qui.”
            “Tu come fai a saperlo?”
            Il Suicida per la vergogna aveva ricevuto l’istanza di divorzio, come la ciliegina su una torta di letame, a pochi giorni dalle denunce che lo avevano spedito diritto al capolinea. Solamente da poco, guardando al mondo dei vivi con la vista più acuta che è propria della morte, si era reso conto che sua moglie, in realtà, già da parecchio tempo aveva un altro uomo: e aveva semplicemente colto al volo l’occasione per provare a cavargli un mucchio di soldi.
            Riguardo all’amore eterno, si sentiva alquanto scettico.
            “Io non lo so, ci spero”, mormorò Ruhe, “perché dopo la morte rimangono soltanto le cose importanti. Forse solo l’amore.”
            “L’amore” brontolò il Suicida per la vergogna, a voce bassa ma sufficiente per farsi udire da tutti, “per quel che ne so io, l’amore è la beata consolazione dei fessi”-
            Ruhe non rispose.
            La bianca figura continuava a suonare, e persino i fuochi fatui parevano danzare sul filo di quelle note. Come al tempo in cui Aldo Gorini teneva i suoi concerti, si radunò un folto pubblico, che l’inconsueta visione rendeva un poco più timoroso. La donna non era più giovane, eppure possedeva un’incorporea bellezza: un fuscello di schiena lunga e diritta, un volto affilato e lunghe mandorle d’occhi, che scrutavano il pubblico con un’aria smarrita e forse un poco timida. Sulle braccia, a ricordo del ricovero urgente nel reparto di terapia intensiva cardiologica, recava lividi di punture. Vestita un sudario, sebbene Aldo Gorini l’avesse deposta con i suoi abiti migliori, suonava con i capelli scarmigliati e disciolti: a guardarla, pareva una di quelle figure del dolore che vegliavano sulle austere cappelle del cimitero.
            Il Suicida per la vergogna e il soldato Ruhe si erano piazzati su una gobba di prato, a fumare le solite sigarette dei morti. Il primo era disteso con le braccia dietro alla testa, l’altro cauto sul ciglio di un vecchio fazzoletto. Dal lago saliva l’odore dell’acqua, lo sciabordio pigro dei flutti contro la scala a chiocciola. Una nebbia sottile, che era il calore rimasto dal giorno, avvolgeva la Rupe in un’atmosfera da sogno.
            Incominciò a parlare il piccolo tedesco, completamente assorbito dall’incantesimo:
            “Lei è la donna amata dall’uomo del violoncello. Hanno suonato insieme per tutta la vita. Pare che sia straniera, e venga dalla Danimarca. È ariana, come me.”
            Lo disse con un compiacimento infantile. Il Suicida per la vergogna si raddrizzò sui gomiti e lo guardò dritto in faccia:
            “Non mi dire che credi ancora a queste cose.”
            Husky lo guardò con i suoi occhi trasparenti:
            “Perché non dovrei crederci? Me le hanno insegnate da piccolo, a scuola. I nostri professori ci volevano bene, ci hanno dato cose buone in cui credere.”
            Il Suicida per la vergogna strappò un lungo stelo, se lo ficcò in bocca.  
            “Certo, come no.” Lì per lì fu tentato di lasciar perdere. In fondo che gli importava, delle cose buone di Husky, era tutta acqua passata di settant’anni fa. Ma poiché nel suo cuore, per tutt’altro motivo, covava la rabbia, a un certo punto non riuscì più a trattenersi. Afferrò il ragazzo per un braccio, strattonandolo. Stavolta Ruhe lasciò fare: si volse verso di lui, docile, e i suoi occhi celesti lo fissavano stupiti.
            “Voglio sapere che ti è successo” gli sussurrò il Suicida “non ti lascerò andare finché non me l’avrai detto. Scommetto che ti hanno fatto la festa, e magari ti è pure piaciuto. Vediamo se hai il coraggio di raccontarmi quanti erano. Alla faccia degli ideali, delle belle parole che non servono a niente.”
            Lo gettò indietro con una spinta, così forte da fargli perdere l’equilibrio. Il ragazzo si rimise a sedere con fatica, sistemando il fazzoletto con attenzione. Senza alzare lo sguardo, domandò sottovoce:
            “Vuoi che me ne vada?”
            Da qualche parte, il suo corpo iniziava a sanguinare. In un modo che al buio non era dato di capire esattamente, una macchia nerastra incominciava ad allargarsi sul fazzoletto. Sul braccio dove il Suicida l’aveva stretto si aprì un’altra ferita, e un altro fiore scuro iniziò ad inzuppare la manica dell’uniforme. Poiché il ragazzo era morto il sangue usciva lento, una mera illusione di forza vitale. Il Suicida per la vergogna si allarmò. Si tirò su di scatto, e gli fu subito accanto:
            “Ti ho fatto male?”
            Con delicatezza stavolta, lo palpò per controllare che non ci fosse nulla di rotto. In fondo, Husky era deceduto da molti anni, e non era inconsueto che i più vecchi tra i morti incominciassero a perdere qualche pezzo. 
            Il piccolo tedesco fece segno di no, ma fuggiva il suo sguardo tenendosi nell’ombra. Guardandolo, il Suicida sentì qualcosa sciogliersi, dentro di sé in un punto segreto dell’anima: a un tratto non gli importava delle porte chiuse in faccia, della vergogna del suo nome su tutti i giornali, di sua moglie che se la spassava con un altro e con tutti i suoi soldi. Di aver perso la casa, i contratti, la carriera e quella pallida forma di amore che è l’ammirazione di tutti.
            Adesso gl’importava solamente di Husky, di quella purezza che voleva proteggere a ogni costo perché gli ricordava da vicino i suoi figli, che non aveva neppure potuto salutare. Non solo: c’era qualcosa in Ruhe che gli ricordava molti altri bambini, quelli che aveva tenuto nascosti nel computer di casa, sotto forma di filmati e di immagini. Prima che l’apparecchio fosse sottoposto a sequestro, ne aveva messi insieme così tanti da non poterli contare. Li aveva contati, al posto suo, la polizia postale.
            Profondamente turbato, come per sottrarsi ai suoi stessi pensieri il Suicida per la vergogna si diede a tamponare il sangue dalle ferite del soldato semplice Ruhe: in breve, esaurì un pacchetto di fazzoletti di carta, che aveva prontamente cavato da chissà dove:
            “Ti hanno seppellito coi fazzoletti in tasca?” rise il piccolo Husky, recuperando in un attimo la sua levità di spirito.  
            “Mi hanno seppellito com’ero” rispose secco il Suicida.
            Lieto delle attenzioni, l’altro si divincolava ridendo. Poi, con la spontaneità che gli era consueta: “Se proprio vuoi saperlo è stato uno soltanto, ma mi ha fatto così male che ogni volta che ci penso ritorno a sanguinare.”
            “Perdonami” sussurrò il Suicida per la vergogna, e non era ben chiaro se parlava a se stesso, ad Husky o a quei bambini imprigionati nei file del suo computer. Ore e ore di video e di fotografie che aveva scovato pazientemente nei meandri della rete, in molti casi pagandoli a peso d’oro.
            “Perdonarti di cosa?” chiese a quel punto Ruhe, levando il volto per accompagnare la sua domanda fino al volto dell’altro. Il Suicida per la vergogna fuggì con lo sguardo, quasi temendo che l’altro potesse leggergli in faccia quello che aveva fatto. Eppure, quella sera decise che ne aveva abbastanza. Buttò fuori le parole, quasi senza pensarci: 
            “Sono stato arrestato per una stupida faccenda di pornografia. Roba con ragazzini più giovani di te. Insomma, dei bambini. Mi hanno trovato in casa un sacco di foto, video… Anche con bambini piccoli.”
            Ruhe si limitò a guardarlo coi suoi grandi occhi umidi, di un celeste che non era mai stato così limpido. Da quella notte in cui il sergente maggiore Linder l’aveva condotto con sé nella radura buia, aveva le labbra morsicate in più punti. Anche quelle ferite ripresero a sanguinare.
 
******
 
            Dall’alto delle mura, la notte sulla città era una cappa di foschia punteggiata di luci. A metà dell’estate, la telecronaca della finale dei mondiali di calcio giungeva fino all’Isola silenziosa dei morti in un brusio di televisioni dalle finestre aperte, di radio dalle piazzette. Alcuni dei più giovani si erano arrampicati in cima a quei bastioni che li tagliavano fuori dal mondo dei vivi: con le gambe a penzoloni nel buio, ascoltavano le voci che incalzavano i giocatori dai bar sul lungolago, dalle radio portatili, dalle tivù sotto al cielo giallo della città.
            Tutti cercavano di capire cosa stava facendo l’Italia, e chi riusciva a intercettare qualche parola da quell’eco confusa, ne rendeva partecipi gli altri:
            “Ha segnato l’Italia” esultava uno dei caduti del sacrario, ma un altro non era convinto:
            “Non ci credo, la gente griderebbe più forte.”  
            Dalla sommità delle mura, gli occhi dei morti giovani vagavano per le strade della città: le mani vuote nel grembo, le gambe che dondolavano a picco sul lago, si sentivano esclusi da quella festa dei vivi.
            Erano curiosi di sapere se l’Italia sarebbe riuscita a diventare campione del mondo, ma sapevano che quel momento non era per loro: e anche il loro entusiasmo, non era che un tentativo penoso quanto inutile di continuare a far parte del mondo dei vivi.
            Lo sapevano bene anche il soldato Ruhe e il Suicida per la vergogna, che pure risentivano di quell’irrequietezza che aveva preso un po’ tutti: anche i bambini quella sera erano scatenati, correvano dietro a un pallone uscito da chissà dove e non volevano saperne di andare a dormire. Più che giocare, si azzuffavano nel tentativo di dare calci, mettendo nei loro gesti un’insolita ferocia.
            Il soldato Ruhe e il Suicida per la vergogna camminavano lungo il viale alberato, avanti e indietro nella frescura che un po’ li nascondeva dagli altri della Rupe. Andavano in silenzio, senza guardarsi. A tratti le loro mani si cercavano, sfiorandosi.
             Ruhe aveva raccontato che quando era giunto all’Isola il suo corpo era talmente intirizzito che le madri della Rupe avevano dovuto cullarlo e riscaldarlo per quasi settant’anni, prima che fosse in grado di superare il dolore, e prendere finalmente il suo posto tra i morti.
            Il Suicida per la vergogna aveva raccontato dei suoi traffici solitari al computer, e del punto di non ritorno a cui era arrivato durante una vacanza in un paese straniero, quando aveva concordato un prezzo stracciato per comprare un bambino. Anche il Suicida aveva iniziato a sanguinare: dal solco che gli girava attorno al collo, grosse gocce di sangue avevano iniziato a scendere come lacrime. Il piccolo tedesco l’aveva abbracciato, stringendolo a sé quando l’altro aveva fatto un passo indietro per sottrarsi. Nel momento in cui l’uomo aveva abbassato finalmente la testa, per posarla sull’esile spalla di Ruhe, un’armonia dolcissima, un brano musicale eseguito con tecnica perfetta e invincibile potenza aveva cominciato a diffondersi in ogni angolo della Rupe.
            La sera precedente, un nubifragio aveva imperversato sull’Isola spazzando via i giochi dei bimbi, la corona col tricolore dei caduti, qualche statua di angeli un po’ pericolante, e una quantità di tegole dai tetti delle cappelle. 
            Il mattino seguente, la gente della Rupe si era data da fare per aiutare il custode a riparare i danni: tutti avevano lavorato fino a tardi per rimettere in piedi i muri e le siepi, raddrizzare angeli e croci, ristabilire la copertura dei tetti. Come in un’improvvisata caccia al tesoro i bambini correvano liberi per i campi, cercando i loro giocattoli.
            C’era un grande fermento di attività alla Rupe: per questo, nessuno si era accorto che insieme alla bruma del tardo pomeriggio era salito alla Rupe anche lo smilzo corteo funebre di Aldo Gorini. Guidava l’esiguo gruppo il prete della parrocchia, che aveva conosciuto l’anziano musicista quando questi aveva venduto la casa, e aveva occupato una stanza in affitto vicino alla chiesa. Il parroco aveva preso a benvolere quel vecchio un po’ strambo, dotato di un’immensa conoscenza musicale e di un bizzarro amore per i funerali: ogni volta che in chiesa si celebravano delle esequie Gorini era presente, compunto all’ultimo banco. Alla fine lui e il prete fecero conoscenza, e l’anziano musicista si offrì di rispolverare il grande organo a canne che incombeva dall’alto, minaccioso come una macchina da guerra tra le volte della chiesa.
            In cambio delle sonate che quelle dita esperte traevano dall’organo, e uscivano maestose dalle canne puntate al cielo, il prete non lo lasciava andare a mani vuote: gli rifilava puntualmente nella tasca un pacco di pasta e qualche scatoletta, un filone di pane.    
            Gli altri due del corteo erano delle pompe funebri comunali: con la massima economia di tempo e di spazio, avevano portato le scartoffie nelle tasche e la cassa sulle spalle.
            Chiudeva il corteo un cane giallo e randagio, a cui Gorini aveva dispensato ogni sera i resti della cena, e una carezza sulla carcassa scheletrica. Siccome il prete era esausto, e quelli con la cassa avevano compiuto gli ultimi metri arrancando più morti che vivi, il botolo giallo era l’unico a mantenere un atteggiamento riguardoso, consono a un funerale.
            I due delle pompe funebri parevano aver fretta di togliersi dai piedi una seccatura. Arrivati alla Rupe, avevano scaricato la cassa con malagrazia, per attaccarsi a bere alle piccole fontane che servivano per curare le piante, e recavano file di minuscoli innaffiatoi. Dopo un breve colloquio nell’ufficio del custode, il corteo era giunto al mausoleo di Emily Olsen. Qui Gorini fu tumulato in una nicchia del muro. Una volta terminata l’operazione, a indicare il punto avevano lasciato un semplice foglio con il nome e le date, sigillato nella plastica per evitare i contrattempi dell’umidità: la destinazione definitiva, secondo la volontà del defunto, doveva essere lo stesso sarcofago di Emily, costruito a suo tempo con larghezza sufficiente per accogliere entrambi. Ciò richiedeva un iter abbastanza complesso, perché il mausoleo era vincolato dalla Soprintendenza e non era chiaro se il vincolo riguardava soltanto l’edificio, o anche gli arredi. Nel dubbio se il Gorini potesse ritenersi un complemento d’arredo, e per la mancanza di parenti disposti a sobbarcarsi le spese, non se ne fece nulla. 
            In mancanza di altri, fu il Comune a farsi carico delle esequie, fornendo l’indispensabile: un loculo e una lapide che non arrivò mai a destinazione, perché nei mesi seguenti gli addetti del Comune se ne dimenticarono, e il foglio con il nome e le due date scarne fu spazzato via dalla prima bufera invernale. 
            Fu questa la fine anonima di Aldo Gorini, eppure non ve ne fu nessuna di più felice.
            In piedi sulla soglia del mausoleo, aveva ritrovato colei che aveva amato fin da quel primo istante in cui Emily Olsen aveva posato l’archetto sulle corde, in quella sera remota del saggio al conservatorio.
            Nell’accogliere il nuovo ospite dell’Isola dei morti - l’ultimo ormai, perché esattamente il giorno dopo il Comune decretò la chiusura definitiva - Emily aveva recuperato lo splendore del primo incontro: e nel momento stesso in cui Aldo Gorini uscì dalla sua nicchia e se la trovò di fronte, provò la stessa emozione di cinquant’anni prima, quando l’aveva vista suonare concentrata sotto agli occhi degli insegnanti. Emily Olsen suonava, la treccia sulla spalla e il violino sull’altra, mentre lunghi tramonti su distese di neve, manciate di isole in un mare di ghiaccio, foreste silenziose uscivano dall’archetto e riempivano tutto lo spazio: e chi ascoltava si sentiva trasportato in un paese lontano, al punto da avvertire un brivido di freddo.  
            Quella sera, mentre nel mondo dei vivi si festeggiava la vittoria dell’Italia ai mondiali, il mausoleo di Emily Olsen s’illuminò a giorno, simile a un palcoscenico di teatro. La gente della Rupe dimenticò per un attimo l’atmosfera di festa che si surriscaldava nella città dei vivi, e quel felice clamore da cui erano esclusi.
            Sul cielo della città fiorivano i fuochi artificiali: i vivi facevano festa per conto loro, mentre il lago e la Rupe continuavano ad essere avvolti dall’oscurità.
            Ma sul piccolo spiazzo di fronte al mausoleo, Emily Olsen aveva una rosa di feltro puntata sull’orecchio, una treccia che si perdeva nella penombra, l’abito lungo da sera. Accanto a lei, Aldo Gorini ancora in uniforme da allievo ufficiale, con un occhio allo spartito abbracciava il violoncello, con l’altro occhio stringeva a sé la sua donna.
            Come scaturito dagli sguardi che i due si scambiavano da dietro al leggio, un tepore confortevole, un’armonia feconda incominciò a fluire tra le membra disseccate dei morti della Rupe. E tutti assaporavano quel frammento di vita, che era solo per loro.
            Gli unici che non si unirono alla folla che assisteva al concerto furono il soldato Ruhe e il Suicida per la vergogna.
            C’era stato un tempo in cui le madri della Rupe avevano dovuto tenere in braccio a lungo il piccolo tedesco, per riscaldare il suo corpo intirizzito: con la stessa pazienza, ora il soldato Ruhe teneva stretto a sé il Suicida per la vergogna e lo teneva con forza, anche se quello era grande il doppio di lui, e tra le sue braccia magre ci stava appena. 
            Sulla ghiaia del viale, al ritmo della musica si agitavano fragili le prime foglie autunnali.
 
 

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