Lost in translation

di _Lightning_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Numeri ***
Capitolo 2: *** Parole ***



Capitolo 1
*** Numeri ***


Serie: Schegge
 

 

Numeri

 

 


"What I create depends on my inside
There is no difference when
That's not what meets your eye
I'll never be the superhero
They're expecting me to be"


[About Wayne – Caries]

 

 

La bottiglia si stava sciogliendo. Tremava nelle sue mani e perdeva a poco a poco consistenza sotto le sue dita, sempre più simile a gelatina.
Il suo sguardo sfocato fu attirato dai riflessi cangianti del vetro che catturava le luci fioche della città oltre la vetrata. Gli ricordavano quelli della luna sull'oceano a Malibu, quando aveva ancora una villa da cui ammirarli. 
La sua presa incerta si allentò di colpo e lo schianto del vetro che si abbatteva sul pavimento risuonò nell'attico della Avengers Tower, ferendo le sue orecchie sensibili.

Tony indietreggiò barcollando, scostandosi dalla pozza d'alcol costellata di schegge, simili ad iceberg su un mare ambrato. Fissò quel disastro con occhi annebbiati senza la minima intenzione di fare qualcosa per arginarlo e lasciò che la pozza raggiungesse il tappeto. Tornò sui suoi passi, verso l'ampia vetrata affacciata su New York al momento completamente occupata da un ologramma dal riverbero azzurrino.

Un elenco, ordinatamente disposto in colonne.

Si appoggiò al vetro: anche quello aveva una consistenza gommosa, dandogli l'impressione che potesse cedere da un momento all'altro precipitandolo nel vuoto. Fu distratto da un lieve luccichio che gli era parso di scorgere in cielo, proprio dove il portale alieno si era aperto anni fa, quando era stato scaraventato attraverso quello stesso vetro. Barcollò appena sul posto, colpito da una lieve nausea che si sforzò di contenere. Distolse lo sguardo dal cielo e scorse rapidamente la lista, tenendo il segno con l'indice malfermo. Si fermò senza esitazioni.

"Ventitré. Andrej Trudnov."

Annuì tra sé e pronunciò una volta il nome con voce fiacca e impastata, per poi tornare a vagare per il salone evitando con passo ondeggiante i vari soprammobili e bicchieri caduti qua e là durante i suoi passaggi precedenti. Ripeté il nuovo nome un altro paio di volte per memorizzarlo.
Poi ricominciò.

"Bogdan Sokolov. Andy Winter. Frida Bauer. Dimi Novak."

Si accostò alla penisola della cucina, recuperando un'altra bottiglia di quello che sembrava whiskey da dietro il bancone. La inclinò in controluce, verificando che ci fosse ancora del liquore dentro.

"Rodion Petrov. Dunja Petrov. Sasha Zimmer. Goran Fen."

La accostò alle labbra, sentendo la testa che si faceva di nuovo leggera. Il salone vorticò davanti a lui e per un attimo sembrò capovolgersi ignorando ogni legge di gravità.

"Heinrich Zemo. Hilda Zemo. Carl Zemo."

Attraversò la stanza con l'impressione di camminare sul soffitto e calpestò inavvertitamente la pozza d'alcol di poco prima. Sobbalzò al contatto del liquido freddo coi piedi nudi e deviò appena in tempo per non ferirsi con i vetri, senza distogliersi dai nomi che continuava a recitare un po' a mente, un po' a mezza voce.

"Andrej Trudnov. Ventitré."

Interruppe di colpo la sua marcia cieca, ondeggiò sul posto e si diresse di nuovo alla vetrata. Trovò rapidamente il segno, ticchettando sul vetro con sguardo assente.

"Ventiquattro. Charles Spencer."

Bevve un sorso di whiskey e riprese la sua ronda senza meta attraverso il salone, ripetendo da capo la lista. Adesso era il pavimento ad essere molliccio, simile a sabbie mobili. Ebbe l'impressione di sprofondare fino alle caviglie e sollevò con forza un piede, quasi perdendo l'equilibrio quando non incontrò alcuna resistenza. Incespicò e riuscì ad aggrapparsi a una poltrona appena prima di collassare a terra; non si fermò, continuando a costeggiare la parete opposta alla vetrata. Seguiva il muro col palmo per avere un appoggio sicuro, sentendolo deformarsi sotto il suo tocco.

D'un tratto il suo mantra di nomi scemò nel silenzio e si concesse qualche secondo per fare un rapido calcolo.

"Ventiquattro su centosettantasette."

Erano appena le nove di sera. Entro mezzanotte, se continuava con quel ritmo, poteva memorizzare circa altri ottanta nomi. Poi ne sarebbero mancati poco più di settanta.

Annuì di nuovo e svuotò in un sorso la seconda bottiglia di quella sera, poggiandola poi con noncuranza sul divano dove la lasciò a gocciolare.

Avrebbe potuto velocizzare quel processo, senza quegli intervalli tra un nome e l'altro. Dopotutto, quando era al MIT aveva memorizzato in qualche ora le prime cento cifre decimali del Pi greco per una scommessa. Quei nomi però corrispondevano a delle persone, non erano numeri astratti e inutili. Avevano avuto un preciso significato e un'importanza inestimabile nella vita in cui erano inseriti prima di scomparire. Probabilmente, da qualche parte nella successione numerica del Pi greco c'erano le loro date di nascita, la loro età, il numero dei loro figli, la data della loro morte, uguale per tutti...

"Centosettantasette persone, cento cifre. Una cifra a persona..."

Si rassettò con un gesto distratto i capelli, a malapena consapevole di dove fosse davvero la sua testa, come se ciò potesse riportare ordine anche tra quelle riflessioni.

"Altre settantasette cifre per far quadrare i conti."

Si accigliò profondamente e rinunciò a trovare un senso ai suoi pensieri. 
Mosse appena la testa e la stanza sembrò rimescolarsi davanti ai suoi occhi, come una scatola di costruzioni scossa da un bambino. Mise di nuovo a fuoco le colonne di nomi che assediavano la vetrata: ne mancavano centocinquantatré.

Riprese a camminare, con la voce stanca e monocorde ad accompagnare i suoi passi.

 

***

 

Al novantottesimo nome e alla terza bottiglia di whiskey Tony si accasciò contro la vetrata, col mondo ormai ridotto a un tornado che gli vorticava attorno in un miscuglio di colori indecifrabile. Si prese la testa tra le mani e poi premette i palmi sulle palpebre serrate, ma tutto ciò che ottenne fu la sensazione di essere risucchiato in un buco nero, o di sprofondare in acque torbide, o di essere inghiottito in un portale...

Aprì di scatto gli occhi e quasi fu accecato dalle luci notturne di New York che occupavano la sua visuale, oltre la lista ordinata di nomi. Fissò quei puntini luminosi fino a sentirli come spilli conficcati nella sua retina mentre si lasciava scivolare piano a terra, adagiandosi sul pavimento molliccio e instabile. Rimase rivolto verso la vetrata, con gli occhi stanchi e appannati che fondevano le lettere azzurrine della lista con lo sfondo punteggiato di finestre illuminate, lampioni e insegne, in un caleidoscopio agitato e tremolante.

Fissò i grattacieli che sembravano ondeggiare leggermente, scossi dalle fondamenta. Poteva quasi immaginarli mentre si sollevavano lentamente verso il cielo, come qualche mese prima le vecchie case del centro storico di Novi Grad, coi tetti di tegole rossicce che collassavano e i muri in pietra grezza che si sbriciolavano...

Delle vibrazioni lo attraversarono da capo a piedi e il tempo sembrò dilatarsi. Per un momento credette di vedere i palazzi crollare su se stessi e di sentire il pavimento che tremava e vide il soffitto che stava per schiantarsi su di lui mentre tutto sussultava a ritmo con quel terremoto improvviso. Cercò di alzarsi in piedi, ma crollò di nuovo a terra, la testa che ronzava e girava su se stessa come un trottola mentre i suoi respiri si facevano più rapidi e superficiali. Le vibrazioni cessarono di colpo così come erano iniziate, ma lui continuò a tremare da capo a piedi, carponi e col fiato corto. Guardò i grattacieli, trovandoli immobili e stabili, anche se dai contorni sfocati. Il pavimento era cedevole, ma immobile, e il soffitto era ancora intatto sopra di lui.

In uno sprazzo di lucidità tastò la tasca dei pantaloni alla ricerca del cellulare, trovando una spia di notifica che lampeggiava sullo schermo, a segnalare il messaggio appena arrivato. Lo aprì con un gesto automatico, faticando a mettere a fuoco lo schermo che gli feriva gli occhi col suo riverbero. Dovette leggere il messaggio cinque volte prima di comprenderlo:

Tony, sono appena rientrata dalla riunione: è durata più del previsto e ho rimandato la partenza a domattina.
Arriverò a NY nel pomeriggio.

Buonanotte, non fare troppo tardi.

Si abbandonò di nuovo sul pavimento, steso sulla schiena e con lo sguardo puntato oltre la vetrata ricoperta di nomi. Cercò di ripetere la lista da capo, ma si bloccò dopo poco, con le parole del messaggio che si sovrapponevano e interferivano con quelle stringhe di numeri insensati che sembravano dipanarsi all'infinito nella sua mente. Prese un respiro profondo più simile a un rantolo e il suo corpo reagì indipendentemente dalla sua volontà: si ritrovò a premere il tasto di chiamata rapida.
Il tu-tu ovattato proveniva da un'altra dimensione, era un flebile segnale perso nello spazio.
Chiuse gli occhi per oscurare le stelle apparse davanti a lui.

«Tony?»

La sua voce era chiara, segnata da un velo di stanchezza. Cercò di articolare un saluto, ma gli rimase incastrato in gola mentre cercava di ancorarsi a quel suono dolce senza riuscirvi. Sembrava sfuggirgli; si protendeva verso quelle parole, verso mille altre parole pronunciate in quella voce che amava, senza riuscire mai a raggiungerle. Le sfiorava sempre per poi scivolare ancora più lontano.

«Tony, sei lì?» una nota di preoccupazione si insinuò nelle sue parole, la stessa che le aveva letto negli occhi nel corso degli ultimi mesi.

Stanchezza e preoccupazione. A volte un sorriso, di quelli che sembravano far risaltare le sue lentiggini, che portavano alla luce le fossette sulle guance e che le facevano arricciare appena il naso mentre assottigliava gli occhi radiosi. Erano sorrisi vecchi, che si trovava a ricordare più che vedere. Adesso, preoccupazione e stanchezza.

Di nuovo, scivolò un po' più lontano.

Chiuse la chiamata e scostò il telefono dall'orecchio, sapendo che si sarebbe agitata e che probabilmente l'avrebbe richiamato a breve e che lui non avrebbe risposto.Si girò sul fianco e strinse le ginocchia al petto, con la guancia bollente che aderiva al pavimento freddo. Lo sguardo cercava di seguire il reticolo di strade illuminate sotto di lui, ma veniva calamitato inesorabilmente verso il cielo. Le luci tremolanti e calde dei grattacieli sembravano guizzare come mille fiammelle oltre il muro di vetro e nomi. Centosettantasette nomi indelebili. Chissà quanti ne mancavano alla lista.

"Avresti potuto salvarli tutti."

Rimase a guardare impotente la città che bruciava.


 

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Note dell'Autrice:

Cos'è questo? Cos'è questo

Oh, beh, questo è semplicemente un super-iper-concentrato di angst per smorzare l'imperdonabile ventata di gioia che aveva animato i miei scritti nell'ultimo periodo. Questo è la conseguenza del rewatch Marvel in vista di Infinity War, alias "quando guardi i film prendendo appunti". Questo rappresenta i miei giri mentali su tutto ciò che è accaduto dopo il disastro in Sokovia che non ci è stato mostrato direttamente, e che secondo me è fondamentale per capire le prese di posizione di Tony in Civil War.
In soldoni è una supercazzola ad alto tasso etilico di Tony ho-problemi-con-l'alcol-anche-se-nei-film-non-lo-dicono Stark. L'obiettivo sarebbe concentrarsi su tutto ciò che l'ha spinto a sostenere gli Accordi e, su una nota secondaria ma non meno importante, a rompere con Pepper.

Questo capitolo è scritto volutamente in modo piuttosto ambiguo, raffazzonato e sconclusionato: non ho voluto dare un filo logico saldo ai pensieri di Tony persi nell'alcol. Ci sono diversi riferimenti più o meno espliciti a vari traumi dei precedenti film, il che rende il tutto una sorta di "dov'è Wally?" un po' dark tra i pensieri di quel poveraccio. Ah, sì, nel mio fantaviglioso (?) headcanon Tony non ha ancora superato del tutto gli attacchi di panico.
Ultime note: 1) dai dati che ho trovato in giro le vittime in Sokovia sembrano essere davvero 177 (mi sembrano poche per un disastro di quella portata, ma le fonti concordano); 2) i loro nomi, a parte quelle della famiglia Zemo e di Charlie Spencer, sono inventati ma coerenti col fatto che si tratta di un paese dell'est-Europa e presumibilmente slavo; 3) Il rating giallo è per "sicurezza", visto che vi è abuso di alcol.

Il prossimo capitolo sarà anche quello conclusivo... prendetela come una "bi-shot" :D
Ringrazio chiunque leggerà e/o recensirà
<3

-Light-

 

P.S. Vorrei poter dire che la riflessione sulle cifre del Pi greco è mia... in realtà è estrapolata dalla puntata 2x11 di Person Of Interest in cui si fa un discorso del genere. Ho pensato che una mente razionale come quella di Tony potesse arrivare a questo tipo di ragionamento a metà tra il poetico e lo scientifico, soprattutto in un frangente così vulnerabile.
P.P.S. [SPAM
Seguirà probabilmente a breve una one-shot a sé stante con un post-CW bello carico, giusto perché ho poco da dire sull'argomento.



   
Disclaimer:
Non concedo, in nessuna circostanza, né l'autorizzazione a ripubblicare le mie storie altrove, anche se creditate e anche con link all'originale su EFP, né quella a rielaborarne passaggi, concetti o trarne ispirazione in qualsivoglia modo senza mio consenso esplicito.

©_Lightning_

©Marvel

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Capitolo 2
*** Parole ***


Parole



 
"Well, it's too late, tonight
To drag the past out into the light
We're one, but we're not the same
We get to carry each other

Carry each other
One"


[One - U2]




Aveva passato il tragitto in macchina a prepararsi.

Per cosa, esattamente, non avrebbe saputo dirlo neanche lei, ma trovava conforto nel semplice atto di riordinare i propri pensieri e ipotizzare cosa sarebbe successo di lì a pochi minuti. Le dava l'illusione di poter avere una presa più salda sugli eventi, di poter scegliere con più prontezza e abilità le proprie parole in modo che fossero davvero significative, invece di farle cadere nel vuoto come negli ultimi mesi.

La Rolls Royce nera si fermò ai piedi della Tower e lo scorrere dei suoi pensieri si arrestò con lo stridio dei freni sull'asfalto bagnato. Una strana pioggerellina aveva ammantato New York di un velo traslucido e liquido, sfocandone i contorni nonostante il sole facesse capolino tra le nubi infiammate dal tramonto. L'attico della Tower era appena visibile oltre il muro opaco d'acqua. Pepper si affrettò a scendere e raggiungere l'ingresso, rivolgendo un distratto cenno di saluto a Happy, che si soffermò qualche secondo più del necessario in attesa di vederla varcare la soglia.

La lunga salita verso l'attico nel silenzio più totale dell'ascensore non aiutò il suo umore. Soppesò brevemente il cellulare, pensando di richiamare Tony per dargli almeno una fugace opportunità di prepararsi come aveva avuto modo di fare lei, ma le precedenti ventidue chiamate senza risposta accanto al suo numero la fecero desistere. Ripose con stizza il cellulare nella borsa, sentendo già sfumare la calma che si era imposta.

C'era un'unica regola veramente inviolabile tra loro, più sacra di non cenare da soli senza preavviso in laboratorio o in ufficio, di non usare il bancone della cucina come un tavolo da lavoro e di non poggiare nulla sul giradischi: rispondere sempre al telefono. Ed era stato lui stesso a stabilirla, ovviamente. Non aveva neanche potuto dargli torto, all'epoca.

Pepper si accorse di stringere con più forza del dovuto il manico della borsa e si ordinò di non cedere alla sua irritazione, anche se avrebbe avuto bisogno di un intervento divino per non inveire contro Tony il secondo stesso in cui fosse entrato nella sua visuale. Per colpa sua aveva passato una notte insonne e una giornata già di per sé stressante in preda all'ansia.

Quando infine mise piede nell'attico rimase abbagliata dall'intensa luce che filtrava dalle vetrate tempestate di goccioline, col sole calante pronto a tuffarsi oltre i grattacieli. Mosse qualche passo esitante in quell'atmosfera surreale, dove tutto era ammantato una luce ambrata e riflessi rossastri occhieggiavano da ogni superficie lucida. Il silenzio era quasi opprimente, ma si era aspettata di non trovarlo lì. Probabilmente si era rinchiuso in laboratorio, o dormiva come al solito in orari e posti improbabili. O forse...

"No. Non è in missione. È stronzo, ma non così stronzo," si rammentò con fermezza, muovendo qualche passo e poggiando di proposito la borsa sul giradischi.

Si liberò della giacca, sciogliendosi lo chignon per districare i capelli umidi. Passò uno sguardo attento attraverso il salotto, ma sembrava stranamente tutto in ordine. Sospettava che Tony non fosse nel medesimo stato, e sotto lo strato di risentimento per come si stava comportando avvertiva la preoccupazione costante degli ultimi mesi acuirsi in modo quasi doloroso. A volte si dimenticava persino di provarla, tanto aveva fatto l'abitudine a quella perenne tensione di fondo.

Non era sicura di che reazione si fosse aspettata da lui dopo il disastro in Sokovia, ma non aveva mai calcolato l'eventualità di "nessuna reazione".

Tony era tornato dopo settimane di assenza passate prima in Europa e poi alla base dei Vendicatori, più contuso e ferito di quanto l'avesse mai visto e con un vuoto freddo negli occhi che le aveva fatto dubitare che quello fosse lo stesso uomo con cui aveva vissuto per anni. Eppure aveva sorriso nel rivederla, con quel suo solito sorriso da sbruffone, che si era però fermato alle sue labbra spaccate senza arrivare agli occhi. Nel rivederlo sano e salvo l'aveva abbracciato d'impeto, e aveva percepito un breve ma raggelante momento d'esitazione da parte sua; poi l'aveva stretta a sé e l'aveva cercata con un'intensità tale da darle l'impressione che volesse semplicemente fondersi con lei per scomparire.

"Ho fatto un casino," aveva affermato molto più tardi nel buio della camera da letto, con voce bassa e grave, rivolgendole la schiena solcata da nuove cicatrici.

Era tutto ciò che aveva detto riguardo alla Sokovia. Il resto l'aveva saputo da Rhodey, dai notiziari, dalle chiacchiere e pettegolezzi malevoli che era costretta a sentire quotidianamente. Da quel momento avevano iniziato a vivere in due limbi separati in cui lui si allontanava sempre più da lei, risucchiato da demoni che le aveva assicurato di aver sconfitto. Sembrava tornato in balìa di tutto ciò che aveva iniziato a consumarlo dopo la battaglia di New York: l'armatura, gli incubi, la paura, gli attacchi di panico, i silenzi troppo lunghi e gli sguardi spenti. Ma non reagiva più, non tentava di mascherarlo né lo combatteva attivamente: fluttuava sull'onda di quelle emozioni negative senza fare nulla per sottrarvisi, lasciandosi sballottare inerme qua e là.

Aveva persino iniziato a rinunciare alle sue "distrazioni" quando era con lei, e più lo faceva, più iniziava a rendersi conto che esse rappresentavano in realtà le fondamenta della vita di Tony. Sapeva che occupavano i momenti in cui lei era assente e che lei occupava quelli lasciati vuoti dalle missioni e da Iron Man, in un gioco di incastri macchinoso e deleterio. Aveva ricominciato a chiedersi cosa avessero dei pezzi di metallo più di lei e perché lui avrebbe dovuto preferire l'abbraccio freddo di un'armatura al suo. In realtà si era resa conto già da tempo che le sue parole non riuscivano più a raggiungerlo. Tutto ciò che gli diceva finiva per scorrergli addosso come acqua, defluiva senza lasciar traccia del suo passaggio. A nulla valevano i suoi tentativi di raggiungerlo mentre lo sentiva scivolare sempre più lontano da lei.

Era come se Tony avesse deciso di lasciare la presa sugli unici punti fermi della sua vita: lei e Iron Man.

Pepper era rimasta immobile nell'ingresso, oppressa da quei pensieri e con una mano ancora posata sulla stoffa della giacca appesa. Stava cercando la forza di scendere in laboratorio per affrontare l
l'ennesima discussione estenuante in cui avrebbe avuto l'impressione di parlare con qualcuno lontano mille miglia da lì, probabilmente intrappolato in visioni di città devastate. Si stropicciò gli occhi trovandoli umidi, incurante di rovinarsi il trucco. Si sentiva così impotente che faticava anche a trovare la volontà di arrabbiarsi con lui.

Un suono improvviso la fece voltare di scatto verso il divano davanti alla vetrata, col cuore in gola. Il suono si ripeté e riconobbe quello che sembrava il cozzare di una bottiglia di vetro contro il pavimento, seguito da un fruscio di vestiti e da un lamento soffocato. Un ciuffo di capelli castani fece capolino oltre la sponda del divano. Pepper si affrettò in quella direzione, il volto teso in una maschera cupa, con un vivido sospetto che le occludeva il petto. Ciò che vide non fece che confermarlo e si sentì avvampare di rabbia, evaporando ogni traccia di debolezza o empatia per lui.

L'immagine di Tony in quel momento avrebbe potuto essere strappata da un giorno qualsiasi di dieci anni prima, all'indomani di uno dei festini scatenati in stile Stark per cui si era reso tanto famoso. Era seduto per terra, con la schiena poggiata contro il divano e una bottiglia di whiskey vuota abbandonata accanto a sé; era a piedi nudi e con la tuta da lavoro addosso. Alzò appena la testa quando si fermò al suo fianco e la guardò con occhi stanchi, ma coscienti. Sembravano enormi e smarriti sul suo volto smunto.

«Tony...» cominciò lei fremente, e la sua voce avrebbe potuto sprizzare scintille per quanto era adirata.

«Sono sobrio,» la interruppe subito, lasciando però cadere la testa ciondoloni, come fosse appesa a un filo. «Occhio al divano, ho fatto un casino,» lo indicò con un gesto fiacco e scoordinato e lei notò la chiazza d'alcol sulla fodera borgogna.

Tirò un lungo, profondo sospiro e prese fulmineamente in considerazione mille possibili reazioni logiche a quello scenario, ma vennero tutte soffocate dalla pungente e dolorosa delusione che sentiva crescere nel vederlo in quelle condizioni. Non si ubriacava da anni, da quando vivevano insieme. Semplicemente, nel momento in cui la loro era diventata una relazione stabilit– stabile, aveva smesso. Persino dopo New York non era ricaduto in quel vizio neanche una volta, mantenendo fede alla parola tacitamente data. Forse, le balenò in testa, tutte le sue "distrazioni" potevano essere considerate una dipendenza in grado di sostituire l'alcol e nonostante l'astio genuino che provava per esse, le avrebbe preferite mille volte a quello spettacolo pietoso di fronte al quale si era trovata troppe volte in passato.

Improvvisamente si trovò sopraffatta da tutta la frustrazione che lui le aveva fatto provare in quei lunghi mesi e seppe con fredda certezza che, stavolta, non gli avrebbe permesso di scivolare di nuovo via:

«Tony, hai tre minuti per renderti presentabile e inventarti una scusa plausibile, o ti giuro che esco da quella porta per sempre,» scandì riuscendo a malapena a tenere un tono di voce basso, comunque scosso dalle ondate furiose della rabbia che le incendiava il volto.

«Tecnicamente quello è un ascensore, ma ho colto il concetto,» replicò lui sfacciatamente. «E ti ho già detto che sono sobrio. Ho smaltito ore fa,» continuò, alzandosi in effetti con agilità inaspettata e guadagnando un paio di passi di distanza da lei.

Si pettinò rapidamente i capelli scomposti, ondeggiando appena sui piedi malfermi.

«Cosa diavolo ti è saltato in testa?!» proruppe quindi lei, fallendo infine nel controllare il volume della sua voce e decidendo di ignorare il suo sarcasmo fuori luogo.

Lui rialzò la testa a fronteggiarla con un'aria incerta, a metà tra la sua solita strafottenza e il colpevole, con l'aggiunta una traccia di frustrazione. I suoi occhi erano ancora spenti, ma vi si leggeva una nota sofferente.

«Non è l'idea peggiore che mi sia venuta ultimamente,» disse asciutto, prendendo a massaggiarsi la testa chiaramente dolorante per la sbronza.

«Ti ho chiamato per ore! Per un giorno intero!» rincarò lei, avvicinandosi di un passo e non trattenendo una smorfia stizzita nel captare l'odore d'alcol ancora ben distinguibile addosso all'uomo.

Si bloccò a un braccio da lui, nauseata dalle sue condizioni, le stesse in cui detestava trovarlo quando lui era ancora il suo capo e lei la sua assistente, che non poteva certo mettere bocca riguardo al modo deleterio in cui Tony Stark decideva di distruggersi vita e fegato.

«Mi dispiace,» rispose inaspettatamente lui, ma il suo tono rimase privo di qualsiasi inflessione. «Ho preferito aspettare che tornassi per parlare.»

«Quindi hai ritenuto accettabile farmi quasi morire d'ansia fino ad ora,» osservò lei, contraendo le labbra ancora più risentita.

«Non ho...» Tony sbuffò chiudendo gli occhi. «Senti, non ci ho pensato. O meglio, ci ho pensato ma...»

«Ma te ne sei fregato,» completò lei. «Chissà perché la cosa non mi stupisce.»

«Ho avuto altro di cui occuparmi,» ribatté lui, con un gesto irritato.

«Giusto, dimentico che io ho diritto solo al 12% della tua considerazione.»

La stoccata andò a segno, perché Tony voltò appena il capo evitando di intercettare il suo sguardo. Si passò una mano sul volto, rimanendo col palmo a coprirsi la bocca, come se volesse trattenersi dal dire altre parole sbagliate, poi scosse lievemente la testa, più tra sé che rivolto a lei.

«Hai ragione,» rispose infine, schiudendo appena le dita per permettere alla sua voce di trapelare. «È questo il problema. Magari è anche ora di parlarne,» riportò gli occhi su di lei, che si sentì sprofondare un poco mentre faticava a capire ciò che intendeva.

«Il problema è quello e perché ci sei ricaduto,» ribatté con ostinazione, indicando la bottiglia vuota abbandonata a terra. «Pensavo avessi smesso,» aggiunse, non nascondendo la sua delusione.

«L'ho fatto. Quello è una... sbandata momentanea,» si giustificò, e dal tono in cui parlava sembrava crederci veramente. «Ho bevuto un po' troppo, non mi sono neanche sentito male e adesso sto bene. Cioè, meglio di ieri sera. O stamattina,» proseguì, e ad ogni affermazione il suo tono si faceva più incerto.

«Non sono "sbandate momentanee" se capitano ogni volta che io non ci sono.»

Tony ebbe la decenza di rimanere in silenzio, non osando negare quella verità inconfutabile.

«La discussione non si sta rivelando illuminante come speravo,» commentò dopo un breve silenzio con un'alzata di sopracciglia, strascicando volutamente le parole.

«Per niente, soprattutto se eviti di rispondere alla mia unica domanda!»

«Mi hai fatto una domanda?»

«Tony.»

«Non usare il mio nome come una minaccia, è scontato e soprattutto inutile.»

«Ti ho chiesto cosa diavolo ti è saltato in mente, ed è l'ultima volta che lo faccio prima di...»

«... uscire da quella porta: anche questo l'hai già detto,» finì lui con un mezzo sospiro esausto.

«Non mettermi alla prova,» gli disse secca, con le braccia rigidamente conserte.

Tony la fissò di nuovo con quegli occhi troppo grandi e quasi spauriti.

«Ho fatto un errore di calcolo,» proruppe infine con voce più roca, abbandonando la sua insolenza.

«Concordo,» ribatté Pepper, ancora in tono accusatorio lanciando un'occhiata generale alle condizioni sue e del salotto in disordine.

«Oh, non mi riferivo a questo,» lui accennò alla macchia sul divano. «Insomma, puoi aggiungerlo al totale, non che faccia molta differenza a questo punto, ma...»

«Tony, hai bisogno di un altro ultimatum o pensi di riuscire a comportarti in modo serio per una volta in vita tua?» lo interruppe Pepper, chiedendosi perché non avesse ancora imboccato quella porta.

Lui la fissò per un lungo istante, ma il suo sguardo le passò attraverso, come se fosse puntato all'orizzonte, sulle prime luci serali che iniziavano a punteggiare New York. Finì per indietreggiare e sedersi di peso sul divano, come se le gambe non fossero più in grado di sostenerlo. Spostò gli occhi sulla porzione di vetrata dinanzi a lui.

«FRIDAY? Riapri la sessione,» ordinò piano, in tono sconfitto, e portò un ginocchio al petto poggiandovi sopra il mento, in una posizione difensiva.

«Sì, capo,» replicò prontamente l'I.A, e un ologramma azzurrino apparve sulla vetrata.

Pepper rimase in piedi e si avvicinò appena per metterlo a fuoco: sembrava un elenco, disposto in colonne.
Un elenco di... nomi? Corrugò appena le sopracciglia, finché la realizzazione di cosa stesse leggendo non la colpì come un maglio in pieno petto.

"Oddio."

Non poté evitare di portarsi le mani davanti alla bocca per lo sconcerto, e si voltò di scatto verso Tony ad occhi sgranati, trovandolo a scorrere intentamente la lista con lo sguardo sicuro di chi la conosce a memoria.

«Questi sono...» cominciò, esitante e timorosa di ricevere la risposta che già conosceva,

«Dèmoni,» rispose invece lui, ancora senza guardarla. «Una parte, almeno.»

Pepper s'impietrì sul posto, lacerata tra l'impulso di stringerlo a sé per cancellare quello sguardo distrutto dai suoi occhi e quello di infuriarsi ancora con lui per non averle detto nulla. E adirarsi con se stessa per non aver capito, o non aver voluto capire, che cosa tormentasse quell'uomo che si vantava di conoscere tanto bene. Non riuscì a muoversi: il suo corpo si era scollegato dal cervello e non obbediva ai suoi ordini. Rimase dov'era, in silenzio, prendendo a tormentarsi le mani mentre realizzava che Tony era molto, molto più lontano di quanto avesse creduto.

«Tony, tutto questo non è sano,» si costrinse a dire con agitazione crescente, vedendo che sembrava sprofondato nei suoi pensieri ed estraniato da ciò che aveva intorno.

Trasalì quasi l'avesse riscosso da un dormiveglia, e finalmente si voltò verso di lei.

«Che altro posso fare?» c'era una sincera incredulità nella sua voce, come se si aspettasse di ricevere una risposta alla quale non era riuscito ad arrivare.

«Tutto quello che ti sei impegnato a fare finora. La beneficienza, i contratti per l'energia pulita, la September Foundation...»

«Non bastano, e lo sai,» la interruppe lui, per la prima volta in tono duro. «Nulla di tutto questo riporterà indietro quelle persone,» indicò con fermezza i nomi impressi sul vetro.

«Neanche Iron Man può farlo,» gli fece notare, sentendo un groppo in gola solo al pensiero di dover affrontare quell'argomento che faceva solo soffrire entrambi.

«No, ma può fare più di me.»

«E come? Buttandoti come al solito in mezzo alle battaglie rischiando costantemente...»

«La fai sembrare quasi una cosa divertente, come se non rischiassi...»

«... di morire e facendo finta che non ci sia nessuno...»

«... di morire, appunto, e non hai la più pallida idea di cosa significhi...»

«... che tenga a te solo per non dover ammettere di essere un normale essere umano?»

«... sapere che potrei non tornare da te. E non sono abbastanza, come essere umano, altrimenti non mi sarei costruito una cazzo di armatura per...»

«Smettila di nasconderti dietro l'armatura!»

«... combattere. Non mi nascondo, mi serve per fare qualcosa di buono!»

«No, Tony, tu semplicemente non riesci ad accettare l'idea di poter fare qualcosa di buono così come sei, senza doverti per forza porre in prima linea per sacrificarti e punirti per i tuoi errori!» lo sovrastò lei, troncando le sue giustificazioni sempre più deboli.

Tony ammutolì, fissandola incredulo per qualche istante prima di abbassare lo sguardo, in quella che lei prese come una muta conferma di quelle parole.

«Ho di nuovo creato dei demoni,» riprese dopo poco, come se lei non avesse detto nulla. «Avevo promesso di non farlo mai più, ma continuano a spuntare fuori...»

«Non era tua intenzione "creare demoni". Tu hai sempre cercato di fare ciò che ritenevi più giusto. Non potevi sapere che quel tuo computer...»

«Pep, non stai capendo.»

Tony la fissò in modo impossibilmente lucido e acuto per essere stato ubriaco fino a poche ore prima. Nei suoi occhi sembravano ondeggiare i riflessi ambrati dell'alcol, ma era una semplice patina oltre la quale si distinguevano pensieri fin troppo nitidi.

«Ho causato tutto questo ben prima di creare Ultron. La Sokovia era già spacciata... per colpa delle mie armi.»

«Sai benissimo che non hai venduto tu quelle armi.»

«Se anche fosse stato Stane, io l'ho permesso. Dov'ero quando lui gestiva l'azienda al mio posto?» riprese con foga.

Ruotò il polso e tese la mano in un gesto vagamente teatrale verso la bottiglia di whiskey vuota:

«Ero esattamente in queste condizioni, o magari con un mojito sulla spiaggia, o a rovinarmi in un casinò, o a letto con una modella o a fare a gara sulla Pacific Highway con Happy. Non certo a supervisionare i miei rifornimenti bellici e a preoccuparmi che due gemelli non rimanessero orfani per colpa di una delle mie bombe!» terminò con disprezzo.

«Mi ricordo anch'io cosa facevi,» fu costretta ad ammettere lei, e non poté fare a meno di rabbuiarsi al ricordo di quegli anni corrotti di cui si sentiva complice. «Ma hai cercato di rimediare per tutto questo tempo e ci sei riuscito,» cercò di fargli capire, pur sapendo che le sue parole si sarebbero infrante contro il suo inespugnabile senso di colpa.

«Far morire centinaia di persone perché un superbot è sfuggito al mio controllo non mi sembra una buon modo per "rimediare",» replicò piattamente lui, senza neanche guardarla.

«E tutto quello che hai fatto prima?»

Tony alzò appena gli occhi, adesso animati da un'intensità quasi affilata.

«È irrilevante. Non c'è mai stato un modo per "rimediare". È questo il problema,» mormorò con voce distrutta.

Pepper lo fissò allibita, totalmente impreparata a un'affermazione simile. Iron Man era ciò che lo aveva salvato e che gli aveva fatto riscoprire una parte di se stesso rimasta sepolta a lungo sotto molti strati di indifferenza. Era la sua personale redenzione, un continuo sacrificio nascosto dietro una corazza luccicante e l'apparente leggerezza con cui la indossava. Mai avrebbe pensato di sentirgli rinnegare tutto ciò che aveva fatto in quelle vesti onerose. Si avvicinò un poco e finì per fermarsi di fronte a lui, così da impedirgli di sfuggire il suo sguardo.

«Non ti permetto di dire che tutto ciò che hai fatto è stato inutile.» Lo bloccò con un gesto deciso, vedendo che stava per ribattere. «Non dopo che ho passato otto anni a vederti rischiare costantemente la vita per ciò in cui credi.»

«Non basta,» rispose lui, così piano che avrebbe potuto essere un sospiro.

«Tu non ti basti.»

A quelle parole un piccolo sorriso inclinò amaramente le sue labbra.

«È vero,» ammise con rassegnazione.

Cercò timoroso la sua mano e Pepper si trovò a non volerla ritrarre, nonostante tutta se stessa le stesse dicendo di farlo.

«Non ho mai pensato di smettere di essere Iron Man,» Tony rialzò lo sguardo su di lei, colmo di determinazione. «E so che è una scelta più difficile per te che per me.»

S'interruppe di colpo, titubante, e i suoi occhi saettarono brevemente di lato per poi tornare a guardarla. Pepper si limitò a sospirare e si chinò per portarsi alla sua altezza, posandogli le mani sulle braccia. Lo sentì rilassarsi appena sotto al suo tocco.

«È una scelta che abbiamo accettato entrambi,» gli fece notare nel tono più fermo che riuscì a produrre.

«Ma solo per me è irrinunciabile. Vivremmo più sereni se non dovessi dipendere da un ammasso di ferraglia.»

«Eppure siamo ancora qui.»

«A fare la coppietta felice con il terzo incomodo?» sollevò debolmente un sopracciglio con fare sarcastico.

«A cercare di far funzionare tutto,» ribatté lei con serietà. «Ma tu ti ostini a scappare e io non so più come starti dietro,» confessò improvvisamente avvilita. «Così non può funzionare. Lo sai, vero?»

Lui annuì appena con gravità. Pepper si sentì scuotere da un lieve brivido nel realizzare che per la prima volta si trovavano veramente in bilico, con una decisione inespressa che aleggiava tra di loro, in attesa di essere presa.

«Non sarò mai in grado di abbandonare ciò che faccio, te l'ho detto.»

Pepper lasciò scivolare le mani dalle sue braccia e lesse solo un'impaurita confusione negli occhi di Tony. Come era accaduto così spesso negli ultimi tempi, le sembrò che la loro intesa si fosse assottigliata, che le parole di ognuno rimanessero indecifrabili a entrambi, diventando barriere.

«Infatti non te l'ho chiesto,» puntualizzò. «Magari non capisco Iron Man, ma capisco te e perché fai ciò che fai. Ed è anche per questo che ti amo.» Tony sussultò appena e sillabò un muto "anch'io", ma sfuggì il suo sguardo. «Non ti sto dicendo di lasciare ciò che vuoi e devi fare; vorrei solo che ti rendessi finalmente conto che non è quell'armatura a fare di te ciò che sei.»

«Ma è così,» ribatté lui con forza. «Non più per me, ma per gli altri sì. Ormai quando la gente vede l'elmo di Iron Man non pensa all'eroe di New York, ma a una città volante in Sokovia!» terminò con rabbia.

«Io non vedo una maschera di ferro quando ti guardo,» e nel pronunciare quelle parole catturò il suo sguardo sorpreso, acceso per un istante da una scintilla calda.

Gli posò una mano sul volto, in un accenno di carezza, e lo sentì abbandonarsi timoroso a quel contatto.

Sperò che riuscisse a capire quelle parole e cosa significassero per lei. Non vedeva mai Iron Man sul suo volto. Iron Man era l'altro, l'ombra alle sue spalle, inseparabile ma superflua. L'essenziale era altrove; lo vedeva nel suo pizzetto un po' sfatto dopo qualche giorno passato a casa, nei suoi capelli sempre, irrimediabilmente spettinati, nella guancia solcata dalle pieghe del cuscino appena sveglio, nelle labbra macchiate di caffè, nei segni rossi degli occhiali da saldatore impressi sulla fronte, nelle piccole rughe che emergevano col suo sorriso. In quella cornice di piccole imperfezioni mutevoli erano incastonati i suoi occhi di un denso e cangiante color nocciola, che nonostante tutto continuavano ad abbracciare la vita e ad amarla, fregandosene di quante volte questa volesse farsi detestare tradendo le sue speranze. Era lì che lo vedeva davvero, senza maschere né facciate, che fosse nudo e indifeso o corazzato e incrollabile. Era quello l'uomo che aveva scelto, ma stava svanendo davanti a lei, inghiottito dal metallo.

Tony sostenne il suo sguardo e il suo solito sorriso sardonico gli increspò le labbra, venato di tristezza.

«Lo so. Sono io che non riesco a farlo.»

Si sottrasse al suo tocco e si alzò bruscamente dal divano costringendola ad spostarsi a sua volta, presa in contropiede dall'improvvisa freddezza della sua voce. Si piazzò con le mani in tasca di fronte alla vetrata ancora occupata dai nomi, voltandole le spalle.

«Io sono Iron Man,» affermò all'improvviso, riecheggiando quelle stesse parole dette un tempo in un tono beffardo e compiaciuto.

Stavolta suonarono gravi, cariche di significati cupi e opprimenti come il metallo dell'armatura.

«Non è un lavoro dal quale posso licenziarmi solo perché mi spaventa. Sono stato un egoista a pensarlo e un bugiardo a promettertelo,» si girò appena a guardarla con fare colpevole.

Pepper si sentì inquietare da quella traccia gelida che si era insinuata nelle sue parole, adesso nette e chiare come i nomi stampati sul vetro. Parlava con voce misurata e inflessibile, quasi stesse seguendo uno dei tanti ragionamenti logici e impeccabili che si dipanavano nella sua testa quando si immergeva in un progetto.

«Devo rimettere a posto le cose... e probabilmente riuscirò solo a fare peggio,» aggiunse, con una rassegnazione che mai gli aveva sentito. «Non voglio trascinarti in quel "peggio", ti ho già messo in pericolo troppe volte,» concluse con veemenza.

«Se pensi che starti accanto mi faccia paura...»

«Sono io ad aver paura.»

Quell'affermazione cadde come un macigno tra loro, irremovibile, e Pepper poteva percepire lo sforzo che gli aveva richiesto pronunciarla. Per una volta, nel corso delle loro numerose e interminabili discussioni, non seppe come replicare né aveva intenzione di farlo. Era come se quella confessione avesse posto un punto fermo, un qualcosa di invalicabile per entrambi.

Pepper si portò al suo fianco e lui continuò a tenere le mani in tasca, senza muoversi di un millimetro. Il suo sguardo era fisso sui nomi, o forse sulle luci che facevano loro da sfondo, o forse su qualcos'altro che non riusciva veramente a vedere.

«Il punto è che devo rivedere qualche priorità, tipo riuscire a darti più del 12% di me stesso. E ho bisogno di tempo.»

«Abbiamo tempo, dovremmo solo...»

«Ho bisogno di tempo, Pep.»

Pepper ammutolì. Solo in quel momento comprese davvero ciò che stava cercando di dirle. Incrociò strettamente le braccia, con la testa improvvisamente vuota e leggera, ma, di nuovo, non trovò nulla per controbattere, perché in fondo sentiva di condividere quella scelta. Forse, realizzò, le era solo mancato il coraggio di prenderla lei stessa.

Tony chinò il capo in silenzio sempre senza guardarla, poi in un unico gesto si girò verso di lei e la avvolse in un abbraccio saldo a cui lei non ebbe prima la prontezza e poi la forza di sottrarsi. Gli cinse a sua volta i fianchi, esitando appena, e si sentì stringere con la stessa disperazione con cui l'aveva stretta mesi prima, ma segnata da una tensione più palpabile e da una rigidezza innaturale.

L'odore di alcol le colpì di nuovo le narici. Puntò con fermezza una mano contro il suo petto, scostandolo da sé. Lui sciolse all'istante l'abbraccio, senza sorprendersi. Si guardarono con un'intensa consapevolezza di fronte alla quale nessuno dei due sembrò vacillare.

«Ho fatto di nuovo un casino,» sospirò infine Tony con voce sfibrata, così piano che forse credeva di averlo solo pensato.

«Troverai una soluzione, come hai sempre fatto,» replicò lei con distacco forzato. «Da solo forse sarà più facile,» aggiunse, con un lieve tremito di rammarico nella voce.

Lo superò senza più guardarlo, lasciandolo davanti alla vetrata ancora costellata di nomi e luci lontane.

 
***

Pepper ripiegò con cura l'ultimo vestito, riponendolo ordinatamente nella borsa da viaggio posata sul letto. Si soffermò a guardare l'armadio ancora stipato di indumenti, ma decise di limitarsi a quell'unico bagaglio, in un guizzo d'ottimismo forse troppo audace.

Un cauto bussare risuonò nella camera e Tony fece capolino dalla porta, come chiedendole il permesso di entrare, cosa che fece quando lei non rispose. Adocchiò la borsa quasi piena e tirò le labbra, ma non commentò, dirigendosi invece verso la porta del bagno.

«Vado a farmi una doccia,» annunciò in tono forzatamente calmo, fermandosi sulla soglia a rivolgerle uno sguardo quasi implorante.

Pepper esitò per un lungo momento e si ancorò nelle sue iridi occhi nocciola. Le trovò ancora una volta lontane da lì. Annuì appena con occhi lucidi, per poi voltare il capo e chiudere la zip della borsa.

«Vai.»


 
*
 
 


Note Dell'Autrice:

Salve!
Partiamo dalle cose importanti: ho riscritto questa parte una ventina di volte, ho rimaneggiato i dialoghi, le scene, le sequenze e alla fine questo è stato il risultato.
Ero partita da un concetto di per sé semplice, ovvero contrapporre "numeri" e "parole", e ho concluso il tutto così per evitarmi un crollo nervoso, che mi è bastato Infinity War a destabilizzarmi emotivamente (in altre parole, I don't feel so good).

So che la versione più popolare è che sia stata Pepper a invocare la famosa "pausa" che ha luogo in Civil War. Come avete letto, non la penso esattamente così. Mi rifaccio alle parole dello stesso Tony: "Siamo in pausa. Non è colpa di nessuno". Mi sembra sottinteso che fosse stata una decisione condivisa, nel mio headcanon semplicemente parte da Tony, perché è lui che non è in grado di gestire né se stesso né ciò che gli accade e che tende sempre a rifuggire i problemi. Novità: prendersi una pausa non risolve i problemi, li procrastina e basta, ma quello è un argomento che conto di affrontare a parte nella futura one-shot.
In questo scritto ho cercato di immedesimarmi in Pepper e il tutto è filtrato dal suo PoV, quindi prendete con le pinze le sue considerazioni riguardo a Tony, soprattutto sul discorso Iron Man.
Ah, la conclusione... beh, quell'uomo ha un palese problema con gli addii e io ci campo sopra :'D
Chiudo 'sto rotolo di pergamena, che già ho rotto abbastanza con la precedente accozzaglia di roba.

Ringrazio
_Atlas_ e shilyss per aver recensito lo scorso capitolo (e visto che ci siete spizzatevi pure ciò che scrivono, che merita assaissimo-> questo è colpa tua, Atlas :P) 
E grazie a chiunque leggerà/commenterà :)
Cheers,

-Light-


P.S. La battuta del 12% è ripresa da un loro battibecco in The Avengers e il dialogo sulla doccia da Iron Man 3. Le mie storie stanno diventando una caccia alla citazione, ormai.
P.P.S. Ovviamente non potevo non scegliere come sottofondo la canzone più banale, scontata e sdolcinata che urla a squarciagola "se lasciamo ma volemose bbene".

 

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