L'altra te

di Nina Ninetta
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


L’altra te

"Perciò non lacrimai
né rispuos’io tutto quel giorno
né la notte appresso"
INFERNO, CANTO XXXIII 
 

Capitolo 1

Crediamo di conoscere una persona: i suoi gusti; i suoi pensieri; i suoi modi di fare; i suoi affetti. Ciò che ama, ciò che odia. Poi la malattia la cambia completamente, stravolge la persona che era e che credevi di conoscere. Ti giustifichi con gli altri convincendoli che «fa così perché è la malattia. È il tumore.» Loro ti osservano, fanno gli occhi dispiaciuti, occhi di gente pieni di compassione e che ti posano una mano sulla spalla per non farti sentire sola e ti dicono «se hai bisogno di qualcosa, qualsiasi cosa…» e lasciano la frase a metà.
«Sì,» vorrei rispondere «ho bisogno di qualcuno che pulisca il culo a mia madre quando si caga addosso, oppure se gentilmente poteste venire a stare al mio posto questa notte. Sa’, sono mesi che non mi faccio una bella dormita.» Invece ringrazio e mi sforzo di sorridere, mentre mia mamma - dalla sua prigione fatta di lenzuola bianche, tubicini nelle vene e materasso ad acqua – si fa una bella chiacchierata con il muro che non le risponderà mai.
Ad esempio, l’altro giorno il giudice Rocco ha scosso la testa tutto il tempo mentre le carezzava il capo. Mia madre lo ha guardato e ovviamente non l’ha riconosciuto:
«Non mi toccare figlio di puttana! Io sono il magistrato Di Vece!» Ha urlato e per l’ennesima volta mi sono dovuta scusare per una colpa non mia. L’uomo, un tipo giovanile nonostante la sua veneranda età, ha sorriso e si è allontanato dalla malata, quasi fosse infettiva.
«Abbiamo perso una grande donna,» ha blaterato indietreggiando «però non ha smesso la sua arringa.»
Vero, mi sarebbe piaciuto aggiungere, il suo carattere di merda è ancora intatto.
 
Era tosta mia mamma. Una vera forza della natura. Inarrestabile. Una vera stronza!
Maria Caterina Di Vece era uno dei magistrati donna più famosi della provincia di Salerno. Nei primi anni 2000 divenne l’idolo di ogni donna italiana per aver fermato un criminale che durante la sentenza aveva assalito la sua ex fidanzata, già vittima dello stesso che l’aveva deturpata con un taglierino. La nonna per anni ha mostrato orgogliosa il ritaglio di giornale incorniciato nel salone, la foto ormai sbiadita mostrava mia mamma che teneva l’uomo per le spalle e il ginocchio alzato all’altezza del pube. La gonna del tailleur grigio tirata fino a metà coscia, le calze scure fasciavano gambe slanciate e dannatamente sexy.
Io non ho la sua bellezza, né il suo fisico asciutto. Lei diceva che tutto dipende da quello che si mangia oggi, non ci sono più cibi genuini, e la tecnologia ha reso il mondo un posto peggiore. Se a cinquant’anni poteva vantare ancora un fisico da ventenne lo doveva ai kilometri che aveva percorso in passato per raggiungere il campus universitario, quando non aveva i soldi neanche per comprarsi un panino - e allora figurarsi quelli del biglietto dell’autobus - o ancora i passi che separavano il suo monolocale dalla sede del tribunale; senza dimenticare tutti i pranzi consumati su una panchina sul lungomare Cristoforo Colombo, con il sole sulla faccia, l’intenso odore di salsedine e il rumore delle onde a fare da sottofondo.
Oggi vorrei chiederle secondo lei quale dei tanti fattori benefici che sempre mi ha spiattellato in faccia, in particolare quando a quindici anni me ne stavo comodamente sdraiata sul divano a chattare con le mie amiche, le hanno causato un glioblastoma multiforme al IV stadio.
 
Il primo magistrato donna della penisola italica ad aver fermato personalmente un criminale con un calcio nei coglioni si è spenta tra atroci sofferenze, dopo appena un anno di radio e chemio, quasi senza sapere chi fossi: Chiara, la sua unica figlia ora completamente sola al mondo. Non ho mai conosciuto mio padre. Lei mi ha sempre raccontato che non ha voluto sapere nulla di me, perciò da grande non avrei dovuto cercarlo né fare domande inopportune ai conoscenti per scoprire chi fosse o dove vivesse.
Peccato che i parenti – vicini e lontani – la cara mammina li abbia fatti scappare tutti. La sua sola sorella la mandò a quel paese diversi anni fa, e per un’ottima ragione. Durante il pranzo natalizio mia madre le fece notare che non aveva compiuto nulla nella sua inetta vita. Secondo il giudice sua sorella era una donna della peggiore specie, di quelle il cui unico scopo è trovarsi un buon partito, sposarlo e dargli una prole adeguata al mantenimento (in caso di divorzio).
«Ma di cosa ti preoccupi tu.» Aveva aggiunto mia mamma con un calice di vino rosso tra le mani che non avrebbe mai bevuto, le piaceva tenerlo così, all’altezza del viso con il gomito piegato, solo per darsi delle arie. «Tu non avrai mai le palle di lasciare quell’impiastro di tuo  marito, neanche se ti portasse a casa una delle sue tante puttanelle con cui si diverte.»
Da quel 25 dicembre non ho più rivisto il ritaglio di giornale appeso alla parete che tanto aveva reso fiera mia nonna.
Guido e Annarita sono le uniche persone che mi sono rimaste, alle quali posso rivolgermi in caso di necessità. Oggi, dopo le esequie, sono stati così gentili da riaccompagnarmi a casa, preoccupandosi che mangiassi qualcosa.
Annarita e mia madre si conoscevano da una trentina di anni: sono state compagne di banco fin dalle scuole medie e neanche le scelte di vita sono riuscite ad allontanarle. Suo marito Guido ha invece conosciuto il grande magistrato Di Vece durante il primo anno alla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Salerno. Quando mia mamma si è ammalata iniziando a mostrare i primi sintomi della malattia, tra i quali momenti di assenza e alterazione del comportamento, Annarita mi ha confessato che le sarebbe stata sempre debitrice per averle presentato l’amore della sua vita, Guido appunto, l’uomo che le ha cambiato l’esistenza. Purtroppo non hanno figli: la natura è stata fin troppo avara con questa coppia che ritengo perfetta. Nessuno dei due ha voluto conoscere il motivo di tale sterilità, a loro non interessa di chi sia la “colpa” – come una volta chiese mia madre alla sua amica Annarita: «Non ti importa di chi sia la colpa?» -, non vogliono diventare una di quelle coppie che si accusano l’un l’altra per l’infelicità matrimoniale.
È un modo di recepire la vita coniugale che io ammiro, al contrario di mamma ovviamente che non l’ha mai concepito; più di una volta ha lasciato intendere ad Annarita che la “colpa” fosse sua, come se lei sapesse fare una diagnosi solo guardandola.
Guido è ormai un uomo prossimo ai cinquant’anni, ma i suoi folti capelli ancora tutti neri e gli occhi di un azzurro ghiaccio gli donano un’aria decisamente giovanile. Mentre sua moglie si sta occupando della stanza che in quegli ultimi mesi si è trasformata in una vera e propria camera d’ospedale, lui è in piedi davanti a me, ad accertarsi che finisca la Margherita presa al volo alla piccola pizzeria sul corso Vittorio Emanuele. Ha le braccia conserte e gli occhi chiari mi fissano, sono velati e lucidi, è evidente che anche lui era affezionato al magistrato Maria Caterina Di Vece. Scioglie le braccia, assumendo l’espressione di qualcuno che vuole dire qualcosa ma non sa da dove cominciare. Posso solo immaginare quello che gli passa per la testa, perciò lo precedo nella risposta provando a dargli una mano per toglierlo dall’imbarazzo:
«Tranquillo, starò bene» dico e lui mi sembra rattristarsi ancora un po’. Improvvisamente non mi sembra più tanto giovane, al contrario pare gli siano crollati sulle spalle venti anni di sofferenze.
Quando vanno via la casa precipita in uno strano e insolito mutismo. Non ci sono più abituata. All’inizio credevo che non sarei mai riuscita a rassegnarmi ai rumori lievi e cadenzati delle apparecchiature che tenevano in vita mia madre: il respiratore, il monitor per tenere sotto controllo i battiti cardiaci e la pressione sanguigna. La prima sera che siamo rimaste da sole tremavo letteralmente dalla paura. L’infermiere mi aveva rassicurato che non dovevo fare assolutamente nulla, solo aiutarla a bere nel caso me lo avesse chiesto. Invece rimasi nella camera accanto alla sua, con la luce dell’abat-jour accesa, rannicchiata contro il muro, ascoltando e contando ogni suo respiro.
Non ero neanche lontanamente consapevole che il peggio doveva ancora arrivare.
 
Dopo mesi interi torno nella camera da letto che era stata di mia mamma, non della persona malata e inerme costretta in un letto con le sbarre, ma della donna forte e caparbia conosciuta come il giudice Di Vece. Le tende di broccato sono chiuse, il letto immacolato così come lo ricordavo. Mi avvicino al comò di legno chiaro e sfioro la superficie con i polpastrelli, si è formato uno spesso strato di polvere. Il magistrato andrebbe su tutte le furie se lo vedesse. Apro il primo cassetto, è pieno di gioielli e cianfrusaglie varie; lo chiudo e sbircio nel secondo, dove la biancheria intima è alla rinfusa. Mia mamma non è mai stata una maniaca dell’ordine, o perlomeno non di quello nascosto, lei teneva molto all’apparenza, diceva che il proprio aspetto e tutto ciò che è visibile agli altri, è una specie di biglietto da visita, perciò va curato con minuziosa attenzione. Butto la mano fra mutandine di pizzo e reggicalze, mischiando il tutto quasi a volerle fare un dispetto. Il colore dominante è il viola: il colore preferito dal grande magistrato donna.
«Il viola è il risultato di due colori forti: il blu e il rosso. Il primo incarna la saggezza, il secondo la passione. Il viola è dunque il colore di tutto ciò che muove il mondo, rappresenta il mistero, la magia. La metamorfosi. Il viola è donna!» Mi spiegò una volta, senza che io glielo chiedessi. Poi sento qualcosa di duro e liscio sul fondo del cassetto e resto interdetta. Spostando la lingerie scorgo un’agenda, di quelle classiche con la copertina in pelle morbida che si comprano in cartoleria. Incuriosita comincio a sfogliarlo e non ci vuole molto a capire che si tratta di un diario. Un vecchio diario di mia madre e in verità non è neanche l’unico. Svuoto tutto il contenuto del cassetto sul pavimento e scopro ben altre due agende della stessa grandezza e tonalità. Senza sapere bene cosa aspettarmi li porto con me sul divano, nel salone all’ingresso, e comincio a leggere quello che dalla data sembra il più vecchio.

 
Salerno,
Martedì 17 aprile 1987
Ore 22:15
 
Caro diario,
oggi per me è stato un giorno difficile. Purtroppo l’esame di Diritto Romano non è andato come volevo, eppure ci speravo tanto! Avevo bisogno che questo esame andasse bene per risollevarmi il morale. Il professore Aiello si è incaponito su una domanda trabocchetto e non sono riuscita a venirne a capo. Sono uscita dall’aula che avevo le lacrime agli occhi: mai mi sono sentita così umiliata in vita mia, davanti a tutti per giunta!
Guido mi è subito corso dietro, dicendo di non pensarci, che la prossima volta andrà meglio, che il professore Aiello è un dinosauro che dovrebbe essersi estinto milioni di anni fa, ma è scampato alla glaciazione solo per rompere le palle agli studenti di giurisprudenza. Tra le lacrime è riuscito a strapparmi un sorriso, però questo non è inusuale: lui sa sempre come tirarmi su. Poi mi ha accompagnato al bar della Facoltà di Lettere e abbiamo preso un caffè insieme, chiedendomi se avessi con me il nostro portafortuna. Ovviamente gli ho risposto di sì, estraendo dalla tasca dei pantaloni la nostra collana portafortuna con incastonata una pietra viola. Si tratta di un gioiello da quattro soldi, ma per noi ha un valore immenso.
Ti ho mai raccontato la sua storia?
Accadde durante la prima sessione di esami, al primo anno; entrambi morivamo di paura quel giorno perché «il primo esame è un po’ come la prima visita ginecologica», scherzava Guido. Sul banco dove prendemmo posto, nell’aula 23 stracolma di studenti giovani e speranzosi per il futuro come noi, c’era questa catenella color oro che reggeva una pietra dalla forma inequivocabile di una mela, ma della stessa tonalità della malva. L’esame andò benissimo a tutti e due, per questo lui decise che quella collana squattrinata sarebbe stata il nostro portafortuna e per nessuna ragione al mondo avremmo dovuto dimenticarla a casa nei giorni importanti.
Seduti sugli sgabelli vicino al bancone del bar gliel’ho porta, dicendogli che adesso toccava a lui affrontare Diritto Romano, ma Guido ha chiuso la sua mano a pugno intorno alla mia, affermando che se non ero riuscita a superare io la prova, figuriamoci lui.
Quel giorno, il giorno in cui trovammo la collana, ci facemmo anche un’altra promessa: laurearci insieme.
Dopo il caffè siamo saliti fin sulla torre della biblioteca, si è acceso una Marlboro e mi ha guardato attraverso i suoi occhi di ghiaccio – i diamanti come li chiamo io.
«Come va a casa?» Ha domandato. Io ho fatto spallucce.
«Come vuoi che vada? Mio padre è un porco e mia madre sembra avere i prosciutti sugli occhi.» Mi ha passato la cicca e ne ho tirato una lunga boccata amara.
«Lo ama.» Si è ripreso la sigaretta, quindi ci siamo incamminati verso il centro della piazza.
«L’amore è sopravvalutato.» Ho sentenziato. «Sopravvalutato.»
Nessuno dei due ha detto altro.
Caro diario, nonostante mia madre sappia benissimo che papà si vede di frequente con una donna, dice che non riesce a cacciarlo di casa, che diventeremmo lo zimbello del quartiere e che non vuole dare un dispiacere alle rispettive famiglie. È evidente che del suo dispiacere non se ne preoccupa nessuno, nemmeno lei.
Io non voglio neanche vederlo per casa, quelle rare volte che si degna di ricordarsi di avere delle figlie e una moglie non gli rivolgo la parola. Per me è come morto, non esiste. Anzi, se fosse davvero defunto sarebbe meglio, perlomeno mamma saprebbe dove si trova suo marito.
Ho deciso: da domani mi cerco un lavoretto, così potrò pagarmi gli studi senza dover dipendere dal maiale!
Buonanotte caro diaro,
tua M. Caterina.

 
 
 
Alzo gli occhi dalla pagina che ho appena finito di leggere. Non sapevo assolutamente nulla del nonno e di quello che aveva fatto in gioventù. Lui è morto di ictus quando io ero ancora una bambina e ricordo davvero poco del suo funerale. Di sicuro notai gli occhi asciutti di mia madre e mi chiesi per quale motivo lei non piangesse per la dipartita del suo genitore come invece facevano la nonna e la zia.
Guido e il magistrato Di Vece sembravano davvero molto uniti da giovani, quasi amici del cuore. Se non conoscessi mia mamma oserei dire che fosse innamorata. In ogni caso qualcosa deve essere andato storto nel percorso universitario di Guido, dal momento che lui non ha mai finito gli studi come invece ha fatto la mamma.
Il giorno in cui il magistrato donna invitò Annarita e Guido a casa nostra, poiché aveva una cosa importante da confessare, era lo stesso del colloquio con l’oncologo D’Antonio che con una freddezza tipica degli automi ci aveva spiegato come stavano realmente le cose, partendo da lontano. Da molto lontano.
«Magistrato Di Vece,» esordì schiarendosi la voce e consultando le migliaia di analisi e lastre che teneva sparpagliate sulla sua ampia scrivania, «lei si è recata dal suo medico di famiglia lamentando un forte mal di testa, spesso accompagnato da nausea e stanchezza. Dopo vari esami, il dottor Petrosino ha pensato bene di approfondire la situazione consigliandole un bravo neurologo: il professor Ronca.»
Mia mamma cominciava ad agitarsi sulla sedia, per questo motivo odiava i dottori diceva, non avevano le palle di dire le cose in faccia – le sentenze le chiamava nel proprio gergo –, ci giravano intorno, quasi sperando che fossero i pazienti ad arrivare alla diagnosi da soli.
«Il professor Ronca l’aveva ammonita di fare una TAC quanto prima…»
«Si, ma avevo delle cause intricate e dovevo studiare minuziosamente i casi. Sa’, se non faccio bene il mio mestiere potrei rischiare di rovinare la vita alla gente. Potrei ammazzarli non meno di quanto fate voi con i vostri bisturi e le vostre prognosi!»
Il dottor D’Antonio le mostrò il palmo, continuando a tenere lo sguardo sulle scartoffie.
«Però, a causa della sua negligenza, è dovuta correre al pronto soccorso perché non ricordava più il nome degli oggetti che la circondavano, né quello di sua figlia. Neanche il proprio.» Mia mamma si ricompose e tornò scura in volto.
Quella sera l’accompagnai io all’ospedale di Salerno dove la ricoverarono. Se dovessi indicare un giorno, un momento, un istante in cui la mia vita è cambiata credo che sceglierei quello: il 13 marzo 2017.
«L’hanno sottoposta subito ad una TAC con contrasto e poiché questa ha evidenziato alcune anomalie, ha fatto una risonanza magnetica. Io e i miei colleghi ci siamo chiesti se fosse anche il caso di continuare con gli esami e sottoporla ad una PET, la quale ci avrebbe aiutato a dare un’ulteriore conferma alla nostra tesi, ma siccome eravamo più che concordi sulla sua diagnosi, abbiamo preferito accelerare i tempi e sottoporla ad una biopsia.» Finalmente il medico alzò gli occhi, lasciando perdere le carte dinnanzi a sé. «Magistrato, lei ha un glioblastoma multiforme al IV stadio. Mi dispiace.»
Sembrava uno scioglilingua che se dovessi ripeterlo io ad alta voce per due volte di seguito mi impappinerei come una bambina all’asilo di origine marocchina.
«Se io cominciassi a usare i termini tecnici e precisi del mio settore stia pure tranquillo che non riuscirebbe a capire neanche un 5% di quello che le sto dicendo. La stessa cosa vale per me in questo momento. Quindi, gentilmente, può spiegarmelo in lingua volgare se non è chiedere troppo?» Domandò mia mamma continuando a tenere un aplomb invidiabile.
«Lei ha un tumore al cervello. Il peggiore che esista.»
«Sto morendo? È questo che mi sta dicendo dottore? Sto morendo?» Il grande magistrato Di Vece perse d’un tratto tutta la sua calma granitica, la voce balbettante e le mani tremolanti.
«Mi dispiace.» Ripeté il medico dall’altra parte della scrivania, ma non aveva l’aria di uno davvero dispiaciuto, piuttosto di uno abituato a determinate situazioni e reazioni.
Mia mamma fece un respiro profondo socchiudendo gli occhi per un attimo, cercando dentro di sé la forza per porre la prossima domanda.
«Quanto mi resta?»
Io la guardai stralunata. Perché aveva fatto una domanda così fuori luogo? La medicina aveva fatto passi da gigante nel campo dei tumori, conoscevo storie di persone che erano sopravvissute al cancro. La nostra vicina era viva e vegeta nonostante la mastectomia, no?
«Con un ciclo di radio prima e chemio dopo,» l’oncologo prese tempo «al massimo un anno di vita.»

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


Capitolo 2
 
    Salerno
Lunedì, 26 settembre 1988
Ore 2,35
 
 
Caro diario,
oggi Guido mi ha baciata.
Allora perché mi sento così triste?
Siamo riusciti a passare entrambi l’esame di Diritto Civile, da non credere! La collana dalla pietra a forma di mela ha fatto ancora una volta il suo lavoro. Eravamo così felici e soddisfatti che ci siamo abbracciati appena fuori dall’aula 3, saltellando come due bambini al luna park. Poi siamo saliti in cima alla torre a brindare con una lattina di Sprite ed è accaduto. Tutto d’un tratto. Mi ha messo la catenella con la pietra magica al collo, mi ha preso il viso fra le mani e ha schiacciato le labbra sulle mie. Solo questo, niente lingua, niente movimenti strani. Solo bocca contro bocca.
«Esci con me, Cate» mi ha detto a fior di labbra, chiamandomi come solo lui fa: “Cate”. «Esci con me stasera a festeggiare veramente la nostra fortuna sfacciata, perché noi siamo fortunati solo se stiamo insieme. E lo sai.»
Era così felice. Gli occhi azzurri brillavano, sempre più simili a diamanti, e io potevo riflettermi al loro interno. Avevo un’espressione spaventata.
Se dicessi che non ho mai pensato a lui in quel senso mentirei, ma reputo la nostra amicizia qualcosa di raro e di unico, quasi sacro, che non voglio rovinare, perciò ho scosso la testa e l’ho allontanato con garbo, cominciando a parlare senza sapere bene cosa dire:
«Guido…».
«Ok, ho capito» mi ha subito interrotto, scuro in volto come non lo avevo mai visto. Ora che ci penso meglio, sembrava ferito, deluso, frustrato. «Scusami se io… se noi…» e si è allontanato da me di qualche passo.
Ho cercato di fermarlo, di rassicurarlo, di fargli capire che andava tutto bene, che non era successo niente, che nulla sarebbe cambiato, eppure sentivo che stavo mentendo anche a me stessa oltre che al mio migliore amico.
Caro diario, l’ho visto andare via tutto ingobbito, mentre d’istinto stringevo la pietra viola nel mio palmo destro.
Credi che abbia sbagliato a rifiutarlo? Credi che avrei almeno potuto tentare di uscire con lui una sera? Com’è che si dice? Lo scopriremo solo vivendo…
Ciao diario, a presto.
Tua M. Caterina.
 
 

Chiudo l’agenda/diario e resto a fissare il vuoto per diversi secondi.
Guido era innamorato di mia madre? Cielo, questo si che è uno shock!
Adesso inizio a capire diverse cose, come il fatto che quasi svenne quando la mamma confidò a lui e a sua moglie Annarita di avere appena un anno di vita.
«A quanto pare ho una bomba a orologeria nella testa programmata per durare meno di dodici mesi» disse il grande magistrato ridendo a squarciagola, lasciando completamente di stucco i suoi invitati. Fu una serata strana, tra risate fuori luogo e incazzature esagerate.
Non appena mia mamma si allontanò per andare in bagno, spiegai ad Annarita e Guido che gli sbalzi d’umore dipendevano dal tumore, proprio come mi aveva spiegato il dottor D’Antonio e come aveva confermato il web.
«Non sembra lei» ricordo perfettamente le parole incredule di Annarita.
«Si, il glioblastoma si trova nel lobo frontale, quello dove custodiamo “chi siamo”» usai le stesse parole usate dall’oncologo perché mi aveva spiegato la situazione come si farebbe con una bambina delle scuole elementari.
Quando mia madre tornò dal bagno si versò un bicchiere di vodka e lo ingollò in un colpo solo, proprio lei che non aveva mai toccato neanche un dito di crema al limoncello nella sua sobria vita.
«Mi bombarderanno con radiazioni ad alta energia per distruggere le cellule tumorali che mi renderanno calva. Io, la più grande magistrato donna della regione Campania con una parrucca da 400 € da portare nella tomba.» Mamma sorrideva mentre lo diceva, poi si fece seria per mimare l’espressione del dottore. «”Ovviamente salvaguardando le cellule buone”. Ma se la ficchi su per il culo la radioterapia dottore!»
Annarita e Guido erano atterriti, lei cercò la mano di lui e quando la trovò le dita s’intrecciarono forte e non si lasciarono più.
 
 
Salerno,
Lunedì, 17 Luglio 1989
Ore 23,25
 
 
Caro diario,
Annarita mi ha appena riferito una notizia e credo di non averla ancora somatizzata.
Lei e Guido si sono messi insieme!
Come sia accaduto di preciso non lo so, però so che è stata tutta colpa mia! Se solo non li avessi mai presentati, se non avessi mai permesso al mondo di conoscere Guido.
Lei, la mia migliore amica da che ho memoria in pratica, a quanto pare si era presa una bella cotta per il mio compagno universitario dal momento in cui eravamo usciti tutti e tre insieme, circa tre o quattro mesi fa. Avevo appuntamento con Guido quella sera al Bar Concordia, proprio di fronte al molo sul lungomare Colombo, gli avevo promesso di aiutarlo con l’esame di Diritto Penale passandogli i miei appunti – ultimamente Guido è rimasto un po’ indietro con lo studio, non siamo riusciti a mantenere la promessa che ci scambiammo il primo giorno del primo anno di esami. Soprattutto volevo che tenesse con sé la collana dalla mela viola che ormai sembrava essere diventata solo mia. Annarita si presentò a casa senza preavviso, dieci minuti prima che uscissi. Era sconvolta: Carlo (la sua ultima fiamma) l’aveva appena lasciata senza un valido motivo. Secondo il mio parere Carlo aveva più di un valido motivo per mandarla a cagare, Annarita quando vuole sa essere davvero una palla al piede, ma lo tenni per me. A volte è troppo sensibile e questo lato del suo carattere la trasforma in una bambina capricciosa.
Tu capisci, caro diario, che non potevo lasciarla lì su due piedi, a disperarsi in un mare di lacrime isteriche, perciò la invitai a venire con me a prendere un caffè, magari si sarebbe distratta. Evidentemente si è distratta e anche troppo poiché Guido sembra essere stato un vero colpo di fulmine.
Questa sera ci siamo incontrate e mi ha raccontato di aver notato Guido alla libreria sul corso Vittorio Emanuele e di averci scambiato quattro chiacchiere. A quanto pare però le chiacchiere si sono quintuplicate e alla fine sono finiti a cena insieme.
«Niente di che,» mi ha detto tutta rossa in viso «nulla di romantico, solo un trancio di pizza al furgone all’angolo di via Mercanti. Però poi…» e qui si è fermata, facendomi salire il nervoso alle stelle. «Però poi mi ha accompagnata fino a casa e d’istinto mi sono alzata sulle punte dei piedi e l’ho baciato.»
Adesso, che la mia amica faccia una cosa simile davvero non riesco a figurarmela. Dov’è finita l’Annarita tutta timida e imbarazzata? Dov’è finita l’Annarita timorosa anche di sé stessa e insicura della propria firma? La rivoglio indietro. Subito!
«E lui?» Ho chiesto con il fiato sospeso, mentre dentro di me supplicavo affinché Guido l’avesse respinta. Ti prego Signore, pregavo, ti prego.
«Lui ha risposto al bacio e mi ha detto che vuole rivedermi.» Gli occhi castani le luccicavano di emozione. «Già domani.»
Caro diario, sono davvero triste. Non avrei il diritto di parlare, lo so. Sono stata io a rifiutare Guido l’anno scorso, eppure non so perché mi sento così giù. Che sia solo gelosa del loro nuovo rapporto?Che mi senta sola? Che abbia paura di perdere due persone in un colpo solo?
In cuor mio spero davvero che questo amore non sbocci mai!
 

Il dottor D’Antonio ci spiegò che i bordi del glioblastoma erano così irregolari che sarebbe stato inutile operare, non ci sarebbero mai riusciti a toglierlo tutto, perlomeno non senza rischiare di tagliuzzare anche i nervi che avrebbero reso mia madre una specie di vegetale o una persona che non ricordava neanche più il nome degli oggetti quotidiani.
Sedute entrambe davanti ad un’equipe di mostri sacri della medicina, – neurologo, neurochirurgo, radiologo, radioterapista e anatomopatologo – specialisti di cui neanche immaginavo l’esistenza, non potemmo fare altro che annuire alla decisione di sottoporsi ad un primo ciclo di radioterapia, al quale ne sarebbero seguiti degli altri. I risultati ovviamente non potevano vedersi ad occhio nudo, ma la prima TAC dopo le cure risultò piuttosto positiva (secondo il punto di vista dei medici): il tumore non era cresciuto. In altre parole era sempre uguale, cioè una grossa macchia scura ingarbugliata ai nervi del lobo frontale. Il cancro poteva anche non essersi espanso, ma la mamma cominciava a mostrare sempre più i segni degenerativi. A volte faceva fatica a ricordare i nomi degli oggetti, quando le serviva qualcosa fissava un punto della stanza e da quello che stava guardando capivo che era ciò di cui aveva bisogno.
Smise di alternare momenti di ilarità isterica a quelli di rabbia; quest’ultimi divennero sempre più frequenti fino alla fine dei suoi giorni. Il grande magistrato Di Vece smise di ridere o semplicemente di sorridere. Sembrava che nulla le interessasse più, né quello che accadeva nel mondo né tantomeno ciò che succedeva intorno a sé. Non si preoccupava neanche più di me, e se lo faceva è di certo stata abile a nasconderlo per bene.
Il glioblastoma non è mai regredito. Ci sono stati giorni così brutti che mia madre somigliava più a una fiera imbestialita che a un essere umano; la malattia era capace di sfigurarle anche l’espressione facciale, rendendola davvero spaventosa. Si trasformava in una persona senza cuore, capace di dire tutto ciò che le passava per la testa, senza filtri. Il pomeriggio, dopo la prima seduta di chemioterapia, mi disse che le ricordavo sempre più sua sorella: una donna inetta senza uno scopo nella vita, ma almeno zia Lucia da giovane aveva avuto la furbizia di mettersi in ghingheri per trovare un uomo che la mantenesse a vita, io invece neanche quello.
«Chi mai vorrebbe scoparti scialba come sei?!»
«Ho lasciato ingegneria per starti vicina» risposi, lei sembrò non sentirmi neanche.
«Non avrai mai il mio fascino. Hai il culo troppo grosso.»
E su questo non potevo darle torto.
Nonostante sapessi che era il tumore a parlare per lei, le sue affermazioni mi ferivano ogni giorno come frecce avvelenate: in fondo ho sempre ritenuto che fossero tutti pensieri reali, cose che il grande magistrato pensava davvero.
 
 
Salerno,
lunedì, 30 novembre 1992
ore 15:35
 
Caro diario,
in questo grigio e uggioso lunedì di novembre ti scrivo mentre sono in pausa pranzo. Ho con me la cartella del nuovo cliente che l’avvocato De Angelis mi ha chiesto di visionare e studiare per dargli tutto il supporto possibile. Fare la tirocinante è davvero dura, vengo pagata solo quattro lire e alla fine l’avvocato si prende il merito.
Onestamente? Io valgo molto più di lui che non riesce neanche a mettere su un discorso decente da tenere davanti al giudice. Penso che chiunque abbia superato i sessanta anni debba andare in pensione, certe cose non sono fatte per gli anziani!
Tuttavia non sono qui a scriverti per lagnarmi del mio umiliante ruolo, bensì per darti una delle notizie più sconvolgenti del XX secolo: Annarita e Guido convoleranno a nozze.
Fuori piove, il mare è in tempesta, i pescherecci questa mattina sono rimasti ammainati al molo e la bella stagione è davvero lontana. L’umidità a volte sembra entrarmi nelle ossa, insinuarsi sotto i vestiti e penetrare fino al midollo.
Ecco, la notizia che ieri sera mi hanno riferito i due piccioncini ha sortito questo stesso effetto sulla mia persona. A volte non riesco a capire cos’è che mi turbi sul serio: sono innamorata di Guido o semplicemente invidiosa del loro rapporto?
Non ho mai sognato di indossare l’abito bianco e figliare come fossi un coniglio, eppure dinnanzi a tanta felicità non posso fare a meno di chiedermi cosa sarebbe accaduto se dopo il bacio non lo avessi respinto. Saremmo stati felici come lo sono loro? Ci saremmo lasciati e lui comunque si sarebbe messo con Annarita?
Tra l’altro Guido ha abbandonato gli studi universitari, cosa che mi ha fatto incavolare molto, mentre la sua fidanzata sembra non aver neanche concepito la gravità della situazione. Era bravo Guido, in alcuni casi anche più intuitivo di me, poi un pomeriggio mi disse che aveva deciso di mollare: le tasse costavano troppo e intendeva trovarsi un lavoro. Allora non feci caso allo sguardo complice che lui e Annarita si scambiarono – ormai è diventato un vero caso pescarli in separata sede, sono diventati come quelle offerte al supermercato “prendi 2 paghi 1”.
Solo ora comprendo il motivo per cui gli serviva un lavoro: soldi per il matrimonio. Annarita è una ragazza semplice, ha trovato posto in un negozio di scarpe subito dopo il diploma; porta la stessa pettinatura dalla terza media (capelli biondini lisci fino alle spalle) e a volte mi sembra di vederla indossare ancora il maglioncino rosa che la mamma le regalò a un Natale di diversi anni fa.
Io sono il suo opposto, negli anni ho cambiato così tante volte acconciatura e colore dei capelli che neanche io ricordo più la tonalità naturale. Indosso tailleur alla moda e scarpe con il tacco. Non riesco a trovare un solo motivo per il quale un uomo come Guido – alto, ben piazzato, bruno e con gli occhi di un azzurro intenso – possa provare interesse per una come Annarita.
Eppure mi sono sembrati davvero convinti quando mi hanno annunciato la data del matrimonio (19 giugno 1993), poi lei mi ha chiesto una cosa con il suo sguardo da cerbiatta ferita e non ho potuto dire di no.
Mi ha chiesto di farle da damigella d’onore, ciò significa che dovrò restare tutto il tempo della cerimonia sull’altare a guardarlo negli occhi.
Accidenti!
 
 
 
L’unico dei grandi specialisti che si è degnato di parlare con me come si farebbe con una persona spaventata è stato il giovane radiologo, brutto quasi quanto uno spaventapasseri. Con garbo e un pizzico di remore mi illustrò la situazione da un altro punto di vista – il mio – e ciò che mi sarei dovuta aspettare nei prossimi mesi. Mi spiegò passo dopo passo gli effetti collaterali della radioterapia e mi disse che non era di quello che dovevo preoccuparmi, bensì del cambiamento della personalità e dell’umore poiché avrei faticato a riconoscere la persona che mi aveva cresciuta. Avrei voluto dirgli che in verità mia madre non è mai stata il prototipo di mamma perfetta e amorevole, per questo nessun atto aggressivo o offensivo avrebbe potuto sconvolgermi.
Il radiologo mi elencò gli effetti collaterali della radio, ma soprattutto quelli della chemioterapia che avrebbe seguito la radio. Innanzitutto mi disse che i farmaci chemioterapici antitumorali combattono le cellule cancerose che si moltiplicano molto più velocemente di quelle sane, perciò il loro obiettivo è distruggerle salvaguardando quelle adiacenti. A volte però i chemioterapici non eliminano solo le cellule tumorali, ma anche le altre…
Conosco gli effetti dannosi della chemio, soprattutto quelli evidenti, come perdita di capelli o nausea e vomito. Tuttavia quelli che mi illustrò il radiologo quel pomeriggio mi sconvolsero e spaventarono a morte. Spesso la gente non sa che queste cure per il cancro possono fartene venire un altro; contrarre la leucemia; problemi renali o cardiaci; un’alta percentuale di eventi trombotici; epatite B e C.
«E allora perché si sottopongono i malati di tumore alla chemio?» Chiesi nella mia totale ignoranza.
«Perché sono le uniche cure a disposizione per allungare la vita ai nostri pazienti.»
Per consentire al corpo di riprendersi dall’effetto tossico che questi farmaci possono avere sul malato è consigliato dividere la terapia in vari cicli, lasciando degli intervalli liberi di tre settimane tra un ciclo e quello successivo. 
Il magistrato Di Vece non è riuscita a concludere neanche il secondo ciclo di chemio poiché il suo fisico è degenerato così velocemente che non sarebbe riuscita a reggere neanche più una seduta. I capelli iniziarono a cadere subito dopo la conclusione della prima settimana, la nausea ormai era all’ordine del giorno, anche quando non aveva la chemio. Talvolta vomitava durante la terapia e quindi non potevo allontanarmi da lei nemmeno per un istante, o si sarebbe vomitata addosso.
Quando le gambe smisero di reggerla, l’ASL ci convalidò una vecchia sedia a rotelle sulla quale si è sempre rifiutata di sedersi, urlando che mai e poi mai una donna come lei si sarebbe ridotta alla carrozzina, piuttosto avrebbe preferito morire. Dal momento che mamma si è rivelata uno di quei pazienti che rifiutano la malattia e gli aiuti esterni, l’infermiere che veniva a darmi una mano la mattina presto – per lavarla e cambiare le lenzuola – propose di inserirle un catetere se non volevo che la vescica esplodesse.
Il magistrato ha urlato ogni ingiuria possibile e inimmaginabile all’infermiere mentre questo mi diceva di tenerla ferma intanto che cercava di infilarle un tubicino in mezzo alle gambe. Tra tutte le cose che ho visto e le scene umilianti alle quali mia madre è stata costretta, penso che questa si piazzi direttamente sul podio. Le altre due in particolare riguardano: la prima volta che si cagò addosso in piena notte e – mossa da coscienza – mi rimboccai le maniche per pulirla, e quando è morta.
Nei film sembra che la morte arrivi in sordina, calma e quieta, ma la realtà è diversa, completamente diversa. Il grande magistrato donna era così legata alla sua vita, alla vita che si era costruita con le proprie mani, a fatica e sacrificando così tanto, che quando è giunta al confine proprio non voleva attraversarlo. Si è aggrappata a questo mondo con le unghie e con i denti, i suoi occhi fissi nei miei come se attraverso di essi potesse restare afferrata a me e al mondo stesso. I suoi respiri trasformati in rantoli, ognuno dei quali sembrava l’ultimo e a un certo punto mi sono ritrovata a sperare, a supplicare, che fosse davvero l’ultimo, sofferente sospiro. Se non stesse morendo avrei giurato che fosse sul punto di dirmi qualcosa, forse chiedermi scusa per la madre che non è mai stata capace di essere; forse confessarmi il suo bene.
O forse intendeva semplicemente rivelarmi il nome di mio padre.

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


Capitolo 3
 
 
Salerno,
mercoledì 5 luglio 1995
ore 0:25
 
Caro diario,
io e Guido abbiamo fatto l’amore.
 

Spalanco gli occhi. Non posso credere a quello che ho appena letto, perciò lo rileggo. Una, due, tre volte. Il concetto è semplice, niente giri di parole, nessuna frase fuorviante. Volto velocemente la pagina e noto una nuova pagina di diario scritta nella stessa notte, a distanza di poche ore. Tremo al solo pensiero di leggere e scoprire quello che c’è scritto. Un’idea inizia a farsi largo nella mia mente.
E se Guido fosse…?
Impossibile. Lui e Annarita sono troppo uniti per una verità simile, non credo lei avesse resistito tutto questo tempo a fingere che non fosse accaduto nulla. Che non lo sappia? Che mia madre e suo marito non gli abbiano mai detto niente della notte trascorsa insieme?
Tiro un bel respiro e mi costringo a scoprire attraverso la grafia tondeggiante e gradevole del fu magistrato Di Vece quello che ne seguì dopo quell’evento, intanto che il mio stomaco si rivolta manco fosse sulle montagne russe.
 
 
Salerno,
mercoledì 5 luglio 1995,
ore 2:35
 
Caro diario,
non riesco a dormire. Se chiudo gli occhi mi tornano in mente gli istanti trascorsi, come flash riaffiorano davanti ai miei occhi. Mi chiedo se sta succedendo anche a lui, mentre si trova sdraiato nel letto nuziale al canto di sua moglie Annarita: la mia migliore amica.
Non avremmo dovuto, è vero; probabilmente Annarita non merita due persone come noi nella sua vita, però è successo e non possiamo cancellare ciò che è stato. Anche perché onestamente non lo farei, per nessuna ragione al mondo rinuncerei alla nostra prima volta.
Ho trovato Guido accasciato sul pavimento del pianerottolo di casa, con le spalle contro la porta d’ingresso. All’inizio ho creduto che fosse ubriaco – il che sarebbe già stato strano -, poi mi sono accorta che invece era solo disperato, come non lo avevo mai visto. Mi vergogno ad ammettere di aver pensato che fosse lì perché aveva litigato con Annarita o perché magari voleva chiedere il divorzio da lei. Ho provato una sorta di sollievo al pensiero, ma mi sbagliavo. Guido non aveva nessuna intenzione di lasciare sua moglie, sebbene lei c’entrasse qualcosa. L’ho invitato a entrare, aveva davvero l’aria di uomo distrutto, gli ho offerto un bicchierino di whiskey e gli ho chiesto cosa fosse successo.
Lui mi ha rivelato che non riuscivano ad avere un figlio, che erano ormai sposati da un paio di anni e nonostante tutti gli escamotage per propiziare una gravidanza, Annarita proprio non riusciva a restare incinta. Ciò che lo fa più infuriare è il fatto che lei non voglia fare esami approfonditi per comprendere la vera natura del problema, affrontarlo e fare le eventuali cure.
Ha pianto come un bambino e qualcosa dentro di me si è rotto, mandandomi in frantumi ogni inibizione. Gli ho preso il viso fra le mani alzandolo verso il mio, i suoi splendidi occhi azzurri erano ancora più meravigliosi, diamanti così puri che mi sembrava di potervi leggere attraverso e capire quello che chiedeva la sua anima. L’ho guardato e ho compreso.
Voleva me.
Mi sono chinata in avanti, fino a lasciare che le mie labbra sfiorassero le sue. Guido non si è tirato indietro, non mi ha rifiutata, tutt’altro. Un attimo dopo eravamo avvinghiati l’uno all’altra; mi ha afferrato per la vita e messa a sedere sul bordo di marmo della cucina, iniziando a tirar via la maglia intanto che gli slacciavo la cintura appena sotto il ventre. Un attimo dopo eravamo entrambi senza vestiti, distesi sul pavimento della stanza. Da qui in poi ho solo vaghi ricordi più simili a dei fermo immagine, sono le sensazioni il vero problema, quelle che riaffiorano quando meno me lo aspetto facendomi andare letteralmente a fuoco la parte bassa del ventre.
Ricordo il freddo delle mattonelle contro la mia pelle; i suoi baci sul collo, lungo le braccia, tra i seni, giù verso l’addome e oltre. Ricordo l’esatto momento in cui i nostri sguardi si sono incontrati, attratti come due calamite mentre mi entrava dentro, piano ma deciso; dolce ma risoluto. Poi il buio totale.
Quando ho riaperto gli occhi Guido era riverso su di me, ansimante. L’ho abbracciato a lungo, sentendo le sue lacrime calde bagnarmi il seno nudo.
Se avessi potuto avrei fermato lo scorrere del tempo. Per sempre.
 

Rimango sbigottita. Apprendere questa notizia mi ha sconvolto più di quando mia madre ha ricevuto la sentenza di morte. Mi alzo dal divano lasciando cadere l’agenda che rimane aperta sulla pagina che ho appena letto. Inspiro profondamente, come se non l’avessi fatto finora, come se avessi corso le mille miglia.
Annarita.
Non riesco a smettere di pensare a questa donnina buona e gentile che una volta mi disse di essere in debito con mamma per averle fatto conoscere l’uomo della sua vita. È stata tradita non una volta, ma due volte, dalle persone che lei ritiene le più importanti della sua esistenza.
Come hanno potuto?
Adesso che ci penso credo che il bene di Annarita fosse a senso unico, non ricambiato dal magistrato Di Vece (almeno dopo il fidanzamento con Guido). Non so se l’obiettivo di mia madre fosse appunto quello di intromettersi nella vita matrimoniale dei suoi amici, se l’amore verso Guido fosse reale o un semplice capriccio dettato dalla rabbia e dalla frustrazione.
Era una donna complicata mia mamma, negli anni ho sempre creduto di conoscerla, di sapere ogni piccolo pensiero che le attraversava la mente, neanche tanto difficile a dire il vero. Il suo unico pregio era uno spiccato senso di giustizia, mi sembra ancora di vederla riversa sulle scartoffie in piena notte, con una tazza fumante di caffè sul tavolo della cucina e l’odore pungente che si diffondeva per la casa, fino a raggiungere la mia camera da letto. I suoi difetti infiniti: superba; prepotente; troppo sicura di sé; fredda nelle emozioni; caparbia. Tuttavia, leggendo i suoi diari ho scoperto una donna diversa, soprattutto negli anni della giovinezza, fino alla notizia del fidanzamento dei suoi migliori amici. Che sia stato questo evento a plasmarla? A renderla ciò che poi è diventata? La grande magistrato donna dal cuore di ghiaccio del Tribunale di Salerno, nota in tutta la penisola per la sua arringa.
Mi chino a raccogliere il diario sul pavimento. Nonostante siano state scritte solo le prime pagine il resto dell’agenda è praticamente in bianco. Strano, c’è ancora un altro quaderno da leggere. Rimane però ancora un’ultima pagina di questo secondo diario. Ho il cuore che mi batte forte, un presentimento mi si insinua piano nella testa, strisciando come una biscia, ma devo sapere, devo conoscere la verità che probabilmente mia madre – l’imponente magistrato Maria Caterina Di Vece – non è stata in grado di rivelarmi, terrorizzata dall’idea di mostrare per una volta il suo punto debole: Guido.
Volto la pagina e quello che mi trovo di fronte mi lascia senza parole e senza forze. Questa volta non c’è nessuna dicitura all’angolo destro della pagina, nessun riferimento alla città di Salerno, né date, né ora. Nessuna formula classica – caro diario - incontrata nelle precedenti pagine. All’inizio del foglio ci sono solo ed esclusivamente due parole: Sono incinta.
Mi accascio sulle mattonelle fresche, aggrappandomi al divano. Un solo pensiero più o meno coerente mi attraversa la testa, fra mille altri confusi e scoordinati, come un mantra.
Guido è mio padre.
Guido è mio padre.
Guido è mio padre.
All’improvviso mi tornano in mente alcuni particolari del mio passato completamente dimenticati perché non ritenuti importanti, non così tanto perlomeno. Le decine e decine di foto che mia mamma conserva nei mobili del soggiorno che ritraggono solo me e Guido davanti a un tavolo imbandito, al centro una torta con su una sola candelina: il mio primo compleanno. Le foto dei festeggiamenti successivi non sono diverse: sempre io, sempre sola con Guido; ogni anno si aggiungeva una candelina, ma il risultato non cambia. Ovviamente esistono anche foto in cui sono con Annarita e Guido insieme; con mia madre. Foto di me, mamma e Guido.
Altre istantanee ci vedono felici sulle giostre o a passeggio sul lungomare Colombo, perlopiù si tratta di scatti rubati che è evidente il grande magistrato Di Vece voleva tenere solo per sé, conservati nel cuore e soprattutto in un angolo remoto del mobile.
Che le abbia conservate per svelarmi la verità a modo suo quando lei non ci sarebbe stata più?
Me lo avrebbe mai detto?
Lo specchio dinnanzi a me mostra i segni inequivocabili di questa verità che è stata sotto al mio naso per 22 anni, mi chiedo come sia possibile che non li abbia mai notati prima. Gli occhi, accidenti! I miei occhi sono identici a quelli di Guido.
Mio padre?
La stessa tonalità di azzurro ghiaccio, freddi e un po’ schivi proprio come i suoi. Davvero non mi è mai passato neanche per l’anticamera del cervello che lui potesse essere il mio papà? E Annarita? Lo saprà? L’avrà capito? Gliel’avranno detto?
Decine di domande si accavallano nella mia mente e mi sembra di non riuscire a tenerle a bada, non posso arrestarle o riordinarle. Distolgo lo sguardo dalla mia stessa immagine riflessa, provo un certo fastidio a perdermi nel celeste delle iridi. È come se fossi occhi negli occhi con Guido.
Mio padre.
 
Le seguenti pagine dell’agenda sono completamente bianche. L’ultima cosa che ha scritto è stata appunto la notizia della gravidanza. Torno a sedermi sul divano e prendo il terzo e ultimo quaderno. Anche questo, come il secondo, non è stato concluso e le pagine scritte sembrano ancora di meno.
Il salto temporale è bello ampio. Stando alla prima data che ho sotto il naso pare che mia mamma abbia smesso di scrivere alla certezza della gravidanza per ricominciare dopo circa 23 anni, alla notizia della sua condanna a morte.  

 
Salerno,
14 marzo 2017
Ore 0:46
 
Caro diario,
probabilmente queste sono le ultime pagine che riuscirò a scrivere.
Mi è stato diagnosticato un glioblastoma multiforme al IV stadio.
Prima di oggi credevo che i tumori fossero tutti uguali: il male del XXI secolo spesso impossibile da battere. Invece ho scoperto che ognuno ha un proprio nome impronunciabile, una propria cura e soprattutto una diversa percentuale di sopravvivenza. Vuoi conoscere la mia? Meno del 3% dei pazienti affetti da questo male non supera l’anno di vita (nel migliore dei casi). In verità l’oncologo mi ha spiegato che la prospettiva di vita si allunga solo grazie alle cure – radio e chemio –, altrimenti si passa a miglior vita entro tre mesi. Mi è stato chiesto cosa intendessi fare: procedere con la terapia consigliata per recuperare qualche giorno da passare con i miei cari (quali? avrei voluto chiedere), oppure lasciare che la malattia faccia il suo corso.
«La avverto,» ha aggiunto poi il dottorone «non sottoporsi alle cure significa soffrire fino all’ultimo giorno di vita. Parliamo di dolori così forti che neanche la morfina può alleviare. Inoltre potrebbe diventare una persona davvero difficile. Il tumore si trova nel lobo frontale e altera il suo vero Io.»
Sì, come se non fossi una persona di merda già adesso!
Che sia stato sempre lì questo bastardo di glioblastoma e perciò sono quel che sono?
Ho accettato la terapia. Un ciclo di radio prima e di chemio poi, poiché il mio bel amichetto lì annidato nel cervello non può essere operato, troppo pericoloso.
Certo, nessuno vorrebbe che il buon nome del neurochirurgo D’Ambrosio venisse infangato da un’emorragia cerebrale fatale durante l’operazione al magistrato Maria Caterina Di Vece che un tempo lo condannò per frode fiscale. Si potrebbe pensare che lo abbia fatto per ripicca.
Ho accettato la terapia, dicevo, solo per passare un po’ di tempo in più con mia figlia Chiara. Adesso che la morte non mi sembra più una cosa che colpisce solamente gli altri, ho fatto mea culpa riconoscendo di aver sbagliato con lei.
Vorrei chiederle perdono per tutto quello che avrei potuto darle e non l’ho fatto. Per tutte le volte che da bambina correva nel mio letto in lacrime perché aveva fatto un brutto sogno, ma io la cacciavo via avendo da lavorare e lavorare ancora.
Cosa ho fatto nella mia vita?
Mi sono dedicata solo ed esclusivamente al lavoro, completamente assorbita dai mille impegni e dimentica di ciò che mi circondava. Chiara è cresciuta così in fretta che un giorno mi sono ritrovata in casa una sconosciuta: una bella ragazza che somiglia a Guido.
Prima che muoia devo dirle la verità, ho il dovere di farle sapere che quando non ci sarò più non resterà sola, perché suo padre le vuole un bene immenso.
 

Resto a bocca aperta. Se non conoscessi la grafia di mia madre oserei dire che non è stata lei a scrivere queste pagine.
Ricordo ancora ora tutte le sere che da bambina mi trascinavo a piedi nudi nella sua camera da letto o in cucina – dipendeva da dove si trovasse in quel momento – stringendo al petto il peluche preferito del periodo. Di solito lo facevo nelle notti di tempesta, quando i tuoni sembravano spaccare la casa in due e i fulmini illuminavano la mia stanza proiettando ombre inquietanti sulle pareti e sul soffitto. Lei era così presa dalle sue carte che non aveva neanche il tempo di alzare il capo per guardarmi: un piccolo fagotto in camicia da notte rosa, con i capelli scompigliati e le lacrime agli occhi che faceva del suo animaletto di pezza uno scudo infrangibile. Senza degnarmi di un po’ di attenzione mi diceva di non cominciare, che un temporale non ha mai ucciso nessuno e soprattutto che di paura non è mai crepato alcuno. Poi concludeva il monologo con due espressioni tipiche del suo repertorio:
«Pensa ai bambini in Africa» e «Sono un magistrato, non posso perdere tempo con te.»
Una mammina d’oro, insomma.
 

 
Salerno,
giovedì 3 agosto,
ore 14:25
 
Caro diario,
il caldo di questa estate potrebbe uccidermi se non ci stesse già pensando il tumore che ho al posto del cervello.
Chiara è corsa dalla guardia medica per chiedere se qualcuno possa venire a reinserirmi l’ago della flebo nelle vene. Prima ho fatto il diavolo a quattro e me lo sono tirato via, spillando sangue sulle lenzuola pulite (cambiate questa mattina) e sul pavimento. Adesso mia figlia dovrà rifare il letto mentre io la osservo dalla poltrona davanti alla finestra senza smettere di ordinarle come fare la piega lì e come sistemare l’angolo là.
Non so come faccia a sopportarmi, a non schiacciarmi un cuscino in faccia e tenerlo bello premuto fin quando non smetto di dimenarmi.
È forte mia figlia, non lo avrei mai detto.
Mi dico che è il glioblastoma a parlare per me, ma ho dei seri dubbi. Sono perfettamente cosciente di ciò che faccio e di ciò che dico, delle offese che le rivolgo. Allora mi chiedo: se avessi avuto un altro tipo di tumore, in un’altra parte del corpo, mi sarei comportata diversamente?
La risposta a questa domanda riflette perfettamente la dimensione della persona cattiva e meschina che sono.
Sono passati cinque mesi dalla pena di morte e non è cambiato nulla, sono solo peggiorata perché la terapia mi sfinisce. Ho chiesto al dottore di smetterla, non ce la faccio più, ma lui mi ha risposto che non possiamo interrompere la chemio all’improvviso, farebbe solo precipitare la situazione.
Il cancro mi ha resa più odiabile, ma di sicuro non mi ha resa più coraggiosa. Infatti non sono ancora riuscita a dire a Chiara la verità su suo padre.
Guido è venuto a trovarmi questa mattina, senza quella sciacquetta di Annarita.
«Come hai fatto a innamorarti di me e poi di lei?» Gli ho domandato, senza ottenere risposta. Mi ha chiesto come mi sentivo, se potesse essermi utile, se desiderassi qualcosa da mangiare.
«Magari un bel gelato» ha tentato di sorridere.
«Vorrei solo perdermi nell’azzurro profondo dei tuoi occhi» gli ho controbattuto nascondendomi dietro al fatto che sia il tumore a parlare al posto mio. «Magari dove andrò ci sarà un mare dello stesso colore.»
Guido ha sorriso e carezzandomi la testa calva, nascosta da un foulard a fioi, ha detto che non cambierò mai. Prima che Chiara tornasse con il caffè per lui gli ho confessato che le avrei rivelato tutto.
«Tutto cosa?» Era improvvisamente preoccupato.
«Che lei è nostra figlia.»
Guido è sbiancato, temendo che anche sua moglie potesse così scoprire quel segreto taciuto per 22 lunghi anni.
Il loro splendido matrimonio basato su una bugia, che schifo la vita, eh?!
 

Quindi Annarita non lo sa. Non sa niente.
Come si fa a non dichiarare una verità così grande alla persona che ami e alla quale hai giurato davanti a Dio di “onorarla e rispettarla finché morte non vi separi”? Come si può vivere e convivere con una donna per tutta la vita e non cedere alla coscienza di dirle una verità simile, così grande, così importante, così fondamentale.
Torno con l’attenzione sull’agenda che ho in grembo; volto pagina e mi accorgo che quella che sto per leggere è l’ultima, oltre di essa ci sono solo fogli immacolati. La data risale alla fine di ottobre, qualche giorno dopo mia madre si allettò completamente e la memoria cominciò a oscurarsi sempre più spesso.
Adesso mi chiedo come abbia fatto a nascondermi queste agende, che le mettesse sotto le coperte accanto a sé? Probabilmente è così. Poi approfittava dei momenti in cui non ero in casa per trascinarsi nella sua ex camera da letto e prendere o posare il diario. Deve aver fatto degli sforzi enormi portandosi dietro il palo della flebo o semplicemente per scendere e salire sul letto.
È evidente che la necessità di veicolare le sue emozioni su un foglio bianco sia stata più forte di tutto, anche del dolore e del rischio di inciampare e cadere.
Non so cosa aspettarmi da questa ultima pagina, perciò decido di leggerla tutta d’un fiato per tagliare la testa al toro, quando l’avrò finita sarà come se mia madre sia morta sul serio. Finora tenere tra le mani queste agende e leggere i suoi pensieri con la sua calligrafia sottile e angolosa è stato un po’ come avere un’ultimissima conversazione, più intensa ed esaustiva di tutte quelle avute in 22 anni di vita.
 

 
Salerno,
fine ottobre
ore ??
 
Caro diario,
scusami ma non ricordo più che giorno sia. So che siamo a fine ottobre perché oggi Chiara mi ha detto che lunedì riprende il secondo ciclo di chemio, perciò saremo già a novembre. Non chiedermi come faccio a saperlo, ma in qualche modo a me estraneo sento che è così. Ci sono giorni in cui non ricordo neanche più in che anno siamo, oggi è uno di quelli.
Sono stanca. Sono così stanca.
Fare qualsiasi cosa per me è diventato uno sforzo enorme, anche solo respirare mi sembra un lavoro troppo faticoso e allora penso: se smettessi di farlo, ce la farei a morire? Ci ho provato, ma il respiro poi mi esce dai polmoni contro la mia volontà. Se c’è una cosa che ho imparato in questi mesi è il fatto che morire è difficile. Spesso si crede che sia facile, che anche un piccolo incidente possa ammazzarci, ma non è vero. Il corpo lotta, combatte, si aggrappa a tutto quello può, alla speranza, ai ricordi, alla vita degli altri pur di restare in vita e non importa quanto sofferente sia diventata. La morte fa paura. Punto.
Non sono riuscita a rivelare a Chiara l’identità di suo padre, mi sono riscoperta più codarda di quanto mi piacesse credere. Guido viene a trovarmi solo in compagnia di Annarita, quindi non abbiamo avuto occasione di parlarne. Ancora oggi mi chiedo come possa quella donna non capire che suo marito e Chiara sono padre e figlia, i loro occhi hanno praticamente la stessa tonalità di azzurro, le loro espressioni si somigliano, i loro modi di fare, di parlare, di gesticolare sono praticamente identici.
Deve essere davvero rimbambita.
Prima era innamorato di me, poi di lei: incredibile!
La chemio mi sta uccidendo più velocemente del glioblastoma; presto le mie gambe smetteranno di reggermi e le braccia di muoversi; non riuscirò più a trattenere la vescica e chissà cos’altro ancora. E pensare che mesi fa ho scelto questa strada per avere a disposizione più tempo da trascorrere con mia figlia, per dirle che Guido è suo padre, l’unico uomo che abbia mai amato, sposato con l’unica amica vera che abbia mai avuto.
La vita fa davvero schifo, è fragile, solo un volo di passero: finirà un giorno e questo vale per chiunque, perché in fondo siamo nati tutti dalla stessa pioggia e dalla medesima polvere.
Caro diario lascio a te il compito di confessarle l’unica verità che non ho mai avuto la forza di affrontare: mia adorata Chiara, Guido è il tuo papà e ti ama così tanto che anche quando io non ci sarò più si prenderà cura di te. Me lo ha promesso.
A te Chiara lascio la mia collana dalla pietra a forma di mela color viola che tanta fortuna mi ha portato nella vita, facendomi incontrare persone fidate e soprattutto mettendo te sul mio cammino. È tua adesso, so che il viola non è il tuo colore preferito, ma in fondo non era neanche il mio prima che la ricevessi in regalo da tuo padre. Tienila sempre vicino al cuore, perché il viola del mistero e il rosso del cuore vanno sempre a braccetto; perché non c’è amore senza un po’ di magia.
Buona vita figlia.
 

La vista si è oramai offuscata a causa delle lacrime che scendono a goccioloni, bagnando l’intera pagina dell’agenda. Accidenti, così rischio di cancellare l’inchiostro, perciò mi affretto ad asciugarle con il polsino della maglia.
Incastonata in una specie di quadrato scavato nella copertina alla fine del quaderno c’è la pietra da lei citata. È proprio come l’ha descritta nei primi ricordi universitari: la catenina da quattro soldi color oro è agganciata ad una pietra che ricorda una mela, ma dello stesso colore della malva. La stringo forte al petto e chiudendo gli occhi recito in mente un “Eterno riposo”.
Verso la fine le parole sono state scritte con una grafia altalenante, quasi a zig-zag, come se fosse stata su un vecchio treno in corsa. Doveva essere esausta di scrivere e di stare fuori dal letto. Leggendo queste pagine ho scoperto non solo il nome di mio padre, ma anche un lato del carattere del magistrato Di Vece a me sconosciuto e nonostante spesso sia saltato fuori da queste righe la sua vera natura da predatrice, ho capito diverse sfaccettature del suo essere che mi sono sempre sfuggite. Non deve essere stato facile assistere alla felicità dell’uomo che ha amato con la sua migliore amica, né tantomeno allevare una figlia tutta sola, senza il supporto di nessuno. Eppure ha difeso la vita matrimoniale – apparentemente perfetta – di Annarita, perché sapeva che una notizia del genere l’avrebbe distrutta, annientata come moglie e amica tradita. No, Annarita non sarebbe mai stata in grado di rialzarsi dopo una cosa simile. Mia madre si dedicava anima e corpo al lavoro perché aveva bisogno di quei soldi, di costruire un futuro migliore per me senza la necessità di dover chiedere aiuto economico a mio padre. Adesso vedo tante cose che prima non riuscivo a scorgere, sebbene le avessi tutti i giorni sotto al naso.
Dovrei essere triste, provare un profondo senso di impotenza e solitudine dopo aver fatto un tuffo nel passato e nel presente di mia madre, invece mi sento alleggerita, come se un grosso macigno mi fosse stato tolto dal petto. Che dipenda dal fatto di sapere di non essere più sola al mondo? Sicuramente, ma non è tutto. Sembrerà egoista e meschino, eppure non riesco a smettere di pensare a mia mamma e al grande peso che si è tolta passando a miglior vita. Quando un nostro caro si ammala vorremmo tenerlo con noi per sempre, pur vedendolo soffrire e patire ogni giorno, poiché dire addio a qualcuno non è mai piacevole. Tuttavia, se ci soffermiamo un attimo a pensare alle pene e alle umiliazioni cui sono costretti, se provassimo a metterci nei loro panni anche solo per un attimo, non desidereremmo anche noi la morte?
Lo smartphone alla mia destra si illumina, qualcuno mi ha appena inviato un messaggio su WhatsApp. Mi chiedo chi possa essere alle due di notte – non mi ero neanche resa conto di quanto fosse tardi! – e provo una gioia recondita quando il nome di Guido spunta all’inizio della conversazione. È il primo messaggio che ci scambiamo, di solito è Annarita a contattarmi. Sul display scorgo quattro semplici parole che mi sembrano grandi quanto il mondo: “Hai bisogno di qualcosa?
Di nulla, ma grazie” digito e resto immobile qualche secondo a contemplare lo schermo, le dita a mezz’aria dalla tastiera virtuale, indecisa se aggiungere anche il sostantivo “papà”; poi decido che per adesso va bene così.
Un passo alla volta.
 
fine
 

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