Qualcosa per cui lottare

di Nadja_Villain
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo: Immobile ***
Capitolo 2: *** Vodka per le ferite ***
Capitolo 3: *** Andiamo via ***
Capitolo 4: *** Resilienza ***
Capitolo 5: *** Caduta libera ***
Capitolo 6: *** Senza pietà ***
Capitolo 7: *** Nessuna uscita ***
Capitolo 8: *** Pioggia arida ***
Capitolo 9: *** Apri gli occhi ***
Capitolo 10: *** Per un paio di nastri ***
Capitolo 11: *** Vigliaccheria ***
Capitolo 12: *** Sgretolamento ***
Capitolo 13: *** Perchè sei qui? ***
Capitolo 14: *** Hai una scelta ***
Capitolo 15: *** Paura ***



Capitolo 1
*** Prologo: Immobile ***


Spazio autrice introduttivo:

Le vicende di questa storia si svolgeranno in base a due piani temporali: passato pre/post-apocalittico e presente. La storia verrà raccontata in ordine cronologico rispetto al piano temporale del presente: partiamo da uno scorcio dall'ultimo episodio della 6a stagione in avanti, gettando un occhio verso le precedenti, tutto attraverso gli occhi della protagonista (segue più o meno la strada del gruppo di Rick, ma in tempi diversi, infatti non si incontreranno mai durante tutta la migrazione). I flashback esploreranno occasionalmente gli episodi evocati nei dialoghi e da parallelismi.

Il personaggio di Trish Dahanam e la sua storia, si evolve tra le omissioni e i punti ciechi della trama televisiva, ciò significa che non ci saranno vigorose modifiche nel filone narrativo principale, se non qualche dettaglio legato alle interazioni con gli altri personaggi.

Sono presenti scene tratte dalla serie televisiva, sebbene con alcune dinamiche alterate dalla presenza della protagonista, senza che sia stata modificata la trama principale.

Alcuni dettagli, tra cui caratteristiche fisiche secondarie o il piano temporale di scene non di risalto nella trama principale, potrebbero essere stati modificati a scopo narrativo.
 
Le scene sul passato dei fratelli Dixon sono puro frutto della mia immaginazione, in quanto la serie non ne fa alcun riferimento.

Se vi piace ciò che scrivo mi trovate anche su Wattpad col nome di @Nadja-Villain :)

 

 Ringrazio anticipatamente chiunque abbia deciso di spendere il proprio tempo leggendo questa storia ❤ 


*.+  B  U  O  N  A    L  E  T  T  U  R  A  !    +.*

Nadja Villain


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Qualcosa per cui lottare | The Walking Dead

Prologo : Immobile

Presente

Presente

La spugna grondò ancora acqua bruna dopo la terza strizzata. Era gonfia di quel lerciume fetido, tanto rosso che pareva ancora pulsare. Gonfia di una vita, che non sgorgava più stretta tra tubi, ma libera gocciolava e si sparpagliava ovunque per poi coagularsi come lava fredda.

Il fusto andava pulito accuratamente. Solo un panno morbido, acqua calda e d'aceto. A volte rimanevano sporche le ferite che segnavano l'usura: venuzze finissime che si otturavano velocemente. A quel punto serviva solo dell'olio di gomito e uno stuzzicadenti.
Il filo spinato era difficile da pulire nodo per nodo, allora toccava lasciarlo in ammollo. Stava iniziando ad arrugginire. Entro poco si sarebbe ramato completamente.

Il getto d'acqua spazzò via l'ultimo alone schiumoso. La superficie tornò a splendere sotto il panno pulito. Il legno era ancora umido: andava fatto asciugare. Lo avrei lasciato sul termosifone per tutta la notte prima di arrotolarci cautamente il filo attorno, seguendo i vecchi segni lasciati dalle punte di metallo.

Era bella. Compatta, sinuosa, equilibrata. Comprendevo la passione che il suo padrone avesse per lei. Non era semplicemente un'arma, era una firma, un'identificazione, una compagna. Silenziosa, ma cruenta. Scenica, come il suo possessore.

Infilai il guanto in lattice, sollevai il filo dall'acqua calda su cui rimasero galleggianti dei capelli neri e rossicci e una grossa quantità di frammenti molli di cervella che dovetti recuperare ad uno ad uno dalla grata perchè non si intasasse lo scarico. Gettai i rimasugli nel secchio a mano piena, dove già aveva occupato il fondo un ritaglio di cute ancora ricoperto di peluria e di liquido vischioso.

L'odore metallico aveva invaso la stanza. Le narici ci avevano fatto l'abitudine ormai. Dovevo stare attenta a tenere la porta chiusa, altrimenti l'odore di morte sarebbe corso fuori e si sarebbe confuso con l'odore di marcio, di umido e di fogna che proveniva dai corridoi. Forse non era un grande disturbo, pensato così. Ero consapevole che fosse solo una mera scusa. Nessuno doveva assistere all'operazione cui ero maestra, nemmeno per sbaglio. Era un rito. Qualcosa di trascendente.

"È come un trucco di magia: se viene svelato, non ci crede più nessuno."

Non mi ero mai posta, fino ad allora, il dubbio sul fatto che fosse giusto o sbagliato ciò che succedeva dentro quelle mura. Non avevo mai avuto motivo di oppormi. A tutto il sangue che veniva versato, avevo sempre dato un valore pari alla sporcizia. Che fosse per il bene o per il male, poco importava. Che fosse per sopravvivenza o per diversione, era poco rilevante. Ma quella notte era stata diversa. Quella notte avevo rischiato che il sangue corrente verso il buco delle fogne, non fosse anonimo.

Mi ero convinta che sarebbe stato più facile se non avessi avuto nulla da perdere. Pensavo fosse un po' come staccare la corrente. Pensavo che tutti i problemi, le paranoie, i rimorsi, il dolore, la paura sarebbero svaniti in un lampo. E per un po' così era stato. Non provavo più niente. Ero diventata invulnerabile, un mostro imbattibile se non da sé stesso. Quando premi quel bottone e ti lasci andare, incateni la vocina che scalpita al tuo interno per impartiti lezioni moraliste. Diventa davvero tutto più semplice. È come camminare a piedi nudi su un terreno fatto di foglie secche, ramoscelli, spine, schegge di vetro e sassi appuntiti, ma non sentissi nulla oltre al tuo peso colpire il suolo. È come avere i piedi intorpiditi e non percepire le dita strusciarsi tra loro. È come quando sogni di correre, ma non sei accaldato e non hai il fiatone. A quel punto puoi correre quanto ti pare, anche per sempre, senza fermarti. E se ti trovassi davanti a un burrone potresti provare a gettarti: non ti accorgeresti nemmeno della caduta, come se non arrivassi mai al fondo, precipitando all'infinito in uno spazio senza atmosfera. Allo stesso modo, avrei fatto sì che ogni reazione affettiva, ogni stimolo di empatia si separasse da me, anche a costo di annullarmi completamente e svanire in una sorta di suicidio mentale. Non mi importava avere dei sentimenti. Alla fine, non avevo alcun motivo di essere me stessa, perchè non avevo più nessuno con cui condividermi. Dovevo immaginarlo che la pacchia non sarebbe durato a lungo. Ero dannata, destinata a soffrire in eterno.

Un ottimo modo per far tacere la mente, brillava nella bottiglia trasparente che mi aspettava sul tavolo. Me ne ricordai solo quando avevo finito il mestiere, quando iniziai a sentire di nuovo il senso di vuotezza che mi si espandeva come un palloncino nello stomaco. Che fosse fame o senso di inutilità la sostanza non cambiava. Non facevo più differenze da tempo.

Posai la mazza gocciolante sullo scolapiatti adoperato appositamente allo scopo. Lavai i guanti e mi ciondolai verso il gioiellino liquido che ero riuscita a racimolare dal bottino di una spedizione. Stappai il cilindro di sughero e l'etanolo sbuffò dal capo in una nuvola invisibile.

Scomposta su una sedia, i piedi sul tavolo, una sigaretta che si fumava da sola tra le dita e il contenitore cristallino che lentamente si svuotava, decisi che quella sera mi sarei lasciata un po' andare. Me l'ero meritato, dopo tutto quel lavoro di scrostatura. Ma a un quarto di contenuto alcolico nelle vene, dovetti iniziare ad ammettere che forse quella mia armatura d'invulnerabilità non mi calzasse poi così a pennello. Avevo sempre pensato che semmai fosse sbucato un affetto dal passato per ricordarmi chi fossi davvero, non avrei avuto idea di come comportarmi. Avevo immaginato che gli sarei andata incontro correndo, forse l'avrei stretto per legarlo a me e non perderlo più, forse gli avrei permesso di farmi ritornare, avrei persino accettato di soffrire di nuovo in onore dei ricordi che, in quel momento, erano tornati a insistere sull'orlo delle cornee bagnate.

Cacciai con una mano le immagini di fantasie dettate dallo sconforto, della solitudine e dall'autoreclusione che mi era imposta per non recare altro danno né all'esterno, né a me stessa. Perchè ogni volta che concedevo alle emozioni di riaffiorare, di affondare i denti avvelenati nella mia coscienza, perdevo il controllo. A quel punto non potevo fare altro che chiudermi in me stessa. Meditavo, per ricongiungermi al mio segreto ideale di perfezione apatica.

Tuttavia non bastò la mia volontà per impormi di non provare quel senso di colpa opprimente. Mi attaccai a canna per affogarlo. Mi ero illusa di aver toccato il fondo, ma ancora mi mancava qualche metro. Perchè quella notte avevo rischiato di assegnare al sangue che avevo lavato via come semplice terriccio, ai fili sottili che avevo strappato dai nodi del metallo aggrovigliati ai pezzi di carne che galleggiavano sul pelo dell'acqua giallastra, un nome, un volto conosciuto. Perchè nella conta mortale era stato messo in gioco anche l'ultimo tassello del passato che credevo di aver perso... E io non avevo fatto niente per modificare il suo destino.

Dovevo essermi veramente trasformata in ciò a cui avevo aspirato: avevo fatto appassire il cuore, mi ero costruita una barriera di anticorpi per fortificarmi, ma qualcosa era andato storto: la barriera si era scheggiata. Così, adesso, non avevo più scuse per mentire a me stessa, non potevo più fingere. Non ero più legittimata ad oppormi ai miei demoni. Era troppo lampante la realtà per essere sviata.

Ero un mostro. Nient'altro.

Capii perchè mi meritassi quella vita di stenti. Mi meritavo tutto il male del mondo.

Con un gesto impetuoso gettai a terra tutto ciò che stava sul tavolo: non meritava nemmeno quello di rimanere in piedi. La mia rabbia si scaraventò sul pavimento, sulle pareti, sui mobili, sul letto, su me stessa. Mi riempii di nuovo, riacquistando a dondolii l'equilibrio. Percepii il liquido insediarsi anche tra le trame dei vestiti. Degluitii ancora finchè non percepii il cervello palpitare, come faceva ancora e ancora, nella mia mente, quella mazza contro il terreno, contro il fango impastato col sangue e le cervella, ormai tramutate in una mistura indistinguibile. Mi imbottii di nuovo di quel liquido inebriante fino a che non mi sentii scoppiare, finché tutto ciò che mi ero imposta di essere e stagnava dentro di me disomogeneo dal mio vero animo come olio nell'acqua, non riaffiorò dal bordo per straripare.

Arrancai verso il bagno, nonostante il pavimento avesse preso a dondolare come il ponte di una nave. Un conato mi sorprese prima di arrivare al vaso e sparpagliò sul pavimento quel poco di energie che mi era rimasto nello stomaco.

Fu in quel momento, mentre me ne stavo aggrappata allo stipite della porta, una mano a tenermi il bruciore interno che la malattia infettiva del cuore prese il sopravvento. Lasciai che le mie gambe cedessero, seguendo la verticalità della parete, le ginocchia a terra, emulando le vittime della mezzaluna mortifera della notte precedente. Rimasi immobile, come la notte prima dietro la prima cornice degli uomini che facevano da recinto al bestiame da macello inginocchiato alla presenza del carnefice, senza fiatare, accettando il verdetto sanguinario. Esattamente come allora, me ne stavo immobile, a fissare il mio rigurgito insediarsi tra le fughe delle piastrelle, afflosciata come uno stelo d'erba sotto il peso del nubifragio. Decisi per l'ennesima volta di non combattere. Tant'era vero che la vocina della coscienza emerse più pungente, d'un tratto. Era davvero questo l'atteggiamento che avrebbe dovuto rendermi invincibile? O stavo solo assorbendo passivamente la volontà della sorte? Magari avrei dovuto rimettermi in piedi, fiondarmi verso la cella in cui era rinchiuso un pezzo ancora caldo del mio cuore e resettare tutto, ricominciare da capo, ma non ero pronta per quel passo.

Tuttavia, pensandoci bene, - mi sentivo un po' più lucida - trovai l'eventualità che fosse tutto frutto della mia sempre fervida immaginazione. D'altronde ero ubriaca fradicia.

Che idiota! Mi ero fatta prendere da degli stupidi sentimentalismi... Eppure, la sensazione che mi aveva pervasa incrociando quel paio di occhi spauriti, ma ancora combattivi, costretti al livello dei piedi del Re, era stata talmente penetrante che mi era rimasta intrappolata nel petto e non riuscivo a liberarmene.

Non l'avevo notato subito

Non l'avevo notato subito. Non mi era nemmeno passato per la mente che potesse essere lui. Mi era sembrato solo un altro povero stronzo che sarebbe finito male. Se non si fosse alzato per far valere la sua eroicità in una mossa stupida e sconsiderata, - dettata prevalentemente dall'ira cieca e orgogliosa, tipica di una mente che avevo conosciuto bene - e se quell'uomo, il capo del gruppo, non avesse urlato il suo nome per chiamarlo catturando la mia attenzione, allora non mi sarei nemmeno incuriosita. Non mi sarei fatta spazio tra la gente per conoscere il volto di chi portasse quel nome che non mi suonava affatto nuovo.

Non credo che mi avesse notata

Non credo che mi avesse notata. Le teste spappolate dei suoi compagni erano un pensiero più significante dell'apparizione di una vecchia amica.

Non sapevo nemmeno se volessi espormi. Facevamo parte di due fazioni opposte. Per una riconciliazione, uno dei due avrebbe dovuto tradire. Ma forse non era questo ciò che mi turbava di più. Forse non sarei stata in grado di affrontare il suo giudizio.
Non sapeva cos'ero diventata. Non sapeva che cos'avevo fatto per sopravvivere. Io non ero più la ragazza che conosceva.

Non ero più nessuno.

Ero solo Negan.

 

 

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Capitolo 2
*** Vodka per le ferite ***


Qualcosa per cui lottare | The Walking Dead

1.1 # Vodka per le ferite

Passato

La notte era calata presto. L'umidità si agglomerava sui tergicristalli, sui fili d'erba e attorno alle luci dei lampioni sui quali creava dei palloni arancioni, e gli insetti ci si schiantavano contro in un volo contorto più confuso dello sciame dei miei pensieri.

Me ne stavo seduta alla finestra, a fumare e a bere il regalo di compleanno che ero riuscita a nascondere sotto il letto, come una vedova alcolizzata che mente ai figli. Me ne stavo lì a bere vodka per alleviare tutti i miei pensieri spinosi, versando quel liquido nel mio corpo come un soldato disinfetta una ferita aperta, in mezzo al campo di battaglia.

 

Era tornato mio padre quel week-end. Il fatto che me ne stessi là fuori a condividere la tranquillità del silenzio con il tabacco in combustione e l'alcol di una bottiglia rubata, non poteva che illustrare come mi facesse sentire.

Il polso mi faceva male ancora, ma quella sera il pensiero di mio padre era stato sostituito da quello di un altro volto, uno sguardo che d'un tratto s'era fatto disorientato, a tratti rammaricato, che era rimasto impresso anche su quel bracciale naturale. D'un tratto, dopo aver imposto la sua forza su di me, si era spaventato alla vista della prova della mia debolezza. Magari non aveva avuto interesse a rivendicare un territorio già marcato. Magari la scoperta di quell'impurità, aveva reso la sua imposizione non più così allettante. All'improvviso ero diventata carne in malora persino per un avvoltoio.

Mi scolai un altro sorso, pensando a come diavolo mi era saltato in mente di scegliere a caso, guardando solo il disegno sull'etichetta. Se avessi saputo che sarei finita a tracannare da sola avrei fatto più attenzione.

#


Quel pomeriggio lo scaffale degli alcolici luccicava come una vetrina di gioielli. Con le dita sorvolavo i cartellini del prezzo, tra i colori e le forme delle bottiglie, un po' indecisa, un po' affascinata.

Greg sbucò da dietro lo scaffale, con il suo cappellino dalla visiera storta sul ciuffo piatto che copriva metà fronte, la felpa di almeno due taglie in più e la catenella dorata attorno al collo che non si toglieva nemmeno per dormire. Doveva farlo sentire molto figo.

-Finitela di fare i cazzoni voi due! - Esclamò, soffocando la voce, al chiacchiericcio e alle risatine che provenivano dal reparto sneak. - Trish, ci sei?

Sollevai dal suo posto, una bottiglia dal vetro opacizzato e il contenuto trasparente che tintinnò tra le altre. Greg mi guardò strano. Forse avrebbe voluto obiettare.

-Prendi almeno un cartone di birre. Al resto ci pensiamo noi. - Disse mentre infilava indiscretamente la bottiglia sotto la giacca.

Il nastro trasportatore si riempì di sacchetti di patatine e robaccia varia. La tattica diversiva non fu molto efficace, perchè l'uomo alla cassa mi squadrò con scetticismo, mentre lanciavo i capelli indietro con uno scatto della testa, ammiccando ad un'avvenenza più matura.

-Ho bisogno di un documento per quelle.

Indugiai un momento prima di mettere in atto una scenetta in cui ravanavo nelle tasche senza trovare nient'altro che un bottone della giacca staccatosi qualche giorno prima e dimenticato come un prezioso portafortuna.

-Scommetto che non hai nemmeno i soldi per tutto questo.

-Ti posso pagare più tardi! Te lo prometto. Ti prego, mi servono subito! - Azzardai, improvvisandomi agitata. - Mio padre è un ubriacone! Per piacere! Mi piccherà se torno a casa senza le sue birre!

-Se mia figlia andasse in giro vestita come te, gliele darei anch'io due sberle! - Rise, alludendo alle mie gambe scoperte, la canottiera scollata tagliata sopra la metà coscia, in linea con il bordo dei pantaloncini nascosti, la giacca di pelle aperta che non copriva nulla a parte le braccia. Non pareva in realtà tanto dispiaciuto delle parti del mio corpo che poteva scorgere senza forzare l'immaginazione.

-Ed... - Mi protesi in avanti. Una mano su quella gonfia e sudata, in attesa sul banco. Sfoderai l'espressione più patetica che avevo, mentre carezzavo i peli sotto la manica lercia. - E se... Ti pagassi in un altro modo?

Ed ebbe un momento di smarrimento. La sua bocca fece per parlare, ma qualcosa lo frenò.

-Non lo dirò a Carol, promesso. - Strizzai un occhiolino. Sapevo della sua predilezione per le ragazzine. Non a caso, Jim lo aveva denominato "il Porco" e non era solo per la faccia che ricordava quella del suddetto animale, per le fattezze cubitali o per la puzza di patatine al formaggio, mista a sudore e fumo di sigaretta che aveva impregnata anche nei vestiti. In quel momento nel cervello di Ed, il Porconon affluì abbastanza sangue per possedere la prontezza di immaginare che dietro quelle avances gratuite potesse nascondervi un inganno. Così mi fece un cenno di raggiungerlo nello sgabuzzino, mentre voltava il cartello "Aperto/Chiuso" appeso alla porta d'ingresso. Chissà cosa si aspettava che gli facessi, mentre fantasticava sulle mie labbra e la sfera d'argento che facevo ondeggiare sopra un sorriso di derisione? Lasciò la porta socchiusa, forse per tenere d'occhio il locale. Si slacciò i pantaloni in fretta e furia, mostrando senza pudore il membro già pronto per il rapporto, il quale sotto la pancia ricoperta di un'abbondante peluria, pareva così minuto e ridicolo... Non ebbi il tempo di scoppiare in una risata fragorosa che lo sguardo ebete si trasformò in un broncio scuro.

-Ehi! Aspetta... EHI, VOI!

Era il segnale. Voltai i tacchi e corsi nella direzione dell'uscita, dietro ai miei compagni, superando il bancone vuoto e scanzando un pacco di patatine caduto nella corsa.

-LADRI!! BASTARDI!! - Sbraitò un Ed iracondo, mentre barcollava tentando una corsa spastica, una mano a tenere i pantaloni e l'altra ad accusarci. - Se vi becco vi mando tutti in galera!! - Aveva abbaiato isterico, mentre noi avevamo già raggiunto il bordo opposto della strada, salendo nell'auto scassinata di Greg.

-Metti in moto! Metti in moto!

La macchina scattò in avanti, in un'accelerata improvvisa.

-Uau! Come nei film! Siamo dei criminali, gente! - Fece Jim, saltellando sul sedile anteriore, tutto eccitato, come in fuga da una rapina in banca.

-Non ti gasare troppo, siamo solo scappati senza pagare. - Lo placò Greg al volante.

-Abbiamo derubato un negozio! Ah-ah!

-L'avete razziato, vorrai dire! Quanta roba avete preso?! È questo il significato di "quattro cazzate"?! - Esclamai emergendo dalla montagna colorata di sacchetti scricchiolanti.

-Mi sembrava che dovessimo festeggiare! - Replicò Greg.

-Aspetta un'ora, quando saremo tutti in chimica. Tutto questo non basterà per una persona! - Osservò Jim.

-Si vede che ci faremo della pasta, come l'altra volta...

-Avremmo preso di più se Kenny non fosse pisciato sotto!

-Ehi, senti, non mi stavo pisciando sotto, d'accordo? È che non mi sentivo al sicuro. - Intervenne quello, scollandosi dal riflesso del finestrino.

Jim gli fece il verso.

-Ma stai zitto, che per tutto il tempo non hai fatto altro che piagnucolare! E se ci beccano? E se ci sono le telecamere? E se passano gli sbirri? E se mi metto ad strillare come una femminuccia... eh?

-Nessuno di voi era preoccupato? Sono l'unico prudente qui?

-Sei un bravo ragazzo, Ken. To', piglia una birra e fai tacere quella bocca logorroica. - Lo zittì Greg, facendogli segno di spostare il cartone incastrato tra i due sedili anteriori.

-Se continuate a trattarmi così, non vi do da fumare. - Ci minacciò Kenny mentre sistemava il pacco sotto il sedile davanti.

-Ah, no! Ho contribuito anch'io a quel gruzzoletto! - Sbottò Jim saltando sul sedile, minacciando l'amico con un dito.

-E anche io! - Mi feci sentire.

-Tutti abbiamo contribuito. - Rettificò Greg. - Amico, non fare lo stronzo.

-Adesso ci terrà il muso, il permalosino permalosetto. - Lo scherzì Jim con una faccia buffa.

-Ma ogni volta che cerco di usare un po' più di cervello, dovete prendermi per forza in giro?

-Rilassati Ken, okay? Non andare in paranoia prima del tempo. - Lo tranquillizzò Greg.

L'auto svoltò verso il parcheggio del pub più sgangherato della zona, uno di quelli con l'insegna al neon a cui manca una lettera. Infatti doveva chiamarsi "The Wass Hole" invece la W lampeggiava a stento, così rimaneva un'allusione che faceva ridere tutti coloro che la leggevano. Nessuno si era mai preso la briga di avvisare il proprietario, come in un accordo sottinteso per divertimento. Quindi il "The -ass Hole", era sì il bar più becero della zona, ma anche quello che girava di più sulle bocche di noi ragazzi. Dall'altra parte della strada c'era il "Jake's", un locale in cui si riunivano i motociclisti. Non a caso, Jim puntò due figure dal finestrino che nostro malgrado conoscevamo: schiene al muro, sigaretta in bocca, broncio ostile.

-Ehi, raga. Guardate chi c'è.

-Ecco qualcuno che dovrebbe starci davvero in galera. - Commentò Kenny.

-Che ci fanno qui?

-Cercano rogne, ecco che ci fanno qui. Quel coglione di Merle doveva essersi annoiato alla tana dei drogati. - Sputò Greg tirando il freno a mano con ferocia.

-E ha pensato bene di venire a rompere il cazzo a noi.

-Ma il fratello lo segue come un cagnolino? Non ha una vita propria?

-Vivono in simbiosi.

-Quindi che facciamo? Gli offriamo da bere?

-Ci rovineranno la festa.

-Calmi, ragazzi. Basta fare un piccolo sforzo su noi stessi. Non rispondete alle provocazioni. E mi riferisco soprattutto a te, Trish. - Mi ammonì Greg, catturando lo sguardo dallo specchietto in cui non era difficile distinguere un certo disappunto.

-Come se fosse colpa mia... - Brontolai incrociando le braccia.

-Prova a pensare che quella testa bacata è vuota come un pallone da basket. Ogni suono dalla sua bocca vale zero. Se rispondi gli dai solo importanza.

-Dovrei fingere di non sentirlo mentre mi insulta?

-Provaci. Non ti costa nulla non abboccare per una volta. Pensi di farcela?

-Sì... E poi ammazzo qualcuno.

-O gli spacchi la bottiglia sulla pelata. Ding! - Mi consigliò Jim, mimando una mossa da baseball.

-Non spreco la mia vodka per lui. - Obiettai, stringendola al petto.

-Oh, attenti, raga. Arrivano. - Sussultò Kenny dopo aver distinto delle ombre dal vetro posteriore.

-Scappiamo. - Proposi tra il comico e il disperato.

-Sta calma. Respira. Ora scendiamo, sorridiamo, gli offro una birra e se ne vanno, okay?

-A-ah... Fammi un fischio quando avete finito.

Sentii Greg sbuffare. Scese dall'auto rassegnato, seguito da Jim dall'altra parte. Kenny mi guardò come se stesse per introdurmi un consiglio da uomo vissuto.

-Fai come ha detto Greg. Non ci pensare.

Rimasi lì da sola, nascosta dal poggiatesta, ad ascoltare le voci esterne. Non avevo alcuna intenzione di rinfacciarmi col nemico così presto. Non avevo ancora metabolizzato lo scontro precendente.

-Ehi, stronzetti!

Quella voce risuonò pungente e fastidiosa, come un prurito imminente.

-Ehi, Dixon. Ciao, Daryl... - Salutarono un po' tutti.

-Uao! Ma che avete fatto? Avete svaligiato un minimarket?

-Volete favorire? Ne abbiamo in abbondanza.

Le bottiglie di birra tintinnarono. Greg doveva averle riposte su un piano orizzontale, forse per terra.

-Grazie! Ma che gentilezza! Passavamo proprio di qui e pensavamo... - Ah, passavate di qui? Ma pensa, che coincidenza bizzarra, pensai, mentre usuravo la maniglia della portiera con le unghie nervose. - E ho detto a mio fratello: ehi, è arrivato il club degli sfigati! E poi siete scesi con tutto questo ben di Dio e ci ho ripensato: allora forse non sono così sfigati dopo tutto!

-Già... doveva essere una specie di festa... - Si fece scappare Jim. - Ahia! - Kenny doveva avergli tirato una gomitata o un pizzicotto per farlo stare zitto.

-E chi è il festeggiato?

-Ecco... È una festa un po' così. - Rimediò l'altro. - Non c'è un motivo preciso...

-Ehi! Aspettate! - Stoppò Merle ad un certo punto. - Sbaglio o vi manca un componente? O meglio, una componente?

-Chi?

-Come chi! La mocciosetta! La fighetta tutta Rock 'n Roll. Dov'è finita? Mi manca quella vocetta da gallina. Dove la nascondete? - I passi e la voce si fecero più vicini. Greg tentò di distrarlo, ma fu inutile. - Ehilà? Ah, eccola qui!

Un dito invasivo batté sul finestrino per richiamare la mia attenzione. La faccia di Merle si espose in uno di quei suoi sorrisi storti e rugosi. Il vetro otturava il tono della voce, ma non la noia che provocava.

-Ciao anche a te Trish! Perché non vieni fuori di lì, eh? Non è educato e nemmeno maturo nascondersi per non salutare!

Aprii la portiera con uno scatto nervoso, biascicando un'imprecazione tra i denti. La sbattei con altrettanta foga, come se fosse un dispetto per lui. Vidi Greg con la coda dell'occhio: si strinse tra le spalle come se avesse sentito la botta sulla sua pelle.  Scusa...

-Porca vacca, che brutta faccia!

-Ti sei visto la tua?

-Che c'è? Non dirmi che ce l'hai ancora con me per quella cosa che ho detto l'altra sera?

-Non lo ascoltare, Trish. - Si intromise Kenny. Tutti gli altri guardavano la scena restando in disparte e in silenzio, sperando solo che terminasse presto.

-Ehi, scusa, rastacoso... - Disse Merle, con una mano a frenare gli impulsi difensivi del ragazzo. - La signorina ha un cervello tutto suo, mi pare. Lasciala esprimersi. - Sorrise. - Sarei curioso di sapere se sa fare altro con quella lingua, oltre a starnazzare come un'oca col collo tirato. Fatemi indovinare, lei mostra le tette e voi fuggite con la roba? Dovreste prestarcela qualche volta. Ci divertiremmo anche noi. Eh, zuccherino?

Gli colpii la mano troppo confidente con cui tentò di sfiorarmi una ciocca di capelli.

-Stalle lontano, Dixon. - Lo avvertì Greg leggermente contrariato.

-Che problema c'è, scusa? Preferisci che la dia a dei vecchi bavosi per un paio di birre, ma non vuoi che se la facciano i tuoi amici?

-Lasciala stare. - Scandì per bene le parole. I pugni chiusi, le vene delle braccia esplodevano di rabbia.
Merle mise in avanti le mani e il suo sorriso antipatico.

-Hey, Gregy. Facciamo un po' per uno. Una botta e via. Poi te la restituisco. Oh, no, aspetta... - Doveva aver trovato qualcosa di veramente divertente, perchè scoppiò a ridere a crepapelle. - Non ti sarai... Non ti sarai mica innamorato?

-Merle, dobbiamo andare adesso...

Daryl fece un passo avanti. Aveva fiutato aria di rissa e cercava di evitarla, ma Merle lo scavalcò come previsto.

-Ti sei innamorato di una puttana, Gregy? Eh? Sei talmente moscio che non sai tenertela per te. Guardati. Greg Cazzomoscio Danahm. Le tieni la mano mentre succhia il cazzo agli altri?

Slap!

Uno schiaffo sonante echeggiò nel vicolo. Pieno, corposo, soddisfacente. Assaporai per un secondo la faccia sorpresa dell'avversario. Una piccola rivalsa, prima che quello si portasse una mano sulla guancia e tornasse a sghignazzare. Non attesi un minuto in più. Mi feci spazio con una spallata e mi avviai lontano. Greg chiamò il mio nome. Io, di tutta risposta, lo mandai a quel paese con la mano. E con lui, tutti gli altri.

-Fanculo la festa! Fatevela voi!

-Sì, Greg, lasciala andare. Non ti perdi niente. Scommetto che ha le unghie anche in quella sua fichetta di legno! Suo padre non le ha dato abbastanza scapaccioni per insegnarle a trattare i più grandi con rispetto!

Impuntai piedi. Eh, no. Quello non glielo avrei fatto passare.

-Che cos'hai detto?

-Come? Devo anche ripeterlo?

Tornai indietro a falcate ampie, le labbra contratte in un ringhio. Greg mi afferrarò dalle braccia prima che potessi stritolarlo con le mie mani.

-Io ti ammazzo! - Ruggii, dibattendomi come un animale in gabbia.

-Io ti ammazzo! - Ruggii, dibattendomi come un animale in gabbia

-Avanti, fatti sotto! - Ridacchiò Merle. - Cosa pensi di potermi fare con quelle braccine? Oh, certo, qualcosa c'è, qualcosa che sai fare davvero bene! - Esclamò mimando un gesto sconcio e si mise a ridere più forte, mentre io cercavo in tutti i modi di liberarmi dalle grinfie di chi non mi permetteva di sfogarmi come volevo.

-Vattene! Te ne devi andare! Questo è il nostro quartiere!

-Il vostro quartiere? E dove sta scritto? Non dirmi che solo perchè ci stanno le tue chiappette da principessina, che è diventato magicamente il tuo trono dorato?

-Si può sapere che cazzo vuoi, eh?! Perchè non vai a drogarti un po' più in là e non ci lasci in pace?!

-Lasciarvi in pace? Vi sto perseguitando, per caso? Ditemelo, non c'è problema. Mi levo dal cazzo immediatamente! - Scherzò lui.

-Perché ce l'hai tanto con me, eh?!

-E chi ce l'ha con te?

-Ogni volta che mi vedi non puoi fare a meno di attaccarmi. Perchè?! Hai qualche problema irrisolto?! Io non ho paura di te, sai?! Né mi intimorisci con quel fare da bulletto di merda! Voglio che mi dici cos'hai contro di me, perchè mi tratti così! Adesso! Davanti a tutti! Così chiariamo la cosa una volta per sempre!

-L'hai sentita, Daryl? Vuole sapere perchè la tratto male! Ueh! Non ti metterai a piagnucolare, spero!

Allungai le braccia davanti a me, come se avessi potuto infilzarlo con le unghie smaltate di nero rancore.
Greg mi tirò a sé con uno strattone, come si fa con le briglie dei cavalli.

-Ora basta!

Tutti sapevano che fossi di sangue pazzo. Mi sentivo tutta un fuoco, avrei potuto fargli male sul serio. I muscoli delle palpebre contratti per lanciare fulmini e saette, immaginai i miei occhi come due perle argentate, intrise esplicitamente di tutto il disprezzo e l'astio che si potesse provare per una persona.

-Guardami negli occhi e dimmi perchè ce l'hai tanto con me!

Merle sollevò le spalle, eludendo ogni serietà. Scoppiò in un'altra risata fragrante.

-Voi donne etichettate ogni cosa come in un cazzo di supermercato! Cosa vuoi che ti dica? Mi diverto! Mi diverte la tua faccia da stronzetta che diventa tutta rossa come il culo di un babuino! Sei il mio hobby, non l'hai capito? Sei il mio giocattolino vivente, bambolina.

Mi liberai dalla presa di Greg con uno strattone secco, o meglio, fu Greg a lasciarmi andare per sfinimento. Puntai un dito verso il brutto muso che avrei voluto deformare come un ammasso di argilla.

-Sapete perchè si porta sempre dietro il suo fratellino come un cagnolino? Eh? È per sentirsi autorizzato a fare il gradasso ovunque! Non è vero? In effetti, è incoraggiante avere qualcuno che ti sostiene per ogni porcheria che fai! Sai che c'è, Dixon? Che sei solo. Non hai nessuno. E sei anche invidioso. Perchè la tua vita non è granchè, ammettiamolo. La tua esistenza è inutile e non sai come uscirne fuori. È per questo che quando non ti sfasci a merda su un divano insieme ad altri coglioni come te, passi le giornate a dare fastidio a ragazzi che vivono una vita migliore della tua. Ti credi forte... Ma sei un debole, Merle Dixon.

-Attenta alle paroline, bambolina. Non vorrei dover rovinare quel bel visetto che ti ritrovi... - Ribatté Merle, più che infastidito. Lo avevo colpito, finalmente.

-Saresti così vile?

-Oh, non me ne frega un cazzo che sei una donna!

-Hai ragione. Altrimenti non rientreresti nel comune stereotipo del figlio di puttana.

Merle non ci vide più. Mi afferrò dal giubbino. Mi spinse brutalmente contro il baule dell'auto. Il volto contorto in una smorfia di sforzo, come se avesse voluto farmi più male, ma lottasse per contenersi. Mi scrollò e battei la nuca sul vetro. Non feci una piega per non dargli soddisfazione, dimostrandogli che quel gesto di violenza non potesse spaventarmi. Qualcuno si agitò attorno a noi. Greg gli fu subito addosso.

-Lasciala!

Merle mollò la presa solo per tirargli un cazzotto dritto sul muso e guardarlo cadere all'indietro, stonato dal colpo. Lo afferrai dalla maglia per allontanarlo, ma gli era già addosso. A quel punto si intromisero anche gli altri in un'azzuffata generale. E come se non fosse abbastanza, all'insieme percussionistico delle menate e allo strombazzare delle imprecazioni si unì l'eco di una lunga e fischiante sirena.

 

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Capitolo 3
*** Andiamo via ***


Qualcosa per cui lottare | The Walking Dead

1.2 # Andiamo via

 

Non era il giorno peggiore della mia vita. Ne avevo vissuti altri peggiori prima di allora. Anzi, poteva apparire spiritosa la situazione secondo un certo punto di vista, se evitavo di pensare che tra di noi c'erano finiti anche i Dixon. Eravamo una piccola combriccola di teppisti. Greg ed io avevano già fatto una cosa del genere in passato, ma le proporzioni del bottino erano state decisamente più scarse, più discrete. Non ci avevano mai presi. Non ero difatti preoccupata. Sapevo che prima o poi sarebbe dovuto succedere.
Avevamo intuito che non era stato quel maniaco di Peletier a chiamare gli sbirri. Forse aveva avuto la lucidità di non esporsi, illuminato da un fulgido sprazzo di acutezza per preservare quel suo minimo di dignità, giacchè una denuncia per abusi sessuali non gliel'avrebbe tolta nessuno. I piedipiatti che avevano scortato il nostro sestetto di manate in centrale, erano passati di lì per caso. Un tizio pelato con la cravatta allentata e la camicia che avvolgeva una pancia tonda quanto un'anguria, ci aveva ripresi come si fa con i bambini delle elementari. E noi avevamo abbassato il capo come fanno i bambini delle elementari, senza ribellarsi.

Greg non mi aveva rivolto la parola per tutto il tempo, facendomi intuire che ce l'avesse con me per qualche ragione che aveva rimuginato in privato. Non volevo credere che stesse dando la colpa a me per il suo naso rotto, ma non avevo insistito. Così, l'unica cosa di cui fui degna fu un sussurro di soppiatto per accordarci tutti e quattro di assecondare le decisioni che ci sarebbero state imposte e non dire una parola finchè non fossimo stati rilasciati tutti. Jim, come al solito, aveva rischiato di mandare all'aria il piano. Kenny era dovuto intervenire di nuovo con un calcio in uno stinco, ma alla fine era andato tutto bene. Quei due erano stati recuperati dai genitori i quali non si erano trattenuti un paio di scappellotti, dopo un lungo battibecco per i lamenti tragici di uno e le fastidiose e superficiali sdrammatizzazioni dell'altro. Greg invece era stato rilasciato subito. Se l'era cavata grazie il naso grondante di sangue.

Mi trovavo di nuovo da sola, seduta su una sedia di plastica che squittiva ogni volta che mi risistemavo meno scomposta. Nel corridoio c'era un andirivieni di agenti in divisa e in borghese. Tutti indaffarati nel loro lavoro, nessuno che mi degnava di uno sguardo o di una parola per farmi intendere che cosa volessero farsene di me. Mi avevano detto che avrei dovuto aspettare che venisse qualcuno a prendermi. Ciò significava che sarei rimasta lì, sbattuta in un angolo come un'orfanella in attesa di un miracolo, ancora per qualche ora.

All'improvviso la porta alla mia destra si spalancò. Sperai vanamente che fosse arrivato il mio turno. Due voci, una femminile e quella di Merle, sovrastarono i mormorii rendendo partecipe l'intero corridoio. Merle venne spinto fuori da una donna bionda dai lineamenti duri e la voce da comandina. Il corpo esile e slanciato era racchiuso in un una camicia bianca infilata nei pantaloni perfettamente stirati, dritti fino alla caviglia. Il tacco di un paio di stivaletti batteva sul pavimento come uno schiocco esortatorio. A suo confronto, mi sentii una barbona. Dixon, con la sua splendida mise canottiera di una settimana, giacchetto smanicato in pelle e jeans usurati, con quel taglio di capelli che pareva aver in testa un solo lungo spaghetto arricciato, come un personaggio nei cartoni animati, anche lui non dava un'impressione affidabile. Dovevamo aver fatto proprio una bella impressione.

-Gliel'ho già detto! Non c'entro un cazzo con quei mocciosi! Vi serve un disegnino? Avanti, mi lasci andare, è stata solo una scazzottata innocente! Non ho ucciso nessuno!

-Senta, Dixon. - Iniziò quella portandosi due dita sulla gobba del naso. Sospirò rumorosamente. Era evidente che l'avesse fatta esasperare. - Ho un fascicolo col suo nome sopra seguito da svariati esposti di... - Le contò sulle dita. - Aggressione, minacce verbali, atteggiamento violento e danni a luoghi pubblici. Oggi lei è qui per aver provocato una rissa, ferito un ragazzo e aver aggredito un agente che stava svolgendo il proprio lavoro. Come pensa di difendersi da queste accuse?

-Se è per questo, quel finocchio del suo collega avrebbe dovuto tenere le mani dove stavano. L'ho avvertito di non toccarmi, ma deve aver sentito qualche impulso strano!

-Fossi in lei non peggiorerei la mia condizione, Dixon. Cerchi di contenere ogni commento compromettente, se vuole uscire di qui entro la giornata.

-Certo... Signora poliziotta. - Rispose quello con tono allusivo.

Lo vidi uscire fantasticando sulle curve dei pantaloni che ondeggiavano sotto il suo sguardo perverso. Quando mi inquadrò, stirò un sorriso di beffa.
Il livello di adrenalina si era abbassato. Non avevo più voglia di mettergli le mani addosso, sebbene quell'espressione smorfiosa avesse cominciato a farmi digrignare i denti per la frustrazione. Era sottinteso che non avessi voglia di trovarmelo davanti di nuovo, ma la sorte aveva iniziato a prendersi gioco di me da un po'.

-Ecco! Guardi! Vuole una riservatrice di impulsi omicidi? Eccola lì, pronta per lei. Fa tanto la faccia da angioletto, ma basta guardare quello che ha addosso per capire che cosa gli passa per la testa! Prenda lei, ha espressamente affermato di volermi uccidere! Sono io la vittima!

La donna alzò gli occhi al cielo. Non ne poteva più di lui. Mi squadrò dalla testa ai piedi, pensando che fossi un'altra povera disagiata.

-Tu sei...?

-Una che sa usare bene la bocca. - Rispose Merle al mio posto, accompagnando con un osceno balletto della lingua. Cercai di trattenermi, ma solamente perchè non avrei sopportato di rimanere ancora altro tempo in sua presenza.

-Trish Dahanam. Sto aspettando mia madre.

Merle fece una faccia stranita.

-Aspetta, momento. Ti chiami come quel coglione?

-Si da il caso che quel coglione sia mio cugino, coglione! - Ribadii. - Ed è al pronto soccorso per colpa tua!

-Cosa gli avrò mai fatto? Al massimo gli ho spaccato il naso!

-E ti sembra poco?

-Pffh! Io me lo sarò rotto almeno dieci volte! - Ridacchiò.

La donna scosse la testa in un sospiro. Voltò le spalle.

-Ehi, ehi, no! Aspetti! Poliziotta bionda, dove sta andando? Mi lascia qui così? - Esclamò Merle allarmato, quando quella si avviò verso l'uscita, abbandonandolo nel corridoio con i polsi legati. 

-Ho bisogno che lei rimanga qui un momento.

-Dov'è mio fratello? L'avete rilasciato prima di me?

-Stia tranquillo. Suo fratello è a posto.

-Che caspita mi significa "è a posto"? Ehi!

Cercò di andarle dietro, ma le porte gli si chiusero davanti al naso. Le guardie impassibili non l'avrebbero fatto passare. Rassegnato, iniziò a guardarsi intorno. Finsi di non accorgermi che stesse puntando proprio verso di me, per fargli capire che fosse l'ultimo dei miei problemi. Raggiunse le sedie vuote, canticchiando un motivetto tra le labbra chiuse, in un modo un po' distratto, come se fosse un caso che avesse intrapreso quella speciale direzione. Un po' come quando passeggi al parco e incroci casualmente una persona che conosci seduta su una panchina, quando invece l'hai vista a dieci metri di distanza e, resoti conto che non puoi evitarla, nel tragitto calcoli quante energie sprecheresti nel fare finta di non vederla, quante nel fingere che ti stia simpatica e alla fine ti arrendi alle convenzioni sociali e ti siedi accanto a lei.

-Ecco qui la pecorella smarrita. Come mai sei ancora qui? Non avresti dovuto svignartela via con i tuoi amichetti? - Domandò appoggiato con la spalla al vetro separatore dell'ufficio che se fosse stato più basso avrebbe riflettesso una figura svaccata e stufa, la mia. Non risposi. Sapevo che il suo obiettivo non era fare conversazione. C'era sempre un fine ludico in ogni stuzzicata apparentemente amichevole. - Sei sola... A quanto pare. Almeno quanto me. - Rifece il verso alle offese di poco più di una mezz'ora prima. - Ti dispiace se mi siedo o ti va di uccidermi ancora?

Sollevai le spalle, le sopracciglia, incrociai le braccia e ruotai il busto per dargli le spalle, mentre lui prendeva posto. Ero certa che si sarebbe preso anche più spazio con le braccia se non fossero state ammanettate.

-Oh, avanti, voglio solo parlare!

-A-ah. Parla con il muro.

-Nah, è più divertente venire insultati da una ragazzina vestita per Halloween sette giorni su sette.

Immaginai che si aspettasse una ribattuta, ma tutte le mie energie erano evaporate. Volevo solo tornarmene a casa. Dovevo tenere duro fino a quando non avrei varcato la soglia dell'uscita che pareva lontana chilometri.

-Perché sei così taciturna? Un pipistrello ti ha mangiato la lingua? - Ci riprovò. Attese di nuovo una reazione, ma gli rispose un silenzio indifferente. - Ho capito. Non sei in vena di chiacchiere. E va bene. Si vede che dovrò davvero passare il tempo a parlare con il muro, come uno stronzo strafatto.

-Perchè, non lo sei? - Lo punzecchiai velenosa.

-Ooh! È questo il segreto allora: devo insultarmi per coinvolgerti?

-Sì, per piacere e continua. È piacevole sentire qualcuno che condivide i miei stessi pensieri.

-Mi piace il tuo sarcasmo. Perché io e te non abbiamo mai legato? Insomma, nemmeno ci conosciamo e ci offendiamo a vicenda come due cani rognosi.

Uao. Che osservazione profonda... Forse c'era la possibilità che in quella "testa bacata, vuota come un pallone da basket", galleggiava ancora qualche neurone semifunzionante.

-Immagino che quest'uscita abbia richiesto parecchie ore di introspezione! - Lo presi in giro.

-Non so che diavolo tu abbia appena detto, ma sono convinto che sia un'enorme stronzata! - Rise. - Ma ti senti come parli? Sembri uscita da uno di quei cazzo di college per fighette! Ma quanti anni hai? Vai ancora a scuola?

-Che te ne frega? - Allontanai la spalla dal brutto muso che invase il mio spazio vitale. Mi stava scrutando, come un cane che annusa una cosa nuova.

-Cosa ti insegnano in quella topaia, oltre a come si mette il culo su una sedia?

-Ti stupiresti... Magari ti sarebbero utili un paio di lezioni... Sai, per elaborare concetti più ampi di un paio di noiose frecciatine a sfondo sessuale!

-Sono divertenti però.

-Per niente. Sono ridicole e scontate.

-Va bene, saputella. - Si sistemò sulla sedia, la quale scricchiolò come una rana sgozzata. - Siamo partiti con il piede sbagliato, okay?

-Dici?

-So essere un vero stronzo a volte. - Ammise ridacchiando.

-A volte?

-Ehi, guarda che ci sono andato piano con te! Potevo andarci giù molto più pesante!

-Uao, mi sento privilegiata!

-Già... Pensavo... - Iniziò, mentre giocherellava con il pollice per provare a sfilarsi i bracciali di metallo. Poi si rese conto che lo stessi osservando e smise, temporaneamente. - Io e te non siamo poi così tanto diversi, alla fine. Siamo nati nella stessa merdosa città... Bè, io qualche anno prima di te, ho vissuto un po' di più qua fuori, ma la pasta non cambia. Voglio dire, io e te non siamo fatti per questa società. Ci divertiamo solo fuori dalle regole. Già queste teste di cazzo rompono i coglioni per la minima stronzata... Noi dovremmo essere uniti, non farci la guerra!

-Dixon... - Mi voltai, presa da un presentimento insolito. - Che cosa vuoi?

Scosse le spalle.

-Siamo entrambi nella merda, quindi, tanto vale...

-Ah, no. Tu sei nella merda. - Rettificai, interrompendolo. - Io sto per tornarmene a casa.

-Va bene. Allora diciamo che siamo stati entrambi scaricati in un corridoio che puzza di negro e del sudore di quella palla di lardo seduto al computer... che scommetto non ha alzato un mignolo tutto il giorno. Bella vita deve fare! Aria condizionata, posto fisso... Pagato dallo stato a smanettare, sbavare su scatole di ciambelle alla glassa e a scoreggiare appena non c'è nessuno che lo guarda. Mentre noi ce ne stiamo qui come due scarti umani ad attendere che qualcuno muova il culo per permetterci di tornare a casa. Tanto vale chiarire le cose una volta per sempre, no? Come hai detto tu. Tanto per ingannare l'attesa. Magari che ne so... Potremmo persino diventare amici.

A quel punto non mi trattenni più. Esplosi in una risata che forzai per evidenziare il ridicolo della frase emessa da quell bocca spudorata. Cercai nella sua espressione qualcosa che mi assicurasse un delirio legato a chissà quale allucinogeno ancora in circolo nel suo corpo. Mi sarebbe bastata anche la chiarezza di un'ennesima presa in giro. Merle stava sorridendo, divertito lui stesso dall'assurda follia che si era inventato, ma c'era qualcosa di inquietante in quell'espressione pensosa rivolta al pavimento, quasi fosse sincero.

-Sei serio?

-Perché no? Tu cos'hai in più di me, oltre a un bel visetto e un paio di tette?

-Un futuro. - Sparai in alto. Fu la prima cosa che mi venne in mente, ma mi uscì talmente bene, che dovetti serrare le labbra per non apparire ironica.

-Oh-oh! Boom! Questo sì che è un colpo basso! E fammi capire, sono curioso: in cosa consisterebbe questo tuo futuro? Andare a lavorare tutti i giorni come una bestia, sotto gli ordini di un capo frustrato che se la prende con te perchè non gli va in tiro o perchè sua moglie non gliela da abbastanza? Per poi tornare a casa da quattro marmocchi vomitosi che sporcano e cacano dappertutto? È questo il tuo luccicante futuro? È questo che ti insegnano di diventare, a scuola? Uao, dev'essere emozionante! Continua ad andarci. Sono sicuro che avrai un futuro meraviglioso!

-Sempre meglio di essere un inutile buzzurro ignorante e senza rispetto... - Borbottai tra me e me. Mi doleva ammetterlo, ma sotto sotto gli davo ragione.

-Oh, sì grazie Dio! Grazie che hai creato la scuola! Adesso il mondo è pieno di persone per bene che sanno come rendere il mondo migliore! - Continuò, alzando gli occhi verso il soffitto, le mani a mo' di preghiera. - Credi veramente nelle stronzate che spari? La scuola non ti insegna un cazzo di quello che serve davvero nella vita! Ci sono un mucchio di cose più utili di una montagna di cartacce cacate da vecchi coglioni rimbambiti!

-Tipo?

-Che cazzo ne so... Tipo sapere cosa fare quando hai il motore della macchina in panne e non c'è un cane che ti aiuta!

-Lo insegnano. Ci sono scuole apposta.

-Allora come difenderti da un pazzo che ti punta una pistola alla tempia, che ha intenzione di scoparti e rubarti i soldi!

-Esistono corsi di autodifesa.

-Ma scommetto che in nessuno di quei corsi ti dice che c'è sempre un intoppo, un imprevisto. E la gente paga per sentirsi protetta. Pensa che più svuota il portafoglio e più sia al sicuro, è pazzesco! Si proiettano in una versione che esiste solo nei film, quella più facile, più controllabile, tutta adrenalina e allenamento. La realtà è che... Il mondo fa più schifo di quello che sembra. Non c'è nessuna formula magica o corso a pagamento che possa salvarti dalla merda del mondo.

Gli angoli della bocca tirati mollemente, nello sguardo un luccichio stridente. Aveva smesso di scherzare. Mi chiesi se quel suo atteggiamento sbruffone e altezzoso, non fosse in realtà una maschera ad un'anima più sensibile. Mi chiesi se tutta quella farsa potesse davvero essere disinteressata.

-Però io a scuola ho imparato la chimica... E parole come "arzigogolato", "pantagruelico", "desossiribonucleico"... Pensa quante cose potrei fare!

Merle emise una pernacchia. Il petto rimbalzò in una risata breve tutta fatta di sibili tra labbra e incisivi. Mi guardò, stupito di quella complicità improvvisa. E anche io lo ero un po'. Mi dava fastidio che potessimo andare d'accordo anche su un solo argomento, ma quel minuscolo spazio di ilarità, volli godermelo comunque, come uno sgarro in una dieta affamante.

-Vedi cosa intendo? Dovresti rilassarti un po'. È semplice...

Per un momento avevo creduto davvero che avessimo sbagliato qualcosa

Per un momento avevo creduto davvero che avessimo sbagliato qualcosa. Che forse, superati i primi scogli, potessimo addirittura simpatizzare. Lo avevo creduto davvero, finchè non percepii il suo fiato sul collo, una mano viscida addentrarsi tra le mie cosce, lo sguardo malizioso a ispezionare il mio corpo in un pensiero perverso.

-Che ne dici se... Ci dimenticassimo per un po' di odiarci e ce la spassassimo in quello sgabuzzino... Eh?

Scattai in piedi in un brivido.

-Mi fai schifo!

Merle rideva e rideva come se fino a quel momento avesse solo giocato. Mi aveva ingannata.

-Sei un porco! - Sbottai e feci per allontanarmi.

-No, aspetta! Scherzavo! Dai!

Mi afferrò un braccio con entrambe le mani. Sgusciai dalla presa e il bracciale che avevo al polso mi si aprì, rimanendo tra le sue mani.

-Eh-ehi! Carino questo! - Osservò Merle mentre se lo sventolava davanti al naso, ammirando la sporgenza delle borchie inchiodate al cuoio.

-Ridammelo!

Mi mise in difficoltà seguendo la retta nella stessa direzione verso la quale mi ero lanciata. Non mi ci volle molto per strapparglielo dalle mani, ma quando appuntai i bottoni e alzai lo sguardo, notai un cambio di espressione che mi fece avvampare.
Coprii immediatamente con la manica che si era rialzata, la macchia che si arrotolava come un tentacolo attorno al mio polso, che come una nebulosa celeste si faceva a tratti più violacea, a tratti più azzurrognola, a tratti più brutta di ciò su cui mentivo.
Lo sguardo di Merle si posò su di me accusatorio, come un macigno di colpa. Non potevo mostrarmi come una vittima inetta. Non a lui. Mi avrebbe schernita, avrebbe usato la mia debolezza per distruggermi e la mia croce non sarebbe stata più un segreto per nessuno: non avrei più potuto nascondermi.

Rimanemmo in silenzio a scambiarci occhiate incerte. Io, terrorizzata da cosa potesse frullare nel cervello di lui, speravo che non avesse intravisto molto. Merle che corrucciava le sopracciglia, la bocca aperta su una domanda che non era sicuro di volermi porre.

-L'ho preso dai cinesi. Mi lascia sempre questo segno. Dovrei buttarlo... - Mi giustificai io, come se a lui fosse importato davvero qualcosa.

Merle annuì.

-Se... Dovresti proprio farlo...

-TRISH DAHANAM!

La porta dell'entrata sbattè con una tale forza da far rimbalzare la familiarità della furia direttamente sulla mia pelle: come vibrarono le pareti, mi si rizzarono i peli sulle braccia in una scossa gelata

La porta dell'entrata sbattè con una tale forza da far rimbalzare la familiarità della furia direttamente sulla mia pelle: come vibrarono le pareti, mi si rizzarono i peli sulle braccia in una scossa gelata. I suoi passi, in un'andatura nervosa, bruciarono i metri che mancavano alla mia fine. Irruppe come un cumulonembo tuonante, uno tsunami, una tromba d'aria che risucchia i tetti delle case e lascia solchi nudi nel terreno. Abbassai il capo per non mostrare tutto il mio disagio al nemico che era sceso dal gradino dell'acerrimo.

-Dove devo firmare? Devo riportare a casa questa scapestrata!

Una ragazza in divisa gli fece segno di dover firmare un foglio su una cartellina blu. Egli afferrò la penna e firmò con violenza. La catenella sulla cima sbandò da una parte all'altra. Mi stupì che non bucò il foglio.

-Papà... - Pigolai. Non sapevo che dire per difendermi. Gli occhi di ghiaccio, grigi polvere come la chioma e i baffi che teneva tanto curati, mi squarciarono in due, per poi affettarmi in cubetti e mi ridussero in cenere. Era tornato a casa prima del previsto e alla telefonata doveva aver risposto lui. Non c'era altra spiegazione. Altrimenti mia madre gli avrebbe mentito, sarebbe uscita di casa con una scusa e io me la sarei cavata con la solita predica sull'abbigliamento. Mi sentivo rimpicciolita davanti al potere che esercitava su di me, mi sentivo annullata.

-Papà un cazzo! Adesso andiamo a casa e te la vedi con me. - Sbottò senza sforzare la voce, per evitare di dare troppo nell'occhio. - Come al solito porti onore alla famiglia, vestita come una sgualdrina! Con tutti i soldi che spendo per farti studiare è così che passi le giornate? Dovrei farti rinchiudere in un riformatorio! - Alzò lo sguardo dietro di me. - E questo chi è? Che c'ha da guardare? È il tuo ragazzo? Bella gente che ti scegli! Ti ho cresciuta proprio bene! Muoviti, và!

Non mi voltai. Un po' perchè il mio orgoglio si era azzerato, un po' perchè mio padre non me lo permise. Mi strattonò con forza. La sua mano, la sua morsa d'acciaio, attorno al lembo di pelle su cui si espandeva la firma delle sue dimostrazioni d'affetto. Mi trainò fuori dalla centrale senza permettermi di camminare come una persona dignitosa. Ero diventata l'impersonificazione della vergogna. In quel momento, non avrei disdegnato un attacco a sorpresa da un'orda di zombie.

#

Ero stata costretta a mentire parecchie volte su quei marchi

Ero stata costretta a mentire parecchie volte su quei marchi. Ero stanca di nascondere le cicatrici della depravazione. Volevo urlare di loro, volevo liberarmene. Quella solitudine all'aria aperta era l'unica libertà che potevo permettermi. Le lacrime non mi bagnavano il volto da anni. Una volta, quando ancora la mia pelle da bambina non era stata profanata, mi chiudevo in bagno perchè lui non potesse sentirmi. Ora avevo solo un vago ricordo del respiro impedito dal singhiozzo, gli occhi gonfi e un vuoto mentale, il diaframma stanco di spingere fuori il mio male.

La sigaretta era diventato il mio sfogo. Ne fumavo di fila quando sentivo il cervello esplodere. Forse avrei dovuto smettere. Non tanto per la salute - che me ne importava? - ma per il fatto che si fosse trasformata nell'unica lurida concessione del mio seviziatore. Mi rodeva che stesse al mio gioco. Sapevo che provasse a manipolarmi, a domare i miei "istinti ribelli", facendomi quelle poche concessioni. Era più di semplice psicologia applicata. Era guerra di intelletti. Era politica.

Il rombo nasale di un motore varcò il vicolo con prepotenza. L'avevo sentito avvicinarsi da lontano, ma non avevo immaginato che si sarebbe fermato lì davanti. Fui obbligata ad alzare la testa dalle ginocchia per vedere chi si fosse intromesso nell'intimità dei miei rimugini. Scesi come un gatto dal mio trespolo, facendo appoggio sui punti che conoscevo bene e mi avvicinai in fretta, mentre il cavaliere dello scooter si toglieva il casco liberando i folti capelli castani, ignaro del rischio.

-Ehi, Trish! - Esordì Greg, superando lo scoppiettio del motore.

-Greg! Sei impazzito? Vuoi svegliare tutti?! Spegni! - Lo ammonii, strozzando la voce in un bisbiglio rauco.

Greg alzò le mani in segno di resa. 
Un movimento di poche dita e calò di nuovo il silenzio.

-Che ci fai qui?!

-Niente, volevo vedere come stavi.

-Sto bene. - Mi sciolsi. - Tu? Come va il tuo naso? - Puntai il cerotto che lo copriva.

-Mi hanno riempito di antidolorifici. - Ridacchiò, scrollando le spalle. Poi tornò serio. - Che c'hai? Hai una faccia strana.

-Niente... Non ho sonno. E mi annoio.

-C'è una band che suona giù al RockPub. L'entrata è libera. Vieni con me?

-Conciata così? - Tirai i lembi della tuta per fargli notare che non fossi nelle condizioni adatte per farmi vedere in giro.

-Che te ne frega? Tanto in quel casino non si accorge nessuno che sei in pigiama!

-Non è un pigiama. Sai che mio padre è all'antica... - Greg agrottò le sopracciglia. - È tornato. - Spiegai, profetizzando gravosa.

-Ahia... Ti ha beccata? - Domandò in piena consapevolezza del soggetto, del motivo e della tensione che la sua presenza provocasse in me.

Sollevai le spalle, evitando di schierarmi nettamente per un sì o per un no.

-Quand'è tornato?

-Ieri pomeriggio... - Biascicai. Stavo cercando di mentire il meno possibile, ma non potevo fare a meno di occultare le informazioni più cruente per non farlo preoccupare. Mi allungai le maniche sulle mani, mi strinsi tra le spalle. Greg lesse un gesto inconscio. Mi conosceva bene.

-L'ha rifatto. - Concluse con terrore. - Fammi vedere. - Scese dal motorino. Si aggrappò al cancello. - Fammi vedere, Trish! - Ripetè con più rigidità.

-Non è nulla...

-Smettila di fare la stupida! Voglio vedere quelle cazzo di braccia, avanti!

Mi lasciai fare, sconfitta. Lo strato di tessuto che inlucchettava le colpe di un figlia ingrata, mostrò la mia punizione: arrossata e striata sui polsi. Violacea e maculata sulle braccia. Immaginai gli occhi di Greg che cercavano di leggerne altre di quelle impronte malate sparpagliate su tutto il resto del mio corpo, anche sotto i vestiti comuni che ingannavano l'occhio di chi non stava attento ai dettagli.

-Chi altro li ha visti?

-Nessuno.

-Ma che cazzo, Trish! Perchè non me l'hai detto?!

-Non è niente.

-Ma dico, ma ci vedi? Come puoi mostrarmi questo e dirmi che non è niente?!

-Tanto domani mattina se ne va... I termini del divorzio arriveranno fra una settimana e mia mamma lo sbatterà fuori casa definitivamente.

-Dovete fare qualcosa. Adesso. Non tra una settimana.

-E cosa? Sentiamo.

-Non lo so. Andate dalla polizia!

-Se... Polizia...

-Sì. Ti sembra una cosa tanto strana?

-Non ci ascolteranno mai... E poi lo sai come la pensa la mamma...

-Tua mamma è una grandissima... - Lanciò un calcio al muretto, sputò un'imprecazione, rimangiandosi le parole.

-Dillo.

-Un'incoscente! Ecco. Sta mettendo in pericolo la sua vita e la tua! Quell'uomo potrebbe essere capace di tutto!

-Tipo cosa? Ucciderci?

Greg si morse le mani. Non voleva dirlo, ma era ciò che temeva davvero.

-Non lo farebbe mai...

-No?! Da cosa lo capisci? Dalle carezze che ti colorano la pelle? Dalle paroline affettuose che ti dice per prometterti che non lo farà più? Che ha solo perso il controllo? Che gli dispiace?

-Abbassa la voce...

-Perchè? Sennò potrebbe sentirmi? Eh? E chissene frega! Che venga fuori quel figlio di puttana! Fanculo a lui e a...

Lo afferrai dalla felpa, attraverso le sbarre. Gli tappai la bocca con la mano.

-Per piacere, Greg. - Supplicai, mentre cominciavo a sentire le cornee umide. - Non servirà a niente.

Sembrò calmarsi. Lo lasciai parlare.

-Mi dispiace di aver rovinato la tua festa. Quando quel bastardo ti ha messo le mani addosso, ieri... Non ho saputo reagire come volevo. Avrei dovuto portarti via subito invece ho rovinato tutto. Il punto è che non so come difenderti da uno come Dixon, figuriamoci da quel degenerato di... Non riesco neanche a chiamarlo "zio". Che famiglia di merda. - Poggiò la fronte al cancello, sbuffò. - Vorrei scappare via da qui. Lasciare i nostri, andarcene lontano. Non dover più fare affidamento ai genitori, non dover affrontare tutta questa merda di nuovo, tutti i giorni...

Passai due dita sotto il lampione da giardino. Premetti il pulsante nascosto e la serratura scattò ronzante.

-Allora andiamo.

Chiusi con cautela il cancelletto per non provocare altro rumore. Greg mi guardò con aria confusa.

-Se ti scopre ti ammazza.

-Se mi ammazza, potrai dire che ho vissuto la vita che volevo io e non quella che mi ha imposto lui. Potrai dire che ero felice. E che lo eri anche tu.

E su quello scooter, mentre slittavamo via sulla strada deserta, pensai che forse non sarebbe stata una follia così azzardata. Forse saremmo dovuti davvero scappare. Forse ci saremmo salvati entrambi.

 

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Capitolo 4
*** Resilienza ***


Qualcosa per cui lottare | The Walking Dead

2 # Resilienza

Presente

Non era iniziata bene quella mattina. In realtà l'ultima volta che la mattina era iniziata bene non me la ricordavo. E l'angoscia che mi aveva provocato il sogno, mi opprimeva rendendomi intollerante a qualsiasi fastidio.

Il volto di Merle lampeggiò nel biancore del soffitto, tra le fasce chiare e scure del sole che si infiltrava tra le inferriate. Era da tanto che non sognavo qualcosa su di lui... e mi fece male. Lasciai che la mia mente assorbisse anche la più minuscola delle particelle di quel ricordo che mi pesava come un incudine sul petto. Non mossi un muscolo, perchè il più impercettibile dei movimenti avrebbe confermato il mio risveglio nell'incubo della realtà. Richiusi gli occhi per riassemblare le immagini, ma dovetti rassegnarmi.

Dovevo aver lanciato la sveglia per terra in un orario improponibile, perchè sul comodino non c'era. Qualcos'altro aveva preso il posto dello strillo infernale. Era un frastuono intermittente, grave, ovattato. Feci capolino dai cuscini e capii d'immediato da dove provenisse. Dwight stava bussando insistentemente alla porta da svariati minuti. Forse se avessi continuato ad ignorarlo avrebbe chiamato il ciccione per buttarla giù.

Mugolai un'imprecazione nel cuscino. Rotolai giù dal letto con tutte le lenzuola. Non ricordavo come fossi finita sul materasso. La mia testa era diventata di piombo. L'alcool non mi aveva mai fatto bene e le sigarette non aiutavano. Avrei voluto rimanere in quel letto a tenermi le tempie per altre venti ore. Allungai una mano sul comodino per trovare la scatola di antidolorifici, che rabbiosamente finì dritta sul muro, vuota ed inutile. Grugnii un'altra imprecazione tra i denti. Poi gattonai verso i jeans annodati in un angolo e me li infilai alla bell'è meglio sotto la maglia protettiva e la felpa. Mi trascinai verso la porta d'ingresso tenendomi al muro, schivando i cocci di vetro e i frammenti di una nottata disastrosa.

-Arrivo, arrivo...

La chiave cigolò nella serratura e lo storpio apparve dall'altra parte con aria molto contrariata. Mi squadrò dalla testa ai piedi cercando di inquadrare qualcosa che non vedeva.

-Allora?

-Allora che?

-Dov'è?

-Che cosa?

-La mazza.

-Ah... Sul lavello. - Sbadigliai.

-È pronta?

Risposi con un muggito, mentre gli voltavo le spalle.

-Che diavolo è successo qua dentro?

Mi grattai la testa cercando di ricordare esattamente com'era andata.

-Devo aver esagerato un po'. - Dissi mentre mi avviavo verso il bagno. Avevo la vescica pronta ad esplodere.

-E io che pensavo che le donne fossero ordinate e fissate con la pulizia... Che stai facendo? Negan ti sta aspettando da un'ora!

-Devo pisciare.

Dovetti forzare la porta per chiuderla. Essa grattò sul pavimento con un rumore stridulo. Sapevo bene che non sarebbe bastato un muro in cartongesso per farlo zittire. Ci speravo, che almeno in quello sgabuzzino col cesso avrei trovato un po' di privacy. Nemmeno avevo iniziato a rilasciare gli scarti della sbronza nello scarico, che già aveva aperto di nuovo bocca esclamando che la mia camera fosse un misto tra una discarica e una ciminiera. Aveva ragione, d'altra parte. Sul pavimento c'erano ancora gocce di sangue e qualche chiazza di vomito. Strappai una fascia di carta igienica e la passai con un piede sulle piastrelle. Tirai su i pantaloni, larghi di almeno di una taglia in più, agganciai la cintura alla vita al primo buco. Avrei dovuto farmene un altro a breve. Dovetti premere il bottone per sei volte di fila prima che il water iniziasse a gorgogliare per poi ingurgitare tutto con una gettata scarna.

Afferrai Lucille, lucidata e pulita. Arrotolai il filo seguendo i segni incavati nel legno come una mappa precisa e lo annodai ben saldo. Spalancai la porta che gracidò. Doveva essersi ficcata della sabbiolina tra le mattonelle, di nuovo. Mi barcamenai verso il pacchetto di sigarette sul tavolo. Borbottai tra i denti un'imprecazione. Le ultime tre. Ne presi una e me la infilai in bocca. Richiusi il pacchetto e lo riposi nella tasca dietro il sedere. Ora c'era da cercare l'accendino.

-Comunque ci sarebbe anche il cortile per fumare. Potrebbe essere una scusa per uscire da questo schifo.

-Fottiti, Dwight.

-Era solo un consiglio gentile.

-Non mi serve.

-Senti, se sei incazzata per cose che non mi riguardano, dillo subito. Non ho voglia di perdere tempo per bambinate!

Una scarpa era rimasta rovesciata sul tavolo. L'altra la trovai sotto il calorifero e non sapevo nemmeno perchè. Ah, sì. La vodka. Me l'ero versata addosso. Il tessuto era ancora umido sulla punta.

-Mi stai ascoltando?!

-Se... È praticamente impossibile ignorare quel ronzio che fai con la bocca.

-Cerco di aiutarti. Potresti mostrare un po' di riconoscenza!

-Ribadisco: non mi serve. - Feci secca, come il suono che provocò il coltello inserito nel fodero della mia cintura.

Dwight si rassegnò. Annusò l'aria, distratto da un odore insolito.

-Cos'è questa puzza?

-Ah... Spazzatura. Devo buttarla.

Aprì lo sportello sotto il lavabo. Un tanfo nauseabondo evase dal cestino con prepotenza, prima che potessi avvertirlo.

-Oh, cazzo!

Gli andai in soccorso, mentre si portava una mano alla bocca e strizzava gli occhi per allontanare l'immagine ripugnante. Il sacco di scarti era ancora aperto e ci ronzavano attorno un paio di mosche rintontite dal buio. Lo sollevai e ci feci un nodo all'apice.

-Io non capisco come fai a non dare di stomaco!

-Immagina se fossero già morti. Sarebbe cento volte peggio. La carne sarebbe più spappolata e puzzerebbe molto più di carogna...

-Non lo voglio sapere.

Scossi la testa. Trovavo ridicolo quel suo atteggiamento da donnetta schizzinosa. Aveva visto ben altro e ancora si orripilava davanti a del semplice scarto biologico.

-Ogni tanto mi fai paura.

-Ti sei guardato allo specchio? - Lo zittii, porgendogli il sacchetto penzoloni tra le dita.

-Io quello non lo pren...

Non ebbe tempo per ribattere che subito se lo ritrovò spiaccicato al petto con uno scroscio di poltiglia. Fece un balzo all'indietro per lo schifo. Fortuna che il sacchetto non era trasparente! Mi portai la mazza sulla spalla, emulando il suo proprietario, mentre cercavo di non prendere la donnetta deforme troppo in giro mentalmente.

-Andiamo, per piacere. Ho bisogno di drogarmi di antidolorifici.

-Non ti sei lavata la faccia.

-Sì, mamma. - Non l'ascoltai. Aprii la porta e feci per uscire.

-Se ti fossi lavata la faccia ti saresti accorta di essere sporca di sangue sulla fronte!

Mi portai due dita sulla zona incriminata. Effettivamente incontrai una rugosità sottile incrostata sulla pelle. Bagnai i polpastrelli con la saliva e strofinai con audacia.

-Adesso?

-Meglio. Ma sembri lo stesso una spostata. Non ce l'hai un pettine?

Mi toccai i capelli, cercando se non di pettinarli, di sistemarli meglio che potevo per non farli sembrare un nido di paglia secca. Di riflesso guardai i suoi che non dovevano vedere lo shampoo da almeno un mese, che su quelle pieghe e protuberanze rugose facevano un effetto davvero mozzafiato.

-Pffh! Ha parlato il modello di Vogue!

I corridoi erano lunghi e intricati. I neon andavano ad alternanza. Uno sì, l'altro no, un altro lampeggiava, ad un altro ancora scintillavano i cavi pendenti, quello dopo emetteva una luce fioca e ronzava. L'odore di muffa regnava sovrano in tutto lo stabile, ma perlomeno verso le camere, la fogna era solo un retrogusto distante che dava quel tocco in più all'aroma di squallidume. Non sapevo se mi piacesse stare lì. Insomma, a chiunque sarebbe piaciuto stare ovunque pur di non tornare per strada. Il fatto era che non avevo altri termini di paragone. Tutti i posti in cui mi ero rifugiata non erano mai stati così controllati e corazzati. Erano sempre stati temporanei, scomodi e non davano mai la sicurezza di poter chiudere gli occhi in santa pace la notte. In sintesi, non ero mai stata al sicuro da nessuna parte. Tranne lì. Nel Santuario mi sentivo al sicuro. Era da tanto che non provavo quella sensazione. Era il luogo più vicino ad una casa che avevo. Anche le persone che incontravo ormai erano diventate, se non proprio una famiglia, un punto di riferimento. Tutti coloro che conoscevo erano morti. Io mi ero salvata per miracolo, quasi per sbaglio.

Ci pensavo spesso ai giorni in cui ancora potevo guardare in faccia qualcuno che potesse capirmi senza parlare, qualcuno che mi facesse convincere che tutti gli sforzi fatti avessero un significato. Ci pensavo, ma non con malinconia, bensì con una sorta di straniamento, come se il mio occhio fosse esterno, come se vedessi anche la mia stessa figura da lontano in mezzo alle altre ridanciane. L'unica cosa che mi permettevo di provare era gratitudine, per quell'uomo che mi aveva dato l'opportunità di rifarmi una vita che valesse la pena vivere. Mi aveva salvata dalle ferite pronte ad infettarsi, dalle ossa che mi sgusciavano dal torace, dal puzzo di decomposizione che mi si era appiccicato ai vestiti, come alla pelle. Mi aveva salvata dal diventare una di quei marci sacchi di budella barcollanti, che se non fosse stato per causa della febbre o per una pallottola nel petto, mi avrebbe fatta sostare una fermata prima della morte, la pazzia.

Quindi questa era la mia resilienza. Come il metallo sa assorbire l'energia di un urto, senza spezzarsi, anche io avevo imparato come rimanere in piedi, nonostante tutto. A caro prezzo, certo, ma non me la passavo affatto male. Non potevo dire che la vita al Santuario fosse malaccio. Non ero costretta a fare niente che non mi piacesse. Potevo andarmene in giro per i corridoi o dare fastidio ai prigionieri in cortile o ai lavoratori per punti quanto mi pareva. Dovevo solo rimanere disponibile per eventuali attacchi o spedizioni. In cambio noi tutti, i sudditi, eravamo chiamati a rispondere correttamente quando ci veniva posta la domanda. Era come una password, una conferma di fedeltà, un'identificazione in tutto ciò che lui era e in tutto ciò che lui faceva. E a me serviva quell'identificazione, ne avevo bisogno. Mi serviva per aggrapparmi ad un'energia esistenziale che potessi dire ancora mia. Tutto il mio passato era stato calpestato da una massa immonda di desolazione. Era scivolato via come lo scarto biologico sulla mazza chiodata che portavo in spalla. Adesso avevo solo bisogno di un motivo per cui procrastinare la fine di un mondo diverso, nuovo, e dimenticare la parte di me che non esisteva più. Me lo ripetevo spesso, in effetti, di non essere più quella di prima, ma con timore nascondevo che fosse in realtà tutto l'involucro esterno ad aver mutato per adattarsi all'ambiente. Dentro di me, in profondità, qualcosa si era rianimato una delle notti precedenti.

La porta del Capo si presentò davanti a noi come il traguardo di un labirinto. Dwight bussò con le nocche. Il tocco si affievolì su sé stesso senza ricevere risposta. Ci riprovò. Altri piccoli colpetti sul legno. Lievi, educati. Di certo non poteva avere la stessa confidenza che aveva avuto con me - a momenti avrebbe fatto un buco nel muro per trascinarmi fuori dal mio letto!

-Starà scopando. - Ridacchiai, ma il mio commento parve divertire solo me. Dwight accartocciò il labbro sano.

-Mi ha detto di aspettarlo qui.

-Sarà sceso in cortile. - Conclusi voltandogli le spalle.

-Ha detto di aspettarlo qui! - Ribadì.

-L'hai già detto.

-E tu comunque te ne vai?

-Non so te, ma io non ho ancora fumato stamattina.

Imboccai la sigaretta e continuai la strada verso l'uscita d'emergenza. Mi spinsi contro il manico rosso e la luce esterna mi piombò addosso come una doccia bollente. Appena fuori, sfilai l'accendino dalla tasca e feci scattare la rotellina, una, due, tre volte, ma dal foro uscivano solo scintille. Scossi il bricco, ci riprovai, ma ancora nessuna fiammella.

-Vaffanculo anche a te!

L'accendino fece un volo dal davanzale e andò a frantumarsi dritto nel campo dei morti, i quali si voltarono, quelli che potevano, cercando di raggiungere il rumore, tra grugniti e lamenti strascicati.

-To'.

Dwight mi passò il suo da dietro le spalle.

-Grazie. Ti sei acceso prima la tua, vedo. Quando si dice "la galanteria", proprio.

-Pretendi troppo. - Fece lui, sbuffando una nuvola di fumo.

-Hai buttato il sacchetto?

Annuì con aria di stizza. Piegò i gomiti sulla ringhiera, lo sguardo puntato verso il mio stesso obiettivo.

-Se pensi che quelli erano persone come noi e che se non ci facciamo sparare in testa diventeremo così...

-Non avresti la capacità di sentire la differenza, credimi. - Rispose minimizzando.

-Non pensi mai di poter far del male a una persona che hai provato a proteggere per tutto questo tempo?

Sbuffò scuotendo la testa. Lo guardai perplessa. Sembrava più amareggiato del solito. Doveva aver parlato con Sherry ultimamente. Il prezzo che aveva dovuto pagare per mantenerla viva era ben visibile a tutti, ma non a tutti era chiaro il motivo. Non c'era stato bisogno che si aprisse perchè capissi cosa stesse provando. Faceva il duro, mentiva a sé stesso, ma in realtà era uno dei pochi che soffriva di più la sudditanza. Faceva buon viso a cattivo gioco. Prima o poi ci salivamo tutti su quella giostra.

-Quelle robe le dice la gente piagnona solo per fare scena e lavarsi la coscienza. Non ha senso sentirsi in colpa adesso per paura di uccidere qualcuno dopo aver varcato la soglia. E poi, in un certo senso, gli faresti solo un favore. Almeno se toccasse a me, sarei felice di andarmene da questo mondo schifoso.

Sputò un agglomerato di saliva che precipitò nel vuoto schiacciandosi al terreno. Mi affacciai un poco, tanto per curiosità di vedere dove era finito quello sputo, ma dovetti arretrare immediatamente, perchè il piano mi parve inclinarsi vorticosamente al suolo. Lanciò la sigaretta che piroettò nel cortile, scintillando. Poi voltò le spalle alla ringhiera e per un momento lo vidi ruzzolare giù. Non mi erano mai piaciuti i balconi. La reminescenza di un episodio che non si rassegnava di abbandonarsi all'oblio, riaffiorava ogni volta che mi ci trovavo sopra.

-Che hai? Sei sbiancata.

-La sbornia. - Mi giustificai, strofinandomi gli occhi.

-Ti rendi conto che se Negan scopre che non sei in grado di eseguire i suoi ordini...

-Che fa? Mi brucia la faccia con un ferro da stiro? - Mi resi conto un secondo più tardi di aver toccato un tasto dolente. Dwight alzò le sopracciglia per sottolineare la mia delicatezza. Abbassai il capo per nascondermi. - E comunque ho tutto sottocontrollo. Ho avuto solo un attimo di sconforto.

-Già... È stata una bella strage. Ma se lo meritavano.

Scrutai lo sguardo freddo che puntava nel vuoto. Mi chiesi se lo pensasse davvero. Mi chiesi che cosa avrebbe fatto lui se tra quelle persone avesse riconosciuto qualcuno che aveva significato molto per lui.

-Devi trovare la parte divertente di tutto questo. Magari la smetteresti anche di avere quelle crisi...

Lo fulminai.

-Non ho nessuna crisi.

-Ah no? E come chiami quelle volte che cominci a comportarti come una pazza incontrollabile? L'ultima volta hai persino minacciato Laura con un coltello!

-Mi aveva fatta incazzare.

-Lo sai che vive per primeggiare, è fatta così. Non devi darle corda.

Mi piovve addosso una tremenda sensazione di dejavù. Capii subito che quella giornata sarebbe stata rischiosa per la mia stabilità mentale. E Dwight che giustificava il comportamento di quella stronza avvizzita non poteva che farmi ribollire il sangue.

Aprii la bocca per ribattere, ma fui distratta da un movimento anomalo: il cancello del recinto si era aperto, uno dei prigionieri stava cercando di scappare. Lo vidi rivolgere lo sguardo timoroso in alto, verso di noi. Poi si mise a correre verso l'uscita. Battei una mano sul braccio di Dwight, allarmata.

-Merda! - Esclamò lui, resosi conto di cosa volesse dire.

Lasciai lucille nascosts dietro la porta. Scattammo sulle scale, divorando i gradini a quattro a quattro.

-Chiudi il cancello! Io penso a quello stronzo! - Urlò Dwight rincorrendo l'uomo che svoltò l'angolo zoppicando.

Mi fiondai contro la rete di ferro da cui stavano evadendo un paio di morti lamentosi. Infilzai il primo col coltello, dritto tra gli occhi. Il cranio si contuse, spruzzando sangue tanto nero quanto l'inchiostro di una seppia. Ne spinsi un altro all'indietro, mentre cercava di afferrarmi con le sue braccine mozzate: dai gomiti fuoriuscivano le cartilagini nude e la carne cionfolava flaccida a frange e infestata dagli insetti. Chiusi il cancello con un colpo deciso, mentre l'essere orripilante si agitava assieme ai suoi compagni digrignando i denti.

Mentre pensavo che fosse stato troppo semplice, sentii degli artigli tirare aggrappati alla felpa. Lanciai un calcio, all'incirca a livello delle ginocchia. Il rumore delle ossa fratturatesi come wafer, accompagnò il crollo del resto del corpo al terreno. Iniziò a trascinarsi con le braccia come i vermi che brulicavano tra le sue membra, cercando di rialzarsi miserevolmente, allungando le mani verso di me. Sembrava quasi stesse chiedendo pietà. Con la coda dell'occhio ne vidi un altro non molto lontano. Maledii Dwight imprecando in tutti i modi che conoscevo. Mi piantai contro il cancello con la schiena, mentre i mostri spingevano dall'altra parte inferociti ed affamati. Lasciai che l'ammasso camminante di carne putrefatta si avvicinasse con i suoi piedi. Strinsi ben salda l'impugnatura del coltello. Con le sue mani sulle mie spalle che facevano pressione, potevo chiaramente notare lo stato avanzato di decomposizione, non solo dal fetore che emanava, ma anche dall'accartocciamento della pelle che si stava praticamente sciogliendo attorno alle fosse degli occhi, i peli e i capelli prosciugati a una rada peluria scolorita, il naso ridotto ad una fessura triangolare e quei denti tanto calcificati e tanto corrosi da parere fossili nella pietra. Quando riuscii a liberare un braccio gli trafissi la tempia. Crollò come l'altro che si trascinava a fatica per terra. Sperai che gli cadesse addosso, ma niente, rotolò di lato lasciandogli lo spazio necessario per raggiungermi.

Intanto che cercavo di tenere chiuso il recinto e con un occhio controllavo il mezzo zombie che arrancava, notai un luccichio riflesso del sole. Adocchiai una catena per terra con ancora il lucchetto impigliato alla base della ringhiera, non troppo lontano da me. Allungaii un piede, mentre il cancello lottava per aprirsi sotto i colpi di quegli esseri immondi, che nonostante fossero carcasse morte, conservavano ancora almeno metà della forza degli uomini che erano stati da vivi. Non c'era bisogno di esplicitare che avrei accettato volentieri una mano.

Come avevo previsto, non appena toccai gli anelli di metallo con la scarpa, sull'altra si stavano aggrappando le grinfie dello zombie strisciante. Scrollai la gamba, ma quello ci rimase attaccato. Lanciai un'altra serie di maledizioni a Dwight, mentre intimavo il morto a perire una seconda volta. Sollevai il piede per provare la sua resistenza, mentre dietro non avevano ancora smesso di spingere, così a terra, per poco, non ci finii anch'io.

D'improvviso percepii una lampante pressione sulle dita del piede: la creatura infernale aveva provato a mordermi. Mi pareva un incubo. Non ne potevo più. Con rabbia pestai il piede per terra. Le dita nodose abbandonarono la presa, impreparate. Inizialmente non era stata mia intenzione colpire la testa, ma già che c'ero continuai finchè non si spaccò in due come un melone rancido, aprendosi su quella massa molliccia al suo interno che si afflosciò come un mollusco fuori dal guscio.

La mia scarpa si era infracidita completamente di melma viscida e sentivo sotto la suola la pelle che si era strappata dal volto decrepito come un cerotto bagnato, ma almeno ero sicura che il bastardo non si sarebbe più mosso.

Tuttavia, la battaglia non era ancora terminata. Impuntavo i piedi, ma quelli slittavano, solcando il terreno e facendomi scivolare. La grata si stava inclinando dietro la mia schiena. Non sapevo quanto tempo ancora quel vecchio cancello avrebbe resistito agli urti che stava subendo. Sentivo le unghie legnose pungere contro la mia schiena. Entro poco sarebbero penetrate nella mia carne.

L'artefice di quella situazione folle era stato astuto: aveva liberato i morti per distrarci. Mi domandai come avesse fatto a non farsi catturare dalle grinfie fameliche, ma ancora di più mi chiesi perchè non sentissi urla all'interno del recinto, dal momento che le bestie erano state slegate e vagavano libere. La risposta non poteva essere che una sola: non c'era più alcun prigioniero all'interno. Ce l'avevano fatta sotto il naso.

 Ce l'avevano fatta sotto il naso

 

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Capitolo 5
*** Caduta libera ***



Qualcosa per cui lottare | The Walking Dead

3 # Caduta libera



Passato

Passato

RockPub

Le pareti pulsavano al ritmo delle chitarre e della batteria tuonante. Il locale non era molto grande, ma c'era parecchia gente anche fuori che faceva una fila ammaccata per entrare. Greg mi afferrò per mano. Si fece spazio tra la folla e riuscimmo a passare i musi dei buttafuori e infiltrarci tra la gente che ballava a ritmo delle luci e i bassi che esplodevano nella mia cassa toracica. La band scatenata stava dando il meglio di sé. Il cantante tatuato, bandana nera in testa come un pirata, dava prova della sua voce grunge, cimentandosi nei versi gutturali più spinti, tanto che pareva stesse per rigettare i polmoni. Il basso e la seconda chitarra saltavano da una parte all'altra del palco: parevano fare tutto loro. La prima chitarra, la chioma corvina davanti agli occhi e un cappello alla Slash sul capo, scorreva le dita sulla tastiera sparando cromie di note a raffica. Nello sfondo, una donnona corpulenta, le membra lucide di sudore, menava le bacchette come se non facesse altro nella vita. Sembrava di stare all'inferno e in paradiso nello stesso momento. Ci sapevano davvero fare.

Greg si allungò verso il bancone. Mi chiese che cosa volessi bere, ma non avevo un soldo con me. Sfilò un bigliettone dalla tasca per farmi capire di non preoccuparmi. Era difficile udire il parlato in quella baraonda e non fui sicura che il barman avesse inteso la comanda. In più si moriva di caldo: stavo sudando senza muovermi. Uscii dalla felpa e me la arrotolai ai fianchi, rimanendo in canottiera. Il mio bicchiere era ghiacciato. Succhiai da entrambe le cannucce il liquido freddo e zuccherino che sapeva di lime e cocacola. Sapeva di tutto tranne che di alcol perchè il ghiaccio occupava quasi la metà del bicchiere. Greg si avvicinò al mio orecchio e forzò la voce. Doveva aver notato la mia espressione delusa.

-Non è buono?

-Sono dei tirchi! - Esclamai, scampanellando il bicchiere. Spiai nel drink analcolico che gli avevano dato. Quando dai libertà al barman corri sempre il rischio che ti combini una miscela di dubbio gusto. E infatti storsi il naso: menta. Fortuna che non fosse per me.

-Non è male!

-Sa di dentifricio.

Non ebbe il tempo di replicare, sebbene fosse lì lì per farlo. Un tipo gli mise una mano sulla spalla.

-Ehi, Dahnam!

Si strinsero le mani incrociando le spalle, una pacca sulla spalla. Portava un paio di pantaloni con il cavallo praticamente alle ginocchia, una maglia bianca tanto lunga che lo faceva più grosso di quello che era, considerando il gracile spessore delle braccia e delle gambe. Aveva la testa rasata e due dilatatori argentati ai lobi delle orecchie che pesavano più di lui. "Tutti Greg li conosce", pensai.
Si misero a parlottare fitto fitto tra di loro. Io diedi un'occhiata in giro per scorgere qualcuno che mi salvasse dalla parte della bella statuina. In un'altra occasione mi sarei volentieri buttata nella mischia delirante che saltava a ritmo di musica, ma mi mancava ancora qualcosa, una scintilla di disinibizione. Forse in fondo a quel bicciere l'avrei trovata, sebbene avessi poche chances, considerando la quantità di acqua che avrebbe prodotto tutto quel ghiaccio che avrebbe diluito il poco di alcol a cui avevo diritto. E tutto d'un sorso non avrei potuto berlo se non volevo rischiare una congestione. 
D'un tratto tra le teste danzanti, ne notai due un po' meno anonime. Un capo folto e biondiccio, l'altro più spelato a farsi strada davanti a lui. Scesero dalla rampa che portava all'uscita seguiti da altri due tipi loschi. Greg mi tirò dalla maglia.

-Scendo giù! Devo fare una cosa!

Alzai un pollice e lui disse qualcosa che non catturai. Probabilmente una raccomandazione delle sue, tipo "Stai nei paraggi" o "Non fare stupidaggini". Rimasi un po', giusto il tempo per guardarmi intorno e cercare una preda che mi pagasse un altro giro. Mi affacciai alla balconata e lasciai che la musica mi scorresse nelle vene assieme al drink. Non serve quasi nulla ai ragazzi per farli abboccare. Un gioco di sguardi semplice: lanci l'amo e ti nascondi. Aspetti. Sorridi. Muovi le anche. Rilanci la canna. Devi far capire che ci staresti, ma senza darlo troppo a vedere: a loro piace il mistero, la sfida, il rischio. Se togli tutto il divertimento dall'inizio non ci stanno più. O, sì, ci sono i morti di figa: per quelli basta che respiri. Ma io puntavo ad altro in quel momento. Il tipo di ragazzo che potrebbe essere serio, ma non ha voglia di impegnarsi, quello che volenrieri ti offrirebbe da bere per due bottarelle.

Il mio bersaglio mi si appostò di fianco prendendo il posto di un capellone che si era messo ad agitare le braccia in aria e urlare come un forsennato, credendo di aver maggiori possibilità di accoppiamento anche con altre specie oltre alle scimpanzé. Avevo fatto finta di non guardarlo, sebbene la puzza di sudore fosse imponente.
Il sostituto mi salutò con un sorrisone da piacione. Sorrisi anch'io, gli feci qualche complimento sul look, ballai un poco con lui e infine gli chiesi se mi avrebbe offerto qualcosa perchè ero uscita senza soldi e la mia amica mi aveva abbandonata. E così fu. Ma mentre mi stavo godendo il mio secondo drink gratis, mi ritrovai a chiedermi se avesse un bottone di spegnimento. Scommisi che non fossi la prima vittima della sua parlantina. Era ora di scappare. Indietreggiai lentamente mimetizzandomi (la mia bassa statura ritornava molto utile in queste occasioni), mentre era impegnato nel suo interessantissimo monologo. Scesi i gradini facendomi spazio tra i corpi sudati. Infilai la felpa tenendola aperta, per non prendermi una botta di freddo e uscii. Imboccai una sigaretta.

-Maledetto... - Borbottai agitando l'accendino. Io e i miei accendini del cazzo. Mai una volta che ne avessi uno come si deve! Mi guardai attorno per cercare un fumatore e senza farlo apposta, vidi un'ombra familiare. La misi a fuoco e mi resi conto di chi fosse. Dixon Junior fumava a qualche metro da me, schiena al muro, l'aria da ragazzaccio, con quello sguardo che si portava dietro come una maledizione. Quanso mi beccò a spiarlo sfilai un sorriso paraculo.

-Ehi! Anche tu qui? - Esclamai con un tono stupefatto per nulla credibile. - Hai un accendino? Il mio è appena morto.

Infilò la mano nella tasca e mi allungò il suo. Bello però, pensai rigirandomelo tra le dita: era nero, con il disegno di un teschio bianco alato. Gliel'avrei rubato volentieri.

 Gliel'avrei rubato volentieri

-Grazie. - Glielo resi. Finalmente nicotina. Mi asciugai la fronte sudata su cui l'aria fresca mi faceva il solletico. Scoprii le spalle dalla felpa: stavo morendo. - Si crepa là dentro. Uffh...!

-Ti piace quella roba?

-Sì, non è male... A te no?

Scrollò le spalle, mentre tirava il filtro, indice e medio incollati alle labbra. Mi guardai attorno per cercare Greg. Dov'era finito?

-Ti stai chiedendo se c'è anche mio fratello?

No, lo sapevo già, ma non potevo sembrare una stalker.

-Tanto per sapere come andrà la serata. - Improvvisai.

-È dentro quel capanno a fare un affare dei suoi.

-Credi che ne avrà per molto?

Fece spallucce.

-Tu? Sei qui da sola?

-C'è mio cugino. È da qualche parte, qua in giro. - Dissi, mentre notai il ragazzo con cui se n'era andato sbucare proprio dal capanno.
Gli andai incontro frettolosa, piantando Daryl dov'era, con sollievo di aver trovato un pretesto per allentare la tensione di quella conversazione forzata. Attirai l'attenzione del ragazzo, mentre si era messo a parlare con un altro. Mi guardò stralunato.

-Dov'è mio cugino?

-Tuo cugino?

-Greg. - Sbuffai scocciata. - Siete andati via insieme.

-Aah! Non lo so... ma ovunque lui sia, non lo troverai in lui a quest'ora. Non so se mi spiego. - Mi fece l'occhiolino. Lo trovava divertente.

-No, non ti spieghi.

Nello stesso momento in cui incrociai le braccia intenta a fargli sputare il rospo, la tenda di plastica bianca sporca si sollevò sotto la mano di Dixon Senior.

-Eh-ehi! Guarda un po' chi si rivede!C'è qualche problema qui?

-No, tutto a posto. - Mentii per levarmelo dai piedi.

-Mi sembrava di aver capito che hai perso il cugino.

-Hai capito male.

-Oh be', peccato... Perché si da il caso che sappia esattamente dove sta.

-Ah...

La cosa cominciò a puzzarmi e per questo motivo dovevo sapere di più. Merle mi fece un cenno con la testa e io mi trovai constretta a seguirlo. Quando mi infiltrai sotto il telo di plastica, una cappa grigia mi investì densa e pesante, tanto fitta che pareva otturare persino i suoni. La musica elettronica che sparava dagli altoparlanti non aveva niente a che fare con quella della sala principale. Allungai il collo per seguire la figura di Merle che si chiuse alle spalle una porta scura, infondo alla sala. Riuscii a trovare uno spazio per passare nella calca. Afferrai la maniglia e tirai come se fosse l'uscita dagli Inferi. Mi trovai davanti a una catena di luci al neon, uno stretto corridoio con lavandino e il mio riflesso che mi osservava imbronciato. Da una parte c'era persino il cesso, ma il mio obiettivo si spostò dietro la porta di sinistra, su cui era affissa una targhetta: "Privato". Stavolta la maniglia scivolò dalla mia mano prima che potessi affondarla.

Merle mi guardò con uno di quei sorrisi demoniaci che doveva provare tutte le mattine davanti allo specchio, convinto di fare impressione.
Alzai gli occhi aldilà delle sue spalle: sul piano del tavolo erano accavallate le gambe ossute di una tipa dai capelli platinati e cotonati, il cui vestito scintillante le stava tutto attillato, arrivando a fatica sotto il sedere e i cui due zatteroni argentati alla Elton John legati ai piedi, avrebbero dovuto essere illegali. Un'altra era sdraiata sul divano, i capelli neri con la ricrescita di minimo un mese, tutti sparsi su un vecchio cuscino, un tatuaggio vistosissimo si apriva come una farfalla tra i seni in bella mostra, le gambe nude liberamente appese al poggiaschiena, rideva ad una battuta che non avevo sentito. C'erano almeno un altro paio di tipi loschi, sparpagliati nella stanza, che mi guardarono allarmati. Un altro, considerando la lunghezza del joint tra le dita, era chiaramente partito da questo pianeta da almeno mezzora.

-Gregy, hai visite.

Riconobbi Greg rivolto di schiena. Piegato sul tavolino, alzò la testa mentre tirava su col naso. Quando si voltò nascose il volto e fece per mettere a posto qualcosa tutto di fretta.

-Oh, merda!

Non avevo parole. Non sapevo se sentirmi più esterrefatta, delusa o tradita. Non tanto perchè si fosse fatto una sniffata, ma perchè stesse condividendo la botta con il mio antagonista pubblico. Di colpo fu tutto più chiaro. Aveva fatto il doppiogooco per tutto il tempo, per tenerselo buono ed avere la sua dose sicura. Questo spiegava il fare d'amicone che aveva sempre avuto nei suoi confronti e l'essere così restio a difendermi. Ora era chiaro anche quel muso che mi aveva tenuto tutto il tempo in centrale: si era incazzato con me per averlo costretto a picchiare il suo spacciatore fidato. Tutte quelle parole che mi aveva detto sul suo desiderio di farla finita con tutto questo era solo aria fritta. Io ero lì con lui, non per distrarmi, ma per la sua droga. Non riusciva a guardarmi negli occhi, lo sapeva di essere stato colto con le mani nel sacco. Braccia conserte, gli feci una faccia come per dire: "Bravo, complimenti per la coerenza".

-Usciamo. - Disse. Mentre raccoglieva le sue cose, ma io mi imposi davanti a lui sfoggiando lo sguardo più guerrigliero che sapevo fare.

-Ma come? Di già? - Ci sbeffeggiò Merle.

-Sì, di già? - Feci io, costruendoci sopra una sfida.

-Per piacere, Trish...

-No, no. Hai ragione. Divertiamoci un po'. - Mostrai il palmo.

-Che vuoi fare?

-Divertirmi.

Lanciai uno sguardo a Merle alle sue spalle. Una temporanea alleanza col nemico contro il traditore.

-Io non credo sia una buona idea...

-Credi che non ne sia capace?

-Non voglio che tu lo faccia.

-Che male c'è? Lo fai tu, lo fanno tutti, perchè io no?

-Non c'è da scherzare con queste cose.

-No, ma valgono il prezzo di tante bugie, a quanto pare. Se proprio, vorrei goderne anch'io.

Afferrai il sacchettino e mi sedetti al tavolo davanti a Merle, il quale ridacchiava con la sua sigaretta al lato della bocca. Stava già maneggiando la sua striscia. Mi guardò strano, come se non avesse capito che facevo sul serio. Possai la bustina sul tavolo e attesi che comprendesse da solo. Lui guardò Greg, poi posò di nuovo lo sguardo su di me. Era tutta una messinscena per lui. Scosse la testa.

-Vai via, ragazzina. - Disse facendomi segno con la mano.

Greg mi prese dal braccio per trascinarmi. Era un gesto che odiavo, mi faceva imbestialire. Per liberarmi il mio gomito andò a sbattere contro le gambe nude della donna in nero che si lamentò con voce gracida. Il mio occhio ricadde inevitabilmente tra le sue sue cosce. Portava un perizoma rosso e non si faceva problemi a mostrarlo a tutti. Mi venne il voltastomaco. Quel posto mi faceva venire il voltastomaco. Quella situazione ancora di più.

-Andiamocene, Trish. - Insistette Greg, afferrando la sua droga e infilandosela nella tasca della giacca.

Dixon rideva di sottecchi, ma non sapevo come ribattere. Ero incazzata e avevo voglia di prenderli tutti a schiaffi. Grugnii un verso rabbioso, pestando i piedi, mentre mi alzavo e filai verso la porta immaginando di scavare voragini nel terreno con i talloni. Per la fretta di uscire da lì, non feci attenzione a Daryl che stava andando nella direzione opposta. Le nostre spalle si scontrarono violentemente e io non mi voltai nemmeno per chiedergli scusa. Per quanto avessi i coglioni girati, me la sarei presa anche con lui.
Sentii Greg che mi chiamava nella baraonda, ma lo lasciai indietro. Mi nascosi in un angolo con la mia sigaretta. Bestemmiai quando mi ricordai del mio accendino rotto. Puntai un paio di ragazzi che stavano fumando li vicino: me lo feci prestare da loro. E nello stesso istante in cui alzai il capo per soffiare il fumo del primo tiro, inquadrai un paio di lampeggianti blu e l'Audi grigia di mio padre parcheggiata davanti all'entrata.

Mi richiusi nella felpa, mi coprii il volto col cappuccio e feci dietro front amalgamandomi alla nicchia.
Era venuto a cercarmi. Doveva essere entrato in camera mia per controllare che dormissi è aveva trovato il letto vuoto. Ero nella merda. Anche se fossi tornata a casa subito, non avevo scampo. La soluzione era una sola: non farmi trovare e fingere di divertirmi. Non poteva rovinarmi la serata più di quanto avesse fatto Greg. Non gliel'avrei permesso.
Lanciai il mozzicone nella grata di un tombino e mi gettai nel cuore della festa. Provai ad uniformarmi, ma non riuscivo a pensare ad altro che a mio padre che mi guardava dall'alto della balconata, che mi aveva puntata e stava venendo a prendermi di peso. Chiunque alle mie spalle poteva essere lui. Volevo scappare, ma non sapevo dove né come. Volevo informare Greg, ma se fossi uscita di nuovo, nel cortile, avrei rischiato di farmi vedere. Avrei potuto incontrarlo proprio lì e non avrebbe fatto fatica a fermarmi. In quel momento capii che nemmeno fuori casa potevo sentirmi libera. E proprio in quel momento sentii una morsa alla spalla.

-Trish!

La faccia di Greg mi recò estremo sollievo.

-C'è mio padre! - Gridai, tagliando corto. Non era il momento per parlare di quello che era successo.

-Dove?!

-Ho visto la sua macchina qua fuori!
C'era la stessa ammaccatura sul fanale posteriore e il rosario appeso sullo specchietto!

-Cazzo!

Stavo per dirgli di rimanere dov'eravamo, che non avrebbe potuto individuarci nella folla, ma proprio nella linea diretta da dietro il suo orecchio, scorsi il suo volto. Era accompagnato da un uomo, sicuramente un suo amico. Di certo una testa di cazzo come lui. Ci guardava come il falco guarda la sua prossima preda dal suo cucuzzolo. Mise una mano nella giacca. C'era qualcosa che scintillava infilato in ciò che doveva essere un fodero in pelle. Fece un segno all'altro ed entrambi si voltarono, sparendo nell'ombra.

-Ci ha visti! Ci ha visti! - Scossi il braccio di Greg, che si girò, ma non fece in tempo. - Che facciamo?!

-Dobbiamo andarcene!

Lo afferrai dalla manica.

-E se ci becca mentre usciamo?!

-Facciamo in fretta!

Mi prese per mano, sgusciammo tra i corpi sudati e appiccicosi per cui stavo cominciando a sentirmi claustrofobica. Greg mi trascinò su per la rampa. Lo tirai per fermarlo.

-Dove stiamo andando?!

-Facciamo il giro! Gli giriamo attorno senza farci vedere, così perde le nostre tracce!

Non capii il suo piano. Mi sembrava una follia. Non volevo guardare le facce che mi passavano davanti per non farmi riconoscere, ma nello stesso momento, non potevo fare altro che cercare quella di mio padre per evitarla. Le ombre e le luci storpiavano i lineamenti dei volti. Alcuni parevano maschere orribili pronte a giudicarmi, altri assomigliavano terribilmente all'uomo da cui stavo scappando. Si trasformavano, si deformavano, ridevano maniache, facevano smorfie, urlavano. Stavo cominciando a sentirmi male.

Uscimmo dalla porta antincendio del retro che portava al balcone esterno. Esso ci avrebbe portato ad una stretta scalinata che scendeva verso il parcheggio. Greg si voltava di continuo, nervosissimo. Guardava me e poi alle mie spalle e mi induceva a controllare a mia volta che nessuno ci stesse seguendo, che nessuno ci stesse spiando. Cercavo di fare meno rumore possibile con le scarpe, ma il metallo rimbombava lo stesso, soprattutto sotto il peso di Greg che era il doppio di me. Avrei voluto dirgli di smettere di muoversi così bruscamente, ma mi mancava il fiato.

La scala tremava e in quel buio, la musica rimbombava e con quell'ansia che saliva ad ogni respiro, rischiai di perdere un gradino. All'improvviso mi era venuta in mente la pistola di mio padre. Quella in metallo lucido, che teneva come un gioiello, racchiusa nel velluto prezioso della sua scatola in legno scolpito, nel cassetto-cassaforte della scrivania. La ripuliva una volta a settimana, con un panno di camoscio e un amore morboso e ossessivo. Stava attento a tutte le rifiniture, la smontava e la rimontava con delicatezza, manco fosse fatta di cristallo. Avevo sempre pensato che amasse quella dannata pistola più di me e mia madre. E ora ce l'aveva con sé. Carica. Pronta a sparare. Che cosa avrebbe fatto? Forse aveva deciso di ammazzarmi. Forse era la volta buona che mi faceva fuori.

Vedevo il parcheggio a pochi metri e per un momento tutto preannunciava un lieto fine. Ci immaginavo già per strada. Saremmo tornati la mattina dopo, quando mio padre era già su un aereo diretto in un altro stato dove sarebbe rimasto per un altro mese. Altri trenta giorni di silenzio in casa mia. Altri trenta giorni di tranquillità, libertà, ossigeno.

Greg svoltò all'improvviso verso sinistra e ci trovammo su un'altra dannatissima piazzola.

-Greg! Dove stiamo andando?! - Urlai, tenendomi alla parete. Non ne potevo più di quel girotondo inutile.

-Siamo quasi arrivati.

-Ma il parcheggio è dall'altra parte!

-Ho detto che siamo quasi arrivati! Muoviti!

Mi assalì un orribile presentimento.

-Dove stiamo andando, Greg?

-Dobbiamo raggiungere i Dixon. - Mormorò, quasi come se gli fosse scappato di bocca. Per poco non mi venne un attacco cardiaco.

-Che cosa?!

-Ho visto tuo padre entrare in sala e sono corso a cercarti. È insieme alla polizia. Merle e gli altri se la stanno dando a gambe. Ci hanno offerto un passaggio.

-Non abbiamo bisogno di loro!

-Invece sì. Ci possono aiutare.

-Ci possomo aiutate?! Che cosa gli hai detto?! Greg! Rispondi! Che cosa gli hai promesso?! - Lo strattonai.

-Niente! Si è offerto lui!

-Che cosa ti ha chiesto in cambio?!

-Finiscila con questa scenata! Ce ne dobbiamo andare!

-E dove vorreste andare?

La porta di metallo alle spalle di Greg si era spalancata.

-Spero tu ti sia divertita, perché sarà l'ultima volta che scapperai di casa in questo modo, signorina.

Era finita. Ci aveva trovati.

Se ne stava lì con le mani in tasca del suo completo firmato, aspettandosi che abbassarsi la testa e facessi quello che voleva lui senza fiatare.

-Non puoi decidere della mia vita! - Sbottai esausta, quasi in lacrime.

Divorò lo spazio che mi difendeva da lui. Mi afferrò il polso e mi trascinò, nonostante facessi resistenza.

-Oh, invece posso eccome!

-Lasciami!

Mi divincolai e lui di tutta risposta, mi tirò uno schiaffo che mi infuocò la guancia.

-Come ti permetti, vecchio stronzo?! - Esclamò Greg spintonandolo.

Mio padre sfilò la sua scintillante Colt Gold Cup lucida dall'impugnatura in avorio. Greg provò a togliergliela dalle mani prima che la sollevasse contro qualcuno, ma partì un colpo. Poi un calcio. Urlai. Greg finì a terra.

-Piccolo coglione! Mi hai fatto sprecare un colpo! - Fece mio padre seccato. Mi tirò dietro di lui e io lo lasciai fare. All'improvviso non avevo più forze. Guardai Greg che ricambiò lo sguardo. Entrambi eravamo succubi di un pazzo. Quel colpo in aria mi aveva fatto rendere conto di come avrebbe potuto mettere fine ad ogni mia resistenza. Ero impotente. Non ero nulla a suo confronto.
Stavo quasi per rassegnarmi all'idea di essere mandata in un collegio di suore. Quanto avrei scommesso che mi avrebbe fatta rinchiudere in un convento! Senza accorgermene stavo piangendo. In silenzio. Senza singhiozzare. Quando all'improvviso lo vidi barcollare in avanti: Greg gli era saltato addosso. La pistola scivolò per terra. Guardai i due azzuffarsi con la coda dell'occhio. Non riuscivo a smettere di fissare la Colt luccicante volteggiare sul pavimento come una trottola. Stavo lottando contro la voglia di impugnarla e puntargliela in faccia.

-Trish! - Era la voce soffocata di mio padre che cercava di liberarsi dall'impiccio di mio cugino che lo teneva fermo in una morsa impacciata. Forse voleva evitare che io la prendessi, ma ciò mi spinse ancora di più a fare ciò che temeva. La sollevai da terra. Era massiccia, compatta. Un po' pesante per il mio polso. Forse non avrei fatto centro, ma avrei potuto spaventarlo mirando ai piedi. Tesi entrambe le braccia di fronte a me. Miravo alla fronte.

-Lascialo. - Ordinai a Greg. Egli mollò la presa e si allontanò verso la ringhiera, lasciando mio padre nel mirino. L'uomo che non avevo mai identificato come genitore effettivo, né come modello da seguire, mi fece un sorriso di sorpresa, incredulo.

-Trish, tesoro. Non vorrai sparare a tuo padre!

-Tu non sei mai stato un padre.

-Non dire così. Non puoi giudicarmi per come mi comporto quando sono arrabbiato. Lo sai... che perdo il controllo, certe volte. Sto facendo del mio meglio per migliorare. L'ho promesso a tua madre, ricordi?

Mi tremavano le mani e avevo il cuore che batteva a mille, ma non potevo sembrare insicura. Indurii la voce.

-Certo. Come no...

-Trish, tesoro, ne possiamo parlare. Dai, mettila giù.

-Penso che la terrò in mano ancora per un po'.

-È bella vero? La vuoi? La puoi tenere se ti piace. Anzi, guarda, credo che te la regalerò per il tuo compleanno.

-Stai cercando di comprarmi per evitare che ti uccida? - Mi avvicinai. - Dimmi perchè non dovrei premere il grilletto e guardarti morire.

-So che non lo farai. Hai paura di fare una cosa tanto grave. E poi cosa farai tutta la tua vita chiusa in carcere, eh? Vuoi davvero perderti gli anni migliori della tua vita?

-Io sto già vivendo chiusa in un carcere a causa tua.

-Sto solo cercando di portarti su una strada migliore. Non vedi come ti riducono queste persone? - E indicò Greg. - Ti vesti come una sgualdrina, ti ubriachi, ti droghi! Io voglio solo il meglio per te.

-No. Tu vuoi il meglio per te stesso. Io sono una vergogna per te. Rovino la tua immagine. Devi sempre preoccuparti di ciò che pensano gli altri di me perchè potrebbe influire su ciò che gli altri pensano di te. Mi hai distrutto la vita.

-Ti ho distrutto la vita?! Ah, sì? E chi li fa tutti quei sacrifici per mandarti a scuola, eh?! Chi da i soldi a tua madre per la casa, per mangiare, per comprare quei ridicoli vestiti da troia che ti metti?! Pensi che sia tutto sudore della fronte di quella stronza che non fa altro che mi rompermi i coglioni tutto il giorno perchè non ci sono mai per voi?! Siete due ingrate! Due puttane ingrate! E adesso basta. Non voglio più sentire un'altra sola stronzata!

Tolsi la sicura.

-Trish. - Sospirò. Si calmò. Il ciuffo che solitamente rimaneva appiccicato al capo con una manata di gel, si era sollevato elettrizzato. - Scusa. Sbaglio sempre a parlare. - Si passò una mano in viso, su quelle labbra velenose che avrei voluto vedere schizzare via assieme ad un occhio. - Hai ragione. Sono un completo idiota. Ma ora non scherzare. Metti giù quella pistola. Dai, Trish... Per piacere.

-No.

Cominciai a singhiozzare senza volerlo. La vista mi si appannò, ma non avevo la minima intenzione di abbassare l'arma.

-Andiamo a casa. Dimentichiamo tutto. - Mi invitò con voce pacata, le mani sul petto, dove non avevo la forza di puntare. - Dammi la pistola, tesoro.

-Trish, non dargliela!

Greg non smetteva di tenermi d'occhio. Aveva iniziato a temere che avrei ceduto.

-Trish, ascoltami... - Fece mio padre, avanzando verso di me di un passo lento. - Ti prometto che cambierò.

-Sono balle, Trish! Non lo ascoltare!

-Ti ricordi quando ti portavo al parco? Com'eri contenta quando ti aiutavo a salire sullo scivolo. Te lo ricordi, tesoro? Eri così brava. Non facevi mai capricci da bambina.

Stavo piangendo a dirotto. Ormai avevo il naso umido e il respiro irregolare. Come c'ero arrivata in quella situazione? Avevo immaginato un migliaio di modi per eliminare il problema più grosso della mia vita e adesso che ne avevo l'occasione, non riuscivo a fare altro che tremare.
Aveva ragione. Non ce l'avrei mai fatta a sparargli. Ma non era il carcere che mi spaventava. Quello poteva spaventare solo un uomo sporco come lui che teneva all'opinione altrui. Ciò che mi spaventava era come avrebbe risposto la mia coscienza dopo aver messo fine ad una vita umana, anche se si parlava di quella vile di uno come mio padre. E mia made? Cosa avrebbe pensato di me? E Greg era davvero convinto che fosse la soluzione a tutti i nostri problemi? Io non ero un'assassina. In fondo, potevo fare quello che mi pareva quando lui non c'era. Si parlava solo di non esagerare, di darmi una calmata per un week-end al mese. Saremo stati di nuovo una famiglia felice. Forse ero io il problema. Avrei dovuto cambiare io e tutto si sarebbe sistemato. Le mie braccia si indebolirono. Abbassai la pistola a terra.

-Brava, tesoro. Sono fiero di te. Adesso, dammela.

-Non ti avvicinare! - Greg gli mise di nuovo le mani addosso.

-Levati di mezzo, idiota! - Mio padre gli mise le mani al collo e lo spinse all'indietro con tutta la rabbia che aveva represso fino a quel momento. Non lo sopportava più.
Greg perse l'equilibrio. Vidi la sua schiena piegarsi all'indietro contro ringhiera arrugginita, i suoi piedi sollevarsi da terra e rincorrere il corpo che scivolava oltre la mia vista. La pistola mi cadde ai piedi. Corsi verso di lui, verso il pezzo di ringhiera che si era piegato sotto il suo peso, verso il vuoto, verso la macchia nera spiaccicata sul cemento. Urlai il suo nome tanto forte da sentire le corde vocali stridere, ma Greg non si mosse, né parlò. Allontanai la mano che provò a fermarmi, forse dal buttarmi.

 Allontanai la mano che provò a fermarmi, forse dal buttarmi

-Che cosa hai fatto?! - Gridai, le mani nei capelli. Non volevo crederci. Mi sembrava che stessi vivendo un incubo. Volevo svegliarmi. Non era possibile.

Mio padre mi guardava confuso, come se non si fosse reso conto di quello che aveva appena fatto. Balbettò qualcosa che non capii e di cui non mi interessai di capire. Sfrecciai lungo le scale. Il cuore a mille, sentivo il sapore metallico del sangue nella bocca. Continuavo a ripetermi che non era un'altezza esagerata, che poteva cavarsela con delle fratture. Poteva essere ancora vivo. Me lo sentivo. Ne ero certa.
Quando lo vidi disteso sull'asfalto, il lampione metteva in luce il volto bianco. Lo vidi muoversi. Sorrisi tra le lacrime. Davanti a lui frenò una vecchia Jeep scura. Con la coda dell'occhio vidi Dixon scendere dal posto giudatore, seguito da un'ombra dall'altro lato che doveva essere suo fratello e altri due nei posti posteriori.

-Oh... Porca di quella...!

Mi inginocchiai e presi il volto di Greg tra le mani.

-Greg? Greg, rispondi!

Gli accarezzai la fronte, il ciuffo scuro e sudato. Era ancora caldo.
Greg non rispondeva. I suoi muscoli non reagivano. I suoi occhi grigi, più grigi del solito, fissavano un punto cieco. Merle si prostrò sul corpo disteso. Gli schiaffeggiò le guance.

-Avanti, ragazzo! – Portò due dita all’arteria del collo. – No, no, no, no… Dannazione! – Si alzò di scatto, diede un calcio al suolo. Tirò su la testa verso i piani più alti. – Merda…

Daryl gli andò addosso.

-Che cazzo gli hai dato?!

-Che cazzo gli ho dato?! Il solito! Adesso sta a vedere che è colpa mia se quel cazzone non sa mantenere i piedi per terra!

Scrollai Greg per svegliarlo.

-Greg… Non fare l'idiota! Per piacere, mi stai facendo spaventare!

Mi stava prendendo in giro. Era uno scherzo dei suoi. Qualche volta fingeva di sentirsi male per vedere come reagivo e farmi sentire una merda quando non sapevo come comportarmi. Doveva essere uno di quegli scherzi.

-Adesso si sveglia... - Mi asciugai il naso con il dorso della mano. Ora si mette a ridere, pensavo. È proprio uno scherzo imbecille. All'improvviso vidi il sangue bagnargli la nuca. - Chiamate il 911! Ha bisogno di un medico!

Alzai lo sguardo verso i Dixon che avevano trovato il momento giusto per battibeccare.

-La volete piantare voi due e mi aiutate, per favore?!

Daryl mi guardò deciso. Merle lo fermò con una mano sul petto quando parve volermi aggredire.

-Che vuoi fare?

-Evito che tu faccia qualche stronzata!

-La stronzata l’hai fatta tu, fratello! Con quella roba tagliata che spacci per buona!

-Non dicevi così quando te la sei tirata anche tu. Che ti è preso? La sindrome della crocerossina?

-Diglielo. – Sentii pronunciare da Daryl con tono più cauto e fermo.

Tirai su col naso umido il pianto che tentavo di trattenere per non perdere la ragione. Dovevo pensarci io. Nessuno si sarebbe occupato di mio cugino. Ero l’unica persona che poteva farlo. Infilai la mano nella tasca e presi il telefono. Digitai il numero e temetti di sbagliare perchè le lacrime non mi facevano distinguere i tasti e non riuscivo a controllare bene il movimento delle mie dita. Ma, prima di sentire la voce di qualcuno, Daryl mi strappò l'apparecchio dalla mano. Mi voltai avvelenata.

-Che cazzo fai?!

-Non capisci?! Sei stupida per caso?!

Mi alzai in piedi. Non mi sarei fatta mettere i piedi in testa da un bambino dispettoso.

-Dammelo! Devo farlo! È mio cugino! Devo fare qualcosa!

-Non c'è più nulla da fare! Lo capisci?! È spacciato!

-Ma che stai dicendo…?

-È morto! Come vuoi che sopravviva da una caduta del genere?! - Esclamò a bruciapelo. Poi, resosi conto della bomba che aveva appena lanciato contro la mia innocenza, ammorbidì il tono. - È morto, Trish. È finita.

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Capitolo 6
*** Senza pietà ***


Qualcosa per cui lottare | The Walking Dead

4.1 # Senza pietà

Presente

Un fischio e un colpo secco mi sfiorarono l'orecchio destro. Uno schizzo di materiale liquido e denso mi si appiccicò al collo. Un tonfo alle mie spalle. Strizzai gli occhi e notai un capo riccioluto che stava scendendo le scale di fretta, seguita da tre dei nostri e Joey il grasso che per poco non rotolò giù dalla rampa facendo strike con i birilli. Avevo sboccato l'ennesima bestemmia quando quei cinque idioti addormentati decisero che era l'ora di concedermi un aiuto.

-Bè, finalmente! – Esclamai, quando il catenaccio venne richiuso. Avevo la felpa ridotta in brandelli e la rabbia a fior di pelle. Se qualcuno avesse osato farmi girare i coglioni per una qualsiasi cazzata, era il giorno buono che saltasse definitivamente nel recinto, con tanto di catena al collo. Arat mi venne incontro annaspando. La inquadrai con la coda dell'occhio, mentre mi tenevo alle ginocchia, sfinita.

-È così che si ringrazia?

Sbuffai.

-Grazie. Per avermi fatto quasi saltare un orecchio.

-Grazie a me ce l'hai ancora attaccato a quella testa bacata che ti ritrovi. Sei ferita?

La domanda mi fece subito allarmare. Mi toccai la schiena per cercare graffi, invece trovai solo il tessuto ruvido aderito alla pelle sudata tra i buchi della felpa.

-Fa' un po' vedere...

La scacciai con una mano.

-Sto bene.

La mia maglia protettiva. Ricordavo di essere stata derisa quando l'avevo fregata ad un tizio morto in qualche spedizione, non mi ricordavo nemmeno quanto tempo fa. Adesso mi aveva praticamente salvato la vita.

-Tu sei pazza. Mi spieghi come diavolo ti è venuto in mente di fare una cosa del genere? Volevi suicidarti, forse?

-Sì. Non mi è venuto bene.

-Tirati su, coglione! – Sbottò la voce di Dwight che rialzava da terra un poveraccio che era tutto un piagnisteo lamentoso. Doveva essersi spezzato una caviglia perchè come posava il piede, l'osso gli sporgeva in fuori in modo impressionante. L'altro, quello contro cui Dee puntava la balestra, teneva le mani alzate e rigava dritto. Aveva una faccia solo leggermente turbata. Non si era reso conto del guaio in cui si erano cacciati tutti quanti, lui compreso.

-Dwight! - Lo chiamai mentre lo raggiungevo.

-Sono riuscito a prendere questi due. Questo qua... - Agitò l'arma e mi parve troppo pesante per il suo polso - lo stava aiutando a scavalcare. Avresti dovuto scappare quando potevi. Hai fatto l'errore più grande della tua vita! – Gli sibilò nell'orecchio.

-E gli altri?

-Pensavo di recuperarli facendo un giro nell'isolato. Non devono essere andati molto lontano.

-Bene. – Battei una mano sul braccio per incentivarlo a seguirmi. – Andiamo, prima che Negan ci ammazzi tutti. Anche con una soddisfacente scopata sarebbe capace di sterminarci per questa cosa. – Puntai i tre che erano scesi, anche se in ritardo. – Tu, tu e tu. Venite con noi. Anche tu Arat.

-Dobbiamo scoprire chi è lo stronzo che li ha fatti uscire. – Farfugliò Dwight.

-A questo penseremo più tardi, ok? Prima troviamo le pecorelle sperdute, meglio è.

-E io che faccio? - Domandò Joey che pareva uno che era stato scomodato per niente.

-Riportali dentro il recinto. Fatti aiutare da qualcuno... - "Qualcuno meno pigro di te" stavo per dire. Tuttavia qualche gradino lo aveva fatto. Alla fine, si era mosso più di quelli che ridacchiavano su quello che era successo. Quanto avrei voluto sbatterli in nel recinto e vederli sgambettare e sudare per non farsi mangiare.

-Ma i non-morti sono tutti liberi. - Mi fece notare come se fosse un problema mio.

-Avrebbero dovuto pensarci prima.

-Ehi, emh, forse è meglio che rimango qui anch'io. – Disse Arat facendomi un cenno con la testa per farmi capire che il ciccione non era affidabile.

-Bene. Saremo di ritorno tra poco. Non dite nulla a Negan.

Ci avviammo nel vicolo che avevamo adoperato come parcheggio per motociclette. Ne notai una che non doveva essere lì da molto. Guarda caso se ne appropriò Dwight. Salii in sella e accesi il motore della mia moto, ma rimasi a guardarlo come manovrava quella che da un poco aveva confiscato a qualcuno. Inoltre, c'era un'altra cosa che non doveva appartenergli da molto. Non l'avevo notato prima.

-Che c'hai da guardare?! – Sputò mentre giocava con l'acceleratore.

Feci spallucce.

-Niente.

Uscii per prima. Mentre percorrevamo la strada malconcia, pensai che se avessimo avuto fortuna, avremmo trovato un altro gruppo di superstiti, quel giorno. Il che avrebbe significato altro cibo, forse qualche flacone si shampoo e volendo anche delle sigarette. Avrei storto loro tutte quelle che avevano. Speravo ardentemente, che uno di quei vermi striscianti che erano riusciti a sguizzare via dal recinto avesse un bottino nascosto. Un desiderio irrealizzabile, ma bramato con la stessa intensità con cui un uomo nel deserto brama un'oasi all'ombra. Me ne sarebbe bastata una. Cinque minuti di inebriante pace dei sensi. Poi la caccia sarebbe ricominciata da capo, ma questo ormai era routine.

Rallentammo ad un incrocio. Ci dividemmo per perlustrare un più ampio perimetro. I campi erano incoltivati da anni, le erbacce crescevano ovunque, persino tra le crepe del cemento sbiadito. La natura stava riprendendo il sopravvento su ciò che l'uomo aveva smesso di curare. Le strade erano sporche, ricoperte di foglie e rami marci, di rifiuti organici in decomposizione e lattine, scatole, bottiglie, scarpe rotte.

Dwight mi sorpassò con la sua nuova motocicletta. Era bella, non sembrava nemmeno troppo graffiata. Sgasava con un rombo da tre cilindri. Faceva il suo bel ruggito, dovevo ammetterlo, ma lo scoppiettio di una bicilindrica non lo batte nessuno. Ma ciò che mi attirò di più fu quel suo singolare gilet in pelle, con quei due patch a forma di ali sulla schiena, tutti infeltriti e ingialliti, che, non so, dovevo aver visto già da qualche parte. Lo doppiai.

-Dove l'hai preso?!

-Cosa?!

-Il gilet!

-Bello vero?! Mi sta bene!

In realtà gli stava troppo largo. Si poteva capire da lontano che non fosse della sua taglia. Ero sicura che sapeva indossarlo meglio il suo legittimo proprietario.

-Guarda! Laggiù!

Mi fece segno verso un boschetto spoglio. Correva senza meta, un omuncolo dalla casacca tutta lacerata. Correva nella terra a piedi scalzi, speranzoso di potersi nascondere tra gli alberi della foresta. Di lì a poco lo avremmo perso per sempre. Accelerai di colpo, abbandonando Dee nello specchietto retrovisore. Non poteva sfuggirmi. Avevo intenzione di fare un'entrata a sorpresa, di presentarmi davanti a lui e di godermi la sua faccia atterrita. Sarebbe stato divertente, se sotto le ruote non mi capitò dello sterrato. Dovetti rallentare e fermarmi. Poco male, ero vicina, lo avrei raggiunto a piedi. Abbassai il cavalletto e impugnai la pistola. Vidi Dwight che aveva spento la moto prima di fermarsi, per non farsi sentire. Mi stava seguendo. Ci nascondemmo dietro un albero in silenzio, tenendo d'occhio l'ex prigioniero che assaporava i suoi ultimi e unici momenti di libertà prima della dannazione eterna, come un cerbiatto inconsapevole della sua imminente cattura. Guardai Dwight e lui capì subito che stavo per fare qualcosa che non fosse di suo gradimento. Era così serio quel ragazzo e io avevo deciso di volermi divertire un po'. D'altronde era stato un suo consiglio. Sbucai fuori dal nascondiglio prima che il cerbiatto potesse passarci davanti. Appena mi vide, gettò un urlo, inciampò e cadde all'indietro. Mi misi a ridere a crepelle. Quanto era ridicolo! Si era appena rimesso in piedi quando Dwight mi diede uno strattone.

-Ti sembra un bel gioco?! Sta scappando di nuovo!

-Rilassati. Ho tutto sotto controllo. – Dissi con enfasi. Puntai la pistola e sparai dritto nel polpaccio dell'uomo che si capitombolò in avanti, guaendo, proprio come un goffo, tozzo, animale ferito. Proprio come un cinghiale. Mi piegai, con le mani sui fianchi per schernirlo, mentre lamentava sdegnosamente il suo dolore, arricciato attorno alla gamba da cui trapelava un fiotto di sangue che presto avrebbe dissetato tutta l'erba.

-Visto che succede a scappare?

Il rombo di un'altra motocicletta ci chiamò con gran tripudio. I ragazzi dovevano aver fatto caccia grossa.

-Torniamo. Qui abbiamo finito. – Annunciai.

-Lo lasciamo lì? – Chiese Dwight, senza troppo interesse.

-Se... Con il casino che abbiamo fatto dovremmo aver attirato un po' di quelle schifose rotture di scatole. Meglio smammare.

Sopraggiungemmo sul luogo dove ci aspettavano gli altri tre uomini che erano venuti con noi. I fuggitivi avevano avuto la deludente idea di nascondersi dentro il locale di un distributore di benzina. Con la catena della moto al collo, un paio venivano trainati da Ralph che sorrideva giocondo, come un pescatore con due tonni giganti tra le braccia. Con Bryce invece c'era una donna, ma lui che faceva la parte del più serio, la tratteneva stritolandole il braccio ossuto. La percosse per farla stare ferma. Mi dava così fastidio che fossero riusciti a scovarne più di me... e in più facevano gli sbruffoni. Ci avevano preso gusto con quella scenetta delle catene, forse anche fin troppo.

-Bè... è evidente che non possiamo portarceli dietro tutti e tre.

Si guardarono tra di loro come se avessi appena detto qualcosa di indecifrabile.

-Perchè? Ne abbiamo uno per posto!

-Come credete di tenerli dietro il sellino? Chiedendogli di reggersi? Probabilmente si butteranno di loro spontanea volontà.

-Ah, è vero! – Fece Goyle a bocca aperta. Dovevo apparire come un genio ai suoi occhi. - Allora cosa facciamo?

-Io avrei un'idea. Dato che a loro piace tanto correre... Facciamo che al via, chi corre più veloce è libero di andarsene dove diavolo gli pare?

-Maia, io non credo che sia una buona idea. – Contestò Bryce. – Abbiamo rischiato grosso per trovarli. Uno ha quasi ucciso Ralph!

-Sh-sh-sh. – Lo zittii. "Rischiato grosso"... Non aveva idea di cosa volesse dire rischiare grosso. Al massimo dovevano essersi imbattuti in un piccolo gruppo di non-morti o quello che mi pareva più incazzato, doveva aver trovato un oggetto acuminato e provato ad usarlo come arma per difendersi. Niente che non si potesse risolvere con una pallottola nel cranio, insomma. Continuai. – Se Negan scopre che qualcuno è scappato ed è rimasto vivo, si incazzerà parecchio. E io sono pronta a dichiarare che voi non siete stati abbastanza attenti, non ci avete aiutato in tempo e ve li siete fatti scappare da sotto il naso. C'è Dwight testimone. Vero, Dee?

Dwight annuì, sebbene non avesse ancora capito il gioco.

-Allora? Vogliamo stare qui tutto il giorno?

-O-okay. Però non dirlo a Negan... - Balbettò Goyle.

-Aspetta un po'! Non è colpa nostra se sono scappati! Non puoi incolparci di qualcosa che non è vero! Chi ti credi di essere?! – Si ribellò Bryce, scostandosi dalla colonna che reggeva la sua schiena muscolosa. Fece qualche passo avanti per darmi contro, ma nello stesso istante la donna lo morse sulla mano e iniziò a correre disperatamente lontano da noi. Anche gli altri due approfittarono della nostra distrazione per liberarsi, ma ci riuscì uno solo, perché l'altro venne tramortito con una botta in testa da parte di Dwight.

-Brutta puttana!

Bryce, girò la moto. Ralph non si mosse. Era rimasto con la catena flaccida in mano e la bocca aperta come un bambino a cui cade il gelato a terra.

Sospirai. Ero sempre io a dover rattoppare i buchi.

Sfilai la pistola e mirai alla schiena.

Due colpi.

Un terzo per sicurezza.

I due corridori crollarono a terra, uno dopo l'altro, con uno spasmo. Ralph frenò, si voltò e mi guardò arcigno.

-Che c'è? Ho detto i più veloci al via, non prima.

#
 

-SCAPPATI?! - La voce di Negan tuonò nella piccola stanza, facendo vibrare le pareti. Mi parve di sentire già il ferro ardente contro la guancia. – Che cosa cazzo significa che sono scappati?! Come cazzo siete riusciti a permetterlo?!

Guardai Simon e mi chiesi come fosse in grado di rimanere così tranquillo durante le sfuriate del capo. Ancora mi ronzava in testa il tono rassicurante che aveva usato, – dopo avergli raccontato l'accaduto, lui aveva fatto una faccia grave. Non avevo seriamente compreso la gravità della situazione fino a quel momento. - mi aveva appoggiato entrambe le mani sulle spalle e, sotto i suoi baffoni crespi, mi aveva detto: "Ci parlo io". Lui lo conosceva meglio di tutti, sapeva come prenderlo, che parole usare. Mi aveva salvato il culo un numero interminabile di volte. Gli dovevo tutto.

-Maia, Dwight e gli altri sono riusciti a recuperare gli ultimi, ma... sono stati freddati mentre provavano a liberarsi di nuovo.

-Freddati?! Chi li ha freddati?!

-Io, capo. – Feci un passo avanti, cercando di rimanere composta. Stavo già iniziando a pensare a come avrei dovuto nascondere l'estesa cicatrice sul viso. Non sarei mai riuscita a sopportare i capelli sciolti per tutto il tempo.

Con mio stupore Negan, invece di sfuriare ancora, si mise a ridere. E non fu una risatina discreta. Fu una grassa e sana risata ti pancia. Mi puntò Lucille in faccia.

-Avete visto come si fa? Mi piace lei! Non mi delude mai! Fa sempre quello che gli si dice di fare e ti assicura un lavoro fatto bene

-Avete visto come si fa? Mi piace lei! Non mi delude mai! Fa sempre quello che gli si dice di fare e ti assicura un lavoro fatto bene... - Affermò, facendo roteare la mazza nella mano. Dovevo essermi giocata il jolly quella mattina. Mi aveva riservato un sorrisetto luccicante quando gliel'avevo riportata sana e salva tra le sue mani. Non sapeva che l'avevo completamente abbandonata a sé stessa per più di mezz'ora. Per fortuna nessuno l'aveva vista. - Non come voi maledetti idioti! Non sapere fare un cazzo di niente! Dannazione! Dove diavolo eravate durante il cambio delle sentinelle?! Chi c'era di guardia al recinto stanotte?!

-B-Bryce. - Spifferò Goyle.

-Che cazzo spari?! Non ero io! - Lo sgomitò quello.

-Sì, eri tu. L'ha detto a te di farlo ieri. Ho sentito bene quando te l'ha detto.

-Detto?! Chi me l'ha detto?!

-Laura l'ha detto, mentre tornava. Gli orari erano stati cambiati.

-Ehi, un momento, quella non mi ha detto proprio un bel niente!

-CHIUDETE QUELLE FOGNE! – Scattò Negan con rabbia. E nessuno ebbe il coraggio di disobbedirgli. - Da oggi in poi scriveremo i turni su un cartello, così nessuno avrà la scusa di sbagliare. È la prima ed ultima volta che capita qualcosa del genere. La prossima volta sapete cosa vi attende. – Il ciuffo si era staccato dalla gellata. Se lo portò indietro cercando di tornare rilassato. Tornò alla sua scrivania, Lucille che oscillava dietro la sua schiena come se anche lei stesse cercando di pensare. - Ho un fottuto mal di testa stamattina. – Disse, tirando la poltrona da ufficio e sedendosi. Il tessuto liscio del chiodo di pelle scricchiolò con il poggiaschiena, mentre si tirava indietro. Ci guardava dal basso come sapeva fare solo lui: sorridendo, come se all'improvviso fosse tornato tutto a posto. Sventolò una mano. – Andate. Non voglio più sentire una sola parola e non voglio più incrociarvi nei corridoi per il resto della giornata.

Goyle, Ralph e Bryce titubarono per qualche istante. Poi schizzarono via, inciampando l'uno sopra l'altro, come se non ci fosse altro spazio per loro. Restammo io, Simon e Dwight di fronte a lui. Non avevo idea di cosa ci aspettasse. Negan si strofinò la barba, le labbra asciutte. Il silenzio che si era impossessato di tutto lo spazio attorno ai nostri corpi, come una bolla sospesa nel tempo, mi stava facendo impazzire.

-Tutti i prigionieri se non sono fuggiti sono morti, ho capito bene?

-Tutti tranne tre, capo. - Rispose Dwight.

-Ah! E dove sono questi tre, adesso?

-Nel recinto.

-Se posso permettermi di avanzare un'ipotesi, temo che sia stato un interno a farli fuggire. Il lucchetto del catenaccio è stato aperto dalla corrispettiva chiave. Non c'erano segni di scasso. - Informai.

-Una talpa, eh?

-È molto probabile che qualcuno si sia accordato con i prigionieri prima di ieri notte. Ha avuto in mente un piano piuttosto astuto. La seconda mossa era invadere il Santuario di non-morti. Ci è andato vicino.

-E sono sicuro che tu abbia fatto di tutto per impedirlo, vero? - Sorrise. Non capivo se mi stesse prendendo in giro o fosse fiero di me. Di certo, c'era che avesse notato che fossi ricoperta di sangue marcio e che puzzassi più degli altri. Avevo decisamente bisogno di una lavata. - Tu e Simon, vi occuperete personalmente della faccenda. Voglio che troviate il colpevole il prima possibile. Interrogate i prigionieri. Se dovete, usate la forza. Devono sputare ogni singolo pezzo di informazione, anche a costo di spremergli quel cervello zeppo di merda.

-Ricevuto. - Risposimo all'unisono.

-Dwighty, tu stanne fuori. Ti ho già affidato un incarico importante... Anzi, a propostito: a che punto siamo? Come sta il nostro Daryl?

Sentii una stretta al petto, come se il mio stomaco si fosse rivoltato su sé stesso... Forse era la fame. Era una settimana che non mangiavo qualcosa di decente.

-Gli ho messo una canzoncina a tenergli compagnia. - Rispose Dwight, stirando impercettibilmente il labbro deforme. Aveva qualcosa di diabolico negli occhi e quella mezza maschera di pelle sciolta lo faceva sembrare ancora più ripugnante. Negan invece ci trovò da ridere. Dovetti fingere di essere dello stesso umore, perchè inspiegabilmente non avevo più voglia di scherzare. L'euforia si era abbassata ai livelli minimi, come di consueto. Sentivo i succhi gastrici protestare nello stomaco e rivangare gli incubi della nottata precedente.

-Che faccia orrenda! Hai dormito, piccola Maia?

Negan aveva notato il mio malessere. Si era alzato, aveva raggirato la scrivania, i piedi incrociati di fronte ai miei, poggiando il sedere e i palmi al bordo di legno, per studiarmi meglio.

-Veramente non molto. - Risposi, deglutendo della saliva acida.

-Lo so, non è bello assistere ad uno spettacolo come quello di ieri sera. Ma è quello che siamo. È ciò che ci tiene uniti. È il gruppo di Rick ad avere iniziato, uccidendo i nostri. Noi abbiamo solo risposto. Dobbiamo difenderci, difendere ciò che è nostro, altrimenti perderemmo tutto ciò che abbiamo costruito giorno dopo giorno, con sudore e fatica. Non sei d'accordo? - E mentre lo diceva, mi tirò indietro un ciuffo di capelli che mi pendeva unticcio sul naso, con la stessa mano con cui aveva toccato chissà quale delle sue belle mogli profumate pochi minuti prima.

L'ufficio di Negan sembrava uno di quegli uffici da psicanalista, che da una parte ti fanno sentire a casa e dall'altra completamente scoperto da ogni strato difensivo. O forse era il suo sguardo a farti sentire in quel modo. Non avevi tempo per rispondere che lui iniziava ad analizzare i tuoi movimenti, i tuoi tick, raccoglieva ogni informazione dal linguaggio del tuo corpo e poi ti torchiava, fino a quando ti trovavi costretto a riconoscere la sua ragione. E quasi sempre vinceva lui. Alla fine ti convincevi persino di cose di cui un minuto prima non eri consapevole. Sorrideva, con quei denti perfetti da sovrano dell'apocalisse. Ti ispezionava, con quello sguardo indecifrabile, metà rassicurante e metà malandrino, ti esaminava con la stessa mente con cui era capace sia di confondere una donna nel modo più dolce e sensuale, sia di elaborare piani sanguinari. Quel fare da gradasso e totalmente consapevole della propria avvenenza era la ciliegina sulla torta. Era la fine del mondo, c'era da dirlo. Ma non è forse il diavolo seduttivo per definizione?
Di colpo alzò lo sguardo, il diavolo, come se si fosse dimenticato di qualcosa.

-Voi due siete ancora qui?! Non avete qualcosa da fare?

Dwight e Simon ci lasciarono soli. Lo schiocco della porta ricorse più volte nella mia testa nei seguenti secondi di tensione. O forse era il mio cuore, che aveva cominciato a galoppare più agitato.

Non capivo cosa ci fosse di così grave o di così segreto da doverne parlare con me soltanto a porta chiusa. Pensai che volesse farmi la predica su qualcosa che avevo sbagliato. Ero stata troppo spavalda a non chiedere il suo parere prima di cimentarmi in una missione alla cieca. Ero stata troppo incauta a lasciare indizi sulla mia infermità... Mi stavo ponendo tanto di quelle domande a cui non trovavo risposta certa, che iniziai a sudare.

-Un uccellino mi ha detto... che sono stranamente sparite un paio di bottiglie dal cartone che Gregory di Hilltop ci ha gentilmente offerto come pegno di fiducia. Ne sai qualcosa?

Avvampai. Non riuscii a mentirgli.

-Sì, emh... Ne ho presa una io. - Mi morsi la lingua, mentre confessavo.

-Oh! Bene. Questo è un bene. Il problema è che non ho letto il tuo nome nell'inventario. Come mai?

-Me ne sono dimenticata...

Negan si sfregò gli occhi con due dita.

-Dimmi, Maia, perchè facciamo l'inventario?

-Perchè così ognuno può avere ciò che gli serve grazie ai punti che ha guadagnato.

-Oh! Vedi che lo sai? E dovresti sapere anche che dovrei punirti per questo. Sono le regole, non si ruba. So che tu non sei una ladra, ma questa bottiglia non è sparita ieri e sull'inventario si è come volatilizzata. Il che è come se fosse stata rubata.

Mi ero dimenticata completamente di quella bottiglia. L'avevo presa senza farmi vedere, perchè mi vergognavo di far sapere a tutti che anch'io in fondo fossi debole, che avessi ceduto, che fossi come una di quelle donnette frignone che vedevo in giro troppo spesso e che mi facevano venire voglia di gonfiarle a suon di schiaffi. L'avevo presa mentre la signora al banco era distratta e me n'ero andata. Semplicemente. Non avevo pensato neanche per un momento che qualche lavoratore avrebbe fatto la spia. Ma forse non era stato un lavoratore...

-Non mi piace questo, Maia, non mi piace per niente. Non mi importa un cazzo se ti ubriachi quando sei da sola. Non mi importa un cazzo di quello che fate quando non avete degli ordini da eseguire. E di certo non sarò io a giudicarvi se vi fracassate di merda come dei bastardi alcolizzati. Dannazione! Tutti lo facciamo! Tutti cerchiamo di distrarci in qualche modo dallo schifo che c'è là fuori! Questa è la vostra casa. La nostra casa! Vi do tutta la libertà che volete, avete tutto ciò che vi serve per vivere una cazzo di vita decente. In pochi mesi sei diventata uno dei miei soldati più fidati... E adesso mi cadi così in basso? Cristo! Che ti è successo?

Non parlai. Capì che avevo ammesso la mia colpa.

-Quando ti ho trovata... - Disse con tono più pacato. - Eri messa così di merda che i ragazzi avevano pensato fossi già dall'altra parte. Stavo per dire ad Arat di piantarti un coltello nella fronte, ma diamine! Per fortuna che hai parlato! Ti ricordi cosa gli hai detto?

-Non hai le palle. - Risposi. Mi venne spontaneo sorridere al ricordo. Mi vedevo ancora rannicchiata sotto quell'albero, con i miei quattro stracci, secca come un osso. Stavo morendo di fame e di sete, ma appena avevo visto il loro carro fermarsi e offrirmi solo il metallo avevo preferito sputare loro in faccia, con la poca saliva che mi rimaneva, piuttosto che pregare di essere risparmiata. Negan doveva essere rimasto molto colpito.

-Non hai le palle... Avevi un cazzo di coltello puntato in faccia e tu hai detto a quella donna che non aveva le palle di ficcartelo in fronte. Sai cos'ho pensato? Ho pensato: Porca di quella puttana! Questa ragazza è pazza da legare e più cazzuta di un quarto dei miei uomini! La voglio nel mio esercito! - Rise. Si bagnò le labbra con la lingua. - Senti, questa volta chiudo un occhio con te, perchè hai fatto un lavoro impeccabile con la mia Lucille, come sempre. Questa volta diciamo che Negan ti ha fatto un regalo. Non so cosa ti abbia buttato così giù ultimamente, ma pretendo che tu ti dia una mossa per riprenderti, intesi? Questo è un ultimatum. Non voglio più sentire stronzate.

-Non accadrà più. - Gli assicurai.

Mi alzò il mento con due dita, per costringermi a non eludere i suoi occhi di pietra. Si avvicino col volto al mio, talmente vicino che potevo sentire il profumo del suo bagnoschiuma. Doveva essere una di quelle robacce sportive. Forte, pungente, come i suoi occhi ipnotici, potenti. Non si riusciva a ribellarsi sotto quello sguardo intensamente penetrante. Era serio stavolta. Lucidamente e gelidamente serio.

-Mai più.

-Mai più. - Ripetei.

Spalancò le labbra. Lentamente. Quasi per farmi patire.

-Questa è la mia Maia! - Esultò, mentre mi dava colpetti leggeri sulla guancia. - Bene. Puoi andare.

Sospirai. Sollevata, mi fiondai verso la porta senza farmelo ripete.

-Ah, un momento.

Di colpo mi tramutai in un unico blocco di pietra. Temetti che ci avesse ripensato.

-Ho bisogno che tu mi dica la verità da oggi in poi. Intesi?

-Certo, capo.

-E fai l'inventario.

-Sissignore. D'accordo.

-Chi sei tu? - Mi chiese infine, senza staccarmi gli occhi di dosso. Doveva essere certo che fossi ancora una sua proprietà e che non mi fossi messa in testa una qualche bizzarra idea di sfuggirgli.

E io, che non avevo altro modello in cui rispecchiarmi e alcun motivo per tradire la mia casa, risposi senza pensare, quasi fosse un gioco:

-Negan.

E mi congedai.

E mi congedai

 

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Capitolo 7
*** Nessuna uscita ***


Qualcosa per cui lottare | The Walking Dead

4.2 # Nessuna uscita

 

Le quattro mura erano strette tra loro, mi costringevano a stare attenta a come mi muovessi per non incappare in uno spigolo. La debole lampadina che pendeva dal soffitto basso illuminava ben poco perché la vista potesse esserne soddisfatta. La luce evidenziava le forme dure e angolate, gli zigomi appuntiti, gli occhi incavati, le labbra frastagliate, la pelle desquamata, il luccichio delle ferite aperte. Sentii un dito scrocchiare nel colpo. Mi tenni il polso con disinvoltura, senza far notare il fastidio che mi provocò il contatto con la parete di una mascella solida. Sistemai il mio tirapugni, scivolato un attimo prima, allineandolo sulle nocche. Pensai che avrei dovuto dargli una bella lucidata. C'erano dei piccoli rimasugli dell'uso precedente incastrati e seccati tra le fessure interne che mi davano fastidio al solo sapere che c'erano.

-Allora... - Dissi, pulendo il sangue sui jeans. - Ti è tornata la memoria?

Il prigioniero sputò a terra piegandosi quanto poteva, considerando le corde che lo tenevano inchiodato alla sedia. Una macchia rossa andò a schiacciarsi sul pavimento.

-Ho detto che era buio. Non lo so chi è stato. Aveva una torcia. Ce l'ha puntata in faccia. Non ho visto chi era.

-Nessuno è venuto a parlarvi il giorno prima, non hai sentito nessuno che parlava di fuggire?

-Si parla sempre di fuggire. È un pensiero fisso se cerchi di sopravvivere ogni giorno a delle torture. L'unico che avrebbe potuto sapere qualcosa, sarà sicuramente lontano chilometri, ormai. Vi ha fregati. - Si mise a ridere con i suoi pochi denti gialli e neri, esalando un pessimo fiato da cane.

Gli assestai un altro pugno, questa volta facendo attenzione a non sbagliare movimento. Dovevo avergli fatto saltare un dente perché vidi un pezzo più chiaro volare nella stessa direzione in cui schizzò il suo volto pallido e sporco. Lo afferrai dalla mascella perché capisse il livello del mio disappunto tramite il mio sguardo. Gli avevo gonfiato uno zigomo. Stava diventando scuro sotto l'occhio già di per sé socchiuso per chissà quale infermità. Forse non ci vedeva bene.

-Senti un po', testa di cazzo. Sono stata clemente con te. Avrei potuto legarti nel recinto e ascoltarti urlare per i muscoli strappati a morsi. Quindi vedi di meritarti questo posto. Abbi pietà anche per i tuoi colleghi, che non vorrebbero vederti ridotto così sotto i loro occhi o non vorrebbero essere al tuo posto per colpa tua.

-Siete degli esseri spregevoli. - Farfugliò con la bocca impastata. Doveva essersi morso la lingua.

-No, caro... - Sospirai, come se fosse un destino ineluttabile. - Pensaci bene. Negan vi ha offerto una scelta. Non è colpa nostra se avete preso quella più difficile.

-Non lavorerò mai per voi. Avete ucciso mia moglie. Mia figlia. I miei amici. Avete distrutto il nostro campo. Ci avete tolto i nostri averi. Preferisco morire sbranato da uno di quei cosi, piuttosto che lavorare per l'uomo che mi ha tolto tutto ciò che avevo.

Alzai gli occhi al cielo. Ricominciamo. Doveva averlo ripetuto già otto volte. Era il suo mantra.

-Dimmi... quanto costa una vita?

-Come, prego?

-Una vita. Quanto costa, per te?

-Che razza di domanda è?

-Costa l'affetto di chi ami, il calore dei ricordi. Io non ho quasi più nemmeno quelli. La mia memoria è invasa dal dolore... La mia esistenza non vale più niente. Potete farne ciò che volete.

Parlava troppo di cose inutili, per i miei gusti. Strinsi il tirapugni. Glielo piantai nello zigomo e per un momento pensai di averlo ucciso, perché la sua testa roteò all'indietro e ricadde in avanti, mollemente. Lo sentii emettere dei versi a singhiozzo, accompagnati dagli spasmi del petto. Non capii se stesse piangendo o ridendo. Mi resi conto poco dopo che stesse facendo entrambe le cose. Non c'era nulla da fare. Non aveva niente da dirmi perché non aveva più niente da perdere, più niente da nascondere, più nessuno da proteggere.

Uscii, sbattendo la porta. Mi ci appoggiai contro. Le mie mani erano lerce e tremavano. La mia vista si imbrunì per un momento. Stavo avendo un calo di zuccheri. Doveva essere passata più di un'ora da quando quell'uomo era stato trascinato nella cella e non avevo cavato uno straccio di informazione che potesse farmi chiarezza sul colpevole. Dovevo mantenere la calma. Era solo il primo interrogatorio, avrei dovuto portarne avanti altri due a fine giornata. Avevo notato una debolezza in quello dalla caviglia rotta. Non doveva essere un tipo sveglio ed era piuttosto ammattito. D'altronde, chi non lo era? Nessuno può uscire sano da una vita del genere... Senza affetti, senza conforto, senza speranza... All'improvviso mi sentivo persa, come se stessi perdendo una battaglia. Contro chi o cosa stavo lottando io? Vivevo bene, avevo tutto ciò che volevo, a parte delle fottute sigarette e lo shampoo che erano oro. Di colpo mi sentivo svuotata, mi mancava qualcosa. Mi sentivo quasi in colpa, ma non sapevo verso chi o verso cosa. Forse verso me stessa. Le mie dita arrossate da un sangue che aveva defluito fuori dal suo letto e avevo fatto straripare, non erano una cosa nuova per me. Di nuovo c'era quella sensazione che mi fece sentire fuori posto, non mi faceva sentire in me. Non capivo perchè mi sentissi in quel modo. Era un brutto presentimento.
Mi lavai la faccia nel lavandino del bagno. Dovevo assolutamente mangiare qualcosa. Sentivo lo stomaco protestare. Mi asciugai il viso con la maglia e me ne uscii con la faccia meno sofferta che potevo. La prima persona che incontrai, stava venendo proprio verso di me. Appoggiò le mani sulle anche e mi studiò dall'alto dei suoi baffi incespugliati.

-Che hai scoperto?

Sbuffai.

-Niente di che. Il tizio aveva una torcia. È stato astuto a non farsi vedere in volto. Sapeva che non tutti sarebbero stati disposti a rischiare la prpria vita per il loro salvatore.

-Con chi hai iniziato?

-Con il più duro. E poco fa ho scoperto che è anche il più pulito.

-Che ne sai che non mente?

-Non ha nessun motivo per farlo. Gli abbiamo già tolto tutto.

-Non ti fidare delle apparenze. Per far sputare il rospo a certi ci vuole ben altro che le percosse.

-Dopo provo con quello ferito. Non mi sembra molto stabile. - Dissi, massaggiandomi le mani. Simon abbassò gli occhi sul gesto. Si accorse immediatamente delle mie nocche maciullate. Le prese premurosamente tra i suoi palmi caldi, sporchi solo un po' di terra. Mi guardò storto. Forse non era l'unica cosa che aveva notato.

-Dovresti fare una pausa.

-No... - Scossi la testa, rifiutando l'idea.

-Da quando non mangi qualcosa?

-Stavo giusto pensando di andarmi a fare un panino... Più tardi.

-Vai adesso. Ci penso io a quello.

-No, voglio continuare io. Magari inizia con l'altro, quello che abbiamo riportato indietro.

-Non ti reggi in piedi. Non voglio raccoglierti dal pavimento, o peggio, durante una missione o magari in mezzo ad un banchetto di zombie.

Sospirai.

-Andiamo insieme, okay? Anch'io non ho ancora mangiato.

Mi lasciai trascinare nell'atrio in cui formicavano tutti i lavoratori, avanti e indietro in un grande caos. C'era qualcuno che stava animando una scenata perché le urlate rimbombavano, sebbene nessuno ci desse peso. Poi inquadrai un uomo che gettò la propria maglia sul tavolo con un gesto di tale frustrazione che temetti per lui. La faccia del salvatore che lo guardava, ridendosela apertamente, mi attirò ancora di più. Doveva chiamarsi Dave, il salvatore, o qualcosa del genere. Lo conoscevo di vista. Era uno di quelli che non ti salutava mai nemmeno se lo incrociavi da solo nel corridoio. Altezzoso, sbruffone e cafone, come tutti alla fine, ma gli piaceva stuzzicare i lavoratori più degli altri. Soprattutto se si arrabbiavano come l'uomo che gli aveva appena lanciato la maglietta per rabbia. Doveva averlo preso di mira. Eravamo una banda di bulli. La cosa non mi dispiaceva affatto, in realtà, perché quando sei un bullo e tutti ti sostengono, puoi fare quello che ti pare, dire quello che ti pare, prendere ciò che ti pare. È tutto tuo e nessuno ti può contraddire. Tranne il grande capo dei bulli, egli ha praticamente l'onnipotenza.

Adocchiai anche Dwight ad un certo punto, mentre Simon aveva scavalcato la fila per il pane. Stava ravanando in una valigia che non era chiaramente sua. Aveva in mano un barattolo, forse di sottaceti o cetrioli e aveva stirato un sorriso odioso dei suoi, voltandosi verso i due poveretti alle sue spalle.

Per seguire la mia curiosità, non guardai dove stavo andando e andai addosso all'unica persona che non avevo voglia di incontrare. Laura e la sua orribile faccia da pesce lesso. Mi fulminò all'istante. Con quel codice a barre tatuato al collo, mi meravigliavo ogni giorno di non vederla distesa tra le sardine sul banco del pesce. Ma forse era troppo marcia per essere scelta. Ops, perdonate la battuta.

-Attenta a dove vai, moscerino. Non vorrei schiacciarti.

La seguii con lo sguardo, mentre se ne andava lanciandomi il malocchio. Doveva avere da fare per non essersi fermata a prendermi in giro su qualcosa che non le riguardasse. Le avrei volentieri conficcato il mio coltello in un occhio.

-Che cosa vuoi? - Mi chiese la voce di Simon nel trambusto. Non capii all'inizio. Era sparito davanti al banco seguente, quello degli ortaggi. - Pomodori, zucchine, cornetti? Che vuoi da mangiare?

-Emh... Fai tu. - gli buttai lì con un segno di riluttanza fatto con la mano.

Fece una faccia strana, pensandoci su. Puntò della lattuga e dei pomodori.

-Frutta?

Feci spallucce, fingendo distrazione per le persone in fila che dovevo schivare.

-Anche queste e questi. - Lo sentii dire, sollevando un paio di banane e una vaschetta di cornetti. Me li affidò tra le braccia, dato che le sue erano già troppo impegnate con un solo pomodoro gigante, una mela gialla e un tozzo di pane. Firmò e ce ne andammo. Mi feci spazio tra la massa che sembrava non volermi lasciare passare.

Arrivammo alla sua stanza. La porta si aprì senza dover impiegare alcuno sforzo, anzi, la spinse con due dita e si spalancò facilmente e soprattutto silenziosamente. Sotto la mia, talvolta si ficcava della sabbiolina o dei sassolini. In tali occasioni grattava, emettendo un cigolio talmente acuto che spesso mi accontentavo di aprirla giusto quanto bastava perché potessi passare. Forse era solo una questione di pulizia. Il pavimento era lindo e tutto sembrava in ordine. Persino il letto era rifatto, una giacca di pelle era appesa al muro e solo un paio di stivali di gomma se ne stavano sbiechi in un angolo, ben puliti. Non c'erano resti di cibo o briciole sul tavolo, non c'erano cartacce, nessuna bottiglia o bicchiere fuori posto. Il lavello era vuoto, sui fornelli nessuna traccia di sugo o di olio.

-Hai firmato a tuo nome? - Chiesi, liberandomi le mani sul tavolo. Evitai di apparire sorpresa da tutta quell'ordine. In fondo doveva essere una cosa normale. Tastai la tasca dei pantaloni e sfilai il mio pacchetto di sigarette ormai ridotto in uno stato triste e logoro. Ne contai una. La penultima me l'ero fumata appena tornata dalla missione che mi ero data da sola. Giurai a me stessa che dalla prossima ventina avrei imparato ad economizzare.

-Sì, non preoccuparti. - Rispose Simon, infilando la testa nel frigo pieno con una padella in mano ed estraendo quattro uova e un mattone di burro. Mi chiesi quando pensava che potessi ingurgitare. Voleva fare da mangiare per un esercito? - Senti, ma... che voleva Negan? Che ti ha detto quando siete rimasti da soli?

-Ma niente... - Dissi, afferrando l'accendino che mi passò Simon. - Una cosa sull'inventario. Ho dimenticato di firmare. Era una cosa talmente insignificante che me ne sono dimenticata, pensa te.

-Non dovresti dimenticarti di firmare, è importante.

Soffiai il fumo. Appoggiai la spalla al frigo, mentre guardavo Simon improvvisarsi chef con quattro ingredienti.

-Lo so. Avevo la testa tra le nuvole. Chissà a cosa pensavo...

-Era arrabbiato, Negan?

-No... Non mi è parso. L'ha ritenuto come un regalo da parte sua. È stato gentile.

-Dovrebbe esserlo più spesso, col lavoro che ti fa fare... Dovrei parlargli.

-Mi piace pulire la sua mazza. - Affermai, con le labbra attorno al filtro. Mi feci scappare una risata. Simon non parve gradire. Forse non aveva recepito l'allusione. - Come stai messo a birra?

Mi fece cenno di guardare nel frigo. Aprii l'antro magico e tiri fuori una bottiglia. La stappai con i denti. Simon mi lanciò un'occhiata fugace. Aveva qualcosa da dirmi.

-Cos'era... la cosa che hai rubato?

-Rubato?

-Sì, insomma... la cosa per cui hai dimenticato di firmare. - Mi sbeffeggiò.

-Non mi credi?

-Dai, hai capito che intendo.

-Non sono una ladra. Anche Negan lo sa.

Non rispose. Capii che stesse attendendo la risposta, sebbene non volesse insistere. Sbuffai.

-Una bottiglia.

-Una bottiglia?!

-Di vodka. Niente di che...

Simon sospirò cacciando un pensiero, tornò sui fornelli. Era indeciso sull'approfondire o meno la questione.

-Cosa ti preoccupa? Non è la bottiglia, avanti. Hai qualcosa.

-No. Tu hai qualcosa.

-Io?

-Da quanto non mangi?

-Che?

-Stai scomparendo in quei jeans. E ogni volta che ti invito a mangiare fai la vaga. Non puoi vivere solo di alcol e sigarette, lo sai?

Bevvi un sorso. Fresca e frizzantina, la birra mi deterse la bocca e la gola di tutto lo schifo che mi stava venendo su dalla mattina. Mi ci voleva proprio. Evitai di rispondere. Non aveva diritto di farmi la predica. Facevo quello che mi pare e se non sentivo la necessità di imbottirmi come un tacchino nel giorno del Ringraziamento, non dovevano essere affari suoi. Tuttavia, onde evitare scontri inutili, optai per del silenzio pacifico e indifferente.

-Sai... Ho notato tutto. - Affermò con tono di rimprovero.

-Tutto?! - Esclamai, rizzando la schiena. Simon strabuzzò gli occhi per la mia reazione, che compresi fosse esagerata solo appena lo guardai in faccia. - Volevo dire... - Mi schiarii la voce e cercai di non sembrare pazza. - Cos'hai notato?

-Che sei strana. Diversa. Non sei più tu. Fino alla settimana scorsa scherzavi, ti vedevo in giro, parlare con Arat, facevi a botte con Laura, anche se non apprezzo, ma almeno sembravi... Più te! Più viva! Questa specie di fantasma che si trascina tra i corridoi e cerca di autodistruggersi... Non sei tu. Che ti è successo? È da quando... da quella notte che... L'ho visto quando tornavamo dal campo. Te l'ho visto negli occhi.

-Non credo di capire cosa intendi. - Ribattei rigida. Scenerai nel lavello e aspirai un lungo, intenso e tossico tiro dal filtro che mi ustionò i polmoni. Sentivo il cuore pulsarmi nelle orecchie. Posai la bottiglia che mi stava congelando la mano.

Simon riempii due piatti con due uova fritte ciascuno. In uno si accostava l'intero pomodoro tagliato a rondelle e praticamente tutte le foglie della lattuga che decorava il tutto come un fiore sbocciato. Nell'altro scolò i cornetti con un paio di forchette. Posò i piatti sul tavolo, rispettivamente il primo a me e il secondo a lui, con annesse posate, bicchieri e una birra per sé. Si pulì le mani con lo straccio appeso alla spalla. D'istinto portai una mano alla pancia. Il mio stomaco stava facendo le montagne russe.

-Intendo che se queste spedizioni non ti fanno bene, devi dirlo a Negan. - Mi prese una mano che doveva essere gelata, perché le estremità delle dita non me le sentivo più. - Guarda, se vuoi ci parlo io.

Sorrisi, mostrando tutta la calma che non avevo.

-Non devi dire niente a Negan.

-Lui mi ascolta.

-Simon. Non mi succede niente. Sto bene. Ora... Mangiamo che mi sembra tutto buonissimo, non vorrei che si raffreddasse.

Mi parve convinto. Sistemò lo straccio sulle gambe, mi sedetti anch'io dopo aver schiacciato la sigaretta nel fondo del lavello e averla vista scivolare giù nello scarico con tutto il mio terrore di essere scoperta. Mi augurò un buon appetito con un francesismo e cominciò a mangiare. In quel momento compresi che cosa stessi sbagliando nella mia vita e mi passò definitivamente la fame.

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Cosa vuol dire essere soli al mondo? Come ci si sente a non avere nessuno che possa sentire le tue urla nel buio, senza nessuno che possa abbracciarti e condividere il proprio calore con te, che stai scendendo verso un dirupo stretto, freddo e osc...

Cosa vuol dire essere soli al mondo? Come ci si sente a non avere nessuno che possa sentire le tue urla nel buio, senza nessuno che possa abbracciarti e condividere il proprio calore con te, che stai scendendo verso un dirupo stretto, freddo e oscuro? Cosa significa non avere nessuno che possa tenderti una mano per salvarti mentre stai affogando? Cosa si prova ad essere, completamente e profondamente, soli? Soli persino con sé stessi, ed aver paura di rimanerci, da soli, con la propria coscienza, con la propria malata, feroce, mente da masochista professionista? Cosa si prova a naufragare... ed essere i consapevoli artefici del proprio naufragare?

Ci si sente stanchi, a un certo punto, ecco come ci si sente. Ci si sente lontani. Lontani da un'immagine di noi che si è sbiadita come una vecchia foto. Lontani e alienati da tutto ciò che accade attorno. Perchè il mondo gira, ma non ha più senso. Le stagioni passano, il tempo scorre. E tu rimani lì. Tutto ti gira intorno, cambia, ma tu rimani lo stesso inutile, impolverato fantoccio sbattuto in mezzo alla strada, abbandonato alle intemperie.

L'apatia, non è desiderare la morte. È guardare la propria ferita e lasciarla sanguinare. Sapere che si rimarginerà o meno ormai non ha più alcun valore. Morire, sopravvivere di stenti o tornare a respirare, appaiono tutte opzioni di pari intensità emotiva. Insapore. Incolore. Inodore. Insignificante.

E questo per un po' ti protegge. Perché se fai un lavoro come il mio e ti ritrovi a doverti sporcare le mani, un po' di apatia ti fa comodo. Non tanto per ciò che trovi là fuori. Con quello ci fai la mano, con i non-morti ci fai la mano, con un coltello e una pistola, ci fai la mano. Anche con le morti ci fai la mano. Dopo un po' ti abitui a vedere gente morire. Ma quando cominci a vedere tutto ciò che sei, la tua psiche, i tuoi ricordi, le tue convinzioni, i tuoi valori crollare come una città marcita, come palazzi senza più fondamenta? Come ci si abitua a vedersi lentamente e inesorabilmente appassire?

Ti mangia da dentro. Ti prosciuga.

È a quel punto che capisci che i risultati di tutto quell'esercizio fatto per imparare a cavarsela senza l'aiuto di nessuno, vengono a mancare. Sì, perché in realtà non impari mai a farlo bene. Ti ci abitui, ma non impari a sopportarlo. Nessuno lo sopporta. A meno che non impazzisci, ma anche in quel caso hai perso la partita.

Era così che mi sentivo, davanti a quella porta chiusa, in quel corridoio lungo e semibuio, col mio tirapugni stretto nella mano. Mi sentivo vuota. Sola. Senza alcuna speranza di uscire viva o sana da quella situazione. Le sentivo ancora le parole del prigioniero: "Quanto costa una vita?". La mia quanto costava? Quanto costava quella del mio prossimo interrogato? Quando costava il suo sangue? Quanto sarebbe valsa una goccia del mio? Se dalla porta del retro si sarebbe spalancata in quel momento e il gruppo di Rick avrebbe invaso il Santuario e mi avrebbero uccisa all'istante, come avevano fatto due settimane prima in una delle postazioni di vedetta, quanto sarebbe costata la mia morte? Niente. Nessuno avrebbe pianto sul mio corpo calpestato da sconosciuti. Nessuno avrebbe chiesto pietà per me o avrebbe messo la propria vita davanti alla mia. Ero sola. E la mia vita non valeva niente. Ero importante quanto il vomito con cui avrei riempito il vaso da lì a qualche minuto se non avessi smesso di pensare a queste cose. Il mio cervello aveva preso una via per conto suo. Non riuscivo a concentrarmi. Mi chiesi che cosa ci fosse in quelle dannate uova che centrifugavano nel mio ventre.

Il rumore di una porta d'uscita sbattuta malamente, mi fece trasalire. Decisi di farmi un giro perché tanto lì non sarei riuscita ad andare avanti. Avevo bisogno di una boccata d'aria. Percorsi il corridoio nella direzione da cui era arrivato il rumore. Magari qualcuno era uscito per fumare e potevo farmi offrire una benedetta sigaretta, ma appena lo pensai, notai un'ombra sparire dietro l'angolo. Misi in tasca il tirapugni e afferrai la pistola: se c'era un infiltrato o qualcuno stava scappando l'avrei fermato. Seguii l'ombra che non pareva muoversi in un ambiente sconosciuto, sapeva bene dove andare. Chiunque fosse mi sembrò deciso e sull'attenti, perché si muoveva velocemente.

Poi lo vidi.

Era di spalle. Indossava la divisa da prigioniero. Era grosso, più alto di me. Se mi avesse assalito, di sicuro avrebbe avuto la meglio. Dovevo fare attenzione. Stava osservando dietro l'angolo chi potesse arrivare o stava aspettando che si liberasse. Forse non si aspettava che lo cogliessi di spalle. Puntai la pistola. Avrei mirato ai piedi, non appena avesse provato a sfuggirmi. Mi avvicinai lentamente, in silenzio. Lo osservai. Portava una chioma di capelli lunghi e unticci. Aveva la faccia sporca di terra, ma riconobbi facilmente i suoi lineamenti, sebbene fossero di un uomo molto più stanco dell'ultima volta che lo avevo visto.

Di colpo non ebbi più forza nelle mani, ma non abbassai la pistola. Che cosa ci stava facendo non scortato, fuori dalla sua cella? Chi aveva lasciato la porta aperta? Le mie mani iniziarono a tremare più del solito. Vedevo la pistola vibrare e non sapevo che cosa stessi facendo. Lo avrei riportato nella sua cella. Dovevo farlo. Era per il suo bene. Lasciarlo uscire era una follia. Qualcuno lo avrebbe scoperto. Negan lo avrebbe ucciso, o peggio, lo avrebbe fatto torturare. Eppure se ci fosse stata anche una piccolissima possibilità che potesse scappare dalla prigionia, l'avrei lasciato andare. E al pensiero il cuore mi si riempì momentaneamente di un'emozione nuova, come di intensa gioia, di libertà, di speranza incredula. Ma non durò molto.

Si voltò.

Mi vide.

Il mio cuore mancò un battito.

Abbassai la pistola.

Non disse niente. Mi guardò e basta. Aprì la bocca un istante, come un movimento involontario, per la sorpresa.

Non riuscivo a muovermi. Non riuscivo a parlare. Non riuscivo a pensare. Il mio corpo si era fossilizzato come quella notte...

-Vai. - Mi venne da dire, quasi senza voce.

Mi diede l'impressione che non mi avesse riconosciuta. Mi misi nei suoi panni e compresi che fosse abbastanza strano vedere il nemico che ti permette di fuggire invece di spararti.

Sentii dei passi farsi più vicini alle mie spalle. Gettai un'occhiata: le ombre di due uomini, o forse di più, si stavano avvicinando pericolosamente a noi. Se avessero scoperto lui, lo avrebbero massacrato. Se avessero scoperto me... bè, Negan non me l'avrebbe fatta passare liscia.

-Vai! - Ripetei facendogli segno con la mano con cui stringevo la pistola. E finalmente si mosse. Io mi sbrigai, dirigendomi verso una delle due porte, dall'altra parte del corridoio, per nascondermi. Afferrai la prima maniglia, la forzai, ma era bloccata. Sentivo le suole battere sul terreno: erano vicini e fra poco sarei stata nei guai. Corsi verso la porta seguente, quella che conduceva ai sotterranei, mentre il gruppo di uomini avanzava. Mi scivolò la pistola, così dovetti tornare indietro per recuperarla e in quel momento li vidi svoltare l'angolo. Affondai la maniglia e mi infilai dietro, proprio nel momento in cui si dirigevano verso l'uscita.

Mi ritenni salva. Avevo il cuore a mille. Ripresi fiato, appesa alla porta. Guardai la mia pistola e la maledissi. Per colpa sua mi ero quasi fatta sgamare. Però ero felice. Avevo fatto una scelta giusta. La mia anima poteva essere salvata, forse quella notte avrei potuto finalmente chiudere occhio. Pensai di poter tornare finalmente al mio lavoro, con un'aria un poco più rilassata. Mi sentivo libera anch'io. Mi sentivo sollevata.

Infilai il naso nell'apertura con cautela, per assicurarmi che i segugi se ne fossero andati. Il corrodio era vuoto, la porta d'uscita spalancata.
Me ne stavo andando, quando un fischiettio mi fece insospettire.
Mi avvicinai all'uscita, stando bene attenta a non farmi notare. Spiai dalla fessura tra i cardini e tutte quelle sensazioni che mi avevano scaldato un attimo prima, si spensero come una candela senza ossigeno. Era stato troppo bello per essere vero.

Daryl era in mezzo a otto dei nostri e Joey il grasso gli puntava una pistola in faccia. C'era anche Negan nel cerchio. Mi gettai con la schiena al muro perché il mio cuore aveva ripreso a battere come quello di un ratto in un labirinto di tubi. La sola differenza era che nel mio labirinto non c'era alcuna via d'uscita.

Tornai a spiare e la mazza di Negan si era alzata in aria. Mi morsi la lingua per non urlare... ma non accadde niente. Era una prova.

In quel momento ebbi la conferma che fosse lui.

Era lui. Era ancora lui.

Scoprii che in quell'omone sporco e capelluto c'era ancora il ragazzetto di strada che conoscevo. Il che mi fece sorridere.

-Tu non ti spaventi facilmente! - Esclamò Negan.

Certo che no. "Sangue Dixon non mente!" pensai. Daryl, vedendo il suo avversario farsi avanti, con una mazza pronta a spaccargli la testa, non si era mosso di un centimetro. Lo stava sfidando. Il suo orgoglio non gli avrebbe mai permesso di piegarsi come chiunque. E a Negan piacevano i tipi come lui. Gli ero piaciuta io, avrebbe preso sotto la sua ala anche Daryl, se solo non avesse avuto un motivo per rifiutare la proposta... Se solo non avesse avuto una famiglia che si struggesse per lui e lo aspettasse a casa.

Negan si rimise a fischiettare. Si allontanò sorridendo vittorioso. Non preannunciava niente di buono.

I salvatori chiusero il cerchio. Erano pronti. Qualcuno si scrocchiò le dita, ma Daryl non si sarebbe mai lasciato colpire per primo.

Chiusi gli occhi, lasciando che la giustizia del carnefice a cui ero devota, si avventasse una seconda volta su una fetta della mia anima che si scosse e protestò per emergere e ricordarmi i valori di una persona che non c'era più.

Cosa penseresti di me, Merle, se sapessi? Forse non mi capiresti. Forse non mi riconosceresti.

Ricordo ancora quella volta in cui mi dicesti che stessi diventando peggio di te.

Forse avevi ragione.

Forse lo ero già diventata.

Afferrai la maniglia della porta per non permettere che il rumore dei calci e dei pugni, degli sputi, degliinsulti e delle risate di scherno, che il dolore provocato dall'umiliazione, dalla depravazione, dalladesolazione, dal senso di colpa, non mi toccasse e rimanesse fuori da me, lontano da me. Chiusi la porta e tornai al mio lavoro.

Perdonami, Merle. Ma io non ci sono più.

 Ma io non ci sono più

 

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Capitolo 8
*** Pioggia arida ***


Qualcosa per cui lottare | The Walking Dead

5.1 # Pioggia arida

Passato.
Ginger Beard.

Abby si piegò sul tavolo occupato da due omaccioni che stappavano birre dalle undici e mezza della mattina. Quello barbuto, con un bottone della camicia esploso sul ventre rotondo, le diede una pacca talmente forte sul sedere che lei sobbalzò per lo spavento. Si abbassò immediatamente la minigonna e sfoderò la sua vocetta ultrasonica, soffocando l'istinto di tirare una pizza in faccia al panzone che se la rideva a crepapelle. Sbattè il vassoio sul bancone e cercò soddisfazione nel vetro delle bottiglie scaraventate nel fondo del secchio della spazzatura. Sollevò solo per un brevissimo istante lo sguardo per condividere con me un pensiero ardente di disgusto.

-Un giorno di questi mi vedi sclerare. - Mugugnò lanciando alle spalle uno dei suoi lunghi e vaporosi codini biondi.

Si affiancò a me e cominciò a sciacquare una pinta e a sfregarla con un panno come se fosse stata incrostata di chissà quale porcheria. Si tirò giù la gonna di nuovo, in risposta ad un fastidio impudico. Per tutta l'estate in cui avevo lavorato al Ginger Beard - la birreria in fondo alla ventiquattresima, frequentata pressoché da ragazzi senza pretese, ubriaconi e motociclisti solitari appena usciti dal Jake's già gonfi di alcool - l'avevo vista arrivare e andarsene con certi jeans che le fasciavano le cosce come salsiccia. Odiava apertamente la divisa che ci avevano assegnato e decisamente non era tipa da minigonne, sia per il fatto che non le sapesse portare, sia per il culo enorme con cui sculettava ampiamente.

-Un giorno gli rivolto il tavolo in faccia a quel vecchio balordo. - Sputò con rabbia.

-Ti appoggio. Però dovresti evitare di grattare così tanto, altrimenti con quegli artigli sfregerai tutti i bicchieri.

-Ti piacciono?!

Non mi ascoltò nemmeno. Posò la pinta sul lavello, fece un saltello per voltarsi verso di me mostrandomi le unghie acuminate, perfettamente ricostruite, laccate di un fucsia della stessa tonalità che doveva avere avuto la gomma sbiadita che masticava da venti minuti, la quale era causa dell'alito da fragola chimica che mi investì con prepotenza. Mi imposi di non respirare e stirai un sorriso che doveva assomigliare tremendamente ad una colica.

-Molto belle.

-Mi sono costate più di quello che potevo permettermi, ma chissene frega. Ogni tanto va fatta una pazzia per sé stesse! La tizia che me le ha fatte è bravissima, un giorno ti ci porto se vuoi, così magari la smetti di usare colori così noiosi e deprimenti.

Guardai d'istinto le mie unghie rovinate. Lo smalto scuro era scheggiato, un po' usurato, un po' rosicchiato. Forzando l'immaginazione, lo sostituii con il primo colore sgargiante che mi venne in mente. Di colpo mi vidi con un paio di codini alti e ricoperta di paillettes. Sentii lo stomaco raggrinzirsi. Constatai che fosse meglio non esprimermi. Riempii la pinta pulita sotto la spina della cola. Ci aggiunsi del ghiaccio e fuggii dalle grinfie zuccherose della mia collega.

Posai l'ordinazione sul tavolo di un trio di tifosi del football che aspettavano la trasmissione della partita. Due ragazzi che conoscevo solo di vista e Michael Flint, il volto che aveva capitanato la squadra della scuola per tre anni consecutivi finchè non si era spaccato un paio di costole e il setto nasale cascando da un albero, nel tentativo di infiltrarsi nella camera della figlia del sindaco, nonché regina indiscussa delle cheerleader. All'ultimo anno non se lo filava più nessuno ed ora, considerato lo stato dei capelli senza forma, dell'abbigliamento sciatto e dell'apparecchio intrecciato tra i denti della sua amica nerd, doveva essere stato costretto ad abbassare i propri standard principeschi. Era un bravo ragazzo in fondo, nonostante lo sguardo che hanno tutti quelli di buona famiglia verso "gli spostati" come me, quelli che si vestono in un certo modo e si isolano da tutti "per attirare l'attenzione, per provocare". Mi rivolse un sorriso di circostanza, che voleva dire tutto e non voleva dire niente e che durò anche fin troppo. Non erano molti quelli che mi avevano portato le condoglianze, un po' perché i miei amici si potevano contare sulle dita di una mano chiusa - Jimmy e Kenny si erano volatilizzati completamente. Avevo anche provato a ricontattarli, ma mi avevano sempre bidonata con delle deboli scuse - e un po' perché ad un certo punto avevo smesso di rispondere cortesemente ai falsi perbenisti che mai avevano pensato di avvicinarsi fino ad allora. Non che ne facessi un dramma. Non avevo bisogno di nessuno, io. Stavo bene solo con me stessa.

Annotai sul taccuino una nuova ordinazione. Questa volta per un quartetto di anziani arzilli che non dovevano essere della città o non dovevano uscire spesso, perché evidentemente non avevano idea della gente che girava per quel locale: due birre bionde, una rossa alla spina e un cappuccio per la signora. Portai via il piatto di un ragazzo che mi parve più fatto che ubriaco. Pagò e si rialzò tenendosi alla sedia. Mi preoccupò mentre usciva, insicuro sui suoi passi. Lo seguii con gli occhi, mentre nascondeva i riccioli sotto il cappuccio e proseguiva verso la periferia della città. Quello è andato, pensai. Ed erano solo le quattro di pomeriggio. Tirai un sospiro e mi feci coraggio perché entro poco avrei staccato.

Infilai il piatto sporco di resti di pizza nella lavastoviglie, mi lavai le mani e preparai le birre e il cappuccio. Mi chiesi dove fosse finita Abby. Mi affacciai verso i tavoli all'esterno e la vidi in piedi sui gradini, mentre arricciava una ciocca di capelli tra le unghie, sbattendo le sue ciglia finte e alitando in faccia ad una figura che non mi era mancata per niente negli ultimi otto mesi.

Di colpo sentii le mani bagnate e fredde. La birra aveva strabordato, la schiuma era andata a finire ovunque, superando il livello della grata. Ripulii tutto, cercando di non far cadere tutti i santi dal cielo. Asciugai l'esterno e il manico delle pinte, le riempii attentamente. Sperai che i vecchi non fossero troppo attenti da accorgersi del disastro al quale avevo provato ad ovviare furbescamente. Preparai il cappuccio e stappai le due bottiglie. Posai tutto equilibratamente sul vassoio e filai dritta al tavolo 12, evitando di guardare verso la porta d'uscita. Arrivata al tavolo, mi ricordai che una delle birre rosse era stata ordinata da qualcun altro. Dopo un momento di panico, una ragazza ben piazzata mi agitò la mano dall'altra parte del locale.

-Meno male, mi hai salvata. - Scherzai per allontanare una tensione che mi ero montata tutta da sola. Mi sorrise contenta, mentre affondava le mani in un piatto di patatine fritte.

Sfrecciai verso il bancone, occhi a terra. La porta del retro si aprì mentre passavo lo straccio sul bancone, un'operazione del tutto inutile dato che lo avevo già pulito dieci minuti prima: si trattava di un pretesto per poter spiare ancora un po' la mia collega che si lasciava convincere dall'uomo che per un istante solo, aveva rischiato di precipitare in fondo alla mia personale classifica di uomini spregevoli che lottavano selvaggiamente per prendere il posto di mio padre. Era la prima volta dopo quello che era successo, che lo vedevo in giro. Da quella notte, ero uscita di casa solo per finire l'ultimo anno di scuola. Non ero più andata a nessuna festa e avevo interrotto ogni tipologia di contatto con quella timida rete sociale che portavo avanti forzatamente.

Mio padre, nel frattempo, era sparito dalla circolazione. Il giudice non era stato convinto dalla storia che fosse stato lui a spingere suo nipote dal palazzo. Perché, diciamocelo, è scomodo accusare un volto pulito, con amicizie importanti e un avvocato con una certa fama. Soprattutto se la controparte consta di una figlia sregolata, una madre mentalmente instabile e un pivello appena laureato assegnato dai servizi sociali. Perciò, le tracce di droga nel sangue e la bustina ritrovata nella felpa erano bastate per confermare la pista più innocua: Greg aveva perso l'equilibrio, perché l'effetto degli stupefacenti avevano alterato i suoi sensi. Quindi mio cugino non solo era morto, ma era anche entrato nella lista dei defunti tossici della città.

La famiglia Dahanam si aggiudica un'altra splendida medaglia per la reputazione!

Mia madre, miracolosamente, aveva creduto alla mia versione. Avrebbe anche mosso una denuncia per abusi e iniziato una pratica per il divorzio, se solo l'allontanamento del portafoglio di mio padre non ci avesse spinte al lastrico. Non avevamo soldi e a causa del modesto stipendio da cassiera di mia madre e il mio da cameriera-barista, più straordinari non pagati, la graziosa villa con giardino che ci aveva promesso mio padre, andò nelle mani di una famiglia appena arrivata dalla città vicina. Avevamo traslocato da tre mesi in periferia, in un triste condominio, il cui proprietario affittava le camere come albergo a ore per coppie e incontri clandestini. A me non interessava dove vivessimo, ma per mia madre, che era abituata ad una vita di un certo livello, era stato uno dei colpi più duri da incassare.

Quando tornavo dai turni serali, la trovavo spesso addormentata sul divano davanti alla televisione accesa, la sigaretta spenta tra le dita e la cenere caduta sul pavimento, una bottiglia di vino scadente e stantio sul tavolino soffocato da documenti e bollette non pagate. Era chiaro che non potessimo permetterci un avvocato con le palle. Il più economico ci aveva risposto che aveva chiuso l'ufficio dopo aver perso la causa della sua vita, contemporaneamente sua moglie lo aveva abbandonato per un'altra e aveva deciso di suicidarsi.

Mia madre era stata tentata varie volte di richiamare il bastardo a cui dovevo il mio cognome e chiedergli un piccolo anticipo. Ero riuscita a persuaderla ogni volta, ma mi turbava lasciarla da sola: non potevo assisterla nei suoi deliri quando ero a lavoro. Non potevo permettere che un momento di debolezza buttasse all'aria tutto ciò che stavamo cercando di ricostruire da sole. Purtroppo mia madre aveva meno fiducia in noi, che io in lei.

Mio padre, per la verità, non l'aveva scampata del tutto liscia. Sapevo che si era trasferito anche lui, all'estero, per mascherare il suo impegno nel frequentare un corso obbligatorio sul dominio dell'aggressività impulsiva ed era stato separato dalla sua pregiata pistola. Nient'altro eravamo state degne di sapere, ma una cosa era certa: doveva cavarsela ancora di gran lunga meglio di noi. Doveva spassarsela alla grande in qualche posto esotico. Non avevamo mai scoperto dove se ne andasse davvero quando "tornava a lavoro" e spariva per settimane. L'unica cosa buona che aveva fatto in tutti gli anni della mia adolescenza era sparire. E quella volta, dal funerale, era diventato un fantasma.

Il ricordo di quel giorno mi lampava ancora nella mente. La confusione del rifiuto, il vuoto dei giorni seguenti, la valanga di colpe che non riuscivo a non attribuirmi erano delle catene che mi trascinavo accettandone l'esistenza. Alla fine tutto ricadeva su di me, sulla mia grossolana attenzione ai dettagli e alla mia scarsa riservatezza. Avevo permesso che Greg venisse risucchiato nella voragine dei nei miei problemi. La mia scarcerazione era pesata sulla vita a cui tenevo di più. Mi ero persino arrabbiata con lui quella sera per il mio stupido ego.

Non sarebbe dovuta andare così. Non dovevo esserci io dietro a quel bancone.

Ogni tanto si rianimava nei miei sogni, quel giorno, quando riuscivo temporaneamente ad ingannare la mia coscienza iperattiva. Mi rivedevo ancora distesa su mio letto rifatto, nella mia camera occasionalmente ordinata, col mio vestito da cerimonia e le scarpe ai piedi. Guardavo fuori dalla finestra coloro che dovevano essere i miei parenti, entrare ed uscire dalla casa di mia zia, nascosta dietro l'abete gigante nel giardino ben curato, ornato dalle aiuole colorate di fiori e inondato dalla luce di un sole giocondo. Mi sembrava stonata tutta quella vivacità primaverile per un funerale, quasi come se per me la gente dovesse morire solo in autunno o in inverno. È che ci abituano sin da piccoli, a vedere la pioggia come l'espressione di uno stato mentale. Nei film, quando muore qualcuno, il cielo piange la perdita assieme ai familiari. È un bagno di dolore che l'acqua conforta, fa sentire tutti collegati ad un sentimento comune. Ci si abbraccia e si piange insieme.

La notte in cui Greg era caduto da quel palazzo c'era solo una leggera foschia. La luna piena illuminava il buio come un potente lampione, dando l'impressione di avere perennemente una torcia sopra la testa. Il giorno dopo, il sole si schiantava contro il mondo in un cielo tanto azzurro da sembrare un'offesa, fregandosene del nostro dolore. E lì, sotto quei raggi abbaglianti, qualcuno si asciugava le lacrime, qualcun altro abbracciava la zia che se ne stava tutta stretta stretta tra le spalle, senza muoversi dal giaciglio di casa sua, come un elemento imperturbabile del suo florido giardino.

Ogni tanto, nel mio sogno, vedevo un'ombra specchiarsi nel vetro della finestra. A volte ci trovavo un riflesso familiare, ma non mi ero mai girata per scoprire chi fosse. Mi ero convinta che fosse Greg, che fosse venuto a salutarmi per l'ultima volta, che fosse lì per vegliare su di me.

Quel sogno tuttavia, non era l'unica cosa insolita che mi era capitata. Di fronte alla gradinata della chiesa in cui si era svolta la cerimonia, mentre stavano adagiando la bara nel carro funebre, aldilà della piccola piazza, avevo scorto il volto Merle. Lo avevo visto e lui mi aveva guardato senza dire una parola. Non mi fece neanche un cenno. Si guardò i piedi, schiacciando la cicca di sigaretta a terra e voltò le spalle.

Non nego che quell'immagine avesse preso uno spazio spropositato nei miei pensieri. Non riuscivo a capire il motivo per cui si fosse presentato, perché uno come lui non ci va ai funerali della gente senza un secondo fine. E se gli avesse fulminato il cervello l'idea di onorare la morte di un ragazzo che aveva conosciuto, perché appena mi aveva visto se n'era andato, come se non fosse nei suoi piani farsi vedere? La parte migliore di lui doveva rimanere seppellita sotto uno spesso strato di spinosa e barbara scontrosità... Oppure la mia mente devastata dal male, desiderosa di aggrapparsi ad un qualsiasi miraggio di bontà, aveva costruito un enorme castello in aria. Supposi che si sentisse in colpa, perché la roba che aveva ufficialmente ucciso mio cugino era sua. Allora, per non beccarsi un'ennesima denuncia, aveva provato la via del perdono. Secondo lui avrei potuto compiacermi nel saperlo dispiaciuto e in questo modo non avrei fatto parola con nessuno su quello che sapevo.

Era viscido anche in un gesto banale, in ogni minuscolo dettaglio del suo essere.

Un battito di mani mi strappò dall'ondata trascinante dei miei rimugini per sbattermi in faccia il presente.

-Ti sei incantata? - mi fece notare Todd, il titolare, uscendo dalla porta del retro. Pareva più nervoso del solito. - Che fa Abby? Abby! - battè di nuovo le mani per enfatizzare il richiamo. - Ci sono tavoli da pulire, clienti da servire! Le chiacchiere a fine servizio, per piacere!

Abby si mosse dalla sua postazione, non prima di aver cacciato appassionatamente la sua insidiosa lingua rosea nella bocca di Merle, il quale si aggrappò al suo portabagagli con ingordigia. Mi guardò con aria di sfida, il maiale, mentre sembrava volersela mangiare. Dovetti trattenermi dal vomitare. Quando considerò di aver spolverato per bene la cavità orale della sua nuova fiamma, Abby mi strappò il panno dalle mani, il solvente e sparì di nuovo fuori, scappando come una tredicenne con una cotta. Ero indecisa su chi dei due mi facesse più schifo.

Merle mi fissava con troppa insistenza. Cominciai a temere che si fosse messo in testa di attaccare bottone. E infatti avevo intuito bene.

-Guarda un po' chi si rivede... Non sapevo che anche tu lavorassi qui. - Mi fece, appeso alla porta d'ingresso, portandosi la bottiglia di birra alla bocca. Improvvisamente mi sentii completamente denudata di ogni difesa. Bloccata. Inadatta. Lo vidi di nuovo, nascosto sotto l'ombra del portico, in lontananza, solitario, con la sigaretta in bocca ed un'espressione indecifrabile, ma per nulla vuota. C'era qualcosa nei suoi occhi... Qualcosa che sfuggiva completamente al mio controllo e mi faceva dannare.

-Sì, ho preso il posto di Greg... Sai... Lavorava lui qui... - spiegai mite. I bicchieri sul piano di lavoro erano fastidiosamente riposti in modo illogico e ciò aggiungeva ulteriore agitazione a quella che reprimevo.

-Il cuginetto ti favorisce anche da sotto terra, vedo.

C'era una pinta di birra da due litri in mostra all'angolo del bancone. Ragionai se fosse il caso di sprecarla per lavargli quella faccia tosta che si ritrovava.
Decisi di intraprendere la via della pazienza. Allineai i bicchieri in ordine decrescente, senza aggiungere una parola, fingendo di non aver sentito.

Quando finalmente qualcuno lo chiamò da fuori, mi resi conto che mi tremavano le mani per il nervosismo. Lo guardai mentre si avvinghiava alla vita di Abby, scendendo con la mano sotto la gonna. Lei si era spostata con uno scatto, fingendosi contrariata, ma ridendo come un'oca giuliva. La coerenza non era il suo forte.

-Scusi, cameriera? - sentii vagamente chiamare da un tavolo all'interno.

Merle la salutò per l'ultima volta, con quella sua boccaccia infame. Scese i gradini. Sperai che una macchina lo investisse proprio in quel momento, ma attraversò la strada senza problemi e raggiunse il fratello che lo aspettava sul marciapiede opposto.

-Allora? Che sta succedendo oggi? Ci muoviamo? - Mi rimproverò Todd agitando le mani per attirare la mia attenzione.

-Emh... sì, sì. Vado subito! - Scattai. Mi asciugai le mani e mi resi disponibile al mio ultimo cliente. Per qualche assurdo motivo, mi sentivo ancora più a disagio di prima.

 Per qualche assurdo motivo, mi sentivo ancora più a disagio di prima

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Capitolo 9
*** Apri gli occhi ***


Qualcosa per cui lottare | The Walking Dead

5.2 # Apri gli occhi
 

Tornai a casa che mi dolevano i piedi. Avevo dovuto farmi tutta la ventiquattresima più vicoli secondari camminando, perché l'automobile ce l'aveva mia madre. Per fortuna il giorno dopo era il mio giorno libero, ma qualcosa mi disse che non mi sarei affatto riposata. Arrivai alla porta di casa, dopo nove rampe di scale, perché l'ascensore aveva deciso di incepparsi per la quarta volta in un mese e dopo averla scampata ad una coppia di amanti già completamente ciucchi che, catturati dalla passione, erano rotolati giù dalle scale e per poco non avevano travolto anche me. Appesi le chiavi e gettai le scarpe in un angolo.

-Ciao, ma'.

La baciai in fronte. Se ne stava tutta china sul tavolo, occhiali da vista al naso, quella sua matassa riccia e scompigliata, che aveva saltato una generazione, tirata indietro con un mollettone e una grossa tazza di caffè che doveva essersi raffreddato nell'attesa vana di essere bevuto.

-Mi faccio una doccia. - dissi, abbandonando i vestiti sul divano. Rimasi in mutande e canottiera.

-Mh-mh.

-Che c'è per cena? Ho una fame da lupi. - Chiesi, aprendo lo stipo per prendere una tazza.

-Ci sono legumi in scatola e un po' di resti di ieri. Vedi tu. Bisogna andare in farmacia.

-Vado io domani. Sono libera.

-Mi serve la macchina.

-Ti porto a lavoro e ti vengo a prendere.

Quello fu l'unico momento in cui alzò gli occhi dalle carte per lanciarmi uno sguardo incerto tra un "no" categorico e un rimprovero sui miei costanti ritardi di mezzo minuto, che lei viveva con l'ansia di mezzore intere. Le feci un sorriso buffo da dietro la tazza. Non sapeva dirmi di no.

-Basta che non mi fai aspettare come l'altro giorno.

-Promesso.

-La ricetta è appesa al frigo. - Disse accendendosi una sigaretta. Scosse il pacchetto. - Anche queste.

-Ti bastano per domani mattina?

-Sì.

Mi sedetti davanti a lei, attirata dall'aura concentrata che si incastonava tra le pieghe della fronte contratta.

-Dobbiamo chiedere un favore alla zia. - Annunciò, lo sguardo impassibile intrappolato tra quei righi fitti di lettere. Doveva averci ragionato su per tutto il giorno. Lo capii dal tono imperativo che usò per dirmelo. Ormai era deciso. Mi andò storto il caffè.

-Non credo sia il caso di disturbare la zia per i nostri problemi.

-È passato un anno.

-Otto mesi.

-È uguale. Non può certo conservarla come scusa per tutta la vita. Ogni famiglia ha un dramma da superare.

All'improvviso il caffè divenne di un'amarezza insolita. Come poteva essere così insensibile?

-Non voglio chiedere soldi alla zia. - Mi impuntai.

-Trish, a volte dobbiamo renderci conto di quando dobbiamo chiedere aiuto.

-Non la sentiamo dal funerale. In questi mesi non sei mai andata a salutarla. Non l'hai mai chiamata. Non le hai mai nemmeno mandato un messaggio per il suo compleanno.

-Pensi che avrebbe sofferto di meno con un messaggino di auguri?

-No, ma magari poteva confortarla sapere che la pensiamo...

Stirò un sorriso cinico, senza alzare il capo.

-Perché, a noi ha mai pensato nessuno? Qualcuno ci ha mai fatto sapere che ci pensa?

Non seppi come ribattere. Effettivamente non aveva tutti i torti. Nessuno della famiglia ci aveva mai dato il proprio appoggio. Non che noi avessimo mai fatto elemosina, ma forse qualcuno sarebbe riuscito a convincere mia mamma a sbattere quel bastardo di mio padre fuori casa prima che ci scappasse il morto. Grattai via una vecchia macchia sul bordo della tazza con un'unghia.

-Quando zio era in ospedale, l'hai telefonata una volta sola perché la macchina era dal meccanico e avevi bisogno di un passaggio.

Si prese del tempo per rispondermi.

-Vedrai che capirà. In famiglia ci si deve sostenere a vicenda.

-Mamma...

-Oh, ma insomma, smettila di essere così insolente! Ho detto che ci vai e ci andrai! Vedi di crescere una buona volta, che il mondo non sta dietro alle tue lagne infantili! - Abbaiò, agitando gli occhiali in aria con un gesto violento. Li lanciò sul tavolo. Si passò le mani nei capelli, sul viso, se le portò alla bocca. - Perdonami, tesoro, mamma è stanca.

Mamma è stanca, certo. Io invece no, non ero stanca per niente. Non ero stanca dei suoi sbalzi d'umore, delle sue sclerate e di tutta la situazione circostante. Mi alzai senza rispondere. Versai il caffè nel lavello e mi buttai in doccia. Riapparsi in cucina per riscaldare nel microonde un piatto di pasta, circa un'ora dopo. Ne trangugiai la metà tutta di fretta - il resto finì nella spazzatura - mentre lei si era giusto spostata sul divano, davanti ad uno stupido programma comico, con una coperta sulle gambe. Non ci parlammo per tutto il resto della serata, nemmeno alle tre di notte, quando i miei occhi non ne potevano più dello schermo del pc, mi accorsi che la televisione era ancora accesa. La spensi. Avvolsi le spalle di mia madre, che sbavava sul cuscino, nella coperta e mi godetti l'ultima sigaretta della giornata in santa pace, in mutande, davanti alla finestra, al di sopra dei vicoli bui e deserti da cui proveniva l'eco dell'antifurto di una macchina, per poi tornare a fingere di dormire.

Il giorno dopo abbandonai mia madre alle porte del minimarket in cui lavorava, non prima di aver sopportato l'ennesima raccomandazione. Schiacciai l'acceleratore per vederla rimpicciolire nello specchietto. Finalmente ero libera. Musica della radio a palla, una mano sul volante, l'altra a reggere la sigaretta, gomito sul finestrino aperto, l'aria autunnale che mi arrivava in faccia calda, ma che mi recava un immenso sollievo contro l'abbagliante accetta dei raggi solari sulla mia pelle da morta.
Entrai in farmacia con ancora la musica in testa. Mi resi conto di stare canticchiando e mi ricordai che non ero degna di godermi un momento di spensieratezza, poichè mi attanagliò un subdolo senso di colpa nel reparto dei prodotti di bellezza naturali che stavo sbirciando mentre ero in coda. Uscii imbronciata, col sacchetto dei medicinali che lanciai incurantemente sul sedile passeggero. Come accesi il motore ripartì la radio su una canzone diversa, ma altrettanto gioviale. La spensi con un gesto scocciato e cercai di concentrarmi sul respiro prima che mi venisse un attacco di panico.
A mia madre non avevo mai detto delle crisi che mi prendevano quando il mio cervello andava in sovraccarico. Anzi, ufficialmente era stato solo il periodo - di cui aveva personalmente definito la data di inizio e di fine - della mia depressione da lutto. Non sapeva che mi venivano ancora, ogni tanto. Cosa sarebbe servito dirglielo? Un bel niente. Avrei guadagnato solo qualche frecciatina sulla mia immaturità e il mio bisogno di attenzioni. Nel migliore dei casi mi avrebbe ignorata, sottovalutando il problema. Che poi non c'era nessun problema da prendere sul serio. Me la stavo cavando benissimo.

Arrivata al tabacchino, mi spinsi contro la porta con tutto il corpo. Alla cassa c'era già una signora anziana che contava i centesimi uno ad uno. Mi feci un giro tra gli scaffali delle riviste per comprarne una di quelle che piaceva tanto alla donna attualissima che era mia madre. All'improvviso non mi ricordavo più quale fosse il nome preciso. Ravanai un po' tra le file dei giornali, ne sfilai cinque o sei per confrontarli. Erano più o meno tutti uguali, parlavano tutti delle stesse cazzate, tutti richiedenti lo stesso infimo quoziente intellettivo di coloro che si ingozzano di reality, pettegolezzi e patetiche storie d'amore e non si acculturano di nient'altro. Era incredibile quanti ce ne fossero di editorie diverse. Ne infilai sottobraccio tre a caso, ma nel tentativo di collocare gli altri al loro posto mi scivolarono tutti ad uno ad uno. Mi piegai per raccoglierli, masticando un'imprecazione contro la mia maledetta goffaggine. Sorrisi per rassicurare il tabaccaio, il quale aveva allungato il collo per capire il guaio che avevo combinato. Dopo aver sistemato tutto, presi le riviste che volevo portarmi a casa e trovai un fumetto che era finito sotto il mobile. Rimasi qualche secondo in più con quello in mano, incantata dal disegno della copertina. Dovetti prendermi qualche secondo per scostare l'immagine di Greg disteso sul letto, che non voleva essere disturbato finchè non aveva finito anche quel numero. Una volta mi aveva lanciato un cuscino in faccia talmente forte, per cacciarmi dalla stanza, che mi si era gonfiato l'occhio. A casa ne aveva una libreria intera. Chissà cosa ne aveva fatto la zia.
Sentii di nuovo mancare l'aria. Mi voltai per trovare un buco in cui nasconderlo dalla mia vista, ma era pieno zeppo di altri fumetti e riviste offensive all'intelligenza umana e mi ritrovai a lottare contro la voglia di prendere l'accendino che avevo in tasca e dare fuoco a tutto.

-Ti sei messa a leggere fumetti?

Mi voltai alla voce familiare, quasi spaventata, come se fossi stata colta sul delitto. C'era Kenny davanti a me, con un drastico taglio di capelli che gli scopriva tutta la testa. Mi ci volle qualche istante prima di inquadrarlo senza i suoi amati dreads.

-Oh, emh... No. Veramente lo stavo mettendo a posto. - Dissi, innervosita, gettandolo in un buco a caso. Finsi un sorriso innocente. - Tu hai... hai tagliato i capelli!

-Sì, un po' di tempo fa. - Ribattè, frizionando una mano sul capo spoglio. - Come stai?

-Bene... tu?

-Normale... Non ti ho più vista in giro.

-Non esco molto ultimamente.

-Se ti va... c'è una festa da Dave stasera, non so se lo conosci.

-Sì... Dave, quello del giornalino scolastico.

-Esatto. Abita verso la zona industriale. Ha un'enorme casa con la piscina. È l'unica della zona, non ti puoi sbagliare.

-Ah, sì ho capito.

-Bè, ecco se vieni, ti distrai un po'. In nome dei vecchi tempi, almeno. Ci sarà un po' di gente e un botto di roba. Cibo, alcol... anche... qualcosa di più... Sarà fico.

-Ci penso.

-Bene. Bene...

Ci guardammo attorno per un po', in imbarazzo perché avevamo finito gli argomenti e nessuno dei due voleva affrontare quello più grosso.

-E Jimmy? Tutto a posto?

-Sì, sì. Lavora nel negozio di videogiochi in fondo alla strada. Non l'hai mai visto?

-Non frequento molto negozi di videogiochi.

-Ah... bè, comunque sì, lui è a posto.

-Vi vedete ancora?

-Oh, sì, certo, sempre! - Poi si rese conto di aver fatto un gaffe. - Cioè, non proprio tutti i giorni... Ma... Ecco... - Posò quello che aveva in mano, mi fece un sorriso che era tutto una falsità dente per dente. - Bè, io vado. Ci vediamo stasera, allora. Ci conto, eh!

Lo vidi scivolare via dalla mia visuale con tutte quelle manovre pacchiane che facevano parte di uno show per distrarmi dalla sua figura di merda. Quei due mi avevano completamente tagliata fuori dalla loro vita. Per un periodo ero persino arrivata a chiamarli "amici". Aveva ragione mia madre. Dovevo aprire gli occhi.
Mi proiettai sul banco e chiesi due stecche di sigarette e una confezione di liquirizie che sarebbe finito nel giro di venti minuti.

Aprii un nuovo pacchetto di Morley nella via in cui abitava mia zia. In macchina, senza scendere, me ne fumai almeno quattro consecutivamente. Ci rimasi per ben mezz'ora, per decidere se scendere o meno, per scegliere se volessi turbare un cuore già in equilibrio precario o accontentare mia madre. Sapevo che anche solo tastare coi piedi il vialetto in pietra che divideva i due lati del giardino, avrei cominciato ad avere le palpitazioni. Non volevo nemmeno pensare al fatto di avvicinarmi a qualsiasi cosa che potesse riportarmi a momenti dolorosamente felici. Per non parlare di quando avrei visto le foto sui mobili o appese ai muri, le sue cose nella sua camera... Stavo già impazzendo, ed avevo ancora il culo sul sedile.

Vidi mia zia sbucare da un cespuglio con una paletta nelle mani inguantate, un annaffiatoio e un sacco che doveva contenere del terriccio

Vidi mia zia sbucare da un cespuglio con una paletta nelle mani inguantate, un annaffiatoio e un sacco che doveva contenere del terriccio. Si asciugò la fronte e poi tornò ad interrare una piantina. Mi stupiva e mi affascinava come quella donna ancora riuscisse a mantenere il suo giardino pulito e ordinato con tanta cura e raffinatezza, quando io non riuscivo nemmeno a tenere pulita e ordinata la mia stanza. Poi capii. Quel parco, quelle piante, quei fiori, erano l'unica cosa che la distraeva dai suoi pensieri, l'unica cosa che la teneva attaccata ad una vita che non esisteva più. Chi ero io per interrompere quell'intimità con la sua anima dilaniata? Con che coraggio avrei profanato quel momento così prezioso per il suo equilibrio, per sporcarlo di futili problemi terreni?

Buttai la sigaretta, feci inversione e tornai a casa.

Quando mia madre mi chiese se c'ero andata le dissi che non l'avevo trovata, al campanello non aveva risposto nessuno e che la vicina mi aveva detto che era partita qualche ora prima, ma non sapeva dove. Mi rimproverò di non esserci andata prima. Almeno non si lamentò del ritardo effettivo di tre minuti, perchè quando li passava chiacchierando e fumando in compagnia della sua amica collega, io potevo aspettare.

-Ho visto Kenny dal tabaccaio. - dissi, come se potesse compensare. Mi appoggiai al piano di lavoro, mentre lei cucinava. La mia attenzione si posò sulla televisione accesa, nonostante non stessi seguendo.

-Kenny?

-L'amico di Greg.

-Ah.

-Mi ha invitato ad una festa, stasera.

-Ci vai?

-Non lo so. Domani devo lavorare. E poi sarà pallosissima.

Aspettai una sorta di opinione che non arrivò. Continuò a tagliare le patate, con la sua sigaretta in bocca che andava assolutamente fatta scenerare. Gliela tolsi delicatamente dalle labbra e diedi un colpo di indice nel posacenere.

-Ci saranno i miei compagni di scuola.

-Oh, bene. - Imboccò la sigaretta. - Passami lo straccio.

-Se vado, farò tardi di sicuro. - La informai, per trovare ancora una scusa per non andarci.

-Portati le chiavi di casa.

Dopo una convincente e sentita esortazione di mamma Dahanam e una cena a base di pollo e patate che continuava a riproporsi, mi ritrovavo seduta sul letto a fissare la figura svogliata e immersa nel disastro, che mi osservava allo specchio. I pantaloni di una tuta vecchia e infeltrita, una maglia che dovevo aver lavato l'ultima volta un mese prima. La matita sfumata che colava agli angoli degli occhi, la pelle del viso ingrigita e stanca per le troppe notti insonni. Succhiai il piercing, come se potesse rivelarmi qualche consiglio su come trovare la voglia di vivere. Lavati, metti qualcosa di carino, ed esci dall'angolo punizione, mi imposi. La parte più pigra di me sospirò gravemente. Avrei dovuto vedere gente, mostrare simpatia, parlare, fare battute sarcastiche alla Trish, magari provare a rimorchiare qualcuno, tutto per far sembrare che ero ancora io, che non era cambiato niente, che nulla poteva sconfiggermi. Almeno c'è l'alcol, gratis, mi consolai. Mi alzai, evitando di chiedermi se volessi farlo davvero. Mi lavai, mi infilai quel paio di jeans strappati con la catena pendente che mettevo solo in determinate occasioni, cercai una maglietta non troppo aggressiva, qualcosa come una t-shirt scollata, semplice. Puntai sul grigio scuro, tradendo il rigoso nero che imperava nel mio armadio. La scritta "Feeling: off", tuttavia, mi salvava. Cercai di fare una linea decente di eyeliner, magari meno stile pugno in un occhio e alla fine dovetti rassegnarmi al solito look da punkettara, sebbene avessi fatto del mio meglio per non essere troppo me, ma nemmeno troppo non-me.

-Va bene. - Mi incoraggiai allo specchio. - Facciamolo. È l'ora di tornare in pista.

Seguii a spanne le indicazioni di Kenny. Seguii più che altro il mio udito, ad un certo punto: l'eco dei bassi si sentiva già a distanza di mezzo kilometro quasi. Seguii la gente che si avviava nel vialetto illuminato da pochi lampioni, qualche ragazza già ubriaca che non si reggeva sui tacchi. Per fortuna avevo optato su un paio di scarpe basse.

Scesi. Avrei preferito un cappuccio che mi coprisse il viso, perché ancora non ero sicura che sarei rimasta. Ero lì solo per vedere com'era la situazione. Dagli schiamazzi e dalla musica a tutto volume, doveva esserci davvero da scatenarsi. Ma io non sapevo se fossi pronta di nuovo per quelle atmosfere movimentate. E prima di aver preso una decisione, vidi il volto di Daryl uscire dall'ombra.

Si era rivolto ad un ragazzo, aveva sfilato qualcosa dalla tasca e quello se l'era preso subito. Colui che non doveva essere esattamente un suo amico stretto, mi passò di fianco tutto chiuso nel suo giubbino, passo svelto, per andare a gettarsi strafatto in qualche buco di discarica abbandonata.

Ormai ero lì. Ma non sarei mai entrata dalla porta principale, c'era troppa gente. Volevo entrare discretamente, scroccare da bere, qualche patatina, ambientarmi e far finire la serata come mio solito. Dovevo darmi una strigliata.
Drizzai la schiena, sistemai i capelli che mi erano caduti tutti davanti al viso, nel disperato tentativo di non farmi riconoscere, tirai su i pantaloni e giù l'orlo della maglietta. Presi un respiro profondo ed entrai in scena.

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Capitolo 10
*** Per un paio di nastri ***


Qualcosa per cui lottare | The Walking Dead

6.1 # Per un paio di nastri


Presente

Mentre torturavo la mia ultima unghia superstite, con il sedere incastonato nella pelle del divano, in un angolo appartato dell’ampia sala annebbiata dal fumo di sigaretta, seguivo con gli occhi le sagome dei lavoratori chini sui loro banchi o trafficare con pesanti casse in braccio, avanti e indietro dall’orto, ininterrottamente, come formiche all’opera. La mia mente cullata dal mite mormorio generale e la voce graffiata e consolante di Janis Joplin allo stereo. Le freccette di Arat colpivano il centro del bersaglio appeso alla parete ad ogni lancio. Appena finiva il mazzo, andava a recuperarle e ricominciava da capo.

-Ti sta cadendo la cenere.

Doveva aver staccato gli occhi dal quadrante giusto un istante, mentre raccoglieva una freccetta che le era caduta tra i piedi. Il corpo snello, i pantaloni che le fasciavano le gambe asciutte che tuttavia, nonostante il deperimento inesorabile, potevano ancora vantare di una certa imbottitura sui fianchi. Mi ricordava la me di qualche anno prima, ai tempi in cui riuscivo a tirare un pugno ad un sacco da boxe senza sentire i nervi accavallarsi, o stare in piedi ai concerti per ore continuando ad urlare e saltare, o correre sotto il sole senza dovermi fermare dopo mezzo minuto per riprendere fiato o recuperare la vista persa in un capogiro.

Stavo essiccando come una pianta. Lentamente, sprofondavo in qualcosa in cui non mi riconoscevo, qualcosa che non mi calzava bene, come i pantaloni da cui spuntavano le mie rotule appuntite che più toccavo e più mi sembravano dei pezzi di legno. Costringevo il mio corpo in prolungati strati di tessuto per evitare di sbandierare il mio tentativo conscio – seppure non dichiarato – di trascurare la mia salute. Simon non era l’unico ad essersi accorto del mio intimo piano di suicidio. Lo aveva ingigantito, come faceva di solito, psicanalizzandomi come una ragazzina anoressica. Anche Arat mi teneva d’occhio. L’ultima spedizione che avevamo fatto insieme era quasi finita a scazzottate, perchè aveva evidenziato con una battuta presumibilmente amichevole, il fatto che non riuscissi a tenere dritto il fucile senza che mi tremassero le mani. E Laura, che per l’ennesima volta si era messa in mezzo con un commento di troppo, si era quasi guadagnata una coltellata, la stessa che per merito di Regina andò a finire contro il furgone alle spalle della faccia-da-schiaffi, a pochi centimetri di quel codice a barre che la faceva assomigliare ogni giorno di più ad una vacca marchiata. Regina mi aveva tirato uno schiaffo a mano piena davanti a tutti, facendomi vergognare. Mi aveva minacciata di fare rapporto a Negan sulla mia cattiva condotta. La prossima volta che avrei alzato un’arma contro la sua protetta, potevo considerarmi già mezza sfregiata. Non ero certa che quelle due passassero le nottate a discutere di profondi argomenti filosofici, guardandosi graziosamente nelle palle degli occhi. D’accordo, dovevo riconoscere che spesso mi facevo prendere dai raptus, ma che colpa ne avevo se Laura si divertiva a lanciare benzina sul fuoco ed il mio umore era facilmente infiammabile?

I tempi morti avevano un significato vitale per i miei nervi, ma dovevo riempirmi la testa di qualsiasi cosa che potesse ammortizzare il pericoloso centrifugare dei miei pensieri. Janis Joplin era stata la mia salvezza per un po’. Non l’avevo mai ascoltata prima di allora così intensamente. L’avevo riscoperta nella casa di un paio di vecchi, schiantati prima che arrivasse il mio gruppo a fare razzia. Di rock, metal e simili avevo trovato poco in giro. La musica buona doveva tenersela qualche buon intenditore, gelosamente custodita nella propria cassaforte segreta. Avevo riempito un sacco di tutte le porcherie con cui il mediocre essere umano aveva arredato la mia stanza, credendo che potessi davvero accontentarmi dello scarto piuttosto di rimanere senza niente. Videocassette di soup operas anni novanta di milioni di puntate ripetitive e di scarsa ambizione intellettuale, musicassette e CD sprecati con canzonette frivole e sdolcinate. Avrei potuto uccidere persino per un po’ di Vivaldi o di Chopin. E quando avevo trovato quelle due musicassette impolverate, timbrate da un pennarello dalla calligrafia rotonda, “Il meglio di Janis”, me le ero intascate senza dar conto a nessuno, come fosse stata la cosa più preziosa che avrei potuto trovare. Non mi ero sentita così su di giri per della musica nuova da quando mi ero scaricata l’intera discografia dei Led Zeppelin. Adesso sì che il mio stereo aveva ragione di suonare!

-Maia?

-Che vuoi?! – Sbottai innervosita, per essere stata strappata al mio meditare.

-Ehi! Ti dai una calmata?! Comunque ti è caduta tutta la cenere addosso.

Quando me ne accorsi, ce l’avevo già sulla maglia, era rotolata lungo pantaloni, rannicchiata in un minuscolo gomitolo grigio e spruzzata ovunque.

-Cazzo…

La spolverai col palmo immediatamente, ma quella si schiacciò contro le trame del tessuto e mi macchiò di strisce su cui dovetti insistere. Sbeccai la sigaretta che avevo dimenticato a morire tra le dita e ritornai alla contemplazione delle formiche laboriose, a stuzzicarmi il dito con gli incisivi.

-A cosa stai pensando?

Strappai l’unghia e la sputai sul pavimento. Ammirai il filo rosso sotto la pellicina. Schiacciai l’angolino di pelle perché ne fuoriuscisse una goccia più sostanziosa, finchè il dolore non diventò quasi piacevole e mi portai il pollice alla bocca. Il sapore metallico del mio stesso sangue sulla lingua mi ricordava che fossi vulnerabile, che avessi ancora una possibilità per lasciare quel mondo infame, malgrado il mio corpo non volesse rassegnarsi alla resa. Che cosa c’era di così importante per cui dovessi protrarre una vita macilenta con tanto impegno? Per cosa o per chi sarei dovuta rimanere in piedi ancora a lungo? Non c’era più nessun destino. Nessun futuro in cui sperare. C’era solo un eterno e perenne presente che strascicava i piedi come del carcame ansante, da poco più di due anni.

Avevo contato due estati e due inverni da quando era iniziato tutto. Due estati e due inverni che avevano stravolto l'aspetto di ogni cosa, dall'ambiente esterno, alla vita quotidiana, al carattere di chiunque avesse imparato a sopravvivere. Era strano pensare come solo ventiquattro mesi potessero sfilacciare i tratti di una personalità come lo spago di una collana usurata... come quella che tenevo custodita in un cassetto che non avevo il coraggio di aprire. Ogni tanto mi tornava in mente. Ogni tanto sbucava all'improvviso per ricordarmi che non potessi dimenticare, che il mio passato fosse ancora presente, che l'avessi solo rinchiuso in una gabbia e che da dietro alle sbarre potesse ancora abbaiare e ringhiare e ferirmi.

Arat aveva smesso di giocare. Ora sorseggiava dalla sua lattina di aranciata. Mi fissava pretendendo una risposta con un’espressione ingrigita. Spesso faceva così. Si fermava, si adattava al mio tempo, alle mie pause... Cercava di capire in quale rovo cogitabondo mi ero incastrata. Puntualmente si accorgeva che non l’avessi ascoltata. In realtà in quel momento non sapevo nemmeno se mi avesse parlato. Tirai il filtro e il fumo denso si unì alla foschia già galleggiante nell’aria.

-Posso farti una domanda seria? - le chiesi.

-Dimmi.

-Devi rispondere seriamente.

-Okay. Dimmi.

-Quante persone, di quelle che conoscevi, erano ancora vive, quando hai iniziato a lavorare per Negan?

-Poche. Credo.

Dovette addolcire l’argomento con un sorso di aranciata. Un ricciolo bicolore le scese sul naso e dovette scostarlo con uno scatto del capo.

-Che fine hanno fatto?

-La fine che hanno fatto tutti... Sono morte.

-Non hai più rivisto nessuno?

-No.

-E se scoprissi che qualcuno fosse ancora vivo? Che faresti?

-Gli direi di unirsi a noi.

-E se si rifiutasse?

Sollevò le spalle, scosse un po' la testa.

-E per quale motivo dovrebbe? Abbiamo tutto ciò che ci serve qui. Un tetto, un letto, del cibo, alcol, armi per difenderci, delle mura, libri, musica, distrazioni...!

-E se avesse un altro luogo in cui tornare? Una famiglia… una casa?

Aggrottò le sopracciglia, fissando nel buco buio della lattina, mentre l’agitava in senso rotatorio per mescolare il fondo. Si lasciò distrarre dalla voce di qualcuno che stava urlando contro un lavoratore impigrito.

-Non lo so.

Schiacciai la sigaretta scroccata ad un collega, scavando uno spazio tra le carcasse arancioni e bianche raggrinzite nel posacenere. Tornai con la schiena affondata nel divano, tornai a mordermi un’altra unghia a filo della carne. Sfilai il coltello dalla cinta, il cui fodero spingeva contro il mio fianco con insistenza, per mancanza di spazio. Mi allungai per prendere la cote sul tavolo e mi misi a molare la lama che da tempo non vedeva ombra di cura.

-Uccideresti qualcuno a cui volevi bene… per Negan?

Alzai lo sguardo per assicurarmi che la domanda fosse arrivata a destinazione. Arat allontanò il bordo di latta dalle labbra, mi guardò fisso, con quegli occhi neri che si gelarono come se quel pensiero si fosse concretizzato nell’acciaio che stavo affilando e glielo avessi piantato nella schiena.

-Adesso esistono priorità che vanno oltre un semplice legame affettivo. – Rispose fredda, ma senza guardarmi negli occhi.

-Priorità… - Ripetei, tra me e me, riprendendo a molare. - Quindi non ci penseresti due volte a piantare una pallottola in mezzo alla fronte ad un tuo amico se te lo ordinasse Lui?

-Noi stiamo alle regole. Le regole esistono per una ragione. E le punizioni fanno parte delle regole. Quindi no. Non ci penserei due volte se un mio amico ci tradisse, uccidesse qualcuno dei nostri o cercasse di recarci danno. Va da se che non sarebbe più un amico, ma una minaccia.

Tornai muta, insoddisfatta delle risposte che ricavai. Notammo una sagoma avvicinarsi. Arat poggiò la lattina al tavolo e si rimise a lanciare freccette. Io abbassai la testa sul mio lavoro.

-Sei d’accordo con me, vero? - Mi domandò all'ultimo.

-Mh-mh.

L’equilibrio del nostro silenzio complice venne interrotto da un intruso. Dwight gettò malamente la sua borsa sul tavolo, tirò fuori un panino bruciacchiato, un barattolo di latta con un cane stampato sul lato, un aprilattine, un coltello, un cucchiaio. Si fermò a guardare Arat piuttosto innervosito.

-Non ti stufi mai a giocare con quelle ridicole freccette?

-È un allenamento. Con quell’occhio strabico che ti ritrovi, ti converrebbe farne un po’ anche tu. - Ribatté lei senza nemmeno voltarsi.

-Ah-ah! Che simpatica! Non sono strabico. E tiro meglio di te.

-Ti piacerebbe.

-Mi stai sfidando?

-Per carità! Non ho tempo da sprecare per umiliarti.

Dwight sogghignò, non troppo divertito. Percepii il suo occhio posarsi sulla mia figura, ma feci finta di non accorgermene.

-Chi ha messo questa lagna?! – sbottò, avventandosi sullo stereo.

Gli diedi una pacca sulla mano, l’impugnatura del coltello ancora stretta tra le dita.

-Se non vuoi che ti ficchi quel barattolo nel culo, metti giù le tue manacce dallo stereo.

Alzò le mani, alzò lo sguardo. Forse scambiò un’occhiata con Arat alle mie spalle.

-Non c’è bisogno di essere così aggressivi.

-Allontanati. – Lo intimai, lo sguardo parallelo alla lama lucida, puntato contro quella faccia tosta con cui aveva avuto il coraggio di disdegnare la ninnananna di “Summertime”, del 1967, come citava il foglietto nella custodia.

-Non sapevo avessi il monopolio della musica adesso.

-Ho il culo su questo divano da prima di te, lo stereo è mio, decido io. – Non mi importava niente se mi prendessero per pazza. Nessuno doveva avvicinarsi al mio stereo e soprattutto interrompere quella canzone.

-Giusto. – Arretrò.

Ritrassi il coltello. Ci soffiai sopra per pulire i rimasugli della bava rimasti attaccati al filo della lama. Dwight tornò alle sue cose, con un desiderio inappagato di prevaricare.

-Credevo che quella roba non l’ascoltasse più nessuno. Non conosci qualcosa di più moderno?

-Non c’è molta scelta ultimamente, sai? – fece Arat di spalle, forse per difendermi, per arrotondare gli spigoli di quella competizione a denti stretti.

-È difficile trovare qualcosa che piaccia anche agli intelletti meno dotati. – Sibilai tra me e me. Forse non mi sentirono. Mentre lo dicevo la lama scivolò sulla cote con un fischio secco.

-Almeno qualcosa di più allegro, qualcosa di energetico... Questa… questa sembra che stia soffocando davanti al microfono!

-Sempre meglio di quelle noiosissime fiction da casalinghe disperate che ti spari ad alto volume ogni sera. Mi stupisco che non ti abbiamo mai beccato con del gelato di un chilo in mano, un paio di pantofole pelose ai piedi e i bigodini tra i capelli. – Ribattè Arat, evitando il rischio che lo assalissi. Non potei trattenere un sorriso che insistette prepotentemente a trasformarsi in una risata sommessa.

-Non sapete apprezzare. – Mugugnò l'altro. Spaccò in due il pane che non doveva essere molto fresco, aprì il barattolo e cominciò a spalmare la sbobba al suo interno.

 Spaccò in due il pane che non doveva essere molto fresco, aprì il barattolo e cominciò a spalmare la sbobba al suo interno

-Cibo per cani? Che ci fai con del cibo per cani? Mica te lo mangi?! – Esclamai, esasperando una smorfia inorridita.

-È il pranzo per il prigioniero.

La mia mano si bloccò. Le mie labbra emisero un paio di sillabe senza che riuscissi a frenarle.

-Daryl...?

-Già! Devi vedere come si lecca i baffi… A volte mi supplica persino per avere il bis! – Disse con un ghigno che gli tagliava il volto da lato a lato.

-Stai scherzando, spero.

-Oh, no che non scherzo! - Ridacchiò.

La ricetrasmittente sul tavolo emise un rumore sporco. La voce di Negan esplose dall’altoparlante e non mi permise di approfondire l’argomento.

-Bè, buongiorno, cazzoni! Spero che non ve la stiate spassando troppo a grattarvi le palle, perchè oggi faremo una visitina alla simpatica combriccola del nostro nuovo amico Rick! Vediamo che cosa ci riserva di interessante quella merda di buco da dove provengono! Voglio Simon, Arat e Dwight come luogotenenti, tra due minuti nel mio ufficio. Squadra A e squadra B entro mezz'ora sui carri. Non gingillatevi.

-Vado a svegliare il cane. - Fece Dwight prima di andarsene, portandosi dietro il panino e la balestra, lasciando tutto il resto dov'era.

Arat fissò la ricetrasmittente alla cintura, finì la sua aranciata con un lungo sorso. Accartocciò la lattina e fece un lancio perfetto nel cestino a pochi metri dal tavolo.

-Vieni.

-No. Passo. - Risposi, osservando il filo della lama in controluce.

-Non è un consiglio, è un ordine. Tira su il culo.

Appoggiai la pietra sul divano. Pulii il coltello sui jeans e lo infilai nel suo fodero. Mi alzai in piedi. Le feci una faccia che esprimeva tutta l'energia che avevo in corpo. Arat mi spinse verso il corridoio.

-Ti farà bene un po' d'aria fresca. La smetterai di fare il corvo, stasera.

-Solo se infilzo qualche cadavere ambulante.

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Capitolo 11
*** Vigliaccheria ***


Qualcosa per cui lottare | The Walkind Dead

6.2 # Vigliaccheria

 

La strada scorreva veloce come un nastro trasportatore. I ciottoli e la polvere si alzavano sotto le ruote dell'autocarro che sobbalzava ad ogni buca nel cemento e nello sterrato. A singhiozzi ci ritrovavamo a saltare sul posto, picchiando la schiena contro il telo scuro che non ci proteggeva completamente dall'invadente e perseverante luce solare a cui non ero più abituata. Non osavo distrarmi dalla scia di terreno che ci seguiva allungandosi per chilometri, assottigliata e sfuggevole aldilà delle insenature del boscame o schiacciata sotto le dune dei pendii. Alzai gli occhi su Arat che dal mio fianco aveva allungato una mano per calmare la mia gamba ballerina. Essa aveva deciso di battere un tempo irregolare, seguendo il ritmo del battito del tamburo inquieto nella mia cassa toracica. Non dovevo trovarmi lì, era sbagliato e il mio corpo stava cercando di segnalarmelo. Ogni minuto che passava, ogni metro di percorso che ci lasciavamo alle spalle, mi sentivo sempre meno al sicuro. C'era qualcosa che mi bruciava da dentro, assieme al reflusso gastrico che non mi abbandonava. Era una morsa alla gola, un cappio che mano a mano che ci avvicinavamo a destinazione mi strozzava sempre di più. Non sapevo che cosa avrei trovato all'arrivo e non ero pronta per scoprirlo. L'idea di dovermi presentare ad una faccia che avevo cercato di dimenticare, convinta che non l'avrei più rivista, lo sforzo che avrei dovuto fare nel fingere che non mi turbasse il suo giudizio e l'angoscia di non sentirmi all'altezza di ciò che tutto avrebbe comportato, avevano messo le mani sul mio traballante autocontrollo.

Arat si era accorta del mio disagio. Ora mi fissava imbronciata, tra il preoccupato e il rimproverante, cercando di capire a cosa stessi pensando o aspettando che la illuminassi io stessa. In realtà nella mia testa vagavano così tanti pensieri che non riuscivo a focalizzarmi su uno in particolare. Inoltre, aldilà il suo volto se ne nascondeva un altro, coperto da ciocche di capelli incrostati, la pelle nera di sporco, i lividi violacei che premevano in fuori per gonfiarsi e deformare i lineamenti già di per sé induriti dalla spossatezza. La schiena ricurva, il capo chino nascosto nell'angolo dell'abitacolo, i polsi legati con una corda secca, i piedi scoperti, terrosi, callosi, tagliati, trepidi... non sapevo se più per i sobbalzi continui del veicolo o per qualche altra causa che di proposito mi costringevo a sottovalutare, limitandomi a sperare di avere ragione. Dwight l'aveva spinto dentro come un bovino frastornato. Una bestia di ottanta chili, legata e calciata, costretta da un paio di braccia mingherline e una punta di freccia. Avrebbe potuto liberarsi facilmente con una testata, invece si era lasciato fare. Fiacco, lemme, rassegnato. Non riuscivo a tenere lo sguardo fisso su di lui. E allo stesso tempo, come mi voltavo verso Arat, non potevo evitare di lanciargli un'occhiata di controllo. E all'improvviso il lazo al collo mi premeva ancor di più, notando quei tratti occultati dagli anni, tanto simili e tanto distanti da quelli che nella mia mente continuavano a colpevolizzarmi.

Distolsi l'attenzione dai fuochi neri che bacchettarono la mia snervante agitazione. Un piccolo gruppetto di teste marce sbucò dalla giungla di piante ai lati della strada. Assaporai l'adrenalina del momento in cui avremmo dovuto ripulire manualmente il passaggio. Avevo bisogno di urlare e spaccare qualche cranio. Il capo ricciuto e bicolore occupava ancora insistentemente un piccolo angolo nella mia visuale.

-Perchè non sei salita davanti?

Arat lasciò passare qualche secondo di silenzio, ma io sapevo già la risposta. Stava cercando di tenermi al guinzaglio e la cosa mi ripugnava profondamente.

-Volevo cambiare un po’.

-Come no. - Ribattei aspramente. Le davo le spalle, ma lo stesso potevo sentire il peso della sua critica silenziosa, immaginandola incisa nelle sue iridi di pece.

-È meglio che resti vicina a me per qualche tempo. Almeno finchè non riconnetti il cervello.

Sbuffai dalle narici il principio di una risata sarcastica.

-Dico sul serio. Vedi di non farti riconoscere. Sei sotto la mia tutela.

Mi voltai per misurare la presunta superiorità con cui dettava ordini persino a me. Detestava quando schivavo il suo tono autoritario, ma mi tollerava per rispetto della nostra complicità. Era un mio superiore, ma solitamente mi trattava di pari livello, quasi come un'amica. E di certo io non ero una che stava dietro a tanti convenevoli da farle l'inchino. Una cosa simile non esisteva nel legame che avevo instaurato con Simon - al quale era scattata una sorta di istinto paterno nei miei confronti, per il quale ancora non avevo trovato un significato, sebbene mi facesse piuttosto comodo - o con Dwight, il quale dovevo rendere conto solo perchè aveva abbassato clamorosamente le mutande. E tutti sapevano che Negan teneva a cuore i pentiti. Ritenevo che lo avesse nominato suo braccio destro solo per tenerlo a bada. Dopo la sua fuga malriuscita, la sua presunta fedeltà, a parer mio, rimaneva piuttosto zoppicante. La sua debolezza stava in un corpo concreto, in un viso, una voce e un paio di mani che non avevano più diritto di sfiorare le sue. Una volta li avevo colti senza volerlo, lui e la donna il cui anello della promessa non era più al dito. Li avevo colti a parlare sottovoce, naso a naso, in un angolo buio in fondo a una delle scale che portano agli scantinati. E lui aveva beccato me, mentre si alzava per andarsene, dopo aver rifiutato una carezza dalle dita affusolate, le unghie perfettamente curate di lei, verso il segno accartocciato del vincolo che li aveva definitivamente divisi. Si era fermato su due piedi, mentre nel buio una sagoma si era alzata in piedi, le cornee lucide. Mi ero mossa a compassione. Sapevo che Negan aveva severamente vietato loro di vedersi in privato e il fatto che mi fossi schierata dalla parte dello sgarro, rendeva anche la mia persona in pericolo. Ancora non avevo capito se agli occhi di Dwight, il mio gesto solidale fosse apparso come uno scudo su cui contare, il principio di un'alleanza oppure se in mia presenza si sentisse solo eternamente sotto scacco. Ad ogni modo, mi doveva un favore, se non la vita stessa.

Io e Arat invece ci eravamo impegnate un po' di più l'una con l'altra, sebbene non fosse iniziato nulla di volontario nemmeno nel nostro caso. Doveva essere scattato qualcosa quando ancora passeggiavo per l'infermeria aggrappata all'albero delle flebo. La rivedevo che veniva a portarmi cibo e compagnia, con quel suo fare frettoloso e quel perenne muso lungo perché voleva uscire a sparare, invece che badare ad una trovatella. Avevamo scoperto di avere molte cose in comune, tra cui il perenne broncio amaro che avevo imparato a portare come una maschera difensiva, come avevo imparato a sparare. Non sapevo molto di lei, a parte che era stata nell'esercito per seguire le orme del padre e lei non aveva domandato oltre a ciò che ero stata disposta a confidarle. Pochi dettagli della mia vita pre-apocalisse, ancora meno di quella che tenevo privata anche alla mia coscienza.

Sostenni lo sguardo brusco che mi rifilò mentre caricava il fucile e lo puntava verso le silhouettes nere che barcollavano faticosamente nell'inseguire il rombo dei motori. Ero sicura che anche senza mirino di precisione avrebbe fatto fuori ad uno ad uno quegli sgorbi sganascianti.

La corsa iniziò a rallentare, i freni striderono, i motori si spensero, il mormorio che ammazzava il tempo si acquetò. Ci trovavamo in mezzo ad un longilineo viale cementato che apriva in due il bosco statico dietro l'erbaccia cresciuta selvaggia ai lati della strada. Arat si affacciò.

-Siamo arrivati. - Annunciò mentre saltava giù dall'autocarro impugnando il fucile. Ad uno ad uno la seguirono tutti. Il prigioniero fu l'ultimo a scendere. Dwight gli aveva tolto la corda dai polsi perchè tanto non si sarebbe mosso con una freccia puntata alla sua tempia o a quella di un suo amico.

-Muoviti! - Lo incitò il mostro spingendolo in avanti. Ignorai a fatica le due iridi che, da sotto la cascata scura, mi trafissero per l'ennesima volta in un istante sottile, ma pungente quanto un fuso.

 Ignorai a fatica le due iridi che, da sotto la cascata scura, mi trafissero per l'ennesima volta in un istante sottile, ma pungente quanto un fuso

Ora eravamo tutti ammucchiati di fronte ai veicoli, di fronte ad un alto e rusticamente blindato cancello rosso. Negan avanzò, volteggiando Lucille nel guanto nero e fischiettando un motivetto allegro. Colpì le sbarre tre volte.

-Maialino, maialino! Fammi entrare!

Non ci volle molto perché un abitante della comunità facesse scivolare la grata opaca e si mostrasse agli imbucati. Dietro di lui una ragazza con un cappellino in testa e il tipetto corpulento dal singolare taglio di capelli che aveva pianto come un vitello la notte del primo incontro con la mazza vampira. Il ragazzo che aveva aperto, tuttavia, non doveva essere molto veloce a fare qualche calcolo mentale, poiché sembrò davvero convinto quando, con un pizzico di arrogante scherno, chiese chi fossimo. Fortunatamente per lui, Rick apparve alle sue spalle e si mise all'opera per compiacere il Capo.

Il cancello si aprì ad una cittadina dalle case ordinate, i giardini curati, i vicini sul pianerottolo usciti per aggiornarsi della novità. Per un attimo rividi mia zia chinarsi per recidere i rami di un cespuglio, sistemare le piante nelle aiuole, annaffiare i fiori nei vasi sul davanzale delle finestre. Si respirava aria ferma, calma, forse fin troppo glaciale, una pace spezzata dalla tragedia e dal dissapore. Non appariva come un campo di sopravvissuti. Era una vera dimora in cui campare in tranquillità come se il mondo non fosse cambiato, il giusto luogo in cui crogiolarsi, annegando nell'illusione che qualcosa di così raffinato come la civiltà non fosse mai stata dimenticata. Ma era solo un'immagine eterea. Solo un'altra volta ero entrata tra le mura di una colonia di sopravvissuti: mi ero lasciata accecare ingenuamente dallo splendore di una nuova rinascita, dall'energia che irradiavano le persone dagli occhi colmi di speranza, quasi avessero scoperto la cura di tutto il male e fossero riusciti a debellarlo come una malattia. Allora dovevo ancora scoprirlo che fosse solo una triste allucinazione: prima o poi il male trova il modo di infettare fino all’ultima goccia di purezza. Lottare è utile solo a rimandare la fine. Lottare non cambia il destino, che ti attende affilando l’ascia da guerra. La gente di Alexandria non doveva essersene mai accorta fino ad allora. Quasi sembrava non aver realizzato completamente cosa stesse succedendo. Ci squadravano rabbiosi, contraendo le palpebre umide e le labbra ricolme di rabbia repressa. Doveva essere difficile per loro vedere oggettivamente la realtà dei fatti. Perché infondo, non eravamo noi il problema. Il guaio lo avevano iniziato loro. Noi eravamo la conseguenza dei loro stolti sbagli, dei loro calcoli errati. Se in quel momento ci trovavamo a bussare alla loro porta, se entro poco avremmo sventrato le loro abitazioni di tutto ciò che ci aggradava, se ci eravamo portati un prigioniero per ricordare loro di risparmiarsi controproducenti atti eroici, era solo per colpa del loro ego sfrontato, del loro capobranco presuntuoso e irresponsabile che aveva osato ideare un attacco ad un nemico sconosciuto convinto di uscirne indenne.

Gli occhi di Rick erano quelli di uomo senza più risposte. La paura, il dolore, la frustrazione erano infissi nei suoi occhi rossi di pianto che avevano perso tutta la sicurezza, tutta la certezza, tutta la loro autorità. Ora si abbassavano per non scontrarsi contro il muro di pietra che si prendeva gioco di lui inchinandosi e affidandogli l’arma che aveva tagliato il filo della vita e la fiducia in essa.

Mi trascinai assieme al primo gruppo verso una delle proprietà, appena Arat diede l’ordine sguainando la sua voce folgorante. O per meglio dire, colsi l’occasione per nascondermi, rabbrividendo all’idea di risentire un nome che non mi apparteneva più, sebbene la bocca di colui che avrebbe potuto smascherarlo, non era presente tra le altre. Forse da qualche parte a bere o a infilzare zombie col suo artiglio. Mi augurai che fosse così e che fosse uscito per un giro piuttosto ampio. Mi ripromisi che mai più avrei messo piede ad Alexandria perché altra fortuna non mi sarebbe ricapitata.

I miei colleghi si misero a ficcare il naso nel salotto della villetta, spostando mobili, riempiendo le borse di ogni utilità o comodità.
Entrare in una casa profumata di detersivo per pavimenti, dalle tende linde e i soprammobili spolverati, mi diede una sensazione di tale straniamento, quasi fosse tutto irreale, come gli elementi di sceneggiatura su un palcoscenico. Gli scatti appesi ai muri ritraenti volti rilassati e luminosi, erano così distanti dalla mia anima corrotta…

Rovistai un cassetto del comò posizionato all’ingresso, per compensare il vuoto che mi premeva sotto le costole e per non mostrarmi senza lavoro da fare. Esultai quando trovai un pacchetto di sigarette a metà e una scatoletta di metallo contenente delle caramelle alla frutta. Mi cacciai una caramella in bocca - il resto finì nella tasca della felpa – e ravanai cercando un accendino. Curiosai in altri cassetti, in cerca di qualche altra sorpresa succulenta. Nell’ultimo erano custoditi un modesto malloppo di fogli da stampa e una cassetta degli attrezzi. Nel primo, tra le penne e le matite spuntate, una gomma tagliata in due, un rotolo di scotch, un paio di forbici e una serie di cacciaviti fuori posto, affogava un taccuino tascabile legato da un elastico ingrigito.
Come lo aprii, mi caddero ai piedi alcune carte, due fotografie polaroid e un foglio ingiallito piegato in quattro. Mi accucciai per raccogliere tutto, mentre alle mie spalle qualcuno aveva spaccato del vetro o della ceramica, accompagnando il fragore con un sogghigno e un’imprecazione. Dispiegai il foglio a quattro, dopo aver gettato nel cassetto tutto il resto: era un disegno. Quattro figure erano state disegnate con pastelli a cera, su ogni capo era appesa una scritta: “mamma”, “papà”, “Ron”, “io”. Una casa. Un albero. Un sole giallo con la faccia. E poi un cancello rosso accanto alla casa. “Alexandria” riportava la scritta in nero sul cartello. Lanciai anche il disegno nel cassetto che chiusi in fretta. Non volevo saperne niente. Mi sentii quasi colpevole di un inflazione, invadente, tanto quanto la sensazione di soffocamento che stava avvelenando il mio petto, privandomi della poca aria che girava in quel breve, ma stretto corridoio.

I miei occhi si spostarono immediatamente verso le scale che portavano al piano superiore. Sapevo che mi sarei fatta solo del male, ma la mia curiosità era troppo forte: dovevo togliermi lo scrupolo. Salii i gradini come un’ascesa all’inferno.

Di fronte a me si allungava un corridoio, un tappeto disteso sul pavimento, tre porte ai lati delle pareti, probabilmente due camere da letto e un bagno. Da una parte c’era la stanza di un certo “Sam”. Sull’altra porta era appuntato un messaggio chiaro e determinato: “State fuori”. Sbirciai nella stanza di Sam che ben presto intuii, dai giocattoli sparsi come soprammobili, fosse l’artista dell’opera d’arte nel cassetto.
Non ce la feci ad entrare. Non tolsi nemmeno la mano dalla maniglia che si chiuse con forza, in uno scatto di rifiuto sotto la mia mano. Sarei dovuta uscire da quella casa in quel momento. Lì com’ero, avevo i piedi incollati al pavimento. I palmi sudati che dovetti richiudere in un pugno per riacquistarne il controllo. Sarei dovuta andarmene e lo avrei fatto, se la porta che intimava di rimanere fuori non fosse stata chiusa completamente, quasi per sfida. Entrai come una furia.

Il letto alla mia destra era vuoto, la stanza ordinata, la finestra chiusa. Mi sarei aspettata di trovarmi davanti un marmocchio lamentoso che leggeva o giocava disteso sulle coperte ripiegate. Invece era un’altra malinconica stanza vuota. La scrivania alla parete, occupata solo da un portapenne privo di matite colorate e una lampada che illuminò il piano, quando andai a premere il bottone. Sopra di essa, una mensola sosteneva alcuni fumetti e statuette di personaggi di chissà quale videogame. Ma ciò che mi fece sussultare, fu l’mp3 attorno al quale erano arrotolate un paio di cuffie bianche. Me ne appropriai all’istante. Curiosai nella playlist, scorrendo tra i vari artisti pop e indie. Sconsolata di non trovare alcuna canzone vagamente di mio gusto, stavo per abbandonarlo dov’era, quando il mio dito cliccò il pulsante che chiuse la cartella aperta e sul display apparve una lista di titoli nuovi. Feci scivolare il dito sulla freccia in basso. Non potè non stuzzicarmi una cartella nominata con il simbolo delle corna: "lmL". Era come se il proprietario stesse cercando di farmi l’occhiolino. Non potevo non accettare l’invito.

Mi sedetti sul letto, infilai un auricolare nell’orecchio, tenetti premuta la freccia in basso e lasciai partire la prima canzone che mi capitò. Ne ascoltai due o tre senza lasciare che finissero, euforica e impaziente. Non c'era molta della musica che ero solita ascoltare giornalmente, niente di troppo pesante, prevalentemente titoli discretamente famosi. Alcune canzoni non erano nemmeno del genere. Il solo fatto che ci sia una chitarra acustica non fa rock una canzone... Quanto avrei voluto urlarlo in faccia all'autore di quella dannata playlist!

La riproduzione casuale mi propose "What if I was nothing" degli All That Remains. Una pugnalata a tradimento. L’ultima volta che avevo ascoltato quella canzone dovevo essere stata di ritorno a casa dopo un estenuante turno al Ginger Beard. Dovevo assolutamente farne partire un’altra poiché il fiato mi si bloccò in mezzo alla gola. Soprattutto perché ad un certo punto, nella mia testa, il cantante non aveva più la faccia di Philip Labonte, ma quella di un’altra persona. Ma il peggio doveva ancora arrivare. Poiché quando scesi ulteriormente, osando, insediandomi più in profondità, il mio dito si fermò sui Motorhead.

Le corde del mio cuore vibrarono come quelle arricciate di una chitarra bruciata, come quelle di un pianoforte scordato, dimenticato in una stanza umida, fredda e polverosa. Il mio pollice si congelò sul tasto, indeciso se cliccare o esitare ancora. Nelle mie orecchie le cuffie urlavano per dirmi qualcosa che non volevo sentire.

"E se non fossi stato niente?"

Che cosa avresti fatto?
Cosa avresti fatto a mio fratello?
Gli avresti sparato in faccia in quel
corridoio che puzzava di piscio
e della tua vigliaccheria?

"E se non fossi stato niente?"

Mi avresti abbandonato come hai fatto?
Te ne saresti andata prima?

È per questo che mi hai cancellato?
È per questo che ti comporti come quelli che hanno depravato mio fratello?

È così che ti comporteresti se non fossi stato niente,
se non fossimo stati niente, per te?

"E se non fossi stato niente?"

Mi odieresti tanto quanto odi
la paura di rivedere il mio brutto muso?
Perchè lo sai, se fossi qui te lo direi quanto sei vigliacca ed egoista
a non riconoscere che non sono mai stato "niente",
che non siamo mai stati "niente".

Cosa vuoi fare?

Vuoi essere come loro?
Bè, lascia che ti dica una cosa:
non hai speranze.
Non puoi tenere gli occhi chiusi ancora a lungo.

Alza quel tuo culo bianco e dimostrami
che ti ho insegnato qualcosa!
Dimostrami che non sono stato "niente"!

Mi strappai gli auricolari dalle orecchie, come per liberarmi da un groviglio di dita che mi stritola per risucchiarmi ancora più verso il fondo. L'mp3 incontrò violentemente il muro. Ad assistere alla scena, un ragazzino dai capelli lunghi e una benda sull’occhio. Il figlio di Rick si era fiondato nella camera con aria guerrigliera. Mi fissava con il suo unico occhio come per volermi tagliare in due. Il mio coltello sfoderato, pronto per difendermi, lo spinse ad allungare la mano verso la pistola. Mi alzai in piedi con cautela, studiando la quantità di coraggio o di stupidità con cui mi stava tenendo sulla punta di una spada invisibile. Mi costrinse a disarmarmi. Si abbassò per raccogliere l'mp3 da terra, senza smettere di cerchiarmi nel mirino. Si rigirò il dispositivo tra le dita, pigiò qualche tasto per controllare che fosse ancora funzionante.

-È tuo? - Chiesi con distacco, sperando che qualche chiacchiera informale lo tranquillizzasse.

-Che ti importa? Lo hai quasi rotto.

-Mi dispiace. È da un po' che non ascolto musica decente. Devo essermi lasciata emozionare. Ho visto che ha si sta scaricando.

-Grazie per l'informazione.

-Hai il caricabatterie? Te lo chiedo perchè è un modello un po' vecchio e se avessi perso il cavo, non so se potresti trovarlo da qualche parte.

Sbuffò dalle narici come fanno gli adolescenti quando fai loro una domanda noiosa.

-Non lo so. Io non lo uso. Era di un ragazzo che abitava qui.

-Abitava?

Ci mise un po’ per rispondere. Era combattuto, non voleva compiacermi. Me la buttò lì, quasi come per farmela pesare.

-È morto. Tu e i tuoi amici state profanando questa casa. Dovete andarvene.

Stringeva l'impugnatura della pistola come si stringe un giocattolo. Doveva avere tra i tredici e i quindici anni, ma si atteggiava da uomo autoritario come se fosse una cosa normale alla sua età. Quelle guance tonde da bambino non gli si addicevano per niente. Su quel viso pulito ci avrei visto bene la barba del padre. Mi chiesi se avrebbe davvero avuto il fegato di premere il grilletto per un mp3 che non era nemmeno suo.
Ci mise troppo per pensarci. Qualcuno da fuori lo anticipò: un tuono lontano, sulla strada, spaccò l'aria elettrica. Ci guardammo indecisi per qualche istante, indovinando da che fazione fosse partito il colpo. Un secondo dopo galoppavamo sulle scale. Lo raggiunsi sul pianerottolo. Lo afferrai dalla camicia, gli portai un braccio al collo per trattenerlo dall'accorrere armato di ira e pericolosa fiducia in sé stesso.

-Non fare stronzate, ragazzo. - Lo avvertii, il metallo freddo pronto a premere contro la guancia rosacea.

Nell'obbiettivo, una ventina di metri più in là, c'era Negan che sollevava una pistola scintillante a mezz'aria. Aveva sparato contro la finestra della villa di fronte. Mirava adesso alla testa di Daryl, il quale non alzò nemmeno lo sguardo, andava avanti indietro caricando un autocarro di armi, senza protestare, come un automa. Davanti a loro, Rick rimaneva a guardare indeciso e impotente.

Fu un attimo. Non ci vidi più.

Lasciai andare il ragazzo, spingendolo di lato perchè mi cedesse il passaggio. Mi precipitai in mezzo alla strada, scossa dal timore di sentire un altro sparo. Non ero certa di cosa avrei fatto se Negan non avesse abbassato l'arma, ma le mie gambe erano pronte a scattare. Un grumo di angoscia mi premeva in gola, un bruciore distante mi tagliava in due il palmo.

All'improvviso avevo gli occhi di tutti addosso. Fu allora che mi resi conto di aver urlato. Forse il nome di Negan, temetti quello di Daryl, magari solo una semplice sillaba, non ne ero certa. Sapevo solo di essere al centro dell'attenzione e di aver fatto la cosa più stupida che potessi fare: uscire allo scoperto.

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Capitolo 12
*** Sgretolamento ***


Qualcosa per cui lottare | The Walking Dead

6.3 # Sgretolamento

 

La sottile striscia rossa sul mio palmo si era ramificata lentamente tra le trame della garza. La osservavo emergere dagli strati di tessuto come la lava ormai fredda di un cratere pigro, combattendo contro il desiderio di spremerci dentro le dita per farne uscire di più rapidamente, per sentire il bruciore affondare nella carne e fischiare come una lama incandescente invece di percepirlo sussurrare debolmente. Fissavo la fasciatura non più candida, la mano morta che tenevo appoggiata sull'altra, come se non appartenesse al mio corpo, come fosse un calco di gesso e non rispondesse ai miei comandi. Le dita che mi avevano medicato si muovevano veloci in un gioco di incastri di carte, si fermavano un istante per grattare la faccia della mia curatrice e tornavano ad intrecciarsi in movimenti meccanici,  sbucando dai guanti usurati, incoronate da delle unghie scure e scheggiate, bloccate nella linea del mio sguardo ipnotizzato.

Al ritorno, i pozzi neri di Arat non avevano smesso di lanciarmi occhiate tra il rassegnato e il biasimo, per poi scivolare al sole, tra le fronde del bosco e il cancello rosso che dopo la discesa era svanito anche dai nostri pensieri.
Dai loro, per lo meno.
Perché io con la testa ero ancora in mezzo a quella strada, davanti alla casa del figlio di Rick. Ero in piedi, davanti alla pistola puntata contro la testa di Daryl. La gola bruciante, sentivo sulla mia pelle lo sguardo spiazzato di Negan, il colpo che non era ancora partito, ma che risuonava nella mia testa come una campana, come se un enorme pendolo in ottone mi avesse colpito in pieno petto e mi sbattesse da una parte all'altra senza rallentare. I miei muscoli erano carta velina. Le sopracciglia folte del Capo erano randelli premuti sopra due lobi di fuoco. Sapevo cosa significasse quello sguardo: "Se decido di uccidere qualcuno, lo farò. E ucciderò chiunque si metta in mezzo".

-No?

-Mi... serve... per terminare l'indagine! - avevo farneticato. Interminabili secondi di folle silenzio si era intromesso tra di noi, facendomi sudare freddo. Finchè le pieghe di un sorriso indecifrabile non solcò le guance barbute del Diavolo e io dovetti trattenere il respiro per paura del suo significato.

-La nostra piccola Maia... Forse non hai tutte le rotelle fuori posto! - aveva esclamato in seguito, infilando l'arma dietro l'orlo dei pantaloni. Poi aveva fatto un cenno con la testa ad Arat e aveva ordinato a tutti gli altri di tornare al lavoro. Arat si era scusata, abbassando la testa, come per assumersi la colpa della mia esistenza.

-Cosa diavolo fai? - mi aveva domandato, serrando la voce ad un tono di rimprovero abbastanza alto perchè lo sentissi io e non gli spettatori alle sue spalle. Aveva raccolto il coltello e se lo era pulito sulla coscia per poi infilarselo nella cintura. - Conosci il significato di "non attirare l'attenzione"?! - aveva sussurrato. Fu un sibilo talmente elquente fischiato tra i denti che mi era sembrato, per un momento, che avesse urlato. - Non ti aspettare di passarla liscia. Ti beccherai una strigliata, più tardi. Se non lo fa davanti a questa gente, è per non mostrarci in contraddizione l'uno contro l'altro. Divisi uguale deboli.

-Non mi sgrida perchè sono pazza. - Negan non avrebbe sprecato energia inutile per me. Al massimo mi avrebbe fatta fuori. Arat fece finta di non sentirmi. Lo faceva spesso quando affermavo cose del genere. Forse per non confermare. Sono davvero pazza, Arat?

-Le sentirò su anch'io, perchè ti ho fatta venire qui. - aveva borbottato, mentre mi avvolgeva la mano nella maglia e la stringeva tra le sue.

-Scusa. - ero riuscita a dire senza guardarla. Tuttavia, non era unicamente Arat il destinatario delle mie scuse. Ma il capo reclinato e ricoperto dalla chioma incivile e melmosa che si era bloccato a fissarmi.
Mi aveva visto. Aveva visto il mio terrore. Aveva visto che dentro di me si muoveva ancora dell'affetto verso di lui. E io, più incredula di chiunque altro, dovetti dargli ragione. Ero stata sconfitta da un gioco sadico, ero stata sconfitta da un bluff.

Quindi era questo il mio limite. Mi lasciavo atterrare dall'idea di perdere un legame antico e sottile per cui avrei dovuto avere l'accortezza di accertarmi che esistesse ancora e non fosse sopravvissuto solo nella mia mente, prima di rischiare la mia vita per salvarlo.
Quindi era questo il mio verdetto. 
Credevo di essere in grado di portare avanti l'immagine della perfezione, incarnata in un nuovo nome, per offrire contro il dolore del mondo, un modello, una figura d'appoggio verso il distacco emotivo, verso l'indistruttibilità.

Era tutta apparenza.

Ero io ad aver bisogno di quel modello, ero io ad appoggiarmi a qualcosa che non mi facesse più temere la paura. Cercavo di combaciare al mio stesso idillio, credevo di essere diventata io stessa il mio obbiettivo. Invece avevo appena scoperto di esserne ben lontana.

Mi stavo sgretolando.

Stavo cadendo a pezzi. E tutto per un uomo e un mucchietto di reminescenze. La sua ricomparsa, mi aveva strappato dalla mia bolla di sicurezza, per sbattermi di nuovo in mezzo al pericolo, per farmi ricordare com'era sentire il cuore pulsare di nuovo in gola.

Stava riemergendo per lui.

Un frammento di Trish si era riacceso e aveva scalpitato, aveva spinto le mie gambe, i miei muscoli rinsecchiti, aveva tirato le mie corde vocali arrugginite per protestare. Ciò significava solo una cosa: non l'avevo mai uccisa. Non ero riuscita a soffocarla, a schiacciarla, a disintegrarla. Lei era ancora là, nascosta, pronta a battersi di nuovo, forse stanca, un po' tramortita, ma ancora forte, ancora mordace e temeraria. Lei non aveva paura né della morte, né del giudizio, né del dolore. Lei era lì, rannicchiata in una scatola, al buio di una cantina, che al momento giusto si faceva spazio in Maia e si faceva valere, urlava, scalpitava, mandava all'aria tutto il lavoro che avevo fatto su me stessa per trasformarmi nell'arma che mi avrebbe difeso dai vivi, dai morti e dal mio cervello.
Era lì. Era sempre stata lì e non l'avevo sentita. Era lì che mi giudicava, era lì che rideva di me, di come avevo pensato di sfoderare la mia vergognosa ignavia scambiandola per ricchezza, per saggezza, per un'arma infallibile. Era lì che, con la pressione di un dito, spingeva contro il vetro che mi difendeva da lei, un colpetto alla volta, minacciando la mia incolumità mentale. Era lì e l'avevo ignorata per tutto il tempo.

Ero lei e non volevo ammetterlo.

Avevo capito in quel momento che mi stessi introducendo in una battaglia persa. Lei era più tenace di me, era più coraggiosa e avrebbe rischiato fino all'ultima goccia di sangue per i suoi valori, per un vecchio amico. E io cosa avrei fatto per resisterle? Non avevo nemmeno la forza di scaraventarle la porta in faccia e tenerla chiusa, perché lei ci avrebbe battuto i pugni senza demordere, l'avrebbe sfondata a spallate per calpestarmi, per puntarmi il dito in faccia e farmi la paternale.

Il vigore di una ragazzina inarrestabile, spinta da giovani speranze, contro un vuoto involucro di cartone illuso di potersi trasformare in un blocco di marmo.

Ero esattamente come la mia mano. Apparentemente rigida e insofferente, ma con una voglia intensa di muoversi, fregandosene del fatto che ciò comporterebbe a farsi più male.

-Taglia.

Osservai il mazzo di carte sgualcite, sbavate e sbeccate che si era piantato tra me e il mio bicchiere di rum, come un oggetto alieno. La musica blues che suonava placidamente dalle casse rincuorava persino la coesistenza di me e Laura nella stessa stanza, finchè lei sarebbe rimasta sul divano a giocare con quel vecchio videogioco senza fiatare.

Trascinai il braccio senza curarmi di non far notare la fatica che accompagnava il gesto, per via dell'intenso lavoro che avevano subito i miei muscoli per tutto il giorno. Mi ero dovuta fasciare anche le nocche e il polso. Evitai di pensare agli sguardi che si incrociavano indiscretamente ogni volta che le mie mani uscivano da sotto il tavolo. Sollevai più o meno la metà delle carte, tra pollice e medio, e la posai accanto alla pila di poco più alta.

-Hai scoperto qualcosa sui prigionieri scappati? – mi chiese Arat distribuendo la prima mano partendo dalla sua sinistra: Regina, Simon, Dwight, io e infine sé stessa.

-No. Il vecchio è svenuto dopo cinque minuti. Abbiamo dovuto chiuderlo in cella per farlo riprendere.

-Una scena pietosa. – Bofonchiò Simon scrutando le sue carte. – Si è pisciato sotto. Letteralmente. Vi lascio immaginare.

-Quindi siete ad un punto morto?

Risposi con un muggito breve. Separai una ad una le carte nella mano più sana, ma meno capace. Fante di bastoni, sette di coppe, tre di spade e la briscola era a denari. Dovevo stare attenta.

-Come si chiama quella ragazzina con i capelli biondi, lunghi, che lavora per i punti, giù, alla sezione vestiario? – chiesi a chiunque potesse ascoltare. - Quella che sta con quel belloccio che lavora all'orto? - alzai gli occhi per vedere le facce ignare dei miei avversari formare smorfie e scuotere la testa.

-Non ho la più pallida idea di chi tu stia parlando. – Fece Regina lanciando un quattro di coppe con scarso interesse.

-I piccioncini? – Esclamò Simon. Non ero certa che fossero la stessa coppia che intendevo io, così aspettai a reagire, per esserne certa. – Ma certo! Bassina, gli occhi sempre a terra. Carina... – accompagnò l'ultima accezione con un sorrisetto che ritenni totalmente inadeguato, quasi con una leggera sfumatura di perversione. Si grattò un baffo. Sfilò titubante una carta dal trio che custodiva tra le dita e la fece cadere sul quattro di coppe. Tre di denari. Perché sprecare una briscola così alta fin da subito dopo una carta senza punti? O nascondeva un carico troppo elevato per permettersi di rischiarlo, o gli era capitato l'asso di denari e voleva tenerselo per l'ultimo giro e l'altra carta voleva risparmiata, oppure aveva deciso di giocare di provocazione. Oppure ancora, ma non meno probabile, non sapeva giocare.
Dwight ci pensò un po'. Poi gettò un cavallo di spade con sprezzo. Bevve dal suo bicchiere il dito di rum che stagnava sul fondo. Scartai il sette di coppe. Arat gettò un re di denari. Anche lei doveva avere una bella mano per sprecare un carico di briscola, ma a differenza di Simon, ero certa che sapesse quello che stava facendo. La prima mano andò proprio a quest'ultimo. Fortunato, suo malgrado. Pescai dopo Dwight. Due di bastoni. La fortuna non era dalla mia parte.

-Nessuno sa come si chiama?

-Boh.

-Perché ti interessa? – mi chiese Simon. Lanciò un'altra briscola con disinvoltura, una bassa questa volta, un cinque. Supposi perché gli era andata bene la prima volta, allora aveva pensato di tentarci di nuovo. Dwight gli rispose con un sei di spade, io con il due di bastoni: non avevo intenzione di rischiare. Sette di denari, cinque di bastoni. Un round senza punti. Andò tutto ad Arat. Pescai un re di denari.

-Così. L'ho beccata che mi seguiva in corridoio.

-Come "ti seguiva"?

-Si è scusata dicendo che doveva portare una cosa a Negan, ma che poi si era persa. Allora mi sono proposta di portarla da lui, ma all'improvviso aveva cambiato idea.

-E tu che hai fatto?

-Ho insistito. Lo presa per un braccio e lei è messa a piangere.

Questa ragazza è una frana, avevo pensato subito. Tremava come una foglia ogni volta che uno di noi le rivolgeva parola. Sembrava sempre sul punto di crollare. Gli occhi perennemente arrossati. Mi sorpresi che nemmeno Laura si fosse fatta avanti per rispondermi. Una volta le aveva lasciato l'impronta della sua mano su una delle guance candide senza un motivo preciso, giusto per sfogare una sua frustrazione. Ricordo di aver dovuto tenere a freno l'istinto di prendere le sue parti. E qualche ora prima, quando avevo scorto i suoi tondi occhioni ingenui spiarmi da dietro l'angolo del muro, l'avevo rincorsa e l'avevo afferrata da un braccio, asciandole una traccia del sangue nasale del vecchio che stavano trascinando in gattabuia, sulla sua pelle troppo tenera, troppo delicata per questo mondo. Mi era sembrata così sbagliata la sua presenza che mi era venuta quasi voglia di sgridarla, di tirarle anche io uno schiaffo per farle capire che se non si fosse fatta anche lei i calli a quelle dita affusolate da bambina, se non avesse temprato il carattere, non sarebbe sopravvissuta a lungo nemmeno sotto la protezione del codice di Negan.

Ciò che mi aveva frenato dall'impartirle una lezione di sopravvivenza non furono le lacrime che si riversarono sulle labbra disidratate, come pioggia estiva sul suolo crepato, ma fu il mio riflesso nel suo sguardo che nonostante la paura, tentava ancora di resistermi, sollevandosi un attimo dopo essersi inginocchiato.
Mi ero rivista. Avevo visto un pezzo di Trish in lei. E Maia non era riuscita a respingerla, di nuovo. Avevo lasciato la presa. Trish l'aveva lasciata andare. "Vattene. Non voglio mai più vederti da queste parti" l'avevo avvertita freddamente. Era scappata come una ragazzina, come tale era. Una ragazzina che voleva ficcare il naso dove non doveva e che diceva bugie per farla franca. Praticamente era una Trish bionda e piagnucolosa.

-Cristo. – commentò Regina con una smorfia.

-Scusa, poi l'hai portata da Negan... Che ha detto? - Domandò Regina.

Non risposi subito. Mi rigirai il piercing tra i denti.

-Aspetta. Non l'hai fatto?

Feci spallucce.

-Nah... Mi era sembrato crudele. - Risposi dopo aver detto addio a dieci punti.

-Non avresti dovuto lasciarla andare così. Sei stata troppo buona.

Catturai la rimbeccata di Dwight come si afferra una freccia per aria. Era un attore sopraffino. Un doppiogiochista nato. Non mi aveva nemmeno guardato, per non far scattare alcun sospetto. C'era da imparare da lui.

-Nasconde qualcosa. – Avanzò Arat.

-Dici?

-Era lì per qualche motivo.

Era lì per qualche motivo, ripetei nella mente. Mi ero persa qualcosa. Analizzai la scena, il modo in cui si nascondeva dietro la parete per non farsi vedere e come era fuggita appena l'avevo notata, il modo in cui sembrava così colpevole quando si era messa a piangere. Forse era stata tutta una montatura. Forse mi ero lasciata ingannare. Ma il peggio era che stavo perdendo. Avevo visto passare troppi carichi. Il mio misero mazzetto di cinque carte con cui ero riuscita a conquistare sette punti stava borbottando il mio stesso pessimismo. Arat stava rimontando, portandosi a casa una montagna di punti. Dwight aveva iniziato a sbadigliare e ad imprecare coloritamente per aver lanciato la carta sbagliata, grazie anche alle lunghe pause che Simon si prendeva nello scegliere la mossa da fare, fingendo di aver una grande strategia di gioco, quando era evidente che stava facendo tutto a caso.

-Bè, ragazze... io non mi reggo più in piedi. Vado a buttarmi nel letto. – Fece Dwight dopo l'ennesimo sbadiglio. Aveva gli occhi lucidi di uno che da un momento all'altro avrebbe iniziato a ronfare. Buttò le carte sul tavolo, dipingendo il volto di Arat di pura delusione.

-Ma come? Proprio adesso? Finiamo, no?

-Anch'io sono stanca. – mentii, posando le carte all'ingiù e stiracchiandomi. Ero stufa di giocare. Tanto stavo perdendo miseramente.

-Ma... ma...

-Sono quasi le due, Arat. - Ribatté Dwight.

Arat si voltò disperatamente verso Regina.

-Tu giochi, vero?

-No, io passo. Hanno ragione loro.

-Siete due guastafeste. - si rivolse verso me e Dwight che aveva già affondato la maniglia della porta. - Vi odio. Tutto perché stavate perdendo.

-Gioco io con te. – Si propose Simon allungando i gomiti e avvicinando di più la sedia, le carte ancora strette tra le dita.

-Ma tu non sai giocare!

-Come non so giocare?! Cos'ho fatto fino adesso?!

-Buttare carte a caso non è giocare.

-Ma se stavo seguendo voi!

-Va bene, allora... - Prese una carta dal proprio mazzo e gliela sventolò in faccia. - Che carta è questa?

-È un nove.

Vidi Arat sollevare un sopracciglio in disaccordo.

-Viene prima del Re. Il Re è il dieci, quindi l'uomo sul cavallo è un nove. - Spiegò Simon sicuro di ciò che stava dicendo.

-Si chiama Cavallo. - lo corresse lei, cercando di mantenere la calma. - Quanti punti ha il Cavallo?

Simon ci pensò un attimo.

-Nove?

Il tavolo sobbalzò sotto il colpo del palmo esasperato di Arat. E anch'io.

-Vedi che non sai un cazzo?!

Regina si mise a ridere di sottecchi. Trattenni un sorriso di vendetta per quelle poche mani con cui Simon aveva sfiorato la vittoria per puro culo. Mi alzai.

-Buona notte, ragazzi. A domani.

Seguii l'ombra di Dwight e me la svignai. Chiusi la porta, mentre ancora sentivo la voce di Arat animarsi in nome della Dea Briscola. Fissai la sagoma dello Sgorbio trascinarsi verso la sua stanza. Feci una breve conta mentale, per lasciare al caso la scelta tra osare o lasciare la situazione immutata. Alla fine vinse l'azzardo, il salto verso una speranza incerta, il coraggio del cambiamento ignoto. E Maia dovette rimanersene in disparte.

-Dwight.

Proseguì senza voltarsi. Mi rispose qualche passo più tardi.

-Eh?

-Hai tu le chiavi della cella di Daryl?

Chiamarlo col suo nome mi diede una scossa fredda, un po' perché mi sembrò di richiamare uno spirito dall'oltretomba, un po' perchè mi resi conto che rischiavo di espormi troppo. Dovevo fare marcia indietro.
Dwight fermò i piedi, si voltò. Aveva la faccia al buio e non potevo vedere la sua espressione, perciò mi attenni al piano.

-Perché?

-È l'unico prigioniero con cui non ho... parlato.

-Non c'entra niente quello. Fidati.

-Gliel'hai chiesto?

-Sì e mi è sembrato troppo stupito e contento che qualcuno avesse provato a ribellarsi, per essere un complice. Non ha provato nemmeno a nasconderlo.

-Potrebbe saperne più di quanto ci faccia credere.

Dwight emise un sospiro faticoso, dato più dalla stanchezza che da un ragionamento. Si mise una mano in tasca e ne estrasse un ciondolo tintinnante.

-Comunque non credo sia una buona idea dargli una speranza.

-Non preoccuparti. Gli assicuro che non appena litroveremo gli faremo saltare la testa esattamente com'è successo ai suoi amici.

Dwight sembrò convinto.

-Vedi di riportarmele domani mattina. – disse, lanciandomi il piccolo mazzo di chiavi. Le presi al volo, prima che cadessero ai miei piedi. - Notte. -  Afferrò la maniglia della porta e la sbattè alle sue spalle. Era stato facile.

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Capitolo 13
*** Perchè sei qui? ***


Qualcosa per cui lottare | The Walking Dead

6.4 # Perchè sei qui?


I prigionieri non facevano quasi mai una bella fine. Quasi nessuno resisteva alle pene che venivano loro inflitte. Chi si occupava di loro doveva assicurarsi di mantenerli in vita, ma qualche volta la situazione sfuggiva inevitabilmente di mano. Molti cercavano di togliersi la vita dopo qualche giorno di reclusione. Si doveva fare attenzione a non avvicinarli ad oggetti contundenti, poiché, se non per prevalere e tentare una fuga disperata, se ne sarebbero appropriati per dare una fine definitiva alle sofferenze.

Tuttavia, le accortezze non erano sempre sufficienti. Una volta, ne avevamo trovato uno galleggiante in una pozza di sangue. Sulla parete della cella erano rimasti appesi i resti della fronte. Si era sbattuto la testa fino a perdere i sensi. Il trauma era stato tanto grave da non rendersi più conto della realtà che gli girava attorno. La sua mente aveva ceduto molto prima del ritrovamento. Adesso era legato nel cortile di fuori, la mascella in preda alla fame incosciente, intratteneva quelli che, a differenza di lui, avevano trovato ancora un motivo per ribellarsi.

Tutti quelli che passavano da quelle celle erano nemici incalliti o sudditi rivoltati. Si dividevano tutti in due grandi categorie: chi lottava per semplice animale sopravvivenza e chi per un dignitoso senso di distinzione, per una testarda rivalsa vendicativa. I primi si inginocchiavano in fretta, si pentivano e diventavano utili. I secondi... Erano quelli che più stuzzicavano la mente sadica di Negan. Estremamente rari.

Il fetore di fogna era rivoltante, le suole si appiccicavano al pavimento per il lordume. Pareva un pisciatoio. Mi chiesi come mai qualcuno non lo avesse già segnalato al Capo. C'era sempre qualcuno che puliva i pavimenti, ma lì non passava nessuno da giorni.

Al disagio olfattivo si aggiungeva quello uditivo: in lontananza rimbombava della musica molesta. Aveva un ritmo cadenzato e ben scandito. Dal luogo in cui cominciò a rimbalzare l'eco, compresi che il volume doveva essere assordante alla fonte. Dopo due minuti che andava, non la sopportavo già più. Nata come canzonetta allegra, la forzatura nel contesto le toglieva tutto ciò che di allegro potesse avere rendendola la melodia più raccapricciante che potesse essere partorita.

La porta che mi interessava era anonima, uguale a tutte le altre. Alta, grigia, compatta e ben serrata.
Dwight aveva detto che per le prime ore, il prigioniero aveva continuato a batterci contro come un forsennato, come una mosca che si schianta ripetutamente contro un vetro, sperando probabilmente che bastasse la forza bruta per aprirla. 
Adesso dietro la porta di quel ripostiglio non sembrava abitarci nessuno. Forse si era già stancato di combattere. Speravo si sarebbe arreso presto. Sarebbe stato meglio per lui e ci saremmo risparmiati tutti inutili scene patetiche.

La musica non si era fermata un momento, sparata da uno stereo su una sedia spinta al muro. Premetti il pulsante di stop, trattenendo il raptus che mi gridava di prendere lo stereo e spaccarlo a terra, di saltarci sopra finchè non fossi stata sicura che anche il più minuscolo tassello, il più minuscolo pezzo di circuito si fosse sgretolato.

Presi un respiro talmente profondo che pensai di aver assorbito tutto l’ossigeno nel corridoio.
Dovetti tenere le chiavi con due mani per centrare la serratura, perché i miei nervi avevano deciso di non contribuire.

Quando aprii la porta, l'ombra si spaccò in due come un sipario, mostrando l'aspetto del prigioniero al suo interno.

Era annichilito in un angolo, ma sembrava preparato al mio arrivo. Doveva averlo capito dalla musica arrestata.

Daryl alzò gli occhi verso i miei. Erano lucidi e rossi. Un fremito dischiuse per un secondo le sue labbra spiegazzate, facendole tremare. Due fessure ombrose si schiacciarono per mettermi a fuoco, l'espressione docile e sottomessa, di un cane intimorito dal bastone, mi destabilizzarono ulteriormente, rendendomi difficile mantenere la parte.

Sfilai la pistola dal fodero. Lo vidi irrigidirsi. Pensava che gli avrei sparato? Forse sarebbe stata la scelta migliore per togliermi il problema, ma la mossa mi sarebbe costata molto. Negan teneva troppo al suo animaletto.

La posai a terra, mentre mi sedevo a gambe incrociate. Mi guardai le spalle per assicurarmi che non arrivasse nessuno. Estrassi dalla tasca anteriore della felpa il tramezzino che avevo arrotolato in un fazzoletto prima di decidermi davvero di andare da lui. Lo scoprii e allungai una mano verso l’ombra. L’occhio illuminato dal riflesso della luce esterna che batteva sulle pareti e sul pavimento del corridoio, passò dalla mia mano al mio volto.

Che hai da guardarmi così? È buono, non come quella merda che ti porta Dwight.

Mi stava analizzando. Mi accorsi che non avevo considerato la possibilità in cui non mi avesse riconosciuta. 
Non mi imposi. Volevo solo che si fidasse di me. Tagliai un angolo di tramezzino e lo masticai.

Vedi?

Il sapore del pane un poco stantio e della frittata si mischiarono l’uno con l’altro con la saliva, agglomerandosi in un boccone eterogeneo che dovetti ingoiare a forza.

Ti prego, fa che non debba farlo di nuovo.

Daryl titubò ancora un istante. Poi si avvicinò cauto, come un cane malfidente. Prese il tramezzino in modo indelicato, lo annusò. Mi lanciò un’ultima occhiata per vedere che reazione facessi e quando fu sicuro che non volessi avvelenarlo, lo sbranò.

Forse avrei dovuto pensare di portarne almeno un altro. Aveva così fame? Non lo avrei mai detto dalla stazza, come se per qualche strano motivo potessero avere fame solo gli scheletrici. 
Ora che lo osservavo meglio, notavo che la sua corporatura si era trasformata, nel corso del tempo. Si era irrobustita, lo si poteva intuire anche da sotto la tuta lercia. Avrei quasi detto che la cella fosse troppo piccola per lui. D’istinto tirai la felpa sulle ginocchia che premevo al petto. Non volevo che notasse come mi ero conciata, nemmeno se lo avesse collegato al digiuno trascorso all’esterno.

Non ero veramente sicura di ciò che avrei dovuto dirgli o se ci fosse qualcosa che avrei dovuto sapere o se avesse dovuto iniziare lui la conversazione. Rimasi a osservarlo, mentre mangiava come se le sue mascelle fossero state ferme da giorni. Ad un certo punto, alzò lo sguardo severo e si fermò anche lui a studiarmi.

-Perché sei qui?

La sua voce mi vibrò nel petto. Era più profonda e impastata di come me la ricordavo. Ascoltarla di nuovo mi sembrò come se la mia vita si fosse bloccata di colpo, per poi riaccendersi anni dopo, come se i miei polmoni si fossero disseccati… Era difficile riprendere a respirare di nuovo. Faceva male, ma non mi avrebbe ucciso.

Sapevo a che cosa si riferisse. Mi stava chiedendo se stessi eseguendo un ordine.

-Per te.

Per me.
Perché mi sento in colpa.

Sembrò accettarlo.

-Cosa ci fai qui? Lavori per lui?

Non risposi. Era evidente. Potevo capire il suo odio. Stava cercando di inquadrarmi, di capire fin quanto potesse fidarsi di me.

-Mi dispiace per i tuoi amici.

Ho pulito il loro sangue come fosse piscio di ratto.

Trattenni il respiro.

Daryl annuì, abbassò gli occhi.

Tasto dolente. Discorso fuori luogo. Parole sbagliate.

Mordicchiai il piercing per trarne un argomento più stimolante. Ma non mi veniva in mente niente. Eravamo lontani, come se ci fosse un muro tra di noi, nonostante potessimo vederci. Eravamo due sconosciuti. Non avrei dovuto biasimarlo per essere così ostile. Non era colpa sua se ci trovavamo dalle parti opposte di un attrito violento, ma nemmeno io l’avevo chiesto. Avrei voluto dirgli che quando l’avevo visto libero nel corridoio avrei voluto farlo scappare, che non sapevo che gli avessero teso una trappola, ma non mi uscì la voce. Era una situazione talmente strana… Sembrava quasi che non fossimo mai stati amici – o qualsiasi cosa fossimo prima di quest'incomunicabilità desolante – sembrava che non fosse mai successo nulla di quello che avevamo passato insieme, che lo avessi solo immaginato, costruendoci sopra un mucchio di fantasie. Era davvero cambiato tutto?

-Maia… è così che ti fai chiamare ora?

Affondai il mento tra le ginocchia. Non era di me che volevo parlare. In realtà non volevo parlare di nessuna cosa che avrebbe potuto minare il nostro rapporto, che ora temevo di scoprire pressoché inesistente. Forse avrei fatto meglio ad andarmene in quel momento. Non c’era niente lì per me. Mi ero illusa che tutto fosse rimasto come lo avevo lasciato. Allora decisi di giocarmi subito l’asso.

-Merle?

Gli occhi di Daryl scattarono di nuovo verso di me, ma lui non parlò.

-Ce l’ha ancora con me? - Cercai di metterla sul malinconico, spiegando un sorriso debole, mentre cacciavo una macchia di terra dalla punta delle scarpe. Non seppi perché stessi dando per scontato che stessero ancora insieme. Anche ad Alexandria non avevo più pensato che l’ultima volta chi mancava del trio era proprio chi avevo di fronte. La mia mente continuava a ricucire le loro strade come avevano fatto le nostre, come se esistesse davvero una fine predestinata. Ma si sa che l’unico destino evidente è quello della morte. Almeno per quanto riguarda la persona in quanto essere umano, in quanto essere pensante.

Mi rassegnai al fatto che non avrei ricevuto risposta. Daryl non aveva voglia di maliconia, ovviamente. E io non me la sentivo ancora di raccontagli cosa fosse successo dopo che ci eravamo separati. Non avevo la forza nemmeno di ricordarlo. Così rimasi sul vago.

-Non l’ho visto ad Alexandria. – osai continuare - Sta… bene?

Sapevo già la risposta. Ero preparata. Se fosse stato onesto, mi avrebbe detto che lo avevano abbandonato sul tetto di un palazzo perché aveva fatto il coglione come al solito e che lui non era tornato a riprenderlo. Quando Merle me lo aveva raccontato, ero scoppiata a ridere e lui se l'era presa.
Non lo avrei giudicato per questo. Lo avrei abbandonato anch’io da qualche parte se fosse stato necessario.
Al contrario, se Daryl fosse stato bugiardo – il che non mi avrebbe preso alla sprovvista, sapendo che non era capace di dare brutte notizie – mi avrebbe detto che si erano separati e che non sapeva dove fosse.

Invece… mi spiazzò completamente.
 

Annuì.

Un movimento muto e quasi impercettibile fu la sua risposta.

Cosa voleva dire?

Mi sedetti meglio, incrociando di nuovo le gambe. Lo scrutai nel buio. Sembrò arretrare contro il muro, nascondendosi meglio alla mia vista.
Che cosa diavolo voleva dire quel cenno? Era nel suo gruppo? Si erano ritrovati? Quindi la mia sensazione era stata una sorta di premonizione?

Sorrisi… anche più del dovuto.
Merle era ad Alexandria e aspettava solo di venire al Santuario a spaccare il culo a qualche Salvatore. Me lo immaginai mentre dava di matto perché suo fratello era stato fatto prigioniero e veniva trattato come uno sguattero, gettato in una cella e imboccato di cibo per cani e cazzotti.
La piccola Trish che si era assopita di nuovo, chiusa nel suo ripostiglio, diede un calcio all’anta sgolandosi.
Fai qualcosa!

Mi alzai solo per ritrovarmi in ginocchio. Daryl si ritrasse ulteriormente, forse pensando che volessi fargli del male. Premetti la sua testa sulla mia spalla, una mano contro la nuca capelluta, l’altra sulla sua schiena, lungo la colonna vertebrale che si spingeva in fuori molto meno della mia. Puzzava di sudore, di fogna, di vomito, di cane morto e di sangue, ma era lui. Era vero. Era concreto. Mi stupii come se per tutto il tempo avessi parlato con una proiezione mentale.

Daryl non ricambiò l’abbraccio, né ci provò, ma mi accontentai che non mi avesse respinto o infilato il mio stesso coltello nel fegato.

-Uscirai di qui. – sussurrai. Lo decisi in quel momento. Non sapevo ancora come, ma avrei fatto qualcosa per farlo evadere. Non se lo meritava. E io dovevo farmi perdonare.

Mi staccai per guardarlo bene negli occhi, che seppur stanchi e gonfi, intagliati tra i capelli sudici, i graffi, gli ematomi e lo sporco, segnati dai dispiaceri e dalle disavventure che aveva dovuto affrontare da solo o con compagni fortuiti, avevano la stessa sfumatura maledetta in cui mi ero rispecchiata anni prima.

Mi rialzai velocemente e mi allontanai prima che potesse afferrarmi una gamba, per farmi inciampare e scappare. Recuperai la pistola e lo straccio senza dire un'altra parola. Sentivo la sua confusione colarmi sulle spalle. Tra non molto sarebbe stato tutto più chiaro.

Non mi fu facile richiuderlo dentro di nuovo, soprattutto dovendo assistere all’espressione delusa e sofferente che seguiva il nastro di luce mangiato dalla porta nel chiudersi. Mi dilaniava il cuore doverlo lasciare lì e fare finta di niente il giorno dopo, ma di certo non potevo farlo scappare quella notte. Dwight non mi avrebbe mai coperto le spalle per un simile tradimento, nemmeno sotto minaccia.

Girai la chiave tre volte e poggiai la schiena contro la porta.
Sudavo e tremavo, ma la vocina interna non stava borbottando niente. Mi stavo per togliere un peso enorme. Ero sulla strada giusta. Presto sarebbe tornato tutto alla normalità.

Credetti di vedere una sagoma muoversi nell’ombra, prima di pensare che qualcuno potesse avermi spiato. Di nuovo.

Mi misi a correre, affacciandomi agli angoli all’improvviso, ma non trovai nessuno. Il corridoio era completamente vuoto.

Mi era scappato.

O forse mi stavo facendo prendere dalla paranoia? A quell’ora nessuno poteva accedere alle celle, tranne chi aveva le chiavi.

Mi augurai che fosse la mia mania di persecuzione a farmi sospettare di pericoli che non c'erano. Ma comunque ero stata troppo imprudente. Se c’era un motivo valido per cui avevo imbavagliato la lingua ingenua di quella ragazzina combattiva, era proprio perché non sapeva stare al suo posto.
Trish sapeva far fronte ai sentimenti, ma non era capace di sopravvivere all'apocalisse, Maia sapeva cavarsela, ma era disarmata davanti alle questioni emotive. Mi servivano entrambe, avrei dovuto ascoltare entrambe, equilibratamente, poichè se avessi seguito del tutto la prima, mi avrebbe fatta ammazzare, mentre la seconda mi avrebbe prosciugata dall'interno. E non c'era tempo per pensieri suicidi. Avevo un compito importante da portare a termine. Dovevo rimanere in vita. Dovevo farlo per lui.

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Capitolo 14
*** Hai una scelta ***


Qualcosa per cui lottare | The Walking Dead

7.1 # Hai una scelta

Passato

-Raga, mi fumo un'altra sigaretta e torno.

Il telefono in mano, gli occhi puntati sul display, percorsi il corridoio che portava al retro del locale. Controllai la rubrica di chiamate. Mia madre mi aveva già chiamato quattro volte in due giorni e avevo deciso di ignorarla anche la quinta. Erano passati due mesi dall'ultima volta che ci eravamo sentite al telefono. La mia partenza per il college non era stata molto tragica, eppure ogni volta che sentivo il tono della sua voce mi sembrava sempre che mi facesse pesare di averla abbandonata. Anche adesso che il college l'avevo finito da un pezzo ed ero riuscita persino a farmi degli amici, avevo imparato a suonare su una chitarra scassata le cover delle mie canzoni preferite esibendomi con una band di pazzi una sera a settimana in un sudicio buco di pub, ancora mi sentivo in colpa per non essere rimasta in quella triste e piccola città che mi faceva sentire sprecata e abusata e priva chances.

Avevamo iniziato ad evitarci. Mi chiamava spesso e io spesso non le rispondevo e lei faceva lo stesso. Perchè quando le rispondevo era tutto un urlare con la sua nuova fiamma oppure un silenzio imbarazzante, perchè lei non approvava le mie scelte di vita, ma me lo aveva già fatto capire troppe volte e io non apprezzavo le sue e non avevo il coraggio di disfare le sue speranze di potersi redimere. Le avevo mandato una cartolina una volta, con la foto dei ragazzi. Non l'aveva mai guardata. Ero certa che avesse buttato la busta prima ancora di leggere il nome dell'intestatario. Ero certa che se ne fosse disfatta quasi subito. L'ultima volta che ero tornata a casa gliel'avevo chiesta per rivederla e lei mi aveva risposto che non sapeva dove l'avesse messa, tutta vaga e distratta. Per non parlare del muso che mi aveva allungato per tutto il giorno e le occhiate a pranzo, per colpa dell'inchiostro che occupava gli antichi spazi pallidi delle mie braccia e i miei capelli che avevano assunto sfumature non convenzionali.

Erano due anni che non osavo pensare di tornare a fare un salto a casa. Due anni in cui la mia vita si era allontanata drasticamente da quella che era da quando i soldi per il futuro di Greg erano ancora destinati a lui e non alla cugina più vicina. Adesso avevo persino una cerchia, sebbene piuttosto ristretta, di fan e un mezzo ragazzo il quale casualmente era la mente grazie alla quale potevo accedere ad un incasso fisso, che tuttavia vedevo prosciugarsi fin troppo velocemente. Per questo condividevo un appartamento con altri quattro ragazzi: per risparmiare le spese. Non ci vedevo nulla di male, anche perchè tutto sommato era gente a posto, era gente come me. Ma anche questa cosa, ovviamente, a mia madre faceva storcere il naso. Non che fosse mai stata una donna molto rigorosa rispetto a me, notando i trascorsi con quel rifiuto umano di mio padre, ma alla mia età non aveva mai vissuto niente di ciò che avevo vissuto io. Per giunta, non avevamo nemmeno gli stessi interessi musicali o le stesse opinioni politiche o gli stessi gusti per gli uomini. Sembravamo madre e figlia solo per i cattivi vizi. Il fumo, l'alcol, le pastiglie per il mal di testa, le dosi esagerate di caffè, la pigrizia in qualsiasi ora del giorno, le notti insonni passate davanti ad uno schermo, il masochismo verso l'illusione di un cambiamento in meglio senza motivo di avverarsi. Sembrava che mi avesse insegnato solo a farmi del male.

A volte mi fermavo a pensarla, la notte, mentre non riuscivo a dormire. Mi chiedevo se stesse guardando ancora uno di quei reality in cui filmavano la vita di sfigati più sfigati di lei, o si fosse addormentata. Ogni tanto mi saltava al cuore l'idea che si fosse dimenticata la sigaretta accesa e che non avesse spento il gas o che avesse lasciato la pila di piatti da lavare ancora nel lavello o che non avesse ancora steso i panni annodati nella lavatrice da due giorni perchè era troppo stanca per alzare anche un dito. Aveva forza a sufficienza solo per trascinarsi per casa in vestaglia con un bicchiere di vino rosso in mano, le fosse delle occhiaie pendenti sul viso, gli sformati riccioli neri scappati dalla molletta sbeccata, le pantofole piene di pelucchi e nessuno ad abbracciarla o a condividere con lei anche solo una conversazione sulla spesa da fare. La pensavo in quel momento, distesa scompostamente sul divano, con la testa sepolta nel plaid, mentre leggevo il display e mi tremava la mano a cinque minuti da un concerto in cui la mia mano sarebbe dovuta rimanere ferma e precisa senza titubare.

Ero brava a mentire, ma se avevo scelta, decidevo di evitare direttamente di parlare. Mi avrebbe chiesto di passare da casa e mi avrebbe fatto male dirle che avevo da fare, anche se avrei passato la settimana a cazzeggiare sulla mia chitarra o in giro, assieme ai ragazzi. Mi avrebbe fatto male dirle che stavo bene lontana dal passato, lontana da lei, anche se sentivo costantemente il peso del senso di colpa gravare sulle mie spalle, da figlia unica responsabile, quale non ero. Avevo deciso di fuggire e il risultato qual era stato? Un intenso piacere iniziale, ribelle, potente, liberatorio nel quale lentamente si era scavato un vuoto sempre più difficile da ignorare.

Nella mia testa, le promisi di chiamarla quella sera. Glielo promisi come avevo fatto la sera prima, sebbene alla fine me ne fossi dimenticata. E come quella prima ancora, nonostante avessi trovato un'altra ignobile scusa. Non trovavo mai tempo per lei. Mi vergognavo di me stessa.

Uscii dalla porta antincendio, superai la transenna che divideva il cortile dalla strada. Non c'era molta gente nel retro, un po' perché non avevamo ancora abbastanza pubblico per invadere le strade, un po' perchè non era un posto molto frequentato. C'era giusto un gruppo di ragazzi che fumavano sotto un porticato, con Eminem che farneticava a palla da una cassa portatile.

Uno di loro, vestito un po' sfattone, una fascia sulla fronte e la cresta ingellata, mi cacciò una lunga occhiata. Per tre volte finsi di voltarmi casualmente verso il suo gruppo e per tre volte mi ritrovai un paio di iridi curiose a scrutarmi senza pudore da capo a piedi. Cominciai a sentirli borbottare tra di loro, quindi mi avvicinai.

La sigaretta ancora spenta in bocca, i capelli completamente alla rinfusa di cui avevo tinto le punte qualche sera prima di un fucsia caldo e tutto il trucco che avevo applicato attorno agli occhi da far spavento, effetto che non mi dispiaceva. Il chiodo borchiato su una maglia scollata a righe orizzontali bianche e nere con cui avevo dormito la notte prima, il bordo dei jeans strappati al ginocchio che sbattevano sotto il tallone delle scarpe da ginnastica a ritmo delle catene appese alla vita, che avrei presto sostituito con un paio di pantaloncini attillati, calze a rete e dei meravigliosi stivali con la suola carrarmato pieni di lacci e di metallo, che avevo comprato a poco prezzo da una vetrina di svendite. Ero tutt'altro che sexy in quel momento, ma a quelli non era necessario sbattergliela in faccia.

-Ciao, ragazzi. Avete da accendere?

Si guardarono e uno di loro si fece spazio e allungò il braccio davanti a quello che mi fissava, per prestarmi l'accendino. Ne avevo uno in tasca, ma avevo bisogno di un pretesto per attaccare bottone.

-Sei quella Trish? Sei quella vera? - fece la voce di una ragazza tutta ossa, la felpa di una band punk rock troppo larga per lei.

-Sì. Sono io. - Risposi confusa.

-Fico. – sorrise annuendo con la testa. Si voltò verso la sua amica grassoccia con la faccia piena di piercing e una rasatura su un lato della testa.

-Perchè, ci sono anche quelle false?

-Credo di no... - rispose abbassando il capo, impacciata. - Vi ho sentiti suonare l'altra sera. Al Paprika Club. Non siete male. Il cantante... come si chiama?

-Zach.

-Zach. – ripetè, soffiando via il fumo, una strana luce negli occhi che non mi piacque affatto - È bravo. Ha una bella voce.

-E anche un bel culo. – aggiunse la sua amica a voce bassa e ridacchiando.

-Dovreste sbrigarvi se volete assistere. - consigliai, più che altro per cambiare argomento. - Non ci sarà ancora molto posto. – mentii. C'era sicuramente ancora posto.

-Anche tu, non dovresti prepararti? – mi chiese quello che non aveva smesso di osservarmi. Scrollai le spalle. Cominciai a pensare che non gli andassi a genio.

-Sono in pausa. Dammi tregua. – scherzai, ma il sorriso che stirai era palesemente di nervosismo.

-Dove hai preso la chitarra? – tornò a interrogarmi la ragazza.

-In realtà... l'ho trovata in un vecchio magazzino. Sono riuscita a farmela vendere per uno sputo. L'ho migliorata, le ho cambiato la meccanica, ma conto di comprarmene una seria appena racimolo abbastanza soldi.

-Da quanto suoni?

-Sei anni? Sette forse.

-Cavolo... Sei una tosta.

-Grazie. - risposi compostamente, per trattenermi dallo sfociare nel narcisismo.

-Hai capito la chitarrista! – esclamò un ragazzotto corpulento con un sorriso ebete. Diede una pacca al ragazzo che non mi aveva in simpatia. - Non è mica come te, che fai il figo modificando i motorini, eh, Lerry?

-Ha parlato quello che non sa nemmeno allacciarsi le scarpe. – mormorò l'altro.

D'istinto il mio sguardo atterrò sui piedi del ragazzo, sotto i pantaloni di tuta che non gli coprivano il fondoschiena, con il cavallo praticamente alle ginocchia e il bordo dei pantaloni, sotto cui penzolavano i lacci troppo lunghi per essere annodati. Risi e risero anche tutti gli altri assieme a me, mentre quello si accovacciava goffamente con le sue mani grosse e infilava le stringe sotto la lingua delle scarpe da ginnastica. Lerry non provò ad avvicinarsi nemmeno per un istante, mi studiava da lontano. Non mi piaceva il suo sguardo. Forse cercava di mettermi in soggezione. Così decisi di resistergli. E lui contrattaccò.

-Senti, ma... È vero quello che si dice su di te?

-Cosa si dice su di me?

-Che lo succhi bene quanto suoni.

Tutti si misero a ridere come se fosse stato tutto premeditato. Tranne la mia reazione. La mia reazione non sarebbe rientrata nei loro piani.

-Non suono così bene. – risposi senza battere ciglio, aspirando dal filtro. Mi rigirai il piercing tra i denti, godendomi le ovazioni scimmiesche dei ragazzi, mentre Lerry faceva una smorfia come una checca frustrata.

-Secondo me te la tiri troppo.

-Se non ti interesso, quando salirò su un palco più grande, potrai evitare di sbavarmi dietro come se non avessi mai visto una fica in vita tua. Perchè direi che per fare il figo davanti ai tuoi amici, te la stai tirando troppo anche tu.

Un coro di ululati in visibilio per la mia risposta. E la sua faccia. La sua faccia era la cosa più goduriosa. Non sapeva più che dire e sorrideva solo per riempire il suo ego, che avevo disintegrato in una battuta.

-Trish?! - Sentire il mio nome prorompere alle mie spalle, accompagnato da una porta spalancata all'improvviso non aveva mai smesso di farmi trasalire. - Che cazzo stai facendo?! Ci stiamo per esibire! Datti una svegliata! – vibrò la voce di Zach. La luce negli occhi della ragazza scintillò come un fuoco d'artificio. Giurai di sentire un urletto uterino strozzato da quelle parti.

Lanciai la cicca e mi fiondai dietro la porta.

-Che volevano?

-Un autografo.

-Gliel'hai fatto?

Non mi aspettavo che mi credesse davvero e lui nemmeno si impegnò ad indagare sulla più che probabile bugia. Annuii.

-Devo fare una telefonata. – Disse, con il telefono già appeso all'orecchio.

-Mi dai un bacio prima di salire?

Mi accontentò. Me ne stampò uno veloce, tiepido, sbrigativo.

-Vai a prepararti. – Fece, prima di sparire nel corridoio. Troppo serio. Troppo teso. In altre occasioni il suo modo di fare rigido e sistematico mi avrebbe tranquillizzata. C'era un motivo se tutto ciò che riguardava l'amministrazione e la gestione burocratica ed ogni scocciatura, fosse nelle sue mani. Aveva alle spalle studi di economia, anni di divise scolastiche e sui muscoli torniti, invece, i segni della ribellione: teschi, dragoni, pistole, frasi poetiche e solo tre cifre: il giorno di nascita di suo padre morto in guerra, timbrato sul pettorale sinistro. Avrei saputo disegnare la forma di quella sequenza in ogni momento, ma non avrei mai saputo catturare un solo sorriso da quelle labbra perfette da cui ogni canzone si trasformava in poesia. Mi metteva ansia, più ansia di quella che fingevo di non avere, più ansia delle mie mani tremanti e sudate. Mi scapicolllai nel camerino che ci avevano assegnato, in cui i ragazzi avevano già iniziato a fare baldoria per smaltire la tensione. Era poco più grande di una camera da letto singola, che per gli strumenti e quattro ragazzoni ben sviluppati non era visibilmente abbastanza, ma ce lo facevamo bastare. A me, poi, serviva poco spazio. Al massimo ne avrei tolto un po' a Zach che non si sarebbe lamentato, dato che non era quasi mai a festeggiare con noi.

-Voglio sentire gli orgasmi di quelle ragazzine arrapate! – sentii nell'entrare. Skyler era già fuori prima di iniziare.

Inquadrai un bicchierino pieno sul tavolino, tra la bottiglia di sambuca e le bottiglie di birra mezze vuote.

-È per me questo? – lo deglutii prima di attendere la risposta. Ovvio che era era per me. Altrimenti non sarebbe stato lì ad attendermi.

-Vacci piano... - borbottò Jaxon che accordava il basso sul divano, la chioma linfa che gli nascondeva gli occhi. - Contiamo su di te per il pubblico maschile. Quei cani non vedono l'ora di vederti maneggiare su e giù quella tastiera.

E non solo la tastiera, pensai, mentre buttavo giù un altro shottino. Quella bottiglia doveva sparire dalla mia vista.

-Vado a cambiarmi. – annunciai, afferrando i pantaloncini e le calze dalla borsa.

-Non metterci due ore a metterti il mascara.

-Non rompere. Sembri Zach.

-Sai che prendo le sue veci quando lui non c'è. – quando stavo per chiudere la porta del bagno, alzò la voce. - E copriti, che nessuno vuole vedere le tue chiappe da gallina!

-Io però non ti dico di coprirti la tua faccia da culo! Eppure nessuno sembra volerci un poster in camera! – non mi sentì o non la capì o fece finta di niente. Fatto stava che nella stanza cominciarono ad echeggiare dei versi di gallina. Spalancai la porta e gli lanciai una scarpa. Jaxon la prese al volo come una palla da football. Se la portò al naso e fece una smorfia esagerata.

-Oh, buon dio, puzza di morto!

-Profuma più della tua ascella, sicuramente! – sottolineai, nascondendomi dietro la parete, mentre mi sfilavo i jeans.

-To', senti. – quando mi riaffacciai, aveva lasciato il basso sul divano e stava cercando di avvicinare la mia scarpa alla faccia di David, il ragazzo in prova che mi appoggiava come secondo chitarrista, e quello si ritirò, agitò le mani disperatamente, cercando di evitare la tortura. Jaxon insisteva. Lo afferrò da un braccio, mentre David supplicava e rideva contemporaneamente. Non smise nemmeno quando il poveretto cadde dalla sedia. Che imbecilli.

-Se non ti piace, dalla a me. Ci infilerei volentieri il cazzo, là dentro...

-Ti ho sentito, Skyler! Sei un pervertito! – sbraitai. Lo sentii ridere sommessamente.

-Davvero, eh. Fai schifo. – fece Jaxon fingendo serietà. Lui e David si guardarono. Poi scoppiarono a ridere. - Meno male che Zach è uscito, altrimenti ti faceva il culo.

Infilai la maglia nei pantaloncini lucidi e uscii camminando in punta di piedi verso gli stivali. Scossi i capelli all'ingiù. Pazzi. Dovevano essere pazzi, come me. Mi resi conto che le risate si erano acquetate.

-A volte penso sul serio che i nostri fan esistano solo grazie a lei. - fece Jaxon in un brontolio lieve. Forse non volle farsi sentire, ma io avevo le orecchie acute.

-Diventerete ciechi a furia di fare i guardoni. – recitai, mentre legavo i capelli per ripassarmi il fondotinta sul viso. Meditavo di farmi tutta la chioma rossa fuoco, un giorno.

La pesante colluttazione di un pugno sul tavolino mi fece spaventare. Le bacchette di Skyler volarono per terra. Mi voltai e capii subito. Skyler scosse la testa, mentre aspirava forte col naso, strusciandosi contro il dorso della mano.

-Aaah! Spacchiamo quei figli di puttana! – strepitò alzandosi in piedi, ringhiando e battendo le mani.

Gli altri due lo presero in giro. Poi, quando abbassai gli occhi sui miei piedi, Jaxon si rivolse di nuovo a me.

-Ehi Trish. Ce n'è ancora un po' per te. Qua.

Lo guardai. Guardai il tavolo imbandito e mi chiesi perchè non avessi notato prima tutto l'ambaradam assieme all'erba, dietro le birre.

-No.

-Sicura? Ti farebbe stare solo più a tuo agio.

-Io sono a mio agio!

-Non farti problemi. Ci siamo fatti tutti un tiro prima.

Tutti. Anche Zach?

-Prima quando?

-Quando eri fuori.

Anche Zach.

-Che c'è?

-Niente. Per me potete fare quello che vi pare. – dissi scocciata.

-Dai, non fare la guastafeste. È solo per partire carichi.

-Non mi va, ok? – invece mi andava: le mie mani ne avevano bisogno. Ma era una questione di principio. Non ero difficile alle dipendenze, mi conoscevo bene. E ogni volta che mi avvicinavo a tutto ciò che era droga, l'immagine di Greg diventava all'improvviso più vivida e al contempo sempre più evanescente mentre cercavo di afferrarlo dal burrone dell'inferno e tenerlo stretto a me, perchè ogni volta mi scivolava via come un sogno infranto. Jaxon alzò in alto le mani, ma prima di dire qualcosa la porta d'entrata si aprì e si richiuse.

-Forse dovresti seguire il suo consiglio. – fece Zach, irrompendo come se nulla fosse. Si tolse la maglia e ne infilò un'altra uscita dal borsone, che per un attimo mi parve uguale alla prima. Mi guardò, stupito che fossi contrariata.

-Siamo tutti pronti per dare il massimo. Non possiamo sbagliare.

-Dimmi solo una volta in cui ho floppato. Una. Avanti. – lo sfidai, incrociando le braccia.

-Mai. Per ora. Ma... capita a tutti un attimo di defaillance.

-Wow, che repertorio lessicale! Con cosa l'avete tagliata? Con i trucioli di un dizionario triturato? – Zach stirò un sorriso che durò pochissimo e mi irritò da morire. - Spero che non ti faccia sentire il dolore come si dice perchè sai, mi sta salendo un'irresistibile voglia di tirarti un calcio con questi stivali tra i denti. Proprio ora. – Quelle dannate corde erano un mio prolungamento, gli spartiti li avevo scritti nel sangue. I calli e le croste alle mie dita parlavano da soli.

-Senti. – Alzò lo sguardo verso di me mentre infilava le scarpe nuove. - Non è per te. Tu sei bravissima, sei il nostro miglior guadagno, non ho nulla da dire. Stiamo decollando, capisci? Un errore adesso e siamo fottuti. Ascolta me, fatti una striscia e vedrai che andrà tutto bene. Saremo grandi anche stasera. Devo solo essere sicuro che nessuno si faccia prendere dal panico. E credimi, può capitare. Soprattutto a te che sei molto nervosa. Non hai idea di quanta gente ci sia là fuori. Quindi per piacere, evitiamo cazzate.

Mi sentii tradita. Scoperta. Ero troppo tentata e nessuno mi avrebbe fermata. Ero pericolosamente libera di decidere, se solo l'idea di un'imprecisione non minacciasse la scalata della band e di conseguenza la mia relazione con Zach.

Jaxon aprì la mano che carezzava il pizzetto nodoso sul mento.

-È leggera. Giuro. Ti sembrerà di voler spaccare il mondo, ma non ti farà andare in botta.

Guardai Skyler che si era messo a rullare le bacchette sulle ginocchia e sul divano ad occhi chiusi, canticchiando a labbra serrate. Nella sua testa era già sul palco. Le mie mani invece non volevano salirci.

-D'accordo. Basta che non rompete più i coglioni. – Sputai amareggiata. Mi sedetti il tavolino e presi la prima paletta che mi trovai davanti e la caricai di una discreta dose di polvere. Un dito sulla narice vuota e la duna bianca sparì lasciandomi un getto ghiacciato in tutto il setto nasale penetrandomi nel cervello. Mi tolse il fiato. Strizzai gli occhi ed ogni muscolo del viso. Leggera un cazzo.

-Okay. Andiamo. – decise Zach, mi battè una mano sulla spalla. - Come ti senti?

Vaffanculo, volevo rispondergli.

-Mi pizzica il naso. – risposi ridendo.

-A me pizzica qualcos'altro. – fece Skyler, sistemandosi il cavallo dei pantaloni, sulla porta.

-Smettila di fare il coglione.

Chitarre in spalle, bacchette in mano, uscimmo tutti insieme verso le luci del palco dove ci stava aspettando una folla più urlante del solito.
Dissero di noi che eravamo stati acclamati anche quella sera, che i nostri brani inediti erano piaciuti e che presto avremmo inciso un disco tutto nostro. Dissero di me che ero la nuova divinità femminile tra i metallari e i punk rokers. Era stato Zach ad averlo detto, credo, mentre tornavamo a casa in furgone, mentre sbavavo sulla sua maglietta sudata, mentre mi parve quasi di vederlo sorridere davvero, con quel suo piercing al sopracciglio che scattava ogni tanto come il mio, con quei suoi occhi cristallini, quasi cinerei, quasi come i miei, quasi come quello di Greg. Sicuramente aveva detto un sacco di fesserie, ma era così bello sentire complimenti dai sussurri di quella sua voce che era solo mia, solo mia.

Mi ero lasciata prendere un po' la mano tra una pausa e l'altra e nel post serata, convinta da Skyler che spariva dietro le quinte per prendere "da bere". Ero certa che un giorno lo avremmo trovato stroncato dall'overdose nel vomitoso bagno di un hotel, pateticamente disteso sul pavimento, ricoperto dalla sua stessa bava, solo e solitario, contorto in un ultimo spasmo di intimo piacere artificiale, come solo alcuni dei più grandi batteristi della storia. Era fuori di testa. Più di me. Ma anche lui mi ricordava qualcuno. Qualcuno che non volevo ricordare. Qualcuno che era lontano come mia madre. Un'altra persona da cui ero scappata. E ora mi chiedevo se non fossi scappata dalla paura che quel mondo potesse piacermi, dato che ci ero precipitata dentro senza preavviso. Era meglio che fossimo distanti. Dove stavo ero al sicuro.

Zach era diverso dallo scompiglio che risiedeva nella mia testa. Zach era la calma, la serietà, la precisione. Sapeva dare ordine alla mia vita, ma mi faceva impazzire quando abbandonava gli orari e le regole e si lasciava andare quelle poche volte che si ubriacava. Io, ero completamente ubriacata dalla sua voce e dai suoi bicipiti, come ogni ragazza che veniva ad ascoltarci. Per quella potevo perdonargli qualsiasi cosa. Persino quando fare l'amore diventava un atto determinato in un tempo preciso. Gli perdonavo anche l'abitudine di svegliarsi prima di me, uscire di casa senza di me e senza dirmi nulla, tornando a volte la mattina seguente. Gli perdonavo anche il fatto che rispondeva ai miei messaggi dopo ore o non rispondeva affatto. Non pretendevo nulla da lui. Mi piaceva il nostro rapporto. Non eravamo come le coppie convenzionali. Non era geloso. E quando mi capitava di andare con altri ragazzi non faceva domande. Sapeva com'ero fatta. Eravamo artisti, spiriti liberi. Ci andava bene così. Non aveva mai alzato una mano su di me se non per offrirmi piacere e questo a me bastava. Era buono. Un po' lunatico e riservato, ma buono.

Nel sonno di sbornia, tornai indietro di otto anni. Sognai qualcosa che avevo cercato di dimenticarmi, seppellendolo assieme al senso di colpa per mia madre. Era insano tornare a ripescare quei momenti, ma l'alcol fa brutti scherzi. Tornai indietro di otto anni, davanti a due serie di denti storti che stridevano, ad una mano che mi stritolava su un letto che non era mio, in una casa i cui muri tremavano per la musica della festa comprendo le mie urla.

-Stai ferma. Ferma!

-Mollami!

-Non urlare. O ti spacco le gambe con cui fai eccitare tutti quanti.

-Stuprami pure, domani ti denuncio.

-Come hai fatto con tuo padre?! Lo so, sai, non sono stupido. Le conosco certe cicatrici. Ma tranquilla, non saresti ancora vestita se volessi stuprarti, credimi.

-Che diavolo vuoi da me?

-Devi stare lontano da Daryl. Non provare mai più ad avvicinarti a lui. Hai capito? Non cercare di rovinarmelo.

-Rovinartelo? Sei tu che lo stai rovinando, sei un essere schifoso!

Uno schiaffo. Dritto sulla guancia.

-Ho detto... che non devi urlare.

-Sei pazzo.

-Oh, non sai quanto.

-Lasciami andare.

-Lo farò quando sarò sicuro che farai la brava.

Digrignai i denti, sollevando la schiena. Un centimetro dal suo brutto muso.

-Io. Faccio. Quello. Che mi pare!

Mi spinse di nuovo giù.

-Spiegami una cosa. Perchè ci ronzi sempre intorno? Cosa cerchi da noi? Cosa cerchi in mio fratello, eh? Ti fa simpatia? Tenerezza? Ti sembra uno di quelli che puoi manipolare come ti pare? Sei riuscita a farlo disubbidire a me, ma brava! Adesso vorrai mettermelo contro, suppongo!

-Sei malato. Hai manie di persecuzione.

-State insieme, non è vero? Vi incontrate segretamente. Ma vi ho beccati. Da quanto tempo va avanti?

-Non è successo niente, se ti fa stare meglio. Stavamo solo parlando.

-Come no. Parlando. In un bagno. Con la porta chiusa a chiave! Non dire stronzate! Sei solo una puttana!

Mi dimenai alla sua presa, gli diedi un calcio tra le gambe, ma lui mi afferrò da una caviglia e mi fece cadere per terra. Crollò su di me, mi placcò sul pavimento. Mi divincolai ancora, finchè non mi rassegnai, senza più forze. Non potevo muovermi il busto sotto il suo peso.

-Te ne devi andare da qui. - sibilò tra i denti. Era troppo vicino. Dovetti trattenere il fiato. Non riuscivo a sopportare il suo alito pesante. - Te ne devi andare.

-Io faccio quello che mi pare!

-Allora finirai come il povero Greg volato giù da un tetto. - ridacchiò.

-Non ti devi nemmeno permettere di nominarlo.

-Sai che è così. È solo questione di tempo.

-Mio padre se n'è andato.

-Potrebbe non essere tuo padre il problema. Potrebbe essere qualcun altro.

-Come te?

-Come me. - aveva risposto non prima di averci pensato. Col naso sfiorava l'orlo della maglietta sul mio petto. Mi stava venendo da vomitare. - Non c'è nulla qui per te. È tutto marcio.

-Tu lo sei.

-Soprattutto io. E questa città. E questo mondo.

Potevo percepire il suo respiro affannato sulla mia pelle, contro i miei tremori rabbiosi. Avevo letto che il modo migliore per sfuggire a uno stupro è assecondare l'attentatore per poi agire quando meno se lo aspetta. La morsa alle braccia non era più pressante come un attimo prima. Aveva allentato la presa. Ancora un po', ancora un po'...

-Daryl no. Daryl non è come te.

-No. Non lo è. Ma lui non ha scelta. Tu ne hai. - disse serio, tornando a guardarmi negli occhi. - Vattene. - Mi mollò le braccia di colpo. Si alzò in piedi facendomi alzare a mia volta. Mi fermai a guardarlo. Cosa diamine gli era preso? - Capisci quando ti parlo o sei stupida?

Mi spinse fuori.

Daryl si alzò in piedi, sudato. Si scollò il braccio di uno degli scagnozzi di Merle dalla spalla e alzò un dito verso il fratello. Le iridi elettriche, le labbra strette per l'ira.

-Tu. Sei... - Si fermò lì. Non poteva dire "figlio di puttana".

-Un po' per uno, fratellino. Devi imparare a condividere.

Sentii Merle sogghignare e rabbrividii come se fosse successo davvero. Mi feci da parte, mentre si aggiustava la cerniera dei pantaloni. Allungai un passo, e quando capii che ero davvero stata liberata, presi le scale per non tornare mai più. Mai più.

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Capitolo 15
*** Paura ***


Qualcosa per cui lottare | The Walking Dead

7.2 # Paura


Mi schiacciai il cuscino sulla faccia, accecata dalla luce del sole che fendeva dalla finestra. Avevamo dimenticato di abbassare la persiana. Mi rivoltai nel materasso cercando il motivo di un rumore perpetuo e grave, come la vibrazione di un cellulare. Spostai il braccio di Zach e tastai lungo la pellicola che separava il materasso e le coperte dal pavimento. Trovai l'oggetto incriminato che vibrava con insistenza sotto un cumulo di vestiti.

Mia madre. Cazzo. Mi ero dimenticata di nuovo. Una volta mi aveva confessato che avesse la paura, anzi il terrore, anzi l'ossessione di ritrovarmi sui necrologi del giornale o vedermi al telegiornale ammanettata e senza denti, gli occhi fuori dalle orbite e con le ossa in bella mostra. Praticamente era terrorizzata che mi trasformassi in uno zombie per colpa delle droghe. Le avevo riso dietro, ma aveva le sue ragioni.

Erano quasi le quattro di pomeriggio e Zach dormiva ancora. Doveva essere stata una serata pazzesca, di cui come al solito mi ricordavo poco. 
Mi vestii velocemente indossando la sua felpa e i miei jeans. Scarpe ai piedi. Telefono, chiavi e sigarette nelle tasche. Mi infilai una sigaretta in bocca, passando di fronte allo specchio dell'ingresso, l'unico arredamento che ci eravamo potuti permettere oltre ad un piccolo tavolo da campeggio con sedie e un divano pieno di acari. Avevamo tutto ancora racchiuso nei borsoni e nelle scatole sparse per l'appartamento.
Davanti a me c'era un fantasma che mi guardava assonnato. Il trucco colato mi faceva sembrare davvero una drogata. Ora quell'aspetto spaventoso non mi intrigava più così tanto. Strascicai i piedi fino in bagno per lavarmi la faccia.

Sentii il russare di Skyler che dormiva a pancia in su tutto scoperto, con quei suoi ciuffi di capelli verdi che gli stavano dritti anche mentre dormiva. Il russo di David era troppo fine rispetto a quello del suo compagno di stanza per essere distinto. Anche perchè solo una parete lo divideva da quello di Jaxon, dalla cui mano potevo intravedere il perizoma rosa di una fan che doveva essere fuggita piuttosto presto.

Uscii di casa per non svegliare nessuno. Accesi la sigaretta e cominciai a camminare. Rigirai più volte il telefono nella tasca indecisa se buttarmi o meno. Il bordo del tasto verde sotto il polpastrello. Non sapevo se sarebbe stato più facile se mi avesse chiamato lei di nuovo. Non sapevo nemmeno perché fossi così agitata.

Quando arrivai alla panchina davanti al parchetto, considerai se fosse il posto migliore per sentire mia madre e tranquillizzarla sul non stare in fin di vita in mezzo ai drogati.
Un paio di scarpette rosa sfrecciavano giù dallo scivolo giallo. Un ciuffetto rizzo giocava a rincorrere i piccioni. Una manina appiccicosa serrava il cono di un gelato che colava da tutte le parti. Da lontano, gli schiamazzi di un gruppo di giovani che si passava un pallone nel piccolo campo da basket. Le mamme a chiacchierare sulle panchine. I padri a spinger le altalene. Tra il rumore del traffico e il chiacchiericcio, l'abbaiare di un cane che rincorreva un bastone e ruzzolava nella terra, capii che stavo montando un sacco di scuse.
Cliccai sul tasto di chiamata senza più pensarci. Attaccai l'altoparlante all'orecchio e la mia gamba cominciò a ballare senza tregua. Finchè rispose.

-Ciao, mamma. - parlai per prima, presa dall'emozione.

-Ciao, Trish.

La voce che sentii non fu quella di mia madre. Bensì una più grave, più rugginosa, più increspata, più dolorosa per le mie orecchie e per le mie membra. La voce di mio padre.

Strinsi il telefono come se la pressione fosse potuta arrivare anche a lui, per fargli del male. Mi irrigidii.

-Dov'è la mamma? Che cosa ci fai col suo telefono?

-Mamma non sta bene. È all'ospedale. Sono giorni che cerco di contattarti. Perché non rispondi mai?

Scattai in piedi.

-Che cosa le hai fatto? - mi venne spontaneamente. Il fumo della mia sigaretta, me lo dimenticai in gola. - Perché in ospedale?

-Tua madre è stata male da sola. L'ha trovata tua zia. É stata una fortuna che avessero un appuntamento nella mattina. Ed è stata una fortuna che non mi trovavo molto lontano.

Una fortuna.

Mia zia non aveva capito mai nulla di suo fratello. Il troppo amore l'aveva accecata. Lo strazio per la perdita dell'unico figlio l'aveva fatta impazzire completamente. C'era un motivo se in famiglia nessuno aveva mai compreso in fondo che cosa succedesse in casa nostra.

-Bè, insomma, mamma cos'ha?! Cos'è successo?! - chiesi spazientita.

-Non so come dirtelo, Trish. Tua madre... le hanno trovato delle masse...

La sigaretta mi cadde ai piedi.

-Masse?

-Trish...

-Cosa, che cosa vuol dire che ha... delle masse?!

Mio padre sospirò. Sembrava che gli importasse davvero adesso, sembrava seriamente afflitto e in difficoltà nel darmi la notizia, ma non potevo lasciarmi intenerire. Sapevo che era una recita. Un uomo come mio padre non conosceva l'amore, o il dispiacere, o la sensibilità. Mio padre aveva una pietra al posto del cuore. Ma non una pietra di fiume arrotondata dalla carezza dell'acqua, no. Al posto del cuore aveva una pietra tagliente e sfaccettata, piena di angoli spinosi. 
Finse di sospirare di nuovo e io potei fare altro che infervorarmi ulteriormente.

-Che cazzo ha mia madre?! Parla! - urlai. Non mi interessava che la gente che passava pensasse male.

-Ha il cancro. In stadio avanzato. Non c'è speranza di guarigione. Vedi di fare le valigie se la vuoi vedere ancora.

Mise giù.

Mise davvero giù senza aggiungere altro. Aveva chiuso la chiamata sbattendomi la novità in faccia, liberandosene come un malloppo pesante da passare. Si era lavato la coscienza.

Raccolsi la sigaretta da terra e la riaccesi nonostante le mie mani tremassero più del solito. Feci due tiri, poi me la dimenticai tra le dita a fumarsi da sola. La schiacciai a terra. Ripresi a camminare fissando un punto impreciso tra il marciapiede e l'ombra delle persone che vedevo camminare attorno a me senza metterle a fuoco. Svoltai l'angolo. Comprai una scatola di ciambelle alla glassa, un pacco di caffè e tornai indietro. Una distrazione per il panico che iniziava dai piedi a divorarmi l'anima, aggrappandosi al mio cuore con i suoi artigli acuminati.

Zach si era svegliato. Sistemava le coperte nel salone. Della musica si animava dallo stereo in cucina. Mi guardò accigliato. Dovevo avere anch'io un'espressione strana in faccia. Doveva essere visibile che stessi soffocando un urlo proveniente dalle viscere.

-Ciao.

-Ho portato la colazione. Sei sveglio solo tu? - chiesi con una punta di timore.

-Uuh! Ciambelle!

David apparve dalla camera, sgraffignò una ciambella e si diresse in cucina con tutta la scatola in equilibrio sulla punta delle dita.

-Si ringrazia. - lo riproverò Zach, lanciandomi un'occhiata, forse sorpreso che non l'avessi fatto io.

-Grazie, Trish! - biascicò David con la bocca piena.

-Tutto bene?

-Ho bisogno di caffè. - farfugliai. Avevo caldo, ma non avevo la forza di togliermi la felpa. La tenni su di me come un abbraccio.

Mi adagiai su una delle sedie da campeggio dopo essermi versata da bere. David mangiava affacciato alla finestra, la sua tazza posata sul davanzale, il telefono in mano, una sigaretta già pronta dietro l'orecchio.

-Avete sentito cosa sta succedendo? È scoppiata un'epidemia misteriosa. Ci sono già trenta casi in tutto il continente.

-Che epidemia misteriosa? - domandò Zach di spalle, mentre riscaldava il caffè in microonde. Scelse una ciambella e si sedette davanti a me. - Non è la tua tazza preferita.

La guardai. C'era un gioco che perpetuavamo come routine, come dei bambini. Ognuno aveva la propria tazza e nessuno poteva toccare quella di qualcun altro. Era Zach il perfettino che si accorgeva di queste cose tra gli uomini che vivevano in quella casa. A volte bacchettavo chi avesse rubato la mia, che era nera, di forma perfettamente cilindrica, con la scritta "NO" sul davanti, un po' graffiata, e due sbecchi agli opposti sul diametro del bordo. Quella che avevo in mano era rossa terracotta, leggermente panciuta, era disegnato un fiore in rientranza sulla facciata e aveva una singola sbeccatura sul manico. La tazza di Skyler.

David parlava, parlava. Sentivo la sua voce, ma non capivo cosa stesse dicendo. Neanche Zach lo ascoltava con molta attenzione. Lo vedevo che continuava a dare occhiate alla mia tazza raffreddata.
Neanche il caffè mi andava più. L'odore che infestava la casa era diventato di colpo nauseabondo. Il mio stomaco si convulse. Corsi in bagno, senza curarmi di chi lo stesse occupando e davanti ad un Jaxon in mutande rimisi nel water tutto ciò che mi ero tenuta dentro nel tragitto, tutti gli anni di segrete torture verso me stessa.

-Un'altra che si è svegliata bene! - Rise Jaxon - Ah, Sky? Hai compagnia!

Il muggito che si sentì aldilà di due porte avrebbe dovuto farmi ridere. Invece iniziai a piangere a dirotto, a singhiozzi sempre meno contenuti.

-Ops, l'ha presa male. Mi dispiace. Skyler non è affidabile, dovresti saperlo.

-Stai zitto, Jax, okay? Puoi stare zitto?!

-Ehi, ehi!

-Che succede? - fece la voce di Zach. Poco dopo i suoi passi si fermarono sulla porta.

-Non è la tua cazzo di coca il problema, okay? Non puoi essere sempre tu al centro dell'attenzione! - mi sgolai per ogni lacrima. Zach si piegò su di me, mi fece rialzare.

-Oh, ma che ti prende?!

-Che mi prende? Che mi prende?! Mi prende che sono mesi che non vedo mia madre per questi cazzo di concerti di merda che non ci pagano nemmeno abbastanza e ci tocca dormire per terra come degli zingari! Ogni volta mi ripeto di chiamarla, ma non riesco mai a sentirla perché siamo sempre fuori o siamo fatti da fare schifo e adesso mi ha chiamato mio padre, capisci? Mio padre!

-No, non capisco. - fece Zach, corrucciando la fronte, braccia conserte.

No che non poteva capire. Non sapeva niente di quella parte della mia vita. Ed era meglio che non la conoscesse. Sapeva solo di Greg e che era stato un incidente. Non era difficile leggergli in faccia il sospetto che stava iniziando a montare. Non potevo biasimarlo. Era come se gli stessi dando la colpa di tutto.

-Perché ti ha chiamato tuo padre?

-Per dirmi che... per dirmi... - I singhiozzi mi impedivano di parlare. - Mia madre sta morendo. Sta morendo... e io... non sono lì con lei.

-Cazzarola, questa si è fottuta la testa! - fece Jaxon alzando le mani sul capo. Ridacchiò.

-Ma che stai dicendo?

-Ha il cancro. Sta male. È in ospedale.

-Oh... merda... - Jaxon non rideva più.

Mi rimaneva solo lei. L'avrei persa e non era nemmeno colpa di mio padre. Non potevo prendermela con nessuno. Solo io avevo colpa. Io l'avevo abbandonata.

 

-Devo andare a vederla. Devo andare da lei assolutamente.

 

-Certo... Vuoi partire subito?

-Credo di sì.

-Quanto tempo vuoi stare? - Chiese mentre si grattava la fronte e si scambiava occhiate con Jaxon.

-Non lo so. Mi fai domande troppo difficili.

Mi pulii la bocca con la maglia, scaricai lo sciacquone. Scanzai il busto che si era piantato davanti alla porta e barcollai fino al salone. Mi buttati sul materasso, la schiena verso la porta, la faccia affondata nel cuscino in cui avrei affidato lo sfogo isterico delle mie corde vocali strepitanti. Sarei rimasta lì sdraiata per il resto dei miei giorni, rifiutando qualsiasi forma di sopravvivenza. Volevo solo piangere e prosciugarmi di ogni liquido corporeo.

Immaginai mia madre nel suo lettino bianco a fissare il soffitto tutto il giorno, rimbecillita dagli effetti dei farmaci, che non riusciva nemmeno a parlare e cacciare quel bastardo di mio padre dalla stanza. Mia madre aveva bisogno di me.

Mi alzai e cominciai a recuperare vestiti e metterli in borsa piegandoli e ammassandoli sul fondo, un po' di lato, un po' dove capitava, dove c'era spazio. I capelli bagnati dalle lacrime ammucchiati dietro le orecchie, la vista appannata, il naso che mi colava e la gola che si annodava su sé stessa tra i singhiozzi. Dovevo andare. Dovevo andare subito. Sarei arrivata da lei la sera stessa.

-Sai che ci hanno accettato per suonare anche questo week-end, vero?

-Starò via qualche giorno. Tornerò giusto in tempo per suonare. - dissi solo per farlo stare zitto.

-Ci conto. È importante.

Presi un respiro profondo.

-Zach. È mia madre. Vuoi che la lasci... a morire da sola?

-Non ho detto questo.

Abbuffai la borsa di tutto ciò che di mio trovavo in giro. Zach era sempre dietro di me che mi osservava.

-Con cosa ci vai?

-Con la moto, è ovvio.

-Non abbiamo pagato l'assicurazione.

-Non fa niente. Non mi schianterò proprio oggi. E se mi schianterò, sarà meglio così. - conclusi senza respiro, cercando di silenziare i singulti.

Zach mi prese il viso tra le mani. Volevo asciugarmi gli occhi per imprimere perfettamente i suoi lineamenti nella mia mente prima di andare, ma non ne avevo la forza. Le mie mani erano diventate di piombo. Anche quando i nostri bacini si incontrarono riuscii solo ad aggrapparmi debolmente alla sua maglia. Erano rari gli abbracci di Zach, sebbene non fosse uno troppo restio al contatto fisico. Quelli lunghi, uscivano dall'ordine del giorno. Non c'era mai tempo per quelli. Ma quando capitavano, avevano un potere curativo su di me e mi facevano pentire di tutte le volte che lo avevo trattato come una palla al piede. Se mai Dio fosse esistito almeno in un minuscolo istante nella mia vita, era apparso là dentro, tra quelle braccia solide, e mi aveva toccato.

-Non fare la cretina. Tienimi informato.

"Non fare la cretina" significava non superare i limiti di velocità e smetterla di esporre pubblicamente i miei istinti suicidi.
Non mi aspettavo che si proponesse di accompagnarmi. Le questioni amministrative della band non si risolvevano di certo da sole. E poi sapere di avere qualcuno che mi aspettava a casa mi avrebbe fatta sentire meno in colpa quando sarei dovuta tornare.

Mi staccai per prima e mi asciugai la faccia. Sulla rima delle ciglia ancora rimanevano tracce di trucco. Il dorso della mia mano era coperto di linee ed aloni neri. La metafora della mia vita: cercavo di andare avanti, lavavo i miei peccati, ma rimaneva sempre una traccia di sporco che non riuscivo a pulire.

-Vado. Ci sentiamo per telefono.

Presi la porta. Non salutai nemmeno gli altri due che si erano appostati davanti con aria interrogativa. Non vedevo nemmeno le scale, non le percepivo sotto i piedi. Sfrecciai accanto alla sagoma di Matilda, l'amica di Skyler, con i suoi capelli fucsia, il suo rossetto blu e i suoi mille piercing in faccia, che saliva. Non la travolsi per un pelo. Non c'era tempo per spiegare. Spolverai la sella della Triumph e vi saltai sopra. Aveva ancora abbastanza benzina per il viaggio, così partii in autostrada facendo slalom tra le auto. Il paesaggio fuori dal casco si schiacciava e filava via. Non era interessante come ogni volta che passavo di lì. Davanti a me c'era solo la strada. E mia madre. Niente importava. Nemmeno mio padre. Mio padre l'avrei preso a calci. Non mi faceva più paura. Nemmeno l'acqua mi avrebbe fermato se avesse iniziato a diluviare. L'unica paura che avevo era di arrivare troppo tardi.

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