Il velo di Old Fashioned (/viewuser.php?uid=934147)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Parte prima ***
Capitolo 2: *** Parte seconda ***
Capitolo 3: *** Parte terza ***
Capitolo 1 *** Parte prima ***
IL
VELO
Parte prima
…This is the end, beautiful
friend…
Il marine Serrano buttò da una
parte la pala con cui stava riempiendo di sabbia polverosa un sacco
da trincea e disse: “Basta! Già questo è un lavoro di merda.
Farlo con quella musica in sottofondo, poi, è peggio che spararsi
nelle palle.” Tirò fuori una sigaretta e se l’accese. “Non lo
sopporto più,” borbottò poi, espirando una boccata di fumo.
...This is the end, my only
friend, the end…
Dalle finestre aperte di una
camerata, la canzone rimbombava per tutto il campo.
Il suo commilitone Ayers, che era
chinato a tenere aperta la bocca del sacco, guardò in su e replicò:
“Datti da fare, dai, non ci tengo a far incazzare il sergente
un’altra volta.”
“Lo senti?” ribatté l’altro.
“È la terza volta di fila che la suona, cazzo. Sempre la stessa.
Ma giuro che se non la pianta vado là e gliela suono io, la fine.”
Jim Morrison nel frattempo stava
continuando imperterrito a lamentarsi: ...and
all the children are insane, all the children are insane…
A quel punto, alle loro spalle si
udì una voce profonda proclamare: “Questo stronzo pensa di essere
a casa sua.”
I due si girarono e ritennero
opportuno non replicare: era comparso il marine Clement Boyle, un
mezzo maori di due metri per centotrenta chili di peso, praticante di
varie arti marziali, dal carattere notoriamente pessimo e portato
allo scatto d’ira.
Questi fissò la finestra aperta
della camerata come un toro avrebbe fissato un torero particolarmente
molesto, quindi partì a grandi passi in quella direzione.
I due rimasero a seguirlo con lo
sguardo fino a che non scomparve all’interno dell’edificio.
“Ora lo ammazza,” commentò a
quel punto Serrano con un’alzata di spalle. Si mise la sigaretta
all’angolo della bocca, raccolse la pala e ricominciò a riempire
il sacco.
Il marine Brian Everett era
sdraiato sulla sua branda con addosso solo i pantaloni e la
maglietta. Teneva le braccia dietro la testa e le gambe accavallate,
e si godeva la sua canzone preferita, ovvero The End, dei Doors.
Non era tipo da mezze misure, e
quando ascoltava la musica gli piaceva farlo a tutto volume, e
insistere finché una certa canzone non finiva per annoiarlo. La
consumava,
in un certo senso. La acquisiva.
Era un concetto filosofico di cui
andava molto fiero.
Quando sentì il trambusto in
anticamera, sulle prime pensò a un assalto nemico, e istintivamente
abbandonò la posizione rilassata per guardarsi intorno alla ricerca
di fucile e scarponi.
Non fece in tempo a reperire
nessuna delle due cose: la porta si aprì con tale violenza che
rischiò di saltare dai cardini, e nel riquadro comparve la
preoccupante mole di Boyle.
“La vogliamo piantare?”
ringhiò il nuovo arrivato.
“Ehi, stavo solo ascoltando un
po’ di musica,” ebbe la pessima idea di replicare Everett.
L’altro fece un minaccioso
passo avanti, poi disse: “No, la faccenda è un po’ diversa: tu
stai rompendo i coglioni a tutti con la tua musica del cazzo.”
“Io ascolto quello che mi
pare.”
Boyle fece un altro passo avanti.
Afferrò lo stereo, lo strappò dal muro con la presa e tutto, e lo
lanciò fuori dalla finestra, mandandolo a fracassarsi contro
l’edificio che si trovava dall’altra parte del vialetto, poi
incrociò le braccia sui poderosi pettorali e lo fissò torvo.
“Ascoltala adesso, la tua fottuta musica,” disse.
“Senti, frustrato di merda...”
cominciò l’altro, scendendo dalla branda con la lenta
determinazione di chi è intenzionato a cantarle chiare
all’avversario una volta per tutte, “si può sapere che cazzo di
problema hai? Quello era il mio
stereo.”
“Vuoi fare la stessa fine,
stronzo?”
Una volta che si fu alzato in
piedi, Everett dovette piegare la testa all’indietro per riuscire a
fissare negli occhi l’interlocutore. In tono già meno deciso,
protestò: “Non ne avevi il diritto.”
“E tu non hai il diritto di
rompere le palle a tutti con la tua musica del cazzo.”
Questa volta, l’altro non trovò
nulla da eccepire. Si limitò a grugnire qualche vaga protesta, poi
raccolse gli scarponi e abbandonò la stanza.
Padrone del campo, Boyle si
guardò intorno. Dalla branda accanto a quella di Everett, il marine
Andy Vaughan aprì un occhio e disse: “Ciao, Clem.”
L’altro rilassò i muscoli e
abbandonò le braccia lungo i fianchi, poi premuroso disse: “Scusa,
Orange. Ti ho svegliato?”
In tono pacato, l’altro
osservò: “Col casino
che hai fatto, avresti svegliato anche i morti.”
“Scusa,” ripeté Boyle
contrito, “mi aveva fatto incazzare.”
“Ma sì, ti capisco,” rispose
Vaughan tranquillo. Sbadigliò. “Dava un po’ di fastidio con
quella musica.”
“Un po’ di fastidio? Ma se
faceva tremare i vetri!”
“Beh, non tanto, in fondo.”
L’altro si alzò dalla branda, si stirò come un gatto e propose:
“Andiamo in mensa a bere qualcosa?”
“Ok.”
Si incamminarono.
“Ma come cazzo facevi a
dormire?” chiese Boyle strada facendo.
“Boh, come si fa a dormire? Ti
metti lì e chiudi gli occhi, no?” Poi, dopo una pausa: “Come
faccio a spiegarti come si fa a dormire?”
“E dai, Orange.” protestò
Clem Poi, dopo una pausa: “Un giorno me lo dirai perché tutti ti
chiamano Orange?”
“Un giorno, magari...”
“Birra?”
“Ok, birra.”
§
Arroventate dalla calura del
primo pomeriggio, le baracche di Camp Courage sembravano tremolare
nell’aria torrida e immobile. I vialetti di terra battuta si erano
trasformati in miraggi, e pareva che in fondo a ognuno di essi ci
fosse un'invitante pozza d'acqua. Le lamiere degli automezzi erano
così calde da ustionare.
Orange, biondo rossiccio, occhi
azzurri e pelle refrattaria all’abbronzatura, tirò fuori un
tubetto di Protezione 50 e se ne applicò una generosa quantità sul
naso spellato e sulla fronte, poi inforcò un paio di occhiali da
sole. “È un po’ caldo, oggi,” commentò. Porse la crema a
Clem. “Vuoi?”
L'altro lo fissò critico. “Per
fare dieci metri all’aperto?”
“Uhm. Ripensandoci, sei un
mezzo maori, quindi non ne hai bisogno. E poi sei talmente grosso che
me la consumeresti tutta.” Si rimise in tasca il tubetto.
Raggiunsero l’aula briefing,
fuori dalla quale era affisso un cartello che recitava: Seminario di
cultura islamica, a cura della professoressa Irene Simmons.
Nella sala stavano entrando solo
maschi.
I due presero posto, e poco dopo
la porta venne chiusa. Un proiettore da diapositive si accese, e
dalla porta riservata agli ufficiali fece il suo ingresso una procace
mora con una quarta naturale e lunghe gambe affusolate.
La giovane donna salutò
l’uditorio e con voce flautata annunciò: “Oggi parleremo
dell’arte islamica.”
“Come vorrei che invece mi
parlassi dell’arte di fare i pompini...” mormorò qualcuno,
stando ben attento a non farsi sentire dalla docente.
La professoressa prese una di
quelle canne che si usano per indicare.
“Sì, puniscimi, maestra...”
sussurrò un altro. Seguirono delle risatine soffocate.
Imperterrita, o forse solo
serenamente ignara, la docente cominciò a disquisire di arte
omayyade, mostrando immagini della grande moschea di Damasco.
Orange era piuttosto soddisfatto
della scelta artistica, perché le moschee erano generalmente dotate
di minareti, e quando la Simmons alzava quella sua bacchetta per
indicarli, le tette si comportavano in maniera interessante.
Per un po' rimase a scrutarle,
cercando di capire se fossero naturali o rifatte, ma non riuscì a
raggiungere un verdetto. Diede un colpetto col gomito a Clem e
sottovoce gli chiese: “Secondo te sono vere?”
“Cosa?”
“Le cupole
della Simmons.”
“Il mio minareto
pensa di sì.”
“Il solito milord.”
“Sei stato tu a cominciare.”
La docente nel frattempo stava
mostrando una costruzione di pietra chiara.
“Ehi, quella l'ho già vista,”
sussurrò Orange. “È poco fuori città.”
“...e questo è il mausoleo di
al Mansour, risalente all'ottocento dopo Cristo.” disse la Simmons.
“Come potete vedere, il monumento è stato realizzato sulle
fondamenta di una costruzione più antica...”
Qualcuno alzò la mano.
La docente smise di spiegare, si
voltò in quella direzione e disse: “Sì...?”
“Signora, cosa c'è dentro?”
L'altra gli fece il sorriso della
mamma che spiega al bambino che non può aprire il coniglietto per
vedere come mai si muove e respira. “Non è aperto ai non
musulmani,” rispose candidamente. “È un luogo sacro per la loro
religione.”
“Ma allora, signora, potrebbero
esserci dentro anche dei terroristi?”
“È un luogo sacro,” ripeté
l'altra, dando l'idea di considerare la risposta perfettamente
esaustiva.
Orange si voltò verso il
compagno: ormai lo conosceva, e sapeva perfettamente che un discorso
come quello della Simmons aveva il potere di scatenare la più feroce
delle sue incazzature. Allungò una mano per toccargli il braccio, ma
prima che il gesto riuscisse a giungere a compimento, Boyle saltò in
piedi e chiese: “Quindi, signora, siccome quello è un luogo sacro,
noi non ci possiamo entrare?” I suoi occhi fiammeggiavano in modo
inquietante.
La docente rimase con la canna a
mezz'aria, vagamente intimidita dalla mole del marine. In tono
suadente rispose: “È un luogo di culto. Per rispetto alla loro
religione, abbiamo scelto di non violarlo.” Fece una pausa, poi,
con il sorriso indulgente di chi sta ascoltando le preoccupazioni
fuori luogo di una vecchia signora un po’ isterica, soggiunse:
“L'Islam è amore.”
Non l'avesse mai detto.
Clem letteralmente strabuzzò gli
occhi, poi con voce tonante replicò: “Beh, lasci che le spieghi,
signora, che qui siamo in guerra, altro che amore del cazzo! E mentre
noi stiamo qui a farci le seghe sul rispetto e sulla tolleranza,
quegli stronzi ci violano il culo tutti i giorni, per usare parole
sue, e noi non possiamo fare un cazzo, perché arrivano certi idioti
dalle Università, e dopo aver passato il tempo a farsi canne e a
scrivere cazzate sulla pace e sul rispetto, vengono qui in Iraq, dove
ci facciamo il culo tutti i giorni, a dire le imbecillità di chi non
ha mai sentito un colpo di fucile in vita sua! Venga un po' a portare
a spasso le sue tette in una missione di pattugliamento, signora, poi
riparliamo della pace e del rispetto!”
A quel punto si scatenò
l'inferno: tutti saltarono in piedi, alcuni volenterosi afferrarono
Clem per le spalle e cercarono senza successo di portarlo fuori, ma
la maggior parte cominciò ad acclamarlo, a ripetere spezzoni della
sua requisitoria e a urlare slogan patriottici. Volò anche qualche
sedia.
Entrarono nella stanza quattro
MP, ma a quel punto tutta la conferenza era già piombata nel caos e
nessuno prestava più attenzione alle pur pregevoli tette della
docente, e meno che mai all’arte omayyadi. L'unico che manteneva
una calma olimpica era Orange, che sedeva tranquillamente e
contemplava la diapositiva proiettata sul muro, ovvero una
planimetria del famoso mausoleo.
Si alzò adagio, e schivando i
commilitoni raggiunse la cattedra. La professoressa stringeva a due
mani la bacchetta, con l'aria di una dama vittoriana capitata in
mezzo a una masnada di marinai ubriachi. Il marine esibì un sorriso
soave e disse: “Signora?”
L'altra lo fissò come si
potrebbe fissare un pompiere in un incendio. “Sì, soldato?”
“Forse è meglio che io la
accompagni fuori, signora.” Le porse il braccio con la galanteria
di un gentiluomo della Virginia.
§
Clem si mise in spalla l'M4, che
addosso a lui sembrava poco più un fucile giocattolo, e si aggiustò
l'elmetto dotato di videocamera. Poi si voltò verso il compagno e
chiese: “E quindi, zitto zitto te la sei portata fuori?”
“È il motto non ufficiale di
noi marines, amico,”
rispose fiero Orange. “Improvvisare, adattarsi e raggiungere lo
scopo.”
“Ma che paraculo,” commentò
l'altro scuotendo la testa. “Mentre noi ci prendevamo a cazzotti
con gli MP, tu ti sei portato via Miss Tette.” Tacque per qualche
secondo, poi s'informò: “Allora, sono vere o finte?”
“Non lo so, abbiamo parlato di
arte islamica.”
Clem fissò l'amico come se
dubitasse della sua salute mentale. “Eh?”
“Arte islamica. Omayyadi,
selgiuchidi...”
L'altro scosse di nuovo la testa,
questa volta con rassegnazione. “Tu sei malato,” sentenziò alla
fine.
Così parlando salirono
sull'Humvee e si sistemarono sui sedili. “Dove si va oggi?”
chiese Clem a voce alta.
“Mercato,” rispose l'addetto
alla guida.
“Merda, odio il mercato,”
imprecò il marine, che nei vicoli stretti e debordanti di mercanzie
dei suq si impigliava ovunque.
L'auto si mise in movimento,
attraversò i cancelli di Camp Courage e cominciò a percorrere le
strade polverose e intasate di macchine strombazzanti della città.
Boyle per un po' rimase a
guardare fuori, poi chiese: “Senti, ma ti chiamano Orange per il
colore dei capelli?”
L'altro fece un sorrisetto. “No,
non per quello.”
“E allora perché?”
“Un giorno te lo dirò.”
Clem alzò le spalle. “Fanculo.
Non mi interessa.”
Orange rispose con una risatina,
poi disse: “Comunque, l'incontro con Miss Tette è stato
interessante. Lo sai che secondo la tradizione quel posto sarebbe
collegato alla città da un tunnel?”
“Il mausoleo di al Capone?”
“Al Mansour. Comunque sì,
quello. Ma sembra che non ne sia rimasto nulla. In realtà era un
canale che serviva da collettore per le sorgenti che si trovavano
sulle colline.”
“Boh.”
“Portava l'acqua in città.”
“Avrebbe fatto meglio a portare
della birra.”
Nel frattempo si stavano
avvicinando alla zona del mercato, e già la folla cominciava a
ingombrare le strade. Passavano donne velate con ceste in equilibrio
sulla testa, ragazzini che si trascinavano dietro capre riluttanti, o
vecchi che spingevano asini carichi di cesti di paglia. Uno di essi
si fermò al ciglio della strada, e quando li vide passare tirò
fuori da una tasca sdrucita un cellulare di ultimo modello.
Clem scattò: “Ehi, che cazzo
fa quel bastardo?” ringhiò minaccioso.
Orange gli mise una mano sulla
spalla. “Sta telefonando.”
“Quello è un fottuto
detonatore!”
Prima che chiunque fosse in grado
di fermarlo, Clem era già scattato fuori, con una rapidità
impensabile data la sua mole, e aveva atterrato l'uomo sul
marciapiede. Indignata e spaventata, la folla faceva capannello e
lanciava invettive.
Scese dall'Humvee il caporale
Whilkes, che si avvicinò con un sospiro al marine e sentenziò: “Tu
sei un incidente diplomatico vivente, Boyle.” Gli batté una mano
sulla spalla per convincerlo a mollare la presa.
Clem non si mosse. “Quello ha
un detonatore,” insisté caparbio.
Vista la difficoltà di spostare
Boyle quando non voleva essere spostato, Whilkes disse: “D'accordo.
Ora chiamiamo gli artificieri e poi se ne occuperanno loro,
d'accordo?”
“Il telefonino lo tengo io
finché non arrivano.”
Ci volle ancora una buona
mezz'ora, poi il pattugliamento del mercato poté cominciare.
La voce di quello che aveva fatto
Boyle si era sparsa, e la gente manteneva una circospetta distanza
dal gruppo di militari.
Si erano lasciati alle spalle il
suq degli alimentari, dove le bancarelle di spezie multicolori si
alternavano a quelle che esponevano quarti di capra appena macellata,
ed erano entrati nel suq degli abiti: dappertutto c'erano stoffe di
ogni genere, coperte, jalabiya per uomo, ma anche per donna, ricamate
e variopinte, chador scuri, kefiah, ma anche abiti di foggia
occidentale, perlopiù provenienti dall'Estremo Oriente, jeans,
magliette di improbabili squadre di calcio e altro ancora.
A un certo punto, Orange si fermò
e disse: “Guarda lì.”
Clem si voltò nella direzione
indicata, ma non notò nulla di particolarmente interessante.
“Il velo,” gli fece notare
l'altro.
Di veli dovevano essercene in
esposizione almeno duecento. “Quale velo?” chiese Clem.
A mo' di spiegazione, Orange
disse: “Mia nonna è russa, se mi chiamo Andrej è colpa sua, e
quando va in chiesa a fare i suoi riti si mette sempre un fazzoletto
in testa.” Annuì convinto, poi soggiunse: “Io dico che quello
sarebbe perfetto per lei.”
Clem continuava a vedere solo un
assortimento di stoffe dai colori improbabili. “Ma quale?”
“Quello là, no?” rispose
l'altro, col tono di dire la cosa più ovvia del mondo. Fece un passo
avanti, poi con la canna dell'M4 sollevò il lembo di un velo di seta
nero con dei disegni viola intenso.
“Per me porta rogna,”
sentenziò Clem.
In quel momento, dall'interno del
negozio si affacciò un uomo di mezz'età, baffuto, con una jalabiya
bianca e la taqiyah in testa. Questi si inchinò con fare untuoso e
chiese: “Vuole comprare?”
Orange stava già per mettere
mano al portafoglio quando la voce del caporale Whilkes lo richiamò
all'ordine. “Stasera.” gli assicurò allora il marine. “Finito
il servizio, torno qui a comprare quel velo, tienilo da parte.”
“Sì, signore,” rispose
l'uomo rivolgendogli un altro inchino.
“Stasera!”
Si persero nella calca del
mercato.
“Sei il solito cretino,”
brontolò Clem quando si furono allontanati.
L'altro lo fissò ostentando
un'aria offesa. “Perché?”
“Digli anche in quale baracca
di Camp Courage dormi, già che ci sei, e a che ora esci in mutande a
pisciare.”
“Sei un paranoico.”
“Un paranoico?” ringhiò
Boyle. “Ehi, stronzo, guarda che qui siamo in guerra. Questi sono
nemici.”
“Nessuno è nemico, quando gli
dai dei dollari.”
“Beh, tu gli hai detto che
torni qui stasera, finito il servizio. Secondo me ci troverai dieci
fotticammelli pronti a farti la festa.”
'Fotticammelli' o 'fotticapre'
era il termine con cui di solito Boyle si riferiva agli indigeni di
sesso maschile.
Proseguirono con il
pattugliamento. Nel frattempo avevano abbandonato il suq degli abiti,
e stavano attraversando quello degli oggetti per la casa: vassoi in
rame battuto si alternavano a piatti di plastica provenienti dalla
Cina, ornati di fiori di pesco e pagode; recipienti tradizionali in
alluminio erano esposti accanto a cestini di plastica fucsia o verde
acido. Assortimenti di bicchierini da tè dalle pesanti decorazioni
dorate brillavano ai rari raggi di sole che penetravano attraverso la
copertura del mercato.
Orange prese un piccolo
recipiente a imitazione del cristallo baccarat, lo rigirò per
leggere l'etichetta che aveva sul fondo e disse: “Ovviamente made
in China.” Lo rimise a posto.
“Sei peggio di una donna,”
grugnì Boyle.
“Sono un uomo facoltoso e di
buon gusto,” lo corresse Orange, citando i Rolling Stones. Sollevò
un sopracciglio con aria di degnazione.
Clem stava per rispondere quando
una voce aspra attirò la sua attenzione. Si voltò in quella
direzione e vide un uomo di circa cinquant'anni, ossuto, scuro, con
un'appuntita barba bianca, che inveiva contro una donna, e intanto la
strattonava per un polso.
La donna, completamente velata di
nero, piagnucolava e faceva deboli tentativi di liberarsi.
“Ehi, che fa quel pezzo di
merda?” ringhiò Boyle, ergendosi in tutta la sua altezza. Tese i
muscoli.
Orange gli si parò davanti. “Sta
fermo, Clem. È il loro modo di dirsi ti
amo.”
“Ti amo, un cazzo. Non vedi che
le sta facendo male? A una donna?
Non si toccano le donne!” Poi, rivolto all'uomo: “Ehi, stronzo,
che cazzo ti credi di fare?”
Il tizio lo guardò con l'aria di
non capacitarsi di quell'intromissione, poi riprese a inveire contro
la compagna.
“Non si toccano le donne!”
latrò allora Boyle, quindi partì a testa bassa, e prima che
chiunque si fosse reso conto di quello che stava succedendo, aveva
già attaccato al muro l'indigeno. La donna cercava di colpirlo con i
pugni, e intanto diceva cose dal suono poco gentile.
Clem si voltò verso il
commilitone, e stupefatto domandò: “Ma perché sta picchiando me?”
Serafico, Orange gli rispose: “Te
l'ho detto che sono abituati così.”
“Fotticammelli di merda, loro e
le loro donne.”
“Andiamo, dai.”
“Ma tu hai visto che quella
strega ha picchiato me?”
“E dai, si vede che è una di
quelle a cui piace prenderle.” Lo spinse in avanti. “Ora
muoviamoci, se non perdiamo gli altri.”
§
Orange entrò nella palestra dove
Clem si stava allenando e disse: “Andiamo?”
L'altro appoggiò il bilanciere e
lo fissò serio. “Andiamo, dove?” Prese l'asciugamano che aveva
al collo e si terse il sudore.
“A comprare il velo.”
Boyle sbuffò. “Ma perché non
lo chiedi alla Barral, che è una donna?”
“Sì, figurati, una donna.
Quella là deve avere il clitoride più grosso del mio cazzo.”
“Allora chiama Miss Tette, no?
Tra una discussione di arte islamica e l'altra, andate a comprare il
fazzoletto per tua nonna.”
Orange assunse un'espressione di
nostalgia e sospirò: “L'hanno spostata a Camp Freedom. Hanno detto
che qui creava turbative.”
“Troppe tette?”
L'altro gli diede un pugno sul
pettorale. “No, troppi cretini che non sanno tenere la bocca chiusa
quando è il momento. Allora, andiamo?”
“Sono sudato.”
“Ci sono cinquanta gradi, sta
sudando anche la fotografia del Presidente appesa nella mensa.”
“Devo farmi la doccia.”
“Aspetterò.”
“Sai che sei un bel
rompicoglioni, Orange? E non mi hai ancora detto perché ti chiamano
Orange.”
“Ti do un indizio: il
soprannome completo è Agent Orange. E adesso va a lavarti, se no il
tizio chiude il negozio.”
“Ti chiamano Agent Orange
perché fai morire le piante?”
“Oh, che palle. Ma lo sai che
quando ti ci metti sei più insistente di un testimone di Geova?”
Stava calando la sera. Le viuzze
del mercato, che durante il giorno erano apparse come pittoreschi
caleidoscopi di colori e odori, si stavano trasformando in viottoli
scuri, stranamente larghi rispetto alla calca della mattina, e
fiancheggiati da botteghe sbarrate. Solo nel suq delle stoffe qualche
bancarella resisteva ancora, e gli abiti e i foulard superstiti
ondeggiavano lievi nella brezza.
Orange avanzò rapido,
guardandosi intorno come un furetto capitato in un pollaio. Girandosi
sopra la spalla, chiese al compagno: “Tu ti ricordi dov'era?”
“Per me questi fottuti posti
sono tutti uguali.”
“Certo che sei costruttivo,
eh?” rispose Orange continuando ad avanzare nei vicoli. Si fermò a
un crocicchio, scrutò i dintorni e disse: “Mi sembra di
riconoscere il posto, andiamo di qua.” Si infilò in una viuzza col
pavimento di terra battuta.
Clem lo seguì grugnendo cose
indistinte.
L'intuizione di Vaughan si rivelò
giusta, e i due raggiunsero il negozio dei veli, unico ancora aperto
in una strada altrimenti buia e deserta. Un paio di ragazzotti
stavano togliendo la merce dall'esposizione, la ripiegavano e la
mettevano via. In piedi sulla soglia, l'uomo coi baffi sovrintendeva
all'operazione.
“Ehi!” lo chiamò il marine
da lontano, agitando il braccio per attirare la sua attenzione. “Ehi,
hai visto che sono tornato?”
L'uomo non parve per nulla felice
di vederlo. Fece un sorriso stentato e si agitò a disagio.
Orange lo raggiunse insensibile
al suo turbamento, guardò l'esposizione ormai smontata per metà e
chiese: “Il mio velo?”
L'altro si inchinò con fare
servile. “Quale velo, signore?”
“Quello che ti avevo detto di
tenermi da parte.” Scrutò l'interno della bottega. “Dov'è, qui
dentro?”
“Io non...”
“Beh, lascia stare: ti faccio
vedere io quale voglio,” rispose Orange, e risolutamente entrò nel
negozio. Il venditore fece l'espressione di chi ha appena visto
cadere le chiavi della macchina nuova in un tombino e gli si
precipitò dietro.
Vaughan nel frattempo aveva
cominciato a guardarsi intorno come un bambino in una pasticceria. Il
negozio era molto più grande di quello che appariva dall'esterno, ed
era pieno di stoffe di ogni genere. Vi regnava un odore strano, che
un po' gli ricordava quello del laboratorio di chimica del college.
Di veli ce n'erano alcune migliaia, ma non vedeva quello viola e nero
che aveva adocchiato la mattina.
“Dov'è?” chiese.
Si palesò alle sue spalle il
venditore, che aveva sul braccio alcune stoffe. “Pashmina?”
propose. Spiegò uno dei foulard, e gli mostrò che pur essendo quasi
due metri per due, passava agevolmente attraverso un anello.
Orange assisté educatamente alla
dimostrazione, ma scosse la testa e disse: “No, grazie. Non è
quello che cerco.”
“Seta? Qualità migliore!”
L'uomo gli mostrò dei veli lucidi e cangianti, dai colori che
ricordavano le ali dei coleotteri, ricamati d'oro. “Stesso prezzo
di quello, per te.”
“No no, non va bene per mia
nonna. Voglio quello là.”
L'altro lo abbandonò per frugare
in un baule dall'aria antica, poi tornò alla carica: aveva in mano
un velo di seta nera intessuta d'argento, con lunghe frange
intrecciate. La stoffa aveva un aspetto corposo, opulento,
letteralmente colava tra le mani dell'uomo come un materiale fluido.
I fili di metallo scintillavano debolmente sotto le luci, dando
l'impressione di un brillio diffuso, come quello che produce il sole
radente sulla neve ghiacciata. “Stesso prezzo!” proclamò l'uomo.
Orange scosse la testa. “Ma no,
ce la vedi mia nonna con questo in testa?” Senza attendere
risposta, si addentrò nelle stanze ingombre di stoffe. “Ho capito:
me lo cerco io!” proclamò scomparendo nel magazzino.
In piedi davanti al negozio, Clem
scrutava dentro con aria sospettosa. Un paio di volte aveva anche
lanciato occhiate torve ai ragazzini che stavano portando dentro le
stoffe, giusto perché fosse chiaro che non si fidava affatto di
loro, del loro capo e in generale di tutti gli iracheni.
Da fuori vedeva intanto Orange –
il noncurante, fiducioso e pacifico Orange – che guardava stoffe e
scuoteva la testa peggio di una carampana di Beverly Hills che fa
shopping.
Poi a un certo punto non lo vide
più.
Assunse la sua tipica postura da
toro che carica, quindi salì i tre gradini che lo separavano dalla
porta e risolutamente entrò. Uno dei ragazzini provò a pararglisi
davanti pigolando che il negozio era chiuso, lui si limitò a
spostarlo come avrebbe fatto con una tenda. “Orange?” chiamò
guardandosi intorno. “Orange?”
“Qui!” giunse una voce
flebile dalle profondità del negozio.
Clem si mosse in quella
direzione, scavalcando pacchi di bisht tradizionali in tutte le
sfumature di nero e marrone, tavoli per tagliare le stoffe e
manichini semivestiti. “Dove sei?”
“Qui, vieni. Li ho trovati. Li
ho...” Vaughan tacque all'improvviso.
“Orange!” esclamò allora
Boyle, di colpo preoccupato, allungando il passo per raggiungerlo.
“Orange!” E poi, al protrarsi del silenzio: “Andrej!”
La scena che gli si parò davanti
agli occhi era la seguente: un uomo era alle spalle di Vaughan, gli
teneva un braccio intorno al collo sbilanciandolo all'indietro, e
intanto gli puntava una pistola alla tempia. Nella stanza c'erano
altri due uomini, a loro volta armati.
Clem si immobilizzò. Udì un
tramestio alle proprie spalle, e un attimo dopo percepì la ben nota
sensazione della canna di un'arma che gli veniva premuta fra le
scapole.
Una mano gli sfilò la pistola
dalla fondina.
Fece mente locale: forse avrebbe
potuto disarmare con un calcio quello che gli stava puntando l'arma
alla schiena, ma di sicuro non sarebbe riuscito ad arrivare in tempo
al suo compagno. Oppure forse, se si fosse buttato in avanti avrebbe
potuto deviare il braccio di quello che stava minacciando Orange, ma
probabilmente ci sarebbe rimasto secco. Si rassegnò ad alzare le
mani. “Tu e il tuo velo del cazzo,” non poté fare a meno di
ringhiare. “Te l’avevo detto che portava rogna.”
Un colpo col calcio del fucile in
mezzo alla schiena gli strappò un gemito di dolore.
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Capitolo 2 *** Parte seconda ***
Carissimi,
eccoci
alla seconda parte delle (dis)avventure dei nostri due marines, Clem
e Orange. Ringrazio sentitamente chi mi ha seguito fin qui, e in
particolare ringrazio chi si è fermato a lasciarmi il suo
parere,
ovvero mystery_koopa, Saelde_und_Ehre, John Spangler, Syila,
fiore
di girasole, innominetuo, Nina Ninetta ed Enchalott.
Parte
seconda
Gli
uomini che li tenevano sotto la minaccia delle armi legarono loro i
polsi dietro la schiena con manette autobloccanti in nylon,
stringendo così forte che Orange non riuscì a
trattenere un gemito
di dolore.
“E
state attenti, stronzi!” ringhiò Clem
all’udire il lamento
dell’amico, poi colpì con una testata uno degli
uomini che lo
stavano scortando. Si udì un sonoro crack,
e l’uomo venne sbalzato all’indietro con il sangue
che gli
zampillava dal naso.
Vociando
nella loro lingua, gli altri cominciarono a colpirlo tutti insieme
con i calci dei fucili, cercando di raggiungere la faccia o altre
parti dolorose. Uno provò a dargli una botta nelle palle, ma
si
prese un calcio nello stomaco, e finì a terra rantolando di
dolore.
Al
secondo uomo a terra, gli altri raddoppiarono il loro sforzi.
“Stronzi!” urlò di nuovo Clem, ma fu
comunque costretto a
raggomitolarsi per evitare almeno che gli colpissero il volto. Una
botta sul sopracciglio gli fece vedere tutto nero per qualche
secondo, e quando tornò in grado di capire cosa stava
succedendo si
trovò accasciato alla base di un muro, con i tizi che si
accanivano
su di lui a calci nelle costole.
Uno
gli sputò addirittura addosso.
“Pezzo
di merda!” esclamò il marine. Fece per alzarsi, ma
un ennesimo
calcio nello stomaco lo costrinse a raggomitolarsi per terra con un
rantolo di dolore. “Mi ricorderò di te,”
promise comunque.
Dopo
un po’, gli iracheni spinsero Orange e trascinarono lui in
una
stanza vuota, con due piccole finestre munite di sbarre vicino al
soffitto e il pavimento di cemento.
Clem
si accasciò ansimando sulla dura superficie.
“Stronzi,” ringhiò
con voce roca. Un altro calcio nelle costole lo fece gemere, poi la
porta si chiuse con un tonfo, e si udì lo scatto di numerosi
chiavistelli.
Ci
fu qualche secondo di silenzio, poi Orange, col tono di una banale
constatazione, osservò: “Proprio non ci riesci a
star zitto, eh?”
“Figli
di puttana,” fu la risposta.
“Ah,
Clement, Clement. Eppure li hai fatti anche tu i corsi di
sopravvivenza: in caso di prigionia, quello che si salva è
il gray
man, ovvero quello che
non si fa notare, che scompare nello sfondo.”
“Affanculo
tu e il gray man. Questi stronzi devono morire.”
Piegò la testa
verso la spalla per cercare di asciugarsi sulla maglietta il rivolo
di sangue che gli colava dal sopracciglio.
“Beh,
adesso siamo noi che rischiamo di morire, comunque.”
“Li
ammazzo prima io, quei pezzi di merda.”
Orange
emise un sospiro, poi disse: “Lo sai, alle volte vorrei che
tu
fossi un po’ più ragionevole.”
“E
io invece vorrei che tu la smettessi di prendere sempre tutto come
Bob Marley che si è fatto troppe canne.”
L’altro
alzò le spalle. “Il più delle volte,
incazzarsi non serve a
niente.”
Clem
non rispose, e rimasero in silenzio per un po’. Fuori ormai
faceva
buio, non si sentivano rumori se non quelli lontani della
città. Da
qualche parte, una voce di donna stava chiamando qualcuno.
Passò
un tempo imprecisato, sembrava che il mondo al di fuori di quella
stanza avesse semplicemente cessato di esistere. Con una certa
fatica, Boyle si alzò in piedi e andò ad
appoggiare l’orecchio
alla porta. Rimase in ascolto per un po’, poi disse:
“Io non
sento niente.”
Orange,
che stava sonnecchiando appoggiato alla parete, sollevò lo
sguardo e
chiese: “E quindi?”
“Possiamo
provare a scappare.”
L’altro
scosse la testa. “E come, di grazia? Siamo legati, disarmati
e
chiusi a chiave in una cella con la porta di ferro.”
“Intanto
possiamo provare a liberarci dalle manette.”
“Come
pensi di fare?”
“Coi
denti. Io mordo le tue, e poi tu fai lo stesso con me.”
Orange
emise un sospiro, poi rispose: “Guarda, accetto solo
perché se no
cominci a rompere le palle e non finisci più.” Si
mise in
ginocchio e protese i polsi all’indietro. “Va bene
così?”
L’altro
scrutò un po’ le manette del compagno, piegando la
testa da una
parte e dall’altra come per saggiare quale fosse la posizione
più
comoda per provare a tagliarle coi denti, poi avvicinò la
bocca ai
suoi polsi.
“Non
azzannarmi un braccio,” gli raccomandò Orange.
Clem
riuscì a stringere fra gli incisivi un angolo della
fascetta. Cercò
di mordicchiarlo in vari modi, ma la plastica si rivelò
più dura
del previsto. Si raddrizzò ansante.
“Fatto?”
gli chiese Vaughan. Fece una breve risata.
“Io
farei meno lo spiritoso, se fossi in te, mentre sono messo a pecora e
con le mani legate.”
“E
perché? Anche tu hai le mani legate. Non puoi mica sfoderare
il
minareto.”
“Ma
i piedi sono liberi. Posso sempre darti un calcio nel culo.”
“Certo
che tu sei uno con cui si parla bene, eh, Clem?”
Boyle
si sedette ed emise un sospiro, poi disse: “Sono troppo
dure.”
“Te
l’avevo detto.”
“Un
marine motivato fa qualsiasi cosa. Proviamo a strofinarle sul
pavimento o contro il muro.”
L’altro
emise un sospiro. “E se invece aspettassimo di vedere come si
mettono le cose?”
“Del
tipo? Oh, perbacco, non
ci eravamo accorti che foste due marines americani, andate pure e
scusate tanto, vi avevamo scambiati per ladri di polli?”
Detto
questo, Clem si avvicinò al muro e ne saggiò la
ruvidezza, poi
cominciò a strofinarci contro i polsi legati. Avendo le mani
dietro
la schiena e ormai gonfie per il ristagno del sangue,
l’impresa si
rivelò ben presto impossibile. “Porca
troia,” imprecò
sedendosi. Sulla pittura biancastra della parete erano rimaste tracce
rosse. “Mi serve uno spigolo,” ringhiò
torvo, “non c’è un
cazzo di spigolo in questo posto?”
Orange
si limitò a scuotere la testa.
Dopo
un po’ si udirono dei passi e delle voci dall’altra
parte della
porta. Clem si raddrizzò come un cane che vede il padrone
prendere
il guinzaglio, e cominciò a osservare l’uscio
serrato con uno
sguardo che sembrava volerlo bucare. “Appena entrano io li
carico,”
disse sottovoce. “Tu sta pronto.”
Alle
sue spalle, Orange chiese: “Scusa, pronto a cosa?”
“Approfitti
del casino e passi oltre.”
“E
poi? Una volta che sono passato mi sparano nella schiena. Chi pensi
che ci sia di là, il circolo del bridge?”
Clem
grugnì qualcosa di indistinto.
Subito
dopo si udì il rumore dei chiavistelli che scattavano. Il
marine si
alzò in piedi e si molleggiò sulle gambe come per
prepararsi a
balzare.
“Non
fare l’idiota,” gli ricordò Orange.
“Questi
pezzi di merda mi hanno
sputato addosso!”
Vaughan
emise un lungo sospiro, poi replicò: “Dammi retta,
fa il gray man.
Non far capire agli stronzi quanto sei forte o cosa sai
fare.”
Voleva aggiungere altro, ma la porta si aprì e nel riquadro
comparvero due uomini armati di mitra. Uno di essi disse:
“Faccia
al muro.”
Mentre
i due erano voltati, entrarono nella cella altri uomini. Clem si
sentì afferrare, di nuovo la canna di un’arma gli
si piantò nella
schiena. Il marine si obbligò a non reagire, e si
lasciò spingere
lungo un corridoio scarsamente illuminato.
Da
lì arrivarono a una stanza che era una via di mezzo tra
un’officina
e un laboratorio, nella quale vari uomini lavoravano intorno a
ordigni esplosivi perlopiù di provenienza americana. Una
parte del
locale era chiusa da teli di nylon, dietro i quali si vedevano sagome
in movimento.
Nell’aria
c’era uno strano odore, che mescolava reagenti, fumo di
sigaretta e
qualcosa che ricordava il tanfo acre delle interiora. Da qualche
parte, qualcuno stava canticchiando.
“Merda,”
mormorò Clem, e chi lo stava spingendo avanti gli
piantò la canna
dell’arma nella schiena. “Sta zitto!”
disse una voce dal tono
aspro.
“Fanculo!”
La
canna dell’arma scomparve, per venire sostituita un attimo
dopo dal
suo calcio, contro la nuca. Clem grugnì di dolore.
“Gray
man,” gli ricordò Orange alle sue spalle, poi
anche lui fu
costretto a tacere nello stesso modo.
Li
fecero salire su un furgone chiuso, che poi si mise in movimento.
Immediatamente,
Clem cominciò a osservare ogni anfratto del cassone in cui
li
stavano trasportando.
“Che
fai?” gli chiese Orange.
L’altro
lo fissò torvo, poi rispose: “Se hanno lasciato
che vedessimo
quella roba, è chiaro che l’intenzione
è quella di farci secchi.”
Questa
volta nemmeno Vaughan trovò nulla da eccepire.
Clem
non aggiunse altro, e ricominciò a ispezionare
l’ambiente. Alla
fine annunciò: “Eccola qui.”
“Cosa?”
“C’è
una vite sporgente, aiutami.”
“Cosa
vuoi fare?”
“Segare
le manette. Comunque, d’ora in poi il filo di kevlar me lo
lego
alle palle.”
Orange
assunse un tono stupito. “Cosa
ti vuoi legare dove?”
“Il
filo di kevlar serve per tagliare le cose. Ho visto un video nel
quale un tizio lo usava proprio per tagliare le manette di
nylon.”
“Io
avrei paura di castrarmi da solo, se lo tenessi dove dici tu.”
“Perché
sei un imbranato. Comunque adesso aiutami, dai.”
Orange
aiutò il compagno per quanto poteva, e nel frattempo si
poneva una
serie di domande: certo, teoricamente sarebbe stata una buona idea
cercare di liberarsi, ma poi? Non sapeva dove li stavano portando,
né
per fare cosa, ma era ben sicuro che non avrebbero aperto il portello
del furgone disarmati.
Il
rumore della plastica che si spaccava lo sollevò da
ulteriori
meditazioni. “Ecco fatto!” esclamò Clem.
Si massaggiò i polsi
con aria trionfante, e come Orange temeva disse: “Adesso
aspetto
quegli stronzi, e appena mettono dentro la testa sono cazzi
loro.”
“E
se mettono dentro la canna di un kalashnikov?”
Clem
lo fissò quasi con degnazione, poi disse: “Sai
dove gliela infilo,
la loro cazzo di canna di kalashnikov?”
La
domanda rimase senza risposta: il furgone rallentò, si
udirono
rumore di metallo che sbatteva e voci, poi la consistenza del fondo
stradale cambiò, divenendo notevolmente più
irregolare.
Clem
alzò di nuovo la testa e aggrottò le
sopracciglia. “Stiamo
rallentando,” disse.
“Già.”
“Vieni
qui, ti libero le mani.”
Orange
gli si avvicinò, ma in quel momento il veicolo si
fermò e il motore
tacque. All’esterno qualcuno disse qualcosa, e
un’altra voce
rispose.
La
chiusura del portellone scattò.
Clem
si tese, lo sguardo fisso sulla lama di luce che andava allargandosi.
Poi si scatenò l’inferno.
Il
marine balzò fuori, si udirono delle urla, una raffica di
mitra,
tramestio, imprecazioni.
Orange
prese in considerazione l’idea di sporgersi per vedere cosa
stava
succedendo, ma valutò più prudente attendere
all’interno del
furgone lo svolgersi degli eventi.
Il
trambusto frattanto continuava, di nuovo ci fu una salva di
imprecazioni di Clem seguita da urla di dolore, questa volta non sue.
Poi
cadde un silenzio sinistro.
Orange
deglutì, e sogguardò il portello accostato,
cercando di capire cosa
stesse succedendo all’esterno. “Clem?”
osò chiamare con voce
sommessa.
Non
gli giunse risposta.
“Clem?”
Il
portello venne aperto del tutto, e nel riquadro comparve un tizio
ossuto, con i capelli neri e la jalabiya. Un vistoso livido gli si
stava formando sullo zigomo.
Questi
gli fece cenno di uscire.
Orange
obbedì. Clem era sdraiato faccia a terra, immobile. Il fatto
che
avesse di nuovo i polsi legati faceva supporre che fosse solo
svenuto. Un paio di iracheni erano in piedi e si stavano tamponando
ferite, due o tre erano seduti alla base di un muro, chi tenendosi la
pancia e chi con un braccio penzoloni. Uno giaceva a terra immobile,
e l’angolo innaturale che la testa faceva col resto del corpo
faceva capire che non era semplicemente svenuto.
“Cammina!”
disse un tizio, pungolandolo alla schiena con la canna del mitra. Di
nuovo, Orange non oppose resistenza. A parte guardarlo da lontano,
non poteva fare molto altro per Clem, inoltre voleva che tutta
l’attenzione continuasse a rimanere su di lui e sulla sua
tendenza
a procurare lesioni traumatiche.
Diede
un’occhiata in giro: erano in un edificio antico, fatto di
grossi
blocchi di arenaria chiara. Il vano in cui era parcheggiato il
veicolo che li aveva trasportati, un furgoncino che aveva le insegne
di una pasticceria, era una stanza a pianta quadrata, con il soffitto
a cupola. Il pavimento era fatto di lastre di pietra consumate da
secoli di utilizzo. La porta principale, di un verde sbiadito dal
tempo, con punti di ruggine qua e là, era chiusa da una
catena.
Qualcuno
lo spinse avanti, Orange si limitò ad allungare il passo,
senza
reagire in alcun modo.
Lo
portarono in un’altra stanza, e da lì gli fecero
scendere una
rampa di scale, anch’essa antica e consumata da secoli di uso.
Raggiunsero
un locale quadrato e dal soffitto basso. L’aria era umida, e
vi si
mescolavano odore di muffa e di sostanze chimiche. Lungo le pareti si
aprivano dei vani, alcuni pieni di casse e scatole, altri chiusi da
porte metalliche di fattura moderna. Una delle porte fu aperta, poi
lo spinsero dentro e la richiusero. Si udì lo scatto della
serratura.
Orange
emise un sospiro. Il posto era praticamente buio, e dentro non
c’era
nulla. “Nemmeno un cesso,” disse fra sé
e sé. Non aveva più
l’orologio, né peraltro con le mani legate avrebbe
avuto modo di
guardarlo, ma una cosa era certa: gli scappava disperatamente da
pisciare.
Considerò
l’opportunità di farsela addosso, ma
stabilì di tenerla come
ultima opzione. Stringendo i denti si piegò in avanti, e
cercò di
far scendere i polsi legati sotto il sedere. Quando, sudando e
sbuffando, ebbe raggiunto il suo obiettivo, si lasciò cadere
a
terra. Lì si contorse e si agitò, imponendosi di
ignorare le
fascette che nel frattempo gli stavano tagliando i polsi e la vescica
che gridava pietà, finché non riuscì a
sfilare le gambe e a
passarsi le mani da dietro la schiena a davanti all’addome. A
quel
punto, si concesse di riposarsi per qualche secondo, quindi si
rialzò, raggiunse la porta e pisciò, avendo cura
di dirigere il
getto in modo che filtrasse all’esterno. Nonostante tutta la
situazione, si trattò di un momento di puro piacere.
Una
volta che si fu liberato, perlomeno dalle necessità
fisiologiche,
cominciò a studiare l’ambiente per trovare il modo
di tagliare le
manette e possibilmente anche la corda.
Clem
riprese faticosamente i sensi. Era prono e con le mani legate dietro
la schiena, aveva sete e male dappertutto.
“Orange?” mormorò.
Non
gli giunse risposta.
“Orange!”
Di
nuovo silenzio.
Il
marine si rigirò su un fianco e cercò di capire
dove si trovava:
era tra mura di pietra, su un pavimento che aveva l’aspetto
di
terra battuta. Sembrava che accanto a lui non ci fosse nessuno, e non
si sentiva alcun rumore. L’unica luce proveniva da fessure
tra la
porta e la parete.
Si
alzò pesantemente in piedi e percorse tutto il perimetro
della
stanza, poi si avvicinò alla porta e cercò di
guardare attraverso
le fessure.
Fuori
c’era un laboratorio più grande di quello che
aveva visto in
città. Mentre percorreva con lo sguardo le enormi
quantità di
materiale esplosivo ammucchiato sui tavoli, non poté fare a
meno di
ripensare alle parole di Miss Tette: l’Islam
è amore.
“’Sto
cazzo,” ringhiò a bassa voce.
Mosse
le mani ormai intorpidite, reprimendo una smorfia di dolore. La porta
era una semplice lastra di metallo, chiusa da una serratura. Se
avesse dato un calcio nel posto giusto, con la necessaria forza,
l’avrebbe fatta saltare dai cardini. Magari non al primo
tentativo,
ma al secondo o al terzo era sicuro che l’avrebbe sfondata.
La
faccenda avrebbe creato un bel po’ di rumore, naturalmente, e
quindi avrebbe richiamato parecchi fotticapre.
La
prima cosa da fare, pensò, era liberarsi le mani.
Arretrò verso la
parete e cominciò a cercare il famoso spigolo su cui
strofinare la
fascetta di nylon.
§
“Credevo
che gli americani fossero un popolo civile.”
Orange,
che stava freneticamente strofinando la fascetta di nylon su
un’asperità del muro, si interruppe.
Si
avvicinò alla porta e vide che vi era stato aperto uno
spioncino. Al
di là c’era un uomo alto e magro, di
mezz’età, con la barba
nera venata di grigio e una jalabiya scura. Questi, dritto in piedi e
con le braccia conserte sul petto, osservava con fare critico la
pozzanghera che si era allargata davanti alla cella.
“È
per non far avvicinare i malintenzionati,” rispose il marine.
“Non
avendo armi, mi sono arrangiato come potevo.”
L’altro
annuì, poi rispose: “Immagino che questo sia un
esempio del vostro
tanto decantato umorismo.”
“Penso
proprio di sì, signor…?”
L’altro
ignorò la domanda. “Sa perché si trova
qui?” chiese poi.
“Aspetto
di apprenderlo da lei.”
“Visto
che tra un po’ morirà, perché non
dirglielo?”
Vaughan
si obbligò a mantenere un tono ironico.
“Già, perché no?”
L’uomo
rivolse lo sguardo verso lo spioncino, poi disse: “Cercavamo
da
tempo un modo per entrare nella base americana, e voi due stupidi
soldati ce ne avete fornito uno perfetto.”
Orange
aggrottò le sopracciglia. “Sarebbe?”
L’altro
emise un sospiro, poi spiegò: “Vede, mi
è capitato qualche volta
di recarmi nel vostro decadente e amorale paese. In una di quelle
occasioni sono stato a Washington, e ho visitato il Vietnam Memorial,
dove celebrate i caduti di una delle vostre guerre
imperialiste.”
Fece una pausa, forse aspettandosi che Orange replicasse, ma il
marine rimase in silenzio. “Una cosa mi ha
colpito,” proseguì
allora l’uomo, “ed è la pervicacia con
cui raccogliete i corpi
dei vostri caduti. Nessuno viene lasciato indietro, giusto?”
A
quel punto rivolse lo sguardo all’interno della cella.
“Giusto,”
rispose Orange.
“Molto
bene. Quindi è plausibile che i corpi di due marines siano
raccolti
e portati all’interno del campo per essere poi inviati in
Patria,
non è vero?”
“Non
lo so,” rispose vago Orange.
“Oh,
non finga di non saperlo. Certo che è
così.”
“Beh,
e quindi? Anche se fosse?”
“Ha
mai sentito parlare del Cavallo di Troia? Qualcuno trova una cosa
interessante e se la porta all’interno delle fortificazioni,
e
poi...” Mimò il gesto di un’esplosione.
Vaughan
non rispose. Cominciava a capire cosa stesse per succedere: aveva
sentito parlare di corpi bomba, ovvero cadaveri che venivano svuotati
degli organi interni e riempiti di esplosivo, ma non aveva mai
pensato di essere a rischio di trasformarsi in uno di essi.
Deglutì
e involontariamente si toccò l’addome.
Guardò
attraverso lo spioncino: l’uomo lo stava fissando, ne
incontrò lo
sguardo grifagno. Si ritrasse verso il fondo della cella,
più che
mai deciso a liberarsi delle manette e cercare un modo per uscire di
lì il prima possibile.
Si
chiese dove fosse Clem, se fosse ancora vivo. Certo doveva starcene
un bel po’ di C4 in un corpo così grande.
“Capiranno
che siamo stati svuotati e ricuciti.”
L’altro
scosse la testa. “Di nuovo chiederò aiuto alla
vostra cosiddetta
cultura per farle capire cosa intendo: lei ha presente cosa succede
al tacchino il giorno del ringraziamento?”
Nonostante
i suoi fermi proponimenti, a quelle parole Orange non riuscì
più a
fare il gray man, e inorridito replicò: “Ci
vorreste svuotare e
riempire di nuovo passando dal culo?”
“Io
mi sarei espresso in termini meno volgari, ma il concetto è
quello.”
“Dal
culo? Ma siete fuori di
testa?”
L’altro
lo fissò con sussiego. “Curioso che di tutto
quello che le ho
detto, sia proprio questo particolare a colpirla
maggiormente.”
“Voi
siete fuori di testa,” ripeté il marine.
“Voi avete dei
problemi.”
“Sono
d’accordo: il principale di essi è la presenza di
soldati
americani sul territorio iracheno.”
Rimasto
solo, Orange per un po’ non fece altro che pensare con orrore
ai
talebani che prima lo svuotavano e poi gli infilavano dentro panetti
di plastico attraverso il culo. Poi, quando riuscì a
raggiungere uno
stato di approssimativa calma, tornò a palpare la parete,
alla
ricerca di asperità particolarmente pronunciate, che gli
consentissero di liberarsi finalmente delle manette.
Mentre
era così impegnato, udì dei rumori
all’esterno. Si affacciò allo
spioncino, che era rimasto aperto, e vide che da uno dei vani che si
affacciavano sulla stanza stava uscendo un uomo. Questi aveva in mano
una torcia elettrica, che spense e appoggiò in una nicchia
del muro
con un gesto che aveva la naturalezza dell’abitudine, poi
scomparve
su per le scale.
La
cosa incuriosì il marine, che ricordava di aver visto
lampadine
funzionanti ovunque.
Si
trovò a rimuginare su quel particolare, così come
sul fatto che la
costruzione in cui si trovava aveva un aspetto molto antico.
Rimpianse di non aver chiesto a quel tronfio farcitore di tacchini
dove si trovassero: era certo che nella sua boria gli avrebbe anche
risposto.
§
Le
manette di nylon cedettero, Boyle dovette fare appello a tutta la sua
forza di volontà per non prorompere in un urlo di trionfo.
Si
massaggiò i polsi e poi aprì e chiuse le mani,
compiacendosi di
come i muscoli si tendevano sui suoi poderosi avambracci.
Si
avvicinò di nuovo alle fessure tra porta e muro e
guardò fuori: nel
laboratorio non c’era nessuno.
Considerò
che doveva essere ormai piena notte, il che significava
essenzialmente che il numero di fotticapre presenti nella struttura
doveva essere al minimo.
Fissò
la porta e assunse l’espressione del toro che si prepara a
caricare, poi arretrò di nuovo, prese tutta la rincorsa che
l’angusta cella gli consentiva e si lanciò come un
treno contro
l’ostacolo.
La
porta letteralmente esplose. La serratura venne strappata via assieme
a tutto il blocco di malta con cui era stata cementata al muro, e
finì nel bel mezzo della stanza. L’anta
sbatté contro la parete
con un rimbombo da fine del mondo.
Clem
uscì di corsa, e mentre tendeva l’orecchio a
eventuali rumori in
avvicinamento, cercò di dare un’occhiata intorno.
Lo colpì un
tavolo d’acciaio come quelli degli obitori, accanto al quale
era
pronto un assortimento dei più comuni strumenti chirurgici.
Aggrottò
le sopracciglia perplesso, poi afferrò tutti i bisturi e se
li ficcò
nella tasca che aveva sulla coscia. Continuò a scrutare in
giro.
Dei
passi in avvicinamento lo richiamarono alla realtà:
abbandonò
l’osservazione e si nascose dietro una colonna.
Arrivò
di corsa un uomo armato di AK-47, che subito si accorse che la porta
della cella era aperta. Si affacciò all’interno e
constatò che
era vuota. Clem si fece avanti, e appena l’uomo si
girò per dare
l’allarme, provvide a spedirlo nel paradiso di Allah
tagliandogli
la gola con uno dei bisturi. Poi raccolse il suo Kalashnikov,
richiuse la cella meglio che poté, con il fotticapre dentro,
e si
allontanò rapido.
Un
poderoso rimbombo metallico costrinse Orange a interrompere il suo
frenetico lavoro di limatura delle manette. Il marine alzò
la testa
e rimase in ascolto, ma non giunsero altri rumori. Si
avvicinò cauto
allo spioncino, cercando di capire cosa stesse succedendo, ma fuori
c'era solo il silenzio corposo della piena notte. La lampadina fioca
che illuminava le scale non mostrava nulla di diverso dal solito.
Pensò
a Clem: l'unico che poteva aver fatto un casino del genere era lui.
Si chiese cosa gli stesse succedendo, e a quel pensiero le sue dita
involontariamente si strinsero sulle due sbarre che chiudevano lo
spioncino.
Non
che fosse molto religioso, sua nonna aveva provato a portarlo con
sé
in chiesa un paio di volte, ma lui si era invariabilmente
addormentato, e l'avevano mandato fuori perché russava, ma
in quel
momento gli sorse spontanea una preghiera vagamente modellata sulla
celebre invocazione di Conan il Barbaro: “Senti, Dio, non ti
ho mai
pregato fino ad ora, non saprei come farlo. Però so che
questi qua
ti vogliono pisciare in testa, e l'unico in grado di impedirlo
è il
marine Clement Boyle. Per cui, ascolta la mia unica preghiera: fa'
che rimanga sano e salvo. E se non lo aiuti, allora vuol dire che non
te ne frega niente di essere più grosso di Allah.”
Al
piano di sopra si udirono il crepitare di una raffica di mitra,
alcune parole inintelligibili, un forte e chiaro
“Bastardi!”,
altre raffiche e tramestio confuso.
Di
nuovo, Orange si aggrappò alle sbarre dello spioncino
tentando di
guardare fuori, poi riprese a strofinare le fascette di nylon contro
una pietra ruvida. Nel movimento si graffiava spesso anche la pelle
sottile dei polsi, ma si accorse di non sentire alcun dolore.
Intensificò anzi gli sforzi, fregandosene se ad ogni
passaggio
lasciava sul muro tracce rosse.
Poi
sentì un grido belluino: “Orange!”
Il
marine interruppe il suo lavoro e rimase in ascolto.
Il
grido si ripeté: “Orange, amico, dimmi
qualcosa!”
“Sono
qui!” gridò Vaughan a pieni polmoni.
“Qui sotto!”
“Dove?”
“Le
scale!”
Un
attimo dopo sentì un tramestio concitato, e sui gradini
comparve la
poderosa figura di Clem. Il marine imbracciava un Kalashnikov, aveva
una Beretta di provenienza americana infilata nella cintura e un
grappolo di granate a mano M67 appeso al collo.
“Avrò un milione
di fotticammelli dietro al culo!” esclamò.
Si
girò e sparò un paio di raffiche, poi fece cadere
il caricatore
vuoto, ne infilò nell'AK-47 uno pieno e raggiunse la porta
della
cella. “Tutto bene?” s'informò.
“Fammi
uscire, Clem.”
L'altro
si guardò intorno. “E poi dove cazzo
andiamo?”
Dall'alto
provenivano rochi richiami e tramestio.
“Tu
intanto fammi uscire.”
L'altro
si guardò intorno alla ricerca di ispirazione, poi propose:
“Sdraiati a terra faccia in giù in fondo alla
cella, io butto una
granata contro la porta.”
“Sei
scemo? Non ci tengo a ritornare a Camp Courage in una scatola da
scarpe.”
“Sentiamo
la tua idea, allora.”
“Prova
a sparare alla serratura.”
Clem
si tolse il mitra dalla spalla. “Poi non ti lamentare se ti
arriva
qualche pallottola.”
“Meglio
una pallottola che finire spalmato sulle pareti della cella.”
“Esagerato,”
disse l'altro, ma la risposta si perse, coperta dalla raffica del
Kalashnikov. Alcune pallottole fischiarono minacciose e rimbalzarono
contro le pareti, ma la serratura dopo un po' cedette, e Boyle fece
il resto a mani nude. Prese uno dei bisturi e tagliò quello
che
rimaneva delle manette del compagno, poi i due si guardarono intorno
desolati. “Non ci sono uscite,” grugnì
Clem.
“Torniamo
su?”
“Stai
scherzando? Ci sono più fotticammelli che alla Mecca di
venerdì.”
Qualcosa
di rotondo scese rimbalzando sui gradini.
“Cazzo!”
urlò Clem, quindi afferrò il compagno e si
buttò dentro la cella.
L'esplosione
fu così forte che i due si sentirono letteralmente
risucchiare
l'aria dai polmoni. Il mondo si fece dapprima completamente buio, poi
ricomparve una debole luce caliginosa. Sassi e calcinacci rotolarono
dappertutto.
Seguirono
lunghi secondi di silenzio.
Il
primo ad alzarsi fu Clem, che si scrollò di dosso il
pietrisco con
le orecchie che gli fischiavano, si spolverò alla meglio
l'uniforme
sollevando dense nuvole grigiastre e disse: “Che cazzo di
botto.”
Poi si voltò verso il compagno e premurosamente lo estrasse
da sotto
le macerie. “Orange?” chiamò, dandogli
qualche schiaffetto per
rianimarlo. “Orange, sei a posto?”
“Secondo
te?”
biascicò l'altro.
“Dobbiamo
andarcene.”
Ancora
intontito, Vaughan mormorò: “Dove?”
“Da
qualsiasi parte che non sia qui. Tra un po' verranno a vedere se
siamo morti.”
L'esplosione
aveva fatto crollare una parte del soffitto, e fiochi raggi di luce
cadevano dall'alto, delineando i contorni delle cose. Il vano da cui
era uscito l'uomo con la torcia era stato sventrato dall'esplosione,
e il fondo di esso si allungava in un antro buio. “Qui
dentro,”
propose Clem.
Camminarono
per un po' tentoni lungo il muro, poi Clem disse: “La stanza
non
finisce.”
“In
che senso, non finisce?”
“Non
c'è il fondo. Ma quanto cazzo è grande?”
Tenendo
una mano saldamente contro la parete, Orange allungò
l’altro
braccio. Per un po' brancolò nel buio pesto, poi le sue dita
sfiorarono una superficie ruvida. “Mi sa che l'ho
trovato,”
disse.
“Cosa?”
“L’altro
muro, è davanti a noi. Penso che sia un tunnel, sto toccando
le due
pareti.”
Stava
per aggiungere altro, ma in quel momento alle loro spalle
cominciarono a farsi udire delle voci. Erano vari uomini, e parlavano
in arabo. Egli si irrigidì e nel buio cercò di
afferrare qualsiasi
parte di Clem si trovasse a portata di mano, per evitare che partisse
a testa bassa contro gli iracheni in arrivo. Un pennello di luce
spazzò l'imboccatura del cunicolo, si udirono dei passi
cauti sulle
pietre.
Al
pur minimo riverbero della torcia sulle pareti, Orange si
voltò
verso il compagno e gli fece cenno di tacere, poi si
appiattì
ulteriormente. Un sassolino però gli scivolò da
sotto il piede
rotolando via con un lieve rumore.
Il
pennello di luce, che sembrava già diretto altrove,
immediatamente
tornò indietro, e ricominciò a percorrere attento
il vano.
Andò
su e giù due o tre volte, sempre più lento e
indagatore, poi si
udirono dei passi in avvicinamento. Orange sentì che Clem si
svincolava adagio ma inesorabilmente dalla sua presa, e
sperò che
almeno facesse ciò che aveva intenzione di fare in modo
rapido,
pulito ma soprattutto silenzioso. Gli rivolse un'occhiata implorante,
ma nel buio quasi completo l'altro non la colse. Lo vide frugarsi
nella tasca sulla coscia e tirare fuori qualcosa.
Poi
si udirono un lieve tramestio, un rumore vagamente liquido e un
mugolio un po’ gorgogliante. Qualcosa sussultò un
paio di volte
sul pavimento, poi si afflosciò e giacque inerte.
“Raccogli la
torcia,” suggerì Clem sottovoce.
Orange
prese l'oggetto e fece scorrere la luce lungo il muro, che a quel
punto era schizzato di rosso peggio che in un horror sui cannibali:
il fascio si perse nel buio e vi scomparve. “È una
galleria,”
sussurrò il marine.
“Beh,
entriamoci,” disse l'altro.
“Non
sappiamo dove va a finire.”
A
quel punto, si fece udire un richiamo. I due si irrigidirono, Orange
spense la torcia.
Il
richiamo si ripeté più forte, e all'unisono i due
soldati
abbassarono lo sguardo sul cadavere ai loro piedi. Clem
staccò
silenziosamente una granata dal grappolo che portava al collo.
L'altro
gli fece un inorridito cenno negativo, ma il primo tolse la sicura,
mantenendo poi la leva abbassata con la mano.
Dei
passi cominciarono ad avvicinarsi, altre torce fendettero le tenebre.
Infine, delle figure si affacciarono all'imboccatura della galleria.
Orange
si immobilizzò. Clem a quel punto lo afferrò per
la collottola, e
trascinandolo di peso arretrò nel buio. Si udì il
rumore di un
oggetto metallico che rimbalzava, poi sembrò che fosse
arrivata la
fine del mondo: dapprima ci fu un accecante lampo arancione, poi
un’esplosione che li scaraventò a parecchi metri
di distanza,
lasciandoli rintronati e pesti. Con un rombo cupo, la volta della
galleria alle loro spalle crollò.
Quando
la polvere si fu dissipata, i due si voltarono e si accorsero che il
lume del tunnel era completamente ostruito da tonnellate e tonnellate
di pietre.
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Capitolo 3 *** Parte terza ***
Ciao cari/e!
Eccoci
alla fine di questa movimentata avventura tra le sabbie e i talebani.
Ringrazio tutti coloro che mi hanno seguito fin qui, e in particolare
chi è stato così gentile da lasciarmi un parere, ovvero Enchalott,
John Spangler, mystery_koopa, Saelde_und_Ehre, Syila, Nina Ninetta,
fiore di girasole, innominetuo e New Storytellers.
Parte
terza
Orange
si massaggiò la schiena, indolenzita dall’ennesima botta, poi
puntò la torcia verso il buio della galleria che si apriva davanti a
loro. Scrutò per un po’ quelle misteriose profondità, quindi con
un’alzata di spalle borbottò: “Non ci resta che andare avanti,
direi.”
L’altro
si erse in tutta la sua altezza, arrivando a sfiorare pericolosamente
le pietre della volta. Si guardò intorno aggrottando le
sopracciglia, poi ringhiò: “La fai facile, tu: andiamo avanti.”
Diede un calcio a un sasso, spedendolo a parecchi metri di distanza.
“Andiamo avanti, dove?”
Orange
emise un teatrale sospiro e rispose: “Dove ci porterà il destino,
caro compagno di mille avventure.”
Clem
si sedette con precauzione su un mucchio di pietre, poi disse:
“Piantala di fare l’idiota, Andrej.”
L’altro
ignorò la minacciosa calma del suo tono di voce. Si spolverò
sommariamente l’uniforme e chiese: “Scusa, chi è che ha buttato
una granata all’imboccatura del tunnel?”
“Non
avevamo altra scelta.”
“Ok,
quindi adesso muoviamoci. Da qualche parte porterà, questa
galleria.” Fece una pausa, poi soggiunse: “Magari è quella di
Miss Tette e ci porta dritti in città.”
Si
mise a camminare con aria svagata, facendo dondolare la torcia qua e
là.
Clem
rimase ostentatamente seduto.
L’altro
fece una ventina di metri, poi si fermò, si voltò e puntò il
fascio di luce nella sua direzione. “Beh?” chiese.
“Fanculo.”
Vaughan
emise un sospiro. “Cos’è, una delle tue solite incazzature
maori? Sbraita piano, però: non vorrei che ci sentissero e capissero
che non siamo crepati.”
“Io
avrò le incazzature maori,” ringhiò l’altro di rimando, “ma
tu non riesci a capire quando è il caso di smettere di fare
l’idiota.”
Orange
annuì grave. “Va bene,” rispose. “Io vado avanti. Tu segui la
luce quando sei a posto. Ricordati solo di non fare troppo casino,
ok?”
“Cosa
vorresti dire,” replicò Boyle, “che non sono capace di
controllarmi come chiunque altro?”
L’altro
lasciò passare qualche secondo, poi rispose: “È inutile che tenti
di farmi incazzare, Clem. Lo sai come sono fatto.” Alzò le spalle
e prese ad allontanarsi lungo il tunnel con andatura molleggiata,
canticchiando: “In
every life we have some trouble, when you worry you make it bouble.
Don’t worry, be happy...”
Boyle
emise un sospiro che sembrava lo sfiato di un capodoglio, e a bassa
voce disse: “Uno di questi giorni lo strozzo...” Poi si alzò e
si dispose a seguirlo, sebbene a debita distanza.
“Senti
un po’, ma ti chiamano Agent Orange perché sei un agente segreto?”
Vaughan
smise di camminare e si voltò verso il compagno. “Come ti viene in
mente una cazzata simile?”
Clem
alzò le spalle. “Di solito, i veri agenti segreti sono quelli di
cui lo diresti meno.”
“Ah,
grazie tante.”
“Allora,
è così?”
“Non
hai vinto, ritenta.”
“Uhm,
dovevo immaginarlo,” brontolò Boyle, quindi riprese a camminare.
Stavano
procedendo ormai da un tempo imprecisato in un tunnel silenzioso, dal
pavimento di terra battuta, con la volta a botte. La struttura, che
doveva essere antichissima, era stata consolidata un po’ alla
meglio in alcuni punti con dei blocchi di calcestruzzo da edilizia.
Ogni tanto si sentiva uno sgocciolio, e un’infiltrazione d’acqua
scorreva lungo la parete in una traccia verdastra. Disperatamente
assetato, Orange provò a raccoglierne un po’ nel cavo di una mano
e a berla, ma il sapore risultò disgustoso.
“Chissà
dove siamo?” si chiese. Sputacchiò qualcosa che gli era rimasto in
bocca durante il tentativo di assaggio e aggiunse: “Quest’acqua
fa proprio schifo.”
“Come
i fotticapre.”
“Alla
faccia di Miss Tette, stavolta sono d’accordo con te. Lo sai cosa
volevano farci?”
“No,
cosa?”
Orange
raccontò la faccenda del tacchino.
“Quegli
stronzi!” sbraitò Clem scandalizzato. “Perché cazzo non me
l’hai detto quando eravamo là?”
“Sì,
figurati. Come se non ti conoscessi: poi scatenavi l’inferno.”
“Certo
che lo scatenavo! Quegli schifosi! Quei bastardi! Ci volevano
svuotare per il culo e riempire di C4, ma ti rendi conto?”
Orange
alzò le spalle. “Don’t
worry, be happy...” ricominciò
a canticchiare.
Andarono
avanti un altro po’, ognuno assorto nei propri pensieri.
A
un certo punto, la luce della torcia cominciò a ingiallirsi. “Mi
sa che tra un po’ finiamo al buio,” buttò lì Vaughan, come se
non fosse poi un gran problema.
Boyle
osservò la torcia e in tono risentito disse: “Merda, ci mancava
anche questa.” Aggrottò le sopracciglia, poi proseguì: “Questa
non ha le batterie, è una di quelle che si ricaricano con la
corrente.”
“E
quindi?”
“Quindi
è meglio che la spegni e ci teniamo un po’ di riserva di luce per
i momenti critici, perché durerà ancora dieci minuti al massimo.”
“Uhm.”
Orange spense la torcia, e i due si trovarono immersi in tenebre
picee. “E adesso come facciamo?” chiese poi
Dal
buio giunse la voce di Clem: “Strisciamo lungo la parete e
accendiamo la torcia solo ogni tanto, per controllare dove stiamo
andando.”
“Tanto
non rischieremo di sbagliare strada, direi.”
Ricominciarono
a camminare, e andarono avanti per un tempo imprecisato. Dopo un po’,
Orange disse: “Clem?”
Davanti
a lui, la voce del compagno rispose: “Sì?”
“Ci
sono due spermatozoi nel culo di un frocio, e uno dice all’altro:
ma come cazzo si fa a trovare un ovulo in mezzo a tutta questa
merda?”
Seguì
qualche secondo di silenzio, poi Boyle chiese: “Ma ti sembra il
momento di metterti a raccontare barzellette idiote?”
“Era
per sdrammatizzare.”
“Sei
sempre il solito cretino.”
Per
tutta risposta, Orange cominciò a canticchiare:“In
every life we have some trouble, when you worry you make it bouble.
Don’t worry, be happy...”
Notò che l’aria si era fatta
vagamente umida, e si sentiva uno strano odore come di limo.
“E
basta con...” cominciò Clem, ma un attimo dopo si interruppe e
urlò: “Cazzo!”
Ci fu dapprima un breve e
frenetico tramestio, poi, molto più in giù, il rumore di qualcosa
di pesante che cadeva in acqua.
“Clem!”
urlò Vaughan angosciato. “Clem, dove sei?”
Gli rispose un intenso
sciabordare.
“Clem!”
“Porca
puttana!” giunse dal basso.
“Stai
bene? Sei ferito?”
“Ho
perso le armi, mi sono rimaste solo le granate.”
“Ma
tu stai bene?”
“Fammi
luce.”
Orange accese la torcia: la
galleria si interrompeva sul bordo di quella che sembrava un’enorme
cisterna, con un altissimo soffitto a volta sostenuto da colonne.
Lateralmente c’era uno stretto camminamento che sembrava
percorrerne il perimetro, ma la scarsa illuminazione permetteva di
vederne solo la prima parte. Il resto si perdeva nelle tenebre.
La voce di Clem lo richiamò alla
realtà contingente: “Devo trovare un modo di risalire!”
Orange illuminò l’acqua, che
era perfettamente trasparente, e dava l’idea di essere anche
piuttosto profonda. Colse sul fondo della cisterna la presenza di un
antico pavimento, con disegni di creature acquatiche. Il fascio di
luce si rifletteva mandando tremolanti riflessi su tutto il soffitto.
“Orange,
ti dai una mossa?”
“Mi
sembra di vedere una scala, là in fondo.” Vaughan puntò l’ormai
fioco fascio della torcia verso una fila di gradini che dal livello
dell’acqua portava verso l’alto.
Boyle la raggiunse a nuoto. “È
gelata,” sbuffò.
“Sì
può bere?”
“Avevo
una sete che avrei bevuto anche la trielina. Ne ho approfittato.”
“Allora
scendo anch’io.”
“Vuoi
farti una nuotata?”
“Devo
bere, quindi vedi di non pisciarci dentro prima di uscire, per
favore.”
“Troppo
tardi.”
“Il
solito stronzo.”
Vaughan aggirò con cautela la
cisterna. Il passaggio era stretto, e in alcuni punti c’erano stati
dei cedimenti strutturali, cosa che lo rendeva ancora meno
praticabile. “Ma farci un parapetto no, vero?” brontolò,
strisciando cauto con la schiena contro il muro.
Clem frattanto stava uscendo
dall’acqua. “Vaffanculo,” ringhiò. “Posto di merda, gente di
merda, guerra di merda. Cazzo!”
La voce andava alzandosi di tono.
“Porca
puttana! Io non ci volevo nemmeno venire, in questo cazzo di paese
pieno di sabbia. Vaffanculo!” L’ultima imprecazione si riverberò
sulle volte del soffitto in migliaia di echi.
Vaughan aspettò che si fosse
ristabilito il silenzio, poi gli chiese: “E che ci fai qui,
allora?”
Clem nel frattempo era riuscito a
raggiungere il livello del tunnel. Si scrollò come un cane, si
strizzò la maglietta e rispose: “Se tu non mi dici perché ti
chiamano Agent Orange, io non ti dico perché sono qui.”
L’altro fece una risatina.
“Spiacente, amico.”
“Lo
sai che sei uno stronzo, Orange?”
La torcia si spense.
“Oh,
no!” si lamentò Vaughan. Azionò due o tre volte l’interruttore,
ma non successe niente.
“È
andata,” disse Clem.
Dopo quel breve intermezzo di
luce, le tenebre sembravano ancora più opprimenti. Orange si mise
carponi per coprire il percorso che lo separava dalla scala della
cisterna, poi scese adagio, un gradino per volta, tastando davanti a
sé per capire se era già arrivato all’acqua oppure no.
Momentaneamente privo della vista, aveva ormai tutti gli altri sensi
letteralmente impazziti: sentiva ogni fruscio, percepiva ogni odore.
Coglieva la diversa consistenza delle pietre del tunnel, che dovevano
essere di arenaria, e dei gradini, che invece erano di marmo. “Chissà
cos’era questo posto,” disse poi, quasi tra sé e sé. Raccolse
un po’ d’acqua nel cavo delle mani e la assaggiò. “Sembra
buona,” disse.
Dall’alto, Clem rispose:
“Magari siamo entrati nelle fogne della città.”
Orange, che per bere più in
fretta si era messo carponi e stava sorbendo l’acqua direttamente
come uno gnu nei documentari sul Serengeti, si immobilizzò e disse:
“Sta’ zitto.”
“Che
c’è, ti sei schifato?”
“No,
sta’ zitto. Non senti niente?”
Dall’alto non giunse risposta,
segno che anche Clem si era messo in ascolto. “Cosa dovrei
sentire?” chiese il marine dopo un po’.
“Non
lo so. Mi è venuto in mente quando mi sono chinato per bere. Ho
pensato alle pecore, e poi ai fottipecore...”
“Fotticapre,”
lo corresse dall’alto Boyle.
“Insomma,
quelli. Siamo scappati dopo aver visto il loro laboratorio e tutto
quanto. Possibile che nessuno ci stia venendo a prendere?”
“Il
tunnel è crollato, prima che possano passarci di nuovo ci vorranno
delle ore.”
“Certo,
da quella parte. Ma dall’altra?”
Seguì un lungo silenzio, segno
che anche Clem stava ponderando la sinistra eventualità. “Cazzo,”
commentò alla fine.
Orange, che nel frattempo aveva
finito di bere, ritornò su con cautela e chiese: “Dove sei?”
“Qui,
amico.”
Vaughan percepì nel buio il
lieve sbatacchiare metallico delle granate che l’altro era riuscito
a conservare appese al collo. Colse anche un vago residuo di quel
dopobarba che l’altro si ostinava ad applicarsi in quantità
generosissime nonostante sapesse a suo parere di piscio di gatto.
Allungò le mani e incontrò il
suo fisico poderoso. “Beh, che facciamo?” chiese Boyle. Si fece
indietro e disse: “E tocca poco, tu. Cosa sei, frocio?”
“Manteniamo
il silenzio, che ne dici?”
“Ma
senti questo,” protestò Clem risentito. “Chi è che non stai mai
zitto, racconta le barzellette cretine e canta?”
“Va
bene, va bene. Lo facevo per te, comunque.”
“Per
me?”
“Per
intrattenerti.”
“Ringrazia
che è buio e non vedi la mia faccia.”
“Non
ringrazierò mai abbastanza per un dono del genere.”
“Ehi,
come sarebbe a dire?”
La domanda rimase ad aleggiare
nelle tenebre.
I due ripresero la marcia. Clem,
che camminava davanti, si muoveva lento, rigorosamente contro la
parete. Memore dell’esperienza precedente, questa volta tastava col
piede prima di ogni passo, col risultato che procedeva molto più
adagio.
“Senti
niente?” sussurrò dopo un po’ Orange.
Si fermò a orecchie tese. Il
silenzio era così perfetto che riusciva a sentire i battiti del
proprio cuore pulsargli nelle orecchie. Poi iniziò a percepire
qualcosa. Un fruscio lontano, forse l’eco flebile di una voce.
Ragionò rapidamente: le uniche
armi che aveva a disposizione erano delle granate a frammentazione
M67. E le sue mani, ovviamente. Con quelle doveva far fuori i
fotticapre, uscire dal tunnel, aprirsi la strada fino a Camp Courage
e soprattutto evitare che Orange si cacciasse nei guai, cosa che
sicuramente era più difficile delle altre tre messe insieme.
Si
voltò verso il compagno. Non lo vedeva, ovviamente, ma poteva
immaginarne l’espressione svagata, come di un turista che si sta
godendo un bellissimo viaggio nell’Oriente misterioso. Gli vennero
in mente tutte le barzellette che raccontavano sulle bionde svampite,
e si chiese se funzionassero anche per gli uomini. Non che Orange
fosse proprio biondo biondo,
più che altro dava un po’ sul rosso, ma la testa, soprattutto
all’interno, era quella.
O forse era solo un
atteggiamento. Una tattica. Per quanto sembrasse spesso su un altro
pianeta, conoscendolo si capiva che in realtà non era affatto così.
Rallentò, si appiattì
ulteriormente contro la parete. Abituato al buio completo, aveva
l’impressione che le tenebre non fossero più fitte come prima.
Strinse gli occhi. Riusciva a cogliere qualche vago elemento di
quello che lo circondava o era solo un’impressione?
Poi comparve sul soffitto il
pennello di luce di una torcia. L’apparizione fu così improvvisa
che quasi lo fece sussultare. Sentì l’adrenalina entragli in
circolo, e allungò una mano a toccare Orange, come per ricordargli
che non era il momento di fare una cazzata delle sue.
Cercò di elaborare un piano.
Cosa c’era di là? Quanta gente? Con che armi? Si acquattò e
rimase in ascolto.
Il tunnel faceva una specie di
curva a gomito, e oltre quella si sentivano delle voci. Staccò una
granata.
“Vuoi
farci fare la fine dei topi?” gli sussurrò all’orecchio Orange,
che probabilmente lo aveva sentito maneggiare l’ordigno.
“Hai
altre idee?”
“Aspettiamo
un attimo, no? Diamo un’occhiata.”
“Ma
certo, e intanto quelli ci aprono il culo.”
“Non
sanno nemmeno che siamo qui.”
“Pensi
che siano venuti quaggiù per limonarsi di nascosto?” Senza
attendere risposta, tolse la sicura alla granata e la lanciò oltre
la curva.
L’ordigno fece un paio di
rimbalzi, si udirono delle voci, questa volte alte e in tono
concitato, poi ci fu il boato lacerante dello scoppio. Dalla galleria
provennero uno sbuffo di polvere e rumore di pietre che crollavano.
“Andiamo,”
disse conciso Clem. Afferrò il compagno per un braccio e si lanciò
in avanti.
Raggiunsero una stanza con una
scala che andava verso l’alto. Metà del soffitto era crollata, uno
dei muri aveva un grosso buco, oltre il quale si intravedeva un’altra
stanza con dentro scaffali carichi di forniture militari. Sul
pavimento, in mezzo alle macerie, erano rimasti dei corpi. Boyle li
osservò brevemente, poi si chinò a raccogliere un Kalashnikov che
giaceva abbandonato accanto a uno di essi, controllò che fosse
carico e proseguì.
Vaughan si limitò a seguirlo.
Diede a sua volta un’occhiata in giro, individuò un fucile
d’assalto AKM e lo raccolse, ma sapeva che quando Clem cominciava
ad aprirsi la strada a granate, rimaneva poco spazio per altri
interventi.
Seguì il compagno su per la
scala. Questi sparò una raffica di mitra, poi buttò un’altra M67.
Di nuovo crollarono calcinacci, si udì un rantolo di dolore, poi
silenzio.
Una volta su, si guardò intorno:
era giorno, tanto per cominciare, e la luce entrava dalle finestre
dando corpo all’aria che le esplosioni avevano reso caliginosa.
Fuori si vedeva un cortile circondato da edifici di pietra chiara,
con decorazioni di maioliche blu, azzurre e verdi che brillavano al
sole. “Non mi dire che siamo finiti in una moschea,” disse
smarrito, ma prima che Clem potesse rispondergli, cominciarono a
riversarsi nel cortile diversi uomini armati.
I due si appiattirono al suolo,
poi Boyle azzardò un’occhiata fuori, staccò un’altra granata,
la terzultima, dalla sua dotazione e la lanciò. “Ora andiamo,”
disse poi. “Dobbiamo trovare l’uscita di questo posto.”
Attraversarono lo spiazzo
disseminato di corpi, da uno degli edifici provenne una raffica di
mitra che fece rimbalzare loro addosso schegge di pietra del
selciato. Clem rispose al fuoco, poi si buttò ansante contro il
muro. Si teneva una mano sulla coscia, e un rivolo di sangue gli
scorreva tra le dita serrate.
“Sei
ferito?” chiese Orange.
“No,
mi si è rotta la bottiglia di ketchup che tenevo in tasca. Ma che
cazzo di domande fai?”
“Ok,
scusa. Fammi vedere.”
“Non
c’è tempo, dobbiamo andarcene.” Si rialzò con una smorfia di
dolore.
Ripresero a correre, si
infilarono dentro una porta aperta, attraversarono un androne
semibuio e sbucarono in un altro cortile, molto più ampio del
precedente, con il fondo di terra battuta. Da un lato di esso erano
parcheggiati numerosi veicoli sia civili che militari. C’era
addirittura un Humvee americano.
Dall’altro lato c’era un
T-72. Clem fece un sorriso soddisfatto e disse: “Prendiamo quello.”
“Cosa?
Vuoi prendere un carro armato?”
“Improvvisare,
adattarsi e raggiungere lo scopo. Una volta che siamo lì dentro, sai
dove se li possono infilare il loro AK-47 del cazzo?”
“Però
se per caso hanno un RPG facciamo la fine delle anatre pechinesi.”
Senza rispondere, Clem corse
verso il blindato. Nel frattempo si udirono dei clamori alle loro
spalle, e uomini armati si gettarono al loro inseguimento. Raffiche
di mitra cominciarono a crepitare furiosamente, le pallottole
fischiavano tutt’intorno a loro.
Poi Orange sentì un colpo nella
schiena, e sulle prime si chiese stupito come avesse fatto uno degli
inseguitori ad arrivare così vicino da potergli sferrare un pugno.
Improvvisamente sentì che le gambe lo tenevano male, e prima di
essersene reso conto, sentì l’impatto del suolo contro la sua
faccia.
Poi successe qualcos’altro, e
si trovò a ballonzolare come un sacco di patate a circa due metri da
terra. Non sentiva dolore, ma era stanco come se fossero due mesi che
non chiudeva occhio. “Clem...” mormorò.
“Parlami,
Orange. Dimmi qualcosa.”
“Ma...”
Vaughan cercò di articolare una risposta, nonostante si sentisse la
lingua più gonfia che dopo una sbronza di tequila boom-boom e
whiskey. “Ma se mi dici sempre che parlo troppo?”
“Non
ti addormentare!”
“E
chi dorme…” Poi subentrò un barlume di consapevolezza: “Mi
hanno beccato, Clem?”
“Non
è niente, non ti preoccupare,” fu l’immediata risposta. “Starai
bene.”
Ormai il T-72 era vicinissimo.
“Clem,
mi hanno beccato?”
“Ora
ce ne andiamo, Orange. Starai bene.”
“Ma
non sento dolore… perché non sento dolore, se mi hanno beccato?”
“Ecco,
bravo, parla. Non devi dormire, Andy.”
Il marine si sentì appoggiare su
una superficie dura e molto calda. “Ahio,” protestò. “Mi hai
scambiato per un hambuger?”
Udì il rumore di qualcosa di
pesante che sbatteva, poi una gragnola che gli ricordò della ghiaia
tirata contro una lastra di lamiera. “Figli di puttana!” imprecò
Clem.
Poi l’ambiente cambiò, e da
torrido e luminoso, divenne torrido e semibuio. L’aria aveva un
odore di olio e nafta, dappertutto c’erano spigoli che gli si
infilavano nelle parti molli. “Dove siamo?” mormorò, ma un
poderoso rombo di motore coprì la sua voce.
Stabilì che era meglio dormire,
molto meglio. Chiuse gli occhi.
Con fatica, Boyle si ficcò nel
posto del pilota, diede il contatto e il motore partì con un ruggito
assordante. Non aveva mai guidato un carro armato, ma supponeva non
fosse poi molto diverso dal bulldozer di suo zio che guidava da
ragazzino. Afferrò le leve che comandavano i cingoli, tolse il freno
di stazionamento e diede gas.
Il T-72 si lanciò in avanti,
travolgendo qualsiasi cosa si trovasse sul suo percorso. Una jeep
cercò di piazzarglisi davanti, ma gli occupanti furono costretti ad
abbandonarla in tutta fretta prima che finisse sotto i cingoli del
mostro.
Clem diede ancora gas. “Orange,
mi senti?” urlò, ma non gli giunse alcuna risposta. “Orange?”
Una raffica crepitò sulla
blindatura, udì il rumore di qualcosa che veniva stritolato dai
cingoli. Poi si accorse che un uomo armato di RPG si era posizionato
a gambe larghe esattamente davanti a lui. “Merda!” imprecò.
L’altro si pose l’arma sulla
spalla con ostentata calma, tolse la sicura e chiuse un occhio per
prendere la mira. Clem diede gas, il T-72 balzò in avanti sollevando
coi cingoli una nube di polvere giallastra. Il marine fissò il
terrorista, ed ebbe quasi l’impressione di guardarlo dritto negli
occhi, e che anche lui stesse facendo la stessa cosa. Strinse i
denti, ignorando la goccia di sudore che gli scendeva lungo la
tempia. Si lecco le labbra improvvisamente secche e disse:
“D’accordo, figlio di puttana: giochiamo a chi ce l’ha più
duro.”
Fissò lo sguardo sull’uomo che
stava ancora regolando la mira: sarebbe riuscito a passargli sopra o
sarebbe saltato in aria con un missile in faccia?
“Adesso
sarebbe il momento di raccontare una delle tue barzellette, Orange,”
disse, ma l’amico non rispose.
Il missile partì sibilando, Clem
si attaccò con tutte le sue forze a una delle due leve dei cingoli,
e il carro armato compì una sterzata brutale. Il proiettile passò
oltre e andò a impattare contro uno degli edifici, facendolo saltare
in aria.
Il marine riprese il controllo
del T-72 e lo spinse a tutto gas contro il muro di cinta del cortile,
che esplose in un delirio di mattoni, ferri da calcestruzzo e
calcinacci. Atterrò su un cumulo di rifiuti, facendo fuggire una
frotta di ragazzini cenciosi, poi proseguì sobbalzando, non voleva
sapere su che cosa.
Infine si imbatté in un paio di
Abrams in assetto di guerra, probabilmente richiamati da tutto il
casino che aveva fatto.
Si fermò.
Dall’altoparlante di uno dei
due provenne una frase in arabo.
Il marine aggrottò le
sopracciglia interdetto, e non fece nulla.
Passarono alcuni secondi, poi la
frase si ripeté, in tono più perentorio. I cannoni dei due carri
armati brandeggiarono verso di lui.
“Per
quale cazzo di motivo non parlano una lingua civile?” brontolò.
Spense il motore, e all’interno del carro calò un silenzio
sinistro e carico di aspettativa. “Orange?” chiamò, ma di nuovo
non gli giunse risposta. “Orange, qui rischiamo di essere fatti
fuori dai nostri, pensa che fregatura.”
Per la terza volta, echeggiò
l’avvertimento in arabo.
A quel punto, Clem perse la
pazienza, spalancò il portello e saltò in piedi. “E allora!”
sbraitò. “Mi avete scambiato per un fotticammelli?”
§
Sdraiato nel letto dell’ospedale
da campo, la gamba fasciata e appoggiata a un paio di cuscini, Clem
emise un sospiro soddisfatto, poi allacciò le mani dietro la nuca e
disse: “Si dà il caso, Andy, che tu debba al sottoscritto il fatto
di poter ancora usare il tuo tablet o qualsiasi altro prodotto della
tecnologia umana.”
“Un
attimo,” grugnì l’altro, sdraiato nel letto accanto.
“Che
stai facendo?”
Impegnato a digitare
freneticamente, Orange non rispose.
Passarono un paio di minuti, poi
Clem riprovò: “Certo che sei proprio di compagnia, eh?”
Silenzio.
“Quando
non ce n’era bisogno, c’era la fiera delle cazzate, non stavi
zitto un attimo. Adesso che potresti alleviare la lunga e noiosa
degenza del tuo commilitone, non mi guardi neanche. Bell’amico che
sei.”
Finalmente l’altro posò il
tablet, si voltò verso di lui, e in tono premuroso chiese: “Scusa,
stavi parlando?”
“Cazzo,
Orange, tu devi solo ringraziare che non posso alzarmi.”
“Ero
distratto,” fu la candida risposta.
Di nuovo calò il silenzio. Clem
prelevò una rivista di armi dal cassetto del comodino, la sfogliò
lentamente e fece un’orecchia in un paio di pagine, poi la lasciò
cadere sulla coperta e disse: “Sai che ti ho salvato il culo,
Orange? Avevi un buco nella schiena che a momenti ci si vedeva
attraverso.”
L’altro si voltò a fissarlo,
con l’aria di non capire come mai stesse tirando fuori l’argomento.
Clem sorrise astuto e gli chiese:
“Che ne dici, me la merito un po’ di gratitudine?”
Ancora vagamente incerto, l’altro
aggrottò le sopracciglia, poi rispose: “Beh, sì. Certo che sì.”
Il primo annuì soddisfatto.
“Allora potresti finalmente dirmi perché ti chiamano Agent Orange,
mi sembra un prezzo equo.”
Contrariamente a quanto si
aspettava, Vaughan non negò e non cercò di fregarlo con una delle
sue solite paraculate. Fece un tentativo di alzare le spalle con fare
noncurante, cosa che gli strappò una smorfia di dolore, poi lo
avvertì: “Rimarrai delusissimo.”
“Correrò
il rischio.”
Passò un altro lungo silenzio,
come se Orange non riuscisse a decidersi a parlare. Infine si schiarì
la gola e gli chiese: “Conosci il cocktail Agent Orange?”
“Mai
sentito.” Poi, dopo una pausa: “Ti chiamano così perché hai
inventato quel cocktail?”
L’altro scosse la testa. “No,
che schifo. L’Agent Orange è una parte di vodka e due di succo di
carota, servito in un tumbler alto con ghiaccio.”
Clem aggrottò le sopracciglia,
poi solennemente proferì: “È la cosa più disgustosa che abbia
mai sentito.”
L’altro annuì. “Sono
d’accordo. Penso che anche bere il vero Agent Orange farebbe meno
schifo”
“E
allora…?”
“Eravamo
in libera uscita, e non avevamo altro che vodka e succo di carota.
Non ci andava di bere la vodka liscia, per cui...” Ci fu un lungo
silenzio, poi Vaughan in tono cupo disse: “La sbronza peggiore
della mia vita. Quando sono tornato in grado di capire, avevo un
tatuaggio sul culo, delle calze da donna come unico indumento, un
pitone al collo ed ero in un ascensore di Las Vegas.” Altra pausa.
“Solo che avevo cominciato a bere a Parris Island.”
Clem annuì grave. “Capisco.”
“E
da allora, sono rimasto noto come Agent Orange.”
“Sono
esperienze che segnano.”
Passò un altro lungo silenzio,
rotto solo dal lieve brusio di un televisore nella guardiola degli
infermieri, poi Vaughan chiese: “E tu?”
“Io,
cosa?”
“Io
ti ho detto il mio segreto, ora tocca a te dirmi il tuo.”
Clem alzò le spalle. “Niente
di che, in realtà. Non volevo più avere fra i piedi una certa
persona, così sono venuto qui.”
Orange lo fissò scuotendo la
testa. “Ma cambiare casa, no?”
“Mi
sarebbe venuta dietro.” Fece un sorrisetto compiaciuto, poi
soggiunse: “Voglio proprio vederla, a seguirmi qui.”
Mentre stavano parlando, entrò
un soldato che teneva in mano un pacco postale. “Chi è Andrej
Vaughan?” chiese.
Orange sollevò una mano. “Io.”
“Un
pacco per te.”
Gli fece firmate la ricevuta, gli
consegnò l’involto e uscì.
Clem lo fissò incuriosito:
sembrava qualcosa di morbido. “Hai comprato dei vestiti?” gli
chiese.
“Ho
fatto acquisti su eBay.” Strappò la busta e ne estrasse un involto
più piccolo di carta velina bianca.
“Cos’hai
comprato?”
L’altro estrasse l’acquisto:
un velo di seta nera, con dei disegni viola intenso. “Ho visto che
lo vendevano proprio uguale,” disse compiaciuto.
Per un bel po’, Clem rimase
semplicemente a fissarlo incapace di proferire parola, infine chiese:
“Bastava comprarlo su eBay?”
“Beh,
sì. Ne vendono un sacco.”
“E
allora, per quale cazzo di motivo noi siamo andati nel negozio di
quel fotticapre bastardo, se in ogni momento avresti potuto comprare
il fazzoletto per tua nonna su eBay?”
Serafico, Orange rispose: “Volevo
fare un acquisto etnico.”
L’unica cosa che lo salvò, fu
probabilmente che Boyle non riusciva ancora a muoversi a causa della
ferita alla gamba. Questi però in tono sinistro promise: “Giuro
che appena riesco ad alzarmi ti ci annego, in quel cazzo di cocktail
con la carota.”
Orange, che nel frattempo si era
messo in testa il velo, si girò verso di lui e gli chiese: “Che te
ne pare?” Se lo allacciò sotto la gola.
“Mi
pare che potrei ucciderti, per una cosa del genere.”
“Oh,
dai. In fondo abbiamo anche reso un servizio allo Zio Sam, non ci
possiamo lamentare. Canta con me: In
every life we have some trouble, when you worry you make it bouble.
Don’t worry, be happy...”
“Orange,
ti voglio veder annegare in quel cocktail di merda a base di carote!”
“Don’t
worry, be happy...”
“Cazzo!”
sbraitò Clement, con un soprammobile da lancio già saldamente in
mano, ma di fronte al compagno che cantava Bob Marley con il
fazzoletto da nonna russa in testa, nemmeno lui riuscì a rimanere
arrabbiato.
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