Forgotten Rebels: perché alla fine anche loro sono andati contro Capitol City

di musike
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Prima storia: Foxface ***
Capitolo 3: *** Seconda storia: The old man ***
Capitolo 4: *** terza storia: Thresh ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


FORGOTTEN REBELS

PERCH
È ALLA FINE ANCHE LORO
SONO ANDATI CONTRO CAPITOL CITY
 


PROLOGO
 
Osservo tutto ciò che mi accade intorno, non riuscendo ancora a credere che finalmente Panem sia riuscita a conquistare la pace e l’uguaglianza tanto attesa.

È un sogno che finalmente si avvera.

Nella mia vita ho visto succedere talmente tante cose che non credevo fosse possibile stupirsi ancora. Fin da quando non ero altro che un ragazzino l'ombra degli Hunger Games incombeva su di me, lasciandomi paralizzato nel letto, invaso dagli incubi via via sempre più frequenti non appena il tempo della mietitura si faceva sempre più imminente. Quando era arrivata la fine l'ho vissuta come una liberazione, mi sentivo nonostante tutto più leggero. Non avevo capito che quello non era altro che l'inizio di un circolo vizioso di cui avrei sempre fatto parte, volente o nolente. Eppure, nonostante tutto questo buio, questo terrore irrazionale che mi attanagliava l'anima, alla fine uno piccolo spiraglio di luce, di speranza, di aspettativa sono riuscito a scorgerla: la ribellione.

Ho visto la liberazione di una popolazione sottomessa da troppo tempo al volere di uno solo.

E mai è esistita gioia più grande di questa.
Sorrido inconsciamente vedendo i bambini giocare senza nessun pensiero in testa, senza che nessuno di loro sia preoccupato per ciò che potrebbe succedere quando avranno dodici anni... senza preoccuparsi del fatto che avrebbero potuto essere strappati dalla propria famiglia e costretti ad uccidersi l’un con l’altro per poter tornare a casa.

Continuo ad intagliare un piccolo pezzo di legno, un piccolo sorriso stanco si fa largo in volto, quando un manina bianca come il latte mi tira insistentemente l’orlo della vecchia camicia azzurra che indosso. So benissimo chi è, ma l’ignoro perché adoro quando si offende.
È troppo dolce.

“Nonno! Nonno!” Mi chiama con insistenza la piccolina. Anche se non la posso vedere, so benissimo che è irritata, ormai la conosco come le mie vecchie e logore tasche. Metto giù con cautela quello che stavo facendo e mi giro verso quello scricciolo che tanto adoro. Una bambina di appena sette anni mi guarda con cipiglio severo, con le guance tutte gonfie e i piedini minuscoli puntati a terra chiaramente irritata per essere stata ignorata.
Non riesco a trattenere una risata davanti a quello spettacolo. I suoi capelli biondi come il grano sono tutti arruffati a causa della corsa, mentre negli occhi grigi, anche se luccicanti come delle stelle che si osservano in cielo durante la notte, si può leggere tutta l’irritazione che prova. Non ci posso far nulla... ogni volta che la vedo si fa sempre più bella, come una rosa che sboccia lentamente, alle volte in ritardo rispetto alle altre. Eppure alla fine sarà sempre la più bella di tutte, come se quell'attesa servisse solamente per rendere ancora più magico quel piccolo spettacolo. Mi sembra solo ieri che era un piccolo fagottino messo nelle mie mani dalla madre, in quelle mani che non credevo potessero riuscire a tenere qualcosa di così bello e fragile senza romperlo.


“NONNO!!” Ecco che l’urlo della mia dolce nipotina mi richiama alla realtà. “Mi dovevi portare al fiume, ricordi? Me lo avevi promesso!” Finì lei, continuando a scrutarmi con i suoi occhietti che si facevano sempre più dolci.

Come si può non volerle bene?

Presi la sua mano nella mia e, senza nessuna parola, la condussi con me in quel posto magico che avevo scoperto qualche anno prima e di cui solo io ero a conoscenza fino ad ora. Bisognava attraversare una parte del bosco per arrivarci, ma sapevo che lei non si sarebbe lamentata. Era abituata a camminare e a correre, l’unica cosa che non sopportava era dover rimanere ferma e seduta tanto a lungo.
Dopo un buona mezz'ora di cammino finalmente raggiungemmo quell'angolo di paradiso: l’acqua scrosciava sul fiume, illuminata dal sole del mezzogiorno che la rendeva brillante agli occhi di chi la osservava. Sembrava una cascata di piccoli diamanti, tanto era luminosa.
Ci sistemammo in silenzio sotto una quercia e iniziammo a mangiare le bacche e i frutti che trovavamo lì vicino. Il mio scricciolo si guardava attorno stupita, curiosa e un sorriso meraviglioso le solcava il viso, facendo concorrenza per bellezza e calore al sole stesso.
Io rimasi all’ombra, continuando a osservare attentamente che non si cacciasse nei guai, conoscendo il suo carattere peperino, mentre lei correva di qua e di là... semplicemente felice di aver scoperto un nuovo posto dove poter giocare e divertirsi.

“Nonno!” Non mi ero mimimamente accorto del fatto che si era avvicinata a me, era stata molto silenziosa. “Raccontami una storia, una storia che nessuno conosce”. Mi chiese continuando a guardarmi insistentemente, con fare dolce e supplichevole.
Rimasi spiazzato da quella richiesta: io non ero bravo a raccontare storie. Per niente. Però forse ne conoscevo una che faceva al caso mio. Sapevo che lei adorava ascoltare e decisi di accontentarla ancora una volta.
Non sapevo dirle di no... infondo era il mio scricciolo.

“Io non conosco molte storie...” iniziai prendendola tra le braccia e sistemandola vicino a me. Il suo sguardo e le sue orecchie si fecero attente e vigili, pronte a captare qualsiasi parola uscisse dalla mia vecchia bocca. “però forse questa è quella che cerchi. Ti racconterò la storia di più persone, quelle persone che molti hanno dimenticato... che a modo loro si sono ribellate a quello che stava succedendo intorno a loro. Ti narrerò le loro storie, quelle storie che nessuno -e quando dico nessuno, intendo proprio nessuno- conosce, ma che solo pochi  fidati sanno. Tutti conoscono la storia principale della ribellione, ma quelle loro sono rimaste  sempre nel buio, delle cose piccole alle volte quasi invisibili che però hanno fatto la differenza. Quindi... Sai mantenere un segreto?”

La piccola annuì vigorosamente, portandosi le mani al petto, simbolo di giuramento eterno. Sapevo che lo avrebbe mantenuto, ma era troppo buffo vederla così.

“Bene,” iniziai sorridente e prendendo fiato. “allora mettiti comoda e ascolta bene quello che sto per raccontarti. Perché questa è la storia dei Ribelli Dimenticati.”


Note autore: Salve, dopo un po' di tempo ritorno nel fando di HG. Questa storia l'avevo pubblicata in parte tempo addietro, ma che avevo eliminato perché non mi soddisfava. Ora ho deciso di revisionarla e ri-postarla, sperando che questa volta il risultato sia migliore. Per cui se avete critiche costruttive, suggerimenti da darmi o anche semplicemente farmi sapere cosa ne pensate non esitate a scrivermi :). Saranno varie storie, abbastanza a sé stanti, che raccontano di vari personaggi, solitamente saranno quelli secondari anche perché mi danno modo di aver un ampio margine di manovra.

Bene, ora vi lascio! I personaggi non mi appartengono e la storia non ha fini di lucro!

Al prossimo capitolo, la prima storia!

Musike

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Capitolo 2
*** Prima storia: Foxface ***



Prima storia
 

LA VOLPE

CHE CONOSCEVA LA DIFFERENZA TRA IL BENE E IL MALE

 

Finch aveva appena una quindicina di anni quando venne sorteggiata per partecipare ai giochi, la mano della capitolina non aveva esitato a prendere quel maledetto foglietto quando poteva benissimo sceglierne altri cento, tuttavia la ragazza sebbene spaventata non se la prese, non ne aveva diritto.

Per una volta la sorte non era stata a suo favore.

Non si stupì quando nessuno la venne a salutare, d’altra parte lei era sempre stata sola e non aveva nemmeno genitori o fratelli da abbracciare, gli amici erano solo delle chimere, un qualcosa di nebuloso e di non definito che la ragazza non aveva mai sperimentato direttamente.

Pochi sapevano della sua esistenza, ma molte leggende e dicerie aleggiavano intorno a lei. Un’aurea di mistero la avvolgeva, proteggendola e nascondendola da tutto, per un attimo aveva sperato che la facesse diventare invisibile anche agli occhi di Capitol City. A lei stava bene così, anzi adorava il suo essere trasparente allo sguardo degli altri. Odiava affezionarsi alla gente, preferendo la solitudine, il girovagare in quel piccolo boschetto che era riuscito a non morire e che pochi conoscevano, nella parte più remota e desolata del distretto.

Non bisogna pensare che Finch fosse cattiva, non lo era affatto. Era tutto fuorché quello. Aveva solamente imparato a cavarsela, a non fidarsi di nessuno e a rubare per sopravvivere. Non prendeva molto, solo qualche boccone qua e là giusto per continuare a vivere. Non l’avevano mai beccata, mai una volta che l’avessero scoperta. Riusciva sempre a nascondersi un attimo prima che arrivasse sul posto o il proprietario del negozio o un pacificatore.

Era brava a nascondersi, lei.

Aveva imparato fin da piccola, da quando aveva memoria. Si nascondeva per scappare dalla gente, dalla realtà, dal gelo del mondo. Nessuno la vedeva mai quella ragazzina dai tratti volpini e i capelli rossi. E quei pochi eleti che riuscivano a scorgerla di sfuggita vedevano solo una matassa di capelli ricci fuggire via, chissà dove... Magari in un luogo migliore di questo. In un posto dove si poteva vivere in pace.

Era semplicemente considerata da tutti un fantasma, un qualcosa che non esiste.
Per questo la folla riuscì a stento a trattenere uno sguardo sorpreso quando finalmente videro il volto di quella figura evanescente, che popolava i timidi bisbigli degli abitanti del distretto Cinque: altro non era che una ragazzina, un piccolo esserino che per anni si era fatto beffe della comunità, riuscendo con astuzia e maestria a sopravvivere in quell'inferno fino a quel momento. La volpe non era altro che una bambina senza casa e famiglia, un piccolo scricciolo pronto ad essere soffocato dalle spire della Capitala, senza nessuno che avrebbe versato una lacrima per lei che si sarebbe veramente interessato e avrebbe provato dolore misto a rabbia e rassegnazione per quello che le sarebbe successo.

Era sola lei, nessuno si era mai curato veramente di lei... Non era altro che una bambina dimenticata dal mondo e da tutti. 

Ma non dai giochi, no... Da quelli non si veniva mai dimenticati. Non ci si può nascondere da loro, perché riuscivano ad arrivare ovunque, a distruggere tutto ciò che incontravano sul loro cammino, avvolgendo tutto nelle loro soffocanti spire di terrore e paura... senza lasciare nessuna via di scampo ad anima viva.

Finch non aveva paura, per niente. O almeno non la dimostrava apertamente.

Semplicemente questa volta era stata scoperta. 

Non era riuscita a scappare dai giochi... ma forse sarebbe riuscita a nascondersi dagli altri ragazzi che erano lì con lei.

E infatti così fece.

Finch non sapeva combattere. Non sapeva maneggiare un’arma. Sapeva solo nascondersi e osservare. I suoi occhietti innocenti si guardavano attorno e immagazzinava tutto ciò che riusciva a scoprire. Sapeva da chi tenersi alla larga, come muoversi. Sapeva come nascondersi. In quello era veramente brava.

Come una volpe aspettava solamente il momento più propizio per uscire allo scoperto, il momento in cui avrebbe vinto quella sfida mortale.

Fu così che tutti si dimenticarono di Finch e, alla fine, anche gli stessi giochi lo fecero... E lei semplicemente aspettava, calma e paziente, senza fretta. Era furba Finch, forse anche troppo, ma riuscì a sopravvivere senza macchiarsi le mani per molto tempo.
A differenza degli altri, i giochi non avevo cambiato i sentimenti e i pensieri della volpe. Lei sapeva cosa era il bene e cosa il male. Sapeva che non avrebbe tolto un capello a nessuno. Lei era brava a nascondersi, non ad uccidere. Lei non avrebbe messo fine a nessuna vita, a costo di perdere sé stessa. Aveva imparato cosa era il giusto e cosa il sbagliato. Rispettava chi era un essere vivente come lei. Per questo si cibava solo di bacche e frutti che trovava qua e là in giro, abbandonati al loro destino. Non cacciava, non ci sarebbe mai riuscita.

Non voleva uccidere lei, non lo avrebbe mai fatto. Non ne era capace.

Erano rimasti in pochi, ai giochi. E lei era riuscita a non far del male a nessuno. Stava morendo di fame, però era riuscita nel suo intento: se mai avesse dovuto vincere lo avrebbe fatto rimanendo quello che era, ne più ne meno. Non si sarebbe mai e poi mai trasformata in quello che volevano gli altri, una sorta di burattino che non poteva afre altro che seguire i movimenti che il burattinaio decideva di fargli fare... Sarebbe stata sempre lei: il fantasma, colei che tutti si dimenticavano, che tutti sottovalutavano.

Era indipendente, la volpe. Nessuno le avrebbe tenuto testa.

Nemmeno la Capitale.

Poi però una consapevolezza si fece largo nella mente della volpe, così fredda da penetrarle nelle ossa facendola rabbrividire nonostante il caldo torrido in cui era immersa, il respiro si fece sempre più affannoso, gli occhi rigidi e tremanti, l'ossigeno sembrava non bastare mai, mentre una sensazione di vuoto iniziò a pervadere la sua mente, lasciandola disorientata e alla ricerca di un qualsiasi appiglio pur di non cadere in quella voragine che iniziava ad intravedere sotto di sé. Lei non avrebbe vinto, solo ora lo aveva capito. I vincitori erano stati scelti già molto tempo prima e lei non poteva fare più nulla per cambiare le cose. Lei sarebbe morta, in un modo o nel altro sarebbe morta. Aveva raggiunto il capolinea, la sua fermata. Avrebbe tanto voluto scendere da quel treno, ma non c’è riuscita. Nessuno ce l’aveva fatta in realtà.

Finch non voleva essere uccisa, fatta a pezzi dalla furia omicida degli altri concorrenti. Se sarebbe dovuta morire lo avrebbe fatto a modo suo, per mano sua e non di altri.
Per suo volere. Per sua scelta.

Prese le bacche che stavano su un giubbotto a terra con sicurezza, per una volta la paura era scomparsa lasciando posto alla determinazione di finire quel triste spettacolo a modo suo. Tutti sullo schermo la guardavano curiosi ricordandosi che c’era anche lei nei giochi. Strano, non l’avevano mai sentita una sola volta. L’avevano dimenticata. Era riuscita a nascondersi anche a da loro. Lei ci riusciva sempre a nascondersi... o quasi.

“Finch”

Questo fu l’unico suono che la ragazza emise davanti alla telecamera che la stava inquadrando, con voce chiara e sicura. 

Tutti la stavano fissando dall’altra parte, stupiti e increduli.

Aveva semplicemente detto il suo nome, quello che mai veniva ricordato. Quel nome che faceva di lei ancora una persona.

Nessuno dall’altra parte riuscì a comprendere quel gesto, o meglio erano troppo ciechi e sordi per capirlo. Non sarebbero mai riusciti a farlo. Erano troppo ottusi, troppo egoisti... troppo sbagliati.

La ragazza poi, con un gesto fulmineo, si mise le bacche in bocca e con un sorriso sulle labbra attese la sua sorte, come se stesse aspettando una sorella o una compagna fidata, che conosceva da tanto tempo. Era giunto il suo momento, ma Finch non ebbe paura. Non si nascose questa volta. Non voleva farlo. Non ne sentiva il bisogno. Non c’era nessuna minaccia lì fuori, pronta a tenderle un agguato.
Finch è stata la ragazza che ha sempre conosciuto cosa era giusto e cosa sbagliato. Che sapeva che era sbagliato uccidere. Che era sbagliato il mondo in sé. Non solo gli uomini, ma tutto era sbagliato. È stata una ragazza che a modo suo ha avuto il coraggio di ribellarsi, non macchiandosi una sola volta le mani. I giochi cambiano le persone, ma lei è rimasta se stessa fino all’ultimo respiro. Non sono riusciti a cambiarla, nemmeno per un istante. Finch è sempre rimasta Finch. E così sarà per sempre. Le loro spire soffocanti e velenose non sono riuscite a trattenerla, a falla cadere nel buio come succedeva quasi con tutti.

E alla fine, così come era venuta, la volpe se ne andò via silenziosa di sua spontanea volontà, felice come non mai... lasciando così quel luogo che confondeva il bene con il male, dove il buio e il terrore regnavano sovrani, mentre ogni piccolo raggio di luce veniva distrutto.

 

 

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Capitolo 3
*** Seconda storia: The old man ***


Seconda storia:


IL VECCHIOCHE SI RIBELLÓ

ALLA MORTE DELLA PICCOLA GHIANDAIA.



C’era un vecchio nel distretto 11 che, nonostante le sue membra stanche e il corpo che si faceva sempre più pesante ogni giorno che passava, aiutava volentieri la gente durante il periodo del raccolto, uno dei più difficili per tutti, sia sul piano fisico che su quello dell’anima, già dilaniata dalla sofferenza da molto tempo.

Perché, ti starai domandando… 

Ebbene, quando arrivava il tempo del raccolto, quasi per ironia della sorte, arrivava anche il momento della mietitura per i giovani ragazzi. La paura iniziava a prendere possesso degli abitanti di quel distretto, i loro movimenti si facevano sempre più nervosi, quasi meccanici; la gente scattava al minimo rumore, gli occhi invasi da un terrore cieco e, come animali, cercavano solamente una via di fuga, che molto spesso non esisteva.
Perché, si sa… i giochi non hanno mai risparmiato nessuno.

In tutto quel nero, un timido spiraglio di luce cercava di prendere posto, illuminando tiepidamente ciò che lo circondava, cercando di essere portatore di sollievo in quel tempo difficile. Il vecchio portava sempre un piccolo sorriso con chi si intratteneva; si divertiva a scambiare piccole parole con chi incontrava per strada, anche se di argomenti di conversazione ce ne erano veramente pochi. E i più portavano solo con loro un alone di tristezza, che giorno dopo giorno intorpidiva sempre più i sentimenti della gente, gelandoli completamente. Altri invece erano proibiti e nessuno ne parlava mai. Anzi, molte volte le persone non gli rispondevano nemmeno, ma lui non si era mai disperato, perché sapeva cosa serviva alle persone. Sapeva che piuttosto di parlare la gente di quel distretto tanto grande quanto povero aveva bisogno di qualcuno che ascoltasse, che sapesse leggere nei loro cuori. Che sapesse capire anche i silenzi, le parole non dette. Perché niente avrebbe colmato quei vuoti di disperazione che si facevano strada tra le persone, niente ci sarebbe riuscito. 

O forse no.

Il vecchio parlava con tutti, ascoltava tutti, o almeno ci provava per quanto le sue orecchie stanche lo permettessero; tutti ci avevano scambiato due parole almeno una volta. Però nessuno era a conoscenza del suo nome. Nessuno sapeva la vera identità di quel vecchietto che sapeva ascoltare i problemi della gente. Che sapeva esserci, in un mondo in cui non c’era mai nessuno.
Il vecchio, invece, li conosceva uno per uno.
Sapeva che Frank, il sindaco, temeva per la sorte della moglie, costretta a rimanere a letto a causa di una paralisi che piano piano la stava spegnendo... come sapeva che la piccola Annabeth, una ragazzina timida e dolcissima, aveva paura di confessare a un altro ragazzino che si era presa una bella cotta per lui. 

Ascoltava tutti, il vecchio, senza distinzione alcuna. Si era affezionato a tutti loro… erano un po’ come se fossero figli suoi e piangeva anche lui quando altri due ragazzini erano mandati alla morte, in quel caso anche la sua luce e traballava leggermente, rischiando ogni volta di spegnersi. Perché sapeva chi erano stati e cosa sarebbero potuti essere se il mondo non fosse stato così ingiusto con loro. E ogni volta si dannava, perché non era riuscito a salvarli... non era riuscito a cambiare le cose. 

Mai una volta.

Ma... cosa può un ignoto vecchietto contro il potere dei giochi? Contro la morte stessa, cosa può? 

Se lo era domandato molte volte, eppure non riusciva sempre a trovare una risposta. Era arrivato alla conclusione che poteva solamente starsene lì, con le mani legate e sperare, pregare forse che si salvasse almeno uno dei due. Ma quasi mai questo succedeva e due ragazzi, ognuno con una propria storia, venivano spenti, la loro vita strappata da un volere più grande di loro e la gente poteva solamente star lì a guardare, inerme. E lasciare che solo il cuore gridasse al vento.

Ci fu però una volta in cui una goccia fece traboccare il vaso e il cuore del vecchio smise di gridare al vuoto, smise di rimanere inascoltato da molti. Ma si fece sentire, unendosi ai suoi compagni. E questa volta il popolo intero fece sentire al mondo la propria indignazione, la propria rabbia da troppo repressa. Fece sentire per la prima volta la propria voce.

Il canto della ribellione si accese e venne ascoltato per la prima volta e non venne spento, ma venne fatto cantare. E i cuori di tutti si unirono contro la morte stessa. Si unirono contro il potere che prima li aveva schiacciati, gettandoli nella polvere della disperazione.

Ma quale fu quella goccia riuscì a smuovere la gente?

Ci fu un tempo in cui il vecchio incontrò una piccola ghiandaia. Ne aveva già sentito parlare, ma non l’aveva mai vista.

Successe quasi per caso: stava camminando tranquillo per le vie del distretto, quando per la prima volta fermò il suo volo. Stava correndo verso i campi la ghiandaia e, a quanto pare, aveva pure una certa fretta.

Non appena si rialzò da terra ecco che la ghiandaia ricominciò il suo viaggio, veloce come il vento. Aveva fatto un cenno di scuse a quel vecchio a cui era andata contro, ma la ghiandaia non poteva fermarsi… doveva portare a casa la cena per la sua famiglia, come ogni giorno. Lui rimase stupito da quanto quella creatura così piccola potesse essere già tanto grande.

E da quel momento il vecchio non la perse d’occhio un istante.

Si era cacciata molte volte nei guai quella piccola ghiandaia canterina, per cose futili, ma che in quel remoto distretto venivano punite. Volevano tarpare le ali a quella ghiandaia, ma il vecchio non l’avrebbe mai permesso. Lei era riuscita a portare una ventata di felicità nella gente e nulla l’avrebbe fermata. Il vecchio era sicuro di questo. 

E l’avrebbe protetta ad ogni costo.

Ma, per quanto quella piccola ghiandaia potesse volare alto, per quanto potesse essere veloce, per quanto potesse essere magnifica non riuscì a scappare dalla morte. Non si può scappare da essa.

Ogni anno i giochi mietevano vittime tra i ragazzi e anche la piccola ghiandaia alla fine fu presa, fu catturata, come succede a molti lì dentro. Tornerà, continuava a pensare il vecchio, conoscendo il suo potenziale ci sarebbe riuscita.

Ma la ghiandaia non riuscì mai a ritrovare la strada di casa. Riuscirono alla fine a tagliarle le ali. Riuscirono alla fine a toglierle quel sorriso che l’accompagnava tutti i giorni, quel sorriso che illuminava i cuori bui della gente.

La sua vita messa fine dal colpo di una lancia. Una lancia che era volata più veloce di lei, che lo era più del vento stesso. Un’arma che la spense lentamente, ma che non le tolse subito il sorriso. 

Almeno quello non si spense subito.

Il vecchio serrava i pugni, rabbioso. Non riusciva a crederci, non riusciva ad accettarlo. Non poteva essere vero, non poteva. Semplicemente quella ghiandaia non poteva morire. 

Ecco che la storia si ripeteva come ogni anno: una vita spenta e lui lì, inerme che osservava quello che non poteva essere cambiato. Avrebbe dato la sua vita per quella della ghiandaia. Ma la morte ormai aveva scelto e non sarebbe ritornata sui suoi passi, non lo faceva mai.

Il vecchio stava per andarsene, quando un particolare lo fermò. Per un attimo aveva visto la tomba della piccola, coperta interamente da bianchi e candidi fiori. 

Puri come la ghiandaia che giace vicino ad essi. 

Una luce all’interno delle tenebre, della disperazione. La speranza che l’umanità per una volta non era stata sopraffatta. Per una volta aveva vinto contro la morte stessa. Contro gli stessi giochi... contro i quali non si vinceva mai.

Qualcosa scattò nel cuore del vecchio. Qualcosa si ruppe e una certezza si presentò chiara a lui. Un grido si rabbia si levò nel suo animo, un grido che non era mai riuscito a cogliere. Un silenzio che non era mai riuscito ad interpretare, o meglio, che non aveva mai voluto capire.

Il vecchio aveva solo ascoltato nella sua vita. Aveva solo guardato, aveva solamente fatto la parte dello spettatore, si era macchiato le mani tanto quanto gli altri. Sapeva tante cose il vecchio, ma non aveva mai avuto il coraggio di fare, come se fosse assopito in un sonno da cui nessuno si era svegliato prima. Un sonno che comprendeva la sottomissione e la passività.

Un sonno che la morte della piccola ghiandaia era riuscito a rompere.

Non doveva morire la piccola, nessuno di quei ragazzi meritava la morte. Nessuno meritava questo destino. Avrebbero dovuto fare il loro tempo, avrebbero dovuto semplicemente vivere in un mondo migliore. Un diritto era stato loro negato, la vita era stata negata a tutti.

La piccola ghiandaia avrebbe dovuto volare felice e spensierata e con lei tutti gli altri. Non meritavano la morte, la sofferenza, la paura .... meritavano solamente l’amore, la serenità, la fiducia. 

La vita. 

Ecco cosa meritavano quei ragazzi costretti a combattere. 

Semplicemente vivere. Perché nessuno ha il potere di mettere fine alla vita. Nemmeno la capitale.

E così il vecchio fece qualcosa che nessuno prima di lui aveva mai fatto, nessuno aveva mai osato fare: lottò per la vita di tutti quei ragazzi, si ribellò all’ingiustizia e prese in mano le redini della sua vita.

La sua piccola ghiandaia era morta, volata via in cielo, chissà dove. Forse ora li stava guardando con i suoi occhi ambrati e un sorriso dolcissimo in volto. L’ultimo che aveva fatto nel suo volo.

E fu per quell’ultimo sorriso che il vecchio decise di lottare fino alla fine.

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Capitolo 4
*** terza storia: Thresh ***


Terza storia:

ANCHE IL LUPO SOLITARIO

CONOSCE IL VALORE DELLA PIETÁ.


Thresh era un ragazzo di poche parole, odiava perdersi in chiacchiere inutili. Tanto sapeva perfettamente che nessuno lo avrebbe ascoltato, nessuno lo avrebbe mai guardato senza un bricio di paura impressa nello sguardo. Lui era sempre stato molto alto per la sua età, la sua figura si imponeva su quella degli altri sovrastando chiunque con la sua mole, con la sua sola presenza faceva scappare tutti i bambini che gli erano attorno.
Avevano paura, loro, di quel ragazzo troppo cresciuto per la sua età da essere scambiato per un adulto.

Thresh faceva paura a tutti, anche ai grandi. Ogni volta gli veniva affidato il lavoro più duro e lui lo faceva, senza battere ciglio e senza fiatare. Grossi pesi avevano portato le sue spalle, molte volte si era chinato a raccogliere quello che la terra generava spaccandosi giorno dopo giorno la schiena... ma mai una volta si era lamentato. Aveva imparato da tempo a non parlare. Le parole non servono quando la paura e il senso di inadeguatezza ti accompagnano ogni giorno della tua vita.

Perché sì, Thresh si sentiva inadeguato, incompreso dai suoi stessi compagni. 

Thresh era solo... e lui ne era consapevole.

Non lo diceva a nessuno, ma lui soffriva per questo. 

Stava male per questo.

Thresh non era cattivo, anzi dentro era buono come il pane, dolce come una zolletta di zucchero. Avrebbe tanto voluto avere dei fratelli da accudire, da tenere a bada, ma lui non aveva nessuno se non sua nonna che faticava pure ad alzarsi dal letto, non riusciva a compiere i gesti più semplici. Ma nonostante tutto le voleva bene. Era l’unica che non l’aveva mai allontanato e aveva avuto paura di lui. Era l’unica che lo amava per quello che era e Thresh gli era grato di questo.

Nessuno pianse quando Thresh venne estratto. Nessuno versò una lacrima per quel ragazzo che probabilmente non sarebbe più tornato indietro nella sua casa. Tutti rimasero silenziosi quando, dopo che il suo nome riecheggiò per tutta la piazza, si diresse con passo deciso verso il palco dove la morte lo attendeva.

Il ragazzo non versò una lacrima quando il suo destino venne deciso da una mano di velluto che aveva estratto un foglietto di carta. Non pianse quando strinse la mano, piccola e gracile in confronto alla sua, dell’altro tributo, una ragazzina dagl’occhi dorati di appena dodici anni.

Thresh non pianse, ma rimase zitto anche se dentro stava morendo... perché lui non voleva morire, non voleva uccidere.

E questo fu solo l’inizio.

Non aveva mai legato con alcuno nei suoi diciotto anni di vita, tutti avevano paura di lui perfino i grandi se potevano lo evitavano. Aveva imparato a non fidarsi e ad non appoggiarsi a nessuno, a percorre la sua strada nonostante tutte le avversità che gli si paravano davanti. Aveva imparato a sopravvivere, ad andare avanti nonostante tutto.

Eppure quella piccola ragazzina di lui non aveva paura. 

Quello scricciolo dagl’occhi dorati sembrava essere immune al suo cipiglio severo, al suo volto inespressivo, al suo silenzio ostinato. Non si faceva problemi a chiederli come stesse o cosa pensasse, cosa faceva nel distretto perché lei non l’aveva mai visto oppure come passasse le sue giornate. E se lui non parlava ecco che lo faceva lei, con un tono dolce, quasi materno e amichevole come se lo conoscesse da sempre. Come se ci avesse parlato ogni giorno e gli fosse stata accanto. Sempre.

Quella ragazzina non si rendeva conto di essere riuscita a scalfire quella corazza che con tanta fatica si era costruito intorno. Era come uno scudo che lo proteggeva dai mali esterni, dalla paura stessa della gente, dai loro sguardi colmi solo di terrore e di odio.

Piano piano anche Thresh si affezionò inevitabilmente a quella ragazzina dalla pelle scura come la sua e dagl’occhi dorati, sentiva che avevano molto in comune loro due... così diversi eppure così simili, accumunati da uno stesso destino, dallo stesso colo della pelle, ma dallo sguardo differente... uno nero, come l’oblio, l’altro luminoso come la scintilla della speranza.

Entrambi vivevano nella povertà, entrambi erano stati mietuti dalla mano di velluto della morte per partecipare a quegli stupidi e insensati giochi. Entrambi sarebbero voluti tornare a casa in quello preciso istante, chi per riabbracciare i propri fratelli e sorelle chi per ritornare dal quella vecchietta che gli voleva bene.

Inevitabilmente Thresh si legò a quella piccola creaturina che non aveva paura di lui.

Era buffo a pensarci... Il lupo solitario che si era affezionato al piccolo uccellino.

Probabilmente nessuno ci avrebbe creduto nemmeno se l’avesse visto... eppure era così. Per una volta il ragazzo di cui tutti avevano tanta paura non sarebbe stato più solo, non sarebbe stato più dimenticato.

Ma, si sa, nei giochi la felicità dura fino ad un certo punto perché poi la triste realtà torna a bussare insistentemente alle porte del cuore e si presenta ancora più chiara e dolorosa di prima.

Perché nei giochi non c’è spazio per la felicità... per l’umanità, o forse no.

Per ogni colpo di cannone che sentiva, il cuore di Thresh perdeva un battito e si ritrovava così, ogni sera, a scrutare con i suoi occhi neri il cielo nella speranza di non vedere il volto della sua piccola compagna. Aveva deciso di staccarsi da lei, di starsene per conto suo come faceva sempre. Non voleva affezionarsi troppo, ma ormai quello che era successo non si poteva cambiare. In soli tre giorni il suo cuore e il suo affetto erano per quella bambina dagl’occhi dorati e dal sorriso luminoso. In soli tre giorni il lupo tanto temuto era stato ammansito dal canto del piccolo uccellino. In soli tre giorni Thresh aveva capito che non era più solo.
Poi però un giorno il colpo di cannone risuonò anche per lo scricciolo dagl’occhi dorati che portò via per sempre il suo spirito. La mano di velluto aveva deciso e gli occhi della piccola Rue si chiusero per sempre, in un sonno eterno che mai avrà fine.Quando il volto della piccola ragazzina apparve luminoso nel cielo notturno  il cuore di Thresh si ruppe in mille pezzi, come quando un piccolo cristallo quando cade a terra.

E per la prima volta Thresh pianse. Per la prima volta delle piccole gocce salate solcavano il suo viso scuro e nel suo volto, quasi sempre inespressivo, si poteva scorgere una nota di dolore. 

Di smarrimento.

Per la prima volta in tutta la sua vita Thresh si sentì perso, solo come non lo era mai stato e, mentre quelle lacrime dolorose continuavano a scendere, che non volevano fermarsi, il ragazzo giurò vendetta, giurò che avrebbe riscattato la piccola dagl'occhi dorati... perché lei non meritava di morire.

Accecato dalla rabbia il grande lupo ebbe l’occasione di vendicarsi pochi giorni dopo la morte della dolce ragazzina e intanto la sua rabbia cresceva di giorno in giorno, accecandolo completamente. Era in balia di essa e più il tempo passava più essa sedimentava nel cuore di quel ragazzo odiato da tutti, ma che nessuno aveva mai capito fino in fondo, fermandosi solo all’apparenza. Il dolce ragazzo di un tempo aveva totalmente cessato di esistere. Ora esisteva solo la  rabbia... solo l’ira... solamente la vendetta.

Provò soddisfazione quando le sue mani sa abbatterono su corpo della ragazzina che stava sotto di lui, con il terrore negl’occhi. Provò soddisfazione quando la sua vittima esalò l’ultimo respiro e il suo sguardo si fece vuoto. Provò per un istante un senso di potenza quando si rese conto di aver messo fine ad una vita, di aver messo fine all’esistenza di quella ragazza che sicuramente aveva a che fare con la morte della sua piccola Rue. Quella ragazza che non avrebbe riportato in vita Rue.

Si sentì assassino quando il colpo di cannone vibrò nell’aria. Le sue mani erano macchiate e la sua anima marchiata a vita. Era sporco anche se in realtà non aveva nulla. Si girò verso la ragazza ancora in vita, con uno sguardo da pazzo. Dentro di lui imperversava una lotta tra disperazione, voglia di uccidere ancora, ira e rabbia. Si avvicinò minaccioso a lei, ormai quando sali sul treno non puoi più scendere.

Doveva vendicare Rue, era questo il suo scopo.

Lei gli parlò. Gli parlò di Rue, di come si erano trovate e di come si erano alleate. Gli parlò di quel piccolo scricciolo che l’aveva salvata, di come avessero passato la notte abbracciate, di come stavano cercando di mettere fuori gioco gli altri ragazzi distruggendo i viveri.

Non appena le parole della ragazza raggiunsero Thresh ecco che il suo cuore, ormai in mille pezzi, ricominciò a battere, anche se flebilmente. Gli occhi del ragazzo si fecero meno scuri, la sua espressione meno rabbiosa e il suo passo sempre più lento fino a che non si fermò. Mentre la ragazza con la treccia parlava ecco che come per magia la piccola Rue gli apparsi davanti, un po’ sbiadita, con un sorriso in volto e gli occhi dorati che scintillavano.

Thresh si fermò, si arrestò.

E solo allora comprese cosa stesse facendo.

Lasciò andare la ragazza e ognuno andò per le sue strade. Avrebbe potuto ucciderla, avrebbe potuto essere più vicino al tornare a casa. Ma lui non lo fece. Semplicemente non poteva. Era sbagliato, aveva sbagliato e lui aveva capito. Quando tornò al campo di grano continuò ad osservare il cielo, mentre le lacrime risolcavano il suo viso. Thresh aveva avuto pietà di quella ragazza, quella ragazza che come lui non aveva fatto nulla di male... doveva solamente partecipare a quegl’orribili giochi. Thresh si guardò le mani, ma non una goccia di sangue era impressa su esse. Si sentiva sporco e quella notte chiese perdono alle stelle.
Chiese perdono a Rue.

Voleva solo aver protetto quello scricciolo innocente, ma non era riuscito a farlo. Voleva solo tornare a casa il piccolo Thresh, solo riabbracciare chi amava. Riabbracciare colei che era come una sorella, ma che era volata via troppo presto, facendolo riprecipitare nel buio.

Doveva vincere, Thresh. Lo doveva a lei che aveva portato la luce nella sua vita.

Ma, purtroppo, alla fine il colpo di cannone suonò anche per il lupo solitario e, chissà... forse alla fine riuscì a stringere tra le sue braccia ancora una volta quella piccola ghiandaia e a volare via con lei. 

Per sempre.

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