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di mononokehime
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 4 (fine) ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Carter odiava prendere la metro.
Stare a stretto contatto con decine di completi sconosciuti, le luci al neon giallognole e tremolanti, l’odore acre di sudore, quello polveroso dei sedili, quello grasso del fritto – misteriosamente in grado di arrivare sottoterra dai vari fish and chips in superficie – e quello chimico dei materiali sintetici che tappezzavano i vagoni.
Le grandi cuffie nere che le coprivano le orecchie riuscivano ad isolarla solo in parte da quell’ambiente sgradevole, ma se non altro rendevano il countdown delle otto fermate meno insopportabile.
Chiuse gli occhi con un sospiro stretto tra i denti, aggrappandosi più forte al palo verticale giallo che stringeva nella mano destra e dondolandosi avanti e indietro sulle sue vecchie Dr Martens nere. Mancavano solo due fermate – appena pochi minuti di viaggio – e già non vedeva l’ora di precipitarsi fuori da quel vagone soffocante.
Erano da poco passate le otto e mezza di sera; Carter era distrutta da una giornata di lavoro più intensa del solito. L’impiego al Beatles Coffee Shop vicino Abbey Road era quanto di meglio avesse mai potuto sperare di trovare, da amante della musica quale era, ma in certi giorni diventava semplicemente tutto… troppo.
Era sempre stata affamata di conoscenza, aveva mille interessi dei più disparati che germogliavano dentro di lei senza controllo, ma quando tentava di tirarli fuori per farne qualcosa di concreto si scontrava con la dura realtà delle proprie difficoltà economiche. Un corso di fotografia analogica, un ciclo di seminari sull’universo, un’esperienza di volontariato in Kenya, un abbonamento al cinema, delle lezioni di pittura creativa… tutto aveva un prezzo, e quel prezzo era sempre troppo alto. Carter lavorava febbrilmente nella speranza di potersi prima o poi permettere di inseguire tutti i propri sogni capricciosi, ma per il momento quelli avrebbero dovuto aspettare.
Cullata dai sussulti maldestri del treno liberò il sospiro che tratteneva, seguendo mentalmente l’accattivante linea melodica del basso di Colin Edwin in Strip the Soul, e puntò lo sguardo su uno dei pannelli pubblicitari sopra la sua testa. Mentre leggeva distrattamente i prezzi dei nuovi modelli di Kindle lasciò la presa sul palo per alzare ancora di più il volume già alto della musica, tramite il piccolo microfono incorporato al cavetto delle cuffie.
In quel momento la metro frenò bruscamente e Carter, non più appoggiata ad un sostegno, perse l’equilibrio sbilanciandosi all’indietro contro il corpo di una persona che la afferrò per il fianco sinistro, colta alla sprovvista.
Ancora frastornata, nel tentativo di recuperare l’equilibrio la ragazza abbassò lo sguardo sulla mano che la stringeva. Era una mano grande, giovane e maschile, le dita affusolate ma non per questo sottili. Le nocche erano appena arrossate dal freddo di quella serata di fine ottobre, e creavano un piacevole contrasto con la pelle chiara. Portava due spessi anelli argentati, probabilmente di scarso valore, e appena sopra l’incavo tra il pollice e l’indice spiccava il tatuaggio di una semplice croce nera.
Si trattò solo di un lungo istante, perché la metro si fermò del tutto con un paio di sbuffi cigolanti e le porte si aprirono; la mano che l’aveva stretta si staccò da lei e Carter dopo essersi rimessa dritta si voltò per vedere a chi appartenesse, ma il ragazzo si stava già affrettando a scendere sulla banchina della stazione di Neasden; lei riuscì solo a cogliere il guizzo di un cappotto nero ed una massa di lunghi capelli castani prima che il treno fagocitasse altre decine di passeggeri e richiudesse le proprie porte per poi ripartire.
Carter mise in pausa la musica, per poter meglio riordinare nella sua mente i dettagli che aveva registrato in quei pochi secondi. Non sapeva dire cosa l’avesse scombussolata così tanto, ma non riusciva a schiodarsi dalla mente l’immagine di quella mano ed i tentativi di ricostruirvi intorno l’aspetto del suo proprietario.
Era fatta così; la sua memoria fotografica ed il suo naturale istinto di osservatrice la portavano ad immagazzinare particolari tanto irrilevanti quanto ricchi di fascino – solo per lei, spesso e volentieri. Talvolta camminava per le strade di Londra con la sua reflex appesa al collo, una Nikon entry-level di nessuna pretesa ma che per lei valeva più di qualunque tesoro al mondo, e fotografava qualsiasi dettaglio attirasse la sua attenzione; una crepa ramificata sull’intonaco scolorito di un muro, la ruggine su una ringhiera, un palo pieno di adesivi di gruppi metal locali. Qualsiasi frammento di mondo poteva passare attraverso le lenti dell’obiettivo di Carter ed imprimersi nel sensore digitale, per poi venire riesaminato dalla ragazza con una minuziosità ed una cura che lei non riservava nemmeno al proprio aspetto fisico.
Era così assorta nei propri tentativi di mettere a fuoco nella sua mente l’immagine di quella mano che quasi non si rese conto essere arrivata alla fermata successiva e di dover scendere dalla metro; riuscì ad infilarsi tra le porte appena prima che si chiudessero, non senza guadagnarsi diverse occhiate oblique da parte delle persone che aveva spintonato per poter uscire, ma non vi fece caso. L’aria umidiccia e pesante di Wembley le si riversò passivamente nei polmoni, e per diversi secondi la ragazza non riuscì nemmeno a ricordarsi di camminare per tornare a casa come tanto desiderava fino a pochi minuti prima.
Perché quando Carter Mason era ossessionata da qualcosa, per lei non esisteva più nient’altro.
Mentre si incamminava, riscossasi dal suo limbo, frugò disordinatamente nella tasca del giubbotto per recuperare il cellulare, che subito sbloccò e dopo alcuni rapidi tap sul display si portò all’orecchio.
«Louis, stasera da me. Abbiamo una persona da cercare»



Spazio autrice
Sorpresa(?)
Era da qualche mese che lavoravo a questa piccola minilong; oggi l'ho finita, quindi ho deciso di pubblicarla.
L'idea è partita da una foto della mano sinistra di Harry trovata per caso su Google; senza ben sapere perché ho aggiunto la scritta Details e mi è esploso il desiderio di costruire una storia intorno a questa immagine.
Ho lanciato la sfida anche alla mia immancabile socia
MonicaX1974, che ha scritto in un lampo una Details deliziosa. Sei meravigliosa, mia cara, non finirò mai di dirtelo <3 grazie per aver fatto questo piccolo viaggio insieme a me. I love you to the moon and back, e questa storia è tutta per te.
Vi lascio qua sotto l'immagine da dove è partito tutto :3 giovedì prossimo pubblicherò il primo vero capitolo. Ogni opinione è sempre gradita <3

Un abbraccio,
mononokehime


 

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Capitolo 2
*** Capitolo 1 ***


Due occhi color ghiaccio scrutavano implacabili la figura di Carter, seduta a gambe incrociate sul proprio letto. Aveva appena finito di raccontare quello che era accaduto sulla metro, e sapeva che con il suo interlocutore non c’era bisogno di insistere troppo su quanto fosse importante per lei ritrovare quel misterioso ragazzo. La conosceva abbastanza per rendersene conto da solo.
«Trovo tutta questa storia molto entusiasmante, love, ma ti rendi conto che non sai nulla su di lui a parte la fermata a cui è sceso e una quantità di inutili dettagli sulla sua cazzo di mano sinistra?»
Carter sbuffò, scompigliandosi il cortissimo caschetto di capelli castani che le sfioravano a stento la mandibola. Sapeva perfettamente che il suo migliore amico aveva ragione a considerarla un’irrimediabile illusa, ma non poteva farci nulla. Erano passate circa due ore da quell’incontro – a patto che si potesse chiamare tale – ma la ragazza aveva ancora ogni singolo particolare accuratamente impresso nella memoria.
Louis la osservò per un altro paio di istanti, prima di abbassare la testa e sospirare in un misto di rassegnazione e divertimento. Lei lo guardò in tralice, pur sapendo di non potersela nemmeno prendere con lui, e tornò alla carica implacabile.
«So anche che è molto alto, spiccava su tutti gli altri passeggeri» tentò di portare acqua al proprio mulino, al che Louis roteò gli occhi. «Aveva i capelli castani, poco più chiari dei miei, molto lunghi e mossi. Gli scendevano sotto le spalle»
Si trattenne dal specificare ad alta voce il modo in cui rimbalzavano morbidamente contro la sua schiena ampia, particolare che aveva inspiegabilmente colto nonostante la semplice occhiata di sfuggita che era riuscita a rubargli.
«Questo sì che restringe il campo» commentò il ragazzo, con il solito sarcasmo pungente che lo contraddistingueva. «Siamo a Londra, love. Come speri di trovare un ragazzo basandoti su questa manciata di informazioni inutili? Sapessi almeno il suo nome…»
«Beh, non lo so il suo nome» sbuffò Carter, spazientita. «Bisognerà farsi bastare quello che abbiamo»
Louis alzò le mani, un sorrisetto provocatorio sulle labbra sottili.
«Non ti scaldare, love. Che avevi in mente?»
«Pensavo che forse, prendendo la metro tutti i giorni alla stessa ora, prima o poi potrei ritrovarlo» ipotizzò Carter, mordendosi l’interno di una guancia. «Magari ci abita, lì a Brent. Potrebbe essere sceso alla fermata di Neasden dopo una giornata di lavoro»
«Se abita dalle parti di Neasden mi dispiace per lui» malignò Louis con una smorfia. «Quella zona è orrenda, non ci vivrei nemmeno da senzatetto»
Carter serrò le labbra, indispettita. Si sentiva irrazionalmente punta nel vivo, toccata dalle parole taglienti di Louis come se fossero dirette a lei e non al suo misterioso sconosciuto.
«Comunque per il momento questa è l’unica strategia che mi è venuta in mente» tagliò corto, passandosi una mano tra i capelli. «Domani faccio gli stessi turni di oggi, quindi prenderò la metro alla stessa ora; spero di trovarlo lì»
Il suo amico sorrise e mosse qualche passo sul letto per poi sedersi accanto a lei, lasciandole un bacio sulla spalla.
«Vedi di fargli una foto, se lo trovi» le sussurrò all’orecchio, facendola ridere. «Sono maledettamente curioso di vedere questa bomba sexy che ti ha fatta sbarellare»
«Non esiste» protestò Carter, dandogli una leggera spallata. «Se fosse davvero una “bomba sexy” tu me lo ruberesti da sotto il naso senza pensarci nemmeno un secondo»
«Ma è ovvio, love» replicò lui con semplicità disarmante, alzando le spalle. «Sappiamo entrambi che ho sempre avuto più successo di te con i ragazzi»
La ragazza gli rifilò una cuscinata in pieno viso, ridacchiando, consapevole dentro di sé che il suo amico aveva perfettamente ragione. Louis aveva carisma e fascino, una simpatia elettrica ed accattivante ed una schiettezza innata; tutto questo, sommato ad un aspetto fisico decisamente notevole e per giunta sempre molto curato, gli aveva permesso di far girare la testa a parecchi ragazzi. Una volta era addirittura riuscito a sedurre un ragazzo eterosessuale, cosa di cui aveva continuato a vantarsi per mesi e mesi – e che ogni tanto saltava ancora fuori nei suoi discorsi con Carter.
«Ora che abbiamo organizzato per bene questa pagliacciata possiamo passare alle cose importanti» dichiarò Louis, afferrando il portatile dell’amica che gli lanciò un’occhiata esasperata. «A che episodio di Sense8 eravamo arrivati? Mi manca guardare il culo di marmo di Lito Rodriguez»
 
***
 
La sera successiva, una volta finito il suo turno di lavoro, Carter era insolitamente impaziente di salire sulla metro. Il Beatles Coffee Shop si trovava esattamente alla fermata di St. Johns Wood, perciò fu svelta ad arrivare alla banchina sotterranea e salire sulla metropolitana che arrivò pochi interminabili minuti dopo.
Iniziò subito a camminare lungo i vagoni del treno, guardandosi intorno per individuare il ragazzo misterioso, un labbro stretto tra i denti nel tentativo di scaricare almeno parte della tensione che le attanagliava lo stomaco.
Erano ormai ventiquattr’ore che fantasticava sull’aspetto dello sconosciuto, assemblando i dettagli che ricordava a particolari creati dalla propria fantasia in modo che vi si accostassero al meglio.
Immaginava un viso affascinante e spigoloso, con profondi occhi scuri ed una barba ben curata che valorizzasse i capelli lunghi. Doveva senz’altro essere una persona particolare e sofisticata ma senza essere snob, probabilmente gli piaceva il cinema di scuola hitchockiana e – Carter non aveva dubbi – era un gentiluomo d’altri tempi.
Questi erano i pensieri che vorticavano nella testa della ragazza mentre percorreva i vagoni della metro uno dopo l’altro, lanciando occhiate qua e là nel tentativo di ritrovare in qualche passeggero i tratti che ormai erano marchiati indelebilmente dentro di lei.
Era quasi arrivata Neasden, e del misterioso sconosciuto ancora non c’era traccia. Carter era sopraffatta da un senso di impellente delusione, ma il suo spirito ostinato le impediva di darsi per vinta. Man mano che la metro si avvicinava alla fermata il suo cuore martellava sempre più forte contro le costole, rimbombandole nelle orecchie coperte dalle cuffie silenziose.
Già, perché Carter era talmente concentrata nella sua ricerca che si era perfino dimenticata di avviare la musica. E probabilmente anche se l’avesse fatto non avrebbe sentito nemmeno una nota, tanto era preda dal vortice confuso dei propri pensieri.
La voce registrata annunciò l’arrivo alla fermata di Neasden, e la ragazza si sentì sudare freddo. Cercare il suo sconosciuto tra quella folla di passeggeri, per di più non conoscendone i tratti del viso, era un’impresa a dir poco disperata. Non sapeva nemmeno dove fosse salito, tantoché poteva essere entrato nella metro dopo di lei e magari in un vagone che aveva già perlustrato.
La metro iniziò a rallentare inesorabilmente, mentre le spoglie banchine della stazione le sfilavano davanti agli occhi. Carter non riusciva nemmeno più a muovere un passo; stringeva l’orlo del suo giubbotto nella mano destra, senza neppure sapere dove posare lo sguardo, con il fischio soffocato dei freni nelle orecchie.
Pochi secondi dopo la metro si fermò, aprendo le porte rosse e permettendo all’aria autunnale di farsi strada tra i corpi dei passeggeri fino ad entrare nelle narici della ragazza.
E poi, un attimo dopo, Carter era sulla banchina.
Il treno si rimise in moto, dopo aver accolto altre persone dentro di sé, e riprese la sua corsa sui binari perdendosi nella spoglia notte londinese, ma Carter non perse tempo a seguirlo con lo sguardo. I suoi occhi studiavano i pochi passeggeri scesi insieme a lei, fino a quando non si posarono su una figura allampanata che si stava avviando a passo svelto verso il sottopassaggio.
Era lui.
Avrebbe riconosciuto ovunque quelle spalle larghe, avvolte dal lungo cappotto nero che gli arrivava fino alle ginocchia, e quei capelli castani che vi rimbalzavano al ritmo dei suoi passi. Per alcuni secondi lo guardò allontanarsi, come cibandosi avidamente di ogni particolare che riusciva a distinguere nel buio spezzato solo dalle fioche luci dei lampioni, quindi si riscosse e lo seguì quasi correndo per non perderlo di vista.
Non riusciva neppure a sentirsi in colpa per il fatto di star pedinando un estraneo ignaro; era completamente assorbita nello studiare il ritmo della sua falcata, la linea degli stretti jeans neri, il suono che i suoi stivaletti bassi producevano sull’asfalto – si era anche tolta le cuffie per poterlo sentire meglio.
Il ragazzo procedeva spedito, e le sue gambe lunghe costringevano Carter a doversi muovere al doppio della propria velocità abituale per riuscire a stare al passo; eppure si sentiva emozionata come una bambina, mentre trotterellava furtivamente ad una decina di metri dal suo sconosciuto, il timore di essere scoperta che rendeva il tutto ancora più elettrizzante.
Dopo poco più di dieci minuti di cammino Carter si ritrovò nell’enorme parcheggio di un superstore Tesco Extra, e senza farsi troppe domande seguì il ragazzo che si diresse sicuro verso l’ingresso principale. Nonostante l’orario improbabile c’erano ancora diverse persone che andavano e venivano; il superstore era aperto anche di notte, il che spiegava quel discreto affollamento anche alle nove di sera – probabilmente si trattava di ritardatari che si fermavano a comprare qualcosa per la cena dopo essere tornati da lavoro.
Che anche il ragazzo sconosciuto dovesse fare acquisti?
Carter rischiò quasi di perderlo di vista, ma poi lo vide salire delle scale di servizio ed infilarsi dietro ad una porta bianca. Lei rimase un po’ stranita, in piedi poco oltre l’ingresso, senza ben sapere cosa fare; dopo un primo momento di indecisione si diresse verso la corsia più vicina fingendo di esaminare con interesse delle confezioni di cereali al cioccolato.
Passarono alcuni minuti, durante i quali Carter tentò di non dare nell’occhio pur gettando di tanto in tanto uno sguardo alla porta bianca; poi finalmente questa si aprì, e la ragazza poté vedere il viso del suo sconosciuto per la prima volta.
Era completamente diverso da come l’aveva immaginato; non aveva neppure un accenno di barba, e questo metteva in risalto la forma definita e tagliente della mandibola. Le labbra sottili avevano una forma così invitante che Carter si sentì le gambe vergognosamente molli mentre ne marchiava a fuoco l’immagine nella propria memoria. Il naso dritto accompagnava lo sguardo verso gli occhi affilati, resi più affascinanti dal taglio obliquo delle sopracciglia.
Era bello da togliere il fiato, e la ragazza si sentiva completamente disarmata dalla mole di dettagli che aveva colto e dagli innumerevoli altri che avrebbe voluto cogliere. L’avrebbe volentieri pregato di restare fermo davanti a lei mentre si prendeva il tempo per studiarlo, osservarlo, assorbirlo in ogni suo più insignificante particolare.
Lo sconosciuto, che aveva indossato una t-shirt blu come il resto dei dipendenti di Tesco, si legò i lunghi capelli in uno chignon approssimativo con un gesto noncurante e fluido che seccò impietosamente la bocca di Carter. La ragazza deglutì a vuoto e si rese conto di essere impalata fuori dalla corsia, con gli occhi inchiodati a lui e le mani che tormentavano l’orlo del giubbotto, e mentre lui scendeva le scale finse di nuovo di esaminare qualche articolo esposto accanto lì vicino.
Quando le passò accanto Carter chiuse istintivamente gli occhi, dilatando le narici per cogliere il suo profumo; era fresco, leggero ma presente, pulito ed irrimediabilmente accattivante. Dopo che l’ebbe oltrepassata lei sospirò in un misto di frustrazione e di vago rimpianto, quindi ripudiò i pochi frammenti di dignità che le erano rimasti e lo seguì senza farsi notare.
Nel frattempo lui aveva recuperato un alto carrello per merci carico di scatoloni ed aveva iniziato di buona lena a sistemare gli articoli che vi erano contenuti sugli scaffali. Carter lo guardava affascinata; le maniche corte della t-shirt che il ragazzo indossava le avevano permesso di notare la moltitudine di tatuaggi che gli decoravano il braccio sinistro. La distanza che era obbligata a mantenere da lui non le permetteva di osservarli come avrebbe voluto, ma si accontentava di soffermarsi sui muscoli delle sue braccia che si flettevano ed estendevano ogni volta che afferrava un articolo per poi appoggiarlo sullo scaffale.
Dovevano essere passati alcuni minuti, in cui Carter non si era nemmeno preoccupata di fingersi cliente; era talmente assorbita dal proprio limbo di osservazione che, quando i suoi occhi incontrarono quelli di lei, la ragazza se ne accorse solo dopo un paio di secondi.
Dio, erano così verdi.
«Ciao, posso aiutarti?»
Carter sbatté più volte le palpebre e deglutì a vuoto, completamente colta alla sprovvista. Non si aspettava certo che lui accorgesse di lei – ma d’altronde come avrebbe potuto non farlo, considerata la sua momentanea incapacità di passare inosservata? – e tantomeno che le rivolgesse la parola.
La sua voce era bassa e leggermente ruvida, il tono amichevole. Sulle labbra era disegnato un bel sorriso che bastò da solo a rimescolare lo stomaco di Carter, che in un primo momento non ebbe la minima idea di cosa rispondere.
«No, ecco, io… veramente…» balbettò, indicando con il pollice un punto a casaccio alle proprie spalle. Il ragazzo aggrottò appena le sopracciglia, senza però perdere il sorriso; sembrava quasi divertito dall’imbarazzo di Carter.
D’improvviso lei si sentì un disastro; divenne di colpo consapevole dei propri capelli più scompigliati del solito, del proprio giubbotto vecchio e scolorito, del viso struccato e dell’aria da idiota che doveva sicuramente avere stampata in faccia. Non arrossiva spesso, ma in quel momento si sentiva le guance andare a fuoco e desiderò solo che il pavimento del superstore la inghiottisse.
«Scusa, io non… lascia perdere» sbuffò Carter, imbarazzata fino al midollo, mentre il sorriso del ragazzo si allargava. Sulla sua guancia sinistra si era scavata una lunga fossetta che lo rendeva ancora più affascinante, se possibile.
Inviperita con se stessa per la pessima figura che aveva fatto, voltò le spalle e si incamminò quasi di corsa tra le corsie verso l’uscita di Tesco senza neppure guardare il suo sconosciuto un’ultima volta.
Le porte automatiche si aprirono e una ventata di aria fredda le sbatté impietosa in faccia, come a rimproverarla per essersene andata così, ma Carter non riusciva a scrollarsi di dosso la vergogna di aver rovinato in quel modo la propria ricerca. Si era fatta beccare come una stupida proprio da lui mentre lo fissava senza il minimo ritegno, e più ci pensava più avrebbe avuto voglia di mettersi ad urlare per la frustrazione.
La camminata rapida e nervosa fino alla stazione di Neasden la aiutò a scaricare almeno in parte il nervosismo che le accartocciava lo stomaco, e nella sua mente un po’ meno annebbiata dalla tensione si fece di nuovo strada il viso del suo misterioso sconosciuto.
Carter sospirò al ricordo dei suoi occhi, che l’avevano fissata con una tale spontanea intensità da lasciarla completamente inerme di fronte a lui; sospirò al ricordo delle sue labbra e del modo in cui si erano tese in un sorriso, e sospirò al ricordo della marcata fossetta sulla sua guancia sinistra.
Per quanto tentasse di rassegnarsi all’idea di aver stroncato sul nascere quell’ambiziosa illusione che si era creata da sola, non riusciva a lasciar andare l’immagine di lui. Era impressa indelebilmente sotto le sue palpebre, completa in tutta la sua abbagliante bellezza, e non accennava a voler sbiadire.
La ragazza si scompigliò i capelli sulla nuca mentre la metro le passava davanti sulla banchina e rallentava la propria corsa; quando le porte le si aprirono davanti salì sul vagone e si sedette su un sedile libero, infilandosi le cuffie e lasciando che i pensieri intrusivi si diluissero nella musica.
 
***
 
«Forse non hai proprio mandato tutto a puttane, love» ipotizzò Louis con la sua solita finezza, mentre si sistemava meglio sul letto di Carter. «Hai pur sempre detto che stava sorridendo, no?»
«Mi stava palesemente sfottendo, Lou» mugugnò lei, abbassandosi fino al mento il cappuccio della larga felpa bordeaux. «Anch’io l’avrei fatto, al posto suo. Mi mancava solo la bava alla bocca e poi sarei stata una perfetta stalker disperata»
Il ragazzo ridacchiò gettando la testa all’indietro, e da sotto il cappuccio Carter si morse il labbro inferiore per non scoppiare a ridere a sua volta.
«Voglio dire, non ti ha guardata sconvolto o qualcosa del genere» puntualizzò Louis, una volta smaltita l’ilarità. «Secondo me se gli avessi semplicemente detto che eri quella che gli si è spalmata addosso in metro ed eri lì perché sei ossessionata dalla sua mano sinistra si sarebbe fatto una risata e basta»
Carter strabuzzò gli occhi e si tolse il cappuccio dalla faccia, lanciando al suo migliore amico uno sguardo inorridito.
«Tu sei completamente fuori di testa, Louis William Tomlinson» boccheggiò, portandosi le ginocchia al petto. «Se l’avessi fatto lui avrebbe chiamato la sicurezza e mi avrebbe fatta sbattere fuori. Anzi, prima mi avrebbe chiesto i documenti e si sarebbe fatto fare un ordine restrittivo nei miei confronti»
Louis sogghignò, incrociando le gambe.
«Non so che avrei dato per assistere alla scena» sospirò con aria teatralmente estatica, guadagnandosi un pugno da parte di Carter. «Ouch, questo ha fatto male. Ma ricordati, love: un ragazzo apprezza sempre un’avance»
«Non c’è stata nessunissima avance» gemette lei, lasciando andare la testa all'indietro contro il muro. «Sono a malapena riuscita a farfugliare qualcosa prima di andarmene»
«Sei sempre stata un disastro in queste cose» commentò Louis melodrammatico, con una smorfia. «Se fossi stato al tuo posto ora quello sarebbe già nel mio letto»
«La vuoi finire?» sbottò Carter, a metà tra l’esasperato e il divertito. «Dio, sei impossibile. Da buon amico dovresti consolarmi e dirmi che andrà tutto bene, invece che affossarmi ancora di più»
«Ma io non sono un buon amico, love» puntualizzò lui, assumendo un’espressione strafottente. «Io sono il migliore»
«Ti odio, Tomlinson» sbuffò la ragazza con una risata, scuotendo la testa.
«Non ci credi nemmeno tu, Mason» replicò implacabile Louis, con il suo solito sorrisetto sulle labbra. Carter gli rivolse una linguaccia che lui non tardò a ricambiare, al che entrambi iniziarono a stuzzicarsi come due bambini.
La figuraccia di poche ore prima bruciava un po’ meno in lei, grazie all’aiuto di Louis. Quando era tornata a casa aveva subìto le urla preoccupate e nervose dei suoi genitori, a causa dell’ora abbondante di ritardo con cui era rincasata senza alcun avviso; Carter aveva semplicemente incassato a testa bassa, ammettendo placidamente le proprie colpe, e loro non avevano potuto che accettare le sue scuse.
Non capitava spesso che la ragazza si arrendesse senza combattere e difendere la propria posizione, perciò Ben e Frances Mason dovevano aver intuito che quella della loro figlia ormai ventiduenne non fosse una semplice bravata ma che dovesse invece nascondere qualcosa di più significativo per lei. Ecco perché non le avevano impedito di invitare Louis anche quella sera; sapevano bene come quel ragazzo fosse in grado di capirla e di rimetterla in sesto dopo una batosta, quindi avevano deciso di lasciare che anche quella volta fosse lui a rimettere insieme i pezzi della loro Carter.
«Perché non torni a trovarlo da Tesco, love?» domandò di punto in bianco Louis.
Erano distesi al buio sul letto di lei da una mezz’oretta, ormai, a guardare il soffitto in silenzio e a godere semplicemente della presenza confortante l’uno dell’altra.
«Neanche morta» replicò laconica Carter, aggrottando le sopracciglia. «Vuoi sul serio venirmi a trovare in neuropsichiatria? Perché è lì che mi rinchiuderanno se farò una cosa del genere»
«Non capisci proprio un cazzo» sbuffò lui, stropicciandosi gli occhi. «Sono più che sicuro che l’hai incuriosito, e che muore dalla voglia di sapere perché te ne sei andata di punto in bianco»
«Certo, come no» bofonchiò la ragazza, roteando gli occhi. «Lou, sa perfettamente che me ne sono andata perché mi vergognavo da morire per essermi fatta beccare a fissarlo»
Louis la ignorò completamente.
«Secondo te come si chiama?» le chiese con aria sognante, scuotendola per un braccio. «Da come me l’hai descritto mi immagino “Brandon”… oppure “Nathan”!»
Carter arricciò il naso, pensierosa.
«Non saprei, mi danno l’impressione di essere nomi adatti a ragazzi biondi» replicò, mordendosi poi l’interno di una guancia. «“Shane” e “Kevin” mi suonano già meglio»
«Per favore, non ti è ancora passata la fase Jonas Brothers?» la prese in giro Louis, guadagnandosi una gomitata nelle costole che lo fece tossire tra le risate. «Posso concederti “Theodore”, “Geoffrey” o “Ebenezer”»
Carter sghignazzò mentre tentava di associare quei nomi antiquati alla figura del suo sconosciuto e constatava quanto stridessero.
«Tu sei fuori di testa» ripeté, beccandosi una cuscinata in faccia che soffocò sia le parole che stava pronunciando sia le risate che seguirono.



Spazio autrice
Ciaaaao c:
Rileggere questa storia mi fa sempre un certo effetto, perché mi rivedo in Carter per parecchie cose. Ho voluto scrivere in terza persona per tentare di svincolarmi un po' di più da lei, di evitare di creare una mia fotocopia :') può essere un buon espediente, e ha fatto il suo dovere-- almeno per me hahah
Dunque, alla fine Carter ha ritrovato il suo bel ragazzo misterioso e l'ha stalkerato indegnamente... per poi farsi sgamare come una pirla :') Louis trova tutta la situazione piuttosto divertente, e personalmente lo adoro c: che succederà secondo voi? Fatemi sapere, ci si rivede giovedì ^^
Ringrazio immensamente chi ha dato una possibilità a Details aggiungendola tra le storie preferite (
MonicaX1974, Rita993 e _BradfordBadGirl_) e tra le seguite (Always_Hope e ancora
_BradfordBadGirl_) <3

Un abbraccio,
mononokehime

 

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Capitolo 3
*** Capitolo 2 ***


Da un certo punto di vista prendere la metro di mattina era anche peggio che prenderla la sera.
Innanzitutto c’era molta più gente; spesso Carter si ritrovava appiccicata a diversi corpi di estranei, e la sua ferrea selettività per le persone a cui autorizzava un contatto fisico la portava a convivere con un disgusto viscerale per tutta la durata del viaggio. Inoltre, se la sera aveva almeno la consolazione che il tragitto in metro fosse l’unica cosa che la separava da una notte di meritato riposo, di mattina non era così; una volta scesa sulla banchina di St. Johns Wood, infatti, la aspettava ancora una lunga giornata lavorativa.
La ragazza emise un sospiro di sconforto al solo pensiero, mentre tentava di mantenere quanta più distanza possibile dai due signori un po’ attempati che chiacchieravano ad alta voce proprio accanto a lei.
La metro prese a rallentare, e Carter lesse di sfuggita il nome della stazione di Kilburn sui cartelli della banchina prima di riportare la propria attenzione dallo schermo del cellulare. Selezionò la playlist che più di ogni altra era in grado di isolarla dal mondo ed avviò la riproduzione casuale; quando nelle sue orecchie si diffusero le prime note di The Holy Drinker di Steven Wilson lei sorrise appena, chiudendo gli occhi, finalmente un po’ più in pace con ciò che la circondava.
Il volume delle cuffie era talmente alto che quasi non si accorse che la metro era ripartita dopo essersi fermata a Kilburn; il brano era già iniziato da un paio di minuti, e Carter era completamente assorbita nel seguire il complesso intreccio delle varie linee melodiche irregolari e dissonanti.
Nel momento in cui la musica si interruppe di colpo la ragazza ripiombò drasticamente nella realtà, e riaprì gli occhi smarrita per capire cosa fosse successo. Quello che vide le fece sprofondare lo stomaco e seccare la gola.
Il suo sconosciuto era accanto a lei, con lo stesso sorriso furbo di poche sere prima, e teneva in mano il microfono delle cuffie di Carter – plausibilmente era stato lui stesso a mettere di proposito la musica in pausa.
Quella mano. La mano sinistra che era ormai incisa irreversibilmente nella memoria di lei si trovava ad appena un paio di centimetri dalla sua guancia.
«Una ragazza che ascolta Steven Wilson non dovrebbe avere paura di un dipendente di Tesco. La sua musica è parecchio più inquietante di me»
Carter deglutì a vuoto, ancora sbalordita. Non solo lui era sulla metro insieme a lei ad un orario improbabile, non solo era di una bellezza sfolgorante che le faceva quasi male al cuore, ma sembrava anche conoscere bene uno dei suoi artisti preferiti.
Ed era di nuovo lì impalata come una stupida davanti a lui, senza essere in grado di dire una parola.
Lui tuttavia non sembrò turbato dal suo silenzio teso; difatti ridacchiò, lasciando andare il cavetto delle cuffie e passandosi la mano tra i lunghi capelli castani.
«Forse se mi presento sembrerò meno spaventoso» scherzò poi, un lampo giocoso nei luminosi occhi verdi. «Mi chiamo Harry, e ti assicuro che non ho intenzione di mangiarti o qualcosa di simile. Questo ti può tranquillizzare?»
Harry. Non aveva mai neppure considerato questo nome, ma ora che gliel’aveva detto era come se non potesse che essere così. Era a dir poco perfetto per lui, ed il modo in cui l’aveva pronunciato aveva fatto tremare qualcosa all’altezza dello stomaco di Carter.
Quest’ultima si obbligò a recuperare un barlume di lucidità, e dopo essersi schiarita la gola riuscì a rispondere.
«I suoi lavori non sono inquietanti, sono solo tristi» puntualizzò, per poi rendersi conto del fatto che non aveva neppure risposto alla sua presentazione ma aveva semplicemente polemizzato. Avrebbe voluto picchiarsi da sola.
Harry sorrise scoprendo i denti, e la fossetta sulla guancia sinistra ricomparve.
«Questo è un punto di vista interessante» replicò, alzando le mani con aria divertita. «E dimmi un po’, io ti sembro inquietante?»
Carter si prese un paio di secondi per osservare il suo viso da vicino con gli occhi socchiusi, come se avesse preso sul serio la domanda di Harry, quindi scosse la testa.
«No, per niente» rispose infine, non riuscendo a fare a meno di sorridere a sua volta. Quella situazione assurda stranamente non la destabilizzava come avrebbe creduto; al contrario, si sentiva in qualche modo quasi a proprio agio.
«Meno male, perché ero convinto di averti spaventata a morte» commentò Harry con una risatina. «Mi sono tolto un peso»
«Non preoccuparti, non è stata colpa tua» lo rassicurò Carter, già più disinvolta. «Sono io che sono una frana quando si tratta di interagire con le persone. Per giunta ero esausta dalla giornata di lavoro, il che tendenzialmente peggiora le cose»
Harry non sembrò turbato da quell’improvviso fiume di parole, anzi; il suo sorriso si fece se possibile ancora più luminoso mentre annuiva con aria comprensiva.
«Che lavoro fai?» domandò genuinamente interessato, lasciando andare l’intero corpo contro il palo di sostegno a cui era appoggiato.
«Lavoro vicino ad Abbey Road, al Beatles Coffee Shop di St. Johns Wood» rispose lei, al che lo sguardo di Harry si illuminò.
«Wow, davvero?» chiese entusiasta, facendo ridacchiare Carter. «Non ridere, questo è molto meglio che fare i doppi turni da Tesco Extra»
«In effetti non posso darti torto» riconobbe la ragazza, le labbra ancora piegate in un sorriso spontaneo. «Il mio lavoro mi piace, sto a contatto con parecchi appassionati di musica»
«Avevo intuito che i tuoi gusti musicali fossero parecchio colti» replicò lui, indicando con il mento le cuffie nere di Carter. «Cos’altro ascolti?»
Lei si morse l’interno della guancia con aria pensierosa.
«Mah… dipende dal periodo» ammise, stringendosi nelle spalle. «Ultimamente quasi solo Steven Wilson e Porcupine Tree, ma un paio di mesi fa ero a dir poco fissata con gli Opeth. Ogni tanto recupero vecchi classici come Queen e Led Zeppelin, anche se più spesso mi piace esplorare alla ricerca di musica semisconosciuta»
Harry emise un fischio ammirato.
«Non capita spesso di trovare ragazze che sappiano apprezzare la buona musica» commentò con il suo più bel sorriso. Carter sentì le gambe farsi improvvisamente molli ed il respiro mancarle; non riusciva a credere di star davvero parlando con il suo sconosciuto, a quella distanza così irrisoria. Era quasi tentata di pizzicarsi una guancia per capire se stesse sognando oppure no.
Chiacchierarono di musica per alcuni altri minuti, quindi in prossimità di Neasden Harry alzò la testa e guardò fuori dagli ampi finestrini.
«Temo di essere quasi arrivato alla mia fermata» osservò il ragazzo, piegando leggermente il capo di lato. Carter trattenne un sospiro, strappata di colpo a quella bolla di spensieratezza, e tentò di nascondere al meglio l’espressione delusa.
«A che ora finisci di lavorare oggi?»
La domanda di Harry le piovve addosso completamente inattesa, e la ragazza alzò di scatto lo sguardo verso il suo viso. Gli occhi limpidi di lui erano inchiodati a quelli di Carter, in attesa di una risposta; poteva quasi sentirli bruciare sulla propria pelle.
«Alle quattro» riuscì a mormorare, colta alla sprovvista per l’ennesima volta. Harry annuì, le labbra distese nell’ampio sorriso che aveva il potere di far saltare qualche battito al cuore della ragazza.
La metro ormai aveva smesso di rallentare, fermandosi alla banchina di Neasden. La massa di passeggeri che dovevano scendere iniziò ad accalcarsi vicino alle porte, e quando queste si aprirono Harry riuscì a rivolgere solo un breve cenno di saluto a Carter prima di dover uscire a sua volta.
Lei restò aggrappata al palo giallo, come se con quel gesto tentasse di rimanere aggrappata anche alla consapevolezza che quell’incontro fosse avvenuto sul serio e che non fosse solo uno scherzo della propria immaginazione.
Poi, in un gesto quasi automatico, Carter guardò attraverso l’ampio finestrino di fronte a lei, incontrando lo sguardo di Harry che sorrise ed agitò una mano, quindi indietreggiò di qualche passo tenendo gli occhi inchiodati ai quelli della ragazza per poi voltarsi e dirigersi verso il sottopassaggio mentre la metro ripartiva.
 
***
 
«Sono dodici sterline e novantanove pence, signora. Vuole un sacchetto?»
Carter sospirò quando la donna a cui aveva appena venduto una t-shirt se ne andò senza ringraziare né salutare. Non riusciva a capire perché per le persone fosse così difficile usare il minimo grado di cortesia spiccia con i dipendenti dei negozi; ogni cliente di questo tipo contribuiva immancabilmente ad aggiungere un velo di malumore dentro di lei, portandola a fine giornata a sentirsi oppressa dal peso di tutta la maleducazione con cui aveva avuto a che fare.
Gli orologi analogici esposti in vetrina indicavano appena le tre e un quarto del pomeriggio; mancavano ancora tre lunghi quarti d’ora alla fine del suo turno lavorativo, e la ragazza era parecchio più assente del solito. In genere il suo lavoro non le dispiaceva, a dispetto della scortesia della gran parte dei clienti; spesso le capitava di incontrare nostalgici che avevano vissuto in prima persona il successo dei Beatles, e con loro talvolta intratteneva piacevoli discorsi scambiando aneddoti e curiosità che poi riciclava con altri clienti meno esperti per invogliarli all’acquisto.
Tuttavia quella giornata era trascorsa come in un limbo nebuloso, a causa dell’incontro mattutino con Harry sulla metropolitana. Non riusciva a smettere di pensare al suo sorriso nel momento in cui lei aveva alzato lo sguardo quando la musica si era interrotta; le era sembrato un sorriso quasi trionfante e soddisfatto, e si era chiesta più volte il perché di quell’impressione.
Harry era un personaggio decisamente particolare e complesso da decifrare. Mentre parlavano i suoi occhi verdi e luminosi erano rimasti fissi in quelli di Carter, come a non volersi perdere neppure una parola della loro conversazione; era raro trovare persone che le dedicassero una tale incondizionata attenzione, e se da un lato questo poteva intimorire dall’altro era indubbiamente lusinghiero ed affascinante.
Non parlava a vanvera, anzi: sembrava che ogni sua parola fosse rivestita di un’attenzione quasi studiata, di una consapevolezza consolidata, e la sua parlata lenta vi si accompagnava alla perfezione. Avevano parlato di musica per quasi tutto il viaggio, ed i suoi interventi erano stati sempre precisi e puntuali; era evidente che conosceva bene l’argomento, e questo non aveva fatto che aggiungere punti a vantaggio del proprio posto nella classifica di Carter – non che non fosse già in un’ottima posizione, per la verità.
Il tintinnio del grappolo di campanellini appesi vicino alla porta riportò alla realtà la ragazza, che alzò di scatto lo sguardo pronta ad accogliere il cliente che stava entrando.
I suoi occhi incontrarono inaspettatamente quelli verdissimi di Harry, che non mancò di sfoderare il suo sorriso mozzafiato nel constatare che effettivamente si trovava nel posto giusto. Quando Carter si fu ricordata come respirare ricambiò il sorriso, mentre il ragazzo si avvicinava al bancone.
«Non mi aspettavo di vederti qui» ammise lei con sincerità, al che Harry ridacchiò divertito passandosi una mano tra i lunghi capelli sciolti.
«Credevo fosse palese, visto che ti avevo chiesto a che ora avresti finito di lavorare» replicò, appoggiandosi all’esigua superficie libera del bancone. «E pensare che non so nemmeno il tuo nome»
«Carter» rispose lei, con una risatina un po’ imbarazzata che sapeva di scuse. «Mi chiamo Carter»
Harry annuì, come a voler registrare il suo nome nella propria mente con la solita metodica attenzione che lo contraddistingueva, quindi prese a guardarsi intorno affascinato.
Esaminò le decine di prodotti esposti sugli scaffali, che arrivavano fino al soffitto per ottimizzare lo spazio ridottissimo del locale; ogni tanto prendeva in mano un libro che sfogliava con cura, sorridendo o corrugando le sopracciglia a seconda di quello che leggeva, oppure una tazza con la stampa della famigerata copertina di Abbey Road, o ancora cd e vinili.
Sembrava particolarmente affascinato dai vinili.
«Vuoi che ti prepari qualcosa?» propose Carter, che da dietro le alte macchine per il caffè non aveva smesso un secondo di guardarlo. «Espresso, americano, cioccolata calda?»
Lui si voltò verso di lei, con una copia di Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band ancora tra le mani ed il suo bel sorriso sulle labbra.
«Una cioccolata la berrò volentieri» accettò annuendo, tornando poi ad esaminare la copertina dell’album. «Dio, questo è probabilmente il disco più bello che abbiano mai pubblicato»
Carter ridacchiò mentre mescolava il preparato al cacao con il latte.
«Io preferisco Help!, ma è un’opinione di parte» confessò, stringendosi nelle spalle. «Sono praticamente cresciuta ascoltandolo; mio papà mi cantava sempre I’ve just seen a face quando ero piccola»
Il sorriso di Harry si allargò, e Carter per un secondo si incantò ad osservare la forma della fossetta sulla sua guancia sinistra. Tuttavia si riscosse quasi subito, e sollevò la lattiera in acciaio infilandovi la cannuccia del vapore della macchinetta.
 
I’ve just seen a face
I can’t forget the time or place
Where we just met…
 
La ragazza si bloccò nel riconoscere le parole che Harry stava canticchiando. Gli lanciò un’occhiata furtiva, notando che era tornato ad esaminare la copertina del vinile senza però smettere di cantare sottovoce tra sé e sé. Aveva una voce così accattivante che Carter sentì la bocca improvvisamente secca, mentre lo ascoltava rapita con la lattiera ancora in mano.
Per fortuna pochi secondi dopo la porta si aprì con il consueto tintinnio di campanelli, obbligando Carter a tornare alla realtà; una coppia con un bambino era entrata nel negozio ed aveva subito iniziato a curiosare tra gli scaffali. La ragazza versò la cioccolata in una tazza bianca porgendola ad Harry, che sorrise nel ringraziarla e posò alcune monete sul bancone prima di tornare a girare per il minuscolo locale con il naso per aria.
Era una sensazione stranamente piacevole far scivolare lo sguardo lungo la sua figura longilinea, catturare la sua espressione concentrata – resa quasi impenetrabile dalle sopracciglia appena aggrottate – e tentare di indovinare con quanta forza le labbra di lui fossero premute l’una contro l’altra.
Il tempo sembrò quasi scorrere su binari diversi dal solito, perché la fine del turno di Carter arrivò molto prima di quanto lei stessa avrebbe creduto.
La porta del Beatles Coffee Shop si spalancò ancora, ma dalla forza sproporzionata con cui sbatté fu sufficiente alla ragazza per capire di chi si trattasse.
«Ehi, Carrie! Grazie al cielo ce l’ho fatta ad arrivare in tempo, pensa che il bus ha forato lungo la strada e siamo dovuti scendere tutti. Ho fatto la strada più o meno di corsa»
Carter ridacchiò suo malgrado, ignorando il proprio odio per quello stupido soprannome che la sua collega Baylee si ostinava ad affibbiarle.
«Solo a te succedono queste cose, B» commentò in risposta con un sogghigno, guadagnandosi una linguaccia. «Non è stato un mese fa che l’autista del bus su cui eri salita si è messo a litigare con un passeggero e sei arrivata con più di venti minuti di ritardo?»
«Due mesi» sbuffò Baylee, togliendosi il giubbotto ed infilandolo sotto al bancone. «E mi pare di averti già offerto abbastanza milkshake al cioccolato per rimediare, anche se non era colpa mia»
Carter alzò le spalle con fare casuale mentre recuperava il proprio giubbotto, e appena prima che iniziasse ad infilarlo Baylee la prese per un braccio e la fece voltare verso il muro, avvicinandosi al suo orecchio.
«Hai visto quella specie di dio greco con i capelli ricci e gli occhi verdi?» sussurrò elettrizzata, al che Carter trattenne una risatina. «Non so che darei per sapere se ce l’ha lungo come i suoi capelli»
«Bayles!» replicò lei a mezza voce, a metà tra l’incredulo ed il divertito. «Non fare l’idiota, ti sente»
«Macché, è troppo concentrato su quella stupida biografia di George Harrison per badare a me» minimizzò Baylee, tornando a lanciargli un’occhiata da dietro la propria spalla con un sospiro. «Ma poi, che sto a pensare? Figurati se uno così sexy è pure single»
Carter corrugò la fronte, un’ombra di dubbio che la rannuvolò spiacevolmente. Non aveva mai nemmeno preso in considerazione quest’eventualità, e la cosa la infastidiva parecchio oltre che piantarle una stilettata di prematura delusione nello stomaco.
La sua collega doveva aver percepito il suo cambio di umore perché fece per dire qualcosa, ma quando Carter si infilò in fretta il giubbotto ed uscì da dietro il bancone si interruppe con il labbro inferiore stretto tra i denti.
«Buon lavoro, B» la salutò la ragazza, agitando una mano. «Ci vediamo domani!»
Harry aveva posato il libro e seguito i suoi movimenti negli ultimi secondi, rivolgendole un caldo sorriso quando i loro sguardi si incrociarono. Con un cenno del capo invitò Carter ad uscire con lui, e la porta del Beatles Coffee Shop si richiuse dietro di loro con un tintinnio di campanelli lasciando Baylee a bocca spalancata dietro al bancone.
 
***
 
«Dove stiamo andando, esattamente?»
Harry prese un sorso dal proprio bicchiere di carta, restando in silenzio diversi secondi come se stesse riflettendo profondamente su cosa rispondere.
«Non ne ho la più pallida idea» replicò infine con semplicità disarmante. Carter non poté fare a meno di scoppiare a ridere alla sua aria platealmente menefreghista, innescando subito un ampio sorriso sulle labbra di lui.
Stavano camminando da circa mezz’ora dopo aver lasciato St. Johns Wood; si erano fermati solo da Starbucks perché Harry aveva espresso il desiderio di un frappuccino, ed aveva voluto offrire un milkshake al cioccolato a Carter nonostante le sue proteste. La ragazza si sentiva a disagio quando gli altri spendevano soldi per lei, ma sotto sotto non poteva fare a meno di gongolare perché Harry a quanto pare aveva colto dalla conversazione con Baylee che le piacevano i milkshake al cioccolato, e se n’era ricordato quando erano arrivati davanti alla famosa caffetteria.
«Sei terribilmente disorganizzato per aver scelto tu di monopolizzare il mio tempo libero» lo provocò Carter, al che Harry sollevò le sopracciglia con un sorriso sorpreso.
«Nessuno ti ha obbligata a seguirmi» si difese prontamente, con aria furba. «Se sei qui vuol dire che dopotutto non ti dispiace»
La ragazza scosse la testa con una risata ed alzò le mani in segno di resa.
«Touché»
Continuarono a camminare a passo tranquillo per alcuni minuti, prendendo di tanto in tanto qualche sorso delle loro bevande, finché la voce di Harry spezzò il silenzio.
«Adesso me lo puoi dire perché quella sera da Tesco sei scappata così?»
A quelle parole Carter strabuzzò gli occhi ed il milkshake che stava bevendo le andò di traverso, portandola a tossire ripetutamente. Il ragazzo ridacchiò, aspettando che la tosse di lei si calmasse per avere una risposta.
«Non so di cosa stai parlando» bofonchiò Carter dopo essersi ripresa, per nulla intenzionata a dissotterrare quell’evento imbarazzante. Harry arricciò le labbra in una smorfia, piegando la testa di lato.
«Lo sai perfettamente, invece» insistette, socchiudendo gli occhi. «Perché ti saresti quasi soffocata con un sorso di milkshake, altrimenti?»
Lei sospirò a denti stretti, stringendo un po’ di più la presa sul bicchiere di carta.
«È solo che non mi aspettavo che tirassi fuori l’argomento» tentò di giustificarsi, ma guadagnò solo una risata trionfante da parte di Harry.
«Quindi ammetti di sapere di cosa sto parlando» tornò alla carica implacabile, lanciandole un’occhiata furba.
Era un osso duro.
«Sì, so perfettamente di cosa stai parlando» si arrese Carter, roteando gli occhi. «Perché ti interessa tanto?»
Harry alzò le spalle con fare casuale, senza però perdere il sorriso.
«Considerala semplice curiosità» tergiversò, ammiccando nella sua direzione. «Avanti, sputa il rospo»
Carter serrò le palpebre, consapevole del fatto che lui non avrebbe desistito fino a quando non avrebbe ottenuto ciò che voleva, e prese un altro sospiro. D’improvviso si decise a raccontargli la verità; dopotutto aveva dato per scontato di non ritrovarlo nemmeno più, perciò se lui se la fosse data a gambe non sarebbe stata una gran perdita.
Giusto?
«Ok, ascolta» espirò Carter, massaggiandosi una tempia. «Te lo dirò, e tu sarai liberissimo di dileguarti all’istante. Solo… non metterti a ridere, per favore. D’accordo?»
Harry si sforzò a fatica di ricacciare indietro il sorriso per assumere un’espressione più seria, quindi annuì e con un cenno la invitò a cominciare. La ragazza sospirò per l’ennesima volta, mordendosi l’interno di una guancia, poi si fece coraggio e prese a raccontare.
«Una sera di qualche giorno fa ero in metro mentre tornavo da lavoro. Ad un certo punto la metro ha frenato, io sono caduta all’indietro e tu mi hai presa al volo. Non ho fatto in tempo a girarmi perché sei sceso subito dopo, e per qualche motivo assurdo non riuscivo a smettere di chiedermi che faccia avessi; per questo, quando la sera dopo ti ho visto scendere a Neasden, ti ho seguito fino da Tesco. Non mi aspettavo che mi rivolgessi la parola, perciò appena l’hai fatto sono andata nel panico e sono scappata»
L’espressione di Harry si era fatta sempre più sbalordita secondo dopo secondo, mentre Carter parlava; lei aveva evitato il suo sguardo per tutto il tempo, perciò quando tornò a posare il suo sguardo sul suo viso dopo aver finito di raccontare si sentì quasi mancare per l’aria allibita del ragazzo di fronte a sé.
Durò pochi secondi, tuttavia, perché Harry scoppiò a ridere gettando la testa all’indietro e Carter deglutì a vuoto, sgomenta e leggermente spaesata. La lunga fossetta sulla guancia sinistra di lui era più marcata che mai, e forse fu questo che le permise di non rimanere indispettita dalla sua ilarità.
«Ti avevo chiesto di non ridere» borbottò comunque, abbassando lo sguardo e calciando via un piccolo sasso per darsi un contegno. «Così è ancora più imbarazzante»
«È vero, ti chiedo scusa» replicò Harry con gli occhi che brillavano divertiti, rendendo palese il fatto che in realtà non fosse affatto pentito del proprio comportamento. Carter sbuffò, riprendendo a camminare, e lui la seguì prontamente.
«Così eri tu quella che avevo acchiappato in metro?»
La ragazza annuì rassegnata, inghiottendo la vergogna che la divorava da dentro e ringraziando il Cielo che Harry non le avesse dato della stalker.
«E sei stata così ossessionata dal pensiero che non hai potuto fare a meno di seguirmi?»
«Di’ un po’, ma lo fai apposta?» chiese esasperata Carter, fermandosi e girandosi verso di lui. «A questo punto avrei preferito che tu scappassi»
Harry ridacchiò, piegando la testa di lato nel guardarla.
«Non credo proprio» la sfidò, le mani sui fianchi, mentre sulle sue labbra si disegnava il solito sorriso furbo. «Sembri piuttosto contenta che io sia ancora qui»
Carter aprì la bocca per replicare ma la richiuse subito dopo, rendendosi conto che Harry aveva fatto centro. Era indubbiamente sollevata che lui fosse rimasto e che sembrasse semplicemente divertito dalla situazione; questo le fece venire in mente ciò che le aveva detto Louis qualche sera prima, quando era tornata a casa dopo aver seguito Harry da Tesco.
«Inizia a darmi sui nervi il fatto che tu abbia sempre ragione» mugugnò, senza però riuscire ad evitare che gli angoli delle sue labbra si piegassero verso l’alto. L’espressione del ragazzo si fece trionfante, e prima che il cuore di lei sprofondasse ancora un pochino nel suo petto alla vista di quel viso sorridente si incamminarono di nuovo senza una meta, lasciandosi alle spalle quel discorso forse scomodo ma carico di inconsapevoli premesse.



Spazio autrice
Ciao gente <3
Eccoci di nuovo su questa piccola storia.
Che dire... Harry è rispuntato fuori dal nulla in metro, nel modo più semplice del mondo c: ormai io so a memoria praticamente tutte le fermate della Jubilee, ma per chi avesse ancora le idee confuse l'ordine delle fermate da casa di Carter al Beatles Coffee Shop - escluse quelle che non ci interessano - è questo: Wembley (dove abita Carter) > Neasden (dove c'è il Tesco in cui lavora Harry) > Kilburn (dov'è salito Harry)> St. Johns Wood (dove lavora Carter). Quindi nello scorso capitolo Carter non l'aveva visto salire perché lui era entrato nella metro dopo di lei [ricordate che il senso di marcia era opposto] ed era salito un vagone più indietro :')
Concludo il mio blaterare che probabilmente non interessa a nessuno hahah ^^ grazie di leggermi, a giovedì <3

Un abbraccio,
mononokehime

 

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Capitolo 4
*** Capitolo 3 ***


Carter odiava ancora prendere la metro.
Eppure da quando aveva conosciuto Harry la situazione era decisamente migliorata. Talvolta i due si incontravano sulla metro e facevano il viaggio insieme – Harry provava a farlo sembrare casuale, e Carter si sforzava di non mostrargli che se n’era accorta praticamente fin dalla prima volta.
Erano solo quattro fermate, ma in quel quarto d’ora scarso chiacchieravano avidamente. Perlopiù parlavano di musica, anche se talvolta il discorso si spostava sui mille interessi di Carter; Harry sembrava non stancarsi mai di sentirla parlare di ciò che la affascinava, che si trattasse dell’ultimo film di Nolan o di qualche vecchio libro di poesie che aveva trovato in biblioteca.
Il tempo a loro disposizione si esauriva drasticamente più in fretta degli argomenti che emergevano uno dopo l’altro; quel giorno Harry sembrò non voler lasciare a metà il discorso sul degrado del panorama musicale contemporaneo che stava infiammando entrambi, perché lanciò una proposta che spiazzò completamente la ragazza di fronte a lui.
«Ti va di fermarti a cena da me, stasera?» chiese a bruciapelo, con la sua solita spontaneità disarmante. «Ordiniamo un paio di pizze, nulla di particolare. Per una volta non devo fare il turno di notte da Tesco»
Carter deglutì a vuoto mentre la metro rallentava accanto alla banchina di Neasden; percepì la propria testa annuire da sola quando il treno si arrestò sui binari, e riuscì a malapena a registrare l’ampio sorriso che si disegnò sul volto di Harry prima che le porte si aprissero ed il ragazzo la salutasse con la mano per poi scendere alla fermata.
Lei lo seguì con lo sguardo come si era ormai abituata a fare, quindi prese un sospiro appena tremante ed estrasse il cellulare dalla tasca del giubbotto. Cercare nella rubrica il numero di Louis ed avviare la chiamata fu un gesto automatico.
La linea squillò libera per un tempo che a Carter sembrò infinito prima che l’amico rispondesse.
«Porca puttana, Mason, dovresti saperlo ormai che non puoi svegliarmi alle otto di mattina e sperare anche che io non mi incazzi»
«Sono quasi le nove, Lou» puntualizzò lei con una risatina, scuotendo la testa. «E ho bisogno di parlarti»
«Ti ascolterò solo se mi dirai che il mondo sta per esplodere o che Walkers ha smesso di produrre patatine»
Carter sbuffò divertita al tipico atteggiamento melodrammatico di Louis; il ragazzo viveva con i genitori e lavorava solo nel weekend, pertanto per lui dormire fino a tardi durante la settimana equivaleva ad una sorta di rituale sacro.
«Harry mi ha invitata a cena da lui stasera»
Ci furono alcuni istanti di silenzio, tantoché Carter guardò il display del telefono per assicurarsi che non fosse caduta la linea; tuttavia presto la voce di Louis tornò ad echeggiare più squillante di prima.
«Che cazzo aspettavi a dirmelo??» tuonò, facendo ridere l’amica. «Love, questa è un’emergenza. Ti sei fatta la ceretta? Hai il tempo per farti una doccia e sistemare quei quattro spaghetti che hai in testa? Guarda che io stasera devo uscire con Gabe, non riuscirò a venire da te per darti una mano a prepararti!»
«Frena, Lou» lo bloccò lei, non potendo fare a meno di sorridere. «Mi ha solo invitata a mangiare una pizza»
«Certo, come no» replicò sarcastico Louis con uno sbuffo. «Sai meglio di me che preferirebbe che tu mangiassi il suo…»
«Louis!» soffiò Carter, sentendosi divorare dall’imbarazzo. «Non succederà niente del genere, sei impazzito?»
«Farò finta di crederti, love» tagliò corto il ragazzo, probabilmente roteando gli occhi. «Ma nella vita quello che conta è arrivare preparati. Dai retta allo zio Tom, per una volta»
Carter masticò un’imprecazione tra i denti, passandosi il telefono da una mano all’altra mentre usciva dalla metro che nel frattempo si era fermata a St. Johns Wood.
«Ti richiamo dopo, ora devo andare al lavoro» mormorò, tentando nel frattempo di fare slalom tra i passeggeri che andavano e venivano per il sottopassaggio. «Ti voglio bene, Lou»
«Anche io, love. Chiamami su FaceTime mentre ti prepari, così proverò a farti evitare di indossare quegli orrendi felponi di cui sei ossessionata»
«Scusa tanto se per me risvoltini e magliette a righe vanno bene solo a Venezia» lo rimbeccò lei indispettita, guadagnandosi una risata dal suo migliore amico che riattaccò dopo averla salutata.
Carter ripose il telefono nella tasca del giubbotto con un sospiro, percorrendo controvoglia gli ultimi metri all’uscita della stazione verso il Beatles Coffee Shop. Alzò la saracinesca metallica all’ingresso ed aprì la porta, accendendo subito tutte le luci per annunciare l’apertura del negozio; alcune persone iniziarono ad avvicinarsi e ad entrare dietro di lei, prendendo subito a guardarsi intorno.
Le ore trascorsero insolitamente rapide, senza particolari intoppi né clienti problematici, ed alle quattro in punto Baylee spalancò la porta con il solito chiassoso entusiasmo che la contraddistingueva.
«Sei puntualissima, B» la accolse Carter, sogghignando con fare provocatorio. «Che si festeggia?»
«Questa battuta non faceva ridere nemmeno all’inizio, figuriamoci dopo la milionesima volta che l’ho sentita» replicò Baylee con una smorfia, togliendosi il cappotto.
«Vuol dire che passerò la notte a studiare un’alternativa» ribatté prontamente Carter, chinando il capo in un finto gesto reverenziale. La sua collega si lasciò andare ad una risatina mentre scuoteva la testa, quindi lanciò un’occhiata inquisitoria all’amica.
«Sembri parecchio di buonumore» commentò, socchiudendo le palpebre. «Fammi indovinare, scommetto che è successo qualcosa di bello con il tuo dio greco dagli occhi verdi»
Carter alzò le spalle con fare innocente, ma il leggero sorriso che le era rimasto sulle labbra la diceva lunga su quanto Baylee avesse ragione. Quest’ultima difatti emise una breve risata, tirando un lieve pugno sulla spalla della collega.
«Avanti, Carrie, racconta!» la spronò, impaziente di conoscere i dettagli. «Vi siete baciati? Avete fatto sesso? Ti ha chiesto di sposarlo a Parigi con i fuochi d’artificio rosa alle vostre spalle?»
«Idiota!» la rimbeccò Carter, spalancando gli occhi e guardandosi rapidamente intorno per assicurarsi che non ci fosse nessuno ad ascoltare. «Niente di tutto questo, mi ha solo invitata a cena a casa sua»
Baylee mise su un’espressione delusa che nonostante tutto fece sorridere Carter.
«Oh, eddai, neanche un bacio?» si lamentò, aggrappandosi al braccio della ragazza e scuotendolo. «Stasera è la tua occasione, Carrie! Fagli ricordare che nei pantaloni non ha un Teletubbies!»
«Tu sei fuori di testa» replicò Carter, scoppiando a ridere mentre si liberava dalla presa. «E non chiamarmi Carrie, lo sai che mi dà sui nervi»
«Ti fossilizzi sempre sui dettagli più irrilevanti» sentenziò implacabile Baylee, afferrando uno straccio umido e passandolo su una macchia di latte della macchina per il caffè. «Il fatto che ti abbia invitata a casa sua significa che vuole passare del tempo con te, da soli, altrimenti avrebbe continuato a vederti sulla metro come nelle ultime settimane. E non c’è bisogno che ti dica cosa si può fare quando si è da soli, giusto?»
Carter sbuffò sorridendo mentre si infilava il giubbotto, anche se dentro di sé le parole di Baylee l’avevano completamente scombussolata. La ragazza poteva avere ragione, così come Louis; tuttavia non voleva nemmeno pensare alle implicazioni di quelle congetture. Per questo salutò in fretta la collega, e dopo essersi infilata le cuffie tirò a sé la porta d’ingresso uscendo dal piccolo locale mentre avviava in riproduzione casuale la sua playlist preferita dell’ultimo periodo.
 
She said luck is what you make it
You just reach out and take it
 
Scendeva le scale che portavano alla banchina a passo svelto, quasi con impazienza febbrile, lo scalpiccio delle suole degli anfibi coperto dagli sferzanti accordi della chitarra acustica nelle cuffie.
 
She said nothing ever happens
If you don’t make it happen
 
La metro si fermò davanti a lei un paio di minuti dopo, e Carter entrò cercando subito con lo sguardo un posto libero dove sedersi. Non sarebbe riuscita a stare in piedi a lungo; le gambe sembravano quasi cederle per l’eccitata agitazione che aveva improvvisamente iniziato ad invaderla.
 
But after a while
You realize time flies
And the best thing you can do
Is take whatever comes to you
‘Cause time flies…
 
Carter si morse l’interno di una guancia mentre i suoi occhi seguivano passivamente le sagome confuse che scorrevano rapide fuori dai finestrini, i contorni resi indefiniti dalla velocità della metro. Sembravano quasi i suoi pensieri, così caotici e sfuggenti da non riuscire ad afferrarli prima che scivolassero via; ad un certo punto li lasciò semplicemente liberi di intrecciarsi l’uno con l’altro, allacciati da un’unica costante comune.
Harry era ormai un chiodo fisso, piacevolmente presente, invariabile, inesorabile. Spadroneggiava nella sua mente con la sua caratteristica disinvoltura, e lei era stata irrimediabilmente soggiogata da quel fascino così accattivante e spontaneo.
Non riusciva a spiegarsi come fosse possibile l’apparente interesse di Harry nei suoi confronti; Carter non aveva mai avuto un’opinione particolarmente alta di sé, ed essendo una persona piuttosto chiusa aveva un numero davvero ristretto di amici che potesse considerare tali. Gli altri la consideravano in genere troppo sofisticata, bizzarra, dai gusti eclettici ed un carattere insopportabilmente perfezionista; cosa spingesse Harry a voler ridefinire i confini della comfort zone di lei, giorno dopo giorno, non riusciva proprio a capirlo.
Era così assorta nei propri pensieri che mancò la propria fermata e fu costretta a scendere a Kingsbury per poi aspettare la metro in direzione opposta; imprecando per la propria distrazione spostava nervosamente il peso da un piede all’altro, agitata per il tempo che stava perdendo oltre che per la cena incombente.
D’un tratto un dubbio le attraversò la mente come un lampo; non aveva idea di dove abitasse Harry, e per giunta non si erano neppure accordati per un orario né per un luogo d’incontro. Come avrebbe fatto a raggiungere casa sua? Lui si sarebbe dimenticato della cena?
Quella prima ondata di panico si dissipò almeno in parte quando si ricordò di avere il numero di telefono di Harry; lui gliel’aveva dato quasi per scherzo, diversi giorni prima, ma Carter non aveva mai avuto il coraggio di scrivergli né di chiamarlo. Tuttavia in quel momento l’esitazione non era neppure qualcosa da prendere in considerazione, ed alla ragazza venne quasi da ridere per essersene dimenticata in una situazione del genere.
Prima di cambiare idea scavò nella rubrica del telefono fino a trovare il contatto di Harry, che selezionò per avviare la chiamata. Si portò il cellulare all’orecchio, il labbro inferiore stretto tra i denti mentre contava gli squilli della linea libera.
«Pronto?»
«Ciao Harry, sono… sono Carter» balbettò, stranamente a disagio. All’altro capo della linea sentì la risata sommessa del ragazzo, e le si strinse il cuore al pensiero di non poterlo guardare mentre rideva.
«Finalmente sono riuscito a farti usare il mio numero di telefono» commentò lui, con tono giocosamente beffardo. «Avevo quasi paura che pur di non chiamarmi avresti fatto finta di dimenticarti del mio invito»
«Aspetta, l’hai fatto apposta a non dirmi dove incontrarci?» inquisì Carter, colpita da quell’improvvisa rivelazione e trovandone una conferma nella risatina di Harry che seguì. «Sei assurdo, non ho parole»
«Intanto ha funzionato» replicò trionfante, al che Carter alzò gli occhi al cielo sorridendo. «Riesci a farti trovare alla fermata di Kilburn intorno alle sette e mezza? Ti aspetterò lì»
La ragazza si passò il telefono da una mano all’altra mentre entrava nella metro che si era appena fermata di fronte a lei, aggrappandosi ad un palo per non venire sbalzata all’indietro quando il mezzo ripartì.
«Certo, alle sette e mezza a Kilburn» ripeté come un automa, reprimendo l’impulso di esultare come una bambina. «Ci vediamo lì»
«A dopo... ah, e grazie del numero!»
Idiota”, avrebbe voluto rispondergli lei, ma Harry aveva già riattaccato. Trattenne un sorriso mentre scuoteva appena la testa, tornando subito a guardare fuori dal finestrino per assicurarsi di non perdere di nuovo la fermata.
Una volta arrivata a Wembley si mise quasi a correre, percorrendo in tempo record il centinaio di metri che la separavano da casa. Erano ormai lei cinque di pomeriggio, e le restavano solo due ore e mezza di tempo per prepararsi ed arrivare a Kilburn; non appena fu entrata in camera gettò la borsa sul letto e tirò fuori il cellulare dalla tasca del giubbotto, quindi aprì FaceTime e contattò Louis.
Il viso dell’amico comparve poco dopo sullo schermo, e quando Carter lo vide si sentì in qualche modo rassicurata da quella presenza familiare seppure solo virtuale.
«Ehi, Lou» sospirò, sistemando il cellulare su uno scaffale della libreria all’altezza del proprio viso. «Sono appena tornata a casa, ho pochissimo tempo e sono nel panico»
«Fai bene ad esserlo, love» replicò impietoso Louis, passandosi una mano sul mento. «Dio, è la qualità dell’immagine che fa schifo oppure hai un brufolo enorme sulla guancia?»
Carter impallidì e si portò freneticamente le mani sul viso, tastandolo ovunque per trovare conferma delle parole del ragazzo.
«Dove? Dove…?» blaterava confusamente, correndo verso il lungo specchio accanto alla porta della camera. «Louis, fatti curare! Non ho un cazzo sulla guancia!»
La risata di Louis echeggiò per tutta la stanza, al che Carter esasperata tornò a fronteggiare lo schermo del telefono.
«Ci sei cascata in pieno, love» sghignazzò, godendosi lo sguardo furente dell’amica. «Prenderti per il culo è così facile che quasi non c’è gusto»
«Vaffanculo!» sbottò lei, i nervi a fior di pelle che non la facevano stare ferma un secondo. «Ci mancano solo i tuoi scherzi del cazzo per farmi passare l’ansia. Mi dai una mano a trovare qualcosa da mettermi o hai intenzione di continuare a ridere come uno stronzo?»
«Okay, okay, rilassati» replicò divertito Louis, alzando le mani. «Apri quell’armadio e fammi vedere qualsiasi cosa non somigli ad una felpa oversize»
Ci volle quasi un’ora, sommata ad una quantità spropositata di imprecazioni da parte di entrambi, prima che Carter trovasse qualcosa da mettere che l’avrebbe fatta sentire a proprio agio; dopo che si fu fatta una rapida doccia e sistemata alla bell’e meglio i capelli Louis la osservò disgustato mentre si infilava un paio di jeans neri appena strappati sul ginocchio, una t-shirt aderente a maniche lunghe dello stesso colore con stampata la silhouette del viso di Jimi Hendrix ed una camicia in flanella a quadri rossi e neri.
«Come sto?» chiese speranzosa, facendo un giro su se stessa sotto lo sguardo del ragazzo.
«Benissimo, se stai andando alla serata grunge dell’osteria di paese» commentò velenoso, beccandosi un’occhiataccia da parte di Carter. «Non fare quella faccia, love. Hai un appuntamento con il ragazzo per cui perdi le bave dal primo momento che l’hai visto e ci vai vestita come una tossicodipendente?»
«Di sicuro non ho intenzione di presentarmi a casa sua con vestito e tacchi, che per inciso non ho nemmeno» protestò lei, mostrandogli il dito medio. «Ora riattacco, sono in ritardo»
«Se non arrivi in tempo puoi sempre dirgli che eri entrata in una discarica per cercare dei vestiti da mettere, e che ti ci sei persa dentro» malignò con un ghigno. «Divertiti, love, e ricordati di fargli mettere il preservativo se scopate»
«Noi non… ah, vaffanculo, mi ha riattaccato il telefono in faccia» borbottò, recuperando il cellulare e gettandolo nella borsa. Si sentiva inspiegabilmente agitata, nonostante conoscesse Harry ormai da qualche settimana e si sentisse del tutto a proprio agio in sua compagnia; dentro di sé non vedeva l’ora di passare un’intera serata con lui, ma all’esterno era un concentrato di ansia e paranoie infondate.
Mentre camminava a passo svelto verso la stazione, dopo essersi infilata le sue inseparabili Dr Martens ed essere uscita di casa, non faceva che sistemarsi il giubbotto e passarsi le mani tra i capelli convinta di essere un completo disastro. Non aveva nemmeno provato a truccarsi, non essendone minimamente capace; l’unica sua concessione alla vanità era stata un velo di mascara sulle ciglia – il solo prodotto di cosmesi che era in grado di usare senza sembrare uscita da un laboratorio di pittura facciale per bambini.
Fortunatamente la metro non la fece aspettare; il viaggio per Kilburn le sembrò comunque interminabile – nonostante durasse meno di dieci minuti – dal momento che per la fretta si era dimenticata a casa le cuffie e non poteva neppure ascoltare musica.
Quando la voce registrata annunciò l’imminente arrivo alla fermata di Kilburn, Carter si sentì rimescolare completamente; cercando a fatica di controllare il batticuore martellante si posizionò davanti alle porte in modo da non venire spintonata dai passeggeri all’uscita. Mentre il treno rallentava intravide Harry sulla banchina, i capelli raccolti e le mani nelle tasche del lungo cappotto nero che gli fasciava il corpo come se gliel’avessero cucito addosso. Era di una bellezza quasi impossibile da sopportare, anche solo vedendolo di sfuggita dai finestrini del treno ancora in movimento.
La ragazza deglutì quando le porte si aprirono, ed espirò la poca aria che le era rimasta nei polmoni in una nuvoletta di condensa che si liberò nella sera gelida di novembre. Il suo sguardo si inchiodò subito in quello di Harry, che le sorrise e si incamminò nella sua direzione.
«Buonasera» la salutò, gli angoli delle labbra inclinati verso l’alto in un’espressione giocosamente canzonatoria. «Com’è andato il viaggio?»
«Esattamente come tutti i giorni» replicò lei con una smorfia, ma senza riuscire ad impedirsi di sorridere subito dopo. «Tu comunque sei scandaloso, non riesco ancora a credere che hai usato quel trucchetto da quattro soldi per avere il mio numero»
Harry ridacchiò mentre si incamminava verso il sottopassaggio con Carter al proprio fianco.
«Sei tu che mi hai praticamente costretto a farlo» si difese, lanciandole un’occhiata innocente. «Non mi hai mai scritto da quando ti ho dato il mio»
«Perché avrei dovuto?» lo provocò Carter, piegando la testa di lato. Lui esibì un’espressione sorpresa per l’insolita intraprendenza della ragazza, ma questo non gli fece perdere il sorriso divertito che tornò a disegnare una lunga fossetta sulla guancia sinistra mentre riportava lo sguardo davanti a sé.
«Perché lo volevi almeno quanto lo volevo io» affermò con noncurante sicurezza, senza togliere gli occhi dalla strada. Carter deglutì a vuoto, le guance in combustione ed il petto stretto in una morsa che le faceva mancare il respiro; alzò il viso verso quello del ragazzo che le camminava accanto, trovandolo placidamente disteso. Il suo cuore batteva così forte che temeva quasi che lui potesse sentirlo.
Proseguirono lungo la A5 per un altro paio di minuti in silenzio, finché ad un certo punto Harry piegò a sinistra per entrare nell’ampio giardino comune di un enorme complesso di appartamenti. Carter lo seguì, il naso sollevato verso la struttura che doveva contenere diverse decine di monolocali; quando entrò insieme a lui all’interno perse il conto delle scale, dei corridoi e dei piani che li portarono di fronte ad una porta color crema su cui era affissa una targhetta con il numero 709.
La ragazza aspettò che Harry estraesse le chiavi ed aprisse la porta, quindi una volta oltrepassato il minuscolo disimpegno all’ingresso il suo sguardo impaziente si rivolse all’appartamento che le si era presentato davanti agli occhi.
La prima cosa che catturò la sua attenzione fu la parete sulla destra, interamente ricoperta di vinili le cui copertine erano appese sul muro bianco con ordine quasi maniacale; Carter riconobbe una moltitudine di album storici, come Nevermind dei Nirvana e The Dark Side of the Moon dei Pink Floyd, ma anche dischi di nicchia come – sorrise compiaciuta nel vederlo – In Absentia dei Porcupine Tree, uno dei suoi preferiti in assoluto.
Il resto dell’ambiente era sobrio ed ordinato, con un parquet chiaro che ricopriva i pavimenti e pochi mobili dalla linea pulita disposti in modo esteticamente piacevole ma funzionale. Un divano nero di pelle era posizionato ai piedi della parete con i vinili, rivolto verso un basso tavolino di vetro rettangolare; di fronte vi era un’ampia libreria piena di libri, dotata di un elaborato impianto stereo che probabilmente valeva almeno quanto un intero stipendio di Carter. A completare l’arredamento in fondo alla stanza c’era un angolo cottura con un piccolo tavolo scuro a quattro posti, che dava su un minuscolo terrazzino.
Una risatina di Harry la riscosse dalla sua contemplazione assorta.
«Hai intenzione di restare all’ingresso tutta la sera?»
Carter spostò lo sguardo sul ragazzo, che si era tolto il cappotto nero e probabilmente stava aspettando che lei facesse altrettanto a giudicare dalla sua mano tesa nella sua direzione. Roteò gli occhi al cielo ma sorrise, togliendosi il giubbotto e porgendolo ad Harry che lo appese ad un attaccapanni a muro vicino alla porta d’ingresso.
«Niente male» mormorò ammirata, tornando ad osservare le copertine quadrate dei vinili che campeggiavano sulla parete. «Hai anche un giradischi?»
«Avevo un meraviglioso Rega RP1 fino ad un paio di mesi fa… poi il gatto di mia sorella me l’ha devastato, facendosi le unghie sul piatto e distruggendo il braccetto»
L’aria tragica di Harry fece sorridere Carter, sebbene dentro di sé inorridisse per uno scempio del genere. Se fosse successo a lei di sicuro quel gatto non avrebbe rivisto la luce del sole.
«Tua sorella…?»
Lui annuì, sciogliendo lo chignon ormai disordinato e passandosi una mano nei capelli castani che poi tornarono a ricadere morbidamente sul maglione color panna a trama larga.
«Gemma, la mia sorella maggiore. Mi aveva chiesto di badare al suo stupido gatto per un weekend mentre era alla spa con il fidanzato, per il suo compleanno… ovviamente mi ha promesso che mi ricomprerà il giradischi come regalo di Natale»
Carter non riusciva a non restare incantata quando scopriva qualcosa di più su Harry. Era un personaggio affascinante e particolare, completamente diverso da tutti i ragazzi con cui aveva avuto a che fare nella sua vita; era curioso ed attento nei confronti del mondo che lo circondava, proprio come lei, ed era irresistibilmente imprevedibile.
«Sono felice di non avere un gatto» commentò semplicemente lei, con un’alzata di spalle che fece spuntare la fossetta sinistra accanto al sorriso di Harry.
«Anch’io, credimi» replicò lui, recuperando nel frattempo il telefono dalla tasca dei jeans neri. «Che pizza vuoi?»
«Margherita» rispose, corrugando poi la fronte alla smorfia che le rivolse. «Che c’è?»
«Solo margherita?» la punzecchiò, piegando la testa di lato. «Niente salamino? Verdure? Funghi? Ananas?»
«Solo margherita» ribadì Carter, alzando le sopracciglia in un’espressione seccata solo per finta. «Non mangio molto. E poi non dirmi che sei uno di quegli scherzi della natura a cui piace sul serio l’ananas sulla pizza»
Harry si portò una mano al cuore con aria teatralmente inorridita.
«Scherzi? Non esiste» affermò, scuotendo la testa. «Pensavo avessi un’opinione migliore di me, Carter»
Lei deglutì a vuoto, la bocca improvvisamente secca come il deserto; era la prima volta che Harry pronunciava il suo nome, e avrebbe voluto sentirglielo ripetere ancora e ancora. Così lento, così graffiato, così carico di fascino inaspettato…
«Tutto a posto?»
Un paio di luminosi occhi verdi erano puntati dritti nei suoi, e la fecero riscuotere da quel piccolo limbo ovattato in cui si era persa per alcuni secondi. Annuì vigorosamente, un po’ imbarazzata, ed abbozzò un sorriso.
«Una margherita» ripeté ancora, come un automa. «Una margherita andrà benissimo»
Non si ricordava minimamente di cosa stessero parlando.



Spazio autrice
Ciao a tutti <3
Sono un po' di corsa quindi sarò davvero brevissima hahah
Durante le settimane successive al secondo incontro sulla metro Harry e Carter si rivedono diverse volte, chiacchierano un sacco e scoprono di stare parecchio bene nella compagnia reciproca :') quindi Harry azzarda un invito a cena usando un trucchetto a dir poco becero per avere il numero di lei hahah
Che dite, come andrà la cena? Io vi annuncio solo che quello di giovedì prossimo sarà l'ultimo capitolo di Details :')
Nel frattempo ringrazio di cuore
leccaleorecchie
 (mi ha fatto morire il tuo nick hahah) e m12 per aver inserito questa storia tra le preferite <3 <3

Un abbraccio,
mononokehime

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Capitolo 5
*** Capitolo 4 (fine) ***


«Axl Rose o Robert Plant?»
«Che domanda è? Robert Plant, ovvio. I Led Zeppelin sono delle leggende, ma si poteva fare benissimo a meno dei Guns’n’Roses»
«Sei troppo insensibile. Non hai mai ascoltato November Rain
«Ho smesso di piangermi addosso con quella canzone all’inizio del liceo. Anni ‘60 o ‘70?»
«I mitici Settanta, ci mancherebbe. L’epoca d’oro dei Pink Floyd, vuoi mettere?»
«D’accordo, ma senza l’era dei Beatles gli anni ‘70 sarebbero scialbi come i Quaranta»
«Ho capito che lavori al Beatles Coffee Shop, ma puoi almeno fingere di non essere di parte?»
Carter roteò gli occhi a quel commento, ma non riuscì ad impedirsi di ridacchiare. Lo sguardo di Harry si accese di quel lampo furbo che lo contraddistingueva, e che se possibile lo rendeva ancora più affascinante.
Avevano abbandonato l’ultimo paio di fette di pizza nei cartoni di fronte a sé, impegnati com’erano in quel botta e risposta dove nessuno dei due, entrambi accaniti com’erano, sembrava voler retrocedere di un passo dalle proprie posizioni.
E si divertivano da matti, a modo loro.
«Non sono di parte… okay, forse un pochino» replicò Carter, sogghignando alla smorfia che il ragazzo le rivolse. «Però devi ammettere che è dagli anni ‘60 che è nato tutto. Dopotutto i Pink Floyd si sono formati nel 1964, giusto?»
«1965… touché» ammise Harry, alzando le mani in segno di resa. «Devi sempre riuscire a spuntarla, eh?»
Lei alzò le spalle con nonchalance, l’ombra di un sorriso che aleggiava ancora sulle sue labbra. Si sentiva insolitamente a proprio agio, in quel piccolo appartamento di Kilburn al settimo piano, mentre fuori dall’ampia vetrata alla sua destra Londra brillava e sfolgorava di lucine arancioni e gialle nella notte ancora giovane.
Stava chiacchierando di musica con un ragazzo che conosceva da appena un mese, un ragazzo che peraltro era bello da togliere il fiato, e riusciva a parlare tranquillamente senza neppure balbettare; non riusciva a spiegarsi come fosse possibile, ma si sentiva così bene che avrebbe voluto restare lì per sempre.
Sulla guancia di Harry comparve la solita fossetta impertinente mentre la osservava; ogni tanto Carter si perdeva tra i propri pensieri, e lui non mancava mai l’occasione di studiare la sua espressione assorta. Aveva un che di accattivante, e lo incuriosiva più di quanto fosse lecito.
«A cosa pensi?» non riuscì a trattenersi dal chiederle diversi secondi dopo, reprimendo una risata quando la vide riscuotersi ed avvampare per essere stata colta di nuovo in flagrante.
«A niente di particolare, in realtà» rispose imbarazzata la ragazza, raddrizzando la schiena. «La pizza era molto buona»
Harry sbatté le palpebre, emettendo uno sbuffo divertito mentre si alzava in piedi.
«La pizza…» ripeté a mezza voce, scoprendo i denti in un sorrisetto e scuotendo la testa. «Sei a posto? Vuoi qualcos’altro?»
Carter fece un cenno di diniego, lanciando un’occhiata dispiaciuta alla fetta solitaria rimasta nel proprio cartone. Ce n’era una anche in quello di Harry.
«Non preoccuparti per quelle, le metto in frigo e le mangerò domani» la rassicurò lui, facendole un occhiolino. «Non butto via niente»
Riusciva ad essere affascinante anche così, mentre trasferiva due fette di pizza ormai fredde su un piatto e le copriva con della pellicola trasparente sul piano di lavoro della cucina. I lunghi capelli castani ricadevano sulla sua schiena, accompagnando i suoi movimenti, ed il maglione color panna gli avvolgeva alla perfezione il busto appoggiandosi morbidamente sui fianchi magri.
Era una visione, una maledetta visione.
«Ti va del vino?»
La ragazza deglutì a vuoto, maledicendosi per essersi di nuovo smarrita ad osservarlo avidamente. Per fortuna Harry era di spalle.
«Non saprei… non lo bevo mai» ammise, passandosi distrattamente una mano tra i capelli. «In realtà non amo l’alcol in generale»
«Il vino non è alcol» sentenziò lui, l’espressione studiatamente filosofica. «È un’opera d’arte»
Quell’uscita da gradasso la fece ridere, e Harry si unì subito a lei mentre posava sul tavolo due ampi calici.
«A dire il vero non so nulla di vini, ma mi piacciono così tanto che devo almeno fingere di essere un esperto per non sembrare un banale alcolizzato» le confidò poi con aria complice, come se le stesse rivelando un segreto internazionale. Carter gli lanciò un’occhiata vagamente obliqua che non tentava nemmeno di nascondere il proprio divertimento.
«Sei incredibile» riuscì solo a replicare, scuotendo la testa. Il ragazzo ridacchiò mentre stappava una bottiglia, versando poi il liquido color rubino nei due calici e prendendo di nuovo posto al tavolo; la ragazza ne afferrò delicatamente uno per lo stelo sottile, avvicinandolo al naso in modo da poter annusare la fragranza del vino.
Era intenso, inebriante e ricco di sfumature che non era in grado di decifrare, proprio come Harry.
«È buono» si sorprese ad ammettere, dopo che ne ebbe preso un piccolo sorso. «Non credevo potesse piacermi davvero»
«Niente male, eh?» replicò lui compiaciuto, facendo oscillare il proprio calice ed osservando il vino ondeggiare elegantemente al suo interno. «È il mio preferito»
«Niente male davvero» mormorò Carter, lo sguardo ancora una volta perso nel vuoto. Tenendo in mano il bicchiere si alzò in piedi, muovendo qualche passo fino alla parete ricoperta di vinili ed osservandone le copertine. Le studiava una ad una con la sua solita attenzione per i dettagli nonostante ne conoscesse già parecchie a memoria, la testa piegata di lato ed un leggero cipiglio concentrato a corrugarle la fronte.
Harry non riusciva a staccare gli occhi dalla sua figura minuta, torturandosi il labbro inferiore tra il pollice e l’indice. Gli ricordava una vecchia canzone di Prince e non sapeva nemmeno il perché.
Prese un generoso sorso di vino e si alzò di scatto, lasciando il bicchiere sul tavolo mentre si dirigeva verso l’impianto stereo alle spalle di Carter. Lei si girò, avvicinandosi curiosa e scorrendo con lo sguardo i titoli dei numerosi CD che riempivano gli scaffali insieme ai libri.
Le dita affusolate di Harry si fermarono su un album e lo tirarono fuori senza esitazione; Carter aggrottò le sopracciglia, sbirciandone la copertina.
«Prince, eh?» constatò, annuendo con approvazione. «Non ho mai ascoltato Sign ‘o’ the times, ma in fin dei conti quel genio ha scritto talmente tanti album che è impossibile conoscerli tutti»
Il ragazzo sorrise sotto i baffi mentre inseriva il CD nello stereo ed avviava la sesta traccia. Il calice di lei era ormai vuoto, e mentre i semplici accordi di un pianoforte riempivano l’aria del piccolo appartamento Harry tornò al tavolo per recuperare la bottiglia.
Pochi istanti dopo entrambi i bicchieri erano di nuovo pieni; Carter sorseggiava il vino muovendo appena la testa al ritmo della musica. Si era quasi dimenticata quanto fossero irrimediabilmente contagiosi gli anni ‘80.
«Prince è come il vino» affermò decisa, dopo un paio di minuti di silenzio. «All’inizio credi che una roba del genere non ti potrebbe mai piacere, ma poi gli dai una possibilità e inizia a darti alla testa praticamente subito»
Harry le rivolse un’occhiata divertita, constatando che il suo sguardo era in effetti un po’ più vacuo di prima. Era evidente che non era abituata a bere, ed anche se non era ancora brilla nel vero senso del termine quel paio di bicchieri stavano già cominciando a farsi sentire.
«Direi che è la descrizione di Prince più originale ed azzeccata che abbia mai sentito» replicò, la fossetta sinistra sempre ben visibile sulla guancia. «Me la dovrò scrivere da qualche parte»
Carter riportò gli occhi su di lui mentre le riempiva ancora il bicchiere, soffermandosi sulle nocche della mano che reggeva la bottiglia. Era possibile trovare affascinanti delle nocche?
Probabilmente era l’alcol, ma non si sentiva così rilassata e spensierata da tempo. Era come se potesse dar voce ai propri pensieri in tutta libertà, senza preoccuparsi di nulla.
«Anche tu sei come il vino» mormorò sovrappensiero, guardando il suo viso con la testa piegata di lato come quando osservava i vinili appesi al muro. Harry sollevò le sopracciglia, indubbiamente colto di sorpresa, ma non lo diede a vedere perché mantenne salda la propria espressione furbamente compiaciuta mentre muoveva un passo verso di lei.
La ragazza non doveva neppure essersi resa conto di aver espresso ad alta voce quel pensiero, perché si portò di nuovo il bicchiere alle labbra ed assaporò un altro sorso ad occhi chiusi.
Quando li riaprì Harry era proprio accanto a lei; la guardava con espressione indecifrabile, e per un istante si sentì smarrita.
«Cosa…»
«Sto pensando» la anticipò meditabondo, socchiudendo le palpebre. «Mi chiedevo se la prossima volta che berrai del vino penserai a Prince oppure a me»
Carter spalancò gli occhi e diventò paonazza, realizzando solo allora della rivelazione che si era lasciata sfuggire. Non aveva idea di come uscire da quella situazione imbarazzante, quindi si limitò a vuotare il contenuto del calice per darsi un contegno.
«A Prince, ovviamente» mugugnò, sentendo le guance andare a fuoco e le mani formicolare. Si voltò di scatto, andando a posare il bicchiere sul basso tavolino di vetro di fronte al divano, quindi incrociò le braccia al petto ed incollò di nuovo lo sguardo sulle copertine quadrate dei vinili nel blando tentativo di esorcizzare la vergogna.
Dietro di sé sentiva i passi lenti e cadenzati di Harry avvicinarsi; il cuore le martellava nelle orecchie, ogni traccia di abbandono era scomparsa e d’improvviso era tesa come una corda di violino.
Quasi sobbalzò quando sentì due grandi mani posarsi delicatamente sulle sue spalle, con cautela, come a non volerla spaventare; rimase immobile, trattenendo il respiro, mentre nella sua mente annebbiata vorticavano i pensieri più sconnessi.
«Carter?»
Ed eccolo lì, il suo nome pronunciato ancora una volta da quella voce così accattivante; faceva scomparire tutto, da Prince alle luci di Londra alla parete con i vinili. Si girò lentamente, le mani di Harry che si sollevavano appena dalla flanella della camicia a quadri solo per poi posarsi di nuovo sulle sue spalle esili quando lo fronteggiò.
Non poteva resistergli, non voleva resistere all’uragano di giada del suo sguardo, alle dita lunghe che le risalivano piano la pelle scoperta del collo, ai palmi caldi che le ricoprivano la linea della mandibola mentre la attirava inesorabilmente a lui.
Era impossibile resistere a quelle labbra sottili ma piene, che quando la baciarono fecero esplodere nel suo petto ogni singola stella del cosmo. Erano caute, all’inizio; caute e morbide, sapevano di vino e di desiderio silenzioso.
Carter tremò per un istante quando Harry la strinse a sé, le mani piene di anelli sui fianchi sottili, ma il tempo di intrecciare le dita ai suoi capelli e poté liberare il sospiro che le era rimasto bloccato in gola. Si sentì mancare di fronte alla mole immensa di sensazioni che stava provando; lei, che era abituata a dissezionare la realtà un dettaglio alla volta, era completamente in subbuglio – in balìa di un oceano emotivo di proporzioni surreali.
Tuttavia era bello andare alla deriva, farsi sopraffare da qualcosa che non era neppure in grado di circoscrivere. Era quasi facile abbandonarsi a lui, alle sue mani che l’avevano ammaliata fin da quel fatidico primo istante sulla metro, al profumo della sua pelle misto a quello del vino che le riempiva i sensi e la stordiva.
Quando le loro labbra si separarono per Carter fu come essere catapultata violentemente sulla Terra dopo un lungo volo nello spazio; sbatté alcune volte le palpebre, ancora intontita, senza peraltro avere il coraggio di sollevare lo sguardo verso gli occhi di Harry.
Lui emise una mezza risatina silenziosa, scuotendo appena la testa.
«Ammetto che è da un po’ che non baciavo una ragazza, ma se ho fatto pena vorrei almeno che me lo dicessi guardandomi negli occhi»
La ragazza fremette, gli angoli della bocca che si sollevavano in un mezzo sorriso, grata in cuor suo che avesse colto il suo imbarazzo e che avesse deciso di rompere il ghiaccio come era sempre solito fare.
«Non sei andato così male» provò a scherzare, nel tentativo di allentare la morsa che le serrava il petto. Harry ridacchiò, ed a quel punto Carter non poté fare a meno di alzare lo sguardo per catturare l’immagine della caratteristica fossetta che gli scavava la guancia.
«Credi che potresti concedermi il bis, allora…?» mormorò lui, avvicinandosi di nuovo e sfiorandole lo zigomo con il naso. Carter deglutì, ubriaca del suo respiro caldo, e si arrese ancora una volta a quelle labbra che erano in grado di farle perdere il contatto con la realtà.
 
Let’s make it last forever
For a hundred times won’t be enough…
 
La ragazza sciolse la presa sulla nuca di Harry per percorrere le sue spalle coperte dal maglione, assaporandone la trama sotto i polpastrelli. Le sue dita saggiavano avidamente ogni rilievo dei muscoli ed ogni piccola incavatura, marchiandone a fuoco ogni particolare nella sua memoria fotografica; i suoi gesti erano molto più sfrontati di quanto avrebbe creduto possibile, ma quando si trattava di Harry era sempre portata a ridefinire i propri limiti e le proprie insicurezze.
I loro respiri si inseguivano senza sosta, mescolandosi tra i baci che si rubavano a vicenda; erano avidi e curiosi, troppo impazienti per accontentarsi, e si cercavano l’uno nelle labbra dell’altra con urgenza febbrile come se quello fosse un sogno da cui avrebbero potuto risvegliarsi in qualunque momento.
L’aria si stava rapidamente caricando di elettricità; lo testimoniavano i battiti frenetici ed irregolari dei loro cuori, dei brividi che nascevano sul corpo di entrambi ad ogni tocco e del calore quasi insopportabile che li avvolgeva ogni secondo di più.
Il desiderio di sentirsi era tanto, al punto che Carter si era trovata seduta sul tavolo senza ben sapere come, con Harry tra le gambe per poter assaporare la sensazione del suo intero busto schiacciato contro di lei. Le grandi mani del ragazzo riuscivano a ricoprire buona parte delle sue cosce magre e le esploravano lentamente dal ginocchio all’anca, su e giù, senza mai essere invadenti ma permettendole di percepire la sagoma di ogni singolo anello attraverso il tessuto dei jeans neri.
Carter soffocò un singulto nel sentire sotto i pollici il profilo della mandibola di Harry, così squadrata e tagliente, così in contrasto con le morbide onde dei suoi capelli e quelle labbra che la stavano facendo letteralmente impazzire. Il suo cervello era su una giostra delirante, i sensi amplificati e distorti dal vino l’avevano più volte portata a pensare di stare avendo le traveggole.
Ma come poteva immaginare così vividamente i palmi aperti di Harry che studiavano con cura minuziosa le sue gambe? Come poteva immaginare così vividamente i suoi denti che le affondavano appena nel labbro inferiore e lo tiravano indietro, la sua bocca umida sul collo, il suo petto ampio che si espandeva e si contraeva al ritmo dei suoi respiri?
Era satura di lui, ed era la sensazione più magnifica che potesse immaginare. Era satura del suo profumo, del suo sapore, del suo tocco, del suono della sua voce, di ogni dettaglio del suo aspetto su cui aveva potuto posare lo sguardo. Si sentiva in combustione, era tutto troppo senza essere mai abbastanza.
«Dio, Carter… non hai idea di quanto volevo baciarti» le sussurrò all’orecchio, in uno di quei rari momenti che si concedevano per riprendere fiato. Lei rabbrividì, serrando le palpebre mentre si ancorava alla sua schiena attirandolo ancora più vicino.
«Il mio nome…» sospirò quando Harry le lasciò un leggero morso alla base del collo. «Di’ ancora il mio nome, Harry»
«Carter…»
Quel suono quasi vibrò contro la gola di lei, le labbra del ragazzo che vi lasciavano piccoli baci risalendo verso l’orecchio.
«Ancora…»
«Carter…»
Harry prese delicatamente il suo lobo tra i denti, mentre lei si aggrappava alla sua schiena annaspando. La strinse per i fianchi, avvicinandola a sé, e tornò ad avventarsi sulle sue labbra che non aspettavano altro.
 
All that's wrong in my world you can make right
You are my savior, you are my light
Forever I want you in my life
 
Harry doveva davvero essere come il vino, se era in grado di inebriarla in quel modo. Tutto di lui era capace di ottenebrare la sua lucidità, farla sentire così euforica e così rilassata allo stesso tempo; il suo sapore le dava alla testa, e se era possibile ubriacarsi di una persona, beh… Carter era ormai irrecuperabile.
Harry doveva davvero essere come il vino, perché era un’opera d’arte.
 
***
 
Louis roteò gli occhi e scosse la testa, tamburellando impaziente con la scarpa sul marciapiede. La suola di gomma produceva un leggero e ritmato tap sull’asfalto freddo, ma quel suono ovattato invece che rilassarlo lo irritava sempre di più.
Controllò l’ora per l’ennesima volta sul display del suo iPhone, e se lo ricacciò in tasca con un grugnito incomprensibile che si dissolse in una nuvoletta di condensa.
Quella sera aveva dato buca a Gabriel, un portoghese amico di amici che aveva iniziato a frequentare, perché Carter l’aveva pregato di uscire insieme a lei e ad Harry. Perché, in fondo, doveva pur conoscerlo, no?
Erano passate alcune settimane dalla fatidica prima cena, e tra quei due c’era stato un crescendo incredibile che aveva sorpreso non poco Louis; la sua piccola love si era innamorata, e nonostante non perdesse occasione di punzecchiarla come suo solito non poteva non essere felicissimo per lei.
O perlomeno, lo era fino a poco prima; in quel momento era semplicemente incazzato nero.
Louis era un tipo piuttosto pigro, non lo si poteva negare, ma quando si prendeva un impegno muoveva mari e monti pur di essere sempre puntualissimo. Detestava cordialmente i ritardatari, ed in generale chiunque gli facesse perdere tempo; purtroppo Carter aveva questo difetto.
Per una volta aveva deciso di fare il bravo migliore amico, ma naturalmente lei era in ritardo come al solito; ventiquattro minuti, per l’esattezza. Se pensava a cos’avrebbe potuto fare alla bocca carnosa di Gabriel, in quei ventiquattro minuti…
«Lou! Perdonami, ti prego, ho avuto un contrattempo»
La figura trafelata di Carter entrò nel suo campo visivo, seguita da quella di un ragazzo che ormai Louis aveva imparato a riconoscere tra mille, per merito – o colpa – delle centinaia di fotografie che la ragazza gli aveva scattato nel corso delle ultime settimane.
«Venticinque minuti» sibilò, puntando l’indice verso di lei quando gli fu abbastanza vicina. «Direi che sei in debito con me»
Carter annuì vigorosamente.
«Per tutta la vita, Lou. Te lo giuro»
L’amico la trapassò con uno sguardo affilato come una spada, e non poté evitare di notare le sue guance rosse e l’accenno di una macchia rossiccia sul collo che faceva capolino dalla sciarpa.
Trattenne un’imprecazione esasperata e fece del suo meglio per recuperare il proprio scarso autocontrollo.
«Tu devi essere Harry» esordì invece, tendendo la mano destra al ragazzo poco oltre, che sembrava star faticando parecchio a reprimere una risata. «Ma che dico, certo che sei tu. Ormai so anche quanti peli del culo hai, grazie a questa povera disperata, quindi se non ti dispiace farò direttamente a meno di fingere di non conoscerti meglio di te stesso»
Harry rise di gusto, sia per l’imbarazzo cocente di Carter che per la schiettezza di Louis, quindi gli strinse la mano.
«E tu devi essere Louis» replicò divertito, senza scomporsi. «Mi dispiace per essere stato la causa del contrattempo che ci ha fatti tardare, ma prometto che cercherò di farmi perdonare»
La ragazza si coprì la faccia con le mani, al culmine della vergogna; era palese che il suo migliore amico aveva capito tutto, e nonostante non rimpiangesse nemmeno un istante di quella mezz’ora scarsa passata a cavalcioni di Harry sul sedile davanti della sua macchina avrebbe comunque voluto essere inghiottita dall’asfalto all’istante.
«Di’ al tuo ragazzo di prepararsi per bene, love» esclamò Louis con un ghigno, rivolto a Carter. «Sono parecchio difficile da soddisfare»
«Oh, Lou, finiscila!» sbottò lei, incamminandosi svelta verso la macchina di Harry per estinguere l’imbarazzo che la stava divorando viva. I due ragazzi si lanciarono un’occhiata complice e ridacchiarono, seguendo Carter con passo molto più tranquillo; dovevano pur sempre lasciarle il tempo per sbollire.
 
You set the moon to pull the tide
You speak and move this heart of mine
From the start until the end of time
You're in the details, you're in the details
 
 
 
The End



 
Spazio autrice
Ciau c:
Eeee anche questa storia è terminata.
Doveva essere una one-shot in origine, quindi per me è già tanto aver scritto quattro capitoli più il prologo :') però mi ci sono davvero divertita, è stata una piacevole divagazione dalla selva oscura che è
Reunited hahah
Harry e Carter hanno avuto il loro lieto fine, ma da quanto si piacevano l'un l'altra sarebbe stato difficile il contrario ^^
Spero che Details vi sia piaciuta almeno quanto a me è piaciuto scriverla <3 mi rivedo moltissimo in Carter per tanti aspetti, quindi l'ho sentita particolarmente "mia" :3
Grazie infinite a tutti i miei lettori, silenziosi e non <3

Un abbraccio forte,
mononokehime

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