Fateful Encounters

di Mother of Dragons
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Buoni e cattivi ***
Capitolo 2: *** In viaggio verso l’ignoto ***
Capitolo 3: *** Verso l’incontro ***
Capitolo 4: *** Ancora più vicino ***
Capitolo 5: *** Per chi suona la campana ***
Capitolo 6: *** L’incontro ***
Capitolo 7: *** Lui...lei ***



Capitolo 1
*** Buoni e cattivi ***


“Andiamo,Unfezant” esclamò l’ottimista Allenatrice, da tempo già divenuta una giovane donna, mentre il fiero volatile dal piumaggio plumbeo chiuse gli occhi in attesa di essere rapidamente raccolto all’interno di una di quelle note sfere di plastica dai colori vivaci. Non meno orgogliosa, a primo impatto, pareva la ragazza dalla folta chioma color cioccolato, che fra mostriciattoli di livello più o meno mediocre, quali un Minccino in paziente attesa di evolversi o un da poco catturato Tympole, che non sembrava avere uno scopo certo nella sparuta squadra di Hilda, se non quello di portare un po’ di varietà di tipologia di attacchi in mezzo a quelli di tipo Normale, era tuttavia riuscita a tirar fuori dal suo Pidove un Unfezant degno del suo nome; nel suo cuore sarebbe stato quasi adatto come membro della squadra di Hilbert.

Oh,Hilbert. Lui era forte

Forte?

Aveva vinto con gloria la Lega Pokémon della regione di Unima, quasi facendo dello sconfiggere uno ad uno i tredici sfidanti scelti per provare la sua forza- e anche coloro che hanno tentato di mettergli i bastoni tra le ruote per fare sì che egli non impedisse loro di porre in ginocchio la regione intera- un piacevole diletto.

I suoi Pokémon erano meravigliosamente potenti; solo dai loro sguardi- che forse lo comunicavano ancor più rispetto al loro umano compagno- si poteva intuire che appartenessero, ed erano felici di appartenere, a un campione.

Lui era l’eroe, l’Allenatore simbolo di quell’ Unima così viva e pulsante, che delle battaglie al fianco dei Pokémon aveva fatto, sin da antichissimi tempi, il cuore dell’identità di ciascun uomo e di ciascuna donna che l’ha popolata.

Eroe. Questa parola rimbombava con fermezza, quasi a non volersene togliere,nella testa di Hilda, che addirittura provava un leggero rimorso nei confronti di quel sentimento d’orgoglio sfoggiato pochi secondi prima per aver riversato su un banale Herdier selvatico il potere del suo Unfezant. Era ovvio che lei non sarebbe nemmeno stata degna di essere paragonata al fratello, il quale agli occhi dei più era ormai un’ancora di salvezza sulla quale poter contare in qualunque momento di crisi per la regione.

 

Ma le molteplici sfide alla Lega Pokémon poco sarebbero importate a chi, come lei stessa, li allenavano semplicemente per trascorrere un tempo altrimenti sprecato, o per chi addirittura riusciva- come detto prima, assolutamente impossibile per una come Hilda- a vivere solamente della loro compagnia,probabilmente senza nemmeno pensare ad allenarli. 

L’eroe è tale perché sconfigge i cattivi.

Questo era ciò che tradizionalmente passava sulla bocca di chiunque a cui fosse stata posta questa domanda. E Hilda lo sapeva,lei non era un’eroina. 

Di quei “cattivi” che così spesso sentiva nominare, dall’anziano come dal bambino, non aveva mai udito la voce,mai inquadrato il volto, né tantomeno scoperta la motivazione del loro agire; quel che di “cattivi” faceva loro valere il nome.

Sì, ma loro erano i ribelli, quelli di cui non ci si può fidare, la piaga della società. Erano ormai, tutte queste, definizioni fisse nella mente di chiunque, pure del tanto eroico fratello che, forse con troppa fretta e agendo d’impulso, non esitava a sbaragliarli in quattro e quattr’otto. Perché forse avevano tentato- con esito perlopiù fallimentare- di rubare qualche Pokémon da persone con la testa per aria? O perché, due anni dopo, avevano con successo riversato buona parte della regione di Unima nel gelo? Hilda non era soddisfatta. Lei voleva scoprire di più.

 

A dire la verità, il nome di questi a cui la gente si riferiva con tale disprezzo,Hilda lo aveva presente.

Team Plasma. Gli autoproclamatosi liberatori dei Pokémon dalle presunte angherie a cui gli Allenatori avrebbero sottoposto; poi rivelatisi usare, loro stessi, queste creature in qualsiasi modo possibile al fine di prendere il controllo di una regione fino ad allora così stabile. Ipocriti? Forse sì. Questo era il poco che, dagli sporadici messaggi sull’Interpoké inviatigli dal lontano fratello, come dalle parole dei pochi Allenatori che ella incontrava durante le lunghe passeggiate fra i rigogliosi prati della zona sud-est di Unima, aveva capito su di loro.

 

“Sai, c’è questo qui che parla di liberazione di Pokémon, io non mi fido” - questo poteva essere un esempio delle parole che Hilbert le rivolgeva. Ormai era stato accertato, anche nella mente di Hilda, che il famigerato team era iniziato con una particolare struttura composta da un improbabile re, sette filosofi che in qualche modo potevano essere i suoi consiglieri di corte, e un consistente numero di seguaci. In seguito, uno dei filosofi avrebbe apparentemente spodestato il sovrano e dunque prevalso sopra ogni altro membro dello squadrone, con il supporto di una parte di quei seguaci e di un altro solo dei suoi sei compagni di pensiero.

Certo era, anche, che del Team Plasma non si sentiva più parlare da tempo. Ci si poteva ritenere al sicuro: l’organizzazione era tecnicamente smantellata, non c’era più il rischio che un Pokémon potesse venire sottratto di lì a poco a chiunque stava semplicemente aggirandosi nei dintorni per fargli prendere un po’ d’aria dopo essere stato al chiuso nella sua Pokéball per diverse ore. 

 

Ma si fa presto a dire smantellata. E si fa presto a dire ipocriti. Una squadra può non essere più unita, ma dietro ogni momento di essa ci sono persone. Le quali possono anche essere ipocrite, ma tutto muta nel tempo.

Hilda era speranzosa. Sapeva bene che, dietro a quel misero rimasuglio di una tanto temuta organizzazione ormai dissolta nel nulla, ci fosse, al di sopra di ogni cosa, qualcuno.

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Capitolo 2
*** In viaggio verso l’ignoto ***


Il leggero scricchiolio derivato dall’attrito fra il pietroso terreno e le ruote della bicicletta che sfrecciava sopra di esso stava ormai fungendo da sottofondo ai pensieri di Hilda da lungo tempo.

Non sembrava esserne disturbata. Il suo corpo ed il suo cervello alternavano una pesante sensazione di fatica, dovuta alle lunghe e incessanti pedalate, al continuo arrovellamento che la decisione da lei intrapresa non faceva altro che provocarle.

Sarebbe stato sicuro, per una così inesperta Allenatrice mossa quasi da puerile curiosità, ancora neofita in quello che le si prospettava come il mondo degli adulti, andare a incontrare di persona coloro che un tempo riuscirono a terrorizzare Unima nella sua interezza? 

“Ma Hilbert l’ha fatto a quindici anni. Sì, l’ha fatto” tentava, quasi ironicamente, di ripetersi fra sé, essendo pienamente consapevole che la sua profondità compensava una cospicua carenza di coraggio di cui il fratello, invece, disponeva abbondantemente. 

Come si sarebbe potuto immaginare, il suo usuale ottimismo faceva talvolta capolino tra le insicurezze di cui in quell’istante era colma; in cuor suo, a momenti, pareva intuire che l’esito di un incontro così avvincente quanto rischioso sarebbe stato positivo, e, perché no, forse inaspettato. E sul viso di Hilda, ogni volta, spuntava un accennato sorriso di speranza, che riusciva per qualche minuto a distrarla dalla stanchezza provocatale dalla ciclica pressione dei suoi arti inferiori contro i pedali, solitamente smorzandosi però in un nuovo incerto tormento.

 

...Era giunto l’imbrunire. Le gambe sfinite di Hilda si muovevano ormai per inerzia mentre il suo respiro si faceva sempre più cadenzato e pesante; l’aria già tipicamente fresca che soffiava ai piedi del Monte Vite si irrigidì quasi bruscamente, intensificando nella mente della ragazza la volontà di smettere di pedalare per quel giorno, con lo scopo di rannicchiarsi poi in qualcosa che le potesse fornire il tepore necessario per trascorrere la notte all’aperto.

Ricordandosi di aver portato con sé un modesto sacco a pelo che probabilmente sarebbe bastato per proteggerla da eventuali intemperie, la ragazza decise, senza pensarci su un’altra volta, di frenare il veicolo. D’impulso, il suo piede destro scivolò repentino dalla staffa del pedale verso lo scosceso suolo,sbalzando il peso del corpo sulla ruota anteriore mentre lei, denti stretti e occhi sbarrati, tentava di appigliarsi ai freni per evitare una caduta che probabilmente, alla meno peggio,le avrebbe abraso un ginocchio- il quale, per giunta, non era coperto da alcunché, vista la scarsa lunghezza dei pantaloncini che indossava.

Fortunatamente, la bicicletta riuscì, seppure in modo alquanto violento, a bilanciarsi nuovamente e fermarsi senza che l’incauta ciclista cadesse per terra. Ancora con gli occhi quasi fuori dalle orbite, Hilda tirò un veemente sospiro di sollievo, tergendosi nel frattempo una gocciolina di sudore che scendeva fredda lungo la sua fronte. Era salva.

 

Scuritosi il cielo ormai del tutto, Hilda appoggiò piano i piedi sull’erbosa superficie che sarebbe divenuta il suo immediato giaciglio notturno, smontando dalla bici pieghevole da lei poi raccolta e riposta, ancora leggermente sporca di terriccio, nello zaino in cordura rosa e nera che usualmente teneva in spalla. Subito dopo, senza perdere un secondo, tirò fuori dallo stesso il sacco di soffice tessuto ceruleo nel quale aveva già pensato di poter appisolarsi. Con fare quasi infantilmente buffo, Hilda pareva lanciare alla galeotta fodera un’occhiata di stizza, come se fosse stato proprio l’oggetto a interrompere la sua concentrazione durante l’intensa pedalata; ma lei, tuttavia, perdonava tutti. Anche i sacchi a pelo. E così, cercando di dimenticare l’avventata esperienza che non poco le sarebbe costata se fosse finita peggio, riprese a sorridere dispiegandolo come se niente fosse accaduto.

 

“Forza, Minccino. Guarda quanto è bello il panorama” lo esortò l’Allenatrice gettando con delicatezza la sfera Poké che lo conteneva, di modo che il vispo roditore potesse farle godere della sua piacevole compagnia avendo l’occasione, nel frattempo, di poter finalmente posare le minute zampette sull’erba fresca di montagna. Il piccolo Pokémon pareva particolarmente contento del fatto di poter passare un po’ del suo tempo al fianco della sua bipede amica- dell’affetto della quale, probabilmente, avrebbe sentito una leggera mancanza, in quanto il tronfio e cinerino Unfezant, di livello significativamente più alto, era colui che rispetto agli altri membri della squadra palesemente trascorreva una maggior quantità di tempo con lei.

L’indice ed il pollice delle delicate mani di Hilda non esitarono dunque ad afferrare il cursore della cerniera lampo che serrava la tasca minore del suo zaino, tirandone fuori un paio di croccanti blocchetti di frutta secca assortita, leggermente addolciti dal miele raccolto da qualche Combee- l’effigie di tale Pokémon effettivamente figurava in bella mostra sulla loro sottile confezione di plastica.

Dopo aver scartato le barrette dall’involucro raffigurante l’insetto a foggia di favo, la ragazza si sedette sul folto prato e si apprestò a consumare il suo frugale ma sfizioso pasto, fornendone un piccolo avanzo anche al ghiotto Minccino. 

 

Mentre i denti dell’umana, come del gliride, stavano insomma compiendo il loro lavoro per placarne la fame, le iridi della prima rimanevano fermamente rivolte verso il discendente paesaggio collinare che davanti le si prospettava. Casa sua era parecchie ore distante,non vi era alcun centro Pokémon operativo nelle vicinanze di dove lei adesso era situata. 

“Hilbert sarà sicuramente stato qui anche lui” rimarcò la sua mente, pensando nuovamente al fratello. Non era molto restia ad ammettere, in effetti, che anche il solo pensiero del gemello le forniva coraggio. Nel fiore della sua adolescenza, lui si mostrava già volenteroso di avventurarsi dov’era più impervio, mentre lei, forse per una maggiore accortezza che spesso si sarebbe manifestata sotto forma di paura, si limitava ad allenare i suoi Pokémon nei dintorni della sua dimora, se non talvolta spingendosi fino alle città vicine per osservare se ce ne fossero di più interessanti. 

 

“Ma...ma lui...lui forse non ha mai voluto conoscere...loro.”

 

Un mezzo sorriso comparve sull’ancora perplesso volto della giovane donna, che nel frattempo già stava avvolgendosi nel morbido abbraccio di quel sacco incriminato, come volesse intenzionalmente abbandonarsi a quel destino mosso da una forte corrente che Hilbert cercava sempre, anche superficialmente, di contrastare a tutti i costi.

 

Le poche stelle che si potevano intravedere in quella scura volta sovrastante il paesaggio montano in qualche modo potevano rassicurare Hilda del fatto che il futuro, molto probabilmente, non le avrebbe potuto riservare qualcosa di spiacevole. 

 

“Lui non ha mai voluto conoscerli. E io...sì.”

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Capitolo 3
*** Verso l’incontro ***


“...cik cino cin-cin??? Cik cik!”

Le palpebre di Hilda si dischiusero di scatto, rivelando fra le sue iridi azzurre un paio di pupille assai rimpicciolite dallo sgomento che provò nel vedere Minccino al di fuori della sua Pokéball, con le microscopiche zampine appoggiate sul petto della ragazza. L’improvvisa paura del momento si mescolò presto a sollievo, dato che il Pokémon, non essendo evidentemente stato chiuso la sera precedente nella rispettiva sfera per una probabile sbadataggine dell’Allenatrice, era comunque riuscito a rimanere accanto a lei senza che qualche predatore lo potesse scorgere.
Lo sguardo ora tranquillizzatosi di Hilda, accompagnato da un piccolo sorriso, era saldamente focalizzato sul grazioso musetto del piccolo roditore, implicitamente comunicandogli un sentimento di scusa per la scarsa cura nei suoi confronti. Minccino, però, sembrava accogliere con facilità la silente apologia della sua Allenatrice, incoraggiandola ad alzarsi e rendersi pronta per affrontare un nuovo, lungo giorno che sicuramente le avrebbe riservato delle sorprese.

Più motivata di prima, Hilda srotolò il morbido involucro di tessuto nel quale era avvolta e si levò di scatto dal terreno, il quale emanava un leggero profumo di erba bagnata dalla rugiada mattutina.
Ancora con indosso gli indumenti che aveva dal giorno prima, la ragazza stiracchiò le sue braccia verso l’alto per sgranchirle dopo quel piacevole sonno sotto le stelle; dopodiché, tirò fuori dallo zaino un’altra di quelle barrette con l’immagine di un Combee sulla confezione e ne spezzò un’esigua parte per Minccino, come per ringraziarlo della pazienza che aveva nei suoi confronti.
Inforcati subito dopo gli anfibi in vernice nera che aveva riposto accanto allo zaino, Hilda si chinò nuovamente verso di esso e fece per prendere nuovamente la bicicletta, salvo poi ripensare al piccolo incidente accaduto lo scorso pomeriggio; era forse più opportuno limitarsi a camminare per questa mattina, pensò fra la paranoia che potesse accadere qualche altro imprevisto e la contentezza nel realizzare che la splendida villa nella quale ormai da anni il capo del Team Plasma risiedeva era abbastanza vicina.
“Beh, forse è meglio che ora torni nella tua Ball” disse quindi la ragazza facendo rientrare il suo Minccino nella sfera Poké- “non abbiamo tempo da perdere.”
Finalmente lei era pronta.

...

“...come dici, Gardevoir?
D-davvero...?”
“Te l’avevo detto che fra non molto sarebbe successo qualcosa di particolare,sorella” affermò con voce calma l’aggraziata Musa dai capelli color peonia, dando ragione a ciò che il Pokémon della gemella le aveva predetto. 
L’introspettiva figura umanoide dai ciuffi bianchi e verdi chiuse senza alcun fiato i profondi occhi vermigli, come per annuire a sua volta una conferma: la strana sensazione che qualcosa d’interessante si stesse avvicinando era sempre più intensa e impossibile da smentire.
Ma Concordia, forse, non era ancora riuscita a intuirlo. I suoi occhi dorati sembrarono assumere un bagliore stupito dal peculiare annuncio che il suo Gardevoir e sua sorella Anthea le stavano dando a voce unisona. A metà fra una sottile preoccupazione e una parte ben maggiore di entusiasta curiosità per quel che sarebbe potuto accadere, Concordia provvide a sistemare la morbida treccia bionda che scendeva lungo la sua schiena, fra le genuine e scherzose risatine di Anthea, la quale pareva divertita da come sua sorella si preoccupasse per la sua parvenza fisica in attesa del misterioso ospite che probabilmente sarebbe approdato nella loro magione.
“In ogni caso, è probabilmente più opportuno che noi ci dedichiamo alla pratica musicale quotidiana senza far sì che le nostre menti vengano distolte da codesto pensiero” asserì la gemella dalla chioma rosata, avendo immediatamente ripreso un atteggiamento più serio. “Tu intanto recati in giardino come da abitudine, io vado a prendere la cetra.”
Sorridendo un po’ impacciatamente ed iniziando già ad avviarsi verso il cortile della villa, Concordia acconsentì, scostando le dita ancora in mezzo ai pallidi fili che componevano la sua acconciatura.
Era però inevitabile che, fra le cristalline note della bionda Musa alternate al timbro antico delle corde pizzicate dalla sorella, quel pensiero risuonasse in entrambe le loro menti.  

“...È solo da troppo tempo. Nostro padre ne sarà felice.”

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Capitolo 4
*** Ancora più vicino ***


L’opulenta veste di seta dai pregiati ricami color pruno ed oro strascicava lentamente sul pavimento a scacchiera del palazzo; con un incedere assai più rapido, le due graziose fanciulle che avevano appena terminato la loro sessione coreutica giunsero incontro all’uomo di elevata statura che la portava indosso.
“Padre, lo sentiamo sempre di più.” “È ormai vicino...” “Sì, qualcosa di sorprendente sta giungendo verso di noi. Anche Gardevoir me lo ha detto...”  comunicarono serie le due Muse al loro statuario tutore, la cui unica iride cremisi, sovrastata da un folto e ordinato sopracciglio color salvia, squadrò i loro innocenti volti assumendo un’espressione di curiosità.
“Spero che i venti spiranti su questa regione mi possano portare alcunché di dilettevole” rispose loro l’uomo, ormai divenuto decisamente meno loquace e giovialmente satirico rispetto a quando la sua intenzione era null’altro che imporre la sua sovranità su Unima, per la quale era disposto ad utilizzare ogni mezzo possibile.
L’occhio dallo sguardo profondo e aguzzo spostò presto il suo obiettivo verso il pavimento, facendo sembrare che attorno  a colui che lo possedeva aleggiasse un’aria di preoccupazione. 
Da anni, ormai, Ghecis aveva il supporto di pochissime persone, in seguito al suo pentimento per ciò che aveva compiuto e che lo aveva reso famigerato e temuto. La maggior parte del suo tempo, dal suo ritiro in quella villa insieme alle due figlie e uno sparuto manipolo di quelli che in passato si definivano suoi seguaci, era da lui dedicato alla scrittura di trattati filosofici e alla contemplazione dell’estetica classica, la cui perfetta armonia- non a caso riflessa nel suo peculiare nome di famiglia- aveva evidentemente influenzato il suo stile di vita sin dalla più giovane età.
Ghecis aveva finanche imparato ad accettare che il ragazzo che lui, fino a un certo punto, considerava pari ad un figlio, avesse deciso d’abbandonare il suo posto da sovrano di quell’organizzazione che non rispecchiava i suoi veri ideali e di ricominciare da zero una nuova vita fuori dal castello che per lui era null’altro che una prigione dorata. Del resto, al suo tanto mutato padre dalla toga finemente ornata non sarebbe più servito quel mero burattino, preferendo invece un contatto più intimo con le Muse da lui genuinamente amate.
“Debbo dunque approntarmi, figlie mie, ad accogliere ciò che mi verrà incontro come di dovere” riprese quindi l’uomo, allontanandosi piano dalle gemelle- “aspetterò la sera. Sento le porte già fremere dall’attesa di aprirsi a chiunque si voglia presentare al nostro cospetto.”

Nel frattempo, il cielo che sovrastava la rigogliosa zona montana del nord-est di Unima stava gradualmente mutando la sua tonalità verso un leggero grigio screziato dal bianco delle fitte nubi che lo ricoprivano.
L’aria attorno a Hilda era divenuta particolarmente umida, ma una fresca brezza contrastava la sensazione di afa da essa provocata.
“A sera dovrei arrivare” si rassicurò lei fra sé, prospettando però l’arrivo a breve di qualche precipitazione. Sfortunatamente, non aveva badato di portar con sé un ombrello o qualcosa che la potesse proteggere; ciò non fece altro che accrescere la sua frustrazione nei confronti della costante sbadataggine che dimostrava giorno per giorno.
Volendo evitare di rimuginare troppo sul latte ormai versato, Hilda decise allora di sveltire il passo, avendo cura di restare sotto le fronde degli alberi per proteggersi da eventuali intemperie.

Come aveva previsto,con il passare delle ore il cammino della ragazza venne accompagnato da una leggera pioggerella, che tuttavia, a momenti, le risultava addirittura piacevole. Minuscole gocce d’acqua irroravano delicatamente il suo viso, conferendo inoltre un aspetto quasi scenico alle conifere e le edere selvatiche che contornavano il sentiero da lei percorso.
Era come una soddisfazione, per lei, calpestare l’erba bagnata come avesse i piedi scalzi, respirare l’aria pulita e odorante di muschio, avvertire l’acquerugiola cadere lieve sulle braccia nude. Ella sapeva che questo cammino avrebbe apportato modifiche importanti al suo destino, e finalmente ne era sempre più consapevole.


Dalla finestra ad arco adornata da un aureo motivo a foglia d’acanto, l’occhio rosso dal verde sopracciglio pareva osservare, con la medesima curiosità dell’Allenatrice non più lontana, la pioggia scrosciare leggermente sulle foglie di vite che cingevano le colonne decorative dell’ingresso al cortile.
Anche lui, d’usuale sagace intelletto, aveva intuito che quello scroscio d’acqua non sarebbe stato portatore di notizie negative, seppur manifestandosi improvvisamente in un periodo generalmente secco.
Poteva quello essere un messaggio di uno dei tre Dei della natura che vegliavano sulla regione? 
Di sicuro, tutto ciò non avveniva per caso.

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Capitolo 5
*** Per chi suona la campana ***


  “Anf...ancora pochi passi...”
Gli stivaletti neri con le suole rosa si alzavano con fatica dal terreno, per poi ricadere pesantemente a ritmo di respiri corti e affannosi. Hilda aveva ormai la vista quasi annebbiata dalla fatica, quella magione a poche decine di metri da lei sembrava solo un miraggio.
Come si evinceva dalla posizione del sole appena visibile nel cielo dopo la pioggia, erano circa le sei del pomeriggio e Hilda era in cammino da un gran numero di ore, avendo l’occasione di compiere solo un paio di brevi soste allo scopo di rifocillarsi col poco cibo che le era rimasto o di riprendere fiato.
“Uff...dai,ci siamo... Non posso mollare... anf... ora... YAH!!”
Le sue mani si agganciarono con fermezza alle nere sbarre del cancello che circondava il palazzo; i suoi occhi si sgranarono tutti d’un tratto, mentre il fiato che usciva dalla sua bocca aperta dopo quel grido di sorpresa si velocizzò all’istante, in sintonia con i rapidi battiti che le rimbombavano pesanti nel petto.
L’incommensurabile senso di stanchezza che la fece crollare sulle ginocchia si unì presto a una meravigliata soddisfazione alla vista di quel magnifico edificio dalle forme neoclassiche, costeggiato da sontuose colonne in stile dorico e circondato da un lussureggiante giardino di viti, ulivi, fiori di verbena e arbusti aromatici. Dopo aver finalmente ripreso un po’ d’aria, Hilda si alzò in piedi, intravedendo con la coda dell’occhio un campanello alla sua destra, il quale recava sopra di esso una targhetta aurea con il nome “Harmonia” incisovi sopra in un elegante corsivo.
Come da primo istinto, il dito indice della sua mano puntò verso il bottone, ma venne subito frenato da una passeggera angoscia che impedì alla ragazza di premerlo. E se non le avesse risposto nessuno? O forse il signor Harmonia- così si sarebbe chiamato, a quanto Hilda deduceva dalla targhetta- non voleva essere disturbato? Del resto aveva ancora la fama di capo di una squadra di malintenzionati, e nessuno, probabilmente, avrebbe ancora avuto, anche dopo diversi anni, il coraggio di avvicinarsi alla sua dimora.
“Ma ricordati, Hilda. Tu sei venuta qui appunto per questo. Non fermarti alle voci che la gente si tramanda. Le persone, nel tempo, cambiano.” 
L’Allenatrice torse la testa da ambo i lati guardandosi intorno. Era tutto così silenzioso e rilassante, ma lei era ancora terribilmente tesa. Pochi Sewaddle si potevano sentir frinire tra le foglie, da cui pendeva ancora qualche gocciolina di pioggia residua, risuonando lievemente nelle pozzanghere sotto di esse.
“Magari è meglio che almeno ci provi...” ragionò Hilda, realizzando che altrimenti il gran dispendio di energia compiuto in quel lungo cammino non sarebbe valso niente.
“...Ma se non funziona scappo.”

La tremolante mano ripeté di nuovo il gesto compiuto in precedenza, la falange dell’indice ad appena pochi millimetri da quel campanello restando ferma per svariati secondi; i suoi occhi si saldarono come saracinesche, i suoi denti non smettevano di digrignare. 
“Lo premo? Non lo premo? Vado? MA CHE HAI SCARPINATO A FARE PER TUTTO QUESTO TEMPO, ALLORA!? Oh Arceus, e se qualcosa andasse storto? Ma che dico, devo farmi coraggio. PREMI QUEL DANNATO PULSANTE,HILDA!”
...

Qualche secondo e poi un forte “drin” squarciò quel religioso silenzio. 
Anche i Sewaddle avevano apparentemente smesso di cantare. 
L’Allenatrice aprì gli occhi di scatto, come risvegliatasi da uno strano sogno che la inghiottiva sempre più. Lo aveva fatto. I suoi respiri si facevano ancora più ansimanti, per poi calmarsi al pensiero che lei si dovesse presentare in maniera decente quale ospite di una sì sfarzosa dimora.
Per qualche altro secondo, non vi era ancora nessun fiato, finché Hilda non udì dei passi svelti ammortizzati dalla soffice erba sotto quei piedi.

Un uomo e una donna in bianca divisa, entrambi dai corti capelli arancioni, si avvicinarono lesti alle maniglie del cancello, ciascuno tirandone un’anta per spalancarlo davanti a un’ancora più sorpresa Hilda.
“Signorina...cos’è venuta a fare qui?” le iniziò a domandare la donna senza alcun pelo sulla lingua. “Il nostro padrone non riceve visite importanti da più di quattro anni” spiegò più chiaramente l’uomo- “ho tuttavia udito che forse un ospite avrebbe soggiornato in questa villa. Se ha buone intenzioni e non ha problemi a interagire con il signor Harmonia, può entrare.”
“Ehm...sì, ospite. L’ospite sono io” ridacchiò timidamente Hilda, con una premente paura di esibire qualche figura barbina davanti ai due servitori che, però, le sembravano vagamente familiari. Giurava di aver visto quei capelli e quegli occhi chiari da qualche parte.
S...seguaci? Appartenete al Team Plasma, vero?” domandò con una sorta di lampo di genio che facilmente sarebbe potuto sfociare in una grave gaffe.
“Lo eravamo” annuì la donna, con in viso una leggera, intuibile espressione di vergogna. “Siamo sempre rimasti fedeli al signor Harmonia, ma il Team Plasma non esiste più.”
“Esatto, siamo sinceramente pentiti di ciò che abbiamo perpetrato nelle genti di Unima. Venga, il padrone la accoglierà con calore. Lei sembra una persona interessante.”
“G...grazie...” sorrise Hilda, finalmente più calma e speranzosa, mentre nei suoi occhi brillava un che di tenerezza e di onore allo stesso tempo; i due servi iniziarono quindi a scortarla per mano verso il gigantesco, intarsiato portone della villa.

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Capitolo 6
*** L’incontro ***


 Le dita guantate della servitrice di casa Harmonia spinsero con delicatezza una grossa chiave dorata girandola nella serratura dell’enorme portone; questo, lentamente, si aprì in due emettendo un profondo rimbombo, fra la meraviglia di una ragazza mai stata abituata ad un’opulenza simile.

“Signor Ghecis Harmonia, signorine Anthea e Concordia, abbiamo portato al Vostro cospetto un’ospite intenzionata a godere della Vostra presenza per un po’” esclamarono all’unisono l’uomo e la donna dalla bianca uniforme, introducendo al padrone di casa e alle due Muse, che stavano in piedi ai suoi lati, la timida ma in fondo coraggiosa ragazza appena uscita dagli anni con l’uno come prima cifra.

Sebbene la grazia delle due Muse avrebbe facilmente potuto incantarla,Hilda rimase innegabilmente affascinata dall’uomo che aveva davanti. Il suo corpo slanciato, che si elevava a ben due metri dal suolo, gli conferiva fin dal primo impatto visivo un’aria di potenza e autorità; la sontuosa veste che lo ricopriva, recante misteriosi motivi a forma d’occhio, aveva inoltre un inusuale collare a foggia della merlatura di un castello; ognuno dei merli aveva su di sé una preziosa piastra squadrata in acquamarina, il che accresceva in Hilda l’idea delle grandi ricchezze che quest’uomo poteva possedere. Da sotto quella veste, lunghi e affusolati piedi sbucavano a malapena, cinti da calze bianche e un paio di morbide calzature in cuoio, così come la manica violacea della sua metà sinistra faceva intravedere un candido e snello braccio che terminava in una mano dalle lunghe dita curate.
I lineamenti leggermente angolari del suo viso risultavano oggettivamente armoniosi e ben combinati fra loro; il suo naso dritto e acuto contribuiva all’aria di scaltrezza e perspicacia che lo circondava, e l’occhio color delle fiamme, la cui intensità era accentuata dal distintivo sopracciglio verde chiaro, era misteriosamente affiancato da un monocolo bianco con una lente rossa. Quel piccolo dettaglio assai inusuale, unica asimmetria nell’insieme della sua fisionomia altrimenti perfettamente concorde, instaurò nella ragazza un curioso sentimento di attrazione; forse era proprio quella lieve imperfezione che lo rendeva tanto perfetto quanto egli si dichiarava negli anni antecedenti. E come poteva Hilda dargli torto?
Lunghi capelli d’una tinta verde pastello, reminiscente delle profumate foglie tipiche delle piante mediterranee, ricadevano sulle sue larghe spalle sotto forma di riccioli ordinati, mentre tre ciocche più lisce- due ai lati delle orecchie e una in cima alla fronte- erano rivolte verso l’alto, allungando ancor più la sua figura.

“B-buonasera, signor Harmonia. Sarà un piacere per me visitarla; sono lieta ed onorata di aver avuto il permesso di soggiornare nel suo palazzo per un periodo di tempo” si presentò Hilda, inchinandosi verso Ghecis in segno di rispetto. “E buonasera anche a voi, signorine Harmonia. Sarò felice di far vostra conoscenza” comunicò alle Muse con un’evidente minor timidezza. Esse avevano ancora un’aria giovane, e, per quanto anche loro straordinariamente belle, non imponevano quel senso di eleganza che Ghecis invece aveva.

“Lieto di conoscerla, signorina” sorrise l’uomo chiudendo la palpebra. “Sono Ghecis Harmonia Gropius, proprietario di questa magione, e accanto a me sono le mie splendide figlie, Anthea e Concordia. Spero vivamente che lei possa godere della nostra accoglienza e della nostra presenza, tanto sono deliziato del fatto che lei è venuta a soggiornare qui. Le mie figlie le mostreranno ora una stanza dove poter dormire; fortunatamente, sono provvisto di molteplici alloggi per chiunque fosse disponibile ad essere mio ospite. Ne sono assai grato.”
“Grazie mille, signore” rispose contenta Hilda, facendosi dunque accompagnare dalle due sorelle verso la camera dove avrebbe passato ogni notte del suo soggiorno.

La giovane sorrideva d’innocente piacere. Era rimasta assai positivamente colpita dall’ospitalità del signore e delle sue figlie, e non vedeva l’ora di poter godere del lieve lusso che una camera da letto ben pulita le avrebbe certamente riservato, rispetto a quel sacco a pelo ancora leggermente umido che sarebbe ora rimasto piegato nello zaino per un bel po’.
“Signorina...-qual è il suo nome?” “Hilda, mi scuso” “...signorina Hilda, ecco la sua camera. Le diamo tutto il tempo che vuole per sistemare i suoi effetti; a breve verrà servita la cena” spiegò Concordia sorridendo,mentre Anthea ripiegò su sé stesso un lembo della bianca coperta del letto.

La porta della stanza venne chiusa delicatamente dalle due gemelle, i cui passi delicati si potevano udire sui gradini delle scale che portavano al pianterreno. Non badando a spese, Hilda si sedette sul comodo materasso, tirando fuori dallo zaino lo stretto necessario che aveva portato con sé durante il viaggio; mise immediatamente sotto carica l’Interpoké dallo schermo già spento, sistemando dopodiché i prodotti cosmetici ed igienici nella stanzetta da bagno confinante.
Mentre dalla finestrella si poteva già osservare un cielo ormai al crepuscolo, la ragazza iniziò a pensare alla strana, ma esteticamente appagante famiglia che la stava in quel momento ospitando.
Come potevano loro- soprattutto il maestoso padre, uomo d’innegabile eleganza- essere le menti dietro alla squadra malvagia descritta spesso stereotipicamente dal fratello?
Ancora una volta, Hilda ne voleva sapere di più. Pur non essendo affatto una persona giudicante per alcun tipo di reputazione o fama, era comunque incuriosita di come certe persone, il cui scopo un tempo era quello di seminare terrore, possano negli anni cambiare, pentirsi delle scelte prese nel modo sbagliato, approfittare dei pregi che forse, invece, non si hanno sfruttato nel modo giusto.
Fortunatamente, ora era in grado di potersi fidare di loro, ed era soddisfatta più di prima.

“Signorina Hilda, la cena è servita. Può scendere le scale per raggiungerci in sala da pranzo.”
La porta si aprì lievemente per opera di Anthea, che chiamò Hilda per svolgere il pasto serale. Senza esitazioni e con un gran sorriso stampato sul volto, Hilda la seguì, a malapena cercando di non scendere quei gradini troppo velocemente per evitare di figurar male in quella lussuosa villa.
La Musa dai capelli rosa la guidò verso un riccamente arredato salone, sulle cui pareti erano raffigurati alcuni affreschi di valore. Sulla tavola coperta da una tovaglia color dell’oro, i piatti di sottile porcellana ed i calici d’argento erano disposti in perfetto ordine, così come vi era una decorata brocca d’acqua e una di intenso vino rosso.
Anthea e Concordia si sedettero l’una accanto all’altra su un lato del tavolo, permettendo che l’ospite si sedesse invece a capotavola; infine giunse Ghecis, che come di consueto prese posto all’altro capo della mensa.
Presto, un servitore con indosso un grembiule bianco sopra un formale completo nero pose sul tavolo le portate, rivelando un pasto forse poco lauto per una ricchezza di quel livello, ma di certo invitante e non sovrabbondante: un vassoio di involtini di riso coperti con foglie di vite, contornato da grappoli d’uva fresca, ed un piatto di formaggio molle guarnito con olio d’oliva e mazzetti di erbe appena raccolte.
“Abbia un buon appetito, signorina. Spero che la cena le sia gradita” augurò il padrone di casa, che con finezza sorseggiava il vino mentre spalmava il candido companatico su una fetta di morbido pane.

Dopo aver passato due giorni alimentandosi a barrette che ben poco l’avrebbero potuta saziare, già si poteva intuire come Hilda gradisse quella cena dai sapori ellenizzanti, masticando con gusto piccoli bocconi di riso accompagnati da un po’ d’aceto versato a piacere.
“Complimenti al cuoco. Il cibo è davvero delizioso” esclamò lei fra la soddisfazione di Ghecis e gli sguardi compiaciuti delle due figlie. Quei gusti per lei inusuali e particolari rientravano invece nel consumo quotidiano del saggio, deciso a voler sorprendere la sua unica ospite nel giro di parecchi anni con un tipo di cucina che sicuramente non aveva mai provato... e che, con successo, si era rivelata un tentativo molto ben riuscito.

Terminata la cena, Hilda si alzò in piedi ringraziando i presenti, fra i reciproci auguri di buonanotte, per poi recarsi nella sua camera; si tolse i vestiti mettendo invece indosso una camicia da notte che aveva portato con sé nello zaino, senza però pensare di indossarla durante le notti all’aperto per evitare che essa si sporchi o si inumidisca.
Il confortevole abbraccio delle morbide coperte avvolse la giovane in un vortice di benessere, e lei provò nuovamente la sensazione di poter muovere la testa dalla folta chioma su un cuscino, chiudendo gli occhi nella speranza di cadere fra le braccia di Morfeo.

Non fosse stato per quell’atto di coraggio tanto enorme per suonare un così piccolo campanello, Hilda non sarebbe stata dove adesso godeva di quell’atmosfera soffusa e rilassante, né avrebbe potuto avere quella sana voglia d’indagare nella personalità di coloro che così tanto la attraevano.

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Capitolo 7
*** Lui...lei ***


Era passata ancora un’abbondante mezz’ora, e Hilda non era ancora riuscita a prender sonno. La sua mente ancora abituata a quelle brevi dormite a contatto con gli umidi fili d’erba e i ruvidi ramoscelli probabilmente faticava ad assuefarsi a quelle lenzuola forse fin troppo morbide, ma la sensazione di tepore da esse proveniente difficilmente avrebbe impedito il riposo, anzi conciliandolo. Rigirandosi ripetutamente fra le pieghe della coperta, lei stessa si chiedeva cos’è che stesse tenendo sveglia la sua giovane mente, seppur non turbata o angosciata. Forse era ancora troppo presto? O lei si sentiva troppo lontana da casa sua? Era vero che, effettivamente, non aveva mai trascorso una notte così distante dalla propria ristretta stanza da letto dalle cui variopinte pareti si poteva sentir trasparire la rassicurante voce della madre, e dalla cui finestra ogni mattina un raggio di luce si posava delicatamente sul suo volto per svegliarla. Adesso era sola, volontariamente affidatasi a persone a lei sconosciute, cercando di fidarsi di coloro che per giunta avevano un tempo la nomea di individui inavvicinabili. Ma ciò la faceva sorridere, in qualche modo. Lei aveva avuto il coraggio di approcciarsi a loro di sua pura sponte, e ora stava anche godendo del privilegio di un alloggio decisamente più caldo e comodo rispetto a quello che chiunque altro poteva possedere. Fra una fugace perplessità ed un’altrettanto effimera sensazione di gratificazione, Hilda si sentiva come una principessa nel castello di un cattivo... Una principessa coraggiosa, che quasi si era rapita da sé, decidendo ella stessa di provare l’ebbrezza di trarsi in balìa delle mani di un malvagio ormai non più tale. “La vita non è una fiaba, Hilda. Lo so, sei ancora giovane e hai probabilità di correre un rischio forse eccessivo per la tua portata. Ma questo te lo devi ficcare in testa: chi vuole conoscere deve farlo di persona. In qualunque modo si mostrerà il soggetto della tua indagine, dovrai trovare un modo per reagire a riguardo.” Per lei era ormai il momento di gettar via il sentito dire, prospettandosi invece verso un allargamento dei confini della sua mente, un desiderio immane di conoscenza. “Sono certa che il perfido di ieri può benissimo essere l’eroe di oggi. Io, Hilda, ne darò la prova. E se così non fosse, perirò soddisfatta.” ...perirò soddisfatta. Un sussulto balzò improvviso nella sua mente, al seguito del quale un brivido le percorse la schiena, come fosse stato attivato da un ingranaggio. Cosa aveva appena mormorato, o magari solo pensato, colei che tanto coraggiosa si professava? Tanto il Team Plasma era ormai svanito da un bel po’ d’anni, se qualcuno di loro avesse celato ancora un’oscura trama sarebbe finito nuovamente nell’occhio del ciclone. Ormai era sicura che i suoi membri fossero redenti...certo, non se tutto ciò fosse una copertura per passare all’azione quando il popolo di Unima nemmeno se lo poteva aspettare. E lei, magari, sarebbe stata la prima, imprudente cavia di un loro eventuale piano. Non era quello il destino che lei aveva ed avrebbe scelto; tutte le sue certezze sul fatto che il Team avesse deciso di smettere con la sua politica di terrore per iniziare da zero sembravano divenire sempre più traballanti, la paura instillava in lei un impellente desiderio di scappare, il coraggio di così spericolate decisioni forse avrebbe fatto meglio ad essere sostituito da una vita più sicura e noiosa. Avrebbe dovuto fidarsi, alla cieca, di ciò che le avevano detto il giorno stesso i rutilanti servitori dinanzi all’imponente portone della villa? “...Non ne posso più...” Hilda si levò di scatto sul piede tremante, ormai sopraffatta dalla paranoia che non le permetteva il sonno e che le tarpava ogni speranza. Non poteva continuare a trascorrere la notte in tal modo, consentendo a paure probabilmente futili di drenare tutte le energie che aveva in corpo. “Andrò a bere un bicchier d’acqua. Devo calmarmi.” Dopo un paio di affannosi respiri, la ragazza s’incamminò verso il piano inferiore dimenticando le pantofole, mentre scostava delicatamente le disordinate ciocche brune dal viso ancora lucido. Spaesata in quell’ambiente così vasto, riuscì tuttavia ad adocchiare la porta aperta della sala da pranzo a cui era annessa la cucina, alla quale ella bramava al fine di inumidirsi la gola asciugata dall’ansia. “Ah ah, ancora in piedi, signorina Hilda? “ La furba, ma simpaticamente curiosa voce maschile emerse in quel vago silenzio, facendo di conseguenza roteare verso di sé il viso sorpreso di lei, che per poco non avrebbe rovesciato il bicchiere colmo d’acqua fresca. “...Oh cielo, chiedo venia, non avevo intenzione di spaventarla...” si scusò, ora più piano, l’uomo in pigiama nero sulla soglia della porta- “mi perdoni se l’ho colta troppo di sorpresa. ...Sete,anche lei?” “Si figuri, signore. S-sì...sete.” Hilda gli sorrise timidamente, come per rispondere allo stesso imbarazzato sorriso che lui aveva assunto. Anche il bicchiere d’acqua per il quale lei si era alzata senza indugiare era ormai stato accantonato dalla vista di quel candido volto genuinamente impacciato, contornato dai boccoli verdi, che pareva sfumare l’autorità- seppur mutata in bontà d’intenzioni- della sua figura in una protettiva dolcezza. “Prenda tutto il tempo che le serve,signorina!” L’uomo riprese ad assumere un tono ben più allegro, seppur privato di ogni cinismo, forse nell’intento di distogliere Hilda dal minuscolo incidente accaduto qualche secondo prima. “E non esiti a rivolgersi a me in caso di bisogno. Le auguro una buona notte, mia ospite!” “B-buona notte anche a lei, signore... La ringrazio ancora per l’ospitalità da lei fornita” gli rispose dunque un’Hilda ormai calmatasi, mentre oltrepassava a passo lento la soglia della sala da cucina per raggiungere nuovamente il letto e finalmente dormire senza alcun timore. Ghecis continuò a tenere fisso sulla soglia il suo sguardo, incuriosito quanto intenerito dalla giovane e timida ospite da lui conosciuta e accolta solo qualche ora addietro. Era come un onore, per lui, aver ricevuto una visita così spontanea dopo diversi anni di solitudine, accompagnata poi da un forte pentimento che non aveva, però, attecchito nei cuori di coloro che lo conoscevano, o forse neanche giunto alle loro orecchie. Aveva deciso, in un velo di prudenza un po’ timorosa, di ritirarsi nel suo privato, scortato da pochi fedeli che vollero perdonare lui e loro stessi. Nessuno più parlava del tanto acclamato, poi tanto temuto Ghecis, che ora poteva godere di un po’ di silenzio e di tranquillità, nei quali si dilettava a coccolare il proprio corpo fra aromi e rilassati pensieri, nonché a dedicare una generosa parte del suo affetto alle altrettanto raffinate figlie. Era provato, tuttavia, dal senso di solitudine che ancora non era riuscito a colmare; il suo muto volto rassegnato e reduce di un controverso passato non faceva trasparire che un misero barlume di speranza nei confronti della giovane castana, la quale avrebbe probabilmente soddisfatto il suo desiderio di compagnia almeno per qualche giorno. Eppure Hilda, adesso beatamente avvolta in quei soffici drappeggi di lino, pareva notare che il tormento da lui provato non era riuscito a scalfire l’eleganza e lo splendore che, tanto il suo corpo quanto la sua parola, non smettevano mai di sprigionare.​

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