Teenlock

di YellowSherlock
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** L'ultimo anno ***
Capitolo 2: *** Precarietà ***
Capitolo 3: *** Promesse compromesse ***



Capitolo 1
*** L'ultimo anno ***


“Cazzo, Harriet! Vedi di darti una mossa!” Dissi, cercando di invogliare mia sorella ad accorciare i tempi.
“Siamo incredibilmente in ritardo, ed è solo il primo giorno di scuola!” Proseguii, irritato.
Avrei dovuto affrontare l’ultimo anno di college e la mia ansia era direttamente proporzionale alle ore che si avvicinavano al suono della campanella.
Hariett si trascinò con le cuffie alle orecchie.

“Rilassati JohnnyBoy, tanto è inutile affannarsi.” Mi disse, poggiandosi alla porta della mia camera.

 

“Forse per te! Io vorrei entrare a medicina l’anno prossimo, quindi no, per me non lo è!”
proseguii mettendo alla rinfusa libri nello zaino e prendendo con cura il fascicolo da sopra la scrivania, incasinata il triplo.

“Forza! In macchina!” Incitai , ed Harriet mi seguì con il solito pesante passo.

Una volta arrivati al college, lasciai Harriet accanto al gruppo dei suoi amici e mi diressi fino al parcheggio della zona “studenti dell’ultimo anno”.
Parcheggiai la mia piccola automobile tra quelle enormi dei miei amici miliardari e mi guardai nel riflesso di un finestrino.

“Sono fiero di me.” Cercai di convincermi.
Non avevo mai avuto l’occasione di poter studiare senza lavorare, i miei genitori non potevano più curarsi né di me né di Harriet poiché morti da qualche anno, dunque dovevo riuscire a garantire un futuro a mia sorella, un futuro a me e continuare a lavorare per la sopravvivenza.

“Un giorno avrò anche io una splendida auto!” Mi dissi, ancora, poi inforcai il mio zaino colmo e passai una mano nei capelli dorati.
Diedi una stirata con l’altra mano alla maglia nuova e inspirai.

“Va, soldato!”

Attraversai i cancelli che separavano la zona auto dal giardino in cui erano già riuniti gran parte dei miei compagni.
Camminai per quelli che furono cinque minuti, fino a quando qualcuno non mi chiamò.


“Watson! Dove scappi?” Disse Mike, incitandomi ad avvicinarmi.
Fui felice di incrociare il suo sguardo, almeno c’era un viso amico.

“Mike, amico mio!” dissi, abbracciandolo.

“John!! Che bello rivederti!” disse, ricambiando.

“Com’è andata l’estate?” chiesi.

“Solite cose. I miei divorziano.”

“Oh. Mi spiace tanto Mike.”

“No non dirlo, meglio così. Troppi litigi, o divorziano loro o vado via io.”

“Ti comprendo. Per qualsiasi cosa sai che ci sono.”

“Sempre, Watsy!”

Sorrisi, Mike meritava davvero tutto il bene del mondo.

“E tu?” Disse.

“Ho lavorato tutta l’estate , sai, i miei zii si sono scrollati dalle responsabilità!”

“Cavolo! Se hai bisogno di soldi io…”

 

“No Mike, ti ringrazio! E’ tutto sotto controllo! Lavoro come cameriere da Speedy’s, a North Gower Street, conosci?”

“Ma certo! Ci passo sempre da quella via, se lo avessi saputo…”


“E’ questo il punto, nessuno deve saperlo!” dissi, sorridendo.

Mike ricambiò la mia ironia e poi ci avviammo sul sentiero del parco per poter dirigere nell’atrio della scuola.

Discutemmo del più e del meno e dei vecchi amici con cui nulla avevamo condiviso in passato e nulla avremmo voluto condividere in futuro.

“Oh Cristo, John. C’è Lisa.”

“Ignorala Mike. Dopo quello che ti ha fatto, perché mai dovresti salutarla?”

“Mmmh, sembrerà scortese.”

“Ti ha tradito con il tuo migliore amico. Cosa dici?”

“Non era il mio migliore amico, sei tu il mio migliore amico!”

“Ah! onorato, Mike!”

“Come se tu non lo sapessi!” sorrise, tirando diritto dinnanzi a quella ragazza.

“Bravo, ci sei riuscito.”

“Mi ha guardato?”

“Neanche per un attimo.” dissi, mettendogli una mano sulla spalla.

“Watson così ci prenderanno per una coppia.”

“Ma andiamo! Io? Mi ci vedi? Mi conoscono tutti come Super Watson.”


“Ma non si conosce neanche l’identità di una delle tue ragazze.”

“Non sono un romantico come te, Mike.” Continuai sorridendo, cercando di scacciare via il pensiero che avevo meritato un titolo di latin lover solo poiché carino e solitario, ma che se avevo baciato due ragazze nel giro di dieci anni era già troppo.

“Guarda, Mike. Sandra, Louis, Charlotte e Kate. I mali non vengono mai da soli.” dissi, indicando un gruppo di persone da cui prendemmo le distanze nell’ultimo mese dell’anno precedente.

“Ahah! Hai proprio ragione, Watson. Evitiamoli, come con l’aglio.”


“L’aglio è buono, Mike. Li evitiamo come la peste; ecco, quella me la risparmierei.”

Mike rise di gusto e aggiustò la cartella che scivolava spesso sulle sue forme tonde.
Tolsi la mano dalla sua spalla per non metterlo in difficoltà, e una volta arrivati sul marciapiede di fronte agli scalini della scuola, un auto nera con i finestrini oscurati sfrecciò, tagliandoci la strada.

“Vaffanculo, stronzo!”
Urlai , cercando di farmi sentire.
Ero convinto che quell’auto non si sarebbe mai fermata proprio a pochi centimetri da noi, e mi pentii subito.
Non potevo scappare.

Quando vidi aprirsi una portiera mi congelai.

“Bravo Watson!- sorrise Mike - adesso ci becchiamo anche qualche schiaffo. Così, come buon augurio per l’anno nuovo.”

“Ssh Mike, scappiamo.”

Una scarpa lucida e una gamba chilometrica fasciata da un completo maschile mi fece subito capire che tutto avrei ricevuto, tranne che qualche schiaffo.

Un ragazzo con una borsa a tracolla di pelle uscì dall’auto.
I suoi capelli erano ricci e il viso era coperto dagli occhiali scuri.
Doveva avere la nostra età.
Si guardò attorno con sufficienza e ci superò, ignorando totalmente la nostra esistenza.

“Hai chiamato stronzo uno degli Holmes?”

“Chi?”

“Gli Holmes, Watson!  Una delle famiglie più potenti della Gran Bretagna intera."

“Sempre stronzi rimangono.”

“Cristo, non dargli mai corda, mi raccomando, rischi di fare danni.”

“Oh andiamo, come se potessero togliermi chissà cosa.”

“Questo pure è vero!” Disse Mike, ridendo.

“Andiamo dai, stiamo perdendo tempo.” Lo incitai.

Ci dirigemmo nella palestra ove tutti gli studenti dell’ultimo anno erano riuniti per essere smistati nelle varie classi.
Io e Mike ci sedemmo sugli scalini più alti per evitare di essere coinvolti nelle solite risse tra i rappresentanti d’istituto, e osservammo la scena da lontano.

“Mi mettessero ovunque, basta che ci sia tu. Mi sento già un disadatto il novanta percento delle volte.”

“Hai ragione Mike, con me raggiungi il cento percento.”

“Ovvio. Sei la mia zavorra.”

Ridemmo entrambi, e io non riuscii a soffocare il suono.
Qualcuno davanti mi guardò come a dire “ Ma non ti interessa nulla di tutto ciò?”
e io risposi con una smorfia per rispondere “I cazzi tuoi !? quando!?”

Mentre gli altri prendevano decisioni di cui poco mi importava, visto che il mio unico scopo era passare gli esami di medicina e non di capire chi potesse comandare per nove mesi, osservai tutto ciò che mi circondava.
Vidi il famoso Homes, Holmes, o come diamine si chiamava, che aveva tolto i suoi occhiali.
Li teneva pendenti sull’incavo della camicia e aveva le mani unite poggiate sulle sue gambe.
Era seduto sullo stesso nostro gradino ma era da solo.
Aveva l’aria di qualcuno che cercava di capirci qualcosa e che considerava tutti noi una banda di coglioni patentati.

“Mike…”

“Watson…”

“Che cazzo di problema ha questo Holmes?”

“Nessuno, che io sappia.”

“Andiamo guardalo, il primo giorno di scuola e indossa un completo. Che cazzo crede di fare? Un meeting?”

“Ahahah! Watson, come fai a non sapere nulla sugli Holmes?”

“Come fai tu a sapere tutto sugli Holmes?!”

“Forse perché sono nobili e vivono ai piani alti come la regina?”

“Ma dai, nobili.”

“Sono Marchesi, Watson. Sai almeno che abbiamo la regina, vero?”

“Mmmeh, più o meno.”

“Cristo, Watson.”

“Scusa ma, che ci fa un marchese in questa topaia?”

“Credo se lo stiano domandando tutti, ma la risposta io la so.”

“Certo. Cos’è che tu non sai?”

“La so perché seguo i giornali!”

“Dimmi tutto, Pàmela.”

“Ssssh! Intanto io lo so e tu no, dunque, non te lo dico.”


“Dai, scherzo.”

“Mmmh. - disse arrendendosi al mio faccino supplicante-
E va bene. Ad ogni modo il Marchesino frequenterà l’ultimo anno di scuola qui perché deve restare lontano dai riflettori.
Alcuni dicono che si sia cacciato nei guai, altri dicono che sia un genio e che quindi alcuni professori lo hanno voluto qui per un progetto a cui stanno lavorando e di cui noi non dobbiamo saperne nulla.”

“Come sempre. I caproni per ultimi.”

“Sarai un ottimo medico, Watson. Ne sono certo.”

“Anche tu, Mike.”

“In realtà io vorrei insegnare.”

“Whaaaaat?!”

“Sì.”

“Vorresti vivere eternamente in un liceo, oh dio, che hai fumato?!” dissi, alzandogli gli occhiali e tirando su la palpebra per controllare il rossore.

“Andiamo Watson!! Smettila di scherzare!”

“Ahahah! Sei troppo divertente, Mike.”

“Tu no!”

restammo a litigare per qualche minuto fino a quando il preside non iniziò a leggere le liste e ci trovammo smistati tutti in classi differenti.
Io e Mike ci trovammo nella stessa classe solo per due materie, le altre cinque fummo divisi e capitammo, in tempi diversi, entrambi con il signorino Holmes.

“Dio Mikeee! No!”

“Lo so, Watson. E’ ingiusto!”

“Uff! Ma che cazzo! Si prospetta un anno di merda!”

dissi, dando un calcio alla cartella e riprendendo posto.

Il mio grigiore fu subito analizzato dall’Holmes che mi guardava sott’occhio.
Ricambiai il suo sguardo velocemente.

“Che cazzo, non ha mai visto qualcuno indiavolato?!”

“Cosa?”

“Il Marchesino lì, mi guarda male."

“Ma che ti importa dai! Andiamo in classe piuttosto, Cristo. Sono con Jackson Leroy…non poteva andarmi peggio.”

“Oh Dio. Davvero.”

Leroy era un ragazzo che inspiegabilmente aveva ogni settimana una penna esplosiva nella cartella, e dunque il banco su cui bisognava poggiarsi per studiare diveniva un’ eterna pozzanghera di inchiostro.

“Ti riconoscerò dai segni sul viso.” dissi, mimando a Mike i segni sulle guance come gli indiani.

“Stronzo.” Mi disse.

“A più tardi.” Agitai una mano.

“A dopo."

Ci dividemmo e raggiunsi il corridoio dove era situata la mia aula. Persi di vista Mike e fortunatamente sfuggii anche agli occhi del nuovo principino.
Mi irritava la sola idea che dovessi condividere con lui il mio ossigeno, non so, era una cosa d’istinto!

Duecentodiciannove B. Duecentoventi B. Duecentoventuno B.

La mia classe era lì. Duecentoventuno B.
Dio.
Che palle.
Un’infinità per pronunciare solo la classe!

Entrai assieme agli altri e mi sistemai in un banco in fondo.

Quando il professore di chimica iniziò la lezione, mi concentrai e iniziai a fare sul serio.
Chimica l’avrei ritrovata nei test d’ammissione a medicina e nulla, neanche la mia coglionaggine mi avrebbe mai distolto dall’obiettivo.

A quindici minuti dell’inizio, tre tocchi alla porta ci interruppero.

“Avanti.” Disse il Professore.

La porta si aprì e spuntò dietro il marchesino.

“Oh cristo.” Pensai “ mi manca solo lui dinnanzi, con quel cespuglio che ha in testa non vedrò mai più alla lavagna.”

“Psss. Jack.” dissi, rivolgendomi al ragazzo dinnanzi a me che aveva un posto libero.

“Ti prego, metti qualsiasi libro su questa sedia, non posso averlo davanti tutta la lezione!”

“Che ti ha fatto di male?” disse.

“Nulla, ma non ce lo voglio qui dai!”



“Salve, Professore. Mi scusi per l’interruzione, sono nuovo e non avevo idea di dove fosse l’ala delle classi dalla duecento in sù.”

“Non si preoccupi, Holmes! - disse il Professore, mostrando un sorriso fin troppo cordiale per un alunno.” Si accomodi accanto a …”

Io calai il capo e Jack riuscì a coprire il posto.

“Mmmh. Watson! Fai passare il tuo compagno davanti così Holmes siederà accanto a te e non ostacolerà la vista, considerando la sua altezza.”

Cristo. Lo odiavo ancora di più, se possibile.

Il mio amico di banco passò avanti e il marchesino si sedette accanto a me.

Non ci guardammo neanche per un secondo, e nessuno dei due fu spinto da nessuna voglia di socializzare.
Realizzai, tra le mille cose, solo che aveva un buon profumo e che invidiavo quella sua eleganza.

Lo osservai prendere appunti, aveva una penna stilografica, ovviamente, e un taccuino di pelle che odorava di nuovo.

Riportai lo sguardo sul mio quaderno con gli orsi polari comprato in un supermarket spicciolo e cercai di nascondere con vergogna sia lui che la penna mangiucchiata agli estremi.
Avevo tutta l’intenzione di ridere, perché mi sentivo ridicolo.
Perché mai avrei dovuto vergognarmi?
Intanto, continuai a farlo.

A fine lezione cercai di riposare tutto con estrema fretta per poter filare via, ma mi accorsi che la mia bottiglia di acqua si era completamente rovesciata nello zaino, e dunque i miei libri erano completamente zuppi.

“Porca puttana!” Mi uscì, silenziosamente, dalla bocca questo termine.
Presi la mia cartella gocciolante e la poggiai sulla sedia cercando di arginare il danno con un fazzoletto che avevo riposto in tasca.

Nessuno se ne accorse, a parte lui.

Nel caos generale del cambio classe, il marchesino mi si avvicinò.

“I tappi vanno chiusi, lo sai, no?”

La mia voglia di prenderlo a schiaffi adesso era palese e motivata, e quando vide che non avevo nessuna intenzione di scherzare continuò:


“Andiamo amico, scherzo. Serve aiuto?”

“Non da te, ovviamente.”

“Oh. Ok.”

sul suo viso apparve un po’ di delusione ed io rimediai comprendendo che forse non era il caso di essere così scortese con un nuovo arrivato.
Benché lui fosse miliardario, con un posto all’università già acquistato e l’aria di chi poteva avere qualsiasi cosa nella vita.

“Mi spiace, scusa. Non volevo essere scortese. E’ che sono gli unici libri che ho, o questi o la bocciatura.”

“Dio, quante sciocchezze. Seguimi, ti insegno un trucco.”

Ero così disperato che accettai subito la sua richiesta, pur di salvare quello che restava della mia possibilità di accalappiarmi un posto all’università.

“Vieni di qua.”

mi portò in un corridoio laterale e spuntammo su di un giardino invaso dai raggi del sole, riservato alle ore di pallavolo.


“Scusa, ma tu non eri quello che non conosceva l’ordine delle classi?”

“Come hai detto che ti chiami?” Mi interruppe.

“Non l’ho detto.” Risposi.

“E dunque sei…?”

 

“Watson. John Watson.”

“Bene John Watson, sappi che di tutto ciò che dico solo l’1% è verità.”


“Oh questo la dice lunga su di te.”

“Mmm no, non credo. Ad ogni modo non è questo il punto.
Dammi i libri e dimmi qual è il tuo prossimo corso.”

Gli diedi quell’ammasso di carta spugnosa nelle mani e lui lasciò cadere la tracolla nell’erba.

“Dovrei già essere a matematica e dopo a biologia.”

“E’ il tuo giorno fortunato, allora!”

“Ah si? Io non direi.” dissi, indicando il mio pantalone contaminato dall’acqua e dalla carta che ne era rimasta attaccata nel prendere i libri.

“E invece sì. Ho anche io i tuoi corsi, quindi ti aiuterò con i libri. Intanto questi li lasciamo su quel muretto lì e li riprendiamo tra due ore.”

“Credi funzioni davvero?”

“Certo. Sei fortunato perché è uno di quei pochi giorni in cui c’è il sole a Londra. Adesso se la smetti di lamentarti, possiamo andare a matematica.”

Restai a guardarlo per una frazione di secondi cercando di capire perché mai dovesse essere così gentile con me.
Quando riprese la sua tracolla e si incamminò, lo seguii frettolosamente.

“Io sono Sherlock, comunque. Sherlock Holmes. Ma credo tu già sappia chi io sia, non si parla di nient’altro che della mia famiglia sui giornali di gossip.”

“Non leggo giornali di gossip, non so chi diamine tu sia.”

Lui si fermò e mi guardò negli occhi.

“Finalmente qualcosa di buono, oggi.”

e riprese il cammino, lasciandomi in una marea di dubbi che si sarebbe presto scagliata su di me.

“Scusa, fammi capire, odi essere famoso?”

“Io non sono famoso, Watson. Io sono perseguitato, tutti attendono un passo falso da parte della mia famiglia per poterci mettere in ridicolo, così come tutti quelli che sono connessi con la famiglia reale inglese.”

“Ma a chi importa, onestamente?”

“A tutte le persone senza cervello, mi pare scontato.”

 

Nel parlare, non mi accorsi che raggiungemmo la classe di matematica.

“Prego.” mi disse, dandomi la precedenza.
Nessuno mai mi aveva dato la precedenza, e quel gesto mi fece sentire improvvisamente divertito.

“Grazie.” dissi, cercando di trattenere battute sulla galanteria.

“Bene - disse, raggiungendomi - io direi di prendere quel banco lì così possiamo condividere il libro.”

“Oh. Ok, ti ringrazio.”

“Figurati.”

Prendemmo posto e nel giro di pochi minuti e Sherlock cacciò dalla sua tracolla un enorme libro di matematica.

“Questo non è il nostro.” Gli dissi, facendo segno con le mani che fosse troppo alto e troppo immenso e troppo…da ingegneri della Nasa!

“Lo so, è il mio. Ma la matematica è una. Troveremo lo stesso argomento a cui ci introdurrà il Professore.”

“Cristo. Io già ne capisco un quarto di tutto quello che dice!”

“Oh no io sono molto bravo, invece.”

“Non ne nutrivo dubbi.” dissi, seccato da quella sua continua e crescente perfezione.

“C’è qualcosa che non sai fare?”

“Moltissime.”

“Per esempio?”

A quella domanda non ricevetti risposte poiché il professore entrò e la lezione ci divise per cinquantacinque minuti.


“Semplice, no?” Esordì Sherlock guardandomi con fare saccente.
Io evitai di risponderlo poiché lui non era Mike, e dunque con lui non potevo far partire la mia compilation di parolacce.

“Andiamo, Watson. Speriamo che biologia ti sia meno ostile.”

“Holmes, a biologia mi siedo in un banco unico.”

“Ti ricordo che non hai i libri.” disse, ridendo.

“Preferisco fissare le mosche che trascorrere un’altra ora accanto a te.”

Sul suo viso apparve un’ espressione leggermente delusa, e non feci nulla per ostacolarla.

Cambiò argomento, immediatamente.

“Faccio una tappa in presidenza, devono darmi le chiavi dell’armadietto. Ci vediamo….dopo, semmai.”

disse, liquidandomi.

Io restai fermo, e lui si dileguò non riuscendo a darmi il tempo di replicare.


“Sei stato proprio stronzo, John.” Ripetei tra me.

Una volta entrato nella classe di biologia mi diressi verso il banco in prima fila, e con un piede bloccai la sedia accanto la mia in modo tale che nessuno avesse potuto prendere il posto della mia nuova conoscenza.
Glielo dovevo.


“E’ occupato?” “Sì.”

“Potrei sedermi qui?” “No.”

La lezione cominciò poco dopo e di Sherlock non vi era traccia.

Il professore continuava a fare disegni strani, scriveva nomi senza alcun senso.
Poi mi accorsi che a venti minuti dalla lezione non avevo decisamente preso in considerazione la l’idea di impegnarmi a capire di cosa stessimo parlando.

“Dove diamine si è cacciato?” dissi, a me stesso.

La lezione continuò e persi tutte le speranze.

*DRIN* la campanella segnò la fine dell’ora, e io capii che se nelle prime ore della giornata potevo avere occasione di stringere una nuova amicizia, adesso era tutto andato perduto.


Uscii dalla classe guardandomi attorno e cercandolo tra la folla.

Non lo trovai.

Mi diressi verso il giardino “segreto” e ripresi i miei libri accorgendomi che erano davvero asciutti, e che il mio anno era salvo.
Li riposi nella mia cartella e mi diressi verso la sala mensa.
Continuai a non vedere Sherlock da nessuna parte.
Presi il vassoio e mi diressi verso la fila, diedi un’occhiata al mio cellulare per controllare le chiamate di Harriet.
Trovai un messaggio.


*I libri sono tornati come nuovi. E’ stato bello fare la tua conoscenza, buon anno, John.*

Cosa?! Chi gli aveva dato il mio numero? E perché mi ha liquidato così? La mia voleva essere una battuta!



*Sherlock, ma dove sei finito? Ti sto cercando ovunque.*

*Sono a mensa*

*Anche io. Non ti vedo.*

*Guardi ma non osservi, Watson.*


sospirai cercando di reprimere la mia voglia di urlargli contro.

*Non ti conosco e già mi dai sui nervi*

*Bene, allora non ti girare così vado via ed evito di beccarmi uno schiaffo*


Mi girai immediatamente e lo trovai appoggiato, semi seduto, su uno dei tanti tavoli. 
Agitò una mano mentre aveva stretto il suo iPhone nell’altra mano.

Mi avvicinai uscendo dalla fila.

“Perché non sei venuto a biologia?”

“Perché il preside mi ha trattenuto."

“E perché mi hai liquidato in quel modo?”

“Credevo ti dessi fastidio.”

Lo guardai e il fatto che pensasse ciò mi ferì moltissimo; mi irritava da pazzi ma la sua gentilezza mi aveva colpito a tal punto da convincere me stesso di potergli dare una chance.

“Non mi dai fastidio, Holmes. Anzi,ti ringrazio per avermi aiutato con i libri, non potevo acquistarne di altri. E…se tu accettassi di pranzare con me ne sarei felice.”

“Mhh, solo se ci sono le patatine.”

Sorrisi e annuii.

“Andiamo, forza.”

Rifacemmo la fila e io presi del pollo con della salsa. Lui solo le patatine.

Ci dirigemmo verso il primo tavolo libero e iniziammo a mangiare.

“WATSOOOON!!” Sentii urlare, dall’altro lato della sala.

Cazzo, Mike. Come avevo fatto a dimenticarmi di Mike?

“Mikeee!” urlai, alzandomi e agitando la mano.

Lui mi raggiunse col suo vassoio e io lo invitai ad accomodarmi.

“Cristo, Watson. Una mattina di scuola separati e già ti sei dimenticato di me?”

 

“Ma no, Mike, cosa dici! Lo sai che ti adoro!”

dissi, tirandogli una guancia.

“Smettila, lo fa sempre mia nonna.”

“Per questo lo faccio sempre anche io.”

Ridemmo entrambi e Sherlock iniziò a studiarci con uno sguardo che mi sembrò infastidito.

“Sherlock, lui è Mike. Mike lui è Sherl…”

“Sherlock Holmes, ovvio. Conosco tutto di te.”

Sherlock si raddrizzò sulla sedia e la sua espressione divenne ancora più investigativa.

“Ho detto qualcosa che non va?”

“Oh. Oh no, figurati. E’ che…Non si può conoscere qualcuno solo perché alcuni giornali raccontano qualcosa, no?”

“M-ma c-c-erto, scusami! Io volevo d-d-ire che sei, fa-famoso, no?”

“No. Parlano semplicemente di me."

“Ah.” Disse Mike, affondando dietro al suo purè.

Cercai di riprendere in mano la situazione, ma continuai a non comprendere l’oscura ombra che era caduta sul viso del mio nuovo amico.

Finimmo il pranzo e ci dirigemmo verso l’uscita, l’ultima lezione era Letteratura per loro e Musica per me; non ero con nessuno di entrambi, ma loro sarebbero rimasti insieme.

“Allora ci vediamo domani, Sherlock.” dissi, e lui mi tese una mano per stringerla.
Io lo guardai divertito e poi gli feci segno di stringerla in un pugno per poterlo salutare in modo giovanile.
Lui continuò a fissarmi imbambolato e il mio sguardo su di lui non si affievolì.
Continuai a guardarlo insistentemente per cercare di capire a cosa diamine stesse pensando e nel frattempo, senza mai distrarmi, salutai Mike.

“Ci vediamo oggi pomeriggio, Mike. A casa mia.”

“Certo.” Disse Mike, guardandoci.

Notai nello sguardo di Sherlock un lampo che mi fece rabbrividire. Ma non ci diedi tropo peso perché non fu la prima cosa strana che capitò in quella mattinata.
Mi congedai e li lasciai avviarsi nella classe di Letteratura mentre io mi dirigevo nell’aula musica.

Era l’ora più piacevole della settimana, frequentavo il corso da qualche anno ed avevo imparato a suonare il violoncello.
Si tenevano spesso corsi di musica da camera ed io ero divenuto uno dei preferiti del direttore d’orchestra.
Poiché non potevo permettermi l’acquisto di un violoncello, la scuola ne riservò una sezione per tutti i ragazzi in difficoltà economiche.
Quello che mi capitava di suonare più spesso era un meraviglioso Stentor; era ambito da tutti ma poiché io arrivavo sempre in anticipo, avevo la possibilità di prenotarlo prima.
Lo amavo con tutto il cuore.
Il suo suono era pieno, romantico, sensuale.
Era completo.
Avrei pagato qualsiasi cifra solo per averlo a casa, anche solo per guardarlo!
Entrai nella classe e purtroppo, per perdermi in chiacchiere, non riuscii a prendere lo Stentor.

Mi capitò un violoncello di marca minore, non il peggiore, ma che davvero non rispondeva alle mie dita.
L’ora di musica, ad ogni modo, passò comunque e, restando con un po’ d’amaro nelle corde del mio corpo, uscii immediatamente al suono della campanella, cercando di non innervosirmi.
Avrei potuto suonare di nuovo tra una settimana, senza avere per nulla la sicurezza di poter affondare le mie mani nello Stentor, e questo mi oscurò abbastanza per restare giù di tono per tutto il pomeriggio.

Mi diressi verso l’uscita ed il parcheggio, incontrai qualche amico che non vedevo da mesi e scambiai qualche parola, per potermi distrarre.
Mike e Sherlock apparirono lontani, sorridendo, evidentemente avevano fatto conoscenza durante l’ora di Letteratura.
Li osservai per un po’ e poi mi defilai poiché non ero dell’umore giusto per poter sostenere altre conversazioni.

Chiamai Harriett, la ritirai all’angolo del suo campus e poi ritornammo a casa.

Una volta in casa decisi di riordinare la cucina e la mia camera, che nella fretta della mattinata erano divenute due campi di guerra.
Harriett si nascose in camera sua, come sempre, ed il silenzio tra noi diveniva sempre più tagliente.
Dalla morte dei nostri genitori in quell’incidente stradale, tutto è cambiato.
La vita ci è crollata addosso, e se siamo usciti dalla tempesta restando vivi, è solo perché ci accomuna uno spirito di sopravvivenza ingestibile.

Aspettai l’arrivo di Mike preparando uno dei suoi dolci preferiti: un plum cake con gocce di cioccolato.
Erano mesi che non ne assaggiava uno mio, e renderlo felice mi divertiva.
Lo infornai e dopo pochi minuti suonò il campanello.

Mi diressi alla porta e la aprii distrattamente, ritornando in cucina.

“Ciao Mike! Vieni pure, ho il dolce in forno non posso distrarmi!”

“Oh mio Dio, Watson. Credo di amarti!” disse, facendo scattare la serratura dietro di sé.

“C’è anche Holmes, se non ti spiace.”

Cosa?! Cosa cazz?! Cosaa?!

Restai per un attimo ghiacciato dinnanzi al forno e per non fare brutta figura ripresi.

“No! No-no certo che non mi spiace!”

Cazzo! Mike! Holmes a casa mia, in quel campo di batteri, polvere e caos totale!

“Possiamo?” disse, entrando in cucina.

“Certo, certo!” Dissi io, cercando di non guardarli.
Poi, il buonsenso, mi costrinse a rivolgere loro lo sguardo.

“Ciao Sherlock.” dissi.

“Ciao, Watson!” disse, allungandomi stavolta il pugno.

Sorrisi perché la sua innocenza nel farlo per essere accettato mi provocò un tuffo al cuore.
Ricambiai il suo pugno e poi li feci accomodare in veranda.

“Qui c’è più luce, possiamo studiare meglio.”

“Voglio il dolce! Non mi importa nulla della luce!” Disse Mike.-

 

Io sorrisi e risposi.

“Sei scortese, prima i nuovi amici e poi tu.”

“Oh Holmes, se credi di fregarmi la prima fetta di dolce cominciamo già male!”

Sherlock sorrise.

“Ma no Mike, certo che no.”

Sfornai il dolce e iniziai a tagliarlo, intanto con la coda dell’occhio riuscii a captare lo sguardo di Sherlock che si dirigeva in tutti gli angoli della mia casa.
Provai una profonda vergogna perché il disordine era una condizione che dovevo sopportare, non avevo il tempo per nulla.

“Sherlock - ripresi, e lui fece un balzo dalla sedia - perdona il disordine. In genere sono molto più ordinato di così.”

Lui mi rivolse un dolcissimo sguardo accennando un sorriso.

“John, non c’è nessun problema.” E ritornò a guardare Mike.

Presi il mio vassoio migliore, quello che amava tanto mia madre, in ceramica con fiori dorati.
Presi i piattini della stessa collezione ed anche le tazze per il tè.
Portai tutto in tavola e notai negli occhi di Mike la felicità.

“Watson, posso trasferirmi qui? Ti prego! Mia madre non me la prepara una merenda così!”

Io sorrisi e Sherlock riprese.

“Credo che i genitori di John potrebbero essere contrari a questa osservazione!” disse, inforcando il primo pezzo di dolce.

Un silenzio gelido cadde su di noi, Mike mi guardò con gli occhi supplicanti.

“Cosa?” Disse Sherlock.

“Ehm - riprese Mike - i genitori di John sono morti tre anni fa in un incidente stradale.”

Sherlock lanciò la forchetta nel piatto, innervosito.

“Cazzo! Cazzo! - disse, alzandosi. - Watson, sono così mortificato! Dio. Sospettavo qualcosa ma talvolta non ascolto il mio intuito. Cristo, dovrei farlo, decisamente. Mi perdonerai?”

Sorrisi poggiandogli una mano sulla spalla.

“Non preoccuparti, Sherlock. Non potevi saperlo.”

Tornò a sedersi continuando a chiedermi scusa, e poi io mi unii a loro cercando di riportare l’armonia che si era creata prima. 


“Harriett!” urlai, cercando di farmi sentire da mia sorella.

Spuntò dopo poco dalla porta.

“John! Che diamine ti prende? Mi fai spaventare!”

“Scusami, un po’ di dolce?”

Il viso di mia sorella si riaccese e io le diedi un piattino.

“Ciao Mike!”

“Ciao Harriet!” rispose.

“Oh. Sherlock lei è mia sorella.”

“Piacere, Sherlock Holmes.” E disse, restando indeciso nell’allungarle la mano o fare anche con lei il pugno.

Quando Harriett lo vide in imbarazzo si calò verso di lui e gli lasciò un bacio sulla guancia.

“Ciao Lock!”

Prese la sua fetta di torta, uscì dalla cucina ritornando in camera sua ed io e Mike restammo a fissare Sherlock, ridendo, perché quest’ultimo era rimasto pietrificato dall’ultimo gesto.

I suoi occhi, che con la luce della veranda erano divenuti più verdi che mai, tornarono su di noi.

“Non preoccuparti, LOCK - dissi, sottolineando con ironia - mia sorella non è legata alle etichette.”

Sherlock sorrise e mi guardò.

“Siete una continua sorpresa, mi pare di capire.”

Ci guardammo e scoppiammo in una risata finalmente liberatoria.


Mangiammo il dolce, bevemmo il tè, e ci concentrammo sulla lezione di matematica.
Sherlock ci spiegò dei passaggi fondamentali e le ore di quel pomeriggio trascorsero in un clima di amicizia che mi rinfrancò il cuore. 

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Capitolo 2
*** Precarietà ***


Novembre

“John, dov’è Sherlock? E’ sparito di nuovo?” disse Mike, mentre mi raggiungeva nella classe di Fisica.

“Non saprei, Mike, sono giorni che non lo vedo. Gli ho scritto su whatsapp ma mi ignora, di nuovo. Spunta blu e silenzio.”

“Cavolo, non vorrei gli fosse successo qualcosa.”

“Speriamo di no. Ci tocca aspettare, per l’ennesima volta.”

Entrammo in classe ed io presi posto accanto a Mike.
Il posto alla mia destra era vuoto; Sherlock mancava ormai da giorni da scuola.
La nostra amicizia negli ultimi mesi era cresciuta come se ci conoscessimo da una vita, ragion per cui non riuscivo a spiegarmi quel suo silenzio che talvolta ci divideva per giorni.
Gli capitava, quando c’era, di essere assente con la mente, ma mi ero abituato così tanto alla sua presenza che mi bastava averlo accanto per sentirmi sicuro.

Erano ormai due mesi che lo avevo, bene o male, nei paraggi, e benché io cercai di spiegare a me stesso che appigliarmi ad un amico era una semplice compensazione della mia solitudine, qualcosa dentro me si muoveva in modo silente.
Ero consapevole che sarebbe stato qualcosa di pericoloso, eppure non potevo farne a meno.

La sua amicizia, così come la sua presenza, non mi bastava mai.
Quei giorni senza avere sue notizie furono per me un dramma, poiché quello fu il periodo più lungo del suo allontanamento: non riuscii a mangiare nulla, la mia concentrazione era indubbiamente andata a puttane e anche il mio rapporto con Mike era divenuto più freddo.
Mike aveva il fantastico dono di accorgersi cosa mi facesse del bene o cosa mi facesse del male, e anche se non volle dimostrarmelo, capì che Sherlock stava toccando qualcosa che doveva essere da anni immobile ed ignorato dentro di me.

“John…”

“Mike…” sussurrammo, mentre il professore di Fisica ragionava…da solo.

“Che hai?”

“Nulla, perché?”

“Watson, quando la smetterai di nascondermi le cose?”

“Andiamo, Mike! Che cosa vuoi che ti nasconda!” dissi, agitandomi nel silenzio.


“John, non agitarti. Voglio solo che tu sappia che ci sono.”

“VOI DUE, LAGGIU’! FATE SILENZIO O VI SBATTO FUORI.”

disse il Professore, annoiato dal nostro sussurrare.

Mike prese una matita dall’astuccio e scrisse sul libro.

*Io ci sono, sempre. Intesi?*

*Intesi* risposi io con la mia matita.

Mike mi disegnò un cuoricino sorridente e sul mio viso tornò un po’ di allegria.
Continuai a scrivere.

*Non è che sei innamorato di me? :D *

Mike sorrise e rispose con la penna rossa, stavolta.

*Oh Watson, non penso a nient’altro -_- *

Riuscii a trattenere la risata per non essere cacciato dal corso, poiché mi serviva anche quella materia per i test di medicina.

Una volta conclusa la lezione uscimmo e ci dirigemmo al corso di musica.
Questa volta avanzai il passo per poter accalappiare lo Stentor, mentre Mike si dirigeva con calma poiché il triangolo lo si poteva imitare su qualsiasi barra di ferro.

“Non è vero, Watson. Il triangolo è uno strumento perfetto.”

“Pure il campanello! - dissi, ridendo - Vado!”

“Tienimi il posto!” urlò Mike.

Alzai una mano in segno di Sì, e una volta in auditorium spalancai le porte.

“Watson, sei in anticipo!” Disse il Professore Huge, direttore d’orchestra.

“Lo sa professore, è per lo Stentor.”

“Oh sìsì, certo! E’ lì, prendilo pure tu, è da tempo che non te lo sento suonare.”

“Grazie!”

Lasciai la mia cartella su qualche poltroncina di velluto a caso e presi posto nella prima fila di violoncellisti.

Iniziai ad accordare lo strumento ed intanto poche note risuonavano nell’aria; accordare uno strumento non è semplice, lo devi portare in un luogo diverso da quello in cui ti trovi, e lo devi far cantare in modo tale che una volta smesso, lo strumento stesso possa essere soddisfatto di essere nato per quell’intonazione lì.

“Watson, questo strumento è proprio nato per le tue mani.” Disse il direttore, guardandomi affascinato.

“Grazie professore, lo sento anche io così vicino. E ne sono così…geloso.” dissi, accarezzandolo.

“Dovresti pensare di acquistarne uno, almeno per studiare a casa. Sei un talento.”

“Magari un giorno, chissà…”

Huge capì il mio disagio nell’affrontare l’argomento e continuò:

“Sai che qui puoi venire sempre ad esercitarti. Non nelle ore di lezione, ovviamente.”

“Ma certo, Professore. Le prometto che lo farò.”

“Non sprecarti, Watson. La musica è una delle vie per la quale l’anima torna al cielo.”

A quelle sue parole sorrisi rimembrando le parole di Toquato Tasso, e portai di nuovo il mio sguardo sul violoncello, intonando una suite di Bach.

Fui interrotto dal brusio dei miei amici che si accingevano a prendere parte alla lezione.
Non li guardai poiché avevano appena disturbato il mio atto d’amore, quindi avvicinai l’orecchio di più al mio strumento e con gli occhi chiusi godei quegli ultimi istanti.

Continuai fino a che un ammasso di note da intonare non mi fece perdere l’orecchio, e quando riaprii gli occhi, di fronte alla sezione dei violoncelli in cui ero, vidi Sherlock seduto al posto del primo violino.

Restai per un attimo a guardarlo, non sapevo se essere arrabbiato o felice di vederlo.
L’indecisione del mio sentimento mi paralizzò, fino a quando con uno sguardo gli feci un cenno come a dire: “Che cazzo ci fai qui?”

 

Lui mi sorrise facendo spallucce e subito inforcò il violino, intonandolo in maniera perfetta.

Cavolo, da quanto tempo sapeva suonarlo?
E perché non mi aveva detto nulla in questi due mesi?

Poche scale, pochi accordi doppi, e come un abile fiorettista si mise in posizione per poter soddisfare le richieste del maestro Huge.

“Bentrovati, ragazzi. Spero che voi abbiate studiato le vostre parti, questa settimana.
 Iniziamo con un “domanda\risposta” tra violoncelli e violini, poi vorrò sentire i bassi e poi i fiati.
Percussioni, mi raccomando, attenzione.”

Lo sguardo su Sherlock non lo tolsi, anzi, ero più interrogativo che mai.
Se nelle ultime settimane, il marchesino si era introdotto in ogni sfaccettatura della mia vita, qui no.
Non lo avrei mai permesso.
La musica era solo mia, e tale doveva restare.


Il maestro ci diete due battute vuote per poter entrare nel tempo, e io guidai i violoncellisti attorno a me.

Note sfregate con passione, pizzicati frizzanti e arcate romantiche.

“ E un, due tre….violini!”

Noi violoncellisti ci fermammo e i violinisti iniziarono, capeggiati da Sherlock che era seduto come un vero professionista e che aveva sotto al mento un panno di lino che non gli lasciava rossori.

Anche loro furono trasportati da arcate, leggermente più incisive delle nostre, e poi virtuosismi pazzeschi, con stacchi passionali.
Sherlock era immerso, e nelle parti più salienti mi rivolgeva lo sguardo verde smeraldo.
Dentro di me sentivo rompersi dei cristalli, volevo evitarlo eppure non potei fare a meno di fissarlo imbambolato.

“e un, due…ancora, violoncelli!”

Ripresi, cercando di far leva su quel mucchio di vetri rotti dentro me.
Feci cantare i miei compagni portando il tema fino a che la mia parte da solista non affiorò e allora mi poggia sul violoncello quasi come se gli volessi entrare dentro.
Le mie mani si muovevano abili come sul corpo di una persona che avrei potuto amare, ogni mordente, ogni trillo, ogni vibrato era pieno di aria.
Lo Stentor sotto le mie dita respirava, e ne si poteva sentire il suono a metri di distanza.
Poche note alte per restare nel tema e poi la cassa armonica vibrò di quei bassi così sensuali che le mie ginocchia strinsero quel legno come a volersi trattenere da un gemito di piacere, e quando mi ritrovai a tirare verso di me l’ultima nota, mi accorsi che un ciuffo di capelli mi si era riverso sul viso, e il mio respiro era opposto a quello del mio strumento: era pesante.

Alzai il viso e mi accordi che molti di loro sorridevano per la mia performance che doveva essere stata alquanto intensa.

Riportai gli occhi su Mike che era nell’angolo e lui mi sorrise beato.
Cercai di evitare Sherlock, ma il suo sorriso era così pieno che non potei fare altro che ricambiare.

“Violini!” Riprese Huge.

e Sherlock rispose al mio tema con estrema maestria.

Se io ero riuscito a suonare il violoncello discretamente, per tanti tanti anni, dopo il suo attimo da solista capii che lui era davvero quello che si poteva definire un musicista.
Le vene sul suo collo erano in tensione ma sapevano comunicare una morbidezza ed un eleganza pari ad un marmo scolpito.
I suoi ricci che ormai erano arresi ad ogni pettine, continuavano a svolazzare noncuranti del resto.
La sua perfetta silhouette, fu ancora più accentuata dal suo maglione beige, che lo fasciava come una creatura appena nata.

Mi accorsi che i miei occhi non avevano mai assistito ad una tale meraviglia, e quando mi chiesi cosa mai gli potesse mancare, mi risposi: le ali.

L’ora di musica giunse quasi al termine, dopo che i fiati ebbero la loro occasione, riempiendoci il cuore con caldo metallo.

“Bene ragazzi, siete sempre più bravi! Credo di non aver mai avuto una classe di musicisti come voi!”

Qualcuno innalzò un urlo, altri un applauso e restammo tutti soddisfatti di quella lezione.

“Non dimenticate di studiare le partiture per il concerto di Natale che ci sarà per i genitori, o parenti o amici.
Dalla prossima settimana si comincia.
Mi raccomando! Il metronomo!”

Tra qualche lamentela e qualche battuta, la zona orchestrali si dimezzò, mentre io restai a curare il meraviglioso Stentor, il quale lo avrei rivisto tra una settimana.
Lo portai dietro le quinte e lo poggiai delicatamente nella sua custodia.
Posai l’archetto dandogli un’altra carezza con la pece e poi feci scattare le chiusure in ferro.
Restai a guardarlo ancora un po’, dio solo sapeva quanto avrei pagato per poterlo avere con me.


“Sei proprio sicuro che vuoi fare il medico, Watson?”

Sussultai, uscendo dalla trance dei miei pensieri.
Sherlock era lì dietro di me, con il suo violino in spalla.

“Oh. Ciao. Sì, ne sono sicuro.”

“Io non direi.”

Le sue parole, per qualche motivo a me sconosciuto, mi ferirono moltissimo.

“Tu non dovresti dare sentenze, sai. Soprattutto se sparisci per giorni, senza neanche far sapere che sei vivo. Non è la prima volta che capita, volevo cercare di comprendere ma non riesco, e sinceramente da oggi in poi potresti dirmi anche di dover fare il Papa, comunque non ti darei più attenzione.”

Presi il violoncello in spalla e lo sorpassai.
Lui mi guardò e poi non si spostò al mio passaggio.
I nostri corpi dovettero sfiorarsi per qualche secondo, i nostri sguardi si incrociarono ma io riuscii a scappare.


Mi raggiunse in men che non si dica.

“Scusami, non pensavo ti fossi preoccupato.”

“Ah no? Se io sparissi non ti preoccuperesti? Dopo due mesi insieme, ogni giorno? Se Mike sparisse io mi preoccuperei, perché non dovrei farlo con te?”

“Perché di me non si preoccupa mai nessuno.”

“Non credo sai, se ne occupa spesso la nazione intera!”

mi ritrovai ad urlargli contro.

“Mi di-dispiace John, io, io non sono abituato ad avere delle amicizie, ho difficoltà.
Non riesco mai a capire se qualcuno tiene a me o meno, e tu e Mike siete così carini l’uno con l’altro, che talvolta mi sento come un estraneo venuto al di fuori per rovinare quel che c’è tra voi.”

Le sue parole mi inchiodarono a terra.

“Cosa vorresti dire, scusa?”

“Beh, non vorrei rovinare il vostro rapporto. Non me ne intendo di relazioni ma non vorrei essere neanche la causa di rottura.”

“Aspetta. Aspetta. Stai forse dicendo che io e Mike siamo fidanzati?”

“Mmm, no, non proprio. Credo più che vi sia un interesse reciproco.”

“Io non sono gay, Sherlock!”

Alla mia frase, egli indietreggiò, comprendendo di aver sbagliato un’ennesima deduzione su di me.

“Oh. Beh.” disse, cercando di trovare le parole.

“Beh. Che dire. Mi spiace. Credevo…sai. Il dolce, i pomeriggi insieme. E poi i sorrisi, i messaggi sui banchi. Sulle lavagne. Il tuo sguardo in orchestra su di lui. Beh. Scusa. Ho- Ho sbagliato.”

disse, scendendo di fretta le scale del palco.

Le parole della mia frase mi risuonarono nel cervello, e mentre vedevo sfuggirlo ai miei occhi, il suo studio sui “segnali” mi fecero comprendere che probabilmente in Mike vedevo qualcosa in più di un fratello, ma ero sicuro di non amarlo, perché se le pulsioni che fino a quel momento avevo represso per aiutarmi a vivere erano integre, riemersero a cocci non appena mi accorsi di vivere male ogni qualvolta Sherlock usciva di scena dalla mia vita, così.

Se nei primi giorni mi dava sui nervi per la sua insopportabile freddezza e talvolta presunzione, avevo imparato a volergli bene perché lui non ha mai fatto domande. Comprendeva. Così come Mike.
Ma la sua presenza era diversa, aveva crepato in me qualcosa di molto più di semplici bicchieri, o vetri, o pulsioni.
Lui lo era, omosessuale?
Non ero ancora riuscito a captarlo, di certo non aveva mai commentato nessuna ragazza dei nostri corsi.
E perché mi aveva nascosto la questione che è un ottimo violinista?
Lui sapeva che io suonavo il violoncello, specialmente nell’orchestra di scuola.
Cosa voleva da me, Sherlock?
Perché era piombato lì, a distruggere le certezze a cui mi appigliavo da anni per non affondare?
Ero davvero così legato a Mike?
Il violinista voleva solo aiutarmi o voleva mettere a soqquadro la mia vita per viverla con me?
Vedevo il mio obiettivo di divenire medico sempre più lontano, poiché i voti del primo trimestre si sarebbero trasformati in disastro.
Perché volevo fare il medico, onestamente?

Preso dalle mie inquietudini caddi all’indietro, e mi ritrovai seduto al centro del palco con il violoncello al mio fianco.
Le lacrime rigarono il mio viso, ed ero consapevole che era finito il periodo di mentire a me stesso.
Se le parole di Sherlock mi avevano tranciato così violentemente nel profondo era perché probabilmente era vero.
Ed io non ne sarei uscito vivo, stavolta.


***

“Harriet, vieni a tavola.” Dissi a mia sorella, svogliatamente.
Non avevo nessuna voglia di parlare.
Erano trascorsi pochi giorni dal confronto con Sherlock e non riuscivo a pensare a nient’altro.
Ero in un turbinio di emozioni, paure e sensazioni che mi rendevano difficile anche la sola semplice concezione di pranzare.
 
“Che hai, JohnnyBoy?” disse Harriet, cercando di captare qualche segnale da questo radar ormai spento.

“Nulla, Harriet, sono solo stanco.”

“Ti mancano?”mi disse, supplicante.

“Immensamente.” dissi, facendo scorrere qualche lacrima sul mio viso.

“E a te?” dissi.

“Non è la vita che volevamo.” disse, stringendomi la mano.

“No affatto.” risposi.

“No, decisamente no. Ma ci adeguiamo, no?”

“Potremmo fare altrimenti?”

“Appunto.” disse, sorridendomi.

In quel sorriso vidi tutta la bellezza di mia madre e la dolcezza di mio padre.
Erano due persone splendide, e probabilmente con loro avrei potuto esternare le difficoltà che stavo affrontando in quel periodo.

Strinsi la mano ad Harriett che continuò a consumare il suo pazzo domenicale, dopotutto era l’unica cosa che poteva farci sentire accanto a mamma e papà.
Non toccai cibo, ma mi limitai a guardare fuori dalla finestra i pochi granelli di neve che scorrevano giù.
Non erano ancora morbidi come la neve di Dicembre, ma non erano pioggia d’ottobre.
Erano incerti, indefiniti, come me.

“Cosa vuoi fare oggi, Harriet?”

“Non devi studiare?”

“Non preoccuparti. Dimmi cosa vuoi fare.”

“Vorrei andare al cinema!”

“Oh ottimo! Vediamo la programmazione.”

Presi il pc che si accese con difficoltà poiché quasi distrutto, e scroccai il wifi al vicino per poter entrare su google.

Vidi i film al cinema e tra i titoli affiorarono alcuni titoli probabili.

“La verità è che non gli piaci abbastanza.” disse, Harriet.

“C-cosa?!” dissi, alzando lo sguardo.

“Il film. La verità è che non gli piaci abbastanza.”

“A-ah! Sì, certo! No, pensavo a qualcosa di più, divertente?”

“Più divertente di qualcuno che ti ignora?”

“Chi ti ignora?”

“Tom, il mio migliore amico. Lo amo e lui mi ignora. Intanto posso goderne di lui restandogli accanto. E’ pur sempre una forma d’amore, no?”

“Beh sì, se ti trovi nel reparto zerbini e tappeti del supermercato.”

“Andiamo, John! Tutti siamo zerbini di qualcuno, a un certo punto della vita. Rassegnati. Magari un giorno mi sveglio e da questo imparerò.”

"O finirai a drogarti e pensare di essere brutta solo perché un coglione patentato non ha le palle di ficcarti la lingua in gola.”

“Oh Johnnyboy, come siamo espliciti!”

“Nessuno deve farti del male, Harriet! Gli taglio le palle, piuttosto!”

“Ahahah! Stai calmo!! Mi piace ma ho anche una fila di pretendenti, voglio solo farlo innamorare di me e poi lasciarlo.”

“Ok, non ci sto capendo nulla, ma ok, soffrici e ti ammazzo.”

“John, soffriremo tutti per amore, ho sedici anni, è inevitabile.”

“Ok ma sof-f-soffri piano!”

Harriet cominciò a ridere senza fermarsi ed io capii che ormai il discorso era divenuto completamente sconclusionato.

“E adesso vestiti che andiamo a vedere il live action della bella e la bestia, che ti piaccia o meno!”

“Mi piace, mi piace.” disse, ridendo.

Mentre lei si accinse a prepararsi io tolsi quel che restava del nostro pranzo.
Il cellulare mi squillò all’impazzata.
Era ormai vecchio ed andato, quindi sapevo che ad ogni trillo corrispondeva un solo messaggio andato in tilt.

Era Sherlock.
Strano, in tre mesi mi aveva scritto pochissime volte e quasi mai risposto ai miei messaggi.

*Che stai facendo? Mi dispiace per quello che è successo, spero mi perdonerai.*

Decisi di non risponderlo, non sapevo davvero cosa dire.

La confusione era così intensa dentro di me, che le poche cose chiare che sopravvivevano erano che non avrei mai potuto dirgli “ti perdono” perché avrebbe capito che il mio interesse nei suoi confronti poteva essere solo a livello d’amicizia.
Ma il mio stomaco mi diceva qualcosa di diverso.
Forse era la fame, o forse, era arrivato il momento di incontrare la persona che avevo avuto paura di diventare.
Harriett scese le sale con il suo cappotto e il cappello con le orecchie.

"Sei pronta?.”

“Andiamo, Belle!”

“Hey, tu sei Belle, io sono la bestia.”

“Si certo, nei tuo sogni, pappamolle!”

Le sorrisi e le tirai un orecchio finto, inforcai il mio giubbotto di pelle con la sciarpa ed uscimmo entrambi sono quel leggero nevischio di novembre.

Il cinema era poco lontano da casa nostra, dunque decidemmo di dirigerci a piedi per poter goderci gli splendidi colori autunnali leggermente macchiati dal bianco che veniva giù.

“Inizia a fare freddo, vero?” Disse Harriett.

“Beh si, abbastanza, però la prossima passeggiata potremmo farla ad aprile, quindi, perché non godercela?”

“Hai ragione. Compriamo i pop corn?”

“Ma certo.”

“Quando torni a lavoro?”

“Tra poco, dovrebbero chiamarmi tra qualche giorno.”

“Dovresti avvisare gli zii.”

“No Harriett, ne abbiamo già parlato. Mi richiameranno allo Speedy’s, non temere.
Tengono a me, appena Lisa andrà in maternità subentrerò io a sostituirla.”

“E poi?”

“E poi vedremo, non è un problema tuo. Tu devi studiare, punto.”

“Lo sa qualcuno che sei in pausa dal lavoro?”

“No, nessuno. Mike non sapeva neanche che ci lavorassi qualche mese fa.”

“Perché a lui non lo dici?”

“Perché nessuno deve saperlo, non voglio noie.”

“Ok. Però se posso fare qualcosa dimmelo.”

 

“Studiare. Devi studiare.”

Le misi un braccio sulla spalla e ci dirigemmo al cinema.
Pagai i biglietti e i pop corn con i risparmi che avevo accumulato tra un tavolo e un libro, ma per mia sorella avrei fatto qualsiasi cosa.

Entrammo al cinema, e il film cominciò.
Ce lo godemmo come poche cose, prima eravamo abituati a vivere nella bambagia, ma dopo i miei genitori siamo divenuti grandi per volere non nostro.
Se prima il cinema era un passatempo, adesso era prezioso come avere qualcosa di buono da mangiare.

La vibrazione del cellulare distrutto partì.

*Rispondimi. Perdonami, davvero. Sono così stupido*

Un ennesimo messaggio di Sherlock.
Riposai il cellulare in tasca, non trovavo le parole, non le avrei mai trovate.

Ancora.

*John. Sei l’unico amico che ho. Mi dispiace se ho sospettato di qualcosa…è che io, io…*

Tu cosa? Sei gay? Cristo. Lo sapevo!

*Devo parlarti, John. Ho qualcosa di importante da dirti.*

Dio, ma perché a me? A Mike piacciono le ragazze, è tutto più facile!
Eh si.

E’ facile, Watson.
Con Mike puoi fingere e riposare l’argomento nel cassetto.
Con Sherlock no.
Quando ti dirà “Che bel culo ha quello lì” tu dovrai per forza annuire, perché lo troverai bello anche tu.

Dio.

“Qualcosa non va, John?”

“Oh no, Harriett. E’ tutt’ok. E’ Luke si Speedy’s, visto? Mi ha richiamato? Domani si torna a lavoro.”

“Ma che bello!” disse, tornando con gli occhi sullo schermo.

Luke non chiamava neanche per idea, ma l’indomani l’avrei sicuramente pregato in ginocchio.
O questo o saremmo morti di fame.
Mia sorella non meritava questo, io sì.
Fosse stato per me, mi sarei lasciato divorare dall’inverno, ma lei, lei merita tutto.

Le strinsi di nuovo la mano, fino a che i titoli di coda non iniziarono a scorrere invitandoci ad uscire.

“Copriti bene, fa più freddo adesso.” Le dissi.

“Certo.”

Ci dirigemmo verso casa, e tra un sentiero innevato ed un altro, ci ritrovammo fuori la porta di casa.
Le luci erano accese poiché le fotocellule avevano rivelato la presenza di qualcuno.

“Harriett, stai dietro.”

“John, c’è qualcuno fuori casa, oh dio, John.”

“Stai dietro, e se ti dico scappa, scappa!”

“Scappa?!”

“Stai indietro, CRISTO!” Le urlai.

Mi avvicinai lentamente per capire chi fosse, e trovai Mike e Sherlock con i cartoni delle pizze tra le mani.

“Cosa diamine ci fate, qui? Harriet…”

“Scappo?!”

“Ma no! ahaha! Vieni qui, Harriett!”

“Oh dio, perché dovrebbe scappare?” Disse Mike.

“Perché credevamo fosse qualche ladro, o peggio, qualche parente…”

“Ah ecco! Quindi avete le parole d’ordine.” Disse sherlock, sorridendo.

“Si, più o meno.”

“Mikeee! Sherlock! Che ci fate qui? Oddio oddiooo la pizza! Forza John, apri, voglio la pizza!”

Il suo entusiasmo mi sprofondò nel cuore, perché quella pizza avrei potuto comprargliela io, e se non si fossero palesati loro due probabilmente non avrei mai capito il suo desiderio, perché era già stato un azzardo chiedermi i pop corn.

La mia espressione si oscurò e non riuscii a trattenerla.
Aprii la serratura e feci spazio ai miei amici.

Harriet lanciò il cappotto sul divano all’ingresso e così fecero anche i miei due amici.
Io mi accinsi ad apparecchiare.

“Andiamo, John, sempre con queste posate. Le mani! Usiamo le mani!” Disse Mike.

“Mike, tu usa pure le mani. Io vorrei mantenere una parvenza di civiltà.”

“Oh andiamo, John. La mangio persino io con le mani.” Disse Sherlock.

“Non ci credo neanche se lo vedo.”dissi.

Sherlock aprì il cartone della pizza e prese una fetta completamente ricoperta di formaggio.

Il sugo gli sporcò la punta del naso e un pezzo di mozzarella finì sulla sua giacca rossa.

 

“Visto?”

Vederlo addentare una fetta di pizza mi mandò in crisi totale, e se prima qualcosa si muoveva nel mio stomaco nel vederlo, adesso il tutto si spostava decisamente molto più in basso.

Spostai il mio sguardo mentre i ragazzi iniziarono a ridere per la sua goffaggine nel voler sembrare sciolto e nel finire per sporcarsi.

Quando si accorse della macchia quasi si disperò.

“Dio!! E’ un regalo di mio fratello, questa! Mi ammazzerà!”

“Che gli importa? Ormai è tua!” Disse Harriett.

“Non conosci Mycroft. Per fortuna. John, hai qualcosa che smacchi?”

“Mmh, si. Probabilmente in lavanderia su. Se mi aspetti qui te lo porto."

“No qui c’è il cibo, ti seguo.”

Cristo. Io e lui da soli di nuovo in una stanza. Avrei dovuto fare tutto di fretta.

“Certo.” dissi, salendo le scale.

Lo ritrovai alle mie spalle non appena arrivammo fuori la porta della lavanderia.
I suoi occhi erano scrutanti, non era mai salito al piano di sopra.

Mentre scavavo tra i prodotti di bucato, non lo trovai più sotto la porta.

“Sherlock?”

“Sì? “disse, affiorando dall’uscio della mia porta.

“E’ la tua stanza?”

“Si.” dissi, guardandolo distante.

“E’ molto bella.”

“Ti ringrazio.”

“Ascolti molta musica.” disse, indicando la mia collezione di Cd ed LP, quella che mi regalò mio padre al mio sedicesimo compleanno.

“Sono tutti regali dei miei genitori.”

“Dovevano amarti molto.”

“Moltissimo. Ed io amavo loro.”

Mi appoggiai sull’altro lato dell’uscio della porta e guardai all’interno della mia camera.

“E’ chiaramente disordinata.”

“Certamente. Ma è nel disordine che si nascondono i geni.”

“Non sono un genio!” sorrisi.

“Lo sei. Io non riuscirei a tenere in piedi tutto questo. Se i miei fossero morti probabilmente Mycroft sarebbe un alcolizzato ed io un drogato.”

“No, non è così. Lo spirito di sopravvivenza è decisamente più forte, credimi.”

“Hai molte ragioni per vivere.”

“A volte credo di no, ma poi esistono cose come la neve, la pizza, lo stentor!” dissi, sorridendo.

“Me.”

Lo guardai, cercando di capire il senso di quella frase e soprattutto di capire se l’avessi sentita solo io.

“Sì. Direi di sì.”

“La tua amicizia è la cosa più cara che ho, John. Potrei dire lo stesso di Mike ed Harriett, li adoro, davvero. Ma tu. Tu sei l’amico che ho sempre voluto.”

“T-ti ringrazio Sherlock.” risposi, cercando di resistere a quella voglia di prendergli il viso e baciarlo forsennatamente.

A che cazzo stai pensando, John?! Quando mai hai provato queste sensazioni? Da quando vorresti baciare un ragazzo?

Dentro la mia mente viaggiavano fortissimo domande a cui non riuscivo a dare risposte probabilmente da anni.
I nostri sguardi non si interruppero neanche per un attimo.

“John. Mi piacciono i ragazzi. Pensavo si fosse capito, ma a quanto pare no. E mi dispiace aver sospettato di te e di Mike, ma non sono abituato ad avere amici quindi in voi mi sono un po’ rispecchiato.
E comunque spero non sia un problema per te, insomma, so che non è facile.”

“F-facile, dici? N-no no figurati! Nessun problema!” Alzai le mani.

“Perché dovrebbe esserlo? insomma? Ad ognuno i suoi gusti!”

“Esatto.” disse, continuando a fissarmi gli occhi e passando talvolta sulle labbra.

Mi accorsi di essere ancora più vicino al suo viso e una sensazione di sbagliato mi tirò all’indietro, cercando di evitare quello che sarebbe inevitabilmente divenuto un bacio.

“Allora, questa giacca?” dissi, tirando su il naso, fingendo non fosse successo nulla.

“Si, eccola”

“Dammela.”

Sherlock la tolse e mise in risalto tutte le sue perfette forme che apparivano oltre la camicia che aveva addosso.
Cecai di distogliere lo sguardo dal suo petto per resistere ala tentazione di prenderlo a morsi.
Mi sentivo una ragazzina iper eccitata e la cosa mi sconvolgeva non poco.

Iniziai a spruzzare lo smacchiatore sul bavero della giacca e aspettai pochi minuti che sfumasse l’olio.

Sherlock continuava a guardarmi, probabile che volesse decifrarmi.

“John..”

“Ehm, sì? Si! Sisi dimmi.” dissi, destandomi dai miei pensieri poco ortodossi.

“Se hai bisogno di soldi, sai già che non hai necessità di chiedere.”

“Oh Sherlock - avvampai -  g-grazie, davvero. Ma no. Domani vado a riprendermi il mio lavoro.”

“Sei stato licenziato?”

“No, sono in pausa. Subentro quando qualcuno ha bisogno di pause come malattie e maternità.”

“Da quanto non lavori, John?”

“Da poco dopo l’estate.”

“E come hai fatto a resistere?”

“Avevo qualcosa da parte.”

“E adesso?”

“Adesso chi vivrà vedrà! Oh vedi, è passata la macchia, torniamo giù!”

Sherlock mi bloccò con una mano, con l’altra riprese la giacca e la portò sulla sua spalla.
La mano che mi bloccò restò ferma sul mio braccio.

“Ci sarò sempre, John. E credo sia lo stesso per Mike.”

“C-certo, ragazzi. Certo. Siete, speciali. Certo. Vi adoro, davvero…”

“Anche io.” Disse Sherlock, cercando di non lasciare la presa.

“Mi fai male, adesso.” dissi, sorridendo.

Lui allentò la morsa ma non mi lasciò andare.

“Prometti.”

“Cosa?”

“Che mi chiamerai quando ne avrai bisogno.”

“Te lo prometto, Sherlock.” dissi, sfuggevolmente.

“No, guardami negli occhi.”

No. Non avrei sostenuto un ennesimo guardo.

“Guardami, John."

“Dai, ho promesso…”

“G-u-a-r-d-a-m-i.”

Alzai il mio sguardo ed incrociai il suo alla luce del lampione che filtrava dalla mia camera.

“Promesso.”

La mano di Sherlock scese fino alla mia e la strinse forte.

In un primo momento provai una sensazione di piacere estremo, che si trasformò di nuovo in paura senza freno.

Nessuno era stato così esplicito con me, e il fatto che si interessasse oltre che alla mia amicizia, anche alla mia sopravvivenza, mi aiutò a capire, dopo anni, che finalmente non ero più solo .

Scappai dalla sua morsa.

“Andiamo giù. Si chiederanno che fine abbiamo fatto.”

Sherlock si morse un labbro e poi sorrise.

“Sì, andiamo.”

Scendemo le scale e trovammo Harriet e Mike montare quella che sarebbe stata la tavola del monopoly.

Sherlock li raggiunse lasciando la giacca distrattamente sulla sedia.
Non era un regalo di suo fratello?


Ignorai quel pensiero malizioso e mi unii a loro sul tavolo del soggiorno.
Prima di raggiungerli mi soffermai a guardarli: Harriett rideva con spensierata dopo anni, Mike era sereno e presente come sempre e Sherlock…Sherlock era lì.
Un’ incognita, forse interessato a me o solo interessato alla mia amicizia.
Non mi era chiaro, o meglio, mi faceva male pensare che credesse che lo considerassi solo un amico.
Ero proprio stupido, qualcosa mi spingeva tra le sue braccia e mi era capitato già una volta di eccitarmi nel fissarlo negli occhi, eppure continuavo a mentire a me stesso; forse non ero pronto, forse non era vero, forse avrei trascorso molto più tempo a pensare che ad agire, molto più tempo ad essere ancora infelice, che felice.

“Andiamo, John. Ti vuoi unire si o no?” Disse Sherlock.

Mi avvicinai a loro con passo lento, e li osservai.

“State attenti, Ragazzi.” dissi, a Mike ed Harriett.

 

“Perché?!” Chiesero loro, quasi spaventati.

“Il Signor Holmes qui si è rivelato uno splendido violinista, non mi meraviglierei se cacciasse dalla sua borsa qualche medaglia di campione internazionale di monopoly.”

I ragazzi iniziarono a ridere e Sherlock mi fissò.

“Oh Dio, perché, esiste davvero?” disse, serio.

“Non mi dire che vorrai partecipare!”

“No, certo che no. Ma sarebbe stata una cosa d’effetto!” disse, mimando un vincitore con una coppa.

Sorrisi, senza freno.
La sua ironia espandeva il mio tempo.

“Vuoi stare ancora lì o ti unisci a loro due e al campione, mondiale, nota bene, mondiale. Che fai?”

“Arrivo Sherlock. Arrivo.” 

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Capitolo 3
*** Promesse compromesse ***


Dicembre

“In bocca al lupo, Johnny! Salutami Luke e Mrs Hudson.”

“Ma certo” risposi ad Harriet che si accingeva ad entrare a scuola.
Mi ero preso gioco di lei; le avevo detto che ero stato convocato a lavoro, ma non era vero.

La lasciai fuori il cortile e mi diressi verso Speedy’s.
Avrei pregato Luke per il lavoro a qualsiasi costo. Mrs Hudson, la proprietaria del negozio, mi adorava.
Avrebbe accettato un ritorno, no? Andiamo!

“Buongiorno, John!!” Disse Amelia, dietro la cassa.

“Ciao Amelia, come stai?”

“Oh bene, grazie!” Disse, arrossendo.

Avevo avuto con lei una relazione di qualche mese, finita chiaramente in modo blando; benché lei provasse dei sentimenti per me, io decisi di troncare perché non mi sentivo coinvolto.

La sorpassai cercando di non cadere nell’imbarazzo e mi diressi verso Luke.


“John! Come stai?” Mi disse, poggiandomi una mano sulla spalla.

“Di merda, Luke. Ho bisogno di aiuto.”

“Stai male, John?!” disse, preoccupandosi.

“Ho bisogno di lavorare. Sono al verde. Qualsiasi orario, qualsiasi. Sono disposto anche 24H.”

Luke passò una mano nella sua barba folta e mi guardò con tenerezza.

“John, è un inferno anche qui. Lo sai che per me puoi esserci sempre, solo che la paga è ridotta perché ne siete in tre, e dovresti lavorare principalmente di mattina. Come fai con la scuola?”

“Non importa Luke, devo lavorare.”

“Harriet?”

“Prima di tutto.”

“Prendi la divisa dietro la porta. Bentornato.”

Disse Luke, abbracciandomi forte.
Non sapevo quale via avrebbe preso la mia vita, ne tantomeno la situazione scolastica; probabilmente mi ero giocato tutto il futuro, ma Harriet doveva venire sempre prima di tutto, perché mai mi sarei perdonato di privarla dei beni basilari.

Indossai la divisa di Speedy’s: era una maglia rossa con una scritta bianca a caratteri cubitali, il cappellino poggiato sui capelli biondi risaltava ancora di più. La poca barba che si era palesata negli ultimi anni era ormai divenuta un velo preciso, anche se non amavo portarla.

Mi guardai allo specchio cercando di farmi coraggio, fino a quando dal riflesso non vidi spuntare Mrs. Hudson.

“Oh John caro!! Come stai?”

“Mrs Hudson! Sono stato meglio, sicuramente!”

“Oh Caro, mi dispiace così tanto. Vedrà che le cose miglioreranno.”

“Lo so, Mrs Hudson. E’ un po’ difficile che accada ma per adesso tento di sopravvivere.”

“Lo capisco. I tuoi genitori sarebbero molto fieri di te.”

“Lo spero.” Dissi, abbracciandola.

Era divenuta una sorta di zia, dalla morte die miei genitori, Speedy’s fu il primo locale in cui trovai impiego, e lei mi ha aiutato a superare momenti in cui era difficile anche alzare un bicchiere.

“Ti voglio molto bene, Johnny.” disse, accarezzandomi la schiena.

“Adesso a lavoro. E sorridi!”

Disse, sparendo dietro la tenda che portava nelle cucine.

Iniziai la mia giornata di lavoro, tra una colazione e un Brunch, il tempo passò e per un po’ dimenticai che ormai la mia scelta era fatta.
Potevo dire addio agli studi.
All’università.
Allo Stentor.
Alla musica.

Verso le undici trillò il cellulare.

Sherlock.

*Dove sei, Watson? Ti aspettavo…”

Eh già. Anche io avrei voluto tanto vederti, stamane.

Posai il mio cellulare, noncurante, e continuai a lavorare.

Durante la pausa pranzo mi diressi verso le panchine sul viale alberato accanto a Hyde Park, mi accomodai lì senza curarmi di mangiare.
Ero in pieno tormento, il mio stomaco si contorceva, tutto era cambiato e benché io fossi riuscito a sostenere le cose per qualche anno, ero arrivato al capolinea.

Non sapevo chi fossi, o meglio, non volevo accettarlo.
L’assenza dei miei genitori diveniva sempre più lacerante.
Harriet stava crescendo.
Io non avevo più ragioni per studiare medicina.
Mike e Sherlock.
E l’unica cosa che mi donava sollievo, la musica, era divenuta una chimera.


*John, rispondimi. Sono preoccupato.*

Continuai ad ignorare il messaggio di Sherlock, e ritornai a lavoro.

La giornata trascorse così, tra la gente che viveva tra una portata e l’altra ed io che mi limitavo a sopravvivere.


“Migliorerà.” Mi dissi, guardandomi nello specchio di casa mia, togliendo la divisa.





“John?!”

“Harriet! Arrivo.” dissi, indossando l’accappatoio.

“Com’è andata?” disse.

“E’ andata benissimo, ma purtroppo posso lavorare solo di mattina e talvolta di pomeriggio, quindi per adesso di scuola non se ne parla.”

“No! John! No! Chiamo gli zii!”

“No, Harriet! Tranquilla! Posso farcela da solo. Chiederò un mese di recupero al preside. Tranquilla.”

“Cazzo, John! Tu non puoi rinunciare…e medicina! Papà voleva diventassi medico, lo ricordi?”

“Lo ricordo. Ma lui non aveva previsto questo. Quindi. Adesso si pensa a sopravvivere, ok?”

“Cosa posso fare?”

“Te l’ho detto. Studiare.”

Le dissi, dandole un bacio sulla fronte e tornando in bagno.

Feci una lunga doccia, il getto mi cadde addosso pesante e bollente, ed io non mi opposi a quel dolore.
Dentro c’era qualcosa di molto più violento.
Per la prima volta avevo paura.


*John, dimmi cosa succede. Ti prego. Sono preoccupato. Mike è con me.”

Spensi il cellulare, caddi in un sonno profondo.






























*Accendi questo cazzo di cellulare.*

*Cristo, John.*

*Svegliati*

*Sto arrivando*

*Me la pagherai.*



Il turno da Speedy’s iniziò prestissimo, e anche se Sherlock si presentò fuori casa, non trovò nessuno.
Non avevo voglia di rispondere, dopotutto lui spariva per giorni senza dover dare spiegazioni a nessuno, perché io avrei dovuto farlo?
E poi l’umiliazione di quello che avrei dovuto confessare, a cominciare dall’abbandono della scuola.

Un’ennesima giornata trascorse, tra un caffè, un panino, uno straordinario.
Mi diressi verso lo spogliatoio quando qualcuno entrò dalla porta.
Riccio, alto, un cappotto, una tracolla, occhi rossi.


Sherlock mi guardò, fece scivolare la sua cartella dalla spalla a terra e si accomodò ad un tavolo senza togliere lo sguardo da me.

La voglia di evitarlo era pazzesca, ma l’istinto di correre contro lui e abbracciarlo superava tutto.
Mantenni il contegno, un gesto del genere sarebbe stato inopportuno.

Mi feci coraggio, tolsi il grembiule.

Amelia concludeva i conti della giornata, Luke era intento in cucina, io mi accomodai di fronte a lui.


“Ciao.” dissi.

“John.” Riprese lui, con sguardo severo.

“Sherlock.”

“Che cazzo pensi di fare?”

“Lavorare. Devo sopravvivere.”

Il suo nervosismo aumentò a causa dell’ultima sarcastica affermazione.

“Ti avevo detto che potevi chiedermi aiuto in qualsiasi momento.” disse, sbattendo un pugno sul tavolo.

“Lo so, e te ne ringrazio. Ma qui non si tratta di comprare libri, o vestiti. Si tratta di lavorare per vivere, e per garantire un futuro ad Harriet. Nessuno può darmi una mano. Nessuno.”

“Io sì! Dimmi cosa devo pagare, cosa compro? dimmelo! Cosa ti serve? Ti prego.”

Sherlock tirò fuori dalla sua borsa un blocchetto di assegni; tremava, la penna non riusciva a stare tra le dita.

“Di-dimmi la ci-cifra! presto!”

“Oh Sherlock, smettila! Chiudi questo coso!”

“Joh-john non posso pensarti così, impazzisco, dimmi la cifra!!”

I suoi occhi divennero ancora più rossi, fino a che non esplose in pianto.
Io lo seguii dopo, cercando di contenermi.

“Cristo, Sherlock. Sei, sei fantastico, davvero, ma non puoi aiutarmi.”

“Per-perchè no? E’ così che fanno tutti, no? I miei hanno sempre firmato questi cosi e si risolvevano tutti i problemi!”

Sorrisi, osservando la sua dolcissima ingenuità.

“Sherlock, ti ringrazio- dissi, prendendo una sua mano sul tavolo- ma non posso, davvero. E’ contro ogni mio principio, ho una dignità troppo forte per poter accettare, e anche se tu lo fai con il cuore, quello enorme che hai, io declinerò sempre perché devo vivere questa vita, adesso. Compresi i sacrifici che le sono legati.
Prenderò un anno per riflettere…”

“No! Devi iscriverti a medicina!”  disse, continuando a tremare.

Gli strinsi la mano ancora più forte.

“Sherlock, guardami. Sono in una fase della mia vita in cui non so neanche chi sono, non ricordo più neanche i motivi per cui vorrei fare il medico, forse perché lo diceva mio padre…”

“Devi onorarlo, allora!”

“No. Io non devo onorare nessuno. Se proprio dovessi, lo farei prendendomi cura di mia sorella, e di me. Lo farei amandomi, e restando sempre coerente con me stesso. Mio padre sognava che io diventassi medico perché poteva permetterlo di sognare, ma adesso lui non è qui e ci sono delle priorità.”

Sherlock si portò le mani agli occhi e pianse ancora.

“Mi spieghi perché piangi?” Gli dissi.

“Perché non è giusta questa vita!!”

“Non dire sciocchezze…”

“Io non merito questa vita qui. Guardami, pieno di ricchezze inutili! Il mese scorso ho ereditato parte del patrimonio di uno zio e guardami, non so nemmeno come aiutarti. Divento sempre più ricco e tu mi neghi la possibilità di sentirmi utile! Perché o questa vita e tu quella? Perché merito questo e tu no? Che me ne faccio di tutti questi soldi se solo il pensiero di restare solo come lo sei tu mi terrorizza. Li meriti più tu che sei così coraggioso. Io sono un inetto fortunato, nato in una famiglia nobile che può avere tutto. Dio. Sono così inutile.”

Sorrisi, le sue parole erano completamente sconclusionate.

“Sei la cosa migliore che mi sia capitata da tre anni, Sherlock. Non sei affatto inutile. E ti ringrazio ancora una volta, con questo gesto hai dimostrato più umanità di chi dovrebbe davvero prendersi cura di me e mia sorella.”

Gli sorrisi, lui continuò a nascondersi dietro alle mani.

“Non posso stare lì senza di te.”

“Ce la farai, invece.”


“Ti prego, John. Ho bisogno di te, dannatamente.”

Mi riportai diritto sulla sedia.

“Sherlock, ci sono tante persone che ti stimano, ci vedremo il pomeriggio…”

“No, John. Io ho bisogno di te in ogni minuto della mia vita. Guardami, come sono ridotto. Due giorni che non ti vedo e ho voglia di sparire dalla terra.”

“Ma c’è Mike…”

“Lui non è te.” disse, supplicandomi.

Ci guardammo negli occhi, mi persi in quel verde sperando di non risalire, ma poi tornai alla realtà.

“Forza, andiamo via da qui, domani tu hai scuola ed io lavoro.” dissi, sorridendo.

“John, rispetto la tua scelta ma non la condivido.”

“Me ne farò una ragione!” dissi.

Lui mi guardò con rabbia, prese la sua cartella e quando fui pronto per uscire mi tirò per una mano e mi scaraventò nell’aria gelida di Dicembre.
Le lucine natalizie iniziavano a palesarsi, e quando leggera neve iniziò a fioccare, Sherlock mi strinse, stavolta forte, la mano.

“Anche se non accetti il mio aiuto farò di tutto per salvarti."

“Non devi preoccuparti, tu devi vivere la tua vita, io vivrò la mia.”

“E’ proprio questo il problema.”

“Quale problema?” 


“Che da quando ti conosco non riesco a non pensare alla semplice questione che la mia vita ormai è dove sei tu.”

Tolsi lievemente la mano dalla sua, e lo guardai.

“Sherlock. La mia vita in questo momento è sottosopra. Non saprei nemmeno cosa darti, perché mi si è azzerato tutto. Tu sei così in alto, così perfetto. Io non so nemmeno perché diavolo ti penso ogni cazzo di istante, non mi è mai capitato con nessun altro ragazzo! Capisci cosa vuol dire, svegliarsi una mattina e ritrovarsi di fronte quella persona che tanto hai abilmente ignorato negli anni? Ho Paura. Sono rimasto solo.
E’ splendido saperti vicino, mi riempie il cuore, ma io inizio a detestarmi. Mi detesto perché non sono più in grado di gestire nulla, di giorno lavoro come un matto, penso alle cose che sto perdendo e mi dispero, di notte mi rigiro nel letto, confrontandomi con il mio cuore perché avrei voglia di baciarti e non riesco a dare una motivazione a questo mio volere. Sono confuso, sono terrorizzato.”

A queste mie parole Sherlock mi appoggiò lentamente al palo dell’insegna del bus e mi schioccò un dolcissimo e lentissimo bacio sulle labbra.

Riprese, quando ci separammo:

“Prendi tutto il tempo che vuoi, vedi questo bacio come un regalo senza impegno, ma ti prego, non tagliarmi dalla tua vita. Dammi la possibilità di starti accanto e lasciati aiutare. Te lo chiedo come favore personale.”

Mi aggrappai al freddo ferro per non svenire, le mie gambe erano molli e la vista leggermente offuscata.
Un ragazzo mi aveva appena baciato, e dentro di me una violentissima fioritura mi si attorcigliò dalle gambe al cuore, rendendomi per la prima volta una rampicante di sentimenti contrastanti.

Balbettai qualcosa di incomprensibile, Sherlock sorrise e poggiò ancora una volta le sue labbra alle mie.

“Ti salverò sempre, John. Fosse l’ultima cosa che faccio.”

Mi strinse un po’ le dita e poi mi accompagnò verso casa.

“Ssssh! Fermo, fermo, vieni qui.” disse, quasi sotto l’uscio di casa.

“Cosa c’è, Sherlock?” dissi, girandomi.

Mi invitò ad avvicinarmi accanto all’albero fuori casa mia, e stavolta il suo bacio fu decisamente più passionale. Le sue mani reggevano il mio viso delicatamente, le sue guance leggermente pizzicanti arrossarono le mie, mentre con abilità la sua lingua giocava nella mia bocca e io riuscii solo ad esalare un gemito di piacere.
La mia eccitazione fu crescente, fino a quando non mi staccai da lui controvoglia per cercare di salvare un po’ di integrità.

“Oh…Oh Cristo, Sherlock…”

“Ho-ho fatto qualcosa che non va, John?”

“N-non pensarlo neanche per un attimo!”

Sorrise, bagnandosi le labbra.

“E’ stata una buona idea, allora. Altrimenti la fotocellula ci avrebbe illuminati e Harriet ci avrebbe scoperto.”

“Elementare, Holmes.”

“Mmm, questo lascialo dire a me, magari.”

“Perché?”

“Perché è più musicale: Elementare, Watson!”

“Sempre il solito egocentrico.”

“Chi, io?”

“Si!”

“E su cosa basi questa tua teoria?”

“Partiamo magari dal fatto che sei di casata nobile e che quindi già questo ti rende uno spocchiosetto.”

“Mmm e poi?” disse, ridendo.

“Poi sparisci per giorni senza farci sapere dove vai, quindi questo buco nero magari ci fa pensare che tu sia agganciato con qualcuno tipo servizi segreti e quant’altro.”

“Certo.” disse, guardandomi divertito.

“Poi piombi nella mia vita e mi regali sensazioni così vergognose, cristo mio! Non mi sono mai sentito così perverso in tutta la mia vita, eppure…”

“Continua! Qui sono curioso”

“Eppure mi fai impazzire, e lo sai, e te ne compiaci.”

“Sì, è vero.”

“Dunque non la trovi una forma di egocentrismo?”

“mmmh, abbastanza, sì.”

“Adesso se non ti spiace, svengo per qualche ora, così magari domani mi sveglio e sarà tutto diverso…”

“Ti sei pentito di averlo fatto?” disse, con una una di delusione.

“No affatto, te l’ho detto, sei la cosa migliore che mi sia capitata, solo che non sei capitato nel momento giusto della mia vita.”

“Io ti aspetterò sempre, John.”

“E’ egoistico da parte mia.”

“Tu non pensarci, io ho tanto da fare con me stesso, ho spazio solo per una persona in questo viaggio e sarai tu.”

Mi fiondai tra le sue braccia mentre era poggiato al tronco, gli diedi un altro bacio violento e pieno di voglia. Stavolta le mani erano nei capelli, i baci si estesero sul collo e piccoli morsi segnavano i lobi delle nostre orecchie.

“Baaaasta! Basta! Dio! Basta!” Mi allontanai.

Sherlock mugolò in segno di disapprovazione.

“Buonanotte, Sherlock!” dissi, cercando di tirare la maglia sul cavallo del mio pantalone che era già pronto.

“Ahah! Buonanotte, John. E buon lavoro, domani.”

“Grazie. Per tutto.”

Girai i tacchi e mi diressi verso casa.
Una volta dentro chiusi la porta dietro me.
Vidi dalle tende della finestra, Sherlock, dirigersi verso la macchina che era appena arrivata a prelevarlo.

La mia eccitazione non aveva nessuna voglia di calare, dunque decisi di fare un bagno e di dare sollievo a quel tormento.
Fu la prima volta che mi toccai pensando ad un uomo, e fu l’orgasmo più potente mai provato.

Quando riemersi dall’acqua provai una vergogna infondata, dopotutto avevo provato un piacere senza eguali, perché mai tormentarmi?

Mi guardai allo specchio e capii in quell’istante che avrei dovuto combattere due guerre: quella contro i pregiudizi, la novità e l’accettazione. E la guerra di dover trovare una via nella vita, a parte la sopravvivenza, che avrebbe dato alla mia persona il lustro umano e professionale che tanto desideravo.
Mio padre voleva che divenissi medico, ma dentro di me qualcosa era scattato, qualcosa che mi diceva che era meglio ascoltare il cuore, per una volta.
Lo avrei fatto, dunque, ma alle mie condizioni.
Avrei amato un uomo, avrei continuato a lavorare per garantire un futuro sereno a mia sorella, magari un giorno avrei finito la scuola, ma la cosa certa fu quella che mai avrei abbandonato la musica, perché la sensualità di un violoncello mi eccitava tanto quanto un bacio di Sherlock, e allora capii che nonostante la strada tortuosa, un giorno il petto mi avrebbe ringraziato perché sarebbe stato libero da qualsiasi vincolo, e dunque libero di tornare a respirare.


















- - -




Il professor Huge venne a sapere del mio ritiro scolastico ed andò su tutte le furie, non voleva assolutamente che io lasciassi il corso di musica, dunque si fece quasi arrestare quando minacciò il preside di andarsene se non avessi avuto la possibilità di continuare a frequentare il corso di musica. 



“Me ne frego un paio di palle!” Esordì, elegantemente.

“Watson è il migliore violoncellista della classe, continuerà a suonare in questa cazzo di orchestra! Che a lei piaccia o meno! E’ sotto la mia tutela, ho bisogno di lui nell’organico!”

Il preside acconsentì a quella folle richiesta perché a qualche settimana prima del famoso concerto di Natale, non poteva di certo inimicarsi il direttore d’orchestra.

“Watson, fila in auditorio prima che ti faccia la lista di tutte le parolacce che ho in mente!”

Sorrisi, e obbedii.

Entrai nell’auditorium dopo settimane, mi era mancato incredibilmente.
Il lavoro da Speedy’s era divenuto estenuante ma finalmente potevo avere la possibilità di pagare la pizza a mia sorella!

Luke decise di concedermi qualche ora a settimana proprio per partecipare alle lezioni di musica da camera, e Sherlock…beh, con lui c’era stato qualche altro bacio, talvolta lo ritrovavo fuori casa con sacchetti di cartone pieni zeppi di cibo, dicendo che sua madre aveva comprato troppe cose da mangiare.
Certo, come se una donna di nobile casata andasse a fare la spesa al supermarket dietro casa mia!
Ridevo, a volte lo richiamavo perché non volevo che provasse pietà, ma lui mi rimproverava dicendomi che doveva sentirsi utile e che se provavo ad ostacolarlo spariva di nuovo senza farsi trovare.
Era già successo in passato dunque evitai di dire altro perché in quel momento non avrei tollerato un minuto della sua assenza.
Non avemmo modo di approfondire quello che era iniziato tra noi, ne demmo la possibilità a chi ci circondava di capirne l’essenza.
Non sapevo come dirlo ad Harriet e nemmeno a Mike.
Decidemmo di restare così, sospesi, tra un bacio e una carezza e non definirci.


Una volta arrivato dinnanzi alle poltrone di velluto dell’auditorium, riuscii a captare lo Stentor tra la folla di violoncelli appoggiati al muro.

Lo presi immediatamente, e il mio cuore che tanto era stato strapazzato, ebbe un attimo di tregua.
Lo tirai fuori dalla custodia, lo accarezzai e gli sussurrai qualche parola.
Lo amavo, lo amavo con tutto me stesso.


“Watson - mi interruppe Huge - forza, prima che vengano i ragazzi, fammi il canto dalla battuta quindici, così vedrò come Holmes potrà gestire la risposta.”

Holmes?! Avevo rimosso che Sherlock facesse parte dell’orchestra. Diamine. Come avevo fatto ad essere così idiota?
Lo avrei rivisto a breve, dunque, sotto un’altra luce per la prima volta.
Le mie mani intonarono le prime frasi tremando, dopo poco mi lasciai cullare, per cercare di calmare quel tamburo che viveva a settimane nel mio petto.

Conclusi quel passaggio musicale quando tutti gli orchestrali erano ormai nell’auditorim; fu così coinvolgente che non mi accorsi neanche di una voce o di un suono fuori posto.

“Watson, è perfetta.” Gli sorrisi, poi mi guardai attorno, e vidi Sherlock.

La sua silhouette era elegantissima, aveva un vestito color grigio e il suo capo era chino sul violino poiché cercava di captare l’accordatura.
Mi guardò e mi strizzò l’occhio, nella mia mente si manifestarono diecimila scenari possibili, tutti poco ortodossi.

Il direttore d’orchestra ci mise in riga, il mio sguardo cadde su Mike che ormai mi sosteneva da settimane solo virtualmente, poiché il lavoro era costante e l’unico tempo libero lo trascorrevo con Sherlock per capire dove stessimo andando.
Lo sguardo di Mike era un po’ deluso, e sorrise mestamente al mio sguardo.
Il mio cuore si crepò, lo avevo messo da parte.
Che stronzo, Watson.

Un, due, tre, e via con la sezione degli ottoni, e poi le percussioni, poi i violinisti.
Sherlock conduceva con sensualità, e il mio pizzicato era nervoso poiché la sua visione iniziava a mandarmi in estasi ogni volta di più.
Ripetemmo le parti da solisti, rispondendoci a vicenda, fino a quando il direttore d’orchestra non fermò l’organico, lasciandoci “discutere” da soli.
Un’ arcata violenta stretta tra le mie gambe e Sherlock si portò sulla punta della sedia, con una gamba in avanti per reggere il suo peso, mi sfrecciò come un abile fiorettista quello che fu un virtuosismo pazzesco; feci lo stesso, mi portai diritto con la schiena, e lo guardai negli occhi, arcata superiore, arcata inferiore, e ancora, più veloce, fino a che un vibrato non lasciò l’esofago del mio violoncello lasciandolo vivere attraverso gli armonici.
Sherlock si calò leggermente col viso in avanti e iniziò a sferrare acutissime note alle quali io risposi con dei bassi lenti e sensualissimi.
Una scala ascendente, una discendente, maggiore, minore, arcata violenta, arcata dolce, pizzicato, virtuoso, andante con fuoco. Moderato. Piano. Pianissimo.

Finì il nostro momento assieme e il silenzio divenne padrone dell’enorme aula. 
Se fino a quel momento a quasi tutte le persone presenti era sfuggita la questione che avessimo iniziato una relazione, adesso era impossibile pensarla diversamente.

Si alzò un applauso che iniziò dal Maestro, il quale senza parole, decise di cambiare la scaletta del concerto di Natale, e di lasciarci duettare da soli alla fine.
Continuammo le prove, cercando di non guardarci troppo, ma la sensualità era palpabile e io dovetti reprimere un riso liberatorio.
Sherlock sorrise di nascosto, perché a differenza mia, paradossalmente, a lui non importava molto il giudizio di chi ci circondava.

La lezione finì ed io raggiunsi Mike prima che andasse via.

“Sono ancora in tempo per un caffè?”

“Oh Watson, devi dirmelo tu.” rispose, poco comprensivo.

“Mi spiace Mike, sono stati giorni difficili."

“Lo so, e me ne dispiaccio, ma ti avevo detto che potevi contare su di me. E invece hai contato su qualcun altro, potevi dirmelo che preferivi altre amicizie alla mia.”

Quelle sue parole mi ferirono nell’immediato, poiché Sherlock non lo avrei mai potuto vedere come un amico.

“Mike…è una cosa un po’ diversa.”

Lui mi guardò dubbioso, poi si illuminò comprendendo subito la situazione.

“Non me lo dire.”

“Ehm…”

“No dai. Non ci credo!” Disse Mike, posando a cartella a terra.

“…”

“Watson!! Cristo! Tu? Noooo!”

“Mike, abbassa la voce!”

“E perché? E’ una cosa…favolosa! Dio, sono il tuo testimone di nozze non è vero?”

Sorrisi.

“Mike, che diamine stai dicendo!!” Lo presi sottobraccio e lo portai fuori.

“Ti prego, nessuno deve sapere questa cosa.”

“Okok Watson! E’ che non lo sapevo! Perché non me lo hai mai detto? Tutte quelle battute sulle ragazze…”

“E’ questo il punto, non ne avevo idea neanche io. Oh dio Mike, mi sento una ragazzina!”

“Ahah ci credo! E si vede! Devi raccontarmi ogni cosa, che diavolo!”

“C’è poco da raccontare!”

“Si certo, vorresti scansartela così!”

Sorridemmo entrambi, riuscii a captare lo sguardo di Sherlock da lontano, che ci guardava curioso.

“Dai andiamo, ci sta guardando, smettila di essere così divertito.”

“Oh credimi lui non ha problemi, a me lo ha detto subito.”

“C-cosa?!”

“Sì! Lo disse subito, forse perché sapeva che la notizia sarebbe arrivata a te attraverso me.”

“Dio, che confusione! Va bè! E’ arrivata comunque, infatti…”

 

Mike esplose in una risata pazzesca, e quando si calmò tornammo dentro.

Gli orchestrali ritornarono alle loro lezioni, salutai Mike con un abbraccio stretto e gli promisi che ci saremmo rivisti in uno dei pomeriggi più vicini per il solito dolce a casa mia.
Il Maestro trattenne me e Sherlock, e ci avvertì di provare almeno per una settimana intera il brano assieme, per mettere appunto il tempo e tutti gli altri accorgimenti.

Quando uscimmo, ero molto preoccupato, poiché non possedevo uno strumento mio, quindi dovevamo rubare il tempo per le prove, e io di tempo ne avevo davvero poco.

“Sherlock, è una tragedia questa.”

“Perché?”

“Perché io non ho un violoncello, quando mai potremmo provare?”

“Mmmh.”

“Potresti anche dire qualcos’altro.”

“Sto pensando, Watson.”

“Mi piace quando mi chiami Watson.”

“Lo so, Watson.”

“Ok, adesso smettila e troviamo una soluzione. Dovremo prenotare per questa settimana, Natale è tra una settimana! E oh mio dio, devo assolutamente scappare!”

“John. Calma. Risolvo io la questione, ok? Vai pure.”

“Davvero?”

“Perché ti meravigli?”

“Oh, n-no no non mi meraviglio.”

“Mh.”

“Ci vediamo stasera?”

“Certo.”

Gli diedi un casto bacio sulla guancia per non destare sospetti anche se la voglia di mangiarlo dai capelli ai piedi era più forte di qualsiasi altra azione che avrei fatto a breve.

Sorrise e mi guardò andare via, mi girai una volta per apprezzare la sua forma e lo vidi appoggiato su di una gamba con una mano nella tasca, mentre aspettava che io girassi l’angolo.


La giornata da Speedy’s trascorse velocemente, ed io dopo settimane provai la gioia di tornare a casa.
Sherlock sarebbe passato per aggiornarmi della vicenda “prove” e l’idea di stare un po’ con lui mi regalò una grande gioia.

“Harriett! Sono a casa!” dissi, chiudendo la porta alle mie spalle.

Non ricevetti risposa.
Mi spaventai un po’.
Feci una corsa nella sua camera e non la trovai.

Cazzo.

Presi velocemente mio cellulare, e notai che c’erano alcune chiamate e un messaggio che non riuscivo ad aprire.
La chiamai.

“Harriet! Oh mio dio, dove sei!”

“Johnny! Stai calmo! Sto bene! Ti ho scritto un milione di messaggi, sono a casa di Valery, dormo qui perché abbiamo da studiare.”

“Harriet, non raccontarmi stronzate! Con chi sei?”

“Oh cielo…*Valery, tieni, parla con mio fratello! E’ matto da legare.* Ciao John! Sono io.”

“Oh. Oh ciao.”

“Harriet è qui con me perché ho bisogno di aiuto, quindi studieremo fino a tardi. Se vuoi ti passo mia madre.”

Mi sentii un po’ deficiente, quindi dissi di no, le salutai e riattaccai restando più tranquillo nel fidarmi di mia sorella.

Ero solo. O almeno, lo sarei stato per poco.
Sherlock stava per arrivare.

Quando realizzai che avremmo trascorso la serata a casa, da soli, un moto d’ansia mi attanagliò alla gola.
Cosa sarebbe potuto succedere?

Inviai subito un messaggio.

*Cosa vorresti mangiare?*

*Tu cosa preferisci* rispose, immediatamente


*E’ indifferente.*

*Non credo avrai fame, comunque.*

arrossii. Cosa voleva dire?

*Stupido.*

*Lo so. Arrivo. Cinese?*

*Ok mi avvio al take away*

 

*No. Già fatto.*

*C-come?! Va bè, ci ho perso le speranze.*


*Non possiamo perdere tempo, stasera.*

 

Cosa diamine ha intenzione di fare? Non gli ho detto che non c’è Harriet. E’ impazzito.

Trascorsero dieci minuti, che mi parvero due ore, fino a quando il campanello non suonò.

Aprii e Sherlock era sotto l’uscio con le buste del cinese tra le mani.

“Finalmente.”

“Senti chi parla. - rispose - allora, prendi queste e mettile dove vuoi.” Disse, porgendomi i due sacchetti.

“Si, ma tu entra. Che fai lì impalato?”

“Tu fai quello che ti dico e non fare domande.”

Lo guardai accigliato.

“Mi devo preoccupare?” dissi.

“Sì. Come sempre.” Rispose lui, fremendo sotto l’uscio. 

 

Posai le due buste e lo guardai di nuovo, tra lo sconcerto e la paura.

“Mi dici cosa diamine succede?”

“Sì. Allora. Vai in bagno e aspetta qualche minuto. Io ti richiamo e tu mi raggiungi.”

“Cristo, Sherlock. Che diamine hai in testa?!”

“Ti prego, fidati.”

Ero incerto, iniziava a farmi davvero paura la cosa, ma poi seguii il suo ordine e salii al piano di sopra.
Aspettai nel bagno per qualche minuto e poi mi richiamò.

Scesi le scale e lo trovai in veranda, seduto al tavolo dove consumammo la prima merenda assieme. 

Di fronte alla sua sedia, c’era la custodia dello Stentor ed immaginai anche il violoncello.

“C-cosa?! Lo hai rubato alla scuola?”

Sherlock si raddrizzò sulla sedia.

“E questa sarebbe la tua soluzione? Oh dio, ma perché ti ho fatto scegliere!”

Sherlock sorrise, poi tornò serio.

“Watson, credi che io abbia bisogno di rubare alla scuola?”


Mi accorsi dell’offesa gratuita che gli feci e rimangiai le parole.

“No, no certo! Scusami…oh dio, se lo sapranno gli altri, vorranno tutti fare questa specie di “cosa” e cioè prenderlo in fitto e chissà quando lo rivedrò.”

“Non te ne separerai mai, in realtà.”

“Certo. Devo solo prenderlo in ostaggio ahaha!”

“E’ tuo, John.”

“Certo. AHAH!” Mi poggiai alla porta, la testa iniziò a girarmi e non ero sicuro di aver capito.

Sherlock tirò gli occhi al cielo e si alzò dirigendosi verso di me.

“Si dia il caso che abbia fatto una donazione alla scuola, io a nome di tutta la mia famiglia, e questa copre anche il costo di questo strumento che per loro è alquanto superfluo.
Dunque, mi sono detto, perché non approfittare? E’ un vero peccato fargli prendere polvere e farlo attendere le tue mani.
Sarebbe egoistico da parte nostra, giusto?”

Chinò il capo su un lato e mi guardò sorridendo.

Nessuna parola uscì dalla mia bocca, l’unico suono che mettevo era quello dei singhiozzi che non smettevano di venire su.

“John…lasciando da parte gli scherzi, credo che questo strumento sia nato per te, ed io non potrei mai perdonarmela la tua distanza da lui.”

Misi una mano sulle mie labbra per reprimere quel suono che non riuscivo più a controllare assieme alle lacrime continue.

“Spero che tu potrai vederlo come un regalo proveniente dal cuore, e non un “atto di pietà”. I miei sono tutti regali dal cuore, anche se talvolta ti mettono in una posizione difficile. Ma questo, questo è oltre. Questo strumento sei tu, e se io ho deciso di amarti allora non posso farlo sapendo che una parte di te è distante. Non amo mai a metà, perciò scusami se questo ti mortifica, ma spero che apprezzerai la questione che io e la mia musica non possiamo vivere così lontani da voi due.”

Sentii il petto creparsi a metà, e per evitare di svenire dall’emozione mi diressi verso di lui velocemente ed affondai in un abbraccio commosso.

Sherlock mi passò una mano tra i capelli mentre le lacrime continuavano a venire giù.

“Sssh. Sarà un bellissimo viaggio, John.”

Feci strada tra i singhiozzi e cercai di rispondere.

“E’ la cosa più bella che qualcuno abbia fatto per me. Io-io non ho parole, Sherlock…” e ricaddi in singhiozzi profondissimi.

Sherlock mi sorrise e poi prese il mio viso tra le sue mani, asciugò con le labbra le mie lacrime fino a posarsi sulle mie.
Ricambiai quel bacio in apnea, gli ero così devoto che l’unica cosa a cui potevo pensare era quella di doverlo avere accanto a me sempre.

Ci baciammo a lungo, con trasporto e le nostre mani iniziarono a tastare tutto ciò che fino ad allora non erano riuscite a toccare.
Sherlock posò le sue mani sui miei glutei e poi risalì dietro la schiena da sotto la t-shirt, ed io mi persi nei suoi meravigliosi ricci, cercando di possedere le sue labbra più che potessi, arrampicandomi sulla sua altezza.

“Andiamo in camera mia!” dissi, senza pensarci due volte.

Sherlock sorrise e mi guardò divertito.

“Mmh, mi piacerebbe Watson, ma devi mangiare e poi sei stanco. Ah, e poi vorrei sentirti suonare.”

“Mi stai respingendo?!” dissi, sorpreso.

“Diciamo che mi piace godere a lungo termine, quindi magari più tardi ti porto in camera visto che Harriet non c’è, e lì potrai dire qual che vorrai, nessuno ti sentirà.”

“Come fai a sapere che non c’è?”

“Le ho detto io di smammare!”

Sorrise, abbracciandomi e mordendomi il collo.

Un brivido mi attraversò la schiena, tutti i peli sulle mie braccia erano ritti e una scossa mi attraversò.

“Forza, a tavola.” disse, risvegliandomi da quella trance.

Cercai di prendere il possesso di me stesso, e mi avvicinai allo Stentor come una gazza si avvicina a qualcosa di luccicante.
Prima lentamente e poi afferrandolo con presunzione.

Toccai la custodia rigida di pelle e altre lacrime scesero automaticamente dai miei occhi.
Sherlock lo notò ma ignorò la cosa, era un momento solo nostro, e dunque continuò ad apparecchiare la tavola in cucina.

Piansi, piansi moltissimo, in silenzio.

La neve iniziò a scendere sulla notte scura, e le luci di Natale per le strade riflettevano la mia veranda.
Sherlock accese qualche candela che aveva portato per l’occasione, ed il mio cuore si sentì riscaldato come non mai.

“Perché fai tutto questo per me, Sherlock?”

Lo sentii fermarsi dietro di me.

Posò lentamente la scatola di fiammiferi sul tavolo e proseguì.

“Ho trascorso gran parte della mia vita nel frequentare persone di un certo ceto sociale, e non c’è stato giorno in cui non mi sono sentito sporco.
Un giorno ti raconterò chi è stato nel mio letto, e allora dovrai fare una scelta: o dimenticherai il mio passato o mi amerai per quello che ci riserva il futuro.
Con te mi sento puro, perché tu lo sei, e dunque faccio tutto questo per te perché ho capito che ci si può benissimo innamorare di un angelo, ed io sono stanco dei demoni, perché non mi piace l’oscurità, ho paura del buio, e voglio che tu quando saprai la verità, capirai che non ci sarà mai nessuno che potrà mai eguagliarti; che se mi respingerai continuerò a vivere una vita di stenti, e a tal punto saprò che avrò pagato per la mia poca cura nel saper scegliere le compagnie.
Faccio questo per te perché vorrei che tu curassi la mia anima, sei l’unico antidoto al veleno che mi hanno somministrato. Sei l’unica via di salvezza, e benché io di essa non ne abbia mai voluto sentirne parlare, quando ho incrociato il tuo sguardo l’unica cosa che desideravo era essere vivo.
Vivo, ma ad una sola condizione: accanto a te.”

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