Siberia

di _Lightning_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Ora zero ***
Capitolo 2: *** Dodici ore ***
Capitolo 3: *** Un giorno ***
Capitolo 4: *** Una settimana ***
Capitolo 5: *** Un mese ***
Capitolo 6: *** Un mese (2) ***
Capitolo 7: *** Sei mesi ***
Capitolo 8: *** Un anno ***
Capitolo 9: *** Un anno e mezzo ***
Capitolo 10: *** Venti mesi ***
Capitolo 11: *** Due anni ***



Capitolo 1
*** Ora zero ***


Serie: Schegge



1

 

"My blood runs red but my body feels so cold
I guess I could swim for days in the salty sea
But in the end the waves will discolour me"

[Organs – Of Monsters And Men]

 

 

Adesso, Siberia

I fiocchi di neve portati dal vento si posano davanti a lui, bianchi sul rosso.

Il suo respiro libera nuvolette di vapore, a intervalli rapidi e irregolari. Ogni boccata d'aria gelida gli punge i polmoni, congelandoli sempre più a fondo. Anche i suoi pensieri sembrano cristallizzati in spuntoni di ghiaccio acuminati che si incuneano nella sua testa, lacerando e stracciando le sue certezze. Immagini, parole, colpi confusi nel grigio, ora lontani, ora vicini, sempre più dolorosi.

Si raggomitola sul cemento, tremando in mezzo alla neve col petto spaccato a metà, rovente ma incapace di scaldarlo.

Fa freddo, in quell'armatura distrutta, ma il vero gelo è dentro di lui.



[108 parole]



 





Note Dell'Autrice:

Questa storia era partita in tutt'altro modo. Doveva essere una one-shot singola, doveva affrontare altre tematiche, doveva essere impostata diversamente. Doveva essere tutt'altro insomma, eppure è saltato fuori questo: 10 capitoli tra loro indipendenti ma legati dal filo conduttore di quello scontro in Siberia, dalle ripercussioni che ha avuto su Tony e di come quest'ultimo si sia adoperato per riprendersi, nei suoi alti e bassi. I capitoli diverranno man mano più lunghi fino al "punto clou", per poi tornare ad accorciarsi verso la fine; per questo partiamo in quarta con una drabble... purtroppo la stringatezza non è mai stata il mio forte ed è venuto fuori il pezzo più debole della raccolta :P

Ringrazio chiunque leggerà e/o recensirà <3

Conto di aggiornare settimanalmente, più o meno, anche se forse il prossimo arriverà tra qualche giorno data la brevità di questo primo capitolo.
Au revoir,

-Light-

P.S. La storia è stata inserita assieme a Lost In Translation nella serie Schegge.
P.P.S. Come nel 90% delle mie storie, la musica introduttiva ha una certa rilevanza, per cui ne consiglio l'ascolto :3



 

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Capitolo 2
*** Dodici ore ***


2
 
"The past is gone
It went by like dusk to dawn
Isn't that the way?
Everybody's got their dues in life to pay"


[Dream On - Aerosmith]


Dodici ore dopo, NY, Queens

Non ne è valsa la pena.


Lo pensò con intensità, dopo aver trascorso gli ultimi venti minuti nella ferma convinzione del contrario. Probabilmente avrebbe cambiato di nuovo idea prima di potersene rendere conto.

Sospirò appena e tenne lo sguardo puntato sui lampioni che scorrevano rapidi in un muro di luce intermittente oltre il finestrino. Colse la sagoma dell'Unisfera ergersi oltre il Queens Boulevard e il suo volto si irrigidì. Si sistemò meglio le lenti blu sul naso, che indossava nonostante fosse notte; il che di per sé non era strano, ma in quel frangente erano anche utili a celare le sue profonde occhiaie, gli occhi rossi e il livido sullo zigomo al mondo e al ragazzino irrequieto che gli sedeva accanto.

Happy guidava più nervosamente del solito e coglieva le occhiate preoccupate che gli scoccava dallo specchietto retrovisore. Peter era stranamente silenzioso mentre armeggiava col suo cellulare, dopo un quarto d'ora di esaltata narrazione degli eventi di Lipsia inframmezzata da ringraziamenti per il nuovo costume e domande sugli altri Vendicatori.

A quest'ultime aveva risposto col suo solito modo di fare disincantato, persino, a fatica ed evasivamente, a quelle su Bucky. Quando però gli aveva chiesto di Rogers, aveva liquidato la questione dicendogli che avrebbe potuto trovare tutto ciò che voleva sapere su Wikipedia o su qualche sito per veterani nostalgici. Qualcosa nel modo in cui l'aveva detto doveva aver lasciato trapelare più di quanto intendesse, perché Peter era incredibilmente ammutolito.

Aveva ringraziato di avere gli occhi schermati: era sicuro che se Peter li avesse visti si sarebbe spaventato nel captare la pura rabbia che avevano irradiato per un istante.

In quel momento Peter sollevò lo sguardo su di lui, con un'espressione un po' colpevole che tentò inutilmente di camuffare; lui gli rivolse uno sguardo incuriosito, mentre tentava di scacciare i pensieri tetri che lo assillavano, cadenzati dal dolore atroce allo sterno e alle costole che rendeva ogni respiro una tortura.

Notò che il ragazzino stava girando un video e colse l'occasione per spingerli definitivamente da parte, riacquistando la sua solita parlantina disinvolta e ironica. Una risatina finì per scuotere il suo petto dolorante, inaspettata e leggera.

Mentre parlava, osservò quel ragazzino costantemente illuminato da un sorriso e da uno sguardo vivace aperto con curiosità sul mondo e si sorprese a provare una punta di rammarico. Per lui quella era stata solo un'avventura un po' pericolosa ma esaltante, il sogno più fervido di un qualsiasi adolescente che diventava realtà. Indossare quel costume non era ancora così pesante come era diventato per lui indossare l'armatura. I lividi che aveva collezionato durante la battaglia sarebbero svaniti in poco tempo, al contrario delle cicatrici, visibili e non, che costellavano il proprio corpo. Non c'erano incubi e fantasmi ad attenderlo, quella notte, solo sogni sereni che avrebbero rievocato ciò che aveva appena vissuto in attesa di viverlo di nuovo.

Non c'era ancora nessuna Siberia, per lui.

E, tra una battuta e un abbraccio incompleto, giurò a se stesso che non ci sarebbe mai stata.



 


Note Dell'Autrice:

Buonsalve!
Come promesso, arrivo in anticipo con un capitolo più corposo. Contenere la mia prolissità si è rivelato più arduo di quanto avessi previsto :'D

Nota tecnica: qui si suppone che Peter fosse già sulla via del ritorno negli USA quando Tony era in Siberia; in sostanza si incrociano a New York con Tony fresco del trauma subito.
Ho sempre trovato abbastanza strano che fosse così spigliato in un frangente simile e ho provato a fornire una spiegazione alla cosa. Per inciso @Atlas: questa è una porzione dell'idea "telepatica" riguardante il nostro ragnetto di cui ti accennavo qualche secolo fa sulla tua raccolta :P
Eee sssì, l'ultima parte acquista tutt'altro drammatico significato se si pensa a Infinity War. Ogni riferimento è assolutamente intenzionale *inserire sadismo qui*

Ringrazio moltissimo _Atlas_ e shilyss che hanno recensito lo scorso capitolo <3 Grazie, ragazze, non sapete quanto mi faccia piacere ricevere i vostri commenti :3
Il prossimo aggiornamento avverrà probabilmente la settimana prossima, per poi mantenere (speriamo) cadenza settimanale.
Целую,

-Light-

P.S. Ho inserito un piccolo easter egg: la prima frase pensata da Tony è un riferimento a una delle conclusioni del fumetto di Civil War, già citata in Compromessi.

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Capitolo 3
*** Un giorno ***


3
 
 
 
 
Hands are red with your blame
Megaphone screaming my name
Whimpers someone I should've loved
Souls weeping above

[Micro Cuts - Muse]


Un giorno dopo, NY, Avengers Tower

Non avrebbe saputo dire da quanto tempo stesse fissando l'armatura.

Più di mezz'ora ma meno di un'ora, stimò infine, agitandosi sullo sgabello senza per questo alzarsi in piedi. Aveva perso il conto di quante volte avesse cercato di avvicinarsi per poi rimanere inchiodato al suo posto. Nel frattempo era riuscito a memorizzare ogni singolo graffio, ammaccatura e incisione che solcava la corazza intaccandone la cromatura rosso-oro, rivelando l'anonimo metallo sottostante.

La Mark 46 pendeva dai suoi sostegni come la pelle di un animale ucciso, disarticolata, inerte, con l'elmo sfigurato ciondoloni sul petto in una tacita ammissione di sconfitta. Si tastò lo zigomo tumefatto, riconoscendo sul metallo il colpo che gliel'aveva spaccato. Al centro della placca frontale, attraverso il reattore, spiccava la netta e slabbrata frattura orizzontale che non riusciva a fissare per più di qualche secondo senza che il dolore allo sterno si acuisse improvvisamente.

Scivolò in avanti sullo sgabello, toccò terra e si issò in piedi avvertendo la protesta di ogni singola contusione, frattura e taglio. La ignorò, come aveva ignorato il braccio lussato quando era partito per la Siberia e come continuava a ignorarlo adesso. Si portò davanti all'armatura, con lo sguardo proprio a livello del reattore in frantumi, costringendosi a fissare quella ferita sul suo secondo corpo di ferro. Prese atto ancora una volta con un senso di smarrimento di quanto fosse profonda.

Aveva mirato alla testa. Per un istante l'aveva fatto.

Quella consapevolezza gli tolse di nuovo il terreno sotto ai piedi, come se fosse improvvisamente inciampato nelle sue stesse convinzioni. Una spanna più su. Era tutto ciò che sarebbe servito per ucciderlo. Non avrebbe neanche avuto bisogno di usare quella forza devastante per fracassargli il cranio: non era di ferro, lui.

Era solo un meccanico che avrebbe fatto meglio a svolgere il proprio lavoro, prima di rimanere annientato dai suoi stessi pensieri. Si tirò su le maniche della felpa, trovando finalmente il coraggio di toccare l'armatura per iniziare a ripararla. Venire in contatto col metallo fece meno male di quanto avesse creduto, anche se gli sembrò impossibilmente gelido al tocco. Ma era sopportabile, molto più sopportabile di tutto il resto.

Il suo sguardo corse allo scudo abbandonato sul banco di lavoro e una stoccata lo colpì nei polmoni. Come quello stesso scudo l'aveva colpito in pieno petto appena il giorno prima. Tornò a concentrarsi di scatto sull'armatura.

Tutto il resto avrebbe aspettato.

Incrociò le fessure vuote e spente dell'elmo, la sua maschera rotta. Sembrava fissarlo in un rimprovero severo ma benevolo, quasi a ricordargli che era proprio grazie a lui che era diventato di ferro, in una grotta lontana nello spazio e nel tempo. Si era reso conto troppo tardi che non ne aveva davvero bisogno, per esserlo. Sfiorò lo sfregio che attraversava il metallo deformato dall'orbita fino alla mandibola, sentendone i bordi frastagliati contro i polpastrelli. Non aveva mai pensato di potersi spezzare davvero.

Posò le mani ai lati della maschera, staccò il casco dal suo supporto con una delicatezza quasi eccessiva e lo depose con un sospiro accanto allo scudo, a sua volta deturpato da tre graffi paralleli. Si trovò a seguirli con la punta delle dita in un gesto assente, passando poi ad accarezzare il vibranio lucido e cangiante.

Si rese conto solo allora che
tutto il resto non poteva aspettare e non avrebbe mai potuto farlo.

Strinse i bordi dello scudo con entrambe le mani fino a farsi male, cercando di scacciare il flusso torrenziale di emozioni che era eruttato senza preavviso.

Lo scudo di Rogers. Lo scudo di suo padre. La duplice natura di quell'oggetto gli stava spaccando in due il cuore, come se fosse di nuovo infisso nella sua armatura. Odio e rimpianto cozzarono dentro di lui, annebbiandogli la vista e facendogli desiderare di poter smettere di provare qualsiasi cosa.

Era l'arma del suo amico, o nemico, o entrambi? Qualcuno di cui in ogni caso si era fidato quasi ciecamente... era sempre così bravo a fidarsi di chi lo avrebbe tradito. Il pulsare violento dei suoi pensieri parve accecarlo per un istante e aumentò la presa sul metallo.

Provava un tenue sollievo unicamente per il fatto che quello scudo fosse lì tra le sue mani e non appuntato sulla schiena inutilmente diritta e fiera di Rogers. Quella era una delle creazioni di cui suo padre era andato più fiero. Un padre che probabilmente aveva provato più stima per l'uomo che l'aveva imbracciata e aveva quasi ucciso suo figlio che per suo figlio stesso.

La mia più grande creazione sei tu.

Lo scudo si schiantò a terra e trascinò con sé l'elmo distrutto in un clangore assordante, sovrastando il suo grido.



 


Note Dell'Autrice:

E rieccoci qui col nostro aggiornamento settimanale!
Lo sentite l'angst imperante? Sì? Bene, e spero vi piaccia (a Tony sicuro non piace, si chiede se lo lascerò mai in pace e la risposta è no). Come si nota, i capitoli si stanno allungando gradualmente; qui, sia per contenere la lunghezza, sia per scelta voluta, mi sono soffermata più sui gesti, le reazioni e i pensieri fugaci/sconnessi di Tony che su vere e proprie riflessioni di senso compiuto. Mi è sembrato che ciò mi consentisse di renderlo meglio, almeno in questo frangente così delicato, ma fatemi sapere se il risultato è stato effettivamente raggiunto :)

Ringrazio tanto _Atlas_ e shilyss per aver recensito gli scorsi capitoli (e per sopportare i miei vari scleri su altre storie e via MP <3) e anche chi è timido ma ha aggiunto la storia tra le seguite <3
Grazie a chiunque leggerà e/o vorrà lasciare un commentino (in omaggio, un pupazzetto anti-stress con le sembianze di Iron Man, oltre alla mia eterna (?) gratitudine).
Ci si becca alla prossima valanga d'angst (aggiornerò sempre tra mercoledì e giovedì, salvo imprevisti),

-Light-

P.S. Godetevi il ritorno di Tony-che-spacca-cose in stile Iron Man 1 <3

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Capitolo 4
*** Una settimana ***


4
 
This is me pretending
This is all I need
And I just wish that I didn't feel
Like there was something I missed


[My December – Linkin Park]


Una settimana dopo, Upstate New York, Avengers Compound

Voleva tornare a Malibu.

Villa Stark era vuota quanto lo era stato l'attico della Tower, ma meno silenziosa. Il mormorio incessante della risacca era più sonoro delle vibrazioni impercettibili del traffico sulla Park Avenue e lo aveva sempre aiutato a non rimanere solo coi suoi pensieri. Eppure anche alla Tower era riuscito a strappare qualche ora all'insonnia, lasciandosi cullare dalla skyline luccicante e dalle scie di auto che percorrevano le strade di New York, mentre se ne stava accovacciato a terra dinanzi alla vetrata in attesa che le sue palpebre crollassero. Lì nella sua stanza al Complesso il silenzio era un compagno invadente e sgradito, che lo lasciava a rivoltarsi senza pace tra le lenzuola nel suo letto a due piazze inutilmente vuoto.

Sarebbe davvero voluto tornare a Malibu, ma sapeva che non c'era nessuno ad aspettarlo. Allora sì che si sarebbe trovato a vagare da solo in una villa come aveva temuto Rogers. Quell'ipocrita.

Scalciò via di scatto le lenzuola e si alzò, rinunciando a dormire anche per quella notte. Magari un po' d'aria gli avrebbe schiarito le idee, concluse. Afferrò la vestaglia e uscì ciondolando in corridoio, avviandosi con un fruscio di seta e piedi scalzi verso la sala comune. La trovò prevedibilmente deserta. Sul tavolinetto era abbandonata la scacchiera di Visione, coi pezzi ancora schierati in una delle sue partite solitarie. Il libro di fisioterapia di Rhodey giaceva a faccia in giù sul divano. Qualcuno aveva lasciato la TV accesa in muto e sullo schermo scorreva l'ennesimo servizio sull'evasione alla RAFT; provò un lieve moto di beffarda soddisfazione quando la faccia paonazza di un furibondo Segreterio Ross apparve sullo schermo. La parte cinica di sé gli augurò che quell'infarto mancato anni prima si ripresentasse per terminare il proprio compito.

Spense con un gesto stanco la televisione prima che cominciassero a trasmettere le immagini dei
ricercati. Non gli avrebbero certo conciliato il sonno. Uscì dalla porta-finestra sul balcone e uno spiacevole brivido lo scosse al brusco impatto con l'aria fresca della notte, bloccandolo sulla soglia. Si strinse nella vestaglia damascata, costringendosi a non rientrare.

Era solo un po' di freddo, si rammentò con irritazione, mentre il petto prendeva a dolergli. Solo un po' di freddo, si ripeté ancora, ma si trovò a strizzare gli occhi appannati e a serrare tra le dita la seta di quella maledetta vestaglia, chiedendosi perché fosse stato così debole da indossarla. Rimase lì a intirizzirsi a capo chino.

Quando il tenue grigiore dell'alba colorò il cielo, era già in volo verso New York.


 
§


Gli piaceva crogiolarsi nell'illusione di non essere un tipo nostalgico, ma dovette arrendersi alla sua stessa ipocrisia quando si ritrovò appollaiato sulla cima della Tower ad ammirare l'alba sulla Grande Mela, la città che l'aveva visto crescere.

Puntò lo sguardo sull'Hudson, seguendone i flutti pacifici illuminati dal sole nascente e cercando in essi una calma che non riusciva a trovare, per poi spostarlo nuovamente sull'orizzonte frastagliato dai grattacieli avvolti dalla tenue nebbia mattutina. Forse più tardi si sarebbe fatto un altro voletto a velocità supersonica. Aveva proprio bisogno di una scarica di adrenalina per dissipare quella cappa di pensieri gelidi e opprimenti che continuavano a pungolarlo non appena abbassava la guardia. Ormai si sentiva intrappolato in un limbo tra passato e presente il cui confine aveva iniziato a sfaldarsi. Non era abbastanza forte da resistere a quei richiami, anche con l'armatura addosso.

E in quel momento il richiamo era rappresentato da Long Island, che incombeva alle sue spalle, dirimpetto a Manhattan. Non si voltò, mantenendo invece con ostinazione lo sguardo sul fiume. Puntualmente altre immagini si fecero largo nella sua testa, con tenace insistenza, e non fu in grado di respingerle come aveva fatto strenuamente nei giorni precedenti. Quel confine si stava assottigliando sempre più e non importava quanto cercasse di sorvegliarlo: qualcosa finiva sempre per sfuggire alla sua ronda, trapelando nella realtà.

Si accoccolò con le ginocchia strette al petto con un lieve sibilo di giunture meccaniche, schiudendo infine l'elmo e permettendo all'aria tersa e fresca del mattino appena sbocciato di accarezzargli il volto. Si rivelò spiacevolmente gelida sulla sua pelle, ma resistette all'impulso di rifugiarsi di nuovo dietro la visiera e scelse invece la protezione ingannevole ed effimera dei ricordi.

Aveva passato a New York gran parte della sua infanzia e adolescenza, ma la città racchiudeva ben pochi momenti che valesse la pena rievocare. Quelli erano custoditi per la gran parte a Malibu, nella villa dove aveva trascorso i mesi estivi da quando aveva memoria. Aveva esultato quando i suoi avevano infine deciso di trasferirsi sulla West Coast in pianta stabile, con lui poco più che diciassettenne e fresco di laurea al MIT. La magione a Long Island gli era sempre andata stretta, nonostante fosse situata a un passo da una delle città più dinamiche e vive del mondo.

Il suo sguardo sfrecciò infine verso quel luogo, nel punto in cui approssimativamente si era trovata la loro vecchia residenza. Avrebbe potuto indossare il visore dell'armatura e ingrandire la zona per sincerarsi che esistesse ancora, ma non lo fece, frenato da una mano gelida. Di quel luogo aveva solo ricordi tetri, di corridoi scuri, finestre spalancate su un enorme giardino sempre vuoto e porte serrate che lui non aveva il permesso di aprire.

E il silenzio. Quello non lo poteva soffrire neanche da ragazzo. Era sempre stato segretamente felice quando sua madre decideva di romperlo con il pianoforte. Respirò più a fondo, scacciando le note di una canzone lontana, con gli occhi ora vitrei piantati sul profilo slanciato di Long Island, persi tra i mille giardini lussureggianti e inframmezzati da piscine e villette a schiera perse nella bruma mattutina che si levava dall'oceano.

Aveva passato intere giornate della sua infanzia a ciondolare per quella casa inutilmente immensa, annoiato a morte e con l'unica distrazione delle sue invenzioni o di qualche dispetto ai danni di suo padre, comunque sempre troppo occupato a chiudersi in laboratorio per badare a lui. Troppo occupato a cercare aerei tra i ghiacci, a trattare col Wakanda per ottenere altro vibranio, a discutere con l'SSR o lo SHIELD o chi per loro, a delegare a Stane una fetta sempre più grande dell'azienda, a passare le vacanze di Natale al Pentagono e a scarrozzare partite di siero per supersoldati nel bagagliaio di un'auto...

Contrasse la mascella fino a farsi male, risvegliando la contusione sullo zigomo e il dolore acuto allo sterno, implacabile come lo era stato anni prima con un rozzo magnete che lo trapassava. Si coprì il volto con una mano, fasciata dal guanto metallico gelido sulla sua pelle accaldata.

Non voleva quei ricordi. Ne avrebbe voluti altri, più sereni, che non si interrompessero con una berlina schiantata contro un albero, che non gli suscitassero sempre quel retrogusto amaro in bocca, quel misto di rabbia latente e delusione che gli mordeva il cuore e che ora sapeva di aver indirizzato per anni alle persone sbagliate. Non suo padre, distratto, distante, concentrato sul passato e sul futuro ma sordo al presente; non sua madre, troppo mite per imporsi, troppo arrendevole per poter davvero fare di più di quanto non avesse già fatto – e aveva fatto così tanto, era stato il fiume che lambiva benevolo due terre perennemente ostili tra loro, facendo al contempo da confine e da tramite. Ma anche se nei suoi incubi tornava spesso lo sguardo freddo e alienato del soldato d'inverno, non era lui ad aver dirottato l'affetto dei suoi genitori per vent'anni. Si era limitato a precluderglielo per sempre, ma loro gli erano stati strappati via molto prima di venire uccisi.

Rogers avrebbe almeno potuto completare l'opera e spaccargli la testa con quel maledetto scudo, invece di mirare al suo stupido reattore che ormai non lo teneva neanche più in vita.

Di nuovo, sentì un sapore amaro in bocca, che aveva da tempo imparato a riconoscere come quello dell'impotenza. Perché in fin dei conti Rogers aveva ragione, e lo odiava anche per quello: niente di ciò che avrebbe fatto poteva cambiare qualcosa. Quei ricordi rotti sarebbero rimasti, assieme alla consapevolezza di averli vissuti solo per metà, mentre l'altra gli era stata negata prima ancora di venire al mondo. Deglutì a fondo, ricacciando indietro quelle lacrime inutili e il groppo che gli si era formato in gola, ma incapace di sottrarsi alle immagini che continuavano a riemergere davanti ai suoi occhi.

Per un attimo gli sembrò di rivedere suo padre seduto di spalle al banco di lavoro, chino sui suoi progetti e sordo e cieco al resto del mondo. Si aggrappò a quel lontano frammento di memoria e si fece cautamente strada nel ricordo, eradicando la sagoma sfocata di quello stesso uomo riverso nella polvere di una strada solitaria, inerme ai colpi che si abbattevano su di lui. Si insinuò a forza in quella bolla d'indifferenza dolorosa, ma vivida e incredibilmente dolce rispetto al bianco e nero crudele che cercava di sopraffarla. Varcò la soglia di quel laboratorio come aveva fatto innumerevoli volte in vita sua, con lo stesso misto di timore e aspettativa, ma non fu il se stesso bambino o adolescente a entrare.

Si ritrovò a guardare quella schiena coi suoi occhi adulti e stanchi, nel suo corpo ormai più robusto e alto di quello di suo padre, e fu la sua mano segnata da calli e cicatrici a posarsi sulla spalla dell'uomo. Un gesto che non aveva mai avuto il coraggio né la volontà di fare, ma che adesso agognava e rimpiangeva. L'altro alzò appena lo sguardo, rivolgendogli gli occhi scuri ed espressivi così simili ai suoi, animati dallo stesso acume, e lasciò intuire l'ombra di un raro sorriso sotto ai baffi canuti. Mentre gli stringeva con fare impacciato la spalla, si sentì stringere a sua volta in un abbraccio che lo avvolse come una carezza. Posò la mano libera su quelle di sua madre intrecciate sul suo petto, nel punto in cui un tempo c'era stato il reattore. Accolse il calore rassicurante delle sue braccia e sentì la sua testa poggiarsi nell'incavo della sua spalla, come tante volte da ragazzo. Per un momento si sentì in pace con se stesso, con loro, lontano dal gelo.

Poi riaprì lentamente gli occhi e ripescò a forza la sua coscienza da quel ricordo falso e artificioso. Non rimpiangeva di aver lanciato i suoi 611 milioni di dollari di progresso tecnologico dalla scogliera di Malibu, dallo stesso punto da cui aveva lanciato il suo reattore anni prima. Aveva comunque avuto il tempo e la debolezza di indossare gli occhiali un'ultima volta dopo il suo rientro dalla Siberia. Si era concesso di creare quell'unica immagine fasulla con cui si ostinava a medicare maldestramente le sue ferite, ottenendo solo dei punti di sutura pronti a strapparsi al minimo strattone.

Batté più volte le palpebre, a scacciare i residui di forme e colori ancora impressi sulla sua retina, dissipando con esse il velo sottile che gli aveva annebbiato gli occhi. Guardò di nuovo in direzione di Long Island, ormai illuminata dal sole del primo mattino, e di nuovo si chiese se la vecchia villa fosse ancora in piedi.

Non volle darsi una risposta e quando decollò fece rotta a sud, verso Malibu, a casa.




 

Note Dell'Autrice:

Massalve <3
Rieccomi a tormentare i vostri cuori e quello del povero Tony!
Ammetto che questo capitolo è un azzardo e non mi dilungo troppo, primo perché è un'ora indecente, secondo perché sono molto curiosa di sentire cosa ne pensate di tutto ciò *omino indica in altro* senza interferenze da parte mia.

Solo qualche precisazione: 1) La vestaglia citata all'inizio è quella che Tony indossa in Iron Man 2 e che sembra essere appartenuta ad Howard, come si evince da alcune scene in Agent Carter (qui); 2) Tutte le elucubrazioni sulla residenza della famiglia Stark/traslochi vari sono frutto del mio headcanon, ma Tony nel comic-verse era davvero nato e cresciuto a Long Island (dico era perché poi se ne sono usciti con la storia che è stato adottato, versione che sceglierò candidamente di ignorare <3).

Ringrazio infinitamente shilyss e _Atlas_ (grazie per aver aggiunto la storia tra i preferiti :3) che hanno recensito gli scorsi capitoli riempendomi come sempre di gioia, e anche tutti coloro che seguono in silenzio <3
Buona lettura e alla prossima settimana,

-Light-

P.S. Questo capitolo ha mandato un po' all'aria il proposito di allungare gradualmente i pezzi perché è venuto un po' troppo corposo, ma l'idea di fondo rimane, considerando che questi capitoli centrali sono tutte one-shot e poi tornerò alle flash e alle drabble, chiudendo il "cerchio".

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Capitolo 5
*** Un mese ***


5
 
"A simple lucky feel
Or just a mere illusion
A chilling disconnection
How much time have we spent
So closely
So alone"


[Flow – About Wayne]


Un mese dopo, NY, Long Island

«Ancora uno?»

«No, sto a posto. Tieni il resto.»

Tony allungò un centone al barman, che ringraziò sentitamente e intascò la banconota con un sorriso a trentadue denti.

Riprese a sorseggiare dubbiosamente il suo drink un po' annacquato, senza dispiacersene troppo e giocherellando in modo distratto con l'ombrellino di carta che lo ornava. Non aveva mai bevuto un Blue Angel più insapore di quello che aveva finito poco prima, e il Long Island si stava rivelando anche peggio. E dire che avrebbe dovuto essere la specialità di quella zona. Finì il bicchiere più per sete che per gusto e abbandonò il bancone, intuendo dagli inservienti indaffarati che il locale era sul punto di chiudere, anche se forse speravano in qualche altra generosa mancia dall'unico avventore delle ultime due ore.

Uscendo si calcò di nuovo in testa il cappuccio della felpa. Venne accolto da una brezza umida e carica di ozono che preannunciava pioggia, e dalla visione desolata di una via residenziale mal illuminata, costeggiata da villette a schiera tutte uguali. Tirò appena su col naso, esitando sul ciglio della strada con le mani affondate nelle tasche dei pantaloni da lavoro.

Si stava convincendo sempre più che quella si sarebbe rivelata una pessima idea, ma d'altra parte non era mai stato bravo a ignorare gli input sconclusionati che gli inviava il suo cervello quando si annoiava. Anche se quella che l'aveva colpito nei tre giorni d'assenza di Pepper, costretta a partire d'urgenza per L.A. in vista di una qualche riunione delle Industries di cui non aveva colto l'argomento, non poteva esattamente definirsi noia. Era più un misto di irrequietezza, energia nervosa e pensieri imbizzarriti che l'avevano spinto a passare molto poco tempo nell'attico della Tower con annesso laboratorio e molto più per le strade gremite di New York, vagando alla cieca dove lo portavano i suoi piedi fino a tarda notte, arrivando spesso così lontano da dover chiamare la Mark per tornare a Manhattan.

In fondo aveva sempre saputo che prima o poi si sarebbe ritrovato lì. Non capiva neanche come ci fosse arrivato: gli sembrava che il suo corpo avesse impostato il pilota automatico. Sapeva solo che, dopo ore passate a girovagare nel Queens nei dintorni di Flushing Meadows [1], aveva iniziato a prendere treni e autobus a caso; a un certo punto era uscito da una stazione, aveva distolto lo sguardo dal marciapiede e, invece di grattacieli illuminati e strade invase di taxi, si era ritrovato a fissare i quieti viali fiancheggiati da giardini e basse villette di Oyster Bay.

Non si era stupito più di tanto a quella vista familiare e si era rifugiato nel primo nightclub che gli era capitato a tiro. Era abbastanza sicuro di non essere stato riconosciuto, nonostante non si fosse curato di camuffarsi più di tanto. Il fatto di indossare quegli abiti invece dei suoi soliti completi firmati lo accomunava più a un membro di qualche gang che a un miliardario supereroe al centro del mirino mediatico. Gli occhiali da sole rossastri appuntati sul suo volto a quell'ora improbabile potevano essere un indizio sufficiente anche per un osservatore poco attento, ma era anche vero che non si incontrava molta gente alle due di notte, per di più da quelle parti. E a lui stava bene così.

Dieci anni prima si sarebbe quasi risentito per il fatto di non aver attirato l'attenzione dei paparazzi. Magari avrebbe finito per fare qualcosa di eclatante solo per il gusto di farlo. Si trovò a chiedersi quando, esattamente, quel genere di bravate avesse perso ogni attrattiva, se non per mantenere un'apparenza coerente con la propria immagine pubblica ormai iconica.

Si ritrovò a sbuffare piano mentre si guardava intorno nel tentativo di raccapezzarsi, per poi imboccare a passo spedito il viale alberato dinanzi a sé. Dieci anni prima a quell'ora, tra un party alcolico e l'altro, era stato probabilmente assillato da problemi ben più banali e mondani che girovagare per Oyster Bay in una sorta di ridicolo pellegrinaggio alla propria vecchia casa. Problemi come l'approvazione dell'ennesimo rifornimento d'armi all'esercito.


Già. Magari una partita di missili diretta in Sokovia. O in Gulmira.

Si strappò quei pensieri dalla testa, ripiombando nella realtà quasi di schianto e impedendo a ricordi non poi così lontani di fare capolino nella sua mente ancora sorprendentemente calma, considerando ciò che si apprestava a fare. Percepiva solo un lieve formicolio allo stomaco, che assomigliava più ad aspettativa che a paura, e che lo spingeva a mantenere un'andatura sostenuta. Continuò a camminare, imboccando a colpo sicuro ogni strada, senza esitare di fronte a bivi o diramazioni e finendo persino per ricordare e usare un paio di scorciatoie che tagliavano attraverso i vasti giardini pubblici. Qua e là scorgeva case nuove, villette ristrutturate e irriconoscibili, locali scomparsi al posto dei quali si aprivano ingressi di garage, un paio di parchi giochi asfaltati per far posto a parcheggi.

Gli era tutto familiare, eppure allo stesso tempo estraneo. Non era mai stato tipo da bighellonare troppo in giro: da ragazzo aveva sempre preferito serrarsi in camera sua o in laboratorio, e il suo ideale di divertimento erano stati i party studenteschi e le feste private, non certo starsene a ciondolare nel parchetto dietro casa con i suoi coetanei. Anche quel suo vagabondare senza meta degli ultimi giorni aveva un sapore nuovo, di qualcosa che si fa per la prima volta senza ben capire se piaccia o meno, ma che in fin dei conti non si rivela poi così sgradevole. Almeno era sempre abbastanza esausto da crollare addormentato senza passare ore a fissare il soffitto o la schiena di Pepper.

Non incontrò nessuno e l'unico suono era lo scalpiccio delle sue scarpe da ginnastica sull'asfalto e il frinire di qualche grillo isolato. In lontananza, affinando l'orecchio, poteva captare il mormorio della risacca che lambiva i moli del porticciolo, poco più di un bisbiglio gentile rispetto al rombo delle onde che si abbattevano contro la scogliera a Malibu, ma egualmente rassicurante. Un tuono brontolò lontano.


Oh, eccola. Ivy Street.

Aumentò il passo, superò il cartello e svoltò rapido l'angolo, coi polpacci che iniziavano a bruciargli per lo sforzo.

Ivy Street 42, terza casa sulla...

Si bloccò in mezzo alla strada, la bocca semiaperta e lo sguardo fisso davanti a sé. Uno spiazzo di terra spianata, recintato da transenne metalliche, occupava l'appezzamento della sua vecchia casa. Anche un'altra mezza dozzina di villette aveva subito la stessa sorte, lasciando dei visibili vuoti ai lati della strada che trasmettevano una viva sensazione di incompletezza, come se qualcuno avesse cancellato in modo grossolano dei dettagli fondamentali di un disegno. La sigla Wilder Constructions [2] spiccava sui cartelli appesi alle recinzioni, ma erano tanto sbiaditi e arrugginiti che era difficile leggerne la data. Aveva svuotato la casa e l'aveva venduta d'impulso subito dopo la morte dei suoi. Non si era mai soffermato a cercare di capire se si fosse mai pentito di quella scelta avventata, una sorta di rivincita tardiva e inutile ai danni di qualcuno che non era più in grado di opporlo o criticarlo.

Il formicolio allo stomaco trasformò in una morsa, una chiara esortazione a fare dietrofront e tornarsene a Manhattan prima che la situazione precipitasse. Ma non era mai stato bravo a tirarsi indietro in tempo [3].

Si riscosse dalla sua paralisi e si intimò di mettere un piede davanti all'altro per avvicinarsi al suo spiazzo vuoto. Era arrivato fin lì, tanto valeva dare un senso a quell'Odissea notturna da un capo all'altro di New York. Si fermò davanti alla colonnina dove un tempo era fissato il cancelletto d'ingresso, unica superstite del basso muro di recinzione. Sui mattoncini rossicci scuriti dall'umidità e dallo smog, venati da tralci di edera rinsecchita, spiccava una zona visibilmente più chiara, a segnare la mancanza della targa
Stark. Era ancora vivida nella sua memoria: nera, lucida, incisa a fini caratteri dorati. Era stata rimossa da relativamente poco. Forse un souvenir, forse uno sfregio, forse semplice manutenzione. Ora quella era una terra di nessuno, priva di qualunque traccia della sua identità.

Allungò la mano a testare la resistenza delle transenne e quelle traballarono instabili: con un po' di forza avrebbe potuto allargarle e entrare. Lasciò andare un lungo, fievole sospiro.


Che idea assurda.

Si allontanò di un paio di passi, facendo altri respiri profondi, mentre la morsa nello stomaco iniziava a contornarsi di filo spinato, doloroso, pungente. La sua vista si era fatta sgranata e faticava a distinguere i colori, quasi il mondo si stesse stingendo a poco a poco. Si stropicciò con forza gli occhi da sotto le lenti e si rivolse di nuovo verso lo spiazzo, scacciando ogni esitazione. Era stanco di sentire freddo, era stanco degli incubi, dei brandelli di ricordi che gli avviluppavano la mente, dell'eco di parole mai dette, dei frammenti slavati di immagini lontane e invadenti.

Ti sei buttato in un portale alieno. È casa tua: cosa sarà mai in confronto?

Varcò il perimetro con un lieve senso di vertigine no ndissimile da quello che aveva provato nel varcare il portale, scostando la recinzione metallica e sbilenca. Si tolse il cappuccio in un gesto che gli venne spontaneo. Fece qualche passo, lasciando dietro di sé impronte profonde nella terra sabbiosa e umida per la recente pioggia. Si fermò al centro dell'appezzamento, nel punto in cui approssimativamente doveva esserci stata la sua camera. Poco più avanti c'era stato lo studio di suo padre. Ebbe una fugace visione della sua schiena curva sul banco di lavoro, con lo scudo a stelle e strisce [4] appeso al muro che incombeva su di lui. Smosse un mucchietto di terra con la punta della scarpa, le mani artigliate alla stoffa nelle tasche della felpa e la bocca irrigidita in una piega amareggiata.

Non c'era niente, lì. Poteva solo illudersi di rivedere davanti a sé le stanze della villa, di poter scorgere suo padre che trafficava nel laboratorio o sua madre che suonava il pianoforte o Jarvis indaffarato in ufficio o se stesso bambino che sfrecciava in cortile con un go-kart improvvisato. Barcollò sul posto, come se l'avessero colpito in testa. Percepiva una marcata pressione allo sterno, quasi il cuore volesse schizzargli via dalla gabbia toracica. Non riusciva a muoversi, impietrito al centro di quello spoglio sacrario, ma si sforzò di continuare a pensare.

Doveva pensare. Doveva distrarsi, prima di cedere, di rimanere intrappolato nei suoi ricordi sbiaditi e incolori. Un appiglio. Gli serviva un appiglio.

Premette rapido un pulsante sulla stanghetta degli occhiali e mormorò un comando vocale; subito apparve sulle lenti una veduta del suo attico alla Tower. Le luci erano spente e i sensori di FRIDAY non registravano alcun suono o movimento. Il suo cuore mandò un battito così forte e doloroso che temette di sentirlo scoppiare. Non era ancora tornata. Magari stavolta non sarebbe tornata.

Scacciò la schermata con un doppio battito di palpebre che lo lasciò con la vista tremolante. Non voleva dare adito a quel timore irrazionale proprio in quel momento, ma sentì un'improvvisa stretta che gli arpionava le viscere. Non riusciva neanche a concepire che l'unica persona che aveva accanto, la sua sola, vera fonte di calma e punto fermo nella sua vita potesse svanire con la stessa rapidità con cui era riapparsa, lasciandolo ad annegare nel suo mare di inquietudini.

Era ancora paralizzato sul posto, intrappolato da mura che erano ormai crollate da tempo; si aggrappò alla sua immagine, nitida come fosse davanti a lui, come quando vi si era aggrappato prima di slanciarsi verso le stelle che l'avrebbero inghiottito per sempre. Pepper rendeva i giorni più sereni e le notti un po' più sopportabili, sia che lo stringesse a sé mentre si arrendeva alle sue debolezze, sia che si ritrovassero intrecciati l'uno all'altra nel tentativo di dimenticarle. Erano solo quegli attimi di quiete che gli permettevano di non accartocciarsi su se stesso come una foglia nella morsa del freddo: fuori dal suo abbraccio era sempre in Siberia, costretto in un'armatura ghiacciata e con una patina congelata di lacrime e sangue sul volto, incapace di muoversi o respirare.

Anche adesso era in Siberia, di nuovo davanti a quel piccolo schermo sporco che aveva fatto silenziosamente crollare il suo mondo in un minuto e mezzo, un fotogramma alla volta. Percepiva la vecchia bobina di pellicola che veniva proiettata senza sosta sulla parete di fondo della sua mente, ripetendosi all'infinito anche quando non ne era del tutto consapevole. Una parte di lui era sempre costretta a sedere in quel teatrino buio e stantio, a guardare la stessa successione di immagini all'infinito. A volte ne emergeva una più vivida: allora il mondo intorno a lui sprofondava in un tetro, opprimente bianco e nero e solo un rosso ramato e un azzurro ceruleo riuscivano a riportare il tutto alla consueta tonalità e a strapparlo da quel limbo spento. Quando coglieva uno scorcio familiare attorno a sé era invece il mondo monocromatico che si dipanava nella sua testa a tingersi di riflesso di tinte cupe e intense, cremisi. Succedeva fin troppo spesso, e in quei momenti si sentiva fisicamente ai margini di quella strada solitaria, in attesa dello schianto, col cuore in gola e l'infantile speranza di poterlo evitare.

Si strinse nella felpa, le braccia avvolte attorno al proprio corpo quasi a impedirgli di sfaldarsi per i tremiti che lo scuotevano. Era stata davvero una pessima, idea, si ripeté ancora, inspirando bruscamente. Ma sentiva comunque di essere nel posto giusto. Forse aveva solo sbagliato momento, ma sarebbe comunque sempre stato troppo tardi. Quindi, perché non ora? Aveva già trascorso più di vent'anni a fingere di non aver mai avuto dei genitori, ma dopo la Siberia ogni cosa che vedeva o sentiva sembrava richiamarli: una canzone alla radio, un completo elegante in una vetrina, un mazzo di calendule in un vaso, una fragranza estiva, una penna stilografica d'epoca, le note di una ballata... dettagli, sbavature di contorno a cui non aveva mai fatto caso, ma che adesso gli si palesavano davanti in modo ineluttabile, come portali spalancati nel vuoto punteggiato da stelle e galassie lontane.

Si sentì cadere in ginocchio da molto lontano, come se qualcuno avesse tagliato i fili a una marionetta inerte. Era in ginocchio come lo era stato in Afghanistan davanti a un uomo morente, come quando si era svegliato da quello che era sembrato un incubo in una strada devastata di New York, come quando era crollato al rientro dalla Sokovia, come quando aveva pregato che il suo migliore amico fosse ancora vivo, come quando uno scudo aveva spezzato ogni sua corazza per lasciarlo alla mercé del gelo. Ogni volta si era rialzato, con la speranza e la convinzione di poter porre rimedio ai suoi errori. Quella speranza adesso gli si affievoliva tra i palmi, ma pulsava ancora flebilmente.

Sfiorò la terra con la punta delle dita, dove un tempo si era trovato il tappeto su cui aveva passato ore della sua infanzia a giocare con circuiti e saldatori, nella stessa posizione in cui si trovava in quel momento quarant'anni dopo. Non c'era niente, lì. Solo terra morta, erbacce e un freddo che gli penetrava nelle ossa. Rimanevano i ricordi, quei pochi che contavano, quelli veri e non contraffatti da una tecnologia illusoria. Forse, potevano bastare.

Tirò un sospiro tremolante, realizzando solo allora di avere le guance bagnate, due scie sottili e appena palpabili. Rimase a fissare la spianata attorno a sé con un senso di stremato distacco. In quel momento avrebbe solo voluto rifugiarsi sotto le coperte, abbracciare Pepper e addormentarsi nel profumo dei suoi capelli con la speranza di un sonno sereno. Ma non sarebbe tornata prima di quella mattina.

Lanciò un'occhiata al cielo ancora nero e carico di nuvole, poi all'orologio da polso, faticando a leggerlo tanto il suo braccio sinistro stava tremando. Doveva resistere solo un altro paio d'ore, ma non era abituato alle attese. Di solito era lui a farsi aspettare, a volte per mesi. Ma per una volta avrebbe potuto aspettare. Dopotutto, c'erano cose per cui aveva aspettato più di vent'anni.

Si sollevò in piedi a fatica, scrollò via la terra dai pantaloni e portò una manica ad asciugarsi il volto già ricomposto. Si affrettò a superare di nuovo le transenne, che sbatacchiarono tra loro con un suono metallico assordante nel silenzio notturno. Fu tentato di guardarsi un'ultima volta indietro. Resistette fino all'imbocco della strada; lì si voltò appena, sbirciando da sopra la spalla. Nessuna villa a tre piani dai mattoni anneriti, nessun cancelletto in ferro battuto, nessuna finestra schermata da tende di taffetà, nessun portone in legno laccato. Solo spiazzi vuoti, villette silenziose, cumuli di terra e transenne arrugginite.

Si avviò verso la stazione, rimettendosi il cappuccio quando qualche goccia di pioggia iniziò a picchiettargli la testa. Il suo cuore batteva tranquillo, solo un po' più forte del normale, a ritmo coi propri passi rapidi e decisi.


Solo un paio d'ore.

 
§


Il primo traghetto per Manhattan era in ritardo.

Si strinse nella felpa, troppo leggera per quella frizzante mattina di metà ottobre tempestata da una pioggerella sottile. Inspirò a pieni polmoni l'aria salmastra e satura di odori sulla foce dell'Hudson mentre passeggiava su e giù sulla banchina già popolata di pendolari. Il vento costante che spirava dal mare s'infrangeva contro le sue guance come una lama gelida e affilata, ma ignorò quella sensazione spiacevolmente familiare. Sentì di nuovo freddo, ma adesso era solo il vento, l'aria umida, la pioggia, la felpa di cotone sottile, il fatto che fosse intirizzito da una notte passata a girovagare. Nel petto avvertiva ancora la morsa onnipresente del gelo, ma era come se quel ghiacciaio avesse infine smesso di espandersi e fosse ora immobile, scricchiolante e in attesa del disgelo.

Cercò con lo sguardo il profilo della Tower, scorgendone la forma slanciata. Attivò di nuovo gli occhiali con un tocco leggero, e stavolta un sorriso gli inclinò le labbra.

Sospirò appena, con sollievo. Non avrebbe dovuto aspettare.



 

Note:

[1] Luogo in cui si sono svolte le Stark Expo, sia quella di Howard del '74 che quella di Tony in Iron Man 2.
[2] Ditta che compare nella serie Marvel Runaways.
[3] Ripresa di una battuta di Civil War, in cui è Steve a pronunciarla. E sì, Tony ne è consapevole.
[4] Riferimento alla mia shot Guiding Light, in cui Howard ha conservato una copia dello scudo.

NB. Tutti i luoghi citati sono realmente esistenti. Mi sono presa la libertà di piazzare la vecchia residenza degli Stark a Oyster Bay, zona notoriamente ricca ed elitaria di New York.


Note Dell'Autrice:

Alors, rieccoci qua!
Questo capitolo è partito in un modo per poi finire in un altro. Nel senso che a un certo punto Tony ha preso a "scriversi" un po' come gli pareva e io gli sono andata dietro. Se nel capitolo precedente gli ho fatto affrontare un "viaggio mentale", qui assistiamo a quello fisico e materiale, un tentativo di mettere a tacere almeno una parte di tutto ciò che lo turba (viaggio che mi ha costretto a non poche incursioni su Google Maps). Lascio a voi commenti e interpretazioni, fermo restando che come al solito parlano più i gesti di Tony che i suoi pensieri. Il testo è infarcito di riferimenti, citazioni e rimandi a vari eventi della vita di Tony; nelle note ho segnalato solo quelli fondamentali e l'easter egg.

Ringrazio infinitamente _Atlas_ (ti abbraccio di nuovo, tusaiperché <3), shilyss (grazie per non aver chiamato SWAT e postale :P) e T612 (grazie per aver aggiunto la storia tra le seguite!) per aver commentato gli scorsi capitoli <3
Il prossimo arriverà con un po' di anticipo, probabilmente nel week-end, essendo anch'esso un po' particolare e decisamente breve. È una specie di "extra" che ho voluto inserire per spezzare la raccolta (diventata di 11 e non 10 capitoli). Il prossimo "vero" capitolo arriverà come sempre tra mercoledì e giovedì :)

Auf wiedersehen a todos (?)

-Light-

P.S. Ho evitato di scrivere del ricongiungimento di Tony e Pepper per il semplice fatto che il mio headcanon al riguardo è racchiuso in codesto capitolo di codesta belliffima storia -> With Or Without You della carissima Atlas <3 Si riappacificano a Malibu, il perché siano adesso a NY sarà accennato prossimamente.

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Capitolo 6
*** Un mese (2) ***


 


"I got no innocence, faith ain't no privilege
I am a deck of cards, vice or a game of hearts
And still you, still you want me"


[Next To Me – Imagine Dragons]



Un mese dopo, NY, Avengers Tower


«Come è andata a Los Angeles?»

«Al solito: un mucchio di problemi che ho risolto nonostante la tua assenza e la scarsa collaborazione del consiglio.»

«Bene, cioè male. E hanno... detto qualcosa?»

«Su di te?»

«Su, uh... tutto.»

«No, e non credo avrebbero osato farlo di fronte a me

«Quando vuoi sai essere spaventosa, ma la prossima volta ti presto l'armatura: ti eviterà lo sforzo di dover guardare tutti in cagnesco.»

«Sono abituata a te, e i matusa del consiglio ti fanno un baffo.»

«Touché. Però l'armatura rimane a disposizione.»

«Mi è bastata una volta. E ti ricordo che sono claustrofobica.»

«E soffri di vertigini e sei allergica alle fragole... ti rendi conto di quante cose devo ricordarmi?»

«Quando te le ricordi. E dire che sarebbero tutti inconvenienti facilmente evitabili, se non avessi scelto di vivere con Tony Stark.»

«Anch'io ho dei difetti, molti dei quali mi rendono irresistibile e... ehi, quello è il secondo bicchiere di Chardonnay fuori orario e ti fermerò lì.»

«Da che pulpito... vuoi?»

«No, mi sono bastati due cocktail. Annacquati. Solo due, Pep. Giuro. Croce sul cuore.»

«Mh. Dove sei andato?»

«A Long Island, dove servono appunto un Long Island terribile, ci credi? E ho camminato più oggi che in tutta la mia vita, escludendo le scampagnate nel deserto; pensa che ho ripreso i mezzi pubblici dopo, quanto? Saranno vent'anni che non metto piede su un treno e...»

«... sei andato a Long Island?»

«L'ho appena detto, no? A Oyster Bay, dove... uh... c'è un nightclub che si chiama "La Perla di Oyster Bay", pensa che fantasia... che serve dei cocktail imbevibili. E poi là c'è anche... uh, te l'ho detto, no?»

«... c'è la tua vecchia casa, sì.»

«C'era. L'hanno demolita, neanche lo sapevo. Ma forse è meglio così.»

«Come stai?»

«Io? Bene.»

«Sul serio?»

«Perché non dovrei?»

«Penso che dovresti rispondere tu a questa domanda.»

«È solo una casa, Pep, e non è mai stata davvero casa mia. Sto... sto bene.»

«Ok.»

«... beh, insomma, andare là non è stata poi una grande idea, ma credo che in fin dei conti sia stata un'esperienza positiva. Credo

«Ne vuoi parlare?»

«No. Ma... m-ma forse hai ragione e d-dovrei e... oddio, non adesso

«Tony...»

«No, no, sto bene! Adesso m-mi passa, devo solo essermi raffreddato con... con tutta quella pioggia.»

«Vieni qui.»

«... ti assicuro che prima sono stato molto più macho, n-non avevo neanche gli occhi lucidi.»

«Bugiardo.»

«Neanche un po'. Ma forse avrei dovuto evitare la terapia d'urto.»

«Forse dovresti solo darti più tempo.»

«Mi sono dato più di vent'anni e non è servito. Ho pensato di... di provare a prendere in mano la situazione, per una volta.»

«... ed è per questo che sei voluto tornare a New York?»

«Mh-hm. Dovevo, come dire... finire... chiudere delle... oh, hai capito.»

«Ne avevi bisogno.»

«Sì, esatto... mi ha aiutato a capire.»

«Che cosa?»

«Che non posso aggiustare tutto. Che a volte... a volte devo lasciar andare. Che per una volta non è colpa mia. Almeno loro non lo sono. E... e poi non lo so.»

«È un inizio, no?»

«Lo spero. Ecco, vedi? Mi è passato. Ho qualche malfunzionamento del driver emotivo, tutto qua.»

«Non c'è nulla di male, Tony.»

«È che odio sentirmi... così

«Lo so.»

«Però sono pur sempre Iron Man. Passerà anche questa, come tutto il resto.»

«Certo, ma solo se smetti di scappare dai problemi e...»

«Non sto più scappando, perché credi che...»

«... e ora hai smesso di farlo.»

«... ti stia dicendo tutto questo? Oh. Sì, credo di aver smesso. Ho capito la lezione.»

«Anch'io.»

«Questo sì che è progresso, signorina Potts. Insomma, adesso sto facendo l'opposto di quel che facevo, ma...»

«... ma forse anche correre a testa bassa incontro ai problemi non è sempre la soluzione migliore.»

«Già. Lo sai che non sono mai stato bravo coi compromessi.»

«Magari ti serve solo una mano a gestirli.»

«Mi hai aiutato a gestire me stesso per anni. Tra... tra riunioni, feste, sbronze, armature, Expo, gare di corsa, omelettes bruciate, alieni e... e sicuramente sto dimenticando qualcosa...»

«Spazzatura e ville distrutte?»

«Giusto. E terroristi. E attese. E Martini in ritardo. Il punto è che... ok, non sono bravo neanche in queste cose.»

«Non puoi essere un genio in tutto, no? Sarebbe noioso.»

«Giusto. Ma per questo mi serve il tuo aiuto per... per trovare questo compromesso.»

«Sono qui, no?»

«Sì. Solo che...»

«Cosa?»

«Oh, no, tu non c'entri, è che... non so se posso trovare un compromesso qui. Forse qui è... è troppo, adesso.»

«Intendi New York?»

«S-sì. C'è troppo, qui. E non voglio anche finire a pensare troppo e prendere decisioni sbagliate come... come quando [1]...»

«Ho capito. Cosa vuoi fare?»

«Ti va di tornare a casa? A Malibu, dico.»

«Devi essere tu a decidere.»

«Ok. Allora partiamo oggi.»

«Domani.»

«Adesso.»

«Adesso dovresti dormire.»

«Sono le sette di mattina.»

«Sei stato a zonzo tutta la notte.»

«E tu sei appena tornata da tre fusi orari di distanza.»

«Allora dovremmo dormire.»

«Mh. Meglio.»

«Dopo una doccia.»

«Molto meglio.»



 

Note:

[1] Riferimento al "prequel" di questa raccolta, Lost In Translation. Anche il finale, oltre a riprendere Iron Man 3, può considerarsi legato alla fine del prequel.


Note dell'Autrice:

Ok, lo ammetto. Dieci capitoli di puro angst erano troppi anche per me, quindi ho voluto stemperare con questo interludio (una specie di intermezzo comico-musicale che non fa ridere e senza musica).
Avevo già sperimentato la narrazione dialogata ed è una tecnica che mi piace molto usare, anche se mi rendo conto che è un po' faticosa da seguire e può creare ambiguità. D'altra parte, non volevo neanche rischiare uno "spiegone" del capitolo precedente e ho preferito non appesantire troppo la cosa.

Ringrazio _Atlas_, shilyss e T612 per aver recensito gli scorsi capitoli e chiunque legga e/o abbia aggiunto la storia tra le seguite :)

Mi eclisso sperando che questo ex-cursus un po' azzardato piaccia almeno un po'.
A mercoledì/giovedì,

-Light-

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Capitolo 7
*** Sei mesi ***


6
 
"And I'll find strength in pain
And I will change my ways
I'll know my name
As it's called again"


[Cave – Mumford And Sons]


Sei mesi dopo, Calcutta, India


Prima o poi sarebbe impazzito, concluse Tony chiudendo seccamente la chiamata e partendo a velocità sostenuta con la sua Audi. Non poteva allontanarsi un paio di giorni che tutti decidevano di dare il meglio di sé, da bimbi-ragno iperattivi a un branco di criminali intenti a trafficare alla cieca con tecnologia aliena. Le sue mani si contrassero sul volante mentre scacciava l'immagine del portale – perché no, non aveva la forza di pensare anche a quello, e per quel giorno i suoi amici Chitauri sarebbero rimasti nel loro maledetto buco spaziale.

Come se non bastasse, il ragazzino aveva dovuto menzionare Rogers. Certo, aveva davvero bisogno di pensare anche a quell'idiota in tutina a stelle e strisce, tanto per scatenare una reazione a catena di pensieri che lo riconduceva inevitabilmente al cellulare antidiluviano sepolto nella tasca del suo kurta. Del suo scomodissimo kurta, rettificò tra sé, finendo per sbandare leggermente nel tentativo di allentare quel colletto soffocante, per poi liberarsi anche di ghirlanda e scialle con un gesto infastidito. Era molto più agitato di quanto avesse preventivato e, memore dell'ultima volta che aveva avuto un attacco di panico in auto, si accostò sul ciglio della strada sterrata fiancheggiata da alti e lussureggianti alberi tropicali. Nonostante il caldo umido e intenso fu scosso da un forte brivido che lo irritò ancor di più – perché era in India, all'Equatore, c'erano trentacinque gradi all'ombra e nessuna traccia di neve o freddo, quindi il suo corpo avrebbe fatto meglio a piantarla con quelle bizze illusorie.

Strinse più volte il pugno sinistro, controllandone il lieve tremito per poi poggiarlo sul volante; inziò a tamburellarvi con le dita, riacquistando a poco a poco la calma. Concluse che non stava per avere un attacco di panico; non ancora, almeno. Era semplicemente irritato come non si sentiva da tempo, e doveva ammettere che era una novità quasi piacevole, se non gli avesse anche fatto venir voglia di prendere a pugni qualcosa, o qualcuno. L'ultima volta che aveva perso le staffe era stato con Rogers e Barnes, e quello non contava nemmeno propriamente come "perdere le staffe". Percepì una lieve fitta al petto, ma scacciò la sensazione, classificando anch'essa come come irreale – perché le costole si erano saldate, lo sterno era guarito, non aveva un reattore in petto né barbigli metallici puntati al cuore e al diavolo tutto il resto.

Inspirò a fondo e a lungo, per poi espirare altrettanto a lungo, come a gettar fuori anche tutte le sue preoccupazioni. Ripeté il gesto più volte, metodicamente, come aveva imparato a fare dopo New York. Un respiro dietro l'altro, fino a che gli fu chiaro di non poter scacciare tutto ciò che continuava a tendere il suo volto in una maschera corrucciata. Poteva farsi passare l'irritazione per Peter, poteva ignorare il cellulare in tasca e poteva ritenersi almeno un po' soddisfatto nell'aver avuto la meglio su ansia e flashback invadenti. Quello che non poteva sicuramente dimenticare era il motivo per cui si trovava nel bel mezzo della giungla indiana con dei vestiti ridicoli e scomodi addosso, di ritorno da una festa priva di alcolici alla quale si era imbucato in mancanza di diversivi migliori. E al momento quasi sperava che quel motivo si palesasse davanti a lui sotto forma di enorme mostro verde rabbioso, tanto per non rendere vane otto ore e passa di insonne volo supersonico e una giornata passata a districarsi per le strade claustrofobiche di Calcutta sperando di non venir rapinato in un vicolo.

Guardò con intensità la fitta schiera di palme e piante esotiche davanti a sé, senza scorgere altro verde se non quello della vegetazione. Probabilmente avrebbe fatto meglio a chiamare la Mark e tornarsene a Mali– a New York, visto che il suo nuovo passatempo sarebbe stato fare da baby-sitter a futuri aspiranti Vendicatori minorenni e privi di buonsenso. Di sicuro sarebbe stata un'attività più produttiva di improvvisarsi investigatore per cercare fantomatiche tracce di Banner da un capo all'altro del mondo.
Anche la sua incursione in Canada a Bella Coola non aveva dato i risultati sperati. Non aveva mai condiviso appieno le speranze di Nat: riteneva come lei che Bruce fosse sopravvissuto allo schianto del Quinjet al largo dell'Indonesia, ma era chiaro che non volesse essere trovato. E se da un lato capiva la sua scelta, dall'altro una parte del fastidio che provava in quel momento era causato da lui – perché era molto più facile sparire, piuttosto che rimanere e affrontare le conseguenze dei propri errori.

Si abbandonò con un sospiro distrutto contro il sedile, togliendosi gli occhiali e prendendo a rigirarseli in mano per evitare di tuffarsi di nuovo in quel torrente di pensieri inconcludenti. Scosse appena la testa: quando e se avesse ritrovato Bruce, avrebbe avuto senso rispolverare azioni e scelte che ormai erano comunque indelebili sulla coscienza di entrambi – perché, in fin dei conti, rimaneva anche e soprattutto colpa sua e del suo ego e della sua incapacità di ignorarlo anche per un solo istante.

Strinse d'istinto il vecchio cellulare nella tasca, con così tanta forza che temette di poterlo rompere. Fare quella chiamata che rimandava da mesi sarebbe stato sicuramente più semplice di ritrovare un compagno disperso da quasi due anni. Lasciò il telefono quando la sinistra iniziò a dolergli per lo sforzo e chiamò con un semplice gesto l'armatura, decidendo che la sua Audi a noleggio avrebbe potuto fare la gioia di qualche fortuito passante; per quanto lo riguardava, otto ore di volo con aria condizionata incorporata gli sembravano una prospettiva più allettante di starsene a rimuginare nella giungla.

La Mark 47 atterrò docilmente a un passo da lui. Si affrettò a liberarsi di quel maledetto kurta e recuperò il cellulare prima di entrare nella rassicurante penombra della corazza. Decollò all'istante, stabilendo la rotta più rapida per New York e tornando a concentrarsi sul suo problema più urgente, ovvero un ragazzino ingestibile che sembrava molto propenso a ignorare le sue direttive nella convinzione di essere invincibile. Una vocina molto flebile, un po' troppo simile a quella di Pepper, gli ricordò che prima o poi avrebbe dovuto mollare le redini del neo-supereroe e lasciare che se la cavasse da solo. Tra qualche anno, forse non così tanti come sperava, Peter sarebbe diventato un Vendicatore e si sarebbero trovati a combattere fianco a fianco. E lui avrebbe dovuto fidarsi di lui, perché era quello che facevano i compagni di squadra e i mentori.

Quella realizzazione lo lasciò con un senso di vuoto impotente che si allargò dentro di lui, pressante. Era difficile tornare a fidarsi di qualcuno, quando un tuo amico ti aveva piantato uno scudo nel petto frantumandoti la gabbia toracica e lasciandoti al gelo in ipossia. Meglio nel petto che in testa, doveva riconoscerlo, ma non era sicuro che fosse un attenuante sufficiente per impedirgli di spaccare i denti al "volto pulito dell'America" non appena gli si fosse parato davanti. Impennò leggermente, perforando lo strato di nubi mentre cercava di tornare presente a se stesso – perché dopotutto non era così sicuro di poter ignorare ancora per molto quel cellulare che continuava a portarsi dietro.

Dubitava che Peter si sarebbe mai sognato di raggirarlo o tradirlo, ma aveva imparato che il suo istinto non era poi così affidabile. Neanche la paranoia era una risposta adeguata alle sue reticenze, ma preferiva passare per un mentore pedante e iperprotettivo, piuttosto che trovarsi di nuovo con un pugnale nella schiena. Parallelamente, doveva anche assicurarsi che Peter non diventasse l'ennesimo peso sulla sua coscienza – perché a popolare i suoi incubi bastavano città volanti, fiamme, bombe targate Stark e portali, senza doverci aggiungere anche un quattordicenne innocente reclutato in un momento di pura follia.

Dovette trattenere il sorriso amaro e carico di rimpianto che gli era salito alle labbra. Gli sembrava quasi ridicolo che si stesse ripromettendo di proteggere una singola persona, ed era allo stesso tempo lo percepiva come un fatto rassicurante: gli ricordava i tempi in cui gli bastava un'armatura a proteggere tutti, quando i suoi problemi più grandi erano qualche terrorista frustrato, un socio psicotico e un russo vendicativo. Poi erano arrivati dèi, alieni, mutanti e computer killer. E un giorno sarebbe arrivato qualcos'altro per cui neanche tutte le sue armature sarebbero bastate.

Il suo cuore mandò una serie di battiti più forti e concitati. Un avvertimento, come il fronte temporalesco che si profila all'orizzonte appena in tempo per invertire la rotta. Lo ignorò, rimanendo saldo al timone e aumentando di riflesso la velocità – perché non sarebbe mai stato capace di tirarsi indietro in tempo, né aveva mai voluto farlo – perché non sarebbe stata una maledetta visione a farlo tornare sui suoi passi – perché poteva ancora impedire che quella visione si avverasse e...

Sangue. Sulle rocce, sulle sue mani troppo deboli, sui corpi esanimi dei suoi compagni; rosso sul ghiaccio sporco e graffiante; schizzi cremisi sulla sabbia rovente; macchie scomposte tra le macerie; un rivolo grigio sulla pellicola sgranata di un filmato, più denso ad ogni colpo brutale; fiamme, alte e roventi che inghiottivano una sagoma amata; un portale, un occhio rivelatore spalancato sulla Terra priva di protezioni, vulnerabile alle enormi creature che si avvicinavano.

Serrò le palpebre, a serrare anche quell'orbita nera su cui si affacciavano i suoi dèmoni, col cuore che gli martellava nel petto e la tentazione di slanciarsi fuori dall'armatura e lasciarsi precipitare. Invece accelerò ancora, spingendo i propulsori al massimo. Deglutì nonostante avesse la bocca competamente asciutta; oltre il fischio statico che gli perforava i timpani percepiva appena il rombo del vento attorno a lui. Dovette concentrarsi a fondo per distinguerlo, come se stesse sintonizzando una vecchia radio che faticava a captare il segnale, ma vi si ancorò nel tentativo di sfuggire a quel vortice che minacciava di risucchiarlo nelle sue viscere. Un boato assordante risuonò come un colpo di pistola quando sfondò il muro del suono, riscuotendolo e impedendogli di precipitare oltre la soglia del panico.

Passarono molti minuti prima che riuscisse finalmente a schiudere i denti digrignati, ritrovandosi con la mascella indolenzita, e nonostante tutto lo spettro di ciò che tormentava le sue notti continuò a balenargli davanti – perché tutto ciò sarebbe accaduto, e allora non avrebbe saputo cosa fare e avrebbe sbagliato – perché avrebbe sbagliato, accumulando altri errori sulla propria coscienza, e forse per una volta sarebbe stato meglio non fare nulla.

Un repentino moto di rabbia lo infiammò da capo a piedi, scacciando il consueto senso di oppressione e impotenza che aveva ormai imparato ad accettare come un compagno sgradito ma inscindibile da lui. Si sentì improvvisamente furioso con se stesso per aver anche solo pensato di non agire. Era già rimasto a guardare per metà della sua vita, mentre raccoglieva i frutti della sua indifferenza cresciuti nel sangue altrui. Molti anni prima aveva compiuto una scelta, nella grotta dove aveva toccato con mano i risultati dei suoi errori rimanendone inorridito e nella quale aveva rinchiuso tutto ciò che lo aveva consumato. Lì aveva scelto di morire facendo ciò che riteneva giusto, e non era morto solo perché qualcun altro aveva scelto di farlo al posto suo.

A volte nei suoi sogni tornava in quella grotta, si trovava dinanzi alla stessa scelta e ogni volta rimaneva immutata. Ogni volta si ritrovava ad annaspare in cerca d'aria tra una sorsata d'acqua torbida e l'altra. Ogni volta tornava con una batteria stretta al petto, anche allora dolorante. Ogni volta riviveva la sensazione delle scintille della forgia che gli pizzicavano le braccia affaticate, il calore ustionante dei vapori sul volto, così rassicurante rispetto al gelo che ormai lo intorpidiva. Ogni volta sentiva il peso schiacciante del ferro grezzo, il sibilo di un reattore malmesso e l'eco metallica del proprio respiro nel casco buio, soffocante e privo di schermate azzurrine, pochi istanti prima dello scontro. Ogni volta usciva da quella grotta con una vita in più sulla sua coscienza e la consapevolezza di poterne salvare molte altre grazie a quel sacrificio.

In tutti quegli anni non era mai rimasto a guardare, anche quando aveva preso coscienza che ogni azione gli si sarebbe inevitabilmente ritorta contro – perché era volato in un portale alieno con una testata nucleare sulle spalle per sentirsi dire che combatteva per se stesso – perché aveva sognato un'armatura attorno al mondo che non aveva protetto nessuno – perché aveva firmato degli Accordi per salvaguardare i suoi amici finendo invece per scinderli, e nonostante tutto sapeva in cuor suo di aver fatto tutto ciò perché credeva fosse giusto.

Non si sarebbe mai tirato indietro e così facendo non avrebbe mai smesso di sbagliare, ma poteva ancora evitare a se stesso e agli altri di commettere gli stessi errori. Era un pensiero confortante, così come il ricordo di ciò che lo aveva portato a emergere da un'oscurità molto più cupa di quella in cui si trovava adesso. Nel momento in cui era uscito da quella grotta aveva deciso che doveva esserci una ragione, se era ancora vivo; una ragione oltre al magnete che aveva nel petto.

E se era vivo adesso, forse quella ragione era ancora valida – perché lui era Iron Man, e sarebbe uscito anche da quella grotta.



 

Note Dell'Autrice:

Ehm, salve.
Sì, sono in ritardo mostruoso, ma la sessione non mi lascia respiro e questo capitolo si è rivelato molto ostico. Il risultato è una supercazzola infinita in cui Tony mette qualche punto fermo nella sua esistenza, arrivando, come ci si aspetta da qualcosa scritto da me, a illa grotta in Afghanistan.

Chiarimento: le parti in corsivo rappresentano una sorta di "voce della ragione" di Tony, un meccanismo di difesa che lo aiuta a fronteggiare almeno parte di ciò che lo tormenta. Non tutto ciò che dice è oggettivamente vero o sensato al 100%, è solo ciò che si ripete per mantenere un certo equilibrio mentale ed è da considerarsi parte integrante del suo PoV. Di qui il finale pseudo-trionfalistico: in questo frangente ha bisogno di spronarsi e di credere di stare facendo e aver fatto la cosa giusta, anche se non si sta perdonando nulla di ciò che ha commesso.
Come sempre i riferimenti/riprese/citazioni del MCU si sprecano.

Ringrazio tantissimo _Atlas_, shilyss e T612 che hanno commentato gli scorsi capitoli (appena posso recupero tutti i vostri scritti :P), chiunque legga e tutti coloro che hanno aggiunto la storia tra le preferite/seguite <3
La buona notizia è che il capitolo successivo è pronto, quindi aggiornerò puntualmente mercoledì prossimo :D
Alla prossima settimana,

-Light-

P.S. Bella Coola è dove si rifugia Banner dopo gli eventi del film di Hulk; Calcutta è dove lo recupera Nat nel primo Avengers. Il lieve attacco a Bruce è dovuto al fatto che si esonera dalla responsabilità di Ultron, come se non avesse collaborato volontariamente con Tony o concordato sul fatto di tenere segreta la cosa. È ovvio che sia in primis colpa di Tony, lui stesso lo ammette, ma lasciare un amico a prendersi l'intera colpa del fatto, lavandosene le mani e ponendolo come unico responsabile è un atteggiamento secondo me piuttosto egoista. E tutto questo prima che Hulk prenda il sopravvento e lo porti nello spazio. Fight me.
P.P.S. Per chiarimenti sull'insistenza sul braccio sinistro malmesso di Tony in questa raccolta, sono riferimenti a una teoria che circola sul web al riguardo, e che io trovo abbastanza coerente con quello che accadrà probabilmente dopo Infinity War.

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Capitolo 8
*** Un anno ***



7


"These winds and tides
This change of times
Won't drag you away
Hold on, and hold on tightly
Hold on, and don't let go of my love"

[Drowning Man – U2]


Un anno dopo, Malibu

Quando Pepper lo raggiunse in terrazza, Tony era intento ad osservare le onde che si arricciavano all'orizzonte, incurante dell'aria serale sempre più fredda e umida che aveva iniziato a spazzare la costa.
La vide avvicinarsi con la coda dell'occhio e si rese conto che probabilmente l'aveva chiamato, ma la sua voce si era persa nella risacca e lui era stato troppo immerso nei suoi pensieri per accorgersene. Lo avvolse da dietro in un abbraccio, intrecciando le braccia sul suo petto e poggiandogli la testa sulla spalla; Tony accolse quel contatto con sollievo, staccandosi dai pensieri un po' cupi su cui stava rimuginando. Non si sentiva esattamente triste, né aveva un motivo particolare per esserlo, ma a volte voleva solo stare per conto suo. Stare sulla terrazza slanciata sull'oceano gli dava l'impressione di potervi proiettare ogni pensiero sgradito e opprimente, mandandolo a infrangersi contro la scogliera assieme alla spuma marina.

«A che pensi?»

Una domanda che ne implicava mille altre: era perspicace come sempre. Decise di ignorare quella piccola scheggia gelida che ancora percepiva al centro del petto, calandosi nel suo consueto brio.

«Indovina.» ribatté, col sorriso che trapelava dalla sua voce.

La sentì sbuffare divertita contro la sua schiena.

«A qualche dichiarazione balbettante in diretta?»

Tony ridacchiò, colto sul fatto. L'annuncio ufficiale risaliva ormai a quasi due giorni prima, eppure non riusciva a smettere di pensarci, complici i giornalisti invadenti; anche per quello aveva praticamente trascinato Pepper a Malibu in cerca di un po' di quiete. Portò la sua mano al volto e le sfiorò le dita con le labbra, posandole infine sull'anello che le cingeva l'anulare sinistro.

«Non ho balbettato.» puntualizzò «Pensavo alle... uh, responsabilità?» formulò infine, dando voce a una piccola parte delle riflessioni che avevano occupato la sua mente fino a quel momento.

«Stai già avendo ripensamenti?» lo canzonò, aumentando leggermente la stretta sul suo busto quasi a trattenerlo con lei.

«Direi che sono solo sorpreso di me stesso. Mi sto prendendo un impegno insolito, per un ex-playboy.»

«Lo stiamo prendendo entrambi. Ma devo ammettere che hai colto di sorpresa anche me. E anche Happy e Rhodey e il mondo intero, se è per questo.» elencò con vivacità.

Tony voltò appena il capo, scrutandola di sottecchi.

«Come fai ad essere così allegra, sapendo di dover passare il resto della tua vita a sopportare Tony Stark?»

«L'ho fatto per la maggior parte della mia vita, e direi che tutto sommato me la sono cavata piuttosto bene. Non è così facile starti dietro.»

Tony a quel punto captò una fugace mestizia fare capolino sul suo volto, spegnendo per un istante il suo sorriso.

«Tutto bene?» tentennò, continuando a fissarla di sfuggita.

«Non pensi di essere stato un po' troppo plateale?» proruppe lei, evitando di incontrare i suoi occhi.

«Non sarò mai troppo plateale. E mi ami anche per questo.» ribatté lui con assoluta convinzione, intrecciando le dita alle sue.

«Ah, davvero?» replicò lei, in un tono che non era del tutto certo fosse ironico.

«Percepisco... fastidio?» tentò cautamente.

«No...»

«... rabbia?»

«Non direi.»

«Ah! Delusione?»

Pepper tacque e il fatto di aver indovinato non lo rallegrò. Mandò un forte sospiro, conscio che Pepper non avesse tutti i torti.

«Senti, lo sai come sono fatto: se avessi rimandato avresti dovuto aspettare come minimo altri dieci anni. Ho sentito di doverlo fare in quel momento e... e l'ho fatto. Era l'occasione perfetta!» si giustificò.

«Annunciare le nostre nozze in mondovisione per riparare a un imprevisto col programma non è esattamente la mia idea di romanticismo, Tony.» gli fece notare piattamente lei, prendendo a giocherellare col colletto della sua t-shirt con fare innervosito.

«È Peter che...»

«Non provare a incolpare Peter, questo è...»

«... si è improvvisato Cupido.»

«... frutto delle tue manie di protagonismo.»

«Ok, ammetto che avrei potuto orchestrare meglio la cosa.» sciolse l'abbraccio e si girò infine verso di lei con le mani alzate a mo' di resa.

Contrariamente a quanto si era aspettato, vide che la donna stava sorridendo. Assottigliò gli occhi con fare guardingo.

«Ti stai divertendo un mondo, o sbaglio?»

«È raro vederti in imbarazzo: mi sto godendo il momento.» rispose soddisfatta lei.

«Non sono in imbarazzo, lo sarei se mi fossi dovuto gettare in ginocchio per... no!» corse ai ripari, quando Pepper si portò l'indice alle labbra con fare intrigato, come figurandosi la scena «Neanche per sogno, siamo nel Ventunesimo secolo, non in un harmony Vittoriano, e non ho alcuna intenzione di fare la controfigura del Principe Azzurro! Ho ancora una reputazione da mantenere.» mise in chiaro, agitandosi a tal punto da iniziare a gesticolare.

Lei gli prese con gentilezza i polsi, bloccando i suoi sconclusionati movimenti a mezz'aria, ma gli ingranaggi del suo cervello continuarono a stritolare e scartare un'idea assurda dopo l'altra, nella consapevolezza che sotto lo strato di giocosità negli occhi di Pepper c'era una vera punta di rammarico per quella proposta decisamente sottotono e dimenticabile. Si umettò le labbra, mentre implorava la sua mente geniale di venire a capo di quella situazione spinosa.
Gli sovvenne solo che il tempismo non era mai stato il suo forte. Dopotutto si erano baciati per la prima volta sullo sfondo di una Expo che saltava in aria... 
Si ritrovò anche a ripensare a quella festa di beneficenza di molti anni prima e a quel vestito blu cobalto che le lasciava scoperta la schiena. Se quella sera fosse tornato col suo Martini con molte olive, o se invece non fosse tornato affatto, le cose sarebbero andate in tutt'altra direzione. Forse sarebbe stato tutto più facile. Forse si sarebbero trovati semplicemente più soli.

«Hai ancora quel vestito?» si decise a chiedere, incurante della stranezza di quella domanda.

Pepper si scostò da lui e sbatté le palpebre, sorpresa dal repentino cambio d'argomento, ma era chiaro che avesse colto subito a quale si riferisse. Era così, Pepper: lo capiva prima ancora che potesse farlo lui stesso; perché in effetti non aveva idea di dove volesse arrivare con quella domanda. Ma gli era sempre piaciuto improvvisare.

«Quale?» chiese, nonostante sapesse, con quel sorriso trattenuto che le arricciava appena gli angoli delle labbra.

«Quello che ti ho inconsapevolmente regalato anni fa dimostrando come sempre un innegabile buon gusto.»

«Oh, quello.» intrecciò le mani dietro alla sua nuca, guardandolo da sotto le ciglia con aria un po' dispettosa «Quello del Martini mai arrivato.»

Tony alzò teatralmente gli occhi al cielo, ma sorrise con un pizzico di colpevolezza e le posò le mani sui fianchi, attirandola a sé.

«Faceva parte del mio piano di conquista, anche se eri già totalmente cotta.»

«Certo, chi non cadrebbe ai tuoi piedi passando un'ora ad aspettarti?» sollevò eloquentemente un sopracciglio.

«Mi sembra che il piano abbia funzionato.» concluse con un sorrisetto tronfio, ponendo fine alla questione con un breve bacio «Quindi? Ce l'hai ancora?» la incalzò poi, mentre un altro piano prendeva man mano forma nella sua mente.

«Certo. Da qualche parte...»

«Ti andrebbe di cercarlo...»

Pepper corrugò appena le sopracciglia, storcendo la bocca in un mezzo sorriso perplesso.

«Tony? Cosa vuoi...»

«... e di indossarlo?»

Pepper adesso lo fissava incuriosita, anche se aveva probabilmente intuito dove volesse andare a parare.

«Va bene.» acconsentì infine «Però dammi un minuto per cercarlo, sono anni che non lo metto.»

«Il che è un peccato, per un regalo così bello.»

«Sbruffone.» sorrise e gli diede un buffetto sulla guancia, prima di rientrare in casa per dare inizio alla ricerca.

Lui rimase in terrazzo, con le mani nelle tasche dei jeans e un vivo, inaspettato formicolio alla bocca dello stomaco. Sgattaiolò dentro a sua volta non appena la vide sparire al piano di sopra. 
Cinque minuti dopo era di nuovo in terrazzo, stavolta con le mani affondate nelle tasche di uno smoking nero e deciso a fingere che il suo papillon fosse storto di proposito e non perché non aveva mai imparato ad annodarlo in modo decente.
Fu il quarto d'ora più lungo della sua vita e fu tentato più volte dal rientrare in casa per richiamare Pepper e troncare il tutto sul nascere.
Quando infine la vide avanzare verso il terrazzo, avvolta in quel vestito, con al collo il ciondolo d'argento realizzato anni prima con le schegge attorno al reattore, si pietrificò nel gesto di raddrizzare per la dodicesima volta il papillon. Gli sembrò di vederla con gli stessi occhi meravigliati di otto anni prima, nel momento in cui aveva realizzato che tutto quello che si era perso nel corso della sua vita era sempre stato al suo fianco.
Captò il suo moto di sorpresa quando vide il suo cambio d'abito e si lasciò sfuggire un sorriso compiaciuto, per poi andarle incontro offrendole la mano. Avvertì un lieve tremito da parte sua quando gliela strinse; o forse era il suo, non avrebbe saputo dirlo con certezza. La condusse con galanteria al centro del terrazzo e iniziò a guidarla in un lento, seguendo la musica soffusa accortamente scelta da Friday. Non ricordava l'ultima volta che avevano ballato insieme, ma era stato fin troppo tempo prima e si trovarono a non voler smettere subito, accompagnandosi a vicenda sulle note calde di ogni brano. 
Quando le note del terzo ballo scemarono si erano accostati al cornicione, abbracciati a un passo dalla buia distesa marina.

«Non mi sto per gettare in ginocchio.» ruppe infine il silenzio lui, continuando a dondolare da un piede all'altro e a stringerla nonostante la musica fosse finita.

«Qualcosa dovrai pur inventarti.» replicò lei nel suo orecchio, con la voce che tradiva la sua aspettativa.

Lui scoccò un'occhiata alla sua mano sinistra, ancora posata sulla propria spalla.

«Sì, ma prima mi serve quello.» accennò col mento al suo anulare e a entrambi venne da ridere per l'assurdità della situazione.

Pepper si tolse l'anello con mani un po' tremanti, per poi posarlo nel suo palmo.

«A proposito, ti piace?» le chiese lui a bruciapelo, sollevandolo dinanzi ai suoi occhi.

«Tony, ti pare il caso?» lo riprese lei, incredula e allo stesso rassegnata di fronte sua consueta mancanza di tatto.

«È una domanda lecita! L'ho preso otto anni fa, magari non è adatto oppure non rispecchia più i tuoi gusti e...»

«Mi piace, davvero, ed è anche straordinariamente discreto per i tuoi standard.» si affrettò a rassicurarlo con una punta d'ironia «Quando l'hai preso?» chiese poi, con viva curiosità.

«Credevo che stessimo per avere un momento.» replicò lui, sperando di sviare la domanda.

«Hai iniziato tu.» gli fece notare lei, con logica ferrea.

Lui cedette il punto e tentennò brevemente, chiedendosi se la sua risposta non avrebbe rovinato l'atmosfera. Si rigirò l'anello tra le dita, per poi stringerlo nel pugno e tornare a cingere i fianchi della donna.

«Otto anni fa ho... ho capito quanto fossi solo. E anche quanto non lo fossi.» esordì, evitando una risposta diretta e abbassando fugacemente lo sguardo «E, insomma, la prima cosa che ho comprato di ritorno dall'Afghanistan è stata...»

«... un cheeseburger.» completò lei, smascherando sul nascere la sua piccola bugia e suscitando un sorriso sghembo sul suo volto.

«Vero. Avevo delle priorità bizzarre ma del tutto giustificate.» alzò appena le spalle «Quindi... la seconda è stata quest'anello e... e dopo averlo preso ho pensato di essere impazzito sul serio, così è finito in tasca a Happy fino all'altro ieri. Non sapevo se l'avrei mai usato, ma era un... un investimento per il futuro.» si rese conto dello scarso romanticismo di quelle parole e si affrettò a rettificare «Avevo bisogno di... un promemoria. Di sapere che non stavo combattendo solo per me stesso. Che avevo qualcuno da cui tornare.» aggiunse a voce più bassa, senza riuscire a convertire in parole sensate tutto ciò che gli stava attorcigliando lingua e pensieri «E lo so che sono un disastro e che ti faccio impazzire in ogni modo possibile e che ne ho combinate abbastanza per una vita intera e che non sono... facile da gestire. E non posso prometterti che non sbaglierò ancora.» fece una pausa, inclinando appena la testa con rammarico.

Pepper non intervenne, rimanendo in ascolto e limitandosi a seguire il profilo delle sue spalle con delle carezze leggere. Quando Tony riprese a parlare, fu con voce ferma e priva d'esitazioni:

«Ma vorrei continuare ad avere qualcuno da cui tornare. E vorrei che quel qualcuno fossi tu.» disse, sulle labbra un'ombra di quell'espressione con cui le aveva detto per la prima volta di non avere nessuno, se non lei.

Aveva parlato tenendo lo sguardo fisso sul ciondolo d'argento, circondato dal velo di leggere efelidi, ma lo alzò nel pronunciare quell'ultima richiesta. Incrociò gli occhi di Pepper e li trovò leggermente lucidi ma radiosi, con la piega dolce delle labbra inclinata in un sorriso che faceva riemergere le sue fossette sulle guance.
Prima che potesse aggiungere altro, fu lei ad attirarlo a sé in un bacio che fuse l'emozione di entrambi e che diventò ben presto più profondo, mentre lui le accarezzava la schiena scoperta e lei gli scompigliava i capelli sulla nuca.

«... è un sì?» chiese subito Tony non appena si furono separati, a corto di fiato e rimanendo a pochi centimetri dal suo volto.

«Avrai sempre qualcuno da cui tornare.» rispose lei, adesso leggermente rossa in viso «E qualunque errore tu abbia fatto o farai, non cambierà mai quello che hai qui,» e gli portò una mano sopra il suo ciondolo, facendogli percepire il proprio battito accelerato «o qui.» concluse, posando a sua volta una mano sul suo petto, anch'essa all'altezza del cuore.

«Pep...» abbozzò un sorriso confuso, già sapendo che avrebbe ricominciato a balbettare.

«Anche se per ora non mi hai ancora chiesto nulla.» gli fece notare poi lei, traendolo d'impaccio e fingendo di accigliarsi con fare giocoso.

«Ma io so già che è un sì.» tentò di svicolare lui «E tirarti indietro adesso sarebbe davvero...» s'interruppe, risparmiandole per una volta il compito di redarguirlo per la sua poca serietà e ricomponendosi senza ulteriori richiami.

Inspirò brevemente e prese tra due dita l'anello: un semplice, sottile cerchietto d'argento con un minuto diamante a coronarlo. Sollevò con delicatezza la mano sinistra di Pepper e poggiò la fronte contro la sua, in quel gesto che entrambi adoravano.

«Virginia Pepper Potts.» esordì a bassa voce, guardandola infine negli occhi «Vuoi sposarmi?»

Vi fu un brevissimo momento di silenzio da parte sua, impegnata a vincere l'emozione che le aveva tolto la voce, illuminato gli occhi e ravvivato le guance, ma quando parlò la sua risposta risuonò cristallina:

«Sì.»

In un solo gesto, Tony le infilò l'anello e incontrò di nuovo le sue labbra, a suggellare quella promessa e tutte le altre che conteneva. 
Per un momento, unito a lei su quella terrazza, si sentì lontano e al riparo da tutto ciò che aveva tentato di distruggerlo e un tepore rassicurante avvolse finalmente il suo petto, a ricordargli il cuore che Pepper gli aveva fatto scoprire di avere molti anni prima. La abbracciò con impeto, affondando il volto nei suoi capelli e provando la stessa sensazione di quando indossava l'armatura, quella che gli dava l'impressione di poter fronteggiare qualunque cosa
e che gli permetteva di essere migliore di quanto non fosse. Si chiese quanto potesse essere stato stupido a cercarla in un ammasso di metallo, quando era sempre stata accanto a lui.

«Sono stato abbastanza romantico, adesso?» non si trattenne dal chiedere dopo un po', e sperò che solo lui avesse percepito il piccolo sussulto della sua voce.

Lei sbuffò contro il suo collo in una risatina trattenuta.

«Direi di sì. Può bastare, almeno per i prossimi diciott'anni.»

«Me la sono cavata con poco.» sogghignò lui, per poi accigliarsi appena «Pep?»

«Tony?» si accigliò di rimando lei.

«Se all'inizio la nostra era una relazione stabilita e poi una relazione stabile, adesso come dovremmo definirla?»

Lei arcuò un sopracciglio in risposta, nella chiara indecisione tra scoppiare a ridere, baciarlo, avviare già le pratiche per il divorzio o buttarlo giù dal terrazzo.

«Stabilizzata?» tentò allora lui con un mezzo sorriso furbetto, suscitandone un riflesso sul volto di Pepper.

«Per ora può andare.»

Tony le posò un bacio sulla fronte e riprese a ondeggiare appena sul posto, coinvolgendola in un nuovo, morbido ballo senza musica, accompagnato solo dal mormorio del mare.




______________________________________________________________________________________
 

Note Dell'Autrice:

Cucù!
Aggiorno in anticipo e ad orari folli causa insonnia e accumulo tremendo di impegni che al 90% mi impedirà di pubblicare fino a venerdì. Visto che già ho ritardato la scorsa settimana ho preferito anticipare :)

Dunque, se siete sopravvissuti a questa carrettata di miele, potete querelarmi. Non sono abituata a scrivere scene romantiche e tendo a evitarle come la peste, ma, oh, ero di umore melenso, ero in astinenza da Pepperony e Tony si meritava una tregua dopo tutte 'ste sofferenze. Questo e il prossimo capitolo saranno piccole isole felici per lui. Non temete, poi tornerà a penare.
@Atlas: come vedi non sei l'unica a cui non è andata giù la proposta in diretta televisiva, così ho seguito il tuo esempio e ho dato la mia versione dei fatti. E avevi ragione: scrivere di proposte di matrimonio senza risultare melensi è assolutamente impossibile :P

Ringrazio come sempre shilyss, T612 e _Atlas_ per aver recensito gli scorsi capitoli, più tutti coloro che leggono (suvvia, fatevi avanti!) e/o hanno aggiunto la storia tra le seguite/preferite <3
Prossimo appuntamento: venerdì; se invece ho fortuna con l'ultimo appello di questa sessione infinity infinita, sarà giovedì :P
Sayonara,

-Light-

P.S. Scrivendo questo capitolo ho realizzato che Tony e Pepper qui si conoscono dalla bellezza di 18 (!) anni: 10 di rapporto lavorativo e circa 8 insieme, da Iron Man 2 Homecoming. E niente, realizzare questa cosa mi ha sconvolta.

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Capitolo 9
*** Un anno e mezzo ***



8


"You love this town even if it doesn't ring true
You've been all over and it's been all over you
It's a beautiful day
Don't let it get away"

[Beautiful Day – U2]


Un anno e mezzo dopo, Queens, NY

La vista su New York di notte era mozzafiato.
Doveva averlo pensato almeno un milione di volte, ma la bellezza di quella città non cessava mai di stupirlo, sin da quando da bambino poteva solo fantasticare di volare tra quelle torri di cemento, illuminate da mille luci come occhi vivi nel caos notturno. Gli venne da sorridere appena sotto il casco dell'armatura: mai avrebbe immaginato che quei sogni infantili sarebbero diventati realtà.
Virò a mezz'aria, avvitandosi attorno a un grattacielo per raggiungerne il tetto; lì entrò in stallo per qualche istante, lasciando spaziare lo sguardo sul tappeto di luci formicolanti sotto di lui. In lontananza scorgeva la Tower, ormai spenta e priva del suo consueto brillio azzurrino; il ponte di Brooklyn appariva come due festoni luminosi sospesi sopra l'Hudson, rilucente di mille riflessi nel suo pigro scorrere punteggiato da traghetti e imbarcazioni. Era da qualche mese che non tornava nella sua città natale e quella vista familiare lo rallegrò più di quanto volesse ammettere.
Atterrò sul tetto con una leggerezza sorprendente per la sua mole metallica e si guardò intorno, sorpreso dal mancato assalto di un concentrato di energia rosso e blu con troppi zuccheri nel sangue. Eppure Peter arrivava con mezz'ora d'anticipo a tutti i loro incontri e lo trovava sempre al massimo dell'iperattività, stremato dai tassativi venti minuti di ritardo firmati Stark. Il sistema di geolocalizzazione impiantato nella tuta del ragazzo lo tranquillizzò nel mostrargli sul visore un puntino in lento ma costante avvicinamento da Forest Hills e un countdown con il tempo d'arrivo stimato a cinque minuti. Probabilmente si era intrufolato nel laboratorio della scuola e aveva perso la cognizione del tempo. Avrebbe dovuto fornirgli un'attrezzatura adeguata per produrre le sue ragnatele in casa, ma non sapeva quanto ancora potesse mettere alla prova la pazienza della sua avvenente zia. Magari se si fosse presentato a casa loro e le avesse di nuovo fatto dei falsissimi complimenti per i suoi dolcetti alle noci avrebbe... come minimo rimediato un pugno in faccia. Non aveva preso troppo bene la faccenda di Spider-Man, come aveva appreso tramite una furiosa telefonata di un'ora e passa da parte sua, durante la quale aveva dovuto dar fondo a tutta la sua capacità persuasiva e alla sua migliore faccia di bronzo. Il tutto sotto lo sguardo divertito di Pepper, che si era goduta lo spettacolo di lui che macinava chilometri da un capo all'altro della villa, gesticolando e profondendosi in scuse come mai aveva fatto in vita sua – aveva il vivo sospetto che avesse girato un video della faccenda a scopo di ricatto. Subito dopo essere sopravvissuto all'ira di zia May aveva pensato di fare un bel discorsetto a Peter sulla questione "identità segreta", per poi rendersi conto che sarebbe suonato assolutamente ridicolo, pronunciato da Tony "Io Sono Iron Man" Stark.
Sbuffò appena, divertito: se dieci anni prima gli avessero detto che un giorno si sarebbe ritrovato sulla cima di un grattacielo con addosso un'armatura high-tech volante, ad aspettare un ragazzino che si arrampicava sui muri e sparava ragnatele, avrebbe chiamato all'istante il centro d'igiene mentale. Adesso quella era la sua normalità, che stava tornando ad apprezzare proprio grazie a quel ragazzo esuberante e chiacchierone che vedeva ancora il mondo dei supereroi come un qualcosa di assolutamente fantastico ed elettrizzante. Forse aveva motivazioni più serie di quelle che gli aveva esposto quando l'aveva reclutato, ma per ora non aveva intenzione di intaccare quella patina di spensieratezza in cui sentiva di voler credere. Per lui quel momento di pura e disimpegnata felicità era durato troppo poco: il tempo di un euforico volo sulla costa californiana, finito con un atterraggio npoco dignitoso sulla sua Shelby attraverso tre piani di villa e un pianoforte.
Ultimamente aveva ripreso a concedersi qualche distrazione di quel tipo. Aveva probabilmente a che fare col peso costante nel suo petto che, tra nozze da organizzare e pupilli da gestire, si era fatto a poco a poco più leggero. Quel tanto che bastava per indossare l'armatura senza esserne schiacciato e per ammirare il panorama di New York con quieta nostalgia senza sentire una morsa gelida al cuore nel posare lo sguardo su Long Island.

«Signor Stark, signore!» una voce squillante lo fece trasalire, distogliendolo con tempismo dalla piega malinconica che stavano prendendo i suoi pensieri.

Una sagoma in costume rosso e blu sbucò agilmente da dietro il cornicione del palazzo; saltò giù con una capriola sprizzando energia da tutti i pori, per poi togliersi la maschera e rivelare un sorriso smagliante incorniciato dalla solita zazzera di capelli spettinati.

«Parker, cerca di non diventare la mia nuova, più probabile causa d'infarto.» lo rimbrottò lui col suo consueto tono disincantato, uscendo dall'armatura e lasciandola sospesa dietro di lui.

Il ragazzo assunse all'istante un'espressione contrita, che non smorzava però la sua evidente allegria per quella convocazione fuori programma.

«Mi dispiace, signor Stark, davvero. La prossima volta sarò più indiscreto; cioè, mi paleserò prima... insomma, ha capito.»

Tony alzò una mano a segnalare che, , aveva capito e non c'era bisogno di aggiungere un'altra sfilza frenetica di frasi per chiarire il concetto.

«Sei insolitamente in ritardo. Cominciavo a temere che ti avesse trattenuto un nuovo Cloverfield o qualcosa del genere.» buttò lì, consapevole del flusso irrefrenabile di parole che poteva scatenare quell'osservazione.

«È che sono incappato in un po' di lavoro extra.»

«Nel Queens ci sono così tante vecchiette che devono attraversare la strada alle due di notte?»

«Era uno scippo, signor Stark!» ribatté lui, impettito e un po' offeso.

«Poi ti manderò il conto dello psichiatra per i danni da ansia causati dal ritardo di ben cinque minuti sui miei venti minuti di ritardo.» sbuffò, assumendo un tono fintamente contrariato.

«Ho anche fermato il ladro in tempo record!» protestò Peter, e Tony dovette trattenersi dal ridacchiare nel vederlo così risentito.

Era fin troppo divertente stuzzicarlo a quel modo e tenerlo sulle spine, così rimase in silenzio, osservandolo molleggiare da un piede all'altro nel tentativo di scaricare la tensione per lui sempre più incontrollabile.

«Ma perché mi ha chiamato, signor Stark?» sbottò infine, nascondendo a stento la sua curiosità venata da un massiccia dose di apprensione.

«Uh, diciamo per un "controllo".» rispose lui nel modo più vago che gli riuscì, intrecciando le mani dietro la schiena.

«Cioè? Ho sbagliato qualcosa?» la sua voce virò su una nota di panico: la ramanzina a Staten Island doveva aver lasciato un segno indelebile nella sua mente.

Tony trattenne un nuovo sogghigno, rendendosi infine conto di averlo fatto attendere oltre i limiti del ragionevole e che la messinscena comica stava assumendo i contorni di una tortura psicologica, almeno per il suo protetto.

«Che ne pensi del tuo upgrade?» si decise a chiedergli, incrociando le braccia con fare del tutto disinteressato.

Ogni negatività fu spazzata via dal volto di Peter, che s'illuminò di nuovo a giorno:

«È fantastico, signor Stark!» e saltò sul parapetto iniziando a trotterellare avanti e indietro senza riuscire a star fermo «È comodissimo e non faccio più casino con le ragnatele e Karen è utilissima; e finalmente non mi si attiva il combattimento avanzato automatico e riesco a muovermi molto meglio; però tutte quelle schermate nuove mi fanno impazzire e...»

«Nuova missione: esprimi tutto in dieci parole massimo, per amor delle mie orecchie.» lo bloccò Tony, allarmato.

Peter ammutolì e serrò le labbra nell'evidente sforzo di porre un freno alla sua parlantina.

«Il costume è fantastico, ma mi devo abituare alla parte... futuristica.» scandì poi, con evidente sforzo.

«Undici. Un netto miglioramento.» commentò Tony storcendo la bocca in una smorfia scherzosa e poggiandosi con gli avambracci sul parapetto «Le schermate psichedeliche richiedono un po' di pratica, ma puoi contare su dei riflessi molto migliori dei miei. Continua a darmi feedback ogni tanto, ho qualche progetto in cantiere per te...» notò il brillio impaziente negli occhi del ragazzo «Progetto che verrà prontamente accantonato se quel feedback supererà la quota di un solo messaggio al giorno.» aggiunse puntandogli minaccioso l'indice contro.

Peter annuì energicamente e gli rivolse un sorriso raggiante, prima di sedersi lì accanto con le gambe penzoloni sul tappeto di luci che scorreva sotto di loro, guardando in basso senza il minimo accenno di vertigine. Passò i successivi minuti a raccontargli la sua giornata con la consueta e inattaccabile allegria, che si trattasse della parte relativa alla vita da "normale" adolescente del Queens, o di quella da amichevole Spider-Man di quartiere, due binari paralleli sui quali si stava impegnando a equilibrarsi al meglio. Si cacciava ancora troppo spesso nei guai, ma il numero di volte in cui aveva dovuto ripescarlo da situazioni critiche era notevolmente diminuito, per questo si era convinto a disattivare il "Protocollo Triciclo". E Peter era visibilmente al settimo cielo, come ci aveva tenuto a fargli sapere molto spesso tramite il povero, ormai esaurito Happy.
Aveva dovuto riconoscere che quella nuova "responsabilità" formato-adolescente-irrequieto si stava rivelando più gratificante di quanto avesse prospettato. A distanza di decenni, aveva forse intuito cosa fosse quel "retaggio" di cui parlava tanto suo padre, anche se temeva di incorrere nelle stesse scelte che lo avevano divorato. Non voleva tornare a camminare sulle sue orme dopo essere riuscito a discostarsene così a lungo – magari non tanto come voleva credere. Molti dei loro errori coincidevano in impronte fin troppo profonde, ma non voleva leggere negli occhi di Peter la stessa delusione che aveva provato lui nel poter guardare solo da lontano quello che riteneva il proprio faro, sempre puntato altrove.
In fin dei conti, alcuni errori erano semplici da evitare.

«... quindi ho sventato la rapina e ho anche ottenuto uno sconto permanente al chiosco di shawarma sulla Quattordicesima.» concluse allegro Peter «Anche se, uh, quello non è importante.» si corresse con lieve imbarazzo.

«Un'altra settimana movimentata per te e una di riposo per me. La mia vita di coppia ringrazia sentitamente.» commentò lui con un mezzo sogghigno ironico, sempre impacciato a fargli dei complimenti in modo diretto.

«Posso fare anche di più!» intervenne l'altro con entusiasmo, per poi frenarsi cogliendo la sua occhiata perplessa «Cioè, se lo ritiene opportuno... ecco, non farò nulla di avventato né mi metterò ad hackerare di nuovo il costume per scoprire se ci sono altre... funzionalità.» ironizzò malamente.

«Mettiamoci una pietra sopra su quello, ok?» tagliò corto Tony in modo duro, e lo vide quasi rimpicciolire sotto il suo sguardo di rimprovero.

Non aveva dimenticato il modo in cui Peter aveva provato a ingannarlo tempo prima; all'epoca era stato davvero sul punto di trasformare il sequestro temporaneo del costume in una soluzione definitiva. La combinazione tra l'essere raggirato da qualcuno di cui si fidava e il mettere in pericolo quella stessa persona aveva minacciato di far crollare la sua allora precaria stabilità. Ci era voluta Pepper a ricordargli stavano parlando di un adolescente, non di un adulto con la piena consapevolezza delle proprie azioni, né tantomento di qualcuno che avrebbe mai voluto ferirlo di proposito. Ancora una volta, doveva ringraziare il buonsenso della sua compagna.

«Piuttosto,» riprese alleggerendo il tono «vuoi davvero fare di più? Pensavo volessi estendere ancora un po' il tuo "periodo di prova" prima di unirti allo squadrone di disadattati che mi perseguita.» insinuò a bruciapelo, fissandolo con intensità.

A quelle parole Peter prese ad agitare frenetico le mani, come a cancellare quelle parole:

«No, no, no! Non intendevo quello! Se divento un Vendicatore zia May dà di matto, e quando lei dà di matto...»

«... tu dai di matto, lo so, ma non hai risposto alla...»

«Potrei semplicemente passare dall'essere un amichevole Spider-Man di quartiere a un amichevole Spider-Man... di città?» disse lui tutto d'un fiato, terminando con una smorfia titubante.

Tony rimase stolidamente interdetto, proprio come quando Peter aveva rinunciato ad unirsi ai Vendicatori.

«Un ragnetto cittadino?» chiese conferma, scrutandolo da capo a piedi e desiderando di aver integrato un qualche sensore per smascherare le bugie nel suo costume.

«Magari anche a lei serve un po' di back-up per qualche missione.» il volto di Peter rimase di un candore disarmante «Ogni tanto.» sottolineò, ridimensionando le sue aspettative.

«Può darsi.» concesse infine Tony dopo un breve momento di riflessione, con voce ed espressione imperturbabili.

«Quindi pensa che sia una buona idea! Lo sapevo! Cioè, non lo sapevo per certo, ma... insomma, che ne pensa, esattamente?»

«Che sono sempre più contento di essermi sbagliato su di te.» si lasciò sfuggire lui in un eccesso di sincerità «Anche se non mi ero del tutto sbagliato.» rettificò subito, aggrottando le sopracciglia «Il potenziale c'era, ma era latente e dovevi trovare qualcuno in grado di sfruttarlo per qualcosa di più... impegnativo. E c'è ancora molto da migliorare, ma sei sulla strada giusta più di quanto non lo fossi io quando ero al tuo posto. Certo, io non avevo quindici anni, ma vedila in senso lato...» s'ingarbugliò e rinunciò a trovare l'ennesima metafora poco appropriata «Insomma, finora hai fatto un buon lavoro.» concluse gesticolando, con un sorrisetto sardonico che non riuscì del tutto a camuffare lo sguardo animato da una punta d'orgoglio che gli aveva rivolto.

Notò che il ragazzo lo fissava a occhi sgranati, stupefatto da quell'esternazione del tutto insolita da parte sua, ma prima che potesse inventarsi qualche battuta sagace per stemperare quell'atmosfera che stava virando in territori imbarazzanti, Peter lo anticipò con entusiasmo:

«Grazie, signor Stark. Non la deluderò.»

Stavolta Tony sorrise apertamente: forse, per una volta, anche lui aveva fatto un buon lavoro.




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Note Dell'Autrice:

Bonsoir!
Riesco ad essere in ritardo anche quando sono sicura di poter arrivare puntuale: devo avere un dono.
Scherzi a parte, vi presento il capitolo che ha dato origine all'intera raccolta. Immaginate i vari nuclei narrativi degli altri brani concentrati in un'unica one-shot... di 20 e passa pagine da incompleta. Ecco, credo che sia chiaro perché abbia deciso di dividerla e sviluppare ogni tema separatamente :'D
Come ho già detto in qualche risposta alle recensioni, sono fermamente convinta che Peter abbia avuto un ruolo di notevole rilievo nel recupero psicologico di Tony, in quanto rappresenta in un certo senso una responsabilità tutta sua e quindi un motivo per rimanere ben presente a se stesso. A parer mio ha comunque fatto un errore nel reclutarlo nell'ambito di Civil War, cosa di cui credo si renda poi conto, ad aggiungere ai suoi sensi di colpa (che tanto son pochi, no?)

Ringrazio tantissimo _Atlas_, shilyss e T612 per aver recensito lo scorso capitolo e un grazie gigante a leila91 per averli recensiti tutti in un colpo solo, regalandomi una bellissima sorpresa <3 E grazie anche a tutti coloro che seguono, leggono e/o hanno aggiunto la storia tra le preferite :)
Alla prossima, come sempre mercoledì/giovedì,

-Light-

P.S. Ho abusato degli U2 per questi ultimi capitoli, ma che ci posso fare se calzano a pennello?

 

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Capitolo 10
*** Venti mesi ***



9


"Sharp edges have consequences, now
Every scar is a story I can tell
We all fall down
We live somehow
We learn what doesn't kill us makes us stronger"

[Sharp Edges – Linkin Park]


Venti mesi dopo, Malibu

Tony si chiese se quegli scatoloni avrebbero mai avuto una fine. 
Potevano passare giorni senza che ne vedesse uno in giro per la villa, per poi inciamparvi nel bel mezzo di un corridoio o venirne travolto aprendo sovrappensiero l'anta di un armadio. A volte era grato che un terzo dei suoi averi fosse andato distrutto durante il turbolento trasloco.
Si rassegnò a smistare il contenuto di quell'ultimo, voluminoso ritrovamento, rimasto fino ad allora nascosto in piena vista sotto al nuovo pianoforte dopo aver vagato per mesi qua e là per il salotto. Lo trascinò fuori avvertendone il peso notevole, per poi inginocchiarsi e aprirlo, sperando che fosse qualcosa di facilmente collocabile e non l'ennesima partita di soprammobili o quadri d'artista da sottoporre alla meticolosa attenzione di Pepper.
Si trovò davanti a un metro cubo di soli libri che avevano tutta l'aria di essere manuali e saggi scientifici, perciò di sua competenza. 
Liberò un lungo sbuffo e decise di sbrigare subito quella faccenda: il progetto per la Mark 48 lo attendeva in laboratorio e doveva ancora venire a capo di quell'alloggio per nanoparticelle. Afferrò una manciata di volumi e li trasferì sul pavimento, pescando alla cieca con una mano mentre iniziava già a smistarli con l'altra, separando a colpo sicuro quelli di suo padre dai propri. Cercò a tentoni la risma successiva ma, invece di pagine e copertine, le sue dita sfiorarono una fredda superficie metallica. Sobbalzò al contatto e ritirò subito la mano quasi si fosse scottato, affacciandosi poi oltre il bordo di cartone. Il bianco, rosso e blu occhieggiò di rimando dal fondo, con una punta della stella che faceva capolino da sotto le pagine ingiallite. Inspirò piano dal naso, stringendo appena le labbra a quella scoperta. 
Ecco dov'era finito. Aveva cominciato a pensare – a sperare – che fosse andato perso durante il trasloco, pur consapevole di averlo trasferito personalmente da New York a Malibu assieme agli altri pochi scatoloni che non si era fidato a lasciare in custodia a terzi.
Tamburellò una rapida marcetta sul bordo dello scatolone, per poi decidersi a svuotarlo dei libri rimanenti per scoprire lo scudo leggermente impolverato. Lo sollevò con la sinistra, ma si rivelò più pesante di quanto ricordasse e fu costretto a poggiarne il bordo contro il pianoforte, puntando l'altra estremità contro l'addome per alleviarne il peso. Almeno non era rimasta traccia dei graffi, constatò osservando l'area in precedenza sfregiata dagli artigli di T'Challa. Si era addirittura fatto prendere un attacco d'ansia per portare a termine quel lavoro di restauro inutile. Sospirò appena, distogliendo lo sguardo dal motivo concentrico dello scudo per fissarlo con aria assente sull'ebano lucido del pianoforte – un altro Blüthner a mezza coda, ovviamente. Deviò appena in tempo quel treno di pensieri e tornò con gli occhi fissi sulla stella in campo blu.
E adesso che se ne faceva, di quel frisbee?
Avrebbe potuto donarlo a un museo o chiuderlo in qualche bunker del governo. L'alternativa era infiocchettarlo e spedirlo per posta espressa in Wakanda: dopotutto il vibranio apparteneva a loro. Peccato che così facendo sarebbe anche tornato nelle mani di Rogers. Nonostante il pensiero non gli causasse più un travaso di bile, era ancora abbastanza disturbante da frenarlo.
Non se lo meritava più, quello scudo. O forse non se lo meritava ancora.
Posò un palmo sul metallo freddo e si rese conto di non avvertire alcuna fitta allo sterno. Il suo petto era quieto, mosso solo dal proprio respiro e dal battito regolare del suo cuore. A concentrarsi a fondo percepiva ancora un lieve indolenzimento, come un formicolio dovuto a una posizione scomoda tenuta troppo a lungo, ma non avvertì l'urgenza di scaraventare a terra lo scudo, né si sentì sopraffare dal gelo.
Davanti ai suoi occhi balenò il fotogramma bloccato di quell'arma sollevata sopra di lui, pronta ad abbattersi sulla sua testa spezzando la fragile difesa delle sue mani. Si portò una mano al petto e gli sembrò di incontrare i bordi slabbrati e taglienti della sua corazza lacerata. Fu un istante, poi riprese a respirare e tutto ciò che percepirono i suoi polpastrelli fu la stoffa della maglietta e la pelle sottostante, solcata dal tenue rilievo di una cicatrice circolare.
Voltò il disco metallico a voltare anche pagina da quei pensieri, studiando la superficie di vibranio splendente che rimandava appena il suo riflesso soffuso e distorto. Trovò infine ciò che cercava: lungo il bordo, in caratteri microscopici e appena visibili, era impresso il vecchio marchio delle Stark Industries. Passò un pollice su quelle lettere minute, seguendone i contorni in una carezza esitante: poteva essere appartenuto a Rogers, ma era pur sempre lo scudo di suo padre.
Lo soppesò ancora per qualche istante, poi lo prese sottobraccio e scese a passo rapido in laboratorio.


***


Dopotutto il suo posto era quello, si ripeté irrequieto, valutando lo scudo ora appeso sopra a uno dei banchi di lavoro, come lo era stato decenni prima nel laboratorio di suo padre a Long Island.
Fece qualche passo nervoso là davanti, squadrandolo con espressione un po' torva, poi si impose di lasciarlo dov'era e si sedette al bancone per riprendere il lavoro sul reattore, solo per bloccarsi di nuovo. Era come se percepisse fisicamente la presenza di quell'oggetto estraneo che incombeva sopra di lui ai margini del suo campo visivo, pronto a schiacciarlo come in Siberia.
Si rialzò di scatto e i suoi piedi lo portarono di fronte alla scrivania, con le mani cacciate nelle tasche dei pantaloni. Aprì infine il cassetto che teneva chiuso da quasi un anno e cercò a tentoni il vecchio cellulare a conchiglia, soppesandolo poi con aria guardinga come se dovesse esplodergli in mano. Lo aprì e premette il testo d'accensione: un'obsoleta suoneria anni '90 risuonò nel laboratorio. In rubrica c'era ovviamente un solo contatto e si scoprì ad aggrottare la fronte solo a leggerne il nome. Scoccò uno sguardo sbieco allo scudo, e di rimando quello gli scoccò una gelida puntura di spillo nel petto.
La ignorò, strinse le labbra e avviò la chiamata, solo per chiudere di scatto il cellulare prima che completasse il collegamento. L'aria che aveva trattenuto gli fischiò tra i denti e strinse il congegno con più forza del dovuto, come a volersi assicurare che rimanesse serrato. Esitò a lungo, a capo chino, poi lo ripose in tasca e si spostò all'altro banco di lavoro, stavolta davanti alle armature. Lanciò una fugace occhiata allo scudo dietro di lui, immobile al suo nuovo, ritrovato posto. 
Stava bene lì, concluse con una punta di sollievo.
Tutto il resto poteva ancora aspettare.




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Note Dell'Autrice:

Massalve!
Giungiamo infine al penultimo capitolo... e con puntualità, incredibilmente :)

Qui ho cercato di motivare la reazione di Tony che ci hanno mostrato in Infinity War, quando viene tiraro in ballo Steve subito prima dell'attacco di Thanos. Ok, Tony non è entusiasta e sembra palesemente seccato anche solo nel nominarlo, ma riconosce che potrebbe aiutarli ed è addirittura sul punto di chiamarlo, oltre ad avere in primis il suo cellulare con sé. Tutto ciò mi fa dedurre che sia venuto almeno in parte a patti con quello che è successo tra lui e Steve, ma si riconosce una chiara nota di stizza e risentimento nei suoi confronti (lascio volutamente Bucky fuori dall'equazione perché credo che, fuori dalla foga del momento, Tony sia abbastanza intelligente da capire che la vera responsabile è l'HYDRA. Certo non mi aspetto baci e abbracci in un loro possibile incontro, ma neanche rabbia e odio puri, al massimo una comprensibile freddezza).

Insomma, quello che mi premeva trasmettere è l'incapacità di Tony di "lasciar andare" del tutto ciò che è accaduto in Siberia. Può dire di aver infine accettato la morte dei suoi genitori, di qui lo scindere lo scudo tra suo proprietario e suo ideatore, ma non riesce ancora ad avvicinarsi spontaneamente al perdono per Steve, e il suo tentativo di farlo risulta prematuro.
Ovviamente queste sono interpretazioni personali e avremo davvero conferma di ciò che pensa Tony in merito solo nel prossimo film, ma spero possa risultare credibile e soprattutto IC.

Ringrazio come sempre _Atlas_, shilyss, T612 e leila91 che hanno recensito gli scorsi capitoli! Grazie di cuore, ragazze <3
Il gran finale arriverà mercoledì prossimo :)
Adios,

-Light-

P.S. Sono abbastanza sicura che in qualche versione dei fumetti Howard abbia davvero "targato" lo scudo, ma potrei sbagliarmi. In tal caso, prendetela come una licenza poetica :P


Edit: Ho spostato la storia nella sezione The Avengers; considerando il contesto di alcuni capitoli, ho deciso che aveva più senso così.
 

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Capitolo 11
*** Due anni ***



10


"Stars are only visible in darkness
Fear is ever-changing and evolving
And I, I feel poisoned inside
But I, I feel so alive"

[Battle Cry – Imagine Dragons]


Due anni dopo, Titano

Era di nuovo in ginocchio.
Alzò lo sguardo spaziando sulla desolazione rossastra di Titano, riflesso delle dune desertiche che ancora emergevano nei suoi sogni. 
La ferita pulsava, ma la piaga più dolorosa gli ustionava il cuore con l'orma di un abbraccio sbriciolato.
Inspirò a fondo. Aria calda, polvere, sangue, fumo, sabbia: odori conosciuti. Gli bruciavano i polmoni, dissipando gli strascichi del gelo con un vigore rovente. 
Come dieci anni prima, quando aveva forgiato quel ferro spezzato. 
Serrò i pugni, percependo la cenere sui palmi insanguinati.
Doveva rispettare di nuovo il piano. E non doveva sprecare la sua vita.
Si rialzò.

  

 [100 parole]

 

Fine




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Note Dell'Autrice:

Ed eccoci giunti all'ultimo capitolo :')
In effetti, non credo che questo fosse l'ultimo capitolo che vi aspettavate, anzi, spero sia così e di avervi sorpresi almeno un pochino.
Avrei potuto scrivere un'intera one-shot di 3000 parole su questa scena, ma mi sono imposta di condensare il tutto in 100 parole. Lascio trarre a voi le vostre personali conclusioni in merito, mi limito a dire che qui sopra è racchiusa quella che ho sempre visto come l'essenza più pura di Tony, almeno secondo me. Una sorta di visione complessiva di tutto il suo percorso, dal giorno del suo rapimento a quello dello scontro su Titano. Avrei troppo da dire in proposito, come sempre, ma avrò modo di sbizzarrirmi nelle risposte :'D

Mi limito a ringraziare enormemente tutti voi che avete letto, seguito, commentato e aggiunto la storia tra le preferite e ricordate :)
Un grazie speciale va a _Atlas_, shilyss, T612 e leila91 che hanno commentato gli scorsi capitoli e che hanno sopportato i miei scleri nelle risposte e in privato, dimostrando una pazienza non indifferente e dandomi modo di confrontarmi e condividere punti di vista e opinioni sui più svariati argomenti <3

Spero che leggere questa storia sia stato piacevole almeno quanto lo è stato per me scriverla :)
Ah, e se ancora non ne avete abbastanza di Tony e le sue turbe, rimanete sintonizzati su questi schermi: qualcosa prima di Ferragosto ci scappa sicuro :P
Alla prossima,

-Light-

P.S. Un grande contributo alla stesura del capitolo, e fonte d'ispirazione per alcuni passaggi degli altri, è stato questo video meraviglioso, trovato mentre ascoltavo a loop la canzone dell'intro (@Atlas: è la famosa "colonna sonora di Tony" di cui ti avevo accennato).
P.P.S. Proprio a causa di quest'ultimo capitolo ho deciso di spostare la storia nella sezione The Avengers, più appropriata sia per il lasso temporale che copre, sia per la presenza di Peter e, sullo sfondo, di Rogers.

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