Piccoli angoli di mondo | Rarepairs week

di _Akimi
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Portogallo x Giappone ***
Capitolo 2: *** Turchia x Svezia ***
Capitolo 3: *** nyo!China x nyo!NorthKorea ***
Capitolo 4: *** Camerun x Prussia ***
Capitolo 5: *** India x nyo!England ***
Capitolo 6: *** nyo!Cuba x nyo!USA ***
Capitolo 7: *** Francia x nyo!Russia ***



Capitolo 1
*** Portogallo x Giappone ***


1543, Tanegashima
 
João si risveglia in un luogo sconosciuto, disperso in una qualche isola il cui nome ancora non rammenda.
L'odore di terra straniera è di salsedine e incenso – è un profumo che gli pizzica le narici, che lo desta adagio, ed è così gradevole che, per un breve attimo, è realmente convinto di ritrovarsi nella sua meravigliosa Porto, non in un arcipelago sperduto nell'Oceano Pacifico.
L'odore di terra straniera è anche di pioggia e cibo – un sottile aroma di spezie e pesce fa brontolare il suo stomaco e solo adesso si ricorda di non aver mangiato da quando la sua nave è attraccata.

Schiudendo le palpebre si ritrova in una stanza dall'arredamento minimale: la carta che ricopre le porte trema quando un refolo di aria gelida giunge dall'unica finestra aperta e, intimorito di potersi prendere qualche malanno, si copre le spalle con la coperta con la quale si è addormentato.
Alla sua sinistra nota il rosario che è solito portare al collo; qualcuno deve averlo toccato mentre riposava poiché la figura di Gesù crocifisso non è più rivolta verso di lui, no, il Messia punta ad un preciso angolo della stanza ove, adesso, anche gli occhi di João convergono.
«Ohayō gozaimasu
Uno sguardo affilato si posa su di lui, due punti neri illuminati dalle luci del primo mattino, prudenti, ma non per questo privi di cordialità.
Il portoghese non sa esattamente come rispondere, mormora qualcosa che potrebbe essere un saluto, ma l'altro lo ignora, impegnato a portare vicino al letto un vassoio con del cibo.
«Tutto per me?»
Cerca di mostrarsi modesto, ma la sua pancia già sta immaginando il sapore delle pietanze calde; non sa quanto siano cortesi qui, i nativi, ma è certo che sappiano cucinare e, almeno per ora, questo gli basta.

Mentre mormora una piccola preghiera di ringraziamento – non prima del segno della croce – lo sconosciuto continua a guardarlo, forse affascinato da quel comune gesto che non ha mai visto prima.
João, allora, accenna un sorriso di circostanza, ammirando anch'egli con la medesima curiosità i lineamenti delicati del padrone di casa, così inusuali rispetto ai canoni estetici a cui è abituato.
La pelle diafana crea un raffinato contrasto con la chioma corvina, ma il pallore delle sue guance scompare poco dopo quando iridi scure ne incontrano di smeraldine, in uno scambio di sguardi che si distende in un lasso di tempo che pare un'eternità.
«Tabete kudasai.»
Lo stesso uomo arrossato gli porge dei bastoncini di legno, ma João non sa proprio cosa farsene; è inevitabile, quindi, guardarlo di nuovo – e ora appare quasi infastidito nel vedere l'ospite afferrare compatti chicchi di riso tra le mani.
«Iie, watashi wo mite kudasai
Inizia come un tocco leggero, le loro dita si sfiorano e João si lascia guidare con gentilezza, non allontanando gli occhi da quel viso che inizia a conquistarlo più di quanto gli sia concesso.
Nota così i più piccoli dettagli dell'uomo di cui non conosce neppure il nome: un minuscolo neo sul collo, la forma ricurva delle ciglia e i denti bianchi che si intravedono per un breve secondo, adesso che ride pacato per la goffaggine nei movimenti dello straniero.

«Senti, meu caro, avrò tutto il tempo per imparare a mangiare con queste e, detto tra noi, spero di fare anche altro.»
Riceve il risposta un'espressione perplessa, il naso arricciato lo fa sembrare ancora più grazioso agli occhi del portoghese e no, non dovrebbe per nulla pensare a cose del genere – almeno, non appena arrivato.
«Posso mangiare? Kodasai
«Kudasai!»
Rotea gli occhi, João, tuttavia sul suo viso appare uno dei suoi sorrisi migliori e, ora lo sa, imparerà in fretta le tradizioni dal suo nuovo amico.



 
Note:
La week è questa; avviso che i prompt praticamente non li ho seguiti, sopratutto in alcuni giorni, ma ci ho provato e ci tenevo a partecipare!
I primi occidentali giunsero in Giappone nel 1543, a bordo di una barca cinese - erano portoghesi e da quel momento in poi strinsero dei legami commerciali con l'isola.
Nella fic ho deciso di far parlare Giappone esclusivamente nella sua lingua madre perché il POV è di Portogallo, quindi all'inizio non si capiscono.(ovvio)
La traduzione è: Buongiorno - Mangiate, per favore - No, guardi me.
Kudasai è un forma di cortesia, in realtà i giapponesi hanno ventimila modi per dire per favore.
Ultima cosa: i portoghesi mangiavano con le mani e, arrivati in  Giappone, i nativi trovarono quest'usanza piuttosto inusuale.
La coppia Portogallo/Giappone è forse una delle più geniali e belle di Hetalia - capisco che sia trascurata perché Port vale meno che niente nella serie, ma come pairing ha un sacco di spunti interessanti.
P.s. In realtà non sarebbe l'oceano Pacifico, ma la zona è Mar cinese/Mar delle Filippine, ma il Giappone viene segnato come "isola del Pacifico", quindi ho optato per quello.


 

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Capitolo 2
*** Turchia x Svezia ***


İzmir, 2018

La torre dell'orologio si staglia verso il cielo colorato dalle tonalità pastello del crepuscolo che, agli occhi dei cittadini turchi, sono ormai divenute una vista familiare – sono zampilli di rosa candido e di quel celeste che diviene blu sulla linea dell'orizzonte, coperta dalle palme e dagli alberi che impreziosiscono la piazza.
Lo spettacolo viene oscurato dalle ali dei piccioni che si librano in aria, fuggendo frenetici non appena qualche bambino corre sulle pietre, scacciandoli con infantile divertimento.
Le loro giocose grida riecheggiano mischiandosi con l'ultimo chiacchierìo dei passanti: sono bisbigli su ciò che mangeranno a cena, su come passeranno il week-end o con chi, semplicemente, trascorreranno la fine di una faticosa giornata.
Sadık guarda le coppie spensierate passeggiare verso casa e – seppur non si rispecchi in quel dipinto di vita quotidiana – sa chi gli terrà compagnia questa sera.

Non è un grazioso hijab ad attenderlo né un femminile sorriso a salutarlo; lo riconosce subito, non è complicato, notando quanto risalti in mezzo ai visi comuni dei suoi concittadini.
È una testa bionda appoggiata al tronco scuro di una palma, inforca gli occhiali contro il naso e nasconde un'espressione imbarazzata che fa ridere Sadık perché, negli ultimi mesi, ha scoperto diversi lati di lui e si è abituato al suo orgoglioso quanto raro rossore.

«Iyi akşamlar.»
Berwald saluta in un titubante turco; porta sotto il braccio un paio di volumi il quale titolo Sadık non riesce a leggere, ma pochi attimi dopo lo svedese si avvicina, evitando gli sguardi curiosi dei passanti.
«Un esame stamattina.»
Lo bisbiglia a bassa voce, Sadık intravede uno stampato "Turkisk litteratur" sulla copertina e accenna un sorriso, ricordandosi solo ora del motivo per cui Berwald si trovi qui, in Turchia.
La sua presenza è diventata un'abitudine che dovrà abbandonare presto, dato che il suo tempo in università è quasi finito, ma un qualcosa gli dice che non sarà semplice per entrambi ritornare ai ritmi di prima.
«Cucino io questa sera, festeggiamo.»
«Ho preso un pessimo voto.»
Risponde con la sua solita calma impassibile; Sadık non riesce proprio a capirlo, si domanda se siano gli svedesi ad essere tutti così – dannatamente seri – ma non può dire che sia un caratteristica che odia di lui.
Anzi, lo diverte, lo mette alla prova, e i minuscoli sorrisi che qualche volta gli ha rubato – grazie a del buon alcool, a dire il vero – valgono più di qualsiasi altra cosa.
«Allora è di consolazione, sono sicuro che ti piacerà.»


 
* * *

Sadık cucina canticchiando una qualche canzone disco degli anni '80, si sposta spensieratamente vicino ai fornelli del suo piccolo appartamento e Berwald ne approfitta per guardarsi in giro, intimorito dalla vasta collezione di libri che occupa il suo salotto.
La maggioranza sono volumi di architettura – la materia che studia all'università -, ma non mancano romanzi e raccolte di poesie che lo stesso Berwald avrebbe dovuto conoscere per l'esame.
A distrarlo è il profumo che aleggia nella stanza, carne speziata che ha imparato a mangiare e che ora, a dire il vero, ama.
Ha assaggiato di tutto stando per mesi a İzmir, dolce e salato – poco importava -, ma il piatto che si trova davanti non lo stupisce; è troppo familiare, è certo di averlo visto già da qualche parte, e la sua espressione dubbiosa allarma per un attimo Sadık, preoccupato di aver preparato qualcosa che non gradisce.
«Ma sono köttbullar
«Sono cosa?»
Sadık arriccia il naso; non trova nulla di strano in delle semplice polpette di carne, ma Berwald evidentemente si aspettava un piatto più particolare? Difficile comprenderlo dal suo modo di comportarsi.
«Sono molto simili alle köttbullar svedesi, è il nostro piatto nazionale.»
Berwald le rigira con la forchetta, per poi cominciare a mangiare; il discorso sembra essersi concluso, ma no, il turco non accetta che un piatto del suo paese sia simile ad uno di un altro.
«Eh, mi sa che avete un piatto nazionale copiato.»
Sadık crede di ricordarle, le loro mediocri polpette; le ha assaggiate casualmente poco dopo aver comprato un paio di mobili, e non potrebbero mai essere saporite quanto le sue amate kofte.
«O magari siete voi che avete copiato da noi.»
«No, impossibile.»
È un affronto che non può accettare e, abbandonando il tavolo, naviga sul suo smartphone per trovare qualcosa a riguardo; è una sfida che non è disposto a perdere, sarebbe un colpo troppo grande per il suo orgoglio turco – e la soddisfazione che prova nello smentire l'altro è indescrivibile.
«Chiedilo a Carlo dodicesimo, quando ritorni in Svezia.»
La sicurezza di Berwald scompare quando legge delle notizie recenti: il turco ha ragione, gli svedesi hanno vissuto un'illusione per così tanti anni ed è un colpo, sì, lo è, per lui che è abituato a mangiarle spesso.
«Ho della marmellata ai frutti di bosco, se ti può consolare.»
Sadık carezza il palmo della sua mano dolcemente; è un sarcasmo becero che Berwald vorrebbe tanto odiare, ma non ci riesce perché – in fondo – ha appena scoperto di avere un altro modo per ricordarsi di lui, ritornato a casa.




 
Note:
Dovrebbero essere canon solo per questo. Un mesetto fa è uscita questa notizia; le polpette svedesi non sono proprio svedesi come ce le immaginiamo.
In realtà, non è una cosa confermata al 100%, almeno, alcuni svedesi dicono di no, ma i turchi sono iper-convinti che le abbia portate Carlo XII dopo il suo esilio/rifugio in Turchia - il che mi pare una storia molto, ma molto fattibile.
E io ne sono contenta! Amo entrambi i paesi e anche le polpette, che consiglio davvero di assaggiare perché sono buonissime; +100 punti con la marmellata, altrimenti si perde il gusto particolare.


 

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Capitolo 3
*** nyo!China x nyo!NorthKorea ***


Hamhŭng, 6 giugno 2018

Il sole tiepido le riscalda il viso ed è piacevole rimanere immobile, scomparire lì, sdraiata nella vasta piazza del Gran Teatro.
Respira lenta e socchiude le palpebre, trattenendosi dall'unirsi alle risate divertite dei bambini attorno a lei.
Li sente marciare giocosi sul pavimento in pietra, battono i piedi e intonano l'Aegukka – con così tanto fervore da far palpitare il cuore emozionato di Yeo-Jin; anche il brillante leader, se potesse essere assieme a loro, ne sarebbe orgoglioso.
I ragazzini indossano un grazioso foulard scarlatto, le divise eleganti spiccano nella grigia piazza e Corea non può che ricordare i giorni in cui anche lei era una giovane nazione, pronta a sfidare il mondo per difendere la propria patria dagli invasori.
Ora la guerra è un lontano ricordo, ma una parte di lei la teme ancora ed è per questo che li addestra costantemente – devono essere pronti per il futuro incerto che li attende.
Il mondo non riserva mai gentilezze; sa che istruirli all'uso delle armi è un modo per corrompere la loro innocenza, ma preferisce dei bambini responsabili, a giovani vittime di altre atrocità.

«Tongmu, possiamo prendere un gelato?»
Il bisbiglio timido di una bimba le fa aprire gli occhi e alla loro piccola preghiera non riesce a dire di no; così, fruga nella sua tasca e lasciando a ciascuno delle monete, li vede allontanarsi verso un bancarella non molto lontana.
Corrono in gruppo, saltellando liberi nell'essere semplicemente ciò che sono: giovani innocenti, amici dietro ai banchi di scuola – come in qualsiasi angolo del mondo.
Una parte di Yeo-Jin vorrebbe vederli sempre così spensierati, ma non può lasciarsi ad inutili sentimentalismi.

«Cháoxiăn, lo hai fatto di nuovo.»
Giunge un altro mormorio, questa volta un accento straniero, ma non sconosciuto; è una voce femminile, un rimprovero gentile che la imbarazza, guardandosi in giro nella speranza che nessuno possa vederla arrossire.
È ancora accovacciata a terra e da qui in basso, alzando lo sguardo, la donna che ha di fronte sembra più alta e minacciosa di quanto sia in realtà.
«Chun Yan, non ti ho sentito arrivare.»
Si chiede che cosa ci faccia Cina – sì, la grande repubblica popolare – a Hamhŭng, ma le parole mancano, come tutte le volte in cui la rivede.
«Non ti accorgi di nulla quando sei con loro, sei adorabile, Yeo-Jin.»
Corruccia la fronte, Corea, per nascondere il disagio davanti alla schiettezza di Cina; vorrebbe tanto dirle di non umiliarla in pubblico, ma sa bene che Chun Yan non vuole schernirla – le sue parole sono serie, è questo ciò che la spaventa.

«Comunque.»
Cina si china a terra, Corea sente il suo respiro contro la pelle, notando quanto sia ora vicina, ma l'immensa nazione si limita ad afferrare uno degli oggetti tra loro.
«Non sono giochi per bambini, lo sai?»
Si riferisce ad una replica di un kalashnikov, uno dei fucili che i ragazzini hanno usato fino a pochi attimi prima, ora sostituiti da simpatici ghiaccioli.
«Ma la statunitense e mia sorella hanno-»
«Parli sempre di Jones fūrén, cosa deve fare una vecchia come me per farsi piacere, oggigiorno?»
Sul suo volto appare un'espressione degna di una drammatica opera cinese e Corea, disorientata dall'improvviso sarcasmo della compagna, cerca di cambiare argomento e il buffo tentativo porta Chun Yan a sorridere divertita.
«L'ultima volta che sei stata qui non hai visitato il teatro, dovremmo andarci assieme.»
«Eh! Lo considero un appuntamento, xīngān


 
Note:
Il 6 giugno in NK si festeggia il giorno della fondazione dell'Unione dei bambini - nell'ultimo periodo si è notato come bambini molto giovani si "divertivano" durante questo giorno con percorsi, prove fisiche e armi finte che simulassero una guerra.
Tongmu - il coreano (del nord) significa "compagno"
Cháoxiăn - Nord corea in cinese
Fūrén- signorina in cinese
Xīngān - cara mia/tesoro
Il teatro citato è stato costruito negli anni '80, in questo caso ho ipotizzato che Cina non incontrasse l'altra in Nord Corea dalla guerra.


 

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Capitolo 4
*** Camerun x Prussia ***


Monte Camerun
2870 m

La notte è calata quieta sopra le loro teste, le prime stelle appaiono nel cielo limpido e un freddo alito di vento solletica la pelle di Gilbert, obbligandolo ad indossare il suo comodo giaccone in softshell – ora allacciato fino a coprirgli parte del volto.
La batteria del suo lettore musicale muore davanti ai suoi occhi, uno schermo nero ad accoglierlo ed è il ciangottìo dei turisti – di varia provenienza – l'unico suono a riecheggiare sul fianco della montagna.
Si fermano solo ora, un rifugio coperto di lamina risplende nella sera e le sue prime impressioni gli suggeriscono che non vi è nulla di confortevole qui, rispetto alle familiari e graziose baite in legno delle montagne europee.
Vi è un qualcosa di strettamente spartano che adora; è la prima volta che visita l'Africa – quella vera, non i banali resort di Sharm el-Sheikh o i comuni safari kenyoti.
Il Camerun mantiene un senso di originalità che Gilbert ha cercato a lungo in tutti i suoi viaggi e che, inaspettatamente, ha trovato in una nazione della dimenticata Africa centrale.

In un abbraccio l'oceano Atlantico si unisce al cielo, tonalità di blu gentilmente sovrapposte tra loro e, da questa altezza, Gilbert crede di poter dimenticare per un momento la vita frenetica che ha abbandonato in Germania.
È stata una follia – decidere di fuggire con il proprio passaporto così lontano, una vacanza da solo, senza lasciare avvisi; eppure, è liberatorio perché le aspettative e i giudizi dei suoi conoscenti sono rimasti lì, nei confini familiari della sua patria.
Ora è circondato da natura incontaminata, da misteriose caverne e da una cultura così diversa dalla propria.
La curiosità lo divora lentamente ed è in un breve momento, incontrando lo sguardo di Ahmadou – la guida locale, che si domanda per quale motivo esistano al mondo persone che si precludono tale mondo solo per i pregiudizi.

«Perché sono sciocchi e non sanno cosa si perdono.»
È proprio Ahmadou ad interferire, come se avesse letto nella sua mente; parla con scioltezza, all'inizio Gilbert non se ne rende conto, ma solo dopo un lungo attimo di riflessione si accorge di un dettaglio che prima era passato inosservato.
«Aspetta. Ma tu parli tedesco?»
L'uomo svela dei denti perfetti, un sorriso sarcastico gli illumina il volto ed è solo grazie a del buon autocontrollo che Gilbert riesce a trattenere una battuta, facilmente mal interpretabile nel contesto attuale.
«Effetti del vostro imperialismo.»
È una mezza verità; Ahmadou non ha studiato tedesco perché come un'abitudine del paese, per la verità è stato per il turismo e personale interesse, ma leggere uno strano imbarazzo sul volto del tedesco lo diverte, eccome se lo diverte.

Non è l'unico aspetto che distingue del suo viso; è facilmente riconoscibile in mezzo al gruppo di altri turisti, per tanti motivi diversi che ha notato nel corso della giornata.
Senza compagnia e imprudente; è appassionato di hiking – lo ha capito da come si è mosso durante la camminata e per il fisico perché sì, forse i suoi occhi si sono posati in punti che avrebbe dovuto ignorare.
«Il libro che ho comprato dice che le lingue ufficiali sono francese e inglese; o è un errore o sei tu che menti.»
Gilbert accenna un allegro ghigno e Ahmadou osserva la pelle screpolata sulle sue guance.
Troppo sole – una scottatura che gli colora le gote di uno sconsiderato rosso; deve essersi addormentato sulle belle spiagge di Kribi come qualsiasi sciocco turista bianco, ma non pare esattamente un uomo di mare.
«Parlo entrambe, infatti.»
«Nah, non ci credo.»
Il tedesco incrocia le braccia al petto e attende una risposta che possa stupirlo; l'altro conosce le pendici del monte alla perfezione – questo si è ben capito -, ma deve esserci qualcosa – almeno una cosa – che non sappia fare così bene.
«Tu es un beau mec, but remember the suncream, das nächste Mal.»
E Gilbert arrossisce – sempre colpa del sole africano, eh – perché lo sguardo di Ahmadou pare aggiungere molto altro.
Per ora, tuttavia, si pente di non aver mai imparato il francese.


 
Note:
La frase tradotta è: Sei un bel tipo, ma ricorda la crema solare, la prossima volta.
Il Camerun è praticamente la nazione dove si studia di più il tedesco, per ovvi motivi; è una lingua più che minoritaria, ma i giovani cominciano a studiarlo insieme alle altre lingue.
Tecnicamente la lingua principale è il francese e ho letto che ci sono anche tensione con la minoranza che parla inglese, purtroppo. (e comunque il Camerun ha non so quante lingue riconosciute, come tanti altri paesi africani.)
Ahimè mi sarebbe piaciuto scrivere di Camerun in una vera e propria vacanza insieme a Prussia, ma alla fine ho optato per descrivere solo Gilbert come turista perché l'idea iniziale era di proporli come vera e propria coppia in vacanza, ma in Camerun essere omosessuale è un reato punibile con il carcere.
Parlando di turismo, viene chiamato come piccola Africa perché ha ambienti molto vari tra loro, nonostante non sia molto visitato dai turisti come altri.
Credo che sia banale fare un safari in Kenya - mia opinione personale -, quindi volevo presentare la vacanza di Gilbert come qualcosa di più "alternativo."
Da quanto so la squadra del Camerun ha vinto la coppa d'Africa, ma non si è qualificata ai mondiali, peccato!

 

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Capitolo 5
*** India x nyo!England ***


{But I now there'll be some way
When I can swing everything back my way
Like skyscrapers rising up
Floor by floor, I'm not giving up.}

The Clash – I'm not down


Suraj sputa sangue sull'asfalto, una macchia scarlatta sul nero catrame che scompare poco dopo nel buio della notte e in quel flusso d'acqua che percorre le strade deserte, buttandosi nei tombini pronti a scoppiare.
Il sangue ha un sapore ferroso, molesto e persino malinconico; gli ricorda le giornate trascorse in India – la sua India -, qualche dente da latte perso andando in bicicletta, o le ferite leccate come un tigrotto troppo orgoglioso per chiedere aiuto.

Il sangue ha un sapore ferroso, il suo labbro gonfio non gli permette neppure di parlare e borbotta, Suraj, trattenendosi dal maledire la vasta gamma di Dei a sua disposizione.
Non vuole reputarsi sfortunato, come potrebbe – ha solo il viso contuso, piove e non ha l'ombrello, ma si ripete che potrebbe andargli peggio di così.
Poteva rimanerci secco, morire come un insulso paki – come lo hanno etichettato - su un anonimo marciapiede del Regno Unito; ma lui no, è un bastardo di alto lignaggio e i video di Akshay Kumar devono essere serviti a qualcosa, allora.
Lo hanno buttato a terra con facilità, ma ora Suraj Patel è in piedi, vagando nella speranza di non aver perso l'ultimo bus per tornare a casa.

A casa, poi: intende il buco che condivide con i suoi colleghi, un sudicio appartamento che spera di lasciare al più presto, ma l'oblio della sua lurida stanza lo richiama sempre indietro, come se non si meritasse altro che un letto logoro e quattro pareti umide.

La fermata è a pochi metri di distanza da lui, ormai ha i vestiti fradici e trema infreddolito; si è abituato al dannato tempo inglese, ma vi è un qualcosa di particolarmente triste nella notte che sta vivendo e spera, anche se dubita di riuscirci, di poter poggiare la testa sul suo letto e dimenticarsi di cosa è accaduto.
Il dolore, però, è reale e nemmeno il suo ferreo orgoglio può fare molto contro il livido violaceo vicino alla sua guancia né al taglio – che ha visto solo ora – che divide la sua mano sinistra, lasciandosi alle spalle una simpatica linea di sangue - un conta passi artigianale.
«Bloody Hell, ma che cosa ti è successo?»
Una voce femminile lo risveglia dal torpore e dall'inerzia; è un mormorio a tratti rude e brusco, ma quando Suraj si volta verso la sconosciuta, non può che perdonarla perché – che pessima giornata – anche lei non sembra stare molto bene.
«Regalo per il mio non-compleanno, a quanto pare.»
Cita Caroll, non sa esattamente il motivo, ma è la prima cosa che gli è balzata alla mente guardandola.
Sembra lei, la piccola e curiosa Alice – forse è un sogno, ma Suraj si rende conto di essere nella realtà grazie al brillare di un paio di iridi smeraldine.
Sono quegli occhi ad osservarlo con una leggera insistenza che non lo infastidisce; dietro alla montatura è nascosta anche una lieve screziatura di preoccupazione e, se non fosse per il pessimismo che ha ora la meglio su di lui, si sentirebbe lusingato nel ricevere delle attenzioni da parte di una graziosa ragazza.
«Sei sicura che il bus passi, sushri
«Non ci provare, ne ho abbastanza di uomini che non sanno tenere le mani in tasca.»
Aggrotta la fronte, Suraj, dovrebbe sentirsi ferito – forse? -, ma non era sua intenzione oltrepassare limiti non consentiti.
La sua domanda era sincera; è evidente che prendono lo stesso mezzo per ritornare a casa, eppure la risposta incattivita della ragazza lo rattrista e, anzi, si ritiene quasi fortunato di essere stato solo vittima di qualche pugno.
«Scusa, è una serata di merda.»
Mormora lei, rimanendo del tutto seriosa; sembra chiedere un perdono di circostanza, ma è sincera perché le basta osservare di nuovo il viso di Suraj per capire che non è sola, questa notte, ad odiare il mondo un poco di più.
«Mi sembri una dura, non basta qualche maiale e qualche goccia di pioggia per buttarti giù, no?»
Un piccolo sorriso appare sui visi turbati di entrambi, un incresparsi di labbra sarcastico, ma non arrendevole; sono ancora vivi, nonostante il temporale e gli stronzi che vivono nel mondo.
«Sono Rose;» Allunga la mano lei, stringendo con così tanto vigore da spaventare il ragazzo; «per te, invece, qual è la rogna?»
«Stupidi nazisti, credo.»
Suraj ricambia il saluto, quasi si vergogna nell'ammettere di averle prese bruscamente da qualcun altro, di non essere riuscito a difendersi contro degli idioti, ma Rose è impassibile ed è solo rabbia ad ardere nei suoi piccoli occhi – un così sublime contrasto con la sua apparenza minuta.
«Fanculo anche a loro.»

Sono ancora vivi, in fondo – e per ora -, pare più che sufficiente.



 
Note:
Akshay Kumar - attore indiano e esperto di arti marziali
Sushri - signorina in Hindi.

 

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Capitolo 6
*** nyo!Cuba x nyo!USA ***


«I love you enough now. What do you want to do? Ruin me?»
«Yes. I want to ruin you.»
«Good,» I said. «That's what I want too.»

Ernest Hemingway – Addio alle armi


Le strade sono piene di vita, a La Habana, anche se il tempo sembra essersi fermato da anni.
È esuberanza e entusiasmo nel medesimo luogo, ma anche superstizione e vigore, minuscole peculiarità disperse in ogni piccolo sasso, in ogni naturale sorriso dell'incantevole capitale.
I visi delle persone ricordano giorni alla quale Amelia non pensa da anni, un vuoto costante che si porta dentro di sé per una serie di motivi diversi che la rendono capricciosamente orgogliosa della sua patria, benché non manchi mai un briciolo di imbarazzo nel ricordare gli errori commessi.

L'Havana è un posto maledetto - per la Santeria, direbbero i cubani-, ma Stati Uniti si è sempre reputata immune a qualsiasi pericolo proveniente da questa piccola, solitaria isola dei Caraibi.
L'Havana è un posto maledetto, sì, ma preserva un funesto fascino che le fa ancora tremare le ginocchia, obbligandola a nascondere un vulnerabile sguardo dietro alla montatura dei suoi Rayban.
Non le servirebbe la vista per riconoscere gli incroci e le piazze del paese; è sufficiente il ciacolare dei passanti, il delizioso profumo delle chicharritas o il malessere che prova attraversando Plaza de la Revolución.
Pensa a Che Guevara e Castro, ormai lontani dalla loro nazione da anni, ma è ancora combattuta perché questa terra le ricorda il segno di un suo fallimento, oltre all'odio che è costretta a provare per volere delle alte sfere.


Non dovrebbe neppure essere qui, eppure il suo orgoglio a stelle e strisce muta forma non appena il ritmo frenetico dell'Havana scompare, sostituito dalla tranquillità di un anonimo villaggio a dieci chilometri di distanza.
Si ritrova in un posto appartato quasi per caso; un senso di trepidazione ha la meglio su di lei perché spera di non essere l'unica a ricordarsi di questo luogo e, forse scioccamente, anela ad un incontro che non dovrebbe emozionarla così tanto.
Eppure, i suoi occhi celesti si poggiano proprio su una delle colonne della graziosa abitazione e riconosce i lineamenti di Cuba, anche se sono passati anni dall'ultima volta che si sono incontrate.
La riconosce perché Yadira si volta e sì, osserva proprio lei, con quel suo sorriso sarcastico che Amelia fatica ad affrontare, tentata ad abbassare lo sguardo.
Non sa cosa dirle, come parlarle - dovrebbe schernirla come accade quando la politica le divide, ma vi è un qualcosa di poetico, nell'aria, che nessuna delle due vuole incrinare.

Così, ripongono la loro superbia in uno spazio riservato delle loro menti; Cuba la accoglie come se fosse una semplice turista in visita, ma Amelia lo sa – lo capisce dai suoi occhi – che vi sono ben altre cose che vorrebbe dirle.
«Ti piace ancora Ernest, allora?»
Parla per prima, sorride, persino, nel vedere tra le mani di Cuba uno sgualcito "Il vecchio e il mare" – un insieme di pagine che la rende ancora più fiera delle proprie origini.
«Più di uno, a dire il vero,» Yadira richiude il libro e lo nasconde come se vi fosse qualcosa per cui vergognarsene; «Sei troppo lontana da casa per esserti semplicemente persa, cosa ti porta qui?»
Lo domanda pacata, senza diffidenza o rabbia a macchiarle il tono di voce; è sorpresa, ma non infastidita – una novità che porta il cuore di Amelia a battere più veloce del solito.
«Ricordi. E volevo dimenticarmi dei problemi, sai, con il mondo.»
Stati Uniti mostra una sua debolezza, un'indecisione che dovrebbe allettare molto l'altra, ma si trattiene – stranamente – dall'attaccarla come farebbe in qualsiasi differente occasione.
Forse perché sono sole, nessun governo di mezzo ad aizzarle contro e, per una volta soltanto, non vogliono perdersi l'occasione di ricordare una delle poche cose che le ha avvicinate per tanto tempo.

«Dopotutto, ogni giorno è un nuovo giorno.»
Yadira bisbiglia cordiale, una dolce gentilezza che non le s'addice, ma Amelia non può che sorriderle, occupando finalmente un piccolo spazio al suo fianco.
«Spero che questo duri almeno un poco di più.»


 
Note:
Hemingway è stato a Cuba per diversi anni, dove comprò una casa, appunto, visitabile tutt'oggi; scrisse lì Il vecchio e il mare - la citazione "Ogni giorno è un nuovo giorno" è presa da questo romanzo.
Fidel Castro disse che Hemingway era il suo autore preferito.

 

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Capitolo 7
*** Francia x nyo!Russia ***


{Di quale ardore brucia un bacio in mezzo al gelo}
Aleksandr Sergeevič Puškin


Parigi, 1900

Splendida Parigi, il brillare degli eleganti lampioni si riflette sullo scroscio leggero della Senna.
Sublime Parigi, forse lo è ancora di più a notte fonda, gli ultimi locali chiudono e pare quasi abbandonata a sé stessa, semplicemente al corso delle cose, affiancata solo da quelle timidi luci che si intravedono con gli edifici che percorrono le sponde del fiume.
Sono piccole finestre luminose, ombre confuse e poi il buio – è la sera a calare con il suo manto cobalto, tempestato da stelle fulgide, sparse nel cielo in un'accurata composizione che Anya non ha ancora imparato a riconoscere.
Eppure, nel loro ordine, celano una curiosità che va ben oltre alla semplice scienza; riescono ad ispirare ancora l'animo umano, nonostante il progresso sia rampante nel nuovo secolo.
Anya, di conseguenza, si domanda perché l'uomo si senta naturalmente attratto verso cose che non può comprendere; è una costante che accomuna qualsiasi nazione da lei visitata e l'unica risposta che ha trovato è che, in fondo, a nessuno piace ciò che è scontato.
Vi è un qualcosa, intrinseco negli spiriti più avventurosi, che invoglia a sfidare lo status quo e a mettersi alla prova.
L'impero imparerà a caro prezzo quale sia il piacere del cambiamento, ma per ora Russia guarda al presente e l'esempio di quell'umana intraprendenza prende ora le forme di una saggia nazione che ben conosce.

È una sagoma elegante ad attenderla sul maestoso ponte che attraversa la Senna – una magnifica architettura dedicata ad un'altrettanto magnifica figura; il solo pensiero lusinga Anya e nasconde un modesto sorriso dietro al suo ventaglio quando, avvicinandosi a lei, è Francia ad interrompere la dolce sensazione di attesa che aleggiava tra di loro.
«Francis, un completo così formale per un semplice incontro tra noi? Sono difficile da sedurre, io, sai.»
Sono pochi passi a dividerli, ma Anya si sente civettuola questa sera e nell'allungare il braccio verso l'altro, chiede silenziosamente un baciamano che ha visto spesso fare al francese davanti ad altri paesi.
Non si sente gelosa – no, la grande Russia non può esserlo -, ma spera di avere un posto privilegiato nello sconfinato cuore di Francis, un sentimento a legare le due nazioni non solo politicamente.
«Anne, tutto ciò che ho da offrirti è intorno a te, spero sia sufficiente.»
Giunge come un bisbiglio caldo contro il suo viso, le dita di Francia le carezzano la guancia e il piccolo gesto basta per farle abbassare di poco le sue difese.

Il regalo di Francis va oltre ad una romantica notte a Parigi; il ponte sotto i loro piedi è un saldo e eccelso caso della loro unione.
Non si è trattenuto, Francia, come in tutte le altre sue cose – a dimostrare la propria presunzione al mondo, ma per la verità, il suo orgoglio è uno degli aspetti che Anya ama più di lui.
«La modestia funziona con qualcuna, Bonnefoy?»
«Non con chi mi interessa.»
Ed è un delicato bacio sulle labbra a sottintendere che, nonostante le attenzioni altrui, Francia ora veda solo una luce nel buio parigino.
Anya Braginskaya – l'apoteosi di ciò che Francis considera bellezza.



 
Note:
Ho scoperto accidentalmente Puškin studiando storia dei paesi slavi; la frase è presa da una poesia chiamata "Inverno, cosa possiamo fare in campagna?" - ma la traduzione è un po' particolare perché in inglese è leggermente diversa, anche se il senso è quello.
Non ho citato il nome del ponte, ma chi conosce un minimo Parigi o i rapporti tra Francia e Russia, avrà capito che è quello dedicato a Alessandro III.
Alla fine ho usato il termine "Apoteosi" riferendomi ad un numero de Le Petit Journal dove si parlava, appunto, dell'alleanza tra i due paesi; poi scaturita nella Triplice intesa – in aggiunta con il Regno Unito.
Ci sono un sacco di vecchie locandine con le versioni allegoriche di Russia e Francia, molto interessanti e facilmente trovabili su internet.




 

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