Just Breathe

di Spoocky
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo I ***
Capitolo 2: *** Capitolo II ***



Capitolo 1
*** Capitolo I ***


Disclaimer: i personaggi appartengono ai rispettivi proprietari. Non guadagno nulla da questo lavoro.

Buona Lettura ^.^

Rannicchiato in un angolo, con il corpo scosso da tremiti convulsi.
Non ricorda nulla, non capisce nulla, sa solo che ha paura.
Guarda il muro di fronte a se e si guarda le mani.
Entrambi sono coperte di un liquido denso, rosso scuro ed appiccicoso.
La sua mente stravolta non riesce a riconoscere cosa sia.
Sangue. Sangue. Sangue. Sangue. Sangue.
Morte.

 
E’ ovunque!
E’ attorno, sopra e dentro di  lui.
Sangue. Sangue. Sangue. Sangue. Sangue.
Grida più forte che può perché è l’unica cosa che gli resti da fare.
Si strofina le mani macchiate sulla faccia e la sostanza si spande sulla sua pelle.
Non c’è modo di cancellarla.
Sangue. Sangue. Sangue. Sangue. Sangue.
“Via! Vattene via! VIA!”
Si scaglia contro i muri dello scantinato in cui si è nascosto per cercare una via d’uscita.
Le macchie non scompaiono, si allargano e basta.
Non si accorge che qualcuno sia entrato finché non si volta e se lo trova davanti.
Morte.
 
Un mosto orrendo: alto e magrissimo, con gli occhi che sporgono come quelli di un insetto, dalla testa spuntano rami aggrovigliati, ha le mani aperte e le dita sottilissime che si allungano in artigli.
Non sa cosa sia, ma è certo che sia venuto a prenderlo.
Si difenderà, lo scaccerà come ha fatto con gli altri.
Afferra il suo bastone e scatta.
Il mostro viene colpito all’addome e si piega in due.
Lo colpisce al volto ed uno schizzo di quella sostanza orrenda atterra sul muro.
Sa di non potersi fermare, la sua vita dipende da questo.
Colpisce ancora, e ancora, e ancora.
Anche quando il mostro crolla a terra, emettendo dei versi strozzati.
Intorno a lui, macchie di quel rosso osceno.
Sangue. Sangue. Sangue. Sangue. Sangue.
Colpisce di nuovo, finché un lampo accecante riempie la sua visuale.
Sente un rumore fortissimo e poi più nulla.
Nemmeno dolore.
Morte.

“Ehi! Ehi, ehi, ehi, ehi!”
Morgan non si pose il problema di vedere l’ S.I. cadere a terra: sapeva di averlo colpito. Piuttosto si precipitò accanto al corpo di Reid, steso in una pozza di sangue.
Era cianotico.

Derek raccolse il volto del ragazzo tra le mani e un rivolo di schiuma rossa lasciò le labbra bluastre: “JJ! Chiama un’ambulanza, presto!” accarezzò il ferito sulla testa mentre la profiler bionda si allontanava con l’orecchio attaccato al cellulare “Coraggio, ragazzino. Va tutto bene, sono qui.”
Spencer emise una sorta di singulto e la schiuma rossa riapparve, stavolta più densa e scura, accompagnata da un gorgoglio sinistro. Subito iniziò a singhiozzare, bocca e mento si tinsero di rosso mentre tutto il suo corpo partecipava agli spasmi.
Stava annegando nel proprio sangue, dovevano intervenire. E in fretta.
Lo sguardo di Morgan corse subito al suo torace: indossava ancora il giubbotto antiproiettile ma era stato deformato, tanto da premere contro il busto del ragazzo, impedendo alle costole – sicuramente danneggiate – di espandersi correttamente.
Toglierlo sarebbe stato un rischio, lasciarlo una condanna a morte.

Con le mani irrigidite dalla tensione, l’agente riuscì ad allentare le cinghie che fissavano l’indumento protettivo e a sfilarlo dal corpo dell’amico.
Subito questo trasse un respiro profondo, che si dissolse in un attacco di tosse.
Era evidente una depressione formatasi sul suo fianco sinistro, indice della causa di tutto il sangue: nel pestarlo selvaggiamente l’S.I. doveva avergli danneggiato le costole, una delle quali doveva aver ferito il polmone, che si stava riempiendo di sangue.
Il piccolo genio non stava respirando aria ma liquido, e stava soffocando.
Derek aveva già rischiato nel togliergli il giubbotto, ora si trattava di correre un pericolo molto più grosso: sollevarlo.
Sapeva bene che, di norma, non avrebbe dovuto muovere un infortunato senza avere piena coscienza delle sue lesioni ma lasciare Reid in posizione supina voleva dire lasciarlo soffocare. Tanto valeva mettergli direttamente la testa sott’acqua e tenercelo per un pezzo.

Con la maggior cautela possibile, gli passò un braccio intorno al torace e una mano sulla fronte, fece aderire il proprio petto alla sua schiena e si tirò lentamente a sedere, puntellandolo con il proprio corpo. La fronte pallida del ragazzo scivolò nell’incavo del suo collo e del sangue colò dalle sue labbra nel colletto dell’agente.
Però respirava meglio, e sembrava aver ripreso un po’ di colore.
Si sentì tanto orgoglioso del suo giovane amico da stampargli un bacio in fronte: “Bravo, ragazzino: sono fiero di te! Respira con me. Respira e basta, non pensare ad altro. Andrà tutto bene. Respira e basta.”
Stringendo il corpo del ragazzo, Morgan continuò a mormorare nel suo orecchio parole di conforto, la sua personale preghiera per la sua vita.

Dopo aver chiamato l’ambulanza, JJ telefonò ad Hotch perché avvisasse la quadra: Mark Sanson, l’S.I., era morto ma Spencer era ferito.
Era ormai in lacrime quando lui finalmente rispose ma la sua voce, calma e profonda come sempre, la riportò alla realtà.
L’uomo incassò la brutta notizia senza scomporsi, almeno nel tono: le chiese solo come fosse successo.

“Il profilo era corretto.” Rispose lei “Sanson era affetto da Disturbo Paranoide della Personalità. In casa sua abbiamo trovato delle anfetamine, che probabilmente usava per tentare di curarsi come aveva detto Rossi. Quando siamo arrivati doveva essere nel pieno del delirio: l’abitazione era un disastro ma di lui non c’era traccia. Spence è sceso in cantina ‘giusto per dare un’occhiata’…” le parole le si bloccarono in gola e per un attimo le mancò il respiro.
“Tranquilla, JJ. Stai andando bene. Adesso Reid è da solo?”
“N-no. No: c- c’è Morgan con lui.”
“Bene. E’ in buone mani. Tu sai dirmi cosa sia successo?” Araon Hotchener doveva avere qualche potere sovrannaturale: non solo riusciva a mantenere la calma in quella situazione, ma era anche in grado di trasmetterla a chi lo circondava.
La donna trasse un respiro profondo e trovò la forza di continuare: “Io e Morgan stavamo perquisendo la cucina quando abbiamo sentito urlare. Ci siamo precipitati da Reid... c’era sangue ovunque: sulle pareti, sul pavimento... Spence era a terra e l’S.I. gli era addosso.  Lo picchiava con un tubo. Gli abbiamo ordinato di allontanarsi ma non ci ha sentiti... o non ha capito... io non- non lo so. Poi Morgan ha sparato.”
“Ho capito...” il resto della risposta fu soffocato dalle sirene dell’ambulanza che entravano nella via.
“Hotch? Devo andare.”
“D’accordo. Ci vediamo in ospedale?”
“Sì. Ci vediamo lì.”
“Un’ ultima cosa. JJ?”
“Sì?”
“Siete stati bravi.”

Respirare.
Respirare.
“E’ facile quanto mentire.”
Shakespeare, Amleto, Atto terzo, Scena due, Pagina sedici.
La mia mamma me lo ripeteva spesso, quando cercavo di suonare il flauto, alle medie.
Ma adesso cosa c’entra?

Perché mi è venuto in mente proprio ora?

Perché sto cercando di respirare e non ci riesco.
Sento che i polmoni mi si fanno pesanti e l’aria non entra.
Di nuovo l’antrace?

No.

No: è diverso.
Fa male.
Tanto male.
Vorrei gridare ma non posso.
Vorrei piangere ma non riesco.
Mi sento soffocare, non riesco a tossire.

Sotto il mio corpo il pavimento è freddo.
Sto affogando sulla terra ferma.
Non so se sono solo, o se ci sia qualcuno.
Ho le palpebre pesanti, troppo per aprirle.

“Finché ci sarà respiro od occhi per vedere
  Questi versi avranno luce e ti daranno vita.”
Shakespeare, Sonetto diciotto, versi tredici e quattordici.

Mamma! Mamma! Dove sei? 

Note:
Se guardate questo telefilm presumo abbiate i nervi sufficentemente saldi da reggere tranquillamente anche questa storia.
Tuttavia, se vi disturba in qualche modo vi prego di farmelo sapere.

Certo, preferisco mi facciate sapere come sia venuta, al di là dei contenuti.

 

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Capitolo 2
*** Capitolo II ***


Disclaimer: tale e quale al Capitolo I

Buona Lettura ^.^

La brezza primaverile accarezzava dolcemente il suo volto ed i capelli.
Reclinato su una sedia a sdraio, sorretto da una montagna di cuscini e con un libro aperto in grembo, il dottor Spencer Reid si godeva il sole primaverile.
E ricordava.

A sprazzi, immagini delle settimane precedenti gli tornavano in mente come pezzi di un puzzle.
In realtà, riusciva a ricordare ben poco.

Forse quelli che vedeva non erano ricordi ma ricostruzioni che la sua mente aveva partorito dopo che Morgan gli aveva raccontato tutto.
Era stato fortunato, gli avevano detto, e lo sapeva bene: nei pochi minuti trascorsi dalla sua aggressione all’arrivo dell’ambulanza il suo corpo aveva ricevuto un limitato apporto d’ossigeno.
Una lieve amnesia retrograda, soprattutto se limitata al momento del trauma, era un prezzo onesto da pagare per l’ipossia.
Il suo ultimo ricordo concreto era scendere la scalinata che conduceva alla cantina di Sanson.
Poi diventava tutto confuso, non ricordava nemmeno il dolore.

Aveva completamente rimosso il viaggio in ambulanza ed i momenti immediatamente precedenti ma il pneumologo dell’ospedale gli aveva spiegato come la manovra improvvisata di Morgan gli avesse quasi certamente salvato la vita.
Come se gli servisse un motivo in più per essere grato dell’esistenza del suo più caro amico.

Le immagini iniziavano dall’arrivo in Pronto Soccorso: i neon abbaglianti, i rumori dei macchinari ed un caleidoscopio di voci e colori.
Gli avevano inserito un tubo nel costato per drenare il liquido che aveva impregnato il suo polmone, impedendogli di gonfiarsi e di ricevere aria.
Praticamente stava annegando nel proprio sangue.

“Lo pneumotorace è una brutta bestia. Fidati, ragazzino, parlo per esperienza.”
Morgan, il suo angelo custode.
Aveva vagamente presenti gli altri membri della squadra che andavano e venivano: JJ che lo riempiva di baci, Emily che portava dei fiori, Rossi con un enorme peluche a forma di coniglio, Garcia che lo video-chiamava su Skype, Hotch che... che cosa aveva fatto Hotch? Ah sì: aveva imboscato del gelato nella borsa, per rinfrescargli la gola irritata dal tubo del ventilatore.
Ma Morgan era stato una presenza costante.
Aveva trascorso tre giorni in Rianimazione, di cui uno pesantemente sedato ed intubato, ma le infermiere gli avevano raccontato di come fosse rimasto rannicchiato sulla sedia di plastica giorno e notte, per tutto il tempo.
E lui non stentava a crederlo.
Quando aveva riaperto gli occhi la prima cosa che aveva messo a fuoco era il volto dell’agente Morgan, che sorrideva sopra di lui.
Non era certo che fosse vero, ma quell’immagine era talmente definita da fargli dubitare del contrario.
Comunque era un bel ricordo, a prescindere dal contesto.

Allungò le gambe e si stirò.
Il fianco gli faceva ancora male e gli tiravano i punti dove gli avevano sfilato il drenaggio toracico, solo due giorni prima, ma nel complesso si sentiva meglio.
Il movimento sollecitò un po’ troppo i suoi polmoni danneggiati e tossicchiò per un poco. Ma si riprese subito e ricominciò a godersi il sole.

Teneva ancora gli occhi chiusi quando il suo ospite si affacciò sulla soglia del cottage con un vassoio e una tazza di infuso caldo.
“Guarda che lo so che non stai dormendo. Non mi freghi: ti ho insegnato io quel trucco.”
Spencer socchiuse pigramente un occhio e lo richiuse di nuovo con un sorriso: Jason Gideon non era cambiato di una virgola.
“Come preferisci, stai pure lì a prendere il sole. Ah! I giovani d’oggi!”
Mentre il profiler anziano rientrava in casa, Reid si lasciò sfuggire una risatina.
“Ti ho sentito, sai?”
Gli rispose sbadigliando: “Ah sì? Buon per te.” E sorrise, avvertendo alle sue spalle l’espressione altrettanto divertita del suo mentore.

Era stata un’idea di Rossi: solo lui avrebbe potuto convincere l’eremitico collega ad accogliere Reid nel suo sancta sanctorum.
A dir la verità non c’era stato bisogno di tante strategie.
Il tutto si era risolto così: “Il ragazzo può restare da te per qualche giorno?” “Va bene.”
Nessuno dei due lo avrebbe mai ammesso, neanche sotto tortura, ma erano profondamente affezionati a quello strano individuo che si era annidato quasi di prepotenza nelle loro vite.
Forse perché entrambi sentivano la mancanza dei propri figli o il bisogno di una famiglia tanto quanto il ragazzo sentiva il bisogno di un padre, per quanto surrogato.
Non lo avrebbero mai ammesso a parole ma lo dimostravano con i fatti.

 Rossi aveva guidato per quattro ore e mezza, pause escluse, perché il trauma toracico non si sarebbe riassorbito completamente per un altro paio di settimane e fino ad allora non poteva volare, che era anche il motivo per cui si trovava da Gideon ad affrontare la convalescenza.
Da parte sua, Jason faceva tutto quanto in suo potere per viziarlo. Anche se tendeva a ritirarsi il più possibile nel piccolo cottage mentre lo faceva.
Riconoscendo e rispettando il suo bisogno di spazio, Reid cercava di stare il meno possibile nella stessa stanza con lui. Ma non ebbe mai l’impressione che la sua presenza fosse sgradita, anzi.
Semplicemente godevano della reciproca compagnia senza bisogno di una vicinanza costante e quasi sempre in silenzio.

Gideon però faceva in modo che non gli mancasse mai nulla: aveva addirittura deciso di dormire accampato alla bell’e meglio sul divano pur di cedergli l’unico letto,  che aveva pure cosparso di tutti i cuscini in suo possesso.
Preparava i pasti da solo, gli somministrava le medicine facendo attenzione che non esagerasse con gli antidolorifici – ormai la sua storia con la dipendenza era acqua passata da un pezzo, ma era sempre meglio restare all’erta – quando di notte aveva gli incubi o sentiva più dolore del solito si sedeva sul materasso accanto a lui e gli tamponava la fronte con una pezza umida finché non si calmava.
Alle volte gli portava un bicchiere di latte caldo o una camomilla.
Insieme giocavano a scacchi, a Scarabeo o a Mahjong ma più spesso trascorrevano il tempo conversando di uccelli e insetti o leggendo: Gideon si era addirittura spinto a procurargli una nuova edizione dell’intera saga di Harry Potter pur di farlo sentire a proprio agio.
Quando il ragazzo si sarebbe sentito più in forze avrebbero anche iniziato a passeggiare nei boschi.

Ora come ora, Spencer Reid si godeva il tepore del sole, steso tranquillo di fronte alla casa dell’uomo che era per lui un padre più del suo genitore biologico.
In pace con se stesso e con il mondo, in pausa da tutto l’orrore che il suo lavoro lo portava a scoprire, non doveva far altro che respirare.
Respirare e basta.
Era così facile!
- The End -
 
Cosa ne pensate?
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Qualunque punto di vista è ben accetto!
Alla prossima! 

 

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