A Monster di Cress Morlet (/viewuser.php?uid=918469)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Alive, Alone ***
Capitolo 2: *** Cold Symphony ***
Capitolo 1 *** Alive, Alone ***
Alive, Alone
Salve
a tutti! Un immenso grazie a chiunque vorrà leggere questa
mia mini-long a cui tengo molto e che mi è entrata nel
cuore, momento dopo momento.
Avviso preventivamente
che ci sono importanti Spoilers, infatti il mio testo si colloca
idealmente dopo le vicende (traumatiche è dire poco) di
Avengers Infinity War. Per chi ha visto il film sa benissimo cosa
accade proprio nei primi dieci minuti.
Orbene la mia storia
è completamente un'opera di fantasia e non vuole in alcun
modo cercare di spiegare o immaginare eventi futuri del MCU e mi scuso
se ci saranno delle imprecisioni. Io non ho mai letto i fumetti quindi
ho sicuramente una visione personale e limitata del Mondo Marvel ma ho
rivisto tutti i film prima di scrivere questa mini-long quindi spero,
almeno su questo versante, di essere il più precisa
possibile. I miei più sentiti ringraziamenti a Jill Butler, per avermi dato la forza di pubblicare. Sei un tesoro immenso.
Spero davvero possa
piacervi!
A
MONSTER
There
is no Thor without Loki
-Tom
Hiddleston
Ever
since I could remember,
Everything
inside of me,
Just
wanted to fit in
I
was never one for pretenders,
Everything
I tried to be,
Just
wouldn't settle in
Monster,
Imagine Dragons
“Loki.
Loki, sono io. Torna a casa.”
No. No, sto bene.
Tra
l’intricato velo nero e il buio più profondo
dell’esistenza umana, nella disperazione più dolce
dei sentimenti freddi.
Al
ghiaccio, solo, con la pelle livida e tesa fino a non poter
più tremare.
Morto.
Sto bene qui.
“Loki.”
Morto.
“Loki”
Si
poteva morire con la neve negli occhi? Solo con un cielo squarciato e
caduto a terra.
Allora
sì. Allora si moriva con i fiocchi di neve tra i denti,
cantando l’oscurità più indecente.
“Sono
io, ti prego.”
Lasciami. Lasciami,
vattene via, lasciami qui.
“Ti
prego torna a casa.”
No.
“Ti
scongiuro. Ti scongiuro.”
Abbandonami. Sto bene
qui.
In
eterno su una lastra di ghiaccio, in bilico su un precipizio,
sotterrato da pezzi di stelle cadenti, con il collo ancora piegato in
una maniera innaturale.
Non sento nulla.
“Loki,
sono io e sono qui, non mi muovo. Sono qui. Sono qui, sono qui, sono
qui... Ti prego.”
Non
c’è odio. Alla fine ci sono solo i rimpianti e poi
il nulla, l’assenza.
Lampi
dissacranti sulle sue guance blu, dolore per i suoi occhi ancora
aperti.
Sta nevicando. Ecco
perché ho neve in bocca.
“Loki”
Ho freddo.
“Torna
a casa.”
E dove è
casa? Dove si trova?
“Ti
sto aspettando, non mi allontanerò. Mai
più.”
Le
promesse erano il peggior veleno, quello a cui non si era mai abituato
e a cui non era immune.
Si
cade una volta, si cade un’altra volta, si cade senza toccare
terra e non si smette mai di avere paura.
Anche
dopo mille volte, avrà ancora paura del vuoto e di quello
che era stato, di quello che è.
Morto.
“Loki...
torna.”
Mi sento solo.
“Torna
da me.”
*****
Non amava
l’oro.
Non gli era mai
particolarmente piaciuto.
Forse un tempo, molto
lontano, lo aveva tollerato e apprezzato, senza neppure volerlo.
Sì, non
ricordava come e quando, doveva essere successo anche questo.
Ma poi, un anno dopo
l’altro, aveva ripreso ad odiarlo.
Una follia,
perché ad Asgard tutto era un susseguirsi di gioielli
dorati, polvere magica e trionfi. Un tripudio di infelicità
ornata di giallo, con venature attorcigliate alle colonne e ai
mosaici del suo palazzo, di ogni casa, perfino delle strade
più povere e disagiate.
Era stata una tortura,
lunga e dolorosa, aprire ogni giorno gli occhi e trovare
l’oro perfino sui suoi vestiti, sul suo capo, in tutte le
ombre con bordature colorate.
Un male cieco inflitto
a lui, per tutti i secondi della sua vita ingloriosa.
Gli era sempre parso
uno scherzo di pessimo gusto comprendere come persino il trono non fosse niente di diverso, solo una sedia dorata.
Ma lui era il Re.
Quindi quello era,
forse, un male necessario. Ottenere ciò che si brama
con una tale disperazione doveva comportare necessariamente un sacrificio di
felicità, fosse anche la sua.
Che tutti si
inginocchiassero, si prostrassero alla sua grandezza, al suo potere.
Il Re di Asgard,
seduto sul trono dorato, nella stanza più immensa, con
l’oro che copriva anche le fughe tra le mattonelle del
pavimento a mosaico.
Così sia,
sia questa la volontà suprema.
Sofferenza nella
grandezza e dolore nel momento più acuto del piacere, echi
di disperazione in tutti i suoi sorrisi.
Convivere, nei secoli
dei secoli, con il colore che gli avrebbe sempre ricordato lui, lo splendore
onnipotente incapace di rendersi conto di che cosa si dimenticava negli
angoli neri, nel buio creato da se stesso.
Più luce
c’è, più oscurità
tornerà.
Alla
fine mi hai mai visto? Ero lì, mi hai visto?
L’aveva
attraversata a piedi lui, l’ombra cieca, l’aveva
vista e provata nelle vene, fin dentro le ossa piegate dal freddo e
levigate dalle antenne degli insetti.
Lui era morto in quel
posto.
Perché
allora era su un letto?
“Loki.”
Una mano gli
accarezzò il braccio per poi spostarsi sul volto e
racchiudere la guancia in un modo calmo e misurato. Gli
sfiorò lo zigomo e lui quasi non lo percepì, per
quanto era gentile.
“È
ora di svegliarsi.”
Lo vedeva
già, quel colore maledetto, e dietro le sue palpebre
abbassate percepiva la sua limpidezza, con un senso di fastidio
estenuante.
C’era un
indugiare nascosto in sentimenti che a lui non interessavano, che amava
distruggere con un’azione spregevole e crudele. Doveva essere
impazzito, ancora di più e sempre in maniera peggiore,
altrimenti non c’era motivo per cui non muoversi e pensare
solo a cose confuse, idee dimenticate un secondo dopo essere esplose
nella sua mente.
“Anche
quando eri un bambino facevi così. Stringevi le palpebre per
non svegliarti e per far credere a tutti che dormivi profondamente. Io
lo sapevo e non dicevo nulla a nostra madre.”
Vissuto da sempre come
una bestia affamata alla ricerca di qualcosa, qualcosa di profondo mai
trovato, in ginocchio nelle stanze dimenticate del suo palazzo, la
fronte premuta sulle ginocchia per soffocare i singhiozzi.
Certi ricordi era
meglio lasciarli in catene, erano lì solo per alimentare il
suo odio, per darsi la forza di possedere quel sogno metà
dorato e metà nero.
Non sapeva neppure lui
cosa lo rendesse così smanioso e insoddisfatto, cosa fosse,
cosa cercasse e sperasse di ottenere.
Era una bestia, un
animale cresciuto in cattività, un orfano abbandonato.
Un buon Re, magnifico
e venerato.
Morto.
“Ma ora
è tardi. Il sole è già alto.”
L’oro
avrebbe brillato come non mai e lui avrebbe ricominciato a provare un
senso di nausea, veloce a percorrergli lo stomaco, capace di
scorticarlo da dentro.
Tutta la sua intera
esistenza era stata marchiata dal male e dal dolore, ogni secondo un
chiodo su cui camminare a piedi scalzi.
Mai, non aveva mai
conosciuto cosa fosse la pace.
Thor spostò
la mano verso la sua mandibola, scese piano a toccargli il mento e poi
le ossa della gola, indugiando al livello della giugulare.
Gli bruciarono i palmi
e un pensiero solo si fece largo tra gli altri, una certezza che gli
strinse la pancia talmente forte da dare un sapore acido alla saliva,
un fastidio tra i denti e la lingua attaccata al palato.
Era
vivo.
Cominciò a
tossire e gli sembrò che i polmoni fossero contratti,
fossero stretti in un pugno, in un modo tale da impedirgli di
respirare. Aprì gli occhi e cercò confusamente un
appiglio, scostò il lenzuolo ma non riuscì a
sollevare il petto, pesante e duro.
Non riusciva a far
niente che non fosse cercare aria, aria, un respiro.
Gli occhi diversi di
suo fratello cercarono i suoi e poi le sue mani gli circondarono il
volto, bloccandolo, mentre lo pregava per qualcosa di cui lui non
riusciva a distinguere le parole.
Era solo un ronzio
fastidioso, uno spillo nel timpano.
Aiutami.
Prese aria dalla bocca
aperta ma vide dei lampi viola dinanzi alle sue pupille e
percepì di nuovo quel sapore acido e nauseante risalirgli la
gola.
Aria, aveva bisogno di aria.
Si aggrappò
alle braccia di Thor e strattonò la manica del suo abito,
tentò di rispondergli ma ricominciò a tossire e
sputare, ispirò altra aria e ancora gli uscirono dei rantoli
soffocati.
Aria.
“Loki,
guardami. Concentrati e guarda me.”
Thor scosse le sue
spalle e non lo lasciò andare, veloce gli
allontanò i capelli dal viso e dalle labbra, posò
un palmo sulla sua fronte e l’altro sul cuore, come a contare
i battiti, per accettarsi fosse tutto vero.
Perché lui
era un morto che aveva bisogno di aria.
“Respira.
Respira pianissimo.”
Passò una
mano fra i suoi capelli neri e poi la riportò sulla fronte,
quasi massaggiandogli le tempie.
I morti non respirano.
“C-cosa...”
“Respira.”
Avvicinò il
volto al suo, adagiato su un cuscino e distorto dagli sforzi di non
vomitare, e lo costrinse a guardare solo la sua espressione preoccupata.
Perché
erano a quel punto? Perché non poteva... aria, aveva bisogno
di aria. Aria.
Loki
inspirò dal naso e lentamente cominciò a lasciare
dei respiri, fiato contro la barba bionda dell’altro Re,
contro le sue labbra e il mento.
Continuò a
stringere forte i gomiti di Thor, senza accorgersi delle mani che
tremavano incontrollabili insieme al suo corpo.
“Respira
insieme a me. Va tutto bene, andrà tutto benissimo.”
Bugiardo,
da quando hai iniziato a mentire così sfacciatamente? E
ancora così male, ti sei esercitato ben poco.
Stupido
figlio di Odino, troppo nobile e giusto.
Stupido
e basta. Stupido.
“Thor”, sussurrò, e socchiuse per un momento gli occhi, non
comprendendo cosa ci fosse nello sguardo dell’uomo che aveva
tanto odiato, se fosse sollievo o qualcosa di diverso, di estraneo a
entrambi.
Perché i
morti non possono parlare.
Inspirò ed
espirò, alleviando il dolore al petto e la stretta allo
stomaco.
“Thor, che
cosa hai fatto?”, domandò, e lo sforzo gli
strappò una smorfia e lo costrinse a rannicchiarsi contro
l’ampio torace del fratello.
Stupido,
perché sono qui? Dove sono?
“Sei tornato
a casa. Questo è l’importante.”
A
quale prezzo?
Meraviglioso
e splendente oro della mia vita, adesso che cosa mi hai fatto?
L’odio
più profondo io l’ho imparato da te.
“Thor”, mormorò, e il suo tono era urgente, agitato.
“Conserva le
forze e riposa. Abbiamo tempo, fratello.”
E
da quando i morti hanno il tempo dei vivi?
Alzò il
viso e respirò male, troppo forte, quasi fosse una bestia
ferita, e per sbaglio gli graffiò la pelle
dell’avambraccio, nel tentativo di non cadere o scivolare.
Le gambe tremarono
ancora e lui vide le sue coperte dorate fasciargli il corpo, il
pavimento luminoso, le pareti brillanti.
Il suo incubo era
ovunque, fino a sovrastarlo con carne e sangue.
Specchi sul fondo
della sala e una finestra immensa, ogni cosa riflessa
nell’altra, in un gioco studiato.
C’era
davvero il sole alto nel cielo.
“Il Sole sta
morendo”, disse, e una certezza lo piegò fino a
spezzarlo e accartocciarlo.
Vogliono ucciderlo e
un crimine del genere è perverso, crudele e inimmaginabile
persino per un mostro come lui.
Fratello,
vogliono uccidere il Sole.
La vista si
appannò e si accorse tardi di alcune lacrime lungo le sue
guance, di gocce cadute leggere tra loro due.
Un respiro fu
più difficile, più graffiante, e poi il petto si
rilassò insieme ai nervi delle sue dita bianche.
Spostò lo
sguardo rapidamente per tutta la stanza e un pensiero si
spezzò in più parti nella sua mente, disgregando
la sua lucidità.
La finestra era troppo
grande, gli specchi gli restituivano un’immagine sfalsata,
impossibile, e poi il cielo... il cielo era bellissimo.
Ti
darò tutto ma ti prego salva il Sole, salva il Sole, salva
il Sole. Sta morendo.
Capì tardi
che i singhiozzi erano suoi e il formicolio alla nuca un messaggio di
avvertimento, un segnale da ricordare.
C’era il
male vicino a loro, perché le stelle muoiono mangiandosi
lentamente e qualcuno vuole ucciderle tutte, a qualsiasi costo.
Il
Sole sta morendo.
I singhiozzi erano
lamenti e le spalle sussultavano a scatti mentre un dolore alla fronte
gli impediva di capire quale fosse la realtà, cosa esistesse
davvero.
La luce lo
accarezzò e a lui sembrò volesse donargli un
ultimo sprazzo di vita.
Non
era morto? Perché era vivo?
“Il
Sole.”
Quale
mostro?
“Loki,
ascoltami.”
Quale
mostro ucciderebbe il Sole?
“Il Sole sta
morendo”, biascicò, mordendosi la lingua.
Thor gli fece posare
la testa sulla sua spalla e lo abbracciò, lo rinchiuse tra
il suo addome e il materasso senza permettergli di muoversi, di vedere
la stanza sempre più luminosa con le ombre rannicchiate ai
quattro angoli.
Fa
troppo male. Salvalo, salva il Sole.
Era come essere fuori
dal proprio corpo e allo stesso tempo troppo dentro. Sentiva tutto e
all’improvviso non sentiva niente.
Non era abituato, non
dopo la morte, a tutte quelle emozioni e sensazioni, a
quell’equilibrio precario che era la vita di ogni uomo.
E aveva ancora paura
di morire, dopotutto.
Quanto era patetico.
“Il Sole
morirà.”
Singhiozzò
contro il collo di suo fratello e il capo cominciò a
ciondolare senza forze mentre lui ripeteva, come una cantilena, sempre
le stesse parole.
Provò a
nascondersi dalla luce ma l’oro sembrava volerlo seguire,
vendicandosi e tormentandolo.
Con la voce pastosa
continuò a parlare, gli disse cose che non comprendeva e
non ricordava, prendeva poco fiato e muoveva le labbra così
vicine al suo orecchio da poter trascinare ogni sillaba delle sue frasi
folli.
Perché lui
era lì? Perché era vivo?
Il
Sole sta morendo, salva il Sole.
E chissà
perché a lui interessava tanto della salvezza di una stella
già morta e agonizzante.
È
una stella dorata, salvala.
Thor
continuò a proteggerlo, con le braccia intorno alle sue
spalle e le mani tra le scapole sporgenti, il mento tra i suoi capelli.
Loki gli strattonò la maglia rossa, percorrendogli tutta la
schiena.
Che sensazione strana.
“Il Sole
morirà ancora”, disse, e assaggiò le sue
lacrime.
Avrebbe dovuto
odiarlo, quell’oro regale, avrebbe dovuto desiderare la sua
morte.
Dove
sono? Che cosa è successo?
Avrebbe dovuto
fregarsene.
Sono
vivo?
Ma gli ricordava
qualcosa.
Morire
non era il mio solo diritto?
Qualcosa di bello.
“Non
permetterò a nessuno di far del male al Sole”, gli
promise Thor, fronte contro fronte.
E il buio lo accolse
come una benedizione.
*****
Non... non capisco.
La luce soffice delle
candele illuminava fiocamente la stanza e gli angoli avevano le
sembianze di buchi neri, profondi, da cui sarebbero potuti sgusciare i
suoi peggiori incubi, figure disumane con zanne e artigli macchiati di
liquido scuro e denso.
Non gli piaceva, lo
nauseava, quel nero poco chiaro, appena rischiarato da sottili lingue
gialle, perché gli ricordava l’oscurità
avvolgente delle tombe scavate nei sotterranei del palazzo.
Gli oggetti apparivano
talmente impalpabili da avere la consistenza di un sogno, di un incubo
lontano e distorto dalla febbre. L’aria stessa strisciava
gonfia e lattiginosa, come graffiata da gusci di noci rovinate.
Un’atmosfera
lugubre e decadente pesava sul suo capo, un odore di bruciato si alzava
verso l’alto, stordendo i suoi pensieri e le sue palpebre
stanche.
Ogni cosa assomigliava
ad una veglia funebre antica e l’idea lo divertiva e
disgustava al contempo.
Represse un sorriso
storto, mangiucchiandosi le labbra, e deglutì piano pensando
di poter acquietare la sua ansia.
I suoi respiri lenti
seguivano il ritmo dettato dal dito indice che ticchettava contro
l’unghia del pollice. Le braccia erano rigidamente stese
lungo il corpo mentre le gambe, ferme e troppo pesanti, erano
attraversate da un bruciore doloroso ai muscoli e ai tendini.
Non andava bene, no,
non andava affatto bene.
Eppure qualsiasi male
e fastidio sarebbero stati sempre preferibili all’assenza, al
vuoto, al mero niente da cui era tornato.
Sano e salvo,
finalmente a casa. No?
Agitato, una goccia
fredda di sudore gli strinse la nuca, avvolgendogli il mento come una
sciarpa di ghiaccio.
L’angoscia
gli attanagliò lo stomaco con un violento calcio e una
sensazione sgradevole camminò su tutto il suo corpo.
Certo, lui lo sapeva.
Lo aveva scoperto da
bambino e aveva accettato il compromesso della vita, si era piegato al
dazio ed era sceso a compromessi con la realtà dei fatti,
come ogni dio e sovrano esistente.
Sei
vivo solo se soffri.
E quindi lui aveva
vissuto più di chiunque altro, non era così?
Almeno, in quel modo,
la sofferenza avrebbe avuto un senso.
Tutto quello che aveva
patito e le bugie in cui aveva vissuto rigirandosi tra esse come un
corpo nudo tra le lenzuola, allora tutto avrebbe avuto un suo fine
ultimo.
No?
Gettò lo
sguardo verso destra e riuscì solo a intuire il buio oltre
le finestre, la notte nera calata a togliere colore al cielo.
Del pulviscolo pioveva
e danzava fra le pozze di ombre chiare, si depositava lento sulle
superfici di legno intarsiato con linee decorative.
Le fiamme delle
candele si prostravano sulla cera, in un inchino ironico alle sue
pupille offese dalla luce, a causa della prolungata
oscurità. Un cieco orrore da cui nessuno sarebbe dovuto
tornare, se non più folle di prima.
Lui si era svegliato
da poco o forse no, non era vero, forse osservava ogni angolo di quella
stanza da ore, procrastinando il momento della lucidità, del
capire perché aveva ricominciato a respirare e pensare.
Non si chiedeva da
dove derivasse quella paura, il terrore morboso di alzarsi e parlare
con qualcuno che, di
grazia, avesse il buon senso di riferirgli la
verità.
Quanti
secondi esistono nella fine eterna? Ci sono i secondi?
La sedia posta vicino
al suo letto era vuota e nessun rumore disturbava quella calma
innaturale, anche i suoi respiri erano silenziosi, a volte trattenuti.
Non c’era
nessuno oltre lui, non sotto quel soffitto decorato con le immagini
trionfanti delle prime campagne militari di Asgard.
Suo fratello alla
guida di un immenso esercito, le mani sporche di sangue e lo sguardo
spietato in nome della pace.
Risplendeva tra i suoi
fulmini, brillava da solo pur tra migliaia di altri uomini valorosi,
aveva l’aspetto di un Sole risorto dopo centinaia di anni di
prigionia.
Un’illusione
appagante.
Ancora
l’oro, di nuovo l’oro, sempre l’oro.
Cosa
era successo prima? Quanto tempo era trascorso?
Le finestre erano
chiuse e refoli di vento filtravano dalle fessure sottili, le tende
verdi coprivano i vetri e strisciavano fino a toccare il pavimento.
Non vedeva altro se
non pochi mobili, una specchiera in penombra, le immense porte di legno
scuro con i battenti di ferro.
Vivo e solo.
Nulla di diverso dal
solito, quindi.
Abbandonato, da quando
aveva modo di ricordare, in un’estenuante solitudine di anni e anni,
costretto a vedere solo se stesso nel riflesso di ogni specchio.
Un pugnale seghettato,
piantato costantemente al centro della sua schiena, tra le vertebre, a
imperitura memoria che i primi a tradire sono sempre i familiari
più devoti.
Lui, solo, lo era
stato dalla culla. Ad ogni pianto senza un abbraccio, ad ogni ferita
senza cura, ad ogni desiderio espresso mai realizzato.
Ogni giorno aveva
osservato se stesso in uno specchio, ore perdute della sua giovinezza,
e tutte le volte aveva trovato solo i suoi lineamenti più
induriti, affilati. Malvagi e cattivi nel momento esatto in cui aveva
deciso di seppellire qualsiasi buon sentimento.
Solo, da sempre e per
sempre.
Solo, con la sua
rabbia di orfano non voluto e destinato alla morte.
Solo e basta.
Il figlio bastardo
lasciato su una roccia di ghiaccio.
E nel suo tormentarsi
aveva ignorato l’esistenza di alcuni istanti, brevi e quasi
impossibili, in cui chiudendo gli occhi aveva visto il suo volto sorridergli.
Combatterò
per sempre al tuo fianco, Loki.
Una rabbia improvvisa,
un capriccio infantile, lo animò scorrendo nelle vene.
Lui poteva essere vivo
ma il ragazzino infelice e desideroso di essere guardato, apprezzato,
lo aveva ucciso e fatto a pezzi da tempo e con le sue mani.
Io
e te insieme, non è meraviglioso?
Con le braccia si fece
forza, strinse il materasso e il lenzuolo nei pugni,
digrignò i denti soffocando diverse maledizioni ma
sollevò il petto e si mise seduto, la schiena contro la
testiera.
Non
ho un desiderio più grande di questo, Loki.
Un coltello nel suo
addome avrebbe fatto meno male, perché non gli avrebbe
spezzato il fiato in quel modo, chiudendogli la gola secca e
contraendogli i muscoli del viso.
Lo aveva sempre
colpito a tradimento, una spirale infinita di ferite mai curate, aperte
dal sale e dall’aria.
Non
ci separeremo mai, Loki.
Vivo, solo e in
difficoltà. Davvero nulla di nuovo, una replica amareggiante
di tutta la sua vita.
Gettò le
coperte di lato e scoprì i suoi abiti aderenti blu, i
pantaloni fascianti che lo coprivano fino alle caviglie e le maniche
larghe della maglia che rendevano goffi i suoi movimenti.
Voleva alzarsi e
trovare un rifugio vicino, correre veloce e mettere tutta la distanza
possibile tra lui e il suo ingestibile fardello.
Ovunque ma non
lì, non più.
Perché
sotto pelle, tra le macerie nascoste del passato, c’erano
ancora le sue parole e
le sue frasi capaci di tagliare via ogni superflua
resistenza.
Mi
fido solo di te, fratello.
Toccò le
sue gambe e si rese conto che erano pesanti solo perché
addormentate, un sottile pungere di spilli lungo tutta la sua carne.
Una nuova fitta al
costato gli fece tremare i polsi, lo costrinse a serrare la mandibola
mentre allontanava alcuni cuscini, quelli posti ai lati del letto
affinché lui non cadesse.
Non era il momento di
stracciare i veli patetici degli anni passati, di svelare alcuni
segreti che aveva preferito mantenere anche con se stesso, pur di non
impazzire del tutto.
Doveva agire e, se
necessario, fuggire.
Doveva ritrovarsi distante da quella camera e poi dalla
città, pianeta, qualsiasi cosa fosse quel mondo su cui lui
ora aveva posato i piedi.
Si diede schiaffi alle
cosce e premette i talloni contro il pavimento, imprecò
contro le ginocchia che si rifiutavano di rimanere piegate e
afferrò il bordo del materasso, arrossandosi i palmi nel
tentativo di alzarsi e reggersi sulle sue gambe.
Provò una
volta, un’altra, un’altra ancora ma ricadde sempre
sul posto, con i capelli sudati che si attaccavano alle tempie.
“Maledizione.”
Un pugno contro il
femore, poi di nuovo uno schiaffo.
“Maledizione.
Maledizione!”
Neanche fosse una
bambola di pezza scucita in tanti batuffoli di cotone.
Si passò
rabbioso una mano tra i capelli e forzò i muscoli al limite,
sentendo degli strappi al livello di ogni giuntura.
Si morse le labbra e
deglutì sangue, respirò con affanno, stanco, e
quando scivolò a terra rise perché, cercando di
aggrapparsi al comodino, lo aveva trascinato a terra con sé
e gli oggetti lì sopra si erano rotti, in piccole schegge di
vetro riflettenti solo una parte del suo volto.
“Maledizione”, ripeté, e rise con la bocca chiusa, la lingua tra i denti.
Sono
fiero di te, Loki.
Davvero,
Thor? Sei sempre stato fiero di me? Sempre?
Accucciato sul
pavimento, come una bestia, un mostro ferito a morte.
La vita nella
sofferenza, l’unica realtà che aveva conosciuto
meglio di qualsiasi altro derelitto nell’universo.
Nulla di nuovo per il
Principe Bastardo, il mancato Re.
Tutto sempre uguale.
Quanti
secondi esistono nella morte?
Si mosse a tentoni e
si ferì i palmi per sbaglio ma all’ultimo
trattenne un lamento, sentendo dei rumori provenire dal corridoio
adiacente alla sua stanza: un ordine imperioso e delle chiavi girate
nella toppa, ingranaggi scattati in uno schiocco di dita.
Mai,
fratello, mai.
La porta si
aprì e dei passi lo raggiunsero velocemente, il rimbombo
delle scarpe sul pavimento fu come il rintocco di una campana lanciata
contro le pareti di un campanile. Il passo militare di un soldato
tornato dal fronte, di nuovo a casa.
Lui conosceva quei
passi.
Non
ti abbandonerò mai, fratello.
Loki guardò
tra le fughe delle mattonelle e sorrise aspirando la polvere, gli
stivali del Re sotto il suo naso.
Tossì,
trattenendo dei rantoli sottili, e poggiò le rotule a terra,
spostandosi con i gomiti.
“Sono in
ginocchio ai vostri piedi. Altezza.”
Sollevò gli
occhi e non abbassò lo sguardo, nonostante Thor lo
osservasse incredulo.
Non era poi cambiato
molto, no.
Era solo
più stanco, con le occhiaie viola a contornare i suoi tratti
e le rughe vicino agli angoli delle labbra.
“Vostra
Grazia, desidera altro?”
Parlò aspro
e l’amarezza delle sue parole la gustò sotto la
lingua e sul palato, infischiandosene del sapore pungente.
Lo guardò e
non poté trattenersi dal sorridergli più
sfacciatamente.
Oh, l’aveva
promesso.
Ed era suo fratello
quello che manteneva ogni giuramento, a qualsiasi costo, anche
massacrando parti del suo onore e di amor proprio, l’eroe
disposto a morire in nome della parola data.
Lui era lo spergiuro,
il menzognere, l’uomo che faceva promesse solo per non
mantenerne nessuna, con il gusto sadico di vedere la tristezza negli
occhi della persona tradita.
Era la loro natura
ciò che li aveva fatti arrivare a quel punto, fermi
lì a fissarsi.
L’uno in piedi e l’altro steso sul pavimento, a
vedere chi per primo avrebbe abbassato le armi.
“Vostra
Grazia, desidera di più? Per esempio la mia imperitura...
fedeltà?”
E alla fine suo
fratello aveva davvero attraversato l’Inferno pur di salvarlo.
Strisciò
sulle ginocchia e premette di nuovo le mani sui cocci di vetro, la
pelle livida e un pizzicore pungolante sotto le unghie.
Ogni promessa
è un debito da pagare con gocce di sangue, lacrime, sudore
sporco.
Loki schiuse le labbra
per dire qualcosa di dissacrante ma Thor cadde pesantemente dinanzi a
lui e si chinò a stringerlo fra le braccia, piegate intorno
alla sua schiena in una presa ferrea, disperata.
Non
li voleva i suoi abbracci, non se ne faceva niente, ora non servivano
più.
Cercò di
allontanarsi, colpendo le sue spalle e il petto, scostandosi dalle sue
carezze -invadenti, attente.
Con il naso affondato
nella curva del suo collo sentì Thor respirargli
nell’orecchio, a fatica.
Una strana
consapevolezza gli ruppe le costole, gli sciolse la lingua in una
domanda.
“Hai
pianto?”
Trasalì
quando il fratello gli afferrò il mento e lì si
accostò con le labbra, silenzioso.
“Hai
pianto?” ripeté.
Un gelo fin dentro le
sue ossa lo costrinse a poggiare un fianco quasi per terra, scivolando
all’indietro sulle mattonelle a mosaico. Tirò la
sua maglietta e poi anche la pelle e la barba mentre la tensione del
suo corpo vicino gli fece piegare il volto, arrossato per lo sforzo.
“Ho pianto.
Come tutte le altre volte”, gli rispose Thor, a bassa voce.
Una bellissima
disperazione sulle sue labbra.
“Quale
onore” lo schernì, girando il viso verso la
specchiera.
I dolori
più dolci li aveva sempre provati contro il suo petto.
L’equilibrio
perfetto sul ciglio di un abisso infinito, l’essenza del suo
cuore maledetto.
Aveva vissuto
così, ogni momento di ogni giorno di tutta la sua vita.
Il mostro solo e
disperato, cresciuto a pane senza sale e illusioni magnifiche.
Scalciò e
tentò di sgusciare via dal suo tocco, di aggrapparsi al
tessuto del tappeto verde poco distante da lui, di nascondersi
perché era troppo debole.
Aveva poche forze e
nessuna volontà di resistere a lungo, non con quella
sensazione di dite congelate avvolte intorno alla sua nuca.
“Sei solo
stanco e sei confuso.”
“Smettila di
toccarmi!”
Sbatté i
pugni e le ossa scricchiolarono dopo aver colpito il terreno duro
mentre i capelli gli coprivano le guance incavate, rosse nello sforzo
di non balbettare.
“Non
toccarmi e dimmi cosa hai fatto al mio viso. Cosa hai fatto a
me.”
Non
esiste fine al male che sei capace di infliggermi. Puoi solo
continuare, vero?
Thor non si scompose e
rafforzò la presa nell’incavo morbido tra le sue
braccia e il petto, lo aiutò a sollevarsi da terra
nonostante lui continuasse a dimenarsi e a maledirlo.
Si ritrovò
seduto tra le lenzuola arrotolate, le ginocchia scontratesi contro
l’angolo del materasso, i polpacci rigidi e i muscoli esausti.
Loki gli
lanciò contro tutti i cuscini, quei guanciali sgualciti
gettati prima ai piedi del letto, e con rabbia gli fermò i
polsi, affondando le unghie nella pelle calda.
“Come hai
fatto? Questa è l’opera di un disperato e, fidati,
io so riconoscere la disperazione. A chi ti sei venduto?”
Lo guardò
negli occhi e vide che il grande Re lo stava osservando in una maniera
infinitamente triste.
Aveva gli occhi ancora
rossi per il pianto.
“A chi mi
hai venduto?”, insistette, adirato.
Ma suo fratello
continuò a guardarlo e dietro il suo sguardo c’era
qualcos’altro, qualcosa di più pericoloso.
Un mostro lo stava
divorando dall’interno, consumandolo un pezzo alla volta,
lentamente.
Simile a una stella
senza punte, simile a un pensiero abbracciato al suo tallone destro.
Cosa
ti ha ferito più di me?
Thor si
avvicinò, attento a non toccargli il viso, ma dei fili
invisibili li incatenavano, li univano ancora. Come era sempre stato.
Che
cosa mi hai fatto?
“Mi sei
mancato, Loki.”
Con un pollice il Re
sfiorò da lontano la sua guancia e lui si ritrasse, mordendo
le labbra fino a spaccarle.
“Cosa
è successo?”
“Lo rifarei,
lo rifarei mille volte.”
E diceva il vero: lui
non era pentito.
Fu un ennesimo
schiaffo contro un volto già offeso, qualcosa che non si
sarebbe mai aspettato da un uomo tanto buono e giusto.
Un pugnale
più affilato che riapriva ferite di cui erano rimaste solo
cicatrici bianche.
“Vostra
Altezza allora dimostra un desiderio di vendetta mai appagato. Un odio
profondo, un appetito mostruoso.”
Gli lasciò
il polso e un senso di oppressione gli avvolse la testa, inducendolo a
chiudere gli occhi.
Ma vedeva il suo
volto, ancora, anche con le ciglia abbassate.
“Ora dovrei
ringraziarti, dunque? Pretende questo l’etichetta?”
“Devi
calmarti, Loki.”
“Io ero
morto”, sibilò, a denti stretti.
Sentì la
sua mano accarezzargli l’orecchio e lì rimanere,
immersa tra i suoi capelli.
Come una nuova
prigione, un luogo di disperazione da cui sarebbe stato difficile
fuggire.
Il pollice sulla sua
guancia era un piacere sottile di cui non aveva mai dimenticato il
sapore, una morte oscura che aveva ripudiato strappandosi il cuore dal
petto, scavando a mani nude.
Neppure le ceneri
erano rimaste di quel bambino sofferente, non c’era
più niente.
“Te lo
prometto, fratello. Andrà tutto bene.”
Le sue dita, di nuovo,
si spostarono a sfiorare le ossa della sua gola, nel punto esatto in
cui avrebbe dovuto esserci qualcosa di rotto.
Lui manteneva sempre
le promesse.
“Sei un
folle, Thor. Sei un folle.”
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Capitolo 2 *** Cold Symphony ***
Cold Symphony
Note
di introduzione.
Ciao a tutti. Eccoci qui, al secondo capitolo. Io sono basita
perchè non credevo sarei mai riuscita a finirlo e
perchè allo stesso tempo questo capitolo mi ha prosciugato.
Spero la lettura possa essere piacevole nonostante tutto, lo spero con
il cuore il mano. Volevo solo dire che io ho un profondo e totale
rispetto per questi personaggi, in particolar modo per Loki, e che ho
provato con tutte le mie forze a non snaturarli e a dar loro onore e
giustizia. Purtroppo credo di aver miseramente fallito e di questo mi
dispiace, mi dispiace molto. Li lascio a voi, con la speranza che
questa storia vi possa piacere nonostante i suoi innumerevoli difetti.
Un grazie a chi leggerà.
Un immenso grazie e abbraccio a Jill Shitsuji, Victoria Buchanan, Mari
Lace e Miryel, per ascoltare i miei deliri quotidiani e sopportarmi,
supportarmi. Siete delle meraviglie.
Grazie ad un mio amico che ormai è lontano.
And... there is no Loki
without Thor
-Tom Hiddleston
If I told you what I was,
Would you turn your back
on me?
And If I seem dangerous,
Would you be scared?
I get the feeling just
because,
Everything I touch isn't
dark enough
If this problem lies in
me
Monster, Imagine Dragons
Esistono delle realtà, verità sottili e
sussurrate alle orecchie degli uomini, capaci di spezzare la vita con
dolcezza, lentamente.
Con amore.
Si narrano piano, per non turbare l’innocenza degli infanti,
e si rivelano con un sorriso, per rendere dolce anche la morte.
Lui, a raccontare storie, non era mai stato bravo, come non era mai
stato abile a capire quando qualcosa iniziava e quando finiva, dove
trovare i limiti dei punti e dei silenzi.
Una parola avrebbe potuto riassumere la crepa della sua vita, il nodo
sciolto che aveva fatto cadere le linee di un gioco secolare.
Ghiaccio.
Ghiaccio tra le sue mani e nel suo cuore.
Spine di acqua solidificata in grado di viaggiare nelle sue vene e di
tagliare i suoi nervi.
Il gelo era semplice nella sua crudeltà, era un fenomeno
naturale efficiente a spaccare i vasi capillari di un essere vivente e
a lasciare segni evidenti del suo passaggio, come macchie blu e viola,
larghe e disomogenee.
Segni premonitori di morte.
Arterie ristrette, alta pressione e sangue viscoso erano un
deterioramento, uno sfaldarsi un pezzo di pelle alla volta.
Non era necessario studiare i suoi effetti e i suoi traumi
consequenziali su un volume medico o su un’enciclopedia
tecnica, non ad Asgard, perché bastava cercare un banale
libro di favole antiche da cantare e narrare ai bambini.
Lo sapevano tutti i padri e le madri, lo avevano imparato da piccoli
grazie ai loro genitori, e conoscevano l’importanza di
raccontare ai loro figli, come favola della buonanotte, la cattiveria e
la mostruosità dei Giganti di Ghiaccio.
I mostri crudeli che rapiscono i neonati, li mangiano, gli abomini
della natura capaci di massacrare intere specie, i mostri rei di aver
tentato di vincere contro il nobile popolo asgardiano.
I Giganti di Ghiaccio non erano anime buone e nessuno poteva illudersi
del contrario, nessuno avrebbe mai contradetto le favole lette dalla
propria amorevole madre, a voce bassa e con passione.
A letto, al caldo, sotto le coperte, al sicuro, ad ascoltare gli
orribili crimini di una stirpe maledetta, fredda e senza cuore.
Lui lo sapeva meglio di chiunque altro.
Da uccidere tutti, una carneficina e un orrore di urla, pianti e
preghiere. Un’intera specie da estirpare, sangue eterno tra i
palmi e i capelli, negli occhi e sui vestiti.
Morte ai Giganti di
Ghiacci, stirpe corrotta, e lunga vita ad Asgard.
E vissero tutti felici e
contenti.
Loki sollevò le palpebre e si costrinse a non mostrare alcun
segno di debolezza, a non distruggere la stanza e a non fare altro se
non osservare l’immagine che lo specchio gli restituiva,
respirando piano e mantenendo un atteggiamento algido e distaccato.
Il suo viso era diviso.
Non in una perfetta metà, non in maniera simmetrica. Era
piuttosto una maschera di cui si erano persi dei pezzi.
Nessuna illusione, nessuna finzione: lui era davvero così
orribile.
Il lato destro era il volto di sempre, l’aspetto che aveva
scelto di continuare ad indossare, la pelle bianca e i tratti di un
nobile asgardiano.
Una piccola bugia, un inganno a cui anche lui aveva voluto soccombere,
spinto dall’abitudine e da un mai irrisolto desiderio di
appartenenza.
Il lato sinistro, invece, era ciò che aveva celato al mondo
e ai suoi ricordi, ai suoi incubi notturni.
Il Gigante di Ghiaccio, il neonato piangente in un Tempio.
Poche volte, -mai-,
si era osservato allo specchio con il suo reale aspetto.
Aveva preferito rinnegare, celare l’abominio non rivelato,
non detto spontaneamente.
La sua guancia sinistra era blu e attraversata da delle linee bianche,
l’occhio sinistro era rosso e gli conferiva un’aria
spaventosa, obbrobriosa.
Un mostro.
“Dovrebbe alzare il mento e dirmi-“
“Deve subito andarsene da questa stanza o giuro di ucciderla,
non importa come. Dovessi impiegarci cento anni, lo farò
comunque.”
Distolse l’attenzione dallo specchio posto dinanzi a
sé e riservò il suo disgusto
all’ingombrante figura del Guaritore che si trovava in piedi,
vicino alla sua sedia.
Era stato convocato personalmente dal Re ed era accorso in piena notte
nella grande stanza dorata, in maniera efficiente e servile, quasi
stucchevole.
Aveva domandato, con un inchino, come poteva servire il suo
Signore, come poteva aiutare.
Vecchio, grasso, tedioso come una vipera in seno: l’immagine
perfetta di un cortigiano, pronto a tutto pur di scalare i ripidi
gradini delle classi sociali.
Aveva reso un supplizio le ore successive, con i suoi quesiti e il suo
annuire e il pensare e ripensare, indovinare, il suo credere di sapere
e poi no, ogni cosa da riconsiderare.
Perché forse era meglio fare così, forse era
meglio non muoversi, forse era meglio sforzarsi, forse, forse, forse.
Forse era meglio rimanere morto.
Tante parole vomitate e nessuna spiegazione, tante supposizioni
fantasiose e nessuna certezza a cui rifarsi.
Ora era quasi mezzogiorno e la lunga tortura non pareva voler giungere
al termine, proseguiva senza interruzioni sotto l’attento
sguardo di Thor.
“Vorrei solo accertarmi dello stato della sua salute,
Signore. È importante.”
Loki strinse con forza le mani intorno al bordo del legno e gli
indirizzò un’altra occhiata velenosa, una smorfia
di rabbia esasperata dal suo nuovo volto.
Un piccolo effetto
collaterale.
“Riprenderà a camminare prestissimo,
basterà solo esercitarsi” continuò,
stoico, quell’omuncolo insignificante, futuro pasto di
formiche e insetti sporchi.
Bile di esasperazione grattò la sua gola e un fastidioso
senso di impotenza artigliò le sue costole fino a sfondarle.
“Lei desidera ardentemente essere trucidato. Un Guaritore
masochista non l’avevo mai incontrato, di solito sono
sadici.”
Delle mani posate pesantemente sulle sue spalle lo bloccarono, lo
fecero così velocemente da non lasciargli neppure il tempo
di iniziare a pensare a tutti i modi in cui poter torturare quel
patetico medico.
Adesso ti ricordi di
intervenire? Mi onori troppo.
Suo fratello doveva essersi allontanato dalla finestra su cui ore prima
si era appoggiato, la schiena curva e le braccia conserte ad osservare
in silenzio quel teatrino grottesco, e ora aveva deciso di trattenerlo
dal compiere un omicidio.
Sempre molto premuroso, con
gli altri.
“La ringraziamo per i suoi servigi. Mio fratello adesso
è stanco, ha bisogno di riposare.”
Lui tentò di sgusciare via e Thor strinse più
forte le sue spalle, schiarendosi la voce con un colpo di tosse.
Sempre molto gentile, con
gli altri.
Un insistente pungere di lame gli colpì la nuca, a
tradimento, e consumò la sua scarsa pazienza e diplomazia.
Cosa credi? Pensi io sia
diverso, che la morte mi abbia cambiato?
“Non parlare per me” sibilò, lentamente.
Parlare con me
è più difficile. Giusto?
Chiedere a me, guardare
me.
Per te è
troppo difficile.
“Le siamo infinitamente grati” proseguì
suo fratello, sordo alle sue parole, e allentando piano la presa vicino
al suo collo.
Sordo anche ai suoi pensieri, cieco dinanzi a qualsiasi
verità, così avvolto nel suo vestito di fede e
ideali, -buoni, giusti, magnifici e splendenti-, da non immaginare
quanto male potesse infliggere con la sua caritatevole compassione.
Sempre molto, molto
stupido.
Dovrei provare
gratitudine? È il tuo prezzo?
Riprenditi i tuoi grandi
propositi e cuciti un mantello con cui strozzarti. Ti dispiace,
fratello?
“Andatevene entrambi. Adesso.”
Loki non si mosse dalla sua scomoda sedia e nel riflesso dello specchio
vide Thor annuire, sorridere al Guaritore e poi, con un semplice cenno,
congedarlo dalle stanze reali.
Il tratto nobile e regale di ordinare con semplici movimenti, in
silenzio, era qualcosa che non gli era mai appartenuto.
Aveva sempre dovuto urlare per farsi notare, fare rumore per essere
ascoltato.
Dopo un’intera vita di bugie stese e confuse nel silenzio,
nelle omissioni quotidiane, aveva capito di aver bisogno di urla e
chiasso, di qualcosa capace di riempire la sua esistenza crollata a
pezzi quando gli anni del passato si erano rivelati per quello che
erano.
Semplice, stupida, normalissima polvere.
Quindi, adesso basta.
Che fuggissero da lui, corressero lontani, sparissero in mille
coriandoli di cenere.
Voleva riflettere da solo.
Era stanco, esausto di condividere la sua aria con altre persone, che
se ne andassero via tutti, basta, -per grazia e carità,
basta-, lui aveva tollerato la presenza altrui per troppo tempo, troppe
ore di niente.
Solo, aveva bisogno di rimanere da solo e del buio, non di quel cielo
tanto azzurro.
Odiava le ore del mattino, le ore di Sole, odiava l’oro
luminoso intorno a loro.
Odiava ogni cosa capace di ricordargli il passato.
Dovrei provare amore?
Dovrei davvero, Thor?
Eppure credevo di essere
io, tra noi due, l’illuso.
Con le dita si toccò la gola e si massaggiò il
collo, seguendo lentamente il percorso delle ossa fino al mento, e da
lì proseguì a sfiorarsi le labbra, distratto.
Le tende erano state tirate e la luce filtrava appesantita dalla
polvere del vetro delle finestre, illuminava la camera con pozze di
chiari raggi sul pavimento e con una striscia stesa lungo il muro
frontale al letto.
Durante la notte appena trascorsa non aveva notato gli affreschi sulle
pareti, le immagini di fiori e piante rigogliose, di alti alberi con le
foglie dorate e i nomi dei soldati scritti su ognuna di esse con
inchiostro rosso e sbavature di nero.
Tutta la stanza era istoriata, le figure dipinte parevano rincorrersi,
le une vicino alle altre, ammassate in quadrati e cerchi aperti, in un
grande ovale intrecciato alle linee spesse e doppie, bordate con nuove
decorazioni floreali.
Un racconto di morti splendenti e sacrifici eroici, una storia a cui
non aveva potuto prestare attenzione perché, fino a poche
ore prima, il nero della notte appena trascorsa, come una cappa
asfissiante, l’aveva coperta fino agli angoli.
Ma ora il Sole era alto nel cielo e, per un momento, questo pensiero
indurì i suoi lineamenti, rendendo inguardabile il lato
sinistro del suo viso, mentre una strana nostalgia gli fece socchiudere
gli occhi.
Si accorse tardi che il grande Re non si era allontanato dallo
schienale della sua sedia, anche se il vecchio incapace e viscido
aveva già imboccato la strada verso l’immensa
porta di legno scuro.
Sì.
Suo fratello era capace di essere molto, molto stupido.
Uno stupido sentimentale.
“Anche tu devi andare via.”
Stese le braccia sul tavolo, tormentandosi i palmi delle mani.
“Loki-“
“Vattene.”
Spostò indietro la sedia e si voltò verso il
letto, considerando come poterlo raggiungere senza dover strisciare su
mattonelle e tappeti.
Non voleva nessuno, voleva essere
solo.
Il suo corpo si ribellava e il suo animo era assediato da sensazioni
ambigue, da pensieri folli e idee che solo la mente di un povero pazzo
poteva concepire e mormorare in punto di morte.
E lui?
Quanto tempo lui aveva dormito tra quelle coltri, in bilico tra la
morte e la vita? Da quanto tempo lui esisteva?
Quando si esisteva?
Portò una mano al colletto dell’abito e ci
giocherellò, gli occhi chiusi e il respiro affannato.
C’era rabbia nelle sue vene, serpeggiava lenta mangiando se
stessa, piena di risentimento e disperazione, bianca e limpida, quasi
fosse lo stesso rancore di anni prima.
Lui si sentiva perso, di nuovo.
“Vuoi sederti sul letto?”
“Cosa devo fare per farti lasciare questa stanza? Cosa devo
fare di più?”
Lo guardò e nel sorridere vide se stesso da fuori, si vide
chiaramente, con le linee bianche ingrossate sulla guancia sinistra e
l’occhio quasi senza pupilla.
Il mostro delle favole.
“Devo ripetertelo ancora? Pregarlo o scongiurarlo? Se urlassi
e chiamassi le guardie loro accorerebbero oppure hanno ricevuto
l’ordine di obbedire solo a te?”
Si alzò, a fatica, e si aggrappò al mobile
più vicino trattenendo un sospiro tra i denti, la lingua
contro il palato in uno schiocco secco.
“Vattene, Thor. Vattene via.”
Lasciami riposare in
pace, in eterno.
Lasciami rinchiuso in
questa torre d’avorio.
“Ti comporti sempre come un bambino capriccioso.”
Non poteva inciampare e non doveva cadere, non adesso.
Loki sollevò lo sguardo da terra e tese le labbra in un
sorriso più aperto, più brutto.
Una smorfia di compiacimento, il ghigno di chi ha sempre avuto
l’ultima parola in ogni litigio, perché capace di
pronunciare frasi crudelmente precise.
Tra le poche cose in cui si era sempre dimostrato eccelso, ma che
grande onore, c’era l’arte della parola e la
certezza di saper fare del male in ogni scontro verbale, di poter
vincere con un solo e letale affondo.
Durante le gare, le giostre e le battaglie del passato aveva potuto
dimenticare pugnali o altre armi ma mai, sarebbe stato impossibile,
aveva perso il cuore freddo e assassino.
Qualsiasi cosa pur di fare del male e di farsi del male,
perché nel suo masochismo glorioso era sempre stato
maniacale.
Un’incomprensibile malessere gli graffiò la gola e
lui sbatté le palpebre e strinse la cassettiera su cui si
era posato prima, non cedendo di un passo.
“E tu rimani uno zotico anche se indossi gli abiti di un
Re”, disse, e non cadde in ginocchio nonostante il dolore
alle ossa.
E non cadde in ginocchio nonostante la sensazione, pura e magnifica,
della punta della lama scivolata a fondo tra le vertebre.
Non cadde in ginocchio, non si gettò implorante ai suoi
piedi, anche se lo tormentava l’assurdo desiderio di
chiedergli scusa, -scusa,
mi dispiace, perdono-,
perché era arrabbiato e voleva fare del male e lo faceva
sempre a lui.
Prima o poi te ne
andrai, dovrai andartene. C’è un limite al male
che si può fare sempre alla stessa persona e noi lo abbiamo
superato da molto tempo.
Ma lui non piegò le ginocchia e non fece altro, se non
ridere a denti stretti.
“È appagante essere Re? Perché mi
sembra tu sia distrutto. Oserei dire infelice.”
Thor lo raggiunse in due falcate e gli strinse le guance con il pollice
e l’indice, alzandogli il viso.
Allora lui rise ancora, piegando la bocca in una smorfia di finto
rispetto e stupore.
Suo fratello gli fece male ma non si lamentò, non
uscì un sospiro da lui, neppure quando un bruciore
insistente gli pizzicò tutta la base della schiena e lo
costrinse a rafforzare ancora di più la presa della mano
sulla cassettiera.
“Noto che anche le tue rudi maniere da contadino sono rimaste
le stesse, Thor.”
Respirò rumorosamente e digrignò i denti, con il
volto imprigionato dalle sue dita calde e ricoperte di cicatrici.
E nel tuo sguardo cosa
c’è? Cosa c’è ancora, cosa
vuoi?
“Non mi sembra vero che tu sia qui. Ho paura sia un altro
sogno.”
Thor aveva parlato a voce bassa senza lasciarlo andare, gli occhi
attenti a scrutarlo. Allora Loki strinse a pugno il palmo
dell’altra mano e batté le nocche contro il suo
petto, nel tentativo di allontanarlo.
Vattene, vattene.
“Per questo mi tocchi così tanto, Thor? Non
è abbastanza?”
Sparisci.
“Sei reale. Non mi sembra ancora possibile.”
Ma suo fratello ancora non lo ascoltava e continuava a parlare
lentamente, rivolgendosi solo a se stesso in un mormorio sottile.
Colpì un’altra volta il suo sterno protetto dal
completo rosso e poi si fermò, come se avesse inflitto quei
colpi a se stesso e i suoi polmoni si fossero raggomitolati e
accartocciati tra le sbarre delle costole.
Non si impara mai a cadere.
Il palmo della mano con cui lo aveva colpito era diventato blu e ora la
pelle bianca cercava di riaffiorare.
Lui non imparava mai.
“Cosa ti aspettavi? Cosa credevi di ottenere con questo?
È una follia peggiore della mia”, lo
accusò, mostrandogli il braccio.
Non ottenne risposta e dunque, adirato, gli afferrò il polso
cercando di liberarsi le guance. Non serrò le palpebre e
continuò a fissarlo, ancora in piedi e accasciato contro il
mobile e il muro, senza cadere al suo cospetto.
Thor non perdeva la presa sul suo viso, lo stringeva come se volesse
lasciargli dei lividi e l’impronta delle dita.
Cosa
c’è nel tuo sguardo affranto adesso? Delusione?
“Loki, vorrei solo aiutarti.”
Speranza?
“Ma io non ho bisogno di te”, gli
sussurrò in risposta, contro la pelle del palmo e contro le
vene scure.
Lasciò la sua mano e lo osservò, per godersi il
colore nero delle sue pupille restringersi sempre di più e
il chiaro azzurro dei suoi occhi spegnersi nello stesso modo in cui lo
fanno le giovani stelle morenti.
Il suo cuore non perse un battito, continuò imperterrito.
Lui non provò nulla.
“Sai sempre dove fa male. Lo sai con una precisione
spaventosa.”
Quando Thor gli lasciò il volto, velocemente e senza
rendersene conto, con il pollice gli tracciò il profilo del
mento e gli sfiorò le labbra.
Certe cose, lui, non aveva mai smesso di notarle.
Lo vide fare due passi indietro e portarsi una mano davanti agli occhi
stanchi, altri due passi e un sospiro lungo e affaticato, ancora di un
passo lontano e ora entrambe le braccia abbandonate lungo i fianchi.
Thor si ritrovò perfettamente colpito da un raggio dorato,
immerso in una pozzanghera di luce al centro della stanza, vicino allo
specchio che rifletteva ovunque la sua immagine e sotto le
raffigurazioni a mosaico delle guerre compiute. Sembrava bruciare tra i
mobili, i tappeti e gli arazzi, sembrava una stella tra lingue di fuoco.
Ma guarda, guarda un
po’, come il Sole illumina questa stanza. Lo vedi?
“Sapevo che avrei dovuto pagare a caro prezzo il mio
desiderio e che avrei dovuto convivere con il tuo odio. Ma non importa,
va bene così. L’alternativa era
peggiore.”
Thor si bloccò e lo scrutò, bloccato al centro
della stanza, fermo ad una distanza incalcolabile, come se qualcuno
avesse creato una voragine tra i loro piedi e le loro intenzioni.
Quel vuoto, indistinguibile a occhio nudo, lo aveva realizzato lui stesso
grazie all’indifferenza di chi lo aveva sempre circondato, lo
aveva scavato con una furia cieca, con epitaffi ripetuti
in maniera cantilenante.
Il legittimo erede al Trono.
Il magnifico figlio di Odino.
Il prediletto, l’amato, il Principe dorato.
Quale spreco concedere tutto ad una sola persona, incartare doni
preziosi e consegnarli ad un arrogante, sconsiderato, imprudente uomo.
Si era dato tutto a chi non meritava niente.
Non si era dato niente a chi meritava tutto.
“Loki. Io voglio davvero aiutarti.”
La voce di Thor lo risvegliò dai suoi pensieri e gli
ghiacciò l’anima mentre le schegge del mobile gli
tagliuzzavano la pelle della mano e le gambe, pesanti e rigide, gli
dolevano.
Una fredda carezza di ghiaccio gli fece alzare il braccio e puntare il
dito verso la porta.
Un gesto dignitoso compiuto seguendo una volontà implacabile.
La sua carne tremò e delle gocce di sudore colarono sulle
sue ciglia, offuscandogli la vista, le ossa stridettero tra loro e il
cuore rimbombò nelle sue orecchie come un tamburo.
E la sua mano... la sua mano era blu.
Vedere quel colore gli provocò un dolore inimmaginabile.
“Allora vattene. Vattene via, allontanati da qui. Sparisci
per sempre dalla mia vista e non parlarmi più, mai
più. Pensami morto, credimi morto, e vattene via, vattene
via da questa stanza. Liberami da te, dalla tua presenza e dalle tue
parole. Separa definitivamente le nostre vite!”
La camera era completamente illuminata e lui non si era neppure accorto, non
fino a quel momento, di occupare uno dei pochi angoli rimasti in ombra.
Era stato un caso ritrovarsi lì, cadere di nuovo proprio
nell’ombra lasciata dalla figura di suo fratello, era stato
naturale.
Perché ognuno ritorna sempre al luogo a cui appartiene.
Quindi, alla fine, io...
cosa dovrei provare?
“Considerami morto e sepolto, Thor. Io sono morto.”
*******
Odiava il tempo, il
tempo odiava lui.
Non esisteva alcuna
altra possibile spiegazione.
“Il Re chiede-“
“Andatevene.”
Il rumore sordo del
legno contro le ginocchia lo stava imparando cadendo, momento dopo
momento.
È tutto nelle
ossa e nella carne.
Si può
imparare, un pezzo alla volta.
Ma il tempo continuava a
tormentarlo.
“Il Re chiede-“
“Sparite.”
Poteva imparare a
convivere con la paura, ma non a lasciarla andare.
Ricominciava a sentire,
riconosceva se stesso, solo rimanendo fermo sull’orlo di un
abisso.
I mostri nascono sempre
da altri mostri.
E il tempo lo
imprigionava.
“Il Re supplica-“
“No.”
Era un folle oppure
davvero tutti i giorni erano identici?
Scorrevano uguali, si
snocciolavano l’uno dopo l’altro, con lentezza, e
le giornate fluivano placide.
Lui si annoiava,
terribilmente.
“Il Re prega-“
“Lasciatemi solo.”
L’alba non
arrivava mai troppo presto.
*******
Nuova Asgard.
Quanta banalità e poca invettiva, quanta ipocrisia.
Persino uno zotico ignorante avrebbe potuto fare di meglio.
Persino un analfabeta sarebbe stato in grado di scegliere un nome
più rappresentativo, pieno di gloria, ricco di significato,
bello e incastonato nella mente di chiunque.
Un nome splendente, capace di brillare oltre la loro chiusa cerchia,
oltre il semplice spettro dei Nove Regni.
Ma suo fratello no, invece.
A lui mancava una visione di insieme più ampia, non
possedeva il concetto stesso di regnare né alcun desiderio
di elevarsi, di vera iniziativa. Peccava di falsa presunzione, di
orgoglio.
Non riusciva a immaginare nulla di magnificamente incomparabile e
potente, neanche un nome da cui Asgard avrebbe dovuto raccattare le sue
ceneri e crescere, progredire, irrobustirsi in un perfetto dorato
Impero.
Thor aveva sempre avuto il cuore di un Re, non la mente.
Gli era scomodo il trono, era infelice tra gli obblighi reali nello
stesso modo in cui ogni comandante si illude di poter vivere in pace e
non in guerra.
Eppure... il popolo lo amava. Il popolo amava Thor, sinceramente.
Loki si sedette e sbatté la fronte contro il vetro della
finestra, ricominciando a guardare le formiche di uomini che
passeggiavano nei giardini, sull’erba curata che si poteva
osservare dalla vetrata della sua camera.
Posò una mano vicino al viso e piegò le dita come
a voler stringere qualcosa di lontano, un riflesso inconscio di cui si
accorse appena.
Dei soldati si allenavano, dame passeggiavano, sguattere camminavano
raso raso ai muri più nascosti e bui, uomini di corte si
inchinavano dinanzi alle donne nubili che intendevano corteggiare.
Thor discuteva con un manipolo di uomini in toga rossa, con il volto
rivolto verso il basso e la fronte aggrottata, incedendo lento e senza
gesticolare.
Ecco la corte di Nuova Asgard, in un parco curato del grande palazzo,
in un’imprecisata ora pomeridiana, ecco il centro del nuovo infinito
potere, lì, proprio dinanzi ai suoi occhi.
E lui, invece?
Lui era in una stanza con ciotole piene di bacche rosse e mensole
ricolme di libri.
Gli ricordava l’immagine sbiadita della sua vita in prigione,
nei sotterranei, e così riusciva a rivedere se stesso, isolato dal resto del
mondo e rinchiuso in una gabbia con le grate belle e preziose, un gioco
per gli occhi.
Grate letali se solo uno avesse avuto l’ardire di
avvicinarsi.
Fece una smorfia e graffiò il vetro con le unghie, in
maniera distratta.
Le lame dei raggi di Sole gli rilassarono i tratti del volto fino a
quando non intravide, nel vetro limpido, il suo riflesso distrutto,
ancora diviso a metà.
La pelle della sua guancia sinistra era ruvida come petali di rosa
viola incastrati in grossi granelli di sale, il blu rimaneva vivido e
le linee bianche ben tracciate.
Il suo viso era sfregiato e la verità rivelata
perché lui non possedeva più la forza necessaria
a mascherare la sua natura.
Perdeva la ragione alla vista di quelle macchie di un blu innaturale,
imperituro ricordo e marchio della sua stirpe, maledetta da intere
generazioni e da innocenti morti urlando, affogati nel loro stesso
sangue.
Morte ai Giganti di
Ghiaccio.
Morte ai Giganti di
Ghiaccio.
Morte ai Giganti di
Ghiaccio.
Che lui fosse sempre stato un mostro, sia fuori che dentro, lo sapeva
da tempo e non si era mai fatto illusioni al riguardo.
Ma ora... non aveva il controllo.
La sua magia c’era ancora, la sentiva crepitare tra i
polpastrelli e le vene del dorso delle mani, ma non era abbastanza, non
era come prima.
Esisteva, leggera e sottile, quasi fosse una melodia di corde pizzicate
dal vento.
Sembrava irraggiungibile.
Le unghie contro il vetro fecero un rumore spiacevole nello stesso
istante in cui gli parve di vedere Thor schiudere le labbra in una
risata aperta.
Chiuse la mano e la lasciò scivolare al suo fianco. Le sue
dita erano pallide e fin troppo bianche.
Si sporse leggermente e afferrò una ciotola di bacche rosse,
agguantandone una manciata e portandosene due alla bocca. Le assaporava
con calma e si sporcava le labbra, così un sapore dolce gli
invadeva il palato e poi, un piccolo morso alla volta, un gusto
amarognolo strisciava ai lati della sua lingua e scendeva
giù per la gola.
La prigionia aveva lo stesso sapore, odore e consistenza di una bacca
estiva, lo stesso agrodolce piacevole dolore.
Mangiò un’altra bacca e un’altra e
un’altra ancora, fino a quando non rovesciò la
tazza e non la sbatté contro la panchina imbottita su cui
era seduto.
La magia era sua e neppure la morte poteva strappargliela dalle vene.
Prese tra le dita una bacca e un pezzo di ceramica, li
osservò e se li rigirò, ispirando a denti stretti
e concentrandosi su tutte le altre bacche e i pezzi di ceramica sparsi
intorno a lui, e poi spostò di nuovo lo sguardo su quelli
che erano posati sulla sua mano.
Sorrise di sbieco e sentì quei due oggetti bruciargli il
palmo, pizzicandolo come leggeri spilli legati tra di loro.
Cosa dovrei provare?
Lasciò cadere la bacca e strofinò sulle labbra il
pezzo di ceramica, mangiando e masticando il frutto che ora aveva delle
sembianze diverse, modificate, ingannevoli.
In quel momento toccare le bacche rosse avrebbe significato tagliarsi e
macchiarsi con il proprio sangue.
Un’agrodolce conquista.
Si voltò verso la finestra e si rese conto che, tra la
schiera dei cortigiani, mancava un uomo in toga rossa, uno dei tanti
sempre al seguito di suo fratello, costantemente tra i piedi e pronto a
voler esaudire qualsiasi richiesta del proprio Re.
Lui sapeva cosa stava per accadere, di nuovo.
Socchiuse le palpebre e vagò ad osservare le alte guglie del
palazzo e il paesaggio, i colori ambrati stesi sul chiaro cielo azzurro
e il Sole inginocchiato verso la linea dell’orizzonte.
Nel fango lui ci era
sempre vissuto e il Sole non era mai riuscito a raggiungerlo.
Fu un pensiero improvviso che lo costrinse a posare la mano vicino al
viso e a respirare grave, appannando il vetro.
Era tutto troppo uguale al passato.
Cosa dovrei provare,
adesso? Non questa arrendevole apatia, questa insoddisfazione costante.
Cosa dovrei provare?
Gratitudine?
Le porte si aprirono e lui se ne accorse a causa degli spifferi
d’aria e delle altre strisce di luce gettate sul pavimento.
Neppure si diede la pena di guardare chi fosse, lo sapeva
già.
Quel cortigiano doveva aver imparato a sopportare ogni cosa pur di
ottenere più potere e considerazione, tanto da essere
disposto a ripetere una tale quotidiana pantomima solo per non negare
alcun favore al Re di Nuova Asgard.
Sapeva già anche lui cosa sarebbe accaduto, la stessa scena che
si ripeteva ogni giorno.
Presto il messo sarebbe ritornato nell’immenso parco al di
sotto della sua vetrata, tra gli alti funzionari in toga, e avrebbe
bisbigliato due frasi veloci all’orecchio di Thor, rimanendo
poi lì, al suo fianco, sempre pronto a correre attraverso i
passaggi pietrosi dell’intero palazzo, anche a costo di
consumare le suole delle proprie scarpe.
“La mia risposta non cambia. Potete andarvene.”
Thor sedeva su una panca di marmo, ancora in quel giardino, e
continuava a conversare attorniato dai suoi fedeli soldati, dai sudditi
e dalle nobildonne che si erano alla fine avvicinate, vincendo ogni falsa
ritrosia.
Ognuno pareva muoversi in base alle sue mosse, alla sua postura, ai
suoi gesti scattanti, come se fossero dei semplici satelliti.
“Il Re mi ha ordinato di riferivi nuovamente la sua
richiesta, la stessa che vi porge da più di un mese. Chiede
se può visitare le vostre stanze, se potete gradire la sua
compagnia e le sue parole. Un vostro semplice cenno, il vostro
permesso, chiede solo questo.”
Loki non distolse lo sguardo dall’esterno e
picchiettò un dito contro la finestra.
Due soldati si stavano inchinando al cospetto di due dame e un uomo
anziano claudicava verso la panchina di marmo più vicina,
con un libro sotto braccio e l’orecchio già
rivolto all’aneddoto che Thor stava narrando alla sua cerchia
di cortigiani.
“Il Re afferma di essere tremendamente rammaricato. Vorrebbe
essere certo del miglioramento del vostro stato di salute. Chiede di
potervi incontrare, anche solo per pochi minuti.”
Suo fratello finì di raccontare e tutti risero insieme a
lui, le mani dinanzi alla bocca e gli zigomi alti, le guance rosse.
Rammaricato.
Sì, era davvero rammaricato.
Si vedeva chiaramente.
Immagino il peso e il
tormento della tua vita, il dolore che provi, il malessere che offusca
ogni tua possibile serenità, pace.
Ti immagino
così, Thor, ti immagino rammaricato.
Io sono tornato in vita,
per un tuo capriccio, e non sono soddisfatto.
Ma tu lo sai, vero?
Perché io, soddisfatto, non lo sono mai stato, è
contro la mia natura.
Quindi, dimmi, cosa
dovrei provare?
Sono in catene, come le
belve, in catene, come i mostri.
“Riferisci al tuo Re che io sono morto. Riferisci al tuo Re
che i morti non devono essere disturbati”, disse, senza
scomporsi.
È
interessante.
Tu non sei stanco. Tu
non rinunci mai a donarmi nuove occasioni, nuovi modi, per ferirti.
Eppure lo sai, lo sai
bene, che sono in grado di farmi del male, di morire, pur di fare del
male a te.
In cosa speri? In cosa
riponi la tua fiducia? Dove è la tua fede?
È una idea,
Thor, è un’ombra, un fantasma.
Non esiste alcun legame
tra di noi, non c’è mai stato, non
c’è più.
Tu non sei mio fratello.
Quindi rinuncia, lascia
andare il passato che mai potrà tornare.
Lascia andare, Thor,
lascia che finisca.
Non ho mai capito cosa
fosse la soddisfazione e, nonostante tutto, non la troverò
in te.
Il solo guardarti mi fa
male agli occhi.
Respirare la tua stessa
aria mi provoca nausea.
Ricordare la tua voce mi
spezza le costole e strappa via i polmoni.
Io non ti voglio vicino.
Lo vedi, mio Re, dove ti
hanno portato i tuoi buoni sentimenti e la tua gentile
pietà?
Dimmi, Altezza, tu ora
riesci a vedermi?
Puoi sostenere la mia
vista o volgerai il capo dall’altra parte?
Il tuo furore
è inutile così come vane sono state le mie urla.
Lo sai, vero? I bambini
piangono per attirare l’attenzione mentre gli adulti gridano
frasi taglienti.
E poi ci sei tu, con il
tuo cuore caldo.
Tu, proprio tu, che sei
riuscito a diventare un mostro, persino più terribile di me,
e lo hai fatto in silenzio.
La bellezza lancinante
del tuo sacrificio è una ferita aperta su cui ti piace
scavare agitato, a fondo, con le punte delle dita, senza curarti della
disperazione di nessuno.
Ti ricordi cosa ti
piaceva sempre fare, da bambino, dopo avermi salvato da un danno che io
avevo creato da solo?
Oh, alla fine rimani
sempre lo stolto Thor che non si accorge di quanto qualcuno brami il
suo sguardo.
Sentì la porta chiudersi alle sue spalle e si
sistemò più distante dalla finestra, aspettando
paziente di godersi la solita scena.
Da lì poté vedere, che splendida e incantevole
visione, l’uomo con l’abito rosso rifare il suo
ingresso nel rigoglioso giardino e accostarsi al Re, riportando poche e
concise parole, forse appena sussurrate.
Te lo ricordi?
Appena Thor sollevò il capo verso la sua finestra, un
movimento spontaneo che lo tradì, lui percepì
degli spilloni conficcarsi nelle pupille, a eterno monito della sua
follia.
Te lo ricordi?
Suo fratello si alzò dalla panchina, di slancio, e si mosse
incurante degli altri, poche falcate, fino a fermarsi
all’improvviso con il mento verso l’alto e i pugni
talmente stretti da irrigidire le braccia.
Mi toccavi sempre il
collo.
Loki si allontanò dalla vetrata, girò su se
stesso e gli diede le spalle raggiungendo l’altro lato della
stanza.
Continuò a sentire il suo sguardo sulla pelle anche quando
sfiorò la porta, domandandosi come e dove scappare.
Del legno e poche guardie sparse in quell’ala del palazzo non
sarebbero riusciti a fermarlo, almeno di quello era certo.
Gli serviva soltanto un’illusione.
Quindi mi hai salvato
per questo?
Perché hanno
rotto il collo che tanto amavi?
*******
Si poteva sentire un canto, all’alba, una melodia bassa di un’eco di note scordate, suonate nel momento esatto in cui le ombre
assumevano dei contorni chiari.
C’era sempre, poco prima del sorgere del Sole, quel lamento
dolcemente straziante che filtrava tra le fessure delle torri
più alte e che poi rimbombava sopra ogni soffitto, cadendo
pesantemente sui pavimenti e disperdendosi tra le fughe delle
piastrelle.
Il vento strisciava negli spiragli e assumeva un suono differente,
più musicale, e lui rimaneva fermo, ogni volta, ad ascoltare
quella litania che pareva mormorare una profezia.
Poi tutto si interrompeva, all’improvviso, e lasciava ciascun
animo insoddisfatto.
Quella sinfonia doveva esistere a causa di un errore di costruzione.
Sì, un errore di costruzione.
Certe cose, anche se belle, rimanevano comunque un errore.
*******
Vagava da ore, da una sala all’altra, macinando infinite
distanze e percorrendo cunicoli stretti e claustrofobici, le cui pareti
tendevano a incurvarsi su loro stesse.
Aveva scovato camere non curate, prive di decorazioni e avvolte da
grigio pulviscolo e aveva esplorato biblioteche, salotti e banchetti,
alla ricerca di passaggi segreti e corridoi nascosti
nell’incastro di pietre e librerie.
Si era aggirato come uno spettro silenzioso, rimirando tutto e non
sfiorando nulla, e si era confuso nel buio della notte tra le ombre
oblique degli oggetti dimenticati su tavoli o scaffali.
Aveva camminato, seguendo l’istinto addomesticato da un
attento ragionamento, e anche adesso si accaniva contro le sue gambe
che supplicavano pietà e gli chiedevano la grazia di poter
riposare.
Ma lui non si fermava e proseguiva un passo dopo l’altro a
ritmo sostenuto, sforzando i suoi muscoli ad ubbidire solo al suo
volere, a tendersi e piegarsi secondo il desiderio della sua indole
caparbia.
Bastava solo
esercitarsi, giusto?
Bastava solo sforzarsi
fino a far sanguinare le giunture, non era così?
Troppo tardi si rese conto di essere ritornato nella zona attigua ai
suoi appartamenti, nella guglia più alta di quella regale
dimora, come se avesse girato in tondo, ritornando
all’entrata del crudele labirinto.
Si massaggiò la fronte, frustrato, e maledì la
porta della sua stanza, un’imponente porta di legno con gli
intarsi dorati e le venature verdi, che si ergeva di fronte a lui,
quasi volesse schernirlo.
Avrebbe potuto scappare eppure era ancora lì.
Inclinò il capo verso destra e poi verso il basso,
sogghignando, e abbassò le palpebre sbocconcellando la
verità tra la lingua e i denti.
Non poteva andarsene, non ancora.
Dei rumori di passi lo insospettirono e delle chiacchiere, risate
strozzate, gli diedero la conferma.
Loki appoggiò le spalle contro una parete e
allontanò da sé la luce della luna, immobile,
mentre due guardie passarono accanto a lui senza rendersene conto.
Aspettò fino a quando non li vide imboccare le scale del
piano inferiore e fino a quando una melodia straziante non
iniziò a spirare, impercettibilmente, tra le scanalature
delle pareti.
L’alba era vicina.
Uno, due, tre...
Ritornò al centro del corridoio, le ginocchia stanche e
imploranti, e fissò inespressivo la grande porta alla sua
sinistra.
Nonostante tutto, io torno sempre qui.
Avanzò, quasi fosse al patibolo, e i suoi stivali sfiorarono
il legno, i polpastrelli i battenti.
Me ne andrò quando saprò.
Rientrò nella propria camera e, ancora prima di richiudere
la porta dietro di sé, seppe di non essere solo.
Inclinò il polso e con il pollice sfiorò i
polpastrelli delle altre dita, ritrovandosi nella mano destra un
pugnale di ghiaccio affilato. Avrebbe presto dovuto procurarsi dei veri
pugnali, perché non amava ricorrere a quel trucco, non gli
era mai piaciuto.
Morte ai Giganti di
Ghiaccio.
Loki si girò di scatto e si fermò con il braccio
a mezz’aria.
Oh.
Che stupido, stupido
sentimentale.
Suo fratello era lì.
Seduto su una sedia spostata sotto la finestra più piccola
della stanza, il capo basso e tra i palmi un bicchiere accostato alle
labbra.
Quando Thor si voltò a guardarlo, dentro di lui qualcosa si
smorzò in una piega innaturale e un sospiro gli
uscì dalle labbra, dandogli l’impressione che si
trattasse di sollievo e che lo strano grumo in gola si sarebbe sciolto
solo con il tempo.
Aveva camminato tanto e lo aveva fatto invano.
Che spreco.
“Cosa fai qui?”, gli domandò, avanzando
circospetto.
Suo fratello lo osservò e gli sorrise, indicandogli le
costellazioni sparpagliate sopra le loro teste.
“Ascolto la musica. Le stelle cantano, lo sapevi? E il cielo
è il loro strumento.”
Colpo basso, Thor.
Meschino citare proprio
una storia conosciuta da entrambi, ascoltata milioni di volte, ripetuta
sempre con le stesse parole, frasi, pause e sospiri.
Una delle tante favole
materne raccontate in alcune umide sere di primavera, una fiaba capace
ancora di conservare il sapore della loro prima infanzia.
I ricordi cominciarono a sopraffarlo e lui riconobbe la trappola, le
molle e gli ingranaggi arrugginiti di quel meccanismo pronto a
schiacciarlo e a soffocarlo in una morsa più pericolosa di
una mano intorno alla gola.
“Lo diceva sempre nostra madre”, mormorò
Loki, piano.
Un’improvvisa fredda ustione gli attraversò la
schiena, marciando tra gli spazi delle sue ossa, e una spiacevole
sensazione di ghiaccio gli contorse l’addome come viscere
annodate alle costole e ai muscoli.
Pensieroso, si accostò alle cere disposte sul tavolo, in
parte consumate, e le riaccese gettando il pugnale accanto alle loro
basi metalliche.
Morte ai Giganti di
Ghiaccio.
Aveva freddo e sapeva che, se avesse arrotolato le sue maniche, avrebbe
ritrovato le sue braccia di un colore più scuro.
Morte ai Giganti di
Ghiaccio.
“Cosa ci fai qui?”
Accese altre candele e le posò su un comodino, nonostante
l’alba fosse prossima e il cielo fosse attraversato da linee
e sprazzi meno oscuri.
Ma lui aveva freddo.
“Dovevo vederti.”
La voce di Thor gli sembrò impastata e le sue parole poco
controllate, quasi biascicate.
Gli occhi corsero a riosservare la figura del fratello e il dettaglio
importante del bicchiere stretto in mano.
La camera era in penombra, le tende accostate, e sul ripiano di pietra
della finestra si trovava un fiasco di vino, in bilico.
“Hai bevuto molto?”
Thor abbassò le palpebre e abbandonò la nuca
contro la sedia.
“Mi manchi.”
Un crudo dolore gli offuscò i sensi e la rabbia
diramò via le fitte ragnatele in cui stava precipitando.
Tu vuoi qualcosa da me,
io ti servo. Ma per quale fine?
Sotto pelle si annidò una sensazione strana,
un’emozione instabile, che lui decise doveva essere estirpata
all’istante e senza tentennamenti.
“Devi aver bevuto davvero tanto. Ti ci vogliono molti
bicchieri prima di iniziare a delirare. Più del solito,
intendo”, constatò, calmo, e poi volse lo sguardo verso il profilo del
fiasco vuoto.
“Ho bevuto poco. O meglio, la giusta quantità che
serve per allentare i nervi.”
Stupido.
L’effimera maledizione della vulnerabilità di suo
fratello, mostrata senza vergogna, le consonanti arrotondate dal vino e
la postura riposata, gambe aperte e braccia stese con noncuranza, lo
avvinghiarono scavando una crepa tra i suoi incubi, tracciando una
strada di mattoni dorati nel suo desolato menefreghismo.
Essergli indifferente non era mai stato facile e lo era ancora meno in
quel momento, ora che si presentava da lui in quel modo,
così indifeso da poter essere distrutto da un sospiro
tremante.
Sentimentale.
Gli
sfilò la coppa dalle mani e bevve l’ultimo sorso
rimasto.
“Thor, non mi troverai sul fondo di un bicchiere di
vino.”
Eppure più dolorosa era la consapevolezza della sua
incapacità di colpirlo con un affondo letale.
Quando posò via il bicchiere, Thor lo trattenne per un
braccio, affondando le dita nel tessuto verde della sua manica, e
staccò le spalle dallo schienale per sporgersi verso il suo viso.
“Non dormi, non è così? I servi mi
dicono che ogni mattina le lenzuola sono sgualcite ma i cuscini non
sono toccati.”
Loki si strattonò dalla sua presa e l’altro lo
liberò continuando a parlare.
“Hai distrutto questa stanza. Tre volte.”
“Non mi convinceva l’arredamento. Cose che
capitano.”
“Perché non dormi?”
Perché
dormire è come morire.
“Concedi qualche domanda anche a me, Thor. Sii gentile. Come
ti sei procurato questo nuovo occhio?”
“Mi è stato regalato da un... coniglio.
Chiamiamolo così.”
Suo fratello abbozzò un sorriso, più una smorfia,
e lui fece un passo indietro e sgonfiò il petto, lasciando
andare l’aria che non si era accorto di trattenere.
La situazione era un delirio senza fine.
“Avevo detto di non volerti incontrare. Il tuo uomo di
fiducia non ti ha riferito bene?”
La fredda sinfonia di ogni alba si levò acuta, soffiando tra
le immagini e i ghirigori a mosaico, e portò con
sé le prime luci e un’umida foschia all’orizzonte.
Il cielo era lattiginoso e il profilo della luna si stagliava
indifferente, svanendo appena appena.
Pallidi raggi di Sole cominciarono a sgranchirsi verso
l’alto, camminando superbi contro i contorni sbiaditi delle
stelle. Avidamente studiò l’immagine di quel nuovo
paesaggio, dell’alba violetta, delle lontanissime foreste,
confine di Nuova Asgard, e delle alte montagne rocciose.
Almeno aveva
scelto un bel luogo come Nuovo Regno.
“No, ti avrà riferito giusto. Ma le mie parole
sono sempre state vento per te, figlio di Odino. Il tuo volere
è l’unico principio che segui
fedelmente.”
Si allontanò e si diresse alla libreria sistemata sul lato
destro dell’altra finestra e lì si
fermò, a indicare i libri e a passare l’indice sui
dorsi colorati dei vari tomi.
Uno dopo l’altro, come scrigni segreti posti in bella vista,
rivelarono i loro titoli e sottotitoli.
Il palmo si scurì, di nuovo, e allora lui chiuse la mano a
pugno, le nocche sporgenti, e la portò dietro la schiena.
“È questo invece sarebbe l’assurdo
metodo che hai scelto per darmi delle risposte? Libri?”
Libri sulle pietre dell’Infinito, resoconti sui viaggi nel
Tempo, manuali di Magia.
Quello che avrebbe dovuto sapere, il come e il quando, ma non quello
che voleva sapere.
“Nei libri sarà scritto dettagliatamente tutto
quello che hai fatto ma non il perché. Ed io questo voglio
sapere, il perché. Quindi, dimmelo, perché mi hai
riportato in vita?”
Perché lui era vivo?
“Perché sono qui?”
Non per pietà né per altri sciocchi sentimenti
lui non aveva cacciato Thor dalla sua stanza.
No, non per un’improvvisa e falsa umanità, non
sarebbe mai stato così, e solo suo fratello poteva ancora
illudersi del contrario.
Lui voleva solamente sapere.
Lui aveva bisogno di sapere.
Il Grande Re si sollevò dalla sedia, ma che grande e
grandissimo onore, e lo raggiunse fermandosi a pochi passi di distanza
e stropicciandosi il volto con le mani aperte.
Cosa ti ha distrutto
più di me?
“Non si può affrontare lo stesso lutto
più volte. È disumano.”
Suo fratello si interruppe un momento, forse tentando di non
strascicare le vocali, e incrociò le braccia dinanzi al
petto.
“Era la terza volta che piangevo la tua morte e nessuno
può tollerare un dolore tale da... Ma poi ho
capito.”
Balbettava, cercava le parole, cambiava le frasi e seguiva ragionamenti
senza alcun filo logico.
Un disastro annunciato.
“Ho capito che certi legami non si possono spezzare e che il
nostro è uno di quelli.”
Sembrava in affanno, si affrettava a continuare prima di essere fermato
o forse prima di ripensarci, prima di mordersi la lingua e di
riflettere, riflettere almeno una volta nella sua vita.
“Tutti avevano riavuto la loro parte di universo.
Perché io no?”
La sua faccia era stravolta, le occhiaie violacee e più
accentuate, la fronte aggrottata e le labbra screpolate.
Aveva un’espressione esasperata e impaziente mentre si
stringeva il petto, quasi un abbraccio, quasi una richiesta di essere
consolato.
Lì, toccato con grazia dal chiaro cielo mattutino,
lì, tra le note del canto, la sua figura gli
ricordò il perché non ci si doveva mai fidare dei
familiari più devoti.
“Mi mancavi troppo, Loki.”
La melodia si spense, all’improvviso, e un rumoroso silenzio
calò, come foglie secche, in mezzo a loro.
Mosse una mano e la luce delle candele si piegò e spense,
ruotò il polso e il fiasco di vino crollò a terra
insieme alla coppa.
Si vedeva allo specchio e, già lo sapeva, quando usava la
sua magia le linee bianche sulla parte blu del suo volto diventavano
tratti esasperati, aperti, troppo evidenti.
Conficcò le unghie quasi vicino alle vene dei polsi e
caddero i mobili, si rovesciarono le sedie.
“E il grande Re mi ha resuscitato dalla tomba per questo
quindi? Perché gli mancavo tanto?”
“Troppo”, venne corretto, di getto,
“Loki, io ero troppo stanco di accettare una vita senza di
te. Ho sperato, così intensamente, di-“
Inganni.
“No. Non fare il sentimentale. Ti si addice ma non fino a
questo punto. Dì la verità.”
La fiducia, tra di loro, non poteva esistere.
I loro patti si basavano su altro: vendetta, rancore, morte.
Non sui sentimenti.
“Dimmi il vero motivo.”
Nessuno faceva niente per niente, neppure il buono, giusto e nobile
eroe lì in piedi di fronte a lui.
Nessuno.
Thor non abbassò lo sguardo e gli rispose, la voce rotta e
un sospiro stanco.
“Perché sei mio fratello.”
Il rancore piegò i suoi progetti e i suoi piani, distrusse
lo specchio esploso in miliardi di schegge con un rumore acuto e fece
cadere tutti i tomi spaginandoli.
Se suo fratello viveva di illusioni allora lui gliene avrebbe regalata
un’altra.
Marciando, si avvicinò alla panchina imbottita della grande
finestra e afferrò un pezzo di ceramica, uno dei pezzi che
aveva cambiato e che in realtà non era niente altro che una
bacca che non gli avrebbe fatto alcun male.
Tirò su la manica e mostrò il braccio bianco a
suo fratello, quel patetico arrogante che si compiaceva a chiamarlo
fratello, e pose il coccio di ceramica, -la bacca-, contro la propria
pelle.
Non siamo fratelli,
anche il succo di una bacca può dimostrartelo.
Tagliò la vena con una precisione spaventosa, seguendo tutta
la linea dell’avambraccio, a fondo e con forza, ricalcandola
con quel pezzo di ceramica -la bacca, la bacca, la bacca- ora sporco di
sangue, -succo, semplice succo.
Ti puoi illudere, Thor,
ma, come vedi, il nostro sangue è diverso.
“Lo vedi? Lo vedi, sì? Non sono tuo fratello, non
lo sono. E, adesso, dimmi perché sono di nuovo vivo,
dimmelo.”
Il braccio cominciò a dolergli e la vista ad appannarsi ma
lui non ci fece caso, -freddo, aveva freddo-, e continuò
imperterrito.
Che male può
mai fare una bacca?
“Tu sei come Odino. C’è un motivo dietro
tutto questo, dietro le tue patetiche premure e la tua tardiva
preoccupazione. Io sono qui per un tuo scopo. Dimmi quale
è.”
Ma in un quel dolore c’era una differenza sottile.
“Loki.”
L’avambraccio bruciava, il polso tremava e il freddo lo
colpì come una scarica elettrica lungo i vasi capillari
aperti.
Abbassò il capo e vide il sangue gocciolare, imbrattare il
suo braccio, la mano, il palmo, tutte le dita, e colare a terra
formando una pozza rossa.
“Loki, che cosa hai fatto?”
Lui rialzò la testa e osservò gli altri cocci di
ceramica e le poche bacche rimaste.
Non si deve vivere troppo di illusioni.
“Pensavo fosse una bacca.”
Si ritrovò in ginocchio, ma non toccò il
pavimento perché delle mani sollevarono il suo capo e
trattennero il suo petto.
Una voce chiese aiuto, urlò, disturbò il suo
sonno.
E la neve cominciò a cadere.
*******
La morte è assenza, negazione, pace. Un freddo ristoro in
cui spegnersi.
Ed è semplice rispetto al caos delle probabilità,
del vivere, del sentire.
È una sinfonia spezzata che incide note e chiavi su righi
sbiaditi di pergamene logore.
Vorace e insaziabile amante.
Poteva essere tutto, poteva essere niente.
Ma se avessero chiesto a lui, che la morte l’aveva vissuta in
ogni modo possibile, avrebbe risposto che in realtà, la
morte, era noiosa e basta.
I pensieri scompaiono, l’anima si dissolve e il corpo cade,
cade, cade ancora.
È tutto nero, è tutto finito.
E lui no, non lo accettava.
La morte non era fatta per una mente come la sua.
*******
“Svegliati. Svegliati perché voglio ucciderti e tu
devi essere cosciente mentre lo faccio.”
Le dita calde di suo fratello divorarono la sua guancia fredda, simili
a belve assassine ed egoiste. Percepiva i suoi calli contro lo zigomo,
contro la pelle ruvida.
Lottare, in quel momento, avrebbe significato strisciare su crateri di
cenere affamati e ributtarsi nel vuoto lasciato da una stella implosa.
Scappare non era possibile, né poteva pulire la propria
coscienza correndo a nascondersi nel groviglio dei propri pensieri
scheggiati. Voragini lo attorniavano e su ponti rotti lui ricercava
l’equilibrio.
E avrebbe voluto fare un passo avanti, cadere e gridare di essere
stanco, infinitamente stanco.
“Non stringere le palpebre. So bene che mi stai
ascoltando.”
Quando Thor gli sfiorò il mento e l’angolo delle
labbra, un nuovo canto dell’alba cominciò ad
arrampicarsi lungo le colonne e le volte di ogni stanza.
Aveva perso un giorno, aveva perso un altro giorno.
Alcune immagini, sogni, gli invasero la mente cancellando la
realtà e tormentandolo con smania e angoscia.
Il fotogramma sbiadito di suo fratello, di suo fratello in lacrime,
-lui che striscia, si dispera, grida-, perché non accetta la
sua morte e si aggrappa, pianti e urla dolorose, al suo corpo freddo
steso a terra, immobile in un modo innaturale, gettato sul pavimento
con il volto bianco privo di vita.
Avrebbe voluto altro.
Sentire la sua pelle sotto le dita, avere il potere inebriante di poter
portare via le sue lacrime e sostituire quel sapore salato con le sue
labbra umide in un eccitante sogno proibito di cui si era nutrito, in
solitudine e in ginocchio, sui gradini della follia della sua mente
malata.
Far scorrere i propri polpastrelli sulle labbra di lui e poi mordersi
le dita con i denti per provare ad essere in grado di rubare un
po’ del suo calore e tenerlo per sé, anche solo
toccandolo, sfiorandolo.
Mai, non
aveva potuto farlo mai.
Aveva seppellito tutto in un luogo così distante da averlo
dimenticato, da averlo perso sotto la neve.
Il gelo aveva bruciato brandelli della sua carne, uno alla volta, e
aveva intorpidito i suoi muscoli scorrendo nelle vene al posto del
sangue. E lui sapeva, lo aveva sempre saputo, che il ghiaccio non
avrebbe più potuto strapparlo via dal proprio corpo, neppure
volendo.
Cenere alla cenere, polvere alla polvere.
Neve alla neve.
“Apri gli occhi, Loki. Adesso!”
Ferirsi i palmi, graffiarseli, per quanto forte avrebbe osato stringere
la sua barba bionda e i suoi capelli, morire bruciato per i suoi occhi
azzurri pieni di lacrime.
Passare le unghie sulla sua mandibola e poi sul collo e le spalle, fino
a logorare i tendini, scorticare i nervi.
Sarebbe stata una guerra atroce e sofferente, sarebbe stata una
vittoria conquistata con la corruzione, pagando un debito infinito.
Neve alla neve.
L’unico modo
per divenire immortale nel tuo cuore era morire per te, proprio dinanzi
ai tuoi occhi.
Pensi che sia amore? No,
non lo è.
È ossessione.
Alzò il braccio fasciato, dove spille di fuoco cucivano i
fili delle sue vene, e afferrò alla cieca la divisa di Thor,
aggrappandosi forte a lui, all’altezza del petto.
Possedere il suo cuore e averlo tra le dita, anche solo per un secondo,
schiacciarlo con una tale forza da avere le mani per sempre macchiate
di rosso.
Ma il suo calore no, quello non sarebbe riuscito a prenderlo.
In un delirio estenuante gli avrebbe persino promesso che non si
sarebbe fermato mai, che avrebbe continuato fino alla propria
devastazione.
“Ti dispiacerebbe lasciarmi dormire, lasciarmi
riposare?”, tossì e perse la presa facendo
ricadere il polso tra le lenzuola.
Affaticato, non riuscì a continuare perché un
senso di vertigini lo colpì allo stomaco, spingendolo a
rigettare bile.
Sbatté più volte le ciglia e notò che
il buio della notte era appena rischiarato dalle poche candele accese,
tanto da lasciare intravedere solo delle forme tremolanti.
La luce fioca ammorbidiva i tratti degli oggetti e li rendeva irreali,
cosicché anche i mobili avevano una consistenza opaca e
inconsistente.
Cercò di sforzarsi ma il sudore gli imperlava la fronte e
bagnava la base dei suoi capelli e della nuca. Infastidito, volse il
capo verso sinistra, verso la voce che lo aveva svegliato.
Scorse il volto adirato di suo fratello e il suo strano sguardo
accusatore, la mandibola dura e i denti stretti, il sottile passaggio
della cicatrice dall’occhio destro fino al sopracciglio
spezzato.
Quel momento era una
mancata illusione.
“La tua follia ti ucciderà, Loki.”
Doveva essere seduto vicino a lui, nell’oscurità
più maledetta della notte, tanto vicino da inglobarlo con la
sua ombra e da togliergli il calore delle fiammelle sulla cera.
Avrebbe dovuto sporgersi per capirlo, avrebbe dovuto poggiarsi sui
gomiti e poi allungare le braccia dinanzi a sé, fino a
trovare il suo fianco e colpirlo con la lama di un pugnale.
Stava sognando?
“E la tua follia invece? La tua follia ci porterà
alla distruzione. Figlio di Odino.”
Stanco, si inumidì le labbra e osservò i pochi
colori che riusciva a intuire con le tende chiuse e l’aria
immobile, tesa.
Le tenebre stavano martoriando con denti e zanne aguzze le macchie
dorate, impedendo a lui di vedere, e un assurdo odore di pioggia lo
stordì.
Un’attesa spasmodica rendeva inquiete le loro parole,
inebriandoli.
Thor era agitato, il suo sguardo seguiva i movimenti delle lingue delle
candele e vagava distratto, forse alla ricerca delle frasi giuste da
rivolgergli senza turbare il silenzio che li avvolgeva.
“Non sono migliore di te, Loki. Sono stato tremendamente
egoista e ho fatto delle scelte di cui non vado fiero.”
Lo ascoltò mormorare quella confessione e subito dopo decise
di non credergli, di riflettere su altro. Di dimenticare e di ridere
dentro di sé, di tacere e poi di schernirlo, a voce bassa e
con attenzione.
Avrebbe voluto chiedergli se anche lui sentiva
quell’impossibile profumo di pioggia, se anche lui notava
l’assenza di colori intorno a loro, le immagini svanire e le
pareti crollare.
Non c’era niente, ad eccezione di alcuni spessi strati di
cera colata a terra e lungo i comodini, non c’era altro.
Fremendo, a tentoni, cercò con il braccio sano di
raggiungere il collo di suo fratello e di trascinarlo con lui a fondo,
di farlo affogare con gentilezza.
È un sogno?
“Ti piaceva, un tempo. Ti piaceva toccarmi il
collo”, gli disse, facendo sembrare un urlo quelle che erano
state delle parole sussurrate.
Inspirò e altre scariche di oscure immagini vinsero la sua
ragione, mandando in frantumi ogni suo piano.
A nessuno dei due interessava porre un argine a quella situazione e
ciò lo ubriacò, gli fece provare
un’euforia incontrollabile.
Arrivò a toccargli i tratti del profilo e distinse un
assordante strappo squarciare la sua mente e lacerare il suo sorriso
compiaciuto.
Piangi ancora?
Suo fratello si lasciò sfiorare e poi gli
allontanò la mano, provocandogli un fastidioso pungolo
all’orgoglio.
Stavano superando un limite da cui non sarebbero mai tornati indietro,
almeno non in quella vita.
Ricordava i milioni di passi che aveva compiuto pur di ritrovarsi ad
una distanza incalcolabile dai suoi occhi e dai suoi gesti, la profonda
discesa che aveva imboccato pur di non biasimare se stesso notte e
giorno.
Aveva camminato tanto e, alla fine, il valore della sua fuga era
risultato identico a quello di alcune poche bolle di inchiostro
gocciolate su una pergamena: uno spreco.
Accettarlo non gli fece provare nulla.
Quando il Re parlò, con le sue parole inghiottì
tutto il resto.
“Ti ricordi cosa è successo dopo la fuga da
Asgard?”, chiese Thor, e lui non vide più bene il
suo volto.
È un incubo?
“Ti ricordi l’ultima notte sulla nave?”,
continuò, e usò un tono di voce che Loki non
conosceva o che non aveva mai ascoltato, non da suo fratello.
Le spalle di Thor erano il confine di quella stanza,
l’orizzonte oltre il quale non avrebbe trovato nulla,
l’ostacolo impossibile da superare senza prima perdere un
braccio, come dazio, staccandoselo a morsi se necessario o se richiesto.
“Ti avevo detto che ti avrei abbracciato. Ricordi cosa hai
detto?“
Ci diamo un bacio?
“Ricordo cosa ti ho chiesto.”
La sua ultima notte.
L’ultimo desiderio di un condannato a morte.
Era stato il loro, -il suo-, primo bacio.
Un solo bacio, solo quello.
Prima di lui non c’era stato nessuno.
Prima di lui c’era stato sempre, -solo-, lui.
“Oh. Oh, adesso capisco. È per questo allora?
È stato così bello che hai dovuto farmi tornare
in vita? Bacio così bene?”
Sapeva, con una lucidità che aveva la forma di una condanna,
di star facendo del male a entrambi e di non riuscire a fermarsi.
Non è amore.
“Ti è piaciuto così tanto? Tanto da
mettere sottosopra l’intero universo per averne un
altro?”
Trattene a stento una risata di gola, sollevò il braccio
ferito e spalancò gli occhi avvicinandosi lento a sfiorargli
uno zigomo.
Non è amore.
“Davvero bacio così bene, Thor?
Sì?”
Suo fratello gli afferrò il braccio e strinse, strinse, gli
torturò la pelle con le unghie e mostrò i denti
trattenendosi dal rispondergli o dal compiere qualsiasi altra follia,
perché troppo impegnato a combattere una guerra contro se
stesso che era in procinto di perdere.
Lo vide, sconfitto, inginocchiarsi nel fango.
Loki osservò il modo in cui gli stringeva
l’avambraccio e lo sfidò, girando appena la mano e
allargando le dita, mentre un’altra risata aperta gli
sfuggì e una fitta alla nuca gli avvolse il collo.
Ma se fosse amore, tu lo
sai vero?
“Vuoi riaprirmi la ferita?”
Thor gli lasciò il polso con noncuranza, con uno sguardo
mostruoso che non gli fece accorgere del sangue versato e delle bende
sporche.
C’era una rassegnazione che li incastrò entrambi a
metà strada.
Sì, lo sai.
Tu lo sai che nessuno ti amerebbe più di me.
“No. Te ne creo di nuove.”
Suo fratello salì a cavalcioni sui suoi fianchi e lui vide
stelle disgregarsi dinanzi ai suoi occhi, distruggersi in miliardi di
pezzi e svanire, lasciando una fredda, vuota, cicatrice ambrata.
Tentò di allontanarlo, cercò di scostarsi
colpendogli il petto e sollevò il volto nonostante le
vertigini e il tremore delle spalle. Gli graffiò il collo e
sentì la sua carne sotto le unghie, il sangue sui
polpastrelli.
Nessuno mai.
“Stupido, cosa stai facendo?”
Thor gli bloccò il viso con entrambe le mani e si
avvicinò al suo mento, tremando.
Nessuno mai ti amerebbe
più di me.
“Mi faccio male.”
Sentire quella pelle calda sulla sua, tanto fredda, gli
provocò uno spasmo in gola che venne ovattato da quelle
labbra crudeli premute frettolosamente sulle sue.
La pelle morbida, il guizzo nervoso dei muscoli, il calore del suo
respiro.
Troppo.
I pezzi scomposti della sua lucidità si persero non appena
Thor gli strattonò il colletto della divisa e
sospirò appagato contro la sua bocca.
Quel suono gli fece muovere freneticamente le mani e fece nascere in
lui una maledetta esigenza di afferrare tutto, di frugare tra le pieghe
dei suoi vestiti, di contenere i suoi battiti tra i palmi e di fare
male, di lasciargli lividi e ustioni.
Pioggia sul suo viso e sulle sue palpebre chiuse, sale sulle sue
ciglia, denti a mordere la sua lingua.
La loro pelle nuda a contatto.
Nessuno ti amerebbe
più di me.
E tu non puoi farci
nulla.
Ebbe freddo e uno dei suoi ultimi pensieri coerenti fu che le stelle
quella notte dovevano essere scappate via, lontane da loro.
Non esiste
più nulla ed è meglio così.
Perché lui respirava.
Lui stava... respirando.
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